La luna e il suo lago

di Cipria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La luna e il suo lago ***
Capitolo 2: *** La luna in una stanza ***



Capitolo 1
*** La luna e il suo lago ***


La luna e il suo lago La luna stasera è opulenta, una perla luminosa e perfetta che si tuffa nelle acque del lago, si tuffa e pure resta lì, distante chissà quanto da noi,  il paradosso è credere di poterla toccare sullo specchio dell’acqua, ma se provi ad allungare una mano a sfiorarne il pelo, partono una serie di cerchi concentrici che la fanno sparire, come te accanto a me, vicinissima, ma al contempo distante da me, perfino distante da te stessa, che se ti sfioro, lo so, sparisci… Ti osservo, sei di profilo, i capelli sciolti, biondi, lunghissimi, superba la linea che va dalla fronte al mento e poi continua giù per il collo, lungo, lunghissimo, peccaminoso. Sei in borghese, i tuoi soliti pantaloni di fustagno marrone a fasciare lunghe gambe nervose, da gazzella, e una semplice camicia bianca, identica alla mia, solo un po’ più piccola, ed in questo momento pericolosamente accattivante, non so se in te viva un qualche barlume di vanità, o semplicemente tu sia noncurante di questi dettagli; hai tolto le fasce, hai il seno piccolo, piccolissimo, forse per questo non ti curi dei bottoni fuori dalle asole all’altezza del torace, eppure per quanto sia minuscolo io lo trovo bellissimo, ed incredibilmente minaccioso stasera. Respiri tranquilla con movimenti regolari, su e giù, come in un leggero fluttuare di ali di farfalla, io non posso fare a meno di notare la meraviglia del tuo essere donna, la poesia di quelli che alla brezza serale posso chiaramente intuire essere i capezzoli inturgiditi. Ti osservo, e penso che tu non lo sai cosa sei, ti osservo e penso che ti vorrei, ti osservo e penso che non ti avrò mai, e così mi vergogno a pensare a tutte quelle sere passate in osteria in cui dopo qualche bicchiere di vino di troppo, mi perdo tra le grazie di qualche signora compiacente, tra le sue braccia accoglienti, tra le cui cosce c’è spazio per me, tra i suoi seni morbidi e invitanti, sulle sue labbra succose. È sempre una donna diversa, ed è sempre diversa da te; sono in genere tutte rubiconde, carnose, morbide, belle, e sono contento siano così distanti dalla tua fisicità asciutta, dai tuoi fianchi stretti e dal tuo seno infantile, mi sembra di non farti torto, mi sembra di non far torto all’amore che ti porto dentro, perché tu sei altro, sei fuori dal competere con loro, sei proprio di un’altra categoria. Poi però mi vergogno lo stesso, anche se non stiamo insieme, se non altro perché tu neanche mi vedi come uomo, alle volte dubito che mi veda in generale, ma a questo non voglio pensarci, perché significherebbe non farsi bastare la nostra “amicizia”. Io in cuor mio ti ho giurato fedeltà, mi pare di mancarti di rispetto, ma in fondo sono un uomo ed ho una carne che brucia e tra quelle cosce aperte, che pago, mi sento per un po’ pacificato, ma dura poco, il tempo di tornare dall’oblio dei sensi e la febbre di te mi torna potente, mi toglie il respiro, mi risucchia la vita. Sei bella stasera, bella e pensierosa, hai una ruga orizzontale che ti percorre la fronte come un sorriso triste, come sempre, come sempre più spesso accade, vorrei esserti dentro la testa per sapere a cosa pensi, e poi penso che forse no, forse non mi conviene, forse così posso seguitare a coltivare l’illusione che un giorno potrà esserci un “noi”, che potremo urlarlo al mondo senza che nessuno si scomponga pensando al ceto tanto diverso.
D’un tratto ti volti e mi guardi, non me lo aspettavo proprio, mi cogli di sorpresa, non faccio in tempo a fingere indifferenza, non riesco a spostare lo sguardo altrove, per risponderti con qualche constatazione retorica sulla luna, le stelle o la bellezza dei fiori del prato, tu te ne sei accorta, forse, o forse no, magari è solo una mia proiezione, sei troppo sopraffatta dal pensare ad altro –a Quell’Altro- per accorgerti che ti stessi guardando, che stessi contemplandoti. Ho comunque l’impressione che ti sia sentita guardata e che abbia finto di non cogliere, perché non è mai conveniente intraprendere un discorso che in fondo si sa dove potrebbe andare a parare, e che si sa già di non voler affrontare, non so se siano solo mie fantasie, lasciamelo credere, lasciami credere che mi vedi ancora e che in qualche modo ti turbo anche se non sai bene per quale motivo. Con il volto di tre quarti mi sorridi e abbassi gli occhi, ti schernisci, l’intimità ti spaventa, io lo so e per toglierti dall’imbarazzo scimmiotto un inchino con tanto di levata di cappello, e la butto sul ridere: -Bonsoire Madame, c’è la luna a quanto pare! e tu ridi, ridi di gusto, per un momento scompare perfino quel sorriso triste dalla tua fronte, ridi di gusto si vede dagli occhi increspati agli angoli: -Sempre il solito scemo, Monsieur Grandier! riecheggi, “Sempre stupenda, Madame Grandier!” penso, lungi dal dirtelo sorrido e sfumo via via da quel personaggio che avevo inscenato per salvarti da te stessa, da quel sentirsi visti e scoperti che tanto temi quando tolta la divisa che tanto ti fa sentire protetta rimani indifesa e vulnerabile come una tartaruga a cui è stato strappato il guscio. E allora arrivo io, la tua casa, il tuo guscio, il tuo amico, in tuo confidente, la tua ombra e se tu lo volessi, il tuo uomo, il tuo amante, le spalle alle quali appoggiarsi, l’aria da respirare, ma tu non vuoi tutto questo, non puoi volerlo, e così io farò tutto per due, anche amarti come tu non t’ami, sarò tutto quello che tu non saprai essere, perché mi sei necessaria come ad un pesce l’acqua. Mi guardi con quegli occhi da sottinsù, e sorridi timidamente, a me manca un battito, o forse mi manca tutto il cuore che ormai è tuo, non lo so più nemmeno io quale sia il rapporto dialettico tra noi. Sembri una bambina quando fai così ed io ti abbraccerei fortissimo, solo questo vorrei, abbracciarti e respirarti i capelli, infilarci una mano magari e continuare a respirarli, ma non lo faccio, resto come sempre a guardarti innamorato ed eccitato come un ragazzino ed il cuore che accelera il suo ritmo.
 -André, è tardi, sarà meglio tornare, tua nonna starà già gridando allo scandalo non vedendoci ancora a casa a quest’ora senza un motivo  di servizio, e poi domani sarà una lunga giornata, sarà meglio riposare.
 - Sì, Oscar, hai ragione, andiamo! Così ti rispondo faticando non poco nel sembrare impassibile mentre un vortice mi turbina dentro, sciolgo le  briglie di Caesar, te le porgo e ti aiuto a montare, un ultimo sguardo da ladro indecente al tuo corpo magnifico, e poi torno in me, o per meglio dire esco da me facendo l’automa, dopo slego anche le briglie del mio di cavallo e vi monto distratto.
-Grazie André, e grazie per la bella serata, dovremmo tornare più spesso in questo posto straordinario nella sua semplicità, mi dà tanta pace.
-Certo, Oscar, quando vuoi, anche a me dà tante sensazioni –che non somigliano alla pace, penso- su, andiamo!
Ti seguo silente mentre mi precedi al passo, forse anche a te dispiace interrompere l’incantesimo di questo luogo, così scegli un’andatura molle che procrastini il più possibile il ritorno in te, al tuo ruolo, alla tua corazza.
La luna ci segue imperiosa e muta, la tua pelle appare ancora più alabastrina ed io il tuo disperato servo.
 
Cipria

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Capitolo 2
*** La luna in una stanza ***


Gli porge le briglie di Caesar e lo liquida con un laconico - Dormi bene! Va via in direzione l’atrio dell’imponente dimora Jarjaies senza neanche guardarlo, senza neanche il conforto dei suoi occhi che a lui come sempre sarebbe bastato fino al mattino dopo, quando come in un rituale consolidato si sarebbero rivisti, salutati, avrebbero salutato la nonna, ricevuto da lei qualche parola buona o qualche improperio –quello dipendeva dalle giornate- anche se normalmente le prime erano per lei ed i secondi per lui, - raramente la nonna attribuiva qualche colpa ad Oscar, anche quando questa sbagliava era sempre e comunque, per una questione ontologica decisa da lei, seguendo un oscuro principio che non ha da giustificarsi che da sé, colpa di suo nipote, quindi anche dei “peccati” della sua bambina, quasi sempre il capro espiatorio era  André. Dopo avrebbero fatto colazione, e sarebbero andati alla volta delle stalle per prendere loro rispettivi cavalli, a loro volta già diligentemente sellati da André, raramente tra i compiti di lui c’era l’aiutare Oscar a montare, anche se ogni nobile riteneva fosse un segno distintivo l’avere qualcuno addetto ad un compito simile, a lei non piaceva questa leziosità, la riteneva roba da idioti, senza aggiungere che per lei il suo attendente fosse più un amico che un sottoposto, quindi se era possibile gli evitava tutte quelle mansioni che sottolineassero le loro differenze di ceto nonché di ruolo.

L’aveva salutato e basta senza guardarlo, come se si trovasse d’innanzi a Medusa, con la paura di guardarlo negli occhi, gli fu difficile, più del solito, non correrle dietro, non prenderla per un braccio, farla ruotare verso di sé e chiederle se non meritasse neanche più le sue attenzioni, se non fosse più depositario, se non di altro, neanche della loro Amicizia, non lo fece, rispose con lo stesso tono amorfo: - Dormi bene Oscar!

Nel suo letto come se fosse trapunto di spine, si rigira tutta la notte, mille pensieri le vorticano in testa. – Oh André, da quando sei così… così bello? Si vergognò di se stessa, per aver pensato una cosa simile dell’amico di una vita, dell’amico fraterno, ma non poteva fare a meno di pensare alla pelle ambrata del petto, o ai muscoli delle gambe così tesi e solidi, così da uomo. Era turbata dalle immagini inenarrabili, a suo dire almeno, che le comparvero per tutta la notte d’innanzi agli occhi.

-Oh André, non ho potuto neanche guardarti stasera, non ho potuto tenere il tuo sguardo, e come una sciocca ho immaginato mi stessi anche tu fissando, mi sentivo i tuoi occhi addosso, per qualche istante ho pensato che tu mi vedessi come una donna, che mi stessi guardando, che sciocca sono, ho proiettato il mio turbamento su di te, figurarsi se un amico leale come te possa guardarmi con lussuria, che dico?! Con ammirazione, figurarsi se un qualsiasi uomo possa provare per me un qualche languore.

Ride di sé Oscar, ride con una certa amarezza, anche la persona più sicura di sé vacilla di fronte all’amor proprio ferito, alla propria seppur recondita vanità inappagata, in fondo se anche lei era cresciuta da uomo, era una donna, ed il suo corpo malgrado la sua educazione, glielo stava ricordando, stava stranamente desiderando di essere desiderata.

-Ma che mi prende? E cambia fianco in quel letto, sta vedendo l’alba spuntare oltre le coltri del baldacchino. Non capisco, Fersen mi piace, o forse mi è piaciuto, non lo so più e non voglio curarmi di questa cosa, tanto lui appartiene ad una donna soltanto, non ho mai avuto nessuna possibilità con lui, o almeno nessuna possibilità di passargli per il cuore, dal suo letto forse ci sarei potuta passare, ma anche lui è stato con me un uomo leale.

 Che strano, quando pensavo a Fersen non ho mai desiderato di toccarlo e di essere toccata –avvampò all’idea, si stupì di se stessa- né di essere bramata o essere oggetto di eccitazione erotica, volevo solo piacergli, o meglio, volevo solo che mi vedesse bella, che mi vedesse, che mi vedesse come una donna, volevo capire cosa si provi ad essere “visti”, ma forse non l’ho mai desiderato io, non nel senso stretto del termine. Ho messo un vestito, il mio primo e ultimo, per ora almeno, per lui, ma sono stati gli occhi verdi di André che mi hanno fatta tremare dal fondo delle scale, ho pensato che fosse l’imbarazzo per il peccato di vanità che mi stavo concedendo, forse non era questo, oh, non lo so! Si sente impazzire, la camicia madida di sudore le si è incollata addosso, si siede nel centro del letto e si scopre. – Cosa mi prende? Cos’è questo languore liquido che mi morde le viscere, e rende vicinissime le mie ginocchia? Ogni volta che mi guardi, André,sento il ventre contrarsi, non lo so, non era mai accaduto, ma credo sia quello che si chiama e…e..c.citazione, che vergogna, che smarrimento, tu sei il mio amico, mio fratello, la mia ombra, cosa penseresti di me se sapessi che ti guardo non come dovrei, come era sempre stato?

-Sono una stupida, proprio una stupida, cosa dovrebbe attrarti in me? Cosa potrebbe attrarre di me un qualsiasi uomo con sani appetiti, oltre il patrimonio intendo? Io ho visto le occhiate di brace di Paulette, di come con quel petto florido ed esposto ti si strusci contro con studiata sbadataggine tutte le volte che può, e di come tu, pensando di non esser visto la segua in dispensa, e di come poi riappariate entrambi dopo una decina di minuti con un’aria esageratamente indifferente, come la prendi André? In piedi, sul tavolaccio tutto rovinato? Come? E chissà come deve essere calda, morbida, bagnata, oh sì, bagnata  come sembra che sia io adesso, solo che dubito qualcuno avrà mai per me quella che, come si chiama? Oh sì, un’erezione, temo che non saprò mai come ci si senta ad essere piacevolmente invase, pervase, prese, oh sì, anche con volgarità, come in una delle cronache dei miei soldati, che dietro quelle riverenze nascondono i pensieri più peccaminosi e le fantasie più pruriginose, in realtà, non saprò mai cosa si provi ad essere amate e desiderate allo stesso tempo, cosa significhi far l’amore, e credo che tutti questi pensieri stupidi e da voyese siano i morsi della gelosia che io, André, ho per mio fratello, e non ho diritto di provare.

 Come sono ridicola, e questi pensieri osceni dei quali mi fregiavo di essere immune, da dove mi provengono?

È l’alba ormai, ha i capelli incollati a contornarle il viso, e ben altra alba sta sorgendo nella sua coscienza, la lussuria ed il desiderio fanno capolino dalle coltri della sua anima, è l’alba e la rugiada imperla le rose in giardino, due dita a scostare i suoi petali, resina odorosa su incerti giunchi, è la prima volta che il suo desiderio si fa miele, è la prima volta che i suoi polpastrelli non l’avorio del piano, ma la carne eccitata sfiorano, prima con timore, pudore, vergogna, e via via sempre con maggior frenesia, che neanche lei sa da dove provenga, come fosse un’antica sapienza, come respirare, nessuno te lo insegna eppure lo sai fare, capisce con le sue dita di farfalla il piacere sublime di sfiorare l’abisso e il cielo insieme per  poi tornare.

Fine

S.

P.S. l'avevo conclusa, ma da qualche parte nel mio pc giaceva una sorta di capitolo appendice, e così la storia da one-shot ha subito un incremento, spero sia gradito, e spero di non essere stata eccessiva nel descrivere certe situazioni. P.P.S.Mi scuso anche per la differenza di dimensione tra un capitolo e l'altro, non riesco a gestire l'html, spero di riparare presto.

 

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