La luna e il suo lago di Cipria (/viewuser.php?uid=54186)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La luna e il suo lago ***
Capitolo 2: *** La luna in una stanza ***
Capitolo 1 *** La luna e il suo lago ***
La luna e il suo lago
La luna stasera è opulenta, una perla luminosa e
perfetta che si tuffa nelle acque del lago, si tuffa e pure resta
lì, distante chissà quanto da noi, il paradosso
è credere di poterla toccare sullo specchio dell’acqua, ma
se provi ad allungare una mano a sfiorarne il pelo, partono una serie
di cerchi concentrici che la fanno sparire, come te accanto a me,
vicinissima, ma al contempo distante da me, perfino distante da te
stessa, che se ti sfioro, lo so, sparisci… Ti osservo, sei di
profilo, i capelli sciolti, biondi, lunghissimi, superba la linea che
va dalla fronte al mento e poi continua giù per il collo, lungo,
lunghissimo, peccaminoso. Sei in borghese, i tuoi soliti pantaloni di
fustagno marrone a fasciare lunghe gambe nervose, da gazzella, e una
semplice camicia bianca, identica alla mia, solo un po’
più piccola, ed in questo momento pericolosamente accattivante,
non so se in te viva un qualche barlume di vanità, o
semplicemente tu sia noncurante di questi dettagli; hai tolto le fasce,
hai il seno piccolo, piccolissimo, forse per questo non ti curi dei
bottoni fuori dalle asole all’altezza del torace, eppure per
quanto sia minuscolo io lo trovo bellissimo, ed incredibilmente
minaccioso stasera. Respiri tranquilla con movimenti regolari, su e
giù, come in un leggero fluttuare di ali di farfalla, io non
posso fare a meno di notare la meraviglia del tuo essere donna, la
poesia di quelli che alla brezza serale posso chiaramente intuire
essere i capezzoli inturgiditi. Ti osservo, e penso che tu non lo sai
cosa sei, ti osservo e penso che ti vorrei, ti osservo e penso che non
ti avrò mai, e così mi vergogno a pensare a tutte quelle
sere passate in osteria in cui dopo qualche bicchiere di vino di
troppo, mi perdo tra le grazie di qualche signora compiacente, tra le
sue braccia accoglienti, tra le cui cosce c’è
spazio per me, tra i suoi seni morbidi e invitanti, sulle sue labbra
succose. È sempre una donna diversa, ed è sempre diversa
da te; sono in genere tutte rubiconde, carnose, morbide, belle, e sono
contento siano così distanti dalla tua fisicità asciutta,
dai tuoi fianchi stretti e dal tuo seno infantile, mi sembra di non
farti torto, mi sembra di non far torto all’amore che ti porto
dentro, perché tu sei altro, sei fuori dal competere con loro,
sei proprio di un’altra categoria. Poi però mi vergogno lo
stesso, anche se non stiamo insieme, se non altro
perché tu neanche mi vedi come uomo, alle volte dubito che mi
veda in generale, ma a questo non voglio pensarci, perché
significherebbe non farsi bastare la nostra “amicizia”. Io
in cuor mio ti ho giurato fedeltà, mi pare di mancarti di
rispetto, ma in fondo sono un uomo ed ho una carne che brucia e tra
quelle cosce aperte, che pago, mi sento per un po’ pacificato, ma
dura poco, il tempo di tornare dall’oblio dei sensi e la febbre
di te mi torna potente, mi toglie il respiro, mi risucchia la vita. Sei
bella stasera, bella e pensierosa, hai una ruga orizzontale che ti
percorre la fronte come un sorriso triste, come sempre, come sempre
più spesso accade, vorrei esserti dentro la testa per sapere a
cosa pensi, e poi penso che forse no, forse non mi conviene, forse
così posso seguitare a coltivare l’illusione che un giorno
potrà esserci un “noi”, che potremo urlarlo al mondo
senza che nessuno si scomponga pensando al ceto tanto diverso.
D’un tratto ti volti e mi guardi, non me lo aspettavo proprio,
mi cogli di sorpresa, non faccio in tempo a fingere indifferenza, non
riesco a spostare lo sguardo altrove, per risponderti con qualche
constatazione retorica sulla luna, le stelle o la bellezza dei fiori del
prato, tu te ne sei accorta, forse, o forse no, magari è solo una mia
proiezione, sei troppo sopraffatta dal pensare ad altro –a Quell’Altro-
per accorgerti che ti stessi guardando, che stessi contemplandoti. Ho
comunque l’impressione che ti sia sentita guardata e che abbia finto di
non cogliere, perché non è mai conveniente intraprendere un discorso che
in fondo si sa dove potrebbe andare a parare, e che si sa già di non
voler affrontare, non so se siano solo mie fantasie, lasciamelo credere,
lasciami credere che mi vedi ancora e che in qualche modo ti turbo
anche se non sai bene per quale motivo. Con il volto di tre quarti mi
sorridi e abbassi gli occhi, ti schernisci, l’intimità ti spaventa, io
lo so e per toglierti dall’imbarazzo scimmiotto un inchino con tanto di
levata di cappello, e la butto sul ridere: -Bonsoire Madame, c’è la luna
a quanto pare! e tu ridi, ridi di gusto, per un momento scompare
perfino quel sorriso triste dalla tua fronte, ridi di gusto si vede
dagli occhi increspati agli angoli: -Sempre il solito scemo, Monsieur
Grandier! riecheggi, “Sempre stupenda, Madame Grandier!” penso, lungi
dal dirtelo sorrido e sfumo via via da quel personaggio che avevo
inscenato per salvarti da te stessa, da quel sentirsi visti e scoperti
che tanto temi quando tolta la divisa che tanto ti fa sentire protetta
rimani indifesa e vulnerabile come una tartaruga a cui è stato strappato
il guscio. E allora arrivo io, la tua casa, il tuo guscio, il tuo
amico, in tuo confidente, la tua ombra e se tu lo volessi, il tuo uomo,
il tuo amante, le spalle alle quali appoggiarsi, l’aria da respirare, ma
tu non vuoi tutto questo, non puoi volerlo, e così io farò tutto per
due, anche amarti come tu non t’ami, sarò tutto quello che tu non saprai
essere, perché mi sei necessaria come ad un pesce l’acqua. Mi guardi
con quegli occhi da sottinsù, e sorridi timidamente, a me manca un
battito, o forse mi manca tutto il cuore che ormai è tuo, non lo so più
nemmeno io quale sia il rapporto dialettico tra noi. Sembri una bambina
quando fai così ed io ti abbraccerei fortissimo, solo questo vorrei,
abbracciarti e respirarti i capelli, infilarci una mano magari e
continuare a respirarli, ma non lo faccio, resto come sempre a guardarti
innamorato ed eccitato come un ragazzino ed il cuore che accelera il
suo ritmo.
-André, è tardi, sarà meglio tornare, tua nonna starà già
gridando allo scandalo non vedendoci ancora a casa a quest’ora senza un
motivo di servizio, e poi domani sarà una lunga giornata, sarà meglio riposare.
- Sì, Oscar, hai ragione, andiamo! Così ti rispondo faticando non
poco nel sembrare impassibile mentre un vortice mi turbina dentro,
sciolgo le briglie di Caesar, te le porgo e ti aiuto a montare,
un ultimo sguardo da ladro indecente al tuo corpo magnifico, e poi torno
in me, o per meglio dire esco da me facendo l’automa, dopo slego
anche le briglie del mio di cavallo e vi monto distratto.
-Grazie André, e grazie per la
bella serata, dovremmo tornare più spesso in questo posto
straordinario nella sua semplicità, mi dà tanta pace.
-Certo, Oscar, quando vuoi, anche a me dà tante sensazioni –che non somigliano alla pace, penso- su, andiamo!
Ti seguo silente mentre mi precedi al passo, forse anche a te dispiace
interrompere l’incantesimo di questo luogo, così scegli un’andatura
molle che procrastini il più possibile il ritorno in te, al tuo ruolo,
alla tua corazza.
La luna ci segue imperiosa e muta, la tua pelle appare ancora più alabastrina ed io il tuo disperato servo.
Cipria
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Capitolo 2 *** La luna in una stanza ***
Gli porge le
briglie di Caesar e lo liquida con un laconico - Dormi
bene! Va via in direzione l’atrio
dell’imponente dimora
Jarjaies senza neanche guardarlo, senza neanche il conforto dei suoi
occhi che
a lui come sempre sarebbe bastato fino al mattino dopo, quando come in
un
rituale consolidato si sarebbero rivisti, salutati, avrebbero salutato
la
nonna, ricevuto da lei qualche parola buona o qualche improperio
–quello
dipendeva dalle giornate- anche se normalmente le prime erano per lei
ed i
secondi per lui, - raramente la nonna attribuiva qualche colpa ad
Oscar, anche
quando questa sbagliava era sempre e comunque, per una questione
ontologica
decisa da lei, seguendo un oscuro principio che non ha da giustificarsi
che da
sé, colpa di suo nipote, quindi anche dei
“peccati” della sua bambina, quasi
sempre il capro espiatorio era André.
Dopo avrebbero fatto colazione, e sarebbero andati alla volta delle
stalle per
prendere loro rispettivi cavalli, a loro volta già
diligentemente sellati da
André, raramente tra i compiti di lui c’era
l’aiutare Oscar a montare, anche se
ogni nobile riteneva fosse un segno distintivo l’avere
qualcuno addetto ad un
compito simile, a lei non piaceva questa leziosità, la
riteneva roba da idioti,
senza aggiungere che per lei il suo attendente fosse più un
amico che un
sottoposto, quindi se era possibile gli evitava tutte quelle mansioni
che
sottolineassero le loro differenze di ceto nonché di ruolo.
L’aveva
salutato e basta senza guardarlo, come se si trovasse
d’innanzi a Medusa, con
la paura di guardarlo negli occhi, gli fu difficile, più del
solito, non
correrle dietro, non prenderla per un braccio, farla ruotare verso di
sé e
chiederle se non meritasse neanche più le sue attenzioni, se
non fosse più
depositario, se non di altro, neanche della loro Amicizia, non lo fece,
rispose
con lo stesso tono amorfo: - Dormi bene
Oscar!
Nel suo
letto come se fosse trapunto di spine, si rigira tutta la notte, mille
pensieri
le vorticano in testa. – Oh André, da quando sei
così… così bello? Si
vergognò
di se stessa, per aver pensato una cosa simile dell’amico di
una vita,
dell’amico fraterno, ma non poteva fare a meno di pensare
alla pelle ambrata
del petto, o ai muscoli delle gambe così tesi e solidi,
così da uomo. Era
turbata dalle immagini inenarrabili, a suo dire almeno, che le
comparvero per
tutta la notte d’innanzi agli occhi.
-Oh
André,
non ho potuto neanche guardarti stasera, non ho potuto tenere il tuo
sguardo, e
come una sciocca ho immaginato mi stessi anche tu fissando, mi sentivo
i tuoi
occhi addosso, per qualche istante ho pensato che tu mi vedessi come
una donna,
che mi stessi guardando, che sciocca sono, ho proiettato il mio
turbamento su
di te, figurarsi se un amico leale come te possa guardarmi con
lussuria, che
dico?! Con ammirazione, figurarsi se un qualsiasi uomo possa provare
per me un
qualche languore.
Ride di
sé
Oscar, ride con una certa amarezza, anche la persona più
sicura di sé vacilla
di fronte all’amor proprio ferito, alla propria seppur
recondita vanità inappagata,
in fondo se anche lei era cresciuta da uomo, era una donna, ed il suo
corpo
malgrado la sua educazione, glielo stava ricordando, stava stranamente
desiderando di essere desiderata.
-Ma che mi
prende? E cambia fianco in quel letto, sta vedendo l’alba
spuntare oltre le
coltri del baldacchino. Non capisco, Fersen mi piace, o forse mi
è piaciuto,
non lo so più e non voglio curarmi di questa cosa, tanto lui
appartiene ad una
donna soltanto, non ho mai avuto nessuna possibilità con
lui, o almeno nessuna
possibilità di passargli per il cuore, dal suo letto forse
ci sarei potuta
passare, ma anche lui è stato con me un uomo leale.
Che
strano, quando pensavo a Fersen non ho mai
desiderato di toccarlo e di essere toccata
–avvampò all’idea, si stupì
di se
stessa- né di essere bramata o essere oggetto di eccitazione
erotica, volevo
solo piacergli, o meglio, volevo solo che mi vedesse bella, che mi
vedesse, che
mi vedesse come una donna, volevo capire cosa si provi ad essere
“visti”, ma
forse non l’ho mai desiderato io, non nel senso stretto del
termine. Ho messo
un vestito, il mio primo e ultimo, per ora almeno, per lui, ma sono
stati gli
occhi verdi di André che mi hanno fatta tremare dal fondo
delle scale, ho
pensato che fosse l’imbarazzo per il peccato di
vanità che mi stavo concedendo,
forse non era questo, oh, non lo so! Si sente impazzire, la camicia
madida di
sudore le si è incollata addosso, si siede nel centro del
letto e si scopre. – Cosa
mi prende? Cos’è questo languore liquido che mi
morde le viscere, e rende
vicinissime le mie ginocchia? Ogni volta che mi guardi,
André,sento il ventre
contrarsi, non lo so, non era mai accaduto, ma credo sia quello che si
chiama
e…e..c.citazione, che vergogna, che smarrimento, tu sei il
mio amico, mio
fratello, la mia ombra, cosa penseresti di me se sapessi che ti guardo
non come
dovrei, come era sempre stato?
-Sono una
stupida, proprio una stupida, cosa dovrebbe attrarti in me? Cosa
potrebbe
attrarre di me un qualsiasi uomo con sani appetiti, oltre il patrimonio
intendo? Io ho visto le occhiate di brace di Paulette, di come con quel
petto
florido ed esposto ti si strusci contro con studiata sbadataggine tutte
le
volte che può, e di come tu, pensando di non esser visto la
segua in dispensa,
e di come poi riappariate entrambi dopo una decina di minuti con
un’aria
esageratamente indifferente, come la prendi André? In piedi,
sul tavolaccio
tutto rovinato? Come? E chissà come deve essere calda,
morbida, bagnata, oh sì,
bagnata come sembra
che sia io adesso,
solo che dubito qualcuno avrà mai per me quella che, come si
chiama? Oh sì,
un’erezione, temo che non saprò mai come ci si
senta ad essere piacevolmente
invase, pervase, prese, oh sì, anche con
volgarità, come in una delle cronache
dei miei soldati, che dietro quelle riverenze nascondono i pensieri
più
peccaminosi e le fantasie più pruriginose, in
realtà, non saprò mai cosa si
provi ad essere amate e desiderate allo stesso tempo, cosa significhi
far
l’amore, e credo che tutti questi pensieri stupidi e da
voyese siano i morsi
della gelosia che io, André, ho per mio fratello, e non ho
diritto di provare.
Come
sono ridicola, e questi pensieri osceni
dei quali mi fregiavo di essere immune, da dove mi provengono?
È
l’alba
ormai, ha i capelli incollati a contornarle il viso, e ben altra alba
sta
sorgendo nella sua coscienza, la lussuria ed il desiderio fanno
capolino dalle
coltri della sua anima, è l’alba e la rugiada
imperla le rose in giardino, due
dita a scostare i suoi petali, resina odorosa su incerti giunchi,
è la prima
volta che il suo desiderio si fa miele, è la prima volta che
i suoi
polpastrelli non l’avorio del piano, ma la carne eccitata
sfiorano, prima con
timore, pudore, vergogna, e via via sempre con maggior frenesia, che
neanche
lei sa da dove provenga, come fosse un’antica sapienza, come
respirare, nessuno
te lo insegna eppure lo sai fare, capisce con le sue dita di farfalla
il
piacere sublime di sfiorare l’abisso e il cielo insieme per
poi tornare.
Fine
S.
P.S.
l'avevo conclusa, ma da qualche parte nel mio pc giaceva una sorta di
capitolo appendice, e così la storia da one-shot ha subito
un incremento, spero sia gradito, e spero di non essere stata eccessiva
nel descrivere certe situazioni.
P.P.S.Mi scuso anche per la differenza di dimensione tra un capitolo e l'altro, non riesco a gestire l'html, spero di riparare presto.
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