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Una giornata, l’ennesima,
volgeva al termine all’Ange Café.
Il sole
aveva già iniziato la sua discesa oltre l’orizzonte, al di là dell’oceano, e le
prime stelle si erano fatte strada attraverso il cielo color arancio riempiendo
l’aria di magia.
Ange
alzò gli occhi dal bancone, incrociando con lo sguardo le superbe figure di una
coppia di draghi, un maschio ed una femmina, intenti a rincorrersi l’uno con
l’altro in uno dei loro giochi di corteggiamento che ormai si era abituata a
vedergli compiere.
Quasi
non credeva possibile di aver passato quasi un anno della sua vita a combattere
quelle creature, e tutto per colpa di un sadico piano ordito dalla mente
perversa di un sedicente dio.
Ma ora
quei giorni erano lontani.
Ora
c’erano solo pace e prosperità.
La sua
nuova nazione cresceva vigorosa giorno dopo giorno, attirando a sé un numero
sempre crescente di potenziali abitanti.
Stava
per sollevare il vassoio pieno di bicchieri vuoti, dopo che le ultime clienti
se n’erano andate, quando si sentì abbracciare alle spalle.
«Tusk!» imprecò. «Smettila di fare lo stupido.»
«Non far
finta che ti dispiaccia» sorrise beffardo lui cingendola un po’ più forte.
Purtroppo
ormai quel pervertito aveva imparato a conoscerla, e a differenza che in
passato Ange non riusciva più a sottrarsi alle sue manifestazioni d’affetto,
anche le più esagerate.
Aveva
bisogno di Tusk. Era la sua vita.
Avevano
aperto quel caffè insieme, realizzando un sogno comune di una vita nuova e
pacifica, e anche se a distanza di due anni non erano ancora riusciti a
coronare con un erede il loro amore sincero e appassionato sentivano che era
solo una questione di tempo.
Tusk da parte
sua amava giocare e provocare un po’ la sua donna, ricordando quasi con
nostalgia i giorni lontani in cui bastava una parola, un gesto inconsulto, o
uno dei suoi proverbiali colpi di sfortuna, per ricevere in cambio sonore
legnate.
Se ci
pensava le ossa gli dolevano ancora, ma era un dolore così dolce, facile da
sopportare.
I lavori
di fine giornata andarono ben presto a farsi benedire, e i due, abbassate le
tapparelle ed esposto il cartello di chiusura, si ritrovarono, seminudi,
abbracciati l’uno all’altra su uno dei divanetti, a scambiarsi baci
appassionati.
«Io odio
quando fai così» disse Ange prendendo fiato. «Mi fai passare persino la voglia
di picchiarti. Lo sai quanto ci sta costando quella tua orribile zuppa che
nessuno vuole mangiare?»
«Ne sono
felice. Anche perché, tra un calcio nello sterno e le tue pallottole, non ho
più niente in corpo che non sia già stato rotto.»
Lei
rise, divertita, scambiandosi con lui un nuovo bacio, poi gli occhi di entrambi
caddero verso la luce del sole che, filtrando dalle tapparelle, annunciava un
tramonto ormai prossimo al completamento. E allora, sui loro volti, comparve
quasi un che di nostalgia.
«Ripensi
mai al nostro vecchio mondo?» domandò Tusk
«Perché
dovrei farlo?» rispose lei quasi stizzita. «Dopotutto, non è più il nostro
mondo.»
«Ma lo è
stato. Chissà cosa sta accadendo laggiù. Embryo li
controllava in ogni cosa. Erano burattini nelle sue mani, senza neppure
rendersene conto. Mi domando cosa stia succedendo ora che quel legame è stato
reciso. Non erano abituati a prendere decisioni per conto loro.»
«Ma
dovranno farlo. Se vogliono sopravvivere. E a conti fatti, della sorte di qualcuno
che mi ha tirato le uova dandomi del mostro e invocando la mia morte, può
fregarmene solo fino ad un certo punto.»
«Eppure,
mi rifiuto di credere che fossero tutti così.
Che ci
fosse qualcuno di diverso in mezzo a loro?»
«Umanamente
parlando erano come dei cloni. Fatti in serie per amare quello che doveva
essere amato e disprezzare quello che doveva essere odiato.
I Norma
erano l’unica eccezione, e per questo ci chiamavano mostri. Trovo difficile
pensare che qualcuno di loro potesse essere diverso, almeno fino al momento in
cui Embryo è morto.»
«Immagino
che tu abbia ragione» rispose Tusk con un sorriso che
però non appariva troppo convinto. «Ma sono sicuro che, con la morte di Embryo, siano riusciti in qualche modo a trovare la loro strada.
È anche questa la forza dell’Uomo, dopotutto.»
«Devono
avercela fatta. In caso contrario, probabilmente a quest’ora sono già tutti
morti. Un destino che si sarebbero ampiamente meritati.»
A volte
Ange sapeva essere davvero cinica, a tratti persino spietata, ma Tusk non se la sentiva di fargliene una colpa; era
difficile mantenere un punto di vista obiettivo dopo tutto quello che doveva
avere passato, e in fin dei conti non era così sbagliato considerare gli umani
dell’Altra Terra in modo tanto negativo.
Era vero
che Embryo li aveva programmati per odiare i Norma,
ma Momoka ed Emma avevano dimostrato che non erano
stati privati del libero arbitrio, e della capacità intrinseca di saper
distinguere il bene dal male, il giusto dalla menzogna.
La
speranza era che quanto accaduto a loro due fosse accaduto anche per tutti gli
altri, ma una parte di Tusk dubitava che ciò potesse
davvero essere avvenuto.
«A
proposito di Momoka, dov’è?» domandò Tusk. «È dall’ora di pranzo che non la vedo.»
«È
andata in città con Pamela e le altre a fare spese. Dopodomani saranno due anni
dalla fine di Libertus. Voglio dare una festa.»
«È una
splendida idea. Preparerò la mia migliore zuppa di serpente.»
«Ancora
con questa zuppa!? È una perversione o cosa!?»
La luce
del sole continuò ad affievolirsi, scomparendo rapidamente nel giro di pochi
attimi, lasciando il posto a minacciosi boati: doveva essere in arrivo un gran
bel temporale.
Poi,
d’improvviso, la porta del locale si spalancò fragorosamente.
«È
terribile, nobile Angelise!» strillò Momoka apparendo sull’uscio, salvo poi arrossire
d’imbarazzo alla vista dei suoi due amici e padroni intenti nel loro momento di
intimità. «Scu… scusate!»
«Momoka!» urlò Ange coprendosi alla bene e meglio. «Quante
volte ti ho detto che non devi entrare quando vedi le tapparelle abbassate!»
«Mi
dispiace, nobile Angelise» rispose lei mortificata,
ma riacquistando nel giro di un attimo tutta la sua agitazione. «Però, c’è un
problema! Presto, venite a vedere!».
I due
amanti si guardarono tra di loro, confusi e un po’ preoccupati, ma niente li
avrebbe mai potuti preparare a ciò che, rivestitisi e raggiunta la vicina
scogliera, si videro comparire dinnanzi.
Non
erano state le prime avvisaglie di un temporale a coprire il sole.
Un
cerchio di nuvole nere, sinistre e minacciose, si era formato nel cielo ad
alcuni chilometri di distanza, in mare aperto, vorticando lentamente su sé
stesso mentre dalle sue viscere sprizzavano lampi e rimbombi di tuono.
Entrambi
sgranarono gli occhi, e un brivido gli attraversò le ossa.
«Ma quella… quella è…» balbettò Tusk
Non ebbe
neanche il tempo di voltarsi che la sua compagna era già corsa in direzione del
granaio attiguo al bar.
«Ange,
aspettami!»
Insieme,
e mettendoci parecchia forza, aprirono il pesante portone di metallo, balzando
in sella ai rispettivi veicoli prima ancora di aver finito di indossare le
rispettive tute da battaglia, riposte con cura all’interno di un armadietto.
Era da
un po’ di tempo che il Villkiss e l’Arquebus se ne stavano a prendere polvere lì dentro, e ciò
nonostante, subito dopo l’accensione, presero a cantare come cardellini,
indifferenti al passare degli anni.
«Momoka, avvisa Salako e le
altre!» ordinò Ange portando con disinvoltura il suo veicolo all’esterno. «Noi
andiamo a vedere che sta succedendo.»
«Sì, mia
signora» fece in tempo a dire la cameriera, e subito dopo i due decollarono a
tutta velocità.
Più Ange e Tusk si avvicinavano a quello strano, ma non insolito,
fenomeno atmosferico, più vedevano confermati i propri timori, e quando infine vi
furono appresso, in una zona di mare basso segnata da cui emergevano i resti
arrugginiti e decrepiti dell’antica città di Tokyo, le sue imponenti dimensioni
suscitarono in loro un ancora maggior timore.
«Non ne
ho mai vista una di queste dimensioni» disse Tusk
alla radio.
Non era
raro che si aprissero delle singolarità.
A
sentire la venerabile Aura, la barriera che divideva i due mondi aveva
risentito pesantemente del tentativo di Embryo di
farla collassare, e anche se non si era ancora riusciti a spiegarne
completamente il motivo essa non era ancora riuscita a ricostruirsi
completamente, lasciando delle falle che di quando in quando assumevano
consistenza per poi, comunque, scomparire nel giro di pochi minuti.
Ange e Tusk quindi aspettarono, fiduciosi che ancora una volta
quel retaggio delle vecchie battaglie sarebbe scomparso, ma a distanza di
parecchi minuti la singolarità, invece che richiudersi, sembrò quasi volersi
ingrandire, facendosi ancor più minaccioso.
«Che
facciamo, Ange? Questa singolarità non sembra volersi chiudere.»
Stavano
decidendo il da farsi, quando una coppia di ragna-mail e un para-mail rosa
dall’aria parecchio famigliare gli si fecero incontro giungendo dalla città;
con loro anche un nutrito seguito di draghi, soprattutto femmine.
«Sta
arrivando la cavalleria!» esclamò Vivian con il suo
solito fare un po’ infantile.
Gli anni
e le battaglie non avevano cambiato il suo carattere gioioso, ma dopotutto era
questo uno dei motivi per cui tutti le volevano molto bene
«Era ora
che arrivaste!» disse sollevata Ange
«Scusa
il ritardo, Ange.» disse Salia. «È successo tutto
molto in fretta, e quando Momoka ci ha chiamate siamo
arrivate il più in fretta possibile.»
«E Salako e le altre?»
«Stanno
arrivando. Saranno qui in pochi minuti. Intanto siamo venute noi due.»
«Allora,
si può sapere che accidenti sta accadendo qui?» domandò Hilda,
rude e schietta come sempre. «Perché questo dannato buco non si è ancora
richiuso?»
«Non
solo non si è richiuso, ma si sta ingrandendo» disse preoccupato Tusk. «Se le cose continuano a progredire, sarà il caso di
chiedere l’aiuto della venerabile Aura.»
«Accidenti
a quella lucertolona. Ha scelto proprio un bel
momento per andarsene in letargo.»
«Non
chiamare la nostra Madre Aura lucertolona!» sbottò Vivian. «E non è andata in letargo, si sta riprendendo!
Provaci tu a farti succhiare l’energia ininterrottamente per centinaia di anni,
e poi vediamo quanto sarai vitale.»
«Sì, si,
d’accordo» tagliò corto la rossa. «Ma ora come ci comportiamo?»
«Aspettiamo
l’arrivo di Salako» consigliò Ange. «Lei
probabilmente saprà aiutarci.»
Ma non
ne ebbero il tempo.
Improvvisamente
l’ingrandimento della singolarità aumentò in modo repentino, provocando una
pioggia di raggi di particelle che per poco non colpirono le ragazze e i draghi
che le accompagnavano, e quando al centro del cerchio di nuvole cominciò a
formarsi una superficie semitrasparente, oltre la quale si potevano scorgere
nitidamente un cielo ed una terra che non avevano nulla a che vedere con il
loro mondo, la preoccupazione negli occhi di Ange e i suoi compagni si tramutò
in vera e propria paura.
«Si è…» balbettò Tusk. «Si è aperto
un varco!»
Non era
possibile.
Nessuno,
a parte Midgardia, aveva il potere di fare una cosa
del genere, e la barriera tra i due mondi non poteva essere ancora così
deteriorata da provocare degli squarci.
Passarono
alcuni istanti, lunghi e carichi di tensione; poi, dalla fessura, cominciarono
a venire fuori uno dopo l’altro un gran numero di para-mail, alcuni di un
modello e di una fattura che né Ange né nessun altro ricordavano di aver mai
visto.
Tra loro
ne spiccava uno, nero pece, con riverberi argentati, un fucile di alta
precisione alla cintura e una falce ripiegata su sé stessa come arma da corpo a
corpo, e un altro color cremisi, che al posto delle mani sembrava avere una
coppia di lame che lo facevano somigliare ad una mantide.
Ad
accompagnarli, elicotteri da combattimento, aeronavi e altri velivoli militari
dall’aria decisamente poco raccomandabile.
«Ma che cosa…» strillò Hilda
Per ultimo,
a coronamento di una situazione che stava diventando sempre più drammatica,
comparve addirittura un ragna-mail, quasi un clone del Villkiss,
che lasciò Ange e le altre atterrite; presentava una colorazione insolita, di
un giallo dorato, con sei ali luminose che formavano un cerchio dietro la sua
schiena, e lo stemma imperiale dell’Impero di Mitsurugi
a capeggiare al centro del petto.
A
cavalcarlo, come un domatore in sella alla propria fiera, c’era un uomo, con
una katana chiusa nel fodero in una mano e un uniforme del Popolo Antico
provvista di casco a celare i lineamenti, che ciò nonostante apparivano
atletici e scolpiti come si conveniva ad un vero soldato.
«Non… non ci posso credere…» disse
Tusk, interdetto e senza parole come tutti. «Questi… sono abitanti dell’Altra Terra!?»
Era
inaudito. Da quando gli abitanti dell’Altra Terra, che oltretutto con la
scomparsa del mana dovevano aver visto ridursi sensibilmente il loro livello
tecnologico, disponevano delle conoscenze necessarie ad aprire i varchi senza
l’aiuto di Embryo?
I nuovi
venuti, inizialmente, non si mossero, seguitando a rimanere nei pressi del
varco con intenzioni a prima vista non bellicose, ma Ange e i suoi compagni
sapevano bene che un simile dispiegamento di forze non poteva portare nulla di
buono.
Il
ragna-mail dorato, lentamente, si portò in testa al gruppo, e con gli occhi
della mente Ange ebbe come l’impressione di scorgere qualcosa negli occhi nel
soldato che lo cavalcava, come una specie di ordine impartito con un filo di
voce, ma che i suoi compagni recepirono immediatamente, scagliandosi fulminei
all’attacco in ogni direzione.
«Lo
sapevo!» ringhiò la ragazza. «Pronti a combattere, presto!»
Da
quando avevano preso confidenza coi nuovi ragna-mail e le nuove capacità del Villkiss Ange, Sanya e Hilda erano diventate quasi imbattibili, e lo stesso si
poteva dire per Vivian e Tusk,
che pur usando dei normali para-mail sapevano il fatto loro.
Ciò
nonostante, quei nuovi avversari si rivelarono degli avversari micidiali, che
misero a dura prova le loro abilità di piloti e di guerrieri; gli aerei e gli
elicotteri sparavano senza sosta, volando in ogni direzione per sfuggire agli
assalti dei draghi e ai colpi dei mezzi nemici, mentre da lontano il para-mail
nero colpiva con letale precisione chiunque arrivasse a minacciare qualche suo
compagno.
La cosa
strana era che, mentre la maggior parte dei para-mail nemici combattevano,
alcuni di essi restavano a bassa quota, intercettando i corpi dei draghi morti
o morenti che precipitavano in mare e trafiggendoli con una selva di
protuberanze simili a tentacoli; questi, emergendo da una specie di enorme
recipiente portato come uno zaino, sembravano risucchiare loro il sangue e le
viscere, riducendoli a mummie rinsecchite.
Quando Vivian se ne accorse, perse la testa.
«Lasciate
stare i miei amici!» urlò piombando loro addosso fuori di sé dalla rabbia.
«Vivian, no!» tentò di bloccarla Sanya
Un
para-mail provò a bloccarle la strada, ma lei lo spazzò via con un colpo solo
del suo boomerang, per poi scagliarsi con forza contro due dei raccoglitori con
un secondo lancio.
Stava
per abbatterne anche altri due, che svuotata la loro ultima preda e presi dal
panico stavano tentando una inutile fuga appesantiti dal loro fardello, quando
uno strano bagliore proveniente dall’alto attirò, troppo tardi, la sua
attenzione; un istante dopo, il suo para-mail subì un violento contraccolpo,
minacciando quasi di farla cadere dalla postazione, e quando riaprì gli occhi
si avvide che ora, al posto del braccio destro, aveva solo un moncone
perfettamente segato, che sprizzava fumo e scintille.
Il
giovane soldato con la katana era lì, ai suoi piedi, ritto sopra le macerie di
un vecchio grattacielo, la spada parzialmente sguainata e lo sguardo basso,
quasi invisibile dietro la visiera rossa del casco.
«Andate!»
ordinò con una voce giovane ma profonda, di ghiaccio, e i due para-mail
raccoglitori immediatamente gli obbedirono, scomparendo in tutta fretta oltre
il portale.
Stupita
ma non doma la ragazzina tentò di afferrare l’assalitore con la mano ancora
intatta, ma questi, fino all’ultimo, non si mosse fino all’ultimo.
«Inutile.»
sussurrò.
Di
nuovo, tutto avvenne in meno di un batter di ciglia; il giovane parve
scomparire, tanto velocemente fu in grado di muoversi, e un istante dopo era in
piedi sulla testa del para-mail di Vivian, mentre
anche l’altro braccio precipitava in mare dopo essere stato irrimediabilmente
reciso.
Era più
di quanto qualunque macchina potesse sopportare; il corto circuito
fortunatamente non provocò l’esplosione, ma Vivian
vide con orrore il suo para-mail spegnersi repentino, per poi cadere inerme
verso il basso ormai privo di energia.
«Vivian!» urlò in lacrime Hilda
vedendola scomparire sotto la superficie.
Come
fece per andare ad aiutarla, però, trovò la sua strada sbarrata dal para-mail
cremisi, a prima vista così simile al suo, che evitati sia due fendenti sia una
scarica di fucile le volò velocissimo addosso costringendola ad erigere lo
scudo per difendersi.
Allora
fu Tusk a provare a correre in aiuto a Vivian, ma forse grazie ai suoi sensi di soldato il ragazzo
riuscì ad avvedersi in tempo della minaccia che, come una saetta, gli stava
venendo addosso, spostandosi in tempo e rimettendoci così solo uno dei due
propulsori posteriori.
Dandosi
la spinta sulla testa del para-mail di Vivian che
precipitava, e forte delle potenzialità della sua tuta, il soldato in nero gli
era arrivato appresso in pochi attimi, venendo afferrato al volo dal para-mail
nero passato in modalità di ingaggio; fu allora che tutti poterono vedere una
giovane donna alla guida del mezzo, capelli di un nero opaco portati piuttosto
corti e sguardo impassibile, quasi senza vita, che stonava incredibilmente con
la delicatezza e grazia dei suoi tratti.
La sua
tuta era nera come il para-mail che pilotava, e solcata dalle medesime
striature, ma presentava anche alcune placche metalliche simili a scampoli di
armatura, che ne accrescevano sensibilmente l’aspetto minaccioso.
Inge, intercettato
il mezzo, era pronta ad abbatterlo con un colpo preciso, ma d’improvviso il
ragna-mail dorato, che per tutto quel tempo se ne era rimasto in disparte, la
attaccò fulmineo, sventagliando una coppia di spade che, con un semplice
contatto tra le estremità delle impugnature, si tramutarono mancato il primo
assalto in una letale arma a doppia lama.
«Non
sono così stupida da farmi sorprendere da così poco.»
Ciò
nonostante Ange dovette indietreggiare, rispondendo di tanto in tanto ai
fendenti portati con letale precisione con qualche colpo di fucile, ma il
ragna-mail nemico non voleva saperne di mollarla e continuava a colpire.
«Ange!»
gridò Salya intervenendo in suo aiuto.
L’attacco
a tenaglia costrinse il ragna-mail a rinunciare all’assedio martellante, e
grazie alla velocità fulminante di Salya ben presto
fu lui a ritrovarsi in apparente difficoltà.
A dargli
man forte intervennero tre suoi compagni, pesci piccoli sicuramente, che Ange e
Salya riuscirono ad abbattere con pochi sforzi, ma
nel tempo che impiegarono a tornare a concentrarsi sul loro bersaglio
principale questi si era già allontanato di almeno un chilometro, bloccandosi
in mezzo al nulla come pietrificato.
Ange
stava domandandosi della ragione di quello strano comportamento, quando, attraverso
la radio, giunse una strana litania; una canzone. E tutto il suo corpo si
pietrificò per lo sgomento.
始まりの光 Kirali…kirali
HAJIMARI NO
HIKARIKIRALI…
KIRALI
終わりの光 Lulalalila
OWARI NO
HIKARILULALA LILA
返さんel ragna
KAESAN EL RAGNA
砂時計を
SUNADOKEI WO
時は溢れん
TOKI WA AFUREN
Lulalalila
幾億数多の 命の炎
IKUOKU AMATA
NOINOCHI NO HONOO
するり堕ちては星に
SURURI OCHITE WA
HOSHI NI
流れ流れては美しく
NAGARE NAGARETE
WA UTSUKUSHIKU
また生と死の揺りかごで
MATA SEI TO SHI
NO YURIKAGO DE
柔く泡立つ
YAWAKU AWADATSU
Due bocche da fuoco comparvero
sulle spalle del ragna-mail, sprigionando una terrificante quantità di energia;
i suoi alleati, capita la situazione, si erano già spostati, ma di contro
parecchi draghi si ritrovarono investiti in pieno dalla potenza del colpo,
finendo vaporizzati.
Persino Tusk riuscì a cavarsela per il rotto della cuffia,
scampando per la seconda volta in pochi minuti ad un attacco potenzialmente
mortale, ma di contro Sanya non fu altrettanto
svelta, rimanendo paralizzata alla vista di quell’onda distruttiva che le
arrivava addosso.
«Sanya, attenta!».
Colta a
sua volta alla sprovvista, Ange riuscì a sparare a meno della metà della sua
potenza abituale, ma fortunatamente si rivelò abbastanza da fermare l’attacco,
annullandolo, seppure al costo di un danno non indifferente alla strumentazione
del Villkiss.
E, come
già accaduto una volta molto tempo prima, lo scontro di forze contrapposte
sembrò risvegliare qualcosa nella mente della ragazza, richiamando memorie di
tempi ormai lontani.
E di
nuovo, fu stupita di ciò che vide: ricordi perduti, di un’esistenza felice, o
forse terribilmente ipocrita, in cui tutto era semplicità, eleganza, lusso.
Com’era
possibile?
Lo
scontro tra le energie opposte di diversi ragna-mail risvegliava ricordi comuni
ad entrambi i piloti. Chi poteva mai esserci a bordo di quel dannato aggeggio
sbucato dal nulla?
«Ange!»
gridò Tusk vedendo il Villkiss
accusare il colpo. «Stai bene?»
«Tu…» ringhiò la ragazza. «Si può sapere chi diavolo sei?»
Quella
voce che aveva sentito cantare effettivamente le era apparsa famigliare; ma fu
solo quando la sentì di nuovo, fredda e severa, rivolgersi direttamente a lei
attraverso la radio, che cominciò a capire.
«Mi
sorprendi. Ti sei dimenticata a tal punto di me da aver scordato persino la mia
voce?»
Righe di
sudore le comparvero sulla fronte, le mani si strinsero più forte attorno alle
impugnature dei comandi, e un tremore incontrollabile le attraversò tutto il
corpo.
«Non… non può essere…» balbettò
con gli occhi fuori dalle orbite.
Lentamente,
il ragna-mail nemico si riavvicinò, tornando a portata di vista; la cabina di
guida al centro del petto si aprì, mentre dal suo interno faceva capolino un
corpo esile, ma irrobustito il giusto da un coscienzioso allenamento, messo in
elegante evidenza dalle linee della tuta ed impreziosito da una folta e ben
raccolta chioma biondo oro raccolta in una coppia di boccoli spumeggianti.
Ma più
di tutto, furono gli occhi a sconvolgere e ammutolire Ange.
Non
erano quelli che ricordava, né per il colore, divenuto un rosso simile a quello
dei suoi, né per ciò che poteva leggervi dentro; mai avrebbe pensato che la
persona che da due anni vedeva solo nei suoi ricordi e che ora le stava
dinnanzi potesse dimostrare un tale, incontenibile ardore.
«È
passato molto tempo, sorella.»
«Sy… Sylvia!?»
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Sono sicuro al 1000% che 999 utenti su
1000 di questo sito non conoscono quest’anime, anche perché è finito in
Giappone solo 3 giorni fa, ma ciò nonostante ne sono rimasto talmente appassionato
e catturato da aver deciso di scriverci subito una fan fiction, anche perché il
finale mi ha lasciato uno strano amaro in bocca per certe decisioni a livello
di trama che non mi hanno convinto del tutto.
Trattandosi di un sequel do per assodato
che chi legge conosca già la storia, anche se so che questo potrebbe straniere
gli eventuali lettori, ma ho deciso di correre il rischio.
Spero che qualcuno colga l’occasione per
vedere questa serie, perché ribadisco a me personalmente è piaciuta molto: altamente
sperimentale, fonde in modo molto ben pensato azione, dramma, un po’ di
splatter e un erotismo che sa più di hentai soft che
di fan-service commerciale.
Con la sua improvvisa scomparsa il mana non si era portato via solo la
maggior parte della tecnologia umana, ma più in generale tutto ciò che gli
Uomini avevano costruito nel corso di mille anni in termini di società, civiltà
e cultura.
Era stato come risvegliarsi da un sogno.
Abituati com’erano ad avere tutto, forti di un
potere che permetteva di avere qualsiasi cosa senza sforzo, trovatisi da un
momento all’altro di fronte all’obbligo di fare affidamento solo sulle loro
forze molti di loro avevano finito per smarrire la retta via, abbandonandosi ai
loro più bassi istinti.
Tutto aveva finito irrimediabilmente per
sgretolarsi, e a quasi due anni dalla caduta di tutte le loro certezze non
sembrava intravedersi alcuna luce all’orizzonte, con brigantaggio, anarchia e
legge del più forte che ancora la facevano da padroni in ampie parti del mondo.
Ma più di ogni altra cosa, come ogni volta, gli
uomini avevano cercato qualcuno da odiare, su cui scaricare le colpe di quanto
stava accadendo, e la valvola di sfogo, come era prevedibile, erano stati
sempre loro: i Norma.
Non che questa distinzione avesse ancora senso: con
la scomparsa di ciò che differenziava gli umani dai supposti subumani, non
sussisteva più alcuna differenza visibile tra umani e Norma, ma le vecchie
tradizioni, malgrado tutto, non volevano saperne di morire.
Sembrava di essere tornati all’età della pietra,
con una specie di follia collettiva in cui bastava un sospetto, un’accusa,
persino una parola in malafede dettata da un qualche sentimento di invidia o
gelosia a provocare vere e proprie catastrofi, con linciaggi violenti e
sommarie esecuzioni.
Non che i Norma, quelli che esistevano già da prima
di quella specie di apocalisse, fossero scomparsi; e anzi, era stato proprio
per questo se la situazione era a tal punto degenerata.
Vessati, perseguitati e ghettizzati per secoli,
molti Norma avevano visto nella scomparsa del mana un’occasione per rifarsi di
tutti i torti subiti, e raggruppatisi in gruppi avevano dato vita a vere e
proprie bande armate che calavano come locuste sugli insediamenti umani,
massacrando e depredando, salvo poi subire talvolta la medesima sorte in un
perverso gioco al massacro che doveva aver già provocato centinaia di migliaia
di morti.
Gli umani uccidevano i Norma, i Norma uccidevano
gli umani, con entrambe le fazioni che come animali rabbiosi dilaniavano sé
stesse cercando improbabili dissidenti, traditori e infiltrati al proprio
interno.
L’Impero di Misurugi, se
possibile, era ridotto anche peggio.
Con una famiglia imperiale decimata e la crisi che
era incominciata proprio entro i suoi confini, le tensioni sociali e l’anarchia
erano esplosi con la potenza di una deflagrazione atomica, e dell’antica,
gloriosa capitale non rimaneva ormai che un ammasso di detriti in rovina, dove
facevano buon gioco prepotenti, predoni e saccheggiatori.
Avventurarsi lì dentro era davvero pericoloso, a
meno che qualcuno non volesse rischiare la vita, così buona parte degli
insediamenti e degli agglomerati venutisi faticosamente a creare in tutto quel
tempo avevano preferito spostarsi in altri luoghi, soprattutto nell’entroterra,
al riparo di foreste, montagne e altre protezioni naturali.
Questo però non impediva alle bande di razziatori
che imperversavano in zona di spadroneggiare a proprio piacimento nella
regione, e a meno di non essere ben equipaggiati era molto difficile riuscire a
proteggere efficacemente le proprie comunità.
Per fortuna non c’era solo chi se ne restava
rinchiuso entro il proprio recinto, preoccupandosi solo di difendere quello che
vi era al suo interno ignorando tutto ciò che invece stava al di fuori.
Una sera, non lontano dalla vecchia strada
imperiale che dalla capitale andava verso le montagne a est, cinque briganti
erano intenti a fare baldoria accanto ad un fuoco, tracannando birra e cantando
a tutta voce mentre facevano soddisfatti l’inventario di quanto ottenuto nel
corso del loro ultimo saccheggio.
Uno di loro, talmente ubriaco da non reggersi in
piedi, si avventurò in mezzo alla bassa boscaglia per urinare, ma come fece per
calarsi i pantaloni un misterioso quanto apparentemente minuto aggressore gli
avvolse una garrotta attorno alla gola, strozzandolo prima che avesse il tempo
di urlare; un istante dopo, i suoi compagni rimasti al campo avvertirono un rumore
inconfondibile alle loro spalle, alzando immediatamente le mani.
«Non fate una mossa, o vi brucio il cervello» disse
una voce, femminile e piacevole, ma in quel momento terribilmente minacciosa.
«Alzatevi lentamente.»
Uno di loro tentò di afferrare il mitra che aveva
accanto, ma una pallottola invalidante in una spalla gli tolse subito i
bollenti spiriti, e allora Il loro capo, un energumeno con la benda a coprirgli
l’occhio sinistro, obbedì all’ordine dell’aggressore, imitato dai suoi
compagni.
Di fronte a sé aveva un pezzo di lamiera che
rifletteva blandamente ciò che vi era davanti; così, quando ebbe occasione di
guardarci dentro, rimase talmente stupito da mettersi a ridere.
«Questo è il colmo!» disse, voltandosi. «Quale
sorpresa. Niente meno che la principessa Sylvia è venuta a farci visita.»
«Non muovere un passo!» ordinò lei seguitando a
tenergli puntata addosso la pistola. «Siete quelli che hanno rapinato i campi
della regione, vero?»
«Possiamo trovare un accordo» rispose calmo il
capo. «Abbiamo fatto su un bel bottino. Potremmo dividerlo tranquillamente, e
ce ne sarebbe abbastanza per soddisfare tutti.»
«Beni rubati. A gente che se li era guadagnati con
il sudore della fronte.»
«Questione di punti di vista. Chi non ha la forza
di tenersi stretta la sua roba, non può stupirsi se qualcuno gliela ruba.»
Sylvia ormai non si stupiva più della bassezza
raggiungibile dai suoi simili; forse perché, in passato, anche lei non era
stata molto diversa da loro.
«È per colpa di quelli come voi che questo mondo
non riesce a risollevarsi.»
«Proprio te parli, fottuta amica dei Norma?» sputò
un altro, e fu solo per un miracolo che Sylvia riuscì a contenere il desiderio
di fargli un buco in fronte
«Lasciate qui tutto quello che avete rubato e
andatevene.»
«Allora, in questo caso, dove sarebbe la differenza
tra te e noi?» domandò provocatorio il capo
«Io non terrò niente per me. È questa la
differenza.»
Imprudentemente, Sylvia si distrasse, e il capo
immediatamente ne approfittò, scagliandole in faccia con un piede un misto di
sabbia, cenere e braci, e accecandola quel tanto che bastava da permettere a
lui e agli altri di recuperare le armi.
Tuttavia non fecero in tempo a crivellarla che
qualcuno, dalla vegetazione, esplose un colpo, lasciando uno di loro a terra
morto con un proiettile dritto nell’orecchio. I suoi compagni a quel punto
spararono, ma ormai Sylvia si era già nascosta dietro un albero e fu lesta a
rispondere, generando una furiosa sparatoria cui si unirono, in breve, una
ragazza castana sui diciott’anni e un giovane uomo,
entrambi con indosso un giubbotto antiproiettile.
I predoni, rifiutandosi di fuggire e abbandonare il
loro carico, si difesero fino all’ultimo uomo, morendo tuttavia uno dopo
l’altro senza riuscire a fare a loro volta alcuna vittima.
Terminato lo scontro, gli animi si distesero.
Prudentemente, Sylvia fece qualche passo avanti,
accertandosi della morte apparente di quasi tutti gli assalitori, e dopo poco
dalla boscaglia circostante giunsero altre due ragazze.
Una delle due, armata di fucile, calzoni larghi
stretti in vita da una cintura e maglietta bianca, sormontata da un giubbotto
antiproiettile, era alta e snella, dal fisico scolpito come quello di
un’atleta, o di un soldato di professione, capelli castani corti e occhi blu,
un po’ più scuri di quelli di Sylvia; l’altra appariva più minuta, ma non per
questo meno atletica, lunghi capelli scuri raccolti in una coda e occhi verdi,
e vestiva in modo molto meno mascolino, forse persino troppo femminile dato il
luogo, il che accresceva la gentilezza della sua figura.
«Complimenti per la mira, Ashley» disse Sylvia
rinfoderando la pistola. «Allora è vero quello che ho sentito dire sulle Norma
di Arzenal.»
«Al confronto dei draghi contro cui ho combattuto,
questi sono solo feccia.» sputò a terra la castana.
Sylvia si guardò attorno, notando la grande
quantità di vettovaglie accatastate attorno al campo.
«Al solito» sospirò. «Cibo, armi e munizioni.»
La ragazza scura si avvicinò ad una delle casse per
ispezionarla, quando all’improvviso il capo, rimasto ferito di striscio, si
alzò di colpo, afferrandola e puntandole velocemente un coltello alla gola.
«Ferme!» ordinò prima che Sylvia ed Ashley
potessero alzare i fucili. «Gettate le armi! Subito! O giuro che le taglio la gola!»
Le due ragazze si guardarono, quindi, ringhiando,
obbedirono, liberandosi sia delle armi da fuoco che dei coltelli alla cintura.
«Lo immaginavo» rise. «Questo è il problema di voi
puttane amiche dei poveracci. Non potete fare a meno di difendervi tra di voi.»
«Davvero?» sentì dire in quella da una voce cupa,
quasi spaventosa. «Cosa ti fa pensare che io debba essere difesa?»
Da un istante all’altro la ragazza si liberò della
stretta, ed afferrato saldamente il braccio dell’uomo con un solo colpo gli slogò
tutte e tre le articolazioni; quindi, mentre quello ancora urlava, gli arrivò
alle spalle, e con uno scatto deciso gli girò la testa di centottanta gradi,
lasciandolo morto prima ancora che avesse il tempo di urlare.
Quindi, accertatasi che fosse morto, si inginocchiò
davanti al corpo, giunse le mani in preghiera e mormorò alcune parole, versando
anche alcune lacrime.
«Un giorno o l’altro dovrai spiegarmi come fai, Mayu» sorrise Ashley. «Saresti capace di spaccare il culo
perfino a quella bagascia di Elektra.»
«Contieni questo tuo linguaggio colorito, Ashley.
Abbi rispetto per i morti.»
«Secondo te questi hanno avuto rispetto quando
hanno rapinato, stuprato e ucciso centinaia di persone?»
«Ha ragione lei, Ashley» rispose invece Sylvia. «Se
ci mettiamo ad uccidere anche noi in maniera indiscriminata, non saremmo
migliori di loro.»
In quella, un rantolo sofferente attirò la loro
attenzione; il primo bandito ad essere stato ferito era ancora vivo, e cercava
faticosamente di allontanarsi strisciando sul terreno.
Con due passo Sylvia gli fu appresso, e giratolo
gli puntò la pistola drizza in mezzo agli occhi.
«Ti prego, non uccidermi!» supplicò quello
facendosela letteralmente addosso
«A chi avete rubato tutto questo equipaggiamento?»
«Noi… noi non abbiamo
rubato niente! Quando siamo arrivati noi il villaggio era deserto!»
«Di che villaggio parli?» chiese Ashley
«Dolkin! Il villaggio di Dolkin. Era orrendo. Qualcuno… o
qualcosa aveva spazzato via tutto. C’erano morti ovunque. Abbiamo preso quello
che potevamo e siamo scappati di corsa.
Vi giuro che è la verità.»
Sylvia lo guardò negli occhi, saggiandone la paura;
quindi, riposta l’arma, tolse lo scarpone dal suo petto permettendogli di
alzarsi.
«Hai dieci secondi per sparire. Se ti pesco di nuovo
in questa regione la prossima volta mirerò con più attenzione.»
Senza farselo ripetere quel poveretto scappò via
più veloce della luce, e le tre ragazze, caricatesi ognuna di quanto potevano
portare, tornarono verso la strada, dove trovarono ad attenderle un imponente
quanto minaccioso mezzo di trasporto.
Sembrava un incrocio tra un autocarro eun veicolo da combattimento; poggiato su tre
diverse coppie di pneumatici, ognuno dei quali era spesso quasi il doppio
rispetto ad una ruota normale, era protetto in ogni direzione da un pesante rivestimento
corazzato, tanto spesso che probabilmente neanche un missile anticarro sarebbe
stato in grado di bucarlo.
Se l’apparato difensivo era di prim’ordine,
l’armamento faceva perfino paura: tra feritoie adatte a sparare dall’interno,
generatori di fumo, e soprattutto una coppia di mitragliatrici a canne rotanti,
una a prua ed una a poppa, posizionate su torrette ruotabili a trecentosessanta
gradi, ed una terza torretta che ospitava otto razzi terra-aria, quella specie
di mostro sarebbe stato capace di entrare indisturbato in qualunque fortezza,
anche la più difesa.
Innumerevoli luci di posizione e fari per fendere
anche l’oscurità più nera completavano il tutto.
Sul muso, decorato con motivi floreali, campeggiava
un graffito psichedelico in vernice giallo oro: Bulldog.
«Comoda Ruka, comoda!»
imprecò Ashley all’indirizzo della giovane ragazza castana che masticava
tranquillamente una gomma con la schiena poggiata alla carrozzeria blindata e
una rivista d’auto in mano. «Tanto qui non c’è niente da fare!»
«Siamo di cattivo umore oggi. Posso suggerire una
buona tazza di te?»
«Piantala Ruka, oggi non
è proprio giornata» intervenne Sylvia caricando le due casse che portava con sé
nel vano posteriore
«Niente male come caccia.» osservò Luca
«E non immagini neanche cosa c’è in quel campo.
Domani manderemo un furgone a recuperare tutto. Per ora portiamo con noi
questo.»
«Agli ordini, capo.»
Terminato il lavoro le quattro ragazze si
ritrovarono all’interno del vano posteriore del veicolo, arredato come un
camper e provvisto di ogni comfort, tra cui un ampio tavolo da pranzo sul quale
venne srotolata una cartina della regione.
«Hanno detto di aver preso tutto questo materiale
dal villaggio di Dolkin» disse Sylvia indicando l’insediamento,
il cui nome era vergato a penna. «Ma hanno anche detto che quando sono arrivati
lo hanno trovato già assalito e distrutto.»
«Quindi» ipotizzò Mayu.
«Potrebbe esserci un’altra banda che saccheggia gli insediamenti in questa
zona?»
«Se il racconto di quell’avanzo di galera è vero,
temo non si tratti solo di questo.»
«Ha ragione» disse Ashley «Quale razziatore
assalterebbe un villaggio senza rubare niente?»
Sylvia alzò lo sguardo verso Ruka.
«Quanto ci vorrebbe per arrivare a Dolkin?»
«Con il bulldog, direi circa due ore.»
Le quattro si consultarono con gli occhi tra di
loro, annuendo.
«Andiamo, allora.»
Dolkin esisteva già da prima dell’Apocalisse,
come era stato soprannominato il giorno in cui il Mana era scomparso, e di
tutti i villaggi della regione era sicuramente uno dei più difesi, con le sue
mura di fortuna, ma comunque efficaci, fatte di rottami e detriti vari, le sue
torrette d’avvistamento e le sue armi pesanti.
Vi si arrivava attraverso una strada stretta e
tortuosa, volutamente alterata per impedire gli assalti rapidi ed improvvisi,
ed il bulldog, che non brillava certo per agilità, ebbe a sua volta parecchi
problemi per raggiungere l’abitato.
Sylvia e le sue compagne, illuminando con i fari i
bastioni del villaggio, non furono sorprese di trovarne l’accesso sfondato, ma
quando, lentamente, il loro mezzo varcò il portone, il terrore si materializzò
nei loro occhi.
In quegli anni tutte e quattro ne avevano viste di
cose orribili, ma quello che restava di Dolkin andava
al di là di ogni immaginazione.
Ovunque era distruzione e morte.
Gli incendi, ormai spenti, avevano distrutto quasi
tutto, tramutando le case di legno e pietra in ammassi decadenti di macerie, e
l’aria, su cui aleggiava un terrificante silenzio, puzzava di morte.
Il fuoco si era accanito persino sui cadaveri, e
quei pochi che non erano ancora stati bruciati fino alle ossa apparivano a tal
punto dilaniati da risultare irriconoscibili.
Le quattro ragazze dovettero farsi forza per non
distogliere lo sguardo, e quando, armate fino ai denti, scesero dal blindato, l’odore
era tale che solo per miracolo riuscirono a non vomitare.
«Oh, mio Dio.» riuscì a mormorare Ruka
Non era possibile.
Non era umano.
Chi poteva avere mai concepito una tale
mostruosità? A che punto poteva arrivare la follia umana così lungamente
repressa dal condizionamento di Embryo?
Sylvia strinse più forte le mani attorno al fucile,
sforzandosi di contenere la rabbia che portava dentro.
«Controlliamo in giro. Vediamo se riusciamo a
capire cos’è successo qui.»
«Giuro che appena trovo il responsabile gli sfondo
il culo.» imprecò Ashley allontanandosi verso il vecchio municipio assieme a Mayu
Sylvia e Ruka invece si
avviarono lungo una delle stradine che uscivano dalla piazza, ma bastarono
pochi minuti di ispezione per rendersi conto che lì dentro non c’era più
niente, ma soprattutto nessuno, da salvare.
Chiunque fosse stato, aveva fatto molta attenzione
a coprire le sue tracce, oltre a non lasciare superstiti; anche a questo era
servito il fuoco.
Eppure, ogni spiffero, ogni sibilo, ogni minimo
movimento era per le due ragazze come un allarme, ed i nervi di entrambe erano
a fior di pelle.
Sylvia si chinò, raccogliendo dal terreno coperto
di fango e di cenere un giocattolo di legno, talmente distrutto che nel
sollevarlo questo le si distrusse tra le mani. Lì accanto, supino, un corpo
carbonizzato, e dalle dimensioni non era difficile intuire doversi trattare del
proprietario del gioco.
«Bastardi.» ringhiò
«Ehi, guarda» disse Ruka
indicando la pesante porta, apparentemente sprangata, di un seminterrato dall’altra
parte della strada. «Forse lì c’è ancora qualcosa di utile.»
In quel momento la ricerca di provvigioni era l’ultimo
dei pensieri di Sylvia, ma ciò nonostante la ragazza volle comunque controllare
cosa vi era lì dentro, e assieme alla sua compagna discese lungo la ripida
scala in cemento.
Dinnanzi alla porta vi era un altro corpo,
ugualmente carbonizzato e irriconoscibile; probabilmente quella poveretta, perché
di una donna doveva trattarsi, aveva cercato disperatamente di salvarsi
entrando lì dentro, salvo trovare un catenaccio a chiuderne il battente vedendo
segnato il suo destino.
Per potersi liberare del lucchetto Sylvia fu
costretta a ricorrere ad una scarica di pallottole, e ci volle la forza di
entrambe per riuscire ad aprire il pesante portone, parzialmente fuso e
distorto dalle fiamme.
Sembrava un vecchio magazzino, basso e spazioso, con
file di casse accatastate a formare quasi un labirinto; le luci, alimentate
come il resto da un generatore a carburante, funzionavano ancora, ma erano
quasi tute difettose, producendo una luce ad intermittenza che aveva il solo
effetto di creare sinistri giochi di ombre che accrescevano ulteriormente le
tensione.
Nel silenzio, Sylvia e Ruka
si addentrarono nello stanzone, il terreno umido che scricchiolava sotto i loro
scarponi, le dita sul grilletto pronte a sparare.
D’un tratto, guardandosi attorno, Sylvia ebbe l’impressione
di notare qualcosa, come un movimento nel buio. Dapprincipio pensò ad un’impressione,
ma poi sia lei che la sua compagna udirono inconfondibili rumori di passi.
«Chi và là?» disse, certa di aver visto qualcosa
muoversi
Chiunque fosse lì con loro non rispose, continuando
a correre senza apparente senso in ogni direzione, e mentre Ruka
tornava velocemente verso la porta bloccando quell’uscita Sylvia si mise sulle
tracce del fuggitivo, il quale, comprendendo di essere in trappola, smise
apparentemente di muoversi.
La ragazza continuò a camminare, in silenzio,
saggiando ogni passo, fino a che un respiro affannoso ma sterile, forzatamente
represso, raggiunse le sue orecchie.
Voltato un angolo, si ritrovò di fronte,
rannicchiata a terra, una ragazzina a prima vista poco più giovane di lei,
undici o dodici anni al massimo, i lunghi capelli rosso vino bagnati e
spettinati, l’espressione allo stesso tempo assente e terrorizzata e i vestiti
strappati; era anche ferita, ma erano perlopiù graffi e lividi non
particolarmente seri.
«Non aver paura» disse rinfoderando la pistola.
«Non voglio farti del male.»
Quella sembrò quasi non essersi accorta di lei,
seguitando a guardare in basso come intontita, e allora Sylvia si avvicinò con
garbo, cercando di non spaventarla ulteriormente.
«Stai bene? Chi vi ha fatto questo?»
«Li hanno mangiati» mormorò lei. «Hanno bevuto i
loro organi.»
«Di che stai parlando? Che cosa è successo qui?»
Ma lei, ancora, non rispose, rannicchiandosi ancora
di più, e allora Sylvia la strinse a sé cercando di confortarla.
«Tranquilla. Ora sei al sicuro.»
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Ci ho messo un po’ a
postare questo primo capitolo, ma quella da cui sono appena uscito è stata una
settimana di fuoco, e poi ho voluto togliermi di torno altri progetti che stavo
portando avanti.
Ad ogni modo, eccoci qua.
Come si sarà capito,
la battaglia del prologo non era altro che l’incipit di quella che in realtà
sarà la seconda metà della storia.
Fino ad allora, la
vicenda si svolgerà interamente dal punto di vista di Sylvia, il che significa
che tutti i personaggi principali della serie, con qualche eccezione, almeno
per ora saranno assenti.
Ma non abbiate paura,
verrà anche il loro momento.
Quello che avete
potuto vedere in cima è una locandina speciale che ho voluto creare per questa
storia.
Secondo molti Sophia era semplicemente
l’insediamento più inespugnabile e meglio organizzato di tutto Misurugi.
Sylvia aveva impegnato quasi due anni a metterlo in
piedi, organizzandolo secondo principi democratici ma ferrei, con un consiglio
di reggenza che amministrava ogni cosa, dalla distribuzione del cibo alla
difesa dei territori confinanti.
Entro la sua sfera di influenza era stato perfino
possibile rimettere in funzione fattorie, centrali energetiche e perfino
ripristinare in parte la rete stradale dell’impero, il tutto difeso
egregiamente dal piccolo ma molto agguerrito manipolo di soldati accuratamente
addestrati.
Era sorto dal niente, in un fazzoletto di terra
incolta a pochi chilometri dall’antica capitale, ma nel giro di poco tempo era
diventata una vera e propria cittadina, tanto che con il passare del tempo agli
edifici in lamiera e detriti andavano sostituendosi case vere e proprie,
embrione di una città che, nelle intenzioni dei suoi fondatori, sarebbe dovuta
diventare il cuore del nuovo impero di Misurugi.
Le ragazze vi fecero ritorno quasi a mezzogiorno
del giorno successivo, varcando con il Bulldog i due diversi cancelli
posizionati che formando una chiusa fornivano un ulteriore deterrente contro le
incursioni e gli ospiti indesiderati, e come le altre volte il loro ritorno fu
salutato con entusiasmo dalle persone che, complice il bel tempo e l’arrivo di
alcune carovane di mercanti, si erano riversate nelle strade.
Per la maggior parte si trattava di abitanti
dell’antica capitale, e c’era da rimanere sorpresi nel constatare come tra di
loro regnasse una insolita armonia.
D’altra parte, era la regola fondamentale per
essere ammessi a Sophia: distinzioni di qualunque
genere, a cominciare da quella supposta tra umani e Norma, erano bandite, in
favore di una assoluta coesione che, come Sylvia ripeteva spesso, costituiva
l’unico modo per poter sperare in un nuovo futuro per il mondo intero.
Più volte Sylvia si era vista costretta a ricorrere
a metodi drastici per far rispettare le regole, ma per il bene di tutti aveva
deciso di essere inflessibile, anche al costo di apparire crudele: con tutto
quello che stava succedendo, non c’era tempo per farsi prendere da sentimenti
xenofobi ormai superati ed egoismo individuale.
La bambina, che aveva detto di chiamarsi Hilda, subito dopo l’arrivo venne messa nelle mani capaci
della signora Carmody, l’anziana in pensione che da
qualche mese dirigeva una scuola che agli occhi di tutti rappresentava il
simbolo di una ritrovata speranza per il futuro.
Anche Ashley e Mayu
vennero congedate, dirigendosi rispettivamente alla mensa e alle docce, mentre Ruka si incaricò di portare la sua creatura al magazzino
per scaricare il materiale recuperato quindi ai garage, per fare la
manutenzione al bulldog e coordinare l’invio di altri mezzi a recuperare il
resto della refurtiva.
Quanto a Sylvia, disfatasi
come da regolamento di tutte le armi affidandole ad una delle guardie perché
fossero portate in armeria, percorse a piedi le poche centinaia di metri che
separavano il piazzale d’ingresso al villaggio, in realtà più simile ad una
specie di enorme caserma che ad una cittadina vera e propria, dal quartier
generale, un vecchio condominio che aveva funto da punto di partenza per la
costruzione dell’intero complesso.
Come entrò nella sala riunioni al terzo piano, il
Capitano Viktor, una guardia imperiale che l’aveva servita fedelmente già da
prima dell’Apocalisse, e che ora occupava il posto di comandante delle truppe
regolari di Sophia, si irrigidì nel saluto militare.
«Vostra Altezza.»
«Ti ho detto mille volte di non chiamarmi Vostra
Altezza» disse Sylvia fingendosi scocciata. «Ormai Misurugi
non esiste più.»
«Con il dovuto rispetto mia Signora, voi forse
potete aver smesso di considerarvi la legittima sovrana di questo Paese, ma le
garantisco che le persone che vivono qui la pensano diversamente.»
«Io ho solo cercato di sopravvivere. E di salvare
quello che poteva ancora essere salvato.»
«No, voi avete fatto molto di più. Avete radunato
questa gente, avete dato loro speranza, e siete persino riuscita a far capire
loro quanto fossero sbagliate molte di quelle convinzioni che avevano sempre
date per scontate.
Tutte qualità proprie di una vera guida. Quindi,
per noi, voi sarete sempre Sua Altezza Sylvia I, imperatrice di Misurugi.»
La ragazza sospirò, preferendo pensare ad altro.
«Se posso permettermi Altezza, chi è la ragazzina
che avete portato con voi?»
«Si chiama Hilda. È
originaria di Enderant. Ha detto di essersi separata
da sua madre subito dopo l’Apocalisse, quando il loro villaggio è stato
attaccato da dei predoni. L’hanno presa e portata a Misurugi,
poi gli abitanti di Dolkin l’hanno liberata e presa
con loro.»
«Circolano gran brutte voci su Enderant.
Laggiù regna la più completa anarchia. Alcune città stato sono riuscite a
riorganizzarsi, ma per il resto le bande di umani e Norma si scannano senza
sosta tra di loro.»
«E se và avanti di questo passo, temo che presto
potrebbe succedere la stessa cosa anche qui.»
Notando l’espressione preoccupata, quasi avvinta
della sua signora, Viktor si preoccupò: doveva essere successo qualcosa di
molto grave per riuscire a turbare persino una ragazza forte e determinata come
lei.
«Che intendete dire, Altezza?»
Sylvia raccontò allora quanto aveva visto a Dolkin, scioccando con il suo racconto persino uno come
Viktor, che come lei negli ultimi due anni ne aveva viste di tutti i colori,
saggiando in prima persona le bassezze raggiungibili dal genere umano.
Eppure, a racconto finito, Sylvia notò qualcosa di
strano nell’espressione del suo attempato generale, come se quel genere di
racconti non gli fossero del tutto nuovi.
«Ne avevi già sentito parlare?» domandò allora
«Al di là delle montagne, verso Gallia. Credevo
fossero solo chiacchiere da mercanti. Parlavano di insediamenti piccoli e
grandi decimati o scomparsi nel nulla nel giro di una notte. I corpi rimasti
erano mummificati, come se chi li aveva uccisi avesse bevuto loro tutti gli
organi interni.»
«Non sembra il modo di agire di una qualunque banda
di predoni.»
«Se i racconti sono veri, temo che di tutto possa
trattarsi meno che di comuni rapinatori. Ma cosa può giustificare una tale
ferocia?»
Sylvia stette a lungo in silenzio, mentre un
brivido le percorreva la schiena.
«Non possiamo fare altrimenti. Aumentiamo i
controlli. Sorveglianza giorno e notte all’interno dell’insediamento e nelle
zone limitrofe.»
«Sarà fatto, Altezza.»
«Ma cercate di essere discreti. È già abbastanza
difficile mantenere l’ordine così, l’ultima cosa che ci serve è il panico
incontrollato.»
In quella, dalla finestra aperta, giunsero degli
schiamazzi, ed affacciatasi la ragazza si avvide di una piccola folla radunata
nel cortile centrale dinnanzi all’edificio, dagli animi decisamente poco
distesi.
«Ecco, appunto.» sbuffò lasciando la stanza,
seguita a breve dal suo uomo di fiducia.
Quando Sylvia e Viktor raggiunsero il cuore della protesta questa era
già sul punto di tramutarsi in una rissa, ma in qualche modo non furono
sorpresi quando, fattisi strada fino al centro del gruppo, si trovarono
dinnanzi ad una ragazza dai capelli di un colore marrone tendente al rosso
vino, la carnagione scura e l’espressione truce.
Ai suoi piedi c’era una giovane donna, piuttosto
malconcia, che a giudicare dai segni doveva avere steso lei stessa con la
spranga che aveva in mano.
All’arrivo del Comandante, secondo epiteto più
diffuso con cui la gente di Sophia era solita
chiamare Sylvia, si formò immediatamente un cerchio, lasciando lei e la
responsabile di tutto quel trambusto l’una di fronte all’altra circondate da un
cordone di spettatori tenuti indietro dalle guardie.
«Dovevo immaginarlo che c’eri di mezzo tu, Akiho» disse sicura, benché quella ragazza dovesse avere
cinque o anche sei anni più di lei. «Che è successo stavolta?»
«È ora di finirla!» strillò la ragazza fuori di sé.
«Noi umani siamo stufi di morire di fame mentre queste parassite Norma e i loro
parenti senza onore si ingozzano come porci!»
«Che storia è questa? Ognuno qui ha esattamente le
stesse razioni, siano essi umani, Norma o parenti di Norma.»
«Tutte balle! Io l’ho visto! Ho visto gli
inservienti nelle cucine! Sono tutte Norma! E ogni volta che vedono un’altra
Norma, subito le riempiono il piatto!»
«Se quello che dici è vero, saranno redarguite. Ma
onestamente ne dubito. Io mangio insieme a voi tutti i santi giorni, e non ho
mai, mai visto un piatto più o meno abbondante del mio.
Secondo me questa è solo la tua ennesima sparata
dettata da un fanatismo cieco che al punto in cui siamo non ha ragione
d’esistere.
Te, io, tutte queste persone. Ormai siamo tutti
Norma. Anzi, siamo tutti umani. Esseri umani. Che ti piaccia o no.»
«Balle! Non mettermi sullo stesso piano di quei
parassiti! Tu non sei mai finita nelle mani di una Norma! Io ci sono passata, e
so di che cosa sono capaci!» quindi, nei suoi occhi comparve un terrore tale da
far pensare che fosse sul punto di farsela addosso. «Ho visto i suoi occhi
indemoniati, la sua follia distruttrice, la sua convinzione malvagia di avere
ragione nonostante tutto. Come si fa a dire che i Norma sono uguali a noi?
Questo è al di là della logica.»
«No» tagliò corto Sylvia. «Al di là della logica è
che a distanza di tutto questo tempo ci sia ancora chi come te si perde dietro
a simili idiozie.
E per tornare alla questione del cibo, perché di
questo di parlava, ribadisco che questi favoritismi per i Norma esistono solo
nella tua testa. Se però vuoi procurarti da sola del cibo extra e mangiartelo
per conto tuo nessuno te lo impedisce.»
«Ma tu sei l’Imperatrice! La nostra guida! Non è
compito dei reali provvedere al fabbisogno del loro popolo?»
«Provvedere al fabbisogno non significa soddisfare
ogni capriccio. I tempi del della cuccagna sono finiti. Ora se vuoi qualcosa te
la devi sudare, come è giusto che sia. Vuoi mangiare di più? Prendi una vanga e
comincia a zappare, o prendi un arco e vai a caccia, senza aspettare che il
cibo ti piova dal cielo.»
Akiho si guardò attorno,
notando atterrita che non solo i Norma, ma anche quelli che fino a quel momento
sembravano essere stati d’accordo con lei, la stavano fissando con occhi di
ghiaccio.
Detto questo, Sylvia si girò per tornare sui suoi
passi, e allora Akiho perse la testa.
«Tu, maledetta amica dei Norma!»
Ma non fece in tempo a sollevare del tutto la
spranga che Sylvia, velocissima, le fu addosso, assestandole una tale
ginocchiata che un attimo dopo la ragazza era inginocchiata a terra a vomitare
tutto quello che aveva nello stomaco.
«Mi sono stancata delle tue sparate, stupida
sgualdrina. Se ti becco di nuovo a creare problemi, ti rimetto nelle mani delle
stesse persone da cui ti ho salvata.
E allora vedrai fin dove può arrivare davvero la
rabbia repressa di molti Norma che quelli come te hanno fomentato per secoli.»
A quel punto, Sylvia se ne andò davvero, salutata
con un rispettoso inchino da tutti i presenti.
«È già la terza volta che causa problemi da quando
è arrivata» osservò Viktor camminando qualche passo dietro a lei. «È sicura che
sia una buona idea mostrare tanta indulgenza?»
«Quella ragazza è stata sodomizzata, stuprata e
quasi linciata dai genitori di alcune bambine Norma che aveva denunciato» disse
quasi dispiaciuta. «Voglio darle una possibilità.
Dopotutto, era anche amica di mia sorella.»
«Amica!? Io c’ero quando incitava le guardie ad
impiccare la nobile Angelise.»
«Dopo che io l’avevo frustata dandole colpe non
sue.
Tu sei un’eccezione, Viktor. Tu hai visto molto
prima di molti di noi. Ma io, lei, e tutti gli altri…
noi eravamo diversi. Orribili.
Mi sono ripromessa di non fare mai più gli stessi
errori.»
Poi, però, Sylvia si riscosse, e guardandola di
nuovo Viktor quasi stentò a riconoscerla.
«Però hai ragione.
Questa è davvero l’ultima possibilità. Se causa
altri problemi avrà modo di pentirsene.»
«Intendete davvero riconsegnarla a quelli che
l’hanno quasi uccisa?»
«Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Ma la farò
assegnare a qualche lavoro pesante, e vedrai che alla fine si calmerà.»
«Sapete sempre come essere giusta ma risoluta,
Vostra Altezza. Una qualità molto rara, persino tra i sovrani.»
«O forse solo molto ingenua» sorrise lei. «Alle
volte penso che dovrei fare come mia sorella, una palla in testa e via.»
Sylvia provò a far passare i postumi della notte in bianco
concedendosi qualche ora di sonno, ma il suo riposo, oltre che breve, non
risultò neanche facile.
Le immagini, spaventose, di Dolkin
le apparivano in sogno come spettri infernali.
Le sembrava quasi di vederli, i responsabili di
quella carneficina, mentre assalivano il villaggio, bruciavano le case, e
bevevano come animali il sangue e gli organi degli abitanti, lasciando dietro
di sé null’altro che distruzione e morte.
E il risveglio non fu migliore.
Era appena riuscita ad addormentarsi sul serio,
libera finalmente da quelle visioni spaventose, quando il rumore della porta
della stanza che sbatteva con forza la fece sobbalzare per lo spavento.
«Vostra Altezza!» disse Helen, la sua fedele
cameriera fin dai tempi dei suoi genitori, apparendo sull’uscio bianca come un
fantasma. «Dovete venire, subito.»
«Che è successo?» domandò con il terrore di sapere
già la risposta.
Pochi minuti dopo, la ragazza era di nuovo nella
sala riunioni, stavolta in compagnia del suo intero consiglio di reggenza.
Oltre a Viktor, c’erano la signora Carmody, che oltre a gestire la scuola era anche la
responsabile dell’accoglienza dei profughi, il signor Stouble,
rappresentante delle fattorie e delle altre attività agricole attorno a Sophia, e Rick, il giovane ma molto capace commerciante di
frutta divenuto da un giorno all’altro responsabile della gestione delle
risorse alimentari.
«Ce l’hanno detto i contadini appena arrivati dalle
fattorie per il mercato di domani» spiegò Viktor. «E una nostra pattuglia l’ha
confermato.
Il villaggio di Bodani,
dall’altra parte delle rovine della capitale, è stato attaccato durante la
notte.
Non si sa chi sia stato, ma stando ai racconti dei
tenutari delle fattorie più vicine all’abitato parlano di esplosioni, raffiche
di armi automatiche udibili anche a grande distanza e strane luci provenienti
dal mare.
Abbiamo provato a contattarli via radio, ma senza
avere risposta. A questo punto dobbiamo ipotizzare che siano tutti morti.»
Tutti i presenti abbassarono gli occhi, sui quali
comparve a poco a poco la paura più vivida.
«È possibile possa trattarsi di comuni predoni?»
domandò Stouble. «Piuttosto che di quelli che hanno
assalito Dolkin?»
«Non possiamo escluderlo. Non ho ancora trovato
qualcuno disposto ad accompagnarmi a fare un sopralluogo. Ma è anche vero che
con l’eliminazione della banda che agiva nei dintorni dell’insediamento non vi
sono altri gruppi armati a noi noti in tutta la zona al di qua delle montagne,
per quanto ne sappiamo.
Ma visto che i testimoni parlano chiaramente di
qualcosa venuto dal mare, non possiamo escludere che si tratti di qualche banda
proveniente da oltre di confini di Misurugi.»
«Ma come sarebbe possibile?» chiese la signora Carmody. «Ora che il mana non c’è più, con le nostre
attuali tecnologie sarebbe impossibile navigare lungo la costa senza essere
notati.»
«Figuriamoci poi arrivare da qualche altra terra al
di là dell’oceano» concluse Rick. «Per quanto ne sappiamo all’Apocalisse non è
sopravvissuto alcun apparecchio capace di fare una cosa del genere, né mi
risulta sia mai esistito.»
«E se si trattasse di quelle macchine usate dai
Norma durante la guerra?» ipotizzò Stouble. «Se non
sbaglio non necessitavano di mana per funzionare.»
«Con il clima che c’è a Sophia»
osservò mestamente la signora Carmody. «Se si
diffonde la notizia che potrebbero essere coinvolti i Norma ci scappa una
rivolta generale.»
«Non solo i Norma sono capaci di guidare quei cosi»
taglio corto Viktor. «I para-mail. Come ho detto, risposte certe non ce ne
sono.»
I membri del consiglio volsero quindi lo sguardo
verso Sylvia, che sembrò quasi volerli rifuggire.
«Vostra Altezza, il consiglio che mi sento di darle
è di prendere in considerazione l’idea di abbandonare l’insediamento, almeno
fino a quando non avremo stabilito con esattezza la natura di questi
aggressori.»
«Ha ragione, Viktor» disse la signora Carmody. «Questo è l’insediamento meglio protetto di tutta Misurugi. Dove altro potremmo essere al sicuro se non qui?»
«È evidente che chiunque sia il responsabile di
questi attacchi è in possesso di tecnologie talmente potenti e distruttive da
renderlo capace di spazzare via interi villaggi senza lasciare neanche un
superstite.
Ma sappiamo anche che per l’appunto attaccano solo
i grossi centri abitati, dove sono in grado di fare molte vittime.
Sophia è ben difesa, ma è
anche un bersaglio allettante. Se restiamo qui siamo obiettivi potenziali.»
«Lo saremmo anche se ce ne andassimo» replicò Stouble. «Almeno qui abbiamo delle difese.»
«Che potrebbero non servire a nulla. Le gallerie
d’emergenza non sono ancora pronte. Se dovessero attaccare, non ci sarebbe
nulla a coprirci la fuga. Saremmo in trappola.»
«Resteremo qui.» mormorò Sylvia, gli occhi sul
tavolo e i pugni serrati
Tutti, di nuovo, si voltarono verso di lei.
«Vostra Altezza…» disse
Viktor
«Abbiamo impiegato due anni a costruire questo
posto, e confido nelle sue difese. Non rischierò le vite di tutte queste
persone mandandole allo sbaraglio alla ricerca di una sicurezza illusoria.»
«Però…»
«Finché stiamo qui abbiamo le postazioni anticarro,
i cannoni automatici, persino le armi antiaeree. Là fuori saremmo abbandonati a
noi stessi.»
Per la seconda volta, quando Sylvia alzò lo
sguardo, non solo Viktor, ma tutti i suoi consiglieri quasi non la riconobbero.
«Noi non siamo Dolkin, o Bodani. Siamo Sophia. Siamo
l’embrione da cui dovrà nascere il nuovo Impero di Misurugi.
E chiunque cercherà di attaccarci, dovrà sapere che qui troverà pane per i suoi
denti!»
Nessuno osò obiettare.
Dopotutto Viktor era l’unico in quella stanza a
pensare che le speranze di salvezza fossero maggiori fuori dalle mura di Sophia, ma aveva servito la Famiglia Imperiale per troppo
tempo per contestare le decisioni della sua Imperatrice.
«Come desiderate.» poté quindi limitarsi a dire.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Non c’è che dire, mi
sto davvero divertendo a scrivere questa storia.
Era da tanto che una
fan fiction non mi entusiasmava in questo modo, e scriverla mi viene di una
facilità disarmante.
In verità questo
capitolo doveva essere un po’ più lungo in origine, ma ho deciso di tagliarlo
per non appesantirlo troppo, anche perché in questo modo mi riservo
completamente l’azione per il successivo.
Grazie a Tenori Taiga per la sua recensione e i
suoi consigli
Precisazione: per chi ha
visto la serie, Viktor, Helen e Rick sono tre delle cinque persone che
accompagnano Sylvia nell’ultima scena dell’anime (rispettivamente la guardia
imperiale bionda, la maid e il giovane coi capelli
neri); stesso dicasi per la già citata Ashley (la ragazza castana della
medesima scena)
Anche quella notte, Sylvia non riuscì a dormire, rigirandosi
continuamente nel letto senza riuscire a togliersi dalla testa quanto era
accaduto in quella interminabile giornata.
Ripensava a Dolkin, a Bodani, e si domandava si avesse davvero preso la decisione
giusta.
Alle volte quasi rimpiangeva di essersi voluta
caricare sulle spalle un tale peso.
Sapeva di avere nelle sue mani la sicurezza di
migliaia di persone, e anche se negli anni ne aveva affrontati di momenti
difficili la decisione di quel giorno era stata per lei la più difficile da
prendere.
Da una parte si fidava del giudizio di Viktor,
dall’altra non se la sentiva di rischiare tutte quelle vite in una fuga verso
l’ignoto che poteva anche rappresentare una condanna a morte.
Il bagliore accecante di un faro di segnalazione
maldestramente gestito dall’operatore entrò dalla finestra socchiusa,
abbagliandola e togliendole definitivamente ogni voglia di dormire.
Alzatasi, provò a fare una passeggiata per cercare
di rilassarsi e calmare le idee, quindi scese in cortile.
Sembrava di essere in una zona di guerra.
I fari notturni scrutavano il cielo nero in cerca
del minimo segnale di pericolo, e sia i ballatoi sulle mura che le strade
pullulavano di soldati.
Ormai tutti sapevano cosa era successo ai due
villaggi vicini, quindi un tale spiegamento di forze non era apparso
ingiustificato; al contrario, qualcuno l’aveva trovato persino insufficiente.
Persino i due vecchi carri armati da centoventi
millimetri ritrovati qualche settimana prima tra i ruderi della città, immobili
senza mana ma ancora capaci di sparare, erano stati faticosamente portati nella
piazza centrale per fornire ulteriore protezione.
Sylvia passeggiò per un po’, salutata
rispettosamente dai soldati che incrociavano il suo cammino, quando, passando
accanto al dormitorio numero sei, notò una figura seduta sul parapetto, la
schiena appoggiata sulla rete e gambe sospese nel vuoto.
Incuriosita e un po’ preoccupata entrò, salendo in
silenzio lungo le scale per non svegliare le altre persone, e raggiunto a sua
volta il tetto si trovò a tu per tu con Hilda, che
come la prima volta la accolse con la più totale indifferenza.
«Hilda» le disse
raggiungendola. «Non stare lì. È pericoloso.»
La ragazzina si volse a guardarla: era chiaro che
una notte non poteva bastare a cancellare l’orrore che doveva avere visto.
Stando al suo racconto, una donna del villaggio l’aveva chiusa lì dentro subito
dopo che si erano avvertite le prime esplosioni, così non aveva visto nulla, ma
aveva sentito chiaramente gli abitanti urlare dal dolore mentre venivano
“mangiati”, come alcuni di loro urlavano con il loro ultimo alito di vita.
Non potendo convincerla a scendere da lì, Sylvia si
ritrovò seduta accanto a lei, e come aveva già fatto la notte precedente a
bordo del bulldog le offrì una di quelle caramelle zuccherate alla mela che
portava sempre con sé.
Hilda la accettò,
tenendola a lungo in bocca come a voler ricercare nel suo gusto delicato un
sollievo da quello che stava provando.
«Ti piacciono proprio queste caramelle.» sorrise
Sylvia offrendogliene un’altra
«La mia mamma faceva sempre la torta di mele»
rispose lei guardando verso il mare. «Era la più buona di tutte.»
«Vedrai che la ritroverai. E quando questo
succederà, mi farai assaggiare questa buonissima torta.»
Hilda la guardò sorpresa.
«Tu… ne sei sicura?»
«Certo. Ma dimmi, a parte tua madre, non hai altri
parenti? Un padre, o dei fratelli?»
Di nuovo, lei abbassò gli occhi.
«Ho una sorella. Una sorella maggiore.»
«Davvero? Anch’io ne ho una.»
«È una Norma.»
Sylvia sussultò, rievocando senza volerlo ricordi
poco felici.
«Io… e la mamma… l’abbiamo cacciata via.»
Lacrime, ancora una volta, scesero dai suoi occhi:
ma stavolta, erano lacrime di vergogna.
«Mi avevano detto che i Norma erano dei mostri
disumani. E io ci credevo. Ma poi, lo sono diventato anche io. Lo siamo
diventati tutti.
Siamo tutti Norma.»
«Non esistono i Norma, Hilda.
Non sono mai esistiti.»
«C… cosa!?»
«Ci sono tante Norma in questo campo. Onestamente,
dimmi. Le hai riconosciute? Sapresti indicarmele?»
Il suo sguardo fu più eloquente di qualunque
risposta.
«La verità è che siamo tutti esseri umani. Ma
volevamo qualcuno da odiare, e così chi ci governava ha scelto i Norma per
appagare questo nostro bisogno. I Norma non hanno mai avuto nulla di diverso da
noi. Li chiamavamo mostri, ma in realtà i veri mostri siamo noi. Lo siamo
sempre stati. Perché abbiamo creduto a quello che ci era stato detto senza
farci domande.
È per colpa nostra se il nostro mondo è diventato
così. Se noi siamo diventati così.
Ma se riusciremo a lasciarci alle spalle i nostri
pregiudizi, a diventare migliori, allora potremo costruire un mondo nuovo, in
cui non ci saranno più Norma e non Norma, ma solo esseri umani, tutti liberi e
uguali.»
Hilda trasalì, trovando
dopo tutto quel tempo la forza di sorridere.
«Dici che un giorno riuscirò a rivedere mia
sorella, così potrò chiederle scusa?»
«Forse. Ma dovrai impegnarti. Dovrai lottare.
Perché nessuno ti regala niente in questo mondo.»
«Lo farò.» rispose lei con convinzione.
In quella si udì uno strano fischio, accompagnato
da strani rumori in lontananza, che attirarono l’attenzione di entrambe.
Anche le guardie se ne accorsero, puntando tutti i
riflettori in un’unica direzione; i coni di luce fecero appena in tempo ad
illuminare un nugolo di oggetti scuri in lontananza, che sembravano volare in
quella direzione, e subito dopo una pioggia di piccoli ordigni rischiarò per un
attimo a giorno il cielo per poi abbattersi, letale, sul campo, provocando
esplosioni a ripetizione.
Uno dei missili colpì proprio ai piedi del
dormitorio, facendo tremare furiosamente tutto l’edificio; Hilda
perse l’equilibrio, ma per fortuna Sylvia fu rapida ad afferrarla, anche se,
passato il pericolo, gli occhi delle due ragazze rimasero attoniti, impietriti
alla vista di Sophia che iniziava inesorabilmente a
bruciare, mentre nel cielo, come nugoli di locuste, comparivano decine di
para-mail.
La maggior parte erano tutti uguali tra di loro,
quasi fossero stati fabbricati in serie, con il solo colore a differenziarli,
ma tra di essi ve ne erano tre che svettavano in particolar modo: uno era nero,
minaccioso, armato di una falce ed un fucile di precisione, un altro rosso
vermiglio, e brandiva l’armamento standard fatto di spada e mitragliatrice
d’assalto; il terzo invece, di un colore grigio fumo, presentava possenti
guanti corazzati provvisti ognuno di cinque artigli affilati, simili alle
unghie di un orso, e invece di una normale arma da fuoco aveva una selva di ben
sei lanciarazzi disposti a raggiera dietro la schiena.
Fu proprio il para-mail grigio a dare via al
massacro, lanciando una seconda raffica di missili; la maggior parte di questi
abbatterono subito alcune postazioni difensive, oltre ad uno dei due carri
armati, mentre alcuni colpirono inesorabilmente gli edifici, facendoli saltare
in aria.
In pochi attimi, tra gli abitanti di Sophia fu il panico.
Cercando di mettersi in salvo, fuggendo dagli edifici
in fiamme, tutti si riversarono nel cortile, tramutandosi in bersagli mobili
che i nemici iniziarono subito a falciare con le loro armi automatiche,
facendone scempio.
Sparavano all’impazzata, senza badare a dove
colpivano o a chi fosse al centro del mirino; tutto quello che volevano, a
prima vista, era uccidere tutti: senza distinzioni.
Eppure c’era una sinistra precisione nel loro modo
di agire; mentre i tre para-mail al comando si occupavano di abbattere le
difese del campo, o qualunque altra cosa potesse rappresentare una minaccia per
loro, i loro compagni si avventavano quasi esclusivamente sui civili, sparando
sui soldati a difesa di Sophia solo se minacciati.
Presa Hilda in braccio,
Sylvia si precipitò giù per le scale, ma raggiunto il pianterreno dovette
coprire gli occhi della ragazzina perché non vedesse ciò che era accaduto, e
che la lasciò impietrita.
Sembrava l’androne di una macelleria.
L’esplosione che aveva dato il via all’attacco
aveva ucciso quasi tutti, e quei pochi che ancora non erano morti stavano
comunque esalando i loro ultimi respiri, orrendamente mutilati e sventrati.
Ma non c’era tempo di restare immobili a guardare
quella specie di inferno in terra.
Almeno Hilda, pensò,
doveva salvarla.
Per fortuna non si trovavano troppo lontani dai
garage, danneggiati ma ancora miracolosamente intatti, ed entrata da una porta
di servizio la ragazza tirò un sospiro di sollievo nel vedere Ruka già intenta a mettere in moto il bulldog.
Sperava di mettere Hilda
al sicuro e mettere subito il veicolo in moto, ma l’aspettava una brutta
sorpresa.
«Ci stanno massacrando! Cosa aspetti a portarlo
fuori?»
«Se vuoi puoi provare a spingerlo!» strillò lei di
rimando apparendo da sotto il veicolo, una chiave inglese in mano e la faccia
nera. «L’esplosione ha danneggiato il tubo dell’olio, devo ripararlo!»
Sylvia quindi non poté fare altro che portare Hilda all’interno del veicolo.
«Non preoccuparti, tornerò presto.» la rassicurò, e
recuperato un fucile da un soldato morto uscì nuovamente all’esterno.
Nel mentre, la situazione andò rapidamente precipitando.
Come la maggior parte delle difese di Sophia fu annientata dai para-mail, due grossi aerei da
trasporto che le Norma erano evidentemente riuscite a riconvertire a
carburante, sulla cui fusoliera capeggiava un gonfalone raffigurante un drago
d’argento all’interno di uno scudo nero, sorvolarono il campo; i portelloni
posteriori si aprirono, e da essi, paracadutandosi, discesero una ventina di
soldati, tutte Norma sicuramente, che protette da tute provviste di caschi
oscuranti e armate fino ai denti iniziarono a loro volta a fare strage di
civili, sparando e bruciando ogni cosa.
Schiena contro schiena, coprendosi l’una con
l’altra, Ashley e Mayu stavano offrendo una
resistenza valorosa e disperata al tempo stesso, accompagnate dai pochi soldati
ancora in vita nel piazzale davanti al cancello, e armate rispettivamente di un
fucile d’assalto con lanciagranate e di una lancia, quasi un’opera d’arte tanto
era decorata e ben tenuta.
«Non sparate a caso!» urlava Ashley, che tra tutti
era di sicuro la più esperta sul conto di quelle macchine infernali. «Mirate
alla cabina di guida o ai reattori posteriori! Sono quelli i punti deboli!»
«Ma si può sapere chi diavolo sono?» domandò Mayu dopo essere riuscita a farsi strada tra le raffiche di
due avversarie, sventrandone una e tagliando la gola all’altra
«Non chiederlo a me, ma una cosa è certa, non
vengono da Arzenal! Non ho mai visto questi
para-mail, e neppure quello stemma!»
In quella un para-mail, forse peccando di eccessiva
sicurezza, tentò di falciarli volando molto basso, ma pur riuscendo ad uccidere
quasi tutti i soldati che accompagnavano le due ragazze si espose alla risposta
di Ashley; la sua granata sfortunatamente non distrusse il veicolo, ma
esplodendo vicino ai propulsori ne pregiudicò inevitabilmente la traiettoria, e
il mezzo, dopo aver inutilmente tentato di decollare, precipitò invece a terra
in un urto spaventoso, danneggiandosi ma rimanendo operativo.
Senza esitazioni Ashley lo raggiunse di corsa,
arrampicandosi come un felino fino alla cabina di guida ed aprendola con il
comando di emergenza.
«Togliti di mezzo!» imprecò gettando di sotto la
pilota ormai morente e prendendo il suo posto.
Erano passati almeno quattro anni dall’ultima volta
che aveva guidato un para-mail, ma come tutte le Norma passate da Arzenal ormai aveva un tale rapporto simbiotico con quelle
macchine che le bastò un attimo per recuperare la manualità perduta.
Mayu, che si era fermata
a guardarla, per poco non venne colta di sorpresa da un secondo para-mail, ma
ad Ashley bastò una raffica di mitragliatrice per far saltare in aria
l’aggressore.
«Mayu, porta tutti in
salvo! A questi ci penso io!» ordinò Ashley prima di gettarsi nella mischia.
La ragazza riuscì ad abbattere un buon numero di para-mail
nemici, approfittando anche della loro sorpresa nel vedere un apparente
compagno sparargli addosso, ma poi il nemico rosso gli si avventò contro,
rivelandosi un avversario molto superiore ai suoi sottoposti sia per le qualità
del suo para-mail quanto, soprattutto, per la sua stessa abilità di pilota.
Poco lontano, un manipolo di sopravvissuti, per la
grandissima parte bambini orfani scampati miracolosamente assieme alla signora Carmody alla distruzione del loro dormitorio,
impossessatisi di alcune armi si erano barricati dietro ad un muro crollato, ma
la loro impreparazione era tale che i difensori, uno dopo l’altro, caddero come
mosche sotto i colpi precisi dei nemici.
«Maledetti, maledetti Norma!» continuava ad urlare Akiho, fuori di sé dalla paura, sventagliando raffiche.
«Dovete morire tutti!»
Una pallottola, forse vagante, la colpì al collo,
ma era ancora viva quando il paramail argentato le piombò addosso da sopra,
schiacciandola come una formica sotto il peso di uno dei suoi piedi d’acciaio.
La signora Carmody
assistette inorridita, cercando di nascondere quel macabro spettacolo ai
bambini che aveva tutto intorno, ma quando il portellone del robot si aprì ed
il suo pilota comparve dall’interno della cabina pensò di avere di fronte il
demonio in persona.
Non si capiva neppure se fosse uomo o donna, con
quel corpo longilineo, quel petto quasi piatto malgrado la tuta aderente, quei lineamenti
grezzi, quei capelli corti e scompigliati di uno strano colore argentato, ma soprattutto
quella sua espressione beffarda, per non dire malefica, gli occhi chiari e
senza vita, il naso piccolo e la bocca aperta in un perfido sorriso.
«Bene bene, che cosa abbiamo qui? Una bella nidiata
di piccoli scarafaggi.»
«Vi prego, abbiate pietà» disse la signora Carmody, mentre i piccoli le si stringevano attorno
terrorizzati. «Questi bambini non hanno fatto nulla. Sono vittime innocenti.»
«Vecchia, dove credi di essere? Non esistono
innocenti in questa guerra.»
«Molti di loro sono Norma. Vostri simili. E anche
gli altri, che colpa ne hanno di questa assurda guerra in cui siamo sprofondati
noi adulti?»
Quindi, coraggiosamente, la donna si alzò, facendo
qualche passo avanti e allargando le braccia.
«Uccidete me se volete, ma abbiate pietà di questi
bambini. Senza di loro, non ci sarà nessuno a ricostruire il nostro mondo.»
La Norma sorrise in modo ancor più beffardo, ed estratta
la pistola sparò senza esitazioni alla signora Carmody,
colpendola in piena fronte ed uccidendola all’istante.
«Bastava chiederlo» disse soffiando via il fumo
dalla canna. «Anche se l’avrei fatto comunque.»
Quindi, la donna portò la sua attenzione sui
bambini, che chiusi in un angolo potevano solo stare ad osservarla impietriti
dal terrore, stringendosi l’un l’altro in una illusoria ricerca di sicurezza.
«Scarafaggi umani e Norma che non hanno titolo di
definirsi tali. Pare proprio che qui ci sia da fare un po’ di pulizia.»
Per rendere la cosa ancor più sadica, tolse sette
degli otto proiettili del suo grosso revolver, dando vita ad una perversa
roulette russa in cui sparava a caso nel mucchio, anche se per un qualche
miracolo le prime cinque volte il tamburo girò a vuoto.
Stava per compiere il sesto tentativo, che lei già
sapeva essere quello decisivo, quando invece fu un razzo anti-uomo a colpire
lei e il suo para-mail, danneggiando lievemente il veicolo e facendola quasi
cadere dall’abitacolo.
«Tieni giù le mani da quei bambini!» gridò Sylvia
liberandosi del lanciarazzi ormai scarico.
Vedendo la sua bella macchina danneggiata e
bruciacchiata, il volto della donna divenne una maschera di follia.
«Tu lurida sgualdrina! Come hai osato colpire la
mia Lamàshtu*!»
Immediatamente si rinchiuse dentro, prima che
Sylvia potesse provare a colpirla, e lasciati perdere i bambini cominciò a
darle una caccia forsennata per tutto il campo, fornendo però in questo modo a Ruka il tempo necessario per soccorrere i bambini con il
bulldog.
«Presto, entrate tutti!» ordinò Mayu
spingendo letteralmente i piccoli all’interno del mezzo, le cui armi sparavano
senza sosta in ogni direzione per frenare gli aggressori.
Alla fine anche i pochi soldati rimasti in vita, e
schieratisi a difesa del bulldog, furono costretti a sacrificarsi per mettere
in salvo i bambini; tra questi c’era anche Viktor, che vedendo come il numero
degli assalitori fosse ormai preponderante, gettato a terra il fucile, si
risolse ad un gesto estremo.
«Mayu, Ruka, portateli via da qui!» urlò correndo verso le
soldatesse nemiche che avanzavano
«Viktor, no!»
L’uomo venne colpito una, due, cinque volte, ma la
sua tempra d’acciaio lo aiutò a tenerlo in vita fino a quando non fu proprio in
mezzo ai suoi assalitori, i quali solo a quel punto si accorsero che l’attempato
ufficiale aveva sotto i vestiti una cintura di bombe a mano annodata attorno al
corpo.
«Lunga vita a Misurugi! Lunga
vita a Sylvia I!» urlò un attimo prima di saltare in aria.
A quel punto, per Sophia,
era davvero la fine, e purtroppo non c’era più tempo di cercare altri
superstiti.
«Sylvia, andiamo!» urlò Mayu
La ragazza tentò allora di seminare la sua
inseguitrice, ma questa non ne voleva sapere di mollarla; al contrario, si
stava visibilmente divertendo a darle la caccia come un gatto con il topo.
«Corri! Cossi!» continuava a urlare la Norma. «Non
c’è niente di mi ecciti di più come dare la caccia ai ratti in fuga!»
Alla fine, sazia del gioco, l’inseguitrice decise
che era ora di farla finita, e caricato con forza l’artiglio destro si preparò
a menare il fendente decisivo; Sylvia sarebbe sicuramente morta, ma con la
forza della disperazione la ragazza riuscì ad acquattarsi all’ultimo dietro ad
un detrito, il quale assorbì la maggior parte del colpo. Ciò nonostante l’urto
fu davvero tremendo, abbastanza da polverizzare quel fragile scudo e spararla
letteralmente contro un’altra parete, immobile e priva di sensi.
«Fine dei giochi, piccola.»
Anche Ashley stava incontrando le sue difficoltà,
visto che ormai con la morte di praticamente tutti i difensori di Sophia ogni singolo nemico o quasi era concentrato su di
lei, a cominciare dal para-mail rosso che dall’inizio dello scontro non l’aveva
mollata un attimo.
«Devo ammetterlo, non mi ricordavo che fosse così
faticoso» disse senza più fiato.
Per fortuna, in suo soccorso, intervenne il
provvidenziale crollo dell’edificio principale, che disintegrandosi divorato
dal fuoco e portandosi dietro anche molti edifici attigui ricoprì tutto il
campo di una impenetrabile nube di fumo.
Nello stesso momento, accortasi di quello che stava
per accadere al suo comandante, Ruka sparò un missile
contro il para-mail grigio, che pur riuscendo ad evitarlo fu distratto dal suo
proposito di infliggere il colpo di grazia a Sylvia, la quale, ancora svenuta,
venne presa al volo da Ashley, che immediatamente volò via mentre il Bulldog
partiva a tutta velocità nella direzione opposta.
«Non so come, ma ce l’abbiamo fatta.» disse tra sé
Ashley notando che nessuno le stava inseguendo, quindi guardò Sylvia, che
chiusa nella sua mano metallica del suo para-mail sembrava quasi dormire
beatamente. «Non c’è che dire, hai sette vite come i gatti.»
Un colpo, apparentemente innocuo, ma con il potere
di penetrazione tale da passare il para-mail da parte a parte, si abbatté su di
lei colpendola alle spalle, tranciandole di netto entrambe le braccia quando
ormai erano a quasi dieci chilometri dal campo.
«Sylvia!» urlò attonita vedendo l’amica che credeva
al sicuro precipitare nella foresta sottostante in una pioggia di detriti.
Un altro colpo, ugualmente preciso, le portò via
uno dei propulsori, e giratasi la ragazza fece appena in tempo a vedere, con la
vista telescopica, il para-mail nero puntare il suo fucile verso di lei, prima
che un terzo proiettile, stavolta decisivo, centrasse il serbatoio.
Qualche attimo dopo, i superstiti a bordo del
bulldog poterono vedere un’esplosione, violentissima, illuminare il cielo non
lontano da loro.
«Non… non può essere…» pianse Mayu. «Ashley…Sylvia…»
Nota dell’Autore
Ciao a tutti!^_^
Scusate la brevità di
questa nota, ma oggi vado piuttosto di fretta, quindi mi vedo costretto ad
essere conciso.
Allora, con questo
direi che abbiamo concluso l’incipit vero e proprio della storia; dal prossimo
capitolo, inizierà l’avventura che vedrà le nostre eroine impegnate in una
versione post-apocalittica di Viaggio in Occidente alla ricerca dell’unica cosa
che potrebbe ancora salvare quanto resta del loro mondo.^_^
Grazie come sempre a Tenori_Taiga per le sue esaustive e chiarissime
recensioni/valutazioni.
Ruka continuò a pigiare sull’acceleratore
del bulldog per mettere quanta più distanza possibile tra loro e l’accampamento,
e vani furono i tentativi di Mayu di convincerla a
tornare indietro a cercare Ashley e Sylvia.
«Come fai ad essere così tranquilla?» domandò Mayu ad Helen, notando la sua apparente imperturbabilità.
«La tua padrona, Sylvia, potrebbe essere morta.»
«Se è così, piangere e disperarsi non la farà
tornare in vita» rispose lei volgendo gli occhi verso i bambini raggruppati sul
fondo del veicolo. «Ora la priorità è portare in salvo questi bambini, che
Sylvia, Ashley, Viktor e la Signora Carmody hanno
difeso fino alla morte.»
Quindi, le sue labbra si piegarono in un
confortante sorriso.
«E comunque, sono sicura che la signorina ed Ashley
stanno bene. Dopo quello che hanno passato in questi ultimi venti mesi, ci
vuole ben altro per ucciderle.»
Purtroppo il bulldog aveva ricevuto una riparazione
di fortuna, sufficiente abbastanza per permettergli di muoversi, e fatto
qualche altro chilometro si ruppe un’altra volta, costringendo il gruppo a
fermarsi nuovamente.
«Maledetto ferrovecchio!» strillò la sua stessa
costruttrice assestandogli un calcione. «E dire che ti avevo progettato per
superarne di ben peggiori!»
«Puoi ripararlo?» domandò Mayu
«Sperando di aver portato via i pezzi necessari.» e
si mise subito al lavoro supportata da un paio di meccanici come lei.
L’occasione si rivelò propizia anche per fare una
conta di chi era riuscito a salvarsi, e il bilancio, malgrado tutto, fu
abbastanza confortante: i bambini orfani erano quasi tutti presenti, e così
anche molte Norma con le loro famiglie.
Il punto in cui il bulldog si era fermato, lungo una
strada sterrata che aggirava la collina prospiciente Sophia
per poi puntare verso nord, era sufficientemente riparato da risultare un buon
nascondiglio, ma anche abbastanza in alto da poter scorgere senza difficoltà
l’accampamento che, in lontananza, bruciava ancora, illuminando la notte come
un faro.
Vedendo quella luce vermiglia alzarsi nel mezzo del
nulla, a molti dei sopravvissuti venne da piangere; erano riusciti a salvarsi,
ma molti dei loro amici erano rimasti lì, uccisi da quelle macchine assassine.
«Detesto ammetterlo» disse Helen serrando i pugni.
«Ma forse quello che dicevano sul conto delle Norma non era del tutto
sbagliato. Quale essere umano sarebbe capace di compiere un simile massacro?»
«Non abbandoniamoci a facili colpevolismi, Helen»
la ammonì Mayu raggiungendola sul bordo della strada
sospesa sul precipizio dopo aver terminato la conta dei sopravvissuti. «Come
hai detto tu, per ora pensiamo solo a restare vivi.»
«Qual è il bilancio?»
«Oltre ai bambini, abbiamo con noi altri
venticinque superstiti. Ma forse qualcun altro è riuscito a lasciare Sophia in tempo.»
«Lo spero» rispose la cameriera guardando verso
l’accampamento che bruciava. «Lo spero con tutto il cuore.»
Sylvia non avrebbe mai immaginato di potersi risvegliare.
Mentre quel mostro d’argento la colpiva già si
vedeva nell’aldilà, di fronte a tutti coloro che erano morti quella notte, a
dover rendere conto della sua scelta sconsiderata di rimanere.
Invece, prima ancora di riaprire gli occhi, avvertì
un dolore generalizzato in tutto il corpo; il segno più tangibile del fatto che
fosse sopravvissuta.
Sentiva erba umida sotto di sé, e qualcosa di
ruvido dietro la schiena.
Lottando con l’intorpidimento, riuscì infine a
sollevare faticosamente le palpebre, e grande fu il suo stupore quando si rese
conto di trovarsi nel mezzo della foresta, probabilmente non troppo lontano da Sophia.
Qualcuno doveva averla spostata, poggiandola con
una certa delicatezza contro un albero pendente e mettendole delle foglie sotto
la testa.
Provò a mettersi in piedi, ma le girava ancora la
testa, e vedendosi circondata da rottami mezzi carbonizzati si domandò cosa mai
dovesse essere successo: l’ultima cosa che ricordava era quell’urto tremendo
contro il muro e il para-mail argentato che la sovrastava, ma per il resto non
aveva idea di come fosse finita lì.
Stava cercando di fare mente locale quando sentì un
rumore alla propria sinistra, e istintivamente mise una mano dietro la schiena
alla ricerca della pistola.
Ma non fece in tempo ad estrarla, perché di lì a
breve, da dietro un cespuglio, comparve l’ultima persona che si sarebbe
aspettata di vedere in un posto e in una circostanza simili.
Era una bambina. Di dieci, forse addirittura nove
anni. I capelli di un candido color lilla, quasi tendente all’argenteo, gli
occhi grandi e azzurri pieni di vita, i lineamenti delicati come quelli di una
bambola di porcellana.
Vestiva in modo semplice, con solo un abitino
bianco senza maniche che scendeva fino alle caviglie, quasi una camicia da
notte, bella da vedere malgrado gli strappi e le macchie. Ai piedi portava
delle scarpette da ospedale, bianche anch’esse, e teneva maldestramente in
mano, cercando di non rovesciarlo, un pezzo di corteccia vombato pieno
dell’acqua raccolta da un vicino ruscello.
Come la vide, Sylvia nascose immediatamente l’arma
dietro la schiena, guadagnandosi un’occhiata perplessa.
«Onee-san, sveglia!»
esclamò la bambina con un sorriso disarmante.
«O…onee-san!?»
ribatté Sylvia incredula.
Per nulla intimorita la bambina le si avvicinò,
porgendole la sua brocca improvvisata.
«Preso per te. Bevi. Starai meglio.»
Sylvia era effettivamente molto assetata, così,
malgrado quella situazione ai limiti dell’assurdo, accettò il dono della sua
insolita salvatrice, lasciando che l’acqua le scendesse lungo la gola
arrecandole un piacevole sollievo.
«Grazie» disse, ricevendo in cambio un sorriso.
«Come ti chiami?»
«Io, Mary. E tu?»
«Io mi chiamo Sylvia.»
«Felice conoscerti, Sylvia onee-san.»
Quella bambina sembrava l’ultima persona in grado
di vivere in un mondo come il loro, pensò Sylvia notando la sua espressione
felice ed innocente.
Di sicuro non era una superstite di Sophia, perché non ricordava di averla mai vista, ma allora
la domanda sorgeva spontanea.
«Mary, da dove vieni?»
«Io vengo da culla.»
«Culla?»
«Io dormito. Tanto tempo. Poi Eric onii-chan ha svegliato me. Ora noi viaggiamo verso nord.
Lui dice io al sicuro quando saremo a nord.»
«Al sicuro da cosa?»
«Non lo so. Ma lui dice molte persone cattive che
vogliono me. E così lui protegge.»
«È un bravo onii-chan
allora. Protegge la sua sorellina.»
«Lui migliore di tutti. Lui fa zac,
e poi bum, e tutti i cattivi scappano via.»
Vederla mimare sguaiatamente le prodezze di un
fratello a cui voleva palesemente un gran bene scaldava il cuore, e per un
attimo Sylvia quasi si perse ad ascoltare le sue storie.
Poi, però, il ricordo di quanto era successo prese
il sopravvento, e capì che non potevano restare oltre da quelle parti.
«Onee-san, tu no alzare»
disse Mary quando la ragazza, faticosamente, riuscì a rimettersi in piedi. «Tu
ancora debole.»
«Devo raggiungere i miei compagni. E sicuramente
quei para-mail ci stanno ancora cercando. Non posso restare qui. Tu invece è
meglio che torni dal tuo onii-chan.»
Al che Mary, dopo un attimo di smarrimento, abbassò
gli occhi come mortificata.
«Io non ricordo più dove sta Eric onii-chan. Temo io persa…»
Sylvia la fissò attonita.
«Ti sei persa?»
«Io vista luce nel cielo mentre onii-chan
dormiva. Entrata nel bosco e ho trovato te. Ma quando io andata a prendere
acqua, resa conto che io persa la strada.»
Ovviamente non era ipotizzabile di lasciarla lì da
sola nel bel mezzo del niente, così Sylvia si risolse a prendere l’unica
decisione possibile.
«Ascolta, vieni con me» le disse carezzandole
amorevolmente la testa. «Quando avrò trovato i miei compagni, ti aiuterò a
ritrovare il tuo onii-chan. D’accordo?»
Lei la guardò come perplessa, ma poi fece un cenno
di assenso.
«Sì. Anche Sylvia onee-san
sembra forte e buona, dopotutto. Io fido di te.»
Detto questo, e presa la bambina per mano, Sylvia
si incamminò in direzione di Sophia; sapeva di stare
andando in bocca al nemico, ma era anche l’unico modo per capire se qualcun
altro si fosse salvato.
Intanto, al campo, tutto era ormai finito.
Gli edifici erano tutti crollati divorati dal
fuoco, e di quella che sarebbe dovuta diventare la nuova capitale di Misurugi non rimaneva ormai che un inferno di fuoco e
cenere circondato da un recinto di lamiere arroventate; quelle mura sarebbero
dovute essere una difesa per gli abitanti contro i pericoli esterni, e invece,
per molti di loro, si erano trasformate in una trappola.
Le strade erano un tappeto di corpi senza vita:
uomini, donne, bambini e vecchi.
Nessuno era stato risparmiato.
Terminato il massacro, i para-mail si erano posati
per la maggior parte a terra, con solo un piccolo gruppo rimasto a sorvegliare
il perimetro, ma era stato solo allora che il vero orrore aveva avuto inizio.
I tre comandanti atterrarono uno accanto all’altro
nella piazza centrale, ed la prima a scendere fu la Norma che pilotava il
para-mail nero: era molto bella, coi capelli neri e grandi occhi scuri, ma al
tempo stesso nel suo sguardo dimorava una fredda, quasi glaciale
determinazione, tale da lasciarla indifferente al macabro spettacolo che aveva
di fronte.
Di tutt’altro genere erano invece le emozioni che
trasparivano dagli occhi verde smeraldo della pilota del para-mail vermiglio, una
giovane a prima vista poco più anziana delle sue due compagne, con lunghi
capelli rosati raccolti in una coda sopra la nuca e un fisico scolpito, quasi
da modella.
«L’area è sicura» disse la mora alla radio. «Date
inizio al recupero.»
I due aerei cargo che avevano lanciato i
paracadutisti a quel punto atterrarono a loro volta, e da essi scesero una
ventina di Norma armate di una specie di enorme siringa elettronica collegata
con un tubo ad una sorta di zaino portato dietro la schiena.
Uno ad uno, cominciarono a dissanguare tutti i
corpi, trafiggendoli con i loro apparecchi ed assorbendo loro, oltre al sangue,
anche tutti gli altri liquidi, lasciando dietro di sé niente altro che corpi
mummificati e scheletrici che poi venivano carbonizzati da alcuni loro compagni
provvisti di lanciafiamme.
A quella vista, la ragazza dai capelli rosa
distolse lo sguardo, e delle lacrime sembrarono comparire nei suoi occhi.
«Controllati, Jamie» la
rimproverò la mora
«Possibile che non ci sia davvero altra soluzione, Yuko? Voglio dire… stiamo
massacrando persone innocenti.»
«Lo sai bene che questa è l’unica possibilità che
abbiamo. Ne va’ del destino di noi tutti.»
«Però… pensare di dover fare
una cosa del genere… cosa ci rende degni di essere
salvati se ci comportiamo così?»
«Mettiamola così, è una questione di vita o di
morte. È vero, uccidiamo delle persone, ma ne salveremo infinitamente di più
quando tutto questo sarà finito.»
«Forse, ma a quale prezzo?»
Yuko poi rivolse la sua
attenzione alla donna dai capelli d’argento, intenta a fissare il proprio
para-mail con aria decisamente contrariata; l’esplosione del razzo alla fine
non era stata troppo grave, ma aveva provocato un’ammaccatura molto vistosa e
annerito parte della fusoliera, oltre a danneggiare sensibilmente la
manovrabilità del braccio destro.
«Quella schifosa sgualdrina me la pagherà.»
«È solo colpa tua, Ingrid. E comunque, hai
contravvenuto un’altra volta agli ordini. Svolgere la missione che ci è stata
assegnata è un conto, ma non comportarti sempre in modo tanto sadico. È già
vergognoso quello che siamo costrette a fare, ma scherzarci addirittura su come
stavi facendo con quei bambini và oltre ogni buon senso.»
«Loro hanno avuto buon senso quando hanno distrutto
le nostre vite e fatto di noi carne da cannone?» strillò lei con gli occhi
fuori dalle orbite «Quel che è fatto è reso!»
«Comandante Ingrid!» disse uno dei para-mail al suo
servizio tornando in quel momento da un giro di perlustrazione. «Ho trovato
delle tracce di veicolo che si allontanano in direzione nord.
Deve trattarsi di quel blindato che è fuggito.»
«Che cosa!?» esclamò la donna sorridendo
malevolmente. «Perfetto! Raduna le altre!»
Detto questo, e restando sorda ai richiami di Yuko, Ingrid risalì in tutta fretta sul suo para-mail,
allontanandosi a gran velocità seguita da tre sue compagne.
«Vado con lei» disse Jamie
prima di andarle dietro. «Quella quando si scatena non la fermi più.»
«Buona idea. Almeno a te qualche volta dà retta.»
A bordo del bulldog, le riparazioni stavano andando piuttosto a
rilento.
Mayu aveva ordinato di
fare il massimo silenzio e spegnere tutte le luci non necessarie, perché
malgrado fossero relativamente lontani e ben coperti dalla vegetazione il
rischio di essere notati dal nemico c’era ancora, così a parte lei, i meccanici
e qualche vedetta tutti gli altri sopravvissuti erano tornati all’interno del
blindato, immersi nell’oscurità.
I bambini in particolare erano comprensibilmente
agitati, e si guardavano tra di loro alla ricerca di un conforto.
«Sylvia onee-chan non
tornerà, vero?» disse ad un certo punto una piccola Norma
«Non ditelo neanche per scherzo» li ammonì Hilda vedendo come tutti si stessero lasciando prendere
dallo sconforto. «Sono sicura che Sylvia-sama è
ancora viva! Lei tornerà, senza alcun dubbio.»
«Però…Mayuonee-chan e gli altri dicono
che è precipitata nel bosco assieme ad Ashley onee-chan,
e che quei mostri le hanno colpite.
Se è così…»
«Vi dico che Sylvia-sama
tornerà. Ne sono sicura. Lei è più forte di quei barbari senza cuore.»
Nel mentre, all’esterno, la situazione non
accennava a migliorare.
«Quanto vi manca ancora?» domandò Mayu per l’ennesima volta. «Qui siamo troppo esposti.»
«Qualche altro minuto e dovremmo quantomeno
riuscire a muoverci» rispose Ruka senza sospendere il
lavoro. «Rimettere insieme i pezzi di questo mostro non è esattamente come
cambiare le candele di una macchina.»
Sylvia non riusciva a capire come fosse possibile, ma dopo appena
pochi minuti da che lei e Mary si erano messe in cammino il dolore che le aveva
augurato il buon risveglio era quasi completamente sparito.
Per non parlare delle ferite; per qualcuno che, a
sentire Mary, era caduto dal cielo, salvandosi probabilmente solo grazie ai
rami degli alberi che avevano attutito la caduta, se l’era cavata davvero con
poco.
Ma per il momento questo non aveva importanza: ciò
che contava era ritrovare i suoi compagni, a tutto il resto ci avrebbe pensato
in seguito.
Dal canto suo Mary si stava rivelando una persona
davvero particolare. La sua semplicità era a tratti disarmante, quasi non si
rendesse conto del mondo corrotto e ostile in cui viveva.
«Quindi» domandò Sylvia ad un certo punto. «Tu non
ricordi niente? I tuoi genitori? La tua casa?»
«Io niente ricordare prima di risveglio da culla»
rispose lei avvilita. «Primo ricordo che io ho è volto di Eric onii-chan. Lui svegliato me.»
«Capisco. Mi dispiace.»
«Tu no deve essere triste. Io no triste. Eric onii-chan è bravissima persona. Lui detto porta me da altre
brave persone.»
«Tu vuoi molto bene al tuo onii-chan,
vero?»
«Conoscere lui da poco, ma io so che lui è molto
buono. Lui difeso me tante volte in questi mesi, ma mai ucciso nessuno. Lui
dice che uccidere è brutta cosa.»
«È un pensiero giusto. Purtroppo, alle volte,
uccidere diventa l’unica soluzione possibile, anche se non si vorrebbe mai
farlo.»
«Eric onii-chan dice che
lui ucciso in passato, ma ha giurato di non farlo più. E lui sta mantenendo
promessa.»
Camminavano al buio, guidate solo alla luce delle
stelle, e Sylvia prestava la massima attenzione ad ogni più piccolo rumore, nel
timore di veder ricomparire da un momento all’altro quelle macchine infernali.
Per questo, quando avvertì un tremolio tra alcuni cespugli accanto al sentiero,
fu lesta a prendere la pistola, portando con uno scatto del braccio Mary alle
proprie spalle per tenerla al sicuro.
Nello stesso istante, però, un’altra arma comparve
dall’oscurità, puntata su di loro, ma riconoscendone il proprietario la ragazza
spalancò gli occhi per lo stupore.
«Allora ce l’hai fatta anche tu» digrignò i denti
Ashley prima di crollare in ginocchio, sfinita dalla fatica.
Le ferite in tutto il corpo e i vestiti anneriti dicevano
che doveva essersela vista davvero brutta, ma era risaputo che ci voleva ben
altro per uccidere l’indistruttibile Ashley Lescott,
l’unica Norma nella storia ad essere mai riuscita a fuggire da Arzenal.
«Giuro che non mi lamenterò mai più dei
combattimenti contro i draghi» disse mentre Sylvia cercava di aiutarla.
«Affrontare altri para-mail è tutta un’altra cosa, porca miseria.»
«Come ti senti? Riesci ad alzarti?»
«Onestamente mi domando come ho fatto a venirne
fuori. Quando c’è stata l’esplosione la cabina di guida è rimasta
miracolosamente intatta, ma sono andata giù come una meteora. Per poco non sono
anche finita in un precipizio. Ho fatto appena in tempo a uscire da quella
trappola mortale, e subito dopo quello che restava del para-mail è bruciato
fino alla cenere.»
«Mi dispiace che io no potere aiutare te» disse
Mary mortificata aiutandola a sua volta a stare in piedi. «Ma usata tutta mia
forza per aiutare Sylvia onee-chan.»
«Non preoccuparti. La nostra Ashley non morirà
certamente per così poco.»
«Scusa la domanda fuori luogo, ma chi è questa
ragazzina?»
«È una lunga storia. Te la racconterò in un altro
momento. Ora dobbiamo scoprire se possiamo ancora salvare qualcuno.»
«Mayu e gli altri sono
riusciti a scappare, e non dovrebbero essere troppo lontani. Poco prima di
venire abbattuta ho visto il bulldog allontanarsi verso la collina a nord.»
«E allora sbrighiamoci. Quando sorgerà il sole sarà
meglio essere il più lontano possibile da qui.»
Le due ragazze quindi si misero in marcia.
La collina dove secondo Ashley il bulldog si era
diretto non era troppo distante, e infatti nel giro di qualche ora vi furono
praticamente a ridosso, con solo poche centinaia di metri a separarle dalla
vecchia strada che sicuramente le loro compagne avevano imboccato per cercare
di passare la catena e dirigersi a nord.
Il problema semmai era capire se le avevano
aspettate, o se invece avessero scelto di proseguire, ed in quel caso
significava che da quel momento erano sole.
Stavano per iniziare la salita, quando, come un
fulmine a ciel sereno, una luce si levò proprio dalla strada sopra le loro
teste, puntando con fare incerto prima nel cielo e poi direttamente sulla
foresta.
«Ma cosa…» imprecò
Ashley, abbassandosi per sfuggire al cono luminoso
«Lo riconosco, è il faro di segnalazione del
bulldog!» esclamò Sylvia. «Forse ci stanno cercando!»
«Sono impazzite!? Così si faranno vedere anche dai
para-mail!»
Hilda alla fine aveva convinto anche gli
altri bambini che Sylvia era viva, e che perciò dovevano assolutamente
ritrovarle.
Così, di nascosto, lei e alcuni altri erano saliti
sul tetto del bulldog, e armeggiando un po’ con i comandi Hilda
era riuscita ad accendere l’enorme faro a torretta girevole, puntandolo subito
non senza qualche difficoltà verso il bosco sottostante alla ricerca di qualche
segnale, qualche movimento; qualunque cosa potesse essere segno della presenza
della loro leader.
Come Mayu e gli altri se
ne accorsero, sudarono freddo.
«Che state facendo!» strillò Ruka
arrampicandosi in cima e strappando letteralmente i cavi di alimentazione.
«Spegnetelo subito!»
«Ma dobbiamo trovare Sylvia onee-san…»
tentò di protestare Hilda
Ma era troppo tardi.
Una luce così forte in una zona dominata dall’assoluta
oscurità non poteva passare inosservata, e come la vide accendersi sui bordi
della collina anche gli occhi di Ingrid si illuminarono di un bagliore
sinistro.
«Trovate» sogghignò. «Andiamo!»
Come avvoltoi su di una carcassa, nel giro di pochi
attimi Ingrid e le sue tre subalterne furono addosso al bulldog, il quale
fortunatamente nel frattempo era stato completamente riparato.
«Presto, entrate!» urlò Ruka.
Ingrid era così eccitata e fuori di sé che per poco
un missile terra-aria non la centrò in pieno, ma all’ultimo momento Jamie riuscì ad intercettarlo e ad abbatterlo con un preciso
colpo di fucile.
«Ingrid, sei troppo vicina!»
«Levati dai piedi, loro sono miei!»
Il bulldog intanto era partito a tutta velocità,
sparando nel contempo tutto quello che aveva in direzione degli inseguitori, ma
la sua mole e la strada stretta lo rendevano talmente lento che per Ingrid e le
altre non era un problema riuscire a stargli dietro.
«In altri tempi mi sarei eccitata ad inseguirvi, ma
stavolta mi avete fatto proprio girare le palle!»
Così, senza perdere altro tempo, Ingrid sparò
subito una coppia di missili.
«Andate all’inferno!»
Fortunatamente il bulldog era provvisto di un
sistema elettronico di emergenza che entrò subito in funzione, producendo una
nube elettromagnetica che disturbò il segnale dei missili deviandone la
traiettoria; purtroppo, pur andando fuori controllo, i due ordigni proseguirono
la loro corsa in un’altra direzione, oltrepassando il veicolo per poi andare ad
infrangersi sulla strada poro più avanti e portandosela via.
Ruka riuscì a fermarsi
appena in tempo, con le ruote anteriori e il muso del bulldog che si
ritrovarono sospesi sull’abisso, ma a quel punto ogni via d’uscita era
preclusa.
«Fine dei giochi, belle mie. E adesso facciamo i
conti.»
«Non esagerare, Ingrid» la ammonì Jamie. «Ci serve la loro energia.»
«Ci basta il loro sangue, che i corpi rimangano
interi è secondario!»
Dei due phalanx solo
quello di prua aveva ancora munizioni, che pur riuscendo a distruggere uno dei
para-mail di scorta venne a sua volta fatto esplodere da uno dei suoi due
compagni.
Uno dei superstiti, in preda al panico, aprì la
porta cercando di fuggire, ma Ingrid gli arrivò sopra, arpionandolo con
entrambi i guanti corazzati ed alzandoselo sopra la testa per poi squartarlo
orribilmente, lasciandosi inondare da una pioggia di sangue.
«Stupendo! Davvero stupendo! Non c’è colore più
bello al mondo di questo!»
Ruka e gli altri non
poterono fare altro che osservare inorriditi, consapevoli che fosse ormai la
fine.
Ingrid, ancora ricoperta di sangue, si alzò verso l’alto,
pronta a vibrare il colpo di grazia.
«Andate all’inferno!»
In quel momento, Sylvia, Ashley e Mary raggiunsero
la strada, ma erano troppo lontane per poter fare qualcosa, né Ashley né Sylvia
avevano le armi necessarie a fermare quel bestione.
Così, tutto quello che poterono fare fu restare
immobili ed impotenti ad osservare.
Ma non Mary.
«Aiutali, mia luce!» urlò distendendo il braccio.
Si udì un suono, come una specie di fischio, poi vi
fu un bagliore.
Poi, d’incanto, una gigantesca barriera circolare
si frappose tra il bulldog ed il para-mail, e Ingrid, colta completamente di
sorpresa, vi andò a sbattere contro, ritrovandosi intrappolata come all’interno
di un campo magnetico.
«Co… cosa!?» esclamò
attonita
Dopo averla intrappolata, la barriera allo stesso
modo la respinse, non prima però di aver provocato una scossa elettrica tale da
provocare un corto circuito all’interno del para-mail friggendo letteralmente i
comandi del braccio destro; quindi, come era apparso, si dissolse, mentre nella
zona si abbatteva un silenzio tombale carico di stupore.
Come lo scudo si dissolse Mary fece per cadere riversa
a terra apparentemente svenuta, venendo però raccolta al volo da Sylvia.
«Non ci credo» esclamò. «Questa ragazzina…
ha il mana!?»
Nota dell’Autore
Eccomi qua a tempo di
record!^_^
Questo capitolo in
pratica è quello che ha ispirato la nascita stessa della mia storia, di
conseguenza scriverlo è stato particolarmente semplice.
Ora però sono
costretto a prendermi qualche giorno di tempo. In primis, perché dovrò prima di
tutto tradurlo in inglese per postarlo su di un altro sito, in secondo luogo perché,
su suggerimento di un amico, approfitterò di questo lungo ponte per iniziare a
scrivere un’altra breve fan fiction.
Grazie come sempre a Taiga per i suoi suggerimenti e le sue
recensioni.
Ps. Lo strano modo di parlare di Mary è
volutamente ispirato a quello di Chaika!^_^
La scarica era stata talmente potente che il para-mail di Ingrid era
andato completamente in tilt, tanto che le ci vollero parecchi secondi per
riuscire a riprenderne il controllo.
D’altro canto però, erano ancora tutti troppo
sconvolti ed attoniti per pensare ad altro.
Sylvia più di chiunque altro era senza parole.
Erano passati ormai due anni da che tutti loro
avevano potuto vedere con i loro occhi la Luce del Mana, e l’ultima cosa che si
aspettavano era di incontrare qualcuno ancora capace di farne uso.
Ma ciò che avevano visto era, se possibile, ancor
più straordinario, soprattutto dal punto di vista di Ingrid e delle sue
compagne.
In fin dei conti, ciò che rendeva le Norma così
speciali era proprio la loro totale avversione al mana, tale da renderle capaci
di annullarne completamente gli effetti.
Eppure, incredibilmente, lo scudo che Mary aveva
eretto a protezione del bulldog aveva resistito, respingendolo, anche
all’attacco di un para-mail, che in linea teorica erano in grado di avere
ragione del mana tanto quanto i loro stessi piloti.
«Non è possibile!» esclamò Jamie
materializzando sul monitor il volto di Mary. «Quella ragazzina…
che sia…»
Quindi, dal momento che il para-mail di Ingrid era
ancora momentaneamente fuori uso, a quel punto fu lei a prendere il controllo
dell’operazione.
«Lasciate perdere il blindato!» ordinò alle tre
compagne. «Prendete quella bambina!»
Gli altri tre veicoli allora si mossero
all’attacco, e stavolta non c’era nulla che Sylvia o le altre potessero fare
per cercare di fermarli.
Se non che, all’improvviso, un’ombra nera sembrò
oscurare la luna, e un istante dopo uno dei tre assalitori, come per incanto, si
ritrovò privato di una delle sue braccia, per poi piombare apparentemente fuori
controllo contro i suoi due compagni facendoli schiantare contro la montagna.
«Che diavolo è successo Tabitha,
sei ubriaca per caso?» domandò una delle tre, Julia, alla compagna
«Non ne ho idea, qualcosa mi ha colpito!» rispose
lei muovendo inutilmente i comandi. «Il mio sistema di guida è danneggiato! Ho
perso il braccio destro!»
La stessa scena si ripeté, quasi identica, un
secondo più tardi, e questa volta fu il para-mail del terzo membro della
squadra, Rosie, a ritrovarsi decapitato, subito dopo
aver visto una specie di fantasma passarle davanti.
«Il mio sistema visivo è andato! Sono cieca!»
«Ma che sta succedendo?» tuonò Julia prima che una
delle sue due gambe venisse tranciata, e con essa metà della sua forza
propulsiva.
Solo a quel punto la misteriosa ombra che in pochi
istanti aveva fatto brandelli di tre para-mail si degnò di comparire, ma nel
vederla tutti, a cominciare da Sylvia ed Ashley, rimasero di sasso.
Dinnanzi a loro non c’era un altro para-mail, ma un
giovane uomo sui venticinque anni, capelli corvini scompigliati ma belli a
vedersi, occhi scuri piccoli e lunghi, e un volto appuntito dominato da
un’espressione fredda, che faceva da contorno al fisico scolpito da soldato.
Vestiva in modo semplice, quasi trasandato, con un
paio di jeans blue e una maglietta bianca sormontata
da un cappotto da motociclista tutto strappato con il collo di pelliccia. In
mano, invece, aveva una katana, bellissima e probabilmente molto antica, la cui
lama ancora parzialmente sguainata risplendeva di una luce irreale.
Sylvia e gli altri non riuscivano a crederci.
Com’era possibile per un solo uomo, per quanto
visibilmente allenato e atletico, avere ragione di quelle macchine da guerra con
l’uso di una comune spada?
Lo sconosciuto alzò il capo, quasi a cercare
volontariamente gli occhi delle sue avversarie che lo fissavano interdette. Fu
a quel punto che tutte, nessuna esclusa, parvero riconoscerlo, con le tre
cadette che furono colte da un terrore così evidente che Tabitha,
sicuramente la più debole delle tre, arrivò a bagnare il sedile. Di contro
nello sguardo di Ingrid, sicuramente la più sorpresa e attonita nel veder
comparire quello strano individuo, tornò ad accendersi la luce della follia.
«Tu… sei tu!» e senza
neppure attendere che il suo Lamashtu, dotato della
capacità più unica che rara di ripararsi autonomamente, seppure solo in modo
approssimativo, fosse di nuovo pronto caricò il giovane a testa bassa.
Ma non fece in tempo a fare pochi metri che il
para-mail cremisi gli arrivò alle spalle, cinturandolo magistralmente e
impedendogli l’assalto.
«Ferma, Ingrid! Non fare pazzie!»
«Lasciami! Voglio ammazzarlo! Voglio ammazzare quel
bastardo con le mie mani! È un’occasione che aspettavo da tutta la vita!».
Dal momento che Ingrid non voleva saperne di
ascoltarla, e anzi si dimenava come una furia nel tentativo di liberarsi, Jamie non ebbe altra scelta che passare alle maniere forti,
e scoperchiato uno dei pannelli di controllo dietro la schiena del suo
para-mail strappò via di netto i cavi di alimentazione, lasciandolo immobile e
privo di energia.
«Tu, maledetta sgualdrina! Che diavolo hai fatto?»
«A tutti i para-mail, sospendere le operazioni!
Ritiratevi immediatamente!».
E senza pensarci due volte i quattro para-mail, pur
gravemente danneggiati, mollarono la preda e scapparono, trascinando con loro
anche Ingrid, che fino all’ultimo continuò a gridare di venire lasciata andare.
Il sollievo di Sylvia e le altre per essere
scampate a quella situazione apparentemente senza uscita venne tuttavia
cancellata quasi subito dalla presenza di quel giovane, il quale, rimasto senza
avversari, si avvicinò con fare molto poco amichevole alla principessa e ad
Ashley.
«Fermo!» gli intimò Ashley puntandogli il fucile, ma
ricevendo in cambio un silenzio ignorato. «Un altro passo e ti faccio secco!»
«Aspetta, Ashley. Ci ha salvate.»
«Ma non l’hai visto cosa ha fatto?»
In quella, Mary riprese conoscenza, e vedendo
Ashley con il fucile puntato immediatamente allungò la mano verso di lei.
«Ferma! Tu non sparare! Lui amico!»
«Amico!?»
Il giovane, giunto ormai appresso alle due ragazze,
alzò allora il pugno, colpendo impercettibilmente la bambina sulla testa.
«Non ti ho sempre detto di non allontanarti mentre
sto dormendo?»
«Scusa, onii-chan. Io
visto Sylvia onee-sama in difficoltà, così io
aiutata. Ma poi mi sono persa, e…»
«Onii-chan!?» ripeté
Sylvia. «Ma allora… tu sei…»
«Sì. Lui Eric onii-chan.»
«E voi, di grazia, chi sareste?»
Al sorgere del sole, quando fu certo che le norma avevano abbandonato
il campo, Sylvia e le sue compagne rientrarono a Sophia,
ma ciò che si trovarono davanti era se possibile ancor peggiore di quanto
avevano visto a Dolkin.
Del frutto di due anni di fatiche, sacrifici e
speranze non restava che un cumulo di macerie dilaniate dalle esplosioni e
annerite dal fuoco.
E, ancora una volta, i corpi delle vittime erano
stati orribilmente profanati, facendone una massa di mummie scheletriche prive
di liquidi.
Ai bambini fu risparmiato un tale spettacolo,
almeno fino a quando non fu possibile dare una qualche sepoltura ai cadaveri
ancora abbastanza integri da poter essere spostati, in tutto poco meno di un
centinaio; degli altri, ormai, non restava che cenere.
Sylvia aveva voluto costruire personalmente le
tombe per tutti i membri del suo consiglio, di nessuno dei quali restava più un
corpo da seppellire, e passandole in rassegna una dopo l’altra la ragazza,
sostando davanti a quella di Viktor, fu colta da un moto di pianto che neppure
il suo collaudato autocontrollo fu in grado di evitare.
«È colpa mia» disse serrando i pugni. «Se gli
avessi dato retta. Se avessi fatto evacuare la città, forse…»
«Non sarebbe cambiato nulla, mia signora» disse
Helen raggiungendola e poggiandole una mano sulla spalla. «Volevano le vostre
viste, e le avrebbero prese comunque. Voi avete fatto tutto quello che era in
vostro potere per salvare quante più persone possibili, e sono sicura che anche
loro lo sanno.»
Quindi, gli occhi di entrambe si volsero sui pochi
sopravvissuti, raccolti ognuno dinnanzi alla tomba di un genitore, un fratello o
un figlio.
«Ora però, la priorità portare queste persone al
sicuro. Se ci riusciremo, allora coloro che stanotte non ce l’hanno fatta non
saranno morti invano.»
«Non c’è nessun posto che possa dirsi sicuro»
irruppe Eric comparendo alle loro spalle. «Almeno non in un raggio di cinquanta
miglia dalla costa.»
«A questo punto, credo che tu ci debba una
spiegazione» disse Sylvia. «Chi erano quelle Norma che hanno attaccato la
città? Perché ho come l’impressione che tu li conosca.»
«L’hai detto tu stessa. Sono Norma.
Norma molto pericolose e ben equipaggiate.»
«E da dove vengono? Da Arzenal?»
«Da dove vengano non ha importanza. Battono
l’intera costa di questo continente alla ricerca di villaggi da sterminare. Da Rosenblum a Mitsurugi, passando
per Gallia, sono già due anni che si lasciano dietro fiumi di sangue.
Voi siete stati solo gli ultimi in ordine di
tempo.»
«Per quale motivo compiono questi massacri?» chiese
Ashley, sopraggiungendo a sua volta assieme a Mayu
«Non ne ho idea. Ma mi avevano messo in guardia su
di loro. Dicevano che avrebbero dato la caccia anche a Mary qualora l’avessero
trovata, e ora ci sono riuscite.»
«A proposito di Mary, chi è lei in realtà?» chiese
ancora Sylvia intercettando con lo sguardo la ragazzina, che come una sorella
maggiore cercava di consolare i bambini più piccoli che piangevano disperati
davanti alle tombe dei propri genitori. «Alcuni mesi fa sono entrata nelle
rovine del palazzo reale e ho letto il diario di Embryo.
Ora so tutto sulla verità che per millenni ci è
stata nascosta, compresa quella legata alla capacità di usare il mana.
Come mai, ora che Aura è stata liberata, c’è ancora
qualcuno capace di usare il mana?»
«Non chiedetemelo. Non saprei cosa rispondervi.
L’ho trovata tre mesi fa all’interno di un laboratorio di ricerca nell’estremo
sud di questo Paese.
Quando l’ho risvegliata, non sapeva neppure
parlare. Era chiaro che era rimasta lì dentro per un lungo periodo di tempo.»
«Ho come l’impressione che tu non ci sia arrivato
per caso in quel laboratorio.»
Il giovane temporeggiò, guardando in basso.
«Sono stato mandato qui da il Re Hindenburg di Rosenblum a
mandarmi alla sua ricerca.»
«Re Hindenburg!?»
strabuzzò gli occhi Sylvia. «Il padre della nobile Misty!?
Allora sono ancora vivi?»
«Anche dopo la scomparsa del mana il re è riuscito
in qualche modo a tenere insieme il suo regno. Venti mesi fa, poco dopo
l’apocalisse, il re mi ha contattato, mi ha rivelato dove si trovava Mary e mi
ha chiesto di portargliela.»
«Per quale motivo?» chiese Mayu
«Hindenburg ha promesso
di darle protezione e tenerla al sicuro, e il cielo sa quanto ne ha bisogno.»
«Di cosa sta parlando?» chiese Helen. «Intende dire
che quella bambina è in pericolo?»
«Avete visto coi vostri occhi di che cosa è capace.
Una persona ancora in grado di usare il mana in un mondo pieno di persone che
farebbero di tutto per disporre ancora di quel potere è come una pecora in
mezzo a un branco di lupi.
Da che ci siamo messi in viaggio, tutti coloro che per
un motivo o per l’altro hanno saputo delle sue capacità hanno cercato di
rapirla, e alcuni ci stanno provando tuttora. Solo in un luogo protetto come il
regno di Rosenblum potrà essere al sicuro.»
«Davvero!?» sentenziò Ashley. «E chi di dice che
quel porco non voglia esattamente la stessa cosa?»
«Attualmente il Regno di Rosenblum
è l’unica nazione che sia stata capace di rimanere unita e forte anche dopo
l’Apocalisse. Hanno ricostruito il loro Paese senza bisogno del mana, e senza
il mana vogliono farlo risorgere.
Il re, ma soprattutto sua figlia, mi hanno dato la
loro parola d’onore. Terranno Mary con sé all’interno del loro regno fino a
quando non avrà imparato a nascondere i suoi poteri, quindi la lasceranno
libera di scegliersi la sua strada.
È questo l’accordo che mi hanno proposto.»
Poco dopo Eric tornò sui propri passi per
raggiungere Mary, e le quattro ragazze, rimaste sole, si consultarono tra di
loro.
«Che ne pensate?»
«Per me quello non ce la racconta giusta» tagliò
corto Ashley. «Avete visto quanto erano incavolate quelle Norma? Quel
bellimbusto sa molto più di quanto non ci voglia dire, ci metto la mano sul
fuoco.»
«Però sembra sincero riguardo alla volontà di
proteggere la ragazzina» obiettò Mayu
«Lui forse, ma che mi dici degli altri? Se il nostro
mondo si è ridotto così la colpa è soprattutto di Hindenburg
e di quelli come lui? E ora vorresti farmi credere che quella serpe di colpo ha
deciso di fare l’eroe della situazione?»
«Se dovessimo basarci solo sulla parola del Re,
anche io avrei dei dubbi» rispose Sylvia dopo un attimo di esitazione. «Ma la
nobile Misty è sempre stata una brava persona. Anche
quando la verità sul conto di mia sorella è venuta alla luce, non ha mai smesso
di ammirarla.»
Quindi, nei suoi occhi sembrò accendersi di nuovo
la luce della determinazione.
«E se lei ha fatto questa promessa, allora deve
essere per forza la verità» e detto questo, con passo deciso, si diresse vero
Eric, fissandolo dritto in volto quasi con sfida. «Che ne diresti di fare
questo viaggio insieme?»
Tutti, per prime le sue compagne, saltarono sul
posto.
«Ma che accidenti le salta in mente?» si chiese
Ashley
«Io viaggio da solo.» fu la risposta secca di Eric
«Ci sono circa novemila chilometri tra questo Paese
e Rosenblum, con due nazioni nel mezzo, Gallia ed Enderant. Inoltre, da quello che ho capito, anche le Norma
che ci hanno attaccate vi daranno la caccia ora che vi hanno trovati.
Credi davvero di essere in grado di proteggere Mary
fino a quando non sarai riuscito a riportarla indietro?»
Il giovane esitò, grattandosi la nuca visibilmente
combattuto.
«Perché mai vorreste imbarcarvi in un viaggio
simile?»
«Buffo, stavo per fare la stessa domanda.» disse
ancora Ashley
«Quei mostri hanno distrutto il villaggio che
avevamo costruito con tanta fatica, ma per Mitsurugi
non è ancora giunta l’ora di arrendersi.
Adesso però so che non posso farcela da sola. Ho
bisogno di aiuto. E se davvero Hindenburg è riuscito
a rimettere in piedi il suo regno, allora lui è l’unico che possa darmi una
mano a fare la stessa cosa anche qui.
Voglio incontrarlo e parlargli.»
«È sicura di quello che fa, mia signora?» domandò
Helen. «È un viaggio molto lungo.»
«Ma è l’unica cosa che mi rimane da fare, se voglio
ancora sperare di salvare il mio regno. Possiamo aiutarci l’uno con l’altro.
Noi abbiamo un veicolo per accelerare il viaggio, tu le tue capacità. Solo
collaborando avremo una speranza.
Se davvero tieni alla sicurezza di quella bambina,
devi ammettere che non è una cattiva offerta.»
«Lo avete visto con i vostri occhi quanto può
essere pericoloso. Ora che sanno dove ci troviamo, quelle Norma ci daranno la
caccia, e sono avversarie molto pericolose.»
«Non sottovalutarci. Viste così possiamo sembrare
delle ragazze indifese, ma non siamo sopravvissute in questi due anni solo per
il nostro bel visino.
E anche il bulldog sa il fatto suo.
Dico bene, Ruka?»
«Dici benissimo!» rispose lei sbucando da sotto il
mezzo. «E dopo queste modifiche, sfido qualunque zozzona
di Norma a provare a farsi avanti!»
Eric sembrò sul punto di acconsentire, ma a quel
punto fu Mayu a sollevare delle perplessità.
«Ma… tutta questa gente… I bambini… non possiamo
abbandonarli qui con quelle Norma in giro, e non resisterebbero ad un simile
viaggio.»
«Per non parlare delle provviste che dovremmo
portare con noi» disse Ashley. «Il bulldog è grande, ma non immenso. Come
facciamo a portare trenta e passa persone fino a Rosenblum?»
«C’è un villaggio a Gallia, non lontano dal confine
con Mitsurugi» rispose Eric. «È ben difeso e molto
ospitale. Ci sono passato alcuni mesi fa.
Se portiamo i bambini lì, saranno al sicuro.»
Stavolta fu Sylvia a temporeggiare, ma alla fine,
sorridendo soddisfatta, porse la mano ad Eric.
«Abbiamo un accordo» disse, ricevendo in cambio una
stretta accennata.
Poco dopo Ruka portò il
bulldog all’interno dell’unico capannone ancora in piedi, dove rimase fin quasi
al tramonto, e quando ne uscì le ragazze quasi stentarono a riconoscerlo.
«Ma… che cosa ci hai
fatto!?» ammutolì Sylvia
Quella specie di scienziata pazza aveva sostituito
gli armamenti andati distrutti addirittura con le torrette dei carri armati
abbattuti dalle Norma durante la notte, oltre a dotare il mezzo di un
supplemento alla corazza e svariate armi leggere.
«Hai veramente le mani d’oro.» commentò soddisfatta
Ashley, che a sua volta aveva speso la giornata a recuperare assieme a Mayu tutte le armi ancora intatte.
«Adesso voglio vedere quelle schifose se avranno
ancora il coraggio di avvicinarsi.»
A quel punto, fu davvero il momento di ripartire, e
mentre percorrevano per l’ultima volta la stradina stretta che saliva fino
all’abitato Sylvia e le altre non riuscirono a non provare una sorta di cupa
malinconia.
Addio alle notti di ronda; addio ai pattugliamenti
nella regione.
Mitsurugi era
probabilmente destinata a ricadere nell’anarchia senza di loro e senza la luce
rassicurante di Sophia, ma con l’aiuto del cielo da
quella sciagura che era costata migliaia di vite potevano sorgere i semi di una
nuova rinascita.
Era tutto nelle loro mani.
Al largo della costa di Mitsurugi, non
segnata su nessuna mappa o carta nautica, c’era un’isola, lunga e stretta,
dalla forma simile ad una clessidra, dominata in ogni parte da altissime
scogliere, eccezion fatta per una minuscola porzione di spiaggia raggiungibile
da una gola stretta e ripida ai piedi della montagna che, elevandosi come un
cono quasi perfetto, occupava per intero la zona più a nord.
Già da prima dell’apocalisse qualunque nave o aereo
aveva il divieto più assoluto di avventurarsi in quelle acque, impresa già di
per sé impossibile visto l’incredibile sistema difensivo che proteggeva l’isola,
fatto di mine subacquee, postazioni antiaeree e un impenetrabile sistema radar.
Reunion.
Era questo il suo nome.
Ancor più di Arzenal, era
sicuramente il luogo più misterioso, segreto e protetto del pianeta; tuttavia, se
l’esistenza di Arzenal era un fatto noto ad una
ristretta cerchia di eletti, non vi era nessuno al mondo che avesse mai sentito
anche solo nominare Reunion.
Tutto ciò che passava da Reunion,
si fermava a Reunion, e lì vi moriva. A nessuno che
vi mettesse piede era concesso di tornare al mondo esterno, fosse egli Norma o
umano.
Raffinerie e centrali termoelettriche fornivano
carburante per i para-mail ed energia per la sua gigantesca base, serre,
fattorie cisterne garantivano il cibo e l’acqua; persino il metallo e ogni
altro materiale da costruzione veniva prodotto in loco, grazie ai ricchi
giacimenti situati nel cuore della montagna, facendo dell’isola una realtà
completamente autonoma.
Quando Jamie, Ingrid e il
resto del corpo di spedizione inviato sulla terraferma vi fecero ritorno, ad
attenderle nell’hangar trovarono un nutrito gruppo di tecnici e meccanici
guidati da una giovane donna dai capelli neri e dalla pelle scura, tipica della
gente di Verda, che vedendo lo stato in cui erano
ridotti alcuni dei para-mail inviati in missione quasi non credette
ai suoi occhi.
«Ma come avete fatto a ridurvi in questo modo?»
«Devo parlare con il Comandante, subito!» disse Jamie scendendo dal suo para-mail
La ragazza restò a guardarla perplessa fino a
quando non la vide scomparire dietro uno dei varchi d’accesso, quindi, come i
veicoli da trasporto poggiarono a loro volta le ruote sulla pista, fece un
cenno ai suoi collaboratori.
«Avanti, sbrigatevi! Immettete questo raccolto nel
circuito!» ordinò, e quelle corsero a scaricare degli enormi fusti metallici,
collegandoli successivamente a dei grossi tubi semitrasparenti che emergevano
dai muri e all’interno dei quali, di lì a pochi secondi, iniziò a scorrere una
sostanza rossa e densa.
«Ma si può sapere che è successo?» chiese allora la
ragazza scura a Yuko portandole una bottiglia d’acqua.
«Avevano detto che sarebbe stato un lavoro semplice.»
«Il Mietitore» balbettò in quella Julia, gli occhi
fuori dalle orbite e il cavallo della tuta infradiciato. «Abbiamo incontrato il
Mietitore.»
«Che cosa!?»
Al che la mora rimase di sasso, voltandosi
nuovamente verso Yuko.
«Ma… è la verità?»
«Sì, Lavinia. Era Eric. O almeno così hanno detto Jamie e Ingrid.»
«Oh, santo cielo. Allora è vivo.»
«E non era da solo.»
Il Comandante supremo di Reunion, Alexia Asgard, era in assoluto la persona più misteriosa, e per
certi versi affascinante, di tutta l’isola.
Si diceva che fosse nata e vissuta a Reunion per tutta la vita, ma nonostante ciò aveva una
conoscenza del mondo esterno e delle sue regole quasi inconcepibile che, a dare
retta alle storie, non aveva mai conosciuto altro mondo all’infuori.
In pochi conoscevano qualcosa di più sul suo conto,
mentre per le Norma più giovani rappresentava una sorta di modello, un esempio
da seguire anche nelle situazioni più disperate; aveva tenuto insieme la
comunità con il pugno di ferro, guidandola anche all’indomani dell’apocalisse
in quella pericolosa, e per certi versi ingrata missione, per la quale aveva
selezionato personalmente le reclute più forte, risolute e determinate a sua
disposizione.
Quando Jamie aprì la
porta delle sue stanza, come spesso accadeva la trovò lì, seduta ad una delle
poltroncine del suo elegante salotto, gli occhi chiusi e l’espressione serena
mentre si lasciava trasportare dalla superba melodia del suo violino.
I suoi corti capelli bianchissimi, ricadendo sulle
spalle, le contornavano elegantemente il viso ovale, mentre il fisico,
longilineo ma in carne, dominato da un seno generoso ma non eccessivo, la
faceva rassomigliare più ad una modella che ad un soldato.
«Comandante, Eric è ricomparso a Mitsurugi.»
«Eric?» rispose Alexia senza smettere di suonare.
«Non avrei mai pensato di sentire ancora questo nome.»
«E non è finita qui, Mia Signora. Abbiamo trovato
il Graal.»
La musica si fermò di colpo, gettando la stanza in
un silenzio irreale, ed Alexia, alzatasi in piedi, fulminò Jamie
con i suoi occhi grandi e profondi, due lame di ghiaccio; secondo alcuni l’eterocromia
era una ulteriore prova dell’unicità del Comandante, ed aggiungeva
indubbiamente un ulteriore tocco di mistero alla sua figura.
«Ne sei sicura?»
«L’ho vista con i miei occhi, Comandante.»
«Convoca le altre. Immediatamente.»
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Scusate questo lungo,
interminabile silenzio, ma ho avuto una marea di cose da fare e pochissimo
tempo libero.
Per fortuna questo
capitolo non è stato molto complicato da scrivere, così una volta che l’ho
iniziato il resto è venuto da sé permettendomi di procedere spedito.
E ora, le cose si
fanno serie.
A questo punto
possiamo pure dire che la prima parte della storia (dividendola virtualmente in
quattro) se n’è andata. Ovviamente si tratta della più breve, e la narrazione
del viaggio da Mitsurugi fino a Rosenblum
si porterà via un bel po’ di capitoli, ma direi che è già un bel risultato.
Il colpo incassato dal Vilkyss era stato molto più grave del previsto, tanto che
alcuni sistemi erano andati in tilt.
Invece, il
ragna-mail usato da Sylvia non aveva subito alcun danno apparente, e la
ragazza, rientrata nel proprio mezzo, si era nuovamente scagliata contro la
sorella, impegnandola in un duro corpo a corpo.
«Perché lo
state facendo?» domandò Ange cercando, faticosamente, di opporsi all’assalto
«Anche se te
lo spiegassi dubito che riusciresti a capire» rispose, fredda, Sylvia. «Del
resto, non sarebbe altrimenti. Ormai è questo il tuo mondo, e di quello che
succede nel nostro non potrebbe fregartene di meno, ho ragione?»
Tusk, nel frattempo,
era riuscito a riprendere almeno in parte il controllo del suo para-mail, ma
quando provò ad andare in soccorso della sua compagna quell’individuo in nero,
veloce come un fulmine, gli comparve nuovamente davanti, piombandogli addosso
dall’alto e cercando di segarlo in due.
Il ragazzo si
difese con la sua spada, ma benché fosse cinquanta volte la katana del nemico
quest’ultima riuscì a tagliarla in due come fosse fatta di cartone, producendo
oltretutto un’onda d’urto così potente da scagliare il para-mail in basso, fino
sulla superficie del mare.
«Maledizione!»
imprecò Tusk cercando di riottenere nuovamente il
controllo.
Quando
risollevò gli occhi il suo assalitore era lì, davanti a lui, in piedi sul
cadavere di un drago rimasto a galleggiare sulla superficie, la katana
insanguinata in mano e gli occhi, appena scrutabili oltre la visiera del casco,
puntati verso di lui.
I loro
sguardi si incontrarono, e in quel momento Tusk
avvertì un brivido, con le sue mani che si serrarono con forza attorno ai
comandi, tremando vistosamente.