Cross Ange - Futatsu Sekai no Border

di Carlos Olivera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PRIMA PARTE ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** SECONDA PARTE ***



Capitolo 1
*** PRIMA PARTE ***


PRIMA PARTE

 

 

Una giornata, l’ennesima, volgeva al termine all’Ange Café.

Il sole aveva già iniziato la sua discesa oltre l’orizzonte, al di là dell’oceano, e le prime stelle si erano fatte strada attraverso il cielo color arancio riempiendo l’aria di magia.

Ange alzò gli occhi dal bancone, incrociando con lo sguardo le superbe figure di una coppia di draghi, un maschio ed una femmina, intenti a rincorrersi l’uno con l’altro in uno dei loro giochi di corteggiamento che ormai si era abituata a vedergli compiere.

Quasi non credeva possibile di aver passato quasi un anno della sua vita a combattere quelle creature, e tutto per colpa di un sadico piano ordito dalla mente perversa di un sedicente dio.

Ma ora quei giorni erano lontani.

Ora c’erano solo pace e prosperità.

La sua nuova nazione cresceva vigorosa giorno dopo giorno, attirando a sé un numero sempre crescente di potenziali abitanti.

Stava per sollevare il vassoio pieno di bicchieri vuoti, dopo che le ultime clienti se n’erano andate, quando si sentì abbracciare alle spalle.

«Tusk!» imprecò. «Smettila di fare lo stupido.»

«Non far finta che ti dispiaccia» sorrise beffardo lui cingendola un po’ più forte.

Purtroppo ormai quel pervertito aveva imparato a conoscerla, e a differenza che in passato Ange non riusciva più a sottrarsi alle sue manifestazioni d’affetto, anche le più esagerate.

Aveva bisogno di Tusk. Era la sua vita.

Avevano aperto quel caffè insieme, realizzando un sogno comune di una vita nuova e pacifica, e anche se a distanza di due anni non erano ancora riusciti a coronare con un erede il loro amore sincero e appassionato sentivano che era solo una questione di tempo.

Tusk da parte sua amava giocare e provocare un po’ la sua donna, ricordando quasi con nostalgia i giorni lontani in cui bastava una parola, un gesto inconsulto, o uno dei suoi proverbiali colpi di sfortuna, per ricevere in cambio sonore legnate.

Se ci pensava le ossa gli dolevano ancora, ma era un dolore così dolce, facile da sopportare.

I lavori di fine giornata andarono ben presto a farsi benedire, e i due, abbassate le tapparelle ed esposto il cartello di chiusura, si ritrovarono, seminudi, abbracciati l’uno all’altra su uno dei divanetti, a scambiarsi baci appassionati.

«Io odio quando fai così» disse Ange prendendo fiato. «Mi fai passare persino la voglia di picchiarti. Lo sai quanto ci sta costando quella tua orribile zuppa che nessuno vuole mangiare?»

«Ne sono felice. Anche perché, tra un calcio nello sterno e le tue pallottole, non ho più niente in corpo che non sia già stato rotto.»

Lei rise, divertita, scambiandosi con lui un nuovo bacio, poi gli occhi di entrambi caddero verso la luce del sole che, filtrando dalle tapparelle, annunciava un tramonto ormai prossimo al completamento. E allora, sui loro volti, comparve quasi un che di nostalgia.

«Ripensi mai al nostro vecchio mondo?» domandò Tusk

«Perché dovrei farlo?» rispose lei quasi stizzita. «Dopotutto, non è più il nostro mondo.»

«Ma lo è stato. Chissà cosa sta accadendo laggiù. Embryo li controllava in ogni cosa. Erano burattini nelle sue mani, senza neppure rendersene conto. Mi domando cosa stia succedendo ora che quel legame è stato reciso. Non erano abituati a prendere decisioni per conto loro.»

«Ma dovranno farlo. Se vogliono sopravvivere. E a conti fatti, della sorte di qualcuno che mi ha tirato le uova dandomi del mostro e invocando la mia morte, può fregarmene solo fino ad un certo punto.»

«Eppure, mi rifiuto di credere che fossero tutti così.

Che ci fosse qualcuno di diverso in mezzo a loro?»

«Umanamente parlando erano come dei cloni. Fatti in serie per amare quello che doveva essere amato e disprezzare quello che doveva essere odiato.

I Norma erano l’unica eccezione, e per questo ci chiamavano mostri. Trovo difficile pensare che qualcuno di loro potesse essere diverso, almeno fino al momento in cui Embryo è morto.»

«Immagino che tu abbia ragione» rispose Tusk con un sorriso che però non appariva troppo convinto. «Ma sono sicuro che, con la morte di Embryo, siano riusciti in qualche modo a trovare la loro strada. È anche questa la forza dell’Uomo, dopotutto.»

«Devono avercela fatta. In caso contrario, probabilmente a quest’ora sono già tutti morti. Un destino che si sarebbero ampiamente meritati.»

A volte Ange sapeva essere davvero cinica, a tratti persino spietata, ma Tusk non se la sentiva di fargliene una colpa; era difficile mantenere un punto di vista obiettivo dopo tutto quello che doveva avere passato, e in fin dei conti non era così sbagliato considerare gli umani dell’Altra Terra in modo tanto negativo.

Era vero che Embryo li aveva programmati per odiare i Norma, ma Momoka ed Emma avevano dimostrato che non erano stati privati del libero arbitrio, e della capacità intrinseca di saper distinguere il bene dal male, il giusto dalla menzogna.

La speranza era che quanto accaduto a loro due fosse accaduto anche per tutti gli altri, ma una parte di Tusk dubitava che ciò potesse davvero essere avvenuto.

«A proposito di Momoka, dov’è?» domandò Tusk. «È dall’ora di pranzo che non la vedo.»

«È andata in città con Pamela e le altre a fare spese. Dopodomani saranno due anni dalla fine di Libertus. Voglio dare una festa.»

«È una splendida idea. Preparerò la mia migliore zuppa di serpente.»

«Ancora con questa zuppa!? È una perversione o cosa!?»

La luce del sole continuò ad affievolirsi, scomparendo rapidamente nel giro di pochi attimi, lasciando il posto a minacciosi boati: doveva essere in arrivo un gran bel temporale.

Poi, d’improvviso, la porta del locale si spalancò fragorosamente.

«È terribile, nobile Angelise!» strillò Momoka apparendo sull’uscio, salvo poi arrossire d’imbarazzo alla vista dei suoi due amici e padroni intenti nel loro momento di intimità. «Scu… scusate!»

«Momoka!» urlò Ange coprendosi alla bene e meglio. «Quante volte ti ho detto che non devi entrare quando vedi le tapparelle abbassate!»

«Mi dispiace, nobile Angelise» rispose lei mortificata, ma riacquistando nel giro di un attimo tutta la sua agitazione. «Però, c’è un problema! Presto, venite a vedere!».

I due amanti si guardarono tra di loro, confusi e un po’ preoccupati, ma niente li avrebbe mai potuti preparare a ciò che, rivestitisi e raggiunta la vicina scogliera, si videro comparire dinnanzi.

Non erano state le prime avvisaglie di un temporale a coprire il sole.

Un cerchio di nuvole nere, sinistre e minacciose, si era formato nel cielo ad alcuni chilometri di distanza, in mare aperto, vorticando lentamente su sé stesso mentre dalle sue viscere sprizzavano lampi e rimbombi di tuono.

Entrambi sgranarono gli occhi, e un brivido gli attraversò le ossa.

«Ma quella… quella è…» balbettò Tusk

Non ebbe neanche il tempo di voltarsi che la sua compagna era già corsa in direzione del granaio attiguo al bar.

«Ange, aspettami!»

Insieme, e mettendoci parecchia forza, aprirono il pesante portone di metallo, balzando in sella ai rispettivi veicoli prima ancora di aver finito di indossare le rispettive tute da battaglia, riposte con cura all’interno di un armadietto.

Era da un po’ di tempo che il Villkiss e l’Arquebus se ne stavano a prendere polvere lì dentro, e ciò nonostante, subito dopo l’accensione, presero a cantare come cardellini, indifferenti al passare degli anni.

«Momoka, avvisa Salako e le altre!» ordinò Ange portando con disinvoltura il suo veicolo all’esterno. «Noi andiamo a vedere che sta succedendo.»

«Sì, mia signora» fece in tempo a dire la cameriera, e subito dopo i due decollarono a tutta velocità.

 

Più Ange e Tusk si avvicinavano a quello strano, ma non insolito, fenomeno atmosferico, più vedevano confermati i propri timori, e quando infine vi furono appresso, in una zona di mare basso segnata da cui emergevano i resti arrugginiti e decrepiti dell’antica città di Tokyo, le sue imponenti dimensioni suscitarono in loro un ancora maggior timore.

«Non ne ho mai vista una di queste dimensioni» disse Tusk alla radio.

Non era raro che si aprissero delle singolarità.

A sentire la venerabile Aura, la barriera che divideva i due mondi aveva risentito pesantemente del tentativo di Embryo di farla collassare, e anche se non si era ancora riusciti a spiegarne completamente il motivo essa non era ancora riuscita a ricostruirsi completamente, lasciando delle falle che di quando in quando assumevano consistenza per poi, comunque, scomparire nel giro di pochi minuti.

Ange e Tusk quindi aspettarono, fiduciosi che ancora una volta quel retaggio delle vecchie battaglie sarebbe scomparso, ma a distanza di parecchi minuti la singolarità, invece che richiudersi, sembrò quasi volersi ingrandire, facendosi ancor più minaccioso.

«Che facciamo, Ange? Questa singolarità non sembra volersi chiudere.»

Stavano decidendo il da farsi, quando una coppia di ragna-mail e un para-mail rosa dall’aria parecchio famigliare gli si fecero incontro giungendo dalla città; con loro anche un nutrito seguito di draghi, soprattutto femmine.

«Sta arrivando la cavalleria!» esclamò Vivian con il suo solito fare un po’ infantile.

Gli anni e le battaglie non avevano cambiato il suo carattere gioioso, ma dopotutto era questo uno dei motivi per cui tutti le volevano molto bene

«Era ora che arrivaste!» disse sollevata Ange

«Scusa il ritardo, Ange.» disse Salia. «È successo tutto molto in fretta, e quando Momoka ci ha chiamate siamo arrivate il più in fretta possibile.»

«E Salako e le altre?»

«Stanno arrivando. Saranno qui in pochi minuti. Intanto siamo venute noi due.»

«Allora, si può sapere che accidenti sta accadendo qui?» domandò Hilda, rude e schietta come sempre. «Perché questo dannato buco non si è ancora richiuso?»

«Non solo non si è richiuso, ma si sta ingrandendo» disse preoccupato Tusk. «Se le cose continuano a progredire, sarà il caso di chiedere l’aiuto della venerabile Aura.»

«Accidenti a quella lucertolona. Ha scelto proprio un bel momento per andarsene in letargo.»

«Non chiamare la nostra Madre Aura lucertolona!» sbottò Vivian. «E non è andata in letargo, si sta riprendendo! Provaci tu a farti succhiare l’energia ininterrottamente per centinaia di anni, e poi vediamo quanto sarai vitale.»

«Sì, si, d’accordo» tagliò corto la rossa. «Ma ora come ci comportiamo?»

«Aspettiamo l’arrivo di Salako» consigliò Ange. «Lei probabilmente saprà aiutarci.»

Ma non ne ebbero il tempo.

Improvvisamente l’ingrandimento della singolarità aumentò in modo repentino, provocando una pioggia di raggi di particelle che per poco non colpirono le ragazze e i draghi che le accompagnavano, e quando al centro del cerchio di nuvole cominciò a formarsi una superficie semitrasparente, oltre la quale si potevano scorgere nitidamente un cielo ed una terra che non avevano nulla a che vedere con il loro mondo, la preoccupazione negli occhi di Ange e i suoi compagni si tramutò in vera e propria paura.

«Si è…» balbettò Tusk. «Si è aperto un varco!»

Non era possibile.

Nessuno, a parte Midgardia, aveva il potere di fare una cosa del genere, e la barriera tra i due mondi non poteva essere ancora così deteriorata da provocare degli squarci.

Passarono alcuni istanti, lunghi e carichi di tensione; poi, dalla fessura, cominciarono a venire fuori uno dopo l’altro un gran numero di para-mail, alcuni di un modello e di una fattura che né Ange né nessun altro ricordavano di aver mai visto.

Tra loro ne spiccava uno, nero pece, con riverberi argentati, un fucile di alta precisione alla cintura e una falce ripiegata su sé stessa come arma da corpo a corpo, e un altro color cremisi, che al posto delle mani sembrava avere una coppia di lame che lo facevano somigliare ad una mantide.

Ad accompagnarli, elicotteri da combattimento, aeronavi e altri velivoli militari dall’aria decisamente poco raccomandabile.

«Ma che cosa…» strillò Hilda

Per ultimo, a coronamento di una situazione che stava diventando sempre più drammatica, comparve addirittura un ragna-mail, quasi un clone del Villkiss, che lasciò Ange e le altre atterrite; presentava una colorazione insolita, di un giallo dorato, con sei ali luminose che formavano un cerchio dietro la sua schiena, e lo stemma imperiale dell’Impero di Mitsurugi a capeggiare al centro del petto.

A cavalcarlo, come un domatore in sella alla propria fiera, c’era un uomo, con una katana chiusa nel fodero in una mano e un uniforme del Popolo Antico provvista di casco a celare i lineamenti, che ciò nonostante apparivano atletici e scolpiti come si conveniva ad un vero soldato.

«Non… non ci posso credere…» disse Tusk, interdetto e senza parole come tutti. «Questi… sono abitanti dell’Altra Terra!?»

Era inaudito. Da quando gli abitanti dell’Altra Terra, che oltretutto con la scomparsa del mana dovevano aver visto ridursi sensibilmente il loro livello tecnologico, disponevano delle conoscenze necessarie ad aprire i varchi senza l’aiuto di Embryo?

I nuovi venuti, inizialmente, non si mossero, seguitando a rimanere nei pressi del varco con intenzioni a prima vista non bellicose, ma Ange e i suoi compagni sapevano bene che un simile dispiegamento di forze non poteva portare nulla di buono.

Il ragna-mail dorato, lentamente, si portò in testa al gruppo, e con gli occhi della mente Ange ebbe come l’impressione di scorgere qualcosa negli occhi nel soldato che lo cavalcava, come una specie di ordine impartito con un filo di voce, ma che i suoi compagni recepirono immediatamente, scagliandosi fulminei all’attacco in ogni direzione.

«Lo sapevo!» ringhiò la ragazza. «Pronti a combattere, presto!»

Da quando avevano preso confidenza coi nuovi ragna-mail e le nuove capacità del Villkiss Ange, Sanya e Hilda erano diventate quasi imbattibili, e lo stesso si poteva dire per Vivian e Tusk, che pur usando dei normali para-mail sapevano il fatto loro.

Ciò nonostante, quei nuovi avversari si rivelarono degli avversari micidiali, che misero a dura prova le loro abilità di piloti e di guerrieri; gli aerei e gli elicotteri sparavano senza sosta, volando in ogni direzione per sfuggire agli assalti dei draghi e ai colpi dei mezzi nemici, mentre da lontano il para-mail nero colpiva con letale precisione chiunque arrivasse a minacciare qualche suo compagno.

La cosa strana era che, mentre la maggior parte dei para-mail nemici combattevano, alcuni di essi restavano a bassa quota, intercettando i corpi dei draghi morti o morenti che precipitavano in mare e trafiggendoli con una selva di protuberanze simili a tentacoli; questi, emergendo da una specie di enorme recipiente portato come uno zaino, sembravano risucchiare loro il sangue e le viscere, riducendoli a mummie rinsecchite.

Quando Vivian se ne accorse, perse la testa.

«Lasciate stare i miei amici!» urlò piombando loro addosso fuori di sé dalla rabbia.

«Vivian, no!» tentò di bloccarla Sanya

Un para-mail provò a bloccarle la strada, ma lei lo spazzò via con un colpo solo del suo boomerang, per poi scagliarsi con forza contro due dei raccoglitori con un secondo lancio.

Stava per abbatterne anche altri due, che svuotata la loro ultima preda e presi dal panico stavano tentando una inutile fuga appesantiti dal loro fardello, quando uno strano bagliore proveniente dall’alto attirò, troppo tardi, la sua attenzione; un istante dopo, il suo para-mail subì un violento contraccolpo, minacciando quasi di farla cadere dalla postazione, e quando riaprì gli occhi si avvide che ora, al posto del braccio destro, aveva solo un moncone perfettamente segato, che sprizzava fumo e scintille.

Il giovane soldato con la katana era lì, ai suoi piedi, ritto sopra le macerie di un vecchio grattacielo, la spada parzialmente sguainata e lo sguardo basso, quasi invisibile dietro la visiera rossa del casco.

«Andate!» ordinò con una voce giovane ma profonda, di ghiaccio, e i due para-mail raccoglitori immediatamente gli obbedirono, scomparendo in tutta fretta oltre il portale.

Stupita ma non doma la ragazzina tentò di afferrare l’assalitore con la mano ancora intatta, ma questi, fino all’ultimo, non si mosse fino all’ultimo.

«Inutile.» sussurrò.

Di nuovo, tutto avvenne in meno di un batter di ciglia; il giovane parve scomparire, tanto velocemente fu in grado di muoversi, e un istante dopo era in piedi sulla testa del para-mail di Vivian, mentre anche l’altro braccio precipitava in mare dopo essere stato irrimediabilmente reciso.

Era più di quanto qualunque macchina potesse sopportare; il corto circuito fortunatamente non provocò l’esplosione, ma Vivian vide con orrore il suo para-mail spegnersi repentino, per poi cadere inerme verso il basso ormai privo di energia.

«Vivian!» urlò in lacrime Hilda vedendola scomparire sotto la superficie.

Come fece per andare ad aiutarla, però, trovò la sua strada sbarrata dal para-mail cremisi, a prima vista così simile al suo, che evitati sia due fendenti sia una scarica di fucile le volò velocissimo addosso costringendola ad erigere lo scudo per difendersi.

Allora fu Tusk a provare a correre in aiuto a Vivian, ma forse grazie ai suoi sensi di soldato il ragazzo riuscì ad avvedersi in tempo della minaccia che, come una saetta, gli stava venendo addosso, spostandosi in tempo e rimettendoci così solo uno dei due propulsori posteriori.

Dandosi la spinta sulla testa del para-mail di Vivian che precipitava, e forte delle potenzialità della sua tuta, il soldato in nero gli era arrivato appresso in pochi attimi, venendo afferrato al volo dal para-mail nero passato in modalità di ingaggio; fu allora che tutti poterono vedere una giovane donna alla guida del mezzo, capelli di un nero opaco portati piuttosto corti e sguardo impassibile, quasi senza vita, che stonava incredibilmente con la delicatezza e grazia dei suoi tratti.

La sua tuta era nera come il para-mail che pilotava, e solcata dalle medesime striature, ma presentava anche alcune placche metalliche simili a scampoli di armatura, che ne accrescevano sensibilmente l’aspetto minaccioso.

Inge, intercettato il mezzo, era pronta ad abbatterlo con un colpo preciso, ma d’improvviso il ragna-mail dorato, che per tutto quel tempo se ne era rimasto in disparte, la attaccò fulmineo, sventagliando una coppia di spade che, con un semplice contatto tra le estremità delle impugnature, si tramutarono mancato il primo assalto in una letale arma a doppia lama.

«Non sono così stupida da farmi sorprendere da così poco.»

Ciò nonostante Ange dovette indietreggiare, rispondendo di tanto in tanto ai fendenti portati con letale precisione con qualche colpo di fucile, ma il ragna-mail nemico non voleva saperne di mollarla e continuava a colpire.

«Ange!» gridò Salya intervenendo in suo aiuto.

L’attacco a tenaglia costrinse il ragna-mail a rinunciare all’assedio martellante, e grazie alla velocità fulminante di Salya ben presto fu lui a ritrovarsi in apparente difficoltà.

A dargli man forte intervennero tre suoi compagni, pesci piccoli sicuramente, che Ange e Salya riuscirono ad abbattere con pochi sforzi, ma nel tempo che impiegarono a tornare a concentrarsi sul loro bersaglio principale questi si era già allontanato di almeno un chilometro, bloccandosi in mezzo al nulla come pietrificato.

Ange stava domandandosi della ragione di quello strano comportamento, quando, attraverso la radio, giunse una strana litania; una canzone. E tutto il suo corpo si pietrificò per lo sgomento.

 

始まりの光 Kirali…kirali

HAJIMARI NO HIKARI   KIRALI… KIRALI

終わりの光 Lulala lila

OWARI NO HIKARI   LULALA LILA

 

返さんel ragna

KAESAN EL RAGNA

砂時計を

SUNADOKEI WO

時は溢れん

TOKI WA AFUREN

Lulala lila

 

幾億数多の 命の炎

IKUOKU AMATA NO   INOCHI NO HONOO

するり堕ちては星に

SURURI OCHITE WA HOSHI NI

流れ流れては美しく

NAGARE NAGARETE WA UTSUKUSHIKU

また生と死の揺りかごで

MATA SEI TO SHI NO YURIKAGO DE

柔く泡立つ

YAWAKU AWADATSU

 

Due bocche da fuoco comparvero sulle spalle del ragna-mail, sprigionando una terrificante quantità di energia; i suoi alleati, capita la situazione, si erano già spostati, ma di contro parecchi draghi si ritrovarono investiti in pieno dalla potenza del colpo, finendo vaporizzati.

Persino Tusk riuscì a cavarsela per il rotto della cuffia, scampando per la seconda volta in pochi minuti ad un attacco potenzialmente mortale, ma di contro Sanya non fu altrettanto svelta, rimanendo paralizzata alla vista di quell’onda distruttiva che le arrivava addosso.

«Sanya, attenta!».

Colta a sua volta alla sprovvista, Ange riuscì a sparare a meno della metà della sua potenza abituale, ma fortunatamente si rivelò abbastanza da fermare l’attacco, annullandolo, seppure al costo di un danno non indifferente alla strumentazione del Villkiss.

E, come già accaduto una volta molto tempo prima, lo scontro di forze contrapposte sembrò risvegliare qualcosa nella mente della ragazza, richiamando memorie di tempi ormai lontani.

E di nuovo, fu stupita di ciò che vide: ricordi perduti, di un’esistenza felice, o forse terribilmente ipocrita, in cui tutto era semplicità, eleganza, lusso.

Com’era possibile?

Lo scontro tra le energie opposte di diversi ragna-mail risvegliava ricordi comuni ad entrambi i piloti. Chi poteva mai esserci a bordo di quel dannato aggeggio sbucato dal nulla?

«Ange!» gridò Tusk vedendo il Villkiss accusare il colpo. «Stai bene?»

«Tu…» ringhiò la ragazza. «Si può sapere chi diavolo sei?»

Quella voce che aveva sentito cantare effettivamente le era apparsa famigliare; ma fu solo quando la sentì di nuovo, fredda e severa, rivolgersi direttamente a lei attraverso la radio, che cominciò a capire.

«Mi sorprendi. Ti sei dimenticata a tal punto di me da aver scordato persino la mia voce?»

Righe di sudore le comparvero sulla fronte, le mani si strinsero più forte attorno alle impugnature dei comandi, e un tremore incontrollabile le attraversò tutto il corpo.

«Non… non può essere…» balbettò con gli occhi fuori dalle orbite.

Lentamente, il ragna-mail nemico si riavvicinò, tornando a portata di vista; la cabina di guida al centro del petto si aprì, mentre dal suo interno faceva capolino un corpo esile, ma irrobustito il giusto da un coscienzioso allenamento, messo in elegante evidenza dalle linee della tuta ed impreziosito da una folta e ben raccolta chioma biondo oro raccolta in una coppia di boccoli spumeggianti.

Ma più di tutto, furono gli occhi a sconvolgere e ammutolire Ange.

Non erano quelli che ricordava, né per il colore, divenuto un rosso simile a quello dei suoi, né per ciò che poteva leggervi dentro; mai avrebbe pensato che la persona che da due anni vedeva solo nei suoi ricordi e che ora le stava dinnanzi potesse dimostrare un tale, incontenibile ardore.

«È passato molto tempo, sorella.»

«Sy… Sylvia!?»

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Sono sicuro al 1000% che 999 utenti su 1000 di questo sito non conoscono quest’anime, anche perché è finito in Giappone solo 3 giorni fa, ma ciò nonostante ne sono rimasto talmente appassionato e catturato da aver deciso di scriverci subito una fan fiction, anche perché il finale mi ha lasciato uno strano amaro in bocca per certe decisioni a livello di trama che non mi hanno convinto del tutto.

Trattandosi di un sequel do per assodato che chi legge conosca già la storia, anche se so che questo potrebbe straniere gli eventuali lettori, ma ho deciso di correre il rischio.

Spero che qualcuno colga l’occasione per vedere questa serie, perché ribadisco a me personalmente è piaciuta molto: altamente sperimentale, fonde in modo molto ben pensato azione, dramma, un po’ di splatter e un erotismo che sa più di hentai soft che di fan-service commerciale.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 2
*** 1 ***


1

 

 

Quattro mesi prima

 

Con la sua improvvisa scomparsa il mana non si era portato via solo la maggior parte della tecnologia umana, ma più in generale tutto ciò che gli Uomini avevano costruito nel corso di mille anni in termini di società, civiltà e cultura.

Era stato come risvegliarsi da un sogno.

Abituati com’erano ad avere tutto, forti di un potere che permetteva di avere qualsiasi cosa senza sforzo, trovatisi da un momento all’altro di fronte all’obbligo di fare affidamento solo sulle loro forze molti di loro avevano finito per smarrire la retta via, abbandonandosi ai loro più bassi istinti.

Tutto aveva finito irrimediabilmente per sgretolarsi, e a quasi due anni dalla caduta di tutte le loro certezze non sembrava intravedersi alcuna luce all’orizzonte, con brigantaggio, anarchia e legge del più forte che ancora la facevano da padroni in ampie parti del mondo.

Ma più di ogni altra cosa, come ogni volta, gli uomini avevano cercato qualcuno da odiare, su cui scaricare le colpe di quanto stava accadendo, e la valvola di sfogo, come era prevedibile, erano stati sempre loro: i Norma.

Non che questa distinzione avesse ancora senso: con la scomparsa di ciò che differenziava gli umani dai supposti subumani, non sussisteva più alcuna differenza visibile tra umani e Norma, ma le vecchie tradizioni, malgrado tutto, non volevano saperne di morire.

Sembrava di essere tornati all’età della pietra, con una specie di follia collettiva in cui bastava un sospetto, un’accusa, persino una parola in malafede dettata da un qualche sentimento di invidia o gelosia a provocare vere e proprie catastrofi, con linciaggi violenti e sommarie esecuzioni.

Non che i Norma, quelli che esistevano già da prima di quella specie di apocalisse, fossero scomparsi; e anzi, era stato proprio per questo se la situazione era a tal punto degenerata.

Vessati, perseguitati e ghettizzati per secoli, molti Norma avevano visto nella scomparsa del mana un’occasione per rifarsi di tutti i torti subiti, e raggruppatisi in gruppi avevano dato vita a vere e proprie bande armate che calavano come locuste sugli insediamenti umani, massacrando e depredando, salvo poi subire talvolta la medesima sorte in un perverso gioco al massacro che doveva aver già provocato centinaia di migliaia di morti.

Gli umani uccidevano i Norma, i Norma uccidevano gli umani, con entrambe le fazioni che come animali rabbiosi dilaniavano sé stesse cercando improbabili dissidenti, traditori e infiltrati al proprio interno.

L’Impero di Misurugi, se possibile, era ridotto anche peggio.

Con una famiglia imperiale decimata e la crisi che era incominciata proprio entro i suoi confini, le tensioni sociali e l’anarchia erano esplosi con la potenza di una deflagrazione atomica, e dell’antica, gloriosa capitale non rimaneva ormai che un ammasso di detriti in rovina, dove facevano buon gioco prepotenti, predoni e saccheggiatori.

Avventurarsi lì dentro era davvero pericoloso, a meno che qualcuno non volesse rischiare la vita, così buona parte degli insediamenti e degli agglomerati venutisi faticosamente a creare in tutto quel tempo avevano preferito spostarsi in altri luoghi, soprattutto nell’entroterra, al riparo di foreste, montagne e altre protezioni naturali.

Questo però non impediva alle bande di razziatori che imperversavano in zona di spadroneggiare a proprio piacimento nella regione, e a meno di non essere ben equipaggiati era molto difficile riuscire a proteggere efficacemente le proprie comunità.

Per fortuna non c’era solo chi se ne restava rinchiuso entro il proprio recinto, preoccupandosi solo di difendere quello che vi era al suo interno ignorando tutto ciò che invece stava al di fuori.

Una sera, non lontano dalla vecchia strada imperiale che dalla capitale andava verso le montagne a est, cinque briganti erano intenti a fare baldoria accanto ad un fuoco, tracannando birra e cantando a tutta voce mentre facevano soddisfatti l’inventario di quanto ottenuto nel corso del loro ultimo saccheggio.

Uno di loro, talmente ubriaco da non reggersi in piedi, si avventurò in mezzo alla bassa boscaglia per urinare, ma come fece per calarsi i pantaloni un misterioso quanto apparentemente minuto aggressore gli avvolse una garrotta attorno alla gola, strozzandolo prima che avesse il tempo di urlare; un istante dopo, i suoi compagni rimasti al campo avvertirono un rumore inconfondibile alle loro spalle, alzando immediatamente le mani.

«Non fate una mossa, o vi brucio il cervello» disse una voce, femminile e piacevole, ma in quel momento terribilmente minacciosa. «Alzatevi lentamente.»

Uno di loro tentò di afferrare il mitra che aveva accanto, ma una pallottola invalidante in una spalla gli tolse subito i bollenti spiriti, e allora Il loro capo, un energumeno con la benda a coprirgli l’occhio sinistro, obbedì all’ordine dell’aggressore, imitato dai suoi compagni.

Di fronte a sé aveva un pezzo di lamiera che rifletteva blandamente ciò che vi era davanti; così, quando ebbe occasione di guardarci dentro, rimase talmente stupito da mettersi a ridere.

«Questo è il colmo!» disse, voltandosi. «Quale sorpresa. Niente meno che la principessa Sylvia è venuta a farci visita.»

«Non muovere un passo!» ordinò lei seguitando a tenergli puntata addosso la pistola. «Siete quelli che hanno rapinato i campi della regione, vero?»

«Possiamo trovare un accordo» rispose calmo il capo. «Abbiamo fatto su un bel bottino. Potremmo dividerlo tranquillamente, e ce ne sarebbe abbastanza per soddisfare tutti.»

«Beni rubati. A gente che se li era guadagnati con il sudore della fronte.»

«Questione di punti di vista. Chi non ha la forza di tenersi stretta la sua roba, non può stupirsi se qualcuno gliela ruba.»

Sylvia ormai non si stupiva più della bassezza raggiungibile dai suoi simili; forse perché, in passato, anche lei non era stata molto diversa da loro.

«È per colpa di quelli come voi che questo mondo non riesce a risollevarsi.»

«Proprio te parli, fottuta amica dei Norma?» sputò un altro, e fu solo per un miracolo che Sylvia riuscì a contenere il desiderio di fargli un buco in fronte

«Lasciate qui tutto quello che avete rubato e andatevene.»

«Allora, in questo caso, dove sarebbe la differenza tra te e noi?» domandò provocatorio il capo

«Io non terrò niente per me. È questa la differenza.»

Imprudentemente, Sylvia si distrasse, e il capo immediatamente ne approfittò, scagliandole in faccia con un piede un misto di sabbia, cenere e braci, e accecandola quel tanto che bastava da permettere a lui e agli altri di recuperare le armi.

Tuttavia non fecero in tempo a crivellarla che qualcuno, dalla vegetazione, esplose un colpo, lasciando uno di loro a terra morto con un proiettile dritto nell’orecchio. I suoi compagni a quel punto spararono, ma ormai Sylvia si era già nascosta dietro un albero e fu lesta a rispondere, generando una furiosa sparatoria cui si unirono, in breve, una ragazza castana sui diciott’anni e un giovane uomo, entrambi con indosso un giubbotto antiproiettile.

I predoni, rifiutandosi di fuggire e abbandonare il loro carico, si difesero fino all’ultimo uomo, morendo tuttavia uno dopo l’altro senza riuscire a fare a loro volta alcuna vittima.

Terminato lo scontro, gli animi si distesero.

Prudentemente, Sylvia fece qualche passo avanti, accertandosi della morte apparente di quasi tutti gli assalitori, e dopo poco dalla boscaglia circostante giunsero altre due ragazze.

Una delle due, armata di fucile, calzoni larghi stretti in vita da una cintura e maglietta bianca, sormontata da un giubbotto antiproiettile, era alta e snella, dal fisico scolpito come quello di un’atleta, o di un soldato di professione, capelli castani corti e occhi blu, un po’ più scuri di quelli di Sylvia; l’altra appariva più minuta, ma non per questo meno atletica, lunghi capelli scuri raccolti in una coda e occhi verdi, e vestiva in modo molto meno mascolino, forse persino troppo femminile dato il luogo, il che accresceva la gentilezza della sua figura.

«Complimenti per la mira, Ashley» disse Sylvia rinfoderando la pistola. «Allora è vero quello che ho sentito dire sulle Norma di Arzenal

«Al confronto dei draghi contro cui ho combattuto, questi sono solo feccia.» sputò a terra la castana.

Sylvia si guardò attorno, notando la grande quantità di vettovaglie accatastate attorno al campo.

«Al solito» sospirò. «Cibo, armi e munizioni.»

La ragazza scura si avvicinò ad una delle casse per ispezionarla, quando all’improvviso il capo, rimasto ferito di striscio, si alzò di colpo, afferrandola e puntandole velocemente un coltello alla gola.

«Ferme!» ordinò prima che Sylvia ed Ashley potessero alzare i fucili. «Gettate le armi! Subito! O giuro che le taglio la gola!»

Le due ragazze si guardarono, quindi, ringhiando, obbedirono, liberandosi sia delle armi da fuoco che dei coltelli alla cintura.

«Lo immaginavo» rise. «Questo è il problema di voi puttane amiche dei poveracci. Non potete fare a meno di difendervi tra di voi.»

«Davvero?» sentì dire in quella da una voce cupa, quasi spaventosa. «Cosa ti fa pensare che io debba essere difesa?»

Da un istante all’altro la ragazza si liberò della stretta, ed afferrato saldamente il braccio dell’uomo con un solo colpo gli slogò tutte e tre le articolazioni; quindi, mentre quello ancora urlava, gli arrivò alle spalle, e con uno scatto deciso gli girò la testa di centottanta gradi, lasciandolo morto prima ancora che avesse il tempo di urlare.

Quindi, accertatasi che fosse morto, si inginocchiò davanti al corpo, giunse le mani in preghiera e mormorò alcune parole, versando anche alcune lacrime.

«Un giorno o l’altro dovrai spiegarmi come fai, Mayu» sorrise Ashley. «Saresti capace di spaccare il culo perfino a quella bagascia di Elektra

«Contieni questo tuo linguaggio colorito, Ashley. Abbi rispetto per i morti.»

«Secondo te questi hanno avuto rispetto quando hanno rapinato, stuprato e ucciso centinaia di persone?»

«Ha ragione lei, Ashley» rispose invece Sylvia. «Se ci mettiamo ad uccidere anche noi in maniera indiscriminata, non saremmo migliori di loro.»

In quella, un rantolo sofferente attirò la loro attenzione; il primo bandito ad essere stato ferito era ancora vivo, e cercava faticosamente di allontanarsi strisciando sul terreno.

Con due passo Sylvia gli fu appresso, e giratolo gli puntò la pistola drizza in mezzo agli occhi.

«Ti prego, non uccidermi!» supplicò quello facendosela letteralmente addosso

«A chi avete rubato tutto questo equipaggiamento?»

«Noi… noi non abbiamo rubato niente! Quando siamo arrivati noi il villaggio era deserto!»

«Di che villaggio parli?» chiese Ashley

«Dolkin! Il villaggio di Dolkin. Era orrendo. Qualcuno… o qualcosa aveva spazzato via tutto. C’erano morti ovunque. Abbiamo preso quello che potevamo e siamo scappati di corsa.

Vi giuro che è la verità.»

Sylvia lo guardò negli occhi, saggiandone la paura; quindi, riposta l’arma, tolse lo scarpone dal suo petto permettendogli di alzarsi.

«Hai dieci secondi per sparire. Se ti pesco di nuovo in questa regione la prossima volta mirerò con più attenzione.»

Senza farselo ripetere quel poveretto scappò via più veloce della luce, e le tre ragazze, caricatesi ognuna di quanto potevano portare, tornarono verso la strada, dove trovarono ad attenderle un imponente quanto minaccioso mezzo di trasporto.

Sembrava un incrocio tra un autocarro e  un veicolo da combattimento; poggiato su tre diverse coppie di pneumatici, ognuno dei quali era spesso quasi il doppio rispetto ad una ruota normale, era protetto in ogni direzione da un pesante rivestimento corazzato, tanto spesso che probabilmente neanche un missile anticarro sarebbe stato in grado di bucarlo.

Se l’apparato difensivo era di prim’ordine, l’armamento faceva perfino paura: tra feritoie adatte a sparare dall’interno, generatori di fumo, e soprattutto una coppia di mitragliatrici a canne rotanti, una a prua ed una a poppa, posizionate su torrette ruotabili a trecentosessanta gradi, ed una terza torretta che ospitava otto razzi terra-aria, quella specie di mostro sarebbe stato capace di entrare indisturbato in qualunque fortezza, anche la più difesa.

Innumerevoli luci di posizione e fari per fendere anche l’oscurità più nera completavano il tutto.

Sul muso, decorato con motivi floreali, campeggiava un graffito psichedelico in vernice giallo oro: Bulldog.

«Comoda Ruka, comoda!» imprecò Ashley all’indirizzo della giovane ragazza castana che masticava tranquillamente una gomma con la schiena poggiata alla carrozzeria blindata e una rivista d’auto in mano. «Tanto qui non c’è niente da fare!»

«Siamo di cattivo umore oggi. Posso suggerire una buona tazza di te?»

«Piantala Ruka, oggi non è proprio giornata» intervenne Sylvia caricando le due casse che portava con sé nel vano posteriore

«Niente male come caccia.» osservò Luca

«E non immagini neanche cosa c’è in quel campo. Domani manderemo un furgone a recuperare tutto. Per ora portiamo con noi questo.»

«Agli ordini, capo.»

Terminato il lavoro le quattro ragazze si ritrovarono all’interno del vano posteriore del veicolo, arredato come un camper e provvisto di ogni comfort, tra cui un ampio tavolo da pranzo sul quale venne srotolata una cartina della regione.

«Hanno detto di aver preso tutto questo materiale dal villaggio di Dolkin» disse Sylvia indicando l’insediamento, il cui nome era vergato a penna. «Ma hanno anche detto che quando sono arrivati lo hanno trovato già assalito e distrutto.»

«Quindi» ipotizzò Mayu. «Potrebbe esserci un’altra banda che saccheggia gli insediamenti in questa zona?»

«Se il racconto di quell’avanzo di galera è vero, temo non si tratti solo di questo.»

«Ha ragione» disse Ashley «Quale razziatore assalterebbe un villaggio senza rubare niente?»

Sylvia alzò lo sguardo verso Ruka.

«Quanto ci vorrebbe per arrivare a Dolkin

«Con il bulldog, direi circa due ore.»

Le quattro si consultarono con gli occhi tra di loro, annuendo.

«Andiamo, allora.»

 

Dolkin esisteva già da prima dell’Apocalisse, come era stato soprannominato il giorno in cui il Mana era scomparso, e di tutti i villaggi della regione era sicuramente uno dei più difesi, con le sue mura di fortuna, ma comunque efficaci, fatte di rottami e detriti vari, le sue torrette d’avvistamento e le sue armi pesanti.

Vi si arrivava attraverso una strada stretta e tortuosa, volutamente alterata per impedire gli assalti rapidi ed improvvisi, ed il bulldog, che non brillava certo per agilità, ebbe a sua volta parecchi problemi per raggiungere l’abitato.

Sylvia e le sue compagne, illuminando con i fari i bastioni del villaggio, non furono sorprese di trovarne l’accesso sfondato, ma quando, lentamente, il loro mezzo varcò il portone, il terrore si materializzò nei loro occhi.

In quegli anni tutte e quattro ne avevano viste di cose orribili, ma quello che restava di Dolkin andava al di là di ogni immaginazione.

Ovunque era distruzione e morte.

Gli incendi, ormai spenti, avevano distrutto quasi tutto, tramutando le case di legno e pietra in ammassi decadenti di macerie, e l’aria, su cui aleggiava un terrificante silenzio, puzzava di morte.

Il fuoco si era accanito persino sui cadaveri, e quei pochi che non erano ancora stati bruciati fino alle ossa apparivano a tal punto dilaniati da risultare irriconoscibili.

Le quattro ragazze dovettero farsi forza per non distogliere lo sguardo, e quando, armate fino ai denti, scesero dal blindato, l’odore era tale che solo per miracolo riuscirono a non vomitare.

«Oh, mio Dio.» riuscì a mormorare Ruka

Non era possibile.

Non era umano.

Chi poteva avere mai concepito una tale mostruosità? A che punto poteva arrivare la follia umana così lungamente repressa dal condizionamento di Embryo?

Sylvia strinse più forte le mani attorno al fucile, sforzandosi di contenere la rabbia che portava dentro.

«Controlliamo in giro. Vediamo se riusciamo a capire cos’è successo qui.»

«Giuro che appena trovo il responsabile gli sfondo il culo.» imprecò Ashley allontanandosi verso il vecchio municipio assieme a Mayu

Sylvia e Ruka invece si avviarono lungo una delle stradine che uscivano dalla piazza, ma bastarono pochi minuti di ispezione per rendersi conto che lì dentro non c’era più niente, ma soprattutto nessuno, da salvare.

Chiunque fosse stato, aveva fatto molta attenzione a coprire le sue tracce, oltre a non lasciare superstiti; anche a questo era servito il fuoco.

Eppure, ogni spiffero, ogni sibilo, ogni minimo movimento era per le due ragazze come un allarme, ed i nervi di entrambe erano a fior di pelle.

Sylvia si chinò, raccogliendo dal terreno coperto di fango e di cenere un giocattolo di legno, talmente distrutto che nel sollevarlo questo le si distrusse tra le mani. Lì accanto, supino, un corpo carbonizzato, e dalle dimensioni non era difficile intuire doversi trattare del proprietario del gioco.

«Bastardi.» ringhiò

«Ehi, guarda» disse Ruka indicando la pesante porta, apparentemente sprangata, di un seminterrato dall’altra parte della strada. «Forse lì c’è ancora qualcosa di utile.»

In quel momento la ricerca di provvigioni era l’ultimo dei pensieri di Sylvia, ma ciò nonostante la ragazza volle comunque controllare cosa vi era lì dentro, e assieme alla sua compagna discese lungo la ripida scala in cemento.

Dinnanzi alla porta vi era un altro corpo, ugualmente carbonizzato e irriconoscibile; probabilmente quella poveretta, perché di una donna doveva trattarsi, aveva cercato disperatamente di salvarsi entrando lì dentro, salvo trovare un catenaccio a chiuderne il battente vedendo segnato il suo destino.

Per potersi liberare del lucchetto Sylvia fu costretta a ricorrere ad una scarica di pallottole, e ci volle la forza di entrambe per riuscire ad aprire il pesante portone, parzialmente fuso e distorto dalle fiamme.

Sembrava un vecchio magazzino, basso e spazioso, con file di casse accatastate a formare quasi un labirinto; le luci, alimentate come il resto da un generatore a carburante, funzionavano ancora, ma erano quasi tute difettose, producendo una luce ad intermittenza che aveva il solo effetto di creare sinistri giochi di ombre che accrescevano ulteriormente le tensione.

Nel silenzio, Sylvia e Ruka si addentrarono nello stanzone, il terreno umido che scricchiolava sotto i loro scarponi, le dita sul grilletto pronte a sparare.

D’un tratto, guardandosi attorno, Sylvia ebbe l’impressione di notare qualcosa, come un movimento nel buio. Dapprincipio pensò ad un’impressione, ma poi sia lei che la sua compagna udirono inconfondibili rumori di passi.

«Chi và là?» disse, certa di aver visto qualcosa muoversi

Chiunque fosse lì con loro non rispose, continuando a correre senza apparente senso in ogni direzione, e mentre Ruka tornava velocemente verso la porta bloccando quell’uscita Sylvia si mise sulle tracce del fuggitivo, il quale, comprendendo di essere in trappola, smise apparentemente di muoversi.

La ragazza continuò a camminare, in silenzio, saggiando ogni passo, fino a che un respiro affannoso ma sterile, forzatamente represso, raggiunse le sue orecchie.

Voltato un angolo, si ritrovò di fronte, rannicchiata a terra, una ragazzina a prima vista poco più giovane di lei, undici o dodici anni al massimo, i lunghi capelli rosso vino bagnati e spettinati, l’espressione allo stesso tempo assente e terrorizzata e i vestiti strappati; era anche ferita, ma erano perlopiù graffi e lividi non particolarmente seri.

«Non aver paura» disse rinfoderando la pistola. «Non voglio farti del male.»

Quella sembrò quasi non essersi accorta di lei, seguitando a guardare in basso come intontita, e allora Sylvia si avvicinò con garbo, cercando di non spaventarla ulteriormente.

«Stai bene? Chi vi ha fatto questo?»

«Li hanno mangiati» mormorò lei. «Hanno bevuto i loro organi.»

«Di che stai parlando? Che cosa è successo qui?»

Ma lei, ancora, non rispose, rannicchiandosi ancora di più, e allora Sylvia la strinse a sé cercando di confortarla.

«Tranquilla. Ora sei al sicuro.»

 

 





Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Ci ho messo un po’ a postare questo primo capitolo, ma quella da cui sono appena uscito è stata una settimana di fuoco, e poi ho voluto togliermi di torno altri progetti che stavo portando avanti.

Ad ogni modo, eccoci qua.

Come si sarà capito, la battaglia del prologo non era altro che l’incipit di quella che in realtà sarà la seconda metà della storia.

Fino ad allora, la vicenda si svolgerà interamente dal punto di vista di Sylvia, il che significa che tutti i personaggi principali della serie, con qualche eccezione, almeno per ora saranno assenti.

Ma non abbiate paura, verrà anche il loro momento.

Quello che avete potuto vedere in cima è una locandina speciale che ho voluto creare per questa storia.

Spero che vi piaccia.

Grazie a Taiga per la sua recensione.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 3
*** 2 ***


2

 

 

Secondo molti Sophia era semplicemente l’insediamento più inespugnabile e meglio organizzato di tutto Misurugi.

Sylvia aveva impegnato quasi due anni a metterlo in piedi, organizzandolo secondo principi democratici ma ferrei, con un consiglio di reggenza che amministrava ogni cosa, dalla distribuzione del cibo alla difesa dei territori confinanti.

Entro la sua sfera di influenza era stato perfino possibile rimettere in funzione fattorie, centrali energetiche e perfino ripristinare in parte la rete stradale dell’impero, il tutto difeso egregiamente dal piccolo ma molto agguerrito manipolo di soldati accuratamente addestrati.

Era sorto dal niente, in un fazzoletto di terra incolta a pochi chilometri dall’antica capitale, ma nel giro di poco tempo era diventata una vera e propria cittadina, tanto che con il passare del tempo agli edifici in lamiera e detriti andavano sostituendosi case vere e proprie, embrione di una città che, nelle intenzioni dei suoi fondatori, sarebbe dovuta diventare il cuore del nuovo impero di Misurugi.

Le ragazze vi fecero ritorno quasi a mezzogiorno del giorno successivo, varcando con il Bulldog i due diversi cancelli posizionati che formando una chiusa fornivano un ulteriore deterrente contro le incursioni e gli ospiti indesiderati, e come le altre volte il loro ritorno fu salutato con entusiasmo dalle persone che, complice il bel tempo e l’arrivo di alcune carovane di mercanti, si erano riversate nelle strade.

Per la maggior parte si trattava di abitanti dell’antica capitale, e c’era da rimanere sorpresi nel constatare come tra di loro regnasse una insolita armonia.

D’altra parte, era la regola fondamentale per essere ammessi a Sophia: distinzioni di qualunque genere, a cominciare da quella supposta tra umani e Norma, erano bandite, in favore di una assoluta coesione che, come Sylvia ripeteva spesso, costituiva l’unico modo per poter sperare in un nuovo futuro per il mondo intero.

Più volte Sylvia si era vista costretta a ricorrere a metodi drastici per far rispettare le regole, ma per il bene di tutti aveva deciso di essere inflessibile, anche al costo di apparire crudele: con tutto quello che stava succedendo, non c’era tempo per farsi prendere da sentimenti xenofobi ormai superati ed egoismo individuale.

La bambina, che aveva detto di chiamarsi Hilda, subito dopo l’arrivo venne messa nelle mani capaci della signora Carmody, l’anziana in pensione che da qualche mese dirigeva una scuola che agli occhi di tutti rappresentava il simbolo di una ritrovata speranza per il futuro.

Anche Ashley e Mayu vennero congedate, dirigendosi rispettivamente alla mensa e alle docce, mentre Ruka si incaricò di portare la sua creatura al magazzino per scaricare il materiale recuperato quindi ai garage, per fare la manutenzione al bulldog e coordinare l’invio di altri mezzi a recuperare il resto della refurtiva.

Quanto a Sylvia, disfatasi come da regolamento di tutte le armi affidandole ad una delle guardie perché fossero portate in armeria, percorse a piedi le poche centinaia di metri che separavano il piazzale d’ingresso al villaggio, in realtà più simile ad una specie di enorme caserma che ad una cittadina vera e propria, dal quartier generale, un vecchio condominio che aveva funto da punto di partenza per la costruzione dell’intero complesso.

Come entrò nella sala riunioni al terzo piano, il Capitano Viktor, una guardia imperiale che l’aveva servita fedelmente già da prima dell’Apocalisse, e che ora occupava il posto di comandante delle truppe regolari di Sophia, si irrigidì nel saluto militare.

«Vostra Altezza.»

«Ti ho detto mille volte di non chiamarmi Vostra Altezza» disse Sylvia fingendosi scocciata. «Ormai Misurugi non esiste più.»

«Con il dovuto rispetto mia Signora, voi forse potete aver smesso di considerarvi la legittima sovrana di questo Paese, ma le garantisco che le persone che vivono qui la pensano diversamente.»

«Io ho solo cercato di sopravvivere. E di salvare quello che poteva ancora essere salvato.»

«No, voi avete fatto molto di più. Avete radunato questa gente, avete dato loro speranza, e siete persino riuscita a far capire loro quanto fossero sbagliate molte di quelle convinzioni che avevano sempre date per scontate.

Tutte qualità proprie di una vera guida. Quindi, per noi, voi sarete sempre Sua Altezza Sylvia I, imperatrice di Misurugi

La ragazza sospirò, preferendo pensare ad altro.

«Se posso permettermi Altezza, chi è la ragazzina che avete portato con voi?»

«Si chiama Hilda. È originaria di Enderant. Ha detto di essersi separata da sua madre subito dopo l’Apocalisse, quando il loro villaggio è stato attaccato da dei predoni. L’hanno presa e portata a Misurugi, poi gli abitanti di Dolkin l’hanno liberata e presa con loro.»

«Circolano gran brutte voci su Enderant. Laggiù regna la più completa anarchia. Alcune città stato sono riuscite a riorganizzarsi, ma per il resto le bande di umani e Norma si scannano senza sosta tra di loro.»

«E se và avanti di questo passo, temo che presto potrebbe succedere la stessa cosa anche qui.»

Notando l’espressione preoccupata, quasi avvinta della sua signora, Viktor si preoccupò: doveva essere successo qualcosa di molto grave per riuscire a turbare persino una ragazza forte e determinata come lei.

«Che intendete dire, Altezza?»

Sylvia raccontò allora quanto aveva visto a Dolkin, scioccando con il suo racconto persino uno come Viktor, che come lei negli ultimi due anni ne aveva viste di tutti i colori, saggiando in prima persona le bassezze raggiungibili dal genere umano.

Eppure, a racconto finito, Sylvia notò qualcosa di strano nell’espressione del suo attempato generale, come se quel genere di racconti non gli fossero del tutto nuovi.

«Ne avevi già sentito parlare?» domandò allora

«Al di là delle montagne, verso Gallia. Credevo fossero solo chiacchiere da mercanti. Parlavano di insediamenti piccoli e grandi decimati o scomparsi nel nulla nel giro di una notte. I corpi rimasti erano mummificati, come se chi li aveva uccisi avesse bevuto loro tutti gli organi interni.»

«Non sembra il modo di agire di una qualunque banda di predoni.»

«Se i racconti sono veri, temo che di tutto possa trattarsi meno che di comuni rapinatori. Ma cosa può giustificare una tale ferocia?»

Sylvia stette a lungo in silenzio, mentre un brivido le percorreva la schiena.

«Non possiamo fare altrimenti. Aumentiamo i controlli. Sorveglianza giorno e notte all’interno dell’insediamento e nelle zone limitrofe.»

«Sarà fatto, Altezza.»

«Ma cercate di essere discreti. È già abbastanza difficile mantenere l’ordine così, l’ultima cosa che ci serve è il panico incontrollato.»

In quella, dalla finestra aperta, giunsero degli schiamazzi, ed affacciatasi la ragazza si avvide di una piccola folla radunata nel cortile centrale dinnanzi all’edificio, dagli animi decisamente poco distesi.

«Ecco, appunto.» sbuffò lasciando la stanza, seguita a breve dal suo uomo di fiducia.

 

Quando Sylvia e Viktor raggiunsero il cuore della protesta questa era già sul punto di tramutarsi in una rissa, ma in qualche modo non furono sorpresi quando, fattisi strada fino al centro del gruppo, si trovarono dinnanzi ad una ragazza dai capelli di un colore marrone tendente al rosso vino, la carnagione scura e l’espressione truce.

Ai suoi piedi c’era una giovane donna, piuttosto malconcia, che a giudicare dai segni doveva avere steso lei stessa con la spranga che aveva in mano.

All’arrivo del Comandante, secondo epiteto più diffuso con cui la gente di Sophia era solita chiamare Sylvia, si formò immediatamente un cerchio, lasciando lei e la responsabile di tutto quel trambusto l’una di fronte all’altra circondate da un cordone di spettatori tenuti indietro dalle guardie.

«Dovevo immaginarlo che c’eri di mezzo tu, Akiho» disse sicura, benché quella ragazza dovesse avere cinque o anche sei anni più di lei. «Che è successo stavolta?»

«È ora di finirla!» strillò la ragazza fuori di sé. «Noi umani siamo stufi di morire di fame mentre queste parassite Norma e i loro parenti senza onore si ingozzano come porci!»

«Che storia è questa? Ognuno qui ha esattamente le stesse razioni, siano essi umani, Norma o parenti di Norma.»

«Tutte balle! Io l’ho visto! Ho visto gli inservienti nelle cucine! Sono tutte Norma! E ogni volta che vedono un’altra Norma, subito le riempiono il piatto!»

«Se quello che dici è vero, saranno redarguite. Ma onestamente ne dubito. Io mangio insieme a voi tutti i santi giorni, e non ho mai, mai visto un piatto più o meno abbondante del mio.

Secondo me questa è solo la tua ennesima sparata dettata da un fanatismo cieco che al punto in cui siamo non ha ragione d’esistere.

Te, io, tutte queste persone. Ormai siamo tutti Norma. Anzi, siamo tutti umani. Esseri umani. Che ti piaccia o no.»

«Balle! Non mettermi sullo stesso piano di quei parassiti! Tu non sei mai finita nelle mani di una Norma! Io ci sono passata, e so di che cosa sono capaci!» quindi, nei suoi occhi comparve un terrore tale da far pensare che fosse sul punto di farsela addosso. «Ho visto i suoi occhi indemoniati, la sua follia distruttrice, la sua convinzione malvagia di avere ragione nonostante tutto. Come si fa a dire che i Norma sono uguali a noi? Questo è al di là della logica.»

«No» tagliò corto Sylvia. «Al di là della logica è che a distanza di tutto questo tempo ci sia ancora chi come te si perde dietro a simili idiozie.

E per tornare alla questione del cibo, perché di questo di parlava, ribadisco che questi favoritismi per i Norma esistono solo nella tua testa. Se però vuoi procurarti da sola del cibo extra e mangiartelo per conto tuo nessuno te lo impedisce.»

«Ma tu sei l’Imperatrice! La nostra guida! Non è compito dei reali provvedere al fabbisogno del loro popolo?»

«Provvedere al fabbisogno non significa soddisfare ogni capriccio. I tempi del della cuccagna sono finiti. Ora se vuoi qualcosa te la devi sudare, come è giusto che sia. Vuoi mangiare di più? Prendi una vanga e comincia a zappare, o prendi un arco e vai a caccia, senza aspettare che il cibo ti piova dal cielo.»

Akiho si guardò attorno, notando atterrita che non solo i Norma, ma anche quelli che fino a quel momento sembravano essere stati d’accordo con lei, la stavano fissando con occhi di ghiaccio.

Detto questo, Sylvia si girò per tornare sui suoi passi, e allora Akiho perse la testa.

«Tu, maledetta amica dei Norma!»

Ma non fece in tempo a sollevare del tutto la spranga che Sylvia, velocissima, le fu addosso, assestandole una tale ginocchiata che un attimo dopo la ragazza era inginocchiata a terra a vomitare tutto quello che aveva nello stomaco.

«Mi sono stancata delle tue sparate, stupida sgualdrina. Se ti becco di nuovo a creare problemi, ti rimetto nelle mani delle stesse persone da cui ti ho salvata.

E allora vedrai fin dove può arrivare davvero la rabbia repressa di molti Norma che quelli come te hanno fomentato per secoli.»

A quel punto, Sylvia se ne andò davvero, salutata con un rispettoso inchino da tutti i presenti.

«È già la terza volta che causa problemi da quando è arrivata» osservò Viktor camminando qualche passo dietro a lei. «È sicura che sia una buona idea mostrare tanta indulgenza?»

«Quella ragazza è stata sodomizzata, stuprata e quasi linciata dai genitori di alcune bambine Norma che aveva denunciato» disse quasi dispiaciuta. «Voglio darle una possibilità.

Dopotutto, era anche amica di mia sorella.»

«Amica!? Io c’ero quando incitava le guardie ad impiccare la nobile Angelise

«Dopo che io l’avevo frustata dandole colpe non sue.

Tu sei un’eccezione, Viktor. Tu hai visto molto prima di molti di noi. Ma io, lei, e tutti gli altri… noi eravamo diversi. Orribili.

Mi sono ripromessa di non fare mai più gli stessi errori.»

Poi, però, Sylvia si riscosse, e guardandola di nuovo Viktor quasi stentò a riconoscerla.

«Però hai ragione.

Questa è davvero l’ultima possibilità. Se causa altri problemi avrà modo di pentirsene.»

«Intendete davvero riconsegnarla a quelli che l’hanno quasi uccisa?»

«Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Ma la farò assegnare a qualche lavoro pesante, e vedrai che alla fine si calmerà.»

«Sapete sempre come essere giusta ma risoluta, Vostra Altezza. Una qualità molto rara, persino tra i sovrani.»

«O forse solo molto ingenua» sorrise lei. «Alle volte penso che dovrei fare come mia sorella, una palla in testa e via.»

 

Sylvia provò a far passare i postumi della notte in bianco concedendosi qualche ora di sonno, ma il suo riposo, oltre che breve, non risultò neanche facile.

Le immagini, spaventose, di Dolkin le apparivano in sogno come spettri infernali.

Le sembrava quasi di vederli, i responsabili di quella carneficina, mentre assalivano il villaggio, bruciavano le case, e bevevano come animali il sangue e gli organi degli abitanti, lasciando dietro di sé null’altro che distruzione e morte.

E il risveglio non fu migliore.

Era appena riuscita ad addormentarsi sul serio, libera finalmente da quelle visioni spaventose, quando il rumore della porta della stanza che sbatteva con forza la fece sobbalzare per lo spavento.

«Vostra Altezza!» disse Helen, la sua fedele cameriera fin dai tempi dei suoi genitori, apparendo sull’uscio bianca come un fantasma. «Dovete venire, subito.»

«Che è successo?» domandò con il terrore di sapere già la risposta.

Pochi minuti dopo, la ragazza era di nuovo nella sala riunioni, stavolta in compagnia del suo intero consiglio di reggenza.

Oltre a Viktor, c’erano la signora Carmody, che oltre a gestire la scuola era anche la responsabile dell’accoglienza dei profughi, il signor Stouble, rappresentante delle fattorie e delle altre attività agricole attorno a Sophia, e Rick, il giovane ma molto capace commerciante di frutta divenuto da un giorno all’altro responsabile della gestione delle risorse alimentari.

«Ce l’hanno detto i contadini appena arrivati dalle fattorie per il mercato di domani» spiegò Viktor. «E una nostra pattuglia l’ha confermato.

Il villaggio di Bodani, dall’altra parte delle rovine della capitale, è stato attaccato durante la notte.

Non si sa chi sia stato, ma stando ai racconti dei tenutari delle fattorie più vicine all’abitato parlano di esplosioni, raffiche di armi automatiche udibili anche a grande distanza e strane luci provenienti dal mare.

Abbiamo provato a contattarli via radio, ma senza avere risposta. A questo punto dobbiamo ipotizzare che siano tutti morti.»

Tutti i presenti abbassarono gli occhi, sui quali comparve a poco a poco la paura più vivida.

«È possibile possa trattarsi di comuni predoni?» domandò Stouble. «Piuttosto che di quelli che hanno assalito Dolkin

«Non possiamo escluderlo. Non ho ancora trovato qualcuno disposto ad accompagnarmi a fare un sopralluogo. Ma è anche vero che con l’eliminazione della banda che agiva nei dintorni dell’insediamento non vi sono altri gruppi armati a noi noti in tutta la zona al di qua delle montagne, per quanto ne sappiamo.

Ma visto che i testimoni parlano chiaramente di qualcosa venuto dal mare, non possiamo escludere che si tratti di qualche banda proveniente da oltre di confini di Misurugi

«Ma come sarebbe possibile?» chiese la signora Carmody. «Ora che il mana non c’è più, con le nostre attuali tecnologie sarebbe impossibile navigare lungo la costa senza essere notati.»

«Figuriamoci poi arrivare da qualche altra terra al di là dell’oceano» concluse Rick. «Per quanto ne sappiamo all’Apocalisse non è sopravvissuto alcun apparecchio capace di fare una cosa del genere, né mi risulta sia mai esistito.»

«E se si trattasse di quelle macchine usate dai Norma durante la guerra?» ipotizzò Stouble. «Se non sbaglio non necessitavano di mana per funzionare.»

«Con il clima che c’è a Sophia» osservò mestamente la signora Carmody. «Se si diffonde la notizia che potrebbero essere coinvolti i Norma ci scappa una rivolta generale.»

«Non solo i Norma sono capaci di guidare quei cosi» taglio corto Viktor. «I para-mail. Come ho detto, risposte certe non ce ne sono.»

I membri del consiglio volsero quindi lo sguardo verso Sylvia, che sembrò quasi volerli rifuggire.

«Vostra Altezza, il consiglio che mi sento di darle è di prendere in considerazione l’idea di abbandonare l’insediamento, almeno fino a quando non avremo stabilito con esattezza la natura di questi aggressori.»

«Lasciare Sophia!?» tuonò Rick. «Sei forse impazzito!?»

«Ha ragione, Viktor» disse la signora Carmody. «Questo è l’insediamento meglio protetto di tutta Misurugi. Dove altro potremmo essere al sicuro se non qui?»

«È evidente che chiunque sia il responsabile di questi attacchi è in possesso di tecnologie talmente potenti e distruttive da renderlo capace di spazzare via interi villaggi senza lasciare neanche un superstite.

Ma sappiamo anche che per l’appunto attaccano solo i grossi centri abitati, dove sono in grado di fare molte vittime.

Sophia è ben difesa, ma è anche un bersaglio allettante. Se restiamo qui siamo obiettivi potenziali.»

«Lo saremmo anche se ce ne andassimo» replicò Stouble. «Almeno qui abbiamo delle difese.»

«Che potrebbero non servire a nulla. Le gallerie d’emergenza non sono ancora pronte. Se dovessero attaccare, non ci sarebbe nulla a coprirci la fuga. Saremmo in trappola.»

«Resteremo qui.» mormorò Sylvia, gli occhi sul tavolo e i pugni serrati

Tutti, di nuovo, si voltarono verso di lei.

«Vostra Altezza…» disse Viktor

«Abbiamo impiegato due anni a costruire questo posto, e confido nelle sue difese. Non rischierò le vite di tutte queste persone mandandole allo sbaraglio alla ricerca di una sicurezza illusoria.»

«Però…»

«Finché stiamo qui abbiamo le postazioni anticarro, i cannoni automatici, persino le armi antiaeree. Là fuori saremmo abbandonati a noi stessi.»

Per la seconda volta, quando Sylvia alzò lo sguardo, non solo Viktor, ma tutti i suoi consiglieri quasi non la riconobbero.

«Noi non siamo Dolkin, o Bodani. Siamo Sophia. Siamo l’embrione da cui dovrà nascere il nuovo Impero di Misurugi. E chiunque cercherà di attaccarci, dovrà sapere che qui troverà pane per i suoi denti!»

Nessuno osò obiettare.

Dopotutto Viktor era l’unico in quella stanza a pensare che le speranze di salvezza fossero maggiori fuori dalle mura di Sophia, ma aveva servito la Famiglia Imperiale per troppo tempo per contestare le decisioni della sua Imperatrice.

«Come desiderate.» poté quindi limitarsi a dire.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Non c’è che dire, mi sto davvero divertendo a scrivere questa storia.

Era da tanto che una fan fiction non mi entusiasmava in questo modo, e scriverla mi viene di una facilità disarmante.

In verità questo capitolo doveva essere un po’ più lungo in origine, ma ho deciso di tagliarlo per non appesantirlo troppo, anche perché in questo modo mi riservo completamente l’azione per il successivo.

Grazie a Tenori Taiga per la sua recensione e i suoi consigli

Precisazione: per chi ha visto la serie, Viktor, Helen e Rick sono tre delle cinque persone che accompagnano Sylvia nell’ultima scena dell’anime (rispettivamente la guardia imperiale bionda, la maid e il giovane coi capelli neri); stesso dicasi per la già citata Ashley (la ragazza castana della medesima scena)

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 4
*** 3 ***


3

 

 

Anche quella notte, Sylvia non riuscì a dormire, rigirandosi continuamente nel letto senza riuscire a togliersi dalla testa quanto era accaduto in quella interminabile giornata.

Ripensava a Dolkin, a Bodani, e si domandava si avesse davvero preso la decisione giusta.

Alle volte quasi rimpiangeva di essersi voluta caricare sulle spalle un tale peso.

Sapeva di avere nelle sue mani la sicurezza di migliaia di persone, e anche se negli anni ne aveva affrontati di momenti difficili la decisione di quel giorno era stata per lei la più difficile da prendere.

Da una parte si fidava del giudizio di Viktor, dall’altra non se la sentiva di rischiare tutte quelle vite in una fuga verso l’ignoto che poteva anche rappresentare una condanna a morte.

Il bagliore accecante di un faro di segnalazione maldestramente gestito dall’operatore entrò dalla finestra socchiusa, abbagliandola e togliendole definitivamente ogni voglia di dormire.

Alzatasi, provò a fare una passeggiata per cercare di rilassarsi e calmare le idee, quindi scese in cortile.

Sembrava di essere in una zona di guerra.

I fari notturni scrutavano il cielo nero in cerca del minimo segnale di pericolo, e sia i ballatoi sulle mura che le strade pullulavano di soldati.

Ormai tutti sapevano cosa era successo ai due villaggi vicini, quindi un tale spiegamento di forze non era apparso ingiustificato; al contrario, qualcuno l’aveva trovato persino insufficiente.

Persino i due vecchi carri armati da centoventi millimetri ritrovati qualche settimana prima tra i ruderi della città, immobili senza mana ma ancora capaci di sparare, erano stati faticosamente portati nella piazza centrale per fornire ulteriore protezione.

Sylvia passeggiò per un po’, salutata rispettosamente dai soldati che incrociavano il suo cammino, quando, passando accanto al dormitorio numero sei, notò una figura seduta sul parapetto, la schiena appoggiata sulla rete e gambe sospese nel vuoto.

Incuriosita e un po’ preoccupata entrò, salendo in silenzio lungo le scale per non svegliare le altre persone, e raggiunto a sua volta il tetto si trovò a tu per tu con Hilda, che come la prima volta la accolse con la più totale indifferenza.

«Hilda» le disse raggiungendola. «Non stare lì. È pericoloso.»

La ragazzina si volse a guardarla: era chiaro che una notte non poteva bastare a cancellare l’orrore che doveva avere visto. Stando al suo racconto, una donna del villaggio l’aveva chiusa lì dentro subito dopo che si erano avvertite le prime esplosioni, così non aveva visto nulla, ma aveva sentito chiaramente gli abitanti urlare dal dolore mentre venivano “mangiati”, come alcuni di loro urlavano con il loro ultimo alito di vita.

Non potendo convincerla a scendere da lì, Sylvia si ritrovò seduta accanto a lei, e come aveva già fatto la notte precedente a bordo del bulldog le offrì una di quelle caramelle zuccherate alla mela che portava sempre con sé.

Hilda la accettò, tenendola a lungo in bocca come a voler ricercare nel suo gusto delicato un sollievo da quello che stava provando.

«Ti piacciono proprio queste caramelle.» sorrise Sylvia offrendogliene un’altra

«La mia mamma faceva sempre la torta di mele» rispose lei guardando verso il mare. «Era la più buona di tutte.»

«Vedrai che la ritroverai. E quando questo succederà, mi farai assaggiare questa buonissima torta.»

Hilda la guardò sorpresa.

«Tu… ne sei sicura?»

«Certo. Ma dimmi, a parte tua madre, non hai altri parenti? Un padre, o dei fratelli?»

Di nuovo, lei abbassò gli occhi.

«Ho una sorella. Una sorella maggiore.»

«Davvero? Anch’io ne ho una.»

«È una Norma.»

Sylvia sussultò, rievocando senza volerlo ricordi poco felici.

«Io… e la mamma… l’abbiamo cacciata via.»

Lacrime, ancora una volta, scesero dai suoi occhi: ma stavolta, erano lacrime di vergogna.

«Mi avevano detto che i Norma erano dei mostri disumani. E io ci credevo. Ma poi, lo sono diventato anche io. Lo siamo diventati tutti.

Siamo tutti Norma.»

«Non esistono i Norma, Hilda. Non sono mai esistiti.»

«C… cosa!?»

«Ci sono tante Norma in questo campo. Onestamente, dimmi. Le hai riconosciute? Sapresti indicarmele?»

Il suo sguardo fu più eloquente di qualunque risposta.

«La verità è che siamo tutti esseri umani. Ma volevamo qualcuno da odiare, e così chi ci governava ha scelto i Norma per appagare questo nostro bisogno. I Norma non hanno mai avuto nulla di diverso da noi. Li chiamavamo mostri, ma in realtà i veri mostri siamo noi. Lo siamo sempre stati. Perché abbiamo creduto a quello che ci era stato detto senza farci domande.

È per colpa nostra se il nostro mondo è diventato così. Se noi siamo diventati così.

Ma se riusciremo a lasciarci alle spalle i nostri pregiudizi, a diventare migliori, allora potremo costruire un mondo nuovo, in cui non ci saranno più Norma e non Norma, ma solo esseri umani, tutti liberi e uguali.»

Hilda trasalì, trovando dopo tutto quel tempo la forza di sorridere.

«Dici che un giorno riuscirò a rivedere mia sorella, così potrò chiederle scusa?»

«Forse. Ma dovrai impegnarti. Dovrai lottare. Perché nessuno ti regala niente in questo mondo.»

«Lo farò.» rispose lei con convinzione.

In quella si udì uno strano fischio, accompagnato da strani rumori in lontananza, che attirarono l’attenzione di entrambe.

Anche le guardie se ne accorsero, puntando tutti i riflettori in un’unica direzione; i coni di luce fecero appena in tempo ad illuminare un nugolo di oggetti scuri in lontananza, che sembravano volare in quella direzione, e subito dopo una pioggia di piccoli ordigni rischiarò per un attimo a giorno il cielo per poi abbattersi, letale, sul campo, provocando esplosioni a ripetizione.

Uno dei missili colpì proprio ai piedi del dormitorio, facendo tremare furiosamente tutto l’edificio; Hilda perse l’equilibrio, ma per fortuna Sylvia fu rapida ad afferrarla, anche se, passato il pericolo, gli occhi delle due ragazze rimasero attoniti, impietriti alla vista di Sophia che iniziava inesorabilmente a bruciare, mentre nel cielo, come nugoli di locuste, comparivano decine di para-mail.

La maggior parte erano tutti uguali tra di loro, quasi fossero stati fabbricati in serie, con il solo colore a differenziarli, ma tra di essi ve ne erano tre che svettavano in particolar modo: uno era nero, minaccioso, armato di una falce ed un fucile di precisione, un altro rosso vermiglio, e brandiva l’armamento standard fatto di spada e mitragliatrice d’assalto; il terzo invece, di un colore grigio fumo, presentava possenti guanti corazzati provvisti ognuno di cinque artigli affilati, simili alle unghie di un orso, e invece di una normale arma da fuoco aveva una selva di ben sei lanciarazzi disposti a raggiera dietro la schiena.

Fu proprio il para-mail grigio a dare via al massacro, lanciando una seconda raffica di missili; la maggior parte di questi abbatterono subito alcune postazioni difensive, oltre ad uno dei due carri armati, mentre alcuni colpirono inesorabilmente gli edifici, facendoli saltare in aria.

In pochi attimi, tra gli abitanti di Sophia fu il panico.

Cercando di mettersi in salvo, fuggendo dagli edifici in fiamme, tutti si riversarono nel cortile, tramutandosi in bersagli mobili che i nemici iniziarono subito a falciare con le loro armi automatiche, facendone scempio.

Sparavano all’impazzata, senza badare a dove colpivano o a chi fosse al centro del mirino; tutto quello che volevano, a prima vista, era uccidere tutti: senza distinzioni.

Eppure c’era una sinistra precisione nel loro modo di agire; mentre i tre para-mail al comando si occupavano di abbattere le difese del campo, o qualunque altra cosa potesse rappresentare una minaccia per loro, i loro compagni si avventavano quasi esclusivamente sui civili, sparando sui soldati a difesa di Sophia solo se minacciati.

Presa Hilda in braccio, Sylvia si precipitò giù per le scale, ma raggiunto il pianterreno dovette coprire gli occhi della ragazzina perché non vedesse ciò che era accaduto, e che la lasciò impietrita.

Sembrava l’androne di una macelleria.

L’esplosione che aveva dato il via all’attacco aveva ucciso quasi tutti, e quei pochi che ancora non erano morti stavano comunque esalando i loro ultimi respiri, orrendamente mutilati e sventrati.

Ma non c’era tempo di restare immobili a guardare quella specie di inferno in terra.

Almeno Hilda, pensò, doveva salvarla.

Per fortuna non si trovavano troppo lontani dai garage, danneggiati ma ancora miracolosamente intatti, ed entrata da una porta di servizio la ragazza tirò un sospiro di sollievo nel vedere Ruka già intenta a mettere in moto il bulldog.

Sperava di mettere Hilda al sicuro e mettere subito il veicolo in moto, ma l’aspettava una brutta sorpresa.

«Ci stanno massacrando! Cosa aspetti a portarlo fuori?»

«Se vuoi puoi provare a spingerlo!» strillò lei di rimando apparendo da sotto il veicolo, una chiave inglese in mano e la faccia nera. «L’esplosione ha danneggiato il tubo dell’olio, devo ripararlo!»

Sylvia quindi non poté fare altro che portare Hilda all’interno del veicolo.

«Non preoccuparti, tornerò presto.» la rassicurò, e recuperato un fucile da un soldato morto uscì nuovamente all’esterno.

 

Nel mentre, la situazione andò rapidamente precipitando.

Come la maggior parte delle difese di Sophia fu annientata dai para-mail, due grossi aerei da trasporto che le Norma erano evidentemente riuscite a riconvertire a carburante, sulla cui fusoliera capeggiava un gonfalone raffigurante un drago d’argento all’interno di uno scudo nero, sorvolarono il campo; i portelloni posteriori si aprirono, e da essi, paracadutandosi, discesero una ventina di soldati, tutte Norma sicuramente, che protette da tute provviste di caschi oscuranti e armate fino ai denti iniziarono a loro volta a fare strage di civili, sparando e bruciando ogni cosa.

Schiena contro schiena, coprendosi l’una con l’altra, Ashley e Mayu stavano offrendo una resistenza valorosa e disperata al tempo stesso, accompagnate dai pochi soldati ancora in vita nel piazzale davanti al cancello, e armate rispettivamente di un fucile d’assalto con lanciagranate e di una lancia, quasi un’opera d’arte tanto era decorata e ben tenuta.

«Non sparate a caso!» urlava Ashley, che tra tutti era di sicuro la più esperta sul conto di quelle macchine infernali. «Mirate alla cabina di guida o ai reattori posteriori! Sono quelli i punti deboli!»

«Ma si può sapere chi diavolo sono?» domandò Mayu dopo essere riuscita a farsi strada tra le raffiche di due avversarie, sventrandone una e tagliando la gola all’altra

«Non chiederlo a me, ma una cosa è certa, non vengono da Arzenal! Non ho mai visto questi para-mail, e neppure quello stemma!»

In quella un para-mail, forse peccando di eccessiva sicurezza, tentò di falciarli volando molto basso, ma pur riuscendo ad uccidere quasi tutti i soldati che accompagnavano le due ragazze si espose alla risposta di Ashley; la sua granata sfortunatamente non distrusse il veicolo, ma esplodendo vicino ai propulsori ne pregiudicò inevitabilmente la traiettoria, e il mezzo, dopo aver inutilmente tentato di decollare, precipitò invece a terra in un urto spaventoso, danneggiandosi ma rimanendo operativo.

Senza esitazioni Ashley lo raggiunse di corsa, arrampicandosi come un felino fino alla cabina di guida ed aprendola con il comando di emergenza.

«Togliti di mezzo!» imprecò gettando di sotto la pilota ormai morente e prendendo il suo posto.

Erano passati almeno quattro anni dall’ultima volta che aveva guidato un para-mail, ma come tutte le Norma passate da Arzenal ormai aveva un tale rapporto simbiotico con quelle macchine che le bastò un attimo per recuperare la manualità perduta.

Mayu, che si era fermata a guardarla, per poco non venne colta di sorpresa da un secondo para-mail, ma ad Ashley bastò una raffica di mitragliatrice per far saltare in aria l’aggressore.

«Mayu, porta tutti in salvo! A questi ci penso io!» ordinò Ashley prima di gettarsi nella mischia.

La ragazza riuscì ad abbattere un buon numero di para-mail nemici, approfittando anche della loro sorpresa nel vedere un apparente compagno sparargli addosso, ma poi il nemico rosso gli si avventò contro, rivelandosi un avversario molto superiore ai suoi sottoposti sia per le qualità del suo para-mail quanto, soprattutto, per la sua stessa abilità di pilota.

 

Poco lontano, un manipolo di sopravvissuti, per la grandissima parte bambini orfani scampati miracolosamente assieme alla signora Carmody alla distruzione del loro dormitorio, impossessatisi di alcune armi si erano barricati dietro ad un muro crollato, ma la loro impreparazione era tale che i difensori, uno dopo l’altro, caddero come mosche sotto i colpi precisi dei nemici.

«Maledetti, maledetti Norma!» continuava ad urlare Akiho, fuori di sé dalla paura, sventagliando raffiche. «Dovete morire tutti!»

Una pallottola, forse vagante, la colpì al collo, ma era ancora viva quando il paramail argentato le piombò addosso da sopra, schiacciandola come una formica sotto il peso di uno dei suoi piedi d’acciaio.

La signora Carmody assistette inorridita, cercando di nascondere quel macabro spettacolo ai bambini che aveva tutto intorno, ma quando il portellone del robot si aprì ed il suo pilota comparve dall’interno della cabina pensò di avere di fronte il demonio in persona.

Non si capiva neppure se fosse uomo o donna, con quel corpo longilineo, quel petto quasi piatto malgrado la tuta aderente, quei lineamenti grezzi, quei capelli corti e scompigliati di uno strano colore argentato, ma soprattutto quella sua espressione beffarda, per non dire malefica, gli occhi chiari e senza vita, il naso piccolo e la bocca aperta in un perfido sorriso.

«Bene bene, che cosa abbiamo qui? Una bella nidiata di piccoli scarafaggi.»

«Vi prego, abbiate pietà» disse la signora Carmody, mentre i piccoli le si stringevano attorno terrorizzati. «Questi bambini non hanno fatto nulla. Sono vittime innocenti.»

«Vecchia, dove credi di essere? Non esistono innocenti in questa guerra.»

«Molti di loro sono Norma. Vostri simili. E anche gli altri, che colpa ne hanno di questa assurda guerra in cui siamo sprofondati noi adulti?»

Quindi, coraggiosamente, la donna si alzò, facendo qualche passo avanti e allargando le braccia.

«Uccidete me se volete, ma abbiate pietà di questi bambini. Senza di loro, non ci sarà nessuno a ricostruire il nostro mondo.»

La Norma sorrise in modo ancor più beffardo, ed estratta la pistola sparò senza esitazioni alla signora Carmody, colpendola in piena fronte ed uccidendola all’istante.

«Bastava chiederlo» disse soffiando via il fumo dalla canna. «Anche se l’avrei fatto comunque.»

Quindi, la donna portò la sua attenzione sui bambini, che chiusi in un angolo potevano solo stare ad osservarla impietriti dal terrore, stringendosi l’un l’altro in una illusoria ricerca di sicurezza.

«Scarafaggi umani e Norma che non hanno titolo di definirsi tali. Pare proprio che qui ci sia da fare un po’ di pulizia.»

Per rendere la cosa ancor più sadica, tolse sette degli otto proiettili del suo grosso revolver, dando vita ad una perversa roulette russa in cui sparava a caso nel mucchio, anche se per un qualche miracolo le prime cinque volte il tamburo girò a vuoto.

Stava per compiere il sesto tentativo, che lei già sapeva essere quello decisivo, quando invece fu un razzo anti-uomo a colpire lei e il suo para-mail, danneggiando lievemente il veicolo e facendola quasi cadere dall’abitacolo.

«Tieni giù le mani da quei bambini!» gridò Sylvia liberandosi del lanciarazzi ormai scarico.

Vedendo la sua bella macchina danneggiata e bruciacchiata, il volto della donna divenne una maschera di follia.

«Tu lurida sgualdrina! Come hai osato colpire la mia Lamàshtu*

Immediatamente si rinchiuse dentro, prima che Sylvia potesse provare a colpirla, e lasciati perdere i bambini cominciò a darle una caccia forsennata per tutto il campo, fornendo però in questo modo a Ruka il tempo necessario per soccorrere i bambini con il bulldog.

«Presto, entrate tutti!» ordinò Mayu spingendo letteralmente i piccoli all’interno del mezzo, le cui armi sparavano senza sosta in ogni direzione per frenare gli aggressori.

Alla fine anche i pochi soldati rimasti in vita, e schieratisi a difesa del bulldog, furono costretti a sacrificarsi per mettere in salvo i bambini; tra questi c’era anche Viktor, che vedendo come il numero degli assalitori fosse ormai preponderante, gettato a terra il fucile, si risolse ad un gesto estremo.

«Mayu, Ruka, portateli via da qui!» urlò correndo verso le soldatesse nemiche che avanzavano

«Viktor, no!»

L’uomo venne colpito una, due, cinque volte, ma la sua tempra d’acciaio lo aiutò a tenerlo in vita fino a quando non fu proprio in mezzo ai suoi assalitori, i quali solo a quel punto si accorsero che l’attempato ufficiale aveva sotto i vestiti una cintura di bombe a mano annodata attorno al corpo.

«Lunga vita a Misurugi! Lunga vita a Sylvia I!» urlò un attimo prima di saltare in aria.

A quel punto, per Sophia, era davvero la fine, e purtroppo non c’era più tempo di cercare altri superstiti.

«Sylvia, andiamo!» urlò Mayu

La ragazza tentò allora di seminare la sua inseguitrice, ma questa non ne voleva sapere di mollarla; al contrario, si stava visibilmente divertendo a darle la caccia come un gatto con il topo.

«Corri! Cossi!» continuava a urlare la Norma. «Non c’è niente di mi ecciti di più come dare la caccia ai ratti in fuga!»

Alla fine, sazia del gioco, l’inseguitrice decise che era ora di farla finita, e caricato con forza l’artiglio destro si preparò a menare il fendente decisivo; Sylvia sarebbe sicuramente morta, ma con la forza della disperazione la ragazza riuscì ad acquattarsi all’ultimo dietro ad un detrito, il quale assorbì la maggior parte del colpo. Ciò nonostante l’urto fu davvero tremendo, abbastanza da polverizzare quel fragile scudo e spararla letteralmente contro un’altra parete, immobile e priva di sensi.

«Fine dei giochi, piccola.»

Anche Ashley stava incontrando le sue difficoltà, visto che ormai con la morte di praticamente tutti i difensori di Sophia ogni singolo nemico o quasi era concentrato su di lei, a cominciare dal para-mail rosso che dall’inizio dello scontro non l’aveva mollata un attimo.

«Devo ammetterlo, non mi ricordavo che fosse così faticoso» disse senza più fiato.

Per fortuna, in suo soccorso, intervenne il provvidenziale crollo dell’edificio principale, che disintegrandosi divorato dal fuoco e portandosi dietro anche molti edifici attigui ricoprì tutto il campo di una impenetrabile nube di fumo.

Nello stesso momento, accortasi di quello che stava per accadere al suo comandante, Ruka sparò un missile contro il para-mail grigio, che pur riuscendo ad evitarlo fu distratto dal suo proposito di infliggere il colpo di grazia a Sylvia, la quale, ancora svenuta, venne presa al volo da Ashley, che immediatamente volò via mentre il Bulldog partiva a tutta velocità nella direzione opposta.

«Non so come, ma ce l’abbiamo fatta.» disse tra sé Ashley notando che nessuno le stava inseguendo, quindi guardò Sylvia, che chiusa nella sua mano metallica del suo para-mail sembrava quasi dormire beatamente. «Non c’è che dire, hai sette vite come i gatti.»

Un colpo, apparentemente innocuo, ma con il potere di penetrazione tale da passare il para-mail da parte a parte, si abbatté su di lei colpendola alle spalle, tranciandole di netto entrambe le braccia quando ormai erano a quasi dieci chilometri dal campo.

«Sylvia!» urlò attonita vedendo l’amica che credeva al sicuro precipitare nella foresta sottostante in una pioggia di detriti.

Un altro colpo, ugualmente preciso, le portò via uno dei propulsori, e giratasi la ragazza fece appena in tempo a vedere, con la vista telescopica, il para-mail nero puntare il suo fucile verso di lei, prima che un terzo proiettile, stavolta decisivo, centrasse il serbatoio.

Qualche attimo dopo, i superstiti a bordo del bulldog poterono vedere un’esplosione, violentissima, illuminare il cielo non lontano da loro.

«Non… non può essere…» pianse Mayu. «Ashley… Sylvia…»

 

 

Nota dell’Autore

Ciao a tutti!^_^

Scusate la brevità di questa nota, ma oggi vado piuttosto di fretta, quindi mi vedo costretto ad essere conciso.

Allora, con questo direi che abbiamo concluso l’incipit vero e proprio della storia; dal prossimo capitolo, inizierà l’avventura che vedrà le nostre eroine impegnate in una versione post-apocalittica di Viaggio in Occidente alla ricerca dell’unica cosa che potrebbe ancora salvare quanto resta del loro mondo.^_^

Grazie come sempre a Tenori_Taiga per le sue esaustive e chiarissime recensioni/valutazioni.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 5
*** 4 ***


4

 

 

Ruka continuò a pigiare sull’acceleratore del bulldog per mettere quanta più distanza possibile tra loro e l’accampamento, e vani furono i tentativi di Mayu di convincerla a tornare indietro a cercare Ashley e Sylvia.

«Come fai ad essere così tranquilla?» domandò Mayu ad Helen, notando la sua apparente imperturbabilità. «La tua padrona, Sylvia, potrebbe essere morta.»

«Se è così, piangere e disperarsi non la farà tornare in vita» rispose lei volgendo gli occhi verso i bambini raggruppati sul fondo del veicolo. «Ora la priorità è portare in salvo questi bambini, che Sylvia, Ashley, Viktor e la Signora Carmody hanno difeso fino alla morte.»

Quindi, le sue labbra si piegarono in un confortante sorriso.

«E comunque, sono sicura che la signorina ed Ashley stanno bene. Dopo quello che hanno passato in questi ultimi venti mesi, ci vuole ben altro per ucciderle.»

Purtroppo il bulldog aveva ricevuto una riparazione di fortuna, sufficiente abbastanza per permettergli di muoversi, e fatto qualche altro chilometro si ruppe un’altra volta, costringendo il gruppo a fermarsi nuovamente.

«Maledetto ferrovecchio!» strillò la sua stessa costruttrice assestandogli un calcione. «E dire che ti avevo progettato per superarne di ben peggiori!»

«Puoi ripararlo?» domandò Mayu

«Sperando di aver portato via i pezzi necessari.» e si mise subito al lavoro supportata da un paio di meccanici come lei.

L’occasione si rivelò propizia anche per fare una conta di chi era riuscito a salvarsi, e il bilancio, malgrado tutto, fu abbastanza confortante: i bambini orfani erano quasi tutti presenti, e così anche molte Norma con le loro famiglie.

Il punto in cui il bulldog si era fermato, lungo una strada sterrata che aggirava la collina prospiciente Sophia per poi puntare verso nord, era sufficientemente riparato da risultare un buon nascondiglio, ma anche abbastanza in alto da poter scorgere senza difficoltà l’accampamento che, in lontananza, bruciava ancora, illuminando la notte come un faro.

Vedendo quella luce vermiglia alzarsi nel mezzo del nulla, a molti dei sopravvissuti venne da piangere; erano riusciti a salvarsi, ma molti dei loro amici erano rimasti lì, uccisi da quelle macchine assassine.

«Detesto ammetterlo» disse Helen serrando i pugni. «Ma forse quello che dicevano sul conto delle Norma non era del tutto sbagliato. Quale essere umano sarebbe capace di compiere un simile massacro?»

«Non abbandoniamoci a facili colpevolismi, Helen» la ammonì Mayu raggiungendola sul bordo della strada sospesa sul precipizio dopo aver terminato la conta dei sopravvissuti. «Come hai detto tu, per ora pensiamo solo a restare vivi.»

«Qual è il bilancio?»

«Oltre ai bambini, abbiamo con noi altri venticinque superstiti. Ma forse qualcun altro è riuscito a lasciare Sophia in tempo.»

«Lo spero» rispose la cameriera guardando verso l’accampamento che bruciava. «Lo spero con tutto il cuore.»

 

Sylvia non avrebbe mai immaginato di potersi risvegliare.

Mentre quel mostro d’argento la colpiva già si vedeva nell’aldilà, di fronte a tutti coloro che erano morti quella notte, a dover rendere conto della sua scelta sconsiderata di rimanere.

Invece, prima ancora di riaprire gli occhi, avvertì un dolore generalizzato in tutto il corpo; il segno più tangibile del fatto che fosse sopravvissuta.

Sentiva erba umida sotto di sé, e qualcosa di ruvido dietro la schiena.

Lottando con l’intorpidimento, riuscì infine a sollevare faticosamente le palpebre, e grande fu il suo stupore quando si rese conto di trovarsi nel mezzo della foresta, probabilmente non troppo lontano da Sophia.

Qualcuno doveva averla spostata, poggiandola con una certa delicatezza contro un albero pendente e mettendole delle foglie sotto la testa.

Provò a mettersi in piedi, ma le girava ancora la testa, e vedendosi circondata da rottami mezzi carbonizzati si domandò cosa mai dovesse essere successo: l’ultima cosa che ricordava era quell’urto tremendo contro il muro e il para-mail argentato che la sovrastava, ma per il resto non aveva idea di come fosse finita lì.

Stava cercando di fare mente locale quando sentì un rumore alla propria sinistra, e istintivamente mise una mano dietro la schiena alla ricerca della pistola.

Ma non fece in tempo ad estrarla, perché di lì a breve, da dietro un cespuglio, comparve l’ultima persona che si sarebbe aspettata di vedere in un posto e in una circostanza simili.

Era una bambina. Di dieci, forse addirittura nove anni. I capelli di un candido color lilla, quasi tendente all’argenteo, gli occhi grandi e azzurri pieni di vita, i lineamenti delicati come quelli di una bambola di porcellana.

Vestiva in modo semplice, con solo un abitino bianco senza maniche che scendeva fino alle caviglie, quasi una camicia da notte, bella da vedere malgrado gli strappi e le macchie. Ai piedi portava delle scarpette da ospedale, bianche anch’esse, e teneva maldestramente in mano, cercando di non rovesciarlo, un pezzo di corteccia vombato pieno dell’acqua raccolta da un vicino ruscello.

Come la vide, Sylvia nascose immediatamente l’arma dietro la schiena, guadagnandosi un’occhiata perplessa.

«Onee-san, sveglia!» esclamò la bambina con un sorriso disarmante.

«O… onee-san!?» ribatté Sylvia incredula.

Per nulla intimorita la bambina le si avvicinò, porgendole la sua brocca improvvisata.

«Preso per te. Bevi. Starai meglio.»

Sylvia era effettivamente molto assetata, così, malgrado quella situazione ai limiti dell’assurdo, accettò il dono della sua insolita salvatrice, lasciando che l’acqua le scendesse lungo la gola arrecandole un piacevole sollievo.

«Grazie» disse, ricevendo in cambio un sorriso. «Come ti chiami?»

«Io, Mary. E tu?»

«Io mi chiamo Sylvia.»

«Felice conoscerti, Sylvia onee-san

Quella bambina sembrava l’ultima persona in grado di vivere in un mondo come il loro, pensò Sylvia notando la sua espressione felice ed innocente.

Di sicuro non era una superstite di Sophia, perché non ricordava di averla mai vista, ma allora la domanda sorgeva spontanea.

«Mary, da dove vieni?»

«Io vengo da culla.»

«Culla?»

«Io dormito. Tanto tempo. Poi Eric onii-chan ha svegliato me. Ora noi viaggiamo verso nord. Lui dice io al sicuro quando saremo a nord.»

«Al sicuro da cosa?»

«Non lo so. Ma lui dice molte persone cattive che vogliono me. E così lui protegge.»

«È un bravo onii-chan allora. Protegge la sua sorellina.»

«Lui migliore di tutti. Lui fa zac, e poi bum, e tutti i cattivi scappano via.»

Vederla mimare sguaiatamente le prodezze di un fratello a cui voleva palesemente un gran bene scaldava il cuore, e per un attimo Sylvia quasi si perse ad ascoltare le sue storie.

Poi, però, il ricordo di quanto era successo prese il sopravvento, e capì che non potevano restare oltre da quelle parti.

«Onee-san, tu no alzare» disse Mary quando la ragazza, faticosamente, riuscì a rimettersi in piedi. «Tu ancora debole.»

«Devo raggiungere i miei compagni. E sicuramente quei para-mail ci stanno ancora cercando. Non posso restare qui. Tu invece è meglio che torni dal tuo onii-chan

Al che Mary, dopo un attimo di smarrimento, abbassò gli occhi come mortificata.

«Io non ricordo più dove sta Eric onii-chan. Temo io persa…»

Sylvia la fissò attonita.

«Ti sei persa?»

«Io vista luce nel cielo mentre onii-chan dormiva. Entrata nel bosco e ho trovato te. Ma quando io andata a prendere acqua, resa conto che io persa la strada.»

Ovviamente non era ipotizzabile di lasciarla lì da sola nel bel mezzo del niente, così Sylvia si risolse a prendere l’unica decisione possibile.

«Ascolta, vieni con me» le disse carezzandole amorevolmente la testa. «Quando avrò trovato i miei compagni, ti aiuterò a ritrovare il tuo onii-chan. D’accordo?»

Lei la guardò come perplessa, ma poi fece un cenno di assenso.

«Sì. Anche Sylvia onee-san sembra forte e buona, dopotutto. Io fido di te.»

Detto questo, e presa la bambina per mano, Sylvia si incamminò in direzione di Sophia; sapeva di stare andando in bocca al nemico, ma era anche l’unico modo per capire se qualcun altro si fosse salvato.

 

Intanto, al campo, tutto era ormai finito.

Gli edifici erano tutti crollati divorati dal fuoco, e di quella che sarebbe dovuta diventare la nuova capitale di Misurugi non rimaneva ormai che un inferno di fuoco e cenere circondato da un recinto di lamiere arroventate; quelle mura sarebbero dovute essere una difesa per gli abitanti contro i pericoli esterni, e invece, per molti di loro, si erano trasformate in una trappola.

Le strade erano un tappeto di corpi senza vita: uomini, donne, bambini e vecchi.

Nessuno era stato risparmiato.

Terminato il massacro, i para-mail si erano posati per la maggior parte a terra, con solo un piccolo gruppo rimasto a sorvegliare il perimetro, ma era stato solo allora che il vero orrore aveva avuto inizio.

I tre comandanti atterrarono uno accanto all’altro nella piazza centrale, ed la prima a scendere fu la Norma che pilotava il para-mail nero: era molto bella, coi capelli neri e grandi occhi scuri, ma al tempo stesso nel suo sguardo dimorava una fredda, quasi glaciale determinazione, tale da lasciarla indifferente al macabro spettacolo che aveva di fronte.

Di tutt’altro genere erano invece le emozioni che trasparivano dagli occhi verde smeraldo della pilota del para-mail vermiglio, una giovane a prima vista poco più anziana delle sue due compagne, con lunghi capelli rosati raccolti in una coda sopra la nuca e un fisico scolpito, quasi da modella.

«L’area è sicura» disse la mora alla radio. «Date inizio al recupero.»

I due aerei cargo che avevano lanciato i paracadutisti a quel punto atterrarono a loro volta, e da essi scesero una ventina di Norma armate di una specie di enorme siringa elettronica collegata con un tubo ad una sorta di zaino portato dietro la schiena.

Uno ad uno, cominciarono a dissanguare tutti i corpi, trafiggendoli con i loro apparecchi ed assorbendo loro, oltre al sangue, anche tutti gli altri liquidi, lasciando dietro di sé niente altro che corpi mummificati e scheletrici che poi venivano carbonizzati da alcuni loro compagni provvisti di lanciafiamme.

A quella vista, la ragazza dai capelli rosa distolse lo sguardo, e delle lacrime sembrarono comparire nei suoi occhi.

«Controllati, Jamie» la rimproverò la mora

«Possibile che non ci sia davvero altra soluzione, Yuko? Voglio dire… stiamo massacrando persone innocenti.»

«Lo sai bene che questa è l’unica possibilità che abbiamo. Ne va’ del destino di noi tutti.»

«Però… pensare di dover fare una cosa del genere… cosa ci rende degni di essere salvati se ci comportiamo così?»

«Mettiamola così, è una questione di vita o di morte. È vero, uccidiamo delle persone, ma ne salveremo infinitamente di più quando tutto questo sarà finito.»

«Forse, ma a quale prezzo?»

Yuko poi rivolse la sua attenzione alla donna dai capelli d’argento, intenta a fissare il proprio para-mail con aria decisamente contrariata; l’esplosione del razzo alla fine non era stata troppo grave, ma aveva provocato un’ammaccatura molto vistosa e annerito parte della fusoliera, oltre a danneggiare sensibilmente la manovrabilità del braccio destro.

«Quella schifosa sgualdrina me la pagherà.»

«È solo colpa tua, Ingrid. E comunque, hai contravvenuto un’altra volta agli ordini. Svolgere la missione che ci è stata assegnata è un conto, ma non comportarti sempre in modo tanto sadico. È già vergognoso quello che siamo costrette a fare, ma scherzarci addirittura su come stavi facendo con quei bambini và oltre ogni buon senso.»

«Loro hanno avuto buon senso quando hanno distrutto le nostre vite e fatto di noi carne da cannone?» strillò lei con gli occhi fuori dalle orbite «Quel che è fatto è reso!»

«Comandante Ingrid!» disse uno dei para-mail al suo servizio tornando in quel momento da un giro di perlustrazione. «Ho trovato delle tracce di veicolo che si allontanano in direzione nord.

Deve trattarsi di quel blindato che è fuggito.»

«Che cosa!?» esclamò la donna sorridendo malevolmente. «Perfetto! Raduna le altre!»

Detto questo, e restando sorda ai richiami di Yuko, Ingrid risalì in tutta fretta sul suo para-mail, allontanandosi a gran velocità seguita da tre sue compagne.

«Vado con lei» disse Jamie prima di andarle dietro. «Quella quando si scatena non la fermi più.»

«Buona idea. Almeno a te qualche volta dà retta.»

 

A bordo del bulldog, le riparazioni stavano andando piuttosto a rilento.

Mayu aveva ordinato di fare il massimo silenzio e spegnere tutte le luci non necessarie, perché malgrado fossero relativamente lontani e ben coperti dalla vegetazione il rischio di essere notati dal nemico c’era ancora, così a parte lei, i meccanici e qualche vedetta tutti gli altri sopravvissuti erano tornati all’interno del blindato, immersi nell’oscurità.

I bambini in particolare erano comprensibilmente agitati, e si guardavano tra di loro alla ricerca di un conforto.

«Sylvia onee-chan non tornerà, vero?» disse ad un certo punto una piccola Norma

«Non ditelo neanche per scherzo» li ammonì Hilda vedendo come tutti si stessero lasciando prendere dallo sconforto. «Sono sicura che Sylvia-sama è ancora viva! Lei tornerà, senza alcun dubbio.»

«Però… Mayu onee-chan e gli altri dicono che è precipitata nel bosco assieme ad Ashley onee-chan, e che quei mostri le hanno colpite.

Se è così…»

«Vi dico che Sylvia-sama tornerà. Ne sono sicura. Lei è più forte di quei barbari senza cuore.»

Nel mentre, all’esterno, la situazione non accennava a migliorare.

«Quanto vi manca ancora?» domandò Mayu per l’ennesima volta. «Qui siamo troppo esposti.»

«Qualche altro minuto e dovremmo quantomeno riuscire a muoverci» rispose Ruka senza sospendere il lavoro. «Rimettere insieme i pezzi di questo mostro non è esattamente come cambiare le candele di una macchina.»

 

Sylvia non riusciva a capire come fosse possibile, ma dopo appena pochi minuti da che lei e Mary si erano messe in cammino il dolore che le aveva augurato il buon risveglio era quasi completamente sparito.

Per non parlare delle ferite; per qualcuno che, a sentire Mary, era caduto dal cielo, salvandosi probabilmente solo grazie ai rami degli alberi che avevano attutito la caduta, se l’era cavata davvero con poco.

Ma per il momento questo non aveva importanza: ciò che contava era ritrovare i suoi compagni, a tutto il resto ci avrebbe pensato in seguito.

Dal canto suo Mary si stava rivelando una persona davvero particolare. La sua semplicità era a tratti disarmante, quasi non si rendesse conto del mondo corrotto e ostile in cui viveva.

«Quindi» domandò Sylvia ad un certo punto. «Tu non ricordi niente? I tuoi genitori? La tua casa?»

«Io niente ricordare prima di risveglio da culla» rispose lei avvilita. «Primo ricordo che io ho è volto di Eric onii-chan. Lui svegliato me.»

«Capisco. Mi dispiace.»

«Tu no deve essere triste. Io no triste. Eric onii-chan è bravissima persona. Lui detto porta me da altre brave persone.»

«Tu vuoi molto bene al tuo onii-chan, vero?»

«Conoscere lui da poco, ma io so che lui è molto buono. Lui difeso me tante volte in questi mesi, ma mai ucciso nessuno. Lui dice che uccidere è brutta cosa.»

«È un pensiero giusto. Purtroppo, alle volte, uccidere diventa l’unica soluzione possibile, anche se non si vorrebbe mai farlo.»

«Eric onii-chan dice che lui ucciso in passato, ma ha giurato di non farlo più. E lui sta mantenendo promessa.»

Camminavano al buio, guidate solo alla luce delle stelle, e Sylvia prestava la massima attenzione ad ogni più piccolo rumore, nel timore di veder ricomparire da un momento all’altro quelle macchine infernali. Per questo, quando avvertì un tremolio tra alcuni cespugli accanto al sentiero, fu lesta a prendere la pistola, portando con uno scatto del braccio Mary alle proprie spalle per tenerla al sicuro.

Nello stesso istante, però, un’altra arma comparve dall’oscurità, puntata su di loro, ma riconoscendone il proprietario la ragazza spalancò gli occhi per lo stupore.

«Allora ce l’hai fatta anche tu» digrignò i denti Ashley prima di crollare in ginocchio, sfinita dalla fatica.

Le ferite in tutto il corpo e i vestiti anneriti dicevano che doveva essersela vista davvero brutta, ma era risaputo che ci voleva ben altro per uccidere l’indistruttibile Ashley Lescott, l’unica Norma nella storia ad essere mai riuscita a fuggire da Arzenal.

«Giuro che non mi lamenterò mai più dei combattimenti contro i draghi» disse mentre Sylvia cercava di aiutarla. «Affrontare altri para-mail è tutta un’altra cosa, porca miseria.»

«Come ti senti? Riesci ad alzarti?»

«Onestamente mi domando come ho fatto a venirne fuori. Quando c’è stata l’esplosione la cabina di guida è rimasta miracolosamente intatta, ma sono andata giù come una meteora. Per poco non sono anche finita in un precipizio. Ho fatto appena in tempo a uscire da quella trappola mortale, e subito dopo quello che restava del para-mail è bruciato fino alla cenere.»

«Mi dispiace che io no potere aiutare te» disse Mary mortificata aiutandola a sua volta a stare in piedi. «Ma usata tutta mia forza per aiutare Sylvia onee-chan

«Non preoccuparti. La nostra Ashley non morirà certamente per così poco.»

«Scusa la domanda fuori luogo, ma chi è questa ragazzina?»

«È una lunga storia. Te la racconterò in un altro momento. Ora dobbiamo scoprire se possiamo ancora salvare qualcuno.»

«Mayu e gli altri sono riusciti a scappare, e non dovrebbero essere troppo lontani. Poco prima di venire abbattuta ho visto il bulldog allontanarsi verso la collina a nord.»

«E allora sbrighiamoci. Quando sorgerà il sole sarà meglio essere il più lontano possibile da qui.»

Le due ragazze quindi si misero in marcia.

La collina dove secondo Ashley il bulldog si era diretto non era troppo distante, e infatti nel giro di qualche ora vi furono praticamente a ridosso, con solo poche centinaia di metri a separarle dalla vecchia strada che sicuramente le loro compagne avevano imboccato per cercare di passare la catena e dirigersi a nord.

Il problema semmai era capire se le avevano aspettate, o se invece avessero scelto di proseguire, ed in quel caso significava che da quel momento erano sole.

Stavano per iniziare la salita, quando, come un fulmine a ciel sereno, una luce si levò proprio dalla strada sopra le loro teste, puntando con fare incerto prima nel cielo e poi direttamente sulla foresta.

«Ma cosa…» imprecò Ashley, abbassandosi per sfuggire al cono luminoso

«Lo riconosco, è il faro di segnalazione del bulldog!» esclamò Sylvia. «Forse ci stanno cercando!»

«Sono impazzite!? Così si faranno vedere anche dai para-mail!»

 

Hilda alla fine aveva convinto anche gli altri bambini che Sylvia era viva, e che perciò dovevano assolutamente ritrovarle.

Così, di nascosto, lei e alcuni altri erano saliti sul tetto del bulldog, e armeggiando un po’ con i comandi Hilda era riuscita ad accendere l’enorme faro a torretta girevole, puntandolo subito non senza qualche difficoltà verso il bosco sottostante alla ricerca di qualche segnale, qualche movimento; qualunque cosa potesse essere segno della presenza della loro leader.

Come Mayu e gli altri se ne accorsero, sudarono freddo.

«Che state facendo!» strillò Ruka arrampicandosi in cima e strappando letteralmente i cavi di alimentazione. «Spegnetelo subito!»

«Ma dobbiamo trovare Sylvia onee-san…» tentò di protestare Hilda

Ma era troppo tardi.

Una luce così forte in una zona dominata dall’assoluta oscurità non poteva passare inosservata, e come la vide accendersi sui bordi della collina anche gli occhi di Ingrid si illuminarono di un bagliore sinistro.

«Trovate» sogghignò. «Andiamo!»

Come avvoltoi su di una carcassa, nel giro di pochi attimi Ingrid e le sue tre subalterne furono addosso al bulldog, il quale fortunatamente nel frattempo era stato completamente riparato.

«Presto, entrate!» urlò Ruka.

Ingrid era così eccitata e fuori di sé che per poco un missile terra-aria non la centrò in pieno, ma all’ultimo momento Jamie riuscì ad intercettarlo e ad abbatterlo con un preciso colpo di fucile.

«Ingrid, sei troppo vicina!»

«Levati dai piedi, loro sono miei!»

Il bulldog intanto era partito a tutta velocità, sparando nel contempo tutto quello che aveva in direzione degli inseguitori, ma la sua mole e la strada stretta lo rendevano talmente lento che per Ingrid e le altre non era un problema riuscire a stargli dietro.

«In altri tempi mi sarei eccitata ad inseguirvi, ma stavolta mi avete fatto proprio girare le palle!»

Così, senza perdere altro tempo, Ingrid sparò subito una coppia di missili.

«Andate all’inferno!»

Fortunatamente il bulldog era provvisto di un sistema elettronico di emergenza che entrò subito in funzione, producendo una nube elettromagnetica che disturbò il segnale dei missili deviandone la traiettoria; purtroppo, pur andando fuori controllo, i due ordigni proseguirono la loro corsa in un’altra direzione, oltrepassando il veicolo per poi andare ad infrangersi sulla strada poro più avanti e portandosela via.

Ruka riuscì a fermarsi appena in tempo, con le ruote anteriori e il muso del bulldog che si ritrovarono sospesi sull’abisso, ma a quel punto ogni via d’uscita era preclusa.

«Fine dei giochi, belle mie. E adesso facciamo i conti.»

«Non esagerare, Ingrid» la ammonì Jamie. «Ci serve la loro energia.»

«Ci basta il loro sangue, che i corpi rimangano interi è secondario!»

Dei due phalanx solo quello di prua aveva ancora munizioni, che pur riuscendo a distruggere uno dei para-mail di scorta venne a sua volta fatto esplodere da uno dei suoi due compagni.

Uno dei superstiti, in preda al panico, aprì la porta cercando di fuggire, ma Ingrid gli arrivò sopra, arpionandolo con entrambi i guanti corazzati ed alzandoselo sopra la testa per poi squartarlo orribilmente, lasciandosi inondare da una pioggia di sangue.

«Stupendo! Davvero stupendo! Non c’è colore più bello al mondo di questo!»

Ruka e gli altri non poterono fare altro che osservare inorriditi, consapevoli che fosse ormai la fine.

Ingrid, ancora ricoperta di sangue, si alzò verso l’alto, pronta a vibrare il colpo di grazia.

«Andate all’inferno!»

In quel momento, Sylvia, Ashley e Mary raggiunsero la strada, ma erano troppo lontane per poter fare qualcosa, né Ashley né Sylvia avevano le armi necessarie a fermare quel bestione.

Così, tutto quello che poterono fare fu restare immobili ed impotenti ad osservare.

Ma non Mary.

«Aiutali, mia luce!» urlò distendendo il braccio.

Si udì un suono, come una specie di fischio, poi vi fu un bagliore.

Poi, d’incanto, una gigantesca barriera circolare si frappose tra il bulldog ed il para-mail, e Ingrid, colta completamente di sorpresa, vi andò a sbattere contro, ritrovandosi intrappolata come all’interno di un campo magnetico.

«Co… cosa!?» esclamò attonita

Dopo averla intrappolata, la barriera allo stesso modo la respinse, non prima però di aver provocato una scossa elettrica tale da provocare un corto circuito all’interno del para-mail friggendo letteralmente i comandi del braccio destro; quindi, come era apparso, si dissolse, mentre nella zona si abbatteva un silenzio tombale carico di stupore.

Come lo scudo si dissolse Mary fece per cadere riversa a terra apparentemente svenuta, venendo però raccolta al volo da Sylvia.

«Non ci credo» esclamò. «Questa ragazzina… ha il mana!?»

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua a tempo di record!^_^

Questo capitolo in pratica è quello che ha ispirato la nascita stessa della mia storia, di conseguenza scriverlo è stato particolarmente semplice.

Ora però sono costretto a prendermi qualche giorno di tempo. In primis, perché dovrò prima di tutto tradurlo in inglese per postarlo su di un altro sito, in secondo luogo perché, su suggerimento di un amico, approfitterò di questo lungo ponte per iniziare a scrivere un’altra breve fan fiction.

Grazie come sempre a Taiga per i suoi suggerimenti e le sue recensioni.

 

Ps. Lo strano modo di parlare di Mary è volutamente ispirato a quello di Chaika!^_^

 

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 6
*** 5 ***


5

 

 

La scarica era stata talmente potente che il para-mail di Ingrid era andato completamente in tilt, tanto che le ci vollero parecchi secondi per riuscire a riprenderne il controllo.

D’altro canto però, erano ancora tutti troppo sconvolti ed attoniti per pensare ad altro.

Sylvia più di chiunque altro era senza parole.

Erano passati ormai due anni da che tutti loro avevano potuto vedere con i loro occhi la Luce del Mana, e l’ultima cosa che si aspettavano era di incontrare qualcuno ancora capace di farne uso.

Ma ciò che avevano visto era, se possibile, ancor più straordinario, soprattutto dal punto di vista di Ingrid e delle sue compagne.

In fin dei conti, ciò che rendeva le Norma così speciali era proprio la loro totale avversione al mana, tale da renderle capaci di annullarne completamente gli effetti.

Eppure, incredibilmente, lo scudo che Mary aveva eretto a protezione del bulldog aveva resistito, respingendolo, anche all’attacco di un para-mail, che in linea teorica erano in grado di avere ragione del mana tanto quanto i loro stessi piloti.

«Non è possibile!» esclamò Jamie materializzando sul monitor il volto di Mary. «Quella ragazzina… che sia…»

Quindi, dal momento che il para-mail di Ingrid era ancora momentaneamente fuori uso, a quel punto fu lei a prendere il controllo dell’operazione.

«Lasciate perdere il blindato!» ordinò alle tre compagne. «Prendete quella bambina!»

Gli altri tre veicoli allora si mossero all’attacco, e stavolta non c’era nulla che Sylvia o le altre potessero fare per cercare di fermarli.

Se non che, all’improvviso, un’ombra nera sembrò oscurare la luna, e un istante dopo uno dei tre assalitori, come per incanto, si ritrovò privato di una delle sue braccia, per poi piombare apparentemente fuori controllo contro i suoi due compagni facendoli schiantare contro la montagna.

«Che diavolo è successo Tabitha, sei ubriaca per caso?» domandò una delle tre, Julia, alla compagna

«Non ne ho idea, qualcosa mi ha colpito!» rispose lei muovendo inutilmente i comandi. «Il mio sistema di guida è danneggiato! Ho perso il braccio destro!»

La stessa scena si ripeté, quasi identica, un secondo più tardi, e questa volta fu il para-mail del terzo membro della squadra, Rosie, a ritrovarsi decapitato, subito dopo aver visto una specie di fantasma passarle davanti.

«Il mio sistema visivo è andato! Sono cieca!»

«Ma che sta succedendo?» tuonò Julia prima che una delle sue due gambe venisse tranciata, e con essa metà della sua forza propulsiva.

Solo a quel punto la misteriosa ombra che in pochi istanti aveva fatto brandelli di tre para-mail si degnò di comparire, ma nel vederla tutti, a cominciare da Sylvia ed Ashley, rimasero di sasso.

Dinnanzi a loro non c’era un altro para-mail, ma un giovane uomo sui venticinque anni, capelli corvini scompigliati ma belli a vedersi, occhi scuri piccoli e lunghi, e un volto appuntito dominato da un’espressione fredda, che faceva da contorno al fisico scolpito da soldato.

Vestiva in modo semplice, quasi trasandato, con un paio di jeans blue e una maglietta bianca sormontata da un cappotto da motociclista tutto strappato con il collo di pelliccia. In mano, invece, aveva una katana, bellissima e probabilmente molto antica, la cui lama ancora parzialmente sguainata risplendeva di una luce irreale.

Sylvia e gli altri non riuscivano a crederci.

Com’era possibile per un solo uomo, per quanto visibilmente allenato e atletico, avere ragione di quelle macchine da guerra con l’uso di una comune spada?

Lo sconosciuto alzò il capo, quasi a cercare volontariamente gli occhi delle sue avversarie che lo fissavano interdette. Fu a quel punto che tutte, nessuna esclusa, parvero riconoscerlo, con le tre cadette che furono colte da un terrore così evidente che Tabitha, sicuramente la più debole delle tre, arrivò a bagnare il sedile. Di contro nello sguardo di Ingrid, sicuramente la più sorpresa e attonita nel veder comparire quello strano individuo, tornò ad accendersi la luce della follia.

«Tu… sei tu!» e senza neppure attendere che il suo Lamashtu, dotato della capacità più unica che rara di ripararsi autonomamente, seppure solo in modo approssimativo, fosse di nuovo pronto caricò il giovane a testa bassa.

Ma non fece in tempo a fare pochi metri che il para-mail cremisi gli arrivò alle spalle, cinturandolo magistralmente e impedendogli l’assalto.

«Ferma, Ingrid! Non fare pazzie!»

«Lasciami! Voglio ammazzarlo! Voglio ammazzare quel bastardo con le mie mani! È un’occasione che aspettavo da tutta la vita!».

Dal momento che Ingrid non voleva saperne di ascoltarla, e anzi si dimenava come una furia nel tentativo di liberarsi, Jamie non ebbe altra scelta che passare alle maniere forti, e scoperchiato uno dei pannelli di controllo dietro la schiena del suo para-mail strappò via di netto i cavi di alimentazione, lasciandolo immobile e privo di energia.

«Tu, maledetta sgualdrina! Che diavolo hai fatto?»

«A tutti i para-mail, sospendere le operazioni! Ritiratevi immediatamente!».

E senza pensarci due volte i quattro para-mail, pur gravemente danneggiati, mollarono la preda e scapparono, trascinando con loro anche Ingrid, che fino all’ultimo continuò a gridare di venire lasciata andare.

Il sollievo di Sylvia e le altre per essere scampate a quella situazione apparentemente senza uscita venne tuttavia cancellata quasi subito dalla presenza di quel giovane, il quale, rimasto senza avversari, si avvicinò con fare molto poco amichevole alla principessa e ad Ashley.

«Fermo!» gli intimò Ashley puntandogli il fucile, ma ricevendo in cambio un silenzio ignorato. «Un altro passo e ti faccio secco!»

«Aspetta, Ashley. Ci ha salvate.»

«Ma non l’hai visto cosa ha fatto?»

In quella, Mary riprese conoscenza, e vedendo Ashley con il fucile puntato immediatamente allungò la mano verso di lei.

«Ferma! Tu non sparare! Lui amico!»

«Amico!?»

Il giovane, giunto ormai appresso alle due ragazze, alzò allora il pugno, colpendo impercettibilmente la bambina sulla testa.

«Non ti ho sempre detto di non allontanarti mentre sto dormendo?»

«Scusa, onii-chan. Io visto Sylvia onee-sama in difficoltà, così io aiutata. Ma poi mi sono persa, e…»

«Onii-chan!?» ripeté Sylvia. «Ma allora… tu sei…»

«Sì. Lui Eric onii-chan

«E voi, di grazia, chi sareste?»

 

Al sorgere del sole, quando fu certo che le norma avevano abbandonato il campo, Sylvia e le sue compagne rientrarono a Sophia, ma ciò che si trovarono davanti era se possibile ancor peggiore di quanto avevano visto a Dolkin.

Del frutto di due anni di fatiche, sacrifici e speranze non restava che un cumulo di macerie dilaniate dalle esplosioni e annerite dal fuoco.

E, ancora una volta, i corpi delle vittime erano stati orribilmente profanati, facendone una massa di mummie scheletriche prive di liquidi.

Ai bambini fu risparmiato un tale spettacolo, almeno fino a quando non fu possibile dare una qualche sepoltura ai cadaveri ancora abbastanza integri da poter essere spostati, in tutto poco meno di un centinaio; degli altri, ormai, non restava che cenere.

Sylvia aveva voluto costruire personalmente le tombe per tutti i membri del suo consiglio, di nessuno dei quali restava più un corpo da seppellire, e passandole in rassegna una dopo l’altra la ragazza, sostando davanti a quella di Viktor, fu colta da un moto di pianto che neppure il suo collaudato autocontrollo fu in grado di evitare.

«È colpa mia» disse serrando i pugni. «Se gli avessi dato retta. Se avessi fatto evacuare la città, forse…»

«Non sarebbe cambiato nulla, mia signora» disse Helen raggiungendola e poggiandole una mano sulla spalla. «Volevano le vostre viste, e le avrebbero prese comunque. Voi avete fatto tutto quello che era in vostro potere per salvare quante più persone possibili, e sono sicura che anche loro lo sanno.»

Quindi, gli occhi di entrambe si volsero sui pochi sopravvissuti, raccolti ognuno dinnanzi alla tomba di un genitore, un fratello o un figlio.

«Ora però, la priorità portare queste persone al sicuro. Se ci riusciremo, allora coloro che stanotte non ce l’hanno fatta non saranno morti invano.»

«Non c’è nessun posto che possa dirsi sicuro» irruppe Eric comparendo alle loro spalle. «Almeno non in un raggio di cinquanta miglia dalla costa.»

«A questo punto, credo che tu ci debba una spiegazione» disse Sylvia. «Chi erano quelle Norma che hanno attaccato la città? Perché ho come l’impressione che tu li conosca.»

«L’hai detto tu stessa. Sono Norma.

Norma molto pericolose e ben equipaggiate.»

«E da dove vengono? Da Arzenal

«Da dove vengano non ha importanza. Battono l’intera costa di questo continente alla ricerca di villaggi da sterminare. Da Rosenblum a Mitsurugi, passando per Gallia, sono già due anni che si lasciano dietro fiumi di sangue.

Voi siete stati solo gli ultimi in ordine di tempo.»

«Per quale motivo compiono questi massacri?» chiese Ashley, sopraggiungendo a sua volta assieme a Mayu

«Non ne ho idea. Ma mi avevano messo in guardia su di loro. Dicevano che avrebbero dato la caccia anche a Mary qualora l’avessero trovata, e ora ci sono riuscite.»

«A proposito di Mary, chi è lei in realtà?» chiese ancora Sylvia intercettando con lo sguardo la ragazzina, che come una sorella maggiore cercava di consolare i bambini più piccoli che piangevano disperati davanti alle tombe dei propri genitori. «Alcuni mesi fa sono entrata nelle rovine del palazzo reale e ho letto il diario di Embryo.

Ora so tutto sulla verità che per millenni ci è stata nascosta, compresa quella legata alla capacità di usare il mana.

Come mai, ora che Aura è stata liberata, c’è ancora qualcuno capace di usare il mana?»

«Non chiedetemelo. Non saprei cosa rispondervi. L’ho trovata tre mesi fa all’interno di un laboratorio di ricerca nell’estremo sud di questo Paese.

Quando l’ho risvegliata, non sapeva neppure parlare. Era chiaro che era rimasta lì dentro per un lungo periodo di tempo.»

«Ho come l’impressione che tu non ci sia arrivato per caso in quel laboratorio.»

Il giovane temporeggiò, guardando in basso.

«Sono stato mandato qui da il Re Hindenburg di Rosenblum a mandarmi alla sua ricerca.»

«Re Hindenburg!?» strabuzzò gli occhi Sylvia. «Il padre della nobile Misty!? Allora sono ancora vivi?»

«Anche dopo la scomparsa del mana il re è riuscito in qualche modo a tenere insieme il suo regno. Venti mesi fa, poco dopo l’apocalisse, il re mi ha contattato, mi ha rivelato dove si trovava Mary e mi ha chiesto di portargliela.»

«Per quale motivo?» chiese Mayu

«Hindenburg ha promesso di darle protezione e tenerla al sicuro, e il cielo sa quanto ne ha bisogno.»

«Di cosa sta parlando?» chiese Helen. «Intende dire che quella bambina è in pericolo?»

«Avete visto coi vostri occhi di che cosa è capace. Una persona ancora in grado di usare il mana in un mondo pieno di persone che farebbero di tutto per disporre ancora di quel potere è come una pecora in mezzo a un branco di lupi.

Da che ci siamo messi in viaggio, tutti coloro che per un motivo o per l’altro hanno saputo delle sue capacità hanno cercato di rapirla, e alcuni ci stanno provando tuttora. Solo in un luogo protetto come il regno di Rosenblum potrà essere al sicuro.»

«Davvero!?» sentenziò Ashley. «E chi di dice che quel porco non voglia esattamente la stessa cosa?»

«Attualmente il Regno di Rosenblum è l’unica nazione che sia stata capace di rimanere unita e forte anche dopo l’Apocalisse. Hanno ricostruito il loro Paese senza bisogno del mana, e senza il mana vogliono farlo risorgere.

Il re, ma soprattutto sua figlia, mi hanno dato la loro parola d’onore. Terranno Mary con sé all’interno del loro regno fino a quando non avrà imparato a nascondere i suoi poteri, quindi la lasceranno libera di scegliersi la sua strada.

È questo l’accordo che mi hanno proposto.»

Poco dopo Eric tornò sui propri passi per raggiungere Mary, e le quattro ragazze, rimaste sole, si consultarono tra di loro.

«Che ne pensate?»

«Per me quello non ce la racconta giusta» tagliò corto Ashley. «Avete visto quanto erano incavolate quelle Norma? Quel bellimbusto sa molto più di quanto non ci voglia dire, ci metto la mano sul fuoco.»

«Però sembra sincero riguardo alla volontà di proteggere la ragazzina» obiettò Mayu

«Lui forse, ma che mi dici degli altri? Se il nostro mondo si è ridotto così la colpa è soprattutto di Hindenburg e di quelli come lui? E ora vorresti farmi credere che quella serpe di colpo ha deciso di fare l’eroe della situazione?»

«Se dovessimo basarci solo sulla parola del Re, anche io avrei dei dubbi» rispose Sylvia dopo un attimo di esitazione. «Ma la nobile Misty è sempre stata una brava persona. Anche quando la verità sul conto di mia sorella è venuta alla luce, non ha mai smesso di ammirarla.»

Quindi, nei suoi occhi sembrò accendersi di nuovo la luce della determinazione.

«E se lei ha fatto questa promessa, allora deve essere per forza la verità» e detto questo, con passo deciso, si diresse vero Eric, fissandolo dritto in volto quasi con sfida. «Che ne diresti di fare questo viaggio insieme?»

Tutti, per prime le sue compagne, saltarono sul posto.

«Ma che accidenti le salta in mente?» si chiese Ashley

«Io viaggio da solo.» fu la risposta secca di Eric

«Ci sono circa novemila chilometri tra questo Paese e Rosenblum, con due nazioni nel mezzo, Gallia ed Enderant. Inoltre, da quello che ho capito, anche le Norma che ci hanno attaccate vi daranno la caccia ora che vi hanno trovati.

Credi davvero di essere in grado di proteggere Mary fino a quando non sarai riuscito a riportarla indietro?»

Il giovane esitò, grattandosi la nuca visibilmente combattuto.

«Perché mai vorreste imbarcarvi in un viaggio simile?»

«Buffo, stavo per fare la stessa domanda.» disse ancora Ashley

«Quei mostri hanno distrutto il villaggio che avevamo costruito con tanta fatica, ma per Mitsurugi non è ancora giunta l’ora di arrendersi.

Adesso però so che non posso farcela da sola. Ho bisogno di aiuto. E se davvero Hindenburg è riuscito a rimettere in piedi il suo regno, allora lui è l’unico che possa darmi una mano a fare la stessa cosa anche qui.

Voglio incontrarlo e parlargli.»

«È sicura di quello che fa, mia signora?» domandò Helen. «È un viaggio molto lungo.»

«Ma è l’unica cosa che mi rimane da fare, se voglio ancora sperare di salvare il mio regno. Possiamo aiutarci l’uno con l’altro. Noi abbiamo un veicolo per accelerare il viaggio, tu le tue capacità. Solo collaborando avremo una speranza.

Se davvero tieni alla sicurezza di quella bambina, devi ammettere che non è una cattiva offerta.»

«Lo avete visto con i vostri occhi quanto può essere pericoloso. Ora che sanno dove ci troviamo, quelle Norma ci daranno la caccia, e sono avversarie molto pericolose.»

«Non sottovalutarci. Viste così possiamo sembrare delle ragazze indifese, ma non siamo sopravvissute in questi due anni solo per il nostro bel visino.

E anche il bulldog sa il fatto suo.

Dico bene, Ruka

«Dici benissimo!» rispose lei sbucando da sotto il mezzo. «E dopo queste modifiche, sfido qualunque zozzona di Norma a provare a farsi avanti!»

Eric sembrò sul punto di acconsentire, ma a quel punto fu Mayu a sollevare delle perplessità.

«Ma… tutta questa gente… I bambini… non possiamo abbandonarli qui con quelle Norma in giro, e non resisterebbero ad un simile viaggio.»

«Per non parlare delle provviste che dovremmo portare con noi» disse Ashley. «Il bulldog è grande, ma non immenso. Come facciamo a portare trenta e passa persone fino a Rosenblum

«C’è un villaggio a Gallia, non lontano dal confine con Mitsurugi» rispose Eric. «È ben difeso e molto ospitale. Ci sono passato alcuni mesi fa.

Se portiamo i bambini lì, saranno al sicuro.»

Stavolta fu Sylvia a temporeggiare, ma alla fine, sorridendo soddisfatta, porse la mano ad Eric.

«Abbiamo un accordo» disse, ricevendo in cambio una stretta accennata.

Poco dopo Ruka portò il bulldog all’interno dell’unico capannone ancora in piedi, dove rimase fin quasi al tramonto, e quando ne uscì le ragazze quasi stentarono a riconoscerlo.

«Ma… che cosa ci hai fatto!?» ammutolì Sylvia

Quella specie di scienziata pazza aveva sostituito gli armamenti andati distrutti addirittura con le torrette dei carri armati abbattuti dalle Norma durante la notte, oltre a dotare il mezzo di un supplemento alla corazza e svariate armi leggere.

«Hai veramente le mani d’oro.» commentò soddisfatta Ashley, che a sua volta aveva speso la giornata a recuperare assieme a Mayu tutte le armi ancora intatte.

«Adesso voglio vedere quelle schifose se avranno ancora il coraggio di avvicinarsi.»

A quel punto, fu davvero il momento di ripartire, e mentre percorrevano per l’ultima volta la stradina stretta che saliva fino all’abitato Sylvia e le altre non riuscirono a non provare una sorta di cupa malinconia.

Addio alle notti di ronda; addio ai pattugliamenti nella regione.

Mitsurugi era probabilmente destinata a ricadere nell’anarchia senza di loro e senza la luce rassicurante di Sophia, ma con l’aiuto del cielo da quella sciagura che era costata migliaia di vite potevano sorgere i semi di una nuova rinascita.

Era tutto nelle loro mani.

 

Al largo della costa di Mitsurugi, non segnata su nessuna mappa o carta nautica, c’era un’isola, lunga e stretta, dalla forma simile ad una clessidra, dominata in ogni parte da altissime scogliere, eccezion fatta per una minuscola porzione di spiaggia raggiungibile da una gola stretta e ripida ai piedi della montagna che, elevandosi come un cono quasi perfetto, occupava per intero la zona più a nord.

Già da prima dell’apocalisse qualunque nave o aereo aveva il divieto più assoluto di avventurarsi in quelle acque, impresa già di per sé impossibile visto l’incredibile sistema difensivo che proteggeva l’isola, fatto di mine subacquee, postazioni antiaeree e un impenetrabile sistema radar.

Reunion.

Era questo il suo nome.

Ancor più di Arzenal, era sicuramente il luogo più misterioso, segreto e protetto del pianeta; tuttavia, se l’esistenza di Arzenal era un fatto noto ad una ristretta cerchia di eletti, non vi era nessuno al mondo che avesse mai sentito anche solo nominare Reunion.

Tutto ciò che passava da Reunion, si fermava a Reunion, e lì vi moriva. A nessuno che vi mettesse piede era concesso di tornare al mondo esterno, fosse egli Norma o umano.

Raffinerie e centrali termoelettriche fornivano carburante per i para-mail ed energia per la sua gigantesca base, serre, fattorie cisterne garantivano il cibo e l’acqua; persino il metallo e ogni altro materiale da costruzione veniva prodotto in loco, grazie ai ricchi giacimenti situati nel cuore della montagna, facendo dell’isola una realtà completamente autonoma.

Quando Jamie, Ingrid e il resto del corpo di spedizione inviato sulla terraferma vi fecero ritorno, ad attenderle nell’hangar trovarono un nutrito gruppo di tecnici e meccanici guidati da una giovane donna dai capelli neri e dalla pelle scura, tipica della gente di Verda, che vedendo lo stato in cui erano ridotti alcuni dei para-mail inviati in missione quasi non credette ai suoi occhi.

«Ma come avete fatto a ridurvi in questo modo?»

«Devo parlare con il Comandante, subito!» disse Jamie scendendo dal suo para-mail

La ragazza restò a guardarla perplessa fino a quando non la vide scomparire dietro uno dei varchi d’accesso, quindi, come i veicoli da trasporto poggiarono a loro volta le ruote sulla pista, fece un cenno ai suoi collaboratori.

«Avanti, sbrigatevi! Immettete questo raccolto nel circuito!» ordinò, e quelle corsero a scaricare degli enormi fusti metallici, collegandoli successivamente a dei grossi tubi semitrasparenti che emergevano dai muri e all’interno dei quali, di lì a pochi secondi, iniziò a scorrere una sostanza rossa e densa.

«Ma si può sapere che è successo?» chiese allora la ragazza scura a Yuko portandole una bottiglia d’acqua. «Avevano detto che sarebbe stato un lavoro semplice.»

«Il Mietitore» balbettò in quella Julia, gli occhi fuori dalle orbite e il cavallo della tuta infradiciato. «Abbiamo incontrato il Mietitore.»

«Che cosa!?»

Al che la mora rimase di sasso, voltandosi nuovamente verso Yuko.

«Ma… è la verità?»

«Sì, Lavinia. Era Eric. O almeno così hanno detto Jamie e Ingrid.»

«Oh, santo cielo. Allora è vivo.»

«E non era da solo.»

 

Il Comandante supremo di Reunion, Alexia Asgard, era in assoluto la persona più misteriosa, e per certi versi affascinante, di tutta l’isola.

Si diceva che fosse nata e vissuta a Reunion per tutta la vita, ma nonostante ciò aveva una conoscenza del mondo esterno e delle sue regole quasi inconcepibile che, a dare retta alle storie, non aveva mai conosciuto altro mondo all’infuori.

In pochi conoscevano qualcosa di più sul suo conto, mentre per le Norma più giovani rappresentava una sorta di modello, un esempio da seguire anche nelle situazioni più disperate; aveva tenuto insieme la comunità con il pugno di ferro, guidandola anche all’indomani dell’apocalisse in quella pericolosa, e per certi versi ingrata missione, per la quale aveva selezionato personalmente le reclute più forte, risolute e determinate a sua disposizione.

Quando Jamie aprì la porta delle sue stanza, come spesso accadeva la trovò lì, seduta ad una delle poltroncine del suo elegante salotto, gli occhi chiusi e l’espressione serena mentre si lasciava trasportare dalla superba melodia del suo violino.

I suoi corti capelli bianchissimi, ricadendo sulle spalle, le contornavano elegantemente il viso ovale, mentre il fisico, longilineo ma in carne, dominato da un seno generoso ma non eccessivo, la faceva rassomigliare più ad una modella che ad un soldato.

«Comandante, Eric è ricomparso a Mitsurugi

«Eric?» rispose Alexia senza smettere di suonare. «Non avrei mai pensato di sentire ancora questo nome.»

«E non è finita qui, Mia Signora. Abbiamo trovato il Graal.»

La musica si fermò di colpo, gettando la stanza in un silenzio irreale, ed Alexia, alzatasi in piedi, fulminò Jamie con i suoi occhi grandi e profondi, due lame di ghiaccio; secondo alcuni l’eterocromia era una ulteriore prova dell’unicità del Comandante, ed aggiungeva indubbiamente un ulteriore tocco di mistero alla sua figura.

«Ne sei sicura?»

«L’ho vista con i miei occhi, Comandante.»

«Convoca le altre. Immediatamente.»

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Scusate questo lungo, interminabile silenzio, ma ho avuto una marea di cose da fare e pochissimo tempo libero.

Per fortuna questo capitolo non è stato molto complicato da scrivere, così una volta che l’ho iniziato il resto è venuto da sé permettendomi di procedere spedito.

E ora, le cose si fanno serie.

A questo punto possiamo pure dire che la prima parte della storia (dividendola virtualmente in quattro) se n’è andata. Ovviamente si tratta della più breve, e la narrazione del viaggio da Mitsurugi fino a Rosenblum si porterà via un bel po’ di capitoli, ma direi che è già un bel risultato.

Grazie come sempre a Taiga per le sue recensioni.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 7
*** SECONDA PARTE ***


SECONDA PARTE

JOURNEYS

 

 

Il colpo incassato dal Vilkyss era stato molto più grave del previsto, tanto che alcuni sistemi erano andati in tilt.

Invece, il ragna-mail usato da Sylvia non aveva subito alcun danno apparente, e la ragazza, rientrata nel proprio mezzo, si era nuovamente scagliata contro la sorella, impegnandola in un duro corpo a corpo.

«Perché lo state facendo?» domandò Ange cercando, faticosamente, di opporsi all’assalto

«Anche se te lo spiegassi dubito che riusciresti a capire» rispose, fredda, Sylvia. «Del resto, non sarebbe altrimenti. Ormai è questo il tuo mondo, e di quello che succede nel nostro non potrebbe fregartene di meno, ho ragione?»

Tusk, nel frattempo, era riuscito a riprendere almeno in parte il controllo del suo para-mail, ma quando provò ad andare in soccorso della sua compagna quell’individuo in nero, veloce come un fulmine, gli comparve nuovamente davanti, piombandogli addosso dall’alto e cercando di segarlo in due.

Il ragazzo si difese con la sua spada, ma benché fosse cinquanta volte la katana del nemico quest’ultima riuscì a tagliarla in due come fosse fatta di cartone, producendo oltretutto un’onda d’urto così potente da scagliare il para-mail in basso, fino sulla superficie del mare.

«Maledizione!» imprecò Tusk cercando di riottenere nuovamente il controllo.

Quando risollevò gli occhi il suo assalitore era lì, davanti a lui, in piedi sul cadavere di un drago rimasto a galleggiare sulla superficie, la katana insanguinata in mano e gli occhi, appena scrutabili oltre la visiera del casco, puntati verso di lui.

I loro sguardi si incontrarono, e in quel momento Tusk avvertì un brivido, con le sue mani che si serrarono con forza attorno ai comandi, tremando vistosamente.

Non poteva crederci.

Non poteva essere vero.

«Tu…» balbettò. «Sei vivo?»

 

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