Dalla A alla Z di Emapiro95 (/viewuser.php?uid=133912)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** A new student ***
Capitolo 3: *** B.C.S. ***
Capitolo 4: *** Candid ***
Capitolo 5: *** Daniel ***
Capitolo 6: *** Enhancement ***
Capitolo 7: *** Fading ***
Capitolo 8: *** Girlfriend ***
Capitolo 9: *** How To Fix Things ***
Capitolo 10: *** Innocence ***
Capitolo 11: *** Jack Skeleton ***
Capitolo 12: *** Keeping The Distance ***
Capitolo 13: *** Lean on me ***
Capitolo 14: *** Meetings ***
Capitolo 15: *** New bonds ***
Capitolo 16: *** Over you. ***
Capitolo 17: *** Perspective ***
Capitolo 18: *** Quasi-friends ***
Capitolo 19: *** Reality's a B**** ***
Capitolo 20: *** Sciences ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Prologo
Mi svegliavo nello stesso letto, facevo colazione con le
stesse persone, percorrevo la stessa strada, mi dirigevo alla stessa scuola,
portavo gli stessi libri, frequentavo le stesse persone, avevo la stessa
popolarità ed amavo la stessa persona.
Il mio nome è Jared Maycon, e questa è la mia storia, la storia di come tutta
questa monotonia fu distrutta. Bastò il suo arrivo perché tutto cambiasse…
Dalla “A” alla “Z”.
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Capitolo 2 *** A new student ***
1 - A new student
Capitolo 1- “A new student”
Il panorama si stendeva di fronte ai miei
occhi, che vagavano inquieti su ogni singolo particolare della distesa di prato
che si intravedeva dal finestrino dell'aereo.
Odiavo l'aereo, mi rendeva nervoso... Era come se non riuscissi più a
controllare tutto ciò che accadeva nella mia vita, troppo lontana dalla terra
ferma. Solo che quella volta ero stato "costretto" a prenderlo. Non
perché qualcuno me lo avesse imposto, ma perché da Vancouver a Londra di sicuro
non potevo muovermi a nuoto o con un transatlantico.
Ero andato nella capitale canadese dei giovani per trovare i miei zii, che non
vedevo da una vita ormai; avevo sfruttato l'occasione per svagarmi un po' prima
dell'inizio della scuola, che avrebbe ripreso in pochi giorni, tre, per essere
precisi.
Distolsi lo sguardo dalla distesa di verde, che era stata occultata da un manto
di nuvole vaporose, e mi sistemai meglio sul sediolino, trovandolo sempre più
scomodo di prima.
«Ehi, tutto bene?» Mi chiese il ragazzo seduto affianco a me, «sei
pallidissimo.» continuò lui, non rendendosi conto, forse, di essere ancora più
bianco di quanto non lo fossi io in quel momento.
«Sisi, grazie.» risposi gelido, finendo lì quel breve scambio di battute e
sistemandomi la mascherina in modo tale da poter chiudere tranquillamente gli
occhi.
Il viaggio continuò senza intoppi, dopo che mi fui addormentato.
Appena aprii gli occhi, quello che vidi furono due occhi che mi ricordarono
subito il verde della distesa di prato che avevo osservato mentre eravamo in
aria. La mascherina mi doveva essere scivolata perché ora c'era anche troppa
luce.
«Scusa se ti ho svegliato, ma siamo appena atterrati all'aeroporto di Gatwick»
Disse semplicemente lo stesso ragazzo che poco prima si era interessato al mio
pallore.
«E’ un tuo passatempo rompere le scatole agli
sconosciuti?» Esclamai io, dando libero sfogo al nervosismo che quel viaggio mi
aveva provocato.
Senza rivolgermi neanche una parola, mi fissò
dritto negli occhi e, sempre muto come un pesce, mi voltò le spalle e si
diresse verso l’uscita dell'aereo, percorrendo silenziosamente lo stretto
corridoio del velivolo.
Mi alzai, presi la borsa dal portabagagli posto sopra la mia fila di sediolini,
e seguii la fila di passeggeri, dirigendomi fuori dall'odiato mezzo di
trasporto.
L'abbraccio appiccicoso di mia madre
all'uscita dell'aeroporto durò più del previsto, e questo sicuramente non mi mise
a mio agio, dato che avevo paura che qualche mia conoscenza mi vedesse in
quella condizione. Una paura alquanto stupida perché, parlando onestamente, chi,
tra le persone che conoscevo, prendeva l'aereo così, tanto per?
Mia madre era di statura alta, capelli neri come i miei, e di bell'aspetto,
soprattutto per avere quarantasei anni appena compiuti. Mio padre, invece, a stento
mi ricordavo com'era fatto. Si era dovuto trasferire a Parigi per lavoro circa
sei anni prima, e questo lo costringeva lontano da casa per tutto l’anno,
eccezion fatta per alcune feste dell'anno.
Aveva gli occhi marroni e i capelli di un
biondo scuro; l'unico gene che avevo ereditato da mio padre era la forma degli
zigomi, duri e decisi, quasi austeri. Il colore dei miei occhi, invece, era di
una tonalità particolare di blu, scuro e profondo, con sfumature di grigio
scuro, che avevo, senza alcun dubbio, ereditato dal mio nonno paterno.
L’interrogatorio, come mi aspettavo che sarebbe successo, fu estenuante e durò
per tutto il tragitto verso casa, e anche una volta arrivati.
Mia madre, nonostante l’aspetto non lo desse a
vedere, era estremamente protettiva e aveva un fare altrettanto materno.
Non appena mi diede anche la più piccola pausa, sgattaiolai al piano di sopra,
chiudendomi in camera mia, ed ebbi finalmente la possibilità buttarmi sul
letto, che non vedevo da ben due giorni, date le continue nottate con gli amici
che avevo rincontrato lì.
Non appena toccai il materasso sprofondai in un sonno che durò tutto il giorno
seguente, e parte della notte successiva.
Il giorno seguente volò, tra acquisti
dell’ultim’ora e saluti generali ai familiari che non vedevo da un mese o giù
di lì.
Quando tornai a casa, dopo essere stato fuori
con mia madre per gran parte del primo pomeriggio a comprare libri e
quant’altro, iniziai ad agitarmi per l’inizio della scuola, come ogni dannato
anno.
Ogni volta che la scuola riprendeva, mi
sentivo sommerso da tutti gli impegni che iniziavano ad accavallarsi.
Soprattutto perché non potevo permettermi neanche la più piccola distrazione, poiché
bastava un soffio a far crollare la mia reputazione (che mi ero guadagnato
grazie alla mia posizione di capitano della squadra di palla a nuoto) e la mia
media, necessaria per gli studi che avevo intenzione di intraprendere dopo la
fine della scuola liceale.
E così, con queste mille preoccupazioni che mi
affollavano la testa, mi rimisi a letto, sperando che Orfeo non impiegasse
molto a venire a farmi visita.
«Jared, tesoro, alzati, su!»
L’urlo di mia madre arrivò chiaro e tondo alle mie orecchie
al primo colpo, poiché Orfeo, alla fine, non si era presentato lasciandomi
libero di progettare la mia entrata a scuola quella mattina. Ero anche
emozionato, a dire la verità. Non tanto per la scuola, ma perché ero contento
di rivedere i miei amici di sempre… Aaron, Max, Daniel e tutti gli altri. E poi
c’era Lydia…
Lydia. Come avevo fatto a non pensarci?! Avrei dovuto
chiamarla subito dopo essere atterrato! Me l’aveva espressamente chiesto!
Mi alzai di scatto dal letto, presi i vestiti che mi ero
preparato la sera prima sulla sedia della
scrivania ed entrai in bagno per prepararmi quanto più in
fretta possibile, sperando di riuscire ad incontrare Lydia sulla strada per la
scuola.
Lydia era la mia ragazza, ed era anche la studentessa più
popolare di tutta la scuola. Aveva lunghi capelli di un biondo scuro e degli
occhi color nocciola che creavano un bellissimo contrasto con la chiarezza
della sua pelle.
La amavo, questo era sicuro.
Scesi in fretta le scale di casa mentre mi mettevo la
cartella a tracolla, e, appena fui arrivato in cucina, salutai velocemente mia
madre e presi, altrettanto velocemente, il solito cornetto che mia madre
comprava al bar vicino casa per l’inizio di ogni anno scolastico.
«Grazie ma’, devo scappare!» Le dissi, chiudendomi la porta
alle spalle con un leggero tonfo e iniziando la solita strada che portava alla
mia scuola, guardandomi a destra e a sinistra per vedere se, miracolosamente, Lydia
si trovasse a passare di lì.
Era su tutte le furie, ne ero sicuro al mille per mille.
Nonostante l’avessi continuata a cercare come un disperato,
non la vidi da nessuna parte.
Appena arrivai al cortile dell’edificio, intravidi
immediatamente i miei compagni di squadra di palla a nuoto che parlottavano tra
loro, raccontandosi delle proprie vicende estive appena volte al termine, e
salutandosi con calorose pacche sulle spalle.
«Ehi, guardate chi c’è! Il grande capitano Maycon è
arrivato!» Esclamò Daniel con un sorriso spavaldo stampato sulle labbra.
«Sì sono arrivato, e sono pronto a dettare legge!» Dissi,
dando corda a Daniel, il cui sorriso si allargò ancora di più. «Da quanto
tempo!» Esclamai poi, avvicinandomi ancora di più al gruppo e abbracciandoli
uno ad uno.
«Ehi, stai lontano, non vorrei che la gente pensasse che
siamo dei ricchioni.» Disse Joshua, poco prima che lo abbracciassi, con un tono
di voce che sembrava tutto tranne che scherzoso.
«Sono più etero di tutti loro messi assieme, se si contano
tutte le gnocche della scuola che mi sono fatto.» Ribatté Aaron, il belloccio
della squadra, con un sorriso malizioso dipinto sulle labbra.
«Intanto però io mi sono fatto tua madre, tu no.» Replicò
Max, con il suo solito fare da spaccone.
Non riuscii a trattenere un sorriso - ogni anno, ogni volta
che tento di abbracciare Joshua, partiva questo scambio di battute.
Entrammo nell’aula d’inglese (che bell’orario: alla prima
ora inglese!) e ci sedemmo ai soliti posti di sempre - io al centro; alla mia
destra Aaron, alla mia sinistra Max, davanti a me Daniel e, infine, dietro di
me Joshua.
«Ho sentito che c’è un nuovo arrivato, un Exchange student.
Viene dalle parti dell’America, non ho capito con precisione.» Mi sussurrò
Aaron dalla mia destra.
«Un nuovo studente?» Chiesi, più per riflettere sulla
notizia che per altro. «Ma quindi quest’anno ci sarà il B.C.S.?»
«Boh… Penso di sì… Di solito è così» Rispose il ragazzo.
«Perché scusa? Ti interessa per caso?» Domandò.
«Se veramente voglio fare medicina, mi serviranno quanti più
crediti riuscirò ad accumulare.» Risposi, in modo pratico, e chiudendo lì la
questione.
Aaron non si sbagliava - c’era veramente un nuovo studente
che avrebbe frequentato la nostra scuola quell’anno, o meglio, quel semestre.
Si chiamava Alex, veniva da Vancouver e aveva occhi verdi come un prato a fine
estate.
Spazio dell'autore:
Hello! ^^
Allora, cercherò di non perdermi in ciance: ho scritto questa
storia un po' di tempo fa, nel periodo in cui stetti a Londra per 6
mesi, e necesitavo di una sorta di valvola di sfogo, sentivo la
necessità di dire a qualcuno quello che mi aspettavo e come mi
sentivo laggiù. E niente... Spero vi piaccia più di
quanto piaccia a me!
Buona lettura, e mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate ;)
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Capitolo 3 *** B.C.S. ***
wd
Capitolo 2 – "B.C.S."
Ho deciso di
pubblicare il secondo capitolo nonostante il primo non abbia avuto per
nulla successo, perché mi sono detto che non fa niente, che
l'importante per me ora è sapere di condividerlo con qualcuno :)
Vabbè fatemi sapere se vi piace o meno :/
«Alex rimarrà alla Callsworth Academy fino al
mese di febbraio, e mi aspetto da tutti voi il massimo rispetto e la massima
accoglienza.» Disse la signora Dorpall, guardando tutta la classe con il solito
fare minatorio che, a tutti quelli che non la conoscevano bene, poteva sembrare
una facciata di gentilezza. «Ma, soprattutto,» ricominciò la professoressa, «mi
aspetto da UNA persona in particolare la migliore accoglienza che l'istituto
possa offrire.»
Alex aveva abbandonato la propria espressione di felicità, lasciando il posto
ad un'espressione interrogativa. Si vedeva lontano un miglio il suo smarrimento
dovuto al ritrovarsi catapultato in un universo completamente diverso da quello
a cui era abituato.
«Mi scusi signorina Dorpall,» chiesi, alzando la mano, «ma quindi sono aperte
le candidature per il titolo di B.C.S.?»
«Sempre che io non abbia parlato un'altra lingua, signor Maycon, sì, ho appena
detto quello.» Rispose, acida come suo solito.
«E, se non chiedo troppo, non è che si potrebbe sapere come si svolgerà?»
Chiesi, irritato già il primo giorno dalla solita professoressa d’inglese.
«Come ogni anno, signor Maycon,» rispose, facendo finta di non aver notato il
mio tono sarcastico, «coloro che desiderano candidarsi dovranno scrivere il
proprio nome su questo foglio di carta, – disse sollevando un comunissimo
foglio bianco - e poi, alla fine della giornata, lo studente, in questo caso
Alex, sceglierà tra i nomi proposti. È riuscito a capire o devo rispiegare
tutto daccapo, signor Maycon?» Concluse lei con un tono di voce che normalmente
non avrebbe fatto altro che fomentare il mio odio nei suoi confronti, ma che in
quell’occasione mi entrò in un orecchio e mi uscì dall’altro.
-Perfetto, pensai, per come ho trattato quel ragazzo sull'aereo,
non sceglierà mai me come suo B.C.S.-
Lacrime di rabbia e di triste rassegnazione iniziarono a raccogliersi sulle
mie palpebre, rischiando pericolosamente di cadere. E pensare che i crediti che
avrei ricevuto con il B.C.S. sarebbero stati più che fondamentali ai fini della
graduatoria alla facoltà di medicina dato che, l’anno precedente, mi ero
piazzato solamente secondo nella lista annuale di crediti dovuti all’impegno.
Quando la campanella suonò, mi alzai immediatamente dalla
mia sedia e raccolsi le mie cose alla meno peggio, avviandomi con passo veloce
verso la porta e dirigendomi verso l’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di
chimica.
Entrai nell’aula numero 7 e presi subito posto, buttando i
miei libri sul banco da lavoro. Già solitamente odiavo le ore di scienze, ma
quest’anno si prospettavano ancora più terribili - nessuno dei miei amici,
nemmeno Aaron, che si era sempre dimostrato interessato alla materia in
questione, avevano aderito al corso, lasciandomi, così, da solo in mezzo ad una
miriade di ragazzine che mi guardavano con occhi sognanti, e ad una mandria di
secchioni che nelle loro vite non avevano altro che lo studio. La solita classe
di scienze, insomma.
Se non per lui.
Alex entrò guardandosi attorno incuriosito e i suoi occhi si
posarono subito sui miei, come attratti da una calamita. Così come i suoi
piedi.
Lo vidi camminare attraverso l’aula e dirigersi verso la mia
postazione, che era rimasta, come al solito, vuota. Come se una bolla di
riverenza ostacolasse a tutti gli altri di avvicinarsi più del necessario.
Appena posò il suo zaino sul banco, mi feci quanto più
piccolo possibile ed iniziai a cercare nella mia borsa un qualcosa che neanche
io sapevo di preciso cosa fosse, sapevo solo di dovermi distrarre, con
qualsiasi cosa.
«Ehi…» Disse poi, con un tono timido.
«Ehm… Ehi…» Risposi, non potendo fare finta di non aver
sentito la sua voce.
Alex si dondolò sui talloni, senza dire niente, in evidente
imbarazzo. E così finimmo la nostra conversazione, fino a che il professore non
fece il suo ingresso in aula, assegnando immediatamente il compito da svolgere,
senza neanche degnarsi di salutare gli alunni.
Mentre prendevo il contagocce, notai Alex che mi squadrava
curioso, e gli lanciai un’occhiata repentina.
«Hai una faccia conosciuta.» Annunciò poi, grattandosi il
mento ricoperto da una leggera barbetta bionda per pensare meglio.
«Non penso che ci siamo già visti prima d’ora…» Replicai io,
scompigliandomi i capelli neri per cercare di rendere la mia faccia un po’ meno
riconoscibile.
La lezione continuò senza più nessuna interruzione, con Alex
che in alcuni momenti continuava a squadrarmi, cercando di ricordare dove
avesse visto la mia faccia.
Non diedi nemmeno il tempo alla campanella di finire di
suonare che raccolsi le mie cose dal banco e mi avviai verso la porta.
«Ehi aspetta!» Mi urlò dietro Alex, raggiungendomi in un
batter d’occhio. Non potetti fare a meno di notare che teneva in mano la mia
agenda, e che me la stava allungando, con un sorriso a trentadue denti impresso
sulle labbra. «Ti sei dimenticato la tua agenda.» Spiegò lui, continuando a
sorridermi e ad osservarmi dritto negli occhi.
«Oh… Ehm, grazie… Be’ io dovrei andare…» Farfugliai, non
volendo che il biondo ricordasse la mia faccia.
«Ecco dove ti ho visto!» Esclamò il canadese.
Troppo tardi…
«Eri alla lezione d’inglese… Sei quello che ha
fatto quelle domande alla professoressa!» Continuò, raggiante per essere
arrivato alla conclusione. Poveretto, pensai, non sapeva che era la conclusione
sbagliata. Meglio approfittarne.
«Ahah, sì, giusto!» Esclamai, fingendo di ricordarmi anch’io
solo in quell’istante. «Sei l’Exchange Student, giusto?» Chiesi.
«Sìsì, sono io.» Rispose, sorridendomi.
Lo guardai negli occhi, domandandomi se veramente non si
ricordasse o se stesse fingendo. Ma perché mai avrebbe dovuto farlo, in fin dei
conti?
«Ho notato un certo interessamento a questo “B.C.S.” da
parte tua, prima.» Riprese Alex.
«Oh quello? Il titolo di “Best Cozy Student”*? No, non era niente, solo che il mio amico non aveva
il coraggio di prendere la parola.» Risposi, inventandomi subito la seconda
bugia.
«Oh be’… Io ora devo andare a sociologia, ci becchiamo in
giro!» Mi sorrise il biondo, avviandosi velocemente per il corridoio principale
della scuola.
Se non si ricordava dell’aereo, allora avevo ancora speranze
di essere scelto come B.C.S. Dopotutto ero l’unico con cui avesse intrattenuto
una conversazione (se così potesse essere definita) fino quel momento.
Mi avviai verso l’aula di inglese, approfittando di quella
piccola pausa, offertaci generosamente dall’abituale ritardo del coach
Greetnorth.
Quando entrai nell’aula numero 3, la professoressa Dorpall
mi guardò con la sua solita occhiata acida, e mi chiese:
«Che ci fa lei qui, signor Maycon?»
«Mi scusi signorina Dorpall, ma volevo segnarmi come
candidato per il titolo di B.C.S.» Le dissi, con il tono più gentile che
riuscii ad utilizzare.
«Doveva pensarci prima, signor Maycon.» Replicò lei, con il
solito tono glaciale. «Le candidature sono chiuse.»
«Ma come sarebbe a dire “sono chiuse?!”» Esclamai, iniziando
ad alzare il tono della voce. Lo stava facendo apposta, per la frecciatina che
le avevo riservato quella mattina a lezione. Brutta vecchia bisbetica.
«Oggi ha qualche problema d’udito o mi sbaglio signor
Maycon?» Chiese acida. «In ogni caso ora devo fare lezione a tutti gli studenti
che mi stanno aspettando e che, a differenza sua, sono dove dovrebbero essere,
ovvero in classe. Arrivederci.» Concluse, scortandomi fuori dall’aula.
Ogni volta che qualcosa mi turbava la mia mente si andava a
rifugiare in un mondo completamente diverso. Un mondo completamente vuoto a
cui, ogni volta, potevo aggiungere tutto ciò che volevo – da un tostapane alla
luna – senza la paura di essere fermato ed ostacolato da nessuno.
Con solamente il corpo nel mondo reale, mi avviai verso la
piscina, sollevato, in minima parte, dall’idea che in pochi minuti avrei potuto
sfogare la mia frustrazione nella palla a nuoto.
Ed infatti fu proprio così. Non appena mi fui completamente
immerso nell’acqua della piscina e fui entrato in possesso palla, iniziai a
sfogare tutto il mio risentimento nei miei stessi tiri, facendo brillare gli
occhi del coach per l’euforia e per la contentezza.
Stava incitando la squadra, complimentandosi per l’ottima
forma in cui eravamo. Ma io non ascoltavo una singola parola di quello che
diceva, indaffarato com’ero ad incanalare tutte le mie emozioni in quell’unico
oggetto sferico che volava dalla mia mano alla rete della porta con una
velocità sconvolgente.
Non appena uscii dalla piscina, mi infilai sotto il getto
caldo della doccia, lasciando che quest’ultima mi rilassasse i muscoli, resi
tesi dal troppo stress e dall’altrettanto sforzo che avevo appena adoperato.
«Ehi Maycon, tutto bene?» Mi chiese Daniel dall’altro lato
del muro della doccia.
«Sì perché?» Replicai io con un’altra domanda, cercando di
non farci trasparire tutto il mio nervosismo.
«No niente, è solo che mi sei sembrato alquanto nervoso
prima in piscina.» Rispose, «Ma se dici che non è niente, allora è così.»
Concluse il mio compagno di squadra, allontanandosi.
Mi vestii in fretta e furia, dato che la campanella stava
per suonare e io mi ero trattenuto più del dovuto sotto la doccia, e, quando
ebbi finito di prepararmi, uscii dallo spogliatoio, dirigendomi verso l’aula numero
3, l’aula d’inglese.
-Non posso fare tardi,
non posso!- Pensavo, mentre mi avviavo, con un passo talmente veloce da
sembrare che stessi correndo, verso una ramanzina certa.
«Bene, ora, vediamo chi è stato scelto dal signor Tremblay
come sua guida per il resto del semestre…» La voce della professoressa Dorpall
si sentiva chiaramente per gran parte del corridoio.
-Perfetto,-
Pensai, mentre mettevo la mano sulla maniglia della porta dell’aula numero 3, -La lezione è già iniziata, ci mancava solo
che facessi ritardo oggi!-
«Jared Maycon.» Disse la professoressa Dorpall con la sua
solita voce gelida.
«Lo so, sono in ritardo, mi scusi signorina Dorpall.» Dissi,
emulando il miglior tono colpevole del mio repertorio. «E’ solo che il coach
Greetnorth mi ha trattenuto più del previsto, doveva parlarmi di alcune cose
riguardanti la squadra. Sa, in quanto capitano della squadra ho dei dov…»
«Oh stia zitto!» M’interruppe la professoressa,
evidentemente infastidita. «Se fosse arrivato puntuale, avrebbe evitato tutta questa
messa in scena, dato che sarebbe stato al corrente del fatto che stavo
proclamando il candidato vincitore.» Spiegò, senza evitare di lanciarmi una
frecciatina.
Eppure continuavo a non capire, di solito non mi chiamava
per nome e cognome, e di sicuro non si prendeva la briga di farmi una manfrina
così lunga. «Congratulazioni, signor Maycon, lei, da questo momento in poi,
fino alla fine del semestre, sarà il B.C.S. del signor Alex Tremblay.» Mi
spiegò, con un tono di voce che sembrava tutto tranne che contento. Almeno non
per me.
Mentre mi avviavo verso il mio banco, muovendomi come un
automa, notai il sorriso compiaciuto di Aaron, e, dietro di lui, un paio di
occhi verde smeraldo che mi fissavano, come due magneti attratti da una
calamita, colmi di felicità.
* Letteralmente significa:
“Studente più accogliente”. Titolo che consiste nell’aiutare un Exchange
student, o semplicemente un nuovo studente, ad integrarsi nella scuola e nella
società in generale. Non esiste nella “vita reale” ma, data la mia esperienza,
penso che sarebbe “pretty awesome”.
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Capitolo 4 *** Candid ***
Candid
Capitolo 3 – “Candid”
Ero in fila per prendere il solito pranzo “self-service”
alla mensa della scuola, e affianco a me c’era Aaron, che stava ridendo per la
mia espressione.
«Oh andiamo,» Disse poi, riuscendo miracolosamente a fermare
l’attacco di riso per un breve istante, «ora non mi dire che non ti ha fatto
piacere!»
«Non è questo,» Ribattei io, esasperato, «è solo che avresti
dovuto dirmelo!» Ripetei per la decima volta.
«Ma che ti cambia?» Chiese, «Il risultato che hai ottenuto è
lo stesso, no?»
Mi arresi. Era inutile discutere con Aaron, riusciva sempre
a farla franca, in un modo o nell’altro. Anche se a dirla tutta quella volta
non c’era voluto molto, giacché non ero arrabbiato con lui al punto tale da
aggredirlo.
E l’unico motivo per cui non avevo raggiunto quel livello
d’arrabbiatura, era che dentro di me c’era un conflitto.
Aaron aveva messo il mio nome tra quelli dei candidati per
il titolo di B.C.S. e io, dopo essere stato nominato, ed aver scoperto che
c’era lui dietro tutto quanto, ero andato su tutte le furie. Non perché non
volevo quel titolo, ma perché ora la “signorina”
Dorpall si era insospettita, e di sicuro questo voleva dire che se la
sarebbe presa con me.
O almeno era questo il motivo che utilizzavo come facciata.
La realtà era che odiavo che le cose mi venissero fatte alle
spalle, anche se in buona fede, e credevo che ormai Aaron, Daniel e tutti i
miei amici più vicini, l’avessero capito.
«Dai, mica sei ancora incazzato?» Chiese Max, seduto al
solito tavolo, non appena io ed Aaron ci fumo avvicinati.
Non risposi. Non con le parole almeno – gli li lanciai una
delle mie solite occhiate acide che riservavo solo alle persone che mi incrociavano
in un brutto momento… E quello era senz’altro un brutto momento.
«Oh andiamo!» Esclamò Daniel, allargando le braccia con fare
esasperato.
Senza neanche pensarci, ripresi il vassoio tra le mani, mi
alzai dalla panchina, e mi avviai verso il tavolo cui di solito sedeva Lydia,
sperando di trovarla lì.
Adocchiai il suo tavolo, e, seduta attorno ad esso, tutta la
sua piccola comitiva di ochette petulanti che, non appena mi videro avvicinare
il tavolo, iniziarono a bisbigliare tra di loro.
Odiavo quando facevano così. Sembrava che dovessero per
forza giudicare ogni singolo movimento di ogni singolo individuo.
Non appena fui alla distanza necessaria, sorrisi
amorevolmente ad ognuna delle ragazze che circondavano Lydia, per poi posare un
rumoroso bacio sulle labbra di quest’ultima, che rimase allibita.
Tutto lo stormo di oche si disperse in un batter d’occhi,
bastò una semplice occhiata del loro capo, Lydia.
Appena si furono allontanate quanto bastava, mi sedetti
affianco alla mia ragazza, che continuava a fissarmi con aria adirata.
«Scusa…» Iniziai immediatamente dopo che mi fui sistemato al
mio posto. «Scusa scusa scusa scusa.»
«E’ inutile che ti scusi,» Mi interruppe lei, alzando gli
occhi dal piatto, «non sono arrabbiata con te.» Concluse facendo spallucce.
«Scusa scusa scus… Aspetta, che hai detto?!» Esclamai
allibito, fissandola.
«Mi hai sentito, non sono arrabbiata.» Ripeté lei, con tutta
la nonchalance che avesse da offrire. «Eri appena arrivato da un volo di 9 ore,
eri stanco, è comprensibile che tu non mi abbia chiamato…»
«Ma come faccio io ad avere la fidanz…»
«…Subito dopo essere atterrato…» Riprese lei,
interrompendomi. «Non è comprensibile il fatto che tu non mi abbia chiamato
nemmeno nei due giorni restanti dall’inizio della scuola.»
«Quindi tu sei arrabbiata.»
Riassunsi io.
«E’ logico che
sono arrabbiata!» Esclamò. «Dovevi fare solo una cosa: chiamare! Ma non sia mai
tu l’avessi fatta! No, il signorino Maycon doveva riposare per tre giorni
interi, non poteva mica prendersi la briga di pensare alla povera fidanzata
rimasta bloccata a Londra per tutta l’estate?!»
«Ok, ora non credi di stare un poco esagerando, Ly?» Chiesi.
Mi ero aspettato una manfrina, ma non mi aspettavo quel genere di manfrina. «Senti…» Iniziai, dato che l’esperienza mi
aveva insegnato che se volevo risolvere le cose con la mia ragazza dovevo fare
io la prima mossa. «Mi dispiace, è solo che ho avuto veramente un casino di
cose per la testa. Poi si è aggiunta pure mia madre, che mi ha fatto andare
avanti e indietro, presa dalla solita ansia che precede l’inizio della scuola.
Mi dispiace, sul serio.»
Lydia alzò lo sguardo e mi sorrise. «Vieni qua, cretino che
non sei altro!» Disse, prima di abbracciarmi e di darmi un bacio sulle labbra.
«Questo significa che mi hai perdonato?» Chiesi, senza
staccarmi del tutto dal suo viso e con un sorrisetto furbo dipinto sulla mia
faccia.
«Tu che dici, capitano?» Sorrise lei di rimando,
riavvicinando le sue labbra alle mie.
Non appena finimmo di mangiare, andammo in cortile a goderci
una delle rare giornate di sole che Londra poteva vedere in questo periodo
dell’anno e ci sedemmo sul prato.
«Ho sentito che sei stato scelto come B.C.S.» Disse Lydia,
iniziando il discorso.
«Sì, grazie ad Aaron.» Ammisi.
«So anche questo. E’ stato Aaron a dirmelo, secondo te
avrebbe tralasciato un dettaglio del genere?» Disse lei divertita, troncando
sul nascere la mia narrazione dei fatti.
Mentre continuammo a parlare del più e del meno, ma
soprattutto del mio viaggio in Canada, realizzai che tutto quello mi era
mancato. Mi erano mancate le chiacchierate in totale libertà che potevo fare
con Lydia, mi era mancato sentirla vicina, mi era mancato guardarla mentre
parlava. Mi era mancato tutto di lei, e di ciò che rappresentava nella mia
vita.
«Allora,» disse, riportandomi con i piedi per terra, «dimmi
qualcosa su questo nuovo ragazzo a cui dovrai fare da baby sitter.»
«Be’ no, non ci riuscirei neanche volendo.» Risposi,
lasciando trasparire che non m’importava minimamente di conoscerlo, ma che anzi
preferivo il contrario. «C’ho parlato una volta e l’ho trovato semplicemente
ridicolo. Rabbrividisco alla sola idea di dovergli fare da tutore.» Continuai,
prima di notare Lydia che mi faceva cenno di smettere di parlare, indicando
alle mie spalle.
Quando mi girai vidi soltanto Alex che si incamminava con la
testa bassa verso l’interno della scuola.
«O Cristo santo…» Borbottai io, prima di alzarmi per
inseguirlo. «Scusami amore…» Sussurrai a Lydia mentre mi allontanavo.
Lo trovai nel bagno dei maschi, fermo di fronte al
lavandino. Certo che aveva scelto un nascondiglio molto originale.
«Ehi…» Iniziai, indeciso.
Il biondo si girò di scatto, guardandomi in cagnesco.
«Senti, non sapevo che eri dietro di me altrimenti…» Non
avrei potuto scegliere parole meno idonee.
«Altrimenti cosa?!» Esclamò il canadese, girandosi per
guardarmi in faccia. «Non avresti detto che mi hai trovato “semplicemente ridicolo”?! Non mi avresti preso per il culo con la
tua ragazza?! Ma per piacere, stai zitto che è meglio.» Esclamò Alex con
un’aria indecifrabile dipinta sul volto.
«Senti, ho sbagliato a dire quelle cose, è vero, ma non
credi di stare esagerando?» Chiesi, con tutta la calma di questo mondo.
«Ma allora sei proprio deficiente, non fingi solamente!»
Rise il biondo. «Non è quello che hai detto che mi dà fastidio, è come lo hai
fatto! Non hai avuto le palle neanche di dirmele in faccia quelle cose.»
Continuò lui, spiegando cosa intendesse dire. Poi, non vedendo arrivare una mia
risposta, disse: «Hai la minima idea di cosa vuol dire catapultarsi in un
universo talmente diverso da quello cui si è abituati e sentirsi dire alle
spalle che si è ridicoli?»
«No, ma…»
«Fammi finire.» Disse, interrompendomi brutalmente. «Sai
cosa vuol dire ritrovarcisi da soli, in quest’universo completamente diverso?
No, non lo sai, e ti assicuro che non è una bella sensazione, ti assicuro che
ci si sente delle nullità, e di sicuro essere gay non aiuta.»
Silenzio.
Un’enorme cappa di silenzio e di imbarazzo calò sull’intero
bagno, prima che Alex prendesse il suo zaino e corresse fuori dal bagno,
assicurandosi di urtarmi la spalla nel farlo.
Era strano, mi dispiaceva, mi sentivo in colpa.
NdA:
Eccomi tornato da quella che è l'ultia tappa delle mie vacanze
(già?! ç.ç), e sono pronto a rompervi con questo
nuovo capitolo (per quanto questa storia possa interessare dato che
nessuno se la fila :'D)...
Be', buona lettura a quei pochi pazzi che stanno seguendo questa storiapocoamata u.u <3
Ah e vi ricordo due cose:
1- la pagina facebook (cliccate qui)
2- le recensioni fanno sempre piacere u.u
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Capitolo 5 *** Daniel ***
3qed
Capitolo 4 – “Daniel”
“Sai, oggi è successo qualcosa di strano… Non me lo sarei mai aspettato.
In realtà, a dirla tutta, sono
successe due cose, entrambe strane - prima di tutto sono stato scelto
come B.C.S., ovvero come guida di questo nuovo Exchange student che
è arrivato oggi, nonostante però non mi fossi nominato.
E’ stato Aaron a farlo, a quanto pare… Ed ecco la prima
cosa strana - insomma, non ha mai fatto una cosa del genere per una
persona al di fuori di se stesso!
La seconda cosa strana, invece, e
aspetta di sentire questa… Questo ragazzo, questo Exchange
student, Alex è il suo nome, mi ha sentito mentre commentavo i
suoi modi di fare con Lydia non in maniera proprio amichevole, e si
è incazzato. L’ho seguito nel bagno per dare e per avere
spiegazioni e quello che è successo non è stato
esattamente ciò che mi aspettavo - mentre mi urlava contro, mi
ha rivelato di essere gay, per poi andarsene imbestialito. Bah! Che
gente strana!
In ogni caso, questo è il resoconto della mia giornata, ora tocca a te.
Mi manchi,
J.”
Finii di scrivere la lettera e la chiusi, passando la lingua sul bordo
adesivo della busta, posandoci un francobollo in alto a destra e
scrivendoci accanto tutti i dati necessari.
Uscii di casa ed inserii la lettera nella cassetta della posta,
sperando che entro il giorno seguente sarebbe arrivata a destinazione.
Mi scrivevo con Kyle, un mio cugino di Vancouver, da quando un natale
ci parlammo per la prima volta. Avevamo deciso, quel giorno, che ci
saremmo dovuti scrivere per l’intera durata dell’anno
scolastico, escluse le vacanze estive che avremmo cercato a tutti i
costi di passare insieme; ed era proprio per quello che
quell’estate ero andato a visitare i miei zii nella città
canadese.
Il nostro patto era quello di raccontarci giorno per giorno quello che
accadeva durante la giornata appena trascorsa. Naturalmente non
riuscivamo mai a raccontare in fatti in presa diretta, ma comunque il
solo pensiero di avere una persona che si interessava per davvero a
quello che avevo da dire, mi faceva sentire meglio.
Mentre stavo salendo le scale per andare a studiare in camera mia, come
facevo ogni pomeriggio, iniziai a sentire il rumore della pioggia che
urtava contro i vetri delle finestre. Inspirai profondamente come se
potessi sentire da dentro casa l’odore della pioggia appena
caduta sul prato.
Non amavo la pioggia, o almeno non sempre… E il vivere a Londra non aiutava.
Kyle, d’altro canto, l’amava, sperava addirittura che
piovesse e quando questo non accadeva il suo umore peggiorava
impercettibilmente. E questa era solo una delle mille cose che ci
rendevano così differenti eppure così uniti.
Entrato in camera, presi il libro di chimica, mi sedetti sul letto a
gambe incrociate con il libro di testo poggiato davanti a me e iniziai
a leggere il capitolo sulla nomenclatura degli ioni poliatomici.
I miei occhi si muovevano da sinistra verso destra incessantemente,
sempre sulla stessa frase. “Un esempio invece di ione poliatomico
è [CO3]2-, che è formato da un atomo di carbonio e tre di
ossigeno.”
Di solito, nonostante la repulsione che avevo verso questa materia,
riuscivo a studiarla con relativa facilità. Ma, quella volta,
avevo la testa che mi portava da tutt’altra parte. Avevo fatto
bene a dire tutte quelle cose su Alex a Lydia? In fondo neanche le
pensavo veramente, era solo che mi sembravano le cose giuste da dire al
momento… Come che se avessi detto qualcosa di differente, Lydia
si sarebbe nuovamente arrabbiata con me.
Ma era stato giusto?
Scossi la testa per togliermi quei pensieri dalla testa. Non potevo certamente passare il pomeriggio pensando a quel frocio!
Mi sporsi dal letto e raccolsi il cellulare, aprendo la rubrica e selezionando il nome di Daniel. Premetti il tasto verde.
«Pronto?» Rispose il ragazzo dall’altro lato del cellulare.
«Ehi Dan,» Risposi io, mettendomi a sedere sul bordo del
letto. «Ti andrebbe di scendere un po’? Ci andiamo a
prendere un frozen yogurt.» Proposi, sperando che Dan accettasse.
«Certo!» Esclamò lui, leggermente sorpreso per l’offerta. «Dove ci vediamo?» Chiese.
«Vediamoci alle 17.30 davanti casa tua.» Risposi, terminando la chiamata.
-
La sveglia suonò puntuale come ogni giorno, ricordandomi che
l’anno scolastico era appena iniziato. Mi alzai lentamente dal
letto, passandomi pigramente una mano tra i capelli neri, completamente
scompigliati. Mi alzai in piedi, entrai nel bagno di camera mia ed
iniziai a prepararmi per la giornata che si prospettava terribilmente
pesante, date le lezioni che avrei dovuto seguire.
Uscii dal bagno, presi lo zaino, preparato la sera prima, e scesi in
cucina, dove mi aspettava una colazione di gran lunga diversa da quella
che mia madre mi aveva preparato per il primo giorno di scuola.
Percorsi la solita strada per scuola e mi fermai, come al solito, a
parlare con i miei amici nel cortile, aspettando che la campanella
segnasse l’inizio delle lezioni.
E, quando questo accadde, io, Aaron e Max ci avviamo verso l’aula
di psicologia, dove assistemmo alla lezione più noiosa mai vista
prima, resa interessante solamente dai commenti di Max sul fondoschiena
di Martha, che sedeva al banco davanti al nostro.
La giornata proseguì lenta, così come avevo prospettato.
Passammo da un’aula all’altra, dalle urla della
professoressa Cavermol, che ci dava delle capre, alle battute del
professor Grudgefur.
Era l’ultima lezione prima della pausa pranzo a spaventarmi -
inglese. Non mi spaventava per la professoressa Dupall e per le sue
frecciatine, ma per il fatto che un altro alunno avrebbe seguito quella
lezione: Alex Tremblay.
Non appena entrai nell’aula lo vidi là, seduto allo stesso
banco a cui si era seduto il giorno precedente, che si guardava
intorno. Abbassai lo sguardo, mi sistemai lo zaino sulla spalla e mi
diressi al mio posto, anche troppo vicino a quello del biondo.
Per tutta la durata della lezione rimasi a fissare la nuca bionda di
Alex, che, invece, aveva lo sguardo fisso davanti a sé.
Non appena suonò la campanella, raggiunsi, come al solito, Lydia
al solito tavolo della mensa. Lo spacco del pranzo era l’unico
momento in cui potevamo parlare con calma dato che lei aveva un anno in
meno a me e quindi frequentava corsi diversi, ed era per questo motivo
che cercavamo di non perdere neanche un secondo di quel tempo
prezioso.
«Ehi.» La salutai, accompagnando le parole con un bacio sulla bocca, che fu alquanto gradito.
«Ehi.» Rispose lei, sorridendomi dolce. «Come va?» Mi chiese poi.
«Tutto apposto.» Mentii, dopo un attimo di silenzio, per poi iniziare a mangiare.
Ogni volta che lo sguardo di Lydia non ricadeva su di me cercavo di
guardarmi intorno, in cerca di Alex, come se il solo vederlo potesse
lenire il conflitto che era in atto dentro di me.
Ed eccolo lì, impassibile, a mangiare quello che doveva essere il suo pranzo completamente da solo.
Era venuto nella scuola sbagliata, di questo ne ero sicuro. Qua non
avrebbe ricevuto l’accoglienza che si era aspettato. Qua non
sarebbe stato considerato simpatico per l’accento diverso, ma
sarebbe stato semplicemente discriminato ancora di più.
E improvvisamente il peso di tutto quello che era successo il giorno
scorso mi cadde sulle spalle, come un macigno scagliato con cattiveria
dall’ultimo piano di un palazzo, destinato ad un povero passante
che si ritrovava a camminare lì sotto.
«Devo fare un secondo una cosa.» Dissi anche prima di accorgermene a Lydia, che in risposta mi annuì.
Mi alzai dalla panca in legno chiaro e mi diressi verso il canadese che
alzò lo sguardo verso di me solo quando gli fui arrivato
talmente vicino da poter contare le briciole che il suo panino aveva
lasciato sul tavolo di legno. Mi fissò senza dire neanche una
parola per quella che sembrò un’eternità, con gli
occhi verdi semichiusi per via del sole, dopo di che ritornò a
concentrarsi sul suo panino.
Non sapendo cos’altro fare, mi sedetti sulla sedia di fronte a lui, muto come un pesce.
«Allora?» Chiese Alex alla fine, allargando le braccia e
rompendo quell’interminabile silenzio carico di tensione.
«Che vuoi? Sei venuto qua per fissarmi mentre mangio il mio
panino?»
«Senti,» dissi, «tu non mi piaci, e io non ti
piaccio.» Continuai, elaborando il discorso nella mia testa.
«E no.» Disse lui interrompendo la linea dei miei pensieri.
«Primo errore. Non è vero che tu non mi piaci, mi stai sul
cazzo, ti reputo stupido, infantile e chi più ne ha più
ne metta.» Continuò poi. «Ma non è vero che
non mi piaci. Magari fosse solo quello il problema.» Sorrise.
-Certo che ha una faccia tosta non indifferente!- Pensai, cercando di
non peggiorare la situazione con un attacco di rabbia. -Respira,
respira.- Mi dissi, per mantenere il controllo.
«Ok, ok.» Ammisi. «Siamo partiti con il piede
sbagliato.» Decretai, alzandomi e porgendo la mano in direzione
di Alex. «Piacere, sono Jared. Jared Maycon.» Mi presentai,
facendo finta che fosse la prima volta che vedessi il canadese.
Il biondo mi fissò la mano per un altro po’, prima di
alzarsi anche lui. «Devo andare in bagno.» Annunciò
poi, snobbando del tutto la mia mano e prendendo la propria roba, solo
per dirigersi poi verso l’interno della scuola.
Ero rosso per la rabbia e per la frustrazione, ne ero sicuro, per
questo motivo ritornai in fretta verso la mia fidanzata, che, non
appena mi vide sedere al tavolo, mi sorrise amorevolmente.
-
-E’ strano,- pensai mentre alzavo lo zaino e me lo sistemavo
sulla spalla destra, -sarà passato sì e no un quarto
d’ora e di Alex neanche l’ombra.- Scrollai le spalle,
fingendomi indifferente a quel pensiero e pensando che quella del bagno
non era altro che una scusa per andarsene.
Posai un bacio delicato sulla bocca di Lydia e poi mi avviai verso
l’aula di chimica, dall’altra parte dell’edificio,
cercando, come al solito, di arrivare in anticipo.
Ero all’inizio del corridoio che portava alla rampa delle scale
per il secondo piano quando sentii un forte tonfo, come qualcosa che
cade a terra. Continuai a camminare facendo finta di niente, arrivando
di fronte alla porta arancione del bagno dei maschi, da cui sentii
uscire uno strano rumore, come un gemito.
-Hanno iniziato a fare le sveltine nei bagni già il secondo
giorno di scuola?- Mi chiesi, inorridito dalla gente della mia stessa
età.
Stavo per sorpassare il bagno quando sentii un verso di dolore
provenire da oltre la porta. Mi fermai, incuriosito. Non erano i soliti
versi che si accomunavano ad un momento piacevole, ne ero sicuro.
Posai la mano sulla maniglia fredda della porta del bagno e feci pressione, aprendo la porta.
Quello che vidi una volta aperta la porta mi fece sperare di aver interrotto una sveltina.
Nel bagno c’era Daniel. E c’era anche Alex. Solo che
quest’ultimo era rannicchiato nell’angolo vicino ai
lavandini.
Sulla faccia di Daniel era dipinta un’espressione di rabbia
disumana; era quasi irriconoscibile, e si stava avvicinando
pericolosamente al canadese, che cercava di rimpicciolirsi il
più possibile.
Notai qualcosa di strano sugli zigomi di Alex. Qualcosa di
completamente innaturale sotto il suo occhio destro. Aveva un taglio
che si estendeva per l’intera guancia.
Poi la mia attenzione ritornò su Daniel, che ora sovrastava la figura minuta di Alex.
Vidi il suo pugno calarsi violentemente contro la faccia del biondo che
cercava di proteggersi alla meglio. Sentii il rumore della violenza
fisica rimbombarmi nella testa, bloccando tutti i ragionamenti
razionali.
Rimasi fermo lì, ad assistere ad uno spettacolo che avrei
volentieri fatto a meno di vedere. Come quand’ero piccolo e la
mamma mi costringeva ad andare al teatro, o come quando mi costringeva
a mangiare le verdure.
Sentivo la gente camminare e chiacchierare con disinvoltura dall'altra parte della porta del bagno, diretta nelle varie aule.
Percepivo lo sforzo che il canadese faceva per non urlare dal dolore
che quel pugno gli aveva provocato, e vedevo i suoi occhi inumidirsi
per le lacrime che stava cercando a tutti i costi di non far cadere.
Fu allora che capii che non era quell'atto di violenza a riempirmi di
ribrezzo, ma ero io. Fermo, immobile, come uno spettatore che si
rispetti.
Mi girai in modo meccanico ed aprii la porta del bagno, il più
silenziosamente possibile, per poi ricominciare a percorrere il
corridoio, fino ad arrivare di fronte alle scale.
Mi fermai di botto, spinto da una forza di gran lunga più
potente di quella che mi aveva fatto continuare a camminare. Ripercorsi
nuovamente il corridoio, questa volta a ritroso, ed entrai nel bagno,
non curandomi di quanto rumore facessi aprendo la porta.
Mi avvicinai di gran carriera a Daniel, che stava per calare nuovamente
la mano chiusa a pugno sul volto di Alex, che si stava proteggendo con
gli avambracci, e gli bloccai il braccio, giusto un attimo prima che
iniziasse ad abbassarsi.
Daniel rimase interdetto per un secondo, prima di girarsi verso di me ed urlarmi contro. «Ma che cazzo fai Jad?!»
«Strano, stavo per chiederti la stessa identica cosa.»
Replicai, lasciandogli il braccio ed avvicinandomi ad Alex, che mi
stava fissando stranito, con l’occhio destro socchiuso per il
gonfiore.
«Lo sai perché lo sto facendo! E’ un maledetto
finocchio!» Urlò in risposta Daniel, rosso in viso per la
rabbia.
Rimasi a fissarlo sconvolto. Come faceva a saperlo? Quando l’aveva scoperto che Alex era gay?
Mi riscossi da quei pensieri, ritornando a cose più importanti. «Ma che cazzo vai blaterando?!» Esclamai.
«Oh che c’è, ora sei diventato uno di quei
sostenitori dei finocchi?» Chiese lui di rimando, con talmente
tanto disprezzo nella voce da farmi rizzare i capelli dietro la nuca.
«Vi ho sentiti ieri mentre parlavate in bagno. Ho sentito che lui
ha detto di essere “gay”.» Spiegò,
enfatizzando velenosamente la parola “gay”, come se anche
solo a pronunciarla si sarebbe potuto infettare.
«Vieni, alzati.» Dissi ad Alex facendolo appoggiare sul mio
braccio ed ignorando completamente il mio migliore amico, che rimase
fermo a fissarmi. «Ti porto in infermeria.» Aggiunsi poi,
scortando il biondo verso la porta arancione, mentre lui mi fissava
allibito con i suoi occhi verdi.
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Capitolo 6 *** Enhancement ***
Capitolo 5 – “Enhancement”
Buonsalve a tutti quati! :)
Approfitto della pubblicazione di
questo capitolo per ringraziare dal profondo del cuore gli unici due
lettori (fin'ora) che, con le loro recensioni, mi hanno convinto a
proseguire con la pubblicazione di questa FF: grazie @Ramoso e
@_AshleyLIA , significa molto per me :)
E con questo vi auguro buona lettura e spero che questo capitolo vi piaccia! :3
Ora che avevo la possibilità di osservarlo più da
vicino, mentre entravo in infermeria sorreggendolo per una spalla,
notai quanto veramente malridotto fosse il canadese.
Aveva un taglio superficiale per tutta la lunghezza dello zigomo
destro, contornato da un colorito tutt’altro che normale.
L’occhio sinistro era simile allo zigomo solamente per il colore
che stava assumendo: un violaceo scuro in netto contrasto con il verde
vivo dei suoi occhi.
Quello che mi preoccupava di più però non erano quelle
classiche ferite da rissa, bensì un taglio molto più
profondo e minaccioso sull’estremità destra della fronte.
«Non è niente.» Aveva detto Alex cercando in tutti i
modi di coprirsi con un ciuffo di capelli dorati, non appena
gliel’avevo fatto notare.
Sinceramente, però, il modo in cui aveva iniziato ad appendersi al mio braccio, non mi rassicurava affatto.
Entrai nell’infermeria della scuola di gran carriera, sorreggendo
il biondo e chiamando la signora Macflorence ad alta voce.
L’infermiera della scuola si precipitò nell’aula
adibita all’infermeria, facendo capolino dal suo studio, posto
alla fine della stanza.
«Jared!» Esclamò non appena ebbe visto Alex
accasciato sulla mia spalla. «Cosa è successo, per
l’amor del cielo?!» Disse poi con una nota stridula nella
voce, avvicinandosi.
«E’ stato picchiato.» Spiegai. «Sono entrato
nel bagno del secondo piano e l’ho visto accasciato contro il
muro.» Avevo tralasciato dei dettagli, ma non
m’importava… Non erano di vitale importanza. Almeno non
per il momento.
«Povero figliolo…» Sospirò la signora
Macflorence sospirando rumorosamente, mentre esaminava le varie ferite
e contusioni sul viso del canadese, soffermandosi soprattutto sul
taglio sulla fronte. «Siediti qui sopra.» Disse poi,
perdendo quel tono amorevole che aveva usato fino ad allora e
sostituendolo con una voce seria e sicura di sé, ed indicando il
lettino alle sue spalle ricoperto da stoffa bianca.
Non ero sicuro di voler lasciar camminare Alex da solo, quindi lo
accompagnai fino al lettino, poco distante da dove eravamo. Lo aiutai a
sedersi e poi lasciai il posto alla signora Macflorence, che mi
lanciò un sorriso amichevole.
La signora Macflorence era l’unica del corpo docenti con cui
avevo un legame. Certo, era pur sempre un legame docente-alunno, ma,
ogni tanto, mentre ero seduto sullo stesso lettino dove ora si trovava
Alex, e l’infermiera della scuola mi stava facendo i controlli
per pallanuoto, avevo fatto delle piccole confessioni. Prima di
mettermi con Lydia, ad esempio, avevo confidato alla signore
Macflorence il mio interesse verso la mia futura ragazza. Ed era stata
proprio lei a convincermi che tentare non mi sarebbe costato nulla.
Sarà per il suo aspetto materno che ispira fiducia, sarà
che il lettino aveva delle proprietà tutte sue, fatto sta che mi
ero affezionato alla signore Macflorence.
«Non hai visto chi è stato il pazzo scatenato che ha
ridotto così questo poveretto?» Chiese poi, mentre con una
piccola luce controllava i riflessi delle pupille del biondo, che
sembrava star ritornando lentamente in sé.
Ci pensai un secondo prima di rispondere. «No. Non ho visto
nessuno, sono entrato troppo tardi.» Dissi infine, sperando di
non far trapelare la verità attraverso quelle parole insicure.
La signora Macflorence, in risposta, emise un sospiro intristito.
«Ti fa male da qualche altra parte?» Chiese poi, dopo aver
finito di controllare le pupille, con una dolcezza infinita nella voce.
Alex in risposta mugugnò qualcosa così a bassa voce che non riuscii a distinguere una sola parola.
«Allora mi sa che sarai costretto a sfilarti la maglietta.»
Decretò la signora Macflorence, conservando la sua solita voce
dolce.
Il biondo obbedì senza opporre alcuna resistenza e si
sfilò la maglia blu scuro, mordendosi le labbra per evitare di
far trasparire il dolore che quel movimento gli provocava.
La pelle di un colore rosa pallido era tesa sui muscoli lievemente
definiti. Due lividi violacei dall’aria dolorosa donavano al suo
torace un’aria ancora più debole.
Senza sapere il perché, mi ritrovai costretto a spostare lo
sguardo per evitare di far notare uno strano rossore che mi si stava
diffondendo sulle guance. Iniziai a guardarmi le mani, cercando tutte
le imperfezioni che gli allenamenti di pallanuoto mi avevano provocato.
«Ok, non era niente di che, ringraziando al cielo.»
Decretò dopo poco tempo la signora Macflorence, facendo segno ad
Alex di rivestirsi. «Sono solo dei leggeri ematomi.»
Spiegò poi, avvicinandosi alla sua scrivania.
Se erano solo dei leggeri ematomi, allora perché diavolo stava
prendendo una penna e un pezzo di carta? Mica c’era bisogno di
una ricetta per dei leggeri ematomi?
«Penso che se non prendete questi,» la voce della signora
Macflorence mi riportò con i piedi per terra, «il
professor Boujdi vi metterà come minimo dieci note di demerito
per aver saltato l’ora di scienze.» E, finito di dire
queste parole, aggirò la cattedra e mi porse un foglietto che
– lo scoprii dopo averlo letto di sfuggita - certificava la
nostra presenza in infermeria per tutta la durata dell’ora di
scienze.
Un sorriso mi si dipinse sul volto, «Grazie mille signora
Macflorence!» Esclamai entusiasta, seguito poi da Alex che mi
fece l’eco.
Uscimmo dall’infermeria con lo sguardo amorevole della signora
Macflorence che ci seguì fino all’uscio della porta.
Continuammo a camminare per circa cinque minuti prima che uno di noi due si decidesse a prendere la parola.
«Allora…» Farfugliai io, girandomi verso il biondo,
che ricambiò il mio sguardo. «Be’…»
«Perché non hai detto chi è stato ad
aggredirmi?» M’interruppe Alex con un tono di voce che mi
avrebbe fatto rabbrividire anche in una giornata di metà agosto
passata su una spiaggia dei Caraibi.
Il silenzio cadde di nuovo, inesorabile ed impossibile da infrangere
con semplici parole di gentilezza. Sentii la rabbia invadermi come
l’adrenalina prima di un incontro di pallanuoto.
«Sai, a questo punto ci si aspetterebbe un “grazie” o
anche un solo accenno di riconoscimento per quello che ho fatto.
Sinceramente sentirsi attaccati, ora, dopo tutto quello che è
successo, non è proprio il massimo, anzi. Potresti anche evitare
di andare in giro a fare finta di essere una persona così carina
e simpatica se poi nascondi tutto questo. - Lo indicai per fargli
capire a cosa alludevo - Adesso, se non ti dispiace, devo andare. E non
perché ho un impegno, ma semplicemente perché se no
rischio di finire quello che Daniel ha iniziato.» E detto questo
girai i tacchi e mi allontanai da Alex, che era rimasto ammutolito
dalla mia reazione.
«Senti,» disse poi all’improvviso, facendomi fermare
giusto prima di girare l’angolo. «Non so se te ne sei
accorto, ma sono appena stato picchiato da un bulletto della scuola che
si sentiva troppo figo per rivolgermi la parola, e no, non mi sto
riferendo a te. L’unica cosa che speravo era che quel figlio di
una buona donna venisse punito per quello che mi ha fatto, ma invece
no, il suo amichetto doveva proteggerlo anche oltre i limiti
dell’assurdo. Quindi sì, ti ringrazio per averlo fermato,
ma a questo punto mi domando il perché di questa tua
azione.» Confessò rimanendo fermo dov’era fissandomi
negli occhi blu.
Mi ci riavvicinai, per evitare di urlare per farmi sentire, e anche per
elaborare una rispostaccia come si deve. «Ascoltami, tizio
canadese, e questa volta apri bene le orecchie perché non lo
ripeterò più. Mi dispiace per quello che ti è
successo; mi dispiace che il mio “amichetto” ti abbia
picchiato perché tu, in un bagno pubblico, hai confessato ai
quattro venti la tua omosessualità; mi dispiace di essere
entrato in quel bagno a salvarti il culo che tu stesso hai messo in
pericolo.
«E’ vero, dovrebbe pagare caro per averti aggredito in un
bagno. E’ vero, la gente è veramente tremenda, spregevole
e disdicevole, tutti a prendersela con Alex dai capelli biondi e gli
occhi verdi, nessuno mai che lo capisce.» Feci una pausa, per
rielaborare quello che avevo detto e mettendo a tacere la vocina nella
mia testa che mi sussurrava di andarci più pesante.
«Sai,» Ricominciai io, «ogni dannatissimo anno che
entro in questa scuola, da quella porta, - dissi indicando la porta
d’ingresso alle mie spalle - vorrei guardarmi intorno senza
vedere gente che mi osserva estasiata, eccitata e chi più ne ha
più ne metta. Ogni anno però riesco a non pensare a
queste cose grazie ai miei amici. E sì, Daniel è un mio
amico.
«Ora, vorrei tanto che tu non fossi capitato in questa scuola,
che io non fossi il tuo dannatissimo Best Cozy Student e che Daniel non
ti avesse picchiato in un bagno della scuola, ma, mi dispiace
tantissimo signorino-tutto-mi-è-dovuto, non è così
che funziona la vita. Fai un azione? Aspettati delle
conseguenze.» Conclusi, inspirando rumorosamente per calmarmi,
dato che mi stava per uscire un offesa che non era proprio il caso di
usare.
Alex mi guardava, con del veleno puro negli occhi. «Questa
è la tua di conseguenza.» Disse, alzando la mano e
assestandomi un sonoro schiaffo che risuonò nel corridoio vuoto,
inspirando ed espirando in maniera teatrale.
«Brutta checca.» Ed eccola lì, l’offesa che
con tanta fatica avevo cercato di tenere per me, uscire dalle mie
labbra mentre mi tenevo la guancia indolenzita.
Le pupille di Alex si dilatarono all’improvviso, come presi da
una furia sconvolgente. Io mi portai una mano alla bocca, come se
facendo così potessi riportarci dentro le parole che mi erano
appena scappate.
Il biondo mi fissò con il fuoco nei propri occhi, con le labbra
serrate e le mani strette a pugno, prima di girarsi e di andarsene, con
il naso all’insù.
«Sai,» Disse poi, girandosi verso di me, che ero nella
stessa posizione in cui mi aveva lasciato, «avrei preferito che
“Daniel” mi avesse continuato a picchiare invece che
sentirmi dare della checca da un idiota qualunque.» E detto
questo se ne andò.
Mi girai anche io, per andare nel cortile, e, quando mi trovai davanti
ai piedi un cestino della spazzatura, gli assestai un calcio
tutt’altro che delicato, facendone rimbombare il rumore per
l’intero corridoio vuoto.
Avrei voluto che la giornata scolastica finisse lì, in quel
preciso istante. Avrei voluto dirigermi verso la porta, spalancarla ed
andarmene via da quel luogo infernale.
Invece girai i tacchi e mi diressi verso il cortile, per aspettare in grazia di Dio che la campanella suonasse.
Appena uscii in cortile, una folata di arOra che avevo la possibilità di osservarlo più da vicino, mentre
entravo in infermeria sorreggendolo per una spalla, notai quanto
veramente malridotto fosse il canadese.
Aveva un taglio superficiale
per tutta la lunghezza dello zigomo destro, contornato da un colorito
tutt’altro che normale. L’occhio sinistro era simile allo zigomo
solamente per il colore che stava assumendo: un violaceo scuro in netto
contrasto con il verde vivo dei suoi occhi.
Quello che mi
preoccupava di più però non erano quelle classiche ferite da rissa,
bensì un taglio molto più profondo e minaccioso sull’estremità destra
della fronte.
«Non è niente.» Aveva detto Alex cercando in tutti i
modi di coprirsi con un ciuffo di capelli dorati, non appena
gliel’avevo fatto notare.
Sinceramente, però, il modo in cui aveva iniziato ad appendersi al mio braccio, non mi rassicurava affatto.
Entrai nell’infermeria della scuola di gran carriera, sorreggendo
il biondo e chiamando la signora Macflorence ad alta voce.
L’infermiera
della scuola si precipitò nell’aula adibita all’infermeria, facendo
capolino dal suo studio, posto alla fine della stanza.
«Jared!»
Esclamò non appena ebbe visto Alex accasciato sulla mia spalla. «Cosa è
successo, per l’amor del cielo?!» Disse poi con una nota stridula nella
voce, avvicinandosi.
«E’ stato picchiato.» Spiegai. «Sono entrato
nel bagno del secondo piano e l’ho visto accasciato contro il muro.»
Avevo tralasciato dei dettagli, ma non m’importava… Non erano di vitale
importanza. Almeno non per il momento.
«Povero figliolo…» Sospirò la
signora Macflorence sospirando rumorosamente, mentre esaminava le varie
ferite e contusioni sul viso del canadese, soffermandosi soprattutto
sul taglio sulla fronte. «Siediti qui sopra.» Disse poi, perdendo quel
tono amorevole che aveva usato fino ad allora e sostituendolo con una
voce seria e sicura di sé, ed indicando il lettino alle sue spalle
ricoperto da stoffa bianca.
Non ero sicuro di voler lasciar
camminare Alex da solo, quindi lo accompagnai fino al lettino, poco
distante da dove eravamo. Lo aiutai a sedersi e poi lasciai il posto
alla signora Macflorence, che mi lanciò un sorriso amichevole.
La
signora Macflorence era l’unica del corpo docenti con cui avevo un
legame. Certo, era pur sempre un legame docente-alunno, ma, ogni tanto,
mentre ero seduto sullo stesso lettino dove ora si trovava Alex, e
l’infermiera della scuola mi stava facendo i controlli per pallanuoto,
avevo fatto delle piccole confessioni. Prima di mettermi con Lydia, ad
esempio, avevo confidato alla signore Macflorence il mio interesse
verso la mia futura ragazza. Ed era stata proprio lei a convincermi che
tentare non mi sarebbe costato nulla.
Sarà per il suo aspetto
materno che ispira fiducia, sarà che il lettino aveva delle proprietà
tutte sue, fatto sta che mi ero affezionato alla signore Macflorence.
«Non
hai visto chi è stato il pazzo scatenato che ha ridotto così questo
poveretto?» Chiese poi, mentre con una piccola luce controllava i
riflessi delle pupille del biondo, che sembrava star ritornando
lentamente in sé.
Ci pensai un secondo prima di rispondere. «No. Non
ho visto nessuno, sono entrato troppo tardi.» Dissi infine, sperando di
non far trapelare la verità attraverso quelle parole insicure.
La
signora Macflorence, in risposta, emise un sospiro intristito. «Ti fa
male da qualche altra parte?» Chiese poi, dopo aver finito di
controllare le pupille, con una dolcezza infinita nella voce.
Alex in risposta mugugnò qualcosa così a bassa voce che non riuscii a distinguere una sola parola.
«Allora
mi sa che sarai costretto a sfilarti la maglietta.» Decretò la signora
Macflorence, conservando la sua solita voce dolce.
Il biondo obbedì
senza opporre alcuna resistenza e si sfilò la maglia blu scuro,
mordendosi le labbra per evitare di far trasparire il dolore che quel
movimento gli provocava.
La pelle di un colore rosa pallido era tesa
sui muscoli lievemente definiti. Due lividi violacei dall’aria dolorosa
donavano al suo torace un’aria ancora più debole.
Senza sapere il
perché, mi ritrovai costretto a spostare lo sguardo per evitare di far
notare uno strano rossore che mi si stava diffondendo sulle guance.
Iniziai a guardarmi le mani, cercando tutte le imperfezioni che gli
allenamenti di pallanuoto mi avevano provocato.
«Ok, non era niente
di che, ringraziando al cielo.» Decretò dopo poco tempo la signora
Macflorence, facendo segno ad Alex di rivestirsi. «Sono solo dei
leggeri ematomi.» Spiegò poi, avvicinandosi alla sua scrivania.
Se
erano solo dei leggeri ematomi, allora perché diavolo stava prendendo
una penna e un pezzo di carta? Mica c’era bisogno di una ricetta per
dei leggeri ematomi?
«Penso che se non prendete questi,» la voce
della signora Macflorence mi riportò con i piedi per terra, «il
professor Boujdi vi metterà come minimo dieci note di demerito per aver
saltato l’ora di scienze.» E, finito di dire queste parole, aggirò la
cattedra e mi porse un foglietto che – lo scoprii dopo averlo letto di
sfuggita - certificava la nostra presenza in infermeria per tutta la
durata dell’ora di scienze.
Un sorriso mi si dipinse sul volto,
«Grazie mille signora Macflorence!» Esclamai entusiasta, seguito poi da
Alex che mi fece l’eco.
Uscimmo dall’infermeria con lo sguardo amorevole della signora
Macflorence che ci seguì fino all’uscio della porta.
Continuammo a camminare per circa cinque minuti prima che uno di noi due si decidesse a prendere la parola.
«Allora…» Farfugliai io, girandomi verso il biondo,
che ricambiò il mio sguardo. «Be’…»
«Perché
non hai detto chi è stato ad aggredirmi?» M’interruppe Alex con un tono
di voce che mi avrebbe fatto rabbrividire anche in una giornata di metà
agosto passata su una spiaggia dei Caraibi.
Il silenzio cadde di
nuovo, inesorabile ed impossibile da infrangere con semplici parole di
gentilezza. Sentii la rabbia invadermi come l’adrenalina prima di un
incontro di pallanuoto.
«Sai, a questo punto ci si aspetterebbe un
“grazie” o anche un solo accenno di riconoscimento per quello che ho
fatto. Sinceramente sentirsi attaccati, ora, dopo tutto quello che è
successo, non è proprio il massimo, anzi. Potresti anche evitare di
andare in giro a fare finta di essere una persona così carina e
simpatica se poi nascondi tutto questo. - Lo indicai per fargli capire
a cosa alludevo - Adesso, se non ti dispiace, devo andare. E non perché
ho un impegno, ma semplicemente perché se no rischio di finire quello
che Daniel ha iniziato.» E detto questo girai i tacchi e mi allontanai
da Alex, che era rimasto ammutolito dalla mia reazione.
«Senti,»
disse poi all’improvviso, facendomi fermare giusto prima di girare
l’angolo. «Non so se te ne sei accorto, ma sono appena stato picchiato
da un bulletto della scuola che si sentiva troppo figo per rivolgermi
la parola, e no, non mi sto riferendo a te. L’unica cosa che speravo
era che quel figlio di una buona donna venisse punito per quello che mi
ha fatto, ma invece no, il suo amichetto doveva proteggerlo anche oltre
i limiti dell’assurdo. Quindi sì, ti ringrazio per averlo fermato, ma a
questo punto mi domando il perché di questa tua azione.» Confessò
rimanendo fermo dov’era fissandomi negli occhi blu.
Mi ci
riavvicinai, per evitare di urlare per farmi sentire, e anche per
elaborare una rispostaccia come si deve. «Ascoltami, tizio canadese, e
questa volta apri bene le orecchie perché non lo ripeterò più. Mi
dispiace per quello che ti è successo; mi dispiace che il mio
“amichetto” ti abbia picchiato perché tu, in un bagno pubblico, hai
confessato ai quattro venti la tua omosessualità; mi dispiace di essere
entrato in quel bagno a salvarti il culo che tu stesso hai messo in
pericolo.
«E’ vero, dovrebbe pagare caro per averti aggredito in un
bagno. E’ vero, la gente è veramente tremenda, spregevole e
disdicevole, tutti a prendersela con Alex dai capelli biondi e gli
occhi verdi, nessuno mai che lo capisce.» Feci una pausa, per
rielaborare quello che avevo detto e mettendo a tacere la vocina nella
mia testa che mi sussurrava di andarci più pesante. «Sai,» Ricominciai
io, «ogni dannatissimo anno che entro in questa scuola, da quella
porta, - dissi indicando la porta d’ingresso alle mie spalle - vorrei
guardarmi intorno senza vedere gente che mi osserva estasiata, eccitata
e chi più ne ha più ne metta. Ogni anno però riesco a non pensare a
queste cose grazie ai miei amici. E sì, Daniel è un mio amico.
«Ora,
vorrei tanto che tu non fossi capitato in questa scuola, che io non
fossi il tuo dannatissimo Best Cozy Student e che Daniel non ti avesse
picchiato in un bagno della scuola, ma, mi dispiace tantissimo
signorino-tutto-mi-è-dovuto, non è così che funziona la vita. Fai un
azione? Aspettati delle conseguenze.» Conclusi, inspirando
rumorosamente per calmarmi, dato che mi stava per uscire un offesa che
non era proprio il caso di usare.
Alex mi guardava, con del veleno
puro negli occhi. «Questa è la tua di conseguenza.» Disse, alzando la
mano e assestandomi un sonoro schiaffo che risuonò nel corridoio vuoto,
inspirando ed espirando in maniera teatrale.
«Brutta checca.» Ed
eccola lì, l’offesa che con tanta fatica avevo cercato di tenere per
me, uscire dalle mie labbra mentre mi tenevo la guancia indolenzita.
Le
pupille di Alex si dilatarono all’improvviso, come presi da una furia
sconvolgente. Io mi portai una mano alla bocca, come se facendo così
potessi riportarci dentro le parole che mi erano appena scappate.
Il
biondo mi fissò con il fuoco nei propri occhi, con le labbra serrate e
le mani strette a pugno, prima di girarsi e di andarsene, con il naso
all’insù.
«Sai,» Disse poi, girandosi verso di me, che ero nella
stessa posizione in cui mi aveva lasciato, «avrei preferito che
“Daniel” mi avesse continuato a picchiare invece che sentirmi dare
della checca da un idiota qualunque.» E detto questo se ne andò.
Mi
girai anche io, per andare nel cortile, e, quando mi trovai davanti ai
piedi un cestino della spazzatura, gli assestai un calcio tutt’altro
che delicato, facendone rimbombare il rumore per l’intero corridoio
vuoto.
Avrei voluto che la giornata scolastica finisse lì, in quel
preciso istante. Avrei voluto dirigermi verso la porta, spalancarla ed
andarmene via da quel luogo infernale.
Invece girai i tacchi e mi diressi verso il cortile, per aspettare in grazia di Dio che la campanella suonasse.
Appena
uscii in cortile, una folata di aria fredda mi colpì in pieno viso,
facendomi lacrimare gli occhi. Tirai su la cerniera della giacca e mi
ci rifugiai dentro, infilando le mani nelle apposite tasche.
«Ma
che…?» Quando cacciai la mano sinistra dalla tasca della giacca blu
scuro, avevo due pezzi di carta stretti in pugno. Due pezzi di carta
che riconobbi immediatamente: la firma della signora Macflorence
l’avrei potuta riconoscere anche con il semplice uso del tatto.
-
Perfetto – pensai – adesso dovrei anche rivolgergli la parola a
quell’idiota…- E, mentre riflettevo su quest’ultimo punto, sulle mie
labbra, senza che io nemmeno me ne accorgessi, si dipinse un sorriso
soddisfatto.
Quando la campanella suonò ero già di fronte
all’aula di scienze, dove gli studenti, con aria affranta,
sollevarono lo sguardo all’unisono per controllare quale delle
due campanelle era suonata. Sembravano tante marionette.
Indossai la maschera più allegra del mio repertorio e spalancai
la porta, già sapendo che il mr. Boujdi avrebbe immediatamente
iniziato ad urlarmi contro.
Non sentendo, però, arrivare la manfrina che mi ero aspettato,
mi girai incuriosito verso il professore, che mi stava guardando con un
sorriso vittorioso dipinto sul volto.
«Bene bene signor Maycon, vedo che vuole iniziare bene
l’anno. Credo sia difficile che possa sperare anche solo in una
“B” al suo esame, cosa che le ricordo essere fondamentale
per intraprendere medicina.»
Quanto avrei voluto saltargli addosso e prenderlo a botte, ridurlo
così come Daniel aveva ridotto Alex. E invece no, mi trattenni
e, senza dire neanche una parola, posai il mio certificato sulla sua
scrivania. Mentre mi avviavo al mio posto, seguito dagli occhi
affascinati delle ragazzine, notai, con la coda dell’occhio, mr.
Boujdi analizzare minuziosamente la giustificazione che gli avevo
lasciato sulla cattedra.
Fu mentre mi sedevo al primo banco disponibile che Alex entrò
nell’aula, con il ciuffo dei capelli biondi sistemato in modo
tale che l’ematoma sull’occhio destro non si notasse. Non
stava male, ma di sicuro stava meglio con i capelli scombinati.
Osservai la scena con attenzione, guardando come il signor Boujdi desse
addosso al nuovo studente canadese, e come quest’ultimo stesse
per scoppiare a piangere.
Le mie gambe agirono ancora prima che il mio cervello potesse essere
d’accordo. Entrai nella bolla della discussione, mi infilai una
mano in tasca e cacciai il foglio che portava il nome del biondo, che
mi guardò stranito.
«Garantisco io per lui.» Dissi.
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Capitolo 7 *** Fading ***
ff
Capitolo 6 - "Fading"
Non so cosa dire se non: scusate la luuuunghissima assenza, ma ho avuto
vari problemi, alcuni anche abbastanza seri... Vi assicuro che da ora
in poi la pubblicazione dei capitoli sarà più frequente e
regolare (almeno ci proverò!)... Se vi siete persi il capitolo
precedente, oppure ve lo siete dimenticato (cosa molto probabile
ahahah), lo potete trovare qui :)
Bene, detto ciò non mi resta che sperare che questo capitolo vi piaccia :)
Mi raccomando, lasciate una piccola recensione!
La mandibola contratta per la concentrazione, gli occhi fissi sulla
pagina bianca del quaderno degli appunti e una nota di soddisfazione
nei suoi occhi verdi.
Avevo già finito il mio compito assegnatomi dal signor Boujdi,
ovvero quello di definire la funzione degli Alveoli nei polmoni, e ora
stavo passando il tempo ad esaminare, il più discretamente
possibile, il viso concentrato di Alex, che sedeva al banco opposto al
mio.
I suoi occhi, avevo scoperto, non erano completamente verdi. Avevano,
infatti, delle sfumature di marrone chiaro, che si mescolavano
perfettamente con il colore principale. Mi ricordavano le fronde degli
alberi di Hyde Park.
Scossi la testa come per scacciare una mosca fastidiosa e cercai di
concentrarmi su qualcos’altro. Provai a concentrarmi sulla
lavagna digitale, su cui ora era proiettata la diapositiva che
spiegava, per l’ennesima volta, la funzione della cartilagine
nella trachea. Spostai lo sguardo più a sinistra, dove mr.
Boujdi era seduto a cercare di capire come funziona un powerpoint, ma
mi venne l’istinto di andargli vicino e rompergli qualcosa in
testa, quindi cambiai soggetto. Dietro di lui c’era un tabellone
con scritte e avvisi di tutti i tipi per gli alunni della sixth form.
Mi misi a leggere l’avviso dell’incontro con i professori
di Cambridge per la facoltà di medicina.
«Ok, mi raccomando: finite l’assegno e ripetete tutto
quello che abbiamo fatto in questi giorni entro venerdì. Alla
prossima lezione.»
E, come se fosse stato il professore stesso ad aver premuto un
pulsante, la campanella suonò con i suoi ben noti tre
“bip”, consentendo all’intera classe di uscire ed
andare nella sala comune.
Mi affrettai verso Alex per fermarlo prima che uscisse dall’aula.
«Ehi.» Dissi, senza sapere né cosa dire né perché l’avevo fermato.
Il biondo in risposta mi guardò con uno sguardo interrogativo,
che faceva chiaramente trasparire il disprezzo che provava nei miei
confronti.
«Pensavo solamente che… Boh non so…» Per
fortuna il solito rumore che anticipava la voce del preside
all’interfono della scuola mi interruppe prima di una terribile
gaffe.
“A causa di alcuni brutti avvenimenti degli anni scorsi,
ricordiamo ai vecchi studenti e informiamo quelli nuovi, che appena
finito l’orario scolastico, a meno che non vogliate rimanere
nell’edificio della scuola, dovete tornare direttamente a casa,
usando la via più diretta. Grazie per la vostra attenzione e
scusate per l’interruzione. Buon proseguimento di giornata.”
Il canadese, che aveva fissato per tutto il tempo il soffitto, come se,
attraverso l’altoparlante, avesse potuto vedere il preside
parlare, abbassò lo sguardo su di me. «Per che
cos’era tutto quel fatto del coprifuoco?» Chiese poi.
«L’anno scorso è stato quasi accoltellato un ragazzo
di questa scuola, era dell’year 11. Per fortuna però
è riuscito ad evitare il tutto.» Spiegai, stranamente
contento che mi stesse rivolgendo la parola.
Come se avesse sentito le mie emozioni, prese i suoi libri e se ne andò.
Non resistendo all’impulso, lo presi per un braccio e lo fermai, fissandolo dritto negli occhi.
«Scusa ma sei incazzato con me per qualche motivo in
particolare?» Chiesi. «A parte le cazzate che ti ho urlato
addosso nel corridoio prima, ovviamente… Scusa, comunque…
Veramente non so cosa mi sia preso.» Dissi, non sapendo neanche
io da dove mi stessero uscendo certe parole…
Alex mi guardò di rimando, nascondendo lo sguardo sorpreso che
aveva per un attimo animato le sue iridi verdi. Poi mi rispose.
«La prossima volta evita di prendere le mie difese. Le mani e la
bocca le ho apposta.»
E detto questo se ne andò lungo il corridoio del piano terra.
E la mia mente elaborava almeno altri due modi in cui il biondo avrebbe potuto usare la sua bocca e le sue mani.
I giorni passarono abbastanza velocemente, fino a diventare una settimana, poi due, ed infine tre.
I rapporti con Alex erano rimasti quasi completamente invariati, anche
se però forse ora poteva essere considerato un rapporto basato
sugli interessi che entrambi ne avremmo tratto, e non più
sull’odio che lui provava nei miei confronti e che credeva fosse
reciproco.
Dato che però il posto in cui abitava Alex (Lewisham, un
quartiere di Londra) era troppo lontano da casa mia, o almeno
così gli avevo fatto credere, non ci vedevamo mai in orari
extra-scolastici.
Quella mattina uscii di casa un po’ prima del solito a causa di
alcuni documenti che dovevo stampare dal computer della scuola, e,
essendo che ottobre era ormai alle porte, le temperature erano
tutt’altro che alte.
Non mi ero mai riuscito ad abituare alle temperature britanniche,
nonostante vivessi a Londra dal giorno stesso in cui mia madre mi aveva
dato alla luce. E, per questo motivo, indossavo, sopra al solito
pullover con camicia , una felpa blu con dei disegni bianchi che si
intrecciavano tra di loro, creando dei giochi di linee e di forme
piacevoli alla vista.
C’era una nebbia fitta tutt’intorno a me, mi si posava
addosso come una leggera patina di umidità, o di neve. Una
leggera pioggerellina scendeva leggera dalle nuvole grigie e minacciose
che ricoprivano l’intera città. I vetri delle macchine
erano ricoperti di rugiada, che ora, con la prima luce del mattino,
stava iniziando a cedere, scivolando verso il basso, dove i cruscotti
aspettavano pazientemente.
Continuai il resto del tragitto senza neanche pensare di cacciare
l’ombrello dallo zaino. E questo per due motivi: la pigrizia
dovuta all’orario e il fatto che incontrare Alex sotto la pioggia
mi entusiasmava di più dell’avere un ombrello tra le mani.
Ma, per mia sfortuna (e quando ebbi questa sensazione rimasi alquanto
confuso), non lo incontrai per tutta la strada verso scuola, e neanche
una volta arrivato nella sala comune, dove, invece, trovai Lydia e i
miei amici. Questi ultimi, però, senza dire una parola si
alzarono dai loro divanetti rossi e uscirono dalla stanza. Una cosa che
ormai accadeva da tre settimane a quella parte.
La sala comune era una stanza squallidamente arredata, se si poteva
usare il termine arredata, con una fila di divanetti rossi, un paio di
tavolini con qualche sedia e tanti computer quanti gli armadietti
vicini all’entrata.
Le luci ultimamente andavano e venivano, lasciando accese solo quelle
di emergenza, quasi sicuramente a causa della macchinetta che vendeva
bibite e snacks nell’angolo della stanza, la quale continuava a
mangiarsi i soldi di tutti gli studenti affamati.
«Ehi Ly.» Sorrisi radiante quando mi fui avvicinato al suo divanetto, chinandomi per posarle un bacio sulle labbra.
«Ehi.» Ricambiò lei sorridendomi. «Hai qualche
lezione alla prima ora?» Mi chiese mentre mi sedevo.
Ci dovetti riflettere un po’ sopra prima di poter dare una
risposta a quella domanda. «Mmmh no, non credo, perché?
Qualche progetto?»
«No no, nessun progetto, io devo andare al Tate modern con mr
Gayle, ricordi?» Mi disse, fissandomi con i suoi occhi azzurri,
indecifrabili come al solito.
Mr Gayle era l’insegnante di arte e design, da tutti quanti
etichettato come il “pazzo quattr’occhi”, a causa
della sua non proprio perfetta salute mentale e dei suoi occhiali
spessi come due fondi di bottiglia. Lydia frequentava il suo corso,
aspirando ad un’A*, che le sarebbe di sicuro servita per la
carriera che aveva intenzione di intraprendere.
«Oh sì certo!» Esclamai, come colto
all’improvviso da una scossa elettrica con benefici mnemonici.
«Be’ divertiti mentre io starò qui a studiare per il
test di biologia.» Le dissi con tono scherzoso, e, in risposta,
Lydia si allungò e mi poggiò un leggero bacio
sull’angolo della bocca, con un sorriso divertito.
«Vabbè ora devo andare, ci vediamo dopo?» Chiese la
bionda con il sorriso ancora sulle labbra.
Annuii in conferma alla sua domanda.
Non appena Lydia se ne fu andata, andai al mio armadietto e presi il
libro di Biologia e il quaderno degli appunti, sapendo che si
prospettava una giornata alquanto pesante.
Il resto del giorno, come avevo già immaginato, passò
più lentamente di qualsiasi altro giorno avessi mai trascorso in
quell’edificio.
Di solito, quando Lydia andava in gita, avevo il mio solito gruppo con
cui passare il tempo, ma, senza capire ancora il perché, i
ragazzi mi ignoravano. Passai, quindi, tutto il tempo con la testa sul
libro di biologia.
– Almeno supererò il test – pensai.
«Signor Maycon… Come mai così puntuale?» La
voce di mister Boujdi, simpaticissimo come suo solito, mi diede il
benvenuto nella calda aula del secondo piano, dove si sarebbe svolto un
piccolo test, che sarebbe servito come prova per gli esami di gennaio.
«Non vedevo l’ora di vederla, professore.» Risposi
con tono mieloso, zittendolo. In compenso, però, sentii
provenire dal fondo dell’aula un leggero cenno di risa. Mi girai
velocemente, per capire da chi provenisse, anche se in fondo già
conoscevo la risposta. Alex.
Gli occhi verdi gli brillavano di luce propria quando rideva, ed ero
sicuro che, se fosse stato in un’aula completamente buia, sarebbe
stato capace di illuminarla interamente.
Mi avvicinai al blocco di banchi dove sedeva il biondo, distaccato dal
resto della classe, e mi ci sedetti accanto, sorridendogli. «Se
sei qui per copiare le risposte del test hai fatto l’ennesima
scelta sbagliata.» Mi disse Alex, con tono quasi polemico,
facendo un’ultima ripassata disperata dalla miriade di fotocopie
dateci da mister Boujdi.
«Fidati, ho studiato abbastanza per tutti i presenti.»
Risposi, non dando peso al tono del biondo, ripensando alle quattro ore
precedenti passate in sala comune a ripassare come un disperato. Mi
venne in mente, come mosso da una molla, che anche il canadese aveva
partecipato alla gita con mister Gayle. Non mi lasciai sfuggire
l’occasione. «Com’è stata la visita al
Tate?» Prima di rispondermi, Alex mi fissò negli occhi con
tanta intensità da farmi scostare lo sguardo. Sembrava mi stesse
leggendo nei reconditi dell’anima, un posto che neanche io
visitavo poi tanto spesso. «Mi è piaciuta, grazie.»
Rispose poi, abbassando lo sguardo nuovamente sui fogli in bianco e
nero. Non feci in tempo a rispondergli che la campanella suonò e
l’intera aula si iniziò a popolare di studenti nervosi per
il test. Così, non appena mister Boujdi mi ebbe dato il foglio
del test, in assoluto silenzio, chinai il capo ed iniziai.
«Hey!» Dissi alzando leggermente la voce per riuscire a
farmi sentire da Alex, che si era avviato verso la sala comune. Vedendo
che non accennava a fermarsi, accelerai il passo, così da
ritrovarmi accanto a lui. «Com’è andato il
test?» Domandai.
«Ok, basta.» Esalò di botto il biondo, fermandosi
repentinamente. Rischiai di urtare una ragazzina dell’year 9
davanti a me.
«Scusa?»
«Mi spieghi perché ti stai comportando in questo
modo?» Chiese, come se questo potesse chiarire tutto. «Mi
va bene avere un minimo di dialogo, davvero. Ci guadagniamo entrambi.
Ma fingere così spudoratamente mi fa venire il
voltastomaco.»
Sentii una strana morsa alla bocca dello stomaco. «Ok, come vuoi.
Da oggi in poi a stento ti saluterò, contento?» Dissi,
cacciando tutta l’acidità che stavo raccogliendo.
«Contentissimo.» Replicò, fissandomi negli occhi con
la stessa intensità con cui mi aveva fissato poco prima.
«Bene.»
«Bene.»
E, dopo questo scambio di battute, che sembravano essere state prese da
un copione di una tele novela, ci dirigemmo in due direzioni diverse,
sapendo entrambi che da lì a un’ora ci saremmo dovuti
incontrare nell’aula di Inglese. E sapevamo anche che saremmo
stati costretti a fingere di nuovo.
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Capitolo 8 *** Girlfriend ***
ef
"Capitolo 7 - Girlfriend"
Come promesso il nuovo capitolo è qui esattamente due settimane dopo la pubblicazione del precedente :)
Grazie mille per tutte le recensioni che avete lasciato in questi
giorni, erano una migliore dell'altra e soprattutto perché sono
proprio queste a convincermi ogni volta a pubblicare nuovi capitoli
(quindi lasciate recensioni che sono sempre gradite!).
Le cose si fanno piano piano sempre più interessanti, stay tuned :)
Spero vi piaccia!
«Ah, Jared, tesoro,
questa lettera è arrivata due settimane fa, mi sono dimenticata di dirtelo. »
La voce di mia madre mi destò dallo stato catatonico in cui mi trovavo. Ero
tornato da più o meno tre orette da scuola e mi ero subito fiondato sulla
lettura di Frankenstein, assegnatoci da mrs. Dorpall.
Incuriosito mi
alzai dal tavolo da pranzo, che stavo usando come piano di studio, e mi
avvicinai a mia madre, che mi porse una busta da lettere bianca con sopra
francobolli canadesi.
«MAMMA!» Urlai esasperato. «Stavo aspettando questa lettera da un sacco di tempo!
E’ importante!» E mentre continuavo ad imprecare verso mia madre, iniziai ad
aprire con foga l’involucro di carta bianca con aspettativa e foga: stavo
aspettando la lettera di risposta da parte di Kyle, il mio cugino di Vancouver,
da una vita ormai.
Mi sedetti sul
divano ed iniziai a leggere.
“Hey!
Allora, cercherò di risponderti per punti, altrimenti non
ne usciamo più…
Prima di tutto non so bene cosa sia questo B.C.S. ma per
come ne hai parlato sembra una cosa positiva, quindi sono contento per te! Onestamente
non capisco perché tu debba farti tutti questi problemi sul comportamento di
Aaron: ha fatto una cosa per te, non farti domande e goditela!
Per quanto riguarda la seconda cosa che mi hai raccontato
non credo di aver capito bene quello che volevi dirmi… E forse è meglio così.
Non ho capito se ti ha dato più fastidio il fatto che questo ragazzo sia gay o
che abbia deciso di dirtelo… In entrambi
i casi credo, anche in questo caso, che tu ti stia facendo troppi problemi…
Comunque, e questo voglio dirtelo perché so che con te
posso essere onesto in qualsiasi caso, credo che tu ti stia facendo influenzare
da quelli che ti circondano. Mentre eri qua a Vancouver il tuo comportamento
era completamente diverso: eri aperto a tutto, mostravi interesse per le cose
che ti circondavano e cercavi di capire le cose prima di giudicare… Ora invece
sembra che tutto ciò che c’è di negativo attorno a te ti abbia influenzato. Non
fraintendermi, ti prego… Dico solo che tu sei meglio di così, e che se questo
ragazzo si sta comportando in un determinato modo allora ci dev’essere una
spiegazione logica; e soprattutto credo che se ti fa questo effetto, allora è
riuscito a toccare le corde del tuo Io.
Comunque, passiamo alle cose serie (ovvero a me!): in
questi giorni non è successo niente di che, se non l’inizio della scuola e il
fatto che ho conosciuto una ragazza al corso di recitazione. E’ davvero
bellissima: altezza media, occhi a mandorla e capelli castani… Insomma, il
sogno!
Mi manchi anche tu,
A presto,
K.”
Rilessi la missiva
altre dieci volte, cercando di assimilare al meglio quello che Kyle aveva
scritto. La prima cosa che provai fu un sentimento di rabbia: avrei voluto
leggere quella lettera molto prima, sia perché in questo modo avrei potuto
rispondere al mio cugino canadese più velocemente, sia perché, come al solito,
le sue parole mi avevano raggiunto in profondità, risvegliandomi da un leggero
sonno, e tre settimane prima era tutto ciò di cui avrei avuto bisogno.
Senza perdere altro
tempo, mi alzai dal divano su cui mi ero seduto, senza curarmi della coperta di
patchwork che cadde sul parquet, e mi affrettai su per le scale di legno, che
scricchiolarono sotto al mio peso. Entrai velocemente in camera e, senza
nemmeno chiudere la porta, mi sedetti alla scrivania, rovistando tra i cassetti
in cerca di carta e penna. Non appena li ebbi trovati iniziai a scrivere:
Prima di dire qualsiasi cosa ti prego di scusarmi per il
ritardo!
Mia madre non mi ha detto dell’arrivo della tua lettera
fino ad oggi, più o meno un mese più tardi. Inutile dirti, quindi, che di cose
ne sono successe eccome!
E, senza perdere tempo
per verificare la qualità di quanto scritto, iniziai a gettare su carta tutto
ciò che era accaduto in quelle tre settimane, dallo scontro tra Alex e Daniel
al comportamento freddo che i miei amici avevano ultimamente tenuto nei miei
confronti. E mentre la penna lasciava segni d’inchiostro sulla carta bianca,
iniziai a prendere sempre più consapevolezza di tutto quello che era successo;
come se nella mia mente avessi avuto, fino a quel momento, solo pezzi
disordinati di un puzzle molto più complesso, e che solo scrivendo
cronologicamente (più o meno) tutto l’avvenuto sarei stato in grado di metterli
in ordine.
Quando finii di
scrivere la lettera la ricontrollai un secondo, aggiustando qua e là quei
problemi di distrazione dovuti alla velocità con cui avevo scritto e alla foga
con cui l’avevo fatto. Misi la lettera nella busta bianca, la chiusi, scrissi
tutti i dati necessari e ci incollai i francobolli. Una volta fatto ciò presi
la busta, mi alzai dalla mia postazione e scesi nuovamente in cucina, dalla quale
uscii per riporre la lettera nella casella postale, in modo tale che il giorno
seguente il postino avrebbe potuto dare inizio al suo viaggio
intercontinentale.
Stava iniziando a
piovere.
La serata la
trascorsi fisicamente sul libro di inglese, mentalmente nel mio mondo a parte,
con mia madre che cercava di impartirmi ordini sul mettere la tavola ed
aiutarla a preparare la cena, inconsapevole del fatto che tutto ciò che stava
dicendo da un orecchio mi entrava e, dopo aver fatto un giro a vuoto attraverso
le mie sinapsi, dall’altro mi usciva.
Scrivere la lettera
a Kyle mi aiutò a far luce su molte cose, cose a cui continuai a pensare per
tutta la sera e la notte, che passai completamente immobile sul mio letto, con
addosso ancora i vestiti del giorno precedente.
Nella mia testa si
ripetevano all’infinito sequenze predefinite: l’arrivo di Alex a scuola; il mio
sparlare del nuovo arrivato con Lydia; Daniel che lo picchia ed io fermo immobile
a guardare che questo accadesse; la mia offesa, uscitami da bocca ancor prima
che ne avessi realizzato il significato; le poche parole scambiateci prima del
test di biologia due giorni prima. Ed ogni volta che questa sequenza ripartiva,
nella mia testa un tassello trovava il proprio posto nel puzzle, dandomene
un’immagine più completa.
Le ore passavano,
lentamente, ed io continuavo a stare steso immobile sul letto, a pensare, come
mi succedeva solo nei momenti peggiori. Gli occhi fissi nel buio che mi
circondava; le orecchie si nutrivano di ogni singolo rumore che proveniva dall’esterno;
le mie mani giocavano con i lembi delle lenzuola e i denti mordevano
incessantemente le labbra, fino a che, verso le cinque e mezzo del mattino,
Orfeo non decise di farmi visita.
Un’ora dopo il
suono della sveglia mi fece aprire gli occhi, arrossati e gonfi dal sonno.
Lentamente iniziai ad alzarmi dal materasso, passandomi una mano tra i capelli
scompigliati per dirigermi verso il bagno. La stanza era un casino: i libri che
avevo usato ieri per studiare erano ancora sul tappeto vicino alla scrivania;
la borsa che usavo per andare a scuola era buttata a terra vicino alla porta; i
vestiti che ieri avevo indossato a scuola erano invece appesi sulla sedia della
scrivania… Forse sarebbe stato meglio non svegliarsi proprio.
Accesi la luce del
bagno e i miei occhi faticarono ad adattarsi al cambiamento di luminosità, mi
avvicinai al lavandino di marmo nero e vi poggiai le mani, rimanendo quasi in
trance per una decina di minuti a fissare il vuoto nello specchio di fronte a
me, dopo di che mi sfilai i vestiti ed entrai nella doccia, lasciando che
l’acqua tiepida mi svegliasse e facesse ordine tra i miei pensieri, ancora
scossi dalla nottata appena trascorsa a riflettere.
«Jared!» La voce di
mia madre mi scosse dallo stato di trance in cui ero ricaduto. «Ti sei
alzato?!»
«Sì, ma’! Sono
sotto la doccia!» Risposi scocciato… Odiavo fare conversazione appena sveglio.
Quel breve dialogo mi era però servito a prendere consapevolezza della mia
situazione attuale, e così chiusi l’acqua della doccia, mi avvolsi un
asciugamani in vita e con un secondo iniziai ad asciugarmi i capelli corvini
strofinando vigorosamente.
Scelsi i vestiti
che avrei indossato quel giorno quasi ad occhi chiusi, come ogni mattina,
dall’armadio in fondo alla stanza e li indossai in fretta, per paura di fare
tardi, motivo per cui riuscii, stranamente, a fare colazione prima di uscire di
corsa con la speranza di riuscire a prendere il bus.
Le temperature si
erano abbassate drasticamente da quando era iniziata la scuola, e così il mio
alito creava piccole nuvolette di vapore, che si perdevano nel gelo dell’aria.
Mi strinsi ancora di più nel giubbotto imbottito, infreddolito ed ancora mezzo
addormentato e mi misi ad aspettare il bus alla fermata della piazzola di
Forest Hill.
Dopo venti minuti
di attesa guardai insofferente l’ora sul cellulare e pensai di avviarmi a
piedi, con la speranza di prenderlo ad una delle fermate seguenti, ma proprio
mentre stavo per allontanarmi dalla fermata vidi in lontananza il pullman rosso
e, così, mi rifugiai nel tepore del mezzo pubblico. Ipod nelle orecchie, mani
in tasca e testa poggiata sul finestrino per guardare il paesaggio scorrermi
sotto gli occhi. Tutto come al solito. Eppure di solito adoperavo quei minuti
per ripetere o per prepararmi ad incontrare i miei amici e Lydia; quella volta,
invece, la mia testa viaggiò nuovamente ai pensieri che mi avevano tormentato
la sera prima: Alex.
Quasi come se
l’avessi evocato, vidi il ragazzo canadese salire sul bus e sedersi due file
davanti a me. Nel guardarlo provai tenerezza e sorrisi involontariamente: aveva
i capelli scombinati dal sonno e la cravatta storta. Quanto sarà diverso in Canada? Pensai nell’osservarlo.
Per la prima volta
consapevole di quello che stavo per fare, mi alzai dal mio sediolino e mi andai
a sedere accanto al canadese, che mi riconobbe dopo una manciata di secondi e
si girò subito dall’altro lato.
«Hey» Iniziai io,
un po’ impacciato, ricevendo in risposta solo uno sguardo truce da parte del
biondo. «Non sapevo prendessi questo bus la mattina.» Dissi, non sapendo come
continuare il discorso, e pentendomi subito dell’iniziativa presa.
«Pensavo che
avessimo già chiarito quanto questo comportamento ipocrita sia insopportabile,
soprattutto a prima mattina.» Rispose lui, dopo vari minuti di silenzio, ai
quali io ribattei fissandolo negli occhi il più intensamente possibile, per la
prima volta da che l’avessi conosciuto incolume alle sue frecciatine acide.
«Comunque di solito non prendo questo, è solo che oggi ho fatto tardi.»
Concluse, infine, distogliendo lo sguardo e abbozzando quello che mi parve un
sorriso.
«Io invece ho
aspettato per tipo mezz’ora, pensa un po’!» Esclamai, sorridendo; dopo di che
una cappa di silenzio sembrò abbattersi su di noi, rendendo ogni istante il più
imbarazzante della mia vita. Solo dopo vari minuti ebbi il coraggio di parlare.
«Ascolta,» iniziai, con la voce che tremava «ho pensato un bel po’ a tutto
quello che è successo e - no aspetta, non interrompermi, ti prego - insomma, mi
sono accorto di varie cose che ho fatto di cui non sono molto orgoglioso, e
soprattutto con cui non riesco a convivere, e vorrei che tu capissi che tutto
ciò che è successo l’avrei evitato volentieri, se solo ne avessi avuto la
forza. Non sto parlando solo di quello che è successo con Daniel, o di come
abbia parlato male di te alle tue spalle e via dicendo, ma anche del mio
comportamento nelle piccole cose. Ora capisco che tutte queste cose ti abbiano
dato un’immagine di me completamente negativa, ma che ti assicuro essere
sbagliata, ma vorrei anche che tu capisca il perché di tutti questi miei
comportamenti da emerito idiota. Vorrei
che tu capissi cosa mi ha spinto ad agire in questo modo, che, ti assicuro, non
mi si addice; per niente.» Mi interruppi solo un secondo, per riordinare le
idee e per capire l’effetto che le mie parole stavano avendo su Alex, che mi
guardava con una scintilla di curiosità negli occhi verdi. «Vorrei, in poche parole,
che tu riuscissi a trovare il modo di perdonarmi, o comunque di darmi la
possibilità di ricominciare da zero.
«Ho passato
l’intera nottata di ieri a pensare a tutto quello che è successo da quando è
iniziata la scuola, e non te lo dico solo per farti compassione o per riuscire
a conquistarmi la tua simpatia – soprattutto perché se c’è qualcosa che ho
capito della tua persona è che conquistarsi la tua simpatia non è così semplice
– ma, più che altro, per farti capire che tutto quello che ti sto dicendo ha
subito un’estenuante verifica. Comunque, la conclusione a cui sono arrivato è
che tu mi hai fatto, sin dal primo momento, uno strano effetto, e questo mi
faceva paura; era come se riuscissi a toccare sempre quella parte di me che io
non volevo assecondare. Ripeto: mi faceva paura. Ed è sempre per paura che ti
ho insultato, o che ho deciso di non dire chi era stato a ridurti a stracci nel
bagno, oppure che ho cercato, subito dopo, di aggiustare le cose come solo un
povero coglione avrebbe potuto fare, ovvero con accondiscendenza e pietà.
«Il succo del
discorso, quindi, è che sì, mi dispiace di aver avuto un comportamento di
merda, ma è anche vero che se tornassi indietro non avrei modo di evitare ciò
che è successo, perché ho ancora paura.» E una volta finito il monologo, quasi
come se avessi calcolato apposta i tempi, mi alzai e mi diressi alla porta del
bus, che aveva raggiunto, in quel momento, la fermata della Walworth Academy.
«Allora?»
«Ly non lo so, ci
devo pensare.» Risposi alla mia ragazza, mentre sistemavo i miei effetti
personali nell’armadietto 117.
«Ma come?! Stavamo
organizzando questa serata da settimane ormai!» Replicò esasperata Lydia,
incrociando le braccia all’altezza del petto.
La mia ragazza
aveva ragione… Stavamo organizzando da ormai due settimane una serata
tranquilla a casa mia: solo noi due, con un bel film e tanto junk food; ma
sinceramente era l’ultima cosa di cui avessi voglia in quel momento.
«Lo so tesoro, è
solo che mia madre alla fine ha deciso di rimanere a casa e non credo che mi
farebbe venire da te sapendo che il giorno dopo ho la partita di palla a
nuoto.»
«Ovviamente…» Disse
tra i denti la ragazza, andandosene subito dopo lasciandomi come un idiota a
fissare il vuoto.
Incollerito con me
stesso e col mondo intero per tutto quello che dovevo sopportare, presi il
libro di biologia dall’armadietto e poi lo chiusi con violenza.
«Fa’ attenzione che
così facendo rischi di rompere tutto.» Sentii una voce dire dalla mia destra.
Quando mi girai vidi Alex, questa volta con la cravatta raddrizzata e i capelli
pettinati alla meno peggio, appoggiato col fianco sinistro al muro di fianco a
me e con un sorriso dipinto sulle labbra. «Che dici, andiamo in classe che
altrimenti il signor Boujdi ci abbassa il voto come minimo di due punti?»
Gli sorrisi. Non so
come ma tutto quello che era successo con Lydia era già acqua passata.
«Andiamo.» Dissi infine, dandogli una pacca sulla spalla ed avviandomici
insieme verso l’aula del signor Boujdi.
«Cos’era successo,
comunque?» Chiese il biondo mentre ci mettevamo in fila in attesa che il
professore aprisse la porta della propria aula e ci facesse entrare. «Prima,
intendo.»
Leggermente
meravigliato da quella domanda improvvisa, lo guardai per qualche istante negli
occhi prima di rispondere: «Un banale litigio con la mia ragazza, Lydia; niente
di che…»
«Capisco…» Disse
l’altro, guardandosi le dita affusolate. «Senti, comunque io volevo dirti che…»
«Non abbiamo tutta
la giornata, forza! In classe!» La voce del signor Boujdi arrivò dalle nostre
spalle e stroncò il discorso del ragazzo canadese, che sembrò ritornare alla
realtà iniziando a giocherellare nervosamente con la propria penna, prima di
seguire il professore all’interno dell’aula.
Una volta sedutici
l’uno affianco all’altro, mentre tutti i nostri compagni di corso prendevano
posto attorno a noi, gli sfiorai delicatamente il braccio per richiamare la sua
attenzione, gli sorrisi e dissi semplicemente. «E’ tutto ok.»
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Capitolo 9 *** How To Fix Things ***
ef4g5
Capitolo 8 - "How to fix things"
Eccoci
ritrovati con l'ottavo capitolo di questa piccola storia che spero vi
stia piacendo. Sppero abbiate passato delle belle feste di Natale e che
siate dell'umore adatto per leggere questo capitolo :)
Alla prossima e grazie a chi continua a seguirmi e a recensire!
Non appena la
campanella suonò con gli ormai ben noti tre “bip”, raccolsi il mio materiale e
mi diressi verso il corridoio, decidendo di aspettare lì Alex, che mi raggiunse
dopo poco.
«Un’altra ora con
il signor Boujdi e rischiavo di darmi fuoco.» Disse esasperato il biondo, non
appena ci fummo allontanati dall’aula di scienze. «Io adesso ho un’ora buca, ti
andrebbe di fare un salto da Tesco e prendere qualcosa da mangiare? Stamattina
non ho fatto colazione.» Chiese mentre ci stavamo avviando ai nostri
armadietti.
«Mi dispiace, ma
ora ho fisica…» Risposi, sinceramente dispiaciuto. «Però un’ora e sono libero…
Possiamo posticipare oppure hai impegni?»
«No, figurati, mi
va benissimo.» Replicò, togliendomi un peso dal petto. «Allora ci vediamo
dopo?»
«A dopo.» Dissi
sorridendo, mentre mi incamminai verso l’aula di Fisica.
Il professore parlò
per quelle che sembrarono essere ore ed ore del vettore d’induzione magnetica,
della sua direzione, del suo verso e via dicendo. Stranamente però durante
quell’ora la mia testa viaggiò in mondi completamente diversi, in mondi che si
intrecciavano col futuro, e con l’aspettativa di quello che sarebbe potuto
succedere di lì a poco; in mondi che si ancoravano pesanti al piano degli
attimi presenti e non volevano farli scivolare via; in mondi che avevano tutto
il fascino di un futuro imminente ed irraggiungibile allo stesso tempo.
Quando il
professore smise di parlare, cinque minuti dopo la fine effettiva della
lezione, presi velocemente tutti i miei effetti da sopra al banco e mi diressi
a passo spedito verso la sala comune, dove Alex mi stava aspettando seduto ad
un tavolino immerso nella scrittura di quella che sembrava essere una lettera,
ed anche molto importante.
«Hey.» Dissi,
mentre mi sedevo affianco al biondo, che non distolse lo sguardo neanche per un
secondo dal pezzo di carta. «Che stai facendo?»
Vedendo che il
canadese non aveva intenzione di rispondermi, feci per alzarmi, improvvisamente
innervosito ed incollerito con il mondo; e proprio mentre stavo per mettere la
sedia al proprio posto, vidi il ragazzo allungarmi un foglio di carta piegato
su se stesso. Una lettera.
«Questa è per te.»
Disse, semplicemente, sorridendomi leggermente imbarazzato.
«Ehm… Cos’è?»
Domandai, prendendo la lettera e passandomela tra le mani.
«Una sottospecie di
lettera.» Rispose facendo spallucce, prima di aggiungere velocemente: «Leggila
quando non ci sono io nelle vicinanze, mi raccomando.»
Al che, confuso ed
incuriosito allo stesso tempo, riposi la lettera nel libro di fisica e mi
guardai intorno, cercando qualcosa da fare; quasi come se la stanza potesse
suggerirmi attività ricreative.
«Allora? Ti
andrebbe di accompagnarmi da Tesco a prendere quello spuntino che mi avevi
promesso?» Mi chiese, riportandomi con i piedi per terra e sollevandomi da una
situazione di puro imbarazzo.
«Certo!» Risposi
subito, «Devo solo posare questa roba e poi andiamo, ok?»
«Va benissimo.
Evita di metterci troppo che sto morendo di fame.» Ribatté Alex, abbozzando una
risata e dandosi leggere pacche sulla pancia.
«Non ti
preoccupare.» Dissi, ridendo anche io.
Detto ciò, mi
avviai verso il mio armadietto e vi posai il mio libro ed il mio quaderno,
alleggerendomi almeno di quei due pesi, prima di voltarmi verso la sala comune
e ritrovarmi faccia a faccia con Lydia, la quale mi guardava fisso negli occhi
e con le braccia incrociate al petto. Accoppiata, questa, che non presagiva mai
nulla di buono.
«E’ una mia
impressione oppure c’è qualcosa che desideri dirmi?» Chiesi, esasperato dal
silenzio della mia ragazza, che non sembrò aver sentito le mie parole. «Ok…
Senti: se devi continuare a fissarmi in questo modo inquietante puoi farlo
anche dopo, dato che ora ho una cosa abbastanza importante da fare.» E detto
ciò feci per andarmene, superandola.
«Certo che sei
proprio uno stronzo.» Disse lei, con gli occhi resi lucidi dalle lacrime.
«Sarò anche uno
stronzo, ma se non mi dici cosa ho fatto mi spieghi come faccio a darti
ragione?»
«Sono giorni che mi
eviti, che mi tratti male, che cerchi sempre scappatoie e scuse per fare a meno
di stare con me. Sei uno stronzo perché dopo tutto quello che abbiamo passato
insieme tu ancora non mi dici le cose più importanti della tua vita.» Disse
Lydia, cacciando tutto fuori così velocemente da sembrare un gatto alle prese
con una palla di pelo. «Voglio sapere cosa ne sarà di noi e cosa ti sta
succedendo.»
«No scusa… Fammi
vedere se ho capito bene…» Dissi, preso completamente alla sprovvista dal
comportamento della mia ragazza. «Io ho disdetto sì e no due appuntamenti e tu
pensi che io ti voglia lasciare o cose del genere?!»
Lydia mi guardò con
gli occhi ancora un po’ bagnati dalle lacrime (che era riuscita a trattenere),
prima di parlare con voce chiara. «E’ che… E’ che girano voci.»
«Non c’è
nessun’altra e lo sai.» Risposi secco.
«E che mi dici di
un altro?»
La guardai senza
dire nulla; e non perché non avessi cose da dirle, ma semplicemente perché la
mia mente non riusciva a formulare pensieri sensati: era quasi come se le
parole di Lydia mi avessero colpito allo stomaco come una lama ghiacciata,
togliendomi il respiro e lasciandomi dolorante alla ricerca di aria.
«Che significa?»
Dissi, dopo vari minuti di silenzio e bianco come un lenzuolo.
«E’ solo che
ultimamente stai passando molto tempo con quel ragazzo… Con quella checca.» Al
suono di quelle parole mi dovetti sforzare per non alzare le mani sul Lydia,
che sembrò accorgersi della contrazione della mia mandibola. «E i tuoi amici
parlano.»
Daniel.
«Senti,» dissi tra
i denti, avvicinandomi pericolosamente alla sua faccia, in modo tale da farle
sentire ogni singola parola di quello che avevo intenzione di dirle. «non ho
intenzione di rimanere qua a sentirti sparare stronzate sulla gente, e in
particolare su di me, come se niente fosse. Il mio tempo libero lo passo con
chi voglio; e sta’ pure certa che dopo quello che hai appena detto tu non
rientri nella lista.»
Senza darle modo di
ribattere mi avviai verso Alex, che mi stava aspettando nella stessa posizione
di come l’avevo lasciato.
«Allora, andiamo?»
Dissi, provocando nel ragazzo un sorriso a trentadue denti.
«Davvero hai
intenzione di prendere anche quello?!» Domandai allibito, vedendo la quantità
di cibo che Alex aveva intenzione di comprare.
«Che c’è?» Ribatté
lui, con aria fintamente innocente, suscitandomi un sorriso. «Te l’avevo detto
che avevo fame; e tu mi hai fatto aspettare anche un bel po’ di tempo, quindi
mi si è aperto lo stomaco.»
«Dove metti tutta
quella roba rimarrà un mistero fino alla fine dei tempi.» Dissi, dopo essermi
fatto una risata ed aver accompagnato Alex alla cassa fai-da-te.
In quella mezz’ora
passata con Alex non avevo fatto altro che ridere, e questo mi aveva aiutato a
distrarmi da tutto quello che Lydia mi aveva detto poco prima. Davvero Daniel
era stato in grado di spargere una voce del genere? E tutto questo solo perché
gli avevo impedito di picchiare un ragazzo innocente il primo giorno di scuola?
Per quanto una parte di me cercasse di convincersi che tutto ciò non fosse
possibile, i pezzi del puzzle avevano cominciato ad ordinarsi: i silenzi, la
sensazione di solitudine, i loro atteggiamenti freddi, tutto si spiegava alla
perfezione ora che Lydia mi aveva pugnalato con quelle parole.
«Hai intenzione di
rimanere lì imbambolato come un rincretinito ancora per molto?» La voce di Alex
mi riportò alla realtà, entrando nel mio campo visivo e toccandomi leggermente
il braccio sinistro, che scostai involontariamente, percorso da un brivido
inspiegabile.
«Stavo ancora
cercando di capire come farai a mangiare tutte quelle cose.» Risposi, con tono
scherzoso, cercando di non dare troppo peso al modo in cui mi ero scostato al
suo tocco.
Una volta tornati a
scuola, usando la scusa più banale che mi fosse venuta in mente, mi allontanai
da Alex, per fare una cosa che avrei dovuto fare molto tempo prima. Sapevo già
dove andare, anche se non ne ero certo al cento per cento; così mi avviai con
passo relativamente spedito verso il cortile della scuola, per poi entrare nel
corridoio del piano terra e, successivamente, in un’aula in disuso sulla
destra.
Aperta la porta mi
trovai di fronte ad una scena vista e rivista.
Nella stanza
c’erano Daniel, Max e Joshua, che giocavano tranquillamente a carte mentre si
passavano una sigaretta. Il rumore delle loro parole si fermò immediatamente
non appena Max fece segno agli altri due ragazzi di girarsi verso di me,
rimasto immobile davanti alla porta chiusa alle mie spalle.
Daniel mi osservò
dritto negli occhi per quella che parve un’eternità. Ho sempre trovato strano
che gli unici momenti che sembrano protrarsi all’infinito sono quelli
inaspettati e quelli difficili da sopportare. Ovviamente in quel caso mi
trovavo nella seconda categoria.
«Le checche non
sono le benvenute; credevo che lo sapessi.» Sputò Daniel, guardandomi dall’alto
verso il basso con una scintilla di disgusto nel proprio sguardo. «O che almeno
lo ricordassi.»
Senza degnarlo
neanche di una risposta, mi avvicinai al ragazzo e posi la mia faccia a neanche
un centimetro dalla sua, da cui scivolò via qualsiasi traccia di colorito.
Chissà cosa stesse pensando.
«Se provi anche
solo un’altra volta a dire cose false sul mio conto, anche solo una, ti
assicuro che la tua vita diventerà un inferno.» Sentivo la puzza di fumo
provenire dal suo alito, che mi sfiorava la faccia, e mi venne da rimettere. «E
non sto parlando di sciopero della parola, oppure del fatto che non ti passerò
neanche più un compito, ma di come la tua vita qui dentro diventerà
insostenibile. Io ti ho avvisato.» E detto questo, soddisfatto dalla reazione
che le mie parole avevano causato nel ragazzo che mi stava di fronte, mi
allontanai lentamente, lanciando occhiate ricche d’odio anche ai suoi due
scagnozzi, che mi guardavano preoccupati, prima di girare i tacchi ed avviarmi
verso l’uscita.
Non appena mi fui
chiuso la porta alle spalle, sentii Daniel imprecare verso di me. Sorrisi
compiaciuto.
«Hey!» Vidi Alex
raggiungermi dall’altro lato del corridoio con in mano un pacco di patatine.
«Già hai mangiato
tutto?!» Gli chiesi, con un tono molto più che sorpreso.
Il biondo rise
leggermente, ed i suoi occhi, come al solito, si illuminarono; ed improvvisamente
nella mia testa l’unico pensiero era quello di riuscire a vedere Alex ridere.
«Nono! Ho posato tutto il resto nell’armadietto… Vuoi?» Disse, porgendomi la
busta di patatine alla paprika.
«No, grazie…»
Risposi, sorridendogli. «Vorrei evitare di mangiare questa roba prima della
partita.» Gli spiegai, vedendo la sua espressione interrogativa.
«Oddio è vero! Oggi
hai la partita!» Esclamò, quasi più entusiasta di me.
«Già…» Risposi io,
pensando a Daniel e ai miei amici.
Sull’acqua della
piscina le luci della palestra facevano uno strano effetto, quasi come se un
bambino stesse giocando con la tempera ad acqua, sperando di creare un
capolavoro. Il mio cuore batteva velocissimo, quasi come se quella partita
fosse la prima della vita; eppure non era così. Il corpo completamente immerso
nell’acqua della piscina, che mi bagnava completamente le ciglia, da cui
cadevano continuamente delle gocce. Respiravo in modo regolare, aspettando che
i miei compagni di squadra mi passassero la palla, che sembrava però non voler
raggiungere le mie mani. Eravamo ormai agli ultimi cinque minuti del quarto
tempo, e il nervosismo continuava a salire. Non facevo altro che dimenarmi a
destra e a sinistra, con la speranza che la palla entrasse in mio possesso…
Avevo anche cercato, nei due minuti di pausa precedenti, di fare pressioni su
Daniel, co-capitano della squadra, perché, in fondo, sapevo che c’era lui
dietro tutto questo. Sentii improvvisamente le guance arrossarsi per la rabbia,
e fui costretto a concentrare la mia attenzione sugli spalti, da dove Alex
osservava attentamente la partita, incitando la nostra squadra quando entravamo
in possesso palla, ed imprecando quando la squadra avversaria segnava.
Senza neanche
accorgermene ciò che stavo aspettando da più un’ora accadde e mi ritrovai la
palla tra le mani. Il mio cervello si riattivò velocemente, facendo muovere le
mie gambe nella direzione della porta. Dalla mia destra sentii il coach
incitarmi, e consigliarmi di passare la palla a Max, smarcato e con la
possibilità di tirare in porta senza troppe difficoltà; consiglio, questo, che
sentivo arrivare da tutti i lati, ma che volevo ignorare a tutti i costi.
Sapevo di potercela fare. Dovevo farcela.
Sentii i miei
quadricipiti contrarsi per lo sforzo e, all’improvviso, ancor prima che me ne
potessi accorgere, mi ritrovai con il busto completamente fuori dall’acqua e,
senza perdere tempo, portai il braccio all’indietro e caricai il tiro, che
seppi, nel momento esatto in cui la mia mano lasciò la presa sulla palla,
sarebbe entrata in porta. E così fu.
Non appena la rete
avversaria si gonfiò, tutt’attorno a me si alzò un coro di grida, di gente che
esultava perché oramai avevamo la vittoria in pugno.
Senza prestare
troppa attenzione a quello che succedeva sugli spalti, ritornai alla mia
postazione e, nel farlo, incrociai lo sguardo di Daniel, ricco di odio e di
gelosia. Il sorriso mi si dipinse involontariamente sulle labbra.
«Hip hip urrà per
il nostro capitano Maycon!» La voce di Daniel ne anticipò l’arrivo negli
spogliatoi, in cui mi ero ritirato dopo la conclusione dell’amichevole e dove
avevo iniziato a prendere le mie cose per la doccia, che fui costretto a
riposare sulla panchina non appena il suo gruppetto di scagnozzi mi si piazzò
davanti, per intralciarmi la strada e costringermi a girarmi verso il
co-capitano.
«Complimenti a te…»
Replicai, con tono ironico. «Grande possesso palla.» Dissi.
Sulla faccia di
Daniel comparve una smorfia di odio e di risentimento che mi fece rizzare i
capelli sulla nuca. «Non fare lo spiritoso.» Rispose lui, avvicinandosi con i
pugni chiusi e le braccia stese lungo i fianchi.
«Non capisco a cosa
ti rif… Ah!» Le mie parole furono interrotte da un gemito di dolore, provocato
dal pugno che Daniel mi diede all’altezza dello stomaco, facendomi piegare in
due e tossire violentemente, e nascosto dalla tosse provvidenziale di Joshua e
Aaron, ancora alle mie spalle.
«Che avevi
intenzione di fare, uh?» Mi domandò Daniel, abbassandosi leggermente per
guardarmi dritto negli occhi. «Avevi forse intenzione di farti la doccia qua
dentro, con noi?!»
Sentii gli occhi
bruciarmi, minacciando di tradire la mia espressione indifferente con lacrime
salate di frustrazione. «Sei un pover idiota, Dan.» Dissi, raddrizzandomi un
minimo e sforzandomi di non rispondere con la sua stessa moneta.
«Meglio idiota che
finocchio.» Sentenziò lui, assestandomi un secondo pugno allo stomaco,
facendomi cacciare un secondo rantolo di dolore, che si unì anche questa volta
ad un attacco violento di tosse da parte dei tre scagnozzi alle mie spalle. «Ma
tu davvero credevi che noi saremmo stati in silenzio a vederti ammalare in
questo modo? Ci fai troppo schifo per poter rimanere indifferenti.» E dette
queste parole sentii le sue nocche urtare violentemente contro la mia
mandibola, facendomi finire in ginocchio ai suoi piedi. Senza dire niente
sputai sui suoi piedi il sangue che il suo pungo aveva fatto accumulare nella
mia bocca, e mi rialzai, fissandolo negli occhi, come avevo fatto poche ore
prima.
«Questo è tutto
quello che hai? Sul serio?» Dissi, abbozzando un sorriso dolorante.
«Che ne dici se ora
ti faccio cacciare, a forza di pugni, tutto il tuo lato finocchio?!» E con
queste parole riprese a prendermi a pugni, questa volta senza un vero e proprio
ordine, ma solo per il gusto di vedermi cacciare lamenti di dolore. Una volta
che ebbe finito mi tolsi le braccia da davanti la faccia e lo ripresi a
guardare con tranquillità negli occhi neri, che sembravano brillare di una luce
propria; completamente diversa, però, da quella che illuminava gli occhi di
Alex quando rideva: quella dava l’idea di innocenza, di freschezza… Di
serenità; quella che avevo invece davanti agli occhi in quel momento faceva
trasparire odio, disprezzo e paura.
Senza dire una
parola alzai il braccio e, così come avevo fatto poco prima con il pallone di
pallanuoto, caricai il colpo; solo che questa volta la mano era chiusa a pugno,
e le mie nocche andarono ad urtare violentemente contro lo zigomo di Daniel,
che finì scaraventato contro l’armadietto alla sua sinistra.
«Sai cosa?» Dico,
retoricamente, mentre prendo le mie cose dalla panchina alla mia destra e
faccio segno ai tre ragazzi alle mie spalle di non immischiarsi. «Puoi
sputtanarmi quanto vuoi, non m’interessa. Credo di essere abbastanza maturo da
poter fare a meno di teste di cazzo come te, e soprattutto non devo dimostrare
niente a te o a voi altre facce di culo; e questo sia perché ciò che dite non
cambia ciò che sono (ovvero un etero, giusto per chiarirci) e ciò che penso, e
anche perché nella piramide di questa scuola, senza di me, tu sei talmente in
basso che neanche Rooth la sdentata ti darebbe retta.» E mentre dico queste
parole, sento del calore espandersi dai miei polmoni fino alla punta dei piedi,
che mi fa dimenticare momentaneamente il dolore che pervade ogni parte del mio
corpo. «Ma se provi a sputtanare anche solo una volta Alex, o chiunque altro al
di fuori di me, giuro che ti farò sembrare il club di scacchi la cosa più
interessante della tua misera e banale vita.»
Senza aggiungere
altro mi avviai all’uscita degli spogliatoi, per raggiungere, di nascosto,
l’infermeria.
La signora
Macflorence stava, come c’era d’aspettarsi, sistemando le ultime cose prima di
tornare a casa; ma, non appena mi vide entrare dalla porta dell’infermeria,
zoppicante e con indosso solo il costume e l’accappatoio della squadra di
pallanuoto della scuola, mi venne in soccorso.
«Oh, figliolo!»
Esclamò, con tono preoccupato. «Cosa diamine ti è successo?»
«E’ una lunga,
lunghissima storia…» Risposi, digrignando i denti dal dolore e sedendomi sul
lettino di fronte alla sua scrivania, da dove l’infermiera iniziò a tirar fuori
tutto il necessario per alleviare il mio dolore.
«E’ la seconda
volta il neanche tre settimane che ho dovuto curare ferite da rissa, e non
credo che sia una coincidenza.» Disse, mentre iniziava a fasciarmi la cassa
toracica con della garza bianca. «Allora Jared… Vuoi dirmi la verità oppure
devo scoprirla da sola?»
E così iniziai a
raccontarle tutto ciò che era successo da quando Alex aveva varcato le soglie
della Wordsworth Academy, facendo, molto spesso, riferimenti anche non
necessari allo svolgimento basilare della storia, ma che sentivo di dover
condividere con qualcuno. Io l’avevo detto che quel lettino aveva delle
proprietà tutte sue, e parlare con la signora Macflorence mi servì molto, a far
chiarezza in me stesso e in quello che era successo.
«Jared!»
Ero stanco… Anzi,
distrutto, e l’unica cosa che volevo era il letto di casa mia, che, ne ero
sicuro, mi stava aspettando desideroso di riaccogliermi tra le sue lenzuola; ma
ovviamente Lydia doveva parlarmi proprio in quell’istante.
«Hey.» Dissi,
voltandomi verso di lei, che mi stava raggiungendo dall’alto lato del
marciapiede. Era ottobre, ormai, e le giornate avevano iniziato ad accorciarsi,
e le temperature ad abbassarsi, così mi strinsi ancora di più nel mio giubbotto
imbottito… Dio, sembrava passato così tanto tempo da quando l’avevo indossato
quella mattina.
«Possiamo parlare
un attimo oppure sei di fretta?»
«No, certo che
possiamo parlare… Vieni, sediamoci qui.» Dissi, indicando una panchina sotto
l’albero della piazzetta di Lewisham.
«Mi dispiace, non
sai quanto…» Iniziò lei, elencando, poi, tutti i motivi per cui aveva sbagliato
e per cui io avrei dovuto perdonarla. Sentii dentro di me, mentre le sue parole
continuavano a bussare alla mia coscienza, un moto di tenerezza, e forse anche
di pena, nei suoi confronti; quasi come se le sue parole pizzicassero delle
corde nuove del mio essere, corde che non avevo mai voluto sentire.
Non so quanto
rimanemmo su quella panchina di Lewisham, alle sette di sera, so solo che,
quando ce ne andammo - forse perché il mio orecchio, confuso, ancora scambiava
per amore vibrazioni d’affetto, oppure perché, in fondo, ancora l’amavo - la
salutai come la mia ragazza.
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Capitolo 10 *** Innocence ***
dw
Capitolo 9 – "Innocence"
Eccoci con il nono capitolo del racconto :)
Non vi trattengo molto con inutili preamboli, e vi lascio alla lettura
del capitolo; vi chiedo solo di passare per la mia pagina facebook (qui) e, se vi va, di lasciarmi una piccola recensione :)
Spero che questo capitolo vi piaccia :)
Il vapore dell’acqua calda della doccia aveva creato la solita
condensa sullo specchio del bagno, in cui mi specchiai mentre mi
asciugavo i capelli, strofinandoli vigorosamente.
La differenza di temperatura che c’era tra il box doccia e la
stanza del bagno ormai era terribile, e dovetti alzare ancora di
più il livello dei riscaldamenti, che mia madre si ostinava a
voler tenere basso.
Decisi, dopo vari ripensamenti, di indossare una semplice camicia a quadri blu e bianchi, sopra un jeans scuro.
Lydia mi aveva scritto quella mattina chiedendomi di andare a vedere un
film al cinema di Lewisham, e io avevo accettato mosso da tutto
fuorché dalla voglia di passare del tempo da solo con
lei… Mi sembrava la cosa giusta da fare. Non sapevo neanche che
film avesse intenzione di andare a vedere.
Mi sistemai la camicia, lasciandomela leggermente sbottonata, presi il
cellulare e il portafogli da sopra la scrivania e mi diressi
verso la porta d’ingresso, fermandomi prima in cucina per rubare
un pacchetto di gomme a ma madre, che era tutta presa dai preparativi
della cena di quella sera.
«Jay, tesoro» mi chiamò mia madre non appena misi
piede nella stanza della cucina, «domani sera andiamo a mangiare
fuori. Ho prenotato in quel posto che ti piaceva tanto quand’eri
piccolo. Quel ristorante italiano.»
«Va benissimo,» risposi, sorridendo affettuosamente a mia
madre, che mi guardava soddisfatta. «solo io e te, vero?»
domandai poi, prendendo il pacchetto di gomme dalla sua borsa.
«Sì, solo io e te.» Rispose lei, rimettendosi ai fornelli.
«Com’è che si chiamava quel ristorante,
comunque?» Chiesi, più a me stesso che a mia madre,
cercando di ripescare dai ricordi ormai scoloriti quella traccia di
colore che mi facesse riconnettere alla mia infanzia. «Grembiuli
partenopei?» Dissi, con un buffo tentativo di assumere una
pronuncia italiana. Tentativo, questo, che fece sfuggire a mia madre
una piccola risatina divertita. «Vabbè Ma’, io devo
andare… Ci vediamo dopo!» Dissi, guardando l’orario
sull’orologio affisso al muro della cucina.
«A dopo.»
L’aria fuori era fredda e tagliente e, nonostante mi fossi
imbacuccato da testa a piedi sentivo il gelo raggiungermi la pelle e
farmi venire brividi lungo la colonna vertebrale.
Arrivato alla banchina del bus decisi di farmela a piedi, nonostante il
clima avverso e il dolore all’altezza delle costole dovuto allo
scontro avuto la sera prima con Daniel – di cui, per fortuna, ero
riuscito a nascondere i segni a mia madre, che altrimenti si sarebbe
fiondata a scuola a lamentarsi dal preside. Per tenermi compagnia presi
l’iPod dalla tasca del giubbotto e mi misi le cuffie nelle
orecchie e, schiacciando play sul lettore musicale, mi feci trasportare
dalle note della musica, mia migliore amica nei momenti di solitudine.
Il tempo di tre brani in riproduzione casuale ed arrivai al cinema di
Lewisham, dove Lydia mi stava già aspettando, al caldo della
biglietteria, all’interno dell’edificio.
«Hey.» Mi sorrise lei non appena mi vide entrare nella biglietteria.
«Hey.» Risposi io, posandole un leggero bacio sulla guancia destra, con uno strano imbarazzo.
«Allora…» Iniziò lei, incamminandosi verso lo
sportello della biglietteria, dove l’impiegato stava aspettando
impaziente il nostro arrivo. «Avevo pensato di andare a vedere
Lucy, l’ultimo film di Scarlett Johansson… Che
dici?»
“Buffo farmi una domanda del genere quando in realtà aveva
già programmato tutto”, pensai, prima di rispondere:
«Certo… Come vuoi tu amore.»
Quando entrammo in sala la tensione tra noi due era palpabile quasi
quanto la sensazione di disagio che mi attanagliava lo stomaco.
«Ieri non ho avuto modo di dirtelo: gran bella partita!»
Esclamò Lydia di punto in bianco, cercando un contatto fisico,
che però io non riuscii ad assecondare.
«Grazie.» Risposi, freddo. Non capivo cosa mi stesse
succedendo, ma d’improvviso tutta quella situazione mi sembrava
assurda ed insensata. Non appartenevo a quel posto, e di sicuro non a
quella persona. Ma allora perché c’ero venuto?
«Sono veramente fortunata ad essere la ragazza del capitano
più bravo e sexy dell’intera regione.»
Continuò lei, sorridendo maliziosa ed avvicinandosi al mio viso,
cercando, forse, di far rinascere sensazioni ormai morte. Sentii le sue
labbra posarsi sulle mie e, senza nemmeno accorgermene, mi feci
scappare un gemito che fu interpretato da Lydia come un verso di
sofferenza. Be’, non che ci fosse andata tanto lontano.
«Che hai?!» Chiese preoccupata, scostandosi leggermente ed
aggiustandosi una ciocca bionda che le era ricaduta davanti
l’occhio. La vidi mentre analizzava ogni singolo centimetro
quadro del mio viso.
«Niente, tranquilla…» Replicai io, facendo finta di
niente e scostandomi i capelli tentando di coprirmi il più
possibile la faccia. «E’ solo…»
«Jared Maycon.» Mi interruppe lei, guardandomi con un
cipiglio severo, quasi come quello di una madre che rimprovera il
proprio figlio per essere caduto dalla bicicletta senza casco.
«Sono lividi quelli che stai cercando di nascondere con il
correttore?»
«Sì… C’è stato un piccolo scontro, se
così vogliamo chiamarlo, con Daniel e gli altri ieri negli
spogliatoi.» Ammisi poi, dopo aver vagliato tutte le scuse
plausibili ed averle successivamente scartate tutte, una ad una, con
altrettanta velocità.
«Ogni tanto mi chiedo perché ti comporti in questo
modo…» Sospirò lei, prima di pentirsi di ciò
che aveva detto.
«In che senso scusa?» Domandai a quel punto io,
sistemandomi sul sedile del multisala in modo da poterla guardare negli
occhi.
La vidi impallidire mentre soppesava per bene le parole da usare.
«E’ solo che,» disse, «a volte sembra che tu
voglia provocare Daniel e gli altri per far capire chi è che
comanda tra di voi.»
La guardai sconvolto. Sembravo quasi un pazzo. Ma forse lo ero…
Dovevo esserlo per forza: dovevo essermi immaginato quelle parole
provenire dalla bocca della mia ragazza. Inspirai lentamente, cercando
di mantenere la calma.
«Tu più di tutti dovresti sapere che non ci tengo a
comandare… Oppure no, scusa, eri troppo impegnata a sentire i
pettegolezzi che quelle teste di cazzo mettevano in giro.» Sputai
allora io, fissandola dritto negli occhi, con la speranza di farle
capire il dolore che mi aveva provocato con ogni singola azione portata
avanti in quegli ultimi giorni.
Stavo aspettando una sua risposta. La stavo sfidando a rispondere.
Le luci si spensero. Iniziò il film.
Il silenzio pervase la sala.
Il film era finito da una decina di minuti e io ero all’ingresso
del cinema, con il cappotto e la borsa di Lydia tra le braccia,
aspettando che la mia ragazza mi raggiungesse. Appena iniziati i titoli
di coda, infatti, si era congedata dicendo di dover andare in bagno, e
che io avrei potuto aspettarla all’ingresso. E così avevo
fatto.
Mi trovavo, quindi, con un piede dentro al cinema e con uno fuori,
mentre con la testa però rimuginavo sulle parole velenose che
avevo usato su Lydia, e agli occhi lucidi che lei aveva avuto per tutta
la durata della pellicola.
Presi il cellulare dalla tasca del jeans e lo accesi, per controllare
eventuali messaggi e chiamate perse e, soprattutto, per ingannare il
tempo. Non appena il display si fu avviato, vidi sul pannello delle
notifiche un nuovo messaggio, da parte di Alex. Mi destreggiai con il
cappotto e la borsa di Lydia, cercando di liberarmi un braccio, e poi
aprii il messaggio.
Hola!
Ti scrivo per sapere alla fine
cos’avevi intenzione di fare ad Halloween, perché la mia
host family vorrebbe farmi rimanere a casa con loro… Ti prego,
salvami!
p.s.
Non sto capendo niente di Chimica e Biologia… Questo test non lo passerò, ne sono certo.
Senza saperne il motivo sorrisi, ed iniziai a digitare il messaggio di risposta.
Hola anche a te, amigo!
Non so ancora niente dei programmi di
Halloween… Ora che mi ci fai pensare però manca solo una
settimana, quindi dovrei cominciare a chiedere in giro :)
Ti faccio sapere appena ne so qualcosa in più… Non ti preoccupare: ti salverò! Ahahah.
p.s.
Tranquillo, ti aiuto io :) Sono o non sono il tuo B.C.S.? :)
«Jared…» La voce di Lydia mi riportò con i
piedi per terra e mi costrinse a girarmi verso di lei, per porle la
giacca e la borsa.
«Non c’è bisogno di aggiungere nulla, Ly.» La
interruppi io, sorridendole. «Anzi, mi dispiace di aver detto
quelle cose… E’ solo che…»
«Lo so.» Replicò la ragazza, posandomi una mano
sull’avanbraccio. «E mi dispiace… Lasciami
rimediare.»
«Certo.» Dissi, posandole un leggero bacio sulle labbra prima di incamminarci verso casa.
La serata si concluse meglio di come aveva avuto inizio, anche se ormai sapevo che quella storia era finita.
Ormai facevo tutto in maniera meccanica: mi svegliavo, mi facevo una
doccia, mi vestivo, prendevo lo zaino, facevo colazione e uscivo per
andare a scuola, dove poi seguivo la seconda parte della mia routine
quotidiana: lezioni, studio, Lydia e Alex, che era l’univa
costante in quella vita monotona a rendere le mie giornate autunnali
meno fredde, e non sapevo spiegarne neanche il motivo.
Quel giorno, però, invece di tornare a casa, sarei rimasto in
biblioteca ad aiutare Alex a prepararsi per il test di chimica e
biologia che si sarebbe tenuto dopo la pausa di Halloween, tra tre
settimane.
«Allora, sei pronto ad essere messo sotto?» Chiesi,
avvicinandomi al biondo, che stava prendendo il necessario
dall’armadietto.
Alex mi guardò con quella che interpretai come un’occhiata
tra l’imbarazzato e il divertito, che mi fece arrossire per le
parole che avevo appena deciso di usare.
«Per quanto allettante sia la proposta,» rispose il
canadese dopo diversi minuti di silenzio, «abbiamo un test da
preparare.» Lo vidi sorridere divertito e sentii qualcosa
sciogliersi dentro di me. «E poi non sei il mio tipo.»
Aggiunse, chiudendo l’armadietto ed avviandosi verso la
biblioteca.
«Che significa “non sei il mio tipo”?» Chiesi,
raggiungendolo con passo svelto. «Sono il tipo di tutti,
io.»
«Ed ecco a voi mister Modestia, signore e signori!»
Ribatté cercando di non farmi notare il sorriso che gli si stava
disegnando sulle labbra e che gli stava facendo brillare gli occhi.
«In carne ed ossa.» Aggiunsi io, gonfiando il petto e
camminando a testa alta, facendo quella che dovette apparire come una
pessima caricatura di quello che un tempo volevo apparire: un ragazzo
snob e presuntuoso.
Le due ore che passammo in biblioteca a studiare per il test del
professor Boujdi passarono talmente velocemente che neanche mi accorsi
della totale assenza di luce fuori dell’edificio scolastico.
Fatto sta che mentre ero seduto sul bus diretto verso casa tutto
ciò che ricordavo del tempo passato a studiare con Alex erano le
risate, i rimproveri della bibliotecaria, le battute e i suoi occhi
sorridenti.
Poggiai la testa contro il finestrino e lasciai che la pioggia leggera
e le luci delle strade mi trasportassero in un mondo a parte, in cui
potevo rivivere quelle due ore appena passate all’infinito.
Appena entrai in casa mi diressi di corsa in camera mia per cambiarmi
in tempo da poter andare con mia madre al ristorante italiano di cui mi
aveva parlato la sera prima. Il tempo di una doccia ed ero pronto, con
addosso una polo blu elettrico e un normalissimo jeans.
«Allora, sei pronto Jay?!» La voce di mia madre mi
raggiunse dall’altra estremità della casa, dove lei stava
finendo di prepararsi.
«Sì ma’.» Risposi, iniziando a scendere in salotto, dove mi sistemai sul divano.
Mentre aspettavo che mia madre finisse di prepararsi e mi raggiungesse
al piano di sotto, presi il cellulare e lessi il messaggio che Lydia mi
aveva mandato mentre ero sotto la doccia.
“Il 31 a casa di Sid, ok?
Xoxo”
Rabbrividii nel leggere quel “xoxo” a fine messaggio… Faceva tanto Gossip Girl. E io odiavo quel telefilm.
“Mi ha appena scritto Lydia. Il
31 si va a casa di Sid, un suo compagno di corso, a te andrebbe? Poi ti
do tutti i dettagli :)
p.s.
Non ci credo neanche se mi paghi che non sono il tuo tipo”
Inserii il destinatario – Alex - e premetti invio, nel
momento esatto in cui mia madre varcò la soglia del soggiorno.
«Il taxi dovrebbe essere qui tra pochissimo.» Disse lei
sorridendomi affettuosamente. Aveva una strana luce che le animava gli
occhi, e questo servì per farmi insospettire.
«Ricordami perché andiamo a mangiare fuori,
ma’.» Dissi, alzandomi dal divano e dirigendomi
all’attaccapanni, da dove presi ed indossai il mio cappotto nero.
«Perché, dev’esserci per forza un motivo
preciso?» Chiese mia madre di rimando. «Non posso voler
semplicemente passare la serata con il mio uomo di casa?»
«Diciamo che è strana come cosa.» Risposi, con tono
sarcastico e facendole capire con una risata che stavo scherzando. Non
m’interessava sapere il motivo, a pensarci bene. Mi faceva
piacere passare una serata con mia madre, e questo era tutto quello che
importava.
«A proposito, tanti saluti da tuo padre.»
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Capitolo 11 *** Jack Skeleton ***
rvbth
Capitolo 10 - "Jack Skeleton"
Pronti a festeggiare Halloween
(in ritardo) con Alex e Jared? Se la risposta è sì,
allora leggete, leggete e recensite :)
p.s.
Se vi va passate per la mia pagina facebook cliccando qui :)
“Ok, vada per casa di Sid, allora!
p.s.
Il solito mister Modestia!”
«Jared, mi stai
ascoltando?» La voce di mia madre si fece varco tra i miei pensieri e si
aggrappò alla mia attenzione, portandola in superficie.
Il locale di
“Grembiuli Partenopei” era quasi del tutto pieno, a parte due o tre tavolini al
centro della sala, scogli solitari in quel mare di famiglie, coppie e piccoli
imprenditori che volevano godersi il piacere di un piatto italiano d.o.c.. I
piatti in questione venivano preparati da Marco, un signore sulla cinquantina
che rappresentava tutti gli stereotipi della televisione americana: aveva una
pancia ingombrante, un grembiule rosso (quasi sempre sporco di salse varie) e
dei baffi alla Super Mario.
L’ambiente del
ristorante, invece, si distaccava dai soliti stereotipi della televisione, e si
avvicinava leggermente ad una cantina francese, con le mura in pietra,
leggermente coperte da quadri ed enormi quantità di vino italiano, che si
aprivano in due enormi archi a tutto sesto, con lo scopo di separare la cucina,
in perfetto stile napoletano (o almeno così sembrava dalle foto che erano
appese qua e là sulle pareti del ristorante) dalla sala principale – un’enorme
stanza circolare con botti di vino poste contro il muro confinante con la
cucina, e con lampadari che penzolavano pericolosamente dal soffitto, anch’esso
in pietra – e dall’ingresso.
«Scusa ma’,»
risposi a mia madre, nascondendo velocemente il cellulare sotto il lembo della
tovaglia e sperando che non l’avesse notato (se c’era una cosa che mia madre
non sopportava erano i cellulari a tavola), «ero distratto… Dicevi?»
La vidi lanciare
un’occhiata alle mie mani, nascoste sotto al tavolo, e poi sorridermi
affettuosamente. «Stavo dicendo che tuo padre ha chiamato e mi ha detto che
vor…»
«Allora, abbiamo
una carbonara per la signora qui e una pizza margherita per il giovanotto alla
mia destra.» Il cameriere, stroncando le parole di mia madre con la stessa
leggerezza con cui un’ascia taglia in due un tronco di un albero, posò la prima
portata di fronte a me e mia madre e si congedò con un “buon appetito”, in
italiano.
«Dicevi?» Chiesi,
iniziando a tagliare la pizza.
Mia madre inspirò
profondamente, iniziando ad arrotolare i proprio spaghetti alla carbonara
attorno alla propria forchetta, «Allora… Come ti stavo cercando di dire, mi ha
chiamata tuo padre, per sapere come stavi ed altre cose…»
«Ah! Si ricorda
della mia esistenza, allora! E io che pensavo di essere morto o qualcosa del
genere.»
L’occhiata che mia
madre mi rivolse mi fece rimpiangere amaramente il mio ultimo commento. «Jared
Maycon.» Disse, con tono perentorio. «Non ti permettere mai più di dire una
cosa del genere. Lo sai benissimo che tuo padre non è felice della vita che è
costretto a condurre per lavoro e che lo fa solo per poterci aiutare a
sostenere tutte le spese che abbiamo qui a Londra.»
«Scusa.» Sussurrai,
come un bambino di cinque anni che è stato beccato a mangiare quella caramella
di troppo. Non sopportavo vedere mia madre in quel modo… Sapevo che per lei non
dovesse essere facile vivere così lontano da suo marito; ma non riuscivo a
capire perché mio padre non mi chiamasse mai o non cercasse di mettersi in
contatto con me.
«Bene. Ora se
qualcun altro proverà ad interrompermi giuro che mi trasformo in un qualche
mostro di quei fumetti che ti piacevano tanto da piccolo.» Sorrise, e non
potetti fare a meno di imitarla. «La farò molto breve, altrimenti rischio
davvero di essere interrotta un’altra volta: tuo padre sta venendo a Londra.»
Non dissi nulla. Mi
versai la coca cola nel bicchiere di fronte a me e bevvi, pensando al messaggio
di Alex.
«Jay, di’
qualcosa.»
Rimasi a guardarla
per un po’, ostentando un lungo sorso della mia bibita ghiacciata, poi risposi:
«Che bello, – la bugia mi si leggeva negli occhi – come mai?» Chiesi.
«Ha detto di voler
passare un po’ di tempo in più con noi.» Rispose mia madre, buttandosi a
capofitto sul proprio piatto di spaghetti.
Da quel momento la
conversazione si trasformò in uno scambio di opinioni sul cibo e sul desiderio
di mia madre di fare un viaggio in Italia.
Era il 30 Ottobre,
ormai, quando mi arrivò la lettera di risposta da parte di Kyle.
“Caro Jared,
Non preoccuparti per il ritardo: c’è un prezzo da
pagare per poter usare la buona vecchia posta cartacea ;)
Comunque anche io ho delle cose da raccontarti e,
prima di darti la mia idea su quel poco che mi hai raccontato, voglio dirti
tutto quanto:
Bene, ti ricordi di quella ragazza di cui ti parlai un
po’ di tempo fa? Quella che conobbi al corso di recitazione? Bene, dopo averla
invitata ad uscire (non so dove ho trovato il coraggio), abbiamo iniziato a
frequentarci in maniera abbastanza seria e ora sono due settimane e mezzo che
usciamo…”
Il resto della
lettera parlava dei pregi di questa ragazza – Sarah – e di quanto fosse dolce
ed intelligente (era anche fan di Doctor Who, a detta di Kyle!).
“…Ora, per quanto riguarda la parte noiosa della
lettera (tu e le tue pippe mentali :P) non saprei cosa dire, sinceramente…
Vorrei conoscere questo Alex che, a differenza di tutti i tuoi amici idioti,
sembra essere un ragazzo perfetto e diligente... Adatto a te, insomma u.u
Di Lydia tanti dubbi non ne avevo, come ben sai… L’ho
sempre ritenuta una ragazza senza troppo spessore, e tu lo sai. Il fatto che ti
abbia detto quelle cose non fa altro che affermare questo mio pensiero.
Passiamo al fatto più serio: Alex.
Dalle parole che usi per descriverlo e per raccontarmi
i momenti che passate insieme sembra che ti interessi più lui di Lydia (e non
potei darti torto). Non capisco perché dovrebbe interessarti di cosa dicono i
tuoi compagni di scuola: siamo nel ventunesimo secolo ed essere gay non è un
“problema” da un bel po’ ormai; quindi, anche se tu lo fossi, non comprendo
qual è il problema.
So che forse queste non erano le parole che avresti
voluto sentire (o meglio, leggere) e che probabilmente se mi avessi a portata
di mano mi avresti già strangolato, ma sono qui per dire solo quello che penso
e che tu mi fai capire dalle tue parole scritte con una BIC scadente.
Detto questo ora devo salutarti perché papà mi sta
implorando di portare fuori la spazzatura.
Alla prossima,
Kyle.”
Le parole di Kyle
si erano aperte un varo tra i miei pensieri: le preoccupazioni per la festa di
domani - per l’incontro con Daniel e gli altri - erano completamente sparite
lasciando il posto a quella che sembrava una vecchia registrazione di una voce
lontana ma stranamente familiare. Quasi come se fosse la mia coscienza.
Avevo sempre odiato
il grillo parlante di Pinocchio.
La festa di
Halloween non mi avevano mai entusiasmato più di tanto e questo, in quanto
americano – “Canadese!” avrebbe insistito mio nonno -, non era una cosa del
tutto normale. Quell’anno, però, sentivo qualcosa di diverso nell’aria attorno
a me. Aspettavo quasi con trepidazione di andare alla festa a casa di Sid,
l’amico della ragazza di un mio amico… O almeno qualcosa del genere. Non ero
neanche sicuro di poter definire Jared mio amico.
E’ per questo
motivo, credo, che quando la sveglia del cellulare suonò, svegliandomi dal
breve sonno di cui avevo potuto godere, mi alzai quasi felice di quella nuova
giornata da affrontare.
Non appena varcai
la soglia della cucina della mia host family, già vestito, Veronika, la figlia
della famiglia ospitante, mi salutò calorosamente.
Veronika aveva 24
anni, e viveva a Manchester, dove frequentava l’università di Ingegneria
Biomedica, ed ogni tanto tornava a Londra per fare visita ai propri genitori,
Mark e Juliette, che ormai vivevano da soli in una casa decisamente troppo
grande per due pensionati solitari. Per fortuna sapevano come ingannare il
tempo.
«Programmi per
oggi?» Chiese Veronika, mettendo il bollitore per il the sul fuoco. «Mi ricordo
che alla tua età Halloween era la festa che aspettavo con più trepidazione.
Dopo il natale, ovviamente.»
Mi piaceva.
Insomma, era una ragazza simpatica, intelligente, responsabile e con il senso
dell’umorismo, chi poteva mai avere pensieri negativi su di lei?
Da quando ero
arrivato l’avevo vista solo due/tre volte, dato che era tornata da Manchester
solo due giorni fa per le feste di Halloween, e avevo passato poco tempo con
lei, e il più delle volte sul divano a guardare telefilm o X Factor.
«Dovrei andare con
degli amici ad una festa a casa di un tipo.» Risposi, prendendo i cereali dalla
dispensa e il latte dal frigo. «Niente di che.»
«Oddio che bello!»
Esclamò estasiata la ragazza. «Amo queste cose – aggiunse ridendo -. E hai già
pensato da cosa travestirti?»
La guardai
perplesso, quasi colpevole, fermo immobile con la tazza di cereali in mezzo
alla cucina, congelato in quell’attimo di normale quotidianità. «Ehm… In realtà
non c’avevo ancora pensato… Penso che ci andrò senza.»
«COSA?!» Inveì
Veronika. «Non puoi non avere un travestimento per la festa di Halloween! Che
ti passa per la testa?» Senza interrompersi neanche un secondo mi tolse la
ciotola di mano, mi afferrò il braccio e mi portò alla porta d’ingresso, da
dove prese il cappotto e, guardandomi dritto negli occhi disse: «Nessuno di mia
conoscenza può andare ad una festa di Halloween – a Londra, per di più! – senza
un costume.» E detto ciò mi tirò con forza fuori dalla porta di casa, al freddo
del 31 Ottobre.
Nonostante il vento
gelido che mi tagliava il viso, completamente scoperto, sentii le mie labbra
stirarsi fino a formare un sorriso: sarebbe stato un Halloween fantastico.
La musica si
sentiva da quasi un isolato di distanza, ma la notte del 31 tutto ciò era
normale: nessuno avrebbe chiamato la polizia per denunciare un mucchio di
ragazzini che voeva divertirsi la notte di Halloween.
Casa di Sid,
l’amico di Lydia, la mia ragazza, era un’abitazione di modeste dimensioni di
origini vittoriane, con il tipico giardino sul retro ed il garage di fianco
all’ingresso. Dal vialetto d’ingresso si intravedevano delle sagome muoversi a
ritmo di musica all’interno della casa, come marionette mosse da un Dio
superiore ed invisibile.
Inspirai l’aria
fredda di quel venerdì d’Ottobre e varcai la porta di casa di Sid, per venire
immediatamente immerso in un mare di voci e di colori che mi fecero girare
quasi la testa. Mi addentrai alla ricerca di qualche viso conosciuto, e in
particolare di quello di Alex, che mi aveva scritto un’ora prima per farmi
sapere di essere arrivato con una decina di minuti di anticipo.
«Hey!» Una mano mi
si posò sulla spalla e mi voltai, sperando di vedere i miei occhi blu riflessi
in quel mare verde smeraldo che ormai mi ritrovavo a desiderare nei momenti più
impensabili della giornata, ma invece di fronte a me vidi una maschera di un
qualche personaggio terrificante con la bocca sporca di sangue finto. «Quasi
non ti riconoscevo vestito così.» Disse lo sconosciuto. «Mi deludi… E io che
speravo di trovarti travestito da mister Modestia!»
I miei occhi si
illuminarono, rispecchiando fedelmente la sensazione che mi stava riempendo il
cuore e lo stomaco, come una bevanda alcolica nel pieno di una tormenta di
neve, che riscalda ogni parte del corpo come fuoco vivo. «Alex!» Esclamai.
«Chi altri dovrebbe
essere, cretino?» Chiese il canadese, sarcastico, sfilandosi la maschera e
lasciando liberi i capelli biondi e gli occhi verdi.
«Simpatico e
affabile come tuo solito, vedo.» Scherzo io, avvicinandomi al tavolo delle
bibite, per prendere una soda.
«Sempre.» Rispose,
sorridendo leggermente.
«Da quanto sei
qui?»
«Boh… Un tre quarti
d’ora, più o meno… Diciamo che quando sono arrivato quelli – disse indicando un
gruppo di persone che ballavano forsennatamente in mezzo alla sala da pranzo
- erano sobri.»
Non potei fare a
meno di ridere. Quel tipo di risata che ti riempie l’anima, quello che capita
troppo raramente.
Per gran parte della
serata io ed Alex restammo seduti sugli scalini a parlare, principalmente della
sua famiglia (quella rimasta in Canada) e dei miei progetti futuri. Parlare con
lui aveva un che di diverso, mi sentivo ascoltato… Compreso, addirittura. Cosa
che con Lydia, Daniel o chiunque altro non mi era mai capitata (se non forse
con Kyle, ma lui era così distante che mi sembrava di non parlargli mai
abbastanza). I suoi occhi verdi rispecchiavano i suoi pensieri e i suoi
sentimenti; diceva ciò che pensava e che, molto spesso, si rivelava essere la
cosa che avevo bisogno di sentire, la cosa giusta al momento giusto.
Scoprii che aveva
madre italiana, da cui aveva preso gli occhi verdi, e padre tedesco, da cui
invece aveva preso i capelli biondi; e che dopo il liceo il suo desiderio era
quello di diventare uno scrittore di romanzi, per lo più fantastici. Scoprii
anche che era un patito di telefilm e di quasi tutte le saghe uscite in quegli
ultimi dieci anni, e mi insegnò l’esistenza di termini come “OTP”, “ship”,
“canon” ed altri che non saprei ripetere.
«Scusa, ti sto
ammorbando con tutti questi discorsi…» Disse a un certo punto. Dall’altra
stanza si sentivano le risate di alcuni ragazzi, che sembravano sfottere
qualcuno. La solita vittima ubriaca. «E’ solo che… Non so… Mi sento a mio agio
con te; come se potessi raccontarti qualsiasi cosa. So che può sembrare
idiota…»
«No, non lo è,
tranquillo.» Lo interruppi io, sorridendogli mentre esaminavo ogni particolare
di quegli occhi che tanto mi affascinavano e tormentavano. «Anzi, la cosa è
reciproca.»
Il biondo si passò
una mano nervosa tra i capelli, sistemandosi una ciocca fuori posto, come
faceva ogni volta che era in imbarazzo.
«In ogni caso
dovresti passare un po’ di tempo con la tua ragazza… Ti starà cercando.» Disse
poi Alex, sorridendo timidamente e facendo per alzarsi.
Non so cosa mi
spinse a farlo. O forse sì. Non ne sono sicuro. Fatto sta che allungai un
braccio e lo fermai, iniziando a parlare di tutti i problemi che avevo avuto
con Lydia e con i miei vecchi amici (tralasciando tutte le parti che avrebbero
potuto farlo sentire in colpa) e mi fermai solo quando dalla stanza accanto
alla nostra si sentì un rumore di vetro che si infrange. Quasi come se le
schegge di vetro si fossero conficcate nelle mie corde vocali, togliendomi la
voce e lasciandomi impotente di fronte agli avvenimenti.
Senza aggiungere
una parola, mi alzai dallo scalino e mi diressi in salotto, mosso dalla
curiosità. Nella stanza rettangolare la folla si era disposta a formare un ring
umano, attorno a due ragazzi che facevano a botte. I versi che uscivano dalle
loro bocche erano indecifrabili quanto i loro volti, deformati dall’alcol e
dalla rabbia.
Intervenni
immediatamente, cercando di dividere un ragazzino da quello che scoprii essere
Joshua, che mi fece capire, con un sospiro troppo vicino al mio naso, di essere
ormai completamente andato.
«E’ un povero
finocchio!» Urlò l’altro ragazzo. Dovrà aver avuto massimo quindici anni e le
lentiggini su tutto il viso, dalle guance alla fronte.
Immediatamente la
mia mente volò ad Alex: ero pronto a proteggerlo da qualsiasi insulto; ma il
ragazzo non stava indicando il candese.
«Dillo un’altra
volta e ti spacco la faccia, bastardo!» Inveì Joshua, cercando di superarmi
dandomi degli spintoni e cercando di placcarmi.
«Josh,» Dissi, con
voce pacata, «sei ubriaco fradicio, fatti riaccompagnare a casa.» Detto ciò, mi
misi il suo braccio sulle mie spalle e lo aiutai a camminare.
Prima di uscire da
casa di Sid sentii una voce chiamarmi, abbastanza forte da poter sovrastare il
casino proveniente dalle mie spalle. Quando mi girai vidi di fronte a me Lydia.
«Jay! Oh Dio! Ti sei fatto male?!» Chiese, evidentemente preoccupata.
«Sto bene…»
Risposi, cercando di sorriderle. «Senti, mi dispiace, ma devo accompagnarlo a
casa prima che si metta nei guai.» Aggiunsi.
«Certo amore, non
preoccuparti… Ci sentiamo dopo.» E mente diceva queste parole mi avvolse in un
abbraccio.
Nel corridoio vidi
Alex guardarmi preoccupato, prima di sorridermi affettuosamente.
Dopo ci furono solo
il freddo di Novembre e il peso morto di Joshua a farmi compagnia.
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Capitolo 12 *** Keeping The Distance ***
11
Capitolo 11 - "Keeping The Distance"
Dopo gli avvenimenti di Haloween a casa di Sid le cose alla Walworth Academy cambiano leggermente...
Vi ricordo di passare per la mia pagina facebook (qui), dove potete lasciare un commento o semplicemente il vostro mi piace :)
Dopo l’avvenimento di Halloween non ebbi modo di vedere Joshua
un’altra volta, né durante la pausa scolastica, né
una volta tornato a scuola. Il ragazzo, infatti, non si fece vedere da
nessuna parte, e nessuno aveva la minima idea di cosa gli fosse
successo.
Inizialmente non mi preoccupai più di tanto: in fondo erano
passati tre giorni dalla festa di Halloween e magari aveva bisogno di
tempo a casa, per riprendersi dall’enorme sbornia e i pugni che
aveva incassato quella sera. Successivamente provai a chiedere
informazioni a Max ed Aaron, sperando in un loro rinsavimento, ma i due
rimasero fedeli alla posizione che aveva preso Daniel, l’ormai
capetto del gruppo, il quale aveva deciso di non volermi più
rivolgere la parola, e optarono per il silenzio stampa.
Fu solo dopo la prima settimana che iniziai a preoccuparmi e iniziai a
prendere in considerazione l’idea di andare a trovarlo per
accertarmi che fosse tutto okay. Non gli dovevo nulla, soprattutto dopo
il comportamento che aveva tenuto nei miei confronti, e non sapevo
neanche perché mi stessi preoccupando. Eppure seppi, in cuor
mio, di non poterlo abbandonare dopo quanto successo. Decisi, quindi,
che sarei andato a casa di Joshua quel pomeriggio, dopo scuola.
Quella mattina, mentre aspettavo il bus, ripensai più e
più volte alla festa e a quello che era successo, ma continuavo
a non giungere a nessuna motivazione logica che potesse spiegare il
tutto. Non riuscivo a capire perché quel ragazzino, che avevo
scoperto chiamarsi Troy, aveva urlato quelle parole a Joshua e,
soprattutto, perché mai Joshua non aveva cercato di
controbattere. Quando salii sul bus lasciai perdere tutta quella
situazione e, con la testa contro il finestrino, mi abbandonai alla
musica del mio iPod, nell’attesa di veder salire Alex.
Quattro fermate dopo, la testa del biondo emerse da sotto il cappuccio
dell’impermeabile mentre saliva lentamente i gradini del bus e
passava la propria Oyster Card sul lettore.
«Hey.» Mi salutò mentre si sedeva accanto a me.
«Ciao.» Risposi, sorridendo al ricordo della nostra
conversazione durante la festa. La sua sola vicinanza mi trasmetteva
quella stessa sicurezza che mi aveva permesso di aprirmi a casa di Sid.
«Come va?» Chiesi.
Il mio compagno di viaggio aveva gli occhi arrossati dal sonno e il
labbro inferiore spaccato dal freddo, ma sorrise lo stesso quando
rispose. «Tutto bene, solo un po’ stanco.»
«Idem.» Dissi, buttandomi subito a capofitto in una nuova
conversazione con il canadese, che però sembrava troppo preso
dal proprio cellulare, che stava usando per messaggiare con qualcuno.
Mi dovetti trattenere dal chiedergli chi fosse. «Quindi il gallo
ha fatto miao a casa del giardiniere.»
«Uhm… Sì.» Rispose.
Lo guardai allibito, con uno strano sentimento dentro di me, simile
alla rabbia ma molto vicino al dolore… Quasi gelosia. «Ma
mi stai ascoltando?» Domandai, con un tono di finto divertimento.
«Oddio scusa, stavo scrivendo un messaggio… Dicevi?»
«No, niente, tranquillo.» Risposi, rimettendomi le cuffie
nelle orecchie e osservando la pioggia cadere violenta sul finestrino.
Rimanemmo entrambi in silenzio fino a quando non arrivammo di fronte
agli armadietti e, quasi pentito dal mio comportamento, gli chiesi:
«Io ora ho letteratura Inglese, andiamo insieme?»
Quel giorno la mia ultima lezione fu annullata perché il
professore era malato, quindi potetti lasciare la scuola un’ora
prima e questo non fece altro che rendere reale l’idea di andare
a trovare Joshua per capire bene cosa fosse successo.
Mentre stavo firmando il libro delle uscite, sentii la voce di Lydia
chiamarmi dal cortile, così mi girai e la vidi venirmi incontro
con l’uniforme della scuola e il quadernone di Arte sotto il
braccio.
«Dove vai?» Mi chiese, posandomi un leggero bacio sulle labbra e sorridendomi mentre mi aggiustava la cravatta.
«Il professor Boujdi è malato… Vado a casa.» Senza rendermene conto mentii.
«Uff…» Sbuffò lei, prendendomi per mano.
«Io ho ancora Arte e poi posso andarmene.» Aggiunse.
«Capisco…»
«Senti, stavo pensando…» Iniziò la ragazza,
guardandomi negli occhi. «Perché non vieni a casa mia
domani? I miei dovrebbero essere fuori fino a
giovedì…»
La guardai in silenzio. Non volevo passare un intero pomeriggio con lei
a casa sua, a fare Dio solo sa cosa. Non volevo ma dovevo.
«Certo, non vedo l’ora!»
«Bene, allora ci sentiamo dopo.»
«Perfetto. A dopo amore.» La salutai, dandole un bacio sul labbro superiore.
Joshua abitava relativamente vicino scuola, a due o tre fermate di bus
di distanza quindi decisi di farmela a piedi e, nel tragitto, ripensai
a tutti i pomeriggi che avevamo passato insieme a casa sua; a tutte le
volte che io, Daniel e Max lo eravamo andati a trovare e quello che
provai fu un misto di tristezza e sollievo. Non ero più il
ragazzo che passava i pomeriggi a casa di Joshua a giocare ai
videogiochi e a fare battutine sulle ragazze di scuola o su modelle di
riviste, costretto poi a fare le nottate per finire i compiti
arretrati. Ero una persona diversa, e questa cosa non ero sicuro mi
dispiacesse.
Bussai alla porta della famiglia di Joshua e dopo poco la voce
familiare di Noel, il padre del mio amico, chiese: «Chi
è?!»
«Signor Kiaylin sono io, Jared.»
La porta si aprì e fui invitato ad entrare. Casa di Joshua era
piccola ma accogliente, piena di fotografie e cimeli di famiglia che
rendevano l’ambiente più caldo e personale. I suoi
genitori erano quasi degli zii per me, ma quella volta mi sembrò
di entrare in una zona estranea ed ostile, cosa che non mi era mai
capitata da quando avevo conosciuto Joshua, dieci anni prima.
«Allora,» disse il signor Kiaylin, con un tono più
freddo del normale, «come mai da queste parti?»
«Sono venuto a trovare Josh… E’ da un po’ che
non lo vedo a scuola e mi stavo iniziando a preoccupare.» Mi
sentivo sotto esame, quasi come se Noel stesse decidendo se fossi una
minaccia o meno. Apparentemente dovette optare per la seconda,
perché mi guardo un’ultima volta e poi disse:
«E’ in camera sua… E’ un po’ giù
ma credo che gli farà piacere vederti.»
«Grazie signore.» Replicai, sfilandomi il cappotto ed
avviandomi su per le scale, sentendo gli occhi dell’adulto sulla
mia nuca.
Bussai leggermente alla porta di Joshua prima di aprirla e trovarlo
steso sul letto con il cellulare tra le mani. Aveva un’aria
terribile, aggravata da un grosso livido all’altezza dello zigomo
destro. I ricordi di Alex malridotto mi sfiorarono i pensieri, ma
cercai di tenerli a bada, per evitare di sfogare la mia rabbia sul mio
amico di vecchia data.
«Hey…» Lo salutai, impacciato.
Senza dire nulla mi guardò in cagnesco, prima di riporre il computer e lasciarmi posto sul letto.
«Tutto bene?» Domandai. «E’ da un po’ che non ti vedo in giro e mi stavo preoccupando.»
«Tutto apposto, grazie.» Rispose gelido.
Il silenzio calò su di noi come un macigno enorme. Mi sentivo in
imbarazzo. Cos’ero andato a fare a casa di una persona che non
aveva fatto niente per salvare il nostro rapporto? Cosa ci facevo in
quella stanza, piena di ricordi appartenenti ad un passato ormai
irraggiungibile? Perché ero lì? Cosa stavo cercando da
Joshua e, soprattutto, da me stesso?
«Io…» Iniziai, cercando di troncare quella sfilza di domande che mi stavano affollando il cervello.
«Piantala.» Mi interruppe brusco lui, alzandosi dal letto.
«Non ho bisogno della tua compassione.» Mi inveì
contro.
«Non sono qui per darti la mia compassione, coglione.»
Replicai, incollerito. Respirai profondamente prima di riprendere a
parlare. «Sono qui per assicurarmi che tu stia bene, che non
avessi una costola rotta o cose del genere. E, per la cronaca, la mia
compassione sarà l’ultima cosa al mondo che avrai dopo
quello che hai fatto. Non so neanche perché mi sono scomodato a
venire qui, da un idiota che non sa neanche dire un semplicissimo
grazie.» Girai i tacchi e mi avviai all’uscita della camera
da letto.
«Aspetta…» La voce di Joshua mi bloccò la
mano sul pomello della porta, come una presa di metallo. Mi girai per
guardarlo in faccia e un’altra ondata di ricordi mi
investì in pieno. Questa volta dovetti stringere i pugni per
evitare di saltargli addosso e dargli un pugno in faccia. I suoi occhi
incontrarono i miei, sofferenti e incerti. «Grazie per essere
venuto.» Disse poi, prima di andarsi di nuovo a sedere sul letto.
Non volevo rispondergli. Non se lo meritava neanche. Senza aggiungere neanche una parola aprii la porta e feci per uscire.
«I miei vogliono farmi cambiare scuola.» Aggiunse, di
getto. «Credono che quello che sia successo Venerdì sera
alla festa altro non sia che il risultato di tutti i casini che si sono
manifestati a scuola. E con casini non intendo solo la tua improvvisa
assenza alle rimpatriate qui a casa mia, ma anche tutti i voti negativi
che ho incassato in quest’ultimo periodo.»
Mi fermai sull’uscio della camera, prima di chiudermi la porta
alle spalle e rientrare, mosso da una calamita invisibile. Provavo
quasi pena per quel guscio vuoto che mi trovavo davanti. Aveva la
faccia e l’aspetto di una persona che avevo conosciuto in un
periodo della mia vita chiuso e superato, ma era abitato da
qualcuno… Qualcosa di diverso.
«Ho provato a convincerli che non c’entra nulla… Che
quella di ieri è stata solo una stupida rissa tra ragazzini
esaltati, ma non mi hanno voluto credere. Crede che l’unica
soluzione sia trasferirmi in una scuola privata.»
Non riuscivo a dire niente; ero lì, fermo in mezzo alla stanza con le mani in tasca, e lo guardavo incuriosito.
«Mi dispiace. Mi dispiace essere stato un completo idiota ed aver fatto quello che ho…»
«Povero finocchio.» Dissi interrompendolo.
«C-come scusa?» Negli occhi aveva dipinta un’espressione di puro stupore.
«E’ quello che ha detto Troy Venerdì, giusto? Povero
finocchio, intendo…» Spiegai, rendendomi conto del
possibile fraintendimento.
«S-sì… Oddio, credi che qualcuno l’abbia
sentito?» Chiese, intimorito. «Non perché io lo
sia… Un finocchio… Ma perché…»
Dalla gola mi uscii una risata ricca di scherno e di pietà.
«Ovvio che qualcuno l’ha sentito.» Dissi, quando ebbi
smesso di ridere. «Tutti l’hanno sentito.»
«Ti prego, aiutami.»
In quel momento capii due cose: capii il motivo per cui ero andato a
casa di Joshua e che di lui non potevo fidarmi. Non più.
Mi avvicinai al ragazzo di fronte a me e lo guardai dritto negli occhi.
«L’ultima cosa di cui hai bisogno è il mio aiuto.
Sta’ lontano da me, e dai miei amici. E di’ a Daniel e Max
di andare a farsi fottere.»
Senza aggiungere una parola di più uscii dalla stanza e, una
volta scese la scale e salutato il signor Kiaylin, indossai il
giubbotto ed uscii di casa.
Quando scesi dal bus, alla mia fermata, ebbi una strana sensazione, che
non aveva nulla a che fare con i mille pensieri che mi avevano
tartassato da quando avevo lasciato casa di Joshua, ma era una
sensazione diversa, più cupa. Cercai di metterla a tacere
alzando il volume della musica e lasciandomi trasportare dai testi
delle canzoni.
Arrivato di fronte casa presi le chiavi dalla tasca esterna dello zaino
e le inserii nella serratura, ancora tormentato da quella strana
sensazione. Aprii la porta e di fronte a me trovai mia madre
abbracciare una figura molto più alta, con un impermeabile blu
scuro e dei lineamenti duri e decisi.
«Papà.» Sussurrai.
Se il capitolo - o, più in generale, il racconto - vi sta
piacendo, e avete tre minuti liberi, perché non lasciate una
bella, anche piccola volendo, recensione? Vi assicuro che le recensioni
scaldano il cuore (e con questo freddo ce n'è bisogno) <3
|
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Capitolo 13 *** Lean on me ***
k
Capitolo 12 – "Lean On Me"
Questo
capitolo è leggermente più breve degli altri,
perché mi è servito per definire un po' meglio la
situazione di Jared, e per delineare un po' di più il proprio
rapporto con il padre.
Spero che vi piaccia nella sua brevità, e che decidiate di
lasciarmi una piccolissima recensione, che sia qui o sulla mia pagina
facebook (qui). Mi farebbe davvero piacere conoscere le voste impressioni su questo piccolo racconto.
«Che ci fai qua?» La mia voce tremava per il rancore.
«Ti avevo detto che sarebbe venuto tuo padre, tesoro.» La
voce di mia madre mi arrivò distante, quasi come se mi stesse
parlando da un'altra realtà, da un telefono difettoso.
«Doveva arrivare la settimana prossima.» La strana
sensazione che mi aveva accompagnato dalla fermata del bus fino a quel
momento si stava concretizzando, lasciando il posto ad una
consapevolezza ancora peggiore.
«C’è stato un cambio di programma.»
Asserì mio padre. La sua voce sembrava quasi quella di un
estraneo, così diversa dalla voce che ero abituato a sentire
attraverso il telefono da apparirmi aliena.
«Sì ok, d’accordo.» Dissi acido, buttando il
giubbotto sul divanetto all’ingresso e avviandomi di gran
carriera in camera mia.
Non sapevo perché stavo reagendo in quel modo alla presenza di
mio padre, ma sapevo solo che qualcosa dentro di me era scattato
sull’attenti. C’era qualcosa che non mi quadrava e che mi
impediva di godermi l’arrivo anticipato di mio padre.
«JARED!» Mia madre urlò alle mie spalle.
Le ultime parole che sentii prima di chiudermi la porta della mia
camera da letto alle spalle furono dette da mio padre: «Lascialo
stare per ora. Facciamolo sbollire prima di dirglielo…»
Non appena entrato in camera mi buttai sul letto con indosso ancora i
vestiti e affondai la faccia nel cuscino. Senza muovermi dalla mia
posizione, allungai una mano verso la mia tasca per prendere il
cellulare.
“Se ti chiedessi di uscire insieme stasera?”
Buttai il telefonino sul cuscino affianco alla mia testa e rimasi a
fissarlo immobile, ripensando a tutto quello che era successo quel
giorno. Erano solo le sei del pomeriggio ed era successo di tutto e di
più, cosa mi sarei dovuto aspettare dalle restanti sei ore della
giornata? I miei pensieri furono troncati dalla vibrazione del mio
cellulare. Lo presi in mano e, riuscendo a non farmelo cadere sul naso,
lessi il messaggio.
“A me va bene, però devo stare a casa per le dieci. Ma va tutto bene?”
Rilessi il messaggio una seconda volta prima di rispondere.
“Diciamo di sì
così non devo parlarne… Ci vediamo tra una mezzoretta
fuori al cinema di Brockley Rise?”
Il telefono vibrò nuovamente.
“Okay.”
Si era alzato il vento, e adesso i miei capelli avevano assunto una
forma indefinita, del tutto diversa da quella che tanto mi ero
impegnato a fargli assumere nel bagno di casa mia, due minuti prima di
scendere.
Attorno a me la gente si ritirava dai propri uffici, aspettando bus o
prendendo le proprie macchine, altri portavano il cane a passeggio,
aspettando pazienti che questo facesse i propri bisogni.
Poco prima di svoltare la curva che mi avrebbe portato di fronte al
cinema, mi fermai di colpo ed iniziai a passarmi una mano tra i
capelli, cercando di aggiustare l’irrimediabile. Inspirai
profondamente e quasi rabbrividii per il gelo che sembrò
pervadermi l’anima.
Immediatamente tutto ciò che era successo nella giornata appena
trascorsa sembrò volatilizzarsi come fumo nell’aria,
lasciandomi la testa stranamente vuota.
Posai un piede davanti all’altro senza neanche rendermi conto
delle mie azioni, e sorrisi quando vidi la figura incappucciata di Alex
aspettarmi di fronte all’ingresso; quello stesso posto dove poche
sere prima avevo aspettato la mia ragazza uscire dal cinema.
Alzai una mano in segno di saluto e, senza aspettare la risposta del
ragazzo, lo strinsi in un abbraccio. Cercai conforto in quel corpo e
provai ad aggrapparmi al ritmo del suo respiro, del suo battito, della
sua vita. Non riuscivo a capire cosa mi stesse succedendo, ma quei
secondi in cui le mie braccia rimasero intrecciate attorno al suo collo
la mia paura sembrò scomparire e i nostri cuori sembrarono
battere all’unisono.
«Ehi…» Le braccia del ragazzo mi allontanarono
delicatamente dal proprio corpo, e i suoi occhi verdi si incatenarono
ai miei. «Tutto apposto?»
Mi sentivo debole, indifeso, ma stranamente al sicuro. Non mi era mai
capitata una cosa del genere, e cercai di interrogarmi sul motivo di
quelle sensazioni. Avrei voluto dirgli tutto quanto; avrei voluto
aprire la mia anima e fargli fare un giro al suo interno, ma tutto
quello che dissi fu un semplice: «Mhmh, tutto bene. A te?»
«Solo un po’ infreddolito perché ho dovuto aspettare
per venti minuti al freddo e al gelo che arrivasse un deficiente con
cui dovevo incontrarmi.»
«Da stronzo a deficiente… Faccio progressi!»
Commentai sarcastico, mentre sulle mie spalle ricadeva il peso di tutta
quella giornata.
«Se questi li chiami progressi stiamo messi bene!»
Scoppiò a ridere e mi ritrovai a fissare i suoi occhi
illuminarsi come le luci dei lampioni tutte intorno a noi.
«Allora, cosa vuoi fare?» Domandai, voltandomi per nascondere il rossore sulle mie guance.
«Non saprei… Sei tu il londinese tra noi due, quindi perché non proponi tu?»
«Mmmh… Che ne dici di un bel…»
«Perché non andiamo a farci una passeggiata nel parco?» Mi interruppe Alex, raggiante.
Lo fissai divertito prima di rispondere: «Proprio quello che stavo per dire io.»
Ci incamminammo insieme verso l’unico parco di Lewisham, una
piccola macchia di verde circondata da recinzioni in ferro battuto che
fungevano da divisorio tra la calma della natura e il caos urbano.
Mentre i nostri piedi avanzavano le nostre bocche non smisero mai di
emettere suoni, parole volte a riempire ogni singolo tempo morto del
tempo passato insieme.
«Facciamo una cosa.» Disse Alex non appena avemmo varcato
il cancello del parco. «Ora ti faccio una domanda, e tu, oltre a
dovermi ovviamente rispondere onestamente, dovrai farmi una domanda
collegata a quella che ti ho appena posto… Mi sono spiegato come
un barbagianni autistico, vero?»
«Sì, un po’…» Ammisi, trattenendo una
risata per il termine usato dal ragazzo. «Ma credo di aver
capito. Dai, spara.»
«Ok.» Dalla sua voce trasudavano concentrazione e
curiosità. «Allora, prima domanda: la tua più
grande aspirazione nella vita?»
Aprii la bocca per parlare, sentii le parole formarmisi in gola, ma poi
qualcosa mi fermò, come un peso invisibile proprio
all’altezza del petto. Sarebbe dovuta essere una domanda facile:
avevo sempre voluto fare medicina, sin da quando mio padre…
«Non lo so con precisione, ad essere onesto.» Risposi poi,
guardandomi le mani. Mi sentivo stremato. «La tua, invece?»
Alex mi guardò intimidito. «Promettimi che non riderai.»
«Promesso.» Dissi, incuriosito.
I suoi occhi si posarono su più o meno qualsiasi oggetto si
trovasse nei dintorni, pur di evitare il mio sguardo. «Vorrei
fare lo scrittore.»
Senza rendermene conto iniziai a ridere, ininterrottamente.
«Avevi promesso!»
«Scusa… E’ che… Ahahah… Scusa.»
Respirai profondamente per cercare di calmarmi. «Perché
mai avrei dovuto ridere? Insomma, non è che tu abbia detto di
voler fare il lavapiatti a vita.»
La sua risata rimbombò contro i tronchi degli alberi attorno a lui.
Nel frattempo continuammo a camminare, a fare giri su giri, mentre intorno a noi il freddo si posava su ogni cosa e persona.
«Situazione famigliare?» La domanda di Alex mi colpì dritta allo stomaco, e dovetti rallentare il passo.
«Normale.» Dissi secco. Potei sentire il suo sguardo
analizzarmi da capo a piedi, mettermi a nudo là, in mezzo a quel
parco spoglio e spopolato. «Tu? Hai sorelle o fratelli?»
In quel momento il gelo mi raggiunse il cuore, colpendomi più
forte di qualsiasi altra sensazione avessi mai provato. Avrei voluto
rimangiarmi quelle parole, ma era troppo tardi.
«Mio fratello, Adam, è morto quando avevo 14 anni.»
«Oddio, Alex… Mi dispiace.» Le mie parole si depositarono come neve su di noi.
«Fa nulla.» Disse poco dopo, sorridendo triste e posandomi
la mano sul braccio, proprio come aveva fatto la sera di Halloween.
Credetti di aver rovinato tutto, di doverlo salutare e tornare,
così, a casa, ma il discorso ritornò alla
normalità, senza alcun problema.
Fu solo alle nove, un’oretta più tardi, che ci dovemmo
avviare all’uscita del parco, entrambi con la voglia di passare
altro tempo insieme, a riempire l’uno i tempi e gli spazi morti
dell’altro.
«Ok, questa è l’ultima domanda, giuro!» Disse Alex divertito.
«Spara.»
«Mai avuto esperienze sessuali? Se sì, mai con altri ragazzi?»
«Per rispondere alla tua prima domanda sì, solo con Lydia,
e solo un paio di volte.» Replicai, senza quei problemi che avrei
avuto prima che il canadese entrasse nella mia vita. «No, mai con
altri ragazzi.»
Avvertii lo sguardo di Alex fisso su di me, e mi voltai con fare
interrogativo. «Devi farmi la domanda.» Mi spiegò
poi, facendo spallucce.
«Hai mai fatto sesso con una ragazza?»
«No, mai.» Rispose secco. «Comunque non sono idiota, lo sai, vero?»
«Come scusa?»
«Non puoi pensare di mandarmi un messaggio come quello che mi hai
spedito oggi senza aspettarti che io mi ponga delle domande.»
I suoi occhi trasmettevano solidarietà, amicizia e qualcos’altro che non riuscii ad identificare appieno.
«Non lo dico perché voglio sapere i fatti tuoi, o
perché mi sono offeso per essere stato contattato per un pronto
soccorso senza poi essere informato del motivo.» I nostri sguardi
entrarono in contatto, e sentii qualcosa sciogliersi dentro di me.
«E’ solo che, anche se ci conosciamo da veramente poco,
tengo a te, e vederti stare male senza essere in grado di aiutarti mi
fa soffrire.»
«Non voglio appesantirti con i miei stupidi problemi, tutto
qua…» Spiegai io, cercando di convincere più me
stesso che l’altro ragazzo di fronte a me.
«Come vedi sono stato io a chiederti di parlarmi, quindi non hai
il diritto di sentirti in colpa.» Ribatté il biondo.
«E’ che voglio che tu sappia che io sono qui per te,
così come tu ci sei stato per me quando ne avevo bisogno.»
«Non ho fatto niente di sp…»
«Oh andiamo!» Esclamò. «Hai perso tutte le tue amicizie per colpa mia!»
«E’ stata una fortuna.» Sussurrai, mettendomi le mani
in tasca tirando su col naso. «Comunque non è
successo niente di grave… Anzi, a raccontartelo ora mi sento uno
stupido; un completo deficiente.»
«Hai detto tu stesso che stai facendo progressi.» Commentò sarcastico Alex, alleggerendo la situazione.
Passammo il resto del tempo che avevamo a disposizione, io a parlare e
Alex ad ascoltarmi, paziente. Non avevo qualcuno che mi ascoltasse da
un bel po’ di tempo ormai: da quando ero stato a Vancouver con
Kyle. Mi ritrovai a pensare che erano i canadesi a avere qualche tipo
di talento particolare.
«Non saprei…» Fu il commento del biondo.
«Posso capire il tuo astio nei confronti di tuo padre, ma al
posto tuo gli darei la possibilità di spiegarti il motivo per
cui è venuto fino a Londra, del perché non ti abbia detto
nulla.»
Le parole di Alex mi rimbombarono nella testa per tutto il tragitto
versi casa, fino a quando non aprii la porta e, dopo aver posato il
cappotto, ebbi varcato la soglia del soggiorno, dove i miei genitori
erano seduti sul divano a guardare uno show televisivo.
«Jared, tesoro, sei a casa!»
Non diedi peso a mia madre e mi avvicinai a mio padre. «Possiamo parlare, per favore?»
«Certo.» Rispose, con quella voce da estraneo che tanto mi confondeva. «Che c’è?»
«In cucina, se possibile.» Mi congedai con quelle parole, precedendo mio padre in cucina.
«Allora?» Mi domandò mio padre, la cui pazienza era evidentemente al limite.
«Voglio sapere tutto.»
«Tutto cosa?» Mio padre era lì, in piedi di fronte a me, e non capiva una semplice richiesta del figlio.
«Perché sei qui? Perché dopo tutti questi anni di
silenzi e di assenze hai deciso di irrompere di nuovo nella mia vita?
Capisco che tu sia andato via per lavoro, ma sono due anni che non ti
fai sentire! E perché non mi ha detto nulla? Perché sono
dovuto entrare in casa e trovarti in piedi di fronte a me per scoprire
che eri tornato?»
«Jared…»
«Perché, papà?» Sentii i miei occhi inumidirsi con lacrime di rancore. «Perché?»
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Capitolo 14 *** Meetings ***
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Capitolo 13 - "Meetings"
Bentrovati e scusate il ritardo di un giorno, ma sono veramente
incasinatissimo ultimamente... Spero che questo capitolo vi piaccia,
perché per me è stato uno dei più complicati da
scrivere.
In ogni caso vi invito a recensire e a passare sulla mia pagina facebook, cliccando qui.
Buona lettura! :)
«Jared, tesoro, ti prego ascoltami…» Io e mio padre
eravamo ancora in cucina, io appoggiato contro il bancone del lavello,
e lui in piedi di fronte a me che cercava di farsi ascoltare.
«Vuoi dirmi perché?» Domandai, per l’ennesima volta, incrociando le braccia al petto.
«Non credo sia il caso di…»
«Al diavolo!» Esclamai, alzando leggermente il tono della
voce. Mia madre era nella stanza accanto, il salotto, sicuramente
allarmata per il tono delle nostre voci. Potevo immaginare la sua
solita espressione preoccupata dipinta sul suo volto. Cercai di
calmarmi, e poi parlai. «Se non hai intenzione di dirmi il
perché di tutto questo, allora credo che questa discussione si
possa considerare conclusa.»
«Bino – era così che mi chiamava, da quando ero
piccolo – voglio dirti tutto, credimi, ma ora non è il
momento. Lo dico per te.»
«Se permetti credo di essere abbastanza grande da poter decidere
da solo cosa sia meglio per me.» Replicai acido.
«D’altronde dall’ultima volta che ci siamo visti sono
passati due anni. Non sono il bambino che hai lasciato, indifeso ed
impaurito.»
Vidi un’espressione di dolore adombrargli per un breve istante il
volto, e mi ritrovai ad esserne felice. «Sono ancora tuo padre,
Jared, ed esigo che tu mi porti rispetto.» I suoi tratti duri,
che avevo ereditato, assunsero un’aria severa e decisa.
«Ora va’ in camera tua e non tirare più in ballo
quest’argomento, a meno che tu non voglia subirne le
conseguenze.»
Mi alzai dal bancone del lavandino e, guardando mio padre in cagnesco,
mi diressi verso la mia stanza, incrociando mia madre, che mi
guardò preoccupata. Non appena mio padre ebbe varcato la soglia
del corridoio sentii la voce di mia madre dire: «Forse è
il caso di dirglielo…»
«No,» Rispose allora mio padre, «non ora.»
«Paul, caro, le cose non miglioreranno… Anzi.» La
voce di mia madre era diventata più decisa, come ogni volta che
si metteva una cosa in testa. «Devi… Dobbiamo
dirglielo.»
Dopo un breve periodo di silenzio, poco prima che mettessi piede nella
mia camera da letto, mi sentii chiamare da mio padre. Inspirai
profondamente, cercando di calmarmi ripensando al consiglio di Alex, e
riscesi gli scalini che separavano i due piani di casa mia.
«Vieni a sederti Jared, tesoro.» Sentendo il tono di voce
di mia madre non me lo feci ripetere due volte e seguii lei e mio padre
in salotto, per poi sedermi sul divano in pelle. Potevo avvertire la
tensione accumularsi nell’aria, eppure dentro di me un nodo stava
trovando il modo di sciogliersi.
«Allora, ci sono delle cose che non ti abbiamo detto.»
Iniziò mio padre, non appena si fu seduto su una sedia di fronte
a me.
«Ma va.» Commentai sarcastico, ottenendo in risposta
un’occhiata spazientita da parte dell’uomo sedutomi davanti.
«Ti prego Jared, lascia parlare tuo padre.» Supplicò
mia madre, con un tono di voce debole al quale obbedii chiudendo la
bocca.
«E prima di dirtele, voglio che tu prometta che ascolterai prima
le nostre motivazioni.» Riprese mio padre, sistemandosi sulla
sedia. «Prometti.» Disse, vedendo che non avevo intenzione
di proferire parola.
«Promesso.» Sussurrai, guardando mio padre negli occhi.
«Bene…» Iniziò, con un tono di voce
stranamente debole. «Allora, quello che io e tua madre dobbiamo
dirti non è niente di così grave, o almeno non dal nostro
punto di vista. Conoscendoti, però, sappiamo che non la
prenderai molto bene.» Dovetti frenarmi dal fare un commento su
quanto, in realtà, quell’uomo seduto di fronte a me mi
conoscesse. «Quindi il motivo per cui io non ho voluto dirti
niente prima è perché volevo cercare di indorarti la
pillola.»
«Posso sapere questa cosa oppure dobbiamo aspettare Natale
dell’anno prossimo?» Domandai sarcastico, interrompendo mio
padre, che mi guardò leggermente divertito, come se si rivedesse
in quelle mie parole.
«Ok, allora cercherò di strappare velocemente il
cerotto.» Disse mio padre, torturandosi le mani. «Tu sai
come il mio lavoro mi costringa a stare lontano da casa per periodi di
tempo lunghissimi – non interrompermi, ti prego – bene, da
questo momento in poi le cose cambieranno radicalmente, dalla a alla z
si potrebbe dire…»
«Quindi stai dicendo che sei stato licenziato e che ti
trasferirai qui a Londra?» Domandai, non riuscendo a controllarmi.
«Ti ho detto di non interrompermi.» Asserì severo
mio padre, guardandomi di sbieco. «E no, non sono stato
licenziato, anzi, a dir la verità ho da poco ricevuto una
promozione. Il punto non è questo, però, Jared. Il punto
è che la vostra situazione economica qua a Londra non è
delle migliori. Ci sono troppe spese e poche entrate, e tutto questo
sta gravando sulla nostra famiglia… Di questo passo dovremmo
rinunciare a progetti importanti, sia nostri sia tuoi, e io e tua madre
non siamo disposti a farlo…»
«Cosa c’entro io?» Domandai, interrompendolo
nuovamente. «Volete che spenda meno? Va bene, lo farò, ma
non vedo il motivo per cui tu ora ti trovi qui, seduto di fronte a me,
e non a Parigi…»
«Ci stavo giusto per arrivare.» Replicò esasperato;
potevo sentire la sua pazienza raggiungere il culmine, e me ne
compiacqui. «Come stavo dicendo la situazione economica non
è delle migliori in questo momento, e, per prevenire un
eventuale disastro, se così possiamo chiamarlo, io e tua madre
abbiamo deciso che è meglio per tutti noi se ci trasferiamo a
Parigi.»
Ci sono dei momenti in cui il mondo sembra fermarsi, in cui il tempo
sembra bloccarsi incapace di accettare la realtà, sperando di
non doverla affrontare. Questi momenti arrivano senza alcun tipo di
preavviso, e così, di punto in bianco, ci troviamo sollevati nel
vuoto, con il cervello che lavora a mille e la realtà intorno a
noi apparentemente congelata in quell’attimo che ci ha cambiato
la vita.
Potevo quasi sentire il mio cervello elaborare la notizia, processarla
e metabolizzarla, il mio cuore saltare un battito e il mio stomaco
contorcersi per il nervosismo.
Cosa avrei mai potuto dire ai miei genitori posto davanti ad una
notizia del genere? Sentii la mia mente annebbiarsi e il tempo
ricominciare a scorrere, veloce come suo solito. Mi alzai dal divano e
mi diressi verso la mia camera da letto, inseguito da voci presenti e
passate che tentavano di trattenermi senza successo. Non mi accorsi
neanche di aver salito le scale e di essere entrato in camera, sentii
solo la mia guancia sinistra posarsi sul cuscino, da lì in poi
il mondo divenne un confuso turbinio di ricordi e pensieri.
Fu la luce a farmi capire che la notte era passata, e a darmi la spinta
giusta per alzarmi. Mi misi a sedere sul letto, dove avevo passato
tutta la notte tormentato dall’iperattività della mia
mente. Avevo analizzato la situazione della sera precedente per tutto
il tempo, cercando scappatoie, tentando persino di convincermi che
fosse stato uno scherzo fatto dai miei genitori, ma in cuor mio sapevo
benissimo qual era la realtà, e sapevo anche che, anche se non
aspettavo altro, non potevo incolpare solo mio padre per il lungo
silenzio: mia madre mi aveva guardato negli occhi e mi aveva mentito,
mi aveva nascosto la verità dietro sorrisi di circostanza.
Mi alzai dal materasso e mi andai a preparare in bagno per una
normalissima giornata di scuola, cercando di nascondere dietro maglioni
e capi d’abbigliamento il mio stato d’animo. Una volta
finito, presi lo zaino dalla sedia della scrivania e qualche sterlina
dal salvadanaio per evitare di fare colazione con i miei genitori, che
di sicuro stavano aspettando che sbucassi in cucina, pronto a mangiare
con loro.
Scesi le scale di casa e, senza nemmeno infilarmi il cappotto, uscii
dalla porta principale, rincorso dalla voce di mia madre che mi pregava
di fermarsi con loro.
Quella mattina decisi di non prendere il bus e così, mentre mi
infilavo il cappotto, mi incamminai verso scuola, attraverso la strada
principale, con la musica nelle orecchie, lasciandomi trasportare dalle
note e dalle parole delle canzoni.
Mi fermai all’improvviso, colpito dalla consapevolezza di non
voler passare la giornata chiuso a scuola a dover evitare Daniel e i
suoi scagnozzi e fingere con Lydia. Presi il cellulare dalla tasca del
jeans e, senza nemmeno pensare a quanto stessi facendo, digitai il
numero di Alex e lo chiamai.
«Pronto?» Aveva la voce piena di sonno.
«Alex? Sono Jared.»
«Ehi, tutto bene? Come mai mi hai chiamato a quest’ora?»
Sentii il carico di quanto appreso la sera precedente crollarmi sulle
spalle, salirmi dallo stomaco e fermarsi all’altezza della gola,
come un enorme nodo. La voce mi venne meno.
«Jared, ci sei? Sto facendo tardi e devo uscire altrimenti perdo
il bus.» La voce del canadese mi colpì e mi svegliò
dallo stato di torpore in cui ero caduto.
«Ho… Ho bisogno di…» Mi sentii mancare il respiro, ed iniziai ad affannare.
«Jared? Tutto bene?» Il biondo dall’altro lato del telefono aveva una voce preoccupata.
«Credo di star avendo… Di star avendo un… Un
attacco di panico.» Dissi tra un respiro spezzato e
l’altro. Mi sedetti su un muretto alle mie spalle ed iniziai a
concentrarmi sul ritmo del mio respiro. Avevo visto centinaia di
studenti andare dalla signora MacFlorence per questo motivo, e sapevo
come reagire.
«Jared?!» Sentivo, nel frattempo, Alex chiamarmi agitato
dall’altro capo del telefono, e il mio respiro iniziò
lentamente a calmarsi. «Cazzo Jared, di’ qualcosa!»
«A-Alex.» Sussurrai piano, con il respiro che iniziava a
regolarizzarsi. «Che ne dici se oggi saltassimo le
lezioni?».
«Vaffanculo, Maycon.» Fu la risposta di Alex, che però avvertii stava sorridendo divertito.
«Ok, a New Cross alle 9 è perfetto. A dopo.»
Il bus arrivò a New Cross alle nove e qualche minuto,
così, quando scesi alla fermata, trovai Alex già
lì ad aspettarmi, appoggiato contro il muro della stazione dei
treni.
Era vestito secondo il dressing code della scuola, a parte le scarpe:
un paio di converse verde petrolio. Di sicuro al momento della nostra
chiamata doveva ancora indossarle.
«Ehi.» Dissi, salutandolo con una pacca sulla spalla.
«Ehi?» Domandò sarcastico il biondo, rimanendo
appoggiato al muro e fissandomi infuriato. «E’ veramente
così che vuoi salutarmi? Non hai nient’altro da
aggiungere?»
«Ehm… Tutto bene?»
«Ma sei serio?!» La voce di Alex abbandonò qualsiasi nota di sarcasmo e si trasformò in pura rabbia.
«Ok, ok… Stavo scherzando…» Dissi, portando
le mani avanti vedendo che il canadese si era staccato dal muro.
«Non arrabbiarti, tigre.»
Gli occhi verdi del ragazzo di fronte a me mi penetrarono da un lato
all’altro, esaminandomi. «Che cosa ti è preso prima,
a telefono? E perché non sei voluto andare a scuola? Non che mi
dispiaccia, sia chiaro…»
«Niente, ero in ansia per il test di scienze del mese prossimo.»
L’occhiata che mi lanciò Alex mi fece capire che non si
era bevuto quella bugia, inventata in quel momento, su due piedi, e ne
fui inconsciamente contento.
«Quando sei diventato così bravo a leggermi? Nemmeno la
mia ragazza riesce a capire quando sto mentendo.» Dissi poi,
poggiandomi al muro accanto ad Alex, che mi guardò con fare
affettuoso.
«Sono diventato bravo a leggerti, come dici tu, da quando tu me lo hai lasciato fare.»
Quelle parole, semplicissime, mi colpirono dritte al petto, sciogliendo
quel nodo che mi si era fermato in gola, e facendomi riflettere sugli
ultimi due mesi trascorsi.
Fu in quel momento che, senza neanche sapere perché, mi scostai
dal muro e strinsi il biondo in un abbraccio. Il suo corpo profumava di
vaniglia, e dai suoi capelli proveniva un aroma del tutto particolare
che mi ricordò, stranamente, quello della pioggia estiva.
Alex rimase immobile per una buona manciata di secondo, prima di
ricambiare l’abbraccio e di stringere le proprie braccia attorno
al mio corpo, che sembrò andare a fuoco nei punti in cui
entrò in contatto con quello dell’altro. Sentii il sorriso
di Alex contro la mia nuca, e il cuore mi si riempii di gioia. Senza
dire nulla interruppi quell’abbraccio, per guardare i suoi occhi
illuminarsi di quella stessa gioia che aveva riempito il mio cuore.
Poi iniziai a parlare, senza interrompermi mai, così come era
successo la sera precedente. Alex avevo quell’effetto su di me:
riusciva a leggermi e a tradurmi, cosa che nessuno, neanche Kyle, era
riuscito a fare fino a quel momento. Non mi interruppi neanche quando
il mio cellulare squillò, svariate volte, mostrando il nome di
Lydia sul display.
Così, mentre camminavamo per le strade della periferia di
Londra, mi resi conto che uno dei motivi per cui la notizia del
trasferimento mi aveva ferito profondamente era proprio lì,
accanto a me, ad ascoltarmi come solo lui sapeva fare.
Non volevo lasciare Alex, eppure sapevo che sarebbe stato inevitabile, con o senza Parigi.
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Capitolo 15 *** New bonds ***
tgerfesa
Capitolo 14 – "New Bonds"
Bentrovati a questo nuovo appuntamento con i nostri cari, carissimi
Alex e Jared, che in questo capitolo si danno, si potrebbe dire, alla
pazza gioia :3
Ricordate di passare per la mia pagina facebook (qui) e di lasciare una recensione, se vi va :)
«Ehi Jared!» Mi chiamò Alex dal corridoio alle mie spalle.
«Ehi.» Gli sorrisi io, girandomi verso di lui.
«Tutto ok?» Non mi diede nemmeno il tempo di rispondere che
riprese subito a parlare. «Hai visto chi è tornato a
scuola?»
Aspettai una manciata di secondi per capire se potessi parlare o se il
biondo avesse intenzione di stroncarmi sul nascere per la seconda volta
in nemmeno un minuto. «No… Chi?»
Gli occhi verdi di Alex mi penetrarono, stanchi, «Chi altri si è assentato da scuola a parte Joshua, scusa?»
«Ah già…» Sentii le mie guance andare a
fuoco. Erano un poco di giorni ormai che facevo fatica a concentrarmi,
da quando mi ero confessato con Alex tre giorni prima, non riuscivo ad
analizzare come prima il mondo che mi circondava, come se tutte le mie
attenzioni fossero attratte da qualcos’altro.
«Senti…» Riprese il biondo, aggiustandosi lo zaino
in spalla e iniziando ad incamminarsi, facendomi segno di seguirlo.
«Da quello che so non se la sta cavando proprio bene… Gli
altri ragazzi, se così si possono chiamare quegli energumeni, lo
hanno completamente tagliato fuori… Sai credo che le voci si
siano sparse… Riguardo quanto successo alla festa di Halloween a
casa di Sid.»
«Già…» Sospirai, più che altro
infastidito dall’interesse che Alex stava mostrando nei confronti
dello stesso Joshua che aveva contribuito a rendere i suoi primi giorni
in quella scuola un vero inferno.
«Già?!» Mi scimmiottò il canadese, fermandosi
di botto e rivolgendomi uno sguardo di ghiaccio. «Tutto quello
che hai da dire è “già”?!»
«E cosa mai dovrei dire, Al?» Domandai, fermandomi anche
io, e facendo qualche passo indietro per trovarmi alla stessa altezza
del mio interlocutore.
«Non ci posso credere…» Disse con tono esasperato Alex.
«Vogliamo andare avanti con te che parli e ti capisci da solo
oppure vuoi includere anche me in questo tuo sdegno?» Chiesi, al
limite dell’esasperazione. Perché se la stava prendendo
così tanto per Joshua? Cos’aveva fatto lui che io mi ero
perso?
«Lascia perdere…» E detto ciò fece per
andarsene, voltandomi le spalle e iniziando a dirigersi verso
l’uscita.
«E no.» Dissi semplicemente prima di afferrarlo per il
braccio proprio così come aveva fatto lui con il mio ad
Halloween. «Mancano ancora dieci minuti prima dell’inizio
delle lezioni e io voglio capire che cazzo sta succedendo.»
Il volto di Alex si indurì sensibilmente. Mi sembrò di
rivivere uno dei nostri primi dialoghi, avuto in un corridoio della
scuola poco dopo che l’avevo portato in infermeria, e che non si
era concluso in modo del tutto pacifico.
«Quello ero io.» Esalò tutto d’un fiato dopo,
senza guardarmi negli occhi. «Poco meno di tre mesi fa, io ero
Joshua, da solo contro un muro di un bagno a prendere pugni dal
bulletto di turno.» Trasalii; e non perché quella era la
prima volta in cui Alex aveva tirato in ballo l’accaduto con
Daniel, ma perché avevo capito a cosa voleva arrivare, e mi
provocava una rabbia immensa pensare che potesse arrivare a conclusioni
del genere.
«No. Stop.» Lo zittii io, prima che potesse riprendere a
parlare. «Ok, è vero: poco meno di tre mesi fa tu eri
Joshua, e io Daniel – se veramente vogliamo continuare a
mantenere questa stupida metafora – ma se è vero che tu
ora non sei più Joshua, allora non permetterti di dire che io
sia ancora Daniel; perché non è così, e lo sai
benissimo, tu più di tutti gli altri.»
Alex rimase fermo a fissarmi negli occhi blu, come per ispezionarmi nel
profondo, fino a quando non vidi i suoi lineamenti ammorbidirsi
leggermente. «E allora perché tu ora sei qui, e non provi
a far diventare Joshua me… Ok, questa metafora mi sta solo
confondendo… Il punto è: perché non fai nulla?
Perché non ti dimostri l’amico che io ho scoperto di avere
in te? Perché continui a stare qui fermo a stringermi il braccio
senza fare nulla di concreto?»
“Se questo non è qualcosa di concreto” - pensai io -
“allora devo veramente dare una spolveratina al
vocabolario”.
Cercai di levarmi dalla testa quei pensieri e ricordai la mia visita a
casa di Joshua; cercai di esprimere con le parole quella sensazione che
mi aveva portato a voltargli le spalle e a capire di non potermi fidare
di lui. La risposta mi arrivò così, quasi come un fulmine
a ciel sereno.
«Perché lui non è te, capisci?» Esclamai,
lasciandogli finalmente andare il braccio, che però rimase fermo
sospeso a mezz’aria, quasi come a desiderare che il tempo si
riavvolgesse su se stesso, per sempre. Iniziai a sentire il sangue
affluirmi alle guance, e capii cosa avevo appena detto, e cosa il mio
subconscio voleva leggere tra le righe.
«Jar…» Iniziò lui.
«E è per questo che non mi fido di lui.» Lo
interruppi nuovamente io, cercando di risolvere il problema mettere
cerotti su una diga incrinata. «Potrai ripetermi quanto vuoi che
tu eri lui e che lui è te e tutte queste cazzate, ma io conosco
quel ragazzo, l’ho conosciuto passando la mia infanzia con lui;
ho compreso chi era veramente a forza di pugni allo stomaco nello
spogliatoio di pallanuoto. Quindi sì, la mia risposta è,
e sarà sempre, “già”.» Il battito del
cuore aveva iniziato ad accelerare e la mia mano a sentire la mancanza
del braccio di Alex. «Ora se non ti dispiace dovrei andare in
palestra ché il coach mi aspetta.» Detto questo, lo
sorpassai e mi diressi verso la piscina.
Mentre stavo camminando, mi resi conto di quanto le mie mani stessero
tremando, e fui costretto a ripararle nelle tasche dei pantaloni neri.
Una volta entrato negli spogliatoi cercai di levarmi di dosso, insieme
a tutti i vestiti, anche il peso di quanto successo con Alex, ma ormai
mi era entrato nelle ossa. Ora ogni parte del mio essere era proiettata
al futuro immediato, quando il mio corpo sarebbe stato avvolto
dall’acqua fredda della piscina e ai pensieri, come sorretti da
braccioli invisibili, sarebbe stato impossibile raggiungermi
sott’acqua.
«Allora Jared!» La voce rimbombante del coach mi fece
tornare coi piedi per terra, «Pronto per
l’allenamento?»
Potevo già sentire l’acqua scivolarmi sulla pelle nuda, lavarmi via i problemi. «Sissignore.»
Come avevo immaginato, il tempo passato in piscina mi servì per
fare chiarezza tra i pensieri, tenendo lontani quelli sgraditi e
concentrandomi su quelli più leggeri, quelli che potevo
affrontare senza crollare come avevo fatto prima con Alex.
Uno dei motivi per cui ciò fu possibile, forse, fu
l’assenza di tutti gli altri miei compagni di squadra: questo
perché, almeno una volta la settimana, il capitano della squadra
doveva, obbligatoriamente, allenarsi da solo.
Tutti questi benefici dell’acqua clorata svanirono dal momento
esatto in cui il mio piede si fu posato sulle mattonelle della
palestra. La doccia, per di più, non fece altro che peggiorare
la situazione, con il suo getto caldo e rilassante, che mi aprì
a qualsiasi tipo di pensiero. Non che variassero molto, a dir la
verità: Alex e Joshua; Alex e Joshua; Alex e Joshua.
Una volta chiusa l’acqua della doccia, mi asciugai, mi vestii,
raccolsi la mia roba e mi diressi verso l’aula di inglese, dove
la signora Dorpall non vedeva l’ora di sgridarmi per la prima
idiozia. Almeno per quella volta non si sarebbe potuta giocare la carta
del ritardo: mi posizionai fuori la sua aula dieci minuti prima del
suono della campanella.
Avevo lo zaino a terra, e la spalla sinistra appoggiata al muro accanto
alla porta dell’aula, così, quando dalle mie spalle sentii
provenire delle risate divertite e sommesse, mi dovetti scostare dal
muro per capire chi fosse.
Dalla porta principale del corridoio del piano Terra si stavano
avvicinando Alex e Joshua, spalla a spalla, che ridevano complici per
qualche battuta che non avrei mai più potuto sentire.
«Ehi.» Salutai freddo il canadese, prendendo la borsa da
terra e mettendomela a tracolla, evitando, in tutto ciò, di
incrociare lo sguardo di Joshua.
«Ciao.» Disse però il mio amico d’infanzia. «Tutto ok?»
Lo fulminai con lo sguardo e, sorridendo acido, mi girai dall’altro lato, ignorandolo del tutto.
«Comunque, come ti ho scritto l’altro giorno, io
l’unico autore che devo ancora ripassare è Jane Austen
…» Sentii Alex dire a Joshua, evidentemente poco
interessato al mio atteggiamento di poco prima, da quella che mi
sembrava una distanza infinita. «Quindi se vuoi posso aiutarti io
a prepararti per il test di inglese che abbiamo tra poco meno di
due settimane.» Quelle parole mi colpirono dritte
all’altezza dello stomaco, facendomi impallidire.
«Non saprei…» Rispose Joshua, di cui potevo ancora
avvertire gli occhi sulla nuca. «Non vorrei crearti fastidi
inutili.»
«Nessun fastidio, anzi,» Replicò il biondo,
«mi fa piacere aiutare la gente in difficoltà.»
Avvertii un leggero tono di rimprovero in quest’ultima
affermazione, tanto che mi dovetti fermare dal girarmi verso Alex e
urlargli addosso, dicendogli che non aveva capito nulla di me; ma
rimasi fermo, con le mani in tasca, davanti alla porta dell’aula
di inglese, che si aprii di fronte a me pochi minuti dopo.
«Signor Maycon!» Mi salutò la signora Dorpall,
evidentemente sorpresa di trovarmi già fuori alla sua aula.
«Salve.» Ricambiai io, superandola ed andandomi a sedere al
mio solito posto in seconda fila, seguito d Alex e Joshua, che si
sedettero vicini, l’uno dietro l’altro.
La lezione proseguì più lenta del solito (e questo
è tutto dire), con la mia mente che vagava più e
più volte verso i mormorii che potevo sentir provenire dalle mie
spalle. Odiavo quella situazione, ma soprattutto odiavo me stesso per
come stavo affrontando la faccenda. Non riuscivo a capirne il motivo.
Non appena la campanella fu suonata, raccolsi le mie cose in fretta e,
cercando di non voltarmi verso Alex e Joshua, uscii velocemente
dall’aula, dirigendomi verso il mio armadietto, dove, dopo aver
velocemente preso i libri del signor Boujdi, mi ritrovai bloccato da
Lydia, che si parò di fronte a me, a braccia incrociate.
«Ehi scusa, ma ho lezione adesso, ci vediamo dopo? Ho
buca.» Dissi io, posandole un bacio sulla guancia e sperando con
tutto me stesso che non iniziasse a parlare.
«Eh no, col cavolo che parliamo dopo.» Esclamò la
ragazza, infrangendo tutti i miei sogni. «Sono giorni ormai che
non fai altro che ignorarmi, cercando di farmi contenta con frasi di
circostanza.»
«Ly, davvero, l’ultima cosa che mi serve è fare
tardi con il signor Boujdi.» Dissi esasperato, cercando di
divincolarmi dalla sua presa ferrea sul mio polso.
«Me ne frego del signor Boujdi e di cosa possa servire a te, in
questo momento!» Esclamò Lydia, guardandomi fredda negli
occhi. «Voglio sapere perché non mi pensi più,
perché hai addirittura smesso di mandarmi messaggi, e
perché stai cercando di evitarmi a tutti i costi. Sai quante
volte ti ho chiamato da venerdì scorso?! Penso come minimo una
ventina!»
«E quindi?» Replicai io, ormai al limite della pazienza. Una giornata da cancellare.
«”E quindi?”» Disse lei, allibita dalla mia
risposta. «Pensi davvero di cavartela con un “e
quindi?”? Mi stai facendo fare la parte della rincretinita solo
perché… Perché, Jared?»
«Perché?» Ripetetti io, cercando di capire il senso
di quanto detto dalla mia ragazza e soprattutto il motivo di tutta
quella scenata. «Perché non ho intenzione di discutere con
te in questo momento oppure perché non ti ho quasi più
rivolto la parola in questi ultimi giorni?» Domandai, poi.
«Perc…»
«E’ inutile che mi rispondi, tranquilla, tanto la risposta
è la stessa: mi sono rotto.» La interruppi io, staccando
la sua mano dal mio braccio. «E ora, se permetti, dovrei andare a
seguire una lezione.»
Detto ciò, girai i tacchi e me ne andai, lasciandola ferma e
sola in mezzo al corridoio degli armadietti, rossa dalla vergogna.
Avrei voluto cancellare quella giornata dalla mia vita, e non tanto per
quanto successo con Lydia, mi ritrovai a comprendere, ma perché
odiavo i cambiamenti, e in particolare quelli che includevano Alex.
Stava andando tutto alla perfezione prima che lui arrivasse nella mia
scuola, a sconvolgermi la vita: avevo degli amici, una ragazza, un
progetto di vita sicuro e nitido; ora invece mi trovavo senza amici,
senza una ragazza, e senza un futuro a cui guardare… Mi sentivo
in balia della vita, catapultato avanti e indietro da un gioco che non
voleva finire. Eppure se avessi dovuto dire, in quel momento preciso,
quale fosse stato il giorno migliore dei miei anni al liceo, allora
avrei di sicuro detto il giorno in cui, su un aereo da Vancouver a
Londra, avevo per la prima volta incontrato quegli occhi verdi.
Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai fuori l’aula di
biologia. La lezione era già iniziata, da come potetti sentire,
così, cercando di calmarmi, poggiai la mano sulla maniglia della
porta e ne varcai la soglia.
Il signor Boujdi s’interruppe di botto, bloccando la
presentazione powerpoint e voltandosi verso di me, con un sorriso
compiaciuto. «Guardate ragazzi: il capitano Maycon ha deciso di
deliziarci con la sua presenza!» Esclamò, seguito da una
lieve risatina da parte di un gruppetto della classe.
Senza commentare il comportamento del professore, mi girai verso Alex,
seduto da solo al nostro banco, e sentii una morsa stingermi lo
stomaco. «Non mi sento bene.» Dissi solo, prima di voltarmi
e lasciare l’aula.
Una volta in corridoio sentii la rabbia salirmi dalla bocca dello
stomaco fino al cervello, facendomi ronzare le orecchie e quasi
lacrimare gli occhi. Il mio braccio si mosse prima che io potessi anche
solo accorgermene, facendo collidere il mio pugno contro la parete
bluastra del corridoio. Il dolore mi fece tornare in me, e fu allora
che mi accorsi che Alex era proprio lì, accanto a me, ad
aspettare che io mi calmassi.
«Che vuoi?» Domandai io, senza alzare lo sguardo e con il
pugno ancora poggiato contro il muro. Potevo sentire i miei occhi
inumidirsi. «Sei venuto a goderti lo spettacolo, oppure il signor
Boujdi ti ha mandato a chiamarmi?»
Non ricevetti risposta, se non una mano sulla spalla, che fu quasi come
una spinta per le mie lacrime, che iniziarono a scendermi lentamente
per le guance.
«Allora?» Ribadii, cercando di ricordarmi perché ero arrabbiato anche con lui.
«Non c’è una terza opzione?» Chiese.
«Bene, allora vorrà dire che me la invento io ora.»
Continuò Alex, vedendo che ero rimasto in silenzio «Che ne
dici di: “mi sono preoccupato e volevo vedere che cosa ti fosse
preso”?»
«E perché mai dovrebbe interessarti, Alex?» Dissi
allora io, alzando finalmente il capo per guardarlo negli occhi, e
mostrando le mie lacrime. «Perché mai dovrebbe fregartene
qualcosa di me quando ora hai Joshua tutto per te?»
Gli occhi verdi di Alex si posarono sui miei, velati di lacrime e pieni
di rabbia, e cercarono di entrarmi dentro, per calmarmi e per
infondermi la tranquillità che in quelle ultime ore – ma
cosa dico? Che in quegli ultimi mesi avevo perso. «Perché
lui non è te, Jared.»
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Capitolo 16 *** Over you. ***
loki
Capitolo
15 – “Over you"
Buooonsalve
a tutti, e ben ritrovati qui, al quindicesimo capitolo della storia di
Jared ed Alex, che questa volta si ritoveranno in situazioni ancora
più delicate dell'ultima volta.
Be',
detto questo vi auguro una buona lettura e, soprattutto, spero che
questo capitolo vi piaccia e che continuiate a rendermi partecipe delle
vostre impressioni lasciando una recensione qui o passando dalla mia
pagina facebook e commentando con le vostre impressioni.
Alla prossima!
Dopo quel breve ma
intenso scambio di battute avvenuto tra me ed Alex, ci avviammo insieme verso
il cortile, per aspettare che la lezione di Biologia volgesse al termine.
«Sicuro di non
voler tornare in classe? Non c’è bisogno che ti perdi la lezione per colpa
mia…» Domandai io, una volta sedutici sulla panchina di fronte al campo da
palla a canestro.
«E’ tipo la quinta
volta che mi fai questa domanda, non ti rispondo neanche più.» Disse il biondo,
sistemandosi accanto a me. «Più che altro… Vuoi dirmi cosa ti è preso?»
Cercai di pensare
in maniera distaccata e razionale a quanto successo in quelle ultime ore, dalla
discussione con Alex al mio distacco da Lydia, ma il mio cervello continuava ad
aggrovigliarsi su se stesso, senza arrivare ad una soluzione da me accettabile.
Guardai Alex negli
occhi, e rividi quello stesso colore che mi aveva svegliato sul volo da
Vancouver. Non sapevo per quale motivo, ma in quegli ultimi momenti non avevo
fatto altro che ripensare a quel momento. Lessi nei suoi occhi la voglia di
sapere cosa fosse successo, in modo tale da potermi aiutare.
«Mi sono lasciato
con Lydia.» Dissi poi, spostando lo sguardo verso il pavimento. Sapevo
benissimo che non era quello il motivo del mio comportamento scontroso e
irascibile delle ultime ore, così come sapevo di non poter dire la verità ad
Alex.
«Cosa?!» Esclamò il
canadese, posizionandosi a cavalcioni sulla panchina di pietra per avermi di
fronte. «Quando è successo?»
«Esattamente prima
della lezione del signor Boujdi.» Ammisi io, facendo finta di cercare qualcosa
nel mio zaino.
«Oddio… E come…
Insomma, perché?»
Non riuscii a
trattenere una leggera risata, che dovetti immediatamente spiegare ad Alex, che
mi aveva rivolto uno sguardo interrogativo. «Scusa,» dissi, «è solo che è
abbastanza divertente il fatto che, mentre tu chiedi “perché si sono lasciati”,
io mi chieda “perché ho aspettato tutto questo tempo?”»
Le mie parole
fecero scendere su di noi una pesantissima cappa di silenzio, sotto cui si
riusciva a sentire il ronzio dei nostri pensieri.
«Comunque è
successo abbastanza velocemente, a dir la verità…» Dissi, riprendendo il
discorso e sollevando lo sguardo da terra. «… Anche se abbastanza lentamente da
farmi fare tardi a Biologia.» Sorrisi.
«Sì, ok… Ma cosa è
successo?» Domandò di nuovo Alex.
“Sei arrivato tu.” Avrei voluto dire. «Era arrivato il momento di
prendere le distanze.»
«Ok… Quindi era una
cosa che stavi avvertendo nell’aria da un po’ di tempo, ormai?»
«Già.» Risposi.
«Bene…» Replicò il biondo,
«Adesso mi vuoi dire il vero motivo per cui oggi sei stato così scontroso?»
«Come, scusa?»
«Già ti ho detto
che ormai le tue bugie non attaccano con me. Anche perché - diciamoci la verità
- non è che tu sia proprio bravo ad inventarle: non è stata la separazione con
Lydia ad averti fatto innervosire così tanto oggi, altrimenti non si
spiegherebbe il tuo comportamento di stamattina.»
Nei minuti di
silenzio che seguirono le parole di Alex mi maledissi in silenzio, cercando
qualche scappatoia per poter evitare di confessare al canadese il vero motivo
per cui ero stato così intrattabile.
Potevo sentire le
rotelle del mio cervello lavorare freneticamente, senza fermarsi un attimo,
alla ricerca di qualche scusa per
deviare il discorso, quando la voce di Alex buttò a terra qualsiasi mio
tentativo. «E’ per Joshua, non è così?»
“Ovvio che è per Joshua!” pensai in cuor mio, trattenendomi a fatica
dall’urlargli addosso. «Anche…» Sussurrai infine, calando qualsiasi tipo di
difesa.
«Lo sai, vero, che
io non ho intenzione di andarmene finché non mi dici qual è il problema?» Il
biondo mi fissò dritto negli occhi e sorrise, divertito.
«Il problema è
Joshua.» Ammisi.
«E…?»
«E te! Ok? Il
problema siete tu e Joshua!» Scoppiai esasperato, liberandomi da un enorme
fardello. «Il problema è che non riesco a capire né cosa è successo tra voi due
né quando; e non riesco a capire come tu abbia fatto a voler stringere i
rapporti con una persona del genere!» Oramai sembravo un fiume in piena i cui
argini erano stati distrutti. «Non capisco… Non… Come puoi anche solo pensare
di voler passare del tempo con lui – e
non con me, pensai – come se nulla fosse mai successo.»
«Ok.» Fu la
risposta di Alex, che si sistemò una ciocca di capelli da davanti agli occhi.
«Senti… Non puoi realmente pensare che io abbia dimenticato quanto successo.
Quello che dico, però, è che in questo momento lui ha bisogno di qualcuno che
gli sia vicino, così come ne avevo bisogno io, e non ho intenzione di voltargli
le spalle.»
«Lo so, io…» Non
riuscivo a cacciare le ultime parole, quelle che mi stavano logorando
dall’interno. «E’ solo che io non capisco… Non capisco perché tutto questo mi
dia così fastidio.» Dissi infine, voltando il capo verso di lui ed ancorando i
miei occhi ai suoi, cercando conforto e risposte.
Mi accorsi della
mia mano sulla sua solo quando le sue dita si strinsero intorno alle mie,
facendomi accelerare il battito cardiaco e annebbiandomi la mente.
Ormai il pensiero
di Lydia, di Joshua e di quanto successo in quegli ultimi giorni, mi sembravano
delle luci lontane, nascoste da dense nubi che profumavano come la pioggia
estiva. In quel momento tutto ciò che aveva importanza era lì, di fronte a me,
e, nonostante tutto ciò mi provocasse uno strano stato di confusione, decisi,
in quell’occasione, di smettere di pormi domande e freni inutili.
Così, per quella
che fu una delle prime volte in vita mia, agii seguendo il mio istinto, e il
mio stomaco. Lasciai che le mie stesse braccia si alzassero dalla pietra fredda
della panchina e si posassero sul corpo di Alex - la destra sulla guancia e la
sinistra sul braccio –, che rimase immobile, a fissarmi con un’intensità che
mai avevo visto illuminare i suoi occhi. Potevo già immaginare le mie labbra
posarsi sulle sue, e trasmettergli tutte le emozioni che erano nate dentro di
me in questi ultimi mesi.
Mi ritrovai a pochi
centimetri dal suo volto, con gli occhi socchiusi, quando la campanella della
fine delle lezioni fece crollare questo sogno ad occhi aperti come il vento fa
volare i castelli di carte; e tutto ritornò alla normalità, con Alex fermo
nella stessa posizione, che mi fissava quasi speranzoso, e io che mi alzavo
dalla panchina ed andavo a seguire la prossima lezione.
Cosa mi fosse
saltato in mente non lo sapevo neanch’io, sapevo solo che non avrei avuto il
coraggio di guardare Alex negli occhi per un bel po’ di tempo. In realtà non
credevo sarei stato in grado di guardarmi allo specchio dopo quanto successo.
Chi ero? Cosa era cambiato?
Quel pomeriggio a
casa lo passai, quindi, a tormentarmi di domande, senza riuscire a trovare
alcuna risposta, e a convincere i miei genitori a farmi rimanere a casa per un
paio di giorni, il tempo di riprendermi dall’influenza che mi aveva fatto
saltare la lezione del signor Boujdi.
Ero talmente
concentrato su quanto accaduto con Alex, che mi ero completamente dimenticato
degli ultimi svolgimenti con Lydia, e fu per questo motivo che, quando il
giorno dopo si presentò alla porta di casa mia, ci misi un po’ per capirne il
motivo.
«Che vuoi?» Chiesi,
freddo. Non avevo alcuna intenzione di perdere tempo con lei.
«Voglio solo
parlare, Jay…» Rispose la mia ex ragazza, con le mani nelle tasche del
giubbotto. «Senti, non devi dire nulla, basta che mi ascolti, ok?»
In tutta risposta
rimasi fermo a fissarla, intimandole di fare presto.
«Senti, mi dispiace
per come mi sono comportata con te ieri, è solo che mi sento presa in giro e
soprattutto messa in imbarazzo davanti a tutta la scuola…»
«E… Quindi?»
«Quindi,»
ricominciò lei, inspirando profondamente, «non voglio rompere con te, ecco.
Perciò non c’è bisogno che tu continui a tenere il muso, ti perdono.»
Il mio sguardo si
trasformò da freddo e distaccato a divertito ed incredulo. «Certo che sei
proprio stupida.» Dissi.
«Come, scusa?»
«Davvero credi che
io sia qui ad aspettarti, pronto a tornare con te allo scoccare delle tue dita
solo perché tu mi “perdoni” (per cosa, poi, devo ancora capirlo)?!» Esclamai,
uscendo fuori casa e chiudendomi la porta alle spalle per evitare che i miei
sentissero il mio litigio con Lydia. «Non ho intenzione di stare con te solo
perché credo che sia la cosa conveniente.»
«Jared…»
«Sì Lydia, hai
sentito bene.» La interruppi. «Senti, fatti un’analisi di coscienza e cerca di
capire questi ultimi due anni da cosa sono stati guidati. Cerca di capire perché
sei stata con me fino a questo momento e perché sei disposta ad umiliarti pur
di continuare a farlo.» Dissi poi, con tono pacato. «Sei stata una parte
importante della mia vita, e ti vorrò sempre bene, ma adesso basta fingere.»
«Non puoi troncare
con me in questo modo, lo sai, vero?!»
«E invece credo
proprio di sì Lydia…» Risposi, riaprendo la porta alle mie spalle. «L’ho appena
fatto. E’ finita.»
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Capitolo 17 *** Perspective ***
uyutyht
Capitolo 16 – “Perspective”
And here we are!
Bene, non vi nascondo che questo
capitolo ha un posto davvero speciale nel mio cuore, perché
è forse quello che mi ha permesso di affrontare anche
determinate cose nella vita di tutti giorni (quindi guai a chi me lo
critica, eh! :'D Scherzo, ovviamente.). Non aggiungo nient'altro se non
buona lettura e, come al solito, grazie perché mi continuate a
seguire :)
p.s.
Come al solito vi invito a recensire: ogni recensione mi scalda il cuore, davvero :)
Subito dopo essermi chiuso la porta alle spalle, mi diressi
diretto in camera mia, cercando di non fare alcun rumore che potesse
portare su di me l’attenzione dei miei genitori. Mi levai tutti i
vestiti di dosso e mi rifugiai nel box doccia, sperando che
l’acqua lavasse via tutti i pensieri, e cercando di fuggire dal
cellulare che, minaccioso, continuava imperterrito ad emettere il
solito suono di notifica.
L’acqua calda quella volta non fu in grado di farmi scivolare di
dosso i pensieri; anzi, sembrò amplificarli, creando una bolla
tutt’intorno a me: condizione ideale per lo scorrere
irrefrenabile di pensieri di qualsiasi tipo. Non che i miei pensieri
variassero molto: Alex, la campanella, il quasi bacio, Lydia, Alex, la
campanella, il quasi bacio… Non per forza in quest’ordine.
Il vapore sembrava voler volare via dal box doccia con la stessa
velocità con cui le mie sicurezze, le mie certezze mi avevano
abbandonato poco prima, quando ero stato a tanto così dal posare
le mie labbra su quelle di Alex; quando l’idea di sbagliato, di
inadeguato, aveva disertato la mia mente, permettendomi di posare le
mani su quelle del canadese.
Amareggiato interruppi il getto d’acqua, girando del tutto la
manopola della doccia, e mi avvolsi nell’accappatoio, caldo di
termosifone; mi fermai di fronte allo specchio e, come fossi in un
film, non mi riconobbi nella figura che, dalla superficie di vetro,
ricambiava il mio sguardo confuso… E questo non a causa del
vapore, che rendeva ogni immagine riflessa dallo specchio opaca e poco
chiara, ma per colpa di qualcosa che era scattato dentro di me,
qualcosa che sapevo essere cambiato, qualcosa di molto più
profondo.
Mi mossi sul posto, cercando di far comparire il mio volto in un
piccolo spicchio di vetro non ancora ricoperto dal vapore, e quello che
vidi non fece altro che confermare le mie tesi, invocando in me quelle
domande che avevo evitato per così tanto tempo da farlo, ormai,
automaticamente; domande che ogni ragazzo della mia età dovrebbe
porsi: Chi sono? Perché sono così? Quale vita mi aspetta?
Sono felice? Sarò mai felice? Posso essere felice essendo me
stesso?
Fissando il vuoto, mi strofinai i capelli per cercare di asciugarmeli
e, contemporaneamente, di svuotarmi la testa non riuscendo ad accettare
il fatto che domande del genere non se ne vanno via così, con un
getto d’acqua o con uno strofinio vigoroso: sono domande che
cercano una risposta, che succhiano via la vita fino a quando non
ottengono ciò che vogliono, come tante piccole sanguisughe di
emozioni, che si nutrono di aspettative e di ansie. L’unica cura
conosciuta era trovare risposte… Attività in cui non mi
ero mai allenato molto.
Una volta essermi asciugato e rivestito, spensi le luci del bagno e mi
diressi in camera mia, dove mi sedetti alla scrivania, prendendo carta,
pena e raccogliendo tutti i miei pensieri.
“Caro Kyle,
Scusa se non ti ho più scritto
dall’ultima volta, ma davvero non so come ho fatto, in questi
giorni, a ricordarmi di avere una testa sulle spalle e non la zucca di
Cenerentola. Sul serio, sono successe tante di quelle cose che non so
neanche da cosa iniziare, per riuscire a dare a questa lettera il senso
che vorrei assumesse.
Ok, cercherò di andare per
gradi, perché altrimenti potrei perdermi con la stessa
facilità con cui un verme inizia a strisciare.
Bene. D’accordo. Sarà
una lettera mooolto difficile da scrivere per me… Ma questo
già te l’ho detto. Ok, sto tergiversando come al solito.
Stop. Resetto tutto e cerco di parlare di cose serie:
Partirò, allora, da quando ti
ho lasciato, ovvero prima di Halloween. Bene… Allora, tutto
è iniziato quando io, Alex e Lydia siamo andati ad una festa in
casa di uno di scuola nostra, Sid.
La serata è partita nel
migliore dei modi, in maniera spensierata e, soprattutto, proiettata
verso le aspettative di una festa in cui poter divertirsi.
Ok, forse non era partita così
bene come voglio farti credere: ero pieno di ansie, e di pensieri che
tu, e sottolineo TU, mi avevi messo in testa con quella tua ultima
lettera (il caso ha voluto che la ricevessi proprio il giorno prima
della festa, il 30 ottobre!).
In ogni caso, il giorno della festa
avevo una confusione tremenda che mi vorticava in testa, nonostante le
cose con Lydia si fossero “risolte”. Avevo paura di varie
cose, ma soprattutto di quello che le tue parole avevano evocato in me.
Oddio, la devo smettere di essere così prolisso e di fare tutte
queste digressioni: finirò col rimanere senza fogli di carta per
quando la lettera sarà finita.
Bene. Quindi siamo arrivati alla
festa in sé, svoltasi in tutta tranquillità (soprattutto
perché l’ho passata interamente con Alex, a parlare, del
più e del meno, senza freni né contegno), fino a quando
Joshua, ubriaco, non ha ribaltato completamente la situazione, facendo
nascere una rissa – che io stesso ho dovuto interrompere –
con un ragazzino che continuava ad urlargli cose come
“finocchio!”, “ha detto che è un
finocchio!” etc.
Che svolta inaspettata, eh?!
Lo sarebbe se io credessi anche solo
ad una parola che esce dalla bocca di quell’energumeno. Gli ho
fatto una visitina nei giorni dopo la festa, quando ho notato che si
stava assentando da scuola, e ogni suo singolo atteggiamento non ha
fatto altro che alimentare i miei dubbi nei suoi confronti. Nasconde
qualcosa, ne sono sicuro… Ed Alex ci sta cadendo come un
idiota… Ma questa è un’alta storia.
Subito dopo Halloween è successo quello che mai mi sarei aspettato, e che mai avrei voluto accadesse…”
La porta della mia stanza si aprì di colpo, lasciando lo spazio
necessario affinché mia madre potesse affacciarsi. «Jared,
tesoro, è pronta la cena.»
«Mamma!» Inveii incollerito, alzandomi di scatto dalla
sedia della scrivania per correre a chiudere la porta. «Quante
volte ti devo dire che devi bussare?!»
«Scusa…» Replicò mia madre dall’altro
lato della porta di legno. Potevo sentire le sue labbra tendersi in un
sorriso. Mi dovetti sforzare per non imitarla. «Arrivo tra un
po’, iniziate pure senza di me, non preoccupatevi.»
«D’accordo ma non metterci troppo ché il cibo si fa freddo.»
«Ok ma’.» Dissi mente mi dirigevo nuovamente alla mia
postazione. «Bene, dov’ero rimasto?» Borbottai tra me
e me.
“... Mio padre si è
presentato a Londra, pretendendo diritti persi da ormai un bel
po’ di tempo: vuole che io e mia madre ci trasferiamo con lui a
Parigi.
Problemi economici, dice lui. Fanculo, penso io.
Mi sento preso per il culo,
Ky… Mi sembra come se tutto quello che è successo dalla
fine dell’estate fino al giorno in cui, entrando in casa, ho
trovato mio padre sia stata tutta una messa in scena.
Vorrei solo che me l’avessero
detto. Che almeno uno di loro avesse avuto la decenza di avvertirmi.
E’ anche la mia vita, fino a prova contraria.
Ok, ho speso anche troppe parole per
colui che si definisce mio padre, ora è il momento di spiegarti
le due cose più importanti, che non mi stanno lasciando in pace
da quando sono accadute.
Prima di tutto devo ammettere, col
senno di poi, che l’arrivo di mio padre a qualcosa è
servito: grazie a lui ho stretto ancora di più i rapporti con
Alex, la mia unica ancora in un momento di incertezze.
Consequenziale a questo nostro ulteriore avvicinamento è quello che sto per scriverti adesso.
Ci siamo quasi baciati.
O meglio: l’ho quasi baciato
sulla panchina del cortile di scuola, mentre lui faceva quello che gli
riesce meglio, ovvero ascoltarmi.
Non so cosa sia scattato in me, so
solo che, mentre un momento ero lì a parlare di quanto mi desse
fastidio il fatto che lui si stesse avvicinando a Joshua – non
per gelosia, sia chiaro, ma semplicemente perché, come ti ho
scritto prima, non mi fido di lui – e della mia rottura con Lydia
– ah già, l’ho lasciata! – l’istante
seguente la mia mano era sulla sua e i nostri volti erano così
vicini da poter sentire il suo odore di pioggia estiva ed erba bagnata.
Non faccio altro che pensare e
ripensare a quel mio gesto, arazionale ed impulsivo, portato avanti in
un momento di debolezza e vulnerabilità emotiva.
Bene, con questo posso dire conclusa
la mia lettera. Non so neanche perché ti scrivo, né cosa
voglio sentirmi dire da te… So solo che stavo impazzendo
tenendomi tutto dentro.
Grazie come al solito,
Jared.
Una volta conclusa la lettera, con la mano ormai indolenzita, imbustai
i due fogli di carta e raggiunsi i miei genitori a tavola, dove mi
aspettava un piatto ricco di pietanze, ormai fredde.
Era inizio dicembre ormai – più o meno una settimana
lavorativa da quando avevo spedito la lettera a Kyle – quando
ricevetti una sua risposta, che mia madre si precipitò a
consegnarmi, neanche fosse una patata bollente.
Gli ultimi giorni a scuola erano passati lentamente, senza la compagnia
di Alex a rendere le giornate più leggere ed interessanti. Non
che lui non volesse stare con me dopo quanto accaduto, anzi…
Aveva provato più e più volte, durante le ore
scolastiche, ad avvicinarsi a me e a far partire un dialogo. Ero io
quello che non riusciva a stare a meno di un metro di distanza dal
canadese senza che le immagini di quanto accaduto giorni prima mi
affollassero il cervello, liberando una scarica elettrica per tutto il
mio corpo.
Quando vidi la lettera firmata da Kyle nelle mani di mia madre, quindi, mi fiondai a prenderla tra le mani e ad aprirla.
Dovetti rileggerla un paio di volte prima di carpirne il senso.
Ciao Jay,
Ti rispondo il prima possibile
– a differenza di una persona di mia conoscenza, che impiega in
media due mesi per scrivere una lettera – perché quello
che mi hai scritto mi ha dato motivo di credere che sei alla deriva, e
che – ovviamente – senza di me sei perso.
Allora, proverò anche io ad
andare per punti, per farti capire quello che voglio dirti senza
però farti arrabbiare né niente del genere.
Dunque… Partirò dalla
questione di tuo padre perché, paradossalmente, è quella
meno grave (nel senso che non hai bisogno di me così come ne hai
bisogno per gli altri punti). Non credo sia giusto incolparlo di
così tante cose “solo” perché vi dovrete
trasferire a Parigi.
Non puoi partire dal presupposto che
quella dei problemi economici sia una scusa, perché altrimenti
non uscirai mai da questo turbine di rancore verso Paul.
Lo incolpi per aver lasciato te e tua
madre da soli? Bene, allora vedi questo trasferimento a Parigi come
un’occasione per recuperare il tempo perduto, per arrivare a
conoscere tuo padre così come hai sempre voluto fare –
perché so che l’hai sempre voluto fare, Jared – e
per ricominciare la tua vita daccapo. Ne hai bisogno e, soprattutto, te
lo meriti.
Ovviamente il tuo problema non
è il trasferimento in sé e per sé, bensì
l’idea di lasciarti dietro tutta questa parte di te. Quello che
ti dico è: se tutto questo fosse successo prima
dell’arrivo di un certo biondo canadese la tua reazione sarebbe
stata completamente diversa. Spero che tu lo sappia.
Bene, adesso il vostro psicologo di fiducia passerà al punto seguente, siete d’accordo? Perfetto.
Il punto seguente è, ovviamente, Lydia… MA FINALMENTE, DICO IO!
Ok, ho dato anche troppa importanza a
Lydia. Adesso, se voi permettete, mio caro cliente, passerei al punto
saliente della lettera: Alex.
Non voglio perdermi in parole
inutili, Jay, perché credo che così facendo non farei
altro che peggiorare la situazione. Voglio solo provare a farti
ragionare, senza freni né inibizioni… Esattamente come
hai ragionato quando è scappato il “quasi-bacio”.
In tutti questi mesi in cui sei stato
a Londra, da quando è finita l’estate, e in quelle
altrettante lettere che mi hai scritto, se c’è una cosa
che ho capito è che l’unica persona che deve ancora
comprendere appieno i propri sentimenti per Alex e, soprattutto la
propria vera natura sei tu (e con natura non intendo né etero,
né gay, né bisessuale né tantomeno alpaca; intendo
la tua vera essenza, il tuo centro, come dice Babbo Natale ne “Le
Cinque Leggende”*).
Bene. Quindi… Voglio farti
solo una domanda: a chi pensi quando hai bisogno di parlare, o di
sfogarti, per un motivo o per un altro? Quando credi che il mondo ti
stia per cadere sulle spalle, facendo di te poco più di una
frittata, qual è il primo volto che ti salta in mente? Non sono
io, non è Lydia, e non sono neanche i tuoi amici da quattro
soldi.
Il motivo per cui non mi hai scritto
in questo periodo – e, attenzione, non ti sto accusando –
non è stato perché hai avuto un mese incasinato (che,
oddio, è vero), ma è stato perché non hai pensato
a me quando avevi bisogno di parlare di qualcosa con qualcuno. Hai
pensato a lui, ed è giusto che sia stato così.
Non ti dirò cosa provi o non
provi per lui, perché questo è qualcosa che solo tu puoi
fare, facendo finalmente un’analisi di quelle che sono le tue
idee – quelle veramente tue – e le tue sensazioni,
mandando a fanculo tutti quelli che hanno condizionato, fino a questo
momento, la tua vita, in ogni sua sfaccettatura.
Ma sto degenerando, come si addice ad un vero retorico.
Quello che ti chiedo di fare è
domandarti quanto hai compreso di te stesso da quando Alex ha varcato
le porte della Walworth Academy.
*So che non l’hai visto… A volte mi chiedo come faccio ad essere tuo amico. Sul serio, come vivi?
Sempre tuo,
Kyle
Senza rendermene conto avevo iniziato a piangere, e il macigno dentro
di me aveva iniziato a sciogliersi come l’inchiostro della
lettera di Kyle.
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Capitolo 18 *** Quasi-friends ***
kjuhyg
Capitolo 18 - "Quasi-friends"
Hello everybody! :)
Pubblico questo capitolo con un
peso sullo stomaco, perché è da un po' che non scrivo e
ho ripreso in mano la storia solo adesso, e spero con tutto il cuore di
riuscire a scrivere un diciannovesimo capitolo in tempo... Nel
frattempo godetevi questo breve chapter e fatemi sapere cosa ne
pensate! :)
Vi ricordo di passare sulla mia pagina Facebook cliccando QUI, e, se vi fa piacere, di lasciare una recensione ^^
Quella notte la
passai completamente in bianco, a leggere e rileggere le parole del mio parente
canadese, cercando di farle mie, di capirne il significato nascosto. In fondo
sapevo che quelle parole nascondevano la verità su ciò che provavo e su come mi
sentivo, ma non sapevo se fossi pronto ad ammetterlo.
Passai ore ed ore,
con il foglio tra le mani e la mente nel mio mondo personale, quello a cui
nessuno poteva accedere, se non io; quello che mi serviva a fare chiarezza tra
le cose dentro e fuori di me. Non aggiunsi né un tostapane né la luna, quella
volta, ma cercai di riorganizzare i miei pensieri in maniera razionale ed
ordinata, e di accettarli così com’erano.
Ogni volta che il
mio cervello raggiungeva una conclusione, il mio subconscio cercava qualsiasi
scappatoia, qualsiasi scusa, per impedirmi di afferrarla; per impedirmi di
accettare le cose così come stavano.
I minuti iniziarono
ad accavallarsi, diventando prima ore ed infine giornate, che passai in casa, fingendo
di non sentirmi bene. Mia madre non mi fece domande, consapevole delle mie
bugie ma, allo stesso tempo, disposta a fare finta di nulla. Pensò,
invece, a tranquillizzare mio padre, che
invece si barcamenava da un posto all’altro per cercare di concludere tutte le
scartoffie necessarie al trasferimento che sarebbe avvenuto in poco più di un
mese.
“Oggi ho concluso
il contratto con la compagnia telefonica.” Disse una volta tornato a casa, con
mille e più cartelline sottobraccio; oppure “oggi ho finalmente trovato una
buona agenzia di traslochi”; una volta, invece, quel mercoledì sera, tornò a
casa dicendo a me e mia madre: “ho parlato con la preside della tua scuola,
Jared, e abbiamo finalmente concluso il tuo trasferimento al Lycée Thiers…” non
ascoltai neanche quello che aveva da dire su esami e quant’altro.
D’improvviso mi si
era chiuso lo stomaco.
Il giorno seguente,
invece, - quello stesso giovedì – la mia giornata fu completamente stravolta da
un messaggio di Alex, che si informava circa la mia assenza:
Hey Jay…
Non so il motivo per cui non sei venuto a scuola, in
questi giorni… Se è una cosa seria o meno. Volevo solo dirti che, se il motivo
è quello successo venerdì scorso, allora non devi preoccuparti. Per me è come
se non fosse mai successo. Nada. Niente. Nothing. :)
Se invece il motivo è un altro, allora spero che non
sia nulla di troppo grave.
In ogni caso… Mi piacerebbe venirti a trovare o
comunque passare del tempo con te, se vuoi e puoi. Così magari ti do anche i
compiti del signor Boujdi!
Fammi sapere.
Seguito, subito
dopo da un secondo messaggio, di completamento:
Sono preoccupato… Ti voglio bene,
Alex.
Oltre questi due
messaggi, a cui non risposi, il venerdì seguente passò tranquillo, e il weekend
arrivò prima del previsto, senza la solita impressione di libertà che ogni
volta mi pervadeva. Quella volta, invece, non aveva nulla di particolare, nulla
di diverso rispetto agli altri giorni passati in casa a sentire mia madre
parlare emozionata della nuova vita che ci attendeva nella capitale francese –
forse più per convincere se stessa che altro – e rileggere la lettera di Kyle
più e più volte.
Quando la sveglia
del mio cellulare squillò, quel sabato, segnando l’inizio di un nuovo giorno, e
dando il via alla ripresa della mia routine, mi alzai dal letto con una strana
sensazione addosso; non più pensando alle parole di Kyle, ma con una strana
calma dentro di me.
Quasi come l’acqua
della piscina prima di essere increspata dai movimenti della gente.
Mi guardai allo
specchio e, negli occhi blu che ricambiarono il mio sguardo, notai una lieve
scintilla; un qualcosa di diverso che, però, allo stesso tempo, mi era
stranamente familiare. Qualcosa che mi portò a sfilarmi finalmente il pigiama
di dosso, per indossare un pantaloncino di tuta e una maglia grigia
traspirante.
Una volta finito
nel bagno, mi spostai in camera da letto, dove presi il cellulare, ignorando le
chiamate perse da parte della mia counselor, e, dopo aver controllato l’ora –
erano le otto meno venti -, lo presi e scesi al piano di sotto, dove, in
cucina, trovai mio padre alle prese con la macchina del caffè.
«’Giorno.» Dissi
io, entrando nella stanza e posando un attimo il cellulare sul bancone da
cucina.
«Buongiorno Jay.»
Rispose lui, scostando lo sguardo dalla brocca del caffè solo per un istante.
«Come mai sveglio a quest’ora?»
«Avevo pensato di
andarmi a fare una corsetta.» Dissi, prendendo una banana dal cesto della
frutta. «Sai com’è, dato che sto finalmente bene…»
«Sì certo, certo…
Fai bene.»
«A proposito,»
ripresi io il discorso, iniziando a mangiare la banana, «hai per caso visto la
mia fascia per iPod?»
«Sì, se non sbaglio
è sul tavolo nello studio di tua madre.» Rispose mio padre, dando un colpo alla
macchina del caffè. «Non riesco a far funzionare questo dannato coso!»
Trattenni una
risata e andai verso di lui, accanto al lavandino. «Ecco.» Sorrisi, premendo un
singolo pulsante sulla caffettiera, che si azionò immediatamente.
«Grazie.» Sospirò
mio padre, demoralizzato. «Come hai fatto?»
«Basta premere
questo, pa’.» Sorrisi, prendendo il cellulare dal bancone e mettendomelo in
tasca.
«Jared.» La voce di
mio padre mi fermò prima che uscissi del tutto dalla cucina.
«Pa’, devi solo
aspettare che esca il caffè, adesso.»
«Cosa? Ah… Sì sì,
lo so, grazie.» Replicò, sorridendo anche lui. «No, ti volevo dire che io e tua
madre oggi andiamo a fare un giro in centro, per vedere alcune cose prima del
trasloco… Ti vuoi unire?»
Sentii le mie
labbra distendersi, prima di rispondere: «ti faccio sapere, ma credo di sì…
Okay?»
«D’accordo.»
Rispose mio padre, sempre con il sorriso impresso sulle labbra. «Buona corsa.»
«Grazie pa’, a
dopo.»
Presi la felpa e la
fascia per l’iPod, che mi misi attorno al braccio, ed uscii di casa, sentendo
il freddo gelido entrarmi dentro, fino alle ossa.
La corsa, sin da
quando ero più piccolo, mi aveva aiutato a riflettere, a pensare senza rimanere
assordato dalle impressioni che gli altri si stavano costruendo di me: la
musica, lo sforzo dei muscoli, i passanti assorti nelle proprie vite, il
respiro regolare, tutte questi piccoli elementi mi aiutavano ad estraniarmi
dalla realtà.
Non appena uscito
di casa mi calai il cappuccio fin sopra gli occhi, mi misi le cuffie nelle
orecchie facendo partire la musica e, con la prima nota, iniziai a correre
lungo il marciapiede del viale di casa mia.
Non appena iniziai
ad avere il fiato corto, e a sentire le guance arrossarsi, cominciai ad
isolarmi, e tutti i pensieri che mi avevano reso quasi catatonico durante la
settimana iniziarono ad allinearsi, per la prima volta in quei sette giorni, in
maniera ordinata, uno dietro l’altro. Pronti per essere analizzati.
Non sentivo più il
freddo, anzi. Ero ricoperto di sudore dalla testa ai piedi, e potevo sentire il
battito accelerato del mio cuore aumentare la mia temperatura corporea. La mia
testa ormai, però, non era più affollata da pensieri su quanto detto da Kyle e
su quello che provavo per Alex. In quel momento di pura stanchezza le uniche
cose che potevo sentire nella mia testa erano le parole di Ed Sheeran.
Non sono mai stato
un tipo da musica. L’ascolto, questo è ovvio, ma non sono mai stato uno di
quelli che si lasciano trasportare dal testo di una canzone, dalla sua melodia,
e che permettono a quest’ultima di risvegliare qualcosa dentro di loro.
Quella volta, però,
- mentre correvo verso un qualcosa che neanche io sapevo bene cosa essere – i
versi di I’m A Mess rimbombarono
dentro di me, urtando le pareti più recondite del mio essere e facendomi
vibrare dall’interno.
“Oh I’m a mess right now,
Inside out
Searching for a sweet surrender,
But this is not the end.
I can’t work it out,
How going through the motions…
Going through us.
And oh I’ve known it for the longest time,
And all of my hopes
All of my own words
Are all over written on the signs…”
Sarà stato, forse, il fatto che quelle
parole mi si addicevano così tanto da farmi quasi paura, oppure qualche
congiunzione astrale; il risultato rimane, però, lo stesso.
Mi fermai solo un momento per capire
dove mi trovassi, con la musica che continuava a suonare nelle mie orecchie,
attraverso gli auricolari. Senza rendermene conto mi ero allontanato un bel po’
da casa mia e, ora che ci pensavo, non sapevo neanche da quanto ero per strada,
a correre… A dire la verità neanche mi interessava. Provai a dedurre, da quanto
mi circondava, la mia posizione esatta e, quando arrivai ad una conclusione,
sentii le gambe tremarmi – non per la fatica.
Mi incamminai, a passi più decisi di
quanto avrei immaginato, sul vialetto della casa di Alex e, poco prima di
arrivare di fronte alla porta di ingresso, sentii la maniglia girare su se
stessa e l’anta aprirsi verso l’esterno.
Sentii il cuore salirmi in gola, e
iniziare a palpitare più velocemente di quanto non avesse mai fatto. Vidi una
ciocca bionda uscire dal cappuccio della giacca del canadese, che mi dava le
spalle, intento a chiudere la porta.
Mi sciugai il sudore delle mani sul
tessuto sintetico dei pantaloncini, giusto prima che Alex si girasse verso di
me.
«Jared?» Disse lui, sbalordito. Non
dissi niente mentre il biondo si avvicinava a me, con le mani nelle tasche del
giubbotto. «Che ci fai qui?» Continuò, aggiustandosi una ciocca bionda davanti
agli occhi. «E perché sei tutto sudato?!»
«Ho corso.» Dissi io, sorridendo e
togliendomi il cappuccio. I miei capelli neri erano madidi di sudore, e
appiccicati alla fronte. Me li scostai leggermente in modo tale da poter vedere
per bene gli occhi verdi di Alex.
«Hai corso?» Domandò lui.
«Già.» Sorrisi inebetito io, in
risposta.
Lo sguardo di Alex era pieno di
interrogativi. «Ok… Che fine hai fatto?!» Domandò poi.
«Sono stato a casa.» Risposi,
guardandolo incamminarsi e seguendolo. «Febbre.» Spiegai subito dopo,
rendendomi conto della stupidità della mia risposta.
Il silenzio che si venne a creare subito
dopo quasi mi destabilizzò. Il primo che riprese la parola fu Alex. «Senti…»
«No, non dire niente, ti prego.» Lo
interruppi io, cercando di fare mente locale tra i concetti che avevo passato
una settimana intera ad analizzare minuziosamente.
«O-Okay.»
«Altrimenti perdo il filo del discorso e
sono cazzi.» Gli spiegai, vedendo la sua espressione quasi addolorata. «Questi
sette giorni che ho passato a casa,» cominciai, «mi sono serviti anche per
capire bene alcune cose, come ad esempio quanto successo venerdì a scuola.»
«A proposito…» Fece per dire lui, prima
di notare la mia espressione. «Ah già, scusa… Continua.»
«Bene.» Inspirai profondamente. «Ho
potuto pensare molto anche a quanto è successo – o forse è meglio dire a quanto
non è successo – venerdì. Il punto è, Al, che…»
«Non farci tanti giri attorno, Jay. Non
ce n’è bisogno. Siamo stati guidati da un momento.» Mi interruppe di nuovo. «Da
un momento di pura idiozia e, se vogliamo dirla tutta, di debolezza. Non mi
sono fatto alcun film su noi due perché so benissimo quello che pensi e,
soprattutto, quali sono i tuoi gusti, in quell’ambito. Non mi sono creato
nessun castello in aria, tranquillo, perché tu per me sei un caro amico che ho
imparato a conoscere in questi ultimi mesi, e non credo che potrai mai essere
qualcosa di più.»
Sentii le parole morirmi sulle labbra, e
qualcosa, dentro di me, spezzarsi lentamente.
«Era quello che stavi per dire, giusto?»
Disse Alex, notando la mia espressione contrita.
“Certo che no, idiota! Sono qui per
dirti che tu sei stato in grado di farmi mettere in discussione ogni singola
parte di me; che ogni volta che penso a chi, tra tutte le persone che conosco,
mi abbia realmente cambiato la vita, il primo nome che mi viene in mente è il
tuo; che se dovessi tornare indietro a venerdì scorso manderei a fanculo quella
dannata campanella e mi allungherei quel minimo in più per poterti finalmente
sfiorare le labbra. Sono qui per dirti che mi sto innamorando di te.”
«Certo.» Dissi, fingendo un sorriso e
cercando di trattenermi dall’urlare per il dolore allo stomaco che quelle
parole mi avevano provocato.
Non capisco perché la gente si ostini a
parlare del cuore quando si tratta di amore: accade sempre tutto nello stomaco.
«Bene.» Sorrise Alex, posandomi una mano
sulla spalla e levandola subito, notando quanto fossi sudato. «Ora devo andare,
ho una sorta di appuntamento con Joshua. Ci sentiamo Jay!»
Non feci in tempo a metabolizzare il
nome di Joshua, che il biondo si era allontanato, lasciandomi da solo.
«Ci sentiamo dopo!» Urlai io alle sue
spalle, prima di riprendere la corsa verso casa.
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Capitolo 19 *** Reality's a B**** ***
ead
Capitolo 18 – “Reality’s
a B****”
Holaaaaa! :)
Prima di iniziare a leggere questo nuovo capitolo dovete promettermi
una cosa: non odiatemi... Vi prometto che fa tutto parte di un piano
più grande.
Come al solito, inoltre, vi volevo ricordare di passare per la mia pagina facebook (cliccando qui), e di lasciare - sempre se vi va, si intende - una recensione.
Grazie a tutti e buona lettura :3
Quella volta non avevo alcuna piscina in
cui tuffarmi, nessun modo per togliermi dalla testa le parole di Alex, che
continuavano a ripetersi all’infinito, rimbalzando da una parete all’altra
della mia mente. Non potevo neanche rifugiarmi nel mio spazio personale, in
quel luogo dove solo io potevo entrare perché, ogni volta che provavo a farlo,
tutto quello che ci trovavo erano i volti di Alex e Joshua, occupati a fissarmi
intensamente.
La casa, per di più, era troppo
silenziosa dato che i miei genitori erano andati, alla fine, a fare quel
fatidico giro in centro, giro che io mi ero rifiutato di andare a fare: non
sarei stato di alcuna compagnia, avrei solo dovuto trattenermi dall’aggredire i
miei genitori e tutto ciò che mi avrebbe circondato. La rabbia, infatti, dopo i
primi momenti di completo stupore e negazione, aveva preso il sopravvento. Ero
pieno di collera verso Kyle, che mi aveva spinto a fare un passo che
evidentemente non avrei mai dovuto fare; verso Joshua, che mi aveva rubato
anche quel momento, quell’occasione; nei confronti dei miei genitori, per non
avermi cresciuto come un idiota senza cervello a cui le cose scivolavano
addosso; ero adirato con Alex, per così tanti motivi che avevo iniziato a
dimenticare la causa principale; ma, più di tutto, ero arrabbiato con me stesso
per aver anche solo pensato di poter essere qualcuno di diverso, di poter
meritare qualcuno come Alex.
Eppure il dolore allo stomaco era lì.
Eppure anche solo pensare a quegli occhi
versi e a quei capelli biondi rendeva la rabbia più sopportabile.
Era la ventesima volta, più o meno, che
avevo iniziato a fare avanti e indietro per il salotto di casa, quando decisi
di sedermi per l’ennesima volta sulla poltrona accanto al camino spento. Di
fronte ai miei occhi solo il ricordo del nome di Joshua uscire dalle labbra di
Alex.
Quando il rumore del campanello della
porta d’ingresso mi distolse dai miei pensieri, senza nemmeno rendermene conto,
mi alzai ed andai ad aprire.
«Chi è?» Domandai, avvicinandomi alla
porta.
«Jared apri, sono io.» Rispose la voce
dall’altro lato.
«Io chi?» Replicai, non avendo realmente
riconosciuto il timbro di voce.
«Sono Alex, puoi aprire per favore?»
D’improvviso tutta la mia rabbia, tutta
la delusione che aveva appesantito la mia giornata, era scomparsa, come
volatilizzata.
Non appena aprii la porta trovai
conforto nel suo sorriso imbarazzato.
«Ho trovato il tuo indirizzo su
Facebook, spero che non sia un problema?»
«Cosa? Che tu abbia trovato il mio
indirizzo su internet oppure che ti sei presentato senza preavviso?» Replicai
scherzoso, divertendomi alla vista del suo imbarazzo.
«Ho capito,» disse, rimettendosi
nell’orecchio desto l’auricolare dell’iPod, «me ne vado. Ci vediamo domani.»
Cercai di trattenere una risata, ma non
ci riuscii. «Dai che stavo scherzando! Entra; mi fa solo piacere che tu mi sia
venuto a trovare.» Vidi il volto del canadese rilassarsi nuovamente e sentii
qualcosa sciogliersi dentro di me.
«Perché sei venuto, comunque?» Gli
chiesi, una volta chiusa la porta alle sue spalle.
«Sono appena tornato dall’appuntamento
con Joshua…» Disse, provocando in me una serie infinita di fitte di dolore.
Riuscii quasi a sentire il peso delle sue parole cadermi addosso con tutto il
loro peso. «E’ andato bene, se devo essere sincero.» Continuò lui, con lo
sguardo perso nel vuoto di fronte a lui.
«Vuoi qualcosa da bene?» Gli domandai,
cercando di non concentrarmi sulle sue parole.
«No grazie…» Rispose, sfilandosi la
giacca e rimanendo con una maglia verde a mezze maniche. «Posso accomodarmi?»
«Certo.» Gli dissi io, cercando qualche
altra scusa per non affrontare l’argomento “Joshua”.
«L’appuntamento è andato bene, come ti
stavo dicendo.» Riprese lui, dopo un breve periodo di silenzio imbarazzante
passato ad evitarci con gli occhi.
«Bene…» Riuscii a dire, nascondendo la
disperazione.
«C’è solo una cosa che mi ha turbato, se
così si piò dire.»
«Ah sì?» Domandai, sedendomi sul
bracciolo della poltrona di fronte a lui, mosso da una scintilla di speranza.
«Sì.» Rispose, torturandosi le mani.
«E cosa?»
«Non riuscivo a smettere di pensare a
te.» Disse, alzando lo sguardo ed inchiodandolo al, mio. «Neanche per un
minuto.
Sentii i palmi delle mani iniziare a
sudarmi e il cuore iniziare a battere molto più velocemente. Improvvisamente la
salivazione mi si era interrotta ed era diventato impossibile proferire parola.
«Non sono riuscito a pensare ad altro se
non a te, e al nostro incontro prima che io andassi da Joshua.» Andò avanti
lui, continuando a fissarmi negli occhi. «Continuavo a pensare a quello che
volevi dirmi, e al fatto che io ti abbia interrotto. Sembrava volessi dirmi
qualcosa di molto più importante, e mi sento stupido per non averti fatto
parlare.»
Mi ritrovai a ringraziare me stesso per
aver deciso di sedermi: mi sentivo le ginocchia così deboli che se fossi stato
ancora in piedi sarei crollato sul pavimento come un sacco di patate.
«Allora?» Mi domandò il biondo.
«C-cosa?» Replicai, facendo fatica a
parlare per la bocca secca.
«Dovevi dirmi qualcosa di importante
oppure era tutto frutto della mia immaginazione?»
Dovevo
dirti che avrei voluto baciarti; dovevo dirti che in questi pochi mesi che ci
conosciamo hai stravolto la mia vita come poche persone hanno mai fatto; dovevo
dirti che hai distrutto ogni mia certezza, ricostruendole in un modo completamente
diverso, in un modo che mi piace molto di più del precedente. Dovevo dirti che
quello che provo per te, ormai, è molto più che semplice amicizia.
Avvertii la mia mente elaborare questa
risposta, esaminarla sotto mille punti di vista e, prima che potessi anche solo
realizzare quello che stava succedendo, sentii la mia voce dare vita a quei
pensieri, e vidi gli occhi di Alex guardarmi con stupore, ingrandirsi a tal
punto che fui tentato dal tuffarmi in quel torbido mare verde, anche se questo
avrebbe significato annegare.
Quello che accadde dopo non mi fu ben
chiaro; vidi solo Alex alzarsi dalla poltrona di fronte alla mia, venirmi
incontro senza mai staccarmi gli occhi di dosso, prendere il mio volto tra le
mani e poggiare le sue labbra sulle mie.
Non capii più nulla; fui travolto dal
momento e, come un burattino mosso dal proprio burattinaio, mi alzai dal
bracciolo della poltrona e portai le mie mani sul corpo di Alex, che si era
staccato leggermente dalle mie labbra per sorridere. Le mie mani iniziarono a
giocare con i suoi capelli, con le sue spalle e con l’orlo della sua maglietta,
mentre con le labbra cercavo di assaporarlo. Non aveva un sapore definito,
sapeva solo di Alex, e questo bastava a farmi andare in tilt il cervello.
«Sfntati.» Le parole del ragazzo tra le
mie braccia erano ovattate dalle mie labbra, ma in quel momento non mi
interessava. Tutto ciò che aveva importanza, lì, in quell’attimo, eravamo noi
due.
Eppure Alex continuava a ripetere quella
parola, di cui non capivo il senso. «Sfntati.»
Fu solo quando mi allontanai un secondo
dalle sue labbra, e lo guardai negli occhi, che mi accorsi che qualcosa non
quadrava.
«Svegliati.»
Le labbra che si muovevano erano quelle
di Alex, eppure la voce non era la sua.
«Jared, tesoro, svegliati.»
«Cosa?»
«Svegliati.»
Di fronte ai miei occhi non c’era più il
volto di Alex, né tantomeno avevo le sue labbra premute sulle mie. Mia madre mi
stava scuotendo delicatamente, cercando di farmi svegliare.
«E’ pronta la cena.»
«Che ore sono?» Domandai, sistemandomi
sulla poltrona e stiracchiandomi leggermente. Le immagini del sogno ancora
impresse nella mia mente.
«Sono le sette e mezzo. Io e tuo padre
siamo tornati un paio d’ore fa e ti abbiamo trovato addormentato sulla
poltrona, quindi abbiamo pensato di lasciarti dormire.»
Le parole di mia madre sembravano un
ronzio lontano. Potevo avvertire i fotogrammi del sogno abbandonare
gradualmente la mia coscienza.
«Comunque la cena è
pronta… Perché non vai a sciacquarti la faccia e poi ci raggiungi? Abbiamo
preparato la lasagna con la pasta che ci ha spedito tua zia dall’Italia.»
«Ok, arrivo
subito.»
Una volta arrivato
in bagno, ed essermi sciacquato la faccia, cercai di ripescare stralci del
sogno drasticamente troncato e, quando non ci riuscii, mi avviai sconsolato in
sala d pranzo dove la mia famiglia mi stava aspettando.
La lasagna era
squisita.
Il giorno
successivo la sveglia suonò puntuale, destandomi da un sonno – quella volta
- privo di sogni. Come ogni mattina mi
lavai e mi preparai per andare a scuola, e,
sulla strada verso la fermata del bus, mi fermai davanti una vetrina di
un negozio per aggiustarmi i capelli mossi dal vento.
Una volta arrivato
alla banchina dell’autobus iniziai a sentire lo stomaco contorcersi per il
nervosismo. Sarebbe stata la prima volta in cui io ed Alex ci saremmo
incontrati, se non si considera il sogno, di cui potevo ricordare solo piccoli
particolari. Sufficienti a rendere elettrica l’atmosfera con il canadese, una
volta incontratici sul bus diretto verso la Walworth Academy.
«Hey!» La voce
solare di Alex mi raggiunse, facendomi venire un’altra fitta allo stomaco. I
suoi occhi verdi sembravano assorbire tutta la luce solare, per poi rifletterla
mille volte più forte.
Immagini del sogno
della notte precedente mi affollarono la mente, e quasi non caddi per terra
mentre mi dirigevo verso dove era seduto.
«Ciao.» Riuscii a
dire, mentre mi accomodavo accanto a lui.
«Come va?» Mi
domandò lui, girandosi verso di me e posando il cellulare nella tasca della
giacca.
«Tutto bene,
grazie.» Risposi. «A te?»
«Benissimo, a dir
la verità.»
«Ah sì? E come
mai?» Chiesi, anche se in cuor mio già conoscevo la risposta.
«Ti avevo detto,
vero, che avevo un appuntamento con Josh?»
Josh?
Pensai, stringendo
le mani a pugno.
«Credo di sì,
perché?» Cercai di sembrare il più disinvolto possibile, ma quello che uscii
dalla mia bocca fu un verso strozzato.
«Be’, è andata
meglio del previsto!» Riuscii a vedere la felicità illuminargli il volto e
quasi mi sentii in colpa. «Siamo andati ad st. James’ Park e abbiamo camminato,
e parlato, moltissimo.» Continuò. «Mi ha parlato della sua vita prima della
scuola, e dei suoi amici… So quello che pensi,» aggiunse, vedendo la mia
espressione indurirsi, «ma sembra davvero essere cambiato… Credo che in tutto
questo lui sia stato una vittima, così come me e te.»
«Non sono la
vittima di nessuno.» Dissi queste parole senza rendermene conto, ma in fondo ne
fui felice.
«Sì, lo so… Non
intendevo vittima di qualcuno, ma vittima degli eventi.» Rispose lui. «E con
vittima non intendo per forza qualcosa di negativo… Intendo semplicemente che
gli eventi hanno operato su di noi, plasmandoci e cambiandoci, che ci piaccia o
meno.»
In quel momento il
bus si fermò di fronte scuola e, quasi sollevato, interruppi quella
conversazione.
«Cos’hai fatto alla
fine dopo la corsetta, ieri?» Mi chiese mentre ci avviammo verso gli
armadietti.
«Mmmh, niente di
che… Appena tornato a casa mi sono addormentato, e mi sono svegliato
direttamente ad ora di cena.»
«Ancora debole?»
«Mmmmh?» Domandai,
non capendo bene a cosa si riferisse.
«Intendo per la
terribile influenza che hai avuto.» Rispose, aprendo il proprio armadietto e
prendendo i libri di inglese e biologia.
«Ah sì, già.»
«Quella che ti sei
inventato per evitare di discutere su quanto successo in cortile.» Continuò il
biondo, appoggiandosi all’armadietto affianco al mio.
«Non…»
«Faresti di tutto
per evitare di deludere o ferire chi ti sta intorno.» Sorrise. «Ormai ti
conosco come le mie tasche, Maycon.» E, detto questo, Alex si staccò
dall’armadietto e se ne andò.
Se
solo fosse vero, pensai.
L’ora di biologia
passò lenta, con mr. Boujdi che sgridava chiunque pensasse anche solo di
starnutire, e con Alex che continuava, di nascosto, a parlarmi del suo
appuntamento con “Josh”.
«Abbiamo mangiato
in un semplicissimo fish & chips,» Disse, mentre il professore era intento
a prendere delle diapositive dalla borsa, «e poi mi ha portato a vedere la casa
di Sherlock Holmes.»
Smisi di prestargli
attenzione quando arrivò a parlare delle parole dolci che Joshua gli aveva
riservato a fine appuntamento. Sentii il mio stomaco contrarsi e dovetti
frenare i conati di vomito.
Una volta suonata
la campanella mi staccai da Alex con la scusa di dover andare in bagno, quando
in realtà l’unica cosa che volevo fare era prendermi una pausa dal diabete che
i suoi racconti mi stavano provocando. Mi diressi quindi verso i bagni dei
maschi del terzo piano, e, una volta entrato, mi trovai di fronte a Joshua, che
stava fumando.
«Chi si rivede!»
Esclamò lui, buttando il mozzicone di sigaretta nel gabinetto e tirando poi lo
sciacquone.
«Non sono in vena.»
Dissi secco, andando diretto ai lavandini ed iniziando a far scorrere l’acqua.
«Per cosa? Per una
chiacchiera con il tuo amico di vecchia data?» Notai il sarcasmo nella sua
voce, e mi dovetti trattenere ai bordi del lavandino per evitare di girarmi e
dargli un pugno in faccia.
Senza degnarlo di
una risposta misi le mani sotto l’acqua corrente e lasciai che mi colasse sui
polsi, per cercare di rallentare il battito.
«Il minimo che
potresti fare è chiedere scusa.» Disse poi l’altro, spostandosi accanto a me e
guardandomi divertito.
Sentii il sangue
salirmi al cervello, e, come ogni volta che perdo il controllo, parlai prima di
ragionare. «Basta. Ti prego, smettila con queste sceneggiate da povera vittima,
che tanto lo sappiamo benissimo entrambi che tu sei tutto fuorché questo.» Dissi,
mentre sorridevo amaramente ricordando le parole che Alex aveva detto sul bus.
«E poi perché mai dovrei chiederti scusa?!» Domandai, alzando leggermente il
tono di voce e guardandolo finalmente dritto negli occhi.
«Magari per il modo
in cui, dopo esserti presentato di punto in bianco a casa mia, hai deciso di
trattarmi, mancandomi di rispetto?»
«Ti ho detto di
smetterla.» Risposi freddo, cercando di trasmettergli tutto il rancore che
provavo nei suoi confronti. «Smettila con questa farsa, perché è tutto inutile.
Ti conosco da così tanto tempo che ho imparato, mio malgrado, a leggerti;
quindi smettila.» Sentii il battito accelerarmi e dovetti nuovamente
trattenermi dal prenderlo a pugni. «Non ho intenzione di chiederti scusa, né
per essermi presentato a casa tua – per controllare come stessi, giusto per
chiarirci -, né per averti trattato come credo sia giusto.»
«Ti rendi conto,
vero, che quello che stai dicendo non ha né capo né coda?» Domandò sarcastico
Joshua, arretrando di un passo.
«Sta’ zitto, ti prego.
E’ meglio per tutti.» Replicai. «Non ho intenzione di starti a sentire neanche
un minuto di più, così come non ho intenzione di lasciarti andare in giro
facendoti bello, agli occhi di tutta la scuola, raccontando storie campate in
aria.»
Vidi i suoi occhi
marroni illuminarsi divertiti. «Agli occhi di Alex, vorrai dire.»
Esitai per un
secondo, prima di chiedere: «Che intendi?»
«Il biondino ti ha
raccontato, vero, del nostro appuntamento?» Domandò, con un’espressione
divertita che gli distorceva il viso. «Di come l’ho ringraziato per avermi
aperto gli occhi? Di come gli ho tenuto la mano per dirgli quanto gli fossi
riconoscente… Di come mi sono avvicinato per baciarlo? Strano che si sia
spostato quando l’ho fatto, però… Pensavo che quelli come voi fossero più
facili da fa…»
«Sta’ zitto!»
Urlai, sbattendolo contro il muro con l’avambraccio premuto contro la sua gola.
«Sei un bastardo.»
Le sue labbra si
piegarono in un sorrisetto divertito. «A quanto pare ad Al piacciono i bastardi, non è colpa mia.»
Alzai il braccio e
caricai un pugno contro il suo zigomo, che fece un rumore sordo quando lo
colpii.
Avevo il respiro
affannato, e le orecchie ovattate dal battito del mio cuore, impazzito dalla
rabbia. Senza pensarci due volte lasciai andare Joshua e, una volta arretrato
di un paio di passi, mi aggiustai la maglia.
«Se pensi anche
solo di torcere un capello ad Alex, non basteranno venti dei tuoi “amichetti” a difenderti.» Detto questo
uscii dal bagno e, prima di dirigermi verso l’aula di inglese, feci due volte
il giro del cortile.
La signora Dorpall
non ne fu molto contenta.
N.d.A.
Aaallora, come vi avevo scritto all'inizio, non odiatemi, vi prego ç.ç
La scelta del sogno non
è stata dettata semplicemente da un mio sadismo (che, devo
ammettere, è alquanto presente u.u), ma anche dal mio intento di
far capire quanto la conquista, da parte di Jared della propria
identità, debba essere ottenuta da quest'ultimo affrontando in
primis se stesso e le proprie paure: e quale modo migliore per fare
ciò se non con la manifestazione del suo inconscio? ^^
Nonostante tutto spero che il capitolo vi sia piaciuto (se così
dovesse essere, che ne dite di lasciare una bella recensione? :3)
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Capitolo 20 *** Sciences ***
gs
Capitolo 19 - "Sciences"
Prima di tutto mi voglio
scusare con tutti per questa lunghissima assenza, ma lo stress mi ha
fatto venire il blocco dello scrittore, e quindi ogni volta che cercavo
di scrivere qualcosa di nuovo finivo con cestinarlo immediatamente.
Ma adesso siamo qui! Con quest'ultimo capitolo prima della vacanza
estiva (credo), che vi lascerà con qualcosa di positivo a cui
pensare in questo mese di estate :)
Bene, detto ciò non mi resta che ricordarvi la mia pagina facebook (che trovate qui) e di recensire o commentare con qualsiasi cosa vi venga in mente!
Buona lettura e, se non dovessi pubblicare altri capitoli, buone vacanze!
Quando Joshua si presentò nella classe di
inglese, con un leggero ematoma sullo zigomo sinistro, la signora
Dorpall gli chiese dove si fosse cacciato, facendo un excursus su
quanto la sua classe fosse una banda di babbuini che non avrebbe potuto
superare gli esami di inglese neanche se fosse stata aiutata da William
Wordsworth in persona.
Il gruppetto di amici di Joshua, d’altro canto, non sembrò
minimamente prestare attenzione alle velate offese che uscivano dalla
bocca della professoressa, essendo troppo concentrati a lanciare
occhiate inquisitorie verso l’infortunato. Alex, invece, non
appena ebbe visto lo stato in cui si trovava la sua nuova fiamma,
cercò di chiedergli, con gli occhi, cosa fosse successo.
«Cosa credi sia successo?» Mi domandò il biondo, a
metà della lezione, mentre la signora Dorpall era intenta a
scrivere sulla lavagna frasi all’apparenza prive di senso.
«Mmh?» Risposi - girandomi verso di lui, seduto accanto a
me – scosso dallo stato di torpore in cui mi ritrovavo.
«A Joshua.» Spiegò Alex, lanciando un’occhiata al ragazzo seduto tre file dietro di noi.
«Ah… Non ne ho idea.» Mentii, sentendo lo stomaco
contorcersi per la rabbia e per il senso di colpa, prima di riprendere
a scrivere frasi senza senso sul block notes aperto di fronte a me.
Sentii lo sguardo di Alex fisso sulla mia nuca, china sul foglio
bianco, e cercai di non pensare alla soddisfazione che l scontro con
Joshua mi aveva provocato.
«Spero solo che non sia stato pestato da qualche bulletto del
cazzo.» Sospirò alla fine il mio compagno di banco.
«Già…» Dissi, concludendo lì lo scambio di battute.
Con il proseguire di dicembre l’atmosfera
all’interno della Walworth Academy mutò completamente. Gli
esami di fine semestre si avvicinavano, e, mentre i professori
passavano le lezioni ricordandoci costantemente questo piccolo
dettaglio – come se lo avessimo mai potuto dimenticare –,
noi studenti cercavamo di non farci prendere dall’ansia ogni
volta che lo sguardo ci cadeva su un calendario oppure quando ci
rendevamo conto dell’avanzare incessante del tempo.
Il lato positivo di tutto questo stato d’ansia, per quanto
riguardava la mia situazione, era la possibilità di studiare con
Alex, così da avere una scusa plausibile per passare la maggior
parte delle mie giornate con lui. Il livello d’ansia del canadese
era addirittura più alto del mio, e questo lo portava ad avere
degli atteggiamenti tanto teneri quanto nevrotici, e, per di
più, non parlò mai più dei suoi incontri con
Joshua. Da una parte gliene fui grato (almeno non dovevo più
provare quella strana sensazione di rabbia attanagliarmi lo stomaco),
dall’altra, però, iniziai ad incupirmi, sperando di non
aver rovinato quello scambio di confidenze su cui avevo imparato a fare
affidamento.
Joshua, dal canto suo, non si avvicinò mai a me, se non per
comunicarmi notizie riguardanti la squadra di palla a nuoto. Il segno
che il mio pugno aveva lasciato sul suo zigomo, dopo essere diventato
di colore giallo, stava lentamente iniziando a svanire, e quasi dovetti
trattenermi dal fargliene comparire uno nuovo quando lo vidi fuori
scuola con Alex.
«Posso capire perché sei così agitato?» Domandai al biondo durante una delle nostre sedute di studio.
«E’ un esame importante!» Esclamò indignato
lui, reagendo come se gli avessi offeso un membro della famiglia.
Dovetti trattenere una leggera risata divertita. «Nessuno lo
mette in dubbio,» Iniziai, «è solo che a te il voto
non è che serva realmente… Insomma, tra poco più
di due mesi dovrai tornare a Vancouver.» E al pronunciare quelle
parole sentii l’ormai famigliare dolore allo stomaco prendere il
sopravvento.
«Ok, questo è vero, ma dato che a Vancouver seguo le
stesse materie mi conviene studiare, se non voglio passare mesi interi
a cercare di recuperare.» Rispose, giocherellando con la matita.
«E poi non studio solo per avere un bel voto, studio soprattutto
per me stesso.»
«Ok, ok.» Lo interruppi, questa volta non riuscendo a
trattenere le risate. «Scusa se ho osato dire qualcosa di
così osceno.»
«Idiota.» Asserì cupo il biondo, sommergendo la testa tra i libri, aperti sul tavolo da pranzo di casa mia.
«Suvvia!» Esclamai, dandogli un colpo sulla spalla. «Su con la vita, si scherza!»
Alex sollevò solo per un attimo gli occhi dal libro di biologia,
evidentemente intenzionato a tenermi il broncio, ma, una volta
incontrato il mio sguardo, un sorriso divertito gli attraversò
il volto, rendendolo talmente bello che dovetti nascondere il mio
rossore in ulteriori risate.
«Più che altro come fai tu a non essere per niente
agitato?» Mi chiese, prendendo un mini pretzel dal pacco di
salatini al centro del tavolo.
«Cerco solo di pensare al fatto che sto mettendo tutto me stesso
nello studio e nella scuola, dando il massimo.» Risposi,
alzandomi dal tavolo per andare a prendere la bottiglia di coca cola
dal frigo.
«Sì, ma, da quello che ho capito, questo dovrebbe essere
un esame fondamentale per la carriera che vorresti intraprendere, o
sbaglio?» La voce di Alex mi raggiunse in cucina.
«Certo che è fondamentale: se non supero questo esame con
una A posso dire addio alla mia carriera medica.» Replicai,
tornando a sedermi con la bottiglia di cola in mano.
«E nell’evenienza in cui qualcosa non dovesse seguire i tuoi piani?»
«Ci penserò una volta di fronte quella
possibilità.» Risposi, versando la bibita nei bicchieri di
entrambi.
«Quindi non hai ancora pensato ad un piano B?»
Continuò a domandarmi il biondo, sorseggiando dal proprio
bicchiere.
«Al, mi stai facendo salire l’ansia.» Risposi secco,
troncando lì la serie di domande. Seguirono momenti di
imbarazzante silenzio, intervallati solo dal rumore della penna di Alex
che graffiava la carta del suo pukka pad. «Avevo un piano
B.» Ripresi poco dopo, attanagliato dal senso di colpa.
«Ovvero?» Mi chiese lui, senza sollevare lo sguardo dal foglio. «Sempre se posso chiedere.»
«Niente… Non ha più importanza, tanto.»
«E perché mai?»
«Perché ogni piano che mi ero costruito è andato
distrutto quando i miei hanno deciso di volersi trasferire a
Parigi.» Dissi, di getto, dando libero sfogo alla mia
frustrazione, che in quei giorni passati avevo cercato di reprimere.
Vidi Alex posare la pena ed alzare lo sguardo per dirigere i suoi occhi
verso i miei. Due smeraldi in cui avevo imparato a trovare conforto.
«So che stai male per questo fatto del trasferimento, e lo
capisco benissimo.» Disse. «Ma non devi permettere a questo
cambiamento di definire quello che ne sarà del tuo futuro,
né prossimo né remoto.
«Non usare il trasferimento come scusa per non vivere la vita che
ti scorre davanti agli occhi ogni giorno, sfiorandoti da molto vicino.
Non nasconderti dietro questo cambio di città per paura di
perdere qualcosa, fa tutto parte del ciclo della vita.»
Quelle parole di Alex accesero, dentro di me, una luce di
consapevolezza che poche volte nella vita avevo provato. Il motivo per
cui avevo smesso di impegnarmi, come facevo un tempo, in
attività che prima ritenevo importanti era solo paura di dover,
prima o poi, perdere tutto.
Sarei stato costretto ad abbandonare la mia casa, la mia scuola, i miei
piani, i miei amici, la mia storia, la mia infanzia e tutto ciò
che fino a quel momento mi aveva reso Jared Maycon.
Fu in quel momento, allora, che, forse per trovare un ponte con il
mondo reale e con l’attualità, allungai la mano sul tavolo
e la poggiai su quella di Alex. Il ragazzo non si scostò, ma
sorrise come solo lui sapeva fare, con gli occhi e con l’anima.
Senza dire un’altra parola, e con la mano sinistra ancora su
quella del canadese, ripresi a sottolineare le parole chiave del libro
di biologia.
Il giorno dell’esame di biologia era arrivato e quella
notte ero andato a vanti a furia di bibite energetiche e caffè.
Dall’ultima conversazione avuta con Alex avevo iniziato a
mettermi con la testa e col pensiero sul libro utilizzato dal professor
Boujdi. Il mal di testa era al limite della sopportazione ma, in quel
momento, la determinazione di superare quel test coi massimi voti
batteva qualsiasi altra sensazione.
Dopo aver preso lo zaino ed aver fatto una colazione povera e veloce
uscii di casa, salutando i miei; presi il bus verso scuola e, una volta
arrivato, mi precipitai nell’aula in cui si sarebbe tenuto il
test. Non c’era ancora nessuno, dato l’anticipo di un
quarto d’ora con cui mi ero presentato, se non due miei compagni
di corso con cui non avevo mai parlato; così mi sistemai ad un
banco in terza fila contro il muro, così da poter stare
tranquillo ed indisturbato.
Allo scoccare delle 8.15, e, in contemporanea al solito triplo
“beep” delle campanelle, il professor Boujdi entrò
in aula, seguito da quattro compagni di corso, Alex e Joshua,
evidentemente rimasti fuori a ripetere fino all’ultimo secondo.
Le domande dell’esame erano relativamente facili, per chi aveva
studiato, com’è giusto che sia, ed ero riuscito, quindi, a
rispondere a tutti i quesiti tranne uno, che fui costretto a lasciare
in bianco. Nonostante ciò la mia sensazione era decisamente
negativa, soprattutto quando, una volta uscito dall’aula, mi
accorsi di aver finito con tredici minuti di anticipo.
Ero stato, infatti, il primo della classe ad aver posato il fascicolo
sulla scrivania del professor Boujdi; solo che l’ansia del
momento non mi aveva nemmeno fatto controllare l’orario
sull’orologio affisso alla parete.
Decisi, quindi, di sedermi a terra con la schiena poggiata al muro del corridoio, mentre aspettavo che Alex finisse.
Il primo ad uscire dopo di me, però, non fu il canadese,
bensì Joshua che, con un atteggiamento strafottente si
iniziò ad avviare verso il secondo piano.
«Com’è andata?» Domandai, prima che potesse
girare l’angolo del corridoio. «Spero che quel pugno non
abbia danneggiato quelle poche funzioni cerebrali che ti erano
rimaste.»
Joshua si girò, lentamente, e prese ad incamminarsi verso di me,
al che mi alzai. «Cosa, questo?» Domandò,
indicandosi l’occhio infortunato. «Oh no, non è
niente.»
«Ah menomale,» Replicai, «avevo iniziato a
preoccuparmi che fosse qualcosa di serio.» Senza nemmeno
realizzarlo avevo iniziato a scaricare la tensione, accumulata negli
ultimi giorni, addosso a Joshua, e così decisi di continuare.
«E’ solo il morso di un insetto.»
«Ah, quindi non ti darebbe alcun fastidio se si
replicasse?» Domandai, provocatorio, cercando di trattenere un
sorriso divertito ed avvicinandomi al ragazzo, che rimase impassibile.
«Tu provaci, Maycon.» La sua voce tremava di rabbia.
«Perché, altrimenti che mi fai?» Il tono della mia
voce aveva iniziato ad alzarsi. «Vai a chiamare i tuoi amichetti
e facciamo una replica di quanto successo negli spogliatoi? Oppure vuoi
semplicemente riservarmi lo stesso trattamento che Daniel ha riservato
ad Alex?»
«Va’ a farti fottere,» rispose Joshua, «magari
dal tuo amichetto canadese, che scommetto ti piaccia tanto,
frocio.»
Le orecchie mi iniziarono a fischiare, e stavo per saltargli al collo,
quando mi accorsi che la porta dell’aula si era appena chiusa e
che sulla soglia si trovava Alex, immobile come una statua; il volto
impassibile.
Joshua non si era accorto della presenza del biondo, forse
perché attento ad ogni mio movimento, e fu per questo motivo
che, quando parlò di nuovo, provai quasi pietà nei suoi
confronti. «Puoi farci quello che vuoi con quella checca, tanto
stai pure tranquillo che non l’ho toccato neanche con un dito; mi
farei troppo schif…»
Le sue parole furono interrotte da Alex che, con la stessa
impassibilità di poco prima dipinta sul volto, fece una leggera
tosse per schiarirsi la voce.
«Posso solo sapere perché?» Domandò non
appena il volto di Joshua ebbe perso qualsiasi traccia di colore.
«Perché hai finto di essere interessato a me? E
soprattutto perché hai finto di essere gay?»
Dopo un primo momento di totale stupore, Joshua parve riprendersi
velocemente; e così rispose alla domanda di Alex con la sua
solita strafottenza. «Ma non è chiaro? L’ho
semplicemente fatto per il gusto di prenderti per il culo.» Le
mie orecchie avevano smesso di fischiare, e tutte le mie attenzioni
erano su Alex; tutti i miei sensi erano in allerta, rendendomi pronto a
soccorrerlo nel caso in cui avesse avuto bisogno di aiuto.
L’avrei sorretto se fosse caduto. «Tutto quello che ho
fatto l’ho fatto per vedere la tua faccia in questo
momento… Certo, avrei voluto continuare la messinscena per un
po’ più di tempo, ma non si può avere tutto dalla
vita, dico bene?»
Il volto di Alex si indurì leggermente, e vidi i suoi occhi
verdi incupirsi. «Questa è la storiella che ti racconti la
sera prima di andare a dormire? E’ questa la favola che ti
racconti per stare meglio con te stesso?» La domanda del biondo
tagliò l’aria in due. «Non m’interrompere. Sei
talmente stupido che non sai nemmeno cosa vuol dire “domanda
retorica”.
«E’ questa la favoletta che ti racconti? Che hai voluto
fare tutto questo per vedere la mia faccia? Sai, vero, che qua in mezzo
l’unico che crede ad una cosa del genere sei tu? Sei
l’unico che crede di aver ideato questa sorta di piano da solo e
che non sia, in realtà, tutta un’idea del tuo amichetto
Daniel. Sei talmente patetico che non saresti neanche in grado di
allacciarti da solo le scarpe, quindi vedo questa tua semi rivelazione
come un sollievo, a dir la verità.» Detto questo il biondo
si allontanò dalla porta e si avviò verso il cortile, dal
lato opposto al mio.
«Siete semplicemente due checche.» Gli urlò alle spalle Joshua, oramai senza alcun tipo di argomentazione.
«Ti conviene stare zitto,» dissi io, prendendo la borsa da
terra, «se non vuoi avere un altro morso di insetto.»
«Non so perché mi sono stupito del fatto che sei diventato
frocio,» rispose il ragazzo di fronte a me, girandosi nella mia
direzione, «in fondo da un fallito del tuo calibro non ci saremmo
potuti aspettare diversamente… Soprattutto con una famiglia come
quella che ti ritrovi.»
Sentii il sangue ribollirmi nelle vene, e mi avvicinai a Joshua con
l’obiettivo di fargli uscire il sangue dal naso, ma, per la
seconda volta in meno di cinque minuti, vidi le mie azioni bloccate da
Alex.
Il ragazzo, infatti, era tornato indietro e, una volta a stretto
contatto con Joshua, gli aveva sferrato un pugno dritto sul naso,
facendo grugnire dal dolore il ragazzo.
Sconvolto, guardai Alex che si massaggiava la mano sbucciata.
«Che c’è?» Mi domandò? «Pensavo
che ormai avessi capito che so difendermi da solo.»
Asserì, con una leggera smorfia di dolore che gli
attraversò il volto.
«Ok, ora che hai dimostrato il tuo valore, perché non
andiamo a far vedere quella mano in infermeria? Tanto non abbiamo altre
lezioni per oggi.»
Non appena il biondo ebbe raccolto le proprie cose, io mi abbassai a
raccogliere le mie cose e quelle di Joshua, che stava accovacciato al
suolo con le mani davanti al naso.
«Be bosha benshi bi bare?» Chiese lui, con la voce
trasfigurata dalle mani davanti alla bocca e dal sangue, che scorreva
copioso dall’appendice nasale.
«Porto le tue cose in infermeria.» Risposi, mettendomi il
suo zaino in spalla. «Ce la fai a camminare oppure hai bisogno di
appoggiarti?»
Dopo un attimo di silenzio in cui Joshua mi guardò in cagnesco,
lo vidi alzarsi ed avviarsi verso l’infermeria, appoggiandosi al
muro.
«Perché mai continui a trattarlo come se fosse il tuo
migliore amico?» Mi domandò Alex, una volta incamminatici
sulle orme di Joshua.
«Lo tratto semplicemente come tratterei qualsiasi altro essere
umano.» Risposi, semplicemente, prendendo lo zaino del canadese
dalle sue spalle.
Per tutto il resto del tragitto verso l’infermeria Alex rimase in silenzio, lanciandomi sguardi furtivi.
«Jared!» Esclamò la signora MacFlorence
una volta entrati nel locale riservato all’infermeria.
«Cosa è successo?! Ho appena fatto accomodare Joshua in un
lettino nel mio studio!» La sua voce era piena di ansia e
curiosità, proprio come mi ero aspettato.
«Signora MacFlorence, le racconterò tutto appena
possibile, ma potrebbe prima dare un’occhiata alla mano di
Alex?»
«Ma certo!» Rispose, allarmata. «Fammi vedere,
tesoro.» Disse al canadese, prima di prendergli delicatamente la
mano tra le sue. «Non è niente di che,» fu il suo
verdetto dopo una breve analisi delle falangi, «Ti consiglio
però di andare a stenderti là con un po’ di
ghiaccio sulla mano; tu iniziati a sistemare e io te lo porto
subito.»
«Grazie mille signora MacFlorence.» Disse Alex, genuinamente grato all’infermiera.
Una volta che Alex si fu seduto e che la signora MacFlorence gli ebbe
dato un pacco di ghiaccio, mi raggiunse vicino alla sua scrivania e mi
invitò a raccontarle tutto.
Iniziai a parlare di tutto quello che era successo, a partire dalla
prima volta che quell’anno avevo messo piede
nell’infermiera, ovvero dell’attacco da parte di Daniel ad
Alex, e, mano a mano che andavo avanti vedevo il volto della mia
interlocutrice farsi più cupo.
Una volta finito il mio racconto mi sentii più leggero, e dentro
di me ringraziai i poteri misteriosi dell’infermeria.
La signora MacFlorence, d’altro canto, mi rispose con un semplice
sorriso ed una mano sulla gamba, dicendo: «Sono fiera di te,
Jared, e di quello che hai fatto con questi due cretini. Sono anche
molto contenta per te, e per l’amico che hai trovato in quel
ragazzo lì.» Disse, indicando con la testa Alex, steso sul
lettino alle sue spalle. «Ora però è meglio che
torni da Joshua, a questo punto la radiografia dovrebbe essere pronta.
Spero che non sia nulla di grave.»
«Grazie mille.» Le dissi.
Quando la signora MacFlorence si fu alzata, la imitai e raggiunsi Alex,
steso e con la mano destra poggiata su un carrello di metallo.
«Allora, come va la mano?» Domandai.
«Va meglio, grazie… Ora l’unica cosa che fa male
è la mia autostima.» Disse, e fu in quel momento che notai
dai suoi occhi che aveva pianto.
«Alex…» Iniziai, ma mi fu difficile trovare le
parole per continuare, e questo fatto mi fece sentire un idiota di
dimensioni colossali: dopo tutto l’aiuto che lui mi aveva dato,
io non ero in grado neanche di trovare quattro parole di conforto.
«Mi dispiace.» Disse poi lui, tirandosi a sedere, con la mano immobile.
«Per cosa?» Chiesi, allibito.
«Me l’hai sempre detto, ma non ho voluto crederti…»
«Cosa? Che Joshua era un idiota e uno stronzo?» Chiesi.
Il biondo annuì.
«Non devi scusarti.» Alex abbassò lo sguardo.
«Ehi,» dissi, alzandogli il volto con una mano,
«davvero, non è colpa tua e non devi scusarti. La colpa
è tutta di quegli stronzi.»
«Vorrei solo poter rivivere questi ultimi mesi… Prenderei delle scelte completamente diverse.»
«Anche io…» Ammisi a me stesso, ripensando al quasi
bacio, avvenuto sulla panchina distanti solo pochi metri da dove
stavamo in quel momento; e a quando gli avevo quasi rivelato i miei
sentimenti. «Ma ehi, guardiamo il lato positivo: almeno gli hai
assestato un bel pugno come si deve.»
Alex si mise a ridere, con le ultime lacrime che gli solcarono le guance.
«Che dici? Gli avrai almeno deviato il setto nasale?»
«Spero davvero di sì. Anche se quello che avrei voluto fargli andava ben oltre il semplice pugno sul naso.»
«Ehi, non è che mi diventi come quei tizi che traggono piacere dalla violenza?» Chiesi, ironico.
Il silenzio cadde su di noi come una leggera coperta, e mi ritrovai a
pensare a cosa sarebbe successo se, quel giorno fuori casa di Alex,
avessi deciso di dirgli tutta la verità, nonostante il suo
appuntamento con Joshua.
La mia mano si appoggio su quella sana del canadese che, seduto affianco a me, mi sorrise timido.
«Sai,» iniziò a parlare lui, «Il motivo per
cui ho deciso di piantargli un pugno sul naso non è stato tanto
per il fatto che mi abbia trattato una merda,» continuò,
«ma soprattutto per quello che ha detto su di te e sulla tua
famiglia.»
«Non so se prenderlo come un complimento o meno.» Risposi,
sincero. «So solo che il motivo per cui io stavo per piantargli
un pugno sul naso era il modo in cui ti aveva trattato, e non quello
che aveva detto su di me e sulla mia famiglia.»
«Bene,» replicò, con le guance leggermente
arrossite, «ora che abbiamo appurato che siamo due idioti, cosa
vogliamo fare?»
«Io direi di iniziare da una cosa molto semplice.» Risposi, istintivamente.
«Che sarebbe?»
Cercai una risposta che potesse racchiudere in sé tutto quello
che avrei realmente voluto dire ad Alex, ma non me ne venne in mente
nessuna in grado di fargli capire quanto mi avesse cambiato, quanto mi
avesse portato a migliorare la mia vita.
Questa volta non c’erano interruzioni.
Questa volta c’eravamo solo io e lui. Noi.
Il mio volto si avvicinò al suo, e quando le mie labbra si
posarono sulle sue sentii un rumore provenire dai nostri piedi.
Il ghiaccio era caduto.
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