Dalla A alla Z

di Emapiro95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** A new student ***
Capitolo 3: *** B.C.S. ***
Capitolo 4: *** Candid ***
Capitolo 5: *** Daniel ***
Capitolo 6: *** Enhancement ***
Capitolo 7: *** Fading ***
Capitolo 8: *** Girlfriend ***
Capitolo 9: *** How To Fix Things ***
Capitolo 10: *** Innocence ***
Capitolo 11: *** Jack Skeleton ***
Capitolo 12: *** Keeping The Distance ***
Capitolo 13: *** Lean on me ***
Capitolo 14: *** Meetings ***
Capitolo 15: *** New bonds ***
Capitolo 16: *** Over you. ***
Capitolo 17: *** Perspective ***
Capitolo 18: *** Quasi-friends ***
Capitolo 19: *** Reality's a B**** ***
Capitolo 20: *** Sciences ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
Prologo

 

Mi svegliavo nello stesso letto, facevo colazione con le stesse persone, percorrevo la stessa strada, mi dirigevo alla stessa scuola, portavo gli stessi libri, frequentavo le stesse persone, avevo la stessa popolarità ed amavo la stessa persona.
Il mio nome è Jared Maycon, e questa è la mia storia, la storia di come tutta questa monotonia fu distrutta. Bastò il suo arrivo perché tutto cambiasse… Dalla “A” alla “Z”.

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Capitolo 2
*** A new student ***


1 - A new student

Capitolo 1- “A new student”

 

Il panorama si stendeva di fronte ai miei occhi, che vagavano inquieti su ogni singolo particolare della distesa di prato che si intravedeva dal finestrino dell'aereo. 
Odiavo l'aereo, mi rendeva nervoso... Era come se non riuscissi più a controllare tutto ciò che accadeva nella mia vita, troppo lontana dalla terra ferma. Solo che quella volta ero stato "costretto" a prenderlo. Non perché qualcuno me lo avesse imposto, ma perché da Vancouver a Londra di sicuro non potevo muovermi a nuoto o con un transatlantico.
 
Ero andato nella capitale canadese dei giovani per trovare i miei zii, che non vedevo da una vita ormai; avevo sfruttato l'occasione per svagarmi un po' prima dell'inizio della scuola, che avrebbe ripreso in pochi giorni, tre, per essere precisi.
Distolsi lo sguardo dalla distesa di verde, che era stata occultata da un manto di nuvole vaporose, e mi sistemai meglio sul sediolino, trovandolo sempre più scomodo di prima.
«Ehi, tutto bene?» Mi chiese il ragazzo seduto affianco a me, «sei pallidissimo.» continuò lui, non rendendosi conto, forse, di essere ancora più bianco di quanto non lo fossi io in quel momento.
«Sisi, grazie.» risposi gelido, finendo lì quel breve scambio di battute e sistemandomi la mascherina in modo tale da poter chiudere tranquillamente gli occhi.
 
Il viaggio continuò senza intoppi, dopo che mi fui addormentato.
 
Appena aprii gli occhi, quello che vidi furono due occhi che mi ricordarono subito il verde della distesa di prato che avevo osservato mentre eravamo in aria. La mascherina mi doveva essere scivolata perché ora c'era anche troppa luce.
 
«Scusa se ti ho svegliato, ma siamo appena atterrati all'aeroporto di Gatwick» Disse semplicemente lo stesso ragazzo che poco prima si era interessato al mio pallore.

«E’ un tuo passatempo rompere le scatole agli sconosciuti?» Esclamai io, dando libero sfogo al nervosismo che quel viaggio mi aveva provocato.

Senza rivolgermi neanche una parola, mi fissò dritto negli occhi e, sempre muto come un pesce, mi voltò le spalle e si diresse verso l’uscita dell'aereo, percorrendo silenziosamente lo stretto corridoio del velivolo.
Mi alzai, presi la borsa dal portabagagli posto sopra la mia fila di sediolini, e seguii la fila di passeggeri, dirigendomi fuori dall'odiato mezzo di trasporto.

L'abbraccio appiccicoso di mia madre all'uscita dell'aeroporto durò più del previsto, e questo sicuramente non mi mise a mio agio, dato che avevo paura che qualche mia conoscenza mi vedesse in quella condizione. Una paura alquanto stupida perché, parlando onestamente, chi, tra le persone che conoscevo, prendeva l'aereo così, tanto per?
Mia madre era di statura alta, capelli neri come i miei, e di bell'aspetto, soprattutto per avere quarantasei anni appena compiuti. Mio padre, invece, a stento mi ricordavo com'era fatto. Si era dovuto trasferire a Parigi per lavoro circa sei anni prima, e questo lo costringeva lontano da casa per tutto l’anno, eccezion fatta per alcune feste dell'anno.

Aveva gli occhi marroni e i capelli di un biondo scuro; l'unico gene che avevo ereditato da mio padre era la forma degli zigomi, duri e decisi, quasi austeri. Il colore dei miei occhi, invece, era di una tonalità particolare di blu, scuro e profondo, con sfumature di grigio scuro, che avevo, senza alcun dubbio, ereditato dal mio nonno paterno. 


L’interrogatorio, come mi aspettavo che sarebbe successo, fu estenuante e durò per tutto il tragitto verso casa, e anche una volta arrivati.

Mia madre, nonostante l’aspetto non lo desse a vedere, era estremamente protettiva e aveva un fare altrettanto materno. 
Non appena mi diede anche la più piccola pausa, sgattaiolai al piano di sopra, chiudendomi in camera mia, ed ebbi finalmente la possibilità buttarmi sul letto, che non vedevo da ben due giorni, date le continue nottate con gli amici che avevo rincontrato lì.
 
Non appena toccai il materasso sprofondai in un sonno che durò tutto il giorno seguente, e parte della notte successiva.

Il giorno seguente volò, tra acquisti dell’ultim’ora e saluti generali ai familiari che non vedevo da un mese o giù di lì.

Quando tornai a casa, dopo essere stato fuori con mia madre per gran parte del primo pomeriggio a comprare libri e quant’altro, iniziai ad agitarmi per l’inizio della scuola, come ogni dannato anno.

Ogni volta che la scuola riprendeva, mi sentivo sommerso da tutti gli impegni che iniziavano ad accavallarsi. Soprattutto perché non potevo permettermi neanche la più piccola distrazione, poiché bastava un soffio a far crollare la mia reputazione (che mi ero guadagnato grazie alla mia posizione di capitano della squadra di palla a nuoto) e la mia media, necessaria per gli studi che avevo intenzione di intraprendere dopo la fine della scuola liceale.

E così, con queste mille preoccupazioni che mi affollavano la testa, mi rimisi a letto, sperando che Orfeo non impiegasse molto a venire a farmi visita.

 

 

«Jared, tesoro, alzati, su!»

L’urlo di mia madre arrivò chiaro e tondo alle mie orecchie al primo colpo, poiché Orfeo, alla fine, non si era presentato lasciandomi libero di progettare la mia entrata a scuola quella mattina. Ero anche emozionato, a dire la verità. Non tanto per la scuola, ma perché ero contento di rivedere i miei amici di sempre… Aaron, Max, Daniel e tutti gli altri. E poi c’era Lydia…

Lydia. Come avevo fatto a non pensarci?! Avrei dovuto chiamarla subito dopo essere atterrato! Me l’aveva espressamente chiesto!

Mi alzai di scatto dal letto, presi i vestiti che mi ero preparato la sera prima sulla sedia della

scrivania ed entrai in bagno per prepararmi quanto più in fretta possibile, sperando di riuscire ad incontrare Lydia sulla strada per la scuola.

Lydia era la mia ragazza, ed era anche la studentessa più popolare di tutta la scuola. Aveva lunghi capelli di un biondo scuro e degli occhi color nocciola che creavano un bellissimo contrasto con la chiarezza della sua pelle.

La amavo, questo era sicuro.

Scesi in fretta le scale di casa mentre mi mettevo la cartella a tracolla, e, appena fui arrivato in cucina, salutai velocemente mia madre e presi, altrettanto velocemente, il solito cornetto che mia madre comprava al bar vicino casa per l’inizio di ogni anno scolastico.

«Grazie ma’, devo scappare!» Le dissi, chiudendomi la porta alle spalle con un leggero tonfo e iniziando la solita strada che portava alla mia scuola, guardandomi a destra e a sinistra per vedere se, miracolosamente, Lydia si trovasse a passare di lì.

Era su tutte le furie, ne ero sicuro al mille per mille.

Nonostante l’avessi continuata a cercare come un disperato, non la vidi da nessuna parte.

 

Appena arrivai al cortile dell’edificio, intravidi immediatamente i miei compagni di squadra di palla a nuoto che parlottavano tra loro, raccontandosi delle proprie vicende estive appena volte al termine, e salutandosi con calorose pacche sulle spalle.

«Ehi, guardate chi c’è! Il grande capitano Maycon è arrivato!» Esclamò Daniel con un sorriso spavaldo stampato sulle labbra.

«Sì sono arrivato, e sono pronto a dettare legge!» Dissi, dando corda a Daniel, il cui sorriso si allargò ancora di più. «Da quanto tempo!» Esclamai poi, avvicinandomi ancora di più al gruppo e abbracciandoli uno ad uno.

«Ehi, stai lontano, non vorrei che la gente pensasse che siamo dei ricchioni.» Disse Joshua, poco prima che lo abbracciassi, con un tono di voce che sembrava tutto tranne che scherzoso.

«Sono più etero di tutti loro messi assieme, se si contano tutte le gnocche della scuola che mi sono fatto.» Ribatté Aaron, il belloccio della squadra, con un sorriso malizioso dipinto sulle labbra.

«Intanto però io mi sono fatto tua madre, tu no.» Replicò Max, con il suo solito fare da spaccone.

Non riuscii a trattenere un sorriso - ogni anno, ogni volta che tento di abbracciare Joshua, partiva questo scambio di battute.

Entrammo nell’aula d’inglese (che bell’orario: alla prima ora inglese!) e ci sedemmo ai soliti posti di sempre - io al centro; alla mia destra Aaron, alla mia sinistra Max, davanti a me Daniel e, infine, dietro di me Joshua.

«Ho sentito che c’è un nuovo arrivato, un Exchange student. Viene dalle parti dell’America, non ho capito con precisione.» Mi sussurrò Aaron dalla mia destra.

«Un nuovo studente?» Chiesi, più per riflettere sulla notizia che per altro. «Ma quindi quest’anno ci sarà il B.C.S.?»

«Boh… Penso di sì… Di solito è così» Rispose il ragazzo. «Perché scusa? Ti interessa per caso?» Domandò.

«Se veramente voglio fare medicina, mi serviranno quanti più crediti riuscirò ad accumulare.» Risposi, in modo pratico, e chiudendo lì la questione.

Aaron non si sbagliava - c’era veramente un nuovo studente che avrebbe frequentato la nostra scuola quell’anno, o meglio, quel semestre. Si chiamava Alex, veniva da Vancouver e aveva occhi verdi come un prato a fine estate.

Spazio dell'autore:
Hello! ^^
Allora, cercherò di non perdermi in ciance: ho scritto questa storia un po' di tempo fa, nel periodo in cui stetti a Londra per 6 mesi, e necesitavo di una sorta di valvola di sfogo, sentivo la necessità di dire a qualcuno quello che mi aspettavo e come mi sentivo laggiù. E niente... Spero vi piaccia più di quanto piaccia a me!
Buona lettura, e mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate ;)

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Capitolo 3
*** B.C.S. ***


wd

Capitolo 2 – "B.C.S."

Ho deciso di pubblicare il secondo capitolo nonostante il primo non abbia avuto per nulla successo, perché mi sono detto che non fa niente, che l'importante per me ora è sapere di condividerlo con qualcuno :)
Vabbè fatemi sapere se vi piace o meno :/

 

«Alex rimarrà alla Callsworth Academy fino al mese di febbraio, e mi aspetto da tutti voi il massimo rispetto e la massima accoglienza.» Disse la signora Dorpall, guardando tutta la classe con il solito fare minatorio che, a tutti quelli che non la conoscevano bene, poteva sembrare una facciata di gentilezza. «Ma, soprattutto,» ricominciò la professoressa, «mi aspetto da UNA persona in particolare la migliore accoglienza che l'istituto possa offrire.» 
Alex aveva abbandonato la propria espressione di felicità, lasciando il posto ad un'espressione interrogativa. Si vedeva lontano un miglio il suo smarrimento dovuto al ritrovarsi catapultato in un universo completamente diverso da quello a cui era abituato.
 
«Mi scusi signorina Dorpall,» chiesi, alzando la mano, «ma quindi sono aperte le candidature per il titolo di B.C.S.?»
«Sempre che io non abbia parlato un'altra lingua, signor Maycon, sì, ho appena detto quello.» Rispose, acida come suo solito.
 
«E, se non chiedo troppo, non è che si potrebbe sapere come si svolgerà?» Chiesi, irritato già il primo giorno dalla solita professoressa d’inglese.
«Come ogni anno, signor Maycon,» rispose, facendo finta di non aver notato il mio tono sarcastico, «coloro che desiderano candidarsi dovranno scrivere il proprio nome su questo foglio di carta, – disse sollevando un comunissimo foglio bianco - e poi, alla fine della giornata, lo studente, in questo caso Alex, sceglierà tra i nomi proposti. È riuscito a capire o devo rispiegare tutto daccapo, signor Maycon?» Concluse lei con un tono di voce che normalmente non avrebbe fatto altro che fomentare il mio odio nei suoi confronti, ma che in quell’occasione mi entrò in un orecchio e mi uscì dall’altro.
-Perfetto, pensai, per come ho trattato quel ragazzo sull'aereo, non sceglierà mai me come suo B.C.S.-
Lacrime di rabbia e di triste rassegnazione iniziarono a raccogliersi sulle mie palpebre, rischiando pericolosamente di cadere. E pensare che i crediti che avrei ricevuto con il B.C.S. sarebbero stati più che fondamentali ai fini della graduatoria alla facoltà di medicina dato che, l’anno precedente, mi ero piazzato solamente secondo nella lista annuale di crediti dovuti all’impegno.

 

 

Quando la campanella suonò, mi alzai immediatamente dalla mia sedia e raccolsi le mie cose alla meno peggio, avviandomi con passo veloce verso la porta e dirigendomi verso l’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di chimica.

Entrai nell’aula numero 7 e presi subito posto, buttando i miei libri sul banco da lavoro. Già solitamente odiavo le ore di scienze, ma quest’anno si prospettavano ancora più terribili - nessuno dei miei amici, nemmeno Aaron, che si era sempre dimostrato interessato alla materia in questione, avevano aderito al corso, lasciandomi, così, da solo in mezzo ad una miriade di ragazzine che mi guardavano con occhi sognanti, e ad una mandria di secchioni che nelle loro vite non avevano altro che lo studio. La solita classe di scienze, insomma.

Se non per lui.

Alex entrò guardandosi attorno incuriosito e i suoi occhi si posarono subito sui miei, come attratti da una calamita. Così come i suoi piedi.

Lo vidi camminare attraverso l’aula e dirigersi verso la mia postazione, che era rimasta, come al solito, vuota. Come se una bolla di riverenza ostacolasse a tutti gli altri di avvicinarsi più del necessario.

Appena posò il suo zaino sul banco, mi feci quanto più piccolo possibile ed iniziai a cercare nella mia borsa un qualcosa che neanche io sapevo di preciso cosa fosse, sapevo solo di dovermi distrarre, con qualsiasi cosa.

«Ehi…» Disse poi, con un tono timido.

«Ehm… Ehi…» Risposi, non potendo fare finta di non aver sentito la sua voce.

Alex si dondolò sui talloni, senza dire niente, in evidente imbarazzo. E così finimmo la nostra conversazione, fino a che il professore non fece il suo ingresso in aula, assegnando immediatamente il compito da svolgere, senza neanche degnarsi di salutare gli alunni.

Mentre prendevo il contagocce, notai Alex che mi squadrava curioso, e gli lanciai un’occhiata repentina.

«Hai una faccia conosciuta.» Annunciò poi, grattandosi il mento ricoperto da una leggera barbetta bionda per pensare meglio.

«Non penso che ci siamo già visti prima d’ora…» Replicai io, scompigliandomi i capelli neri per cercare di rendere la mia faccia un po’ meno riconoscibile.

La lezione continuò senza più nessuna interruzione, con Alex che in alcuni momenti continuava a squadrarmi, cercando di ricordare dove avesse visto la mia faccia.

Non diedi nemmeno il tempo alla campanella di finire di suonare che raccolsi le mie cose dal banco e mi avviai verso la porta.

«Ehi aspetta!» Mi urlò dietro Alex, raggiungendomi in un batter d’occhio. Non potetti fare a meno di notare che teneva in mano la mia agenda, e che me la stava allungando, con un sorriso a trentadue denti impresso sulle labbra. «Ti sei dimenticato la tua agenda.» Spiegò lui, continuando a sorridermi e ad osservarmi dritto negli occhi.

«Oh… Ehm, grazie… Be’ io dovrei andare…» Farfugliai, non volendo che il biondo ricordasse la mia faccia.

«Ecco dove ti ho visto!» Esclamò il canadese.

Troppo tardi…

«Eri alla lezione d’inglese… Sei quello che ha fatto quelle domande alla professoressa!» Continuò, raggiante per essere arrivato alla conclusione. Poveretto, pensai, non sapeva che era la conclusione sbagliata. Meglio approfittarne.

«Ahah, sì, giusto!» Esclamai, fingendo di ricordarmi anch’io solo in quell’istante. «Sei l’Exchange Student, giusto?» Chiesi.

«Sìsì, sono io.» Rispose, sorridendomi.

Lo guardai negli occhi, domandandomi se veramente non si ricordasse o se stesse fingendo. Ma perché mai avrebbe dovuto farlo, in fin dei conti?

«Ho notato un certo interessamento a questo “B.C.S.” da parte tua, prima.» Riprese Alex.

«Oh quello? Il titolo di “Best Cozy Student”*? No, non era niente, solo che il mio amico non aveva il coraggio di prendere la parola.» Risposi, inventandomi subito la seconda bugia.

«Oh be’… Io ora devo andare a sociologia, ci becchiamo in giro!» Mi sorrise il biondo, avviandosi velocemente per il corridoio principale della scuola.

 

 

Se non si ricordava dell’aereo, allora avevo ancora speranze di essere scelto come B.C.S. Dopotutto ero l’unico con cui avesse intrattenuto una conversazione (se così potesse essere definita) fino quel momento.

Mi avviai verso l’aula di inglese, approfittando di quella piccola pausa, offertaci generosamente dall’abituale ritardo del coach Greetnorth.

Quando entrai nell’aula numero 3, la professoressa Dorpall mi guardò con la sua solita occhiata acida, e mi chiese:

«Che ci fa lei qui, signor Maycon?»

«Mi scusi signorina Dorpall, ma volevo segnarmi come candidato per il titolo di B.C.S.» Le dissi, con il tono più gentile che riuscii ad utilizzare.

«Doveva pensarci prima, signor Maycon.» Replicò lei, con il solito tono glaciale. «Le candidature sono chiuse.»

«Ma come sarebbe a dire “sono chiuse?!”» Esclamai, iniziando ad alzare il tono della voce. Lo stava facendo apposta, per la frecciatina che le avevo riservato quella mattina a lezione. Brutta vecchia bisbetica.

«Oggi ha qualche problema d’udito o mi sbaglio signor Maycon?» Chiese acida. «In ogni caso ora devo fare lezione a tutti gli studenti che mi stanno aspettando e che, a differenza sua, sono dove dovrebbero essere, ovvero in classe. Arrivederci.» Concluse, scortandomi fuori dall’aula.

Ogni volta che qualcosa mi turbava la mia mente si andava a rifugiare in un mondo completamente diverso. Un mondo completamente vuoto a cui, ogni volta, potevo aggiungere tutto ciò che volevo – da un tostapane alla luna – senza la paura di essere fermato ed ostacolato da nessuno.

Con solamente il corpo nel mondo reale, mi avviai verso la piscina, sollevato, in minima parte, dall’idea che in pochi minuti avrei potuto sfogare la mia frustrazione nella palla a nuoto.

Ed infatti fu proprio così. Non appena mi fui completamente immerso nell’acqua della piscina e fui entrato in possesso palla, iniziai a sfogare tutto il mio risentimento nei miei stessi tiri, facendo brillare gli occhi del coach per l’euforia e per la contentezza.

Stava incitando la squadra, complimentandosi per l’ottima forma in cui eravamo. Ma io non ascoltavo una singola parola di quello che diceva, indaffarato com’ero ad incanalare tutte le mie emozioni in quell’unico oggetto sferico che volava dalla mia mano alla rete della porta con una velocità sconvolgente.

Non appena uscii dalla piscina, mi infilai sotto il getto caldo della doccia, lasciando che quest’ultima mi rilassasse i muscoli, resi tesi dal troppo stress e dall’altrettanto sforzo che avevo appena adoperato.

«Ehi Maycon, tutto bene?» Mi chiese Daniel dall’altro lato del muro della doccia.

«Sì perché?» Replicai io con un’altra domanda, cercando di non farci trasparire tutto il mio nervosismo.

«No niente, è solo che mi sei sembrato alquanto nervoso prima in piscina.» Rispose, «Ma se dici che non è niente, allora è così.» Concluse il mio compagno di squadra, allontanandosi.

Mi vestii in fretta e furia, dato che la campanella stava per suonare e io mi ero trattenuto più del dovuto sotto la doccia, e, quando ebbi finito di prepararmi, uscii dallo spogliatoio, dirigendomi verso l’aula numero 3, l’aula d’inglese.

-Non posso fare tardi, non posso!- Pensavo, mentre mi avviavo, con un passo talmente veloce da sembrare che stessi correndo, verso una ramanzina certa.

«Bene, ora, vediamo chi è stato scelto dal signor Tremblay come sua guida per il resto del semestre…» La voce della professoressa Dorpall si sentiva chiaramente per gran parte del corridoio.

-Perfetto,- Pensai, mentre mettevo la mano sulla maniglia della porta dell’aula numero 3, -La lezione è già iniziata, ci mancava solo che facessi ritardo oggi!-

«Jared Maycon.» Disse la professoressa Dorpall con la sua solita voce gelida.

«Lo so, sono in ritardo, mi scusi signorina Dorpall.» Dissi, emulando il miglior tono colpevole del mio repertorio. «E’ solo che il coach Greetnorth mi ha trattenuto più del previsto, doveva parlarmi di alcune cose riguardanti la squadra. Sa, in quanto capitano della squadra ho dei dov…»

«Oh stia zitto!» M’interruppe la professoressa, evidentemente infastidita. «Se fosse arrivato puntuale, avrebbe evitato tutta questa messa in scena, dato che sarebbe stato al corrente del fatto che stavo proclamando il candidato vincitore.» Spiegò, senza evitare di lanciarmi una frecciatina.

Eppure continuavo a non capire, di solito non mi chiamava per nome e cognome, e di sicuro non si prendeva la briga di farmi una manfrina così lunga. «Congratulazioni, signor Maycon, lei, da questo momento in poi, fino alla fine del semestre, sarà il B.C.S. del signor Alex Tremblay.» Mi spiegò, con un tono di voce che sembrava tutto tranne che contento. Almeno non per me.

Mentre mi avviavo verso il mio banco, muovendomi come un automa, notai il sorriso compiaciuto di Aaron, e, dietro di lui, un paio di occhi verde smeraldo che mi fissavano, come due magneti attratti da una calamita, colmi di felicità.

 

 

 

* Letteralmente significa: “Studente più accogliente”. Titolo che consiste nell’aiutare un Exchange student, o semplicemente un nuovo studente, ad integrarsi nella scuola e nella società in generale. Non esiste nella “vita reale” ma, data la mia esperienza, penso che sarebbe “pretty awesome”.

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Capitolo 4
*** Candid ***


Candid

Capitolo 3 – “Candid”

 

Ero in fila per prendere il solito pranzo “self-service” alla mensa della scuola, e affianco a me c’era Aaron, che stava ridendo per la mia espressione.

«Oh andiamo,» Disse poi, riuscendo miracolosamente a fermare l’attacco di riso per un breve istante, «ora non mi dire che non ti ha fatto piacere!»

«Non è questo,» Ribattei io, esasperato, «è solo che avresti dovuto dirmelo!» Ripetei per la decima volta.

«Ma che ti cambia?» Chiese, «Il risultato che hai ottenuto è lo stesso, no?»

Mi arresi. Era inutile discutere con Aaron, riusciva sempre a farla franca, in un modo o nell’altro. Anche se a dirla tutta quella volta non c’era voluto molto, giacché non ero arrabbiato con lui al punto tale da aggredirlo.

E l’unico motivo per cui non avevo raggiunto quel livello d’arrabbiatura, era che dentro di me c’era un conflitto.

Aaron aveva messo il mio nome tra quelli dei candidati per il titolo di B.C.S. e io, dopo essere stato nominato, ed aver scoperto che c’era lui dietro tutto quanto, ero andato su tutte le furie. Non perché non volevo quel titolo, ma perché ora la “signorina” Dorpall si era insospettita, e di sicuro questo voleva dire che se la sarebbe presa con me.

O almeno era questo il motivo che utilizzavo come facciata.

La realtà era che odiavo che le cose mi venissero fatte alle spalle, anche se in buona fede, e credevo che ormai Aaron, Daniel e tutti i miei amici più vicini, l’avessero capito.

«Dai, mica sei ancora incazzato?» Chiese Max, seduto al solito tavolo, non appena io ed Aaron ci fumo avvicinati.

Non risposi. Non con le parole almeno – gli li lanciai una delle mie solite occhiate acide che riservavo solo alle persone che mi incrociavano in un brutto momento… E quello era senz’altro un brutto momento.

«Oh andiamo!» Esclamò Daniel, allargando le braccia con fare esasperato.

Senza neanche pensarci, ripresi il vassoio tra le mani, mi alzai dalla panchina, e mi avviai verso il tavolo cui di solito sedeva Lydia, sperando di trovarla lì.

Adocchiai il suo tavolo, e, seduta attorno ad esso, tutta la sua piccola comitiva di ochette petulanti che, non appena mi videro avvicinare il tavolo, iniziarono a bisbigliare tra di loro.

Odiavo quando facevano così. Sembrava che dovessero per forza giudicare ogni singolo movimento di ogni singolo individuo.

Non appena fui alla distanza necessaria, sorrisi amorevolmente ad ognuna delle ragazze che circondavano Lydia, per poi posare un rumoroso bacio sulle labbra di quest’ultima, che rimase allibita.

Tutto lo stormo di oche si disperse in un batter d’occhi, bastò una semplice occhiata del loro capo, Lydia.

Appena si furono allontanate quanto bastava, mi sedetti affianco alla mia ragazza, che continuava a fissarmi con aria adirata.

«Scusa…» Iniziai immediatamente dopo che mi fui sistemato al mio posto. «Scusa scusa scusa scusa.»

«E’ inutile che ti scusi,» Mi interruppe lei, alzando gli occhi dal piatto, «non sono arrabbiata con te.» Concluse facendo spallucce.

«Scusa scusa scus… Aspetta, che hai detto?!» Esclamai allibito, fissandola.

«Mi hai sentito, non sono arrabbiata.» Ripeté lei, con tutta la nonchalance che avesse da offrire. «Eri appena arrivato da un volo di 9 ore, eri stanco, è comprensibile che tu non mi abbia chiamato…»

«Ma come faccio io ad avere la fidanz…»

«…Subito dopo essere atterrato…» Riprese lei, interrompendomi. «Non è comprensibile il fatto che tu non mi abbia chiamato nemmeno nei due giorni restanti dall’inizio della scuola.»

«Quindi tu sei arrabbiata.» Riassunsi io.

«E’ logico che sono arrabbiata!» Esclamò. «Dovevi fare solo una cosa: chiamare! Ma non sia mai tu l’avessi fatta! No, il signorino Maycon doveva riposare per tre giorni interi, non poteva mica prendersi la briga di pensare alla povera fidanzata rimasta bloccata a Londra per tutta l’estate?!»

«Ok, ora non credi di stare un poco esagerando, Ly?» Chiesi. Mi ero aspettato una manfrina, ma non mi aspettavo quel genere di manfrina. «Senti…» Iniziai, dato che l’esperienza mi aveva insegnato che se volevo risolvere le cose con la mia ragazza dovevo fare io la prima mossa. «Mi dispiace, è solo che ho avuto veramente un casino di cose per la testa. Poi si è aggiunta pure mia madre, che mi ha fatto andare avanti e indietro, presa dalla solita ansia che precede l’inizio della scuola. Mi dispiace, sul serio.»

Lydia alzò lo sguardo e mi sorrise. «Vieni qua, cretino che non sei altro!» Disse, prima di abbracciarmi e di darmi un bacio sulle labbra.

«Questo significa che mi hai perdonato?» Chiesi, senza staccarmi del tutto dal suo viso e con un sorrisetto furbo dipinto sulla mia faccia.

«Tu che dici, capitano?» Sorrise lei di rimando, riavvicinando le sue labbra alle mie.

Non appena finimmo di mangiare, andammo in cortile a goderci una delle rare giornate di sole che Londra poteva vedere in questo periodo dell’anno e ci sedemmo sul prato.

«Ho sentito che sei stato scelto come B.C.S.» Disse Lydia, iniziando il discorso.

«Sì, grazie ad Aaron.» Ammisi.

«So anche questo. E’ stato Aaron a dirmelo, secondo te avrebbe tralasciato un dettaglio del genere?» Disse lei divertita, troncando sul nascere la mia narrazione dei fatti.

Mentre continuammo a parlare del più e del meno, ma soprattutto del mio viaggio in Canada, realizzai che tutto quello mi era mancato. Mi erano mancate le chiacchierate in totale libertà che potevo fare con Lydia, mi era mancato sentirla vicina, mi era mancato guardarla mentre parlava. Mi era mancato tutto di lei, e di ciò che rappresentava nella mia vita.

«Allora,» disse, riportandomi con i piedi per terra, «dimmi qualcosa su questo nuovo ragazzo a cui dovrai fare da baby sitter.»

«Be’ no, non ci riuscirei neanche volendo.» Risposi, lasciando trasparire che non m’importava minimamente di conoscerlo, ma che anzi preferivo il contrario. «C’ho parlato una volta e l’ho trovato semplicemente ridicolo. Rabbrividisco alla sola idea di dovergli fare da tutore.» Continuai, prima di notare Lydia che mi faceva cenno di smettere di parlare, indicando alle mie spalle.

Quando mi girai vidi soltanto Alex che si incamminava con la testa bassa verso l’interno della scuola.

«O Cristo santo…» Borbottai io, prima di alzarmi per inseguirlo. «Scusami amore…» Sussurrai a Lydia mentre mi allontanavo.

Lo trovai nel bagno dei maschi, fermo di fronte al lavandino. Certo che aveva scelto un nascondiglio molto originale.

«Ehi…» Iniziai, indeciso.

Il biondo si girò di scatto, guardandomi in cagnesco.

«Senti, non sapevo che eri dietro di me altrimenti…» Non avrei potuto scegliere parole meno idonee.

«Altrimenti cosa?!» Esclamò il canadese, girandosi per guardarmi in faccia. «Non avresti detto che mi hai trovato “semplicemente ridicolo”?! Non mi avresti preso per il culo con la tua ragazza?! Ma per piacere, stai zitto che è meglio.» Esclamò Alex con un’aria indecifrabile dipinta sul volto.

«Senti, ho sbagliato a dire quelle cose, è vero, ma non credi di stare esagerando?» Chiesi, con tutta la calma di questo mondo.

«Ma allora sei proprio deficiente, non fingi solamente!» Rise il biondo. «Non è quello che hai detto che mi dà fastidio, è come lo hai fatto! Non hai avuto le palle neanche di dirmele in faccia quelle cose.» Continuò lui, spiegando cosa intendesse dire. Poi, non vedendo arrivare una mia risposta, disse: «Hai la minima idea di cosa vuol dire catapultarsi in un universo talmente diverso da quello cui si è abituati e sentirsi dire alle spalle che si è ridicoli?»

«No, ma…»

«Fammi finire.» Disse, interrompendomi brutalmente. «Sai cosa vuol dire ritrovarcisi da soli, in quest’universo completamente diverso? No, non lo sai, e ti assicuro che non è una bella sensazione, ti assicuro che ci si sente delle nullità, e di sicuro essere gay non aiuta.»

Silenzio.

Un’enorme cappa di silenzio e di imbarazzo calò sull’intero bagno, prima che Alex prendesse il suo zaino e corresse fuori dal bagno, assicurandosi di urtarmi la spalla nel farlo.

Era strano, mi dispiaceva, mi sentivo in colpa.

NdA:
Eccomi tornato da quella che è l'ultia tappa delle mie vacanze (già?! ç.ç), e sono pronto a rompervi con questo nuovo capitolo (per quanto questa storia possa interessare dato che nessuno se la fila :'D)...
Be', buona lettura a quei pochi pazzi che stanno seguendo questa storiapocoamata u.u <3
Ah e vi ricordo due cose:
1- la pagina facebook (cliccate qui)
2- le recensioni fanno sempre piacere u.u

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Capitolo 5
*** Daniel ***


3qed
Capitolo 4 – “Daniel”

“Sai, oggi è successo qualcosa di strano… Non me lo sarei mai aspettato.
In realtà, a dirla tutta, sono successe due cose, entrambe strane - prima di tutto sono stato scelto come B.C.S., ovvero come guida di questo nuovo Exchange student che è arrivato oggi, nonostante però non mi fossi nominato. E’ stato Aaron a farlo, a quanto pare… Ed ecco la prima cosa strana - insomma, non ha mai fatto una cosa del genere per una persona al di fuori di se stesso!
La seconda cosa strana, invece, e aspetta di sentire questa… Questo ragazzo, questo Exchange student, Alex è il suo nome, mi ha sentito mentre commentavo i suoi modi di fare con Lydia non in maniera proprio amichevole, e si è incazzato. L’ho seguito nel bagno per dare e per avere spiegazioni e quello che è successo non è stato esattamente ciò che mi aspettavo - mentre mi urlava contro, mi ha rivelato di essere gay, per poi andarsene imbestialito. Bah! Che gente strana!
In ogni caso, questo è il resoconto della mia giornata, ora tocca a te.
Mi manchi,
J.”

Finii di scrivere la lettera e la chiusi, passando la lingua sul bordo adesivo della busta, posandoci un francobollo in alto a destra e scrivendoci accanto tutti i dati necessari.
Uscii di casa ed inserii la lettera nella cassetta della posta, sperando che entro il giorno seguente sarebbe arrivata a destinazione.
Mi scrivevo con Kyle, un mio cugino di Vancouver, da quando un natale ci parlammo per la prima volta. Avevamo deciso, quel giorno, che ci saremmo dovuti scrivere per l’intera durata dell’anno scolastico, escluse le vacanze estive che avremmo cercato a tutti i costi di passare insieme; ed era proprio per quello che quell’estate ero andato a visitare i miei zii nella città canadese.
Il nostro patto era quello di raccontarci giorno per giorno quello che accadeva durante la giornata appena trascorsa. Naturalmente non riuscivamo mai a raccontare in fatti in presa diretta, ma comunque il solo pensiero di avere una persona che si interessava per davvero a quello che avevo da dire, mi faceva sentire meglio.
Mentre stavo salendo le scale per andare a studiare in camera mia, come facevo ogni pomeriggio, iniziai a sentire il rumore della pioggia che urtava contro i vetri delle finestre. Inspirai profondamente come se potessi sentire da dentro casa l’odore della pioggia appena caduta sul prato.
Non amavo la pioggia, o almeno non sempre… E il vivere a Londra non aiutava.
Kyle, d’altro canto, l’amava, sperava addirittura che piovesse e quando questo non accadeva il suo umore peggiorava impercettibilmente. E questa era solo una delle mille cose che ci rendevano così differenti eppure così uniti.
Entrato in camera, presi il libro di chimica, mi sedetti sul letto a gambe incrociate con il libro di testo poggiato davanti a me e iniziai a leggere il capitolo sulla nomenclatura degli ioni poliatomici.
I miei occhi si muovevano da sinistra verso destra incessantemente, sempre sulla stessa frase. “Un esempio invece di ione poliatomico è [CO3]2-, che è formato da un atomo di carbonio e tre di ossigeno.”
Di solito, nonostante la repulsione che avevo verso questa materia, riuscivo a studiarla con relativa facilità. Ma, quella volta, avevo la testa che mi portava da tutt’altra parte. Avevo fatto bene a dire tutte quelle cose su Alex a Lydia? In fondo neanche le pensavo veramente, era solo che mi sembravano le cose giuste da dire al momento… Come che se avessi detto qualcosa di differente, Lydia si sarebbe nuovamente arrabbiata con me.
Ma era stato giusto?
Scossi la testa per togliermi quei pensieri dalla testa. Non potevo certamente passare il pomeriggio pensando a quel frocio!
Mi sporsi dal letto e raccolsi il cellulare, aprendo la rubrica e selezionando il nome di Daniel. Premetti il tasto verde.
«Pronto?» Rispose il ragazzo dall’altro lato del cellulare.
«Ehi Dan,» Risposi io, mettendomi a sedere sul bordo del letto. «Ti andrebbe di scendere un po’? Ci andiamo a prendere un frozen yogurt.» Proposi, sperando che Dan accettasse.
«Certo!» Esclamò lui, leggermente sorpreso per l’offerta. «Dove ci vediamo?» Chiese.
«Vediamoci alle 17.30 davanti casa tua.» Risposi, terminando la chiamata.
-
La sveglia suonò puntuale come ogni giorno, ricordandomi che l’anno scolastico era appena iniziato. Mi alzai lentamente dal letto, passandomi pigramente una mano tra i capelli neri, completamente scompigliati. Mi alzai in piedi, entrai nel bagno di camera mia ed iniziai a prepararmi per la giornata che si prospettava terribilmente pesante, date le lezioni che avrei dovuto seguire.
Uscii dal bagno, presi lo zaino, preparato la sera prima, e scesi in cucina, dove mi aspettava una colazione di gran lunga diversa da quella che mia madre mi aveva preparato per il primo giorno di scuola.
Percorsi la solita strada per scuola e mi fermai, come al solito, a parlare con i miei amici nel cortile, aspettando che la campanella segnasse l’inizio delle lezioni.
E, quando questo accadde, io, Aaron e Max ci avviamo verso l’aula di psicologia, dove assistemmo alla lezione più noiosa mai vista prima, resa interessante solamente dai commenti di Max sul fondoschiena di Martha, che sedeva al banco davanti al nostro.
La giornata proseguì lenta, così come avevo prospettato. Passammo da un’aula all’altra, dalle urla della professoressa Cavermol, che ci dava delle capre, alle battute del professor Grudgefur.
Era l’ultima lezione prima della pausa pranzo a spaventarmi - inglese. Non mi spaventava per la professoressa Dupall e per le sue frecciatine, ma per il fatto che un altro alunno avrebbe seguito quella lezione: Alex Tremblay.
Non appena entrai nell’aula lo vidi là, seduto allo stesso banco a cui si era seduto il giorno precedente, che si guardava intorno. Abbassai lo sguardo, mi sistemai lo zaino sulla spalla e mi diressi al mio posto, anche troppo vicino a quello del biondo.
Per tutta la durata della lezione rimasi a fissare la nuca bionda di Alex, che, invece, aveva lo sguardo fisso davanti a sé.
Non appena suonò la campanella, raggiunsi, come al solito, Lydia al solito tavolo della mensa. Lo spacco del pranzo era l’unico momento in cui potevamo parlare con calma dato che lei aveva un anno in meno a me e quindi frequentava corsi diversi, ed era per questo motivo che  cercavamo di non perdere neanche un secondo di quel tempo prezioso.
«Ehi.» La salutai, accompagnando le parole con un bacio sulla bocca, che fu alquanto gradito.
«Ehi.» Rispose lei, sorridendomi dolce. «Come va?» Mi chiese poi.
«Tutto apposto.» Mentii, dopo un attimo di silenzio, per poi iniziare a mangiare.
Ogni volta che lo sguardo di Lydia non ricadeva su di me cercavo di guardarmi intorno, in cerca di Alex, come se il solo vederlo potesse lenire il conflitto che era in atto dentro di me.
Ed eccolo lì, impassibile, a mangiare quello che doveva essere il suo pranzo completamente da solo.
Era venuto nella scuola sbagliata, di questo ne ero sicuro. Qua non avrebbe ricevuto l’accoglienza che si era aspettato. Qua non sarebbe stato considerato simpatico per l’accento diverso, ma sarebbe stato semplicemente discriminato ancora di più.
E improvvisamente il peso di tutto quello che era successo il giorno scorso mi cadde sulle spalle, come un macigno scagliato con cattiveria dall’ultimo piano di un palazzo, destinato ad un povero passante che si ritrovava a camminare lì sotto.
«Devo fare un secondo una cosa.» Dissi anche prima di accorgermene a Lydia, che in risposta mi annuì.
Mi alzai dalla panca in legno chiaro e mi diressi verso il canadese che alzò lo sguardo verso di me solo quando gli fui arrivato talmente vicino da poter contare le briciole che il suo panino aveva lasciato sul tavolo di legno. Mi fissò senza dire neanche una parola per quella che sembrò un’eternità, con gli occhi verdi semichiusi per via del sole, dopo di che ritornò a concentrarsi sul suo panino.
Non sapendo cos’altro fare, mi sedetti sulla sedia di fronte a lui, muto come un pesce.
«Allora?» Chiese Alex alla fine, allargando le braccia e rompendo quell’interminabile silenzio carico di tensione. «Che vuoi? Sei venuto qua per fissarmi mentre mangio il mio panino?»
«Senti,» dissi, «tu non mi piaci, e io non ti piaccio.» Continuai, elaborando il discorso nella mia testa.
«E no.» Disse lui interrompendo la linea dei miei pensieri. «Primo errore. Non è vero che tu non mi piaci, mi stai sul cazzo, ti reputo stupido, infantile e chi più ne ha più ne metta.» Continuò poi. «Ma non è vero che non mi piaci. Magari fosse solo quello il problema.» Sorrise.
-Certo che ha una faccia tosta non indifferente!- Pensai, cercando di non peggiorare la situazione con un attacco di rabbia. -Respira, respira.- Mi dissi, per mantenere il controllo.
«Ok, ok.» Ammisi. «Siamo partiti con il piede sbagliato.» Decretai, alzandomi e porgendo la mano in direzione di Alex. «Piacere, sono Jared. Jared Maycon.» Mi presentai, facendo finta che fosse la prima volta che vedessi il canadese.
Il biondo mi fissò la mano per un altro po’, prima di alzarsi anche lui. «Devo andare in bagno.» Annunciò poi, snobbando del tutto la mia mano e prendendo la propria roba, solo per dirigersi poi verso l’interno della scuola.
Ero rosso per la rabbia e per la frustrazione, ne ero sicuro, per questo motivo ritornai in fretta verso la mia fidanzata, che, non appena mi vide sedere al tavolo, mi sorrise amorevolmente.
-
-E’ strano,- pensai mentre alzavo lo zaino e me lo sistemavo sulla spalla destra, -sarà passato sì e no un quarto d’ora e di Alex neanche l’ombra.- Scrollai le spalle, fingendomi indifferente a quel pensiero e pensando che quella del bagno non era altro che una scusa per andarsene.
Posai un bacio delicato sulla bocca di Lydia e poi mi avviai verso l’aula di chimica, dall’altra parte dell’edificio, cercando, come al solito, di arrivare in anticipo.
Ero all’inizio del corridoio che portava alla rampa delle scale per il secondo piano quando sentii un forte tonfo, come qualcosa che cade a terra. Continuai a camminare facendo finta di niente, arrivando di fronte alla porta arancione del bagno dei maschi, da cui sentii uscire uno strano rumore, come un gemito.
-Hanno iniziato a fare le sveltine nei bagni già il secondo giorno di scuola?- Mi chiesi, inorridito dalla gente della mia stessa età.
Stavo per sorpassare il bagno quando sentii un verso di dolore provenire da oltre la porta. Mi fermai, incuriosito. Non erano i soliti versi che si accomunavano ad un momento piacevole, ne ero sicuro.
Posai la mano sulla maniglia fredda della porta del bagno e feci pressione, aprendo la porta.
Quello che vidi una volta aperta la porta mi fece sperare di aver interrotto una sveltina.
Nel bagno c’era Daniel. E c’era anche Alex. Solo che quest’ultimo era rannicchiato nell’angolo vicino ai lavandini.
Sulla faccia di Daniel era dipinta un’espressione di rabbia disumana; era quasi irriconoscibile, e si stava avvicinando pericolosamente al canadese, che cercava di rimpicciolirsi il più possibile.
Notai qualcosa di strano sugli zigomi di Alex. Qualcosa di completamente innaturale sotto il suo occhio destro. Aveva un taglio che si estendeva per l’intera guancia.
Poi la mia attenzione ritornò su Daniel, che ora sovrastava la figura minuta di Alex.
Vidi il suo pugno calarsi violentemente contro la faccia del biondo che cercava di proteggersi alla meglio. Sentii il rumore della violenza fisica rimbombarmi nella testa, bloccando tutti i ragionamenti razionali.
Rimasi fermo lì, ad  assistere ad uno spettacolo che avrei volentieri fatto a meno di vedere. Come quand’ero piccolo e la mamma mi costringeva ad andare al teatro, o come quando mi costringeva a mangiare le verdure.
Sentivo la gente camminare e chiacchierare con disinvoltura dall'altra parte della porta del bagno, diretta nelle varie aule.
Percepivo lo sforzo che il canadese faceva per non urlare dal dolore che quel pugno gli aveva provocato, e vedevo i suoi occhi inumidirsi per le lacrime che stava cercando a tutti i costi di non far cadere.
Fu allora che capii che non era quell'atto di violenza a riempirmi di ribrezzo, ma ero io. Fermo, immobile, come uno spettatore che si rispetti.
Mi girai in modo meccanico ed aprii la porta del bagno, il più silenziosamente possibile, per poi ricominciare a percorrere il corridoio, fino ad arrivare di fronte alle scale.
Mi fermai di botto, spinto da una forza di gran lunga più potente di quella che mi aveva fatto continuare a camminare. Ripercorsi nuovamente il corridoio, questa volta a ritroso, ed entrai nel bagno, non curandomi di quanto rumore facessi aprendo la porta.
Mi avvicinai di gran carriera a Daniel, che stava per calare nuovamente la mano chiusa a pugno sul volto di Alex, che si stava proteggendo con gli avambracci, e gli bloccai il braccio, giusto un attimo prima che iniziasse ad abbassarsi.
Daniel rimase interdetto per un secondo, prima di girarsi verso di me ed urlarmi contro. «Ma che cazzo fai Jad?!»
«Strano, stavo per chiederti la stessa identica cosa.» Replicai, lasciandogli il braccio ed avvicinandomi ad Alex, che mi stava fissando stranito, con l’occhio destro socchiuso per il gonfiore.
«Lo sai perché lo sto facendo! E’ un maledetto finocchio!» Urlò in risposta Daniel, rosso in viso per la rabbia.
Rimasi a fissarlo sconvolto. Come faceva a saperlo? Quando l’aveva scoperto che Alex era gay?
Mi riscossi da quei pensieri, ritornando a cose più importanti. «Ma che cazzo vai blaterando?!» Esclamai.
«Oh che c’è, ora sei diventato uno di quei sostenitori dei finocchi?» Chiese lui di rimando, con talmente tanto disprezzo nella voce da farmi rizzare i capelli dietro la nuca. «Vi ho sentiti ieri mentre parlavate in bagno. Ho sentito che lui ha detto di essere “gay”.» Spiegò, enfatizzando velenosamente la parola “gay”, come se anche solo a pronunciarla si sarebbe potuto infettare.
«Vieni, alzati.» Dissi ad Alex facendolo appoggiare sul mio braccio ed ignorando completamente il mio migliore amico, che rimase fermo a fissarmi. «Ti porto in infermeria.» Aggiunsi poi, scortando il biondo verso la porta arancione, mentre lui mi fissava allibito con i suoi occhi verdi.

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Capitolo 6
*** Enhancement ***


Capitolo 5 – “Enhancement”
Buonsalve a tutti quati! :)
Approfitto della pubblicazione di questo capitolo per ringraziare dal profondo del cuore gli unici due lettori (fin'ora) che, con le loro recensioni, mi hanno convinto a proseguire con la pubblicazione di questa FF: grazie @Ramoso e @_AshleyLIA , significa molto per me :)
E con questo vi auguro buona lettura e spero che questo capitolo vi piaccia! :3


Ora che avevo la possibilità di osservarlo più da vicino, mentre entravo in infermeria sorreggendolo per una spalla, notai quanto veramente malridotto fosse il canadese.
Aveva un taglio superficiale per tutta la lunghezza dello zigomo destro, contornato da un colorito tutt’altro che normale. L’occhio sinistro era simile allo zigomo solamente per il colore che stava assumendo: un violaceo scuro in netto contrasto con il verde vivo dei suoi occhi.
Quello che mi preoccupava di più però non erano quelle classiche ferite da rissa, bensì un taglio molto più profondo e minaccioso sull’estremità destra della fronte.
«Non è niente.» Aveva detto Alex cercando in tutti i modi di coprirsi con un ciuffo di capelli dorati, non appena gliel’avevo fatto notare.
Sinceramente, però, il modo in cui aveva iniziato ad appendersi al mio braccio, non mi rassicurava affatto.
Entrai nell’infermeria della scuola di gran carriera, sorreggendo il biondo e chiamando la signora Macflorence ad alta voce.
L’infermiera della scuola si precipitò nell’aula adibita all’infermeria, facendo capolino dal suo studio, posto alla fine della stanza.
«Jared!» Esclamò non appena ebbe visto Alex accasciato sulla mia spalla. «Cosa è successo, per l’amor del cielo?!» Disse poi con una nota stridula nella voce, avvicinandosi.
«E’ stato picchiato.» Spiegai. «Sono entrato nel bagno del secondo piano e l’ho visto accasciato contro il muro.» Avevo tralasciato dei dettagli, ma non m’importava… Non erano di vitale importanza. Almeno non per il momento.
«Povero figliolo…» Sospirò la signora Macflorence sospirando rumorosamente, mentre esaminava le varie ferite e contusioni sul viso del canadese, soffermandosi soprattutto sul taglio sulla fronte. «Siediti qui sopra.» Disse poi, perdendo quel tono amorevole che aveva usato fino ad allora e sostituendolo con una voce seria e sicura di sé, ed indicando il lettino alle sue spalle ricoperto da stoffa bianca.
Non ero sicuro di voler lasciar camminare Alex da solo, quindi lo accompagnai fino al lettino, poco distante da dove eravamo. Lo aiutai a sedersi e poi lasciai il posto alla signora Macflorence, che mi lanciò un sorriso amichevole.
La signora Macflorence era l’unica del corpo docenti con cui avevo un legame. Certo, era pur sempre un legame docente-alunno, ma, ogni tanto, mentre ero seduto sullo stesso lettino dove ora si trovava Alex, e l’infermiera della scuola mi stava facendo i controlli per pallanuoto, avevo fatto delle piccole confessioni. Prima di mettermi con Lydia, ad esempio, avevo confidato alla signore Macflorence il mio interesse verso la mia futura ragazza. Ed era stata proprio lei a convincermi che tentare non mi sarebbe costato nulla.
Sarà per il suo aspetto materno che ispira fiducia, sarà che il lettino aveva delle proprietà tutte sue, fatto sta che mi ero affezionato alla signore Macflorence.
«Non hai visto chi è stato il pazzo scatenato che ha ridotto così questo poveretto?» Chiese poi, mentre con una piccola luce controllava i riflessi delle pupille del biondo, che sembrava star ritornando lentamente in sé.
Ci pensai un secondo prima di rispondere. «No. Non ho visto nessuno, sono entrato troppo tardi.» Dissi infine, sperando di non far trapelare la verità attraverso quelle parole insicure.
La signora Macflorence, in risposta, emise un sospiro intristito. «Ti fa male da qualche altra parte?» Chiese poi, dopo aver finito di controllare le pupille, con una dolcezza infinita nella voce.
Alex in risposta mugugnò qualcosa così a bassa voce che non riuscii a distinguere una sola parola.
«Allora mi sa che sarai costretto a sfilarti la maglietta.» Decretò la signora Macflorence, conservando la sua solita voce dolce.
Il biondo obbedì senza opporre alcuna resistenza e si sfilò la maglia blu scuro, mordendosi le labbra per evitare di far trasparire il dolore che quel movimento gli provocava.
La pelle di un colore rosa pallido era tesa sui muscoli lievemente definiti. Due lividi violacei dall’aria dolorosa donavano al suo torace un’aria ancora più debole.
Senza sapere il perché, mi ritrovai costretto a spostare lo sguardo per evitare di far notare uno strano rossore che mi si stava diffondendo sulle guance. Iniziai a guardarmi le mani, cercando tutte le imperfezioni che gli allenamenti di pallanuoto mi avevano provocato.
«Ok, non era niente di che, ringraziando al cielo.» Decretò dopo poco tempo la signora Macflorence, facendo segno ad Alex di rivestirsi. «Sono solo dei leggeri ematomi.» Spiegò poi, avvicinandosi alla sua scrivania.
Se erano solo dei leggeri ematomi, allora perché diavolo stava prendendo una penna e un pezzo di carta? Mica c’era bisogno di una ricetta per dei leggeri ematomi?
«Penso che se non prendete questi,» la voce della signora Macflorence mi riportò con i piedi per terra, «il professor Boujdi vi metterà come minimo dieci note di demerito per aver saltato l’ora di scienze.» E, finito di dire queste parole, aggirò la cattedra e mi porse un foglietto che – lo scoprii dopo averlo letto di sfuggita - certificava la nostra presenza in infermeria per tutta la durata dell’ora di scienze.
Un sorriso mi si dipinse sul volto, «Grazie mille signora Macflorence!» Esclamai entusiasta, seguito poi da Alex che mi fece l’eco.
Uscimmo dall’infermeria con lo sguardo amorevole della signora Macflorence che ci seguì fino all’uscio della porta.
Continuammo a camminare per circa cinque minuti prima che uno di noi due si decidesse a prendere la parola.
«Allora…» Farfugliai io, girandomi verso il biondo, che ricambiò il mio sguardo. «Be’…»
«Perché non hai detto chi è stato ad aggredirmi?» M’interruppe Alex con un tono di voce che mi avrebbe fatto rabbrividire anche in una giornata di metà agosto passata su una spiaggia dei Caraibi.
Il silenzio cadde di nuovo, inesorabile ed impossibile da infrangere con semplici parole di gentilezza. Sentii la rabbia invadermi come l’adrenalina prima di un incontro di pallanuoto.
«Sai, a questo punto ci si aspetterebbe un “grazie” o anche un solo accenno di riconoscimento per quello che ho fatto. Sinceramente sentirsi attaccati, ora, dopo tutto quello che è successo, non è proprio il massimo, anzi. Potresti anche evitare di andare in giro a fare finta di essere una persona così carina e simpatica se poi nascondi tutto questo. - Lo indicai per fargli capire a cosa alludevo - Adesso, se non ti dispiace, devo andare. E non perché ho un impegno, ma semplicemente perché se no rischio di finire quello che Daniel ha iniziato.» E detto questo girai i tacchi e mi allontanai da Alex, che era rimasto ammutolito dalla mia reazione.
«Senti,» disse poi all’improvviso, facendomi fermare giusto prima di girare l’angolo. «Non so se te ne sei accorto, ma sono appena stato picchiato da un bulletto della scuola che si sentiva troppo figo per rivolgermi la parola, e no, non mi sto riferendo a te. L’unica cosa che speravo era che quel figlio di una buona donna venisse punito per quello che mi ha fatto, ma invece no, il suo amichetto doveva proteggerlo anche oltre i limiti dell’assurdo. Quindi sì, ti ringrazio per averlo fermato, ma a questo punto mi domando il perché di questa tua azione.» Confessò rimanendo fermo dov’era fissandomi negli occhi blu.
Mi ci riavvicinai, per evitare di urlare per farmi sentire, e anche per elaborare una rispostaccia come si deve. «Ascoltami, tizio canadese, e questa volta apri bene le orecchie perché non lo ripeterò più. Mi dispiace per quello che ti è successo; mi dispiace che il mio “amichetto” ti abbia picchiato perché tu, in un bagno pubblico, hai confessato ai quattro venti la tua omosessualità; mi dispiace di essere entrato in quel bagno a salvarti il culo che tu stesso hai messo in pericolo.
«E’ vero, dovrebbe pagare caro per averti aggredito in un bagno. E’ vero, la gente è veramente tremenda, spregevole e disdicevole, tutti a prendersela con Alex dai capelli biondi e gli occhi verdi, nessuno mai che lo capisce.» Feci una pausa, per rielaborare quello che avevo detto e mettendo a tacere la vocina nella mia testa che mi sussurrava di andarci più pesante. «Sai,» Ricominciai io, «ogni dannatissimo anno che entro in questa scuola, da quella porta, - dissi indicando la porta d’ingresso alle mie spalle - vorrei guardarmi intorno senza vedere gente che mi osserva estasiata, eccitata e chi più ne ha più ne metta. Ogni anno però riesco a non pensare a queste cose grazie ai miei amici. E sì, Daniel è un mio amico.
«Ora, vorrei tanto che tu non fossi capitato in questa scuola, che io non fossi il tuo dannatissimo Best Cozy Student e che Daniel non ti avesse picchiato in un bagno della scuola, ma, mi dispiace tantissimo signorino-tutto-mi-è-dovuto, non è così che funziona la vita. Fai un azione? Aspettati delle conseguenze.» Conclusi, inspirando rumorosamente per calmarmi, dato che mi stava per uscire un offesa che non era proprio il caso di usare.
Alex mi guardava, con del veleno puro negli occhi. «Questa è la tua di conseguenza.» Disse, alzando la mano e assestandomi un sonoro schiaffo che risuonò nel corridoio vuoto, inspirando ed espirando in maniera teatrale.
«Brutta checca.» Ed eccola lì, l’offesa che con tanta fatica avevo cercato di tenere per me, uscire dalle mie labbra mentre mi tenevo la guancia indolenzita.
Le pupille di Alex si dilatarono all’improvviso, come presi da una furia sconvolgente. Io mi portai una mano alla bocca, come se facendo così potessi riportarci dentro le parole che mi erano appena scappate.
Il biondo mi fissò con il fuoco nei propri occhi, con le labbra serrate e le mani strette a pugno, prima di girarsi e di andarsene, con il naso all’insù.
«Sai,» Disse poi, girandosi verso di me, che ero nella stessa posizione in cui mi aveva lasciato, «avrei preferito che “Daniel” mi avesse continuato a picchiare invece che sentirmi dare della checca da un idiota qualunque.» E detto questo se ne andò.
Mi girai anche io, per andare nel cortile, e, quando mi trovai davanti ai piedi un cestino della spazzatura, gli assestai un calcio tutt’altro che delicato, facendone rimbombare il rumore per l’intero corridoio vuoto.
Avrei voluto che la giornata scolastica finisse lì, in quel preciso istante. Avrei voluto dirigermi verso la porta, spalancarla ed andarmene via da quel luogo infernale.
Invece girai i tacchi e mi diressi verso il cortile, per aspettare in grazia di Dio che la campanella suonasse.
Appena uscii in cortile, una folata di ar
Ora che avevo la possibilità di osservarlo più da vicino, mentre entravo in infermeria sorreggendolo per una spalla, notai quanto veramente malridotto fosse il canadese.
Aveva un taglio superficiale per tutta la lunghezza dello zigomo destro, contornato da un colorito tutt’altro che normale. L’occhio sinistro era simile allo zigomo solamente per il colore che stava assumendo: un violaceo scuro in netto contrasto con il verde vivo dei suoi occhi.
Quello che mi preoccupava di più però non erano quelle classiche ferite da rissa, bensì un taglio molto più profondo e minaccioso sull’estremità destra della fronte.
«Non è niente.» Aveva detto Alex cercando in tutti i modi di coprirsi con un ciuffo di capelli dorati, non appena gliel’avevo fatto notare.
Sinceramente, però, il modo in cui aveva iniziato ad appendersi al mio braccio, non mi rassicurava affatto.
Entrai nell’infermeria della scuola di gran carriera, sorreggendo il biondo e chiamando la signora Macflorence ad alta voce.
L’infermiera della scuola si precipitò nell’aula adibita all’infermeria, facendo capolino dal suo studio, posto alla fine della stanza.
«Jared!» Esclamò non appena ebbe visto Alex accasciato sulla mia spalla. «Cosa è successo, per l’amor del cielo?!» Disse poi con una nota stridula nella voce, avvicinandosi.
«E’ stato picchiato.» Spiegai. «Sono entrato nel bagno del secondo piano e l’ho visto accasciato contro il muro.» Avevo tralasciato dei dettagli, ma non m’importava… Non erano di vitale importanza. Almeno non per il momento.
«Povero figliolo…» Sospirò la signora Macflorence sospirando rumorosamente, mentre esaminava le varie ferite e contusioni sul viso del canadese, soffermandosi soprattutto sul taglio sulla fronte. «Siediti qui sopra.» Disse poi, perdendo quel tono amorevole che aveva usato fino ad allora e sostituendolo con una voce seria e sicura di sé, ed indicando il lettino alle sue spalle ricoperto da stoffa bianca.
Non ero sicuro di voler lasciar camminare Alex da solo, quindi lo accompagnai fino al lettino, poco distante da dove eravamo. Lo aiutai a sedersi e poi lasciai il posto alla signora Macflorence, che mi lanciò un sorriso amichevole.
La signora Macflorence era l’unica del corpo docenti con cui avevo un legame. Certo, era pur sempre un legame docente-alunno, ma, ogni tanto, mentre ero seduto sullo stesso lettino dove ora si trovava Alex, e l’infermiera della scuola mi stava facendo i controlli per pallanuoto, avevo fatto delle piccole confessioni. Prima di mettermi con Lydia, ad esempio, avevo confidato alla signore Macflorence il mio interesse verso la mia futura ragazza. Ed era stata proprio lei a convincermi che tentare non mi sarebbe costato nulla.
Sarà per il suo aspetto materno che ispira fiducia, sarà che il lettino aveva delle proprietà tutte sue, fatto sta che mi ero affezionato alla signore Macflorence.
«Non hai visto chi è stato il pazzo scatenato che ha ridotto così questo poveretto?» Chiese poi, mentre con una piccola luce controllava i riflessi delle pupille del biondo, che sembrava star ritornando lentamente in sé.
Ci pensai un secondo prima di rispondere. «No. Non ho visto nessuno, sono entrato troppo tardi.» Dissi infine, sperando di non far trapelare la verità attraverso quelle parole insicure.
La signora Macflorence, in risposta, emise un sospiro intristito. «Ti fa male da qualche altra parte?» Chiese poi, dopo aver finito di controllare le pupille, con una dolcezza infinita nella voce.
Alex in risposta mugugnò qualcosa così a bassa voce che non riuscii a distinguere una sola parola.
«Allora mi sa che sarai costretto a sfilarti la maglietta.» Decretò la signora Macflorence, conservando la sua solita voce dolce.
Il biondo obbedì senza opporre alcuna resistenza e si sfilò la maglia blu scuro, mordendosi le labbra per evitare di far trasparire il dolore che quel movimento gli provocava.
La pelle di un colore rosa pallido era tesa sui muscoli lievemente definiti. Due lividi violacei dall’aria dolorosa donavano al suo torace un’aria ancora più debole.
Senza sapere il perché, mi ritrovai costretto a spostare lo sguardo per evitare di far notare uno strano rossore che mi si stava diffondendo sulle guance. Iniziai a guardarmi le mani, cercando tutte le imperfezioni che gli allenamenti di pallanuoto mi avevano provocato.
«Ok, non era niente di che, ringraziando al cielo.» Decretò dopo poco tempo la signora Macflorence, facendo segno ad Alex di rivestirsi. «Sono solo dei leggeri ematomi.» Spiegò poi, avvicinandosi alla sua scrivania.
Se erano solo dei leggeri ematomi, allora perché diavolo stava prendendo una penna e un pezzo di carta? Mica c’era bisogno di una ricetta per dei leggeri ematomi?
«Penso che se non prendete questi,» la voce della signora Macflorence mi riportò con i piedi per terra, «il professor Boujdi vi metterà come minimo dieci note di demerito per aver saltato l’ora di scienze.» E, finito di dire queste parole, aggirò la cattedra e mi porse un foglietto che – lo scoprii dopo averlo letto di sfuggita - certificava la nostra presenza in infermeria per tutta la durata dell’ora di scienze.
Un sorriso mi si dipinse sul volto, «Grazie mille signora Macflorence!» Esclamai entusiasta, seguito poi da Alex che mi fece l’eco.
Uscimmo dall’infermeria con lo sguardo amorevole della signora Macflorence che ci seguì fino all’uscio della porta.
Continuammo a camminare per circa cinque minuti prima che uno di noi due si decidesse a prendere la parola.
«Allora…» Farfugliai io, girandomi verso il biondo, che ricambiò il mio sguardo. «Be’…»
«Perché non hai detto chi è stato ad aggredirmi?» M’interruppe Alex con un tono di voce che mi avrebbe fatto rabbrividire anche in una giornata di metà agosto passata su una spiaggia dei Caraibi.
Il silenzio cadde di nuovo, inesorabile ed impossibile da infrangere con semplici parole di gentilezza. Sentii la rabbia invadermi come l’adrenalina prima di un incontro di pallanuoto.
«Sai, a questo punto ci si aspetterebbe un “grazie” o anche un solo accenno di riconoscimento per quello che ho fatto. Sinceramente sentirsi attaccati, ora, dopo tutto quello che è successo, non è proprio il massimo, anzi. Potresti anche evitare di andare in giro a fare finta di essere una persona così carina e simpatica se poi nascondi tutto questo. - Lo indicai per fargli capire a cosa alludevo - Adesso, se non ti dispiace, devo andare. E non perché ho un impegno, ma semplicemente perché se no rischio di finire quello che Daniel ha iniziato.» E detto questo girai i tacchi e mi allontanai da Alex, che era rimasto ammutolito dalla mia reazione.
«Senti,» disse poi all’improvviso, facendomi fermare giusto prima di girare l’angolo. «Non so se te ne sei accorto, ma sono appena stato picchiato da un bulletto della scuola che si sentiva troppo figo per rivolgermi la parola, e no, non mi sto riferendo a te. L’unica cosa che speravo era che quel figlio di una buona donna venisse punito per quello che mi ha fatto, ma invece no, il suo amichetto doveva proteggerlo anche oltre i limiti dell’assurdo. Quindi sì, ti ringrazio per averlo fermato, ma a questo punto mi domando il perché di questa tua azione.» Confessò rimanendo fermo dov’era fissandomi negli occhi blu.
Mi ci riavvicinai, per evitare di urlare per farmi sentire, e anche per elaborare una rispostaccia come si deve. «Ascoltami, tizio canadese, e questa volta apri bene le orecchie perché non lo ripeterò più. Mi dispiace per quello che ti è successo; mi dispiace che il mio “amichetto” ti abbia picchiato perché tu, in un bagno pubblico, hai confessato ai quattro venti la tua omosessualità; mi dispiace di essere entrato in quel bagno a salvarti il culo che tu stesso hai messo in pericolo.
«E’ vero, dovrebbe pagare caro per averti aggredito in un bagno. E’ vero, la gente è veramente tremenda, spregevole e disdicevole, tutti a prendersela con Alex dai capelli biondi e gli occhi verdi, nessuno mai che lo capisce.» Feci una pausa, per rielaborare quello che avevo detto e mettendo a tacere la vocina nella mia testa che mi sussurrava di andarci più pesante. «Sai,» Ricominciai io, «ogni dannatissimo anno che entro in questa scuola, da quella porta, - dissi indicando la porta d’ingresso alle mie spalle - vorrei guardarmi intorno senza vedere gente che mi osserva estasiata, eccitata e chi più ne ha più ne metta. Ogni anno però riesco a non pensare a queste cose grazie ai miei amici. E sì, Daniel è un mio amico.
«Ora, vorrei tanto che tu non fossi capitato in questa scuola, che io non fossi il tuo dannatissimo Best Cozy Student e che Daniel non ti avesse picchiato in un bagno della scuola, ma, mi dispiace tantissimo signorino-tutto-mi-è-dovuto, non è così che funziona la vita. Fai un azione? Aspettati delle conseguenze.» Conclusi, inspirando rumorosamente per calmarmi, dato che mi stava per uscire un offesa che non era proprio il caso di usare.
Alex mi guardava, con del veleno puro negli occhi. «Questa è la tua di conseguenza.» Disse, alzando la mano e assestandomi un sonoro schiaffo che risuonò nel corridoio vuoto, inspirando ed espirando in maniera teatrale.
«Brutta checca.» Ed eccola lì, l’offesa che con tanta fatica avevo cercato di tenere per me, uscire dalle mie labbra mentre mi tenevo la guancia indolenzita.
Le pupille di Alex si dilatarono all’improvviso, come presi da una furia sconvolgente. Io mi portai una mano alla bocca, come se facendo così potessi riportarci dentro le parole che mi erano appena scappate.
Il biondo mi fissò con il fuoco nei propri occhi, con le labbra serrate e le mani strette a pugno, prima di girarsi e di andarsene, con il naso all’insù.
«Sai,» Disse poi, girandosi verso di me, che ero nella stessa posizione in cui mi aveva lasciato, «avrei preferito che “Daniel” mi avesse continuato a picchiare invece che sentirmi dare della checca da un idiota qualunque.» E detto questo se ne andò.
Mi girai anche io, per andare nel cortile, e, quando mi trovai davanti ai piedi un cestino della spazzatura, gli assestai un calcio tutt’altro che delicato, facendone rimbombare il rumore per l’intero corridoio vuoto.
Avrei voluto che la giornata scolastica finisse lì, in quel preciso istante. Avrei voluto dirigermi verso la porta, spalancarla ed andarmene via da quel luogo infernale.
Invece girai i tacchi e mi diressi verso il cortile, per aspettare in grazia di Dio che la campanella suonasse.
Appena uscii in cortile, una folata di aria fredda mi colpì in pieno viso, facendomi lacrimare gli occhi. Tirai su la cerniera della giacca e mi ci rifugiai dentro, infilando le mani nelle apposite tasche.
«Ma che…?» Quando cacciai la mano sinistra dalla tasca della giacca blu scuro, avevo due pezzi di carta stretti in pugno. Due pezzi di carta che riconobbi immediatamente: la firma della signora Macflorence l’avrei potuta riconoscere anche con il semplice uso del tatto.
- Perfetto – pensai – adesso dovrei anche rivolgergli la parola a quell’idiota…- E, mentre riflettevo su quest’ultimo punto, sulle mie labbra, senza che io nemmeno me ne accorgessi, si dipinse un sorriso soddisfatto.


Quando la campanella suonò ero già di fronte all’aula di scienze, dove gli studenti, con aria affranta, sollevarono lo sguardo all’unisono per controllare quale delle due campanelle era suonata. Sembravano tante marionette.
Indossai la maschera più allegra del mio repertorio e spalancai la porta, già sapendo che il mr. Boujdi avrebbe immediatamente iniziato ad urlarmi contro.
Non sentendo, però, arrivare la manfrina che mi ero aspettato, mi girai incuriosito verso il professore, che mi stava guardando con un sorriso vittorioso dipinto sul volto.
«Bene bene signor Maycon, vedo che vuole iniziare bene l’anno. Credo sia difficile che possa sperare anche solo in una “B” al suo esame, cosa che le ricordo essere fondamentale per intraprendere medicina.»
Quanto avrei voluto saltargli addosso e prenderlo a botte, ridurlo così come Daniel aveva ridotto Alex. E invece no, mi trattenni e, senza dire neanche una parola, posai il mio certificato sulla sua scrivania. Mentre mi avviavo al mio posto, seguito dagli occhi affascinati delle ragazzine, notai, con la coda dell’occhio, mr. Boujdi analizzare minuziosamente la giustificazione che gli avevo lasciato sulla cattedra.
Fu mentre mi sedevo al primo banco disponibile che Alex entrò nell’aula, con il ciuffo dei capelli biondi sistemato in modo tale che l’ematoma sull’occhio destro non si notasse. Non stava male, ma di sicuro stava meglio con i capelli scombinati.
Osservai la scena con attenzione, guardando come il signor Boujdi desse addosso al nuovo studente canadese, e come quest’ultimo stesse per scoppiare a piangere.
Le mie gambe agirono ancora prima che il mio cervello potesse essere d’accordo. Entrai nella bolla della discussione, mi infilai una mano in tasca e cacciai il foglio che portava il nome del biondo, che mi guardò stranito.
«Garantisco io per lui.» Dissi.

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Capitolo 7
*** Fading ***


ff
Capitolo 6 - "Fading"

Non so cosa dire se non: scusate la luuuunghissima assenza, ma ho avuto vari problemi, alcuni anche abbastanza seri... Vi assicuro che da ora in poi la pubblicazione dei capitoli sarà più frequente e regolare (almeno ci proverò!)... Se vi siete persi il capitolo precedente, oppure ve lo siete dimenticato (cosa molto probabile ahahah), lo potete trovare qui :)
Bene, detto ciò non mi resta che sperare che questo capitolo vi piaccia :)
Mi raccomando, lasciate una piccola recensione!



La mandibola contratta per la concentrazione, gli occhi fissi sulla pagina bianca del quaderno degli appunti e una nota di soddisfazione nei suoi occhi verdi.
Avevo già finito il mio compito assegnatomi dal signor Boujdi, ovvero quello di definire la funzione degli Alveoli nei polmoni, e ora stavo passando il tempo ad esaminare, il più discretamente possibile, il viso concentrato di Alex, che sedeva al banco opposto al mio.
I suoi occhi, avevo scoperto, non erano completamente verdi. Avevano, infatti, delle sfumature di marrone chiaro, che si mescolavano perfettamente con il colore principale. Mi ricordavano le fronde degli alberi di Hyde Park.
Scossi la testa come per scacciare una mosca fastidiosa e cercai di concentrarmi su qualcos’altro. Provai a concentrarmi sulla lavagna digitale, su cui ora era proiettata la diapositiva che spiegava, per l’ennesima volta, la funzione della cartilagine nella trachea. Spostai lo sguardo più a sinistra, dove mr. Boujdi era seduto a cercare di capire come funziona un powerpoint, ma mi venne l’istinto di andargli vicino e rompergli qualcosa in testa, quindi cambiai soggetto. Dietro di lui c’era un tabellone con scritte e avvisi di tutti i tipi per gli alunni della sixth form. Mi misi a leggere l’avviso dell’incontro con i professori di Cambridge per la facoltà di medicina.
«Ok, mi raccomando: finite l’assegno e ripetete tutto quello che abbiamo fatto in questi giorni entro venerdì. Alla prossima lezione.»
E, come se fosse stato il professore stesso ad aver premuto un pulsante, la campanella suonò con i suoi ben noti tre “bip”, consentendo all’intera classe di uscire ed andare nella sala comune.
Mi affrettai verso Alex per fermarlo prima che uscisse dall’aula.
«Ehi.» Dissi, senza sapere né cosa dire né perché l’avevo fermato.
Il biondo in risposta mi guardò con uno sguardo interrogativo, che faceva chiaramente trasparire il disprezzo che provava nei miei confronti.
«Pensavo solamente che… Boh non so…» Per fortuna il solito rumore che anticipava la voce del preside all’interfono della scuola mi interruppe prima di una terribile gaffe.
“A causa di alcuni brutti avvenimenti degli anni scorsi, ricordiamo ai vecchi studenti e informiamo quelli nuovi, che appena finito l’orario scolastico, a meno che non vogliate rimanere nell’edificio della scuola, dovete tornare direttamente a casa, usando la via più diretta. Grazie per la vostra attenzione e scusate per l’interruzione. Buon proseguimento di giornata.”
Il canadese, che aveva fissato per tutto il tempo il soffitto, come se, attraverso l’altoparlante, avesse potuto vedere il preside parlare, abbassò lo sguardo su di me. «Per che cos’era tutto quel fatto del coprifuoco?» Chiese poi.
«L’anno scorso è stato quasi accoltellato un ragazzo di questa scuola, era dell’year 11. Per fortuna però è riuscito ad evitare il tutto.» Spiegai, stranamente contento che mi stesse rivolgendo la parola.
Come se avesse sentito le mie emozioni, prese i suoi libri e se ne andò.
Non resistendo all’impulso, lo presi per un braccio e lo fermai, fissandolo dritto negli occhi.
«Scusa ma sei incazzato con me per qualche motivo in particolare?» Chiesi. «A parte le cazzate che ti ho urlato addosso nel corridoio prima, ovviamente… Scusa, comunque… Veramente non so cosa mi sia preso.» Dissi, non sapendo neanche io da dove mi stessero uscendo certe parole…
Alex mi guardò di rimando, nascondendo lo sguardo sorpreso che aveva per un attimo animato le sue iridi verdi. Poi mi rispose. «La prossima volta evita di prendere le mie difese. Le mani e la bocca le ho apposta.»
E detto questo se ne andò lungo il corridoio del piano terra.
E la mia mente elaborava almeno altri due modi in cui il biondo avrebbe potuto usare la sua bocca e le sue mani.



I giorni passarono abbastanza velocemente, fino a diventare una settimana, poi due, ed infine tre.
I rapporti con Alex erano rimasti quasi completamente invariati, anche se però forse ora poteva essere considerato un rapporto basato sugli interessi che entrambi ne avremmo tratto, e non più sull’odio che lui provava nei miei confronti e che credeva fosse reciproco.
Dato che però il posto in cui abitava Alex (Lewisham, un quartiere di Londra) era troppo lontano da casa mia, o almeno così gli avevo fatto credere, non ci vedevamo mai in orari extra-scolastici.
Quella mattina uscii di casa un po’ prima del solito a causa di alcuni documenti che dovevo stampare dal computer della scuola, e, essendo che ottobre era ormai alle porte, le temperature erano tutt’altro che alte.
Non mi ero mai riuscito ad abituare alle temperature britanniche, nonostante vivessi a Londra dal giorno stesso in cui mia madre mi aveva dato alla luce. E, per questo motivo, indossavo, sopra al solito pullover con camicia , una felpa blu con dei disegni bianchi che si intrecciavano tra di loro, creando dei giochi di linee e di forme piacevoli alla vista.
C’era una nebbia fitta tutt’intorno a me, mi si posava addosso come una leggera patina di umidità, o di neve. Una leggera pioggerellina scendeva leggera dalle nuvole grigie e minacciose che ricoprivano l’intera città. I vetri delle macchine erano ricoperti di rugiada, che ora, con la prima luce del mattino, stava iniziando a cedere, scivolando verso il basso, dove i cruscotti aspettavano pazientemente.
Continuai il resto del tragitto senza neanche pensare di cacciare l’ombrello dallo zaino. E questo per due motivi: la pigrizia dovuta all’orario e il fatto che incontrare Alex sotto la pioggia mi entusiasmava di più dell’avere un ombrello tra le mani.
Ma, per mia sfortuna (e quando ebbi questa sensazione rimasi alquanto confuso), non lo incontrai per tutta la strada verso scuola, e neanche una volta arrivato nella sala comune, dove, invece, trovai Lydia e i miei amici. Questi ultimi, però, senza dire una parola si alzarono dai loro divanetti rossi e uscirono dalla stanza. Una cosa che ormai accadeva da tre settimane a quella parte.
La sala comune era una stanza squallidamente arredata, se si poteva usare il termine arredata, con una fila di divanetti rossi, un paio di tavolini con qualche sedia e tanti computer quanti gli armadietti vicini all’entrata.
Le luci ultimamente andavano e venivano, lasciando accese solo quelle di emergenza, quasi sicuramente a causa della macchinetta che vendeva bibite e snacks nell’angolo della stanza, la quale continuava a mangiarsi i soldi di tutti gli studenti affamati.
«Ehi Ly.» Sorrisi radiante quando mi fui avvicinato al suo divanetto, chinandomi per posarle un bacio sulle labbra.
«Ehi.» Ricambiò lei sorridendomi. «Hai qualche lezione alla prima ora?» Mi chiese mentre mi sedevo.
Ci dovetti riflettere un po’ sopra prima di poter dare una risposta a quella domanda. «Mmmh no, non credo, perché? Qualche progetto?»
«No no, nessun progetto, io devo andare al Tate modern con mr Gayle, ricordi?» Mi disse, fissandomi con i suoi occhi azzurri, indecifrabili come al solito.
Mr Gayle era l’insegnante di arte e design, da tutti quanti etichettato come il “pazzo quattr’occhi”, a causa della sua non proprio perfetta salute mentale e dei suoi occhiali spessi come due fondi di bottiglia. Lydia frequentava il suo corso, aspirando ad un’A*, che le sarebbe di sicuro servita per la carriera che aveva intenzione di intraprendere.
«Oh sì certo!» Esclamai, come colto all’improvviso da una scossa elettrica con benefici mnemonici. «Be’ divertiti mentre io starò qui a studiare per il test di biologia.» Le dissi con tono scherzoso, e, in risposta, Lydia si allungò e mi poggiò un leggero bacio sull’angolo della bocca, con un sorriso divertito. «Vabbè ora devo andare, ci vediamo dopo?» Chiese la bionda con il sorriso ancora sulle labbra.
Annuii in conferma alla sua domanda.
Non appena Lydia se ne fu andata, andai al mio armadietto e presi il libro di Biologia e il quaderno degli appunti, sapendo che si prospettava una giornata alquanto pesante.
Il resto del giorno, come avevo già immaginato, passò più lentamente di qualsiasi altro giorno avessi mai trascorso in quell’edificio.
Di solito, quando Lydia andava in gita, avevo il mio solito gruppo con cui passare il tempo, ma, senza capire ancora il perché, i ragazzi mi ignoravano. Passai, quindi, tutto il tempo con la testa sul libro di biologia.
– Almeno supererò il test – pensai.

«Signor Maycon… Come mai così puntuale?» La voce di mister Boujdi, simpaticissimo come suo solito, mi diede il benvenuto nella calda aula del secondo piano, dove si sarebbe svolto un piccolo test, che sarebbe servito come prova per gli esami di gennaio.
«Non vedevo l’ora di vederla, professore.» Risposi con tono mieloso, zittendolo. In compenso, però, sentii provenire dal fondo dell’aula un leggero cenno di risa. Mi girai velocemente, per capire da chi provenisse, anche se in fondo già conoscevo la risposta. Alex.
Gli occhi verdi gli brillavano di luce propria quando rideva, ed ero sicuro che, se fosse stato in un’aula completamente buia, sarebbe stato capace di illuminarla interamente.
Mi avvicinai al blocco di banchi dove sedeva il biondo, distaccato dal resto della classe, e mi ci sedetti accanto, sorridendogli. «Se sei qui per copiare le risposte del test hai fatto l’ennesima scelta sbagliata.» Mi disse Alex, con tono quasi polemico, facendo un’ultima ripassata disperata dalla miriade di fotocopie dateci da mister Boujdi.
«Fidati, ho studiato abbastanza per tutti i presenti.» Risposi, non dando peso al tono del biondo, ripensando alle quattro ore precedenti passate in sala comune a ripassare come un disperato. Mi venne in mente, come mosso da una molla, che anche il canadese aveva partecipato alla gita con mister Gayle. Non mi lasciai sfuggire l’occasione. «Com’è stata la visita al Tate?» Prima di rispondermi, Alex mi fissò negli occhi con tanta intensità da farmi scostare lo sguardo. Sembrava mi stesse leggendo nei reconditi dell’anima, un posto che neanche io visitavo poi tanto spesso. «Mi è piaciuta, grazie.» Rispose poi, abbassando lo sguardo nuovamente sui fogli in bianco e nero. Non feci in tempo a rispondergli che la campanella suonò e l’intera aula si iniziò a popolare di studenti nervosi per il test. Così, non appena mister Boujdi mi ebbe dato il foglio del test, in assoluto silenzio, chinai il capo ed iniziai.

«Hey!» Dissi alzando leggermente la voce per riuscire a farmi sentire da Alex, che si era avviato verso la sala comune. Vedendo che non accennava a fermarsi, accelerai il passo, così da ritrovarmi accanto a lui. «Com’è andato il test?» Domandai.
«Ok, basta.» Esalò di botto il biondo, fermandosi repentinamente. Rischiai di urtare una ragazzina dell’year 9 davanti a me.
«Scusa?»
«Mi spieghi perché ti stai comportando in questo modo?» Chiese, come se questo potesse chiarire tutto. «Mi va bene avere un minimo di dialogo, davvero. Ci guadagniamo entrambi. Ma fingere così spudoratamente mi fa venire il voltastomaco.»
Sentii una strana morsa alla bocca dello stomaco. «Ok, come vuoi. Da oggi in poi a stento ti saluterò, contento?» Dissi, cacciando tutta l’acidità che stavo raccogliendo.
«Contentissimo.» Replicò, fissandomi negli occhi con la stessa intensità con cui mi aveva fissato poco prima.
«Bene.»
«Bene.»
E, dopo questo scambio di battute, che sembravano essere state prese da un copione di una tele novela, ci dirigemmo in due direzioni diverse, sapendo entrambi che da lì a un’ora ci saremmo dovuti incontrare nell’aula di Inglese. E sapevamo anche che saremmo stati costretti a fingere di nuovo.

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Capitolo 8
*** Girlfriend ***


ef
"Capitolo 7 - Girlfriend"
Come promesso il nuovo capitolo è qui esattamente due settimane dopo la pubblicazione del precedente :)
Grazie mille per tutte le recensioni che avete lasciato in questi giorni, erano una migliore dell'altra e soprattutto perché sono proprio queste a convincermi ogni volta a pubblicare nuovi capitoli (quindi lasciate recensioni che sono sempre gradite!).
Le cose si fanno piano piano sempre più interessanti, stay tuned :)
Spero vi piaccia!

 

«Ah, Jared, tesoro, questa lettera è arrivata due settimane fa, mi sono dimenticata di dirtelo. » La voce di mia madre mi destò dallo stato catatonico in cui mi trovavo. Ero tornato da più o meno tre orette da scuola e mi ero subito fiondato sulla lettura di Frankenstein, assegnatoci da mrs. Dorpall.

Incuriosito mi alzai dal tavolo da pranzo, che stavo usando come piano di studio, e mi avvicinai a mia madre, che mi porse una busta da lettere bianca con sopra francobolli canadesi.
«MAMMA!» Urlai esasperato. «Stavo aspettando questa lettera da un sacco di tempo! E’ importante!» E mentre continuavo ad imprecare verso mia madre, iniziai ad aprire con foga l’involucro di carta bianca con aspettativa e foga: stavo aspettando la lettera di risposta da parte di Kyle, il mio cugino di Vancouver, da una vita ormai.

Mi sedetti sul divano ed iniziai a leggere.

 

“Hey!

Allora, cercherò di risponderti per punti, altrimenti non ne usciamo più…

Prima di tutto non so bene cosa sia questo B.C.S. ma per come ne hai parlato sembra una cosa positiva, quindi sono contento per te! Onestamente non capisco perché tu debba farti tutti questi problemi sul comportamento di Aaron: ha fatto una cosa per te, non farti domande e goditela!

Per quanto riguarda la seconda cosa che mi hai raccontato non credo di aver capito bene quello che volevi dirmi… E forse è meglio così. Non ho capito se ti ha dato più fastidio il fatto che questo ragazzo sia gay o che abbia deciso di dirtelo… In  entrambi i casi credo, anche in questo caso, che tu ti stia facendo troppi problemi…

Comunque, e questo voglio dirtelo perché so che con te posso essere onesto in qualsiasi caso, credo che tu ti stia facendo influenzare da quelli che ti circondano. Mentre eri qua a Vancouver il tuo comportamento era completamente diverso: eri aperto a tutto, mostravi interesse per le cose che ti circondavano e cercavi di capire le cose prima di giudicare… Ora invece sembra che tutto ciò che c’è di negativo attorno a te ti abbia influenzato. Non fraintendermi, ti prego… Dico solo che tu sei meglio di così, e che se questo ragazzo si sta comportando in un determinato modo allora ci dev’essere una spiegazione logica; e soprattutto credo che se ti fa questo effetto, allora è riuscito a toccare le corde del tuo Io.

Comunque, passiamo alle cose serie (ovvero a me!): in questi giorni non è successo niente di che, se non l’inizio della scuola e il fatto che ho conosciuto una ragazza al corso di recitazione. E’ davvero bellissima: altezza media, occhi a mandorla e capelli castani… Insomma, il sogno!
Mi manchi anche tu,

A presto,

K.”

 

Rilessi la missiva altre dieci volte, cercando di assimilare al meglio quello che Kyle aveva scritto. La prima cosa che provai fu un sentimento di rabbia: avrei voluto leggere quella lettera molto prima, sia perché in questo modo avrei potuto rispondere al mio cugino canadese più velocemente, sia perché, come al solito, le sue parole mi avevano raggiunto in profondità, risvegliandomi da un leggero sonno, e tre settimane prima era tutto ciò di cui avrei avuto bisogno.

Senza perdere altro tempo, mi alzai dal divano su cui mi ero seduto, senza curarmi della coperta di patchwork che cadde sul parquet, e mi affrettai su per le scale di legno, che scricchiolarono sotto al mio peso. Entrai velocemente in camera e, senza nemmeno chiudere la porta, mi sedetti alla scrivania, rovistando tra i cassetti in cerca di carta e penna. Non appena li ebbi trovati iniziai a scrivere:

 

Prima di dire qualsiasi cosa ti prego di scusarmi per il ritardo!

Mia madre non mi ha detto dell’arrivo della tua lettera fino ad oggi, più o meno un mese più tardi. Inutile dirti, quindi, che di cose ne sono successe eccome!

 

E, senza perdere tempo per verificare la qualità di quanto scritto, iniziai a gettare su carta tutto ciò che era accaduto in quelle tre settimane, dallo scontro tra Alex e Daniel al comportamento freddo che i miei amici avevano ultimamente tenuto nei miei confronti. E mentre la penna lasciava segni d’inchiostro sulla carta bianca, iniziai a prendere sempre più consapevolezza di tutto quello che era successo; come se nella mia mente avessi avuto, fino a quel momento, solo pezzi disordinati di un puzzle molto più complesso, e che solo scrivendo cronologicamente (più o meno) tutto l’avvenuto sarei stato in grado di metterli in ordine.

Quando finii di scrivere la lettera la ricontrollai un secondo, aggiustando qua e là quei problemi di distrazione dovuti alla velocità con cui avevo scritto e alla foga con cui l’avevo fatto. Misi la lettera nella busta bianca, la chiusi, scrissi tutti i dati necessari e ci incollai i francobolli. Una volta fatto ciò presi la busta, mi alzai dalla mia postazione e scesi nuovamente in cucina, dalla quale uscii per riporre la lettera nella casella postale, in modo tale che il giorno seguente il postino avrebbe potuto dare inizio al suo viaggio intercontinentale.

Stava iniziando a piovere.

 

 

La serata la trascorsi fisicamente sul libro di inglese, mentalmente nel mio mondo a parte, con mia madre che cercava di impartirmi ordini sul mettere la tavola ed aiutarla a preparare la cena, inconsapevole del fatto che tutto ciò che stava dicendo da un orecchio mi entrava e, dopo aver fatto un giro a vuoto attraverso le mie sinapsi, dall’altro mi usciva.

Scrivere la lettera a Kyle mi aiutò a far luce su molte cose, cose a cui continuai a pensare per tutta la sera e la notte, che passai completamente immobile sul mio letto, con addosso ancora i vestiti del giorno precedente.

Nella mia testa si ripetevano all’infinito sequenze predefinite: l’arrivo di Alex a scuola; il mio sparlare del nuovo arrivato con Lydia; Daniel che lo picchia ed io fermo immobile a guardare che questo accadesse; la mia offesa, uscitami da bocca ancor prima che ne avessi realizzato il significato; le poche parole scambiateci prima del test di biologia due giorni prima. Ed ogni volta che questa sequenza ripartiva, nella mia testa un tassello trovava il proprio posto nel puzzle, dandomene un’immagine più completa.

Le ore passavano, lentamente, ed io continuavo a stare steso immobile sul letto, a pensare, come mi succedeva solo nei momenti peggiori. Gli occhi fissi nel buio che mi circondava; le orecchie si nutrivano di ogni singolo rumore che proveniva dall’esterno; le mie mani giocavano con i lembi delle lenzuola e i denti mordevano incessantemente le labbra, fino a che, verso le cinque e mezzo del mattino, Orfeo non decise di farmi visita.

 

 

 

Un’ora dopo il suono della sveglia mi fece aprire gli occhi, arrossati e gonfi dal sonno. Lentamente iniziai ad alzarmi dal materasso, passandomi una mano tra i capelli scompigliati per dirigermi verso il bagno. La stanza era un casino: i libri che avevo usato ieri per studiare erano ancora sul tappeto vicino alla scrivania; la borsa che usavo per andare a scuola era buttata a terra vicino alla porta; i vestiti che ieri avevo indossato a scuola erano invece appesi sulla sedia della scrivania… Forse sarebbe stato meglio non svegliarsi proprio.

Accesi la luce del bagno e i miei occhi faticarono ad adattarsi al cambiamento di luminosità, mi avvicinai al lavandino di marmo nero e vi poggiai le mani, rimanendo quasi in trance per una decina di minuti a fissare il vuoto nello specchio di fronte a me, dopo di che mi sfilai i vestiti ed entrai nella doccia, lasciando che l’acqua tiepida mi svegliasse e facesse ordine tra i miei pensieri, ancora scossi dalla nottata appena trascorsa a riflettere.

«Jared!» La voce di mia madre mi scosse dallo stato di trance in cui ero ricaduto. «Ti sei alzato?!»

«Sì, ma’! Sono sotto la doccia!» Risposi scocciato… Odiavo fare conversazione appena sveglio. Quel breve dialogo mi era però servito a prendere consapevolezza della mia situazione attuale, e così chiusi l’acqua della doccia, mi avvolsi un asciugamani in vita e con un secondo iniziai ad asciugarmi i capelli corvini strofinando vigorosamente.

Scelsi i vestiti che avrei indossato quel giorno quasi ad occhi chiusi, come ogni mattina, dall’armadio in fondo alla stanza e li indossai in fretta, per paura di fare tardi, motivo per cui riuscii, stranamente, a fare colazione prima di uscire di corsa con la speranza di riuscire a prendere il bus.

Le temperature si erano abbassate drasticamente da quando era iniziata la scuola, e così il mio alito creava piccole nuvolette di vapore, che si perdevano nel gelo dell’aria. Mi strinsi ancora di più nel giubbotto imbottito, infreddolito ed ancora mezzo addormentato e mi misi ad aspettare il bus alla fermata della piazzola di Forest Hill.

Dopo venti minuti di attesa guardai insofferente l’ora sul cellulare e pensai di avviarmi a piedi, con la speranza di prenderlo ad una delle fermate seguenti, ma proprio mentre stavo per allontanarmi dalla fermata vidi in lontananza il pullman rosso e, così, mi rifugiai nel tepore del mezzo pubblico. Ipod nelle orecchie, mani in tasca e testa poggiata sul finestrino per guardare il paesaggio scorrermi sotto gli occhi. Tutto come al solito. Eppure di solito adoperavo quei minuti per ripetere o per prepararmi ad incontrare i miei amici e Lydia; quella volta, invece, la mia testa viaggiò nuovamente ai pensieri che mi avevano tormentato la sera prima: Alex.

Quasi come se l’avessi evocato, vidi il ragazzo canadese salire sul bus e sedersi due file davanti a me. Nel guardarlo provai tenerezza e sorrisi involontariamente: aveva i capelli scombinati dal sonno e la cravatta storta. Quanto sarà diverso in Canada? Pensai nell’osservarlo.

Per la prima volta consapevole di quello che stavo per fare, mi alzai dal mio sediolino e mi andai a sedere accanto al canadese, che mi riconobbe dopo una manciata di secondi e si girò subito dall’altro lato.

«Hey» Iniziai io, un po’ impacciato, ricevendo in risposta solo uno sguardo truce da parte del biondo. «Non sapevo prendessi questo bus la mattina.» Dissi, non sapendo come continuare il discorso, e pentendomi subito dell’iniziativa presa.

«Pensavo che avessimo già chiarito quanto questo comportamento ipocrita sia insopportabile, soprattutto a prima mattina.» Rispose lui, dopo vari minuti di silenzio, ai quali io ribattei fissandolo negli occhi il più intensamente possibile, per la prima volta da che l’avessi conosciuto incolume alle sue frecciatine acide. «Comunque di solito non prendo questo, è solo che oggi ho fatto tardi.» Concluse, infine, distogliendo lo sguardo e abbozzando quello che mi parve un sorriso.

«Io invece ho aspettato per tipo mezz’ora, pensa un po’!» Esclamai, sorridendo; dopo di che una cappa di silenzio sembrò abbattersi su di noi, rendendo ogni istante il più imbarazzante della mia vita. Solo dopo vari minuti ebbi il coraggio di parlare. «Ascolta,» iniziai, con la voce che tremava «ho pensato un bel po’ a tutto quello che è successo e - no aspetta, non interrompermi, ti prego - insomma, mi sono accorto di varie cose che ho fatto di cui non sono molto orgoglioso, e soprattutto con cui non riesco a convivere, e vorrei che tu capissi che tutto ciò che è successo l’avrei evitato volentieri, se solo ne avessi avuto la forza. Non sto parlando solo di quello che è successo con Daniel, o di come abbia parlato male di te alle tue spalle e via dicendo, ma anche del mio comportamento nelle piccole cose. Ora capisco che tutte queste cose ti abbiano dato un’immagine di me completamente negativa, ma che ti assicuro essere sbagliata, ma vorrei anche che tu capisca il perché di tutti questi miei comportamenti da  emerito idiota. Vorrei che tu capissi cosa mi ha spinto ad agire in questo modo, che, ti assicuro, non mi si addice; per niente.» Mi interruppi solo un secondo, per riordinare le idee e per capire l’effetto che le mie parole stavano avendo su Alex, che mi guardava con una scintilla di curiosità negli occhi verdi. «Vorrei, in poche parole, che tu riuscissi a trovare il modo di perdonarmi, o comunque di darmi la possibilità di ricominciare da zero.

«Ho passato l’intera nottata di ieri a pensare a tutto quello che è successo da quando è iniziata la scuola, e non te lo dico solo per farti compassione o per riuscire a conquistarmi la tua simpatia – soprattutto perché se c’è qualcosa che ho capito della tua persona è che conquistarsi la tua simpatia non è così semplice – ma, più che altro, per farti capire che tutto quello che ti sto dicendo ha subito un’estenuante verifica. Comunque, la conclusione a cui sono arrivato è che tu mi hai fatto, sin dal primo momento, uno strano effetto, e questo mi faceva paura; era come se riuscissi a toccare sempre quella parte di me che io non volevo assecondare. Ripeto: mi faceva paura. Ed è sempre per paura che ti ho insultato, o che ho deciso di non dire chi era stato a ridurti a stracci nel bagno, oppure che ho cercato, subito dopo, di aggiustare le cose come solo un povero coglione avrebbe potuto fare, ovvero con accondiscendenza e pietà.

«Il succo del discorso, quindi, è che sì, mi dispiace di aver avuto un comportamento di merda, ma è anche vero che se tornassi indietro non avrei modo di evitare ciò che è successo, perché ho ancora paura.» E una volta finito il monologo, quasi come se avessi calcolato apposta i tempi, mi alzai e mi diressi alla porta del bus, che aveva raggiunto, in quel momento, la fermata della Walworth Academy.

 

 

«Allora?»

«Ly non lo so, ci devo pensare.» Risposi alla mia ragazza, mentre sistemavo i miei effetti personali nell’armadietto 117.

«Ma come?! Stavamo organizzando questa serata da settimane ormai!» Replicò esasperata Lydia, incrociando le braccia all’altezza del petto.

La mia ragazza aveva ragione… Stavamo organizzando da ormai due settimane una serata tranquilla a casa mia: solo noi due, con un bel film e tanto junk food; ma sinceramente era l’ultima cosa di cui avessi voglia in quel momento.

«Lo so tesoro, è solo che mia madre alla fine ha deciso di rimanere a casa e non credo che mi farebbe venire da te sapendo che il giorno dopo ho la partita di palla a nuoto.»

«Ovviamente…» Disse tra i denti la ragazza, andandosene subito dopo lasciandomi come un idiota a fissare il vuoto.

Incollerito con me stesso e col mondo intero per tutto quello che dovevo sopportare, presi il libro di biologia dall’armadietto e poi lo chiusi con violenza.

«Fa’ attenzione che così facendo rischi di rompere tutto.» Sentii una voce dire dalla mia destra. Quando mi girai vidi Alex, questa volta con la cravatta raddrizzata e i capelli pettinati alla meno peggio, appoggiato col fianco sinistro al muro di fianco a me e con un sorriso dipinto sulle labbra. «Che dici, andiamo in classe che altrimenti il signor Boujdi ci abbassa il voto come minimo di due punti?»

Gli sorrisi. Non so come ma tutto quello che era successo con Lydia era già acqua passata. «Andiamo.» Dissi infine, dandogli una pacca sulla spalla ed avviandomici insieme verso l’aula del signor Boujdi.

«Cos’era successo, comunque?» Chiese il biondo mentre ci mettevamo in fila in attesa che il professore aprisse la porta della propria aula e ci facesse entrare. «Prima, intendo.»

Leggermente meravigliato da quella domanda improvvisa, lo guardai per qualche istante negli occhi prima di rispondere: «Un banale litigio con la mia ragazza, Lydia; niente di che…»

«Capisco…» Disse l’altro, guardandosi le dita affusolate. «Senti, comunque io volevo dirti che…»

«Non abbiamo tutta la giornata, forza! In classe!» La voce del signor Boujdi arrivò dalle nostre spalle e stroncò il discorso del ragazzo canadese, che sembrò ritornare alla realtà iniziando a giocherellare nervosamente con la propria penna, prima di seguire il professore all’interno dell’aula.

Una volta sedutici l’uno affianco all’altro, mentre tutti i nostri compagni di corso prendevano posto attorno a noi, gli sfiorai delicatamente il braccio per richiamare la sua attenzione, gli sorrisi e dissi semplicemente. «E’ tutto ok.»

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Capitolo 9
*** How To Fix Things ***


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Capitolo 8 - "How to fix things"

Eccoci ritrovati con l'ottavo capitolo di questa piccola storia che spero vi stia piacendo. Sppero abbiate passato delle belle feste di Natale e che siate dell'umore adatto per leggere questo capitolo :)
Alla prossima e grazie a chi continua a seguirmi e a recensire!

 

Non appena la campanella suonò con gli ormai ben noti tre “bip”, raccolsi il mio materiale e mi diressi verso il corridoio, decidendo di aspettare lì Alex, che mi raggiunse dopo poco.

«Un’altra ora con il signor Boujdi e rischiavo di darmi fuoco.» Disse esasperato il biondo, non appena ci fummo allontanati dall’aula di scienze. «Io adesso ho un’ora buca, ti andrebbe di fare un salto da Tesco e prendere qualcosa da mangiare? Stamattina non ho fatto colazione.» Chiese mentre ci stavamo avviando ai nostri armadietti.

«Mi dispiace, ma ora ho fisica…» Risposi, sinceramente dispiaciuto. «Però un’ora e sono libero… Possiamo posticipare oppure hai impegni?»

«No, figurati, mi va benissimo.» Replicò, togliendomi un peso dal petto. «Allora ci vediamo dopo?»

«A dopo.» Dissi sorridendo, mentre mi incamminai verso l’aula di Fisica.

Il professore parlò per quelle che sembrarono essere ore ed ore del vettore d’induzione magnetica, della sua direzione, del suo verso e via dicendo. Stranamente però durante quell’ora la mia testa viaggiò in mondi completamente diversi, in mondi che si intrecciavano col futuro, e con l’aspettativa di quello che sarebbe potuto succedere di lì a poco; in mondi che si ancoravano pesanti al piano degli attimi presenti e non volevano farli scivolare via; in mondi che avevano tutto il fascino di un futuro imminente ed irraggiungibile allo stesso tempo.

Quando il professore smise di parlare, cinque minuti dopo la fine effettiva della lezione, presi velocemente tutti i miei effetti da sopra al banco e mi diressi a passo spedito verso la sala comune, dove Alex mi stava aspettando seduto ad un tavolino immerso nella scrittura di quella che sembrava essere una lettera, ed anche molto importante.

«Hey.» Dissi, mentre mi sedevo affianco al biondo, che non distolse lo sguardo neanche per un secondo dal pezzo di carta. «Che stai facendo?»

Vedendo che il canadese non aveva intenzione di rispondermi, feci per alzarmi, improvvisamente innervosito ed incollerito con il mondo; e proprio mentre stavo per mettere la sedia al proprio posto, vidi il ragazzo allungarmi un foglio di carta piegato su se stesso. Una lettera.

«Questa è per te.» Disse, semplicemente, sorridendomi leggermente imbarazzato.

«Ehm… Cos’è?» Domandai, prendendo la lettera e passandomela tra le mani.

«Una sottospecie di lettera.» Rispose facendo spallucce, prima di aggiungere velocemente: «Leggila quando non ci sono io nelle vicinanze, mi raccomando.»

Al che, confuso ed incuriosito allo stesso tempo, riposi la lettera nel libro di fisica e mi guardai intorno, cercando qualcosa da fare; quasi come se la stanza potesse suggerirmi attività ricreative.

«Allora? Ti andrebbe di accompagnarmi da Tesco a prendere quello spuntino che mi avevi promesso?» Mi chiese, riportandomi con i piedi per terra e sollevandomi da una situazione di puro imbarazzo.

«Certo!» Risposi subito, «Devo solo posare questa roba e poi andiamo, ok?»

«Va benissimo. Evita di metterci troppo che sto morendo di fame.» Ribatté Alex, abbozzando una risata e dandosi leggere pacche sulla pancia.

«Non ti preoccupare.» Dissi, ridendo anche io.

Detto ciò, mi avviai verso il mio armadietto e vi posai il mio libro ed il mio quaderno, alleggerendomi almeno di quei due pesi, prima di voltarmi verso la sala comune e ritrovarmi faccia a faccia con Lydia, la quale mi guardava fisso negli occhi e con le braccia incrociate al petto. Accoppiata, questa, che non presagiva mai nulla di buono.

«E’ una mia impressione oppure c’è qualcosa che desideri dirmi?» Chiesi, esasperato dal silenzio della mia ragazza, che non sembrò aver sentito le mie parole. «Ok… Senti: se devi continuare a fissarmi in questo modo inquietante puoi farlo anche dopo, dato che ora ho una cosa abbastanza importante da fare.» E detto ciò feci per andarmene, superandola.

«Certo che sei proprio uno stronzo.» Disse lei, con gli occhi resi lucidi dalle lacrime.

«Sarò anche uno stronzo, ma se non mi dici cosa ho fatto mi spieghi come faccio a darti ragione?»

«Sono giorni che mi eviti, che mi tratti male, che cerchi sempre scappatoie e scuse per fare a meno di stare con me. Sei uno stronzo perché dopo tutto quello che abbiamo passato insieme tu ancora non mi dici le cose più importanti della tua vita.» Disse Lydia, cacciando tutto fuori così velocemente da sembrare un gatto alle prese con una palla di pelo. «Voglio sapere cosa ne sarà di noi e cosa ti sta succedendo.»

«No scusa… Fammi vedere se ho capito bene…» Dissi, preso completamente alla sprovvista dal comportamento della mia ragazza. «Io ho disdetto sì e no due appuntamenti e tu pensi che io ti voglia lasciare o cose del genere?!»

Lydia mi guardò con gli occhi ancora un po’ bagnati dalle lacrime (che era riuscita a trattenere), prima di parlare con voce chiara. «E’ che… E’ che girano voci.»

«Non c’è nessun’altra e lo sai.» Risposi secco.

«E che mi dici di un altro?»

La guardai senza dire nulla; e non perché non avessi cose da dirle, ma semplicemente perché la mia mente non riusciva a formulare pensieri sensati: era quasi come se le parole di Lydia mi avessero colpito allo stomaco come una lama ghiacciata, togliendomi il respiro e lasciandomi dolorante alla ricerca di aria.

«Che significa?» Dissi, dopo vari minuti di silenzio e bianco come un lenzuolo.

«E’ solo che ultimamente stai passando molto tempo con quel ragazzo… Con quella checca.» Al suono di quelle parole mi dovetti sforzare per non alzare le mani sul Lydia, che sembrò accorgersi della contrazione della mia mandibola. «E i tuoi amici parlano.»

Daniel.

«Senti,» dissi tra i denti, avvicinandomi pericolosamente alla sua faccia, in modo tale da farle sentire ogni singola parola di quello che avevo intenzione di dirle. «non ho intenzione di rimanere qua a sentirti sparare stronzate sulla gente, e in particolare su di me, come se niente fosse. Il mio tempo libero lo passo con chi voglio; e sta’ pure certa che dopo quello che hai appena detto tu non rientri nella lista.»

Senza darle modo di ribattere mi avviai verso Alex, che mi stava aspettando nella stessa posizione di come l’avevo lasciato.

«Allora, andiamo?» Dissi, provocando nel ragazzo un sorriso a trentadue denti.

 

 

«Davvero hai intenzione di prendere anche quello?!» Domandai allibito, vedendo la quantità di cibo che Alex aveva intenzione di comprare.

«Che c’è?» Ribatté lui, con aria fintamente innocente, suscitandomi un sorriso. «Te l’avevo detto che avevo fame; e tu mi hai fatto aspettare anche un bel po’ di tempo, quindi mi si è aperto lo stomaco.»

«Dove metti tutta quella roba rimarrà un mistero fino alla fine dei tempi.» Dissi, dopo essermi fatto una risata ed aver accompagnato Alex alla cassa fai-da-te.

In quella mezz’ora passata con Alex non avevo fatto altro che ridere, e questo mi aveva aiutato a distrarmi da tutto quello che Lydia mi aveva detto poco prima. Davvero Daniel era stato in grado di spargere una voce del genere? E tutto questo solo perché gli avevo impedito di picchiare un ragazzo innocente il primo giorno di scuola? Per quanto una parte di me cercasse di convincersi che tutto ciò non fosse possibile, i pezzi del puzzle avevano cominciato ad ordinarsi: i silenzi, la sensazione di solitudine, i loro atteggiamenti freddi, tutto si spiegava alla perfezione ora che Lydia mi aveva pugnalato con quelle parole.

«Hai intenzione di rimanere lì imbambolato come un rincretinito ancora per molto?» La voce di Alex mi riportò alla realtà, entrando nel mio campo visivo e toccandomi leggermente il braccio sinistro, che scostai involontariamente, percorso da un brivido inspiegabile.

«Stavo ancora cercando di capire come farai a mangiare tutte quelle cose.» Risposi, con tono scherzoso, cercando di non dare troppo peso al modo in cui mi ero scostato al suo tocco.

Una volta tornati a scuola, usando la scusa più banale che mi fosse venuta in mente, mi allontanai da Alex, per fare una cosa che avrei dovuto fare molto tempo prima. Sapevo già dove andare, anche se non ne ero certo al cento per cento; così mi avviai con passo relativamente spedito verso il cortile della scuola, per poi entrare nel corridoio del piano terra e, successivamente, in un’aula in disuso sulla destra.

Aperta la porta mi trovai di fronte ad una scena vista e rivista.

Nella stanza c’erano Daniel, Max e Joshua, che giocavano tranquillamente a carte mentre si passavano una sigaretta. Il rumore delle loro parole si fermò immediatamente non appena Max fece segno agli altri due ragazzi di girarsi verso di me, rimasto immobile davanti alla porta chiusa alle mie spalle.

Daniel mi osservò dritto negli occhi per quella che parve un’eternità. Ho sempre trovato strano che gli unici momenti che sembrano protrarsi all’infinito sono quelli inaspettati e quelli difficili da sopportare. Ovviamente in quel caso mi trovavo nella seconda categoria.

«Le checche non sono le benvenute; credevo che lo sapessi.» Sputò Daniel, guardandomi dall’alto verso il basso con una scintilla di disgusto nel proprio sguardo. «O che almeno lo ricordassi.»

Senza degnarlo neanche di una risposta, mi avvicinai al ragazzo e posi la mia faccia a neanche un centimetro dalla sua, da cui scivolò via qualsiasi traccia di colorito. Chissà cosa stesse pensando.

«Se provi anche solo un’altra volta a dire cose false sul mio conto, anche solo una, ti assicuro che la tua vita diventerà un inferno.» Sentivo la puzza di fumo provenire dal suo alito, che mi sfiorava la faccia, e mi venne da rimettere. «E non sto parlando di sciopero della parola, oppure del fatto che non ti passerò neanche più un compito, ma di come la tua vita qui dentro diventerà insostenibile. Io ti ho avvisato.» E detto questo, soddisfatto dalla reazione che le mie parole avevano causato nel ragazzo che mi stava di fronte, mi allontanai lentamente, lanciando occhiate ricche d’odio anche ai suoi due scagnozzi, che mi guardavano preoccupati, prima di girare i tacchi ed avviarmi verso l’uscita.

Non appena mi fui chiuso la porta alle spalle, sentii Daniel imprecare verso di me. Sorrisi compiaciuto.

«Hey!» Vidi Alex raggiungermi dall’altro lato del corridoio con in mano un pacco di patatine.

«Già hai mangiato tutto?!» Gli chiesi, con un tono molto più che sorpreso.

Il biondo rise leggermente, ed i suoi occhi, come al solito, si illuminarono; ed improvvisamente nella mia testa l’unico pensiero era quello di riuscire a vedere Alex ridere. «Nono! Ho posato tutto il resto nell’armadietto… Vuoi?» Disse, porgendomi la busta di patatine alla paprika.

«No, grazie…» Risposi, sorridendogli. «Vorrei evitare di mangiare questa roba prima della partita.» Gli spiegai, vedendo la sua espressione interrogativa.

«Oddio è vero! Oggi hai la partita!» Esclamò, quasi più entusiasta di me.

«Già…» Risposi io, pensando a Daniel e ai miei amici.

 

 

Sull’acqua della piscina le luci della palestra facevano uno strano effetto, quasi come se un bambino stesse giocando con la tempera ad acqua, sperando di creare un capolavoro. Il mio cuore batteva velocissimo, quasi come se quella partita fosse la prima della vita; eppure non era così. Il corpo completamente immerso nell’acqua della piscina, che mi bagnava completamente le ciglia, da cui cadevano continuamente delle gocce. Respiravo in modo regolare, aspettando che i miei compagni di squadra mi passassero la palla, che sembrava però non voler raggiungere le mie mani. Eravamo ormai agli ultimi cinque minuti del quarto tempo, e il nervosismo continuava a salire. Non facevo altro che dimenarmi a destra e a sinistra, con la speranza che la palla entrasse in mio possesso… Avevo anche cercato, nei due minuti di pausa precedenti, di fare pressioni su Daniel, co-capitano della squadra, perché, in fondo, sapevo che c’era lui dietro tutto questo. Sentii improvvisamente le guance arrossarsi per la rabbia, e fui costretto a concentrare la mia attenzione sugli spalti, da dove Alex osservava attentamente la partita, incitando la nostra squadra quando entravamo in possesso palla, ed imprecando quando la squadra avversaria segnava.

Senza neanche accorgermene ciò che stavo aspettando da più un’ora accadde e mi ritrovai la palla tra le mani. Il mio cervello si riattivò velocemente, facendo muovere le mie gambe nella direzione della porta. Dalla mia destra sentii il coach incitarmi, e consigliarmi di passare la palla a Max, smarcato e con la possibilità di tirare in porta senza troppe difficoltà; consiglio, questo, che sentivo arrivare da tutti i lati, ma che volevo ignorare a tutti i costi. Sapevo di potercela fare. Dovevo farcela.

Sentii i miei quadricipiti contrarsi per lo sforzo e, all’improvviso, ancor prima che me ne potessi accorgere, mi ritrovai con il busto completamente fuori dall’acqua e, senza perdere tempo, portai il braccio all’indietro e caricai il tiro, che seppi, nel momento esatto in cui la mia mano lasciò la presa sulla palla, sarebbe entrata in porta. E così fu.

Non appena la rete avversaria si gonfiò, tutt’attorno a me si alzò un coro di grida, di gente che esultava perché oramai avevamo la vittoria in pugno.

Senza prestare troppa attenzione a quello che succedeva sugli spalti, ritornai alla mia postazione e, nel farlo, incrociai lo sguardo di Daniel, ricco di odio e di gelosia. Il sorriso mi si dipinse involontariamente sulle labbra.

 

 

«Hip hip urrà per il nostro capitano Maycon!» La voce di Daniel ne anticipò l’arrivo negli spogliatoi, in cui mi ero ritirato dopo la conclusione dell’amichevole e dove avevo iniziato a prendere le mie cose per la doccia, che fui costretto a riposare sulla panchina non appena il suo gruppetto di scagnozzi mi si piazzò davanti, per intralciarmi la strada e costringermi a girarmi verso il co-capitano.

«Complimenti a te…» Replicai, con tono ironico. «Grande possesso palla.» Dissi.

Sulla faccia di Daniel comparve una smorfia di odio e di risentimento che mi fece rizzare i capelli sulla nuca. «Non fare lo spiritoso.» Rispose lui, avvicinandosi con i pugni chiusi e le braccia stese lungo i fianchi.

«Non capisco a cosa ti rif… Ah!» Le mie parole furono interrotte da un gemito di dolore, provocato dal pugno che Daniel mi diede all’altezza dello stomaco, facendomi piegare in due e tossire violentemente, e nascosto dalla tosse provvidenziale di Joshua e Aaron, ancora alle mie spalle.

«Che avevi intenzione di fare, uh?» Mi domandò Daniel, abbassandosi leggermente per guardarmi dritto negli occhi. «Avevi forse intenzione di farti la doccia qua dentro, con noi?!»

Sentii gli occhi bruciarmi, minacciando di tradire la mia espressione indifferente con lacrime salate di frustrazione. «Sei un pover idiota, Dan.» Dissi, raddrizzandomi un minimo e sforzandomi di non rispondere con la sua stessa moneta.

«Meglio idiota che finocchio.» Sentenziò lui, assestandomi un secondo pugno allo stomaco, facendomi cacciare un secondo rantolo di dolore, che si unì anche questa volta ad un attacco violento di tosse da parte dei tre scagnozzi alle mie spalle. «Ma tu davvero credevi che noi saremmo stati in silenzio a vederti ammalare in questo modo? Ci fai troppo schifo per poter rimanere indifferenti.» E dette queste parole sentii le sue nocche urtare violentemente contro la mia mandibola, facendomi finire in ginocchio ai suoi piedi. Senza dire niente sputai sui suoi piedi il sangue che il suo pungo aveva fatto accumulare nella mia bocca, e mi rialzai, fissandolo negli occhi, come avevo fatto poche ore prima.

«Questo è tutto quello che hai? Sul serio?» Dissi, abbozzando un sorriso dolorante.

«Che ne dici se ora ti faccio cacciare, a forza di pugni, tutto il tuo lato finocchio?!» E con queste parole riprese a prendermi a pugni, questa volta senza un vero e proprio ordine, ma solo per il gusto di vedermi cacciare lamenti di dolore. Una volta che ebbe finito mi tolsi le braccia da davanti la faccia e lo ripresi a guardare con tranquillità negli occhi neri, che sembravano brillare di una luce propria; completamente diversa, però, da quella che illuminava gli occhi di Alex quando rideva: quella dava l’idea di innocenza, di freschezza… Di serenità; quella che avevo invece davanti agli occhi in quel momento faceva trasparire odio, disprezzo e paura.

Senza dire una parola alzai il braccio e, così come avevo fatto poco prima con il pallone di pallanuoto, caricai il colpo; solo che questa volta la mano era chiusa a pugno, e le mie nocche andarono ad urtare violentemente contro lo zigomo di Daniel, che finì scaraventato contro l’armadietto alla sua sinistra.

«Sai cosa?» Dico, retoricamente, mentre prendo le mie cose dalla panchina alla mia destra e faccio segno ai tre ragazzi alle mie spalle di non immischiarsi. «Puoi sputtanarmi quanto vuoi, non m’interessa. Credo di essere abbastanza maturo da poter fare a meno di teste di cazzo come te, e soprattutto non devo dimostrare niente a te o a voi altre facce di culo; e questo sia perché ciò che dite non cambia ciò che sono (ovvero un etero, giusto per chiarirci) e ciò che penso, e anche perché nella piramide di questa scuola, senza di me, tu sei talmente in basso che neanche Rooth la sdentata ti darebbe retta.» E mentre dico queste parole, sento del calore espandersi dai miei polmoni fino alla punta dei piedi, che mi fa dimenticare momentaneamente il dolore che pervade ogni parte del mio corpo. «Ma se provi a sputtanare anche solo una volta Alex, o chiunque altro al di fuori di me, giuro che ti farò sembrare il club di scacchi la cosa più interessante della tua misera e banale vita.»

Senza aggiungere altro mi avviai all’uscita degli spogliatoi, per raggiungere, di nascosto, l’infermeria.

La signora Macflorence stava, come c’era d’aspettarsi, sistemando le ultime cose prima di tornare a casa; ma, non appena mi vide entrare dalla porta dell’infermeria, zoppicante e con indosso solo il costume e l’accappatoio della squadra di pallanuoto della scuola, mi venne in soccorso.

«Oh, figliolo!» Esclamò, con tono preoccupato. «Cosa diamine ti è successo?»

«E’ una lunga, lunghissima storia…» Risposi, digrignando i denti dal dolore e sedendomi sul lettino di fronte alla sua scrivania, da dove l’infermiera iniziò a tirar fuori tutto il necessario per alleviare il mio dolore.

«E’ la seconda volta il neanche tre settimane che ho dovuto curare ferite da rissa, e non credo che sia una coincidenza.» Disse, mentre iniziava a fasciarmi la cassa toracica con della garza bianca. «Allora Jared… Vuoi dirmi la verità oppure devo scoprirla da sola?»

E così iniziai a raccontarle tutto ciò che era successo da quando Alex aveva varcato le soglie della Wordsworth Academy, facendo, molto spesso, riferimenti anche non necessari allo svolgimento basilare della storia, ma che sentivo di dover condividere con qualcuno. Io l’avevo detto che quel lettino aveva delle proprietà tutte sue, e parlare con la signora Macflorence mi servì molto, a far chiarezza in me stesso e in quello che era successo.

 

 

«Jared!»

Ero stanco… Anzi, distrutto, e l’unica cosa che volevo era il letto di casa mia, che, ne ero sicuro, mi stava aspettando desideroso di riaccogliermi tra le sue lenzuola; ma ovviamente Lydia doveva parlarmi proprio in quell’istante.

«Hey.» Dissi, voltandomi verso di lei, che mi stava raggiungendo dall’alto lato del marciapiede. Era ottobre, ormai, e le giornate avevano iniziato ad accorciarsi, e le temperature ad abbassarsi, così mi strinsi ancora di più nel mio giubbotto imbottito… Dio, sembrava passato così tanto tempo da quando l’avevo indossato quella mattina.

«Possiamo parlare un attimo oppure sei di fretta?»

«No, certo che possiamo parlare… Vieni, sediamoci qui.» Dissi, indicando una panchina sotto l’albero della piazzetta di Lewisham.

«Mi dispiace, non sai quanto…» Iniziò lei, elencando, poi, tutti i motivi per cui aveva sbagliato e per cui io avrei dovuto perdonarla. Sentii dentro di me, mentre le sue parole continuavano a bussare alla mia coscienza, un moto di tenerezza, e forse anche di pena, nei suoi confronti; quasi come se le sue parole pizzicassero delle corde nuove del mio essere, corde che non avevo mai voluto sentire.

Non so quanto rimanemmo su quella panchina di Lewisham, alle sette di sera, so solo che, quando ce ne andammo - forse perché il mio orecchio, confuso, ancora scambiava per amore vibrazioni d’affetto, oppure perché, in fondo, ancora l’amavo - la salutai come la mia ragazza.

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Capitolo 10
*** Innocence ***


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Capitolo 9 – "Innocence"

Eccoci con il nono capitolo del racconto :)
Non vi trattengo molto con inutili preamboli, e vi lascio alla lettura del capitolo; vi chiedo solo di passare per la mia pagina facebook (qui) e, se vi va, di lasciarmi una piccola recensione :)
Spero che questo capitolo vi piaccia :)



Il vapore dell’acqua calda della doccia aveva creato la solita condensa sullo specchio del bagno, in cui mi specchiai mentre mi asciugavo i capelli, strofinandoli vigorosamente.
La differenza di temperatura che c’era tra il box doccia e la stanza del bagno ormai era terribile, e dovetti alzare ancora di più il livello dei riscaldamenti, che mia madre si ostinava a voler tenere basso.
Decisi, dopo vari ripensamenti, di indossare una semplice camicia a quadri blu e bianchi, sopra un jeans scuro.
Lydia mi aveva scritto quella mattina chiedendomi di andare a vedere un film al cinema di Lewisham, e io avevo accettato mosso da tutto fuorché dalla voglia di passare del tempo da solo con lei… Mi sembrava la cosa giusta da fare. Non sapevo neanche che film avesse intenzione di andare a vedere.
Mi sistemai la camicia, lasciandomela leggermente sbottonata, presi il cellulare e il portafogli da sopra la scrivania  e mi diressi verso la porta d’ingresso, fermandomi prima in cucina per rubare un pacchetto di gomme a ma madre, che era tutta presa dai preparativi della cena di quella sera.
«Jay, tesoro» mi chiamò mia madre non appena misi piede nella stanza della cucina, «domani sera andiamo a mangiare fuori. Ho prenotato in quel posto che ti piaceva tanto quand’eri piccolo. Quel ristorante italiano.»
«Va benissimo,» risposi, sorridendo affettuosamente a mia madre, che mi guardava soddisfatta. «solo io e te, vero?» domandai poi, prendendo il pacchetto di gomme dalla sua borsa.
«Sì, solo io e te.» Rispose lei, rimettendosi ai fornelli.
«Com’è che si chiamava quel ristorante, comunque?» Chiesi, più a me stesso che a mia madre, cercando di ripescare dai ricordi ormai scoloriti quella traccia di colore che mi facesse riconnettere alla mia infanzia. «Grembiuli partenopei?» Dissi, con un buffo tentativo di assumere una pronuncia italiana. Tentativo, questo, che fece sfuggire a mia madre una piccola risatina divertita. «Vabbè Ma’, io devo andare… Ci vediamo dopo!» Dissi, guardando l’orario sull’orologio affisso al muro della cucina.
«A dopo.»
L’aria fuori era fredda e tagliente e, nonostante mi fossi imbacuccato da testa a piedi sentivo il gelo raggiungermi la pelle e farmi venire brividi lungo la colonna vertebrale.
Arrivato alla banchina del bus decisi di farmela a piedi, nonostante il clima avverso e il dolore all’altezza delle costole dovuto allo scontro avuto la sera prima con Daniel – di cui, per fortuna, ero riuscito a nascondere i segni a mia madre, che altrimenti si sarebbe fiondata a scuola a lamentarsi dal preside. Per tenermi compagnia presi l’iPod dalla tasca del giubbotto e mi misi le cuffie nelle orecchie e, schiacciando play sul lettore musicale, mi feci trasportare dalle note della musica, mia migliore amica nei momenti di solitudine.
Il tempo di tre brani in riproduzione casuale ed arrivai al cinema di Lewisham, dove Lydia mi stava già aspettando, al caldo della biglietteria, all’interno dell’edificio.
«Hey.» Mi sorrise lei non appena mi vide entrare nella biglietteria.
«Hey.» Risposi io, posandole un leggero bacio sulla guancia destra, con uno strano imbarazzo.
«Allora…» Iniziò lei, incamminandosi verso lo sportello della biglietteria, dove l’impiegato stava aspettando impaziente il nostro arrivo. «Avevo pensato di andare a vedere Lucy, l’ultimo film di Scarlett Johansson… Che dici?»
“Buffo farmi una domanda del genere quando in realtà aveva già programmato tutto”, pensai, prima di rispondere: «Certo… Come vuoi tu amore.»
Quando entrammo in sala la tensione tra noi due era palpabile quasi quanto la sensazione di disagio che mi attanagliava lo stomaco.
«Ieri non ho avuto modo di dirtelo: gran bella partita!» Esclamò Lydia di punto in bianco, cercando un contatto fisico, che però io non riuscii ad assecondare.
«Grazie.» Risposi, freddo. Non capivo cosa mi stesse succedendo, ma d’improvviso tutta quella situazione mi sembrava assurda ed insensata. Non appartenevo a quel posto, e di sicuro non a quella persona. Ma allora perché c’ero venuto?
«Sono veramente fortunata ad essere la ragazza del capitano più bravo e sexy dell’intera regione.» Continuò lei, sorridendo maliziosa ed avvicinandosi al mio viso, cercando, forse, di far rinascere sensazioni ormai morte. Sentii le sue labbra posarsi sulle mie e, senza nemmeno accorgermene, mi feci scappare un gemito che fu interpretato da Lydia come un verso di sofferenza. Be’, non che ci fosse andata tanto lontano.
«Che hai?!» Chiese preoccupata, scostandosi leggermente ed aggiustandosi una ciocca bionda che le era ricaduta davanti l’occhio. La vidi mentre analizzava ogni singolo centimetro quadro del mio viso.
«Niente, tranquilla…» Replicai io, facendo finta di niente e scostandomi i capelli tentando di coprirmi il più possibile la faccia. «E’ solo…»
«Jared Maycon.» Mi interruppe lei, guardandomi con un cipiglio severo, quasi come quello di una madre che rimprovera il proprio figlio per essere caduto dalla bicicletta senza casco. «Sono lividi quelli che stai cercando di nascondere con il correttore?»
«Sì… C’è stato un piccolo scontro, se così vogliamo chiamarlo, con Daniel e gli altri ieri negli spogliatoi.» Ammisi poi, dopo aver vagliato tutte le scuse plausibili ed averle successivamente scartate tutte, una ad una, con altrettanta velocità.
«Ogni tanto mi chiedo perché ti comporti in questo modo…» Sospirò lei, prima di pentirsi di ciò che aveva detto.
«In che senso scusa?» Domandai a quel punto io, sistemandomi sul sedile del multisala in modo da poterla guardare negli occhi.
La vidi impallidire mentre soppesava per bene le parole da usare. «E’ solo che,» disse, «a volte sembra che tu voglia provocare Daniel e gli altri per far capire chi è che comanda tra di voi.»
La guardai sconvolto. Sembravo quasi un pazzo. Ma forse lo ero… Dovevo esserlo per forza: dovevo essermi immaginato quelle parole provenire dalla bocca della mia ragazza. Inspirai lentamente, cercando di mantenere la calma.
«Tu più di tutti dovresti sapere che non ci tengo a comandare… Oppure no, scusa, eri troppo impegnata a sentire i pettegolezzi che quelle teste di cazzo mettevano in giro.» Sputai allora io, fissandola dritto negli occhi, con la speranza di farle capire il dolore che mi aveva provocato con ogni singola azione portata avanti in quegli ultimi giorni.
Stavo aspettando una sua risposta. La stavo sfidando a rispondere.
Le luci si spensero. Iniziò il film.
Il silenzio pervase la sala.



Il film era finito da una decina di minuti e io ero all’ingresso del cinema, con il cappotto e la borsa di Lydia tra le braccia, aspettando che la mia ragazza mi raggiungesse. Appena iniziati i titoli di coda, infatti, si era congedata dicendo di dover andare in bagno, e che io avrei potuto aspettarla all’ingresso. E così avevo fatto.
Mi trovavo, quindi, con un piede dentro al cinema e con uno fuori, mentre con la testa però rimuginavo sulle parole velenose che avevo usato su Lydia, e agli occhi lucidi che lei aveva avuto per tutta la durata della pellicola.
Presi il cellulare dalla tasca del jeans e lo accesi, per controllare eventuali messaggi e chiamate perse e, soprattutto, per ingannare il tempo. Non appena il display si fu avviato, vidi sul pannello delle notifiche un nuovo messaggio, da parte di Alex. Mi destreggiai con il cappotto e la borsa di Lydia, cercando di liberarmi un braccio, e poi aprii il messaggio.

Hola!
Ti scrivo per sapere alla fine cos’avevi intenzione di fare ad Halloween, perché la mia host family vorrebbe farmi rimanere a casa con loro… Ti prego, salvami!
p.s.
Non sto capendo niente di Chimica e Biologia… Questo test non lo passerò, ne sono certo.

Senza saperne il motivo sorrisi, ed iniziai a digitare il messaggio di risposta.

Hola anche a te, amigo!
Non so ancora niente dei programmi di Halloween… Ora che mi ci fai pensare però manca solo una settimana, quindi dovrei cominciare a chiedere in giro :)
Ti faccio sapere appena ne so qualcosa in più… Non ti preoccupare: ti salverò! Ahahah.
p.s.
Tranquillo, ti aiuto io :) Sono o non sono il tuo B.C.S.? :)

«Jared…» La voce di Lydia mi riportò con i piedi per terra e mi costrinse a girarmi verso di lei, per porle la giacca e la borsa.
«Non c’è bisogno di aggiungere nulla, Ly.» La interruppi io, sorridendole. «Anzi, mi dispiace di aver detto quelle cose… E’ solo che…»
«Lo so.» Replicò la ragazza, posandomi una mano sull’avanbraccio. «E mi dispiace… Lasciami rimediare.»
«Certo.» Dissi, posandole un leggero bacio sulle labbra prima di incamminarci verso casa.
La serata si concluse meglio di come aveva avuto inizio, anche se ormai sapevo che quella storia era finita.



Ormai facevo tutto in maniera meccanica: mi svegliavo, mi facevo una doccia, mi vestivo, prendevo lo zaino, facevo colazione e uscivo per andare a scuola, dove poi seguivo la seconda parte della mia routine quotidiana: lezioni, studio, Lydia e Alex, che era l’univa costante in quella vita monotona a rendere le mie giornate autunnali meno fredde, e non sapevo spiegarne neanche il motivo.
Quel giorno, però, invece di tornare a casa, sarei rimasto in biblioteca ad aiutare Alex a prepararsi per il test di chimica e biologia che si sarebbe tenuto dopo la pausa di Halloween, tra tre settimane.
«Allora, sei pronto ad essere messo sotto?» Chiesi, avvicinandomi al biondo, che stava prendendo il necessario dall’armadietto.
Alex mi guardò con quella che interpretai come un’occhiata tra l’imbarazzato e il divertito, che mi fece arrossire per le parole che avevo appena deciso di usare.
«Per quanto allettante sia la proposta,» rispose il canadese dopo diversi minuti di silenzio, «abbiamo un test da preparare.» Lo vidi sorridere divertito e sentii qualcosa sciogliersi dentro di me. «E poi non sei il mio tipo.» Aggiunse, chiudendo l’armadietto ed avviandosi verso la biblioteca.
«Che significa “non sei il mio tipo”?» Chiesi, raggiungendolo con passo svelto. «Sono il tipo di tutti, io.»
«Ed ecco a voi mister Modestia, signore e signori!» Ribatté cercando di non farmi notare il sorriso che gli si stava disegnando sulle labbra e che gli stava facendo brillare gli occhi.
«In carne ed ossa.» Aggiunsi io, gonfiando il petto e camminando a testa alta, facendo quella che dovette apparire come una pessima caricatura di quello che un tempo volevo apparire: un ragazzo snob e presuntuoso.
Le due ore che passammo in biblioteca a studiare per il test del professor Boujdi passarono talmente velocemente che neanche mi accorsi della totale assenza di luce fuori dell’edificio scolastico. Fatto sta che mentre ero seduto sul bus diretto verso casa tutto ciò che ricordavo del tempo passato a studiare con Alex erano le risate, i rimproveri della bibliotecaria, le battute e i suoi occhi sorridenti.
Poggiai la testa contro il finestrino e lasciai che la pioggia leggera e le luci delle strade mi trasportassero in un mondo a parte, in cui potevo rivivere quelle due ore appena passate all’infinito.
Appena entrai in casa mi diressi di corsa in camera mia per cambiarmi in tempo da poter andare con mia madre al ristorante italiano di cui mi aveva parlato la sera prima. Il tempo di una doccia ed ero pronto, con addosso una polo blu elettrico e un normalissimo jeans.
«Allora, sei pronto Jay?!» La voce di mia madre mi raggiunse dall’altra estremità della casa, dove lei stava finendo di prepararsi.
«Sì ma’.» Risposi, iniziando a scendere in salotto, dove mi sistemai sul divano.
Mentre aspettavo che mia madre finisse di prepararsi e mi raggiungesse al piano di sotto, presi il cellulare e lessi il messaggio che Lydia mi aveva mandato mentre ero sotto la doccia.

“Il 31 a casa di Sid, ok?
Xoxo”

Rabbrividii nel leggere quel “xoxo” a fine messaggio… Faceva tanto Gossip Girl. E io odiavo quel telefilm.

“Mi ha appena scritto Lydia. Il 31 si va a casa di Sid, un suo compagno di corso, a te andrebbe? Poi ti do tutti i dettagli :)

p.s.
Non ci credo neanche se mi paghi che non sono il tuo tipo”

Inserii il destinatario – Alex -  e premetti invio, nel momento esatto in cui mia madre varcò la soglia del soggiorno.
«Il taxi dovrebbe essere qui tra pochissimo.» Disse lei sorridendomi affettuosamente. Aveva una strana luce che le animava gli occhi, e questo servì per farmi insospettire.
«Ricordami perché andiamo a mangiare fuori, ma’.» Dissi, alzandomi dal divano e dirigendomi all’attaccapanni, da dove presi ed indossai il mio cappotto nero.
«Perché, dev’esserci per forza un motivo preciso?» Chiese mia madre di rimando. «Non posso voler semplicemente passare la serata con il mio uomo di casa?»
«Diciamo che è strana come cosa.» Risposi, con tono sarcastico e facendole capire con una risata che stavo scherzando. Non m’interessava sapere il motivo, a pensarci bene. Mi faceva piacere passare una serata con mia madre, e questo era tutto quello che importava.
«A proposito, tanti saluti da tuo padre.»

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Capitolo 11
*** Jack Skeleton ***


rvbth
Capitolo 10 - "Jack Skeleton"

Pronti a festeggiare Halloween (in ritardo) con Alex e Jared? Se la risposta è sì, allora leggete, leggete e recensite :)

p.s.
Se vi va passate per la mia pagina facebook cliccando qui :)

 

Ok, vada per casa di Sid, allora!

p.s.

Il solito mister Modestia!”

 

«Jared, mi stai ascoltando?» La voce di mia madre si fece varco tra i miei pensieri e si aggrappò alla mia attenzione, portandola in superficie.

Il locale di “Grembiuli Partenopei” era quasi del tutto pieno, a parte due o tre tavolini al centro della sala, scogli solitari in quel mare di famiglie, coppie e piccoli imprenditori che volevano godersi il piacere di un piatto italiano d.o.c.. I piatti in questione venivano preparati da Marco, un signore sulla cinquantina che rappresentava tutti gli stereotipi della televisione americana: aveva una pancia ingombrante, un grembiule rosso (quasi sempre sporco di salse varie) e dei baffi alla Super Mario.

L’ambiente del ristorante, invece, si distaccava dai soliti stereotipi della televisione, e si avvicinava leggermente ad una cantina francese, con le mura in pietra, leggermente coperte da quadri ed enormi quantità di vino italiano, che si aprivano in due enormi archi a tutto sesto, con lo scopo di separare la cucina, in perfetto stile napoletano (o almeno così sembrava dalle foto che erano appese qua e là sulle pareti del ristorante) dalla sala principale – un’enorme stanza circolare con botti di vino poste contro il muro confinante con la cucina, e con lampadari che penzolavano pericolosamente dal soffitto, anch’esso in pietra – e dall’ingresso.

«Scusa ma’,» risposi a mia madre, nascondendo velocemente il cellulare sotto il lembo della tovaglia e sperando che non l’avesse notato (se c’era una cosa che mia madre non sopportava erano i cellulari a tavola), «ero distratto… Dicevi?»

La vidi lanciare un’occhiata alle mie mani, nascoste sotto al tavolo, e poi sorridermi affettuosamente. «Stavo dicendo che tuo padre ha chiamato e mi ha detto che vor…»

«Allora, abbiamo una carbonara per la signora qui e una pizza margherita per il giovanotto alla mia destra.» Il cameriere, stroncando le parole di mia madre con la stessa leggerezza con cui un’ascia taglia in due un tronco di un albero, posò la prima portata di fronte a me e mia madre e si congedò con un “buon appetito”, in italiano.

«Dicevi?» Chiesi, iniziando a tagliare la pizza.

Mia madre inspirò profondamente, iniziando ad arrotolare i proprio spaghetti alla carbonara attorno alla propria forchetta, «Allora… Come ti stavo cercando di dire, mi ha chiamata tuo padre, per sapere come stavi ed altre cose…»

«Ah! Si ricorda della mia esistenza, allora! E io che pensavo di essere morto o qualcosa del genere.»

L’occhiata che mia madre mi rivolse mi fece rimpiangere amaramente il mio ultimo commento. «Jared Maycon.» Disse, con tono perentorio. «Non ti permettere mai più di dire una cosa del genere. Lo sai benissimo che tuo padre non è felice della vita che è costretto a condurre per lavoro e che lo fa solo per poterci aiutare a sostenere tutte le spese che abbiamo qui a Londra.»

«Scusa.» Sussurrai, come un bambino di cinque anni che è stato beccato a mangiare quella caramella di troppo. Non sopportavo vedere mia madre in quel modo… Sapevo che per lei non dovesse essere facile vivere così lontano da suo marito; ma non riuscivo a capire perché mio padre non mi chiamasse mai o non cercasse di mettersi in contatto con me.

«Bene. Ora se qualcun altro proverà ad interrompermi giuro che mi trasformo in un qualche mostro di quei fumetti che ti piacevano tanto da piccolo.» Sorrise, e non potetti fare a meno di imitarla. «La farò molto breve, altrimenti rischio davvero di essere interrotta un’altra volta: tuo padre sta venendo a Londra.»

Non dissi nulla. Mi versai la coca cola nel bicchiere di fronte a me e bevvi, pensando al messaggio di Alex.

«Jay, di’ qualcosa.»

Rimasi a guardarla per un po’, ostentando un lungo sorso della mia bibita ghiacciata, poi risposi: «Che bello, – la bugia mi si leggeva negli occhi – come mai?» Chiesi.

«Ha detto di voler passare un po’ di tempo in più con noi.» Rispose mia madre, buttandosi a capofitto sul proprio piatto di spaghetti.

Da quel momento la conversazione si trasformò in uno scambio di opinioni sul cibo e sul desiderio di mia madre di fare un viaggio in Italia.

 

 

Era il 30 Ottobre, ormai, quando mi arrivò la lettera di risposta da parte di Kyle.

 

“Caro Jared,

Non preoccuparti per il ritardo: c’è un prezzo da pagare per poter usare la buona vecchia posta cartacea ;)

Comunque anche io ho delle cose da raccontarti e, prima di darti la mia idea su quel poco che mi hai raccontato, voglio dirti tutto quanto:

Bene, ti ricordi di quella ragazza di cui ti parlai un po’ di tempo fa? Quella che conobbi al corso di recitazione? Bene, dopo averla invitata ad uscire (non so dove ho trovato il coraggio), abbiamo iniziato a frequentarci in maniera abbastanza seria e ora sono due settimane e mezzo che usciamo…”

 

Il resto della lettera parlava dei pregi di questa ragazza – Sarah – e di quanto fosse dolce ed intelligente (era anche fan di Doctor Who, a detta di Kyle!).

 

“…Ora, per quanto riguarda la parte noiosa della lettera (tu e le tue pippe mentali :P) non saprei cosa dire, sinceramente… Vorrei conoscere questo Alex che, a differenza di tutti i tuoi amici idioti, sembra essere un ragazzo perfetto e diligente... Adatto a te, insomma u.u

Di Lydia tanti dubbi non ne avevo, come ben sai… L’ho sempre ritenuta una ragazza senza troppo spessore, e tu lo sai. Il fatto che ti abbia detto quelle cose non fa altro che affermare questo mio pensiero.

Passiamo al fatto più serio: Alex.

Dalle parole che usi per descriverlo e per raccontarmi i momenti che passate insieme sembra che ti interessi più lui di Lydia (e non potei darti torto). Non capisco perché dovrebbe interessarti di cosa dicono i tuoi compagni di scuola: siamo nel ventunesimo secolo ed essere gay non è un “problema” da un bel po’ ormai; quindi, anche se tu lo fossi, non comprendo qual è il problema.

So che forse queste non erano le parole che avresti voluto sentire (o meglio, leggere) e che probabilmente se mi avessi a portata di mano mi avresti già strangolato, ma sono qui per dire solo quello che penso e che tu mi fai capire dalle tue parole scritte con una BIC scadente.

Detto questo ora devo salutarti perché papà mi sta implorando di portare fuori la spazzatura.

Alla prossima,

Kyle.”

 

Le parole di Kyle si erano aperte un varo tra i miei pensieri: le preoccupazioni per la festa di domani - per l’incontro con Daniel e gli altri - erano completamente sparite lasciando il posto a quella che sembrava una vecchia registrazione di una voce lontana ma stranamente familiare. Quasi come se fosse la mia coscienza.

Avevo sempre odiato il grillo parlante di Pinocchio.

 

 

La festa di Halloween non mi avevano mai entusiasmato più di tanto e questo, in quanto americano – “Canadese!” avrebbe insistito mio nonno -, non era una cosa del tutto normale. Quell’anno, però, sentivo qualcosa di diverso nell’aria attorno a me. Aspettavo quasi con trepidazione di andare alla festa a casa di Sid, l’amico della ragazza di un mio amico… O almeno qualcosa del genere. Non ero neanche sicuro di poter definire Jared mio amico.

E’ per questo motivo, credo, che quando la sveglia del cellulare suonò, svegliandomi dal breve sonno di cui avevo potuto godere, mi alzai quasi felice di quella nuova giornata da affrontare.

Non appena varcai la soglia della cucina della mia host family, già vestito, Veronika, la figlia della famiglia ospitante, mi salutò calorosamente.

Veronika aveva 24 anni, e viveva a Manchester, dove frequentava l’università di Ingegneria Biomedica, ed ogni tanto tornava a Londra per fare visita ai propri genitori, Mark e Juliette, che ormai vivevano da soli in una casa decisamente troppo grande per due pensionati solitari. Per fortuna sapevano come ingannare il tempo.

«Programmi per oggi?» Chiese Veronika, mettendo il bollitore per il the sul fuoco. «Mi ricordo che alla tua età Halloween era la festa che aspettavo con più trepidazione. Dopo il natale, ovviamente.»

Mi piaceva. Insomma, era una ragazza simpatica, intelligente, responsabile e con il senso dell’umorismo, chi poteva mai avere pensieri negativi su di lei?

Da quando ero arrivato l’avevo vista solo due/tre volte, dato che era tornata da Manchester solo due giorni fa per le feste di Halloween, e avevo passato poco tempo con lei, e il più delle volte sul divano a guardare telefilm o X Factor.

«Dovrei andare con degli amici ad una festa a casa di un tipo.» Risposi, prendendo i cereali dalla dispensa e il latte dal frigo. «Niente di che.»

«Oddio che bello!» Esclamò estasiata la ragazza. «Amo queste cose – aggiunse ridendo -. E hai già pensato da cosa travestirti?»

La guardai perplesso, quasi colpevole, fermo immobile con la tazza di cereali in mezzo alla cucina, congelato in quell’attimo di normale quotidianità. «Ehm… In realtà non c’avevo ancora pensato… Penso che ci andrò senza.»

«COSA?!» Inveì Veronika. «Non puoi non avere un travestimento per la festa di Halloween! Che ti passa per la testa?» Senza interrompersi neanche un secondo mi tolse la ciotola di mano, mi afferrò il braccio e mi portò alla porta d’ingresso, da dove prese il cappotto e, guardandomi dritto negli occhi disse: «Nessuno di mia conoscenza può andare ad una festa di Halloween – a Londra, per di più! – senza un costume.» E detto ciò mi tirò con forza fuori dalla porta di casa, al freddo del 31 Ottobre.

Nonostante il vento gelido che mi tagliava il viso, completamente scoperto, sentii le mie labbra stirarsi fino a formare un sorriso: sarebbe stato un Halloween fantastico.

 

 

La musica si sentiva da quasi un isolato di distanza, ma la notte del 31 tutto ciò era normale: nessuno avrebbe chiamato la polizia per denunciare un mucchio di ragazzini che voeva divertirsi la notte di Halloween.

Casa di Sid, l’amico di Lydia, la mia ragazza, era un’abitazione di modeste dimensioni di origini vittoriane, con il tipico giardino sul retro ed il garage di fianco all’ingresso. Dal vialetto d’ingresso si intravedevano delle sagome muoversi a ritmo di musica all’interno della casa, come marionette mosse da un Dio superiore ed invisibile.

Inspirai l’aria fredda di quel venerdì d’Ottobre e varcai la porta di casa di Sid, per venire immediatamente immerso in un mare di voci e di colori che mi fecero girare quasi la testa. Mi addentrai alla ricerca di qualche viso conosciuto, e in particolare di quello di Alex, che mi aveva scritto un’ora prima per farmi sapere di essere arrivato con una decina di minuti di anticipo.

«Hey!» Una mano mi si posò sulla spalla e mi voltai, sperando di vedere i miei occhi blu riflessi in quel mare verde smeraldo che ormai mi ritrovavo a desiderare nei momenti più impensabili della giornata, ma invece di fronte a me vidi una maschera di un qualche personaggio terrificante con la bocca sporca di sangue finto. «Quasi non ti riconoscevo vestito così.» Disse lo sconosciuto. «Mi deludi… E io che speravo di trovarti travestito da mister Modestia!»

I miei occhi si illuminarono, rispecchiando fedelmente la sensazione che mi stava riempendo il cuore e lo stomaco, come una bevanda alcolica nel pieno di una tormenta di neve, che riscalda ogni parte del corpo come fuoco vivo. «Alex!» Esclamai.

«Chi altri dovrebbe essere, cretino?» Chiese il canadese, sarcastico, sfilandosi la maschera e lasciando liberi i capelli biondi e gli occhi verdi.

«Simpatico e affabile come tuo solito, vedo.» Scherzo io, avvicinandomi al tavolo delle bibite, per prendere una soda.

«Sempre.» Rispose, sorridendo leggermente.

«Da quanto sei qui?»

«Boh… Un tre quarti d’ora, più o meno… Diciamo che quando sono arrivato quelli – disse indicando un gruppo di persone che ballavano forsennatamente in mezzo alla sala da pranzo -  erano sobri.»

Non potei fare a meno di ridere. Quel tipo di risata che ti riempie l’anima, quello che capita troppo raramente.

Per gran parte della serata io ed Alex restammo seduti sugli scalini a parlare, principalmente della sua famiglia (quella rimasta in Canada) e dei miei progetti futuri. Parlare con lui aveva un che di diverso, mi sentivo ascoltato… Compreso, addirittura. Cosa che con Lydia, Daniel o chiunque altro non mi era mai capitata (se non forse con Kyle, ma lui era così distante che mi sembrava di non parlargli mai abbastanza). I suoi occhi verdi rispecchiavano i suoi pensieri e i suoi sentimenti; diceva ciò che pensava e che, molto spesso, si rivelava essere la cosa che avevo bisogno di sentire, la cosa giusta al momento giusto.

Scoprii che aveva madre italiana, da cui aveva preso gli occhi verdi, e padre tedesco, da cui invece aveva preso i capelli biondi; e che dopo il liceo il suo desiderio era quello di diventare uno scrittore di romanzi, per lo più fantastici. Scoprii anche che era un patito di telefilm e di quasi tutte le saghe uscite in quegli ultimi dieci anni, e mi insegnò l’esistenza di termini come “OTP”, “ship”, “canon” ed altri che non saprei ripetere.

«Scusa, ti sto ammorbando con tutti questi discorsi…» Disse a un certo punto. Dall’altra stanza si sentivano le risate di alcuni ragazzi, che sembravano sfottere qualcuno. La solita vittima ubriaca. «E’ solo che… Non so… Mi sento a mio agio con te; come se potessi raccontarti qualsiasi cosa. So che può sembrare idiota…»

«No, non lo è, tranquillo.» Lo interruppi io, sorridendogli mentre esaminavo ogni particolare di quegli occhi che tanto mi affascinavano e tormentavano. «Anzi, la cosa è reciproca.»

Il biondo si passò una mano nervosa tra i capelli, sistemandosi una ciocca fuori posto, come faceva ogni volta che era in imbarazzo.

«In ogni caso dovresti passare un po’ di tempo con la tua ragazza… Ti starà cercando.» Disse poi Alex, sorridendo timidamente e facendo per alzarsi.

Non so cosa mi spinse a farlo. O forse sì. Non ne sono sicuro. Fatto sta che allungai un braccio e lo fermai, iniziando a parlare di tutti i problemi che avevo avuto con Lydia e con i miei vecchi amici (tralasciando tutte le parti che avrebbero potuto farlo sentire in colpa) e mi fermai solo quando dalla stanza accanto alla nostra si sentì un rumore di vetro che si infrange. Quasi come se le schegge di vetro si fossero conficcate nelle mie corde vocali, togliendomi la voce e lasciandomi impotente di fronte agli avvenimenti.

Senza aggiungere una parola, mi alzai dallo scalino e mi diressi in salotto, mosso dalla curiosità. Nella stanza rettangolare la folla si era disposta a formare un ring umano, attorno a due ragazzi che facevano a botte. I versi che uscivano dalle loro bocche erano indecifrabili quanto i loro volti, deformati dall’alcol e dalla rabbia.

Intervenni immediatamente, cercando di dividere un ragazzino da quello che scoprii essere Joshua, che mi fece capire, con un sospiro troppo vicino al mio naso, di essere ormai completamente andato.

«E’ un povero finocchio!» Urlò l’altro ragazzo. Dovrà aver avuto massimo quindici anni e le lentiggini su tutto il viso, dalle guance alla fronte.

Immediatamente la mia mente volò ad Alex: ero pronto a proteggerlo da qualsiasi insulto; ma il ragazzo non stava indicando il candese.

«Dillo un’altra volta e ti spacco la faccia, bastardo!» Inveì Joshua, cercando di superarmi dandomi degli spintoni e cercando di placcarmi.

«Josh,» Dissi, con voce pacata, «sei ubriaco fradicio, fatti riaccompagnare a casa.» Detto ciò, mi misi il suo braccio sulle mie spalle e lo aiutai a camminare.

Prima di uscire da casa di Sid sentii una voce chiamarmi, abbastanza forte da poter sovrastare il casino proveniente dalle mie spalle. Quando mi girai vidi di fronte a me Lydia. «Jay! Oh Dio! Ti sei fatto male?!» Chiese, evidentemente preoccupata.

«Sto bene…» Risposi, cercando di sorriderle. «Senti, mi dispiace, ma devo accompagnarlo a casa prima che si metta nei guai.» Aggiunsi.

«Certo amore, non preoccuparti… Ci sentiamo dopo.» E mente diceva queste parole mi avvolse in un abbraccio.

Nel corridoio vidi Alex guardarmi preoccupato, prima di sorridermi affettuosamente.

Dopo ci furono solo il freddo di Novembre e il peso morto di Joshua a farmi compagnia.

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Capitolo 12
*** Keeping The Distance ***


11
Capitolo 11 - "Keeping The Distance"

Dopo gli avvenimenti di Haloween a casa di Sid le cose alla Walworth Academy cambiano leggermente...
Vi ricordo di passare per la mia pagina facebook (qui), dove potete lasciare un commento o semplicemente il vostro mi piace :)



Dopo l’avvenimento di Halloween non ebbi modo di vedere Joshua un’altra volta, né durante la pausa scolastica, né una volta tornato a scuola. Il ragazzo, infatti, non si fece vedere da nessuna parte, e nessuno aveva la minima idea di cosa gli fosse successo.
Inizialmente non mi preoccupai più di tanto: in fondo erano passati tre giorni dalla festa di Halloween e magari aveva bisogno di tempo a casa, per riprendersi dall’enorme sbornia e i pugni che aveva incassato quella sera. Successivamente provai a chiedere informazioni a Max ed Aaron, sperando in un loro rinsavimento, ma i due rimasero fedeli alla posizione che aveva preso Daniel, l’ormai capetto del gruppo, il quale aveva deciso di non volermi più rivolgere la parola, e optarono per il silenzio stampa.
Fu solo dopo la prima settimana che iniziai a preoccuparmi e iniziai a prendere in considerazione l’idea di andare a trovarlo per accertarmi che fosse tutto okay. Non gli dovevo nulla, soprattutto dopo il comportamento che aveva tenuto nei miei confronti, e non sapevo neanche perché mi stessi preoccupando. Eppure seppi, in cuor mio, di non poterlo abbandonare dopo quanto successo. Decisi, quindi, che sarei andato a casa di Joshua quel pomeriggio, dopo scuola.
Quella mattina, mentre aspettavo il bus, ripensai più e più volte alla festa e a quello che era successo, ma continuavo a non giungere a nessuna motivazione logica che potesse spiegare il tutto. Non riuscivo a capire perché quel ragazzino, che avevo scoperto chiamarsi Troy, aveva urlato quelle parole a Joshua e, soprattutto, perché mai Joshua non aveva cercato di controbattere. Quando salii sul bus lasciai perdere tutta quella situazione e, con la testa contro il finestrino, mi abbandonai alla musica del mio iPod, nell’attesa di veder salire Alex.
Quattro fermate dopo, la testa del biondo emerse da sotto il cappuccio dell’impermeabile mentre saliva lentamente i gradini del bus e passava la propria Oyster Card sul lettore.
«Hey.» Mi salutò mentre si sedeva accanto a me.
«Ciao.» Risposi, sorridendo al ricordo della nostra conversazione durante la festa. La sua sola vicinanza mi trasmetteva quella stessa sicurezza che mi aveva permesso di aprirmi a casa di Sid. «Come va?» Chiesi.
Il mio compagno di viaggio aveva gli occhi arrossati dal sonno e il labbro inferiore spaccato dal freddo, ma sorrise lo stesso quando rispose. «Tutto bene, solo un po’ stanco.»
«Idem.» Dissi, buttandomi subito a capofitto in una nuova conversazione con il canadese, che però sembrava troppo preso dal proprio cellulare, che stava usando per messaggiare con qualcuno. Mi dovetti trattenere dal chiedergli chi fosse. «Quindi il gallo ha fatto miao a casa del giardiniere.»
«Uhm… Sì.» Rispose.
Lo guardai allibito, con uno strano sentimento dentro di me, simile alla rabbia ma molto vicino al dolore… Quasi gelosia. «Ma mi stai ascoltando?» Domandai, con un tono di finto divertimento.
«Oddio scusa, stavo scrivendo un messaggio… Dicevi?»
«No, niente, tranquillo.» Risposi, rimettendomi le cuffie nelle orecchie e osservando la pioggia cadere violenta sul finestrino.
Rimanemmo entrambi in silenzio fino a quando non arrivammo di fronte agli armadietti e, quasi pentito dal mio comportamento, gli chiesi: «Io ora ho letteratura Inglese, andiamo insieme?»



Quel giorno la mia ultima lezione fu annullata perché il professore era malato, quindi potetti lasciare la scuola un’ora prima e questo non fece altro che rendere reale l’idea di andare a trovare Joshua per capire bene cosa fosse successo.
Mentre stavo firmando il libro delle uscite, sentii la voce di Lydia chiamarmi dal cortile, così mi girai e la vidi venirmi incontro con l’uniforme della scuola e il quadernone di Arte sotto il braccio.
«Dove vai?» Mi chiese, posandomi un leggero bacio sulle labbra e sorridendomi mentre mi aggiustava la cravatta.
«Il professor Boujdi è malato… Vado a casa.» Senza rendermene conto mentii.
«Uff…» Sbuffò lei, prendendomi per mano. «Io ho ancora Arte e poi posso andarmene.» Aggiunse.
«Capisco…»
«Senti, stavo pensando…» Iniziò la ragazza, guardandomi negli occhi. «Perché non vieni a casa mia domani? I miei dovrebbero essere fuori fino a giovedì…»
La guardai in silenzio. Non volevo passare un intero pomeriggio con lei a casa sua, a fare Dio solo sa cosa. Non volevo ma dovevo. «Certo, non vedo l’ora!»
«Bene, allora ci sentiamo dopo.»
«Perfetto. A dopo amore.» La salutai, dandole un bacio sul labbro superiore.



Joshua abitava relativamente vicino scuola, a due o tre fermate di bus di distanza quindi decisi di farmela a piedi e, nel tragitto, ripensai a tutti i pomeriggi che avevamo passato insieme a casa sua; a tutte le volte che io, Daniel e Max lo eravamo andati a trovare e quello che provai fu un misto di tristezza e sollievo. Non ero più il ragazzo che passava i pomeriggi a casa di Joshua a giocare ai videogiochi e a fare battutine sulle ragazze di scuola o su modelle di riviste, costretto poi a fare le nottate per finire i compiti arretrati. Ero una persona diversa, e questa cosa non ero sicuro mi dispiacesse.
Bussai alla porta della famiglia di Joshua e dopo poco la voce familiare di Noel, il padre del mio amico, chiese: «Chi è?!»
«Signor Kiaylin sono io, Jared.»
La porta si aprì e fui invitato ad entrare. Casa di Joshua era piccola ma accogliente, piena di fotografie e cimeli di famiglia che rendevano l’ambiente più caldo e personale. I suoi genitori erano quasi degli zii per me, ma quella volta mi sembrò di entrare in una zona estranea ed ostile, cosa che non mi era mai capitata da quando avevo conosciuto Joshua, dieci anni prima.
«Allora,» disse il signor Kiaylin, con un tono più freddo del normale, «come mai da queste parti?»
«Sono venuto a trovare Josh… E’ da un po’ che non lo vedo a scuola e mi stavo iniziando a preoccupare.» Mi sentivo sotto esame, quasi come se Noel stesse decidendo se fossi una minaccia o meno. Apparentemente dovette optare per la seconda, perché mi guardo un’ultima volta e poi disse: «E’ in camera sua… E’ un po’ giù ma credo che gli farà piacere vederti.»
«Grazie signore.» Replicai, sfilandomi il cappotto ed avviandomi su per le scale, sentendo gli occhi dell’adulto sulla mia nuca.
Bussai leggermente alla porta di Joshua prima di aprirla e trovarlo steso sul letto con il cellulare tra le mani. Aveva un’aria terribile, aggravata da un grosso livido all’altezza dello zigomo destro. I ricordi di Alex malridotto mi sfiorarono i pensieri, ma cercai di tenerli a bada, per evitare di sfogare la mia rabbia sul mio amico di vecchia data.
«Hey…» Lo salutai, impacciato.
Senza dire nulla mi guardò in cagnesco, prima di riporre il computer e lasciarmi posto sul letto.
«Tutto bene?» Domandai. «E’ da un po’ che non ti vedo in giro e mi stavo preoccupando.»
«Tutto apposto, grazie.» Rispose gelido.
Il silenzio calò su di noi come un macigno enorme. Mi sentivo in imbarazzo. Cos’ero andato a fare a casa di una persona che non aveva fatto niente per salvare il nostro rapporto? Cosa ci facevo in quella stanza, piena di ricordi appartenenti ad un passato ormai irraggiungibile? Perché ero lì? Cosa stavo cercando da Joshua e, soprattutto, da me stesso?
«Io…» Iniziai, cercando di troncare quella sfilza di domande che mi stavano affollando il cervello.
«Piantala.» Mi interruppe brusco lui, alzandosi dal letto. «Non ho bisogno della tua compassione.» Mi inveì contro.
«Non sono qui per darti la mia compassione, coglione.» Replicai, incollerito. Respirai profondamente prima di riprendere a parlare. «Sono qui per assicurarmi che tu stia bene, che non avessi una costola rotta o cose del genere. E, per la cronaca, la mia compassione sarà l’ultima cosa al mondo che avrai dopo quello che hai fatto. Non so neanche perché mi sono scomodato a venire qui, da un idiota che non sa neanche dire un semplicissimo grazie.» Girai i tacchi e mi avviai all’uscita della camera da letto.
«Aspetta…» La voce di Joshua mi bloccò la mano sul pomello della porta, come una presa di metallo. Mi girai per guardarlo in faccia e un’altra ondata di ricordi mi investì in pieno. Questa volta dovetti stringere i pugni per evitare di saltargli addosso e dargli un pugno in faccia. I suoi occhi incontrarono i miei, sofferenti e incerti. «Grazie per essere venuto.» Disse poi, prima di andarsi di nuovo a sedere sul letto.
Non volevo rispondergli. Non se lo meritava neanche. Senza aggiungere neanche una parola aprii la porta e feci per uscire.
«I miei vogliono farmi cambiare scuola.» Aggiunse, di getto. «Credono che quello che sia successo Venerdì sera alla festa altro non sia che il risultato di tutti i casini che si sono manifestati a scuola. E con casini non intendo solo la tua improvvisa assenza alle rimpatriate qui a casa mia, ma anche tutti i voti negativi che ho incassato in quest’ultimo periodo.»
Mi fermai sull’uscio della camera, prima di chiudermi la porta alle spalle e rientrare, mosso da una calamita invisibile. Provavo quasi pena per quel guscio vuoto che mi trovavo davanti. Aveva la faccia e l’aspetto di una persona che avevo conosciuto in un periodo della mia vita chiuso e superato, ma era abitato da qualcuno… Qualcosa di diverso.
«Ho provato a convincerli che non c’entra nulla… Che quella di ieri è stata solo una stupida rissa tra ragazzini esaltati, ma non mi hanno voluto credere. Crede che l’unica soluzione sia trasferirmi in una scuola privata.»
Non riuscivo a dire niente; ero lì, fermo in mezzo alla stanza con le mani in tasca, e lo guardavo incuriosito.
«Mi dispiace. Mi dispiace essere stato un completo idiota ed aver fatto quello che ho…»
«Povero finocchio.» Dissi interrompendolo.
«C-come scusa?» Negli occhi aveva dipinta un’espressione di puro stupore.
«E’ quello che ha detto Troy Venerdì, giusto? Povero finocchio, intendo…» Spiegai, rendendomi conto del possibile fraintendimento.
«S-sì… Oddio, credi che qualcuno l’abbia sentito?» Chiese, intimorito. «Non perché io lo sia… Un finocchio… Ma perché…»
Dalla gola mi uscii una risata ricca di scherno e di pietà. «Ovvio che qualcuno l’ha sentito.» Dissi, quando ebbi smesso di ridere. «Tutti l’hanno sentito.»
«Ti prego, aiutami.»
In quel momento capii due cose: capii il motivo per cui ero andato a casa di Joshua e che di lui non potevo fidarmi. Non più.
Mi avvicinai al ragazzo di fronte a me e lo guardai dritto negli occhi. «L’ultima cosa di cui hai bisogno è il mio aiuto. Sta’ lontano da me, e dai miei amici. E di’ a Daniel e Max di andare a farsi fottere.»
Senza aggiungere una parola di più uscii dalla stanza e, una volta scese la scale e salutato il signor Kiaylin, indossai il giubbotto ed uscii di casa.



Quando scesi dal bus, alla mia fermata, ebbi una strana sensazione, che non aveva nulla a che fare con i mille pensieri che mi avevano tartassato da quando avevo lasciato casa di Joshua, ma era una sensazione diversa, più cupa. Cercai di metterla a tacere alzando il volume della musica e lasciandomi trasportare dai testi delle canzoni.
Arrivato di fronte casa presi le chiavi dalla tasca esterna dello zaino e le inserii nella serratura, ancora tormentato da quella strana sensazione. Aprii la porta e di fronte a me trovai mia madre abbracciare una figura molto più alta, con un impermeabile blu scuro e dei lineamenti duri e decisi.
«Papà.» Sussurrai.



Se il capitolo - o, più in generale, il racconto - vi sta piacendo, e avete tre minuti liberi, perché non lasciate una bella, anche piccola volendo, recensione? Vi assicuro che le recensioni scaldano il cuore (e con questo freddo ce n'è bisogno) <3

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Capitolo 13
*** Lean on me ***


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Capitolo 12 – "Lean On Me"

Questo capitolo è leggermente più breve degli altri, perché mi è servito per definire un po' meglio la situazione di Jared, e per delineare un po' di più il proprio rapporto con il padre.
Spero che vi piaccia nella sua brevità, e che decidiate di lasciarmi una piccolissima recensione, che sia qui o sulla mia pagina facebook (qui). Mi farebbe davvero piacere conoscere le voste impressioni su questo piccolo racconto.


«Che ci fai qua?» La mia voce tremava per il rancore.
«Ti avevo detto che sarebbe venuto tuo padre, tesoro.» La voce di mia madre mi arrivò distante, quasi come se mi stesse parlando da un'altra realtà, da un telefono difettoso.
«Doveva arrivare la settimana prossima.» La strana sensazione che mi aveva accompagnato dalla fermata del bus fino a quel momento si stava concretizzando, lasciando il posto ad una consapevolezza ancora peggiore.
«C’è stato un cambio di programma.» Asserì mio padre. La sua voce sembrava quasi quella di un estraneo, così diversa dalla voce che ero abituato a sentire attraverso il telefono da apparirmi aliena.
«Sì ok, d’accordo.» Dissi acido, buttando il giubbotto sul divanetto all’ingresso e avviandomi di gran carriera in camera mia.
Non sapevo perché stavo reagendo in quel modo alla presenza di mio padre, ma sapevo solo che qualcosa dentro di me era scattato sull’attenti. C’era qualcosa che non mi quadrava e che mi impediva di godermi l’arrivo anticipato di mio padre.
«JARED!» Mia madre urlò alle mie spalle.
Le ultime parole che sentii prima di chiudermi la porta della mia camera da letto alle spalle furono dette da mio padre: «Lascialo stare per ora. Facciamolo sbollire prima di dirglielo…»
Non appena entrato in camera mi buttai sul letto con indosso ancora i vestiti e affondai la faccia nel cuscino. Senza muovermi dalla mia posizione, allungai una mano verso la mia tasca per prendere il cellulare.

“Se ti chiedessi di uscire insieme stasera?”

Buttai il telefonino sul cuscino affianco alla mia testa e rimasi a fissarlo immobile, ripensando a tutto quello che era successo quel giorno. Erano solo le sei del pomeriggio ed era successo di tutto e di più, cosa mi sarei dovuto aspettare dalle restanti sei ore della giornata? I miei pensieri furono troncati dalla vibrazione del mio cellulare. Lo presi in mano e, riuscendo a non farmelo cadere sul naso, lessi il messaggio.

“A me va bene, però devo stare a casa per le dieci. Ma va tutto bene?”

Rilessi il messaggio una seconda volta prima di rispondere.

“Diciamo di sì così non devo parlarne… Ci vediamo tra una mezzoretta fuori al cinema di Brockley Rise?”

Il telefono vibrò nuovamente.

“Okay.”


Si era alzato il vento, e adesso i miei capelli avevano assunto una forma indefinita, del tutto diversa da quella che tanto mi ero impegnato a fargli assumere nel bagno di casa mia, due minuti prima di scendere.
Attorno a me la gente si ritirava dai propri uffici, aspettando bus o prendendo le proprie macchine, altri portavano il cane a passeggio, aspettando pazienti che questo facesse i propri bisogni.
Poco prima di svoltare la curva che mi avrebbe portato di fronte al cinema, mi fermai di colpo ed iniziai a passarmi una mano tra i capelli, cercando di aggiustare l’irrimediabile. Inspirai profondamente e quasi rabbrividii per il gelo che sembrò pervadermi l’anima.
Immediatamente tutto ciò che era successo nella giornata appena trascorsa sembrò volatilizzarsi come fumo nell’aria, lasciandomi la testa stranamente vuota.
Posai un piede davanti all’altro senza neanche rendermi conto delle mie azioni, e sorrisi quando vidi la figura incappucciata di Alex aspettarmi di fronte all’ingresso; quello stesso posto dove poche sere prima avevo aspettato la mia ragazza uscire dal cinema.
Alzai una mano in segno di saluto e, senza aspettare la risposta del ragazzo, lo strinsi in un abbraccio. Cercai conforto in quel corpo e provai ad aggrapparmi al ritmo del suo respiro, del suo battito, della sua vita. Non riuscivo a capire cosa mi stesse succedendo, ma quei secondi in cui le mie braccia rimasero intrecciate attorno al suo collo la mia paura sembrò scomparire e i nostri cuori sembrarono battere all’unisono.
«Ehi…» Le braccia del ragazzo mi allontanarono delicatamente dal proprio corpo, e i suoi occhi verdi si incatenarono ai miei. «Tutto apposto?»
Mi sentivo debole, indifeso, ma stranamente al sicuro. Non mi era mai capitata una cosa del genere, e cercai di interrogarmi sul motivo di quelle sensazioni. Avrei voluto dirgli tutto quanto; avrei voluto aprire la mia anima e fargli fare un giro al suo interno, ma tutto quello che dissi fu un semplice: «Mhmh, tutto bene. A te?»
«Solo un po’ infreddolito perché ho dovuto aspettare per venti minuti al freddo e al gelo che arrivasse un deficiente con cui dovevo incontrarmi.»
«Da stronzo a deficiente… Faccio progressi!» Commentai sarcastico, mentre sulle mie spalle ricadeva il peso di tutta quella giornata.
«Se questi li chiami progressi stiamo messi bene!» Scoppiò a ridere e mi ritrovai a fissare i suoi occhi illuminarsi come le luci dei lampioni tutte intorno a noi.
«Allora, cosa vuoi fare?» Domandai, voltandomi per nascondere il rossore sulle mie guance.
«Non saprei… Sei tu il londinese tra noi due, quindi perché non proponi tu?»
«Mmmh… Che ne dici di un bel…»
«Perché non andiamo a farci una passeggiata nel parco?» Mi interruppe Alex, raggiante.
Lo fissai divertito prima di rispondere: «Proprio quello che stavo per dire io.»
Ci incamminammo insieme verso l’unico parco di Lewisham, una piccola macchia di verde circondata da recinzioni in ferro battuto che fungevano da divisorio tra la calma della natura e il caos urbano. Mentre i nostri piedi avanzavano le nostre bocche non smisero mai di emettere suoni, parole volte a riempire ogni singolo tempo morto del tempo passato insieme.
«Facciamo una cosa.» Disse Alex non appena avemmo varcato il cancello del parco. «Ora ti faccio una domanda, e tu, oltre a dovermi ovviamente rispondere onestamente, dovrai farmi una domanda collegata a quella che ti ho appena posto… Mi sono spiegato come un barbagianni autistico, vero?»
«Sì, un po’…» Ammisi, trattenendo una risata per il termine usato dal ragazzo. «Ma credo di aver capito. Dai, spara.»
«Ok.» Dalla sua voce trasudavano concentrazione e curiosità. «Allora, prima domanda: la tua più grande aspirazione nella vita?»
Aprii la bocca per parlare, sentii le parole formarmisi in gola, ma poi qualcosa mi fermò, come un peso invisibile proprio all’altezza del petto. Sarebbe dovuta essere una domanda facile: avevo sempre voluto fare medicina, sin da quando mio padre… «Non lo so con precisione, ad essere onesto.» Risposi poi, guardandomi le mani. Mi sentivo stremato. «La tua, invece?»
Alex mi guardò intimidito. «Promettimi che non riderai.»
«Promesso.» Dissi, incuriosito.
I suoi occhi si posarono su più o meno qualsiasi oggetto si trovasse nei dintorni, pur di evitare il mio sguardo. «Vorrei fare lo scrittore.»
Senza rendermene conto iniziai a ridere, ininterrottamente.
«Avevi promesso!»
«Scusa… E’ che… Ahahah… Scusa.» Respirai profondamente per cercare di calmarmi. «Perché mai avrei dovuto ridere? Insomma, non è che tu abbia detto di voler fare il lavapiatti a vita.»
La sua risata rimbombò contro i tronchi degli alberi attorno a lui.
Nel frattempo continuammo a camminare, a fare giri su giri, mentre intorno a noi il freddo si posava su ogni cosa e persona.
«Situazione famigliare?» La domanda di Alex mi colpì dritta allo stomaco, e dovetti rallentare il passo.
«Normale.» Dissi secco. Potei sentire il suo sguardo analizzarmi da capo a piedi, mettermi a nudo là, in mezzo a quel parco spoglio e spopolato. «Tu? Hai sorelle o fratelli?»
In quel momento il gelo mi raggiunse il cuore, colpendomi più forte di qualsiasi altra sensazione avessi mai provato. Avrei voluto rimangiarmi quelle parole, ma era troppo tardi.
«Mio fratello, Adam, è morto quando avevo 14 anni.»
«Oddio, Alex… Mi dispiace.» Le mie parole si depositarono come neve su di noi.
«Fa nulla.» Disse poco dopo, sorridendo triste e posandomi la mano sul braccio, proprio come aveva fatto la sera di Halloween.
Credetti di aver rovinato tutto, di doverlo salutare e tornare, così, a casa, ma il discorso ritornò alla normalità, senza alcun problema.
Fu solo alle nove, un’oretta più tardi, che ci dovemmo avviare all’uscita del parco, entrambi con la voglia di passare altro tempo insieme, a riempire l’uno i tempi e gli spazi morti dell’altro.
«Ok, questa è l’ultima domanda, giuro!» Disse Alex divertito.
«Spara.»
«Mai avuto esperienze sessuali? Se sì, mai con altri ragazzi?»
«Per rispondere alla tua prima domanda sì, solo con Lydia, e solo un paio di volte.» Replicai, senza quei problemi che avrei avuto prima che il canadese entrasse nella mia vita. «No, mai con altri ragazzi.»
Avvertii lo sguardo di Alex fisso su di me, e mi voltai con fare interrogativo. «Devi farmi la domanda.» Mi spiegò poi, facendo spallucce.
«Hai mai fatto sesso con una ragazza?»
«No, mai.» Rispose secco. «Comunque non sono idiota, lo sai, vero?»
«Come scusa?»
«Non puoi pensare di mandarmi un messaggio come quello che mi hai spedito oggi senza aspettarti che io mi ponga delle domande.»
I suoi occhi trasmettevano solidarietà, amicizia e qualcos’altro che non riuscii ad identificare appieno.
«Non lo dico perché voglio sapere i fatti tuoi, o perché mi sono offeso per essere stato contattato per un pronto soccorso senza poi essere informato del motivo.» I nostri sguardi entrarono in contatto, e sentii qualcosa sciogliersi dentro di me. «E’ solo che, anche se ci conosciamo da veramente poco, tengo a te, e vederti stare male senza essere in grado di aiutarti mi fa soffrire.»
«Non voglio appesantirti con i miei stupidi problemi, tutto qua…» Spiegai io, cercando di convincere più me stesso che l’altro ragazzo di fronte a me.
«Come vedi sono stato io a chiederti di parlarmi, quindi non hai il diritto di sentirti in colpa.» Ribatté il biondo. «E’ che voglio che tu sappia che io sono qui per te, così come tu ci sei stato per me quando ne avevo bisogno.»
«Non ho fatto niente di sp…»
«Oh andiamo!» Esclamò. «Hai perso tutte le tue amicizie per colpa mia!»
«E’ stata una fortuna.» Sussurrai, mettendomi le mani in tasca  tirando su col naso. «Comunque non è successo niente di grave… Anzi, a raccontartelo ora mi sento uno stupido; un completo deficiente.»
«Hai detto tu stesso che stai facendo progressi.» Commentò sarcastico Alex, alleggerendo la situazione.
Passammo il resto del tempo che avevamo a disposizione, io a parlare e Alex ad ascoltarmi, paziente. Non avevo qualcuno che mi ascoltasse da un bel po’ di tempo ormai: da quando ero stato a Vancouver con Kyle. Mi ritrovai a pensare che erano i canadesi a avere qualche tipo di talento particolare.
«Non saprei…» Fu il commento del biondo. «Posso capire il tuo astio nei confronti di tuo padre, ma al posto tuo gli darei la possibilità di spiegarti il motivo per cui è venuto fino a Londra, del perché non ti abbia detto nulla.»



Le parole di Alex mi rimbombarono nella testa per tutto il tragitto versi casa, fino a quando non aprii la porta e, dopo aver posato il cappotto, ebbi varcato la soglia del soggiorno, dove i miei genitori erano seduti sul divano a guardare uno show televisivo.
«Jared, tesoro, sei a casa!»
Non diedi peso a mia madre e mi avvicinai a mio padre. «Possiamo parlare, per favore?»
«Certo.» Rispose, con quella voce da estraneo che tanto mi confondeva. «Che c’è?»
«In cucina, se possibile.» Mi congedai con quelle parole, precedendo mio padre in cucina.
«Allora?» Mi domandò mio padre, la cui pazienza era evidentemente al limite.
«Voglio sapere tutto.»
«Tutto cosa?» Mio padre era lì, in piedi di fronte a me, e non capiva una semplice richiesta del figlio.
«Perché sei qui? Perché dopo tutti questi anni di silenzi e di assenze hai deciso di irrompere di nuovo nella mia vita? Capisco che tu sia andato via per lavoro, ma sono due anni che non ti fai sentire! E perché non mi ha detto nulla? Perché sono dovuto entrare in casa e trovarti in piedi di fronte a me per scoprire che eri tornato?»
«Jared…»
«Perché, papà?» Sentii i miei occhi inumidirsi con lacrime di rancore. «Perché?»

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Capitolo 14
*** Meetings ***


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Capitolo 13 - "Meetings"


Bentrovati e scusate il ritardo di un giorno, ma sono veramente incasinatissimo ultimamente... Spero che questo capitolo vi piaccia, perché per me è stato uno dei più complicati da scrivere.

In ogni caso vi invito a recensire e a passare sulla mia pagina facebook, cliccando qui.
Buona lettura! :)


«Jared, tesoro, ti prego ascoltami…» Io e mio padre eravamo ancora in cucina, io appoggiato contro il bancone del lavello, e lui in piedi di fronte a me che cercava di farsi ascoltare.
«Vuoi dirmi perché?» Domandai, per l’ennesima volta, incrociando le braccia al petto.
«Non credo sia il caso di…»
«Al diavolo!» Esclamai, alzando leggermente il tono della voce. Mia madre era nella stanza accanto, il salotto, sicuramente allarmata per il tono delle nostre voci. Potevo immaginare la sua solita espressione preoccupata dipinta sul suo volto. Cercai di calmarmi, e poi parlai. «Se non hai intenzione di dirmi il perché di tutto questo, allora credo che questa discussione si possa considerare conclusa.»
«Bino – era così che mi chiamava, da quando ero piccolo – voglio dirti tutto, credimi, ma ora non è il momento. Lo dico per te.»
«Se permetti credo di essere abbastanza grande da poter decidere da solo cosa sia meglio per me.» Replicai acido. «D’altronde dall’ultima volta che ci siamo visti sono passati due anni. Non sono il bambino che hai lasciato, indifeso ed impaurito.»
Vidi un’espressione di dolore adombrargli per un breve istante il volto, e mi ritrovai ad esserne felice. «Sono ancora tuo padre, Jared, ed esigo che tu mi porti rispetto.» I suoi tratti duri, che avevo ereditato, assunsero un’aria severa e decisa. «Ora va’ in camera tua e non tirare più in ballo quest’argomento, a meno che tu non voglia subirne le conseguenze.»
Mi alzai dal bancone del lavandino e, guardando mio padre in cagnesco, mi diressi verso la mia stanza, incrociando mia madre, che mi guardò preoccupata. Non appena mio padre ebbe varcato la soglia del corridoio sentii la voce di mia madre dire: «Forse è il caso di dirglielo…»
«No,» Rispose allora mio padre, «non ora.»
«Paul, caro, le cose non miglioreranno… Anzi.» La voce di mia madre era diventata più decisa, come ogni volta che si metteva una cosa in testa. «Devi… Dobbiamo dirglielo.»
Dopo un breve periodo di silenzio, poco prima che mettessi piede nella mia camera da letto, mi sentii chiamare da mio padre. Inspirai profondamente, cercando di calmarmi ripensando al consiglio di Alex, e riscesi gli scalini che separavano i due piani di casa mia.
«Vieni a sederti Jared, tesoro.» Sentendo il tono di voce di mia madre non me lo feci ripetere due volte e seguii lei e mio padre in salotto, per poi sedermi sul divano in pelle. Potevo avvertire la tensione accumularsi nell’aria, eppure dentro di me un nodo stava trovando il modo di sciogliersi.
«Allora, ci sono delle cose che non ti abbiamo detto.» Iniziò mio padre, non appena si fu seduto su una sedia di fronte a me.
«Ma va.» Commentai sarcastico, ottenendo in risposta un’occhiata spazientita da parte dell’uomo sedutomi davanti.
«Ti prego Jared, lascia parlare tuo padre.» Supplicò mia madre, con un tono di voce debole al quale obbedii chiudendo la bocca.
«E prima di dirtele, voglio che tu prometta che ascolterai prima le nostre motivazioni.» Riprese mio padre, sistemandosi sulla sedia. «Prometti.» Disse, vedendo che non avevo intenzione di proferire parola.
«Promesso.» Sussurrai, guardando mio padre negli occhi.
«Bene…» Iniziò, con un tono di voce stranamente debole. «Allora, quello che io e tua madre dobbiamo dirti non è niente di così grave, o almeno non dal nostro punto di vista. Conoscendoti, però, sappiamo che non la prenderai molto bene.» Dovetti frenarmi dal fare un commento su quanto, in realtà, quell’uomo seduto di fronte a me mi conoscesse. «Quindi il motivo per cui io non ho voluto dirti niente prima è perché volevo cercare di indorarti la pillola.»
«Posso sapere questa cosa oppure dobbiamo aspettare Natale dell’anno prossimo?» Domandai sarcastico, interrompendo mio padre, che mi guardò leggermente divertito, come se si rivedesse in quelle mie parole.
«Ok, allora cercherò di strappare velocemente il cerotto.» Disse mio padre, torturandosi le mani. «Tu sai come il mio lavoro mi costringa a stare lontano da casa per periodi di tempo lunghissimi – non interrompermi, ti prego – bene, da questo momento in poi le cose cambieranno radicalmente, dalla a alla z si potrebbe dire…»
«Quindi stai dicendo che sei stato licenziato e che ti trasferirai qui a Londra?» Domandai, non riuscendo a controllarmi.
«Ti ho detto di non interrompermi.» Asserì severo mio padre, guardandomi di sbieco. «E no, non sono stato licenziato, anzi, a dir la verità ho da poco ricevuto una promozione. Il punto non è questo, però, Jared. Il punto è che la vostra situazione economica qua a Londra non è delle migliori. Ci sono troppe spese e poche entrate, e tutto questo sta gravando sulla nostra famiglia… Di questo passo dovremmo rinunciare a progetti importanti, sia nostri sia tuoi, e io e tua madre non siamo disposti a farlo…»
«Cosa c’entro io?» Domandai, interrompendolo nuovamente. «Volete che spenda meno? Va bene, lo farò, ma non vedo il motivo per cui tu ora ti trovi qui, seduto di fronte a me, e non a Parigi…»
«Ci stavo giusto per arrivare.» Replicò esasperato; potevo sentire la sua pazienza raggiungere il culmine, e me ne compiacqui. «Come stavo dicendo la situazione economica non è delle migliori in questo momento, e, per prevenire un eventuale disastro, se così possiamo chiamarlo, io e tua madre abbiamo deciso che è meglio per tutti noi se ci trasferiamo a Parigi.»
Ci sono dei momenti in cui il mondo sembra fermarsi, in cui il tempo sembra bloccarsi incapace di accettare la realtà, sperando di non doverla affrontare. Questi momenti arrivano senza alcun tipo di preavviso, e così, di punto in bianco, ci troviamo sollevati nel vuoto, con il cervello che lavora a mille e la realtà intorno a noi apparentemente congelata in quell’attimo che ci ha cambiato la vita.
Potevo quasi sentire il mio cervello elaborare la notizia, processarla e metabolizzarla, il mio cuore saltare un battito e il mio stomaco contorcersi per il nervosismo.
Cosa avrei mai potuto dire ai miei genitori posto davanti ad una notizia del genere? Sentii la mia mente annebbiarsi e il tempo ricominciare a scorrere, veloce come suo solito. Mi alzai dal divano e mi diressi verso la mia camera da letto, inseguito da voci presenti e passate che tentavano di trattenermi senza successo. Non mi accorsi neanche di aver salito le scale e di essere entrato in camera, sentii solo la mia guancia sinistra posarsi sul cuscino, da lì in poi il mondo divenne un confuso turbinio di ricordi e pensieri.



Fu la luce a farmi capire che la notte era passata, e a darmi la spinta giusta per alzarmi. Mi misi a sedere sul letto, dove avevo passato tutta la notte tormentato dall’iperattività della mia mente. Avevo analizzato la situazione della sera precedente per tutto il tempo, cercando scappatoie, tentando persino di convincermi che fosse stato uno scherzo fatto dai miei genitori, ma in cuor mio sapevo benissimo qual era la realtà, e sapevo anche che, anche se non aspettavo altro, non potevo incolpare solo mio padre per il lungo silenzio: mia madre mi aveva guardato negli occhi e mi aveva mentito, mi aveva nascosto la verità dietro sorrisi di circostanza.
Mi alzai dal materasso e mi andai a preparare in bagno per una normalissima giornata di scuola, cercando di nascondere dietro maglioni e capi d’abbigliamento il mio stato d’animo. Una volta finito, presi lo zaino dalla sedia della scrivania e qualche sterlina dal salvadanaio per evitare di fare colazione con i miei genitori, che di sicuro stavano aspettando che sbucassi in cucina, pronto a mangiare con loro.
Scesi le scale di casa e, senza nemmeno infilarmi il cappotto, uscii dalla porta principale, rincorso dalla voce di mia madre che mi pregava di fermarsi con loro.
Quella mattina decisi di non prendere il bus e così, mentre mi infilavo il cappotto, mi incamminai verso scuola, attraverso la strada principale, con la musica nelle orecchie, lasciandomi trasportare dalle note e dalle parole delle canzoni.
Mi fermai all’improvviso, colpito dalla consapevolezza di non voler passare la giornata chiuso a scuola a dover evitare Daniel e i suoi scagnozzi e fingere con Lydia. Presi il cellulare dalla tasca del jeans e, senza nemmeno pensare a quanto stessi facendo, digitai il numero di Alex e lo chiamai.
«Pronto?» Aveva la voce piena di sonno.
«Alex? Sono Jared.»
«Ehi, tutto bene? Come mai mi hai chiamato a quest’ora?»
Sentii il carico di quanto appreso la sera precedente crollarmi sulle spalle, salirmi dallo stomaco e fermarsi all’altezza della gola, come un enorme nodo. La voce mi venne meno.
«Jared, ci sei? Sto facendo tardi e devo uscire altrimenti perdo il bus.» La voce del canadese mi colpì e mi svegliò dallo stato di torpore in cui ero caduto.
«Ho… Ho bisogno di…» Mi sentii mancare il respiro, ed iniziai ad affannare.
«Jared? Tutto bene?» Il biondo dall’altro lato del telefono aveva una voce preoccupata.
«Credo di star avendo… Di star avendo un… Un attacco di panico.» Dissi tra un respiro spezzato e l’altro. Mi sedetti su un muretto alle mie spalle ed iniziai a concentrarmi sul ritmo del mio respiro. Avevo visto centinaia di studenti andare dalla signora MacFlorence per questo motivo, e sapevo come reagire.
«Jared?!» Sentivo, nel frattempo, Alex chiamarmi agitato dall’altro capo del telefono, e il mio respiro iniziò lentamente a calmarsi. «Cazzo Jared, di’ qualcosa!»
«A-Alex.» Sussurrai piano, con il respiro che iniziava a regolarizzarsi. «Che ne dici se oggi saltassimo le lezioni?».
«Vaffanculo, Maycon.» Fu la risposta di Alex, che però avvertii stava sorridendo divertito.
«Ok, a New Cross alle 9 è perfetto. A dopo.»



Il bus arrivò a New Cross alle nove e qualche minuto, così, quando scesi alla fermata, trovai Alex già lì ad aspettarmi, appoggiato contro il muro della stazione dei treni.
Era vestito secondo il dressing code della scuola, a parte le scarpe: un paio di converse verde petrolio. Di sicuro al momento della nostra chiamata doveva ancora indossarle.
«Ehi.» Dissi, salutandolo con una pacca sulla spalla.
«Ehi?» Domandò sarcastico il biondo, rimanendo appoggiato al muro e fissandomi infuriato. «E’ veramente così che vuoi salutarmi? Non hai nient’altro da aggiungere?»
«Ehm… Tutto bene?»
«Ma sei serio?!» La voce di Alex abbandonò qualsiasi nota di sarcasmo e si trasformò in pura rabbia.
«Ok, ok… Stavo scherzando…» Dissi, portando le mani avanti vedendo che il canadese si era staccato dal muro. «Non arrabbiarti, tigre.»
Gli occhi verdi del ragazzo di fronte a me mi penetrarono da un lato all’altro, esaminandomi. «Che cosa ti è preso prima, a telefono? E perché non sei voluto andare a scuola? Non che mi dispiaccia, sia chiaro…»
«Niente, ero in ansia per il test di scienze del mese prossimo.»
L’occhiata che mi lanciò Alex mi fece capire che non si era bevuto quella bugia, inventata in quel momento, su due piedi, e ne fui inconsciamente contento.
«Quando sei diventato così bravo a leggermi? Nemmeno la mia ragazza riesce a capire quando sto mentendo.» Dissi poi, poggiandomi al muro accanto ad Alex, che mi guardò con fare affettuoso.
«Sono diventato bravo a leggerti, come dici tu, da quando tu me lo hai lasciato fare.»
Quelle parole, semplicissime, mi colpirono dritte al petto, sciogliendo quel nodo che mi si era fermato in gola, e facendomi riflettere sugli ultimi due mesi trascorsi.
Fu in quel momento che, senza neanche sapere perché, mi scostai dal muro e strinsi il biondo in un abbraccio. Il suo corpo profumava di vaniglia, e dai suoi capelli proveniva un aroma del tutto particolare che mi ricordò, stranamente, quello della pioggia estiva.
Alex rimase immobile per una buona manciata di secondo, prima di ricambiare l’abbraccio e di stringere le proprie braccia attorno al mio corpo, che sembrò andare a fuoco nei punti in cui entrò in contatto con quello dell’altro. Sentii il sorriso di Alex contro la mia nuca, e il cuore mi si riempii di gioia. Senza dire nulla interruppi quell’abbraccio, per guardare i suoi occhi illuminarsi di quella stessa gioia che aveva riempito il mio cuore.
Poi iniziai a parlare, senza interrompermi mai, così come era successo la sera precedente. Alex avevo quell’effetto su di me: riusciva a leggermi e a tradurmi, cosa che nessuno, neanche Kyle, era riuscito a fare fino a quel momento. Non mi interruppi neanche quando il mio cellulare squillò, svariate volte, mostrando il nome di Lydia sul display.
Così, mentre camminavamo per le strade della periferia di Londra, mi resi conto che uno dei motivi per cui la notizia del trasferimento mi aveva ferito profondamente era proprio lì, accanto a me, ad ascoltarmi come solo lui sapeva fare.
Non volevo lasciare Alex, eppure sapevo che sarebbe stato inevitabile, con o senza Parigi.

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Capitolo 15
*** New bonds ***


tgerfesa
Capitolo 14 – "New Bonds"

Bentrovati a questo nuovo appuntamento con i nostri cari, carissimi Alex e Jared, che in questo capitolo si danno, si potrebbe dire, alla pazza gioia :3

Ricordate di passare per la mia pagina facebook (qui) e di lasciare una recensione, se vi va :)



«Ehi Jared!» Mi chiamò Alex dal corridoio alle mie spalle.
«Ehi.» Gli sorrisi io, girandomi verso di lui.
«Tutto ok?» Non mi diede nemmeno il tempo di rispondere che riprese subito a parlare. «Hai visto chi è tornato a scuola?»
Aspettai una manciata di secondi per capire se potessi parlare o se il biondo avesse intenzione di stroncarmi sul nascere per la seconda volta in nemmeno un minuto. «No… Chi?»
Gli occhi verdi di Alex mi penetrarono, stanchi, «Chi altri si è assentato da scuola a parte Joshua, scusa?»
«Ah già…» Sentii le mie guance andare a fuoco. Erano un poco di giorni ormai che facevo fatica a concentrarmi, da quando mi ero confessato con Alex tre giorni prima, non riuscivo ad analizzare come prima il mondo che mi circondava, come se tutte le mie attenzioni fossero attratte da qualcos’altro.
«Senti…» Riprese il biondo, aggiustandosi lo zaino in spalla e iniziando ad incamminarsi, facendomi segno di seguirlo. «Da quello che so non se la sta cavando proprio bene… Gli altri ragazzi, se così si possono chiamare quegli energumeni, lo hanno completamente tagliato fuori… Sai credo che le voci si siano sparse… Riguardo quanto successo alla festa di Halloween a casa di Sid.»
«Già…» Sospirai, più che altro infastidito dall’interesse che Alex stava mostrando nei confronti dello stesso Joshua che aveva contribuito a rendere i suoi primi giorni in quella scuola un vero inferno.
«Già?!» Mi scimmiottò il canadese, fermandosi di botto e rivolgendomi uno sguardo di ghiaccio. «Tutto quello che hai da dire è “già”?!»
«E cosa mai dovrei dire, Al?» Domandai, fermandomi anche io, e facendo qualche passo indietro per trovarmi alla stessa altezza del mio interlocutore.
«Non ci posso credere…» Disse con tono esasperato Alex.
«Vogliamo andare avanti con te che parli e ti capisci da solo oppure vuoi includere anche me in questo tuo sdegno?» Chiesi, al limite dell’esasperazione. Perché se la stava prendendo così tanto per Joshua? Cos’aveva fatto lui che io mi ero perso?
«Lascia perdere…» E detto ciò fece per andarsene, voltandomi le spalle e iniziando a dirigersi verso l’uscita.
«E no.» Dissi semplicemente prima di afferrarlo per il braccio proprio così come aveva fatto lui con il mio ad Halloween. «Mancano ancora dieci minuti prima dell’inizio delle lezioni e io voglio capire che cazzo sta succedendo.»
Il volto di Alex si indurì sensibilmente. Mi sembrò di rivivere uno dei nostri primi dialoghi, avuto in un corridoio della scuola poco dopo che l’avevo portato in infermeria, e che non si era concluso in modo del tutto pacifico.
«Quello ero io.» Esalò tutto d’un fiato dopo, senza guardarmi negli occhi. «Poco meno di tre mesi fa, io ero Joshua, da solo contro un muro di un bagno a prendere pugni dal bulletto di turno.» Trasalii; e non perché quella era la prima volta in cui Alex aveva tirato in ballo l’accaduto con Daniel, ma perché avevo capito a cosa voleva arrivare, e mi provocava una rabbia immensa pensare che potesse arrivare a conclusioni del genere.
«No. Stop.» Lo zittii io, prima che potesse riprendere a parlare. «Ok, è vero: poco meno di tre mesi fa tu eri Joshua, e io Daniel – se veramente vogliamo continuare a mantenere questa stupida metafora – ma se è vero che tu ora non sei più Joshua, allora non permetterti di dire che io sia ancora Daniel; perché non è così, e lo sai benissimo, tu più di tutti gli altri.»
Alex rimase fermo a fissarmi negli occhi blu, come per ispezionarmi nel profondo, fino a quando non vidi i suoi lineamenti ammorbidirsi leggermente. «E allora perché tu ora sei qui, e non provi a far diventare Joshua me… Ok, questa metafora mi sta solo confondendo… Il punto è: perché non fai nulla? Perché non ti dimostri l’amico che io ho scoperto di avere in te? Perché continui a stare qui fermo a stringermi il braccio senza fare nulla di concreto?»
“Se questo non è qualcosa di concreto” - pensai io - “allora devo veramente dare una spolveratina al vocabolario”.
Cercai di levarmi dalla testa quei pensieri e ricordai la mia visita a casa di Joshua; cercai di esprimere con le parole quella sensazione che mi aveva portato a voltargli le spalle e a capire di non potermi fidare di lui. La risposta mi arrivò così, quasi come un fulmine a ciel sereno.
«Perché lui non è te, capisci?» Esclamai, lasciandogli finalmente andare il braccio, che però rimase fermo sospeso a mezz’aria, quasi come a desiderare che il tempo si riavvolgesse su se stesso, per sempre. Iniziai a sentire il sangue affluirmi alle guance, e capii cosa avevo appena detto, e cosa il mio subconscio voleva leggere tra le righe.
«Jar…» Iniziò lui.
«E è per questo che non mi fido di lui.» Lo interruppi nuovamente io, cercando di risolvere il problema mettere cerotti su una diga incrinata. «Potrai ripetermi quanto vuoi che tu eri lui e che lui è te e tutte queste cazzate, ma io conosco quel ragazzo, l’ho conosciuto passando la mia infanzia con lui; ho compreso chi era veramente a forza di pugni allo stomaco nello spogliatoio di pallanuoto. Quindi sì, la mia risposta è, e sarà sempre, “già”.» Il battito del cuore aveva iniziato ad accelerare e la mia mano a sentire la mancanza del braccio di Alex. «Ora se non ti dispiace dovrei andare in palestra ché il coach mi aspetta.» Detto questo, lo sorpassai e mi diressi verso la piscina.
Mentre stavo camminando, mi resi conto di quanto le mie mani stessero tremando, e fui costretto a ripararle nelle tasche dei pantaloni neri.
Una volta entrato negli spogliatoi cercai di levarmi di dosso, insieme a tutti i vestiti, anche il peso di quanto successo con Alex, ma ormai mi era entrato nelle ossa. Ora ogni parte del mio essere era proiettata al futuro immediato, quando il mio corpo sarebbe stato avvolto dall’acqua fredda della piscina e ai pensieri, come sorretti da braccioli invisibili, sarebbe stato impossibile raggiungermi sott’acqua.
«Allora Jared!» La voce rimbombante del coach mi fece tornare coi piedi per terra, «Pronto per l’allenamento?»
Potevo già sentire l’acqua scivolarmi sulla pelle nuda, lavarmi via i problemi. «Sissignore.»



Come avevo immaginato, il tempo passato in piscina mi servì per fare chiarezza tra i pensieri, tenendo lontani quelli sgraditi e concentrandomi su quelli più leggeri, quelli che potevo affrontare senza crollare come avevo fatto prima con Alex.
Uno dei motivi per cui ciò fu possibile, forse, fu l’assenza di tutti gli altri miei compagni di squadra: questo perché, almeno una volta la settimana, il capitano della squadra doveva, obbligatoriamente, allenarsi da solo.
Tutti questi benefici dell’acqua clorata svanirono dal momento esatto in cui il mio piede si fu posato sulle mattonelle della palestra. La doccia, per di più, non fece altro che peggiorare la situazione, con il suo getto caldo e rilassante, che mi aprì a qualsiasi tipo di pensiero. Non che variassero molto, a dir la verità: Alex e Joshua; Alex e Joshua; Alex e Joshua.
Una volta chiusa l’acqua della doccia, mi asciugai, mi vestii, raccolsi la mia roba e mi diressi verso l’aula di inglese, dove la signora Dorpall non vedeva l’ora di sgridarmi per la prima idiozia. Almeno per quella volta non si sarebbe potuta giocare la carta del ritardo: mi posizionai fuori la sua aula dieci minuti prima del suono della campanella.
Avevo lo zaino a terra, e la spalla sinistra appoggiata al muro accanto alla porta dell’aula, così, quando dalle mie spalle sentii provenire delle risate divertite e sommesse, mi dovetti scostare dal muro per capire chi fosse.
Dalla porta principale del corridoio del piano Terra si stavano avvicinando Alex e Joshua, spalla a spalla, che ridevano complici per qualche battuta che non avrei mai più potuto sentire.
«Ehi.» Salutai freddo il canadese, prendendo la borsa da terra e mettendomela a tracolla, evitando, in tutto ciò, di incrociare lo sguardo di Joshua.
«Ciao.» Disse però il mio amico d’infanzia. «Tutto ok?»
Lo fulminai con lo sguardo e, sorridendo acido, mi girai dall’altro lato, ignorandolo del tutto.
«Comunque, come ti ho scritto l’altro giorno, io l’unico autore che devo ancora ripassare è Jane Austen …» Sentii Alex dire a Joshua, evidentemente poco interessato al mio atteggiamento di poco prima, da quella che mi sembrava una distanza infinita. «Quindi se vuoi posso aiutarti io a prepararti  per il test di inglese che abbiamo tra poco meno di due settimane.» Quelle parole mi colpirono dritte all’altezza dello stomaco, facendomi impallidire.
«Non saprei…» Rispose Joshua, di cui potevo ancora avvertire gli occhi sulla nuca. «Non vorrei crearti fastidi inutili.»
«Nessun fastidio, anzi,» Replicò il biondo, «mi fa piacere aiutare la gente in difficoltà.» Avvertii un leggero tono di rimprovero in quest’ultima affermazione, tanto che mi dovetti fermare dal girarmi verso Alex e urlargli addosso, dicendogli che non aveva capito nulla di me; ma rimasi fermo, con le mani in tasca, davanti alla porta dell’aula di inglese, che si aprii di fronte a me pochi minuti dopo.
«Signor Maycon!» Mi salutò la signora Dorpall, evidentemente sorpresa di trovarmi già fuori alla sua aula.
«Salve.» Ricambiai io, superandola ed andandomi a sedere al mio solito posto in seconda fila, seguito d Alex e Joshua, che si sedettero vicini, l’uno dietro l’altro.
La lezione proseguì più lenta del solito (e questo è tutto dire), con la mia mente che vagava più e più volte verso i mormorii che potevo sentir provenire dalle mie spalle. Odiavo quella situazione, ma soprattutto odiavo me stesso per come stavo affrontando la faccenda. Non riuscivo a capirne il motivo.
Non appena la campanella fu suonata, raccolsi le mie cose in fretta e, cercando di non voltarmi verso Alex e Joshua, uscii velocemente dall’aula, dirigendomi verso il mio armadietto, dove, dopo aver velocemente preso i libri del signor Boujdi, mi ritrovai bloccato da Lydia, che si parò di fronte a me, a braccia incrociate.
«Ehi scusa, ma ho lezione adesso, ci vediamo dopo? Ho buca.» Dissi io, posandole un bacio sulla guancia e sperando con tutto me stesso che non iniziasse a parlare.
«Eh no, col cavolo che parliamo dopo.» Esclamò la ragazza, infrangendo tutti i miei sogni. «Sono giorni ormai che non fai altro che ignorarmi, cercando di farmi contenta con frasi di circostanza.»
«Ly, davvero, l’ultima cosa che mi serve è fare tardi con il signor Boujdi.» Dissi esasperato, cercando di divincolarmi dalla sua presa ferrea sul mio polso.
«Me ne frego del signor Boujdi e di cosa possa servire a te, in questo momento!» Esclamò Lydia, guardandomi fredda negli occhi. «Voglio sapere perché non mi pensi più, perché hai addirittura smesso di mandarmi messaggi, e perché stai cercando di evitarmi a tutti i costi. Sai quante volte ti ho chiamato da venerdì scorso?! Penso come minimo una ventina!»
«E quindi?» Replicai io, ormai al limite della pazienza. Una giornata da cancellare.
«”E quindi?”» Disse lei, allibita dalla mia risposta. «Pensi davvero di cavartela con un “e quindi?”? Mi stai facendo fare la parte della rincretinita solo perché… Perché, Jared?»
«Perché?» Ripetetti io, cercando di capire il senso di quanto detto dalla mia ragazza e soprattutto il motivo di tutta quella scenata. «Perché non ho intenzione di discutere con te in questo momento oppure perché non ti ho quasi più rivolto la parola in questi ultimi giorni?» Domandai, poi.
«Perc…»
«E’ inutile che mi rispondi, tranquilla, tanto la risposta è la stessa: mi sono rotto.» La interruppi io, staccando la sua mano dal mio braccio. «E ora, se permetti, dovrei andare a seguire una lezione.»
Detto ciò, girai i tacchi e me ne andai, lasciandola ferma e sola in mezzo al corridoio degli armadietti, rossa dalla vergogna.
Avrei voluto cancellare quella giornata dalla mia vita, e non tanto per quanto successo con Lydia, mi ritrovai a comprendere, ma perché odiavo i cambiamenti, e in particolare quelli che includevano Alex.
Stava andando tutto alla perfezione prima che lui arrivasse nella mia scuola, a sconvolgermi la vita: avevo degli amici, una ragazza, un progetto di vita sicuro e nitido; ora invece mi trovavo senza amici, senza una ragazza, e senza un futuro a cui guardare… Mi sentivo in balia della vita, catapultato avanti e indietro da un gioco che non voleva finire. Eppure se avessi dovuto dire, in quel momento preciso, quale fosse stato il giorno migliore dei miei anni al liceo, allora avrei di sicuro detto il giorno in cui, su un aereo da Vancouver a Londra, avevo per la prima volta incontrato quegli occhi verdi.
Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai fuori l’aula di biologia. La lezione era già iniziata, da come potetti sentire, così, cercando di calmarmi, poggiai la mano sulla maniglia della porta e ne varcai la soglia.
Il signor Boujdi s’interruppe di botto, bloccando la presentazione powerpoint e voltandosi verso di me, con un sorriso compiaciuto. «Guardate ragazzi: il capitano Maycon ha deciso di deliziarci con la sua presenza!» Esclamò, seguito da una lieve risatina da parte di un gruppetto della classe.
Senza commentare il comportamento del professore, mi girai verso Alex, seduto da solo al nostro banco, e sentii una morsa stingermi lo stomaco. «Non mi sento bene.» Dissi solo, prima di voltarmi e lasciare l’aula.
Una volta in corridoio sentii la rabbia salirmi dalla bocca dello stomaco fino al cervello, facendomi ronzare le orecchie e quasi lacrimare gli occhi. Il mio braccio si mosse prima che io potessi anche solo accorgermene, facendo collidere il mio pugno contro la parete bluastra del corridoio. Il dolore mi fece tornare in me, e fu allora che mi accorsi che Alex era proprio lì, accanto a me, ad aspettare che io mi calmassi.
«Che vuoi?» Domandai io, senza alzare lo sguardo e con il pugno ancora poggiato contro il muro. Potevo sentire i miei occhi inumidirsi. «Sei venuto a goderti lo spettacolo, oppure il signor Boujdi ti ha mandato a chiamarmi?»
Non ricevetti risposta, se non una mano sulla spalla, che fu quasi come una spinta per le mie lacrime, che iniziarono a scendermi lentamente per le guance.
«Allora?» Ribadii, cercando di ricordarmi perché ero arrabbiato anche con lui.
«Non c’è una terza opzione?»  Chiese. «Bene, allora vorrà dire che me la invento io ora.» Continuò Alex, vedendo che ero rimasto in silenzio «Che ne dici di: “mi sono preoccupato e volevo vedere che cosa ti fosse preso”?»
«E perché mai dovrebbe interessarti, Alex?» Dissi allora io, alzando finalmente il capo per guardarlo negli occhi, e mostrando le mie lacrime. «Perché mai dovrebbe fregartene qualcosa di me quando ora hai Joshua tutto per te?»
Gli occhi verdi di Alex si posarono sui miei, velati di lacrime e pieni di rabbia, e cercarono di entrarmi dentro, per calmarmi e per infondermi la tranquillità che in quelle ultime ore – ma cosa dico? Che in quegli ultimi mesi avevo perso. «Perché lui non è te, Jared.»

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Capitolo 16
*** Over you. ***


loki

Capitolo 15 – “Over you"
 

Buooonsalve a tutti, e ben ritrovati qui, al quindicesimo capitolo della storia di Jared ed Alex, che questa volta si ritoveranno in situazioni ancora più delicate dell'ultima volta.
Be', detto questo vi auguro una buona lettura e, soprattutto, spero che questo capitolo vi piaccia e che continuiate a rendermi partecipe delle vostre impressioni lasciando una recensione qui o passando dalla mia pagina facebook e commentando con le vostre impressioni.

Alla prossima!



Dopo quel breve ma intenso scambio di battute avvenuto tra me ed Alex, ci avviammo insieme verso il cortile, per aspettare che la lezione di Biologia volgesse al termine.

«Sicuro di non voler tornare in classe? Non c’è bisogno che ti perdi la lezione per colpa mia…» Domandai io, una volta sedutici sulla panchina di fronte al campo da palla a canestro.

«E’ tipo la quinta volta che mi fai questa domanda, non ti rispondo neanche più.» Disse il biondo, sistemandosi accanto a me. «Più che altro… Vuoi dirmi cosa ti è preso?»

Cercai di pensare in maniera distaccata e razionale a quanto successo in quelle ultime ore, dalla discussione con Alex al mio distacco da Lydia, ma il mio cervello continuava ad aggrovigliarsi su se stesso, senza arrivare ad una soluzione da me accettabile.

Guardai Alex negli occhi, e rividi quello stesso colore che mi aveva svegliato sul volo da Vancouver. Non sapevo per quale motivo, ma in quegli ultimi momenti non avevo fatto altro che ripensare a quel momento. Lessi nei suoi occhi la voglia di sapere cosa fosse successo, in modo tale da potermi aiutare.

«Mi sono lasciato con Lydia.» Dissi poi, spostando lo sguardo verso il pavimento. Sapevo benissimo che non era quello il motivo del mio comportamento scontroso e irascibile delle ultime ore, così come sapevo di non poter dire la verità ad Alex.

«Cosa?!» Esclamò il canadese, posizionandosi a cavalcioni sulla panchina di pietra per avermi di fronte. «Quando è successo?»

«Esattamente prima della lezione del signor Boujdi.» Ammisi io, facendo finta di cercare qualcosa nel mio zaino.

«Oddio… E come… Insomma, perché?»

Non riuscii a trattenere una leggera risata, che dovetti immediatamente spiegare ad Alex, che mi aveva rivolto uno sguardo interrogativo. «Scusa,» dissi, «è solo che è abbastanza divertente il fatto che, mentre tu chiedi “perché si sono lasciati”, io mi chieda “perché ho aspettato tutto questo tempo?”»

Le mie parole fecero scendere su di noi una pesantissima cappa di silenzio, sotto cui si riusciva a sentire il ronzio dei nostri pensieri.

«Comunque è successo abbastanza velocemente, a dir la verità…» Dissi, riprendendo il discorso e sollevando lo sguardo da terra. «… Anche se abbastanza lentamente da farmi fare tardi a Biologia.» Sorrisi.

«Sì, ok… Ma cosa è successo?» Domandò di nuovo Alex.

“Sei arrivato tu.” Avrei voluto dire. «Era arrivato il momento di prendere le distanze.»

«Ok… Quindi era una cosa che stavi avvertendo nell’aria da un po’ di tempo, ormai?»

«Già.» Risposi.

«Bene…» Replicò il biondo, «Adesso mi vuoi dire il vero motivo per cui oggi sei stato così scontroso?»

«Come, scusa?»

«Già ti ho detto che ormai le tue bugie non attaccano con me. Anche perché - diciamoci la verità - non è che tu sia proprio bravo ad inventarle: non è stata la separazione con Lydia ad averti fatto innervosire così tanto oggi, altrimenti non si spiegherebbe il tuo comportamento di stamattina.»

Nei minuti di silenzio che seguirono le parole di Alex mi maledissi in silenzio, cercando qualche scappatoia per poter evitare di confessare al canadese il vero motivo per cui ero stato così intrattabile.

Potevo sentire le rotelle del mio cervello lavorare freneticamente, senza fermarsi un attimo, alla ricerca di qualche scusa per  deviare il discorso, quando la voce di Alex buttò a terra qualsiasi mio tentativo. «E’ per Joshua, non è così?»

“Ovvio che è per Joshua!” pensai in cuor mio, trattenendomi a fatica dall’urlargli addosso. «Anche…» Sussurrai infine, calando qualsiasi tipo di difesa.

«Lo sai, vero, che io non ho intenzione di andarmene finché non mi dici qual è il problema?» Il biondo mi fissò dritto negli occhi e sorrise, divertito.

«Il problema è Joshua.» Ammisi.

«E…?»

«E te! Ok? Il problema siete tu e Joshua!» Scoppiai esasperato, liberandomi da un enorme fardello. «Il problema è che non riesco a capire né cosa è successo tra voi due né quando; e non riesco a capire come tu abbia fatto a voler stringere i rapporti con una persona del genere!» Oramai sembravo un fiume in piena i cui argini erano stati distrutti. «Non capisco… Non… Come puoi anche solo pensare di voler passare del tempo con lui – e non con me, pensai – come se nulla fosse mai successo.»

«Ok.» Fu la risposta di Alex, che si sistemò una ciocca di capelli da davanti agli occhi. «Senti… Non puoi realmente pensare che io abbia dimenticato quanto successo. Quello che dico, però, è che in questo momento lui ha bisogno di qualcuno che gli sia vicino, così come ne avevo bisogno io, e non ho intenzione di voltargli le spalle.»

«Lo so, io…» Non riuscivo a cacciare le ultime parole, quelle che mi stavano logorando dall’interno. «E’ solo che io non capisco… Non capisco perché tutto questo mi dia così fastidio.» Dissi infine, voltando il capo verso di lui ed ancorando i miei occhi ai suoi, cercando conforto e risposte.

Mi accorsi della mia mano sulla sua solo quando le sue dita si strinsero intorno alle mie, facendomi accelerare il battito cardiaco e annebbiandomi la mente.

Ormai il pensiero di Lydia, di Joshua e di quanto successo in quegli ultimi giorni, mi sembravano delle luci lontane, nascoste da dense nubi che profumavano come la pioggia estiva. In quel momento tutto ciò che aveva importanza era lì, di fronte a me, e, nonostante tutto ciò mi provocasse uno strano stato di confusione, decisi, in quell’occasione, di smettere di pormi domande e freni inutili.

Così, per quella che fu una delle prime volte in vita mia, agii seguendo il mio istinto, e il mio stomaco. Lasciai che le mie stesse braccia si alzassero dalla pietra fredda della panchina e si posassero sul corpo di Alex - la destra sulla guancia e la sinistra sul braccio –, che rimase immobile, a fissarmi con un’intensità che mai avevo visto illuminare i suoi occhi. Potevo già immaginare le mie labbra posarsi sulle sue, e trasmettergli tutte le emozioni che erano nate dentro di me in questi ultimi mesi.

Mi ritrovai a pochi centimetri dal suo volto, con gli occhi socchiusi, quando la campanella della fine delle lezioni fece crollare questo sogno ad occhi aperti come il vento fa volare i castelli di carte; e tutto ritornò alla normalità, con Alex fermo nella stessa posizione, che mi fissava quasi speranzoso, e io che mi alzavo dalla panchina ed andavo a seguire la prossima lezione.

 

 

Cosa mi fosse saltato in mente non lo sapevo neanch’io, sapevo solo che non avrei avuto il coraggio di guardare Alex negli occhi per un bel po’ di tempo. In realtà non credevo sarei stato in grado di guardarmi allo specchio dopo quanto successo. Chi ero? Cosa era cambiato?

Quel pomeriggio a casa lo passai, quindi, a tormentarmi di domande, senza riuscire a trovare alcuna risposta, e a convincere i miei genitori a farmi rimanere a casa per un paio di giorni, il tempo di riprendermi dall’influenza che mi aveva fatto saltare la lezione del signor Boujdi.

Ero talmente concentrato su quanto accaduto con Alex, che mi ero completamente dimenticato degli ultimi svolgimenti con Lydia, e fu per questo motivo che, quando il giorno dopo si presentò alla porta di casa mia, ci misi un po’ per capirne il motivo.

«Che vuoi?» Chiesi, freddo. Non avevo alcuna intenzione di perdere tempo con lei.

«Voglio solo parlare, Jay…» Rispose la mia ex ragazza, con le mani nelle tasche del giubbotto. «Senti, non devi dire nulla, basta che mi ascolti, ok?»

In tutta risposta rimasi fermo a fissarla, intimandole di fare presto.

«Senti, mi dispiace per come mi sono comportata con te ieri, è solo che mi sento presa in giro e soprattutto messa in imbarazzo davanti a tutta la scuola…»

«E… Quindi?»

«Quindi,» ricominciò lei, inspirando profondamente, «non voglio rompere con te, ecco. Perciò non c’è bisogno che tu continui a tenere il muso, ti perdono.»

Il mio sguardo si trasformò da freddo e distaccato a divertito ed incredulo. «Certo che sei proprio stupida.» Dissi.

«Come, scusa?»

«Davvero credi che io sia qui ad aspettarti, pronto a tornare con te allo scoccare delle tue dita solo perché tu mi “perdoni” (per cosa, poi, devo ancora capirlo)?!» Esclamai, uscendo fuori casa e chiudendomi la porta alle spalle per evitare che i miei sentissero il mio litigio con Lydia. «Non ho intenzione di stare con te solo perché credo che sia la cosa conveniente.»

«Jared…»

«Sì Lydia, hai sentito bene.» La interruppi. «Senti, fatti un’analisi di coscienza e cerca di capire questi ultimi due anni da cosa sono stati guidati. Cerca di capire perché sei stata con me fino a questo momento e perché sei disposta ad umiliarti pur di continuare a farlo.» Dissi poi, con tono pacato. «Sei stata una parte importante della mia vita, e ti vorrò sempre bene, ma adesso basta fingere.»

«Non puoi troncare con me in questo modo, lo sai, vero?!»

«E invece credo proprio di sì Lydia…» Risposi, riaprendo la porta alle mie spalle. «L’ho appena fatto. E’ finita.»

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Capitolo 17
*** Perspective ***


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Capitolo 16 – “Perspective”

And here we are!
Bene, non vi nascondo che questo capitolo ha un posto davvero speciale nel mio cuore, perché è forse quello che mi ha permesso di affrontare anche determinate cose nella vita di tutti giorni (quindi guai a chi me lo critica, eh! :'D Scherzo, ovviamente.). Non aggiungo nient'altro se non buona lettura e, come al solito, grazie perché mi continuate a seguire :)

p.s.
Come al solito vi invito a recensire: ogni recensione mi scalda il cuore, davvero :)




Subito dopo essermi chiuso la porta alle spalle, mi diressi diretto in camera mia, cercando di non fare alcun rumore che potesse portare su di me l’attenzione dei miei genitori. Mi levai tutti i vestiti di dosso e mi rifugiai nel box doccia, sperando che l’acqua lavasse via tutti i pensieri, e cercando di fuggire dal cellulare che, minaccioso, continuava imperterrito ad emettere il solito suono di notifica.
L’acqua calda quella volta non fu in grado di farmi scivolare di dosso i pensieri; anzi, sembrò amplificarli, creando una bolla tutt’intorno a me: condizione ideale per lo scorrere irrefrenabile di pensieri di qualsiasi tipo. Non che i miei pensieri variassero molto: Alex, la campanella, il quasi bacio, Lydia, Alex, la campanella, il quasi bacio… Non per forza in quest’ordine.
Il vapore sembrava voler volare via dal box doccia con la stessa velocità con cui le mie sicurezze, le mie certezze mi avevano abbandonato poco prima, quando ero stato a tanto così dal posare le mie labbra su quelle di Alex; quando l’idea di sbagliato, di inadeguato, aveva disertato la mia mente, permettendomi di posare le mani su quelle del canadese.
Amareggiato interruppi il getto d’acqua, girando del tutto la manopola della doccia, e mi avvolsi nell’accappatoio, caldo di termosifone; mi fermai di fronte allo specchio e, come fossi in un film, non mi riconobbi nella figura che, dalla superficie di vetro, ricambiava il mio sguardo confuso… E questo non a causa del vapore, che rendeva ogni immagine riflessa dallo specchio opaca e poco chiara, ma per colpa di qualcosa che era scattato dentro di me, qualcosa che sapevo essere cambiato, qualcosa di molto più profondo.
Mi mossi sul posto, cercando di far comparire il mio volto in un piccolo spicchio di vetro non ancora ricoperto dal vapore, e quello che vidi non fece altro che confermare le mie tesi, invocando in me quelle domande che avevo evitato per così tanto tempo da farlo, ormai, automaticamente; domande che ogni ragazzo della mia età dovrebbe porsi: Chi sono? Perché sono così? Quale vita mi aspetta? Sono felice? Sarò mai felice? Posso essere felice essendo me stesso?
Fissando il vuoto, mi strofinai i capelli per cercare di asciugarmeli e, contemporaneamente, di svuotarmi la testa non riuscendo ad accettare il fatto che domande del genere non se ne vanno via così, con un getto d’acqua o con uno strofinio vigoroso: sono domande che cercano una risposta, che succhiano via la vita fino a quando non ottengono ciò che vogliono, come tante piccole sanguisughe di emozioni, che si nutrono di aspettative e di ansie. L’unica cura conosciuta era trovare risposte… Attività in cui non mi ero mai allenato molto.
Una volta essermi asciugato e rivestito, spensi le luci del bagno e mi diressi in camera mia, dove mi sedetti alla scrivania, prendendo carta, pena e raccogliendo tutti i miei pensieri.

“Caro Kyle,
Scusa se non ti ho più scritto dall’ultima volta, ma davvero non so come ho fatto, in questi giorni, a ricordarmi di avere una testa sulle spalle e non la zucca di Cenerentola. Sul serio, sono successe tante di quelle cose che non so neanche da cosa iniziare, per riuscire a dare a questa lettera il senso che vorrei assumesse.
Ok, cercherò di andare per gradi, perché altrimenti potrei perdermi con la stessa facilità con cui un verme inizia a strisciare.
Bene. D’accordo. Sarà una lettera mooolto difficile da scrivere per me… Ma questo già te l’ho detto. Ok, sto tergiversando come al solito. Stop. Resetto tutto e cerco di parlare di cose serie:
Partirò, allora, da quando ti ho lasciato, ovvero prima di Halloween. Bene… Allora, tutto è iniziato quando io, Alex e Lydia siamo andati ad una festa in casa di uno di scuola nostra, Sid.
La serata è partita nel migliore dei modi, in maniera spensierata e, soprattutto, proiettata verso le aspettative di una festa in cui poter divertirsi.
Ok, forse non era partita così bene come voglio farti credere: ero pieno di ansie, e di pensieri che tu, e sottolineo TU, mi avevi messo in testa con quella tua ultima lettera (il caso ha voluto che la ricevessi proprio il giorno prima della festa, il 30 ottobre!).
In ogni caso, il giorno della festa avevo una confusione tremenda che mi vorticava in testa, nonostante le cose con Lydia si fossero “risolte”. Avevo paura di varie cose, ma soprattutto di quello che le tue parole avevano evocato in me. Oddio, la devo smettere di essere così prolisso e di fare tutte queste digressioni: finirò col rimanere senza fogli di carta per quando la lettera sarà finita.
Bene. Quindi siamo arrivati alla festa in sé, svoltasi in tutta tranquillità (soprattutto perché l’ho passata interamente con Alex, a parlare, del più e del meno, senza freni né contegno), fino a quando Joshua, ubriaco, non ha ribaltato completamente la situazione, facendo nascere una rissa – che io stesso ho dovuto interrompere – con un ragazzino che continuava ad urlargli cose come “finocchio!”, “ha detto che è un finocchio!” etc.
Che svolta inaspettata, eh?!
Lo sarebbe se io credessi anche solo ad una parola che esce dalla bocca di quell’energumeno. Gli ho fatto una visitina nei giorni dopo la festa, quando ho notato che si stava assentando da scuola, e ogni suo singolo atteggiamento non ha fatto altro che alimentare i miei dubbi nei suoi confronti. Nasconde qualcosa, ne sono sicuro… Ed Alex ci sta cadendo come un idiota… Ma questa è un’alta storia.
Subito dopo Halloween è successo quello che mai mi sarei aspettato, e che mai avrei voluto accadesse…”

La porta della mia stanza si aprì di colpo, lasciando lo spazio necessario affinché mia madre potesse affacciarsi. «Jared, tesoro, è pronta la cena.»
«Mamma!» Inveii incollerito, alzandomi di scatto dalla sedia della scrivania per correre a chiudere la porta. «Quante volte ti devo dire che devi bussare?!»
«Scusa…» Replicò mia madre dall’altro lato della porta di legno. Potevo sentire le sue labbra tendersi in un sorriso. Mi dovetti sforzare per non imitarla. «Arrivo tra un po’, iniziate pure senza di me, non preoccupatevi.»
«D’accordo ma non metterci troppo ché il cibo si fa freddo.»
«Ok ma’.» Dissi mente mi dirigevo nuovamente alla mia postazione. «Bene, dov’ero rimasto?» Borbottai tra me e me.

“... Mio padre si è presentato a Londra, pretendendo diritti persi da ormai un bel po’ di tempo: vuole che io e mia madre ci trasferiamo con lui a Parigi.
Problemi economici, dice lui. Fanculo, penso io.
Mi sento preso per il culo, Ky… Mi sembra come se tutto quello che è successo dalla fine dell’estate fino al giorno in cui, entrando in casa, ho trovato mio padre sia stata tutta una messa in scena.
Vorrei solo che me l’avessero detto. Che almeno uno di loro avesse avuto la decenza di avvertirmi. E’ anche la mia vita, fino a prova contraria.
Ok, ho speso anche troppe parole per colui che si definisce mio padre, ora è il momento di spiegarti le due cose più importanti, che non mi stanno lasciando in pace da quando sono accadute.
Prima di tutto devo ammettere, col senno di poi, che l’arrivo di mio padre a qualcosa è servito: grazie a lui ho stretto ancora di più i rapporti con Alex, la mia unica ancora in un momento di incertezze.
Consequenziale a questo nostro ulteriore avvicinamento è quello che sto per scriverti adesso.
Ci siamo quasi baciati.
O meglio: l’ho quasi baciato sulla panchina del cortile di scuola, mentre lui faceva quello che gli riesce meglio, ovvero ascoltarmi.
Non so cosa sia scattato in me, so solo che, mentre un momento ero lì a parlare di quanto mi desse fastidio il fatto che lui si stesse avvicinando a Joshua – non per gelosia, sia chiaro, ma semplicemente perché, come ti ho scritto prima, non mi fido di lui – e della mia rottura con Lydia – ah già, l’ho lasciata! – l’istante seguente la mia mano era sulla sua e i nostri volti erano così vicini da poter sentire il suo odore di pioggia estiva ed erba bagnata.
Non faccio altro che pensare e ripensare a quel mio gesto, arazionale ed impulsivo, portato avanti in un momento di debolezza e vulnerabilità emotiva.
Bene, con questo posso dire conclusa la mia lettera. Non so neanche perché ti scrivo, né cosa voglio sentirmi dire da te… So solo che stavo impazzendo tenendomi tutto dentro.

Grazie come al solito,
Jared.


Una volta conclusa la lettera, con la mano ormai indolenzita, imbustai i due fogli di carta e raggiunsi i miei genitori a tavola, dove mi aspettava un piatto ricco di pietanze, ormai fredde.



Era inizio dicembre ormai – più o meno una settimana lavorativa da quando avevo spedito la lettera a Kyle – quando ricevetti una sua risposta, che mia madre si precipitò a consegnarmi, neanche fosse una patata bollente.
Gli ultimi giorni a scuola erano passati lentamente, senza la compagnia di Alex a rendere le giornate più leggere ed interessanti. Non che lui non volesse stare con me dopo quanto accaduto, anzi… Aveva provato più e più volte, durante le ore scolastiche, ad avvicinarsi a me e a far partire un dialogo. Ero io quello che non riusciva a stare a meno di un metro di distanza dal canadese senza che le immagini di quanto accaduto giorni prima mi affollassero il cervello, liberando una scarica elettrica per tutto il mio corpo.
Quando vidi la lettera firmata da Kyle nelle mani di mia madre, quindi, mi fiondai a prenderla tra le mani e ad aprirla.
Dovetti rileggerla un paio di volte prima di carpirne il senso.

Ciao Jay,
Ti rispondo il prima possibile – a differenza di una persona di mia conoscenza, che impiega in media due mesi per scrivere una lettera – perché quello che mi hai scritto mi ha dato motivo di credere che sei alla deriva, e che – ovviamente – senza di me sei perso.
Allora, proverò anche io ad andare per punti, per farti capire quello che voglio dirti senza però farti arrabbiare né niente del genere.
Dunque… Partirò dalla questione di tuo padre perché, paradossalmente, è quella meno grave (nel senso che non hai bisogno di me così come ne hai bisogno per gli altri punti). Non credo sia giusto incolparlo di così tante cose “solo” perché vi dovrete trasferire a Parigi.
Non puoi partire dal presupposto che quella dei problemi economici sia una scusa, perché altrimenti non uscirai mai da questo turbine di rancore verso Paul.
Lo incolpi per aver lasciato te e tua madre da soli? Bene, allora vedi questo trasferimento a Parigi come un’occasione per recuperare il tempo perduto, per arrivare a conoscere tuo padre così come hai sempre voluto fare – perché so che l’hai sempre voluto fare, Jared – e per ricominciare la tua vita daccapo. Ne hai bisogno e, soprattutto, te lo meriti.
Ovviamente il tuo problema non è il trasferimento in sé e per sé, bensì l’idea di lasciarti dietro tutta questa parte di te. Quello che ti dico è: se tutto questo fosse successo prima dell’arrivo di un certo biondo canadese la tua reazione sarebbe stata completamente diversa. Spero che tu lo sappia.
Bene, adesso il vostro psicologo di fiducia passerà al punto seguente, siete d’accordo? Perfetto.
Il punto seguente è, ovviamente, Lydia… MA FINALMENTE, DICO IO!
Ok, ho dato anche troppa importanza a Lydia. Adesso, se voi permettete, mio caro cliente, passerei al punto saliente della lettera: Alex.
Non voglio perdermi in parole inutili, Jay, perché credo che così facendo non farei altro che peggiorare la situazione. Voglio solo provare a farti ragionare, senza freni né inibizioni… Esattamente come hai ragionato quando è scappato il “quasi-bacio”.
In tutti questi mesi in cui sei stato a Londra, da quando è finita l’estate, e in quelle altrettante lettere che mi hai scritto, se c’è una cosa che ho capito è che l’unica persona che deve ancora comprendere appieno i propri sentimenti per Alex e, soprattutto la propria vera natura sei tu (e con natura non intendo né etero, né gay, né bisessuale né tantomeno alpaca; intendo la tua vera essenza, il tuo centro, come dice Babbo Natale ne “Le Cinque Leggende”*).
Bene. Quindi… Voglio farti solo una domanda: a chi pensi quando hai bisogno di parlare, o di sfogarti, per un motivo o per un altro? Quando credi che il mondo ti stia per cadere sulle spalle, facendo di te poco più di una frittata, qual è il primo volto che ti salta in mente? Non sono io, non è Lydia, e non sono neanche i tuoi amici da quattro soldi.
Il motivo per cui non mi hai scritto in questo periodo – e, attenzione, non ti sto accusando – non è stato perché hai avuto un mese incasinato (che, oddio, è vero), ma è stato perché non hai pensato a me quando avevi bisogno di parlare di qualcosa con qualcuno. Hai pensato a lui, ed è giusto che sia stato così.
Non ti dirò cosa provi o non provi per lui, perché questo è qualcosa che solo tu puoi fare, facendo finalmente un’analisi di quelle che sono le tue idee – quelle veramente tue – e  le tue sensazioni, mandando a fanculo tutti quelli che hanno condizionato, fino a questo momento, la tua vita, in ogni sua sfaccettatura.
Ma sto degenerando, come si addice ad un vero retorico.
Quello che ti chiedo di fare è domandarti quanto hai compreso di te stesso da quando Alex ha varcato le porte della Walworth Academy.

*So che non l’hai visto… A volte mi chiedo come faccio ad essere tuo amico. Sul serio, come vivi?

Sempre tuo,
Kyle


Senza rendermene conto avevo iniziato a piangere, e il macigno dentro di me aveva iniziato a sciogliersi come l’inchiostro della lettera di Kyle.

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Capitolo 18
*** Quasi-friends ***


kjuhyg
Capitolo 18 - "Quasi-friends"

Hello everybody! :)
Pubblico questo capitolo con un peso sullo stomaco, perché è da un po' che non scrivo e ho ripreso in mano la storia solo adesso, e spero con tutto il cuore di riuscire a scrivere un diciannovesimo capitolo in tempo... Nel frattempo godetevi questo breve chapter e fatemi sapere cosa ne pensate! :)
Vi ricordo di passare sulla mia pagina Facebook cliccando QUI, e, se vi fa piacere, di lasciare una recensione ^^


Quella notte la passai completamente in bianco, a leggere e rileggere le parole del mio parente canadese, cercando di farle mie, di capirne il significato nascosto. In fondo sapevo che quelle parole nascondevano la verità su ciò che provavo e su come mi sentivo, ma non sapevo se fossi pronto ad ammetterlo.

Passai ore ed ore, con il foglio tra le mani e la mente nel mio mondo personale, quello a cui nessuno poteva accedere, se non io; quello che mi serviva a fare chiarezza tra le cose dentro e fuori di me. Non aggiunsi né un tostapane né la luna, quella volta, ma cercai di riorganizzare i miei pensieri in maniera razionale ed ordinata, e di accettarli così com’erano.

Ogni volta che il mio cervello raggiungeva una conclusione, il mio subconscio cercava qualsiasi scappatoia, qualsiasi scusa, per impedirmi di afferrarla; per impedirmi di accettare le cose così come stavano.

I minuti iniziarono ad accavallarsi, diventando prima ore ed infine giornate, che passai in casa, fingendo di non sentirmi bene. Mia madre non mi fece domande, consapevole delle mie bugie ma, allo stesso tempo, disposta a fare finta di nulla. Pensò, invece,  a tranquillizzare mio padre, che invece si barcamenava da un posto all’altro per cercare di concludere tutte le scartoffie necessarie al trasferimento che sarebbe avvenuto in poco più di un mese.

“Oggi ho concluso il contratto con la compagnia telefonica.” Disse una volta tornato a casa, con mille e più cartelline sottobraccio; oppure “oggi ho finalmente trovato una buona agenzia di traslochi”; una volta, invece, quel mercoledì sera, tornò a casa dicendo a me e mia madre: “ho parlato con la preside della tua scuola, Jared, e abbiamo finalmente concluso il tuo trasferimento al Lycée Thiers…” non ascoltai neanche quello che aveva da dire su esami e quant’altro.

D’improvviso mi si era chiuso lo stomaco.

Il giorno seguente, invece, - quello stesso giovedì – la mia giornata fu completamente stravolta da un messaggio di Alex, che si informava circa la mia assenza:

 

Hey Jay…

Non so il motivo per cui non sei venuto a scuola, in questi giorni… Se è una cosa seria o meno. Volevo solo dirti che, se il motivo è quello successo venerdì scorso, allora non devi preoccuparti. Per me è come se non fosse mai successo. Nada. Niente. Nothing. :)

Se invece il motivo è un altro, allora spero che non sia nulla di troppo grave.

In ogni caso… Mi piacerebbe venirti a trovare o comunque passare del tempo con te, se vuoi e puoi. Così magari ti do anche i compiti del signor Boujdi!

Fammi sapere.

 

Seguito, subito dopo da un secondo messaggio, di completamento:

 

Sono preoccupato… Ti voglio bene,

Alex.

 

Oltre questi due messaggi, a cui non risposi, il venerdì seguente passò tranquillo, e il weekend arrivò prima del previsto, senza la solita impressione di libertà che ogni volta mi pervadeva. Quella volta, invece, non aveva nulla di particolare, nulla di diverso rispetto agli altri giorni passati in casa a sentire mia madre parlare emozionata della nuova vita che ci attendeva nella capitale francese – forse più per convincere se stessa che altro – e rileggere la lettera di Kyle più e più volte.

Quando la sveglia del mio cellulare squillò, quel sabato, segnando l’inizio di un nuovo giorno, e dando il via alla ripresa della mia routine, mi alzai dal letto con una strana sensazione addosso; non più pensando alle parole di Kyle, ma con una strana calma dentro di me.

Quasi come l’acqua della piscina prima di essere increspata dai movimenti della gente.

Mi guardai allo specchio e, negli occhi blu che ricambiarono il mio sguardo, notai una lieve scintilla; un qualcosa di diverso che, però, allo stesso tempo, mi era stranamente familiare. Qualcosa che mi portò a sfilarmi finalmente il pigiama di dosso, per indossare un pantaloncino di tuta e una maglia grigia traspirante.

Una volta finito nel bagno, mi spostai in camera da letto, dove presi il cellulare, ignorando le chiamate perse da parte della mia counselor, e, dopo aver controllato l’ora – erano le otto meno venti -, lo presi e scesi al piano di sotto, dove, in cucina, trovai mio padre alle prese con la macchina del caffè.

«’Giorno.» Dissi io, entrando nella stanza e posando un attimo il cellulare sul bancone da cucina.

«Buongiorno Jay.» Rispose lui, scostando lo sguardo dalla brocca del caffè solo per un istante. «Come mai sveglio a quest’ora?»

«Avevo pensato di andarmi a fare una corsetta.» Dissi, prendendo una banana dal cesto della frutta. «Sai com’è, dato che sto finalmente bene…»

«Sì certo, certo… Fai bene.»

«A proposito,» ripresi io il discorso, iniziando a mangiare la banana, «hai per caso visto la mia fascia per iPod?»

«Sì, se non sbaglio è sul tavolo nello studio di tua madre.» Rispose mio padre, dando un colpo alla macchina del caffè. «Non riesco a far funzionare questo dannato coso!»

Trattenni una risata e andai verso di lui, accanto al lavandino. «Ecco.» Sorrisi, premendo un singolo pulsante sulla caffettiera, che si azionò immediatamente.

«Grazie.» Sospirò mio padre, demoralizzato. «Come hai fatto?»

«Basta premere questo, pa’.» Sorrisi, prendendo il cellulare dal bancone e mettendomelo in tasca.

«Jared.» La voce di mio padre mi fermò prima che uscissi del tutto dalla cucina.

«Pa’, devi solo aspettare che esca il caffè, adesso.»

«Cosa? Ah… Sì sì, lo so, grazie.» Replicò, sorridendo anche lui. «No, ti volevo dire che io e tua madre oggi andiamo a fare un giro in centro, per vedere alcune cose prima del trasloco… Ti vuoi unire?»

Sentii le mie labbra distendersi, prima di rispondere: «ti faccio sapere, ma credo di sì… Okay?»

«D’accordo.» Rispose mio padre, sempre con il sorriso impresso sulle labbra. «Buona corsa.»

«Grazie pa’, a dopo.»

Presi la felpa e la fascia per l’iPod, che mi misi attorno al braccio, ed uscii di casa, sentendo il freddo gelido entrarmi dentro, fino alle ossa.

La corsa, sin da quando ero più piccolo, mi aveva aiutato a riflettere, a pensare senza rimanere assordato dalle impressioni che gli altri si stavano costruendo di me: la musica, lo sforzo dei muscoli, i passanti assorti nelle proprie vite, il respiro regolare, tutte questi piccoli elementi mi aiutavano ad estraniarmi dalla realtà.

Non appena uscito di casa mi calai il cappuccio fin sopra gli occhi, mi misi le cuffie nelle orecchie facendo partire la musica e, con la prima nota, iniziai a correre lungo il marciapiede del viale di casa mia.

Non appena iniziai ad avere il fiato corto, e a sentire le guance arrossarsi, cominciai ad isolarmi, e tutti i pensieri che mi avevano reso quasi catatonico durante la settimana iniziarono ad allinearsi, per la prima volta in quei sette giorni, in maniera ordinata, uno dietro l’altro. Pronti per essere analizzati.

 

 

Non sentivo più il freddo, anzi. Ero ricoperto di sudore dalla testa ai piedi, e potevo sentire il battito accelerato del mio cuore aumentare la mia temperatura corporea. La mia testa ormai, però, non era più affollata da pensieri su quanto detto da Kyle e su quello che provavo per Alex. In quel momento di pura stanchezza le uniche cose che potevo sentire nella mia testa erano le parole di Ed Sheeran.

Non sono mai stato un tipo da musica. L’ascolto, questo è ovvio, ma non sono mai stato uno di quelli che si lasciano trasportare dal testo di una canzone, dalla sua melodia, e che permettono a quest’ultima di risvegliare qualcosa dentro di loro.

Quella volta, però, - mentre correvo verso un qualcosa che neanche io sapevo bene cosa essere – i versi di I’m A Mess rimbombarono dentro di me, urtando le pareti più recondite del mio essere e facendomi vibrare dall’interno.

 

“Oh I’m a mess right now,

Inside out

Searching for a sweet surrender,

But this is not the end.

I can’t work it out,

How going through the motions…

Going through us.

And oh I’ve known it for the longest time,

And all of my hopes

All of my own words

Are all over written on the signs…”

 

Sarà stato, forse, il fatto che quelle parole mi si addicevano così tanto da farmi quasi paura, oppure qualche congiunzione astrale; il risultato rimane, però, lo stesso.

Mi fermai solo un momento per capire dove mi trovassi, con la musica che continuava a suonare nelle mie orecchie, attraverso gli auricolari. Senza rendermene conto mi ero allontanato un bel po’ da casa mia e, ora che ci pensavo, non sapevo neanche da quanto ero per strada, a correre… A dire la verità neanche mi interessava. Provai a dedurre, da quanto mi circondava, la mia posizione esatta e, quando arrivai ad una conclusione, sentii le gambe tremarmi – non per la fatica.

Mi incamminai, a passi più decisi di quanto avrei immaginato, sul vialetto della casa di Alex e, poco prima di arrivare di fronte alla porta di ingresso, sentii la maniglia girare su se stessa e l’anta aprirsi verso l’esterno.

Sentii il cuore salirmi in gola, e iniziare a palpitare più velocemente di quanto non avesse mai fatto. Vidi una ciocca bionda uscire dal cappuccio della giacca del canadese, che mi dava le spalle, intento a chiudere la porta.

Mi sciugai il sudore delle mani sul tessuto sintetico dei pantaloncini, giusto prima che Alex si girasse verso di me.

«Jared?» Disse lui, sbalordito. Non dissi niente mentre il biondo si avvicinava a me, con le mani nelle tasche del giubbotto. «Che ci fai qui?» Continuò, aggiustandosi una ciocca bionda davanti agli occhi. «E perché sei tutto sudato?!»

«Ho corso.» Dissi io, sorridendo e togliendomi il cappuccio. I miei capelli neri erano madidi di sudore, e appiccicati alla fronte. Me li scostai leggermente in modo tale da poter vedere per bene gli occhi verdi di Alex.

«Hai corso?» Domandò lui.

«Già.» Sorrisi inebetito io, in risposta.

Lo sguardo di Alex era pieno di interrogativi. «Ok… Che fine hai fatto?!» Domandò poi.

«Sono stato a casa.» Risposi, guardandolo incamminarsi e seguendolo. «Febbre.» Spiegai subito dopo, rendendomi conto della stupidità della mia risposta.

Il silenzio che si venne a creare subito dopo quasi mi destabilizzò. Il primo che riprese la parola fu Alex. «Senti…»

«No, non dire niente, ti prego.» Lo interruppi io, cercando di fare mente locale tra i concetti che avevo passato una settimana intera ad analizzare minuziosamente.

«O-Okay.»

«Altrimenti perdo il filo del discorso e sono cazzi.» Gli spiegai, vedendo la sua espressione quasi addolorata. «Questi sette giorni che ho passato a casa,» cominciai, «mi sono serviti anche per capire bene alcune cose, come ad esempio quanto successo venerdì a scuola.»

«A proposito…» Fece per dire lui, prima di notare la mia espressione. «Ah già, scusa… Continua.»

«Bene.» Inspirai profondamente. «Ho potuto pensare molto anche a quanto è successo – o forse è meglio dire a quanto non è successo – venerdì. Il punto è, Al, che…»

«Non farci tanti giri attorno, Jay. Non ce n’è bisogno. Siamo stati guidati da un momento.» Mi interruppe di nuovo. «Da un momento di pura idiozia e, se vogliamo dirla tutta, di debolezza. Non mi sono fatto alcun film su noi due perché so benissimo quello che pensi e, soprattutto, quali sono i tuoi gusti, in quell’ambito. Non mi sono creato nessun castello in aria, tranquillo, perché tu per me sei un caro amico che ho imparato a conoscere in questi ultimi mesi, e non credo che potrai mai essere qualcosa di più.»

Sentii le parole morirmi sulle labbra, e qualcosa, dentro di me, spezzarsi lentamente.

«Era quello che stavi per dire, giusto?» Disse Alex, notando la mia espressione contrita.

“Certo che no, idiota! Sono qui per dirti che tu sei stato in grado di farmi mettere in discussione ogni singola parte di me; che ogni volta che penso a chi, tra tutte le persone che conosco, mi abbia realmente cambiato la vita, il primo nome che mi viene in mente è il tuo; che se dovessi tornare indietro a venerdì scorso manderei a fanculo quella dannata campanella e mi allungherei quel minimo in più per poterti finalmente sfiorare le labbra. Sono qui per dirti che mi sto innamorando di te.”

«Certo.» Dissi, fingendo un sorriso e cercando di trattenermi dall’urlare per il dolore allo stomaco che quelle parole mi avevano provocato.

Non capisco perché la gente si ostini a parlare del cuore quando si tratta di amore: accade sempre tutto nello stomaco.

«Bene.» Sorrise Alex, posandomi una mano sulla spalla e levandola subito, notando quanto fossi sudato. «Ora devo andare, ho una sorta di appuntamento con Joshua. Ci sentiamo Jay!»

Non feci in tempo a metabolizzare il nome di Joshua, che il biondo si era allontanato, lasciandomi da solo.

«Ci sentiamo dopo!» Urlai io alle sue spalle, prima di riprendere la corsa verso casa.

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Capitolo 19
*** Reality's a B**** ***


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Capitolo 18 – “Reality’s a B****”



Holaaaaa! :)

Prima di iniziare a leggere questo nuovo capitolo dovete promettermi una cosa: non odiatemi... Vi prometto che fa tutto parte di un piano più grande.
Come al solito, inoltre, vi volevo ricordare di passare per la mia pagina facebook (cliccando qui), e di lasciare - sempre se vi va, si intende - una recensione.
Grazie a tutti e buona lettura :3


 
 

Quella volta non avevo alcuna piscina in cui tuffarmi, nessun modo per togliermi dalla testa le parole di Alex, che continuavano a ripetersi all’infinito, rimbalzando da una parete all’altra della mia mente. Non potevo neanche rifugiarmi nel mio spazio personale, in quel luogo dove solo io potevo entrare perché, ogni volta che provavo a farlo, tutto quello che ci trovavo erano i volti di Alex e Joshua, occupati a fissarmi intensamente.

La casa, per di più, era troppo silenziosa dato che i miei genitori erano andati, alla fine, a fare quel fatidico giro in centro, giro che io mi ero rifiutato di andare a fare: non sarei stato di alcuna compagnia, avrei solo dovuto trattenermi dall’aggredire i miei genitori e tutto ciò che mi avrebbe circondato. La rabbia, infatti, dopo i primi momenti di completo stupore e negazione, aveva preso il sopravvento. Ero pieno di collera verso Kyle, che mi aveva spinto a fare un passo che evidentemente non avrei mai dovuto fare; verso Joshua, che mi aveva rubato anche quel momento, quell’occasione; nei confronti dei miei genitori, per non avermi cresciuto come un idiota senza cervello a cui le cose scivolavano addosso; ero adirato con Alex, per così tanti motivi che avevo iniziato a dimenticare la causa principale; ma, più di tutto, ero arrabbiato con me stesso per aver anche solo pensato di poter essere qualcuno di diverso, di poter meritare qualcuno come Alex.

Eppure il dolore allo stomaco era lì.

Eppure anche solo pensare a quegli occhi versi e a quei capelli biondi rendeva la rabbia più sopportabile.

Era la ventesima volta, più o meno, che avevo iniziato a fare avanti e indietro per il salotto di casa, quando decisi di sedermi per l’ennesima volta sulla poltrona accanto al camino spento. Di fronte ai miei occhi solo il ricordo del nome di Joshua uscire dalle labbra di Alex.

Quando il rumore del campanello della porta d’ingresso mi distolse dai miei pensieri, senza nemmeno rendermene conto, mi alzai ed andai ad aprire.

«Chi è?» Domandai, avvicinandomi alla porta.

«Jared apri, sono io.» Rispose la voce dall’altro lato.

«Io chi?» Replicai, non avendo realmente riconosciuto il timbro di voce.

«Sono Alex, puoi aprire per favore?»

D’improvviso tutta la mia rabbia, tutta la delusione che aveva appesantito la mia giornata, era scomparsa, come volatilizzata.

Non appena aprii la porta trovai conforto nel suo sorriso imbarazzato.

«Ho trovato il tuo indirizzo su Facebook, spero che non sia un problema?»

«Cosa? Che tu abbia trovato il mio indirizzo su internet oppure che ti sei presentato senza preavviso?» Replicai scherzoso, divertendomi alla vista del suo imbarazzo.

«Ho capito,» disse, rimettendosi nell’orecchio desto l’auricolare dell’iPod, «me ne vado. Ci vediamo domani.»

Cercai di trattenere una risata, ma non ci riuscii. «Dai che stavo scherzando! Entra; mi fa solo piacere che tu mi sia venuto a trovare.» Vidi il volto del canadese rilassarsi nuovamente e sentii qualcosa sciogliersi dentro di me.

«Perché sei venuto, comunque?» Gli chiesi, una volta chiusa la porta alle sue spalle.

«Sono appena tornato dall’appuntamento con Joshua…» Disse, provocando in me una serie infinita di fitte di dolore. Riuscii quasi a sentire il peso delle sue parole cadermi addosso con tutto il loro peso. «E’ andato bene, se devo essere sincero.» Continuò lui, con lo sguardo perso nel vuoto di fronte a lui.

«Vuoi qualcosa da bene?» Gli domandai, cercando di non concentrarmi sulle sue parole.

«No grazie…» Rispose, sfilandosi la giacca e rimanendo con una maglia verde a mezze maniche. «Posso accomodarmi?»

«Certo.» Gli dissi io, cercando qualche altra scusa per non affrontare l’argomento “Joshua”.

«L’appuntamento è andato bene, come ti stavo dicendo.» Riprese lui, dopo un breve periodo di silenzio imbarazzante passato ad evitarci con gli occhi.

«Bene…» Riuscii a dire, nascondendo la disperazione.

«C’è solo una cosa che mi ha turbato, se così si piò dire.»

«Ah sì?» Domandai, sedendomi sul bracciolo della poltrona di fronte a lui, mosso da una scintilla di speranza.

«Sì.» Rispose, torturandosi le mani.

«E cosa?»

«Non riuscivo a smettere di pensare a te.» Disse, alzando lo sguardo ed inchiodandolo al, mio. «Neanche per un minuto.

Sentii i palmi delle mani iniziare a sudarmi e il cuore iniziare a battere molto più velocemente. Improvvisamente la salivazione mi si era interrotta ed era diventato impossibile proferire parola.

«Non sono riuscito a pensare ad altro se non a te, e al nostro incontro prima che io andassi da Joshua.» Andò avanti lui, continuando a fissarmi negli occhi. «Continuavo a pensare a quello che volevi dirmi, e al fatto che io ti abbia interrotto. Sembrava volessi dirmi qualcosa di molto più importante, e mi sento stupido per non averti fatto parlare.»

Mi ritrovai a ringraziare me stesso per aver deciso di sedermi: mi sentivo le ginocchia così deboli che se fossi stato ancora in piedi sarei crollato sul pavimento come un sacco di patate.

«Allora?» Mi domandò il biondo.

«C-cosa?» Replicai, facendo fatica a parlare per la bocca secca.

«Dovevi dirmi qualcosa di importante oppure era tutto frutto della mia immaginazione?»

Dovevo dirti che avrei voluto baciarti; dovevo dirti che in questi pochi mesi che ci conosciamo hai stravolto la mia vita come poche persone hanno mai fatto; dovevo dirti che hai distrutto ogni mia certezza, ricostruendole in un modo completamente diverso, in un modo che mi piace molto di più del precedente. Dovevo dirti che quello che provo per te, ormai, è molto più che semplice amicizia.

Avvertii la mia mente elaborare questa risposta, esaminarla sotto mille punti di vista e, prima che potessi anche solo realizzare quello che stava succedendo, sentii la mia voce dare vita a quei pensieri, e vidi gli occhi di Alex guardarmi con stupore, ingrandirsi a tal punto che fui tentato dal tuffarmi in quel torbido mare verde, anche se questo avrebbe significato annegare.

Quello che accadde dopo non mi fu ben chiaro; vidi solo Alex alzarsi dalla poltrona di fronte alla mia, venirmi incontro senza mai staccarmi gli occhi di dosso, prendere il mio volto tra le mani e poggiare le sue labbra sulle mie.

Non capii più nulla; fui travolto dal momento e, come un burattino mosso dal proprio burattinaio, mi alzai dal bracciolo della poltrona e portai le mie mani sul corpo di Alex, che si era staccato leggermente dalle mie labbra per sorridere. Le mie mani iniziarono a giocare con i suoi capelli, con le sue spalle e con l’orlo della sua maglietta, mentre con le labbra cercavo di assaporarlo. Non aveva un sapore definito, sapeva solo di Alex, e questo bastava a farmi andare in tilt il cervello.

«Sfntati.» Le parole del ragazzo tra le mie braccia erano ovattate dalle mie labbra, ma in quel momento non mi interessava. Tutto ciò che aveva importanza, lì, in quell’attimo, eravamo noi due.

Eppure Alex continuava a ripetere quella parola, di cui non capivo il senso. «Sfntati.»

Fu solo quando mi allontanai un secondo dalle sue labbra, e lo guardai negli occhi, che mi accorsi che qualcosa non quadrava.

«Svegliati.»

Le labbra che si muovevano erano quelle di Alex, eppure la voce non era la sua.

«Jared, tesoro, svegliati.»

«Cosa?»

«Svegliati.»

Di fronte ai miei occhi non c’era più il volto di Alex, né tantomeno avevo le sue labbra premute sulle mie. Mia madre mi stava scuotendo delicatamente, cercando di farmi svegliare.

«E’ pronta la cena.»

«Che ore sono?» Domandai, sistemandomi sulla poltrona e stiracchiandomi leggermente. Le immagini del sogno ancora impresse nella mia mente.

«Sono le sette e mezzo. Io e tuo padre siamo tornati un paio d’ore fa e ti abbiamo trovato addormentato sulla poltrona, quindi abbiamo pensato di lasciarti dormire.»

Le parole di mia madre sembravano un ronzio lontano. Potevo avvertire i fotogrammi del sogno abbandonare gradualmente la mia coscienza.

«Comunque la cena è pronta… Perché non vai a sciacquarti la faccia e poi ci raggiungi? Abbiamo preparato la lasagna con la pasta che ci ha spedito tua zia dall’Italia.»

«Ok, arrivo subito.»

Una volta arrivato in bagno, ed essermi sciacquato la faccia, cercai di ripescare stralci del sogno drasticamente troncato e, quando non ci riuscii, mi avviai sconsolato in sala d pranzo dove la mia famiglia mi stava aspettando.

La lasagna era squisita.

 

 

Il giorno successivo la sveglia suonò puntuale, destandomi da un sonno – quella volta -  privo di sogni. Come ogni mattina mi lavai e mi preparai per andare a scuola, e,  sulla strada verso la fermata del bus, mi fermai davanti una vetrina di un negozio per aggiustarmi i capelli mossi dal vento.

Una volta arrivato alla banchina dell’autobus iniziai a sentire lo stomaco contorcersi per il nervosismo. Sarebbe stata la prima volta in cui io ed Alex ci saremmo incontrati, se non si considera il sogno, di cui potevo ricordare solo piccoli particolari. Sufficienti a rendere elettrica l’atmosfera con il canadese, una volta incontratici sul bus diretto verso la Walworth Academy.

«Hey!» La voce solare di Alex mi raggiunse, facendomi venire un’altra fitta allo stomaco. I suoi occhi verdi sembravano assorbire tutta la luce solare, per poi rifletterla mille volte più forte.

Immagini del sogno della notte precedente mi affollarono la mente, e quasi non caddi per terra mentre mi dirigevo verso dove era seduto.

«Ciao.» Riuscii a dire, mentre mi accomodavo accanto a lui.

«Come va?» Mi domandò lui, girandosi verso di me e posando il cellulare nella tasca della giacca.

«Tutto bene, grazie.» Risposi. «A te?»

«Benissimo, a dir la verità.»

«Ah sì? E come mai?» Chiesi, anche se in cuor mio già conoscevo la risposta.

«Ti avevo detto, vero, che avevo un appuntamento con Josh?»

Josh? Pensai, stringendo le mani a pugno.

«Credo di sì, perché?» Cercai di sembrare il più disinvolto possibile, ma quello che uscii dalla mia bocca fu un verso strozzato.

«Be’, è andata meglio del previsto!» Riuscii a vedere la felicità illuminargli il volto e quasi mi sentii in colpa. «Siamo andati ad st. James’ Park e abbiamo camminato, e parlato, moltissimo.» Continuò. «Mi ha parlato della sua vita prima della scuola, e dei suoi amici… So quello che pensi,» aggiunse, vedendo la mia espressione indurirsi, «ma sembra davvero essere cambiato… Credo che in tutto questo lui sia stato una vittima, così come me e te.»

«Non sono la vittima di nessuno.» Dissi queste parole senza rendermene conto, ma in fondo ne fui felice.

«Sì, lo so… Non intendevo vittima di qualcuno, ma vittima degli eventi.» Rispose lui. «E con vittima non intendo per forza qualcosa di negativo… Intendo semplicemente che gli eventi hanno operato su di noi, plasmandoci e cambiandoci, che ci piaccia o meno.»

In quel momento il bus si fermò di fronte scuola e, quasi sollevato, interruppi quella conversazione.

«Cos’hai fatto alla fine dopo la corsetta, ieri?» Mi chiese mentre ci avviammo verso gli armadietti.

«Mmmh, niente di che… Appena tornato a casa mi sono addormentato, e mi sono svegliato direttamente ad ora di cena.»

«Ancora debole?»

«Mmmmh?» Domandai, non capendo bene a cosa si riferisse.

«Intendo per la terribile influenza che hai avuto.» Rispose, aprendo il proprio armadietto e prendendo i libri di inglese e biologia.

«Ah sì, già.»

«Quella che ti sei inventato per evitare di discutere su quanto successo in cortile.» Continuò il biondo, appoggiandosi all’armadietto affianco al mio.

«Non…»

«Faresti di tutto per evitare di deludere o ferire chi ti sta intorno.» Sorrise. «Ormai ti conosco come le mie tasche, Maycon.» E, detto questo, Alex si staccò dall’armadietto e se ne andò.

Se solo fosse vero, pensai.

 

 

L’ora di biologia passò lenta, con mr. Boujdi che sgridava chiunque pensasse anche solo di starnutire, e con Alex che continuava, di nascosto, a parlarmi del suo appuntamento con “Josh”.

«Abbiamo mangiato in un semplicissimo fish & chips,» Disse, mentre il professore era intento a prendere delle diapositive dalla borsa, «e poi mi ha portato a vedere la casa di Sherlock Holmes.»

Smisi di prestargli attenzione quando arrivò a parlare delle parole dolci che Joshua gli aveva riservato a fine appuntamento. Sentii il mio stomaco contrarsi e dovetti frenare i conati di vomito.

Una volta suonata la campanella mi staccai da Alex con la scusa di dover andare in bagno, quando in realtà l’unica cosa che volevo fare era prendermi una pausa dal diabete che i suoi racconti mi stavano provocando. Mi diressi quindi verso i bagni dei maschi del terzo piano, e, una volta entrato, mi trovai di fronte a Joshua, che stava fumando.

«Chi si rivede!» Esclamò lui, buttando il mozzicone di sigaretta nel gabinetto e tirando poi lo sciacquone.

«Non sono in vena.» Dissi secco, andando diretto ai lavandini ed iniziando a far scorrere l’acqua.

«Per cosa? Per una chiacchiera con il tuo amico di vecchia data?» Notai il sarcasmo nella sua voce, e mi dovetti trattenere ai bordi del lavandino per evitare di girarmi e dargli un pugno in faccia.

Senza degnarlo di una risposta misi le mani sotto l’acqua corrente e lasciai che mi colasse sui polsi, per cercare di rallentare il battito.

«Il minimo che potresti fare è chiedere scusa.» Disse poi l’altro, spostandosi accanto a me e guardandomi divertito.

Sentii il sangue salirmi al cervello, e, come ogni volta che perdo il controllo, parlai prima di ragionare. «Basta. Ti prego, smettila con queste sceneggiate da povera vittima, che tanto lo sappiamo benissimo entrambi che tu sei tutto fuorché questo.» Dissi, mentre sorridevo amaramente ricordando le parole che Alex aveva detto sul bus. «E poi perché mai dovrei chiederti scusa?!» Domandai, alzando leggermente il tono di voce e guardandolo finalmente dritto negli occhi.

«Magari per il modo in cui, dopo esserti presentato di punto in bianco a casa mia, hai deciso di trattarmi, mancandomi di rispetto?»

«Ti ho detto di smetterla.» Risposi freddo, cercando di trasmettergli tutto il rancore che provavo nei suoi confronti. «Smettila con questa farsa, perché è tutto inutile. Ti conosco da così tanto tempo che ho imparato, mio malgrado, a leggerti; quindi smettila.» Sentii il battito accelerarmi e dovetti nuovamente trattenermi dal prenderlo a pugni. «Non ho intenzione di chiederti scusa, né per essermi presentato a casa tua – per controllare come stessi, giusto per chiarirci -, né per averti trattato come credo sia giusto.»

«Ti rendi conto, vero, che quello che stai dicendo non ha né capo né coda?» Domandò sarcastico Joshua, arretrando di un passo.

«Sta’ zitto, ti prego. E’ meglio per tutti.» Replicai. «Non ho intenzione di starti a sentire neanche un minuto di più, così come non ho intenzione di lasciarti andare in giro facendoti bello, agli occhi di tutta la scuola, raccontando storie campate in aria.»

Vidi i suoi occhi marroni illuminarsi divertiti. «Agli occhi di Alex, vorrai dire.»

Esitai per un secondo, prima di chiedere: «Che intendi?»

«Il biondino ti ha raccontato, vero, del nostro appuntamento?» Domandò, con un’espressione divertita che gli distorceva il viso. «Di come l’ho ringraziato per avermi aperto gli occhi? Di come gli ho tenuto la mano per dirgli quanto gli fossi riconoscente… Di come mi sono avvicinato per baciarlo? Strano che si sia spostato quando l’ho fatto, però… Pensavo che quelli come voi fossero più facili da fa…»

«Sta’ zitto!» Urlai, sbattendolo contro il muro con l’avambraccio premuto contro la sua gola. «Sei un bastardo.»

Le sue labbra si piegarono in un sorrisetto divertito. «A quanto pare ad Al piacciono i bastardi, non è colpa mia.»

Alzai il braccio e caricai un pugno contro il suo zigomo, che fece un rumore sordo quando lo colpii.

Avevo il respiro affannato, e le orecchie ovattate dal battito del mio cuore, impazzito dalla rabbia. Senza pensarci due volte lasciai andare Joshua e, una volta arretrato di un paio di passi, mi aggiustai la maglia.

«Se pensi anche solo di torcere un capello ad Alex, non basteranno venti dei tuoi “amichetti” a difenderti.» Detto questo uscii dal bagno e, prima di dirigermi verso l’aula di inglese, feci due volte il giro del cortile.

La signora Dorpall non ne fu molto contenta.

N.d.A.

Aaallora, come vi avevo scritto all'inizio, non odiatemi, vi prego ç.ç

La scelta del sogno non è stata dettata semplicemente da un mio sadismo (che, devo ammettere, è alquanto presente u.u), ma anche dal mio intento di far capire quanto la conquista, da parte di Jared della propria identità, debba essere ottenuta da quest'ultimo affrontando in primis se stesso e le proprie paure: e quale modo migliore per fare ciò se non con la manifestazione del suo inconscio? ^^
Nonostante tutto spero che il capitolo vi sia piaciuto (se così dovesse essere, che ne dite di lasciare una bella recensione? :3)

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Capitolo 20
*** Sciences ***


gs
Capitolo 19 - "Sciences"

Prima di tutto mi voglio scusare con tutti per questa lunghissima assenza, ma lo stress mi ha fatto venire il blocco dello scrittore, e quindi ogni volta che cercavo di scrivere qualcosa di nuovo finivo con cestinarlo immediatamente.
Ma adesso siamo qui! Con quest'ultimo capitolo prima della vacanza estiva (credo), che vi lascerà con qualcosa di positivo a cui pensare in questo mese di estate :)
Bene, detto ciò non mi resta che ricordarvi la mia pagina facebook (che trovate qui) e di recensire o commentare con qualsiasi cosa vi venga in mente!
Buona lettura e, se non dovessi pubblicare altri capitoli, buone vacanze!








Quando Joshua si presentò nella classe di inglese, con un leggero ematoma sullo zigomo sinistro, la signora Dorpall gli chiese dove si fosse cacciato, facendo un excursus su quanto la sua classe fosse una banda di babbuini che non avrebbe potuto superare gli esami di inglese neanche se fosse stata aiutata da William Wordsworth in persona.
Il gruppetto di amici di Joshua, d’altro canto, non sembrò minimamente prestare attenzione alle velate offese che uscivano dalla bocca della professoressa, essendo troppo concentrati a lanciare occhiate inquisitorie verso l’infortunato. Alex, invece, non appena ebbe visto lo stato in cui si trovava la sua nuova fiamma, cercò di chiedergli, con gli occhi, cosa fosse successo.
«Cosa credi sia successo?» Mi domandò il biondo, a metà della lezione, mentre la signora Dorpall era intenta a scrivere sulla lavagna frasi all’apparenza prive di senso.
«Mmh?» Risposi - girandomi verso di lui, seduto accanto a me – scosso dallo stato di torpore in cui mi ritrovavo.
«A Joshua.» Spiegò Alex, lanciando un’occhiata al ragazzo seduto tre file dietro di noi.
«Ah… Non ne ho idea.» Mentii, sentendo lo stomaco contorcersi per la rabbia e per il senso di colpa, prima di riprendere a scrivere frasi senza senso sul block notes aperto di fronte a me.
Sentii lo sguardo di Alex fisso sulla mia nuca, china sul foglio bianco, e cercai di non pensare alla soddisfazione che l scontro con Joshua mi aveva provocato.
«Spero solo che non sia stato pestato da qualche bulletto del cazzo.» Sospirò alla fine il mio compagno di banco.
«Già…» Dissi, concludendo lì lo scambio di battute.

 

Con il proseguire di dicembre l’atmosfera all’interno della Walworth Academy mutò completamente. Gli esami di fine semestre si avvicinavano, e, mentre i professori passavano le lezioni ricordandoci costantemente questo piccolo dettaglio – come se lo avessimo mai potuto dimenticare –, noi studenti cercavamo di non farci prendere dall’ansia ogni volta che lo sguardo ci cadeva su un calendario oppure quando ci rendevamo conto dell’avanzare incessante del tempo.
Il lato positivo di tutto questo stato d’ansia, per quanto riguardava la mia situazione, era la possibilità di studiare con Alex, così da avere una scusa plausibile per passare la maggior parte delle mie giornate con lui. Il livello d’ansia del canadese era addirittura più alto del mio, e questo lo portava ad avere degli atteggiamenti tanto teneri quanto nevrotici, e, per di più, non parlò mai più dei suoi incontri con Joshua. Da una parte gliene fui grato (almeno non dovevo più provare quella strana sensazione di rabbia attanagliarmi lo stomaco), dall’altra, però, iniziai ad incupirmi, sperando di non aver rovinato quello scambio di confidenze su cui avevo imparato a fare affidamento.
Joshua, dal canto suo, non si avvicinò mai a me, se non per comunicarmi notizie riguardanti la squadra di palla a nuoto. Il segno che il mio pugno aveva lasciato sul suo zigomo, dopo essere diventato di colore giallo, stava lentamente iniziando a svanire, e quasi dovetti trattenermi dal fargliene comparire uno nuovo quando lo vidi fuori scuola con Alex.




«Posso capire perché sei così agitato?» Domandai al biondo durante una delle nostre sedute di studio.
«E’ un esame importante!» Esclamò indignato lui, reagendo come se gli avessi offeso un membro della famiglia.
Dovetti trattenere una leggera risata divertita. «Nessuno lo mette in dubbio,» Iniziai, «è solo che a te il voto non è che serva realmente… Insomma, tra poco più di due mesi dovrai tornare a Vancouver.» E al pronunciare quelle parole sentii l’ormai famigliare dolore allo stomaco prendere il sopravvento.
«Ok, questo è vero, ma dato che a Vancouver seguo le stesse materie mi conviene studiare, se non voglio passare mesi interi a cercare di recuperare.» Rispose, giocherellando con la matita. «E poi non studio solo per avere un bel voto, studio soprattutto per me stesso.»
«Ok, ok.» Lo interruppi, questa volta non riuscendo a trattenere le risate. «Scusa se ho osato dire qualcosa di così osceno.»
«Idiota.» Asserì cupo il biondo, sommergendo la testa tra i libri, aperti sul tavolo da pranzo di casa mia.
«Suvvia!» Esclamai, dandogli un colpo sulla spalla. «Su con la vita, si scherza!»
Alex sollevò solo per un attimo gli occhi dal libro di biologia, evidentemente intenzionato a tenermi il broncio, ma, una volta incontrato il mio sguardo, un sorriso divertito gli attraversò il volto, rendendolo talmente bello che dovetti nascondere il mio rossore in ulteriori risate.
«Più che altro come fai tu a non essere per niente agitato?» Mi chiese, prendendo un mini pretzel dal pacco di salatini al centro del tavolo.
«Cerco solo di pensare al fatto che sto mettendo tutto me stesso nello studio e nella scuola, dando il massimo.» Risposi, alzandomi dal tavolo per andare a prendere la bottiglia di coca cola dal frigo.
«Sì, ma, da quello che ho capito, questo dovrebbe essere un esame fondamentale per la carriera che vorresti intraprendere, o sbaglio?» La voce di Alex mi raggiunse in cucina.
«Certo che è fondamentale: se non supero questo esame con una A posso dire addio alla mia carriera medica.» Replicai, tornando a sedermi con la bottiglia di cola in mano.
«E nell’evenienza in cui qualcosa non dovesse seguire i tuoi piani?»
«Ci penserò una volta di fronte quella possibilità.» Risposi, versando la bibita nei bicchieri di entrambi.
«Quindi non hai ancora pensato ad un piano B?» Continuò a domandarmi il biondo, sorseggiando dal proprio bicchiere.
«Al, mi stai facendo salire l’ansia.» Risposi secco, troncando lì la serie di domande. Seguirono momenti di imbarazzante silenzio, intervallati solo dal rumore della penna di Alex che graffiava la carta del suo pukka pad. «Avevo un piano B.» Ripresi poco dopo, attanagliato dal senso di colpa.
«Ovvero?» Mi chiese lui, senza sollevare lo sguardo dal foglio. «Sempre se posso chiedere.»
«Niente… Non ha più importanza, tanto.»
«E perché mai?»
«Perché ogni piano che mi ero costruito è andato distrutto quando i miei hanno deciso di volersi trasferire a Parigi.» Dissi, di getto, dando libero sfogo alla mia frustrazione, che in quei giorni passati avevo cercato di reprimere.
Vidi Alex posare la pena ed alzare lo sguardo per dirigere i suoi occhi verso i miei. Due smeraldi in cui avevo imparato a trovare conforto. «So che stai male per questo fatto del trasferimento, e lo capisco benissimo.» Disse. «Ma non devi permettere a questo cambiamento di definire quello che ne sarà del tuo futuro, né prossimo né remoto.
«Non usare il trasferimento come scusa per non vivere la vita che ti scorre davanti agli occhi ogni giorno, sfiorandoti da molto vicino. Non nasconderti dietro questo cambio di città per paura di perdere qualcosa, fa tutto parte del ciclo della vita.»
Quelle parole di Alex accesero, dentro di me, una luce di consapevolezza che poche volte nella vita avevo provato. Il motivo per cui avevo smesso di impegnarmi, come facevo un tempo, in attività che prima ritenevo importanti era solo paura di dover, prima o poi, perdere tutto.
Sarei stato costretto ad abbandonare la mia casa, la mia scuola, i miei piani, i miei amici, la mia storia, la mia infanzia e tutto ciò che fino a quel momento mi aveva reso Jared Maycon.
Fu in quel momento, allora, che, forse per trovare un ponte con il mondo reale e con l’attualità, allungai la mano sul tavolo e la poggiai su quella di Alex. Il ragazzo non si scostò, ma sorrise come solo lui sapeva fare, con gli occhi e con l’anima.
Senza dire un’altra parola, e con la mano sinistra ancora su quella del canadese, ripresi a sottolineare le parole chiave del libro di biologia.

 

Il giorno dell’esame di biologia era arrivato e quella notte ero andato a vanti a furia di bibite energetiche e caffè. Dall’ultima conversazione avuta con Alex avevo iniziato a mettermi con la testa e col pensiero sul libro utilizzato dal professor Boujdi. Il mal di testa era al limite della sopportazione ma, in quel momento, la determinazione di superare quel test coi massimi voti batteva qualsiasi altra sensazione.
Dopo aver preso lo zaino ed aver fatto una colazione povera e veloce uscii di casa, salutando i miei; presi il bus verso scuola e, una volta arrivato, mi precipitai nell’aula in cui si sarebbe tenuto il test. Non c’era ancora nessuno, dato l’anticipo di un quarto d’ora con cui mi ero presentato, se non due miei compagni di corso con cui non avevo mai parlato; così mi sistemai ad un banco in terza fila contro il muro, così da poter stare tranquillo ed indisturbato.
Allo scoccare delle 8.15, e, in contemporanea al solito triplo “beep” delle campanelle, il professor Boujdi entrò in aula, seguito da quattro compagni di corso, Alex e Joshua, evidentemente rimasti fuori a ripetere fino all’ultimo secondo.
Le domande dell’esame erano relativamente facili, per chi aveva studiato, com’è giusto che sia, ed ero riuscito, quindi, a rispondere a tutti i quesiti tranne uno, che fui costretto a lasciare in bianco. Nonostante ciò la mia sensazione era decisamente negativa, soprattutto quando, una volta uscito dall’aula, mi accorsi di aver finito con tredici minuti di anticipo.
Ero stato, infatti, il primo della classe ad aver posato il fascicolo sulla scrivania del professor Boujdi; solo che l’ansia del momento non mi aveva nemmeno fatto controllare l’orario sull’orologio affisso alla parete.
Decisi, quindi, di sedermi a terra con la schiena poggiata al muro del corridoio, mentre aspettavo che Alex finisse.
Il primo ad uscire dopo di me, però, non fu il canadese, bensì Joshua che, con un atteggiamento strafottente si iniziò ad avviare verso il secondo piano.
«Com’è andata?» Domandai, prima che potesse girare l’angolo del corridoio. «Spero che quel pugno non abbia danneggiato quelle poche funzioni cerebrali che ti erano rimaste.»
Joshua si girò, lentamente, e prese ad incamminarsi verso di me, al che mi alzai. «Cosa, questo?» Domandò, indicandosi l’occhio infortunato. «Oh no, non è niente.»
«Ah menomale,» Replicai, «avevo iniziato a preoccuparmi che fosse qualcosa di serio.» Senza nemmeno realizzarlo avevo iniziato a scaricare la tensione, accumulata negli ultimi giorni, addosso a Joshua, e così decisi di continuare.
«E’ solo il morso di un insetto.»
«Ah, quindi non ti darebbe alcun fastidio se si replicasse?» Domandai, provocatorio, cercando di trattenere un sorriso divertito ed avvicinandomi al ragazzo, che rimase impassibile.
«Tu provaci, Maycon.» La sua voce tremava di rabbia.
«Perché, altrimenti che mi fai?» Il tono della mia voce aveva iniziato ad alzarsi. «Vai a chiamare i tuoi amichetti e facciamo una replica di quanto successo negli spogliatoi? Oppure vuoi semplicemente riservarmi lo stesso trattamento che Daniel ha riservato ad Alex?»
«Va’ a farti fottere,» rispose Joshua, «magari dal tuo amichetto canadese, che scommetto ti piaccia tanto, frocio.»
Le orecchie mi iniziarono a fischiare, e stavo per saltargli al collo, quando mi accorsi che la porta dell’aula si era appena chiusa e che sulla soglia si trovava Alex, immobile come una statua; il volto impassibile.
Joshua non si era accorto della presenza del biondo, forse perché attento ad ogni mio movimento, e fu per questo motivo che, quando parlò di nuovo, provai quasi pietà nei suoi confronti. «Puoi farci quello che vuoi con quella checca, tanto stai pure tranquillo che non l’ho toccato neanche con un dito; mi farei troppo schif…»
Le sue parole furono interrotte da Alex che, con la stessa impassibilità di poco prima dipinta sul volto, fece una leggera tosse per schiarirsi la voce.
«Posso solo sapere perché?» Domandò non appena il volto di Joshua ebbe perso qualsiasi traccia di colore. «Perché hai finto di essere interessato a me? E soprattutto perché hai finto di essere gay?»
Dopo un primo momento di totale stupore, Joshua parve riprendersi velocemente; e così rispose alla domanda di Alex con la sua solita strafottenza. «Ma non è chiaro? L’ho semplicemente fatto per il gusto di prenderti per il culo.» Le mie orecchie avevano smesso di fischiare, e tutte le mie attenzioni erano su Alex; tutti i miei sensi erano in allerta, rendendomi pronto a soccorrerlo nel caso in cui avesse avuto bisogno di aiuto. L’avrei sorretto se fosse caduto. «Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per vedere la tua faccia in questo momento… Certo, avrei voluto continuare la messinscena per un po’ più di tempo, ma non si può avere tutto dalla vita, dico bene?»
Il volto di Alex si indurì leggermente, e vidi i suoi occhi verdi incupirsi. «Questa è la storiella che ti racconti la sera prima di andare a dormire? E’ questa la favola che ti racconti per stare meglio con te stesso?» La domanda del biondo tagliò l’aria in due. «Non m’interrompere. Sei talmente stupido che non sai nemmeno cosa vuol dire “domanda retorica”.
«E’ questa la favoletta che ti racconti? Che hai voluto fare tutto questo per vedere la mia faccia? Sai, vero, che qua in mezzo l’unico che crede ad una cosa del genere sei tu? Sei l’unico che crede di aver ideato questa sorta di piano da solo e che non sia, in realtà, tutta un’idea del tuo amichetto Daniel. Sei talmente patetico che non saresti neanche in grado di allacciarti da solo le scarpe, quindi vedo questa tua semi rivelazione come un sollievo, a dir la verità.» Detto questo il biondo si allontanò dalla porta e si avviò verso il cortile, dal lato opposto al mio.
«Siete semplicemente due checche.» Gli urlò alle spalle Joshua, oramai senza alcun tipo di argomentazione.
«Ti conviene stare zitto,» dissi io, prendendo la borsa da terra, «se non vuoi avere un altro morso di insetto.»
«Non so perché mi sono stupito del fatto che sei diventato frocio,» rispose il ragazzo di fronte a me, girandosi nella mia direzione, «in fondo da un fallito del tuo calibro non ci saremmo potuti aspettare diversamente… Soprattutto con una famiglia come quella che ti ritrovi.»
Sentii il sangue ribollirmi nelle vene, e mi avvicinai a Joshua con l’obiettivo di fargli uscire il sangue dal naso, ma, per la seconda volta in meno di cinque minuti, vidi le mie azioni bloccate da Alex.
Il ragazzo, infatti, era tornato indietro e, una volta a stretto contatto con Joshua, gli aveva sferrato un pugno dritto sul naso, facendo grugnire dal dolore il ragazzo.
Sconvolto, guardai Alex che si massaggiava la mano sbucciata.
«Che c’è?» Mi domandò? «Pensavo che ormai avessi capito che so difendermi da solo.» Asserì, con una leggera smorfia di dolore che gli attraversò il volto.
«Ok, ora che hai dimostrato il tuo valore, perché non andiamo a far vedere quella mano in infermeria? Tanto non abbiamo altre lezioni per oggi.»
Non appena il biondo ebbe raccolto le proprie cose, io mi abbassai a raccogliere le mie cose e quelle di Joshua, che stava accovacciato al suolo con le mani davanti al naso.
«Be bosha benshi bi bare?» Chiese lui, con la voce trasfigurata dalle mani davanti alla bocca e dal sangue, che scorreva copioso dall’appendice nasale.
«Porto le tue cose in infermeria.» Risposi, mettendomi il suo zaino in spalla. «Ce la fai a camminare oppure hai bisogno di appoggiarti?»
Dopo un attimo di silenzio in cui Joshua mi guardò in cagnesco, lo vidi alzarsi ed avviarsi verso l’infermeria, appoggiandosi al muro.
«Perché mai continui a trattarlo come se fosse il tuo migliore amico?» Mi domandò Alex, una volta incamminatici sulle orme di Joshua.
«Lo tratto semplicemente come tratterei qualsiasi altro essere umano.» Risposi, semplicemente, prendendo lo zaino del canadese dalle sue spalle.
Per tutto il resto del tragitto verso l’infermeria Alex rimase in silenzio, lanciandomi sguardi furtivi.

 

«Jared!» Esclamò la signora MacFlorence una volta entrati nel locale riservato all’infermeria. «Cosa è successo?! Ho appena fatto accomodare Joshua in un lettino nel mio studio!» La sua voce era piena di ansia e curiosità, proprio come mi ero aspettato.
«Signora MacFlorence, le racconterò tutto appena possibile, ma potrebbe prima dare un’occhiata alla mano di Alex?»
«Ma certo!» Rispose, allarmata. «Fammi vedere, tesoro.» Disse al canadese, prima di prendergli delicatamente la mano tra le sue. «Non è niente di che,» fu il suo verdetto dopo una breve analisi delle falangi, «Ti consiglio però di andare a stenderti là con un po’ di ghiaccio sulla mano; tu iniziati a sistemare e io te lo porto subito.»
«Grazie mille signora MacFlorence.» Disse Alex, genuinamente grato all’infermiera.
Una volta che Alex si fu seduto e che la signora MacFlorence gli ebbe dato un pacco di ghiaccio, mi raggiunse vicino alla sua scrivania e mi invitò a raccontarle tutto.
Iniziai a parlare di tutto quello che era successo, a partire dalla prima volta che quell’anno avevo messo piede nell’infermiera, ovvero dell’attacco da parte di Daniel ad Alex, e, mano a mano che andavo avanti vedevo il volto della mia interlocutrice farsi più cupo.
Una volta finito il mio racconto mi sentii più leggero, e dentro di me ringraziai i poteri misteriosi dell’infermeria.
La signora MacFlorence, d’altro canto, mi rispose con un semplice sorriso ed una mano sulla gamba, dicendo: «Sono fiera di te, Jared, e di quello che hai fatto con questi due cretini. Sono anche molto contenta per te, e per l’amico che hai trovato in quel ragazzo lì.» Disse, indicando con la testa Alex, steso sul lettino alle sue spalle. «Ora però è meglio che torni da Joshua, a questo punto la radiografia dovrebbe essere pronta. Spero che non sia nulla di grave.»
«Grazie mille.» Le dissi.
Quando la signora MacFlorence si fu alzata, la imitai e raggiunsi Alex, steso e con la mano destra poggiata su un carrello di metallo. «Allora, come va la mano?» Domandai.
«Va meglio, grazie… Ora l’unica cosa che fa male è la mia autostima.» Disse, e fu in quel momento che notai dai suoi occhi che aveva pianto.
«Alex…» Iniziai, ma mi fu difficile trovare le parole per continuare, e questo fatto mi fece sentire un idiota di dimensioni colossali: dopo tutto l’aiuto che lui mi aveva dato, io non ero in grado neanche di trovare quattro parole di conforto.
«Mi dispiace.» Disse poi lui, tirandosi a sedere, con la mano immobile.
«Per cosa?» Chiesi, allibito.
«Me l’hai sempre detto, ma non ho voluto crederti…»
«Cosa? Che Joshua era un idiota e uno stronzo?» Chiesi.
Il biondo annuì.
«Non devi scusarti.» Alex abbassò lo sguardo. «Ehi,» dissi, alzandogli il volto con una mano, «davvero, non è colpa tua e non devi scusarti. La colpa è tutta di quegli stronzi.»
«Vorrei solo poter rivivere questi ultimi mesi… Prenderei delle scelte completamente diverse.»
«Anche io…» Ammisi a me stesso, ripensando al quasi bacio, avvenuto sulla panchina distanti solo pochi metri da dove stavamo in quel momento; e a quando gli avevo quasi rivelato i miei sentimenti. «Ma ehi, guardiamo il lato positivo: almeno gli hai assestato un bel pugno come si deve.»
Alex si mise a ridere, con le ultime lacrime che gli solcarono le guance.
«Che dici? Gli avrai almeno deviato il setto nasale?»
«Spero davvero di sì. Anche se quello che avrei voluto fargli andava ben oltre il semplice pugno sul naso.»
«Ehi, non è che mi diventi come quei tizi che traggono piacere dalla violenza?» Chiesi, ironico.
Il silenzio cadde su di noi come una leggera coperta, e mi ritrovai a pensare a cosa sarebbe successo se, quel giorno fuori casa di Alex, avessi deciso di dirgli tutta la verità, nonostante il suo appuntamento con Joshua.
La mia mano si appoggio su quella sana del canadese che, seduto affianco a me, mi sorrise timido.
«Sai,» iniziò a parlare lui, «Il motivo per cui ho deciso di piantargli un pugno sul naso non è stato tanto per il fatto che mi abbia trattato una merda,» continuò, «ma soprattutto per quello che ha detto su di te e sulla tua famiglia.»
«Non so se prenderlo come un complimento o meno.» Risposi, sincero. «So solo che il motivo per cui io stavo per piantargli un pugno sul naso era il modo in cui ti aveva trattato, e non quello che aveva detto su di me e sulla mia famiglia.»
«Bene,» replicò, con le guance leggermente arrossite, «ora che abbiamo appurato che siamo due idioti, cosa vogliamo fare?»
«Io direi di iniziare da una cosa molto semplice.» Risposi, istintivamente.
«Che sarebbe?»
Cercai una risposta che potesse racchiudere in sé tutto quello che avrei realmente voluto dire ad Alex, ma non me ne venne in mente nessuna in grado di fargli capire quanto mi avesse cambiato, quanto mi avesse portato a migliorare la mia vita.
Questa volta non c’erano interruzioni.
Questa volta c’eravamo solo io e lui. Noi.
Il mio volto si avvicinò al suo, e quando le mie labbra si posarono sulle sue sentii un rumore provenire dai nostri piedi.
Il ghiaccio era caduto.


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