2 Doors Down

di Holly Rosebane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1st Door ***
Capitolo 2: *** 2nd Door ***
Capitolo 3: *** Threshold ***



Capitolo 1
*** 1st Door ***


 
Warning!: Questa storia era già stata precedentemente pubblicata sotto il nome di "3 Doors {Insanity}", nell'account "Aethereal" (sempre mio, ma provvisorio). Anch'essa verrà ripostata qui, nel mio profilo reale, revisionata e corretta.









1st
Door



"Non capisco come sia possibile che amare profondamente qualcuno voglia dire ferire quella persona in modo tanto crudele. Perché se così fosse, che significato avrebbe amare?"
H. MURAKAMI
 
 
 
 
 
L’amore.
Un sentimento universalmente riconosciuto, decantato dai più abili poeti lungo i secoli, fissato sempiternamente sulla carta da altrettante schiere di scrittori, sottinteso o esplicitato da diverse mirabili canzoni di ogni tempo. Per definizione, egli non ne alcuna. Ciascun essere umano lo sperimenta in modi e forme diverse, che non possono essere contate, così come le stelle. Provando a ridurre il campo a misura di terrestre, si potrebbe chiamare quella sorta di magia che stringe i polsi e i cuori di due individui, legandoli indissolubilmente, costringendoli a vivere dell’altro, fino a sentirsi l’uno parte delle membra di chi gli è accanto.
Per Daphne Collins e Ashton Irwin era amore. Lo sembrava fin nei minimi particolari. Nei momenti in cui, a casa della ragazza, si scattavano polaroids seduti al tavolo della cucina, di prima mattina, quando soltanto la tenera luce dell’aurora e il caffè erano tollerabili, nient’altro. Anche quando, distesi sull’alto letto in ferro battuto di lei, parlavano del più e del meno, con gli occhi persi fuori dalla finestra ad ammirare le luci notturne di Sydney, il capo di lui posato sul grembo della giovane, le dita intrecciate fra i capelli, le voci ridotte a poco più che sussurri.
Era amore. Nessuno poteva negarlo. Perfino Luke Hemmings, migliore amico di Daphne e componente attivo della sgangherata comitiva di casi umani di cui Ashton piaceva attorniarsi, lo riconosceva. Una di quelle coppie solide, che diventano storiche, delle quali l’aria già profuma di futuro, dove l’“io” diventa automaticamente “noi”.
Eppure, una sera, Ashton decise di uscire di casa da solo. Daphne avrebbe passato la notte con un’amica, la quale non vedeva da un anno intero. Azione più che comprensibile. Allora perché il ragazzo aveva avvertito l’urgenza di tirarsi dietro la porta dello spartano appartamento dove viveva, con la chiara intenzione di trascorrere una serata in compagnia di quelle tanto ammalianti quanto tentatrici bollicine dorate racchiuse in una gabbia di freddo vetro verde oceano o ocra scuro? Credeva di compiere un’azione molto tranquilla, nessuno l’avrebbe arrestato per una Heineken in un locale poco lontano da casa, in completa solitudine maschile. Forse era addirittura condivisibile da ulteriori opinioni estranee. Sentiva di doversi dedicare quel momento, essendo sempre stato impegnato a dividere la vita con Daphne. Per qualche ora sarebbe stato solo Ashton e nessun altro.
E così fu, dal momento in cui mise piede nel chiassoso pub, con le poche luci soffuse, i bisbigli sussurrati allo stesso volume di una qualsiasi altra conversazione, la musica al di sopra della soglia della tolleranza, il profumato odore di cocktails, le fresche risate della gente, i tacchi delle ragazze che ticchettavano ritmicamente sul pavimento. Aveva sorriso al barista, sedendosi sul consunto sgabello in pelle nera ormai levigata dall’uso, direttamente davanti al bancone, appoggiando entrambe le braccia sulla lustra superficie luccicante. Aveva ordinato una maxi e successivamente i suoi occhi si erano posati sul grande schermo piatto che campeggiava sulla parete laterale più distante, osservando uno psichedelico video dance senza capo né coda.
Appena l’enorme e lucido bicchiere di liquido ambrato ed effervescente fu posato accanto alla sua figura, magicamente apparve anche una giovane donna, scivolando silenziosamente sullo sgabello accanto al suo. Un dolce e pungente profumo dal sapore orientale aveva accentuato i suoi sinuosi movimenti da pantera, accompagnandone le lunghe e morbide matasse dei capelli, che le ricadevano lisce come seta lungo i fianchi e la schiena. Gli aveva sorriso, mantenendo una certa distanza fisica, mentre già avviava la conversazione s’un piano leggero e per nulla impegnativo. Ad Ashton non dispiacque. Lei era decisamente bella, spigliata… “easy”, come l’avrebbe definita quel testone di Michael, vecchia volpe.
Altrettanto magicamente com’era arrivata, anche le consumazioni raddoppiarono e triplicarono, fino a spingerli fuori dal locale stringendo una bottiglia verdastra per i collo, sorreggendosi a vicenda e barcollando, ridendo a gran voce su parole prive di senso. Senza nemmeno pensarci, Ashton la condusse fino al suo appartamento. Nonostante la sbronza, riuscì perfettamente ad infilare la chiave nella serratura e ad aprire la porta. Calciò via le scarpe, abbandonando la birra ormai vuotata sulla prima superficie libera, mentre la ragazza già lo attirava a sé, stringendo audacemente con le dita il tessuto della sua maglietta. Fu un attimo, il tempo di un paio di soffocate risatine e di baci dal sapore peccaminoso.
L’indomani, fu proprio Ashton a svegliarsi per primo, avvolto in un groviglio di lenzuola bianche spiegazzate, completamente nudo, con un forte mal di testa e un grande senso di disorientamento addosso.  Si guardò attorno, focalizzando il corpo flessuoso della giovane che riposava supino, le strette spalle bianco latte che si sollevavano ed abbassavano ritmicamente, inerme. Il ragazzo si passò stancamente una mano sul volto, quasi a voler lavare via di dosso l’odiosa sensazione di aver commesso qualcosa d’irreparabile. Si alzò, raccattando i pantaloni e la maglietta che aveva lasciato in terra la scorsa notte e indossandoli automaticamente, in un gesto che sembrava porre una netta distanza fra ciò che era accaduto e la propria persona. Poi, si trascinò stancamente fino allo specchio ormai opaco e pieno di ditate e scritte vergate in pennarello nero che tutti i suoi amici gli avevano lasciato. Riconobbe il proprio volto, ancora stropicciato come le coperte sul suo letto. Si tirò indietro i capelli, facendo una smorfia di stizza, individuando anche una macchia violacea lungo il collo, che aveva tutta l’aria di un livido, ma che nessuno avrebbe mai preso per tale.
Improvvisamente, sentì una chiave girare nella toppa e vide la porta aprirsi, rivelando la familiare figura di Daphne profilarsi pian piano. Il fresco sorriso dipinto sulle belle labbra della ragazza si gelò all’istante, quando vide Ashton in piedi davanti allo specchio, l’ambiente in disordine e abiti femminili che non erano i suoi sparsi in ogni dove. Il sacchetto con i cornetti ancora caldi che aveva preso per fare colazione con il suo ragazzo caddero in terra, ad evidenziare lo shock della giovane. Quasi nello stesso momento, l’altra donna che aveva trascorso la nottata con Ashton si svegliò, manifestando la sua presenza. Daphne non proferì neanche una parola, mentre la sconosciuta prendeva coscienza della situazione con aria di divertita colpevolezza, si rivestiva in tutta fretta e spariva dalla porta, tirandosela dietro con troppa foga.
«Posso spiegare» disse il ragazzo già pentendosene, mentre lei scuoteva il capo, incredula, la vista appannata dalle lacrime. Trascorsero l’ora successiva a litigare, urlandosi contro frasi offensive che tagliavano più dei coltelli, come mai avevano fatto prima.
«Non ero abbastanza per te, vero? Oppure il mio amore era troppo, visto che hai sentito così disperatamente il bisogno di evadere, non appena ti si è presentata l’occasione?» Domandò Daphne, afferrando con isterica violenza il tessuto grigiastro della maglietta di Ashton, il quale si era seduto sul pavimento, con la testa fra le mani. Lo costrinse ad alzarsi, strattonandolo, ritrovandoselo a pochi centimetri dal proprio volto. Il ragazzo si allontanò, quando lei lo spinse via, per poi tirarlo di nuovo a sé. Lui non ne poteva più di sentirla soffrire, di vederla piangere, di ascoltarla lacerargli i timpani e la coscienza con frasi che non avrebbe mai voluto udire.
Mentre un silenzio carico di elettricità calava sulle spalle di entrambi, lei chinò la testa sul suo petto, battendogli i pugni chiusi sulle spalle, il respiro rotto dal pianto. Lui le strinse i polsi, tenendoli fermi, mentre lei pian piano si arrendeva al suo abbraccio consolatorio, avvertendo tutto il calore di quelle braccia, che la cingevano stretta, con dolore e mortificazione. Quando fu abbastanza calma da sollevare il volto, Ashton le asciugò le tracce umide delle lacrime con i pollici, baciandole la fronte. Daphne scosse piano la testa, mordendosi le labbra talmente forte da sentire il sapore del sangue.
«È finita».





Nota: quasi sento le urla di disperazione del fandom dei 5sos, per aver infestato anche questo posto. Oh beh, sfortunatamente (?) ho trovato questi quattro australiani particolarmente interessanti dal punto di vista ispiratorio. E nulla ha potuto trattenermi dal lavorare su di loro!
Quindi, vi consegno anche questa breve storia (solo tre capitoli), visto che le mie long in progress stanno ormai per volgere al termine. Appena disporrò degli adeguati mezzi, allegherò alla ff anche il banner che avevo preparato, togliendo quel tristissimo titolo in corsivo che sono stata costretta a piazzare in mancanza di meglio. Vi ringrazio, tutti, per essere arrivati a leggere fin qui, ricordandovi che un'opinione in merito è graditissima e che non mordo (spesso)! Quindi non siate timidi! Ora scappo ad aggiornare le altre storie (la spada di Damocle delle pennette Internet pende inesorabile sul mio capo)! See ya!

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Capitolo 2
*** 2nd Door ***





2nd Door



 
"Qualcuno dovrebbe prendere questa ragazza tra le braccia e stringerla forte, pensai. Non io, magari. Qualcuno che sia in grado di darle qualcosa."
H. MURAKAMI

 
 
 

 
«Daphne, apri. Lo so che sei lì dentro, apri questa maledetta porta prima che la sfondi a calci!» Urlò Luke Hemmings dall’altra parte dell’infisso, battendo le nocche così forte sul legno fino a renderle livide dal dolore. Non udiva alcuna risposta dall’interno ed era ciò che lo preoccupava maggiormente. Aveva saputo della sua rottura con Ashton e si era precipitato da lei non appena possibile. Ma la ragazza non apriva a nessuno, senza prendersi nemmeno la briga di rispondere.
«Daphne!» Esclamò il ragazzo un’ultima volta, prima di accasciarsi contro la fredda superfice in legno di quercia, poggiandovi contro la fronte e le mani, sentendosi meravigliosamente impotente dinanzi alle barriere architettoniche che gli umani tendevano a costruire per essere ancora più soli. Non aveva idea di come fare per riuscire ad entrare senza che lei gli aprisse.
Si sedette contro l’infisso, scervellandosi più che poté. I tre quarti delle opzioni da lui contemplate includevano la violenza fisica e sapeva che lei lo avrebbe volentieri preso a randellate, se gli avesse distrutto la porta di casa. Finché non ebbe la geniale idea di chiedere al portinaio di usufruire di una delle chiavi di scorta che lui custodiva gelosamente. Si finse suo fratello, dicendo che la ragazza era malata e lui aveva lasciato la sua chiave all’interno, molto sbadatamente. Con abbondanti occhiate di sospetto, riuscì ad avere libero accesso all’appartamento della giovane. Si gettò dentro quasi correndo, mentre il portinaio gli chiudeva la porta alle spalle, borbottando “giovani”.
«Daphne, sono Luke. Dove sei?» Chiese, a gran voce, senza ottenere risposta. Fu solo allora che il giovane si accorse dello stato pietoso in cui era ridotto l’ambiente circostante. Era tutto a soqquadro, bicchieri rotti, piatti infranti, cuscini del divano lanciati in posti improponibili, riviste strappate e lasciate aperte, sul martoriato tavolino basso.
Luke entrò in cucina, avvicinandosi al frigorifero. Notò che mancavano tutte le polaroids in cui Daphne era con Ashton. Giacevano in terra, ridotte a pezzi piccolissimi. Egli s’inginocchiò sul pavimento, raccogliendone i resti con aria grave. Erano freddi, distrutti, morti. Una bella differenza rispetto alle foto in cui loro due erano insieme, ancora affisse all’anta del surgelatore con un magnete. Vive, luminose, integre. Poteva quasi sentire le urla della sua amica, mentre le stracciava piangendo, buttando all’aria qualsiasi oggetto si trovasse sul suo cammino. Ammonticchiò sul tavolo ogni piccola parte di quelli che, una volta, erano ricordi fisici e indelebili, proseguendo il suo giro all’interno dell’appartamento. Non la trovò né in bagno, né nella cabina armadio.
In un ultimo tentativo disperato, s’accovacciò accanto al letto, per guardarvi sotto. Lo spazio fra la rete metallica e il pavimento era così ampio che avrebbe potuto benissimo nascondere una persona adulta. E infatti fu lì che la trovò. Raggomitolata su sé stessa, in atteggiamento di difesa nei confronti del mondo, che lanciava a Luke un’occhiata di dolore e impaurito smarrimento. Egli non poté far altro che stendersi a sua volta e tenderle una mano, sperando di raggiungerla e comunicarle la sua presenza. Ma ella si ritrasse ancor di più.
Ci volle un bel po’ di pazienza a convincerla ad uscire, e quando l’ebbe vicino, si accorse di quanto disastrata fosse la sua condizione. Aveva gli occhi perduti, con una luce opaca e smorta. Fissava un punto imprecisato del pavimento, senza articolar nemmeno una parola. I suoi capelli erano completamente in disordine, le ciocche di un chiaro color cioccolato le incorniciavano il volto pallido come un’intricata foresta di rami spinosi. Fu Luke a sistemargliele, passandovi dentro le sue dita, con calma e gentilezza, pulendole il viso dai segnacci scuri di mascara che ancora macchiavano la sua pelle, come le brutte linee di cancellatura di uno scrittore perennemente scontento del suo lavoro. La guidò attraverso la casa, facendola accomodare s’una sedia mentre le preparava il caffè.
Cercò in tutti i modi di farla parlare, ma le sue parole scivolavano nel pericoloso silenzio dell’assenza. Non ebbe reazione alcuna nemmeno quando le posò la tazza profumata e fumante dinanzi al volto, sfiorandole la spalla per cercare di farglielo notare. Sembrava una bambola di pezza priva d’imbottitura, un oggetto senza vita, che respirava impercettibilmente e il cui cuore batteva silenzioso. Mentre anche Luke si sedeva accanto a lei stringendo la propria tazzina con la bevanda bollente, cercando di trattenere le lacrime, Daphne parve rianimarsi.
«Lei era sicuramente più bella di me. Ecco perché se n’è andato. Io non ero abbastanza», disse, con voce incolore, le labbra animate da un guizzo di amara ironia, mentre solo un angolo si sollevava in un sorrisetto triste e alquanto lugubre. Luke non poté far altro che guardarla, socchiudendo le labbra per dire qualcosa di sensato, ma tacque. Si accorse che nulla, per lei, avrebbe più potuto essere tale.
 
 


Dall’altra parte della strada, Ashton guardava senza espressione la bianca parete dinanzi al suo volto, una bottiglia di birra nella mano sinistra e una bomboletta spray rossa nella destra. La stanza era gettata in penombra dal pomeriggio imminente, le uniche lastre di luce erano proiettate in obliquo dalla larga finestra a due ante alle sue spalle.
Non sentiva Daphne da tre lunghi giorni. Il tempo che gli era servito affinché la sua assenza si facesse presenza angosciante all’interno di quelle quattro sparute mura, sussurrandogli ricordi ad ogni azione che lui compisse, infestando anche le più piccole cose della sua vita quotidiana. Aveva cercato di scacciarla sparando lo stereo a tutto volume, inserendo la sua playlist di urla più cattiva che avesse mai prodotto, ma anche quegli strilli non giungevano nemmeno alla metà di quanto avrebbe voluto gridare lui.
Si alzò, mentre i bassi rutilanti e le chitarre martellanti continuavano a contribuire al suo silenzio interiore. Si avvicinò alla spoglia parete, agitando la bomboletta, udendo il tipico tintinnio metallico del liquido che sciaguattava al suo interno. Poi, premette sull’erogatore, lasciando che il suo braccio vergasse dei segni di un rosso così vivido almeno quanto il suo dolore. Appena la sua opera fu compiuta, tornò a sedersi ai piedi del divano, riacchiappando la bottiglia per il collo e mantenendo gli occhi fissi dritto dinanzi a sé. In bella vista, impossibile non notarlo, spiccava una scritta vermiglia che pareva urlare con la stessa intensità dei cantanti nello stereo di Ashton. Il quale, proprio nel bel mezzo di un acuto, poco prima di riportarsi la bottiglia alle labbra, le dedicò uno sguardo di disgusto. E decise di lanciarla contro il muro, spaccandola in mille luminosi cocci di vetro. Spettacolo pirotecnico del dolore e della sofferenza, mentre il suo mondo si oscurava nuovamente. Mentre perfino la parete pareva dirgli “This love will drive me insane”.
Era così preso dal non sentire assolutamente niente, che si accorse del cambiamento soltanto quando il volume della musica passò dal rimbalzargli nella cassa toracica ad assordarlo con la propria assenza. Fu allora che spalancò gli occhi, lievemente infastidito, notando l’inconfondibile figura di Michael Clifford in piedi accanto allo stereo, le labbra rosate storte in una smorfia di disgusto. La penombra non rendeva giustizia al colore assurdo dei suoi capelli e forse era un bene. Ad Ashton non erano mai piaciuti i toni fluo.
«Porca merda, fratello, questo posto sembra una discarica» esordì, con la sua solita finezza da rimorchiatore di navi, lanciando un’occhiata circolare all’ambiente intorno a sé. «E basta con gli Enter Shikari. Questa robaccia ti fotte il cervello» seguitò, questa volta riferendosi al misto di urla e sintetizzatori psichedelici che gli avevano martellato direttamente sul cranio fino a pochi secondi prima.
«Che cazzo vuoi, Michael» gli rispose Ashton, portandosi entrambe le mani al volto, nascondendo tutto, non volendo avere a che fare con niente. Anche se non poteva vederlo, il suo amico si strinse nelle spalle con molta casualità, per poi andarsi a sbracare sul divano, rimbalzando e cigolando insieme alle vecchie molle.
«Non lo so, vecchio mio, dimmelo tu» ribatté, piazzando una sonora manata d’affetto sulle spalle dell’amico. «Sono tre giorni che non rispondi a nessuno, stai tappato qui dentro e non vedi la luce del giorno manco a pagare».
«E quindi? Arriva al dunque».
«Sono preoccupato, brutto stronzo!» Esclamò, sollevandosi dalla posizione sgangherata a seduta. Appuntò il suo sguardo sulla parete, imbrattata di fresco, dove l’alone giallastro del liquido contenuto nella bottiglia esplosa campeggiava ancora in bella vista. «Carino», commentò.
«Non ne ho idea, va bene? Non capisco più nulla, sono tre giorni che mi sembra di galleggiare in un oceano di piombo liquido. Ho fatto una stronzata, Daphne se n’è andata, non so come rimediare! Contento?» Sentenziò, parlando attraverso lo schermo delle nodose mani, non volendo accennare a toglierle, sperando che forse il problema si sarebbe magicamente risolto da solo.
«In verità no, per niente» disse Michael, passandosi distrattamente le dita fra i corti capelli rosso fuoco d’artificio sparati in tutte le direzioni. «Dovresti reagire al posto di rimanere qui seduto a fare l’ameba del cazzo».
«Come hai fatto ad entrare?» Chiese invece Ashton, di punto in bianco, liberando finalmente il volto dalle proprie mani e rivolgendo all’amico un’occhiata di allarmata interrogazione. Lo vide contorcersi per qualche attimo, alla ricerca di un oggetto nelle tasche degli skinny stinti, estraendo poi un’esile chiave argentata, che brillava nella penombra.
«Con la copia della tua chiave, tonto. L’ho sempre avuta».
In quel momento, tre sonori colpi di nocche si udirono alla porta. E a giudicare dall’impeto, non promettevano alcunché di buono.
«Chi altro è, adesso?» Mugugnava Ashton, mentre Michael scattava in piedi ed andava ad aprire. Fu appena in tempo a sussurrare un “ohi, ohi” che anche Luke Hemmings si riversò nell’ingresso come una furia, piazzandosi davanti biondo e sollevandolo di peso per il collo della maglietta.
«Mi spieghi come accidenti è possibile? Eh?» Gli urlò dritto in volto, stringendogli così forte il tessuto dell’indumento che Ashton ebbe paura che si sarebbe presto strappato. «Hai idea di ciò che hai combinato, razza di coglione? Vorrei portarti a casa per farti vedere come sta lei!» Abbaiò nuovamente, proprio quando Michael li raggiungeva entrambi, separandoli con decisione.
«Ehi, ehi, ehi, signorine», ingiunse, mentre il riccio crollava di nuovo a sedere e l’altro ragazzo lo fissava, furente.
«È in uno stato pessimo ed è tutta colpa tua! Non parla, capisci, Ashton? Non parla! E quando capita, mormora parole senza senso sul fatto che tu te ne sia andato perché lei non era abbastanza! Piange e dorme tutto il giorno, non riesco a distrarla con niente!» Esclamò Luke, portandosi le mani fra i capelli e voltandosi verso il muro, per cercare di calmarsi, sconvolto dall’ira.
«Luke, non l’ho voluto io».
«Non l’hai voluto tu?» Ripeté l’altro, sconcertato. «Con quella ragazza non ci sono mica andato a letto io! Prenditi le tue responsabilità e fai l’uomo! Non stare qui tutto il giorno a piangerti addosso, Cristo!»
«Credi che non ci abbia pensato? Non so cosa fare!» Esclamò Ashton di rimando, sull’orlo di una crisi di nervi. Michael decise di correre ai ripari, prima che fosse troppo tardi.
«Ascolta, Luke» disse, prendendolo da parte. «Qui ci penso io. È tutto sotto controllo. Urlargli contro non aiuterà a risolvere la situazione. La peggiorerebbe. Torna da Daphne» spiegò, con un tono che non ammetteva repliche. Il giovane riconobbe che aveva ragione, malgrado la rabbia e non proferì parola. Si accontentò semplicemente di rivolgere un’ultima occhiata furente al biondo che giaceva sul divano con il volto nuovamente coperto dalle mani. Uscì dall’appartamento, sbattendo la porta con così tanta forza che risuonò in tutto il condominio. 

 

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Capitolo 3
*** Threshold ***



Threshold



 
"Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato."
H. MURAKAMI

 
 
Ma la situazione non mutò molto. Daphne faceva dei piccoli miglioramenti, riuscendo ad essere meno assente di prima, cercando di reagire. Ma ogni tanto l’angoscia tornava ad assalirla, tagliandole la lingua e spegnendole gli occhi. Luke non aveva cuore di vederla in quel modo, ma cosa poteva fare? Fortunatamente non la vedeva quando lui era via, mentre lei si aggirava per l’appartamento con aria smarrita, cercando d’intrattenersi come meglio poteva per sfuggire alla noia e al dolore; provando a suonare degli accordi a casaccio sulla pianola, e finendo poi per artigliarsi il petto, preda di una delle sue solite crisi di vuoto, in cui si sentiva perfettamente paragonabile al niente. Era in quei momenti che Daphne si lasciava cadere sul letto, gli occhi rigati di lacrime, il torace squassato dai singhiozzi, passandosi le mani fra i capelli, pregando che tutto finisse.
D’altro canto, anche Ashton non se la passava meglio. Ogni volta che riusciva a recuperare un minimo di voglia di fare, un ricordo particolarmente doloroso lo investiva, rievocando la serata e il momento in cui la giovane aveva aperto la porta, cogliendolo sul fatto. Un paio di volte aveva perfino sollevato la cornetta del telefono di casa, con l’intenzione di chiamarla. E poi non ce l’aveva fatta, rimanendo a fissare l’apparecchio come se lo vedesse per la prima volta, mentalmente assente, completamente inutile. Allora si lasciava nuovamente andare sul divano, inveendo mentalmente contro se stesso e contro la propria incredibile capacità di riuscire a cacciarsi in situazioni assurde, senza mai venirne a capo.
 


«Oggi pomeriggio non ci sarò, Daph» disse Luke, guardandola dall’altro capo della tavola, mentre si stringeva un cuscino al grembo e si mordicchiava un’unghia.
«Perché?» Chiese lei, incolore, senza nemmeno guardarlo.
«Devo fare da babysitter alla bambina della signora Tanner, da mezzogiorno fino alle sette di questa sera» spiegò. «Ce la farai a resistere? Ti ho portato dei libri, potresti leggerli mentre aspetti».
La ragazza annuì, mesta. Un intero pomeriggio senza Luke. Un intero pomeriggio di solitudine. Lanciò una veloce occhiata ai testi che lui le aveva lasciato sul tavolo, in un guizzo di attiva lucidità. Erano romanzi umoristici, di avventura. Il genere perfetto per distrarsi.
Quando il giovane la salutò per andar via, tirandosi dietro la porta, Daphne avvertì il vuoto della casa tentare di risucchiarla al suo interno. Cercò di sottrarvisi, agguantando uno dei romanzi di Luke e immergendosi nella lettura, ma ogni quattro pagine la sua attenzione calava, costringendola a rileggere un paio di volte lo stesso passaggio, per riuscire ad andare avanti. Riuscì a finire un testo per intero e notò che erano solo le cinque. Altre due ore da trascorrere le parvero un’infinità. Finché un’idea non cominciò a farsi strada nella sua mente, scavando come un tarlo.
Sarebbe potuta andare a casa di Ashton. Non lo vedeva né sentiva da una settimana, anche se la sua essenza era perennemente presente nei suoi sogni, dietro le sue palpebre, nel retro della sua mente. Rimase così colpita dalla possibilità d’incontrarlo, che si vestì in tutta fretta, indossando i primi abiti ragionevoli che le capitarono sotto mano, rendendosi appena presentabile allo specchio e uscì.
 


«Potresti anche andare a trovarla, sai? Non morirai, per questo» biascicò Michael Clifford con la bocca piena, addentando voracemente il suo panino.
«Sì, certo. Così Luke potrà finalmente pestarmi per bene, prim’ancora che io abbia suonato al campanello» ribatté Ashton, senza toccare cibo. Il suo amico scosse la testa con aria serafica.
«Non ci sarà, oggi. Ha un turno di babysitteraggio dalla Tanner, una mia vicina di casa. È via da mezzogiorno alle sette» l’informò, spazzolando l’ultimo boccone e leccandosi indice e pollice. Gli occhi del biondo si accesero d’interesse.
«Dici davvero?»
«Parola di scout» ribatté, posandosi una mano sul cuore e alzando tre dita nella migliore imitazione della confraternita dei lupetti. Ashton ridacchiò, osservando quel buffo spettacolo e il volto del giovane pieno di briciole.
«Finiscila, cazzone, quando mai sei stato uno scout?» Lo spintonò, amichevolmente. Ricevette un leggero gancio in risposta, mentre Michael si allungava sul tavolo per appropriarsi della bottiglia d’acqua.
«Quando avevo sette anni, stronzo» rispose, ingollando ampie sorsate. «Ero il migliore amico della natura».
«Disse quello che lascia lattine sporche ovunque e cicche di gomme da masticare in posti più impensati».
«Falla finita, è mia madre che fa la raccolta differenziata» commentò, fra le risate. Appena Michael l’ebbe lasciato solo, Ashton curò il proprio aspetto più che poté, cercando di non sembrare il relitto umano in cui si era ridotto negli ultimi giorni. Uscì che l’orologio affisso alla parete di casa segnava le quattro e mezza. Decise di fermarsi perfino al fioraio poco lontano dall’isolato, per comprare a Daphne un mazzo di rose. Poteva recuperare. Poteva farcela.
 
 


Appena Daphne giunse nei pressi della porta di casa del ragazzo, ebbe una sgradevole morsa ghiacciata a stringerle lo stomaco, bloccandola in cima alla rampa delle scale per alcuni secondi. Non sapeva se avanzare o no, ferma lì com’era. Decise di avvicinarsi piano, suonando lievemente il campanello. Ma non ottenne risposta. Allora provò a bussare sonoramente, ma neanche quella volta riuscì a farsi aprire. Fu in quel momento che un’onda di disperazione l’investì completamente, da capo a piedi, piegandole le ginocchia e facendole battere piano la testa contro la fredda superfice di legno. Le lacrime le rigarono silenziosamente le guance, mentre singhiozzava senza far rumore.
 


 
Ashton accostò l’orecchio alla porta di Daphne, non udendo alcun rumore provenire dall’interno. La casa sembrava vuota e disabitata, il che poteva essere poco probabile. Magari stava dormendo.
Una serie infinita di pensieri e possibilità invasero la mente del giovane, mentre il suo dito indice indugiava sul pulsante del campanello. Avrebbe suonato, la ragazza si sarebbe svegliata. Gli avrebbe aperto e poi? Cosa sarebbe accaduto? Le sarebbero piaciuti i fiori? L’avrebbe colta nel bel mezzo del pianto? Avrebbe ottenuto rabbia? Urla? Una porta sbattuta in faccia? Come si sarebbe comportato dinanzi ad ognuna di quelle evenienze?
Fu lì lì per suonare, pochi millimetri separavano il polpastrello dalla fredda plastica. Ma, proprio prima di affondare il dito, gli mancò il coraggio. Emise un gran sospiro d’insofferenza, nascose il volto nel voluminoso mazzo di rose, aspirandone il profumo dolciastro. Le depositò con cura ad un angolo della porta e si voltò, sprofondando le mani nelle tasche. Fuori aveva cominciato a piovere.
 


 
«Michael, sai dov’è Daphne? L’avevo lasciata a casa, prima di andar via… e ora non c’è più!» Esclamò Luke al telefono, correndo disperatamente lungo le strade dell’isolato, nella notte, incurante dell’ombrello né del freddo. Quale sconforto quando, spalancata la porta di casa, aveva trovato l’appartamento vuoto. L’aveva cercata ovunque, sotto il letto, nei posti più impensati, sui pianerottoli, in cortile, ma nulla. Della ragazza non c’era traccia. Come se si fosse dissolta nell’aere, sparendo da un momento all’altro.
«Spiacente, amico, non ne ho idea. Pensavo fosse ancora lì», rispose Michael, dall’altro capo della linea.
«Beh, a quanto pare ci sbagliavamo entrambi», commentò Luke, chiudendo la comunicazione e infilandosi il cellulare nei jeans ormai fradici. Non v’era un’anima, in giro, e quelle sparute persone che avevano ancora il coraggio di girovagare per le strade, si stringevano nei loro cappotti, armati di ombrello. Soltanto il giovane continuava freneticamente a perlustrare ogni angolo delle vie con lo sguardo, sperando di cogliere una testa, un abito, un modo particolare di camminare, che potessero segnalargli la presenza della ragazza. Ma nulla, Daphne non era lì e sarebbe stato alquanto inutile aspettare ancora sotto la pioggia, prendendosi un malanno ed esser poi costretto a giacere a letto per giorni. Si passò le mani fra i capelli zuppi, tirandoli indietro in un gesto di disperazione. Tornò sui suoi passi con la tristezza nello spirito, giungendo nei pressi del consueto condominio. Decise di prendere le scale, controllando un’ultima volta il percorso fino al terzo piano.
Quando giunse sulla soglia dell’ultimo gradino, trovò proprio Daphne, che camminava lentamente verso la porta d’ingresso, dandogli le spalle. Capo chino, abiti e capelli fradici, spalle abbassate.
«Daphne?» La chiamò, quasi in un sussurro, mentre superava lo scalino. Vide tutto come al rallentatore. La giovane si voltò, sorpresa di trovarlo lì. I tratti del suo volto si riempirono di stupore, mentre Luke correva ad abbracciarla, stringendola a sé. Lei ricambiò la stretta, seppellendo il volto fra le sue spalle e la giacca a vento, anch’essa piuttosto umida. Il ragazzo non poteva udire nient’altro al di fuori dei passi di rincorsa del suo cuore, che rumoreggiava contro lo sterno.
«Dov’eri?» Le chiese, senza sciogliere l’abbraccio. Daphne scosse il capo, continuando a stringerlo. La condusse nell’appartamento, notando con dispiacere che un forte tremito aveva cominciato a scuoterle le membra.
«Hai bisogno di un bagno caldo, Daph. Ti ammalerai, così», le disse, aiutandola a levarsi uno dopo l’altro gli abiti ormai ridotti a stracci bagnati, e non senza una punta considerevole d’imbarazzo. Tanto che non riuscì a sbottonarle la camicetta, sentendo di violare in qualche modo la sua intimità. Ma lei non sembrò farci caso, scossa com’era dal freddo. Continuava ad osservarlo, con i suoi occhioni verdi, come se dipendesse da lui in tutto e per tutto.
«Ora ti preparo la vasca e…»
«Non lasciarmi sola. Resta con me», sussurrò, stringendogli la mano e aspettando che lui la conducesse verso il bagno.
«O-okay» rispose Luke, dalle guance ormai purpuree per la vergogna. Si fece strada verso i sanitari, chinandosi sulla vasca e aprendo il rubinetto, aspettando che il getto di acqua calda la riempisse completamente.
«Finisci di levarti gli abiti, io… io aspetterò fuori, sì. Quando sarai dentro, poi, mi richiamerai» balbettò, guardando ovunque tranne che verso la ragazza, la quale aveva annuito. Il giovane attese dietro la porta socchiusa, cincischiando con le sue stesse dita, sentendo un groppo in gola e il cuore ancora agitato. Era una situazione surreale, mai si sarebbe immaginato di dover fare una cosa del genere. Quando Daphne lo chiamò, alcuni minuti dopo, sussultò e indugiò qualche istante sulla porta, prima di entrare.
La giovane era quasi completamente immersa nell’acqua piena di schiuma saponata, soltanto il capo, le braccia e le spalle erano rimaste fuori. Non c’era nulla di sensuale in quell’immagine, constatò Luke, mentre le passava il bagnoschiuma sulla schiena. Si trattava semplicemente di una donna nel pieno della sua giovinezza, il cui cuore era stato però ridotto a brandelli da uno sciocco incidente. Era un corpo come tanti altri, l’affetto e la sofferenza per la sua condizione prevalevano sui suoi istinti maschili, che non gli diedero pena nemmeno quando si trovò a pochi centimetri dal suo volto, per spostarle qualche ciocca di capelli bagnati appiccicatasi sul viso.
«Oggi sono andata a casa di Ashton, Luke» disse Daphne, giocherellando con la schiuma biancastra e voluminosa. «Ma indovina? La porta era chiusa. E sono rimasta lì fuori per qualche momento. Da sola», seguitò. Il ragazzo spalancò gli occhi, guardandola costernato.
«E perché l’hai fatto? Senza avvertirmi, poi!» Esclamò. La giovane annuì.
«Certo. Altrimenti me l’avresti impedito».
«Ma…» protestò, ma ella aveva già sollevato una mano per indurlo al silenzio, lasciando che lo sciaguattare dell’acqua fosse il solo suono udibile.
«Ho capito una cosa fondamentale, Luke. Che, se si arriva ad estremi come questo, vuol dire che il rapporto è già minato. Non ne sarebbe uscito fuori nulla di buono, a lungo andare», disse Daphne. «Amavo Ashton, avrei dato il mondo, per lui. Ma, per arrivare ad un’azione del genere, era chiaro che forse, accecata da tutto, dovevo aver dimenticato un paio di problemi lungo la strada. È finita, non credo che torneremo mai più insieme».
Ascoltando quel discorso, senza sapere nemmeno perché, Luke pianse. Prima lasciando colare soltanto un paio di lacrime dagli occhi ed affrettandosi ad asciugarle col dorso della mano. Poi, il pizzicore al naso portò con sé altre stille di sofferenza, e successivamente i singhiozzi. Non capiva nemmeno lui perché fosse crollato a quel modo, le parole di Daphne non erano state particolarmente tristi o lapidarie. Si trattava di un semplice ragionamento scaturito dalla riflessione su alcuni episodi della vita. Non c’era nulla da piangere, per quelle cose.
Eppure, non riusciva a smettere. Mano a mano che singhiozzava, avvertiva tutta la tensione emotiva di giorni e giorni scivolare via insieme alle lacrime, il blocco di rabbia e frustrazione nel suo petto sciogliersi pian piano, inondando le sue stesse emozioni. Consumò più di mezzo rotolo di carta igienica, per contenere tutto il flusso di sentimenti che erano riusciti ad erompere col pianto. Vedere Luke ridotto in quello stato, fu come uno schiaffo in pieno volto per Daphne, che sembrò risvegliarsi da un sonno durato anni.
«Ehi» lo richiamò, posandogli una mano sulla spalla che ebbe da poco smesso di sussultare. «Perché piangi?»
«Non lo so», commentò lui, cestinando direttamente nel water l’ennesimo pezzo di carta inservibile. «Immagino sia lo stress».
«Vieni qui».
E Daphne lo strinse in un abbraccio, non curandosi di nient’altro al di fuori del rincuorarlo, accarezzandogli piano i capelli. Anche lui cinse la sua schiena con le braccia, beandosi del calore della sua pelle umida e del profumo dolce del bagnoschiuma.
Dopo un tempo che parve interminabile, Daphne si scostò lievemente da Luke, prendendogli il volto fra le mani e asciugandogli quelle poche lacrime che ancora erano rimaste imprigionate fra le sue ciglia. Poi, delicatamente, posò le labbra sulle sue. In un gesto sul quale nessuno dei due si fermò mai a riflettere.
Intanto, fuori, la pioggia era cessata.




Nota: ed è finita anche questa. La vita di questa storia è passata quasi come in sordina, è stata la prima che ho scritto sui 5sos. Ancora non sapevo bene come comportarmi con i loro caratteri, come inquadrarli e che taglio dargli. Cosa che tutt'ora non mi è ancora molto chiara, hahahah! Immagino sarà tutto più facile con il passare del tempo! Anyway, non mi dilungo oltre! Chiusa una porta... si apre un portone!! E io ho un bel po' di cose in serbo per voi! Holly rocks again.
Vi lascio qui il banner della mia nuova long sui 5sos e l'account wattpad! Per qualsiasi cosa, io sono disponibilissima a chiarimenti, modifiche, e il più delle volte non mordo, se mi parlate! Quindi, no fear! Grazie per l'attenzione che avete prestato a questa mini storia, per i preferiti/ricordati/seguiti e le letture silenziose! Ci si vede in giro!! 



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