Someone Worth Fighting For

di _Kurai_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dawn of War ***
Capitolo 2: *** Eyes ***
Capitolo 3: *** Rain and Poison ***
Capitolo 4: *** Red Moon ***
Capitolo 5: *** Under Attack ***
Capitolo 6: *** Devotion ***
Capitolo 7: *** Retreat ***
Capitolo 8: *** Pain ***
Capitolo 9: *** Memories ***
Capitolo 10: *** Regrets ***
Capitolo 11: *** Choices ***
Capitolo 12: *** Restlessness ***



Capitolo 1
*** Dawn of War ***


Nota: l'ambientazione di questa storia è un'epoca Sengoku immaginaria, perciò chiedo venia in anticipo per eventuali enormi imprecisioni storiche e geografiche (eccetto quelle volute e giustificate dal contesto Alternative Universe). I personaggi di questa storia non mi appartengono, ogni riferimento a fatti, cose e persone esistenti o esistite è casuale e bla bla bla, ringraziamo Watanabe-sama per aver creato questi adorabili omini che ormai popolano di fisso tutte le mie fanfiction. (Gente che non ce la fa a scrivere note serie)

Edit: Ho finalmente aggiunto la stupenda copertina disegnata per me dall'amico Sargas (Seguitelo qui https://www.facebook.com/Sargas-Art-121147841323812/?fref=ts), che ringrazio tantissimo per aver apprezzato la storia e per aver disegnato un Arakita che mi ha lasciato semplicemente senza fiato!!

 
I CAPITOLO

Dawn Of War

 

La luna piena, un sakura ormai quasi del tutto sfiorito, e i passi leggeri di sandali di paglia sul tappeto di petali rosa e bianchi. Un fruscìo, poi un lieve sciabordìo d'acqua in una tinozza.

Anche stavolta, la missione di Arakita Yasutomo era conclusa. Alzò lo sguardo alla luna, mentre il suo corpo seminudo accoglieva la brezza notturna e le macchie di sangue sul kimono immerso nell'acqua andavano sbiadendo.
Imprecò piano, quando un rumore improvviso gli fece estrarre la spada.
Era solo un gatto.
Ripose la katana nel fodero, non senza aver accarezzato distrattamente l'incisione di un lupo alla base della lama, per poi abbassarsi a coccolare la piccola creatura nera come la notte.
Si sentiva inquieto.
Perché quegli uomini sembravano così sicuri e incuranti del loro destino?
Com'erano arrivati fino al limitare del territorio del castello, con lo scopo di ucciderne il signore? Cosa sarebbe successo se non avesse avuto quel presentimento?
Poi, sentì un altro fruscìo.
Alle sue spalle.
Si voltò di scatto, con addosso solo il fundoshi e la mano febbrile ad un passo dall'estrarre la lama, in guardia.
"Yasutomo."
Con una voce profonda che conosceva troppo bene, un viso particolare e familiare, che sembrava scolpito nel granito, apparve dal buio, lo sguardo deciso e autoritario puntato su di lui.
"Rilassati, e fai rapporto"
"Erano quattro. Appena fuori dalle mura del castello. Armati di tutto punto. Sembrava quasi che mi stessero aspettando, che fossero pronti ad accogliere la morte fin troppo di buon grado. Li ho accontentati, Fuku-chan.”

Solo quando erano soli lo chiamava così, perché in presenza delle sue truppe non avrebbe mai violato così apertamente le gerarchie. Avrebbe dato il cattivo esempio.
Un po' gli dispiaceva, però.
Erano stati cresciuti dalla stessa famiglia anche se di sangue diverso, ma Juichi Fukutomi era per diritto di nascita il potente daimyo di quel feudo e lui, Yasutomo Arakita, ne era diventato il fedele luogotenente, in una difficile epoca di guerre, imboscate e campagne di espansione militare nei feudi vicini.

Arakita era un lupo ammaestrato, un killer a sangue freddo fedele solo ed esclusivamente al suo daimyo, un samurai che aveva consacrato la lama della sua katana alla protezione dell'unica persona al mondo per cui portasse un rispetto incondizionato.
Era stato adottato da piccolo dalla potente famiglia Fukutomi, così piccolo che nemmeno ricordava chiaramente il momento in cui si erano conosciuti; il padre, morto da qualche anno - o per meglio dire, ucciso in un agguato di cui non si erano mai trovati i colpevoli - raccontava di averlo trovato sulle montagne, durante una battuta di caccia. Un marmocchio sporco e arruffato di nemmeno due anni, capelli e occhi neri come la pece, minacciato da un branco di lupi che non sembravano fargli alcuna paura. Il signor Fukutomi li aveva dispersi e l'aveva fatto salire sul suo cavallo, per poi educarlo e insegnargli il kenjutsu insieme al suo figlio naturale. Aveva trovato la sua via aprendosela a colpi di spada, sviluppando un'abilità seconda solo a quella di Juichi, che lo considerava quasi un suo pari e aveva cieca fiducia in lui.
Da qualche giorno erano in corso alcune piccole sommosse scatenate da ronin erranti, che sembravano provenire da qualche villaggio sull'altro versante della montagna. Inizialmente sembravano solo piccole scaramucce, poi avevano iniziato ad essere sempre più organizzate: non erano più sicuri se fossero semplici samurai senza padrone che si divertivano a seminare il caos o se quella fosse una copertura, atta a nascondere un attacco reale e ben organizzato da parte di un altro feudo o di una fazione nemica all'interno del feudo stesso.
Arakita finì di raschiare via le macchie rosso scuro dal kimono per poi rovesciarsi addosso un'altra tinozza d'acqua, nel freddo pungente della notte primaverile ai piedi del monte Hakone. Scrollò la testa da un lato e dall'altro come un animale selvatico, creando tutt'intorno un'aura di goccioline d'acqua. Juichi era ancora seduto appena fuori dallo shoji della sua stanza, già (o ancora) vestito di tutto punto nonostante fossero appena le due del mattino. Probabilmente aveva studiato strategie militari fino a quell'ora, alla luce di una piccola lanterna. Yasutomo finì di asciugarsi e indossò un kimono pulito, per poi sedersi accanto al suo signore.
Attendeva altri ordini, perché il sonno è per i deboli. Invece, Juichi si alzò e rientrò nella stanza, invitandolo a seguirlo con un cenno della testa.

Tra il ruolo di luogotenente e quello di amante, in fondo, non c'era tutta questa differenza. Faceva parte dei suoi compiti, ed era uno di quelli che apprezzava di più. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, fino a sacrificare la sua stessa vita.
Si abbandonò tra le braccia forti di Fukutomi, mentre si sfilava il kimono appena indossato, liberandosi anche - ma solo momentaneamente - della sua scorza impenetrabile di guerriero freddo e privo di sentimenti. Solo un'ora prima aveva passato a fil di spada quattro uomini, finendoli senza battere ciglio, ma lì si sentiva inerme, totalmente in balìa di colui che poteva disporre della sua vita in qualsiasi momento. Soffocò a metà un gemito mordendosi le labbra sottili, perché le porte di carta di riso sarebbero state fin troppo disposte a rivelare il loro segreto. Lo sentiva affondare dentro di sè, e con le unghie gli arpionava la schiena, come per non lasciarlo andare, in preda ad un istinto pericolosamente simile a quello del combattimento. Con la differenza che, se era lui, gli andava bene anche essere sconfitto.

Poi, un'ora prima dell'alba, uno scalpiccìo agitato annunciò l'arrivo di un messaggero al castello. Il daimyo si alzò, si rivestì in fretta e uscì dalla stanza, lasciando il luogotenente semiaddormentato nel futon.
"Un esercito in assetto di guerra è quasi sul confine, mio signore, a quindici chilometri da qui" comunicò il messaggero, che doveva aver corso fin lì al massimo delle sue possibilità "si preparano ad attaccarci a sorpresa da due lati, per chiuderci nella morsa della montagna..."
"Ottimo lavoro, Izumida... vai a svegliare le truppe, che siano tutti pronti e armati prima dell'alba! Li batteremo sul tempo!"
Il sole si era appena levato quando le truppe di Fukutomi si schierarono ordinatamente, con addosso le armature e le due spade al fianco, pronte a combattere e a difendere il castello. Una nuvola di petali di sakura sollevati dal vento li circondò, come una benedizione dei kami.
L'esercito al completo contava circa tremila elementi, che erano impegnati su diversi fronti, ma le truppe dell'elìte sarebbero state sufficienti. Poco più di duecento soldati contro almeno un migliaio sembravano una mossa suicida, ma Fukutomi era fermo e sicuro nella sua decisione. Oltre ad Arakita, suo infallibile braccio destro, aveva altre potenti frecce al suo arco, che avrebbero dato filo da torcere a mille uomini anche in inferiorità numerica più schiacciante di così.

In un'ora, comunque, sarebbe stato difficile fare di meglio.
Il daimyo divise il suo manipolo di forze scelte in sei squadre, di una delle quali prese personalmente il comando. Era uno schieramento ben collaudato, e non aveva mai fallito.
La seconda squadra era affidata ad Arakita, che sapeva essere un comandante eccellente anche se un po' troppo votato alle missioni suicide - alle quali comunque era sempre sopravvissuto.
La terza squadra era formata da combattenti esperti di ninjutsu, il cui comandante era famoso per gli attacchi a sorpresa: silenziosamente sgusciava alle spalle del nemico, che non faceva in tempo a notare il suo movimento prima che il veleno in cui intingeva tutte le sue armi non gli fosse entrato in circolo. "Incontri Toudou Jinpachi e sei già morto" era la sua fama, forse messa in giro da lui stesso, dotato di un'autostima e una propensione all'autocelebrazione sovrabbondante per un uomo solo.
La quarta e la quinta squadra agivano insieme: uomini veloci, armati di spade e lance, che dovevano essere il cuore pulsante dell'avanzata. La quarta era comandata dal terzo samurai più forte del feudo, un personaggio enigmatico che ostentava una calma estrema anche in battaglia, fino al momento in cui in lui scattava qualcosa, e ogni essere vivente nel raggio di cento metri finiva tagliato a fette, finché la sua sete di sangue non si fosse esaurita. Lo chiamavano Demone, e forse Shinkai Hayato lo era sul serio. La quinta squadra era comandata dal messaggero di poc'anzi, Izumida Touichiro, un uomo che della potenza del suo corpo aveva fatto un culto e un vanto, in grado di correre per numerosi chilometri senza accusare stanchezza. Era un maestro nell'uso della naginata, e come lui tutti i suoi uomini erano armati di lancia.
Infine, l'ultima squadra era formata da arcieri di comprovata abilità, che si sarebbero posizionati in punti strategici sulla montagna, per poter disperdere e atterrire il nemico con l'inquietante precisione delle loro frecce. Manami Sangaku, il comandante della sesta squadra, era poco più che un ragazzo, ma era dotato di un'abilità davvero fuori dal comune: si diceva che fosse protetto dai kami del vento, che permettevano alle sue frecce di centrare perfettamente un bersaglio anche a distanze impossibili. Portava il suo enorme arco sulla schiena, accanto a una faretra ricolma di lunghe frecce piumate.

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Capitolo 2
*** Eyes ***


E niente, non ho resistito e ho dovuto riaggiornare subito XD Questo significa che forse dovrete aspettare un po' se il prossimo capitolo uscirà lungo come questo, ma visto che tutta sta roba è nata in poche ore non mi preoccuperei troppo, alla fine. Spero che fino ad ora le premesse vi siano piaciute e che non ci sia qualche esperto del Sengoku pronto ad eliminarmi fisicamente nascosto dietro qualche angolo XD (visto che sono la prima a incaponirmi sulle imprecisioni storiche XD)
Ora vi lascio alla lettura, e se qualche bella persona mi vorrà lasciare una recensione può darsi che mi metterò a scrivere il terzo capitolo più in fretta (questi vili ricatti). Comunque, anche quando cliccate il bottoncino del "mi piace" di facebook siete bellissimi lo stesso, lasciatevi amare. (E anche stavolta, niente nota seria)

II CAPITOLO
Eyes


Si schierarono in assetto di difesa. In altre circostanze, il daimyo avrebbe detto che la migliore difesa è l'attacco, ma non poteva permettersi di perdere pedine importanti solo per aver voluto correre il rischio. Con parte delle truppe a nord a due giorni di cammino, per difendere il confine più problematico, e parte di stanza nel castello nella capitale, era necessario giocare bene le proprie carte: chi gli diceva che il nemico non si fosse rivelato intenzionalmente, per spingerli a lasciare il castello scoperto?
Ma poi, chi era il nemico?
Arakita, che al calcolo preferiva l'azione, stava scalpitando, ma non lo dava a vedere.

Salito a cavallo, andò a controllare gli uomini e le fortificazioni, per verificare che fosse tutto a posto.
Manami era in piedi su una sporgenza di roccia qualche decina di metri più su, perfettamente esposto a qualsiasi attacco a distanza, ma non gli importava. Il vento gli era favorevole, e l'arciere ascoltava il suo sussurro, giocherellando con la coda piumata di una freccia. Guardava lontano, in attesa di avvistare il nemico.
Il castello era protetto da tutti i lati e dagli uomini migliori, non restava che aspettare e approntare tutte le difese possibili.
L'unico che sembrava inquieto era Izumida, che era anche l'unico ad aver visto l'entità delle forze del nemico. Non capiva perché, ma la sua mano destra tremava leggermente, mentre stringeva il legno forte e pregiato della sua lancia.

Aveva combattuto molte battaglie di quel calibro, aveva sconfitto da solo decine di nemici roteando e mirando affondi con la sua naginata, ma sentiva che c'era qualcosa di diverso. Un'aura diversa, come un vento fetido in avvicinamento, il cui odore era ancora mascherato da quello dei sakura. Non riusciva a liberarsi di quella sensazione da quando aveva visto il comandante di quell'esercito, che spiccava in mezzo alla torma di uomini assiepati nella valle. Le membra innaturalmente lunghe, e uno sguardo viscido e pungente che aveva percepito anche da lontano, sulla sua torretta di ricognizione. Per un istante gli era pure sembrato che quell'uomo lo stesse guardando. Aveva avuto un brivido, come se il suo corpo avesse percepito la minaccia prima di lui, ed era subito partito per recapitare al daimyo il funesto messaggio.
Shinkai gli si avvicinò mentre era sovrappensiero, facendolo sobbalzare impercettibilmente quando gli appoggiò la mano sullo spallaccio dell'armatura. Gli stava sorridendo. Rigirava tra le labbra quel suo solito filo d'erba, che era ormai diventato un po' il suo simbolo. Quando lo lasciava cadere a terra, allora era il momento in cui bisognava iniziare a preoccuparsi. Ma ora sembrava tranquillo, e sembrava anche aver compreso l'umore di Touichiro.
La terza squadra si era disposta sugli alberi lungo la strada verso il castello, pronta a bloccare l'avanzata con una pioggia di kunai e aghi avvelenati. Toudou sedeva sul ramo più alto di un ciliegio enorme, mentre controllava uno per uno tutti i suoi marchingegni letali. Lanciò uno strano sguardo malinconico verso il cielo, oltre la montagna e oltre le nuvole, come se attendesse un segno dei kami.
In realtà era qualcosa di molto più terreno: aspettava una lettera da diversi giorni, ma la risposta non arrivava. Ma non era il momento di pensarci, doveva mantenere la mente fredda e lucida e pensare al suo compito. L'adrenalina della battaglia l'avrebbe fatto tornare in sè, scorrendo come una pozione rinvigorente nelle sue vene. Soppesò tra le mani le sue armi una per una un'altra volta, e poi si rimise ad aspettare.

E l'esercito nemico non si fece attendere oltre.
Mirò subito ad un punto scoperto dietro il collo del loro comandante: che colpo da maestro sarebbe stato, tale da indebolire il loro punto di riferimento e disperderli tutti con il primo attacco. L'uomo, più somigliante a una specie di animale strisciante che ad un essere umano, sembrava confidare molto nelle sue abilità, e non indossava l'elmo. Toudou, con un sorrisetto, tirò cinque fili sottilissimi, e cinque lunghi aghi metallici sfrecciarono sicuri verso il bersaglio.
Senza movimenti superflui, una mano si sollevò in un istante, bloccando tutti e cinque gli aghi, che caddero a terra. Lo sguardo acquoso e vitreo di quella creatura inquietante si alzò verso le alte fronde del sakura, poi alzò le spalle.
"Insetti." mormorò.
Toudou era congelato sul posto. Non aveva mai sbagliato prima di quel momento. Si apprestò a dare un segnale ai suoi ninja per dare inizio all'attacco, ma proprio in quell'istante il comandante nemico si lanció in avanti da solo, con l'intenzione di annunciarsi. Sembrava non temere nulla. "Arrendetevi ora, insetti." urlò, con una voce perfettamente corrispondente alla sua apparenza "inginocchiatevi e arrendetevi all'esercito di Fushimi, prima di essere spazzati via insieme al vostro castello! Sono Midousuji Akira, comandante dell'esercito che conquisterà tutto il Giappone. Arrendetevi, insetti" ripetè, per poi leccarsi le labbra "siete troppo pochi per resisterci, e conosciamo già tutte le vostre mosse".
Il daimyo di Hakone uscì a cavallo fino al limitare delle fortificazioni, con il luogotenente al suo fianco.
"Non ci arrenderemo, difenderemo il castello e il feudo e vi rimanderemo da dove siete venuti! Noi siamo forti, e ve ne renderete conto!" Esclamò Fukutomi, e la sua voce profonda rieccheggiò nella vallata. Arakita si limitò a osservare il nemico da vicino, con un ghigno a metà tra un sorriso beffardo e una smorfia di disgusto. I due uomini a cavallo, concluse le dichiarazioni d'intenti, tornarono all'interno delle fortificazioni.
La battaglia poteva iniziare.

 

Pochi metri più indietro rispetto al comandante Midousuji cavalcava quello che sembrava il suo luogotenente, che indossava l'armatura completa, ma senza le protezioni per il viso. Il contrasto tra i due saltava subito all'occhio, e anche la loro differenza gerarchica, notando che il luogotenente Ishigaki Koutaro si manteneva precisamente due passi dietro il suo comandante. Lo guardava con un grande rispetto ma con una leggera sfumatura di inquietudine, come se qualcosa dentro di lui non fosse completamente in accordo con i metodi del suo signore.

Ishigaki in realtà era il figlio primogenito del precedente daimyo del feudo di Fushimi, ma un complesso insieme di circostanze aveva fatto sì che il suo diritto di nascita venisse scavalcato, e lui non si era ribellato. Tuttavia manteneva la testa alta e lo sguardo aperto e deciso, che spaziava da un lato all'altro del teatro della battaglia imminente.

Arakita non aveva mai compreso la necessità di tutto quel cerimoniale di dichiarazioni e dimostrazioni reciproche prima di combattere. Non si poteva iniziare subito? La sua Ookami era assetata di sangue fresco, e l'aura di minaccia era quasi tangibile.

 

Poi, il caos.
Una singola freccia fischiò nel cielo, andando a conficcarsi nel terreno un paio di metri davanti al cavallo di Fukutomi, che indietreggiò spaventato di qualche passo ma fu subito calmato dal daimyo. Era stato un piccolo arciere di Fushimi con gli occhietti acquosi e piccoli da tanuki, forse desideroso di farsi notare, forse solo impaziente e inesperto. Ma ottenne ciò che voleva. In un istante fu un inferno di frecce, spade, lance e pugnali in ogni direzione. Era iniziata.
Per sadica ironia della sorte, l'arciere che aveva dato inizio a tutto fu anche il primo a cadere. Una freccia con una coda di piume candide, la firma di Manami Sangaku, gli si piantò decisa in mezzo agli occhi, con una precisione spaventosa. Non ebbe il tempo nemmeno di accorgersi di essere morto.
Toudou e la sua squadra mandavano a segno tutti i loro colpi, ma notarono in fretta che qualcosa non andava. Gli uomini colpiti venivano feriti, ma il veleno non sembrava fare effetto. Eppure si trattava di una tossina estremamente letale, di cui bastavano due gocce per uccidere un uomo adulto in trenta secondi, dopo un'immediata paralisi degli arti.

Cosa stava succedendo?

 

Nella mischia, la prima, la seconda, la quarta e la quinta squadra combattevano in rapidi corpo a corpo. Nonostante l'inferiorità numerica le truppe dell'elìte sgombravano in fretta il campo dagli avversari, che però continuavano a riapparire da ogni parte. Il comandante Midousuji era smontato da cavallo e si apriva la strada con pochi potenti e calcolati fendenti, scivolando tra i soldati di Hakone, come se fosse invisibile.

Aveva quasi raggiunto il daimyo, che assisteva ai combattimenti da una piccola altura, attendendo il momento migliore per intervenire, quando Shinkai gli si parò davanti, in guardia, fermamente intenzionato a non fargli compiere un altro passo. Si era tolto l'elmo anche lui, per dimostrare di non essere da meno al suo avversario.

Rigirava ancora il suo filo d'erba tra le labbra, ma non sorrideva affatto. Leccò distrattamente una gocciolina di sangue altrui che gli era schizzata sul labbro, e con un movimento minimo parò il fendente di Midousuji, che indietreggiò impercettibilmente solo per caricarne un altro, che risultò essere una finta e che Hayato schivò solo all'ultimo istante, rimediando un piccolo taglio obliquo sul viso.
Il filo d'erba cadde nel terreno e il samurai lo calpestò, con un bagliore cremisi in fondo agli occhi.
Raddoppiò e poi triplicò la velocità e la precisione dei suoi attacchi, che tuttavia continuavano a non andare a segno. Midousuji non aveva ancora indossato l'elmo e la sua armatura era solo parziale, ma la sua guardia era così impenetrabile da renderla superflua. Shinkai menò un affondo, parò un fendente con il fodero della katana e poi avanzò di nuovo, individuando un'apertura, sicuro di non fallire.

Esistevano solo lui e il nemico, e avrebbe tagliato qualunque cosa si fosse frapposta tra lui e l'obiettivo.

Midousuji abbassò lo sguardo per un istante, sollevando leggermente un sopracciglio. Una lama apparve dal nulla un istante prima che Hayato mettesse a segno il colpo, dal basso alle sue spalle, infliggendogli un taglio piuttosto profondo poco sopra il gomito, nel momento di massima tensione. Con uno scatto, Shinkai sfoderò anche lo wakizashi ignorando il dolore e trafisse la gola di quello che avrebbe già dovuto essere un cadavere, che aveva usato le sue ultime forze per quel colpo così vile e inatteso.
Non aveva ancora inflitto nessuna ferita a Midousuji, e la cosa lo faceva infuriare fuori misura. Lanciò il suo grido di battaglia più potente, per poi mettersi in posizione per la prima fase della tecnica che l'aveva reso famoso. Nessuno che l'avesse vista era mai sopravvissuto. Il punto forte di quella tecnica era la velocità, che in quello stato mentale e fisico particolare rendeva i suoi movimenti difficili da individuare da qualsiasi occhio umano. Chiuse fuori il dolore che iniziava a pervadere il suo braccio sinistro, e strinse più forte la spada. Il primo fendente andò parzialmente a segno, aprendo un taglio superficiale sotto l'occhio destro dell'avversario, che non ne fu stupito né spaventato. Sembrava si fosse fatto colpire di proposito.
Gli bastarono tre colpi ad adattarsi alla velocità di Hayato, e scartò il quarto, che doveva essere quello più veloce e il decisivo.

Shinkai esitò un istante di troppo prima di parare l'attacco successivo, e per un momento infinitesimale lasciò un'apertura nella sua guardia. Era quel genere di errore che poteva fare la differenza tra la vita e la morte, ed entrambi lo sapevano bene.
Anche Touichiro, poco lontano, vide quel momento come al rallentatore, mentre sfilava la punta della naginata dal petto di un nemico appena ucciso. Coprì la distanza di venti metri in un lampo, lanciandosi in avanti con la lancia in posizione d'attacco, diretta alla gola scoperta di Midousuji. Tutta quell'ostentazione di sicurezza era un insulto, e l'aver messo in difficoltà Hayato era un'offesa ancora peggiore, una provocazione che poteva essere punita solo con la morte.
Il movimento di Midousuji, impegnato in attacco e difesa su due lati, fu impressionante. Piegò il collo di lato in modo innaturale, cosicchè un colpo che avrebbe dovuto trafiggergli la giugulare gli disegnò solo una sottilissima linea scarlatta sulla pelle estremamente pallida, parò con lo wakizashi un disperato affondo di Shinkai e nello stesso istante approfittò dello sbilanciamento di Izumida in avanti per piantargli la sua lama nel punto di giuntura delle piastre della sua armatura, poco sotto la spalla. Il comandante della quinta squadra scivolò in ginocchio, con la spada ancora incastrata tra le due placche metalliche. Shinkai gli si parò davanti, lasciando Midousuji armato solo di wakizashi. Fu in quel momento che giunse una provvidenziale pioggia di frecce dall'alto, che permisero ad Hayato di allontanarsi verso il castello sorreggendo Izumida, per cercare di portarlo al riparo e fermare il sangue che usciva a fiotti dalla sua ferita, dalla quale lo stesso Touichiro aveva estratto la lama.

Sussurrando un grazie alla squadra di Manami per il salvataggio, Izumida perse conoscenza.
Resosi conto della situazione, Arakita aveva preso in fretta il posto di Shinkai. Toudou era sceso dal suo albero e si era rassegnato al combattimento corpo a corpo, sebbene non fosse la sua specialità. Avrebbe solo dovuto resistere fino a sera, quando avrebbe potuto attingere alla sua scorta di veleni al completo, per poterne rafforzare l'effetto. Odiava sporcarsi le mani.
Riconosceva il lavoro di qualcuno abile quasi quanto lui: qualcuno che doveva aver scoperto la sua miscela segreta e aveva fabbricato una sorta di antidoto per immunizzare i soldati dalle tossine. Ma com'era stato possibile?
Shinkai sfilò la parte superiore dell'armatura di Izumida per scoprire un taglio profondo dai contorni netti, che però non sembrava aver colpito organi interni. Il respiro, seppur stentato, era regolare, e la priorità era fasciare stretta la ferita per fermare il sangue che aveva ormai impregnato il kimono che il samurai portava sotto l'armatura. Strappò un pezzo di stoffa e lo premette forte sulla ferita, fino a farsi sbiancare le nocche, e fasciò stretta la medicazione improvvisata. Si fasciò anche il braccio sinistro, per evitare che la perdita di sangue gli facesse perdere la sensibilità delle dita, e si caricò in spalla il corpo privo di sensi di Touichiro, per portarlo al sicuro all'interno delle fortificazioni.

In fondo, gli aveva salvato la vita.
 

Hayato si rigettò nella mischia, tornando a sostenere i suoi uomini e assumendo anche il comando della quinta squadra.
Arakita dava filo da torcere a Midousuji – che intanto aveva recuperato da terra la katana di un cadavere - in una situazione di stallo di difficile risoluzione. Non poteva permettere che si avvicinasse a Fukutomi, né poteva lasciare che il suo signore intervenisse rischiando di essere ferito.

Sarebbe bastato lui, e quell'individuo doveva pur avere un punto debole.

Gli occhi di Yasutomo fiammeggiavano, riflettendo i guizzi metallici dei fendenti della sua Ookami.

Il comandante nemico, con quella sua sciocca ostinazione a combattere personalmente e continuamente, sembrava iniziare a stancarsi, e lo stile di combattimento aggressivo di Arakita faceva il resto: il luogotenente di Hakone iniziava a intravedere una soluzione a quello scontro.

Poi, una visione alle spalle di Midousuji, accompagnata da una sensazione sgradevole, lo congelò sul posto, facendogli scartare un attacco solo per miracolo e all'ultimo istante.
 

Occhi taglienti, azzurri. Occhi di kitsune, che si confondevano nel caos della battaglia. Aveva già visto quegli occhi, più volte, ma non ricordava in quali circostanze. Il bagliore azzurro sparì tra gli alberi.

Incrociarono le lame per l'ennesima volta, senza che nessuno dei due riuscisse a spuntarla. Poi, gli occhi della kitsune riapparvero di nuovo nello stesso punto, e tutta la valle piombò nella nebbia.
 

L'espressione di Manami cambiò repentinamente con l'alzarsi della nebbia. Non avrebbe potuto più mirare con precisione nella mischia, e la sua funzione di supporto perdeva così gran parte della sua efficacia. Decise che avrebbe condotto i suoi uomini giù, tra i combattenti, abbandonando il proposito di usare arco e frecce. In fondo, anche loro erano samurai.

 

"Eppure, il vento avrebbe già dovuto disperdere questa nebbia" disse tra sé, mentre teneva testa a due samurai di Fushimi che si ostinavano ad attaccarlo sui due lati con mosse prevedibili e ingenue. La coltre era pesante e immobile, e aveva decisamente qualcosa di strano.

Si sottrasse all'ultimo istante, e i due si uccisero a vicenda.

Gran brutta cosa, la stupidità umana.

Avanzando lentamente tra i combattenti impegnati in scontri corpo a corpo qua e là, si accorse di una cosa. Si chinò, proprio nell'istante in cui una mano sconosciuta vibrava un attacco rivolto alla sua testa. Senza battere ciglio, raccolse una delle sue frecce da terra e la conficcò nell'occhio destro del suo aggressore, che cadde in ginocchio urlando, con la testa tra le mani. Tornò a chinarsi, nello stesso momento in cui Shinkai, che si trovava dal lato opposto, giungeva alla sua stessa conclusione.

 

In mezzo ai cadaveri di entrambi gli schieramenti che giacevano sul terreno, c'erano alcuni corpicini di piccoli animali, che non avevano segni di ferite.
"Nebbia velenosa" sussurrò Toudou, per poi farsi strada verso il daimyo per avvertirlo del pericolo e chiedergli di ordinare la ritirata. Ma qual'era il senso? Perché rilasciare un veleno che avrebbe danneggiato anche i propri soldati? La concentrazione della tossina sembrava molto bassa, appena sufficiente a provocare un vago formicolìo agli arti e qualche lieve difficoltà respiratoria, ma Jinpachi aveva imparato a non sottovalutare nulla, tanto più se l'artefice di quella nebbia aveva scoperto la composizione complicatissima del veleno in cui lui intingeva le sue armi.

Mentre avanzava a tentoni nello spesso strato di nebbia per raggiungere l'estremità opposta del campo di battaglia e avvertire il daimyo, qualcosa di duro e pesante lo colpì alla nuca, e in un attimo fu tutto nero.


In realtà, gli uomini di Fushimi non sembravano risentire troppo della nebbia velenosa, mentre i movimenti dei soldati di Hakone sembravano essere rallentati, come se i loro corpi fossero diventati improvvisamente di piombo. La katana sembrava pesare il doppio e le mani di Arakita formicolavano, mentre con difficoltà sempre maggiore parava i colpi di Midousuji, che invece sembrava sempre più veloce. Scartò a destra, ma non abbastanza in fretta per evitare anche un calcio allo stomaco, di cui percepì il contraccolpo nonostante l'armatura, e che per poco non lo mandò in ginocchio. Fu allora che si rese conto che quella non poteva essere semplice stanchezza, nonostante fosse ormai pomeriggio inoltrato. Aveva fame d'aria, e ogni nuovo respiro sembrava peggiorare la situazione.

Era quella nebbia.

Quella kitsune.

Approfittando del suo istante di smarrimento, Midousuji lo superò con un balzo. Non c'era più nessuno a fermare la sua avanzata verso Fukutomi.

"Questa sera il feudo di Fushimi avrà già un nuovo castello!" urlò, in preda all'estasi del miraggio della vittoria. Arakita si rialzò, raccogliendo tutte le sue forze, e iniziò a correre nella medesima direzione. Il daimyo era smontato da cavallo e aspettava, in guardia. Quello di cui non si accorse fu l'arciere che apparve improvvisamente dalla nebbia, la freccia già incoccata nell'arco, teso al massimo. Il daimyo non sarebbe riuscito a parare entrambi gli attacchi nello stesso istante.

Arakita invece lo notò, un secondo prima che la freccia nera scoccasse.

Era di nuovo quella maledetta kitsune.

Fukutomi parò l'attacco diretto di Midousuji, ma si accorse della freccia in volo nella sua direzione un secondo troppo tardi per cercare di evitarla. Scartare per evitare la freccia avrebbe comunque significato esporsi troppo agli attacchi dell'avversario che aveva davanti. Era un bivio, e nessuna delle due soluzioni era quella giusta. Fu in quel momento che al suo fianco apparve Arakita, che sembrava allo stremo delle forze.

Yasutomo incrociò il suo sguardo e gli sorrise per un istante, poi allargò le braccia e lasciò che la freccia penetrasse nella sua armatura, poco più su dello stomaco.

Era stanco, troppo stanco.
Cadde a terra, mentre lentamente la nebbia iniziava a dissolversi.

Anche la kitsune si dissolse, e una freccia di Manami partita troppo tardi l'attraversò come il riflesso illusorio di uno specchio.


Ma... il sole... era sempre stato così rosso?


L'ultima cosa che sentì fu il grido di battaglia di Fukutomi, che approfittò dello slancio in avanti di Midousuji per scattare a sua volta, prendendolo di sorpresa e colpendolo al viso, sfregiandolo con un taglio esteso dal sopracciglio sinistro allo zigomo destro. Il daimyo di Fushimi fu accecato dal sangue per un istante, sufficiente a Fukutomi per puntargli la punta della spada direttamente alla gola. Fu allora che apparve il luogotenente Ishigaki, che per proteggere il suo comandante minacciò apertamente con la sua lama il daimyo di Hakone, generando una nuova situazione di stallo.
Il sole stava ormai tramontando, ed entrambi i daimyo ordinarono malvolentieri la ritirata, per sbloccare la situazione, curare i feriti e fare il conto dei morti. I combattimenti sarebbero ripresi la mattina seguente.

 

Nessuno aveva mai visto quello sguardo negli occhi di Fukutomi Juichi.

Non appena i sopravvissuti di Fushimi (circa la metà del numero iniziale) ebbero girato le spalle, diretti verso il loro accampamento, si inginocchiò accanto al luogotenente.
Arakita Yasutomo respirava ancora.

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Capitolo 3
*** Rain and Poison ***



Ok, giuro che dopo il terzo aggiornamento in tre giorni mi dò una calmata XD Sta fanfiction mi ha rubato l'anima, in una notte ho sfornato dal niente un altro capitolo owo Sapevo che la combo pedalari/samurai mi avrebbe causato grossi scompensi, e adesso non posso uscirne XD
Vi lascio alla lettura e me ne torno a tramare nell'ombra, sayonara!

_Kurai

III CAPITOLO

Rain and Poison

Il campo era piombato nel silenzio.

La nebbia si era dissolta del tutto, e i feriti erano stati trasportati all'interno del castello.

Di duecentocinquantadue uomini, ne erano rimasti poco più di centocinquanta, contando i feriti che potevano ancora combattere.

Tra questi c'era Touichiro Izumida, che si era ripreso mentre ancora fuori infuriava la battaglia ed era stato fermato a forza da quattro uomini per farsi medicare efficacemente la ferita, che sennò si sarebbe sicuramente riaperta e infettata. Alla fine si era comunque rialzato e aveva aiutato a curare gli altri feriti, senza concedersi un attimo di riposo, in preda alla preoccupazione per l'inferno che infuriava fuori dal castello. Gli girava ancora la testa per aver perso tanto sangue, ma tutto sommato stava bene.

Capì che doveva essere successo qualcosa quando smise di sentire il clangore del metallo, all'improvviso. Si affacciò fuori, e vide che entrambi gli eserciti si stavano ritirando. Sembrava si fosse giunti a un pareggio.

Aguzzò lo sguardo e vide un corpo a terra, e il daimyo sceso da cavallo inginocchiato al suo fianco, che non permetteva a nessun altro di avvicinarsi. Shinkai e Manami erano subito dietro di lui, lo sguardo basso che nascondeva turbolenti pensieri. Le membra di tutti erano stanche e pesanti, e giungere ad una situazione di relativa parità era costato tanto, anche troppo.

Arakita era fuori combattimento, e Toudou non si vedeva da nessuna parte. I suoi uomini l'avevano visto l'ultima volta in mezzo alla nebbia, e poi ne avevano perso le tracce nella foga della battaglia. Molti guerrieri erano debilitati dal veleno, che in alcuni punti aveva colpito più pesantemente, e il suo aiuto sarebbe stato estremamente prezioso.

Era chiaro che il nemico lo sapeva.

Toudou Jinpachi aveva la bocca impastata e un gran mal di testa. Per un attimo pensò di aver esagerato con il saké la sera precedente, poi fece per muovere gli arti intorpiditi e si accorse di essere immobilizzato.

Spalancò gli occhi nel buio, e ricordò tutto.

Una nube nera di vergogna e frustrazione si abbattè su di lui, non appena realizzò che era stato fatto prigioniero dal nemico. Prima il suo veleno era stato neutralizzato, e ora questo. Cercò con la lingua la familiare capsula che teneva celata in bocca per quel tipo di situazioni, ma al suo posto non sentì nulla. Quei bastardi dovevano averlo perquisito, togliendogli anche la consolazione di un onorevole suicidio.

Era attanagliato dal sudore freddo, e la testa minacciava di scoppiargli. Voleva di nuovo chiudere gli occhi e ripiombare nell'oblìo, ma doveva rimanere lucido. Non si sarebbe arreso per così poco, e poteva ancora riuscire a salvarsi. Se solo avesse avuto con sé i suoi veleni e le sue armi...

Sarebbe stato molto, molto difficile, tanto più che non era sicuro di potersi reggere in piedi una volta libero, ma non era impossibile.

Una cosa era chiara e lampante come il sole: se l'avevano lasciato in vita, avevano sicuramente dei progetti per lui. Quindi, doveva solo essere più furbo di loro.

Non dovette aspettare molto per sapere quello che lo attendeva, e forse avrebbe preferito non venirne mai a conoscenza. Forse avrebbe dovuto mordersi la lingua a sangue e farla finita subito.

“Questo è quello che succede quando la tua fama ti precede, Toudou Jinpachi. E quando sei troppo sicuro dell'efficacia delle tue mosse, tanto dal fossilizzarti sulla tua presunta perfezione” era una voce leggermente stridula, che tuttavia aveva una strana musicalità, come una cantilena.

“Tuttavia, Midousuji-sama ha deciso di tenerti in vita, per farti assistere alla vostra sconfitta. A poco a poco, per assaporare l'aroma dolce e pungente del terrore che trasfigura il volto dell'avversario, finchè non diventa l'ombra di sé stesso... fare a pezzi lentamente, demolendo le certezze del nemico una dopo l'altra, ecco come Midousuji-sama otterrà il potere su tutto il Giappone! Con il mio prezioso aiuto, ovviamente.” Il proprietario della voce, che non doveva avere più di vent'anni, teneva in mano una lanterna, che illuminò fiocamente la tenda in cui Toudou era prigioniero. La prima cosa che notò furono i suoi occhi, di un azzurro non umano, sottili come quelli di una volpe. La seconda fu la scarsella che teneva in mano. La sua scarsella.

“Ti starai chiedendo come abbiamo fatto a diventare immuni al tuo veleno perfetto, vero? Lo leggo nei tuoi occhi... Ti starai chiedendo come abbiamo fatto a creare un antidoto tanto complesso, che tu hai sintetizzato dopo più di dieci anni di ricerche, vero? La risposta è molto semplice. Non l'abbiamo fatto.”

Negli occhi di Toudou si dipinse un'espressione di incredulità.

“Gli uomini dell'esercito di Fushimi vengono scelti tra i migliori e temprati da anni di addestramento a rischio della vita: essi sono selezionati fin da piccoli e abituati a stare ogni giorno sul filo tra la vita e la morte. Ogni giorno della loro vita sono obbligati a bere piccolissime dosi di numerosi tipi di veleno, per diventarne immuni. Alcuni muoiono, ma è per un bene superiore... vanno avanti solo i migliori, e molte pedine sono sacrificabili: i più deboli vengono mandati avanti per fornire materiale di ricerca per rinforzare gli altri. Abbiamo provocato piccoli disordini nel vostro feudo per studiare le vostre tecniche e raccogliere campioni del tuo celebre veleno, e devo dire che la cosa ha funzionato, come sempre. Midousuji-sama non sbaglia mai.

Inoltre, non ti farà piacere sapere che in questo momento nelle tue vene – e in quelle di chiunque sia stato a contatto diretto abbastanza a lungo con la mia nebbia - sta circolando una piccola dose proprio della tua miscela perfetta, ma con una piccola modifica fatta dal sottoscritto... spero che apprezzerai l'impegno che ci ho messo nell'imitare il tuo lavoro, maestro” pronunciò l'ultima parola con una nota di scherno, sorridendo.

“Entro tre giorni comunque sarà tutto finito. Sayonara!” sussurrò, agitando una mano in segno di saluto.

Dopo aver girato le spalle parlò ancora, sogghignando “Ah, complimenti per l'ottimo arsenale che ti portavi dietro. Ho dovuto cercare bene e a fondo, è stato davvero mooooolto istruttivo”.

Perlomeno, ora la situazione era molto più chiara.

Tuttavia non riconosceva i sintomi da avvelenamento che gli erano familiari, e iniziò a valutare la possibilità che si trattasse di un bluff, per fargli perdere le speranze e demolirlo più profondamente. Se si fosse trattato solo di salvarsi in effetti mantenere la lucidità sarebbe stato più semplice, ma se anche i suoi compagni e i suoi uomini erano in pericolo e non lo sapevano, allora la situazione era di gran lunga peggiore di quanto pensasse.

Si sforzò di pensare più lucidamente possibile, nonostante il dolore alla base della nuca. Nell'insieme stava bene, anche il formicolìo agli arti era passato... solo la botta alla testa gli dava noia, e quell'assenza di sintomi lo preoccupava più che tranquillizzarlo. Era possibile che il ragazzo dagli occhi di kitsune avesse trasformato il suo veleno da una miscela istantaneamente letale ad una lenta condanna a morte? Tre giorni, aveva detto. Tre giorni e, in un modo o nell'altro, sarebbe tutto finito.

Doveva fuggire da lì, il più rapidamente possibile.

Pioveva.

Poco distante da lì, nella grande tenda del daimyo di Fushimi, aleggiavano nubi nere di rabbia, più minacciose di quelle del temporale incombente. Midousuji camminava avanti e indietro in quello spazio limitato, mentre il suo luogotenente lo seguiva con una mano cosparsa di uno strano unguento dall'odore pungente con l'intento di spalmarglielo sul taglio sul viso, senza ottenere risultati. Il comandante lo ignorava, perso nel suo malumore.

In passato aveva ucciso sottoposti per molto meno, ma Ishigaki non lo temeva. Sapeva quali tasti toccare, anche se era consapevole che, come qualsiasi altra cosa al mondo che non fosse la vittoria, per il daimyo sarebbe sempre stato disgustoso. Sarebbe sempre stato una pedina, esattamente come tutti quelli di cui si circondava. Semplici pedine, sacrificabili in qualsiasi momento. Sapeva di non essere insostituibile. Sapeva che era tutta un'ingiustizia, e quel posto spettava a lui. Ma il feudo di Fushimi dalla salita al potere di Midousuji aveva compiuto una scalata vertiginosa, e partendo da un minuscolo villaggio era giunto ormai a battersi ad armi pari con i grandi feudi di Hakone e Sohoku. In fondo, tra il timore reverenziale e l'obbedienza dovuta al rango, Ishigaki provava una sincera ammirazione. In poco tempo Midousuji aveva costruito qualcosa di grande, qualcosa in cui lui non sarebbe mai riuscito ad eguagliarlo, nemmeno in un'altra vita. Però avrebbe potuto sostenerlo e stare al suo fianco, proteggendolo e permettendogli di proseguire nei suoi successi.

Era stata la sua mossa disperata a scongiurare una sconfitta, quel giorno. Ishigaki ne era orgoglioso, ma Midousuji non sembrava averla presa troppo bene.

Sapeva anche come sarebbe finita: dopo aver definito la sua azione come inutile e superflua, il daimyo gli avrebbe fatto l'enorme favore di lasciargli medicare la sua ferita, con lo sguardo impassibile e una smorfia di fastidio. Poi, per punirlo per essersi immischiato nella sua battaglia, lo avrebbe rimesso al suo posto prima a parole e poi nel futon, godendo nell'infliggergli dolore fisico e continuando a dirgli che era disgustoso, disgustoso, disgustoso.

Sapeva come sarebbe finita, e nonostante tutto lo accettava.

Ashikiba Takuto e Kuroda Yukinari, prima e seconda squadra, erano immobili in piedi sotto la pioggia, davanti alla stanza del daimyo. Gli era stato ordinato tassativamente di non lasciar passare nessuno che non fosse il medico, il quale in quel momento era all'interno con Fukutomi e sussurrava piano, per non turbare il sonno del luogotenente gravemente ferito. La freccia sembrava di un materiale mai visto prima, e aveva trapassato l'armatura come fosse burro. Arakita aveva aperto gli occhi per qualche minuto mentre il dottore estraeva la punta dalle sue carni, aveva bofonchiato qualcosa sull'espressione cupa e spaventosa del daimyo ed era ripiombato nell'oblìo, galleggiando oltre il dolore insopportabile. Perlomeno, i sintomi dell'avvelenamento erano spariti.

Il medico aveva lasciato la stanza dopo più di tre ore, a notte fonda, accigliato e silenzioso. Yukinari, vicecomandante della seconda squadra, gli rivolse uno sguardo interrogativo: il suo punto di riferimento, il suo maestro, colui che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva, non poteva morire per una banale freccia, ed era ansioso di sapere qualcosa. “Sarà il tempo a decidere” borbottò l'uomo, prima di tornare alla grande stanza comune dov'erano stati sistemati gli altri feriti.

La situazione stava precipitando, e la soluzione era una sola. Non poteva permettersi di richiamare le truppe lontane, che avrebbero comunque impiegato troppo tempo a tornare, ma avrebbe sicuramente dovuto chiamare rinforzi. Centocinquanta uomini in quelle condizioni contro cinquecento sarebbe stata davvero una mossa suicida. Ammetteva di aver sottovalutato il nemico, che in poco tempo aveva neutralizzato tutte le tecniche migliori dell'elìte di Hakone e aveva gettato i suoi uomini nello sconforto, anche se cercavano di non darlo a vedere. Lui stesso si sorprese più volte a indugiare con lo sguardo sul suo tantō, l'estrema soluzione in caso di sconfitta. Ma non tutto era perduto, e Arakita sarebbe stato forte. Tutti loro erano forti.

Prese il pennello, sfregò una barretta d'inchiostro e iniziò a scrivere in fretta con tratti aguzzi e decisi, poi fece chiamare un messaggero in grado di percorrere durante la notte tutta la strada fino al feudo di Sohoku, al fine di persuaderne il daimyo e convincerlo a inviare rinforzi. I due feudi avevano un passato di violenta rivalità, ma grazie ad una politica lungimirante avevano stretto da poco un patto di mutua alleanza: in fondo, sarebbero stati l'obiettivo successivo dei famigerati samurai di Fushimi, e unire le forze doveva essere anche nel loro interesse. Non amava dover chiedere aiuto, ma talvolta era necessario. Inoltre, il feudo di Sohoku era rinomato anche per la presenza di un esperto di veleni la cui fama era pari a quella di Toudou, che avrebbe potuto aiutarli a fronteggiare la minaccia e a risolvere il mistero della sua scomparsa.

Izumida si offrì volontario per consegnare il messaggio; alle obiezioni del daimyo, che gli ricordava che era stato ferito poche ore prima e non avrebbe nemmeno dovuto muoversi, si rabbuiò per un'istante e poi ribadì la sua decisione: “Andrò a cavallo, e domani sarò già di ritorno. Lasci che mi renda utile, mio signore, più di quanto in queste condizioni lo sarei in battaglia. Ne va del mio onore, e non la deluderò!”.

Alla fine Fukutomi acconsentì con un sospiro, e guardò il suo sottoposto allontanarsi al galoppo sotto la pioggia, con la loro ultima speranza tra le mani.

Uscito dalla stanza per controllare lo stato dei suoi uomini, il daimyo entrò nella sala comune. Nessuno riusciva a chiudere occhio, chi per il dolore delle ferite e chi per l'attesa spasmodica del giorno seguente. L'umore non era dei migliori, e dovette sforzarsi ad elargire parole d'incoraggiamento per infiammare gli animi, nella speranza che la lotta non si rivelasse vana.

Tornando indietro verso la sua stanza per vegliare Yasutomo indugiò passando di fianco a Shinkai, seduto sul tatami e appoggiato alla parete, sul cui viso stanco gli sembrò di intravedere l'ombra di un sorriso. Rivolse lo sguardo nella stessa direzione in cui guardava il comandante della quarta squadra e sospirò. Dall'interno dell'elmo di Hayato, appoggiato a terra tra le sue gambe incrociate, un minuscolo coniglietto dagli occhi vispi lo stava fissando.

Non appena il daimyo fu rientrato nella sua stanza, un'ombra sgattaiolò fuori dal castello, diretta all'accampamento nemico. Manami sapeva di correre un rischio, ma qualcosa gli diceva che era necessario. Prima di quel momento le sue frecce non avevano mai fallito, e doveva scoprire il segreto di quella kitsune. Come sempre, avrebbe seguito il suo istinto.

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Capitolo 4
*** Red Moon ***


Ebbene, eccone un altro, siccome questa storia ha deciso di tenere occupate le mie notti e farsi scrivere così in fretta, chi sono io per fermarla?
Ringrazio tutti quelli che stanno seguendo e in particolare GrammarNazi95, che ha recensito affrontando la temibilissima connessione del cellulare (che può rivelarsi più subdola di Midousuji XD)... ora visto che sono le 3 del mattino e sto straparlando, sarà meglio che vi lasci alla lettura ~


IV CAPITOLO

Red Moon

 

I fulmini illuminavano quasi a giorno l'accampamento, a intervalli regolari.

Jinpachi continuava a valutare tutti i possibili piani di fuga, mentre con un lento lavoro di sfregamento cercava di allentare le corde grazie a un sasso sporgente dal terreno.

Sobbalzò.

Un fulmine era caduto vicinissimo, e il tuono che seguì deflagrò come una violenta esplosione.

Sentiva il rumore di passi concitati ed esclamazioni agitate all'esterno, ma non gli era dato sapere cosa stesse succedendo. Buon per lui, la confusione gli sarebbe stata d'aiuto.

Dopo due lunghe ore passate a consumare i legacci che lo tenevano immobilizzato, finalmente Toudou riuscì a slegarsi. Le braccia erano annichilite e formicolanti, ma finalmente ce l'aveva fatta. Si liberò del tutto, e invocò i kami della buona sorte che fino a quel momento sembravano averlo abbandonato.

 

Fuori dalla tenda c'erano due guardie armate di tutto punto.

“Certo che hanno proprio paura di un uomo legato e disarmato, ma è inevitabile visto che si tratta dell'illustre sottoscritto” pensò.

Non aveva ancora deciso come agire, quando incredibilmente i kami gli diedero ascolto.

L'ennesimo fulmine colpì un albero, che crollò a terra avvolto dalle fiamme e appiccò il fuoco ad alcune tende, alimentato dalla resina contenuta al suo interno. Le due guardie esitarono, si guardarono per qualche istante e poi andarono a chiamare altri soldati per spegnere in fretta l'incendio. Se davanti ai loro occhi l'accampamento avesse subito danni di qualsiasi tipo che potevano compromettere la vittoria, sarebbero stati obbligati al seppuku. Uno dei due si affacciò all'interno, e Jinpachi fece appena in tempo a buttarsi a terra, fingendo di essere ancora legato e privo di sensi.

Toudou aspettò che si fossero allontanati, poi uscì confondendosi con le ombre notturne, pochi istanti prima che le fiamme attecchissero anche alla tenda dove fino a poco prima era rinchiuso, approfittando della pioggia che andava scemando.

Ancora meglio, il nemico avrebbe pensato che il grande Toudou Jinpachi fosse stato ridotto in cenere... illusi! Con un sorriso vittorioso, dimenticando per un istante tutte le preoccupazioni, si diresse verso il bosco, impaziente di tornare al castello.

Ma qualcuno aveva piani diversi.

In mezzo al sentiero c'erano tre uomini, che ne circondavano un quarto.

Quest'ultimo aveva un enorme arco teso al massimo, con il quale minacciava uno dei tre, che si trovava esattamente davanti a lui, a quattro o cinque metri di distanza. Era una situazione di stallo: nel momento in cui avesse lasciato andare la freccia, gli altri due avrebbero avuto un'ottima occasione per colpirlo a distanza ravvicinata. Non sembrava preoccupato per quella prospettiva, ma continuava a non lasciar andare la coda candida della freccia.

Toudou si nascose dietro un albero, indeciso sul da farsi. Avrebbe potuto fuggire inoltrandosi nel bosco, ma non poteva lasciare Manami in quella situazione. Per quanto fosse assolutamente privo di buon senso e di prudenza (avrebbe scommesso qualsiasi cosa che il daimyo non fosse a conoscenza dell'iniziativa dell'arciere), quel ragazzo sapeva essere davvero un elemento prezioso, ed in fondo era venuto fin lì a salvarlo.

O almeno così sembrava.

 

Doveva creare un diversivo, anche se era disarmato. Un diversivo qualsiasi per risolvere la situazione e tornare con Manami al quartier generale. Questo avrebbe significato mandare a monte la sua possibilità di fuga “silenziosa e senza attirare l'attenzione” ma che poteva farci, lui in fondo era fatto così.

Raccolse un sasso da terra e lo lanciò contro l'uomo più vicino, di spalle, colpendolo alla testa e ritraendosi in fretta tra i cespugli. L'uomo cadde, e gli altri distolsero l'attenzione da Manami per un istante. Solo allora Toudou vide in faccia l'uomo che Sangaku stava tenendo sotto tiro: era di nuovo lui, il bastardo che l'aveva messo in quella situazione. Gli salì un impeto di rabbia incontrollabile, che sfogò quando il secondo, giunto per controllare da dove fosse venuta quella pietra, raggiunse il suo nascondiglio: prese tra le mani la corda con cui era stato legato, che aveva conservato guidato da chissà quale istinto provvidenziale, e nel buio la strinse al collo del samurai, che divenne cianotico e cadde senza un rumore. Tutto questo era avvenuto in pochi istanti, e Manami approfittò del momento di distrazione per far partire la sua freccia, ineluttabile e decisiva.

 

La kitsune scomparve di nuovo come un'ombra, dopo avergli dato l'illusione di averla colpita, e gli riapparve alle spalle, premendogli con le dita un punto preciso alla base del collo. Sangaku sentì una scarica propagarsi per tutto il corpo, come un corto circuito, e si rese conto di non riuscire a muoversi. Braccia e gambe non gli rispondevano, e l'arco, che stringeva ancora in mano, scivolò a terra.

“Toglimi almeno una curiosità prima di uccidermi” disse, la voce innaturalmente calma “Chi sei? E come hai fatto a schivare per ben due volte le mie frecce?”

“Le domande sono già due, Manami Sangaku” rispose il ragazzo volpe, che approfittava dell'immobilità forzata dell'arciere per tastargli i muscoli delle braccia con un'espressione di beatitudine, bofonchiando qualcosa tra sé.

“Il mio nome è Kishigami Komari, e sono un semplice soldato che darebbe la sua vita e perfino la sua anima per servire il daimyo di Fushimi, niente di più” sorrideva, ma nei suoi occhi si leggeva un'altra verità “e adesso che ti ho risposto posso ucciderti, giusto?” ghignò, e premette sulla sua gola un pugnale che Toudou riconobbe all'istante. Il suo pugnale.

Jinpachi sgusciò fuori dal suo nascondiglio, scavalcando il cadavere dell'uomo strangolato. Approfittando dell'effetto sorpresa raccolse un'altra pietra e colpì Kishigami alla testa, il quale lasciò andare il pugnale e cadde a terra come un guscio vuoto.

Toudou recuperò il suo pugnale e la sua scarsella dal corpo privo di sensi di Komari e si voltò verso Manami con un'espressione interrogativa.

 

 

“Fuku-chan?”

Yasutomo aveva male dappertutto e anche solo bofonchiare quelle due parole gli provocò una fitta di dolore.

Aveva fatto uno strano sogno, in cui la luna era rossa e pioveva sangue, e lui era solo in un mare di ossa. Aveva visto abbastanza orrori nella sua vita, ma quella visione l'aveva lasciato turbato, e il sapore ferroso in bocca non faceva che peggiorare la sua sensazione.

Ci mise diversi minuti per mettere a fuoco la sagoma del daimyo accanto a lui, seduto sui talloni e con gli occhi chiusi. Non stava dormendo.

“Chiudere fuori i pensieri è l'unico modo per essere forti”, gli diceva spesso suo padre, indicandogli la scritta 無心 (Mushin, assenza di pensieri) incisa sulla porta del dojo all'interno del castello.

 

A volte, chiudere fuori i penseri è anche l'unico modo per sopravvivere.

 

La voce roca di Yasutomo lo ridestò dal suo silenzio di meditazione, e Fukutomi si avvicinò a lui, cambiandogli la pezza bagnata sulla fronte che scottava ancora di febbre. I ruoli sembravano invertiti, ma il daimyo doveva la vita al suo luogotenente, e non era il momento di formalizzarsi. Arakita sollevò piano una mano e sfiorò il braccio di Fukutomi, poi spostò lo sguardo sulla quantità spaventosa di bende che gli circondavano il torso nudo e imperlato di sudore e sangue e desiderò ardentemente di strapparsele via. La ferita bruciava come un marchio a fuoco e ogni respiro era doloroso, ma un po' ci era abituato. Si era ferito dozzine di volte per proteggere il suo daimyo, ma ne valeva la pena. Se la situazione fosse stata invertita, avrebbe sofferto mille volte di più.

Sarebbe sopravvissuto anche questa volta, per tornare a combattere al suo fianco. Sarebbe stato forte, ma ora voleva solo dormire. Chiuse gli occhi, tornando nel suo mondo immaginario dominato da una luna rossa.

 

 

Izumida cavalcava senza sosta, sapendo che ogni istante era prezioso.

Il suo compito era importante, e doveva recuperare il suo onore. La strada era totalmente buia e il cavallo era irrequieto per i fulmini, ma doveva andare avanti. Doveva andare sempre avanti.

Non sentiva più il pulsare della ferita alla spalla, ma non era sicuro che fosse un buon segno. Non gli importava.

Giunse in vista del castello di Sohoku alle prime luci dell'alba, sfinito.

 

Un uomo massiccio armato di un'enorme lancia gli chiese di annunciarsi, e Touichiro spiegò in fretta la situazione. Riuscì ad avere subito udienza con il daimyo e gli consegnò la lettera di Fukutomi, sperando che le vecchie rivalità personali non adombrassero il giudizio del comandante.

Kinjou Shingo alzò lo sguardo dopo aver letto velocemente la missiva e con un cenno della testa richiamò la guardia che aveva congedato poco prima.

“Prepara le truppe, Tadokoro. Si va a combattere!” ordinò. L'omone s'infiammò subito d'impazienza e corse verso le stanze dei soldati.

Gli occhi di Izumida brillavano. La sua missione era compiuta, c'era ancora una speranza! Dovette controllarsi per non mettersi ad esultare davanti al daimyo, perchè in fondo la vera missione doveva ancora cominciare.

 

“Si va ad Hakone?” un uomo dalla voce nasale e un po' strascicata fece capolino dallo shoji della stanza dove Izumida era stato ricevuto. Gli sembrava di averlo già visto, ma non ricordava in che circostanza. Eppure era un uomo dall'aspetto difficile da dimenticare: portava i capelli lunghi e mossi di una sfumatura che ricordava i boschi ai piedi del monte Hakone, e aveva piccoli occhi chiari dalla forma particolare.

“Sì, Makishima. Il feudo di Fushimi ha attaccato gli uomini di Fukutomi ed è quasi alle nostre porte, dobbiamo giocare d'anticipo e unire le forze. Secondo le informazioni in questa lettera, si tratta di un nemico veramente minaccioso che aspira ad unificare l'intero Giappone. In un giorno di combattimenti hanno ferito gravemente il luogotenente Arakita e... sembra che Toudou Jinpachi, una tua vecchia conoscenza, sia disperso”.

Lo sguardo di Makishima si adombrò per un istante. Nella sua stanza, appoggiata su un tavolino, c'era ancora la lettera speditagli da Jinpachi più di una settimana prima. Non gli aveva risposto, e aveva scacciato il piccione viaggiatore che gliel'aveva recapitata minacciandolo di spiumarlo e arrostirlo, dopo che l'animale lo aveva beccato per ore per costringerlo ad affidargli la risposta. Il volatile ammaestrato non era più tornato.

Quello stupido piccione era stato insistente e irritante come il suo padrone, ma tutto sommato gli sarebbe dispiaciuto se fosse finita così. Inoltre, poiché il suo stile di combattimento era molto simile, ammirava sinceramente le capacità di Toudou nel creare veleni e antidoti e non voleva che il nemico si appropriasse delle sue conoscenze, rivoltandogliele contro.

Molti anni prima avevano studiato con lo stesso maestro, e da allora erano sempre stati in un rapporto di viva competizione, ma si rispettavano profondamente pur appartenendo a feudi diversi. Toudou gli scriveva spesso per raccontargli le sue imprese e gli avanzamenti delle sue ricerche sui veleni, e lui gli rispondeva ogni tanto, quando ne aveva voglia, con messaggi brevi e scarni. Non amava molto scrivere. E tantomeno amava i piccioni viaggiatori.

Si stupì un po' nello scoprirsi seriamente preoccupato, e sparì rapidamente senza una parola nella sua stanza a preparare il suo arsenale, per partire il prima possibile.

 

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Capitolo 5
*** Under Attack ***


Scusandomi per il ritardo pazzesco (abbiate pietà, la tesi mi sta succhiando via l'anima) torno con un aggiornamento per questa fanfic, a cui ormai tengo troppo per lasciarla per troppo tempo çAç Spero che non mi abbiate abbandonato, e che qualcuno avrà ancora voglia di leggere questo mio delirio... (inoltre, spero di poter riprendere ad aggiornare più spesso, e vedrò di impegnarmi a farlo!)

Buona lettura!


V CAPITOLO
Under Attack

Non pioveva più, e a Oriente un pallido sole faceva capolino tra i monti lontani.

L'esercito di Sohoku, con davanti un intero giorno di marcia, avanzava nella nebbia del mattino.

Il silenzio riempito solo dal rumore ritmico dei passi cadenzati non tardò ad essere interrotto da due voci che si rincorrevano e si scavalcavano rimbeccandosi a vicenda, nelle prime file. Nessuno sembrava farci caso, probabilmente perchè ormai doveva essere diventata un'abitudine.

“Allora, sukashi, lo senti il vento della battaglia? Non sei elettrizzato? Peccato che non ti lascerò nemmeno un nemico da abbattere!” la voce, troppo alta e vagamente irritante, apparteneva a un piccoletto dai capelli rossi, che teneva due katana incrociate dietro la schiena e indossava un'armatura completamente rossa, risaltando così in modo esagerato tra gli altri. Il soldato accanto a lui cercò di ignorarlo per un po', ma alla fine il suo amore per il silenzio vinse, e gli rispose a tono per tappargli la bocca.

Senza risultato, visto che Shoukichi Naruko era noto anche come “colui che vuole sempre l'ultima parola”.

Imaizumi Shunsuke all'apparenza era la sua antitesi: capelli scuri, occhi piccoli e taglienti e un'invidiabile calma apparente, che solo Naruko riusciva costantemente a turbare. La sua arma era una oodachi, alta quanto lui, ed era un vero maestro nelle tecniche con la spada lunga; era uno degli uomini più fidati del daimyo, che l'aveva designato segretamente come suo erede.

Tuttavia, nessuno doveva ancora saperlo.

Il sole non era ancora sorto del tutto e già il rosso era riuscito a innervosirlo, e lo aspettava un'intera giornata di cammino. Sospirò.

 

Izumida li precedeva, cavalcando in fretta per poter annunciare al più presto la notizia dell'arrivo dei rinforzi. La spalla gli faceva di nuovo male, ma era un dolore tutto sommato sopportabile. Non vedeva l'ora di tornare al castello e riprendere a combattere, e il dolore in fondo faceva parte del gioco.

 

Non lontano dal castello di Hakone, il celebre Toudou Jinpachi si accingeva a fare il suo ritorno trionfale, nonostante un fardello indesiderato sulle spalle. L'effetto della tecnica di manipolazione che aveva utilizzato Komari necessitava di almeno trenta minuti per svanire, e non avevano tutto quel tempo. Così si era caricato in spalla Manami che ancora non riusciva a muoversi, e che dopo pochi minuti si era perfino addormentato.

A metà strada aveva iniziato a rimpiangere di non averlo lasciato alla mercè degli uomini di Fushimi.

Il sole era sorto quasi del tutto quando finalmente arrivò al castello, con diverse notizie da riferire al daimyo, di cui non sapeva quale fosse la peggiore. Manami sbadigliò rumorosamente e aprì gli occhi, per poi ringraziare Toudou per averlo portato fin lì e allontanarsi con le sue gambe verso il suo punto preferito di osservazione sulla montagna, lasciando a lui l'incombenza di fare rapporto.

“Certe persone non cambiano mai” sospirò tra sé Jinpachi.

Le guardie gli aprirono immediatamente, ma al suo arrivo davanti alla stanza del daimyo ricevette una doccia fredda.

“Il daimyo ha detto di non lasciar passare nessuno, è lì dentro con il luogotenente Arakita gravemente ferito, Toudou-san” gli fece presente il soldato che faceva la guardia alla stanza, ma lui lo sorpassò ed entrò lo stesso.

“Ho notizie che non possono aspettare---” esclamò, facendo scorrere lo shoji con un colpo secco.

Il daimyo alzò gli occhi stanchi con un'espressione interrogativa, seduto a fianco del corpo dormiente di Arakita.

La situazione era anche peggiore di quanto Toudou avesse immaginato.

Per prima cosa informò Fukutomi del vero scopo della nebbia velenosa: tutti loro erano in pericolo, e aveva poco meno di due giorni per sintetizzare l'antidoto per il suo veleno modificato. Si sentiva responsabile per questo, e impotente di fronte ad un intero esercito immune alla sua tossina. Ma doveva farcela, ce l'avrebbe fatta.

Il daimyo lo mise al corrente di tutto ciò che era accaduto da quando era stato fatto prigioniero e delle reali condizioni del luogotenente, e appena Toudou seppe che la freccia che aveva colpito Arakita proveniva dall'arco di quel Kishigami si adombrò.

“Posso vedere la punta di quella freccia?”

Il suo sesto senso non sbagliava mai.

Era impensabile che una semplice freccia causasse un danno simile, e il comandante della terza squadra conosceva gli effetti di tutti i veleni alla perfezione.

“Indebolisce i metalli e ritarda la rigenerazione dei tessuti vivi, debilitando il soggetto fino alla morte...” bofonchiò tra sé “può essere utilizzato solo per intingervi armi forgiate con un metodo particolare, che fa assumere al metallo un colore nero...” continuò, rigirandosi la punta metallica tra le mani.

“Questo nemico non può essere sottovalutato, Fukutomi-sama. Anche questa freccia era avvelenata, con una delle tossine più subdole che conosca. Perfettamente nel suo stile, direi” affermò Toudou, mentre armeggiava con alcune boccette contenute nella sua scarsella. Fortunatamente non mancava nulla, e in pochi minuti preparò l'antidoto specifico. Con due veleni diversi che gli circolavano nelle vene, non riusciva a comprendere come il luogotenente potesse essere ancora vivo.

Aveva veramente una pellaccia dura, quello.

Fukutomi aiutò Arakita a sollevarsi e Jinpachi gli fece bere il composto direttamente dalla boccetta, mentre gocce di sudore freddo gli colavano lungo la schiena e sulla fronte rovente. Arakita si riscosse e tossì violentemente, con la gola che bruciava per l'effetto dell'antidoto, il dolore che pervadeva ogni parte del suo corpo. Tuttavia dopo qualche minuto il male cominciò lentamente a sfumare, diventando più sopportabile. Anche i suoi pensieri erano meno annebbiati, e volle sapere quello che era successo mentre era privo di coscienza. Una volta appresi gli ultimi sviluppi venne preso dalla smania di rimettersi l'armatura per attaccare direttamente il nemico prendendolo di sorpresa, ma dovettero fermarlo in quattro. La ferita era ancora aperta e la febbre ancora alta anche se molto meno di prima, e non avrebbe dovuto affaticarsi. Solo al fermo ordine del daimyo si ridistese nel futon, sbuffando.

Una volta messo a letto il luogotenente capriccioso, Fukutomi uscì dalla stanza con Toudou per qualche minuto. Nessun altro doveva sapere del veleno a effetto ritardato, o il morale delle truppe sarebbe stato annientato dallo sconforto. “Mi fido di te Toudou, so che non mi deluderai” disse con sicurezza, lo sguardo fermo fisso negli occhi del comandante della terza squadra. “Ah, ho inviato Izumida a chiedere rinforzi, quindi se la sua missione avrà successo può darsi che avrai l'aiuto di una tua vecchia conoscenza” aggiunse Fukutomi, criptico.

Il cuore di Toudou mancò un battito, ma fece in modo di non darlo a vedere.

Doveva solo pensare a quel maledetto antidoto, era la priorità assoluta e nessun pensiero avrebbe dovuto distogliere la sua attenzione. Nemmeno quello di rivedere Makishima dopo anni, e forse di poter di nuovo lavorare fianco a fianco, per il medesimo obiettivo.

Corse a barricarsi nelle sue stanze, dopo aver affidato le sue truppe al secondo in comando, e iniziò a studiare come sintetizzare l'antidoto. Il tempo era poco, e non poteva permettersi errori.

 

Nell'accampamento di Fushimi, il daimyo aveva passato il resto della notte a studiare attentamente quale avrebbe dovuto essere la mossa successiva. Aspettava che Komari lo mettesse al corrente sull'avanzamento del piano, ma non si era ancora fatto vedere davanti alla sua tenda. Ishigaki era uscito per un giro di sopralluogo per tutto l'accampamento dopo che un tremante soldato aveva fatto rapporto su alcuni piccoli incendi, e sarebbe tornato a momenti. Il luogotenente però non era al corrente del piano di Komari, e non condivideva i suoi metodi, ma siccome il daimyo lo approvava non avrebbe comunque potuto avere voce in capitolo.

Koutaro tornò dopo mezz'ora e fece rapporto: la tenda del prigioniero era completamente bruciata insieme ad un paio di tende che contenevano suppellettili e cibo per i cavalli, e le guardie giurarono di averlo visto all'interno ancora immobile e privo di sensi pochi istanti prima del fulmine. Midousuji accolse la notizia con una strana risata: in fondo, l'importante era che l'esperto di veleni fosse fuori combattimento per poter annientare il nemico senza ostacoli, non gli serviva per forza vivo. Tuttavia il luogotenente non aveva visto Kishigami da nessuna parte, e ipotizzò che fosse andato nella foresta a cercare ingredienti per i suoi veleni, perchè alcuni uomini gli avevano detto di averlo visto andare in quella direzione.

Spazientito, il daimyo gli ordinò di andare a cercarlo, ma non ce ne fu bisogno.

Un istante dopo, Komari Kishigami apparve sulla soglia, premendosi una pezza di stoffa sulla testa sanguinante.

“Toudou Jinpachi è ancora vivo, Midousuji-sama. È stato un mio errore, prenda pure la mia vita se necessario” il soldato si sedette in ginocchio davanti al daimyo, con lo sguardo basso, aspettando la sua sentenza di morte. Non arrivò.

“Ishigaki, và a chiamare i due soldati che hanno visto il prigioniero nella tenda!” ordinò al luogotenente, che uscì all'istante.

Sapeva che per loro quella chiamata avrebbe significato una cosa sola, e si sentiva parzialmente responsabile.

Per quanto ammirasse il daimyo, non riusciva ad accettare che ogni errore dovesse essere pagato con la morte, senza possibilità di appello. L'unica eccezione sembrava essere Komari, e sebbene Koutaro fosse fondamentalmente un uomo buono sentiva di odiarlo, come se rappresentasse qualcosa di oscuro e minaccioso anche per lui stesso. Era un presentimento o semplice gelosia nei confronti di un soldato che probabilmente aspirava a occupare il suo posto? Non lo sapeva, ma non riusciva a pensare niente di buono.

Poi, decise che non avrebbe condotto deliberatamente quei due soldati alla morte. Non voleva più essere complice di quel sistema, e aveva già visto morire troppa gente senza dover necessariamente uccidere i propri stessi uomini solo per un unico errore. Si sarebbe preso la responsabilità, cercando di far ragionare il daimyo. In fondo, qualche volta, anche lui era in grado di farsi ascoltare.

 

Nella tenda, Kishigami stava informando Midousuji sui nuovi sviluppi del suo piano e sulle contromisure che pensava di prendere: in ogni caso la fine del feudo di Hakone era segnata, ed era impossibile carpire il segreto di quel veleno in così poco tempo. Inoltre gli avversari erano in pesante inferiorità numerica, e questo segnava sicuramente un punto a favore dei guerrieri di Fushimi.

“Ho altri assi nella manica, Midousuji-sama. Li sconfiggeremo ancora prima che il veleno faccia effetto.” affermò Komari, mentre i suoi occhi di volpe rilucevano di un bagliore sinistro.

Il daimyo decise che avrebbero attaccato nuovamente, cingendo il castello d'assedio fino alla totale sconfitta. Dovevano partire al più presto. Ishigaki venne raggiunto dal nuovo ordine poco prima che raggiungesse i due soldati per avvertirli e forse per consigliare loro di disertare, rischiando egli stesso un'accusa di insubordinazione. Tornò verso la tenda di Midousuji, senza fare menzione del suo precedente ordine, e il daimyo lo ignorò.

In poco tempo le truppe di Fushimi furono di nuovo pronte, in marcia attraverso la foresta che separava l'accampamento dal castello. Questa volta l'attacco sarebbe stato quello definitivo, senza dubbio.

 

Manami fu di nuovo il primo ad avvistare il nemico in avvicinamento per il secondo attacco, e si fiondò giù dalla montagna per avvertire il daimyo: in pochi minuti tutti gli uomini che potevano combattere erano pronti a difendersi e a lottare, fino alla morte se necessario.

Fukutomi ordinò ad Arakita di rimanere nella stanza, perchè era ancora troppo debole per combattere, ma il luogotenente non volle sentire ragioni, e arrivò perfino a minacciare il seppuku se il daimyo non gli avesse permesso di seguirlo.

La ebbe vinta.

Nonostante il dolore sordo all'addome e l'equilibrio vacillante, Yasutomo indossò l'armatura stringendo i denti e si fissò le due spade al fianco, seguendo il suo comandante.

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Capitolo 6
*** Devotion ***



VI CAPITOLO
Devotion

Arakita stringeva febbrilmente l'elsa della sua spada, sforzandosi di non pensare. Percepiva chiaramente negli occhi del daimyo qualcosa che non andava, e non poteva essere solo la preoccupazione perché lui aveva insistito per combattere comunque.

Non poteva essere solo quello.

Certo, il momento in cui aveva chiamato nella stanza Kuroda, il suo vice, e gli aveva dato la sua katana chiedendogli di fargli da kaishakunin [la persona addetta alla decapitazione nel suicidio rituale del seppuku, ndA] se il daimyo non lo avesse lasciato uscire in battaglia era stato un colpo davvero basso e lo sapeva bene. Ma non era da Fukutomi avere quello sguardo, come se davanti a lui ci fosse un muro troppo alto da scalare anche con tutta la forza del mondo... ci doveva essere dell'altro, qualcosa che non aveva voluto dire nemmeno a lui.

Probabilmente c'entrava con l'assenza di Toudou, che non era a capo dei suoi uomini nonostante fosse tornato alle prime luci dell'alba.
Doveva ringraziarlo per quell'antidoto, perché si sentiva molto meno debole, anche se il dolore costante gli strappava ancora smorfie di sofferenza, che faceva di tutto per celare ai compagni schierati accanto a lui. I capitani delle squadre accanto al daimyo erano rimasti in tre, e per questo Manami aveva abbandonato il suo posto preferito per combattere a distanza ravvicinata, con una freccia già incoccata e pronta a sibilare al segnale d'inizio della battaglia. Shinkai sembrava pensieroso e inquieto, e si rigirava il suo filo d'erba tra le labbra con una certa smania. Aveva una strana sensazione, che non era causata solo dal dover nuovamente affrontare l'uomo che il giorno prima aveva contrattaccato alla sua tecnica infallibile. Era come se un'ulteriore minaccia stesse aleggiando intorno a loro, e si accorse dagli sguardi dei compagni che il suo presentimento era condiviso.
I due eserciti stavolta si scagliarono uno contro l'altro senza tanti cerimoniali, impazienti di regolare i conti.
Questa volta il daimyo si gettò nella mischia, deciso a combattere con tutte le sue forze per proteggere il feudo. Arakita era come sempre al suo fianco e menava fendenti per coprirgli le spalle, combattendo con la debolezza e il dolore che talvolta gli mozzava il respiro. Ma il daimyo era più importante della sua vita, e non avrebbe voluto essere in nessun altro posto in quel momento.

 

La katana di Fukutomi era un'arma di enorme valore, posseduta dalla sua famiglia da generazioni, caratterizzata da una pietra rossa incastonata nel manico e intarsi d'oro. Stranamente non possedeva un nome, ma era da secoli oggetto di leggende.
In realtà la katana del daimyo era accoppiata ad uno wakizashi dalla medesima fattura, ma Fukutomi non lo teneva al fianco. Egli infatti lo aveva donato anni prima alla persona in cui maggiormente riponeva la sua cieca fiducia: in quel momento la spada corta era assicurata all'obi del luogotenente Arakita, e la pietra incastonata rifletteva debolmente il pallido sole.
Si diceva che quella spada colpisse solo per uccidere, e la grande abilità nel kenjutsu del daimyo contribuiva a rafforzare quella credenza: Fukutomi era noto in battaglia come "colui che non colpisce due volte", e la sua decisione di combattere diede una scossa alla fase iniziale della difesa. Tuttavia il daimyo di Fushimi sembrava scomparso nel caos della battaglia, così come la famigerata kitsune: il comando delle truppe era stato affidato in via provvisoria al luogotenente Ishigaki, che sembrava adottare una strategia militare molto meno aggressiva del giorno precedente, come se dovesse semplicemente prendere tempo. Nel suo cuore solo Fukutomi sapeva che era effettivamente così, e per questo si apriva impetuosamente la strada tra i samurai alla ricerca del comandante nemico, per riprendere la battaglia decisiva interrotta sul nascere il giorno precedente.
Midousuji si trovava nella retroguardia, in attesa del momento propizio per utilizzare un'arma che aveva ottenuto di recente, e che necessitava di una particolare preparazione. Per quanto la sorte di Hakone fosse segnata, non riusciva a resistere alla tentazione di provarne l'efficacia e infliggere maggiori danni a un nemico già sconfitto.
Tutti i soldati di Hakone sembravano combattere al loro massimo, intenzionati a colmare la differenza numerica con la forza fisica, ma anche se molti soldati di Fushimi cadevano la situazione sembrava mantenersi invariata, come se tutto fosse un'illusione.

 

Shinkai si trovò presto in un corpo a corpo con il luogotenente nemico, che aveva dalla sua parte una superba conoscenza della tecnica ma una velocità e una potenza fisica leggermente inferiori rispetto al comandante della quarta squadra. Ishigaki era comunque un osso duro, con una difesa quasi impenetrabile, che sapeva calcolare il momento giusto per ogni attacco e valutare le aperture nella guardia di Shinkai, ma i suoi fendenti erano comunque prevedibili, e questo portò in breve a una situazione di stallo. Shinkai poteva utilizzare la sua tecnica del demone una volta sola, e non poteva permettersi di usarla subito.
 

Manami dal canto suo fremeva, impaziente di combattere contro Kishigami, con cui aveva un conto in sospeso e la cui assenza lo impensieriva quasi quanto quella del daimyo avversario.

Non lo aveva individuato neppure all'inizio della battaglia, ma sapeva che il colpo in testa della sera precedente inflittogli da Toudou non l'aveva ucciso. Percepiva la sua presenza lì intorno ma non lo vedeva da nessuna parte, e reagiva in modo esagerato ad ogni rumore o movimento sospetto, scagliando frecce contro tutti i nemici che gli capitavano a tiro.

Probabilmente la sua assenza era parte di una strategia, un'altra delle sue subdole macchinazioni. Forse voleva che abbassasse la guardia, ma Sangaku non l'avrebbe mai fatto finché non avesse raggiunto il suo obiettivo. Il suo sguardo saettava da un punto all'altro del campo di battaglia, mentre i suoi uomini schierati mantenevano un muro di frecce costante per non far avanzare il nemico oltre le fortificazioni del castello.

Komari avrebbe potuto apparire ovunque e in qualsiasi momento, ma Manami doveva mantenere la mente fredda e assolvere alle sue responsabilità di caposquadra. Sorrise. Per quanto l'incertezza di quella situazione fosse frustrante, erano quei momenti in cui la sua vita poteva finire da un istante all'altro a piacergli di più: l'adrenalina lo faceva sentire onnipotente, e tutti i sensi sembravano potenziati dallo sforzo di sopravvivere. Poteva sentire forte e chiaro il rumore della corda dell'arco che si tendeva sotto le sue dita, il fruscìo del vento tagliato dalle piume bianche della coda della freccia, il rumore secco e deciso di quando colpiva nel segno, anche a decine di metri di distanza. Poteva vedere ogni movimento intorno a lui, come se si estraniasse dal suo corpo, allargando il suo campo visivo. Fu solo grazie a questa sua particolarità che si accorse in tempo della freccia nera che puntava dritta verso di lui, e scartò di lato all'ultimo secondo per evitare che gli trafiggesse un occhio, ottenendo solo un taglio di striscio poco sotto la tempia. Si guardò intorno, alla ricerca dell'arco da cui era partita la freccia, ma in quella direzione non c'era nessuno. Vedere il sangue accese la sua smania, e dopo aver scagliato una freccia verso il punto in mezzo alle fronde da cui gli era sembrato provenisse il dardo nero iniziò a correre in quella direzione, lasciando i suoi soldati al loro compito di difesa. Se la sarebbero cavata bene anche senza di lui.

 

Lontano dal campo di battaglia, in una stanza nel luogo più remoto del castello di Hakone, “il più grande esperto di veleni dell'intero Giappone” (a volte del mondo, quando il suo ego era particolarmente stimolato) fissava il vuoto in cerca di un'illuminazione, circondato da centinaia di bottigliette colorate con etichette con scritte incomprensibili, rotoli e appunti scritti fitti fitti sparsi in ogni angolo della camera.

Aveva già provato almeno una ventina di miscele differenti, pensando a tutti i possibili ingredienti con un effetto ritardante, ma nessuna riusciva a neutralizzare il campione di veleno modificato che aveva raccolto quella mattina appena dopo il suo arrivo, ricavandolo dal corpicino di uno dei piccoli animali che ne erano caduti vittima il giorno precedente. Purtroppo ne aveva raccolta una quantità piccolissima e doveva stare molto attento a non sprecarlo, perciò gli toccava lavorare con estrema premura.

Inoltre non aveva idea di quali sarebbero stati i sintomi dell'avvelenamento con la tossina modificata, e faceva esperimenti praticamente alla cieca. Gli seccava ammetterlo, ma per ottenere un risultato efficace avrebbe dovuto aspettare che i primi sintomi si manifestassero, in modo da capire quale potesse essere l'aggiunta misteriosa.

L'aspetto positivo era che non avrebbe dovuto perdere tempo a sperimentare sui suoi compagni, perchè anche lui era stato esposto a lungo alla tossina e poteva usare i suoi stessi sintomi per esperimenti mirati, quello negativo era che anche il suo tempo era contato, e aveva poco meno di quarantotto ore per trovare una soluzione. Tuttavia non sapeva esattamente quanto i sintomi sarebbero stati debilitanti, e sperava che non gli avrebbero impedito di continuare a lavorare. Stava attento a ogni minimo segnale che il suo corpo gli lanciava, ma tutto sommato stava ancora bene, eccetto la mancanza di sonno e il vago dolore del bernoccolo risultato della botta in testa infertagli il giorno precedente da Komari. Gli veniva da piangere se pensava che aveva davanti ancora moltissime ore di veglia, fino a quando non fosse riuscito a trovare la soluzione. “Tranquillo, se fallirai poi potrai dormire per sempre, Toudou Jinpachi” disse una vocina nel suo cervello, con il tono sibilante e strafottente di Komari.

“Come vorrei che Maki-chan fosse qui...” si lasciò scappare ad alta voce, sospirando mentre cercava febbrilmente una risposta.

 

Fukutomi non credette ai suoi occhi e Arakita si lasciò scappare un'imprecazione una volta che si trovarono di fronte al daimyo avversario. Sembrava che Midousuji Akira, con il viso ancora sfregiato per la ferita inflittagli dal daimyo di Hakone, avesse dato in pasto la sua anima a qualcosa di terribile e ignoto. I suoi occhi acquosi da lucertola fiammeggiavano di una luce sinistra, e stringeva tra le mani davanti a sé l'elsa di un'enorme spada dall'apparenza a dir poco inquietante, perchè sembrava quasi vivere e pulsare di una forza sconosciuta. Su tutta la base della lama vi erano strane decorazioni tridimensionali simili a spire di un serpente o a tentacoli, e i due ci misero un istante di troppo a notare che si stavano muovendo, e che si avvolgevano anche intorno al braccio destro del daimyo fondendosi con la sua armatura.

Il daimyo di Fushimi attaccò per primo, e Fukutomi parò con tutte le sue forze, ritrovandosi a indietreggiare di qualche passo contro la sua volontà. Arakita cercò di sfruttare l'apertura creata dall'attacco, ma per un istante sembrò quasi che la spada di Midousuji avesse cambiato forma solo per assorbire e deviare il suo fendente. Il luogotenente pensò per un attimo di avere ancora la febbre alta (il che comunque era probabilmente vero), ma poi si voltò e vide riflesso negli occhi di Fukutomi il suo stesso sguardo incredulo, e tornò in guardia al suo fianco, evitando con un passo indietro un affondo diretto contro di lui.

“Considererò la vostra ostinazione ad attaccarmi in due come un'ammissione di debolezza, degna degli scarafaggi che siete” sibilò Midousuji tra i denti, sorridendo.

 

Dopo un tempo infinito di combattimento senza sosta, sembrava non potesse esserci una soluzione al confronto tra Shinkai e Ishigaki se uno dei due non avesse tirato fuori un asso nella manica: il comandante della quarta squadra si era quasi deciso ad utilizzare la sua tecnica, stanco della strenua resistenza dell'altro che puntava al logoramento dei suoi nervi. Tuttavia il modo di combattere di Ishigaki Koutarou era molto diverso da quello del suo comandante: non vi erano attacchi a sorpresa, finte o colpi bassi, era tutto studio attento e misurato dell'avversario, intriso di una forza data solo dalla concentrazione e dalla devozione alla sua causa, oltre che da anni di intenso allenamento all'ombra di un daimyo che occupava il posto che avrebbe dovuto essere suo.

Combattevano come in una danza, ed entrambi deviavano e incassavano colpi che risuonavano contro il ferro e il cuoio delle armature, in un lento logoramento che sembrava non avere fine.

Eppure bastò un attimo: Ishigaki trovò un'apertura nella guardia di Shinkai e si lanciò all'attacco, ignaro che si trattasse di una finta. Shinkai scartò in un istante e seppe approfittare dell'improvvisa vulnerabilità del luogotenente: con un balzo in avanti mirò un fendente talmente potente da tagliare a metà la corazza di Ishigaki come burro, disegnando sul petto dell'avversario un profondo taglio diagonale. Koutarou cadde in ginocchio.

Hayato fece un passo avanti e minacciò la gola del luogotenente di Fushimi, fissando il suo sguardo nei suoi occhi scuri e fieri, nonostante tutto.

Poi, per un istante, mentre alzava la spada per porre fine a quell'interminabile duello e alla vita di Ishigaki, di colpo a Shinkai mancò il respiro e iniziò a tossire, come se stesse soffocando per qualche motivo sconosciuto. Sentiva un sapore vagamente ferroso, e pensò che nella foga della battaglia doveva aver preso un contraccolpo più forte degli altri o che gli fosse schizzato in bocca un po' del sangue del nemico nel momento dell'attacco precedente. Riprese subito il controllo di sé, ma quel momento di distrazione era bastato al luogotenente per rialzarsi sorreggendosi con la spada e allontanarsi dal suo avversario, come se fosse guidato da un presentimento o una forza invisibile verso il punto dove i due daimyo combattevano. Era ferito, ma avrebbe ancora potuto fare qualcosa.

 

Midousuji rideva, con lo sguardo fisso negli occhi di Fukutomi, mentre lo incalzava senza un attimo di pausa. Arakita cercava di tenere lontani i soldati di Fushimi dal combattimento tra i due daimyo, in modo che non interferissero: al comandante era bastata un'occhiata per fargli capire che non voleva più che intervenisse, e lui era tornato al suo posto. C'erano mille modi in cui poteva supportare il suo signore in quel momento, in fondo, e si rendeva conto lui stesso che non avrebbe potuto tenere testa a Midousuji a lungo, in quelle condizioni.

Fukutomi schivava e parava i colpi sempre più rapidi e ravvicinati della spada dell'avversario, che non sembrava essere minimamente stanco e continuava a sorridere. Ad un certo punto Midousuji sembrò perdere per un istante il suo baricentro e si sbilanciò all'indietro, mentre caricava un colpo dall'alto più potente degli altri: Fukutomi non perse l'occasione di mirare alla sua gola, sempre rigorosamente scoperta, ma mentre la sua spada si trovava ancora a mezz'aria il tentacolo di metallo si srotolò parzialmente dalla lama e saettò come una frusta nella sua direzione, avvinghiandogli il polso e iniziando a stringere.
Le spire iniziarono ad avvolgersi risalendo il braccio del daimyo, che cercava di divincolarsi e non lasciar cadere la spada, tentando di scrollarsi via il serpente metallico con movimenti bruschi e decisi, senza risultati. Più si muoveva e più le spire stringevano, e Fukutomi iniziava a faticare a mantenere la sua espressione impassibile. Cercò di liberarsi con uno scrollone più potente degli altri, e capì troppo tardi che era stata una pessima idea. Sentì un terribile scricchiolio e poi il rumore di qualcosa che si spezzava, quindi un dolore bruciante si irradiò dal suo avambraccio. Quell'arma infernale stava cercando di frantumargli le ossa, e ci stava riuscendo.

 

Midousuji iniziò a ridere più forte.

Era una risata spaventosa, ma si accordava perfettamente all'aura di minaccia emanata dal daimyo.

 

È così divertente vedere gli insetti combattere per la loro vita quando sono intrappolati” pensava.

Incalzò Fukutomi da subito, deciso a porre fine una volta per tutte a quel combattimento, anche se in realtà avrebbe preferito divertirsi ancora un po', vedendolo soffrire lentamente mentre assisteva al macabro spettacolo dei suoi uomini che morivano come mosche... ma in fondo quello stratagemma del veleno era solo una sicurezza ulteriore per il suo piano già perfetto, preferiva mille volte fare a modo suo.

Voleva una vittoria assoluta e schiacciante.

Nello stesso istante, come comandata da una forza misteriosa, la pietra incastonata nella spada di Fukutomi iniziò a brillare di una pallida luce cremisi, così come lo wakizashi alla cintura del luogotenente, che stava combattendo con due soldati di Fushimi poco lontano. Arakita si girò di scatto, e vide che il daimyo era in difficoltà. Con un fendente e un affondo si liberò di entrambi gli avversari, ma la sua Ookami rimase incastrata tra le placche dell'armatura di uno dei due, rimasto a terra morente. Non aveva tempo per estrarla, e sfoderò lo wakizashi illuminato da un vago bagliore rosso iniziando a correre in direzione del daimyo.

Quello che accadde nell'istante in cui colpì il serpente argenteo fu una sorpresa per tutti, perfino per Midousuji.

Una scossa si irradiò dal punto di contatto delle spade, talmente forte da far vibrare il terreno, mentre la luce delle due pietre rosse esplose in un flash accecante. Arakita venne sbalzato all'indietro dalla forza sconosciuta racchiusa nell'arma di Midousuji, sbattendo con la schiena contro un albero poco lontano.

Perse i sensi.

Tuttavia le spire si rilasciarono con un rumore sordo e sferragliante, tornando ad avvolgersi intorno alla spada infernale e lasciando le protezioni del braccio di Fukutomi totalmente distrutte, con alcune schegge che gli avevano perfino penetrato la carne, mentre il dolore si irradiava in tutto il suo avambraccio. Ma non aveva importanza, il daimyo doveva continuare a combattere. Se anche tutte le sue ossa si fossero sbriciolate, non avrebbe mai permesso al signore di Fushimi di prendere ciò che era suo. Per qualche minuto non riuscì a vedere nulla, ma rimase in guardia stringendo la spada senza vacillare nonostante il dolore.

Una volta che ricominciò a distinguere le forme intorno a lui, capì che era la sua unica occasione.

Dal poco che riusciva a capire nel mondo in dissolvenza che lo circondava, Midousuji sembrava ancora disorientato e accecato dalla luce.

 

Shinkai si riscosse un secondo troppo tardi, più o meno nello stesso istante in cui si rese conto che non riusciva più a sentire le dita della mano sinistra. Probabilmente la ferita del giorno prima si era riaperta. Perse la calma, e il filo d'erba che aveva tenuto tra le labbra durante tutto quel tempo cadde a terra.

Hayato si lanciò verso l'avversario, che con una traiettoria casuale e confusa era quasi riuscito a raggiungere l'estremo limitare del campo di battaglia. Ora era una sua responsabilità, non lo aveva ucciso quando avrebbe dovuto e se fosse successo qualcosa sarebbe stata solo colpa sua.

 

Manami l'aveva fatto di nuovo.

Una scelta incosciente, senza valutarne minimamente le conseguenze.

Da solo, nella foresta che circondava il campo di battaglia, senza nessuno a coprirgli le spalle. Solo con il suo arco, la sua spada e una quantità di adrenalina tale da giustificare qualsiasi cosa. Komari era lì, lo sentiva. Per quanto all'interno della gerarchia del feudo di Fushimi sembrava fosse un semplice soldato, era stato fino a quel momento l'elemento più problematico dell'attacco nemico, e Sangaku non poteva perdonargli lo smacco della notte precedente. Non riusciva a intuire il limite delle capacità del suo avversario, che sembrava possedere grandi abilità sia nel combattimento a distanza che nella creazione di veleni, oltre che una certa conoscenza delle tecniche ninja di manipolazione. Eppure doveva avere un punto debole, e anche il comandante della sesta squadra non aveva ancora messo allo scoperto tutte le sue carte.

Era il momento di scoprire chi fosse il migliore.

In quell'istante un'altra freccia partì dall'alto, da un punto imprecisato sopra la sua testa. Questa volta si trattava di un semplice dardo di legno scuro con una punta in ferro e quattro piume striate di azzurro a ornarne la coda affusolata. Sentendola arrivare, Manami sguainò la spada e la intercettò a mezz'aria, e un istante dopo Kishigami Komari fece la sua comparsa, scendendo dall'albero subito davanti a lui con un balzo. Aveva una benda intorno alla testa, ma la sua aura di minaccia non era per nulla cambiata. L'arco che aveva scagliato le due frecce doveva essere rimasto sull'albero, e stringeva nella mano destra una kusarigama (una falce da combattimento con una catena e un peso all'estremità, ndA), dimostrando di essere preparato anche al combattimento a distanza più ravvicinata; nel medesimo istante i due coprirono con due ampie falcate i pochi metri che li separavano.

Per quanto la specialità di Manami fosse il kyudo, aveva anche discrete abilità nel kenjutsu, anche se pochi ne erano a conoscenza. Arakita una volta nel dojo del castello lo aveva chiamato “bambino prodigio”, perchè lo aveva preso di sorpresa strappandogli un memorabile ippon (un punto per un colpo mandato a segno, dalla terminologia del kendo ndA) durante un addestramento, diversi anni prima, ma poi Sangaku aveva perso l'incontro in modo altrettanto memorabile, perchè aveva la testa troppo tra le nuvole e odiava le regole.

Si basava però sull'istinto, e i suoi attacchi erano spesso talmente avventati e imprevedibili da andare a segno il più delle volte. In realtà amava troppo la libertà e la sensazione di potere che provava tirando con l'arco, e con la spada tendeva a combattere al suo massimo fin da subito stancandosi in fretta, anche a causa degli strascichi della salute debole che aveva avuto da ragazzino.

 

In una frazione di secondo Fukutomi decise di attaccare, mentre ancora il mondo tutto intorno a lui era composto da ombre confuse. Strizzò gli occhi.

Il dolore del braccio lo aiutava a concentrarsi, e la sagoma inconfondibile di Midousuji era lì, di fronte a lui.

Poi, fu un attimo.

Un affondo disperato e cieco, dritto davanti a sé.

Il rumore viscido della spada che trapassa la carne da parte a parte, come al rallentatore.

 

Poi, i suoi occhi tornarono normali. Il mondo non era più bianco, anche se era ancora leggermente appannato.

Davanti a lui, un'altra volta, il luogotenente di Fushimi gli aveva impedito di mandare a segno l'attacco decisivo.

Tuttavia, questa sarebbe stata l'ultima.

Anche Midousuji aveva recuperato l'uso della vista, e davanti al sacrificio del suo luogotenente rimase in silenzio.

Fukutomi era impietrito, e così Shinkai a pochi passi da lì, che aveva assistito alla scena.

 

Koutarou sorrideva.


Ed è finito anche questo... mi scuso di nuovo per il ritardo perchè il disagio da tesi scorre potente, anche se cerco di sforzarmi di aggiornare con intervalli di tempo ragionevoli XD Spero di essere riuscita a catturare almeno un po' l'attenzione di voi che siete arrivati fin qui, visto che è la prima volta che scrivo una fanfic così lunga (e che probabilmente avrà ancora altrettanti capitoli), e che non ci sia troppa gente che se la prenderà con me per la sorte del povero Ishigaki (giuro che è stato lui il motivo del mio ritardo, il capitolo era pronto già due settimane fa ma finirlo è stata un'impresa...) ^^''

Detto ciò, grazie per aver letto e alla prossima!

_Kurai_

 

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Capitolo 7
*** Retreat ***


Capitolo VII

Retreat


C'era qualcosa che non andava.

Non riusciva a definire precisamente cosa, ma ne era certo.
L'aveva notato anche poco prima con i suoi uomini in mezzo alla battaglia: i colpi andavano a segno molto meno del solito, la spossatezza assaliva le membra di guerrieri abituati a combattere molto più a lungo, gli errori fatali si moltiplicavano.
Sangaku inizialmente aveva pensato che si trattasse del morale delle truppe, in inferiorità numerica schiacciante e incalzate da un nemico particolarmente minaccioso, poi aveva ricordato la nebbia velenosa del giorno prima e l'espressione seriamente preoccupata di Toudou la notte precedente: la sua assenza e quella spossatezza generale dovevano avere un collegamento. E sentiva che Komari ne era la chiave.

Il ragazzo kitsune danzava con la sua falce acuminata in una mano e la catena nell'altra, in attesa di un suo passo falso. Non attaccava, ma si limitava a parare i suoi colpi e a cercare di intrappolare la sua lama con la catena della kusarigama. Che sapesse della sua scarsa resistenza ai lunghi combattimenti corpo a corpo?

Non doveva pensarci, non era il momento.
Non poteva lasciare che il sospetto lo indebolisse. Si concentrò, seguì i movimenti apparentemente imprevedibili di Kishigami e riuscì a individuare uno schema: prima di attaccare con la catena faceva un impercettibile passo in avanti col piede destro, mentre quando contrattaccava con la falce spostava prima il peso verso sinistra. Poteva prevedere le sue mosse, per quanto l'arma dell'avversario fosse subdola e insidiosa. Il suo intuito colpì nel segno: mirò un affondo nel momento in cui Komari si preparava a contrattaccare, aprendogli un taglio sul fianco scoperto e passando oltre. 

Manami però si accorse un istante troppo tardi di essere caduto nella sua trappola: la catena si ancorò saldamente al suo piede sinistro per limitare i suoi movimenti, cercando di fargli perdere l'equilibrio.
Si rimise in guardia, cercando nel profondo del suo animo quella calma che provava solo sulle pendici della montagna, quando si allenava con l'arco in solitaria. 
Bastava fargli perdere la presa, e si sarebbe liberato in un attimo.

Era emozionante, e il cuore che batteva a mille nel suo petto gli ricordava con ogni battito che la sua vita era sul filo di una lama, e che danzare sulla mano della morte era così dannatamente divertente.

Con un movimento rapido, Sangaku scartò nella direzione opposta a quella della catena e mirò la mano di Komari, con un fendente preciso che gli recise di netto le prime due falangi delle dita che stringevano le maglie metalliche, cosicchè la stretta di colpo si allentò. Kishigami non sembrò provare dolore, ma i suoi occhi si accesero di una rabbia incontrollabile.
Manami era libero. Approfittò dello slancio per ributtarsi in avanti, la punta della lama diretta in mezzo a quegli occhi innaturalmente azzurri, che sembravano pugnalarlo solo con uno sguardo.

E poi, eccolo.

Quell'istante che può decidere il destino di una persona, quella minima vibrazione della lama che divide la vita dall'abisso. 
Per un lunghissimo momento, a metà dell'affondo, il mondo davanti ai suoi occhi si confuse, come se tutt'intorno ogni cosa si stesse sdoppiando. Anche la sua lama perse la traiettoria, e nello stesso istante sentì un dolore bruciante al centro della schiena. Si riscosse appena in tempo per capire che si trattava di uno shuriken, e che Komari sicuramente aveva dei rinforzi sugli alberi lì intorno.

"Ecco la differenza tra me e te, Manami Sangaku. Io studio accuratamente le mie mosse" sibilò Kishigami, parlando per la prima volta dall'inizio del combattimento.
Sentì di nuovo la catena avvolgere la sua caviglia, stretta dalle mani sanguinanti del suo avversario, ma vi erano anche mille catene invisibili che lo immobilizzavano, ramificandosi nei suoi nervi a partire dalla ferita sulla schiena. Gli si gelò il sangue, mentre cadeva all'indietro a causa di uno strattone della kusarigama, incapace di contrastarlo. La caduta spinse la lama dello shuriken ancora più a fondo. Era paralizzato, un'altra volta.
"Tranquillo, non è veleno. Non morirai per questo. Quando incontro qualcuno alla mia altezza, mi piace divertirmi" sussurrò Komari, avvicinandosi pericolosamente al suo viso con la lama della falce.
Manami capì. Voleva distruggerlo a poco a poco, smontarlo pezzo per pezzo. Quanto può essere crudele un essere umano? 

O forse non era... umano?

Poi, sentì solo il dolore totalizzante della lama ricurva che penetrava lentamente nel suo bulbo oculare, e non potè fare altro che urlare, mentre il sangue caldo gli imbrattava il viso.
Poi, quel suono.
Il segnale della ritirata.
Komari si fermò, indeciso per un attimo sul da farsi. Poi estrasse la lama di scatto, portandosi dietro una nuova esplosione di dolore, e svanì tra gli alberi.
Il mondo si confuse in una nebbia rossa, e poi tutto fu nero.

---

Il campo di battaglia sembrava caduto nel silenzio più totale.
Almeno quella fu la percezione di Shinkai, nel momento in cui la battaglia tra i due daimyo incontrò un nuovo stallo, a causa dell'intervento suicida di Koutarou.
Ishigaki guardava la lama che attraversava il suo petto con lo sguardo sempre più annebbiato, e voltò il viso per incontrare gli occhi del suo daimyo. Non che si aspettasse gratitudine o riconoscenza, nemmeno per l'estremo sacrificio.

"Sei sempre disgustoso, Ishigaki-kun."

Koutarou cadde in ginocchio, e la sua risposta si perse nel vento.
Midousuji scavalcò il cadavere e si lanciò nuovamente verso Fukutomi, senza alcuna esitazione o emozione.
Il daimyo di Hakone parò l'attacco con la katana appena estratta ancora imbrattata del sangue di Ishigaki, ma indietreggiò di qualche passo rischiando di perdere l'equilibrio, perchè l'osso infranto del suo braccio cedette di colpo, strappandogli una fitta bruciante che risalì fino alla spalla.  Strinse i denti.
Con la coda dell'occhio vedeva il corpo inerte di Arakita a pochi metri da lui, e un vago senso di colpa andava facendosi strada oltre la sua scorza di guerriero.

Midousuji invece sembrava sempre meno umano: il luogotenente gli aveva salvato la vita due volte e la sua morte non aveva avuto alcun effetto su di lui. Voleva forse costringere anche Fukutomi a perdere la sua umanità per affrontarlo ad armi pari?

Shinkai si riscosse dalla sua trance e si accorse della difficoltà del daimyo: per quanto cercasse di resistere al suo meglio, col braccio in quelle condizioni non poteva reggere a lungo.
Con Arakita fuori combattimento, la responsabilità di proteggerlo era tutta di Hayato: lui era il terzo uomo più forte, era il suo compito difendere l'onore del feudo. Inoltre nel suo cuore stava salendo la rabbia per come il daimyo di Fushimi aveva sminuito il sacrificio del suo uomo più devoto, che contro di lui aveva combattuto a testa alta da vero samurai, oltre che per il conto in sospeso rimasto dal giorno precedente.
Comunicò la sua risoluzione al daimyo con uno sguardo, e anche Fukutomi convenne a malincuore che era la soluzione migliore, e affidò il suo onore nelle mani del capitano della quarta squadra.

Con uno scatto Hayato balzò al posto del daimyo, che reggendosi il braccio ferito raggiunse il luogotenente nel tentativo di difenderlo da possibili attacchi. Yasutomo, nonostante i suoi ordini, si era di nuovo ferito per proteggerlo. E la strana reazione delle due spade lo confondeva, aggiungendo alla situazione già complicata una nuova domanda senza risposta.
Inoltre, la consapevolezza che il veleno si stava diffondendo nei loro corpi non gli permetteva di ragionare lucidamente: scoprire che le vite dei suoi uomini erano appese a un filo indipendentemente dalla loro sorte in battaglia scalfiva anche la sua aura inattaccabile. Doveva riconoscerlo, gli uomini di Fushimi erano sicuramente campioni di strategia. Se soltanto i rinforzi fossero già arrivati...

Arakita aprì gli occhi, sentendo la pressione della sua mano sulla spalla attraverso l'armatura.
"Fuku-chan... devo tornare... a combattere" 
I suoi occhi fiammeggiavano, ma il suo corpo non avrebbe potuto reggere oltre.
"Ora stai fermo, Yasutomo." Il tono e lo sguardo del daimyo non ammettevano repliche, e un gruppo di soldati della prima e della seconda squadra si concentrarono intorno a loro, regalando ad entrambi un momento di tregua.

---

A Shinkai sembrava un dejavu.
Mancava poco al tramonto, e la sua ombra lunga si proiettava sul terreno insanguinato, di fronte a quella del daimyo nemico, più alto di lui di una spanna e sottile come un serpente.
Si accorse che Midousuji ansimava impercettibilmente, a tempo con le strane pulsazioni che attraversavano la sua lama, come se... no, non poteva essere. Che si trattasse di una spada viva, che assorbiva la sua energia? In quel caso, forse Hayato avrebbe avuto una possibilità.

Il giorno precedente la sua tecnica personale aveva fallito, ed era in piena forma.
Sapeva che se il daimyo di Fushimi fosse stato nel pieno delle forze avrebbe fallito di nuovo, visto che la sua ferita aveva ripreso a sanguinare copiosamente e la mano era diventata quasi del tutto insensibile. Forse avrebbe dovuto farsi medicare decentemente, ma ormai era tardi per pensarci. Aveva ancora abbastanza energie per scatenare la sua tecnica del demone al massimo della potenza, anche se la sua strategia somigliava paurosamente ad un'ultima speranza. Però poteva farcela, doveva farcela.

Midousuji gli stava ridendo in faccia, e sembrava aspettare che lui attaccasse per primo.
Non una traccia di un'emozione qualsiasi si intravedeva nei suoi occhi.
Shinkai accettò l'invito, prese un respiro profondo e si trasfigurò, sparendo per un istante. La prima raffica di fendenti venne nuovamente assorbita dalla lama del daimyo, uno dopo l'altro, senza vacillare.
Ma Hayato aveva ancora un asso nella manica.
Sarebbe stato un rischio considerevole, ma era pronto ad affrontarlo.
La spada di Midousuji era sproporzionata e più lunga e pesante della sua, perciò questa volta non avrebbe potuto adeguarsi alla sua velocità quadruplicata. Alla luce di questo, Shinkai quintuplicò la velocità in uno scatto disperato, invertendo allo stesso tempo la guardia, per rendere imprevedibile lo schema del suo attacco. La pelle pallida e tesa del collo lungo e scoperto di Midousuji era lì, a un soffio dalla punta della sua katana.

Avrebbe giurato su qualsiasi cosa che la sua spada avesse colpito nel segno.
Spostò tutto il peso in avanti per affondare il colpo, ma in quel preciso istante l'immagine di Midousuji davanti a lui sparì come il riflesso di uno specchio.

Prima che potesse accorgersene, e con i movimenti e i riflessi rallentati per aver utilizzato gran parte delle sue energie residue, Shinkai venne colpito da un colpo di taglio da vicinissimo. Midousuji si era spostato ad una velocità di poco superiore alla sua, tanto che perfino lui non era riuscito a seguirne il movimento. Il peso della spada non l'aveva ostacolato minimamente.
Il contraccolpo gli tolse il respiro. L'armatura aveva retto e non era ferito, ma probabilmente si era incrinato qualche costola; rimase comunque in piedi in posizione di difesa, cercando di recuperare le energie almeno per resistere ad un nuovo attacco.

L'attacco non arrivò.

In compenso, uno scalpiccìo di cavalli accompagnato dalla marcia cadenzata di un folto gruppo di samurai attirò l'attenzione di tutti i combattenti, che videro apparire all'orizzonte il vessillo di Sohoku.

"Sei talmente disgustoso che non vale la pena di impegnarsi oltre. La fine per tutti voi è comunque imminente, e non avrai una morte onorevole in combattimento. Del resto, tutti voi siete così disgustosi che i vostri rinforzi sono arrivati solo adesso che il buio sta per scendere. Dormite il vostro sonno di morte, anche il mio sonno sarà dolce pregustando le vostre ultime ore!" Midousuji Akira rinfoderò la spada, che srotolò docilmente le sue spire dal braccio del daimyo di Fushimi, lasciandovi estesi lividi rossi. 

Fukutomi ordinò di suonare la ritirata.
Era costretto ad ammetterlo: per quanto loro fossero ancora vivi il bilancio di quella giornata era una disfatta, e poteva biasimare solo sè stesso. Solo l'arrivo delle truppe del feudo alleato li aveva salvati, e non era nemmeno una notizia del tutto positiva. Le perdite erano state pesanti, e in pochi erano ancora in grado di combattere.
---
Jinpachi era così concentrato sui suoi appunti ed esperimenti da aver tagliato fuori tutto il resto. Per questo sentire il segnale della ritirata lo fece sobbalzare, e ci mise qualche secondo di troppo a tornare alla realtà. Riprese il controllo di sé e uscì in fretta dalla stanza, deciso a controllare lo stato degli uomini. Non doveva perdere tempo, ma non poteva delegare nessuno perché gli  facesse rapporto. Inoltre aveva un presentimento, e doveva necessariamente controllare di persona.
Non appena i combattenti rientrarono nelle mura del castello la prima cosa che notò fu Arakita, che camminava al fianco del daimyo. Com'era possibile che fosse riuscito ad uscire a combattere e a tornare sulle sue gambe - seppur barcollante - in quelle condizioni?
Certo, dal suo colorito non sembrava troppo in forma, ma nessuno aveva una bella cera. Era evidente che l'effetto ritardato del veleno stava iniziando a presentarsi. Fukutomi teneva il braccio destro abbandonato lungo il corpo, e sembrava ferito piuttosto seriamente, ma tutta la sua attenzione era rivolta altrove. Tutti i superstiti rientrarono nel castello, ma non diede l'ordine di chiudere l'entrata principale.
Un rumore di passi cadenzati annunciò l'ingresso degli alleati di Sohoku, a cui sarebbe stata offerta ospitalità dentro le mura di Hakone.

Il cuore di Toudou mancò un battito.
Il suo sguardo saettò in tutte le direzioni. 
Non c'era. Non c'era da nessuna parte.
Non solo non aveva risposto alla sua lettera, ma... in un momento simile... lo aveva abbandonato al suo destino?
Non che non avesse fiducia nella sua capacità di risolvere l'enigma del veleno (anche se lentamente il suo ego stava iniziando a vacillare), ma l'incertezza di non sapere quando si sarebbero presentati i primi sintomi lo rendeva meno lucido, e la presenza del suo vecchio amico-rivale al suo fianco come alleato gli avrebbe fatto realmente comodo.
E poi... gli mancava.
Non l'avrebbe mai ammesso in sua presenza, ma provava un'enorme nostalgia dei tempi in cui avevano studiato insieme. Ottenere risultati e vittorie personali da solo non era più così divertente, da quando era entrato a pieno titolo nell'èlite di Hakone.
Poi, mentre stava per girare i tacchi e tornare nelle sue stanze con un nuovo carico di frustrazione, lo vide.
Makishima Yuusuke stava in disparte, seduto su un ramo del grande sakura al centro del giardino esterno. Tra le dita teneva un kiseru, da cui usciva una sottile lingua di fumo.
Toudou si avvicinò all'albero, dimenticando in un istante tutte le sue preoccupazioni.
"Vedo che non sei cambiato affatto, Maki-chan."
L'uomo dai lunghi capelli color smeraldo sobbalzò, e il kiseru rischiò di scivolargli dalle labbra sottili. 
"Mi avevano detto che eri disperso, Jinpachi".

 
Ed è finito anche questo... che dire, volevo andare più avanti nella storia ma già in questo capitolo accadono un sacco di cose, quindi non ho voluto appesantirlo ulteriormente con altra suspence XD Grazie per la recensione alla fedelissima GrammarNazi95, che ha sempre un sacco di belle parole che mi commuovono çAç
La tesi è in dirittura d'arrivo quindi si spera che i prossimi capitoli verranno partoriti in tempi più brevi, anche perchè qui ho lasciato il povero Manamee a dissanguarsi da solo in un bosco e non sarebbe carino lasciarlo lì a lungo (questo per tutti quelli che mi hanno fatto notare che faccio soffrire sempre tutti tranne il mio bubino preferito, ecco XD)
... quindi, alla prossima!

_Kurai_

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Capitolo 8
*** Pain ***


Capitolo VIII
Pain


Era rimasto indietro un'altra volta.
Aveva insistito per seguire il contingente inviato ad Hakone, pieno di eccitazione per poter avere finalmente l'occasione di andare in battaglia con l'esercito di Sohoku, ma probabilmente non era davvero pronto. Onoda Sakamichi aveva terminato da pochissimo tempo l'addestramento, e quell'occasione sarebbe stata per lui un vero e proprio "battesimo del fuoco".

Se quelle erano le premesse però, sarebbe stato meglio se fosse rimasto al castello.
I piedi gli facevano male, la vista gli si annebbiava continuamente e le protezioni erano allacciate troppo strette. Si era fermato già più volte per sistemarsele meglio addosso ma aveva finito per restare indietro, perdendo di vista gli altri uomini.
Se non fosse stato per Naruko e Imaizumi, forse sarebbe rimasto al villaggio a coltivare i campi con sua madre: lui non era fatto per diventare un guerriero, dentro di sè lo sapeva. Ma vedere i suoi due più cari amici affermarsi ed entrare nell'èlite in pochi anni aveva acceso in lui la voglia di mettersi alla prova, nonostante il limite fisico della sua statura minuta e della sua debolezza. Loro lo spronavano, ma lui non era fatto per l'arte della spada. Teneva una kodachi al fianco, ma l'aveva sguainata pochissime volte. 

In realtà non sopportava la vista del sangue, ma nessuno doveva saperlo: era il motivo principale per cui aveva iniziato ad allenarsi con l'arco, più per esclusione che per reale passione. Poi aveva capito che diventare un arciere gli avrebbe permesso di partecipare alle battaglie senza dover necessariamente vedere il sangue da vicino, difendendo allo stesso tempo le persone che gli erano care. Allora aveva sentito un moto di orgoglio, e pian piano si era motivato sempre di più a continuare.

Questa volta però non si era fermato per le protezioni troppo strette, ma perchè aveva individuato qualcosa tra i cespugli, sul limitare della strada che l'esercito stava percorrendo alla volta del castello di Hakone.
Si era avvicinato e aveva trovato una freccia di pregiata fattura, con la punta affilatissima e una coda di piume bianche perfettamente sagomate. Aveva indugiato a contemplarla e poi aveva sentito un urlo di dolore straziante proveniente da un punto poco distante, tra gli alberi. Gli altri erano già lontani, ma sentiva di dover capire da dove venisse. Si inoltrò nel bosco, attento a non fare rumore col suo passaggio.

Poi, un altro suono lo fece sobbalzare: era l'eco lontana della ritirata che rimbalzava tra le montagne. Un istante dopo l'urlo sfumò, e un fruscìo a pochi passi da lui annunciò la presenza di qualcuno che si stava dirigendo proprio nella sua direzione. Si nascose appena in tempo dietro un albero, mentre un lampo azzurro lo sorpassava, diretto verso il campo di battaglia.
Metà del viso di Komari era imbrattato di sangue non suo, e Onoda potè vederlo chiaramente leccarsi le labbra con un'espressione di sadico piacere mentre gli passava accanto. Il piccolo arciere di Sohoku si congelò sul posto.

Non riusciva a quantificare quanto tempo fosse passato quando decise di uscire dal suo nascondiglio, e avanzò ancora per qualche passo tra le fronde.
Fu allora che lo vide. C'era un corpo a terra, immobile. Indossava i colori di Hakone, e nonostante stringesse ancora una katana  nella mano destra, poco lontano giacevano abbandonati un arco lungo e una faretra piena di frecce dalla coda candida. Sakamichi si avvicinò, nonostante l'odore ferroso del sangue gli entrasse prepotentemente nelle narici, stordendolo. Era solo un ragazzo, probabilmente della sua stessa età. Il suo viso era per metà coperto di sangue, e il suo corpo era in una posizione innaturale. Per un attimo pensò che fosse morto, poi si accorse del flebile respiro che sollevava ritmicamente il suo petto: Onoda mosse qualche timido passo nella sua direzione, cercando di ignorare tutto quel sangue, anche se dovette trattenere due o tre conati.

Prese un respiro, tentando di controllare il battito estremamente accelerato del suo cuore e di ordinare i pensieri per decidere il da farsi. Il ragazzo stava perdendo troppo sangue, e se non avesse fatto qualcosa sarebbe morto. Non avrebbe potuto perdonarselo. Ricacciò indietro un altro conato e recuperò un pezzo di stoffa e delle bende dalla sua scarsella, per poi tamponare delicatamente l'occhio - o almeno quello che ne rimaneva - e fasciare maldestramente la testa del ferito per tener ferma la medicazione improvvisata. Stava per annodare tra loro le bende quando all'improvviso il ragazzo spalancò l'altro occhio, cogliendolo di sorpresa e facendogli quasi vanificare il lavoro che aveva fatto. L'iride era di un blu profondo e limpido come un lago di montagna, e la pupilla era contratta per il dolore e per il terrore che doveva aver provato poco prima.

"La... schiena..." sussurrò piano, cercando inutilmente di girarsi o sollevarsi. L'intruglio paralizzante in cui sicuramente era stato intinto quello shuriken funzionava davvero bene, e il dolore lo stava facendo impazzire. Aveva fallito di nuovo, e stavolta non era così sicuro che sarebbe riuscito a passarla liscia come al solito. Qualcuno in realtà era giunto in suo aiuto, ma il viso tondo di quel ragazzino, probabilmente più giovane di lui, era ancora più pallido di quanto doveva esserlo il suo in quel momento, sotto tutto quel sangue che non smetteva di sgorgare dal suo occhio destro. 
Sakamichi rimase incerto per un istante sul da farsi, poi lo aiutò a girarsi e vide la lama a cinque punte che gli era penetrata nella carne al centro della schiena, tra le scapole. Deglutì, scoprendo di avere la gola secchissima per l'ansia di quello che stava per fare. Forse avrebbe dovuto chiamare qualcuno, ma il suo pessimo senso dell'orientamento avrebbe indubbiamente peggiorato la situazione. Doveva provarci.

Con un solo movimento riuscì a estrarre lo shuriken, ma si graffiò un dito con una delle lame. Istantaneamente un debole formicolìo gli invase tutta la mano, e fece cadere a terra l'arma da lancio in preda al panico. 
Manami iniziò a sentire la paralisi attenuarsi leggermente, mentre la ferita sulla schiena riprendeva a bruciare come la cicatrice di un'ala strappata. 
Onoda avrebbe voluto fasciare anche quella, ma non aveva più bende e le sue mani tremavano incontrollabili. Iniziò a balbettare parole confuse, cercando di chiedere al ragazzo quale fosse il modo migliore in cui avrebbe potuto aiutarlo.

"Devo tornare dentro le mura del castello...devo-" si interruppe, stringendo i denti per una fitta di dolore violentissima che gli attraversò il cranio "basta andare nella direzione della montagna, non è... molto lontano... da qui". Onoda gli passò un braccio intorno alle spalle, aiutandolo ad alzarsi. Manami si focalizzò sul dolore per cercare di contrastare i nervi che non gli obbedivano, e riuscì almeno parzialmente nel suo intento. 
"Comunque, io sono O-onoda Sakamichi, del f-feudo di Sohoku" si presentò, sperando di non risultare sfacciato. "Manami Sangaku" rispose il ragazzo di Hakone, e poi alzò lo sguardo dell'occhio sano verso il monte che si intravedeva tra gli alberi, sorridendo debolmente al pensiero del gioco di parole tra i loro due nomi.
---
Dentro il castello era il caos. Fukutomi si era ritirato nelle sue stanze con il daimyo di Sohoku e i rispettivi luogotenenti, mentre i rinforzi cercavano di allestire un accampamento di fortuna all'interno delle fortificazioni. Qua e là vi erano soldati di Hakone stanchi e feriti, che si facevano medicare o giacevano sfiniti aspettando il proprio turno o cercando di riprendersi dalla battaglia.

Izumida Touichiro non riusciva a trovare Shinkai da nessuna parte. Eppure gli sembrava di averlo intravisto, nel momento in cui era stata suonata la ritirata... era preoccupato, e non era ancora riuscito a ringraziarlo per avergli salvato la vita il giorno precedente. 
Poi, dopo aver girato quasi ogni anfratto del castello, lo trovò nel luogo più ovvio. Il capitano della quarta squadra era seduto sulla passerella esterna, fuori dal dormitorio deserto riservato agli ufficiali. Tra le mani a conca teneva qualcosa di marroncino e peloso, che riconobbe come il coniglietto della sera precedente. Il suo viso era per metà nascosto dai ciuffi di capelli rossicci e troppo lunghi che gli ricadevano sulla fronte, e Touichiro non riuscì subito a interpretare il suo silenzio. I pezzi della sua armatura giacevano qua e là abbandonati in disordine per la stanza, e la manica sinistra del suo kimono era impregnata di sangue, che gocciolava sul pavimento di legno.

"Shinkai-san, il tuo braccio..." iniziò il capitano della quinta squadra, ma Hayato non sembrava ascoltarlo.
"L'ho salvato solo per condannarlo a una morte peggiore..." disse fra sè, con l'attenzione rivolta verso la piccola creaturina immobile tra le sue mani.
"Shinkai-san..."
"Scusami, Touichiro-kun, non dovrei essere così sentimentale... in fondo dobbiamo essere tutti preparati a morire in ogni momento" alzò lo sguardo, mostrando due occhi spenti e stanchi, privi della solita calma che gli infondeva sempre coraggio. 
Avevano combattuto fianco a fianco moltissime volte, e Izumida non l'aveva mai visto così. Che la ferita del giorno precedente si fosse infettata? O forse aveva combattuto allo stremo delle forze e non riusciva a riprendersi? Per un attimo si pentì di essere partito per Sohoku, lasciandolo a fronteggiare tutti quei nemici e a portare sulle spalle un peso così grande da solo, visto come si era messa la situazione... ma non era il momento di pensarci.

"Shinkai-san, per favore, lasciati accompagnare a far medicare bene quella ferita... non è una cosa da sottovalutare" il suo tono voleva essere autoritario, ma l'apprensione prese il sopravvento.
Hayato colse la sfumatura nella voce del più giovane e decise di assecondarlo. In fondo per il piccoletto non c'era più nulla da fare, e viste le condizioni dell'esercito non poteva permettersi di non essere in forma perfetta: sentiva che il giorno seguente sarebbe stato decisivo, e nonostante la presenza dei rinforzi non si sentiva tranquillo. Posò il corpicino freddo su un drappo bianco e si alzò, afferrando stancamente la mano tesa di Touichiro.
Seguì Izumida fuori dalla stanza, dirigendosi verso l'atrio principale dove il medico stava prestando le prime cure ai feriti. Effettivamente non si sentiva troppo bene: barcollava leggermente e non riusciva a restare concentrato, come se la sua mente vagasse di propria iniziativa. Poi, all'improvviso, si fermò di colpo in mezzo al corridoio vuoto, portandosi la mano al petto. Touichirò si arrestò al suo fianco, allarmato.

"Va tutto bene, ho preso una botta combatten--" il respiro gli si spezzò in gola, e iniziò di nuovo a tossire, senza riuscire a fermarsi. Si appoggiò al muro con una mano, mentre cercava di combattere contro un nemico invisibile. La gola gli bruciava come fuoco, ma dopo alcuni violenti colpi di tosse riuscì a riprendere il controllo.
Tuttavia, non riuscì a nascondere a Izumida la macchia scarlatta sulla sua mano.
"SHINKAI-SAN...!"
"Te l'ho detto - rispose flebilmente, cercando di riprendere a respirare a un ritmo normale - devo essermi incrinato qualche costola, non ti devi preoccupare per me".
Touichiro era dubbioso, ma temeva di ferire l'orgoglio dell'uomo che stimava di più in assoluto, quindi lo lasciò fare, restando comunque all'erta. Poco dopo, si sarebbe decisamente pentito di quella scelta.
---
Toudou scortò Makishima nella sua stanza, senza dire nulla. Era inusuale per lui, il che fece comprendere subito a Yuusuke quanto la situazione dovesse essere complicata. Sembrava molto agitato e pensieroso, e viste la sua solita sicurezza ed esuberanza il contrasto era ancora più evidente; gocce di sudore gli imperlavano la fronte, tenuta libera dai capelli da un nastro bianco, e le occhiaie scure erano molto evidenti sulla sua pelle pallida.

Appena si chiuse lo shoji dietro le spalle, Jinpachi fissò gli occhi in quelli del vecchio amico e dischiuse le labbra, esitando per un istante prima di parlare.
"Maki-chan, cosa faresti se la vita di tutti gli uomini del tuo esercito dipendesse esclusivamente da te? E se anche tu stesso fossi colpito da un veleno che non riesci a comprendere?"
"Cosa intendi dire?" rispose Makishima, perplesso.
"Quando sono stato fatto prigioniero dagli uomini di Fushimi, uno di loro mi ha lasciato intendere di aver creato una nebbia velenosa modificando la mia tossina in modo da indebolire e uccidere lentamente il nemico in tre giorni. Tutto l'esercito è stato avvolto da questa nebbia, compreso il sottoscritto. Detesto ammetterlo, ma me ne sarei accorto subito se non fossi stato privo di coscienza perchè quel bastardo mi aveva attaccato alle spalle per impedirmi di avvertire il daimyo. Sono riuscito a fuggire, ma se non trovo una soluzione entro meno di ventiquattr'ore tutti gli uomini di Hakone - me compreso - moriranno senza poter difendere il nostro feudo. E sarà... tutta... colpa mia." aggiunse Jinpachi, con lo sguardo basso e in preda alla frustrazione.

Makishima rimase silenzioso per qualche minuto, cercando di valutare la portata delle parole di Toudou. Stava per parlare quando il capitano della terza squadra riprese: "Non ho potuto neppure guidare i miei uomini perché sono qui, ad attendere un'illuminazione per risolvere la situazione mentre gli altri muoiono, ma così mi è stato ordinato. I combattenti di Fushimi hanno sviluppato un'immunità al mio veleno senza possederne l'antidoto, attraverso esperimenti sugli esseri umani, e così i miei attacchi hanno perso efficacia. Ho provato qualsiasi cosa, ma non ho raggiunto nessun risultato" ammettere la sua sconfitta ad alta voce lo fece sentire ancora peggio, come se gli mancasse la terra sotto i piedi.
Barcollò. 
---
"E così, entro ventiquattr'ore questo fantomatico veleno farà effetto?" chiese Kinjou, lo sguardo corrucciato e fisso in quello del daimyo di Hakone.
Fukutomi si era deciso a rivelare tutto, ma non si sentiva affatto meglio. Arakita sedeva pensieroso al suo fianco, finalmente messo al corrente su tutti i tasselli del puzzle. Era tutto chiaro. Non che la cosa gli facesse provare meno frustrazione, ma almeno si spiegava il comportamento del daimyo e i suoi discorsi con Toudou, che ricordava vagamente traendoli dalla nebbia della febbre.

"Non eravamo ancora al corrente di questo sviluppo quando abbiamo mandato il nostro messaggero" puntualizzò Fukutomi "ma a questo punto è evidente che la giornata di domani sarà determinante per questo feudo e per le nostre vite, mentre è nel vostro interesse fermare l'avanzata del daimyo di Fushimi prima che attacchi i territori di Sohoku".

"Mi fido ciecamente del contingente rimasto al castello" rispose Kinjou, con un'espressione sicura "così come degli uomini che ho portato con me. Non ci arrenderemo e ricacceremo indietro il loro attacco!". Gli occhi del daimyo fiammeggiavano, e Imaizumi accanto a lui percepiva la portata delle sue parole e la sicurezza della sua risoluzione. Kinjou Shingo era un uomo difficile da costringere alla resa, un ottimo alleato quando si trattava di resistere e motivare le truppe. 

C'erano ancora delle possibilità in fondo, e Fukutomi si fidava ciecamente di Toudou, che con l'aiuto ricevuto avrebbe trovato senza dubbio una soluzione prima che si presentassero i primi sintomi. Nonostante tutto, potevano ancora resistere.
"Convocherò tra un'ora una riunione con tutti i comandanti delle squadre per fare il punto della situazione, uniremo le forze e domani il feudo di Fushimi dovrà arrendersi!" affermò Fukutomi, ritrovando la lucidità e il suo solito sguardo deciso. Arakita sospirò di sollievo, non visto. Nessuno poteva permettersi che la roccia di Hakone vacillasse.
---
"Midousuji-sama..."
Il campo di battaglia era stato sgomberato quasi del tutto dei cadaveri di entrambi gli schieramenti, eccetto uno. L'ombra del daimyo oscurava parzialmente il volto del suo luogotenente, cinereo e immobile, con gli occhi chiusi. Midousuji non lo guardava in volto, ma era rimasto quasi completamente solo nel campo aperto, perso in pensieri che nessuno poteva decifrare.

Ishigaki non era stato che una pedina, in fondo.

Come tutti gli altri, era stato una pedina per raggiungere la vittoria, un gradino per portarlo più in alto verso la vetta.
E allora perché le sue ultime parole, che gli erano arrivate come una vaga eco nella foga della battaglia, si erano incise in quel modo nella sua mente?
Perché sentiva quello strano calore in corrispondenza del taglio sul viso, dove la sera precedente il luogotenente gli aveva pazientemente spalmato l'unguento cicatrizzante?

Non erano sentimenti, quello no. Aveva eliminato quell'inutile fastidio molto tempo prima, e da allora aveva affrontato - e causato - un numero di morti che non poteva contare, e che non avevano smosso nulla in lui. Allora perché, perché quelle parole e quello sguardo non volevano lasciare la sua mente?

"Sì, portatelo insieme agli altri" rispose, dopo un tempo che era parso infinito, all'uomo che gli aveva posto la domanda inespressa. 

E mentre camminava con lo spadone agganciato sulla schiena e l'armatura incrostata di sangue altrui nel rosso del tramonto verso l'accampamento, Midousuji Akira continuò a cercare di scacciare quella sensazione, che nonostante tutto continuò a non andarsene neppure dopo che le ceneri del luogotenente Ishigaki Koutarou furono disperse nel vento, insieme al significato enigmatico di quelle poche parole.

"Lui non ti è fedele..."

 
Prima di tutto mi scuso per il ritardo nell'aggiornamento, ma fortunatamente la tesi malvagia è finalmente conclusa e ora potrò dedicarmi più spesso a scrivere ewe9 Poi ringrazio la fedelissima GrammarNazi95 per la recensione e tutte le persone belle che leggono questa storia, anche se maltratto un po' tanto queste povere creature XD Fino a questo momento ho messo molta carne al fuoco, ma dal prossimo capitolo inizieranno ad arrivare delle risposte (ma anche nuove domande, sennò sarebbe troppo facile).
Il prossimo capitolo si staccherà dal filo narrativo e sarà un flashback tutto incentrato sul rapporto tra Midousuji, Ishigaki e Komari... quindi stay tuned!

Alla prossima~

 

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Capitolo 9
*** Memories ***


Capitolo IX
Memories


L'accampamento era silenzioso.

Decisamente i combattenti di Fushimi non davano l'apparenza di uomini che stavano per sconfiggere uno dei feudi più grandi e potenti, e nemmeno il loro comandante riusciva a godere appieno del profumo della vittoria che iniziava a percepire, essenzialmente l'unica emozione che ancora gli dava un motivo per vivere. Ma qualcosa non andava, anche se non riusciva a determinare esattamente cosa fosse.

Erano cambiate moltissime cose, da quando era diventato il daimyo.
Il feudo di Fushimi solo una manciata di anni prima era poco più di un villaggio, circondato da signori molto potenti che anelavano alla sua conquista a causa della posizione strategica.

Ci aveva lavorato a lungo, aveva plasmato i suoi uomini dal primo all'ultimo, aveva limato senza pietà le sue capacità e quelle del suo esercito alla ricerca della perfezione, eliminando le pedine inutili, per andare oltre una semplice strategia di difesa e imporsi su tutti gli altri feudi, e non era mai stato più vicino all'obiettivo. Era stato necessario uccidere e sacrificare moltissimo, ma il risultato non si sarebbe fatto attendere.
Mancava poco: una volta annientate le forze di Hakone, avrebbe puntato a nord-est, per conquistare anche Sohoku. I rinforzi non sarebbero tornati in tempo o li avrebbero bloccati lungo la strada, e il suo piano perfetto si sarebbe realizzato.
La vittoria. La vittoria totale.

In realtà, Midousuji Akira non era sempre stato così. La freddezza, il calcolo, l'assenza di pietà, erano cresciute in lui col tempo, come se metri e metri di catene si fossero avvolte negli anni intorno al suo cuore. Nulla era necessario, se non serviva a vincere.
Tutto era iniziato il giorno stesso della sua salita al potere.
Quel giorno, lui era morto ed era rinato con una nuova pelle.
Quel giorno, Akira aveva smesso di provare qualsiasi emozione.

 

Cinque anni prima

Ishigaki Koutarou già a diciannove anni era indubbiamente il samurai modello. Ogni aspetto di lui ispirava fiducia, e anche gli uomini più esperti lo stimavano per la sua abilità nel kenjutsu e il suo modo di pensare. Un futuro già scritto, la strada già segnata dai passi del padre, del padre di suo padre, e del padre del padre di suo padre.

Il feudo di Fushimi apparteneva al clan Ishigaki da innumerevoli generazioni, e per lunghi anni il governo prudente di Ishigaki Daikaku e dei suoi predecessori aveva permesso alla popolazione di vivere in relativa tranquillità. Tutto era cambiato quando i feudi circostanti avevano iniziato a farsi la guerra tra di loro, cercando ognuno di portare dalla propria parte il piccolo villaggio - che costituiva l'unico punto di passaggio per le truppe senza dover valicare le montagne - prima con la diplomazia e poi con la forza.

Koutarou era a capo di una piccola squadra di giovani soldati, tutti freschi di addestramento, un gruppo nato quasi per gioco ma che col tempo era diventato "una cosa seria". Akira, di due anni più giovane ma molto alto per la sua età, era il suo vice, il suo compagno di mille imprese e il suo migliore amico. Si conoscevano fin da bambini, avevano sudato nello stesso dojo e Ishigaki era uno dei pochi - se non l'unico - che riusciva a interagire con lui, oltrepassando le difese del suo carattere schivo e solitario. 

Akira era orfano di padre, che era stato uno degli uomini più fedeli al daimyo ed era morto durante una missione quattro anni prima. Per questo si era unito all'esercito giovanissimo, dando sfoggio di capacità fuori dal comune e impegnandosi al massimo per portare a casa la sua rendita da samurai, per mantenere e far curare la madre, che si era ammalata poco dopo la morte del padre.

Anche Komari faceva parte di quella squadra, ma non era una persona che dava particolarmente nell'occhio, se non per il suo bizzarro aspetto. Era il più giovane del gruppo e parlava pochissimo, tanto che spesso tutti gli altri si scordavano della sua presenza. Non era particolarmente bravo nel combattimento e molti lo avrebbero definito "un peso morto", ma perlomeno la sua ostinazione era ammirevole, anche se spesso otteneva l'effetto contrario. Provava una sincera ammirazione per Midousuji, che - forse per la somiglianza dei loro caratteri - era stato l'unico a difenderlo in più occasioni dallo scherno dei compagni, anche se un po' a modo suo.

Quando le cose iniziarono a precipitare era piena estate, e Akira ricordava tutto come se fosse avvolto da uno strano alone giallo. Tutto era iniziato in sordina, un attacco subdolo e codardo, con lo scopo di distruggere totalmente il villaggio di Fushimi, colpevole di aver resistito troppo agli attacchi dei feudi confinanti.
Era iniziato con una serie di morti misteriose tra il popolo e tra i soldati, che avevano gettato il villaggio nel panico. L'acqua del pozzo che forniva la riserva idrica agli abitanti di Fushimi era stata avvelenata, e la morte per chi la bevesse era orribile e quasi istantanea. Il daimyo riuscì a limitare la cosa quando già era troppo tardi: aveva perso più di un terzo dei suoi uomini, e l'esercito non era numeroso già in partenza. Così Ishigaki Daikaku aveva innalzato le difese, attendendosi un attacco massivo in breve tempo, che approfittasse della debolezza delle forze di Fushimi. Koutarou e la sua squadra vennero inviati in missione esplorativa, per scoprire quale fosse il feudo responsabile.

Ma qualcosa era andato storto.
Un agguato li aveva sospresi poco lontano dal villaggio. Erano ninja mercenari, impossibili da ricondurre al feudo che li aveva assoldati. In un istante li avevano spazzati via, separati tra loro e presi di mira da tutti i lati.

Eccolo, l'incubo ricorrente nelle notti di Akira.

Dieci uomini fasciati in abiti neri e i suoi compagni che cadono al suo fianco, uno dopo l'altro.
Il contatto con la schiena di Ishigaki, mentre insieme cercano di contrastare l'attacco.
Poi tutto è buio, sangue, confusione, frammenti di ricordi.
Koutarou che cade in ginocchio al suo fianco, ferito a una gamba. La sua lama che affonda nella gola dei nemici con rabbia cieca. Akira che uccide senza pietà anche l'ultimo dei ninja, aiuta Ishigaki ad alzarsi e lo sorregge, per tornare al villaggio.
E poi quel filo di fumo, quella consapevolezza che non sarebbero mai tornati in tempo.
L'odore di carne bruciata, le fiamme, le urla.


Si erano divisi. Ishigaki si era diretto verso il castello, sperando di trovare i propri genitori ancora in vita; Midousuji si era lanciato verso casa sua, ma era troppo tardi.
Era riuscito a tirare fuori la madre dalle fiamme, ma era spirata tra le sue braccia.
In quel momento, nell'anima di Akira qualcosa si era infranto per sempre.
In un giorno, tutto era finito.
In un giorno, tutto era cominciato.

Poi, un boato. Il castello del daimyo era crollato in un istante, seppellendo ogni cosa tra le fiamme.
Gli occhi gli bruciavano per il fumo e per le lacrime che si ostinavano a non uscire, le sue mani erano bruciate e insanguinate, il cuore ormai insensibile. 

"Ecco, ora sono veramente solo", aveva pensato, mentre vagava senza una meta tra le rovine. Non poteva che aspettare che le forze nemiche prendessero possesso del luogo e morire combattendo come un vero samurai. Sì, avrebbe fatto così. In lontananza già si sentivano i pesanti passi in avvicinamento e le grida di battaglia dei nemici, che sarebbero arrivati a momenti.
Una voce lo risvegliò dalla sua trance. Una voce rotta, disperata, irriconoscibile. La voce di un uomo distrutto, che zoppicava verso di lui. Il suo viso era sporco di sangue, che sgorgava da una ferita alla fronte, il suo braccio sinistro era martoriato dalle ustioni e si trascinava dietro la gamba destra, inerte. Il daimyo sembrava l'ombra di sè stesso.
"Akira... Akira-kun... dov'è mio figlio?"
Midousuji aveva abbassato lo sguardo, non era riuscito a rispondere.
A Ishigaki Daikaku era bastato, e si era aperto il ventre lì, davanti a lui.
Non sarebbe mai stato in grado di combattere, in quelle condizioni. Aveva appena perso il suo unico figlio, era rimasto ferito e nonostante ciò aveva portato in salvo tutti quelli che poteva nelle grotte sotto la montagna. Il suo compito era finito - così sussurrò al diciassettenne Akira, mentre il sangue sgorgava impazzito dal taglio profondo che si era autoinflitto - e gli affidava i superstiti dell'esercito, che stavano cercando di riorganizzarsi mentre proteggevano l'accesso delle grotte.

"Avrei affidato il comando a mio figlio, ma tu sei la persona di cui si fidava di più in assoluto. Ti lascio in eredità questo compito, Midousuji Akira, e sono certo di non sbagliare nonostante la tua giovane età" tossì un fiotto di sangue, poi riprese a parlare con una smorfia di dolore "ora ti prego, fai smettere di soffrire questo povero vecchio". Si sfilò la katana dal fianco. Era la spada di famiglia, un cimelio simbolo del potere del daimyo. "Questa è tua ora", chiuse gli occhi, aspettando il colpo definitivo.
Da quel momento in poi, Akira aveva agito come una macchina.
Freddamente, con lo sguardo vitreo, attento solo a ciò che doveva essere fatto.
Annuì e sguainò la katana, con la sensazione che il suo corpo agisse indipendentemente dalla sua volontà. Il taglio fu preciso e pulito, e concesse al daimyo una morte onorevole.

Le voci dei nemici erano vicinissime, e come un automa raggiunse l'ingresso delle grotte. Non erano rimasti più di cinquanta uomini, ma Akira riuscì ad approntare comunque la difesa. Non sentiva nulla, se non un bruciante desiderio di vendetta. Aveva perso tutto, non poteva permettere che gli venisse strappato anche il luogo dov'era nato.

Il combattimento che venne dopo entrò nella leggenda. Cinquanta uomini contro cinquecento, e incredibilmente l'esercito decimato di Fushimi ebbe la meglio. Non vi furono sopravvissuti tra gli assalitori, ma i soldati di Fushimi che combatterono al fianco di Midousuji ebbero per sempre scolpito nella memoria quel suo sguardo che aveva perso ogni traccia di umanità, così come quei suoi fendenti che non lasciavano scampo, in grado di abbattere più uomini contemporaneamente. Era sempre stato molto bravo nel kenjutsu, anche più di Koutarou, ma in quell'occasione assistere al suo impeto distruttivo fu come trovarsi di fronte a un demone privo di qualsiasi freno. Uccise da solo più di cento uomini senza perdere terreno, e fu così che si guadagnò il rispetto (e la paura) dei soldati e della popolazione.

Ishigaki si risvegliò tossendo, in una casa buia per metà crollata, con la gamba ferita bloccata da una trave ("piove sul bagnato" pensò fra sè). Una manina lo tirava per un braccio e una vocina insistente lo chiamava. 

"Nii-san, nii-san!"

All'improvviso ricordò tutto.
Stava correndo verso il castello, poi le urla disperate di un bambino lo avevano attirato verso quella casa, e gli aveva fatto scudo con il suo corpo per proteggerlo dal crollo. 
Le fiamme sembravano essersi estinte, o forse si trovavano in una bolla d'aria che non era stata investita dall'incendio. La gola gli bruciava forte, ma non sentiva dolore. Non sapeva quanto tempo fosse passato. Non sapeva che fuori da lì infuriava la battaglia, che era cambiato tutto.

Riuscì faticosamente a liberarsi, cercando una via d'uscita tra le macerie e appoggiandosi sulla gamba sana. Prese in braccio il bambino, che doveva avere al massimo due anni, e spostando tavole di legno e cornici vuote e fragili di shoji ridotti in cenere riuscì a riguadagnare il mondo esterno. 
Raggiunse le rovine del castello, e sbiancò una volta realizzato ciò che era successo. Poi si riscosse e ritrovò la speranza, fiducioso nella prudenza del padre e sicuro che i superstiti si fossero rifugiati nelle grotte.
Quando giunse ai piedi della montagna era già finito tutto. Il terreno era lastricato di cadaveri (Koutarou aveva fatto chiudere gli occhi al bambino, anche se non poteva fare nulla per l'odore ferroso e nauseabondo del sangue che impregnava ogni cosa), e tra di essi spiccava la figura allampanata di Midousuji, che stringeva l'elsa della katana fino a farsi male. La lama era ancora sporca di sangue e il ragazzo era perfettamente immobile, come se la forza che lo aveva spinto fino a quel punto si fosse esaurita di colpo. Solo i suoi occhi fiammeggiavano di una strana luce, come se potesse perdere nuovamente il controllo da un momento all'altro. Una voce di donna chiamò forte "Kojiro!" tra le lacrime, uscendo dalla grotta e scavalcando i cadaveri quasi senza accorgersene, e Koutarou affidò il bimbo alle braccia della madre.

Ishigaki si avvicinò lentamente a Midousuji, guadando il mare di morte seminato da colui che era stato il suo vice e ora - anche se lui non lo sapeva ancora - gli era superiore di grado.
Fu allora che notò il particolare inconfondibile della tsuba della spada che Akira stringeva nella mano destra, in oro e finemente cesellata a forma di fiore di sakura. Cosa significava? Dov'era suo padre? Perchè Midousuji possedeva la spada che spettava di diritto solo al daimyo?

"A-Akira?" Koutarou esitò, non sapendo cosa aspettarsi.
Midousuji scattò, i nervi tesi. Non si mosse, ma rimase in tensione, con uno sguardo indefinibile che Ishigaki non gli aveva mai visto.
Koutarou avanzò ancora di qualche passo, come un domatore di bestie feroci.
"Puoi dirmi... cosa è successo?" arrischiò Ishigaki, non troppo sicuro di ottenere una risposta. 
"Tu... eri morto... Ero sicuro che fossi morto" rispose Akira, dopo un minuto interminabile "Ora il daimyo sono io, ho ricevuto questa dalle mani di tuo padre" la luce sinistra continuava a brillare nei suoi occhi, fissi in quelli di Koutarou "ho ucciso tutti questi uomini da solo, DA SOLO!"
"Cosa significa che... mio padre... cos'è successo a mio padre?"
Akira distolse lo sguardo, e Koutarou alzò la voce per la prima volta in tutta la sua vita.
"COS'È SUCCESSO A MIO PADRE?"
"Lui... pensava che tu fossi morto" rispose piano Midousuji "era ferito gravemente, e anche io pensavo che tu fossi morto nel crollo del castello. Non ha aspettato neppure che gli rispondessi e si è aperto il ventre. Ha avuto una morte onorevole, e con le sue ultime parole mi ha affidato il comando dei suoi uomini e la sua spada. E TU DOV'ERI? SARESTI RIUSCITO A FARE LO STESSO?" 

Ishigaki sobbalzò. Midousuji era completamente diverso rispetto a poche ore prima, quando si erano separati. Non era più l'Akira che conosceva. Non era solo quella luce negli occhi, c'era dell'altro. Qualcosa a cui non riusciva a dare un nome.
Il dolore e il dubbio ottenebrarono il suo cuore. Non era tanto il diritto di successione che gli era stato strappato a fargli male, quanto il fatto che ciò che aveva detto Midousuji era parzialmente vero. Lui dov'era quando c'era bisogno della sua presenza? Dov'era quando suo padre cercava solo il suo conforto? Dov'era quando il popolo che avrebbe dovuto governare aveva bisogno di un leader? 
Era privo di coscienza sotto le macerie di una casa crollata, perchè aveva preteso di salvare una vita dimenticando tutte le altre che erano sotto la sua responsabilità. Era vero, lui non sarebbe riuscito a uccidere cento persone da solo. Aveva già avuto da anni il suo battesimo del fuoco in battaglia, ma ogni persona che si trovava costretto a uccidere lasciava un segno sulla sua anima, come se gliene staccasse un pezzo. Non sarebbe mai riuscito a uccidere così tante persone restando impassibile, nonostante fossero nemici e avessero ridotto il suo popolo in quelle condizioni. Ma era di questo che il popolo aveva bisogno? Di imprese eroiche e violenza per terrorizzare i potenziali invasori? O forse necessitava di una rapida ricostruzione e una politica accorta per ricostruire uno status quo di pace e tranquillità?

I sopravvissuti all'attacco avevano formato una piccola folla intorno ai due, ansiosi di capire cosa stesse accadendo. Poi qualcuno comprese, e istantaneamente il gruppo si divise in due fazioni. Chiunque avesse visto Midousuji in azione propendeva dalla sua parte, più per paura che per reale sostegno. La maggior parte dei civili che erano rimasti nascosti nelle grotte sostenevano Ishigaki, perchè semplicemente così doveva essere. 
Si era creata una situazione decisamente spiacevole.

Akira si mise in guardia, con una richiesta tacita scritta nello sguardo.
"Non vorrei davvero combattere contro di te, Akira-kun" sospirò Ishigaki, ma Midousuji lo incalzò con un passo in avanti, e Koutarou fu costretto a estrarre la lama. 
La folla ammutolì.
Midousuji continuò a incalzare, mentre Ishigaki indugiava in difesa. Non voleva combattere, non voleva dover scegliere tra il suo diritto di successione e il suo più caro amico. Ma era inevitabile. 
Incrociare la lama con la spada che era appartenuta a suo padre gli faceva male, mentre il tarlo insinuato nella sua mente dalle parole di Midousuji si ritagliava un posto tra i suoi pensieri. Non poteva continuare a esitare, doveva combattere. Doveva combattere come avevano fatto tante volte nel dojo brandendo i bokken, con la differenza che questa volta sul piatto c'erano le loro vite, il loro futuro e il loro rapporto. Ishigaki fece un passo in avanti incrociando le spade e costringendo Midousuji a indietreggiare di un passo.
In un istante, Akira scartò di lato e mirò al fianco di Koutarou, che riuscì a prevedere il colpo e a pararlo all'ultimo istante. Midousuji stava combattendo davvero sul serio, e forse avrebbe anche potuto ucciderlo. Continuarono per un po' in una danza di attacchi e parate: avendo sempre combattuto insieme conoscevano alla perfezione l'uno lo stile di combattimento dell'altro, e avrebbero potuto continuare così all'infinito.

Fu questione di un infinitesimo di secondo. Ishigaki reagì a un fendente abbassandosi e tentando un affondo, dimenticando per un istante che la gamba ferita non sarebbe riuscita a reggerlo. Akira approfittò della distrazione scagliando lontano la katana di Koutarou con un colpo deciso. 

E così, Midousuji era diventato il daimyo di Fushimi. Ishigaki nonostante tutto era rimasto al suo fianco con il ruolo di luogotenente, il che gli permetteva comunque di poter partecipare alle decisioni e avere un ruolo importante nel comando delle truppe, nonchè di assistere a quei rari momenti in cui il vecchio Akira tornava a farsi vedere, anche se duravano sempre troppo poco. Avrebbe mentito se avesse affermato di non essere frustrato, ma lentamente iniziò ad abituarsi. 
Negli anni successivi avrebbe dovuto ingoiare infiniti rospi, perchè nel tempo la sete di vendetta di Midousuji si sarebbe trasformata in sete di potere, di vittoria e quindi di espansione territoriale, spesso con metodi che lui non condivideva. Ma nonostante tutto aveva continuato a rispettarlo, a stare al suo fianco.

Akira era ossessionato dai ricordi di quel giorno, e per questo continuava a cercare armi e strategie sempre più efficaci per contrastare eventuali attacchi esterni. Tuttavia, per poco più di un anno non accadde nulla di rilevante: il racconto di quella battaglia si era diffuso nei dintorni, e il rinato villaggio di Fushimi visse un nuovo periodo di relativa pace, anche se la brace covava sotto la cenere.

Poi, un anno e tre mesi dopo quel terribile giorno, un ritorno inaspettato cambiò di nuovo le carte in tavola. 
Sia Akira che Koutarou erano sicuri di ciò che avevano visto durante l'attacco dei ninja mercenari, nonostante il trauma che quel giorno rappresentava per entrambi e la loro risoluzione reciproca a non sollevare mai più l'argomento. Entrambi ricordavano perfettamente che Komari Kishigami, il più giovane della loro squadra, era stato il primo a cadere, con la gola squarciata. 

Invece, in una fresca mattina di fine autunno, Komari in carne ed ossa si presentò al castello del daimyo. Il suo aspetto non era cambiato molto, se non per lo sguardo più maturo, i tratti del viso leggermente più spigolosi e una spessa cicatrice sul collo, ma il suo carattere era completamente diverso. Sembrava molto sicuro di sè, l'esatto opposto di come lo ricordavano: aveva raccontato di essere stato salvato in extremis da un individuo misterioso, esperto di veleni, di arte medica e di ninjutsu, che aveva guarito la sua ferita mortale e l'aveva portato con sè in giro per il Giappone, allenandolo e insegnandogli i suoi segreti in tutte le arti del combattimento. In un anno soltanto, il piccolo, timido e inutile Kishigami era diventato il soldato perfetto, ed era tornato per mettersi al servizio del nuovo daimyo, a cui avrebbe accordato fedeltà assoluta.

Alla fine si era unito all'esercito come soldato semplice, ma fin da subito, in nome dell'antica simpatia, Midousuji gli aveva accordato alcuni privilegi, come la possibilità di partecipare alle riunioni strategiche con gli ufficiali. Le ingerenze di Komari nelle politiche del feudo iniziarono con piccole e mirate affermazioni apparentemente insignificanti, che lentamente ma inesorabilmente convinsero il daimyo a riporre in lui sempre maggiore fiducia. In fondo, il loro obiettivo era il medesimo: l'intera famiglia Kishigami era stata uccisa dal veleno nella falda acquifera, e per questo in fondo ai suoi occhi azzurri covava una fredda sete di vendetta, che lo portava a sostenere e incoraggiare le politiche aggressive del daimyo che spesso Ishigaki avversava con il suo onnipresente carico di buon senso.

Era successo quando aveva proposto di somministrare piccolissime dosi di diversi veleni agli uomini dell'esercito, in modo da renderli immuni: il suo maestro lo aveva obbligato a subire quel trattamento lui stesso, ma in quel modo si era salvato ben due volte dall'avvelenamento durante il suo viaggio al fianco di quell'uomo misterioso, che lui definiva semplicemente "sensei". 
Ishigaki si chiedeva spesso quanto ci fosse di vero e quanto fosse un'invenzione della mente di Komari in quei racconti: tuttavia, per quanto spesso le informazioni da lui fornite fossero vaghe, le sue idee solitamente portavano ottimi frutti.
Era successo anche quando aveva messo Midousuji in contatto con un bizzarro personaggio che sosteneva di essere un grande maestro spadaio, in grado di forgiare armi molto particolari, che facevano uso dell'energia vitale del guerriero e moltiplicavano all'infinito le sue potenzialità.
Aveva partecipato (e aveva perfino votato) alla decisione di attaccare per primi, quando si era trattato di iniziare ad espandersi nei feudi confinanti, e aveva combattuto in prima linea, ottenendo importanti successi. Di fatto, aveva finito per comportarsi come un ufficiale, pur senza effettivamente esserlo.


Midousuji era solo nella sua tenda da ore e aveva lasciato detto alle guardie all'ingresso di non lasciar entrare nessuno. Ovviamente tutti sapevano che c'era un'eccezione, e si chiamava Kishigami Komari.
"Midousuji-sama?"
Akira non rispose.
"Mi sono permesso di riorganizzare le truppe e di controllare i rifornimenti rimasti, Midousuji-sama" affermò Komari, sicuro di ciò che stava facendo.
("A volte vorrei capire come ha ottenuto l'autorità per prendere da solo certe iniziative" commentò la voce di Koutarou nella testa di Akira. Il buon senso di quell'uomo continuava ad assillarlo anche da morto).
Midousuji si sentiva stanchissimo e non aveva neppure voglia di stare a sentire ciò che il più giovane aveva da dirgli. Non lo guardava negli occhi, e ascoltava il suo rapporto non richiesto come se fosse una cantilena, senza effettivamente recepire le informazioni. 
"... e così ho abbandonato il loro comandante degli arcieri a morire dissanguato nella foresta, si è portato via qualcosa di me - abbassò lo sguardo sulla mano fasciata - ma ora non costituirà più una minaccia, Midousuji-sama" concluse Komari, soddisfatto di sè stesso.
Midousuji approvò con un cenno del capo.

"Mi stavo chiedendo..." arrischiò nuovamente il giovane Kishigami, con un tono più basso e morbido come il velluto "è sicuro per lei andare ad affrontare la battaglia decisiva domani senza un braccio destro, Midousuji-sama?"

Akira alzò lo sguardo, lanciandogli un'occhiata raggelante. Lui non aveva bisogno di qualcuno al suo fianco per imporre la sua forza su tutti quei deboli esseri disgustosi che lo circondavano. Ishigaki era stato un'eccezione. Gli aveva spesso dato contro, ma lo aveva conosciuto meglio di chiunque altro. Era sempre stato quell'unico filo che lo connetteva al suo passato e alla sua umanità, la sua forza ma allo stesso tempo la sua debolezza. 
Lo aveva spesso definito "disgustoso", ma ciò che lo disgustava era vederlo sempre lì, a testa alta, sempre leale e uguale a sè stesso nonostante anche lui avesse perso tutto, quel giorno
Un po' l'aveva odiato, perchè tutto quel buonismo e quell'onestà erano dannatamente fuori luogo in un mondo simile, dove tutto poteva esserti strappato via da un momento all'altro. Ma era stato un vero samurai, e gli aveva donato ogni cosa di sè nonostante lui stesso gli avesse strappato ciò che era suo di diritto. Koutarou aveva dato priorità al loro rapporto rispetto a tutto il resto. Nessuno avrebbe mai potuto prendere realmente il suo posto.

Però era vero - così disse una vocina sibilante nella sua testa, paurosamente simile a quella del giovane uomo che aveva di fronte - che Komari lo aveva aiutato moltissimo, aveva messo in gioco la sua vita per lui e aveva sempre sostenuto le sue decisioni, proponendo ottime strategie. Anche la trovata della nebbia velenosa era sua, e aveva seminato il panico e portato sull'orlo della sconfitta un feudo che manteneva l'egemonia incontrastata sulla regione da più di due secoli. Forse concedergli di ricoprire quel posto vacante sarebbe stata la scelta migliore, in un momento simile. Forse. Forse in ogni caso si sarebbe rivelato una pedina utile.

Poi, la voce di Koutarou tornò a esprimere la sua opinione non richiesta, ripetendo quelle ultime parole che erano ormai scolpite nella mente del daimyo. Era ovvio che si riferisse a Komari: del resto dal ritorno di quest'ultimo Ishigaki non si era mai fidato completamente di lui, sicuramente perchè temeva di veder nuovamente usurpato il suo posto legittimo. Era evidente.

La testa di Akira iniziava a diventare decisamente troppo affollata, e le tempie gli pulsavano in modo preoccupante.
"E sia. Dalla battaglia di domani dipenderà la mia decisione definitiva. Ora va', voglio restare da solo"
Con un inchino, Komari uscì dalla tenda.
I suoi occhi azzurri rilucevano di un bagliore sinistro, mentre un sorriso d'intensa soddisfazione deformava le sue labbra sottili. 

 

Come promesso, eccomi qui a ricomporre lentamente i tasselli di questo racconto con questo capitolo d'intermezzo con un lungo flashback sulla storia del feudo di Fushimi, nel quale ho decisamente dato del mio peggio per quanto riguarda l'angst... ho meditato a lungo sul rapporto di Ishigaki e Midousuji e sulla caratterizzazione di Komari, e questo è il risultato! Spero che abbiate apprezzato e che abbiate ancora voglia di seguire questa storia, che dal prossimo capitolo tornerà a seguire il normale corso degli eventi.
Inizialmente questa parte avrebbe dovuto essere uno spin off autonomo al di fuori della storia principale, ma alla fine ho voluto inserirlo qui; tuttavia non escludo di scrivere qualcos'altro in futuro con quest'ambientazione, approfondendo con più calma i personaggi e gli avvenimenti. Alla fine mi sono un po' affezionata, non sono sicura di volere che questa fanfic finisca, in realtà XD
Concludo ringraziando come sempre GrammarNazi95 che mi supporta sempre con le sue adorabili recensioni che mi spronano a continuare a scrivere, grazie davvero! Ancora un paio di capitoli e potrai vedere in azione anche il tuo Kaburagi, anche se non ti garantisco nulla XD

Detto questo, alla prossima! <3

_Kurai_

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Capitolo 10
*** Regrets ***


Capitolo X
Regrets


Manami si sentiva sul punto di perdere i sensi ad ogni passo.
Le fitte di dolore erano terribili e la vista dell'occhio sano era appannata e priva di profondità, il che l'avrebbe messo in seria difficoltà se non fosse stato per quel braccio esile avvolto intorno alle sue spalle per sostenerlo.

Ancor più della ferita gli faceva male il rimorso per le sue azioni sconsiderate: solo poche ore prima Toudou gli aveva fatto notare che se non fosse stato per lui sarebbe già stato alla mercè del nemico, e per dimostrargli di aver recepito il rimprovero Sangaku si era nuovamente gettato da solo nelle fauci dell'avversario, senza pensare alle conseguenze.
Gli piaceva il brivido, l'adrenalina, quella sensazione mista di paura ed eccitazione, ma questa volta il prezzo pagato era stato davvero alto.

Onoda non diceva nulla, anche se nella sua testa si tormentava su quali fossero le parole giuste per alleviare almeno un pochino le pene del ragazzo. Qualunque frase gli sembrava stupida, qualunque approccio forzato e controproducente. Sospirò.
Alzò lo sguardo e si accorse che mentre era perso nei suoi pensieri erano giunti sul limitare della foresta: il castello di Hakone e il monte maestoso alle sue spalle si paravano davanti a loro, e sentì anche Manami sospirare. 

Il castello brulicava di agitazione: qua e là uomini di Hakone e Sohoku erano impegnati a rinforzare le fortificazioni, a fare manutenzione alle armi o semplicemente a cercare di sopravvivere, combattendo una lotta impari con la morte che non era riuscita a prenderli sul campo di battaglia. Ai numerosi feriti era stata dedicata un'ala del castello, che risuonava di urla e lamenti. 

Onoda individuò in lontananza una testa rossa, lasciò Manami alle cure del soldato che li stava scortando e attraversò il cortile per raggiungere Naruko, che come sempre stava discutendo animatamente con Imaizumi su chissà che argomento di incommensurabile importanza.
Nessuno degli altri ufficiali di Hakone era in vista; ad aprir loro le porte era stato Kuroda, che mentre lo accompagnava a farsi medicare aveva informato Sangaku su tutto ciò che era successo in sua assenza e gli aveva fatto presente che il daimyo avrebbe convocato a breve una riunione con tutti e cinque i caposquadra. Manami, oltre ogni previsione (generalmente non si faceva vedere mai alle riunioni strategiche se non in ritardo spaventoso, e oltretutto in quel momento faticava anche a reggersi in piedi) accordò la sua presenza, nonostante la ferita lo stesse torturando. 

"Non credo che quest'occhio si possa salvare" aveva commentato Yoshida-sensei, il medico di Hakone, scuotendo la testa con un'espressione grave. Il sangue si era fermato e la ferita era meno profonda di quanto sembrasse, ma l'occhio destro dell'arciere, irrimediabilmente compromesso, probabilmente non avrebbe mai più recuperato la vista. Il dottore pulì e medicò la ferita strappandogli una significativa varietà di smorfie di dolore. Di nuovo Manami si trovò sul punto di perdere i sensi, ma si sforzò di rimanere ancorato alla realtà.
Se solo non fosse caduto nella trappola del corpo a corpo, forse non si sarebbe trovato in una situazione simile. Certo, avrebbe potuto anche andare molto peggio... quel Komari avrebbe potuto estrargli del tutto l'occhio dall'orbita o ucciderlo, lasciandolo lì a marcire lontano dal campo di battaglia, abbandonato a fare i conti con le conseguenze della sua incoscienza e distrutto dalla frustrazione di morire senza uno scopo.

Era ancora vivo, anche se non sarebbe mai più riuscito a tirare con l'arco come prima.
Era ancora vivo, con un occhio in meno, una quantità eccessiva di bende avvolte intorno alla testa e alla schiena e un amaro carico di rimorso. Già sentiva nelle orecchie le parole del daimyo, di Toudou, di Arakita. Aveva promesso che avrebbe partecipato alla riunione, ma la sua volontà iniziò a vacillare. Una singola lacrima scivolò giù dall'occhio sano, non vista.
---
"Shinkai-san! Izumida-san!"

Ashikiba Takuto attraversò il lungo corridoio dell'ala nord del castello con quattro falcate delle sue gambe innaturalmente lunghe, raggiungendo i due caposquadra che stavano camminando nella direzione opposta, entrambi assorti in foschi pensieri.
"Fukutomi-sama vi ha convocati nelle sue stanze tra un'ora per una riunione strategica con il daimyo di Sohoku" disse Takuto tutto d'un fiato, sopraffatto dall'agitazione del momento.
Il vicecapitano della prima squadra aveva capito che qualcosa di molto serio bolliva in pentola, e che le nubi nere della sconfitta si stavano avvicinando minacciosamente al feudo. Era decisamente inquieto, anche se riponeva una fiducia illimitata nei suoi superiori. Tuttavia, a prima vista, l'umore di Hayato e Touichirou non sembrava poi molto diverso dal suo. Shinkai in particolare sembrava avere una pessima cera, probabilmente per la stanchezza e la delusione per il risultato del suo combattimento contro il daimyo nemico.

Ashikiba ammirava particolarmente il comandante della quarta squadra, che durante gli anni dell'addestramento aveva preso a cuore la sua tecnica e la sua crescita personale: essendo mancino, Takuto era sempre stato discriminato, perfino dalla sua famiglia, e Shinkai lo aveva aiutato a sviluppare il proprio stile di combattimento nonostante questa sua caratteristica che lo rendeva "diverso" (come se già la sua statura eccezionale non lo distinguesse abbastanza dagli altri soldati). 
Così egli aveva imparato a "trasformare la sua debolezza nella sua forza", come diceva sempre il daimyo: le tecniche a guardia invertita destavano stupore e confusione nei nemici, che spesso si trovavano in difficoltà a contrattaccare.
"Messaggio ricevuto, Takuto-kun" gli sorrise stancamente Shinkai "ora và a riposare, domani sarà una giornata importante" aggiunse, anche se un po' si rivolgeva a sè stesso.

Congedato Ashikiba, i due raggiunsero Yoshida-sensei, che in quel momento aveva appena terminato la medicazione di Manami. Nella grande stanza erano stati trasportati decine di futon per i feriti, tutti occupati, e il bilancio non lasciava ben sperare.
Hayato stava per dire qualcosa all'arciere, probabilmente qualche parola di conforto, quando improvvisamente la sua vista si sdoppiò di nuovo e riprese a respirare a fatica. Touichiro era al suo fianco e gli impedì di sbilanciarsi in avanti quando di colpo divenne tutto nero. 
Doveva aver perso i sensi per un po', perchè appena riprese conoscenza aveva il braccio fasciato stretto e cosparso di un unguento puzzolente e sentiva un peso opprimente sul petto.

"Hai di nuovo esagerato, vero?" chiese il medico, che ben conosceva le ripercussioni sul fisico della tecnica mortale del capitano della quarta squadra "hai comunque ignorato una ferita piuttosto seria, che avrebbe potuto causarti un'infezione da non sottovalutare... ancora poche ore e avresti rischiato di perdere il braccio, e allora la tua vita da samurai sarebbe finita". Izumida spostò per un istante lo sguardo da Shinkai a Manami, che da poco dopo il loro arrivo si era messo in disparte appoggiato al muro, apparentemente addormentato, con mezza faccia nascosta dalle bende. A quelle parole la mano destra del ragazzo che ancora stringeva l'arco in grembo si era stretta come in uno spasmo intorno al legno scuro e flessibile.
Shinkai si alzò subito in piedi senza tanti complimenti, ringraziando il medico: ora che la ferita era stata curata poteva stare più tranquillo, e anche Izumida avrebbe smesso di fissarlo con quello sguardo apprensivo... del resto anche lui era stato ferito solo due giorni prima, ma sembrava stare benissimo, come aveva convenuto anche Yoshida-sensei. L'eccezionale capacità di ripresa fisica del comandante della quinta squadra continuava a stupirlo, anche se non era all'altezza di quella di Arakita. 

Nonostante Yoshida-sensei lo avesse quasi supplicato di riposarsi, Hayato iniziò a insistere per lasciare subito la stanza e raggiungere il daimyo: la riunione sarebbe iniziata a breve. Ebbe la sua occasione di svicolare fuori con Touichiro (che continuava ad essere combattuto tra l'apprensione e l'ammirazione) nel momento in cui una persona visibilmente molto più stanca di lui scostò la porta scorrevole e avanzò verso il medico.

Toudou entrò nella stanza seguito da Makishima, con lo sguardo corrucciato e sfuggente e una certa agitazione che si notava dai movimenti delle sue mani mentre parlava. Chiese al medico se si fossero presentati fino a quel momento strani sintomi da avvelenamento tra i soldati che aveva visitato, e Yoshida-sensei gli confermò quello che già sapeva: gli uomini in generale sembravano indeboliti e alcuni avevano presentato sintomi leggeri, che poi erano completamente spariti. Jinpachi era vagamente contrariato perchè continuava a non ottenere nulla dalle sue indagini, mentre il tempo passava implacabile. La frustrazione e la macabra attesa rischiavano di farlo impazzire.

Poi qualcosa attirò l'attenzione dei tre: Tochigi, l'assistente del medico, si avvicinò a Yoshida-sensei con un'espressione allarmata e li condusse in fondo alla stanza: uno dei feriti, un certo Terada - quarta squadra - che aveva ricevuto un colpo non letale ad un fianco, sembrava essere peggiorato all'improvviso.
Il ragazzo era in preda ad un attacco convulso di tosse e non riusciva a respirare, soffocato dal sangue che già colava dai lati della sua bocca e gli imbrattava le mani, le sue pupille erano spaventosamente contratte e il corpo tremava incontrollabile. Le unghie stavano assumendo un colore bluastro, un altro sintomo tipico di quel veleno. Toudou sussultò. Era iniziata. Non poteva sbagliarsi, aveva visto centinaia, migliaia di nemici morire in quel modo. Non poteva lasciare che accadesse a un compagno. Non così.
Mentre il medico e l'assistente cercavano di contenere la crisi, Jinpachi afferrò la boccetta del suo antidoto che si portava sempre appresso: doveva tentare. Approfittò di un momento di pausa tra un attacco e l'altro per somministrare una goccia di liquido al ragazzo. Rivolse una muta preghiera ai kami sperando che non fosse troppo tardi e rimase seduto accanto al futon per qualche minuto, mentre il medico si accertava delle condizioni del ferito. Sembrava che la crisi fosse passata; il ragazzo aveva perso conoscenza e respirava meno affannosamente, ma era presto per cantare vittoria. 

Tuttavia il medico si alzò e con un'espressione indecifrabile prese nuovamente Toudou e Makishima da parte: "Toudou-san... la nebbia velenosa di cui mi hai parlato è stata diffusa nel campo di battaglia poche ore prima del tramonto del primo giorno di combattimento, giusto?"
"...Sì, è così. C'è qualcosa che non torna?"
"Questo ragazzo è arrivato qui tra i primi, me lo ricordo molto bene perchè mentre medicavo la sua ferita ho dovuto lasciar finire Tochigi-kun a causa dell'arrivo del caposquadra Izumida, che sembrava ferito più gravemente... se è stato colpito dal veleno, allora la nebbia non ne è la responsabile. O almeno, non la sola. Probabilmente anche le armi del nemico sono state intinte nel medesimo veleno".

Toudou cambiò espressione: un po' avrebbe dovuto aspettarselo, quel Komari non era decisamente un avversario da sottovalutare. Anche coloro che si erano ritirati dalla battaglia prima dell'arrivo della nebbia erano in pericolo, non c'era scampo. Indubbiamente un ottimo modo per tenerlo ancora più impegnato a cercare una soluzione e vanificare così ogni suo possibile intervento in battaglia (che in passato era spesso stato decisivo). Probabilmente il nemico aveva studiato il suo comportamento e le sue abilità molto a lungo, e l'aveva considerato una minaccia. Ucciderlo sarebbe stato troppo scontato, troppo poco soddisfacente. Lo stratega nell'ombra del feudo di Fushimi voleva prima renderlo inutile, minando le sue certezze con la prospettiva ineluttabile della morte incombente.

Dopo più di due notti di veglia ininterrotta, Toudou iniziava a perdere lucidità e un pesante cerchio alla testa lo assillava ormai da ore:  si forzava di mantenere la freddezza necessaria, ma più di quarantott'ore di esperimenti ininterrotti, i postumi dell'imboscata e della breve prigionia e il veleno nelle sue vene iniziavano a manifestare il loro effetto. Makishima accanto a lui osservava tutto, attento. Voleva captare tutte le informazioni possibili prima di fare qualsiasi mossa. Percepiva lo stato d'animo di Jinpachi: del resto avevano vissuto, studiato e combattuto gomito a gomito per cinque anni, e non l'aveva mai visto così. Gli appoggiò per un brevissimo istante una mano sulla spalla, come per fargli capire che non doveva reggere tutto quel peso da solo. Non era mai stato bravo con le parole.

Mentre Yoshida-sensei continuava a parlare e nessuno dei due lo ascoltava, un gemito strozzato gelò la stanza: Terada stava avendo un'altra crisi, l'antidoto non era servito a nulla. Toudou gli si avvicinò, impotente, e sollevò le bende che fasciavano la ferita: la pelle era livida e verdastra, un effetto che non aveva mai registrato con i suoi occhi, perchè di solito gli bastava un istante per uccidere. Veloce, pulito, silenzioso. Si sorprese a pensare che, per quanto tutti loro fossero guerrieri preparati a morire in qualsiasi momento, una lenta condanna come quella era molto più difficile da accettare e da considerare una morte onorevole in battaglia. Era tutto inutile, non potevano fare niente.
Dopo qualche istante, il respiro del giovane samurai si spense.

Toudou, come spinto da una forza sconosciuta, si alzò di scatto e si congedò frettolosamente dal medico: ora che aveva visto il veleno in azione doveva fare qualcosa in fretta. Il tempo stava passando troppo, troppo velocemente. Non avrebbe lasciato morire nessun altro. Makishima lo raggiunse nel corridoio e lo fermò, dando finalmente voce ai suoi pensieri: "Non so se può funzionare, Jinpachi, ma credo di avere un asso nella manica per risolvere questa situazione..." esitò, poi inserì effettivamente la mano destra nella manica sinistra del kimono, e vi tirò fuori qualcosa.
Toudou spalancò gli occhi, poi commentò: "E così non hai smesso di fare esperimenti con quegli esseri ripugnanti, Maki-chan".
Sul palmo aperto di Makishima brillava la corazza iridescente di una creatura a otto zampe e altrettanti occhi, perfettamente immobile.

 
Rieccomi qui! Scusatemi per il ritardo, ma la tesi incombe e ho un po' tralasciato questa fanfic negli ultimi tempi çAç Però prometto che riprenderò ad aggiornare più spesso, e presto arriverà anche una piccola sorpresa :) Alla prossima!

_Kurai_


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Capitolo 11
*** Choices ***


E così ho superato anche la soglia dei dieci capitoli, e ancora non riesco a crederci! Mi sto davvero affezionando a questa storia e spero di essere riuscita almeno un po' a coinvolgere chi è passato e passerà di qui a leggere... Siccome sono in vena di festeggiare questo traguardo approfitto di questo spazio per segnalare che ho aggiunto nel primo capitolo la preview dell'illustrazione stupendissima disegnata per me dall'amico disegnatore Sargas, dateci un'occhiata!! *fine pubblicità progresso*
Ora vi lascio al capitolo, buona lettura!!



Capitolo XI

Choices

La grande stanza del daimyo era illuminata da poche lanterne, che creavano un'atmosfera vagamente tetra. Il buio era calato da qualche ora e la riunione strategica avrebbe dovuto già essere iniziata, ma mancavano ancora quattro degli ufficiali di Hakone. Non che qualcuno si aspettasse davvero che Manami si sarebbe presentato, tanto più che Kuroda aveva già fatto rapporto a Fukutomi sulle sue condizioni, ma l'assenza degli altri tre lo preoccupava.

 

Arakita sedeva scomposto sul tatami, continuando a sbuffare. Il dolore alle ferite non lo aveva affatto abbandonato, ma voleva tenersi la mente occupata per non pensarci. Odiava quell'attesa, in un momento del genere stare fermi ad aspettare era anche peggio della morte. Il luogotenente giocherellava distrattamente con un laccio del suo kimono e osservava il daimyo con la coda dell'occhio, attento ad ogni variazione nella sua espressione impassibile. Abbassò lo sguardo sul braccio del suo signore, steccato e fasciato stretto, e sul suo petto lasciato parzialmente scoperto dal lato sinistro del kimono abbassato. Pensarci provocava ad Arakita un dolore sordo, che non aveva nulla a che vedere con quello delle ferite. Avrebbe preferito essere morto piuttosto che non essere stato in grado di impedire che Fukutomi rimanesse ferito in combattimento, anche se il daimyo avrebbe ancora potuto maneggiare la spada. Era una sua responsabilità.

 

Arakita, Fukutomi e Kinjou alzarono lo sguardo nello stesso istante, sentendo il fruscìo dello scorrimento dei pannelli del fusuma che si aprivano per lasciar entrare Shinkai e Izumida. I due salutarono e si sedettero di fronte ai daimyo; Shinkai si sforzava di ostentare la sua solita calma, ma il malessere continuava a tormentarlo. Nella sua vita aveva subìto ferite molto più gravi e aveva combattuto battaglie molto più lunghe e non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo. Si voltò istintivamente verso Izumida, che stava cercando di attirare la sua attenzione con lo sguardo. Il comandante della quinta squadra aprì la mano sopra la sua, lasciandovi cadere un sottile filo d'erba. Abbassò gli occhi.

Per quanto fosse una piccola cosa, Hayato rivolse a Touichirou uno sguardo pieno di gratitudine. Quella piccola cosa solitamente riusciva a calmarlo e a distogliere la sua mente dalle preoccupazioni, e iniziò a rigirarsi distrattamente il filo d'erba tra le labbra.

 

Il silenzio nella stanza era quasi palpabile.

Dopo qualche minuto la porta scorrevole si scostò di nuovo, ma non fu nessuno dei due capisquadra mancanti a entrare: si trattava di Imaizumi e Naruko, che del resto erano tra i più alti in grado dell'esercito di Sohoku presenti sul posto. Kinjou aveva insistito che fossero presenti anche loro, perchè fossero al corrente delle strategie da applicare per il giorno seguente. I due erano stranamente silenziosi, anche se il rosso non riusciva a stare fermo e vagava con lo sguardo da un punto all'altro della stanza. Imaizumi dopo un profondo inchino in direzione dei daimyo si sedette sui talloni senza una parola e rimase lì, in attesa.

Una delle lanterne era già sul punto di spegnersi quando entrarono nella stanza anche Toudou e Makishima, che si scusarono per il ritardo. Jinpachi scambiò una lunga occhiata col daimyo: il suo sguardo sembrava leggermente meno stanco e scoraggiato di poco prima, come se in fondo ai suoi occhi si fosse accesa una fioca fiammella di speranza.

Fukutomi inviò Kuroda a verificare le condizioni di Manami e decise di dare inizio alla riunione strategica. Non c'era più tempo da perdere, tanto più che non vi erano garanzie che il nemico non attaccasse nottetempo, anche se i due daimyo avevano schierato tutti gli arcieri sulle mura in difesa del castello.

 

"La situazione è questa: il veleno era presente sia nella nebbia che sulle lame dei soldati di Fushimi, Fukutomi-san" iniziò Toudou "e sta iniziando a mietere le prime vittime, ma forse grazie al contributo di Maki-ch... di Makishima-san siamo sulla strada giusta per ottenere l'antidoto, e spero davvero di riuscire a sintetizzarlo e a prepararne una discreta quantità entro l'alba. Comunque molti dei soldati sono già stati contagiati e sarà impossibile disporre di loro in combattimento, perchè in ogni caso ci sono tempi di ripresa anche dopo aver assunto l'antidoto. Per questo..."

"...la scelta migliore sarebbe restare in assetto di difesa dentro le mura" convenne il daimyo di Hakone, riconoscendo l'ovvietà di quella conclusione. Nessuno di loro era nelle condizioni ideali per portare avanti un'altra giornata di battaglia in campo aperto, e i rinforzi di Sohoku erano appena sufficienti a bilanciare il numero con quello dei superstiti di Fushimi: avrebbero difeso il castello fino alla morte, fino alla fine.

Che fosse un veleno, una spada o una freccia, erano tutti samurai. Le loro vite erano sempre state appese a un filo, erano sempre state effimere come i sakura che andavano ormai sbiadendo e si staccavano dai rami perdendosi nel vento.

 

 

Le nuvole scure coprivano completamente la luna e il vento formava piccoli turbini di petali rosa, giù a terra. Onoda Sakamichi stringeva in mano il suo arco e tremava leggermente, in piedi nella sua postazione sulle mura. Intravedeva oltre la foresta il bagliore confuso dei fuochi dell'accampamento di Fushimi e nel suo cuore sperava che aspettassero almeno le prime luci dell'alba per attaccare. In realtà avrebbe voluto assistere anche lui alla riunione degli ufficiali con Imaizumi e Naruko, ma essendo una recluta non gli sarebbe stato permesso. Avrebbe voluto andare a vedere come stava Manami-kun, ma quando era passato davanti all'infermeria la stanza era in preda al caos più totale, e la vista di un uomo che vomitava sangue a pochi metri da lui l'aveva definitivamente convinto a non entrare.

Alla fine aveva seguito gli ordini del daimyo ed era salito con gli altri arcieri sulle mura, al fine di approntare una squadra di difesa per scongiurare possibili attacchi notturni.

Era totalmente perso nei suoi pensieri, con lo sguardo fisso oltre le fronde degli alberi, quando sentì una mano picchiettare sulla sua spalla. Sobbalzò, facendo cadere la freccia che aveva in mano.

 

Dall'ombra emerse proprio Manami, barcollante e con la parte del viso sana contratta in un'espressione in parte sofferente e in parte pervasa da una strana smania, come se volesse stare lì, nel suo elemento, a tutti i costi, incurante delle sue condizioni.

Aveva dormito per un po', fluttuando tra il dolore e gli incubi, le voci conosciute e i lamenti degli altri feriti nella stanza. Poi, in un momento di dormiveglia, aveva sentito la voce di Toudou, che non aveva notato la sua presenza, e aveva visto confermato il peggiore dei suoi timori relativo alla nebbia e alle armi avvelenate. Sicuramente anche la kusarigama di Komari doveva essere stata intinta nel veleno, quindi le sue ore erano comunque contate. Non poteva stare fermo, anche se si sentiva dannatamente inutile. Non poteva sprecare così quelle che avrebbero potuto essere le sue ultime ore di vita. Sgattaiolò fuori dalla stanza, non visto.

Avrebbe potuto andare subito alla riunione, ma non era ancora pronto per quello. Dalle voci nel corridoio aveva capito che tutti gli arcieri erano stati radunati sulle mura, e decise di raggiungere i suoi uomini, come se si fosse ricordato solo in quel momento di essere un caposquadra. Fin dalla fuga solitaria del giorno precedente Sangaku aveva lasciato il comando al suo vice, Yuuto Shinkai, il fratello minore del comandante della quarta squadra, che ormai era abituato ai colpi di testa del suo superiore. Non l'aveva ancora individuato, ma aveva visto subito il giovane arciere di Sohoku che lo aveva salvato solo poche ore prima, e gli si era avvicinato per ringraziarlo.

"Sakamichi-kun?" l'aveva chiamato in un sussurro, sfiorandogli la spalla. Il ragazzo sembrava teso e agitato ed era stato preso di sorpresa dal suo arrivo, tanto da lasciar cadere la freccia che rigirava tra le mani, già pronta per essere incoccata in caso di attacchi imprevisti. Onoda rispose dapprima con un balbettìo indistinto, poi riprese l'uso della parola: "Ma...Manami-kun, come va la ferita?" chiese, lo sguardo fisso sulla benda sull'occhio dell'arciere di Hakone.

"Guarirà" mentì Manami con un mezzo sorriso, poi cambiò frettolosamente discorso: "per caso hai visto il mio vice? Si chiama Yuuto, è poco più alto di te e porta un kimono da donna sotto l'armatura, è inconfondibile. Dev'essere in giro da qualche parte a dare ordini, qui sulle mura"

"Vice? Vuol dire che sei un ufficiale?" rispose Onoda, stupito.

"Manami-san!" Yuuto apparve alle sue spalle, armato di tutto punto "Kuroda-san aveva detto che sei rimasto ferito e non avresti combattuto, ma ora non dovresti essere dal daimyo?".

Sangaku sospirò. Gli toccava anche farsi fare la morale dal suo vice adesso...

"Ci stavo andando, ma visto che sto meglio ho voluto prima venire a controllare lo stato delle truppe" glissò.

Sakamichi era sconvolto.

Il suo nuovo amico era addirittura il comandante degli arcieri di Hakone, di cui aveva sentito parlare più volte per la sua leggendaria abilità con arco e frecce. Aveva la sua stessa età ed era arrivato così in alto. E nonostante le sue eccezionali capacità era rimasto ferito in quel modo... Onoda iniziò a preoccuparsi seriamente: nelle file del nemico dovevano esserci dei guerrieri seriamente pericolosi.

"Sakamichi-kun? Ti andrebbe di accompagnarmi alla riunione?" gli chiese Manami dal nulla.

A Onoda cadde di nuovo la freccia per terra per lo stupore.

Sangaku si chinò a raccoglierla e gliela porse, ma nell'alzarsi ebbe una fitta alla testa e un capogiro e barcollò leggermente in avanti, con la mano premuta sull'occhio ferito, come se lo sentisse sul punto di staccarsi.

Ci mise qualche minuto per riprendersi, e quando sollevò lo sguardo i due arcieri lo fissavano con apprensione.

"Ti affido nuovamente il comando, Yuuto-kun. Fà del tuo meglio, io farò di tutto per tornare a combattere domani" si congedò, stringendo i denti. Sakamichi guardò entrambi per un lunghissimo istante e poi ad un cenno di Manami lo seguì, e insieme tornarono verso il palazzo centrale.

 

 

Toudou ascoltava attentamente le parole degli altri, intervenendo qualche volta con le proprie considerazioni. Riusciva a pensare più lucidamente da quando Makishima gli aveva mostrato il risultato dei suoi esperimenti con i ragni.

Negli anni dell'addestramento Yuusuke si era guadagnato il soprannome di "Tsuchigumo" proprio per quella sua strana passione verso i ragni, specialmente quelli velenosi. Tutti i suoi veleni erano ricavati dalle tossine degli aracnidi più rari, che allevava personalmente come preziose creature da compagnia. Il suo capolavoro era proprio l'esemplare che aveva mostrato a Toudou, che portava sempre con sè. Per quanto Jinpachi non si fosse mai abituato agli amichetti ottozamputi del suo compagno di studi e fosse rimasto vagamente scioccato nello scoprire che Maki-chan trasportava quella creatura ripugnante nella manica del kimono, era rimasto decisamente stupito dall'eccezionale capacità del ragno: se messo direttamente a contatto con un veleno, esso era in grado di secernere una sostanza in grado di annullarne gli effetti, come una sorta di antidoto. Chiaramente vi erano diversi effetti collaterali possibili, ma Toudou aveva deciso di fare violenza alla sua natura e non guardare il pelo nell'uovo in una situazione simile, accettando l'aiuto che Makishima gli stava dando.

Proprio in quel momento la soluzione a una buona parte dei suoi problemi risiedeva nelle ghiandole di un ripugnante animale a otto zampe, e anche se significava accettare la propria sconfitta Jinpachi riusciva di nuovo a intravedere un barlume di speranza.

Forse sarebbero riusciti a vedere l'alba del quarto giorno.

Fortunatamente sembrava che Izumida e Arakita, che erano stati feriti direttamente dal nemico, non presentassero sintomi allarmanti: non sapeva se il motivo fosse la loro nota resistenza fisica (nel primo caso legata ad un allenamento durissimo, nel secondo semplicemente a pura ostinazione della peggior specie: se Arakita Yasutomo decideva che avrebbe combattuto fino alla fine, allora si sarebbe spinto fino a che anche l'ultimo brandello di vita non gli fosse strappato via, fino a che non fosse stato certo della sopravvivenza del daimyo. Era semplicemente la sua ragione di vita, e non avrebbe permesso al suo corpo di cedere prima della sua anima. Mai.) o qualche altra strana caratteristica del veleno modificato, ma sembravano entrambi relativamente in salute nonostante le ferite. Forse la situazione era meno terribile di quanto pensasse, forse la sua preoccupazione si era ingigantita dopo tutto quel tempo passato da solo e con poche informazioni.

Poi abbassò lo sguardo, notando le punte delle dita di Hayato.

Doveva parlargli al più presto. Rispose ad una domanda del daimyo sui sintomi dell'avvelenamento e mentre parlava vide la sua stessa preoccupazione accendersi anche negli occhi di Touichirou, che sedeva di fianco a Shinkai. Probabilmente il comandante della quarta squadra aveva subìto una ferita ma non aveva fatto rapporto in merito a Fukutomi, e solo Izumida ne era a conoscenza.

In quello stesso momento il fusuma si aprì per l'ultima volta e l'ingresso di Manami e Onoda destò in tutti gli astanti un malcelato stupore, anche se per motivi diversi.

Jinpachi si chiese se il mondo non stesse seriamente per finire. La presenza di Manami Sangaku ad una riunione strategica era un evento rarissimo, l'ultimo avvistamento risaliva al giorno in cui Fukutomi gli aveva affidato il comando della sesta squadra (ma una volta finita la cerimonia solenne il giovane arciere si era addormentato).

Oltre che dall'arrivo inatteso Toudou rimase stupito anche del fatto che Manami era davvero stato ferito: da quando lo conosceva non aveva mai subito ferite serie in combattimento, nonostante continuasse sistematicamente a cacciarsi nelle situazioni peggiori e più rischiose. Inoltre era una ferita che probabilmente gli avrebbe precluso il tiro con l'arco per un po', o forse per sempre. La sua sofferenza era evidente, e il suo occhio sano mostrava uno sguardo che non gli aveva mai visto.

 

Pochi secondi dopo Kuroda rientrò nella stanza e con tono allarmato iniziò "Manami-kun (si rifiutava di accordargli il -san, era più giovane di lui anche se superiore di grado, e non si era meritato quella promozione se continuava a prendere iniziative in quel modo e rifuggire i suoi doveri) non è in infermeria, probabilmente è... oh." si interruppe, vedendo il più giovane dei caposquadra seduto tra gli altri rivorgergli un mezzo sorriso che aveva in sè qualcosa di vagamente inquietante.

Il daimyo e i due ufficiali di Sohoku erano stupiti per la presenza del giovane Sakamichi, che inizialmente era rimasto immobile sulla soglia, pietrificato dall'atmosfera tesa e pesante nella stanza. Si era girato per andarsene: in fondo doveva solo accompagnare Manami, non restare ad assistere, ma il daimyo di Sohoku fece un cenno nella sua direzione e lo invitò a sedersi accanto a Naruko. Onoda si sedette, tremante e più a disagio che mai.

 

Manami era decisamente al centro dell'attenzione: tutti si aspettavano che dicesse qualcosa e che facesse rapporto su ciò che era accaduto da quando si era allontanato dal campo di battaglia, e lui stesso sapeva che non avrebbe potuto evitare di confrontarsi col daimyo ancora a lungo.

Il silenzio attorno a lui gli appariva come un abisso di delusione e aspettative tradite, condito da una discreta dose di compassione: tuttavia non poteva scoraggiarsi, non poteva tirarsi indietro. Strinse i pugni sulle ginocchia fino a farsi male e alzò lentamente il suo mezzo sguardo verso Fukutomi, che aspettava il suo rapporto.

"Ho capito subito che quel Komari rappresenta una minaccia, dalla velocità con cui ha schivato la mia freccia il primo giorno" iniziò "e non posso negare che la cosa mi abbia spinto a cercare il rischio... riconosco di essere andato oltre questa volta e di non aver seguito gli ordini, prendendomi la libertà di cercare deliberatamente un confronto diretto con il nemico per una sfida personale. Tuttavia credo che la mia mossa avventata non sia stata del tutto negativa, perchè anche se ci ho rimesso molto – Sangaku tacque per un istante, abbassando lo sguardo – ho avuto la possibilità di studiare le mosse e le abilità di Kishigami Komari, raccogliendo notizie per poterlo contrastare. Sono stato costretto al combattimento ravvicinato e il nemico poteva contare su dei ninja nascosti tra gli alberi-"

"Per questo ti ho sempre detto di non allontanarti da solo per cercare il confronto diretto, razza di incosciente" bofonchiò Arakita scuotendo la testa, anche se lui stesso non era il miglior esempio di prudenza in battaglia.

Manami riprese a parlare, incassando senza dire una parola il commento di Yasutomo: "Mi rendo conto di essere stato incosciente, Arakita-san. Sono riuscito a infliggergli alcune ferite superficiali e l'ho ferito a una mano, ero in vantaggio finchè un ninja nascosto non mi ha colpito alle spalle con uno shuriken intinto in una sostanza paralizzante, il che ha rallentato i miei movimenti e ha permesso al nemico di attaccarmi liberamente... avrei dovuto prevederlo" aggiunse, dopo uno sguardo eloquente di Toudou seguito da un lungo sospiro rassegnato. "Se Sakamichi-kun non mi avesse trovato ora sicuramente sarei morto, senza dubbio".

Onoda abbassò gli occhi e arrossì fino alle orecchie, sentendosi improvvisamente al centro degli sguardi di tutti gli ufficiali nella stanza.

"Fukutomi-sama, riconosco di non essere stato all'altezza delle aspettative" riprese Manami, la voce leggermente tremante "e di non meritare il ruolo di responsabilità che mi è stato affidato. Visto che ho permesso che il mio onore di samurai venisse macchiato in questo modo e credo che in ogni caso ormai le mie ore siano contate... mi rimetto alla decisione del daimyo, sono pronto anche ad aprirmi il ventre se lo riterrà una giusta punizione".

La reazione generale fu un silenzio attonito, tra cui si distinse il giovane "intruso" di Sohoku che si lasciò scappare un'esclamazione sconvolta, prontamente messa a tacere: "Onoda-kun, è una questione interna al feudo, non puoi fare nulla" gli sussurrò Imaizumi, nel tentativo di evitare che la situazione degenerasse più di così.

L'espressione del daimyo di Hakone era indecifrabile.

 

 

 

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Capitolo 12
*** Restlessness ***


E rieccomi qui con un nuovo aggiornamento bello denso di avvenimenti. In questo capitolo appariranno un bel po' di nuovi personaggi e il tempo della storia tornerà indietro fino all'inizio del secondo giorno, per raccontare gli eventi accaduti a Sohoku dopo la partenza dei soldati.
Poi, che dire...il capitolo casualmente inizia con il punto di vista di Midousuji e oggi è il suo compleanno, quindi ne approfitto per fargli gli auguri di buon kimompleanno e gli regalo perfino un alleato inaspettato u.u Ma ora basta anticipazioni... vi lascio alla lettura e spero che a qualcuno farà piacere di recensire :3 Alla prossima!

 

Questo capitolo è dedicato a GrammarNazi95, che mi segue fin dall'inizio (spero che l'apparizione di un certo personaggio ti faccia piacere XD)
 


 

Capitolo XII

Restlessness

Akira si svegliò nella tenda buia e vuota con la sensazione di non aver dormito affatto.

Probabilmente era davvero così, visto che la luna era ancora alta nel cielo e si dilettava a nascondersi dietro le nubi grigiastre. Il daimyo aveva percepito chiaramente per un istante una presenza fuori dalla tenda e fece per alzarsi dal suo futon: solo allora si rese conto della spossatezza che gli era rimasta appiccicata alle membra, come un fastidioso souvenir della battaglia. La testa gli faceva ancora male come se fosse sul punto di scoppiare, ma almeno il silenzio era totale. In quel poco tempo in cui aveva dormito nella sua mente aveva visto solo immagini di morte, incubi che credeva avessero smesso di tormentarlo anni prima (del resto, tutto aveva smesso di tormentarlo da quando aveva deciso consapevolmente di chiudere il suo cuore a qualsiasi emozione) e perfino il volto in dissolvenza di sua madre, che si era lentamente trasformato in quello di Koutarou. Non voleva pensarci, ma la sua testa lo voleva convincere del contrario.

Mormorando un'imprecazione si alzò del tutto, indossò un haori viola sopra lo yukata nero e uscì dalla tenda con la katana che era appartenuta al padre di Ishigaki appesa all'obi. Davanti a lui c'era un ninja completamente vestito di nero con occhi piccoli da tanuki e una chioma rossastra e disordinata, che Midousuji non aveva mai visto prima. Le due guardie poste a protezione della tenda del daimyo giacevano accanto all'ingresso, apparentemente addormentate. Sottili aghi metallici li avevano colpiti con spaventosa precisione nell'unico punto del collo lasciato scoperto dall'armatura, mandandoli tra le braccia di Morfeo.

Akira non si scompose e rivolse al ninja uno sguardo a metà tra la curiosità e la minaccia, e con il pollice tirò fuori di qualche millimetro la lama d'acciaio della spada dal fodero.

Lo shinobi salutò con un inchino fin troppo rispettoso e fissò lo sguardo aguzzo negli occhi del daimyo di Fushimi, spiegando la ragione della sua visita senza tanti preamboli: "Sono Machimiya Eikichi, capoclan dei ninja di Kureminami, un piccolo territorio dell'Ovest. Sono qui per proporre un'alleanza che porterà giovamento anche a voi, mio signore."

Il sorriso del ninja aveva qualcosa di spaventoso e oscuro, ma sembrava anche dannatamente convincente. In qualunque altro momento Midousuji l'avrebbe fatto uccidere senza nemmeno ascoltarlo per aver tentato un'incursione nell'accampamento, ma c'era qualcosa in quel personaggio misterioso che lo attirava: forse era la sicurezza con cui il ninja si era posto davanti a lui, o forse era semplice curiosità. Avrebbe sempre potuto farlo uccidere in seguito.

 

"Non sei venuto da solo. Fai scendere il tuo compagno dall'albero e spogliatevi di tutte le armi, altrimenti non intendo concedervi udienza e vi darò la morte qui e ora" rispose Akira, senza alcuna variazione nella voce.

Eikichi se lo aspettava. Del resto la fama di Midousuji Akira aveva attraversato l'intero Giappone per un motivo, e lui stesso sarebbe rimasto stupito se non si fosse accorto della presenza di Ryou sull'albero poco distante, pronto a proteggerlo se il daimyo lo avesse attaccato.

Ibitani Ryou scese dall'albero con un salto atterrando con la leggerezza di una piuma, per poi inchinarsi a sua volta davanti al signore di Fushimi.

I due acconsentirono e si privarono del loro arsenale, seguendo Midousuji dentro la tenda.

"So che siete impegnato in una battaglia importante con il grande feudo di Hakone, mio signore. Il mio clan coltiva da anni l'odio e il risentimento verso il daimyo Fukutomi, colpevole di aver decimato il nostro popolo e affamato la nostra gente. Lasci che Kureminami si unisca alla vostra causa, Midousuji-sama, faremmo qualsiasi cosa per poter ottenere la nostra vendetta. Ho visto in voi il vero potere e la grandezza, e io non sbaglio mai. Siete destinato a grandi imprese, ne sono certo."

"Le lusinghe non mi colpiscono, continua." ribattè stancamente Midousuji, sospirando "cosa vorresti in cambio? E faresti davvero qualsiasi cosa?"

"Chiedo solo di combattere al vostro fianco e vedere affondare il feudo di Hakone nel sangue, se poi il mio contributo vi renderà soddisfatto accetterò qualsiasi carica o ricompensa che vorrete darmi" Machimiya rimase in silenzio qualche istante, poi riprese "Kureminami ha già fatto la sua mossa e ve la offro su un piatto d'argento: abbiamo osservato la battaglia e spiato le comunicazioni tra i due feudi e sappiamo che Sohoku ha inviato i suoi rinforzi ridando linfa all'esercito di Hakone ormai prossimo al collasso... si dà il caso che in questo preciso momento centinaia dei miei uomini migliori stanno attaccando Sohoku da tutti i lati, approfittando del fatto che i migliori guerrieri sono giunti in soccorso di Hakone. So che quel feudo è il vostro prossimo obiettivo e questo è il momento migliore per attaccarlo. Se acconsentirete a questa alleanza vi farò dono del castello del daimyo di Sohoku, a me è sufficiente essere l'artefice della fine di Hakone e veder morire Juichi Fukutomi con i miei occhi, non chiedo altro".

 

Midousuji era stupito. Davvero quell'uomo era così accecato dalla vendetta da non chiedere nient'altro in cambio? Davvero gli stava offrendo un territorio che bramava e grazie al quale avrebbe finalmente raggiunto il suo obiettivo della vittoria suprema? Sicuramente quel Machimiya avrebbe rivendicato qualcosa per sè alla fine e quelle dichiarazioni erano di facciata, ma Midousuji pensò che sarebbe stato interessante vedere fino a che punto avrebbe potuto spingersi.

 

* * *

 

Fukutomi soppesò le parole che stava per pronunciare prima di esprimere il suo insindacabile giudizio: tutti gli ufficiali e il daimyo di un altro feudo lo stavano ascoltando e non poteva permettersi di suonare troppo clemente o troppo severo, ne andava della stabilità dei rapporti e dell'umore degli uomini in un momento del genere. Sì, il capitano della sesta squadra aveva peccato di insubordinazione e aveva rischiato di farsi uccidere, ma in fondo aveva messo in pericolo solo sè stesso e probabilmente era già stato colpito dal veleno... accordargli il seppuku sarebbe stato un sollievo o una punizione? O forse il rimorso e l'umiliazione gli avrebbero insegnato di più, sempre che fosse arrivato a vedere l'alba del quarto giorno? Per quanto l'onore di Manami Sangaku fosse andato in pezzi, Fukutomi Juichi non gli avrebbe permesso di tagliarsi il ventre in un momento simile. L'arciere avrebbe ancora potuto riscattarsi, avrebbe potuto ancora fare qualcosa.

"Per quanto tu mi abbia deluso penso che sia troppo presto per arrenderti, Manami-kun" disse infine il daimyo di Hakone "mi fido ancora di te, se sei in grado di combattere potrai dare il tuo contributo a difendere il castello domani e riscattare il tuo onore. Ti condanno a sopravvivere, Manami Sangaku".

Sakamichi si lasciò scappare un sospiro di sollievo, ma il momento durò poco: la situazione era destinata a precipitare sempre più velocemente, e le conseguenze iniziavano a farsi ancora più imprevedibili.

Uno strano trambusto anticipò di qualche istante lo spalancarsi della porta scorrevole esterna, che quasi uscì dai cardini. Kinjou Shingo, che fino a quel momento aveva affrontato la situazione con calma e pacatezza nonostante la difficoltà del momento, si alzò in piedi di scatto alla vista del giovane uomo che entrò nella stanza, con il viso insanguinato parzialmente coperto da un ciuffo di capelli scuri e mossi e il corpo martoriato da innumerevoli ferite. Doveva essere giunto fin lì a cavallo, guidato solo dalla forza della disperazione.

 

"Kinjou-sama" ansimò il giovane quasi senza fiato "Sohoku è stata attaccata dal feudo di Kureminami, hanno aspettato che lasciaste il castello per circondarci da tutti i lati..." porse una missiva al daimyo con il sigillo del luogotenente Tadokoro, per poi collassare al suolo, privo di sensi. Una freccia nera spuntava dalla sua schiena.

"Teshima-san!" esclamarono all'unisono Naruko, Imaizumi e Onoda, quest'ultimo con una nuova esplosione di terrore nello sguardo.

 

* * *

Issa Kaburagi aveva iniziato a scalpitare già da quando aveva captato la notizia da uno dei suoi nascondigli segreti, condiviso con il suo migliore amico, Ryuuhou Danchiku, che aveva la sua stessa età e come lui aveva appena iniziato il suo ultimo anno di addestramento. Da dentro quell'armadio inutilizzato nella stanza vuota adiacente a quella del daimyo si sentiva tutto quello che succedeva all'interno, e i due non si erano persi una parola del messaggio recapitato dal soldato di Hakone arrivato di gran carriera alle prime luci dell'alba.

Issa e Ryuuhou sgattaiolavano spesso fuori dal dormitorio comune dei soldati di Sohoku per assaporare l'aria dell'avventura e passare lunghe nottate a parlare del loro radioso futuro e delle battaglie che avrebbero combattuto fianco a fianco, una volta conclusi i duri anni dell'addestramento.

Kaburagi moriva dalla voglia di combattere. Si allenava più di tutte le altre aspiranti reclute e si offriva spesso volontario per le mansioni che gli permettevano di mettersi in luce rispetto agli altri; in realtà la sua incontenibile energia e voglia di mettersi in mostra per iniziare al più presto una radiosa carriera militare al servizio del daimyo di Sohoku non stava ottenendo i risultati sperati (soprattutto a causa di un fatto increscioso accaduto qualche settimana prima) ma Issa non si arrendeva: il suo sogno si sarebbe presto avverato, e perfino Kinjou-sama avrebbe riconosciuto il suo valore.

Non era passato molto tempo dal fattaccio che gli era valso una settimana intera a pulire le latrine e le stalle dei cavalli, e ancora Ryuu lo prendeva in giro, ridendo della sua avventatezza nel giocare uno scherzo del genere.

In breve il giovanissimo aspirante samurai era sparito per uno dei suoi giri di perlustrazione solitari privi di un reale scopo, per poi tornare di corsa e allarmare l'intero castello dichiarando di aver visto gli stendardi di un enorme esercito in lontananza, che avanzava verso il villaggio. Non sapeva nemmeno lui perchè lo aveva fatto: la calma piatta lo annoiava e voleva dare una scossa a un ozioso pomeriggio primaverile, ma aveva pagato cara la sua ragazzata, ottenendo una lavata di capo memorabile e una punizione che gli sarebbe rimasta incisa nella memoria (soprattutto olfattiva) per un bel po'.

Ma questa volta la questione era seria: sembrava che finalmente qualcosa si stesse muovendo e che il feudo di Hakone fosse in guerra con un nemico estremamente temibile, tale da ridurre in ginocchio perfino i samurai più forti dell'intero Giappone. Il daimyo di Sohoku aveva accordato di partire con un gruppo di soldati per portare rinforzi, forte della stabilità dei propri confini e della cieca fiducia nel luogotenente Tadokoro e preoccupato che il suo territorio potesse essere l'obiettivo finale del daimyo di Fushimi.

Era una battaglia, una battaglia vera!

Issa decise che avrebbe fatto di tutto pur di unirsi al gruppo di samurai scelti per andare ad Hakone, e gli parve di vedere nello sguardo di Ryuu la stessa risoluzione. Aspettarono che il luogotenente Tadokoro informasse i soldati e che il trambusto nel corridoio si placasse per uscire indisturbati con l'obiettivo di aggregarsi alle truppe dei rinforzi.

Usciti dalla stanza però ebbero una brutta sorpresa: le due guardie del turno di pattuglia di quell'ala del castello, nonchè i loro maestri di kenjutsu, li intercettarono subito nel corridoio.

"Cosa stavate facendo lì dentro?" la voce di Teshima-san suonava come una velata accusa, che del resto sarebbe stata anche giustificata visti i precedenti "Vogliamo partire per Hakone, Teshima-san" rispose Kaburagi, con un'espressione di sfida.

"Voi non potete partire, non avete completato l'addestramento. Quella è una battaglia, non è uno scherzo. E in ogni caso non dovreste essere qui, andrò a fare rapporto al daimyo immediatamente" aggiunse subito, intuendo il motivo delle espressioni eccitate dei due e scambiandosi un'occhiata con il giovane uomo dai capelli biondi che gli stava accanto.

"Non essere così duro con loro, Junta..." commentò a bassa voce Hajime Aoyagi una volta terminata la lavata di capo ai due ragazzi e dopo averli scortati fino al dormitorio ormai semivuoto"così rischiamo di ottenere l'effetto contrario, lo sai vero? Anche noi saremmo stati così, se non ci fosse stato Tadokoro-san a portarci sulla strada giusta, non credi?". Hajime non era solito parlare così tanto nè criticare i suoi metodi, e Teshima rimase interdetto per un istante. Lui e Aoyagi erano sempre stati sulla stessa lunghezza d'onda, avevano sempre combattuto insieme, allora perchè ora lo criticava? Forse Hajime aveva preso in simpatia quelle due reclute perchè gli ricordavano gli anni del loro addestramento, e Junta finì per lasciar cadere il discorso, sicuro che le sue parole avrebbero persuaso Issa e Ryuu.

 

I soldati nel giro di un'ora erano partiti: il sole aveva appena fatto capolino dietro le colline e Issa sospirava, pensando all'occasione che aveva perso e guardando i samurai che si allontanavano sempre di più dal castello, annunciati dagli stendardi gialli e rossi. Quanto avrebbe voluto essere con loro...

 

Poi gli venne un'idea. Un'altra delle sue idee terribilmente stupide ma allo stesso tempo irresistibili.

"Ryuu? Sei con me?"

L'amico annuì, e insieme sgattaiolarono fuori, attenti a non incontrare nuovamente altri soldati nei corridoi.

Nel feudo era rimasta più della metà dell'esercito, perlopiù reclute e samurai alle prime armi, affiancati da soldati di comprovata esperienza di cui il daimyo si fidava e a cui aveva affidato la difesa in sua assenza. Tra questi vi era Tadokoro Jin, il suo fedele luogotenente e compagno di mille battaglie, l'unico degno di sostituirlo in un momento del genere. Junta Teshima e Hajime Aoyagi erano i suoi sottoposti prediletti, e proprio in quel momento erano a colloquio con Tadokoro-san per fare rapporto sulla situazione. Avevano insistito loro per rimanere, al fine di sostenere e aiutare il loro mentore durante l'assenza di Kinjou.

 

Kaburagi e Danchiku questa volta riuscirono nell'intento: i due conoscevano alla perfezione tutte le scorciatoie e i passaggi per attraversare il feudo senza incontrare anima viva, grazie alle loro fughe notturne e alle loro esplorazioni. In pochi minuti giunsero al loro punto di osservazione preferito, in cima alla rupe che segnava l'estremo confine occidentale dei territori di Sohoku, dal quale si snodava un ripido sentiero nascosto che avrebbe permesso loro di raggiungere in fretta il contingente guidato dal daimyo. Una volta aggregatisi ai soldati e data prova del loro coraggio, sicuramente nessuno li avrebbe scacciati e avrebbero combattuto per l'onore di Sohoku: magari sarebbero stati promossi di grado e non avrebbero più avuto bisogno di terminare quell'inutile e noioso addestramento. Loro dovevano brillare, dovevano distinguersi. Non avrebbero fatto gli uccellini in gabbia ancora per molto.

 

Purtroppo i kami avevano per loro progetti molto diversi.

Nel folto della foresta che circondava i possedimenti di Kinjou, che avevano attraversato solo qualche volta durante l'addestramento, la luce del sole arrivava a malapena e i soli rumori che sentivano erano i versi degli uccelli, che sembravano stridule esclamazioni di rimprovero. Avevano deciso di tagliare per il bosco, in modo da intercettare più in fretta le truppe, ma la nebbia del mattino iniziò ben presto a confonderli.

Poi, prima che potessero accorgersene, una pioggia di kunai e aghi avvelenati si abbattè su di loro.

La nebbia si diradò lentamente.

Erano circondati da uomini vestiti di nero con placche di metallo fissate sulla fronte, che portavano incisi i due kanji di "Kureminami"ed erano armati fino ai denti. Era chiaro che il loro obiettivo sarebbe stato il castello di Sohoku, e che volevano fare affidamento sull'effetto sorpresa e sull'allontanamento del daimyo e di molti dei soldati dell'èlite.

Tutti questi pensieri saettarono nella testa di Issa, mentre con la katana già sguainata stretta nella mano destra cercava di sopportare il dolore di una mezza dozzina di aghi che gli avevano trafitto gambe e braccia, che tremavano incontrollabili.

"Ryuu...?"

Danchiku non rispose.

"R-ryuu??" Kaburagi non voleva voltarsi, non voleva abbassare la guardia davanti a tutti quei nemici e soprattutto temeva che voltandosi avrebbe scoperto il motivo per cui il suo migliore amico non gli rispondeva. Non era sicuro di volerlo scoprire, ma gettò comunque uno sguardo oltre la sua spalla per un infinitesimo di secondo, mentre i ninja si avvicinavano sempre di più, circondandoli come un branco di cani selvatici che si diverte a giocare e infierire sulle prede.

Ryuuhou era caduto in ginocchio e con una mano cercava di fare perno con la spada per rialzarsi, con l'altra stringeva l'impugnatura di un pugnale da lancio che gli spuntava dal petto, nel tentativo irrazionale di estrarre l'arma che stava straziando le sue carni.

"I-Issa..." sussurrò Ryuu con una voce flebile e irriconoscibile "... lasciami qui... torna al castello... ad avvisare Tadokoro-san..."

Issa rimase pietrificato per un lunghissimo istante.

Non poteva tornare indietro.

Non poteva lasciare Ryuuhou lì, da solo.

Non gli avrebbero creduto, visti i suoi precedenti.

Avrebbe dovuto sconfiggere i nemici, superarli e andare avanti, raggiungere Kinjou e i suoi uomini a costo della vita.

"Che crudele ironia" pensò "fuggo per inseguire una battaglia lontana e trovo il nemico qui, alle porte di casa...".

Kaburagi si mise in guardia, nonostante il dolore che si propagava dai punti dove gli aghi l'avevano colpito. Tremava visibilmente ormai, ma alzò lo sguardo con falsa sicurezza verso il gruppo di ninja, che ormai erano vicinissimi.

 

Koga Kimitaka come ogni mattina stava pattugliando a cavallo i confini del feudo. Erano passati poco meno di tre anni dall'ultima volta che aveva preso parte a una battaglia, e poco prima aveva guardato il contingente allontanarsi e sparire oltre l'orizzonte con la morte nel cuore, come ogni volta.

Tre anni prima i due feudi di Hakone e Sohoku avevano combattuto per l'ultima volta l'uno contro l'altro, e Sohoku aveva avuto la peggio. La situazione si era risolta diplomaticamente e ne erano usciti comunque a testa alta, ma la vita di Kimitaka era cambiata per sempre.

 

Koga era l'unico ad aver visto Kaburagi e Danchiku sgattaiolare fuori dal castello verso il limitare della foresta, ma aveva esitato a fare rapporto. Aveva preso in simpatia le due giovani reclute, e se non avesse temuto di compiere un'insubordinazione violando gli ordini sarebbe partito verso Hakone anche di nascosto, esattamente come loro. Era frustrato, dannatamente frustrato.

A causa della sua ostinazione, che l'aveva portato a tentare una mossa suicida, tre anni prima aveva perso la possibilità di maneggiare bene la spada per sempre. L'aveva fatto per proteggere il daimyo e il feudo, ma ora il massimo che poteva fare era restare di vedetta, fare brevi turni di pattuglia, addestrare le reclute e proporre strategie.

Non aveva potuto alzarsi dal letto per più di un anno per le fratture e le conseguenze di una brutta infezione, e nel frattempo i suoi compagni l'avevano lasciato indietro. Tutto ciò che desiderava era combattere per il daimyo, e invece tutto si era infranto come le sue ossa in quella rovente giornata estiva.

Il braccio gli mandò una fitta, come se si fosse sentito preso in causa; gli faceva ancora male dopo tutto quel tempo, così come la vecchia ferita alla gamba, che qualche volta lo faceva zoppicare vistosamente. Sospirò.

 

Rimase perso nei suoi pensieri per un tempo imprecisato, poi un rumore tra gli alberi attirò la sua attenzione. Spronò il cavallo verso il sentiero e quasi subito dovette arrestarsi, perchè una pioggia di frecce dalle piume bianche e verdi gli sbarrò la strada, rischiando di farlo disarcionare. Il bianco e il verde erano i colori del clan ninja di Kureminami, famoso per gli attacchi a sorpresa, che evidentemente aveva deciso di prendere di mira proprio Sohoku, approfittando della situazione particolare. Voltò il cavallo in un istante, tornando indietro velocemente come mai in vita sua.

Kimitaka arrivò davanti al luogotenente Tadokoro proprio nell'istante in cui Teshima e Aoyagi si stavano congedando dopo aver fatto rapporto.

"Siamo sotto attacco, Tadokoro-san!" entrò nella stanza del daimyo senza annunciarsi, spalancando la porta scorrevole con foga "Un gruppo di arcieri di Kureminami mi ha attaccato appena fuori dai confini, dobbiamo approntare la difesa immediatamente!" riprese fiato, poi ricordò all'improvviso "e... credo che quelle due reclute problematiche, Danchiku e Kaburagi, siano fuggite per raggiungere Kinjou-sama...non vorrei che..."

 

Un silenzio gelido cadde nella stanza.

 

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