Tales from another broken home

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Don't want to be an American Idiot ***
Capitolo 2: *** Some call it slums, some call it nice ***
Capitolo 3: *** The fire burns from better days ***
Capitolo 4: *** Left me here alone ***
Capitolo 5: *** So go do what you like make sure you do it wise ***
Capitolo 6: *** I am my own worst enemy ***
Capitolo 7: *** The worry rock has turned to dust fallen on our pride ***
Capitolo 8: *** I'm not fucking around ***
Capitolo 9: *** Today is the first day of the rest of our lives ***
Capitolo 10: *** Give me a long kiss goodnight ***
Capitolo 11: *** Do you know what's worth fighting for? ***
Capitolo 12: *** Bite my lip and close my eyes ***
Capitolo 13: *** I just want to get some peace of mind ***
Capitolo 14: *** Nothing's left to cling onto, you got to hold on to yourself ***



Capitolo 1
*** Don't want to be an American Idiot ***


TALES FROM ANOTHER BROKEN HOME
 
CAPITOLO PRIMO : Don’t want to be an american idiot
A Charlie non piaceva andare a fare la spesa. A Charlie non piaceva uscire di casa. E l’ultima cosa che avrebbe voluto fare in quel momento era andare a comprare al piccolo supermarket vicino casa. Si trascinava per l’ampia strada stretta tra le solite due file di vecchie casette instabili con giardino e una sfilza infinita di macchine di ogni tipo. Il cielo era grigiastro, smorto e inutile. “Color vomito” pensò il ragazzo, misurando a piccoli passi il selciato dismesso della via. Oltretutto, se proprio vogliamo vedere, odiava il supermercato perché era lì che si riunivano … loro. Si, quei ragazzi di periferia, quelli strani. Quelli che gli mettevano ansia ogni volta che gli passava vicino. Obiettivamente, anche lui era un ragazzo “di periferia”. Ma lui non si drogava, non beveva, non si tingeva i capelli, non picchiava la gente e non faceva graffiti sui muri. Lui era un ragazzo per bene che cercava di attenersi alle regole, forse in contrasto con quel nullafacente ubriacone di suo padre. Viveva nella più triste e degradata periferia della California. Una cittadina scialba e fatiscente, con quelle case di cartongesso con giardinetto. Quelle cittadine dove crescevano i poco di buono. Charlie, nonostante avesse passato i suoi quindici anni in questa situazione che lui considerava “umiliante”, non si era dato per vinto e si era prefissato l’obiettivo un giorno o l’altro di andarsene da quel buco. Lui non era come gli altri, aveva delle idee ferrate e delle aspettative. Leggeva, si documentava nonostante la scuola fosse assolutamente inutile e a casa non c’era altro che il padre più sciatto del mondo. Charlie odiava tantissimo suo padre, ma non aveva il coraggio di andarsene nascondendosi dietro alla scusa “e se io me ne vado, il mio vecchio che fa?”. Oh si, Charlie sapeva che era una stupida scusa. Un qualcosa che cercava di inculcarsi nel cuore per non sentirsi colpevole della sua vigliaccheria che lo teneva saldo in casa propria. Tirò un calcio a una lattina accartocciata e affrettò il passo. Prima arrivava a destinazione meglio era. Il piccolo supermarket era sfornito di tutto, e in più quella poca roba che vendeva era scadente. Quando arrivò davanti al vecchio negozio, la cui insegna a led penzolava oramai inutilizzabile, ebbe voglia di girare i tacchi e andarsene. Ma se voleva mangiare qualcosa doveva per forza arrischiarsi all’interno. Seduti sull’asfalto davanti a lui stavano una discreta quantità di ragazzi di ogni età, uno peggio dell’altro. Charlie era la pecora nera lì. Ma ci voleva così tanto per … oh, insomma al diavolo! Lui odiava la gente senza aspirazioni, ed era quello il motivo del perché odiava la sua città e la gente della sua città. Erano spenti e senza desideri. Charlie si avviò impettito, sotto gli sguardi dei ragazzi, verso l’entrata del supermarket tentando di darsi un’aria rispettabile. Cosa che non gli riusciva molto semplice, data la sua bassezza e la sua faccia da bamboccio.
-Ehi
Una voce lo fece sobbalzare leggermente. Ma dai, non poteva essere rivolta a lui! C’era così tanta gente in giro … eppure non seppe perché ma sembrava proprio che la voce stesse parlando con lui. Non si voltò e entrò nel supermercato. Latte latte latte … eccolo lì! Si avvicinò velocemente all’ultima bottiglia di latte rimasta nel banco frigo.
-Di solito si risponde ai saluti.
Una mano si posò sulla sua spalla e Charlie si voltò con un urletto. Davanti a lui c’era un ragazzo abbronzato, con i capelli bronzei e spettinati. Charlie lo fissò negli occhi con un certo terrore. Vide chiaramente le pupille molto dilatate (brutto segno per Charlie) e uno strano luccichio nella profondità degli occhi nocciola dello sconosciuto.
-Non credo di conoscerti.
Ecco, bravo Charlie, fai vedere quanto sei fifone … ottimo lavoro … pensò sarcastico picchiandosi mentalmente per aver rivelato subito la sua evidente paura nei confronti dei propri coetanei.
-Ma davvero? Io credo di conoscere te Charles Matthew Bailey.
Lo sconosciuto rise. Una risata roca e bassa, catarrosa.  Charlie deglutì. Come diavolo faceva a conoscerlo?! E come mai lo importunava così?!
-Come fai a saperlo?
Con un gesto del capo il ragazzo gli indicò la sua tracolla dove c’era scritto “Charles Matthew Bailey”. Charlie si rilassò impercettibilmente, almeno era sicuro di non essere seguito di nascosto … ma aspetta un attimo?! Arrossì per la sua stupidità. Con il nome scritto sulla borsa a caratteri cubitali cosa si aspettava, che non lo vedesse? Ma quanto era stupido!
-Beh piacere. Io mi chiamo Jake Harris.
Il ragazzo gli tese la mano. Charlie non poté far a meno di notare che sulle nocche aveva tatuato qualcosa che però non riuscì a leggere. Gli strinse tremante la mano.
-Ehi Charles, mica mordo!
Jake rise di nuovo gettando la testa all’indietro, e rivelando una considerevole quantità di collane appese al collo.
-Cosa vuoi da me?- Charlie tentò di darsi un contegno
-Niente, volevo semplicemente parlarti. Di dove sei?
-Di qui …?- la risposta di Charlie risultò più come una domanda che altro.
-Non sapevo esistesse la banda del supermercato!- Jake scoppiò ancora una volta a ridere. Quella cosa a Charlie dava un po’sui nervi.
-Temo di non seguirti … - che intendeva con banda del supermercato?!
-Di che banda sei, Charles!- la voce di Jake era divertita
-banda intesa come … gruppo di ragazzi che … - il ragazzo cominciò a impappinarsi con la lingua.
-Si, intesa come quello.
Charlie tossicchiò. Che dire adesso? Bande? Una cosa che lui aveva sempre ripudiato.
-Ehm, veramente non faccio parte di nessuna banda- lo disse a voce bassa, nel tentativo (idiota) di non farsi udire, ma Jake lo udì, eccome se lo udì
-Cosa?! Non sei in nessuna banda?!?!
Charlie alzò lo sguardo spaventato. La voce del ragazzo era cambiata, era più …
-Ma allora dobbiamo rimediare Charles!
Questa volta la voce pareva quasi esaltata.
-No, scusa Jake, ma io sono contrario.
Incrociò le braccia sul petto e tentò di risultare convincente. Jake ghignò
-E perché sei contrario alle bande Charles? Ti hanno fatto qualcosa di male?
Rise di nuovo e questa volta la risata era graffiante. Charlie non riuscì a reprimere un brivido. Stava rischiando e lo sapeva.
-No ma … trovo inaccettabile il loro modo di agire e di inserirsi nella società odierna.
Deglutì e sentì la guance scaldarsi. Si stava rendendo ridicolo … abbassò lo sguardo sulle sue vecchie scarpe da ginnastica
-Sbaglio o dici così perché non hai amici?
La voce del ragazzo scosse Charlie come un colpo di vento improvviso. Lui … diamine, lui non aveva amici, questo era ovvio ma … Che poi era tanto ovvio che non avesse amici? Beh si, se non apparteneva a nessuna banda. Ecco un’altra cosa che dava sui nervi a Charlie. Se non appartenevi a una banda potevi sognarti gli amici. Non che gli servissero, ovviamente però a volte avere qualcuno con cui parlare non gli avrebbe fatto male. Scosse la testa arrossendo ancora di più.
-Ma ci avrei scommesso la testa- Jake gli alzò il mento con due dita. A Charlie quel contatto diede oltremodo fastidio. Aveva le dita che puzzavano di fumo.
-Sai Charles, ti andrebbe di venire a conoscere i miei amici?
A Charlie sembrò che nella voce dell’altro ragazzo ci fosse qualcosa di strano, come di falso, di preconfezionato … ma forse era soltanto la sua impressione
-Ehm io veramente … - tentò di sottrarsi alle dita di Jake, premute fastidiosamente sotto il suo mento.
-Sarebbe scortese rifiutare … vieni con me, non ti faccio nulla, voglio solo renderti partecipe della vita mondana di questa città.
Il sorriso sinistro del ragazzo fece rabbrividire Charlie da capo a piedi.
-Va bene vengo con te.
Charlie sospirò forte, sicuro di aver appena compiuto un errore madornale ma non gli sembrava il caso di insistere ancora. Quel Jake sarebbe stato capace di spazientirsi e … non voleva neanche pensare a cosa gli avrebbe potuto fare.
Il giovane sorrise soddisfatto e lo sospinse verso la porta del supermarket
-E’ così che si parla Charles! Muoviamoci, il latte lo comprerai dopo.
Charlie prese un profondo respiro cercando di calmare il suo cuore impazzito e seguì Jake senza fiatare. Per la prima volta lo osservò attentamente. Era decisamente carino a ben vedere, se escludiamo l’abbigliamento di felpa sformata e jeans troppo stretti. Per il resto era accettabile. Anche se le collane erano troppe e Charlie non approvava i tatuaggi, che notò sul polso lasciato scoperto dalla felpa e sulla scapola. A dirla tutta, su quell’argomento Charlie era un po’talebano. Notò che aveva un pacchetto di sigarette in tasca, che prontamente gli vennero offerte.
-No grazie non fumo- fu la risposta stizzita
-Ma come siamo seri Charles – anche il tono canzonatorio di Jake gli dava sui nervi.
-Non è questione ma il fumo fa male. L’ho letto che agisce sui polmoni in maniera negativa, intaccandoli di batteri!
-Fai passare la voglia di vivere ragazzino.
Jake si scostò il ciuffo dagli occhi e inspirò il fumo della sigaretta soffiandolo poi nell’aria. Lo guardò sorridendo con occhi penetranti.
-Ti ricordo che ho 15 anni compiuti! Anzi, ne ho quasi 16 e non ti permetto di chiamarmi ragazzino!
-Va bene, mi scusi Mr. Bailey … - Jake sogghignò. Quel ragazzo lo faceva sganasciare dal ridere. Non vedeva l’ora di presentarlo agli altri.
-Dove abiti?
-Non sono affari tuoi!- replicò Charlie, per poi aggiungere a bassa voce – Senti, se proprio devi chiamarmi preferirei che mi chiamassi Charlie.
-Oh bene, mi ero stufato di chiamarti Charles! E sentiamo, che ne sai delle bande visto che ti sto portando all’interno di una di esse? Cioè, immagino che qualche nome di banda lo saprai!
-Beh, io … so per esempio che una delle bande più importanti i questa città è la Bones Hole Club ma non saprei bene come definirla … - Charlie si voltò a guardare Jake in attesa di risposte.
-Ah, quelli … ma sono degli imbecilli fidati del sottoscritto. Non sono gente come noi, vera e pura gente di periferia.- Charlie poté sentire l’orgoglio nella voce di Jake – quelli sono dei figli di ricconi che se la spassano da “trasgressivi” ma ti posso assicurare che basta che gli tiri uno schiaffo sul braccio che subito vanno a piangere dalla mamma.
-Scusa Jake ma voi siete tipo quelle losche combriccole di New York o LA o Chicago? Tipo i Bloods o roba simile?
Il ragazzo rise  e per poco non si soffocò con il fumo
-Ma scherzi?! Quelli sono criminali Charlie, noi siamo un semplice gruppo di amici niente di più! Ok, siamo una teppaglia ma non mi pare il caso di paragonarci a quelli lì! Dio, come sei innocente!
-Oh … - Charlie si scostò i capelli dal viso –Quindi non fate niente di male?
In realtà avrebbe voluto dire “non mi farete niente di male, vero?” ma gli sembrò un po’da poppanti chiederlo. Peccato che Jake colse al volo il suo messaggio
-No, tranquillo, nessuno ti toccherà con un dito. Siamo gentiluomini, che ti credi?- il ragazzo ridacchiò, soffiando un anello di fumo.
-Quindi non rischio niente?!- Charlie aveva decisamente paura di venir trattato con malagrazia e in più era la prima volta che parlava così tanto con un suo coetaneo.
-Che palle Charlie! Ti ho detto prima che nessuno ti sfiorerà! A meno che non lo voglia tu … - Jake fece un sorrisino malizioso.
Charlie non capì subito il doppio senso e lo guardò un po’stranito. Dopo un po’finalmente lo capì e assunse un’espressione offesissima.
-Ehm … ma si potrebbe sapere dove si trova il vostro covo?
Si stavano allontanando dal centro città e questo a Charlie non andava giù.
-Sotto il Suicide Ghost Old Bridge. Ce l’hai presente?
Il ragazzo non riuscì a trattenere un brivido. Certo che aveva presente il Vecchio Ponte dei Fantasmi Suicidi. Era conosciuto da tutti in città. Ai tempi doveva essere stato un enorme complesso residenziale mai completato e lasciato allo sbando. Ci si riunivano le bande e quindi Charlie ci stava ben lontano; oltretutto giravano strane storie su quel posto … e di andarci insieme a Jake proprio ne avrebbe fatto a meno.
Camminarono in silenzio fianco a fianco. A Charlie dava un po’fastidio quel silenzio pesante che era calato tra loro due e decise di stemperare la tensione.
-Senti … potrei chiederti cos’hai tatuato sul polso?
Il ragazzo dai capelli bronzei lo guardò con un sorrisetto indecifrabile e si scoprì meglio il polso sottile. Un crisantemo di piccole dimensioni gli decorava la pelle.
Charlie rimase leggermene spiazzato da quella visione. Cosa diavolo ci faceva un crisantemo tatuato sul polso di uno come Jake Harris?!
-Scusa ma posso chiederti che ci fa un crisantemo sul tuo polso?
-E’ un simbolo giapponese mi pare. Indica qualcosa tipo … la perseveranza e l’integrità personale. E’ qualcosa di curativo contro l’ubriachezza o le malattie nervose … ti piace?
Jake sorrise raggiante e Charlie annuì. La cultura giapponese lo aveva sempre affascinato ed infatti sapeva anche il significato del crisantemo ma continuava a non capire come facesse Jake a saperlo. Ok, ora si sentiva uno schifo con la puzza sotto al naso però ecco … il ragazzo che gli camminava al fianco non pareva un esempio di persona studiosa e interessata allo studio della culture mondiali. La sua curiosità venne soddisfatta dallo stesso Jake
-A me in realtà non me ne frega molto del Giappone a dirla francamente però sto tatuaggio me l’aveva fatto un annetto fa il mio migliore amico e così … cioè, lui è un maniaco dell’Impero nipponico e continuava a dire che il crisantemo era il fiore adatto a me, io continuavo a dirgli di no ma alla fine me l’ha fatto tatuare e a pensarci bene ora mi ci sono veramente affezionato.
Charlie annuì pensieroso. Beh, se questo amico gli aveva consigliato un tatuaggio simile proprio un bifolco non lo sarebbe dovuto essere.
-Eccoci Charlie! Siamo arrivati!

***
Buona sera,
capisco che il primo capitolo non sia nulla di esaltante ma vi prometto che il prossimo sarà decisamente meglio. Le situazioni drammatiche arriveranno un poco più avanti. Grazie a chi legge, a presto :)
Charlie 

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Capitolo 2
*** Some call it slums, some call it nice ***


CAPITOLO SECONDO : SOME CALL IT SLUMS SOME CALL IT NICE
Si consiglia l'ascolto di "Welcome to Paradise" dei Green Day durante la lettura del capitolo. Poi fate come vi pare.
Già che ci sono vi dico che determinate spiegazioni che mi sono state chieste verrano svelate in seguito.
Sperando che vi piaccia, buona lettura. :)

Il ragazzo lo prese per il polso e lo trascinò più velocemente verso un anfratto sotto il terribile Suicide Ghost Old Bridge. Charlie sospirò rumorosamente. Enormi colonne di cemento si innalzavano, ricoperte di graffiti. C’era gente per terra e roba che cercò di non guardare per non fuggire a gambe levate. Nonostante fosse un luogo molto fatiscente e piuttosto inquietante, non si può dire lo spaventasse. Forse perché c’era tanta gente … sentì le occhiate di quegli estranei fissi sopra di lui. Erano tutti adolescenti, dai visi tristi. O perlomeno allegri ma velati da una certa malinconia, patina indelebile che da sempre caratterizzava quella cittadina. Abbassò lo sguardo e cercò di non guardare nessuno negli occhi. Era talmente impegnato a raccomandare la propria anima a qualcuno lassù in Cielo (non si sa mai cosa sarebbe potuto succedere) che sentì chiara e forte la voce arrochita dal fumo di Jake che diceva:
-Ragazzi, ho l’onore di presentarvi un mio nuovo amico.
Ehi, come nuovo amico? Loro non erano amici! Si erano conosciuti giusto un’ora prima! Charlie alzò lo sguardo spaventato su di lui
– Vi presento Charles Matthew Bailey, ma potete chiamarlo Charlie.
Un mormorio serpeggiò tra il gruppo che si affollava attorno a una poltrona malridotta. Quando Charlie alzò gli occhi su di loro, rivelando le guance tinte di rosso, vide un colorato gruppetto di ragazzi che lo guardava con curiosità.
-Ehm ... – cercò con lo sguardo l’aiuto di Jake ma trovò solamente un ghigno divertito.
-Piacere, io sono Jimmie Sue Mellencamp.
Una ragazza dai capelli rossicci semi tinti di viola si fece avanti con un sorriso. Charlie la guardò con una certa ansia farsi avanti e le strinse velocemente la mano. La osservò rapidamente. Unghie rovinate, jeans di pessima marca, capelli decisamente belli anche se tinti, occhi grandi e azzurri, lentiggini (troppe). Aveva un sorriso contagioso. Un attimo dopo che le ebbe stretto la mano, la ragazza saltò al collo di Jake strillando qualcosa di incomprensibile.
-Ciao bro, io mi chiamo Jeremy Austin.
Un altro tipo si avvicinò. Questo a Charlie piacque ancora meno ma gli strinse comunque con titubanza la mano. Aveva una specie di cresta/ciuffo di capelli castani unticci e impiastricciati di gel, una giacca di pelle che aveva visto giorni migliori, e un pessimo odore di alcool. Una catena penzolava dalla giacca, strisciando sul pavimento con un fastidioso scricchiolio.
- Ash Cohen - un tipo occhialuto con i capelli neri e una cicatrice che gli attraversava il lato destro del viso gli fece un cenno di saluto. Rimase seduto in un angolo giocherellando distrattamente con un paio di dadi da gioco. A Charlie non parve molto interessato dalla sua presenza.
-Boleslawa Orlev, piacere di conoscerti.
Charlie sgranò gli occhi di fronte alla ragazza albina che gli sorrideva. A lui le persone affette da albinismo facevano un po’paura, dopo che un coniglio albino lo aveva azzannato.
-Frizzy Davis, per servirti- un tipo alto e atletico gli strinse la mano con forza inaudita.
-Ti diamo il benvenuto qui, Charlie. Molto piacere, Jasper McKenzie.
Una figura alta e magra uscì dall’oscurità e Charlie rischiò l’infarto secco sul posto. 
Era un ragazzo vestito di nero, dai foltissimi capelli neri sparati da tutte le parti, i tratti affilati e gli occhi di un’inquietante color viola pesantemente truccati. Charlie boccheggiò, di fronte a quegli occhi tempestosi appesantiti dal nero pece del trucco; non aveva mai visto un paio di occhi viola in effetti. E non ne aveva mai visto di così profondi.
-Pi … piacere mio … - balbettò stringendo la mano affusolata del tipo. Aveva le unghie esageratamente lunghe e smaltate di nero. Alzò lo sguardo per guardarlo in faccia. Quel ragazzo lo affascinava esageratamente nonostante lo avesse conosciuto da circa due minuti e avesse la faccia da poco di buono. Sembrava esercitare una sorta di attrazione magnetica su tutti loro lì attorno. Charlie aveva chiaramente sentito il vocio degli altri affievolirsi fino a sparire quando quel ragazzo aveva parlato.
-Siamo i Gentiluomini del Ventesimo Secolo, benvenuto!- quello che gli pareva chiamarsi Frizzy esplose in una risata tonante.
Charlie si voltò e vide Jake che gli sorrideva rassicurante. I Gentiluomini del Ventesimo Secolo? Ma che razza di nome era?! Oddio, ma dove diavolo si era cacciato?
-Se ve lo dico non ci crederete mai! Charlie non è mai appartenuto a nessuna banda!- rise Jake, dandogli una pacca sulla spalla.
-Stai scherzando?! E come hai vissuto fino ad ora?- Ash strabuzzò gli occhi e si tolse gli occhiali cominciando a pulirseli freneticamente sulla maglietta.
-Io … - il ragazzino stava per dire che era vissuto e avrebbe vissuto benissimo senza farsi coinvolgere in strani aggregati di gente con nomi idioti. Poi, siccome gli sembrava scortese da dire, optò per un –Non ne ho mai avuto l’occasione.
-Beh, eccotela l’occasione. Puoi stare con noi se ti va- rispose Jeremy, stappando una bottiglietta e rovesciandosene il contenuto in bocca.
-Si, così pareggiamo i conti. Prima eravamo in otto, ma uno di noi se ne è andato e siamo rimasti in sette- Jimmie Sue fece un sogghigno strano.
Uno di loro se ne era andato? Charlie cercò di non pensare al perché quel ragazzo, o ragazza che fosse, se ne fosse andato/a. Magari si è semplicemente trasferito … no, troppo semplice. Avrebbe chiesto delucidazioni a Jake, dopo. Anche se non era molto sicuro di volerlo sapere.
-Allora, vuoi entrare a far parte della banda?- lo incalzò Boleslawa fissandolo con i suoi spaventosi occhi rossi; a renderla ancora più inquietante erano i suoi capelli candidi, lunghi e talmente lisci da sembrare seta. Le ricadevano sulle spalle scheletriche, avvolte in un vestitino bluastro. Era decisamente troppo magra, constatò Charlie. Talmente diafana da sembrare un fantasma.
-Chiedo venia, ma … - Charlie raccolse quel poco coraggio che gli restava per ribattere. – Io non … non conosco le regole! Se non conosco le regole non posso decidere!
Diamine, si capiva lontano un chilometro che Charlie era prossimo a un arresto cardiaco. Doveva imporsi di calmarsi.
-Giusto, che maleducati che siamo stati- ridacchiò Jeremy, alitando una risata.
Jasper gli fece segno di tacere e cominciò a parlare. Aveva una voce strana, non era roca ma neanche acuta, era piuttosto … Charlie non riuscì a definirla ma sapeva che quella voce lo incantava fin troppo. Non andava bene.
-Se tu decidessi, come ci auguriamo, di prendere parte in questa banda, sappi che dovrai firmare un contratto …
-Contratto? Firmare? Con il sangue?- la sua intelligente uscita provocò uno scoppio di ilarità tra i Gentiluomini.
-Non essere stupido.
Charlie si sentì molto male ad essere subito rimproverato da quell’ autoritaria figura. – Firmerai con del normalissimo inchiostro. Quando avrai posto la tua firma, però, non potrai più tirarti indietro. Sarai oramai dei nostri e non potrai più andartene se non per motivi particolari. La cosa in assoluto più aborrita dai Gentiluomini del Ventesimo Secolo è il tradimento. Qualora qualcuno del gruppo tradisse in alcun modo i propri compagni verrà radiato a vita con … - Jasper si fermò un attimo per trovare le parole adatte. – Con una giusta condanna. Consideriamo molto l’onore e il senso di appartenenza a una banda. È per questo che valutiamo il tradimento come il peccato massimo. Se deciderai di seguire la nostra causa, sappi che … entrerai in inimicizia con i Bones Hole Club che immagino tu conosca per lo meno di fama. Tieni presente che …
-Ma c’è una prova di ingresso?- interruppe Charlie. Voleva essere sicuro di non fregarsi da solo, dando il proprio consenso e trovarsi poi a dover fare cose strane per provare il suo valore.
-No Charlie, niente di tutto ciò. Come tutte le bande abbiamo un codice d’onore, che consiste anche nel considerare la banda una seconda famiglia e quindi prevede il sentirsi a proprio agio nel parlare con gli altri componenti. In tutte le bande sono richieste prove di ingresso, mentre nella nostra, come ti ho detto, no; noi però richiediamo una determinata abilità nel fare qualcosa. Qualsiasi cosa, ma per essere dei nostri devi brillare in un settore. Per esempio Jake è uno scassinatore nato.
Charlie si voltò indispettito verso il ragazzo che gli sorrise e gli strizzò l’occhio. Ehi, ma non gli aveva detto che sapeva scassinare!
-E’ per questo che noi Gentiluomini siamo così pochi- intervenne Jeremy.
-Di solito la gente con una vera dote è rara- asserì Ash.
-Siamo un po’ l’elite della cittadina, non so se mi spiego- Boleslawa sogghignò.
-Quindi, hai una dote particolare?- tagliò corto Frizzy.
Charlie rimase un secondo spiazzato. Per entrare a far parte di una banda bisognava eccellere in qualcosa?! Questo sì che era strano … sinceramente si sarebbe stupito di meno se gli avessero ordinato di picchiare qualcuno. In quel caso avrebbe ringraziato e se ne sarebbe andato senza voltarsi indietro ma in questo caso … non sapeva perché ma lo intrigava molto. Anche se lui non eccelleva in niente. A parte i videogiochi … si, il gameboy non aveva segreti per lui. Decise di farsi avanti. Tanto non aveva nulla da perdere, e semmai si sarebbe tirato indietro prima di firmare.
-Beh, io sono piuttosto bravo nei videogiochi … ho finito 1992 in tre ore.
Di quello ne andava abbastanza fiero perché 1992 era difficile. Molto difficile.
-E come hai fatto? Grande!
Il ragazzino lesse negli occhi di Jimmie Sue vera ammirazione.
-E ci hai mai giocato a Pang Flash? E a Phoenix? E ci scommetto che non sei riuscito a superare il quinto livello di Mug Smashers! -  Frizzy rise di gusto. Charlie tossicchiò. Perché quelli non facevano altro che ridere? Cosa c’era da ridere? Forse perché non sapevano fare altro … scacciò quei pensieri e si concentrò per non sfigurare troppo di fronte a quei tipi.
-Un’ora e cinque minuti per Pang Flash, tre giorni e mezzo per Phoenix e cinque ore discontinue per Mug Smashers.
Charlie sorrise entusiasta. Per la prima volta si sentiva considerato per quello che era : “ il signore dei videogiochi” .
-Diamine, ma sei un genio. Se volessi entrare con noi, sei il benvenuto. La dote ce l’hai eccome!- esclamò Jake.
-Dai Charlie, firma! Che ti costa!- rise Jeremy.
Charlie si sentiva gasato da impazzire. Era un momento splendido! Gli stavano facendo dei complimenti! Lo stavano convincendo a entrare in una banda! Ecco appunto. Banda. Non andava bene per la sua morale, doveva tenersene lontano. Ma la tentazione era forte; la tentazione di poter essere uno degli eletti dei Gentiluomini faceva pressione su di lui e sulla sua morale.
-Facciamo così. Siccome non vogliamo obbligare nessuno, tu firmi ma noi lo teniamo in conto come periodo di prova. Se vedi che il nostro modo di fare non ti è congeniale sarai libero di andartene senza onta e senza danno. Se ti trovi a tuo agio invece puoi firmare sul serio e sarai a tutti gli effetti membro del gruppo. Ci stai?
Jasper gli sorrise. Un sorriso da mozzare il fiato … pensò Charlie incantato. Ma no, che stava pensando?! Eppure una vocina dentro di lui gli diceva che forse si sarebbe sentito realizzato, che per la prima volta avrebbe saputo cosa voleva dire avere 15 anni. Gli diceva di lanciarsi, di non farsi attanagliare da stupide e futili paure. La vocina incominciò a urlare sempre più forte nel cuore di Charlie. Ora pareva un tornado furibondo. Lo invadeva. E il ragazzo decise di acconsentire.
-Beh se è così … - sussurrò – Se è così, accetto!
Una scarica di adrenalina gli percorse la spina dorsale mentre sentiva i ragazzi annuire e commentare con cenni d’assenso. Jasper gli sorrise e gli allungò un foglio (unto da macellaio, non poté fare a meno di notare Charlie) e una penna. Il ragazzo scorse velocemente il codice d’onore che vi era scritto sopra, come quello che gli avevano enunciato poco prima. Sotto, le sette firme più una che però era illeggibile siccome era stata paciugata con uno scarabocchio. Forse era quella del membro che si era ritirato. Charlie indugiò ancora un secondo prima che la penna calasse sul foglio e lasciasse il segno indelebile che portava il suo nome a chiare e grandi lettere. Dopotutto gli avevano assicurato che era un periodo di prova e che avrebbe sempre potuto ritirarsi anche se ciò gli sembrava un po’da pavidi. Scacciò quel fastidioso pensiero e sospirando consegnò il foglio a Jasper che annunciò con una certa gioia nella voce, una gioia forse pari a quella di un bambino che ha visto la sua prima partita di baseball ma che non vuole darlo troppo a vedere:
-Ebbene, Charlie Bailey ora sei un membro cadetto dei Gentiluomini del Ventesimo Secolo. Con questa tua firma hai accettato di sottoporti alle nostre leggi e di abbracciare i nostri ideali. Con questa firma ti sei impegnato a entrare in quella che sarà la tua seconda famiglia. Con questa firma sei iniziato alla vita di banda, pronto a convivere in pace con i tuoi compagni. Non possiamo altro che darti il benvenuto e augurarci che tu porrai poi la tua firma assoluta sul Patto d’Onore.
Jasper gli posò un mano sulla spalla. Charlie tremò al contatto. Si perse per un secondo negli occhi del capo. Avevano qualcosa di indefinito dentro, qualcosa di strano, di … venne distratto dall’applauso generale degli altri. Si voltò e vide oltre le pesanti colonne di cemento il sole tramontare. Si rese conto che anche il sole a contatto con quel posto perdeva metà del suo colore.

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Capitolo 3
*** The fire burns from better days ***


CAPITOLO TERZO : THE FIRE BURNS FROM BETTER DAYS
Si consiglia l'ascolto di "Misery" dei Green Day durante la lettura.
Spero vi piaccia ;)



Siccome si stava facendo buio, Charlie decise di salutare i Gentiluomini con la promessa che sarebbe tornato il giorno dopo per “approfondire la loro conoscenza”. I ragazzi lo guardarono un po’strano quando disse che dopo le otto di sera lui non girava ma lo lasciarono andare senza obiezioni. Jake lo accompagnò fino a casa, e Charlie non gli poté più dire niente sul fatto della privacy della sua abitazione siccome aveva giurato un quarto d’ora prima che la banda sarebbe stata la sua seconda famiglia.
-Sai Charles, sono proprio contento che ti sei unito a noi! Sinceramente, hai dimostrato un certo coraggio. Ti avevo classificato più piscia sotto, ragazzo.
Jake si accese l’ennesima sigaretta con un mezzo sorriso.
Charlie lo guardò offeso, anche se un piccolo sorrisino gli increspava le labbra:
-E’ … è strano. Io che sono sempre stato così contrario a tutto ciò mi ritrovo mezzo invischiato in una banda … certo che la vita a volte … - lo disse più a se stesso che all’ altro, ridendo da solo.
-Beh, il bello della vita è che sei libero di cambiare opinione e renderti conto che certi pregiudizi sono ingannevoli- annuì Jake. – Perciò, che ne dici di provare una sigaretta?- aprì il pacchetto e gliene porse una con un ghigno tentatore.
-Ti ho detto che mi da fastidio il fumo!- strillò Charlie ridacchiando.
-Come ti sembrano i ragazzi?
-Uhm … non saprei … simpatici? Anche se non ho capito bene quella cosa dell’essere bravi a fare qualcosa …
Jake si passò una mano tra i capelli e cominciò a spiegare:
-Allora, ognuno di noi, te compreso, ha una capacità brillante ed è quello che ci rende speciali perché siamo un gruppo di gente con delle abilità avanzatissime che ci rendono superiori agli altri.
Il ragazzo assunse un’aria tra il sognante e il divertito.
-Quindi mi sapresti dire le capacità degli altri?
-Non vuoi la sorpresa?!
Charlie scosse il capo: – Meglio di no. Ti prego, dimmelo. Voi sapete che io sono bravo con i videogiochi, ma voi?
-Come vuoi. Io, modestamente, sono uno scassinatore degno di nota.
Jake evitò con una risata lo schiaffetto che Charlie puntualmente gli tirò con uno strillo:
-Ma Jake! Insomma! Non ti vanterai mica di essere un ladro!?
-Anche quella è un arte, caro Charlie. Un’arte molto complessa. E comunque, io scassino soprattutto. Rubo solo se è necessario.
Charlie scosse la testa ma non disse nulla, osservando l’altro severamente.
-Beh, poi ti posso dire che Ash è una mente matematica sopraffina, Frizzy è uno dei migliori atleti che io abbia mai visto ed è un battitore superlativo, Jeremy recita molto bene, Boleslawa ha un’abilità tutta sua nell’addestrare i topolini e i ragni, Jimmie Sue sa tipo … 4 lingue alla perfezione oltre all’inglese, quanto a Jasper … beh, lui ha un’ intelligenza strepitosa, da far impallidire chiunque. E non lo dico perché è il mio migliore amico. E poi disegna; fa dei ritratti tanto somiglianti da far paura. Toh, ti ho detto tutto.
Charlie spalancò gli occhi. Caspita, certo che era gente particolare quella con cui stava entrando in contatto! Jasper … a ben pensarci, ci aveva letto davvero qualcosa di speciale negli occhi.
-Scusa Jake, ma quello, o quella, che vi ha lasciato … si può sapere chi fosse?
Jake gli sorrise e soffiò qualche anello di fumo nell’aria tossicchiando:
-Era un prestigiatore. Davvero bravo con i suoi trucchetti, sai? Poi però l’avevano pestato a sangue perché aveva fregato della gente con i suoi giochi di carte, così, siccome era finito in coma, i suoi l’avevano portato in una clinica nella Georgia e lì poi è rimasto. Si è fatto togliere dalla banda per via del trasferimento, però siamo ancora in contatto con lui. Quando gli diremo che sei entrato con noi sarà di certo contento.
Charlie annuì soprapensiero e una morsa gli strinse lo stomaco. Pestato a sangue … glab, non voleva neanche pensarci.
-Domani mattina a che ora dobbiamo incontrarci?- chiese Charlie, tentando di togliersi dalla mente l’idea del ragazzo picchiato.
-Ma scherzi?!?- Jake rise ancora, genuinamente divertito. – Non si hanno orari, qui! Soprattutto d’estate! Che so, vieni quando vuoi … tanto, più o meno, qualcuno lo becchi. O se proprio non vedi nessuno, puoi sempre chiedere a qualcheduno nei paraggi.
Il ragazzo si rese conto quasi subito dell’espressione scioccata di Charlie, che sbottò con uno stizzito:
-E secondo te, mi metto a chiedere a quelli lì dove siete voi?! Guarda che mi fanno paura! Non si sa mai!
-Ma mica mordono, ragazzo! Va beh, facciamo che alle 9 ti vengo a prendere sotto casa, ok? Almeno le prime volte.
-Lo faresti?! Grazie!!- Charlie sorrise entusiasta. Oramai aveva capito che Jake era un bravo ragazzo e che si sarebbe potuto fidare. Perlomeno un poco.
Arrivati sotto casa Bailey, Jake lasciò Charlie con un sorriso rassicurante e un augurio di buona notte ridacchiato. Charlie lo guardò andarsene lungo la strada silenziosa, i suoi passi che risuonavano sul selciato. Una sorta di primitiva tristezza lo attanagliò, avrebbe voluto che Jake stesse ancora un po’ con lui … perché se ne andava già via? Sospirò aprendo la porta ed entrando nel salotto puzzolente. Vide delle bottiglie vuote per terra e sentì il sordo russare di suo padre, sepolto nel divano. Gemette come un pulcino:
-Mamma, dove sei?
Guardò la foto polverosa di sua madre posata sul tavolino. Era una bella donna, in effetti. Bella e stanca. Tanto stanca da andarsene per sempre lasciandolo da solo in quel degrado. Una lacrima silenziosa gli rigò la guancia, lacrima che lui lasciò cadere sul pavimento. Lacrima che rimbombò nel silenzio, pesante come piombo. Sua madre era stata egoista. Si, terribilmente egoista. Non aveva pensato a lui nel momento in cui aveva chiuso per sempre gli occhi.
-Sei egoista.
Charlie strinse i denti e lasciò il salotto mentre un’altra lacrima sgorgava dai suoi occhi scuri.  Quanto avrebbe voluto avere vicino Jake, affinché lo tirasse un po’ su di morale. Perché aveva letto in un libro che gli amici fanno così. Ma poi, Jake era davvero suo amico? Si buttò sul letto, schiacciandosi il cuscino sulla faccia. Troppe cose a cui pensare; in quel momento la sua testa non reggeva più nulla. Al diavolo quella stramaledetta foto.
Jake nel contempo stava tornando dai suoi amici, formando i soliti cerchi di fumo nell’aria scura della notte.
Pensava a Charlie. Quella sera era impegnato a fare i soliti giochi di fumo con le sigarette davanti al supermercato quando lo aveva visto. Una figura incerta sulle proprie gambe, che ostentava sicurezza; lo aveva ispirato da subito. Forse perché era diverso da tutta la gente che era abituato a frequentare. Aveva un’aria così innocente, così pura, un’aria assolutamente nuova per Jake. Era stufo, in effetti, di quello che vedeva ogni santo giorno. Niente di nuovo, tutto uguale nella sua diversità. Charlie era stato come una scossa elettrica: qualcosa che stonava nell’insieme! Qualcosa che Jake aveva bisogno di vedere e di contemplare. Oh si, qualcosa che interrompesse la sua monotona esistenza. Charlie. Rise al pensiero del candido ragazzo, che lui si era trascinato nel suo mondo, presentandolo come novità esclusiva ai suoi amici. Quasi come un prodotto che non si trova sul mercato. Un mercato di cose assurde e paradossali, dove per miracolo era riuscito a comprare un normalissimo tostapane elettrico. Un acquisto tanto ordinario quanto straordinario.
Rise da solo, scostandosi i capelli dagli occhi e cominciando a correre quando fu nelle vicinanze del Suicide Ghost Old Bridge. Lì ritrovò i suoi amici, esattamente come li aveva lasciati, ovvero a commentare cinicamente la situazione in cui si trovavano.
-Allora, Jake, accompagnato il tostapane a casa?- Jeremy ingollò una sorsata di birra da una lattina.
-Su, non essere maleducato Jerry! Perché lo chiami tostapane?- lo rimproverò Boleslawa, scuotendo la testa.
-Non so. Mi piace l’idea di chiamarlo così. Ha un non so che di originale- il ragazzo sogghignò, arrotolandosi la catena attorno alle mani.
-Sai, Jerry, anche a me era venuto in mente “tostapane” come soprannome- Jake si lasciò cadere stancamente sulla poltrona sfondata.
-E’ strano però. È come se fosse terrorizzato da tutto ciò che lo circonda- commentò Jimmie Sue. Lo aveva notato subito, come tremava al contatto con le loro mani, come impallidiva al sentire le regole, come si guardava nervosamente attorno. Jimmie aveva sentito addosso a quel ragazzino l’odore della paura anche se non riusciva a capacitarsi del perché fosse così.
-Su quello ci si può lavorare. E comunque non è così scemo come vuole sembrare. Finge di essere uno gnorri, ma nasconde un’intelligenza notevole, secondo me. Ma posso sbagliarmi- Ash si pulì gli occhiali, facendo scoppiare la bolla della gomma da masticare.
-Avremmo tempo di giudicarlo, ragazzi, non mettiamogli fretta- disse Frizzy. Esattamente come Jake, anche lui aveva visto in Charlie un qualcosa di nuovo da rimirare e da godere finché si poteva.
-Dove lo hai trovato, Jake?
Il ragazzo dai capelli bronzei sentì le unghie di Jasper accarezzargli il collo e non poté non deglutire rumorosamente. Immediatamente gli altri tacquero e fissarono Jasper con attenzione.
-Davanti al supermercato.
Jasper tacque arrotolando le sue lunghe dita pallide intorno alle collane di Jake. Quest’ultimo rimaneva immobile, sentendo la presenza che incombeva sopra di lui.
Odiava quando Jasper gli stava alle spalle e gli toccava il collo; non poteva soffrire questo comportamento adottato da quello che poi era il suo migliore amico.
-Perché lui?
-Ma che te frega, Jas?- Jake tentò di sottrarsi alla presa delle dita – Piuttosto, ti piace come acquisto?
-Forse. Potrebbe essere. Non saprei.
Jasper smise di solleticare il collo del suo amico e si sedette sul bracciolo della poltrona con un leggero sogghigno stampato sul volto pallido.
-A me piace come tipo- intervenne Jimmie Sue. – E’divertente.
La ragazza sorrise, un sorriso luminoso e splendente. Sì, aveva un fantastico sorriso a parte il fatto che aveva un dente scheggiato. Era caduta dalle scale quando era molto piccola, ma nessuno si era preoccupato di portarla all’ospedale così le era rimasto un dente rovinato. Anche quando si era rotta un polso cadendo dalla bici nessuno si era minimamente preoccupato di lei in lacrime con il polso tutto storto. Si era riaggiustato da solo, con l’aiuto dei suoi amici che avevano provato a steccarglielo, ma da sette undicenni non ci si poteva aspettare un lavoro di alto livello. Ma a Jimmie Sue andava bene così. Almeno aveva qualcuno che si preoccupava per lei e si accorgeva se c’era qualcosa che non andava.
-Anche a me. È un po’diverso dal solito!- esclamò Boleslawa, raccogliendosi i lunghi capelli in una treccia.
-Per  me è okay- disse Frizzy. D’altra parte, uno in più non poteva che giovare.
-Sono d’accordo, a patto che mi aiutate a fortificarlo nello spirito perché non può essere così pavido!- propose Jeremy. A lui non piacevano i pavidi e quelli che fuggivano dalle loro responsabilità. Forse perché lui stesso era fuggito dalla responsabilità di prendersi cura della sua sorellina … un’immagine terribile gli ritornò in mente. Qualche anno prima sua madre gli aveva detto di prestare attenzione a Lucy, la sua sorellina minore. Ma lui aveva altro a cui pensare, non poteva certo perdere tempo dietro a una marmocchia … così l’aveva ignorata e aveva lasciato che un tir la investisse. Tremò. Da quel momento aveva riservato un odio profondo verso tutte le persone che si comportavano come aveva fatto lui. Era affogato nell’alcol per dimenticare il sorriso innocente di Lucy.
La voce di Ash lo riscosse dai suoi cupi pensieri:
-Fate come volete. Se viene mi va bene, se non viene è ok lo stesso.
Tutti rivolsero il proprio sguardo su Jasper. Nonostante Charlie avesse firmato spettava poi al capo decidere se avesse potuto effettivamente stare con loro o no.
-Vedremo come si comporterà in questi giorni. Se verrà reputato degno di nota verrà ammesso. Se no, niente da fare.
Il ragazzo si fece accendere una sigaretta da Jake, soffiò qualche nuvoletta di fumo che si perse nell’aria e poi continuò:
 – Comunque, lo trovo un personaggio singolare. Merita di essere studiato.
-Sentite, che ne dite di andare a fare qualche graffito dal binario morto?- intervenne Jake alzandosi dalla poltrona e raccogliendo da terra una bomboletta verde acido.
Gli altri lo imitarono senza dire nulla e si avviarono tutti in gruppo verso la stazione dei treni poco fuori dalla cittadina. Era stata abbandonata tantissimi anni prima, e rimaneva oramai solo qualche carrozza in disuso e la fine di un binario morto. I binari erano stati mangiati dalla terra, così come il gabbiotto della stazione.
Binario morto … chissà perché ogni volta che lo vedeva, Jake vedeva loro. Un binario, come lo scorrere del tempo. La fine delle rotaie, come il fondo toccato da ognuno di loro. Le carrozze, come la loro anima perduta e soffocata. Eppure andarci gli piaceva, vedere una sorta di metafora delle loro vite. In uno strano modo, provava un certo amaro divertimento nell’andarci.
Balzarono tutti sugli skateboard o sulle biciclette e partirono alla volta del binario.
-Ehi, Jacky.
-Cosa, Jas?
I due rimasero un po’indietro tagliandosi la strada a vicenda, come erano soliti fare da quando erano piccoli.
-Perché ti ostini a voler andare in quel posto?
-Perché è lì che ci siamo conosciuti, io e te?- Jake ridacchiò, rischiando di cadere dallo skate.
-Smettila. E rispondi alla mia domanda. Vuoi che non mi accorga dell’ansia e della malinconia di cui cadi preda ogni maledetta volta che ci andiamo? Sono il tuo migliore amico, Jake. Conosco meglio te di quanto conosca mia madre.
Jake guardò gli occhi di Jasper e sospirò rumorosamente. A volte non riusciva a capire come facesse Jasper, semplicemente guardandolo, a capire tutte quelle cose.
-Dai, Jas. Io … non lo so. Non lo so- scosse la testa velocemente, evitando per un soffio un buco nell’asfalto.
-Non ti credo- Jasper lo guardò, con le pupille talmente dardeggianti che Jake si sentì quasi bruciare.
Il ragazzo sospirò ancora e distolse lo sguardo ma Jasper non insisté. Non insisteva mai. Semplicemente, gli diede una pacca sulla spalla e lo spinse con delicatezza avanti.
Si stava facendo buio, e non avevano nessuna voglia di rimanere troppo indietro rispetto ai  restanti Gentiluomini.
Dietro alla collina la luna si stava facendo avanti, e la cittadina si animava di quelli che Charlie aveva sempre chiamato “rovina della società”. Peccato che, tecnicamente, ora lo fosse anche lui.
 
 

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Capitolo 4
*** Left me here alone ***


CAPITOLO QUARTO : LEFT ME HERE ALONE
Quella mattina Charlie sentì un sordo tonfo sul vetro della cucina, dove era intento a fare colazione, mescolando lentamente il suo latte e miele. Si voltò con un sobbalzo e vide, davanti al basso davanzale, Jake e Frizzy che lo salutavano sorridendo. Sospirò rumorosamente e andò ad aprire la porta di casa. Ringraziò il Cielo che suo padre fosse andato a “lavorare” al distributore di benzina, non voleva che vedesse i suoi amici. Sarebbe stato imbarazzante, anche se Charlie si chiese se Jake e Frizzy avrebbero fatto piega di fronte a quell’uomo. Probabilmente non si sarebbero assolutamente sconvolti. Si, doveva abituarsi che lì, con molte probabilità, si doveva considerare quasi fortunato per la situazione.
-Buongiorno ragazzo!
Frizzy entrò in casa come un ciclone, dandogli una poderosa pacca sulla spalla. Jake lo seguì subito dopo infilandosi in cucina come un razzo. Charlie rimase immobile sulla porta di casa, ancora in pigiama a fissare a bocca spalancata la strada vuota. Si riscosse e chiuse la porta, correndo in cucina dove vide i due ragazzi che trafficavano con il suo tostapane.
-Ehm, scusate ma … cosa state cercando di fare?
-Scusa Charlie, ma stamane non sono riuscito a fare colazione, non ti dispiace se ne approfitto, vero?- Frizzy gli sorrise gioviale, e Charlie notò che aveva gli occhi azzurrissimi. Quasi verdi.
Scosse la testa e si limitò a prendere una fetta di pane e a inserirla nel tostapane
-Figurati, prego- indicò il tavolo, dove la tazza di cereali aspettava impaziente di essere mangiata.
I due si sedettero sulle vecchie sedie impagliate, lanciando occhiate curiose intorno.
Charlie servì loro in silenzio due fette di pane tostato, poi decise di ritirarsi in camera a cambiarsi. Si era reso conto solo in quel momento che aveva addosso il suo imbarazzante pigiama con i coniglietti.
-Fate pure come se foste a casa vostra. Io … arrivo subito!
Corse su per le scale, sentendo le risate soffocate dei due ragazzi in cucina.
Jake si guardò intorno con grande curiosità. Come era ordinata quella casetta! Così diversa dalla sua, dove non si vedeva altro che un gran caos di roba gettata ovunque. E poi che silenzio regnava. Il silenzio era una benedizione per le orecchie di Jake, abituato a vivere nel rumore più assoluto. Sua madre che urlava, sua sorella che urlava, i suoi fratelli minori che urlavano, suo padre che quando tornava a casa urlava. Jake sarebbe volentieri rimasto in quella silente cucina, a dormire, a chiudere gli occhi e bearsi del silenzio. Sospirò alzandosi, e si diresse in salotto. Era ordinato anche lì, la vecchia tv accuratamente spolverata, il divano nonostante le macchie di quello che pareva vino dava comunque un’impressione di pulizia, come una grande quantità di fotografie che riempivano ogni angolo. Jake si avvicinò con curiosità a una foto poggiata su un tavolino di fronte alla tv. Mostrava una donna bionda, sulla trentina, sorridente, con un bambino in braccio. Sorrideva, sì, ma aveva un sorriso triste. Il ragazzo voltò la foto e lesse sul retro “Mamma. 14/05/1973”. Quella era la madre di Charlie?! Perché non era in casa? Magari lavorava … ma no, le madri di solito non lavoravano. Posò la foto e ne prese un’altra. Anche lì c’era la mamma del suo amico seduta al tavolo della cucina. Ne prese un’altra. Anche lì la signora Bailey. Un’altra e ancora quella donna. Jake si guardò freneticamente in giro e si rese conto che le foto raffiguravano solo ed esclusivamente la madre di Charlie. In varie pose, ma solo la donna bionda gli sorrideva tristemente da tutti gli angoli del salotto.
E se fosse … un oscuro presentimento si fece largo nel cuore del ragazzo. E se la mamma di Charlie fosse mancata? Se quel silenzio che gravava in casa fosse a causa della morte prematura della donna? Jake sospirò forte. Non ne era sicuro, ma qualcosa gli diceva che in quella casa viveva un ricordo pesante e gravoso, che soffocava i suoi abitanti. “I ricordi sono il miglior modo per uccidere. Soffocano meglio che una corda stretta attorno al collo” gli aveva detto una volta Jasper. Non ricordava il perché glielo avesse detto, ma ricordava bene che erano seduti sulla poltrona scassata del Suicide Ghost Old Bridge e che la luna stava sorgendo.
-Ehi andiamo Jake?- la voce di Frizzy lo riscosse.
-Si, certo!- si stampò di nuovo il sorriso in faccia e li seguì fuori, nella calda aria californiana.
Charlie guardò Jake di sottecchi. Si era reso conto che dopo essere entrato nel suo salotto si era come rabbuiato. Che avesse visto le foto di sua mamma? Beh, quello era ovvio, il salotto ne era pieno! Un brivido gli percorse la schiena. Non avrebbe voluto che Jake cominciasse a fare domande sconvenienti sulle foto. Non era pronto. Nonostante fossero passati tantissimi anni non ce l’avrebbe fatta a raccontare la sua vicenda. Il dolore era troppo forte, i ricordi troppo pressanti.
Tossicchiò quando Jake gli soffiò una voluta di fumo in faccia, con il solito sorrisetto ghignante.
-Che si fa oggi?- intervenne Frizzy, saettandogli davanti a cavallo di una vecchia bicicletta blu.
-Ieri abbiamo fatto i graffiti, oggi … potremmo fare un giretto nella campagna circostante- propose Jake, giocherellando con le innumerevoli collane che gli adornavano il collo abbronzato.
-Scusate se sono importuno ma … perché stiamo andando dal supermercato? Mi avevate detto che il punto di incontro era il Suicide Ghost Old Bridge!- interruppe Charlie. Se già cominciavano a sconvolgergli gli orari e i luoghi degli appuntamenti era messo bene!
-Abbiamo cambiato, il supermercato è più vicino- rispose Frizzy con una scrollata di spalle.
Infatti, davanti al supermercato, buio a causa delle nuvole grigio piombo che oscuravano il cielo mai veramente azzurro, li aspettavano i restanti Gentiluomini.
-Alla buon’ora, ragazzi. Ve la siete presa con calma- commentò acido Ash, facendo scoppiare una bolla di chewingum.
-Andiamo a fare una sana passeggiata qui intorno?- Jake ignorò le occhiatacce di Ash. Tanto lo sapeva, il suo amico faceva sempre il bastian contrario, tutto acido e indisponente. Poi era una delle persone più buone che avesse mai conosciuto.
-Va bene, basta che non si metta a piovere. L’acqua rovinerebbe la mia pregiatissima giacca di pelle- sghignazzò Jeremy, saltando sullo skate.
Immediatamente gli altri lo imitarono a parte Charlie che rimase per un secondo interdetto. Lui non aveva ne bici ne skate. E per di più non ci sarebbe saputo andare. Stava per dire che lui era attualmente sprovvisto di mezzi di locomozione, quando sentì qualcosa di gelido prenderlo per la vita e piazzarlo su uno skateboard. Le mani lo tenevano sotto le braccia e lo skate partì scivolando silenziosamente sull’asfalto. Charlie si agitò immediatamente, perdendo l’equilibrio per la sorpresa. La presa sulla sua vita si fece più stretta, e lo skate si raddrizzò
-Se continui a muoverti in questo modo rischiamo di cadere entrambi, Charlie.
Quest’ultimo ebbe un tuffo al cuore quando sentì la voce di Jasper soffiargli quelle parole nell’orecchio. Notò solo in quel momento che le mani bianche dalle lunghe unghie nere che lo reggevano non potevano che essere quelle del capo.
-Oh, si scusa, io … non sono mai salito su uno di sti affari e … ma siamo sicuri che ci regga?- si stava rendendo molto ridicolo, ma essere letteralmente tra le braccia di Jasper faceva un certo effetto a tutti.
-Se stai fermo e non mi fai perdere l’equilibrio, sì, reggerà. Se no, no.
Charlie chiuse gli occhi, non prima di aver visto i Gentiluomini sfrecciargli davanti ridendo di gusto. E non capiva come mai Lui si era fatto carico del suo essere.
-Allora, Charlie, dimmi qualcosa di te.
-In che senso? Cioè, io … la mia vita non è molto interessante …
-Giudicherò io se è interessante, tu racconta. Mi piacciono le storie.
-Ok … allora, io sono nato qui il 23 ottobre del 1972, sono figlio unico, mio padre lavora al distributore di benzina e … studio sodo, imparo molte cose, sto cercando di racimolare una somma per poter andare all’università e … - tacque un attimo.
-Veramente lodevole Charlie, veramente lodevole. Piegati a sinistra.
Charlie ciondolò velocemente a sinistra, permettendo così a Jasper di girare.
Charlie osservò le mani del ragazzo che lo stringeva. Così pallide … le dita erano ricoperte di anelli di ogni genere, tutti pesanti, grotteschi, lucidi.
-Che belli i tuoi anelli … - sussurrò il ragazzino. Non seppe neanche il perché lo disse, siccome pensava assolutamente il contrario.
Jasper non rispose, ma a Charlie parve che ghignasse anche se non poteva vederlo in faccia; lo sentiva però sul collo il suo respiro freddo, che sapeva di fumo e di qualcosa di dolciastro che non sapeva ben definire. Inspirò forte il profumo che emanava Jasper, tentando di riconoscere qualche fragranza. Sapeva di sigaretta, di qualcosa di aspro e dolce contemporaneamente, sapeva di menta stantia e di qualcos’altro di indefinito. Di sicuro era qualcosa di gradevole per il naso del piccolo Charlie. Qualcosa di inebriante per le narici.
-Hai intenzione di rimanere tra le mie braccia ancora per molto?
Sussultò a sentire la sua voce suadente nell’orecchio, e si rese conto che erano arrivati ai piedi di grosse dune di sabbia ricoperte di arbusti. Arrossendo, sbarcò dallo skate, cosciente degli sguardi divertiti dei Gentiluomini.
Si guardò intorno. C’erano dune in ogni dove, basse e tappezzate di piante spinose. Le nuvole si inseguivano nel cielo e il vento secco della California sollevava tristi mulinelli di sabbia grigia. I Gentiluomini cominciarono a inseguirsi ridendo per questo paesaggio desolato, turbando la quiete cimiteriale di quel luogo. Tra le pietre, Charlie intravide una grossa vipera cornuta e si affrettò ad avvicinarsi al ragazzo più vicino. Lui aveva paura dei serpenti. Il ragazzo più vicino si rivelò essere Boleslawa. Charlie cercò di sorriderle e guardarla negli occhi. Rosso … che colore insopportabile.
Lei gli sorrise, passandogli una mano tra i capelli. A guardarla bene, al ragazzo venne in mente che non poteva non avere qualche malattia. Era uno scheletro.
-Aehm … - Charlie tentò i farsi venire in mente un argomento di discussione, anche se la sua fantasia si era prosciugata tutt’ a un tratto.
-Hai dei capelli bellissimi!- disse Boleslawa prendendolo a braccetto
-Cosa?! Ah, grazie … anche i tuoi sono belli … - nessuno gli aveva mai fatto un complimento simile. E poi che c’era di bello nei suoi capelli? Degli stupidi riccioletti marroni! Quelli di Boleslawa perlomeno anche se erano bianchi erano lunghi e lisci e setosi e …
-Beh, almeno tu hai i capelli colorati. Io neanche quello. Mi stufa il bianco.
Charlie la guardò con malinconia. In effetti non doveva essere bello non possedere un proprio colore, per quanto smorto fosse.
-Il bianco è inutile, non mi è mai piaciuto- la ragazza rise – Ma ci sono abituata oramai. Quanti anni hai, Charlie?
-Io ne ho 15 ma vado per i sedici, tu?
-Anche io. Li compio a dicembre. Siamo i più piccoli, sai?
-Ah, davvero? Perché gli altri quanti anni hanno?
-Tutti 16 tendenti ai 17. A parte Ash che ne ha quasi 18.
Charlie annuì, con un sorrisino
-Senti, non vorrei essere indiscreto ma … tu non sei americana. Cioè, intendo …
-Si, ho capito, tranquillo! No comunque, la mia famiglia viene dalla Polonia. Lo sai dov’è?
-Certo! È nella vecchia Europa, a est, vicino alla Russia.
-Ahaha, tu lo sai, ma quando lo avevo detto a loro, Jake pensava che fosse vicino alla Cina e Jeremy che fosse in Iran. Oh, e Frizzy diceva che confinava con il Canada!
Charlie fece tanto d’occhi. Ma che ignoranti!
-Beh, ti dicevo, io sono nata in Polonia, a Danzica, però quando ho compiuto otto anni i miei sono morti in un incidente e io e mia sorella siamo venute qui insieme a mia zia. Mi manca casa in realtà, ma ora ci ho fatto l’abitudine e mi sono affezionata a questo posto. Anche se vorrei tanto poter tornare a vedere come è mutato il mio Paese in questi anni.
-Ma quindi sai parlare il polacco!
-Certo che sì. In casa parliamo solo polacco. Vuoi prendere lezioni?- la ragazza rise di gusto.
Charlie scosse la testa sorridendo. Gli sembrava impossibile che una ragazza così potesse avere tanta gioia dentro.
Boleslawa guardò di furtivamente Charlie; era così strano quello lì, ma era tenero come un orsetto lavatore. Si accarezzò i capelli e sospirò. Lei odiava il bianco. Bianco era il suo gatto che aveva dovuto lasciare a casa, bianco era il mare nel porto di Danzica, bianche erano le pareti dell’ospedale dove erano morti i suoi genitori, bianco era il traghetto che l’aveva strappata alla Polonia e l’aveva lasciata nel Nuovo Continente. Bianchi erano i suoi orrendi capelli, la sua pelle. Bianco, senza colore, cancella tutto. Lei era bianca, lei che amava la vita le era toccato essere bianca come qualcosa di morto. Lei che amava il sole le erano toccati gli occhi rossi e l’albinismo che non le permetteva di stare alla luce. Lei che desiderava solo la libertà e la natura era relegata in un buco senza sole e senza niente. Dove vedeva bianco. I suoi incubi consistevano in tristi emanazioni di mostri bianchi dagli occhi rossi. Che pena di Tantalo quando il sole estivo spendeva bruciante lei doveva stare in casa dietro una tenda perché “il sole ti fa male tesoro mio, ricordalo, sei albina piccola stella non devi esporti troppo” le diceva sempre sua zia. Faceva male a Boleslawa  questo scherzo grottesco che la natura le aveva giocato; faceva così male che per combatterlo le si era presentata l’anoressia. Oh si, lo sapeva che il suo fisico già malaticcio veniva logorato ogni giorno di più dall’anoressia ma non le importava più di tanto. Una volta Jasper aveva detto “La vita è come una partita a scacchi. Vince chi, tra natura e uomo, è più scaltro  e veloce nel fregare l’altro.” Boleslawa aveva deciso di mettere in pratica questa frase. La vita le aveva giocato un brutto tiro, e lei gliene giocava uno ancora più brutto.
Scacciò questi tristi pensieri e si diresse di corsa verso i suoi amici,che si stavano arrampicando sulla collina.
-Ehi, Bolly, ti senti bene?- Jimmie Sue squadrò la sua migliore amica.
-Io? Benissimo Jim. Dai andiamo dagli altri!- Boleslawa acchiappò Jimmie e se la trascinò dietro. Sperò che i suoi occhi non la tradissero versando qualche lacrima inopportuna. Non voleva che gli altri si preoccupassero.
Jimmie Sue sapeva bene che ogni tanto i ricordi sopraffacevano Bolly e cercava da sempre di darle una mano. Anche per l’anoressia. Ci provava ancora, dopo due anni di lotte inutili. Ci provava per tutto, e le aveva anche promesso che un giorno l’avrebbe accompagnata in Polonia. Gliela aveva giurato una notte, quando Boleslawa piangeva per la terra perduta. Le aveva giurato che ci sarebbe tornata e Jimmie Sue si era ripromessa di prestar fede alla promessa. Un giorno l’avrebbe riportata a Danzica. Non importava quando, ma era sicura di farcela.
Mentre le due incominciavano la scalata, Charlie era impegnato a chiacchierare con Ash, persona che lui trovava di un certo livello di istruzione. Frizzy e Jeremy si limitavano a fare stupide gare in bicicletta ridendo di gusto. Jake e Jasper semplicemente osservavano dalla cima di una duna i loro amici.
-Allora, Jas, Charlie ti stava appiccicato come una patella?- Jake rise, accendendosi una sigaretta.
-E’ terrorizzato da tutto. Ti giuro Jacky, sembra spaventato dalla vita stessa!- Jasper si passò una mano nel cespuglio di capelli corvini sbuffando. Constatò che aveva troppi capelli, troppo sparati in aria, e troppo arruffati. Ah, e oramai gli cadevano completamente sugli occhi cosicché vedere la strada si rivelava più difficoltoso del previsto.
-E’ il prezzo da pagare per le novità. Comunque, volevo chiederti … ehi!
Jake si interrompe di scatto, tossendo per il fumo. Squadrò il suo amico che si stava facendo cadere in bocca delle piccole pastiglie bianche da una scatolina rossa e nera
-Cos’è?-  fissò Jasper con aria indagatrice
-Niente- il ragazzo si fece scomparire in tasca la scatolina.
-Jasper piantala con quella roba- Jake sospirò. Il suo viso assunse una smorfia stanca
-Senti da che pulpito viene la predica.
Gli occhi di Jasper cominciavano a diventare offuscati.
-Non è questo il punto Jas, lo so anch’io di non essere un santo ma …
-Stai zitto per favore Jake. Zitto. Non parlare.
Jasper lo fissò con aria triste. Jake soffiò un po’ di fumo nell’aria, si alzò e tese una mano all’amico
-Capito l’antifona. Andiamo?
Jasper gli prese la mano, si fece tirare in piedi mugolando e i due si avviarono ondeggiando giù per la duna, illuminati dal sole esangue, sollevando ad ogni passo una nuvoletta di sabbia marroncina.

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Capitolo 5
*** So go do what you like make sure you do it wise ***


 
CAPITOLO QUINTO : SO GO DO WHAT YOU LIKE MAKE SURE YOU DO IT WISE
Si consiglia, durante la lettura del capitolo, l'ascolto di "When I Come Around" dei Green Day

-Ragazzi, abbiamo visite …
La voce grave e leggermente scocciata di Ash fece sobbalzare i Gentiluomini. Erano tornati nel loro posto sotto al Suicide Ghost Old Bridge e giocavano a carte, guardando la leggera pioggerellina che cadeva come un velo sulla città. Era oramai la quinta mano di poker e Jasper aveva vinto tre biglie, un pacchetto di sigarette, una bottiglietta con la sabbia colorata e due fiches finte. Jeremy borbottava incessantemente, oramai quasi senza camicia. Jake aveva truccato il mazzo nella terza mano per far girare la fortuna ma non aveva fatto altro che favorire il suo amico. Frizzy imprecava mentre versava l’ennesimo tributo al vincitore. Boleslawa rideva di gusto, siccome a lei non poteva fregargliene meno del poker. Jimmie Sue tentava di barare spudoratamente senza riuscirvi. Ash si mangiava le mani furibondo. Charlie li guardava esterrefatto. Lui odiava i giochi di carte perché nascondevano il gioco d’azzardo.
-Chi c’è?- Frizzy si sporse dalla sua postazione e quando vide i dieci ragazzi che sopraggiungevano si lasciò andare in un ruggito arrabbiato.
Gli altri si alzarono e guardarono curiosamente verso i dieci. Charlie sentì un coro di lamenti annoiati levarsi e vari commenti su come “disporsi per fronteggiare l’offensiva nemica”. Che diavolo intendevano?
-Li vedi quei pezzi di deficienti ? Sono i Bones Hole Club, i nostri nemici giurati- gli disse Jake, schiacciando la sigaretta sotto la scarpa e assumendo un’aria vagamente minacciosa. Charlie lo guardò terrorizzato. Ci mancava solamente un’altra banda ed era a posto … che scherzi che giocava il destino.
-Senti, è meglio se ti metti dietro di noi- Ash se lo spinse delicatamente dietro la schiena.
-Posso sapere perché?- balbettò Charlie
-Fidati, potrebbero volare qualcosa di più che semplici insulti- rispose Frizzy, rimboccandosi le maniche.
I dieci si schierarono davanti a loro. Avevano ad occhio e croce la loro età, vestiti da dandy, dalle facce strafottenti e antipatiche. Tipi di un altro ceto sociale. Charlie si ritrovò a pensare che i suoi nuovi “amici” erano molto più simpatici nonostante le situazioni non proprio rosee.
-Ma che sorpresa fortuita rivederci!- quello che poteva essere il capo si fece avanti con un sorrisino arrogante, scostandosi il caschetto biondo dal viso
-Non direi lo stesso- ribatté Jimmie Sue facendogli una linguaccia.
-Sempre la stessa Mellencamp!- una ragazzetta rise. Una risata gracchiante e stupida, come quella di una iena.
Jimmie Sue ringhiò silenziosamente. Li odiava, li odiava con tutta se stessa, di un odio talmente profondo e viscerale da non sapere neanche il perché della sua avversione nei loro confronti. Mosse un passo verso di loro, pronta a dar di matto. La facevano innervosire, come le mosche. Avrebbe voluto avere uno schiacciamosche gigante e farne tante frittelle di quei dieci sporchi individui ma la mano di Jasper la fermò un attimo prima dell’attacco
-Stai qui Jimmie, lasciali parlare.
Ringhiò ancora ma gli ordini del capo non si discutono. Mai.
-Veloci che abbiamo da fare. Che volete?- disse sbuffando Frizzy
-Ma che accoglienza fredda che riservate ai vostri nemici giurati … ci aspettavamo tutt’altro comportamento. Ci avete delusi … - ridacchiò il loro capo, facendo ridere stupidamente i suoi sottoposti.
-Avete esattamente tre minuti per spiegarci il motivo della vostra visita, dopodiché apriremo il fuoco- enunciò Ash, aggiustandosi gli occhiali.
-Il fuoco?! E cosa siete, dei piromani?- altre risate insensate e inette.
-Poche ciance Keane, non abbiamo tempo per ascoltare le vostre ghignate da condor raffreddati- sbottò Jake
-Avete ingiustamente occupato il nostro spazio sotto il Tube e l’avete riempito con i vostri graffiti osceni- rispose un tipo grande e grosso con la faccia da bulldog
-Ma che diavolo vai blaterando Morrison?- proruppe Jeremy
-E’ accaduto quattro giorni fa, ce ne siamo accorti oggi. Volgiamo un risarcimento dei danni- latrò Keane, il capo.
-E cosa siete, un’impresa di pulizie a cui hanno rovinato il lavoro?- sghignazzò Jake
-Taci Harris, è inaccettabile il vostro comportamento!- strillò una tipa bionda e scialba, con la faccia da faina.
-Capo, passo all’azione?- chiese Ash, pregustando già il momento in cui avrebbe attivato il complesso sistema “Anti Gente Antipatica” che avevano piantato attorno al loro angolo.
Ma Jasper scosse la testa e si fece avanti con tranquillità
-A sentire i vostri patetici discorsi, quelli in torto saremmo noi, dico bene? Ora, valutando attentamente i dati che ci avete poco fa esposto, risulterebbe che voi possediate una zona nei pressi del Tube, cosa che non è affatto vera. Vi devo forse rammentare di quando, circa due settimane fa, la vostra parte è stata ricoperta dalle macerie a causa del crollo della sezione sud del Tube? Quando accadde quello che ho appena citato voi avete detto chiaramente di abbandonare l’appezzamento di Tube sotto la vostra giurisdizione. Possono confermarcelo tutti. Abbandonandolo, lo avete meccanicamente ceduto nuovamente alla comunità, rendendolo quindi nuovamente di proprietà di tutti, noi compresi. È quindi nostro pieno diritto fare ciò che vogliamo in quella parte. Come vedete, quelli in torto siete voi, non noi.
Charlie guardò ammirato il suo capo. Certo che ci sapeva fare con le parole … vide i Gentiluomini sorridere fieri davanti alle facce interrogative dei BHC.
-Ma .. ma che … noi – balbettò Keane chiaramente confuso dal fiume di parole di Jasper. Gli altri BHC scuotevano la testa cercando di afferrare il significato del panegirico del capo dei Gentiluomini.
-Vedo con un certo dolore espressioni interrogative sui vostri volti. Devo forse intuire che avete colto ben poco del mio discorso di discolpa? Ebbene, se cosi è mi sento in dovere di dirvi prima di studiare l’inglese e perlomeno le basi di Legge, e solamente in seguito venire da noi ad esporci le preoccupazioni che vi affliggono. Vi invito a girare sui tacchi e a levarvi da mezzo. Buona giornata.
I BHC guardarono Jasper a bocca spalancata. Jasper e il suo sorriso incantevole. Jasper e la sua parlantina degna del miglior studente di Harvard e di Yale. Jasper e il suo indiscutibile fascino.
Scapparono come topi, disperdendosi come piccoli insetti spaventati.
-Caspita, li hai stesi anche stavolta!- rise Jeremy dandogli una pacca sulla spalla
-Ma una volta o l’altra posso attuare il piano d’attacco?- mugolò Ash
-E bravo il mio Jas, così si fa!- Jake abbracciò l’amico
Frizzy e le ragazze ridevano di gusto. Ci godevano così tanto quando facevano fare brutte figure ai Bones Hole Club.
Charlie era rimasto a bocca aperta. Un discorso così serio, così forbito, così … non si sarebbe mai aspettato un comportamento di quel tipo dal quel ragazzo che ora riprendeva tranquillamente a giocare a carte come se non fosse successo nulla. Li osservò, seduti per terra a ridere e a scommettere pezzi di vetro colorato. Così diversi tra loro ma così legati, come perle di una collana strana ma incredibilmente bella. Sapeva che non avrebbe potuto entrare nella collana, non c’era più spazio per nessuna perlina li dentro; poteva forse entrare in un anello coordinato. Sospirò e si arrischiò a chiedere
-Mi dispiace interrompere la vostra partita ma … quelli erano?
-I Bones Hole Club, i nostri nemici giurati!- rispose Boleslawa, come se fosse la cosa più naturale del mondo
-Si, ok, ma … potreste approfondirmi l’argomento? Tipo, perché vi odiate?
Jeremy si voltò verso di lui, bevve un sorso di birra da una lattina, se lo fece sedere vicino e iniziò con aria ispirata la narrazione
-Correva il lontano anno 1980, ed era una notte buia e tempestosa. I nostri eroi erano seduti qui, impegnati in un partita a Scala 40. La tempesta infuriava come non mai e il vento soffiava furibondo. Proprio quando io stavo per chiudere per la prima volta in vita mia-
-Perché Jasper non giocava- interruppe ridendo Jimmie Sue
-Dai, taci Jim, mi rovini la storia! Dicevo, stavo per chiudere per la prima volta quando Keane si fece avanti con la sua aria da belloccio mancato. Si scostò spavaldo il ciuffo dagli occhi e si rivolse a noi con tono arrogante. Come orridi fantasmi i suoi luridi scagnozzi ci accerchiarono; eravamo nella loro cupa morsa, persi nell’orrore dei loro ghigni satanici. Sfoderammo i coltelli, pronti a difenderci fino alla morte. Che volevano da noi quei loschi figuri? Il silenzio era pesante, rotto solo dalle loro risate. Erano in maggioranza, e in posizione avvantaggiata. Che pavidi! Attaccarci in quel frangente indecoroso! Ma proprio allora dall’oscurità più nera … arrivò Lui. Il nostro eroe!
-Chi?- chiese Charlie, spalancando gli occhi
-Era il nostro capitan Harlock in quel momento, il nostro Jeeg robot d’Acciaio, il nostro Capitan America, era … Jasper!
Un coro di risate si levò tra i Gentiluomini. Quando ci si metteva, Jeremy era il miglior narratore in circolazione. A volte lo soprannominavano Messer Jeremy il Cantastorie.
-Ma non è andata così, Jerry, sono semplicemente capitato lì per caso!- rise Jasper
-E va beh, cosa gli raccontavo al tosta… cioè, a Charlie? “E poi è arrivato uno con il trucco sfatto, la felpa troppo grossa e i capelli arruffati che si scoprì essere Jasper che si piantò davanti ai BHC e li mise in fuga”?!
-Facciamo così, racconto io la vera versione dei fatti che se aspettiamo la versione cavalleresca di Jerry non la finiamo più- interruppe Jake sorridendo, per poi ricominciare a narrare il perché dell’odio profondo tra le due bande
-Allora, Charlie, devi sapere che la fondazione dei Gentiluomini risale a sei anni fa, quando avevamo dieci anni. Il fondatore come potrai bene intuire è Jasper, seguito da me e poi da tutti gli altri. Eravamo un gruppo di bambini testardi e decisamente anormali, convinti sin da subito di poter cambiare il mondo. Come vedi, non è stato così. Con il tempo ci siamo riabbassati a normale banda di quartiere, forse con un pizzico di intelligenza e arte in più rispetto agli altri. Ebbene, il luogo dove siamo seduti ora è lo stesso di sei anni fa e, non per dire, è forse il migliore di tutto il Suicide Ghost Old Bridge. Allora, come diceva prima Jeremy, quella sera eravamo impegnati a giocare a carte e aspettavamo con ansia che smettesse di diluviare per tornare a casa. D’altronde eravamo piccoli, e starsene qua sotto al buio non era tra le priorità. Jasper era andato a vedere se per caso la pioggia fosse cessata e proprio in quel momento ci fecero visita quei simpatici tipi che hai visto prima. Erano arrabbiati con noi per vari motivi, primo tra i quali il fatto che ci eravamo scelti il posto migliore come sede e … - Jake fece una pausa, soffiando un anello di fumo nell’aria immobile e silenziosa.
-E perché avevamo rotto loro le bici- intervenne Frizzy
-Esatto. Più che altro perché ci eravamo divertiti a rovinare le loro biciclette da dandy. Fatto sta che ci circondarono e dissero più o meno le cose che ci hanno detto prima solo che erano di più, erano in piedi, ci avevano circondati, e noi eravamo disarmati. Come potrai intuire da solo, eravamo decisamente svantaggiati e sicuramente qualche pugno sarebbe volato. Non sapevamo come fare, detto francamente, contando che a dieci anni uno non è così esperto come lo siamo adesso. E, detto tra noi, quelli lì erano, sono e saranno dei sadici perversi.
-E allora?- incalzò Charlie, impaziente dalla curiosità
-E allora successe che Jasper tornò e capì al volo la situazione, salvandoci la pellaccia. Li minacciò con una pistola! Una pistola, ti rendi conto, Charlie?- Jake ridacchiò, scuotendo la testa.
Charlie spalancò gli occhi, sicuro che lo stessero prendendo in giro. Una pistola? Ma dai! Voltandosi però vide anche gli altri ridere di gusto e enumerare dettagli all’infinito. Ma … il porto d’armi? E poi era minorenne! Che …
-Sai maneggiare una pistola, Charlie?
Senza rendersene conto, Jasper gli mise in mano una piccola pistola dall’aria antiquata e decisamente poco simpatica.
-Ma … è tua? Cioè, sai …
-Era di mio zio, credo. Comunque non è difficile da usare. Vuoi imparare?
Charlie colse la nota ironica nel discorso del ragazzo, ma scosse lo stesso la testa spaventato. Sapeva sparare … ok, decisamente meglio non farlo arrabbiare!
-Beh, la nostra è un po’ una faida cittadina. Noi odiamo loro, loro odiano noi, e la guerra continua. Niente di speciale- disse Jimmie Sue.
Charlie trovò irrimediabilmente strana questa mentalità. Insomma, erano nel 1987, le faide sarebbero dovute appartenere al passato! Strane persone quelle.
-Oh, comunque abbiamo anche un complesso sistema per non far avvicinare le persone indesiderate.- illustrò Ash, sorridendo fiero. – Poi domani te lo faccio vedere. Con quello, terremmo lontano anche i marines!
E anche questo senso di assoluta protezione, di possessività … questo essere chiusi alle novità. Charlie sospirò e guardò il sole che si declinava verso le colline.
-Magari io vado, che devo anche comprare qualcosa per cena.
-Vuoi venire da me a cena? Visto che ti interessava la Polonia … - propose Boleslawa sorridendo amabilmente.
-Eh?! No, grazie, per stasera vado a casa. Forse un'altra volta- Charlie non aveva la minima voglia di andare fuori a cena. E poi era impresentabile! E avrebbe dovuto comprare qualcosa per la zia di Boleslawa come ringraziamento per l’invito e .. troppo complicato.
Per contro, sentì chiaramente Jimmie autoinvitarsi a casa dell’amica con un semplice
-Allora posso venire io?
Sospirò ancora, deciso quella sera a fare certi ragionamenti sui suoi nuovi amici e si congedò educatamente.
-Ti accompagno?- chiese Jake, guardandolo con preoccupazione.
Charlie scosse la testa con un sorrisetto tirato e corse a comprare. Quando fu oramai a casa sua, intento a preparare la cena parlando con una foto della mamma che teneva in cucina e raccontandole gli aneddoti della giornata, sentì bussare alla porta. E chi sarebbe potuto essere a quell’ora? Si pulì le mani sul grembiule e corse ad aprire. Si sentiva una vecchia massaia …
Appena spalancò la porta, si vide davanti l’ultima persona che si sarebbe aspettato di incontrare. Ovvero, Jasper.
-Disturbo?
Charlie boccheggiò per un attimo, troppo colpito dal sorriso dell’altro. Poi si riscosse arrossendo come un peperone
-Figurati, vuoi entrare?- si fece da parte e si maledisse per non essersi tolto il grembiule da cucina.
-No, grazie, volevo solo darti questo.
Nel momento in cui Charlie toccò la mano fredda di Jasper, un brivido lo percorse. Qualcosa di strano lo fece tremare da capo a piedi.
Il ragazzo gli aveva consegnato un foglio spiegazzato dove, con i carboncini, era ritratto Charlie intento ad ascoltare il racconto di Jeremy e Jake. Il cuore di Charlie fece una capriola nel petto e rischiò di fermarsi. Il ritratto era talmente somigliante da fare paura … sembrava uno specchio. Uno specchio in bianco e nero.
-Ti piace?
Perso com’era nel disegno, negli occhi così simili ai suoi, sobbalzò di nuovo e si affrettò ad annuire,incapace di parlare.
-E’ … bellissimo …. Io, non so che dirti … ti ringrazio …
Jasper non disse nulla, si limitò a fargli un sorriso disarmante, e a mettergli una mano sulla spalla. A quel contatto Charlie trattenne il respiro. Perché ogni volta che lo toccava si agitava così? Perché gli faceva quell’ effetto terribile? Perché il solo sentirlo parlare lo destabilizzava così tanto?
-Bene Charlie, allora buona serata.
-A … anche a te … grazie ancora per …
Il cuore rifece un’altra capriola quando le unghie di Jasper gli si conficcarono leggermente nella spalla
-E non preoccuparti per i ragazzi. Sono del tutto normali.
Che gli avesse letto nella mente? Che avesse colto le sue insicurezze sul modo di pensare dei suoi nuovi amici?
-Fossi in te avrei paura di qualcos’altro.
Con queste sibilline parole, Jasper si avviò lungo il vialetto, per poi scomparire lungo la via deserta.
Charlie si richiuse in casa ansimando. Che intendeva dire con quella frase? Paura di che cosa? E quel disegno così terribilmente uguale a lui … si affacciò di nuovo alla finestra ma Jasper era scomparso del tutto.
Non andava bene, pensò entrando in cucina e ricominciando a cucinare. non va bene nulla! Quel ragazzo era troppo ammaliante, troppo tutto per Charlie.
Mise il disegno, il suo nuovo specchio, sul tavolo e sospirò lasciandosi cadere sulla sedia. Stava accadendo tutto così velocemente … come gli sarebbe servita la mamma in quel momento! E cosa provava per Jasper? C’era qualcosa oltre l’ammirazione? “Per me è una cotta bella e buona …” disse l’odiosa vocina della sua coscienza.
-Ma sta zitta!- sbottò Charlie, prendendo il piatto con la cena e portandolo a suo padre che dormiva sul divano come al solito.
Mentre si appropinquava a mangiare però la vocina tornò a bussare. E se gli fosse veramente piaciuto Jasper? Secondo i libri, i sintomi erano quelli … oh, al diavolo, ci avrebbe pensato il giorno seguente.
Scosse la testa e accese la tv, pronto a farsi risucchiare nel mondo degli idioti.

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Capitolo 6
*** I am my own worst enemy ***


CAPITOLO SEI : I AM MY OWN WORST ENEMY
Si consiglia durante la lettura del capitolo, l'ascolto di "Restless Heart Syndrome" dei Green Day (se non si è capito, amo i Green Day! )


Jake e Jasper erano sdraiati sul divano rovinato e unto della casa del capo, intenti a guardare l’ennesima puntata di “Dallas” dal vecchio televisore che non prendeva mai bene la linea. Poco prima Jake aveva bussato alla casa del suo amico chiedendo ospitalità per la notte; suo padre era di nuovo partito con il camion, e ogni volta che partiva, la madre del ragazzo andava in crisi, trascinando nella sua follia anche gli innumerevoli figli. Jake non poteva soffrire tutto quel marasma di strepiti e urla, quell’isteria di massa, così si levava dai piedi e riparava da Jasper, sicuro che lì di maledizioni strillate e pianti nevrotici non ve n’era neanche l’ombra. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima.
-Come stanno le tue sorelle?- chiese Jasper, per spezzare il silenzio che era calato tra i due dopo che la madre del capo era entrata in sala con una bottiglia di gin di pessima marca stretto in mano e poi era riuscita, ridacchiando nervosamente.
-Bene- fu la risposta secca e sbrigativa.
-Beh, l’altra volta ho visto Darcy. Si sta facendo una bella ragazza.
Jake sorrise fiero della sua sorellina, cominciando a osservare con insistenza il tatuaggio che aveva sulla caviglia e seguendo le linee contorte con un dito
-Si, è bella. Ci hai messo gli occhi sopra, per caso?- Jake pungolò il ginocchio dell’altro sogghignando
-Nah, non ancora almeno.
A quella risposta Jake ridacchiò e diede un pizzicotto a Jasper. Per quanto potesse sembrare strano, lui teneva a tutti i suoi fratelli e sorelle. Da bravo fratello maggiore.
-Tuo padre se ne è andato?
Jasper sapeva bene che per Jake quello era una tasto dolente, ma d’altornde parlare non fa mai male. Forse.
-Si, stamattina. Quando sono arrivato a casa era il pandemonio più totale. È andato via col camion, in Canada. Non tornerà prima di Settembre. E mamma rompe, perché dice che la tradisce e i miei fratelli impazziscono, perché la mamma impazzisce e io impazzisco pure in quella specie di Gehenna. Siamo una casa di matti. Che poi dico, mamma, perché ti vai a sposare un camionista che sai benissimo che non rivedrai per mesi se poi hai paura che lui ti tradisca?! Non capirò mai le donne, soprattutto quelle sclerotiche come mia madre. Dio, Jas, che vita d’inferno la nostra!- Jake si accese una sigaretta sbuffando e sprofondò ancora di più tra i cuscini
Jasper avvolse l’amico in una specie di abbraccio. Ci teneva a lui, tantissimo. Forse, l’unica persona a cui Jasper veramente voleva bene era Jake. Jasper non voleva bene a nessuno, o meglio, il suo affetto era del tutto scoordinato e squilibrato tanto da non sembrare nemmeno affetto. Ma per Jake era diverso. Per Jake avrebbe dato tutto ciò che gli era più caro, avrebbe dato persino la vita se fosse servito. Per Jake era pronto ad affrontare qualsiasi Inferno. Jasper non aveva vie di mezzo : non le aveva mai avute. Il suo cuore era animato da passioni forti come un uragano o da una freddezza inumana. Il suo spirito di abnegazione era smosso solamente da quelle cose che svegliavano le sue passioni più sfrenate; per il resto, rimaneva … no, non era gelido e freddo come la maggior parte delle persone. Lui era menefreghista. Non gliene poteva importare niente del mondo. Non vi era nulla che stimolasse il suo interesse, che lo smuovesse dalla sua perenne noia. C’era Jake, ovviamente. Jake, che era una delle sue passioni sfrenate. C’erano i Gentiluomini. A ben vedere, Jasper non voleva particolarmente bene a quegli ragazzi; li considerava però sue creature. Ecco, si. Creature. Erano i suoi giocattoli, le sue figure plasmate. Bambini perduti a cui lui aveva dato per capriccio una personalità. O meglio, avrebbe fatto di tutto per loro, perché comunque un po’ di bene gliene voleva. Ma, certamente, sapeva di aver inculcato in loro molte più cose di quante avrebbe dovuto.
Accarezzò la testa di Jake che si era mezzo appisolato, cullato dalle voci monotone della tv. Jasper viveva da solo, se l’era sempre cavata da solo. Sua madre non lo aveva mai considerato più di tanto, persa nell’oblio dell’alcol. Suo padre, manco sapeva chi fosse. Era cresciuto guardando la tv e leggendo libri da ragazzi grandi. Aveva distorto e deformato tutto quello che leggeva nei suoi libri e ne aveva fatto la sua perversa filosofia, irragionevole e selvaggia. A volte ci pensava, e non poteva fare a meno di ridere al pensiero di aver convertito i suoi amici nella sua politica assurda, che richiamava tutti i classici che aveva preso nella biblioteca comunale. Sorrise malinconicamente e guardò la caviglia nuda di Jake. Avevano lo stesso tatuaggio, che si erano autofatti molti anni prima. Il loro primo tatuaggio … una catena. Si, esatto. Avevano un identico segno sulla caviglia, una cinerea e una abbronzata, con una catena accuratamente intrecciata. “Fuck the world, fuck’em all, just me and you”. Attorcigliate con gli anelli della catenella avevano entrambi scritto la stessa identica frase. “Patetico” pensava Jasper “ma fondamentale”. Per lui, quella era la catena che lo teneva ancora sulla Terra. Sospirò, pensando alla situazione squilibrata del suo migliore amico. Terribile, in effetti, però lui aveva dei fratelli. Aveva qualcuno. Aveva lui. Scosse la testa e si mosse, svegliando Jake
-Dove vuoi dormire, Jacky?
-In un letto non bitorzoluto e comodo. Magari con un materasso ad acqua e il baldacchino- biascicò Jake alzandosi e stiracchiandosi come un gatto sornione.
-Beh, l’unica cosa che ti posso offrire è o il divano o il mio letto scomodo. Comunque se vuoi la pura illusione di avere un vero letto ti posso dare della novocaina.
Jake fece una smorfia. Novocaina … Jasper dipendeva dalla droga … esaltato da sempre, sotto l’effetto degli psicofarmaci. Jake non voleva che il suo amico fosse un tossicodipendente ma impedirglielo era complesso e Jake lasciava correre. Non che lui desse l’esempio, anzi … ma con Jasper era diverso. Perché la droga lo allucinava più di quanto già non fosse di natura. Il ragazzo sospirò e scosse la testa mestamente. Tanto con Jasper era tutto inutile.
Si avviò con un ghigno al piano superiore, dove sapeva c’era la camera del suo migliore amico. Aprì la porta scricchiolante e si ritrovò nella camera che ben conosceva. Il soffitto basso, il pavimento ingombro di fogli fittamente disegnati, la piccola finestrella che affacciava sul tetto. Tutto come al solito. Si avviò mollemente sul vecchio e basso letto sfatto, le coperte intrecciate con i vestiti. Sul comodino giacevano alcuni libri aperti e sottolineati, libri di cui Jake non capiva neanche il titolo. Fece vagare lo sguardo per la stanza, accarezzando distrattamente le coperte; come al solito alle pareti erano appesi i suoi quadri migliori, gli schizzi e i disegni svolazzavano per tutta la camera. Libri, volumi e fogli scritti con una calligrafia stretta e arzigogolata riempivano ogni angolo. Un vecchio giradischi giaceva in un angolo con una gran quantità di LP di musica punk inglese. I vestiti non avevano un posto preciso, gettati qua e là nel marasma con matite e acquerelli. Alla testiera del letto pendevano delle collanine con dei simboli giapponesi e sotto la finestrella stava appeso un foglio con scritte senza senso, fatto da loro due qualche anno prima. Jake si ricordò il momento in cui le avevano scritte, convinti di poter far qualcosa per la loro nazione in declino. “Ecco come ci siamo ridotti, quelli che dovevano salvare l’America” pensò acidamente Jake, chiudendo gli occhi e lasciandosi cadere sul letto che scricchiolò sotto il suo peso.
-Non ci credi più, Jacky? Non credi più che salveremo l’America?
A sentire la voce di Jasper, Jake sobbalzò e spalancò gli occhi. Era fermo sulla porta della camera, con uno strano ghigno stampato in faccia, e lo sguardo offuscato. Il trucco colava miseramente sulle guance pallide, le mani erano scosse da un tremore ingiustificato, i capelli cadevano scomposti sul volto distorto in una smorfia. Quando si mostrava in quel modo, a Jake faceva un po’ paura. Gli sembrava un terribile pagliaccio triste e perduto. Un pagliaccio senza speranza.
-Non è che non ci credo ma … - Jake si strofinò gli occhi e sbuffò.
-Tu non credi più in questo, Jake. Come non ci credo io. Tutto quello per cui avevo avuto la forza di tirare avanti si è dissolto come la nebbia al mattino.- Jasper si trascinò davanti all’abbaino e lo aprì, lasciando che il vento secco gli scompigliasse i capelli e facesse tremare Jake che lo ascoltava senza fiatare –Tutto quello che avevo predicato e in cui avevo ciecamente creduto si è rivelato una farsa. La convinzione di poter fare qualcosa per risollevare le sorti dell’America e farla uscire dal baratro in cui era finita è morta e sepolta. Non siamo stati in grado nemmeno di salvare noi stessi, come potremmo mai aspirare a salvare la nazione? Ci vedi, come ci siamo ridotti? Distrutti dal nostro stesso delirio. Ma cosa devo dirti Jake? Siamo americani, soffocati dalla nostra stessa patria. Uccisi dai sogni.
Jake tremò come una foglia d’autunno. La realtà delle cose lo lasciava sempre un po’perplesso, soprattutto quando gli venivano sbattute in faccia da Jasper. Si alzò, insicuro sulle proprie gambe, improvvisamente assetato e bisognoso di fumo. Fumo per tornare a respirare. Si trascinò da Jasper, fermo immobile dall’abbaino. Lo abbracciò silenziosamente, poggiando la testa sulla sua spalla fredda. Poteva sentire il cuore di Jasper battere piano e lontano, sentiva la sua mano gelida accarezzargli i capelli. Rimasero in silenzio, un silenzio pesante e terribilmente triste.
-Jas io … - Jake stentò a riconoscere la sua stessa voce. Pareva quella di un vecchio, di uno che ha vissuto talmente tante cose da non poterne più sopportare il peso. Non fece in tempo, che venne zittito dall’amico con un silenzioso gesto delle labbra. Jake deglutì, soffocando il magone che si stava prepotentemente facendo largo nella sua gola riarsa. Aveva paura, quando vedeva Jasper così. Quando lo vedeva talmente drogato da non riuscire quasi a reggersi in piedi, con il viso talmente stravolto da sembrare un sopravvissuto a una guerra nucleare. Aveva paura, un terrore che veniva dal profondo. La paura di perderlo. Jake sapeva che senza Jasper lui si sarebbe perso completamente, non avrebbe più avuto nessuno a cui affidarsi e una spalla su cui piangere. Non avrebbe avuto più nessuno.
Vedeva in quei maledetti occhi viola la distruzione, in quella voce soffocata vedeva la fine, in quella pelle dal pallore mortale vedeva la disgregazione. Lo strinse più forte a sé, per tenerlo saldo a terra. Perché quando parlava, quando, nonostante la droga, gli presentava il loro fallimento continuo, avrebbe voluto farlo tacere; non voleva sentirsi più inutile di quanto già non si sentiva di solito. Jake non credeva più in nulla, se non in Jasper. Lui era il suo dio, il suo demonio. La sua gioia e il suo terrore. Jake sentì le lacrime affiorargli e tentò di ricacciarle indietro. Non voleva piangere, quello proprio no. Ma le lacrime combattevano strenuamente per rigargli le guance, per sgorgare come fiumi trasparenti dai suoi occhi stanchi. Cercò di arginare tutto quello che spingeva per uscire, ma alla fine il pianto ebbe la meglio. Cascate di lacrime brucianti gli scivolarono sul viso, lacrime silenziose e terribilmente dolorose. Il ragazzo strinse la maglia del capo e, oramai senza più nessun freno, lasciò la sua tristezza fluire libera in un torrente di pianto.
Jake non si rese più conto di nulla, solo delle sue lacrime e di Jasper che lo teneva stretto a sé come se fosse stato l’ultimo giorno della sua vita. Non si rese conto più di niente a parte le sue lacrime e la sua voglia di liberare qualcosa che per troppo era stato represso dentro; a un certo punto sentì qualcosa di morbido attorno a se e immaginò fosse stato messo a letto ma le lacrime non volevano saperne di fermarsi. Sentì Jasper riabbracciarlo, anche se non vedeva più nulla e i suoni erano ovattati come mai gli era accaduto. Poi pensò di essersi addormentato, perché cadde nell’oblio più totale.

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Capitolo 7
*** The worry rock has turned to dust fallen on our pride ***


CAPITOLO SETTE : THE WORRY ROCK HAS TURNED TO DUST FALLEN ON OUR PRIDE

Si consiglia di ascoltare, durante la lettura del capitolo, "Worry Rock" dei Green Day

-Vedi Charlie, allora, il tutto parte con il tiro di questa leva … - Ash stava spiegando a Charlie come funzionava il sistema “Anti Gente Antipatica” del covo. Gli brillavano gli occhi, di una luce felice, brillante. Quasi commosso. Muoveva freneticamente le mani, per illustrare il progetto al ragazzino. Per Ash, poter mostrare a un estraneo la propria abilità matematica e ingegneristica era il massimo dei privilegi. Sapeva di avere una dote naturale per le materie scientifiche, di avere qualcosa in più rispetto agli altri quando si trattava di calcolare o di progettare. Ovviamente, Jasper era più in gamba, ma Jasper non contava. Per Ash, almeno : il capo era la somma irraggiungibile. Comunque, quando si trattava di risolvere qualche problema tecnico, si andava da Ash e semmai, se proprio neanche il matematico per eccellenza dei Gentiluomini ci riusciva, si scomodava il capo. Lui risolveva qualunque cosa.
Comunque, Ash era nato in una famiglia ottusa, possedente la tavola calda della cittadina. Da generazioni i Cohen si tramandavano la tavola calda, lurido e mal fornito luogo di ritrovo per la maggior parte della gente di lì. Come da copione, copione che si ripeteva oramai da lustri e lustri, la tavola calda sarebbe poi toccata ad Ash, come primogenito. Lui non voleva. Lui voleva andare fuori, voleva vincere una borsa di studio per il MIT, voleva … niente. Un bel cavolo voleva. Tutti i suoi sogni si erano frantumati pochi anni prima, quando, avendo fatto presente il suo odio per la tavola calda e la sua voglia di andarsene lontano, aveva scatenato le ire di suo padre. Gli era costato una cicatrice sul viso, provocata da un coltello. Quel vecchio ubriacone … e sua madre, non aveva fatto nulla per impedire all’uomo di sfigurargli il viso per sempre … se già Ash non sopportava i suoi genitori, da quel momento li odiava con tutto se stesso. Li odiava perché non lo lasciavano libero di viversi la propria vita. Li odiava perché erano ignoranti. Li odiava perché gli avevano deturpato i lineamenti in maniera irreparabile. E odiava se stesso per non essere scappato di casa, per avergliela data vinta. Non aveva un soldo, ok. Al MIT l’avrebbero preso a calci nel fondoschiena. Ma solo poterci arrivare davanti, vedere la sua linda facciata, leggere il suo nome … Ash si odiava. Odiava tutto quello che poteva odiare. La sua casa, se stesso, i suoi genitori, la sua città, il suo stupido fratello. Che l’avessero lasciata a quell’inetto la tavola calda! L’odio che il ragazzo teneva covato dentro era come una bomba atomica. Se mai fosse esploso, se mai qualcuno l’avesse lasciato detonare avrebbe scosso tutto la stato. Era un odio feroce, triste. Era disperato. Un disperato urlo di libertà represso nel cuore. Cuore che ora faceva fatica a sopportare il peso di quella tristezza infinita.
-Ehm, Ash? Tutto ok?- la voce di Charlie risvegliò il ragazzo, rimasto leggermente imbambolato di fronte alla sua creazione.
-Si, certo. Ti dicevo, se tiri questa cordicella, che, non so se hai notato, si trova in posizione strategica, si attiva un complesso sistema di misurazioni e piccoli pesi. Vedi?- Ash tese il braccio verso il muro, dove Charlie poté vedere, con suo grande stupore, un meccanismo formato da una biglia che, quando Ash tirò la cordicella per fargli vedere, si mise a correre lungo un cucchiaino, cadde su un tappo delle bottiglie del latte, si rovesciò su di un filo do carta velina, lo ruppe e cadde per terra, mentre la rottura della carta velina fece rovesciare un secchio nascosto e annaffiò l punto dove il giorno prima si trovavano i BHC. Charlie sobbalzò
-Che trovata geniale! Ma l’hai progettata tu?- si voltò sbattendo gli occhioni stupefatti verso il ragazzo sfregiato che rise
-Tutta io, dall’inizio alla fine. È stato un lavoro molto duro calibrare tempi e pesi ma poi ce l’ho fatta. Poi c’è questo.
Ash si sentiva gasato come non mai per l’interesse dimostrato da Charlie verso i suoi capolavori di ingegneria. Gli fece vedere ancora un interessante macchinazione che comprendeva la caduta di alcuni coltelli da cucina sullo sventurato che osava sedersi sulla  loro poltrona. Questo a Charlie fece un po’paura ma evitò di dirlo.
-Beh, siete ben protetti … - commentò, stando attento a non inciampare sul filo che faceva precipitare i coltelli.
-Con i tempi che corrono … - rispose Frizzy sorridendo, impegnato ad affilare il temperino che si portava sempre appresso. Era di suo padre … se ne era andato quando era piccolo. Andato per colpa di un orrendo cancro; forse era quello il motivo del perché lui non fumava e cercava di convincere i suoi cocciuti amici a smettere. Perdere anche loro per colpa del fumo? Ne avrebbe fatto anche a meno. Sua madre lavorava come cameriera ma i soldi non bastavano. Non bastavano mai, il governo li assorbiva con voracità e ne voleva subito degli altri, affamato. Affamato come una belva, ansimante sul collo di quelli che faticavano ad arrivare a fine mese, sperando nella loro caduta. Ogni tanto lavorava anche lui per racimolare qualcosa di più, ma la vita non era facile. E le belve erano sempre sotto i piedi, pronte a saltare.
-Che si fa oggi?- Boleslawa si sedette vicino a Frizzy, posandogli la testa sulla spalla. Il ragazzo la guardò sorridendo, e continuò ad affilare il temperino con perizia.
-Dobbiamo aspettare Jasper, lo sapete- ribatté Jimmie Sue, cavando di tasca un mazzo di carte da gioco unte e bisunte.
-Perché oggi non si è fatto ancora vedere?- intervenne Jeremy, stappando la prima lattina della giornata.
-Che strano, è sempre puntuale di solito- aggiunse Frizzy, rimirando il suo lavoro di affilamento alla luce del sole.
-E Jake? Qualcuno sa qualcosa?- interruppe Charlie, sentendosi ancora di più un intruso odiato.
Il sorriso che però Jimmie gli rivolse gli fece cambiare idea almeno in parte.
-Pensavo ti fosse venuto a prendere sotto casa!- lo stava prendendo in giro, quello era evidente, ma aveva un modo dolce e simpatico … Charlie pensava che persone come lei si trovassero solo nei libri.
-Sarebbe dovuto ma … - il ragazzino pensò che forse quelle parole, in un gruppo che predicava la libertà più assoluta senza limiti, fossero poco appropriate e si corresse rapidamente – Cioè, mi aveva detto che sarebbe venuto, ma stamattina c’era solo Frizzy ad aspettarmi … - rivolse uno sguardo riconoscente al ragazzo, che gli strizzò l’occhio con un sorriso. 
-Secondo me è successo come l’altra volta … - Jeremy sogghignò scuotendo la testa e facendo tintinnare la catena che portava appesa alla giacca.
-Ma smettila! Sei sempre il solito pervertito!- strillò Boleslawa, sbuffando.
-Ehm, si può sapere cosa intendi?- chiese Charlie, tentennando. Non era sicuro di volerlo sapere.
-Lascia stare, è lui che ha pensieri perversi- rise Ash, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
-Sempre i soliti voi! I vostri commenti erano anche peggiori dei miei, solo che … - borbottò Jeremy.
-Solo che noi non ci siamo lasciati beccare spudoratamente dai due interessati a fare commenti inopportuni- concluse Jimmie Sue strappando la bottiglia dalle mani di Jeremy e bevendone un sorso ridendo.
Il ragazzo si riprese la bottiglia mandandola al diavolo borbottando e le diede un pizzicotto sul braccio.
Charlie li guardò con aria interrogativa ma si astenne dal far domande. Semmai, glielo avrebbero spiegato loro. Si sedette composto per terra, controllando prima che non vi fosse troppa immondizia in giro. Li guardò ridere e scherzare e si sentì bruciare dentro. L’affetto che vi era tra quei ragazzi era così speciale … chissà se sua madre li avesse apprezzati? Sua mamma … le mancava così tanto. Sicuramente, se lei non fosse morta lo avrebbe portato via da lì, al sicuro da qualche altra parte! Anche se ora, conosciuti i Gentiluomini, gli pareva quasi brutto andarsene e non vederli mai più, non vedere più i ragazzi che lo avevano spronato a diventare loro amico. Cominciavano a piacergli, in fondo al cuore. Cominciava ad accettarli.
Un coro di voci e risatine lo distolse dai suoi pensieri e vide sopraggiungere Jake e Jasper, uno col solito passo strascicato, l’altro ondeggiando. Uno con la sigaretta all’angolo della bocca, l’altro con un blocco da disegno stretto in mano.
-Alla faccia della puntualità!- rise Jimmie Sue abbracciandoli stretti. Era come se fossero i suoi fratelli.
-E lasciaci dormire, Jim, ti prego! Non siamo tutti iperattivi come te- rispose Jake, soffiandole in faccia con un sorrisino una voluta di fumo.
-Comunque, la puntualità e gli orari prestabiliti dall’umanità, non sono altro che uno stupido espediente per tentare di dare senso a una cosa che non ce l’ha : il tempo. Tentando di schematizzare il padre degli inizi, si ricavano solo incomprensioni e problemi che non ci sarebbero se il tempo venisse lasciato libero di scorrere sulla vita di ognuno. Il Tempo, come concetto, è tutto ciò che noi non saremo mai. È vita, morte, sapienza. Il Tempo è qualcosa di troppo immane per gli umani, che vogliono incastrare colui che può eludere qualsiasi sorveglianza. Tecnicamente, quindi, noi non saremmo in ritardo tesoro. Abbiamo semplicemente gestito il nostro tempo come meglio abbiamo creduto.
Jasper fece un sorriso irriverente e Jimmie scoppiò a ridere
-Tanti giri di parole e ci confondi come al solito, vecchia volpe! Tutte scuse- sghignazzarono Frizzy e Jeremy.
-Il Tempo … iniziamo bene la giornata, eh Jas? Temi importanti … - commentò sorridendo Ash, accendendosi una sigaretta.
-Se iniziano a parlare sti qua non la finiscono più! Andiamo che è meglio- Boleslawa si alzò ridacchiando
-Alla stazione?- propose Jake.
-Garantito- esclamò Frizzy, acchiappando la bici e caricandovici sopra Boleslawa che strillò qualcosa in polacco.
I Gentiluomini partirono di gran carriera verso la stazione abbandonata; l’avrebbero fatta vedere anche a Charlie, che nel frattempo era stato preso sullo skate di Jake
-E tu Charlie, cos’è il Tempo per te?
Il ragazzino rimase colpito da quella domanda. E non per il fatto che gliela avesse posta Jasper (cioè, quello contribuì molto a mandarlo in palla), ma per il fatto che lui non ci aveva mai pensato. Cos’era effettivamente il Tempo?
-Beh … a dir la verità non ci ho mai pensato. Cioè io … credo che il Tempo sia una specie di nemico.
-Spiegati- Charlie si sentiva addosso gli sguardi pressanti dei Gentiluomini.
-Intendo dire … il Tempo ti fa invecchiare, fa scomparire le persone amate, rovina e deteriora. Il Tempo uccide lentamente; il passato è andato, il Tempo non ti da seconde possibilità.
-Interessante come ipotesi … - commentò Jake.
-Comunque, anche se effettivamente il Tempo non da seconde chance, è una cosa utile. Pensa a quando saremo adulti e penseremo al passato. Il Tempo è pregiato, più dei diamanti e dell’oro- replicò Boleslawa
-Il Tempo non è clemente con nessuno. Scegliere una seconda volta potrebbe essere considerato mancanza di ideali. Se uno è convinto di una cosa, anche se ha sbagliato, non se ne accorge perché è convinto di essere nel giusto. Perciò, il Tempo non ammette fondamentalmente sbagli in quel senso. E poi, prima o poi moriremo tutti. Cosa serve ricordare? A nulla, siccome la vita è breve come un’estate abbiamo solo il tempo di viverla fino in fondo. Se stessimo tutta la nostra estate a pensare all’inverno appena trascorso, non riusciremmo a viverne nemmeno una parte.
Il silenzio che calò tra i ragazzi appena il capo ebbe finito il discorso fu terribilmente imbarazzante per Charlie
-Hai ragione- sussurrarono tutti in coro, con tono reverenziale.
Charlie sussultò. E perché tutti gli avevano dato ragione? Cioè, anche secondo lui Jasper aveva detto le cose giuste ma … non sapeva, ma c’era qualcosa di strano nella completa e cieca fiducia di quei ragazzi in Jasper.
-Dai, facciamo una gara a chi arriva prima?!- urlò Frizzy e una mandria di ragazzi assatanati si slanciò al volo verso la vecchia stazione. Charlie ebbe la buona idea di abbandonare lo skateboard di Jake e di farsi caricare su da Jeremy, che per qualche strana ragione aveva deciso di non fare la gara
-Dimmi Charlie, ti piacciamo?- la risata gracchiante del ragazzo scosse l’orecchio del ragazzino, impestandolo di una pesante puzza d’alcool.
-Oh si molto!- si rese conto di averci messo troppo entusiasmo e tentò di riprendersi – Intendevo, pensavo molto peggio, siete molto simpatici e carini con me e …
-Ho capito ragazzino, calmo. Ho capito. Senti, scusa l’impudenza, ma hai mai bevuto?- era percepibile un velo di malizia nella voce di Jeremy
-Come? Ah si, una volta ho bevuto un bicchiere di Coca-Cola.
-Alcolici, Charlie! Come sei innocente, piccolo tostapane- Jeremy perse quasi il controllo dello skate. Coca Cola … chissà che bevuta …
-Ah, beh, allora assolutamente no! Sono minorenne! E poi perché mi hai chiamato tostapane?
Jeremy si rese conto di essersi appena tradito. Dannazione, si era lasciato sfuggire il soprannome …
-Niente Charlie, tranquillo, lascia stare.
Charlie non fu molto convinto delle parole del suo nuovo amico, ma lasciò correre, perché oramai erano arrivati. Nella pianura al di fuori della cittadina attendeva la stazione arrugginita. Mangiata dalle ortiche, illuminata dal sole bruciante. Sole che ardeva come un cuore distrutto, ancora acceso di passione nonostante il tradimento. Polvere, polvere rossa roteava dappertutto, creando mulinelli soffici e andandosi a depositare sui vagoni distrutti, ricoperti da graffiti di ogni tipo. Dichiarazioni d’amore, nomi, maledizioni, preghiere, e tutto ciò che una giovane mente stufa può partorire.
-Vieni con me Charlie, ti faccio vedere il disegno che ho fatto!- la mano di Jimmie Sue gli strinse il polso e il ragazzo venne trascinato ridacchiando davanti alla porta della carrozza e si perse a seguire con Jimmie le linee colorate e a chiacchierare del più e del meno, attorniati dagli altri che si rincorrevano con le bombolette spray.
Jake si era semplicemente seduto sulla parete buia del vecchio gabbiotto della stazione e tracciava linee immaginarie nella sabbia vermiglia
-Jacky, che ti succede. Esigo una risposta.
La voce di Jasper lo fece sobbalzare, colto alla sprovvista. Alzò lo sguardo sul ragazzo che lo fissava con insistenza.
-Niente- brontolò, tornando alle linee. Jasper si sedette vicino a lui e gli prese il polso, stringendolo con le lunghe unghie nere e lucide.
-Non ti credo, ti ho già detto. Parla, Jake. Dimmi che diavolo hai.
Jake sbuffò e gli posò la testa sulla spalla. Odiava quando Jasper lo metteva così alle strette. Non era capace di dirgli di no.
-Ecco .. è che … questo posto … - le parole facevano fatica a uscire dalla bocca del ragazzo, come trattenute da catene invisibili. - Io ti ho conosciuto qui, Jas. Proprio qui, dieci anni fa. È passato così tanto … dal giorno in cui ci vedemmo qui, io che giocavo con le grette e tu che disegnavi la stazione. E dal giorno in cui ho incrociato il tuo sguardo … sono cambiato. Mi hai cambiato, Jasper! Dal momento in cui i nostri sguardi si sono fusi, nel momento in cui ti ho rivolto la parola … io non sono più lo stesso. Hai un meraviglioso, devastante effetto su di me.
-Venire qui è forse un modo per immaginare come sarebbe la tua vita se non ci fossimo mai incontrati?- la voce di Jasper era bassa, leggermente arrochita dal fumo.
-Ma non è quello … è solo che … non so spiegarlo .. io, tu, noi …
-Credo … credo di aver capito. Non ti sforzare di parlare.
I due ragazzi vennero zittiti da un sordo scalpiccio. Davanti a loro, in controluce, un’esile figura si avvicinava correndo.

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Capitolo 8
*** I'm not fucking around ***


CAPITOLO OTTO : I'M NOT FUCKING AROUND
Si consiglia di ascoltare durante la lettura (si spera gradita) "Horseshoes and Handgrenades" dei Green Day


-Ehm, siete voi i Gentiluomini del Ventesimo Secolo?- davanti a Jake e a Jasper si fermò ansante una ragazzina con il caschetto blu e una lunga serie di piercing all’orecchio
-Siamo noi. Con chi ho il piacere di parlare?- Jasper si alzò, seguito a ruota da Jake e le porse la mano sorridendo.
La ragazza arrossì violentemente, abbassando lo sguardo. Avevano mandato proprio lei a chiamare quella banda … sospirò. Avevano mandato lei a parlare con Jasper MacKenzie. Oddio, che emozione. Che piacevole tortura per i suoi occhi. Tese tremante la mano e soffocò un sospiro innamorato quando si strinsero la mano. Sfiorò delicatamente gli anelli del ragazzo e si ritrovò ad arrossire di nuovo, rendendosi conto che non aveva ancora risposto alla domanda che le era stata posta. Prese un profondo respiro e disse, senza alzare lo sguardo:
-Io sono Beverly, ma potete chiamarmi Ayato. Anzi, preferirei che mi chiamaste Ayato. Beverly è un nome terrificante, a mio parere. Sono dei Servitori di Ecate dei Crocicchi. Piacere di conoscervi.
-Onorato, Ayato- Jasper si portò la mano della ragazza alle labbra e la baciò delicatamente. La ragazza rischiò di soffocare dalla meraviglia. La mano … baciata da Jasper Mackenzie. Non si sarebbe più lavata le dita, assolutamente. Una cascata di splendide e terribili emozioni si riversò nel cuore di Ayato; non aveva mai conosciuto di persona il capo dei Gentiluomini del Ventesimo Secolo, ma lo aveva sempre visto in giro e sin da quando erano dei bambinetti ne era rimasta affascinata. Era così bello … così maledettamente bello e dannato. Ayato ammirava la sua estraneità, il suo sguardo penetrante che pareva quasi analizzare l’anima di qualunque cosa attirasse la sua attenzione, ammirava i suoi dipinti. Aveva avuto qualche occasione di vederne qualcuno ed era rimasta letteralmente esterrefatta dalla perfezione delle linee. Sognava ogni notte di poter passare il resto della sua vita con lui, anche se si rendeva conto di essere solo una sciocca. Un ragazzo che neanche conosceva, con cui non aveva mai parlato … eppure l’effetto che le faceva era talmente esagerato da indurla a pensare che il suo fosse una forma di amore malato. Rimase imbambolata di fronte ai due ragazzi, conscia di star facendo un’orrenda figura da ochetta stupida, ma non poteva farci niente. La sua bocca aveva deciso di rimanere spalancata, gli occhi di far concorrenza a un rospo  e la sua mano si era improvvisamente ingessata. Venne risvegliata dal suo Nirvana da Jake che le afferrò la mano e disse sorridendo
-Beh, io sono Jake!
Sobbalzò leggermente e sfoderò il suo sorriso migliore
-Il piacere è tutto mio.
-Cosa volevi dirci?- interruppe Jasper, per poi urlare – Ragazzi, abbiamo visite!
Ayato vide sbucare da dietro le carrozze sei ragazzi sporchi di vernice che la fissarono con curiosità. Finalmente la ragazza si ricordò che comunque, nonostante ci fosse il suo amore nascosto e le rispettive bande andassero d’accordo, doveva ricordarsi che era pur sempre da sola in territorio straniero. O meglio, territorio imparziale ma circondata da estranei. E anche se teoricamente, secondo le leggi delle bande della cittadina, era vietato attaccare qualcuno in territorio imparziale senza una dichiarazione di guerra, avrebbero benissimo potuto prenderla prigioniera e chiedere un riscatto alla sua banda. E chissà se i suoi sarebbero stati disposti a pagare il riscatto … solitamente per il rapimento di una ragazza rivale innocente e disarmata si pagava due biglie di vetro blu. Ma forse si stava montando la testa. Si, decisamente. E poi era solo una messaggera, e come si sa ambasciator non porta pena. Si stava agitando troppo. Com’era stupida!
-Ehm, bene- iniziò, tossicchiando e osservando i famosi Gentiluomini. Su di loro giravano un mucchio di leggende metropolitane, tipo che quegli otto erano dei geni in vari campi. Ma probabilmente erano solo storie. – Immagino che conosciate Tom O’Hara …
-L’irlandese?- interruppe Jeremy, stappando una bottiglia di birra
-Esatto. Mi ha detto di invitarvi tutti questa sera alla festa che darà al numero 15 della Long Road, verso le nove.
-Festa hai detto?- disse Ash, pulendosi gli occhiali e guardandola in tralice
-Allora ci saremo!- urlò Jimmie Sue. Immediatamente però si voltò da Jasper – Ci andiamo, Jas?
-Se siete tutti d’accordo allora sì, grazie. Ci saremo- concluse Jasper.
-Ehm, no, ma io … - iniziò Charlie
-Tu zitto- Jake scoppiò a ridere e gli buttò un braccio attorno alle spalle.
-Perfetto, allora posso dare risposta affermativa! Ottimo! Ci vediamo stasera, allora!
Ayato fece un breve inchino e corse via nella pianura rosseggiante. Mentre correva ebbe voglia di mettersi a urlare. Dio, quant’era stata stupida e oca! Si era lasciata trascinare dalle emozioni come una bambina! Aveva mostrato una parte di sé decisamente idiota eppure non era riuscita a tirare fuori nulla di meglio in quel momento. Scosse la testa e riprese a correre più veloce.
Dalla stazione, i Gentiluomini commentavano il fatto, seduti per terra, intenti a fare cerchietti nella sabbia
-Una festa, proprio ciò che ci voleva!- esclamò Jeremy ridendo
-Speriamo non succeda come l’ultima volta, però- intervenne Boleslawa, pensando alla rissa che era scoppiata all’ultima festa a cui avevano partecipato.
-Basta che ce la battiamo prima di venire coinvolti … - commentò Frizzy
-Beh, io una bella scazzottata me la farei volentieri- ridacchiò Jake
-Basta che non mi torni come l’ultima volta, moribondo e insanguinato- disse Jasper guardandolo da sotto la cascata di capelli.
-Scusate, ma a queste feste cosa si deve fare? Devo comprare un regalo? Devo portare qualcosa?- Charlie impose la sua presenza. Anche loro che non gli davano le dovute spiegazioni …
-Caspita Charles! Ma sei proprio unico, eh?! Non devi portare niente se non il tuo fondoschiena e una bella dose di risate- Ash rise forte
-E prepararti a essere circondato da una marea di gente ubriaca e fatta- Jimmie Sue gli strizzò l’occhio
-Ah, e se io non venissi qualcuno si offenderebbe?- il povero Charlie sbiancò, sperando fortemente che lo lasciassero a casa tranquillo.
-Io mi offenderei. A morte- Jasper gli regalò un sorrisetto che aveva un qualcosa di sadico in fondo.
-Oh- Charlie rimase a bocca aperta. Non voleva offendere Lui, no di certo. Anzi, non avrebbe mai osato far qualcosa che potesse urtare la sensibilità di Jasper. Sempre che avesse una sensibilità … - Beh, allora, forse … vedrò di essere presente … - disse, anche se con poca convinzione.
-Bravo, Charlie. Proprio quello che volevo sentirti dire- Jasper gli sfiorò la guancia e Charlie si sentì prima sparato verso il cielo e poi affogato nelle fiamme.
-Forza allora, tutti a casa, che dobbiamo prepararci per la festa!- dissero in coro Boleslawa e Jimmie salutandoli con la mano e avviandosi ridendo verso la città.
-Ora vado anche io, magari mamma ha bisogno di aiuto- Frizzy si stiracchiò e si avviò facendo acrobazie con la bicicletta.
Ash e Jeremy si scambiarono un’occhiata e presto anche loro scomparvero nella nebbiolina che il suolo rilasciava a causa della calura.
-Allora ci vediamo questa sera, Jas. Mi raccomando- a Charlie non sfuggì l’occhiata quasi di rimprovero che Jake lanciò al capo, quasi un lieve ammonimento a qualcosa di cui lui era all’oscuro. Jasper si limitò a scuotere la testa, a prendere i carboncini e a cominciare a disegnare qualcosa. Charlie venne sospinto delicatamente da Jake verso casa. Camminarono fianco a fianco fino in città, senza parlare, Jake fumando tranquillamente la solita sigaretta con lo skate sotto braccio e Charlie caracollandogli vicino, come un cagnolino. Pensava a quello che prima gli era stato detto “Proprio quello che volevo sentirti dire …”. Ma che significava? E se avesse persistito a dire no? Che avrebbe detto o fatto Jasper? Gli pareva così strano, così innaturale la quasi devozione dei ragazzi nei confronti di quello che poi era un ragazzo normale! Ok, era carismatico, era sicuramente un personaggio, ma cosa li spingeva a venerarlo? Cosa aveva fatto di tanto grande da spingerli a stimarlo in quella maniera quasi ossessiva? E poi, a ben vedere, gli sembrava anche più problematico di tutti gli altri. Perché lui? Cosa aveva in più rispetto a loro? Cosa aveva di così magico e speciale? Un mal di testa martellante lo venne a trovare. E se lo avesse chiesto a Jake? O forse sarebbe parso maleducato … eppure era così curioso di risolvere quell’indovinello che da qualche giorno lo rodeva come un tarlo.
Decise di chiederlo al suo amico, nel modo più velato possibile. Anche se temeva che Jake fosse troppo sveglio per lui.
-Ehm, senti Jake, non vorrei essere invadente ma potrei sapere il perché tu e Jasper siete così legati?- se forse partiva con domande apparentemente innocenti, sarebbe poi potuto arrivare a quello che voleva. Anche se non ne era convinto.
Jake lo guardò e gli rivolse un sorriso malinconico
-Io e Jas? Beh … guarda- il ragazzo si fermò e scoprì la caviglia. Charlie lesse il tatuaggio con fatica, in mezzo alla catena “Fuck the world, fuck ‘em all, just me and you” e spalancò gli occhi. Com’era delicato nonostante tutto, com’era terribilmente triste. Non seppe spiegarsi il perché, ma lo attanagliò una strana tristezza al cuore.
-Siamo legati da una catena invisibile. Questo è solo per … boh. Non ha un perché; io appartengo a lui, lui appartiene a me. Non c’è una spiegazione, semplicemente siamo dipendenti uno dall’altro, uno non respira se l’altro non c’è. Non sono bravo con le parole, Charlie, mi spiace.
Charlie annuì, con aria grave. Com’era dannatamente profondo e irraggiungibile il legame che teneva vivi quei due ragazzi. Qualcosa che Charlie non riusciva ancora a capire appieno. Tacque, conscio dell’espressione nostalgica di Jake. Avrebbe dovuto aspettare, prima di cominciare la sua piccola indagine; anche se in quel momento non era più tanto sicuro di volerlo sapere. Era un mistero, e a volte è bello che i misteri rimangano irrisolti. Soprattutto certi misteri.
Jake lasciò Charlie davanti a casa sua e continuò a girellare, non volendo tornare a casa. Si diresse meccanicamente al covo, vuoto e solitario in quel momento. Si lasciò cadere sulla poltrona sfondata sbuffando e accendendosi una sigaretta. Quel posto, senza i suoi amici, gli sembrava terribilmente vuoto. Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal vento che soffiava delicato tra le colonne, lasciandosi invadere le narici dal fumo. Pensò ai Gentiluomini, la sua famiglia speciale. Al legame che c’era tra loro, alla loro amicizia. Pensò a tutto quello che avevano affrontato insieme. Pensò a tutte le volte che aveva asciugato e si era fatto asciugare le lacrime, che spesso scorrevano sulle guance di quella banda di fratelli per scelta. Le paragonò, mentre il sonno si faceva vanti pian piano. Risentì le lacrime di Boleslawa, così leggere, come piccole gocce di perle, tristi e luminose come la rugiada sui fiori la mattina. Lacrime di vita vera, di perdita, di delusione. Quelle di Frizzy, così pesanti, rivestite di piombo, lacrime di impotenza di fronte a gente più forte di lui; lacrime di inadeguatezza nonostante per lui Frizzy fosse una delle persone più speciali del globo. Ritoccò quelle di Jeremy, che sapevano di alcool, di frustrazione, di perdita. Gocce di rimorso amare e gelide scorrevano sulle guance incavate del cantastorie, fredde come il ghiaccio e brucianti come le fiamme. Ricordò le lacrime di Ash, rabbiose, piene di furia cieca, lacrime che parlavano da sole, lacrime di un re senza bandiera, lacrime di un ribelle imprigionato. Le sentiva ancora, scottanti, come quelle di un leone in gabbia. Sentì sotto le dita le lacrime di Jimmie Sue, come diamanti grezzi, come argento liquido sulla pelle lentigginosa della ragazza. Gocce che chiedevano attenzioni, bisognose di affetto. Lacrime di chi non ha nessuno, di una bambina senza terra e senza nome che cerca qualcuno che la possa tenere con sé. Di ricerca e di perdono. Poi sentì le sue, di lacrime. Jake sapeva di non stare piangendo ma le provava comunque. Lacrime di uno che ha perso tutto, lacrime che credono, che urlano, che pregano. Le sentiva, così calde, che sapevano di fumo e di tabacco, che chiedevano il perché di tutto ciò, che volevano risposte serie, che si aggrappavano a una ragnatela. Che come il fumo si disperdevano nella sabbia. Lacrime di un ragazzo che non sapeva dove andare, che voleva una guida che nessuno era in grado di dargli. Lacrime di rivolta, che distruggono e che consolano.
E poi cercò le lacrime di Jasper, ma non le trovò. Non le provava, non le sentiva. Jasper non aveva mai pianto. Da quando l’aveva conosciuto, molto tempo prima, non l’aveva mai visto versare una sola lacrima. Li consolava, asciugava le loro, ma dai suoi occhi non sgorgava niente. Occhi asciutti, occhi orgogliosi di una gloria che non aveva mai avuto. Occhi senza lacrime, di chi sa che oramai è giunto al capolinea di tutto. Occhi di un ragazzo che è ancora un bambino, che è già un uomo, che è già un vecchio. Occhi affacciati su un mondo senza senso e senza nome, di chi ha rischiato il tutto e per tutto e ora non ha più niente da giocare, di chi sa che ha perso ma che non si arrende. Gli occhi di Jasper, il profeta senza adepti, il santo senza benedizione, l’eroe senza onore. Gli occhi di colui che Jake amava sopra ogni cosa. Gli occhi di colui in cui Jake credeva ciecamente. Gli occhi di colui che l’avrebbe salvato.
 

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Capitolo 9
*** Today is the first day of the rest of our lives ***


CAPITOLO NOVE : TODAY IS THE FIRST DAY OF THE REST OF OUR LIVES
 Si consiglia di ascoltare "Church On Sunday" dei Green Day


Jimmie Sue e Boleslawa stavano camminando speditamente verso la casa dove si sarebbe tenuta la famosa festa.
-Senti, Jimmie, credi che si risolverà tutto come la scorsa volta?
-Beh, Bolly, evitare un pestaggio non sarà di certo semplice con la gente che ritroveremo. Comunque, in qualche modo vedremo almeno noi due di evitarlo.
Jimmie fece una specie di giravolta ridendo, guardando entusiasta la sua nuova gonna di pelle nera. Gliela aveva regalata Ash, per il suo compleanno. Sospirò; chissà come era riuscito il suo amico a ottenere una gonna così bella … ripensò per un attimo ai suoi occhi scuri e al giorno in cui si erano incontrati per la prima volta. Rivisse quel momento in pochi, splendidi secondi.
 
Stava correndo, per la strada bagnata dalla pioggia incessante di uno degli inverni più rigidi che colpirono la California. Teneva gli occhi chiusi a causa del pianto, gli bruciavano come non mai, mentre il sangue secco che le incrostava i capelli emanava quell’insopportabile odore di ferro che Jimmie Sue così bene conosceva. I ricordi erano sfocati nella sua testa di bambina, ancora così innocente, così dannatamente pura come il cristallo. Le girava la testa, era scappata di casa come un cane dopo che aveva visto suo padre che picchiava sua madre. Ma era inciampata nelle scale e evidentemente aveva preso una zuccata. Era corsa via lo stesso, sotto l’acqua crudele che le sferzava il viso, verso i suoi amici che le avrebbero offerto rifugio e conforto, e forse, le avrebbero curato la testa. Correva e non pensava, come era solita fare quando le cose non andavano nel verso giusto. E le cose non andavano mai nel verso giusto. E lei correva, correva sempre più veloce fino a che non cadeva per terra boccheggiante. O fino a che Jasper non se la stringeva contro e le diceva che andava tutto bene, che era tutto un brutto sogno. Allora si calmava, cullata dalla voce del capo, del suo maschio alfa. Come un piccolo lupo, si sentiva. Un lupo che ha bisogno della protezione del branco. Anche se quel giorno non tutto andò come previsto. Sentì qualcosa che la spingeva in terra, qualcosa che non aveva visto ma che l’aveva malauguratamente intercettata. Rotolò sull’asfalto duro, sfregando la testa dolente sulla strada. Alzò lo sguardo terrorizzato verso i due tipi che stavano sopra di lei sghignazzando. Quello era un altro branco, e si sa bene cosa fanno gli altri ai cuccioli degli altri. Si raggomitolò per terra, chiudendosi a guscio, pregando silenziosamente che la lasciassero stare. Era solo un cucciolo innocente. Come in un film terrificante sentì un piede colpirle la schiena bagnata. Pianse, lasciò che le lacrime si mischiassero alla pioggia che incessantemente e gelida le scorreva sui vestiti fradici, insieme a un altro calcio nelle gambe. Quando poi le sue orecchie tappate udirono una voce dire “Ma non vi vergognate?! Lasciate stare questa poverina!” sobbalzò ma non osò alzare lo sguardo nel timore che tutto ciò si rivelasse un illusione infondata. Ma i calci si bloccarono “Che vuoi, moscerino?” “Non pretendo di mostrarmi come un eroe, ma userò le maniere forti se non la mollate immediatamente” “Si, sentiamo, quali sarebbero le maniere forti?” Jimmie Sue osò alzare lo sguardo e intravide tra la cortina di pianto e pioggia una terza figura che fronteggiava i due aguzzini. Poi fu tutto un susseguirsi di immagini senza capo ne coda per la bambina raggomitolata per terra; teneva le mani premute sulle orecchie. Si, era un leone, ma anche i leoni a volte hanno bisogno di protezione. Soprattutto se hanno la criniera bagnata e una spina nella zampa. Poi un mano si tese verso di lei e la tirò su dalla strada. Era un bambino come lei, occhialuto, con i capelli neri appiccicati alla fronte per la pioggia che non la voleva smettere di innaffiare la cittadina. “Ciao! Mi chiamo Ash Cohen, come ti senti?” “J… Jimmie Sue Mellencamp. Perché mi hai salvato?” sentiva la sua stessa voce soffocata e catarrosa. Ed era strano che un perfetto estraneo si preoccupasse per lei, così, di punto in bianco. Forse voleva qualcosa in cambio. Si, sicuro. Ash le mise la propria giacca sulle spalle e le sorrise cordiale “Dove stavi andando?” “Cosa vuoi per questa mano che mi hai dato? Non ho biglie con me, adesso” il piccolo leone tornava pian piano a risorgere in Jimmie “Non voglio niente! Perché dovrei voler qualcosa? Dai, ti accompagno alla tua destinazione” Jimmie scrutò quegli occhi così neri e vi lesse qualcosa di talmente profondo che la fece allibire. Qualcosa che non aveva mai trovato prima negli occhi dei suoi amici. Erano caldi, sicuri. Erano presenti. Il presente era una cosa che non aveva mai trovato negli altri, era una cosa così nuova e speciale per la bambina … Finì che si fece accompagnare fino al covo per scrutare ancora quel bambino coraggioso che, contro ogni regola della città, era venuto in suo soccorso senza volere nulla in cambio.
 
-Ehi, Jimmie Sue, stai bene?- la vocina acuta di Boleslawa la distolse dai suoi turbinosi pensieri.
-Certo! Stavo solo pensando a quando Ash si è aggiunto a noi.
Bolly fece un sorrisino malizioso e le diede una gomitata
-Ma cosa vorresti insinuare?!- ridacchiò oltraggiata l’altra, restituendo la gomitata.
-Nulla, mia cara, assolutamente nulla- la ragazza rise forte, scuotendo la lunga treccia bianca.
-Faremmo meglio ad affrettarci, non vorrei che il Bacardi finisse subito!
Le due ragazze si scambiarono un’occhiata e affrettarono il passo verso la casa sede della festa. Ma se qualcuno avesse osservato attentamente lo sguardo delle due, vi avrebbe trovato sentimenti che difficilmente si trovano in due adolescenti dirette  a una festa. Una sorta di malinconia, profonda ma allo stesso tempo sottile, addolorata ma convinta aleggiava tra Jimmie Sue e Boleslawa. Sembrava quasi che cercassero di farsi andare bene tutto, che provassero a ignorare qualcosa di interno che lottava per uscire, che si fossero assuefatte a quel monotono ritmo di vita sregolata oramai diventata banale. Una preghiera silenziosa per un cambiamento che tardava ad arrivare e rimorsi per delle scelte sbagliate da cui non sarebbero potute tornare indietro. Quello nascondevano i loro occhi, un paio rossi e una paio azzurri, se qualcuno avesse scavato nel profondo. Ma nessuno si era mai preso la briga di guardare oltre al colore delle iridi.
 
Jeremy, Ash, Frizzy e Jake erano andati in formazione compatta a prendere sotto casa Charlie e in quel momento, mentre si avvicinavano alla rumorosa casa, Frizzy spiegava a Charlie cosa si faceva solitamente alle feste.
-Sai, Charlie, non devi far altro che ballare.
-Ma io non so ballare!
-Nessuno in quella manica di oranghi lo sa fare, ragazzo! Semplicemente, basta che ondeggi come un giunco al ritmo dello stereo- intervenne Jeremy, improvvisando qualche giravolta in mezzo alla strada.
-Ha ragione Jerry, basta che ondeggi. Oppure ti piazzi su un divano o seduto in un angolo, anche se il divano è sconsigliato, e guardi la gente.
-E pensi a rimorchiare qualche pollastrella- interruppe nuovamente Jeremy.
Charlie squittì oltraggiato da tanta impudenza, ma preferì tacere.
-Giusto anche questo. L’importante è bere, o perlomeno far finta, non fissare negli occhi gli ubriachi, non fare domande innocenti.
-Quindi faresti meglio a tacere, senza offesa, - commentò Ash, aggiustandosi gli occhiali e lanciando un’occhiata leggermente preoccupata a Charlie. Non sapeva perché, ma quel ragazzo risvegliava in lui un istinto di protezione assurdo. Forse perché lo vedeva così indifeso, e lui era sempre stato dalla parte degli indifesi essendolo stato lui stesso al momento dello sfregio …
-Ricordati bene di accettare almeno una sigaretta.
-Ma a me da fastidio il fumo!- pigolò Charlie, spalancando gli occhi.
-Allora, Charlie, tu devi fumare minimo una sigaretta se non peggio quindi lo fai, intesi?- disse Jake – O almeno fingi! Ma cerca di sembrare convincente!
Il ragazzo annuì con un leggero terrore. Ma in che guaio si era cacciato?! Sperò che la serata finisse presto.
-Siccome è la tua prima festa, ti teniamo d’occhio noi, ok?- continuò Frizzy, mettendogli una mano sulla spalla.
-Oh, grazie, vi sono debitore, io … - boccheggiò Charlie, quasi stupefatto della gentilezza dimostrata dai Gentiluomini.
-Sei pur sempre un nuovo arrivato, è nostro dovere iniziarti- sogghignò Jake, dandogli un amichevole pugnetto sul braccio.
-Ma che consigli ineccepibili.
La voce divertita di Jasper dietro le loro spalle li fece voltare con un urletto.
-Ma da quanto ci pedini?!- strillò Jeremy.
-Da esattamente 50 metri.
Ash divenne rosso come un peperone bollito, Frizzy si fece una sana risata, Jake scosse la testa con una smorfia incredula accendendosi una sigaretta, Jeremy continuò nel suo sproloquio di scemenze e Charlie rischiò l’infarto secco. Se Jasper li stava seguendo … voleva dire che aveva sentito tutte le sue stupide considerazioni! Desiderò ardentemente che la terra lo inghiottisse e non lo sputasse più fuori.
-Comunque, stasera ci penso io a Charlie.
Il sorriso tranquillo e vagamente diabolico di Jasper destabilizzò nel giro di poco nuovamente i ragazzi.
-Ci pensi tu?! Quindi posso ubriacarmi fino a star male e raccattarmi tutte le bellone che trovo?!- urlò Jeremy allegro. Se avesse dovuto badare a Charlie si sarebbe tenuto per decenza nei confronti del suo nuovo amico ma ora … bocca mia fatti capanna!
-Oh, cioè, perfetto! Ci pensi tu. Bene!- disse Frizzy leggermente stupefatto dall’uscita del capo.
-Allora noi ci dilegueremo per non farci beccare da Charlie in versione tossici persi- rise Ash.
-Io resto, dai. D’altronde sono io che ti ho trascinato dentro, no?- Jake sorrise dolcemente verso un Charlie rosso fuoco dall’imbarazzo e dall’agitazione.
-Bene, miei cari, allora siete dispensati da qualunque responsabilità stasera. Tu starai con me, vero?
Charlie si sentì infiammare il sangue quando Jasper gli mise un braccio attorno alle spalle e se lo strinse contro. Non aveva mai sentito il fuoco lambirgli il cuore, la pelle, le vene, la gola, il cervello. Non si era mai sentito così sovraccarico di fuoco come in quel momento, in cui se fosse stato da solo magari avrebbe anche trovato il coraggio di baciarlo.
-Si … si certo, grazie davvero per … si- cominciò a balbettare rendendosi ancor più ridicolo di quanto già non fosse.
-Ehi, ci sono Jimmie e Bolly dall’altra parte della strada!- urlò Frizzy – Andiamo a raggiungerle?!
Immediatamente i tre corsero via, lasciando Charlie tra le braccia di Jasper e Jake che borbottava qualcosa di sconclusionato.
-Dai, Jacky, vai con gli altri a divertirti.
-No, Jas, su, resto qui con voi.
Jake accese una sigaretta e la mise in bocca a Jasper.
-Vai, davvero. Stai tranquillo.
Jake osservò i due ragazzi. Uno così tremebondo, e l’altro così a suo agio. Una parte di sé avrebbe voluto andare con gli altri a ubriacarsi e a ballare, ma l’altra metà gli diceva che avrebbe fatto meglio a rimanere lì con loro. Non sapeva cosa avrebbe fatto Jasper e, nonostante si fidasse ciecamente di lui, aveva paura che potesse far qualcosa che mettesse nei guai il piccolo Charlie. E quello lui non voleva che accadesse, assolutamente. Lo trovava ingiusto, da un lato, lasciare un pulcino indifeso tra le braccia di colui che si, era per lui un dio in terra, ma che era volubile come una nube e che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa anche senza senso. Jake sospirò : la scelta era più complicata del previsto. Ma alla fine decise di lasciar perdere e di seguire gli altri. D’altronde, se fosse successo qualcosa, sarebbe stato nelle vicinanze in tempo per salvare il salvabile.
-Va bene, allora io vado, eh? Ci vediamo dentro- e corse via.
Charlie emise un gemito quando lo vide andarsene. Non che gli dispiacesse stare con Jasper, anzi. Ma si sentiva terribilmente impacciato con uno così.
-Lo so che non sei per niente a mio agio con me, Charlie, ma potresti provare a stare calmo, cosa ne dici?
Charlie deglutì. Non era possibile che scoprisse così facilmente i sentimenti della gente che lo circondava. Anche se forse lui era come un libro aperto; non sarebbe riuscito a nascondere nulla di quello che succedeva nel suo cuore.
-Ci avviamo?- riuscì ad articolare, alzando lo sguardo verso il capo, cercando di far ragionare il cervello che voleva andare in tilt.
-Con piacere, mio caro.
La vibrazione del “mio caro” di Jasper fece tremare Charlie come un filo d’erba accarezzato dal freddo venticello invernale che preannuncia la neve. C’era una nota così melodica nella voce dell’altro che ti penetrava fino all’angolo più recondito del cuore; una voce talmente gelida che metteva la pelle d’oca, ma allo stesso tempo dolce, come l’ambrosia bevuta dagli dei. Una voce che dava alla testa come una droga. Charlie venne preso sottobraccio e si avviarono verso la casa illuminata in fondo alla via, da cui già si sentiva la musica risuonare per la strada silenziosa.
-Senti, Charlie, vorrei dirti una cosa.
-Si?- si voltò velocemente, improvvisamente curioso, nella luce pallida e malaticcia di un lampione solitario. Si accorse che il mascara colava come grandi lacrime dannatamene affascinanti sulle guance di Jasper.
-Tienimi stretto, ragazzino, tienimi stretto.
Charlie si bloccò allibito. Ma che diavolo … cosa voleva dire “tienimi stretto”?! perché glielo aveva detto. Non parlò, si limitò ad abbassare lo sguardo e percepì lo sguardo di Jasper su di sé, come un coltello che lo trafiggesse da parte a parte. Si sentì esaminato da una sorta di raggi x. Poi la mano delicata e glaciale dell’altro lo riprese sottobraccio e lo trascinò più velocemente lungo la strada improvvisamente deserta. Charlie sentì il proprio cuore aumentare terribilmente i battiti, e di nuovo sentì la voce di Jasper nell’orecchio, come una spina velenosa di una rosa unica nel suo genere.
-Ora probabilmente non capisci ciò che ti dico, ma a suo tempo tienimi stretto finché puoi, incatenami se è necessario. Basta che mi tieni.
-Tenerti? Co … cosa intendi? Spiegati per favore? Cosa vuoi dire?- balbettò Charlie, vinto dalla curiosità tipica di quei piccoli pesciolini senza nessuno che si vanno a infilare in enormi anemoni carnivori attirati dai colori luccicanti in un mare oscuro e avvelenato.
-Lo capirai, Charlie. Lo capirai.
Detto ciò, i due ragazzi si ritrovarono davanti al cancelletto della casa, che vomitava fiotti di luce, stridule risate e musica spacca timpani. Charlie alzò ancora una volta uno sguardo al cielo nerastro per via delle nubi, e poi venne spinto dentro, in quell’inferno di rumori.

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Capitolo 10
*** Give me a long kiss goodnight ***


CAPITOLO DIECI : GIVE ME A LONG KISS GOODNIGHT
Si consiglia di ascoltare durante la lettura, "Give me Novocaine" dei Green Day


Charlie si ritrovò in mezzo a una quantità spropositata di gente che spintonava, urlava, si agitava come assatanati. La puzza che lo accolse fu devastante. Odore di corpi a contatto, di fumo, di alcol, di droga, di sudore. Odore di sfrenatezza, di dimenticanze, di oppressione. Charlie ansimò, sicuro di soffocare quando una ragazza decisamente prosperosa gli si spiattellò addosso impedendogli anche solo di muovere un dito. Si agitò impotente in mezzo a ragazze in gonne vertiginose e ragazzi prestanti, tentando miseramente di farsi largo, dimenticando a sua volta ogni regola di buona educazione e provando una tecnica di sfondamento che aveva scoperto in un libro di storia; la falange oplitica da lui sviluppata, però, non ebbe grandi risultati se non quello di farlo inciampare e volare miseramente per terra, tra tacchi a spillo e bottiglie rovesciate. Si agitò impotente come un grosso pesce fuor d’acqua, gemendo di dolore quando un piede gli si conficcò nella schiena e soffocando un gridolino quando una mano inanellata gli conficcò le unghie troppo lunghe nel braccio e lo tirò su come se fosse un ramoscello
-Charlie, mi sembrava di averti detto di starmi appiccicato.
Jasper lo guardava da sotto i capelli con uno sguardo misto tra l’innervosito e il rassegnato, gli occhi viola che turbinavano come mari in tempesta, animati da una fiamma nascosta nelle pupille più nere del nero.
-Aehm … lo so, ma … sono stato travolto dalla massa e … mi hanno sopraffatto e …
-E ci hai fatto una figura da idiota come al solito- sentì la voce roca di Jake soffiargli direttamente nell’orecchio.
Charlie fece una misera giravolta su se stesso per guardare il ragazzo negli occhi, ma appena riuscì a voltarsi, Jake gli aveva girato intorno e Charlie si trovò a guardare il nulla. Si rigirò di scatto e Jake gli vomitò in faccia una risata graffiante. Venne investito dall’alito dell’altro, che sapeva di sigaretta e rum di pessima marca. Charlie sbattè le palpebre velocemente, con gli occhi che bruciavano come l’Inferno a causa del fumo che opprimeva quell’appartamento sconosciuto. Si sentì afferrare di nuovo per la maglietta e inciampò in qualche bottiglia vuota abbandonata per terra
-Dove vuoi andare?- disse Jasper, tenendolo sempre stretto per la maglietta
-Ehm … tipo … in cucina?- tentò Charlie, urlando per farsi sentire sopra il baccano. Se ben ricordava, Frizzy gli aveva detto che la cucina era il luogo più sicuro per rifugiarsi durante quelle feste.
-Anima della festa, eh?- commentò sarcastico Jasper, non troppo sicuro che Charlie avesse colto l’ironia, siccome lo vide spalancare gli occhi a palla.
Jasper lo strinse più forte a sé, nella speranza di non perderlo durante il tragitto. Quello lì era talmente trasognato che sarebbe stato capace di rimanere schiacciato sotto la mandria di ubriachi che affollavano la casa … Sospirò e cominciò a spintonare a destra e a manca. Si ricordava vagamente la loro prima festa, quando invece aveva Boleslawa appesa al braccio. Faceva un po’ fatica a mettere in ordine i pensieri, ma aveva stampata a fuoco nella testa quell’immagine. Stampata a fuoco.
Avevano undici anni allora, e la piccola Boleslawa non si staccò mai per tutta la sera dal suo braccio, ancorata a lui come fosse l’ultima spiaggia. “L’ultima spiaggia prima dell’Inferno” aveva pensato amaramente, stringendosi l’amica contro. Durante i loro pellegrinaggi in giro per la casa, erano capitati davanti a una grande specchio a muro, in una stanza vuota. Cercavano di stare il più lontano possibile dai luoghi troppo affollati, per permettere a Bolly di respirare. Ed erano finiti davanti a quello specchio. Se qualcuno ci avesse lanciato un’occhiata superficiale, avrebbe visto un ragazzino vestito di nero, truccato, con troppi capelli sul viso pallido abbracciato a una ragazzina albina con gli occhi ridenti e un vestitino verde. Ma lui ci aveva visto molto di più, che due semplici undicenni. Lui ci aveva visto la vita, in Boleslawa. La speranza, la cieca fede, la voglia di vivere. In lui ci aveva visto la morte, la depressione, l’odio. Era strano. Una creatura che rispecchiava la purezza di un cuore che vive e una creatura che bruciava di odio infernale. Rivide per un attimo le sue mani avvolgere le spalle di lei e rimase per un secondo imbambolato in mezzo al corridoio. Vedeva un demone che intaccava le ali di un angelo. Ecco cos’erano, i Gentiluomini. Angeli che lui aveva tirato giù nel baratro e a cui aveva tarpato le ali. Lui, l’angelo caduto. Gli pervenne alla mente Frizzy che una volta gli aveva detto, serio “Sei tu il re, Jas. E noi siamo i tuoi fedeli vassalli”. Jasper sorrise tra sé e sé, quasi rassicurato da quel ricordo. Era lui il re, loro lo sapevano. Era lui l’Angelo Caduto. Era lui che aveva il dominio su tutti. E questo gli metteva il cuore in pace, dannatamente in pace. In pace con qualcosa che aveva dentro e che faceva fatica a riconoscere, ma l’importante era sapere che su qualcosa ancora aveva il dominio. Aveva dei vassalli, doveva proteggerli fino alla fine. Anche se lui era l’ultima spiaggia prima dell’Inferno.
-Ehm, Jasper, andiamo?
La vocetta di Charlie lo fece bruscamente tornare alla realtà. Cercò di non sobbalzare e lo trascinò in cucina senza tanti complimenti. Lì notò con un certo sollievo che c’erano solo due o tre ragazze che parlottavano passandosi una bottiglia di qualcosa; si lasciò cadere per terra e fece segno a Charlie di sedersi vicino a lui. Cosa che il ragazzo fece subito. Charlie arrossì fino alla punta dei capelli quando si ritrovò da solo seduto vicino al capo, che si era attaccato a una bottiglia di whisky.
Lo guardava bere, guardava il profilo del suo viso perfetto, guardava la bottiglia svuotarsi con troppa rapidità. Studiava il collo pallido sul quale si intravedevano dei tatuaggi alla base.
-Vuoi?
Jasper gli allungò la bottiglia, facendo risplendere i suoi grandi occhi malinconici. Charlie scosse la testa, ringraziando a bassa voce. No, no, no ci mancava solo quello … ma Jasper sembrava non demordere.
-Dai Charlie, solo un sorso. Non ti fa mica male, sai? Su, fammi contento, bevine un sorso …
Fammi contento. Le parole che Charlie pregava di non sentire. Perché se il capo voleva qualcosa il ragazzino sapeva che prima o poi l’avrebbe fatta per vederlo contento. Ma quanto era stupido, e melenso, e … e niente. Quanto era povero di coraggio, di serietà. Quanto era inutile. Ma poi era solo un sorso. Non sarebbe successo nulla, se si fosse solo bagnato le labbra, tanto per provare. E poi su, aveva posto la sua firma sul Patto d’Onore, non poteva non bere un goccio di whisky.
Charlie sospirò e poi annuì, prendendo tra le dita tremebonde la bottiglia fredda. Avvicinò le labbra al collo e quando ve le posò, con lentezza esasperante, sentì il profumo della bocca di Jasper. Sapeva di qualcosa di indefinito e terribilmente buono, di dolce e amaro contemporaneamente; aveva presente l’odore degli alcolici di pessima marca, essendoci praticamente cresciuto in mezzo. Ma non aveva mai provato a toccarne nemmeno uno. Beh, primo perché si opponeva a suo padre in tutto, perciò se egli si ubriacava lui stava ben lontano dall’alcol. E poi perché suo padre non gliele avrebbe mai fatte prendere, possessivo com’era delle sue bottiglie.
Fece scivolare la prima goccia di liquido tra le sue labbra, serrando gli occhi. Quando il whisky sfiorò la sua bocca rischiò di sputare tutto. Era così forte, così ardente, così dannatamente … infernale. Fu percorso da un brivido di calore improvviso, mentre ingollava un altro sorso. Gli occhi presero a lacrimare, e la tosse non tardò ad arrivare. Il ragazzo posò la bottiglia per terra e cominciò a tossire come un pazzo, sputando e lacrimando. Jasper scoppiò a ridere, riattaccandosi alla bottiglia, osservando il povero Charlie che più tentava di darsi un contegno, più tossiva. Il suddetto decise di non bere mai più in vita sua. Se quello era l’effetto … e poi il sapore era orribile. Se non fosse che prima ci aveva posato le labbra Jasper. Ma rimaneva comunque orribile. Charlie si soffiò rumorosamente il naso e si asciugò gli occhi arrossati; beh, era pur sempre un’esperienza quella di bere e l’aveva ufficialmente cassata. Mai più. Assolutamente mai. Dov’era la bottiglia?! Si sentì rivoltare lo stomaco come un calzino, animato solo dalla voglia di altro whiskey. E al diavolo i buoni propositi, lui ne voleva dell’altro, altro ancora fino a soffocarsi in quel liquido ambrato.
-Potrei averne ancora?- mormorò, alzando lo sguardo sul capo.
Jasper lo accarezzò con lo sguardo, sorridendo maliziosamente
-Altro? Ma sei sicuro che non ti faccia male?
Charlie si ritrovò ad arrossire e a mordersi il labbro, imbarazzato. Non si aspettava una risposta del genere, e non sapeva cosa rispondere ma la situazione si risolse da sé, perché Jasper rise di nuovo e gli sbattè in mano un’altra bottiglia uguale alla prima, stappandogliela con i denti. Charlie la portò con reverenza alle labbra e bevve con lentezza il terzo sorso, sentendosi inondare di un calore rassicurante, caldo come l’abbraccio di sua mamma. Si lasciò cullare dal whisky che gli scaldava il corpo, il cuore, il cervello. Lasciò il fuoco scorrergli nella trachea, nelle vene, nelle ossa. Si stava quasi per appisolare, con le orecchie tappate e gli occhi quasi chiusi, quando Jasper si alzò e lo scosse per una spalla
-Ehi, Charlie, svegliati!
 Charlie aprì gli occhi con aria ebete, e un rivoletto di bava gli colò miseramente lungo il mento. Jasper lo tirò in piedi e disse, con voce melliflua, che al ragazzino pareva lontana anni luce.
-Io devo andare, ti porto da Jimmie e Bolly, ok?
Charlie annuì mollemente, aggrappandosi al braccio dell’altro e lasciandosi trascinare verso la sala. Quando oltrepassarono la porta della cucina, il rumore aumentò considerevolmente e svegliò un po’ il giovane dal suo stato di trance.
-Da … da chi vai?- riuscì ad articolare, respirando a grandi boccate.
-Gente che conosco e che magari un giorno ti presenterò. Tom O’Hara, Hunter Tomlinson, Gloria Crenshaw, Carter Wall. Tutti nomi che credo non ti dicano nulla.
Jasper lo guardò con aria leggermente preoccupata. O meglio, a Charlie pareva preoccupata. E questo non fece altro che lanciargli una scarica di gioia lungo la spina dorsale. Si lasciò trascinare in mezzo alla gente fino a che non distinse, più o meno, Jimmie Sue e Boleslawa. Sentì che i tre si parlottavano qualcosa, ma era troppo ubriaco per capire il vero significato; sentì solo la mano calda e sudata di Jimmie prenderlo per un braccio, la mano gelida di Jasper mollarlo (qui mugolò di disapprovazione), e poi sentì una ventata di aria gelida investirlo
-Ehi ehi, caro mio! Ti sei preso la tua prima sbornia!- la vocina squillante di Boleslawa gli trapanò un timpano.
Charlie si lasciò cadere per terra, sugli scalini respirando profondamente. Le due ragazze si sedettero vicino a lui, con fare premuroso. Beh, finché era così sarebbero state fuori con lui e gli avrebbero fatto smaltire quella buffa sbornia.
Dentro, Jake era alla disperata ricerca di Jasper. Barcollava in giro, accendendosi sigarette una dietro l’altra, senza neanche finirle, aguzzando la vista offuscata. Dopo vari caracolla menti in giro per casa, riuscì a intercettare il suo amico, seduto su un divano, circondato da gente che probabilmente anche lui conosceva ma che al momento non riusciva a distinguere. Spintonò a destra e a manca, ingollò qualche sorso di gin nel cammino, e finalmente arrivò da Jasper. Riconobbe Tom O’Hara, il capo dei Servitori di Ecate dei Crocicchi. Era un ragazzo di tutto rispetto, serio, molto amico di Jasper e anche amico suo. I due stavano discutendo di qualcosa, e non potè fare a meno di notare che Jasper aveva ingoiato tre pasticche bianche dall’aria sospetta con un sorso di whisky. Si lasciò cadere sul divano, e vide la ragazza che aveva portato loro l’invito, Ayato o come diavolo si chiamava, sorridergli amichevolmente, seduta in braccio a Tom. “Deve essersi resa conto che Jas è un sogno impossibile”pensò Jake, che si era accorto benissimo delle occhiate della ragazza verso il suo migliore amico. Ricambiò il saluto reprimendo un conato di vomito. Aveva decisamente bevuto troppo gin. Intorno a Jasper e a Tom, riconobbe qualche altra faccia conosciuta. Carter Wall era il secondo dei Caterpillar della 24strada; sapeva che era quello che aveva qualche tempo prima dato fuoco alla scuola. Un piromane con i capelli rossi : decisamente, a Jake quel tipo faceva un certo effetto. Vide Hunter Tomlinson, una ragazza con i capelli corvini e le braccia completamente piene di cicatrici orrende, tenere in braccio Gloria Crenshaw, bionda platinata con gli occhi blu. Quelle due le conosceva piuttosto bene. Facevano parte dei Pagliacci del Mezzogiorno, e sapeva che erano due tipe strane, ma dannatamente affascinanti, una per un verso, l’altra per l’altro. Sapevano che stavano insieme e che sarebbero state capaci di far esplodere l’intera America se ne avessero avuto voglia. Sballate complete, ma sicuramente ci potevi fare affidamento. Jake l’aveva scoperto, che nonostante la scorza dura erano due brave persone. Finché gli andavi a genio, ovvio.
Si lasciò cadere mollemente sul divano sporco, vicino a Jasper. Chiuse gli occhi, cercando di calmare la testa che gli pulsava. Sì, aveva decisamente esagerato con l’alcol quella sera. Li riaprì e ci mise un po’ a mettere a fuoco, con tutte quelle luci che turbinavano impazzite davanti a lui. Si attaccò al suo migliore amico, evitando di ascoltare i complessi discorsi tra Jasper e Tom per non farsi aumentare ancora di più il mal di testa e semplicemente si accese l’ennesima sigaretta della serata. Oramai aveva perso il conto. Non si era nemmeno reso conto di aver lasciato che la testa gli scivolasse sulla spalla di Jasper, per lo meno finchè improvvisamente i suoi occhi non misero a fuoco il serpente che il ragazzo aveva tatuato sul collo. Non seppe mai se fu l’alcool che gli ribolliva nel sangue o, semplicemente, se ormai era davvero inevitabile, ma le sue dita bollenti salirono automaticamente a tracciare i contorni del cobra con esasperante lentezza. Dal tatuaggio passò ad accarezzare con la stessa frustrante delicatezza i contorni della mascella di Jasper mentre con l’altra mano aveva iniziato ad accarezzarne i capelli ingarbugliati, finchè le dita non gli si incastrarono tra i nodi. Non sentiva più niente, solo il sottofondo lontano di qualche canzone hardcore a tutto volume e il rombo del suo stesso sangue ancora più forte nelle orecchie. Jasper aveva piegato la testa verso di lui. O era stato lui a tirarlo verso di sé? Ma che importanza aveva, ormai? C’erano gli occhi viola di Jasper a pochi centimetri dai suoi, le pupille dilatate dalla droga e dall’alcool, quel viola innaturale così maledettamente seducente. Jake sospirò appena, prima di affondare con più decisione le dita nei capelli del ragazzo e tirargli la testa verso di lui in modo che le loro bocche combaciassero. Le labbra di Jasper erano inaspettatamente morbide e cedevoli e sapevano di fumo e di rum scadente. Ma Jake era troppo ubriaco per poter assaporare con la dovuta dolcezza quel momento. Ed era dannatamente troppo tempo che aveva voglia di farlo, se ne stava rendendo conto solo in quel momento. Non fu un bacio gentile. Non che ebbe bisogno di forzare le labbra dell’altro che le aveva già dischiuse per permettere alla sua lingua ingorda di entrare e avvolgersi alla sua. Fu un bacio urgente e frenetico, denti che cozzavano e lingue che saettavano. Le mani di Jake stringevano il retro del collo di Jasper e affondavano nei suoi capelli mentre lo trascinavano sempre di più contro di lui. Jasper gli aveva afferrato la maglia con la mano stretta a pugno e con l’altra gli accarezzava la schiena. Si baciarono con frenesia finchè Jake si staccò ansante, i polmoni che bruciavano per mancanza d’aria. Rimasero per un attimo con le fronti poggiate l’una contro l’altra prima di ricominciare a baciarsi, un poco più lentamente, le dita bollenti che mappavano i contorni del viso dell’altro, piccoli gemiti che sfuggivano alle loro bocche arrossate. Jake aveva chiuso gli occhi. C’era solo Jasper, come sempre del resto. Il suo profumo intossicante, il suo sapore unico. Dentro di lui, sulla sua lingua. L’unica cosa che avesse mai voluto davvero.
In quel momento, Charlie e le ragazze erano tornati nel frastuono della casa e si stavano trascinando in salotto, urlando per capirsi. Superarono la porta del salotto, rischiando di venire travolti da un nugolo di ragazze starnazzanti e fu allora che Charlie distinse, nonostante il mal di testa martellante e la nausea, Jake e Jasper abbracciati sul divano che si baciavano. Sbatté gli occhi, per essere certo di non confondersi. Ma come poteva confondersi, quando di mezzo c’erano Jake, il primo ragazzo con cui aveva seriamente parlato e Jasper, il ragazzo che dannava le sue notti e i suoi incubi? Come poteva confondere quei capelli neri e quella pelle candida, come poteva sbagliarsi nel vedere il corpo sinuoso di Jake? Ci mise qualche secondo a registrare quell’informazione. Ci mise qualche secondo a capire che lui era fuori. Ci mise qualche secondo a rendersi conto della sua inutilità. Ci mise solo un attimo per sentirsi ucciso.

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Capitolo 11
*** Do you know what's worth fighting for? ***


 
CAPITOLO UNDICI: DO YOU KNOW WHAT’S WORTH FIGHTING FOR?
Si consiglia di ascoltare durante la lettura, "21 guns" dei Green Day. Approfitto per ringraziare infinitamente tutti quelli che leggono, recensiscono, seguono ecc. la mia storia e mi scuso con tutti per la lentezza degli aggiornamenti, ma non aveva adeguata ispirazione. Ora ne ho molta, quindi magari gli aggiornamenti saranno più rapidi. Grazie davvero, e spero di rifarmi con questo capitoletto di transizione. :)
 

Jasper circondò le spalle di Jake in un abbraccio, facendogli poggiare la testa sulla propria spalla. Sospirò, lasciandosi scivolare in gola la vodka bruciante, accarezzando lentamente il collo del suo amico. Che poi, erano ancora amici dopo quel bacio? O erano qualcosa di più? Chiuse gli occhi, provando a isolarsi dal frastuono. Cos’era Jake per lui? Era l’unica ragione di vita. Fondamentalmente, non avrebbe dovuto importargliene nulla di uno come lui. Era piuttosto ignorante, disinteressato alla politica, uno che prendeva le cose come venivano; ovvero era il suo contrario eppure aveva su di lui un effetto magnetico di una potenza inaudita. Sin dal primo giorno in cui si erano parlati aveva deciso che quello era il ragazzo adatto. Sapeva bene che Jake dipendeva da lui in tutto e per tutto; lo aveva cresciuto nonostante avessero la stessa età e gli aveva inculcato in testa le sue idee strampalate eppure Jake gli era sempre parso quasi divertito da tutto ciò. Imparava, lo ascoltava ma non metteva in pratica al contrario degli altri. Quello gli era sempre piaciuto: rendeva Jake diverso, irrimediabilmente stupendo e brillante. Jasper sapeva di essere qualcosa di più che un amico per Jake; se ne era reso conto già qualche anno prima, cogliendo lo sguardo adorante dell’altro. Non sapeva spiegarselo neanche lui, ma sapeva dell’amore che teneva viva la loro amicizia. Jake lo amava senza riserve, e lui lo capiva dal modo in cui gli sorrideva, in cui lo guardava, in cui lo accarezzava. Era cambiato da quando erano piccoli. Prima erano solo migliori amici, come ve ne erano a migliaia nel mondo. Poi, pian piano, il loro rapporto era mutato in una sorta di amore platonico : quante volte avevano camminato mano nella mano lungo la ferrovia? Quante volte avevano dormito insieme, lenendosi a vicenda i dolori dell’anima? Quante volte erano rimasti per ore abbracciati sotto la luna a cullarsi a vicenda? Quante volte Jasper aveva ignorato l’evidente sentimento di Jake? Non sapeva perché lo avesse fatto. Forse perché non lo amava. Eppure baciarlo era sempre stato uno dei suoi desideri, e l’avrebbe fatto ancora mille e mille volte, fino a soffocare. Era inevitabile, lo sapeva. Troppo avevano tenuto le distanze, e il momento di annullarle era giunto. Anche se non riusciva a capire il vero perché; sentiva il respiro regolare di Jake sul suo collo e lo vide tranquillo e rilassato, con la solita sigaretta spenta tra le labbra secche. Lui si sentiva vuoto dentro. Come se avesse esaurito i sentimenti. Aver baciato Jake lo aveva mandato fuori dai binari, stranendolo, instupidendolo. Lui non amava Jake. Ma ne era così sicuro? Per lui quel ragazzo era talmente prezioso da considerarlo al di sopra di tutto, era l’ossigeno che respirava, era il battito del suo cuore malato. Jake era il suo capolavoro, la sua fonte della giovinezza, il suo universo in un giro di chitarra. Gli accarezzò i capelli, in un gesto che ormai gli era meccanico. Jasper sbattè gli occhi per qualche secondo, respirando profondamente e tentando di calmare la sua mente scoordinata. Cosa sarebbe successo ora? Come si sarebbe comportato Jake dopo quel bacio contenente troppa passione repressa, troppe lacrime mai versate, troppe parole mai dette? Jasper risentì sulle labbra, nella bocca, il sapore del bacio dell’amico. Sapeva di sole, di perdizione, di fumo, di promesse dimenticate. Sapeva di tutto quello che aiutava Jasper a tirare avanti. Il legame dei due ragazzi era così profondo da essersi ormai fuso in qualcosa di più che amicizia, di più che amore. Erano dipendenti. Drogati uno dell’altro, fino a non poterne più. Jasper avrebbe voluto iniettarselo direttamente dentro, soffocarsi con delle pastiglie che fossero un concentrato di Jake. Sapeva che l’altro avrebbe voluto fare lo stesso con lui, ci avrebbe scommesso. Chiuse gli occhi, passandosi una mano tra i capelli e lasciandosi accarezzare l’interno della coscia dalla mano callosa di Jake.
Charlie nel frattempo, stava cercando di riprendersi dalla visione. Lo sapeva, ecco, lo sapeva. Neanche sognare gli era più permesso, oramai. Dai, lo sapeva che lui con Jasper non avrebbe avuto alcuna chance però anche il solo sognare di passeggiare la sera tra le sue braccia era qualcosa di appagante per la sua anima sola e vuota. Ora nemmeno più quello poteva fare, se addirittura Jake era il suo ragazzo. Jake e Jasper. Jasper e Jake. Avrebbe dovuto capirlo forse, dal modo in cui si guardavano, da come si accendevano le sigarette a vicenda, in cui si parlavano languidamente. Invece no, si era semplicemente illuso fino a quel momento, in cui la realtà gli era stata sbattuta in faccia con violenza inaudita. Aveva bisogno di sogni, Charlie, di qualcosa di bello in cui credere. Beh, tirava avanti per il futuro, sognava un qualcosa di emozionante per se stesso; ma era giovane, illudersi di un amore era la pura e semplice mentalità giovanile. E lui sognava Jasper, di notte, con il suo sorriso storto. Ora nemmeno quello. Ora gli si era disgregata tutta la magia. Si sentì tradito, in qualche modo. Come se tutti avessero complottato nel profondo per ingannarlo e ridere poi di lui e della sua innocenza candida; sentì qualcosa di umido colargli lungo la guancia rosea. Era una lacrima solitaria che tentò di rimandare giù, perché non poteva mettersi a piangere per un motivo così stupido. No, proprio non poteva. E comunque non doveva disperarsi, la sua era stata solo una sbandata temporanea. Non voleva amare un’anima sporca come quella di Jasper, non doveva stare con un tossico così ma non poteva fare a meno di innamorarsene sempre di più ogni volta che vi posava gli occhi sopra. “Al cuore non si comanda” c’era scritto nel suo oroscopo mattutino : e Charlie dovette convenire che aveva decisamente ragione.
-Ehi, Charlie, ti senti bene?- la voce tonante di Frizzy lo riscosse dai suoi cupi pensieri
-Si, grazie, va tutto a meraviglia. Ma volevo chiederti una cosa; non per essere indiscreto ma … - si fermò a cercare le parole adatte. Frizzy lo guardava curioso, con il suoi solito sorriso fresco e rassicurante – Ehm … ma Jake e Jasper sono … fidanzati?
L’occhiata raggelante che gli lanciò Frizzy gli congelò fin il sangue; ecco, l’unico che magari poteva dargli una mano si era appena offeso. Ottimo, Charlie, complimenti per le ottime figure. Fissò con aria tesa il ragazzo di fronte, che lo superava di circa quindici e passa centimetri, dalle spalle larghe e dalle braccia muscolose. Perfetto, Frizzy era capace di sollevarlo con un mignolo e spedirlo con un calcetto fino a New York senza battere ciglio. Per sua fortuna, notò le labbra dell’altro piegarsi in un sorrisetto a metà tra il divertito e il misterioso
-Sai, una volta Jasper ci ha detto “Certe domande sono fatte per essere ascoltate e chiuse per sempre in un cassetto”. Credo che questa sia una di quelle. Dai, Charlie, non farti problemi e bevi.
Charlie non fece nemmeno in tempo ad aprire bocca, che si ritrovò il whiskey scorrergli nella gola. Barcollò, con la vista annebbiata. Frizzy lo prese per un braccio e lo fece sedere su un divano, dove vi erano Boleslawa e Jeremy che li guardavano con un mezzo sorriso
-E meno male che il tostapane non doveva bere!- ridacchiò Jeremy.
-Dove sono Jimmie e Ash?- chiese Frizzy, lasciandosi cadere vicino a loro, e passando timidamente un braccio attorno alle spalle di Boleslawa.
-Non indaghiamo- rispose Jeremy, ingollando una sorsata di birra, subito seguita da una di gin e da una di vodka alla pesca.
Boleslawa chiuse gli occhi e lasciò cadere la testa sulla spalla di Frizzy. Le aveva sempre dato una deliziosa sensazione stare tra le braccia calde e sicure di quel ragazzo; come se lui potesse proteggerla dal male del mondo, con il suo sorriso buono e carino, con il suo modo di fare generoso. Era così vivo, così perfetto per Boleslawa. Era sempre stata particolarmente legata a Frizzy, in una sorta di tacito accordo di protezione reciproca. la sua dolcezza, così diversa da quella degli altri, lo rendeva speciale agli occhi della ragazza. Jimmie Sue era la sua migliore amica, senza dubbio, eppure non le dava un senso di protezione, forse perché era una femmina, forse perché era spericolata. Jeremy neanche a parlarne, per quanto potesse essere un’ottima persona, non ti potevi fidare. L’alcool gioca brutti scherzi, soprattutto a gente come Jerry. Ash era troppo intelligente per lei, aveva una testa troppo elevata. Jake viveva nel suo mondo fatto di fumo e di Jasper. Il capo era su un altro piano, e poi era il capo. Invece Frizzy era speciale per quello; semplice, coraggioso, concreto. Pieno di quella ragionevolezza che a Boleslawa era sempre mancata; come quello che si ricordava della Polonia. Aveva tre certezze : la Polonia, il gatto bianco della casa di Danzica e Frizzy. Ora la sua seconda certezza era crollata, così come la prima. Ed era inutile che Jimmie le promettesse di riportarla a casa, perché tanto sapeva che non ci sarebbe più tornata, non avrebbe più visto il Mar Baltico e nemmeno il gatto bianco. Le rimaneva Frizzy, la certezza incrollabile, che niente avrebbe demolito. Lui era ferro, era cemento, era la terra che l’avrebbe tenuta salda in quel mondo sconclusionato che era l’America. Non si era mai sentita americana, ma tutto sommato era contenta di essersi trasferita. Aveva Frizzy ora, e i Gentiluomini. Tante piccole catene che la vincolavano al pavimento, invisibili ma presenti. Chiuse i grandi occhi rossi, e con la sua mano piccola e malaticcia strinse quella grande e callosa di Frizzy. Anche il solo toccarlo la faceva sentire a casa, nella casa che non aveva mai avuto.
Jimmie Sue era seduta in cortile, con la schiena poggiata al muro della casa e i capelli rossicci arruffati sulla fronte. Soffiava delicate volute di fumo dalla sigaretta che teneva tra le labbra. Vicino a lei, Ash si mordicchiava le unghie, come faceva ogni volta che doveva cominciare un discorso importante. Ok, si rendeva conto di aver fatto la più grande idiozia della sua vita. Lui, che calcolava nei minimi dettagli fin le calorie assunte dopo aver mangiato yoghurt e cereali. Che fosse stato l’alcol a giocargli u brutto tiro, o l’emozione, o tutte e due insieme, fatto stava che non poteva aver baciato sul serio la sua amica. Era illogico. Eppure lui, Ash Cohen, aveva seriamente posato le sue labbra su quelle di Jimmie Sue Mellencamp. Avrebbe voluto sprofondare, finire dritto nel cassonetto dietro alla tavola calda, soffocarsi in un microcosmo di buchi neri e non uscire più fuori. Chi gli aveva dato il permesso di baciarla? Chi? Nessuno, solo la sua mente perversa. Cercò di venire a patti con se stesso e con la sua coscienza. Amava Jimmie. No, amare è un termine troppo forte. Spasimava per Jimmie. Così andava meglio. E così, dopo tanti anni di muta sofferenza del cuore, aveva ceduto le armi e aveva conquistato le labbra di lei. Non reggeva. Non reggeva e non calmava il suo cuore impazzito. Ve bene, Jimmie non si era tirata indietro. Però … no, tutto da rifare. Avrebbe dovuto preparare il momento con i dovuti accorgimenti, invece si era fatto prendere dalla passione irrazionale (“E in principio fu Caos, e poi Gea, la terra, e Eros, l’amore carnale e la passione che dilania l’uomo” avrebbe detto Jasper, citando come suo solito gli antichi miti greci. Jas era un appassionato di antropologia, anche se nessuno dei Gentiluomini lo capiva mai molto quando raccontava dettagliate spiegazioni del legame archetipico delle culture, o quando spiegava le somiglianze tra i Veda indiani e il mitos e logos greco). Intanto, si era giocato male l’ultima carta, che gli avrebbe fatto perdere tutta la partita. Dannazione.
Jimmie dal canto suo, taceva, sentendo ancora sulle labbra il bacio di Ash. Non sapeva se essere contenta o sconcertata da quest’ultimo avvenimento imprevisto. Non se lo aspettava, doveva ammetterlo. O meglio, si era accorta che Ash le faceva il filo, detta papale papale. E a lei non dispiaceva affatto, anzi; le era sempre piaciuto,Ash, in fondo. Era sempre stato il suo eroe, il suo esempio, la sua ancora. Spesso aveva fantasticato sulla loro storia d’amore, eppure, ora che lui l’aveva finalmente baciata, si sentiva strana. Era tutto finito così in fretta, niente era andato come aveva sognato. Un bacio, come un tiro di sigaretta. Veloce. Dolce e liquoroso allo stesso tempo. Avrebbe voluto di più, ma non sapeva se lui avesse acconsentito. Avrebbe voluto un “ti amo, Jimmie”, sussurrato a fior di labbra, come un soffio di vento fresco, quando arriva la primavera. Ash era la sua Primavera, ma il vento non era arrivato e nessun fiore era sbocciato. Avrebbe voluto spronarlo, ma il pudore la teneva zitta. Sospirò rumorosamente, aspirando il fumo e lasciando uscire fuori, nel buio della sera senza stelle.
-Ash …
Non riconosceva nemmeno la sua voce, tanto era bassa e soffice. Lui si girò a guardarla, con una smorfia avvilita sul volto e uno sguardo apologetico.
-Senti, mi è piaciuto come mi ha baciata. È stato bello.
Non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi. Non aveva nemmeno il coraggio di fare lei qualcosa se non parlare, e parlare ancora, fino a sentire la gola in fiamme. “La gente parla, parla, parla, e non fa niente di quello che dice. E meno male che questo non è un paese ipocrita, no, assolutamente. Più parliamo, più ci dimentichiamo quello che volevamo fare ai primordi, e più dimentichiamo più parliamo per ricordare, e ci confondiamo, come se vivessimo nella nebbia. Nella nebbia impenetrabile della nostra ipocrisia”. Lo diceva sempre, Jasper. Si dava dell’ipocrita da solo. Dava dell’ipocrita a tutti in realtà; era come il suo insulto preferito. E così faceva Jimmie, parlava per non ascoltare il silenzio.
-Ti dicevo che mi è piaciuto, Ash. Hai fatto bene a baciarmi.
Si voltò verso di lui, un’espressione indecifrabile negli occhi neri dietro le lenti. Era ammutolito, incredulo.
-Mi piaci, amico mio. E tanto anche. Però avresti dovuto fare qualcos’altro.
-Cosa?
Anche la voce di Ash risuonò flebile nella notte. Strozzata, intimidita.
-Avresti dovuto dirmi “Ti amo, Jimmie”.
Ash boccheggiò per qualche secondo, stupito. Quindi non aveva calcolato male; lei era contenta. Non si era offesa. Non aveva rovinato tutto con la sua avventatezza; il loro equilibrio perdurava. Preso da un impeto di coraggio appassionato, e forse che stonava con la sua solita personalità, baciò per la seconda volta Jimmie Sue. Di nuovo venne travolto da una serie di emozioni strane e sconosciute, che nemmeno la sua amata scienza poteva spiegare.
-Ti amo, Jimmie- mormorò, soffiandoglielo direttamente sulle labbra.
-Così va bene- sorrise lei. Il suo venticello fresco era arrivato a far sbocciare i fiori. Forse anche lei adesso avrebbe avuto la sua Primavera.

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Capitolo 12
*** Bite my lip and close my eyes ***


CAPITOLO DODICI: BITE MY LIP AND CLOSE MY EYES

Si consiglia di ascoltare durante la lettura "Longview" dei Green Day. Ne approfitto per chiedervi umilmente SCUSA. Davvero, mi dispiace se aggiorno a ritmi così irregolari e lenti ma ho avuto un brutto calo di ispirazione. Vi ringrazio infinitamente, che continuate a seguire la mia storia e a leggerla. Scusate se il capitolo è corto, ma almeno c'è.
A presto (spero)
Charlie.


Quando Jake aprì gli occhi, si ritrovò il viso affondato nei capelli di Jasper. Subito non se ne rese conto, rintronato dal dopo sbornia che martellante gli torturava la testa e dalla gola riarsa, colpa di tutte le sigarette che aveva fumato la sera prima. Sentì qualcosa di caldo accarezzargli il viso, e quando finalmente i suoi occhi insonnoliti riuscirono a mettere a fuoco, si rese conto che erano solo dei capelli annodati. Alzò lentamente la testa. La sentiva pesante, come se fosse riempita con pietre. Non filtrava nessuna luce dall’abbaino, e l’orologio posato per terra era rotto da chissà quanto tempo. Si guardò intorno, con lentezza esasperante. La camera di Jasper era sempre la solita, niente era cambiato, se non per i suoi vestiti abbandonati ai piedi del letto. Non si ricordava nulla della sera precedente. Nulla dopo il bacio, ovviamente. Quello se lo ricordava bene, impresso a fuoco sulla sua bocca, nella sua testa sballata. Jasper era raggomitolato tra le coperte, stretto a lui. Jake sentiva il suo respiro sconnesso sul petto. Era così dannatamente bello quando dormiva, sembrava così innocente. Quell’innocenza che scompariva non appena spalancava quegli occhi demoniaci. Jake si era sempre chiesto come mai il suo amico (o fidanzato? Non sapeva nemmeno più lui) respirasse in modo così sconnesso : sembrava sempre sul punto di smettere e questo al ragazzo faceva paura. Già che c’era, si mise a studiare il corpo di Jasper. Gli accarezzò la schiena pallida, tendente al grigiastro. Glielo diceva sempre, di smetterla con la droga. Mai una volta che lo stesse a sentire. E poi era così magro … gli si vedevano tutte le vertebre. Accarezzò tutti i tatuaggi che aveva sulle spalle e sul fianco. Jake chiuse gli occhi, tentando di ricordarsi cosa avevano fatto la notte prima, ma niente gli sovveniva.
-Se ti interessa saperlo, tesoro, ieri mi sei crollato praticamente svenuto in braccio, quindi ti ho portato a casa, perché portarti da tua madre mi pareva disdicevole, ti ho spogliato, ti ho messo a letto e poi mi sono addormentato vicino a te. Non abbiamo fatto niente di sconcio, se è ciò che ti preoccupa.
Jake si prese un colpo quando sentì la voce bassa di Jasper soffiargli direttamente sulla pelle nuda. Spalancò gli occhi, e Jasper rise piano, tirandosi in ginocchio.
-Beh, non è sicuramente la parte sconcia che mi preoccupa ma … come facevi a sapere che stavo pensando a quello?
-Intuizione pura e semplice.
Jake scosse la testa, con un sorriso storto. Certo che come lo conosceva Jasper, non lo conosceva nessuno. Forse nemmeno se stesso.
-Senti, Jas, a proposito di ieri sera … io … cioè …
Sapeva che prima o poi avrebbero affrontato l’argomento, e va bene che la notte prima Jasper non aveva opposto resistenza, anzi, però … Jake non era mai troppo sicuro di quello che passasse per la testa del suo amico. Avrebbe potuto trattarlo come se fossero fidanzati da una vita, o continuare a trattarlo come migliore amico, come se il bacio non fosse nemmeno avvenuto. Avrebbe potuto fare di tutto, e la certezza non ci sarebbe mai stata.
-Ieri sera abbiamo semplicemente fatto quello che era naturale.
-Ovvero?
-Abbiamo liberato i demoni che avevamo dentro in un bacio che era inevitabile. Ti è più chiaro?
-No- Jake si sentiva decisamente fuori posto in quel momento. I discorsi di Jasper lo confondevano da morire, e in certi momenti lui avrebbe voluto solo estrema chiarezza. Ma se volevi Jasper dovevi sacrificarti alla nebbia impenetrabile dei suoi discorsi contorti.
-Allora, se non ci fossimo baciati ieri sera ci saremmo comunque baciati a breve, ok? Ci completiamo, Jacky, come le parti di una stessa collana. Quindi, eravamo destinati a baciarci.
Jake annuì, ma quella frase lo mise ancora più in confusione. Guardò Jasper alzarsi da letto, e lo seguì con lo sguardo mentre ondeggiava fino a una cassettiera rovinata, da dove tirò fuori una fialetta di pastiglie. Lo guardò ingoiarle lentamente, la luce pallida del sole che filtrava dall’abbaino e illuminava i suoi tratti delicati e i tremiti del suo corpo slanciato dopo l’assunzione delle pasticche.
-Senti, Jas, oggi che si fa?
-Andiamo al covo. Vedremo il da farsi. Niente di nuovo, come al solito.
Jake si alzò dal letto e abbracciò Jasper, poggiando la testa sulla sua spalla.
-Dovremmo dirlo ai ragazzi? Che ora noi stiamo tipo … insieme?
-Penso che se ne siano accorti da molto tempo, tesoro. Molto prima di te, di sicuro.
-Cosa?!- Jake si scostò da Jasper come se si fosse scottato, con una buffa espressione a metà tra l’oltraggiato e lo stupefatto. Jasper non poté fare a meno di sorridere di fronte alla smorfia così infantile dell’altro. Perché lo sapeva, lo aveva sempre saputo : Jake era ancora un bambino nel cuore, aveva un animo ancora innocente. Semplicemente, nascondeva la sua innocenza dietro a sigarette e una faccia da duro. Ma bastava spegnere le braci ardenti della sigaretta e lavargli via l’atteggiamento che si era creato per trovarsi davanti un diciassettenne fragile come vetro, eppure forte dentro. Forte, ma dannatamente giovane. Troppo giovane. E in quello Jasper si sentiva ancora più diverso di quanto già non fosse. Lui aveva perso l’anima candida, se avessi scavato quel viso troppo bello avresti solo trovato ossa e ceneri. Si sentiva semplicemente vecchio, come se le cose che avesse visto, provato e vissuto fossero troppe per la sua testa folle. Si sentiva ancora un ragazzo così giovane, che aveva ancora troppo da imparare e gente da proteggere. Aveva Jake e lo doveva salvare. Era troppo prezioso, merce rara, non poteva essere lasciato a se stesso. Jake era suo ora e non glielo avrebbero strappato.
-Niente. Scherzavo. Vestiti, che andiamo.
Jake lo guardò in tralice, ma obbedì, indossando i vestiti che puzzavano di fumo e di alcool della sera prima. Oddio, se veramente gli altri sapevano non poteva immaginare tutti i risolini senza fine di Jimmie, le battutacce sconce di Jeremy, le occhiate complici di Boleslawa, le previsioni esagerate di Ash, le pacche sulle spalle di Frizzy e l’immancabile “A quando le nozze?” che puntualmente Boleslawa diceva a chiunque la ispirasse come coppia fissa. Forse si era fregato con le sue stesse mani. O forse si stava semplicemente aprendo un nuovo scenario per lui. Un nuovo scenario fatto di baci al sapore di sogni infranti, occhi truccati, e un nuovo letto dove passare la notte.
 
Charlie stava cercando il tonno meno costoso al bancone del supermercato. Un brivido di piacere gli percorse la spina dorsale al pensiero che era lì che era iniziata la sua nuova, pazza vita con i Gentiluomini del Ventesimo Secolo. Aveva ancora tanto da imparare da loro, e loro avevano ancora tanto da conoscere di lui.
Prese in mano la scatoletta di tonno e provò a fischiettare una canzoncina che gli aveva insegnato Jeremy. Pensò ad Ash e a Jimmie, quando erano tornati dentro la casa tenendosi per mano e avevano annunciato il loro fidanzamento. Era stato contento per loro, un piacevole formicolio si era dipanato nella sua anima. Il sorriso raggiante di Jimmie Sue lo aveva fatto stare bene dentro; così come lo sguardo rilassato di Ash dietro le lenti appannate. Lo aveva preso in disparte e gli aveva sussurrato
-Ehi, Charlie, posso giurarti che baciare Jimmie è stato la cosa più scientificamente complessa che abbia mai fatto. È stato come un esperimento chimico direttamente sulla pelle! Tipo, la consistenza delle sue labbra era fisicamente interessante, ma il rossetto! Deve aver fatto reazione con le bollicine di whiskey che avevo in bocca perché c’è stata una specie di microcosmo esplosivo nelle nostre bocche, di quelle da studiare per energia atomica e …
Poi era arrivato Frizzy e addio discussioni parascientifiche. Comunque, gli era bastato quell’attimo di complicità che Ash gli aveva regalato, quel momento in cui aveva scelto proprio lui come primo testimone del bacio, in cui gli aveva raccontato tutto, per farlo sentire felice. La prima volta che qualcuno lo avesse considerato talmente importante da potergli raccontare qualcosa di prezioso come il proprio bacio con una ragazza splendida come Jimmie.
Però, in quel turbine di buone notizie, c’era il piccolo problema interiore che colpiva solo lui e che nessuno avrebbe mai capito : Jasper si era dissolto come la nebbia al mattino. Ok, lo sapeva che lui non avrebbe mai avuto anche la più larvata speranza di fare breccia nel cuore del capo, ma un po’ di risentimento c’era comunque. E poi c’era Jake di mezzo. E Jake era su tutto un altro piano rispetto a lui.
Sospirò rumorosamente, comprando il tonno e la maionese e uscendo nel caldo giugno californiano, sotto il sole cocente che bolliva l’asfalto dismesso delle strade.
 
 
 

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Capitolo 13
*** I just want to get some peace of mind ***


CAPITOLO TREDICI: I JUST WANT TO GET SOME PEACE OF MIND

Si consiglia di ascoltare durante la lettura “Lazy Bones” dei Green Day.
Piccola comunicazione di servizio: intanto, sorry for the late, ma ero in vacanza fino a una settimana fa all’estero e poi ora sono in montagna, perciò non posso pubblicare. I capitoli verranno perciò postati ogni settimana di lunedì, ma se non riesco a spedire in città per tempo, potrebbero passare anche due settimane prima del nuovo capitolo. Scusate per il disturbo, e grazie ancora a chi mi sopporta. Vi voglio bene (anche i Gentiluomini vi vogliono bene:D )
Charlie.

 
Jeremy sospirò rumorosamente, posando un grande mazzo di zinnie arancioni sulla tomba di sua sorella. Guardò mestamente la piccola foto che non rendeva giustizia alla bellezza della piccola Lucy Austin, con i suoi codini biondo scuro, gli occhi grandi e innocenti, il sorriso storto. Il ragazzo aggiustò i fiori preferiti dalla sua sorellina nel vaso di plastica posato sulla lapide piccola e ricoperta di muschio. A Lucy piaceva il muschio. A Lucy piacevano troppe cose. E a lui non era rimasto che vederle e trattenere le lacrime ogni santa volta. La colpevolezza lo schiacciava come una pressa, ogni volta che andava a trovare la piccola nel cimitero polveroso della cittadina. Oltrepassava un buon numero di tombe e finalmente arrivava sotto un grosso rovo che faceva un po’ d’ombra sulla pietra sepolcrale dove puntualmente lui si recava ogni tre giorni a pulire e a salutarla con voce rotta. E pensare che in fondo era tutta colpa sua. Se solo fosse stato più attento … se solo le avesse prestato un po’ più d’attenzione e l’avesse tenuta lì vicino a sé … invece no. Ma come poteva sapere lui, un povero undicenne che voleva qualcosa che nessuno sembrava in grado di dargli, che la bambinetta di sei anni fosse caracollata in mezzo alla strada proprio mentre passava un camion? Come poteva prevederlo? Soffriva, Jeremy, di un dolore che difficilmente si può capire. Un dolore misto alla consapevolezza di aver irrimediabilmente sbagliato e allo shock di non aver più nessuna bambola bionda da coccolare e da proteggere. A volte, quando andava a casa di Jake e lo vedeva prendere in braccio Margot, la più piccola della tribù Harris, gli veniva da piangere. Adesso, avrebbe avuto Lucy lui da proteggere e da abbracciare. Avrebbe avuto dodici anni e non avrebbe avuto più i codini, ma una coda di ricci biondi. Non avrebbe più voluto un gelato ma delle caramelle alla menta. Sarebbe cresciuta sotto la sua ala protettrice. Ma perché poi pensare al futuro di una morta? Che cosa ne avrebbe ricavato? Niente, se non altro dolore da sommare alla sua anima bucherellata dall’alcool e da Lucy. Lucy, che viveva nei suoi incubi. Lucy, che lo accompagnava sempre. Lucy, stampata a fuoco nei suoi occhi e nel suo cervello. Una lacrima colò pesantemente dalla guancia scavata del ragazzo fino sul pietra fredda. Si alzò di scatto. Non voleva rimettersi a piangere. Voleva solo tornare dagli altri e soffocare tutto, tornare a sorridere e a raccontare storie. Lui, Messer Jeremy il Cantastorie avrebbe superato tutto. Stampò un bacio sulla foto di Lucy e quasi gli sembrò che lei gli sorridesse e lo incoraggiasse a elaborare il lutto; quindi, si rinfilò le mani in tasca e si affrettò a passo di corsa verso il Suicide Ghost Old Bridge, dai suoi squinternati amici.
Mentre correva, vide in lontananza due figure più che conosciute. Jasper e Jake che anche loro, evidentemente, andavano al covo. Subito fu tentato di raggiungerli, di chiamarli, di farsi vedere, ma poi i suoi occhi ancora non perfettamente asciutti videro quello che ormai si aspettava da qualche tempo e che tanto desiderava, al di sopra di tutto: le loro mani intrecciate. Allora il miracolo si era compiuto. Finalmente, avevano capito quello che lui aveva già capito da tre mesi abbondanti. Bene, finalmente una luce positiva in quel grigiore che ricopriva i loro giorni e i loro anni, che ammantava i loro cuori e le loro pelli. Jeremy sospirò, sorridendo leggermente e prendendo un'altra strada per il covo. Forse Jasper non sarebbe stato particolarmente contento della sua entrata in scena urlata come nelle peggiori pantomime da cabaret scadente. Quella scena gli fece tornare alla mente un fatto fondamentale per la sua vita. Non ci avrebbe probabilmente più pensato se non avesse visto Jasper tenere per mano qualcuno in quel modo.
 
-Mamma, ma sei proprio sicura di aver lasciato Lu al parco da sola?- Jeremy mise una mano sulla spalla della madre in lacrime, seduta sul divano, raggomitolata su se stessa come una bambina.
-I … io … oddio, tesoro vieni qua.
Jeremy si nascose tra le braccia di sua madre, sentendo le sue lacrime bagnargli i capelli e la strinse forte, tentando di infonderle più calore e sicurezza possibile. Sua mamma era tornata a casa piangendo disperata, ripetendo all’infinito di essersi girata un attimo e poi non aver più visto la piccola Lucy, quattro anni di tenerezza, di averla cercata dappertutto e non averla più trovata. Suo padre era subito uscito a cercare la bambina, raccomandando a Jeremy di vigilare sulla mamma mentre lui era fuori. Jeremy si era sentito importante in quel momento, incaricato di “monitorare la situazione da casa”. Ancora nessuna notizia, e lui cercava di mostrarsi fiducioso di fronte alla mamma, anche se forse un bambino di appena nove anni sembrava solo uno scoiattolo caduto dal nido. Poi avevano suonato alla porta e lui era andato ad aprire, pronto a dire che non era il momento e che avrebbero dovuto ripassare più tardi. Quando aprì la porta gli si parò davanti un bambino che avrà avuto suppergiù la sua età, con una felpa sformata addosso,  i capelli corvini sparati in aria come un’aureola demoniaca e un mezzo sorriso che teneva per mano Lucy, rilassata e sorridente, splendente come un piccolo sole. Appena aprì la porta, sua sorella gli si scagliò addosso strillando
-Jerry! Mamma!
Subito, ne lui ne la loro mamma avevano fatto particolarmente caso al bambino che rimaneva fermo immobile fuori da casa loro, talmente presi dalla gioia di riavere tra le braccia la bambina sana e felice come al solito. Solo dopo averla soffocata di baci e abbracci, si ricordarono della figura fuori dall’uscio che attendeva pazientemente. Sua madre gli rivolse un sorriso sciupato dal pianto
-Oh caro, tu l’hai … l’hai riportata a casa …
-Si, signora. Ho trovato Lucy seduta per terra in lacrime vicino al supermercato. L’ho aiutata ad alzarsi e le ho chiesto dove abitava; mi ha detto “vicino al bar” e così l’ho accompagnata nella via, l’abbiamo percorsa tutta fino che non mi ha indicato questa casa.
Jeremy sorrise felice e gli tese la manina
-Non smetteremo mai di ringraziarti per aver riportato indietro mia sorella. Mi chiamo Jeremy Austin.
-Oh, figuratevi, non c’è di che. Piacere di conoscerti, Jasper MacKenzie.
E fu così che si conobbero, grazie all’intervento innocente di Lucy. E fu così anche che Jeremy entrò gloriosamente a far parte degli appena nati Gentiluomini del Ventesimo Secolo, circa due mesi dopo l’accaduto.
 
Per Jerry, Jasper era sempre stato il valoroso encomiabile che aveva salvato sua sorella, era stato il capobranco che li aveva cresciuti, era stato il suo santo da dover idolatrare. Era sempre stato il suo riferimento, un faro nella notte, un fuoco fatuo che non si spegne mai. Jasper era il Capo; colui che avrebbe sempre santificato, glorificato, riconosciuto come essere supremo. Colui che al funerale di Lucy non aveva pianto, ma si era dimostrato talmente triste che per circa un mese i Gentiluomini non si erano più riuniti, per lasciare che lui, il Cantastorie, elaborasse il lutto. Lo avevano aiutato a superarlo, come la vera famiglia che erano. La prima cosa che aveva detto Jasper era stata “Dovete far sì che per ognuno di noi la banda diventi la seconda famiglia, se non la prima”. Parlava per se stesso, riguardo alla prima. Lui, che la famiglia vera non l’aveva mai avuta. E Jeremy sapeva, era cosciente, del fatto che Jasper fosse un vero, unico eroe. Quello che non piangeva, che non si piegava, che non si inchinava, che non si spezzava.
Quando il ragazzo arrivò nel covo, vide i propri compagni alquanto agitati, tutti seduti attorno alla poltrona sfondata, dove Jasper sedeva scompostamente come il re caduto che era. Si prese un secondo prima di precipitarsi da loro per osservare il buffo assortimento che erano: Jasper semi sdraiato sulla poltrona, con una sigaretta spenta tra le labbra e la tipica espressione da capo che deve ideare una strategia per salvare i suoi sudditi. Ai suoi piedi, Ash con una faccia alquanto corrucciata teneva un braccio attorno alle spalle di Jimmie che ringhiava piano, Frizzy con aria grave fissava il capo, Boleslawa si mordicchiava il labbro inferiore agitata, Jake fumava agitato una sigaretta fissando Jasper e Charlie si limitava a guardarsi in giro come un cucciolo caduto dal nido, spaventato e elettrizzato allo stesso tempo.
Jeremy sorrise e si avvicinò finalmente ai suoi amici, fingendo di essere appena arrivato ed esordendo come suo solito:
-Salve a voi, fedeli sudditi! Qual buone notizie ha portato il sopraggiungere del nuovo giorno?
-Brutte nuove- gli rispose burbero Frizzy.
-Loro?
Jeremy si lasciò cadere per terra sbuffando rumorosamente. Aveva già capito tutto dalle espressioni dei suoi amici, non aveva bisogno di spiegazioni.
-Loro- annuì Jake sospirando. Ci mancava giusto un assalto non programmato da parte di quei mocciosi dei BHC … quella mattina avevano trovato il covo completamente messo a soqquadro, riempito di scritte a dir poco oscene, la poltrona rovesciata e bucherellata da nuove forbiciate, e una lunga striscia di urina puzzolente a delimitare il loro spazio. Jake e Jimmie Sue non l’avevano presa bene, rischiando quasi di esplodere per tutta la rabbia che era loro montata dentro in quel momento. Rabbia repressa, che covavano dentro da anni, rabbia assassina, infantile, violenta, piena di vendetta, una di quelle rabbie sconsiderate gonfie di ferocia. Boleslawa e Charlie c’erano rimasti male, rattristandosi, come i piccoli fantasmini che erano. Tristi, dispiaciuti, indispettiti come potrebbero essere dei cuccioli di gatto a cui è stato strappato il gomitolo preferito. Frizzy era semplicemente stufo: stufo dell’ignoranza dei Bones Hole Club, stufo di queste stupide vendette, stufo delle continue scaramucce tra i ragazzi del luogo, stufo del marciume che covava la loro città e fiero di fare parte di una banda intelligente. Ash era sconvolto, punto nell’orgoglio. Trovava fondamentalmente inconcepibile un affronto simile, non giustificato da nessuna loro azione, puro e semplice vandalismo. Illogico, sconsiderato, stupido, senza nessuna base. Jasper aveva preso con filosofia la questione, come qualsiasi cosa. Aveva fatto rimettere in ordine il disastro combinato dalla banda nemica, poi si era stravaccato sulla poltrona e si era immerso nei suoi pensieri, obbligandoli a sedersi ai suoi piedi e ad attendere trepidanti la soluzione del Capo. Che, qualunque sarebbe stata, sarebbe stata messa in pratica, anche contro il loro volere. “Gli ordini non si discutono, ragazzi. Si possono trattare civilmente, si possono apportare cambiamenti, ma non si devono discutere mai” aveva detto Jasper quando i Gentiluomini erano nati; e nessuno aveva mai osato disubbidirgli.
-Qualche idea, Jas?- ruppe il silenzio Jimmie Sue.
-Li possiamo picchiare, per una volta?- le diede man forte Ash. Insomma, doveva almeno una volta in vita sua usare una delle sue armi appositamente ideate, già che quei bastardi dei BHC erano riusciti in qualche modo a eludere il sistema dei coltelli.
-Per favore, Jasper, non tenerci sulle spine!- disse Frizzy, passandosi una mano tra i capelli color grano.
-In qualche modo dovremmo vendicarci!- sbottò Jake.
-Si, è un azione molto riprovevole- esclamò Boleslawa.
-Veramente, rendiamo pan per focaccia!- borbottò Jeremy, stappando una lattina con i denti.
-Beh, a rigor di logica, io che non ne so niente, immagino che dovrete, cioè, dovremmo far qualcosa per far valere il nostro nome, no?- sussurrò Charlie. Quando aveva visto il disastro, quella mattina, ci era rimasto davvero molto male. Ormai quella era la sua seconda casa, e non potevano rovinargliela così. Non quando anche lui si era affezionato a quel posto e a quella gente, non quando tutto sembrava aver preso un’ottima piega. Non era loro diritto rovinare la sua nuova casa.
-Vedi? Lo dice anche Charlie! Dobbiamo vendicarci- strillò Jimmie, incrociando le braccia al petto.
Charlie osservò Jasper con attenzione, che pareva non aver nemmeno sentito le loro lamentele, perso in chissà quali pensieri, quando finalmente la voce che tutti tanto aspettavano disse, sospirando, come se fosse dannatamente annoiato e stufo di tutto quello, come se lo facesse solo per accontentare loro. E forse era proprio così; se fosse stato per lui, se ne sarebbe rimasto in poltrona a disegnare, a pensare, a fingere che non fosse successo niente, nauseato da quello che era il mondo moderno. Aveva preso quella decisione solo per loro, per soddisfarli, per farli divertire, magari anche solo per levarseli da torno, per calmarli.
-Charlie, tu vai davanti, fai come se niente fosse e guarda bene che il loro covo sia vuoto. Mi raccomando, deve essere vuoto, ma non farti beccare, se no sono guai.
-Non posso andarci io in ricognizione?- si lamentò Boleslawa – Mi diverto.
-Bolly, tesoro, ti ricordo che tu non passi inosservata, e poi ti conoscono. Lui invece no. Quindi, ripeto, Charlie controlla attentamente che non vi sia nessuno, voi lo seguite separati e dovete accerchiare il covo come una morsa. Se per caso ci fosse qualcuno, Charlie devi fischiare. Assicuratevi che nessuno vi veda, poi entrate e fate quello che vi pare, non mi interessa cosa. Se per caso vi fosse una sentinella, cosa che non escludo, ignoratela. Picchiatela, legatela, fatene ciò che volete basta che non la uccidiate.
-Così si parla!- urlarono Jeremy, Jimmie, Jake e Ash balzando in piedi.
-Ehm, ma io … - balbettò Charlie, incapace anche solo di pensare. Lui?! Da solo in ricognizione?!
-Tranquillo- gli disse Boleslawa, sorridendo – Ti spiego dov’è il loro covo, non puoi sbagliarti.
Charlie avrebbe voluto esonerarsi, ma non poteva. Ormai c’era dentro e agli ordini non si discute. Mai.
-Grandioso! Andiamo, gente!- urlò Frizzy, per poi girarsi verso Jasper e sussurragli, come avesse timore che gli altri lo sentissero – Ma … Jas, aspetta. Tu hai finora parlato sempre in seconda persona plurale eppure ci sei anche tu con noi. Vuol dire che non vieni?
Jasper guardò l’amico con un leggero sorrisino, a metà tra il divertito e qualcosa che Frizzy non riuscì a cogliere.
-Esattamente. Io non vengo.
I Gentiluomini si voltarono simultaneamente, come un sol uomo, verso il Capo, con espressioni che andavano dal preoccupato, all’insospettito, allo sconvolto, all’interrogativo.
-Cosa vuol dire che non vieni?!
-Quel che ho detto, Ash. Io non vengo.
-Ma … ma …
-Ho altro da fare adesso. Comunque, andate. Vi do carta bianca sulla fiducia.
-Ma senza di te come facciamo?- chiese dubbiosa Jimmie.
-Prima o poi dovrete imparare a stare senza di me, no?
Detto ciò, Jasper si voltò e si avviò verso il profondo del Suicide Ghost Old Bridge, ancheggiando leggermente come suo solito, il rumore dei tacchi che si perdeva in lontananza con la sua figura allampanata.
I Gentiluomini si guardarono, indecisi sul da farsi. Se correre dietro al capo e trascinarlo indietro con la forza, oppure se andare senza di lui. Era la prima volta che Jasper li lasciava da soli con un ordine e scompariva senza dire nulla di indicativo. Era la prima volta che li lasciava soli, costringendoli a cavarsela senza il suo aiuto, e non sembrava una buona cosa.
-Beh … - iniziò Jake, confuso e abbastanza esitante – Se ci ha detto così, avrà i suoi motivi, no? Andiamo, dai.
Gli altri obbedirono in silenzio e si avviarono verso la loro meta, sempre gasati ma sicuramente molto meno di prima. Erano svasati, perplessi dallo strano comportamento di Jasper ma partirono comunque per compiere la loro vendetta. Charlie si bloccò un secondo. Una voglia irrefrenabile di correre dietro a Jasper lo pervase e una vocina nella sua testa tentava di convincerlo a seguirlo, a chiedergli una spiegazione, a capirci qualcosa. Perché non andava tutto bene, e lui doveva scoprire perché li aveva lasciati soli, senza guida.
-Charlie, muoviti.
Si sentì afferrare per il polso dalla mano di Jake e prestò non vide più nemmeno la poltrona, pronto per essere trascinato a compiere una vendetta che forse, lo sentiva, era anche sua.
 
 

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Capitolo 14
*** Nothing's left to cling onto, you got to hold on to yourself ***


CAPITOLO QUATTORDICI: NOTHING’S LEFT TO CLING ONTO, YOU GOT TO HOLD ON TO YOURSELF
Si consiglia di ascoltare durante la lettura “Hold on” dei Green Day.

Jasper camminava mollemente lungo il breve torrentello che costeggiava il nato nord della cittadina. Si trascinava lentamente, come se solo muoversi gli costasse una fatica terribile. Fumava senza voglia, la sigaretta appesa al lato della bocca sottile, i capelli gli ricadevano sulle spalle, sporchi, impregnati di tabacco, gli occhi cerchiati tenuti bassi, il mascara che pesava irrimediabilmente sulle ciglia lunghe, le mani tenute nelle tasche degli skinny neri, affondate simbolicamente nella sua perenne noia. I tacchi rimbombavano sul graticcio del fiume, secco dopo tanti mesi di rare pioggerelline occasionali. Il ragazzo sembrava solo un’ombra smorta su uno sfondo di un inferno vuoto e secco, bruciato dal sole e dall’inutilità insita da sempre dalla fondazione della cittadina di cartongesso. Jasper osservò un grosso scorpione correre veloce sulle rocce e andarsi a nascondere sotto un sassolino. Sospirò, continuando a camminare per quella desolazione che lui si rifiutava categoricamente di chiamare “casa”. Il sole pallido bruciava incessante la terra polverosa, giallastra, e i pochi rovi abbarbicati sul graticcio. Il rigagnolo d’acqua stagnante contribuiva a peggiorare sensibilmente il paesaggio corroso di quel piccolo pezzo di terra nel nord della California.
Jasper proseguì strascicando i piedi, dirigendosi verso nord, verso qualcosa di sconosciuto, di luminoso, di diverso. Verso quel qualcosa che probabilmente non avrebbe mai avuto la fortuna di vedere. Sospirò, aspirando il fumo dolciastro della sigaretta e espirando una triste ombra di fumo grigiastro nell’aria pesante, lasciandosi cadere seduto sul graticcio, sotto il sole cocente, solo con i suoi pensieri, con i suoi problemi. Tirò fuori dalla tasca della felpa un blocco di fogli da disegno pieno zeppo di schizzi e acquerelli e  qualche carboncino. Disegnare lo aiutava a mettersi in ordine la testa, a estraniarsi dai drammi che ogni volta facevano capolino nella sua mente stanca. Sfogliò annoiato i vecchi schizzi; disegni di Jake, del suo Jake, in ogni posizione, con ogni espressione. Disegni dei Gentiluomini, delle loro disgrazie, dei loro cuori. Disegni di Charlie, il piccoletto terrorizzato da se stesso. L’unico, forse a poter far qualcosa per salvarlo. L’unico ancora abbastanza umano per poterlo tirare fuori dalla fossa che si era scavato con le sue stesse mani. Non ci credeva, quando Jake gli diceva “staremo insieme per sempre”. Non ci credeva, quando i Gentiluomini urlavano “supereremo tutto insieme, siamo o no una famiglia?”. Non ci credeva, quando qualcuno esclamava “ce la faremo”. Credeva nell’espressione stupita di Charlie, nel suo modo di vedere le cose: credeva fermamente che quel bamboccio insicuro avrebbe potuto tirare fuori qualcosa di veramente geniale. Gli avrebbe messo qualsiasi cosa in mano: c’era la vaga speranza che sapesse cosa farne.
Jasper cercò un foglio ancora immacolato e cominciò a disegnare, veloce, senza pensare, aspettando che fossero le mani a decidere cosa fare. Ne prendeva forma un volto, un sole, qualcosa di indefinito come se stesso. Quel posto gli fece venire in mente la prima volta in cui aveva deciso che lui avrebbe salvato l’America. In cui si era fermamente deciso di far qualcosa per la sua nazione, di tirarne fuori qualcosa di buono, qualcosa per cui valesse la pena lottare, vivere, morire. Cercava disperatamente un motivo per rendere fieri gli americani; voleva essere conscio che esistesse almeno qualcosa per cui sacrificarsi. Jake, certo. C’erano i suoi occhi nocciola e il suo sorriso disarmante. Ma non era abbastanza, non riempiva completamente il cuore di Jasper come avrebbe dovuto. No, c’era qualcosa di dannatamente sbagliato in tutto quello, di scombinato, di ingiusto. Pensò a quanto forse avrebbe avuto bisogno di piangere; lo sentiva spesso dire, che bisognava piangere, che tenersi le lacrime dentro era sbagliato e dannoso. Eppure lui non ci riusciva. Non si ricordava nemmeno più come si facesse, a spremere fuori il pianto, a cavarsi fuori dagli occhi ormai secchi l’acqua salata che scendeva a goccioloni. L’ultima volta che aveva pianto era stata quando aveva avuto suppergiù cinque anni. Aveva pianto perché aveva visto sua madre ubriaca fradicia che piangeva a sua volta; non sapeva il motivo, ma vedere la propria madre piangere era una cosa terribilmente deprimente. Così, senza motivo apparente, anche lui aveva versato un fiume di lacrime, fermo immobile sulla porta del salotto, senza che nessuno lo abbracciasse e senza che lui corresse da qualcuno. Congelato lì, in lacrime silenziose. Ma quelle lacrime non avevano cambiato nulla; era tutto rimasto uguale, morto ancora prima di nascere, buio senza luce, polvere mai spazzata caduta su un cuore fermo ormai da anni, silenzio mai interrotto e occhi incendiati dalla tristezza senza via d’uscita. Jasper aveva capito che piangere non sarebbe servito a nulla, che le lacrime non avrebbero cambiato il mondo, che erano solo debolezza. Che poi gli occhi avrebbero continuato ad ardere fino a consumarlo. Lui non piangeva. Lui combatteva. Poteva aver già perso, ma non si sarebbe arreso, non avrebbe lasciato che il pianto colasse su di lui e lo distruggesse. Sarebbe rimasto lì, come polvere depositata, a resistere. Mangiato dai rimorsi, soffocato dagli ideali di altri gente, Jasper non piangeva. Non piangeva, e ormai si era asciugato gli occhi, asciutti come due grosse ametiste opacizzate dalla luce di un diamante.
Si passò un mano tra i capelli, che sapevano ancora di Jake, della sua pelle, del suo respiro di fumo. Prese un foglio e cominciò a disegnare se stesso, seduto sulla riva di un fiumiciattolo asciutto come i suoi occhi, con il sole pallido sulla testa, come un giudice che non vedeva l’ora di mandarlo sulla sedia elettrica. Hai rubato, Jasper? Sì, ho rubato le mie stesse lacrime. Hai corrotto, Jasper? Sì, ho corrotto le loro anime candide. Hai trafficato, Jasper? Sì, ho trafficato le idee di altra gente, avvelenandole con la mia parola. Hai bestemmiato, Jasper? Sì, ho bestemmiato contro qualcosa a cui non credo. Hai rapito qualcuno, Jasper? Sì, ho rapito il cuore di troppa gente. Hai ucciso, Jasper? Sì, ho ucciso me stesso. Cosa ne deduci, Jasper? Che merito la morte.
 
Jake non era soddisfatto di quello che avevano fatto come vendetta. Va bene, avevano messo a soqquadro completo il covo di quei bastardi, avevano rovinato quello che potevano rovinare, avevano legato come un salame la piccola vedetta, avevano fatto tutto quello che si poteva fare per vendicarsi. Ma qualcosa stonava, e stonava perché Frizzy non aveva fatto il solito urlo di battaglia che puntualmente faceva alla fine di qualche azione distruttiva. Stonava perché Jimmie Sue non stava ridendo sguaiatamente come al solito. Stonava perché Jeremy non aveva ancora aperto una birra. Stonava perché Boleslawa non stava canticchiando. Stonava perché Ash non si puliva gli occhiali freneticamente. Stonava perché lui non stava fumando. Stonava perché non c’era Jasper. E senza di lui, niente era come al solito; gli pareva così strano che li avesse mandati da soli. Che avesse lasciato da solo lui. Si sentiva un po’ egoista a pensarlo, ma qualcosa gli diceva che la sua figura era qualcosa di importante per Jasper. Se lo augurava, perlomeno, che l’amore fosse ricambiato.
-Jake?
Il vocino di Charlie, lo fece voltare di scatto. Il ragazzino lo guardava con i grandi occhi scuri un po’ troppo tondi.
-Dimmi, Charlie.
-Non saremo stati un po’ troppo vandali?
-Non si è mai troppo vandali, con quelli lì.- sogghignò stancamente, accendendosi finalmente una sigaretta. La sua seconda dipendenza. Ne allungò una a Bolly, che fece metà con Jimmie e l’altra a Ash.
-Sai mica perché Jasper ci ha lasciato da soli?
-Non so che gli passi per la testa, Charlie. E faresti meglio a non cercare di capirlo.
-Mi è parso strano.
-Senti, bello, tu non lo conosci, ok?! Non può sembrarti strano!
L’aggressività rivelata da Jake fece indietreggiare Charlie. Un altro passo falso. Era veramente un disastro a rapportarsi con la gente.
-Scusa, io non volevo … cioè …
-Jake, smettila. Non trattarlo male.- intervenne Boleslawa, lanciandogli un’occhiataccia da dietro la cortina di fumo sottile. – Jasper non vorrebbe.
Jake lanciò un’occhiata di traverso all’amica, ma non le disse nulla.
-Scusa Charlie, non volevo trattarti male- borbottò, affondando ancora di più nelle tasche della felpa.
Charlie si limitò a scuotere la testa, come a cancellare tutto e si avviò velocemente dietro a Jimmie e Frizzy che marciavano davanti.
-Che diavolo succede, Jake?- sussurrò Ash all’orecchio del ragazzo, trattenendolo un po’ in dietro rispetto agli altri.
-Non lo so, Ash.
I due si guardarono, occhi nocciola dentro occhi neri, visi seri, circondati dall’imprescindibile cortina di fumo leggero e impalpabile come le loro anime. Fumo, dentro. Semplici sigarette tirate e poi schiacciate sotto le scarpe. Sigarette di contrabbando, pagate una miseria per gente distrutta. Filtri di vita.
-Jasper è strano. E io lo posso dire.
-Non ha niente.
Jake si accese in fretta un’altra sigaretta, voltandosi e distogliendo lo sguardo da quello fisso e severo di Ash, scompigliandosi da solo i capelli, in un goffo tentativo di imitare le carezze del Capo.
-Tu vuoi che non abbia niente. Ma sappiamo entrambi che non è vero.
Ash lo afferrò per le spalle muscolose e lo costrinse a guardarlo in faccia.
-Non puoi vivere dietro a uno specchio di bugie, di finzioni, di speranze. Jake, dannazione, lo vuoi capire che l’esistenza di un essere umano non è costruita su fumo ma su solide basi di cemento armato? Tu ami Jasper, è palese, lo vuoi come io voglio Jimmie, e su ciò niente da rimproverarti. Ma devi ficcarti in testa che lui non è altro che nebbia, ballerina, instabile. Che certezze hai su di lui?
Jake spalancò gli occhi, sentendo affiorare un leggero magone, costretto a seguire quel doloroso discorso dall’amico, discorso che più volte aveva deciso di evitare a se stesso, per non pensare, per non farsi problemi. Quel discorso che era anche il suo incubo che lo distruggeva ogni notte, e che cancellava nei baci di Jasper. Quell’incubo che affiorava sempre, dietro a ogni sua risata, lacrima, boccata di fumo. Incubo che lo perseguitava.
-Io … - la voce cominciò a tremargli, incontrollata.
-Nessuna, Jake. Chi ti ha detto che lui ti ami? Non lo sai, ci scommetto che non ti ha mai detto “ti amo”, che non ti ha mai giurato amore eterno o roba simile. Lo so che sono idiozie queste che ti ho detto, ma costruiscono almeno un po’ le fondamenta di una vita. Hai una piccola certezza su cui cominciare a costruire la casa. Jasper non è altro che polvere, nuvole, acqua asciutta di un vecchio fiume dimenticato. Non può darti altro che sogni, illusioni, inganni che lui è così bravo a renderli veritieri. Anche io non posso pensare alla mia infanzia senza di lui, sarei perso ora. Ma tu hai superato il limite; provi il sentimento più distruttivo che c’è per lui. E questo non sarebbe un male, lo ripeto, se non fosse che lui è quello che è. Jasper uccide, Jake. È già morto.
-Non dirlo nemmeno per scherzo, Ash.
-Non mi capisci. Voglio dire che lui è perso, e ti porterà con lui nel suo labirinto, nel centro, nel cuore, e poi ti lascerà lì. Non è capace di amare, Jake, anche questo è palese. Per lui io non so cosa tu rappresenti, ma sono certo che prima o poi ti spezzerà il cuore, ti distruggerà senza nemmeno rendersene conto. Jasper è distruzione allo stato puro, non possiamo farci nulla. Renditene conto ora, prima che sia troppo tardi.
-Tu non sai niente!
Jake lo spinse via con le lacrime agli occhi, preso a botte dalle parole taglienti di Ash. Lo sapeva che aveva ragione, aveva dannatamente ragione, perché quel discorso anche lui se lo faceva spesso e volentieri. Ma cercava sempre di trovare una via di fuga tutto ciò, di non affrontare l’argomento, di passare oltre, di seppellire nel suo cervello le cose brutte come quella.
-Io non saprò niente, ma voglio solo aiutarti in qualità di amico. Pensaci, Jake.
Ash lo guardò tristemente, aspirò del fumo e gli voltò le spalle, avviandosi mollemente per strada, dietro agli altri, lasciando solo con il suo dolore, con le sue lacrime brucianti, con la sua sigaretta che si consumava come la sua vita, con il suo cuore amaro, con la consapevolezza, con la voglia di avere Jasper lì, che lo stringeva tra le braccia e gli diceva che andava tutto bene, che sarebbero stati per sempre insieme. Ma sapeva che non era vero. Jasper non gli aveva mai detto che sarebbe andato tutto bene, e nemmeno che sarebbero stati assieme per sempre. Niente di simile, di false speranze uscivano dalle sue labbra sottili e quella voce soffocata e melodica non diceva nulla di solare. Solo nebbia nel suo cervello, nei suoi occhi.
“C’è solo un modo per capire se si è vivi, morti, o nessuno dei due. E questo modo è constatare se c’è un motivo per cui vivere, e uno per cui morire. Se non c’è, allora sei finito. E la fine è peggio della morte” gli aveva detto Jasper, dopo una lunga passeggiata lungo le rotaie.
Jake si concentrò. Voleva vivere per Jasper, morire per Jasper. Ma vivere e morire per una sigaretta finita erano un motivo valido oppure no?
 

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