A World for Us

di Robin Nightingale
(/viewuser.php?uid=456511)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Kaliméra ***
Capitolo 2: *** Gemelli ***
Capitolo 3: *** Mare ***
Capitolo 4: *** Kourabiedes ***
Capitolo 5: *** Gemelli 2 ***
Capitolo 6: *** Incubi ***
Capitolo 7: *** Schizofrenia ***
Capitolo 8: *** Litigi ***
Capitolo 9: *** A World for Us ***
Capitolo 10: *** Schizofrenia 2 ***
Capitolo 11: *** Funerale ***
Capitolo 12: *** Santuario ***
Capitolo 13: *** Gemelli 3 ***
Capitolo 14: *** Aiolos ***
Capitolo 15: *** 30 Maggio 1972 ***
Capitolo 16: *** Solo ***
Capitolo 17: *** Shion ***



Capitolo 1
*** Kaliméra ***


Svegliarmi la mattina è sempre stato traumatico per me.
Mi rigiravo tra le lenzuola anche dopo il suono della sveglia.
Il sole penetrava dalla finestra, i suoi raggi si poggiavano violenti sui miei occhi.
E io mi rigiravo.
Mettevo la testa sotto il cuscino, sbuffavo e cercavo di riprendere sonno.
Da fuori si udiva il canto degli uccelli, le voci dei passanti, le risate dei bambini che giocavano, gli schiamazzi..
Fuori dalla mia camera, mio padre parlava al telefono, mia nonna rideva, mia madre urlava…e subito casa mia prendeva vita, come ogni giorno.
Mi alzavo, tiravo la testa da sotto il cuscino e lo colpivo infastidito. Mi stropicciavo gli occhi, con i capelli arruffati, le coperte ormai sgualcite e il pigiama che mi si appiccicava addosso per la calura.
Mi guardavo intorno accigliato, osservando la camera in penombra.
La mia stanza era sempre disordinata, i miei vestiti erano sparsi un po’ ovunque: sul letto, sulla sedia della scrivania.
I miei giocattoli giacevano alla rinfusa sul pavimento, continua fonte di lite tra me e mia nonna, che puntualmente vi inciampava sopra.
Sbadigliavo sonoramente, spostandomi i ciuffi sudati dalla fronte, con la sola voglia di rimettermi a dormire; poi guardavo dritto di fronte a me.
Tu eri lì.
Eri lì che mi osservavi, già sveglio, pettinato, pulito e vestito.
La tua parte di stanza era già in ordine e il tuo letto perfettamente rifatto.
Mi guardavi con le paffute guance appoggiate sui palmi delle mani, puntando i gomiti sul morbido materasso, felice e solare come solo tu potevi essere.

<< Kaliméra >>

Dicevi mostrandomi un caldo sorriso.
Poi mi porgevi dei biscotti, del latte e brioche ancora calde ripiene di marmellata di fragole, le mie preferite, lo sapevi bene.
A quel punto sorridevo e avevo già voglia di scendere dal letto. 


Note
Piccola raccolta di storie senza pretese, volevo solo cimentarmi in qualcosa di diverso.
La lunghezza dei capitoli può variare, per questo non ho messo un avvertimento specifico.
Kaliméra in greco significa "buongiorno".
Qualora dovessero mancare degli avvertimenti, sentitevi liberi di comunicarlo...è la prima volta che scrivo una "storia" di questo genere, quindi non sono esperta.
Spero che l'idea vi piaccia e anche se è senza pretese, spero comunque di strapparvi anche solo un sorriso.
Buona lettura e a presto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Gemelli ***


Odiavo la Domenica, non vi era mai nulla di divertente da fare.
I negozi erano chiusi e le strade deserte, vi ero solo io con un vecchio pallone.
Lo calciavo annoiato, contro un albero del giardino, nella speranza che tu venissi a giocare con me.
Talvolta tiravo appena sotto la nostra finestra, nella speranza di convincerti.
Tu aprivi la tapparella imbronciato e gridavi semplicemente il mio nome.

<< Kanon! >>

Mi intimavi di smetterla e io ubbidivo.
Sospiravo, mentre tu tornavi dentro, sdraiato sul tuo letto a leggere chissà quale libro di avventure.
Tu odiavi il calcio, dopotutto.
La Domenica  trascorreva così: tu sopra, immerso in quelle ruvide pagine, leggevi avidamente quelle righe d’inchiostro senza mai distogliere lo sguardo.
Io sotto, in giardino, con un pallone ormai vecchio e quasi sgonfio,  speravo che qualcuno giocasse con me, o che mi facesse semplicemente compagnia.
C’era, però, qualcosa che odiavo ancor di più di quel giorno: il pranzo con i parenti.
A ora di pranzo, mia nonna usciva di casa e con rabbia mi prendeva per un orecchio.
Era vecchia, bassa e gobba; il suo viso era piccolo e ricoperto di rughe, assomigliava ad un’anziana tartaruga.
Sul naso vi era un enorme neo scuro, che mi aveva sempre ricordato le streghe delle fiabe, aveva persino la stessa voce roca e sinistra.
Nonostante l’età aveva una forza incredibile, tanto da riuscire a trascinarmi in casa, senza che riuscissi ad opporre resistenza.

<< Lavati! Vestiti! E pettinati quella zazzera che hai in testa! >>

Urlava con tutta la forza che aveva in gola, spingendomi dentro il bagno e gettandomi addosso un asciugamano pulito.
Controvoglia entravo in doccia, sbuffando e borbottando.
Perdevo sempre tanto tempo per lavarmi: mi piaceva rimanere senza far nulla sotto il getto dell’acqua, mi piaceva vederla scorrere e mi piaceva anche giocare con il sapone.
Mia nonna bussava energicamente alla porta nel tentativo di farmi uscire; batteva una volta e poi tornava giù.
Io uscivo sempre dopo la terza chiamata.

“Esci di lì!”

“Muoviti!”

“Sbrigati, o ti giuro che ti sbatto fuori senza mutande!”

Gridava.
Una volta finito, mi avvolgevo nell’asciugamano, perché, come sempre, quella vecchia donna non aveva l’accortezza di portarmi i vestiti puliti.
Così sgattaiolavo fuori dal bagno, nella speranza che nessuno mi vedesse.
Entravo nella mia stanza e mi chiudevo la porta alle spalle, tirando un sospiro di sollievo.
Con violenza sbattevo l’asciugamano per terra, mentre tu aprivi il tuo armadio, in cerca di qualcosa da mettere.
Mi guardavi perplesso, ma non dicevi nulla. Io ti imitavo e mugugnando tiravo fuori le prime cose che mi capitavano a tiro.
Mi vestivo e allacciavo le scarpe in fretta e furia, pregando che quella giornata finisse presto.
Una volta fatto, mi voltavo verso di te e tu verso di me.
Ogni volta che ti guardavo, mi sembrava di essere davanti ad uno specchio.
I capelli dello stesso colore, gli occhi dello stesso colore.
Le stesse fossette sulle guance, la stessa espressione, lo stesso pensiero.
Allungavo la mano verso di te, credendo davvero di avere uno specchio di fronte; mi accorsi che tu avevi fatto lo stesso quando le nostre mani si toccarono e si incrociarono.
Sarei rimasto in quella posizione anche per tutto il giorno e guardandoti negli occhi, sapevo che avevi pensato lo stesso.
Non avresti mai lasciato la mia mano, come io non avrei mai lasciato la tua.
D’un tratto cambiasti espressione: avevi le labbra increspate e un’espressione dubbiosa in volto.
Guardavi i miei vestiti, ed erano uguali ai tuoi.
Indossavamo una maglietta rossa, ma mentre la mia era stropicciata e leggermente scolorita, la tua era ancora di un ardente rosso fuoco.
I miei pantaloni erano strappati, i tuoi perfettamente integri.
Con un sorriso ti allontanavi, mentre io ti freddavo con gli occhi, quasi offeso.
Dal tuo armadio a quattro ante, tiravi fuori una camicia di cotone bianca, perfettamente piegata e stirata.
Ti spogliavi della tua maglietta, ordinandola e riponendola nel cassetto; poi indossavi la camicia, chiudevi i bottoni con estrema calma e cura, tranne l’ultimo.
Ti sistemavi nuovamente i capelli, infine ti giravi verso di me. Sorridevi di nuovo e prima di lasciare la stanza, mi scompigliavi ancor di più i capelli.
Adesso non eravamo più uguali.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mare ***


Poche volte mi sono sentito veramente felice durante la mia vita.
Una di queste era quando andavamo a mare.
Ho sempre avuto un certo richiamo per esso, lì mi sentivo bene, mi sentivo a casa.
Adoravo immergermi in quelle calde acque cristalline, andare sottacqua, esplorare i fondali marini.
Ero incantato dai mille colori dei pesci, che andavano dall’arancione, al giallo, al blu, vi era persino qualche esemplare nero. E avevano tutti delle forme così strane.
Andavo sempre in prossimità di alghe e coralli nella speranza di trovarne altri, magari di specie che non avevo mai visto.
Eppure non ero mai del tutto soddisfatto, perché sapevo che vi era dell’altro giù nei più profondi abissi. C’era qualcosa che mi attirava, ma non mi ero mai spinto tanto affondo.
In realtà non sapevo neanche cosa cercare, o cosa aspettarmi.
Avevo letto un libro, una volta; parlava di mostri e creature marine, di sirene, città perdute, ma tu dicevi sempre che erano solo fantasie.
Io però ci credevo e un giorno ti avrei portato la prova della loro esistenza.
Quando salivo in superficie, guardavo lungo la costa e rimanevo incantato dalla bellezza della mia Atene, con le sue case piccole ed immacolate, con i tetti dai mille colori, principalmente azzurri, come il mio mare.
Tu eri seduto sulla battigia e mi sorridevi da lontano.
Uscito dall’acqua, sentivo la sabbia bruciare sotto i piedi e un forte odore di salsedine che non sarebbe andato via per giorni, ma non mi importava. Tu eri asciutto dalla testa ai piedi, rosso come un gambero a causa del sole che scottava la tua pelle delicata e io, da bravo fratello, non potevo lasciarti da solo sulla spiaggia.
Rispondevo al tuo sorriso con un ghigno, poi ti prendevo di peso e cercavo di portarti in acqua: era sempre difficile convincerti, opponevi resistenza, ma nonostante tutto ti lasciavi cadere insieme a me senza troppi problemi.
Non so perché, forse rassegnazione, o forse, in fondo, la tua era solo una recita: la nostra lotta ti piaceva, come ti piaceva nuotare con me, nonostante non tu lo sapessi fare.
Due metri e già l’acqua ti arrivava alla gola, cominciavi a sguazzare un po’ impaurito e io ti porgevo la mano in segno di aiuto.
Amavo il mare, perché, per una volta, ero io a prendermi cura di te.


Note
Rieccomi qui con un altro ricordo, questa volta più piccolo del precedente.
Sono in un ritardo pazzesco, ma spero che stiate passando delle belle vancanze e che il Ferragosto sia andato bene.
E per restare in tema anche i piccoli gemelli vanno a mare.
Grazie a tutti quelli che seguono e recensiscono la storia.
A presto.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Kourabiedes ***


Tutti i pomeriggi, mio padre portava mia madre fuori a fare una passeggiata, per farle cambiare aria.
Avevano la brutta abitudine di portarti con loro e di non tornare prima dell’ora di cena.
Io rimanevo solo, solo con mia nonna, con cui non avevo granché voglia di chiacchierare.
Passavo la giornata sdraiato sul letto, lanciando il pallone sopra la mia testa nel vano tentativo di cacciar via la noia.
Non vi riuscivo mai, però.
Osservavo l’orologio e le ore sembravano non voler passare mai.
Stavi via così poco, eppure sembrava dovessero trascorrere degli anni.
Le rare volte che riuscivi a convincere papà a restare a casa, avevo l’impressione che il tempo si prendesse gioco di me, facendo volar via le ore.
Trascorrevamo la giornata tra un gioco e l’altro, fin quando non ci veniva fame.
Correvamo dentro casa e un forte profumo di mandorle invadeva le nostre narici; come ogni pomeriggio, nonna ci aveva appena preparato la merenda: i kourabiedes, uno dei nostri dolci preferiti.
Entravo in cucina quasi euforico, impaziente di mangiare quei morbidi biscotti dal retrogusto di brandy e acqua di rose, che nonna accompagnava con una fumante tazza di tè caldo.
Mi sedevo al mio posto e alla sola vista di quelle piccole mezzelune ricoperte di zucchero a velo, i miei occhi brillavano, così come brillavano i tuoi.
Ma il mio entusiasmo si spegneva ogni qualvolta guardavo il mio piatto e  subito dopo il tuo.
Accanto alla mia tazza di tè vi erano solo due miseri biscotti, nel tuo ve ne erano quattro…due più di me.
Al centro del tavolo, vi era posizionato un vassoio colmo di biscotti, che aveva catturato la mia attenzione.
Ne volevo degli altri e cercai di prenderli, ma qualcosa colpì violentemente la mia mano.

<< Non sono per te! >>

La nonna. Lei mi aveva colpito e non certo con gentilezza: aveva usato il suo vecchio bastone.
Mi massaggiavo la mano dolorante, mentre lei spostava il vassoio verso la tua direzione, decretandoti come unico proprietario.
Io mi limitavo ad abbassare la testa, senza replicare, senza mostrami contrariato, mi limitavo semplicemente a mangiare.
Tu mi guardavi con la coda dell’occhio, sembravi mortificato.
Quando lei era di spalle, mi chiamavi tirandomi la manica della maglietta e da sotto il tavolo mi cedevi i tuoi kourabiedes.
Ti guardavo stupito, mentre tu mi incoraggiavi a prendere quanti più biscotti possibile, perché mai e poi mai li avresti finiti tutti.
A quel punto il mio broncio svaniva e tu ed io, alle spalle di quella vecchia megera, mangiavamo e ridevamo complici.

Note
Salve a tutti cari lettori, eccomi tornata con un altro piccolo ricordo che mi ha fatto venire fame.
I kourabiedes sono dei biscotti greci che, di solito, si servono per Natale.
Come sempre vi ringrazio tutti dal profondo del cuore e spero di aggiornare al più presto, nonostante la sessione autunnale sia ormai alle porte.
Un bacio e buona lettura.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Gemelli 2 ***


Cadeva la neve ad Atene durante l’Inverno.
Si tingeva di bianco, come le sue case, le sue strade; i suoi colori sgargianti e allegri venivano completamente annullati dal quel candito e puro colore.
Mi metteva tristezza, mi metteva angoscia.
Mi mancava il blu del mare, che in quel periodo dell’anno si tramutava in un colore così cupo da sembrare nero.
Eppure, nonostante la mia poca simpatica per la stagione fredda, io e te passavamo molto più tempo fuori in quel periodo, piuttosto che in Estate.
Strano, pensavo, ma vero.
Giocare a palle di neve era il nostro passatempo preferito, e naturalmente, io vincevo sempre.
E tu ti indispettivi.
Le rare volte che vincevi tu, mi arrabbiavo io.
Eravamo uguali anche in questo: né tu e né io amavamo perdere.
Seppur gemelli, essere sconfitto dal proprio fratellino non faceva bene al tuo orgoglio, come non faceva bene al mio esserti secondo.
Essere tuo fratello, tuo gemello, però mi piaceva, e non avrei mai cambiato il mio aspetto...non avrei mai cambiato te.
Tuttavia, ci sono stati momenti in cui ho desiderato essere diverso da te, soprattutto quando la nostra vicina usciva di casa e si mostrava, non con poca vanità, a noi.
Era così graziosa, elegante, forse anche carina, tanto che rimanevo sempre un po’ incantato a guardarla.
Non era molto particolare, solitamente era sempre vestita di bianco, i suoi capelli erano neri, perfettamente pettinati e acconcianti, ma pur sempre neri.
Mi ricordava così tanto l’Inverno, che ho sempre pensato fosse una creatura uscita da qualche libro di fiabe.
I suoi occhi, però, erano blu. Blu come il mare e io mi ci perdevo.
Tu eri accanto a me e avevi la mia stessa espressione. La fissavi anche tu, ma differenza mia, eri riuscito a sorriderle.
Lei ti aveva ricambiato, per poi salutare entrambi ed andare via.
Provai fastidio, ma ho sempre evitato di dirtelo.
Con il passare del tempo, la ragazzina si avvicinò a noi…a te, ed è grazie alla simpatia nei tuoi confronti che scoprì il suo nome: Lia.
Vi vedevo parlare spesso, sia all’entrata del nostro giardino, che al suo; la sera, prima di andare a dormire, mi parlavi di lei con uno strano sorriso in volto.
Io fingevo di interessarmi all’argomento, anche se non riuscivo a trattenermi dal guardarti torvo o a sbuffare innervosito.

<< Che ti prende? >>

Mi chiedevi, ma rispondevo sempre in maniera vaga, rispondevo sempre “niente”.
I giorni passavano e ormai, tu e Lia, parlavate dentro il nostro giardino.
Non capivo: io e te eravamo uguali, perfettamente identici, nessuno era in grado di riconoscerci, eppure perché, anche quella bambina, preferiva la tua compagnia e non la mia?
Perché mi trattava con sufficienza?

“ Dov’è tuo fratello? ”

“ Posso parlare con tuo fratello? ”

“ Oh, scusa. Tu non sei lui. ”

Perché si rivolgeva a me solo per chiedermi di te?
Perché dovevo essere messo in disparte? Perché dovevo esserti secondo? Perché eri sempre così perfetto? Perché io non ero te?
A queste domande non ho mai saputo trovare una risposta, ma è stato proprio in quel momento che mi sono sentito a disagio nell’essere tuo gemello.
Volevo rendermi diverso da te, ma non sapevo come fare.
Avevo persino pensato di tagliarmi i capelli, così da non sembrare uguali, esaudendo uno dei tanti desideri di mia nonna.
L’avrei fatto, se solo il pensiero di quella vecchia con delle forbici in mano non mi spaventasse.
Vederti stringere la sua pallida e piccola mano mi infastidiva ancor di più, tanto da costringermi a sbattere con violenza la finestra e chiudere la tapparella, anche se in piena mattinata.
Un giorno, proprio quando avevo deciso di dimenticarla, prima che si guadagnasse tutta la mia antipatia, me la sono trovata davanti.
Volevo stare fuori, nonostante tu fossi con lei; stranamente, eravate fuori dal cancello e come sempre parlavate, ma non volevo sapere di cosa.
Senza pormi domande, iniziai  a giocare con la neve, costruendo un pupazzo di neve.
Ero quasi arrivato alla testa, quando lei si fermò davanti a me.
Mi guardava, mentre io mi perdevo in quel magnifico blu. Il suo sorriso era così dolce, non ricordavo di averlo mai visto così raggiante e spontaneo…non rivolto a me.
Ho impiegato ben cinque minuti per rendermi conto che mi aveva dato un bacio sulla guancia, poggiando le esili mani sulle mie spalle.
Ero così sconvolto da guardarla con gli occhi sgranati e con la mano ancora poggiata sul viso.

<< Volevo solo salutarti, Saga >>

Con dolcezza muoveva la mano in segno di saluto, ma ero talmente impietrito da non riuscire a proferire parola.
“ Io non sono Saga! ”
Avevo voglia di urlare, ma lei era già andata via, chiudendo il piccolo cancello.
Un secondo dopo sei rientrato dentro, con aria soddisfatta, sicuro di te, tranquillo, mentre io ero solo confuso e spaesato.
Volevo spiegazioni, ma l’unica cosa che ho ricevuto è stato un occhiolino e la mia chioma completamente spettinata da una tua carezza.
Solo quando ti sei chiuso la porta di casa alle spalle, ho capito cosa avevi appena fatto per me e mi sono sentito uno stupido.
Avevo desiderato di cambiare il mio aspetto, rendermi diverso da te, e mi si stringeva il cuore.
Il mio aspetto era anche il tuo, era nostro, e cambiarlo significava non riconoscermi più in te, sentirmi perso.
E io non volevo perdermi.
Rientrato a casa, sono corso da te, a cercare la tua mano.
Tu mi aspettavi in camera e quando sono entrato, eri già con la mano tesa verso di me, mi avevi “sentito.”
Sorrisi, scuse silenziose, e io mi sentivo nuovamente “uno.”
Non era male avere un gemello, dopotutto, poteva sempre tornare utile.


Note
Salve a tutti miei cari lettori, sono tornata presto questa volta.
Questo capitolo, oltre a essere il più lungo scritto fino ad ora, ha anche un titolo strano, ma ha il suo piccolo perché. Semplicemente, i capitoli con i numeri, condividono lo stesso tema (se si può veramente parlare di tema), o sono collegati tra loro, in sensi di continuità.
Mi rendo conto che nelle ultime righe sembra che io deliri, ma vi assicuro che non è così.
Eh, niente...sti due non ce la fanno, non si staccano; tra l'altro, in questo capitolo, Kanon ha tutta la mia compassione.
Come sempre spero che il capitolo vi piaccia e ci sentiamo presto.
Un bacio e buona lettura.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Incubi ***


Non so perché d’improvviso tutto diventava buio.
Io ero ad Atene, in città, camminavo per le strade in religioso silenzio.
Ero da solo.
Camminavo, camminavo, ma non avevo una meta precisa.
Il vento mi sibilava nelle orecchie e avevo l’impressione di essere seguito, ma da chi, non l’ho mai saputo.
Non sono mai riuscito a scoprirlo, forse era tutto frutto della mia immaginazione.
Sentivo dei passi dietro di me, si muovevano in contemporanea ai miei e quando io mi fermavo, lui o lei, si fermava a sua volta.
Il cuore mi batteva forte, ma non potevo fermarmi, non volevo…non dovevo.
Era tremendamente vicino quando riprendevo il cammino, che potevo sentire il suo fiato sul collo; così cominciavo a correre, perché sapevo che mi avrebbe preso e che mi avrebbe fatto del male.
Correvo senza sapere dove andare o dove nascondermi, ma per quanto tentassi di fuggire, mi catturava sempre.
Tremavo dalla paura, ero paralizzato, mentre lui, o lei, mi soffocava.
Non ho mai visto il mio aggressore in faccia, perché mi strozzava da dietro e mentre lo faceva, mi urlava nelle orecchie, mi tirava i capelli, mi graffiava.
Chiudevo gli occhi, credendo di morire davvero, e quando li riaprivo Atene non vi era più.
Ero disteso su una spiaggia; le onde del mare accarezzavano il mio viso, come a volermi svegliare dolcemente.
Avevo l’impressione che mi rassicurassero, dicendomi che sarebbe andato tutto per il meglio, e io gli credevo.
Mi alzavo e attorno a me non vi era altro che un’enorme distesa di sabbia, completamente deserta.
Ero ancora solo.
Il mare era calmo, piatto, e il sole si specchiava su di esso; quando mi giravo verso la spiaggia, tutto tornava buio, non vi era neanche la luna.
Faceva freddo e il vento mi infastidiva ancora.
Temevo di dover scappare ancora, ma questa volta non vi era nessuno ad inseguirmi.
Vi ero solo io e il mare, che al calar della notte diventava agitato.
Le onde cominciavano ad alzarsi lentamente, sempre più grandi, sempre più potenti.
Era un continuo crescere, superavano persino gli scogli, superavano persino me.
Mi travolgevano e mi colpivano con violenza, ma non sentivo dolore, affatto. Mi spingevano via, metri e metri più in là sulla sabbia, senza arrecarmi alcun danno.
Quando mi alzavo, la spiaggia era scomparsa, ora era una grande montagna che avrei dovuto scalare per sopravvivere.
Mi arrampicavo, ma le onde continuavano a colpirmi incessantemente.
Cadevo e mi rialzavo, e una volta arrivato in cima, il mare mi richiamava a sé. Le onde mi ingoiavano, senza lasciarmi la possibilità di salire in superficie.
Mi sentivo in gabbia, chiuso in uno spazio stretto, senza scampo.
Annegavo lentamente, sprofondando nell’oscurità degli abissi.
Una volta morto, mi svegliavo urlando.
Grondavo di sudore e l’affanno mi impediva di respirare correttamente; avevo i brividi, la testa confusa e un forte senso di nausea.
La mia stanza era buia, tranne che per la tua parte. Avevi acceso la luce spaventato, ti stropicciavi gli occhi assonnato, ma non riuscivi a nascondere la tua preoccupazione.

<< Perché hai urlato?! >>

Chiedevi  agitato, anche se la tua voce era ancora impastata dal sonno; io non riuscivo a parlare, guardandoti terrorizzato.

<< Hai avuto un altro incubo? >>

Domandavi ancora.
Io annuivo con la testa, facendo dei respiri profondi e riprendendomi lentamente.
A quel punto, scoprivi il letto, invitandomi a raggiungerti. Non me lo facevo ripetere due volte, e anche se imbarazzato, mi intrufolavo tra le tue lenzuola, rannicchiandomi sulle ginocchia.

<< Sempre lo stesso? >>

Sussurravi al mio orecchio con dolcezza, scostandomi i ciuffi ribelli dal volto.
Ancora una volta annuivo e mi stringevo tra le tue coperte, sentendomi finalmente protetto.
Tu sorridevi, ti sporgevi verso il comodino per spegnere la luce e, infine, poggiavi la testa sul cuscino, proprio accanto a me.
Stavi sveglio finché non mi addormentavo, massaggiandomi appena la nuca, come a volermi rassicurare.
L’indomani ci svegliavamo ancora stretti l’uno all’altro.


Note
Vi ho messo paura, eh? ...No, eppure non so perché ho quasi voglia di immergermi nel genere horror ultimamente (ma non è questo il caso).
Stupidaggini a parte, come sempre volevo ringraziarvi tutti, sia chi recensisce, chi mette nelle preferite, nelle seguite, chi legge solamente e poi va via...è vero che è una raccolta senza pretese, ma fa piacere ugualmente.
Lo dico sempre, ma in vista degli esami, spero di tornare il più presto possibile, in fondo si tratta di piccole storie e non mi sembra il caso di farvi aspettare a lungo, anche perché finalmente toccherà a uno dei miei capitoli preferiti e non vedo l'ora di pubblicarlo.
Un bacio e buona lettura.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Schizofrenia ***


Era sempre così strana mia madre, sempre così assorta.
Non usciva mai, non parlava mai, raramente sorrideva, ma mai verso di me.
Mi guardava con freddezza, assottigliava gli occhi severa; provavo una certa inquietudine sapendo che i suoi occhi gelidi erano puntati su di me, come a volermi incolpare di qualcosa, eppure ero convinto di non averle mai fatto un torto.
Un giorno mi trovavo solo in casa, non vi era neanche la nonna.
Mi annoiavo e anche se solo, avevo deciso di scendere in giardino a giocare per scacciare la noia.
Calciavo il pallone contro il piccolo cancello, con le mani in tasca e un’espressione poco convinta in volto.
Stufo, sono rientrato a casa presto; non l’avevo mai vista così vuota e buia, potevo udire perfettamente il battito del mio cuore, o il mio respiro echeggiare tra le pareti.
Ero solo con i miei pensieri, e pur di non pensare a quanto facesse male trovarmi distante da te, decisi di andare a dormire.
Una volta sveglio ti avrei ritrovato, pensavo, e la solitudine sarebbe andata via.
Lungo il corridoio ho sentito qualcuno cantare, ma non era un canto felice, era triste, malinconico; in realtà, non era neanche un canto, era più un lamento composto da una sola nota che si ripeteva sempre, ininterrottamente.
Era accompagnato dagli scricchiolii del pavimento in legno, anch’essi costanti. La melodia, talvolta, veniva interrotta da risatine stridule, isteriche oserei dire.
Il cuore mi batteva forte, e senza alcuna ragione; tremavo freddo, a stento riuscivo a muovere le gambe.
Il canto proveniva dalla camera da letto dei nostri genitori: mi ero totalmente dimenticato della sua presenza, che fino a qualche minuto prima sembrava del tutto inesistente.
La porta, in legno anch’essa e ormai vecchia, si muoveva lentamente e i suoi cigolii si udivano per tutto il corridoio.
Non so perché le mie gambe cominciarono ad avvicinarsi verso la porta, seppure l’istinto mi suggerisse di andare nella mia stanza e aspettare il tuo ritorno.
Il fruscio si faceva sempre più forte, mentre sentivo che il cuore mi saliva in gola; tremava ancora, forse spostata dal vento, ma  prima che potessi raggiungere la maniglia, si chiudette con un sonoro tonfo, proprio davanti ai miei occhi.
Gridai con tutto il fiato che avevo in gola quando lei spalancò la porta con forza e si affacciò.
Il suo sguardo era fisso su di me, aveva gli occhi spalancati, i lineamenti irrigiditi. I capelli scompigliati, anche se legati in una lunga coda, il volto era pallido, malaticcio, le occhiaie erano profonde.
Con il solo ausilio dei piedi mi sono allontanato da lei, che con la testa reclinata completamente verso destra continuava a guardarmi, ma senza alcuna espressione.
La camicia da notte bianca la faceva sembrare un fantasma, più di quanto non lo sembrasse già.
Non sbatteva le palpebre, era come incantata…e mi inquietava.
Il suo sguardo era riuscito a gelarmi, non riuscivo più a muovermi, ma proprio quando ho temuto il peggio sorrise, scivolando dentro la camera da letto, barcollando sia destra che a sinistra.
Ero stato fortunato, dannatamente fortunato, probabilmente un segno del destino che però, quel giorno, avevo deciso di ignorare.
Aveva ripreso a cantare, sembrava piuttosto tranquilla, fino a quando qualcosa non cadde per terra, frantumandosi sul pavimento.
Mi riavvicinai alla porta gattonando e una volta arrivato sull’uscio, mi aggrappai alla maniglia; avevo timore ad entrare, ma allo stesso tempo ero curioso.
Mamma era seduta sul letto, ai suoi piedi vi erano i cocci di una bottiglia di whisky.

<< Shh…shh >>

Ripeteva sottovoce.

<< Va tutto bene…va tutto bene…va tutto bene >>

Continuava, mentre si dondolava avanti e indietro sul materasso.

<< Va tutto bene, amore mio? Sei cresciuto tanto, sei l’ometto di casa ormai >>

Rideva allegra mentre pronunciava quelle parole; per un attimo ho pensato che stesse parlando con me, che quel ti voglio bene, appena sussurrato, fosse per me.
Ma mi sono ricreduto quanto le sue risate, si tramutarono in un pianto isterico e disperato.

<< Come dici? No, no, no, lui non ti porterà via da me…noi staremo sempre insieme >>

Non sapevo a cosa si riferisse, con chi stesse parlando, o  cosa c’era nella sua mente, ma vederla girare la testa a destra e a sinistra in cerca di questo fantomatico interlocutore mi fece rabbrividire, così tanto da desiderare di scappare.
Avevo visto anche troppo, ma quel giorno avevo tirato fin troppo la corda e il destino non poteva più essermi favorevole.
Al minimo movimento il pavimento scricchiolò sotto i miei piedi e lei si girò di scatto, con lo stesso sguardo di prima.
Tremavo ancora, ma lei…lei mi sorrideva.
Ero così sconvolto che per un attimo tutte le mie paure mi abbandonarono.
Voleva scendere dal letto, ma i cocci l’avrebbero ferita, così mi sono lanciato prontamente ai suoi piedi, allontanandoli da lei e ferendomi al posto suo.
Si era avvicinata gattonando, con le lacrime agli occhi e un sorriso pieno di felicità.
Ero felice anche io, ero felice del suo abbraccio, ma poi…

<< Saga, amore mio, sei tornato da me >>

Io non sono Saga, sono Kanon!
Volevo urlare, ma sapevo che era meglio star zitto, non contraddirla e fingere di essere te.
E ho finto sul serio, perché ho sempre desiderato un suo abbraccio.
Uno, solo uno, in tutta la mia vita.
Le sue carezze, le sue parole dolci, che non avevano alcun senso logico, le sue attenzioni le avevo sempre desiderate senza mai riceverle.
Tu le ricevevi sempre, senza sforzo.
E quando i nostri occhi si sono incrociati, l’ho sentita irrigidirsi; quando ho visto il suo sorriso scomparire dal suo volto e corrucciarsi in una smorfia, adirarsi, la paura si era impossessata di nuovo di me, ma non importava, perché n’era valsa la pena.
Non mi importava neanche dei suoi strani tic all’occhio, o del suo cambio di voce, o della sua ferrea  stretta che mi lasciò i segni per diverse settimane sul polso.

<< Tu non sei il mio bambino! Tu non sei Saga! >>

Mi ha spinto contro lo spigolo del comodino, ma fortunatamente, l’unica ferita che ho riportato è stata alla mano, che avevo poggiato accidentalmente sopra i cocci di bottiglia.
Una volta in piedi, sono riuscito a sfuggirle raggiungendo la porta, ma avevo dimenticato una cosa fondamentale: non darle mai le spalle.
Me lo dicevi sempre, ma ero fin troppo sconvolto per ricordarmi delle tue parole.
Stavo pagando la mia curiosità e i miei sciocchi desideri proprio mentre lei, da dietro, mi stringeva il collo.
Con le unghie mi graffiava, mi tirava i capelli, mi accusava di averti portato via, di averti fatto del male.
Per lei ero un estraneo, non mi riconosceva, eppure non riuscivo ad essere arrabbiato con lei.
Non l’avrei mai colpita pur di salvarmi, dopotutto non era colpa sua.
Nel momento in cui credevo di perdere i sensi e di non farcela, sei entrato dalla porta e ti sei avventato su nostra madre, obbligandola a lasciare la presa.

<< Mamma sono qui, lascialo stare! Sono io, Saga! Mi riconosci? >>

Alla sola pronuncia del tuo nome mi ha lasciato andare; poi, ti ha abbracciato piangendo disperata, mentre tu la rassicuravi.

<< Sono qui mamma, va tutto bene >>
<< E’ stato cattivo…ma ti proteggo io…ti proteggo io…ti proteggo io >>

Continuava a ripetere quella frase ininterrottamente, senza mai smettere.
Io cercavo di riprendere aria e la sentivo parlare sempre con lo stesso tono, sempre con la stessa espressione.
Si dondolava avanti e indietro con te in braccio, mi guardava con odio e paura, mentre ti teneva stretto a sé, come a volerti proteggere.
Si allontanava da me, che ero suo figlio, ebbene sì, lo ero anche io, ma non aveva importanza, perché lei non lo sapeva.
Una volta ripreso sono corso via, chiudendomi nella mia stanza.

Note
Salve a tutti cari lettori, come andiamo? Spero bene.
Questo ricordo, oltre ad essere uno dei miei preferiti,è anche la sola ed unica ragione per cui questa raccolta ha un rating giallo.
Il nostro Kanon sembra non avere un attimo di pace, ma non è colpa di nessuno se la madre non ci sta con la testa, o no?
Secondo Wikipedia "più del 40% dei gemelli omozigoti di pazienti con schizofrenia sono anch'essi colpiti"...e chissà cosa mi avrà mai voluto suggerire questa frase.
Sempre secondo Wikipedia non è raro che i pazienti affetti da schizofrenia abusino di sostanze stupefacenti o alcolici, e mi sembra che la nostra cara mammina non faccia eccezione.
Detto questo, credo proprio che ci sentiremo dopo l'11 Settembre, se non il giorno stesso.
Come sempre vi ringrazio tutti e buona lettura.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Litigi ***


Nonostante io e te avessimo un legame stretto e particolare, capitava anche a noi di litigare come dei normali fratelli.
Noi, però, non eravamo solo fratelli, eravamo gemelli, e non solo nell’aspetto.
Ho passato molto tempo a contatto con te, durante la quale non ho fatto altro che osservarti: ho percepito in te notevoli qualità, come la lealtà, la fierezza, la benevolenza, ma anche parecchi difetti, come la testardaggine, o il tuo orgoglio spropositato; ti piaceva primeggiare in tutto, ho sempre pensato fossi un megalomane, assumevi atteggiamenti così boriosi, a volte, che mi mandavano fuori di testa.
Se io dicevo bianco, tu dovevi subito bacchettarmi e contraddirmi rispondendo nero, dandoti arie da saputello.
E io, un testardo orgoglioso con altrettanta voglia di primeggiare, andavo su tutte le furie.
I nostri screzi nascevano così, perché io volevo prevalere su di te e tu su di me, anche con la forza.
Ci picchiavamo, ci insultavamo, addirittura ricordo che non esitavamo a tirarci oggetti addosso: la nostra povera cucina ridotta ad un vero e proprio campo di battaglia, con tutte le posate sparse sul pavimento e le sedie riverse a terra.
La nostra stanza non era mai stata disordinata come in quei giorni: quanti libri ti ho scaraventato addosso con il solo intento di farti arrabbiare ancora di più, e vi riuscivo sempre.
Era impossibile fermarci, probabilmente avremmo picchiato anche lo sventurato mediatore.
La nostra guerra poteva durare anche delle ore, nessuno dei due aveva intenzione di arrendersi; dopo un po’ che ci picchiavamo, non ricordavamo neanche più il motivo della lite, ma non aveva importanza: volevamo entrambi ragione e non ci saremmo fermati finché uno di noi non avrebbe detto la fatidica frase: hai ragione tu.
Come dei normali fratelli.
Sì, è questo che ho sempre pensato fino a quando, il giorno dell’ennesima lite, qualcosa non mi fece cambiare del tutto idea.
Eravamo in cucina e litigavamo, tra schiaffi ed insulti; eravamo entrambi fuori di noi, ma il motivo del battibecco lo avevamo già dimenticato.
Io ero sopra di te e combattevamo con delle padelle in mano, come se fossero due spade. Nessuno dei due riusciva a prevalere sull’altro, così, abbandonata la prova di forza, decisi di prenderti per i capelli; non sono mai stato un tipo delicato e dall’espressione corrucciata del tuo viso, e dal rossore sulla tua cute, si poteva ben  intuire che la mia presa  era fin troppo salda.
Mi hai pregato di lasciarti andare più volte, ma non l’avrei fatto senza prima udire quelle parole dalla tua bocca; hai perso la pazienza e improvvisamente il tuo corpo venne avvolto da una strana luce dorata.
Titubante, mi sono allontanato, avvertendo una grande forza provenire da dentro di te; non sapevo cosa stesse succedendo, so solo che hai perso il controllo e che quella luce è esplosa davanti ai miei occhi travolgendomi.
Pochi secondi dopo mi sono ritrovato steso sul pavimento, a pochi metri da te. Avevo  sbattuto la testa, ma senza riportare danni; tu, invece, eri rannicchiato vicino al muro spaventato.
La cucina era completamente sottosopra: i vetri della credenza erano andati distrutti, così come tutti i piatti e i bicchieri al suo interno; le posate erano sparse ovunque, il tavolo era stato spostato di qualche metro, a gambe all’aria, mentre la maggior parte delle sedie erano andate distrutte: era ridotta molto peggio del normale.
Come te, mi sono rannicchiato anch’io nel mio angolino di muro; ci guardavamo spaventanti, ma a differenza mia tu tremavi impaurito, coprendoti la faccia dalla vergogna.
No, non vi era nulla di normale in tutto quello, ed è stato proprio in quel momento che mi sono convinto che io e te non avevamo nulla in comune con i ragazzi della nostra età.

<< Promettimi che non lo dirai a nessuno >>

La tua voce suonava così disperata nel pronunciare quelle parole, tanto da farmi intuire che non era la prima volta che ti accadeva qualcosa del genere.

<< Promettilo! >>

Sentivo che dovevo fare qualcosa, che avevi bisogno di aiuto, soprattutto quando ti ho sentito soffocare i singhiozzi.
Ho annuito semplicemente, giurando di mantenere il tuo segreto, mentre ti aiutavo ad alzarti e ti consolavo chiedendoti scusa.

<< Sei una disgrazia! >>

Nonna era appena entrata in cucina facendomi sobbalzare. Si precipitò verso di te e con forza mi allontanò dalla tua stretta, attribuendomi la colpa per quel disastro.
Con rabbia uscì dalla stanza, chiamando a pieni polmoni nostro padre.

<< Vieni! Vieni a vedere cos’ha combinato quel maledetto ragazzino! >>

Mi si gelò il sangue.
Io non avevo colpe, come avrei potuto distruggere tutto? Non avevo tempo per le domande, né per delle scuse vagamente credibili: non potevo dire la verità, non potevo tradirti.
Mi sono girato verso di te con la paura dipinta in volto: non farmi prendere da lui, è questo ciò che ti suggerivano i miei occhi, e tu, da bravo fratello, hai subito ricambiato il favore.

<< Esci dalla finestra! >>

Mi hai strattonato con forza e mi hai preso in braccio di peso, aiutandomi ad uscire.
Non so cosa sia successo quella sera, so soltanto che al mio ritorno nessuno dei miei parenti era in collera con me...e io non ti ho mai ringraziato abbastanza per avermi sottratto alle sue terribili mani.


Note
Buonasera cari lettori, o buona notte, considerando l'orario?
Ad ogni modo sono tornata con un altro ricordo pieno di amore fraterno...e se non è amore questo!
Dunque, se tra fratelli normali vige la regola che, qualsiasi cosa accada, è sempre il maggiore a pagare, tra due gemelli come si applicherà mai questa legge universale? Non lo so, fatto sta che Saga combina guai e Kanon è quello che ne paga le conseguenze. Sempre.
Io me ne volo a letto e spero che anche questa storia sia di vostro gradimento.
Un bacio e buona (notte) lettura.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** A World for Us ***


Capo Sounion si trovava a ben sessantanove Kilometri da Atene.
Eravamo ad una festa in città con i nostri genitori, quando ho sentito il bisogno di rimanere da solo e allontanarmi da voi.
Ho camminato tanto, con lo sguardo rivolto verso le mie scarpe e uno sguardo cupo, che poco si addiceva a quel clima troppo gioioso per i miei gusti.
Non pensavo ,però, di aver passeggiato così a lungo; non me n’ero reso conto fino a quando non ho visto quel maestoso promontorio dinnanzi ai miei occhi.
Era il posto ideale, perché lì non veniva mai nessuno, e l’unica mia compagnia sarebbe stata il mare, con le sue onde che si infrangevano contro la roccia.
Era un posto incantevole, eppure avvertivo una strana angoscia dentro di me, un forte dolore al petto.
Questo posto aveva un non so che di sinistro, che contribuiva al suo misterioso fascino; avevo la sensazione di averlo già visto, di esserci già stato, nonostante fosse la prima volta.
Ho sentito parecchie leggende su Capo Sounion: molti pescatori affermavano che, avvicinandosi sempre di più alle sue pendici, era possibile udire il canto delle sirene, o addirittura la voce di Poseidon.
Non ho mai creduto a queste dicerie, ma allo stesso tempo ero incuriosito; così, mi sono avvicinato ugualmente: non ho udito nulla, né un suono, né un lamento, e anche se ne ero consapevole, sono rimasto comunque deluso.
Stavo per tornare indietro, quando la mia attenzione venne catturata da una strana grotta situata proprio ai piedi del monte.
Vi erano delle sbarre e aveva tutta l’aria di essere una prigione; era chiusa, non aveva via d’uscita e l’acqua, una volta salita l’alta marea, l’avrebbe sommersa del tutto.
Mi chiedevo cosa ci facesse lì e soprattutto a cosa servisse, ma la cosa più strana, era come io mi fossi incantato alla sua vista. Ero come ipnotizzato, mentre il mio stomaco si contorceva.
Mentre guardavo fisso di fronte a me, verso quelle sbarre arrugginite e quel buio che stuzzicava la mia curiosità e fantasia, la mia gola si era seccata. Dentro di me sentivo qualcosa, una voce: non erano sirene, non era il Dio del Mare, era…una donna.
La sua voce era rassicurante, calda, dolce, quasi materna; mi sentivo cullato, nonostante fosse solo frutto dalla mia immaginazione, e sussurrandomi lievemente nelle orecchie, mi intimava a proseguire.
Avevo timore, ma lei continuava a ripetermi che non mi sarebbe accaduto nulla; senza capire come o perché, le mie gambe andarono avanti da sole, ma prima che potessi superare lo scoglio, sei arrivato tu, poggiandomi una mano sulla spalla.

<< Sono ore che ti cerco, ma dov’eri finito?! >>

Io ero in un altro mondo, tanto che non ho capito una sola parola di quello che avevi detto; mi hai scosso con forza, continuando a chiamarmi in maniera apprensiva, ma non riuscivo a sentirti.

<< Cosa stai guardando? >>

La tua domanda mi aveva risvegliato da quello strano torpore in cui ero caduto. Sorpreso, mi chiedevo come avessi fatto a trovarmi, balbettavo senza sapere cosa dire, mentre tu ti voltavi verso la grotta.
Improvvisamente ti eri irrigidito: eri terribilmente serio in faccia e per un secondo ti eri perso come me; poi, mi hai preso la mano e mi hai strattonato via da lì, con aria decisamente preoccupata.
Ci siamo allontanati di qualche metro e dopo esserti accertato di essere abbastanza distante, hai ripreso a sorridere come al solito, ignorando i miei silenziosi perché.

<< Che stavi facendo? >>

Mi hai chiesto divertito, come se nulla fosse.

<< Niente >>

La prima risposta che mi era venuta in mente. Era la verità, dopotutto, ma non sapevo come spiegarti le sensazioni che ho provato in quel momento: la familiarità con il posto, la voce di quella donna…mi avresti dato del pazzo.
Tornai a guardare la grotta, seguito dal tuo sguardo indagatore.

<< Si dice che sia una prigione per i cavalieri malvagi, o traditori della dea Athena >>

Senza che io ti chiedessi nulla, avevi risposto alle mie domande scrollando le spalle, perché ne sapevi quanto me.
La tua risposta mi aveva lasciato alquanto interdetto; era un’altra leggenda, questo suggeriva il tuo sguardo divertito, quasi a volermi prendere in giro, perché sapevi che ci avrei creduto, o quantomeno, mi avrebbe affascinato.

<< E guarda: lì, sulla cima, vedi quelle vecchie colonne? Si dice che sia il vecchio palazzo di Poseidon, prima che vivesse negli abissi >>

Con il dito mi indicavi la cima del promontorio, dove era possibile vedere delle antiche colonne, risalenti a chissà quanti secoli prima: stranamente si reggevano ancora in piedi.
Non ho mai creduto alle leggende, ma le tue parole avevano stuzzicato la mia curiosità; lo sapevi e ti eri già pentito di aver aperto bocca, soprattutto dopo aver visto il mio sguardo malizioso.

<< Non pensarci nemmeno! E’ tardi e dobbiamo tornare indietro >>

Ero già corso via prima ancora che tu finissi la frase. Come un fulmine avevo percorso tutto il sentiero che portava sulla sommità di Capo Sounion e in un secondo mi trovai davanti a quelle antiche rovine.
Non pensavo che fossero così grandi, eppure sembravano così piccole viste da laggiù; sfortunatamente, non avevo trovato nulla che potesse destare il mio interesse, o appagare la mia curiosità: tutto ciò che quelle macerie nascondevano in passato, adesso non vi era più, come se il tempo avesse cancellato ogni cosa.
Ero deluso, anche se non sapevo cosa mi aspettassi di trovare esattamente; attorno a me vi erano solo rocce, niente che potesse ricordare il Dio del Mare, o qualsiasi altra divinità.

<< E’ solo un vecchio tempio, cosa ti aspettavi di trovare? >>

Avevi il fiatone a causa della corsa, ma il tuo sguardo beffardo era sempre presente. Io scrollai le spalle in segno di risposta, per poi sedermi sull’erba.
Senza aspettare il mio invito, mi avevi raggiunto, godendoti il paesaggio attorno a noi: quella sera, il cielo era pieno di stelle e da lassù, sembravano molto più grandi e luminose.
Intorno a noi vi era silenzio, interrotto dal solo rumore delle onde, il vento ci scompigliava i capelli e l’aria profumava di salsedine.
Era da tempo che non passavamo del tempo da soli, io e te soltanto, e ciò mi rendeva felice, tanto da desiderare di non tornare più indietro alla nostra vita quotidiana. E vedendo il tuo sorriso, sapevo che stavi pensando lo stesso.

<< Guarda, la costellazione dei Gemelli >>

Indicavi nuovamente con il dito, mentre io cercavo di individuare l’oggetto del tuo interesse, senza capire dove fossero questi due gemelli.
Intuendo le mie difficoltà, iniziasti a ridere di gusto, con il solo risultato di farmi arrabbiare.

<< Si chiama così perché è composta da due grandi stelle, quasi identiche, che ricordano due gemelli: Castore e Polluce >>

Brillavano intensamente, ed erano così vicine che sembravano toccarsi l’un l’altro; d’istinto poggiai la mano sulla tua, stringendola appena, mentre tu ti tiravi su con la schiena, ancora intento ad osservare la volta celeste.

<< Te li ricordi? >>

<< Chi? >>

<< I Dioscuri >>

Sì, ricordavo qualcosa, ma in quel momento avevo solo voglia di sentirti parlare e la mia risposta fu no. Mi piaceva quando mi raccontavi delle storie, e seppur didattiche come quella, non mi sarei di certo annoiato.

<< Secondo il mito, Castore e Polluce erano figli di Zeus e Leda, ma secondo alcune versioni solo Polluce era figlio del Padre degli Déi e quindi immortale, mentre Castore sarebbe figlio di Tindaro, re di Sparta, destinato a morire. Erano degli argonauti, degli eroi, e come tutti i gemelli erano legati da un amore profondo. Si dice che quando Castore morì, a causa di una ferita riportata in battaglia, Polluce volle seguire il destino del fratello, decidendo di vivere nell’Ade pur di stargli accanto >>

Mentre ascoltavo il tuo racconto, la sensazione che avevo avvertito prima, vicino la prigione, era tornata a farsi sentire; mi sono tirato su, mentre il mio stomaco era in subbuglio, con la paura di gettar via anche l’anima e la testa che mi girava.
Stavi parlando di noi, me lo sentivo, stavi parlando di te.
Io Castore, tu Polluce.
Tu il dio, io un semplice uomo.
Neanche un mito ci rendeva pari.

<< Zeus, commosso dal loro legame, decise di farli vivere per sempre insieme, in cielo, così nacque la costellazione dei Gemelli >>

Continuavi a raccontare con il sorriso sulle labbra. Solo una volta finito, ti eri reso conto del mio malessere e della mia totale assenza.
Non rispondevo ai tuoi richiami, ai tuoi schiaffi, ai tuoi strattoni, isolandomi dal mondo circostante.

<< La smetti di fissare il vuoto, fai paura! >>

Non stavo fissando il vuoto, stavo guardando il cielo, dove proprio in quel momento una stella cadente attraversò la nostra costellazione, mentre le uniche parole che mi ronzavano in testa erano: insieme e per sempre.

<< Cos’hai desiderato? >>

Di cosa mi sorprendevo? A te non sfuggiva mai niente, non eri forse perfetto?
Vederti così curioso mi faceva sorridere, eri così simile a me da farmi quasi tenerezza.
Non potevo mentirti, sarebbe stato inutile, e anche se ero solo un ragazzino, sapevo che certe credenze non avevano alcun fondamento.

<< Te >>

La mia voce era un sussurro; mi sono avvicinato ancora di più, stringendoti entrambe le mani, lasciandoti interdetto.

<< Ci pensi mai? >>

<< A cosa? >>

<< A me…e a te, insieme >>

Sul tuo volto comparve lo stupore e forse anche l’imbarazzo, i tuoi occhi sgranati ne erano la conferma.
Mi sono alzato, trascinandoti con me sotto i raggi lunari; i nostri occhi si incrociarono, così come le nostre mani, che continuavo ad accarezzare e stringere talmente forte da non lasciarti via di fuga.

<< Un mondo tutto nostro, è questo ciò che ho chiesto. Un mondo tutto per noi, dove siamo insieme, per sempre, e non esiste nessun altro, solo noi. Tu ed io, senza papà, la mamma, la nonna, senza distinzioni, senza dolore. Un mondo dove io e te siamo uguali, perfetti allo stesso modo, dove siamo felici. Non ti piacerebbe vivere in un mondo dove l’unica cosa che conta è il nostro amore, il nostro affetto, il nostro legame? Io e te come unici sovrani di un universo creato appositamente per noi, come Castore e Polluce e la loro costellazione dei Gemelli >>

Parlavo come un fiume in piena, non ho ripreso fiato neanche per un secondo. Pronunciavo quelle parole come se fossero una disperata richiesta d’aiuto.
Tu eri rimasto in silenzio e non ne capivo il motivo.
Mi aspettavo qualsiasi tipo di reazione, ma non quella. Non era abbastanza la mia proposta? Di che altro avevi bisogno, se non di tuo fratello? Era così strano desiderare un posto, dove tutte le persone che mi avevano ferito non esistevano, dove vi eri solo tu che, invece, mi avevi sempre accettato?
Mi hai gettato le braccia al collo, lasciandomi senza parole. Mi hai stretto talmente forte da impedirmi di respirare, eri tu a volermi togliere ogni via di fuga, adesso; nell’orecchio mi hai sussurrato di non desiderare altro, e allora ho ricambiato il tuo abbraccio.
Ero abbastanza forte da non lasciar andare via le lacrime, dopotutto, sapevo che non mi avresti mai detto di no, perché tu non eri come gli altri, non eri come tutte le persone che mi circondavano.
Tu mi volevi bene, ed eri l’unica persona al mondo a volermene, anche se non lo dicevi mai.
A me bastava saperlo, perché era la mia unica ancora di salvezza.

Note
Salve miei cari lettori e buona sera.
Ebbene sì, ho finalmente donato a Kanon l'uso della parola, sperando ne faccia un buon uso.
Tutto ciò che dice Saga, oltre ad essere un racconto moooolto a grandi linee del mito di Castore e Polluce, e a farlo sembrare un insopportabile so tutto io, sono informazioni che trovate tranquillamente su Wikipedia, o in qualsiasi altro sito che tratti di mitologia greca.
Mi complimento con entrambi i gemelli per essere riusciti a fare 69 Km a piedi, io a stento riesco a farne due.
Detto questo, vi ringrazio nuovamente tutti dal più profondo del cuore e spero che anche questo racconto vi piaccia come, al momento, vi sono piaciuti i precedenti.
Un bacio e buona lettura.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Schizofrenia 2 ***


Dopo l’incidente con mia madre sono scappato via.
Mi sono chiuso nella mia stanza, con ancora la paura addosso e l’immagine dei suoi occhi che mi guardavano con odio.
Temevo che mi seguisse per finire quello che aveva appena iniziato, ma tu eri con lei e potevo ritenermi al sicuro.
Mi sono lasciato cadere ai piedi della libreria, ormai sollevato, e lì sono rimasto per un bel quarto d’ora.
Ero rannicchiato su me stesso, con le ginocchia in gola, mentre guardavo un punto indefinito del pavimento. La gola mi faceva male, aveva stretto così forte che temevo di dover convivere per sempre con quel dolore.
Subito dopo sono scoppiato a piangere, senza che potessi impedirlo. Asciugavo le lacrime e sopprimevo i singhiozzi, ma non riuscivo più a trattenermi.
Me lo sono meritato, pensavo, mentre affondavo il viso tra le braccia e mi lasciavo andare ad un pianto liberatorio.
Mai come in quel momento ho desiderato sprofondare, o sparire dalla faccia della Terra; non sarebbe stata un’idea così cattiva, nessuno mi amava all’interno della nostra famiglia e se io me ne fossi andato, forse, li avrei resi felici.
Avrei sentito la tua mancanza, ma sapevo che saresti andato avanti comunque. Non avevi bisogno di me, avevi già tutto: l’amore di una madre, di un padre, di una nonna; in più, eri il figlio perfetto, ubbidiente, rispettoso…desiderato.
Non erano in programma due gemelli, l’ho sentito con le mie orecchie, ma non ti ho mai detto quanto mi avesse ferito udire quelle parole.
Ho fatto finta di nulla, cercando di rimuovere quelle parole cariche di disprezzo, ma più i giorni passavano, più mi era chiaro il perché io non ricevessi mai una carezza, un bacio, o parole di elogio.
Solo sguardi freddi, mai un complimento, mai un gesto carino. Solo indifferenza per un bambino non voluto e oscurato dalla luce del proprio gemello.
Quel giorno, sei entrato in camera come una furia; hai sbattuto la porta con rabbia, mentre io mi giravo dalla parte opposta, per evitare che tu vedessi i miei occhi gonfi.
Eri l’ultima persona che volevo vedere in quel momento, anche se in realtà, non volevo vedere proprio nessuno. Volevo rimanere solo con il mio dolore, che nessuno avrebbe mai compreso, persino tu.

<< Quante volte ti ho detto che non ti devi avvicinare a lei?! Quante volte te l’ho detto?! Solo io posso avvicinarmi, non lo capisci? >>

Hai cominciato ad urlare, accusandomi di aver disubbidito sia a te che ai nostri familiari. Non ti sei avvicinato a me come mi aspettavo, non mi hai preso sottobraccio nel tentativo di consolarmi e questo mi aveva ferito.
Io capivo, capivo eccome, ma tu?
Ti sei mai chiesto come mi sono sentito in quel momento? No.
Mia madre sarebbe dovuta essere la persona che più mi amava al mondo, la persona su cui avrei potuto sempre contare e che mi avrebbe sempre protetto, e invece ha tentato di uccidermi.
Non era colpa sua, ma ero comunque terrorizzato e non riuscivo a crederci: mi tremavano ancora le gambe a pensarci.
Credevi davvero che la tua ramanzina da fratello maggiore preoccupato ed apprensivo, in quel momento, mi servisse?
Continuavi a rimproverarmi facendomi sentire uno stupido, mentre io rimanevo in silenzio, lasciando che le tue parole mi scivolassero addosso.
 Avevo solo bisogno di conforto, di un abbraccio magari, ma eri troppo preso dal tuo ruolo di figlio perfetto per domandarmi cosa mi stesse passando per la testa, il tuo status di fratello maggiore era fin troppo offeso per accorgersene.

Come stai?”

Sarebbe stato sufficiente.
Avrei apprezzato molto di più il tuo silenzio; volevo che ti sedessi accanto a me senza parlare, e magari ti avrei anche mostrato le mie lacrime.
Proprio per questo continuavi a strattonarmi nel tentativo di farmi reagire, non amavi parlare con una massa di capelli senza espressione, testardo com’eri, il mio silenzio non ti era sufficiente come risposta, così mi hai afferrato il braccio, mi hai tirato con forza e i nostri sguardi si incrociarono.
Nel vedere i miei occhi, ormai lucidi e gonfi, ti sei ammutolito e solo in quel momento, probabilmente, hai capito di aver sbagliato.
Hai abbassato lo sguardo mortificato, mordendoti le labbra; io ero ancora accovacciato a terra, ma non avevo alcuna voglia di scusarti.

<< Mostrami la mano >>

Hai detto infine, con tono un po’ più rilassato.
Non capendo il motivo della tua richiesta, osservai le mie mani e solo in quel momento mi ricordai di essere caduto sopra i cocci di una bottiglia di whisky. La mia mano continuava a sanguinare, mi ero persino sporcato il viso con il mio stesso sangue, ma che importanza poteva avere?
Ho cercato di nasconderla, mostrando indifferenza, ma non me ne hai dato il tempo. Mi hai afferrato la mano, cercando di capire quanto fossero gravi o profondi i tagli, io però ero fin troppo arrabbiato per lasciarti avvicinare. Cercavo di allontanarti con forza, fin quando non ho perso la pazienza e ti ho spinto via.
Sei caduto e hai sbattuto la testa sui piedi del letto; ti sei messo a sedere sul pavimento, portando entrambe le mani sul capo, mentre ti agitavi dolorante.
Come ti ha fatto sentire il mio rifiuto? Non bene, ne sono certo. Avrei voluto chiederti come ci si sentiva ad essere come me, ma sono rimasto in silenzio.
Ero arrabbiato, ma non volevo farti del male; subito dopo, infatti, mi sono sentito in colpa e mi sono avvicinato.
Mi guardavi furioso e in un primo momento, non mi hai neanche permesso di toccarti; poi, sbollita la rabbia da entrambe le parti, ci siamo riavvicinati in silenzio.
Prima che potessi anche solo dire qualcosa, sei uscito dalla stanza senza dire nulla, pensavo non volessi parlarmi, motivo per cui non ti ho fermato. Sei rientrato due minuti dopo, con in mano un paio di bende .
Mi hai disinfettato le ferite e fasciato la mano come meglio potevi, senza mai guardarmi negli occhi e questo mi feriva ancor di più.

<< Smettila di piangere, non è colpa tua >>

La tua voce era fredda e avevo l’impressione che volessi andartene al più presto via da me, così ti accontentati: senza permetterti di finire la medicazione, mi alzai da terra, allontanandomi in modo brusco.
Non avevo voglia di litigare con te, non ne avevo bisogno, ma, probabilmente, non capivi nemmeno questo.

<< Fermo! >>

La tua voce mi fece sobbalzare, ma non perché non mi aspettassi il tuo richiamo, anzi. Fu il tono a farmi storcere il naso: era così rauco e profondo, nulla a che vedere con la tua voce ancora infantile.
Sembrava quella di un adulto, ma quando mi girai vi eri solo tu, ancora inginocchiato per terra.
Di sicuro, ero ancora sotto shock e la mia mente cominciava a farmi brutti scherzi, ma sapevo di non essermi sbagliato.
Ad un certo punto, mentre mi davi ancora le spalle, hai cominciato ad ansimare, portandoti entrambe le mani sulle orecchie. Scuotevi la testa a destra e a sinistra disperato, come se fossi in preda ad un forte dolore.
Qualcosa non andava, così mi avvicinai preoccupato.

<< Kanon.. >>

La tua voce era tornata quella di sempre, ma così flebile, che facevo fatica a sentirla. Ho cercato di toccarti la spalla e avvicinarmi, ma mi hai respinto, cercando persino di allontanarti.

<< Vattene, ti prego >>

La tua richiesta suonava come una disperata preghiera, ma nonostante tutto non mi sono mosso. Come potevo lasciarti in quelle condizioni, senza neanche sapere cosa ti stesse succedendo?
Non potevo.
Mi sono avvicinato di nuovo e ti ho obbligato a guardarmi negli occhi; sudavi freddo e il tuo respiro diventava sempre più irregolare; mi hai testo la mano spaventato e io l’ho stretta prontamente, poi il tuo occhio sinistro ha cominciato a tremare in preda ad un tic nervoso e mi si gelò il sangue.
Erano gli stessi tic di nostra madre, li avevo ancora impressi nella mente, ed istintivamente ritirai la mano, lasciandomi vincere dalla paura.

<< Non abbandonarmi >>

Mi pregavi tra le lacrime; io non sapevo cosa fare, terrorizzato com’ero.
Ho provato ad allontanarmi da te, ma fu soltanto un altro grave errore.

<< Ti ho detto di fermarti! >>

La voce dura e rauca che avevo sentito era la tua; eri tu che parlavi con quel tono minaccioso e mi guardavi in altrettanto modo.
Da quel momento la tua voce si alternava: da buona, dolce e leggera, passava ad un tono forte, deciso e maligno. Persino i tuoi pensieri si alternavano, prima mi chiedevi disperatamente di scappare, poi mi minacciavi di non muovere un passo.
Tu eri come lei, ma non era possibile, non volevo crederci. Tu eri l’unica persona al mondo a volermi bene, non potevi essere come tutti gli altri.
Terrorizzato, mi allontanavo da te, balbettando e inciampando sui miei stessi giocattoli. Ho cercato di scappar via, ma ancor prima che potessi aprire la porta, mi hai strattonato via, buttandomi per terra.
I tuoi tic aumentavano e i tuoi occhi stavano assumendo una strana sfumatura rossa; ti sei messo cavalcioni su di me, bloccandomi il respiro con entrambe le mani.
In quel momento, cominciai a piangere, ma tu non avevi che uno sguardo assassino dipinto in volto, fin troppo crudele per provare compassione per il tuo stesso gemello.

<< Non puoi abbandonarmi, ti avevo avvertito >>

Sibilavi tra i denti, stringendo ancor di più; poi, non so perché, hai allentato la presa, scuotendo la testa sia da una parte che dall'altra.

<< Lascialo andare, lui non ti ha fatto nulla! >>

Stavi lottando contro te stesso: ogni volta che scuotevi il capo cambiavi personalità, così decisi di approfittarne e non appena la tua parte buona riemerse, ti ho spinto via, facendoti sbattere la testa nuovamente.
Sarei dovuto scappare, ma non potevo lasciarti in quello stato e pur di farti tornare normale, avrei fatto qualsiasi cosa, ti avrei persino picchiato.
Fortunatamente, dopo il colpo in testa, la tua parte malvagia sembrava essersi sopita; respiravi normalmente, i tuoi occhi avevano ripreso il loro colore naturale…eri solo un po’ spaesato.
Ti guardavi attorno massaggiandoti la testa, poi ti sei girato perplesso verso di me.
<< Perché mi hai spinto? Voglio solo aiutarti, ma che ti succede? >>
La tua domanda mi lasciò di stucco.
Apparentemente, sembrava non ricordassi nulla di quanto appena accaduto e questo mi lasciò basito.
Non sapevo cosa dire, se era giusto dirti che avevi appena tentato di uccidermi anche tu.
Sono rimasto in silenzio a guardarti, mentre ti riprendevi lentamente dalla botta; ancora non riuscivo a credere che anche tu potessi fare una cosa del genere.
Ripensandoci, però, tu eri come lei e questo, forse, ti rendeva non colpevole. Qualunque fosse la verità, e qualunque cosa ti fosse successo, io sarei rimasto ugualmente al tuo fianco.
Al solo pensiero di rivederti soffrire, ho ricominciato a piangere e senza alcuna vergogna.

<< Non piangere, non è colpa tua >>

Lo avevi già detto, ma questa volta con un sorriso fiducioso.
Ti ho abbracciato, gettandoti letteralmente le braccia al collo, lasciandoti senza parole.

<< Andrà tutto bene >>

Ti ho sussurrato nell'orecchio.
I ruoli si erano invertiti ed era buffo a pensarci: tra noi due quello emarginato, solo e disprezzato ero io; ero io quello che aveva bisogno di essere costantemente difeso e protetto, ma mi sbagliavo: tu avevi molto più bisogno di aiuto di quanto ne avessi io.


Note
Finalmente sono tornata miei cari lettori.
Scusate il leggero ritardo, ma tra il capitolo che non mi convinceva fino in fondo e il computer che a i capricci, non sono riuscita a postare prima. Inatti, mi scuso già da ora se il capitolo presenterà qualche errore, ma è stato scritto e trasportato in ben tre computer diversi e ho dovuto fare piuttosto in fretta.
Come già detto in precedenza, i capitoli con il numero stanno ad indicare la ripresa di un tema, o un vero e proprio seguito di un capitolo precedente, come in questo caso.
Prima di scrivere questa raccolta ho cercato varie informazioni e, tra le miei ricerche, i sintomi che presenta Saga non sono gli stessi della schizofreniza, come penso si evinca anche da questo capitolo. All'inizio ero indecisa tra il disturbo bipolare e il disturbo dissociativo della personalità; quest'ultimo è ciò che più rappresenta la malattia di Saga, come mi è anche stato suggerito da AryAry, che gentilmente recensisce.
Tra l'altro, mi serei potuta evitare ricerche su ricerche, perché mi bastava andare sulla pagina Wikipedia del nostro caro gemello, dove vi è scritto persino in prima pagina che soffre di disturbo dissociativo della personalità, ma non importa: imparare cose nuove, non è cosa brutta.
So che il titolo può essere fuorviante, ma non sta ad indicare la sua malattia.
Dopo queste, sempre più lunghe, note, spero di non essermi dimenticata nulla e che, come sempre, il capitolo vi piaccia.
Un bacio a tutti.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Funerale ***


Il giorno in cui nonna è morta, è stato decisamente il più traumatico della mia vita.
Non amavo quella donna e il giorno del suo funerale mi ha anche fatto capire che non mi sarebbe mancata affatto.
I miei parenti piangevano, persino mio padre, che mai al mondo si sarebbe mostrato così fragile, aveva abbandonato la sua immagine dura e severa, mostrando il suo dolore.
Casa mia non era mai stata così affollata come in quel momento; era grande la mia famiglia e non me lo sarei mai aspettato, la maggior parte di quelle persone non le conoscevo nemmeno.
Parlavano tra di loro, elogiavano quella vecchia, descrivendola come una donna buona, comprensiva ed amorevole. Avrei tanto voluto rispondere e dire loro quante volte mi ha colpito con il suo bastone, quante volte mi ha tirato per i capelli, o per le orecchie, senza una valida ragione. Inciampava sui miei giocattoli e mi urlava contro…questo era divertente, per me, ma stranamente non avevo alcuna voglia di ridere.
Ero seduto sulla scala e guardavo il salone sottostante, dove sempre più persone, più o meno conosciute, entravano per omaggiarci delle loro condoglianze.
Nessuno di loro si è avvicinato a me, nessuno di loro mi ha rivolto la parola o un semplice sorriso; non mi serviva, perché io non ero addolorato, ma avevo come l’impressione di essere invisibile.
Tu, invece, che eri rannicchiato su una delle poltrone, piangevi a dirotto; il tuo viso era rosso come il cuscino che stringevi e nulla sembrava calmarti.
Mi chiedevo perché mai una tale reazione da parte tua; poi, riflettendoci, tu e nonna eravate molto legati: lei ti prendeva in braccio, ti cullava, ti spingeva sull’altalena, ti preparava biscotti in abbondanza ed evitava accuratamente di farli mangiare a me.
Voi due eravate felici; quando tu eri nei paraggi, la nonna era molto più amorevole, e finalmente riuscivo ad identificarla con la descrizione data dai nostri parenti.
In quel momento mi scappò una lacrima, e non perché provassi nostalgia per quella megera, ma perché avrei voluto che quei momenti felici fossero stati anche i miei.
Piangevi dalla sera precedente e da allora non mi sono mai avvicinato a te; volevo aiutarti, ma non sapevo neanche cosa dire: io ero del tutto lucido ed indifferente e non capivo affatto le tue reazioni, non potevo certo consolarti.
Mi sono sentito fuori posto. Le mie reazioni erano sbagliate, forse.
Era morta mia nonna e per me era un giorno come un altro: qualcosa non andava in me, pensai.
Mi sono sentito cattivo, come mi hanno sempre dipinto; mi sforzavo di essere triste, dispiaciuto, ma non riuscivo a provare nulla di tutto ciò.
Lei non mi mancava e non mi sarebbe mai mancata, era inutile nasconderlo.
A differenza mia, tu avresti sofferto per un po’ e questo mi dispiaceva, oltre ad infastidirmi. Non riuscivo a vederti così, probabilmente, eri l’unico motivo per stare male quel giorno.
Ogni tua lacrima era come un pugno allo stomaco per me.
I parenti ti avvicinavano, ti sussurravano parole affettuose e ti abbracciavano; cercavano di farti sorridere, ma invano, poi, una volta finite quelle stupide cerimonie di circostanza, ti lasciavano nuovamente da solo.
Io osservavo la scena dall’alto e dubitavo fortemente che a molti di loro stava davvero a cuore sapere delle tue condizioni; sapevo benissimo che si avvicinavano solo per forma, eppure tu sembravi gradire ugualmente.
Per quanto mi riguarda, questi semi-sconosciuti, mi rivolgevano solo uno sguardo di sufficienza; alcuni sorridevano malinconicamente, fingendo di essere dispiaciuti per me, altri mi salutavano con un gesto del capo, per poi scomparire per sempre dalle mia vita.
Li ho fulminati tutti con lo sguardo, perché anche se non ne avevo bisogno, o non mi interessava, non riuscivo a capire perché mai io non meritassi le stesse tue attenzioni.
Solo uno strano tipo mostrò un vero interesse per noi due.
Era entrato in casa in punta di piedi, con indosso un impermeabile nero completamente zuppo. Il suo volto era coperto e nessuno sembrava conoscerlo, nonostante questo si era presentato come un nostro lontano parente proveniente dall’estero.
Non me lo ricordavo, ma in verità io non ricordavo nessun membro della mia famiglia.
Entrò e passò del tutto inosservato ai miei occhi, fino a quando non hai smesso di piangere e ti sei drizzato sulla schiena al solo vederlo.
Avevo l’impressione che vi conosceste, tu hai sempre avuto più memoria di me, dopotutto; io non riuscivo proprio ad inquadrare quell’uomo, fin troppo strano per i miei gusti.
Ero troppo lontano per riuscire a sentire qualcosa, ma ero più che sicuro che non nessuno di voi due avesse aperto bocca. L’uomo si limitò soltanto a poggiarti la mano sul capo e andare via.
A differenza degli altri, non si voltò verso di me, ma si avviò verso l’altra stanza ignorandomi totalmente.
Lo insultai mentalmente, per poi decidermi a scendere da te, ma prima che potessi alzarmi, me lo trovai davanti.
Strano che non mi fossi accorto di nulla, eppure ero sicuro di non averlo visto salire.
Lui si inginocchiò, e anche se il suo volto era coperto sia dal cappello, che da una pesantissima sciarpa, i suoi occhi erano ben visibili, e non erano solo tristi, ma anche sinceri.
Erano di un azzurro molto chiaro, tanto che riuscivo a vedere il mio riflesso in essi; improvvisamente mi prese una fitta allo stomaco, che divenne sempre più forte quando poggiò la mano sulla mia testa.
In quel momento provai la tua stessa sensazione: io e quest’uomo c’eravamo già visti da qualche parte, ma non riuscivo a capire dove.
So solo che la sua presenza, per un attimo, mi aveva riempito il cuore…di gioia? Speranza? Sì, forse quest’ultima.
Era bello sapere, o anche solo illudersi, che al mondo vi era qualcuno a cui importava anche di me.
Ho ricambiato il suo gesto con un sorriso felice, come mai ne avevo fatti nella mia vita, pur sapendo che in quel giorno non vi era nulla per cui ridere; lui ricambiò appena, i suoi occhi erano sempre colmi di tristezza e se solo fossi stato più attento, mi sarei anche accorto che erano appena lucidi.

<< A presto >>

Sussurrò addolorato quelle parole, per poi alzarsi e scendere le scale.
Prima di andarsene si voltò ancora una volta verso di noi, mostrando compassione, ed infine uscì.
Ti sei alzato e sei corso alla finestra nella speranza di intravederlo, ma era già scomparso nel nulla. Eri ormai tranquillo, le tue lacrime si erano asciugate, ma il dolore per la perdita di nonna era ancora percettibile.
Sei salito in camera senza neanche degnarmi di uno sguardo; a quel punto ti ho seguito, nonostante sapessi che non volevi vedere nessuno, neanche tuo fratello.
Mi sono fermato quando ti ho sentito chiamare da lei; ho sceso i primi tre gradini e mi sono nascosto, tremante alla sola idea di farmi vedere da mia madre.
La sua voce era interrotta da singhiozzi, difatti faceva fatica a chiamarti; stava piangendo e me ne stupì, non credevo che potesse capire cosa fosse successo, ma forse l’unica cosa che mi aveva veramente stupito era  il fatto di vederla lucida.
Tu, però , non eri riuscito a sentirla e le hai sbattuto la porta in faccia.
In quel momento credo che il suo piccolo mondo, di cui tu eri il centro, si fosse appena rotto e l’imminente ritorno di frasi sconnesse e pianto isterico ne erano la prova.
Si sono susseguite le urla e le botte violente alla nostra porta, e non solo.
Terrorizzato, sono sceso ancora di più, mentre lei continuava ad urlare tirando oggetti.
Nostro padre si avvicinò, i parenti erano ormai andati via; il suo volto era tornato quello severo di un tempo, mi prese per l’orecchio e mi trascinò verso la nostra stanza.
Mi ci ha buttato dentro letteralmente, mentre intimava ad entrambi di non uscire per nessuna ragione.
Io mi massaggiavo l’orecchio, gonfio e rosso come sempre quando passavo sotto le sue mani; tu eri seduto sul mio letto, poggiato sul davanzale delle finestra, intento a guardare la pioggia che batteva sul vetro.
Mi sono avvicinato e con amarezza notai che stavi di nuovo piangendo.

<< Che cosa succede? >>

Cercavi di mostrarti forte, asciugandoti le lacrime, in modo tale che non le vedessi.

<< Ecco…tu le h-hai chiuso la porta in faccia e ha cominciato ad urlare >>

<< Capisco >>

La mia notizia ti aveva amareggiato ancora di più.

<< Non intervieni? >>

Chiesi curioso, sapendo che eri il solo in grado di calmarla; il tuo sguardo divenne ancora più cupo, mentre ti poggiavi nuovamente sul davanzale.

<< E’ meglio di no, per ora >>

Decisi di non chiederti altro; mi appoggiai anch’io sul davanzale, cercando di stringermi il più vicino possibile  a te.
Entrambi guardavamo la pioggia cadere, apparentemente senza aver il coraggio di aprir bocca, mentre dal corridoio si udivano urla straziate e oggetti che andavano in frantumi.

“E’ andato via…mi ha abbandonato…la nonna voleva solo parlare”

Non faceva altro che ripetere questa frase, e tutto ciò mi inquietava, soprattutto l’ultima parte; dal giorno dell’incidente, ho sempre avuto paura delle sue crisi e, con tutto il cuore, speravo che mio padre riuscisse a trattenerla: il solo pensiero di potermela trovare alle spalle mi terrorizzava.

“La nonna ti vuole parlare, la nonna ti vuole con te”

Più le urla aumentavano, più ti stringevi nelle spalle, fino a coprirti le orecchie con le mani. Per un attimo ho temuto una tua crisi, invece eri solo stanco di sentirla soffrire così stanco.
Ti sei gettato su di me disperato; non ti avevo mai visto così e non credevo che, prima o poi, sarebbe successo.

<< Falla smettere, ti prego! >>

Come avrei potuto fare? Non potevo avvicinarla.

<< Lei l’avrebbe calmata, perché è andata via? Perché mi ha lasciato da solo? >>

Solo. E io cos’ero per te? Non ero forse più importante?
Ti avrei preso a schiaffi. Ti avrei picchiato fino a farti sanguinare, ma non avevo il coraggio di avventarmi su di te in quelle condizioni.
Ho scoperchiato il letto e ti ho invitato a riposare; avevi inumidito il cuscino in brevissimo tempo, mentre ti appallottolavi su te stesso, ripetendo il nome della nonna.
Le volevi bene davvero e io mi sentivo sempre più sbagliato.

<< Lei non amava vederti piangere >>

Parole a vuoto. Non mi stavi minimamente ascoltando.
Decisi di lasciarti in pace, più tardi, probabilmente, ti saresti calmato e avresti avuto voglia di giocare.
Non riuscire a consolarti mi metteva a disagio, non potevo capire cosa stessi provando e, ad essere onesti, non volevo neanche provarci.
Improvvisamente, qualcosa di pesante cadde a terra e si frantumò, una porta venne sbattuta violentemente e io, che di poco avevo aperto la porta per riuscire a capire cosa stesse succedendo, vidi la figura di mio padre scendere al piano inferiore.
Prima di aprire la porta, mi sincerai che lei fosse chiusa in camera sua, e solo dopo uscì nel corridoio.

<< Papà ha detto di rimanere qui! >>

Gridasti con voce soffocata, ma io ero già sulla tromba delle scale per capire con chi stava parlando nostro padre al telefono.

<< E’ impossibile calmarla! Venite a prendere lei e il figlio, chiudeteli entrambi in manicomio, io non posso andare avanti così! >>

Papà aveva una mano insanguinata, aveva aggredito pure lui e per questo voleva rinchiuderla, ma non solo lei.
Il figlio di cui parlava non potevi che essere tu; girandomi verso sinistra, mi accorsi di non essere solo: mi avevi raggiunto e dal modo in cui balbettavi e scuotevi la testa, capì subito che non ti sfuggì neanche una parola di quella telefonata.

<< No. No, io non c’entro niente…perché mi vuole mandare via? >>

Era la prima volta che ti vedevo così spaventato, tanto da farmi pena; mi hai preso entrambe le mani e tra un singhiozzo e un tic nervoso, che non prometteva nulla di buono, mi trascinavi via verso di te.

<< Kanon, ti prego…non permettergli di mandarmi via, io non ho nulla, sono sano. Ho visto cosa fanno in quel posto, ho visto cosa facevano a mamma. Aiutami, io non sono come lei! >>

Eri quasi riuscito a convincermi, fino a quando i tuoi occhi non cambiarono colore e diventarono rossi. Prima che impazzissi del tutto, presi il tuo viso tra le mani, promettendoti che non ti sarebbe accaduto niente e che nessuno ti avrebbe portato via da me.
I tuoi occhi tornarono normali, facevi continuamente sì con la testa, e per quanto mi preoccupasse la cosa, era comunque meglio che avere a che fare con la tua controparte malvagia.
Al richiamo di nostro padre, però, sei corso via traumatizzato; l’uomo mi strattonò via con forza e si avventò su di te; ti afferrò per le spalle e caricandoti sulle sue, ti chiuse in camera, evitandoti via di fuga.
Pensavo che volesse picchiarmi come al solito, così tentai di scappare anche io, purtroppo dalla parte opposta.
Entrai in camera da letto, ma non me n’ero reso conto fino a quando non sentii mia madre cantare alle mie spalle. Cantava una ninna nanna, la stessa che ti cantava per farti addormentare.
Mi girai in lacrime verso di lei e la vidi stringere un bambolotto di pezza ormai logoro; lo guardai a lungo e riconobbi in lui il nostro primo giocattolo, o meglio, il tuo.
La nonna te lo avevo regalato quando avevi due anni, amavi giocarci, fino a quando non sei cresciuto abbastanza e hai perso ogni interesse.
Qualcuno gli aveva messo il tuo vecchio pigiama, e dal modo in cui lei vi discorreva, potevo anche immaginare chi.
La stanza era un disastro: il rumore che avevamo sentito altri non era che l’enorme specchio, che era poggiato sopra la scrivania, i suoi cocci erano ovunque, come le nostre vecchie fotografie di famiglia.
Le aveva rovinate tutte, soprattutto le tue, che presentavano vari buchi, quasi a volerti cancellare.
Solo dopo mi accorsi che mi madre aveva un grosso pezzo di vetro tra le mani, con il quale, non solo infilzava il tuo pupazzo, ma si era anche recisa i polsi.
Finita la canzone gettò tutto a terra.

<< La nonna ti vuole parlare, la nonna ti vuole bene >>

Diede un altro colpo, staccandogli la testa.

<< Ora siete insieme, ma non temere, non ti lascio solo. Non ti lascerò mai più solo, staremo sempre insieme >>

Si tagliò la gola davanti ai miei occhi.
Non mi ero neanche accorto che mio padre tentò di fermarla, avevo impresso solo il suo sangue.
Sono fuggito via prima che lui mi prendesse; intorno a me non vedevo altro che sangue e lei che moriva davanti ai miei occhi.
Ho sceso le scale in fretta, ho aperto la porta di casa e sono corso via per strada. L’ultima cosa che ricordo di aver sentito, è stato un enorme boato provenire dal piano superiore.
Correvo per le vie di Atene senza alcuna meta, con le lacrime che ormai si erano fuse perfettamente con la forte pioggia.
Le immagini erano così forti, che la vista mi si annebbiò e mi sentivo svenire; mi sono fermato in mezzo ad una piazza, di fronte ad un’enorme fontana. Le allucinazioni continuavano, l’acqua mi sembrava sangue, persino la pioggia. Credevo di impazzire.
Mi sono lasciato cadere esausto, incapace di andare avanti, e lì ho visto la figura di un uomo.
Era di spalle, di fronte a me, le braccia erano incrociate dietro la schiena, come se fosse in attesa di qualcuno; non aveva ombrello, era vestito semplicemente di una tunica bianca e un cappello nero in testa.
Lo riconobbi subito: era lo stesso uomo che era venuto a farmi visita. Credevo di sognare, forse non era nemmeno reale, dato le mie condizioni, ma non appena si voltò a guardarmi, il malore scomparve e tutto il sangue, che credevo di vedere un secondo prima, scomparve nel nulla.
Ci fissammo a lungo, sotto un incessante temporale, senza dire nulla; si tolse il cappello, lasciando cadere i capelli di un biondo quasi sbiadito lungo la schiena.
Non credevo fosse così anziano: la prima volta che lo vidi, il suo volto era talmente coperto da impedirmi di vedere quelle profonde rughe che contornavano i suoi occhi. E che strane sopracciglia che aveva.
Si inginocchiò, allungò una mano sul mio viso e mi asciugò le lacrime; la sua carezza era dolce e il pianto che la susseguì era sincero: quell’uomo piangeva per me, dimostrando di tenere a me e al mio dolore.
Ero scosso, traumatizzato, ma al contempo felice; strinsi la sua mano con forza, come a volerlo trattenere, magari per sempre. Mi lasciavo accarezzare, sentendomi benvoluto per la prima volta in vita mia e da chi poi? Da uno sconosciuto; eppure non era il termine adatto per descriverlo: in cuor mio sapevo di averlo già visto, sentivo di conoscerlo, addirittura da secoli.
La mia felicità svanì presto, non appena mi resi conto di averti lasciato solo, di essere fuggito senza portarti con me.
Dovevo tornare indietro, ma l’uomo me lo impedì.
Subito dopo qualcuno gridò il mio nome: eri tu, eri riuscito a scappare, ma ti costò un enorme sforzo, infatti, sei caduto a pochi centimetri da me privo di forze.
Il boato che avevo sentito era opera tua.
Purtroppo, papà ti aveva seguito, ti urlava di fermarti e seguirlo; per la prima volta lo vidi tirarti per i capelli e colpirti con violenza.

<< Sei un demonio! >>

Così ti aveva chiamato.
Non potevo crederci: lui ti amava, lo aveva sempre fatto, o almeno, era quello che avevo sempre pensato.
Ti sei sentito tradito, potevo leggerlo dai tuoi occhi; io, invece, preso dalla rabbia, volevo solo sottrarti dalle sue violente mani, che troppe volte avevo provato sulla mia pelle.
L’anziano me lo impedì nuovamente; mi strinse la mano e con sguardo severo e con il solo ausilio di una mano, creò un’onda di forza ben bilanciata per colpire solo nostro padre e lasciarti illeso.
La sua forza mi diede i brividi. La luce dorata che emanava era la stessa della tua, io potevo toccarla con mano e percepirne la grandezza: non era un semplice vecchietto, ne avevo avuto la conferma.
Una volta tramortito papà, ti sei alzato e l’hai fissato a lungo; avevi lo stesso sguardo di prima, come me sentivi di conoscere l’uomo che avevi di fronte, qualcosa ti legava a lui. Fin troppo.

<< Shion… >>

Sussurrasti il suo nome, lasciando entrambi basiti, infine ti sei gettato tra le sue braccia, disperato e provato.

<< Perché ci hai messo tanto? >>

Singhiozzavi, mentre io percepivo il tuo dolore e piangevo con te.
Non ti ho mai chiesto il perché di quella domanda, se davvero eri a conoscenza del suo arrivo, o qualcosa dentro di te ti aveva suggerito qualcosa.
L’uomo ricambiò il tuo abbraccio, anche se un po’ interdetto. Sorrise appena, consolandoti come avrebbe dovuto fare un vero padre.
C’era un legame profondo che vi univa, ne ero sicuro, tanto da sentirmi di troppo ancora una volta.
Lui mi tirò a sé, stringendo anche me in quel tenero abbraccio, che non si sciolse fin quando le nostre lacrime non si esaurirono. Ero stato accettato, proprio come te.
Il giorno in cui nonna è morta, il giorno del suo funerale, non lo scorderò mai: quel giorno aveva messo fine a tutto, persino al mio dolore. Il mondo ostile in cui ero nato era finalmente giunto al termine, non vi era più nessuno che poteva farci del male.
Eravamo solo io e te, insieme, per sempre. 


Note
Bentrovati miei cari lettori, buon inizio di Ottobre.
Sono tornata con un altro dei miei capitoli preferiti, sì, lo so: sto torturando Kanon, me ne rendo conto...ma adesso è felice, o no?
Preferito che ottiene il primato di capitolo più lungo e un pizzico della mia antipatia.
E con l'arrivo di Shion, si cambia scenario. Era ora.
I colori del Grande Sacerdote sono quelli del manga, e anche se non lo dico, anche quelli dei gemelli...a Kurumada piacciono i biondi.
In attesa di scoprire quanto durerà questo "per sempre", io vi auguro una buona lettura e una buona notte.
Un bacio e a presto.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Santuario ***


Dopo quel maledetto giorno, Shion ci prese sotto la sua custodia, allontanandoci per sempre da quel mondo che, fino a quel momento, era sempre stato ostile.
Ho sempre avuto dei sospetti su quell’uomo, ho sempre creduto che fosse più di un semplice anziano. Qualcuno, di gran lunga superiore a lui, lo aveva mandato appositamente per salvarci dal nostro triste destino.
Dentro di me sentivo di potermi fidare di lui, sentivo di conoscerlo da sempre e sapevo che qualcosa ci legava inesorabilmente, ma se si trattava del destino, o di qualcosa di più, non ero in grado di dirlo.
Ero certo, o forse ho solo cercato di darmi una spiegazione, che tutto ciò che era accaduto, non poteva essere casuale. In più, non dimenticherò mai il modo in cui ha tramortito nostro padre e l’immensa luce dorata che emanava, perché era identica alla tua.
Doveva pur significare qualcosa.
Col tempo capì che quella luce si chiamava “Cosmo” ed è da lì che la tua energia proveniva, così come la sua…e la mia.
Sì, vi riuscivo anche io, solo che non ho mai avuto occasione di manifestarlo; ad ogni modo, per la prima volta in vita mia, mi sono sentito veramente speciale, proprio come te.
L’anziano ci catapultò in un mondo parallelo, magico, un mondo che esisteva solo nei miei libri di fiabe e che mai avrei pensato potesse esistere davvero.
Un mondo di cavalieri, servitori della giustizia e della pace, al servizio di colei che era la Dea della Giustizia.
Il Grande Tempio di Athena  era la nostra nuova casa, un luogo ben nascosto nei pressi di un piccolo villaggio di nome Rodorio.
Lì, il tempo sembrava essersi fermato ai tempi dell’Antica Grecia: tra vecchie colonne, templi e guerrieri che lottavano tra di loro, avevo come l’impressione di sognare.
Ero sicuro che da un momento all’altro mi sarei svegliato, avrei sentito la nonna urlare o tirarmi per i capelli; tu mi avresti salutato e portato la colazione, tutto sarebbe stato come prima.
Mi sono girato verso di te e con grande stupore vidi che, a differenza mia, tutto ciò non ti colpiva minimamente; camminavi spavaldo, a testa alta e con estrema sicurezza, come se quel mondo ti appartenesse da sempre, come se quei racconti, quei miti, che quell’uomo raccontava, li avessi vissuti in prima persona.
Tu sapevi, o eri talmente scosso da ciò che era appena successo, che non ti importava del resto.
Dicevi sempre che le favole,  o gli stessi miti greci, erano storie di pura invenzione, eppure non replicavi, non mostravi disappunto, perplessità, nulla.
Faticavo a riconoscerti e seppur scosso da questo tuo cambiamento repentino, il giorno in cui misi piede al Santuario per la prima volta, mi colpì per ben altro motivo: l’obiettivo di Shion, che altro non era che il Grande Sacerdote di Athena, era quello di addestrarci per diventare cavalieri e una volta portato a termine l’addestramento, il destino ci avrebbe legato per sempre alla Dea e ad una delle sue sacre vestigia.
Davanti ai nostri occhi poggiò uno scrigno dorato raffigurante due uomini alati. Due gemelli, proprio come te e me.
Dentro di esso era contenuta la Gold Cloth dei Gemelli, che splendeva davanti ai nostri occhi sbigottiti; era talmente bella che sarei rimasto ad osservarla per il resto della mia vita, specchiandomi in quell’oro immenso, e più la guardavo, più la desideravo.
In vita mia non ho mai bramato nulla, se non un po’ di affetto; poi, un dubbio mi assalì e cominciai a storcere il naso.
Noi eravamo due, perché vi era solo un’armatura?
Le parole del Grande Sacerdote suonarono come un sonoro schiaffo: un’armatura per un cavaliere predestinato.
La vita, il destino, o magari la stessa Athena che tutti veneravano, avevano deciso di metterci l’uno contro l’altro.
Ero restio, all’improvviso quella meravigliosa armatura d’oro non era più così essenziale, ma tu mi hai preceduto, dando il tuo consenso, senza esitazione o risentimento.
Pur di averla, avresti rinunciato a me, il tuo unico fratello, la tua sola famiglia? Ero esterrefatto.
Tu mi hai guardato con sufficienza.
Non era mai successo.
Quando non si ha più nulla da perdere, è così che si reagisce?
Dopo le spiegazioni, entrambi siamo stati portati nella nostra nuova dimora, una catapecchia situata poco distante dall’arena dei combattimenti, con un solo bagno e due stanze.
Due stanze separate.
Io e te avevamo dormito sempre insieme e la sola idea di staccarmi da te, non mi piaceva neanche un po’.
Qualcuno aveva appena strappato via una parte di me, è questa la sensazione che ho avvertito sin dal primo momento che arrivai al Grande Tempio.
Fino all’ultimo avevo sperato che i letti fossero abbastanza grandi da contenere due bambini, ma la stanza era talmente piccola che il solo letto vi entrava per miracolo.
Così dovetti rinunciare.
Dal tono che avevi usato, inoltre, avevo perfettamente intuito che non ti allettava molto l’idea di avermi intorno.
 
<< Dormi nella stanza accanto, Kanon, non dall’altra parte del mondo. Non fare il bambino >>
 
Io ero un bambino. Così come lo eri tu, ma anziché risponderti, preferì tacere e chiudermi nella mia stanza.
Ho tentato di giustificarti: nella mia testa mi ripetevo che eri ancora sconvolto per la morte della nonna, per le cattiverie che ti aveva detto papà, che da sempre ti aveva trattato come un vero e proprio re, a dispetto mio. Non era facile, lo capivo.
Eri arrabbiato, deluso, e te la prendevi con me, pur non avendo colpe.
Passerà mi sono detto.
Passarono tre anni e non passò affatto.
Nonostante la nostra vita fosse cambiata radicalmente, non ho mai creduto che le cose tra noi potessero cambiare in altrettanto modo.
Ogni mattina, mi aspettavo di trovarti ai piedi del mio letto per darmi il buongiorno, per portarmi i cornetti caldi, invece mi alzavo da solo e dolorante, a causa dei quello scomodo materasso.
E’ stato traumatico all’inizio: mi sono autoconvinto che, crescendo, certe abitudini non si addicessero più a dei ragazzi come noi, futuri cavalieri di Athena.
Non ti trovavo mai in casa, ti alzavi presto, quasi all’alba, per cominciare il tuo addestramento, rinunciando anche alla colazione e persino al pranzo.
Ti vedevo correre, sudare, dare anima e corpo per quella cloth, sposando in toto le leggi e la causa Athena, per poi tornare a casa stremato e buttarti sul letto.
Io facevo lo stesso, iniziavo il mio addestramento di mattina e tornavo prima del tramonto, ma tu eri irriconoscibile, era impossibile starti dietro.
I primi tempi, ti eri talmente chiuso in te stesso, che facevo fatica a farti parlare.
Sei sempre stato più ligio al dovere di me, infatti, molte volte, io mi fermavo, mi sdraiavo sull’erba a prendere il sole e cercavo di convincerti a prenderti una pausa, ma non vi riuscivo mai.
La maggior parte delle volte mi ritrovavo a parlare da solo, mentre tu mi davi le spalle, continuando a prendere a pugni un vecchio albero.
Non mi rispondevi, anzi, mi facevi ben capire che le mie parole ti annoiavano, o irritavano.
A me irritava il tuo atteggiamento.
Un giorno decisi di accertarmi realmente delle tue condizioni, tornando a parlare del passato.
Mi è bastato nominare la nonna e hai completamente perso il lume della ragione: mi hai strattonato e buttato a terra con estrema facilità.
Stavi per colpirmi, avevi il pugno alzato a mezz’aria, ma l’hai abbassato subito dopo.
 
<< Basta! >>
 
Hai urlato, avvicinando il viso al mio.

<< Il passato è passato, basta, vai avanti! Non nominarli mai più! >>
 
Non ho ancora compreso se quelle parole erano davvero rivolte a me, o erano un tuo personale tentativo per farti coraggio.
Non ricordo di averti mai visto così in collera, i tuoi occhi erano rabbiosi, tanto che ho temuto una delle tue crisi, ma la tua voce non era rauca, o profonda. Eri proprio tu a parlare.
Quando ti sei rialzato, il tuo sguardo era freddo e perso.
 
<< Sei pelle e ossa >>
 
Persino il tuo commento era freddo, leggermente sprezzante; scuotevi il capo beffardo, mentre io mi guardavo paragonandomi a te, che in poco tempo eri diventato più robusto, a differenza mia, che ero rimasto sempre lo stesso, con qualche muscolo appena accennato.
Eri sicuro di potermi battere, questo mi suggeriva la tua faccia.
Dopo quell’episodio, decisi di esaudire la tua richiesta: non parlai più del nostro passato, non nominai più nessun nostro parente, come se non fossero mai esistiti.
Mi sono tenuto tutto dentro; per diverso tempo,  ho sognato la scena di nostra madre che si suicidava davanti ai miei occhi, ma non te l’ho mai confessato. Molte volte, soprattutto quando ero solo, avevo l’impressione di sentirla ancora cantare, proprio dietro le mie spalle. Sentivo ancora la sua presenza come un enorme peso sulle mie spalle.
Mi svegliavo urlando, ma non sei mai corso nella mia stanza a sincerarti di me come speravo.
Tu dormivi esausto, o semplicemente non ti importava e facevi finta di non sentire. Io, invece, cercavo in tutti i modi di non mostrarmi debole ai tuoi occhi.
Sono andato avanti, come avevi detto tu.
Ho cominciato ad allenarmi da solo, concentrandomi solo sulla mia investitura, con il solo obiettivo di raggiungere il tuo stesso livello di forza.
Con il passare del tempo, ogni incubo era svanito.
Mi importava solo della sacra armatura e, in particolar modo, volevo dimostrarti che non ero debole come pensavi: era la competizione ciò che volevi e avrei fatto di tutto pur di fartela avere, anche se non ho mai capito il motivo che ti ha spinto ad andare contro di me.
Io ero l’unica persona che avevi al mondo e il tuo continuo respingermi , non ha fatto altro che alimentare dentro di me la rabbia.
Da quel momento ho dato anch’io anima e corpo, in poco tempo ho raggiunto il tuo livello e non mi curavo della stanchezza, o delle innumerevoli ferite; avevo promesso a me stesso di batterti e strapparti l’armatura da sotto il naso, perché anche se eri mio fratello, non ti avrei spianato la strada, come forse credevi; non avrei lasciato che tu ti prendessi gioco di me ancora una volta.
La Gold Cloth dovevi guadagnartela e per farlo dovevi necessariamente passare su di me.
Mi hai costretto, e, in fondo, anche io la desideravo, anche io la meritavo.
Col tempo ti sei riavvicinato e ricordo ancora la notte in cui, senza farti sentire, sei entrato in camera mia per tirarmi su le coperte. Speravi di non essere visto, ma ho imparato una cosa fondamentale, durante gli anni trascorsi con la nostra famiglia: rimanere sempre all’erta, anche mentre dormivo, perché non ero mai troppo al sicuro.
Ci siamo guardati negli occhi: io ero sorpreso di vederti accanto a me dopo così tanto tempo, tu hai appena accennato un sorriso, allungando un solo angolo della bocca. Non hai aperto bocca e dopo aver concluso il tuo dovere di fratello maggiore, sei tornato nella tua stanza.
Ho sempre avuto la strana sensazione, però, che tu fossi lì da più tempo; ho sempre creduto che tu stessi vegliando su di me, fermo in un piccolo angolo e una volta stanco, ti sei avvicinato al mio letto.
Non ho mai avuto conferma di ciò, probabilmente era un altro mio tentativo inconscio di giustificarti.
Quell’unico episodio fu unico e raro, e dopo di esso, hai ripreso a parlarmi come se nulla fosse accaduto.
Ero contento, ma non ti sei mai scusato con me per il modo in cui mi hai trattato; io ho subito il tuo stesso trauma, e anche di più, ma non ti avrei mai allontanato.
Ad ogni modo, ti avevo perdonato, ma non sono mai riuscito a dimenticare. 

Note
Buonasera a tutti, cari lettori.
So di essere in ritardo, ma le lezioni sono ricominciate e ho avuto davvero poco tempo.
Carico questo capitolo in fretta e furia e spero che sia ugualmente di vostro gradimento. Spero, inoltre, di poter caricare il prossimo al più presto, nonostante l'imminente inizio delle lezioni pomeridiane, conto infatti di finire questa raccolta entro il mese di Novembre.
Come sempre vi ringrazio tutti, da chi legge, recensisce, chi mette nei preferiti/seguite...davvero vi ringrazio e vi faccio i complimenti per la pazienza.
Un bacio a tutti e buona lettura.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Gemelli 3 ***


L’addestramento intrapreso al Santuario aveva fatto di me un ragazzo sicuro e determinato.
Ero forte e sicuro.
Riuscivo persino a frantumare una roccia con una sola mano. Mi sentivo un leone.
Finalmente le cose andavano per il verso giusto, la vita mi sorrideva e stentavo quasi a crederci.
Ero felice, euforico.
Non avevo altre parole per descrivere il mio stato d’animo; ero talmente preso dalla mia nuova condizione, che non vi avrei rinunciato tanto facilmente, per nessuna ragione al mondo.
L’armatura era diventata un pensiero fisso, addirittura un’ossessione.
Mi svegliavo ed era il mio primo pensiero al mattino; mi allenavo e sognavo il giorno in cui finalmente avrei potuta indossarla; la sera, invece, era diventata un sogno ricorrente.
Ho dedicato ad essa tutto il mio cuore, persino la mia anima, tanto da dimenticare e sopire quella rabbia e quel livore che mi portavo dietro da anni. Vedevo la vita da una prospettiva diversa ed ero convinto che, la stessa, avesse deciso di essere buona con me e farmi un regalo.
Ho cambiato atteggiamento; ho cominciato a sorridere, nonostante non ne avessi alcun motivo, perché non ti eri del tutto riavvicinato a me, se non a piccoli passi. Parlavi poco, eppure lo facevi, e a me andava bene così; in cuor mio sapevo che anche quello era un regalo, o una piccola parte di esso.
Prima o poi ti avrei avuto con me, come sempre, dovevo solo lasciare che il tempo facesse il suo corso; probabilmente, oltre ad ottenere l’armatura, avrei riottenuto il tuo amore, che tanto mi mancava.
Era questa la mia ricompensa, ne ero sicuro: la vita voleva ricambiarmi per tutto il male che avevo subito.
Su di me avevo lavorato molto: non ero più il bambino timoroso di un tempo, anzi. Avrei affrontato qualsiasi nemico, anche a mani nude, e ne sarei uscito ugualmente vincitore.
Avrei affrontato persino mio padre, mia nonna, e avrei restituito loro tutta quella violenza gratuita.
Ogni giorno scendevo all’arena dei combattimenti, i miei compagni mi guardavano impressionati, quasi mi osannavano. Altri, invece, mi temevano.
Con il passare del tempo, ho fatto sempre più fatica a trovare qualcuno disposto a battersi con me; al solo pensiero di avermi come avversario tremavano, e ciò mi rendeva profondamente orgoglioso.
Più i giorni passavano, più mi sentivo parte integrante di quel mondo, che tanto mi sembrava ostile all’inizio.
Mi sentivo talmente potente da riuscire a batterti; ero convinto che, tra noi due, quello a prevalere sarei stato io.
Io avrei indossato la Gold Cloth.
Ero io il più forte di te, anche se, in realtà, non vi era alcuna disparità tra di noi. Per la prima volta, io e te eravamo uguali, senza alcuna distinzione, due veri e propri gemelli.
Il mio desiderio si era avverato e per quanto soffrissi all’idea di battermi con te, dentro di me sapevo che non avrei potuto evitarlo, né io volevo farlo.
Batterti sarebbe stata la mia rivincita nei confronti di una vita e un destino avverso; avrei dimostrato all’intero Santuario che io non avevo nulla da invidiarti.
Ne ero convito. Il Grande Tempio ne era convinto.
Ero il prescelto.
La mia prestanza fisica era superiore alla tua; lottavo con foga e determinazione, preferendo lo scontro diretto, mentre tu perdevi tempo a studiare l’avversario.
Le rare volte che ci allenavamo insieme, riuscivo sempre a metterti al tappeto, ma non mi sono mai stupito di questo: ho sempre avuto una certa attitudine al combattimento, persino da bambino, quando litigavamo: tu eri sempre sdraiato sul pavimento, alla fine della lotta.
 
<< Avanti, Kanon! Facci vedere cosa sai fare! >>
 
 I miei compagni mi incitavano entusiasti e impazienti di vedermi all’opera.
Li accontentavo, lasciandoli del tutto senza parole.
Mi beavo di quegli elogi che gratificavano il mio ego, rendendomi ancora più sicuro di me.
 
<< Che altro sai fare? >>
 
Era musica per le mie orecchie.
Io dimostravo la potenza del mio cosmo e loro, increduli, e forse anche intimoriti, si complimentavano con me, facendomi sentire parte di qualcosa e non più un emarginato.
Quando i più giovani mi chiedevano di insegnargli ciò che sapevo, mi sentivo persino utile, pensando a quanto fossi stato stupido a sentirmi inferiore.
Io valevo quanto te, e non era più una mia sola convinzione.
Avrei dovuto immaginare, però, che quella felicità non poteva essere reale, ma solo qualcosa di fittizio. Nonostante avesse contribuito ad accendere un barlume di speranza in me, allo stesso tempo mi aveva anche chiuso in una sorta di bolla, una campana di vetro, nella quale esistevo solo io e il mio ego.
Non vedevo altro che me e i miei successi; era positivo, ma nel momento in cui mi sono accorto che vi era altro, al di là di quel vetro, mi sono reso conto di quanto tutto ciò fosse solo un’illusione.
Fuori da quella bolla, vi eri sempre e comunque tu.
Se solo avessi visto oltre, anziché chiudermi dentro al mio stesso ego, mi sarei reso conto che, alla sola tua vista, l’intera arena ti si è avvicinata, lasciando me da solo, come ero sempre stato.
L’ammirazione che provavano per te era palpabile, lo si leggeva chiaramente dai loro occhi.
Ti idolatravano come idolatravano Athena; eri un dio sceso dall’Olimpo, il cui potere era qualcosa di ineguagliabile ed irraggiungibile.
Ti hanno chiesto una prova di forza, come fecero con me; non ne comprendevo il motivo, perché io e te eravamo una cosa sola; la nostra forza, il nostro cosmo, le nostre tecniche, era tutto prettamente identico.
Conoscevo ogni tua mossa, guardarla da me, o da te, non avrebbe fatto differenza. E allora perché così tanto entusiasmo, mi domandavo.
Quando hai allargato entrambe le braccia, concentrando su di esse tutto il tuo cosmo, creando un’enorme sfera d’energia, per poi distruggere gran parte dell’arena e degli spalti con una gigantesca esplosione, ho capito.
Ero rimasto sbigottito anche io: non avevo mai visto quella tecnica prima d’ora e anche se facevo fatica ad ammetterlo, temevo di non avere speranze contro di essa.
Tutte le mie certezze mi erano appena crollate addosso come un castello di carte.
 
<< Allora, Kanon…c’è qualcosa che sai fare? >>
 
Mi chiesero ancora i miei compagni.
 
<< Vuoi forse dire, qualcosa che non sa fare…Saga >>
 
I loro ghigni e le loro risate di scherno mi portarono definitivamente alla realtà: non vi era alcun regalo, nessun sogno che la vita avrebbe realizzato per me.
Non vi era alcun prescelto, e se vi era non portava il mio nome. Era tutta un’immagine, una follia, che la mia testa aveva creato appositamente per illudermi di poter davvero dare una svolta alla mia esistenza.
Non era cambiato niente, tutto era rimasto com’era: tu eri considerato una divinità, mentre io potevo solo aspirare ad essere la tua brutta copia.
Ed era questo ciò che il Santuario pensava realmente di me; guardavo i loro occhi che si beffavano di me, tutti i loro elogi non erano altro che delle bugie che non ho saputo interpretare correttamente.
Sono sempre stato un tipo accorto, eppure mi sono lasciato imbrogliare, solo perché speravo fermamente in una svolta.
Ci credevo. Ci credevo fermamente, e non capivo cosa, ad un certo punto, ha smesso di funzionare.
Mi hai sorriso raggiante, felice come non lo eri più da tempo ormai, sommerso da quella folla che ti pregava ancora una volta di mostrargli le tue capacità.
Io sono rimasto immobile e ti ho fissato a lungo, senza trovare la forza, e forse nemmeno la volontà, di ricambiarti.
L’avevi fatto di proposito, era questa la verità; non potevi accettare di essere, tu, secondo, per una volta.
Sapevi che non ero in grado di farla, eppure l’hai mostrata ugualmente; potevi dar prova della tua forza in diversi altri modi, ma hai preferito umiliarmi, facendo di me la tua semplice ombra.
Ti ho guardato con disprezzo, e prima che potessi avvicinarti, sono andavo via in religioso silenzio.
Tutti i miei buoni proposti erano svaniti come fumo e la rabbia era tornata a farsi sentire.
Avevo voglia di distruggere tutto: avrei preso ogni oggetto, o persona, che mi fosse capitata sottomano e l’avrei fatta a pezzi senza alcun risentimento.
Volevo farlo una volta rientrato in casa: gettare tutto all’aria, dal tavolo di legno posto nella piccola cucina, a i pochi mobili presenti nella mia stanza.
A dir la verità, ero talmente frustrato, che se avessi fatto esplodere il mio cosmo, avrei distrutto l’intera baracca.
Alla fine, mi sono semplicemente seduto vicino la finestra; respiravo profondamente, cercando di riprendere il controllo, ma non vi riuscivo.
Tremavo dalla rabbia.
L’armatura era diventata un’agonia, come lo era diventato il nostro scontro, e persino tu.
Seduto su quella scomoda sedia di legno, ho rimpianto di non essere nato figlio unico e ho pensato a come sarebbe stata la mia vita, se tu non fossi mai nato.
Sarei stato amato, cullato, protetto, ammirato. La mia famiglia non avrebbe avuto occhi che per me, non avrei sofferto.
La nonna non si sarebbe mai permessa di picchiarmi, o accusarmi di qualsiasi disgrazia le fosse capitata nella sua vita; papà mi avrebbe lodato, come faceva con te. Sarei stato il suo orgoglio più grande e, forse, anche lui non avrebbe mai levato un dito su di me.
Avrei avuto una madre che, nonostante la malattia, mi avrebbe amato e riconosciuto; e se non fosse stata malata? Forse era un po’ improbabile, ma di certo non avrei sofferto così tanto.
Era un mondo totalmente diverso quello che immaginavo ed io ne ero il centro; eppure non potevo far a meno di chiedermi se sarei stato davvero felice?
Non sapevo che risposta darmi, ma una lacrima rigò il mio volto.
Sei entrato in punta di piedi, rimanendo sull’uscio della porta a squadrarmi, valutando se era il caso o meno di avvicinarti.
Un tempo non avresti esitato.
Avrei dovuto essere contento: eri corso da me, avevi intuito che qualcosa non andava; a dire il vero, ho sperato con tutto il cuore che tu non ti facessi vivo.
Non in quel momento.
 
<< Qualcosa non va? >>
 
Mi sono girato sconvolto, mentre il tuo viso era disteso e tranquillo, innocente come la tua domanda.
 
<< Lo chiedi proprio tu? >>
 
Domandai a mia volta, prima che il tuo stupido sorriso serafico comparisse.
Non capivi, se no perché avresti fatto quella domanda? Perché mettersi in mostra in quel modo?
La mia rabbia saliva, e non sono più riuscito a controllarla.
Con che coraggio ponevi a me quella domanda, quando sei stato proprio tu a respingermi e ad allontanarti?
Non capivi che eri proprio tu la causa?
 
<< Perché? >>
 
Chiesi con un fil di voce, alzandomi minaccioso dalla sedia.
 
<< Tutto ti è dovuto, non è così? >>
 
Ho perso totalmente il controllo delle mie parole, nonché delle mie azioni.
 
<< Ma certo! Tu sei perfetto. Tu sei giusto. Sei un dio. Non sbagli mai nulla, vero? Vieni qui, come se niente fosse accaduto, e pretendi anche che ti dia spiegazioni. E’ quello che hai sempre fatto: corri in aiuto del fratellino, ma non ti accorgi che sei tu a nuocere al tuo stesso gemello? No, certo che no! Perché tu non sei mai nel torto, sei…perfetto. Sei speciale. Lo pensano tutti, non è così? Lo pensavano i nostri genitori e lo pensano i nostri compagni, e tutto ciò ti diverte, vero? Non ti sei mai guadagnato niente, né stima e né oneri, eppure per tutti sei una divinità, tanto che vorrebbero imitarti…perché? Perché sei così? Perché sei così dannatamente perfetto? Cos’hai più degli altri, più di me?! Io e te siamo uguali! Eppure ad occhi esterni hai sempre qualcosa in più. Sono anni che cerco di capire di cosa si tratti, ma ancora oggi non riesco a capire! Perché non posso avere ciò che hai tu? Perché devo accontentarmi di essere la tua ombra e non un tuo pari? Perché non posso avere ciò che desidero, per una volta? Perché sei nato? Dimmelo! Perché da quando sei al mondo, la mia vita è un inferno! >>
 
Il rancore aveva preso il sopravvento e avrei voluto dire molto di più; volevo sapere il motivo che ti aveva spinto ad allontanarti da me e, successivamente, ad umiliarmi. Pensavo mi volessi bene, che non avresti mai compromesso la mia felicità, ma cominciavo a dubitarne.
Ti ho persino tirato un vaso, tanta era la rabbia che avevi creato.
Avevo preso quel piccolo oggetto in terracotta, che era posizionato ai piedi del tavolo, e senza alcun rimorso ho tentato di colpirti.
Tu, ancora sconvolto per le mie parole, lo hai schivato prontamente; ero pronto per respingere qualsiasi tua reazione, avrei affrontato anche la tua parte più violenta, dimostrandoti una volta per tutte chi tra noi due era il più forte. Non avevo più paura di niente, ormai.
Ti sei accasciato a terra senza dire nulla, mentre io ancora tremavo per ciò che avevo appena fatto.
Fermami!
I miei occhi ti pregavano silenziosamente, ma non avevi colto il segnale.
 
<< Ti odio! >>
 
Fu l’ultima parola che pronunciai quel giorno, e fu anche l’unica di cui mi resi conto.
Avrei voluto ritirarla, cancellarla, ma non era possibile.
Il tuo volto era pallido, ma allo stesso tempo teso. Ti sei alzato e in perfetto silenzio ti sei chiuso in camera tua.
Ti ho sentito piangere quella notte, anche se dal tuo volto non scese alcuna lacrima.


Note
Salve a tutti ragazzi e bentornati su questi lidi.
Ho trovato un po' di tempo per postarvi anche questo capitolo, che sicuramente non è uno dei più felici.
Vi ricordate quando ho dato il dono della parola a Kanon e speravo, con tutto il cuore, che ne facesse buon uso? Bene. Non ne sta facendo buon uso, per niente! Direi che ha parlato anche troppo...oltre a farsi fin troppe domande.
Io fuggo e come sempre vi ringrazio tutti, da chi recensisce, legge, preferiti, seguite e tutto il resto.
Un bacio e buona lettura.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Aiolos ***


Avevi detto di avere una sorpresa per me.
Strano, pensai: tu odiavi le sorprese, sia riceverle che farle; eppure quella sera, quella strana ma piacevolissima sera, ti sei avvicinato al mio orecchio e con una risata quasi isterica, ed uno sguardo che trasudava euforia da tutti i pori, hai sussurrato quelle parole.
Dopo il mio “ ti odio ”, il tuo atteggiamento aveva seriamente cominciato a preoccuparmi. Qualcosa era scattato nelle tua testa e non riuscire ad indentificare bene che cosa fosse, non solo mi faceva cadere in una paranoica attenzione nei tuoi confronti, ma cominciava persino a spaventarmi.
Credevo, soprattutto all’inizio, che le mie parole avessero lasciato più effetti negativi che positivi: prima di tutto, entravi di soppiatto nella mia stanza e vi rimanevi per tutta la notte. Fermo, immobile come una statua ad osservarmi mentre dormivo.
Mi accorgevo della tua presenza, i tuoi occhi erano fissi su di me e non battevano ciglio; quelle notti preferivo fingere di dormire finché non andavi via: mi ricordavi così tanto nostra madre.
Mi seguivi durante gli allenamenti. Ti sedevi sopra il masso più vicino e mi guardavi in silenzio, mentre io, tra un esercizio e l’altro, mi domandavo se fosse il caso, o meno, di intervenire.
Volevo parlarti, chiederti cosa non andava, ma non sapevo da dove cominciare; in più, ero ancora arrabbiato con te e per orgoglio non volevo avvicinarmi.
Riuscivi persino a mettermi soggezione; non gradivo la tua presenza durante gli allenamenti, non in quel modo. Il tuo sguardo perso nel vuoto non trasudava alcuna emozione e avevo come l’impressione che volessi leggermi l’anima e trovarvi solo tu sai cosa. Per questa ragione evitavo di incrociare i tuoi occhi, tentando di concentrarmi più su me stesso che su di te. Ma era difficile.
Mi sentivo in colpa, forse era proprio questo il tuo intento: mi guardavi intensamente per riuscire a farmi ammettere errori di cui non avevo colpa; volevi le mie scuse e usavi la tua malattia come arma per farmi cedere, ne ero sicuro.
Ogni volta che ti davo le spalle per più di due secondi, però, tu mi correvi incontro e ti lasciavi andare ad ambigui slanci d’affetto. Mi abbracciavi, mi accarezzavi, intrecciavi le dita tra i miei capelli,  e solo in questi frangenti vedevo spuntare sul tuo volto un leggero sorriso. Sembravi addirittura lucido.
Ho cominciato a preoccuparmi sul serio quando ti fermarvi di botto, in mezzo al nulla, con il solo scopo di osservare il vuoto. Interrompevi addirittura i discorsi, lasciandoli a metà, per poi riprenderli dopo dieci minuti, o anche dopo un quarto d’ora. Altre volte, invece, non ricordavi neanche di cosa stessi parlando.
 Eri riuscito nel tuo intento: mi sentivo in colpa, sapevo che la causa del tuo comportamento ero io, ma non avevo più voglia di incolparti. Vederti in quelle condizioni mi faceva impazzire e non poter fare niente per aiutarti mi distruggeva ancora di più.
Mi facevi pena.
La notte tremavi impaurito e ti stringevi a me, che ero il tuo unico conforto.
Da quando avevi così paura, tu che eri considerato da tutti come un valoroso dio e guerriero?
La verità era che stavi lentamente perdendo lucidità, la tua mente era confusa, stava cedendo ad un qualcosa che non avevo voglia di rivivere.
Balbettavi, ed era così strano vederti incapace di pronunciare anche un singolo suono. Tu, che eri sempre sicuro di te e che non conoscevi paura.
Volevi dirmi qualcosa, qualcosa di importante; cercavo in tutti i modi di spronarti e darti coraggio: ero sicuro che ciò che volevi dirmi mi avrebbe reso davvero felice, perché lo aspettavo da tempo, ma i singhiozzi te lo impedivano.
Vedevo il panico nei tuoi occhi, mi sentivo del tutto impotente; poi, hai preso il mio volto tra le mani e mi hai dato un bacio.
Un piccolo, caldo, leggero bacio sulla guancia prima di cadere stremato sul cuscino.
E’ stato in quel momento che cominciai a percepire gli effetti positivi del mio “ ti odio ”.
Tutto accade per un motivo, mi sono detto. Le mie parole, per quanto dure e dettate da una frustrazione fin troppo profonda, avevano fatto in modo che tu ti riavvicinassi completamente a me.
Doveva andare così.
Dovevamo ferirci a vicenda per capire quanto fossimo fondamentali l’uno per l’altro.
Dovevo sentirmi nuovamente un perdente per poterti abbracciare come un tempo, e non lo trovavo giusto.
Avevo realizzato il mio sogno, lo stesso che la vita sembrava volermi concedere e che poi mi ha sottratto prima ancora che potessi assaporarne gli effetti.
Il tuo bacio era stato il preludio di una serie di eventi positivi che temevo non arrivassero mai: ci allenavamo di nuovo insieme e la costante vicinanza aveva fatto in modo che le tue crisi sparissero: finalmente rivedevo in te la persona di sempre.
Mi davi consigli, mi facevi complimenti, in poche parole, eri orgoglioso di me e dei miei progressi. Mi guardavi con fierezza, come un qualsiasi fratello maggiore e improvvisamente mi sentivo leggero e meno frustrato.
 
<< Sai, Kanon, credo che tu abbia grandi possibilità di battermi >>
 
Quelle tue parole sono state la mia soddisfazione più grande; ero così felice che, anche io, ho ceduto ai tuoi stessi slanci d’affetto: ti ho stretto talmente forte da farti mancare il respiro.
Mi hai guardato sconvolto, non riuscivi a credere che un tipo come me fosse capace di un simile gesto, e avevi ragione, ma mi eri mancato talmente  tanto in quegli ultimi anni che mi venne naturale.
Inoltre, ciò che mi riempiva veramente di orgoglio e fiducia in me stesso, era sapere che la causa del tuo ritrovato benessere non potevo che essere io.
Chi altri, se non il tuo gemello?
Di certo, le nostre chiacchierate notturne avevano inciso non poco sulla tua fragile mente, riuscendo a destarla del tutto.
E’ stato proprio durante una di esse che hai asserito di avere una sorpresa per me.
Eravamo seduti sull’erba, appoggiati al tronco di un vecchio ulivo, intenti ad ammirare le stelle.
Tu stavi raccontando una storia, mentre io giocherellavo distrattamente con le tue dita e lentamente mi addormentavo con il capo poggiato sulla tua spalla. Improvvisamente, hai interrotto il tuo racconto e ti sei girato verso di me.
Sembravi euforico e con la testa tra le nuvole: avrei voluto vedere quel sorriso luminoso fino alla fine dei miei giorni, e solo perché ne conoscevo la causa.
 
<< Kanon? >>
 
Hai bisbigliato al mio orecchio nel tentativo di svegliarmi.
 
<< Mmh..? >>
 
<< Stai dormendo >>
 
<< No, ti ascolto… >>
 
Tentavo di far mente locale, cercando di ricordare le tue ultime parole, perché sapevo che non amavi parlare da solo, ma la stanchezza, che puntualmente sentivo dopo ogni allenamento, era più forte di qualsiasi avversario mai affrontato.
 
<< Stai dormendo! >>
 
Ridevi, e io che mi aspettavo la tua solita ramanzina.
Mi hai gettato le braccia intorno al collo e tra le tue dolci carezze rischiavo di addormentarmi sul serio.
 
<< Io ti vorrò sempre bene, Kanon >>
 
<< Come? >>
 
Ero riuscito a percepire solo il mio nome.
 
<< Vieni con me all’arena domani. Ci tengo che tu veda una cosa >>
 
<< Che cosa? >>
 
<< E’ una sorpresa. Ti piacerà >>
 
Ho fantasticato a lungo su quella fantomatica sorpresa, ma mai al mondo avrei pensato che si trattasse di lui.
Mi trovavo all’arena e non riuscivo a credere di avere davanti ai miei occhi quel damerino presuntuoso ed egocentrico, nonché unico pretendente alla Gold Cloth del Sagittario.
Era lui la mia sorpresa?!
Ti guardavo sgomento, senza capire se il tuo fosse uno scherzo, oppure no.
Davvero credevi che presentarmi l’essere più irritante del Santuario fosse un regalo per me?
Sempre sorridente, solare, positivo, con i capelli sempre ordinati: non vi era un singolo riccio fuori posto e ciò mi irritava inspiegabilmente.
Lui mi irritava inspiegabilmente.
Come te, anche lui era venerato ed ammirato da tutti: non vi era persona al Grande Tempio che non conoscesse il suo nome; la sua potenza era ineguagliabile, il suo animo era puro, la sua fede nella dea Athena era illimitata, praticamente il cavaliere d’oro perfetto.
Perfetto.
Qualcosa vi accomunava, pensai ironicamente. E vedendovi così uniti, mentre scherzavate e vi comportavate come se foste amici di lunga data, avevo perfettamente intuito il perché di così tanta affinità.
Il soldatino girava sempre con una matassa di capelli ricci al seguito, che appartenevano al suo fratellino, nonché suo allievo, perché era talmente perfetto da avere persino un allievo, che di lì a poco sarebbe diventato il mio peggior incubo.
 
<< Piacere, Aiolos >>
 
Ero troppo occupato ad elencare i suoi difetti per accorgermi delle sue presentazioni.
Mi hai dato una gomitata, destandomi dai miei pensieri, e con un semplice sguardo mi hai intimato di stringergli la mano.
Ho accettato, anche se con riluttanza, solo per farti felice.
Odiavo il suo sorriso, lo trovavo così falso.
 
<< Così, è lui il gemello di cui mi hai tanto parlato? >>
 
Corrugai la fronte e mi girai verso di te confuso: perché mai avevi parlato di me ad uno come lui?
 
<< Sì. Sai, Kanon, è grazie ad Aiolos se sto di nuovo meglio, finalmente. E’ stato lui a convincermi a riavvicinarmi a te, secondo lui era l’unica soluzione per ritrovare la serenità. E aveva ragione >>
 
<< Già. Non dovresti trascurare così tanto tuo fratello. Non ho mai visto nessuno soffrire così tanto per qualcuno, così come tuo fratello; sembrava sull’orlo di impazzire, e non se lo merita >>
 
Non ho ascoltato una singola parola, mi sono fermato alla tua prima frase. Ed è stato un bene, per lui, che io avessi ignorato la sua presunta ramanzina, perché niente mi avrebbe impedito di scagliarmi contro di lui, neanche tu.
Sull’orlo di impazzire? No! Tu stavi impazzendo sul serio, e non era un solo un modo di dire.
Ma cosa ne sapeva lui di te?
Ti avevo rivolto la domanda, anche se in silenzio. Non ti capivo, come tu non capivi come in meno di un secondo mi avevi spezzato il cuore.
Eri sempre attento, sempre vigile, avevi il controllo su tutto, in ogni situazione; eppure, se solo avessi avuto l’accortezza di pesare le parole, io non avrei sofferto per l’ennesima volta.
Ti eri avvicinato a me solo perché te l’aveva detto lui, non perché lo sentivi o ne avevi il bisogno. Se lui fosse stato zitto, cosa sarebbe successo?
Ridevate felici, come se ci fosse davvero qualcosa di divertente. Il mio dolore era divertente?
Vi avrei sgozzato entrambi, senza alcuna pietà. Prima te e poi lui.
Ho finto di ridere con voi, sfoggiando la mia miglior faccia di bronzo, per poi allontanarmi senza aggiungere altro, pregandoti, con un semplice gesto, di non seguirmi per alcuna ragione.
Non volevo vederti, non ne avevo alcuna voglia.
 
“ Doveva andare così. ”
 
Mi ritrovai a pensare, giorni dopo l’accaduto.
Lo pensavo ogni volta che la tristezza bussava alla mia porta; era l’unico modo per andare avanti con tranquillità: fingere che nulla fosse accaduto, nulla di grave o importante, perlomeno.
Ebbene sì, non eri importante, non potevi esserlo. Non dopo aver calpestato i miei sentimenti. Ero disposto ad accettare il fatto che tu non volessi amarmi, lasciandoti nelle mani del tuo nuovo “migliore amico”.
Così lo avevi definito. Certo, che male c’era ad avere un migliore amico, quando a disposizione avevi un fratello gemello che non ti avrebbe mai tradito?
Fiato sprecato.
Ho rinunciato a discutere con te su quest’argomento, anzi, in realtà, avevo del tutto rinunciato a comunicare.
Non mi andava più di litigare, né che tu impazzissi, così mi limitavo ad essere accondiscendente.
Da quando quel damerino era entrato a far parte delle nostre vite, l’unico momento che passavamo insieme era la sera, per la cena.
La mattina tu eri con Aiolos, vi allenavate insieme, mentre io ero da solo, sdraiato sull’erba intento ad annoiarmi, benché il mio unico obiettivo, ciò che davvero contava nella mia vita, era solo la mia armatura.
 
<< Sei sveglio? >>
 
Ero solo. Ero solo.
 
<< Allora?! Sei sveglio?! >>
 
Ma resistere a quella voce, del tutto simile ad uno squittio, era un’impresa impossibile!
 
<< Come mai sei qui? >>
 
<< E tu perché non sei con tuo fratello?! >>
 
Aiolia, così si chiamava quella matassa di ricci, a cui il Buon Cavaliere faceva da chioccia, era un bambino di soli quattro anni. Irritante, petulante, fastidioso, appiccicoso e con un cosmo fuori dal comune.
Dovevo ammetterlo.
Quella piccola peste era destinato a diventare un grandissimo guerriero, magari del mio stesso rango, anche se non me lo auguravo.
Aveva tutti i difetti del fratello e una faccia talmente espressiva che, se si metteva d’impegno, riusciva quasi a farmi sorridere.
Era seduto accanto a me, mi puntava i suoi occhi da cerbiatto, mentre il suo viso si assumeva un’espressione triste, quasi da cane bastonato.
 
<< Mio fratello non c’è. Si sta allenando con Saga da questa mattina, all’alba, e io sono rimasto da solo. Volevo raggiungerlo, ma ogni volta che mi avvicino e gli chiedo di giocare, lui dice di non avere tempo >>
 
<< Come ti capisco! >>
 
Sputai velenoso come un serpente, ma il bambino non colse il mio sarcasmo, difatti si limitò a sorridermi compiaciuto.
 
<< Tu e Saga siete fratelli? >>
 
<< Sì >>
 
<< E perché siete identici? >>
 
<< Siamo gemelli >>
 
<< Che significa? >>
 
<< Che siamo nati lo stesso momento >>
 
Preso dall’entusiasmo, che ho tentato in tutti i modi di nascondere, il bambino cominciò a parlare di suo fratello, del suo addestramento e di come lavori sodo per guadagnarsi la sua armatura.
Ascoltai quel racconto senza prestare attenzione e assecondando le sue idee, non potevo certo attaccare un ragazzino e farlo ricredere su quel finto santo che era suo fratello maggiore.
Parlava come un fiume in piena, tanto che non riuscivo più a seguirlo; così, mi persi nei miei pensieri, domandandomi quando e come, il futuro Sagittario, si fosse guadagnato qualcosa.
Aveva un fratello, proprio come me, eppure a lui non è stato concesso il privilegio di battersi contro il suo stesso sangue,  a differenza nostra. Perché lui poteva avere la strada spianata, concorrendo da solo per la Gold Cloth, mentre noi due non avevamo altra scelta? Suo fratello avrebbe avuto un’armatura tutta sua, uno di noi avrebbe ottenuto solo le risate di scherno dell’intera arena.
Mi chiedevo se tutto questo fosse giusto, e avrei tanto voluto chiederlo alla stessa Athena, che era la dea della giustizia.
 
<< …è proprio un fratello speciale, non trovi? >>
 
Non avevo udito una parola, come al solito.
 
<< Sì, proprio speciale >>
 
Dissi alzandomi.
 
<< Dove vai? >>
 
<< A casa. E dovresti farlo anche tu >>
 
<< Sì. Ma io non so dov’è casa mia…mi sono perso. Aiolos dice sempre che, quando non può occuparsi di me, devo rimanere in casa con le ancelle, ma io mi annoio con loro. Così, sono uscito e mi sono perso >>
 
<< Va bene, va bene! Seguimi >>
 
Quel bambino era decisamente troppo logorroico; avevo intuito perfettamente dove voleva andare a parere e, pur di non sentir nominare quel damerino ancora una volta, accettai di aiutarlo a ritrovare la via del Grande Tempio.
Mi prese la mano e non la lasciò finché non arrivammo a destinazione. La cosa mi infastidì, ma probabilmente lui era abituato così.
Per tutto il tragitto non fece altro che parlare ed inciampare, perché, impegnato com’era a blaterare, non si accorgeva di dove metteva i piedi. Dovetti fare io la parte del fratello maggiore per una volta, e non era per niente male, tanto che una volta trovato il fratello, accompagnato da te, naturalmente, mi dispiaceva lasciarlo andare, ma non lo diedi mai a vedere.
Come da copione, il Buon Cavaliere era in pena per il piccolo, che subito gli andò incontro, tessendo infine le mie lodi, dipingendomi come una persona nobile e dall’animo puro.
Ero il nuovo idolo di un bambino di quattro anni: non sapevo se gioirne, o meno.
 
<< Grazie per averlo riportato a casa >>
 
Scontato. Terribilmente scontato, così come la sua finta cordialità.
 
<< Già. Sai, dovresti occuparti di più di tuo fratello: non è bello ritrovarsi da soli, o rovinare un così bel legame. A volte, bisogna pur farlo qualche sacrificio >>
 
Avevi intuito il vero destinatario di quella mia velata provocazione, ma ti è scivolata addosso come acqua piovana; allo stesso tempo, però, lo volevo il più lontano possibile da te, in fondo, non eri a lui che appartenevi.
 
<< Hai ragione. I sacrifici, però, non si possono sempre pretendere; e, a volte, bisogna avere l’umiltà di capire che non è sempre colpa degli altri >>
 
Era la prima volta che mi trovavo in difficoltà nel dare una risposta. Tu eri d’accordo con lui e fu proprio in quel momento che promisi a me stesso di fargliela pagare cara, un giorno.


Note.
" Mi riprometto di finire l'intera raccolta entro fine Novembre". Sì, continua a crederlo.
Salve a tutti miei cari lettori, eccomi tornata con un capitolo "speciale".
Perché "speciale"? Semplicemente perché non era previsto. Questo è un capitolo che ho aggiunto successivamente, per il semplice motivo che non potevo non parlare di Aiolos, che con molta ingenuità non fa altro che mettere il dito nella piaga; proprio per questo è stata una bella gatta da pelare, nel senso che l'ho riscritto almeno tre volte e la quarta (riscritta totalmente oggi) ha finalmente visto la luce. All'inizio sembrava una vera e propria raccolta di idee, una bozza, e avevo anche intenzione di postarla, poi per fortuna ho avuto l'illuminazione e ho cominciato a scrivere come si deve (?).
Sì, lo so che abbiamo leggermente sfiorato l'incest, ma vi posso assicurare che i due gemelli provano semplice amore fraterno l'un l'altro, o platonico se vi piace di più.
Al momento, se non ricordo male, è il capitolo più lungo dell'intera raccolta e credo che rimarrà figlio unico. Il fatto è che mi sono affezionata alla matassa riccia sin dal primo momento che l'ho citato e non potevo non farlo comparire. Certo, fossi in Kanon lo spedirei in un'altra dimensione, ma quello è un altro discorso.
E se fossi Aiolos scapperei il più lontano possibile.
Detto questo io mi ritiro, vi ringrazio tutti e vi auguro una buona lettura e una buona notte.
P.S: notare l'ingenuità di Saga, con la quale asserisce che la "sorpresa" piacerà al fratello. Non è mai stato così felice, in effetti.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 30 Maggio 1972 ***


Perché piangi, fratellino?
 

Il giorno tanto agognato era finalmente arrivato.
Eravamo entrambi all’interno dell’arena, l’uno di fronte all’altro, sotto lo sguardo attento e curioso di un centinaio di persone.
Tra di esse vi era persino il Grande Sacerdote.
Era strano trovarsi occhi negli occhi dopo così tanto tempo e dopo tutte le nostre incomprensioni.
Mi ero quasi dimenticato di quella strana sensazione che mi assaliva e che, nonostante l’abitudine, mi dava la pelle d’oca, nel vedere un individuo perfettamente identico a me, come se fosse il mio stesso riflesso.
 

Chi ti ha fatto quell’occhio nero?!


Un ragazzo grande e grosso mi ha picchiato.
Si è preso il mio giocattolo.
 

Non mi aspettavo di vederti stranito quanto me, eppure dovevo immaginarlo: in fondo, non abbiamo mai smesso di pensare o intuire le stesse cose; abbiamo sempre agito e pensato come un unico individuo e quel giorno non avrebbe di certo cambiato la nostra natura.
Avevo sempre sognato quel momento, in ogni minimo particolare. Nella mia fantasia io ne uscivo sempre vincitore, riuscivo a batterti senza difficoltà; quando misi piede nell’arena, però, mi sono reso conto che la fantasia e la realtà sono due mondi ben distinti e che mai avrebbero avuto a che fare l’uno con l’altro.
Sono stato uno stupido a confonderli; sono stato uno stupido anche solo a pensare di riuscire a sfiorarti con un pugno, o con un calcio.
Eravamo fermi di fronte all’altro da ben dieci minuti e nessuno di noi si era ancora deciso a far la prima mossa.
 

Stai parlando del mio regalo?

Sì. E quando ho cercato di riprenderlo, mi ha picchiato.
 
Non piangere. Tutto si sistemerà.
 

Un incontro noioso, era questo ciò che intuivo dalle urla di disappunto dei nostri compagni. Ci incitavano a scontrarci senza alcuna pietà, come due bestie addestrate appositamente per distruggersi a vicenda, e solo per il piacere di qualcuno: dio o mortale non aveva importanza.
Mi guardavo intorno e tutti ripetevano la medesima cosa: colpiscilo!
Tu mi guardavi sofferente, rassegnato; hai allargato le braccia, come a chiedermi cosa stessi aspettando, mentre una lacrima rigava il tuo volto.
L’avevo vista, ne ero sicuro, ed era bello sapere che, a modo tuo, mi volevi ancora bene; cos’altro potevano mai significare quelle lacrime, se non riluttanza nel fronteggiarmi?
Probabilmente non avevi mai smesso di tenere a me.
 

Fratellone, perché hai un occhio nero?
 
Perché sei mio fratello.
 

Tu hai sempre odiato la violenza, hai sempre preferito la diplomazia, il dialogo, la ragione; tutto ciò non ti apparteneva, l’unica volta che hai fatto a botte con qualcuno avevi cinque anni e l’hai fatto per difendere me.
 

Ti fa tanto male?
 

Un po’.
Non ho recuperato il tuo giocattolo. Mi dispiace.
 

Ti sei battuto per me?
 
Sì, e lo farei altre cento volte.
Tieni.
 
Questo trenino te l’ha regalato papà..
 
Sì. E ora voglio che lo abbia tu.
 

Credevo di aver rimosso quel ricordo, come credevo che tu avessi rimosso il vero te stesso. Non capivo perché tutto stesse riaffiorando proprio in quel momento; mi chiedevo se tu ricordassi ancora i bei momenti passati insieme, anche se potevamo contarli sulle dita di una sola nostra mano.
Cercavo di comprendere le tue intenzioni, se fossi rinsavito quanto me.
Sospirasti profondamente, dopodiché il tuo sguardo divenne duro e hai cominciato a girarmi attorno, mentre io ti guardavo perplesso.

<< Che cosa stai aspettando? Era ciò che volevi, o mi sbaglio? >>
 
Alzasti la voce, ma non troppo: non volevi che gli altri sentissero, anche se era impossibile provare ad udire le nostre parole a causa della confusione.
 
<< Non era questo ciò che sognavi? >>
 
Riuscivo a percepire la rabbia che vi era nascosta dietro quelle innocenti parole.
Non saprei dire per quanto tempo rimasi lì a pensare, ponendomi più volte la tua stessa domanda.
Sì, era ciò che volevo.
Sì, lo avevo sognato più volte.
No, non era più importante di te.
Non ero in me; tutto ciò che ho detto, pensato, non era altro che la rabbia accumulata, il tuo distacco che ho tanto sofferto, ma che allo stesso tempo mi aveva fortificato.
Non riuscivo a trovare spiegazione migliore, altrimenti avrei iniziato subito a combattere,  e invece scossi la testa rassegnato: non riuscivo a scagliarmi contro di te, perché nonostante tutto l’odio provato, tu eri sempre mio fratello, il mio mondo.
Eri l’unica persona che amavo.
 
<< Ascoltali! Per loro ho già vinto. Sono già stato proclamato Gold Saint, e senza fare alcuno sforzo. Non vuoi smentirli? Perché non mi attacchi? Credevo volessi farmela pagare, dopotutto ti ho rovinato la vita, non è così? >>
 
Allargasti le braccia, invitandomi a fare la prima mossa.
Ancora una volta scossi la testa.
 
<< Sì, volevo >>

<< Volevi? >>

<< Sì, ma non ci riesco. Non posso >>

<< Perché? >>

<< Non lo immagini? >>
 
Un altro sospiro. Un’altra lacrima.
Per quale motivo siamo rimasti lì, in mezzo a quelle antiche colonne distrutte dal tempo, quando avremmo potuto andar via, rinunciare a tutto e crearci tutt’altra vita?
Non eravamo costretti a farlo, è stata una nostra scelta. Una tua scelta, ad essere precisi, perché se solo mi avessi dato l’occasione di avvicinarti e parlarti, probabilmente, né tu e né io saremmo arrivati a tanto.
Il rancore, la rabbia, l’odio, sono tutte emozioni che non avrei mai sognato di provare nei tuoi confronti, eppure era successo, e tutto per un’armatura.
Se solo ci fossimo fermati  un secondo a riflettere e chiederci se davvero valeva la pena perderci, chissà se sarebbe andata diversamente.
 

Non devi mai aver paura quando sei con me.
Io ti difenderò da tutto il male del mondo
 
 
Tutto accade per un motivo.
Doveva andare così.
Era troppo tardi per i ripensamenti, ma niente mi impediva di prenderti per mano e trascinarti via con me. Ed è ciò che ho tentato di fare, ma tu hai ripreso a girarmi intorno e con uno strano ghigno in volto.
 
<< Era il tuo sogno >>

<< No, non lo è. Non lo è mai stato >>
 
Eri tu il mio sogno! Ma non avevo bisogno di dirtelo, perché in cuor tuo l’hai sempre saputo.
 
<< Sai qual è la verità? >>

<< No >>
 
Risposi semplicemente; in realtà, speravo che quella pantomima che avevi messo in atto volgesse al termine. Sembravi un avvoltoio, un sadico avvoltoio privo di scrupoli.
 
<< La verità è che- >>
 
Quella piccola pausa mi sembrò eterna. Avevo come l’impressione che stessi cercando le parole giuste, o forse avevi solo timore di completare la frase.
 
<< Perché non parliamo un po’ di me, ti va? Si parla sempre di te, del povero, piccolo, emarginato Kanon, che dice sempre di sentirsi solo ed infelice, ma non si accorge di quanto, in realtà, sia egoista >>

<< Io, egoista?! Smettila di farneticare! Non fare di me il cattivo della situazione: l’unico vero egoista sei tu! >>
 
Un altro giro. Un altro ghigno. E non hai neanche tentato di nasconderlo.
 
<< Stiamo parlando di me, adesso! >>
 
Urlasti quelle parole con quanto più fiato avevi in gola, facendomi persino sobbalzare.
Avevi l’aria disorientata, forse un tuo solito segno di squilibrio.
 
<< Sei tu ad aver rovinato la vita a me, non il contrario! Dimmi una sola ragione per cui io sarei egoista. Ti ho dato i miei giocattoli, il mio stesso cibo, i miei vestiti! Ti ho sempre difeso, ho passato la mia intera vita a prendermi cura di te, e solo perché tu non eri in grado di farlo! Hai idea di quanto sia stato frustrante? Non fai un passo senza di me, non ne sei capace. E’ proprio vero che sei la mia ombra! Non riuscirai mai a smentire i nostri compagni, perché sei- >>

 
La tua voce era strozzata dai singhiozzi; a quella pausa susseguì un lieve sospiro, susseguito dal mio sgomento.
 
<< Sono cosa?! >>
 
Risposi indispettito ed impaziente.
 
<< Sei…un fallito, e l’ho sempre pensato. Non è vero che non vuoi colpirmi, non puoi, è diverso. E non guardarmi con quella faccia incredula, so a cosa stai pensando: sono perfettamente lucido, non c’è niente che non va in me. Tutto ciò che ho detto, lo penso sul serio! >>
 
Non si torna indietro, mi sono ripetuto nella mia testa; tu non lo volevi e io non ti avrei mai immaginato così subdolo e spregevole.
Deciso di assecondarti: così ti ho colpito, eccome se ti ho colpito, e l’ho fatto con tutta la forza che avevo in corpo e il volto ricoperto di lacrime.
Dagli spalti si alzò un boato fragoroso: finalmente l’incontro era iniziato e non facevano altro che pregarci di continuare.
Sono sempre stato emarginato e malvoluto da tutti, ma nessuna parola o insulto mi aveva mai ferito così tanto come avevano fatto le tue parole; ho sentito il mio cuore andare in frantumi, letteralmente.
Dal tuo naso uscivano rivoli di sangue, ma non mi pentivo di ciò che avevo appena fatto.
 
<< Avanti, finisci ciò che hai iniziato. Prendi l’armatura >>
 
Accovacciato ai miei piedi, mi pregavi con gli occhi di porre fine allo scontro, mentre con la mano tentavi di fermare l’emorragia senza alcun risultato.
 
<< Fallo! O lo fai tu, o lo farà qualcun altro >>
 
Non ho capito fino in fondo le tue parole, né mi sono preoccupato ulteriormente di trovarvi un senso. Dopotutto, erano sempre più rare le occasioni in cui dicevi qualcosa di sensato.
Ti ho preso per i capelli, ho stretto con forza ed ero pronto a sferrarti un altro pugno, poi ho allentato la presa.
 
<< Ho capito cosa stai cercando di fare, ma con me non funziona! Cambia tattica: non voglio combattere in questo modo >>

<< Non c’è nessuna tattica! Prendi l’armatura! >>
 
Se fantasia e realtà non erano altro che due mondi distinti e separati, per una volta avrei fatto in modo che coincidessero.
Decisi di giocare la tua stessa carta, in fin dei conti anche io avevo il diritto di divertirmi; ti ho lasciato andare e a braccia conserte ho aspettato una tua reazione, una mossa degna di un cavaliere. L’unica cosa di cui non avevo tenuto granché conto, era che tu, in quel gioco, eri molto più esperto: se a me bastava ignorare la tua autorità di fratello maggiore, tu avevi il coltello dalla parte del manico e sapevi perfettamente quali punti toccare per mandarmi fuori di testa.
Ti alzasti e una volta ripulito dal sangue, mi hai preso il volto tra le mani e ti avvicinasti al mio orecchio.
 
<< Hai ragione: forse è un bene che la prenda io la Gold Cloth, così potrò passare molto più tempo con Aiolos invece che con te >>
 
Non ci ho visto più. Il nome di quel damerino mi aveva mandato letteralmente il sangue al cervello; ti ho colpito allo stomaco, lasciandoti cadere ai miei piedi ansimante.
Ti diedi persino un calcio, facendoti rotolare di qualche metro.
Ero io ad avere la voce strozzata, un terribile nodo in gola che quasi mi impediva di respirare, mentre cercavo una risposta al perché mi stessi costringendo a vivere tutto ciò.
 
<< Vuoi sapere perché sei un maledetto egoista? Perché per tutta la vita non hai fatto altro che difendermi e prenderti cura di me, ed è quello che stai facendo anche adesso. Hai paura che perda, vuoi risparmiarmi quest’umiliazione, ma se vuoi che prenda quell’armatura, allora devi batterti seriamente con me! Non ho bisogno del fratello maggiore che si sacrifica per me. Credi che non sia forte abbastanza? E’ per questo che non vuoi lottare e lasciarmi vincere? >>
 
Ho continuato a colpirti imperterrito, parlando come un fiume in piena, fino a quando non sei riuscito a reagire e mi hai fermato il pugno a mezz’aria.
Ti sei alzato con sguardo truce, mentre con tutta la forza possibile cercavi di mettermi in ginocchio.
 
<< Non sei costretto a farlo >>

<< Ma io voglio! >>
 
Gridai con tutto il fiato che avevo in gola. Mi sono liberato dalla tua stretta e con un rapido gesto riuscii a girati il braccio verso la schiena, ribaltando completamente la situazione: eri tu quello in ginocchio, ma nessun rantolo di dolore uscì dalla tua bocca: troppo orgoglioso.
 
<< Adesso  lascia che sia io a farti una domanda >>
 
Sibilai al tuo orecchio.
 
<< Non vuoi batterti seriamente perché hai paura che il tuo fratellino sia diventato così forte da poterti battere, o sei davvero così egoista da umiliarmi e lasciar credere a tutti che abbia ottenuto l’armatura solo perché tu mi hai fatto il favore di concedermela? >>

<< Non lo farei mai >>

Non ti ho dato il tempo di proseguire, ho tirato talmente forte che, per un attimo, ho temuto di averti spezzato il braccio. Eri ai miei piedi, sotto gli occhi increduli dei nostri compagni e, se solo avessi potuto vederli, ero convinto che anche il Grande Sacerdote fosse particolarmente colpito.
Vedevo la rabbia nei tuoi occhi, anche se non lo davi a vedere: ti stavo umiliando anche io e non potevi permettermelo. Tu eri il dio del Santuario, un eroe, non potevi farti sconfiggere da me, la tua ombra; nonostante tutto, però, non accennavi a reagire, così decisi di giocare la tua stessa carta.
 
<< Allora è vero che hai paura…e come non averla: io mi sono forgiato dai miei stessi sacrifici, tu solo da belle parole, mi sto forse sbagliando? >>
 
Mi sono ritrovato steso a terra dolorante; con le mani premevo forte la testa, alla quale sentivo un dolore lancinante. Ero ai piedi di una colonna, sulla quale avevo sbattuto, a un paio di metri lontano da te.
Il tuo Cosmo era così potente da avermi scaraventato via senza problemi.
I tuoi muscoli erano tesi, il tempo per le parole era finito, e non vi era regalo più bello che potessi farmi, se non quello di lasciarmi andare con le mie stesse gambe.
Ti bruciava tutto questo, non riuscivi a sopportarlo.
Dovevi avere tutto sotto controllo, persino me.
Quante lacrime abbiamo versato durante quell’incontro? Tante. Forse troppe.
Finalmente ti riconoscevo e riuscivo a vedere in te il fratello di sempre, che pur di vedermi felice avrebbe rinunciato a tutto; non era facile acconsentire a una tale richiesta, vero? Ma ero forte abbastanza da tenerti testa e non avrei mai scelto la via più facile. Ero orgoglioso anche io.
 
<< Non puoi semplicemente ascoltarmi? >>
 
Scossi la testa con strafottenza, strappandoti persino un sorriso. Poi, con la stessa arroganza, ti avvicinasti alla velocità della luce, colpendomi sul naso.
Eravamo pari, pensasti con un sorriso fin troppo divertito.
In un primo momento non riuscii nemmeno a togliere la mano dal setto, come se mantenerla su di esso alleviasse il dolore; non mi aspettavo mi colpissi con così tanta forza e rabbia; eppure il tuo viso era così angelico, tranquillo, rilassato; avevi ragione: non vi era nulla che non andava in te, nessuna personalità cattiva.
Per un attimo avrei preferito combattere con i tuoi stessi demoni: ammetto che sarebbe stato molto più facile per me.
Picchiavi forte, come se stessi scaricando tutta l’odio accumulato; io non ero da meno e dopo aver esploso il mio cosmo, scaraventandoti nel bel mezzo dell’arena, illuminato da un’immensa luce dorata, ero pronto a farti io una sorpresa, sicuro che avresti gradito, a differenza mia.
Incrociai lo sguardo di Aiolos tra gli spalti, sbigottito quanto te; ghignai, convinto di avere la vittoria in tasca, sicuro e fiero per via della tua faccia, un misto tra paura e incredulità.
 
<< Non è possibile...tu non puoi… >>

<< Credevi non ti avessi mai visto farla? >>
 
Risposi con ira, la stessa che sentivo scorrere nelle vene; la stessa che sentivo riaffiorare piano piano insieme ai mille ricordi negativi, le illusioni e i dispiaceri che mi avevi arrecato.
Gridai due semplici parole:
 
<< Galaxian Explosion! >>
 
Le uniche parole che, ero sicuro, mi avrebbero portato alla vittoria che mi spettava.
La mia esplosione ti aveva travolto inesorabilmente; andato via il polverone, ti trovai steso a terra privo di forze.
Il Grande Sacerdote si alzò in piedi, tutti erano con il fiato sospeso e io mi avvicinai, pronto a sentirmi proclamare legittimo proprietario della Gold Cloth dei Gemelli.
Mi dispiaceva per te, ma non l’ho mai dato a vedere.
Mi guardavi sorridente dal basso, sembravi fiero di me; allungasti la mano, forse per congratularti.
Non l’ho mai saputo ad onor del vero, perché non te l’ho mai stretta.
 
<< Hai vinto >>

<< Sì >>

<< Sono… >>

<< Fiero di me, lo so >>
 
Tra tosse e affaticamenti vari facevo persino fatica a capirti. Barcollavi e a stento eri riuscito a sederti per terra, eppure il tuo volto serafico non era mai andato via.
 
<< Sono contento che abbia vinto tu e non qualcun altro >>

<< Ma di cosa stai parlando? >>
 
Alla mia domanda rispondesti con una risata isterica che cercai in tutti i modi di nascondere da occhi indiscreti; allo stesso tempo tenevo d’occhio il vecchio Shion, che sembrava pronto ad investirmi cavaliere, ma non appena ti vide in piedi, tornò a sedersi, forse convinto che tu volessi continuare a combattere.
Lo ero anche io finché non mi sei inciampato addosso.
 
<< Ora che sei cavaliere, devi promettermi una cosa >>

<< Che cosa? >>

<< Proteggi Athena, anche a costo della tua stessa vita. Ha fatto tanto per noi >>

Ti ho spinto via come se mi avessi appena insultato; mi sono liberato dalle tue mani bruscamente e ti ho guardato davvero come se fossi uno psicopatico.

<< Fatto cosa?!>>

Urlai, senza curarmi di farmi sentire o meno.
 
<< Separarci? Metterci l’uno contro l’altro? Arrivare al punto che ti odiassi? Sono queste le grandi cose che la Grande Dea ha fatto per noi?! Ti ha portato via da me e dovrei anche proteggerla?! >>

<< Non dire sciocchezze, è lo scopo di ogni cavaliere! Donarle la vita, lottare per lei! >>

<< Ma che mi importa di Athena?! >>
 
Ti diedi un pugno, talmente forte da buttarti in terra.
Prima ancora che potessi toccare terra, un fascio luminoso mi tagliò la strada e mi accecò gli occhi. Non vedevo più nulla. Una volta svanito, sbiancai e lasciai cadere le braccia lungo i fianchi.
Perché l’armatura d’oro, tutto ad un tratto, era indosso a te?
Mi voltai verso il Grande Sacerdote, ma sembrava stupito quanto me.
L’arena avvolta da un religioso silenzio, interrotto solo da irritanti bisbigli.
Ero un perdete? Ero la tua ombra? Era questo ciò che dicevano? Probabile, molti di loro mi stavano già schernendo, altri non credevano ai loro occhi, proprio come te.
Ti guardavi le mani ricoperte d’oro esterrefatto, sebbene non mi sia sfuggito il tuo sorriso entusiasta. Come non mi è sfuggito il tuo sguardo d’intesa con il tuo maledetto compagno.
Solo dopo ti sei ricordato di me e l’entusiasmo era finalmente svanito.
 
<< Io…mi dispiace Kanon >>
 
Balbettasti imbarazzato.
 
<< No...ha vinto il migliore, giusto? >>
 
<< Fermati e ascoltarmi..>>
 
Prima che tu potessi inventare chissà quali altre scuse, io mi ero allontanato con assoluta freddezza e in altrettanto silenzio avevo lasciato l’arena.
Una volta messo piede fuori la sentì esplodere in un fragoroso boato di gioia: il primo Gold Saint del Santuario era stato proclamato, dopo anni una delle dodici case delle zodiaco aveva finalmente un nuovo custode, e costui non ero io.
Mi ero lasciato sfuggire la vittoria dalle mani, neanche il tempo di poterla pregustare.
Avrei dovuto tener conto della tua furbizia: sapevi sempre come ottenere ciò che volevi, persino imbrogliando.
E come uno sciocco mi sono lasciato ingannare.
Proteggi Athena…certamente l’avrei protetta, dopo averti trasformato nel subdolo stratega quale eri diventato, avrei certamente dato la mia vita.
Non ero pentito delle parole che avevo detto, e perché avrei dovuto? In fondo, era la verità, ma eri troppo cieco per rendertene conto.
Ero così furioso che non ci pensai due volti a scagliarmi contro la tua stessa dea, frantumando una delle sue piccole statue sparse per tutto il Grande Tempio.
Arrivato a casa mi sedetti sulla solita sedia di legno, vicino alla finestra, intento a meditare.
Era vendetta ciò che volevo; ne ero talmente accecato che la mia mente si macchiò persino del tutto delitto.
Fortunatamente rinsavii un secondo dopo e pur di cancellar via quei perfidi pensieri, sciacquai abbondantemente il viso, finché le lacrime non furono completamente nascoste dall’acqua stessa.
In quel momento qualcuno entrò in casa; pensai subito a te ed ero pronto ad implorare il tuo perdono, ma una volta girato vidi solo una giovane ancella con un enorme vassoio di biscotti in mano.
Lo poggiò sul tavolo, mi sorrise e andò via.
 
<< Kourabiedes >>
 
Il loro odore era inconfondibile, ma non capivo il perché si trovassero lì. Guardai verso il calendario e capii il perché di quel dono.
Era il trenta Maggio; io e te compivamo gli anni.
Quattordici lunghi anni insieme, e sembrava solo ieri quando il vecchio Shion ci portò con sé.


Non voglio il tuo trenino.
Tienilo tu.
Papà me ne ricomprerà un altro.

 
 
   Prendilo.
Buon compleanno, fratellino.
 
 
Io e te saremo amici per sempre, vero?
 

 
Finché avrò vita.
Anzi, lo saremo anche quando non ne avrò più.
 
 
Mi prometti una cosa?
 
 
Cosa?
 
 
Quando accadrà, mi porterai con te?
 
 
Sempre.
 

Ero sicuro che avessi dimenticato anche quella promessa. Avevi dimenticato ogni cosa, persino quanto mi facesse soffrire l’idea di perderti.
Mi lasciai cadere sulla sedia, con i gomiti poggiati sul tavolo e lo sguardo perso tra quei meravigliosi biscotti, mentre, sempre più malinconico, ricordavo i momenti passati.
Aspettai a lungo quel giorno; non toccai i biscotti perché, una volta calmato, aspettavo pazientemente il tuo ritorno a casa.
Poi li mangiai.
Ad uno ad uno. Pezzo per pezzo.
La rabbia e la sete di vendetta erano tornate.
Fu il primo compleanno che non passammo assieme.
Sapevo che non saresti venuto, perché stavi festeggiando con Aiolos.
E io ero tutto solo.


Note
Buonasera cari lettori, eccomi di nuovo qui, su questa storia.
Avevo detto che il capitolo precedente sarebbe stato figlio unico in termini di lunghezza? Beh, mi sbagliavo. E d'ora in poi ho deciso di tenere la bocca chiusa a riguardo.
Mi scuso anche qui per non essere riuscita a postare prima per farvi gli auguri di Natale e di buon anno, quindi, anche se in mega ritardo, li rinnovo anche qui e, per tutti coloro che hanno sempre desiderato sentir parlare Saga, eccovi accontentati.
Non sono sicura che sia proprio questo che volevate sentirvi dire, ma sempre meglio di niente, no?
E come accennato da qualcuno, Kanon perde la sua occasione per...nulla, apparentemente per nulla.
Ah, se solo non gli avessi dato la parola.
So che l'incontro non è super dinamico e super epico come forse immaginavate, ma era da un po' che non ne scrivevo uno e devo riprenderci la mano.
Ah, se notate qualcosa di "diverso" in questo capitolo, non è nulla, solo mi piace sperimentare. Inutile dire che a destra troviamo Saga e a sinistra Kanon, lo avete già capito.
Finito il solito sproloquio, io vi ringrazio come sempre tutti, soprattutto per la pazienza e spero di tornare il più presto possibile.
Un bacio a tutti e buona lettura.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Solo ***


I giorni successivi alla tua investitura li trascorsi rigirandomi nel letto.
Non avevo alcuna voglia di uscire, né di vedere nessuno, così mi sono chiuso in quelle piccole quattro mura, circondandomi solo da noioso silenzio.
Uscivo solo in caso di necessità, per mangiare e andare in mensa, ad esempio; poi, con il passare dei giorni, cominciai a farmi portare lo stretto indispensabile in casa, fingendo di essere malato.
Non che le mie condizioni di salute fossero davvero importanti, dopotutto io non ero più in gara per le sacre vestigia e non avevo più alcun obbligo verso le ferree regole del Santuario: se mi allenavo o meno, non importava più a nessuno e, dopo poco, non importò più neanche a me.
Steso su quel letto, avevo persino perso la cognizione del tempo; non riconoscevo il Lunedì dalla Domenica; Agosto da Ottobre; le otto di mattina dalle due del pomeriggio.
Da quando avevi lasciato la piccola baracca per la più lussuosa Casa dei Gemelli, il tempo stesso sembrava essersi fermato.
Dopo il nostro compleanno ci siamo allontanati nuovamente: durante i tuoi primi giorni da cavaliere, mi venivi a trovare, giusto il tempo di una chiacchierata e poi sparivi nel nulla in compagnia del tuo inseparabile amico, entrambi ricoperti d’oro.
Parlavi sempre di doveri e di missioni; eri felice, i tuoi occhi si illuminavano ogni volta che parlavi della tua nuova posizione.
Io ti ascoltavo in silenzio, o meglio: fingevo di provare reale interesse per le tue parole, mentre nella mia mente non facevo che ripetere  quanto tutto ciò fosse ingiusto, perché dovevo esserci io al tuo posto.
Era così che doveva andare, ma il destino è stato infame per l’ennesima volta.
D’un tratto sei sparito. Non ti vedevo da giorni, forse settimane, o addirittura mesi.
Un’altra missione?
Mi chiesi, mentre poggiavo la testa sotto il cuscino, poco incline ad alzarmi.
Sì, certo che eri in missione. Un così forte e prode guerriero non può certo starsene con le mani in mano, pensai.
Da poco avevi preso l’abitudine di andar via senza dire nulla, neanche un saluto fugace; troppo impegnato per prestare attenzione ad un umile…cosa? Che cos’ero veramente?
Niente, assolutamente niente!
Lanciai via il cuscino arrabbiato, colpendo la piccola lampada sulla scrivania e mandandola in frantumi.
Indifferente mi voltai verso quel piccolo incidente e non me ne curai, anzi. Un secondo dopo, nella mia stanza irruppe un’ancella spaventata  e allo stesso tempo sorpresa nel vedermi in piedi.
 
<< Cos’è successo? >>
 
<< Non lo vedi? Si è rotta la lampada >>
 
Risposi indispettito a causa della sua poca arguzia.
 
<< Perché non stai più attento? >>
 
<< Perché non cominci a pulire, piuttosto? E poi, non mi sembra che tu sia autorizzata  a rivolgerti a me con questo tono! >>
 
Mi guardò indignata: non ero mai stato così insolente prima d’ora, per di più con gli inservienti, che fino a quel momento avevo sempre rispettato.
Lei diventò paonazza in volto; ero convinto che, se avesse potuto e se ne avesse avuto il coraggio, si sarebbe sfilata la scarpa e me l’avrebbe lanciata addosso senza alcun rimorso.
 
<< Tu non sei un… >>
 
<< Un cavaliere? >>
 
Terminai la frase al posto suo e facendole il verso, cosa che la fece adirare ancora di più. Il suo volto era bordeaux, quasi viola e le rughe che aveva in fronte molto più marcate.
 
<< Rimetti a posto! >>

Le ordinai con sguardo assassino; impaurita chinò la testa in segno di scuse, per poi obbedire ai miei ordini senza più replicare.
Ghignai soddisfatto, almeno potevo vantarmi di incutere timore alla servitù.
E ciò mi deprimeva ancora di più.
Entrato in cucina trovai la mia solita colazione composta da brioche, marmellata di fragole e, ormai, l’immancabile tazza di caffè.
Mi fiondai sul barattolo di marmellata, ignorando il resto.
Le mie giornate trascorrevano così: affogavo la mia frustrazione nello zucchero, per poi tornare a letto a dormire. Quando non avevo voglia di riposare, mi dedicavo alla lettura, e mi chiedevo quanto essa potesse mai rilassarti, considerando quanto fosse noiosa!
Non sentivo nemmeno la necessità di far entrare un piccolo spiraglio di luce dentro casa, non alzavo le tapparelle dal giorno del nostro combattimento, e avrei tagliato la mano a chiunque avesse anche solo pensato di farlo.
 
<< Ho rimesso a posto la tua camera >>
 
Esordì l’anziana ancella con tono solenne, entrando silenziosamente nella stanza.
 
<< C’è qualcosa che posso fare per voi? >>
 
Domandò con finta riverenza, ancora infastidita per il mio comportamento; io continuai a mangiare imperterrito, senza neanche alzare lo sguardo verso di lei.
 
<< Perché non te ne vai e mi lasci in pace?! >>
 
Dissi infine, stufo di trovarmela lì, impalata sulla soglia della porta, in attesa che le dicessi qualcosa.
 
<< Tu non eri malato? >>
 
Domandò ignorandomi.
Dall’alto del suo metro e sessanta scarso, mi guardò sospettosa e indagatrice.
 
<< Dovresti essere a letto.. >>
 
Mi canzonò, vedendomi nel pieno delle mie forze, mentre addentavo uno dei cornetti che mi aveva portato.
A quel punto alzai lo sguardo verso di lei furioso; la rabbia era talmente tanta che, il barattolo di marmellata che stringevo tra le mani, a causa della forza smisurata, mi si sbriciolò tra le mani.
 
<< E tu dovresti andartene, sguattera! >>
 
Sbottai facendola trasalire.
Il tavolo traballò e temendo una mia totale perdita di controllo, impaurita, decise di pormi le sue scuse e andare via.
Nello stesso momento in cui stava per uscire, tu varcasti la soglia di casa e per un attimo il viso di lei si rasserenò, tanto da ritrovare il coraggio perduto e sibilare tra i denti un semplice, quanto doloroso “piccolo mostro” carico di disprezzo nei miei confronti.
Dopo averti elogiato, si dileguò, lasciandoti interdetto.
Una volta soli, cercasti spiegazioni che non sono mai riuscito a darti: mi sentivo in colpa, ma allo stesso tempo non mi dispiaceva per il modo in cui mi ero comportato; a dir la verità, ero quasi divertito.
 
<< Nessuno mi chiamava così da ben sei anni >>
 
Contestai tra me e me, ridendo compiaciuto, mentre tu sembravi disgustato.
Prima che potessi dire qualcosa, mi alzai dal tavolo e mi lavai le mani; le asciugai lentamente sulla tovaglia; ti diedi solo una leggera occhiata di sfuggita e poi mi sedetti nuovamente, cominciando a zuccherare il mio caffè con dei gesti quasi meccanici, aspettando una qualsiasi mossa da parte tua.
Lentamente sfilasti l’elmo dalla testa e lo poggiasti sul tavolo con altrettanta lentezza. Lo stringevi come se fosse una reliquia, quasi avevi paura che si sporcasse o danneggiasse, atteggiamento che trovai ridicolo, ma questo fu solo un pensiero che tenni per me.
 
<< Dobbiamo parlare >>
 
Il tuo esordio non era dei migliori, considerando il respiro profondo che lo aveva preceduto, pensai, mentre cominciavo a sorseggiare quella bevanda scura, che ad ogni goccia mi sembrava sempre più amara.
Da un momento all’altro mi aspettavo una lunghissima paternale sul mio comportamento, le mie risposte poco cortesi, o proprio sul mio caffè e sul quanto fosse poco salutare per me, per quel che ti importava.
Sapevo che morivi dalla voglia di farlo, ma io non avevo alcuna voglia di ascoltarti.
 
<< Sparisci senza dire nulla. Torni. Non mi saluti neanche e mi dici che dobbiamo parlare? >>
 
Hai abbassato lo sguardo colpevole; ero bello sapere che ti rendevi conto di sbagliare, pur non ammettendolo.
 
<< Non ho avuto molto tempo >>
 
Questa era la tua giustificazione. Era la tua giustificazione per tutto, ultimamente.
Scrollai le spalle indifferente, decisamente troppo stanco per continuare a discutere sugli stessi argomenti, senza trovare una soluzione e ritrovarci costantemente al punto di partenza.
Non avevo più voglia di correrti dietro.
Il tuo sguardo si posò sulla mia colazione e subito emerse un radioso sorriso carico di speranza. Io alzai il sopracciglio interdetto, non cogliendo il motivo di quella strana felicità.
 
<< Non c’è niente per me? >>
 
<< Marmellata di fragole >>
 
<< Ma a me non piace.. >>
 
<< Allora non c’è niente >>
 
Il tuo entusiasmo svanì così come era venuto: in un lampo.
Sembravi deluso dal mio tono secco e brusco, forse speravi che da bravo fratello chiamassi un’ancella e le ordinassi di portare chissà quale genere di leccornia, e solo perché tu eri tornato. In realtà te lo aspettavi, in fondo io ero qui seduto ad aspettarti, mentre tu eri impegnato in giro per il mondo, fin troppo per farmi avere tue notizie.
Assurdo come da aspirante cavaliere mi fossi tramutato in una sorta di mogliettina apprensiva, costantemente in ansia per le condizioni del marito in guerra.
In cosa mi avevi tramutato? Credevi davvero che ti avrei accolto a braccia aperte, quando era palese che la mia presenza era solo un peso per te?
No, infatti. Eri fin troppo intelligente per farti sfuggire qualsiasi tipo di particolare, persino la mia silenziosa voglia di sbatterti fuori di casa a calci; eppure sei rimasto lì, con quella faccia da cane bastonato, mentre disegnavi dei cerchi immaginari sul tavolo e con voce fin troppo bassa e incerta per uno come te.
 
<< Perché non ti vesti e andiamo a farci un giro? >>
 
Ho dovuto sporgere l’orecchio per riuscire a comprendere a pieno le tue parole.
 
<< Non avevi qualcosa da dirmi? >>
 
<< Infatti >>
 
<< Allora dimmela! >>
 
Risposi esasperato, gettando con rabbia la tazzina di caffè nel lavabo.
Il tuo strano sobbalzo mi insospettì non poco: non ho mai creduto che un Gold Saint potesse impaurirsi per così poco, a meno che non fosse totalmente distratto.
Così cominciai a squadrarti meglio e notai un certo nervosismo: non era da te giocherellare con i capelli, o rigirarti continuamente le dita, talvolta anche contorcendole in modo quasi compulsivo. Il tuo sguardo era triste e preoccupato al tempo stesso, sudavi freddo e tuoi tic nervosi aumentavano ogni minuto.
 
<< Non ho molto tempo >>
 
<< Questo l’hai già detto. Perché non ti decidi a parlare, così l’Indomito Sagittario non sentirà più la tua mancanza? >>
Stizzito, roteasti gli occhi stizzito, massaggiandoti le tempie , il tutto sotto il mio ghigno divertito. Mi piaceva stuzzicarti, mi piaceva vederti stufo delle mie continue frecciatine, che ogni giorno diventavano sempre più velenose.
 
<< So che sei arrabbiato, ma non c’è motivo di essere geloso >>
 
Sgranai gli occhi e cominciai a ridere di gusto.
Dal rossore del tuo volto, ho dedotto di averti fatto infuriare, ma più guardavo il tuo sguardo serio, più non riuscivo a trattenermi. Mi sono preso il merito di aver cacciato via la tua ansia, nonostante la tua palese voglia di prendermi a schiaffi.
Ci ho sempre sperato. Ho sempre desiderato litigare, vederti uscire da quella porta e non farvi ritorno per un bel po’ di tempo, magari altri lunghissimi mesi.
 
<< Hai finito? >>
 
La tua pazienza era al limite e solo in quel momento sono riuscito ad alzare la testa e a riprendere il controllo, nonostante le lacrime agli occhi.
 
<< Sì…molto divertente! >>
 
<< Se hai finito di fare il buffone, avrei qualcosa di importante da dirti! >>
 
<< E io ti sto ascoltando, ma invece di andare dritto al punto, mi accusi di essere geloso di quel burattino che ti porti dietro! >>
 
<< Ancora con questa storia?! Perché non cresci mai? Ti sto chiedendo di ascoltarmi, ma sembra non te ne importi nulla, anzi ho come l’impressione che tu voglia solo litigare! >>
 
Non ho risposto, la mia faccia era fin troppo eloquente, tanto da rendere superflue persino le parole.
Ero addirittura con le braccia conserte in attesa che tu andassi via; era palpabile la tua delusione, ma non mi sono mai pentito per come mi sono comportato. Ero sicuro che, se fossi stato gentile e comprensivo come al solito, alla prima occasione mi avresti ferito di nuovo, e non potevi più permettertelo.
 
<< Devi sempre rendere le cose complicate, non è vero? >>
 
Quel sorriso amaro e i tuoi occhi chiari, che cominciavano ad inumidirsi, mi diedero una fitta al cuore; erano quasi riusciti a farmi cedere, così preferii volgere lo sguardo altrove e sentirmi meno colpevole.
Giocavi con il tuo prezioso elmo, rigirandolo tra le mani, fino a quando non hai deciso di sederti anche tu. Uno di fronte all’altro.
 
<< Visto che la mia presenza ti è poco gradita, sarò breve >>
 
Se tu non mi avessi trattato come un semplice contorno della tua vita, non avrei mai desiderato di cacciarti, ma ho preferito rispondere con un sospiro, piuttosto che litigare e poi pentirmi.
 
<< Quando sono diventato cavaliere, il giorno stesso della mia investitura, il Grande Sacerdote mi ha affidato una missione importante che fino ad oggi ho lasciato in sospeso. Ho tergiversato a lungo, sono stato richiamato ed è giunta l’ora di porre fine a tutto questo.. >>
 
<< Sei venuto fin qui per dirmi che hai del lavoro arretrato? Beh, mi fa piacere, ma non capisco perché questo debba interessarmi… >>
 
<< Devi andare via, Kanon >>
 
Un brivido mi percorse lungo tutta la schiena e il mio cuore si fermò.
Quella frase lo aveva colpito con così poco preavviso, senza neanche un indizio, lo stesso che io avevo rifiutato negandoti una semplice passeggiata, che altro non era che un tuo tentativo di temporeggiare. Strabuzzai gli occhi incredulo, per un momento ho sperato di aver sentito male; forse quel “devi”, in realtà era un “dobbiamo”, ma la tua faccia dispiaciuta non dava spazio a questa mia personale ipotesi.
 
<< Devi lasciare il Santuario, Kanon >>
 
Hai abbassato lo sguardo, come se ti sentissi colpevole, mentre io sono rimasto a bocca aperta.
Ti sei alzato e in un vano tentativo di consolazione hai provato a stringermi la mano, ma in un moto di rabbia ti ho allontanato, colpendoti al petto con tutta la forza di cui disponevo.
Avevo gli occhi umidi, stavo lottando contro me stesso pur di non mostrarmi debole, anche se eravamo soli; il mio gesto ti aveva ferito, hai tentato di consolarmi con un’insulsa carezza, ma ancora una volta mi allontanai.
Non c’era niente che potessi dire o fare per consolarmi, lo sapevi bene, altrimenti perché faticavi a guardarmi negli occhi? Hai lasciato che tutto ciò accadesse, senza mai opporti, e non è passato giorno in cui non mi chiedessi perché.
 
<< Vedo che, alla fine, sei riuscito a coronare il tuo sogno >>
 
Dissi ironico, con un sorriso rassegnato, in fin dei conti non mi rimaneva altro da fare.
 
<< Non ho realizzato nessuno sogno >>
 
<< Adesso niente e nessuno si metterà tra te e il tuo nobile cavaliere! >>
 
<< Tieni fuori Aiolos da questa storia, lui non c’entra niente! E lo stesso vale per me! >>
 
<< Certo, dimenticavo che tu sei solo un nobile servitore della giustizia ed esegui solo degli ordini. Se ti avesse ordinato di uccidermi, lo avresti fatto, non è vero? Perché non capisci che è solo una scusa per separarci? E’ quello che hanno fatto sin dall’inizio! Non pensi a quello che ne sarà di me una volta andato via? Perché devo andarmene? >>
 
Ti ho dato un pugno, appena sopra lo zigomo destro. Non mi sono controllato e il modo in cui difendevi a spata tratta il tuo amico, non ha certo contribuito a calmarmi. Tu, però, ti sei lasciato colpire: era troppo prevedibile per un guerriero di così altro rango; avresti potuto schiavarlo con estrema facilità, ma hai preferito lasciarmi sfogare, come a voler ammettere la tua colpa.
Subito dopo alzai la mano per colpirti nuovamente, ma mi hai fermato la mano a mezz’aria.
Con un rapido gesto mi asciugasti le lacrime, che senza alcun ritegno rigavano il mio volto deluso.
 
<< I confini del Grande Tempio sono destinati solo ai cavalieri di Athena. Chiunque non faccia parte delle sue schiere deve andarsene, in modo che i suoi segreti non vengano condivisi, o divulgati in territori nemici. Queste sono le regole >>
 
Le tue parole mi disgustarono al tal punto da spingerti via e dal sentirmi sporco solo al sentirti parlare. Come potevi condividere certe assurdità?
Stavo vivendo un incubo, ne ero sicuro, non riuscivo a trovare una valida spiegazione.
 
<< Sono qui da anni! E’ tardi perché non conosca i vostri maledetti segreti, non credi?! >>
 
<< Non ti rivolgere a me con questo tono! Non sono io che decido, non sono parole mie, non ho mai voluto cacciarti via! >>
 
<< Parlo come meglio credo, non darti arie da Gold Saint con me e limitati a fare il fratello maggiore! Sono solo al mondo, te lo ricordi?! >>
 
Silenzio; non ho mai capito se hai preferito rimanere zitto,  o non sapevi minimamente cosa rispondere.
Ti ho odiato con tutta la mia anima in quel momento; più chiedevo spiegazioni, più non ricevevo risposta. Stufo della tua esitazione, senza aggiungere altro sono andato in camera mia, sotto il tuo sguardo attento.
Diedi un calcio all’armadio, distruggendo una delle ante, per poi cominciare a rovistarvi dentro in cerca delle mie cose.
 
<< Che stai facendo? >>
 
Domandasti sulla soglia della porta, incerto se entrare o meno.
Ti fulminai. Non sopportavo quella tua finta ingenuità, soprattutto dopo avermi sbattuto per strada senza neanche protestare.
Sistemavo le mie cose alla rinfusa, stropicciando tutto il mio intero vestiario: a cosa mi servivano dei vestiti perfettamente stirati, quando vivevo abbandonato in un angolo della strada?
Sapevo che mi stavi osservando, ho contato fino a cinque, sicuro che mi avresti fatto la ramanzina sulla poco grazia e cura con cui trattavo i miei affetti, ma invece di cominciare a criticare, mi hai semplicemente afferrato il braccio.
 
<< Vieni con me >>

Con forza mi trascinasti fuori dalla stanza; tentai di opporre resistenza, ma la tua stretta era fin troppo solda da non permettermi via di fuga.
Avevi una forza incredibile, tanto che il mio braccio divenne ancora più bianco del solito: mi stavi stritolando e senza rendertene conto.
Le dita fredde e ricoperte d’oro non ti permettevano di calibrare bene la forza, tanto che cominciai a tirati i capelli pur di farti allentare la presa.
Dove eravamo diretti, non ne avevo idea e non riuscivo a tirarti fuori una sola parola a riguardo; per un attimo ho temuto che mi stessi letteralmente trascinando fuori dal perimetro del Santuario, e se così fosse stato, giurai a me stesso di disconoscerti come fratello. Avrei mentito fino alla morte a chiunque mi avrebbe chiesto, sarei diventato figlio unico all’improvviso.
Sapevi già muoverti alla velocità della luce e in pochissimi secondi raggiungemmo la meta, che altro non era che la Terza Casa dello Zodiaco, quella dei Gemelli.
Mi trascinasti all’interno delle stanze private e lì rimasi meravigliato: seppur l’arredamento fosse molto spartano, era ben visibile come tu vivessi nel lusso, servito e riverito, probabilmente, mentre io, a confronto, sembravo un lurido straccione con a malapena un tetto traballante sulla testa.
La mia agonia finì quando, una volta arrivati in fondo al corridoio, ti sei fermato davanti alla stanza più nascosta dell’intera casa.
Hai aperto la porta in fretta, come se avessi paura che qualcuno ci stesse osservando, e mi ci buttasti dentro. Davanti a me vi era una camera da letto, decisamente più vivibile di quella a cui ero abituato; era spaziosa, luminosa e non vi era solo un vecchio letto scricchiolante, ma anche una libreria, una finestra che dava su Atene, un armadio abbastanza capiente da contenere tutti i miei vestiti, anche se poco me ne importava.
Era incredibile come un tempio così piccolo visto dall’esterno, in realtà potesse contenere più di quattro stanze.
Finito di contemplare la stanza, mi girai interrogativo verso di te, che avevi l’aria di un ladro colto in flagrante.
 
<< Resta qui! >>
 
Pur di marcare il concetto, mi hai dato una leggera spinta.
 
<< C’è tutto quello di cui hai bisogno: un bagno, un letto…al cibo penserò io. Ho un’altra missione da compiere, non so per quanto tempo starò via, probabilmente giorni, o anche di più, quindi devi promettermi che non lascerai queste mura  per nessuna ragione al mondo >>
 
<< Sei pazzo! >>
 
Balbettai senza riuscirmi a trattenere. Era folle, il tuo piano era folle, eri totalmente impazzito e ciò che mi chiedevi era assurdo; ho cominciato a ridere istericamente perché non sapevo in che altro modo reagire ai tuoi evidenti vaneggiamenti.
 
<< Promettilo! Se qualcuno ti vede passerai dei guai, così come li passerò io! Nessuno deve sapere della tua esistenza, tranne me >>
 
<< Vuoi che viva rinchiuso qui dentro?! >>
 
<< No! Ma è l’unico modo che ho per tenerti accanto a me >>
 
Titubante mi allungasti la mano.
L’osservai a lungo, non del tutto convinto di volerla stringere.
Mi proponevi una vita da recluso; una vita che non aveva alcun valore, inesistente, perché io stesso sarei stato inesistente agli occhi degli altri. Tutti avrebbero creduto che me ne fossi andato e in poco tempo si sarebbero dimenticati di me, non sarebbe importato più a nessuno.
Era come se non esistessi, una vera e propria ombra come ero stato additato da tutti.
L’unico modo, avevi detto.  La tua unica soluzione era condannarmi per sempre alla solitudine.
Era davvero questo che volevi per me?
 
<< E’ tutto qui? In tutti questi mesi non sei riuscito a trovare una soluzione migliore? >>
 
<< Non posso separarmi da te e preferisco rinchiuderti qui, piuttosto che lasciarti andare >>
 
Egoista, non eri altro che un egoista.
 
<< Fidati di me >>
 
Mi hai pregato, porgendomi nuovamente la mano.
Non ho saputo dire di no a quella richiesta che, in fondo, sapevo provenire dal più profondo del tuo cuore, così come la tua assurda richiesta.
A modo tuo, hai tentato di salvarmi e te ne sono sempre stato grato.
Ti ho stretto la mano, pur sapendo che avrei sacrificato la mia vita per sempre.
 
<< Come pensi di tenermi nascosto? Gli inservienti puliscono ogni giorno; vi sono soldati che portano missive o vengono convocati dal Grande Sacerdote continuamente; i nostri compagni salgono per le dodici case per pura curiosità e queste ultime non saranno vuote ancora per molto, non ci hai pensato? >>
 
<< Questa è casa mia, Kanon. Nessuno saprà della tua esistenza, se io non voglio >>
 
Non hai aggiunto altro prima di andare via, se non un insulso l’occhiolino per rassicurarmi. Hai indossato l’elmo dei Gemelli e sei scomparso dalla mia vista, lasciandomi solo davanti ad una porta chiusa.
Ho sempre odiato il tuo modo di agire criptico e vago, soprattutto quando rischiavo di perdere la testa.
Non ti ho rivisto per diverso tempo e la Terza  Casa era troppo silenziosa, troppo. Ho rischiato di impazzire del tutto chiuso in quella stanza, senza neanche poter vedere la luce del sole, se non fuori da una delle finestre, o senza poter parlare con qualcuno.
Mi avevi chiuso in una gabbia dalla quale non potevo scappare; ho rimpianto i giorni in cui potevo godere della mia libertà, ma l’ho sprecata chiudendomi in casa. Mi sentivo soffocare da quello stesse colonne che ho sempre desiderato e in un moto di rabbia ho distrutto tutto ciò che mi trovavo davanti, riducendo la mia nuova camera da letto in polvere.


Note
Titolo alternativo: la strafottenza di Kanon.
Avrebbe reso meglio, ne sono sicura.
Buonasera a tutti, miei cari lettori? Sono tornata con un altro capitolo, come al solito lungo, ma già dal precedente mi ero ripromessa di non dire più nulla a riguardo.
E quindi il nostro Kanon deve andarsene, ma in realtà non se ne va. Comunque io proporrei di togliere il dono della parola al nostro caro Saga, e forse anche a suo fratello, che del dolce bambino innocente che abbiamo conosciuto, pare non abbia conservato più nulla.
Spero che anche questo capitolo vi piaccia e, esami permettendo, spero di tornare entro i primi di Febbraio, anche se non prometto nulla.
Un bacio a tutti voi e buona lettura.
P.s: ho sempre desiderato che Saga dicesse "non mi parlare con questo tono", sia da buono che da cattivo e a qualsiasi personaggio, così ho realizzato un mio sogno.
Divagazioni stupide a parte, vi saluto a tutti e, come di consueto ormai, vi aguro una buona notte.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Shion ***


<< Che ci facevi nella foresta? >>

Sapevo che prima o poi sarebbe successo.
Sapevo che prima o poi avrei fatto i conti con quella domanda e che al momento opportuno avrei fatto scena muta.
Le nostre bugie non potevano reggere, non davanti a lui, che con sotto quella inespressiva maschera che portava sul volto, mi guardava guardingo, con i suoi occhi dolci e il suo sorriso rilassato, certo di riuscire a mettermi in soggezione.
E ci riusciva, nonostante fosse l’uomo più pacifico e tollerante che io avessi mai conosciuto.
Mi ha pregato di seguirlo nelle sue stanze e io, con le spalle ormai al muro, non ho potuto far altro che acconsentire alla sua richiesta. In silenzio siamo arrivati al Grande Tempio, percorrendo strade di cui non ero mai stato a conoscenza; piccoli sentieri rocciosi, stretti e pericolanti, che circondavano il Santuario e, addirittura, conducevano alle dodici case. Durante il tragitto, mi sono chiesto come potesse un uomo così anziano avere l’agilità di un ventenne: si muoveva rapido e sicuro per quei sentieri instabili, a differenza mia che a stento riuscivo a mantenermi in piedi e ho rischiato di cadere in avanti più volte. Era chiaro che conoscesse quelle strade come le sue tasche, e a pensarci bene, mi era sempre più chiaro come riuscisse a giungere in qualsiasi angolo del Santuario al solo primo richiamo.
Non mi era chiaro, invece, perché mai preferisse perdere così tanto tempo a passeggiare, quando era risaputo da tutti che, tra le sue grandi abilità, vi era anche il teletrasporto.
Ad ogni modo, ciò che mi premeva più sapere non era il come avremmo raggiunto il Tredicesimo Tempio, bensì cosa sarebbe successo una volta arrivati a destinazione.
Mi avrebbe ucciso? Avrebbe ucciso te? Ti avrebbe tolto l’incarico e l’armatura dei Gemelli? Questo non mi sarebbe dispiaciuto, se solo la mia testa non sarebbe rotolata sul pavimento una volta accaduto.
Ma di cosa mi preoccupavo? Se fossi sopravvissuto al Grande Sacerdote, la mia vita sarebbe comunque finita dopo il nostro faccia a faccia.
E tutto perché ho desiderato un po’ di liberta e della semplice aria pulita!
Sono scappato via dalla Terza Casa: non ne potevo più di vedere intorno a me degli insulsi muri bianchi senza vita e ciò che rimaneva dei miei stessi affetti, che avevo ridotto in frantumi dopo l’ennesimo moto di rabbia!
Volevo godermi il sole di Settembre, i raggi tiepidi di fine Estate e magari andare a mare. Ed era proprio quella la mia meta, se non mi fossi sentito troppo in colpa nei tuoi confronti e non avessi deciso di fermarmi in una delle tante foreste che circondavano il Santuario, appena fuori dai suoi confini.
Mi sono fermato sulle rive di un ruscello; dalla gioia mi sono sciacquato la faccia, immergendoci la testa, perché non ero sicuro di essere sveglio, tanta era la meraviglia di riconoscere il verde delle foglie, l’odore dei muschi, la freschezza dell’aria che mi carezzava il viso.
Sarei rimasto lì in eterno pur di non tornare in quella prigione.
Cinque minuti e vado via, mi sono ripromesso nella testa, mentre mi rotolavo sull’erba come un bambino.
Quei cinque minuti divennero, dieci; poi divennero quindici ed infine venti.
Che c’era di male nel concedersi un po’ di libertà?
Nulla, così mi sono addormentato e non mi sono reso conto del tempo che passava.
Mi svegliai che il sole era sull’orlo di tramontare; balzai in piedi e mi incamminai verso casa a passo svelto. Sulla strada del ritorno, proprio sul confine che separa il Santuario di Athena dal resto del mondo, mi trovai davanti alla figura del Grande Sacerdote, che come molti anni fa era girato di spalle, con le braccia incrociate dietro la schiena. Era in attesa, e sapevo già di chi.
Impallidii quando si voltò: il suo sguardo inespressivo mi fece tremare le gambe, e del tutto istintivamente corsi via verso la foresta. Non sapevo dove stessi realmente andando, sapevo solo che non dovevo farmi prendere, ma non appena mi lasciai alle spalle il Grande Tempio e raggiunsi nuovamente il mio piccolo paradiso, me lo ritrovai davanti, sempre nella medesima posizione.
Non avevo via di fuga, ancora una volta ero in gabbia.
 
<< Kanon? >>

Mi aveva richiamato con voce bassa, fermandosi al centro del Tredicesimo Tempio, ma io ero troppo impegnato a guardarmi attorno e a riconoscere quel luogo come il luogo che mi aveva salvato la vita da bambina, per poi scoprire che così non era stato una volta cresciuto.
Persino Shion era cambiato ai miei occhi: ho cominciato a nutrire sempre più odio per quel vecchio, reo solo di avermi allontanato da ciò che avevo di più caro, eppure, da bambino, per me era un eroe.
Covavo il mio odio in silenzio, in quella maledetta stanza in cui ero stato relegato, dove lui stesso mi aveva gettato senza un briciolo di umanità. Diveniva ogni giorno più marcio, come il nostro rapporto.
 
<< Kanon! >>

Alzò la voce, questa volta catturando la mia attenzione del tutto.
Poggiò una mano dietro la mie spalle e mi invitò a seguirlo nelle sue stanza private. Lì mi invitò a sedermi al suo tavolo, dove vi erano migliaia di fogli e scartoffie sparsi alla rinfusa.
Prima di accettare l’invito, non capendone il motivo, rimasi in piedi a fissarlo. Doveva punirmi o farmi assistere al suo noioso lavoro? Non capivo.
Senza alzare gli occhi dalle carte, tirò indietro la sedia accanto a lui, invitandomi ancora una volta a prendere posto. Accettai senza dire una parola, mi limitai a sospirare spazientito.
Non appena mi sedetti, un’ancella entrò nella stanza, portando con sé un vassoio di biscotti che poggiò sotto il mio naso, dopodiché uscì, non prima di aver reso omaggio al Grande Sacerdote.
Guardai quest’ultimo incredulo, poi di nuovo i biscotti: me li stava offrendo.
Perché farmi mangiare, se poi doveva punirmi, magari con la morte? Ancora una volta non capivo.
 
<< Non sono avvelenati, se è questo che stai pensando.. >>

Disse con leggera ironia, per poi incitarmi a prenderne uno. Li guardai nuovamente e solo allora mi accorsi che erano i miei preferiti: i kourabiedes.
Avevano lo stesso odore di quelli che faceva la nonna, persino la stessa forma, lo stesso colore e lo stesso sapore.
 
<< Non ha intenzione di uccidermi? >>

Chiesi con un leggerissimo timore nella voce.
 
<< Io non uccido, non è il mio compito >>

Rispose tranquillamente, senza alcuna alterazione della voce.
Assottigliai gli occhi, guardandolo torvo, sapendo su chi sarebbero potute ricadere le conseguenze delle mie azioni.
 
<< Non farò del male neanche a tuo fratello, puoi anche abbassare la guardia >>

Disse ancora ironico, lasciandomi a bocca aperta per lo stupore e poi silenzio. Solo il rumore della penna che scorreva sulla carta era udibile in quell’enorme stanza, che seppur calda, era spoglia da qualsiasi tipo di affetto appartenente al proprietario.
 
<< Che ci facevi nella foresta? Hai trovato ciò che cercavi? >>

Ancora quella domanda, alla quale, però, se n’era aggiunta un’altra. Inutile dire che neanche ad essa sapevo dar risposta, più che altro perché non ne capivo il senso.
Cosa avrei dovuto cercare, se non un po’ di libertà?
 
<< Niente, Signore >>

Mugugnò poco convinto e le mani cominciavano a sudarmi. Mi agitavo su quella sedia nel tentativo di trovare una scusa convincente, pregando allo stesso tempo che quella tortura psicologica finisse al più presto.
 
<< Ma tu sai cosa stavi cercando? >>
 
<< Forse… >>
 
<< Tuo fratello? >>
 
Scrollai le spalle poco convinto e annuii, abbassando velocemente gli occhi.
 
<< Non puoi cercare qualcosa che già hai! >>

Deglutii nervosamente, cominciando a dondolarmi su se stesso, poi aggrottai la fronte, una volta elaborato e compreso al meglio le sue parole.
Mi voltai incredulo verso di lui e con sgomento notai che non stava più scrivendo, ma mi stava fissando, con il mento poggiato su entrambe le mani.
Quella maschera scura, con quei profondi occhi rossi mi osservava con insistenza e sotto di essa, sapevo che i suoi veri occhi facevano lo stesso, accusandomi e rammentandomi di non essere altro che un bugiardo.
Il complice di un bugiardo, ad essere onesti. Ma questo non mi scagionava affatto, anzi.
 
<< Lei lo sapeva? >>
 
<< Non basta un labirinto, creato a regola d’arte, per far si che qualcosa sfugga al mio controllo, ma riconosco le grandi capacità illusorie di Saga… è davvero sorprendente >>

Io vivevo come un cane e aveva pure il coraggio di esaltare la tua follia!
Tutto questo era assurdo e mi lasciava del tutto senza parole, ancor di più se pensavo a quanta pena ci siamo dati affinché non venissimo scoperti!
Tutto inutile!
 
<< Nessuno sarebbe arrivato a te, a meno che tuo fratello non l’avesse voluto; una casa apparentemente vuota, ma che al suo interno cela un segreto fin troppo grande per due ragazzini; un labirinto che conduce ovunque e da nessuna parte, a discrezione del creatore, tranne che ad una sola stanza della casa…perché mi guardi così sconvolto? Concorderai con me, quando dico che tuo fratello è un essere straordinario: ha continuato a proteggerti persino dall’altra parte del mondo e ha allontanato da te tutti coloro che riteneva essere una minaccia per il vostro segreto…è un peccato che io abbia così tanta esperienza, non è vero? Anche se, ho sempre saputo che non avrebbe mai portato a termine la missione.. >>

Rise da sotto la protezione, mentre io mi chiedevo se la sua fosse una ramanzina nei miei confronti o l’ennesima esaltazione del tuo essere speciale, perfetto, magnifico e altre stupidaggini con il solo fine di farmi infuriare!
 
<< Quindi era solo una prova, voleva testare la sua fedeltà?! >>
 
<< No >>
 
Mi lasciai cadere sullo schienale della sedia atterrito.
Lui invece era calmo e rilassato, così come la sua voce; si drizzò sulla sedia, poggiando entrambe le mani sui braccioli in oro, ridendo ancora, forse per la mia espressione attonita.
Mi stava forse prendendo in giro? Probabile, dopotutto l’aveva fatto per anni.
 
<< Perché gli ha affidato l’incarico? >>
  
<< Perché è mio dover far rispettare le regole e il volere della Dea e due gemelli non sono consentiti >>

“Due gemelli sono una disgrazia! Ti ho sempre detto che quel piccolo demonio non avrebbe portato altro che guai! Sbarazzatene finché sei in tempo!”
Le parole che mia nonna disse a mio padre, e io, quella sera, ero accidentalmente dietro la porta. Non le ho mai dimenticate, come non ho mai dimenticato i tuoi vani tentativi di consolazione, ma io non aprii mai bocca.
Le parole di Shion erano le stesse, seppur dette con più garbo e comprensione, e sortirono lo stesso effetto di allora; avevo un grosso nodo in gola, gli occhi cominciavano ad inumidirsi, ma non potevo piangere davanti a lui, non l’avrei mai permesso.
 
<< Quando due giovani ambiscono alla stessa armatura, di solito, uno dei due soccombe…ma tu sei ancora vivo.. >>

Spiegò con voce roca, fin quando non sparì del tutto, tramutandosi in una roca tosse.
 
<< Era il suo piano sin dall’inizio, o me o lui?! >>
 
<< Io non uccido, te l’ho già detto >>

Tossì ancora, poi, lentamente, si sfilò la maschera dal viso.
Finalmente riuscivo a vederlo e con enorme stupore non vidi uno sguardo cattivo, freddo o calcolatore, ma un volto ormai segnato dal tempo e stanco; due grandi occhi dal taglio orientale, di un azzurro quasi sbiadito, come il colore dei suoi capelli, segnati da profonde occhiaie e rughe. Mi guardavano con dolcezza e compassione, quasi come se non volessero farmi pesare il fatto di non essere accettato per l’ennesima volta.
Un sorriso serafico dipinto sulle labbra, che si allungarono appena, una volta compreso il mio disagio.
 
<< Tu e Saga siete gli unici ad aver visto il mio volto. Perché usare dei filtri con chi ti conosce già? E poi, non posso proprio nascondermi da voi.. >>

Scossi la testa turbato: tutto ciò era inconcepibile! Eravamo seduti su quel tavolo da un buon quarto d’ora e avevamo parlato di tutto e niente, mi chiedevo allora a che scopo farmi salire fino alla Tredicesima Casa se, in realtà, io e te potevamo vivere tranquillamente come aveva sempre fatto.
 
<< Io non capisco…davvero >>

Confessai, buttando indietro la schiena, ormai arreso.
Se il suo scopo era quello di confondermi vi era riuscito in pieno. In questo era persino peggio di te, e non mi sarei dovuto sorprendere, in fin dei conti il Grande Sacerdote è sempre stato avvolto da uno strano alone di mistero, ma fino all’ultimo ho sperato che fossero solo dicerie.
 
<< Allora è il caso di ricominciare da capo: tu cosa stai cercando? >>

Esordì con lo stesso entusiasmo di un bambino davanti ad un giocattolo nuovo; io alzai dubbioso un sopracciglio, pensando che non vi era tortura peggiore di qualcuno che cerca disperatamente di scavare dentro la tua anima, e senza una valida ragione.
Pensandoci, forse era proprio quella la mia punizione.
 
<< In questo momento risposte.. >>

Annuì, esortandomi a proseguire,  e io, ormai con le spalle al muro, decisi di reggere quel suo strano gioco.
 
<< C’è qualcosa che devi dirmi? >>
 
<< Perché mi ha portato qui? >>
 
<< Perché tutto accade per un motivo >>

A quella affermazione sbiancai.
Quelle erano le mie parole, il mio personale palliativo alle continue disgrazie e ai miei continui fallimenti.
Sgranai gli occhi e dovetti ammettere di essere leggermente terrorizzato da quel vecchio, per cui io ero un libro aperto.
 
<<  Non ti sei ma chiesto perché tuoi parigrado muoiono durante l’addestramento, mentre tu sei ancora qui? Sei qui, ma non dovresti, perché? >>
 
<< Non lo so, Signore >>
 
<< Eppure tutto ha un perché… >>
 
<< No, non è vero! Io non so cosa vuole sentirsi dire, non sono perfetto come lui, non ho sempre la risposta pronta o un sapere innato che mi permetta di risolvere qualsiasi problema della vita! Io non so perché sono qui, non so cosa devo fare! >>

Sorrise soddisfatto, felice di udire quelle parole, che sembrava aspettare da tempo.
A quel punto mi soffermai un po’ a pensare, sperando di venir a capo a quello strano rebus che era diventata la nostra conversazione.
E finalmente capii.
 
<< Ora sapresti rispondere a quella domanda? >>
 
<< No, non l’ho trovato. Non ci riesco >>
 
<< Perché? >>
 
<< Come faccio a trovare la mia strada, se sono un semplice un ragazzo? Che scopo può avere uno come me? >>
 
<< Tutti siamo utili e tutti abbiamo uno scopo >> tentò di tranquillizzarmi, scompigliandomi i capelli << Vedi, Kanon, non siamo tutti uguali e non tutti troviamo ciò che cerchiamo allo stesso modo. A volte, la strada non ci si presenta sempre dritta, ci sono muri, buche, deviazioni da prendere, e tutti questi ostacoli hanno un compito ben preciso: farci crescere. Sono le nostre decisioni e le nostre azioni a determinare chi siamo. Ti senti inutile perché hai fallito la tua prova, ma non hai mai pensato che, forse, il tuo scopo è un altro? >>
 
<< Ad esempio? >>
 
Chiesi e questa volta incuriosito davvero. Non ero del tutto convinto di seguirlo, anzi, ero estremamente convinto che il vecchio stesse vaneggiando, considerando anche la veneranda età, eppure sembrava perfettamente lucido e nel pieno delle sue facoltà mentali.
 
<< Sei tu che devi trovare la strada, non posso farlo io per te. Non c’è bisogno che ti dica quanto la vita possa essere crudele e, spesso, è proprio lei stessa ad essere nostra nemica, mettendoci davanti a delle difficoltà e costringendoci a prendere decisioni  che potrebbero farci soffrire. Non è forse quello che è accaduto a tuo fratello? Pensaci, forse non è stato solo un capriccio.. >>
 
Non avevo mai visto le tue azioni sotto questo punto di vista. Ho sempre pensato che dietro ad esse vi fosse solo un’evidente squilibrio mentale; cercando più a fondo, l’unica cosa che mi veniva in mente era l’affetto che provavi nei miei confronti, seppur discutibile, considerando anche quanto ti piacesse giocare a Mamma e Figlio.
Qualcosa negli occhi di Shion, mi suggeriva che quella non era altro che la punta dell’iceberg e che avrei dovuto scavare ancora più in profondità
 
<< No, credo di no.. >>

Risposi ancora assorto nei miei pensieri, specchiandomi nei suoi occhi vispi e tristi allo stesso tempo.
 
<< Tutto accade per un motivo. Tutti noi prendiamo delle decisioni, persino io ne sono costretto in questo momento e ti confesso che ho paura, tanta paura, ma ho un mio percorso e devo percorrerlo, per quanto buio e sconnesso >>
 
<< C’è un motivo se è stato Lei a trovarmi, non è così? >>

L’uomo sorrise caldamente, rilassandosi sulla sedia, ormai pienamente soddisfatto, direi quasi contento.
 
<< Molte strade sono destinate ad incrociarsi, altre a perdersi e poi ricongiungersi. Tutto dipende da noi >>
 
<< Dimentica una cosa: io non sono bravo in queste situazioni, potrei accidentalmente cadere in un buca.. >>
 
<< E’ più utile una buca, che un sentiero ben assestato. Si impara più da un errore che dal successo, non dimenticarlo mai, Kanon. A volte, è necessario cadere e smarrire la via, per imparare a rialzarsi e trovare la forza di riprenderla, ed è il modo in cui scegli di rialzarti a fare la differenza >>
 
<< Ma io non voglio perdermi >>
 
<< Chi non si è mai perso una volta? Persino gli déi lo fanno. Ad esempio: se Castore non fosse mai sceso in battaglia e se non fosse mai morto, credi che lui e Polluce si sarebbero ricongiunti? >>
 
Un brivido mi percorse lungo la schiena e, probabilmente, il sangue mi si gelò nelle vene, letteralmente.
Tempo fa mi avevi parlato dei Dioscuri e come allora provai la stessa situazione di disagio, sentendomi paragonare per l’ennesima volta al Fratello Mortale.
Non poteva essere un caso, e niente riusciva a togliermi dalla mente che quel vecchio sapesse molto di più di quanto ci era concesso sapere. Ma io volevo sapere! Volevo capire se un giorno anch’io avrei goduto della stessa tua fama e se quel giorno le nostre differenze avrebbero, finalmente, cessato di esistere, rendendoci uguali, un unico individuo.
Ma non si sarebbe sbilanciato, continuava a parlare tramite metafore e frasi pseudofilosofiche che faticavo a comprendere!
 
<< Nella vita ci sono dei fattori scatenanti che ci permettono di andare avanti lungo il percorso, Castore ha scelto il suo >>
 
<< Mi serve qualcosa che mi aiuti a cambiare la mia situazione.. >>

La mia risposta fuoriuscì in maniera automatica, senza pensare, come se già sapessi cosa dovevo dire.
 
<< Trovalo e troverai ciò che cerchi >>

Sentenziò, infine, dandomi una pacca sulla spalla.
Il perché mi stesse aiutando a trovare la mia strada era ancora un mistero, ma non potevo non ammettere che, a modo suo, era stato decisamente illuminante, anche se solo in parte.
 
<< Ma non so cosa cercare, esattamente! >>

Risposi spazientito, stufo di cose dette e non dette, io volevo certezze! Perché non poteva semplicemente dirmi cosa fare, invece di fare esempi su esempi, con il solo risultato di confondermi le idee!
Stavo per ribattere, alzarmi e tornare a casa, quando la nostra conversazione venne interrotta da uno stridulo pianto di un’infante, provenire dalla stanza dietro le nostre spalle.
Il Grande Sacerdote si alzò, pronto a prendersi cura di quella marmocchia insopportabile, venuta fuori dal nulla.
E pensare che era proprio lei la causa dei nostri guai e quasi me ne vergognavo al pensiero! Provavo più vergogna per te, a dire il vero, che avevi rinunciato a tutto per metterti a servizio di una neonata, come se fosse capace di guidare un esercito e garantire la pace!
Prima di andare via, Shion si fermò ancora qualche secondo con me, dicendo:
 
<< Lo sai, dentro di te lo sai. Spesso non serve neanche cercare, abbiamo tutto sotto gli occhi. Perché non provi a guardarti intorno? >>
 
Detto questo, dopo avermi scompigliato i capelli in modo affettuoso, scomparve dietro ad una tenda.
Alle successive urla della piccola, dovetti coprirmi le orecchie per evitare di diventar sordo! Dopo la chiacchierata con il Grande Sacerdote ero frastornato, la testa mi scoppiava ed ero addirittura stanco, e quel  pianto disperato di certo non mi giovava: speravo che la zittisse al più presto, poi decisi di tornare nella mia “tana” ad aspettare il tuo ritorno, o a sorbirmi anche la tua di ramanzina.
Prima di lasciare la stanza, qualcosa catturò la mia attenzione: uno scrigno dorato, poggiato su un piedistallo in legno.
Era l’unico oggetto di valore presente nella stanza; così, spinto dalla curiosità, mi avvicinai ad esso; mi guardai le spalle per timore di essere scoperto, poi decisi di guardare cosa vi fosse al suo interno.
Dall’aspetto sembrava qualcosa di importante, mi chiedevo perché fosse lasciato incustodito; poi mi ricordai che nessuno aveva accesso alle stanze del Grande Sacerdote, persino chiedergli udienza sembrava un’impresa impossibile, figuriamoci se poteva preoccuparsi di qualche povero sventurato intento a curiosare all’interno del Tredicesimo Tempio!
Io, però, non ero uno sventurato, ero stato invitato, e se tutto accade per una ragione, allora vi era anche una ragione per cui io aprissi quello scrigno.
E così feci.
Sopra la stoffa di velluto rosso, vi era poggiata una daga dorata.
La presi in mano, la guardai affascinato e me la rigirai tra le mani.
E lì, mi sono perso.


Note
Ragazzi, stappiamo! Finalmente ce l'abbiamo fatta.
E niente, questo è ciò che accade quando scrivi durante la sessione d'esami e riprendi quando cominci a studiare la filosofia tedesca.
Questo capitolo non ha niente a che fare con la filosofia tedesca, o la filosofia in generla, fortunatamente...più che altro sono un miscuglio di vaneggiamenti, anche un po' personali.
Io amo Shion, dopo Saga è il mio personaggio preferito, e non avrei mai pensato di poterlo odiare un giorno, ma dopo aver scritto questo capitolo è successo! E' stato molto difficile scriverlo, se non il più difficile, per questo ci ho messo più del solito.
Spero che non vi confonda le idee, anche se mi rendo conto che è decisamente confusionario. Ho un po' di difficoltà con gli anziani maestri, infatti ho scritto su Shion sempre e solo in versino giovane, mi sono aiutata come meglio potevo.
Spero vi piaccia lo stesso, pur non avendo grandi pretese.
Un bacio e alla prossima.
Buona lettura.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3223582