Il passato non muore mai

di Martin Eden
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Non c'è due senza tre ***
Capitolo 3: *** In cerca di una scomoda verità ***
Capitolo 4: *** Onora il padre ***
Capitolo 5: *** Per amore o per gioco ***
Capitolo 6: *** Via da qui ***
Capitolo 7: *** Chi dorme non piglia pesci ***
Capitolo 8: *** Non avere paura di me ***



Capitolo 1
*** Intro ***


- INTRO -


   Se riesci a conservare il controllo quando tutti intorno a te
lo perdono e te ne fanno una colpa;
   se riesci ad aver fiducia in te quando tutti ne dubitano,
ma anche a tener conto del loro dubbio;
   se riesci ad aspettare e a non stancarti di aspettare,
o se mentono a tuo riguardo a non ingolfarti nella menzogna,
o se ti odiano, a non lasciarti prendere dall’odio,
e tuttavia a non sembrare troppo buono e a non parlare troppo saggio;
 
   Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;
   se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;
   se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina
e a trattare allo stesso modo quei due impostori;
   se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto
distorta dai furfanti per abbindolare gli sciocchi,
o a contemplare le cose cui hai dedicato la vita infrante,
e a piegarti a ricostruirle con arnesi logori;
 
   Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite
e rischiarle in un colpo solo a testa o croce,
e perdere e ricominciare dal principio
e non fiatare parola sulla perdita;
   se riesci a costringere cuore, tendini e nervi
a servire al tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
e a tener duro quando in te non resta altro
che la volontà che dice “Tenete duro!”;
 
   Se riesci a parlare con la folla e a conservarti retto
e a camminare con i Re senza perdere il contatto con la gente,
   se non riesce a ferirti il nemico né l’amico più caro,
   se tutti contano per te ma nessuno troppo;
   se riesci a occupare il minuto inesorabile
dando valore ad ogni istante che passa,
   tua è la Terra e tutto ciò che è in essa
e - quel che è più - sei un uomo, figlio mio!
 
                                                                       di  Rudyard Kipling 
   





*SALVE!!!!*
Sono finalmente tornata! Chi ha amato la mia storia "Lo scrigno del potere", pubblicata in questo sito, sarà lieto (spero) di trovare oggi questo aggiornamento. Quali preludi celerà questa poesia, scelta apposta per questa storia? :) Per chi vuole lasciare un commento, un'ideuzza, un appunto, sarò felice di leggerlo. Scrivetemi! A presto :)

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Capitolo 2
*** Non c'è due senza tre ***


CAP. 1 – NON C’E’ DUE SENZA TRE

 
 
Sei anni dopo.
 
 
   Will Turner aprì la portafinestra che dava sul giardino e uscì nel tiepido sole di quella mattina.
   Il rumore del mare vicino corse a salutarlo: sciaquio di onde in calma, grida di gabbiani, una dolce melodia per chi sapeva ascoltare.
   Will si appoggiò alla balaustra del balcone e si lasciò accarezzare da mani gentili e incorporee. L’odore salmastro rievocava troppe cose alla sua mente, ricordi che non aveva il coraggio di cancellare: gli erano cari e dolorosi allo stesso tempo.
   La brezza gli raccontava di un amore perduto tra quelle onde azzurre, un amore di cui Elizabeth sapeva poco o nulla, e che in ogni caso non avrebbe capito. Per questo non glielo aveva raccontato. Lei era ancora bella come un tramonto di sera, ancora piena di vita nonostante le disavventure passate, nonostante la stanchezza e una malinconia a cui lui non aveva mai potuto partecipare.
   No, questo era un segreto tra lei e l’oceano. Il suo piccolo segreto.
   Will spaziò con lo sguardo nel cortile. Sorvolò i cespugli di rose, così malcurati. Avrebbe voluto che ci fosse un bambino, lì a giocarci, ma il destino non aveva donato a lui e Elizabeth la gioia di quel figlio tanto desiderato e cercato, per chissà quale ragione. Certo che il fato è strano, a volte. Li aveva salvati da mille pericoli per poi toglier loro quella piccola felicità. Strano davvero.
   Elizabeth ne era rimasta molto delusa. Così delusa che a tre anni dal matrimonio aveva pensato che era meglio non provarci più con tanta tenacia; a dire il vero, avevano quasi smesso di provarci del tutto. Altri tre anni erano passati da allora, ma questo non era servito a migliorare le cose fra loro. Elizabeth si era rinchiusa sempre più in se stessa, come un riccio; lui, dal canto suo, tentava di costruire la serenità su deboli fondamenta. Non ce l’aveva fatta. E nemmeno lei.
   Un giorno, dopo una delle solite discussioni – che ormai coronavano le loro giornate, tutte uguali -, era fuggita in camera, aveva raccolto i suoi vestiti e li aveva stipati nel baule. Il giorno dopo aveva già chiamato il facchino, e a nulla erano valsi gli sforzi di Will per farla restare. Gli aveva gridato in faccia la sua verità e la sua rabbia, un’ultima volta.
   Poi se n’era andata, trascinandosi dietro quell’abito che ormai le stava stretto, ma di cui andava così orgogliosa. Era sempre stata una donna orgogliosa, e anche in quel momento lui non aveva potuto non ammirarla. Controluce, contro di lui, in strada, sotto quell’ombrellino sgualcito. Non gli aveva nemmeno detto addio, né rivolto un cenno di saluto.
   Will non aveva potuto farla tornare, non quella volta. Ripensandoci, gli venivano in mente soluzioni che non avevano mai sperimentato, parole che non erano mai state dette, sentimenti che forse sarebbe stato il caso di appendere al muro, ma ormai era tutto inutile. Non aveva più una donna con cui parlarne. Quella casa era vuota, con lui dentro, fagocitato da tanta nullità.
   Will, in effetti, si sentiva nulla ora. Anzi, a volte non si sentiva nemmeno. Andava al lavoro, fabbricava le solite spade, si guadagnava da vivere col sudore della fronte; poi tornava a casa. Così si andava avanti, senza troppe pretese.
   Spesso non si rendeva conto se fosse notte o giorno. Non dormiva molto bene, ultimamente, e i suoi sogni erano popolati da fantasmi scuri che lo aggredivano e lo trascinavano giù, in un buio senza fine. Spesso aveva la sensazione di precipitare verso il basso, ma non toccava mai il fondo di quel baratro. Riposare non era più un piacere, ma solo il prolungamento dell’incubo che stava vivendo e da cui cercava di riscattarsi, invano. Si sentiva debole e solo.
   Era debole e solo.
   Alzò gli occhi: un rumore, poco lontano.
   Aguzzò la vista e tese l’orecchio. La vita gli aveva insegnato che essere sospettoso era solo un bene. Ma non vedeva nulla, con quel sole.
   Si concentrò di più. Ripercorse il vialetto che da casa sua conduceva in strada, fino ad arrivare al cancello chiuso. Dalla sua posizione poteva vedere bene anche la strada stessa, e su questa ricadde la sua attenzione.
   Aveva scorto una figura che camminava spedita, a un passo quasi febbrile, all’altro lato dell’acciottolato. Portava un mantello lungo e scuro, e un buffo cappello da marinaio; i movimenti come dettati da fretta e timore. Will lo osservò a lungo, immobile.
   Gli ricordava qualcuno.
   La figura attraversò la strada deserta; si guardò un po’ intorno, come a controllare che non ci fosse nessuno. Will la vide ripararsi il viso con una mano, quando si voltò verso di lui e la sua casa. Attraverso l’inferriata del cancello sembrava un fuorilegge che contempla la libertà a lui negata.
   Aveva uno sguardo insistente e sfacciato, di fronte al quale Will si irrigidì, colpito da un dubbio improvviso e pungente. Il suo cuore perse un battito, in quel momento.
   Non si accorse nemmeno della piccola figura accanto allo sconosciuto. Non si accorse nemmeno delle parole della sua anziana vicina di casa, che aveva assistito a tutta la scena dal suo giardino, né del suo rauco “Dove vai, Will?”. Corse di sotto, con addosso solo dei calzoni consunti e la prima camicia che aveva trovato, sparsa per casa. Se lo sarebbe ricordato per una vita intera: quel giorno era domenica.
   Will ora avvertiva il cuore scoppiare. Incespicò sulle scale e atterrò quasi di sedere in fondo ai gradini. Si rialzò, infilandosi malamente anche l’altra manica della blusa.
   Uscì nel sole e per un attimo ne fu di nuovo accecato. Era una bellissima mattina di quella primavera. Ma, riavutosi, si rese conto che non aveva avuto un’allucinazione. La figura scura era ancora là, dietro al cancello, e non c’erano dubbi ora.
   Quello era Jack Sparrow. Un pirata. Il suo miglior nemico.
 
- Tu qui?- esclamò Will, corse al cancello – Non ci credo!-
- In carne ed ossa, compare.- rispose il pirata, con un sorriso sghembo.
   Un improvviso attacco di bile riempì la bocca di Will con un sapore amaro:
- Vattene, Jack! Questo non è posto per te!- gli sibilò contro, come un serpente a sonagli provocato da un bastone.
- Che razza di benvenuto è questo?- accortosi che nonostante tutto l’altro aveva appena tirato il chiavistello, Jack entrò a forza nel cortile, trascinandosi dietro una piccola ombra.
   Will tentò di fermarlo, ma, non riuscendoci, si limitò a richiudere il cancello e a raggiungerlo, con una luce tutt’altro che benevola negli occhi. Si maledisse per essere stato, una volta in più, così ingenuo.
- Jack, vattene da qui, subito!- cercò di cacciarlo.
   Quel pirata era sempre stato sinonimo di guai, per lui; ora che aveva ritrovato una specie di tranquillità, Will non voleva cadere di nuovo in una nuova spirale di avventure rocambolesche, rischiando ancora la vita per un pugno di mosche.
   Jack Sparrow lo fissò, ridacchiando:
- Non sei cambiato, mio caro William.- constatò.
- Nemmeno tu.- l’altro gli si avvicinò – Che cosa diavolo vuoi?-
- Da te? Io, nulla.-
- Allora perché sei qui?-
- Semplice questione diplomatica.-
- Jack, dimmi che cosa vuoi e vattene. Non voglio rischiare la pena di morte un’altra volta per colpa tua. Io non voglio tornare a essere un pirata a metà, non dopo tutti questi anni. Stavo così bene senza di te!- guardò in basso, e si rese conto solo in quel momento di un piccolo particolare – E questo bambino, da dove viene?-
   Jack sorrise:
- Finalmente te ne sei accorto!- esclamò poi.
   Si chinò alle spalle del piccolo, una creaturina di sei anni o giù di lì, avvolta in un vestito troppo grande per lui. Sembrava piuttosto intimorito.
   Jack lo pizzicò amorevolmente. Una risata cristallina si sparse presto nell’aria e risvegliò in Will desideri segreti...e un po’ di sana invidia. Gli sarebbe piaciuto poter fare altrettanto con i suoi figli: giocare, ridere, scherzare con loro. Se solo ne avesse avuti.
   Jack circondò il bambino con le braccia e poggiò il viso accanto al suo. Poi guardò Will, che solo in quel momento notò una certa somiglianza tra i due.
- Questo - Jack parlò con calma, con un tono divertito – è il motivo della mia visita.-
   Will, interdetto, ci mise qualche secondo per realizzare:
- Tuo figlio?- chiese, titubante.
- Non proprio.- Jack sorrise ancora, poi si rivolse al bambino – Piccolo, vuoi spiegare al signore chi sono io?-
- Io non sono piccolo, zio Jack!- strepitò lui, chiaramente infastidito da quel nomignolo.
   Jack lanciò un’altra occhiata significativa a Will, che strabuzzò gli occhi: aveva sentito bene? Jack era...zio?
   Quindi quel bambino...
- E’ il figlio di Élodie?- domandò, senza fiato.
   Élodie, la sorella di Jack Sparrow, era stata importante, per lui, in passato. Si erano amati, appassionatamente, sei anni prima, finchè il destino e le loro inconciliabili personalità non li avevano separati; di conseguenza, si erano inevitabilmente persi.
   Era strano ricordare quei momenti ora, davanti agli occhi ingenui di quel piccino, e pensare che forse era tutto un brutto sogno, che il tempo non era scivolato crudele su di loro, che non li aveva cambiati poi così tanto. Poter credere, per un momento, di essere tornato su quella nave, di essere tornato a essere un pirata accanto a lei.
- Esatto.- la voce di Jack riportò Will alla realtà – Questo adorabile marmocchio è proprio figlio di mia sorella. Guardalo! Assomiglia tutto a uno Sparrow...e tira anche bene di spada!-
- Sììììì, e fra un po’ riuscirò a batterti, zio!- trillò tutto contento il frugoletto – Quando giochiamo ancora alle spade?-
- Presto, piccolino...-
- Non sono piccolo!-
- Perché l’hai portato qui?- li interruppe Will: udire Jack essere chiamato “zio” gli faceva male.
   Il bambino lo guardò da sotto in su, con una leggera smorfia di disappunto sul viso; lui si sentì dolorosamente trafitto da quegli occhi bruni e curiosi, che lo studiavano così sfrontatamente: gli occhi di Élodie Melody Sparrow.
- Sua madre mi ha chiesto di portarlo da te.- spiegò Jack – Io ho semplicemente adempiuto al suo volere.-
- Dov’è la mamma, zio?- si intromise il bambino. Ora piagnucolava – Avevi promesso che se avessi fatto il bravo, me lo avresti detto!-
- La mamma ha da fare, adesso...- Jack accarezzò i capelli bruni del bimbo – e non voleva che tu ti annoiassi per colpa sua: per questo siamo qui.- guardò allusivamente Will, e Will capì che c’era dell’altro, ma che davanti al piccolo il pirata doveva mentire spudoratamente – E’ lei che ha deciso così.-
- Perché? Che c’entro io nei suoi affari?- Will allargò le braccia, esasperato – Sono passati sei anni, Jack. Io non ho mai visto suo figlio prima d’ora. Se lei ha da fare, non sarebbe più logico che questo bambino stia con suo padre, adesso?-
- Per l’appunto!- il sorriso di Jack si faceva meno enigmatico, ma Will si rifiutò di capire.
   Il pirata si rivolse al piccolo:
- William, ti presento William...- sghignazzò, compiaciuto del suo gioco di parole.
   Poi continuò, e Will vide la sua fine disegnata a caratteri cubitali sul viso del suo miglior nemico:
- William, ti presento tuo figlio.- concluse il pirata.
   Poi, fin troppo tranquillamente:
- Ora mi offriresti gentilmente una tazza di tè?-
 
   Will si sentì mancare. Sentì le gambe cedere, il mondo vorticare come un ciclone impazzito attorno a lui. Fu costretto ad appoggiarsi alla prima cosa che trovò, e cioè a una grande anfora decorativa, colma di terra e di fiori, lì a fianco. Per poco non ci sbattè il naso. Sentiva che il sangue si era ritirato dalle vene e un terribile formicolio l’aveva preso in tutto il corpo. Era diventato pallido come un cencio.
- Dev’essere il caldo...- borbottò Jack Sparrow, storcendo il naso di fronte a quella reazione – Non hai una bella cera, William.-
   L’altro inghiottì lentamente un po’ d’aria:
- Già, in fondo mi hai solo comunicato che sono padre da sei anni senza saperlo!- ribattè con una voce che suonava terribilmente strozzata.
- Cose che accadono...- minimizzò Jack, con un’alzata di spalle.
“Questa è la volta buona che muoio” pensò Will.
- Cioè...per te seminare figli in giro per il mondo è una cosa...normale?!- Will stentava a crederci.
- Rischi del mestiere, compare. Così è la vita. Così sono le donne, più che altro.-
- Jack, io...credo di stare per svenire.-
- Suvvia, William!- il pirata accorse per sorreggerlo – Comprendo la tua sorpresa, ma ti prego di non farla più complicata di quello che è già! A proposito...la tazza di tè?!-
   Will guardò il bambino, che assisteva alla scena con aria interrogativa. Suo figlio.
   Santo Iddio. Suo figlio!
   Gli sembrava di sognare. Ma sì, certo, sicuramente. La sera prima si era lasciato un po’ andare, aveva bevuto un po’ troppo vino. Si era addormentato. Doveva essere ancora sul letto, senza ombra di dubbio, e tutto quello che stava succedendo stava succedendo nella sua testa.
   Quanto avrebbe voluto svegliarsi ora!
   Jack lo stava scuotendo come una palma da cocco:
- William! Riprenditi, Santo Cielo! Non ho tutto questo tempo da perdere!- gli urlava in un orecchio.
   Così Will, per forza di causa maggiore, fu costretto a ripiombare in quella realtà assurda:
- Ah sì, la tazza di tè...- tartagliò, incapace di infilare un pensiero coerente dietro l’altro.
   Non era una sogno. Oddio. Non era un sogno!
- Ecco.-
   Jack tolse improvvisamente il suo sostegno, e Will per poco non cadde. Scosse la testa, tentando di riprendersi:
- A-andiamo...- ancora malfermo sulle gambe, li guidò verso casa sua.
   Jack si girò per beccare il frugoletto, che intanto era saltellato un po’ più in là. Difatti, l’attenzione del piccolo William si era distolta presto da loro e dal loro blaterare inconcludente e si era appuntata su un bruco. Il bambino si era accucciato ad osservare l’animaletto, che strisciava ai suoi piedi; ogni tanto lo toccava, e quello si avviluppava su se stesso, facendolo ridere. Quindi, lo stuzzicava ancora di più, e il povero bruco non faceva certo i salti di gioia, anzi.
   Jack arrivò a interrompere quell’idillio, facendo alzare William da terra e spazzolandogli alla meglio i vestitini sgualciti, in modo a dir poco paterno. Will non aveva mai visto il pirata in quei panni, eppure non avrebbe dovuto sembrargli tutto così fuori dal mondo: quel bandito aveva carne e ossa, aveva avuto una famiglia, tempo fa, forse ce l’aveva ancora. O forse ne aveva una nuova, chissà. In fondo, era anche lui un essere umano, di che cosa doveva sorprendersi?
   Il piccolo William scappò dalle mani di Jack per correre ai cespuglietti di rose. Lì si nascondevano sempre un sacco di farfalle, e lui le aveva viste subito. Suo zio gli corse dietro, in modo a dir poco buffo.
   Will osservò il bambino in quella scoperta del mondo esterno e pensò che era proprio come l’aveva sempre desiderato.
 
   Dentro casa c’era un odore forte di spezie, come quando Elizabeth se n’era andata. Era da un po’ che non aveva compagnia.
   Will li condusse attraverso lo stretto ingresso, fino alla cucina. Aveva solo un mobilio spartano da offrire, niente di particolarmente morbido o confortevole. Non che pensasse di avere ospiti tanto presto, o che a Jack potesse importargliene più di tanto, ma forse al bambino – suo figlio – sarebbe piaciuto essere accolto in una casa che sembrasse un po’ più “casa”, ecco.
   Ancora sottosopra per la recente rivelazione, Will mise a bollire l’acqua per il tè. Si sentiva come sollevato a un metro da terra, la sua mente fluttuava già per altri lidi, piena dell’eco di fantasie inespresse.
- Lascia stare, William.- lo fermò Jack Sparrow – In verità, mi fa schifo il tè, a meno che non sia opportunamente corretto. Volevo solo sedermi.- e si lasciò andare su una seggiola malmessa, con una certa soddisfazione.
   Will allora non si preoccupò più del bollitore. Si sedette anche lui al tavolo, di fronte a Jack, ma non riusciva ancora a essere rilassato; a dire il vero, non sapeva nemmeno se era ancora vivo, dopo tutta quella confusione in testa.
   Nell’altra stanza, il bambino faceva capriole per terra.
   Will fissò Jack. Era indeciso se incenerirlo o fargli un monumento per avergli permesso di conoscere suo figlio.
- So che cosa stai pensando.- affermò il pirata, sogghignando.
   L’altro abbassò lo sguardo, imbarazzato. Non sapeva da che parte iniziare. Fissava il pulviscolo danzante nella luce che pioveva dalla finestra, respirava quel silenzio interrotto solamente dai movimenti leggeri del piccolo William nell’altra stanza; e non sapeva che fare. La vita gli aveva insegnato che alcune cose è meglio non saperle mai; altre cose, invece, è sempre meglio saperle subito. Il problema era essere capaci di distinguere quelle cose, possibilmente prima di agire.
- Hai qualcosa da dirmi, vero?- Will cercò di guardare Jack negli occhi, ma il pirata gli sfuggì. A dire il vero, era già distante da un pezzo, ma lui non se n’era accorto. Glielo leggeva nelle ombre del viso, perso in nuvole lontane.
   Will attese che tornasse, con la paura che non tornasse più.
- William deve stare qui per un po’.- Jack fu rapido, conciso e assassino.
- Qui?- ripetè Will, completamente in alto mare – Come sarebbe a dire “qui”?-
- Qui, ivi giunti, in questo luogo medesimo, comprendi?- insistette Jack – Ti deve bastare.-
   Continuava a guardare altrove. Will non capiva. L’istinto gli diceva che Jack la sapeva molto più lunga di quanto non desse a vedere; il problema era che non voleva dirglielo. Lo odiò profondamente, come lo aveva sempre odiato in passato per questa sua caratteristica.
- Da chi stai scappando, Jack?- continuò.
   Il pirata gli scoccò una sbirciata sospettosa:
- Io? Da nessuno.-
- Non ci credo.-
- Ascolta, William.- Jack si sporse in avanti, faccia a faccia con il vecchio compagno di avventure – Non sono qui per caso, se è questo che ti interessa sapere. Questo non è un gioco. E’ inutile che mi chiedi, lo sai benissimo che non posso dirti nulla e se anche potessi, non lo farei. Per stavolta ti dovrai accontentare.-
- E’ successo qualcosa a Élodie?- Will sentì un’atroce stretta al cuore, appena pronunciò quelle parole.
   Jack era più che mai reticente:
- Non lo so.- ammise – Ma se la vedi, se le vuoi dire che non so più dove cercarla...-
- E’ sparita?- Will tremò al solo pensiero.
- Si è nascosta.- Jack sospirò – William, devo andare.-
   Si alzò, con una certa convinzione. Continuava a guardarsi attorno, a guardare fuori dalle finestre, come se avesse paura che qualcuno stesse ascoltando o potesse vederlo lì. Will non voleva sembrare esagerato, ma gli sembrava che l’inquietudine stesse per la prima volta sopraffacendo Capitan Jack Sparrow.
- Ti affido William.- il pirata gli rivolse uno sguardo carico di speranza – Tienilo con te e proteggilo. Torneremo a prenderlo, quando potremo.-
- Tu e chi?- chiese Will.
   Ma Jack era già altrove, era già da William. Fermo sulla soglia della porta dell’altra stanza, sembrava non volersi avvicinare più di così. Attese che il bambino si accorgesse di lui e che gli corresse incontro. William si abbarbicò alle sue gambe, ridendo e nascondendo il viso.
   Will vide gli occhi del pirata farsi lucidi. Jack si chinò per prendere in braccio il nipotino, che sgambettò felice nell’aria. Gli sussurrò qualcosa all’orecchio, qualcosa che Will non riuscì nemmeno a intuire. Gli sfuggiva ogni logica, in quella storia.
   L’unica cosa di cui poteva essere certo, era che lui c’era dentro fino al collo.
   Jack mormorò piano qualcosa a William, e subito il bambino volle scendere per dirigersi verso la finestra. Sembrava stesse cercando qualcosa lì intorno, o magari fuori. Chissà che cosa gli aveva detto quel filibustiere di suo zio.
   Will si alzò, allarmato: sentiva che stava per succedere qualcosa, qualcosa di potenzialmente spiacevole.
   Infatti, Jack si rivolse immediatamente a lui, con aria losca e una certa impazienza, nascosta senza troppa cura sotto i suoi vestiti e la sua pelle:
- Fammi uscire.- gli ingiunse, in modo piuttosto sintetico – Gli ho detto che c’era un gabbiano appena fuori dalla tua finestra. William va pazzo per i gabbiani. Fammi uscire ora, possibilmente di nascosto.-
   Will non riusciva a comprendere. Aggrottò le sopracciglia, controllando William, ancora davanti alla finestra, voltato di schiena.
   Jack era nervoso:
- William!- lo richiamò - Non deve vedermi andare via. Lui mi sta sempre appresso. Ma io non posso portarlo con me stavolta.- gli spiegò, sommariamente.
- Gli hai raccontato una bugia...- Will era al limite del disgusto – per scappare.-
- William, non c’è altro da fare!-
- Sei un vigliacco, Jack.- con una smorfia di profonda disapprovazione, Will gli indicò una piccola porta sul retro della casa – Vattene pure. Esci di qua e, se vuoi, non farti mai più vedere. Mio figlio non si merita la tua cattiveria. E’ solo un bambino.-
   Jack alzò gli occhi al cielo:
- Non puoi capire...- sospirò, mentre si muoveva verso la porta che Will gli aveva indicato – Comunque non importa. Devo andare.-
- Mi chiederà di te.- gli fece notare Will – Forse riesce ancora a vederti mentre lo abbandoni qui.-
- Non l’ho abbandonato, l’ho affidato a te!- Jack era sulle spine. Will se ne chiese il motivo – Non deve venirmi dietro. Che ne so io, distrailo! Occorre solo qualche minuto.-
   Will sentì che gli montava una tale rabbia, dentro, che se Jack fosse stato a portata di mano era certo che gli avrebbe tirato un pugno. Per William, ma forse anche per tutti gli altri torti che a causa sua aveva subito. Ma forse Jack lo sapeva, e per questo era già quasi alla porta, inseguito dagli occhi dardeggianti di Will, impietrito al suo posto.
- Grazie.- mormorò il pirata, prima di scomparire.
   Come richiuse la porta, Will ebbe come un improvviso conato di vomito. L’aveva veramente lasciato andare senza farsi dire niente di più a proposito di quello che stava succedendo? Se Jack era un vigliacco, lui era vigliacco due volte. Si disprezzò dal più profondo del cuore.
   Si voltò verso il bambino, triste per non aver visto quel gabbiano che non c’era. A Will sembrava passata un’eternità da quando si trovava in piedi accanto la porta di quella stanza, ma si rese conto che tutto era successo troppo in fretta, forse in pochi minuti. Jack non c’era più. Lui stesso non c’era più, era come inebetito.
   Il piccolo si guardò intorno. Poi guardò lui:
- Dov’è zio Jack?- chiese, mentre spaziava nella stanza vuota, in cerca di un segno.
   Chissà dov’era. Anche Will se lo domandò; ma l’altro era probabilmente già lontano, lontano da loro, lontano da tutto.
   In ogni caso, lui era l’ultima persona che avrebbe potuto saperlo.
   Si accorse che il piccolo William si stava agitando, che si muoveva quasi spasmodicamente da un lato all’altro della camera, come una mosca impazzita contro un vetro. Capiva il suo sconcerto.
- Dov’è zio Jack?- strillò il bambino, ormai  con le lacrime agli occhi.
   Fissava Will con l’insistenza di chi vorrebbe che accadesse un miracolo. Ma lui non era Dio, e per i miracoli non era attrezzato. Non era riuscito nemmeno a far scaturire un miracolo per se stesso.
- Non...io non lo so, dov’è andato.- ammise.
   William cominciò a piangere e a pestare i piedi. A gridare. Le lacrime sgorgarono calde e lucide e rotolarono sulle sue guanciotte simpatiche. Ma stava piangendo di dolore. Chiamava disperatamente:
- Zio Jack! Zio Jack, vieni fuori! Per favore! Dove sei? Torna!-
   Si mise a correre per tutta la stanza, mentre Will presidiava la porta e assisteva, muto e impotente, a quella scena. Non sapeva come fare a calmarlo, e aveva paura a muoversi: un movimento falso e William sarebbe scappato da quella casa, ne era certo. Temeva si sarebbe buttato in strada; magari si sarebbe perso per cercare quello squinternato di suo zio. Will non poteva permetterlo.
   Il bambino piangeva senza più requie. Un pianto scoraggiato e angosciante come solo quello di un bambino potrebbe essere. I suoi lamenti salivano di tono a ogni passo che compiva in quel presente, contro ogni mobile contro il quale andava a sbattere nel suo dolore cieco. Will cominciava a temere che potesse farsi male sul serio. Ma non riusciva a muoversi per raggiungerlo, davvero. Era sgomento di fronte a quello spettacolo terribile.
- ZIO JACK! ZIO JACK!- William girava come una trottola, in preda al panico.
   Nell’altra stanza, il bollitore aveva cominciato a fischiare, sempre più insistentemente. Quel suono si mescolava agli urli acuti del piccolo, si aggiungeva al baccano generale e faceva impazzire Will.
   Aspettare che l’uragano si calmasse fu l’impresa più eroica che avesse mai affrontato. Una tempesta di pensieri affollava la sua mente, mentre i lampi dei lamenti del suo bambino gli perforavano le orecchie.
   Era un tormento vederlo così. Will sperò che finisse presto. Sperò e pregò a occhi aperti, quell’infuocata mattina. Finchè la sua richiesta non fu esaudita.
   Lentamente, fin troppo lentamente, William perse tutte le sue energie. Continuava a piangere senza sosta, ma aveva rallentato: era distrutto, forse stanco, sicuramente annientato dal dolore della perdita di Jack. Che avanzo di galera, Jack.
   Will indovinò che il bambino stava per cedere e si tenne pronto, con il fiato in gola. Appena cadde seduto per terra, Will corse ad abbracciarlo. Lo afferrò e lo strinse forte a sé: lui non l’avrebbe abbandonato, mai. Si beccò un paio di calci e pugni, ma tenne coraggiosamente stretto al petto William, mentre sentiva che la camicia si bagnava delle sue lacrime.
   Lo tenne finchè non sentì che perdeva un po’ di forze. Singhiozzava ancora, teneva la stoffa stretta tra le dita e tirava, quasi a volergliela strappare. Will chiuse gli occhi e attese, respirando profondamente e augurandosi che quel contatto fosse abbastanza per proteggere William dalla sua voragine di paura.
- E’ andato via! Mi ha lasciato!- frignava il bambino, tra i singulti.
- Vedrai che non ti ha lasciato. Lui ti vuole bene. Non ti devi preoccupare. Ha detto che tornerà presto.- cercò di accarezzarlo, ma il bambino si scostò. Will non insistette.
- Lui dice sempre “presto”.- replicò sconsolato William.










***CIAOOOOOA TUTTI!!!!!!***
Rieccoci finalmente! Vi si sono diradate un po' le nebbie del mistero? Ora si dovrebbe essere accesa qualce piccola luce! Che ne pensate?!
Alla prossima :)
by Martin Eden

 

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Capitolo 3
*** In cerca di una scomoda verità ***


CAP. 2 - IN CERCA DI UNA SCOMODA VERITA’

 
 
   Quella giornata era stata una lunga giornata.
   Will si era asserragliato dentro casa, con tutte le porte e le finestre chiuse a chiave, e le tende tirate: non poteva correre il rischio che William sgattaiolasse fuori, né che qualcuno potesse curiosare dentro. Sarebbe stato difficile trovare una giustificazione plausibile a tutto, in così poco tempo. Inoltre, quella sera avevano bisogno di tranquillità, loro due.
   Il piccolo, dopo i primi momenti di sofferenza, si era un po’ calmato. Aveva preso possesso della poltroncina in salotto, vi si era seduto, e ormai erano ore che stava là, triste e imbronciato con il mondo. Ogni tentativo di avvicinamento era stato stroncato sul nascere; ogni altra idea, respinta. Will ci aveva rinunciato presto. Del resto, era comprensibile: troppo trambusto per un giorno solamente.
   Con porte e finestre chiuse, aveva poco da temere. Quindi, Will si era ritirato in cucina, a cercare di mettere insieme qualcosa di commestibile per la cena e a dare una pulita. Doveva anche pensare a dove avrebbe sistemato suo figlio per la notte. Il posto ci sarebbe anche stato, ma chissà com’era abituato? Probabilmente dormiva con la sua mamma, Élodie. Ma non poteva certo dormire con lui, Will Turner.
   O forse sì? Magari sarebbe bastata una notte accanto a lui per farlo sentire al sicuro?
   Non avevano parlato più da quella mattina. Ogni pochi minuti Will controllava che il piccolo fosse ancora dove l’aveva lasciato, o lì intorno. La tentazione era troppo forte. E anche l’apprensione.
   Ormai si era fatta sera. La cena era quasi cotta. Will si sporse con la testa nel salotto immerso nella penombra. La luna batteva sui vetri scintillanti, ma lui comunque fece fatica a trovare William, nascosto tra i mobili.
- Dai, vieni qui, è pronto da mangiare.- lo invitò.
   Il bambino non si mosse. Anzi, guardò torvo in direzione della cucina.
   Will fece capolino nella stanza e lo trovò ancora lì, sulla poltroncina, con le gambe e le braccia incrociate. Scrutava fuori dalla finestra, ora, oltre la quale splendeva un cielo pieno di stelle.
   Will ne approfittò per avvicinarsi un po’. A un leggero scricchiolio del pavimento, tuttavia, il bambino si girò e lo inchiodò lì dove era. Will ebbe paura a continuare. Quello del piccolo non era uno sguardo rassicurante, tutto il contrario: era ancora arrabbiato.
   Will si accovacciò a terra, indeciso. Non aveva avuto mai nessuna esperienza con nessun bambino. Non aveva la più pallida idea di come si dovessero prendere. Non sapeva se doveva dire qualcosa, o fare qualcosa di particolare. Lui non era mai stato padre prima d’ora. Purtroppo.
- Vieni.- lo esortò, allungando una mano – Avrai fame.-
   Silenzio dall’altra parte. William non ne voleva sapere di spostarsi da dov’era. Fermo immobile su quella poltroncina, si puniva di una birbanteria che non aveva commesso. Ormai era tutto il giorno che era in castigo. Will non ne poteva più di vederlo così.
   Si rialzò, andò in cucina e prese due tozzi di pane. Poi tornò e si sedette nello stesso punto di prima. Guardò intensamente il piccolo, che era stato incuriosito dai suoi movimenti e ora lo osservava. Will cominciò lentamente a sgranocchiare uno dei due pezzi di pane.
   William continuava a rimanere zitto, nonostante gli occhi lucidi. Doveva avere una fame da lupi. Will attese, per quanto fosse difficile e doloroso attendere un gesto che poteva non arrivare mai. Aveva vissuto quella situazione con Elizabeth, per anni, e ora la riviveva accanto a quel figlio. Doveva aver molti conti da saldare, su quella Terra, se Dio gli aveva assegnato una simile pena.
   Tuttavia, i risultati non si fecero attendere troppo. Dopo una manciata di minuti, il piccolo William si sciolse dalla posizione che aveva tenuto per tutte quelle ore e si sgranchì le gambette ancora corte. Continuava a fissare Will, che non si mosse. Aspettò stoicamente, fermo al suo posto. Finchè il bambino non si decise a scendere da quella poltrona, occhi negli occhi, e a tentare qualche passo caracollante verso di lui. Doveva essere tutto indolenzito, pensò Will. E fu difficile non scattare per prenderlo in braccio.
   In compenso, gli offrì l’altro pezzo di pane, ancora intonso, con un sorriso. Per quanto segnato dagli eventi, era pur sempre un sorriso. Will sperò fosse abbastanza.
   Appena fu più vicino, il bambino allungò una mano per prendere il cibo; ma fu anche lesto a scappare via, verso la finestra. Will fece per balzare in piedi, poi si ricordò che aveva sigillato ogni via di scampo e allora si permise di rilassarsi.
   William non sembrava avere nessuna intenzione di scappare. Si era seduto sotto la finestra e contemplava la luce della luna, che disegnava forme strane sul pavimento. Addentò il pezzo di pane, ne staccò una parte: ma la sua fame era così tanta che in meno di un minuto lo aveva già finito. Spazzò via le briciole intorno a lui. Finalmente si accorse di Will, ancora seduto all’altro capo del suo mondo.
   Non disse nulla. Si trascinò sul pavimento fino al centro della stanza. Aveva lasciato una scia nella polvere del legno, e Will si vergognò tantissimo dello stato pietoso della sua casa: senza una donna, altro non era che un covo per la sudiceria. Si ripromise che l’indomani avrebbe fatto qualcosa, una volta tornato dal lavoro.
   Adagio, offrì a William anche quello che restava dell’altro tozzo di pane. Il bambino questa volta fu rapido a mettersi sulle quattro zampe e a gattonare verso di lui: afferrò il cibo con cupidigia, se lo portò alla bocca e si rimise seduto per mangiarlo. Questa volta non si era allontanato, anzi.
   Will non disse niente, si limitò a guardarlo. Anche il bambino lo guardava. Forse lo studiava. Will invece si stava solo concedendo quello che per sei anni gli era stato negato: la morbidezza di quei capelli, la luce che William aveva nelle iridi. Si godeva ogni smorfia che il piccolo faceva con un angolo della bocca, il suo nasino all’insù. Al tempo stesso, cercava di trasmettergli tutto l’amore che poteva, perché di quello si trattava: gli voleva già bene, anche se erano due perfetti sconosciuti.
   William non sembrava intimorito dalla sua presenza. Aveva poggiato le mani sul pavimento e lasciava impronte nella sottile polvere; osservava quelle forme con aria interessata, e alzava lo sguardo solo di tanto in tanto. Probabilmente per assicurarsi che Will fosse ancora lì.
   Will gli lasciò il tempo di prendere confidenza con quel luogo e quei giochi, approfittandone, intanto, per imparare. Tracciò un sottile disegno tra di loro, con un movimento lento, perchè William non si spaventasse: abbozzò malamente due figure umane, una più grande e una più piccola, che si tenevano per mano.
   Il bambino esaminava il tutto in silenzio.
   Will riguardò quello schizzo e si mise a ridere. Era un pessimo artista. Ma ci aveva provato. Era il suo modo per far capire al piccolo quanto già teneva a lui.
   Allungò amichevolmente una mano. Il bambino lo guardò interrogativamente: era vuota. Will capì al volo e rise ancora, sommessamente:
- Andiamo?- chiese dolcemente.
   Il piccolo lo guardò. Poi si alzò da terra, scavalcò la sua mano e andò in cucina.
 
   Anche in cucina, la situazione non volse molto a suo favore. Il piccolo William non aveva spiaccicato una sola parola, a tavola, e a malapena aveva sfiorato il cibo. Se ne stava come impalato su quella seggiola, sulla quale Will aveva collocato un cuscino perché potesse stare più comodo; magari perché potesse arrivare al piatto. Gli sembrava che potesse funzionare, ma il bambino non aveva fiatato e non si era mosso per tutti quei lunghissimi minuti in cui lui aveva consumato la frugale cena. Will era preoccupato.
   Gli aveva chiesto se desiderasse mangiare qualcos’altro. Se non gli piacesse. Se avesse potuto fare qualcosa per lui. Ma William aveva scosso la testa, chiuso in un ostinato silenzio.
   Will aveva tratto un sospiro sconfortato. Non sembrava avessero molto da dirsi, per il momento. Il tempo di una mela sbucciata fin troppo lentamente era bastato a fargli capire che per quel giorno non sarebbero andati più in là di così.
   Con una calma quasi esasperante, Will aveva sparecchiato, lasciando però davanti al bambino il suo piatto ancora quasi intatto. Sperava che, non più costretto a sottostare al suo sguardo indagatore, il piccolo cedesse e si facesse tentare dalla carne arrostita, per quanto poco invitante potesse apparire. Ma era commestibile, anzi, quasi buona.
   Così, aveva raccolto piatti e ciotole e si era tolto dal tavolo. Aveva già preparato una bacinella piena d’acqua per lavarli. Anche se con riluttanza, aveva infine girato la schiena a William, senza più rivolgergli una parola. Soffriva molto nel doverlo lasciare lì, come un cane abbandonato, ma non sapeva che cosa fare. Sentiva di avere le mani legate.
   Cominciò a strofinare i piatti e la pentola con la quale aveva cucinato. La presenza di William era impalpabile come un battito d’ali. Si sentiva immensamente solo, più di quando lo era stato per davvero, dopo che Elizabeth se n’era andata. Si arrovellava su cos’altro fosse in suo potere fare, senza l’ausilio di Jack Sparrow.
   Che fosse maledetto.
   Stava lavando i suoi piatti, quando, nel nulla, la piccola voce di William si levò altissima:
- Tu ti chiami come me.-
   A Will per poco non cadde la pentola di mano: William aveva parlato!
   Mollò tutto nella bacinella con l’acqua e si voltò per ascoltarlo. Il bambino lo stava guardando intensamente, indeciso se continuare o meno a concedergli quella confidenza.
   In quel viso, Will rivide tutto il suo passato. Rivide sua madre che l’aveva cresciuto, educato e protetto; il suo forsennato bisogno di sapere da dove veniva, di chi era figlio, e del perché non fosse stato possibile per lui vivere una vita come tutti gli altri ragazzi; rivide suo padre quando non c’era, e anche quando infine l’aveva ritrovato, e perso per sempre; rivide Jack, e Élodie.
   Tutte quelle cose lo investirono alla velocità di una carrozza in corsa. Deglutì:
- Sì...- rispose poi, semplicemente.
   Il bambino sembrò recepire malissimo quella risposta. Si puntellò contro il tavolo per spostare indietro la seggiola su cui era seduto, poi sputò fuori:
- Perché?-
   Will rimase per un attimo interdetto, le labbra incollate attorno alla sua impotenza.
   Non glielo poteva spiegare. Non poteva dirgli perché. Non poteva dirgli perché lui era suo padre. Non dopo sei anni. Non avrebbe capito. Lui non voleva essere come altri padri, che tornano nel momento più bello, solo per rovinarti la vita con la loro ingombrante presenza. A pretendere un posto nella tua esistenza, come se ci fossero sempre stati. Ed aspettarsi pure che i figli siano felici, dopo che questi hanno imparato a fare a meno di loro.
   Per quello e per altro che ora non gli sovveniva alla mente, Will lasciò il piccolo al tavolo e si accinse a pulire le stoviglie, senza aver replicato alla sua domanda:
- Mi sa che dovremo stare insieme per un po’...- gli comunicò, quasi per caso, dopo qualche istante di silenzio.
   A quel punto, William scattò in piedi:
- Perché?!- strepitò – Perché devo stare qui?! Io non voglio! Voglio la mia mamma! E anche zio Jack!-
- Lo so, lo so...- e lui non gli disse quanto quelle parole gli facevano male – Io credo che li rivedrai presto.-
- Anche tu dici sempre “presto”, come zio Jack.-
   Will strinse forte il piatto che aveva tra le mani. Non poteva sopportare di essere paragonato a quel pirata da strapazzo:
- Il mio “presto” è molto diverso dal suo, William.- affermò bruscamente.
   Il bambino non si fece intimorire: ora sporgeva bellicosamente il labbro in fuori, un gesto che Will avrebbe imparato a decifrare in fretta, per poi intervenire in tempo. Pena: la rabbia implacabile di William.
- Chi sei tu?- il piccolo gli si affiancò, ma lui continuò ostinatamente a lavare quei piatti – Voglio sapere chi sei tu!- gli tirò un pugno innocente contro la gamba.
(già, chi sono io?)
   Will non rispose. Il bambino afferrò i suoi pantaloni e li scosse furiosamente, chiamandolo con insistenza. Voleva sapere. Voleva sapere tutto. Tutto e subito.
   Dopo un attimo di pausa, Will trasse un sospiro:
- Ti ho sentito, William.- sospirò.
   Il bambino continuò, senza dare cenni di averlo udito. Era sempre più insistente e scoraggiato:
- Perché non mi rispondi?! Perché non dici la verità?!- ormai quasi urlava.
    Will chiuse gli occhi, in cerca di un attimo di pace. Da quel che capiva, chiaramente, non gliel’avevano spiegato: William non sapeva nulla di lui. Né Élodie né Jack dovevano essersi soffermati più di tanto. Era così maledettamente evidente. Will si sentì soffocare:
- Non lo sai chi sono io, William?- tentò.
   Ci fu un momento in cui il cuore del mondo si fermò. Poi, riprese a battere:
- Io non ti conosco.- asserì il piccolo.
   Will fece uno sforzo sovrumano per non piangere. Ci doveva essere una spiegazione, ci doveva essere un motivo, per quanto amaro e ingiusto: non poteva credere che per sei anni, sei lunghi anni, nessuno avesse raccontato a William di suo padre.
   Doveva scoprirlo. Ma non ora, non quel giorno. Quel giorno erano veramente successe troppe cose. Il suo cuore era già troppo vecchio per certe emozioni: dopo quella domenica gli erano rimaste ben poche energie da sprecare.
- Meglio così, per ora.- sentenziò.
 
   Aveva sistemato in fretta il letto della sua camera, aveva scelto lenzuola pulite e aveva cambiato le federe; se non altro, per non dare l’impressione dello straccione.
   Per quanto inatteso, scorbutico e zozzo potesse essere il suo piccolo ospite, non aveva intenzione di dimenticare alcun riguardo, tanto più che si trattava di un membro della famiglia. Anche se non era previsto.
   Mentre lui si dava da fare, il bambino era rimasto sulla soglia della stanza, ad osservarlo. Lo osservava sempre, come se dovesse coglierlo in fallo da un momento all’altro, e magari rinfacciargli qualcosa che era emerso dopo sei anni di silenzi, chissà. Ma non aveva proferito più parola da quando avevano riposto i piatti. Tutto ciò che era venuto dopo si era svolto nella più assoluta incomunicabilità, rafforzata da un ritrovato e ancor più tenace mutismo di William. Del resto, nemmeno Will si sentiva particolarmente loquace, quella sera.
   Una volta terminato, indicò al piccolo che poteva mettersi sul letto. Quello obbedì senza troppe cerimonie. Forse era stanco, almeno a giudicare dall’enfasi con cui si era abbandonato sulle coperte fresche di bucato.
   Will lo lasciò solo. Andò in bagno e si sciacquò la faccia con dell’acqua fredda. Quel contatto lo rinvigorì e lo svegliò, anche se ormai era ora di andare a dormire. Ma lui era ugualmente stremato.
   Approfittò di quel momento di lucidità per spogliarsi e darsi una lavata veloce. Si sentiva sudato dappertutto, nonostante quella ricevuta quel giorno fosse la doccia più gelida che si ricordasse.
   Il lume della candela rischiarò per un attimo i suoi tratti contro la finestra. Aveva i capelli un po’ più lunghi, annodati in un codino. C’erano nuove rughe sulla sua pelle, lì dove non ce n’erano mai state, lì dove non batteva la luce. Pochi avrebbero potuto vederle, ma lui sapeva che c’erano. Lui, quelle rughe le sentiva fino in fondo all’animo.
   Quando si scostò per indossare una camicia nuova, lo specchio gli restituì un’immagine sporca, livida, così diversa da lui. Poco prima che la stoffa gli scivolasse addosso, Will rivide per un attimo il tatuaggio che si era fatto disegnare sulla spalla, tempo prima: rappresentava una sirena, la lunga chioma che si attorcigliava alle squame di pesce e alle braccia, protese verso il nulla. Oppure verso tutto, tutto quello che in quel momento gli mancava. C’era una sola persona al mondo che ne portava uno uguale.
   Élodie Melody Sparrow.
   Elizabeth si era sempre chiesta il motivo di quel bizzarro regalo di compleanno che Will si era fatto, poco tempo dopo la loro ultima avventura piratesca. Era sparito per una mattinata intera, per poi tornare a casa con la spalla dolorante e una fasciatura sotto i vestiti. Lei non aveva capito. Ma lui sì.
   Quel tatuaggio era per non dimenticare.
   Quando Will tornò nella sua stanza da letto, passandosi ancora una volta le mani sul volto tirato, vide che il piccolo William era già sparito inghiottito dalle lenzuola. Non c’erano abiti smessi, lì in giro, quindi indovinò che nemmeno si era spogliato, o cambiato: un chiaro segno di disagio, che spingeva il bambino a non volersi mescolare più di tanto con l’ambiente che lo circondava. Will trasse un sospiro malinconico.
   Stare in sua compagnia non sembrava essere una prospettiva molto allettante.
   Notò che, nonostante la stanchezza, il suo piccolo teneva gli occhi ancora faticosamente aperti. Will si appoggiò allo stipite della porta, esausto. Il rumore riscosse il bambino, che si girò di scatto e lo fissò con quei suoi occhioni scuri:
- Perché non dormi, William?- gli chiese Will.
- Perché zio Jack potrebbe tornare.- rispose seccamente il piccolo.
   Al nome di Jack, Will sbuffò pesantemente, forse senza volerlo. Ma se ne rese conto dal modo ostile con cui William lo guardò. Subito cercò di correggere il suo per niente irreprensibile comportamento:
- Non penso tornerà stanotte, William.- argomentò.
- Come lo sai?- lo interrogò il bambino, sempre più sul chi va là.
   Will sentì il sudore che si impadroniva di nuovo di lui; in più, stava per piegarsi al sonno. Troppe emozioni in una volta, ora ne risentiva.
- Conosco tuo zio...- spiegò stancamente – e conosco i suoi tempi.-
- Lui torna sempre!- sbraitò il piccolo – Sempre! Quando scende dalla nave, poi torna sempre! Non ha mai sbagliato. Io lo aspetto.-
   Will capì che convincerlo sarebbe stato come tentare di cavare un ragno dal buco: impossibile.
- Vuoi che dorma qui con te, mentre lo aspetti?- si arrese.
- No. Io non ho paura dei fantasmi.- replicò con convinzione il bambino.
   Benchè non fosse esattamente la risposta che si aspettava, Will era troppo spossato per controbattere. Così, annuì e sbadigliando raggiunse una sedia poco lontana, la avvicinò alla porta della camera e si sedette. Faceva così caldo che non pensò di aver bisogno di una coperta. Ciò che il clima non avrebbe potuto, ci avrebbe pensato la sua agitazione. Sperava soltanto di riuscire a chiudere occhio per un paio d’ore.
   L’indomani sarebbe stato lunedì e ciò significava tanto lavoro alla fucina: tanto lavoro, pochi pensieri. Questa era l’unica certezza di cui aveva il lusso di potersi lusingare.
 
   Quella notte ripensò a suo padre. Mentre William dormiva placidamente di là, dopo una breve seppur inutile veglia, Will non poteva impedire alla sua testa di continuare inesorabilmente a intrecciare collane di pensieri scordati, quasi a volerlo prendere in giro.
   Tra le varie visioni che la notte insonne gli riservò, il ricordo di Bill “Sputafuoco” Turner era il più vivido. Nel dormiveglia, in qualsiasi posizione Will cercasse di sistemarsi sulla dura sedia, rivedeva il viso del genitore, scomparso tempo prima. Ripercorse con la memoria i pochi suoni che rammentava della sua voce, frammenti di una vita precedente che poi Will aveva abbandonato. A quel tempo, credeva ancora di avere un padre e di doverlo trovare, per conoscerlo meglio. Forse per reclamare una carezza che non era mai arrivata.
   Ora che si ritrovava a essere come lui, con un figlio a carico, si rendeva conto dell’enorme responsabilità che gravava sulle sue spalle. Ma al contrario del vecchio genitore, di cui aveva recriminato il menefreghismo a favore di una vita da marinaio, Will intendeva appropriarsi di ogni odore e sapore che quella nuova condizione gli regalava, o a cui lo condannava. Aveva messo al mondo un figlio. Volente o nolente, non poteva certo far finta che non fosse mai accaduto. Non voleva essere come chi nega l’importanza di avere un erede.
   Instillati in lui, come pietre preziose, c’erano gli insegnamenti che sua madre gli aveva impartito: lo aveva cresciuto in un ambiente ostile alle donne come lei, madri e mogli di una chimera perduta in mare, ma come un’edera lei si era eretta a paladina della sua giustizia e della giustizia per suo figlio. Will.
   Non era più tornato in Inghilterra da quando l’aveva lasciata per andare a cercare suo padre per mare. L’ultima cosa che ricordava di sua madre era quel bacio che le aveva stampato in fronte quando, poco meno che quindicenne, si era imbarcato su una nave diretta ai Caraibi. Da allora, aveva mandato solo alcune lettere, due delle quali erano rimaste senza risposta. Aveva pensato a qualsiasi cosa: che le missive si fossero perse per strada, che fossero state recapitate alla casa sbagliata, di aver dimenticato di includere un indirizzo al quale la madre avrebbe potuto scrivergli. Ma non aveva mai avuto il tempo di controllare. Con i mesi, e poi con gli anni, anche quella era diventata un’incombenza come tutte le altre; alla fine, aveva lasciato stare. Lui ormai era un adulto.
   Più adulto di così, più adulto di quella sera, però, non si era mai sentito. Forse avrebbe avuto bisogno di riceverlo lui, quel bacio sulla fronte, adesso. Sentirsi cullato dall’odore delle frittelle, come allora.
   Frittelle! Forse avrebbe potuto comprarle per William. Certo, come se con un po’ di frittelle si potesse comprare anche il suo affetto. Will si mosse a disagio, nel sonno. Cavalloni densi di preoccupazioni si riversavano nella sua mente ottenebrata. L’indomani sarebbe stato un altro giorno, per fortuna.
   O per disgrazia.
 
   Non potendo star tranquillo per tutta la notte, visti i nervi a fiori di pelle, Will si alzò dalla scomoda sedia appena i primi raggi di sole illuminarono la sua casetta. Si stiracchiò, dolorante in ogni fibra, ma sufficientemente vigile per cominciare la giornata. Si guardò attorno, leggermente spaesato, poi si sporse per controllare il suo letto.
   William dormiva ancora.
   Will sospirò di sollievo. Cercando di non fare rumore, scese le scale e si infilò in cucina. Di solito non faceva mai colazione, andava dritto al lavoro e magari si fermava lo stomaco lungo il tragitto. Avrebbe potuto portare con sé William e non cambiare una virgola delle sue vecchie abitudini ma, chissà perché, avrebbe tanto desiderato fargli trovare qualcosa di buono lì a casa, per quando si sarebbe svegliato. Poteva permettersi aspettare ancora un po’, essendosi svegliato in anticipo.
   Stava rovistando nella dispensa, alla ricerca di qualcosa di commestibile, quando un rumore improvviso gli fece correre un brivido giù per la schiena. Era una specie di cigolio, come di qualcuno che pesta il legno in punta di piedi ma quello scricchiola sotto il suo peso. Will si irrigidì e subito si voltò, brandendo un coltellaccio abbandonato sul mobile.
   Troppa la foga e troppo il disturbo. Sulla soglia della cucina Will si ritrovò faccia a faccia con un assonnato William:
- Santo Cielo...- si lasciò sfuggire.
   Il bambino si stropicciò gli occhi, per niente turbato. Forse era ancora nel mondo dei sogni.
- Sei andato via...- bofonchiò.
   Will, il cuore che batteva a mille, ripose cautamente il coltello in un cassetto. Non immaginava neanche lontanamente che il bambino potesse essersi accorto della sua assenza. Andò da lui e gli si inginocchiò di fronte; visto che quel giorno sembrava molto più propenso a farsi avvicinare, ne approfittò spudoratamente.
- No, non sono andato via. Sono qui.- accarezzò un braccio del piccolo.
   Ma quello si scostò:
- Ho fame.- si lamentò.
   Per Will fu come un fulmine a ciel sereno. Scattò verso la credenza e raccattò vecchio pane e marmellata di more in un vasetto già aperto. Rovistò più a fondo ma non c’era niente di appetibile, sul serio. Forse aveva un po’ di margarina...
   William si sporse in salotto. Girò la testa di qua e di là, come a cercare di vedere qualcosa. Però non lo trovò. Si voltò di nuovo verso Will, rimasto immobile ad osservare:
- Zio Jack non è tornato.- annunciò tristemente.
   Will capì. Sospirò. Posò la magra colazione sul tavolo, poi andò a prendere William. Sembrava incredibilmente docile, quella mattina. Per la prima volta osò allungare le mani per prenderlo in braccio; per la prima volta, il piccolo lasciò fare.
   Will lo strinse delicatamente a sé, inizialmente timoroso. Poi lo sollevò e se lo caricò a cavalcioni su un fianco. William trovò un appiglio sicuro per la sua confusione, anche se quel petto e quelle ossa erano a lui estranee. Will lo riportò in cucina, mentre il bambino si stringeva forte al suo collo. Sembrava non volesse più lasciarlo andare.
   Tuttavia, quando Will sistemò il piccolo su una sedia, vide che il suo visino era di nuovo rigato dalle lacrime.
(jack...maledetta canaglia!!!)
   Subito accorse con pane e marmellata:
- Tieni, mangia.- lo incoraggiò.
   Il bambino cominciò lentamente a trangugiare. Will lo osservava, a debita distanza, ma già con un primo sorriso che sbocciava a un angolo della sua bocca. Avrebbe passato ore, forse anche tutta la vita che gli restava, a guardarlo. Guardarlo mangiare, guardarlo ridere, giocare, crescere. Gli sarebbe stato vicino. Quello era il suo compito.
   Will appuntò poi lo sguardo sulla finestra. Si rese conto che il sole era già volato alto nel cielo, i suoi raggi scaldavano ormai i vetri sporchi.
   Era in ritardo!
   Senza l’ombra di una spiegazione corse di sopra, lasciando il piccolo con un palmo di naso. Svelto, si infilò quel che gli restava del suo abbigliamento, tanto per rendersi vagamente presentabile, poi sfrecciò di sotto.
   Preso William per mano, lo trascinò verso la porta:
- Presto, figliolo! Dobbiamo correre!- gli ingiunse.
- Dove andiamo?- chiese il piccolo, incerto.
- Devo andare a lavorare!- chiarì sommariamente Will – E tu verrai con me! Ti divertirai!-
   Cercava di sorridergli, ma il tempo stringeva e non voleva rischiare di dover dare troppe spiegazioni. Pensava, forse ingenuamente, che non cambiare una virgola della sua tabella di marcia non avrebbe causato disagi a nessuno, e che quindi nessuno si sarebbe disturbato a fare domande. Magari avrebbe anche potuto funzionare, tutto questo; purtroppo per lui, tuttavia, Will non aveva tuttavia tenuto conto della sua vicina di casa.
   Come sgusciò fuori dalla porta, infatti, l’immancabile e vetusta signora sbucò fuori anch’ella, e pure stavolta non perse occasione di scambiare due parole con il suo beniamino. Will una volta l’aveva aiutata con una finestra difettosa, e da quel momento si era inconsciamente autoproclamato suo secondo figlio. Quanto gli era costata cara quella confidenza!
- Ciao, Will!- gracchiò la vicina – Dove scappi?-
- Al lavoro!- Will le sorrise, ma non si fermò. Il piccolo William gli sgambettava dietro, col fiatone, senza nemmeno il tempo di guardarsi in giro.
   Il verbo “scappare” non poteva essere che il più appropriato per descrivere quel frangente.
- Ma chi è quel bel giovanotto?- ciarlò tutta contenta la signora, che per quel giorno aveva già ricevuto la sua razione di felicità.
   Will si bloccò sul vialetto, con il piccolo al seguito. Trattenne il respiro per un lungo momento, che a lui sembrò eterno. Stringeva convulsamente la manina di William e si era voltato lentamente verso l’anziana vicina, fissandola come se stesse parlando con un alieno.
- E’...- balbettò, insicuro.
   Poi, rendendosi conto che non poteva mettere così a repentaglio la segretezza su cui Jack si era tanto profusamente dilungato, decise che una piccola bugia era d’uopo. Anzi...avrebbe potuto salvargli la vita.
- Mio nipote.- sorrise, cercando di essere convincente – Dalla Martinica.-
   La signora parve compiaciuta:
- Oh, che meraviglia!- battè le mani, come una nonnina rallegrata dall’arrivo dei parenti – Un pupo stupendo!-
   Will sentì i brividi che gli correvano giù per la schiena. Inconsapevolmente, anche il piccolo William ne ebbe uno in risposta a quella voce stridula.
- Dobbiamo andare.- dichiarò Will, tirando il bambino.
- State attenti!- li avvertì d’un tratto la vecchia – Non passate per il porto! E’ pericoloso!-
- Cosa?- Will si fermò di nuovo, e il piccolo con lui. Non capiva il motivo di tante brusche soste e scalpitava al pensiero di andare oltre al cancello di quella casa.
   Una volta fuori, alla prima occasione avrebbe potuto andare a cercare zio Jack.
   Will era stato distratto dalle chiacchiere della vicina, quindi non gli prestò molta attenzione. Il piccolo si guardò intorno: era lo stesso cortile, la stessa strada che il giorno prima aveva percorso mano nella mano con suo zio, ma d’un tratto gli pareva tutto diverso. Se il giorno prima era sembrato tutto un’allegra gita, ora quelle rappresentavano le pareti della sua prigione. Voleva guardarsi in giro, appropriarsi di quella realtà nuova per poi sfuggirle. Non era il suo posto, lui era solo stato momentaneamente piazzato lì. Non intendeva perdere altro tempo.
   Will, sempre tenendo per mano il piccolo, si era avvicinato allo steccato che divideva la sua proprietà da quella della signora:
- Cosa è successo?- indagò. Aveva appena avuto una visione: Jack che scappava da Dio solo sa cosa. Ma, forse, la vicina sapeva cos’era.
- C’è stata battaglia...- ansimò l’anziana, avvicinandosi stancamente sul prato ben curato – Non hai sentito le palle di cannone?-
“A dire il vero, no”, pensò Will. Probabilmente si era già addormentato, a quel punto della notte. Niente di cui stupirsi: l’anziana vicina non dormiva quasi mai.
- Fuori Port Royal...- continuò la signora – Hanno beccato dei pirati.-
   Will sentì il sangue che si gelava nelle vene
(jack!!!)
   Avrebbe voluto mettersi a urlare.
   Involontariamente, strinse forte la mano di William; lui cominciò a piagnucolare e dimenarsi, stizzito. A quei gridolini soffocati, Will si riebbe, in tempo per essere investito da una nuova ondata di piena da parte della vicina:
- Sì, sì, sì!- trillò, agitata – Pirati! Bricconi! Poco di buono!- e ogni insulto era un colpo al cuore, per Will – Dovrebbero sterminarli tutti! Tutti, dico io! Questa volta li hanno quasi presi! Hanno loro sparato addosso con i mortai: non si avvicineranno più tanto facilmente! Per fortuna adesso c’è Lord Bellamy a proteggerci...-
   A quell’appellativo, le sopracciglia di Will si aggrottarono da sole. Chi era questo Bellamy? Mai sentito nominare. Era nuovo a Port Royal?
   Lo chiese alla vecchietta, ansiosa di raccontare:
 - Non conoscete Lord Bellamy?- si sorprese – Ma come? Il suo nome è così famoso, ora! E’ uno dei più grandi cacciatori di taglie di tutti i tempi! Ci penserà lui a spazzar via i pirati, come se fossero tutte cartacce! Vivi o morti, lui li prende tutti!-
   Will strabuzzò gli occhi. Possibile che non avesse mai sentito parlare di un tipo del genere?
   Lei riprese fiato:
- E’ agli ordini della Marina, adesso. La Marina lo ha assoldato per fare piazza pulita di ogni manigoldo da qui a mille miglia intorno: e lui lo farà! Ne sono sicura! Lui è molto potente, sai, Will? Lui è molto forte e molto astuto. Alcuni dicono persino che sia stato un pirata, in una vita precedente, ma io non ci credo! Una mente tanto acuta non può puzzare di marcio!- era così infervorata che Will credette di dover assistere, di lì a pochi minuti, al suo primo infarto – Certamente, ci sarà un’altra spiegazione. Lord Bellamy ci salverà dalla marmaglia! Li prenderà!- sorrise.
   Will era raggelato. Avrebbe voluto chiedere altri dettagli, scoprire come era finito lo scontro della notte prima, ma non ne ebbe il coraggio. Un dubbio serpeggiava lascivo tra le sue scapole, riempiendo il suo torace di acqua nera come melma. Will non poteva essere certo che la nave pirata fosse proprio quella che attendeva Jack Sparrow di ritorno dalla sua missione, ma c’erano buone possibilità. Possibilità che lui non aveva tempo di vagliare, quella mattina.
- Grazie!- si congedò in fretta e furia dalla signora. Doveva correre al lavoro.
   William, sempre più confuso, riprese a sgambettare dietro di lui.

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Capitolo 4
*** Onora il padre ***


CAP. 3 – ONORA IL PADRE

 
 
   Will Turner arrivò in ritardo e con il sudore che gli colava freddo ai lati della fronte, mentre ripensava alle parole della vecchia vicina di casa e a ciò che significavano per lui. Con William sempre stretto tra le sue mani, come se fosse l’ultimo baluardo contro il caos che regnava in quella piccola fetta di mondo, giunse alla fucina con un incredibile fiatone, ma senza aver corso.
   I suoi compagni fabbri, già al lavoro, lo salutarono senza ombra di rimprovero nella voce:
- Ben trovato!- esclamò uno – Avevamo giusto bisogno di te per l’elsa di un paio di spade. Questa settimana comincia con un guadagno piuttosto facile!-
   Will non aveva orecchie per quella pochezza. Era solo per abitudine che ora si infilava il consunto grembiule di cuoio, si legava di capelli in uno stretto codino e ricercava i suoi arnesi. Non aveva ancora proferito una sola parola da quando era entrato nella fucina, tutto indaffarato a cercare di ristabilirsi dopo i recenti avvenimenti.
   Nella mente, un solo nome: Lord Bellamy.
   Nel cuore, un solo grido: aiuto.
   Chi l’avesse guardato in quel preciso istante, avrebbe potuto facilmente indovinare i suoi pensieri sotto la polvere del quotidiano. In particolare, il piccolo William lo fissava con gli occhi sgranati, come se si trattasse di una splendida creatura marina. A Will non sfuggì lo sguardo indagatore del bambino, ma di fronte a quella ingenua curiosità non seppe come rispondere. Che cosa dire, che cosa raccontargli? Aveva ben altri problemi per la testa.
   Per esempio: dove sistemare l’inatteso ospite, ora che lui era al lavoro?
- William...- si avvicinò, parlando a bassa voce – Tu sai che cosa fa un bravo bambino?-
   Come se fosse suonato improvvisamente un campanello d’allarme, il piccolo pestò i piedi:
- No! Non ci voglio stare qui! Qui fa tanto rumore!- lo precedette.
   Will sospirò: non aveva fatto in tempo nemmeno a pensarlo, ma il piccolo era stato più veloce di lui.
- William, non posso accompagnarti da nessuna parte tu voglia andare, adesso. Io lavoro.- lo rabbonì.
- Cos’è un lavoro?-
   Will lo guardò sbalordito. Non poteva credere che gli avesse fatto sul serio quella domanda:
- Lavoro...lavoro per vivere. Guadagno i soldini e poi puoi comprare da mangiare!- gli venne un dubbio – Hai mai visto delle monete, William?-
- Sì!- asserì il piccolo – Noi sulla barca ne abbiamo tante.-
- Ecco, è perché...-
- La barca le fa per noi.- lo interruppe l’altro –Io le vado a prendere nel forziere della camera di mamma e loro sono già lì. La nostra barca ce li dà.-
   Will si chiese che razza di storie di mare dovevano avergli propinato, a suo figlio, per indurlo a credere a simili assurdità. Aveva solo sei anni, ma gli era sembrato molto sveglio. Tuttavia, non lo era abbastanza per non credere più alla fiabe. Da quelle non era ancora stato svezzato.
- Oppure chiediamo.- aggiunse il piccolo.
- A chi?- Will era piuttosto perplesso.
- Alle persone. Ogni tanto, quando scendiamo a terra, ci travestiamo, andiamo in piazza e le chiediamo. E le persone ce le danno.-
   Will faticò non poco a immaginare Jack e Élodie che mendicavano per le strade, invece di rubare. Immaginò, ciononostante, che fosse un’altra delle allegre bugie che avevano confezionato apposta per William, perché non facesse troppe domande. Per distrarlo dalle loro rapine e, perché no?, concedergli una piccola parte. Gli vennero i brividi.
   Chiuse gli occhi per un secondo, cercando di riordinare le idee prima che queste sfuggissero al suo controllo. Anche quel giorno, c’erano andate pericolosamente vicino. Ed era solo mattina!
- Bene, William. Oggi non faremo niente di tutto questo.- stabilì – Oggi tu sei con me. Puoi...giocare, se ti va. Ma non puoi uscire di qui.-
- Perché?!- strepitò il bambino.
- Perché è pericoloso. Quando non avrò più da fare, andremo un po’ in giro insieme.-
   Poi si rese conto dell’enormità che aveva detto. Non poteva uscire. Non poteva fiatare. Se qualcuno, qualcuno tipo quel Bellamy, adesso lo stesse cercando?
   William era piuttosto imbronciato. Incrociò le braccia sul petto, e la stizza in quel gesto comunicò a Will che la tempesta si stava avvicinando. Ma che cosa poteva fare?
   L’occhio gli cadde sul petto di William, che si alzava e abbassava sempre più precipitosamente. Notò quel laccio al collo, poi la cordicella e infine un curioso rigonfiamento proprio sopra le braccia del piccolo. Per un momento, non capì. Poi, mettendo bene a fuoco, riconobbe sotto le mentite spoglie quell’oggetto, tanto amato: probabilmente, si trattava di una vecchia bambolina di pezza, con un vestitino sgualcito attorno. Anzi, molto più che probabilmente. Quella forma, l’avrebbe saputa distinguere tra mille altre.
   Quella bambolina apparteneva un tempo a Élodie Melody Sparrow. Era il suo portafortuna, la sua ancora contro le acque burrascose che portava dentro; era un segno di affetto che la legava al fratello Jack Sparrow, il quale gliel’aveva donata. Ora, era diventata il regalo di una madre al proprio figlio.
   Will sospirò. Chiuse gli occhi, che già gli facevano male. Ogni cosa gli faceva male, in verità. Si impose di calmarsi, altrimenti non avrebbe potuto combinare niente di buono, né per lui, né per William. Lui era la sola speranza a cui il piccolo poteva aggrapparsi, adesso. Non poteva permettersi di crollare, o anche di mostrarsi solo lontanamente indeciso.
   Cinse le spalle del bambino con un braccio e lo condusse in un cantuccio della fucina, dove c’era un vecchio pilone scheggiato da innumerevoli colpi di spada. Quello era un luogo di allenamento, dove Will spesso saggiava la durezza delle spade che fabbricava e intanto ne approfittava anche per allenarsi. Era un discreto spadaccino, e sperò che William avesse preso da lui.
   Diede al piccolo un bastone dimenticato lì intorno: anche quello di solito serviva per gli allenamenti. Ma ora bastava si rivelasse un buon passatempo per un bambino di sei anni.
- Sai giocare alle spade?- gli chiese Will, inginocchiandosi di fronte a lui.
- Sì!- esclamò il piccolo, maneggiando il bastone – Ma questa non è una spada vera!-
- Lo so.- Will cercò di mostrarsi accondiscendente – Questo è solo un bastone di legno. Ho delle cose da sbrigare ora, ma se sarai così bravo da restare qui a riscaldarti un po’ con questo, dopo ti prometto che giocheremo insieme alle spade. Quelle vere.-
   Sorrise. Ovviamente, gli tenne celato un piccolo dettaglio: ovvero, che le spade “vere” che lui intendeva altro non sarebbero stati che logori arnesi di legno anch’essi. Ma ogni parola che promettesse divertimento poteva rappresentare un valido diversivo, ora.
   Il bambino soppesò attentamente la proposta, eppure non pareva pienamente convinto. Saggiò il bastone con qualche rapido movimento, ma era troppo pesante per lui. Immaginò che si sarebbe annoiato un sacco, lì dentro.
   Prima che potesse rispondere qualsiasi cosa, però, Will si era già alzato, gli aveva arruffato giocosamente i capelli e si era allontanato per andare a fare il suo mestiere. Cercava di essere affettuoso, un po’ come zio Jack; ma, indubbiamente, lo zio Jack sapeva essere molto più spassoso. E non l’aveva mai lasciato giocare da solo. Quella era la mamma. La mamma ogni tanto sì, lo metteva in un angolo a giocare da solo, perché magari non aveva il tempo di stargli dietro. Difatti, era spesso occupata a parlare con i marinai, a tracciare disegni sulle mappe o a riaggiustare qualche parte della nave. William ormai c’era abituato. Bastava che avesse solo un po’ di pazienza, tanto prima o poi arrivava sempre suo zio a portarlo in giro.
   Con Will era tutto diverso. Soprattutto, non era sulla nave, nemmeno nelle sue vicinanze, e questo metteva molto a disagio il bambino. Si trovava in un ambiente sconosciuto e potenzialmente ostile, e intorno non aveva persone che potessero aiutarlo, poiché sconosciute anch’esse. Quello doveva essere uno di quei momenti che sua madre definiva come “le volte in cui dovrai fare tutto da solo”. William si sentiva molto solo, ora. Ma non intendeva rimanerci a lungo.
   Aveva ancora quel bastone tra le mani. Lo gettò via subito: non sapeva che cosa farsene. L’idea di tirarlo contro l’alto pilastro non lo attirava. Quello non era una vera spada, e il pilone non era un vero avversario. Aveva solo sei anni, ma non era stupido. Soprattutto, non era piccolo.
   Si voltò e si mise a studiare i movimenti di Will, affaccendato presso la fucina. Aveva appena acceso un altro fuoco, sul quale batteva il ferro di una nuova spada; smartellava con foga su quel pezzo di metallo, i rivoli di sudore che già colavano ai lati delle tempie. Aveva un viso sofferente, notò William. Ma a lui che gliene poteva importare? Non avrebbe mai potuto essere più sofferente del suo.
   Un altro uomo si avvicinò a Will per chiedergli qualcosa. Per un attimo si girarono verso il bambino, ma poi ripresero a parlare vivacemente tra di loro, testa a testa. William se ne stava ancora nel suo angolino, lontano da tutto e da tutti, dove non potesse correre pericoli e dove non potesse disturbare nessuno. Tuttavia, era sua intenzione togliersi d’impiccio molto presto. Anche se ancora nessuno lo sapeva.
   Osservò i dintorni. La fucina era una vecchia costruzione fatta di mattoni, tra le cui pareti si aprivano diverse porte di legno, sostenute da trame di ferro. Queste erano tutte chiuse, si accorse William, con un sospiro. Avrebbe dovuto inventarsi qualcosa di meglio per fuggire.
   Perché di fuggire si trattava.
   Mentre Will era occupato, il piccolo fece un rapido giro. Ora che ci ripensava, quelle porte erano troppo malconce per essere nuove. Probabilmente anche i cardini e le serrature non erano proprio freschi di fabbrica. Forse poteva ancora trovare una soluzione.
   Si avvicinò ad una di esse. La parte in ferro era arrugginita dal tempo e non c’erano chiavistelli o catene a sorreggerla. Appariva chiusa, ma non inespugnabile. William sentì rifiorire in petto la speranza. Se fosse stato bravo, non sarebbe più stato prigioniero di lì a poco.
   Raccolse da terra una lamina di ferro che luccicava nel sole. Quello era un oggetto pericoloso, come la mamma gli aveva insegnato, ma ormai lui aveva imparato a maneggiarlo con cura, senza farsi del male. Con quello avrebbe potuto facilmente scassinare la porta e l’avrebbe fatto, altrochè se l’avrebbe fatto.
   Dopo aver controllato ancora una volta Will, troppo occupato per dargli retta, il bambino inserì lo strumento nel buco della serratura e cominciò ad armeggiare. Cercò di ricordarsi come faceva sua madre. Sua madre era molto brava, quando qualcosa si incastrava chiamavano sempre lei. Lei sapeva come fare e un giorno glielo aveva mostrato. Quelle lezioni tornavano utili ora, anche se William aveva scalciato non poco per essere stato costretto, in passato, a prestare attenzione a cose che non lo riguardavano. Ma ora, a un clic della porta, si rendeva conto che quell’arte non era stata travasata in lui invano.
   La porta cigolò sui vecchi cardini, ma William si oppose con tutto il suo peso, per non farla troppo stridere. Qualcuno poteva accorgersi di lui e non era certo il momento giusto. Con il fiato sospeso, il piccolo sbirciò fuori. C’era un gran viavai di persone, incuranti di lui, con cestini, cavalli, galletti e signore con gli ombrellini. Un allegro cicaleccio fatto di nulla, che si stagliava contro il cielo azzurro e il caldo di quell’ora. Da qualche parte, si era svegliato un mercato. William pensò che era proprio la giornata migliore per scappare.
   Sgusciò nel varco aperto della porta, dopo un ultimo sguardo a Will. Sudava, batteva il ferro e aveva un’aria avvilita, come se avesse sentore di quello che stava per succedere. Probabilmente sarebbe stato male, ma erano forse affari suoi? William voleva solo rivedere la sua mamma e zio Jack. Il resto del mondo poteva anche attendere.
   Uscì, lasciando che la porta sbattesse contro lo stipite. Troppa la foga, troppa la voglia di lasciarsi tutto alle spalle e di spingersi lontano, dove nessuno avrebbe potuto prenderlo. Finalmente libero. Finalmente sulla strada di casa, anche se non sapeva qual era, in verità.
   Nel dubbio, iniziò a correre.
 
   Come la porta tremò contro l’uscio, Will si svegliò come da una specie di torpore, non aspettandosi affatto di udire quel suono. Tutte le vecchie entrate alla fucina erano state sigillate per impedire ai soliti curiosi di entrare non visti e ai ladri di rubare indisturbati dietro le loro schiene; quindi, perché una di loro avrebbe dovuto sbattere?
   Si voltò. Vide il corpo del reato, il chiavistello fatto saltare, la porta mezza aperta e rimase letteralmente senza fiato. Cosa ancora più importante, fu quello che non vide più: William era scomparso.
   Will sentì il cuore montargli in gola, quando credette di intuire:
- William?!- chiamò, senza ricevere risposta.
   Mollò da parte il lavoro immediatamente e si mise a cercare il bambino lì intorno. Non lo trovò. Non trovò niente che potesse fargli sperare al meglio. Anzi. La certezza che stava velocemente espandendosi dentro di lui quasi lo soffocava, più del calore del forno e la fatica del martello.
- William!- gridò, sempre più forte, al punto che anche gli altri lo sentirono.
- Che c’è?- gracchiò uno, ma Will non gli diede retta. Ormai era completamente alla mercè dell’angoscia.
   Si affacciò a una finestrella, con un groppo in gola. Proprio in quel momento William gli sfrecciò davanti, diretto verso la piazza centrale. Correva a perdifiato, facendo slalom tra le persone e gli animali, spintonando e tirandosi dietro ben più di una bestemmia.
   Will sentì il cuore che faceva il giro del suo corpo, arrivava ai piedi e poi tornava indietro: le pulsazioni rimbombavano in ogni vena. Il sangue gli dava alla testa, si vedeva. Ancora prima che potesse realizzare l’effettiva opportunità di quello che stava facendo, si era già tolto il grembiule di cuoio, aveva gettato il martello, aveva aperto la finestrella e aveva scavalcato il davanzale.
- WILLIAM!!!- urlava al vento, tirandosi dietro sguardi ben lungi dall’essere impietositi.
   Una volta fuori, pompò più ossigeno nelle arterie e il suo corpo rispose con una prontezza che non si aspettava di avere ancora, non dopo tutti quegli anni. Saltò lo steccato che separava la fucina dalla strada e cominciò a correre più forte che poteva, sotto gli sguardi attoniti dei suoi colleghi. Qualcuno si affacciò e gli gridò dietro di smetterla, di lasciare andare il bambino dove voleva, ma Will non lo sentì. In ogni caso, non lo avrebbe ascoltato.
   Loro non potevano capire.
   William correva più forte di lui e cercava di confondersi tra i colori e le persone che, lentamente, pellegrinavano verso il mercato che si teneva poco più in là. Sperava di dileguarsi presto nella folla e farla franca, in barba a quell’uomo alto e distinto che ora gli stava alle calcagna come un segugio. Avere lo stesso nome non bastava per essere legati insieme in un unico destino, anzi. William non ne voleva sapere, di dividere quei giorni con Will. Il suo spirito era come il mare, dal quale era stato cresciuto fino dal primo momento, e al mare voleva ritornare, come un’onda chiamata indietro dalla risacca.
   Per questo ora schiumava di voglia, si faceva spazio tra gonnelloni e cestini di vimini, tra serve e signore. Giunse alla piazza con un ansimo che avrebbe fatto invidia a un fuggiasco.
   Ma lui era un fuggiasco. Fuggiva all’ingiustizia di quelle ore, si ribellava a ciò che altri avevano già predisposto per lui. Fuggiva da suo zio e da quell’altro, quell’uomo che lo accudiva. Un perfetto estraneo.
 “Con gli estranei, non ci devi mai parlare”, gli aveva sempre raccomandato sua madre.
   Will gli stava addosso:
- Fermatelo!- strillava – Fermatelo, è mio figlio! E’ mio figlio!-
   Vecchiette e giovani signore si voltarono verso di lui, che continuava a correre e gridare, scostando chiunque gli sbarrasse il passo. Ormai aveva quasi perso di vista William: per lui era troppo veloce, e c’erano troppe persone!
- WILLIAM!!!-
   Gli sembrava di non avere più voce, o che intorno a lui ci fosse uno spesso strato di ovatta, per cui nessuno lo stesse realmente ascoltando. Nessuno pareva curarsi della sua disperazione, del suo cuore che scoppiava; lo degnavano solo di occhiatacce infastidite, perché non dipendeva da loro, certo, non dipendeva da loro quel complicato legame familiare, e non dipendeva da loro se si sarebbe presto spezzato o meno. Will si accorse di odiarli tutti, anche se non aveva tempo di odiarli come si deve.
   Perciò, si limitò a farsi spazio nella calca, mentre vedeva le sue speranze farsi sottili come un fil di fumo.
 
   Poco più in là, una tranquilla Elizabeth Swann soppesava con incredibile fiuto per gli affari un carico di mele appena arrivate al porto. Vista la sua incresciosa condizione di giovane sposata ma di ritorno alla casa del padre, cercava di tenere la mente invasa da ogni sorta di pensieri. Di solito, se ne stava chiusa in camera e usciva solo per qualche passeggiata. Ogni tanto aiutava suo padre con le carte, o si interessava al commercio del porto, oppure intratteneva gli illustri ospiti che passavano a trovarli per pura cortesia. Accettava i regali e il lunedì si concedeva un giro al mercato, nonostante sapesse che tutti la bollavano come “quella”. Difficile tenersi stretta un po’ di segretezza, quando si è la figlia del governatore Swann.
   Inoltre, non esisteva posto più infame, per i pettegolezzi, che Port Royal.
   La sua vita era stata un saliscendi di piccole sfortune, capitate tutte nel momento sbagliato, ovviamente. La più grande e la più dolorosa, quella che deteneva il primato nella sua personalissima lista, era stata il suo matrimonio con Will Turner. L’avevano celebrato con la consapevolezza di non poter fare altrimenti. Se l’erano letto negli occhi di fronte all’altare e questa era stata la loro vera promessa: continuare a struggersi per qualcosa che avevano perduto, ma sperando che la vicinanza dell’altro avrebbe alleviato un po’ quel peso.
   A loro modo, ci avevano creduto entrambi. In particolare, Elizabeth Swann ci aveva creduto più di ogni altro. Quando da noi nascerà un bambino, aveva meditato, in ogni caso sarò troppo impegnata per pensare ad altro che non sia la nostra famiglia. Avrebbe dimenticato il mare e quanto le sarebbe piaciuto tornare tra le sue braccia azzurre. Sarebbe stata una brava moglie e una brava donna, anche se forse non era proprio quello che aveva sempre sognato.
   Ma quei desideri non si erano avverati. Tutt’altro: la vicinanza con Will le era pesata più del previsto. Certamente, quel sentimento era ricambiato, anche se lui non lo voleva ammettere. Si volevano bene, ma non era più la stessa cosa. Non dopo Élodie Melody Sparrow. L’unica che avesse fatto capire a Will quanto potesse essere meschina la vita, eppure così terribilmente affascinante. L’unica che l’avesse smosso nella sua incrollabile fedeltà.
   Elizabeth non la odiava, però. Era consapevole, in fin dei conti, che l’altra donna aveva preso un posto che era già vuoto. Non c’era di che biasimarla. In fondo, lei, Elizabeth, non era più con Will Turner da molto tempo. Forse questo si era percepito, tutto qui. L’anello che ancora portava al dito era solo un proforma che, per di più, non le piaceva. Quello sì, lo odiava, con la forza e l’arroganza di chi non riesce a sopportare che la sua libertà venga limitata dalle circostanze. Quindi, forse come punizione per quell’alterigia di cui si era macchiata, ora si sarebbe occupata di mele e argenteria a vita, ma almeno l’avrebbe fatto con molta, molta classe.
   Rapita dalla lucentezza delle bucce, non si era accorta di tutto quel baccano che improvvisamente stava prendendo vita intorno a lei. Per questo trasalì quando sentì una voce potente, che si levava sopra ogni altra. Qualcuno che urlava:
- Fermatelo! E’ mio figlio! Fermatelo!!!- a squarciagola, come se lo stessero sgozzando.
   Elizabeth reagì guardandosi nervosamente attorno. Quella voce sembrava riecheggiare ovunque, ora. Qualcuno era in difficoltà, anche se non capiva bene come e perché. Né chi. Quel grido la turbava
(fermatelo è mio figlio!)
perché rispecchiava un’infelicità autentica, spossata, tremenda, come la sua. Inoltre, era sempre più vicino a lei. Indovinò che di lì a poco sarebbe successo qualcosa che sicuramente l’avrebbe catapultata fuori del suo laconico programma di routine.
   Si tenne pronta. Qualsiasi cosa stesse per succedere, l’avrebbe vista protagonista in prima persona. A giudicare dal tipo di soccorso richiesto, immaginò che un ragazzino in fuga sarebbe spuntato presto tra la folla, e che sarebbe stato suo compito fermarlo. Anzi no, non suo. Non era sicura di farcela contro le forze soverchianti di un nanerottolo.
   Guardò allusivamente il corpulento servitore che l’accompagnava. Lui abbassò gli occhi, in segno di rispetto, ma fece anche un rapido cenno con la testa. Elizabeth sorrise: ecco, alcune volte essere una ricca signora tornava utile.
   Finalmente, due ali di persone si spostarono per far spazio a un bambino che correva a gambe levate, senza guardarsi indietro. Spintonava e ansimava come un cavallo imbizzarrito. Lei vide subito quanto doveva essere spaventato, e capì che era lui che doveva bloccare, prima che accadesse qualcosa che non si sarebbe perdonata.
   Ordinò al suo servitore di agguantare il bambino che stava arrivando verso di loro a tutta birra. L’uomo si mise in posizione, giusto in tempo per riuscire ad acciuffare il pivellino che capitò tra le sue mani grandi. Lo afferrò per la collottola e per le brache, quasi sollevandolo da terra. Il piccolo scalciò infuriato, e si lamentò con tutto il fiato che ancora gli rimaneva in corpo:
- Mettimi giù! Mettimi giù!!!- frignava, digrignando i denti.
   Era veramente una belva. Elizabeth si avvicinò cautamente, facendo il giro per guardarlo in faccia. Quando entrò nel suo campo visivo, il bambino la fissò da sotto in su, non si sapeva bene se più risentito o incuriosito dalla sua intromissione. Era veramente piccolo.
- Io non so chi sei, ma non si schiamazza così in mezzo alla gente.- Elizabeth raffazzonò quel rimbrotto gentilmente, anche se sapeva di non aver alcun diritto di giudicarlo. Lei era stata anche peggio di così, troppo tempo prima, ricordò amaramente.
   William si ribellò:
- Mettimi giù! Signora, devo scappare! Per favore, per favore!- e seguitò a piagnucolare, come faceva di solito quando era molto stizzito.
   A Elizabeth fece una grande tenerezza, nonostante tutto. Quella scenetta le rammentava dolorosamente il suo fallimento familiare, ma in fondo capiva quel bambino come pochi altri a quel mondo:
- Quando arriverà il tuo papà, che ti sta chiamando, chiederemo a lui.- gli disse in tono sempre più amorevole.
- Noooo! Lasciami!!!- gridò il piccolo, dimenandosi.
   Mentre erano lì che discutevano, sopraggiunse qualcun altro, di corsa. Elizabeth lo intravide con la coda dell’occhio, si alzò e si voltò. La sua espressione, da indulgente, mutò in costernato quando vide spuntare Will Turner da dietro un gruppetto di marinai.
   Non ci poteva credere. Era allibita.
(qualcuno mi dica che non è stato lui a gridare)
   La bocca le si spalancò in un urlo muto.
   Will rallentò, gli occhi fissi sul bambino, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Si chinò per afferrare saldamente il frugoletto, imprigionato nelle mani del servitore di Elizabeth:
- Ti ho preso!- quasi ruggì, ma si trattenne appena in tempo. Non aveva senso sgridarlo, e neanche arrabbiarsi. Rischiava solo che sarebbe fuggito di nuovo da lui, e stavolta a ragione. Inoltre, rischiava di richiamare troppo l’attenzione, più attenzione di quanta non ne avesse già addosso.
   Non gli sembrò affatto igienico.
   Quando si tirò su, con William ben stretto addosso, incrociò gli occhi che conosceva praticamente da una vita intera. Non se l’aspettava per nulla: arrossì violentemente. Sentì d’improvviso le gambe cedere e per poco William non gli scappò di nuovo. Ma si riebbe appena in tempo, appena sentì strattonare.
   Eppure, non riusciva ancora a spiaccicare una sola parola.
- William?- esalò Elizabeth, mentre il cuore pareva scoppiarle in petto. Il bambino si voltò ma lei non ci fece caso.
   Will Turner rimase immobile a guardarla. Era ancora bella e portava quel vestito e quel cappello con la stessa vanità di un tempo, forse di più. Il corpetto che le strizzava le curve, le chiazze rosse in faccia, sembrava una ragazzina forse solo un po’ cresciuta e un po’ più disincantata delle altre. Ma non abbastanza per non guardarlo più con quegli occhi, dove si leggeva il rimprovero e un po’ di sano disprezzo, specialmente ora che aveva capito.
   Era lui che aveva gridato, senza ombra di dubbio.
- Tuo...tuo figlio.- balbettò Elizabeth. Le sembrava di aver perso l’uso della parola, di essere regredita fino ad aver di nuovo bisogno di un precettore, per giunta molto severo. In effetti, avrebbe avuto bisogno di un frustino che le raddrizzasse la vita, ora.
   Will abbassò gli occhi. Non c’era motivo di mentirle:
- Sì.-
   Avvertì una lacrima che pungeva tra le ciglia. Non era il momento, forse non era mai stato il momento per piangere sul latte versato, ma ora più che mai avrebbe voluto non incarnare la ragione del dispiacere di Elizabeth.
   Aveva fatto una promessa a se stesso, quando erano tornati a Port Royal: che non le avrebbe mai fatto del male. Ma poi, forse involontariamente, gliene aveva fatto assai e se ne sarebbe rammaricato per sempre. William era solo l’ultimo colpo ingrato a un corpo di donna già martoriato dalle delusioni. Mai e poi mai avrebbe voluto esserlo.
   Aggiunse, molto piano:
- Mi dispiace.- ed era sincero, mentre lo diceva.
   Elizabeth diventò ancora più rossa. Non era dato sapere se si trattasse di rabbia o di altro, che cosa potesse passarle per la testa in quel momento. Probabilmente, nemmeno lei lo sapeva. Forse erano troppe, le cose che le turbinavano in testa. Eppure, il suo cielo non pareva affatto sereno: segno che aveva già deciso da che parte stare, nonostante tutto.
- Ci credo, che ti dispiace.- lo azzannò.
   Ma in fondo gli credeva. Non sapeva perché, ma intravedeva il dolore di Will in fondo ai suoi occhi. Il problema era che a lei non era rimasto niente, niente a cui aggrapparsi per riuscire a perdonargli anche quell’ultimo affronto. Il bambino. Il frutto del suo ventre e del ventre di un’altra donna, senza dubbio. A giudicare dall’età che poteva avere il piccolo, doveva essere stato parecchio tempo prima; quindi, quando erano sposini, o comunque stavano cercando di ricostruire il loro rapporto. Non era piacevole dover prendere coscienza che l’uomo con cui aveva consumato la sua gioventù, con cui aveva condiviso così tante cose, si fosse lanciato tra le braccia di un’altra alle prime difficoltà.
   Elizabeth si accorse di odiarlo profondamente: un odio incontrollabile e così forte che le pareva quasi di poterlo stringere tra le dita, per scagliarlo contro di lui, contro chi non era stato al suo fianco nel momento del bisogno.
   Strinse forte l’impugnatura del suo ombrellino, le labbra contratte che si screpolavano al sole. Erano riarse, secche, brutte. Ma che importava. Non avrebbe mai voluto baciare quella bocca infida e piena di menzogne. Dalla prima all’ultima. Elizabeth ormai tremava di rancore represso.
- Grazie che l’hai fermato.- sussurrò Will, senza osare guardarla in viso.
   Elizabeth distolse sdegnosamente lo sguardo da lui. Quella che sembrava una piacevole sorpresa di quella mattina si era trasformata in una pozzanghera di sentimenti fin troppo penosi.
- Tanti saluti...papà.- lo congedò con un tono tagliente, che lacerò fin nel profondo il cuore di Will.
   Chiuse gli occhi, mentre lei girava i tacchi e se ne andava, con il corpulento servitore al seguito. Si stava solo immaginando un finale diverso; oppure, molto più semplicemente, sognava di non essere più lì.
   Non c’era. Neanche l’eco di quei passi che si allontanavano, non c’era: era già stato inghiottito dal mercato. Elizabeth non c’era più
(c’è mai stata?)
e immediatamente ne sentì la mancanza. Non sapeva se l’avrebbe rivista.
   Il piccolo William la osservò allontanarsi, impietrito dalla curiosità per quella strana signora. Ne aveva viste diverse, ma questa aveva un certo non so che: lo attirava e lo ripugnava allo stesso tempo, così come era attirato e ripugnato dal porridge.
   Aveva assistito alla scena con gli occhi sgranati dallo stupore. Non aveva compreso fino a fondo la situazione forse, e nemmeno aveva afferrato il senso di tutte le parole. In particolare, di una parola. Quella parola, lui non la conosceva.
   Ba-ba.
 
   Tornati alla fucina, Will ansimava ancora per lo sforzo di trascinare il piccolo recalcitrante giovincello, almeno due volte più forte di lui. Si presentarono impolverati e incolleriti, ognuno a modo suo, di fronte a un pubblico piuttosto sorpreso: la loro entrata ben poco trionfale, in particolare quella di Will Turner, fece alzare i volti dei lavoratori dai mastici e strappò loro qualche risata.
   Will rideva molto meno di loro
(dio, perdonali perché non sanno)
perché se quello era solo l’inizio della giornata, già partita piuttosto male, l’unica speranza che gli restava era pregare quanto più fervidamente fosse in suo potere. Oppure, piantarla di compiangersi come una donnetta qualunque e darsi da fare. Inventarsi qualcosa prima che William la distruggesse, ad esempio.
   Il bambino sembrava avere un diavolo per capello. Scalciava e sbraitava come un animale; Will era costretto a trascinarlo quasi di peso.
- Lasciami!!!-
   Non ce la faceva più a sentirlo protestare come un ossesso. Al tempo stesso, non poteva permettersi che succedesse un’altra volta, un’altra fuga, non quel giorno. Ne aveva già avute abbastanza; in più, il viso di Elizabeth galleggiava ancora nella sua mente sovreccitata, come la carcassa di un uccello marino abbattuto. Sentiva il peso e i graffi di quello sguardo in tutto il corpo.
   William, di certo, non lo stava aiutando.
   Prima di poter avere qualsiasi ripensamento, afferrò William e lo posizionò dove, per il momento, non avrebbe potuto nuocere: ovvero, in una cassa piuttosto robusta, alta pochi centimetri in meno di lui. Il bambino tentò di colpirlo con i piedi, ma fu inutile, o Will troppo veloce. Alla fine il bambino si ritrovò di nuovo prigioniero fra le assi, che cominciò a battere sempre più furiosamente:
- Fammi uscire!!!- piangeva, ormai, a dirotto – Brutto, cattivo...!!!-
   Will fece un bel respiro e si impegnò ad ignorarlo. Mentre era momentaneamente fuori gioco, poiché la cassa era troppo alta da scavalcare, fabbricò velocemente una specie di imbragatura con vecchie strisce di cuoio trovate in magazzino e legò William come un salame. Poi lo allacciò a sè, saldamente, assicurandolo così a se stesso. Qualsiasi movimento strano, qualsiasi strattone avrebbe destato ora il suo sospetto, e il bambino non sarebbe riuscito a muoversi senza che Will gli fosse già addosso.
   Lo tirò fuori dalla cassa. Le fasce erano abbastanza robuste ma anche abbastanza elastiche da non soffocare il piccolo. Aveva un certo agio nei movimenti, ma non poi così tanto. Prima o poi avrebbe dovuto arrendersi, per forza.
   All’inizio, William strattonò non poco e tentò di liberarsi, ma fu sempre fermato in tempo. Era troppo piccolo per riuscire ad avere la meglio, ma troppo grande per riuscire facilmente a svignarsela da solo. Infine, aveva trovato la sua prigione.
   Dopo un po’, si mise a piangere e a pestare i piedi. Will ne aveva già abbastanza di quel baccano, ma decise ciononostante di ignorarlo con tutta la convinzione di cui era capace. Prima di tutto, doveva fargli capire chi era il capo, lì. Non ne sarebbe uscito, altrimenti. Anche se questo sarebbe costato un mare di lacrime.
   Will ricordò quante volte aveva pianto per i castighi che gli aveva inflitto sua madre. Anche lui da piccolo era stato un birbantello, come tutti i bambini; quelle punizioni l’avevano fatto crescere e ragionare ancora meglio di un padre. Era staro un duro allenamento, ma era quello che era anche grazie ai tutti quei “no” che aveva ricevuto.
   Quello era il suo primo “no” a William. Al solo pensiero, sentì una vertigine. Non era esattamente ciò che aveva immaginato come approccio con il bambino, però non poteva fare altrimenti. Aveva bisogno di tranquillità per ripensare a quella bizzarra situazione e ad organizzarsi di conseguenza. Non poteva essere ovunque nello stesso momento. Lui non era Dio, e per i miracoli non si era ancora attrezzato.
   Quindi, cercando di ignorare gli urli e gli strepiti, riprese a lavorare. Lavorare lo rilassava, dopotutto: agiva come in automatico, non aveva nemmeno più bisogno di concentrarsi. Gli strattoni alle strisce di cuoio, ogni tentativo di William di scappare, lo disturbavano un poco, ma decise che l’impegno da parte sua era d’obbligo. Era solo un bambino, in fondo. Non poteva pretendere che fosse già adulto.
   Lo avrebbe imparato con il tempo.
 
   Quando fu ora di andare a casa, William si era già arreso da molto tempo. Alla fine si era accontentato di giocare sul pavimento, a tracciare disegni nella sottile polvere di legno che si era depositata tutt’intorno.
   Aveva pianto quasi tutto il pomeriggio. Dopo aver finito le lacrime, si era accucciato da una parte, trattenendo faticosamente i singulti e si era messo a tracciare strani segni per terra.
   Will aveva tirato un sospiro di sollievo. Quell’improvvisa calma lo disorientava, ma era una manna dal cielo, niente da dire. O forse era solo la quiete prima di una nuova tempesta, come tante ce ne sarebbero state, a voler essere pessimisti. Sperò che intervenisse una sorta di destino a risollevare le sorti, perché lui ora si sentiva veramente spossato.
   Quando fu ora di andare a casa, Will si decise finalmente a respirare. Gli sembrava di aver tenuto la testa sott’acqua tutto il pomeriggio, affogato nell’impossibilità di fare qualcosa. Di trattenere William, ad esempio, nonostante le corde che lo tenevano legato.
   Si tolse di dosso l’imbragatura di cuoio, poi corse a toglierla anche a William. Il bambino restò immobile, senza guardarlo, senza nemmeno mostrare di essersi accorto di lui. A Will sembrò molto strano. Mentre lentamente lo slegava, si chiese se per caso non avrebbe tentato la fuga proprio in quel momento, approfittando di un attimo di distrazione o di bontà d’animo da parte sua; per questo, si tenne pronto a scattare, i muscoli di nuovo tesi.
   Ma non successe nulla. Sciolto dai lacci, il bambino continuò a muoversi con quella specie di apatia negli occhi, tanto che Will ebbe il timore che si stesse sentendo male. Lo scosse un po’, gli rivolse la parola nel modo più dolce che riuscisse a trovare, date le circostanze, ma non ottenne risposta. Al contrario: il piccolo William affondò il viso nei suoi vestiti senza emettere un suono.
   Will rimase interdetto. A dire il vero si aspettava una reazione diversa da un tipetto come lui. Una reazione degna della grintosa madre, forse. Invece il piccolo era fastidiosamente calmo ed immobile come una statua.
   Lo scostò un poco e cercò di guardarlo in viso. Il bambino abbassò la testa in segno di rispetto e William se ne sorprese. Era stata una dura punizione, la sua, lo ammetteva, ma la situazione era troppo delicata, non aveva potuto fare altro. Doveva ancora capire perché si ritrovavano insieme nello stesso lembo di terra, dopo sei anni e non essersi mai visti prima.
   Non era bravo a fare il padre. Non lo era per niente.
   Prese per mano William e lo aiutò ad alzarsi da terra. Il piccolo, però, incredibilmente, si scostò. Eccolo ritornare dello stesso spirito combattivo con il quale l’aveva conosciuto. Will fu lesto ad afferrarlo per la collottola, prima che potesse sfuggirgli con una mossa da Jack Sparrow (gliele aveva sicuramente insegnate). Dall’avversario non ci fu risposta, solo un incrollabile silenzio e il muso imbronciato, seminascosto dalle ciocche brune.
   Will, appena ripreso il controllo della situazione, si congedò dai colleghi con un saluto:
- Bella mossa!- gli fece notare qualcuno, accennando con pochi gesti alla sua performance di quella mattina. La sua corsa pazza al mercato sarebbe stata tramandata nei secoli dei secoli, a quanto pareva.
   Will non rispose. Cercò di ignorarli. Probabilmente, avrebbe avuto tempo di sistemare le cose più avanti, ammesso che Jack fosse realmente tornato a riprendersi il pezzo mancante della sua famiglia. La domanda era: se ne sarebbe ricordato?
- Signore...- lo chiamò ad un tratto il bambino.
   Will riemerse da quella che sembrava una tempesta di sabbia. Si sentiva come se i suoi pensieri si fossero mescolati tutti, come le biglie di una tombola. Ogni tanto ne estraeva uno a caso, non necessariamente collegato con gli altri. Stava giocando contro se stesso ma in quella partita non era stato messo in palio nessuno premio. Al contrario: la posta era la sua sanità mentale.
   Quando William attirò la sua attenzione, gli sembrò di riemergere per prendere una boccata d’aria fresca. Ma quell’aria era stata rotta da un vezzeggiativo che non gli apparteneva.
   Non gli piaceva, essere chiamato “signore”. “Signore” lo faceva pensare ai grandi latifondisti che si rivolgevano alle persone come se fossero stati tutti loro schiavi. “Signore” era sinonimo di potere, di superiorità. Will si era sempre considerato un normalissimo cittadino, credente per quanto possibile negli ideali di libertà e uguaglianza, benché non se ne vedesse parecchia in giro. Nessuno l’aveva mai chiamato “signore”, e lui non voleva che suo figlio fosse il primo a farlo, nonostante la distanza incolmabile che li separava.
- “Papà”, William. Puoi chiamarmi “papà”, ora.- lo rassicurò, sovrappensiero.
   Il bambino storse la bocca. Ancora quella strana parola: la stessa che la signora al mercato aveva detto con tanta rabbia, l’aveva come spiaccicata in faccia a quell’uomo di nome William, come se fosse frutta marcia.
- Baba...- pronunciò il bambino, piano.
   Aveva un suono sconosciuto, eppure dolce. Perché non gliel’avevano mai insegnata? Che cosa significava esattamente?
   Si riscosse. Ormai era una decina di minuti che camminava a fianco di quell’uomo. Alla fine, aveva accettato la sua mano, sebbene riluttante. Era scivolata dentro la sua in un attimo, quasi non se n’era reso conto. Non era ancora pronto per essere felice di quel contatto, ma era stata una giornata lunga e dura; gli sembrò di capire che entrambi avevano bisogno di un po’ di calore.
   Non si sentiva più così spaventato da Will, anzi. La sua andatura sicura lo spingeva a seguirlo con voglia e decisione: un po’ come quando camminava di fianco a zio Jack. Le due figure apparivano ugualmente alte a William, ugualmente capaci. Entrambe gettavano una lunga ombra dietro di loro, un’ombra in cui lui si trovava bene, vi si accoccolava come se fosse il suo unico e ultimo rifugio. Solo una cosa li differenziava. Quel “baba”.
   Più curioso che mai, finalmente trovò il coraggio di esternare quella domanda che gli premeva sulle labbra già da un po’.
- Che cos’è un baba?-
   Will rimase per un attimo interdetto. Non solo per l’errore nella pronuncia, ma ancora di più se pensava che suo figlio non aveva la minima idea di che cosa fosse un genitore, una delle due colonne portanti della sua vita.
   Al contempo, si rise conto che gli serviva una risposta plausibile. William aveva tutto il diritto di sapere di che si trattava, a maggior ragione se nessuno scriteriato non gliel’aveva spiegato prima di allora; ma si accorse che era lui a non sapere la risposta. In verità, non aveva avuto molte occasioni in cui aveva potuto usare quella parola. Nemmeno lui aveva mai potuto godere della figura paterna, non come chiunque altro. Al massimo, se l’era immaginata, dipinta a modo suo, come più gli piaceva. Ma erano proiezioni di un ragazzino alle prese con le prime domande veramente importanti dell’età adulta. Nonostante tutta la sua esperienza, si accorse che a quelle domande non aveva ancora trovato una valida spiegazione.
   Doveva inventarsi qualcosa.
   Dopo qualche minuto, si decise a riaprire bocca:
- Un papà è come una mamma...tutti ce l’hanno.- azzardò, incerto.
   Teneva lo sguardo fisso di fronte a sé, ma sentì lo sguardo pungente di William che lo squadrava. Continuò a camminare, trascinandoselo dietro. Non voleva dargli la soddisfazione di vederlo in difficoltà, per quanto fosse faticoso sfuggire al suo interrogatorio.
   Ci fu un altro lungo silenzio. Will seppe che non ci si sarebbe mai abituato abbastanza: era come combattere un nemico di cui non si conosce il volto e che potrebbe assalirti da ogni parte. C’era ancora qualcosa da dire.
   Alla fine cedette alla tentazione di guardare. Un’occhiata, solo un’occhiata, non certo abbastanza per iniziare una discussione, sperava, non avrebbe avuto le forze per affrontarla ora.
- Allora anche tu mi sgriderai come la mamma?- chiese il piccolo, preoccupato, appena vide un cenno di resa da parte sua.
   Will intuì di aver toccato un tasto delicato, specie dopo la poco credibile dimostrazione di tenerezza che gli aveva dato quel giorno. Per questo, nonostante tutto, si affrettò a tranquillizzarlo:
- Ma no, William...dipende.- spiegò al piccolo – Dipende se rispetti le regole oppure fai il monello come oggi, suppongo...-
   Questa volta abbassò completamente lo sguardo su di lui. Incontrò altre mille domande ad attenderlo, disegnate su quel volto a lui già caro. Al solo pensiero, a Will venne il mal di mare. Tuttavia, non ebbe tempo per crogiolarsi un attimo in più in quella piacevole nausea. William era già pronto con una nuova domanda:
- Cos’è una “regola”?-
   Will rimase per un attimo sbalordito. Poi si rese conto.
   Aveva dimenticato che per alcuni loschi individui, in particolare i pirati, le regole non erano altro che parole vergate sulla carta; e sulla carta, la maggior parte delle volte, quelle rimanevano. Non c’era posto per loro, nella vita nuda e cruda di un lupo di mare. Figuriamoci nella vita dei loro figli! E William era prima di tutto figlio di una piratessa. Infatti.
   Così, la patata bollente passava a lui. Will cercò affannosamente le parole:
- Una regola è qualcosa che devi fare...- cominciò, sperando in qualche idea migliore e magari più fantasiosa.
- E perché lo devo fare?- insistette William.
   Will trasse un sospiro. Tutto sommato, avrebbe preferito spicconare i suoi ferri per altre otto ore piuttosto che scervellarsi dietro a simili arcani.
- Perché sì.- tagliò corto, onde evitare di cadere in errori grossolani – Lo fai perché devi, perché così è e tu non ci puoi fare niente.-
- E chi lo dice? Chi mi dice cosa devo fare?-
   Will ci pensò per qualche secondo. Non era così facile spiegare il mondo a un bambino di sei anni. Aveva decisamente sopravvalutato le sue forze:
- Lo dice qualcuno che ne sa più di te.- affermò, sforzandosi di apparire convincente.
- Anche se non mi conosce?-
- Anche se non ti conosce, sì.-
   Il bambino ci rimuginò sopra per un secondo. Mosse le labbra in quella tipica smorfia di chi non è mai completamente persuaso, ma aspettò di avere un altro tiro in canna prima di riprendere. Ora gli frullavano mille idee per la testa e chi gli stava a fianco dava l’idea di saper parare bene i colpi. Quindi, ovviò:
- A che cosa serve una “regola”?-
   Questo sembrò a Will un quesito più accessibile:
- Le regole servono per vivere in pace con gli altri uomini.- lo guardò con affetto, poi fece un ampio gesto con la mano - Non vedi quanti siamo, su questa terra? Se non ci fossero regole, litigheremmo sempre.-
   Il piccolo lo guardò, aggrottando le sopracciglia. Will, a sua volta, corrugò la fronte: che c’era che non andava nel suo ragionamento? Perché il bambino lo stava studiando a quel modo?
- Tu sei un uomo della terra.- precisò William - Io sto su una barca. Su una grande barca, che si chiama “nave”. Io, la mia mamma e zio Jack, insieme ad altri. Noi non siamo uomini della terra.-
   Will si fermò, e il piccolo con lui. Non sapeva bene come giudicare quell’obiezione, perché si rendeva conto che in misura nemmeno tanto profonda William aveva ragione. Aveva pronunciato un’incontrovertibile verità, nulla da eccepire. C’era un abisso di incalcolabili leghe fra gli uomini “della terra” e gli uomini “del mare” e, probabilmente, non sarebbero bastati secoli per colmare quella lacuna.  
- Capisco...- potè dire solo questo.
   William tornò alla carica:
- Perché tu non stai su una barca?-
   Will sospirò
(già perché non ci vivo anche io su una barca?)
- Non tutti gli uomini vivono sulle barche. Tuo zio te l’avrà detto...-
   Al nominare suo zio, William si illuminò:
- Sì!- trillò – Zio Jack ha detto che quelli come noi sono nati liberi. Gli altri, non tanto.-
   Will sentì un groppo catapultarsi in gola. Non era pronto ad ascoltare una simile definizione di uomini normali, come lui credeva di essere. Ma zio Jack Sparrow non avrebbe mai potuto salvarlo da quell’aspra critica, né smentirsi nella sua totale avversione per tutto ciò che avrebbe potuto tenerlo ancorato a uno sputo di roccia. Nemmeno per fargli un favore. Chissà che cosa aveva raccontato al caro nipote, quindi, in quei sei lunghi anni. Niente di buono, evidentemente. Niente di buono per lui.
- Tu sai che cosa significa essere libero, William?-
   Il bambino ci rifletté per un momento. Sembrava molto concentrato. Ripensò agli insegnamenti di sua madre e di zio Jack, ma non gli venne in mente nulla di preciso, a tal proposito. La “libertà” spuntava raramente nei discorsi, forse perché era un concetto fin troppo scontato. Anzi, la libertà era tutto, la base di tutto, aleggiava tutt’intorno come una nebbiolina che non puoi vedere ma che respiri in ogni momento della tua esistenza.
   William non aveva ancora imparato a distinguere il peso delle parole, né a collegarle alla realtà. Alcune idee restavano semplicemente nella sua testa, in attesa di trovare corrispondenza nelle cose. La loro libertà incarnava perfettamente quel sentire.
- No.- rispose, mestamente.
   Will lo guardò. Gli accarezzò la testolina bruna. Aveva molti più anni, ma anche lui si sentiva ingenuo come William, ugualmente ignorante in fatto di cose da adulti. In particolare, davanti ad argomenti dibattuti come quello.
- Nemmeno io.- disse.
   Continuarono a camminare in silenzio. Will non teneva più la mano di William, ma procedevano l’uno accanto all’altro, tranquilli. Il piccolo sembrava immerso nei suoi pensieri; il grande, finalmente aveva il cuore in pace e, sperava, anche la sua povera testa dolente avrebbe smesso di girare per lidi vuoti.
   Stava giusto assaporando quel momento magico, quando il bambino improvvisamente se ne venne fuori con un’altra domanda:
- Mi rimboccherai le coperte come la mamma?-
   Will incurvò le labbra in un sorriso. Poi si mise a ridere. Di nuovo, accarezzò la testa del piccolo:
- Sì, William. Questo lo posso fare, per te.- accondiscese.
- Un baba fa questo?-
- Certo, William.-
- Che bello! Mi piace avere un baba!-
   Se ne saltellò via tutto gioioso, e Will fu costretto a corrergli dietro per non perderlo. Il bambino rideva come se non fosse mai stato così felice in vita sua. E poi, chissà che razza di vita aveva avuto.
   Will non ne sapeva nulla. Chiedere sarebbe stato imbarazzante. Era già tanto sentirlo pronunciare quella parola, baba, per quanto malamente potesse risuonare ad orecchie sconosciute e istruite. Ma per Will aveva un suono meraviglioso. Avrebbe voluto che gliela ripetesse all’infinito, fino alla fine dei suoi giorni.  
   William si voltò ancora, colpito improvvisamente da un altro dubbio:
- Ma un baba è anche come uno zio?- chiese, incerto.
   Will considerò la profonda, invalicabile differenza che lo separava dallo “zio” Jack Sparrow. Senza darsi nemmeno il tempo di formulare un pensiero decentemente coerente, subito rispose:
- Non c’è paragone. Il papà è molto di più di uno zio.-
   Il bambino sorrise e trotterellò via:
- Allora quando viene a trovarmi gli dico!-
   Will sentì un brivido freddo lungo la schiena, mentre accelerava il passo. Discutere con Jack a proposito di questioni parentali non gli sembrava proprio il caso, tutto il contrario: avesse potuto fare a meno di pensarci!
- Ehm...forse questo è meglio di no.- fece notare, con una certa vergogna. Ora capiva come il suo pensiero a voce alta fosse stato fuori luogo, per non dire abbastanza offensivo. Almeno, nel senso che lui aveva voluto dare a quella frase.
- Perché no?- balbettò William, confuso.
- William...non è necessario sapere tutto, nella vita.- Will cercò di rappezzare – A volte è meglio non sapere, addirittura.-
- Davvero?-
- Davvero.- concluse solennemente l’altro – Lo imparerai anche tu.-
   William gli si avvicinò. Nonostante l’avesse castigato non poco, quel giorno, pareva non avere molta paura di lui:
- Tu hai imparato, baba?-
(mai abbastanza bene purtroppo)
- In un certo senso...- biascicò Will.
   Il piccolo alzò le spalle:
- Te l’ha insegnato il tuo baba?- indagò.
- Il...il mio baba?- ripetè Will, come istupidito. Non si aspettava una simile domanda. Non ci stava proprio pensando, a dire il vero.
- Se un baba è come una mamma...- ragionò il piccolo, calciando un sassolino per terra – E tutti hanno una mamma...come dice zio Jack...e tutti hanno un baba, come dici tu...allora anche tu hai una mamma e hai anche un baba.-
   Will rimase a bocca aperta. Si era rovinato con le sue stesse mani. Il piccolo William era troppo attento e troppo intelligente per non aver ascoltato tutti i particolari di quella conversazione.
   Come fare adesso a spiegargli che in verità esistono anche gli orfani e lui era fra quelli?
   Si voltò verso il molo, che ora stavano costeggiando. Aveva il fiato corto. Non sapeva da dove iniziare, né dove sarebbe andato a finire. La sua smania di mostrarsi perfetto lo aveva tradito e ora gli sembrava di soffocare. Si morse le labbra.
   Poi, d’un tratto, venne folgorato da un pensiero. Quindi prese William di nuovo per mano e lo trascinò con sé verso le barche ormeggiate:
- Dove andiamo?- chiese il bambino.
- Ti faccio vedere una cosa!- Will sorrise nel tramonto.
   Poco più in là, appena superata una collinetta di sabbia, si fermò. William gli stava appresso, con il fiato grosso. Will lo incitò a raggiungerlo sulla cima della duna e il bambino fece un ultimo sforzo.
   Appena fu lì, ebbe una delle sorprese più grandi. L’avrebbe ricordata per tutta la vita. E così si dimenticò della spinosa questione che aveva sollevato.
   A pochi metri da lui, più vicino di quanto avesse mai potuto immaginare, c’era un’immensa distesa di gabbiani.
- Oh...- si lasciò sfuggire il bambino.
   Le loro piume sembravano nuvole di raggi di sole. Planavano e atterravano con grazia divina, la stessa che William invidiava loro da quanto era nato: gli sarebbe piaciuto volare, più di qualsiasi altra cosa. Guardare le cose dall’alto, poterle abbracciare tra le sue ali. Forse, da grande, avrebbe potuto farlo, ma ora si sentiva solo un timido pulcino alle prese con il vento. Per questo, quando sentiva uno stridio di gabbiani, anche lontano, correva incontro a quel sogno con tutto il fiato che poteva incamerare nei polmoni. Non potendo seguirli, si limitava ad ammirarli, come un bravo allievo.
   Ora, di fronte a quello spettacolo baluginante nel tramonto, William capiva di aver ricevuto un grande regalo. I gabbiani erano più vicini e più grandi di quanto avesse mai potuto vedere in vita sua. Era estasiato, a bocca aperta.
   Will gli accarezzò di nuovo la testa. Arrivava giusta giusta nell’incavo della sua mano: un’unione senza imperfezioni e senza fine.
- Che ne pensi, piccolo?- gli chiese.
   William afferrò saldamente quella mano, come se fosse l’unica cosa in grado di tenerlo ancorato a quel mondo. Probabilmente, se non lo avesse fatto avrebbe rischiato di volare via anche lui con i gabbiani, quella sera. Gli ultimi avvenimenti sembravano essere stati cancellati dalla sua memoria: punto e a capo, attaccato a quella mano.
   Tornarono a casa e sembrò che fosse un giorno migliore. Will teneva ancora le dita sulla nuca di William, per fargli sentire come il suo calore non l’avrebbe mai abbandonato; e un po’ per tenerlo d’occhio.
   Sulla strada, il bambino allungò timidamente una mano per afferrare il suo soprabito.

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Capitolo 5
*** Per amore o per gioco ***


CAP. 4 – PER AMORE O PER GIOCO

 
 
- Capitano Élodie! Mi spiace disturbarvi...- biascicò il nostromo – Devo disturbarvi di nuovo.
   La donna storse la bocca in una smorfia acre. Sapeva già cosa stava per dirle. La cosa non le piaceva, ne sentiva il sapore amaro tra i denti, come se avesse ingoiato improvvisamente dell’olio di ricino.
- Parla.- ordinò, con una falsa calma tra le dita.
   Dopo un attimo di sospensione venata di paura, l’uomo sputò fuori:
- Purtroppo abbiamo perso un altro marinaio.-
   Élodie strinse forte la pipa tra le labbra, con fare nervoso, ma davanti agli altri non voleva farsi vedere neanche lontanamente turbata. Subito si impose di non esagerare. Aspirò avidamente il tabacco, se lo rimestò un po’ in bocca e poi espulse una pallina di saliva grigia e maleodorante. Quel gesto sprezzante la fece sentire meglio.
- Il caro Lord Bellamy non perde un colpo.- commentò, con ironia tagliente.
   Jack era accanto a lei. Alla notizia, alzò le spalle:
- E’ il suo lavoro, ora, cosa ti aspettavi? Pietà divina?- rincarò.
   Senza aspettare una reale risposta, andò al credenzino dei liquori, lo aprì e si versò un generoso bicchiere dalla prestigiosa bottiglia di rhum cubano. Non chiese il permesso; Élodie tuttavia glielo accordò in silenzio. Se c’era un prezzo, per avere suo fratello al fianco, preferiva pagarlo così. In quel momento, sentiva di averne bisogno più che mai, anche se non l’avrebbe ammesso tanto facilmente. Inoltre, aveva bisogno del suo aiuto per rintracciare e avere il suo bambino, William, con sé.
   Le mancava da impazzire. Ormai si era abituata alla sua vocina ancora in erba, ai suoi occhioni curiosi. Si era abituata a tutto: al suo odore, alla sua pelle. Era come una sua propaggine, sbocciata in lei quando meno se l’aspettava, ma piena di vita come lei forse non lo era mai stata in tutta la sua esistenza. Era il suo angelo. Per questo era ancora più difficile ignorare la sua assenza.
   Ma ora c’erano problemi più pressanti a cui pensare.
   Fece uscire il marinaio, poi si voltò verso Jack, che la osservava sorseggiando il rhum:
- Era meglio quando era solo un secondo ufficiale. Non che mi sia mai piaciuto, a dire il vero. A quanto pare, la gavetta è servita solo a farlo incattivire. Ma anche questo era un risultato piuttosto scontato, non trovi?- argomentò il pirata.
   Voleva mostrarsi partecipe, Jack Sparrow, ma si capiva benissimo che la sua mente era lontana miglia e miglia. Alzava gli occhi ora sulla sorella, ora sul bicchiere, e sembrava cercare qualcosa in quel rame liquido. Élodie non lo richiamò indietro. Probabilmente, si trovavano già assieme sulla stessa isola.
- Chi è cattivo nel profondo inquinerà anche la superficie, prima o poi.- sentenziò poi, dopo un attimo di silenzio.
   Jack parve per un attimo riscuotersi. La guardò: aveva le sopracciglia aggrottate. Si capiva che era in preda a un dubbio. Ultimamente, gliene venivano assai, di dubbi. Troppi, secondo Élodie. Era per questo che non si fidava più tanto di lui.
- Vale anche per noi, secondo te?- le chiese il fratello, dopo un lentissimo rimuginare.
   Élodie scosse la testa e sospirò. Le domande con cui se ne usciva Jack, in quegli ultimi tempi, erano talmente ingenue, per non dire prive di quella razionalità che ci si aspetterebbe di vedere in un uomo pronto a tutto, che a volte quasi le pareva di aver ereditato un secondo figlio. Non era una sensazione piacevole.
- No, Jack.- fu franca, con lui, nonostante tutto - Noi spariamo solo a chi vuole ammazzarci. Non andiamo a togliere la libertà né la vita a chicchessia a meno che lui per primo non le voglia togliere a noi. Noi non distruggiamo la vita di altri solo per ottenere dei soldi. Sarebbe un guadagno troppo facile e sporco di sangue. Siamo pirati, siamo bricconi, ma non così mercenari come pare. Non siamo cacciatori di taglie come il nostro “amico” Lord Bellamy.-
   Ci pensò un po’ su. In effetti, c’era una marea di luna piena che li divideva da quel nemico che ora li stava cercando in tutti i buchi possibili e inimmaginabili; con lui condividevano solo un discreto amore per la giustizia fatta da sé e per il sano pragmatismo. Certamente, questi due aspetti delle loro vite, però, li avevano declinati in modo totalmente diverso. Allora perché ci stava ancora pensando?
- Ma ti sei rincitrullito?!- sbottò poi la donna, del tutto inaspettatamente, battendo un pugno sul tavolo – Che razza di domande mi fai?!-
   Jack si riscosse, come se fosse stato strappato via dal mondo dei sogni. Ci volle qualche secondo perché si riacclimatasse a quell’aria viziata e ombrosa, che regnava sovrana da un po’ in quell’angolo della nave:
- No, niente. Chiedevo così...- balbettò, finendo il suo rhum.
   Era inquieto. Non voleva ammetterlo, ma il pensiero del piccolo William, abbandonato senza tanti complimenti a Port Royal, gli rodeva il fegato. Era strano non averlo più sulla nave, ormai vi si era abituato e adesso quel contatto continuo quasi gli mancava. Certo, il piccolo era in compagnia di Will Turner, un buon partito, ma fino a quando poteva essere sicuro che quello fosse un porto franco per lui?
- Non possiamo permetterci di perdere altri marinai.- la voce di Élodie era bassa, vibrante: aveva lo stesso rumore di una lama affilata – Ce li sta facendo fuori ad uno ad uno. Non ho la più pallida idea di come faccia a beccarli, forse ci vuole solo spaventare. Ma li trova. Non so come, ma li riconosce e poi li stana. Li intercetta mentre vanno a prendere provviste, mentre cercano elementi nuovi per la ciurma, quando si riforniscono di acqua. Per qualunque di loro, è un rischio enorme scendere a terra; per non parlare di me e te. Non possiamo attraccare e non possiamo mandare emissari. Ci sta prendendo per il collo.-
   La donna aspirò di nuovo dalla pipa. Poi continuò:
- E’ chiaro che loro non sono furbi come noi, Jack, altrimenti ci avrebbero già saltati addosso. Ma lui non ha intenzione di demordere. O forse è perché si diverte di più così?- sospirò – Non ci è dato saperlo, anche se ormai mi pare di conoscerlo bene. Stavolta taglierà ogni ponte tra noi e la terraferma, finchè non saremo costretti a consegnarci. Ci prende per la gola, capito? Non oso pensare a quando arriverà a William...- la voce le si ruppe in mille pezzi – Perché ci arriverà, Jack. Puoi scommetterci tutta la tua fantasmagorica acconciatura.-
- Non finchè io sarò a questo mondo!- si difese Jack, sbattendo il bicchiere contro il capezzale del letto – Dovrà passare sul mio corpo! E io sono viscido come un’anguilla.-
   Élodie lo guardò stancamente. Come faceva a non capire? In poco tempo sarebbero stati tutti in gabbia come topi, se non avessero trovato una soluzione. Troppe cose e troppi affari sporchi si erano incrociati e ora erano troppi anche per essere districati:
- Non avremmo mai dovuto rubare quel diamante.- considerò – E’ con quel furto che è iniziato tutto. Abbiamo attirato l’attenzione su di noi. Lui ci stava già dando la caccia; gli abbiamo solo fornito un motivo in più.-
   Ci fu un attimo di silenzio.
- Non sono d’accordo.- Jack si avvicinò a lei, prese una sedia e le si sedette giusto di fronte. Sventolò una mano per dissipare la nuvola di fumo che si frapponeva tra lui e la sorella: da quando era nato William, non sapeva per quale motivo preciso, aveva perso interesse per il tabacco. Ogni tanto fumava ancora, sì, qualche sigaro, ma capitava ormai raramente. Del resto, a William non piaceva l’odore della pipa accesa.
   Jack respirò a fondo quell’aria vagamente ripulita:
- Il nesso è legato ancora ad anni fa, Élodie, non far finta che non sia vero.- le ricordò – E’ a noi che non importa di lui, ma a lui importa di noi, eccome. Ci tiene dietro da anni, Élodie. Solo che non aveva così tanta forza per fronteggiarci senza andare incontro alla sconfitta. Era solo, quando l’abbiamo visto l’ultima volta. Ha avuto tutto il tempo di riadattarsi, costruirsi una valida reputazione e una flotta: gavetta, sorella. Oltretutto, non penso che sia così stupido. Infatti adesso è “Lord” Bellamy, capitano del Chaser, il Cacciatore.-
- La Madreperla può competere con quella nave.- affermò Élodie – Al confronto, quella è solo una bagnarola. Io non ho paura.-
- Nemmeno lui, se è per questo.- disse Jack, in un soffio.
- Ma tu sì, Jack. Tu sei diventato l’anello debole della mia catena.- lo accusò la sorella, allontanandosi con disprezzo – Non so cosa ti gira in quella zucca vuota, ma non è niente di buono per me. L’unica idea intelligente che ti concedo è stata quella di portare William lontano da qui. Quella è stata una grande idea, sul serio.-
   Jack contrasse i pugni con una smorfia. Non gli era sfuggita la sottile ironia di Élodie, ben celata dietro quei complimenti. Sì, è stata una grande idea, si convinse.
(perché io voglio bene a william come se fosse mio)
- Suo padre si prenderà cura di lui. Di William Turner ci possiamo fidare: lo sai com’è fatto. Lui ha il cuore d’oro.-
   A quel nome, Élodie sospirò. Erano sei anni che non rivedeva più quel viso che per lei era stato così caro; sei anni passati chiamando William un’altra persona, un altro essere. Il suo riflesso. Il riflesso di ciò che c’era stato fra di loro e che purtroppo non aveva trovato terreno fertile in cui germogliare.
- E’ stata una grande scelta, la tua.- Jack la guardò negli occhi, ed era chiaro in che senso voleva intendere quella frase. Élodie arrossì:
- Non so cosa farmene dei tuoi giudizi, ora.- lo zittì, quasi offesa.
   Jack si alzò in piedi: era ora di andare.
- D’accordo, credo di aver avuto un certo sentore. Direi che adesso vado a dare un’occhiata alle sartie.- annunciò, ma prima di muoversi afferrò di nuovo la bottiglia di rhum e se ne versò dell’altro – Questo mi aiuterà.-
- A far cosa, Jack?- Élodie nemmeno lo degnava più di un’occhiata – A farti venire un’altra strampalata idea per toglierci di impiccio? O anche stavolta dovrò aspettare di averne una brillante io?-
   Jack, con il bicchiere a mezz’aria tra il tavolo e la sua bocca, ebbe un attimo di vertigine. Possibile che il tabacco fosse così potente da trasformare le persone più capaci in belve feroci? Tracannò il resto del suo rhum, e anche quella domanda passò.
- Vado.-
   Lasciò il bicchiere vuoto sul tavolo, prese la porta e si congedò da solo e senza un sorriso. Élodie non gli aveva nemmeno chiesto notizie di William. Strano. Strano, davvero.
   Non voleva essere così cattivo da pensare che lo spirito materno di Élodie fosse andato a farsi benedire, ma una parolina per suo figlio ci stava. Anche solo chiedere se fosse vivo, no?
   Baggianate! Scosse la testa. Alla fine si faceva sempre prendere dalla tenerezza per suo nipote, e così non andava bene! Per niente! Lui era Jack Sparrow, un terrore dei Sette Mari, e non poteva essere vinto neanche da una punta di sentimentalismo.
   Ciononostante, i recenti episodi lo convinsero anche più del necessario che fosse assolutamente, indiscutibilmente, traumaticamente cruciale fare qualcosa.
 
- Coraggio, William. E’ ora di andare.-
   Will tirò le coperte e il piccolo finalmente venne alla luce. Raggomitolato su se stesso, come un gattino strappato dal sonno troppo presto (qual era), si girò e rigirò su se stesso in cerca del cuscino:
- Nooo!- frignò.
- Sìììì!- lo prese in giro Will, allegro – Su, dai, oggi andrai dalla signora Muppet.-
   Erano passate quasi due settimane da quando era piombato nella sua vita, ma tutto sommato non andava così male. Anzi, sembrava fossero insieme da molto più tempo di quanto non si fossero aspettati entrambi.
   Gli aveva insegnato un po’ di mondo. Che non si rubava dalle bancarelle. Che bisognava sempre salutare gentilmente le signore. Che il giorno e la notte non erano intercambiabili. Che dopo aver ricevuto doni bisogna sempre dire “grazie”.
   Cose stupide, cose ovvie, ma era un piacere spiegargliele e vedere come quel frugoletto assorbiva le informazioni, le rielaborava e le applicava. Forse voleva solo farlo contento, ma per Will poteva andare. Un po’ di sani principi, prima di tutto.
   A Will pareva di essere rinato, dopo aver conosciuto William. William aveva imparato a comprenderlo, almeno un po’, nelle sue stranezze di adulto, e adesso era molto più facile e piacevole accudirlo. Lasciava fare. Forse con un po’ di indifferenza, ma a Will andava bene comunque. Erano solo agli inizi, che pretendere?
   Lo girò verso di lui e lo prese in braccio, facendogli il solletico. William rise e cercò di divincolarsi. Saltò giù dal letto e subito si mise a correre per la stanza, ogni tanto voltandosi indietro per vedere se Will si fosse già messo a rincorrerlo oppure no.
   Will fece finta di inseguirlo. Il bambino scappò oltre la porta, dietro la quale si nascose per far poi capolino. A ogni movimento di Will corrispondeva con perfetta sincronia un movimento di William, in una danza pacifica e che apparteneva solo a loro. Un balletto di cui Will faceva fatica a non innamorarsi.
   Finalmente riuscì ad acchiapparlo. Lo costrinse a sedersi a tavola, dove la solita colazione frugale era già pronta. Per quel giorno avevano pane e burro e una scodella di latte fresco. William ingollò tutto quasi d’un fiato: la mattina era sempre così affamato da far temere ogni volta a Will che si strozzasse con quei bocconi. Era abituato a divorare la vita, William, si vedeva lontano un miglio. Aveva sei anni, perché non lasciarglielo fare?
- Andiamo, baba?- il piccolo saltò giù dalla sedia e corse a prendere la mantellina che Will gli aveva regalato pochi giorni prima.
   Non aveva ancora finito di mangiare, ma Will si alzò e accompagnò il suo ospite fin davanti alla porta. Avrebbe finito più tardi, una frase che ora ricorreva fin troppo spesso nella sua vita. Ma non se ne ebbe a male. Era un prezzo che era disponibile a pagare.
   Uscirono nella sottile nebbiolina che avvolgeva Port Royal in quelle ore mattutine. Era l’unico momento della giornata in cui, appena messo il naso fuori dalla porta, tremavi un po’ per il frescolino. Appena un attimo, poi il sole sbucava da dietro le nuvole e la vita sembrava sorriderti di nuovo.
   Will attraversò il cortile con una certa baldanza, sicuro che il piccoletto gli stava già alle calcagna. Da qualche tempo non aveva più paura che potesse scappare, anche perché avevano capito entrambi quanto avessero bisogno l’uno dell’altro, in un momento simile. Separarsi non giovava a nessuno, anzi, aggiungeva problemi alla già dura esistenza; perché complicarsela? Sia lui che William l’avevano capito fin troppo presto e si erano accomodati come meglio potevano alla presenza dell’altro, anche se ancora ruzzolavano sovente in accese “chiacchierate”.
   Non quel giorno. Quel giorno era appena incominciato, in quella nebbiolina carica di promesse. Si diressero dunque insieme e a passo celere verso la casa della vicina, la signora Muppet. Appena giunti davanti alla porta, Will bussò con una certa energia, certo che l’anziana fosse già sveglia e molto più di loro.
- Eccoci, signora!- chiocciò, con fare affabile – Buongiorno!-
   La signora comparve sulla porta dopo un flebile rumore di passi strascicati sul pavimento:
- Buongiorno, cari!- li salutò con un sorriso – Buongiorno, Will!-
   Poi, rivolta a William:
- Amore! Vieni, ti ho preparato il tè.- lo invitò.
   Il bambino si fiondò dentro senza farselo ripetere due volte. Dall’ultima settimana era sempre ben accetto a casa della signora Muppet, dove tutti i giorni lo attendeva una lauta seconda colazione, che integrava con la precedente le calorie richieste dal suo bel pancino.
   Non vedeva l’ora.
   Will storse il naso a quell’atteggiamento fin troppo confidenziale di William, ma la signora Muppet lo tranquillizzò subito:
- Non vi date pena, Will, è un bambino adorabile! E’ così vivace! Mi dà tanta gioia!- sorrise, sorrise e poi sorrise ancora – Sono così felice che vogliate portarlo così spesso qui da me! E’ così dolce!-
   Will aveva già intuito quanto la signora Muppet si fosse affezionata al pulcino, nonostante a volte le rompesse le tende, rovesciasse qualche sedia e la facesse girovagare senza sosta in giardino nel tentativo di prenderlo. C’è da dire, però, a suo vantaggio, che ancora non aveva tentato di fuggire. Probabilmente, si divertiva troppo a prendere in giro l’anziana vicina, e quella prospettiva era molto più allettante che trovarsi da solo in mezzo a un mondo ostile. Will non aveva nulla da eccepire.
   Almeno, per cinque giorni su sette poteva ritenersi sollevato dal greve incarico di fargli da balia. Non dimenticava di certo la promessa fatta a Jack: infatti tornava a controllare ad ogni pausa dal lavoro, per salutare o per portare alla signora Muppet qualche cosa di cui avesse bisogno, o piccoli regalini che potessero rendere il suo compito meno pesante.
   Quindi, non c’era nulla di cui doversi preoccupare. William era accudito, tenuto a freno, rifocillato e occupato per tutto il tempo necessario a farlo cadere a terra morto stecchito di sonno. Su una cosa la signora Muppet non si sbagliava: William era veramente molto, molto, troppo vivace.
- Tornerò per mezzodì.- le comunicò Will – Buona giornata, signora, e grazie per tutto l’aiuto che ci date!-
- Oh, sono così felice che lo abbiate chiesto a me!- si compiacque di nuovo lei, mentre Will si allontanava cautamente – Avete reso la mia vecchiaia un’esperienza gioiosa! Grazie, Will! Sempre a disposizione per aiutare un bravo padre e un bravo figlio!-
   Will stava già salutandola con la mano, abbastanza distante perché l’anziana non potesse più tanto facilmente raggiungerlo con la sua voce ciarliera o con una delle sue mani adunche:
- A presto!- si congedò, ridendo sotto i baffi per tutti quei complimenti che non sapeva ancora quanto gli appartenessero veramente.
   Si incamminò verso la fucina. Ricalpestare quelle strade lastricate da solo, dopo i primi tempi passati a farlo con William, gli sembrava ogni giorno più strano. L’eco dei suoi passi suonava solo, derelitto, quasi.
   Si sforzò di non pensarci. Era solo una situazione temporanea. In fondo, Jack aveva detto che doveva tenerlo solo per un po’, giusto? “Sarebbero tornati a prenderlo, quando avrebbero potuto”.
   Era da un paio di giorni che quelle parole continuavano a rimbombargli drammaticamente nella testa, un po’ come un campanello d’allarme, ma non sapeva per quale motivo. Forse perché quel silenzio durato due settimane cominciava a pendergli sulla testa come una spada di Damocle, e Will si rendeva conto che non si sarebbe protratto ancora a lungo. Jack era un gran furfante, si infischiava delle promesse, ma a quanto pareva non se n’era mai infischiato di William. Il solo pensiero che potesse tornare metteva Will in una posizione orribile: diviso, anzi, dilaniato tra l’essere padre e l’essere giusto.
   Non negava che ora come ora avrebbe voluto tenere William con sé, o andare con lui dove questi l’avrebbe portato. Oramai non c’era veramente più niente che lo trattenesse a Port Royal. Che avrebbe fatto, lì da solo, con il rischio che qualcuno gli venisse a porre domande scomode?
   D’altra parte, se avesse proposto a Jack di partire con loro, quello sarebbe stato d’accordo? O si sarebbe rivelato il solito egoista?
   Domande, solo domande e nessuna risposta. Circumnavigava le sue ansie senza avere il coraggio di entrarci e porre fine ai tormenti; combatterle, se necessario, morirci, ma risolverle. Si sentiva impotente di fronte a quegli interrogativi, ed era anche sufficientemente codardo da accantonarli ogni volta.
   Mentre camminava, con una bisaccia sulla spalla, un foglio di pergamena danzò ai suoi piedi, attirato dal vento. Non fece in tempo ad afferrarlo, ma potè intravedere sulla carta ruvida l’inizio di una parola ben conosciuta. “WANTED”.
   Si voltò per vederla scivolare via, senza aver mostrato il ritratto dell’interessato. Il tutto gli fece pensare di nuovo a Jack, per quanto cercasse di respingere il pensiero. Sarebbe stato molto più ovvio pensare a Élodie Melody Sparrow, almeno ogni tanto; invece lui voleva Jack. Jack era il suo anticristo, il riflesso nel suo specchio. Jack era ciò che lui non aveva avuto il coraggio di diventare. E lui lo era per Jack. Chissà se il pirata avrebbe mai potuto essere un buon baba?
   Al di là di tutti questi pensieri, uno più pesante dell’altro, come pietre, credeva di aver preso una decisione. Non sapeva ancora dove l’avrebbe portato, ma quella mattina di certo non l’avrebbe condotto al lavoro. Aveva presto tutt’altra direzione.
   A grandi passi, quasi si sentisse inseguito, si stava dirigendo verso l’ufficio del suo ex suocero, nonché governatore di Port Royal, Sir Watherby Swann. Non aveva la più pallida idea della faccia che avrebbe fatto quel parente acquisito rivedendolo lì, in piedi di fronte a lui, dopo tutto quel tempo e dopo tutto quello che era successo.
   Ma doveva tentare. Doveva almeno provare a fare qualcosa, perché ormai sentiva di non avere più molto tempo. Nelle ultime due settimane aveva protetto le orecchie di William da pesanti campanelli da allarme, eppure non aveva potuto ignorarli. Lord Bellamy, il “Cacciatore”, come tutti amavano chiamarlo in un tripudio di sorrisetti condiscendenti e speranzosi, era arrivato in città con il suo seguito e la sua nave, il Chaser. Da quel momento, almeno una barca andava a fuoco ogni sera nei dintorni di Port Royal o qualche miglio più in là. Si erano intensificati i controlli e i pirati erano tenuti lontani da un cordone di fucilatori scelti.
   A Will importava poco di tutto questo, a parte che il caso aveva voluto che suo figlio fosse un mezzosangue, uscito dal grembo di una piratessa, e che fosse con lui. Non era più sicuro tenerlo lì. Qualcuno avrebbe potuto scoprirli, o tendere una trappola all’altra metà della famiglia. Will non voleva che accadesse. Né a Élodie e, inspiegabilmente, neanche a Jack Sparrow.
   Potevano reincontrarsi lontano da lì e tutti sarebbero stati al sicuro. In primis, suo figlio.
   Per questo andava dall’ex suocero. Gli servivano documenti veri e vergati per passare le dogane e i blocchi certamente imposti da quel Bellamy. Passare indenne attraverso i punti più difficili, diretto verso...non sapeva dove. Ma anche non sapere dove andare era sempre meglio che stare fermi con le mani in mano a Port Royal.
   Aveva deciso di non rivelare del tutto le sue intenzioni al governatore Swann, ma solo navigare in acque il più possibile sicure. La conversazione di certo non sarebbe stata allegra; Will non riteneva necessario far pesare allo suocero anche il destino del piccolo, a dire il vero non vedeva neanche il bisogno di dirgli alcunché al riguardo. E nemmeno intendeva proferire parola su quello di Jack Sparrow, specialmente quando sarebbe tornato e non li avrebbe trovati. Non aveva potuto avvertirlo.
   Non poteva fare niente.
   Intanto, era giunto alla porta del governatore. La pesante targa dorata era ancora dove l’aveva vista l’ultima volta, solo con qualche strato di polvere in più. Evidentemente, nonostante le lucidature, l’incuria aveva raggiunto la proprietà Swann come un cancro.
   Will sospirò. Forse anche lui era stato parte di quel male, in modo del tutto inconsapevole. Scosse la testa. Era inutile recriminare il passato; ora c’era solo il presente.
   Il suo.
   Concesse solo una breve occhiata alle finestre di vetro smerigliato, senza soffermarsi più di tanto sul suo riflesso.
   Poi spinse la porta ed entrò.
 
   Dal profumo che aleggiava nello stretto ingresso capì che Elizabeth doveva essere in casa.
   La vecchia residenza degli Swann riempiva un piccolo edificio di due piani, al primo dei quali stava la residenza di padre e figlia, gli unici rimasti di quel blasonato ramo della famiglia; al pianoterra, invece, si aprivano una veranda immensa e, di fronte, lo studio del governatore.
   Probabilmente Elizabeth si trovava al piano superiore. Will ebbe un capogiro: non era in condizioni di incontrarla di nuovo. Non quel giorno.
   Si diresse subito verso lo studio. Si accorse che non era il solo ad avere avuto quell’idea. Nella piccola saletta antistante la stanza, c’era già qualche questuante, come molti ce n’erano tutti i giorni, per quel che Will poteva ricordarsi. Poco male: aveva fretta, ma non così tanta fretta di rischiare di essere cacciato fuori.
   Poiché era solo l’ultimo della fila, si sedette in un angolo ad aspettare. Lui non aveva più il potere di esercitare alcun diritto, tra  quelle mura, e neanche di godere di qualsivoglia privilegio. Anche se era ancora ufficialmente sposato con Elizabeth Swann, il tacito accordo che avevano preso era che lui rimanesse il più lontano possibile dalla sua vita e non interferisse con le agiatezze alle quali lei si era sicuramente riabituata.
   Si guardò intorno. Un paio di facce incuriosite si voltarono verso di lui per un secondo, ma si disinteressarono subito. Decisamente, non aveva un aspetto che invitasse alle chiacchiere e ci teneva un sacco che rimanesse tale per tutto il tempo in cui sarebbe stato costretto su quella sedia. Non voleva dare nell’occhio, non voleva rispondere a nessuna domanda che non gli avesse posto Watherby Swann, per ovvie ragioni. Era una richiesta decisamente poco esigente, considerata la brutta situazione in cui si trovava.
   Dentro allo studio del governatore si stava svolgendo una conversazione. Le voci possenti di due uomini passavano oltre la porta a vetri e arrivavano attutite alle orecchie di Will, che comunque riuscì a coglierne alcuni stralci.
   Uno dei due era sicuramente il governatore Swann. Aveva il solito tono cantilenante e alternava le battute con alcune risate a metà strada tra l’imbarazzato e il complice. Un atteggiamento insolitamente succube per chi conosceva il governatore, come Will.
   Si sporse dalla sedia. Vedeva delle ombre oltre le pareti piombate dello studio. Un’altra figura, alta, robusta, così diversa da quella di Whatherby Swann, catturò subito il suo campo visivo. Portava un cappello a tesa larga e un mantello che svolazzava mentre lo sconosciuto mulinava le mani come a disegnare piani d’attacco nell’aria. Aveva un tono eccitato, nonostante non si capisse molto di quello che diceva. Aveva un accento strano, come se non fosse inglese. Will si chiese dove aveva già sentito quel modo di parlare così concitato e...rotolante. Si lo avrebbe definito rotolante, come se le parole uscissero da quella bocca e rovinassero sul pavimento.
   Doveva essere veramente un tipo importante se si permetteva di parlare così sfrontatamente e in modo poco elegante di fronte al governatore di Port Royal. E che Watherby Swann sopportasse il tutto di buon grado, anzi, sembrasse lusingato da quella presenza.
   Mentre Will si chiedeva che cosa stava succedendo, la porta si spalancò di botto e i due uomini comparvero sulla soglia. Ridacchiavano scambiandosi occhiate d’intesa, come a siglare un accordo appena concluso. Will sentì il cuore correre in gola e non seppe perché, sul momento. Conosceva bene Watherby Swann e per lui provava da sempre un timore reverenziale che, nonostante tutto, era sempre riuscito a gestire; non era mai andato oltre a questo, a dire il vero, non sapeva nemmeno se gli aveva mai voluto bene, ad esempio.
   Era l’altro uomo che l’aveva fatto irrigidire. Ora che lo vedeva senza il vetro a dividerli, si accorse che c’era in lui qualcosa di cavernoso. Un’antica paura gli scivolò lungo le gambe a strizzargli forte lo stomaco.
   Con il cappello calcato pesantemente sulla fronte, i suoi occhi risultavano quasi invisibili in quella penombra. Ma Will vide che dardeggiavano in ogni direzione, come quelli di una bestia famelica. Notò dei riccioli scuri ai lati del viso, scappati probabilmente da una stretta fascia che portava sotto la tesa.
   C’era il mantello, simile a quello di un ufficiale di marina, ma molto più tetro. Non era nuovo, indovinò da alcuni segni ben visibili nel tessuto; nero come la pece, decorato con quelli che sembravano gioiellini luccicanti ma in verità, a un occhio attento, non sarebbe servito molto per capire che si trattava di
(ossa)
e piccoli denti d’oro. Will non osò pensare da dove provenissero. Sicuramente rendevano bene l’idea di “vissuto”.
   Non aveva forza per alzarsi dalla sedia e andarsene, ma avrebbe voluto. Di fronte a quella visione, si sentì ancora più allo scoperto, ancora più inerme, ancora più povero di spirito. Lo seppe prima di sentire pronunciare il suo nome.
- A presto, Lord Bellamy!- chiocciò il signor Swann.
   E quello se ne andò, rivolgendogli solo un cenno e quello che voleva essere un sorriso, ma sembrava piuttosto un ghigno di vittoria. Will si costrinse a stare seduto mentre quel colosso gli passava accanto, avvolto in un debole odore di tabacco e qualcosa che tintinnava, da qualche parte. Will cercò di non pensare. Si preoccupò solo di non incrociare quegli occhi, di non farsi sorprendere.
   Il Cacciatore gli passò accanto a grandi passi, senza degnarlo di uno sguardo, se non prima di dileguarsi oltre la porta d’entrata.
 
   Will sentiva freddo ovunque, come se gli fosse passata accanto la morte. Solo allora si accorse di essere solo, in quel piccolo tinello. Gli altri richiedenti se n’erano andati, anche se lui non avrebbe saputo dire quando fosse successo. Era come caduto in trance. Di quei fugaci dieci secondi di visione, non aveva più udito né capito niente, erano solo lui e Bellamy in quella bolla atemporale. Nel frattempo, nel mondo reale gli altri lo avevano abbandonato alla sua torbida sorte.
- Will?- il governatore Swann si avvicinò a lui, incredulo – William Turner?-
   Will si riscosse. Sentire pronunciare il suo nome fu per lui strano, come se una mano l’avesse afferrato per la collottola e riportato a galla dopo essere affogato. Ritornare alla vita in quel modo non era esattamente ciò che si aspettava, ad essere sinceri.
   Si voltò verso Weatherby Swann e lo vide come l’aveva sempre visto. Lui non era mai stato particolarmente ambizioso o zelante. Il potere, il denaro o la smania di successo non l’avevano mai veramente interessato. Era sempre stato un uomo retto e ragionevole. Will lo ammirava profondamente, anche se non gliel’aveva mai detto.
- Sì, signore.- si alzò in piedi, richiamato da un comando di fronte al quale non poteva rifiutarsi. Weatherby Swann era stato come un padre per  lui, almeno, molto tempo prima. Era stato l’unico padre che avesse mai conosciuto.
- Che cosa ci fai qui?- ora il tono di quella persona era come una raschiatura di barile, graffiante e pungente allo stesso tempo, una cosa veramente fastidiosa.
 Weatherby Swann aveva avuto una vita piuttosto tranquilla, a parte la prematura dipartita di sua moglie; tuttavia, ciò che di sconvolgente non era successo in tanti anni, si era verificato in pochi infausti mesi. Gli eventi della sua perfetta e invidiabile esistenza erano precipitati rovinosamente, senza che la sua autorità e il suo buon senso avessero potuto contrastarne l’esito.
   Adesso si trovava faccia a faccia con colui che era il principale responsabile di quel dissesto. Si riteneva un gentiluomo rispettabile e tollerante, e soltanto per quella ragione non stava richiamando i suoi uomini per ordinare di gettare in strada Will Turner, la causa di tutti i suoi mali. Là meritava di stare.
   Pure Will lo sapeva. Ma tentò di non pensarci.
- Sono venuto qui per una richiesta, Milord.- cercò di essere gentile, nonostante gli occhiacci del governatore. Lo disse velocemente, quasi mangiandosi le parole, sperando che così facendo il colloquio sarebbe stato rapido e meno doloroso.
- Che altro vuoi da mia figlia?!- si inalberò l’altro. Era davvero convinto di trovare clemenza e comprensione in lui? – Non ti è bastato aver distrutto tutti i suoi sogni? Non ti è bastato non averla resa felice come meritava? Ora vieni da me a chiedere la carità per i tuoi peccati?-
- Non sono qui per Elizabeth.-
   Forse gli uscirono troppo dure, quelle parole, perché il viso di Weatherby Swann si tinse improvvisamente di viola:
- Come osi...!- tuonò, tanto che Will trattenne il fiato di fronte a quell’uomo così arrabbiato – Come osi rivolgerti a noi in questo modo?!-
   Teneva solo a due cose oramai: il suo buon nome e la felicità della sua amata Elizabeth. Ma quel Turner le aveva rovinate entrambe.
   Certamente non era stato il miglior partito che avrebbe sperato di avere come genero, anzi era l’ultimo pretendente che poteva considerare. Così giovane e immaturo, come lo vedeva lui, senza arte né parte, al limite della miseria. Aveva dubitato fortemente della decisione di sua figlia, ritenendo che si trattasse di un’infatuazione passeggera, di un affetto infantile che si sarebbe rivelato nient’altro che un abbaglio.
   Tuttavia, di fronte all’incrollabile determinazione della figlia, aveva alla fine ceduto e acconsentito alla loro unione. Frequentando Will, gli era poi parso un ragazzo appropriato, a modo, onesto, nonostante le origini assolutamente oscure e quella scintilla inquieta nello sguardo, che non era mai riuscito a comprendere a fondo. A volte era come se viaggiasse in una dimensione parallela, da solo, lontano nel tempo e nello spazio; abbandonava quel mondo con leggerezza, e abbandonava anche loro due, padre e figlia, perché forse non erano degni di seguirlo là dove andava.
   Anche per questo, non poteva dire di non detestarlo con tutto il cuore.
   Will chinò la testa:
- Mi dispiace...- balbettò – Io...-
   Proprio in quel momento Elizabeth irruppe nella stanza, attirata dalle grida del padre. Will la vide che spalancava gli occhi e la bocca in cerca di ossigeno. Si guardava attorno spaesata, spostando gli occhi ora da Will ora a Watherby Swann e non si sarebbe potuto dire se fosse stata più sorpresa di trovare lì il su ex marito o di vedere suo padre così irritato.   
- Che sta succedendo?- si informò, con un certo cipiglio volitivo che Will non aveva dimenticato.
   Di fronte a quella gelida espressione, il governatore Swann si sentì in dovere di addolcirsi un po’:
- Niente, Elizabeth, il signor Turner stava giusto...-
-...chiedendo un permesso e un favore. Anche pagando, se necessario.- Will gli rubò le parole – Permettetemi, signore, non volevo essere scortese con voi. Tutto il contrario. Sto cercando di essere solo un bravo cittadino.-
   Fissò il governatore, ora diventato paonazzo, poi racimolò il suo coraggio e si rivolse a Elizabeth. Come incrociò quella smorfia delle sue labbra, si ricordò tutto di lei, tutto ciò che avevano passato e anche quello che li aveva separati. Ebbe l’impressione che anche lei stesse pensando a quelle stesse cose. Nelle sue iridi nocciola leggeva qualcosa che, nonostante tutto, lo tranquillizzava. Gli sembrava diversa dall’ultima volta che l’aveva incontrata: forse aveva un dolore in più sulle spalle, ma ciononostante era serena. Forse c’era stato spazio per un perdono, nella sua stanza di nubile; forse aveva una possibilità, con lei.
- Ho il permesso di spiegarmi?- mormorò Will, abbassando la testa in segno di deferenza.
   Non si era mai trovato in una posizione del genere e sperò che quella fosse la prima ed unica volta. Abbassare il capo di fronte a sua moglie, di fronte alla sua prossima sconfitta, non era un comportamento da vero uomo. Si sentì un verme, benché fosse per una buona causa.
   Si accorse che Weatherby Swann riprendeva fiato, probabilmente per cacciarlo fuori. Alzò un dito, aprì la bocca, ma proprio in quel momento si intromise sua figlia, che lo bloccò:
- Fammi sentire.- ordinò.
   Will rimase stupefatto da tanta decisione; sembrava realmente interessata a quello che aveva da dire:
- Andiamo a sederci.- aggiunse lei.
   Li accompagnò con fare assertivo verso l’interno dello studio. Il padre la seguì senza osare contraddirla; Will, pure. Elizabeth aveva un cipiglio che non si sapeva da chi avesse ereditato, ma quando le occorreva lei lo sfoderava come un’arma. Di solito, vinceva.
   Si sedettero. La donna si lisciò il gonnellone un po’ sdrucito, tipico di chi è sorpreso a fare le faccende di casa. Will sapeva che da un po’ gli Swann non potevano più permettersi una servitù; era Elizabeth a fare i mestieri di casa, del resto ne era sempre stata capace.
   Stavano tutti aspettando la sua storia. Will chiuse gli occhi per un attimo, cercò di sgomberare la mente e iniziò a tessere una trama il più possibile convincente, o perlomeno credibile.
- Sono qui solo per dei documenti.- esordì – Ora sarebbe troppo lungo da spiegarvi, e forse nemmeno mi credereste. Ma devo andarmene e ho bisogno di lasciapassare per la dogana. ho deciso di andare a cercare fortuna altrove. Qui non è rimasto più niente per me. –
   Di fronte agli sguardi di fuoco del governatore, si vide costretto a ritrattare:
- Non parlavo assolutamente di voi e della vostra famiglia, governatore Swann.- si corresse – Non è per colpa vostra che me ne vado. Anzi, forse è più per rendervi grazie.-
- Beh, potrebbe anche essere una splendida notizia.- borbottò il governatore.
   Elizabeth lo fulminò.
- Come si suol dire, ci metterei la firma.- continuò imperterrito il signor Swann, e si alzò per andare a prendere una penna e dei fogli. Forse era stato più facile del previsto, forse era tutto molto più facile del previsto.
   Mentre cominciava a vergare lettere sulla pergamena intestata, Will sentì un groppo stringergli la gola. Lo stava facendo davvero. Ancora poche righe e la sua libertà sarebbe stata siglata. Gli mancava il respiro.
   Avvertiva lo sguardo indagatore di Elizabeth addosso, che non la smetteva di fissarlo. Lei sapeva che c’era dell’altro. Che c’era qualcun altro, soprattutto.
- Non andrò solo.- finalmente Will ruppe il ghiaccio.
   Weatherby Swann fermò la sua mano.
- Che significa?- disse.
   Ci fu un attimo di silenzio, il più lungo che ricordassero. Non sarebbe bastato un oceano a colmare la distanza che andava via via formandosi tra loro. Da quella strada non c’era ritorno, e neanche venia.
- Me ne servono due.- spiegò lentamente Will – Per me e...-
- Per tuo figlio.- concluse Elizabeth, quasi ringhiando. Quello era un tasto che lanciava un suono ancora scordato nel pianoforte delle sue emozioni: un lungo, profondo gemito dell’anima.
   Weatherby Swann rimase per un attimo stupefatto, irrigidito con la penna a mezz’aria. Tutto gli sembrava assurdo, un probabile incubo. Passò lo sguardo da Will a Elizabeth, da sua figlia di nuovo al disturbatore della sua quiete. Gli mancava un tassello, o semplicemente gli mancava la calma per mettere assieme tutti i pezzi e vedere un quadro completo di quel diavolo che stava succedendo sotto il suo tetto.
- Figlio?- esalò, mentre sentiva che la saliva gli si seccava in gola – Quale figlio?-
   Aveva il respiro corto di chi crede di morire sul colpo.
   Will aveva le labbra che ormai tremavano:
- Mio...figlio.- ripetè, con estrema lentezza.
   Il governatore si girò verso Elizabeth:
- Ma tu...- ansimò.
- Non è mio, padre.- tagliò corto lei, alzandosi dalla sedia di scatto.
   Aveva una gran voglia di essere altrove, di scappare di sopra, di ficcare la testa sotto un cuscino e soffocarsi di lacrime. Non potevano chiederle di sopportare un affronto simile, davanti al suo genitore poi! Anche se prima o poi avrebbe dovuto alzare la testa di fronte a quell’inganno ordito dal tempo, scoprì che non aveva forze per combattere quella battaglia.
   Il governatore ebbe un altro attacco di spaventoso rossore. Stavolta Will vide anche le vene del collo gonfiarsi, come se dessero fiato a un urlo, che però non venne; al contrario, non uscì parola, bestemmia, insulto da chi pensava.
   Era questo a terrorizzarlo di più.
   Weatherby Swann impugnò la penna come se fosse un coltello e riprese nervosamente a scrivere. Non disse assolutamente niente, ma lo vergò nero su bianco, sperando fosse l’ultima cosa che avrebbe dovuto fare per quello scellerato. Immaginò, per la prima volta nella sua vita, che quell’inchiostro fosse in verità il sangue di un uomo, suo genero, per l’esattezza, e scorresse lontano da lui, il più possibile lontano da lui, a fiumi proprio, ma lontano da lui. Se poteva dargli  una mano a sparire, anche in senso fisico, l’avrebbe fatto.
   Invece fece una semplice firma. Poi cacciò i fogli in mano a Will e con estrema maleducazione per il suo rango, gli indicò la porta:
- Vattene.- sibilò – Vai dove ti pare. Ma non tornare qui. Se torni qui sei morto. Chiaro?-
   Will scattò in piedi e quasi corse verso la porta, senza avere la forza di balbettare un “grazie” o un “addio”, senza poter dire niente. Quella era una minaccia e una promessa. Spettava a lui mantenerla.
   Non osò levare lo sguardo nemmeno su Elizabeth. Avrebbe voluto confessarle che le avrebbe sempre voluto bene, che sarebbe sempre stata nel suo cuore, perché questo era vero, giusto, incontrovertibile; e lei avrebbe dovuto conoscere questa verità. Ma se ne vergognò talmente tanto, in quel momento, che proprio gli sfuggì di mente. Voleva solo raggiungere William e andarsene da lì, senza dover più pensare a come fare per sopravvivere a Port Royal.
   Sulla soglia dell’abitazione, afferrò la pesante maniglia e spinse per uscire. Gli mancava l’aria.
   Poi sentì dei passi dietro di lui. Temette che Weatherby Swann non gli avesse nemmeno lasciato il tempo di pensare a come partire il più in fretta possibile. Ma si sbagliava.
   Alle sue spalle comparve Elizabeth:
- Aspetta.- aveva una voce flebile, quasi sperasse di non essere udita, di non essere costretta a guardarlo in faccia un’altra volta.
   Will non poteva indovinare che cosa volesse dirgli ancora, ma credette di rispettare il suo desiderio non voltandosi:
- Sì?- cercò di mostrarsi cortese, grato, come era veramente, in fondo.
   Sentì un sospiro della donna che aveva amato più della sua stessa vita, tanto tempo prima. L’impulso di abbracciarla fu forte e impertinente, più di quanto non l’avesse mai sentito, ma si fermò: non ne aveva il diritto. Probabilmente, non ne avrebbe avuto nemmeno il coraggio.
   Restò voltato ostinatamente verso la strada, attendendo un segno.
   Elizabeth gli si affiancò piano:
- Io so che lo fai per lui.- affermò, sicura – Non so perché, non so dove lo vuoi portare e cosa vuoi fare, e non te lo chiederò. Ma so che non avresti importunato me e mio padre per una questione futile. Se sei venuto fin qui, so che lo hai fatto per proteggerlo.-
   Will rimase esterrefatto. Gli si leggeva così bene in viso, tutta la sua complicata storia? Avrebbe preferito che Elizabeth non ne fosse al corrente, ma ormai era inutile. Non poteva mentirle. Non voleva mentirle. Ma non voleva nemmeno farle altro male. Mio Dio.
   Senza attendere oltre, lei continuò:
- Questi documenti sono validi. Potrai passare attraverso i posti di blocco fino ai confini del nostro protettorato. Buona fortuna.-
   Senza un accenno di saluto, scivolò di nuovo in casa e chiuse lentamente la porta alle sue spalle. Will non l’aveva vista in faccia, ma seppe che quella sera avrebbe pianto.
   Avrebbe voluto dirle che non sarebbe stata l’unica.

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Capitolo 6
*** Via da qui ***


CAP. 5 – VIA DA QUI

 

   Una volta fuori, senza pensarci troppo, riprese a camminare. Aveva un sacco di cose da fare: piani da costruire in men che non si dica, borse da portarsi via, e una piccola pesta da tenersi vicino per il resto dei suoi giorni. Non vedeva l’ora.
   Ma quasi subito, come un pugno nello stomaco, ebbe quella sensazione: la sensazione di non essere più nel nulla, anzi. Sotto mille occhi. Gli si serrò immediatamente la gola.
   Si voltò, pensando di essere seguito. Ormai aveva imparato a fidarsi del suo istinto più di chiunque altro. L’aveva salvato troppe volte per non accordargli una giusta priorità. Come in quel caso, avrebbe potuto essere la sua ancora in un mare di guai.
   Non vide nessuno. Niente che potesse anche solo fargli venire il dubbio di essere in pericolo. Sbuffò. Forse era solo un po’ su di giri per i recenti avvenimenti; per il governatore e quel Bellamy, quella figura nera e quelle ossa che tintinnavano. Gli sembrava di sentirle ancora vicino al suo orecchio, oppure, troppo vicine al suo cuore.
   Nel frattempo, una campana lontana aveva cominciato ad aprirsi un varco nel silenzio. Will trasalì. Un segnale? Un rintocco di morte? Non lo poteva immaginare, ma quel rumore risvegliò improvvisamente i suoi sensi, e  seppe che non poteva più indugiare, che doveva fare in fretta, prima che...
   D’un tratto qualcuno lo sorprese alle spalle. Will si sentì strattonato violentemente all’indietro e trascinato dentro a un vicolo. Tentò di urlare, ma una mano corse alla sua bocca per tapparla. Il sole improvvisamente scomparve dietro le tegole malmesse di un tetto. Avviluppato nelle ragnatele, lui cercò di ribellarsi, ma quella stretta era più possente di quanto avesse previsto.
   Poi, in un rapido secondo, avvertì il freddo di una canna di pistola premere sotto il mento.
   Si bloccò. Chiunque fosse questo sconosciuto attentatore, evidentemente non aveva intenzione di lasciarlo andare così facilmente. Will deglutì. Maledizione! Il suo presentimento era stato corretto, ancora una volta, anche se fino ad un secondo prima non aveva idea che quel giorno sarebbe stato il peggiore della sua vita. Ora non aveva più senso abbandonarsi a foschi presagi. Si rendeva conto che era suo dovere uscire vivo da quella colluttazione, per suo figlio, per Jack e magari anche per Élodie.
- Sta’ fermo!- gli ingiunse una voce – Che credevi di fare...!-
   A Will sembrò di soffocare. Il panico lo avvolse. Solo un flebile sussurro gli era giunto all’orecchio ma non capiva che cosa gli si stava dicendo: era così agitato che non capiva più nulla, ora era il suo spirito di sopravvivenza ora a farla da padrone.
   Come un riflesso condizionato da quella brutta situazione, caricò in fretta una testata e con un colpo secco di liberò. Le mani lo lasciarono per un attimo, prima di chiudersi di nuovo sopra di lui come una morsa; la pistola volò poco lontano, ma non era comunque abbastanza vicina per Will. Riacquistata una parvenza di lucidità, fece appena in tempo a intravedere la luce del sole filtrava dalle assi dei tetti nella parte superiore, mentre uno strano silenzio, quasi da far paura, si impadroniva di quello spazio ristretto.
   Qualcuno si lamentava dietro di lui, senza mollarlo. La pistola era decisamente troppo lontana. Will si voltò, raccattando in quel momento il coraggio per prendere saldamente l’avversario tra le mani e sbatterlo contro il muro lì a fianco. Una, due, tre volte. Quelle mani non lo lasciavano. Sbattè una quarta volta, e sentì gocce di sangue che zampillavano contro il suo viso. Di chi era? Suo o dell’altro?
   Ansimava come un animale preso in trappola. Quelle dita non lo lasciavano!
- William!- un grido a stento, sotto quei vestiti malridotti – Mannaggia, William! Fermati!-
   Will si riebbe in un battibaleno. Conosceva quella voce, anche se non era esattamente ciò che si sarebbe aspettato di sentire in quel momento. O forse sì?
   Si tirò indietro, ansimando. Le braccia caddero da sole lungo i suoi fianchi:
- Jack?- mormorò, mentre l’altro finalmente ritornava con i piedi in terra.
   Il pirata scosse la testa, asciugandosi un rivolo di sudore che scappava da sotto la bandana. Perdeva sangue dal naso, ma lo nascose abilmente passandosi rapido una manica sul viso:
- Bel colpo, ragazzo.- mugugnò, ergendosi di nuovo in tutta la sua modesta altezza, così da fronteggiare Will e scrollarsi di dosso quella brutta caduta di stile.
   Fu altrettanto rapido a saettare verso la pistola e riprendersela. La pulì alla bell’è meglio dalla polvere, lucidandola come si confà a un briccone con i controfiocchi, cioè con assoluta cura. In quel momento il tempo sembrò sospendersi in un battito di ciglia, come se un invisibile orologio avesse smesso di ticchettare.
   Will era esterrefatto. Non riusciva ad associare tutta la violenza precedente alla figura magra e nervosa di Jack, che ora aveva riposto finalmente l’arma. Tuttavia, notò con un certo timore, aveva ancora la mano stretta sul calcio, come se dovesse tirarla fuori di nuovo da un momento all’altro.
   Jack alzò la testa e lo fissò dritto negli occhi. Attraverso quella pelle grattata dal sole, Will non riconobbe affatto la persona che si ricordava. Anzi. Era completamente diverso. Era fuorilegge più che mai, come un cane rabbioso, ancora peggio del solito.
- Che cosa pensavi di fare?- brontolò Jack, incurante di poter anche solo lontanamente spaventare Will con quel tono – Che ci facevi dal governatore Swann? Incosciente!-
   L’altro rimase per un attimo senza parole. Pensava di aver fatto una buona azione. Una mossa intelligente. D’accordo che Jack non poteva esserne al corrente, ma perché recriminare ancor prima di aver ricevuto spiegazioni? Perché lo guardava in quel modo, come se volesse ammazzarlo?
- Come sapevi che ero qui?- gli chiese, cercando di apparire altrettanto sicuro di sé.
   Jack non si scompose:
- Ti ho seguito, come ogni buon segugio fa. E visto che William non era on te, ho caricato la pistola. Poteva essercene bisogno. Poteva esserci un motivo.-
   Will trattenne il fiato. Quel discorso non gli piaceva per niente. Jack era troppo serioso e lui non ci era abituato. C’era qualcosa in fondo ai suoi occhi, qualcosa che lui non riusciva a decifrare, ma aveva lo stesso sapore del sangue che ora gli colava lentamente tra un dente e l’altro.
- Perché mi hai aggredito alle spalle?- azzardò.
   Jack contrasse le labbra in una smorfia:
- Perché mi è venuta voglia di ammazzarti, William Turner.-
   Allora non era stata solo un’impressione. Will sentì tutti i suoi umori gelarsi nelle vene. Jack stava già andando oltre nel discorso, ma lui non riusciva a sentirlo. Gli sembrava di nuotare in un lago di odio, le orecchie tappate. Poi  si rese conto che quell’odio non apparteneva solo a Jack, ma anche a lui, che non si aspettava di vederlo lì, perché in fondo credeva di sapere che cos’era venuto a fare.
- Cosa hai detto?- chiese a un certo punto, come se dovesse per forza prendere una boccata d’aria.
- Ho detto che non volevo farlo. Che avevo solo paura che urlassi. Non è il caso che attiriamo l’attenzione. Comprendi?-
   Will aggrottò le sopracciglia. Si era dunque sognato tutto? Tutto l’odio non era altro che amore ben celato?
   Qualcosa però lo spinse a serrare i pugni e diventò nervoso. Jack lo intuì da come non lo guardava più in faccia:
- Che ci facevi dagli Swann? Ora me lo dici?- e poi, in un soffio – Mi pareva di aver capito che con Elizabeth fosse finita. Quindi? Hai deciso di denunciarmi, per caso?-
- Ma che diavolo....ti viene in mente, Jack?!- si inalberò Will.
   Tutto ciò era scorretto, tremendo, terribile. Si stava spaventando.
- In tal caso sarei stato pronto a far fuoco. La prudenza non è mai troppa.- sorrise.
   Will era quasi sconvolto. Non sapeva più cosa pensare. Nella nebbia di quel momento un’immagine si incastrò fissa nella sua testa. La figura di Jack ben si accoppiava con un’altra che viveva rintanata della sua memoria, pronta a uscire al minimo accenno. Quei due avevano qualcosa in comune, se lo sentiva fin dentro le ossa, benché non riuscisse a capire che cosa fosse.
   Ma doveva dirglielo. Sapeva che doveva dirglielo.
   Jack attendeva e pareva se l’aspettasse, mentre per un attimo distoglieva gli occhi.
- Ho visto Bellamy.- esalò Will, con il respiro affannoso.
   La testa di Jack scattò nella sua direzione:
- Cosa?!- sbottò.
   C’era un’espressione di sincera angoscia sul suo viso. Will se ne chiese il motivo. Che cosa sapeva Jack di Lord Bellamy? C’entrava realmente con lui? Non era un sogno?
   Il pirata non si era nemmeno disturbato a chiedergli chi fosse. Un dettaglio che l’aveva tradito, e Will se n’era accorto subito. Pensò che era inutile soffermarsi oltremodo su quel piccolo particolare. Entrambi sapevano benissimo di chi stavano parlando. Will ancora non poteva immaginare la vera identità di quel personaggio; tuttavia, aveva ogni intenzione di andare fino in fondo a quella faccenda.
   Ne andava della salvaguardia di suo figlio.
- Sì, era dal governatore.- rincarò – Jack, tu lo conosci?-
   Ancora più rabbuiato, il pirata sputò per terra:
- E lui ha visto te?!- ignorando completamente la sua domanda, corse dritto per la sua strada, senza una direzione precisa, senza avere una via di scampo. Tutto lasciava intendere che la sapesse molto lunga, ma che era troppo occupato a pensare a un altro lato di quella spinosa vicenda. Will avvertiva sulla pelle tutto il suo malumore e tutto il peso di quella conoscenza.
- Non credo si sia reso conto che ero lì.- spiegò – Mi è solo passato davanti.-
   Jack alzò eloquentemente gli occhi al cielo:
- Non ci voleva!- abbaiò, quasi solo a se stesso – Questa proprio non ci voleva! Era già troppo vicino. Per fortuna che William non era con te!-
   Will rimase impietrito di fronte a quelle parole.
- Che significa?- aveva la voce che gli tremava tanto si sentiva vicino alla verità.
   Ma Jack non aveva nessuna intenzione di perdersi in chiacchiere. Si avvicinò, lo afferrò per un braccio e lo trascinò in avanti:
- Ah! Lascia stare!- scosse la testa – Ciò che è fatto, è fatto, ora dobbiamo soltanto andarcene!-
   Will gli incespicò dietro:
- Era proprio quello che avevo intenzione di fare.- brontolò.
- Benissimo! Saggia decisione, in effetti.-
- Jack, parlavo di me e di William.-
- Anche io sono qui per andarmene con William.-
   Qualcosa oppose resistenza nell’animo di Will: gli si rivoltò nello stomaco.
   Il pirata lo teneva ancora per un braccio, mentre camminava speditamente:
- Mi siete mancati! Non posso vivere senza di voi!- scherzò Jack, ma vedendo che Will non rideva per niente, ritornò subito serio. Inutile girarci tanto attorno. Probabilmente Will non se lo meritava. Era sempre stato privo di scrupoli, Jack Sparrow, ma mai crudele. Lo trovava non necessario. Anzi, stupido. Sapeva bene che quella era una sete che non si placava, un bicchiere avvelenato, di cui più ti sazi, più sei affamato. Anche quella volta, decise di non bere:
- Sono venuto a prenderlo.- tagliò corto.
   Will si rese conto che avrebbe voluto urlare.
   Si liberò bruscamente dalla stretta del compare. Doveva accadere, prima o poi, lo sapeva, ma non pensava così presto. Non con i documenti in fondo alla tasca. Non adesso che erano diventati quasi amici. Jack era venuto a riprendersi ciò che era anche suo, carne della sua carne (almeno in parte) e con la stessa spavalderia con cui glielo aveva portato, ora glielo toglieva. Will lo odiò. Odiò quel mondo nel più profondo e imperscrutabile dei modi; strinse i pugni fino a far diventare le nocche bianche.
   Ma si trattenne. Era affar suo se si era dimostrato troppo ottimista. Sperava solo che gli fosse concesso più tempo, ma così non era stato, purtroppo.
- Dove lo vuoi portare?- sibilò, rivolto alla terra che fuggiva veloce sotto i suoi piedi. Si rifiutava di guardare Jack in faccia.
   Il pirata se ne accorse.
- Via.- rispose evasivamente – Qui le cose si complicano. Non è più al sicuro e sua madre lo sa. Noi lo sappiamo, William.-
- Perché io non so mai niente, invece?!- sbottò improvvisamente l’altro. La sua rabbia si accresceva man mano che il senso di impotenza si faceva più forte, man mano che si voltava e non trovava una via di uscita. Non c’era via di uscita a quel dolore immenso, a quella separazione inevitabile. Lo sapeva.
   Jack tentò di dire qualcosa, ma Will accelerò improvvisamente il passo e lo precedette. Non ne poteva più di starlo a sentire senza poter replicare. Non ne voleva più sapere. Se fosse rimasto un altro minuto lì, così vicino a lui, avrebbe potuto fare qualcosa di cui si sarebbe pentito, di sicuro. Doveva trattenersi per il piccolo William. Doveva. Ma Jack non poteva pretendere l’impossibile da lui.
   Il pirata gli fu subito dietro, una volta nascosta la sua rigogliosa chioma sotto un cappuccio:
- William!- lo richiamò – Questi sono affari importanti! Questa è la più grande impresa che io abbia mai affrontato! Comprendi? Un’incredibile impresa per Capitan Jack Sparrow. Ma William è una parte inalienabile di questa. Io...-
- Sta’ zitto, Capitan Jack Sparrow.- lo zittì Will – Hai parlato anche fin troppo.-
   Jack rimase con un palmo di naso. In vita sua, nessuno si era permesso di trattarlo così, come un mozzo. Solo suo padre, oltre a Will, ma era stato molti anni prima: ricordi che lui aveva seppellito con maestria. Ora, grazie a quello screanzato, pungevano come spilli. L’infallibile Capitan Jack Sparrow messo all’angolo come un asino? Non poteva essere vero.
   Afferrò saldamente Will per la blusa, dandogli uno strattone violento:
- Sono io lo zio di William, nonché suo tutore!- quasi gli gridò nelle orecchie – Io ho delle responsabilità! Se sua madre se le fosse tenute, sarei stato ben più felice, William, ma le ha passate a me proprio perché è mia sorella! Ti avevo detto che sarei tornato a prenderlo!-
- Tu sei suo zio, io sono suo padre.- lo rimbeccò Will, sempre più stizzito: si era dimenticato con chi stava parlando – Sai cosa vuol dire avere un padre, Jack? Vuol dire avere l’altra metà del proprio cielo a portata di mano! Tu non l’hai messo al mondo, Jack. Siamo stati io e Élodie a farlo.-
   Come bruciava quell’affermazione! Jack se ne sentì ustionato da capo a piedi, come se avesse inghiottito olio bollente.
   Deglutì inconsapevolmente:
- Io sono quello che l’ha accudito fino ad adesso!- strillò, più forte di quello che intendesse fare – Sono stato come un padre per lui! E sono tornato per prenderlo.- gli si parò davanti a grandi falcate – Dov’è? Perché non è con te?-
   Era agitato più di quanto non lo desse a vedere, si percepiva. Ciononostante, Will cercò con tutte le sue forze di non colpirlo con uno schiaffo. Ne aveva di arretrati che gli sarebbero stati tanto bene appiccicati sulla faccia.
   Tremò di desiderio.
- E’ al sicuro.- disse – Seguimi.-
   Si avviò con passo celere e Jack si accodò di buon grado. Non parlarono per il resto del tragitto, tanto non sarebbe servito. C’era sufficiente rancore nell’aria da accendere un fiammifero.
   Ma sul serio glielo stava consegnando senza colpo ferire?
   Will si lasciò sfuggire una smorfia di disgusto, che a Jack non scappò. Tuttavia, decise deliberatamente di ignorarla. Era già sul filo del rasoio, come suo solito, non gli importava cercare altre rogne.
   Man mano che i minuti passavano, Jack si sentiva sempre più sull’orlo di un precipizio. Lui era lì per una missione ben precisa, ma non vedeva l’ora di far fagotto e levare le tende, sperando di non incappare intoppi. Il primo, il più prevedibile, era stato William Turner; ma contava di scavalcarlo presto. Il secondo...
   Will si era fermato. Il pirata, sovrappensiero, quasi gli finì addosso. Erano giunti davanti a una casetta piccola, senza infamia né lode, contornata da un bel giardino curato. Jack storse la bocca di fronte a quel fascino decisamente pittoresco, decisamente così fuori dalle sue corde. La cosa più in ordine che avesse mai visto era la tavola un secondo prima che lui cominciasse a mangiare. Non faceva proprio per lui, ma se William era lì dentro, sarebbe andato a prenderlo. Anche in capo al mondo.
   Will entrò dallo steccato, lasciando Jack in strada. Non gli chiese di accompagnarlo, e nemmeno di aspettarlo. La loro comunicazione si era ridotta a rughe di sopportazione intorno agli occhi. Al pirata prudeva il deretano al solo pensiero di dover passare un’altra ora in quel postaccio, Port Royal: era incredibilmente scoperto, e già lui stava disegnando creative variazioni ai piani predisposti dalla sorella. Ci mancava solo...
   Dal piccolo uscio della casa trotterellò fuori una piccola figura. A Jack mancò per un attimo il respiro. Erano passate solo due settimane ma sembrava fossero passati anni.
   Lo guardò. Il piccolo William sembrava cresciuto. O forse erano solo i suoi capelli a essere un po’ più lunghi? A quell’età si allungano in fretta. In poco tempo sarebbe stata ora di fare la sua prima treccia alla piratesca; o di indossare la sua prima bandana contro il sole cocente dei Caraibi. Come passava veloce il tempo!
   Per un attimo ebbe l’impulso irrefrenabile di saltare lo steccato e correre da lui. Ma poi il pirata Jack si riscosse. Non era ancora una femminuccia.
   Quindi restò ritto al di là dello steccato. Dietro a William comparve Will, che lo teneva per mano, con un buio in viso che nessuna luce sarebbe riuscita a rischiarare. Si volse indietro per dire qualcosa a chi lo seguiva da poca distanza, ma Jack non se ne accorse. Afferrò lo steccato e aprì il cancelletto, con un sonoro tonfo. William, distrattosi per un attimo, si voltò a quell’improvviso rumore.
   Ci fu un attimo sospeso nel nulla, poi di nuovo il mondo.
   Come vide suo zio che gli veniva incontro, William scattò da quella parte come un fulmine:
- Zio Jack! Zio Jack!- lo chiamò, appena lo riconobbe.
   Ormai correva a perdifiato.
   Will sentì che la sua mano veniva lasciata vuota nell’aria e seppe che era finita, per quel giorno, la sua razione di felicità. Si voltò anch’egli verso Jack Sparrow, che intanto era caduto in ginocchio per accogliere il bambino tra le sue braccia. William gli saltò al collo, stringendolo come se fosse l’unica cosa al mondo che gli fosse rimasta. Saltava di gioia, mentre Jack quasi si scioglieva in lacrime. Era evidente persino da lontano.
   Dopo un primo secondo di sentimenti contrastanti, Will si scoprì quasi commosso.
   Si avvicinò, in tempo per sentire che cosa stavano dicendosi quei due:
- Guarda che cosa ti ho portato...-
   Jack trasse dal tascone una scatolina di legno. William era tutto eccitato, ma il legno scivolava sotto le sue umide dita. Will storse il naso. Lo zio aprì la scatoletta e questa rivelò una piccola tartaruga di mare, immobile. Il bambino cinguettò di gioia e fece salti ancora più alti. Abbracciò lo zio con foga, stritolandolo quasi. Jack gemette, ma solo per scherzo.
   Finalmente Will li raggiunse. Se ne stette per un po’ ad osservare la scenetta dall’alto, con un mezzo sorriso che sbocciava quasi senza volerlo sul suo viso. Persino il pirata non comprendeva appieno; quasi istintivamente, però, si avvinghiò di più al nipote, che si buttò tra le sue braccia ancor più contento.
   Ora gli sembrava di capire meglio.
   Pur non essendone completamente consapevoli, forse, loro due se lo stavano disputando. Un momento piuttosto delicato, a dire il vero, che Jack provvide subito a sdrammatizzare. Aveva ancora pochi minuti da dedicare a quella canaglia, poi avrebbe preso il bambino e se ne sarebbe andato via, lontano, di nuovo in mare.
- I gabbiani erano finiti.- borbottò, spiando la reazione, probabilmente avversa, di Will.
   Poi prese in braccio il bambino, che fece finta di divincolarsi da lui:
- Ehi, dove vuoi scappare? Ti ho preso!- rideva Jack, ma i suoi occhi correvano già alla strada, alla signora che ora lo guardava strano, a quel sole che picchiava.
   Il  bambino si aggrappò alle sue spalle, poi ai suoi capelli, tutti annodati perfettamente secondo l’uso di Jack, almeno da quando Will l’aveva conosciuto. Vide il pirata che digrignava i denti per il fastidio, ma si vedeva anche come tentasse di sopportare. Dopo tanto tempo, William si divertiva a toccare e tirare le treccine che Jack si era fatto con la sua barba. A furia di giocarci, gliene disfece una piuttosto rapidamente:
- Accidenti, William, quante volte ti ho detto...?!- esclamò il pirata.
   Ma il bambino rideva. E Will con lui: non aveva potuto trattenersi.
   Il pirata li guardò storto tutti e due:
- E finitela con queste smancerie!- sbottò, seccato – Abbiamo altro da fare!-
   Il piccolo William rizzò le orecchie. Aprì la bocca per chiedere: gli piacevano le sorprese, gli piacevano i giochi. Pregustava già un momento divertente con lo zio Jack, perché quando Jack diceva così, di solito lo portava a fare cose nuove. Gli insegnava come vivere attraverso quel mondo, come pescare nuovi pesci, come disegnare nuove avventure. Zio Jack era il migliore, sotto quel punto di vista.
   Ma fu preceduto da Will:
- Che cosa dovremmo fare?- ringhiò.
   Il pirata non si fece intimorire. Strinse forte a sé il bambino.
   Tempo scaduto.
- Chi ti ha chiesto niente? Noi abbiamo da fare.- sentenziò – Saluti!-
   E scattò.
  
   Élodie Melody Sparrow entrò di gran carriera nella stanza attigua, passando su tutti i suoi occhi di brace:
- Dov’è mio fratello?- tuonò, in un tono che non ammetteva replica.
   I marinai, impauriti, si ritrassero, guardandosi l’un l’altro in cerca di manforte. Il capitano era palesemente fuori di sé. Un’onda grigia, avrebbero affermato i più vecchi lupi di mare, così come si definiscono i tifoni appena nati. E ora ne avevano uno dritto a prua.
   Élodie non se li lasciò scappare:
- Dov’è?- tornò a chiedere, con voce sempre più visibilmente alterata.
   Ci fu un attimo di silenzio incompreso, poi con voce flebile, qualcuno tentò timidamente di rispondere:
- Non c’è, Capitano.-
   Élodie non sapeva a chi apparteneva quella voce, non le interessava. Si aggirava attorno a quel gruppetto di marinai come un cane infervorato dalla rabbia, e nemmeno lei sapeva quando avrebbe potuto essere pericolosa in quel momento:
- Come sarebbe a dire?!- abbaiò.
- Non lo so, Capitano.- rispose la stessa voce.
   Il gruppetto si dissipò lentamente, lasciando allo scoperto un uomo. Uno degli ultimi arrivati, in verità, che forse ancora non conosceva bene le regole non scritte di quella nave. Del resto, quasi nessuno le conosceva appieno, e della vecchia guardia arruolata da Élodie quando ancora non era Élodie Melody Sparrow era rimasto ben poco, ormai.
   Chi sapeva mando giù bocconi amari per lui, pregustando già una probabile scoppiata che li avrebbe fatti naufragare in acque più burrascose che mai.
   Difatti, il colorito della donna virò subito a una tonalità di rosso più accesa del solito. Non era stanca, non era ubriaca e nemmeno cotta dal sole; il povero marinaio cominciò a recriminare l’idea di essersi messo in mezzo.
- Fedifrago maledetto!- la donna ebbe la compiacenza di urlare quella frase al cielo, senza prendersela con nessuno in particolare.
   Poi tornò sulla terra:
- Non ha lasciato detto nulla?- continuò, dondolandosi nervosamente davanti all’uomo.
   Lui parve per un attimo rincuorato:
- Nulla capitano. E’ partito, credo.- disse perché sapeva, quello che sapeva apparteneva al suo capitano, e lui era felice di rendersi utile. Non si poteva mai sapere se ci scappava qualche soldo in più.
- Senza il mio permesso?- Élodie lo fissò negli occhi, apparentemente quieta.
- Nottetempo, Capitano.-
Elodie sentì il sangue che si incagliava nelle vene. La sua espressione si fece ancora più fosca, mentre si avvicinava al malcapitato:
- Ne sei sicuro?- gli afferrò saldamente le braccia, stringendo forte.
   All’inizio non sembrava poi così male, quel contatto, ma il marinaio si vide costretto a ricredersi presto. Le dita di Élodie affondavano come coltelli affilati nella sua carne: poteva indovinare la circonferenza di ogni unghia, la cattiveria in ogni gesto, sentirsi vittima fin nel midollo.
   Cercò di non farsi corrompere dal dolore, ma quello cresceva e cresceva, senza neanche lontanamente importargliene di lui. In pochi secondi se ne sentì soggiogato, come se la sua mente fosse improvvisamente finita in un circolo dell’inferno.
   Cominciò a mugolare:
- Sì, marinaio?- insistette Élodie, sempre più ferma nella sua presa d’acciaio.
Gli altri osservavano, impietriti.
- Sì, Capitano.- uggiolò l’altro.
   Diceva la verità, Élodie lo sapeva. Non c’era nient’altro di fruttuoso in quell’uomo, e nemmeno una colpa così grande per cui infliggergli quel castigo. Stava soffrendo di una mancanza che non era sua, ma, del resto, qualcuno doveva pur pagar caro quell’affronto.
   Poi, si riebbe. Improvvisamente lo lasciò, e gli lasciò anche segni visibili del suo passaggio sulle braccia, segni che avrebbero attirato squali a mille miglia. C’erano escoriazioni profonde lì dove lei aveva toccato e affondato le sue unghie, limate alla perfezione per arrecare danno.
   Lui le toccò, incredulo. Poi indietreggiò di un passo, indeciso su cosa pensare di lei.
- Andate via!- ordinò la donna, facendo un ampio gesto con la mano, in modo che tutti potessero ammirare le sue armi segrete.
   I marinai, in fila, senza un bisbiglio, se ne andarono subito.
   Élodie rimase sola. Si appoggiò al tavolo che occupava un angolo della stanza, come se fosse d’un tratto stanca. Tuttavia, le scappò un potente calcio a una delle gambe di legno, che sobbalzò per la sorpresa.
   In verità era solo arrabbiata con se stessa, e Dio solo sa quanto male può fare una sensazione del genere. Si sentiva responsabile, per suo figlio e per Jack, il figlio illegittimo, non richiesto.
Non poteva crederci.
   Suo fratello aveva fatto di testa sua un’altra volta.
  
   Jack era stato più veloce della luce. Aveva caricato saldamente il piccolo su una spalla, strappandogli una risata, poi era scappato di gran carriera e di corsa, superando il cancello in un battibaleno.
   La signora Muppet era rimasta lì, a fissarlo a bocca aperta, per tutto il tempo.
   Soprattutto, guardò quando anche Will gli corse dietro, più agitato che mai; e non seppe se ridere o piangere. Le sembrava una scena già vista fin troppe volte.
   Ecco, erano ritornati ai buoni, vecchi tempi di guardie e ladri. Jack dovette ammettere che in effetti non gli erano mancati. In questo caso era Will a inseguirlo, e non le aragoste, ma quasi quasi risultava più fastidioso ancora. Non era meglio che avere a che fare con Élodie. Lui voleva solo essere lasciato in pace, non avrebbe saputo affrontare più fuochi contemporaneamente; di solito cercava di evitare anche la più piccola fiammella. Ma ormai lo sapeva già, nella mente di sua sorella sicuramente si era già formato un rogo, e un altro lo aveva alle spalle.
   Per questo doveva arrivare al molo al più presto, inventarsi qualcosa per scroccare un passaggio a chicchessia e allontanarsi il più possibile, dove non lo conoscevano, o dove in ogni caso non avrebbero potuto trovarlo. Il piccolo William l’avrebbe aiutato, del resto era anche per quello che era passato prima a prenderlo.
   Aveva una delicata questione in sospeso, alla quale avrebbe  pensato poi.
   Tutti questi pensieri gli frullavano per la testa mentre scappava, letteralmente, tra damerini e zozzoni, sotto un sole a dir poco cocente, senza niente nelle bisacce e nella testa. Will non demordeva. Doveva essersi allenato, ma Jack si rifiutò di dover pensare anche ad un simile problema. Lui aveva una missione da compiere. Da solo.
   Will era veramente stanco di correre, dopo quelle faticacce dietro a William già doveva aver  perso qualche chilo di troppo. Tutto sommato si sentiva scattante, però, con i nervi tesi e la spada sguainata, come lo era stato un tempo e lo sarebbe stato anche meglio di un tempo, in nome di suo figlio. Jack non aveva il diritto di portarglielo via senza neanche una spiegazione. Lui non era una balia presso la quale parcheggiare il pargolo per qualche ora; questo mestiere non gli si addiceva e non aveva nessuna intenzione, di essere tagliato fuori.
   Jack non si fermò  e non si guardò indietro. Arrivato in prossimità dei moli, tuttavia, ebbe una brutta sorpresa. Come sbucò da uno dei tanti vicoli, ecco pararsi di fronte a lui una sfilata di giubbe rosse, con i fucili già imbracciati, pronte a prendere posto in file di ranghi, un esercito spianato contro chissà quale pericolo e con chissà quali pretese.
   Automaticamente, storse la bocca. Un rivolino sottile di indecisione si formò tra i suoi capelli aggrovigliati: ma non era tipo da farsi prendere dal panico. Solo un secondo. Solo un secondo e poi gli sarebbe venuta un’idea geniale.
   Il bambino scalciò forte perché lui non correva più, e la cosa lo sbilanciò non poco. Alcuni soldati si girarono e per lui era la prima volta che li vedeva, ma per loro sicuramente no. Lui non conosceva quelle facce e gli parve strano, ormai aveva visto abbastanza da vicino quasi tutte le vecchie guardie di Port Royal: a turno gli avevano fatto da carcerieri e ormai poteva annoverare con loro una sorta di “amicizia”, anche se sempre a debita e saggia distanza.
   Quelle facce invece erano nuove e venate di una spietatezza che si percepiva spannometricamente in un raggio di miglia. Come lo videro, come se la sua faccia fosse un tiro al bersaglio già studiato in precedenza, imbracciarono i fucili e mirarono. Non ci fu un secondo di attesa, un attimo di silenzio, nemmeno per rendersi conto che William era ancora in braccio a lui e forse una punta di pietà era d’obbligo, solo per il bambino.
   Per la prima volta il cuore di Jack fece una capriola di paura. Non per lui, lui era abituato a questo e altro; ma per la schiena inerme di William, che non poteva vedere nulla di quello che stava succedendo, anzi, rideva. Quella risata non si doveva spegnere.
   Jack tirò fuori la pistola e sparò, un riflesso incondizionato, quasi in contemporanea con quegli uomini che avevano tutti la stessa espressione disgustata e uno stemma nuovo sui cappelli, che lui si accorse di conoscere bene.
   Finchè Will gli fu addosso.
   Capitombolarono tutti e tre per terra, con i proiettili che sibilavano appena oltre il loro campo visivo. Will afferrò William e lo trascinò vicino a sé, mentre Jack era già saltato di nuovo in ginocchio e cercava di mirare al petto di uno degli uomini che lo volevano morto.
   Ma quelli si erano già volatilizzati. Non li vedeva più, però sapeva che erano nascosti ovunque. Erano troppo veloci o troppo scaltri, e la canna della sua arma sembrava arrugginita di fronte a quella potenza. Inoltre, doveva già ricaricarla.
- Bastardi, figli di buona donna!- inveì.
   Will, vicino a lui, alzò di scatto la testa:
- Jack! Ci stanno sparando!- urlò, più forte di quel che avrebbe voluto, quasi potesse essere un grido di aiuto.
   In quel momento un proiettile si conficcò nel muro dietro di loro, sollevando nugoli di polvere. Ci era andato vicino, troppo vicino alle loro teste:
- Lo vedo, corpo di mille balene!- esclamò Jack, e una nuova raffica lo sfiorò.
La mira di quegli uomini era a dir poco spaventosa.
   Jack prese Will per la giubba e lo tirò via:
- Bestie!- proruppe – Non hanno pietà neanche per un bambino!-
   Altri proiettili colpirono le cassette di legno vuote dietro le quali si erano ficcati. Scalfite abilmente da quegli aguzzini, balzarono velocemente giù dalla loro pila, offrendo al sole il loro modesto rifugio. Il fracasso fu assordante.
   Jack, sempre con una mano addosso a Will, lo spinse via, verso altri lidi. Girarono l’angolo di una casa, pensando di essere un po’ più lontani dal pericolo, non vedendolo.
   Ma come alzarono lo sguardo, si resero conto di aver commesso un grave errore.
 
   Ce li avevano di fronte, in tutto il loro modesto splendore. Le baionette luccicavano al sole, così come il rosso delle loro vesti. Jack si accorse che non era il solito colore delle guardie inglesi, il solito color tramonto spento; tutto il contrario, era un rosso così vivido da far male agli occhi.
    Era un colore che conosceva fin troppo bene.
- Per il nostro Sire Cacciatore, hip hip urrà!- gridarono in coro gli uomini, mentre miravano.
   Non solo nella crudeltà, persino nella voce riuscivano a spaventare all’unisono.
   Jack fece una smorfia eloquente. Poi si gettò con William e il piccolo dietro a un muro, appena in tempo per evitare il Paradiso.
   Il piccolo William aveva cominciato a piangere. Grossi lacrimoni gli rigavano il viso, nonostante lui cercasse di trattenere i singhiozzi. Tutto quel baccano non poteva essere solo un gioco; non lo capiva, gli sembrava brutto, ingiusto, ma doveva resistere. Si aggrappava a Will con tutte le sue forze, sicuro che tra le braccia di baba ci fosse posto per lui, per un sospiro più pesante degli altri.
   Sopra la sua testa, Will cercava di far funzionare il cervello mentre tutto vorticava intorno alla velocità della luce. Gli mancava il respiro e la cosa assurda era che in tutto quel bailamme, l’unico pensiero suo era rispondere a una domanda:
- Chi è il Cacciatore?!- gridò, sopra alla calca generale.
   L’avrebbe gridato più forte se avesse avuto ancora fiato nei polmoni.
   Jack ansimava un po’, e non perse tempo a rispondergli. Girava la testa di qua e di là, pronto a cogliere l’attimo fuggente...in tutte le sue forme. Doveva sbarazzarsi di quegli uomini al più presto e continuare per la sua strada, possibilmente senza troppi fori nei vestiti.
- Pirata!- lo richiamò Will, con una punta di disprezzo – Sto parlando con te! Dimmi chi è il Cacciatore, che sta succedendo?!-
   Jack si voltò, benché fosse l’ultima cosa al mondo che volesse fare. Fissò Will con un’intensità che avrebbe appiccato fuoco a un albero:
- Corri, idiota che non sei altro!- lo spinse via ancora, dall’altra parte.
   Li attendeva il nulla. Soltanto altri uomini, altri urli, altre sartie tirate su al molo.
   Will, sempre con in braccio il bambino, premuto contro la sua spalla, impallidì: davanti a loro c’era solo una distesa grigio-azzurra sotto il cielo improvvisamente diventato cinerino. Acqua e galeoni agonizzanti sulla riva.
   Il nulla.
   Un groppo gli salì alla gola:
- Jack...- mormorò, ma non fece in tempo.
   Con la coda dell’occhio intravide gli uomini di prima che, stretti in ranghi serrati, marciavano da questa parte del porto. Sembravano quasi soldati ben addestrati, non fosse stato per i vestiti che avevano un che di malconcio, e quindi tradivano le loro umili origini. La loro unanimità era impressionante, come se fossero caduti tutti sotto un unico sortilegio. Come se ci fosse un burattinaio a guidarli tramite fili invisibili ovunque voleva che andassero. Era quel mago a soffiargli nelle orecchie la voglia di uccidere, di distruggere l’obiettivo, annientarlo. Compierlo non era sufficiente per loro.
   Dovevano farlo sparire dalla faccia della terra.
   In quella, con grande sorpresa di Will, anche Jack fece partire un colpo. Un colpo ben preciso, che si andò a conficcare perfettamente nella chiglia della nave più vicina, facendo saltare un chiavistello. Sulle prime, Will non capì. Poi il pirata fece partire un altro colpo, che andò a segno: anche un secondo chiavistello saltò.
(ma che sta...?)
   Proprio mentre la marmaglia appartenente al Cacciatore si stava nuovamente disponendo all’attacco contro di loro, un ponticello schioccò contro le pietre del molo, alle spalle degli uomini. Passò un eterno secondo, forse due; poi il viso di Jack si illuminò.
   Il suo infallibile fiuto non aveva sbagliato nemmeno stavolta.
 
   La prima testolina bianca spuntò appena da dietro la murata, attirata e agitata al tempo stesso dagli spari. Dietro di essa ne venne fuori un'altra, che la spinse via. Una terza sbucò e poi ripiombò dove non la si poteva vedere, ma dove stava già facendo ciò che serviva.
   In un attimo, sulla nave ormeggiata si creò un gran fermento. C’era un brulichio di vita che nessuno aveva notato prima, ma che aveva l’aria di dover crescere. Il tempo di capire che c’era una via d’uscita a tutto quel clangore, a tutta quella paura. Infine, accadde.
   Gli uomini del Cacciatore non l’avrebbero fatta franca così facilmente, pensò Jack. La stupidità andava battuta con altra stupidità, solo più sottile e sofisticata. Lui aveva tutto quello che gli occorreva e non aveva esitato a usarlo.
   Aveva a disposizione un diversivo numeroso e puzzolente, poco assennato quanto bastava, tanto potente e cieco che anche avanzava. Senza accorgersene incurvò un lato della bocca in un sorriso di scherno. Ancora un attimo di pazienza poi avrebbe assaporato il suo ennesimo trionfo sul bene.
   Infine, le vide. Con un salto, ecco la prima pecora sul ponticello. Subito una seconda belò e la spinse in avanti; quella, piuttosto seccata dall’inopportunità della compagna, scalciò e cominciò a scendere. Poi la terza sbucò fuori, saltando quasi a cavallo della seconda, che impaurita, prese a scappare; poi ci fu la quarta, e la quinta. Jack le aveva sentite rumoreggiare fievolmente dietro le paratie grazie al suo udito fino. Grazie, esperienza dei Sette Mari! Ora restava solo da godersi lo spettacolo.
   Una marea bianca in un attimo si riversò fuori dalla nave con potenza inaudita e subito dopo fu addosso agli uomini. Una dopo l’altra, le pecore si lanciarono giù dalla loro temporanea prigione travolgendo tutto ciò che era intorno. Uomini, oggetti, vele e corde. Ce n’erano almeno un centinaio, tutte a sua disposizione. Jack non avrebbe potuto sperare di meglio per togliersi di impiccio così in fretta e così bene.
   Spalancò la bocca in una grassa risata.
   I marinai e i fucili vennero travolti. Alcuni spari finirono contro il cielo, a vuoto. Ormai erano soffocati da quelle pelli candide e soffici, soggiogati dal potere della natura. Solo quando non ne vide più neanche uno in piedi Jack potè tuttavia ritenersi soddisfatto del suo operato. Aveva troppo poco tempo per bearsene, ma quando ci stava godendo, perdio!
   Will era esterrefatto. In un secondo le sorti della loro fuga si erano capovolte a loro favore; non aveva fatto ancora in tempo a rendersi conto di essere libero quando Jack gli diede una pacca sulla spalla e lo aiutò a reggersi in piedi, il piccolo William sempre stretto addosso.
   Il pirata lo rimirò con malcelata esultanza. Poi annunciò:
- Possiamo andare.-
   Trotterellò via alla chetichella ma anche con un certo passo celere. Non voleva certo che le pecore lo prendessero per uno di quei cafoni mentre cercavano la loro amata e succulenta piazza erbosa! Inoltre, aveva sempre la stessa fretta di prima che lo attanagliava anche più di prima.
   Will lo seguì, chiedendosi se davvero non valeva la pena stare sempre appresso a Jack; come risposta, gli sembrò più che adatto fare del proverbio “nel dubbio, meglio abbondare” la sua nuova stella cometa.

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Capitolo 7
*** Chi dorme non piglia pesci ***


CAP. 6 –CHI DORME NON PIGLIA PESCI

 
  
   Jack e Will marciarono per un bel po’ nel più profondo silenzio, varcando la soglia di vicoli sconosciuti e eliminando la folla dai loro orizzonti. Nessuno dei due aveva voglia o sufficiente fiato per profferire parola sui recenti avvenimenti. Non sentivano nemmeno il bisogno di degnarsi di un’occhiata. Entrambi avevano altre cose a cui pensare, sebbene così diverse.
   Il pirata macchinava su come avrebbe potuto scaricare il compagno di viaggio, possibilmente in fretta. La sua era una missione all’insegna della più assoluta riservatezza, in primis con chi stava più vicino al piccolo William, ergo: lui stesso, Will  e Élodie. Era un riserbo che ci teneva a custodire. In particolare,  Élodie doveva già essersi accorta della sua assenza, e anche del suo mancato preavviso, come pure dell’irresponsabilità di cui sicuramente l’aveva tacciato. Probabilmente, era furibonda. Pazienza; in fondo non avrebbe potuto spiegarle il motivo di tutta quella fretta di distruggere i suoi piani. Non era nemmeno certo che intendesse ascoltarlo fino alla fine. Ma di sicuro una fine ci sarebbe stata, conoscendo Élodie, e Jack aveva tanta percezione di causa che non a cuor leggero immaginava che quella fine sarebbe stata la sua.
   Anche lei aveva i suoi torti, in quella complicata vicenda, ma chissà perché se ne scordava sempre al momento opportuno.
   Ma torniamo a Will. Teneva per mano il bambino mentre questi saltellava accanto alle sue gambe, si guardava in giro e osservava tutto, annusava tutto, sorrideva di fronte a tutto. Esplorava i dintorni con i suoi sensi ancora intonsi, con l’entusiasmo e la meraviglia di chi ancora vede solo la superficie increspata del mondo.
   Stavano dietro  a Jack, di buon passo. Il piccolo non pareva stanco, anzi. Indicava le cose con il dito, a volte senza nemmeno domandarsi di fronte a cosa si trovavano, che fosse un variopinto camaleonte in vendita, qualche gingillo tintinnante o forse solo uno strano tipo per strada. Will gli sussurrava dolcemente le risposte a quelle domande mai pronunciate. Se non fossero stati così gambe in spalla, sarebbe stato bello accompagnarlo di più in quella scoperta; purtroppo, vi dovevano rinunciare, e chissà quando ci sarebbe stata un’altra occasione.
   Girarono l’angolo e finalmente si imbatterono in un curioso viavai che aveva tutta l’aria di assomigliare alla dogana. Poco più in là, un recinto di paletti delimitava un campo di potere dall’altro, in corrispondenza della fila più lunga che avessero mai visto. Ovunque potessero voltarsi, c’erano giubbe rosse che marciavano solerti da una parte all’altra, con i fucili imbracciati.
   Jack si tuffò svelto dietro una pila di casse. Non si aspettava un simile traffico, oppure, non così ben controllato:
- Non ho mai visto tante aragoste nello stesso posto.- bofonchiò.
   Will lo raggiunse, tirando a sè il bambino, alquanto incuriosito. Gli adulti lo affascinavano sempre più, specialmente quando si facevano così seri.
- Dev’essere un’idea di Bellamy.- sospirò Will, guardandosi attorno. Sentiva la tensione che gli tirava i muscoli già indolenziti al solo pensiero di dover scappare di nuovo – Ci sta già cercando, a quanto pare. Avrà dato ordine di intensificare i controlli.-
- Non ne dubito...- asserì Jack, con una nota ironica nella voce – Passare la dogana è sempre stato un gioco da ragazzi, fuorchè in data odierna. Non che non me lo aspettassi;
(e ti pareva pensò will)
Probabilmente oggi il briccone non era dal governatore Swann per puro caso.-
   Ancora quella sensazione che Jack ne sapesse più di chiunque altro fece storcere la bocca a Will. Di nuovo fece capolino l’odio covato e represso in nome della sopravvivenza. Si ricordò dell’incontro con il famigerato boia, quegli occhi neri di brace che spuntavano da sotto il cappello e il tintinnio così insistente dei suoi gingilli. Non poteva ripensare a quell’immagine senza provare un brivido di freddo.
- Dici sul serio?- azzardò, dopo un breve silenzio di mancata tregua.
   Jack fece un cenno col capo:
- E’ astuto. Magari ti aveva già intercettato da un po’.-
   Will trattenne per un attimo il respiro. Jack trasudava una sicurezza, nelle sue apparenti chimere, che non gli piaceva. In base a cosa stava traendo quelle conclusioni che a Will parevano così gratuite? Cosa c’era nell’aria? Il suo fiuto, poco allenato, non riusciva a distinguere nessuna usta:
- Tu credi?- chiese, sempre più a disagio.
   Il pirata alzò le spalle con nonchalance. Se stava cercando di terrorizzarlo, gli stava venendo piuttosto bene. Ma Will non poteva permetterselo; non con il piccolo al suo fianco. Non con tutti quei pericoli intorno a loro, almeno finchè non avessero passato la dogana, verso terre ignote ma forse un pizzichino più accoglienti.
   Una guarda si voltò improvvisamente verso di loro e velocemente si abbassarono. Quella falce di cattiveria passò oltre, per fortuna. Attesero finchè non si fu allontanata, senza osare levare lo sguardo sulla strada, immobili come statue.
   Poi, lentamente, i loro cuori ripresero il consueto battito. Non erano nella posizione di vantaggio e non potevano rischiare di essere colti impreparati. Quante munizioni avevano ancora nella pistola?
   Il piccolo William prontamente si intromise tra quelle preoccupazioni:
- Che fai, zio Jack?- lasciò bruscamente la mano di Will e si arrampicò sulla schiena del pirata – Ti nascondi?-
   Era sinceramente sorpreso, ma non quanto Jack Sparrow nel sentirsi rivolgere quella domanda. A dire il vero, ne avvertì tutta la potenza, il suo implicito tocco molesto, fin dentro le ossa. D’improvviso afferrò il bambino piuttosto sgarbatamente e lo spostò di qualche passo, e si rialzò; torreggiando sopra di lui in tutta la sua altezza, gli rispose con una certa presenza di spirito, che Will però non gli aveva mai sentito nelle corde vocali.
- Ti pare che possa nascondermi, William?- ferito nell’orgoglio, si diresse a grandi passi verso la luce del sole. Non poteva perdere il suo prestigioso e proverbiale savoir-faire, nemmeno se ora gli avrebbe fatto decisamente comodo un atteggiamento più laissez-faire che mai. Come si suol dire, ça va sans dire.
   Non era esattamente il momento migliore per fare i piccati. Will fece appena in tempo a intercettare il pericolo prima che un paio di soldati sbucassero da un viottolo. Trascinò Jack di nuovo in basso e al tempo stesso tirò anche William da quella parte, prima che potesse dire qualsiasi cosa e metterli nei guai.
   Accidenti, che fatica essere padre! Ora cominciava a capire perché molti uomini si negavano quel ruolo. Oltretutto, a lui pareva di avere due figli, non uno solo.
   Sibilò a Jack di non muoversi di lì, poi si girò verso il bambino, tranquillizzandolo. Una carezza che non gli costò niente, ma che per il piccolo significò molto, dato che così sembrava che nessuno fosse arrabbiato con lui. Il comportamento di suo zio era stata una spiacevole sorpresa che voleva solo dimenticare al più presto. Non gli veniva certo facile, con gli occhiacci che Jack lanciava in tutte le direzioni, ma ci provò. A baba, dopotutto, era venuta un’idea.
- Sai, William, adesso faremo un gioco.- esordì Will, strizzandogli l’occhio.
   Il piccolo sorrise di gioia. Era da troppo tempo che non giocava con qualcuno: gli mancava. Gli mancava svagarsi e correre, e magari prendere in mano una finta spada. Qualsiasi cosa pur di risollevare l’umore della sua truppa, che viaggiava ad altezze alquanto modeste.
- Sì, baba!- cinguettò.
   Jack prestò orecchio, con un sopracciglio alzato. Aveva l’impressione che qualsiasi cosa intendesse uscire dalla bocca di William Turner non gli sarebbe mai potuta andare a genio. Perciò preparava lo stomaco e il palato a una boccata di amare rivelazioni; salvo poi ricucirle e rigirarle a suo piacimento, per il suo benessere.
- Ho qui due lasciapassare per la dogana.- disse Will, estraendo la loro salvezza da una tasca interna della camicia.
   Era solo l’inizio di un lungo discorso, ma il pirata lo bloccò subito:
- Chi te li ha dati?!- esclamò Jack, a bocca aperta. Non era così facile ottenerli, né falsificarli, né tantomeno rubarli, specie in quel periodo di carestia di prodi imprese: come poteva averli Will Turner?
   L’altro si voltò lentamente e in modo del tutto indifferente, se non freddo, prese un bel respiro e sputò un nome:
- Elizabeth.-
  Questo bastò a Jack per tenere le fauci ben serrate su altre indisponenti domande:
- Ah.- fece, fingendo di interessarsi a una componente del paesaggio.
   Ma Will sapeva che di quel nome, il pirata aveva accarezzato ogni lettera. Anche se ora si mostrava il solito cinico, anche se ostentava quella superficialità che lo caratterizzava in ogni mossa, tranne che con il piccolo William, un’antica collera sommerse Will Turner; ma lui restò coraggiosamente a galla. Non era il momento, non era il luogo. Lui non era carne da dare in pasto a quel passato.
   Doveva rimandare a Dio solo sa quando, per l’ennesima volta.
   Riprese a spiegare, cercando di mantenere calmo il tono della voce, che già quasi stava per sfuggire al suo controllo:
- Ne ho solo due.- chiarì – Sono per me e per William.-
- Scusami tanto, milord, e io?- Jack, ripresosi dallo sconcerto, lo guardò con occhi fiammeggianti.
- Tu non eri...previsto, Jack.-
   Will sentì la gola farsi improvvisamente secca. Il pirata era piuttosto contrariato: lo vide voltarsi dall’altra parte, piuttosto astiosamente.
- Ah beh, se volete anche solo provare a cavarvela da soli, senza di me, credo di aver qualcosa di meglio da fare.- gli fece notare.
   Will scosse la testa:
- Non fare così, Jack. Dico sul serio.- tentò di rabbonirlo – Noi abbiamo bisogno di te.-
- Lo vedo!- stizzito, Jack accennò ai lasciapassare e per poco non gli venne da sputarci sopra. Quello era un bell’affare, nonché un bel guaio! Aveva quasi rischiato la vita per tornare a prenderli, aveva sfidato le ire del mare e di Élodie, un manipolo di filibustiere guardie e ci mancava solo Lord Bellamy, e poi...!
- Ho un piano per farti passare, Jack.-
   Il pirata storse il naso:
- Ma davvero...e quale sarebbe?-
- Dai, zio Jack, è un gioco!- il piccolo William si frappose ancora una volta tra loro, sorprendendoli entrambi. Incredibilmente, quell’eccitazione tornava comodo, a Will perlomeno: se questo poteva trattenere Jack dal fare sciocchezze, che fosse la benvenuta. Premesso e non concesso che lui volesse ancora far pare della loro ciurma.
- Adesso non ho voglia di giocare, William.- il pirata fu duro, impenetrabile. Non si chinò e non degnò di uno sguardo amichevole il nipote, che si fermò agghiacciato accanto a lui, senza osare nemmeno sfiorarlo. Lo guardava da sotto in su, ma non c’era per lui nessun gesto di tenerezza, da parte dello zio. Quello se ne stava a braccia conserte, voltato quasi di schiena. Aveva il cappello calato sugli occhi.
   A William venne voglia di piangere. Abbassò il viso, tormentandosi un lembo del vestito.
- Jack, ti prego...- insistette Will, alle sue spalle.
   In quel momento, si udì chiaro e inequivocabile un singhiozzo del piccolo. Stava per mettersi a piangere sul serio, e nessuno dei due uomini poteva anche solo immaginare quanto sarebbe stato forte quel pianto. Ma tutti e due lo temevano, come si temono le campanelle degli angeli quando giunge la propria ora. Inoltre, considerate le circostanze, non era il caso di attirare troppo l’attenzione senza un’adeguata copertura; cosa di cui, guarda caso, erano momentaneamente sprovvisti.
   Prima ancora che Will potesse inventarsi qualcosa, si accorse che Jack si era girato all’istante. Esitò ancora un secondo, il tempo di rendersi conto che in fondo il pirata stava solo cercando di fare il duro, ma in verità non aveva nessuna intenzione di andarsene. Probabilmente si stava burlando di loro, nel peggiore dei modi, come era sua abitudine. Certo, William era troppo piccolo per capire queste sottili astuzie da adulti: poteva solo soffrirne. Per questo piangeva. Perché gli sfuggiva qualcosa, e se l’avesse perduta temeva di perdere anche suo zio Jack.
   Nonostante tutto, però, il pirata era ancora un adulto. Quindi, come vide che la situazione stava precipitando, subito si sciolse da quella posa da sovrano in trono per accovacciarsi vicino a William, prenderlo tra le braccia e stringerlo a sé. Tutto sommato, non era affatto nella posizione di poter decidere cosa fosse giusto o sbagliato per loro, ma solo di dubitare della sanità mentale del suo compagno di viaggio, in cui non riponeva certo il massimo della fiducia.
- Su, su...- provò a calmare il piccolo, battendogli una mano sulla schiena – Sono qui, William, non ti preoccupare.-
   Poi, Will fu parecchio sorpreso di sentirgli dire quelle parole:
- Mi dispiace.-
   Non si mosse. Lasciò che i due si coccolassero un po’: aveva l’impressione che ne avessero bisogno entrambi. Quell’istante apparteneva solo a loro. Non c’era di che essere gelosi.
   Il bambino cinse con le braccia il collo e la zazzera arruffata dello zio. Ormai riusciva quasi a fare il giro. Era cresciuto, ma non abbastanza per lui. Rimaneva sempre il suo piccolo William.
   Jack gli asciugò le lacrime con il colletto della sua veste:
- Su, adesso basta fare le femminucce. Noi siamo uomini. Noi dobbiamo giocare, giusto?- lo rincuorò con un sorriso furbo. Poi si rivolse a Will, che sussultò – In che cosa consiste questo gioco?-
   L’altro, dopo un attimo di sorpresa, si chinò vicino a loro. Tutti e tre confabulavano dietro quelle casse, come se in verità fossero tutti bambini in procinto di compiere la migliore (o la peggiore) delle loro marachelle:
- Ti prego, dimmi che è una cosa esaltante!- sghignazzò Jack – Almeno che mi diverta un po’!-
- Non so quanto ti potrà sembrare “esaltante”, Jack, ma di sicuro ti divertirai...- accondiscese Will, pregustandosi già la scena e l’espressione sulla faccia di Jack.
- Quanto?- volle sapere l’altro.
- Da morire.- anche Will sorrise, ma Jack un po’ meno.
 
   Poco più tardi, stava filando tutto pressoché liscio. Al piccolo William era sbocciato di nuovo il sorriso, e questa era una buona cosa; Jack era costretto a star fermo e a tacere, il che era un’altrettanta buona cosa. Will trasse un respiro un po’ più profondo, prima di calarsi completamente nella parte che si era assegnato.
   Tenendo per mano il bambino, accompagnava con una brutta cera la cassa da morto.
Dentro, Jack non poteva muoversi: era costretto alla posizione supina, le mani intrecciate sul petto, incartato come un pacco regalo tra fiori e bella seta. Quell’odore umidiccio gli dava la nausea, ma si trattenne dal lamentarsi. Quello era l’unico modo per passare a miglior vita, pensò con una punta di ironia.
   Sotto la schiena, avvertiva le ruote del carro che senza colpo ferire centravano ogni buca della strada, facendolo sobbalzare. L’avevano rubato lì al porto, così come quella specie di baule malconcio che doveva essere il suo letto di morte. Per fortuna, la seta attutiva un po’ lo sbattere quasi incessante delle sue membra contro il legno; ciononostante, provava un irresistibile impulso a scoperchiare la cassa per gridare “basta!” con tutta la forza di cui era capace. Ma no. Non poteva. Jack Sparrow era morto quel giorno, e con lui doveva esser morta anche la sua piratesca schiettezza.
   Non era la prima volta che tentava la fuga fingendosi una salma, ma doveva ammettere che avrebbe preferito che l’esperienza rimanesse singola. Nonostante le sue perplessità in materia, William era stato irremovibile come un mulo che pianta i piedi a terra. Niente da fare. Con gli animali non ci era mai andato veramente d’accordo. Aveva dovuto farsi andare bene il piano, dalla prima all’ultima lettera, compreso il passaggio che lo vedeva in quella scomoda posizione.
   D’un tratto, il carro si fermò con uno schiocco. Jack trasalì nel sentire alcune voci burbere che interrogavano circa il contenuto della cassa da morto. Il primo ostacolo, cui tuttavia si era preparato. Ecco che si entrava in scena: una punta di vanità si affacciò ai suoi occhi furbi.
   Will borbottò qualcosa a mo’ di scusa, o forse di spiegazione. Eppure, non doveva avere un tono sufficientemente convincente. Jack sentì che, nonostante le proteste del suo insperato compagno di viaggio, il pesante legno veniva lentamente scoperchiato. Ebbe tutto il tempo di riaggiustarsi in quello spazio angusto, affondare per benino nella stoffa, cercando di nascondere i capelli tra i fiori buttati dentro a casaccio e assumere un’aria tetra, cadaverica, per l’appunto. Era sempre stato un bravissimo attore, e ora era venuto il momento di dimostrarlo ancora una volta a un mondo che mai l’aveva apprezzato.
   Due facce rubizze si affacciarono su di lui. Jack rimase perfettamente immobile, con gli occhi chiusi, anche se l’aria fresca che entrava nel suo finto mausoleo gli faceva venir voglia di respirare a pieni polmoni. Avvertì lo sguardo indagatore di due soldati sul suo bel muso, fin troppo vicino, per i suoi gusti.
   Ma si trattenne. Era quello, il suo ruolo. Ai morti non fa nè caldo né freddo un centimetro in più o in meno.
   Ma lui non era ancora morto, accidenti!
   Uno dei due soldati si tirò indietro disgustato:
- C’è un odore qua dentro da far vomitare i polli.- ci tenne a far notare, e Jack in silenzio gli diede ragionissima, per quanto odiasse lasciarla vinta alle aragoste – Per fortuna che è morto!-
   Jack fece un incredibile sforzo per non toccarsi immediatamente i testicoli. Aveva intenzione di vivere ancora molto, molto a lungo, avrebbe voluto gridare in faccia a quella testa di rapa. Non che sarebbe servito a renderlo più intelligente, ma uno sfogo non aveva mai fatto male a nessuno.
   Poi ripensò a tutti gli scontri nati da possibili “sfoghi” e si corresse: quasi a nessuno.
- Ma non trovi assomigli a qualcuno?- intervenne un’altra guardia.
   A Will si rizzarono tutti i peli del corpo. La fama di Jack era troppo conosciuta ed estesa per poter anche solo permettersi il lusso di pensare che qualche paladino della giustizia non ne avesse mai sentito parlare. Nonostante i fiori e i drappi, il pizzetto del pirata parlava chiaro, più di qualsivoglia eloquente mandato di cattura.
   Strinse forte la manina di William che, inaspettatamente, non disse nulla. Era visibilmente confuso, e il sentore che qualcosa non stesse andando per il verso giusto si era fatto strada pure in lui; ciononostante, si stava comportando da vero ometto, lasciando che quella paura gli scivolasse addosso come se niente fosse.
   La guardia che aveva proferito parola si piegò su Jack, andandogli vicino (ancora troppo vicino, secondo i gusti del pirata, che quasi ne sentiva l’odore stinto di integrità morale) e gli sferrò un cricchetto sul naso.
   Jack pensò che avrebbe voluto ucciderlo.
   Il piccolo William cominciò a dimenarsi, e a frignare. La guardia si voltò a guardarlo, come se avesse intuito qualcosa che non gli piaceva, ma a cui non poteva sottrarsi. Il bambino la fissò coraggiosamente negli occhi, sporgendo il labbro inferiore. Will cercò di stringerlo di più a sé, ma il pargolo, questa volta, si rifiutò. Non mandava giù il fatto che stessero dando fastidio a suo zio Jack; era solo un gioco, ma quei tipi in giubba rossa lo stavano rovinando. E i loro sorrisetti sotto i baffi non gli piacevano affatto.
   Improvvisamente, si divincolò dalla stretta di Will, andò dritto dritto alla guardia e altrettanto improvvisamente gli mollò un potente calcio negli stinchi, strappandogli un lamento di dolore acuto.
   A quel punto fu il panico. Will si precipitò ad afferrare il bambino, prima che qualcuno potesse portarglielo via dalla mani. La guardia saltellava di  dolore e li seccava con il suo odio: probabilmente si stava inventando una scusa per arrestarli, non farli passare, fargliela pagare.
   William era incontenibile. La sua voce era diventata un lamento imperterrito e scalciava come un animale. Will tentò di calmarlo, di farlo stare zitto, ma non ci fu niente da fare:
- E’ complicato...- balbettò quelle parole come una scusa, per distrarre le guardie dai loro intenti – Lui era molto affezionato a suo zio. E’ stato un trauma per lui...è ancora un po’ agitato, scusateci.-
   Intanto, cercava disperatamente di far tacere William:
- William, non ricordi il nostro gioco?- gli sussurrò all’orecchio, sperando che le aragoste non lo sentissero – William, devi stare fermo!-
- Ha fatto male a zio Jack!- si ribellò il piccolo – Brutti, cattivi!- e seguitava a dimenarsi sempre di più.
   Per Jack quel pianto era una lama che passava a filo di rasoio sul suo cuore. Non poteva sapere quanto avrebbe resistito, ma secondo i suoi calcoli non doveva mancare molto. Niente era andato per il verso giusto, quindi seguire i piani ora gli sembrava un’inutile perdita di tempo.
   Le guardie, dopo un primo impatto un po’ brutale, si resero conto della situazione e quasi se ne dispiacquero. Tuttavia, quei poveracci in cerca di Dio solo sa cosa, vestiti con quegli abiti logori, con quel bambino che si dibatteva nella polvere, due vite così diverse dalle loro pasciute esistenze, strappò alle guardie un risolino.
   William lo udì. Fu per lui una presa in giro crudele, che lo fece imbastardire ancora di più, tanto che non bastavano più due mani a reggerlo. Soffiava come un gatto a cui è stata pestata la coda.
- Ecco i documenti!- si affrettò Will, porgendo i due pezzi di carta – Perdonateci...-
   Ormai era una lotta tra titani.
   Le guardie se la presero comoda con quei fogli, come se ci godessero a tenerli lì. Sulla carta non si parlava di un trasporto eventuale di merci, o di morti, e la cosa parve loro strana. Si presero del tempo per pensarci, nonostante il piagnisteo incessante di William.
   A Jack fremettero i baffi.
   Ci stavano mettendo troppo tempo, maledizione!
   Poi, senza preavviso alcuno, il pirata avvertì chiaro e dritto uno sputo contro la sua coriacea pelle. Non poteva vedere, né sapere chi fosse stato, ma dell’agglomerato di saliva e tabacco masticato male che ora lasciava una schifosissima bava candendo lungo la sua guancia non proprio fresca di rasoio, di quella poteva essere certo come la morte. Qualcuno aveva voluto riservargli quell’ultimo saluto in un modo non proprio trionfale, al contrario, si era divertito ad oltraggiarlo oltremodo, vivo o morto che fosse. Al contempo, avevo voluto ferire Will e William in un ultimo e disperato tentativo.
   Jack pensò che non a caso quello sarebbe stato il suo ultimo tentativo.
   La messinscena era penosamente finita.
- Ora basta!- se ne venne fuori, catapultandosi seduto nella cassa da morto e lisciandosi via lo sputo. La sua voce tonante riecheggiò paurosamente nel silenzio appena nato, e i suoi occhi scuri che passavano in rassegna i volti dei presenti si piantarono improvvisamente in quelle di uno delle due guardie.
   Quella impallidì a vista d’occhio. Istintivamente si toccò il cappello, sotto al quale la pelle e i capelli si facevano velocemente appiccicosi per il sudore:
- Il morto ha parlato!- gridò - Oh mio Dio! Il morto ha parlato!-
   Il suo tono di voce era stridulo e a dir poco irritante, secondo Jack. Balzò fuori dalla cassa e si diresse verso di lui, intenzionato a zittirlo, ma come gli si parò davanti e fece per afferrarlo, quello svenne, prima che potesse fargli alcunché, e gli rovinò addosso.
   Il pirata lo scostò con disgusto, strappando un gridolino schifato all’altra guardia; subito la stese con un pugno.
- E che diavolo!- inveì, per la gioia di William, che ora saltellava tutto contento.
- Zio Jack!- gli occhi del piccolo si illuminarono – Sei il migliore!-
   Will si mise furiosamente le mani tra i capelli:
- Bell’affare, Jack!- eruppe, piuttosto nervoso – Avevamo proprio bisogno di farci riconoscere!-
- Prima di tutto, vedi di farti riconoscere un po’ di dignità, pivello.- lo rimbeccò Jack, tutto sulle sue – Pur di passare dall’altra parte, avresti permesso che calpestassero le mie spoglie, ricoprendole di insulti verbali e fisici? Non brilli di certo per amore parentale...ciò mi preoccupa!-
   La predica non piacque per nulla a Will, ma non fece in tempo a replicare. A quel semplice alterco, erano già sopraggiunte altre guardie, fucili e baionette alla mano, e anche piuttosto agguerrite.
   Will tirò fuori un pugnale e Jack la sua pistola, opportunamente ricaricata. Si misero schiena contro schiena e il piccolo William si rifugiò tra le loro gambe.
- Ehi, tu!- urlò qualcuno – Dannato Jack Sparrow! Bile rafferma!-
   Jack si voltò e anche se non riconobbe il viso del marinaio che gli era comparso subito di fronte, intuì che con costui dovevano esserci ancora parecchi suoi affari in sospeso. Del resto, dimenticare era la sua arte più affinata. Anche ora, per esempio, si era dimenticato profferirsi almeno in un saluto, prima di sparare.
   L’uomo cadde a terra, dimenandosi come un ossesso, mentre le guardie inciampavano su di lui, correvano in tutte le direzioni e prendevano posizione per accerchiarli in un nido di fuoco.
  Will si rivolse a Jack:
- Hai “amici” ovunque, vedo!- gli fece notare, piuttosto avvelenato.
   Il pirata alzò le spalle:
- E’ solo un modo diverso di essere popolari!- si profuse in una smorfietta compiaciuta, poi gli diede uno spintone tale che ruzzolarono per terra tutti e tre, dividendosi.
   Jack, con il piccolo William, rotolò fino a un carro abbandonato. Subito vi si infilò sotto, prevedendo con esatta certezza che tutta la gente normale, in coda alla dogana, si sarebbe presto barricata lì intorno, cercando di proteggersi da tutto quel chiasso. Così fu, almeno per una buona metà della folla; l’altra metà si stava spargendo tutt’intorno, come un mare mosso. Con tutta la gente che vi era lì intorno, nessuna guardia avrebbe potuto sparare senza rischiare di beccare qualche innocente.
   Nel frattempo, ripreso un po’ di fiato mentre si teneva stretto stretto suo nipote, Jack cercò di pensare il più in fretta possibile.
   Erano poco lontani dalla casetta del doganiere. Ora non la vedeva, ma era possibile che fosse vuota, dato che tutti correvano dappertutto con le armi in mano. Gente comune e guardie, doganiere compreso, parevano avere un sacco da fare. Non era una situazione che si dice tranquilla, ma doveva tentare qualcosa.
   Dove era finito Will Turner?
   - Baba!- il bambino si dimenò tra le sue braccia, e Jack si voltò, la pistola pronta a far fuoco.
   Ecco, ora lo vedeva pure lui. Will Turner combatteva a mani nude con un’aragosta, cercando di impossessarsi di una baionetta. Gli altri nemici, visto il pasticcio combinato, erano troppo occupate a cercare di serrare i  ranghi e tenere in ordine i postulanti della dogana. Invano, ormai era girata voce dei banditi e tutti sembravano impazziti.
   Finalmente Will Turner riuscì a spuntarla. Con un calcio, buttò a mare la guardia e si tenne la baionetta. Con quella mirò e sparò a un simpatizzante della giustizia che intendeva a tutti i costi arrestarlo. Eccolo di nuovo dall’altra parte della barricata. Probabilmente, non l’aveva più riattraversata da quando aveva conosciuto Jack.
   Non potevano perdere tempo in quel modo. Il pirata uscì dal suo angusto nascondiglio, gambe e William in spalla. Raggiunse il suo compare, per quanto detestasse doverlo considerare tale; lo afferrò per un braccio, evitando per un pelo una gomitata che subito Will aveva tentato di sferrargli, preso alla sprovvista.
- Andiamo via!- gli gridò, al di sopra del frastuono.
   Lo spinse verso la casetta del doganiere, poco lontana. Questa si trovava non lontano dalla linea di demarcazione, poco oltre la piazzetta, al limitare del paese. Pareva deserta, per il momento, visto che tutti erano fuori a mugghiare come ossessi.
   Si intrufolarono dentro. Dopo quelle ore passate sotto la canicola, il luogo pareva fresco, ombroso e accogliente, più di quanto loro ne avessero necessità. Sarebbe stato un sogno potersi fermare lì, almeno per un po’, almeno per calmarsi e raccogliere le idee. Ma non c’era tempo nemmeno per respirare.
   Jack si diresse subito verso una porticina laterale. Prima che Will potesse dire qualcosa, il filibustiere la aprì e, scoperto un piccolo bugigattolo, ci ficcò dentro il nipote:
- Ssssst!- gli fece segno, e la richiuse.
   Will era senza parole.
   Di colpo, i vetri della finestra si frantumarono in mille pezzi. I due si gettarono a terra, sotto uno sciame tagliente, che ferì loro le mani e gli occhi. Qualcosa aveva urtato la finestra e l’aveva spaccata, ma in controluce sarebbe stato faticoso definire cosa fosse.
   Jack scosse la testa. Era poco interessato a domande oziose:
- Io e il mio sesto senso ormai siamo una cosa sola!- si congratulò amaramente con se stesso.
   Dalla porta proruppero un paio di guardie, che si gettarono su di loro. Will e Jack si difesero strenuamente, cercando di tenersi strette la pistola e la baionetta, le uniche cose che dessero loro sicurezza in quel momento.
   Era una lotta impari. Stesa una guardia, ne arrivava un’altra, e poi un’altra. Quello che doveva essere un rifugio si era trasformato in una prigione, peggio di quello che Jack aveva previsto. Se solo fossero riusciti a raggiungere il piano superiore, probabilmente avrebbero potuto cercare via di fuga attraverso i tetti. Ma come fare ad arrivarci?
   Mentre ancora menava fendenti, anche a mani nude, avvertì un grido. Qualcuno aveva strillato così forte da trapanargli i timpani. Anche gli altri lo avevano sentito. Un attimo di distrazione che costò caro al soldato che stava cercando di soverchiarlo, perché Jack, con un colpo ben mirato alla carotide, lo mandò a terra.
   Pure Will si era voltato, e quello che vide lo atterrì.
   Il piccolo William era riuscito a uscire dallo sgabuzzino e ora se ne stava attaccato alla gamba di una guardia, mordendola con quanta forza avesse nel corpo e nei dentini ancora da latte. Buon sangue non mente, pensò Jack, ricordando per un fugace momento i bei tempi andati. Adesso c’era suo nipote a portare avanti l’onorevole discendenza!
   Sia Will che il pirata corsero verso il bambino e la malcapitata guardia. Liberata e malmenata questa, presero il piccolo e corsero su per le polverose scale che intanto erano riusciti a individuare.
   Will era davanti e teneva il bimbo con forza. Quell’attimo in cui aveva fiutato il pericolo, rischiando di non esserci per fare il suo dovere, lo aveva scosso fin  dentro le budella. Il sangue del proprio sangue trasmette un’energia tale da non potere più ignorarla, e acuisce i sensi più di ogni altra cosa. Non l’avrebbe mai lasciato andare, mai, sarebbe morto piuttosto.
   Jack gli proteggeva le spalle con gli ultimi colpi che aveva nella pistola. Presto sarebbe risultata completamente inutilizzabile, lo sapeva. Confidava, però, che gli venisse una genialata proprio nel momento in cui si sarebbe scaricata.
   I soldati stavano loro alle calcagna.
   Arrivati in cima ai gradini, incontrarono una porta. La spalancarono e si ritrovarono in una polverosa mansarda, adibita a mo’ di magazzino. C’erano oggetti di ogni sorta, sparsi lì dentro senza un senso preciso.
   Sprangarono la porta con il catenaccio arrugginito e si misero a cercare delle armi, in fretta. Potevano essercene di confiscate, lì intorno. Vattelapesca sapere dove!
   Le guardie stavano già cercando di forzare la porta. Un rumore sordo, insistente, che agitava il piccolo William più del necessario. Will tentò di coinvolgerlo nella loro ricerca, ma fu inutile. Il bambino sembrava essersi rifugiato in un mondo tutto suo, in cui ci teneva a stare finchè non fosse tutto finito. Era spaventatissimo. Persino Jack se n’era fatto caso:
- Dobbiamo portarlo via da qui, al più presto!- soffiò incollerito.
   Non sopportava l’idea di vedere suo nipote in quello stato.
   Intanto, aveva scovato una pistola di nuova tiratura, con un sacco di proiettili e curiosi gingilli che probabilmente appartenevano alla stessa. Sembrava di grosso calibro, e con possibilità di fare più danni di quanti se ne potessero solo immaginare. A Jack brillarono gli occhi. Era sempre un piacere rubare ciò che andava scandalosamente di moda.
   La intascò proprio mentre, con un terribile schiocco, la porta saltava e le aragoste irrompevano gridando nella stanza.
   Will, afferrati i primi oggetti che gli capitarono sottomano, cominciò a lanciarli, centrando quanto più possibile le fronti dei nemici e facendoli crollare a terra. I corpi caduti attutivano la furia di quelli che venivano poi, rallentandoli sulla soglia dell’arena. Il pirata dava una mano di buona lena a farli aumentare, ma con la coda dell’occhio aveva sempre sotto controllo una piccola pulce, che ora, terrorizzata, stava dirigendosi a rotta di collo verso il balcone oltre la porta-finestra alle loro spalle. Oltre quella, solo una balaustra, un vaso di fiori e qualcosa come quattro metri di vuoto che li separavano dalla strada sottostante.
   A Jack vennero i sudori freddi:
- William!- gridò.
   A quel grido, Will si voltò, atterrò un nemico e in un attimo balzò più vicino al pirata:
- No, non tu!- inveì questi, stizzito, allontanandolo.
   Subito schizzò verso il balcone e prima che il bambino potesse fare scherzi lo afferrò per la collottola e lo trasse a sé. Poi gli venne un’idea.
   La distanza tra loro e il prossimo tetto era infinitesimale. Meglio di quanto avrebbe potuto chiedere dalla vita. La vecchia idea di raggiungere la frontiera attraverso una passeggiata dall’alto rispuntò a far capolino nella sua mente. C’era una possibilità. C’era una speranza, se fosse filato tutto liscio.
   Era sufficiente un po’ di coraggio. Che lui aveva.
- Ci sarà un giorno in cui vi potrete vantare di aver visto il pirata Jack da vicino, ma MOLTO da vicino, fin troppo da vicino!- gridò quasi al cielo, e Will vide che prendeva la rincorsa, mentre lui malmenava una povera guardia malcapitata. Credette di capire cosa stava per fare.
   Non fece in tempo a pensarlo. Jack continuò sicuro:
- Ma non è questo il giorno!- e con una pernacchia si lanciò oltre il balcone, il bambino ben saldo addosso.
   Atterrò sull’altro tetto con un tonfo, e sano e salvo corse via.
   Will lo seguì, il fiato corto, con i proiettili che intanto lo sfioravano. Racimolò le ultime briciole di incoscienza prima di lanciarsi anche lui nel vuoto, sperando che Jack gli avesse lasciato un po’ di fortuna da usare. Non erano ancora oltre il confine, ma doveva ammettere che da quella prospettiva, mentre saltava, la libertà pareva più vicina. Mancava poco, ancora di meno, mentre atterrava sulle tegole malmesse, un paio di metri più sotto. Bastava solo sorpassare la linea là in fondo, e nessuno avrebbe più potuto toccarli se non incorrendo in infiniti ghirigori burocratici. In fondo, almeno lui e il piccolo William erano ufficialmente in regola. Avrebbero potuto fare ricorso, in caso di guai seri. Sempre che fossero sopravvissuti.
   Jack correva con William aggrappato a un fianco, come una scimmietta. Se non fosse stata una situazione di estremo pericolo, Will avrebbe riso. Ma non aveva tempo. Il pirata saltava un tetto dietro l’altro, sembrava in forma per quanto glielo stessero permettendo le gambe. Will si sforzò di stargli dietro, sperando che sapesse che cosa stava facendo. Perché lui non ne aveva la più pallida idea.
   Infine, come per miracolo, trovarono una scala. Subito Jack scese a rotta di collo, e anche Will. Erano in un vicolo. Le guardie ormai erano rimaste indietro. Corsero fino all’altra parte, per poi scoprirsi in una sorta di piazzetta. Il posto di blocco era rimasto dietro le loro spalle.
- Ah-ah!- Jack ballonzolò con William attaccato a sé per qualche passo – Vi abbiamo battuti, fregati, imbrogliati! E ora veniteci a prendere, se ne avete il coraggio!-
   Will, troppo stanco anche solo per gioire di quell’impresa andata a buon fine, usò le sue ultime forze per trascinare via compare e figlio.
 
   Si ritirarono a un tavolo sghembo della prima osteria che trovarono sulla loro strada, affollatissima e con un sentore di piscio e tabacco ovunque naso potesse spingersi. Will aveva preso in braccio il piccolo, ma ora era veramente esausto e a fatica riusciva a sorreggerlo. Si sedettero, così ebbe la scusa buona per sistemare William accanto a sè, pur circondandolo affettuosamente con un braccio; Jack era di fronte a loro, sempre con quel sorriso stampato sulla faccia, lo stesso da quando erano scesi da quote elevate per tornare a viaggiare rasoterra. Will si domandò se per caso non gli fosse venuta una paralisi alla mandibola. Ma non aveva tempo di preoccuparsene più di tanto.
   Sentendo il piccolo ancora impaurito, lo prese e se lo mise sulle ginocchia, in modo che potesse, però, anche vedere lo zio Jack. Quella vista lo confortava, e lui non aveva nessuna intenzione di togliergliela: non dopo tutto quello che Jack aveva fatto per loro durante quelle ore. Non dopo che vedeva come si occupava di lui, anche adesso, che stava cercando di farlo ridere.
   Nonostante l’apparente tranquillità, Jack cominciava a essere sulle spine, benché non volesse darlo a vedere, soprattutto per William. Anzi, si sforzava in tutti i modi di distrarlo: gli faceva scherzi e boccacce, pur senza dimenticare che si trovavano in un luogo pubblico, quindi scoperto. I suoi occhi non perdevano mai le uniche vie d’uscita, la porta e la cucina.
   Will lo richiamò con un gesto. L’altro alzò gli occhi e rispose con un cenno di assenso.
   Non era d’uopo perdere il loro tempo così, e quello non era certo il luogo migliore dove poter posare le loro stremate membra.
   Fecero per alzarsi, di nuovo, in cerca di un posto un po’ meno gremito, magari, quando d’un tratto la porta dell’osteria si spalancò e un energumeno entrò con tutta la forza di cui non ci sarebbe stato bisogno:
- Signori!- tuonò, cincischiando con il suo cinturone, cui stavano appese due spade – Ho un annuncio da fare!-
   Il suo tono di voce era stato talmente potente da zittire parte del baccano che c’era in quella sala. Molte teste si voltarono a guardarlo, Jack compreso. Will notò che il pirata aguzzava la vista, come a voler carpire qualche particolare che gli era sfuggito, come se cercasse di riconoscerlo, invece che di conoscerlo. Gli parve strano.
   Chi era quell’uomo?
- QUESTA E’ UNA RAPINA!- gridò il nuovo ospite, e subito alle sue spalle comparvero altri robusti individui, armati fino ai denti.
   Will credette di svenire.
   Jack alzò gli occhi al soffitto:
- Mannaggia!- sospirò, preparandosi a dar battaglia. Di nuovo.
   Non si poteva mai star tranquilli, maledizione! Il pirata fece cenno a Will di mettersi sotto il tavolo, al sicuro. L’altro eseguì l’ordine senza fiatare, tanto non avrebbe potuto uscirne vivo di lì, senza Jack. Il piccolo si strinse forte a lui, piagnucolando:
- Che cosa succede?-
   Una domanda a cui Will non sapeva o non poteva dare risposta:
- Tra poco sarà tutto finito...- lo rassicurò, avvertendo come quell’affermazione risultava lugubre in simili circostanze.
   A volte, giurò a se stesso, avrebbe voluto morire e lasciare quella terra in balia di chi più la volesse, a suon di colpi di rivoltella piuttosto che con contratti commerciali. Lui era un essere troppo piccolo per poter sostenere il peso di quelle responsabilità. Si sarebbe accontentato di vivere nell’ombra; invece, gli sembrava di muoversi nel deserto, senza mai incontrare né acqua né riparo.
   Stranamente, Jack non li aveva raggiunti nel loro improvvisato nascondiglio. Se ne stava ritto in piedi contro al tavolo, senza muovere un muscolo, mentre intorno si scatenava l’inferno. Gente che veniva malmenata, spostata a forza, allineata contro un muro. Qualche sparo riecheggiò tra le pareti, qualcuno cadde a terra, sangue venne versato; lamenti, dove Will non poteva allungare la vista. Ma non ci teneva particolarmente. Teneva la faccia di William premuta contro i vestiti, e se avesse potuto avrebbe fatto lo stesso con quelli di qualcun altro.
   Nel parapiglia generale, si udì la voce di Jack:
- Compare!- esclamò, allargando le braccia in direzione dell’uomo che aveva dato il truffaldino annuncio – Sei tu!-
   Will si sporse un po’. Vide il pirata che si avvicinava con passo solerte al rapinatore, senza per questo mostrarsi in alcun modo preoccupato. Eppure l’altro lo stava guardando con malocchio, apparentemente piuttosto innervosito da tutta quella confidenza.
   Will si rifiutò di assistere alla scena. Stavano per essere ammazzati come bestie, che diavolo poteva essere venuto in mente a Jack?! L’ultimo, strenuo tentativo di uscirne a testa alta?
   Se continuava così, da quell’osteria ne sarebbero usciti senza.
   Eppure, il miracolo era in agguato, ancora una volta. Will non poteva crederci, non finchè non ebbe visto che i due, dopo un’iniziale diffidenza, si erano messi a ridere di gusto:
- Vecchio filibustiere, da quanto tempo non ci becchiamo in giro!- rilanciò l’energumeno, gettandosi su Jack.
   Will ebbe un tremito, ma non accadde ciò che pensava: i due uomini si stavano abbracciando. Lì, nella confusione generale, mentre altre persone venivano ferite, derubate, zittite anche nella peggiore delle maniere, tutt’intorno. Era semplicemente basito.
   I due ci misero qualche lungo secondo prima di finire i convenevoli. Jack si staccò e con la solita sicumera fece due chiacchiere, incurante di tutto:
- Vero...- accondiscese, allargando lo sguardo sull’osteria malridotta – Il mondo è piccolo, oltre che tondo!-
- Come te la passi, compare?-
- Assolutamente bene! Ho appena passato la frontiera; ovviamente, ci sono stati alcuni problemucci, ma sempre abilmente aggirati dal sottoscritto: o forse, dovrei dire “raggirati”!- e giù un altro scroscio di risate.
   Will sentiva di non starci capendo più nulla. Non che fosse mai stato necessario, per uscirne vivo, ma si sentiva fastidiosamente in braccio al caso.
   Si ristabilì solo quando udì chiamare il suo nome:
- William! William, vieni qui...- urlava Jack, al di sopra di tutto.
   Subito il bambino ricominciò a muoversi. Si divincolò dalla stretta di Will e uscì da sotto il tavolo, diretto verso il pirata. Come un riflesso incondizionato, anche Willsi tirò fuori da quel posticino angusto, spazzolandosi i vestiti e avvicinandosi agli altri due uomini e mezzo, in punta di piedi.
   Tutto era così irreale da far pensare a un sogno.
   Ma Jack che coccolava il piccolo non era un sogno: l’aveva preso in braccio e lo mostrava orgogliosamente all’altro avanzo di galera.
- Mio nipote!- lo presentò, con un sorriso assurdo.
   Poi si voltò verso Will, ora accanto a loro:
- Suo padre.- concluse, senza tante cerimonie.
   L’energumeno scoppiò in un’altra fragorosa risata:
- Avete l’aria stanca. Sicuramente è stata una giornata lunga e tutto questo rumore non giova certo alla salute del piccolo. Andate in malora!- e giù ancora a ridere, mentre indicava loro la porta – Ai miei amici non riservo trattamenti di “sfavore”!-
   Jack lo ringraziò e subito si avviò, seguito da Will. Era stato un gioco da ragazzi, la sua fortuna era immensa e persino malleabile! “Un modo diverso di essere popolari”, si congratulò con se stesso.
   Appena varcata la soglia, tuttavia, si sentì rincorso dalla voce del bandito:
- Ehi, Jack! Dove hai preso quella pistola tutta dorata?-
   Il pirata deglutì. Se n’era completamente dimenticato.
   In un secondo, si rese conto di essere nei guai. Alla cupidigia proverbiale dei fuorilegge non poteva certo sfuggire un interessante pezzo d’antiquariato come quello che spuntava dalla cintura dei suoi pantaloni.
   Sotto la tesa del cappello, iniziò a sudare. Se l’era guadagnata, quella nuova arma, ma temeva che non sarebbe andata a finire come aveva sperato.
   Si voltò lentamente, sapendo già che cosa si sarebbe sentito dire:
- Jack!- lo richiamò l’altro - Potresti farmi dono di quell’incredibile pezzo, in nome della nostra amicizia, non credi?-
   Esattamente come aveva previsto. Il pirata caricò velocemente il coraggio a molla. Si accostò a Will, che, turbato, passava lo sguardo dall’uno all’altro in cerca di una spiegazione, possibilmente pacifica:
- Al mio tre, ce ne andiamo.- gli ingiunse Jack.
   Subito si mise a contare. L’energumeno era ancora lì, dritto impalato, ma sicuramente aveva fiutato che difficilmente avrebbe messo le mani su quella pistola. Non con il consenso di Jack, almeno. Poco gli importava, lui era grande e grosso e aveva i suoi scagnozzi pronti a far fuoco. Infatti, fece loro segno.
   Proprio in quel momento scattò il fatidico tre, e Jack si fiondò fuori, con Will alle calcagna. Come aprì la porta, tuttavia, si ritrovò vis-a-vis con un paio di guardie, probabilmente accorse dietro avviso di qualche buon vicino, che aveva segnalato la rapina in osteria. Dalla sorpresa, il pirata scartò malamente di lato, e il piccolo William gli scivolò tra le mani, restando indietro.
   Will lo raccolse da terra appena in tempo. Il bambino ora piangeva a più non posso, con il viso affondato tra le mani, e gridava il nome di Jack. Il pirata sentì la disperazione nel suo cuore che cresceva, man mano che altre guardie si intromettevano tra lui e la sua strada, che le spade diventavano più affilate
(resisti William ti prego)
   Tornò indietro, e finalmente lo raggiunse.
   Ormai non c’era più fazione né religione, ma solo un grumo di senza gloria che si battevano per premi diversi. C’erano giubbe rosse e barbe malconce, c’erano sguardi e sputi e munizioni che venivano spese: alcune andavano a segno.
   Nonostante la presenza del bambino, qualcuno puntò una pistola dritta dritta alla fronte di Jack; stava per urlargli qualcosa, ma il pirata non si fece intimorire e gli aveva già sferrato un pugno. Un colpo perfetto. Un colpo alla carotide.
   Alle sue spalle, uno sparo. Jack non si preoccupò di chi avesse abbattuto, se fosse amico o nemico, in fondo non faceva molta differenza: non da morti. Doveva portare via William, perché era chiaro che non poteva funzionare neanche come scudo, contro quella furia cieca. A dire il vero, non era sua intenzione farsene scudo, anzi. Sarebbe stato lui lo scudo, il più grande e fortissimo scudo mai costruito fino ad allora, l’indistruttibile scudo contro il male. Gli venne da ridere. Non era mai stato un paladino della giustizia ma ora quel ruolo gli stava a pennello.
   Con Will dietro e William ben stretto tra le sue gambe, cercò un modo per uscire dalla calca. Una mano era costantemente occupata a tenere il bambino, ora per un braccio, ora per una spalla. C’erano uomini dappertutto. Ma dove si era cacciato William Turner, maledizione? Improvvisamente non era più con loro. Quando c’era bisogno di lui non c’era mai!
   Dovevano andarsene!
   Ah, rieccolo. Will piombò su di lui e il bambino, e li spinse via, verso porti più sicuri, mentre gli altri si massacravano anche a mani nude. Un altro sparo riecheggiò vistosamente nell’aria. Nel fumo e nella confusione, due pallottole li sfiorarono. Ogni tanto erano costretti a fermarsi, a cambiare direzione. Avevano perso completamente la bussola.
   Un urto contro qualcosa, ma non si poteva dire cosa. Poi un dolore, un dolore noto, nonostante tutto, alla gamba. Una bestemmia stretta tra i denti. L’agitazione che prendeva alla gola, più di prima.
   Corsero. Sì, corsero terribilmente, senza neanche guardare dove andavano. Nessun posto pareva abbastanza lontano. Jack non ricordava di aver mai macinato tutte quelle leghe a passo così sostenuto.
   Per la prima volta, dopo tanti anni, aveva il fiatone.

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Capitolo 8
*** Non avere paura di me ***


CAP.7 – NON AVERE PAURA DI ME

 
 
   Avevano camminato così tanto, per riuscire a mettersi al di là di ogni rischio, che a Will erano venute le vesciche ai piedi. Aveva un male tremendo ovunque, non se li sentiva più. Non era mai successo prima in tutta la sua vita.
   Lontani dal pericolo, si poteva ragionare meglio. Will aveva ancora qualche risparmio in tasca, ciò che aveva prelevato a Port Royal ed era riuscito a portarsi appresso, immaginando che a qualcosa poi sarebbe servito.
   Quando si sentirono abbastanza sicuri, scambiatisi un’occhiata rapida, Will e Jack si infilarono in un’altra locanda. Il ricordo dei recenti avvenimenti era ancora vivissimo dentro di loro, ma erano troppo stanchi per poter pensare di dover anche passare la notte all’addiaccio. In particolare, il piccolo William era senza forze: aveva bisogno di un letto e un cantuccio protetto dove riposare, almeno per qualche ora.
   Era per lui che Will lo faceva. Se fosse stato per Jack, probabilmente avrebbero camminato altrettante leghe, o magari avrebbero scelto un altro posto dove fermarsi. In questo caso, invece, non c’era stato neanche bisogno di mettersi d’accordo.
   Poco prima di entrare, sulla parete, notarono un manifesto. Will fu il primo a cominciare e a terminare di leggere. Sembrava qualcosa di propagandistico, ma di questo poco gli importava. Gli importava, però, della faccia che ci avevano stampato sopra. Un volto noto, nonostante tutto, anche se ancora non si sapeva ancora se in bene o in male.
   Jack si voltò stizzosamente dall’altra parte.
   Gli occhi infuocati di Lord Bellamy lo scrutavano da sopra la carta e gli incutevano un certo prudore alle membra. Mai e poi mai sarebbe entrato in un luogo che portasse all’esterno quelle gloriose vestigia. Ma Will era piuttosto intenzionato ad entrare, e lui non poteva sottrarsi.
- A quanto pare, quel tipo ci insegue anche oltre la frontiera.- borbottò Will Turner, facendo strada – La sua fama è molto vasta, non trovi, Jack?-
   Il tono della frase suonava più come una minaccia che non come una domanda. Il pirata, con il piccolo caricato faticosamente sulla sua schiena, pensò che odiava tutta quell’inutile retorica. Non fece commenti, anzi, si chiuse in un ostinato silenzio, anche quando Will partì a raffica con una ridda di domande che gli parvero alquanto inopportune, vista la loro situazione:
- Che cosa vuole da noi? Tu lo sai, Jack?- attaccò – Lo so che tu lo sai, anche se non lo dai a vedere. Perché non me ne hai messo al corrente? Potrei aiutarvi!-
   Jack non rispose. Aveva altro su cui interrogarsi. Per esempio, si chiedeva quanto avrebbe resistito ancora senza gettare la spugna. Il suo spirito non si era piegato neanche di fronte alla peggiore sfortuna, ma il suo corpo sì, si stava dimostrando sempre più sordo ai comandi. Persino la sua testa, la parte più attenta, pareva non avere più sufficiente audacia per seguire una logica, come si conveniva.
   Will Turner seguitava a blaterare e la cosa infastidiva non poco:
- Ci inseguono tutti! Ci deve essere un motivo!- continuava a ripetere mentre attendevano, pazientemente in fila, il proprio turno – E poi, perché sei tornato? Cosa ti premeva raggiungere? Dove ti premeva andare? Me lo spieghi?!-
   Per fortuna erano arrivati al bancone. Will pretese con decisione una stanza, qualsiasi cosa avessero per lui andava bene. Era disposto a pagarla a peso d’oro. Vedendolo così, graffiato, affannato e sporco, il locandiere provò pietà per lui e per la strana coppia alle sue spalle, ugualmente messi male. Senza porre troppe domande, gli consegnò una chiave e si fece dare meno soldi di quanto valesse veramente, senza profferir parola sullo sconto.
   Il piccolo William, quasi avesse intuito le sue buone intenzioni, gli fece “ciao” con la manina, da sopra la schiena di Jack. Poi, come se avesse fatto il suo dovere, appoggiò la testa alla bandana scolorita di suo zio e si addormentò profondamente nel suo odore.
   Will afferrò le chiavi con una certa impazienza, mentre Jack sorreggeva il bambino e l’unica cosa che desiderava era essere altrove, a mille miglia da lì, con William. Invece era tardi, il piccolo dormiva della grossa e lui non sapeva più se voleva restare o se voleva andare. Due cani lo mordevano da parti opposte del suo animo, e c’era un dolore insistente, che gli pesava da qualche parte nel corpo, aggravato dal peso di William. Per fortuna Turner era appena tornato nel suo ruolo di padre.
      Gli tolse il fardello dalle spalle: Jack se ne sentì sollevato e gli fu grato, nonostante tutto. Era stata una lunga giornata lontano da casa.
   Will, con il piccolo in braccio, prese a salire le scale, diretto alla stanza indicatagli dall’oste. Non vedeva l’ora di stendersi, almeno per qualche ora. Gli tremavano tutti i muscoli, per la corsa e per il peso di William. Avevano percorso molte leghe, tutte rigorosamente a piedi, e ormai era notte fonda. Stava per crollare.
  Era chiaro che era inutile continuare a torturare Jack con assurde domande. Fino all’indomani mattina, dubitava seriamente che il pirata avrebbe avuto voglia di chiacchierare.  
   Per la prima volta nella sua vita, vedeva che anche il compare era stanco. Aveva il volto scavato e gli occhi ormai semichiusi. Si trascinava su per le scale, poco dietro di lui, tenendosi alla balaustra. Un comportamento piuttosto insolito da parte sua, sempre così altezzoso e strafottente. Adesso sembrava quasi dovesse cadere stecchito per terra da un momento all’altro. Forse era colpa dello scontro che avevano superato, ma era stato solo l’ennesimo, giusto?
   Non erano affari suoi. Will voleva solo appoggiarsi da qualche parte e aspettare la mattina dopo: avevano ancora così tanta strada da fare, e così poco tempo per percorrerla.
   Giunsero alla stanza e Will vi si catapultò dentro, prima che qualcuno potesse notarli; o peggio, ricordarsi di loro. Ci sarebbe mancato pure quello!
   Dentro era tutto avvolto in una fosca penombra, e l’odore di muffa era penetrante: sembrava attraversare persino i vestiti. Si intravedevano sagome confuse di mobili, e un letto. Will si fiondò da quella parte, mentre Jack richiudeva piano la porta.
   Will appoggiò il piccolo sulle coperte. Il bambino si sciolse tranquillamente dal suo abbraccio, senza svegliarsi. Will lo sistemò meglio sul cuscino e sotto le lenzuola, poi lo coprì con il pesante panno ai piedi del letto. Quella era una notte piuttosto fresca e non voleva rischiare che si ammalasse.
   Jack, mentre si affaccendava ad accendere qualche candela trovata lì per caso, osservò attentamente quei movimenti: rimase colpito da tutta quella premura. Avrebbe voluto ci fosse anche Élodie ad assistere a quello spettacolo: né lui né lei erano mai stati capaci di compiere quei gesti con tanto zelo e naturalezza. Ma era bellissimo poter vedere Will che lo faceva al posto loro. Avrebbero avuto molto da imparare da lui.
   Scosse la testa. Il suo io più piratesco ne aveva già abbastanza di tutti quei salamelecchi, come lui li definiva di solito. Era ora di levare le tende.
- Bene, credo che ora vi lascerò tranquilli.- annunciò– Non è il caso che mi trovino qui. Vi aspetterò fuori.-
   Aveva parlato piano, ma Will lo aveva udito benissimo. Si tirò su e lo raggiunse:
- Perché non resti anche tu? Ormai la stanza è stata pagata.- lo invitò.
   Dopo quella giornata, si sentiva più sicuro se Jack era loro vicino. Si era battuto come un leone, in loro soccorso. Non aveva cuore di mandarlo via ora, quando avevano bisogno di lui più di qualsiasi altra cosa al mondo.
- No, no...- rifiutò l’altro – Io me ne sto fuori: andrò a dormire sotto a un ponte.-
   Di fronte allo sguardo stranito di Will, rincarò la dose:
- Adoro stare sotto i ponti: lì c’è fresco. Amo tantissimo stare sotto i ponti. Sotto i ponti è meglio.-
   Fece per andarsene, senza neanche aver lasciato al compagno il tempo per ribattere. Will notò una strana sofferenza agli angoli dei suoi occhi, mentre lentamente (troppo lentamente), Jack si spostava verso la porta. Era stato in piedi tutto il tempo, non si era mosso di un millimetro, mentre lui si preoccupava di accomodare William nel letto.
   Will notò qualcosa di strano. Jack si muoveva strascicando un gamba, per dissimulare quanto in verità gli costasse non zoppicare.
- Che cos’hai, Jack?- proruppe, preoccupato.
   Il pirata sentì un brivido che gli correva giù per la schiena:
- Non è niente.- minimizzò – Domani sarà passato.-
   Ma Will era già balzato al suo fianco, in cerca di qualche dettaglio in più; il pirata si scostò subito, tenendosi alla maniglia della porta.
- Fammi vedere.- lo pregò Will.
- William, ti scongiuro, non adesso...- piagnucolò Jack, e Will seppe da chi aveva imparato William ad assumere quel tono - Parliamo di altro. Anzi, non parliamo di nulla. Non metterti a fare il babbo anche con me, adesso. Ce l’ho già un babbo, da qualche parte, anche se non so dove.-
   Will gli si parò davanti. Era palesemente agitato. Aveva scorto una vistosa chiazza di sangue, in controluce, sui pantaloni di Jack, e ora non poteva frenare i pensieri che lo angustiavano:
- Fammi vedere, Jack! Tu sei ferito!- affermò.
   Jack scosse la testa:
- No, mi hanno solo beccato di striscio.-
- Hai una gamba dei pantaloni completamente lorda di sangue! Quanto ne hai perso?!- strepitò l’altro.
- Sicuramente meno di quanto ce ne sia in corpo. E non per questo morirò.-
   Will gli bloccava l’uscita. Il pirata si mosse da una parte, poi dall’altra, ma l’altro sempre si frapponeva tra lui e la porta. Jack cominciava a spazientirsi:
- Lasciami andare.- gli ordinò, perentorio.
   Will non si fece impaurire:
- Jack, tu ci hai protetto valorosamente, oggi. Ti prego, fammi guardare cos’hai.- cercò di convincerlo.
- William, smettila di fare la mamma anche per me. Non sono tuo figlio, io.-
   Will si sentì piccato. Non c’era parola che tenesse contro la testardaggine di Jack; anzi, la gentilezza che lui usava altro non faceva che aizzare la crudeltà di quel pirata contro di lui. Erano passati sei anni, ma non era cambiato di una virgola, notò Will. Bene. A mali estremi, estremi rimedi. Era il momento di togliersi qualche piccola soddisfazione.
   Senza che l’altro potesse neppure lontanamente immaginarselo, Will sferrò un calcio contro la gamba ferita del pirata, anche se non troppo violento. Jack, però, rovinò a terra, come abbattuto da un fendente mortale:
- Che tu sia maledetto...- mugolò.
   Will si precipitò ad aiutarlo. Lo sollevò da terra e lo trascinò finchè non fu con la schiena contro al letto, mentre Jack si teneva la gamba ferita e pensava a qualunque cosa per non dover considerare quel dolore lancinante. Non doveva lamentarsi: non un sussurro o un bisbiglio, figuriamoci un gemito! Lui non era uno smidollato; inoltre, non potevano rischiare di svegliare così maldestramente il bambino, o incuriosire qualche altro ospite.
- William, se potessi ammazzarti, lo farei.- ansimò.
   Ma l’altro non lo ascoltava. Avvicinatosi con una candela accesa, fu lesto a strappare i pantaloni di Jack per rivelare il punto dolente: lì, tra le mani del pirata, la pelle e la carne erano lacerate e sanguinolente, e si intravedeva il foro lasciato da un proiettile.
- Ti hanno sparato...- esalò Will, sempre più in ansia.
- La pallottola è entrata e uscita dall’altra parte, senza fare grandi danni...- spiegò Jack – L’ho sentita, quando è passata. Ma non potevo muovermi da lì, comprendi? Avevo William aggrappato alle mie gambe: se mi fossi spostato, probabilmente avrebbero centrato lui.-
   Will sbarrò gli occhi e lo guardò per un secondo. E lui dov’era in quel momento? Perché non li aveva tolti di impaccio?
   Si sentì un verme. Li aveva lasciati soli nel momento del bisogno.
   Prima che Jack potesse riprendersi abbastanza per ribellarsi, provvide a raccattare tutte le pezze di tela che trovò in giro. Qualcuno aveva lasciato una bacinella piena d’acqua accanto a uno specchio. La prese e intinse le stoffe, mentre tornava da Jack.
- Tu...con questa storia del bambino devi essere impazzito.- mugugnò il pirata.
   Will si inginocchiò e cominciò a lavare delicatamente la ferita. Jack si morse le labbra per non urlare. Cercò di muoversi il meno possibile, anche se bruciava, bruciava come il morso dell’inferno. Ma non si spostò e non si lagnò. Sobbalzò solo un pochino.
   Era la prima volta che un compagno si preoccupava così tanto per lui. Non poteva certo biasimarlo: aveva salvato suo figlio! Ma quello che Will stava facendo, oggettivamente, era una cosa stupenda. Will era sempre stato un po’ così, ma Jack non pensava che avrebbe perso ancora così tanto tempo con lui, la causa di tutti i suoi guai. Specialmente dopo le sorprese che gli aveva riservato e che ancora gli riservava.
   Poteva esserci una sola spiegazione, a tutto ciò:
- Vi siete attaccati, eh?- ghignò il pirata.
   Will, indaffaratissimo, alzò di scatto la testa:
- Di cosa stai parlando?-
   Jack aveva la faccia sofferente e rivoli di sudore che gli correvano sulle tempie, ma sorrideva:
- Tu e William. Siete diventati molto uniti.-
   Will non pensava che fosse così palese:
- Era inevitabile, credo...- cercò di giustificarsi.
   Jack non gli sembrava la persona più appropriata con cui parlare del suo legame, ormai inossidabile, con William.
- Lo so. Prima o poi doveva accadere.- sospirò l’altro.
   Ci fu un attimo di silenzio, rotto solamente da qualche sussulto del ferito quando Will, forse con troppo poco garbo, sfiorò il punto che più faceva male. Il pirata mandò giù un boccone molto amaro, e non solo per la gamba:
– Devo esserne...geloso?- gli chiese, alla fine.
   Will lo fissò con una punta di timore, ma non c’era ostilità negli occhi di Jack. Anzi. Sembrava se la ridesse sotto i baffi, alla faccia sua. Che cosa ci fosse da ridere, in quel frangente, Will non l’avrebbe capito mai.
   Aveva fasciato accuratamente la piaga con le pezze: lavoro finito.
- Io credo che William non voglia sostituirci l’uno con l’altro.- assicurò, pensando di ricucire così un’altra invisibile ferita.
   Jack si mise a ridacchiare:
- Senza ombra di dubbio, non potremmo fare le veci l’uno dell’altro.-
   Senza ombra di dubbio, proprio non ci azzeccavano nulla, loro due. Erano l’accoppiata più indecente, improbabile e assolutamente discutibile di quel mondo. Jack ne era pienamente consapevole, eppure gli piaceva pensare che nessuno meglio di William Turner avrebbe potuto stare al suo fianco in quel momento.
   Osservò le bende, poi sospirò:
- Posso andare, adesso?-
   Will si mise un braccio di Jack intorno alle spalle e lo aiutò prontamente a reggersi in piedi, ma non lo condusse alla porta; al contrario, lo fece sedere sul letto.
- Non andresti lontano, in queste condizioni.- constatò Will - Hai bisogno di stare disteso, almeno per un po’. Resta, per questa notte, ti presto il letto...-
   Jack non credeva alle proprie orecchie. Avrebbe voluto protestare, ma Will lo stava già aiutando a stendere le gambe indolenzite. Il pirata si ritrovò a fissare un soffitto vuoto su cui si arrampicavano disegni di vecchiume. Per un attimo si sentì come in una bara, di nuovo, e si spaventò. Era troppo abituato a dormire circondato dallo scricchiolio del legno, o sotto le stelle del firmamento. Ma in fondo, non gli dispiaceva, ora che la sua gamba aveva preso a pulsare sordamente. Il giaciglio sembrava abbastanza comodo. O forse era lui a essere troppo stanco?
- Da quanto tempo non dormivo in un letto vero...- Jack si fece sognante – Che sensazione magnifica.-
   Ma l’idillio fu rotto quasi subito:
- Jack, ho bisogno che tu risponda a una domanda. Una sola.- Will si sedette sulla sponda del letto, accanto a lui.
- Un’altra? Non bastavano tutte quelle di prima?- indispettito, Jack si girò a fatica – Coraggio, sentiamo.-
   Will deglutì penosamente. Ma doveva chiederglielo, ora più che mai; ora che non poteva più stare zitto. Ora che la polvere si era placata, i nodi venivano al pettine della sua mente inarrestabile, i ricordi gli affollavano la mente e la confusione rimbombava nella sua testa.
- Chi è Bellamy?- riprese fiato - Dimmi solo chi è questo Bellamy.-
   Il pirata restò zitto per un attimo infinito. Will sentì che la saliva si seccava, mentre realizzava che il suo miglior nemico conosceva la risposta, e forse conosceva anche la risposta a tutte le altre domande, e forse già sapeva anche come sarebbe andata a finire quella intricata storia. Poteva solo sperare che condividesse quella consapevolezza con lui, l’ultimo arrivato e purtroppo, uno dei personaggi principali di quell’intricata vicenda. Sperò che senza di lui Jack non avrebbe potuto fare gran cosa; che fosse, pertanto, costretto a dividere con lui il peso di quelle informazioni.
   Jack distolse lo sguardo con una certa fretta. Mentre osservava una fastidiosa macchiolina sul muro opposto della stanza, mormorò, quasi lasciandoselo sfuggire da un precedente pensiero:
- Bellamy è un tipo pericoloso.- disse – Sa perfettamente come siamo e dove siamo. Ci conosce da vicino. Molto da vicino – gli scoccò uno sguardo eloquente, ma Will non disse nulla. Non capiva – Bellamy ci insegue perché vuole qualcosa che noi abbiamo. Qualcosa che William ha. Ma noi non abbiamo nessuna intenzione di consegnarglielo, ovviamente. Ecco, sei contento, adesso?-
   Will non disse niente ma ascoltò con attenzione. Cercava di collegare tutte le parole di Jack con la visione di quel giorno nello studio del governatore Swann, quando Bellamy gli era comparso davanti in tutta la sua macabra maestosità. Cercava negli occhi di Jack la stessa luce cattiva che aveva visto nell’altro, tentando forsennatamente di scovare un collegamento, una somiglianza. Qualcosa. Qualsiasi cosa.
   Quei due erano legati ma non sapeva ancora in che modo. E la cosa lo faceva impazzire.
- E’ tutto così complicato...- si lamentò.
- Concordo!- assentì l’altro, con forza.
   Poi, del tutto incurante dei suoi problemi, si lasciò sfuggire un sospiro:
- Avrei dovuto sparargli anni fa.- borbottò Jack.
   William carpì subito quel particolare e lo archiviò, senza rendersi conto che lì c’era un mondo. Gli sarebbe tornato alla mente solo molto tempo più tardi. Quel proiettile si era già incastonato profondamente, dentro di lui.
   Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, ebbe il coraggio di chiedere al pirata un’altra cosa che gli premeva, sperando che a questa rispondesse in modo più chiaro:
- Tu hai mai avuto figli, Jack?-
   Jack si voltò e lo scrutò attentamente. Will non riusciva a comprendere quanta ironia e quanta paura si nascondessero sul viso dell’eterno rivale, ma era sicuro che quasi quasi si stava divertendo. Al tempo stesso però, aveva perso un po’ di quella spavalderia che sempre lo accompagnava.
- Non che io sappia...- rispose il pirata – Ma può darsi.-
   Will si sentì improvvisamente in colpa per averglielo chiesto. Chi era lui per indagare sulla sua vita privata? Chi era lui giudicarlo, per fare paragoni?
- Di certo nessun cognato è venuto a trovarmi tenendo per mano un bambino che doveva essere mio figlio. E’ questo che vuoi realmente sapere no?- eccolo che tornava a ridere.
   Will non riuscì a fargli eco. Jack ritornò immediatamente serio e i suoi denti macchiati di tabacco vennero nascosti da una cortina di indecisione fortissima. Cercò di rimediare:
- William è il mio primo bambino...- era strano sentire come ne parlava.
- E tua sorella Élodie?- chiese Will – Anche lei è stata una bambina no? E’ più giovane di te.-
   Jack alzò un sopracciglio:
- Non ricordo assai di quel tempo. Allora ero un bambino anche io. E poi che mi interessa, lei era una femminuccia. Anche se adesso sembra un uomo.-
   Stavolta scoppiarono a ridere in due:
- A me è sembrata molto più donna di te!- lo prese in giro Will.
- Mica ci vuole tanto!- ribattè Jack.
   un po’ di tensione era finalmente scivolata via con quei ricordi. Will attese solo un lieve secondo in più, il tempo che ci mise l’immagine di Élodie a sfocare nella sua mente. Era molto tempo che non la rivedeva più, e moriva dalla voglia di riconoscerla da capo, come la prima volta. Magari tenendo per mano il loro William.
   Jack stava parlando. L’altro cercò di sentire, ma le parole si erano perdute nella semioscurità; era riuscito solo a intercettare qualcosa che aveva a che fare con “fargliela pagare”.
   Will aveva perso chiaramente il filo, ma Jack se ne infischiò. Si rivoltò dall’altra parte, soffocando un gemito: aveva fatto troppo in fretta, e lo aveva sentito. Maledizione, accidentaccio e fulminati fossero tutti i tiratori scelti di quel mondo.
   Will fece per aiutarlo, ma Jack lo fermò. Questa poi no. Era troppo orgoglioso per accettare di essere momentaneamente indisposto.
   Cercò una posizione più comoda, da solo, finchè ne trovò una che facesse al caso suo. Era infastidito dallo sguardo di Will, a dir poco insistente. Ma l’amico non sembrava essersene accorto. Era a dir poco imbarazzante.
 “E’ veramente impazzito”, pensò Jack.
   Gli sventolò velocemente una mano davanti agli occhi. Will si riprese improvvisamente da quella specie di intontimento: doveva essere il sonno. Era stata una giornatina decisamente intensa:
- Non siamo più due ragazzini, mi sa, William.- ammise.
   Will annuì fiaccamente:
- Siamo invecchiati, Jack.-
   Il pirata si concesse una risatina. Vedere William in quello stato gli suscitava un’incredibile tenerezza, più di quanta si ricordasse di aver provato in tutta la sua vita. Capiva, certo, che la posizione del suo compagno di viaggio non doveva essere per nulla facile. Tutte quelle preoccupazioni, tutta quelle angustie non facevano altro che accelerare ciò che già Madre Natura aveva predisposto per lui. Ma Will resisteva. Jack lo ammirava molto per questo, ma non glielo disse. Sapeva solo che lui, al suo posto, non avrebbe mai potuto fare di meglio.
   Anche il modo in cui Will lo guardava ora trasudava adombramento. Jack si sentì in dovere di risollevarlo:
- Suvvia, mi hanno solo sparato, in fondo.- minimizzò.
   Poi, come se si rammentasse d’un tratto di qualcosa, la sua bocca parlò da sola:
- La differenza, semmai, è che stavolta mi hanno colpito: solo un’altra volta è successo nella vita.- Jack scosse la testa – Dev’essere questo che accade, quando devii la rotta.-
   Will corrugò la fronte. Gli era chiaramente sfuggito un passaggio. Avrebbe voluto sapere di più, ma non osò chiedere. Era rapito dall’espressione che ora Jack aveva sul viso: una viva malinconia che raramente aveva solcato le sue labbra. Il pirata allora realizzò di aver detto qualche parola di troppo; quindi si mosse, chiaramente a disagio. Non voleva essere costretto a scucire più di quello che poteva, ma ormai era sotto gli occhi attenti di Will, e se la tenacia di quegli occhi era paragonabile alla tenacia di un frugoletto di sei anni, Jack seppe di essere spacciato.
   Mai farsi prendere dai sentimenti.
- Io non dovevo nemmeno essere qui.- si decise a raccontare, dopo una lunghissima pausa di riflessione – Dovevo già essermene andato, a dire il vero. A dire il vero, non avrei dovuto neanche tornare a prendervi. Ma...dovevo sapere come stava William. Io...volevo assicurarmi che stesse bene. Non solo che fosse tutto intero.-
   Will capì. Notò l’imbarazzo di Jack, il modo in cui sfuggiva al suo sguardo. Capì, semplicemente, che in quel pirata c’era molto di più di quanto non desse a vedere. Già lo sospettava, ma di sicuro non gli aveva creduto abbastanza, quando era piombato di nuovo nella sua vita, dopo due settimane di silenzio. Lo aveva tacciato di ogni criminosa presa in giro, complice la maledetta reputazione di malandrino di Jack; tuttavia, tutto gli sembrò ben poca cosa in confronto a quell’ultima confessione.
   Gli poggiò una mano sulla spalla:
- Sei un bravo zio, Jack.- lo tranquillizzò - William lo sa bene. Si vede da come ti guarda, da come ti sta sempre intorno. Guardalo.- glielo indicò – Dorme sereno accanto a te.-
   Il piccolo se ne stava rannicchiato sull’altra metà del materasso, ben rimboccato sotto le coperte. Anche per lui era stata una lunga e confusa giornata. Doveva essere stremato.
   Jack accennò a un sorriso.
- L’ ho tenuto con me tutte le notti, così lui si sente al sicuro e io lo tengo sotto controllo.- continuò Will – Ma adesso non ce n’è bisogno.- sorrise anche lui.
   Jack non parve averlo udito. Si chinò sulla testolina bruna di William, allungando una mano per accarezzargli i capelli morbidi, così diversi dai suoi: li toccava come se si trattasse di lunghe stringhe di vetro, fragili e al tempo stesso pericolose. Difatti, erano molto pericolose, perché quella morbidezza era ciò che teneva Jack legato a quella terra, ciò che lo tratteneva dall’inseguire, come da sempre, la sua libertà. Eppure, quando era nato William, quella voglia aveva seguito uno strano percorso; alla fine, si era rintanata in qualche cantuccio della sua mente, pronta a saltar fuori in qualsiasi occasione, ma non più così impellente come quando era giovane. A Jack sembrava di essere sempre stato giovane, ma ora si rendeva conto che non era vero, anzi, il suo passaggio su quella terra aveva già lasciato un solco, orme che ora William inseguiva con ardore. Non era poi così giovane, dopotutto. Ne aveva fatta, di strada!
- Sai che sei tu, la gioia della mia vecchiaia?- il pirata si trascinò vicino al piccolo, fino a sentirne il calore contro il suo braccio. Non era mai stato avvezzo a gesti d’amore, Jack Sparrow, ma in quel mentre gli scappò. Stare accanto a suo nipote aveva su di lui uno strano potere calmante; gli faceva persino dimenticare il luogo dove si trovava, a volte. Una manna dal cielo, proprio, specialmente quando desiderava non esser lì.
   Will si alzò piano ed andò a sedersi su una poltroncina malconcia poco più in là. Non poteva esserci molta riservatezza, in una stanza così piccola, ma gli sembrò doveroso farsi da parte.
   Jack nemmeno si era accorto di lui. Infatti, appena appoggiata la testa sul cuscino e chiusi gli occhi, era caduto in un sonno profondo. Nel silenzio, si poteva persino sentirlo russare lievemente.
   Will ridacchiò. Per fortuna che ogni tanto anche i pirati sono umani, aveva pensato tra sé e sé, poco prima di sprofondare anch’egli nel mondo dei sogni.
 
   Quando riaprì gli occhi, un raggio di sole si intrufolava nella stanza attraverso una fessura nella tapparella. Non aveva idea di che ore fossero, né per quanto tempo avesse dormito. Si sentiva ritemprato, anche se i muscoli ancora risentivano degli sforzi del giorno precedente. Will si stiracchiò.
   Appena fu in grado di mettere a fuoco luci e ombre, guardò il letto. C’era una macchia confusa di coperte arrotolate, nel centro. Si avvicinò, avvertendo un certo dolorino alla schiena.
Non siamo più due ragazzini, mi sa, William.
   La voce di Jack era ancora viva in lui. Ma Jack?
   Sporgendosi sul letto, non riusciva a distinguere la sua figura atletica. Per un attimo ebbe il terrore che non ci fosse nemmeno il piccolo William, che quel furbastro se lo fosse portato via veramente, prima che facesse giorno.
   Ma scoprendo le lenzuola, si rese conto che non c’era pericolo. Il bambino c’era ancora, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato la notte prima. Era raggomitolato su un fianco, a succhiarsi il pollice: dormiva ancora, tranquillo, più di tutti quanti.
   Will tirò un sospiro di sollievo. Fu contento, per una volta, di aver pensato male troppo presto e di essere stato disilluso.
   Rimaneva tuttavia un arcano irrisolto: dov’era Jack?
   Non aveva la più pallida idea di dove potesse essersi cacciato, con una gamba malridotta e senza il becco di un quattrino: aveva giusto controllato, i soldi restanti erano ancora tutti lì.
   Era sorpreso a dir poco.
   Non era un comportamento da Jack Sparrow. E non si riferiva al fatto di filarsela in silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse, né di arraffare qualsivoglia oggetti degno di valore mentre percorreva il cammino. Non parlava nemmeno dello scomparire così, dalla sera alla mattina, e non solo per modo di dire.
   Ma Jack aveva qualcosa in mente, lo sentiva.
   Lo aveva sempre saputo, glielo si leggeva sul libro aperto del suo viso. Era l’unica frase intellegibile in un garbuglio di segni senza capo né coda. Will sbuffò.
   Che cosa avrebbe fatto ora, senza di lui?
   Ormai si era riabituato alla sua presenza, e doveva ammetterlo, non gli dispiaceva. Se non altro, gli permetteva di sentirsi un po’ meno spaurito e perso in un territorio che non conosceva, ma visti i loro precedenti, poteva dimostrarsi ostile; Jack Sparrow avrebbe saputo come muoversi, sempre, era la loro armatura contro l’ignoto. Anche se quando aveva deciso di partire non lo aveva considerato, il pirata si stava rivelando un’arma potente, seppur a doppio taglio. Del resto, non poteva lamentarsi di come era fatto: non era mai cambiato!
   Mentre ancora ci pensava, Will udì lo schiocco della porta. La serratura si aprì tranquillamente, lasciando intravedere un altro spiraglio di luce. Scattò in piedi, muovendo la mano già verso il pugnale. Il sentore di pericolo non l’aveva mai abbandonato, neanche durante la notte.
   Ma era solo Jack. Con il solito sorriso sbruffone sul viso, un fagotto ripieno sotto il braccio, si trascinò nella stanza e si richiuse la porta alle spalle:
- Buongiorno!- chiocciò, pregustandosi già, probabilmente tutte le faccette strane di Will.
- Dove sei stato?- gli domandò questi, rilassandosi un attimo.
   Jack si sedette pesantemente sul letto. Il piccolo William brontolò nella penombra, ancora assonnato. Prima che Will potesse pensare di fare qualsiasi cosa, il pirata l’aveva già preceduto; probabilmente, non ricoprendo affatto le azioni che si sarebbe aspettato, anzi.
   Con un debole scappellotto sulla nuca, Jack svegliò il nipote, che balzò a sedere sul letto, un po’ confuso:
- Zio! Ahia!- piagnucolò.
   Will se ne stava impettito a guardare, non sapendo se doveva intromettersi o meno. Fu allora che si rese conto che il fagotto di Jack era stato aperto, e un profumo  di pane fragrante aveva invaso la piccola stanza, risvegliando tutti i loro stomaci affamati.
   Il pirata mise al centro del letto quattro pagnotte ben fornite, qualche dolcetto e un filoncino spezzato in due: forse non stava nel sacco.
- Dove hai preso tutta questa roba?!- chiese Will, non troppo arrabbiato, mentre si avventava già sulla prima forma di pane.
   Il bambino gli si avvicinò e afferrò anch’egli una pagnotta che era quasi grande come il suo viso; vi affondò i dentini malfermi, già dimentico dello scappellotto di suo zio. Aveva così fame che niente avrebbe potuto distrarlo.
   Visti così, l’uno accanto all’altro, a dividersi quell’abbondante colazione, padre e figlio suscitavano non poca tenerezza. Jack rivolse loro un sorriso che però non esternò. Lui non aveva fame. Lui si era già portato avanti con i compiti che si era prefisso quel giorno, pur non lasciandosi alle spalle nulla. Li osservò soddisfatto mentre mangiavano:
- Me l’hanno regalata!- spiegò, non troppo a fondo.
   Will immaginava senza troppi giri di fantasticherie che “regalare” non era un verbo che si adattava bene ai pirati. Ma lasciò correre. Non voleva dare l’impressione di essere troppo bacchettone, e non voleva che suo figlio assistesse a una disquisizione sui vari tipi di truffe e furti di cui sicuramente era capace Jack. Per il piccolo lui avrebbe voluto un altro mondo, un altro modo di muoversi, un’educazione il più possibile legale, se ne fosse stato capace. Anche se con Jack al fianco sarebbe stato molto, molto difficile redimerlo.
- Dobbiamo andare in un posto!- annunciò d’un tratto il pirata.
   A Will si rizzarono i peli sulla schiena:
- Dove?- quasi si soffocò con l’ultimo pezzo di pane.
- Te lo dirò poi, compare!- sempre più stranamente allegro, il pirata si tirò su in piedi – Su, spicciatevi! Dobbiamo andare!-
   Solo allora Will si accorse che Jack non aveva trangugiato niente, neanche una briciola:
- Tu...hai mangiato?- gli chiese gentilmente.
- Ohibò!- il pirata gli strizzò l’occhiolino – Ho fatto molto di meglio!-
 
   So dov’è Jack. Andiamo a prenderlo.
   Il suo nuovo viaggio era cominciato con quella frase. Erano ormeggiati in una cala poco conosciuta, non lontano da Port Royal. Si dice: per nascondersi dal nemico è meglio nascondersi in casa sua. Avevano dovuto ammainare le vele, sostituirle con una stoffa meno appariscente, smontare la sirena di madreperla dalla prua della nave e riporla, doverosamente coperta, nella stiva. Ora dimostravano essere un veliero come tanti altri. Nonostante questo, si viveva con il malanimo di essere prima o poi avvistati, pronti a mollare gli ormeggi in fretta, e comunque non avevano intenzione di stare lì più di qualche giorno.
   In fondo lei aveva solo seguito il suo fiuto, e quello l’aveva condotta lì. Sapeva che Jack doveva essere da quelle parti. Non poteva essere andato da nessun’altra parte.
   Aveva semplicemente atteso. Un giorno solo era bastato prima che un suo marinaio venisse a riferirle dei disordini accaduti alla frontiera. Pur non potendo fare nomi e cognomi, Élodie sapeva di che cosa si trattava. E sapeva anche dove poter andare a parare.
   (so dov’è jack. andiamo a prenderlo)
   Si erano spostati di poche miglia, nascondendosi in una grotta che era visibile solo con la bassa marea. La nave vi passava con fatica. Troppo difficile da presidiare e da controllare, ma facilmente raggiungibile se si rispettava gli orari di cala e di piena. Poi aveva mandato i suoi uomini in città. Aveva usato un ragazzo del luogo, catturato lungo le strade della cittadella poco lontana e condotto fino alla nave in modo non proprio ortodosso; gli aveva spiegato che cosa doveva fare in cambio della sua libertà. Così il ragazzo aveva eseguito i suoi ordini.
   Non c’era voluto molto per stanare Jack. Era bastato chiedere alle persone giuste; del resto il paese era talmente piccolo, che un infiltrato ai suoi comandi e una descrizione dettagliata erano state più che sufficienti per ottenere ciò che desiderava.
   Ora Jack era davanti a lei:
- Che cosa hai fatto?!- tuonò Élodie, con visibile alterazione – Sei proprio un imbecille!-
- Vorresti gentilmente illustrarmi le alternative che non ho preso già in considerazione?- Jack, con assoluta tranquillità, si schermì dietro una lima per unghie e tanta buona lena a pulire le sue zozze dita.
   La sorella prese a passeggiare nervosamente su e giù per la stanza. Il pensiero di aver saputo (solo ora!) dei suoi due William in pericolo era bastato a farle perdere per un attimo la testa. Già la situazione era difficile, e Jack di certo non l’aveva aiutata!
- Ti avevo detto di aspettare!- ruggì come un leone in gabbia – Avremmo dovuto parlarne! Ma no, tu fai sempre di testa tua! E così ho dovuto seguirti!-
- Scusami se non ti ho reso partecipe dei miei piani, sorellina...- ironizzò Jack, con aria serafica – Probabilmente, se li avessi avuti in mente prima di posare lo stivale in terraferma, non ci sarebbe stato niente in grado di trattenerti dallo scoprirli.-
- Quindi, tu vuoi dirmi che hai agito di istinto?- Élodie era quasi paonazza. Come aveva potuto rischiare così tanto, quello sciagurato?! Davvero stentava a crederci.
- Sono sceso a terra perché dopo due settimane senza William, mi stavo semplicemente chiedendo come andava laggiù.- soffiò sulle dita pulite, e continuò – E visto che eravamo appena tornati dal viaggio di rifornimenti...ne ho approfittato.-
- Ma io non ti ho trovato a Port Royal, ti ho trovato qui, Jack!- sbottò lei, battendo una mano sul tavolo – Perché?!-
   Jack non si scompose:
- Le cose sono cambiate in itinere.- era riluttante a mostrare quanto scompiglio aveva combinato, ma intuiva che ne valeva la sua pellaccia – Ho incrociato William Turner sulla mia strada: era dal governatore. Così l’ho fermato.- spiegò, con lentezza – Mi ha detto che ha incontrato Lord Bellamy.-
   A Élodie corse un brivido giù per la schiena. Quel nome rievocava brutti ricordi. Ebbe un tremito involontario nelle labbra, mentre la voce si schiariva di un tono e abbandonava quella nota di aggressività:
- Bellamy è già qui?- sussurrò.
- Evidentemente.- affermò l’altro, con un certo fastidio.
   Élodie inveì:
- E’ troppo veloce.- considerò - Si sono parlati?-
- Credo di no.- la rassicurò Jack – Per fortuna.-
- E William?- chiese lei, ora al culmine dell’ansia.
- Non era lì.- Jack cambiò gamba di appoggio. Ma con una smorfia tornò subito su quella di prima – Ma ho pensato che era meglio levare le tende; così ho deciso di prendere padre e figlio e mi sono allontanato. Del resto, anche William Turner era già di quell’avviso.-
   Élodie si umettò le labbra ormai secchissime. Tutta la saliva si era rintanata da un’altra parte del suo corpo, dove lei non la poteva utilizzare. Faceva troppo caldo, lì dentro. Credette di sentirsi male.
   Fissò un punto indistinto a terra, cercando di mettere a fuoco. Non aveva il coraggio di svenire di fronte a Jack. Si passò una mano sulla fronte sudata. Il peggio era passato, avanti. Erano tutti vivi e vegeti e sufficientemente fuori dalla portata di quel drago marino di Bellamy. Anche se non sapeva per quanto.
   Mentre vagava con sguardo vitreo, notò le bende che si intravedevano tra gli squarci della stoffa del pantalone di Jack:
- Che cosa ti è successo alla gamba?-
   Il pirata trasalì:  
- Niente.- mentì.
   Élodie storse il naso:
- Sei ferito?- insistette.
   Jack scosse la testa:
- Assolutamente no.- rispose, secco come uno sparo.
  Élodie sospirò. Quel segnale le parve fin troppo chiaro nella bruma che ora ottenebrava la sua mente. Purtroppo, per il momento le domande dovevano bastare. Inoltre, c’era bisogno di affrontare questioni più pratiche:
- Devi tornare là. Da loro.- gli ordinò – Subito. Non possono farcela da soli.-
   Era così dannatamente preoccupata che il cuore pareva balzarle fuori dal petto forsennato a ogni colpo.
   Jack alzò la testa:
- Vuoi che li porti qui?-
   Élodie ricominciò a passeggiare e ad agitarsi:
- No!- esclamò - Sarebbe rischioso portarli subito qui alla nave. Verrò io da voi, per accompagnarvi in un posto più sicuro per tutti.-
   Dopodichè, gli spiegò come, dove e quando. Aveva programmato ogni cosa, fin nei minimi dettagli. Jack se ne riguardò parecchio; odiava essere considerato solo una pedina nei piani altrui, a discapito dei propri. Ma, evidentemente, sua sorella aveva avuto molto tempo a disposizione per pensare a come meglio utilizzarlo. La cosa non gli piacque per nulla.
   Puzzava di imbroglio.
- Ho bisogno di organizzarmi, Bellamy è sulle nostre tracce. Posso rischiare qualunque cosa tu voglia, Jack, ma non la vita di mio figlio. Questo no.- concluse Élodie, mentre lui ancora cercava un modo per intromettersi nella questione.
   Lei glielo servì su un piatto d’argento:
- E poi tu devi fare una cosa per me.- gli ricordò.
   Il pirata la guardò e scorse nei suoi occhi una vecchia fiamma, che nonostante i recenti avvenimenti non si era spenta: una sana avidità che li accomunava, nel bene e nel male.
- Tu sai perché siamo tornati da queste parti, no?- continuò la donna.
   Per un momento, quasi sorrise.
- Come potrei dimenticarlo...- Jack sogghignò.
   Finalmente, Élodie smise di essere così nervosa. Era approdata in un porto quasi certamente sicuro; si appoggiò alla parete di legno fresco, assaporandone ogni ruga e ogni sua vicissitudine. Ora si trovava di nuovo nel suo mondo, dove il calcolo, la cupidigia e l’audacia la facevano da padrone e le tenevano compagnia.
- Abbiamo un compratore.- esordì sicura - Devi incontrarlo e vedere che tipo è. Quanti soldi possiamo scucirgli. Dovrebbe essere un ricco mercante di spezie che viene dall’India. Ha viaggiato molto e ha buon fiuto negli affari; nell’ultima missiva ha detto che sarebbe stato qui in questi giorni. L’abbiamo tallonato fino all’ultimo miglio, giusto per osservare le sue mosse. Ma non ho potuto ancora incontrarlo: a quanto pare, è in buoni rapporti con la gente perbene di Port Royal. Penso che ormai sia arrivato alla terraferma.-
   Jack sorrise ripensando a certi bagliori azzurrini, che, se venduti, gli avrebbero fruttato una fortuna in soldi sonanti:
- A proposito, si può sapere dov’è?- chiese.
   Élodie lo fissò con una certa sorpresa:
- Il diamante?- rilanciò.
- E cosa sennò?- Jack cominciava a spazientirsi. La sensazione di avvilupparsi sempre più in quell’intricata ragnatela gli stava facendo venire la scabbia su tutto il corpo. Non poteva sopportare sua sorella quando si cacciava in quel tipo di giochi. La posta era alta, senza contare tutte le probabilissime conseguenze e le loro altrettanto probabili ricadute, specie su un viso innocente che sempre gli stava appresso.
   Se fosse successo qualcosa, qualcosa di brutto, Jack sentiva che non avrebbe più avuto il coraggio di vivere.
   Nonostante il respiro si fosse fatto leggermente più affannoso, scacciò quei pensieri.
   Élodie non pareva essersene nemmeno accorta:
 - E’ al sicuro.- rispose alla sua domanda in modo evasivo, come faceva sempre quando si toccava l’argomento - E’ in un posto che nessuno potrà mai indovinare, né raggiungere se lo indovinassero. Non lo potranno prendere finchè non lo pagano fino all’ultimo centesimo.-
   Jack la squadrò. Non era convinto al cento per cento di quello che Élodie stava dicendo. Anzi, dopo tutto quel tempo, era ormai sicuro che aveva fatto un grande errore a lasciare la questione in mano a sua sorella. Aveva fatto in tempo a tenere in mano il diamante solo una volta, e di certo non gli era bastato. Chiaramente, era molto meglio tenerlo lontano dalle grinfie di chiunque, comprese le sue: non ci si poteva mai fidare abbastanza dei marinai e qualsiasi viaggio sarebbe stato  troppo lungo per un simile tesoro, a meno che non fosse stato opportunamente occultato. Tuttavia, gli pareva che tenerglielo nascosto così ostinatamente fosse una precauzione oltremodo eccessiva. Tant’è, che stava già accampando per aria nuove ipotesi. Élodie, del resto, non era molto loquace a tal proposito.
   Pur sentendo suonare un delicato campanellino di allarme, Jack decise che non era quello il momento di entrare ulteriormente in lizza con sua sorella. Erano ancora soci, e la sua dose di indipendenza, per quei due giorni, l’aveva già esaurita.
- D’accordo, allora vado.- annunciò, infilando la porta il più rapidamente possibile.
   L’aria si era fatta soffocante, lì dentro.
   Élodie trasse un respiro profondo quando sentì chiudersi la porta. Alla fine era riuscita a tenerlo occupato ancora per un po’; almeno finchè non si fosse sentita sicura.
   Poi sarebbe passata alla seconda parte del piano. Si sentiva già meglio.
   Così se n’era andato, di nuovo. Ma, lo sapeva, non per molto.
 
- No, zio Jack, questo non lo devi fare.- lo fermò il piccino – Non si prendono le cose dalle bancarelle.-
   Jack tirò su un sopracciglio:
- E perché non dovrei, piccolo?-
- Perché baba ha detto che non si fa...- chiarì il bambino
(come sarebbe a dire perché lo dice baba?!)
Questa è una regola, zio Jack!-
(una REGOLA??! e che è una regola)
   Il pirata alzò gli occhi su Will, rimasto qualche passo più indietro. Non aveva sentito nulla, e ora li osservava in reverenziale attesa. Quel suo non voler intromettersi doveva provenire dai suoi più intricati complessi di inferiorità nei confronti del prossimo, non c’era alcun dubbio.
   Jack Sparrow scosse la testa. Davvero, non aveva il coraggio di immaginare nemmeno lontanamente quali cromosomi Will avesse passato al figlio: con un genitore così, William dove avrebbe potuto arrivare?
   Se c’era una cosa che non aveva previsto, era che la parentela tra il bimbo e suo padre si sarebbe evidenziata così potente e così presto, più presto di quanto immaginasse. Mise giù quella succosa pera a malincuore. Non era il caso di mettersi contro le forze della natura in modo tanto spavaldo. Non si poteva mai sapere quale Dio avrebbe potuto punirlo per una distrazione.
   Inoltre, non era il caso di far arrabbiare William, già con le sopracciglia aggrottate. Jack gli rivolse un sorrisino di incoraggiamento. “Su, coraggio, non mi fare la predica, ora”. Anche se con poca convinzione, accarezzò leggermente la frutta.
   Il bambino finalmente si rilassò e prese a camminare. Aveva perso il suo broncio da mulo impuntato, finalmente. Jack si sentì meglio, mentre lo vedeva procedere verso il padre, che già teneva in mano un sacchetto pieno di mele.
   Quello si voltò per chiamarlo:
- Andiamo!- gli fece cenno Will.
   Il pirata si diede una mossa. Non prima di aver lanciato, però, una maliziosa occhiata alla fatale pera, che luccicava nel sole.
   Poco dopo, avanzava ancora più spedito tra la gente, nascosto sotto pesanti cenci, finchè li ebbe raggiunti. Girò abilmente attorno al piccolo William, che teneva per mano suo padre e sembrava preso da tutto ciò che gli vorticava intorno, in un tripudio di colori.
   Will notò che Jack trotterellava piuttosto cavallerescamente per essere ferito. Poi notò che aveva solo un braccio e una mano libere, perché l’altra la teneva in un tascone: come se avesse paura che qualcuno potesse rubargli il tozzo di pane che probabilmente nascondeva lì dentro.
- Che cosa hai preso?- gli chiese, a bruciapelo.
   Il pirata lo guardò, seppellendo l’espressione colpevole appena in tempo dietro le rughe di un sorriso:
- Io? Nulla!- rispose, mostrando la mano vuota.
   Era un trucco troppo infantile perché Will non potesse accorgersene. Ebbe come l’impressione che il pirata lo sapesse, e avesse lasciato che accadesse. Dal basso della sua inesperienza, William non si era accorto di nulla, anzi, rideva in risposta al loro gioco. Forse era un gioco. Forse non c’era veramente nulla in quella tasca, era solo un’illusione ben studiata, tipica di Jack.
   Benchè questa spiegazione non lo convincesse appieno, Will lasciò cadere la questione. Non era importante, in quel momento, riprendere a giocare a guardie e ladri. Lui non era nessuno per rimproverare a Jack Sparrow un piccolo “prestito”, se così lo si voleva chiamare, non dopo tutto quello che aveva fatto per loro il giorno prima. Non poteva farlo mentre lo guardava zoppicare vistosamente, in perfetta linea con il suo ruolo di mendicante malato di scorbuto, o di lebbra, o di chissà quale altra malattia. Will sapeva che quel gioco, stavolta, era costato molto caro.
   Jack si voltò e continuò a camminare, piuttosto spedito. Will dovette accelerare il passo per stargli dietro e accodarsi. Furono fuori dalla città più in fretta di quanto avesse calcolato. Forse aveva sottovalutato la copiosità delle inesauribili forze di Jack Sparrow.
   Il piccolo William sgambettava accanto a lui. Lo zio non lo guardava: sembrava stesse inseguendo un puntino lontano, davanti a lui. Non era più con loro, ormai.
   William lo prese per mano. Allungò le dita e gli sfiorò un palmo. Zio Jack si riebbe, in tempo per sentire la piccola mano di William che si infilava nella sua. Era calda come quel vento che ora frustava i loro vestiti, calda come la gioia di essersi ritrovati; il pirata ebbe un sussulto.
   Era la sensazione più bella che avesse mai provato.
   Sbirciò il piccolo di sottecchi. Il nipote lo scrutava, con quell’ammirazione sincera di cui solo i bambini sono capaci: l’unica ammirazione che meritasse fiducia. L’unica cosa di cui poteva essere sicuro era che l’avrebbe protetto sempre. Sempre. Da tutto e da tutti. Lui era il suo eroe, quello che lo veniva a salvare.
   Jack sentì una punta di commozione che veniva a bussare nel suo animo burbero. Quando William era venuto al mondo, la sua vita era completamente cambiata: era stato come un ciclone in pieno oceano. Dopo che il forte vento ti ha sbattuto di qua e di là, ti ritrovi a cercare un equilibrio tutto nuovo, e magari riesci anche a trovarlo, ma di sicuro rammenterai per sempre quel momento in cui si è squarciato il cielo. Niente potrà cancellarlo, ci sarà sempre qualcosa che non puoi riaggiustare.
   Ecco, Jack non aveva potuto riaggiustare il suo cuore.
   Quello ormai apparteneva a William e ci poteva fare quello che voleva. Lui, il pirata, il capitano, il terrore dei mari, poteva solo fare lo zio.
   Quando Will fu abbastanza vicino a loro, tanto da poter indovinare una smorfietta sorridente sotto i baffi di Jack Sparrow, il piccolo sembrò finalmente accorgersi anche di lui. Will sorrise. C’era. Era con loro in ogni caso, anche se era l’ultimo arrivato nella famiglia degli Sparrow, anche se ora il piccolo aveva lasciato la sua mano. Non importava. Se il destino aveva voluto che si ricongiungessero, doveva esserci un motivo: e il motivo lo leggeva negli occhi di William.
   Il piccolo allungò le dita anche verso di lui, senza per questo lasciare quelle di Jack. Ne afferrò strettamente una di Will, tirandolo di più verso la sua parte. A Will parve di sognare. E anche a Jack, in un certo qual modo. Era chiaro che nessuno dei due si aspettasse di trovarsi in simile confidenza.
   Ma non avevano nulla da temere. Jack e Will si guardarono, e quasi venne loro da ridere.
   Il piccolo William cominciò a dondolarsi, tenendosi alle loro mani. Nonostante la paura e la marcia sfiancante a cui era stato costretto, non aveva perso la sua sterminata voglia di giocare. Del resto, anche quella fuga per lui era solo un capitolo in più nel gioco della sua vita. Rideva. Rideva perché si divertiva tanto.
   Will e Jack non ebbero bisogno di scambiarsi nemmeno una parola. Sollevarono simultaneamente le braccia e William, facendolo sgambettare nell’aria, avanti e indietro. Poi lo rimisero giù, e lo tirarono su, di nuovo: al piccolo sembrava di poter volare e rideva ancora di più.
   Nel tramonto, non c’era regalo più grande che loro potessero fargli.

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