Una storia dentro La Storia

di coniglio_tossico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un guscio vuoto ***
Capitolo 2: *** Seta ***
Capitolo 3: *** Fiducia ***
Capitolo 4: *** Potere ***



Capitolo 1
*** Un guscio vuoto ***


Un raggio di sole superò la barriera degli scuri con arroganza e si posò sul viso di Juliette.
Non era più l’ora in cui si può tener a bada la luce del giorno con degli scuri.
 Quando il sole era giovane Juliette sognava ancora, avidamente.
Adesso la luce pervadeva la stanza e ricamava arabeschi giallo grigi sulle asciutte pareti in pietra.
 La porta finestra era ampia, ingentilita da un arco a tutto sesto che all’esterno si concedeva un minuscolo balconcino. La stanza era piccola e rettangolare.  
 Un divisorio in pietra  separava una piccola toilette, un lusso forse fuori luogo  di cui Juliette andava fiera.
 La ragazza oppose le sue ultime resistenze alla veglia emettendo lunghi sospiri, prima infastiditi, poi rassegnati. Si girò nel letto comodo, ampio e di fattura semplice. Materasso di lana, un altro lusso.
Mosse le lunghe gambe e il lenzuolo scivolò a scoprire i fianchi generosi e il ventre, segnato da una lunga e vistosa cicatrice.
 Juliette era una donna, rappresentava tutto quello che il termine suggerisce all’immaginario collettivo, seno rotondo, giovane e armonico, vita sottile cosce lunghe e tornite … ma, ironia della sorte, quello che più la definiva come donna non c’era più.
Juliette sbatté le palpebre e arricciò le labbra morbide in una smorfia, quindi si alzò.
Nuda percorse le ampie tavole del pavimento e sbirciò dietro gli scuri, rituale mattutino durante il quale si ricongiungeva con il mondo, quindi, aperto uno spiraglio nella finestra rovesciò nel vicolo il vaso da notte. Nell’angolo della toilette c’era un lavabo in ceramica riempito di acqua fresca, sorretto da una sottile ed elegante struttura in ferro battuto  e  su un basso tavolinetto di legno erano piegati ordinatamente degli asciugamani bianchi di bucato. C’era odore di legno, pietra bagnata e sapone, con una sottile nota residua dell’urina che aveva soggiornato nel pitale durante le ore dell’alba e del primo mattino.
Juliette si passò un morbido panno di spugna intriso di acqua e sapone su tutto il corpo, lavandosi accuratamente. Il pavimento della toilette era pendente e convogliava l’acqua saponata verso uno scarico che finiva in strada.
Il sapone aveva un tenue profumo di rose. Altro lusso.
Diversi piccoli lussi per i tempi duri che correvano e per quello che lei era.
 Una puttana.
Continuò a far scorrere ripetutamente l’acqua sui suoi capelli corvini e ribelli, né lisci né ricci ma forti e caparbi. Come spesso i suoi pensieri, i suoi capelli sembravano  voler prendere contemporaneamente ogni direzione possibile.
L’acqua infine dette loro pace e li domò. Non erano lunghissimi, sarebbero stati troppo difficili da gestire, ma erano sufficienti da farla apparire incantevole anche con quell’aria sempre un po’ spettinata. Una volta lavati li frizionò con vigore lasciò che le ciocche si riversassero su i suoi occhi di un  morbido color castagna e sulle lentiggini che  punteggiavano la base del naso e la pelle bianca delle guance.
Era un po’ stanca, la notte era stata movimentata al Giardino delle Rose, uno dei più rinomati bordelli di Trost, e la ragazza aveva reso felice più di un soldato. Ovviamente lei non poteva permettersi di scegliere, ma non si comportava con tutti allo stesso modo.
 Era scaltra e professionale, conosceva il mestiere e lo gestiva con sapienza, ma quello che la rendeva speciale era che c’erano clienti verso i quali provava una vera empatia. I ragazzi dell’Arma Ricognitiva. Sapeva che potevano morire da un momento all’altro. Con loro era diverso, con loro quello che dava era davvero amore. 
Era capace di darlo a tutti indiscriminatamente perché a fronte della morte che sempre li accompagnava, sperava di lasciare loro addosso più amore possibile.
Li scopava ogni notte come fosse stata l’ultima.
Juliette poteva amare liberamente e senza porsi troppi interrogativi perché il suo apparato riproduttivo non c’era più.
 La Giulietta di tutti i romei, amori destinati a consumarsi violenti e in fretta, fino al canto dell’allodola e lei come un personaggio di carta era sterile e priva di conseguenze.
Ricordava la faccia sconvolta dei suoi genitori, semplici e conservatori.
La dannazione delle Mura su di se per quello che per lei era solo il frutto delle sue prime goffe esperienze di relazione, lei che era così curiosa del mondo intorno a se, che affrontava tutto come stesse facendo esperimenti, anche il sesso.
Come poteva aspettarsi comprensione da persone nate e cresciute il quel paese sperduto nelle campagne tra il Muro Maria e il Muro Rose.
In ogni caso quel paese oggi non c’era più.
Ricordava come a fronte dello sdegno della sua famiglia avesse preferito andarsene, di notte, un piccolo bacio lasciato sulla fronte di suo fratello Bertoldt, profondamente addormentato e ancora troppo piccolo per capire il dramma dell’incomprensione che si stava consumando nella sua famiglia.
Ricordava la lunga camminata notturna e poi, finalmente, il passaggio su un carro merci fino al vicino distretto di Trost
Ricordava la fatica, la fame e la paura, ma anche tutta la sua determinazione.
I lavori diversi, alcuni così pesanti per una donna gravida, tanto da provocarle al sesto mese una gravissima distocia. I dolori all’addome ormai da tempo la tormentavano, ma non aveva la possibilità di consultare un medico.
Quando il tirapiedi del suo datore di lavoro l’aveva trovata  riversa sul pavimento del magazzino dove venivano stivate  le merci, svenuta in un bagno di sangue e pus, per il suo utero non c’era ormai niente da fare, e così sarebbe stato anche della sua vita se non fosse stato per il dottor Jaeger……
La ripresa fu lenta, lei accumulò un debito fin troppo elevato dei confronti di un datore di lavoro fin troppo interessato e caritatevole.
Per evitare le sue attenzioni dovette fuggire, ancora.
Era ancora debole, chissà quando avrebbe potuto riaffrontare lavori di fatica.
Ma era bella, anche così sbattuta e c’erano un sacco di militari a Trost. E dove ci sono militari, ci sono bordelli.

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Capitolo 2
*** Seta ***


Nell’anno 847 Trost aveva ritrovato una sorta di equilibrio, pagato a costo delle vite di persone che avevano sognato di poter riconquistare il territorio tra il Muro Rose e Il Muro Maria: carovane di gente disperata, che a fronte di una vita da profughi all’interno dei distretti aveva preferito rischiare la morte per un sogno.  Quel sogno si era miseramente infranto contro la fumante carne dei Giganti. Il risultato fu una tragedia con perdite colossali tra militari e civili. Triste a dirsi, il calo della popolazione fu una manna per quelli che erano rimasti. La carestia aveva lievemente allentato la sua stretta.
Le azioni militari erano ridotte a quelle dell’Arma Ricognitiva e la gente aveva di quest’ultima solo l’immagine di squadre che uscivano a cavallo dalle mura e ne ritornavano decimate. In pochi ricordavano di aver visto un Gigante, in molti non riuscivano a rendersi conto dell’effettivo pericolo che il genere umano correva. In molti erano addirittura scontenti dell’impegno economico imposto alla popolazione per sostenere tali escursioni.
“A volte troppa tranquillità distorce la mente delle persone.”
Così le diceva James, il garzone dell’emporio, quando Juliette si recava a fare delle commissioni per la Casa.
Lei concordava con lui.
E’ vero, era facile lasciarsi andare al comodo pensiero che quella che conducevano era una vita normale, se pur non priva di sacrifici e disagi. 
Come faceva la gente a non ricordare o a non capire?
La caduta del Muro Maria era così recente e aveva causato danni di proporzioni talmente elevate in termini economici e di perdita di vite umane. Lei aveva seguito con apprensione le ondate di profughi che si erano riversate a Trost e aveva cercato con lo sguardo la sua famiglia tra le persone in fila per un pasto. Per mesi.  Finché un giorno aveva riconosciuto almeno lui, il piccolo Bertholdt ormai tredicenne.
Juliette non poteva recarsi tutti i giorni nel quartiere dove venivano distribuiti i pasti per i profughi.
In ogni caso, in quelle occasioni in cui le veniva affidata una commissione da quelle parti, non aveva mai scorto il fratello o un familiare tra la folla. Cominciava ormai a perdere le speranze.
Dal giorno in cui Juliette aveva lasciato la sua casa erano passati ormai otto anni. Allora Bertholdt aveva cinque anni, lei sedici. Si era chiesta se, vedendolo, lo avrebbe riconosciuto.
I giorni in cui si recava in quella zona di Trost erano sempre gli stessi nell’arco della settimana. Era capitato per caso che questa consuetudine non venisse rispettata e questo le aveva permesso di rivedere suo fratello.
Bertholdt si era salvato dalla catastrofe abbattutasi sul proprio paese insieme a un minuscolo gruppo di superstiti che si erano poi rifugiati a Trost dopo una rocambolesca fuga.
Un ragazzo poco più grande di lui gli si era avvicinato. Bertholdt era molto timido e aveva parlato poco da quando era giunto nel distretto. In realtà non ricordava bene nemmeno come ci era arrivato, A Trost. Il ricordo si faceva confuso ogni volta che cercava di fissarvi la mente. I suoi attuali compagni pensavano fosse dovuto allo shock subito. Il nome del ragazzo che aveva tentato di approcciare un contatto con lui era Reiner e condivideva con Bertholdt la perdita di entrambi i genitori nel massacro dei paesi all’interno del Muro Maria. Era alto poco meno dell’allampanato tredicenne ma molto più prestante e muscoloso. Era biondo, aveva lineamenti netti e volitivi, il volto e la fronte ampi e quadrati e gli occhi sottili e penetranti. A fronte della giovane età infondeva un senso di sicurezza a chi lo conosceva. Gli era venuto naturale cercare la compagnia di Bertholdt e a quest’ultimo era venuto naturale cercare in Reiner un punto di riferimento.
Bertholdt era magro e non particolarmente muscoloso. Aveva capelli neri spioventi sul volto e grandi occhi che parevano sempre domandarsi qualcosa, senza darsi mai la risposta. I suoi lineamenti erano morbidi nonostante la forma del volto affilata. Allora il ragazzo aveva dodici anni e l’età giustificava la delicatezza che presentavano i tratti del viso, ma qualcosa nel suo aspetto lasciava presagire che anche crescendo avrebbe mantenuto quell’aria infantile. Reiner, al contrario, nonostante fosse più vecchio di lui di solo un anno, aveva l’aria di non esser mai stato veramente bambino.
I due ragazzi si erano uniti all’enorme quantità di persone che per sopravvivere si affidavano alla carità offerta dal Governo Centrale e per il resto avevano vissuto per strada, di espedienti.
Il motivo per il quale Juliette per mesi non era riuscita a vedere il fratello in fila per i pasti era che lui e Reiner si erano divisi i giorni. Ogni profugo che volesse godere della solidarietà accordata dal governo aveva dovuto, nei giorni successivi all’ingresso nel distretto, farsi registrare dalla milizia cittadina e aveva ricevuto un documento identificativo che gli riconosceva il diritto al sussidio in qualità di reduce del disastro. Questo impediva tutti gli indigenti della città di presentarsi a scroccare pasti gratis, la dove già era difficile rimediarne per quelli che ne avevano diritto.
Per evitare che si creassero file interminabili, che finivano immancabilmente per intasare le vie oltre la piazza dove erano distribuite le vettovaglie, era consentito che un'unica persona potesse ritirare il pasto previsto per una o due persone in più, presentando i loro documenti. Ovviamente c’era il rischio che fossero riutilizzati documenti di persone decedute, ma il problema dell’assembramento eccessivo era divenuto talmente poco gestibile che questa eventualità era stata considerata come un effetto collaterale trascurabile.
Così Reiner e Bertholdt ritiravano i pasti l’uno per l’altro a turno.
I giorni in cui Juliette si recava in quel quartiere semplicemente non corrispondevano con i giorni in cui Bertholdt ritirava i pasti.
Quella volta Juliette si era recata all’emporio in un giorno diverso dal solito.
Era appena uscita dalla bottega con in mano un grosso pacco che le era stato raccomandato di prelevare e stava percorrendo il marciapiede sotto l’ampio loggiato che si affacciava sulla piazza in cui si riunivano i profughi,  sempre alla stessa ora.
Mancava qualche minuto e Juliette attendeva al riparo delle colonne del loggiato, come era solita fare. Osservava la gente che si metteva in fila, persone spente,  prive di speranza per il futuro. Ogni volta che assisteva a quella scena, all’apprensione per la ricerca dei suoi familiari si univa un senso di angoscia profonda. Le mancava il respiro, si rendeva conto che la situazione, per quella gente, poteva solo peggiorare e pochi avrebbero potuto svoltare, se non arruolandosi o andando a nutrire le fila della criminalità.
Improvvisamente, in mezzo al piccolo fiume di persone che andava formando una fila ordinata, Juliette aveva scorto un ragazzino alto e magro.
Aveva i capelli corvini come i suoi, la stessa pelle, le stesse lentiggini. E aveva gli occhi di suo fratello. Quegli occhi che anche a cinque anni erano pieni di domande. Gli occhi del piccolo Bertholdt, quei laghi verdi che lei ricordava, adesso erano tristi e la luce che li contraddistingueva era smorzata, rifletteva una fitta nebbia di ricordi che nessuno avrebbe voluto avere.
Ma era Bertholdt.
Juliette non aveva dubbi.
Ed era vivo.
La ragazza era rimasta immobile, il cuore che le rimbalzava dolorosamente contro le stecche del corsetto, il volto pallido, bianco come la camicetta che indossava sotto il rigido indumento, la lunga gonna di fresco di lana grigio mossa da una lieve brezza.
Avrebbe voluto mollare quel pacco, correre sgomitando tra la folla e abbracciare quella figura alta eppure così fragile. Avrebbe voluto stringere suo fratello e dirgli quanto gli voleva bene. Avrebbe voluto piangere.
Non aveva fatto niente di tutto questo.
Era vivo, stava bene, tanto doveva bastarle.
Non poteva fare di più. Che gli avrebbe detto?
Vieni tesoro, tua sorella fa la puttana, ma non preoccuparti, puoi dare via il tuo corpo anche tu insieme  a me d’ora in poi…
Non poteva farsi vedere e dirgli semplicemente come erano andate le cose. Non sarebbe servito a nessuno, tanto meno a lui. Lo avrebbe aiutato, ovviamente, ma doveva trovare il modo di farlo in maniera discreta. Avrebbe pagato James, il garzone dell’emporio, perché gli facesse avere in maniera anonima ciò di cui aveva bisogno. Doveva studiare bene i dettagli, ma era l’unica cosa sensata da fare.
Juliette aveva lasciato un ultimo sguardo sulla scena e nascondendo il volto dietro il grosso pacco della signora Cornelia, se ne era andata in silenzio, ma non aveva potuto impedire a una lacrima di rigarle il volto.
Da quel giorno Juliette aveva spiato suo fratello a distanza per tre anni, assicurandosi che avesse di che sfamarsi e vestirsi, finché un giorno James non le aveva detto che Bertholdt e il suo amico biondo si erano arruolati.
Quel giorno Juliette era quasi svenuta.
Sul marciapiede davanti all’emporio, intorno a lei, le persone continuavano a passare affrettate e prese dalle loro attività quotidiane, dallo scorrere della vita che consideravano normale.
Lei era ben conscia che non era così.
Non c’era niente di normale
Suo fratello si era appena arruolato, probabilmente spinto dalla necessità di trovare un posto nel mondo o dalla follia per il dolore della perdita della propria famiglia e del proprio futuro.
Cinque anni prima il suo villaggio era stato devastato dai Giganti, una minaccia che era viva e reale dietro quelle Mura. Da un momento all’altro tutto poteva volgere al peggio e lei non poteva farci niente.
Non c’era davvero niente di normale.
E lei sapeva di essere un grazioso uccellino rinchiuso in più ordini di gabbie: la sua personale gabbia dorata, il Giardino delle Rose, che le dava un ruolo e da vivere;
la società malata che la circondava, con le sue storture sociali e politiche; le Mura, al di fuori delle quali esseri giganteschi e pressoché sconosciuti disponevano dell’esistenza dalla razza umana.
James, dopo averle la notizia si era preoccupato per la reazione di Juliette.
Era come pietrificata.
Il ragazzo l’aveva scossa dalla sua catatonia, le aveva stretto forte le mani, le aveva offerto dell’acqua.
Lei era tornata dai suoi pensieri come da molto lontano. Di colpo l’ansia e la rabbia per la propria impotenza l’avevano abbandonata. Tutta la situazione le appariva lontana, ora, la osservava con freddo distacco, la sua mente usava come arma di difesa la razionalizzazione, portava la realtà sotto la lente di un microscopio.
Una volta ripreso colore, Juliette, aveva ringraziato James per le premure e per tutto quello che aveva fatto per aiutarla a provvedere al fratello. Quindi si era congedata con un sorriso.
Quel sorriso che faceva innamorare tanti e che aveva in se tutta la tristezza del mondo.
 
 
 
 
 
Si vestì, Juliette, in quella calda giornata primaverile.
Era affamata. Rassettò in fretta la sua stanza.
Aveva una camera sua. Poche l’avevano: le altre la condividevano e alcune dormivano nelle stesse stanze nelle quali lavoravano. Uscì nel corridoio, scese le scale di legno e si diresse verso la sala comune, dove le ragazze consumavano un’abbondante colazione in tarda mattinata. Il Giardino delle Rose poteva permettersi un’ ampia cucina e del personale che provvedesse ai pasti e alle pulizie. Niente di principesco, ma molto di più di quello che molte famiglie potevano permettersi a Trost allo stato attuale dell’economia. Avevano pane, latte, burro, miele, uova e una volta alla settimana potevano addirittura permettersi della carne.
“ Buongiorno alla principessa delle rose!”
Una ragazzetta dal viso furbo, vispo e pallido, incorniciato da una cascata di boccoli di un biondo quasi bianco ammiccò verso Juliette. Con una smorfia divertita, esagerò un inchino.
“ Sta zitta Fabiola! “ Juliette sbadigliò. Acchiappò un piccolo panino dolce dal cesto sul tavolo e lo infilò in bocca alla biondina, ridendo.
La fatina bionda non si scompose e masticando rispose solo “Gwrazie!”
“Com’ è andata stanotte, dolcetto?” chiese Juliette versandosi del latte.
“ Tutto bene…” l’espressione della ragazzina si fece annoiata e professionale.  “Solite cose, Persone a posto, nessuno da cui doversi difendere…qualcuno era pure un bel tipo”
Diede un altro morso al panino e strizzò un occhio.
“Mi fa piacere” ammise Juliette sorridendo. Adorava la vivacità irriverente di Fabiola: era così giovane, la vedeva come una sorella minore, anche se probabilmente quella bambina avrebbe potuto difendere tranquillamente tutte le ragazze della casa da sola. Coltelli. Fabiola era nata e cresciuta in un circo. I circhi erano una di quelle attività pesantemente penalizzate dalla caduta di Shingashina .
Il suo aveva ammainato il tendone dopo pochi mesi, e le persone che ci lavoravano si erano sparpagliate alla ricerca di fortuna in giro per i distretti. Alcuni addirittura si erano uniti alle fila di quelli che erano andati a morire fuori dalle Mura e lei non aveva parenti in vita. Il circo era la sua famiglia. Una volta sciolta questa, ognuno per sé.
Così una graziosa ragazzina di tredici anni era riuscita e a cavarsela nei vicoli. A coltellate. Letteralmente. E rubacchiando nelle taverne. Adescava e rubava. Ma dopo un po’ il gioco si era fatto pericoloso, la gente l’aveva inquadrata, non c’era quasi più taverna dove non la guardassero con sospetto. Così si era presentata al “Giardino delle Rose”, colma della sua sfrontatezza gioviale e prodiga di risposte pronte e acute, in aggiunta al suo bel faccino e al suo fascino acerbo . La signora Cornelia l’aveva assunta con piacere.
“Nel pomeriggio esco a fare delle commissioni per la signora Cornelia, mi accompagni?“ Chiese Juliette.
Gli acquisti di merci particolari o le commissioni delicate riguardanti la Casa venivano affidate alle ragazze più anziane, di cui la signora Cornelia si fidava.
“ Mmmmm…fammi pensare…”
In risposta all’aria di ostentata sufficienza di Fabiola, Juliette sollevò un altro panino e fece il gesto di tirarglielo dietro, fingendosi minacciosa.
“ Va bene sorellona, ti delizierò con la mia presenza….”
Juliette la guardò con aria di estrema stanchezza, gli occhi a mezz’asta.
“ Ma smettila di darti arie, e finisci di vestirti piuttosto, sei….indecente”. Lo disse ridendo, ma lo aveva pensato davvero. Questo la fece arrossire, per la contraddizione che portava in sé. Si sentì sciocca, Juliette: quanta premura materna per l’abbigliamento di una bambina che vendeva il proprio corpo ogni notte. Eppure le era venuto spontaneo preoccuparsi del fatto che Fabiola, uscendo, potesse essere giudicata una sgualdrina, perché lei la vedeva come una bambina, anche se alcune ragazzine della sua età a Trost già si fidanzavano. E invece lei era una sgualdrina, e lo era anche Juliette. Che differenza avrebbe fato un corsetto più severo? Un bottone allacciato in più?
Persa in questi pensieri finì di bere il suo latte e di sbocconcellare pane burro e miele. Attese Fabiola, che prendendola in giro si era davvero recata in camera per avvolgersi in un più casto scialle che le copriva la profonda scollatura.
“Eccomi madre badessa, ora possiamo uscire”
Il pomeriggio era mite e piacevole, la luce tagliava gli edifici con diafane lame dorate che si riflettevano sulle superfici di ottone delle insegne delle botteghe.
Le due ragazze camminavano lentamente chiacchierando di frivolezze.
“Ma dove dobbiamo andare?” domandò Fabiola
“All’ufficio postale … e si, possiamo anche fermarci a guardare qualche vetrina” Juliette le rispose facendole l’occhiolino.
“Evviva! Entriamo anche in profumeria, mi piace tanto annusare le ciprie! “
“D’accordo, ma mi raccomando, vorrei riuscire ad arrivare all’ufficio postale senza che tu ci abbia fatto portare via dal corpo di guarnigione”
Juliette cercò di essere seria finché parlava così. Portarla via. Se l’avessero fatto, non l’avrebbero condotta certo in carcere, se la sarebbero tenuta per loro, almeno finché lei non avesse tirato fuori il coltello. Al pensiero non riuscì a restare seria e fece una faccia buffa. Scoppiarono a ridere entrambe.
Le due ragazze entrarono nella profumeria. Più di uno sguardo si posò su di loro: sguardi femminili, invidiosi e ostili. Non che Juliette e Fabiola avessero scritto in fronte da dove venissero, ma nel quartiere molte persone le conoscevano e quelle che non le conoscevano avevano comunque motivo di avercela anche solo con la loro avvenenza. L’aroma di cipria e sandalo era inebriante, mescolato al legno di rovere delle scaffalature. Il proprietario del negozio, impettito e vestito con una certa cura, se non eleganza, le osservava da dietro il bancone con attenzione.
Incuranti, le ragazze si misero a guardare ed a annusare tra gli scaffali pieni di boccette invitanti e flaconi colorati. Intanto conversavano.
“ Ma il tuo biondo comandante? E’ più tornato a trovarti? ” Chiese Fabiola con voce querula.
“ Il comandante Smith?” Juliette rispose con una domanda, con aria assente.
Si avvicinò alla vetrina del negozio sbirciando fuori.
La sua attenzione era stata attratta da una carrozza che passava in quel momento. Dovevano essere militari di alto rango; a seguito della carrozza c’erano diversi soldati della milizia cittadina. Tra le tendine le parve di scorgere proprio lui, il comandante Erwin….ma in un attimo la carrozza scomparve dietro l’edificio.
Poco dopo il passaggio della carrozza transitò un manipolo di membri dell’Armata di Ricognizione a cavallo. Circondava tre figure ammantate e dai mantelli di queste spuntavano abiti civili.  A Juliette parve di scorgere delle manette ai loro polsi, ma erano coperte dalle maniche delle camicie, non si vedeva bene. Una cosa curiosa.
I tre non sembravano di buon umore, anzi: apparivano piuttosto cupi e contrariati e non avevano l’atteggiamento impalato e composto dei membri della milizia. Uno di loro sembrava piuttosto piccolo di statura, un altro più alto e sottile, la corporatura dell’ultima figura sembrava quella di una bambina.
Il ragazzo basso e asciutto, quasi avesse sentito gli occhi curiosi di Juliette su di sé, aveva impercettibilmente girato il volto verso di lei. L’unica cosa che sbucò fuori da sotto il cappuccio fu uno sguardo straordinariamente ostile e tagliente. Un lampo grigio che fece sentire la ragazza profondamente a disagio: improvvisamente si era sentita nuda e frivola per quella curiosità infantile, quel suo posare gli occhi sulle catene, quel soffermarsi su quelle mani, mani…belle. Non si vedevano molti uomini con belle mani da quelle parti.
Non si era neanche accorta di essere uscita dal negozio.
Fu un attimo: lo strano corteo passò in fretta. Avevano l’aria di voler raggiungere velocemente il Quartier Generale e di non voler troppo dare nell’occhio, per quanto possibile.
“ Juliette!” sbuffò Fabiola, che l’aveva seguita fuori “sto parlando con te”
“Scusa piccola, mi ero distratta a guardare…”
“Ah, i militari… quelli vanno sempre di corsa, e in qualche caso…la velocità è un vantaggio!” Scoppiò in una risatina.
“ Fabiola! Come fai ad essere sempre così oscena!”
“ Mi scusi madre badessa, se ferisco la sua sensibilità!”
Juliette alzò bonariamente gli occhi al cielo e rise di cuore. Continuarono le loro commissioni nelle botteghe e spedirono la lettera per la signora Cornelia, ma la mente di Juliette continuava a tornare su quella milizia affrettata, quel trotto nervoso imposto ai cavalli, che sembrava non diventare galoppo solo perché una galoppata in mezzo alle case avrebbe forse destato più interesse…quanta fretta, però.
“Juliette, prima non mi hai risposto. Quanto tempo è che non vedi il bel comandante?”
In realtà, pochi minuti, pensò la ragazza e le passò un’ ombra negli occhi, di nuovo quel lampo grigio e tagliente sotto il cappuccio verde. Ostentando leggerezza, rispose:
“ Lo sai come sono i militari di rango, sempre impegnati. Non lo vedo da un bel po’. Torniamo alla Casa adesso; siamo state via a lungo e si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto. Soprattutto, Liana voleva le portassi del filo per rammendare le sottovesti, se non glielo porto in fretta non farà in tempo a ricucirle per stasera.”
“Oh, ma tutte lei li trova quelli che strappano le mutande….”
“Fabiola….” Il tono di Juliette era esasperato, ma non molto serio. Varcarono il grazioso cancello in ferro battuto del Giardino delle Rose. I motivi floreali si intrecciavano e si aprivano su un piccolo spazio verde molto curato e un breve vialetto contornato da cespugli, ovviamente di rose. La luce del pomeriggio andava affievolendosi, preannunciando l’aria fresca della sera.
 
 
***
 
La sera arrivò.
Nella casa tutto era pronto per affrontare una notte di lavoro, la povera Liana si era punta più di un dito ricucendo in fretta le vesti di Juliette. Le stanze erano pronte e molte candele profumate erano state sparse nei corridoi e nella saletta adibita all’intrattenimento dei clienti, dove questi potevano rifocillarsi, bere vino e attendere la propria ragazza.
La signora Cornelia era come sempre l’emblema dell’affabilità e della cortesia. Riservava qualche parola per tutti gli avventori senza apparire mai invadente ma sempre premurosa. Quello che Juliette apprezzava di lei era la sua aria sempre dignitosa.
Aveva un’ eleganza discreta. Indossava abiti aderenti che le fasciavano la snella figura ancora gradevole, nonostante la sua età avanzata, ma che non risultavano volgari. Non portava colori sgargianti e la sua acconciatura era elaborata ma composta e decorosa. Si concedeva solo alcuni particolari ammiccanti, coerenti con il suo ruolo, come dei vistosi orecchini, un grosso anello con granato,un fiore ,rigorosamente rosso, nei capelli.
Sui morbidi cuscini rivestiti di broccato rosso già si erano accomodati diversi membri della milizia cittadina e qualche avventore civile. Alcuni erano ragazzini giovanissimi ai quali soldati più anziani davano di gomito ridendo. Reclute, probabilmente. Non sarebbe stato legale, ma qualche militare di alto rango riusciva a far avere permessi speciali per fratelli o cugini. Il battesimo del fuoco.
Una figura alta ed ammantata fece il suo ingresso nella stanza. La luce soffusa delle candele non permetteva di scorgere il volto sotto il cappuccio. Indossava pantaloni aderenti e stivali. Un militare, molto probabilmente, che non amava mettersi in mostra. L’uomo si diresse verso la signora Cornelia, impegnata in una conversazione con alcuni dei presenti.
La donna si congedò in fretta dagli uomini, dirigendosi verso il nuovo arrivato. Doveva trattarsi di una persona di riguardo. Si scambiarono poche parole, dopodiché l’uomo lasciò la sala .
Scostò le ampie tende di velluto rosso e salì le scale che portavano al piano superiore dove si trovano le stanze del piacere. Percorse a lunghi passi rapidi il corridoio e si fermò davanti alla porta in fondo. Bussò educatamente.
"Avanti, entra pure"
Juliette accoglieva tutti con modi accoglienti e familiari, come si trattasse sempre di amici; questa era una caratteristica gradita a molti uomini. Era di spalle, seduta ad una specchiera. Ostentava il gesto noncurante di ravviarsi i capelli, non che ci riuscisse davvero, i suoi capelli rimanevano comunque ribelli, ma era un gesto ipnotico che affascinava.
"Juliette…."
L'uomo si tolse il cappuccio e al suono della sua voce familiare la ragazza si voltò con una punta di sorpresa negli occhi.
"Erwin!" L'uomo le fece un inchino, fin troppo formale per la situazione.
Era il tipo di uomo che non contravveniva mai all'etichetta, seppur in presenza di una prostituta. Per lui era comunque una signora. Juliette, in contrasto con la rigidità di lui, volò verso l'uomo alto con un ampio sorriso e lo abbracciò con calore.
Erwin Smith, comandante della squadra speciale dell’Armata Ricognitiva, nonché noto per le sue capacità diplomatiche e politiche, si irrigidì lievemente in quell'abbraccio così spontaneo, così lontano dalle dinamiche che contraddistinguevano la sua non facile vita. L'attimo dopo tutto il suo corpo, il volto severo, le ampie spalle, le lunghe gambe, sembrarono attraversati da una corrente benefica, come se un balsamo avesse lenito la sua anima gonfia di preoccupazioni e dolore.
La ragazza si sciolse dall'abbraccio; le braccia dell'uomo erano rimaste lungo il busto, come quelle di qualcuno che non è abituato a gesti affettuosi o spontanei, ma solo a quelli imposti dalla legge militare o dalla cortesia. Lei non si scompose, non si turbò, offese o irrigidì.
Lo guardò nei grandi occhi azzurri, che per lei erano quelli di un bambino, le lunghe ciglia ricurve che le davano morbidezza allo sguardo.
Gli tolse il mantello e lo appese su un attaccapanni. Non disse una parola ma sorrise ancora e gli tolse la giacca, dolcemente. Quindi passò alla camicia, la sbottonò con cura guardando a volte il suo petto, a volte sollevando lo sguardo sereno verso gli occhi dell’uomo.
Erwin rimaneva lì, immobile, pervaso solo del piacere di non dover fare niente, di non dover decidere niente, di lasciare a qualcun altro l'azione. Solo il suo respiro si faceva sempre più profondo.
Lei indossava soltanto una leggera vestaglia di seta bianca. Semplice, ma preziosa quanto lo erano per Erwin le sue carezze.
Seta a Trost .
Davvero raramente se ne vedeva, tantomeno indosso a una puttana. Quella vestaglia era arrivata un giorno come pacco postale, quasi anonimo, riportava solo le iniziali: E.S.
Nessuna ragazza né la signora Cornelia avevano avuto dubbi su a chi fosse destinata.
Nessuno dei due, Juliette o Erwin, aveva mai fatto parola riguardo l’argomento, ma Juliette non aveva mai smesso di indossarla e aveva per essa una cura che non era solita avere per gli indumenti.
Juliette prese Erwin per mano e lo accompagnò verso il letto. Lo fece sedere e lo aiutò con gli stivali. Gesti rapidi, sapienti, gentili. Non è così scontato saper svestire una persona con naturalezza, senza che si creino momenti di impaccio o imbarazzo. Una brava prostituta è maestra anche in questo. Lo stese sul letto, nudo e si sedette su di lui mentre i lembi della vestaglia sembravano ali piegate sulla sua schiena.
Perché questo era Juliette per il comandante. Un angelo. Un angelo che riusciva, con il sesso, ad allontanarlo per un breve momento dalla sua vita.
Non era uno sfogo o solo ricerca di conforto, era qualcosa di più quello che lei trasmetteva, qualcosa di più profondo, come colmasse vuoti che erano rimasti tali per tutta la sua vita. Lei lo accompagnava nella sfera della sua emotività senza spaventarlo, senza farlo cadere. Quando Juliette scivolò con le labbra lungo il petto e l'addome di Erwin Smith, le ali dell’angelo scivolarono sul pavimento e ormai lui non era più comandante, fuori dalle mura non c'erano esseri mostruosi e gli esseri umani non erano quasi più terrificanti dei giganti.
 
 
 

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Capitolo 3
*** Fiducia ***


Juliette guardò l’uomo addormentato con tenerezza. Nutriva per lui un profondo affetto.
In pochi si ricordavano di aver visto il comandante Smith dormire, in pochi lo avevano visto anche solo riposarsi. Se lo faceva, sicuramente dedicava tempo limitato alla quiete e ne fruiva con discrezione.
Quella di un capitano era una vita di delicati equilibri e continue scelte. Trame politiche ed economiche gravavano sulle sue spalle e a causa di queste si era fatto nemici potenti.
L’esercito non era costruito solo su dinamiche militari. Non era solo addestramento, soldati o eroi, azione, vittoria, o morte. L’esercito andava nutrito, vestito, equipaggiato, messo in grado di funzionare. Sopra ogni altra cosa l’arma aveva bisogno di figure carismatiche, che la difendessero contro individui che avrebbero preferito spendere altrimenti il denaro dei contribuenti e soprattutto il proprio. Era necessario che l’opinione pubblica fosse sensibilizzata riguardo la reale necessità  di mantenere attiva e ben equipaggiata l’Armata Ricognitiva e l’esercito tutto.
 Risultava fin troppo facile, per le corporazioni di mercanti, convincere la gente che i fondi necessari ai rifornimenti dell’esercito fossero eccessivi e far  ricadere la colpa della crisi economica su un corpo militare che non portava risultati immediati.
L’Armata Ricognitiva era il capro espiatorio perfetto. I mercanti potevano continuare a fare  i propri porci comodi, aumentando a dismisura il prezzo delle merci, sostenendo poi di non avere altra scelta a causa dell’eccessiva pressione fiscale. Ogni vittoria politica di questa gente si traduceva in escursioni con DMT difettosi o scarse scorte di cibo e medicinali. Come se il nemico non fosse già abbastanza inaffrontabile, ragazzi di diciassette anni o meno si ritrovavano a contrastarlo con equipaggiamento riparato milioni di volte e mai sostituito e nello stomaco cibo appena sufficiente per stare in piedi.
Disporre di calzature che non si rompessero alla prima escursione o non si inzuppassero alla prima pozzanghera, poteva fare la differenza tra ammalarsi o meno. Questi non erano tempi favorevoli per ammalarsi o ferirsi, quantomeno non in maniera stupida e inutile.
Si moriva già abbastanza la fuori, e si moriva male. Se mai si possa pensare a un modo buono per morire, essere divorato da un essere gigantesco, disarmonico e stolido che ti guarda con espressione idiota e ilare sul volto è quasi inaccettabile.
Ma i ricchi borghesi residenti all’interno del Muro Sina o dei quartieri privilegiati di Trost erano lontani da tutto questo e non se ne curavano.
D’alto canto la gente più semplice e indigente non riusciva a fare un ragionamento che esulasse il proprio stato di miseria, talmente abbrutiti da diventare a propria volta egoisti e ottusi per necessità, per spirito di sopravvivenza.   L’ignoranza e la maleducazione che spesso contraddistinguevano il popolo lo rendevano acritico, condizionabile e terribilmente manipolabile.
Erwin Smith era cosciente di combattere i giganti e promuoverne lo studio in nome della salvaguardia di un umanità che forse non meritava  di essere salvata. Eppure lo faceva, perché credeva fosse giusto. Sacrificava la sua vita e quella dei suoi uomini in nome di questo ideale.
Come appariva desueto e ingenuo tutto questo a Juliette. Eppure ne era affascinata e provava un rispetto e un’ammirazione sconfinati per la caparbia volontà di Erwin di credere nel genere umano.
Aveva per lui la stima che avrebbe voluto provare per un padre e le ispirava la tenerezza che avrebbe suscitato un figlio.
Lei non avrebbe più avuto né l’uno né l’altro.
Le dimensioni dei veri nemici del comandante superavano di gran lunga quelle dei giganti. Giocava a scacchi ogni giorno contro l’avidità umana, l’egoismo sfrenato, l’ignoranza, la chiusura mentale, l’incoscienza. Contro gente che non sembrava interessata al futuro, ma solo alla riuscita dei propri affari durante il breve tempo della propria vita, convinti di poterla trascorrere al sicuro, protetti dal proprio potere economico e politico, o anche solo nell’illusione che quelle dannate mura avrebbero retto per sempre.
Erwin Smith doveva dormire sempre con un occhio aperto. Con Juliette no.
Per qualche motivo che non era chiaro neanche a se stesso le pareti della stanza della giovane donna erano più inviolabili di un tempio. Qualcosa lo persuadeva che lei non lo avrebbe tradito.
Una follia.
La sua Juliette poteva tranquillamente essere stata pagata per eliminarlo.
Per quanto lui ne sapeva l’affetto di una puttana valeva il prezzo che la potevi pagare.
Ma la fiducia è una cosa strana. La si da, e in realtà niente e nessuno ci garantirà mai che sia ben riposta.
Non darla mai è come non vivere. Come stare a guardare.
Anche un uomo accorto come Erwin Smith aveva bisogno di vivere.
E aveva bisogno di alleati.
Così col tempo parlare con la donna gli era venuto naturale e aveva trovato in Juliette una compagna di conversazione sorprendentemente brillante e acuta nel cogliere la sostanza degli argomenti e il senso dei comportamenti umani.
Dopo poco tempo Erwin discuteva con lei anche le strategie. Non che lei fosse  in grado di condizionarlo, quello di cui parlavano all’interno di quella stanza rimaneva lì, sospeso come in una dimensione atemporale. Era un gioco dialettico. Talvolta lei arrivava perfino a metterlo in difficoltà con le domande semplici di una ragazza non particolarmente istruita, ma dotata di spiccato senso pratico. Erwin era arrivato al punto di non poter fare a meno di proporre certe idee a Juliette, curioso del suo parere. Questo la poneva in una scomoda posizione. Poteva diventare pericolosa, e questo la metteva  in pericolo.
Lei avrebbe potuto venderlo, lui avrebbe potuto farla sparire, per ragion di stato.
Si erano, di fatto, messi l’uno nelle mani dell’altro.
 In fondo nessuno concede più fiducia di una prostituta. Quando un uomo è nel suo letto, per quanto le condizioni possano esserle favorevoli, per quanto l’ambiente intorno a lei possa essere protetto, si trova nelle mani del cliente. E’ nuda, fisicamente più debole e si trova ad affrontare gli uomini nella loro condizione più ferina e primordiale, senza contare folli o maniaci nascosti dietro l’aspetto di rispettabili borghesi.
La fiducia che Juliette riponeva in Erwin era diversa. Lei non era costretta a dargliela gioco forza. Lei si fidava davvero del comandante.
Nella luce tenue delle candele che si andavano smorzando Juliette, sdraiata accanto ad Erwin, gli passava la punta delle dita sulla pelle. Sentiva il suo odore. Sapone, sudore e cuoio, residuo ormai quasi permanente delle cinghie dell’equipaggiamento DMT, misto a quello del gas che rimaneva persistente sugli indumenti anche lavati.
Percorreva le clavicole, scendeva lungo la linea dei pettorali, segnati da lividi e cicatrici. Scendeva ancora sull’addome dell’uomo, permanentemente contratto.
 Era un momento piacevole. Avrebbe voluto farlo durare più a lungo, ma nonostante la politica elastica che la Casa aveva nei confronti del capitano Smith, la ragazza era tenuta a rispettare una tabella oraria.
Le dita di Juliette indugiarono ancora sul volto di Erwin e gli carezzarono gli occhi, le labbra. Lentamente il respiro dell’uomo cambiò ritmo, perse profondità e regolarità.  Contrasse la bocca sulle mani di lei, accennando a morderle.
“ Mi dispiace, ma devo svegliarti”
La voce della ragazza, dolce, lievemente roca sembrò rompere un silenzio durato per un tempo infinito.
Erwin passò dal sonno alla veglia in pochi attimi e fu subito vigile, tirandosi a sedere contro la spalliera del letto. Attitudine militare.
Juliette si alzò, con un sospiro rassegnato, raccolse la vestaglia, la indossò, quindi si sedette su uno sgabello con le spalle alla specchiera, accavallando le gambe.
Lui la stava fissando, serio in volto.
Juliette ruppe nuovamente il silenzio
“Quando le tue sopracciglia si curvano in quel modo, vuol dire che qualcosa riempie talmente quella testa, che sembra volerle spingere fuori.”
Si avvicinò al letto, la distanza la infastidiva, e si accosciò, il viso all’altezza del collo di Erwin.  Gli scostò un ciuffo di capelli dal viso, chiedendosi se mai qualcun altro lo avesse visto in disordine. Forse nemmeno sua madre.
“ Cosa succede Erwin?  Parla o dovrò pensare che hai intenzione di lasciare una nota negativa sulle mie prestazioni alla signora Cornelia“
Sorrise, cercando di alleggerire la tensione che aveva pervaso la stanza. Si rese subito conto che il tono leggero era fuori luogo e il sorriso si spense.
Finalmente Erwin parlò.
“ Juliette…
Faresti una cosa per me? … Non per me, per l’esercito… E’ una cosa importante, una cosa … pericolosa”
Erwin era tornato rigido e autoritario. Era ancora nudo, semi sdraiato sul letto di un bordello, eppure la sua figura emanava la dignità e la compostezza di sempre, come fosse stato in alta uniforme.
La fissava con quegli occhi celesti, disarmanti nella loro integrità, di una profondità terrificante. Trasparenti eppure così lontani dall’essere limpidi.
“Ovvio che sarà pericoloso, non sei un droghiere….”
La battuta pareva ironica, ma Juliette lo disse con tono affermativo, serio. Una considerazione lapalissiana, niente di comico.
“Aspetta…”
Juliette si accostò alla porta e ascoltò in silenzio. Nessun rumore da fuori. Aprì uno spiraglio nella porta e controllò. Nessuno. Le ragazze erano nelle stanze, la Signora di sotto con gli ospiti. Si sentiva il brusio rassicurante di persone che ridevano al piano si sotto. Nessun suono di passi. Chiuse la porta.
“ Di che si tratta?”
“Documenti”
 
 
La carrozza si mosse nella notte, allontanandosi dai suoni vivaci che giungevano dalle finestre della Casa, ancora allegramente illuminata.
Erwin Smith, avvolto nel suo mantello scuro, rimuginava sugli ultimi eventi, muoveva mentalmente pedine su una scacchiera, augurandosi disperatamente che le sue mosse fossero quelle giuste.
Giunto all’alba al quartier generale gli venne incontro la sentinella che lo identificò e si pietrificò in un saluto militare
“ Comandante Smith! Bentornato comandante!“
Erwin rispose al saluto e la sentinella si rilassò, ma rimase sull’attenti.
“Riposo soldato. Ci sono stati problemi con le nuove reclute? ”
“No signore, il tenente Darlett li ha presi in consegna e li ha scortati nei loro alloggi ”
“Bene.”
Salutò e si congedò.
Aveva bisogno di un bagno e di affrettarsi.
Un’ora più tardi avrebbe dovuto affrontare una riunione durante la quale avrebbe discusso con i vertici del comando la sua decisione poco convenzionale.
Sarebbe stata una lunga giornata.
Si diresse verso i propri alloggi augurandosi che l’addome non gli sarebbe stato nemico, vittima della somatizzazione di una lunga teoria di ansie e continua tensione, ben gestiti e mascherati, ma evidentemente vendicativi.
***
 
Juliette si svegliò, ma al posto delle solite considerazioni casuali che affollavano la sua mente al risveglio, trovò la consapevolezza di aver deciso da che parte stare. Era bastato un “si” per tagliarle addosso un nuovo abito, stringere la mano di Erwin per fare una scelta.
Forse era la prima scelta non dettata da istinto di sopravvivenza.
Si sedette davanti allo specchio. Improvvisamente non guardava nel microscopio. Si trovava sotto la lente insieme al resto del mondo.
Quanto consapevole fosse, in realtà non lo sapeva. Era certa che i rischi sarebbero stati elevati e la contropartita era favorire l’ideale di Erwin.
Ora che suo fratello era nell’esercito non voleva soltanto che fosse nutrito, scaldato e ben equipaggiato e soprattutto vivo, ma cominciava a pretendere per lui delle prospettive.  Erwin Smith, attraverso scelte terribili e decisioni discutibili forse sognava, ma investiva sul futuro.
 Una specie, per non estinguersi, ha bisogno di territorio all’interno del quale riprodursi ed evolversi. Quel territorio andava riconquistato ed Erwin lottava per questa causa.
Lei, per folle che fosse, lo avrebbe aiutato. Stavolta anche fuori da una camera.
Juliette si lavò, si vestì e scese, come di consueto.
Soliti abiti semplici, graziosi indosso a lei. Solita aria serena. Fabiola non c’era, meglio così, avrebbe evitato chiacchiere.
Fece colazione, salutò un paio di compagne e uscì.
Aveva bisogno d’aria fresca e di pensare.
Poco più tardi un uomo distinto, di mezz’età, dall’aria mondana, fece il suo ingresso al Giardino delle Rose.
La signora Cornelia lo accolse nel salottino d’ingresso, come sempre elegante e cortese.
“Gradisce una tazza di tè signor Valenoff?”
L’uomo si era qualificato alla cameriera, entrando.   La solerte Genevieve si era fatta carico dell’ampia clamide broccata e di cappello e bastone, allontanandosi in una nuvola di amido.
“Volentieri madame Cornelia”
 L’elegante damerino si cimentò in un cortese baciamano.
La signora Cornelia sorrise deliziata e invitò l’uomo ad accomodarsi in un salottino appartato.
“ Mi dica, cosa la porta al Giardino delle Rose?”
“Madame, la vita mi ha riservato la fortuna di disporre di una cospicua eredità, grazie alla quale, insieme  a un certo fiuto per gli affari, posso permettermi una vita agiata. Cionondimeno la mia posizione impone spesso di dedicarmi alla vita mondana, forse più di quanto gradirei.”
Disse questo con aria calma, lievemente annoiata e continuò.
“Per fare in modo che le pubbliche relazioni non si traducano in un’interminabile sequenza di noiosi approcci sociali, amo accompagnarmi a belle signore, dotate di un certo spirito, non prive di eleganza, ma professioniste. Non amo le compromissioni sentimentali. Verrò dunque al punto: un amico, di cui non farò il nome per discrezione, mi ha segnalato questa Casa e in particolar modo una ragazza, Juliette dovrebbe essere il suo nome. Sono qui per avvalermi della sua compagnia non per un’ora, ma per una serata intera. La ragazza dovrebbe accompagnarmi a un ballo ufficiale che si terrà nella tenuta di Lord Balto, che lei sicuramente conoscerà. La mia carrozza la ricondurrà qui al mattino seguente.
Lascio a lei decidere il prezzo, sono certo che troveremo un accordo”
La signora ascoltò sorseggiando il tè al gelsomino, un’espressione serena e indecifrabile sul volto.
“Signor Valenoff, non è normale politica della casa quella di estendere i servigi al di fuori delle mura del Giardino delle Rose ”
Alzò gli occhi fissando intensamente l’uomo, niente arroganza né sfida, solo una precisazione di campo.
“Confido che lei sarà in grado di fornire credenziali adeguate. Stiamo parlando di una delle mie ragazze, per le quali all’interno di queste mura sono in grado di garantire il massimo della sicurezza che mi consente il decoro. Parlando in termini pratici, qui dentro io stessa posso controllare a ogni cambio orario il benessere delle mie dipendenti.
Devo inoltre informarla che qualora io e lei dovessimo venire a un accordo soddisfacente per entrambi, l’ultima parola spetterebbe comunque alla ragazza, dal momento che si tratta di una prestazione  al di fuori del consueto.”
Il Signor Valenoff sorrise affabilmente posando la sua tazza sul grazioso piattino di porcellana e sostenne lo sguardo della signora, non perdendo un filo di pressione.
“ Vedo che le indicazioni sul suo conto e sui suoi principi si dimostrano veritiere. Una donna di polso e buonsenso. Ne sono felice e sono ancora più convinto che troveremo un punto d’incontro.”
Si aprì in un sorriso ampio e schietto, come un bambino cui è stato chiesto di cimentarsi in un’arte che sa di padroneggiare e che non vedeva l’ora di poter mettere in mostra.
“Mi permetta di presentarle la mia proposta: Io garantisco pagamento anticipato, la segnalazione presso la Guardia Cittadina che mi faccio carico della custodia della ragazza dal momento in cui uscirà da qui fino a che non sarà riaccompagnata.  Verranno resi noti alla Guardia  il percorso e la destinazione. A lei, signora, lascerò tutti i dati sulla mia identità che riterrà necessari.”
Continuò.
“Per quanto riguarda la ragazza, sarei felice, se potesse farmi fare la sua conoscenza, in modo che anche lei possa decidere più liberamente se accettare o meno l’offerta”
La signora Cornelia prese un lungo sorso di tè, il gesto eseguito con esasperata lentezza, quindi annuì, con una controllata flessione del collo.
“ Possiamo valutare l’offerta, signor Valenoff”
Concordo sul fatto che sia opportuno che stasera lei conosca la mia Juliette. A seguito di quest’incontro e delle considerazioni che io e la ragazza avremo modo di fare in privato, le proporrò il nostro prezzo, oppure, non me ne abbia, le porgerò un rifiuto. Se accetterà, la cosa si svolgerà alle condizioni che lei mi ha illustrato.”
Gli occhi allegri di Valenoff continuarono a fissarla con entusiasta insistenza.
“ Bene dunque, a che ora posso passare per incontrare la signorina?”
“La aspetteremo per le otto. Vi incontrerete in questo stesso salottino, e potrete conversare il tempo che Juliette riterrà necessario, dopodiché, intanto, lei pagherà il prezzo per la sua compagnia”
Amabile e severa al contempo, la signora Cornelia si alzò, lasciando capire che il tempo a disposizione dell’affascinante viveur era scaduto.
Valenoff si alzò di conseguenza, il sorriso sicuro di se sempre stampato sul volto.
“Alle otto, madame, e poi vedremo se Juliette mi vorrà, anche se mi auguro che sia lievemente meno risoluta e autoritaria di lei”
Terminò la frase con una sonora risata.
“Non dubito che saprete trovare argomenti convincenti e che la ragazza vi incanterà, sir. Genevieve la accompagnerà all’ingresso”
Detto questo la tenutaria agitò un campanellino al suono del quale la solerte Genevieve si presentò.
“ Si signora?”
“Accompagna il signor Valenoff alla porta, mia cara, signor Valenoff, le porgo i miei rispetti, la aspetto per questa sera alle otto.”
“ Le auguro un buon pomeriggio, signora, la rivedrò con piacere dopo il tramonto.”
 Ricamò il solito delicato baciamano e chinandosi accennò un occhiolino irriverente.
La signora Cornelia colse, ma rimase impassibile, almeno apparentemente.
Juliette rincasò circa un’ora più tardi.
La tenutaria la mise a parte della conversazione avuta con l’eccentrico uomo d’affari e Juliette dissimulò magistralmente la sua conoscenza dei fatti.
Erwin l’aveva istruita a dovere. Sapeva che Valenoff era un’elaborata montatura che nascondeva un amico fidato del comandante, del quale lei ignorava e doveva ignorare, il nome. Un uomo benestante non particolarmente conosciuto nell’ambiente mondano, sufficientemente schivo da passare inosservato per anni nel dedalo delle dinamiche sociali dell’alta borghesia. Era una copertura fragile, nel giro di quattro, al massimo cinque giorni qualcuno l’avrebbe comunque riconosciuto. Questo era il tempo concesso all’operazione.
La ragazza si mostrò sorpresa e incuriosita e assicurò alla signora che avrebbe accuratamente valutato la proposta del ricco borghese durante l’incontro, quella sera.
Alle otto in punto Valenoff si presentò al Giardino delle rose.
Il suo aspetto era curato e ricercato come in precedenza.
Consegnò l’immancabile clamide broccata in nero e argento e il cappello piumato alle zelanti attenzioni della giovane Genevieve, affascinata dagli sfrontati sorrisi dell’uomo tanto da arrossire e scivolare via col solo lieve fruscio delle sue vesti e non una parola.
La signora Cornelia gli venne incontro.
“Buona sera signor Valenoff, prego, si accomodi nel salottino. Si versi pure da bere, Juliette la raggiungerà tra breve.”
L’uomo alto si accomodò sul divanetto barocco e prese uno dei calici dal tavolino, versando del vino. Una rarità riservata davvero a pochi e a occasioni particolari.
I vitigni attivi rimasti dalla perdita dei territori esterni al Muro Rose si contavano sulle dita di una, forse due, mani.
Valenoff ondeggiò il polso della mano che teneva il bicchiere, il suo sguardo si perse nello specchio rubino e altalenante creato dal prezioso liquido.
La sua espressione aveva perso tutta la leggerezza e l’ironica allegria.
“Signor Valenoff, i miei rispetti.”
Juliette, fece il suo ingresso preceduta da un delicato aroma di sandalo e cipria. Un abito in raso verde acqua con inserti di chiffon grigio perla ne avvolgeva le forme. Niente era realmente scoperto ma tutto si poteva facilmente intuire.
“Madame Juliette, enchantè” …
Delicato baciamano. Negli occhi di Valenoff  stavolta nessun ammiccante sarcasmo. Era colpito dalla bellezza di Juliette, in fin dei conti era un uomo e la sua personalità non si discostava di molto dall’interpretazione di Vassilj Valenoff, ma in quel momento poteva vedere oltre. Ammirava il coraggio della giovane donna. Le versò del vino mentre lei si sedeva e le porse il calice.
“Spero che il mio aspetto valga quantomeno una valutazione della mia proposta! ”
Valenoff, disse questo a voce alta, ridendo vicino alla porta, con il solito atteggiamento scanzonato.
Assicuratosi che tutto fosse tranquillo chiuse l’uscio e si fece vicino a Juliette, sul divano.
Le parole successive le sussurrò.
“ Juliette, lei capirà quanto sia necessario spendere meno parole possibile in questa sede. Immagino lei si renda conto della delicatezza dell’operazione e di quanto dovremo essere rapidi e accorti. Erwin ha piena fiducia in lei come l’ha concessa a me. Mi raccomando di essere convincente. Domani sera la verrò a prendere alle otto e ci recheremo al ballo. Scambieremo i dettagli in carrozza.”
Juliette si limitò ad annuire, gli occhi scuri e profondi fissi in quelli nerissimi dell’uomo e scoppiò in una cristallina risata. “ ha! … Signor Valenoff, lei ha davvero una lingua tagliente! Un vero ragazzaccio! ”
Disse queste parole con allegria forse un po’ forzata e tornò a riaprire la porta, chiusa completamente avrebbe destato sospetti.
I due interpretarono magistralmente una brillante e piacevole conversazione, alternando la finzione al cercare di conoscersi, al meglio di quanto era loro consentito dalla situazione.
Una ventina di minuti, il minimo che a Juliette parve credibile.
“Mi conceda pochi momenti, la signora sarà da lei tra breve, la lascio in compagnia di questo ottimo vino”
Juliette scivolò fuori dalla stanza. Ostentava morbida calma ma una lieve corrente le scorreva sotto la pelle e un occhio molto attento avrebbe notato un pallore per lei inusuale.
“ Si, bambina?”
 La signora sedeva nel suo studio, alla sua scrivania.
Juliette spinse la porta in mogano e la chiuse dietro di se.
“ Ho avuto modo di scambiare due chiacchiere con il signor Valenoff. Mi è sembrato un uomo viziato e molto sicuro di se, ma in fondo una persona senza troppe ombre. E’ abituato a ottenere ciò che vuole, ma non sembra il tipo che amerebbe ottenerlo con la violenza, ama troppo il bel vivere e la tranquillità. Questo almeno è quel che si può intuire da una breve conversazione. Se troverete un accordo soddisfacente, io non ho obiezioni ad accompagnarlo in questa occasione mondana, lo trovo un piacevole diversivo”.
“Bene, mia cara. Puoi andare, preparati pure per la serata, più tardi ti farò sapere l’esito della trattativa.”
Il signor Velenoff aveva argomenti più che convincenti. La cifra che offrì era davvero notevole e spense qualsiasi remora residua che ancora albergasse nella mente della signora Cornelia.
Il giorno seguente Juliette si vide recapitare un bellissimo abito da ballo color crema e broccato di raso amaranto.
Non aveva mai indossato niente di così bello ed elegante. Si chiese se sarebbe stata in grado di gestirlo. Non aveva tempo di farsi insegnare … ma forse…
Bussò e spinse ancora una volta il pesante mogano della porta dello studio di Cornelia.
“Madame…, mi chiedevo se …”
Quel pomeriggio lady Cornelia insegnò a Juliette come sopravvivere a una notte in società.
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Potere ***


Nicholas Lobov scese dalla carrozza. Affaticato dal sovrappeso e annoiato dall’agio, salì gli scalini della sua dimora.
Il palazzo era uno dei più noti di Stohess per grandezza e opulenza. Ogni particolare nella sua architettura esprimeva ricchezza e arroganza, senza tuttavia apparire gradevole.
A differenza dell’edificio gli abiti del ricco borghese mostravano una sobria ricercatezza, con l’eccezione di alcuni particolari che ostentavano la sua posizione sociale, una catena in oro e rubini appesa al taschino della giacca e due pesanti anelli d’oro e granato alle dita. In cima al suo bastone troneggiava la testa di un dragone orientale, intagliato anch’esso in oro. A dispetto dell’incoerenza con il resto dell’abbigliamento, questo ornamento aveva il pregio di esprimere l’ossessione di Lobov, il suo amore per il potere.
La sua era stata una giornata piuttosto attiva, si era scomodato per affari più di quanto non fosse solito fare di persona. Era uscito in carrozza, aveva colto l’occasione per fare un giro nelle sue vigne, aveva degustato il fior fiore della sua produzione, controllato alcune case da gioco in suo possesso, presenziato al varo di un’imbarcazione che avrebbe solcato le acque dei canali a scopo commerciale e sulla via di casa aveva fatto una rapida fermata all’imbocco dell’Undicesima Scala che conduceva al quartiere sotterraneo per commissionare l’assassinio di Erwin Smith. Decisamente una giornata piena. Adesso pretendeva riposo e gratificazione. Dispose perché la servitù gli preparasse un bagno caldo e perché la sua massaggiatrice personale si occupasse dei suoi piedi affaticati.
Da tempo ormai viveva gli affari come un continuo spazzolarsi via la forfora dalla giacca. Qualsiasi cosa bramasse la sua mente speculativa, considerava ogni ostacolo al suo ottenimento qualcosa da spazzolare semplicemente via; fossero cose o persone poco importava.
Il favore che deteneva in parlamento era ormai stabile, questo in genere gli evitava il fastidio di disfarsi di personaggi scomodi. Si era guadagnato il totale appoggio della corporazione dei mercanti e raramente venivano prese decisioni che lo scontentassero. Ma quello Smith … Il pensiero irritante quasi gli rovinò il piacere del massaggio.
L’Armata Ricognitiva era una spina nel fianco. Gli altri corpi militari, in particolar modo quello di Gendarmeria, erano facilmente manovrabili, e molti soggetti al suo interno decisamente corruttibili. Giochi economici sui rifornimenti, deviazioni di carichi e conti truccati rappresentavano la normale amministrazione e costituivano una fiorente attività. Anche il contrabbando di materiale bellico che era ricettato nel quartiere sotterraneo, rientrava come voce abituale nel libro nero della contabilità del mercante.
L’Armata Ricognitiva agiva in autonomia. I soldati che ne facevano parte erano persone particolari, straordinariamente dotate ed eccentriche. Il fatto stesso di uscire dalle Mura li poneva nella condizione di avere una visione realistica del pericolo e dello situazione in cui si trovava l’umanità.  Avevano infine un difetto enorme, credevano in quello che facevano. Ognuno di loro ci credeva, per cambiare qualcosa o perché semplicemente lo sapeva fare bene e non avrebbe voluto fare altro. A questi soldati i rifornimenti servivano davvero e li pretendevano. I loro capi sapevano destreggiarsi in politica, ma non venivano a compromessi.
Maledettamente a rischio, ma maledettamente liberi, avevano molti nemici, ma anche molti sostenitori. Erano i miti dei ragazzini e considerati eroi da una parte di adulti. Non erano figure da poter spazzare via senza riflettere o senza un minimo di strategia. Il peggiore era il comandante Erwin Smith, ma lo consolava il fatto di aver organizzato un elaborato piano per disfarsi di lui.
La massaggiatrice terminò il suo lavoro e calzò i piedi di Lobov in morbide pantofole di lana e pelliccia, gesto che interruppe il suo flusso di pensieri. Dunque, ancora avvolto nel telo da bagno, l’uomo corpulento si alzò dallo sgabello mentre due cameriere si affrettavano a finire di asciugarlo e fargli indossare una comoda vestaglia.
Congedò la servitù e si diresse nel suo gabinetto privato, entrò e chiuse a chiave la porta dietro di se.
Si accomodò alla scrivania sulla sua pesante poltrona di pelle borchiata e trasse una chiave da un luogo segreto.
Con la chiave aprì un cassetto dal quale tirò fuori un registro dalla copertina nera e alcuni documenti. Li controllò accuratamente, come per valutarne non tanto il contenuto quanto l’integrità e li ripose con apprensione. Di cosa trattassero a lui era ben noto: registravano e provavano le sue attività illecite. Quei registri gli erano necessari per gestirle, non se ne poteva disfare, ma nelle mani dei suoi nemici sarebbero stati un arma terribile contro di lui.
I documenti che già erano entrati in possesso di Erwin Smith non lo preoccupavano eccessivamente, ma se qualcuno avesse messo le mani su queste carte, lo avrebbe avuto in pugno.
Lobov contava sul fatto che l’esistenza di quel registro fosse sconosciuta e che Smith fosse convinto di avere già in suo possesso tutti i documenti necessari per incriminare il mercante.
Sulla superficie in pelle della scrivania erano accatastate alcune buste e lettere. Lobov ne sfilò svogliatamente una dal mucchio e guardò il sigillo del mittente. Una lettera del marchese Balto. La aprì, era un invito a recarsi presso la tenuta del marchese in occasione di un gran ballo che avrebbe avuto luogo di lì a quattro giorni. I balli non erano eventi che Lobov amava frequentare; la sua espressione rimase seria e annoiata di fronte all’invito. Considerò che sarebbe stato utile partecipare solo per gestire le pubbliche relazioni con alcuni soci in affari che sarebbero stati presenti e archiviò la data nella sua mente.
 
 
 
La sera del ballo Valenoff attendeva puntuale Juliette nell’atrio del Giardino delle Rose.
Lei apparve in cima alle scale, radiosa.
Scese con cautela, tentando di non inciampare negli strati di crinoline ai quali non era abituata. La gonna dell’abito era ampia e frusciava ad ogni passo. La sua mano era saldamente aggrappata al corrimano e l’altra, che sollevava un lembo dell’abito, stringeva tanto il tessuto da apparire esangue.
La tensione non le impediva comunque di essere deliziosa, i capelli raccolti in uno chignon che lasciava liberi ciuffi ribelli sul viso e l’ampia scollatura che metteva in risalto le spalle e il seno. Le braccia candide contrastavano con l’amaranto caldo del broccato come panna in un mastello di rame.
Vasilij la guardò ammirato e il suo volto si aprì in un ampio sorriso di soddisfazione.
“Madame, siete una visione”
Raggiunta la fine della scala la ragazza sorrise, accennò un grazioso inchino e rispose:
“ Signor Valenoff, vogliamo andare?” E gli porse il braccio.
L’uomo annuì con aria compiaciuta e prese il braccio di Juliette con la delicatezza con cui avrebbe raccolto un uccellino da terra.
Si allontanarono nel vialetto fiorito e salirono sulla carrozza che li attendeva.
Un’ora prima Fabiola era come impazzita e volteggiava eccitata intorno a Juliette cercando di aiutarla a vestirsi, impigliandosi in realtà in nuvole di chiffon e sottovesti come un gattino maldestro.
“Uaaa! Questo vestito è stupendo! Guarda qua! Ma non ti fa impazzire? … E questo Valenoff? … Uffa perché io non ci sono mai quando accadono le cose interessanti? ”
Juliette le rispose con la solita dolce esasperazione, togliendole di mano una calza di seta che Fabiola si stava infilando in faccia, facendo le boccacce.
“ Da qua… Non ci sei mai perché sei irrequieta e non si riesce a tenerti tranquilla un secondo, probabilmente eri andata a spiare le tresche della moglie del fornaio, oppure saltellavi sui tetti, lo so che lo fai…”
“Certo che lo faccio, sono un’acrobata. Non penserete mica che quando non stiamo lavorando me ne stia a cucicchiare sottovesti come fa Liana? E poi la moglie del fornaio è uno spasso, meglio del teatro dei burattini, è così spudorata nei suoi tradimenti che mi chiedo cos’abbia sugli occhi il marito! E ora dai, racconta tutto! ”
Juliette aveva delle forcine in bocca e stava cercando di venire a capo dei suoi capelli, così masticò le parole:
“ Che c’è da raccontare? Questo tipo con i soldi è venuto qui, ha preso accordi con la Signora e io stasera devo lavorare fuori invece che in camera. Tutto qui”
Fabiola sgranò gli occhi:
“ Tutto qui? Ma andiamo, te ne vai a un ballo! In società! Con tutta quella gente spocchiosa e divertentissima! …Oh diavolo, vorrei troppo vederti e vorrei troppo venire anch’io!”
Juliette, seduta davanti alla specchiera, aveva l’aria poco convinta riguardo al risultato dell’acconciatura.
“ A me basterebbe riuscire a sistemare questi maledetti capelli” Sospirò “Comunque sono curiosa anch’io di sapere come me la caverò stasera, se non altro Valenoff sembra simpatico”.
“Aspetta! Ma come ti sei truccata quelle sopracciglia!? Dai, girati, che ti sistemo io…”
Fabiola si mise all’opera con i pennellini da trucco, esibendo piglio professionale e risentita serietà.
Juliette si mise remissiva nelle mani della sovreccitata fanciulla. Avrebbe voluto poter parlare liberamente con lei, ovviamente era un’ipotesi da escludere.
Alla fine di chiacchiere e preparazioni Juliette aveva dato un bacio in fronte alla compagna e le aveva augurato buona notte e buon lavoro.
Fabiola si era allontanata dalla stanza rimuginando fra se. Non era certo la moglie del fornaio che la ragazza aveva spiato. La piccola intrigante, inafferrabile e invisibile come un’ombra, era riuscita a intrufolarsi dietro le tende del salottino, durante la conversazione tra Juliette e Valenoff. In pratica aveva appreso che Vasilji Valenoff era una copertura e che il motivo per cui Juliette andava al ballo era qualcosa di grosso e pericoloso in cui l’aveva coinvolta il capitano Smith.
La sua mente adesso era colma solo della curiosità di saperne di più e della voglia di prender parte alla cosa, di qualsiasi cosa si trattasse. La verità era che quella vita la annoiava da morire e l’idea di un diversivo elettrizzante come una cospirazione nell’alta società la solleticava terribilmente.
Doveva trovare il modo di seguire Juliette, ma come?
**
Il dondolio della carrozza sciolse un po’ il nodo allo stomaco di Juliette.
Vasilij non aveva ancora detto una parola nonostante fossero in viaggio da diversi minuti.
Probabilmente l’uomo aspettava che attraversassero il tratto di campagna che precedeva la tenuta del marchese Balto, per sentirsi più libero di parlare.
Finalmente si riscosse dai suoi pensieri e parlò:
“Bene, mia cara, dobbiamo dare fuoco alle polveri.  Cerca di avvicinare Lobov nella maniera più naturale possibile: mangia bevi e danza come gli altri, ma cerca di non perdermi di vista. Durante questa serata il nostro uomo dovrà solo notarti e sviluppare un forte interesse per te, null’altro. Dobbiamo essere calmi e disinvolti, alla fine del ballo ce ne andremo tranquilli come siamo venuti. Sapremo di aver vinto solo domani, se Vasilij Valenoff riceverà un invito personale da parte di Lobov per lui e signora. Ufficialmente tu sei una mia lontana cugina, proveniente dal distretto settentrionale di Nedlay, in visita presso i parenti di Stohess. ”
La gola di Juliette si strinse. Ormai non poteva più tirarsi in dietro. La carrozza si fermò. Valenoff scese e andò ad aprirle lo sportello.
“ Prego madame ” L’uomo le porse il braccio.
La ragazza scese e insieme s’incamminarono, belli ed eleganti, lungo il viale che portava all’ingresso della villa del marchese Balto.
L’aria era frizzante e autunnale, i profumi di terra, conifere e sottobosco si mescolavano nelle narici.
Presero entrambi un profondo respiro, si scambiarono uno sguardo di intesa ed entrarono nell’ampio atrio illuminato dove il maggiordomo e le domestiche li annunciarono e si occuparono dei soprabiti.
Superate le formalità, la coppia venne introdotta nella sala da ballo, dove già molti invitati stavano danzando al suono di un valzer e altri si rinfrancavano con la sontuosa distesa di cibo ben disposto su lunghe tavole e candide tovaglie ricamate in verde e oro.
La sala era un ovale ricavato dall’intera area di uno dei torrioni che contornavano la villa. I soffitti erano altissimi e splendidamente affrescati, le finestre svettanti lame di vetro che davano accesso ad ampie terrazze.
Candelabri con molte braccia ammorbidivano la luce intensa dei lampadari di cristallo, creando complicati giochi di luce sulle pareti e riflettendosi su bottiglie e caraffe di varie bevande.
Juliette guardava ammirata, cercando di non far trasparire il suo stupore e la sua poca familiarità con questo genere di ambienti.
La calma sicurezza nei movimenti di Valenoff la rassicurò; si diressero a porre i loro omaggi al padrone di casa che si trovava al lato opposto della sala, circondato da una corte di borghesi reverenti e innaturalmente ilari.
Mentre attraversavano la sala, gli occhi di tutti, soprattutto quelli delle signore, erano puntati su di loro. Sguardi curiosi e penetranti, molti colmi di malizia, che sembravano voler carpire in un attimo tutti i segreti di una persona.
Juliette si sentì spogliata, molto più di quanto le capitasse nell’esercizio delle sue funzioni, ma mantenne la calma e assunse un’espressione dignitosa e distaccata, come la aveva vista sul viso della signora Cornelia, in più di un’occasione, quando rimetteva al proprio posto certa gente.
Il suo accompagnatore salutò il marchese.
“Marchese Balto, i miei rispetti. Vasilij Valenoff, ci siamo incontrati durante quell’asta in città, ricorda? Abbiamo combattuto strenuamente per quel manufatto orientale.  Che squisita rarità, mi dolgo ancora per come magistralmente lei mi abbia battuto”
Era noto a tutti quanto al marchese piacesse vincere. Se si desiderava entrare nelle sue grazie la via più breve era sicuramente quella di sfidarlo in qualsiasi campo e lasciarsi battere.
Perfino Dot Pixis, comandante del reggimento Garrison, massimo responsabile militare di tutte le regioni del sud, da anni ormai regalava a Balto  la vittoria nel gioco degli scacchi, solo per compiacerlo.
Valenoff, pochi giorni prima, aveva ingaggiato una strenua battaglia con il marchese presso una rinomata casa d’aste, allo scopo di gratificarlo. In effetti Balto si era gonfiato come un tacchino quando lo sconosciuto e agguerrito borghese si era fatto battere sull’ultimo rilancio.  Avere la meglio in pubblico e potersi pavoneggiare aveva talmente nutrito l’ego di Balto da permettere a Valenoff  non solo di farselo amico, ma anche di farsi invitare al ballo quella sera. Tutto ancora prima che Erwin fosse certo che Juliette avrebbe accettato l’incarico. In quel caso il piano avrebbe preso una piega diversa, ma sarebbe comunque andato avanti.
“ Valenoff! Mio caro! Che piacere che siate venuto! La vedo in splendida forma! E chi è la mirabile dama che vi accompagna?”
Balto si rivolse a Juliette chinandosi in un goffo baciamano.
“ Questa, signore, è mia cugina Juliette, in visita a Stohess dal lontano distretto di Nedlay, nei territori settentrionali.”
“ Mi complimento con i territori settentrionali. Dovrò andarci più spesso se le signore di quelle parti sono dotate di tale avvenenza”
“ Lei mi lusinga marchese, ma non posso fare a meno di notare che in questa sala fanno sfoggio di se signore di ben altra bellezza ”
Juliette si schermì, riuscendo a simulare un lieve rossore che le dava un’irresistibile aria d’ingenuità. Fu aiutata dalla vampa di calore che l’aveva pervasa quando il marchese le si era rivolto. Ogni parola da ora in avanti doveva essere attentamente soppesata.
Fortunatamente Balto si disinteressò rapidamente di Juliette, molto più interessato a narrare ogni particolare della sconfitta di Valenoff alla sua corte di invitati. Il buon Vasilij seppe reggere magistralmente il gioco fomentando il conte, inserendo anch’esso particolari sull’accaduto e ironizzando sulla sua inadeguatezza durante lo scontro.
Nel frattempo Juliette esplorava con lo sguardo la sala, cercando Lobov in base a come le era stato descritto. Valenoff in ogni caso le avrebbe fatto un cenno perché lei fosse sicura di adescare la persona giusta.
Lo individuò presso una finestra, o almeno vide una persona che corrispondeva alla descrizione.
Valenoff , ancora impegnato nelle frivola conversazione con Balto e i suoi invitati, si interruppe e si era rivolse a Juliette:
“Vieni mia cara, andiamo a bere qualcosa. Marchese, penso che questo uccellino abbia bisogno di bagnarsi il becco, signori, è stato un piacere” Accennò un cortese inchino e prese il braccio della ragazza, conducendola verso il tavolo delle bevande. Mentre camminavano le sussurrò all’orecchio.
“ Lobov è vicino alla finestra, l’hai riconosciuto? E’ vestito di grigio scuro e porta una fusciacca color ocra, camicia bianca e immancabile catena d’oro e rubini alla tasca.“
“Si, l’ho visto” Sussurrò lei in risposta.
***
 
Erwin era stremato, ma come al solito faticava a prendere sonno. Stava giocando con la vita delle persone e stava giocando pesante. Ne era perfettamente cosciente, ma doveva credere in ciò che stava facendo, non poteva vacillare.
Doveva raccogliere informazioni e poter contare su prove tangibili. Purtroppo non poteva farlo in prima persona, aveva dovuto coinvolgere qualcuno che fosse insospettabile, qualcuno talmente fuori da dinamiche politiche, militari ed economiche da avere l’incoscienza di esporsi a un tale pericolo. Qualcuno così affascinante da rendere la propria fragilità un arma di cui nessun soldato disponeva.
Doveva ridare vigore e credibilità all’ Armata Ricognitiva. I suoi uomini morivano a decine in ogni sortita e aveva bisogno di rimpiazzarli fisicamente. Non solo. Cercava dei miti da dare in pasto alla gente. Aveva bisogno di un campione. Per questo aveva manovrato perché quei tre ragazzi accettassero l’arruolamento.
Il loro capo in particolar modo aveva doti davvero eccezionali. Doveva tentare, per quanto disumani fossero i suoi metodi.
In fondo, cercava di convincersi, quelli erano criminali, in fondo, Juliette era una puttana…
 A chi lo stava raccontando? Combatteva in nome di qualcosa che andava perdendo ogni volta che agiva. Un gioco crudele. Più credeva nell’umanità più perdeva la propria.
Non sapeva dare un nome a che tipo di mostro stesse diventando, sapeva solo che era giusto agire così. Non avrebbe avuto rimpianti.
Lo stomaco gli si contrasse dolorosamente. Si raggomitolò sullo scomodo materasso, aspettando che la fitta di dolore passasse. Quando si rilassò un sussurro gli scivolò fra le labbra, prima di perdere coscienza : “ Juliette, non morire …”
***
La ragazza si avvicinò alla finestra, i suoi passi lenti, misurati, i passi di chi vuole farsi notare. Il suo sguardo era perso oltre Lobov, come avesse scorto qualcuno sulla terrazza e volesse raggiungerlo. Aveva in mano due calici di vino ambrato.
Passando vicino al ricco borghese, fece in modo di urtarlo quasi impercettibilmente, tanto da far vacillare lievemente i bicchieri e far scivolare una goccia fuori dal cristallo sull’abito del malcapitato.
“Oh! Sono desolata signore, ….”
Lobov tentò di mantenere un contegno, ma con tono infastidito redarguì la ragazza :
“ Madame, faccia attenzione…”
La ragazza si mostrò sollecita e petulante.
“ Mi permetta di rimediare … “ trasse un candido fazzolettino dal corsetto e lo umettò leggermente con le labbra, accostandolo poi alla candida camicia ormai oltraggiata di Lobov. Quel gesto infantile e così poco convenzionale nell’alta società, quella premura un po’ goffa ma spontanea, colpirono nel segno. Qualcosa nell’espressione rigida e sdegnata dell’uomo cambiò. Sul suo viso passò una punta di imbarazzo. Non era tipo da commuoversi per comportamenti infantili, eppure quella ragazza lo aveva colpito.
“ Lasci stare madame, ci penserà la servitù … posso chiederle il suo nome? Non credo di averla mai vista a Stohess, ma in effetti io non frequento assiduamente gli eventi mondani”
“Il mio nome è Juliette Valenoff. Vengo dal distretto di Nedlay. Sono in visita a Stohess e alloggio presso mio cugino Vasilij.”
“ Valenoff… E’ un nome che mi giunge nuovo, suo cugino si occupa di commercio in città? “
“ Vasilij si è affacciato da poco sul panorama commerciale di Stohess. Devo ammettere che fino a adesso si è limitato a godere del ricco patrimonio di famiglia, è un uomo vivace a cui piace vivere e  coltivare molti interessi. Solo ultimamente si è interessato al panorama mondano e agli affari, la mia famiglia ha colto l’occasione per mandarmi qualche tempo presso di lui perché mi accompagnasse nel mio, seppur tardivo, ingresso in società.”
“Il distretto di Nedlay non offre vita mondana?”
Chiese Lobov, incuriosito.
“ Nedlay è sicuramente un distretto tranquillo e lì la vita socio politica non ferve particolarmente, ma nel mio caso particolare ciò che mi ha tenuta lontana dalla vita di società è stato il cagionevole stato di salute che ha caratterizzato la mia infanzia e prima adolescenza. Pare che adesso io mi sia ristabilita e secondo il parere dei medici cambiare aria avrebbe dovuto giovarmi alquanto, così eccomi qui.”
“ Sarei curioso di conoscere suo cugino; se, come mi dice, è nuovo ai meccanismi che muovono il mercato, potrei avere per lui qualche buon consiglio. Il mio nome è Nicholas Lobov, ho una certa influenza sui traffici commerciali di questa città”.
Juliette colse la palla al balzo. Fino ad ora le sembrava di essersi comportata bene. Leggera e innocente, una donna di cui doveva rimanere solo il profumo e una sensazione di lieve insoddisfazione che avrebbe portato a cercarla ancora.
“ Stavo giusto portando da bere a mio cugino prima di combinare questo disastro”
Arricciò il naso e le labbra in una smorfia di imbarazzo, i grandi occhi color castagna che chiedevano ancora scusa.
Lobov accennò un sorriso spontaneo. Non era una cosa usuale da parte sua.
“ Conducetemi dunque da lui. Fa sempre piacere incontrare persone intraprendenti. Il mondo del commercio è un mare tempestoso.”
“Con piacere” Rispose Juliette.
Valenoff la stava osservando dalla terrazza, dal fondo della quale aveva seguito la conversazione tra lei e Lobov con apprensione.
Li vide dirigersi verso di lui. Brava Juliette…
“ Vasilij, questo è il signor Nicholas Lobov, che sbadatamente ho urtato mentre ti stavo portando da bere, fortunatamente si è mostrato una persona gentile e di spirito, sollevandomi dalla mortificazione che mi aveva fatta preda di se”
Una risata cristallina accompagnò queste parole.
“Onorato, signor Lobov, frequento da poco l’ambiente del commercio, ma ho già sentito molto parlare di voi”
I due gentiluomini si strinsero la mano.
“ Diciamo che ormai sono un veterano, l’età e l’esperienza aiutano molto nel campo degli affari, lei è ancora giovane, avrà tempo per fare pratica”
La conversazione prese vita, alimentata dalla curiosità di Lobov e dal suo interesse nel condizionare Valenoff e fargli capire con eleganza che chiunque volesse agire nella rete commerciale della città doveva stare alle sue regole.
Juliette assisteva al dialogo, intervenendo talvolta con qualche domanda e interpretando egregiamente il ruolo di ragazza borghese bene educata ma curiosa, anche se poco avvezza ai giochi di potere.
La breccia che Lei e Vasilij stavano cercando di aprire nell’animo di Nicholas Lobov pareva far già intravedere i primi spiragli di luce e i due cominciavano a prendere coraggio e comportarsi in maniera sempre più disinvolta.
“ Perché non invita sua cugina a ballare, non credo sia venuta qui solo per sentire le nostre noiose conversazioni da commercianti” Lobov fece un ampio cenno con la mano verso la pista da ballo.
“ Lei ha perfettamente ragione signor Lobov” disse ridendo Valenoff. “ Si dimostra più scaltro di me anche in tema di donne, oltre che di commercio ed io imperdonabilmente disattento” L’uomo si voltò verso Juliette “ Mia cara, vogliate perdonarmi, mi concedete questo ballo? “ la ragazza sorrise “ Ma certo mio caro. Grazie signor Lobov,  molto gentile da parte sua preoccuparsi per me, ma non mi stavo affatto annoiando, anche se ammetto che ho voglia di ballare.”
Valenoff condusse Juliette al centro della sala e i due si unirono alle danze.
Una Varsovienne. Juliette si concentrò raccogliendo tutto quello che la signora Cornelia le aveva rapidamente insegnato.
Sperò di ricordare tutto. Valenoff la guardò intensamente negli occhi e le sussurrò
 “ Tranquilla, ti porto io”.
Juliette amava la danza, anche se non aveva mai avuto modo di coltivarla. Quando era ragazzina, al suo paese, veniva organizzata in estate una manifestazione durante la quale i ragazzi  che sapevano suonare uno strumento e conoscevano qualche melodia popolare permettevano alla gente di rallegrarsi con qualche ballo rustico in piazza. Lei era sempre la prima a lanciarsi nelle danze e maestra nel trascinare i suoi amici. Ricordava il suo fratellino al lato della piazza che batteva le manine ridendo.
Non era niente di paragonabile all’eleganza dei balli ai quali era avvezza la società borghese:
adesso, sotto le luci dei grandi lampadari, sotto gli stucchi, e gli affreschi del soffitto, in mezzo ai rasi dorati delle tende alle finestre, Juliette doveva riuscire a mostrare nuovamente quella grazia e quella disinvoltura.
Chiuse gli occhi. Valenoff le cinse la vita. Inspirò profondamente aria e musica. Entrarono in lei come miele versato in un ruscello, e fu come essere quell’acqua, fluida tra le braccia solide di Vasilij che la facevano volteggiare mentre il suo vestito si apriva come una corolla intorno a lei.
I colori della stanza si confusero intorno, la tensione svanì. In quel momento provò pura gioia.
Nicholas Lobov respirò quella gioia.
Non fu la bellezza o la grazia, cose banali e scontate in certi ambienti. Quella carica vitale, quella gioia selvatica che Juliette emanava avevano piantato un seme tenace nella sua mente.
***
Per Fabiola era stata una notte impegnativa. Aveva dovuto accantonare l’idea di indagare sulla situazione di Juliette e questo l’aveva innervosita non poco.
Era stata più brusca del suo solito e qualche cliente si era anche lamentato, procurandole una ramanzina da parte della signora Cornelia.
Quando Juliette venne riaccompagnata dalla carrozza di Valenoff  al Giardino delle Rose, la casa era immersa nel sonno. Solo Genevieve e la cuoca erano in piedi.
Fabiola ormai sognava da un po’. Sognava di volteggiare tra i palazzi di Trost e di raggiungere le finestre di una grande, ricca e illuminata sala da ballo.
Il pomeriggio seguente la signora Cornelia comunicò a juliette che Valenoff  aveva richiesto la sua compagnia per il pomeriggio del giorno successivo.
 L’avrebbe accompagnato presso l’abitazione del noto Nicholas Lobov.
Era andata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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