Empathy

di Kim_HyunA
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


La notte sembrava interminabile.

Dopo il normale controllo delle camere, non gli rimaneva molto da fare. Si sedette per qualche minuto in un corridoio, le gambe pesanti e stanche dopo aver trascorso il pomeriggio in piedi, a correre da un reparto all’altro.
 
Jonghyun chiuse gli occhi per qualche secondo mentre buttava giù il secondo caffè della serata per rimanere vigile. Era imbevibile (e non gli piaceva nemmeno tanto il caffè, ad essere sinceri), ma era tutto ciò che offriva la macchinetta del quinto piano dell’ospedale.
 
Ovviamente preferiva quella rara tranquillità; significava che non c’erano emergenze e nessuno era in pericolo di vita, e questo riusciva a confortarlo come poco altro al mondo: nel corso degli anni aveva sviluppato una certa empatia; si trovava sempre troppo coinvolto nel dolore altrui.
 
A volte si chiedeva perché avesse iniziato a studiare medicina. In un ospedale il dolore e la sofferenza erano all’ordine del giorno, come pensava di poter sopravvivere in quell’ambiente?
 
Ma ne valeva la pena.
 
Di questo era certo.
 
Le notti insonni, le lacrime, il cuore pesante. Tutto veniva ripagato ogni volta che un paziente guariva o lo ringraziava, o quando un parente in ansia gli sorrideva pieno di gratitudine. Portare benessere era il suo compito. La sua missione.
 
Aveva ancora qualche ora prima di terminare il turno di notte. Non gli dispiaceva dover rimanere fino alle prime ore del mattino; soffrendo di insonnia non avrebbe dormito neanche se si fosse trovato nel suo letto. Gli dispiaceva solo non essersi portato un libro per quel giorno: approfittava dei (rari) ritagli di tempo per studiare; medicina non era una materia semplice, richiedeva costanza ed impegno, oltre che serietà, e dover trascorrere buona parte del suo tempo a fare pratica lo metteva a dura prova.
 
Si disse che appena arrivato a casa avrebbe cercato di riposare per qualche ora, prima di buttarsi a capofitto sui libri e tornare in ospedale nel tardo pomeriggio.
 
 
 

 
La casa era silenziosa ed immersa nel buio quando tornò, stanco e con un leggero mal di testa, intorno alle tre e mezza. Appoggiò le chiavi e il casco della sua fedele moto all’ingresso insieme alle scarpe.
 
Sentì un soffice zampettare che si avvicinava e, con un sorriso e un saluto che era poco più di un sussurro, prese tra le braccia la sua scodinzolante bassotta Roo che festeggiava felice il suo ritorno. Presa da un attacco di euforia — in effetti non era più molto il tempo che trascorrevano insieme ora che era impegnato in ospedale — prese a leccargli la faccia senza sosta e Jonghyun non poté fare a meno di ridere appagato.
 
Socchiuse piano le porte delle camere della mamma e della sorella per assicurarsi che fossero addormentate, e quando vide le sagome scure e sentì il respiro regolare, disse a bassa voce: “Sono a casa”.
 
Si diresse poi verso la sua camera, appoggiò una Roo ancora in festa sul tappeto e crollò su letto ancora vestito.
 
 




Aveva chiuso gli occhi da forse mezz’ora quando sentì Roo saltare sul suo letto e piangere tenendo il guinzaglio in bocca. Aprì un occhio solo per metà.
 
“Roo~ dopo, è presto” grugnì contro il cuscino.
 
Ma qualcosa non tornava. Perché entrava così tanta luce dalla finestra? E perché la sua sveglia indicava le undici e venticinque?!
 
Prese il cellulare e fissò incredulo la scritta luminosa che gli diceva che aveva sprecato tempo prezioso. Com’era potuto succedere? Doveva riposarsi solo qualche ora!
 
Con un balzo scese dal letto, lasciando solo un’ignorata Roo ad aspettarlo ancora piena di speranza ed entusiasmo.
 
Jonghyun corse in cucina, dove sua mamma stava preparando le ultime cose prima di uscire per uno dei suoi turni all’asilo nido, dove lavorava ormai da alcuni mesi.
 
“Mamma!” quasi urlò mentre lanciava un’occhiata all’orologio da parete, come se si aspettasse di ricevere una risposta diversa dalle precedenti.
 
“Perché non mi hai svegliato?” chiese rassegnato, senza alcun tono di accusa.
 
“Sembri così stanco in questi giorni, ho pensato che farti dormire più del solito potesse farti bene” gli spiegò, guardandolo preoccupata. Non era la prima volta che gli diceva che gli sembrava dimagrito da quando aveva iniziato a seguire quei turni massacranti.
 
“Dovevo studiare…” disse più a se stesso che a lei.
 
“Lo so, ma non dimenticare che anche il riposo è importante. O dovremo portare anche te all’ospedale, e non come specializzando stavolta”.
 
Jonghyun sorrise. La raggiunse e l’abbracciò da dietro, prima di augurarle buon lavoro con un bacio e ringraziarla per le sue continue attenzioni nei suoi confronti.
 
Mentre si stava rifiondando in camera per raccogliere i suoi libri e non sprecare altro tempo, notò la stanza di Sodam, la sorella. Era vuota. Doveva essere già al lavoro da qualche ora. Era frustrante incontrarla così poco, non riusciva mai a combinare i propri turni con quelli del resto della famiglia.
 
Entrò in camera con un sospiro e trovò Roo esattamente come l’aveva lasciata: scodinzolante e in attesa con il guinzaglio in bocca, pronta per la sua passeggiata mattutina.
 
Si mise a ridere.
 
Avrebbe recuperato le ore di studio un’altra volta.
 
 
 


Nel pomeriggio, con un leggero senso di colpa e i vestiti ricoperti dai peli di Roo, Jonghyun si infilò nello spogliatoio maschile per indossare la sua divisa: camice e pantaloni azzurri.
 
Era pronto per un altro, lungo, turno.
 
Aveva appena fatto in tempo a terminare il giro delle visite, quando il suono insistente del cercapersone — che riusciva a farlo sussultare sorpreso ogni volta — lo avvisò di un’emergenza.
 
Si precipitò per le scale per affiancare i medici che trasportavano una donna su una barella, chiedendo informazioni sull’accaduto e indicazioni sui suoi parametri vitali.
 
A quanto pareva la donna era stata coinvolta in un frontale, il viso e le braccia ricoperti da graffi e lesioni. Ma non era questo ciò di cui si preoccupavano maggiormente i medici, quanto della ferita che aveva riportato alla testa, dopo aver presumibilmente sbattuto contro il cruscotto.
 
Dopo i primi accertamenti e le prime medicazioni, era chiaro che la situazione era piuttosto grave e che la paziente doveva essere tenuta in coma farmacologico prima di essere pronta ad essere operata.
 
Jonghyun cercava di tenere a freno le emozioni mentre osservava la donna, il suo bel viso di mezza età coperto da lividi e la fasciatura intorno alla testa.
 
Quando dovettero cercare tra i suoi effetti personali un numero di telefono per contattare un parente, fu grato che il compito non spettasse a lui quella volta. Sentiva un groppo allo stomaco e la voce gli moriva in gola quando doveva comunicare una cattiva notizia. Ma sapeva che avrebbe dovuto superare questo suo blocco: anche questo faceva parte del mestiere, che gli piacesse o no.
 
A quanto pareva, la persona a lei più vicina era il figlio che, a detta dello specializzando che l’aveva contattato, era rimasto in silenzio per qualche secondo, incapace di proferire alcun suono, prima di rispondere con voce ferma: “Arrivo subito”.
 
Jonghyun non poté fare a meno di pensare a come avrebbe reagito lui stesso se avesse ricevuto una simile telefonata. Scacciò il pensiero con un movimento della testa.
 
Il figlio della donna arrivò dopo poco meno di mezz’ora, una borsa a tracolla e le guance arrossate dal freddo pungente. Appena raggiunto il reparto di terapia intensiva, aveva chiesto indicazioni dettagliate sulle sue condizioni di salute e, dopo che gli venne detto che per motivi medici, non gli era permesso entrare nella sua camera, rimase a guardarla dalla parete a vetri, il volto privo di qualsiasi espressione.
 
Jonghyun lo osservò a lungo con attenzione. Non dava segno di aver pianto, i suoi occhi non erano lucidi. All’apparenza sembrava silenzioso e fragile, con quel corpo che sembrava minuto nonostante l’altezza, ma doveva essere forte, perché non vide nessuna lacrima. Non che le lacrime fossero segno di debolezza, questo Jonghyun lo sapeva bene.
 
Si avvicinò a lui per dirgli qualche parola di conforto. Se c’era qualcosa per cui era portato, era il contatto umano. Creare una connessione positiva con chi aveva intorno.
 
“Si riprenderà presto, vedrai”. Infondere speranza. Uno dei punti fondamentali.
 
Si era rivolto a lui senza alcun onorifico, non dimostrava più di una ventina d’anni, doveva essere sicuramente più giovane di lui.
 
Il ragazzo non rispose, ma annuì senza troppa convinzione per lasciare intendere che lo aveva sentito.
 
Decise di non insistere. Probabilmente aveva bisogno di rimanere solo con i suoi pensieri.
 
Quando ritornò a controllare qualche ora più tardi, lo vide seduto in corridoio, lo sguardo perso nel vuoto mentre si portava alle labbra un bicchiere di plastica che conteneva senza dubbio caffè. Jonghyun avrebbe potuto riconoscere quel debole aroma annacquato tipico della macchinetta dell’ospedale tra mille.
 
Dedusse che non si era mosso da lì tutto il pomeriggio e che non aveva nemmeno cercato di buttare giù qualcosa per cena. Non lo biasimava.
 
Si sedette in silenzio accanto a lui, non riuscendo ancora a capire se la sua presenza fosse ben accetta o meno.
 
Finito il caffè, lo vide tamburellare le dita contro il bicchierino, chiaramente nervoso e in ansia, prima di stritolarlo talmente forte in una mano che le nocche gli erano diventate bianche. Era quello il suo modo di mostrare la tensione, tenendo le mani costantemente impegnate.
 
“Ce la farà, non è vero?” chiese rompendo il silenzio, la voce leggermente tremante che tradiva l’apparente solida facciata.
 
Jonghyun non sapeva dirlo. Era troppo presto. Avrebbe voluto rassicurarlo che sì, sarebbe andato tutto bene, che si sarebbe ripresa come gli aveva detto in un primo momento. Ma la verità è che non lo sapeva, non prima dell’operazione. Decise di essere sincero, per non nutrirlo di false speranze. Dopotutto, era un (quasi) dottore, doveva dimostrare una certa professionalità. E perché se si fosse trovato lui al suo posto, avrebbe voluto sapere la verità.
 
“Dobbiamo aspettare l’operazione per poterlo dire con certezza”.
 
Si sentì lo stomaco contorcersi nel pronunciare quelle parole ad alta voce.
 
Il ragazzo prese a giocare nervosamente con le proprie dita.
 
“Ho bisogno di un altro caffè” disse alzandosi e buttando nel cestino accanto il bicchiere vuoto.
 
Jonghyun lo guardò tornare verso di lui qualche minuto dopo. Il suo viso aveva dei lineamenti particolari, non comuni. Gli occhi erano allungati, quasi felini, e la bocca era piena e ben disegnata. Dal suo volto non sembrava trasparire nessuna apparente emozione.
 
L’orario delle visite era già finito da un pezzo, ma non se la sentiva di mandarlo via. Approfittò della chiamata al cercapersone per lasciarlo solo e si allontanò.
 
 
 

 
Le condizioni della donna rimasero stabili nei giorni seguenti. Gravi, disperate, ma stabili.
 
Jonghyun non era riuscito a chiudere occhio quando era rincasato in mattinata. La notte precedente un’anziana signora con cui aveva stretto un forte legame di affetto era venuta a mancare in seguito ad una complicazione. Complice l’età avanzata, il suo corpo era troppo debole e provato per reagire efficacemente e tempestivamente alle cure.
 
Era la prima volta che vedeva qualcuno morire davanti ai suoi occhi.
 
Jonghyun non aveva potuto fare altro che chiudersi in un bagno e piangere. Piangere fino a quando gli occhi non gli fecero male. Perché era ingiusto, perché si sentiva impotente di fronte alla morte. “Non potete salvare tutti”. Gli era riaffiorata alla memoria una delle prime frasi che erano state dette a lui e agli altri studenti il primo giorno in ospedale. La lezione più dura di tutte. Quella che Jonghyun non riusciva ad imparare. Che si rifiutava di imparare. Perché doveva essere così dolorosa la realtà?
 
Rimase con gli occhi lucidi fino alla fine del turno e quando arrivò a casa si sentì sollevato nel non dover rimanere solo. Abbracciò la sorella, incapace di trattenere il suo pianto sofferente. Sodam aspettò a fargli qualsiasi domanda, lo lasciò singhiozzare contro la sua spalla, prima di acciambellarsi sul divano tenendoselo stretto tra le braccia.
 
Jonghyun le raccontò di quello che era successo, di come non avevano potuto fare niente per salvarla. Le raccontò di quando le aveva regalato una scatola di biscotti un giorno in cui si sentiva particolarmente triste, o di come si fosse sempre interessata alla sua vita, chiedendogli notizie sulla famiglia e sullo studio.
 
“Non è giusto, non è giusto…” aveva preso a ripetere come una litania quasi sussurrata. E si era lasciato accarezzare dolcemente i capelli mentre cercava di calmarsi.
 
 
 

 
Quando il giorno seguente tornò ad infilarsi il camice (due pesanti occhiaie gli erano comparse sul volto a ricordargli la mancanza di sonno), Jonghyun era deciso ad impegnarsi più che mai affinché episodi come quelli del giorno precedente non si ripetessero più. Non l’avrebbe permesso.
 
Andò dalla donna coinvolta nell’incidente d’auto. Controllò le sue condizioni ed effettuò tutte le medicazioni necessarie: quel pomeriggio sarebbe finalmente stata operata. Era sollevato e nervoso allo stesso tempo. L’incertezza dell’esito gli mise addosso una certa nausea.
 
Stava finendo di riordinare le sue cartelle, quando notò fuori che il figlio stava seguendo attentamente i suoi movimenti dalla parete di vetro. Lo raggiunse e cercò di incoraggiarlo con un lieve sorriso.
 
“Pomeriggio sarà operata. Domani mattina potrai già parlarle.”.
 
Lo disse come se fosse un dato di fatto, come se la percentuale di rischio fosse nulla. Gli appoggiò per qualche secondo una mano sulla spalla per infondergli maggiore fiducia.
 
Come d’abitudine, il ragazzo non rispose. Si limitò ad un cenno del capo.
 
Nonostante l’apparente distacco, Jonghyun riusciva a percepirne il dolore, lo sentiva scorrere dentro di sé come se gli appartenesse.
 
“Devo finire il giro delle visite, ci… ci vediamo dopo” si congedò sentendosi un po’ in colpa a doverlo abbandonarlo con la propria sofferenza.

 
 
--
A/N: oddio è passato più di un anno dall’ultima volta che ho pubblicato qualcosa. non me ne sono proprio resa conto. sono successe così tante cose negli ultimi mesi, che ho perso la nozione del tempo.
 
qualche aggiornamento su di me, se a qualcuno interessa. lo scorso febbraio mi sono laureata!! è la sensazione migliore del mondo, credetemi. è stato uno dei giorni più belli della mia vita! e da novembre invece sto lavorando, quindi capite che non ho tantissimo tempo per scrivere, i’m sorry TT
 
parlando della storia invece, se vi è piaciuta dovete solo ringraziare questa splendida persona che non solo mi ha dato l’ispirazione per scriverla, ma mi ha sopportato ogni santo giorno mentre la scrivevo. grazie ale, ovviamente è dedicata a te c:
 
la storia è composta da 4 capitoli, nei prossimi giorni posterò la seconda parte!
 
spero vogliate continuare a leggerla!
 
a presto c:

PS. = se sparisco, sappiate che è perché avrò avuto un infarto con gli album di hyuna e di simon d. è colpa loro D:

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Capitolo 2
*** 2. ***


Dopo un veloce boccone nella mensa ospedaliera, Jonghyun tornò in reparto per la preparazione all’operazione. Rivolse quello che voleva essere un sorriso rassicurante al ragazzo ed entrò con dottori e chirurghi nella camera.
 
La prassi voleva che in quei momenti le finestre fossero chiuse e Jonghyun si sentì terribilmente in colpa a dover abbassare le persiane davanti al volto teso dell’altro. Mormorò uno “scusa” muovendo solo le labbra, prima di escluderlo da ciò che stava succedendo nella stanza.
 
Seguì le indicazioni che gli rivolgevano gli altri medici, con anni e anni di esperienza e sicuramente maggiore competenza di lui, per preparare la paziente.
 
Quando la portarono via su una barella verso le sale operatorie, non poté fare altro che uscire dalla stanza, sentendosi leggermente stordito.
 
Era terribilmente in ansia per l’esito. Ma poi vide il volto pallido e stanco del ragazzo e si chiese che diritto avesse lui di sentirsi così coinvolto per una estranea. Di fronte alla tacita sofferenza del figlio, gli parve non aver alcun senso.
 
Si avvicinò a lui e gli mise una mano sul braccio. L’altro sembrò non notarlo nemmeno.
 
“Andrà tutto bene. Devi avere fiducia in quei dottori, sanno quello che fanno” lo incoraggiò.
 
Lo vide fare un respiro profondo. Stava cercando di tranquillizzarsi.
 
Rimasero in silenzio per qualche minuto. Jonghyun gli lanciava qualche sguardo, incerto sul da farsi. Lo sguardo dell’altro era ancora puntato verso il corridoio lungo il quale avevano portato la madre.
 
Jonghyun decise che avrebbe preferito rimanere solo, ma non aveva ancora mosso il primo passo, che l’altro parlò.
 
“Puoi restare con me? Non mi va di aspettare da solo… mi sembra di impazzire.”.
 
La sua voce era provata, il viso esausto. Jonghyun non si sarebbe sorpreso se avesse scoperto che non aveva né mangiato né dormito in quei giorni. Si era crogiolato nell’ansia, era cotto a fuoco lento nell’incertezza.
 
“Certo” gli aveva detto, portandolo in un corridoio più isolato, dove sarebbe potuto rimanere tranquillo.
 
Si erano presi un caffè per ingannare il tempo e tenersi impegnati, e dopo la prima mezz’ora che avevano trascorso seduti quasi in completo silenzio, Jonghyun si chiese cosa stesse passando per la mente dell’altro in quel momento. Stava pensando a cosa sarebbe potuto andare storto? O a quello che le avrebbe detto appena si fosse risvegliata? O magari non stava pensando a niente e ripeteva disperate preghiere nella testa.
 
“Queste sedie sono davvero scomode” sdrammatizzò all’improvviso il ragazzo, abbozzando un sorriso. Jonghyun apprezzò lo sforzo.
 
“Sono Kibum comunque” si presentò, tendendogli una mano, e capì che stava cambiando strategia. Forse parlare e avviare una conversazione lo avrebbe aiutato a distrarsi e a distogliere anche solo per qualche minuto l’attenzione da quello che stava succedendo nella sala operatoria del piano di sotto.
 
“Jonghyun” gli sorrise incoraggiante.
 
E da lì Kibum fu un fiume in piena. Gli raccontò di come durante la sua infanzia sua mamma avesse avuto seri problemi di salute ed era stata costretta ad entrare e uscire dagli ospedali con tale regolarità che lui era stato praticamente cresciuto dalla nonna. E ora che si era trovato in quella situazione, aveva paura di perderla per sempre. Jonghyun lo ascoltò con trasporto e partecipazione, cercando di ricacciare indietro le lacrime che puntualmente gli si presentavano agli occhi.
 
Scoprì che studiava architettura all’università, ma la sua vera passione era la moda. Gli raccontò dei suoi due cani che avevano trascorso gli ultimi giorni a casa della nonna, che era troppo in là con gli anni per raggiungerlo in ospedale ed aspettare insieme a lui per interminabili ore. Jonghyun si inserì con piacere nella conversazione, parlandogli di Roo e di come fosse convinto che non sapesse di essere un cane. Gli mostrò persino orgoglioso alcune foto che aveva scattato con il cellulare. A sua volta gli aveva raccontato qualcosa della sua vita: di come aveva deciso che voleva diventare dottore (il suo desiderio di aiutare gli altri lo aveva da sempre accompagnato), di come nel tempo libero amasse guardare film circondato da candele profumate (i suoi aromi preferiti, aveva sottolineato, erano vaniglia, lavanda e cocco), o di come sul comodino accanto al suo letto non mancassero mai libri impegnati, libri che leggeva con occhiali neri dalla spessa montatura che, non solo gli facevano sembrare il volto più piccolo, ma a sua detta gli conferivano anche un’aria da intellettuale (Kibum aveva soffocato a stento una risata a questo) — anche se ultimamente li aveva dovuti trascurare a malincuore per dedicarsi allo studio. Kibum arrivò persino a prenderlo in giro quando gli spiegò del rapporto quasi simbiotico che aveva con la sorella, rivelandogli fiero che aveva una sua foto come sfondo del cellulare.
 
Jonghyun era così lieto di essere riuscito a distrarlo, di essere riuscito a vedere qualche sorriso sul suo volto altrimenti impassibile. Ma presto il suo sollievo si trasformò in disagio perché a quanto pare, aprirsi in quel modo aveva abbassato le barriere difensive di Kibum, che non era più riuscito a trattenere le lacrime.
 
Jonghyun rimase spiazzato per qualche secondo, incerto sul da farsi. Gli diede qualche colpetto sulla spalla con la mano, prima di decidere di lasciarla appoggiata, nella speranza di trasmettergli un po’ di calore. Ma forse non era abbastanza per alleviare la sofferenza dell’altro che gli gettò le braccia al collo, nascondendo il viso contro una sua spalla. Jonghyun lo lasciò fare senza problemi.
 
“Andrà tutto bene, puoi fidarti di me.”.
 
 
 

 
Finalmente, a due ore dall’inizio dell’operazione e alcuni minuti dopo che Jonghyun e Kibum erano tornati di fronte alla camera della madre, i dottori avvisarono che tutto si era concluso per il meglio e che al suo risveglio sarebbe rimasta ancora in ospedale per qualche giorno per essere tenuta sotto osservazione. Ma sembrava che Kibum non avesse nemmeno sentito la seconda parte della frase: l’intero universo era esploso di gioia per lui quando scoprì che stava bene e si sarebbe ripresa. Gli scese una lacrima liberatoria prima di stringere Jonghyun in uno stretto abbraccio pieno di gratitudine.
 
Erano rimasti nuovamente soli mentre aspettavano che la riportassero in camera, ancora sotto gli effetti dell’anestesia.
 
“Vuoi che resti a farti compagnia?” chiese ad un certo punto, per essere sicuro che lo volesse ancora lì con lui.
 
“Fino a che ora sei di turno?” chiese di rimando, era più rilassato ora e con il volto più sereno.
 
“In realtà ho finito due ore fa” confessò, portandosi una mano dietro il collo, ma non ebbe il tempo di sentire la sua risposta, perché in quel momento la barella fece la sua comparsa in corridoio e Kibum vi corse incontro con un sorriso.
 
Jonghyun li guardò sollevato e se ne andò.
 
 



Il pomeriggio seguente si sentì scaldare il cuore quando arrivò nell’ormai famigliare corridoio del quinto piano e vide Kibum e la madre che si tenevano per mano, lui immerso in una fitta conversazione.
 
Era già stata visitata da un altro medico e Jonghyun si limitò a rimanere fuori dalla stanza per qualche minuto. Quella scena gli scaldava il cuore. Erano quelli i momenti che valevano la pena andassero vissuti. Quando tutto andava bene, quando tutto si concludeva come doveva concludersi, Jonghyun era certo di aver fatto la scelta giusta nella vita.
 
Kibum alzò lo sguardo, avendo notato la sua presenza, e lo salutò allegro con la mano libera. Anche gli occhi della donna si posarono su di lui e Jonghyun salutò contento di rimando.
 
Certo, sarebbe dovuta rimanere in ospedale ancora qualche giorno, ma si sentiva il cuore molto più leggero. Era andato tutto bene. Non c’era sensazione migliore.
 
Si allontanò con un piacevole caldo all’altezza del petto che lo accompagnò per tutta la giornata fino a quando tornò a casa e strinse forte in un abbraccio mamma e sorella. Era così felice di trovarsi lì con loro, di averle vicine.
 
Finalmente aveva due giorni di riposo dall’ospedale ed era più che mai risoluto a spenderle sui libri. Non avrebbe permesso a niente di distrarlo. Neanche a Roo che lo guardava dalla porta muovendo la sua lunga coda da una parte all’altra, sbattendola pesante contro uno stipite della porta. Beh, forse il tempo di una passeggiata l’aveva.
 
 

 
 
Con la testa piena di nuove nozioni ma senza più alcun senso di colpa, tornò in ospedale qualche giorno più tardi per il turno pomeridiano.
 
Con una certa sorpresa notò che il letto della madre di Kibum era vuoto e andò a chiedere informazioni. L’avevano dimessa proprio quella mattina. Se da una parte fu sollevato che aveva finalmente potuto lasciare l’ospedale — significava che non c’era stata alcuna complicazione — dall’altra gli dispiacque non aver avuto la possibilità di poterli salutare. Si chiese se anche a Kibum fosse dispiaciuto essersene andato senza riuscire a scambiare una parola, o se la sua gioia e il suo sollievo erano talmente grandi, che non gli era nemmeno passato per la mente.
 
Con un certo rammarico si dedicò ai compiti che lo aspettavano quella giornata.
 
Nella settimana che seguì, l’umore di Jonghyun era altalenante. Oltre a sentirsi come sempre addosso le emozioni più o meno positive di chi aveva intorno, si erano intensificate anche le sue emozioni personali. Si era ritrovato a pensare a Kibum con sempre maggior frequenza. Si chiedeva se l’avrebbe rivisto, se si ricordava ancora di lui o se era stato solo una persona come tante che l’aveva sì incoraggiato, ma niente di più. E non gli era mai successo niente di simile con nessun altro in ospedale. Faceva sempre il suo dovere senza mai aspettarsi nulla in cambio, come era giusto che fosse.
 
Un mercoledì mattina stava sistemando il contenuto di un armadio di medicinali, quando vide Kibum con la madre in lontananza. Rimase talmente stupito che il braccio gli restò fermo a mezz’aria.
 
Appoggiò una boccetta, chiuse l’anta e camminò con passo veloce — in realtà quasi correva — verso di loro. Arrivò nel momento in cui la madre entrò in una stanza, lasciando Kibum fuori da solo.
 
“Hey” iniziò quasi impacciato. Ora che lo aveva di nuovo di fronte si sentiva stranamente nervoso. Perché la settimana prima era riuscito a stargli accanto tranquillo?
 
“Siamo qui per un controllo” spiegò, rispondendo alla domanda che Jonghyun non aveva nemmeno pronunciato.
 
“Come sta?” chiese, con un misto di sincero interesse e preoccupazione.
 
“Molto meglio. Ha avuto qualche leggero mal di testa negli ultimi giorni, ma sta bene.” Jonghyun non l’aveva mai visto così sereno, gli occhi luminosi e gli angoli della bocca sollevati in un sorriso.
 
Non poté fare a meno di sorridergli di rimando, contento per la buona notizia.
 
“Non ho avuto nemmeno modo di salutarti” si ritrovò a dire, prima di accorgersi che aveva pronunciato quel pensiero ad alta voce.
 
Kibum abbassò gli occhi per un istante, per poi tornare a fissarli in quelli dell’altro, che si ritrovò a deglutire nervoso. Come poteva avere degli occhi così belli? E quella cicatrice su una guancia come non aveva potuto notarla prima?
 
“Mi dispiace” iniziò a scusarsi l’altro. “Ho chiesto di te la mattina che ce ne siamo andati, ma mi hanno detto che non c’eri.”
 
Kibum aveva chiesto di lui. Aveva espressamente chiesto di lui per poterlo salutare. Jonghyun ci mise qualche secondo per registrare l’informazione.
 
Prima che potesse anche solo pensare a come rispondere, l’altro proseguì.
 
“E non ho nemmeno avuto modo di ringraziarti”.
 
Il cuore di Jonghyun prese a martellare impazzito. Se non altro, se si fosse sentito male, era già in ospedale.
 
“Non ce n’è bis—” aveva iniziato a dire sentendosi la testa leggera, ma si interruppe quando notò cosa l’altro stesse facendo.
 
Si era velocemente avvicinato a lui e prima ancora che potesse capire del tutto cosa stesse succedendo, le labbra di Kibum stavano premendo sulle sue e vi rimasero appoggiate per pochi secondi.
 
Si sentiva stordito.
 
Frastornato.
 
Cos’era appena successo?
 
Si sentiva le guance in fiamme e le gambe molli.
 
Aprì la bocca per cercare di dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono.
 
Fu salvato da quella imbarazzante situazione dalla porta che si apriva accanto a loro.
 
Kibum si allontanò con la madre, ma non prima di essersi voltato verso di lui e avergli rivolto un occhiolino.
 
 
 
 

Per tutta la giornata seguente e quella dopo ancora, sul volto di Jonghyun era stampato un sorriso che andava da parte a parte e con la sua positività e la sua gioia riusciva ad influenzare tutti quelli che aveva intorno.
 
E naturalmente il suo sorriso non era passato inosservato nemmeno a casa, e anche se si era limitato ad un sognante: “Sono solo contento” accompagnato da un’alzata di spalle, era sicuro che avessero capito. Lo conoscevano fin troppo bene per sapere che ci poteva essere una sola ragione che lo portava ad essere così spensierato.
 
Inutile dire che, nonostante le ore che trascorreva sui libri in compagnia di tazze enormi di tè fumante, non riusciva ad arrivare a fine pagina e ricordare una sola parola di quello che aveva letto. Guardava il libro senza nemmeno vederlo. Tutto quello che vedeva era il volto di Kibum davanti al suo. Si portò un dito alle labbra, tracciandone il contorno, cercando di ricordare com’era la bocca dell’altro contro la sua.
 
Osservando i movimenti in ospedale, ben presto capì che la madre di Kibum doveva continuare con gli accertamenti e con il recupero totale delle piene funzionalità tre volte a settimana e, puntualmente, se non c’erano emergenze, Jonghyun faceva in modo di incontrarli ogni volta. Ovviamente per puro caso. Quando gli passava accanto, sentiva il volto diventargli bollente, ma sperava con tutto se stesso che l’altro non se ne accorgesse. Era stupido agitarsi così, dopotutto non era stato nemmeno un vero bacio, non poteva essere durato più di tre secondi. Ma era più forte di lui.
 
Un noioso venerdì mattina, dopo aver finito il giro di routine delle stanze e dopo aver finito di riordinare alcune cartelle dei pazienti, Jonghyun non vedeva l’ora che arrivassero le undici. Era quello l’orario in cui Kibum e la madre arrivavano in ospedale per i controlli. Guardava impaziente l’orologio, sentendo crescere l’ansia ad ogni secondo che passava. Se almeno avesse avuto qualcosa con cui tenersi impegnato, il tempo sarebbe passato più velocemente. Mancavano ancora 20 minuti e mai un’attesa gli era sembrata tanto lunga.
 
Con la gola secca e il cuore che palpitava a mille, notò che la lancetta dei minuti era quasi arrivata a segnare l’ora tanto attesa.
 
Scattò in piedi e arrivò giusto in tempo per vedere Kibum che aspettava solo in sala d’attesa. E ora cosa avrebbe fatto? Sarebbe rimasto lì a guardarlo da lontano per tutto il tempo?
 
Ma ancora una volta Kibum lo salvò dall’indecisione, lanciandogli un sorriso giocoso — e il suo stomaco fece un triplo salto mortale — prima di alzarsi e scomparire lungo il corridoio.
 
Jonghyun colse la palla al balzo e, senza nemmeno pensarci, lo seguì. Con il cuore in gola, si chiese che intenzioni avesse.
 
Kibum camminava a qualche metro da lui, senza voltarsi. Doveva essere sicuro che l’altro lo stesse seguendo.
 
Jonghyun lo vide infilarsi in una porta e quando lo raggiunse, si trovò davanti agli occhi il divieto di ingresso al personale non autorizzato.
 
Io sono del personale, pensò mentre apriva la porta, trovandosi in una sorta di magazzino dove erano stipati materiali di ogni genere, camici, mascherine, stracci…
 
Stipati tra quegli scaffali, non gli rimaneva molto spazio per muoversi liberamente, ma l’iniziale disagio venne presto dimenticato quando l’altro gli si mise davanti. Era vicino. Troppo vicino.
 
Jonghyun non respirava.
 
Davanti al suo mezzo sorriso e alle fossette sulle guance, non riusciva più a ricordare come si ispirasse ossigeno.
 
Sentì le mani dell’altro prendere le sue e giocherellare con le dita.
 
Non sapeva cosa dire. Aveva la mente completamente vuota.
 
L’unica cosa che sapeva è che stava infrangendo un mucchio di regole e se l’avessero trovato lì, avrebbe passato non pochi guai.
 
Ma in quel momento non gli interessava poi così tanto.
 
Con l’altro così vicino, praticamente schiacciato contro il suo corpo, non sapeva nemmeno dove fissare lo sguardo. Non riusciva a guardarlo negli occhi troppo a lungo, ma se lo abbassava, la vista delle sue labbra gli annebbiava ancor più la mente. Erano così morbide, così rosa…
 
Il volto dell’altro si inclinò da un lato, facendosi più vicino e Jonghyun fece lo stesso nella direzione opposta. Sentiva la presa intorno alle sue mani farsi più salda e poteva percepire chiaramente il suo respiro caldo sul viso.
 
Se era nervoso, non lo mostrava apertamente. Ma Jonghyun non poteva dire lo stesso di sé: le mani gli tremavano leggermente, sopraffatto dalla situazione. E aveva caldo. Molto caldo. Ed era piuttosto sicuro che non dipendesse da quanto fosse piccola la stanza.
 
Per la seconda volta, Kibum posò le labbra su quelle di Jonghyun, ma questa volta non si ritrasse poco dopo, non dovevano sfuggire agli sguardi indiscreti del corridoio. E non solo non si allontanò, notò Jonghyun con piacere, ma aumentò l’intensità del bacio. La sua bocca si muoveva con più forza, con più trasporto e Jonghyun non poté fare altro che imitarlo con soddisfazione.
 
Lasciò che la lingua di Kibum scivolasse nella sua bocca, incontrando la sua. Chiuse gli occhi e si sentì crescere la pelle d’oca lungo le braccia quando le mani di Kibum si spostarono verso le sue spalle per raggiungere poi i capelli. Le sue dita si muovevano senza sosta, afferrandogli qualche ciocca.
 
“Mi piace il colore dei tuoi capelli” gli disse staccandosi per un attimo, forse anche per riprendere fiato, e guardando la sua capigliatura platino.
 
Gli avrebbe voluto dire che erano anni ormai che li teneva così, che si piaceva di più con quel colore chiaro, ma non riuscì a dire nulla, perché Kibum aveva preso a baciargli il volto, partendo dalle orecchie e arrivando fino al collo.
 
Jonghyun aveva la sensazione che, se avesse potuto, si sarebbe spinto fino al petto, ma lo scollo poco generoso del camice glielo impediva. Ma per il momento, gli bastava sentire le dita scorrergli senza sosta sul torace, per tornare poi ancora una volta tra i capelli.
 
Jonghyun realizzò di avere ancora le braccia penzoloni lungo il corpo e si sentì stupido. Gliele appoggiò contro la schiena, spingendolo verso di sé e quel maggiore contatto non fece che aumentare il calore che provava.
 
Doveva tendere il collo e alzarsi leggermente sulle punte per riuscire a baciarlo. Gli dava una piacevole sensazione trovarsi contro il suo corpo più alto e le sue spalle larghe.
 
Si sentiva premere con forza la schiena contro lo scaffale, i loro corpi non avrebbero potuto essere più vicini. Jonghyun gli infilò le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni e, traendolo a sé, gli era sembrato di aver sentito un sorriso contro le proprie labbra.
 
Dopo quelle che parvero ore — ma Jonghyun non avrebbe avuto nulla in contrario a rimanere lì per il resto della giornata — si staccarono. Entrambi con le labbra rosse e gonfie e il fiato corto.
 
Il cervello di Jonghyun era andato in corto circuito. Non sapeva cosa dire o cosa fare. A pensarci bene, non ricordava più nemmeno il suo nome.
 
“Faremmo meglio ad andare” gli disse Kibum a pochi centimetri dal suo volto, tanto che gli venne la tentazione di far finta di non averlo sentito e riprenderlo a baciare.
 
“Vado prima io. A presto” lo salutò con un sorrisetto malizioso, prima di scoccargli un veloce bacio, mantenendo il contatto visivo.
 
Ancora sconvolto, Jonghyun lo vide uscire dal ripostiglio, chiudendosi la porta alle spalle. Sicuramente era stata una buona idea non uscire contemporaneamente, o avrebbero attirato qualche sospetto. Si trovò ad ammettere che non gli sarebbe mai venuta in mente una simile astuzia, non in un momento come quello.
 
Incredulo e con la testa che ancora gli girava, si passò le mani sul camice per lisciarlo e cercò di darsi una sistemata ai capelli, era sicuro che le dita dell’altro li avessero scompigliati in ogni direzione. Sperava di non dare troppo nell’occhio una volta uscito.
 
Stava ancora cercando di capire su quale pianeta si trovasse esattamente, quando gli passarono accanto Kibum con la madre, diretti verso l’uscita. Li seguì con lo sguardo e notò che Kibum si era voltato verso di lui, la lingua che sbucava maliziosa in un sorriso e le sopracciglia alzate in un’espressione carica di promesse.
 
Gli ci volle qualche ora per riprendersi.
 


 
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A/N: eccomi qua con la 2^ parte!
 
cosa dire, meno male che c’è kibum che prende un po’ di iniziativa, soprattutto se jong fa il timidone ahah
 
giovedì penso posterò l’aggiornamento. grazie per aver letto! c:

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Capitolo 3
*** 3. ***


Jonghyun si trovava per l’ennesima volta con la schiena premuta contro uno scaffale, spinto con un tale impeto che per un attimo temette di sentirsi cadere qualcosa in testa.
 
Era diventata una routine — una piacevole routine, doveva ammettere — nascondersi in stanze vuote e abbandonarsi alle mani e alla bocca di Kibum. A volte aveva dovuto rinunciare a malincuore a quegli incontri, perché troppo impegnato o perché era in corso un’emergenza, ma fortunatamente questa volta tutto era andato liscio.
 
Era intento a farsi succhiare con particolare insistenza una spalla, il camice abbandonato da qualche parte ai loro piedi, quando Jonghyun decise che avrebbe dovuto trovare un modo per incontrarlo fuori dall’ospedale. Le visite della madre non sarebbero durate all’infinito e presto non sarebbe più dovuta venire per i controlli. Era qualche giorno che ci pensava ormai, ma doveva ancora trovare il coraggio. Si sentiva sempre strano quando era con Kibum. Non riusciva a ragionare bene. Si sentiva in ansia. E se l’altro non fosse stato d’accordo? Se non avesse voluto incontrarlo anche in altre occasioni perché per lui era solo un passatempo?
 
Ma doveva chiederglielo. Prima di lasciarlo andare quel giorno, glielo avrebbe chiesto.
 
Si stava mordendo con forza un labbro per rimanere in silenzio, ma dio, il modo in cui gli stava baciando il collo mentre i loro corpi erano uniti, gli faceva venire voglia di farsi sentire dal mondo intero.
 
Aveva notato di essere piuttosto passivo quando si trovava con Kibum. Era sempre l’altro che prendeva l’iniziativa, che gli sfilava il camice o che dettava le regole del gioco. Ma nessuno dei due sembrava avere niente in contrario sui ruoli che avevano assunto.
 
Gemette piano mentre la sua lingua si trovava tra le labbra dell’altro, intento a succhiarla come fosse una caramella.
 
Ad ogni incontro si trovava a desiderare di più. Più spazio, più tempo, più azione. Ma decisamente meno vestiti. Non osava nemmeno immaginare come si sarebbe potuto sentire se si fosse trovato nudo sotto il corpo dell’altro, se già così gli sembrava di morire.
 
Parecchi minuti e parecchi baci più tardi, Kibum stava per uscire per primo come da tradizione, quando Jonghyun trattenne il fiato e disse: “Dovresti lasciarmi il tuo numero”. Voleva sembrare sciolto e disinvolto, ma era certo che la velocità con cui aveva parlato avesse rivelato il suo nervosismo e l’aver abbassato lo sguardo a terra l’aveva sicuramente tradito.
 
Kibum tornò verso di lui, un sorriso storto sul volto.
 
“Mi vuoi chiedere di uscire?” domandò.
 
Jonghyun cercò di imitare il suo tono di voce sicuro e rilassato, anche se tra poco il cuore gli sarebbe schizzato fuori dal petto se non si fosse calmato.
 
“Qualcosa in contrario?”.
 
Kibum sembrò apprezzare quella sicurezza.
 
“Direi di no. Pensavo non me l’avresti mai chiesto” replicò, e tese la mano aspettando che l’altro gli passasse il cellulare.
 
Jonghyun lo recuperò dalla tasca del camice — che in più occasioni aveva infilato al contrario dopo uno dei loro incontri ravvicinati in uno sgabuzzino — e glielo porse.
 
Kibum registrò velocemente il proprio numero e soffiò un bacio nell’aria prima di uscire. Jonghyun controllò subito la rubrica in un attacco d’ansia e sentì un nodo allo stomaco quando lesse “Bum” tra i contatti.
 
 
 
 

Jonghyun aveva deciso di approfittare di un pomeriggio libero per proporre un’uscita a Kibum.
 
Trattenne il fiato dopo aver premuto il tasto verde. Non sapeva con esattezza di cosa si stesse preoccupando: dopotutto, l’altro gli aveva già detto di essere d’accordo.
 
Mentre aspettava con ansia che gli rispondesse, si chiese perché non gli avesse mandato un messaggio, semplice e indolore. Ma era troppo tardi ormai per tornare sui suoi passi, perché la voce dell’altro gli arrivò forte e chiara in un orecchio.
 
“Hey bellezza”.
 
Jonghyun quasi si strozzò con la saliva.
 
“Ciao” iniziò incerto, maledicendosi perché non aveva minimamente pianificato cosa dire. E se avesse fatto la figura dello stupido?
 
Prese coraggio.
 
“Cosa ne dici se ci vediamo oggi?”.
 
Chiaro e dritto al punto. Mentalmente, Jonghyun si diede il cinque da solo. Ma aveva comunque il cuore a mille.
 
Nella frazione di secondo che seguì, si chiese se non gli avesse dato troppo poco preavviso, forse aveva già altri impegni. Afferrò il telefono con entrambe le mani.
 
“Passami a prendermi alle 4”.
 
 
 


Dopo aver poggiato il cellulare sul letto, dovette rimanere seduto per qualche minuto.
 
Aveva un appuntamento con Kibum. Un vero appuntamento. Da lì a poche ore l’avrebbe visto. E questa volta non dentro a un qualche angusto ripostiglio — sebbene il ricordo dei momenti che avevano trascorso insieme lì dentro fosse incredibilmente piacevole — ma alla luce del debole sole di aprile.
 
Si fiondò sotto la doccia, dove prese il suo tempo per rilassarsi sotto l’acqua bollente, poi, con un asciugamano legato in vita e i capelli ancora carichi d’acqua, si piazzò davanti al grande specchio della sua camera. Un tempo era stato più muscoloso, le braccia più gonfie, ma non gli dispiaceva avere perso un po’ di quella massa, gli mancava il tempo per mantenere un fisico del genere.
 
Molti minuti e molti vestiti sparpagliati sul letto dopo, Jonghyun era quasi pronto. Osservò ancora una volta il suo riflesso. Stretti pantaloni neri e una giacca di pelle nera allacciata fino a metà che nascondeva una lunga maglietta bianca. I capelli biondi tenuti in piedi e gli occhialoni dalla montatura nera erano il tocco finale del look.
 
Decisamente troppo in anticipo, ma incapace di rimanere seduto ad aspettare, andò verso la porta per infilarsi gli scarponi neri, quando notò la sorella che, dal tavolo della cucina, aveva alzato lo sguardo da alcuni fogli che aveva davanti e lo stava studiando incuriosita.
 
“Hai un appuntamento?”.
 
“No” rispose rapido, ma vedendo le sopracciglia di Sodam alzarsi in un’espressione scettica, aggiunse un veloce “Forse”.
 
“Con chi?” chiese divertita.
 
Jonghyun farfugliò qualcosa di incomprensibile, concludendo con un “… non lo conosci” e scappò fuori, quasi dimenticando le chiavi della moto, certo di aver sentito una risatina divertita che accompagnava il chiudersi della porta.
 
Era così nervoso che era sicuro avrebbe vomitato di lì a poco.
 
Fu un gradito sollievo sfrecciare tra le strade con il vento che lo colpiva in pieno viso. Riusciva a respirare.
 
Come previsto, arrivò davanti all’università di Kibum con una mezz’ora di anticipo. Ora non doveva fare altro che aspettare che finissero le lezioni, in modo che lo potesse raggiungere. Si chiese se dovesse fargli sapere che si trovava già lì, forse sarebbe riuscito a liberarsi prima. Optò per un messaggio neutro. “Ti aspetto fuori”.
 
Nell’attesa, appese il proprio casco al manubrio, prese quello che avrebbe indossato Kibum e decise che avrebbe fatto più scena trovare una posizione ricercata ma che sembrasse disinvolta. Appoggiò un piede a terra e si mise dritto con la schiena, una mano sul manubrio. Quando l’avrebbe visto, si sarebbe passato una mano tra i capelli.
 
Un’abbondante mezz’ora più tardi, Jonghyun lo vide uscire e camminare verso di lui. Molto spontaneamente, si spettinò i capelli e scese elegantemente dalla moto, non prima di essere stato sicuro che Kibum l’avesse visto nella sua studiata posa.
 
Posati i piedi per terra, notò subito quanto il suo ampio maglione, parzialmente nascosto da una giacca, fosse scollato. Era quasi del tutto sicuro che senza quella giacca le sue spalle sarebbero state totalmente scoperte. Deglutì.
 
Aveva fatto qualche passo verso di lui quando realizzò che non aveva idea di come salutarlo. Con un bacio? Con un semplice “Ciao”? Per l’ennesima volta fu Kibum a salvarlo dall’impiccio, con uno schiocco sulle labbra.
 
Jonghyun rischiò di far cadere il casco che aveva in mano.
 
“E così questo è Jonghyun nel tempo libero” iniziò Kibum squadrandolo dalla testa ai piedi. “Sei diverso senza camice”.
 
Jonghyun volle interpretarlo come un complimento.
 
Quando gli si era avvicinato, le sue narici erano state invase da un delicato profumo di lavanda. Non poté fare a meno di immaginarselo davanti allo specchio di un bagno dell’edificio, intento a spruzzarsi il profumo e a sistemarsi i capelli. Sorrise al pensiero.
 
“Allora, andiamo?” chiese Kibum, ma Jonghyun sentì la sua sicurezza vacillare quando gli porse il casco.
 
“Non avrai intenzione di farmi salire su quella cosa” protestò lanciando un’occhiata diffidente alla moto, come se fosse stata un insetto velenoso.
 
“Perché no?”
 
“Perché è una moto” spiegò, come se questo bastasse a risolvere la questione.
 
“Sì, lo vedo” rispose ironico. Aveva scoperto il suo punto debole. Kibum, lo smaliziato e sicuro di sé Kibum, che non aveva problemi a pomiciare di nascosto in un ospedale, era messo in difficoltà da una moto. Gli si fece vicino e gli infilò il casco, allacciandoglielo sotto il mento. “Fidati di me, ok?” gli disse, guardandolo negli occhi e dandogli un rapido bacio sulle labbra.
 
Leggermente rassicurato, l’altro annuì.
 
Mentre Jonghyun saltava in sella e si infilava a sua volta il casco, vide l’altro tentennare incerto accanto a lui.
 
“Come si sale?”
 
Era semplicemente adorabile quella sua improvvisa insicurezza. Avrebbe voluto ridere, ma sapeva che la sua reazione non sarebbe stata apprezzata.
 
“Basta che metti una gamba di là e poi ti tieni forte a me” gli spiegò. “Molto forte”, ripeté con un sorrisetto soddisfatto.
 
Lo sentì prendere posto dietro di lui, le mani subito avvolte strettissime intorno al suo corpo, petto contro schiena. Un piacevole calore si diffuse in ogni sua parte.
 
Alla partenza, Kibum trattenne a stento un urlo di sorpresa.
 
Jonghyun doveva urlare per farsi sentire dall’altro, quasi sordo alle sue parole a causa del rumore del motore e della velocità. Gli stava gridando che doveva piegarsi insieme a lui nelle curve, altrimenti rischiavano di cadere, ma puntualmente Kibum o si curvava dalla parte opposta — sostenendo convinto che in questo modo avrebbe controbilanciato lo spostamento di peso — oppure rimanendo perfettamente immobile. All’ennesima curva in precario equilibrio, Jonghyun lasciò perdere, era una battaglia persa.
 
“Dove mi porti?” chiese ad un certo punto con una nota di panico nella voce dopo che avevano superato alcune macchine.
 
“Aspetta e vedrai” gli rispose Jonghyun, sentendosi perfettamente sicuro nel suo elemento.
 
“Cosa?” chiese e Jonghyun aveva perso il conto di quante volte aveva dovuto ripetergli qualcosa almeno due volte. Ma questa volta non rispose, si limitò a ridere pieno di entusiasmo, sfrecciando a tutta velocità lungo un rettilineo per il solo gusto di sentire l’altro tenerlo ancora più stretto.
 
 
 
 

Quando si fermarono poco dopo lungo il fiume Han, Jonghyun respirò a pieni polmoni la frizzante aria pomeridiana, mentre le mani di Kibum erano ancora intorno al suo corpo.
 
“Puoi lasciarmi andare ora” disse con un’evidente nota di divertimento nella voce. Fu il turno di Kibum di arrossire ora.
 
“Mai più, mai più…” continuava a ripetere una volta sceso e Jonghyun sapeva che avrebbe potuto mettersi a baciare l’asfalto per quanto fosse contento di avere di nuovo i piedi per terra.
 
Il pomeriggio trascorse tranquillamente, tra baci rubati sotto qualche albero o restando seduti ad ascoltare qualche ragazzo con la chitarra.
 
Jonghyun non poté fare a meno di notare quanto fosse diverso dal Kibum che aveva conosciuto in un primo momento. Non era più il ragazzo silenzioso con la sofferenza negli occhi, ora che tutto si era risolto per il meglio, in lui c’era solo spazio per la spensieratezza.
 
Quando era calato il buio e tutto intorno a loro si era acceso di mille colori — dai grattacieli alle insegne luminose, fino a semplici lampioni — e il cielo stellato si rifletteva sulla superficie piatta e calma del fiume, Jonghyun si sentiva del tutto sciolto. Il nervosismo che gli aveva serrato lo stomaco per le prime ore aveva ormai lasciato il posto ad una sensazione di benessere e calma. Non c’era luogo migliore in cui trovarsi in quel momento, ma soprattutto non c’era compagnia migliore.
 
Seduti sul prato lungo una riva e con una strana luce negli occhi, si girò verso Kibum, che ricambiò lo sguardo. Non ci fu bisogno di parole, perché Kibum era già a cavalcioni su di lui e le loro lingue già unite.
 
Complice il buio tutto intorno a loro, Jonghyun si sentiva più disinibito che mai. Gli mancava il fiato ma non poteva smettere, dio, no, non poteva. Il corpo dell’altro premuto contro il suo stava facendo meraviglie.
 
Ma non potevano andare fino in fondo, non in quel momento, non lì. E sembrava che entrambi avessero pensato la stessa cosa nello stesso istante, perché lo sguardo che si scambiarono appena separarono le bocche era pieno dello stesso desiderio ed impazienza, ma soprattutto della consapevolezza che non potevano spingersi oltre certi limiti.
 
Non parlarono mentre tornarono verso la moto, la tensione sessuale era quasi palpabile con mano.
 
“Ti riporto a casa?” chiese.
 
“Grazie” gli rispose semplicemente e, una volta che gli diede il suo indirizzo, salirono in sella. Le urla e le risate che li avevano accompagnati nel pomeriggio ora solo un ricordo. Correvano per le strade trafficate della città, abbagliati dai semafori e dai fari delle macchine.
 
 
 
--
A/N: devo dire che la scena della moto è la mia preferita perché è tratta da una storia vera, quindi mi sono divertita un sacco a scriverla.
 
kibum è sempre in preda agli ormoni, salta addosso a jonghyun ogni volta che lo vede. e direi che è cosa buona e giusta ahah
 
lunedì posterò l’ultima parte. come vedete non sono dei veri e propri capitoli, solo che a pubblicarla intera veniva troppo lunga, quindi ho cercato di suddividerla in più parti che avessero più o meno un senso logico.
 
a presto c:

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Capitolo 4
*** 4. ***


Non ci misero molto per raggiungere la casa di Kibum. Era una semplice abitazione ad un piano, con un  vialetto che collegava il cancello all’ingresso. Jonghyun rimase seduto sulla sella della moto quando Kibum scese e gli restituì il casco. Stava cercando di capire come salutarlo e con quali parole, ma ancora una volta fu l’altro a risolvere il problema al suo posto.
 
“Vuoi entrare?” chiese, lanciando un’occhiata alla casa e mettendogli una mano sul braccio, accarezzandolo. Jonghyun non sapeva se fosse per risultare più convincente o perché volesse semplicemente toccarlo.
 
Il suo cuore sarebbe comunque presto scoppiato, ne era certo.
 
Ma per quanto ogni cellula del suo corpo volesse urlare “Sì”, gli si presentò alla mente un piccolo inconveniente.
 
“Non c’è tua mamma in casa?” domandò, sentendosi un guastafeste, ma quando gli venne spiegato che no, non ci sarebbe stata perché non vivevano insieme ma che quello era l’appartamento che aveva affittato per essere più comodo a raggiungere l’università, Jonghyun riusciva quasi a sentire i fuochi d’artificio esplodergli nel petto.
 
E dopo essersi assicurato sulle sue condizioni di salute — dopotutto restava sempre un futuro dottore, anche mentre non indossava il camice —, lo seguì in casa.
 
Era un monolocale arredato con gusto. Anche se la mobilia sembrava essere piuttosto economica, Jonghyun era certo di vedere il tocco personale dell’altro in alcuni poster e soprammobili che avrebbe potuto definire solo come “estrosi”. Sul tavolo della cucina, poco più in là dell’ingresso, erano sparpagliati fogli, squadre e compassi; dovevano essere per uno dei suoi progetti di architettura. Cucina e soggiorno erano fusi insieme, con un grazioso divano a due posti dall’aria molto comoda davanti ad una televisione. Dalla parte opposta vide una porta chiusa ed immaginò che portasse alla sua camera. Deglutì a fatica.
 
“Vuoi qualcosa da bere?” domandò l’altro, distogliendolo da pensieri che sperava si avverassero entro la serata.
 
“S-sì” rispose imbarazzato, quasi temendo che Kibum avesse potuto vedere le immagini che gli erano passate per la mente.
 
Regnava un’atmosfera strana, sospesa. Nemmeno mezz’ora prima erano uno sull’altro, sdraiati su un prato, senza che si riuscissero a distinguere le mani dell’uno da quelle dell’altro. E ora erano in silenzio mentre sorseggiavano un cocktail analcolico (Jonghyun aveva precisato che non reggeva per niente l’alcool e, a meno che non volesse vederlo piangere o mettersi a parlare da solo per ore, sarebbe stato meglio limitarsi a qualcosa di leggero).
 
Ma Jonghyun si pentì subito di non aver scelto qualcosa di più forte, così forse ora avrebbe avuto il coraggio necessario per alzarsi e baciare Kibum contro il muro, intrappolandolo tra le proprie braccia.
 
Aveva bisogno di riordinare le idee.
 
“Posso darmi una rinfrescata?” chiese e seguì Kibum verso la porta che pensava condurre alla sua camera. Ed era così.
 
Al centro della stanza, appoggiato ad un muro, c’era un enorme letto.
 
L’altro doveva aver notato che ne era rimasto come ipnotizzato, perché si mise a ridere, “Il bagno è da quella parte”.
 
E Jonghyun dovette fare un enorme sforzo per capire perché Kibum gli stesse indicando la porta lì accanto, quando in realtà tutto quello che voleva fare era buttarsi sul letto insieme a lui e farsi fare tutto ciò che gli passava per la mente.
 
“Grazie”.
 
Entrò chiudendosi dietro la porta. Per prima cosa controllò il suo riflesso allo specchio e tirò un sospiro di sollievo vedendo che aveva ancora un aspetto impeccabile, senza ciuffi ribelli piegati in strane direzioni.
 
Lasciò che l’acqua gelata gli scorresse tra le mani e l’effetto calmante fu istantaneo.
 
Ora non vedeva solo l’ora di sfilarsi quei pantaloni che si erano fatti tremendamente stretti.
 
Non aveva fatto in tempo ad aprire la porta che il suo naso colse l’avvolgente ed intensa fragranza di muschio e mogano, una delle sue preferite. Kibum aveva acceso delle candele profumate su una mensola e non poté fare a meno di sorridere perché era sicuro che l’altro le avesse acquistato espressamente per lui, sapendo quanto fosse sensibile ai profumi.
 
“Ottima scelta” gli disse avvicinandosi, già pregustando il momento in cui l’avrebbe nuovamente baciato.
 
E fu un attimo poi. Le labbra unite, le lingue intrecciate e le mani di Kibum che gli abbassavano la cerniera della giacca di pelle, sfilandogliela guardandolo dritto negli occhi e indugiando poi sulle sue braccia nude.
 
Jonghyun non esitò a tuffarsi nell’incavo del suo collo, così profumato, così invitante, e soprattutto così esposto da quello scollato maglione. La sua pelle era di velluto e avrebbe voluto non allontanarsene mai più.
 
Non sapeva per iniziativa di chi, ma poco dopo si era ritrovato su letto, la schiena premuta contro il morbido materasso. Gli strinse le mani intorno alla vita sottile mentre sentiva la sua bocca calda contro il collo.
 
Lingua, denti, baci e morsi. La sua pelle era l’entusiasta bersaglio degli attacchi dell’altro.
 
Lunghe dita lo accarezzavano da sotto la maglietta, facendogli desiderare di più, sempre di più. Gliela sollevò quel tanto che bastava per lasciargli il petto scoperto e Jonghyun non era sicuro che sarebbe sopravvissuto.
 
E ne ebbe l’assoluta certezza di lì a poco, quando le mani di Kibum presero ad armeggiare con i suoi pantaloni. Il solo sapere che le sue dita erano pericolosamente vicine a quella zona così sensibile gli fece annebbiare la vista.
 
Alzò i fianchi per aiutarlo mentre glieli sfilava e non respirava più. Non respirava più mentre lo toccava da sopra i boxer — le labbra strette tra i denti — e non respirava più quando glieli sfilò, accarezzandolo con le dita. Tenendo gli occhi strizzati, si lasciò sfuggire un lamento che era certo avrebbe fatto capire quanto fosse impaziente.
 
Kibum vi chiuse intorno le dita, iniziandole a muovere per tutta la lunghezza e soffocò un suo gemito in un bacio.
 
Il corpo di Kibum contro il suo, i movimenti precisi e veloci della sua mano, la sua bocca che gli succhiava avido una clavicola, uniti alla forte aspettativa che aveva di quel momento non lo fecero resistere ancora a lungo.
 
Con un gemito nel profondo della gola e afferrando con forza il lenzuolo tra le dita, venne nelle mani dell’altro.
 
Rimase con gli occhi chiusi, con il petto che si alzava e abbassava furiosamente. Le sensazioni che gli avevano attraversato il corpo erano state così intense che gli girava la testa. E capì che riaprire gli occhi fu una pessima idea quando si accorse che Kibum lo guardava attento, succhiandosi un dito alla volta tra le labbra. Vide una goccia bianca che gli era rimasta su un angolo della bocca e la sua lingua scorrervi lentamente sopra. Mugugnò frustrato. Sentiva l’eccitazione crescere di nuovo.
 
 
 
 

Qualche minuto dopo, avendo ripreso del tutto il fiato, si trovava lui sopra l’altro, intento a baciargli ogni centimetro di pelle del petto. Con il suo ampio maglione gettato con noncuranza da qualche parte nella stanza, non si lasciava sfuggire nemmeno una parte del suo corpo.
 
E mentre Jonghyun era più il tipo da rimanere in silenzio e conficcarsi i denti nelle labbra, Kibum era invece più vocale e le sue espressioni appagate gli facevano provare un certo senso di soddisfazione.
 
Gli lanciò un’occhiata e lo vide con gli occhi chiusi e la testa affondata nel cuscino, il suo collo teso era un invito che non poteva rifiutare. Prese lentamente a leccargli il collo e poteva sentire la sua gola vibrargli sotto la lingua. Prese il suo tempo per succhiarlo con attenzione, con l’intenzione di lasciargli un segno talmente evidente che per nasconderlo non avrebbe avuto altre alternative se non indossare una sciarpa o un maglione a collo alto.
 
E mentre nei movimenti Kibum era impeto e foga, Jonghyun era calma e passione controllata. Gli piaceva concentrarsi su un punto alla volta per procurare il massimo del piacere. Lentamente prese a baciarlo tra le clavicole, seguendo la linea del petto e arrivando appena sotto l’ombelico.
 
Quei pantaloni erano decisamente un intralcio; doveva liberarsene il prima possibile. Lottò per qualche secondo di troppo per i suoi gusti, perché erano davvero stretti e non sembravano avere nessuna intenzione di scivolare lungo le gambe di Kibum. Una volta tolti, gli sembrava così disperato che non perse altro tempo prima di spogliarlo completamente.
 
Gli sembrava un sogno, un sogno particolarmente vivido, trovarsi insieme a Kibum, così bisognoso, così disperato, così nudo.
 
Non poteva chiedere niente di meglio.
 
Nel momento stesso in cui glielo prese tra le labbra, lo sentì trattenere il respiro e stringergli con forza i capelli. Non gli dispiacque quella lieve sensazione di dolore.
 
Muoveva la testa ritmicamente e non ci mise molto prima di capire che l’altro era particolarmente sensibile ai suoni, avendo notato come i suoi gemiti si facessero più forti quando lo succhiava rumorosamente o la sua lingua creava suoni umidi contro la sua pelle. Stava dedicando particolare attenzione alla punta, con le guance incavate e le labbra umide, quando lo sentì gemere ancora di più. Rise (per quanto poteva ridere con la bocca piena).
 
“Tutto bene?” gli chiese, con un misto di ironia ed orgoglio.
 
L’altro ci mise qualche secondo prima di riuscire a rispondere. E quando lo fece, era senza fiato.
 
“Alla grande”.
 
Dal tono non gli fu difficile capire che l’altro desiderava solo che riprendesse al più presto da dove si era interrotto.
 
Jonghyun non lo fece aspettare.
 
Era certo che non dovesse mancare ancora molto da come la sua voce si era fatta più spezzata e ansimante, o da come le sue dita avevano smesso di corrergli tra i capelli per afferrarlo con forza.
E non si sbagliava.
 
Di lì a poco, un caldo liquido gli invase la bocca.
 
E mentre lo guardava giacere sul letto apparentemente senza più forze, Jonghyun pensò ancora una volta a come aveva avuto modo, fino a quel momento, di conoscere tre diversi lati di Kibum. Quello del dolore, quello della sfrontatezza unita ad un pizzico di malizia, e ora questo totale abbandono tra le sue mani, o meglio, nella sua bocca. Tre lati così diversi ma tutti altrettanto reali.
 
Ancora immerso nei suoi pensieri, non si era accorto che Kibum si era seduto sul letto, i capelli arruffati e un’espressione sorniona sul volto. Lo vide alzarsi e fermarsi davanti alla porta che gli sembrava di aver attraversato milioni di anni prima. Ovviamente i suoi occhi non poterono non correre subito alla sua lattea pelle nuda.
 
Kibum gli lanciò un’occhiata complice.
 
“Doccia?”.
 
Jonghyun non se lo fece ripetere due volte.
 
 
 
 

Era ancora mezzo intorpidito dal sonno, quando aprì gli occhi.
 
Non appena la luce gli colpì le pupille, grugnì infastidito e si girò dalla parte opposta con l’intenzione di trovare conforto stringendosi a Kibum, con il quale aveva trascorso la notte. Ancora non ci poteva credere. Stava sorridendo solo nel ricordare il calore che si era diffuso tra i loro corpi quando si era addormentato tenendolo abbracciato.
 
Ma c’era qualcosa che non andava.
 
La sua mano incontrò il lenzuolo freddo al suo fianco. Dov’era finito Kibum?
 
La risposta non tardò ad arrivare.
 
Non aveva ancora del tutto riaperto gli occhi quando sentì il fragrante aroma del caffè venire dalla porta lasciata aperta e che gli risvegliò i sensi.
 
Cercò i propri boxer che ritrovò a fatica in fondo al letto, poi si diresse verso la cucina, dove lo accolse la vista di un Kibum con addosso solo la sua maglietta bianca — e non poteva negare di aver sentito il suo stomaco contorcersi felice.
 
Era in piedi dandogli le spalle e i suoi occhi si fissarono subito sulle sue gambe pallide.
 
Kibum si accorse quasi subito della sua presenza e si voltò con un sorriso.
 
“Hey bellezza”.
 
Jonghyun arrossì e trattenne a stento un sorriso soddisfatto. Gli si avvicinò e lo salutò con un lento, lungo bacio. La sua bocca sapeva del caffè che stava bevendo da un’enorme tazza fumante e il suo corpo ancora profumava per la doccia che avevano condiviso la notte prima e al solo ricordo si sentì le guance avvampare di calore.
 
Bevve una veloce tazzina di caffè, prima di saltare in sella alla sua moto per passare a casa prima di iniziare un nuovo turno in ospedale.
 
Si infilò il casco, guardando Kibum sulla soglia di casa che sorseggiava il suo caffè con ancora addosso la sua maglietta — Jonghyun aveva dovuto indossare la giacca di pelle sul torace nudo quando l’altro si era categoricamente rifiutato di restituirgliela.
 
“Ti chiamo io” promise, prima di scappare via tra i primi raggi mattutini.
 
 
 
 

Si sentiva ancora frastornato quando arrivò a casa poco dopo.
 
Sua mamma doveva già essere uscita, perché mancavano le sue scarpe all’ingresso. Per una volta era contento di non doversela trovare davanti, non gli andava di dare spiegazioni.
 
Era deciso a sgattaiolare in camera prima di diventare il bersaglio delle battutine della sorella, ma aveva fatto appena in tempo a salire qualche gradino per andare al piano di sopra, quando la capigliatura castana di Sodam sbucò dalla porta della sua stanza.
 
“Mi sembrava che non fossi tornato questa notte” commentò con aria divertita. “Immagino sia andato bene l’appuntamento”.
 
Leggermente in imbarazzo, Jonghyun non sapeva cosa risponderle.
 
“Non era un appuntamento” negò ancora una volta sottovoce, arrossendo.
 
Roo scelse proprio quel momento per corrergli incontro, annusandolo freneticamente. Doveva essergli rimasto addosso l’odore di Kibum e Roo l’aveva colto subito.
 
Sospirando sconfitto, si ritirò in camera, accompagnato dalle risate di Sodam.
 
 
 

 
Una settimana dopo, approfittando della casa vuota (sua mamma da alcuni parenti in una città vicino e la sorella che doveva trascorrere la serata con degli amici), Jonghyun decise di invitare Kibum per guardare un film con il suo nuovo proiettore e maxischermo dei quali era particolarmente orgoglioso. Naturalmente nel suo piano sperava che avrebbero ignorato abbastanza presto il film, ma decise di omettere quel particolare quando lo aveva chiamato.
 
Ad essere sincero, si sentiva piuttosto nervoso all’idea di avere Kibum in casa sua, in camera sua.
 
Voleva che tutto fosse perfetto, ma c’era poco da sistemare. Tutto era sempre in ordine in quella stanza quasi del tutto spoglia. Il letto era già rifatto e i libri già al loro posto sulle mensole.
 
Mancava poco al suo arrivo e decise di tenersi impegnato accendendo la sua candela preferita al cocco, il dolce aroma che subito si diffondeva nell’aria, emanando una tremolante luce soffusa.
 
Stava con le orecchie tese, pronto a scattare al minimo rumore del motore di una macchina. Ad un certo punto, per evitare di alzarsi continuamente dal letto per scrutare attento fuori, si appoggiò alla finestra, dove poteva godere di una visuale completa sulla strada.
 
Gli vibrò il cellulare nella tasca. Gli aveva mandato un messaggio.
 
Si preoccupò che potesse esserci stato un inconveniente e che la loro serata insieme sarebbe saltata. Con il cuore in gola, appoggiò un dito sullo schermo per leggere il messaggio.
 
Prepara i popcorn, sono lì tra 5 minuti ;)”.
 
Squittì dalla gioia e si augurò che nessuno lo avesse sentito, o sarebbe stato davvero imbarazzante.
 
Scese le scale di corsa, quasi inciampando su Roo che, infastidita dal rumore dei suoi passi, si era avvicinata incuriosita per vedere cosa aveva disturbato il suo sonno.
 
Era quasi arrivato alla porta di ingresso, quando frenò di colpo. Sua sorella era ancora lì, intenta a mettersi le scarpe.
 
“Cosa ci fai ancora qua?!” chiese, senza riuscire a nascondere un certo senso di fretta.
 
Non voleva che si incontrassero, non ancora. Era già abbastanza irrequieto senza doversi anche preoccupare di presentare Kibum alla sorella.
 
Sodam lo rassicurò che stava uscendo, ma ci tenne a fare una precisazione. “Non preoccuparti, non intralcerò il tuo appuntamento”.
 
“Non è appuntamento” si passò frustrato una mano tra i capelli. Si era scordato quante volte aveva già ripetuto quella frase negli ultimi giorni.
 
Gli sembrò di sentire il rumore di una macchina che si avvicinava e fu preso dal panico. Guardò la sorella con gli occhi spalancati.
 
Le appoggiò le mani sulle spalle e la spinse letteralmente fuori da casa.
 
Erano appena arrivati oltre il cancello all’ingresso quando vide Kibum parcheggiare impeccabilmente con una sola manovra e scendere dalla macchina.
 
Jonghyun mormorò un leggero “Grazie” alla sorella che doveva aver capito la sua ansia, perché liberò in fretta il campo, andando nella direzione opposta di quella in cui arrivava l’altro ragazzo.
 
Si girò verso Kibum che era già a pochi passi da lui e non riuscì nemmeno a salutarlo, la gola all’improvviso secca, perché l’altro si era pericolosamente avvicinato al suo volto.
 
“Impaziente di rimanere solo, eh?” gli fece un occhiolino, prima di avviarsi da solo verso la porta di ingresso.
 
Doveva aver assistito alla scena in cui cacciava a tutta fretta la sorella. Gemette frustrato passandosi ancora una volta la mano tra i capelli.
 
Quando lo raggiunse in casa, lo trovò accovacciato accanto a Roo che, scodinzolante e sdraiata sulla schiena, si faceva accarezzare entusiasta la pancia.
 
“Allora” iniziò Kibum, alzando lo sguardo verso di lui, “Questo magnifico proiettore dov’è?”.
 
Mentre gli faceva strada e lo portava al secondo piano con il cuore che martellava, si preoccupò del modo in cui camminava: non poteva sapere dove fossero puntati gli occhi dell’altro, nel dubbio, era meglio non rischiare.
 
Entrato in camera, Jonghyun si sentiva sulle spine, come se si aspettasse che l’altro esprimesse un giudizio. Ma quando Kibum commentò il buon profumo che aleggiava nella stanza, si rilassò immediatamente. Lo vide spostarsi verso il suo comodino dove erano posati alcuni saggi di prosa.
 
“Sei un cervellone” rise, prendendoli in mano e leggendo i titoli. E non li aveva ancora posati quando la sua attenzione venne completamente catturata dall’enorme proiettore, che guardò estasiato. Gli occhi di Jonghyun si riempirono di orgoglio.
 
“Ci mettiamo qui?” domandò Kibum indicando il suo letto, e nella penombra della camera, non era certo di poter interpretare con esattezza la sua espressione. Era una domanda come un’altra oppure, come lui, non vedeva l’ora di dimenticarsi del film?
 
Improvvisamente gli tornò alla mente il letto matrimoniale di Kibum e non poté fare a meno di notare la differenza con il suo.
 
“Mi spiace, il mio letto è più piccolo del tuo” disse quasi con un tono di scusa.
 
“Meglio” gli rispose con un’occhiata maliziosa che lo fece smettere di respirare per qualche secondo. “Vorrà dire che dovremmo stare più stretti”.
 
E Jonghyun non aveva niente in contrario.
 
 
 
 
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A/N: ed eccoci qua con l’ultima parte della storia. spero davvero che vi sia piaciuta, almeno quanto è piaciuto a me scriverla! era da più di un anno che non scrivevo nulla e devo dire che mi è piaciuto tornare alle vecchie abitudini
 
 in queste ultime settimane ho scritto un altro paio di fanfic, molto più corte di questa, ma devo capire se mi piacciono abbastanza da pubblicarle. nel caso, non tarderò a postarle
 
grazie se l’avete letta fino alla fine e grazie anche per averla inserita tra le preferite, l’apprezzo davvero molto c:

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