5. Epilogo
Era strano vedersi da fuori. Come vedere se stessi ad uno
specchio che si muove da solo, indipendente da te. Sinceramente la prima volta
che quella si mosse mi diede fastidio: era così innaturale vederla
spostarsi.
Cercando di nascondermi nell’ombra mi appiattii contro il muro.
Lei camminò verso di me, imprecando.
Si piazzò davanti alla scrivania e appoggiò una borsa: ecco che
tirava fuori i libri che prima erano lì sopra.
Doveva essere un dejavù perché io tutto quello sentivo di
averlo già vissuto. Da un'altra prospettiva...ma l’avevo già vissuto.
Mi guardai: i capelli scombinati e boccolosi, i lineamenti
delicati contriti in una smorfia di dolore.
La mia mano tremante cercò un appiglio. Stavo per cadere, stavo
pensando troppo senza sapere cosa fare.
Ma cos’era successo? Non ricordavo davvero. Per quanto mi
sforzassi...per quanto cercassi di pensare...no, proprio non ricordavo.
Allora cercai di seguirmi. Osservai con gli occhi il
mio percorso: quella me attraversò la stanza e aprii le tende. La luce
fioca della mezzanotte si era sostituita ad un tramonto di colori chiari e
sanguigni.
La vidi avvicinarsi al letto, proprio dove poco prima c’era
un'altra me.
"No..." dissi, ma ebbi l’impressione che non mi potesse
sentire...ne vedere.
La me presente non diede segni di aver sentito una voce e
continuò a fare tutto di propria testa.
Si diresse verso il letto e ci si sedette sopra. La testa fra
le mani, il tremore leggero delle labbra rosate. I capelli scuri le caddero in
avanti deformando la sua figura. Da dove mi trovavo io la sensazione di una cupa
tristezza si distendeva nell’aria.
Mi avvicinai a me, con calma e con dolcezza cercai di sedermi
sul letto. Appena appoggiai il mio corpo quella si alzò.
"Dannazione!" disse con voce strozzata.
La fissai come una bambina, pendevo dalle sue labbra senza
capire che cosa fosse successo. Volevo sapere, la mia mente avrebbe appreso come
una spugna se necessario.
Per ora non c’era molto da ricordare. Qualche imprecazione e
qualche < dannazione >.
Quella vagò un po’ per la stanza e poi si fermò, seduta sulla
scrivania, una mano a coprire gli occhi, mentre pian piano un gemito salì dalla
gola.
La vidi e mi vidi. Sapevo che stavo per scoppiare a
piangere, sul serio. Era sempre così, ogni volta che mi sentivo depressa.
Quell’idea, quel pensiero che mi faceva stare male cominciava a bloccarsi in
testa, come un vecchio disco incantato. Sempre quello, sempre quello. Una
pressione psicologica tremenda, con conseguenza disastrose. La gola cominciava a
raschiarsi e a seccarsi, pur di deglutire dovevo inspirare rumorosamente e
singhiozzare per qualche attimo.
E poi partivo. Cercavo di calmarmi, di dirmi che andava tutto
bene, ma le ondate, come la marea, crescevano, si facevano sempre più
insistenti, fino a che non mi calmavo, il mio cuore si riappacificava e potevo
tornare a pensare normalmente.
Questo in poco più di mezz’ora.
Rimasi a guardarmi mentre i lucciconi agli occhi si
presentavano spontanei.
Avevo paura, avevo paura di quella strana atmosfera.
Di solito non piangevo mai, MAI. Ero una persona forte, che non
si piegava mai a nulla. Combattevo, non pensavo.
E invece qualcosa di terribile doveva essere successo per
ridurmi in quello stato. E avevo paura di scoprire cosa fosse.
All’improvviso quella me smise di fissare nel vuoto, sospirò un
ultima volta e poi i suoi occhi cambiarono. Erano diventati feroci.
Era cambiata in un secondo.
Scese dalla scrivania e la vidi aprire l’armadio. Le scarpe
scure volarono fuori all’improvviso, andando a sbattere sul parquet nero dove le
avevo trovate in precedenza.
Era facile pensare cosa era successo, ero tornata indietro,
indietro nel tempo.
Stavo rivivendo qualcosa...ero terribilmente spaventata nel
sapere e capire che cosa.
Perché sapevo...ma comunque non capivo.
Pietrificata sul letto la vidi chiudere le ante con un sonoro
sbattere. Si voltò verso il letto...verso di me.
Ci guardammo, o meglio io la guardai, mentre lei stava
semplicemente fissando la trapunta nera.
Eppure il suo sguardo mi fece paura. Più paura di qualsiasi
altra cosa. I suoi occhi emanavano una cattiveria mistica, incomprensibile.
Ma poi vidi quel luccichio e capii. Capii che qualcosa era
andato storto, che qualcuno mi aveva ferita.
Forse un affermazione, più veloce di un lampo, ma letale come
un veleno.
Seppur mi dimostrassi sempre così serena, sapevo benissimo di
essere fragile. Nascondevo dietro un sorriso l’insicurezza che mi avrebbe resa
un nonnulla davanti a tutti.
La legge era chiara: Essere forte per sopravvivere in una
giungla urbana.
E cominciai a pensare. Amici, parenti...ovunque c’era
pericolo, ovunque c’era la paura di poter rimanere delusa dalle affermazioni
della gente.
Coloro che credevano di conoscerti e invece alla fine non sanno
che sei totalmente differente. E tu scema che credi che loro capiscano e
invece...vedono solo il tuo apparire, la copertura del tuo < essere >.
La riguardai e mi avvicinai a lei. Osservava ancora il letto,
pensando forse a calmarsi.
"Cos’è successo...dimmelo, ti prego" le chiesi dolcemente. "Ti
conosco, so chi sei...per favore, rivelamelo".
Allungai una mano verso di lei, ma quella si voltò dandomi le
spalle e sbattendo un pugno contro il muro.
"Dannazione!" la voce ancora incrinata dalle lacrime.
Ritrassi il braccio portandomelo al cuore. Chiusi gli occhi
mentre cercavo di concentrarmi, di pensare davvero.
Il suono del telefono mi bloccò. Quella suoneria, quell’omonimo
bip mi spaventava troppo.
Sia io che la me stessa davanti a me, rimanemmo immobili. Io
fissavo intimorita il telefono scuro sulla scrivania, mentre il duplice suono
rimbombava nella mia testa.
Alla fine partì la segreteria telefonica.
...qui risponde la mia segreteria telefonica. Se volete
lasciare un messaggio personale anche se non sono in casa, vi sarà possibile
dopo il segnale acustico.
Bip.
< So che sei a casa >
La voce di una ragazza. Era dolcissima, era tremendamente
preoccupata. Mi vennero i brividi nel sentire quella voce. La reazione mia e
della ragazza davanti a me fu a stessa: impallidimmo.
< Rispondi, per favore >
Ancora silenzio. Spostai lo sguardo su di lei, ma non sembrava
intenzionata ad avvicinarsi. Osservava il telefono come se volesse bruciarlo con
gli occhi, mentre le lacrime continuavano a scendere.
La voce sospirò, si sentì un lieve crepitio, come se stesse per
piangere.
< Ti prego...non fare così. So che sei lì, che sei a casa. Ti
prego rispondimi... >
Sembrava implorarmi, se sono non avessi visto la sua faccia, mi
sarei alzata e avrei risposto io: i suoi occhi, i miei occhi! Piangevo
disperatamente...per cosa? Mi sentivo frastornata, non capivo perché davanti ad
una persona tanto gentile avrei dovuto piangere...
< Non fare stupidaggini, Tini...non fare cose... >
Silenzio. La voce si era fermata e un lieve singhiozzo si sentì
dall’altra parte del ricevitore: stava piangendo. Guardai me stessa, lì
rintanata in un angolo: piangevo anche io. Forse avevo capito. La testa
cominciava a girare...
< So che è una ferita, Tini! lo so bene! ma tu sei venuta qui
anche per questo, no? Sei venuta da noi perché potessi tornare ad una vita
felice, no? >
Incertamene voltai lo sguardo. La me nel buio non smise un
attimo di tenere la testa chinata; prese una scarpa e la lanciò addosso al
telefono senza neppure alzare lo sguardo: lo mancò.
< Ora non fare stupidaggini...comunque stiamo arrivando
>
A quelle parole sentii la pressione e l’ansia della me Tini
(che nome era?) seduta a terra. Alzò gli occhi e li vidi impauriti. Che avesse
timore...di quella ragazza?.
"Non qui" disse lentamente, poi sempre più veloce, come una
cantilena.
"Non qui".
Mi alzai da terra e mi massaggiai le tempie.
"Non qui" dicevo velocemente guardandomi intorno, ripetendo quelle stupide
due parole.
< Non commettere sciocchezze...noi ti vogliamo bene
>
A quelle parole fui presa come da un improvviso singhiozzo e rimansi immobile
alla ricerca di un aggrappo: il cuore vacillava. Perché delle parole tanto
gentili dovevano farmi sentire male? Non ero in grado di capire, come sempre
d’altronde.
Mi guardai alla ricerca di una spiegazione. La sua mano si era
bloccata davanti al suo viso, la maschera cadde, del tutto,
definitivamente.
Un sorriso amaro.
"Io non voglio essere amata da voi...volevo solo essere amata da coloro che
mi hanno voluta...non abbandonata così, al caso, come se non appartenessi a
nessuno".
Si tolse la mano da davanti agli occhi. Ci guardammo.
Sta volta vedevo che lei sapeva.
"Giusto, Tini?".
Non risposi, davanti a me solo buio.
Solo all’ora mi fu concesso di ricordare.
Flash....Back.
Non era semplice vivere in una grande metropoli, figuriamoci in
una stretta città di provincia. Le pressioni, gli sguardi della gente che
credeva di sapere tutto e che in realtà non ne sapeva esattamente nulla, ti
opprimevano e ti uccidevano a poco a poco, avvelenandoti con lo sguardo.
Questo era quello che diceva sempre mamma quando da piccola
uscivamo a fare una passeggiata.
Ricordo ancora il profumo del ciliegio vicino a casa e la
triste malinconia che mi prendeva quando la mamma parlava in quel modo. Ero
piccola, non capivo, ma nel profondo avevo l’impressione di sapere.
Quando la guardavo il suo sguardo mi diceva tutto e gli occhi
mi si riempivano di lacrime; sapevo che prima o poi ci avrebbe lasciati.
Di notte, stesa sul letto, pensavo a quando papà mi avrebbe
chiamato da lui e mi avrebbe stretto tra le braccia singhiozzando: non ci
sarebbero state parole, avrei capito.
Quelle notti le passavo a piangere, ma all’albeggiare vedevo il
sole e sorridevo: avrei ritrovato la mamma ovunque fosse andata, con chiunque
fosse stata.
Non credevo nella Morte, non sapevo neppure che gli esseri
umani potessero morire.
Fu per questo che un anno dopo, mentre stavo tornando a casa da
scuola, la mia prima elementare, mi ritrovai spiazzata nel vedere mio padre
piangere disperatamente...accanto al corpo addormentato di mia madre.
"Papà, perché piangi?" chiesi abbassando la voce, temevo che
mamma potesse svegliarsi.
Mio padre mi guardò, stanco. Non ebbe la possibilità di
rispondermi che il mio sguardo vagò per la stanza, sui muri, sul soffitto.
"Papà...perchè qui è tutto rosso?" feci un passo indietro,
facendo cadere la mia cartelletta.
"Papà...perchè c’è questa puzza?...papà...perchè la mamma è
sporca di pittura?...papà...perchè...lo sei...anche tu?".
Il rosso che tanto mi piaceva ora dipingeva la scena di un
crimine.
Un crimine troppo pesante perché io potessi capire fino in
fondo quelle ragioni.
Rimasi immobile quando mio padre si alzò da terra, da di fianco
al letto, e mi superò mettendosi in testa il suo stupidissimo berretto nero.
"Addio cara" quelle parole, ricordo, non furono rivolte a
me.
Passarono anni, sballottata da una casa all’altra, tra parenti
mai visti e persone dallo sguardo caritatevole.
Ero cresciuta, ne sapevo molto e allo stesso tempo molto poco
di quello che era successo quel giorno. Non ricordavo molto bene, ero svenuta
dopo poco e la polizia mi aveva portato da una zia.
"Tini!" la voce stridula di una ragazza mi avvisò, all’età di
quattordici anni, che ero entrata in una nuova casa.
"Piacere" dissi senza forza. Oramai era tutto perduto.
La ragazza portava lunghi capelli biondi e i suoi occhi erano
di un azzurro intenso. Il suo nome era Eva.
Non poteva esistere altra persona più diversa da me. Mi
sembrava di avere il mio negativo davanti agli occhi; era tremendamente
fastidioso.
Quel primo giorno, un giorno di neve, di fine dicembre, cambiò
la sorte della mia vita.
Non era passato molto da quel momento, passai i miei più bei
due anni da quella maledetta primavera, quando la mamma era morta. Avevo
conosciuto un mucchio di persone e tutte le altre ragazze della scuola che
oramai frequentavo.
Tutti mi consideravano una brava ragazza, ero tornata anche a
sorridere...quando mio padre tornò.
L’avevano liberato dal carcere. Aveva tentato di scappare quel
giorno, ma lo avevano beccato subito. Non sapevo che se ne sarebbe uscito così
presto.
"Ciao, Tini" mi disse con voce profonda e grave.
Eravamo davanti a casa, una sera prima di capodanno. Non me lo
sarei mai aspettata.
Mi feci indietro, Eva si lanciò contro di lui accusandolo di
molte cose. Non ricordo molto di quel momento, ma so che dalla sua bocca
uscirono così tanti insulti che mi chiesi se dopo quelle parole sarebbe stata
ancora Eva, la ragazza calma e pacata di un tempo.
Mio padre sembrò insensibile, forse per lui gli insulti di una
ragazzina erano nulla in confronto a quello che aveva subito in carcere.
Ad un certo punto, senza neppure accorgermene, feci da parte
Eva e guardai fisso mio padre.
"Cosa c’è?" la mia voce tremava.
Lui abbassò gli occhi come sconfitto.
"Caterine" il nome della mamma "Avrebbe voluto che tu
sapessi".
Mi feci indietro come schifata, quelle parole erano da film
tragico.
"Avrebbe voluto che tu, una volta grande avessi saputo che cosa
aveva. Eri troppo piccolina perché te lo spiegassi prima".
"Ho ancora sedici anni" gli dissi io a brucia pelo.
Papà mormorò poche parole annuendo.
"Non mi resta ancora molto".
Mi zittì sospirando.
"Caterine avrebbe voluto che tu capissi in che situazione si
trovava. Stava diventando isterica, dormiva poche ore a notte, i suoi occhi
sembravano quasi uscire dalle orbite quando era in preda alle risa. Quando non
era depressa cercava di farmi capire quanto fossi importante per lei e che non
voleva rovinarti la vita. Oramai si sentiva un niente. Da quando...da quando
fece quell’incidente le sembrò di non poter più vivere".
Alzò gli occhi nei miei e mi accorsi che la spiegazione era
sempre stata a portata di mano.
La mamma era sempre stata depressa per quell’incedente.
L’incedente che aveva causato pochi mesi prima dei miei tre anni in cui morì
un’intera famiglia. Si era sempre sentita tremendamente in colpa e la voce per
cui lei non fosse nel pieno delle sue capacità quella notte si era diffusa in
tutto la città.
Ecco cosa significavano quelle parole, le frasi sussurrate al
mio orecchio e da me mai interpretate perché così lontane dalla mia logica.
Aveva già deciso da tempo come fare per liberarsi da quel peso,
si era confidata con me, una piccola bambina che faceva finta di capire, ma
allontanava inconsciamente da se la realtà.
"Non ho potuto far altro che..." papà boccheggiò. "C-che
assecondarla...io volevo che lei fosse felice...e così...così forse..." alzò gli
occhi di nuovo verso di me, occhi pieni di lacrime. "Dovevi vederla. Sorrideva
mentre i suoi occhi si socchiudevano. Il tuo fu l’ultimo nome che sussurrò".
In quel momento mi accorsi di piangere. Dentro il mio cuore
sapevo di cosa papà stesse parlando, di come la mamma si fosse sentita: avevo
vissuto tutto quello sulla mia pelle, da dieci anni.
Mi ritrassi avvicinandomi ad Eva.
Ciò che mio padre aveva fatto, così astrattamente mi mise il
cuore in pace...ma poi, al solo pensare la pelle candida e vellutata di mia
madre sfiorata, infilzata, massacrata da una lama lucente, le mie gambe
cedettero e la mia mente cercò un appoggiò: lo sguardo di mio padre.
"E ora cosa dovrei fare?...non posso comunque perdonarti...hai
portato via la cosa più preziosa che avevo...". Dissi cercando di rivenire.
Papà sembrò arrabbiarsi.
"IO HO SALVATO TUA MADRE DALLA PAZZIA!".
Sia io che Eva lo guardammo.
"Cosa credi? Che mi sia divertito a fare quel che ho fatto? Che
ho passato dei bei momenti pensando di aver macchiato le mie mani di un tale
peccato?!" si fermò infervorato. "Se solo tu fossi stata più grande...forse
sarebbe stoccato a te farlo! E invece...invece eri così piccola che non capivi
nulla! e non capisci tutt’ora!" mi guardò come schifato. "La gente alleva i
figli per essere ricambiato in questo modo...".
"Ma io..." dissi cercando di formulare delle frasi di senso
compiuto, ma sembrava fin troppo difficile. "...una famiglia felice..." dissi
soltanto reclamando il mio sogno più segreto.
Mio padre mi guardò tirando indietro le spalle. "Saremmo stati
una famiglia felice se tu non ci fossi stata, se non ci fosse stata una bambina
da nutrire, di cui preoccuparsi...se non ci fossi stata avrei saputo come
curarla, ma lei...lei ripeteva che eri più importante tu! E io non potevo andare
contro il suo volere...."
Prese la sua borsa e si allontanò.
"Non cercarmi!" urlò, ma fu solo un sussurro in quella sera.
Sembrò quasi una minaccia, ma io ed Eva non avemmo tempo per pensarci. Rimasi
immobile nella fredda serata invernale.
Ricordo che quando il giorno dopo mi svegliai era come se
avessi avuto addosso un peso indicibile. Mi ero guardata allo specchio e mi ero
accorta degli occhi estremamente gonfi: avevo pianto, e anche tutta la
notte.
Eva comparì sulla porta con lo stesso sguardo di quando l’aveva
lasciata la sera prima: dispiaciuta e sconfitta.
"Se ti va..." chiese titubante. "Se ti va di scendere per la
colazione...poi potremmo andare a fare compere per...per passare un po’ di
tempo".
La guardai addolcita: sapevo cosa voleva dire per lei; nella
sua testa quella era la cosa più giusta da fare in un momento del genere.
Accettai di buon grado: avrei fatto di tutto per allontanarmi da lì.
Camminando per strada mi resi conto di non averla mai vista con
gli occhi di tutti gli altri: camminavo sempre a testa china accorgendomi di
rado di quante cose ci fossero da vedere.
Alzando gli occhi vidi tante persone conosciute con splendidi
sorrisi; incontrammo anche i nostri compagni di classe, tra cui Rika, la
migliore amica di Eva, e molti altri.
Passammo una giornata stupenda, mi sembrava di vivere fuori
dalla mia vita. Fuori da me stessa.
Ma non si può.
È quasi illegale;
ingiusto per gli altri;
troppo felice...
Tutto torna.
Quando le persone sono maledette...
...sono maledette, no?
"Guardate là!" uno sparo o meglio, una voce.
Alzai gli occhi sorridendo. Mi ero staccata un attimo dal
gruppo, la voce mi giunse un po’ lontana, ma chiara.
Guardate là...se sono non l’avesse detto...
Lo vidi precipitale, come se fosse un uccello ferito. Lo vidi
oscurare il sole per un attimo, passando come un ombra quasi sopra di me. Ebbi
un fremito, poi un sussulto...e infine rimasi ad occhi sbarrati fissandolo
sconcertata.
Cadeva, papà cadeva dall’alto.
Come un angelo, o meglio come Lucifero. Scaraventato al suolo
da Dio per aver peccato di hubris. No, non era una colpa tanto grave quella di
mio padre, ma lo stesso ciò che gli accadde era ciò che meritava. Era quello che
pensai mentre lo guardavo inorridita.
E poi cadde. Ci doveva essere una fine. Una possibile fine, o
meglio, un inevitabile fine.
Splat.
Vero, fece proprio splat. Come lo sentii non lo so...immersa
com’ero tra tutto il rumore.
Ricordo di non aver chiuso gli occhi, ricordo di aver assistito
secondo per secondo a quella disgrazia. E non riuscivo più a chiuderli, ero
rimasta bloccata.
Le persone giunsero come mosche ad osservare a e schifarsi. Che
senso aveva allora guardare? Solo per il gusto di dire "Io c’ero!"?.
Giunsero anche i miei compagni...quei ragazzi che mi avevano
accompagnato per un percorso di vita; pensai così, ero già prossima alla
fine.
"Non guardare! Non guardare!" mi disse Eva. Riconobbi la sua
voce strozzata.
Non guardare. Cosa c’era oramai da guardare? Un corpo
vuoto?.
"Tini" la sua voce e fu silenzio. "Ricordati di tua madre e di
me".
Quello proprio non doveva dirlo. Tutto, ma non quello. Accanto
ai pensieri che mi stavano entrando in testa quello proprio non doveva
andare.
Fu in quell’esatto momento che mollai la presa. Scalando la
montagna della vita io persi la presa e senza una protezione caddi verso il
vuoto.
Eva mi strinse a se, ma non sentivo calore. Le sue parole non
avevano senso, la sua immagine non aveva più contorni. Piangevo? No, pensavo e
vedevo altro.
L’immagine di mia madre stesa sul letto, il suo corpo esanime
straziato dalle coltellate. Mio padre e il sangue sull’asfalto.
Ed io.
Era impossibile non associarmi a quella fine, legata a loro in
vita e in morte. Oramai non aveva più senso quella cosa...non era possibile
neppure chiamarla vita.
Scossi la testa per un lieve istante e poi nascosi il volto
sotto i capelli scuri e ricci. No, ero arrivata tardi a capire anche quella
volta.
La mia vita era finita molto prima, segnata con il sangue di
mia madre, marchiata a fuoco da quel dolore che non mi aveva dato più
scampo.
No, non aveva paura. No, non mi sentivo neppure nera. Ero
soltanto stanca.
Stanca di tutto, che nulla andasse bene.
In quel momento rinunciai e cambiai strada. Mi allontanai da
Eva, fisicamente e psicologicamente.
La vidi osservarmi spaventata, sapevo che aveva capito. Sbarrò
gli occhi e nello stesso momento impallidì.
Sorrisi leggermente, come facevo quando volevo
tranquillizzarla, ma quella volta era diverso: avevo preso una decisione così
grave che per lei era troppo difficile sostenerla. Era ancora troppo ingenua e
giovane per capire e io oramai mi sentivo così vecchia.
La folla ci separò e io potei cominciare a camminare verso
chissà dove. Camminare e poi correre, seppur mi sentissi così stanca.
Pian piano che camminavo la lucidità tornava, il batticuore
cresceva. Cominciavo a chiedermi perché, il perché di tutto quello.
Piansi, ma le lacrime presto finirono.
Mi ritrovai dentro casa.
La casa buia e silenziosa. Quella che utilizzavo per me stessa,
che i miei parenti mi avevano lasciato per i miei momenti di sconforto, quando
la solitudine reclamava il mio corpo e il silenzio si impadroniva di me.
Quella casa così buia, dal parquet nero che voi conoscete così
bene...forse quanto me.
Sbattei la porta d’entrata e rimasi ferma qualche secondo, solo
per respirare.
Attraversai la sala e la cucina, percorsi il corridoio e
arrivai in camera...
"Ora, concludiamoci"
***
Dopo quell’affermazione vidi il buio. Era come se le mie
palpebre fossero calate a celare la scena; come un sipario che scende dopo
l’ultimo atto di un’opera...ma io sapevo che non era così, che non era ancora
finita.
Lottai contro me stessa per vedere, ma non ce la feci: sentivo
soltanto dei rumori, senza riuscire a capire. Poi cominciai a tranquillizzarmi
ed ad ascoltare.
I passi di me stessa che poggiavano veloci sul pavimento, il
loro allontanarsi...verso la cucina.
Ebbi un brivido e cercai di alzarmi: non ce la feci.
E poi sentii un rumore metallico e un singhiozzo. Capivo,
capivo perfettamente quello che stava succedendo e senza accorgermene presi a
piangere anche io, sentivo le lacrime che mi lenivano il volto mentre
accompagnavano i gemiti provenienti dall’altra stanza.
Infine un urlo, sobbalzai.
Un urlo straziante, da lacerare il cuore. Le lacrime si
arrestarono un momento, mentre il mio cuore accelerava. Potevo sentirlo
benissimo rimbombarmi nelle orecchie.
Mi sentivo stanca, il polso sfregiato cominciava a farmi male,
sempre più male, ma non riuscivo a capire; il cuore accelerava sempre di più
fino a che non cominciò a rallentare.
Lentamente, ma rallentò.
Credevo potesse essere un bene, perché mi stavo calmando, ma
quando mi accorsi che il cuore non smetteva di rallentare capii che ero
prossima alla fine.
Le mie orecchie percepirono uno struscio. Sicuramente ero io,
strisciante nel corridoio e poi in camera. La sentii stramazzare al suolo oramai
priva di forze; si aggrappò al piumone e lo trascinò con se.
Il cuore cominciò a fermarsi, mentre cercavo di respirare più
forte. Non c’era scampo, non potevo fare nulla.
La morte giungeva, sentivo freddo, il buio oramai non sembrava
più un problema.
Un ultimo battito ovattato, un ultimo rintocco nelle mie
orecchie, poi silenzio.
Le forze mancarono del tutto e mi ritrovai a cadere nel nulla.
Non sentii il letto sotto di me, non sentii un tonfo. Galleggiavo nel nulla e
temevo che nulla sarebbe cambiato da così.
La morte è tale? Mi chiedevo senza poter sentire la mia
voce, pensando solamente. Che strana sensazione...
Non è una strana sensazione.
La voce di qualcuno rimbombò nelle orecchie.
Come? Chi è?
Qui non è nessuno,
qui non vi è nessuno,
qui non regna neppure il nulla.
Cosa stai dicendo?!
Non sto dicendo nulla.
Chi sei?
Io non sono nessuno, sono come te.
Hai un nome?
Io non sono nessuno, sono come te.
Ma io sono qualcuno!.
Silenzio.
Ehi!
Tu non sei nessuno.
Non più.
Eri, ma non sei più...
Eri e non sarai.
Hai perso la tua possibilità di vivere.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che sei morta pensando ad un futuro migliore,
ad un mondo diverso dove dimenticare le ingiustizie.
Lo hai trovato...
È ciò che non è, questo posto non ha proprietà, è impossibile
da definire...
Esiste, ma non esiste...
È ma non è.
Sembra il nulla, ma è qualcosa di più oscuro.
E cos’è?
La Morte.
______________________________________________________________________________THE END_____________________
Note dell'Autrice.
...ummm...si. giustamente è tutto finito: per me,
questa storia, e per Tini, la sua vita.
Scusate se c ho messo davvero troppo a postare
l'ultimo capitolo, ma il pensiero di dover cambiare qualcosa mi
opprimeva.
Emily Doyle : si, capito molto bene.
Spero che questo ultimo cpaitolo ti sia piaciuto e mi fa piacere che la storia
ti sia sembrata originale =]
Gotick_92 : cosa dovrei dirti?
=[ Mi sento svuotata. Sigh, è sempre così terribile che qualcuno che ti ha
accompagnato per così tanto tempo ti abbandoni...poor Tini! Guarda, le ho dato
quel nome solo perchè mi hai totalmente convinto che poteva essere lei...tranne
per l'aspetto fisico. Grazie ancora per il consiglio e spero che il finale sia
di tuo gradimento. Sinceramente mi ero chiesta come poter spiegare la tanta
tristezza di Tini...e purtroppo non ho avuto molta fantasia... =[
l_s : Grazie del genio...ma ora sono
troppo triste per poterti ringraziare...sigh...cmq spero ti possa piacere il
finale e che sia degno della Miky sempre nei cuori e di una piccola shinigami...
=)
Vegeta4ever : eccomi! Finalmente
concludo...fammi sapere!
Marluxia25 : graaazie per i
complimenti, forse non li merito...eh eh...sarei molto felice di sapere la tua
opinione sull'ultimo capitolo...
CharmingVampire : Una new Entry!
grazie, spero commenterai anche quest'ultimo
capitolo...ciao!
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