Akai Ito

di Holly Rosebane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Musica ***
Capitolo 2: *** Zucchero ***
Capitolo 3: *** Colori ***
Capitolo 4: *** Fili ***



Capitolo 1
*** Musica ***


Warning!: anche questa è una storia SVERR.

 






I.
Musica

 
 
«In questo mondo
contempliamo i fiori;
sotto, l’inferno
»

(Kobayashi Issa - Haiku)
 
 
 
 
Eccolo di nuovo. Stessa ora, stesso luogo. Stessa musica di base. Lo vide inspirare profondamente, e poi cominciare a suonare. Ogni movimento delle sue dita, sembrava seguire un preciso filo logico, un flusso di pensieri, un’armonia del corpo. Era ormai divenuta un’azione abitudinaria.
Tutti i pomeriggi d’estate, dalle cinque in poi, Michael Clifford arrivava in piazzola. Si sistemava al solito posto all’ombra del grande palazzo residenziale. Montava l’amplificatore e una serie di altri oggetti complessi che costituivano la sua strumentazione. Imbracciava la nera chitarra elettrica piena di scritte e disegni scarabocchiati, accordandola per qualche momento. Poi, accendeva la cassa, e iniziava a suonare. Ai suoi piedi, un cappello rivolto al contrario raccoglieva quanto i passanti decidessero di valutare la sua bravura.
Aveva un portamento degno, lo sguardo fiero e l’incarnato eburneo. Due meravigliosi occhi color del mare dal taglio a europeo, naso proporzionato e una bellissima bocca carnosa, che quasi mai si apriva in un sorriso vero. Spesso alzava un angolo delle labbra, regalando qualche attimo di purpureo imbarazzo alle guance di qualche giovane ragazza che depositava uno spicciolo o due nel cappello. Poi, più nulla.
Michael Clifford suonava per vivere. Gettava la sua arte in pasto alla folla per un’oretta, quindi raccoglieva il suo berretto. Spegneva la cassa, intascava quanto guadagnato. Sistemava il resto dell’armamentario in una enorme sacca scura sportiva. E spariva. Non un’anima sapesse dove andava. Non si fermava mai a chiacchierare con nessuno, nemmeno a prendere un bicchier d’acqua al bar.
Eireen Simms mordicchiò il tappo della sua biro ormai consumata, stringendo fra le mani la Moleskine vissuta, aperta su una nuova pagina bianca. Aveva le dita piccole e affusolate e lo sguardo da bambina. Spalancava i suoi grandi occhi da cerbiatta e si lasciava stupire dal mondo.
Dimostrava molto meno dell’età che realmente avesse, con quei capelli corvini dalla frangia pesante lunghi fino alle spalle, un paio di scolorite ciocche rossastre qua e là e la sua abitudine di mordersi il labbro inferiore quando formulava pensieri poetici. Vestiva con i soliti jeans stinti, vissuti e strappati e l’anonima t-shirt nera, spesso con il nome di qualche band post-hardcore disegnato sopra. A volte, quando faceva freddo, portava con sé anche la sua giacchetta di pelle, piena di scritte all’Uniposca bianco. Erano soprattutto versi, quelli che annotava sull’indumento, in mancanza della Moleskine.
Osservò il corpo di Michael piegarsi lievemente in avanti per enfatizzare l’assolo di Sweet Child O’Mine, dunque cominciò a scrivere. Lei, quindi, sedeva tutti i giorni sulle scalette della chiesa di fronte alla piazzola. Guardava il giovane suonare e componeva poesie di getto. Era talmente affascinata dalla musica rock e dall’abilità di quel ragazzo, da farne la propria fonte d’ispirazione. La sua musa. Avrebbe dato di tutto pur di scambiare una sola parola con lui.
Eppure, non disponeva di così tanto coraggio. Preferiva dialogare silenziosamente attraverso i suoi versi, intavolare conversazioni con se stessa e il giovane immaginario che le intesseva sogni dinanzi agli occhi. Ogni tanto alzava lo sguardo, e a volte incontrava il suo. Allora chinava di scatto la testa, e ricominciava a scrivere.
Continuava così per tutto il tempo in cui Michael suonava. Quando sentiva la musica cessare, riponeva il quadernino nella lisa borsa che si portava dietro e tornava a casa. La stessa routine che si ripeteva tutti i giorni, dall’inizio dell’estate. Mai una parola. Mai un cenno.
A volte, il suo amico Calum veniva a farle compagnia. Ma, per quanto bene gli volesse, Eireen non riusciva mai a concentrarsi con lui nei paraggi. Parlava decisamente troppo. E le riempiva la testa di chiacchiere sulla commessa del bar all’angolo. Una tipa un po’ isterica con l’eyeliner agli occhi e i capelli blu.
«Posso leggere?»
Eireen alzò di scatto la testa. Era rimasta così concentrata su quell’ultima poesia, che non si era nemmeno accorta dello strano silenzio in piazzola, segno che Michael avesse spento la cassa. Ma la sua sorpresa fu ancora più grossa quando, nel sollevare lo sguardo, si era ritrovata niente meno che lui in persona dinanzi. Ad un palmo di naso di distanza. Bello come non mai.
 Gl’indisciplinati capelli neri sparati in tutte le direzioni e scomposti sulla fronte madida di sudore, la sbrindellata canotta nera appiccicata al petto scolpito, le mani sprofondate nelle tasche degli stretti e stinti skinny jeans scuri. Da vicino era ancora più alto. E aveva davvero un volto perfetto. La giovane poetessa scosse energicamente la testa, arrossendo per l’imbarazzo.
«Perché no?» Insisté, sollevando un angolo delle labbra come solo lui sapeva fare. «Guarda che lo so di cosa si tratta».
«Come fai a saperlo?» Scattò Eireen, sulla difensiva. Chiuse il quaderno con un gesto secco, inchiodando Michael con lo sguardo. Il giovane alzò gli occhi, assumendo un’aria pensierosa.
«Diciamo che è stato un uccellino a rivelarmelo», la prese in giro. Quando notò che Eireen seguitava a guardarlo male, sospirò. «Okay, ho chiesto in giro. Hai presente la cassiera isterica del bar all’angolo? È mia amica. Mi ha detto che componi delle poesie veramente niente male».
«E… e che altro?» Eireen iniziò a temere che gli avessero anche spifferato su chi scrivesse quei famigerati versi. Michael scosse la testa, facendo ondeggiare le morbide punte color cioccolato. La giovane sospirò di sollievo, dentro di sé.
«Allora? Mi fai leggere o no?»
«Non se ne parla. Sono personali», concluse la mora, riponendo la Moleskine e alzandosi in piedi. Sì, Michael era più alto di almeno due spanne, ma finse di non dargli peso. Si voltò, avviandosi verso casa.
«Andiamo, non saranno mica tutte personali!» Esclamò il musicista, iniziando ad inseguirla. Bene. Eireen aveva desiderato per secoli quel momento, finalmente poteva parlare di persona con la musa ispiratrice delle sue poesie, ma… così era troppo.
«Fatti gli affari tuoi! E poi nemmeno mi conosci!» Ribatté, arrossendo nuovamente. Perché in realtà, con tutte le volte che l’aveva osservato suonare, sentiva di conoscerlo più che bene. Almeno fisicamente.
«Se ti scaldi tanto per le formalità, allora perfetto» disse, fermandosi in strada. «Mi chiamo Michael Clifford» e le tese la mano.
Eireen si voltò, leggermente incredula. Fissò prima il braccio proteso, con un paio di tatuaggi tribali a circondare una porzione di pelle prima e dopo il gomito, poi il volto determinato del suo interlocutore. “Accidenti, questo qui fa sul serio”, pensò. Gli strinse la mano timorosamente, sussurrandogli il proprio nome.
«Fantastico, ora che ci siamo presentati… addio» e girò nuovamente sui tacchi, accelerando per frapporre distanza tra lei e Michael. Ma fu inutile.
«Perché scappi? Sembrerebbe che tu abbia paura di me!» Commentò lui, posandole un braccio attorno alle spalle. Tutto quel contatto fisico fu eccessivo, Eireen sentì il cuore martellarle nelle orecchie.
«Ti prendi troppe confidenze, Michael Clifford» disse la giovane, cercando di allontanarlo senza molta convinzione. Egli rispose con una sonora risata, e Eireen riuscii solo a pensare a quanto potesse suonare bene quella voce nelle sue orecchie. Tanto che non si accorsero delle bombolette comodamente sistemate a terra, inciampandovi sopra e cadendo.
«Ma che cazz…» cominciò Michael, ma venne interrotto da un urlo mezzo soffocato. Un giovane artista di strada stava lavorando ad un graffito su un ritaglio di cartone, e loro gli avevano appena rovinato l’opera. Lui li guardava, con quei suoi due occhi azzurro cielo, gli scompigliati capelli biondo grano e un impudente piercing all’angolo inferiore sinistro del labbro. Aveva un’espressione terribilmente ferita e sconvolta, quasi come se avesse appena ricevuto una pugnalata in pieno petto. E gli avevano semplicemente rovesciato dei colori in terra.
«Scusaci!» Esclamò Eireen, affrettandosi a rimettere in piedi le bombolette che erano cadute tintinnando.
«Non volevamo…» aggiunse, prendendo l’ultimo cilindretto metallico. Ma qualcun altro fu più veloce e le loro dita si sfiorarono. Eireen sentì una scossa elettrica fulminarle le vene, mentre Michael alzava lo sguardo e le sorrideva come solo lui era in grado di fare.
«Fatto. Visto? Non ci è voluto poi molto…» commentò lui, tirandosi su e levandosi la polvere dai pantaloni.
«Da’ qua».
Prima che Eireen potesse alzare lo sguardo, si ritrovò la mano di Michael dinanzi. Voleva aiutarla a rialzarsi. La giovane fissò quelle lunghe dita affusolate dalle unghie lievemente smangiucchiate, un po’ sporche di polvere e con qualche graffio qua e là. Avrebbe potuto tirar fuori dei versi anche solo per come quelle falangi accarezzavano l’aria.
Tuttavia, si limitò a sorridere lievemente e a stringergli la mano, lasciandosi sollevare senza difficoltà. Superarono l’artista di strada continuando a scusarsi, e a qualche metro più avanti Michael scoppiò a ridere di nuovo.
«Hai visto che faccia?» Commentò, riferendosi alla smorfia di orrore di quel ragazzo, alla vista delle sue bombolette a terra. Eireen scosse la testa.
«Non essere cattivo, Michael. Magari ci teneva, a quel disegno…»
«Così come tu tieni alle poesie?»
La mora arrossì e chinò la testa, evitando di rispondere. Non si era minimamente aspettata che il musicista della piazzola avesse un carattere simile. Anzi. Se l’era figurato bello e impossibile.
Guardò l’orologio per prendere tempo e si accorse… di non averne più. Il treno per riportarla a casa sarebbe passato fra una mezz’ora. Doveva sbrigarsi.
«Scusa, ma ora devo proprio andare», disse Eireen. Michael assunse un’espressione lievemente smarrita.
«A-ah», balbettò. «Domani… domani mi farai leggere le tue poesie?» Chiese, un’ultima volta. Lei scoppiò a ridere per la tale insistenza. Che importanza potevano mai avere i suoi stupidi versi per lui?
«Chissà. Forse sì, forse no» commentò. Michael sorrise.
«Guarda che ci conto», rispose, allungando una mano e scompigliando i capelli della ragazza che gli stava di fronte.
«Dovresti sorridere più spesso», aggiunse.
«Perché?»
«Ti s’illuminano gli occhi. Sei molto più bella». 



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Nota: Asking Alexandria è finita. Non potevo lasciare all'attivo solo THM, si sarebbe sentita sola! Ecco quindi un'altra delle mie storie un po' vecchiette, che hanno cambiato casa. Noterete anche un leggero mutamento di stile, rispetto alle ultime long che sto pubblicando. Sappiate che questa vicenda ha quasi due anni alle spalle! Ed è basata su una leggenda giapponese che gli amanti della cultura nipponica riconosceranno sicuramente! Quindi non stupitevi del cambiamento. Quando la scrissi, stavo ancora maturando.
Ci saranno quattro capitoli a tenervi compagnia, tre si focalizzeranno sulle coppie principali e l'ultimo fungerà da "epilogo". Questa vicenda è leggera e senza pretese, ve la consegno così com'è nata, eccezion fatta per alcune significative modifiche, che mi hanno permesso di plasmarla e rimodellarla al meglio.
Corro ad aggiornare THM, vi lascio il solito angolino pubblicità! Ringrazio chiunque le dedicherà un pizzico del proprio tempo e... sappiate che un parere è sempre ben accetto!


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Capitolo 2
*** Zucchero ***


<



II.
Zucchero



«Torno a vederli
ed i fiori di ciliegio
nella sera sono già frutti
»

(BusonHaiku)
 
 
No, eh. Non di nuovo”.
«Buongiorno!»
La giovane cassiera dai lunghi e ondulati capelli color blu notte si voltò verso lo scaffale delle caramelle, stringendo gli occhi per la disperazione e dando le spalle alla cassa. Si lasciò sfuggire un gemito soffocato, dando voce ai suoi tre secondi di frustrazione.
Poi, prese un respiro profondo e si girò dalla parte dell’entrata del negozio. Per vedere sempre il solito spilungone indie con la voce profonda e le spalle larghe, che molestava tutti i giorni la tranquillità di quel modesto bar all’angolo.
«Hai fatto qualcosa ai capelli?» Chiese, di punto in bianco. Stacey Jones si morse il labbro inferiore per non rispondergli male all’istante e si sforzò di sorridere.
«No. Sono sempre gli stessi di ieri. E dell’altro ieri. E dell’altro ieri ancora» scandì con una certa punta di acredine, ricordandosi di quante volte quel giovane fosse passato al bar solo per il semplice scopo di vederla. Infatti, il tipo si strinse nelle spalle e piegò un po’ la testa di lato.
«Sei sicura? A me sembrano diversi».
«Cosa prendi, oggi?» Tergiversò Stacey, cercando di non prolungare quell’incontro oltre i quattro secondi massimo.
«La cassiera è in vendita?»
«No. Come sempre».
Allora lo vide appiccicare entrambi i palmi delle mani alla vetrinetta dei dolci, esaminando le paste con notevole interesse.
Al rumore delle dita sul plexiglas, Stacey sussultò lievemente, chiudendo gli occhi. Odiava quando, in controluce, spiccavano le impronte in trasparenza. Le dava un incredibile senso di disordine, sporcizia, sciattezza. E lei odiava a morte tutt’e tre. Ma, forse, detestava di più quella pertica maori tutta tatuaggi e niente cervello che stava adocchiando la caprese italiana ancora intatta.
Fisicamente, poteva anche essere bello. Grandi occhi a mandorla dalle iridi così scure da non potervi distinguere le palpebre. Spettinati e lucenti capelli neri non troppo corti, labbra rosate spesso aperte in un largo sorriso a 32 denti, tutti perlacei e luminosi. Incarnato olivastro che lo faceva sembrare perennemente abbronzato per tutto l’anno. Tatuaggi che sottolineavano la sua parentela con avi cherokee e neozelandesi.
Vestiva con abiti stretti che parevano appositamente scelti di una taglia in meno, che lo facevano sembrare ancora più alto e ben piantato. Più strappi potessero esserci sopra, meglio era. Stacey gl’invidiò i quindici centimetri extra che la costringevano ad alzare la testa per fissarlo negli occhi. E il suo inspiegabile, perenne buonumore.
«La crostata di pesche sembra buona. Lo stesso per quella sottospecie di rotolo alla frutta…»
«Si chiama strudel. È tedesco», lo corresse la giovane, spostando lo sguardo su ognuno dei dolci che gli nominava.
«Fa lo stesso, siamo in Australia e non vedo il motivo di parlare un’altra lingua. Ad ogni modo, sono anche indeciso su quei pasticcini alla crema, ho sempre avuto un debole per la crema pasticcera. Però non posso mangiarne molti, altrimenti ingrasso. Sai, non sarebbe carino che mettessi su della ciccia extra, poi non potrei più rimorchiare, mi vergognerei ad uscire e non potrei più venire qui a veder…»
«Scegli. Un. Dolce» scandì Stacey, la cui tolleranza era affogata nella crema dei pasticcini. Vide il moro socchiudere gli occhi e poi puntare deciso il dito verso la caprese, stampando la propria impronta digitale sulla plastica trasparente. E c’era stato il bisogno di chiacchierare così tanto?
«Quella lì al cioccolato», disse. La giovane aprì la vetrinetta e ne tagliò abilmente una fetta, per poi sistemarla su un piattino e allungarla al ragazzo sul plexiglas. Quindi cominciò a pregare mentalmente che se ne andasse in fretta, iniziando anche ad essere di umore leggermente più amichevole.
«Fanno…»
«Posso pagare domani? Ho scordato il portafoglio a casa», l’interruppe lui, prim’ancora che potesse dire una cifra. Stacey lo fissò negli occhi e sospirò profondamente.
«Basta che ti ricordi», commentò, richiudendo la vetrinetta e tornando al suo posto in cassa. Si sedette, sprofondando il mento fra le mani, osservando il moro masticare il suo dolce con calma.
«Sai che ancora non so come ti chiami?» Rifletté lui, sputacchiando briciole color cioccolato a destra e a manca. Quello fu troppo.
Stacey trasalì e scomparve sul retro. Tornò alcuni secondi dopo, rossa in volto, con una scopa e una paletta. Cercò di contenere la sua ira, incenerendo il ragazzo che continuava a masticare senza problemi.
«Non ti hanno insegnato le buone maniere, a casa? O parli, o mangi!» Esclamò, iniziando a spazzare freneticamente attorno al moro.
«Veramente…» ribatté, provocando un’altra pioggia di bricioline.
«Per la miseria! Stai zitto!» Urlò Stacey, passando di nuovo la scopa sullo stesso identico punto. «Finisci di masticare e poi potrai parlare».
Il moro, per nulla intimidito da tanto strepito, continuò a mangiare senza problemi. E sorridendo alla cassiera che continuava a guardarlo con astio, stringendo in mano scopa e paletta.
«Ecco qua! Ho finito!» Sentenziò, posando il piattino sul plexiglas e alzando le mani in segno di resa, ancora con la bocca piena. Stacey diede un’ultima pulita in prossimità delle slargate Vans a scacchi del ragazzo e sparì di nuovo nel retro. Quando tornò, si limitò a lanciargli una truce occhiata da sopra la cassa e a soffocare uno sbadiglio.
«Dicevo… non conosco il tuo nome», riprese.
«Vivrai a lungo e in salute anche ignorando questo particolare», gli rispose, osservandosi le unghie laccate di nero.
«Eddai. È un mese esatto che vengo qui tutti i pomeriggi, credo di meritare un premio!» Protestò, con la sua voce dal timbro così basso da contrastare terribilmente con il volto quasi infantile. Stacey represse la voglia di urlargli “non te l’ho chiesto io!” nelle orecchie e sospirò.
«Stacey Jones».
«E io sono Calum Hood».
«Evvai», commentò, sollevando un pugno in aria e fingendo allegria. Calum parve riflettere per qualche istante. Momento nel quale Stacey quasi sperò che dicesse una frase intelligente.
«E quanti anni hai?» Domandò, invece. Ella alzò un sopracciglio, fissandolo da sopra la cassa.
«Mi stai facendo un interrogatorio, per caso?»
«Non si risponde alle domande con un’altra domanda», disse il moro. La cassiera non riusciva a capire dove volesse andare a parare.
 In genere Calum arrivava al bar, ordinava qualcosa e attaccava a parlare di una qualsiasi stupidaggine, per un’ora o due. Alternando ai suoi futili discorsi qualche frase da latin lover per abbordarla. Poi si ricordava di aver un impegno a caso e andava via.
Non aveva mai accennato al conoscersi meglio, come invece stava facendo quel pomeriggio. E lei non sapeva se esserne scocciata o… felice.
«Diciassette».
«Hah, sei più piccola di me!» Esclamò Calum, sorridendo amabilmente. Stacey scattò in piedi, shockata.
«Che cosa?!» Chiese, incredula. Non poteva essere possibile che quello spilungone dal baby cervello fosse più grande. No, semplicemente.
«Già. Ho diciannove anni. E perciò devi chiamarmi Mr. Hood».
«Mai e poi mai».
«Ragazzina, mostra rispetto», la redarguì, imbastendo un tono di voce da coordinatore scolastico e agitandole contro un abbronzato indice perentorio.
«Come mi hai…» cominciò Stacey, ma la voce del proprietario del bar l’interruppe.
«Jones, il tuo turno è finito», l’informò, sbucando dalla porta sul retro. Ella si produsse in un’esclamazione e corse nello stanzino riservato al personale.
 Lanciò il grembiule al gancio apposito, facendo attenzione che non rovinasse a terra. Poi, prese il pesante borsone all’angolo e se lo sistemò in spalla. Salutò il proprietario e uscì dal bancone. In tutto questo, Calum era ancora lì, ad aspettarla.
«Stai andando a casa?» S’informò, guardando Stacey negli occhi. Pensò a come sarebbe stata senza quel pesante strato di eyeliner a decorarle lo sguardo, cercando di immaginarsela. La giovane dai capelli blu davanti a lui scosse la testa, aprendo la porta tirando il maniglione antipanico verso di sé.
«Direi che possiamo anche salutarci qui», sorrise al moro. Ma questi scosse la testa.
«Voglio accompagnarti. E se poi ti perdessi?»
«Conosco la strada. Va’ a casa e dormi sonni tranquilli» disse Stacey, avviandosi. Tuttavia, Calum cominciò a seguirla.
«No, no. Fra l’altro, oggi sono stato pochissimo insieme a te. Mi serve tempo extra», ribatté, convinto. Lei non poté far altro che sospirare e lasciare che la seguisse. Per tutto il tragitto, Calum chiacchierò del più e del meno, riempiendo il grave silenzio che altrimenti li avrebbe accompagnati per un buon quarto d’ora. Stacey iniziò a pensare che sì, era assolutamente insopportabile… però le rendeva tutto il resto sopportabile.
Quando arrivarono a destinazione, Calum non fece nemmeno una domanda sul perché fossero lì. Non mostrò di stupirsi per come la sua compagna si orientasse bene all’interno della struttura, sorridendo al personale e a qualche avventore fortuito. Neanche nel momento in cui lei entrò in un ascensore e premette con sicurezza il pulsante 3, facendoli salire silenziosamente.
Arrivarono dinanzi alla porta della stanza numero 483 e Stacey bussò lievemente. Una vocina scandì “avanti” e lei abbassò la maniglia, facendo cigolare l’infisso.
«Come sta la principessina di casa Jones?» Domandò, sporgendo la testa color blu notte nella stanza di un asettico bianco e verdognolo.
«Cece!»
Erano arrivati in un ospedale. E la dolce bambina che stava sdraiata sul candido letto al centro della stanza stava sorridendo amabilmente alla ragazza. Le somigliava molto e dedusse che dovesse trattarsi di sua sorella. Lunghi capelli scuri che le ricadevano lisci sulle spalle, incorniciando il volto dai grandi occhi e le labbra scarlatte. Sembrava una bambola di porcellana, anche se indossava un anonimo pigiamino rosa a fiori.
Stacey si avvicinò a lei, abbracciandola piano, facendo attenzione a non urtare le flebo attaccate alle braccia della piccola. Ecco perché si era mossa con così tanta sicurezza, sapendo perfettamente dove andare. Calum si appoggiò allo stipite della porta, infilando le mani nelle tasche degli skinny.
«Quello è un tuo amico, Cece?» Chiese la piccola, accorgendosi della sua presenza. La giovane si voltò, e lo fissò per qualche istante. Poi, sorrise.
«Più o meno, Carol».
«E come si chiama?»
«Kiwi», rispose allora Calum, avvicinandosi al letto. La bambina piegò la testa di lato, alzando le sopracciglia.
«Perché?»
«Perché se ti tocco… ti faccio il solletico!» Esclamò, facendole un agguato che la piccola non si aspettava. Carol rise di gusto, sotto gli occhi sbalorditi della sorella maggiore.
In genere, con gli estranei era sempre timorosa e schiva. Invece eccola lì, che parlava con Calum e sorrideva, come se lo conoscesse da secoli.
«Cece, porta Kiwi qui più spesso! È tanto simpatico», disse la bimba, in un momento di silenzio. Gli sguardi di entrambi s’incontrarono, per un breve attimo. E sorrisero, gentilmente.


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Nota: secondo capitolo, stavolta su Calum! Devo ammettere che è stato inedito, creare un Hood con questo carattere. Anche se molto divertente. Soprattutto per quanto riguarda i commenti di Stacey. Ho dato fondo a buona parte del mio sarcasmo, per darle vita. Bene. Ci rimangono altri due capitoli e poi anche questa storia sarà conclusa! Ma, per adesso, non pensiamoci. Come già detto nel capitolo precedente, questa storia è leggera e senza alcuna pretesa: qualcosa di carino da leggere per distrarsi un po' in questi giorni di fine estate. Stasera sarò piuttosto breve, preferisco lasciare i commenti a voi! Ricordatevi che spessissimo non mordo, quindi non siate timidi! E vi ringrazio in anticipo per il tempo che le dedicherete!



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Capitolo 3
*** Colori ***








III.
Colori

 
 
«
Profumo di fiori di pruno:
sorge improvviso il sole
sul sentiero di montagna
»
(Basho - Haiku)


 
 
Le matite erano il suo mondo. Dal momento esatto in cui la mina sfiorava il foglio ruvido, la sua realtà prendeva vita. Plasmava qualsiasi pensiero gli attraversasse la mente con le dita, lavorando con il chiaroscuro. A volte, stringeva la matita fra i denti e sfumava con i polpastrelli. Contatto con la propria arte, immergersi fino in fondo nella realtà che gli apparteneva.
Luke Hemmings non si poteva certo definire un ragazzo estroverso. Anzi. Trovava spesso superflua qualsiasi parola. A lui bastava un brandello di carta per parlare. Non era bravo a trasmettere emozioni con la voce. Se la cavava meglio con gli sguardi.
Quasi nulla attirava davvero la sua attenzione, eppure tutto era capace di ispirarlo. Non aveva molti amici, né li voleva. Un buon libro era più che sufficiente. Ignorava di essere bello. Per lui, la bellezza risiedeva nel mondo, al di fuori di lui. Non si accorgeva nemmeno di tutte le occhiate speranzose che gli rivolgevano le ragazze, mentre camminava per strada.
I lisci capelli che portava acconciati in modo scomposto, erano della stessa calda sfumatura dell’oro liquido. I suoi occhi non erano molto grandi. Chiari, dal taglio europeo e le iridi color cielo estivo, schermati da lunghe ciglia. Quando sorrideva, evento raro, divenivano ancor più sottili. Il suo naso era diritto e perfetto, ben proporzionato. Le labbra carnose e di un dolce rosa pallido assumevano spesso una linea riflessiva, decorate da un piercing all’estremità inferiore sinistra. Molti gl’invidiavano quel biancore di porcellana della sua pelle. Spesso gli chiedevano se fosse normale, una tinta così chiara. Allora lui si stringeva nelle spalle, scuotendo la testa. Non gli piaceva parlare.
Quel pomeriggio si trovava in un caffè sotto casa, aspettando che si facesse più fresco. Dipingere in strada con le bombolette alle due, sotto il sole, non era un’idea molto allettante. Così aveva ordinato una spremuta d’arancia e ingannava il tempo disegnando sul suo blocco.
«Accidenti, che meraviglia».
Alzò lo sguardo e rimase lì, fermo dov’era, con la matita a mezz’aria e gli occhi spalancati. Quella giovane… era la più strabiliante opera d’arte che avesse mai avuto il piacere di ammirare.
Fluenti capelli biondo chiaro, i cui ciuffi della frangia ricadevano dolcemente sulla sua fronte, mentre più in basso, altre ciocche ricciolute scivolavano sul seno. Pelle di porcellana, aria da principessa delle fiabe. Grandi occhi dalle iridi ghiaccio, piccolo nasino alla francese e bocca carnosa e rosea. Era alta meno di Luke, e indossava una divisa da tennis. Blu elettrico e gialla. Il fisico generoso s’intravedeva da come gli indumenti le scivolavano addosso, evidenziando un corpo dalle fattezze morbide, seppur toniche.
Quella giovane era china sulla spalla dell’artista, e osservava strabiliata il piccolo cerbiatto che lui aveva abbozzato sul blocco schizzi.
«G-grazie», balbettò Luke, lasciandosi scivolare il carboncino dalle mani. Notando quella stramba reazione, la bionda si tirò su immediatamente.
«Scusami, non volevo interromperti. È solo che quel disegno… sei veramente bravo. Continua pure», disse, sorridendo e facendo un passo avanti. Il suo volto, già di per sé luminoso, quando diventava allegro la faceva sembrare un angelo. O meglio, quella era stata l’impressione di Luke.
«Come ti chiami?» Chiese l’artista, meravigliandosi della sua stessa intraprendenza. La bionda gli tese la mano. Una piccola e opalina mano dalle gentili dita da pianista.
«Sydney. E tu?»
«Luke Hemmings».
Si strinsero la mano, e il mondo parve fermarsi per un brevissimo istante. Giusto il tempo, per quelle dita estranee, di inseguirsi, conoscersi e infine lasciarsi nuovamente.
Calò un imbarazzato silenzio fra i due, rotto solamente dal rumore dei bicchieri e delle stoviglie, inframmezzato dalle chiacchiere della clientela nella caffetteria.
«Aspettavi qualcuno?» Domandò Sydney, guardandosi attorno. Luke scosse la testa, arrossendo lievemente. Non era abituato a confrontarsi così apertamente con gli estranei. Specie con gli angeli scesi in terra in tenuta sportiva.
«Allora posso offrirti da bere?»
«Per quale ragione?»
«Mi sentirò meno in colpa dopo, quando mi siederò accanto a te per guardarti disegnare».
Luke scoppiò a ridere e Sydney lo imitò di riflesso. Trascorsero l’ora seguente l’uno di fronte all’altra. L’artista disegnava, e la giovane con la divisa da tennis osservava la sua mano scorrere agile sul foglio, scurendo qui e schiarendo là, lasciando che il piccolo cerbiatto prendesse vita sulla carta. Non aveva mai aperto bocca, era rimasta tutto il tempo in silenzio, ammirata.
Quando il disegno fu completato, Luke ci aggiunse una data e poi lo firmò. Quindi fece attenzione a strappare con cura il foglio, e lo tese a Sydney.
«Per me?» Si stupì lei, fissando l’A3 che l’altro teneva sospeso di fronte al suo volto. Luke annuì.
«Ti piaceva così tanto…» e si strinse nelle spalle. La bionda lo prese, raggiante. Rimase alcuni attimi ad osservarlo fra le sue mani e poi lo piegò con estrema attenzione, in modo che non si rovinasse. Lo infilò in una delle tasche della sacca sportiva che aveva a tracolla e poi si alzò. Prese Luke per mano.
«Hai da fare, per tutta la prossima ora?» Domandò. Il ragazzo, che già aveva lievemente sobbalzato per quell’ennesimo contatto con le sue dita, scosse energicamente la testa, di nuovo rosso in volto per l’imbarazzo.
«Vieni con me, fra poco avrò una partita importante» disse, e lo trascinò fuori dalla caffetteria senza indugio.
«…P-perché proprio io?» Balbettò Luke, quando si fermarono ad un semaforo, attendendo di poter passare. Sydney lo fissò per un breve istante, poi sorrise.
«Poco fa, hai condiviso qualcosa di importante per te… con me. Ora mi tocca ricambiare il favore», rispose.
«Ma io non volevo niente in cambio».
«Lo so. Però mi piaci, con questo piercing al labbro. Mi era venuta voglia di passare del tempo insieme a te, conoscerti meglio».
Scattò il verde, e Sydney riprese a camminare, due passi avanti a Luke, le dita intrecciate alle sue.
 In strada c’era un rumore pazzesco, ma l’artista non sentiva nulla. Solo il ritmico battito del suo cuore accelerargli nelle orecchie.
 


Quando arrivarono al campo da tennis, la compagna e il duo di avversari di Sydney erano già lì. Gli spalti riempiti per metà da amici o parenti delle giocatrici, le quali si spostavano o rumoreggiavano allegramente. Ogni tanto, si sentiva la risata di qualche bambino diffondersi attorno. La bionda entrò nel campetto, dove la sua partner faceva stretching per le gambe. La salutò con un cenno del capo. In tutto questo, la sua mano era ancora saldamente stretta a quella di Luke, che iniziava già ad imbarazzarsi dietro di lei.
«Ce ne hai messo di tempo, Sydney!» Commentò una giovane non molto alta, dall’aria simpatica e il sorriso contagioso. Teneva lunghi e lisci i capelli color noce moscata legati ben stretti in una coda alta, e aveva un aspetto fresco e riposato. Indossava la stessa divisa di Sydney, ma indosso a lei aveva tutto un altro effetto. Si chiamava Laurel, a giudicare da come la bionda l’aveva appellata poco prima.
Abbracciò l’amica e le scompigliò i capelli con un gesto fraterno. Poi, i suoi occhi sottili dal taglio felino si posarono su Luke. Con i capelli biondo grano indisciplinati, la vissuta canotta nera, i jeans strappati grigio scuro e gli anfibi, non doveva apparire come il massimo della normalità. Specie quando stringeva un blocco schizzi in una mano e le dita di Sydney nell’altra. Eppure, la sua straordinaria bellezza si amalgamava bene con quella tenuta da artista maledetto, più alto della media e dallo sguardo espressivo.
«Chi è questo ragazzo?» Chiese Laurel, alzando un sopracciglio. La bionda guardò Luke e poi la sua amica, sorridendo.
«Il mio portafortuna».
 


La partita si concluse con un 4 a 2 per il duo di Sydney, e ogni punto che segnava, la bionda lo dedicava allo strano ragazzo con il piercing e i vestiti strappati, seduto in prima fila sugli spalti.
Dopo aver giocato, si fece la doccia prima di tutte le altre e poi schizzò via dallo spogliatoio con i capelli bagnati che le sbattevano sulla schiena e un cambio pulito, salutando Laurel con un occhiolino e un sorriso. Trovò Luke appoggiato alla rete metallica, accovacciato vicino all’ingresso, mentre fumava indisturbato. Sydney rimase ferma ad ammirarlo, per qualche secondo.
La luce del tramonto donava una tonalità dorata alla sua pelle, facendo spiccare le labbra e il colore quasi rossiccio dei suoi capelli. Era molto alto e con un fisico invidiabile. Stringeva la sigaretta fra indice e medio, il braccio poggiato sul ginocchio piegato. Il blocco schizzi giaceva ai suoi piedi, adagiato nell’erba, come un naturale prolungamento di se stesso. Dimostrava almeno vent’anni, o forse meno. E sembrava terribilmente fiero nella sua solitudine.
Era per quello che Sydney l’aveva trascinato con sé alla partita. Le era parso… triste, in quella caffetteria. Sentiva che tutto ciò che quel giovane possedesse era l’arte. Ma gli mancava una cosa fondamentale, che fogli e carboncino non avrebbero mai potuto trasmettergli.
 Sydney si avvicinò a lui, e lo vide portarsi la sigaretta alle labbra, aspirare brevemente e poi sbuffare lentamente. Sottili nubi grigiastre, che si disperdevano nell’aria aranciata del tramonto di Melbourne.
«Hai ancora i capelli bagnati», disse Luke, dando un colpetto al filtro con il pollice, facendo cadere la cenere in eccesso. Sydney si passò distrattamente la mano fra le umide ciocche dorate, scompigliandole un po’.
«Non importa, tanto fa caldo. Si asciugheranno da soli».
Luke si alzò in piedi, stiracchiandosi brevemente. Era davvero alto. Parecchio più di Sydney. Guardò la sigaretta, consumata per metà, e la gettò a terra. Calpestandola con la suola consumata dei suoi anfibi.
«Piaciuta la partita?» Chiese la bionda. L’artista annuì.
«Sei brava», commentò.  Raccolse il blocco schizzi e fece qualche passo avanti.  Poi si voltò verso Sydney.
«Ora puoi dirmelo», esordì. «Perché mi hai portato qui?»
«No», rispose Sydney, scuotendo la testa. «Non ora».
«E quan…»
«Devi andare da qualche parte?»
«…A casa».
«Ti accompagno», disse, prendendogli nuovamente la mano.
 


Durante il tragitto, parlarono del più e del meno. Luke aveva cominciato ad aprirsi un po’ di più, sentendo che Sydney raccontava parte della sua vita. Buffo notare come, quella volta, fosse l’artista a camminare due passi avanti, le dita allacciate a quelle della bionda.
Gli piaceva ascoltare Sydney. Aveva una bella voce melodiosa, con un particolare accento inglese. Se fossero stati a casa sua, avrebbe fatto sedere la bionda sul divano e lui si sarebbe accucciato ai suoi piedi, disegnando. Sarebbe rimasto lì a sentirla per ore, senza mai stancarsi.
Apprese che veniva dall’Inghilterra, ma risiedeva a Melbourne da quasi dieci anni. Le piaceva moltissimo giocare a tennis, ballare e aveva una strana fissa per le rock bands anni ‘80. Quando arrivarono sotto casa, a Luke dispiacque lasciarla andar via.
«E così abiti qui?» Chiese Sydney, osservando il portone di un condominio senza troppe pretese dinanzi ad una piazzola.
«Sì, al terzo piano».
«Da solo?»
«I miei mi pagano l’affitto e gli studi alla scuola d’arte. Gestiscono una grossa società per azioni, ecco perché», si affrettò a spiegare. Non gli piaceva particolarmente rivelare di provenire da una famiglia molto agiata. Preferiva lasciare spazio all’anonimato. E così faceva, in generale. Eppure, con Sydney sentiva di poter parlare di qualunque cosa.
«Beh… beato te!» Commentò la bionda, ridendo. Luke sorrise, passandosi una mano fra i capelli dorati. L’altra stringeva ancora le dita di Sydney, restia a lasciarle scivolare lontano.
«Adesso puoi dirmelo?»
«Cosa?»
«Perché…»
«Ah, no. Neanche adesso», scosse la testa convinta. L’artista sospirò.
«È davvero così importante saperlo al momento giusto?» Domandò, impaziente.
«Mi hanno insegnato l’attesa è la parte migliore di qualsiasi evento», rispose sorridendo.
«Sì, ma ora siamo nel 2015, Sydney…»
«Quanti anni hai?»
«Diciannove».
La ragazza sgranò gli occhi, basita. Non sembrava così piccolo. Colpa dell’altezza, che ingannava mortalmente, o dei modi di fare? Ciononostante, gli anni di differenza erano pur sempre quattro, fra loro due. Ma Sydney decise di non dargli peso. Infondo, l’età era solo un numero anagrafico.
«Beh, alla tua età io sapevo aspettare» disse, risoluta. Luke roteò gli occhi, ma le labbra lo tradirono già, mostrando un sorrisetto divertito.
 Intanto si erano avvicinati molto. L’artista poteva sentire il fresco respiro della bionda mescolarsi con il suo. Gli occhi percorsero avidamente il suo volto, saziandosi di ogni centimetro di pelle perfetta, di ogni fremito di ciglia. Si soffermò sulle labbra. Quelle belle labbra piene e rosee, lievemente dischiuse e forse un po’ disorientate.
Fu un impulso inarrestabile e primordiale, non passò nemmeno per il cervello. Arrivò direttamente alla mano libera, che si poggiò piano sulla guancia di Sydney e alle labbra di Luke, che premettero dolcemente su quelle morbide della bionda. Durò un attimo, ma parve un’eternità. Il primo a scostarsi fu proprio il giovane artista, smarrito per primo dalle sue stesse azioni.
«Ecco, io… io non so aspettare», si scusò, fissando negli occhi Sydney. Lei sorrise, senza fare una piega.
«Invece hai scelto proprio il momento giusto».



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Nota: ogni autore ha un suo personaggio preferito, all'interno di una storia. Beh, il mio, qui, è Luke. Lo sento particolarmente vicino a me, sia per quanto riguarda la parte artistica che per il comportamento, mi ricorda molto anche una persona alla quale ero tanto legata. Oh beh. Long live memories.
Siamo arrivati al penultimo capitolo di questa piccola long! Sono felice dell'accoglienza ricevuta, soprattutto perché non era nulla di impegnativo, ecco. Come già detto in The Hollow Men, aggiornerò anche questa una volta a settimana, lunedì o martedì, a causa di impegni vari! Spero che ciò non sia un problema per voi!
Bene. Scappo a rispondere anche qui alle recensioni, ringraziandovi come sempre per tutto il tempo che spendete per me e le mie storie, sia leggendole, sia inserendole in qualche parte della vostra biblioteca virtuale di EFP! Alla prossima!



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Capitolo 4
*** Fili ***





IV.
Fili

 
 
«Fiori di pruno
è un'estasi
la mia primavera
»

(Kobayashi Issa - Haiku)


 
{Alcune ore prima}
 
 
«Nooooooo!»
L’urlo dirompente si diffuse per tutto l’appartamento, facendo sobbalzare anche la giovane che stava scrivendo una complessa tesina per il suo esame universitario. Lo scatto le fece produrre uno sbaffo d’inchiostro sul quaderno d’appunti, cancellando alcune parti di frasi abbastanza utili. Gettò la biro sul tavolo, alzandosi in piedi.
«Eireen, che accidenti è questo baccano?!» Esclamò, scansando la sedia e dirigendosi verso la stanza dalla quale era giunto lo strillo insofferente. Vide un’interminabile sequela di abiti sparsi per la camera, come se vi fosse appena passato un uragano distruttivo.
C’erano magliette lanciate sul computer e scarpe rivolte sul letto, per non parlare dei pantaloni e le poche gonne appese sugli scaffali più improbabili. In mezzo a quel ciclone di nero e grigio stinto lavato con ammorbidente, c’era la sua coinquilina. Seduta sul pavimento a gambe incrociate, con il volto sprofondato nelle mani e la schiena talmente ricurva da rischiare un principio di scoliosi. Proprio lei, che teneva in maniera quasi imbarazzante all’ordine e alla pulizia, tanto da voler introdurre lo “stiraggio della t-shirt con logo di bands” come disciplina olimpionica.
«Cosa è scoppiato, qui dentro?» Si chiese, agguantando un paio di magliette dei My Chemical Romance dal lucido parquet e spostandole sul letto, permettendole di avvicinarsi.
«La fine del mondo, Taylor! L’Armageddon, la punizione divina!» Vaneggiò Eireen, sempre con le piccole dita premute sul viso.
«Sì, come no, gli alieni e i cerchi nel grano. Allora?» E si sedette accanto alla compagna, spostandole gentilmente i polsi, lasciandole libera la faccia.
«Ho perso il mio quaderno, quello con le poesie!» Mugolò, la sofferenza dipinta in quei suoi grandi occhioni da bimba. Sembrava che le avessero distrutto l’orsetto con cui andava a dormire.
Taylor cercò di trattenere una grossa e grassa risata che già le si stava allargando in gola, soffocandola con un colpo di tosse.
«Tutto qui?» Domandò. Ma l’occhiata della sua coinquilina le fece rimpiangere tanta spavalda leggerezza.
«Come sarebbe a dire “tutto qui”?! Quelle erano le mie poesie, cose private, parti di vita! Ieri c’erano e stamattina, magicamente, non più!» Sproloquiò, in un attacco isterico che avrebbe fatto invidia alla cassiera del bar in piazzola. Taylor si mordicchiò a disagio l’unghia del pollice, non curandosi dello strato di smalto color arancia che ne rivestiva per intero la lunga superficie.
«Vuoi che controlli nella mia stanza, per sicurezza? Magari te le eri portate dietro mentre pulivi…»
«No, ho già controllato».
«Sicura che qui non ci siano?»
«Ho rivoltato tutto come un calzino! Nessuna traccia della Moleskine» piagnucolò, sprofondando nuovamente il volto nelle manine. Come avrebbe fatto, quel pomeriggio? Proprio adesso che anche la sua musa avrebbe voluto leggere i suoi componimenti…

 
 
♦♦♦
 
 
Stacey sbuffò sonoramente al telefono, mentre richiudeva l’ennesima sacca dove riponeva i trucchi.
«Ti annoi?» Chiese l’altra voce bassa e profonda all’altro lato del filo invisibile. Ella scosse la testa, ma poi si ricordò che Calum non poteva vederla.
«No, sono solo seccata. Molto seccata, a dirti la verità» rispose, arrendendosi e crollando a sedere sul letto. Quella mattina si era svegliata, aveva fatto la doccia e poi colazione, come sempre.
Prima di pranzo, sarebbe dovuta andare al supermercato, per fare la spesa. Allora aveva cercato il suo inseparabile eyeliner, senza il quale non avrebbe mai messo piede fuori dalla porta. Ma, sorpresa delle sorprese… non l’aveva trovato. Nemmeno l’ombra. Pur rivoltando le trousse, i cassetti e le tasche dei pantaloni skinny, non c’era stato verso di tirarlo fuori.
«Perché?»
«Non trovo il mio eyeliner», pronunciò con acredine, stendendosi sul fresco materasso che cigolò leggermente, rimbalzando poco.
«E quindi? Starai senza. Problema risolto».
«Spero scherzi?!» Esclamò Stacey, scattando a sedere. «Quello stupido cosmetico è una parte fondamentale di me, della mia immagine! Non posso stare senza! Puoi dire una cretinata del genere e credere ancora che non ti appenda il telefono in faccia?»
«Non fare l’isterica», disse Calum, trattenendo una risata. Si divertiva da morire a sentirla sfuriare per una qualsiasi sciocchezza, e poi tentare di scusarsi nelle maniere più strambe. Specie dal giorno prima, che avevano trascorso tutta la scorsa serata insieme, di ritorno dall’ospedale.
«Non faccio l’isterica! Sono irritata e ho bisogno del mio eyeliner!» Concluse, mettendo il broncio. Calum rise, dall’altra parte del telefono. Stacey iniziò a tranquillizzarsi un pochino. Il suono della sua risata era utile quasi quanto un calmante, e se n’era accorta relativamente tardi. Tutta la presenza di quel ragazzo lo era, a dir la verità.
«Secondo me, sei più bella senza», osservò, con disinteresse. La giovane avvertì un tuffo al cuore.
«Parli così solo perché non mi hai mai vista al naturale», commentò.
«Al naturale? Mica sei un salmone!» Esclamò, piuttosto convinto. La manata sulla fronte che Stacey si stampò immediatamente fu inevitabile.
Chiuse gli occhi scuotendo leggermente la testa, raggruppando qualche brandello di pazienza e un paio di pensieri utili che non fossero insulti.
«Lo vedi che sei idiota? Si dice così anche quando intendi “privo di trucco”, tonto» spiegò. Calum rimase in silenzio per qualche istante.
«È uguale. Penso che tu sia più bella struccata come un salmone al naturale».

 
 
♦♦♦
 
 
 
Devo avere seri problemi mnemonici. Alzheimer giovanile. Per forza.”
Questo era ciò che Luke pensava con una tazzina di caffè ormai freddo in mano e lo sguardo smarrito. Era tutta la mattina che rovistava nello studiolo, sotto i tappeti, perfino nella cesta della biancheria sporca in bagno. Eppure, pareva che durante la notte, il suo blocco da disegni fosse stato portato via dai lillipuziani.
Dopo aver salutato Sydney, non ricordava più dove l’avesse messo, sicuro com’era di esserselo portato dietro. A quanto pareva, si sbagliava.
Il trillo acuto del citofono lo fece sobbalzare, quasi lanciò la tazzina fuori dalla finestra.  Si diresse all’ingresso con una certa rapidità, i piedi nudi sul pavimento fresco.
«Sì?»
«Daddy Lukey, mi apri?»
«Se non la pianti di chiamarmi così, ti faccio salire a calci nel sedere».
«Hai scelto il batterista sbagliato con cui fare il duro, donnetta».
Luke fece una pernacchia e poi premette il pulsante per aprire il cancello. Ashton Irwin era l’unico amico che avesse, alla scuola d’Arte. E si frequentavano anche fuori dalle lezioni. Si erano conosciuti in un modo un po’ bizzarro. Ashton non padroneggiava molto bene i pennelli, e quando si presentò a lui, disse un paio di spropositi artistici. Convinto di pronunciare tutt’altro.
 Allora Luke, per evitare il peggio, si offrì d’insegnargli i rudimenti fondamentali della tecnica pittorica in questione. Si videro per alcuni pomeriggi, lavorando molto. Alla fine, uno seppe dipingere discretamente e in modo apprezzabile, mentre l’altro imparò almeno cinque improperi diversi di cui ignorava completamente l’esistenza, oltre che le tecniche base per suonare un bongo. Ed entrambi guadagnarono un amico.
«Che visione paradisiaca, i tuoi boxer con i supereroi» commentò Ashton, entrando nell’appartamento dell’artista.
Luke non sopportava il caldo ed essendo Agosto, non si faceva poi tanti problemi a girare per casa in mutande. Tanto più quando abitava da solo.
«Me li stai invidiando da almeno due mesi», rispose, salutando l’amico con una particolare stretta di mano.
«Sicuramente», disse il biondo, facendosi strada verso la cucina. Passando davanti allo studiolo, gli sfuggì un fischio.
«Per la miseria. Va bene che gli artisti sono casinari… ma qui dentro c’è stato uno tsunami d’arte con rigurgito di tele!» Esclamò, entrando nella stanzetta a soqquadro. Luke lo seguì, passandosi una mano fra i capelli biondo grano.
«Ho perso il blocco e non riesco a trovarlo da nessuna parte», si giustificò, mentre Ashton iniziava a raccogliere i tubetti di pittura ad olio e ad ammucchiarli sulla scrivania.
«Non è che tu l’abbia prestato a qualcuno, per caso?» Chiese, prendendo poi una tela con un dipinto cubista e rigirandola per capire la giusta angolazione. Ci rinunciò e la ripose sul cavalletto.
«No, negativo. È sempre stato qui», rifletté, sistemando il quadro dal lato giusto e mettendosi le mani sui fianchi.
«Allora è scappato con le sue gambe. Non c’è altra spiegazione», concluse Ashton, uscendo dalla stanza e tornando in cucina. Luke ridacchiò, alle sue spalle.
«Non c’è niente da bere in questa topaia? Ho quasi voglia di una birra».

 
 
 
{►►Pomeriggio}
 
 
Quando Eireen Simms arrivò in piazzola, più sconsolata che mai, rimase di stucco. Vide Michael seduto sulle scalinate, dove in genere si metteva lei per scrivere. Era chino su un quadernino dalla copertina logora e scura. Indossava dei jeans aderenti e una camicia a quadri, niente a che vedere con il suo solito abbigliamento da musica. Eireen si avvicinò a lui, tormentandosi le mani per l’imbarazzo.
«Non ti hanno mai detto che questo posto è sempre occupato?»
Appena sentì la sua voce, Michael alzò il capo di scatto. La poetessa rifletté che non si sarebbe mai abituata a tanta perfezione a distanza ravvicinata. Allo strabiliante lavoro che la natura aveva, molto generosamente, compiuto sul volto di quel ragazzo. Fine armonia dei tratti somatici, poesia estetica.
Un sorrisetto diabolico passò per le labbra del giovane che le stava dinanzi, il quale posò il quadernino e chiuse gli occhi.
«Leggiadra grazia con la quale/egli m’incanta sino a far male», recitò. Eireen si sentì venir meno. Quelli erano due versi di una delle poesie più struggenti che avesse mai scritto. Sentì il sangue affluirle al volto e la testa farsi leggera.
«Quei versi… tu…»
«Ho letto tutte le tue poesie, già», rivelò Michael, sventolandole la Moleskine sotto il naso. Così era lui ad averla. Ecco perché non c’era stato verso di trovarla in casa.
Eireen rimase pietrificata da quell’affermazione, fatta come se nulla fosse. Stava già rischiando lo svenimento, a breve sarebbe direttamente collassata al suolo.
«Perché?» Domandò solamente, con un filo di voce. Michael si strinse nelle spalle, sorridendo.
«Erano mesi che ti vedevo qui seduta, con la testa fra le pagine del tuo quaderno. Sempre a scrivere. Sempre a pensare. Non parlavi mai con nessuno, stavi sola. Ogni giorno», descrisse il musicista, alzandosi in piedi. «E più ti guardavo, più mi assaliva la curiosità di sapere cosa mai ci fosse in queste maledette pagine. Stanco di aspettare, chiedevo di te alla cassiera del bar. La conosco perché è stata nella mia stessa classe, al liceo. Mi diceva che scrivevi cose fantastiche… poesie», spiegò.
«Beh, immagino che allora tu ti sia fatto una bella risata, a leggerle tutte» Esclamò Eireen, strappandogli il quaderno dalle mani e voltandosi, andando a sbattere contro una slargata maglietta con la faccia di Kurt Cobain e due spalle robuste.
«Cazzo, Eireen. Dove stavi andando?» Chiese Calum, fermandosi davanti all’amica che aveva inavvertitamente investito. La poetessa scosse la testa e lo superò, evitando di aprire bocca. Sarebbe scoppiata in lacrime, altrimenti.
Michael, nel vederla in quel modo, le corse dietro. Non fece nemmeno caso all’occhiataccia del moro. Fece appena in tempo ad afferrare la sua mano, costringendola a fermarsi e voltarsi verso di lui.
«Maledizione», esclamò. «Vuoi darmi il tempo di finire?» Chiese, cercando di non sentirsi in colpa per le lacrime che minacciavano di inondare le guance di Eireen, già divenute color pomodoro maturo per l’imbarazzo.
«Non c’è null’altro da dire. Felice di averti intrattenuto per un’oretta almeno», disse lei, fissando il marciapiede e mordendosi il labbro inferiore. Michael le alzò delicatamente il mento con l’indice, facendo in modo che i suoi grandi occhi scuri incontrassero i suoi.
«Sono bellissime. Nessuno ha mai usato parole tanto delicate per parlare di me», disse. «Voglio conoscerti meglio, quelle sole righe in rima non mi bastano. Dopo tutto, te lo meriti».
«Lo stai dicendo per consolarmi?» Chiese la giovane ancora incerta, tirando sonoramente su con il naso. Il musicista scosse la testa e sorrise. Come solo lui sapeva fare.
«Hai impegni per stasera, piccola poetessa?»

 
 
♦♦♦
 
 
 
Calum, dopo essersi scontrato con Eireen e aver visto il musicista della piazzola inseguirla, aveva scosso la testa e soffocato uno sbadiglio. Si era diretto come al solito al bar all’angolo, ma qualcosa l’aveva sorpreso. Aveva trovato Stacey con le spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate. Fuori dal locale.
«Perché non sei dietro la cassa a sbuffare per il caldo?»
«Forse oggi è il mio turno libero, testone?»
Il giovane sorrise, scuotendo leggermente la testa. Poi, notò un piccolo ma fondamentale particolare.
Gli occhi di Stacey non erano cerchiati da quel sottile filo nero di make-up. Il suo volto aveva un’aria più semplice e tranquilla, quasi… gentile e indifesa. Da brava ragazza. Ben lungi dalla giovane isterica dallo sguardo duro, che batteva meccanicamente le cifre sulla cassa del bar e tagliava i dolci con consumata sicurezza.
«Alla fine l’hai fatto, allora».
«Che cosa?»
«Uscire senza trucco», disse Calum. Notò le guance della sua interlocutrice imporporarsi lievemente e il suo sguardo fissarsi violentemente sul marciapiede.
«Ovvio. Non sono riuscita a trovare l’eyeliner da nessuna parte, te l’ho detto», si giustificò, sistemandosi una ciocca di capelli blu dietro l’orecchio forato da numerosi piercings.
«E allora perché sei qui?»
Stacey alzò gli occhi, incontrando quelli di Calum. Aveva appena detto di essere nel suo giorno libero. Eppure, fatto strano, si era ritrovata proprio davanti al bar ad attenderlo come sempre. Stranamente sicura che sarebbe venuto lo stesso. A ragione, in effetti.
«Non mi andava di restare casa», tergiversò. Ma sapevano entrambi che si trattava di una bugia.
«Solo…?» Incalzò il moro. Attimi di silenzio.
«Sapevo che saresti passato di qui. Lo fai tutti i giorni. Non vivi senza dolci».
«E tu non vivi senza questo…?»
Calum tirò fuori dalla tasca un sottile pennarellino scuro, la cui forma ricordava un TrattoPen. Il tappetto era abbastanza usato e nel complesso aveva una certa aria vissuta. Un’estremità era scheggiata, come segno distintivo inequivocabile. Stacey sgranò gli occhi e spalancò la bocca.
«Il mio eyeliner!» Urlò, strappandolo dalle mani di Calum e rigirandoselo fra le dita.
«Come fai ad averlo tu?» Chiese, ispezionando il cosmetico per sincerarsi che fosse ancora come l’aveva lasciato. Il moro si strinse nelle spalle.
«Ti era caduto ieri pomeriggio, mentre estraevi il cellulare nella tasca. E non te ne sei nemmeno accorta» disse. «Avrei dovuto ridartelo, ma poi mi son dimenticato. Quando mi hai chiamato, stamattina, e hai avuto un attacco isterico perché non lo trovavi…» s’interruppe, ridacchiando. «Non ho saputo resistere». Stacey lo guardò male per un momento, e intascò l’eyeliner. Poi gli diede un pizzicotto sul braccio, ignorando le esclamazioni di dolore del giovane.
«È giusto che tu soffra almeno la metà di quello che ho passato io stamattina!» Decretò, senza pietà. Era tornata nelle vesti della ragazza isterica.
«Ma se dovresti ringraziarmi!» Rispose Calum, accarezzandosi la zona dolorante con una smorfia.
«E di cosa? Avermelo nascosto perché ti divertivi?»
«No. Averti fatto capire che puoi vivere anche senza», rispose assumendo l’espressione quanto più vicina alla serietà di cui disponesse. Stacey non poté replicare a tono, realizzando che lui le avesse detto la verità. Sospirò sonoramente.
«Okay, andiamo» decretò, prendendo il braccio di Calum, facendo scivolare il proprio sopra di esso.
«Dove, scusa?» Chiese lui, lievemente disorientato. La ragazza sbuffò con impazienza.
«A prenderci un gelato, Calum. Hai bisogno della tua dose di zucchero quotidiana e io della mia di silenzio», spiegò, cominciando a spostarsi.
«Ben pensandoci, potresti anche bastarmi solo tu…» disse il giovane, con un sorriso smagliante e l’aria maliziosa. Ricevette un’occhiataccia assassina e un sorriso mal represso.
«Sta’ zitto e cammina».

 
 
♦♦♦
 
 
 
«Sai cosa sarebbe veramente bello? Un mio ritratto su qualche muro della città».
Luke lasciò andare l’erogatore della bomboletta e alzò lo sguardo. Il volto sorridente di Sydney gettava un’ombra sul grosso pezzo di cartone che stava graffitando. Aveva tirato la frangia color grano indietro, fermandola con delle forcine, lasciando i lunghi boccoli biondi ricadere ai lati del suo viso. Sembrava più grande, con quell’acconciatura.
Al posto della divisa da tennis, quel pomeriggio indossava una t-shirt azzurra a mezze maniche e un paio di shorts di jeans. Casual. Le si addiceva. L’unica cosa fuori posto, in tutto l’insieme, era il grosso blocco schizzi dall’aria familiare che stringeva sottobraccio.
«Sydney, ma quello…»
«Sì, è il tuo blocco. Me l’avevi dato per cercare le chiavi, ma poi te ne sei completamente scordato. Ieri pomeriggio sei scappato subito via dopo… beh…» e s’interruppe, lasciando vagare lo sguardo, imbarazzata. Luke sorrise, osservando il volto da bimba di Sydney alla luce pomeridiana. Il modo in cui socchiudeva le palpebre per schermarle dal sole, la curva dolce delle sue labbra, il modo in cui gli zigomi seguivano quella breve parentesi di paradiso, l’ombra fine e ben definita del suo naso. Sì, un suo ritratto non sarebbe stata una cattiva idea, dopo tutto.
«Tu che ne pensi?» Chiese l’artista a bruciapelo, posando la bomboletta con un secco tintinnio. Sydney lo guardò, con la stessa espressione di un bambino beccato a nascondere i cocci del vaso rotto sotto il tappeto.
«Di… di ieri?» Balbettò, e Luke annuì. Sospirò, sedendosi a gambe incrociate sul marciapiede, di fronte a lui.
«Non mi era mai successa una cosa del genere prima», confessò. Il giovane dall’altro lato non parlò, aspettando che la bionda continuasse da sola. Dopo alcuni minuti di riflessione.
«Il “problema” è che tu mi piaci, Luke», disse, mimando delle virgolette con le dita.
«Allora non vedo nessun problema», intervenne l’artista, fissandola intensamente in volto. Sydney sospirò affranta.
«Sono fidanzata».
Quelle due parole bastarono a scoccargli una stilettata in pieno cuore. Lo sentì vibrare come se il suo corpo fosse una cassa di risonanza, rendendolo sordo al mondo per il tempo di due battiti di ciglia. Trattenne il respiro.
«Credo che sia arrivato il momento di dirti perché ieri ho deciso di portarti con me».
Dopo tale preambolo, la bionda si lanciò in una descrizione dettagliata su quanto lo avesse visto “solo” in quella caffetteria l’altro pomeriggio.
Era stato più forte di lei, come se qualcosa nel suo corpo l’attirasse verso Luke e non potesse esserci via di fuga. Sentiva di conoscerlo da sempre, ma in realtà non si erano mai incontrati. Le loro vite avevano percorso binari paralleli e per un fortuito caso del destino erano arrivate a collidere. L’unica cosa che Sydney era riuscita a pensare per tutto quel pomeriggio, era stata il non lasciarsi sfuggire Luke.
 Proprio lui, con l’aria maledetta e al di sopra del mondo, i capelli indisciplinati e i vestiti logori, il piercing al labbro e le dita sporche di grafite. Si era perfino dimenticata di avere un ragazzo, una vita e un modo a parte diverso da lui. Le era sembrato così naturale prenderlo per mano, intrecciare la propria esistenza alla sua e dividere del tempo insieme.
Detto ciò, Sydney tacque, sfiorandosi le labbra con la mano, come se si fosse lasciata scappare delle parole di troppo. Luke rimase in silenzio per qualche attimo, metabolizzando il discorso.
«Conosci la parola “en”?» Domandò, di punto in bianco, rigirando il cartone che stava riempiendo di figure astratte con le bombolette e agguantando il primo carboncino libero. La bionda scosse la testa, osservando l’artista cominciare a disegnare di getto, in maniera rapida e sicura. Curva, linea, spigolo, ovale.
«È giapponese. Vuol dire “legame”», scandì, senza guardarla. «Significa che due persone sono unite nel karma, a livello spirituale. Magari in esistenze precedenti saranno stati amanti, o comunque avranno condiviso esperienze importanti. Sono destinate a trovarsi, prima o poi, e a riconoscersi immediatamente».
Sydney ascoltava rapita, iniziando ad osservare il disegno che pian piano prendeva vita sotto i suoi occhi. Erano un ragazzo e una ragazza, l’uno di spalle all’altra.
«Non importa quanto ci vorrà o come avverrà l’incontro. Sono fatte l’uno per l’altra, combaceranno in eterno. È come quando lasci un’impronta nel pongo. A meno che non venga rimodellato, essa rimarrà lì per sempre». Luke definì meglio le figure e poi prese un carboncino rosso.
«Un po’ come la storia dell’Akai Ito, il “filo rosso del destino”. La leggenda narra che ognuno di noi ha un sottile spago scarlatto legato al dito mignolo. L’altra estremità, stretta al medesimo dito, appartiene alla nostra anima gemella».
«Ma potremmo non incontrarla mai», ribatté Sydney. Luke sorrise, scuotendo la testa.
«Impossibile. Siamo destinati a trovarci».
Il disegno era completo, e quindi voltò il cartoncino verso la bionda. Erano loro due, Luke e Sydney. Non si guardavano negli occhi, poiché erano entrambi voltati da un’altra parte. Però, al mignolo di entrambi, era legato un fine laccio rosso. Uniti dal destino.
«…Mi stai dicendo che un capo del filo è attaccato al mio dito?» Chiese Sydney, sorridendo nel vedere quel rapido ritratto fatto sul momento.
Capì che la spiegazione del giovane era stata più che esauriente, non v’era bisogno di aggiungere nient’altro. I loro sguardi s’incontrarono, allacciandosi come fibre di una rossa matassa invisibile. Luke annuì.
«E l’altra parte, appartiene a me».



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Nota: e anche questa è finita. Sono stati quattro lunghi capitoli, ma pure Akai Ito è giunta alla sua conclusione! E' sempre un piccolo trauma, per me, premere il pulsantino e mettere la spunta "completa". Sarà perché detesto quando qualsiasi cosa finisca, bene o male che sia. Sono una persona complessa, lo so.
Cosa dire? Che questa storia mi ricorda un momento particolare della mia adolescenza, ha segnato il punto di svolta per la mia crescita stilistica ed è quindi una parte integrante del mio essere, tanto quanto tutte le altre opere che pubblico. Trovarle una casa adeguata e averle conferito la forma che ritenevo più opportuna, mi ha permesso di apprezzarla ancor meglio. Spero che anche a voi sia piaciuta, perché, personalmente, scriverla è stata una bella esperienza.
Ora, penserete che io non abbia più altre cose in serbo per voi, a parte THM. Beh, vi sbagliate!!! La prossima settimana pubblicherò una nuova mini-long, con Calum come protagonista. Quindi stay always tuned! E' anche un modo per farvi leggere vicende un po' più leggere e meno impegnative rispetto alle mie long serie, che hanno molti capitoli (e contenuti più pregnanti).
Grazie come sempre per aver letto/preferito/ricordato/seguito/recensito questa storia, e per essere stati sempre con me, nonostante le tempistiche altalenanti! Vi lascio con un arrivederci, perché è senza dubbio la forma più appropriata da usare in questo frangente! E... alla prossima!



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