L'Ordine dei Maledetti

di StellaDelMattino
(/viewuser.php?uid=285259)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


L'ordine dei Maledetti

Prologo

 

La sua vista era macchiata da un'opacità snervante.
Sembrava quasi che avessero posto un velo sui suoi occhi, tanto era densa quella nebbia. Camminava a tentoni, col cuore in gola, una macabra sensazione cresceva nel suo cuore.
Non sapeva che in pochi brevi istanti il suo destino sarebbe cambiato irrimediabilmente, che la sua vita sarebbe stata sconvolta completamente, grazie alla sola forza di alcune frasi.
Non vedeva nulla, ma le parole giunsero alle sue orecchie come se fossero annunciate con un microfono. E capì subito che non minacciavano a vuoto, ma dichiaravano qualcosa che avrebbe condizionato per sempre il suo futuro.
"Io ti maledico.
Così come hai mostrato il tuo viso angelico, ora non sarai altro che una bestia.
Così come hai preteso che il tuo animo fosse nobile, ora il sangue nelle tue vene sarà quello di un mostro.
Non più i tuoi cari saranno al sicuro, non più il loro avvenire sarà lieto, se nelle loro vite vorrai rimanere, minaccia incombente e pericolosa.
Io ti maledico.
Che così come nel giorno ti mostrasti un angelo, nella notte tu sia un demone. La feroce voglia di uccidere si impossessi di te, viva e rossa come il sangue di bestia che hai."



*Angolo autrice*
Buongiorno a tutti!
Eccomi con una nuova storia!
Beh, per ora non ho molto da dire se non che spero vi piaccia! Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate, anche se questo prologo è minuscolo!
Al prossimo capitolo, 
StellaDelMattino

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


L'Ordine dei Maledetti
Capitolo 1

 

Il vento soffiava violentemente, scuotendo gli alti alberi al limitare del paese. Le persiane sbattevano, ogni cittadino si rintanava in casa, andando ad animare il fuoco nel camino. Da questo, il fumo usciva formando una striscia nel cielo già grigio e cupo.
Nelle strade di Caligo non un'anima si aggirava, l'unica cosa viva sembrava il cielo, che brontolava, annunciando una notte di tuoni. Il mormorio del gelido vento sembrava suggerire qualcosa, come se consigliasse di scappare, di mettersi in salvo.
Quel tempaccio certo non si addiceva alle graziose case, ai giardini ben curati, all'ordine generale. Si addiceva, però, al castello apparentemente abbandonato che torreggiava sulla città. Stava lì come se fosse un padre severo che perennemente sorvegliava i suoi figli, guardandoli dall'alto della sua età. Così il castello era ben visibile da ogni punto della città, antico e decadente contrastava rispetto alle moderne e nuove case. Solo boschi, tanto belli se colpiti dal sole quanto terrificanti nell'ombra della notte, circondavano Caligo in ogni parte.
Gravava su ogni abitante questo perpetuo maltempo, continuo presagire di eventi infausti. Eppure chiunque ci abitasse sapeva che, a Caligo, non succedeva mai nulla di speciale. Di sicuro non si lamentavano della tranquillità della piccola città, che consentiva stabilità e sicurezza ai cittadini. Nonostante i continui lamenti del cielo e i cali di temperatura improvvisi, ognuno seguiva la propria routine.
In quella scura e ventosa serata, qualcosa spezzò l'abitudine: solitaria girava fra le vie una macchina piccola e rossa, provata, tanto quanto le due persone che erano dentro di essa, dal lungo viaggio che aveva dovuto affrontare.
Vagò per un po', attirando l'attenzione di ogni cittadino, fin quando non riuscì a trovare la sua destinazione: una casa di dimensioni modeste, ben curata ma anonima.
Ci volle qualche momento prima che le portiere della macchina fossero aperte, segno della riluttanza di coloro che stavano nel veicolo ad immergersi in quel freddo glaciale.
Con una smorfia di fastidio sul volto e le mani che strofinavano le braccia per scaldarsi, la giovane Olivia Thompson scese dal maggiolino rosso. Corse velocemente verso il bagagliaio, dal quale prese la sua valigia, decisa ad andare al caldo il più in fretta possibile.
Il padre, Gregor Thompson, avrebbe felicemente sorriso e sarebbe rimasto ad osservare l'abitazione dall'esterno per qualche momento, ma il brivido che lo colse per l'improvviso sbalzo di temperatura lo convinse a seguire l'esempio della figlia, così anche lui si affrettò a scaricare la macchina.
Con somma soddisfazione sia di Olivia che del padre, in previsione del loro arrivo era già stato acceso il riscaldamento. Balto, il loro cane, entrò in casa titubante: nella vecchia abitazione stava sempre fuori. Avevano però accordato che, dato il clima, avrebbero pensato in seguito a quella questione.
"Dobbiamo aspettare qui" esordì il padre, con un sorriso soddisfatto."Ora chiamo il signor Smith e gli dico che siamo arrivati."
Olivia annuì, facendo qualche passo per sgranchirsi le gambe. Si tolse i guanti, poi liberò i suoi lunghi capelli biondi dalla cuffia. Si piegò leggermente, dando un buffetto sulla testa dell'husky.
Fortunato tu che sei abituato al freddo, pensò, poi si guardò intorno.
La casa era su due piani, ma entrambi avevano un'area piuttosto modesta: girando per le casa, Olivia decise che era graziosa. Le stanza erano proporzionate, l'architettura semplice ma non banale. Già si immaginava come avrebbe posizionato le sue cose una volta fossero arrivate.
Suonò il campanello ed entrò il signor Smith, che aveva venduto loro l'abitazione. Gli ultimi affari burocratici e le ultime dritte e quella sarebbe stata la loro casa definitivamente.
Quando fu finalmente tutto sistemato, Gregor Thompson accompagnò alla porta il signor Smith, salutandolo cortesemente. Poi sospirò e si passò una mano sulla fronte.
"Siamo ufficialmente a casa" disse con un sorriso.
Nonostante il letto fosse comodissimo, Olivia non chiuse occhio. Già lo sapeva  che sarebbe andata così: l'ansia da primo giorno di scuola in una nuova città non è una cosa da nulla.
Quando la sveglia suonò, la ragazza non fece difficoltà ad alzarsi e si preparò di tutto punto: solite all stars, dei leggins e un maglione color panna piuttosto lungo. Andò allo specchio, cercando di decidere se legare o meno i capelli biondo scuro, lisci e sottili come fili. Alla fine li lasciò sciolti, poi si mise un velo di trucco: poco, l'essenziale. 
Scese in cucina, non sorprendendosi di vedere già lì suo padre. Probabilmente neanche lui aveva chiuso occhio.
"Liv!"disse vedendola. Alzò la padella, come a mostrarle che stava cucinando. "Ho fatto i pancake."
La ragazza sorrise, prendendo posto su una delle sedie intorno al tavolo e versandosi un po' di succo alla pesca nel bicchiere. Avevano ancora tutto il tempo di fare la colazione con calma.
"Allora, come ti sembra questo posto?" chiese Gregor con uno sguardo pieno di aspettative.
"Come l'ultima volta che me lo hai chiesto?" rispose di rimando Liv, sbuffando. Erano arrivati da soli quattro giorni e suo padre non perdeva mai l'occasione di chiederlo. La risposta non poteva che essere sempre la stessa: carino, ma non avevano ancora visto abbastanza. Lei preferiva non dare giudizi affrettati, neanche per far piacere al padre.
Lo sguardo dell'uomo si rabbuiò.
Liv capiva benissimo perché lo continuasse a chiedere: era preoccupato. Si sentiva in colpa per averla costretta a trasferirsi, sebbene gliel'avesse detto più volte che a lei andava bene. Lui non era il solo a voler dimenticare.
In ogni caso, la ragazza si sentì in colpa subito: Gregor si preoccupava e lei, in risposta, usava il sarcasmo.
"Senti" iniziò Liv, posando una mano sul quella del padre, ora seduto davanti a lei. "Mi piace, però lo sai come sono: ho bisogno di tempo per abituarmi." Il padre alzò lo sguardo, puntando su di lei quei grandi occhi marroni così simili a quelli della ragazza, poi annuì leggermente. "In più" continuò Liv "sono molto preoccupata per il primo giorno di scuola."
Gregor sorrise. "Andrà benissimo, Liv. Sii solo te stessa."
Un consiglio tradizionale, ma che comunque riuscì in qualche modo a rincuorarla.


Il viaggio in macchina fu di silenzio assoluto.
Liv era piena di aspettative, ma allo stesso tempo di dubbi e angosce: desiderava solo che andasse tutto bene. Lo sperava con tutta se stessa.
E Gregor aveva lo stesso identico pensiero.
Quando finalmente arrivarono, Liv chiuse un attimo gli occhi, appoggiando la testa al sedile, e respirò profondamente. Poi fu pronta per affrontare la giornata, con un sorriso sulle labbra.
Scese dal maggiolino, dando una rapida occhiata ai ragazzi che erano davanti all'entrata. La guardavano con curiosità, ma nessuno di loro le parlò. D'altro canto, neanche Olivia lo fece.
Con il suo acuto rumore fastidioso, la campanella suonò, annunciando ufficialmente l'inizio delle lezioni.
Per prima cosa, Liv andò a parlare con il preside, che l'accolse affettuosamente, felice di avere una nuova studentessa. Le diede tutte i consigli e le istruzioni necessarie, poi la lasciò andare a lezione, a subire tutto l'imbarazzo che inevitabilmente sarebbe derivato dalle innumerevoli presentazioni a un'aula piena di studenti con lo sguardo fisso su di lei.
Olivia cercò di pensarci il meno possibile, consapevole che prima o poi sarebbe dovuto succedere, così giunse fino alla sua prima classe.
Un altro respiro profondo, poi bussò.
Entrò, titubante, e subito si sentì addosso tutta l'attenzione dei compagni di classe.
"Buongiorno, sono Olivia Thompson."

"Ciao Liv!" disse con la sua squillante voce Amanda. "Allora com'è andata?"
Non appena era arrivata a casa, Olivia aveva ricevuto la chiamata dell'amica.
Aveva conosciuto Amanda quando erano piccole, grazie a un litigio al parco: entrambe volevano andare sull'altalena, così si erano attaccate con tanto di sberle, finchè le rispettive madri non le avevano separate decretando che nessuna delle due sarebbe salita sull'altalena. In assenza di altre alternative, Amanda e Liv si erano messe a giocare insieme e da allora erano state inseparabili.
Ricordando quell'episodio, a Olivia sembrò che fossero passati secoli. Ed era cambiato così tanto, ma non avrebbe mai rinunciato all'amicizia dell'unica persona che effettivamente le sarebbe mancata dopo il trasferimento.
Quando il padre le aveva detto che se ne sarebbero andati, aveva subito pensato a lei. Aveva capito però che cambiare posto era necessario sia per lei che per il padre e aveva ceduto.
"Bene," rispose Liv "sono tutti molto gentili e i professori mi sembrano seri, ma non voglio dare un giudizio affrettato."
Dall'altra parte del telefono, Amanda sbuffò sonoramente. "Non voglio dare un giudizio affrettato, non voglio dare un giudizio affrettato. Sempre con questa frase" la canzonò.
"Mandy" la richiamò Liv mentre giocherellava con il filo del telefono fisso."Lo sai come sono. E poi, non mi è mai andata bene quando ho dato un giudizio affrettato e tu lo sai benissimo."
"Oh, Liv non ricominciare. Vuoi davvero ricominciare il discorso?" chiese l'altra. No, Liv non voleva. Dopotutto erano andati lì per dimenticare.
"E va bene. Sta di fatto che ho incontrato una ragazza, Cashiel, che mi sembra simpatica, fa biologia con me. Ci ho parlato un po' e mi ha persino invitata a mangiare al suo tavolo in mensa."
"Oh, Liv, sono proprio contenta che vada tutto per il meglio! Da noi è una noia senza di te, non puoi immaginare."
Olivia sorrise, malinconica. Sì, Amanda le mancava proprio tanto.
"Allora," riprese l'amica "hai già progettato qualcosa per il tuo compleanno?"
"In realtà pensavo di passarlo a casa, con mio padre."
Quattro giorni, solo quattro giorni e Liv avrebbe finalmente compiuto diciotto anni. Per lei il compleanno era un giorno importante, segno che sarebbe cresciuta.
Eppure era anche un giorno che le faceva sempre pensare a quella ferita aperta che da quattro anni le faceva sanguinare l'anima, a lei e a suo padre. Perché proprio il giorno dopo al suo compleanno sua madre li aveva abbandonati, senza un motivo, lasciando un vuoto nelle loro vite che non erano più riusciti a colmare.
Pensare che sua madre non l'avrebbe abbandonata per nulla al mondo, giudicare che stesse meglio di quanto in realtà doveva stare, questo era stato lo sbaglio più grande di Liv, sbaglio che mai si sarebbe perdonata.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

"Auguri, Liv!" diceva uno striscione attaccato in cucina.
Gregor, con un cappellino da compleanno, l'aspettava lì in trepidazione. Doveva essere tutto perfetto, si era detto.
Olivia non se lo sarebbe dovuta ricordare come il compleanno che aveva passato senza i suoi amici, ma come quello che aveva passato bene grazie a suo padre. Non che ci fosse grande differenza, ma a lui importava. In un certo senso, gli rimaneva solo lei.
Quando sua moglie se ne era andata senza motivo, era caduto in depressione. Aveva iniziato a bere e era stato assente per Liv. Non solo, passava via quanto più tempo poteva, spesso non tornava a casa neanche per dormire: tutto gli ricordava lei, l'amore della sua vita, che evidentemente non corrispondeva più i suoi sentimenti. Ubriaco ogni giorno e notte, aveva persino perso il lavoro, finendo in un mare di debiti.
Liv, però, lei era stata forte. Più di quanto un'adolescente dovrebbe essere.
Lo era andato a cercare in ogni bar che conoscesse, provando a portarlo a casa o restando lì con lui. Si era presa cura di lui, gli era stata a fianco, tenendo dentro tutto il dolore che era sicuro che provasse.
Grazie a lei Gregor aveva ripreso il controllo della sua vita: un giorno, l'ennesima volta che chiedeva soldi che non avrebbe mai potuto restituire per bere, Olivia era andata da lui e gli aveva urlato contro tutta la realtà: gli aveva fatto capire quanto male stesse, quanto pensasse di aver perso due genitori in un solo colpo, quanto desiderasse riuscire a non curarsi di lui, a non preoccuparsi.
E il padre aveva compreso che Liv, poco più che una bambina, fosse molto più forte di lui. Aveva capito che essere genitore vuol dire non crollare, mai, vuol dire esserci per i propri figli.
Gregor si riscosse dai suoi pensieri, quando sentì che qualcuno apriva la porta. Sorrise felicemente, quel brutto periodo ora era passato.
Liv spalancò la bocca per la sorpresa quando lo vide.
Il padre iniziò a cantarle la canzoncina e la ragazza arrossì, sorridendo contenta. Era felice, davvero.
Sul tavolo, c'era una torta dall'aspetto fantastico: Gregor era un cuoco eccezionale e non nascondeva il suo inusuale desiderio di diventare uno chef professionista.
La torta era al cioccolato, glassata e troppo grande per sole due persone. Davanti ad essa, c'era un piccolo pacchetto.
Vedendo che la figlia lo osservava, Gregor lo spinse avanti.
"Avanti, aprilo" disse.
Liv non esitò a fare come le era stato detto.
Dentro al pacchettino c'era un anello d'argento, piccolino, sottile. Era chiaro che fosse prezioso, soprattutto per il brillantino che ci stava sopra.
"Papà, non dovevi..." incominciò la ragazza. "È bellissimo, ma con tutti i nostri problemi finanziari..."
Gregor la fermò subito. "No, è il tuo diciottesimo compleanno e tu ti meriti un regalo bello. Certo non sarà questo anello a complicarci la vita, anzi."
Olivia sorrise felice, poi dopo aver aggirato il tavolo, buttò le braccia al collo del padre e lo ringraziò ripetutamente.
Suonò il campanello un paio di volte. Il padre sciolse l'abbraccio ed andrò ad aprire.
Alla porta c'era il vicino, Bob, un uomo sui sessanta anni, di bassa statura e di corporatura robusta. Stava giocando i baffi grigi, arrotolandoli con un dito come d'abitudine.
"Buongiorno, Gregor" disse con la sua voce profonda. Il signor Thompson lo salutò di rimando. "Mi chiedevo se avessi già iniziato i lavori in giardino."
"No, in realtà" rispose Gregor "sa, oggi è il compleanno di Liv..."
Bob lo interruppe subito: "Capisco, capisco. Falle gli auguri da parte mia! Comunque sappi che sarò felice di aiutarti!"
Prima che potesse invitarlo ad entrare, il vicino era già tornato a casa sua.
Il signor Thompson aveva capito da subito che Bob era una persona un po' strana. Appassionato alla follia al giardinaggio, sembrava avere interesse solo per quello. In ogni caso, era una brava persona.
Gregor tornò in casa, mentre Liv si rimirava la mano con indosso l'anello. Le piaceva proprio.
A Olivia piacque quel giorno: guardarono uno dei suoi film preferiti, ingozzandosi di quella torta che oltre ad essere bellissima era squisita. Scherzarono e chiacchierarono, in una serata completamente dedicata al loro rapporto padre-figlia. Si sentì più vicina a Gregor e ne fu felice.
Un compleanno come nuovo inizio in una nuova casa, con un padre di nuovo tale, a Olivia piaceva.
Aveva ancora il sorriso sulle labbra quando salutò il padre per andare a dormire. Lo sentì girare la chiave nella serratura come era solito fare, poi anche Liv si mise a letto.
Appena prima di spegnere la luce, portò una mano al ciondolo che aveva al collo e sospirò, guardando fuori dalla finestra dall'altra parte della camera. Non avrebbe dovuto portare quella collana, ultimo regalo della madre, ma non riusciva a staccarsene.
Perché, nonostante l'avesse ferita come non mai, lei ancora l'amava.
È così, infondo: non importa quanto male ti facciano, se tieni a qualcuno ci vuole molto a scacciare quei sentimenti. Alla fine l'amore non se ne va mai davvero.
E Liv sperava ancora che un giorno sua madre sarebbe tornata.
Guardando il mondo fuori dalla finestra, la ragazza pensava che lei fosse lì da qualche parte.
"Mamma" iniziò a sussurrare "so che non puoi sentirmi, ma... ti prego, torna da noi. Vorrei tanto che tu tornassi."
Era la stessa richiesta ogni anno, ma non era ancora stata accontentata.
Olivia lasciò la presa sul ciondolo, poi si asciugò una lacrima.
Non ci mise molto a scivolare in un sonno profondo.

L'impressione che Olivia aveva avuto di Cashiel, una compagnia di biologia, si era rivelata giusta.
Mano mano che i giorni passavano, Liv sentiva di essere sempre più in sintonia con la ragazza.
Era quella che sua madre avrebbe definito "un peperino": sorrideva e rideva sempre, ma non aveva una risata esagerata. Era semplicemente piena di vita.
In un certo senso le ricordava Amanda.
Quando, dopo il suo compleanno, le aveva detto di aver festeggiato il compleanno con il padre, Cashiel si era quasi arrabbiata.
"Perché non me l'hai detto?" aveva chiesto mentre erano a pranzo "Non mi è neanche arrivata la notifica su Facebook!"
Liv inarcò un sopracciglio. "Ho tolto il mio giorno di nascita, preferisco che gli auguri me li faccia chi se lo ricorda davvero" rispose tranquillamente, alzando le spalle.
"Ma... io non potevo saperlo!"
"Beh, lo saprai da ora in poi!"
Entrambe risero, senza un motivo apparente. Era proprio quella leggerezza che piaceva a Olivia di Cashiel. In qualche modo la faceva sentire felice: le faceva dimenticare i problemi che l'aspettavano a casa.
"Per festeggiare il compleanno di cui ti sei dimenticata di dirmi andremo insieme al caro centro commerciale" decretò alla fine l'amica, senza lasciare spazio ad obiezioni.

Era ormai sera tarda, la notte si stava lentamente impadronendo di ogni cosa.
Per una volta, il maltempo sembrava aver lasciato spazio alla serenità: in cielo non c'era una sola nuvola, solo la luna, che irradiava ogni cosa con la sua tenue luce.
L'unica cosa che macchiava quel paesaggio quasi idilliaco era la nebbia densa, che al limitare della città diveniva talmente fitta da non permettere di vedere nulla.
Bob non era solito a stare fuori fino a tardi, eppure quel pomeriggio, quando aveva trovato nel bosco una pianta piuttosto inusuale, aveva deciso di studiarla e documentarla. A discapito di quanto si immaginasse, c'era voluto più tempo del solito, tanto che ancora si trovava a vagare al limitare del bosco.
Con quella nebbia, poi, quasi non riusciva a distinguere neanche i propri piedi, tanto che era inciampato un paio di volte in alcuni rami che si trovavano lungo il suo passaggio.
Se avesse saputo che internamente alla città c'era la metà della nebbia che vedeva lì, sicuramente avrebbe preso la strada più lunga, ma in quell'occasione più facile. Sfortunatamente, non ne aveva idea.
Così, convinto di andare per il percorso più breve, continuava a camminare al confine indefinito fra città e bosco.
Un fruscio attirò la sua attenzione, invitandolo a rivolgere il suo sguardo verso la parte degli alberi. Si fermò un attimo, il suo cuore accellerò il battito.
"Sarà solo qualche animale" si disse, decidendo di proseguire.
Non fece tempo a fare qualche passo che sentì un altro rumore, più forte questa volta.
"Via, bestiaccia!" urlò a qualunque cosa fosse oltre quel bianco opaco. Era convinto così di spaventare l'animale.
Il suono si arrestò, ma Bob non riusciva a calmare quell'inquietudine che si stava impossessando di lui, come se sentisse di aver concentrato l'attenzione di qualcosa.
L'inquetudine si trasfornò in paura, quando un dolore dilaniante gli attraversò tutto il braccio.
Una strana consapevolezza si fece strada nella sua mente: qualcosa lo aveva morso.
Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, mentre le luci delle case si accendevano e i cittadini comprendevano ciò che era appena successo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

Il titolo dell'articolo della prima pagina del giornale recitava sempre la stessa cosa: "Nuovo attacco della Bestia."
Era ormai il terzo in solo due settimane.
Gregor si passò una mano sul viso, sospirando.
La prima vittima era stata il vicino di casa, Bob, poi era toccato ad un uomo che aveva bevuto un po' troppo e ora a un ragazzo di ritorno da una festa di compleanno.
Tutti al limitare della città, tutti morsi.
Feriti, ma non gravi.
La natura dell'animale, che ormai avevano soprannominato "Bestia" era sconosciuta. Sembrava che nessuno l'avesse visto e nemmeno i morsi che aveva lasciato sulle sue vittime lasciavano intendere che fosse un animale piuttosto che un altro.
Il messaggio, però, era stato recepito da tutti: stare in casa la sera.
Eppure non era quella la pagina del giornale che più interessava a Gregor, anzi: la sua concentrazione era tutta sugli annunci di lavoro. Aveva la necessità di trovare qualcosa di fisso, con uno stipendio che bastasse a consentire loro di vivere.
Ancora una volta si ritrovò a dover cancellare con una x rossa uno degli annunci: aveva appena appreso che non lo avevano assunto.
"Papà, io..." incominciò Liv arrivando in salotto. Si interruppe subito, quando vide la faccia disperata del padre e capì subito cosa ci fosse che non andava. "Non ti hanno preso?" chiese allora.
Gregor scosse la testa, consapevole che fossero ben pochi i lavori disponibili che rimanevano.
"Dai, la prossima volta andrà meglio" continuò la ragazza, sedendoglisi vicino e posando una mano sul braccio del padre.
Quest'ultimo sorrise. "Sì" disse "sono sicuro che sarà così."
Dal suo tono era chiaro che non ne fosse per niente sicuro. Era pienamente consapevole che i problemi finanziari fossero seri.
E lo era anche Liv.
"Io stavo pensando che potrei trovare un lavoro, part-time" provò a dire la ragazza. Non sapeva come avrebbe reagito il padre, ma lei voleva in qualche modo essere d'aiuto.
Come aveva previsto, Gregor la guardò quasi con rimprovero.
"No. Non voglio che tu lo faccia: sono io il padre, io devo prendermi cura di te, mai più il contrario" sentenziò perentorio.
"Ma papà non si tratta di questo!" replicò subito Liv, con un tono quasi di supplica. "Ho ormai diciotto anni, voglio prendermi le mie responsabilità e in qualche modo voglio iniziare a vedere il mondo da un'altra prospettiva" disse gesticolando ampiamente. "Non voglio fare niente di che, solo dare ripetizioni, fare la babysitter, oppure aiutare a pulire la casa. Cose così."
Gregor vacillò: l'assolutamente no si stava trasformando in un forse.
Liv lo guardò e gli sorrise, sussurrando un "ti prego".
"E va bene" rispose alla fine il padre.
La ragazza esultò, sorridendo felicemente. Non era stato per niente difficile convincerlo.

In uno dei suoi tanti giri al centro commerciale con Cashiel, Liv decise di appendere un annuncio.
C'era una bacheca, proprio per quel genere di cose, appena entrati: lasciò il suo numero di cellulare, il suo indirizzo e ovviamente nome e cognome.
"Cercasi lavoro part-time" diceva il foglio che aveva appeso, sotto aveva scritto alcune delle cose che avrebbe potuto fare, un po' come quelle che aveva detto al padre.
Passò solo qualche giorno ed arrivò una lettera indirizzata a lei.
"Penso che sia per il lavoro" stava dicendo al telefono a Cashiel. "Strano, pensavo che mi avrebbero chiamata."
"Infatti di solito succede sempre così" disse l'altra incuriosita.
Liv aprì la lettera, titubante. Quando lesse ciò che era scritto inarcò un sopracciglio.
"È da parte del proprietario del castello, dice che serve una domestica."
"Cavolo, io pensavo che quel castellaccio fosse disabitato!" rispose l'amica.
In effetti, col suo aspetto decadente nessuno avrebbe detto che qualcuno viveva lì. Tra l'altro, mai nessuno degli abitanti dell'edificio aveva messo piede in città, o almeno nessun cittadino li aveva mai incontrati.
"Hai intenzione di accettare il lavoro?" continuò Cashiel.
Liv scrollò le spalle. "Non so. È tutto un po' inquietante, però voglio comunque andare a vedere e parlare con il propretario."
"Quando dovresti andare?"
"Dopodomani."

I due giorni successivi furono pieni di ansia.
Olivia aveva sperato che arrivasse un'altra richiesta di lavoro, ma non fu così.
C'era qualcosa in quel castello che fin da subito l'aveva inquietata. Era così imponente, così decadente. Così antico e in un certo senso sbagliato, rispetto alla modernità delle case di Caligo.
Trovandosi davanti all'enorme portone che faceva da entrata al castello, Liv esitò. Si fermò qualche secondo, chiedendosi se stesse facendo la cosa giusta, poi sospirò e premette il tasto che faceva da campanello. A vederlo così non avrebbe mai detto che in quell'edificio ci fosse qualcosa di moderno.
Non passarono che pochi secondi prima che un uomo, sui sessant'anni, le aprisse.
Era magrissimo, con i capelli lunghi che sembravano decisamente poco puliti, le lanciava uno sguardo torvo con quei suoi occhi scurissimi, quasi neri, nascosti dalle folte sopracciglia.
Non disse nulla, ma le fece segno di entrare.
Ignorando tutti gli scenari catastrofici di killer e uccisioni che la mente di Liv le stava facendo vedere, la ragazza andò avanti. Doveva solo stare calma.
"Mi scusi, è lei il padrone di casa?" chiese gentilmente. Le stava venendo la pelle d'oca.
L'uomo non rispose, ma scosse la testa. Le fece segno di seguirlo, conducendola al piano superiore.
Mentre camminava, Liv si rese conto che il castello dentro era proprio come era fuori: decadente. Le ragnatele abbondavano, il pavimento scricchiolava: come struttura era stabile, ma di certo c'era un sacco di lavoro da fare per ripulire tutto.
I suoi pensieri furono interrotti da una voce, ancora lontana. Olivia non capiva esattamente cosa stesse dicendo, ma si rese conto che qualcuno stava parlando al telefono. E sembrava anche piuttosto arrabbiato.
Man mano che si avvicinavano, si faceva più forte, fino a che iniziarono a definirsi delle parole.

"Ovviamente" stava dicendo la misteriosa voce. "La mia area bla bla bla, sempre le solite cose. E come al solito ti rispondo che me ne occuperò!" urlò alla fine.
Lo strano uomo che le aveva aperto, la condusse in una stanza, apparentemente uno studio, dove stava il propretario della voce.
Guardava fuori dalla finestra, quindi era di spalle, ma era palese che fosse un giovane sui venti anni o poco più.
"E lo farei anche subito se tu la smettessi con questa inutile lamentela!"
Olivia non sapeva cosa fare, doveva forse attirare la sua attenzione o semplicemente aspettare che chiudesse la telefonata? Optò per la prima opzione.
"Mi scusi..." iniziò a voce abbastanza alta, ma lui non diede segno di averla sentita.
Dopo pochi secondi, mise giù il telefono.
Solo allora la guardò.
I suoi occhi di ghiaccio si allacciarono a quelli di Liv, rendendole quasi impossibile distogliere lo sguardo. Aveva un'espressione impassibile sul bel volto dai lineamenti decisi, ma la guardava quasi sapesse già ogni suo minimo segreto.
Sembrava leggerle l'anima.
Il suo volto si illuminò in un sorriso storto, che sembrava quasi deriderla. Si passò una mano fra i ricci neri, tirandoseli indietro.
"Mi scusi" iniziò, avvicinandosi a lei. "Era una chiamata di lavoro piuttosto urgente."
"Non si preoccupi" mormorò Liv, vagamente intimidita.
Una lunga serie di domande si fecero strada nella testa della ragazza.
Era quindi lui il misterioso proprietario del castello? Aveva davanti un ragazzo, al massimo poteva essere considerato un giovane uomo, possibile che, da solo, stesse in quell'edificio enorme e decadente? Probabilmente era il figlio del propretario. In più, si chiedeva come fosse possibile che non andasse mai a Caligo: era sicura che avrebbe facilmente attirato l'attenzione se lo avesse fatto.
"Lei deve essere Olivia Thompson." Liv annuì velocemente. "Io sono il propretario del castello. Come vede" disse indicando l'inquietante uomo che la aveva accompagnata fino a lì e continuava ad avere un'aria sinistra. "il signor Clock ormai sta avanzando con l'età e non vorrei che la manutenzione di questo castello cadesse tutta sulle sue vecchie spalle."
Parlava con un tono freddo, noncurante.
Liv alzò un sopracciglio, stranita dalle parole del propretario, ma non disse nulla. Era molto schietto, decisamente non interessato alla salute del povero signor Clock, ma solo alla propria abitazione. Le sembrava quasi che lo stesse deridendo, ancora una volta.
"Le chiedo semplicemente di venire a pulire: fra qualche mese si terrà in questo castello un evento importante per il mio lavoro e desidererei che il castello fosse per lo meno presentabile. Ha capito?"
Chiaro, deciso. Forse un po' troppo imperioso, ma Olivia aveva deciso che non si sarebbe fatta sfuggire quel lavoro. O se non altro la possibilità di decidere se accettare.
La ragazza annuì.
Lui la guardò, in silenzio. Un angolo delle sue labbra era contratto in un sorriso storto, un sopracciglio più in alto dell'altro. Quegli occhi di un azzurro talmente chiaro da sembrare quasi bianchi avevano un qualcosa di malizioso.
"Olivia Thompson" mormorò lui in un sussurro quasi impercettibile.
Liv era a disagio. Si accorse solo in quel momento che ancora non sapeva il nome del misterioso... Non sapeva neanche se chiamarlo uomo o ragazzo.
"Scusi" iniziò, cercando di mascherare la sua preoccupazione "non mi ha ancora detto il suo nome."
"Può chiamarmi signor Cavendish."
Lei annuì, ma ancora si chiedeva cosa ci fosse dietro tutta quella segretezza. Voleva solo andare a casa e meditare. Una scelta calcolata e pensata, c'erano troppe cose oscure in quella storia per prendere una decisione così, su due piedi.
Discussero brevemente sull'orario -due giorni a settimana da fine scuola al tramonto era più che sufficiente- e sul pagamento. Era tutto perfetto, escludendo l'alone inquietante che circondava tutta quella faccenda.
Liv disse che doveva ancora decidere se accettare o no, Cavendish le disse di presentarsi lì nei giorni stabiliti se avesse deciso di accettare, se no di non andare direttamente.
Olivia si congedò, più confusa di prima.

Quella sera, da sola nel letto, Olivia ripensò a tutto.
A detta di tutti, quel castello c'era da sempre. Cashiel aveva detto che c'era da quando ne aveva memoria e non era difficile crederle, si vedeva subito che era un castello antico.
Nonostante ciò, però, Liv non capiva come mai nessuno avesse mai visto il propietario, che a quanto pareva viveva lì. Di certo, se il signor Cavendish avesse attraversato le strade di Caligo, un sacco di gente se ne sarebbe accorta. In più, non capiva il motivo per il quale nessuno si fosse accorto che qualcuno abitava lì dentro.
Altre domande trovarono spazio nella mente di Liv: perché aveva deciso proprio in quel momento di assumere una domestica, rivelando così la propria esistenza?
Ora però lei doveva decidere: accettare, con tutte quelle stranezza, sembrava quasi una follia. D'altra parte, se avesse rifiutato non c'era alcuna certezza che avrebbe trovato un altro lavoro.
Non lo avrebbe mai ammesso a se stessa, ma era attratta da tutto quel mistero, da quegli occhi gelidi. Forse fu questo il vero motivo per cui decise che avrebbe accettato.


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3232178