Another Life

di Shi no hana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1○ Viaggio ***
Capitolo 2: *** Oblivion ***
Capitolo 3: *** Dove mi trovo? ***
Capitolo 4: *** Fanaticism ***
Capitolo 5: *** Chi sono io? No, questo è uno scherzo! ***
Capitolo 6: *** Enemies ***



Capitolo 1
*** 1○ Viaggio ***




Another life





Viaggio









Noi siamo fautori del nostro destino.
Brutto o bello che sia, siamo noi a decidere sul da farsi.
Siamo noi a scegliere la nostra via…no, altri.
Nessun essere supremo può decidere per noi…
Io voglio vivere secondo le mie regole!
Nessun’imposizione.
Sono nata libera e morirò così…


Caldo.
In quel periodo la temperatura era davvero elevata. Un caldo anomalo d’inizio maggio, non era di certo il momento propizio per intraprendere il mio viaggio di ricerca. Di esplorazione della vita locale.
Volevo ampliare il mio bagaglio culturale viaggiando, e non di accrescerlo tra quattro mura ammuffite della vecchia biblioteca universitaria.
Eppure un tempo adoravo fuggire lì. Rifugiarmi dal continuo cicaleccio della vita mondana. Ma in quel periodo mi sentivo soffocare.
No! Quella vita non era più adatta a me! So che questo un vero controsenso, ma era così. Qualcosa dentro di me urlava.  Gridava libertà.
In quell’anno ero fuggita. Avevo preso anche una sorta di aspettativa dalla laurea. Mi mancava pochissimo.
Solo la tesi e poi…nulla. Il vuoto. E questo mi opprimeva. Mi mancava l’ossigeno.
“Me ne vado”.
Esordì una sera. Eravamo tutti fuori sulla veranda. Mio padre, mia madre, mio fratello, mia cognata e le piccole pesti gemelle che giocavano con i loro nuovi ninnoli.
Mi guardarono sbigottiti.
“Me ne vado”.
Ripetei, mentre mi accendevo l’ennesima sigaretta. Rammento ancora il gioco di fumo che si stagliava nel cielo stellato.
“Come?”.
Mia madre si alzò e si diresse verso di me, credeva che stessi scherzando. Infatti, sorrideva ironica. Ma non era così.
“Stai scherzando, per caso?”.
 Domandò incredula. Mi voltai verso di lei.
“No! Mai stata seria…voglio andar via da qui! Vivere la mia vita!”.
Ero alterata, mentre il resto della mia famiglia mi guardava senza proferire parola.
“Tu sei pazza! Che cosa significa che vuoi vivere la tua vita?”.
Mi urlò contro mia madre, mentre mio padre mi guardava tristemente. Era consapevole che io non avrei mai cambiato idea. La testarda della famiglia. La pecora nera.
“Mfh!”.
Sbuffai, mentre gettavo a terra la sigaretta ancora accesa. Un tonfo secco e rapido. Un bruciore sulla guancia destra.
Mia madre mi aveva schiaffeggiato. Rammento ancora il suo sguardo furente, offeso.
“Vuoi di nuovo disonorare la Tua famiglia? Sai a cosa mi riferisco…”. Ironica.
La guardai assottigliando gli occhi. Famiglia. Mfh! Che parolona. Mi voltai e dissi sibilando.
“Il disonore più grande è stato quello di fidarmi…partirò domani, ormai ho deciso”.
Ricordo ancora lo sguardo rabbioso di mia madre. Le sue urla. I singhiozzi di mia cognata. Il rammarico di mio fratello. Il silenzio di mio padre.
Mi voltai e mi diressi verso la mia camera.
No! Mai mi sarei voltata. Troppe volte l’avevo fatto. Troppe ferite. Umiliazioni.
Ora basta!
Libera.
Salii di sopra determinata a lasciarmi alle spalle il mio vecchio mondo. La vecchia me.
All’epoca non ero ancora consapevole che tutto sarebbe cambiato. Che io sarei mutata. Che il mondo come l’avevo conosciuto non esisteva…che era una vera utopia.

Ricordo il vento caldo sulla mia pelle, mentre vedevo la gente attorno a me che sorrideva felice ammirando l’antico splendore di una vita passata.
Io restavo seduta su una piccola roccia a contemplare il via vai di gente di diverse culture. Di diversi stati sociali.
Mi trovai a sorridere, intanto ascoltavo la guida raccontare le antiche gesta di guerrieri sepolti dalle nebbie del tempo.
Socchiusi gli occhi e scossi il capo.
“Ti sarebbe piaciuto lo so”.
Dissi, mentre le mie dita giocavano con il piccolo ciondolo rosso. Un suo ricordo. Sorrisi tristemente, quando una folata di vento fece volar via il mio panana. Saltai giù dalla roccia e lo afferrai accanto ai resti una vecchia colonna. Mi piegai e la accarezzai con la mano destra. Provai pena in quel momento. Una tristezza atavica che non riuscivo ancora a comprendere.
Quanta gente si era prostata in questo tempio. In questo luogo ritenuto sacro. Simulacro di un’antica religione. Senza rendermene conto mi sentii a casa.
Feci scivolare la mano fin quasi la base, ma poi mi fermai di botto, quasi come scottata mi rialzai.
Socchiusi gli occhi e scossi il capo.
“Che diavolo mi prende?”.
Mi domandai, mentre mi aggiustavo il cappello e mi avvicinavo al gruppo, che intanto entrava nel Partenone.
Mi riavvicinai a loro, intanto quella strana sensazione permaneva ancora in me, quando una voce mi fece sobbalzare.
“Tutto bene cara?”.
Mi voltai di colpo e vidi una donna che mi guardava. Capelli d’ebano legati in una bassa coda, pelle diafana e sorriso materno. Ma ciò che mi fece stupire e lasciare senza parole, erano i suoi occhi. Occhi d’ambra come i miei. Caldi e avvolgenti, ma tremendamente tristi.
Annuii rapita da quello sguardo. Stavo per chiederle chi fosse, ma un tonfo accanto mi fece voltare. Una turista era inciampata. Scossi il capo, mentre mi trovai a sorridere.
“Che incosciente”.
Mi trovai a dire. Mi voltai di nuovo verso la donna, ma era sparita. M’incamminai verso il gruppo in cerca di lei.  Ero curiosa.
“Chi sei?”.
Pensai. Voltai il capo a destra e a sinistra ma nulla. Era sparita.
“Sarà forse uscita dal tempio?”.
Mi domandai, mentre m’incamminavo verso l’uscita, ma con mio sommo stupore non la vidi. Rimasi lì in piedi per svariati minuti, quando socchiusi gli occhi e mi trovai a ridere ironica.
“Ho avuto un’allucinazione”.
Mi dissi voltandomi. Era tempo di tornare dal gruppo che intanto stava uscendo dal lato sinistro del tempio.
“Sta attenta figlia mia”.
Un sussurro nel vento. Mi voltai di colpo, ma non vidi nulla solo il sole che lento scendeva verso l’orizzonte.
Di chi era quella voce? Perché quella raccomandazione?
Scossi di più il capo dandomi della pazza.
“Il caldo afoso di oggi mi fa avere delle forti allucinazioni”.
E veloce ritornai nel gruppo.



Continua…



__________________________
Mh, primo tentativo in un fandom a me nuovo per la scrittura, ma che ben conosco per la lettura.
Che dire? Questa storia assurda è nata dopo ore di lavoro e lettura di luoghi ipotetici di vacanze che, ahimè, tardano (le ferie che vedo come un miraggio).
Bando alle ciance, spero di avervi un pelino incuriosito.
A kiss mes chers lecteurs.

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Capitolo 2
*** Oblivion ***




Oblivion







Sospirai, mentre mi dirigevo verso la piccola pensione dove, avevo preso una camera.
Ritirai le chiavi nella hall e salii al piano superiore. Avevo bisogno di farmi una bella doccia, di lavar via quello strano giorno. Quella sensazione assurda che, ancora mi avvolgeva.
“Che mi succede?”.
Mi dissi, mentre poggiavo le chiavi e il cappello sul piccolo tavolo accanto alla finestra semi aperta. D’un tratto ripensai a quella donna. A quella frase detta nel vento…sta attenta figlia mia
Che cosa significava? Che cosa?
“Ora basta! Smettila Clarissa! È stata solo un’allucinazione dettata dal caldo”.
Mi dissi stizzita. Tutto era tremendamente assurdo. Feci scorrere la mano tra i capelli, mentre mi dirigevo in bagno. Ero esausta.
Aprii l’acqua e cominciai a spogliarmi. Con rapidità mi fiondai sotto il getto d’acqua calda. Sentii la tensione svanire pian piano. I miei nervi si distendevano.
“Ecco! Tutto questo non è altro che il frutto del clima afoso greco”. Mi dissi.
Chiusi l’acqua, mi avvolsi nell’asciugamano e mi guardai allo specchio. Un lampo. Quella donna ritornò prepotente nella mia mente. Occhi così affini ai miei. Pelle quasi simile. Solo i suoi capelli erano diversi. Così neri come l’oblio a dispetto dei miei castani.
Socchiusi gli occhi, mentre mi dicevo che era stato solo un sogno… anche se era vero. Troppo vero.
“Smettila!”.
Quasi urlai, intanto con la mano destra detti un pugno sul bordo del lavandino. Mi feci male, ma quel gesto mi scosse da quel pensiero assurdo. Indossai di decente.  Una canotta bianca e pantaloncino nero. Veloce uscii dal bagno e corsi verso il portatile poggiato sul letto. Lo accesi e mi collegai su skype. Volevo sentirlo. Vederlo. Parlare con lui. Con mio fratello.
Feci un po’ di fatica a collegarmi, ma ci riuscii. Era bello chiacchierare con lui. Raccontargli del mio soggiorno in Grecia, di dirgli che stavo bene…di avvertire gli altri che ero viva.
“Clara mi manchi tanto”.
Mi disse con un velo di tristezza.
“Anche tu mi manchi Andrea, ma…”.
Scossi il capo e continuai.
“Ma devo rimanere…non è ancora giunto il momento di tornare”.
No, non era ancora tempo di rientrare in patria.
“La solita testarda”. Sospirò.
Lo vidi sorridere e chiudere gli occhi. Ridacchiai, sentendo quell’affermazione. Ero e lo sono tutt’ora una gran testarda.
“Già”.
Continuai a ridere, cosa che fece anche lui. Parlammo del più e del meno, dei gemelli di mia madre che, da gran attrice tragica di terz’ordine gridava allo scandalo familiare. Una donna sola nel mondo, questo diceva, ma si sbagliava di grosso.
In fin dei conti noi siamo individui nati soli e liberi.
Salutai il mio dolce fratellino e chiusi la chiamata. Socchiusi la finestra quel tanto per far passare una dolce brezza. Intanto sentivo il vociare della vita fuori. Spensi la luce e mi lanciai a peso morto sul letto. Ero stanca. Esausta. Chiusi gli occhi e lentamente mi lasciai avvolgere dalle tenebre. Non seppi mai quanto tempo dormii, un paio d’ore e non più quando qualcosa mi destò.
Uno strano odore. Un misto di stantio e putridume.
Mugugnai arricciando il naso infastidita dal puzzo. Aprii gli occhi per capire da dove, provenisse quel cattivo odore e notai con mio sommo disappunto due esseri accanto alla finestra semi aperta.
Ricordo la paura che mi avvolse, mentre sgranavo gli occhi e mi mordevo le labbra. Che cos’erano? Chi erano? Ma presto lo avrei scoperto. Di fatti una risata beffarda mi fece sobbalzare il cuore nel petto.
La risata si divise in due. Intanto il cuore batteva veloce e rumoroso. Una paura primordiale che mi attanagliava le viscere.
Tentai di alzarmi. Volevo fuggire dalla stanza ma notai che non ci riuscivo. Qualcosa mi teneva legata a letto. Delle corde che a ogni mio movimento mi stringevano sempre più. Cercai di urlare. Di chiedere aiuto, ma non ci riuscii. La mia bocca si muoveva, ma nessun suono usciva. Ero muta.
Intanto delle risate malefiche mi avvolgevano.
“Toh, guarda un po’? La bella fanciulla non è in grado di urlare”.
Mi derise. Io intanto cercavo invano di muovermi, ma le corde mi stringevano sempre più. Mi morsi le labbra forte tanto da farle sanguinare. Ricordo il sapore metallico in bocca, mentre la paura mi avvolgeva sempre più.
“Morirò lo so… che qualcuno mi aiuti…mamma…papà…Andrea…”.
Pensai, intanto sentivo il letto traballare. Uno di loro era salito. Lento e mellifluo si muoveva sopra di me.
Avvertii un freddo metallico sopra la pelle delle mie gambe nude. Trattenni il respiro, mentre lo vedo avvicinarsi verso il mio viso. Si muoveva viscido e lento, mentre rideva divertito. Ricordo il fremito delle mie labbra macchiate del mio sangue, il viso di quell’essere…di quell’uomo che con volgarità mi guardava.
Mi scrutava.
Notai che il corpo era avvolto da una sorta di armatura nera e fredda. Veloce poggiò le mani ai lati del mio viso.
“La paura ti rende ancora più bella. Eterea”.
Mi disse, mentre lo vedevo leccarsi le labbra.
“Mfh! Smettila Sinis!”.
Sentii l’altro, ancora accanto alla finestra, infastidito dall’atteggiamento di quest’ultimo.
“Che c’è?”. Rise. ”Smettila di fare il pudico! Lasciami divertire un po’”.
Abbassò il viso di più su di me, mentre con la lingua leccò un rivolo di sangue che era fuggito dalla mia bocca. Rabbrividii.
“Umh! Che buon sapore che hai”.
Mi disse, mentre l’altro continuava a mugugnare infastidito.
“Però un po’ mi dispiace che tu non possa urlare. Sai adoro sentire le urla di disperate di una donna, mentre le stringo con le mie corde”.
Mentre mi diceva questo, le corde mi stringevano sempre più. Strinsi gli occhi dal dolore. Intanto pregavo che tutto questo finisse.
Perché a me? Che cosa avevo fatto di male? Mi dicevo, ma più in là l’avrei scoperto. Intanto quell’uomo si divertiva, in modo sadico, con me.
“Ora basta Sinis! La dobbiamo portare viva a Loro! Se continui così, la ucciderai!”.
Urlò allarmato l’altro, mentre si avvicinava. Voleva fermarlo. Cessare quell’assurdo gioco perverso del suo compagno.
“Mfh! Il solito guastafeste. Non temere Manticore, volevo solo giocare con lei. Non sono così stupida da ucciderla... però un dolce ricordo di me voglio lasciarglielo”.
Avvicinò di più il suo viso al mio. Le sue labbra erano vicine alle mie. Ricordo il suo caldo e mefitico alito. Provai ribrezzo. Istintivamente lo sputai in faccia.
No! Mai mi sarei arresa, anche se quel gesto non gli piacque molto. Infatti, lo sentii ringhiare, mentre il suo compagno rideva divertito.
“Maledetta sgualdrina! Me la pagherai!”.
Un tonfo. Un bruciore. La vista mi si appannò. Mi aveva schiaffeggiata.
Boccheggiai dal dolore, mentre il sangue del mio labbro rotto, colava velocemente sul guanciale.
Lo sentii ridere divertito.
Sentii le mie calde lacrime mescolarsi con il mio sangue. Chiusi gli occhi in attesa. Intanto intorno a me tutto era ovattato. Il mio corpo lento mi abbandonava. Avvertii un dolce caldo che avvolgeva, mentre sentivo lo stridere di metallo e urla.
Rammento il mio corpo leggero, come anche la dolce voce che diceva.
“È viva!”.


Continua…



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Chiedo venia, ma ho avuto problemucci tecnici ma non temete aggiornerò presto.
A kiss mes chers lecteurs.

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Capitolo 3
*** Dove mi trovo? ***





Dove mi trovo?








La morte in fin dei conti è una dolce fuga. È facile abbandonare tutto.
Lasciarsi alle spalle i problemi. Gli ostacoli che la vita ci pone.
…Il vivere è la vera sfida…




Ero viva! E quella dolce voce maschile me lo rammentava.
Ricordo il dolce profumo di sapone di marsiglia misto a quello di rose che, mi avvolgeva e mi cullava.
Un timido raggio di sole m’imponeva di destarmi, ma io non volevo.
Desideravo ancora cullarmi nel dolce oblio.
No! Non volevo svegliarmi ma un ricordo dalle nebbie della mente m’impose di farlo.
“Alzati! Sei la solita pigrona! Su, è ora di andare Clara…il tempo a me concesso sta per scadere…”.
Quella voce imperiosa. La sua voce.
Aprii di scatto gli occhi.
“Nonno…”.
Sussurrai, mentre osservavo il soffitto.
Anche se erano passati degli anni, lui mi mancava. Mi mancava terribilmente.
Lui era stato l’unico a comprendere questo mio stato d’inquietudine. Questa mia voglia di fuggire.
Di libertà.
Sospirai.
“Ormai…il tempo è scaduto…”.
Mi dissi, quando qualcosa mi fece comprendere che non ero più nella stanza della pensione. Il soffitto era intarsiato, mentre quello della pensione era bianco con qualche leggera macchia di muffa.
Voltai il capo e vidi che ero coricata in letto a baldacchino dove, le tendine di stoffa candida leggera danzavano leggiadre sospinte da una dolce brezza che, portava con sé un tenue profumo di rose.
“Dove mi trovo?”.
Mi domandai, mentre cercavo di alzarmi facendo leva con i gomiti. Un’azione davvero ardua. Sentivo il mio corpo pesante e dolorante.
D’un tratto uno squarcio nella mente. Un viscido e lascivo uomo sopra di me. Il corpo legato.
L’impotenza di reagire.
Di urlare…e poi lo schiaffo.
Alzai lentamente la mano destra e toccai la guancia offesa, gonfia e dolorante. Lentamente spostai le dita sul labbro e sentii anch’esso gonfio.
Strinsi gli occhi.
“Quel bastardo c’è andato pesante…che male…”. Ringhiai.
Faceva male, ma ciò che più mi feriva era non aver reagito. Mi sentivo ferita nell’orgoglio.
Quell’essere mi aveva toccato.
Lentamente feci scivolare le dita sul ciondolo e sospirai, era tempo di scendere dal letto e capire dove mi trovassi.
Levai di dosso le lenzuola e vidi i lividi rosacei sulle gambe. Strinsi di denti dalla rabbia.
“Bastardo!”.
Sibilai. Questa era l’unica cosa che riuscivo a dire. Odiavo quell’essere e per quello che mi aveva fatto.
“Se solo fossi riuscita a…basta Clara!”.
Scivolai fuori dal letto e notai l’ampiezza della camera, se così si poteva considerare.
Rimasi a bocca aperta. Era bella e ben arredata.
Barcollai, ancora intorpidita dal dolore, verso il tavolino posto al centro della stanza dove, un vaso di fiori di campo faceva bella mostra.
Sfiorai la sua superfice, così lucida e ben curata. Riconobbi subito la sua fattura e sorrisi.
“Le Fablier. Il padrone di questo luogo ha gusto …”.
Mi guardai intorno e vidi che anche la mobilia era della stessa realizzazione. Quella camera era curata in ogni angolo.
Dal tavolino, al letto a baldacchino e ai comodini posti ai suoi lati. Dalla specchiera obliqua accanto al balcone aperto, all’armadio infondo alla parete destra. Tutto era perfetto.
Notai l’arco nella parete sinistra dove, lentamente mi diressi. Era il bagno, se così si poteva definire.
Il marmo candido era da padrone. Colonne intarsiate facevano bella mostra sui lati dell’enorme vasca, posta nel centro dove, un paffuto angioletto con la sua giara versava la sua calda acqua.
“Che spettacolo”.
Sussurrai, ma poi una domanda saltò fuori. Chi mi aveva salvato? E perché mi aveva condotto in questa camera?
Mi voltai e mi diressi verso il balcone aperto. Arrivai e mi affacciai. Sgranai gli occhi e dissi.
“Questa non è Atene! Dove cavolo mi trovo?”.
Il panorama era meraviglioso. Mi trovavo in palazzo posto sopra un promontorio roccioso dove, in lontananza vedevo dei piccoli santuari di marmo brillare al sole. Li contai erano dodici.
“Che buffo! Dodici come i mesi…come i segni dell’oroscopo”.
Socchiusi gli occhi e mi poggiai allo stipide del balcone dove, di nuovo Il profumo di rose mi avvolse.
Quel profumo era rilassante. D’un tratto pensai alle feste religiose della mia terra dove, la gente devota lanciava ai piedi del sacerdote i petali di rose.
Ripensai all’ultima infiorata del Corpus Domini dove, partecipai con mio nonno. Io che ammiravo il laborioso lavoro dei devoti, mentre mio nonno mi guardava felice.
Quella fu l’ultima nostra gita. Lentamente una lacrima scivolò sulle labbra. Era salata, come la mia tristezza che in quel momento mi aveva avvolto.
D’un tratto qualcosa mi fece sobbalzare e aprire gli occhi. Una voce femminile mi fece voltare.
“Mia signora, finalmente vi siete svegliata”.
A parlare era stata una ragazza con una veste lunga e semplice, di color avorio. Aveva la pelle olivastra, tipica carnagione mediterranea.
Capelli castani lunghi legati in una bassa coda. Gli occhi erano scuri, ma dolci. Mi sorrideva.
Io annuii, ma poi le posi la classica frase.
“Dove mi trovo? E tu chi sei?”.
Lei mi sorrise e chinando il capo.
“Vi trovate al Grande Tempio della Divina Athena, e il mio nome è Cassia, mia signora. Sono una delle ancelle al vostro ordine”.
Athena? Grande Tempio? Ancelle?
Dove cavolo ero capitata!
“Che assurdità! Che assurdità!”.
Continuavo a ripetere, mentre la testa mi scoppiava. Intanto Cassia mi guardava preoccupata. Infatti, si era avvicinata.
“Mia signora non vi sentite bene?”.
Io alzai la mano e le dissi che era tutto apposto, anche se non era vero.
Mi allontanai dal balcone e mi diressi verso il letto. Mi sedetti, mentre la mia ipotetica ancella mia guardava.
“Allora? Tu mi dici che mi trovo nel tempio della Divina Athena, giusto?”.
“Sì, mia signora”.
Mi rispose gongolando. Io sospirai un po’ esasperata.
“Quindi questo è il Partenone?”.
Le domandai in modo ironico. Per me tutto questo era una sorta di scherzo. Di burla ai miei danni. Lei mi guardò e poi  ridacchiò, cosa che m’irritò molto.
“Ma cosa dite mia signora? Lo sapete anche voi che, il Partenone è un ammasso di pietra ormai decadente”
“Già”. Sospirai.
“Questo è il vero tempio della nostra signora di grazia e giustizia, colei che…”.
“Sì, sì, so già la tiritera delle divinità elleniche. Piuttosto voglio conoscere il proprietario della villa o tempio come lo definisci tu”.
La fermai. Mi alzai, ero stufa di sentire cavolate a iosa. Ma Cassia mi fermò.
“No, non ora mia signora. Ma a tempo debito conoscerete colei che governa questo sacro luogo”.
Okey, non era questo il momento, ma infondo aveva ragione. Non ero in grado di  reggermi in piedi, ero ancora scossa da quello che mi era capitato la notte precedente. Ero debole e poco recettiva per intraprendere un discorso.
Sospirai, mentre il mio stomaco brontolava dalla fame. Ero affamata. Cassia sorrise materna e aprì la porta facendo entrare un’altra ancella più esile di lei, con in mano un vassoio ricolmo di ogni ben di Dio.
Aveva i capelli color miele e una carnagione chiarissima. Il viso era pieno di simpatiche lentiggini e gli occhi azzurri esprimevano allegria.
Come la sua collega anche lei aveva una lunga veste avorio.
“Mia signora vi ho portato il pranzo”.
Disse, mentre poggiava il vassoio sul tavolo. Poi facendo un inchino si presentò.
“Il mio nome è Nastya, per me è un onore poterla servire”.
Finì la frase arrossendo. Io sospirai e poi le sorrisi.
“Grazie Nastya”.
Mi alzai e mi diressi verso il tavolo. Tutto ciò era assurdo, tremendamente assurdo. Ma ora quello che più mi premeva era di placare la mia fame.
Però alcune volte quello tutto quello che può sembraci strano, assurdo, può rivelarsi vero. Come quello che avvenne il giorno seguente…




Continua…


___________________
Oh beh, questo è il mio marchio lasciare a metà.
Dopo questa sorta di apertura si avvia la storia vera e propria, speriamo che non risulti pesante perché sarà un po’ lunghetta ^_^’
A kiss mes chers lecteurs.

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Capitolo 4
*** Fanaticism ***




Fanaticism









La giornata ormai volgeva al termine.
Io ero seduta accanto alla balaustra e osservavo il cielo tingersi di arancione. Il luogo era meraviglioso.
Calmo e pacifico, ben diverso dal luogo dove avevo soggiornato il giorno prima. Così caotico, ma pieno di vita.
Sospirai e voltai il capo verso l’interno della mia camera dove, una delle mie ancelle, Cassia, rimetteva in ordine.
Io volevo aiutarla, ma lei niente. Non era consono che un ospite rimettesse in ordine la stanza.
“Che testarda”.
Pensai scuotendo il capo, quando Nastya mi avvisò che il bagno era pronto. Mi alzai e mi diressi in bagno.
Anche qui si ripeté la scena di prima. Le due ragazze volevano aiutarmi, ma io m’imposi.
No! Mai avrei voluto qualcuno che mi aiutasse a lavare, era qualcosa che non tolleravo. Le cacciai fuori, chiusi la porta a chiave e mi spogliai.
Ero nervosa. Alcune volte la troppa gentilezza storpia.
Lentamente mi calai nell’acqua calda e mi lasciai andare ai miei pensieri.
Cercavo di capire, dove mi trovassi, ma poi pensai alla mia famiglia. Guardai i lividi sul mio corpo e rabbrividii.
Che cosa potevo fare? Avvertirli di ciò che mi era accaduto?
No, questo mai! Ma volevo sentire mio fratello. In fin dei conti quasi tutte le sere lo chiamavo e gli raccontavo del mio soggiorno in Grecia. Della mia vita quotidiana.
Ma adesso come potevo fare? La mia roba era rimasta nella pensione, come anche il pc portatile e il cellulare.
Sospirai e poggiai il capo al bordo della vasca.
“Beh, chiederò al padrone di casa se mi fa utilizzare il suo telefono”.
Quella era l’unica soluzione dopotutto.
Uscii  dalla vasca e mi coprii con un telo di lino. Costatai che il bagno aveva alleviato un po’ i dolori del corpo, anche se il labbro rotto al contatto con l’acqua calda mi bruciò molto.
Maledissi di nuovo quell’essere e uscii dal bagno dove, Nastya mi aspettava con la cena.
“Mia signora, mentre lei era in bagno io e Cassia abbiamo provveduto alla cena”.
Chinò il capo in segno di rispetto. Io le sorrisi e la ringraziai. Anche se ora può sembrare un vero controsenso, un pochettino mi piaceva essere servita e riverita.
Mi avvicinai al tavolo, quando Cassia mi fece notare che dovevo mettermi qualcosa di decente addosso.
Mi diede una veste bianca lunga fino a metà gamba. Beh, almeno non era identica a quella indossata da loro.
Le vesti lunghe fino a terra non mi piacevano molto. Anzi già tolleravo questa lunghezza a metà gamba. Per me era l’ideale, un pantalone maschile e canotta.
Un maschio mancato mi definiva il mio povero nonno.
M’infilai la veste e posi la fatidica domanda.
“Scusami Cassia, potrei fare una telefonata? Purtroppo il mio telefono e pc, sono rimasti nella mia stanza della pensione. Se non è di disturbo, mi chiedevo se potevo utilizzare il telefono del padrone di casa”.
Cassia mi guardò stranita e mi rispose.
“Mia signora qui non abbiamo un telefono”.
Io sgranai gli occhi.
“Ma…ma com’è possibile? Non avete un telefono?”.
Rimasi basita. In fin dei conti siamo nel ventunesimo secolo, e mi sembrava una vera assurdità che una casa così lussuosa non vi fosse un apparecchio telefonico.
Mi accasciai sulla sedia, mentre mi dicevo.
“Ma io devo parlare con mio fratello…con la mia famiglia…”.
Nastya, forse impietosita si avvicinò a me.
“Mia signora non tema, colei che governa questo sacro luogo ha già provveduto ad avvisare la vostra famiglia. Perciò non vi crucciate e mangiate tranquilla”.
La guardai stranita.
“Che cosa? Avete avvisato la mia famiglia e cosa gli avete detto?”.
Ero preoccupata, ma anche allarmata. No, non volevo che fosse detto loro dell’aggressione…specialmente a mia madre. Già immaginavo le sue ammonizioni e le sue crisi d’ansia.
Poggiai una mano sul viso pensando alle eventuali conseguenze, quando Cassia rispose alle domande.
“Non dovete temere. Loro non sanno di ciò che vi è accaduto, sanno che siete solo ospite della nostra signora”.
“Ospite?”.
Sussurrai, mentre le due ragazze annuivano. Beh, infondo ero un ospite di questa fantomatica signora che si faceva passare per una divinità ellenica.
Sospirai avvilita e cominciai a mangiare, ma presto avrei incontrato questa Athena.
Finii di cenare, salutai le mie due ancelle e mi lanciai a peso morto sul letto pensando ai miei.
“Andrea”.
Sussurrai, mentre una lacrima solcava la mia guancia offesa. Quella fu la prima volta che mi sentii davvero sola contro il mondo. Lentamente caddi tra le braccia di Morfeo consapevole che il mattino dopo l’avrei incontrata. Dovevo sapere il perché della mia permanenza in quel luogo e soprattutto il perché di quell’aggressione.


La notte passò tranquilla e il mattino portò con sé quello che odiavo. Il vestito lungo di lino bianco.
Storsi il naso, quando lo vidi. Odiavo quel genere, anche se era bello.
Era semplice con dei ghirigori dorati sulle spalline.
“Sembro una vestale”.
Sospirai, ma poi pensai al termine che dissi prima e ridacchiai. Perché di casto e puro c’era ben poco.
“Mia signora è ora di andare”.
Era Cassia a destarmi dai miei pensieri. Le sorrisi e la seguii fuori dalla stanza. Socchiusi gli occhi e mi dissi.
“È ora di conoscerti”.
Ci incamminammo per il lungo corridoio di marmo. Ricordo il rumore dei nostri sandali, mentre io mi guardavo intorno rapita.
Era bello e luminoso, ma ciò che attirava la mia attenzione erano le guardie che incontravamo. Ora vi chiederete che c’è di strano? Una persona benestante alcune volte possiede qualche guardia, ma questi erano diversi…erano vestiti come gli antichi guerrieri greci.
“Sembrano usciti da una di quelle anfore di terracotta che ho visto nel museo di Reggio Calabria”.
Mi dissi, quando sentii ridacchiare Nastya. Veloce mi voltai verso di lei e la guardai interrogativa. Che cosa aveva ridere? Infondo era così. Erano buffi con le loro armature, dove le uniche armi erano una lancia di legno con punta di ferro lucido, spada alla cintola e uno scudo. Ben diversi da quelli che vedi. Uomini o donne vestiti di scuro, con pistola e occhiali neri.
Questi sembravano usciti dal mondo dei cosplay che tanto amano i ragazzi d’oggi. Forse la padrona di casa era uno di questi?
Sospirai di nuovo e pensai un.
“Andiamo bene, mi mancava la fanatica del cosplay”.
Scossi il capo e seguii le mie due ancelle nel lungo corridoio che finiva di fronte ad una grande porta di quercia dove, ai lati vi erano di nuovo quelle guardie, a mio avviso buffe.
Cassia si avvicinò a uno di loro e gli sussurrò qualcosa, forse che ero arrivata.
La guardia annuì e fece un cenno al suo pari. Le porte si aprirono. Era tempo di entrare.
“Venite mia signora, loro vi attendono”.
Mi disse Cassia.
“Loro?”.
Domandai curiosa. Delle persone mi aspettavano. Mi voltai a guardare Nastya e lei annuì. Allora non vi era solo questa donna, ma vi erano altre persone ad attendermi.
Mi morsi un po’ labbro. Ero nervosa, ma Nastya mi tranquillizzò dicendomi di non aver timore. Un po’ mi calmò. D’un tratto ripensai alla convention delle città del vino dove, avevo sostituito mio nonno nell’ultimo anno di vita.
“Clara sta calma! Ricorda cosa ti disse tuo nonno: non mostrarti timorosa e spaventata. Ma forte e determinata e la vittoria sarà tua”.
Sì, mai nessuno mi avrebbe spaventato. Strinsi i pugni e con determinazione seguii le mie due ancelle dentro la sala dove, li avrei conosciuti.


Entrai dentro un’ immensa sala dove, un leggero profumo d’incenso mi avvolse come un antico ricordo.
Socchiusi gli occhi  e lo aspirai a pieni polmoni come aria pura. Mi tranquillizzava e alleviava un po’ il dolore della ferita sul viso.
“Mia signora, non vi sentite bene?”.
Aprii gli occhi di scatto e vidi il viso preoccupato di Nastya. La tranquillizzai subito. Stavo bene. Benissimo.
La vidi sospirare tranquilla e sorridermi. Era una ragazza davvero dolce e si preoccupava per me.
Ricambiai il suo sorriso, ma poi la mia attenzione fu rapita dalla maestosità della sala.
Marmo candido che si alternava a quello rosa. Le colonne che erano disposte ai lati erano lavorate con maestria. Non potevo non ammirare i capitelli così ben lavorati. Erano corinzi, anche se la mia cultura in fatto architettura era piuttosto basilare. Infine non potei non notare il grande affresco che capeggiava la volta della sala. Athena contro Poseidone per la supremazia su Atene. Athena contro Ares e infine contro Hades. Anche se quest’ultima m’inquietò.
Le altre immagini i colori erano vivi, questa invece era scura. Rappresentava la morte. La fine.
Distolsi lo sguardo. Mi feriva vedere quell’immagine. Perché l’autore aveva creato quell’affresco? Per quale motivo?
Scossi il capo, quando una voce mi fece sobbalzare destandomi da quello strano stato d’ansia.
“Vedo che il quadro dove, è dipinta l’antica e sacra guerra ha urtato la vostra sensibilità. Chiedo venia”.
Sgranai gli occhi e guardai dritta verso il fondo della sala e vidi chi mi aveva parlato.
Un uomo con una lunga veste bianca, con in capo un elmo dorato era in piedi su una piccola scalinata con dodici gradini. Dietro di lui vi era un trono dove, era seduta una donna con lunghi capelli viola, vestita anch’essa di bianco.
La donna teneva stretta nella mano destra uno scettro con la sommità circolare, anche se la sua forma ricordava una sorta di un volatile. Quel simbolo mi ricordò l’incarnazione della vittoria. L’emblema degli antichi romani e ripreso poi dai nazisti.
Ma poi la mia attenzione fu rivolta a degli uomini vestiti con delle armature dorate.
Erano dodici disposti in due file da sei ai due lati della scalinata. Mi trovai a pensare.
“La padrona è fissata con il dodici. Dodici i piccoli templi. Dodici i gradini e infine questi uomini…molto fanatica non c’è che dire”.
Ma ancora il bello doveva arrivare e presto tutto ciò in cui credevo, sarebbe caduto. Crollato…






Continua…



_______________
Oh beh, il ritardo è nelle mie corde abitudinali. È un po’ lunghetto, spero non annoiarvi ho cercato di descrivere un po’ la situazione. Come ben vedete le mie conoscenze architettoniche sono scarse…chiedo venia.
Ringrazio di cuore a chi legge, ma specialmente alla cara e dolce Carla Marrone, non sai che gioia mi dai quando recensisci. Un mega bacio.
E ora… a kiss mes chers lecteurs.

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Capitolo 5
*** Chi sono io? No, questo è uno scherzo! ***








Chi sono io? No, questo è uno scherzo!








Perché quell’affresco mi aveva così turbato? Per quale motivo?
Per quale mistero aveva risvegliato in me, un’atavica paura di un lontano passato sepolto nelle sabbie del tempo?
Sì, avevo paura. Ma di cosa?
Presto il futuro me lo avrebbe rivelato sciogliendo questi dubbi.



Quell’uomo vestito di bianco mi aveva destato da quello stato d’ansia.
“Vedo che il quadro dove, è dipinta l’antica e sacra guerra ha urtato la vostra sensibilità. Chiedo venia”.
Sospirai e scossi il capo abbozzando un sorriso.
“Non si preoccupi”.
Dissi, mentre osservavo le persone che erano accanto a lui. Anche se la mia attenzione era rivolta a quella donna seduta sul trono.
Era così familiare. Perché? Chinai il capo leggermente di lato cercando di comprendere il perché, ma di nuovo quell’uomo richiamò la mia attenzione.
“Sembrerò ripetitivo nel chiedervi scusa, ma mi ricresce di non essere stato in grado di evitarvi quel terribile incidente”.
Chinai il capo verso i miei polsi e infine posai l’indice destro sul labbro offeso. Si riferiva all’incidente di due sere prima.
Sospirai, mentre la mente ritornava su quell’uomo lascivo sopra di me. Digrignai i denti. Ero furiosa verso di lui.
Verso me stessa.
“Comprendo la vostra rabbia, mia cara Clarissa, ma non temete siete stata vendicata egregiamente”.
Lo guardai stranita. Mi avevano vendicata?
Ottimo”.
Pensai, mentre sentivo una piacevole sensazione dentro di me, ma poi mi trovai a pensare di nuovo.
“Sanno il mio nome. Ma come? Forse dai miei documenti…sì, deve essere così. Che sciocca,  infondo hanno perfino avvisato la mia famiglia  evitando così, il caos emotivo di mia madre. Un altro punto a loro favore…ma non devo fidarmi del tutto. Devo essere cauta e scoprire il perché mi trovo qui? Come anche il perché di quell’aggressione”.
“La ringrazio signor…mi scusi, non so il suo nome. Infondo mi sembra giusto e cortese sapere il nome del mio interlocutore, giacché è a conoscenza del mio”.
Dissi con un mezzo sorriso. Dovevo pur sapere il nome di quest’uomo e infine di questa gente.
“Giusta osservazione”.
“Già”.
Mi dissi continuando a sorridere.
“Io sono il Sommo Sacerdote della Divina Athena”.
Ricordo ancora la sua voce rimbombare nella grande sala mentre si presentava, intanto le mie due ancelle accanto a me si erano inginocchiate in segno di rispetto.
Alzai gli occhi al cielo, mentre mi dicevo mentalmente.
“Anche questo qua è un fanatico! Andiamo bene! La pazzia è di moda qui”.
Sospirai.
“Spero che, come in Italia i manicomi qui non siano stati chiusi”.
“Piacere Sommo Sacerdote della Divina Athena, io non ho bisogno di presentarmi, giacché è a conoscenza del mio. Comunque almeno so il nome…nome oddio! Diciamo carica…della persona che mi sta parlando perché, colloquiare con qualcuno senza sapere almeno come si chiama un po’, mi secca. A dire il vero mi da fastidio”.
Finii la frase leggermente alterata. Quella situazione non mi piaceva per nulla.
“Comprendo il vostro fastidio, come anche le vostre future domande che vi ronzano in testa”.
“Domande?”.
Domandai, curiosa.
“Mi scusi, di quale domande che mi ronzano in testa, parla?”.
Mi irrigidii. Intanto lui continuò calmo.
“Del perché vi trovate qui, come anche dell’aggressione, del conoscere il vostro nome e famiglia e…”.
Lo sentii sospirare e riprendere a parlare.
“…del fatto che non siamo dei folli fanatici che hanno un bisogno urgente di un aiuto psichiatrico”.
Sgranai gli occhi. Come sapeva di quello che avevo pensato.
“Oddio”.
Biascicai, mentre deglutivo. Quell’uomo non piaceva per nulla, anche se in futuro sarebbe stato una sorta fratello maggiore per me, ma in quel frangente mi faceva davvero paura.
“È umanamente impossibile sapere quello che una persona pensa. No, no e poi no! Mi rifiuto di credere a un’assurdità del genere!”.
Alzai la voce, mentre cercavo di calmarmi. Mi rifiutavo di credere, ma il bello doveva ancora venire, infatti, lui riprese.
“Mia cara Clarissa, non dovete temere noi, come anche la Nostra Signora. Come ben vedete nessuno nuocerà alla vostra persona perché, il nostro compito è di proteggerla”.
“Proteggermi?”.
Inclinai il capo curiosa.
“E già vi riferite a quei due lestofanti giusto?”.
Il Sommo Sacerdote annuii.
“Ma non li avete già puniti? Non li avete denunciati? Quindi non ho bisogno di essere protetta! Piuttosto accompagnatemi all’Ambasciata Italiana, così chiudiamo questa sorta di teatrino”.
Ero davvero furiosa, mentre il Sacerdote sospirava.
“Mi ricresce farvi alterare ancora, ma non potete allontanarvi dal Grande Tempio”.
“E come mai, se non chiedo troppo?”.
Ero sempre più alterata, mentre incrociavo le braccia al petto e picchiettavo il piede sinistro a terra in segno di stizza.
“Siete ancora in grave pericolo, perché voi siete la reincarnazione di un’antica divinità ellenica molto cara alla Nostra Signora”.
Chiusi gli occhi e poggiai la mano sul viso. Quella conversazione stava cadendo nel ridicolo e nel folle.
“Andiamo bene”. Pensai.
“E chi sarei?”.
Domandai, mentre una forte emicrania mi martellava il cervello.
“Nike”.
Aprii di colpo gli occhi facendo scivolare la mano dal viso, mentre ancora quella parola riecheggiava nella sala.
Ero allibita. Esterrefatta.
Ma d’un tratto mi trovai a ridere come una pazza.
“Chi sarei io? La divinità che simboleggia la vittoria? Chi io? Io che sono una vera sfortunata…basta vedere cosa mi è successo…ora dovrei essere la sua rincarnazione? Ma siete matti! Anzi no? Siete un gruppo di comici mentecatti che è riuscito a farmi ridere! Complimenti!”.
Ridevo perché il tutto mi sembrava una vera burla, ma non lo era.
Mi asciugai gli occhi, mentre sentivo il ventre farmi male dal troppo ridere.
“Okey, ora basta con gli scherzi. Siamo seri”.
Dissi cercando di darmi un contegno. Intanto sentivo nella sala un brusio di voci, non certo amichevoli. Mi definivano una sciocca ingrata che aveva insultato, con il mio atteggiamento, la loro grande carica.
“Mi dice chi è lei veramente? Chi è quella donna dietro di lei che non si è neanche degnata di parlare? E fine questi dodici cristi che portano quelle armature dorate ridicole?”.
Li avevo insultati, infatti, uno di loro inveì contro di me.
“Come osate! Il vostro comportamento ci offende! Siete solo una stupida e ingrata mocciosa che, non meritava l’essere salvata!”.
Digrignai i denti, mentre la rabbia ribolliva in me.
“Io vi ho offeso? Come osi tu offendere me! E togliti quella sorta di elmo dalla testa brutta copia di Mazinga! Quando si parla con una persona, lo si fa guardandola in faccia! Brutto cafone che non sei altro!”.
Strillai. Intanto in sala era calato un pesante e pericoloso silenzio. Lo avevo insultato e anche pesantemente.
Ricordo ancora il tremore delle mie ancelle perché, sapevano bene chi avevo fatto infuriare.
“Tu! Come hai osato! Ti meriti un’atroce punizione insulsa mocciosa!”.
Sibilò furente, mentre si muoveva minaccioso verso di me. Alzai il mento in segno di sfida, questa volta mi sarei difesa con le unghie con i denti, ma una voce femminile lo fermò.
“Ora basta Saint di Gemini!”.
A parlare era stata quella donna dai lunghi capelli viola. Infatti, si era alzata e stringeva nella sua mano quella sorta di scettro, intanto l’uomo si era inginocchiato di fronte a quel richiamo.
Rammento ancora il rumore del metallo della sua armatura, mentre si piegava, come anche il frusciare della veste di quella donna che loro chiamavano Athena.
Ma chi era in realtà quella donna? Perché asserviva di essere una Dea? E perché definiva anche me un’antica Divinità?
Ma presto ogni cosa in cui credevo sarebbe crollato…come anche la mia pazienza.





Continua….



_________________________________
Dopo un mesetto eccomi. Chiedo scusa, specialmente per come ho chiamato il cavaliere dei Gemelli.
Beh, il termine non mi appartiene. Infatti, fu coniato da un youtuber (credo che si scriva così) MisterMassy81. Vi posso assicurare che questo termine mi ha fatto cadere dalla sedia dal ridere. Non temete lui adora Saint Seiya e specialmente il cavaliere già citato.
Un bacione e tutti!
 

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Capitolo 6
*** Enemies ***







Enemies






Il dolce sapore acre del sigaro. Era questo quello che gli piaceva, perché ciò significava che era vivo.
Sentire il pizzicore in gola. Il sangue ritornare a scorrere veloce. Erano sintomi che la sua prigionia era finita.
Si guardò le mani e sorrise soddisfatto.
“Beh, sono mani umane! Ma che importa? Ora sono libero da quel maledetto limbo dove, mi rilegarono più di duecento anni fa!”.
Rimise il sigaro in bocca e riassaporò quella libertà tanto agognata. Fu facile soggiogare quella fanciulla, come anche quei due ragazzi. In fin dei conti la mente umana è debole e lui era un abile giocatore.
Sogghignò, mentre osservava un ragazzo, il suo pupillo, intento a camminare avanti e indietro.
Era nervoso e ripeteva come una sorta di litania.
“Inetti! Stupidi! Come ho potuto fidarmi di loro? Come? Maledizione!”.
Ringhiava, mentre lui sorrideva.
“Divertente. Molto divertente”.
Si sedette sulla poltrona accanto al balcone aperto dove, una dolce brezza marina lo stuzzicava.
Ma il suo sguardo fu rapito da un altro ragazzo, seduto davanti un tavolo intento a fare un solitario. Era serio e composto il contrario dell’altro, irritato da ciò che era capitato qualche ora prima.
“Stupidi! Maledetti idioti!”.
Continuava a ripetere, quando.
“Christopher smettila! M’irrita quel che stai facendo”.
Disse piatto l’altro ragazzo, mentre poggiava una carta sul tavolo.
“Ah, così t’irrito?”. Sbuffò.
Si avvicinò e batté una mano sul tavolo facendo volare le carte.
“Come osi dirmi queste cose, Massimo? Sai bene cosa succederà se sapesse che loro hanno fallito!”.
Urlò Christopher, mentre l’altro lo guardava serio. Due occhi dorati e freddi.
“Ne sono consapevole, fratellino”.
Sibilò.
“Per questo sarai tu a comunicarle la bella notizia della tua disfatta. Perché infondo, erano i tuoi uomini”.
Disse freddamente Massimo, mentre riprendeva le carte. Christopher si morse le labbra, sapeva che lei mai avrebbe accettato una sconfitta. Intanto, si era levata una risata di scherno.
Era un vero spasso vederli litigare.
“Tu! Che cos’hai da ridere?”.
Gli ringhiò contro provocando nell’uomo ilarità.
“Siete comici. Specialmente tu, caro Christopher”.
Calcò quel caro per farlo infuriare di più, cosa che avvenne. Infatti, si precipitò verso di lui. I suoi occhi castani lanciavano lampi di pura ira. Quell’uomo aveva la capacità di farlo infuriare.
“Tu, stupido essere inferiore!”.
“Mfh! Inferiore”.
Sghignazzò. Quel termine “inferiore” lo faceva ridere, come anche il viso furioso del ragazzo.
Era furioso contro lui. Contro i suoi uomini che avevano fallito…ma specialmente con se stesso perché, era consapevole che comunicarle la notizia avrebbe causato la sua ira.
Strinse i pugni e si allontanò da lui. Era tempo di andare a darle la “dolce” notizia.
Si allontanò da quell’uomo e si diresse verso i sotterranei della villa dove, vi era situata una pozza termale. Lei adorava stare lì. Era il suo piccolo rifugio dove, riusciva a restare calma.
Sospirò, mentre scendeva le scale. Che parole doveva usare? Quali?
Scosse il capo cercando di trovare delle parole adatte.
“Maledizione! Non dovevo fidarmi di quei due! Ormai il danno è fatto, sarà meglio comunicarle la notizia…con molta cautela…”.
Pensò mentre era difronte alla porta delle terme. Sospirò e alzò la mano per bussa alla porta quando, una voce femminile lo fece sobbalzare.
“Avanti entra Christopher, non avere timore non ti mangio mica”.
Una dolce voce lo scherniva. Che sapesse del suo fallimento? No, questo era improbabile, ma il tarlo del dubbio lo divorava.
Aprì la porta ed entrò. Un’ondata di caldo umido lo avvolse. Sbuffò, odiava quel luogo che la sua adorata sorellina amava.
“Come può amare questo luogo senza aria? Ma almeno qui frena i suoi poteri”.
Entrò sorridendo cercando di mascherare la sua inquietudine. La stanza era grande e di marmo candito. La nebbiolina rendeva il luogo etereo dove, una fanciulla era seduta sul bordo della piscina termale.
Una dolce melodia, anni venti riprodotta da un vecchio grammofono, rendeva il tutto surreale.
Avanzò con cautela verso di lei, che intanto giocherellava con l’acqua. Era una bella donna. Aveva la pelle nivea nascosta ad una veste di lino leggero. I lunghi capelli d’ebano, inumiditi dal calore, accarezzavano il corpo. Era meravigliosa, come le sue labbra rosse che erano piegate in sorriso di scherno.
Christopher si fermò di botto tremando.
“Che cosa c’è fratellino? Hai forse paura di me? Sono così orribile?”.
Lo schernì, mentre lo guardava. I suoi occhi dorati erano dolci, ma nascondevano un atroce segreto.
Rabbrividì.
“No…no…ma che dici…”.
Sbiascicò. Sì, aveva paura di quella donna.
Lei ridacchiò.
“E allora perché non ti avvicini? Hai forse timore di dirmi del tuo fallimento?”.
Christopher s’irrigidì. Deglutì, mentre la osservava alzarsi.
“Myra…io…”.
Lei sorrideva, mentre si alzava e si avvicinava.
“Chris, so del fallimento dei tuoi uomini. Ma non temere non sono furiosa…anzi, è meglio così”.
Si avvicinò e abbracciò il ragazzo che la guardava stupito.
Lei sapeva dell’accaduto? Ma come?
“Tu come lo sai? Chi ti ha informato?”.
Lei si alzò sulla punta dei piedi e avvicinò le sue labbra a quelle del fratello.
“Un dolce uccellino”.
Finì la frase baciandolo. Christopher rimase di stucco.
Ma poi rispose a quel bacio sensuale e avvolgente. Sua sorella aveva il dono di mandarlo in tilt.
Si staccò da lei e le sorrise.
“Myra sicura di non essere furiosa?”.
Lei rise con dolcezza.
“Certo, mio caro fratello, mi sembra di averti già detto che è meglio così…che lei sia stata salvata da quella donnicciola che, si erige a divinità di pace e giustizia. E poi…”.
Si sciolse dall’abbraccio e ritornò sui suoi passi.
“…sarà uno spasso far soffrire la dolce Clarissa…”.
Finì la frase ridendo.



Tempi bui mi attendevano.
Chi voleva farmi soffrire? E per cosa poi?
Il tempo avrebbe risposto alle mie domande…




“Ora basta Saint di Gemini!”.
A parlare era stata quella donna dai lunghi capelli viola. Infatti, si era alzata e stringeva nella sua mano quella sorta di scettro, intanto l’uomo si era inginocchiato di fronte a quel richiamo.
Rammento ancora il rumore del metallo della sua armatura, mentre si piegava, come anche il frusciare della veste di quella donna che loro chiamavano Athena.
Ma chi era in realtà quella donna? Perché asserviva di essere una Dea? E perché definiva anche me un’antica Divinità?
La vidi scendere con calma i dodici gradini, mentre gli uomini posti ai suoi lati si inchinavano in segno di rispetto.
Assottigliai lo sguardo, mentre la guardavo scendere.
“Quella donna mi ricorda qualcuno? Ma chi?”.
Pensai, mentre si avvicinava a me.
Fu un lampo. Sgranai gli occhi.
“Tu…”.
Sibilai, mentre dalle nebbie dei ricordi riaffiorava il suo viso. All’epoca era una ragazzina di quattordici anni.
Strinsi i pugni, mentre una rabbia crescente si impadroniva del mio corpo. Mai avrei creduto di rivederla dopo tanti anni.
Ora lei era difronte a me e mi sorrideva amorevolmente.
“Perdonate le maniere brusche del cavaliere, non voleva essere scortese nei vostri confronti”.
Socchiusi gli occhi e mi morsi le labbra dalla rabbia, ma poi mi decisi a risponderle. Aprii gli occhi di scatto.
“Scortese! Dici? Qui si rasenta il ridicolo!”.
Quasi urlai. Ero davvero frustrata da quella situazione assurda. Intanto un nuovo vociare si era alzato, ma fu sedato dal battere a terra dello scettro della donna.
Io guardai in direzione della scalinata e sorrisi, ma poi mi concentrai di nuovo verso la donna che avevo riconosciuto. Infatti, la guardai con risentimento. Un vecchio e doloroso ricordo.
Lei mi sorrideva.
“Comprendo il vostro smarrimento, ma non temete tutto ciò che vi stato detto è la pura verità”.
“Mfh! Verità, dici?”.
Scossi il capo, mentre lei annuiva amorevolmente. Quel suo modo di fare mi irritava molto. Era possibile che in questi anni fosse cambiata? Che fosse divenuta una donna dolce e gentile? No, non era possibile.
“Smettila di fare la commedia come! Mia cara Saori Kido!”.
Sibilai, mentre lei mi guardava interrogativa. Cosa che mi face ridere. Tutta quella situazione era davvero ridicola.
Intanto il vociare era ripreso. Io stavo offendendo la loro adorata Dea con il mio comportamento.
“Mia cara Saori non mi riconosci vero?”.
Le domandai seria. Lei annuì.
“Certo Clarissa Prospero”.
Mi rispose con calma.
“Il mio cognome non ti ricorda nulla? Non rammenti la convention di vini di dodici anni fa che, si tenne in Toscana?”.
Lei sgranò gli occhi senza comprendere a cosa mi riferissi.
Che l’avesse dimenticato? Che non ricordasse più cosa avvenne quell’anno? Domande che presto avrebbero trovato una degna risposta…



Continua…



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Ritornare a scrivere dopo anni di assenza è dura. Grazie per chi leggerà il nuovo capitolo.
Un mega bacio e a presto.

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