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di __Armageddon__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***























 

 “La speranza è l'unica cosa più forte della paura.”

PROLOGO:

«PEETA..» corro senza mai fermarmi, inciampando nelle radici degli alberi, sentendo il mio nome pronunciato da lei. ed è il cannone a farmi perdere un battito e a farmi aumentare di velocità
«KATNISS!» grido con tutto il fiato che ho in gola,grido perché voglio farle sentire che sono vivo, per tranquillizzarla, anche nell'arena.
«PEETA..» e la sento ancora, ma c'è buio e il piano di Beetee è andato male. Aveva ragione lei dovevamo scappare ed è colpa mia se tutto è andato storto: perché dovevo darle retta, perché forse ci hanno traditi, forse erano tutti contro di noi fin dal principio e continuo a correre, inciampando e brandendo il mio machete per difendermi da tutti, per tornare da lei, ancora.
Sto correndo senza mai fermarmi quando Brutus mi si piazza davanti, senza pensare due volte lo trafiggo e il colpo del cannone decreta la sua morte ed è sbagliato, tutto terribilmente sbagliato perché sarebbe dovuto morire folgorato con Enobaria e gli altri, non così, ucciso da me. Guardo le mie mani sporche del suo sangue e mi sento un mostro,sento di star perdendo quello che sono,l'innocenza che mi caratterizzava sta sparendo e fa male perché non sono più io,ma va bene tutto per lei, per starle accanto, perché deve vincere e tornare dalla sua famiglia ed è per questo che continuo ad avanzare, a correre verso di lei, perché la amo.
«KATNISS»
«PEETA..» le sono quasi vicino ,vedo l'albero a distanza così aumento il passo, perché deve allontanarsi,perché è quasi la mezzanotte,ma c'è qualcosa che non va, la vedo armeggiare con il filo di Beetee e scoccare la freccia verso il cielo.
E fù un'istante, prima che il campo di forza andò in pezzi, prima che l'esplosione mi scaraventò ancora una volta lontano da lei e l'ultima cosa che riuscì a sibilare fu il suo nome mentre la bocca mi si impastava per il sangue.
Mi svegliai di scatto per il rumore fastidioso dell'hovercraft,senza pensare due volte mi tolsi la mascherina per l'ossigeno e alzandomi di scatto senza fare rumore mi avvicinai lentamente alla porta per spiare la conversazione di qualcuno fuori dalla stanza.
«Non lo farà mai,quando verrà a sapere della ragazza... Non vi aiuterà neanche se lo supplicate...» La voce del mio mentore mi confondeva, inizialmente mi guardai intorno spaesato poi presi una siringa per difendermi, perché dopo quello che era successo non mi fidavo più di nessuno,ma fù un'altra voce a destabilizzarmi.

«Haymitch, conosci gli ordini della Coin: dovevamo prendere prima lui.» sbuffava l'uomo del mio distretto che doveva seguire il mio consiglio,perché doveva scegliere lei, sempre.

«Tu non capisci quanto la ami,lui non vi darà una mano dopo che saprà della ragazza...» e le porte si aprirono, lasciando così in sospeso la sua frase.
«Haymitch...» avevo pronunciato solo il suo nome e sembrava una domanda, lo guardavo stralunato perché non capivo come facevo ad essere vivo. Perché intorno al tavolo, oltre al mio mentore, vi erano Plutarch Heavensbee,Johanna Mason e Beetee Latier .
«Dov'è Katniss..» avevo gli occhi spalancati e tutti i muscoli tesi. Avevamo un patto io e il mio mentore e quel suo sguardo carico di scuse mi faceva sprofondare ogni istante sempre di più.

«...Peeta..» fece Abernathy con le mani in avanti,quasi volesse placare la mia agitazione.

«Dove è Katniss.» il mio astio era palese,non dovevo essere lì! Al suo posto.
«A Capitol... L'hanno presa.» aveva il capo chino Haymitch, non sosteneva il mio sguardo, colui che mi aveva promesso di salvarla.

Quelle parole erano state la goccia finale che aveva fatto traboccare il vaso,mi ero scaraventato su di lui,afferrandolo per il colletto del maglione e sbattendolo ripetutamente contro la parete dell'hovercraft.
«FIGLIO DI PUTTANA... Mi hai mentito! Avevamo un patto,dovevi salvare lei e lasciare morire me...» mi aveva illuso e ora ero così arrabbiato da continuare a sbatterlo ripetutamente contro la parete, eppure era più forte di me e aveva reagito mettendomi con le spalle al muro, portando la mia mano che impugnava la siringa sopra la testa e premendo il suo braccio contro mio petto per immobilizzarmi.
«E così siete tu e una siringa contro Capitol City? Vedi, è per questo che nessuno ti lascia mai fare dei progetti.» mi guardava con il suo sorrisino sprezzante e avrei solo voluto vomitare, perché sapevo che questo sarebbe stato un piano intricato nel quale io sarei solo una pedina, esattamente come avrei dovuto esserlo negli Hunger Games. Usato senza il mio consenso, senza che nemmeno lo sapessi. Almeno negli Hunger Games sapevo che stavano giocando con me.
Per me era finita. La mia vita era finita, perché lei forse era morta, dentro una bara bianca, con lo stemma della capitale e del dodici incisi sul legno pregiato che le alte classi donavano ai caduti e già immaginavo il suo funerale, mentre tutti i presenti alzavano le tre dita verso il martire che era, Katniss Everdeen.
Abernathy si era allontanato di qualche passo,ma lo guardavo senza dire nulla,con gli occhi spenti, proprio come la mia anima lacerata.
«E' morta?» riuscii solo a chiedere.

Aveva fatto la scelta sbagliata Haymitch, glielo si leggeva in faccia, ma non gliel'avrei resa facile. Rincaravo la dose,volevo che si sentisse in colpa, che iniziasse a detestare la sua stessa decisione convivendo così a stento con le sue conseguenze.
«Non penso,Johanna aveva cercato di toglierle il chip di localizzazione,ma l'hanno recuperata subito. L'esplosione... E' stata potente... Quindi siamo nel dubbio.» aveva preso la parola il genio del distretto 3 e quelle informazioni mi fecero cedere, avevo il capo chino e lo rialzai lentamente guardando i presenti uno ad uno con un'espressione schifata.

«Dovevate salvare lei,era lei la ghiandaia, non io.» la mia voce era un mix di rabbia e tristezza,un cocktail che sorseggiavo da minuti

«Dovevamo salvarti perchè ,solitamente, tu sei meno impulsivo di Katniss,sai come convincere il popolo come spingerlo dalla nostra parte. Finchè sei vivo, vive anche la rivoluzione.» Heavensbee non capiva che non ero adatto a questa merda,lei era la voce della rivolta, non io!
«Stai scherzando?! L'uccello, la spilla, la canzone, le bacche, l'orologio, il pane tostato, il vestito consumato dal fuoco. Lei era la ghiandaia imitatrice. Quella che era sopravvissuta nonostante i piani di Capitol City. Il simbolo della ribellione! Cazzo...» non gridavo,ma ero furibondo perché non capivano che era lei quella che tutti seguivano, io non contavo niente.
«Non capisco... Cos'é,mi state chiedendo di essere la voce della ragione?» ero allibito e disgustato perché dopo tutto quello che aveva fatto, avevano scelto me,errando.
«Tu puoi alimentare la rabbia Peeta,puoi convincere il popolo a insorgere! Ci seguiranno! Lei.. lei era..»

«ANDATE A FARVI FOTTERE!» senza indugiare interruppi il primo stratega, non gli avrei permesso di sparare altre stronzate sul suo conto.

Accecato dall'ira stavo per scagliarmi contro Plutarch, finché qualcuno mi fece cadere fra le braccia di Morfeo grazie ad un'iniezione di morfamina.
L'unica cosa che riuscii ad afferrare prima del buio, fù solo la voce di Haymitch che mi bisbigliava uno 'scusami' all'orecchio.












NOTE: Ciao a tutti, mi chiamo Emily e questa la prima storia che pubblico sul sito, quindi vi prego, siate clementi xD La mia mente contorta si era sempre chiesta cosa sarebbe accaduto se Haymitch avesse dato ascolto a Katniss subito dopo l'annuncio dell'edizione della memoria,salvando così Peetuccio al suo posto :3 Accetto critiche costruttive e consigli, cosicché io possa migliorarmi con il proseguimento della storia. A presto sognatori <3

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 ***























"Se si potesse prevedere tutto il male
che può nascere dal bene che crediamo di fare!" -Luigi Pirandello


Vado avanti per inerzia, non so che ore siano e forse non voglio saperlo.
Quando avevo riaperto gli occhi mi ero ritrovato in una stanza bianca, illuminata da un neon che accecava la mia vista.
Ero disteso sulla schiena, inerme, arreso.
Ero stanco ancor prima della partenza.
L'arena era esplosa e dopo la mia sfuriata contro Plutarch mi avevano fatto dormire per tutto il viaggio, al mio risveglio mi ritrovai in ospedale, i medici che mi mettevano la mascherina per l'ossigeno, che controllavano i parametri vitali, il braccio destro fasciato perché mi avevano fatto un'operazione per rimuovere il Chip di localizzazione che ci avevano messo nell'arena. Mi misero al corrente del fatto che il mio corpo avesse bisogno di 1 settimana di riposo per farlo riprendere dai traumi subiti durante i giochi e, successivamente mi informarono sull'esistenza del nuovo distretto 13, ricostruito sottoterra dopo i giorni bui grazie a un trattato con la Capitale, a quanto pare il distretto aveva puntato delle bombe nucleari contro Capitol City e il presidente aveva sventolato bandiera bianca, firmando così, un patto con la portavoce del distretto che aveva acconsentito a vivere sottoterra nascondendo l'esistenza di esso all'intera Panem e facendo successivamente bombardare la superficie per mantenere le apparenze. Per la nazione il 13 era solamente un lontano ricordo, mentre per il distretto in sé 'niente era andato perduto', erano risorti dalle proprie ceneri, covando un senso di vendetta contro Capitol, allenando ogni singolo cittadino ad una possibile rivolta, senza mai lasciare la speranza di riscattare il loro nome.
Mi misero al corrente di tutto, della presidente Alma Coin che aveva comunicato con Haymitch e molti altri tributi per alimentare la scintilla portata da Katniss Everdeen, avevano aspettato allungo, un'attesa durata 70 anni, un'occasione che non potevano farsi sfuggire... Eppure avevano salvato me, idioti.
Erano passati solo 3 giorni dal mio ricovero, ma io non ero nel posto giusto,lo sapevo e lo sentivo.
Era tutto maledettamente sbagliato perché significava solo una cosa: se io ero vivo lei era morta.
Inizialmente, quando non avevo assimilato l'accaduto, avevo immaginato come sarebbe andata la mia vita se avessi vinto l'edizione della memoria normalmente. Mi vedevo ai tour della vittoria con i cartoncini di Effie dove parlavo delle perdite e del mio dolore per la morte della ragazza che amavo, dove davo spettacolo del mio stesso malessere, dove mostravo a tutti come si crollava per via dei giochi, ma invece eccomi qua, in un'ospedale che puzza di disinfettante, la flebo attaccate al mio braccio sinistro per rimettermi in forze, mentre il destro è fasciato.
Tutta la mia sofferenza è incorniciata dal continuano ciarlare dei miei compagni di stanza. Loro parlano, parlano e parlano, forse, anche più del dovuto, peggiorando solo il mio stato d'animo.
Vorrei non essere qui, vorrei non essere da nessuna parte, vorrei semplicemente essere morto.
Non apro gli occhi, non riuscirei ad accettare il fatto di essere qui senza di lei, dover vedere cose che avrebbero dovuto vedere i suoi occhi, di vivere una vita che non sento più appartenermi.
Avevo fatto di tutto per farla sopravvivere, avevo fatto un patto con Haymitch dopo l'annuncio dell'edizione della memoria, ricordo che quella sera avevo percorso i 22 metri che ci separavano correndo e subito dopo aver spalancato la porta d'entrata del mio mentore, mi sedetti di fronte a lui, che mi fissava, assente, il bicchiere di whisky in mano e i pensieri che sicuramente lo riportavano ai suoi primi giochi, il ricordo di Maysilee Donner, la sua alleata, e la cognizione che questa volta non ne sarebbe uscito di nuovo vivo. Era sicuro di morire Haymitch, se Effie l'avesse estratto.
Lo guardai per minuti interi, sapevo che lei non sarebbe arrivata, poi, parlai.
«Scegli lei. Lo sappiamo entrambi che io non ho alcuna possibilità di sopravvivere. Lei ha la sua famiglia, deve occuparsi di loro. I patti devono restare immutati: Katniss avrà tutti gli sponsor mentre io cercherò di tenerla in vita fino alla fine. Intesi? » guardava il liquido ambrato dentro al suo bicchiere scheggiato negando più volte con la testa,era uguale a lei il mio mentore, stessi occhi da giacimento e stesso carattere schivo, erano tutti e due orgogliosi e forse, Haymitch aveva sempre preferito me perché se avesse vinto solo lei si sarebbe ridotta come lui, mentre io a suo dire "l'avrei presa con filosofia" e poi sarei andato avanti con la mia vita, ma in realtà, la mia vita ruotava intorno a lei.
«Mi stai dicendo che vuoi morire per... Dolcezza?» mi chiese sbuffando e ingurgitando con un sorso tutto l'alcool che aveva nella coppa.
«Ti sto dicendo che lei deve vivere.» risposi piccato.
«E per quale motivo sentiamo, perché dovrei sceglierla ancora, perché dovrebbe avere tale privilegio,Peeta...» le sue domande biascicate facevano a pugni con il suo tono scocciato.
Stavo per ribattere, ma lui non me ne diede il tempo.
«E non tirare fuori la famiglia, o altre stronzate simili... Tutti ne abbiamo, o nel mio caso... avevamo una.» gesticolava, farfugliava quelle parole che mi zittivano lentamente. Aveva ragione, anch'io non ero solo: avevo i miei genitori e i miei fratelli Rye e Ross, ma lei era più importante anche di me.
«Haymitch...Cosa devo fare,cosa devo dirti per convincerti a scegliere lei ?» chiesi a capo chino.
«Va bene... Tornerà a casa...» non mi guardava il mio mentore, fissava la porta alle mie spalle, incurante di tutti i ringraziamenti che gli avevo fatto, non aveva neanche risposto, mi aveva solo sorriso mestamente intimandomi di andarmene a casa e di farmi una bella dormita e io gli avevo dato ascolto, percorrendo la stradina che mi portava a casa senza un peso sul cuore.
Non potevano esserci due vincitori per la seconda volta ne ero sicuro, ma almeno potevo sperare sul fatto che lei avesse la possibilità -seppur misera- di salvarsi.
Aprii gli occhi ridestandomi da ciò che aveva rammentato la mia mente e, senza neanche rendermene conto, iniziai a piangere. Lacrime silenziose mi rigavano le guance e bagnavano il cuscino su cui ero poggiato. Fissavo il vuoto, forse perché dentro di me non vi era più nulla. Io l'avevo supplicato e lui mi aveva illuso dicendomi che mi avrebbe dato ascolto, preso per i fondelli da un' ubriacone. Continuavo a tirare su col naso mentre il dolore mi dilaniava il petto, lei non c'era più. Sospiravo rimanendo immobile. Non volevo farmi sentire mentre piangevo la sua persona, non ero disposto a cominciare una farsa dove mostravo a tutti il mio dolore, volevo solo lasciarmi andare... Per sempre. Perché niente era andato per il verso giusto, perché io ero vivo, perché non ero a Capitol City, perché non ero tra le grinfie del mostro che governava Panem, perché non ero con lei, ma in una stupida stanza asettica, vivo, mentre Katniss, era chissà dove e la colpa è solo mia, perché l'ho lasciata andare, perché mi sono fidato di altri tributi che, alla fine, volevano anche il nostro sangue, e, per i miei errori le ne aveva pagato le conseguenze.
Morta.
Dovevo darle retta.
Morta.
L'arena era esplosa, poteva esserle successo qualsiasi cosa.
Morta, perché Snow la odiava. La odiava perché la temeva.
Avrei fatto di tutto per tornare indietro, ma l'esplosione mi aveva spinto lontano da lei facendomi battere la testa per poi farmi svenire. Ero convinto di star morendo, avevo accolto il sonno eterno solo per donare a lei la vita che meritava e la sentii mentre gridava il mio nome. Sarei morto felice dopo la sua rivelazione, dopo che mi aveva detto che aveva bisogno di me.
Eppure... niente aveva seguito il suo corso ed io ero sopravvissuto, ma non ero vivo, non era vita senza di lei.
Continuavo a ripetermi che era passato poco tempo, che dovevo stringere i denti, resistere, ma non importava perché forse ,lei era morta, persa per sempre.
«Cosa ti lacrimi Panettiere...?!» una voce mi fece ridestare dai miei pensieri, una voce che avevo avuto la sfortuna di sentire per parecchio tempo nell'arena e al centro di addestramento, una voce che non avrei dovuto mai più sentire perché i giochi erano finiti, perché doveva essere morta come lei, come la ragazza che amavo e, la sua faccia doveva essere proiettata in cielo non prima del cannone che annunciava la sua morte.
«Lascialo in pace Jo...» non poteva essere vero, non doveva essere così, forse ero in paradiso, ma non mi alzavo perché realizzare il tutto sarebbe stato ancor più doloroso.
«Avanti Rotella,prima o poi dovrà muovere il culo da lì...» era spazientita la vincitrice del distretto 7 mentre descriveva il mio poltrire.
«Johanna tappati quella fogna!» rispose spazientito Beetee Latier.
«Fottiti tre.» gli ringhiò in risposta, marcando il distretto dal quale proveniva.
Non riuscivo a contenere la mia rabbia, la mia tristezza, perché era tutto maledettamente fuori posto come il pezzo di un puzzle nell'incastro sbagliato.
«No. State zitti tutti e due!» il rumore dell'elettrocardiogramma stonava terribilmente con quello che sentivo dentro di me, avrei solo voluto udire il 'bip' continuo che decretava il mio decesso, mentre invece nella stanza echeggiava il suono del mio battito cardiaco. La dimostrazione che ero lì, con loro, vivo.
«Mio Dio...L'esplosione ti ha fatto scendere le palline, Biondina?» ricordo che Johanna Mason ci era stata presentata come una ragazza villana e adesso era perfetta per il modo in cui mi trattava, mi insultava, mi derideva e andava bene tutto, meritavo ogni offesa perché ero lì da pochi giorni, perché avrei solo voluto dimenticare, o tornare indietro nel tempo per dare ascolto a Katniss, per fuggire con lei, ma in verità non andava per niente bene, non dovevo essere lì, non senza di lei.
«STA' ZITTA!» le ringhiai contro mentre il sangue mi incendiava le vene.
Quella sua frase mi riportò sulla terra ricordandomi che quell'esplosione, aveva rovinato tutto quello che avevo pianificato e Johanna non la doveva nominare, non doveva parlare di quell'ultima sera.
Iniziai a dimenarmi, non volevo nessun aiuto per restare vivo, per salvarmi ancora, volevo lei, solo lei.
Senza rendermene conto iniziai a gridare in preda al dolore, che non era fisico, ma emotivo. Inveivo contro tutte le persone che mi si avvicinavano, medici e infermieri dovevano starmi alla larga così come ogni singolo essere vivente, volevo solo sparire. Ero lacerato dall'interno e niente avrebbe mai potuto rimettermi in sesto, perché lei non c'era più.
Gridavo così forte che la gola bruciava, ma non era abbastanza perché meritavo di peggio, perché avevo fallito. Aveva ragione mia madre, io non valevo nulla e l'unica persona che meritava di stare davvero in quel letto comodo non dovevo essere io, ma Katniss. 
«Ragazzo... Ragazzo calmati...»sentivo la voce del mio mentore, non l'avevo visto arrivare. Non avrei potuto perché la mia vista era offuscata per le lacrime e per la tristezza.
Ero al centro dell'ospedale, a quanto pare ero uscito inconsciamente dalla mia stanza che sembrava opprimermi facendomi mancare il respiro.
Sbraitavo davanti agli occhi di tutti i medici, dei pazienti e di alcuni presenti del 13,sentivo gli occhi color nocciola di Johanna sulla schiena insieme a quelli di Beetee, ma non me ne curavo, ormai tutti vedevano quello che i giochi ne avevano fatto di Peeta Mellark, lo avevano distrutto.
Scalciavo, tiravo pugni e schiaffi, addirittura mordevo. Sembravo un animale mentre dei soldati -penso- cercavano di trattenermi, ma non era semplice tenere un vincitore, ero allenato per gli Hunger Games, non era uno scherzo.
«DOVEVI SALVARE LEI...»gli gridai in faccia la mia affermazione con tutto il fiato che avevo in gola, sentendo le corde vocali andare in fiamme, spingendomi in avanti a fatica mentre un soldato mi teneva da dietro per le braccia, temendo che potessi picchiare il mio mentore, e Dio solo sa quanto avrei voluto spaccare la faccia ad Haymitch Abernathy, facendo scomparire così il suo ghigno che ora detesto, perché lo faceva sempre a lei.
«Mellark si calmi!»il soldato alle mie spalle continuava a tirarmi indietro borbottando a fatica ogni singola parola, volevo che mi lasciasse andare, volevo far capire ad Haymitch come mi sentivo ora che avevo perso tutto.
«NON POSSO CALMARMI!»gridai, liberandomi dalla presa ferrea del ragazzo.
«Come posso? Mi dica come posso calmarmi.» chiesi alla guardia voltando il capo in sua direzione, mi guardava sgomentato, non aveva risposta al mio quesito.
«TU.» ringhiai contro il mio mentore indicandolo con l'indice, furente e deluso.
«Cosa mi hai salvato a fare, eh ? Cosa ti aspettavi da me? Guardami... GUARDAMI! Ti avevo chiesto una sola cosa, UNA e mi hai preso per il culo, mi avevi promesso che avresti scelto Katniss e quando penso che sia finito tutto mi risveglio in questo ospedale del cazzo... Scopro che il mio distretto è stato distrutto, che della mia famiglia non ne è rimasto altro che cenere e per di più... non ho neanche la possibilità di sapere che fine abbia fatto l'unica persona che amavo, UNA CAZZO DI COSA ABERNATHY.
Non so dove sia, se sia morta o da Snow, non posso piangere per nessuno perché la cogliona di Johanna se ne lamenta, non sono libero di piangere Haymitch, io che volevo morire non ho neanche la possibilità di piangere! ED E' SOLO COLPA TUA!
Guarda come ci hai ridotto, come MI hai ridotto.» ero gelido, mi guardava il mio mentore con un'espressione misto tra la tristezza e la delusione per se stesso, ma si meritava ogni parola Haymitch Abernathy, colui che aveva sempre preferito me perché totalmente diverso da lui.
«Cos'è adesso non parli?» gli chiesi tagliente, guardandolo in quegli occhi che tanto mi ricordavano Katniss.
«Mi..mi dispiace Peeta, ma erano gli ordini, non avevo voce in capitolo. Prima dovevamo prendere te e poi Katniss, ma non abbiamo.. Non ho fatto in tempo..» rispose flebilmente senza mai distogliere lo sguardo dai miei occhi.
«Ti.. ti dispiace, tutto qui? Cioè... Ti dispiace.»risposi sprezzante, ghignando, lui che diventava sempre più cupo ed io sempre più arrabbiato. Era riuscito a togliermi tutto in una notte Haymitch.
«Mi fai schifo Haymitch Abenathy. Completamente.» affermai serio, non riuscivo più a sopportare la sua presenza, mi infastidiva.
«Vattene.»dissi mestamente al mio,ormai, vecchio amico che in risposta negò impercettibilmente con la testa.
«Ho.detto.VATTENE!» Affermai irritato afferrandolo per un solo istante per il colletto della divisa grigia fornita dal distretto 13, ma delle guardie mi allontanarono dall'uomo per poi sbattermi in terra con irruenza, non avevano altre possibilità, non vi era altro modo, eppure era tutto ovatto le orecchie sentivano solo il mio nome gridato da lei, la mia bocca non sentiva il pavimento freddo, ma le sue labbra un po' screpolate e salate per via del mare dell'Arena e i miei occhi vedono solo i suoi occhi grigi come quelle dell'uomo che mi sta osservando, accovacciato accanto a me con uno sguardo carico di scuse. Mi accarezza i capelli Haymitch, se ne frega della merda che gli ho sputato addosso, mi guarda tristemente, le labbra incurvate verso il basso e gli occhi pieni di lacrime. Avevo rotto il naso a un soldato di colore e avevo fatto un occhio nero ad un inserviente che voleva contenere la mia ira, avevo insultato la Mason e dato ogni colpa al mio mentore, che nonostante tutto mi carezzava la testa come solo un padre saprebbe fare...
«Dovevi solo salvare lei...» sussurravo quelle parole come se potessero diventare vere, mentre il groppo in gola mi rendeva difficile anche solo respirare.
«Solo lei...» singhiozzavo perché in fondo non mi rimaneva altro che piangere.
I capelli biondi erano attaccati alla fronte sudata mentre le lacrime mi bagnavano le guance, perché doveva esserci lei al mio posto, perché lei non sarebbe mai stata sola, io...
Io avevo solo il mio grande amore e ora...Neanche più quello.
«ragazzo...» la voce dell'uomo di fronte a me fece rimontare la rabbia.
«VAFFANCULO!» ero riuscito -non so come- a piazzarmi di fronte a lui, mentre gli ringhiavo i miei insulti come una bestia feroce, gli avevo chiesto una sola cosa ed ora eravamo in questo stato...
Tutto divenne confuso dopo la testata che gli avevo dato in mezzo agli occhi, ricordo solo Johanna che gridava chissà quali accuse contro i soldati che la tenevano per evitare che venisse in mio soccorso e Beetee, che provava a far ragionare i medici per non farci sedare, per aiutare me e Jo, ma alla fine tutto si perse lentamente come un film che piano piano giunge al termine e la cosa più chiara di quegli ultimi istanti fu l'ago che mi si conficcava nella carne e il buio che regnava sovrano, dopo l'iniezione vi era solo l'oblio. Che profumava di bosco e libertà.
Lentamente aprii le palpebre ritrovandomi disteso in un lettino. Non ero più in ospedale, ma in una camera vera e propria.
La stanza era piccolina: al centro vi era un cubo con tre cassetti che fungeva da comodino,ai suoi lati vi erano due letti, su uno dei quali ero coricato io. Anche l'altro letto era occupato da qualcuno che mi dava le spalle, una persona di cui neanche mi preoccupavo,la sua presenza non mi era di rilevante importanza.
Mi sedetti sul lato del letto e controllai l'interno del comodino che arredava la piccola stanza,ma al suo interno non vi era nulla se non alcune cose fornite dal 13.
Un cassetto doveva essere il mio, uno del mio compagno di stanza e l'ultimo doveva essere comune, ma erano tutti e tre pressoché vuoti.
«Siamo coinquilini...»la voce assonnata che proveniva dall'altro letto mi fece sobbalzare, era Johanna.
Non risposi, non ce n'era bisogno, non esistevano parole adatte alla situazione.
«Non si hanno notizie di nessuno.» mi disse pacatamente, dal mio canto continuavo a tacere mentre aprivo costantemente i tre cassetti del comodino, come se potesse apparire qualcosa da un momento all'altro.
«Guarda che se lo riapri non appare niente comunque...»disse sbuffando, infastidita dal mio movimento meccanico. Ero recidivo, continuavo a fare quello che alla mia testa andava di fare e lei spazientita si alzò sbuffando e mi fece distendere sul letto.
«Non costringermi a prendere la mia scure.» dopo quella sua minaccia si mise a ridere di gusto scuotendo la testa, era più pazza di me.
«Nah,niente ascia... Ti faccio solo un regalo se la prendo,e, per il momento, non voglio la tua anima sulla coscienza... » la guardavo assente, senza mai dire nulla.
«Okay... Non sei di compagnia...» borbottava insulti mentre si dirigeva verso il bagno della stanza, ma prima che potesse richiudere la porta mi intimò di prendere l'orario del giorno dopo per concludere qualcosa.
«Johanna? » la chiamai prima che si chiudesse in bagno.
«Quanto tempo ho dormito? E l'orario cos'è?» le chiesi.
«Se dovevi stare in ospedale per una settimana e sei qui... Fai i tuoi conti piccolo matematico.
Comunque l'orario lo prendi nel corridoio principale, cioè è un qualcosa... un' affare attaccato al muro, poi chiamalo come ti pare e sto coso insomma ti stampa l'orario sull'avambraccio, ma poi io ti sembro Beetee? Queste cose non so neanche come si chiamino l'importante è sapere che serve per essere informati su quali compiti devi svolgere durante la giornata... Sono così... Sfigati qui dentro che, Dio mio hanno pure degli orari come nelle carceri... Che schifo Panettiere. Che.Schifo.» rispose veramente allibita dalle mansioni che dovevano compiere gli abitanti, per poi chiudersi nel bagno.
Ovviamente all'inizio provai ad ascoltarla, a distrarmi svolgendo i compiti del distretto, ma non ci riuscii a lungo, finché non smisi del tutto.
Iniziai a nascondermi in sgabuzzini o negli armadi, perché volevo restare solo e sentire l'eco che all'interno della mia testa aveva la sua voce.
Resteresti con me?
La sentivo, era lei, era la sua voce e non riuscivo a non lacrimare silenziosamente.
«sempre...»sussurravo la mia risposta nel buio dell'armadio, perché quello spazio stretto mi faceva sentire in gabbia e andava bene, lei non c'era più.
Senza neanche rendermene conto passarono due mesi, due mesi senza sue notizie, due mesi dove mi ero rifiutato di parlare con Alma Coin, la presidente del 13, due mesi dove mi nascondevo per non incontrare la famiglia della mia Katniss, per non vedere Prim o Gale, che aveva i suoi stessi occhi. Due mesi dove mi rintanavo in qualsiasi buco per piangere la mia famiglia, morta dopo le bombe incendiare che il presidente aveva mandato per distruggere il mio distretto, per pensare a Katniss, alla mia Katniss, che forse, non era mai stata mia e quest'armadio è piccolo, così piccolo che le mie gambe sono strette al petto e il respiro si fa sempre più corto magari se lo trattengo finisce l'incubo e l'avrei fatto, ora, sempre perché lei doveva essere qui e magari avrebbe scelto Gale Hawthorne il braccio destro della Coin, che pur di non pensare a lei si butta sul lavoro, che è diventato il soldato più bravo e nominato dell'intero distretto e mi sarebbe andato bene, perché sarebbe qui, viva, mentre sorride e la treccia laterale le ondeggia sulla spalla quando cammina.
Invece ci sono io, l'ombra di me stesso, un diciassettenne che si strappa i capelli perché il suono del bulbo che si stacca dalla cute gli dà sollievo, il dolore mi dà sollievo e non posso neanche più fare questo, perché mi hanno rasato e lei non c'è più, con ogni probabilità è morta.
E le unghie si conficcano nella carne mentre le lacrime salate finiscono sulle mie labbra, perché devo pagare, devo farmi male, perché non sono mai stato abbastanza, neanche per mia madre.
Peeta, resteresti con me?
«Per sempre...» la voce non sembra neanche mia, è incrinata per il dolore e niente può farmi stare meglio se non il sangue che scorre sulle mie braccia, perché me lo merito,va tutto bene.
Le ante dell'armadio dello sgabuzzino si aprono di scatto mentre la luce mi acceca bruciandomi gli occhi, ma va bene, devo sentire dolore.
Eppure nessuno mi capisce, perché quattro braccia mi afferrano facendomi uscire dalla mia piccola tana mentre, due occhi color nocciola mi osservano con disprezzo.
«Smettila di fare la ragazzina, Mellark!» e lo schiaffo mi fa girare la faccia dall'altro lato, la guancia sinistra che pulsa, ma va bene anzi vi prego,uccidetemi così la rivedrò...
«MENTECATTO.» le grida, gli schiaffi di Johanna, la sua preoccupazione è tutto giusto e al contempo sbagliato, io non lo merito, non merito più nulla.
«Pensi che lei avrebbe fatto così? Alza il culo e fa qualcosa al posto di comportarti da checca!» grida la Mason, perché mi sono lasciato andare,
perché mi sono fatto travolgere dalla marea finendo contro gli scogli e lei non avrebbe fatto così.
Io si... Io ho bisogno di te.
Katniss aveva bisogno di me, voleva morire per me e forse ci è riuscita.
«Non abbiamo notizie è vero,ma devi reagire Peeta. Per Katniss, ma sopratutto per te.» ed è vero, perché forse nulla è vano, non si sa nulla ,ancora, ma va bene anche se il dubbio mi sta torturando, va bene perché lei l'avrebbe fatto, per me.
Abbraccio di getto Johanna e lei subito mi stringe a se, piangendo con me, per me, perché conosciamo le nostre paure, perché alcune notti grida nel sonno o si dimena nel letto e quando non grida mi sveglio di botto, preoccupato, trovandola nel bagno della nostra stanza con la luce accesa mentre trema e piange, le hanno tolto tutto tranne la rabbia e a volte si stringe a me piangendo perché gli manca Jason, suo fratello e mi racconta del suo distretto mentre io per non farle perdere la testa le parlo del mio “per non dimenticare panettiere” ed è vero, perché non vogliamo dimenticare chi eravamo, anche se ci hanno cambiato.
Dopo qualche minuto mi stacco da lei e senza dire nulla mi dirigo nell'infermeria, le braccia sono sporche di sangue e i capelli ancora rasati. Tutti mi fissano, perché mi sono fatto vedere così poche volte da far sembrare la mia presenza una delle tante voci di corridoio. E non appena varco la soglia la vedo, con le sue trecce bionde e un lembo della camicia fuori dalla gonna, ma quando si volta fa cadere delle cartelle cliniche che teneva in mano perché io sono qui, mentre sua sorella non c'è più, ma non piange Primrose, perché lotta per lei lo fa ogni giorno aiutando i bisognosi, come faceva sua madre al giacimento e della bambina che passava davanti alla panetteria, guardando i dolci della vetrina, non ce n'è più traccia, ora davanti a me c'è una donna e lei sarebbe fiera di ciò che è diventata, proprio come lo sono io.
Mi avvicino lentamente a lei con gli occhi bassi perché ho fallito, ma lei poggia una mano sulla mia spalla sorridendomi dolcemente, è più forte di me Prim.
«Manca anche a me» e non la lascio finire perché il mio 'mi dispiace' esce fuori senza che io me ne renda conto, ma lei mi trascina sulla lettiga sorridendomi e curandomi i tagli e ogni ferita che mi sono fatto, per poi fissarmi con i suoi occhi azzurri
«Vivi la vita che ti ha donato, Peeta e lotta per lei.» mi alzo dopo quelle parole stringendola a me, come se ci conoscessimo da una vita e promettendole che lo farò, perché ha ragione, perché devo lottare per lei, così mi dirigo da Heavensbee e quando lo vedo lui mi sorride e lentamente annuisce, perché ha capito che ho accettato di incontrare la presidente, che ho acconsentito ad ascoltare quello che volevano che io facessi, perché devo lottare.
Per lei, ma sopratutto per me.






NOTE: 
Ciao a tutte :3 sono esattamente le 5:20 del mattino e questo racconto mi è costato un'after xD sono sul capitolo da ben 12 ore, tra correzione e pubblicazione, ma il sito non me l'ha fatto caricare, quindi sono rimasta al pc per tipo 4 ore a provare finchè non mi si è cancellato... che giornata di merda.
Bando alle ciance: 
finalmente siamo arrivati al primo capitolo e spero possa interessarvi tanto quanto il prologo, qui possiamo notare quanto Peeta sia distrutto, e , se la prende con Haymitch che fa un po' da capro espiatorio. Forse Peeta incolpa Haymitch perchè stanco di colpevolizzarsi (?)
Se vi va fatemi sapere che pensate di questo capitolo con una recensione, che è stato davvero un parto xD
Sono ben accette critiche e consigli cosicché io possa migliorarmi con il proseguimento della storia :)

Vorrei ringraziare di cuore 
sacher_torteAlnyFMillen,shinichi669 per le recensioni che mi avete fatto, sono state uno splendido regalo di compleanno :3

Ora vado a letto, sono le 5:35 non mi reggo più in piedi :)

P.S.: Un particolare GRAZIE a Federico che mi sta prendendo per il culo da 12 ore, senza te non avrei mai pubblicato <3
A presto sognatori :)
__Haaveilla__

 


 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 ***
















 






“Ci sono due tipi di tormenti nella vita: la conseguenza per il troppo coraggio ed il rimpianto per la troppa paura. In queste situazioni non sono io che decido, ma se voi poteste, cosa scegliereste ?” -Anonimo
 



Mi ero permesso per la prima volta di osservare il distretto 13 e devo ammettere che non aveva nulla di invidiabile.
Quando vidi la sua profondità ne rimasi stupefatto per l'ingegneria con cui era stato creato.
Gli abitanti indossavano delle divise grigie e avevano da svolgere in tutta la giornata determinati compiti.
Al distretto 13 nulla era affidato al caso. Le matite erano tante quanto gli abitanti e la carta veniva ripetutamente riciclata per essere riutilizzata, i bambini erano pochissimi per via di un'epidemia di varicella che rese quasi tutte le donne sterili e non vi era un minimo di svago, si aveva un'ora libera 
che ti permetteva di rilassarti, ma non era nulla di eclatante.
Il tredici, molto semplicemente, era un luogo triste. Triste come chi lo governava.
Dopo l'incontro con la dolce Primrose incontrai Plutarch, ormai il segretario della Coin, informandomi che questa mi aveva procurato un braccialetto con su scritto: MENTALMENTE INSTABILE. Perché doveva giustificare la mia nullafacenza, il mio pascolare per il distretto senza una meta ben precisa, senza che io seguissi l'orario giornaliero prestabilito per tutti.
Mi osservavano quelli del 13. C'era chi mi guardava con ammirazione e chi -come me- riteneva il mio salvataggio un errore.
Ormai io non avevo più nulla, non avevo -e non volevo- nessuno con cui parlare veramente se non Johanna o Delly.
Delly è la mia migliore amica sin dalle elementari e chiunque ci vedeva vicini sospettava fossimo parenti per via della nostra somiglianza, abbiamo gli stessi occhi, gli stessi capelli biondi e un tempo riuscivamo a capirci anche con uno sguardo.
Era stata proprio lei a raccontarmi quello che successe al dodici e alla mia famiglia.
Mi era venuta a trovare in ospedale il giorno prima della mia sfuriata e senza mai guardarmi negli occhi mi aveva raccontato tutto.
«Eravamo tutti insieme quella sera.
Ross non voleva guardare la trasmissione così chiamammo la compagnia ed uscimmo per distrarci un po'...
Eravamo io, Ross, Rye con la sua fidanzata e Chris.
I tuoi fratelli continuavano a litigare, erano irritati e si insultavano per stupidaggini, così dopo un po' Rye se ne ritornò alla panetteria e la sua fidanzata se ne andò a casa.
Ma Ross...
Ross borbottava costantemente, era agitato e quindi io e Chris, infastiditi per il suo atteggiamento, andammo in piazza a guardare i giochi, seguiti da tuo fratello.
Continuava a dire che aveva un brutto presentimento, che non era tranquillo e inveiva contro Rye, così non resistetti più e gli urlai in faccia...
Gli avevo gridato che lo odiavo Pee...
Gli dissi che lo odiavo perché era un debole, che lo odiavo perché era testardo, perché non era riuscito a guardarti per più di cinque minuti negli occhi dopo il tuo ritorno, perché non riusciva a fare il tifo neanche per un secondo per te, che eri suo fratello. Gli ho detto che lo odiavo perché era un codardo e lui mi fissava, le labbra incurvate verso il basso e gli occhi spenti come di chi viene ucciso dalla persona che più ama.
Poi mi voltai e continuai a guardare quello che accadeva nell'arena e vidi Katniss che ti dava un bacio sussurrandoti che vi sareste visti a mezzanotte.
Ross era inquieto, continuava a ripetere che quello, più che un “ci vediamo dopo”, sembrava un addio. Io e Chris scoppiammo a ridere dicendo che sarebbe andato tutto bene... Ma ci sbagliammo.
Dopo che Katniss ebbe scoccato la freccia contro il campo di forza, tutti gli schermi del distretto si spensero... C'era un silenzio assordante, così profondo che riuscivamo a sentire gli uni il respiro degli altri; poi staccarono la luce e poco dopo tutti i pacificatori abbandonarono il distretto... Eravamo soli.
Fu lì che Gale Hawthorne, il cugino di Katniss, ci intimò di scappare...
Ci ha spinti verso il bosco.» 
Era brava a raccontare le cose Delly, così brava che riuscivo a vedere tutto quello che raccontava, come se stessero proiettando l'accaduto nella mia stanza d'ospedale.
«Io e Ross eravamo insieme quando Hawthorne gridò che dovevamo scappare tutti e noi ci mettemmo a correre verso la recinzione. Chris prese in braccio dei bambini, mentre io aiutai una signora ad alzarsi dopo che cadde. Cercavo i ragazzi con lo sguardo senza mai fermarmi, ma ad un tratto vidi tuo fratello, si era fermato per poi mettersi a correre dalla parte opposta in direzione della panetteria. Senza pensarci due volte lo seguii e lì, proprio in quel momento, arrivarono gli hovercraft con lo stemma della capitale a sganciare le bombe incendiarie...» aveva gli occhi chiusi la mia migliore amica, sospirava e le lacrime le bagnavano le guance, faceva male ricordare, lo sapevamo entrambi adesso, ora lei poteva capire cosa voleva dire convivere con un ricordo terribile, così atroce da farti cambiare. Segnandoti per sempre.
«Volevo fermarlo Pee.. Ci ho provato davvero, ma lui era cocciuto, voleva ritornare indietro per i tuoi genitori e per tuo fratello...» e la vedevo Didi, che cercava di convincere Ross per scappare, per tornare indietro nel bosco, ma lui non voleva fermarsi.
Riuscivo anche a sentire il rumore sordo che emettevano gli Hovercraft quando lanciavano le bombe per incenerire tutto.
«Durante i giochi i tuoi erano nel retro della panetteria, forse c'era anche Rye, forse erano svenuti per il fumo e lui per essere l'eroe della situazione entrò dentro per cercare di salvarli, per aiutare qualcuno. Sai come la pensava lui, non voleva che i suoi rimpianti superassero i sogni che aveva, non voleva poter pensare di averli lasciati lì senza neanche aver provato a tirarli fuori.» disse con un sorriso amaro stampato sul viso, gli occhi puntati in una mattonella bianca di fronte a lei e le parole che si animavano nella mia testa, rendendo l'accaduto reale, tangibile.
Vedevo Ross che entrava nella panetteria per salvare qualcuno, conscio di non avere abbastanza tempo per aiutarli tutti e lui lo sa, è consapevole di non avere chance, ma comunque doveva farlo, doveva tentare, perché viveva con il rimpianto Ross.
Dopo i miei primi giochi mi abbracciò così forte da farmi mancare il respiro e mi chiese scusa un miliardo di volte, perché non era stato un buon fratello e voleva migliorare, perché non si era offerto volontario come Katniss aveva fatto con Primrose, perché non mi aveva mai difeso quando mamma mi prendeva a botte. Era pentito Ross, quello che aveva due anni in più di me, quello con cui dividevo la stanza, che mi sfotteva perché sbavavo dietro ad una ragazza del giacimento quando potevo provarci con la figlia del fioraio.
Ma la quiete durò poco, perché dopo pochi giorni non riuscì più a sostenere a lungo il mio sguardo, viveva con il rimpianto Ross, si sentiva colpevole del mio cambiamento e non voleva più riprovare una cosa simile con altre persone. Si dava contro perché lui pensava di potermi salvare da un destino che era già stato scritto per noi, era stato vano il mio tentativo di spiegargli che andava tutto bene, per lui dissi quelle cose perché avevo il cuore buono, ma piangeva Ross, piangeva e singhiozzava così forte da non farmi capire nulla, riuscivo solo ad afferrare poche parole dove diceva che se ero cambiato, la colpa era anche sua, perché non aveva fatto niente, perché era il suo ultimo anno di tessere per l'estrazione e aveva paura, era così spaventato da restare immobile mentre mi vedeva salire su quel palco, pietrificato, mentre Effie Trinket annunciava i nuovi tributi. Ed io lo tenevo stretto a me, perché non volevo che sentisse tutta quella sofferenza, me li sarei presi volentieri io i suoi dolori per non vederlo più così. Io ero forte, io potevo reggerli. al mio ritorno dopo i tour della vittoria mi stava aspettando fuori dalla stazione con papà e Rye, mentre mamma era alla panetteria, troppo impegnata a odiarmi per venire.
E solo ora capisco per che cosa i miei fratelli litigavano quella sera: perché Ross non era intervenuto. Si davano contro quando la colpa alla fine non era di nessuno. Era stato il destino, che nonostante tutto, io stesso continuo a ringraziare. Se non fosse stato per quell'estrazione, io non avrei mai conosciuto Katniss Everdeen e se lei avesse vinto non avrei mai avuto il coraggio di parlarle. Io, in fondo, non valevo niente neanche per mia madre. Figuriamoci per Katniss Everdeen.
Nella mia stanza d'ospedale asettica riuscivo persino a percepire l'odore di bruciato, quello che si espandeva nell'aria e il fumo che riempiva i polmoni.
Vedevo quello che aveva visto la mia migliore amica e provavo la stessa disperazione che aveva provato lei, perché era della famiglia, perché li aveva visti morire, ed era colpa mia, perché sarei dovuto morire molto prima, ma volevo solo proteggere la ragazza che amavo, lasciando così fuori tutto il resto.
«Ero lì davanti Pee...» piangeva Delly con la testa poggiata sulle mani sopra al lettino della stanza ed io le accarezzai la testa per consolarla, anche se la perdita,infondo, era mia.
«Ero lì...» singhiozzava la mia amica mentre cercava di finire il racconto, mentre mi descriveva come il nostro mondo, la nostra realtà, veniva distrutta per punire la ragazza in fiamme.
Non avrei potuto dire altro che non fosse il mio “sta' tranquilla” ripetuto come una vecchia nenia mentre fissavo la parete bianca di fronte a me, mentre il mio cervello riproduceva ciò che la mia amica Didi aveva visto, immaginai la morte dei miei cari.
Ross che entrava nella panetteria di famiglia cercando Rye e i mie genitori, che si buttava tra le fiamme per andare nel retrobottega, che cercava mio fratello per portarlo fuori e salvarlo, la panetteria che lentamente va in pezzi e la porta che si blocca per chissà quale asse di legno.
Vedevo quello che accadeva nella panetteria di famiglia anche se Delly non l'aveva raccontato, immaginavo cosa avesse fatto mio fratello una volta dentro, il panico provato mentre realizzava di non avere scampo, l'agitazione che sentiva mentre i gradi aumentavano, mentre tutto intorno a lui andava in pezzi. Immaginavo come cercava furiosamente di scappare anche se non vi erano possibilità di fuggire, come piangeva nel vedere i nostri genitori in terra, probabilmente morti, e come scuoteva Rye sperando che si svegliasse. Lo faceva sempre quando aveva gli incubi, correva da Rye e lo svegliava per farsi dare forza, ma lì, da bambini era diverso, i mostri sotto al letto li dimentichi, ma il terrore che si prova nel vedere la morte ad un palmo dal tuo viso è destabilizzante.
Voleva fare l'eroe Ross, era uno dei suoi buoni propositi, magari avrebbe fatto il pacificatore in una vita parallela, in una vita dove io sono dieci metri sottoterra, dove Katniss magari stringe al petto i suoi bambini, in una vita che non implicherebbe la mia presenza.
Lo vedevo. Il mio fratellone dai capelli biondi, così biondi da sembrare bianchi in estate, come piangeva, come gli si formavano delle bruciature sul viso, o come avrebbe detto lui, sul suo bellissimo viso degno di Capitol City. Vedevo come si toglieva il giubbotto per il caldo, poi la maglietta, le bruciature che gli si formavano sul petto, sulle braccia, sulle mani, l'aria che mancava sempre di più e il caldo soffocante, immaginavo come avesse sperato di morire, così come ho pregato che succedesse a me; perché dopo un po', quando capisci di non avere più alcuna opportunità per scamparla, fai l'unica cosa che ti viene più semplice fare, ti appelli alla morte.
Così il suo sorriso si trasformò lentamente in una smorfia di dolore, la pelle che pian piano gli si sfaldava e il cuore che gridava pietà, magari aveva gridato Ross, lo faceva sempre quando voleva sfogarsi, chissà se mi aveva incolpato proprio come mi ero accusato io stesso per tutto il tempo, avrei preferito morire, magari non sarebbe successo nulla di tutto ciò, Rye sarebbe riuscito a sposarsi con la ragazza con cui si frequentava, una ragazza misteriosa di cui parlava sempre, di cui lui era follemente innamorato, ma che io non ero mai riuscito a conoscere e magari Ross sarebbe diventato un'eroe, magari un vero e proprio pacificatore come sognava, forse anche Katniss avrebbe messo su famiglia con Gale, e chissà, se avessi avuto abbastanza coraggio mi avrebbe ricordato con un sorriso perché avevo mangiato le bacche velenose solo per farla vincere,non prima di averle ricordato che sarei stato suo per sempre. Sarebbe dovuta andare così, e invece, l'unica cosa che riuscivo a immaginare erano i volti sfigurati della mia famiglia, Delly che cercava di fermare Ross dal compiere una follia e che non lo vedeva più uscire dalla panetteria.
«Ero lì davanti... Lui...Lui è entrato ed io non volevo... aveva detto che sarebbe tornato subito, mi aveva sorriso capisci? Poi è entrato ed io.. io l'ho aspettato, ma.. ma.. la panetteria è crollata dopo poco... l'avrei aspettato lì fuori tutta la vita se non fosse stato per Christopher Tuttle..» voleva morire con Ross ,Didi, lei aveva visto mio fratello sorriderle per rassicurarla, lo faceva sempre, gli aveva sorriso un'ultima volta. Mio fratello aveva il sorriso contagioso di chi aveva sofferto, era dannatamente bello Ross vestito dei suoi sbagli e l'aveva fatto un'ultima volta prima che la panetteria gli crollasse in testa, bruciato vivo come tutti i Mellark, tutti tranne me.
Poi nella mente vidi la mia amica sbraitare e dimenarsi dalla stretta di Tuttle che cercava di salvarla, mentre lei voleva solo andare incontro a mio fratello , anche se non vi erano superstiti e Chris, il mio migliore amico, la tirò via caricandosela sulle spalle e fuggendo verso il bosco nonostante lei gridasse in preda al dolore e lo insultasse.
915 persone salvate su 10.000, grazie a Gale Hawthorne.
Ed era come se io fossi stato lì per tutto il tempo, sentivo sulla mia pelle l'amarezza che solo le persone sopravvissute al bombardamento del 12 provavano, mi sentii quasi uno spettatore involontario della vicenda, uno di quelli che sta in fondo alla stanza senza destare sospetti, ma che vede e prova tutte le emozioni che sentono le persone che lo circondano, e, adesso vi era il nulla. Io non sentivo nulla perché non avevo niente, derubato di tutti i miei averi, perfino del mio ultimo desiderio di restare me stesso, quello che avevo rivelato a Katniss durante i primi giochi dove le raccontavo che se fossi morto l'avrei fatto restando me stesso, non volevo essere una delle tante pedine dei giochi, ma in realtà, solo adesso, mentre Didi è al mio capezzale che piange e singhiozza, mi rendo conto che stavo mentendo a me stesso solo per rendere la pillola meno amara di quello che era. Nessuno ritorna mai indietro per davvero dall'arena, nessuno riusciva ad essere un vero vincitore, i giochi distruggevano te stesso, ti toglievano ogni cosa lasciandoti solo il mesto ricordo della persona che eri prima.
E faceva male realizzare che il ragazzo che era salito sul palco durante la mietitura dei 74esimi Hunger Games, Peeta Mellark, il ragazzo del pane, lo sfortunato amante, era sepolto sotto una coltre di cenere lasciata dai tizzoni ardenti che un presidente dispotico aveva voluto estirpare con la forza.
«Ho preso a schiaffi Christopher quando mi ha fatto poggiare i piedi oltre la recinzione, volevo restare con lui, ma non me l'ha permesso..» continuò Delly.
Le dissi che non doveva pensare quelle cose, che lei doveva sperare in una vita migliore, ma non mi ascoltava Didi, sapeva che anch'io, come lei, sarei voluto rimanere al fianco di Katniss, sia da vivo che da morto.
Ero stato un grande ipocrita quando le dissi che non doveva pensare a quelle cose, che doveva ricordare Ross con un sorriso, ma in realtà io stesso ero il primo che si crogiolava nel suo dolore, il cruccio della perdita che ti toglie il sonno e il respiro.
« Abbiamo camminato per giorni interi, finché non siamo stati accolti dal 13 Pee...» mi disse Delly quel giorno, il giorno in cui avevo appreso come ogni cosa mi era stata strappata dalle mani, dove capii che non avevo più nulla se non il rimpianto di essere vivo.
E solo adesso, mentre vago per i corridoi di questo posto grigio e squallido, mi rendo conto che gli abitanti del 13 ,alla resa dei conti, hanno accolto i sopravvissuti del mio distretto perché dovevano mandare avanti il loro, cosa che sarebbe stata impossibile fare senza di noi viste le condizioni di sterilità delle donne e di alcuni uomini. Mi rendo conto che l'atto di bontà che hanno compiuto, era solo della finta benevolenza che aveva il proprio tornaconto, perché come bambini ci sono solo i sopravvissuti del 12 e il 13 doveva -in qualche modo- ripopolare la sua circoscrizione.
«Soldato Mellark, al rapporto dalla Presidente.» il soldato di colore mi si era piazzato davanti senza neanche che me ne rendessi conto, troppo perso nel ricordo delle mie perdite, tutte in una sola notte.
«Finalmente.»ero sollevato, la Coin in questo periodo non era riuscita a dedicarmi del tempo per chissà quali ragioni, ed ora sono qui mentre seguo uno dei suoi soldati -con tanto di spille di riconoscimento appuntate al petto- verso il comando.
Entrati nell'ascensore digita un codice e questo si attiva, cambiando diverse volte direzione.
Dopo qualche minuto mi volto ad osservare l'uomo al mio fianco e noto che ha una benda bianca sul naso e scoppio a ridere, una risata isterica e rumorosa, quelle che ti scappano e che non riesci a trattenere...sono nell'ascensore con il tizio a cui ho rotto il naso.
«Mi dispiace amico...» borbotto asciugandomi le piccole lacrime che mi si sono formate agli angoli degli occhi, rido a crepapelle per la situazione imbarazzate in cui mi trovo e lui mi osserva serio, così serio da far scemare le mie risa.
«Accetto le sue scuse, ma non sono suo amico dopo il gancio che mi ha tirato.» non riesco a capire dove io abbia trovato il coraggio di aggredire questo energumeno, così alzo le mani in segno di resa borbottando un 'okay'
«Io sono il colonnello Boogs.» dice perentorio.
«Peeta Mellark.» affermo porgendogli la mano destra e lui mi fissa per qualche secondo, senza mai perdere la sua serietà che lo caratterizza.
«Lo so.» ribatte Boogs deciso.
«mi pare evidente...» mormoro quando finalmente l'ascensore si ferma e le porte si aprono.
Dopo qualche minuto sono davanti ad una porta e prima che io possa varcare la soglia, il soldato mi poggia una mano sulla spalla e, con fare categorico, mi consiglia di mantenere la calma, annuisco ringraziandolo e dopo aver preso un respiro profondo entro nella stanza.
«Peeta, è un piacere rivederti.» mi accoglie il primo stratega.
La sala riunioni è piuttosto grande, con un tavolo lungo circondato da sedie e di fronte ad esso vi è uno schermo che mostra varie progettazioni militari.
«Heavensbee.»dico stringendo la mano all'uomo che mi fa accomodare su una sedia.
«La presidente sta per arrivare insieme a delle persone fidate per aggiornarti sulle questioni recentemente accadute.» mi informa Plutarch elettrizzato, perché per lui, oggi si faranno cose mai viste.
Sento la maniglia abbassarsi e senza indugiare mi alzo per buona educazione, ma subito mi risiedo quando vedo chi sta entrando insieme alla presidente.
Non mi piace Alma Coin, ha uno sguardo freddo da calcolatrice, come se questa rivoluzione potesse giovare più a lei che al popolo.
E' poco più bassa di me, ha i capelli lisci come la seta e grigi, la pelle è diafana per via del sole mai visto -o visto poche volte- e gli occhi sono di un colore particolare, sembrano arancioni o giù di li.
«Mellark, è un piacere incontrarla.» mi tende la mano ed io gliela stringo con vigore dicendole che "il piacere è tutto mio" ma non è vero, voglio solo una cosa e la otterrò... Spero.
«Bene. Accomodatevi.» dice Alma.
Così finalmente ci sediamo e Plutarch prende la parola.
«Okay, la mia idea è quella di fare dei video propagandistici dove dobbiamo spingere gli altri distretti ad unirsi a noi per combattere il regime di Coriolanus Snow... Mi piace chiamarli pass-pro.» ascolto le sue parole cristalline mentre la Coin gioca con una penna rigirandosela tra le dita annuendo e sorridendo compiaciuta.
«Ed io a cosa vi servo?» chiedo veramente curioso, ma la vera domanda che avrei voluto porre ai presenti era: cosa dovrei fare io che Katniss non era in grado di fare?
Ma ovviamente non lo feci, perché dovevo mantenere la calma.
«Tu sei quello bravo con le parole, reciti qualche battuta, sventoli il simbolo della ghiandaia ed è fatta.» non capiva Plutarch che non sarebbe bastato, nessun discorso sarebbe mai stato sufficiente.
«Pensate che funzionerà? Davvero, siete seri...?» li squadrai uno a uno mentre tutti i presenti annuivano alla mia domanda retorica, tutti tranne Haymitch e Gale, che mi fissava glaciale, con quegli occhi grigi uguali ai suoi, quegli occhi che non avevo dimenticato per un solo attimo e che mi avevano fatto risedere non appena li avevo visti, perché faceva male averceli di fronte, perché non erano i suoi.
«No... Non funzionerà.» affermai e tutti continuavano a borbottare sul fatto che sarebbe bastato, che il piano avrebbe funzionato, mentre era evidente che per me non era così.
Nella stanza c'è caos, troppo rumore, troppe parole dette da persone incompetenti che non sanno e che non capiscono quello che si prova ad andare negli Hunger Games e la mano agisce da sola, come se avesse vita propria e quando la sbatto sul tavolo il tonfo fa zittire tutti, che si voltano a fissarmi con gli occhi spalancati, spaventati da me.
Non capiscono... Loro... Loro non potrebbero capire, mai.
«Avete lasciato Katniss a morire nell'arena. Lei era migliore di voi!» e lo sguardo di Gale cambia un po', ma di poco perché forse pensava che di lei non mi importasse realmente, che ero andato avanti con la mia vita, ma Katniss è una costante, proprio come la sua voce nella mia testa che non se n'è mai andata, a volte tace, ma rimane, sempre.
«Quindi ragazzo... Hai idee?» con un semplice quesito il mio vecchio mentore mi aveva ammutolito perché no, non ne avevo,ma quattro parole non avrebbero convinto né ora né mai un intera Panem a rivoltarsi contro la sua Capitale, era impossibile e ancora sentivo l'annuncio dell'edizione della memoria rimbombarmi nelle orecchie.
Nel settantacinquesimo anniversario, affinché i ribelli ricordino che anche il più forte tra loro non può prevalere sulla potenza di Capitol City, i tributi maschio e femmina saranno scelti tra i vincitori ancora in vita.
Non parlavo perché, no, non avevo idee, ed Haymitch lo sapeva.
«Gireremo un pass-pro fra qualche giorno, nel frattempo svolgete le vostre mansioni.» concluse così la discussione la Coin ed io, senza ascoltare altre insinuazioni, mi lancio fuori da quella stanza.
Mi mancava l'aria.
Era tutto nelle mie mani e non potevo sbagliare ancora.
Due giorni dopo, la sveglia mi fece alzare dal letto alle 8 in punto, era il “grande” giorno e Johanna mi avrebbe fatto compagnia, era la mia roccia.
Non avevamo tempo per la colazione, perché dovevano andare al comando.
Come di consueto, Boogs ci fece strada ed era più loquace del solito.
«Andrete in un altro posto dove vi prepareranno per il pass-pro.» annuivo mentre al mio fianco Johanna sbuffava.
Non dovevo sbagliare.
Quando le porte si aprirono separarono me e Johanna per farci preparare, non che non avessi visto niente di Jo, ma era giusto così.
Varcata la soglia del mio camerino vidi Effie sorridermi e senza darmi l'occasione di fare un ennesimo passo in avanti mi si buttò fra le braccia, stringendomi a se con fare materno, piangendo.
«Pensavo di non rivedervi più...» le sorrisi teneramente senza pronunciare le parole che affollavano la mia mente, che gridavano ci sono solo io, ma lei sembrava leggermi il pensiero.
«Non tutto è perduto caro ed ora, su su che dobbiamo prepararci! Oggi sarà una grande grande grande giornata.» 
Disse mentre io andavo al centro della stanza, poi mi sorrise teneramente aprendo la porta d'entrata e subito entrarono Flavius e Venia, rimasi esterrefatto quando li vidi, ero pietrificato e un sorriso imbarazzato mi incorniciava il viso mentre loro mi si avvicinavano piangendo dalla gioia, abbracciandomi con veemenza e sospirando teatralmente, pensavo fossero morti e invece erano qui e non sarei potuto essere più felice.
Subito dopo mi avevano messo su un piedistallo e mi parlavano di come erano stati portati al 13, di Cinna che non era sopravvissuto, malmenato davanti a Katniss prima che entrasse nell'arena, una notizia che loro lo avevano scoperto per puro caso sentendo Plutarch, Haymitch e Effie che vociavano sull'accaduto e infine mi dissero che Octavia era con Johanna.
Parlavano continuamente Flavius e Venia, loro chiacchieravano ed io mi persi ad osservare i miei preparatori che non indossavano più tutti quei gingilli che portavano a Capitol quasi una vita fa, l'unica cosa bizzarra dei due erano i capelli Rosa Antico della donna che si abbinavano alle unghie laccate dello stesso colore, mentre l'uomo aveva i capelli di un Rosso Carminio. Li osservavo con pazienza, godendo di quei momenti, sorridendo ai loro consigli di bellezza mentre continuavano a spalmarmi delle creme per le cicatrici, acconciandomi i capelli e inveendo sulle mie unghie poco curate.
Alla fine del lavoro Effie si avvicinò a me aprendo un libro con dei disegni. Rappresentavano una divisa militare.
«Cinna ne ha preparate due, una per te e l'altra per...Katniss.
Avete due libri separati.» erano dei disegni sbalorditivi, curati nel minimo dettaglio.
«sono bellissimi Effie.»
annuiva la mia "stilista" richiudendo lentamente il libro come se si potesse rompere e lo rimise a posto facendomi indossare la mia divisa nera. Era perfetta, sembrava essermi stata cucita addosso e non potevo non pensare che forse sarebbe piaciuta anche a Katniss.
Dopo le ultime aggiunge Effie uscì dalla stanza per concedermi qualche minuto di Privacy così di fretta recuperai il libricino di Cinna sfogliandone ogni pagina e guardandone minuziosamente ogni dettaglio. Ma era stata nell'ultima pagina che qualcosa catturò la mia attenzione, una scritta che recitava poche parole, ma che mi fecero sorridere e sperare ancora.
Subito dopo riposi il libro e uscì fuori dalla stanza, andando incontro a Johanna vestita da militare del 13, con una divisa nera totalmente differente dalla mia.
Effie mi si avvicinò con lentezza, osservandomi con orgoglio, speravo di vedere uno sguardo simile negli occhi di mia madre, ma nei suoi c'era solo biasimo e odio. Ma la mia stilista, la donna che faceva parte del Team d'oro mi si para davanti, poggiandomi le mani sulle spalle e sospirando compiaciuta.
«Il tocco finale di Cinna...» bisbiglia, mentre mi appunta una spilla nera al petto, non capii subito cosa fosse perché ero infatuato dalle movenze materne della donna che aveva estratto il mio nome dalla boccia della mietitura, ma adesso era diversa da allora, era più umana, più conscia che i giochi della fame fossero tutto, tranne che giochi. Poi si allontanò di qualche passo ed io osservai la spilla nera, era una ghiandaia imitatrice. La accarezzai con le dita mentre mi si formava pian piano un groppo in gola, poi abbracciai Effie che prese ad accarezzarmi la schiena.
«Noi siamo un Team, Effie!» le dissi all'orecchio per poi avvicinarmi a Johanna che mi aspettava a qualche metro di distanza, poi ,finalmente, Boogs ci guidò verso la sala riprese per girare quel dannatissimo pass-pro che mi stava facendo morire dall'ansia.
«Trucco e parrucco Panettiere... Complimenti.»mi schernisce ammiccando mentre ci portano in una stanza allestita in modo teatrale dove c'è un palco e dietro uno schermo, ventilatori e fumo bianco per inscenare una rivolta, Effie mi passa un cartoncino con su scritto un discorso che studio a memoria, la mia stilista si mette dietro alla videocamera per non occupare l'inquadratura. Quando io e Johanna saliamo sul palco lo scenario si attiva, mostrando dietro di noi una folla che alza i fucili in segno di vittoria.
«Ricorda Peeta: sei in battaglia con i tuoi fratelli e sorelle, avete appena vinto uno scontro tra voi e i soldati di Capitol City.» mi ricorda pacatamente Plutarch ed io annuisco velocemente prendendo un respiro profondo.
Vento in faccia, fumo negli occhi e un asta di ferro che al computer diventerà una bandiera con la ghiandaia, appena gridano "azione" mi metto a gridare le mie battute:
«Popolo di Panem, combattiamo, osiamo, poniamo fine alla nostra sete di giustizia!» Johanna al mio fianco alza le braccia e le fa ricadere lungo i fianchi.
«Per Dio.» afferma disgustata infischiandosene della mia occhiataccia
«Era una prova, si doveva riscaldare...» dice Effie a mio favore con la sua voce squillante.
Annuisco alla Trinker ringraziandola con un sorrisetto imbarazzato mentre Plutarch dalla stanza adibita per mettere tutti gli effetti speciali, mi dice, tramite gli altoparlanti che ci sono nella stanza, di ripetere la battuta.
Mi inginocchio e appena mi danno il via mi alzo sventolando la "bandiera" e pronuncio le parole scritte del primo stratega.
«Popolo di Panem, combattiamo, osiamo, poniamo fine alla nostra sete di giustizia!» grido.
«SEI IN GUERRA!» questa volta è Plutarch a urlarmi contro mentre il microfono emette un suono fastidiosissimo, facendomi scattare indietro per lo spavento.
«Okay Peeta scusami, scusa è.. è stato un mio scatto.
Ehmn Rifacciamola.» ripete Heavensbee riprendendo il controllo di se stesso.
Sbuffo e ripeto il teatrino.
«Popolo di Panem, combattiamo, osiamo, poniamo fine alla nostra sete di gius...» interrompendomi Johanna sbuffa, lasciando cadere la sua ascia in terra e scendendo dal palco dicendo che “si rifiuta”,mentre Effie mi osserva con uno sguardo nauseato, poi si spaventa a causa di qualcuno che batte le mani rumorosamente e lentamente, così si volta indietro per capire chi l'ha impaurita.
«Ed ecco a voi signori e signore come cade una rivoluzione...» applaude lento mentre mi si avvicina con calma, ed è la prima volta che siamo quasi soli in una stanza o che io non mi avventi contro il suo collo, la prima volta che mi rendo conto che non puzza più di alcool e lo osservo riluttante mentre mi gira intorno osservandomi minuziosamente con un sorriso sghembo.
«Ciao Peeta...È così che si saluta un vecchio amico?» chiede mentre si asciuga il naso con un fazzoletto.
«Forse da sobrio non ti riconosco.» ribatto serio.
«La mia faccia è solo lo specchio del mio malessere, ragazzo.» e vorrei solo gridargli in faccia tutto il mio biasimo, vorrei strattonarlo e inveirgli contro, ma l'unica cosa che faccio è quella di girare i tacchi e andarmene fuori dalla stanza, sdegnato.
Poco dopo Boogs convoca me Johanna ed Effie al comando dalla Coin, nella sala ci sono già Plutarch, Beetee, Haymitch e, ovviamente, la presidente.
Non appena ci accomodiamo Latier mostra ai presenti il video migliore che siamo riusciti a girare e, mio malgrado, devo ammettere che fa proprio schifo.
«Fai pietà, Panettiere.» commenta Johanna.
Ed è vero, mai vista una cosa più brutta.
«Bene, il ragazzo non riuscirà mai a fare una cosa simile così, con il fumo e i ventilatori puntati in faccia. Credo sia evidente..» devo riconoscere che Haymitch ha ragione, questa volta.
«Qualche idee, Abernathy?» la Coin pone una semplice domanda e tutti rizzano le orecchie, ma sono io a prendere la parola.
«Voglio vedere il dodici.» dico determinato.
«Potrebbe essere una buona idea, non ci sono state attività aeree sulla zona.» dice Beetee alla presidente, cercando invano di convincerla con quell'informazione.
«No! Non permetterò che tu vada lì.» ribatte la presidente guardandomi dritto negli occhi, sbuffo e volto lo sguardo verso Johanna che alza impercettibilmente le spalle come se mi avesse letto il pensiero, quasi avesse capito che stavo pensando “perchè Alma Coin non capisce?”
«Ha ragione il ragazzo, presidente, ora lui è la faccia della ribellione.» E Plutarch mi sembra più umano di lei in questo istante, mentre mi osserva dispiaciuto, forse perché lui ha già visto com'è ridotto il mio distretto.
« No. Non metterò in pericolo la vita della mia risorsa, non andrà al 12!» afferma decisa
«Glielo lasci vedere, lo lasci tornare a casa.
Deve ricordare chi è il vero nemico.» dice pacatamente Heavensbee.
«Lui sa chi è il nemico!» risponde la Coin con calma, una misura che mi fa aggrottare le sopracciglia, riesce a controllare le sue emozioni Alma Coin e la cosa mi lascia sempre più sbigottito, sembra non esserci fine alla freddezza di questa donna.
«Forse l'ha dimenticato.» le poche parole di Plutarch la zittiscono facendola ragionare, si porta un dito sul mento e valuta la situazione soppesando i pro ed i contro di quello che potrebbe accadere alla sua “risorsa” una volta tornata a casa, poi sbuffa e infine rilascia il suo verdetto sospirando, sconfitta da Heavensbee il cui lavoro sembra essere l'arte del vendere, plasmando tutti con le sue parole.
«Va bene, ma starà lì per un'ora.» risponde accondiscendente la donna, continuando il loro battibecco incurante della mia presenza.
«E ci saranno degli hovercraft su di lui, così lo terranno d'occhio.» la precede Plutarch in modo tale che la presidente non possa cambiare idea, sembra un bambino a cui hanno appena comprato il suo gioco preferito con quel sorrisetto vittorioso stampato in volto.
Detto questo la presidente si alza seguita da Heavensbee, Beetee, Effie e Haymitch che mi batte una mano sulla spalla.
Sono solo con Jo che mi osserva, che non mi lascia da solo perché non vuole farmi sprofondare ancora e mi afferra la mano per offrirmi un’ancora ed io, provo ad attaccarmici.
Io e Johanna tornammo nella nostra stanza per levarci il peso della mattinata di dosso,era strano condividere con lei la mia quotidianità,forse perché non pensavo fosse così diversa da com'era nell'arena.
«Cos'hai intenzione di fare oggi Panettiere?» parla, o meglio grida attraverso la porta del bagno mentre io aspetto pazientemente il mio turno per lavarmi, per togliermi il peso della giornata dalle spalle per un solo istante grazie ad una breve doccia calda.
«Penso che seguirò alcune fasi dell'orario che vi stampate tutti sul braccio.» le rispondo annoiato.
Jo sbuffa, perché sa già che non farò niente di quello che mi verrà imposto, ma non le importa perché le basta che io sia sereno, anche se per poco.
«Tu invece che farai?» le chiedo di rimando, sono davvero curioso di sapere cos'ha in mente il 13 per i suoi abitanti, che per me sono solo degli ingranaggi in un meccanismo ben più elaborato che è la base su cui poggia il distretto stesso.
«Le solite cose, stronzate in pratica.» ribatte sbuffando.
E finalmente la porta si apre e ne esce una Johanna che si sta ancora infilando la maglia grigio topo, incurante del fatto che io sia un ragazzo e che veda il colore del suo intimo e mi viene da sorridere per la sua mancanza di pudore perché se ci fosse Effie Trinket le griderebbe:"CONTEGNO!"
«Interessante Mason, davvero interessante.» replicai alzandomi e chiudendomi in bagno mentre lei ancora blatera su quanto sia frustrante il distretto; mi tolgo i vestiti che ripongo nella cesta della biancheria sporca e mi infilo sotto il getto dell'acqua calda che è un balsamo per i miei pensieri. Se mi concentro posso ancora sentire la voce di Johanna che, mentre rassetta la stanza, continua a lamentarsi di come sia stata trattata da un'infermiera dai capelli rosso fuoco e chissà quante altre cose che non ho più né la voglia, né il coraggio di sentire.
Esco dal box doccia, mi avvolgo un asciugamano in vita per poi vestirmi con la tuta del 13 e mi sento ridicolo quando finisco di preparami per la prima volta come mi hanno sempre ordinato, perché qui mi sento fuori luogo proprio come lo ero nei primi giochi.
Mi guardo per un breve istante allo specchio, sistemandomi i capelli ormai ricresciuti e osservando l'uomo che è ormai riflesso su quel pezzo di vetro.
Sono io, ma non del tutto.
Poi esco e scopro che Johanna non c'è più, non aveva voglia di aspettarmi perché per lei ci impiego troppo a prepararmi, manco fossi una principessa...
Cammino senza sosta fino al corridoio principale, mettendo l'avambraccio su un apparecchio elettronico che scrive con dell'inchiostro cancellabile le mansioni che bisogna svolgere durante la giornata e con poca voglia mi dirigo nello stanza adibita per chissà quale compito.
Non appena varco la soglia tutti si zittiscono, stupefatti, quasi fossi il Re di Panem ed il mio imbarazzo cresce trasformandosi sempre più in disagio, non dovrei esserci io qui, questi sguardi non dovrebbero essere rivolti a me, ma a lei, che ho cercato di non pensare distraendomi, fallendo miseramente e sto per ricadere nel turbine di emozioni negative che solo il suo pensiero mi porta, ma Chris mi salva da me stesso ancor prima del tempo, sventolando un braccio per farmi sedere accanto a lui.
«Finalmente ci si rivede, Mellark.» mi strizza l'occhio e mi stringe una mano, per poi abbracciarmi calorosamente, mi era mancato Christopher.
«Come va?» gli chiedo sorridendogli.
«Va.» mi fa un sorriso tirato per poi voltarsi verso la lavagna, prendendo appunti mentre io mi dondolo sulla sedia alzando la testa e osservando il soffitto bianco della stanza, segnato da qualche crepa.
E' tutto maledettamente bianco questo posto.
«La presidente dopo il nostro arrivo ci ha informati di Odair e della Everdeen, abbiamo pregato tutti per loro.» bisbiglia il mio compagno di banco per non farsi sentire dall'insegnante e mi rimetto composto osservando per la prima volta il mio vecchio amico, ha una cicatrice sul sopracciglio sinistro, dei punti sul mento, un segno rossastro che parte dalla tempia sinistra che finisce alla mandibola,dei lievi segni vicino all'orecchio destro e delle bruciature sui bracci scoperti dalle maniche alzate.
Segue con gli occhi grigio/blu il mio sguardo e poi mi sorride come se niente fosse, il sorriso smagliante di chi ha visto la morte in faccia, ma che ha vinto comunque, un sorriso che io non possiedo più.
Io sono morto dentro.
E lui continua, come se avesse letto nei miei occhi il senso di colpa che provo, quasi mi fosse stato tatuato in faccia.
«Non importa Peeta, c'è chi ha visto di peggio.» ed è vero perché ci sono persone che hanno perso degli arti, sono rimasti sordi dalle esplosioni, non hanno più la vista o sono completamente sfregiati, ma non importa c'è chi ha visto di peggio.
«Già...» cerco di abbozzargli un sorriso pieno di scuse, ma non basta, non sarà mai abbastanza e il mio migliore amico mi capisce.
«Se vuoi sdebitarti... Presentami la Mason.» e la mia risata lo interrompe perché alla fine non è cambiato di una virgola.
«Davvero amico, è una bella pollastrella... sono serio...» mentre parla mi sorride divertito vedendo come le sue parole hanno suscitato in me una fragorosa risata, così rumorosa, da farci sbattere fuori dall'aula perché disturbavamo e mi mette un braccio sulla spalla mentre cerca di escogitare un piano per conquistare la falegname del 7.
«Peeta.. dai smetti di ridere.. Potrebbe funzionare, capisci?» e non riesco a non sbellicarmi, piegandomi per il dolore alla pancia perché è sempre il solito coglione che cerca di entrare nelle mutandine di tutte le ragazze che lo guardano per un solo istante, è sempre il solito demente e mi era mancato, mi era mancato quel senso di leggerezza che solo lui sapeva darmi quando tutto andava storto, quando mamma mi picchiava perché avevo decorato male una torta, o, quando Rye mi sfotteva perché Katniss non mi filava di striscio, lei aveva occhi solo per il Minatore...
Chris e Delly erano gli unici a credere in me quando ho affrontato i primi giochi, i primi che ho visto alla stazione quando io e Katniss eravamo scesi dal treno dopo i tour della vittoria, quindi rido, rido fino alle lacrime perché non mi sentivo così spensierato da quando avevo scoperto di essere vivo sull'Hovercraft dopo l'edizione della memoria.
«No, non funzionerà Chris. Proprio come non ha funzionato con Didi!» e mi spintona perché per lui sono un ingrato, perché senza di lui non avrei fatto tutte le mie conquiste, ride quando mi parla, ride e mi fa ridere perché è vero era grazie a lui se avevo tutte le ragazzine del paese ai piedi, ma alla fine non sono mai state importanti, perché nessuna era come lei, Katniss.
E poi arrivò l'ora di pranzo, il mio migliore amico mi aveva pregato cento volte di andare a mangiare con gli altri, ma rifiutai ogni singola volta, non mi andava, non ero pronto a rivedere i miei vecchi amici.
Così mi sorrise dandomi una pacca sulla spalla, come se non fosse cambiato nulla.
«Funzionerà Pee... Funzionerà!» disse con gli occhi che brillavano per il suo piano di conquista nei confronti di Johanna, era emozionato per la sua grande idea, poi, se ne andò dandomi le spalle.
«FAI COME CREDI, TUTTLE.» gridai il suo cognome perché sapevo che gli dava fastidio mentre era già lontano, si era voltato per un'istante facendomi il pollice in su', ammiccando in mia direzione, poi mi diede la schiena allontanandosi ed io mi allontanai a mia volta camminando all'indietro, incurante della campana che annunciava a tutti di andare in mensa e osservavo il mio amico, ormai un puntino lontano con le mani in tasca diretto verso gli altri del 12 per mangiare tutti insieme, come i vecchi tempi.
Il corridoio si riempì e finalmente io mi voltai per camminare ancora e ancora, con la speranza che un giorno sarebbe stato tutto più semplice anche con i miei vecchi amici.
Camminavo pensando a Chris che era sempre il solito, invidiandolo perché lui era lo stesso che avevo lasciato al 12 dopo la mia partenza per l'edizione della memoria, e, mi ritrovai a pensare, mentre entravo nella mia stanza aspettando che Johanna arrivasse con i vassoi pieni di poltiglia senza gusto, che avrei voluto poter dire lo stesso di me.







NOTE:
Ciao a tutte, lo so sono in ritardo, ma tra l'inizio della scuola e la correzione del capitolo non sono riuscita ad aggiornare per tempo, ma spero che ne sia valsa la pena.
In questo capitolo troviamo il punto di vista della nostra migliore amica Delly che ha assistito alla morte della famiglia di Peeta, e qui il nostro ragazzo del pane non può fare a meno che sentirsi in colpa, pensando addirittura ad una vita parallela dove lui sarebbe dovuto morire nell'arena dei suoi primi giochi.
Ho aggiunto un nuovo personaggio e l'ho chiamato Christopher Tuttle, ed è il migliore amico di Peeta, colui che assiste alla morte di Ross e che salva Delly da se stessa.
Ho voluto ricreare un rapporto "speciale" fra Effie e Peeta, facendo sì che il Panettiere senta la Trinket un pò la mamma della situazione e Johanna è sempre la spalla di Peeta, quella su cui può sempre contare.
Scrivere queste pagine non è stato molto semplice, l'avevo già finito ed ero pronta per pubblicare, ma il pc mi si era spento prima che io potessi salvare, e, quando l'ho riacceso le mie 20 pagine erano inesistenti, perse nel nulla, così ho dovuto rifare tutto da capo :)
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento e sopratutto che sia chiaro, se ci sono errori di battitura vi chiedo scusa in anticipo, ma 19 pagine sono sfiancanti da correggere nel dettaglio xD 
Se vi va lasciatemi una recensione cosicché che io possa migliorarmi con il proseguimento della storia :3
Come sempre ringrazio Federico per avermi sopportata con questo capitolo lunghissimo<3

P.S.: Vorrei aggiornare il terzo capitolo fra una settimana, anche meno, per farmi perdonare del ritardo di questo qui :3
A presto sognatori <3
__Haaveilla__

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 3 ***


                                                                                          



 




“Le persone non piangono perché sono deboli, ma perché
sono state troppo forti per troppo tempo." -Johnny Depp.


 

Il rumore insistente dell'hovercraft mi rendeva terribilmente nervoso.
Ci era voluta una settimana per progettare tutto, per concedermi la mia ora, così da farmi realizzare cosa aveva fatto Snow al mio mondo.
Ero agitato, avevo paura di quel che avrei visto perché non ero pronto, e forse, mai lo sarei stato. Eppure dentro di me sapevo che era una cosa necessaria, perché dovevo capire, tastare con mano.
Avevo avvertito solamente Delly e Primrose della mia visita al distretto e le ragazze avevano avuto due reazioni differenti.
La mia amica mi aveva supplicato di non guardare quello che le fiamme avevano demolito, di non andare al distretto perché era una cosa scioccante, perché lei mi conosceva e sapeva che mi sarei accusato, che mi sarei odiato senza alcun motivo e così facendo avrei mandato all'aria tutti i progressi che avevo fatto nel corso di questi mesi, ma la posta in gioco era troppo alta ed io, ovviamente, non l'ascoltai, proprio come fece Ross seguii il mio istinto.
La dolce e piccola Primrose, invece, mi aveva sorpreso; ormai era un'emozione continua quella giovane donna. Lei mi aveva semplicemente guardato dritto negli occhi, sorridendomi dolcemente, ma non disse nulla, stette in religioso silenzio per qualche minuto, poi, sbuffò cacciando l'aria dal naso e dopo poco mi chiese se potessi farle un favore, ovvero, dovevo entrare in casa sua per recuperare alcune erbe medicinali che le servivano per l'ambulatorio, ma che il 13 non poteva fornirle; successivamente di prenderle il libro delle erbe che stavo finendo con sua sorella e una foto di suo padre, per la signora Everdeen.
Quando ebbe finito la sua breve lista le chiesi solo una cosa, la mia domanda era tanto spontanea quanto inusuale.
«Perché tu non cerchi di fermarmi?» dissi flebilmente, forse perché il mio quesito era così sciocco da non dover essere sentito, ma lei aveva risposto con saggezza mentre un dolce sorriso le si dipingeva in viso.
«Perché penso che dopo aver visto il distretto riuscirai, finalmente, a trovare uno scopo e così, troverai anche te stesso.» quando udii quelle parole le sorrisi timidamente, come se fra i due fossi io quello più piccolo di quattro anni e dopo averla salutata con un abbraccio mi diressi con Johanna verso l'hovercraft.
Dovevo farlo, dovevo vedere com'era ridotta la mia casa, era essenziale. Dannatamente necessario.
Lo era, anche se mi tremavano le ginocchia per l'agitazione, anche se avrei voluto comunicare al pilota di tornare indietro, perché temevo che al posto di ritrovarmi mi sarei perso del tutto, perché in cuor mio sapevo che non ne sarei uscito indenne. E Johanna mi fissava, spazientita dalla mia agitazione ed esasperata dal mio silenzio, il mio mutismo diceva più cose delle parole stesse. La mia compagna di stanza non era paziente con me e, sotto sotto, mi andava bene, perché avevo bisogno di questo, della verità sbattuta in faccia senza alcun timore, perché dopo anni di bugie ne avevo l'esigenza; non sarei riuscito a sopportare il peso del tradimento un'ennesima volta.
«Hawthorne si è rifiutato di farti da scorta...»disse incurante Jo mentre si guardava le unghie, ed io, da buon amico l'ascoltai, anche se non mi importava di Gale che non riusciva a stare nella mia stessa stanza, o degli sguardi omicidi che mi lanciava infondo provavo rancore anch'io verso il minatore... E non erano inerenti al contesto i commenti della Mason su quanto fosse carino il braccio destro della Coin, forse, in un'altra vita sarebbero stati degli argomenti interessanti, ma adesso provavo solo disagio sentendomi sempre più inferiore al ragazzo dagli occhi color piombo, perché anche Katniss lo aveva scelto, la ragazza che annunciava di amarmi in diretta televisiva e che successivamente mi ignorava quando eravamo al distretto perché lui era sempre in mezzo ed io me lo facevo andare bene, avrei fatto di tutto per non perderla, ero un po' una bambola di pezza tra le mani di Katniss Everdeen, lei aveva il potere di farmi fare tutto quello che voleva, non sarei mai riuscito a dirle di no perché lei non aveva idea dell'effetto che faceva, che mi faceva.
«Panettiere ?... Peeta, siamo arrivati.» la voce bassa di Johanna mi fece ridestare dai miei pensieri e piano piano l' hovercraft si fermò, atterrando lentamente, rendendomi sempre più inquieto.
Boogs uscì dalla cabina di pilotaggio porgendoci degli auricolari.
«Avete un'ora, se qualcosa dovesse andare storto avvertiteci, vi teniamo d'occhio.
Nel frattempo noi voliamo intorno al distretto per non farci rintracciare dai possibili radar capitolini .» annuii lentamente, sfregando le mani sulle cosce, la paura mi stava letteralmente paralizzando, temevo ciò che avrei potuto vedere.
«Avanti Peeta, ci sono io.»sussurrò Johanna mentre mi afferrava una mano, sorridendomi quando il portellone iniziò ad abbassarsi e trascinandomi fuori, convinta che non fosse successo nulla di grave, come se tutti gli abitanti del 12 avessero solo ingigantito un racconto rendendolo più drastico di quello che era in realtà. Ma il sorriso incoraggiante morì sulla faccia di Johanna non appena aveva poggiato un solo piede in quella coltre di cenere.
Avevo la bocca spalancata e mi portai una mano su di essa per reprimere un gemito di dolore, perché avrei preferito morire che convivere con questo fardello. Erano morti a causa mia e la fitta al petto diventò ancora più forte quando avanzammo di qualche passo, perché non c'era più nulla se non una distesa di cenere e di calcinacci, perché al posto della piazza vi era solo il nulla, una distesa di mattoni rotti e ingrigiti per via del fumo e delle fiamme.
Era tutto irriconoscibile e andavo avanti per le strade appellandomi alle mie memorie ed era orribile, sopratutto quando mi ritrovai difronte alla panetteria Mellark. Le gambe avevano ceduto facendomi crollare in terra, non c'era più nulla, non avevo più niente se non detriti e resti di una vita passata.
I crani umani erano ovunque così come i corpi bruciati senza un minimo di pietà, senza alcun rimpianto, per punire me e Katniss dei nostri atteggiamenti, non eravamo stati abbastanza bravi con l'idillio e gli abitanti del 12 ne avevano pagato il prezzo, ma ancora il presidente non mi aveva fatto saldare il conto e la sua voce calda echeggiava nell'aria perché alla fine, Katniss, mi aveva raccontato delle minacce che il presidente le aveva fatto nella sua stessa casa, facendola sentire un'estranea.
Immagini il suo distretto raso al suolo,radioattivo, come il distretto 13. Le persone che più ama...Morte.
L'aveva fatto Snow, aveva mantenuto la sua promessa, peccato però che il prezzo più caro lo stavo pagando io che ero a carponi di fronte alla panetteria della mia famiglia, le ginocchia mi dolevano, ma non era abbastanza, non era niente di paragonabile a quello che avevano fatto a loro, i governatori di Panem agli abitanti del 12, vittime innocenti uccise per una sete di potere incontrollabile. E tutto mi faceva paura, più paura dei giochi e della morte stessa, perché non potevo prevedere nulla, perché non vi erano paracaduti o sponsor, ma solo vittime e sopravvissuti.
Rimasi immobile per chissà quanto tempo e non riuscì a non pormi delle domande, perché ora sapevo che Snow poteva tutto e se il Presidente aveva raso al suolo un distretto di oltre diecimila persone, cosa avrebbe fatto a Katniss se fosse stata viva tra le sue grinfie?
Iniziai a gattonare muovendomi di qualche metro verso quello che sembrava il piazzale vicino ai negozi, andai a carponi in preda ai singhiozzi sporcandomi di cenere, di resti umani, piangendo, perché quei cadaveri potevano essere di chiunque, poteva essere Paul il fioraio o Daisy che lavorava al vecchio forno, potevano essere i miei compagni o i miei amici, qualsiasi persona era importante, nessuno escluso.
Mi sentivo malissimo e avrei solo voluto gridare dalla rabbia e forse lo stavo facendo perché la gola bruciava e la salivazione si era azzerata come se dovessi vomitare da un momento all'altro e alla fine lo feci, rimettendo anche l'anima, se ce l'avevo ancora, perché chi aveva fatto tutto questo non poteva che essere solo un mostro, un serpente viscido che uccide senza pietà e mi facevo schifo pure io, perché vivevo mentre tutti loro avevano pagato per i miei errori, i nostri errori.
Non avevo saltato un solo posto del distretto ed ero riuscito ad andare avanti solo per Johanna che mi aveva abbracciato da dietro mentre ero inginocchiato davanti al palazzo di giustizia, mentre i corpi ammassati erano stati così tanti da farmi reprimere a stento i conati, il senso di colpa era così forte che l'unico pensiero che riuscì ad articolare fu: uccidetemi, vi prego, perché farebbe meno male.
E la mia amica mi strinse forte, così forte da mozzarmi il fiato per un breve istante, premendo il suo petto contro la mia schiena, sussurrandomi che avremmo vendicato tutti e che grazie al loro sacrificio,forse, molti altri avranno un futuro migliore e mentre mi cingeva per la vita afferrai le sue mani, che erano stette sulla mia pancia, sporcandole i dorsi di cenere grigiastra e piegandomi in avanti per sfogarmi di tutto quello che avevo dentro, ma forse dentro non avevo più niente, niente che non fossero lacrime e rabbia. Avevo perso tutto quello che avevo, tutto quello che ero, non sarei riuscito a ritrovarmi, perso come Dante all'inferno.
Poco dopo i singhiozzi scemarono e noi ci alzammo, continuando a girovagare tra le distese di morte e distruzione.
Stavamo camminando da minuti e le nostre mani non si erano separate per un solo istante, era un piccolo appiglio per non distaccarci dalla realtà, poi finalmente, vidimo in lontananza il cancello in ferro battuto del villaggio dei vincitori ed insieme lo oltrepassammo .
Il villaggio era perfetto. Il giardino era ben curato, le case ridipinte e dalla fontana usciva dell'acqua, era tutto impeccabile in ogni singolo dettaglio, il presidente aveva saltato le case dei vincitori e la mia malizia mi suggerì che forse l'aveva fatto per poter dare asilo a qualche giornalista, in modo tale che stesse comodo durante il suo soggiorno.
Di fretta mi diressi verso la mia abitazione, entrando così subito in casa, correndo su per le scale e recuperando il mio zainetto, infilandoci dentro qualche felpa, alcune tempere e pennelli e il mio libro preferito, poi uscì e senza indugiare mi recai a casa di Haymitch.
«Questa casa è un porcile...» Era schifata Johanna mentre si faceva largo fra le bottiglie vuote del mio vecchio mentore che nonostante avesse scelto me, lasciando lei nell'arena a morire, meritava qualche cimelio della sua vecchia vita. Così presi la sua fiaschetta riempiendola di Alcool e poi recuperai qualche sua fotografia. Jo si guardava intorno osservando i libri e l'arredo di casa Abernathy, senza mai toccare nulla perché per lei potrebbe essere tutto pieno di germi!
Alla fine, come ultima tappa, c'era la casa della famiglia Everdeen.
«Io resto qui... Prenditi il tuo tempo.» si era seduta sul portico la mia amica, anche se ormai Johanna era più di un'amica, era come una sorella fastidiosa, una di quelle che ti entra nel cuore, ma che non ne vuole più uscire. Senza dire nulla la ringraziai, annuendo ripetutamente mentre mi voltavo verso la porta d'entrata, poi, varcai la soglia di casa lentamente.
Dopo aver richiuso la porta mi appoggiai con la schiena su di essa, lasciandomi scivolare lentamente in terra e respirando a pieni polmoni.
Il profumo di Katniss era ovunque, non lo sentivo da così tanto che temevo di averlo dimenticato e faceva male perché non avevo più niente se non la fioca speranza che mi spingeva a credere che lei fosse ancora viva, ma ci contavo poco, dopo quello che Snow aveva fatto al 12 era impensabile pensare che lei vivesse ancora.
Avevo stretto le ginocchia al petto e le mani poggiate sugli occhi che lacrimavano, perché mi mancava, mi mancava come l'aria quando si va sott'acqua.
Dopo qualche minuto mi rialzai mettendo di fretta tutto l'occorrente che serviva a Prim nella sacca, poi andai al piano di sopra ed entrai in camera di Katniss, prendendo alcune sue cose, per averla più vicina, per sentire ancora il suo profumo, per sognare la sua presenza. Restai nella sua stanza per non so quanto tempo, sentendomi un intruso nella sua tana, ma alla fine dovetti andarmene e fu come se l'avessi abbandonata, ancora.
Mancavano 5 minuti all'arrivo dell'hovercraft ed io mi fiondai quindi al piano inferiore, recuperando dall'attaccapanni il giubbotto di pelle marrone logoro che usava sempre Katniss, quello di suo padre, quello che indossava sempre ed ero immerso nei miei ricordi, nel vederla mentre camminava per le strade del distretto, mentre barattava i suoi scoiattoli con mio padre che la pagava più del dovuto perché gli avevo promesso che avrei fatto i turni doppi in panetteria e che avrei decorato tutte le sue torte, perché non importava se lavoravo di più arrivando alla sera con la schiena distrutta, tutto passava in secondo piano quando c'era lei di mezzo, e ogni tanto, le facevo regalare da mio padre due pagnotte, perché era sempre troppo magra, perché non avrebbe mai più dovuto piangere o rovistare nella spazzatura come aveva fatto quando avevamo undici anni e ancora mi davo dello stupido per non esserle andato incontro, porgendole il pane e bagnandomi sotto la pioggia con lei, ma nonostante tutto il giorno dopo, a scuola, trovai un dente di leone sul mio banco e dalle occhiate che mi lanciava ero sicuro ce l'avesse messo lei, ce l'avevo ancora, l'avevo conservato meticolosamente ed era essiccato dentro il libro che avevo dentro lo zainetto.
Fu il rumore delle stoviglie a farmi spaventare, pensavo di essere solo e mi aspettavo fosse Johanna a fare baccano, ma in realtà era solo il gatto di Prim. Quando lo vidi iniziai a pensare che Ranuncolo fosse realmente immortale, sopravvissuto alla furia di Katniss che non lo sopportava affatto e ad un bombardamento, così ridacchiando lo presi tra le braccia, coccolandolo, e dopo aver messo delicatamente il giubbotto di Katniss nella borsa presi una casacca appesa nell'attaccapanni infilandoci dentro il gatto arancione che miagolava incessantemente.
Uscii fuori dalla casa chiudendo attentamente la porta d'entrata poi mi allontanai, ma appena arrivai sulle scale del portico tornai indietro e chiusi la porta a chiave, perché nessuno doveva poter invadere il mondo della ragazza in fiamme,poi, misi quel pezzo d'ottone in tasca, custodendolo come fosse la mia stessa vita.
«Non ci hai messo molto.» Jo mi sorrise dolcemente con le labbra chiuse, adesso non c'era spazio per i battibecchi o per le prese in giro, ci lasciammo semplicemente cullare dall'orrore commesso da Capitol City, perché non c'era tempo per fare gli adolescenti che litigavano, perché dopo la visione del mio distretto c'era solo la consapevolezza che il presidente dell'intera Panem avvelenasse i suoi nemici per non avere rivali, perché in fondo governare un regime con la paura era molto più semplice che infondergli speranza.
Così saliammo sull'hovercraft, mi sedetti svogliatamente sul sedile allacciandomi le cinture, sospirai e posando il capo sul poggiatesta, iniziai a pensare a ciò che avevo appena visto e provato e quando il velivolo decolla, finalmente capii perché stessimo facendo tutto questo e forse sarà perché avevo ancora le ceneri del mio distretto sulle scarpe, ma per la prima volta riconobbi agli abitanti del 13 qualcosa che finora avevo negato loro: il merito di essere rimasti vivi contro ogni aspettativa.
Dopo qualche ora ritornammo al distretto 13 e non appena oltrepassai le porte blindate mi accolse una Delly con un sorriso mesto, così tirato da sembrare una smorfia, mentre camminavamo per raggiungerla, Johanna mi informò che sarebbe andata a lavarsi e la capivo perché voleva togliersi quella sensazione di sporco, che non è materiale, ma emotivo, psicologico, vuole sentirsi meno sporca dentro ed io, forse solo io, riesco a capirla per davvero, così annuii senza ribattere, lei doveva assimilare, io l'avevo fatto durante il viaggio, non ero riuscito a chiudere occhio, i miei pensieri non mi davano pace.
Johanna oltrepassò Didi in silenzio, salutandola con un cenno del capo, allontanandosi in fretta e sparendo subito dal mio campo visivo.
Adesso mi guarda negli occhi Delly, con quei pozzi azzurri in cui ho rivisto in pochi secondi tutta la mia giornata, rivivendola e ricordandomi della sua ultima notte al 12.
Un lampo attraversa lo sguardo di Delly Cartwright che mi fissa, per poi sospirare dalla tristezza. Nessuna parola potrebbe mai descrivere i nostri stati d'animo, perché non sarebbe necessario, ma alla fine, la mia amica, cede.
«Non capirò mai Capitol City», ribatte lei.
«Forse è meglio non capirla», le dico.
Perché è vero, nessuno dovrebbe capire com'è, perché quando te ne rendi conto l'amarezza è il retrogusto che ne lascia la sua scoperta.
Poco dopo la mia amica si allontana da me, salutandomi con un abbraccio veloce, per poi andare a fare chissà quali compiti con l'orario giornaliero ed io ne approfitto per andare da Primrose.
«Finalmente sei ritornato» mi guarda dolcemente, accogliendomi nella sua stanza ed io le sorrido di rimando.
«Si, ho recuperato tutto quanto, ma la cosa fondamentale è lui...» dico aprendo la casacca e porgendole delicatamente il suo adorato gatto arancione, quello che Katniss voleva fare al forno e ancora sorrido per le minacce che lanciava a questo povero animale, che per la sorellina non può che essere adorabile.
«Ranuncolo!» lo prende subito fra le braccia con gli occhi emozionati e subito questo fa le fusa in sua direzione, bramando le carezze della sua padroncina.
«Pensi che me lo faranno tenere? Qui hanno delle regole rigide...» e con questa frase la vedo,per la prima volta, come una ragazzina della sua età e non posso fare a meno di prometterle che avrei fatto di tutto per farglielo tenere e lei mi stringe una mano, sussurrandomi un 'grazie Peeta' mentre le guance le si imporporano lentamente, poi dopo poco entrò la signora Everdeen nell'alloggio, salutandomi in modo quasi forzato, mentre un sorriso, che pareva tutto tranne che vero, le si dipinse in viso.
Cortesemente le diedi tutte le cose che le servivano, facendo attenzione a non rompere nulla.
«Ho preso anche la giacca di pelle di suo marito e una foto che sua figlia adorava...» anche solo ricordarla faceva male, perché lei non era al loro fianco,non più, c'ero io, ma di me non importava a nessuno, lei era necessaria per tutti, io no.
«Si...Katniss era molto legata a suo padre.» lo sapevo, me ne aveva parlato Katniss, raccontandomi dell'esplosione della miniera e della morte di suo padre, sapevo tutto di quella famiglia, tutto o quasi.
Sapevo come Beth Everdeen aveva reagito alla morte di suo marito Jimmy, lasciando le proprie figlie al loro destino, cadendo in uno stato catatonico e rinchiudendosi nel suo dolore e non ne soffriva molto la signora Everdeen della lontananza di Katniss, non soffriva come me, come Prim che di nascosto, quando pensava di non essere vista da nessuno, piangeva; come Gale o semplicemente come Haymitch.
Ormai Beth aveva riposto tutte le sue speranze in Prim, che le somigliava, che aveva preso anche la passione per la medicina da lei, perché ormai aveva perso Katniss e non sarebbe mai bastato il prepararle un bagno caldo dopo gli Hunger Games, perché Katniss le era scivolata fra le dita molto prima della mietitura e Beth lo sapeva, perché aveva perso definitivamente la sua primogenita quando se ne era infischiata della sua vita, quando le aveva permesso di fare da madre a Prim, quando aveva dovuto rovistare nella spazzatura per cercare un po' di cibo o quando l'aveva abbandonata al suo destino, lasciando che la sua prima figlia si affidasse alla divina provvidenza. Se ne era semplicemente fregata, vivendo solamente per sentire il dolore della sua privazione.
Non era stata una brava madre Beth, che con la morte del marito non riuscì ad amare più nessuno, neppure se stessa. E forse era proprio per questo che la signora Everdeen mi guardava con riluttanza, preferendo sempre Gale Hawthorne a me, perché io avevo contribuito inconsciamente all'allontanamento di Katniss, anche se la colpa era solo di una madre che non sapeva essere più tale, proprio come la mia, lei, non provava amore.
Ed è per questo che dopo alcune formalità esco dalla stanza, perché so di non essere ben accetto dalla donna bionda che mi fissava riluttante, ma va bene, non importa, ormai nulla ha più importanza.
L'unica cosa che voglio, è solo stare dove vorrei essere e diventare ciò che voglio e dopo quello che ho visto so che diventerò la voce della rivoluzione, per tutti i caduti, per gli innocenti uccisi da un presidente assetato di potere, ma anche per Katniss.
Quando mi distendo sul letto ho ancora i capelli umidi per la doccia, la stanza è avvolta dal buio e Johanna ronfa nel suo letto, il sonno non accenna ad arrivare così esco vagando per i corridoi, proprio come facevo al tour della vittoria e la sento ,lei, sta gridando ancora ,come quella notte sul treno, così le corro incontro entrando nella sua stanza per tranquillizzarla, per salvarla dai suoi fantasmi.
«Scusami...era solo un' incubo.» dice e di getto le rispondo, perché ho già vissuto tutto e lo vorrei rivivere ogni notte se significasse stare con lei, anche se per qualche istante.
«Figurati, ce li ho anch'io.»ribatto e le auguro la buonanotte allontanandomi di qualche passo quando mi richiama e mi volto, perché l'unica cosa che voglio è sentirle dire che vuole me, sempre.
Eppure non lo fa, tentenna e mi manda via e la perdo, ancora. Poi mi ritrovo in una stanza bianca con delle luci a neon accecanti, la vedo, è al centro della camera e mi fissa con i suoi occhi grigi, mi sorride, ma il sorriso sparisce dal suo volto, del sangue le esce dalle sue labbra carnose ed io la vedo morire davanti a me, ma non posso fare nulla, impotente, sono bloccato e lei continua a sanguinare davanti ai miei occhi così grido, grido perché ho fallito di nuovo, me l'hanno portata via, l'ho persa per sempre.
Apro di scatto le palpebre, sono in un bagno di sudore e Johanna sta ancora dormendo, non grido mai quando ho un incubo, mi agito e basta e solo quando il dolore è troppo forte mi sveglio in preda al panico, perché non siamo al tour della vittoria o al centro di addestramento, perché al mio risveglio lei non c'è, perché nei miei incubi la perdo per sempre e al mio risveglio non vi è alcun sollievo, perché realizzo di averla persa anche nella realtà.
Sono disteso supino, la testa che gira e il mio cuore si pone una sola domanda: mi stai sognando anche tu, Katniss? 
Mi siedo strofinandomi gli occhi, passandomi una mano fra i capelli madidi di sudore e so che ormai Johanna è sveglia perché il suo respiro non è più pesante e perché non russa come prima. Ormai ci conosciamo come i palmi delle nostre mani e la domanda mi esce spontanea.
«Cosa pensi che le faranno...» la mia voce è ancora impastata dal sonno, ma non importa perché questa sarà l'unica notte in cui mi appello alla speranza che lei sia ancora viva, non voglio ingozzarmi di false speranze per poi vomitare delusioni, ne uscirei annientato.
«Quando Snow capirà che fai parte dei ribelli: qualsiasi cosa serva per spezzare te.» la risposta della mia coinquilina è come un pugno in pieno petto e mi ritrovo a pensare cose che non avrei mai il coraggio di dire, perché sarebbe un'ammissione troppo dura, troppo egoista, un pensiero che non è da me.
Mi ritrovo a pensare che se così fosse, forse, è meglio che sia morta. Perché la amo troppo e non riuscirei a vederla distrutta a causa mia e mi odio fin da subito per aver considerato anche per un solo istante questa cosa, mi ritrovo diviso a metà perché vorrei solo essere con lei ,ovunque sia, e rispondere per dieci; cento, mille volte che resterei con lei per sempre, ma non me l'hanno permesso.Perché io sono completo solo se c'è lei al mio fianco, perché sono troppo impegnato ad essere suo per potermi innamorare di qualcun'altra ed è il mio amore a farmi andare avanti, vado avanti grazie a lei.
Per lei, sempre.
Non ero più riuscito a prendere sonno, così dopo essermi rigirato fra le lenzuola decisi di alzarmi.
Feci una doccia e mi preparai per affrontare un'altra insulsa, monotona e noiosa giornata. Sulla parete l'orologio segnava che erano le 5 del mattino e nessuno si sarebbe alzato non prima delle 8.
Johanna dormiva ronfando sonoramente ed io dopo aver sistemato il letto mi distesi sopra le lenzuola per leggere il libro che avevo preso da casa mia. Ricordo quando i miei fratelli mi chiedevano come potevo leggere un mattone simile, perché per loro erano troppe pagine e la storia non era avvincente, ma per me...per me era tutta un'altra storia.
La trama era semplicissima, così semplice che mi rivedevo nel protagonista e ogni volta che leggevo speravo che tutto andasse per il verso giusto, nonostante conoscessi alla perfezione ogni capitolo.
Era una storia d'amore tormentata, uno di quei romanzi per ragazze, ma per me era uno dei libri più belli che mio padre avesse mai portato in casa.
Leggevo lentamente per godermi ogni singola parola, ogni singolo gesto che compieva l'innamorato verso la sua fanciulla, ma il muoversi di Johanna mi distraeva.
Scalciava le coperte come fossero corde che la legavano e, di tanto in tanto, sibilava qualche 'No'.
Quando Jo faceva un brutto sogno non reagiva come Katniss, lei era molto più agitata e le sue urla mi facevano paura e tristezza da quanto erano strazianti...Katniss si calmava solo con me.
Johanna invece si rigira fra le coperte, parla nel sonno e se l'incubo è “potente” morde il cuscino e grida con tutto il fiato che ha in gola, ma le urla vengono attutite dal guanciale e nessuno, oltre me, riusce mai a sentirla.
Alcune volte l'avevo ritrovata in bagno, accovacciata mentre si dondolava e piangeva, era tanto forte quanto debole Johanna, il suo cinismo era una corazza che le permetteva di non farsi ferire, forse, ero l'unico con cui se ne privava.
«Jo...Jo!» senza indugiare mi accuccio accanto a lei scuotendola, ma non la svegliano neanche le bombe da quanto ha il sonno pesante.
«Johanna!» la muovo con vigore e finalmente apre gli occhi di scatto, attaccandosi al mio collo per poi spingermi via come se avessi fatto qualcosa di tremendamente sbagliato.
«Cosa vuoi, Panettiere?» chiede assonnata, indossa la sua maschera di superficialità, sa che mi dà fastidio.
«Avevi un incubo.»ma la mia constatazione non la smuove, è tremendamente orgogliosa e poche volte si lascia andare, abbattendo i muri che si è creata intorno, mostrandosi per quella che è realmente.
«Non importa...» il mio volto non ha espressioni e il mio sguardo è vacuo, non deve mentire con me. Non dopo le lacrime che abbiamo versato insieme mentre eravamo abbracciati in bagno nel cuore della notte; non dopo le grida e gli insulti; non dopo la visione della mia casa; non dopo tutte le parole di conforto che mi aveva sussurrato ogni volta che cadevo in pezzi e non dopo che ci eravamo presi per mano per non perdere chi eravamo.
«Che hai visto?» parlo piano e a bassa voce.
«Va tutto bene,Panettiere..» fa schifo a mentirmi Johanna, sopratutto dopo un incubo, così la fisso insistentemente e dopo essersi seduta a gambe incrociate sul letto sbuffò e iniziando a raccontare.
«In realtà nulla di particolare Peeta, ho solo rivisto tutto...» dice guardandosi le mani che ha poggiato sul grembo e che continua a torturarsi, so cosa significa il suo tutto.
Ero stato al 7 solo una volta, al tour della vittoria con Katniss. Non mi ero concesso di visitarlo per intero, ma Johanna lo descriveva come un posto noioso, fatto di falegnami orgogliosi e mogli devote.
La Mason abitava in una piccola fazione del distretto e la sua casa era in legno bianco. Viveva con i suoi genitori e il fratello maggiore Jason, che fin da bambina le aveva insegnato a difendersi dai bambini più grandi.
La madre di Johanna si chiamava Evangeline ed era una donna bellissima, il padre, Samuel, era uno dei falegnami più importanti del distretto. Ma nonostante la famiglia potesse vivere nella parte più ricca del quadrante decise di abitare in una casa modesta.
La mia amica mi disse che aveva sempre avuto un bel visino, era considerata una sorta di bambola di porcellana per molte persone e la sua aria innocente tradiva il suo carattere da maschiaccio, infatti lei andava a tagliare la legna con il padre e si arrampicava velocemente sugli alberi e la madre la sgridava spesso per questo suo comportamento, ma a Johanna non importava perché i vestitini che le arrivavano sotto al ginocchio, i capelli color ebano lasciati sciolti o acconciati grazie ad un nastro e il suo sorriso intenerivano chiunque e facevano credere nella sua finta innocenza.
Dopo la mietitura si era finta una debole, piangendo e addirittura
singhiozzando all'intervista di Ceasar Flickerman, ma quando fu dentro l'arena fece uscire il suo lato meno dolce, quello che le fece piantare la scure in pieno petto a molti tributi, quel lato che le aveva fatto decapitare il tributo maschio del distretto 4 in un batter di ciglia.
Quando tornò a casa niente era come prima, la madre non la guardava più in faccia, troppo disgustata da ciò che la figlia aveva fatto e il padre fingeva che nulla fosse mai accaduto comportandosi in modo quasi vergognoso, la Johanna che era ritornata non era la stessa che era partita, ma Jason,... Lui era realista. Le diceva le cose in faccia e la prendeva in giro, suo fratello non la trattava in modo diverso o come se niente fosse successo, Jason era Jason.
Snow aveva fatto delle richieste a Johanna, ma lei di buon grado si era tirata indietro, così il presidente le ripose che avrebbe pagato pegno, che si sarebbe pentita del suo rifiuto.
Poco dopo il suo ritorno dal tour della vittoria scoprì che il padre morì misteriosamente in un incidente nella boscaglia, la madre finì in depressione e si suicidò, la trovarono impiccata ad un albero non molto distante dall'abitazione dei Mason, con un biglietto di addio sotto i piedi che penzolavano.
Alla vincitrice rimaneva solo suo fratello e lo mise in guardia, raccontandogli delle minacce del presidente e dicendogli che forse era meglio che accettasse le proposte, ma i due litigarono e Jason le gridò in faccia le peggio cose sbattendo poi la porta di casa e andando chissà dove per bere, ma non fece più ritorno.
«Non te l'ho mai detto Peeta, ma era stato ritrovato dentro al pozzo...affogato. L'ho visto mentre galleggiava...» stringo la mano della mia amica che è più forte di molti, ma che al contempo è fragile come la porcellana.
«Hanno archiviato subito il caso.» dice insofferente, continuando a guardarsi le mani.
«Mi dispiace Jo...» annuisce alzandosi e dirigendosi verso il bagno, sono ormai le 7 e mezza.
«Non sono triste, anzi... Si sa che tanto lo uccido quel pezzo di merda di Coriolanus Snow.» dice per poi richiudere la porta con un tonfo ed io vado nel corridoio principale per prendere l'orario del giorno, non conosco quello che mi aspetta, ma sto bene, in realtà non sento niente, ma non mi interessa.
Sapevo già quello che avrei fatto durante il giorno, ovvero, avrei cercato ogni singola scusa per distrarmi e pensare ad altro, per non soffermarmi troppo con la mente verso Katniss, verso il 12 o semplicemente sul racconto di Johanna. Sonoforte, ma non invincibile, sono stanco, abbattuto e si, anche sconsolato. Mi hanno tolto tutto quello che avevo e al loro posto hanno lasciato solo un vuoto incolmabile che ha come retrogusto il sapore ferroso del sangue misto a quello salato delle lacrime, quelle che avevo versato durante tutti questi mesi e che avevo bevuto per errore.
Non sarei mai e poi mai riuscito a leccarmi le ferite in fretta, voglio solo che il tempo passi in fretta per far finire al più presto questa terribile agonia che mi è stata riservata per nulla.
Vorrei scappare da tutti, persino da me stesso.
Così decisi che oggi avrei saltato la colazione, non avevo fame e non amavo la compagnia e il calore della folla e sarei passato direttamente al programma delle 9, non c'è scritto molto solo:
SALA 34.

 






NOTE:

Ciao a tutte :3 lo so, avevo promesso di caricare il capitolo dopo una settimana dalla pubblicazione di quello precedente, ma davvero sono state delle giornate infernali. Tra lo studio ed un'imprevisto durato 3 giorni e 2 notti che ho dovuto passare in ospedale per dei problemi di salute non ne sono venuta a capo, quindi vi chiedo scusa per l'attesa e in cuor mio spero che ne sia valsa la pena.
L'immagine all'inizio del capitolo è una Rosa dopo un'incendio e la trovo magnifica, anche se la qualità della foto fa un po' schifo xD
Bando alle ciance: 
finalmente Peeta riesce a vedere com'è conciato il distretto 12, capisce di cosa è capace Snow e inizia a fare 2+2, ma la cosa che lo differenzia da Katniss è che lui nonostante tutto non entra solo in casa sua -come ha fatto lei nel libro originale- ma va in quella della famiglia Everdeen e, nonostante tutte le accuse che gli ha lanciato contro, anche in quella di Haymitch... E' proprio tenero il panettiere :3
Poi c'è anche il racconto di Johanna e della sua vita prima dei giochi, ma sopratutto la sua vita dopo la vittoria agli Hunger Games.
Scrivere questo capitolo è stato come ricevere una pugnalata al cuore, la tristezza proprio :-P
Se vi va fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo tristissimo con una recensione, sono davvero curiosa di conosere i vostri pareri :3 sono ben accette critiche e consigli cosicché io possa migliorarmi con il proseguimento della storia :)
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno recensito fin adesso la mia storia, chi l'ha aggiunta tra i preferiti, le ricordate, le seguite o chi semplicemente legge...
Davvero, graziegraziegrazie è un traguardo importantissimo per me! 
P.S.: Il prossimo capitolo, per me, è troppo carino, ma sopratutto è già in fase di correzione spero di riuscire ad aggiornare al più presto possibile :3

A presto sognatori <3
__Haaveilla__



 

 

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 4 ***














L'amore è quella cosa che ci fa sorridere quando siamo stanchi.”- Tommaso, 4 anni.





Mancavano pochi minuti alle 9 del mattino ed io ero diretto alla fatidica “Sala 34”. Riuscii a capire, grazie a dei ragazzi, che a quanto pare lì dentro si svolgeva una sorta di attività di gruppo per i giovani ed io , ovviamente, non avevo voglia di parteciparvi, ma dovevo e poi, ad essere onesti, non volevo farmi consumare dalla monotonia delle mie giornate.
Camminavo a capo chino con le mani in tasca e quando alzai lo sguardo vidi Boogs venirmi incontro con un sorriso mesto sulle labbra.
«Peeta, la Coin ti vuole al comando.» disse deciso, ed io senza aggiungere nient'altro annuii e lo seguii dalla presidente.
Non dissi nulla al comandante dentro l'ascensore, il mio sguardo era rivolto verso il basso. Contemplavo i miei scarponi color topo; il doppio nodo che avevo fatto alle stringhe anch'esse grigie mentre la mia mente andava piano piano in un'altra dimensione; il colore delle mie scarpe mi ricordava tanto quello che aveva il suolo del mio distretto, il colore della cenere. Avrei tanto voluto dimenticare la visione della mia vecchia vita andata in pezzi.
Vorrei non aver dovuto subire tutto questo.
Boogs aprì le porte dell'ascensore ed io, senza proferire parola, camminai lentamente verso le porte della stanza dove mi aspettava Alma Coin.
Più accorciavo le distanze più dentro di me si ponevano domande, quesiti alla quale nessuno aveva mai dato voce. Neppure io, fino ad allora.
«Come avete fatto?» chiesi a qualche metro di distanza dalla porta che ci separava dalla Presidente.
Avevo lo sguardo fisso in avanti e quando mi voltai notai Boogs che mi fissava con le sopracciglia aggrottate.
«A sopravvivere...Come avete fatto a sopravvivere? Pensavo non fosse rimasto nulla del 13.» precisai senza mai guardarlo negli occhi.
«Siamo soldati. Abbiamo imparato a vivere sottoterra, allenandoci in ogni istante della nostra vita. Per noi la guerra non è mai finita.» rispose, a pugni stretti, l'uomo accanto a me.
Con un cenno del capo mi intimò di continuare a camminare per quei pochi metri che ci separavano dalla sala riunioni poi poggiò una mano sulla maniglia e, con un sorriso divertito, mi ridisse la sua solita frase: «mantieni la calma!»
Gli sorrisi di rimando e, dopo aver preso un respiro profondo, gli diedi il consenso per aprire la porta.
La presidente era seduta su una seggiola di fianco a Plutarch Heavensbee. Quando mi vide entrare si alzò in fretta venendomi incontro, posò le sue mani sulle mie spalle e le strinse un po', quasi volesse darmi forza.
«Voglio che tu sappia che tutti noi ti siamo vicini! Capiamo quanto per te possa essere stata difficile questa situazione!» disse amorevolmente guardandomi dritto negli occhi, poi mi fece accomodare su una sedia mentre lei riprese il suo posto accanto a Heavensbee che scriveva senza sosta su un libretto nero.
«Immagino che tu abbia finalmente capito che il nostro è un nemico comune e spero che, dopo la visita al tuo distretto, tu possa comprendere la mia preoccupazione nei tuoi riguardi! Temevo che i giochi ti avessero distrutto; che non avresti retto il colpo, che la portata della notizia ti avrebbe devastato!» mi spiegò la presidente ed io la osservai pazientemente; i suoi occhi erano di un colore indefinito, le sue mani erano strette in preghiera sopra al tavolo in ferro.
«Per questo volevo, anzi volevamo, proporti...» iniziò prendendo aria nei polmoni e guardando fugacemente il primo stratega al suo fianco che annuì impercettibilmente in sua direzione per poi continuare a scrivere sul suo taccuino nero, ma la mia attenzione era completamente rivolta alla presidente. 
«.. O meglio chiedere, se tu volessi andare a delle sedute private dal Dottor Aurelius. C'erano anche delle attività di gruppo giovanili, ma per te abbiamo in mente solo degli incontri privati; così avreste più tempo a disposizione e, essendoci solo voi due in studio, tutelerai anche la tua privacy!» continuò Alma, sorridendomi benevola e se non fosse stato per i suoi primi approcci verso la mia persona le avrei anche creduto, avrei preso per vero quel suo sorriso e quella sua premura nei miei confronti. Ma non le credevo più. Quell'espressione strideva sul viso della donna che mi stava di fronte. Non poteva esistere amore in una persona così fredda, per lei ero solo una risorsa.
«Di che genere di sedute stiamo parlando?» chiesi veramente curioso.
«E' uno psicologo, Peeta.» concluse lo stratega senza troppi preamboli, guadagnandosi un'occhiataccia da parte della presidente per la sua troppa fretta e per il poco tatto.
«Uno... Psicologo..?» chiesi allibito.
«Si. Temiamo che tutto questo stress accumulato possa avere ripercussioni sulla tua psiche. So' e capisco che per te può sembrare... Come dire... Una “cosa” negativa, ecco, ma in realtà devi capire che queste attività potrebbero esserti d'aiuto per mettere in ordine i tuoi pensieri.» continuò Plutarch in modo neutro, come se una conversazione di questo genere fosse del tutto naturale. Gesticolava con la penna fra le dita e,di tanto in tanto, si accarezzava con la mano libera le guance paffute prive di barba.
«Rifletti attentamente sulla nostra proposta, hai tutto il tempo che ti occorre e poi, quando avrai ponderato necessariamente sulla nostra offerta, ci darai il tuo verdetto.» concluse l'uomo, le labbra strette in una linea sottile e le mani bene aperte sul tavolo.
Annuii alle loro parole e mi levai dalla sedia, seguito dai due presenti, strinsi la mano alla Presidente e al suo vice per poi uscire fuori da quella stanza senza mai guardarmi indietro.
Non feci molte cose durante la giornata. Restai in camera mia a dipingere; stesi le tempere con le dita riempendo le tele di colori. Mamma non me lo permetteva quando ero piccolo perché diceva che avrei sporcato tutto e, se sporcavo, me le prendevo. Quindi non lo facevo mai, non volevo tornare a scuola con i bernoccoli o con i lividi. Non avevo più bugie da raccontare ai maestri e, successivamente, ai professori che con il tempo smisero di credere alle fandonie stupide che raccontavo loro.
Papà restava sempre immobile mentre la mamma mi strillava contro. L'odio di mia madre, verso di me, era così ben radicato da essere difficile da estirpare. Certo, da bambino, avevo provato a farmi amare, ma non c'ero mai riuscito più di tanto.
Con le dita tracciai delle linee rosse. Rosso come il fuoco, le fiamme che avevano divorato il mio distretto e, con la mente, ripercorsi quelle strade, quelle vie.
Rosso come il sangue che mi era uscito dal labbro quando mia madre mi aveva tirato uno schiaffo sulla bocca, il sapore ferroso che avevo avvertito sulla lingua e gli occhi che mi si erano riempiti di lacrime.
Mi odiava davvero tanto mia madre, un odio viscerale che la spingeva a malmenarmi senza una reale motivazione. Rye e Ross erano l'incarnazione della perfezione mentre io ero solo uno dei tanti errori commessi per uno strano scherzo del destino.
Mia madre mi detestava perché mio padre, Darrell Mellark, le aveva rivelato solo quando era in mia dolce attesa che aveva amato per anni un'altra donna, ma che quest'ultima l'aveva rifiutato perché innamorata a sua volta di un altro uomo.
Mio padre rimase di sasso quando quella giovane donna gli diede il ben servito, rifiutando così ad una vita agiata per un ragazzo che non possedeva nulla che non fossero le sue mani sporche del carbone delle miniere.
Mio papà mi parlò per anni di quella donna bionda dagli occhi azzurri che aveva rinunciato alle ricchezze della sua famiglia per sposare un uomo dai capelli corvini e dagli occhi grigi come il cielo d'ottobre.
Ogni volta che il mio babbo mi raccontava, di nascosto, la sua storia d'amore tormentata non vi si presentava mai come protagonista della vicenda ed io, essendo stato all'epoca solo un bambino pieno di sogni, ammiravo il personaggio principale del suo racconto perché aveva lasciato andare quella donna solo per donarle una felicità che lui non avrebbe mai potuto darle.
Con il tempo, però, capii che quella storiella che mio padre mi narrava di tanto in tanto per farmi prendere sonno la notte era la sua storia. Il racconto del suo amore non corrisposto e, con il passare degli anni, venni a conoscenza del fatto che la donna dagli occhi azzurri che mio padre tanto amava non era che Beth, la figlia del farmacista, che inspiegabilmente si era innamorata di James, per gli amici Jimmy, Everdeen un uomo del giacimento: un minatore.
La figlia del farmacista venne ripudiata dalla propria famiglia per quell'amore proibito e Darrell Mellark osservò per anni la Bionda mentre passeggiava mano nella mano con una bambina dalla pelle olivastra, dai capelli color ebano e dagli occhi grigi così diversi da quelli di Beth, ma al contempo così simili a quelli del marito Jimmy, poi, un'altra bambina venne affiancata alla mora e quest'ultima, a differenza dell'altra, era uguale alla madre: la pelle era molto più chiara della primogenita, i capelli erano biondi e gli occhi erano azzurri.
Mio padre osservò per una vita intera Elizabeth Everdeen. La salutava appena, eppure l'amava; Dio se l'amava. E mia madre venne a conoscenza dei veri sentimenti di mio padre quando era incinta dell'ultimo discendente della famiglia Mellark, ovvero: me.
Io ero la rivelazione che tutto quello che c'era stato tra i miei genitori era solo una bugia. Tutti i “ti amo” di mio papà non erano mai stati reali e la colpa di tutto ciò venne affibbiata solo a me. E ormai era troppo tardi per abortire quindi Adeline Mellark fece la cosa che le venne più semplice fare: mi odiò quando ancora mi portava in grembo; mentre mio padre, a differenza sua, mi amava silenziosamente, anche più di quello che provava verso i miei fratelli, ma comunque taceva quando mia madre mi insultava. Non poteva fare nulla per difendermi perché era consapevole del fatto che la colpa, infondo, era sua. E immaginai spesso quanto mio padre sognasse di poter dire che io ero il frutto dell'amore tra lui e Beth, ma ogni volta la bolla di sapone in cui si rifugiava esplodeva grazie alle urla che mi lanciava mia madre contro oppure quando gli strillava in faccia quanto fosse bugiardo.
Adeline mi detestava anche perché somigliavo molto a mio padre, sia fisicamente che caratterialmente e sopratutto perché, a mia volta, ero follemente innamorato di Katniss che lei disprezzava per la sua povertà e, principalmente, per la madre da cui era stata messa al mondo; Beth.
Nessun vero Mellark sarebbe appartenuto per davvero ad Adeline.
Mi ridestai dai miei pensieri solo per la porta che si aprì di scatto, avevo le mani ferme a mezz'aria perché sporche di tempera. La tela era stracolma di colori e Johanna mi fissava, immobile sulla soglia della stanza.
«Salve Panettiere!» esordì Jo con un sorriso sghembo mentre mi si avvicinava per osservare la mia “creazione”.
«Dovrei cominciare a chiamarti “Falegname”, Johanna ?» le chiesi piccato e divertito contemporaneamente.
«Non mi interesserebbe comunque Peeta, lo sai!» rispose facendomi la linguaccia poi, come suo solito, si chiuse in bagno e cominciò a gridarmi quello che aveva fatto durante la sua giornata mentre si faceva la doccia ed io l'ascoltai senza tralasciare una virgola poi, finalmente, uscì e mi chiese cosa avessi fatto io a mia volta per tutto il giorno. Avrei voluto mentirle, dirle che avevo svolto i compiti giornalieri, che era stata una giornata ricca di avvenimenti, ma non lo feci. Le raccontai la pura e sana verità.
«Mi hanno chiamato al comando stamani.» la informai continuando a fissare i colori amalgamati sulla tela, lo sguardo di Johanna era fisso su di me ed io, nonostante ciò, finsi di non sentirmi trapassare le membra dai suoi occhi color nocciola.
«Vogliono che io vada da uno psicologo...» sbuffai.
«In pratica ti vogliono tenere d'occhio. Ancora non sanno che sei schizofrenico!» mi interruppe lei ridendo ed io annuii alla sua affermazione facendole una pernacchia.
Lei rise e poco dopo si sedette stoicamente sul letto. Era di fronte a me con le gambe incrociate, i gomiti poggiati sulle ginocchia e la testa poggiata sulle mani.
«Non ci avevo pensato.» ammisi riferendomi alla sua prima affermazione.
«Mi pare evidente, vogliono capire se hai tutte le rotelle al posto giusto! Insomma: il distretto, i tuoi familiari, Katniss. So che è difficile da assimilare, ma loro devono vedere se sei in grado di aiutarli per davvero oppure se recuperando te, al posto della Ghiandaia, hanno commesso un'errore.» continuò la mia compagna di stanza contando tutti quegli avvenimenti con le dita ed io non osai obbiettare.
«Tu sei il loro catalizzatore, Peeta...» ammise sospirando mentre si grattava la testa.
«Mi sembra che tutti qui vogliano mettermi alla prova!» dissi in un sospiro e la mia confessione le fece abbassare il capo, lo pensava anche lei.
«Non so cosa fare, Jo! A volte mi chiedo se dimostrando di non essere adatto per questo ruolo correrebbero a recuperare gli altri vincitori... Poi, però, mi rendo conto che non potrebbero fare niente e mi arrendo al fatto che loro hanno scelto me. ».
«Neanch'io saprei cosa fare al tuo posto, Peeta... Forse dovresti semplicemente accettare la loro proposta e vedere come procede, come se fossi tu a metterli alla prova.» ipotizzò la mia amica. Annuii alle sue parole, forse aveva ragione, ma detestavo il fatto che tutti volessero mettermi sotto esame; mi infastidiva.
«Cosa sperano di ottenere?» chiesi retoricamente, la mia voce era un misto tra la rabbia e la curiosità.
«Lo sanno tutti Peeta! Tutti sanno cosa vogliono ottenere, ma adesso cerca anche tu di metterti nei loro panni!» non avevo mai visto Johanna spiegarmi le cose con calma di solito mi sbraitava contro, eppure adesso era stranamente tranquilla e capii la conversazione era seria perché continuava a chiamarmi per nome, forse non voleva farmi agitare ed io strinsi i pugni per non farlo, ma ogni flebile tentativo fu vano.
«Vuoi anche tu che vada da uno psichiatra per accertarti del fatto che sono mentalmente instabile, Johanna ?» le chiesi, ma il mio tono pacato stonava con la rabbia che trasmetteva il mio sguardo e che mi stava montando nelle vene. Perché nessuno riusciva a capire che volevo essere lascito in pace? 
«E' uno psicologo Peeta! Il mondo intero sa che tra psicologo e psichiatra c'è una differenza sottile, ma basilare.» mi rispose Johanna con il suo fare da saputella, ignorando volutamente la mia domanda.
Sbuffai in risposta, ma più che uno sbuffo mi sembrò un ringhio animalesco così le diedi la schiena e andai in bagno a lavarmi le mani sporche e utilizzai quella scusa per di cercare sbollire un po'.
Fissavo le mie mani che si ripulivano dalle tempere che mi si erano incrostate sulla pelle e, poco dopo, mi imbambolai con il vortice di colori che finivano nello scarico. Quando finii di asciugarmi le mani alzai l0 sguardo sullo specchio e ci vidi Johanna riflessa, poggiata contro lo stipite della porta. Finsi di ignorarla, ma non lo feci mai.
«Peeta, non ti sto contestando. Se potessi premere un pulsante e uccidere ogni essere vivente che sta dalla parte di Capitol City, lo farei, senza esitare! La domanda è: cosa farai tu?». Disse lei con fare esausto, strofinandosi gli occhi con le dita.
A conti fatti, era la domanda che aveva continuato a rodermi per tutto questo tempo e aveva sempre avuto una sola risposta possibile.
Cosa avrei fatto?
Respirai a fondo. Le mie braccia si sollevarono leggermente poi tornano lungo i fianchi.
Johanna mi fissò allungo poi si allontanò dallo stipite dicendomi di riflettere per bene sulla mia possibile decisione e poi uscì dalla stanza per andare a prelevare i vassoi del pranzo.
Rimasi da solo, solo con i miei dubbi.
«Cosa farò?», sussurrai alle pareti della stanza. Perché davvero non lo sapevo.
Quando Johanna ritornò consumammo il pranzo in un silenzio profondo. Le domande ed i dubbi  fluttuavano nell'aria mentre consumavamo i nostri pasti e le nostre menti ci riportavano a chissà quale periodo.
Finito il rancio uscii dalla camera senza fiatare e mi diressi verso l'ufficio della presidente. Forse avrei preso la decisione sbagliata oppure, la mia, sarebbe stata la scelta giusta.
Quando arrivai a destinazione bussai alla porta e solo quando mi diedero libero accesso varcai la soglia.
«Peeta, non pensavo di rivederti così presto! Dimmi pure.» disse Alma con un sorriso che pareva tutto tranne che sincero.
«Vorrei chiederle se è possibile incontrare il Dr. Aurelius, oggi stesso.» chiesi, la presidente mi sorrise poi andò incontro alla sua scrivania aprì qualche cassetto, controllò qualche scartoffia e infine mi informò che se avessi voluto dalle 15 in punto il Dottore avrebbe avuto la giornata libera ed io accettai di incontrarlo per l'orario stabilito.
Mancavano pochi minuti al mio incontro con lo psicologo. Ricordo che ero particolarmente ansioso. Un'ansia che difficilmente si dimentica.
Quando scoccarono le 15 bussai contro la porta in mogano che aveva attaccata una targhetta dorata con su scritto: “Dr. Magnus Aurelius”.
Non appena entrai nell'ufficio vidi un uomo che mi abbozzava un sorriso sincero. Non sarà stato molto vecchio, avrà avuto sui cinquant'anni. I capelli erano brizzolati e un pizzetto gli squadrava il volto rendendolo più professionale di quanto già sembrasse. Indossava camice in cotone bianco e degli occhiali da vista con le lenti molto spesse.
Reggeva una cartella clinica in mano che poggiò subito sulla scrivania non appena mi vide entrare nel suo studio, per poi levarsi dalla poltrona venendomi incontro per stringermi con vigore la mano presentandosi come: il Dottor Magnus Aurelius. E facendomi, infine, accomodare su una poltroncina comoda.
«Allora Peeta, posso darti del tu ?» Mi chiese meticoloso e non potei non annuire alla sua piccola richiesta di informalità.
«Sono davvero contento che tu abbia accettato di venire alle mie sedute! Sono sicuro che avrai valutato per bene i pro ed i contro della faccenda.» ammise, mentre un sorriso sornione gli incorniciava il viso.
«Si. Ci ho riflettuto per bene!» ripetei, sorridendogli di rimando. Non sembrava uno psicologo, non provavo del disagio in sua compagnia. Ero stranamente tranquillo.
«Come ti sei convinto a venire qui?» mi chiese.
«Non mi sono convinto: è una prova.» gli risposi sinceramente e lui mi sorrise ancora. Poi con un cenno della mano mi indicò un divanetto alle mie spalle con una sedia vicino.
«Bene Peeta, mettiti pure comodo! Che ne dici se, per iniziare, mi parli un po' di te?» propose Aurelius, mentre poggiava i gomiti sulla scrivania in legno. Osservava ogni mia mossa, ogni mio gesto, ogni mia espressione facciale. Mi stava studiando e per la prima volta non mi sentii giudicato.
«Non c'è molto da dire in realtà...» ammisi mentre mi distendevo sul divanetto, magnificamente comodo, posto di fronte alla scrivania in legno del Dottore.
«Io credo che, in realtà, ci sia molto da raccontare, più di quanto tu possa credere! Ad esempio: potresti elencarmi le prime cinque cose che ti vengono in mente per descriverti.» propose mentre riduceva gli occhi a due mezze lune seguendomi sulla sedia vicino al divanetto, così presi un respiro profondo.
«Okay: sono un pittore. Sono un fornaio. Mi piace dormire con la finestra aperta. Non metto mai lo zucchero nel tè. E mi annodo sempre due volte i lacci delle scarpe.» risposi tutto d'un fiato senza riflettere, mi voltai a guardare Aurelius che annuiva lentamente e prendeva appunti sulla sua cartellina.
«Sei un pittore hai detto...» ripeté lo psicologo sovrappensiero.
«...Come ti sei avvicinato a questa forma d'arte?» domandò alzando il capo, osservandomi dietro le lenti spesse dei suoi occhiali. Presi un respiro profondo e,chiudendo gli occhi, iniziai a raccontare.
«Grazie a mio padre.».
Quando ero bambino adoravo guardare il mio papà mentre dipingeva. Era come se lui finisse in un mondo magico e piano piano la tela si riempiva di colori.
Disegnava di tutto mio padre; partiva dalle decorazioni per le torte e finiva a fare dei ritratti, oppure faceva delle vignette divertenti per me e per i miei fratelli.
Era bravo papà a dipingere, molto più bravo di me; io a confronto sono tutt'ora un principiante!
Gli piaceva dare sfogo alla sua vena artistica alla sera. Quando la mamma ed i miei fratelli dormivano, perché c'era silenzio. Una quiete così profonda da farci sentire l'eco dei forni rimbombare per tutta la casa.
Solitamente, alla sera, papà mi rimboccava le coperte e mi raccontava la storia della buona notte. Poi mi dava un bacio sulla fronte e se quella sera fosse andato nel suo studio per disegnare, mi faceva l'occhiolino di nascosto dai miei fratelli come segnale per restare sveglio, perché loro non avevano il gene dell'artista a suo dire e poi perché voleva condividere quella sua fetta di pace con me, solo con me.
Non ero molto grande. All'epoca avrò avuto su per giù cinque anni, ma lo ricordo come se fosse ieri, perché era iniziata da poco la scuola. Perché lei, Katniss, aveva cantato quella stessa mattina la canzone della valle in classe.
Ricordo che da bambino avevo paura del buio così papà, per farmi sconfiggere le mie paure, mi regalò un pupazzo. Me l'aveva comprato al vecchio forno ed era logoro, gli mancava un occhio e le cuciture per rattopparlo lo rendevano inguardabile agli occhi di Rye e Ross, ma per me era bellissimo. Il più bel pupazzo del distretto. Papà diceva che quel pupazzo mi avrebbe difeso da tutti i mostri quindi lo portavo sempre con me quando avevo paura di qualcosa, non me ne separavo mai.
In quegli anni ero poco più alto del tavolo, quella sera indossavo il mio pigiamino preferito e sottobraccio avevo il mio piccolo grande pupazzo che avevo voluto chiamare Leone, forse perché era l'unico nome degli animali che sapevo pronunciare bene, chissà.
Silenziosamente vagai per tutta la casa buia evitando di fare il minimo rumore per non svegliare nessuno e quando arrivai di fronte allo studio di papà bussai alla porta con le dita minute e lui, ovviamente, aprì subito la porta. Non mi faceva mai aspettare tanto perché conosceva la mia paura e il rumore che facevano i forni, al piano di sotto, non era d'aiuto a sconfiggere quel mio terrore infantile.
Ricordo che quella sera mi abbracciò forte. Mi strinse al suo petto con disperazione carezzandomi la schiena e i capelli poi prese uno sgabello e lo posizionò di fianco al suo, difronte alla tela.
«Adesso tocca a te Giovanotto, fammi vedere cosa mi sai disegnare!» affermò deciso e quella sua frase detta nel cuore della notte mi fa' sorridere ogni volta che ricordo questo nostro piccolo episodio perché, quella frase, ha decretato il vero e proprio inizio del nostro legame.
Aveva sempre un tono giocoso con me papà, mi faceva ridere sempre, anche quando avrei solo voluto piangere.
In risposta negai con la testa più e più volte: mi vergognavo. Lui era bravissimo mentre io disegnavo appena una casa stereotipata però, lui, mi sorrise teneramente scompigliandomi con la mano destra la mia zazzera bionda.
La stanza era illuminata da una luce fioca e calda, il camino era acceso per riscaldare la camera. Era iniziata la stagione della neve e quindi mamma mi faceva crescere i riccioli biondi perché diceva che erano belli quando la neve si poggiava sui miei boccoli.  Alla fine mia madre era pur sempre la mia mamma e, per quanto cercasse sempre di farlo, non mi odiava costantemente. Ero pur sempre suo figlio!
Papà mi sorrise, si avvicinò ancora di più a me e con dolcezza mi tolse dalle mani Leone, poggiandolo delicatamente sulla scrivania quasi non volesse fargli male.
«Sono sicuro che sei molto più bravo di me!» disse amorevolmente mentre si alzava per riempire la tavolozza di colori.
Non parlai e negai nuovamente con un cenno del capo senza fiatare perché avevo paura che, anche solo con la mia voce, la mamma si potesse svegliare.
Solitamente, io e papà, stavamo zitti durante quelle nostre serate; lui metteva il mio sgabello dietro di se ed io vedevo la sua schiena e le sue braccia muoversi con maestria mentre la tela, o il foglio, si riempiva di un'armonia che lui creava dal nulla.
Eppure quella sera mi aveva stretto a se con tanta enfasi e tenerezza, aveva posizionato lo sgabello di fianco al suo e mi aveva parlato. Non aveva lasciato che l'odore delle tempere si facesse spazio tra i nostri silenzi. Non aveva anche lui, come me, il timore di svegliare la mamma che possedeva sempre. Ma non volli pensarci, volevo godermi quella serata e mettere da parte la mia fifa.
Quando finì di riempire la tavolozza, papà, si rimise accanto a me sul suo sgabello.
Aveva in mano l’assicella sottile, rettangolare, sulla quale si dispongono i colori a olio, in mano e la poggiò delicatamente sul suo ginocchio coperto dal lungo grembiule che usava per non sporcare i suoi abiti.
«Dipingi per me, Peeta!» affermò dolcemente e mi sorrise con tanto amore quella sera. I suoi occhi erano contornati da piccole rughette che lo facevano sorridere ancora di più con lo sguardo e le sue labbra, chiuse, erano semplicemente incurvate verso l'alto.
«Se...Se mi sporco mamma si arrabbia...» risposi balbettando mentre le guance mi si imporporavano per l'imbarazzo. Speravo, in cuor mio, che lasciasse perdere e disegnasse da solo lasciandosi ammirare dai miei occhi.
Lui si alzò di scatto, un movimento così brusco che mi spaventò, mise la tavolozza sulla sua sedia e mi indicò con l'indice della mano destra, ridendo sornione.
«Ci hai provato, ma non mi freghi!» mi prendeva in giro e mi piaceva perché il suo tono giocoso mi faceva dimenticare le brutte cose successe durante la giornata poi, papà, si tolse il suo grande grembiule e me lo fece indossare, mi poggiò la tavolozza stracolma di colori sulle ginocchia e mi fece l'occhiolino ridendo divertito per via delle mie banali scuse.
Successivamente ritornò serio e prese un respiro profondo mentre mi guardava, io invece osservavo i miei piccoli piedi fasciati dalle babbucce calde che penzolavano perché lo sgabello era troppo alto.
Mi osservava mio padre, mi squadrava da capo a piedi, lo sguardo sembrava gridare che era fiero di me. Aveva gli occhi azzurri pieni di lacrime e m'amava, lo faceva in silenzio, in gran segreto ed io, ovviamente, amavo lui di rimando. Era il mio papà, il mio eroe.
Tirò su con il naso e mi sorrise scuotendo la testa per scacciare via le malignità e, il suo, fu' un sorriso vero, sincero, dolce e malinconico. Un sorriso che, con il passare dei miei giorni, non avrei mai più dimenticato. Che avrei visto rivolto solo a me per pochi anni e che, per colpa del tempo, non avrei mai più rivisto in nessun'altra persona, ma che avrei comunque continuato a cercare negli occhi degli altri.
Infine mi avvicinò, con lo sgabello, per bene alla tela e mi ripeté a bassa voce con tanto amore e tanto affetto la sua più grande richiesta:
«Dipingi per me, Peeta!».
Ed io, per lui, lo feci.
Riaprii lentamente gli occhi. Il divanetto dello studio di Magnus era divenuto terribilmente scomodo e le lacrime mi pungevano ai lati degli occhi mentre il groppo in gola mi faceva parlare a fatica.
Mi misi seduto, di fronte a me il Dottor Aurelius mi osservava fugacemente e annuiva mentre scriveva sulla sua cartella le nozioni più importanti del mio racconto.
Gli sorrisi imbarazzato per la mia sensibilità e lui ricambiò il gesto.
«Bene Peeta, possiamo concludere qui la nostra prima seduta!» annunciò pacatamente ed io mi alzai da quel divano annuendo e lisciandomi delle piaghe invisibili sui pantaloni per non farmi vedere commosso.
Lo psicologo mi seguì a ruota alzandosi dalla sua sedia e si tolse il camice bianco, poggiandolo sullo schienale della poltrona, per poi venirmi incontro. Mise un braccio sulla mia spalla e mi fece strada verso la porta del suo ufficio.
«Se vuoi, Peeta, possiamo incontrarci un'altra volta! La Coin ha stabilito che dovremmo incontrarci almeno tre volte a settimana, ma per me puoi venire quando più ti aggrada!» disse sorridendomi dolcemente ed io ringraziai con un sorriso e stingendogli con vigore la mano prima di varcare la soglia e ritornarmene nella mia stanza.
Ero stato lì dentro per più di un'ora, ma Magnus non mi aveva fermato. Era rimasto in silenzio ad ascoltarmi per tre ore consecutive, senza mai obbiettare; senza mai volermi fare smettere.
Camminai lentamente per tutto il corridoio e mi fermai qualche secondo dinnanzi alla porta della mia camera, poggiai la fronte contro di essa e sbuffai per scacciare la tensione, la tristezza che quei ricordi mi avevano recato.
Quando l'aprii trovai Johanna seduta sul letto con le gambe incrociate e lo sguardo furente.
«Dove. Cazzo. Sei. Stato?» tuonò infuriata ed io in risposta spalancai gli occhi e alzai le sopracciglia.
«Ti ho cercato ovunque! Pensavo ti fossi rintanato in chissà quale buco sperduto di questo distretto! E non eri in nessuno di questi perché, se te lo stessi chiedendo: si, Peeta! Ti ho cercato in ogni merda di armadio! Quindi se di grazia volesse dirmi dove si fosse nascosto, sarebbe un bene non solo per l'intera umanità, ma sopratutto per la tua incolumità!» continuò arrabbiata come un toro.
«Calma! Ero dal Dr. Aurelius.» risposi e lei spalancò gli occhi, stupita.
La sua rabbia sembrò scemare completamente con quell'informazione e sembrava fiera di me, anche se il suo sguardo continuava a essere cupo. Mi fissava con gli occhi ridotti a due mezze lune, quasi mi stesse studiando.
«Penso che ci ritornerò perché sono stato... Bene, cioè, ero a mio agio....» ammisi.
«Ottimo Peeta, davvero! Sono fiera di te!» affermò venendomi in contro e abbracciandomi ed io mi aggrappai a lei con forza.
Rimanemmo abbracciati per chissà quanto tempo, nessuno aveva il coraggio di mollare la presa.
«Hanno chiesto anche a me di andare dallo strizzacervelli...» ammise Johanna contro il mio petto.
«E che cosa hai intenzione di fare?» le chiesi, allontanandomi di qualche passo per guardarla in viso.
«Non lo so. So che vogliono aiutarmi, eppure malgrado ciò, li detesto. Ma io detesto praticamente tutti, ormai. Me stessa più di chiunque altro.» rispose Johanna a capo chino e la capivo, anch'io mi detestavo, perché ero al 13 al posto di Katniss e non me lo sarei mai perdonato.
«Pensaci bene, potrebbe esserti utile sfogarti! Così magari la smetterai di essere così apprensiva con me, manco fossi la mia mamma!» le consigliai ridendo per la presa in giro che le avevo regalato per smorzare la tensione e lei mi rispose facendomi una smorfia e il dito medio, che io le feci di rimando.
Quando ritornammo seri la guardai per un tempo indefinito e dopo averle sorriso mentre le accarezzavo il braccio, uscii dalla camera.
A volte sentivo la necessità di restarmene solo per fare quattro passi. Certe passeggiate bisogna farle da soli, ed io me ne andai da quella stanza senza dire nulla, i nostri silenzi valevano più di mille parole, più di mille domande.
Mi misi a camminare lentamente, ogni passo mi faceva sentire un po' più rilassato, poi il corridoio si riempì di persone che si dirigevano verso la mensa per l'ora di cena, ma non me ne curai continuando a marciare dalla parte opposta alla loro, fregandomene delle spallate che mi tiravano le persone, finché delle dita mi avvolsero il polso.
«Resta al mio fianco.» disse Johanna sottovoce, ed io mi voltai in sua direzione.
Eravamo l'uno di fronte all'altro, la sua mano che mi stringeva il polso e gli occhi carichi di lacrime fissi nei miei.
La guardai capendo il suo terrore. Il timore che aveva di aprirsi e di guardare tutti gli scheletri che aveva sotto al letto e dentro l'armadio. Non era una cosa semplice, tutt'altro. Per affrontare tutte le paure che si hanno bisogna possedere davvero tanto coraggio e noi, forse, l'avevamo esaurito tutto. Ma almeno eravamo assieme.
«Sono qui.» le risposi in tono sommesso, senza mai distogliere il contatto visivo e lei si lanciò tra le mie braccia. Io la strinsi a me con tutto l'amore che avevo in corpo, non me ne sarei andato per nessuna ragione. Non l'avrei abbandonata a se stessa; non l'avrei lasciata da sola ad affrontare la guerra che aveva dentro.
Poggiai la guancia sul suo capo e la strinsi nuovamente, sentendola respirare rumorosamente.
«Sono qui.» le ridissi in un sibilo che poteva udire solo lei.

 

                                                                                                                                   -Dedicato a tutti i papà, in particolar modo al mio.




N. D. A:
Ciao a tutti, vi chiedo scusa per avervi fatto attendere così tanto, ma ho avuto non pochi imprevisti quindi non sono mai riuscita a prendere sotto mano il capitolo per correggerlo.
In questo lunghe righe ho cercato di farvi capire perché la madre di Peeta detesti così tanto il suo ultimo figlio e ho tentato di farvi apprendere perché Mellark Senior, ovvero Darrell, sia oltre ad un marito succube della propria moglie anche la causa principale della rabbia di  Adeline , ma anche come costui ami suo figlio in modo molto profondo.
Alla fine Peeta, per i suoi genitori, è proprio la rivelazione della verità. E, Darrell lo ama perché finalmente si sente libero dalle sue bugie mentre, d'altro canto, sua moglie Adeline nella stragrande maggioranza del suo tempo odia Peeta proprio perché lui è la verità e lo accusa, ingiustamente, di essere il dito curioso che ha toccato la bolla di sapone dove lei viveva, facendola così esplodere. 
Ma non c'è solo odio nella prima giovinezza di Peeta perché alla fine Darrell, nonostante il comportamento da stronzo che ha avuto con sua moglie, si rivela sempre un uomo buono. Non si giustificano le sue azioni con Adeline, sia mai, ma comunque, seppur di nascosto, rimane sempre un buon padre.
Ringrazio Nicole per il suo supporto e per essere la mia ancora, Annie per aver letto pazientemente questo capitolo di ben 16 pagine e Giangi che mi sopporta ogni qualvolta io mi sfoghi con lui per via dei miei piccoli dubbi ed i tipici "blocchi dello scrittore". Ringrazio anche tutti coloro che hanno scritto qui su Efp per essere stati una mia grande fonte d'ispirazione nello scorso giugno, quando "Atlas" ebbe inizio. 
Vi chiedo ancora scusa per questa lunga attesa durata quasi 6 mesi.
Come sempre, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate di questo lungo e intricato capitolo con una recensione perché sono davvero curiosa di conoscere i vostri pareri! :3
Sono ben accette critiche e consigli cosicché  io possa migliorarmi con il proseguimento della storia :3
Grazie ancora a chi recensisce, a chi mette tra le seguite, le ricordate o tra le preferite. E, un grazie, anche a chi legge e basta. 
Buonanotte e buongiorno, a presto sognatori!

__Haaveilla__


 

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