執事赤 – Akashitsuji - The Red Butler

di Alessia_Way
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** When the taste of revenge is so good… ***
Capitolo 2: *** When I desire to be yours… ***
Capitolo 3: *** When problems are dyed red... ***
Capitolo 4: *** When nightmares could kill you... ***
Capitolo 5: *** When eyes should see corpses, not bodies... ***



Capitolo 1
*** When the taste of revenge is so good… ***


WriterCorner:Okay, forse sono imperdonabile. Mi son presa due anni sabbatici troppo lunghi ma adesso nessuno mi ferma più (se non l'inizio imminente della scuola), e ne sono felice perchè non è stato per niente un periodo facile questo, e l'ispirazione è giunta a salvarmi. Ma adesso basta parlare, vi introduco in una nuova lettura. Premetto, ha molto a che fare con l'anime Kuroshitsuji - Black Butler, e dal nome potete benissimo capire. Però, ovviamente non sarà tutto completamente uguale, ma ho cercato di avvicinarmi in qualche modo, cambiando le situazioni e tutto il resto. Ho sempre immaginato tutto questo e finalmente mi sono decisa a mettere tutto su carta (se si può dire in questo modo). 
Spero comunque che tutto vi piaccia quanto piaccia a me, perchè sono molto ispirata e credo fra non molto mi cimenterò nel secondo capitolo. Bando alle ciance e...
Arigatou.




 

執事赤 – Akashitsuji – The Red Butler

 

When the taste of revenge is so good…

15 dicembre 1887


Quella mattina, nella magione Phantomhive, si respirava aria di preparativi, fin troppo anticipati. Era la vigilia dell’arrivo di un imprenditore italiano, in visita dal Conte. I camerieri non ne erano assolutamente al corrente, escluso il Maggiordomo. Ovviamente, era lui che doveva preparare ogni cosa e il primo a sapere tutto degli affari del Conte.

Era lui che doveva preparare la colazione al suo padrone, svegliarlo con le più dolci attenzioni e avvisarlo dei programmi da svolgere nella giornata. Era lui che dedicava ogni singolo sguardo premuroso al padrone, quasi come una madre si comporta con il figlio. Ma quelli non erano semplici sguardi, erano troppo possessivi, troppo gelosi, troppo attenti. Sguardi, che al Conte facevano solo piacere.

Infatti, alle ore sei del primo mattino, il Conte si svegliò con i teneri raggi del Sole che colpivano il suo giovane viso. Non erano fastidiosi, ma piacevoli e accoglienti. Il Conte amava le giornate non troppo soleggiate e con l’ombra della pioggia in arrivo. In fondo, erano le tipiche giornate delle periferie di Londra.

“Ohayou Gozaimasu*”, lo salutò il Maggiordomo, con tono tranquillo e un sorriso gli illuminò il volto contornato da capelli lisci e non molto lunghi color rosso cremisi. Dopo aver spalancato le tende color cenere per svegliare completamente il Conte, si avvicinò al comodino dove aveva poggiato il vassoio in argento con il servizio da thè cinese, osservò il Conte stropicciarsi gli occhi e tirarsi su a sedere. “Oggi per colazione abbiamo un thè giapponese, uno dei più pregiati, il Jackson’s Earl Grey, accompagnato da salmone lesso con insalata di menta. Per contorno cosa preferisce? Focaccine, toast o dolci?”, spiegò mentre con cura quasi maniacale versava il thè nella tazzina di vetro cinese. Dopo aver sistemato con attenzione la tazzina sul vassoio vicino all’anello e alla benda del Padroncino, prese i vestiti puliti dall’armadio e ritornò dal Conte che si era appena seduto sul letto in attesa che il suo Maggiordomo iniziasse a vestirlo.

Ragazzino viziato. Aveva ventuno anni da poco compiuti, ma rimaneva il solito ragazzino troppo pieno di attenzioni che gli facevano fin troppo piacere ricevere, soprattutto quando era ora di cambiare i vestiti. Il Conte Frank amava quando il suo caro Maggiordomo copriva il suo esile busto con la solita camicia troppo formale per il suo “spirito immaturo”. Ma da bravo Conte che si rispetti, capo della Phantom Company, grande e rinomata azienda di giocattoli e di dolci, doveva portare quella divisa che non si addiceva al suo istinto. Eppure cambiava completamente atteggiamento quando si trattava di affari, di giochi, di lavoro; non era il solito Frank, il ragazzino che appariva troppo capriccioso e inadatto a situazioni molto importanti, no... Diventava colui che era sopravvissuto nella stirpe dei Phantomhive, vivo per vendicare chi aveva perso, capo di un’azienda, con un obbiettivo da raggiungere. Si faceva odiare abbastanza quando diventava quel Frank, ma l’indole troppo carica di vergogna e odio vinceva e ne era sopraffatto. E questo suo comportamento si notava parecchio in presenza del Maggiordomo.

C’era un forte legame fra di loro. Nessuno riusciva a spiegare come era possibile che due anime così differenti fossero così unite: una sola persona e la sua ombra perenne, anche nell’oscurità, tanto invincibile da incutere paura appena vi si rivolgeva lo sguardo. E a Frank piaceva anche questo; si sentiva protetto, al sicuro, geloso per un malsano bisogno, che neanche la servitù si sarebbe azzardata a chiedere o infierire. Probabilmente il Conte li avrebbe inceneriti con uno sguardo. E visto il suo carattere, era meglio non farlo arrabbiare.

Molte volte il Conte si perdeva ad osservare la sua ombra, con quei occhi gelosi, misti al bisogno di cure, e tutto ciò gli veniva fatto notare, tuttavia sempre negato. Lui si divertiva, apprezzava quei occhi e vi ironizzava abbastanza da infastidirli. Entrambi, però, morivano di quello scambio di battute, che da occhi esterni poteva essere incompreso, o addirittura trovato ambiguo.

E quello era uno di quei momenti. La noncuranza che egli si sforzava di mostrare appena il suo Maggiordomo lo privava della camicia da notte leggera, aveva un dettaglio che non sfuggiva a nessuno dei due; l’attimo in cui Frank si trovava in intimo davanti a lui, bastava per scambiare un occhiata talmente intensa da sembrare interminabile, mostrandosi invece solo qualche secondo, molto, molto lungo. E mentre indossava la camicia bianca e pulita, scelta per quel giorno, si ritrovò ad osservare le mani affusolate e avvolte nei guanti bianchi, troppo superflui per quelle mani perfette, che chiudevano fluide i bottoni ricoperti di tessuto bianco, esageratamente grandi per quelle asole.

“Cos’avete? Si perde nei suoi stessi pensieri come al solito, bocchan**?”, ridacchiò il Maggiordomo, finendo di sistemare la camicia sulle spalle del giovane, che sbuffò in risposta, poggiando le mani sul materasso, il busto inclinato indietro e le gambe presero a dondolare sul lato del letto dove vi era seduto. Tipica posizione di fastidio che lui adorava.

“Cosa abbiamo in programma per oggi, Geràrd?”, pronunciò il suo nome, rimarcandolo con il tono della voce, inchiodando così lo sguardo sul viso pallido e spigoloso dell’altro, contornato da ribelli ciocche rosso acceso e brillante.

“Oggi è in visita l’imprenditore italiano di un’azienda Indiana, si ricorda? Ha intenzione di trattare con lei per lavorare insieme. Ovviamente la servitù sarà avvisata di questo per far si che l’ospitalità sia impeccabile per il suo breve soggiorno”, spiegò con voce pacata e tranquilla il programma giornaliero, aiutandolo ad allacciarsi la cravatta –perché il ventunenne non riusciva ancora a fare il nodo-, allontanandosi per sistemare la giacca ai piedi del letto, che presto sarebbe stato velocemente sistemato. “L’aspetto in sala da pranzo per la colazione, signorino”, concluse il Maggiordomo, allontanandosi appena ma rimanendo comunque davanti il Conte per abbassarsi appena in un piccolo inchino, allontanandosi poi poco dopo per raggiungere la porta. Frank non lo fermò, anzi si avvicinò al comodino con la colazione e indossò con attenzione la benda sull’occhio destro, per coprirlo, e prese una tazzina riempita di thè caldo per iniziare a sorseggiarlo. Ottimo, come sempre. Era uno dei suoi preferiti, come aveva detto lui, perché era anche amante di tutti gli infusi ed essenze diverse, ogni specie, dallo “scadente” al più pregiato. Era quasi convinto di conoscerli tutti. Spesso era capace di indovinarli, ma qualche volta gli veniva detto, come quella mattina… Era una delle altre cose che lo infastidiva, lui lo sapeva.

Dopo aver bevuto il suo thè, si diresse con attenzione fuori dalla grande camera, indossando la giacca lunga e blu scuro, per raggiungere la sala da pranzo, dove lo stavano aspettando tutti. Calorosamente salutato con un piccolo inchino, sorrise ai presenti, la sua servitù, e si accomodò a tavola per consumare la colazione preparata impeccabilmente dal suo Maggiordomo.

“Ha dormito bene, signorino?”, la vocina timida della cameriera, Lizzie, mentre sistemava i grossi occhiali rotondi sul piccolo nasino, accompagnando lo sguardo con un enorme sorriso. Il Conte sorrise cordiale, annuendo con un debole cenno del capo e ricevette in risposta un altro sorriso da Mikey e Raymond, altri due membri della servitù. Potevano sembrare pochi, per una magione molto grande e che si rispetti, deve almeno ospitare una somma un po’ più alta di tre semplici addetti alla servitù, più un maggiordomo. Ma erano stati accuratamente scelti per svolgere un ruolo più importante, tanto nascosto da sembrare assurdo.

Frank, una volta accomodatosi a tavola, iniziò a consumare il suo pasto con tutta tranquillità, lasciato solo per far si che la giornata cominciasse per tutti. Ognuno doveva sbrigare un suo lavoro: Mikey era addetto al giardino, Lizzie alle camere e alla pulizia generale della casa, Raymond era lo chef. Ma nessuno dei tre era bravo nei… loro normali lavori quotidiani. Per qualche oscuro motivo, combinavano guai che solo il Maggiordomo riusciva a risolvere prima che il Conte ne fosse al corrente. Era consapevole del fatto che non erano molto capaci in quello che gli era chiesto di fare nella magione, non scendeva mai nei dettagli più sconcertanti. Ed era un altro dei lavori del Maggiordomo: non dare preoccupazioni inutili al padrone. Lui doveva essere certo di una cosa, che la servitù compiesse alla perfezione ciò che gli era chiesto di fare per la magione. Un ordine, che doveva essere necessariamente eseguito. E così era per tutti gli ordini.

Il Maggiordomo quella mattina, dopo aver svegliato il Conte, aveva il compito di preparare l’accoglienza per l’imprenditore in arrivo: impartiti i primi ordini alla servitù, si occupò delle decorazioni in casa, la pulizia dell’argenteria, la scelta della tovaglia e delle stoviglie e successivamente del pranzo. Non poteva però svolgere il tutto in assoluta tranquillità.

“Jerāru***!”, lo chiamò Lizzie dal fondo del corridoio, esattamente da dentro la lavanderia, con fare allarmato. Si sentì uno sbuffo che riempì la cucina, tanto che dovette lasciare il coltello sul tagliere della carne e uscire dalla cucina per raggiungere la ragazza. Quello che si trovò davanti avrebbe dovuto farlo infuriare all’istante: Lizzie a terra, fra la schiuma di sapone che straripava dalla lavatrice, mentre cercava di leggere la confezione di detersivo senza i suoi occhiali.

“Lizzie… Cosa diavolo combini?”, la sua voce non era alterata, solo esasperata per l’ennesimo ‘problema’ che quella cameriera aveva combinato, davanti a lui a qualche metro di distanza, impaurita.

“I-io… Jerāru, perdonami ma sono scivolata fra le lenzuola e ho perso gli occhiali. P-poi credevo di aver messo il detersivo giusto ma tutto è andato storto e-e… E s-sono qui”, la vocina stridula e spaventata che fece quasi intenerire il Maggiordomo, riuscì a farlo avvicinare per aiutarla ad alzarsi. Gli bastò uno sguardo ed un cenno del capo verso la ragazza, per capire come risolvere la situazione. Velocemente ripulì tutto il pavimento della lavanderia dal sapone e trasferì le lenzuola in una lavatrice accanto, nuova, sistemò gli occhiali ben puliti sul naso della ragazza e le ordinò di occuparsi delle stanze. Tutto questo in tre battiti di ciglia, e Lizzie dovette sforzarsi un attimo per capire prima di recarsi ai piani superiori per riordinare le camere. Un ringraziamento, fece sorridere il Maggiordomo e ritornò al proprio lavoro.

In cucina, il Maggiordomo trovò Raymond intento a tagliare la carne al suo posto, ma quando quest’ultimo si accorse di essere scoperto, capì di star sbagliando parecchie cose; infatti le piccole fettine di carne erano state tagliate in malo modo e per il pranzo di quel giorno, non si poteva sbagliare ancora.

“Raymond… Ti avevo chiesto solo di tagliare le verdure”, ancora una volta, la sua voce esasperata risuonò in quella stanza. Raymond in cucina, non era granché bravo, forse neanche nelle cose più semplici. Raymond si scusò con un profondo inchino, mortificato per l’errore commesso e si mise al lavoro, che svolse alla perfezione –chissà quale stregoneria l’aveva colpito-.

Una volta finito di preparare il pranzo, il Maggiordomo si congedò dalle cucine per avvisare il Conte e prepararsi anche lui, dopo aver ovviamente stirato accuratamente i vestiti del suo padrone. Aveva la mania di far trovare i vestiti appena puliti e stirati ai piedi del suo letto, ma si sapeva che quel ragazzo volesse l’aiuto per vestirsi. Il Maggiordomo lo accontentava, come sempre. Non gli dispiaceva, sentiva di essere ‘nato’ per servire in tutto e per tutto il suo padrone, accontentarlo, rispettarlo, nonostante fosse interessato in modo malsano ad una cosa. Stupida indole da diavolo di Maggiordomo.

“Quanto manca all’arrivo?”, chiede Frank, lasciandosi sfilare la cravatta per cambiarla con una blu scura, in tono con la giacca leggermente più chiara, che riportava rifiniture più scure, e i pantaloncini fino al ginocchio. Alzò così lo sguardo sul Maggiordomo davanti a sé ed ecco di nuovo quello sguardo, pieno di intesa, quei occhi infuocati che si incrociavano a quello del padroncino, verde chiaro ma intenso, come se lo diventasse quando il fuoco dei suoi occhi arrivavano a lui.

Il Maggiordomo controllò l’ora nel suo orologio da taschino d’argento pregiato, pigiando sul piccolo pulsante per aprire il coperchio e vedere che mancavano esattamente cinque minuti all’arrivo dell’imprenditore. Lo fece notare al padroncino con la fretta che impiegò nel chiudergli la giacca e di tirarsi in piedi. Il giovane capì e lo seguì fuori dalla stanza, assicurandosi però di aver l’occhio destro coperto dalla benda nera. In poco tempo si ritrovò nella sala centrale della magione, attorniato dalla sua servitù, mentre il Maggiordomo dava il benvenuto all’imprenditore, inconsapevole cosa gli sarebbe potuto succedere nell’arco di quella giornata così apparentemente tranquilla quanto… Mortale.
 

 

 

Come il Conte aveva insistito terribilmente affinché la sua richiesta fosse ascoltata, egli e l’imprenditore Bonelli erano nella sala da gioco, impegnati ad una partita a scacchi. Chi aveva la vincita in pugno? Ovviamente il Conte, che infastidito osservava l’avversario distrarsi ad ogni turno, cercando in tutti i modi possibili di prendere il discorso di affari. Ma era quello l’affare, la partita a scacchi che determinava il loro incontro. Ma di ciò, l’uomo non ne era al corrente.

Ogni volta che tentava di aprire il discorso sul denaro da dividere, Frank lo zittiva con un cenno delle dita per fargli capire che era il suo turno, con fare infastidito, mentre il Maggiordomo alle sue spalle osservava la scena con aria compiaciuta, fiera e anche molto divertita. Scenario inquietante, se si metteva in chiaro la pioggia scrosciante e i fulmini improvvisi.

“Mi dica, signor Conte…”, tentò ancora Bonelli ad aprire il discorso, ma Frank con un brusco cenno della mano, gli indicò la sua posizione di gioco, in netto svantaggio rispetto alla propria.

“Voglia continuare a giocare, signore? La vedo ben lontano dalla vincita”, e Bonelli si chiese dove volesse mai arrivare quel ragazzino viziato e amante spudorato per il gioco.

Se fosse stato accuratamente furbo, non si sarebbe mai lasciato distrarre dal ragazzino che cercava di incastrarlo nel modo più abile possibile che solo lui conosceva. E truffare il Conte, non era per nulla facile come l’ingenuo ospite era convinto di poter fare.

Quindi quale miglior modo di far finire in trappola un bastardo che per anni aveva perseguitato la sua famiglia a costo di avere tutto il denaro che possedeva? E che era arrivato il momento di fargliela pagare e di metterlo a tacere una volta per tutte? Infondo, la vendetta aveva un sapore così buono…

“So che lei intende lavorare con me, e dividere il guadagno, caro Bonelli”, dovette accontentare l’imprenditore, assumendo così un tono di voce serio, austero, tipico del suo lato che riguardava il lavoro, inspiegabile se si conosceva l’altra metà che lo caratterizzava. Teneva tra le dita una pedina nera, nera come l’abito del Maggiordomo che lo aveva precedentemente affiancato e poggiato una mano avvolta nel guanto bianco sulla spalla. La pedina in questione era la regina e il suo sguardo era fisso sulla tavola quadrettata di nero e bianco, dove le pedine stremate stavano ad osservare di lato, e le superstiti tentavano di vincere la lunga battaglia. Eppure quelle nere mostravano quasi fierezza, convinzione, splendevano sul piano di guerra, puntavano contro il nemico con sguardo severo, malizioso. O forse era solo il sorriso sadico sul viso del giovane che dava tutta quell’impressione che le pedine avessero parlato abbastanza.

“I-intendo sì, guadagneremo così tanto, che non immagina neanche, carissimo Conte”, ed eccola la voce intimidita al quale sin dal primo momento il Conte aveva puntato. Il suo sorriso si accentuò ancora di più, gli occhi nascosti dal ciuffo di capelli scuri, le dita che sfioravano la pedina della regina nera, più splendente delle altre. E quella regina nera, era lei.

“So che la sua azienda lavora parecchio bene, so che è un abile imprenditore, so che il denaro è l’unica cosa che serve nella vita, ma impari ad usare bene i suoi trucchi, qualcuno potrebbe scoprirla”, e con testuali parole, il Conte dettò fine alla partita, poggiando sul campo la Regina, accompagnato da un tenebroso e risonante tuono, dopo che la stanza venne illuminata da un veloce fulmine che sembrò passare sul sorriso compiaciuto del giovane. Scacco matto.

Il Maggiordomo sorrise nel notare l’imprenditore sussultare sulla propria poltrona in pelle marrone scuro, alzando lo sguardo terrorizzato sui presenti prima di scappare a gambe levate fuori dalla stanza.

Fu così che venne inseguito dall’uomo rosso cremisi di capelli, per tutta la magione, venendo incastrato ancora una volta dalle abili azioni di quell’uomo spaventoso ma dannatamente silenzioso.
 

 

 

“Gli ordini sono stati eseguiti, Geràrd?”, risuonò la voce di Frank una volta che il Maggiordomo fu dentro il proprio ufficio, mentre stava impazientemente osservando all’esterno dall’ampia finestra, che veniva ripetutamente bagnata da una serie infinita di gocce d’acqua piovana. La posizione eretta, con le braccia incrociate dietro la schiena, illuminato dalla pochissima luce che proveniva da fuori, aiutato da qualche fulmine, rendeva l’atmosfera più seria, placata, carica di una sete di vittoria, non del tutto sazia.

“Assolutamente, come aveva richiesto”, concluse il Maggiordomo, avvicinandosi un po’di più alle spalle del Conte, mantenendo però una certa distanza.

“Ottimo”, aggiunse il Conte, voltandosi verso l’altro, sorridendogli soddisfatto, abbandonando quella serietà che fino a quel momento gli era appartenuta. Sapeva che il suo obiettivo era un po’ lontano da come sperava, ma era sempre più vicino. E tutto grazie a quella figura coperta di nero e definita dalla chioma di capelli rossi.

“Ha bisogno di altro, signorino?”, chiese poco dopo il Maggiordomo, vedendo il proprio padrone avvicinarsi a lui per sistemargli il colletto della giacca nera, cosa alquanto strana da vedere eppure il Conte amava che il suo Maggiordomo fosse sempre in ordine e quel gesto lo metteva in chiaro. Eppure si nascondeva dell’altro

“No, per oggi va bene così. Posso congedarti…”, sussurrò appena Frank, guardando l’altro dal basso, mettendo in chiaro quanto fosse più piccolo di statura rispetto all’uomo che continuava ad avere di fronte e che stringeva per il colletto della giacca. Geràrd non lo sfiorò, non si mosse, né gli impedì di stringerlo. Lo osservò con i suoi occhi rosso fuoco, ardenti e gli sorrise. Infondo, quell’intimità potevano permettersela dopo tutti quei anni passati l’uno al fianco dell’altro. Anche se la sua indole non lo permetteva, a Geràrd non dispiaceva affatto avere quel po’di intimità con il suo padrone, eppure cercava sempre di non darlo a vedere. Invece Frank, per quanto il lavoro richiedeva assoluta serietà, la reclamava più volte durante il giorno, ma mai esaudita, severamente vietata. E si sapeva, che la notte era fatta per esaudire ogni desiderio vietato…

“Ma prima…”, continuò ancora il Conte, alzandosi appena sulle punte per raggiungere quanto più poteva il viso dell’altro, quel che bastava affinché i loro respiri si incrociassero e si mescolassero, socchiuse gli occhi per poter poggiare le labbra su quelle fredde dell’uomo, lasciandovi un bacio. Una sorta di ringraziamento, un rito che ogni sera da oramai da tre anni era stato aggiunto al loro stretto rapporto, a quello che già li legava. Non aveva nulla di malizioso, di volgare, o di ambiguo. Era così che doveva essere, solo un ringraziamento, voluto da entrambi, coscienti delle loro azioni e nient’altro. Un ringraziamento per quella vendetta che man mano si saziava, si colmava come era giusto da fare, come era stato ordinato. Bisognava anche ammettere che quel gesto piaceva ad entrambi, soprattutto a Frank, che trovava le labbra del suo Maggiordomo tanto fredde quanto morbide e ottime da baciare. Ma da parte del Maggiordomo c’era anche dell’interesse, che Frank capiva ma non voleva neanche pensarci. Un anima così bella non poteva rovinarsi in tale modo…

“Vuole che l’accompagni in camera?”, chiese dopo svariati minuti al proprio padrone, poco lontano da quelle labbra che anche quella sera aveva incontrato, puntando lo sguardo rosso fuoco su di lui e sfiorandogli appena la guancia rosea e delicata, coperta ancora dal guanto bianco.

“No, faccio da solo, hai fatto abbastanza”, concluse benevolo il Conte, allontanandosi poco dopo dal suo viso e, con un sorriso tranquillo, seguito da un cenno della mano, lo fece uscire. E Geràrd non se lo fece ripetere; con un inchino lasciò la stanza, sorridendogli ancora una volta e augurandogli un sonno ristoratore, sapendo quanto l’altro ne avesse bisogno.

Soddisfatto come ogni giorno del suo operato, si allontanò verso i piani inferiori, sapendo che per lui la giornata non era ancora terminata, differentemente ad una persona che si era lasciato alle spalle, che si stava abbandonando tra le braccia di Morfeo, compiaciuto e sorridente.
 
 



 



And if you get to heaven 
I'll be here waiting, babe 
Did you get what you deserve? 
The end, and if your life won't wait 
Then your heart can't take this 

 
 
 
 
 
*:In Giapponese “おはよう ございます”significa “Buongiorno”
**:Sempre in Giapponese “ぼっちゃん”significa “Signorino, Padroncino”
***: Ancora, in Giapponese “ジェラル” significa “Geràrd”

 

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Capitolo 2
*** When I desire to be yours… ***


WriterCornerBene bene, credo di avervi fatto aspettare quasi un mese ma tra l'inizio della scuola, i compiti e altro, non ho avuto modo di aggiornare prima di adesso. Ma sono qui, con il capitolo pronto e per voi e non intendo perdermi in chiacchere. Ci tenevo solo a ringraziare coloro che hanno letto il capitolo e hanno aggiunto tra i preferiti/tra le seguite questa storia. Speravo in qualche recensione, giusto per sapere che cosa ne pensate ma... Aspetterò il tempo che serve, anzi vi ringrazio davvero di aver letto. 
Bando alle ciance e buona lettura.
Alla prossima e obviously...
Arigatou.

執事赤 – Akashitsuji – The Red Butler

When I desire to be yours…

15 Marzo 1888

 

Quel pomeriggio, caratterizzato come sempre da nuvole e da pioggia leggera, il Conte Frank era chino sui propri documenti, nel suo cupo studio, da solo, a riflettere e studiare. Ma a riflettere, soprattutto.

In quei ultimi mesi, si era dato molto da fare con il suo obiettivo, tutto sembrava filare liscio come lui stesso aveva sempre sperato. Era riuscito ad incastrare molte più persone di quanto non si aspettasse di poter fare, negli ultimi tre mesi, dopo la morte del signor Bonelli, che aveva lanciato scalpore per tutta Londra e dintorni. Eppure nessuno avrebbe mai scovato il vero colpevole, neanche Scotland Yard. Fortuna che il suo diavolo di Maggiordomo conteneva una lista di alibi perfetti nella sua mente, una lista chiara, senza un minimo dubbio o errore. A lui non era mai permesso sbagliare, soprattutto negli ordini che gli venivano dati dal proprio padrone. Era un perfetto bugiardo, ma solo lui e tutta la magione lo sapevano. Nessun altro all’infuori di quelle mura, dove tutto cominciava e tutto finiva. E il fare silenzioso del Maggiordomo, era assolutamente un vantaggio enorme.

Già, silenzioso… Silenzioso come i sguardi che lanciava, come quei sorrisi maliziosi, quelle carezze sfuggenti sul viso, quei baci. Tutto il suo modo di fare, con il Conte, era dannatamente silenzioso, ma solo all’esterno. Per una volta nella sua vita, desiderava che quei gesti parlassero, realmente, molto di più di quanto lui riuscisse a pensare. Desiderava avere risposte, molte. Per il Conte, tutto ciò che faceva pareva parlare ai suoi occhi, quando invece c’era solo silenzio. Ogni atto parlava ma non abbastanza da risultare soddisfacente, non abbastanza per lui che era arrivato a sognare tutto questo, a sognare certe situazioni, di immaginare certe risposte, le risposte che quasi desiderava ricevere. E non erano semplici risposte.

No, non lo erano. Voleva di più, molto più di quanto non ricevesse già, perché insomma… Ciò che riceveva era esclusivamente riservato a lui. E a nessuno era permesso ogni singolo atto all’infuori del suo padrone. E ciò gli piaceva, gli piaceva così tanto avere il potere su quell’uomo così misterioso quanto intrigante e eccitante. E si, agli occhi del Conte Frank, il suo Maggiordomo era la creatura più eccitante su cui avessero mai prestato attenzione, con i suoi capelli lunghi, i suoi occhi ardenti, il suo sorriso malizioso, il suo corpo alto e snello, perfetto. Lui era perfetto, non esisteva centimetro di quell’uomo che fosse stato messo a caso, tutto combaciava, tutto stava insieme così bene da creare una sorta di armonia perfetta anche nei movimenti, così lenti, morbidi, a volte sfuggenti, a volte ipnotici. E quel sorriso, quel sorriso, che rivolgeva sempre e solo al suo padrone, dove scopriva una piccola parte dei denti, piccoli e perfettamente bianchi, tirando un angolo delle labbra di lato, come se stesse sorridendo ad una preda meravigliosa, succulenta, e ne stesse pregustando il sapore. E quei occhi, quei occhi che lo accompagnavano, come se lo stessero catturando in un rapido secondo, ma abbastanza lungo da togliergli il fiato e fargli girare la testa, da fargli venire la bocca secca e a volte doveva deglutire così tante volte per riportare la salivazione in uno stato normale.

Era così che si sentiva il Conte sotto il controllo del suo Maggiordomo. Nonostante fosse quest’ultimo a ricevere degli ordini, era il primo a dettarne. Ordini silenziosi, proprio come lui.
Frank, in momenti come quelli, era persino capace di eccitarsi, chiuso nel suo ufficio, assorto nei pensieri che si dirigevano a quell’uomo, che lo faceva arrossire terribilmente e lo portava a sentire le mani doloranti, e non solo.

Si sforzò così tanto di mantenere le mani su quel tavolo, a stringere la sua penna, sporcando però di inchiostro il foglio sul quale stava scrivendo e perdendo il controllo. Si ritrovò a poggiarsi sullo schienale della sua poltrona rigida e a serrare gli occhi, respirando profondamente per mantenere il fiato normale, ma era già corto. E non si era neanche accorto che una mano era andata a stringere il cavallo dei suoi pantaloni, già doloroso per via di quei pensieri malsani su quell’uomo.

Frank, calmati. Non pensarlo”, cercò di ripetersi mentalmente, ma la sua mano aveva scelto una strada diversa, ovvero quella di sbottonare il primo bottone dei pantaloni lunghi che il ragazzo portava quel pomeriggio per raggiungere i propri boxer e lasciarsi andare ad un lieve massaggio, che non riuscì a saziarlo per niente. Ma l’eccitazione stava diventando insopportabile, non riusciva a rimanere inerme a quei brividi, e si lasciò andare, lasciò che la mente andasse alla ricerca di motivi, alla ricerca del motivo per cui si era ridotto in quello stato… E lasciò che la mano stringesse più forte la presa.

-Il calore delle sue mani nude e fredde sulle mie braccia, coperte dal tessuto leggero della camicia bianca, il suo respiro freddo come il ghiaccio che si abbatteva sulla mia pelle…-

E quella mano sbottonò anche il secondo bottone dei pantaloni scuri, seguito dalla zip più lunga di quanto si aspettasse.

-Ed eccolo quello sguardo, che era capace di farmi vibrare. E lo feci, lui se ne accorse e sorrise, tese quelle labbra che tante volte avevo baciato e che sognavo di conoscere più a fondo, di averle a contatto con le mie, con me…-

Agguantò l’elastico dei boxer bianchi e lo abbassò, quel tanto da scoprire la sua erezione, pulsante e dolorante, anche se non del tutto eretta, ma abbastanza da farlo soffrire e da richiedere un’immediata attenzione.

-In un lampo mi aveva già tolto la camicia, e ne fui felice perché la mia pelle entrò in contatto con l’aria della stanza, che risultò più calda di quanto pensassi, eppure le sue mani dicevano il contrario. Presero a carezzarmi le braccia, le spalle e il collo, avvolgendolo con una tale gentilezza da farmi chiudere gli occhi e respirare più a fondo…-

Si era completamente abbandonato alla poltrona rivestita in tessuto rosso, tenendo la mano ben salda sul proprio membro, che iniziava ad essere stimolato, con movimenti molto lenti del polso, mentre nel frattempo le labbra di Frank si schiusero per lasciarsi scappare dei ansimi bassi, man mano sempre più vittima di quei pensieri e di quel piacere che  puntava a raggiungere.

-Le sue labbra sfiorarono le mie, tremai al contatto per quanto lo desideravo, infatti mi sporsi quel poco per raggiungerle e invece che trovare il nulla, le catturai lentamente con le mie, dando vita ad un bacio profondo, passionale, senza alcuna fretta. Dio, quanto l’avevo desiderato…-

Si morse le labbra, come per cercare di sostituire quella sensazione di avere davvero quelle labbra a contatto con le proprie, ma la frustrazione di non averle davvero si mostrò sotto forma di mugolio roco che attraversò le labbra arrossate del ragazzo, che continuava a non mantenere il controllo sulla propria mano; la lasciò libera di carezzare tutta la lunghezza, quasi impaziente.

-Durante quel bacio non mi permise di toccarlo, voleva che fosse lui a farlo e me lo fece capire quando strinse i miei polsi per qualche secondo prima di riprendere quella tortura: lungo la schiena, le spalle, il petto, i miei capezzoli, l’addome. Appena arrivò ai fianchi mi costrinse ad avvicinarmi di più a lui e lì sentì che anche i suoi pantaloni perfettamente neri tiravano quanto i miei. Mi prudevano le mani, desideravo spogliarlo, toccarlo, poter saziare il suo bisogno, ardente quanto il mio…-

Nella sua mente, non era neanche arrivato a toccarlo nella sua intimità ma la mano capì di dover iniziare un’andatura più sostenuta, e il respiro andò a spezzarsi quasi del tutto, lasciando spazio ad ansimi più sonori e la schiena iniziò ad inarcarsi, giusto  quel po’ per spingere il bacino sulla poltrona e permettere alla mano di muoversi più facilmente.
-Mi spinsi più al suo corpo quando le sue mani, dai miei fianchi, scesero sul mio sedere per stringerlo fra le dita con decisione e per spingermi ancora di più contro il suo bacino. Mi feci scappare un sonoro ansimo di sorpresa contro le sue labbra e lo sentii persino ridacchiare. Arrossii visibilmente, anzi andai a fuoco, come i suoi occhi che in quel momento erano chiusi e come i suoi baci che aveva iniziato a lasciare lungo la mia mandibola e giù per il collo pallido. E lentamente andai a fuoco anch’io, e diamine non aveva neanche iniziato a toccarmi…-

Poteva realmente rischiare di perdere la testa in quel momento, mentre la sua mano si muoveva in modo più veloce e più deciso, e sentiva come l’eccitazione man mano cresceva e lo invadeva, lo faceva persino sudare e vibrare sulla poltrona. Tutto quello che stava provando era illegale, ma era così dannatamente piacevole che non voleva arrendersi così presto. Non ancora.

-Lo chiamai, pronunciai il suo nome con un tono di voce che non mi si addiceva per niente. Non era autoritario, capriccioso o esasperato. No. Era quasi provocatorio, voglioso, disperato. Volevo di più, molto di più, ma lui era così lento che la testa mi faceva male per quanto girava. Lo sentii ridacchiare nuovamente sulla mia pelle e rabbrividii al suo respiro contro il mio collo. Desideravo toccarlo più quanto avessi mai pensato di volere. Ne avevo bisogno, avevo bisogno di lui, di tutto…-

Quel bisogno lo fece gemere, letteralmente, e si maledisse quasi per averlo fatto così forte. Strinse più forte la propria erezione e dovette reggersi al bracciolo della poltrona, serrando ancora di più gli occhi e dovette ricorrere a non sa quale forza per potersi contenere dal lanciare un gemito più forte.

Come diamine si era ridotto. Non poteva essere caduto in un peccato simile ancora una volta, verso… il proprio Maggiordomo. Non si stava masturbando pensando a quell’uomo. Non era ricaduto in uno di quei sogni che spesso la notte gli capitava di vivere. Non poteva essere. Eppure era così vicino all’apice, che credette di esplodere ancor prima di rendersene conto. Ne era certo  quello che stava tentando di raggiungere quando…

Toc. Toc. Toc.

Imprecò così brutalmente che dovette mordersi la lingua. Chi poteva essere in quel momento? Non sapevano che stava lavorando e che non voleva essere disturbato fino alle cinque per l’ora del thè, o per questioni estremamente importanti? E soprattutto… Che ora erano?

“Sì?”, pronunciò Frank, mentre si ripuliva la mano e il membro dal liquido che aveva rilasciato il suo corpo, continuando a maledire chiunque l’avesse disturbato in un momento del genere. Velocemente si chiuse i pantaloni e si sforzò di riprendere a parlare in modo del tutto normale.

“Bocchan? Le ho portato il thè!”.

Eccolo. Con il suo tempismo perfetto e in orario. Diamine, era passata un ora da quando aveva iniziato a lasciarsi andare ad un gesto così intimo e segreto? Non avrebbe neanche dovuto pensare a quell’uomo, magari non si sarebbe trovato in quella situazione imbarazzante e soprattutto non sarebbe arrivato a rivedere nuovamente e così velocemente il suo Maggiordomo. Se solo avesse saputo cosa era andato incontro…

Troppo imbarazzato dalla situazione nel quale si era cacciato, respirò a fondo, senza degnare di una risposta il suo Maggiordomo, che nel frattempo attendeva confuso dietro la porta della stanza. Il suo padrone continuava a non rispondere, così si sistemò la giacca e si decise ad aprire la porta, trovandolo seduto sulla poltrona dietro una grossa scrivania in mogano, con rivestimenti in rosso sangue, che osservava curioso e sorpreso la porta.

“Tutto bene, signorino?”. Ed eccolo ancora una volta, con il suo impeccabile tempismo. Frank, dal canto suo, cercò di non arrossire mentre con un fazzoletto tirato fuori dal taschino sul petto della giacca scura, si ripuliva le mani sporche dei suoi stessi umori. Un’altra cosa che era meglio tenere lontana dal sapere dell’uomo che si trovava davanti a sé.
“Si, Geràrd, ero solo molto concentrato a scrivere”, ma si rese conto che il foglio che si trovava davanti a lui, adagiato su altri fogli sulla scrivania, era quasi vuoto, con qualche macchia di inchiostro che era sfuggita di troppo dalla sua penna. Velocemente, lo accartocciò con una mano e rivolse uno sguardo torvo, come se il Maggiordomo avesse una colpa che lui stesso non sapeva di avere. “E mi hai distratto”, lo rimproverò quindi, cercando di non avvampare per il lieve doppio senso che affiorava dalla sua frase. Imprecò così fra sé, gettando la pergamena nell’apposito cestino accanto la sua scrivania e sospirò mentre ritornava a pulirsi le mani. Nel frattempo, l’uomo dai capelli scarlatti si ritrovò con un sorrisetto sulle labbra, come se avesse colto il fatto, e si preoccupò però di servire il thè con cura maniacale, ripetendo il rituale che eseguiva tutte le volte per filtrare il liquido scuro e puro, per renderlo chiaro e senza alcuna imperfezione. Tutto questo e altro per il proprio padrone.

“Bocchan, vi ho portato il quotidiano”, suonò quasi come un avvertimento, e Frank lasciò perdere il fazzoletto bianco di tessuto che aveva fra le mani per puntare immediatamente lo sguardo sul quotidiano ripiegato su un vassoio d’argento vicino al thè che il suo Maggiordomo gli stava servendo. Lasciò perdere per un attimo l tazza pregiata di liquido fumante quando i suoi occhi scorsero la foto in bianco e nero stampata in prima pagina. Sangue.

Il ritorno di Jeff The Killer.

Il solo titolo fece congelare il Conte sulla sedia, scordandosi di tutto il malfatto commesso precedentemente e dell’imbarazzo che tentava di prendere il sopravvento. Ed eccolo quel lato del Conte a pochi conosciuto ma abbastanza terrificante e serio da risultare incredibile. Ed oltre ad essere terrificante, risultava un tantino eccitante il modo in cui quel corpo, quell’essere si apprestava a diventare improvvisamente serio nel suo compito. Il Maggiordomo notò quel cambiamento e si trattenne dal liberare sul sorriso che lo avrebbe smascherato, e in tutta verità, quello non era il momento di lasciarsi andare a tali debolezze.

“A quanto pare, quel bastardo è tornato a seminare il panico a Londra, portando con se più morti e sangue di un semplice assassino assetato di sangue”, mormorò il Conte, rileggendo fra le righe del quotidiano ciò che i giornalisti avevano raccolto in un semplice foglio. Ma sapeva che c’era di più, e che avrebbe dovuto, ovviamente, controllare lui stesso con i propri occhi. Un serial killer che continuava a creare disastri in una città che aveva solo bisogno di un periodo più lungo di tranquillità. Già da tempo Jeff The Killer, così comunemente chiamato, aveva minacciato Londra, con una serie minima di omicidi di prostitute, limitandosi ad ucciderle con i più banali metodi. Ma dopo diversi mesi, a quanto sembrava, gli omicidi erano aumentati, ed erano stati applicati metodi più precisi che neanche i giornalisti avevano avuto il coraggio di mettere su carta. E se neanche Scotland Yard gliel’avrebbe detto, sarebbe andato personalmente a controllare, e nessuno l’avrebbe fermato, nemmeno il suo più fidato accompagnatore.

“Preparati per domani, Geràrd. Credo che adesso sia troppo tardi per andare a Londra e controllare ciò che Scotland Yard ha scoperto. Sia chiaro, la carrozza domani mattina”, ordinò successivamente il Conte, prendendo finalmente un sorso del proprio thè dalla propria tazzina mentre il suo Maggiordomo si esibiva in un mezzo inchino, che lo portava a poggiare la mano destra sul petto, in altezza del cuore.

“Yes, my lord”, concluse l’uomo scarlatto, con un sorriso affabile e compiaciuto mentre il suo padrone sorrideva, deciso sempre di più nel suo obbiettivo, che pregustava già la sua vittoria, sotto una maschera di un semplice ragazzino.

 



 
La sera, dopo cena, il Conte si rinchiuse nel suo studio, per riflettere su come avrebbe agito il giorno successivo, come avrebbe potuto andare alla ricerca del bastardo che stava uccidendo la sua amata città. E doveva necessariamente essere fermato il più presto possibile.

Studiò quindi con cura i posti da visitare, dove l’ultima volta il serial killer aveva mosso ancora terrore, e dove ovviamente si sarebbe trovata Scotland Yard, certo che avrebbe rivisto molto presto l’ispettore con il proprio direttore sul luogo del delitto. Rammentò fra sé che lui non era un grande amante del sangue –fatta eccezione del colore- e che quindi sarebbe dovuto stare attento a controllare le proprie emozioni per non mostrarsi debole agli occhi di nessuno. Solo il suo Maggiordomo sapeva di tale debolezza, che lo portava spesso a prese in giro piuttosto irritanti. Lo stuzzicava parecchio su quel fronte, ma lui ammetteva sempre di odiare l’idea di vedere tanto sangue in un solo posto. Solo il colore gli piaceva –ovviamente-, ma la presenza di sangue vero lo disgustava e non poco.

Passò svariate ore chiuso nel suo studio e chino sulla propria scrivania, quando nuovamente, prima dell’ora di andare a dormire, il Maggiordomo entrò con il suo famoso thè, l’ultimo della giornata, ottimo per conciliare il sonno, che sicuramente sarebbe stato agitato per il suo padrone, per via degli impegni e dell’incarico che lo aspettava il mattino dopo.
“Bocchan, vi ho portato il thè, come volevate”, si annunciò dall’uscio, con voce morbida e calma, entrando lentamente dentro l’ampia stanza con il proprio piccolo carrello dove poggiava la teiera di porcellana pregiata, assieme alla tazza, con rispettivo piatto e cucchiaino da thè.

“Grazie, Geràrd”, poche volte lo ringraziava in quelle situazioni, ma era tanto stanco persino di badare a quelle poche formalità. Il rapporto fra i due permetteva di poter abbandonare la formalità, che reggevano durante il giorno, a quell’ora tarda, dove tutto appariva tranquillo e sereno. Ma l’animo del Conte sembrava agitato, per via di ciò che lo aspettava. Era più che certo di riuscire a scovare il più grande assassino, e ciò lo rendeva quasi nervoso. Ma fortunatamente con lui, c’era il suo amato Maggiordomo, capace di tranquillizzarlo come nessuno era capace di fare. In cuor suo, ringraziò così tante volte il suo servitore da giurare di poter lasciarsi scappare ancora tali ringraziamenti ad alta voce. Si trattenne quindi, prendendo un sorso del proprio thè perfettamente filtrato, abbandonando sulla scrivania il proprio lavoro, concordando con i pensieri dell’altro presente nella stanza che per quel giorno era anche abbastanza.

“Non crede che sia ora di riposare? Avete lavorato troppo”, i pensieri non tardarono a mostrarsi, e il Conte annuì, gustandosi quel dolce thè che lo calmò in pochi attimi, come era abituato a fare nel corpo giovane del ragazzo.

“Avevo giusto finito gli ultimi particolari, adesso vado”, concluse poco dopo, finendo il liquido nella propria tazza prima di alzarsi dalla poltrona per potersi stiracchiare di poco, sentendo il proprio corpo intorpidito e la stanchezza farsi più viva che mai.

Fece per allontanarsi dal proprio Maggiordomo per superarlo così da raggiungere la porta della stanza quando si sentì trattenere dal polso e successivamente dalle spalle, da mani fredde nonostante i numerosi strati di tessuto che lo avvolgevano. Poco dopo, quelle stesse mani gli sfilarono la giacca e alla mente del Conte ritornarono i ricordi del pomeriggio, di quel pomeriggio carico di peccato e vergogna. Cercò di destabilizzarsi quando appunto il Maggiordomo si era premurato di sfilargli la giacca pesante che lui stesso avrebbe lavato.
“Domani mattina vi farò trovare tutto pulito, non si preoccupi”, si scusò quasi, e il Conte dovette guardarlo negli occhi, non riuscendo però a non perdersi in quel piccolo sorriso accompagnato da uno sguardo carico di scuse.

In quel momento gli parve più bello del solito. Un demone della bellezza, illuminato dalla luce fioca che proveniva dalla luna all’esterno e filtrava dalla finestra per illuminare quanto poteva la stanza buia –il Conte lavorava esclusivamente con una lampada sulla scrivania che in quel momento, sul corpo dell’uomo non aveva alcun potere.

“So che lo farai”, concluse velocemente, per non rimanere a fissarlo per troppo tempo prima che lui potesse dar via ad una serie di solite battutine. Ricambiò il sorriso, con uno stanco, avvicinandosi però al corpo dell’altro per averlo più vicino. Venne compreso il suo gesto e si lasciò abbracciare quasi teneramente, ma non distolse lo sguardo dai suoi occhi e dal resto del suo viso che aveva davvero a pochi centimetri dal proprio. Non gli importò di nulla in quel momento, non aveva in testa che un pensiero fisso: quello di baciarlo. E lo fece, non ricevette un rifiuto, ma quel gesto venne ricambiato con un altro altrettanto delicato. Un saluto, un ringraziamento, ecco cosa suggellava.

E senza dire altro, il Conte gli carezzò piano il petto, prima di sciogliere l’abbraccio e di allontanarsi da quel corpo, che aveva fin troppo torturato la sua mente quel giorno.
E ancora una volta sorrise, ma stavolta aveva dimenticato ogni cosa, ogni imbarazzo, rabbia, ansia per l’indomani, e si lasciò avvolgere dalla dolcezza che quel tocco continuava ad infondergli nella mente, fino a farlo addormentare, abbandonandolo nell’ignara difficoltà che lo attendeva.


 


 



Secrets that I have held in my heart
Are harder to hide than I thought
Maybe I just wanna be yours
I wanna be yours, I wanna be yours

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Capitolo 3
*** When problems are dyed red... ***


WriterCorner: Dopo un mese, o poco più, sono ritornata. In ritardo, lo so ma purtroppo l'ispirazione non si fa viva e il tempo è così poco che purtroppo devo anche prendere tempo di respirare. Ma sono tornata, così vi lascio con un nuovo capitolo questo mese e ovviamente mi aspetterete per il prossimo a Novembre. Prometto di scriverlo entro la fine del mese, spero di riuscire a gestirmi tra scuola e gita imminente che mi aspetta giovedì. Ma questo a voi non interessa, vi interessa del capitolo e dunque eccolo a voi. Spero che la storia vi stia piacendo, sto cercando di non divulgarmi troppo con i capitoli ma a quanto pare mi riesce difficile: il Conte mi sta facendo passare le pene dell'inferno, altro che lui. E dunque vi lascio a lui, al suo Maggiordomo e...
Arigatou.



 

執事赤 – Akashitsuji – The Red Butler

When problems are dyed red…

16 Marzo 1888



Proprio come previsto, il Conte Frank, la mattina seguente, era già sul luogo del delitto, affiancato dal suo amato servitore. In fondo, non poteva mai e poi mai andare diversamente.

E proprio come previsto, l’investigatore Pricolo e il suo supervisore di Scotland Yard non tardarono ad arrivare e si meravigliarono quasi di trovare il Conte Phantomhive proprio sul posto, come se li stesse attendendo. Rivolse loro un sorriso, specialmente all’ispettore Brightside, che storse appena le labbra nascoste da folti baffi grigi e si massaggiò appena il pizzetto, anch’esso grigio, che gli ricopriva a sua volta il mento prima di giungere davanti al ragazzo, tenendo con la mano libera il manico dorato del suo bastone di legno massiccio nero, dall’aspetto del tutto malandato ma ancora in piedi, che reggeva in qualche modo la sua andatura un po’ distorta per via di un lontano incidente avuto durante un rapimento di un vecchio ladro che si aggirava per la città. Ovviamente, anche quella volta Scotland Yard aveva perso con uno a zero per il Maggiordomo. Non era mai permesso sbagliare, in nessun caso. Ne uscirono tutti illesi, meno l’ispettore che fu colpito con un colpo di fucile alla gamba destra e, invece che amputargli la gamba, venne salvata, con qualche residuo da portare per il resto della vita. E il bastone che portava da quel giorno, ne era la prova.

“Salve, ispettore Brightside, lieto di vederla anche stamattina”, esultò ironicamente Frank, tenendo le mani dietro la schiena, giocherellando distrattamente con le dita mentre fissava l’uomo davanti a sé, che non ricambiava lo sguardo nel modo che si poteva aspettare, anzi se lo aspettava: disprezzante. Già, perché sapeva quanto l’ispettore lo odiasse, per quante volte lo aveva trovato sul luogo di un delitto prima del suo arrivo, in ogni caso che finiva sul giornale. Fosse per lui, il giornale doveva essere proibito per quel ragazzo che tanto lo infastidiva come poche altre cose al mondo, e che il suo orgoglio lo tratteneva dall’ammettere che era un eccellente investigatore insieme a quello che era il suo Maggiordomo dall’abito scuro e dai capelli rosso fuoco, che in quel momento gli sorrideva cordiale e si abbassava in un lieve inchino. Odiava ben poco quell’uomo, ciò che più lo mandava fuori di testa era il suo protetto di ventuno anni dalla statura inferiore alla sua, non che la sua fosse migliore –nessuno in quel momento superava la figura slanciata ed elegante del Maggiordomo-, e dal sorriso che in quel momento riteneva il più fastidioso di tutti.

Il Conte Frank sapeva di questo astio nei suoi confronti, ma faceva come nulla fosse, anzi, ne approfittava quando poteva per infastidirlo ancora di più; amava la sua espressione esasperata e quei pochi baffi più lunghi che si muovevano ad ogni suo sbuffo sonoro lo portavano a ridacchiare di nascosto, o almeno a provarci.

“A cosa devo la sua presenza, Conte Phantomhive?”, disse sprezzante l’ispettore, mentre il ragazzo al suo fianco si esibiva in un mezzo inchino, in segno di rispetto verso qualcuno con un valore decisamente più alto di lui. Gli era sempre stato insegnato comportarsi in tale modo davanti a qualcuno con un titolo nobiliare che si rispetti, anche se a volte veniva ripreso dal suo ispettore, l’uomo che si trovava esattamente alla sua sinistra perché lo trovava ridicolo nella maggior parte dei casi. E quello era il momento adatto per ricevere un colpo di bastone sugli stinchi, che lo fece destare sul posto e tossì per mascherare malamente il dolore. Di certo, dopo quell’episodio, il suo ispettore non gli avrebbe mai più permesso di chinarsi davanti al Conte Frank, che gli aveva rivolto un piccolo sorriso, come ad apprezzare quel gesto, non avendo però notato con grande cura il lieve battibecco fra i due investigatori.

“Sa, signor Brightside, non potrei mai, e dico mai, perdermi un episodio del genere. Dovrebbe saperlo”, rispose semplicemente, rivolgendo lo sguardo al vicolo buio, macchiato da una pozza di sangue del tutto asciutta e impregnata sulla strada, mentre degli ispettori scattavano delle foto al corpo che doveva essere esaminato per capire con quanta brutalità quella volta Jeff The Killer aveva agito.

Il Maggiordomo non gli avrebbe permesso di vedere il corpo martoriato, nonostante l’età che non era più quella di un ragazzino ma di un adulto, e lo dimostrava nel modo in cui si sovrapponeva fra la scena del crimine e il corpo del suo protetto, con attenzione ma anche con disinvoltura, da non far comprendere nulla ad occhi indiscreti o neanche ai spettatori più vicini a loro, in quel momento. Il Conte non provò a bloccarlo, non aveva intenzione di contraddirlo in quel momento, anche se avrebbe voluto farlo per poter vedere la scena che lo incuriosiva da morire. Però, senza calcolarlo, si scostò lateralmente e quasi all’unisono, con un gesto sinuoso, lo fece anche il Maggiordomo, facendo sospirare il ragazzo arreso. Tutto però avvenne in pochi istanti, prima che l’ispettore Brightside e il ragazzo sconosciuto al suo fianco lo distrassero da quelle attenzioni a lui date.

“Certo che è impossibile capire che fine faccia…”, commentò il giovane e anche quella volta l’ispettore lo interruppe con un cenno del capo, prima di sistemarsi il cilindro sulla testa, coprendo i capelli grigi e corti su di essa.

“Hamilton, per noi niente è impossibile, e questo dovrebbe saperlo. Perché pensa di essere stato assunto alla Scotland Yard? Non siete un ragazzo così pigro, anzi, astuto… E dovreste iniziare a lavorare con la dote che vi appartiene”, tagliò corto, con tono sprezzante e duro, senza staccare gli occhi dalla scena davanti a lui, mentre Hamilton, così si chiamava il giovane, scriveva sul suo taccuino in cuoio marrone. Chissà cosa stava scrivendo in quelle logore pagine…

“Certo che però sarà un lavoro non facile per nessuno”, si aggiunse la voce soave del Maggiordomo, rimanendo composto e lontano dalla squadra speciale che nel frattempo stava nascondendo il corpo e tracciando vari segni attorno alle chiazze di sangue lasciate dall’assassino e dal corpo della giovane sull’asfalto del vicolo. “Ma voi di Scotland Yard, riuscirete sicuramente a trovare l’assassino in men che non si dica, non è vero ispettore Brightside? Non vi lascerete scappare Jeff The Killer così facilmente”, continuò con un sorrisetto che irritò l’ispettore nominato, ma non abbastanza da farlo sospirare.

“È certo, signore. Di certo Scotland Yard non può permettersi di perdere. È nostro compito salvare il paese, e di nessun altro”, concluse prima di rivolgere all’uomo vestito di nero un occhiata seria, che si spostò poi sul Conte alle sue spalle. Detto ciò, rivolse lo sguardo sul ragazzo che continuava a scrivere sul suo taccuino, con sguardo chino sul foglio scarabocchiato. “Andiamo, Hamilton, riferiamo tutto in centrale e vediamo come agire. Buona giornata, Conte Phantomhive. A lei, signor Maggiordomo”, e dicendolo, si allontanò dai due, lasciandosi alle spalle il ragazzo che aveva da poco capito cosa doveva fare e si affrettò a rimettere le proprie cose al suo posto. Ma prima di andarsene, si avvicinò al Conte, imbarazzato, per potersi chinare appena in segno di saluto cordiale. “Sono Gustav Hamilton, è stato un onore poterla conoscere, Conte Phantomhive”.

“Lo stesso per me, ispettore. Lieto di averla conosciuta in circostanze così… Singolari. Ma d’altronde non esiste miglior modo”, rispose Frank, con un sorriso tranquillo, sistemando il proprio cilindro che portava in testa per ricambiare il saluto.

“Lo penso anch’io, Conte”, e un richiamo veloce dal suo maggiore, lo fece ridestare e, con un cenno del capo rivolto al ragazzo di fronte a sé, si allontanò correndo goffamente alle spalle del signor Brightside.

Povero ragazzo, pensò Frank, vedendo le due figure allontanarsi verso una carrozza, che sicuramente li avrebbe riportati in centrale, sospirando fra sé prima di notare la figura alta del Maggiordomo voltarsi.

“Dovremmo fare qualche altra ricerca, bocchan. Credo sia meglio rientrare e rivedere meglio la situazione”, sussurrò piano ma ricevette cenno di negazione dal suo protetto, che lo fissava serio.

“Voglio che controlli come ha agito stavolta, se si tratta del vero Jeff The Killer. Ti ricordo che Scotland Yard ha confuso l’assassino di qualche mese fa con lui, non vorremo sbagliarci anche stavolta. Magari riusciremo a capire a cosa è diretto. Io ritorno all’appartamento, vedrò di capirci qualcosa”.

“L’accompagno, signorin-”

“No, Geràrd, è un ordine”, e con quelle parole, sibilate con durezza, alzò appena la benda dal suo occhio destro, che si illuminò di luce del marchio che possedeva, il richiamo del suo Maggiordomo, al quale brillarono gli occhi con serietà, accendendosi di una luce che non era stata ancora mostrata quel giorno. Ricoprì velocemente l’occhio al “Yes, my lord” sussurrato con voce roca e il famoso sorrisetto dal suo Maggiordomo, prima di allontanarsi per raggiungere la carrozza che lo aspettava alla fine dell’isolato. Solo in quelle occasioni, richiamava il suo fidato accompagnatore al posto del Maggiordomo, ma rimaneva sempre lontano dalle loro azioni, a lui era permesso stare fuori da certi affari.

Si sforzò fra sé di mantenere la calma al pensiero del Maggiordomo in preda al richiamo del loro marchio. Cambiava totalmente aspetto, non realmente, ma aveva un’aria che non gli apparteneva a quella di tutti i giorni, quotidianamente. Si irrigidiva, sorrideva languidamente, ma appena, e lo ascoltava come tutte le volte. E lo eccitava.

Era davvero possibile? Diamine, erano nel bel mezzo di un caso, vicini a colui che doveva essere finito una volta per tutte, e non poteva deconcentrarsi in quel modo, pensando a quanto eccitante fosse il suo Maggiordomo quando gli era richiesto di rispettare un ordine. Scosse dunque la testa, una volta aver preso posto dentro la carrozza, che al richiamo del suo bastone sul tetto partì verso l’appartamento che gli apparteneva nel centro di Londra, utilizzato in occasioni come quelle.

Si tolse il cilindro dal capo e sospirò stanco, chiudendo gli occhi per poter poggiare la nuca sul cuscino del sedile dov’era poggiato, lasciando il cappello e il bastone vicino alla propria figura. Avrebbe necessariamente dovuto smettere con quei pensieri poco consoni sul proprio Maggiordomo, non era da lui e non poteva permetterselo. Non poteva sentirsi attratto da lui.

Attratto.

Rabbrividì a tale affermazione. Si premette una mano sul viso e la lasciò successivamente cadere sulla coscia, con un sospiro. Era troppo per lui. Quell’affermazione non poteva risuonare così vera nella sua mente, nei suoi pensieri. Si sforzò così di scacciare tali idee dalla mente per concentrarsi sul suo obiettivo del giorno, rendendosi conto che era già arrivato all’appartamento dalle pareti nere. Scese dalla cabina, senza preoccuparsi di farsi aprire la portiera e ringraziò l’uomo, prima di chiudersi velocemente dietro la porta di legno massello dell’ingresso. Appese il cilindro all’appendi-abiti marrone scuro, seguito dal bastone, raggiungendo poi il salotto per sfilarsi la giacca blu e riporla sul bracciolo del divano, posizionato al centro della stanza.

Quei pensieri lo avevano turbato al tal punto da farlo sudare. Approfittò dell’assenza del suo Maggiordomo, sapendo che però lo avrebbe raggiunto a momenti, e salì di corsa le scale per chiudersi in bagno e potersi dare una sistemata. Mancava solo che si fosse fatto ritrovare nelle condizioni della sera precedente. E non era il caso, ne avevano uno da concludere.

 

 

 
A pranzo non parlò, il suo animo si era pacato, ma non intendeva proferire parola con il Maggiordomo che assisteva al suo pasto in silenzio, come gli era stato chiesto di fare. Era rincasato minuti dopo il suo “stato di calma”, e ringraziò il fato per quella fortuna quel giorno. Aspettò di finire, prima di farsi servire il dessert e in quel momento l’atmosfera si interruppe. Eppure non era da lui intrattenere una conversazione al momento del dolce con il suo Maggiordomo…

“Cos’hai scoperto, Geràrd?”. Non lo degnò di uno sguardo. Che si vergognasse?

“Dunque. Si tratta del nostro serial killer, non c’è alcun dubbio. Ho aspettato che la squadra si allontanasse un momento per poter controllare il corpo della ragazza e i tagli alludevano a lui. Mancava la lingua della ragazza, anche stavolta. E stavolta ha lasciato un biglietto, a cui nessuno ha fatto caso. Pare sia indirizzato a lei, signorino”, e dicendo quello, estrasse dalla tasca della sua giacca, un foglio di pergamena ripiegato, che porse al suo padrone. Doveva averlo letto, il fiocco che lo legava precedentemente era stato sciolto, ma non si preoccupò di quel dettaglio. Ripose la forchetta sul piatto dove stava la fetta di torta al cioccolato e panna, per ripulirsi le labbra e prendere il bigliettino, che aprì e che lo inorridì come poche cose al mondo.

Era scritto con del sangue, e la firma, in giapponese era la cosa più macabra che avesse mai visto.


      Anche stavolta sono tornato, mio Conte.
     Non si libererà di me fin quando non mi sarà di fronte.
    Sto ancora attendendo il suo arrivo da troppi anni.
   Non vedo l’ora di rivederla.

      ジェフキラー*


Lesse velocemente, e poi una seconda volta con più attenzione, come ad imprimere in mente ogni termine che vi era scritto, colorati di rosso rubino scuro, colore che gli annebbiò la mente, come un qualcosa di spaventoso e di assolutamente indimenticabile.

Strinse la pergamena fra le dita, stropicciandola tanto da strapparla sul bordo sinistro, dove sul pollice l’anello dal diamante blu splendeva e risaltava da quel rosso sangue. Si permise di prendere un profondo respiro, prima di stendere il biglietto per poterlo rileggere nuovamente, soffermandosi sulla firma in giapponese.

Un momento…

Giapponese.

Gli risuonò strano, ma talmente strano da dargli un indizio sconcertante.

Quella lingua era parlata da pochissimi a Londra. Nel territorio inglese, il giapponese era la lingua insegnata e praticata in pochissime famiglie nobili, come quella del Conte, ma per via della madre e del profondo desiderio che riportava in sé di voler trasmettere le sue origini al proprio figlio all’infuori della nobiltà che li portava ad essere istruiti a quella lingua così strana. Lady Natsukashii, diceva sempre che pochi componenti della famiglia Phantomhive erano stati istruiti secondo quel regime. Per quanto la famiglia del padre Lord Vincent non fosse d’accordo per quel matrimonio, si rese conto quando la giovane fosse una nobile di grande rispetto e venne accolta nella magione a braccia aperte. E con essa, anche le sue origini e la sua lingua orientale e piena di cultura del tutto nuova e sconosciuta. Al suo arrivo, che venne a conoscenza di tutte le poche grandi magioni di Londra e dintorni, la lingua si diffuse, facendo parte del regime scolastico dei nobili eredi. Eppure, quando Lord Vincent conobbe la giovane, grazie ad una spedizione in Giappone compiuta con il padre, entrambi avevano una giovane età, e a giovane età convolarono a nozze. Tutto avvenne in poco tempo, così come la diffusione delle origini della madre.

E dunque il Conte Frank, ragionando, si rese conto di quello che aveva scoperto con un bigliettino. Sarebbe così arrivato a scovare il killer che da tanto perseguitava la città.

E se…

E se ci fosse stato qualche collegamento alla sparizione dei suoi genitori? Magari dopo averlo scoperto, sarebbe giunto ad una conclusione al suo obiettivo finale, avrebbe trovato la pace che da anni perseguitava come un matto. Avrebbe fatto cessare i suoi incubi, i suoi dubbi, avrebbe così vissuto il resto della sua vita con l’animo fiero e avrebbe dato una degna sepoltura a quella che era la sua famiglia, arsa viva quando il giovane Conte era in tenera età. E non avrebbe di certo dimenticato quel giorno, ma avrebbe dato un fine ai suoi tormenti più atroci. Avrebbe vissuto. Una vita migliore, serena, quello che ci si aspetta per un Conte della sua età, avrebbe trovato moglie, avrebbe organizzato un matrimonio

Scosse così la testa a quei pensieri, si fermò lì e guardò il Maggiordomo in piedi al suo fianco, senza proferire parola, mentre costui gli rivolgeva uno sguardo serio, in attesa di qualche segnale o ordine da parte del suo padrone. E si fermò a ricambiare semplicemente il suo sguardo, come a rivolgere a lui tutti quei pensieri che gli avevano da poco affollato la mente, tanto da lasciarlo senza fiato. Riprese a respirare, rilassandosi sotto quei occhi rossi ma calmi, pazienti. Pensò di dover rimandare quei ultimi pensieri a quando avrebbe capito cosa andava bene per la situazione in cui si trovava molto spesso… Forse, troppo spesso.

“Faremo delle ricerche, so da dove cominciare, approfondiremo e cercheremo ovunque, scaveremo così a fondo da non farci scappare neanche un minimo particolare”, pronunciò quelle parole con una durezza che non apparteneva a lui, ma in quel momento era poco concentrato sulle sue azioni, quei pensieri lo avevano turbato così velocemente e così tanto da confonderlo. Pensò persino di doversi scusare per quel tono, ma d’altronde si trovava di fronte al suo Maggiordomo e di certo lo conosceva abbastanza da non sconvolgersi come lui per il suo modo di fare così improvviso.

“Come volete, bocchan. Sono ai vostri ordini”, il Maggiordomo si esibì dunque in un breve inchino mentre il suo padrone si alzava dalla poltrona, riponendo il tovagliolo con la quale si era pulito le labbra dalle gambe sul tavolo vicino al piatto del dolce e nascose il biglietto nella tasca del pantalone scuro che portava, per poi girarsi verso l’alta figura dell’uomo dai capelli rossi.

“Non oggi, devo prima riflettere e domani ne riparleremo. Questa situazione mi ha stancato. Mi prendo un pomeriggio per poterci riflettere e occuparmi di altre cose per l’azienda. Aspetto il mio thè, Geràrd”.

“Sarà fatto, padrone”. A quelle parole, lasciò una pacca sulla spalla del Maggiordomo, prima di superarlo e lasciare la sala da pranzo, adiacente al salotto, per raggiungere l’ingresso e salire le scale frontali che portavano al piano superiore dove vi erano le camere, il bagno e il proprio ufficio, nel quale si chiuse per tutto il pomeriggio a lavorare.

Alle cinque del pomeriggio, come richiesto, arrivò il suo thè, pregiato e speziato come lui desiderava, insieme al suo Maggiordomo. Come sempre, era ben vestito, rigorosamente in nero, e i capelli lunghi e rossi ben sistemati, che splendevano insieme ai suoi occhi. Erano calmi, pacati, quasi rilassanti. Con sé, insieme al thè portava una fetta della torta che il Conte aveva trascurato dopo pranzo. Sapeva quanto gli piaceva e non l’avrebbe di certo sprecata.

“Grazie, Geràrd”, sussurrò piano il Conte dopo aver preso un lungo sorso del proprio thè caldo, che rianimò il suo umore nervoso e il resto del suo corpo, teso come una corda di violino. Si sciolse come un nodo di seta, come spesso accadeva in quei momenti carichi di tensione per via del lavoro, e solo grazie al suo Maggiordomo riusciva a staccare. Si chiedeva come poteva arrivare ad odiarlo quando si prendeva gioco di lui, se poi lo adorava quando si presentava con il rimedio per farlo stare meglio. Era così… strano a volte, eppure andava così.

Ad odiarlo, a ringraziarlo, ad amarlo.

Poteva essere vero? No.

Evitò quel pensiero ancora una volta quel giorno e sospirò, vittima del liquido caldo e saporito che gli scorreva in corpo, lungo la gola e al centro del petto. Ripose la tazza di vetro cinese sul piattino e si sporse a prendere un boccone della torta al cioccolato, prima di voltarsi verso l’uomo che gli sorrideva in attesa di qualcosa.

“Sì, Geràrd?”.

“Volevo solo sapere se la torta era di vostro gradimento, bocchan”, rispose semplicemente, come per scusarsi di quello sguardo insistente, ma dalla sua espressione non trapelava alcunché che poté farglielo capire.

“Sai che questa è una di quelle torte che ti riesce meglio, Geràrd. Non hai bisogno di una mia risposta alla tua domanda”, disse a sua volta, con disinvoltura e senza alcun interesse, che però non ferì neanche quella volta l’uomo, anzi lo fece ridacchiare. Odioso. “Qualcosa di divertente, Geràrd?”.

“No, nulla, mio padrone”, cercò di giustificarsi, voltando lo sguardo alla finestra che dava sulla campagna londinese, costituita da prati verdi, case abbandonate. Una zona tranquilla, quasi rilassante. Ottima per il Conte.

Ci pensava sempre lui a quei particolari, pur di rendere vita facile al suo padrone, pur di realizzare i suoi piccoli desideri, le sue esigenze. Eppure si soffermava solo a quelle, non riuscendo a capire se ce ne fossero altre… E se ce ne sarebbero mai state altre, di esigenze, di desideri, di bisogni? Avrebbe fatto il possibile per renderlo felice, o almeno sereno.

Esigenze. Desideri. Bisogni.

Le stesse tre parole che volteggiavano nella mente del Conte, come a non volerlo mai lasciar libero di pensare ad altro. Una fissazione, che non lo lasciava respirare. Poi, accanto a quell’uomo era difficile mantenere un certo contegno, soprattutto da quando ultimamente quei pensieri si erano fatti più chiari e più maturi. Ma era tutto così sbagliato che non si sarebbe sognato di fare altri pensieri su di lui, un uomo anni e anni più grande di lui, mentre era solo un ventunenne in preda a crisi ormonali per via della presenza del suo Maggiordomo alto, cremisi, snello, affascinante… Mozzafiato.

Basta.

Si dovette alzare dalla poltrona, per respirare profondamente. Che cosa gli prendeva? Non poteva perdere il senno, non era da lui, nel suo carattere, nel suo essere. Arrossiva, balbettava, andava in confusione non appena la sua mente viaggiava attorno il Maggiordomo. E da quando? Da tre anni? Da quando aveva scoperto che baciarlo era una bella sensazione? Assurdo. Assurdo e impensabile.

“Tutto bene, signorino?”, chiese quasi agitato l’uomo, avvicinandosi al padrone per poter poggiare una mano sulla sua spalla, che gli venne scostata con freddezza dalla mano sottile del giovane. Non si scompose, ritornò al suo posto, senza però smettere di guardarlo.

“Scusa, ho bisogno di stare solo”, freddo come il ghiaccio, come non voleva essere nei suoi confronti. Si sentì subito mortificato, e sospirò affranto, rivolgendo lo sguardo al suo Maggiordomo. “Geràrd, mi dispiace… Non so cosa mi sia preso e-”.

“Sarà il troppo lavoro, dovete riposare”. Fosse solo quello…

“Riposerò, come promesso”.

“La disturberò per l’ora di cena, si prenda il suo tempo”, il sorriso che gli rivolse, lo fece sciogliere lì in piedi, sorretto alla scrivania davanti a lui e respirò ancora, pur di calmarsi e non addossarsi a quel corpo.

Semplicemente annuì, lasciandolo ripulire tutto per poi vederlo allontanarsi con passo lento, non distogliendo lo sguardo penetrante, serio all’improvviso, attento, dal proprio padrone e quello sguardo parve durare un eternità, capace di far tremare le gambe al ragazzo, di portarlo a reggersi maggiormente alla sua scrivania e di mandargli il respiro fuori la soglia della normalità.

Perché mi fai questo…

Quando la porta si richiuse, Frank si abbandonò alla propria poltrona, brandendo fra le mani i propri capelli corti per abbandonarsi ad un chiaro esempio di rianimazione. Respirò a fondo, tentando di calmare il respiro e il cuore che aveva preso a battere all’impazzata contro la propria cassa toracica. Si costrinse a guardare verso l’esterno, portando i gomiti sui braccioli della poltrona e il mento poggiato sulle mani intrecciate fra di loro. E si rilassò. Non pensò a niente, svuotò la mente dalle preoccupazioni, dalle ansie, dalle indecisioni, da quell’uomo. E si concedette pausa, tregua. E da lì avrebbe trovato le risposte che cercava ad ogni suo problema. In fondo, ne aveva uno abbastanza grande da risolvere. E quel problema, aveva i capelli rosso sangue.
 
 
 


But this time, we'll show them
We'll show them all how much we mean
As snow falls on desert sky
Until the end of every...

 
 
 
 
*: In Giapponese “ジェフキラー” significa proprio “Jeff The Killer”
 
 
 
 

 

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Capitolo 4
*** When nightmares could kill you... ***


WriterCorner: Sono imperdonabile. Ma non voglio dirvi nulla se non che sono tornata in tempo per farvi il regalo di Natale e per dirvi che mi dispiace avervi fatto aspettare così tanto. 
Arigatou a voi e felice Natale, mie cari lettori <3



 

執事赤 – Akashitsuji – The Red Butler

When nightmares could kill you…

 17 Marzo 1888


Era notte fonda quando, in preda ad un incubo, il Conte aprì gli occhi. Dopo la cena preparatagli dal Maggiordomo, si era rinchiuso nelle sue stanze e si era sistemato a letto, per poter dormire placidamente e mettersi in forze per quello che lo aspettava il giorno successivo. Ma un incubo aveva invaso il suo sonno tranquillo, disturbandolo, torturandolo e interrompendolo, senza dare tregua al giovane Conte, madido di sudore che lo avvolgeva pesantemente sotto la camicia da notte.

Una nube di paura aveva abbracciato il giovane. E c’era da ricordare che non era il tipo che aveva paura, raramente ciò accadeva. Quella sera era un avvenimento raro. Raro come quei incubi, colmi di sangue e di terrore. Terrore che aveva talmente scosso il sognatore di avvenimenti tranquilli, talvolta più inquieti, ma tanto da non farlo più ritornare a dormire.

Non ti darò mai la mia paura.

Si ripeté quella frase mille volte fra sé, con gli occhi chiusi e ancora seduto sul letto matrimoniale a baldacchino che riempiva la stanza dell’appartamento londinese. Si riferiva all’incubo che aveva disturbato il suo sonno quieto, con  terrore e sangue, con sorrisi affilati e lame assetate di paura.

Ma perché un sogno che aveva come protagonista tutto quel dolore, lo aveva spaventato tanto da svegliarlo di soprassalto? Che avesse a che fare con qualcosa che riguardasse lui? Non era quello il suo destino. E non aveva forse il suo Maggiordomo affianco per proteggerlo? Come mai si era lasciato sopraffare da quella situazione che minacciava di distruggerlo con cautela e lentezza?

Domande su domande che gli affollarono la testa in un attimo, tanto che una consapevolezza terribile gli balenò in testa, terrorizzandolo e facendolo impallidire sul posto.
Che fosse successo qualcosa al suo Maggiordomo? E quel sogno lo stava preparando al peggio?

Velocemente, scostò le lenzuola dell’ampio letto, di scatto scese dal letto e balzò in piedi scalzo e con la sua camicia da notte leggera. Si fiondò in quello stato proprio fuori dalla stanza ma si scontrò con quello che era del tessuto bianco e profumato, e due braccia lo avvolsero all’istante, facendogli sobbalzare il cuore in gola. All’evidenza, respirò profondamente e si abbandonò fra le braccia del suo salvatore, cercando di decelerare i battiti del proprio cuore respirando profondamente, sollevato. Era lì con lui.

“Tutto bene, bocchan?”, chiese con voce delicata, confusa e preoccupata mentre carezzava la schiena del ragazzo con le mani coperte dai guanti perfettamente bianchi.

“Adesso sì”, asserì con voce flebile, riprendendosi pian piano dallo spavento preso, tenendo gli occhi chiusi e rimanendo abbandonato a quel corpo magro e allungato, che avrebbe messo a rischio la vita pur di proteggerlo.


 



 
A colazione, non si rilassò del tutto. Il Maggiordomo gli concesse dei massaggi lungo le spalle e le braccia, dato che ai suoi occhi appariva ancora agitato e per niente confortato. Eppure, diversamente dalle altre volte in cui aveva tentato in quel modo, non servì affatto. Lo vide ancora assente e provò in tutti i modi di distrarlo, parlandogli dei vari programmi che avrebbe svolto nell’arco della giornata, gli propose una lezione di violino, sapendo che al Conte piaceva molto suonare quello strumento… Ma niente di tutto questo avvenne.

“Signorino?”, fu allora che intervenne, durante la sua partita a carte in salotto, interrompendo ovviamente il suo gioco solitario che fece destare il Conte sul posto per farlo così voltare verso di lui, con espressione interrogativa. “Vuole dirmi cosa la preoccupa tanto?”.

Il Conte sospirò ancora, capendo a cosa si riferisse con la sua interruzione, prima di abbandonarsi allo schienale della poltrona del salotto, dove era stato chino sul tavolino a giocare con le sue carte.

“Te l’ho detto, Geràrd. Va tutto bene, mi sento solo stanco e stressato da questa situazione”, esordì, con tono stanco ma anche infastidito, come era solito essere. “E poi non mi hai detto delle ricerche, voglio novità, adesso”, ed eccolo pronto a sviare il discorso in fretta. Abile Conte.

Il Maggiordomo sospirò, sfilando poi dalla tasca interna della sua giacca nera una pergamena che srotolò con un’altrettanta abile mossa, rivelando una lunga lista di nomi. Ad occhio e croce, il Conte giurò di averne intravisti una ventina o anche più. Che tutti quelli fossero i più sospettati?

“Sarebbero…?”.

“Coloro che, durante il successo della Phantom Company, hanno tentato di lavorare con vostro padre. Solo che… Pochi di questi possono rivelarsi dei veri ricercati”, e iniziò a fare una lunga lista di nomi, quelli che lui ritenne “pochi”, fin quando non si soffermò su uno di loro che il giovane ricordò fin troppo bene:  Jonathan Eloise, il francese più ricco, dongiovanni, quello che credeva di “saperne più dei filosofi e dei letterati del secolo”. Colui che nascondeva qualcosa di losco. Ma cosa mai avrebbe voluto quell’uomo dalla sua famiglia? Mandarla in rovina? Impossessarsi dei suoi beni? Tutti quelli che avevano provato, come l’imprenditore Bonelli, a mettersi in affari con la sua famiglia, avevano sempre e solo in mente di rovinarla e spedirla in bancarotta.

“Eloise, hai detto?”, lo interruppe il Conte, alzandosi così da raggiunge il suo Maggiordomo che lo osservava porgergli la pergamena con i possibili sospettati. La prese fra le mani e studiò quel nome che aveva pronunciato con tanta durezza e soprattutto sicurezza nella sua voce, alzando poi lo sguardo verso il Maggiordomo di fronte a sé, che lo stava osservando con molta attenzione, lo sguardo rosso scarlatto deciso.

“Proprio Eloise. Potremmo indagare alla sua serata di gala. A quanto pare domani sera terrà un ricevimento nella sua magione qui nei pressi di Londra. Dovremmo partecipare, a mio avviso”, non appena pronunciò le ultime parole, il Conte Frank sgranò gli occhi allontanandosi così di scatto dal suo corpo.

“Io? Io ad una serata di gala? Hai idea di cosa significhi?”, diventò quasi paonazzo, arrossì visibilmente e cercò di nascondere il viso divenuto roseo alla sua vista, voltandosi dunque dall’altra parte.

“Non capisco la gravità della situazione…”, esordì il Maggiordomo, esibendo uno dei suoi ampi sorrisi, ma notando però lo sguardo imbarazzato e a disagio del proprio padrone.

Un momento.

Serata di gala. Quindi… Banchetti, incontri con personaggi di un certo ceto sociale, importanti, musica… Balli.

Ai balli, il Conte Frank non aveva mai partecipato. Prendeva parte a quel tipo di serate solo per cercare svago, o interessarsi di affari, ma la sua presenza era parecchio rara.

Nella sua memoria riaffiorarono immagini del proprio Conte ad un ballo, con una donna. Impacciato, nervoso… A disagio. Tanto da scappare una volta completato.

Che fosse…

“Aspettate”.

Il Conte avvampò ancora, tenendo lo sguardo basso per lasciarsi sovrastare dall’incombente silenzio che era calato nella stanza all’improvviso, un silenzio consapevole e imbarazzante allo stesso tempo.

“Voi non sapete…”.

“Sta’ zitto!”, gridò forte il Conte, voltandosi definitivamente e del tutto rosso in viso per l’imbarazzo imminente a quello che il suo Maggiordomo stava per pronunciare, ma cercò di bloccarlo con dei cenni eccessivamente visibili di entrambe le mani ma nulla riuscì a fermarlo.

“Voi non sapete ballare”.

Ecco quella consapevolezza che portò il Conte a coprire il volto con entrambe le mani, cercando di reprimere quella sensazione di imbarazzo che quella frase gli aveva provocato, quella che non avrebbe mai voluto sentire, quella che preferiva ripetere fra sé e non che fosse qualcun altro a notarlo oltre lui. Ed era ciò che odiava, che qualcuno si potesse rendere conto dei suoi pensieri, delle sue paure e delle sue incertezze. Nessuno oltre lui poteva vederle, o anche solo abitarvi, notarle. Era una cosa che odiava e lo rendeva nervoso e debole, cosa che evitava principalmente.

“Ti avevo detto di fare silenzio”, sussurrò il Conte, con la voce ovattata dalle mani che coprivano il suo viso, prima di alzare lo sguardo verso l’artefice del suo imbarazzo, fulminandolo.

“Cosa c’è di male, bocchan?”, eccolo ancora una volta a punzecchiarlo, con un sorriso che avrebbe preferito poter cancellare in quel momento, quel sorriso che gli faceva ribollire il sangue nelle vene, quel sorriso che lo avrebbe portato ad alzare le mani al viso dell’uomo che lo portava, a fatica qualcosa lo tratteneva. Forse l’educazione e il contegno che viveva in lui.

“Togliti quel sorriso dalla faccia, non ho intenzione di rispondere a questa tua domanda estremamente inopportuna”, sospirò pesantemente, cercando di reprimere l’imbarazzo e il nervosismo che in quel momento si erano impossessati di lui, ma cercò di mantenere il controllo senza distogliere lo sguardo da quell’uomo, tanto affascinante quanto fastidioso.

“Quindi lei così mi sta confermando il suo non saper ballare”, continuò imperterrito il Maggiordomo, senza abbandonare il sorriso che caratterizzava il suo carattere sfacciato nei confronti del proprio padrone.

Silenzio. Il silenzio che calò, provocò disagio nell’aria, e venne subito spezzato dalla risatina provocatoria del Maggiordomo, che si avvicinò alla figura del Conte che si reggeva alla poltrona sulla quale era rimasto seduto durante il suo gioco prima che venisse interrotto. Lo sguardo del giovane si spostò altrove, mentre il viso riprendeva il colore scarlatto che lo caratterizzava quando era nel più completo imbarazzo, ancora una volta.

“Geràrd, sei pregato di tacere”, sussurrò con voce dura, senza però guardarlo negli occhi, per non mostrare la sua debolezza che, malgrado i suoi tentativi, agli occhi scarlatti del Maggiordomo non sfuggì.

“Posso aiutarvi, in tutto, e lei questo lo sa. Non deve vergognarsi di ammetterlo…”, tentò col dire, poggiando una mano coperta dal guanto bianco sulla sua spalla prima di vederlo voltarsi verso di sé, con sguardo duro e impenetrabile.

“Non ci sarà alcun bisogno”.

“Allora dovreste rinunciare all’idea di prendere con le vostre mani colui che cercate così avidamente…”, era così dannatamente bravo a provocare il suo padrone, tanto da infastidirlo e fargli battere un pugno violento sullo schienale della poltrona.

“E va bene. Non ho mai avuto intenzione di rinunciare o tirarmi indietro. Farò ciò che giusto”, sbottò nervoso, ma con un tono di serietà nella voce, prima di respirare a fondo e riprendere posto nella poltrona, abbandonandosi quindi allo schienale, come se quelle emozioni contrastanti provate in un arco di tempo così breve l’avessero distrutto improvvisamente.

“Allora, se pensate che sia giusto avere un piano, ascoltate ciò che ho da dirvi”.

Il Conte Frank prestò tutta la sua attenzione al Maggiordomo, guardandolo però con occhi diversi, quelli che richiedevano il suo lavoro, che reclamavano serietà e mettevano in secondo piano emozioni imbarazzanti e incontrollabili. Mise così da parte anche l’imbarazzo e il nervosismo, per mettere in evidenza il suo evidente interesse, vista la circostanza: quello che stava per sentire era un piano per aggirare e scovare il possibile sospettato, avrebbe fatto di tutto pur di trovare qualche indizio che l’avrebbe portato a quello che era il suo più acerrimo nemico.

“Come ben sappiamo, sir Eloise è conosciuto per i suoi banchetti e per i suoi balli sfarzosi, dove prendono parte parecchia gente con un titolo nobiliare o molto ricca. Ma sappiamo anche che nasconde qualcosa, e dobbiamo scoprire cosa. Se è qualcosa che riguarda la sua famiglia, soprattutto, dovremmo indagare”.

“Continua”, lo incitò con fare impaziente, con un veloce gesto della mano, mentre sospirava in attesa che arrivasse al sodo.

“E bene, propongo di partecipare alla serata e…”.

“Come puoi pensare che io possa partecipare all’evento?”, sbottò Frank, alzandosi immediatamente dalla propria poltrona per guardare l’altro dritto negli occhi, incandescenti ma confusi.

“Bocchan, deve rispettare le norme di comportamento di fronte a qualcuno. Mi lasci finire, si accomodi”, lo ammonì il Maggiordomo con un cenno calmo della mano, facendo appunto sedere il Conte al suo posto prima di prendere un profondo respiro e congiungere le mani all’altezza del petto, prima di ricominciare a parlare. “Propongo dunque di partecipare alla serata e di cercare di aggirare la moglie di Eloise. E’ parecchio giovane, si chiama Francine, credo abbia la vostra età ed è già sposata con il conte Eloise che ha già un età avanzata per la donzella”.

“E cosa dovrei fare con questa… Francine?”, chiese così il Conte, interrogativo, poggiando il gomito sul bracciolo della poltrona così da tenere il mento su con la mano e guardare il suo Maggiordomo attento. La questione di dover… Aggirare la ragazza non gli quadrava molto e voleva capire.

“Semplicemente dovreste guadagnarvi la sua fiducia, mio caro padroncino, in modo da scoprire qualche dettaglio utile su monsieur Eloise. E guadagnarvi la sua fiducia intendo… Ballare con lei, riempirla d’attenzioni, corteggiarla. Giusto per una sera. Dovrete scoprire molte cose su di lui, e così facendo sarà proprio la sua sposa a confidarsi con voi”, concluse saccente il suo discorso, con uno sguardo malizioso, che nascondeva milioni di allusioni che il Conte Frank evitò di comprendere distogliendo lo sguardo e puntarlo sul proprio tavolino dove vi erano le sue carte del gioco interrotto poco prima.

Guadagnarsi la fiducia di una donna.

A malapena riusciva con quella che doveva essere la sua futura sposa e che da mesi non vedeva, fortunatamente. Ma evitò di pensare persino a quella ragazza e si concentrò sul piano elaborato dal Maggiordomo.

Ballare. Corteggiarla. Riempirla d’attenzioni.

Non era così difficile, mettendo da parte la prima opzione. Era considerato e visto, soprattutto, un ragazzo carino, educato se osservato dall’esterno e se in condizioni di dover aprire un dialogo con gente importante. Venne addirittura considerato un ragazzo attraente per le giovani donne, e insomma… Era convinto di far un certo effetto sulle ragazze. Non doveva essere difficile poi con una sua coetanea, soprattutto se anche la ragazza era di bell’aspetto, seppur sposata con un riccone abbastanza adulto. Credeva di potercela fare, esternamente poteva dichiararsi vincitore.

Ma a ballare? Come poteva pensare di conquistare una nobildonna senza saper mettere un piede dopo l’altro durante un valzer o chissà quale altro ballo. Come poteva.

“Credete di potercela fare?”, chiede cauto il Maggiordomo, rimanendo ancora fermo nella sua posizione con la schiena ben dritta e lo sguardo cremisi sul suo Conte, chino a contemplare chissà quale angolo remoto della stanza, sovrappensiero.

“Non so ballare”, ammise di getto, ancora assorto nei suoi pensieri, come se quella era una consapevolezza che sarebbe dovuta rimanere silenziosa e, appunto, nella sua mente. Gli scivolò dalle labbra, ad alta voce, con una naturalezza tale da sorprendere persino il Maggiordomo.

“Dovreste prendere lezioni, sempre se accetta l’impegno”.

“Chiamami qualcuno che me le dia allora”, esordì il Conte Frank, sollevandosi in piedi per poter guardare il proprio Maggiordomo, con serietà e decisione negli occhi, respirando molto profondamente. Stava davvero per commettere un atto che non si sarebbe mai aspettato di poter realizzare.

“Ce l’ha davanti, my lord”, e si esibì in un profondo inchino, portando il braccio destro all’altezza del petto, prima di sollevarsi nuovamente, mostrando il viso perfetto incorniciato da un sorriso altrettanto perfetto quanto soddisfatto di quella constatazione, le ciocche di un rosso cremisi a completare “l’opera”, tanto da far mancare per un attimo il respiro al Conte che dovette tossire per potersi riprendere e guardare confuso ma anche divertito il suo Maggiordomo.

“Stai forse scherzando, Geràrd”, inarcò così un sopracciglio, incrociando le braccia al petto mentre osservava in attesa di una risposta l’uomo che gli stava di fronte che improvvisamente gli lanciò uno sguardo carico di sfida.

Ed in un batter d’occhio, si mosse, leggiadro ed elegante. Iniziò a ballare sul posto, mostrando al suo Conte dei passi complicati, alternati con altri semplici ma realizzati in modo perfetto, seguendo un ritmo che apparteneva solo nella sua testa ma che cercò di trasmettere anche a colui che lo stava guardando, che di danza non ne sapeva assolutamente nulla.

I suoi occhi verdi seguirono i piedi eleganti dell’uomo, che si muovevano veloci e ad un tratto lenti, facendo volteggiare quel corpo alto e snello in modo da risultare splendido da vedere, armonioso agli occhi di colui che non aveva mai visto qualcuno danzare o che potesse solo capire di cosa si trattasse. Lo ammaliò tanto da fargli immaginare una melodia di quelle che spesso ascoltava per via del Maggiordomo, una melodia a lui sconosciuta ma come se in quel momento la conoscesse da una vita. Immaginò addirittura una scena dove lo vedeva protagonista, dove ballava per compiacere un pubblico sconosciuto, che rimaneva ammaliato a sua volta proprio come lo era Frank in quel preciso istante.

Un rumore sordo di tacchi che sbattevano fra di loro, concluse il ballo e, con esso, tutta la messa in scena nella mente del ragazzo, che ritornò alla realtà. Sbatté gli occhi, incredulo e per ritornare a concentrarsi sulla sua figura, prima di alzare lo sguardo sul viso dell’uomo, rimanendo ancora un tantino stordito da tutto quello che era successo, che lo aveva scosso nel profondo, ma era una sensazione di benessere a lui estraneo, come se quella musica da lui immaginata e quel ballo lo avessero fatto sentire bene.

“Allora? Sto ancora scherzando?”, fu una risatina dell’uomo a riportare la totale attenzione del ragazzo su di sé, mentre quest’ultimo scosse la testa, passandosi le mani fra i capelli scuri.

“Non so come potrei imparare in poco tempo, non pensavo fossi così bravo”, ammise con voce flebile, quasi scoraggiato mentre riprendeva posto sulla poltrona, respirando a fondo e con sguardo assente.

“Vi preoccupate di questo? Domani mattina avremo tutto il tempo per studiare. Vi ricordo solamente che il ballo è fra esattamente cinque giorni”.

Cinque giorni. Come poteva pretendere di saper ballare in pochissimo tempo, iniziando praticamente da zero?

Lo sguardo preoccupato del Conte attirò l’attenzione del Maggiordomo, che si avvicinò a lui per sfiorare il suo volto con la punta delle dita, alzandolo dal mento.

“Con me, non dovete preoccuparvi, e voi lo sapete”, e così detto, si chinò a baciargli lentamente la fronte, quando il Conte sperava in un altro tipo di bacio ma strinse gli occhi per scacciare quel pensiero, cercando di non farsi notare troppo dall’uomo. Venne lasciato poi solo, per potersi rilassare e finire il proprio gioco, fino all’ora di cena.

Dopo cena, si rilassò leggendo un libro, con la testa troppo occupata da pensieri ingombranti, che non lo lasciarono respirare neanche nell’ora di lettura.

Pensava a quell’uomo che aveva ballato per lui, alla sensazione di benessere che aveva sentito, al piano da attuare per la sua missione, al ballo da dover studiare in cinque giorni. Quando chiuse il libro, chiuse anche la sua mente, svuotandola di quei pensieri che lo stavano soffocando.

Quella sera volle però al suo fianco l’uomo, chiedendogli di vegliare su di lui fin quando non sarebbe crollato in un sonno profondo. Il Maggiordomo, mettendo da parte l’idea che fosse per debolezza per non infastidire il padrone che pareva alquanto turbato, rimase al suo fianco, sdraiato mentre lo stringeva vicino. E gli ritornò alla mente il turbamento che aveva travolto il  giovane Conte. Aveva ancora quel dubbio che non lo aveva lasciato un attimo.


E proprio quando quel pensiero gli affollò la mente…

Ho sognato che Jeff The Killer faceva a pezzi il mio corpo”.
 


 
 
 

You'll never take me alive.
You'll never get me alive.
Do what it takes to survive,
And I'm still here.

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Capitolo 5
*** When eyes should see corpses, not bodies... ***


WriterCorner: Sono imperdonabile. Ancora. Ma ultimamente sono successe parecchie cose che mi hanno costretta a stare lontana dalla mia ff, ma sono ritornata, forse con un capitolo più corto, forse più lungo... Non lo so, ma sono ritornata, e chiedo davvero scusa per tutto ma credetemi, è ancora un periodo un po' difficile per me, soprattutto perchè adesso ho davanti il mio ultimo anno di liceo, la patente che mi aspetta e... Vi meritate questo capitolo, per avermi attesa. 
Arigatou.

 


執事赤 – Akashitsuji – The Red Butler

When eyes should see corpses, not bodies…

 
18 Marzo 1888

“Un, due, tre. Un, due, tre”.

Un.

Due.

Tre.

Quanto era difficile? Per lui non di certo.

“Devi darmi tregua!”.

“Concentratevi, bocchan! Dobbiamo lavorare parecchio”, la sua voce era decisa, che tentava di spronare quel piccolo disastro che stringeva fra le braccia per farlo “volteggiare” per tutta la stanza, senza alcun risultato. Pareva di stringere un pezzo di legno con gambe e braccia completamente paralizzate. Uno spettacolo esilarante tanto quanto stressante.

“No, basta!”, eccolo lì, che si arrese completamente. Madido di sudore, si allontanò dalle braccia del Maggiordomo, strattonandolo infastidito con affanno e i capelli completamente appicciati alla pelle della fronte, come il resto dei vestiti. Si dovette subito accomodare sulla poltrona sul fondo della stanza lasciata libera da strumenti musicali che, incessantemente, il Conte cercava di imparare senza alcun risultato. Giovane umano volubile.

“Vi siete già arreso?”.

Il tono di voce del Maggiordomo era cambiato, era provocatorio, come al solito, mentre il suo corpo si rilassava sul posto, con braccia incrociate e il peso spostato su una gamba, per niente stanco. Anzi, a differenza del giovane, era perfettamente lindo e pulito, senza alcuna traccia di sudore che non appartenesse al ragazzo che varie volte aveva poggiato distrattamente il viso sulla sua spalla per riposarsi. Eppure avevano ballato… Per due ore e mezzo. Possibile che fosse già così stanco? Non avevano fatto alcunché: il Conte aveva solo imparato da lui le regole, i passi base del valzer. Aveva promesso che non si sarebbe sbilanciato oltre eppure… Aveva distrutto il suo padrone.

“Geràrd, sono sfinito”, fece presente il Conte, fulminandolo con lo sguardo mentre tentava ancora di riprendere fiato, tenendo le mani poggiate sulle ginocchia, con la testa china e le labbra schiuse.

“E va bene, vi concedo una lunga pausa stavolta. Ma non credo che fermarci ancora ci sia d’aiuto, soprattutto a lei, signorino. Le sue abilità motorie sono alquanto…”

“Le mie abilità motorie sono solo fuori forma. E adesso preparami un bagno, continueremo nel pomeriggio”, e detto questo, il Conte si alzò di scatto, sprezzante, dalla poltrona. Ma la mancanza di ossigeno al cervello si fece sentire, tanto da fargli perdere l’equilibrio e svenire. Il corpo non sfiorò nemmeno il pavimento, ma si scontrò solo, nuovamente con quello del Maggiordomo, che lo resse in tempo da evitare una terribile botta con il parquet.

Umano debole.

Un sorriso divertito si fece strada tra le labbra dell’uomo che, delicatamente, avvolse con le braccia il corpo esile del padrone per portarlo nella rispettiva camera da letto, così da preparargli in seguito un bagno che lo avrebbe rigenerato, rilassato, e sicuramente lo avrebbe fatto riprendere da quello che si era rivelato un attacco di stanchezza. E così fece: adagiò il corpo del giovane sul piccolo divanetto che teneva accanto alla finestra, comodo, lasciando che le luci del giorno lo avrebbero dolcemente svegliato, per riempire la vasca di acqua tiepida nella toilette della camera da letto. Successivamente, avendo tutto pronto, si assicurò che il suo padrone si fosse svegliato, ma ciò non era ancora successo.

Perciò si avvicinò al corpo del giovane, ancora privo di sensi, e tentò di svegliarlo chiamandolo con voce cauta, con carezze o lievi colpetti di dita sulle guance. Nessun risultato.

Cos’altro avrebbe potuto fare per poterlo svegliare? Ovviamente non poteva lasciarlo in quello stato per chissà quanto tempo. Sudato com’era, non avrebbe rischiato che il suo padrone si ammalasse.

Eppure non si sarebbe mai permesso di toccarlo e di occuparsi di lui senza un permesso, soprattutto per fargli un bagno. In fondo, era solo un maggiordomo.
Ma in quei casi, era importante agire prima che il suo padrone prendesse un malore. E così fece: gli tolse delicatamente le bretelle che aveva messo per la lezione di valzer -in teoria le odiava ma sapeva quando era necessario indossarle- slacciandole sul davanti; lentamente sbottonò la sua camicia bianca e del tutto impregnata di sudore, che quasi si attaccava al giovane petto, rimasto poi libero e vittima di una lieve corrente dell’ampia stanza divenuta fredda su quella pelle umida.

Il corpo del giovane Conte poteva essere comunque visto come il corpo di un uomo non ancora del tutto formato, per via dell’età abbastanza matura, e lo si notava dalla non-presenza di pettorali poco definiti, ventre piatto e il tutto ricoperto da un velo sottile e morbido di peluria scura, in contrasto con il suo “fondo”. Non si permise di sfiorarlo con il tocco, ma solo con lo sguardo, scorrendo gli occhi dal collo e lungo le clavicole in bella mostra per via dell’esile corporatura; lo sterno era appena visibile ma le costole si presentavano più evidenti per via della pelle chiara e resa più vivida dai raggi di sole che penetravano dall’ampia finestra del bagno, l’unica fonte che illuminava le due figure. E la presenza del sudore imperlava e colorava di mille colori l petto che si alzava e si abbassava leggermente in atto di respirare. Fortunatamente ciò avveniva, rincuorò il suo cuore.

Si azzardò dunque a sfiorarlo all’altezza dello sterno, sulla peluria leggera, non riuscendo a vincere la tentazione, e passo poi le dita e lo sguardo lungo la linea centrale addominale, fino all’ombelico del ventre magro, pallido come se fosse perlato. Una visione paradisiaca.

Assurdo per uno come lui, soffermarsi su certe cose. Assurdo perché non poteva permettersi di concepire determinati pensieri sul suo padrone, nonostante quelle effusioni che spesso si scambiavano… E a lui non dispiacevano affatto.

No.

Non era permesso. Non era concepibile. Per lui il Conte era solo… una preda, un nulla, nulla che avesse importanza al di fuori del concepibile.

Non era nella sua indole, eppure desiderava…

“Cosa è successo?”, fu la voce che diede fine a tutti i pensieri, a tutte le azioni, che irrigidì il Maggiordomo, confondendolo maggiormente.

“Siete… Svenuto, mio signore”. Balbettava? Lui stava balbettando? Era inconcepibile. Era incredulo da quel tono di voce, tanto da non riuscire a capire da chi davvero potesse provenire quel suono. Eppure si toccò la gola con le dita coperte da guanti bianchi, cercando di capacitarsi di quello che era successo. Fortuna che il Conte parve non accorgersene…

“Svenuto? Mi hai sfiancato così tanto da farmi svenire?”, infatti il Conte cercò di mettersi in piedi, scendendo dalle braccia forti del Maggiordomo ma una volta aver poggiato i piedi a terra, un capogiro lo colpisce e ritorna ad addossarsi fra le braccia del suo salvatore, nuovamente in difficoltà nell’avere quel corpo mezzo nudo a stretto contatto. Era davvero in difficoltà.

“Perdonatemi, è stato il caldo che vi ha fatto perdere i sensi. Adesso vi rinfrescherete, pronto per affrontare il resto della giornata”. In effetti nella stanza entrava molta luce dall’esterno, si respirava un’aria calda, non troppo fastidiosa, ma con la lezione di ballo da poco intrapresa il corpo lo percepiva con una nota più alta.

“Tutto a posto, Geràrd? Non mi farai riprendere la lezione nel pomeriggio?”.

“Se vi sentite spossato, non insisterò per oggi”, o forse era una scusa per non ritrovarsi in situazioni poco piacevoli e consone…

Lasciò al Conte un po’ di spazio, assicurandogli che gli avrebbe sistemato la stanza e soprattutto il pranzo, visto che l’ora era vicina. E poi, non aveva troppa forza necessaria per reggere un solo sguardo in una determinata direzione al Conte. Non dopo l’episodio precedente.

La non-insistenza del Maggiordomo, spiazzò il Conte che, nel pomeriggio, dopo il pranzo e un lieve riposino, osservava ogni mossa dell’altro, facendo tutt’altro che dedicarsi alle lezioni di valzer promesse per il ballo.

“E se io volessi esercitarmi ancora?”.

“Non vorrei sveniste di nuovo”. La sua voce era lontana, poco interessata al vero soggetto della questione. Il Conte Frank notava particolari come quelli, lo conosceva alla perfezione, vista la convivenza protratta da lungo tempo. Ed erano proprio simili particolari che gli facevano destare sospetti sui pensieri del Maggiordomo. Aveva notato quel mattino con quanta fatica l’altro lo aveva guardato nudo mentre si rilassava in vasca, eppure non era mai stato un problema per lui, visto che lo vestiva e lo lavava continuamente. Nessuno, più di lui, lo aveva visto in determinate occasioni. E proprio quel giorno lo aveva insospettito tutto quel… distacco e quella difficoltà anche solo nel guardarlo.

“Sicuro che non ci sia dell’altro?”.

Il suo sguardo lo confuse. Gli occhi rossi parvero celare qualcosa di indecifrabile, una sorta di frustrazione senza alcun motivo, o almeno non ancora scoperto e compreso. Cosa c’era di tanto assurdo? Il tutto quel tempo, mai era capitata una cosa simile: certo, il Conte da poco aveva sviluppato un certo aspetto, più uomo, più virile, nonostante la giovane età si poteva dire che era cambiato da quando era solo un ragazzino magro e nient’altro. Non che praticasse sport di alcun tipo per perfezionare i muscoli, ma si poteva dire che il fisico slanciato, asciutto e muscoloso nei punti giusti e senza esagerazioni, facevano di lui un uomo che iniziava a crescere veramente sotto il punto di vista fisico – moralmente, era già cresciuto da un pezzo.

Quel mattino, infatti, si era guardato allo specchio, come per paura di trovare qualcosa di sbagliato nel proprio aspetto, tipo le spalle man mano sempre troppo pronunciate, la peluria sul petto, l’assenza di colore della pelle – che non gli era mai dispiaciuta – o anche solo in viso, i capelli o la leggera barba sulla mandibola. Perché adesso lo guardava in quel modo?

“Nient’altro, bocchan”.

Sentì un brivido, un brivido che lo fece raddrizzare sulla poltrona del proprio studio mentre osservava il Maggiordomo preparargli il tè con il solito rituale. Aveva già smesso di guardarlo per occuparsene, e sembrava più tranquillo, quando non era costretto a farlo.

“Geràrd…”.

E lì lo guardò di nuovo, quasi confuso, frustrato, specchio degli occhi del suo Conte, che si era alzato e lo aveva raggiunto dall’altro lato della scrivania per poggiargli una mano sulla spalla. Il Maggiordomo parve cedere, come se non riuscisse a sostenere quella vicinanza dopo quello che era accaduto poco prima. Si sentiva crollare, e non gli era mai capitata una cosa del genere. In fondo, lui era solo… lui. Ma era tutto diverso, in quel momento, tanto da sentirsi confuso e spaesato.

“Ditemi, mio padrone”, tentò però di sostenere la situazione, eliminando dalla mente i pensieri poco adatti che aveva pensato quella mattina dopo la lezione di ballo.
Non ebbe il tempo di sentirsi rispondere che percepì subito il fiato caldo del giovane vicino al proprio, vicino le labbra ma non quel tanto da potersi sfiorare o anche solo toccare e ciò lo frustrava a livelli che non pensava di poter raggiungere.

“Non ho bisogno di menzogne. Sai bene che ti conosco e non ho bisogno di sentirti mentire per capire che lo stai facendo”.

La sua voce era così debole ma provocatoria sotto un certo aspetto che il Maggiordomo non si aspettava in quel momento di poter sentire e si sentì troppo preso alla sprovvista che rischiò di farsi vedere troppo debole. Si ricompose immediatamente, annuendo piano alle parole dell’altro e senza dire nulla gli baciò la fronte, allontanandosi da quel corpo per potersi salvare.

“Vi preparo il pranzo, bocchan”.

Non avrebbe più permesso che quei momenti avrebbero nuovamente preso il sopravvento su di lui, mostrarsi esposto agli occhi del suo padrone, di quel ragazzo era una cosa che non poteva più permettersi. Ed era proprio come lui si prometteva a se stesso, il Conte si maledisse per aver annullato quella distanza fra di loro in così poco tempo ed essersi avvicinato troppo a quel viso meraviglioso che, purtroppo, continuava a regnare nei propri sogni la notte e che portava alla luce sensazioni mai provate prima.


E che forse, non avrebbe mai dovuto provare.









My thoughts are with you
Holding hands with your heart to see you
Only blue talk and love,
Remember how we knew love was here to stay

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