Echo. [interrotta]

di spectr0lite
(/viewuser.php?uid=251419)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Uno. ***
Capitolo 3: *** Due. ***
Capitolo 4: *** Tre. ***
Capitolo 5: *** Quattro. ***
Capitolo 6: *** Cinque. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***





Prologo.



North Rocks Journal. 7 Agosto 2013.
Morte e dolore al numero 19 di Dryn St. La famiglia è stata colpita nel bel mezzo della notte dalla furia omicida di un ragazzo del posto. Nate Anderson, anni 22, è stato arrestato con l’accusa di omicidio doloso. La polizia ha riscontrato inoltre che il soggetto fosse sotto effetto di psicofarmaci e sostanze stupefacenti, tra cui MDMA e metanfetamina. Il ragazzo aveva già ricevuto una denuncia per molestie da parte della famiglia, revocata in seguito ad un processo tenutasi nel corso di questo stesso anno.
Unica sopravvissuta Mia Duncan, figlia 16enne di Anne e Christian Duncan. La ragazza, attualmente ricoverata  all’ospedale centrale di St Andrews, ha riportato numerose ferite da arma bianca al torace ed escoriazioni agli arti superiori.
 
 
 
Buio. Le urla che ti rimangono incastrate in gola. C’è troppo dolore. C’è troppo rosso. C’è troppo nulla.
 
 
Io non ci sono più.
 
 
E poi bianco. Tutto si tinge di bianco. Ѐ accecante.
 
 
 
North Rocks Journal. 28 Settembre  2013.
 
Torna la speranza sul caso Duncan. L’unica sopravvissuta all’omicidio di Dryn St si è svegliata dopo un coma durato 52 giorni. Mia Duncan, ora 17 anni, verrà immediatamente trasferita in una nuova città dove potrà ricominciare la sua vita da normale adolescente. Gli assistenti sociali si stanno già occupando di tutto per favorire la sicurezza della ragazza.
L’assassino, Nate Anderson, anni 22, è stato condannato a 32 anni per omicidio doloso grazie a patteggiamento. Tra i suoi effetti personali è stata ora trovata una foto della ragazza 17enne su cui scritto “Riuscirò a trovarti. Ѐ una promessa.”

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Uno. ***





Uno
.
 
– Signorina Duncan, può ripeterlo ancora una volta? –
Annuii. – Io dormivo. I miei genitori dormono, uhm dormivano, due camere più in là. Ho sentito un tonfo e poi mia madre urlare. Mi sono alzata. Sapevo di non dover uscire dalla mia camera. Ero spaventata. Ho chiuso la porta a chiave lentamente, per non fare rumore, poi sono rimasta ferma. Sono uscita dalla mia camera dopo circa 15 minuti. Non avevo sentito più nessun urlo o rumore. Sono andata in cucina per chiamare la polizia. La porta della camera da letto dei miei genitori era aperta e sopra c'erano delle impronte insanguinate, così come sul pavimento. Ho preso il telefono e ho chiamato la polizia. Mentre ero al telefono sono andata in salone, mio padre era a terra, c'era sangue ovunque. Ho riferito il mio indirizzo alla polizia. Poi ho sentito uno strano calore al fianco. – sospirai – E credo di aver perso i sensi a quel punto. –
L'avvocato storse il naso. – Non deve esserci nessun credo nella sua dichiarazione. Nessuna incertezza. Quindi ora la ripetiamo. Mi ha capito? – mi disse freddo. Alzai un sopracciglio. Era un uomo sulla quarantina, ma sembra più vecchio, aveva troppe rughe ed era stempiato. Indossava un completo grigio con un'orrenda cravatta verde che allentava ogni 10 minuti. Non mi piaceva il suo sguardo. Mi guardava come se fosse abituato a quelli come me: La piccola orfanella impaurita.
Non aveva capito un cazzo. – No. – dissi ferma. Quell'espressione mi faceva salire l'odio – No? – ripeté accigliato, tanto che gli si formò una V al centro della fronte. – No. Ho ripetuto la stessa versione 7 volte. Sono stanca. Me ne vado, c'è Julianne fuori. – mi alzai dalla sedia senza esitazioni, diretta verso la porta in metallo. Ero in una piccola stanza, con le pareti bianche, un tavolo, due sedie e un registratore. Circa tre giorni fa Julianne mi aveva avvisata dell'incontro con l'avvocato per l'ultima dichiarazione formale e io l'avevo mandata a fanculo dicendo che io da quello stronzo non ci tornavo. Tentativo inutile, perchè esattamente il giorno dopo avevo ricevuto una richiesta formale da parte del giudice Sunders e siccome ero ancora minorenne la legge prevedeva che il mio tutore, in questo caso Julianne, doveva agire nel modo più idoneo.
– Signorina Duncan dove sta andando? – mi chiese accigliato con quella faccia da culo. – Per favore, si sieda. Le prometto che sarà l'ultima. – Si passò nervosamente una mano sul viso. – Lo ha detto anche 6 volte fa. – dissi seccata. Battei due volte il pugno sulla porta in metallo come mi avevano detto di fare e girai la maniglia. – Signorina Duncan si sta comportando come una ragazzina, ora si sieda e continui la sua dichiarazione, prego. E senza incertezze questa volta. – sbottò. Mi prendi per il culo?   Mi girai – Senta, lei non mi piace e credo che la cosa sia reciproca, quindi sarà anche il mio avvocato ma ora la sua dichiarazione senza incertezze può ficcarsela su per il culo. Arrivederci. – ed uscii.
Julianne, che era seduta su una poltroncina a sforgliare una rivista mi vide e si alzò – Hai già finito? –  mi chiese sorpresa poi guardò la mia espressione infastidita e scosse la testa. – Andiamo. – avviandosi verso l'uscita, le andai dietro zitta. Julianne era l'assistente sociale che era stata assegnata al mio caso. Era abbastanza giovane, aveva 32 anni, un figlio di 7 e una bella casa. Con lei si poteva parlare civilmente solo dormendo. Faceva continuamente domande e aveva una particolare inclinazione per quelle retoriche, e stupide, della serie: Mia, so che sono appena morti i tuo genitori, ma come stai? Salimmo sulla sua Volvo e lei mise in moto, ma senza partire. – Mia non puoi ogni volta mandare a fare in culo il tuo avvocato, lo sai, vero? – mi disse girandosi seria verso di me. Ecco di cosa parlavo. Alzai gli occhi al cielo. –E non alzare gli occhi al cielo con me ragazzina, qui stiamo solo cercando di darti una mano. Dovresti ringraziarmi invece di fare la stupida ragazzina immatura. – disse nella sua solita predica. Ora le spacco la faccia. – Oh, ma vaffanculo. – sputai scuotendo la testa e girandomi guardando fuori dal finestrino. Lei accese la radio e la conversazione terminò lì.

Di solito mi piace quando in auto c'è silenzio, ma oggi la strada mi passa di fianco monotona, le persone camminano sui marciapiedi puliti e cercano di ignorare tutto il casino che c'è intorno a loro. Julianne ferma la macchina davanti l'entrata della pensione, non dice nulla, rimane in silenzio. Aspetto che sblocchi le sicure e ed esco sbattendo la portiera. Salgo velocemente i tre scalini per poi sentire un – Buonasera signorina Mia – provenire dal piccolo salottino – Ciao Frank. – salutai con un gesto della mano il vecchio proprietario e salii le scale per andare in camera, presi la chiave dallo zaino ed entrai lanciando quest'ultimo sul letto. – Vaffanculo! – sfogai dando un calcio alla sedia della scrivania, presi una sigaretta dal pacchetto e  la portai alle labbra, accendendomela, per poi aprire la finestra. La stanza era piena di scatoloni, l'agenzia accompagnata da Julianne era andata a casa mia e aveva raccolto tutto ciò che poteva appartenermi: vestiti, libri, foto di famiglia, persino un vecchia tazza rossa tutta storta che avevo fatto al corso a cui mi aveva iscritto la mamma quando avevo 7 anni. Io in casa mia non ci avevo messo più piede dopo quella notte. Mi veniva da vomitare al solo pensiero, anche quando passavo di lì con Julianne in auto e non riuscivo a distogliere lo sguardo mi saliva una nausea incredibile e le lacrime iniziavano a scendere senza controllo.

7 Agosto 2013, 7:40 pm.
Entrai in casa cercando di fare il minimo rumore per correre su in camera, avevo il labbro spaccato e dei graffi sul braccio che sarebbero diventati ancora più rossi ed evidenti nel giro di poco tempo e tutto perchè Sarah Eggleston mi aveva dato della "stupida puttana" davanti a tutti in mensa e io le avevo rotto lo zigomo sbattendola con la testa su un tavolo. Avevo avuto due settimane di sospensione, quindi evitare il contatto visivo con i miei genitori non era una cattiva idea. – Mia? – aveva chiesto mia madre dalla cucina. Merda, merda merda! Pensa Mia, pensa. – Sì mà. Io ho da studiare, vado in camera! – avevo urlato aumentando il passo, pregando tutti gli dei di scamparla. – Ma tesoro è pronta la cen... Mia Echo Duncan, per l'amor del cielo, che hai combinato?! –  urlò sbucando dalla cucina. – Cazzo! – imprecai sottovoce girandomi. Lei venne verso di me con quello sguardo da "ora mi senti, signorina"  – Hai qualcosa da dirmi? – mi chiese truce. – Ma chi, io?  No mamma, nulla, tranquilla, ora però vado in camera eh...–  risi nervosamente rigirandomi e facendo qualche passo – Signorina dove pensi di andare?! – mi fermai con un piede ancora sul primo scalino – Che hanno detto questa volta? – aggiunse sconfitta. Mia madre lo sapeva quello che succedeva a scuola, ma conosceva bene anche la mia testa di merda e i miei scatti d'ira. – Sarah Eggleston mi ha chiamato sai...come posso dire... "stupida puttana" davanti a tutti in mensa... – dissi mimando le parole con le dita – Oh. – disse lei spalancando gli occhi  – ...e io le ho rotto uno zigomo sbattendole la testa su un tavolo. – ammisi titubante. – TU COSA!? – urlò mia madre con gli occhi fuori dalle orbite, se prima era sorpresa ora sembrava aver visto un alieno con tre teste. Mi coprii gli ochhi con le mani – Mia la devi smettere di fare così! – disse lei – Non puoi continuare a prendertela con tutti dopo quello che è successo, sappiamo che sei ferita... – iniziò ma io iniziai a scuotere la testa facendole segno di smetterla – ... ma sono passati solo pochi mesi, vedrai che le cose andranno meglio –  ma lei continuò. – Mamma basta. – dissi fredda scuotendo la testa – tu non sai niente – dissi girandomi e iniziando a salire le scale – niente. – ripetei sottovoce mentre mia madre da giù urlava – Non puoi evitarci per sempre, Mia, siamo i tuoi genitori, ti vogliamo bene, lo sai. Ma devi smetterla di ripeterti che tu sei quello che ti è stato fatto e iniziare a vivere cercando di non nasconderti da te stessa!
Furono le ultime parole che sentii prima di sbattere la porta della mia camera e restare sola con me stessa.

La sigaretta era ormai al filtro quindi feci un ultimo tiro e la lanciai via. Io quelle parole le sentivo ancora in testa come un eco, ma io ero quello che mi avevano fatto e qui c'era tutto questo dolore che io non avevo mai chiesto. E tanta rabbia, troppa. Doveva andare tutto via, ma è ancora qui. Io non volevo essere qui. Non volevo conoscere le circostanze attuali. Non volevo sapere quanti anni di carcere avevano dato a quel figlio di puttana. Non volevano che mi dicessero quanto avevano sofferto i miei genitori.
Perché Dio, io non volevo svegliarmi da quel fottuto coma.

Il telefono mi vibrò in tasca, lo tirai fuori e lessi un messaggio di Julianne "Due minuti e sono giù." , così ignorai il mio cervello e iniziai a portare giù gli scatoloni. Julianne arrivò e li caricammo sulla sua Volvo, disse – Ho fatto benzina prima di venire. – e partì.

Ci volevano 83 minuti per arrivare a Riverstone, Australia.
Era una cittadina a nord-ovest di North Rocks, con un migliaio di abitanti, secondo il giudice Sunders e Julianne l'assistente sociale era la meta perfetta dove poter ricominciare la mia vita. C'erano solo 83 minuti in auto che mi separavano dal mio passato e per me era ancora troppo poco. – Ѐ bello lì, Mia. –  disse prima di prendere l'interstatale.  – La famiglia è carina, hanno un figlio della tua età con cui andrai a scuola, la casa è grande e anche la tua camera è molto spaziosa. Noi crediamo sia il posto più adatto tra quelli analizzati. Sarai al sicuro lì. – me lo disse con una voce rassicurante ma ciò non toglieva il fatto che mi stava abbandonando in una città sconosciuta, da sola, in balia di gente estranea. Alzai un sopracciglio – Per noi  intendi tu e quel vecchio scorbutico? –
– Il giudice Sunders è un membro onorevole della corte giudiziaria. – ripetè le parole convinata, ma senza emozione come una battuta da imparare a memoria. Alzai gli occhi al cielo. – Convinta tu. – le dissi prima di mettere le cuffie e alzare la musica al massimo.
Passammo il cartello – State lasciando North Rocks. Abitanti 27,384. Confine territorio. – e mi sentii lo stomaco più leggero. Avevo i My Chemical Romance che cantavano Fake your death e allora ci pensai. Perché dovevo restare? Avrei potuto semplicemente spegnere le luci e andare a dormire.

 

Spazio Autrice

Okay, partendo dal presupposto che faccio abbastanza schifo con le presentazioni questo è il primo capitolo. Non so come ma ho finalmente avuto il coraggio di pubblicare questa storia, la potete trovare qui ma anche su wattpad (se volete dare un'occhiatina io non mi offendo eh) basta cercare spectr0lite.
Spero che come prima impressione non vi abbia fatto schifo, mi piacerebbe sapere davvero cosa ne pensate quindi se volete lasciate un commento.
pace
Chiara.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Due. ***





Due.
 

– Mia. – 
Non so come, né quando in quegli 83 minuti il sonno era arrivato. Avevo sognato di quando al mio quindicesimo compleanno io e Suz eravamo sul divano a sbavare per Ryan Gosling mentre baciava appassionatamente Rachel McAdams sotto la pioggia in Le pagine della nostra vita. Suz non mi aveva più parlato. Julianne aveva detto che era passata un paio di volte in ospedale, aveva pianto e poi era andata via. Era la mia migliore amica. Poi, semplicemente, le persone decidono di abbandonarti.

18 Aprile 2013, Vacanze di Primavera.
La testa mi faceva un male cane, non mi sentivo più i piedi e quel dolore tra le gambe non andava via, sapevo di stare ancora sanguinando. Avevo corso per non so quanti isolati, ma lui non mi aveva neanche seguita. Dio, che stupida che ero. Mi appoggiai al muretto in pietra che avevo davanti, presi il telefono dalla tasca e composi il numero dell'unica persona che mi avrebbe salvata in quel momento: Suz. Ci vollero quattro squilli a vuoto prima che la voce della mia amica rispondesse allarmata – Mia! Sono le 2 del mattino, porca puttana! Che cazzo hai nel cervello! – mi disse incazzata. Rimasi in silenzio per non so quanti secondi per poi – Suz, ti prego vieni a prendermi, ti prego. – la stavo letteralmente supplicando, ero a pezzi, le lacrime avevano iniziato a scorrere e stavo singhiozzando. – Mia, Mia calmati, okay? Io... arrivo subito. – disse cercando di mantenera la calma. Sentii dei rumori ovattati, probabilmente si stava mettendo le scarpe o stava prendendo le chiavi dell'auto – Mia, dove sei adesso? – mi chiese poi. Mi guardai intorno cercando un fottutissimo cartello perchè io in quella parte della città non ci ero mai arrivata. – Suz sono davanti una casa, è rossa, in mattoni... c'è un cartello VENDESI... – avevo iniziato a dire – Mia la strada, qual è il nome della strada?! – mi chiese esasperata. – Suz, io... io non lo so. Sono vicino Oldcreek Avenue. Ti prego, sbrigati. – ero nel panco più totale. – Oldcreek? Mia che cazzo ci sei andata a fare lì? –  era incazzata a morte, questa non era una bella zona, non sarei dovuta venirci, ma tanto me n'ero già pentita. – Nate. – ammisi in un sussurro. – Oh. – disse solo questo lei – Okay, arrivo. – e poi mise giù. Dopo circa 25 minuti la sua auto era lì e lei mi guardava con un mano sulla bocca, nei sui occhi non c'era stupore  o preoccupazione, ma schifo. Mi fece alzare e mi aiutò a sedermi dal lato del passeggero. Mi accompagnò a casa in silenzio, in auto c'era solo il suono dei miei singhiozzi soffocati. Il giorno dopo non mi chiamò per chiedermi come stavo, le sue parole per me erano finite.

– Mia, svegliati. – mugugnai un – uhm, no – come risposta a questa proposta orribile. – Gesù Mia, siamo arrivate. – disse esasperata Julianne mentre mi scuoteva per la spalla. – Svegliati! – Poi sentii la sua portiera aprirsi e poi il cofano, segno che stava mettendo giù gli scatoloni. Aprii gli occhi ma la luce era troppo forte, avevo il sole in faccia e strizzai gli occhi assumendo l'espressione di una foca ubriaca. – Uh, vaffanculo anche a te. – sbottai acida rivolta ad una personificazione immaginaria del sole. Fuori dal finestrino riuscii a vedere il vialetto e i 3/4 della facciata della mia nuova casa. Era una casa a due piani, doveva essere stata bianca un tempo, perché ora si era ingrigita, il tetto aveva le tegole scure e c'era un lucernario parallelo ad una delle due finestre del piano superiore e c'erano vasi di fiori appesi alla grondaia, gli stessi piantati ai lati del vialetto. Non riuscivo a vedere la porta d'ingresso, ma soltanto la grande finestra che c'era di fianco e una Jeep nera parcheggiata davanti al garage. Julianne fece toc toc sul vetro del finestrino per riportarmi alla realtà. Sbuffai e scesi dalla macchina. Con le mani cercai inutilmente di lisciare le pieghe che mi si erano formate sulla felpa, era forse la mia preferita, nera davanti e con il logo dei Blink-182 sulla schiena. Lanciai un'ultima occhiata ai miei skinny jeans neri che avevano uno strappo enorme sul ginocchio destro e alle mie converse alte.

Ero un disastro? Sì. Io e le prime impressioni non andavamo molto d'accordo.

Sospirai sconfitta e con il mio aspetto da perfetta barbona feci il giro della macchina. Davanti la porta d'ingresso c'erano un uomo e una donna di mezz'età che sorridevano timidamente. Julianne mi fece segno di avvicinarmi –E lei è Mia. – disse sorridendo poggiandomi una mano sulla schiena con fare amichevole. Sì, quanto un dito in culo.
– Tesoro, io sono Karen – mi disse la donna tendendomi la mano. Non credevo si aspettasse che io la stringessi dato il suo sguardo timoroso. Quindi quando la mia mano raggiunse la sua e la strinse sussultò leggermente, mi sforzai di farle un sorriso – Mia. – dissi semplicemente. Karen aveva i capelli tanto biondi e gli occhi chiari, così come Daryl, suo marito, che si presentò dandomi due pacche sulla spalla. Entrammo in casa e Karen iniziò con la sua versione da guida turistica esaltata – Qui c'è il salone, la cucina è lì in fondo e accanto c'è la sala da pranzo. Oh, e lì c'è la nostra camera da letto – io annuii e la lasciai fare solo per non spegnere quella piccola scintilla di felicità che c'era nei suoi occhi. Gli stessi occhi felici che aveva la mamma quando mi guardava e subito dopo le spuntava un sorriso, in questo momento me la ricordava tanto. Gli occhi iniziarono a pizzicarmi e un senso di nausea mi salì in gola. Deglutii a fatica cercando di rimandarlo giù.
La tua camera è di sopra. – annunciò poi lei girandosi verso di me – Seconda porta a sinistra, è accanto a quella di mio figlio Michael – il suo sguardo si addolcì guardando la mia espressione e mi indicò le scale – puoi andare se vuoi. – mi sorrise. Io abbozzai un sorriso di rimando e iniziai a salire le scale diretta in camera mia, sentii Julianne parlare con Daryl di documenti e Karen dire – quel ragazzo è incorreggibile, dove si sarà cacciato stavolta?! – non sapendolo che la risposta alla sua domanda era seduta sul penultimo scalino con dei capelli blu e una vecchia maglia dei Metallica. – Sei arrivata. – mi osservava tranquillo. – Perspicace. – dissi alzando un sopracciglio. – Michael, suppongo. – aggiunsi continuando a salire le scale, aspettai che lui si spostasse, ma rimaneva immobile a fissarmi leggermente divertito. – Perspicace. – disse lui con un sorrisino stampato in faccia. Alzai un sopracciglio, di nuovo. Sì, lo facevo spesso. Finalmente lui si alzò, e ridacchiando salì l'ultimo scalino ma poi rimase lì a fissarmi per qualche secondo per poi scoppiare a ridere. Ma che cazzo?!  – Oh, quindi ti faccio ridere? – gli chiesi alzando gli occhi al cielo, ormai io ero arrivata sul pianerottolo e mi stavo dirigendo verso la seconda porta a sinistra come mi aveva detto Karen. – Sei strana, ragazzina. – dice ancora ridendo. Ragazzina? – Disse il ragazzo con i capelli blu – aggiungo io facendolo ridere, ancora. Lo guardai storto. – Touché. Comunque la porta è aperta se vuoi entrare, ti ho sistemato gli scatoloni accanto al letto. – annuii e girai la maniglia per aprire la porta ma mi bloccai, mi girai biascicai un – Uhm, grazie.– Lui mi sorrise – Di nulla, ragazzina. – alzai gli occhi al cielo per il nomignolo e aprii la porta per entrare in camera – Ah, ragazzina. – mi richiamò Michael, così mi girai verso di lui – Bella felpa! – mi fece l'occhiolino e sparì in camera sua. Gesù, ma questo si fa di roba forte. Io rimasi lì interdetta, poi  finalmente entrai nella mia nuova camera chiudendomi la porta alle spalle.

La camera era grande, con le pareti bianche e il parquet a differenza della moquette che c'era sul pianerottolo. C'era un letto ad una piazza e mezza in ferro battuto davanti una delle due finestre, credo quella che affacciava sul davanti della casa, l'altra era alla parete accanto con davanti una scrivania in legno completamente vuota e una libreria accanto. A parte questi la stanza era completamente vuota. I miei scatoloni erano sistemati accanto al letto, come aveva detto Michael. Li sorpassai e mi lasciai cadere sulla trapunta bianco latte, era morbidissimo – Dio, che bella sensazione. – dissio esausta iniziando a fissare il soffitto.
E improvvisamente niente mi sembrava più vuoto, quel bianco senza vita, senza segni o macchie era vuoto, questa stanza così bella ed eterea era vuota, ed io il vuoto ce l'avevo fin dentro le ossa. Gli occhi iniziarono a pizzicare e lacrime minacciarono di uscire, sentii una stretta allo stomaco e due mani stringermi la gola e mi mancò l'aria, così mi alzai in fretta, presi il telefono e il pacchetto di sigarette ed uscii da quella stanza che il vuoto me lo sputava addosso.

Ero già a metà scalinata quando sentii Michael chiamarmi da su – Ehi, ragzzina, dove stai andando? – mi chiese allarmato affacciandosi dalla porta della sua camera, indossava una felpa e i pantaloni della tuta. Mi aveva sentita. – Io... –  inspirai sentendo il nodo alla gola stringere – Devo uscire. Ho bisogno d'aria. – gli dissi più fredda di quanto avessi immaginato. Sgranò leggermente gli occhi e si lasciò sfuggire un piccolo – Oh, okay. – prima di guardarmi andare via. Sentivo le voci indistinte di Julianne, Karen e Daryl parlare in cucina ma io ero già fuori, i miei piedi camminavano da soli.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Tre. ***





Tre
.
 
– Merda! – imprecai inciampando di nuovo nell’ennesima radice.                            
Avevo camminato per circa due isolati e mezzo prima di vedere il vecchio cartello arrugginito. L’edera rampicante copriva ogni cosa e un cancello di lamiera e rete circondava quello che era un vecchio parco giochi. Ero entrata attraverso un buco nella rete metallica trovandomi davanti una piccola distesa verde, travi, ruggine e cemento. Delle lamiere arrugginite erano fissate su blocchi di cemento a mo’ di panchine perché quelle poche vecchie che c’erano erano ormai sporche e con il legno marcio che cadeva a pezzi, due altalene di tubi e corda cigolavano spinte dal vento ma restavano in piedi, accanto c’era un cilindro di metallo con dei fori tutt’intorno, un sali scendi a cui mancava un sediolino, uno scivolo di cui era rimasto solo lo scheletro e in un angolo c’era persino una fontanella stagnante piena di moscerini.      
– Benvenuta in paradiso. – mi dissi teatrale con quella nota di sarcasmo che altrimenti le lacrime avrebbero avuto un buon motivo per fare la loro comparsa. Mi lasciai scivolare sul metallo della panchina buttata lì a caso trovandomi faccia a faccia con le nuvole che nel cielo australiano non c’erano mai e mi accesi una sigaretta. Il mondo mi faceva tanto schifo e le persone mi stavano tanto sul cazzo. Cambiare città, casa e scuola di certo non sarebbe bastato a cambiare me, che a vivere da sola e nella merda totale ci ero abituata. Una lacrima fuggitiva iniziò a percorrermi il viso, la fermai passandomi la manica della felpa sulla guancia.

Improvvisamente sentii il rumore di un rametto spezzarsi a pochi passi da me. Mi voltai di scatto e vidi due occhi azzurri venirmi incontro. – Hai da accendere? – mi chiese tranquillo il ragazzo. Non era da solo, altri due erano appoggiati al cilindro arrugginito, uno aveva già la sigaretta accesa tra le labbra, l’altro stava rollando del tabacco, chiacchieravano tranquilli. Il biondino davanti a me continuava ad avvicinarsi, indossava una semplice maglia nera e una felpa dello stesso colore, skinny jeans e vans nere. Aveva la sigaretta tra le labbra e continuava a fissarmi, gli passai il mio accendino e sentii un – Grazie. – prima di vedere la piccola fiamma e sentire l’odore del fumo. Lo guardai appoggiarsi al muro di metallo e soffiare il fumo verso il cielo nuvoloso, aveva un piercing al labbro e ci giocava tirandolo in modo nervoso. A quel punto abbassò lo sguardo e lo puntò su di me. I suoi occhi nei miei, quell’azzurro buio e vuoto che mi fissava. – Tu chi sei? Perché sei qui? – sputò alla fine mettendo un po’ troppa enfasi in quella prima parola, guardandomi con uno sguardo inquisitore. – Ti interessa? – chiesi guardandolo scettica buttando il fumo fuori, lui continuava a puntarmi quelle punte di ghiaccio addosso in un silenzio inquietante. Alzò un sopracciglio incitandomi a parlare. – Non lo so. – ammisi distogliendo lo sguardo e prendendo un altro tiro dalla sigaretta. – Sono qui e basta. Problemi? – quel posto era rotto e abbandonato come me, ci stavo bene.
– Vattene. – sbottò lui. Lo guardai, era serissimo. – Cosa? – domandai allibita. – Hai capito bene. – ripeté. Mi alzai in piedi, feci l’ultimo tiro dalla sigaretta e la schiacciai sotto la suola. – E perché dovrei? – chiesi arrogante riportando gli occhi nei suoi. Lui non aveva distolto lo sguardo neanche per un secondo, mi fissava duro. Ma a me quello sguardo non faceva né caldo né freddo, eppure lui continuava a fissarmi con quegli occhi azzurro ghiaccio che ora mi sembravano più scuri, di un blu sporco, come se la notte avesse fatto capolino portando il buio. – Vuoi una foto? – dissi con quel sorrisino arrogante che mi portavo sempre dietro, quello che i nervi te li faceva saltare.

Non me ne accorsi, non ne ebbi il tempo, il respiro mi morì in gola mentre la mia schiena veniva a contatto con il metallo freddo, le sue braccia ai lati della mia testa, sapevo solo di aver sbarrato gli occhi. Lo stavo guardando così come si guarda un pazzo, perché forse era proprio quello che era. Era davanti a me, i muscoli tesi e gli occhi chiusi, sentivo il suo petto alzarsi ed abbassarsi a contatto col mio. Passarono secondi, minuti, non lo so, ma il mio autocontrollo stava andando letteralmente a farsi fottere, sentivo le unghie conficcate nei palmi delle mani e le nocche diventare bianche, il battito accelerato, volevo urlargli di spostarsi, che non doveva toccarmi, lasciargli il segno rosso della mia mano sulla guancia, dirgli che lui il cervello a posto non ce l’aveva.
Ma lui rise. Si staccò, fece qualche passo indietro, mi guardò e rise. Una risata di scherno, fredda, ghiaccio puro. Mi faceva sentire piccola, debole e la rabbia iniziò a scorrermi nelle vene  – Ci vuole poco a toglierti il sorrisino dalla faccia, eh bimba? – e lì l’ossigeno mi abbandonò, espirai violentemente, i polmoni che bruciavano. La mia mano era già sulla sua faccia, il danno era fatto. Il rumore della mia pelle a contatto con la sua riecheggiava tra i fili d’erba di quel posto dimenticato da Dio. – Vaffanculo. – sputai fredda. Si teneva una mano sulla guancia con la testa rivolta di lato, quando tornò a guardarmi i suoi occhi erano puro fuoco, iniettati di sangue, ridotti a due fessure, volendo avrebbe potuto ammazzarmi con quelli. Gli altri due ancora appoggiati al cilindro mi fissavano impassibili.

Il cellulare prese a vibrarmi nella tasca della felpa ma lo ignorai, continuando a fissare quelle punte di ghiaccio – Rispondi a quel cazzo di cellulare. – sbottò allora. Aveva la mascella contratta e stava digrignando i denti, con gli occhi chiusi cercava di calmarsi e non uccidermi seduta stante mentre una chiazza rossa iniziava ad essere evidente sulla sua guancia. Alzai gli occhi al cielo, presi il cellulare e lessi numero sconosciuto. Risposi. – Pronto? – 
– Mia dove cazzo sei?! – sbraitò una voce maschile dall’altro lato del telefono. – Michael? – chiesi incerta sbarrando leggermente gli occhi. – Sì, genio. Assodato questo, mi dici dove cazzo sei? Ѐ da due ore che sei fuori. – mi richiese più calmo. Cazzo. Intanto il ragazzo di fronte a me mi guardava curioso con la testa piegata di lato. Sospirai  – In un vecchio parco giochi abbandonato a pochi isolati da casa tua. – dissi calma. Ma la calma non fu ciò che ebbi in risposta – Che cazzo ci fai lì!? – urlò e io dovetti allontanare il telefono dall’orecchio altrimenti mi sarebbe saltato un timpano. – Che cazzo, calmati oh! – gli intimai. Lo sentii imprecare a bassa voce, probabilmente era ancora a casa, prima di dire – Esci di lì. – 
– Sì, okay. – alzai gli occhi al cielo – Ora cazzo, Mia. – io guardai il ragazzo davanti a me che ormai si era seduto sulla panchina e si stava fumando una sigaretta, aveva lo sguardo rivolto davanti a lui ma non guardava niente in particolare, come se non mettese a fuoco. – Okay. – dissi per poi girarmi ed iniziare a camminare – Aspettami davanti la vecchia scuola che c’è sulla destra, ti vengo a prendere. – disse prima di terminare la chiamata. Passai attraverso il buco e mi girai indietro, lui era lì e mi fissava, quegli occhi azzurri che si confondevano col cielo. Li sentii pizzicarmi la schiena anche quando ormai mi ero già allontanata.

Michael arrivò dieci minuti dopo tutto affannato e con la fronte imperlata di sudore – Che cazzo ci sei andata a fare là!? – sbraitò ancor prima di raggiungermi ancora ad un metro da me. – Michael cazzo calmati! – gli urlai in risposta – Ѐ il primo posto tranquillo che ho trovato. – aggiunsi abbassando la voce. Lui si fermò davanti a me e mi guardò assottigliando gli occhi – Hai incontrato qualcuno? – mi chiese ma quella sembrava più un’accusa che una domanda e io capii che di quel ragazzo non avrei dovuto dirgli nulla, il perché ancora non lo sapevo. – Nessuno. – gli risposi guardandolo dritto negli occhi, senza vacillare, tanto a mentire ero sempre stata brava.
– Andiamo. – disse lui avvicinandosi e cingendomi le spalle con un braccio, io trasalii. – Oh, scusa, io…non… - iniziò a dire allontanandosi di scatto. Lo guardai – Tranquillo. – gli dissi per poi riportare il suo braccio attorno alle mie spalle.
– Ѐ tutto okay. – ripetei più a me stessa che a lui, perché lì niente era okay, io non ero okay e ammetterlo era più facile che negarlo, perché negarlo avrebbe significato avere ancora una minima speranza, e io la mia ultima speranza l’avevo persa il giorno in cui i miei genitori erano morti.

Spazio Autrice

Hallo! Okay questo è il terzo capitolo, spero stiate iniziando a capirci qualcosa ma soprattutto spero stia iniziando a piacervi. Come sempre se avete qualche domanda o altro potete commentare.

Un bacione,
Chiara.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Quattro. ***






Quattro.
 
Passai il resto della serata in camera a svuotare gli scatoloni, avevo detto a Karen di non voler cenare perché troppo stanca dopo il viaggio, semplicemente non riuscivo a sedermi a tavola con loro a fare la bella famiglia felice.
Incrociai le gambe sedendomi sul letto; gli scatolini erano vuoti, i vestiti erano tutti sistemati nell’armadio a muro, i libri riempivano tutte le mensole della libreria e visto che alcuni non ci entravano li avevo appoggiati sul davanzale della finestra, avevo trovato qualche cuscino da mettere sul letto e qualche foto che avevo sparso nella stanza. Mi ero incantata a guardarne una poggiata sulla scrivania, c’erano papà e la mamma che ridevano seduti sull’erba poco lontano dalla sponda di un fiume. Papà la abbracciava stretta e la testa della mamma era poggiata sul suo petto mentre entrambi strizzavano gli occhi scossi dalle risate. Era quella volta che eravamo andati a fare un pic-nic sulle colline vicino casa della zia Rose, avevo si e no 12 anni e avevo ricevuto quella macchina fotografica per il compleanno.

Sentii la porta aprirsi e vidi un ciuffo blu sbucare dalla soglia. – Posso? –chiese Michael titubante sbirciando dentro. Annuii spostandomi un po’ facendogli spazio sul piumino bianco dove venne a sedersi subito dopo. Spostò lo sguardo sulla foto che stavo guardando per poi chiedermi – Ti mancano? – a bassa voce. – Secondo te? – gli risposi alzando un sopracciglio un po’ acida. Non riuscivo ad essere triste quando si parlava di loro, mi saliva solo una rabbia assurda con la quale cercavo di coprire i sensi di colpa. Perché alla fine lo sapevo che era stata colpa mia, perché l’obbiettivo di quello psicopatico di Nate ero io e i miei erano solo un ostacolo nella sua mente fottutamente malata.
– Ti volevano bene, si vede. – se ne uscì Michael. Lo guardai assottigliando gli occhi per poi scuotere la testa – Senti possiamo cambiare argomento? – dissi.
– Io…non credo ti faccia bene non parlarne. – iniziò. Io mi lasciai andare sul letto stendendomi iniziando a giocare con le sbarre di ferro – Tu non mi conosci – gli intimai. – Lo so, ma credo che... –  continuò ma io lo fermai – Michael, smettila. – gli dissi dura – Perfavore. – aggiunsi cercando di rimediare al sorriso amaro che ora aveva stampato in faccia a causa mia. Lui sospirò e fece per alzarsi – Sei pronta per domani? – mi chiese quando ormai era quasi alla porta. – Domani? – lo guardai aggrottando le sopracciglia. Si passò una mano sul viso con fare stanco – Domani c’è scuola. – disse semplicemente. Sbuffai – E io devo andarci, vero? – chiesi vedendolo poi annuire. – Quella tizia che ti ha accompagnato si è espressamente raccomandata. – disse mimando le parole con le dita. Mi coprii la faccia con le mani per soffocare un gemito di frustrazione. – Gesù, che palle! – imprecai guardando il soffitto. – Hei! Ragazzina frena l’entusiasmo eh! – esclamò ironico ridacchiando – Fatti trovare giù per le 8. – aggiunse poi uscendo dalla stanza.

Guardai la sveglia sul comodino, erano quasi le undici così decisi di andarmi a fare una doccia e poi andare a letto, presi un asciugamano abbastanza grande e mi diressi verso la porta in fondo dove presumevo esserci il bagno. Mentre l’acqua calda scorreva sulla mia pelle e il vapore avvolgeva la stanza finalmente riuscii a non pensare a nulla, mi concentravo sul rumore delle gocce d’acqua sulla testa, sui rivoli di vapore che si schiantavano sulle piastrelle bianche ormai appannate, la mia mente era finalmente vuota.
 


La mattina dopo mi svegliai presto, avevo dimenticato di chiudere le tende ed ora la luce entrava imperterrita e riempiva la stanza. Rimasi a letto per un’altra decina di minuti prima di sbadigliare per l’ennesima volta e alzarmi, andai a farmi una doccia veloce e asciugai i capelli corvini un po’ umidi tamponandoli con l’asciugamano. – Già sveglia? – mi ritrovai un Michael appena sveglio venire verso il bagno quando aprii la porta per uscire. Spalancai gli occhi ricordandomi di essere coperta solo dall’asciugamano. Lui sembrò accorgersene subito dopo aver finito di stropicciarsi gli occhi ancora assonnati perché improvvisamente la sua faccia iniziò a colorarsi diventando completamente rossa. Ridacchiai tornando verso la mia stanza non prima di avergli detto – Il rosso ti dona, Clifford! – con un sorrisino stampato in faccia, cosa che lo fece arrossire ancora di più.
Entrai in camera indossando velocemente l’intimo e aprii l’armadio cercando qualcosa da mettere, alla fine presi una maglia a caso, i miei skinny jeans neri e degli anfibi. Riempii il vecchio zainetto con quello che mi sarebbe servito, presi il cellulare, le sigarette e chiusi la porta della stanza scendendo di sotto. Karen era ai fornelli e stava preparando i – Pancake! – esclamai lasciando cadere lo zainetto per terra accanto la sedia – Speravo ti piacessero…ieri sei andata a letto senza cena quindi credo che tu sia abbastanza affamata ora... – disse dolce. Non riuscii a trattenere un sorriso che lei ricambiò calorosamente passandomi un piatto con una piccola pila di pancake.
– Buongiorno – Michael arrivò piazzandosi sulla sedia accanto alla mia ed iniziando a mangiare. – Mike, mi raccomando – iniziò a dire Karen – quando arrivate a scuola devi aiutare Mia con i documenti, lo sai, e soprattutto – puntò il dito verso il figlio – NON. LASCIARLA. SOLA. – scandì bene le parole. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo tornando a mangiare facendomi ridere.  – Daryl? – chiesi io notando solo ora la sua assenza. – Oh, lui va via prima. – mi rispose Michael – Lavora a tipo un’ora da qui. – aggiunse vedendomi annuire.
Finimmo di mangiare, salutammo Karen ed uscimmo nell’aria calda australiana. Michael mi aveva detto che il Norwest Christian College era a pochi isolati da casa ed era comodo arrivarci a piedi, si stava tranquilli. Presi una sigaretta dal pacchetto e l’accesi sotto lo sguardo allibito di Michael – Fumi? – mi chiese per poi scuotere la testa e dire – Ma certo... – in un sussurro. Quel tono mi aveva non so perché infastidita – Problemi? – gli chiesi con la mia voce arrogante. Mi guardò alzando le sopracciglia e poi alzando gli occhi al cielo – Mi ricordi qualcuno, tutto qui. – liquidò freddo. Facemmo il resto della strada così, io che fumavo in silenzio e Michael a borbottare qualcosa di incomprensibile.

– Siamo arrivati. – disse mentre con un cenno della testa mi indicava un cancello aperto. Le parole NORWEST CHRISTIAN COLLEGE erano incise su una targa al centro della facciata principale, alcuni studenti erano seduti gradini dell’entrata a ripassare, alcuni erano  seduti sul muretto accanto a farsi i cazzi loro, altri rimanevano appoggiati alle loro auto a chiacchierare. – Vieni. – mi disse Michael andando verso l’entrata principale. Sorpassata la soglia mi trovai in un lungo corridoio con gli armadietti ai lati e qualche porta di tanto in tanto che supponevo essere le classi. Degli studenti avevano iniziato a fissarmi. Deglutii. – Dai sbrigati, le lezioni iniziano tra dieci minuti. – mi tirò per il braccio portandomi alla prima porta a destra dove c’era scritto in lettere maiuscole SEGRETERIA.
– Buongiorno! – intonò una donna dietro una grande scrivania – Come posso esservi utile ragazzi? – aggiunse sorridente.
– Lei è la nuova alunna. – disse Michael precedendomi. Le si illuminarono gli occhi – Tesoro, ciao! Io sono Margaret, benvenuta! – disse con voce squillante – Ho tutto ciò che ti serve, libri, orario e altre scartoffie che dovrai portare a casa, okay? – disse ed io annuii – Mi servono solo i tuoi documenti… - aggiunse sporgendosi quando io le passai i fogli. – Perfetto! – trillò – Ecco a te. – presi i fogli, mormorai un – Grazie. – ed uscii seguita da Michael che sbuffava.
– Chi hai alla prima ora? – mi chiese dando un’occhiata all’orario che tenevo in mano. – Storia. – dissi passandomi una mano sul viso. – Con... – iniziai a scorrere i nomi dei prof – Morris. – terminò Michael prima di me. Annuii. – Okay, è la terza porta appena svolti il corridoio. – mi disse indicandomi la direzione che avrei dovuto prendere. – Se leggi bene ogni prof ha la porta numerata, ce la fai ad orientarti da sola? – mi chiese – Io devo andare di sopra. – mi avvisò. – Certo, tranquillo. – gli dissi annuendo. Mi lasciò un’occhiata incerta prima di girarsi e iniziare a percorrere il corridoio.

Sbuffai, le lezioni sarebbero iniziate in meno di 5 minuti. Se fossi andata ora in classe sarei stata in anticipo, se fossi tornata fuori a fumarmi una sigaretta sarei stata in ritardo. Non c’era neanche da rifletterci, ci misi pochi secondi per trovare la porta di servizio e aprirla, mi appoggiai al muretto di mattoni davanti a me portando la sigaretta alle labbra ed osservando il piccolo cortile sul retro. C’erano un paio di tavoli con delle panche di legno, una fontanella e una piccola piattaforma che doveva servire da palcoscenico, alle mie spalle c’erano le gradinate in metallo del campo da football, chiuse.
Ero lì da sola, lo sapevo, ma era come se sentissi qualcosa starmi dietro, qualcuno osservarmi, perché c’era quello spazio che parte dietro il collo e arriva in mezzo alle scapole che bruciava e mandava piccoli brividi alla mia spina dorsale contemporaneamente. Guardai in tutte le direzioni non so quante volte prima di schiacciare la cicca sotto la suola degli anfibi ed tornare dentro.

Quando mi trovai davanti la porta della classe chiusa non bussai, semplicemente girai la maniglia ed entrai
guadagnandomi un – In ritardo già il suo primo giorno? – da parte del professore. Lo ignorai andandomi a sedere in uno dei due unici posti liberi in tutta la classe, in ultima fila, vicino alla finestra. – Lei è la signorina... – iniziò a dire cercando il mio nome sul registro – Duncan. – terminai per lui. – Bene. Signorina Duncan vuole presentarsi? Io sono in professor Morris. – mi chiese il professor Morris sorridendo. Risposi un – No. – secco prima di girarmi a guardare fuori dalla finestra.

Si sentirono respiri risucchiati, qualche gridolino soffocato, l’aria era improvvisamente diventata pesante. Sentii uno – Spostati. – prima di girarmi e trovare due punte di ghiaccio guardarmi. Quegli occhi. – Il signor Hemmings che ci degna della sua presenza! A cosa devo questo onore! – trillò Morris dalla cattedra. Il ragazzo davanti a me lo ignorò mantenendo la sua attenzione su di me. Hemmings. – Sei sorda? – mi richiese il ragazzo. Lo guardai alzando un sopracciglio. – No. – risposi – Lì è libero. – dissi indicando con la testa il posto a fianco a me. – Io non mi sposto. – aggiunsi. Assottigliò gli occhi e batté le mani sul banco – Questo è il mio posto. – sibilò tra i denti. Quasi scoppiavo a ridere. Lo guardai impassibile – Tanto piacere. Ora siediti lì. – intimai indicando di nuovo il banco di fianco. Come se fosse possibile i suoi occhi si assottigliarono ancora di più diventando due fessure. Fece un passo indietro. Alzò il braccio. Voleva colpirmi. Scattai in piedi mantenendomi con le braccia sul banco per arrivare più o meno alla sua altezza anche se mi superava ancora di una decina di centimetri. – Tu non mi tocchi. – sputai a pochi centimetri dal suo viso. Sembrò spalancare leggermente gli occhi prima di guardare il palmo della sua mano a pochi centimetri dal mio viso. La abbassò stringendo i pugni e fece per andarsene sbattendo la porta. Mi lasciai andare sulla sedia tornando a guardare fuori dalla finestra sperando non tornasse.
Ma poi lo sentimmo tutti. In quella classe 5x8 tutte le teste si girarono improvvisamente verso la porta. Per più un secondo quel rumore assordante riecheggiò nella mia testa e mi ritrovai a spalancare gli occhi quando la porta si aprì.
 
TA-TA-TA-TAAA! SUSPENSE

Prima di tutto vorrei dire che sono davvero felice che qualcuno stia leggendo la storia, spero davvero che possa piacere, poi vorrei semplicemente chiedervi: Devo continuarla? Oppure lascio perdere perchè è una merda totale?
Grazie davvero se rispondete a questa domanda nelle recensioni perchè sono un pò in crisi, davvero, è la prima storia che pubblico e mi piacerebbe avere dei giudizi, negativi o positivi che siano, almeno per sapere se devo continuare a scrivere o lasciar perdere ed eliminare tutto.
Come sempre spero che il capitolo vi piaccia e niente, ciao.
Chiara

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Cinque. ***




Cinque.

 
Vidi il ciuffo biondo oltrepassare la soglia, i denti che tiravano il piercing nero e mordevano il labbro roseo tanto da farlo diventare bianco. Oltrepassò l’aula in silenzio fermandosi davanti a me torturandomi con quelle punte di ghiaccio da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Fece un passo in avanti ma si bloccò, scosse la testa e finì per sedersi nel banco di fianco al mio, chiuse gli occhi ed inspirò forte mentre Morris riprendeva la spiegazione su quel qualcosa che io non avevo minimamente ascoltato.  Perché la mia mente non connetteva, ero in uno stato di confusione totale, con lo sguardo fisso in avanti incantata a guardare qualcosa di inesistente dove prima c’erano i suoi occhi. Mi girai verso di lui cercando una qualche reazione, aspettavo mi urlasse addosso, mi colpisse o scaraventasse il banco dall’altro lato dell’aula, un qualcosa, qualsiasi cosa, ma non il silenzio. Gesù, due minuti fa mi avrebbe dato un pugno in faccia! Teneva gli occhi chiusi e le labbra serrate, la mascella contratta, seduto lì tutto dritto mentre non la smetteva di far tremare la gamba destra, e lì notai la sua mano, le nocche gonfie e rosse, quel colore scuro che sulla pelle diafana faceva da intruso.

Era stato lui. Quel rumore assordante di poco prima, quello per cui un’intera classe si era girata in silenzio ad ascoltare, quel rumore che rimbombava ancora nella mia testa, quello lo aveva provocato lui. Sbarrai gli occhi fissando quei segni contaminargli la pelle. – Smettila. – sentii in un sussurro. Di riflesso portai i miei occhi nei suoi trovandolo già a fissarmi, sarebbe sembrato quasi calmo se non fosse stato per la gamba che continuava a fare su e giù in chiaro segno di nervosismo. – Perché? – chiesi sottovoce indicando con gli occhi la sua mano. – Oh andiamo! Al posto dell’armadietto ci sarebbe potuta essere la tua faccia! – digrignò i denti – Ringrazia e sta zitta… – aggiunse scuotendo la testa abbassando lo sguardo sul pavimento. – Io... – provai a dire ma la voce squillante di una ragazza mi interruppe – Professor Morris potreste farla smettere – disse indicandomi con la mano – non riesco a seguire la lezione con quella che parla lì dietro. – sputò mettendo una qualche tonnellata di schifo nel dire quella, cosa che ovviamente mi fece salire il sangue alla testa. Assottigliai gli occhi – Scusa? – le chiesi con una faccia strafottente fingendo di non aver capito. Si girò con una faccia infuriata verso di me. – Ho detto – intonò lei con quella vocina da papera strozzata – che sei fastidiosa e io non riesco a seguire la lezione. – si indicò mettendo in mostra le unghie smaltate. Un ghigno mi si stampò in faccia. – Oh, dolcezza, non ti sforzare più di tanto – ghignai – quegli ultimi due neuroni che ti restavano li ha bruciati la piastra. – ridacchiai. La tizia aveva dei lunghi capelli castani perfettamente piastrati abbinati ad un maglioncino azzurro pallido e in quel momento posso giurare la sua faccia era della stessa tonalità. Si sentivano risate soffocate e urletti da parte di alcuni ragazzi. I suoi occhi diventarono due fessure – Io so chi sei. – iniziò puntandomi contro quegli occhietti truccatissimi – Tu sei quella nuova. L’orfana a cui hanno ammazzato i genitori. – Il senso di nausea mi salì su per la gola mentre prendevo grandi respiri. – Sei venuta qui “ricominciare”, vero? Che carina. – mimò le parole con le dita. – Bhe, sai – venne interrotta da una voce roca – Christy, chiudi quella cazzo di bocca. – intimò il ragazzo di fianco a me. Mi girai di scatto verso di lui che si teneva con le mani stretto al banco in una posizione che ricordava tanto un animale che sta per attaccare, elegante e feroce. Aveva gli occhi a due fessure puntati in quelli spalancati della brunetta – Luke... – iniziò lei con la voce di un bambino che è stato appena sgridato dalla mamma – Mi hai capito? – richiese lui impassibile e la bocca della ragazza si spalancò in un’espressione di sdegno e subito si rigirò davanti.

Io mi sentivo tutti gli occhi addosso mentre il mio sguardo rimaneva su di lui,  rabbia e gratitudine che facevano a gara nel mio cervello in quella piccola sezione dove ogni tanto le emozioni tornavano a farmi visita. – Non ho bisogno di essere difesa. – sputai per poi alzarmi dirigendomi verso la porta. Evidentemente la rabbia aveva vinto. – Signorina Duncan, dove sta andando? – mi chiese la voce preoccupata di Morris – Se esce sarò costretto ad avvisare a casa. – affermò sicuro, ma se ne pentì un secondo dopo, sbiancando ed iniziando a boccheggiare. – Io non intendevo...  – cercò di pararsi il culo. Scoppiai a ridere – Faccia pure, i miei non ricevono tante telefonate ultimamente. – sputai acida mentre sentivo il veleno scorrermi sulla lingua. Andai dritta verso la porta principale, ma dopo aver spinto il maniglione per la quarta volta mi rassegnai. Era chiusa. – Maledizione! – ringhiai dando un calcio al metallo freddo. Mi girai trovandomi Luke davanti – Che cos’era quello? – chiese freddo. Alzai un sopracciglio. Lo ignorai superandolo e borbottando tra me e me. Raggiunsi la porta di servizio che portava al cortile spalancandola quando venni tirata indietro e la mia schiena sbatté contro il muro di mattoni. – Non ignorarmi. – mi disse Luke a pochi centimetri dal mio viso. – Spostati. – gli dissi fredda cercando di distogliere lo sguardo. Ovviamente mi ignorò. L’anello di metallo contornava le sue labbra mentre lo tirava leggermente picchiettandoci la lingua, mi osservava da sotto le lunghe ciglia che non riuscivano neanche minimamente a nascondere quegli occhi di quel blu così puro. Le sue labbra. I suoi occhi. Le sue labbra. Cristo. Le sue pupille si dilatarono leggermente mentre seguiva la traiettoria del mio sguardo e le sue labbra si aprirono in un ghigno – Ti piace quello che vedi? – chiese arrogante portando le braccia ai lati della mia testa e avvicinandosi di più a me. Incontrai il suo sguardo e giurai di aver sentito uno strano movimento all’altezza dello stomaco. – Ho detto spostati. – ripetei ferma guardando oltre le sue spalle iniziando a contare i mattoni del muro. Molto interessante, sì. Fece un altro passo avanti schiacciandomi contro il muro e premendo il suo corpo contro il mio, sentii il suo respiro caldo sul collo – Perché, vorresti dirmi che non ti piace? – chiese soffiandomi dietro l’orecchio.

In quel momento sentii le gambe farsi molli, l’aria mancare nei polmoni mentre macchie nere si sovrapponevano all’immagine davanti a me. No, no, non sta succedendo.


SPAZIO AUTRICE

Okay, questo è il quinto capitolo e, come sempre, spero vi piaccia. Spero anche di ricevere qualche recensione e grazie mille a Eli_rock e bella_biby_fuck per aver recensito il capitolo precedente.
La mia domanda è comunque presente: Devo continuarla o terminare il tutto qui?
Fatemi sapere,
baci
Chiara.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3236598