Eien Ni Saigomade

di Skred
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ci vorrebbe un miracolo. ***
Capitolo 2: *** Reincarnazione ***
Capitolo 3: *** Gusto amaro ***
Capitolo 4: *** Basta un sorriso. ***



Capitolo 1
*** Ci vorrebbe un miracolo. ***


La sua testa, delicatamente appoggiata sulla mia spalla. Il suo respiro irregolare. La sua folta chioma argentata. Era questa la descrizione della ragazza che era comodamente seduta nel sedile accanto a me, di quel vasto treno.
Soltanto che...
“Chi diavolo è.”
Pensai, un po' stufo. Era salita nel mio stesso vagone, nella mia stessa fermata, e nonostante all'inizio vi erano moltissimi posti, si era proprio seduta accanto a me! E come se non bastasse, dopo giusto due fermata, si era appisolata sulla mia spalla. In effetti, ora che la osservo meglio, non è la prima volta che la vedo. Sono diversi giorni che mi sento osservato e, probabilmente, era lei il mio stalker. La vedevo sempre con quel cappotto marrone di qualche taglia in più e una grande custodia che portava a tracolla su una spalla, ma che ora aveva completamente invaso i due sedili difronte ai nostri, come per evitare che qualcuno potesse sedersi. Forse conteneva un qualche strumento musicale, ma era davvero grande, quasi il doppio di lei, esagerando.
In quel momento, pensai a diverse ipotesi.
E se fosse un serial killer?
Se dentro quell'enorme custodia mettesse i cadaveri fatti a pezzi delle sue vittime?
Deglutì. Forse ero andato troppo di fantasia, non era possibile. Allora perché mi seguiva? Ero solo un normale adolescente. Mentre la mia mente si riempiva dei più strani pensieri, lei stava sempre lì, beatamente accoccolata sulla mia spalla. Come faceva a stare così tranquilla al fianco di uno sconosciuto? Forse ispiravo fiducia o, ancor più probabile, era pazza. Una dopo l'altra, le fermate del treno scorrevano velocemente, fra meno di mezz'ora sarei arrivato a destinazione. Fu proprio in quel momento che, udendo dei passi, il controllore stava facendo la sua ronda lungo il corridoio della carrozza. Nulla da preoccuparsi, avevo ovviamente il biglietto.
Infatti, quando mi si parò davanti, gli porsi senza problema il piccolo foglietto di carta. Nel mentre controllava che fosse in regola, lo vedevo gettare occhiatacce alla ragazza. Sospirai nuovamente. Ricordavo che, prima di addormentarsi, aveva infilato nella grande tasca sinistra della sua giacca il biglietto, così, senza farmi qualche problema, feci scivolare la mano dentro quella, estraendo due oggetti: il biglietto e una collana che era rimasta impigliata a quello. Lei non si accorse di nulla, continuava a ronfare beatamente. Verificato anche quest'ultimo, me li restituì entrambi, rimettendosi a camminare. Io li fissai qualche secondo, notando come fossero completamente identici: sia la partenza che...
“Okay, mi sta davvero seguendo.”
La destinazione era la medesima. Prima di rimetterle tutto dov'era, iniziai a giocherellare con la collana che le avevo trovato in tasca. Aveva davvero una strana forma e vi erano molteplici incisioni, che tuttavia non riuscii a decifrare... o magari non avevano alcun senso. Senza rendermene conto, la nostra fermata si fece vicina, e dovevamo scendere. Cosa dovevo fare? Svegliarla o lasciarla lì? Se ero davvero io il suo obiettivo, dovevo far sì che non riuscisse a seguirmi, però...
«Ehi, tu. Svegliati, dobbiamo scendere.»
Le diedi un lieve colpo sulla testa, dopodiché mi rimisi in piedi.
Visto che mi ero dimenticato di metterle a posto biglietto e collana, li infilai velocemente dentro la tasca dei pantaloni. Dei mugolii precedettero il suo risveglio: si portò entrambe le mani sul viso e, strofinandosi gli occhi, lentamente li aprii. Erano grandi e luminosi, nonostante fossero grigi.
«Allora? Datti una mossa.»
Non avevo voglia di perdere la fermata a causa sua, così, presi con una mano la grande borsa che si portava dietro e con l'altra, l'afferrai per un polso, trascinandola di forza. Camminammo per un po' in religioso silenzio, spezzato ogni tanto da un suo sbadiglio. Poi, finalmente, decisi di aprire bocca.
«Senti... ho capito che mi insegui. Chi sei? E cos'è che vuoi da me?»
Ora ci ritrovavamo faccia a faccia. Lei mi fissò qualche secondo, poi distolse subito lo sguardo, puntandolo sulla borsa. Seguendo i suoi occhi, anch'io finii per fissarla, dopodiché, decisi di restituirgliela. Non era davvero pesante, ma nemmeno leggera, nonostante ora ne conoscessi approssimativamente il peso, il cosa potesse contenere diventava sempre di più un'incognita. Dopo essersela messa di nuovo sulla spalla, tornò a fissarmi. Passò qualche minuto, dopodiché decise di aprir bocca.
«Davvero... non ti ricordi me?»
Alzai un sopracciglio.
«Perché dovrei ricordarmi di una persona che non conosco?»
Lei sbuffò.
«Hmm... prova ad immaginarmi con i capelli molto più lunghi! E anche un po' più bassa... non ti viene niente niente in mente?»
Perché doveva continuare ad insistere?
«No, e non capisco a che gioco tu stia giocando.»
Incrociai le braccia. Lei piegò leggermente la testa a sinistra, gonfiando una guancia. L'avevo fatta arrabbiare?
«Non volevo arrivare a far questo... però...»
Iniziò a muovere dei passi verso me. Uno dopo l'altro, eravamo praticamente a meno di due centimetri di distanza. Inizia a sudare freddo: che la mia tesi del serial killer fosse vera?
Alzò di scatto le mani e le portò sulle mie spalle, lentamente le fece scivolare, fino ad arrivare al colletto della camicia, in seguito, tirò con forza, portandomi quasi alla sua altezza. Fu allora che accadde l'ultima cosa che avrei potuto immaginare: mi baciò.
Aveva sul viso un'espressione così buffa che se non avessi avuto la bocca “impegnata”, sarei scoppiato a ridere. Lei teneva gli occhi ermeticamente chiusi, mentre io la continuavo a fissare, quasi impietrito. Mi aveva davvero preso alla sprovvista, così, grazie all'ausilio delle braccia, la allontanai da me.
«M-ma sei impazzita!?»
Mi portai subito una mano sulla bocca, per evitare che le venisse chissà quale altra stana idea.
«E ora?»
Mi domandò lei, speranzosa.
«Ora cosa?!»
«Hmm! Pensavo che un forte shock ti avrebbe fatto ricordare di me! Ma evidentemente mi sbagliavo.»
Sorrise, credendo che quello bastasse per ovviare a ciò che aveva appena fatto.
«Tu sei tutta matta! Non ti conosco, rassegnati. E-E lasciami stare!»
«È triste. Davvero triste. Quel giorno fosti proprio tu a dirmi di non dimenticarti. Di cercarti... e invece. Però... non importa, non mi arrenderò così facilmente. A costo di dover farti innamorare di nuovo di me...»
Non capivo se mi stesse prendendo o meno in giro, eppure mentre diceva quelle parole, sembrava così seria e sincera. Strinse con forza la tracolla della borsa e, nonostante tenesse il viso chino, notai che si stava mordendo un labbro. Subito dopo scattò, dandomi le spalle e iniziò a muovere dei passi. Non appena si allontanò abbastanza, si voltò nuovamente verso di me, alzò il braccio e mi puntò il dito contro.
«... perché io ti amo!»
Esclamò tutta convinta, con un sorriso che le invadeva il volto. Io continuavo a fissarla ammutolito, anche quando ormai la sua figura era diventata solo una fugace sagoma sfuocata. Per tutto il tragitto, pensai soltanto all'accaduto, ancora scosso e confuso. Quella ragazza si stava sicuramente sbagliando. Non avevo una buona memoria, ma di certo non era così pessima da farmi dimenticare di lei.
«Finalmente ti abbiamo trovato.»
Immerso nei miei pensieri, fui interrotto dalla voce di un uomo, seguito a sua volta da altre persone, cinque compreso lui. Tutta questa gente che mi cercava ma che io non conoscevo... cosa stava succedendo?
«Devi solo darci la collana.»
La collana? Continuai a ripetere quella parola insistentemente, cercando di capire cosa volessero. Poi, realizzai. Infilai una mano nella tasca dei pantaloni e fra i due biglietti, tirai fuori l'oggetto.
“Oh, mi sono scordato di restituirgliela...”
Pensai, fissando prima l'oggetto, poi gli uomini davanti a me.
«Mi dispiace, ma non è mia. Non posso darvela.»
Al mio rifiuto, gli uomini si mostrano tutto fuorché tolleranti. Iniziarono a sogghignare, sgranchirsi le ossa e simili. Quella ragazza non faceva altro che portarmi sventure! Sospirai, socchiudendo gli occhi. Dovevo trovare una soluzione. Mi passai una mano fra i capelli, volgendo lo sguardo al cielo. Dovevo iniziare a correre? O semplicemente dovevo cedere e dargli quella collana?
I miei dubbi furono del tutto chiariti dall'arrivo della fonte dei miei problemi: la ragazza dai capelli argentati. Tra le piccole mani stringeva forte una spada ancora dentro il fodero e questo, a sua volta, era ricoperto da bende. Si pose subito in mezzo fra me e quegli uomini.
«Non provate a toccarlo! Non permetterò che me lo portino via un'altra volta!»
Un'altra volta? Perché ancora questi riferimenti al passato se avevamo appurato che io non la conoscevo?
«Signore! È lei! È lei ragazza che ci ha rubato la collana!»
«Quella collana apparteneva al mio promesso sposo. Non vedo il perché dobbiate averla voi.»
«Ragazzina, smettila di delirare. L'ultimo a possedere quella collana fu un uomo che morì almeno mille anni fa. Abbiamo fatto molte ricerche sulla sua origine.»
«E anche voi cercate il segreto dell'eterna vita, non è vero? Siete patetici.»
Non riuscivo a seguire il loro discorso. Quella semplice collana era così importante?
«Come osi parlarci così? Ti faremo vedere che con noi non si scherza.»
Iniziarono ad avanzare, più minacciosi di prima. Fissai la ragazza, che rimaneva inchiodata davanti a me, puntando verso gli uomini il grande pezzo di legno che stringeva fra le mani. Ammiravo il suo coraggio, ma sapevo che non ce l'avrebbe fatta, visto che era ben visibile come le sue dita stessero tremando: una sola folata di vento e sarebbe caduta. Mossi velocemente l'iride da una parte e l'altra, cercando qualcosa o qualcuno che potesse aiutarci. Fu allora che posai lo sguardo sulla borsa della ragazza, aveva la cerniera leggermente aperta e lì dentro potei intravedere qualcosa. Mi posizionai direttamente dietro le sue spalle e portando entrambe le mani ai lati del suo collo, le feci indossare il tanto desiderato oggetto del desiderio.
«Questa è tua.»
Ritirai le mani, facendole scivolare questa volta sulla sua borsa.
«Ma questa la prendo io!»
Velocemente, feci scorrere la cerniera e in questo modo mi fu semplice recuperare ciò che la borsa nascondeva al suo interno: una katana. Era molto più grande rispetto quella della ragazza, ora capivo il perché delle dimensioni di quella borsa. Tuttavia, non trovavo spiegazioni del perché una ragazza dovesse girare con delle armi, ma ora non importava.
«Ti dispiace se... ti do una mano?»
Forse sbagliavo nel dimostrarmi così gentile nei suoi confronti, visto quello che mi aveva detto qualche momento prima, eppure lei, nonostante tutti i miei rifiuti, era corsa a soccorrermi, mettendo sé stessa in pericolo. Era un tipo davvero strambo... ma anche interessante. Ora ci ritrovavamo fianco a fianco, anche se eravamo solo in due, sentivo che in qualche modo ce la saremmo cavata.
“Ci vorrebbe un miracolo.”
Non l'avessi mai pensato. Prima che me ne rendessi conto, gli uomini difronte a noi si erano fermati, fissandoci con espressioni miste all'angoscia e alla confusione. Gli avevamo messo paura? Non credo proprio.
Spostai lo sguardo sulla ragazza accanto a me, ed è lì che notai qualcosa di strano.
«Senti... da quand'è che hai dei capelli così lunghi?»
In quel momento, mi tornarono in mente le sue parole... era questo quello che intendeva?
«Anche i tuoi non sono niente male, sai?»
Alle sue parole, passai subito la mano che avevo libera fra i capelli, rendendomi conto che era diventati incredibilmente più numerosi. Allora mi diedi uno sguardo anche al resto e, con grande stupore, notai che anche i miei abiti erano cambiati.
«Ma quando è successo? Anche tu? E perché ho mezzo petto di fuori?!»
Indossavo una specie di kimono, che mi copriva tuttavia soltanto la parte destra del torace, e su di esso passavano diverse cinghie, simili a quella che avevo attaccata alla vita e finiva su uno degli stivali. Non che la ragazza indossasse qualcosa di più sobrio, eh. I lunghi capelli facevano intravedere ben poco, ma mi fu possibile notare che, nonostante il vestiario non lasciasse nulla all'immaginazione anteriormente, dietro le lasciava tutta la schiena completamente scoperta.
«Allora era questo che intendevi col “non ci separeremo mai”, idiota...»
Sussurrò lei, nascondendo un sorriso. Una cosa era certa: una volta che saremmo scampati da quegli uomini, mi avrebbe dovuto spiegare un sacco di cose. Il gruppetto rimaneva ancora lì, non comprendendo l'evolversi della situazione.
«Ci state prendendo in giro? Credete che così vi lasceremo in pace?!»
Si erano innervositi ancor di più, o forse nascondevano la paura dietro quella finta maschera.
I miei muscoli iniziarono a muoversi da soli: una mano, appoggiandosi sul fodero della katana, lo sfilò velocemente, mettendo in bella mostra la lama che luccicava. Dopodiché, piegai leggermente il braccio, per poi stenderlo completamente, facendo fare alla spada il medesimo movimento. Improvvisamente, si innalzò una folata di vento talmente forte e intesa, che scaraventò gli uomini lontano da noi. Ipotizzai che lei non avrebbe usato la sua lama, visto che il fodero era completamente bloccato da quelle bende... ma mi sbagliavo. Fece strisciare due dita per tutta la lunghezza della spada, poi, socchiudendo gli occhi, sussurrò non so che strane parole in una lingua a me del tutto sconosciuta. Come risultato, una scarica di fulmini si abbatté sul gruppetto, con l'intento di farli allontanare ancor più da noi.
«S-siete dei mostri!»
Esclamò uno, riuscendo ad alzarsi da terra.
«Capo, cosa dobbiamo fare?!»
Chiese un altro titubante, rivolgendosi a colui che evidentemente dava gli ordini.
«Per questa volta... vi lasceremo andare. Ma troverò il modo per riprendermi quella collana, potete starne certi.»
Ed ecco che, con le solite minacce da “cattivo sconfitto”, gli uomini lasciavano la scena. Dunque.. avevamo vinto?
«Wo... non ci credo!»
Esclamai, quasi esaltato. Non riuscivo ancora a capacitarmi di quello che era accaduto, ma era stato incredibilmente figo. Non feci nemmeno in tempo a metabolizzare la situazione, che la ragazza mi si lanciò subito fra le braccia, stringendomi forte a sé.
«Lo sapevo che eri tu... Daichi. Non puoi immaginare quanto io sia felice... poterti rivedere... abbracciare, non è un sogno, vero?»
Non sapevo più per cosa essere sconvolto, per il fatto che sapesse il mio nome nonostante io non glielo avessi mai rivelato, o il resto. Improvvisamente, il corpo della ragazza si fece più pesante, tanto ché fui costretto io stesso a sostenerla.
«Gin! Va tutto bene?!»
Okay... perché avevo pronunciato quel nome? E probabilmente doveva essere il suo.
Lei ovviamene non mi rispose, aveva gli occhi chiusi, o meglio, uno solo, visto che metà volto era completamente coperto da una maschera. Quanti misteri erano legati dietro la figura di quella ragazza. Continuai a tenerla stretta fra le mie braccia mentre riponevo nella sua borsa entrambe le armi. Fu proprio allora che mi resi conto di essere tornato quello di prima, avevo di nuovo la solita camicia e i soliti jeans e lei lo stesso. E tutto ciò era accaduto quando avevo riposto la lama nel fodero... che fosse quindi colpa di quelle spade? Il cervello mi stava andando completamente in fumo, ma dovevo per forza trovare una spiegazione a tutto ciò. Caricai la borsa sulla spalla; questo mi costrinse a dover portare la ragazza in braccio e non sulle spalle, come avrei voluto. Avrebbe mai avuto una fine quella faticosa giornata? Fortunatamente, casa mia non si trovava molto distante da lì, quindi non dovetti percorrere chissà quanta strada ridotto in quelle condizioni, come un mulo. Aprii la porta e, quando annunciai il mio rientro, non ottenni nessuna risposta. Capii quindi che, fortunatamente, i miei genitori non erano ancora rientrati. Non avrei sopportato domande del tipo “perché c'è una ragazza?” o sopratutto “perché è svenuta?”. La casa era costruita su due piani, e le stanza da letto si trovavano al piano superiore. Lasciai la borsa di sotto, al fianco delle scale - sarei sceso dopo a prenderla – e proseguii con solo la ragazza in braccio.
Giunto nella mia stanza, la poggiai delicatamente sul letto, togliendole poi quell'ingombrante impermeabile che aveva sempre addosso. Aveva uno strano sorriso sul volto, come se fosse in pace con sé stessa. La fissai così intensamente, che anche a me venne da sorridere.
Alla fine, la piccola stalker aveva raggiunto il suo obiettivo: si era persino intrufolata nella mia camera. Soltanto quando mi resi conto che, a causa della mia ospite, non avrei potuto dormire nel mio letto, mi passò totalmente la voglia di sorridere. Feci un sospiro, almeno il decimo di quella giornata, per oggi era andata così... ma almeno ero vivo.

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Capitolo 2
*** Reincarnazione ***


La ragazza aveva dormito fino alla fine della giornata. Io mi rassegnai, e recuperato un sacco a pelo, il pavimento divenne per quella sera il mio letto... ma lei me l'avrebbe pagata cara. La mattina successiva, ancora tutto dolorante, fu quasi una liberazione alzarsi da terra. Lei era ancora lì, che dormiva.
La situazione stava diventando insostenibile, dovevo fargli vedere che non poteva fare quello che voleva. Eppure un po' mi dispiaceva... stava dormendo così bene, però, in parallelo, io avevo dormito così male che non mi sembrò nemmeno così cattivo farle qualche dispetto.
In effetti, non ero un tipo dalle mezze misure, quindi, senza nemmeno farci caso, mi gettai di schiena su di lei... ma non vi fu nessun cenno di vita.
«Non è possibile.»
Quasi in preda alla disperazione, pensai di aprire la radio, gettarle un secchio d'acqua in testa, buttarla direttamente giù dal letto. Lentamente, mi rialzai, sedendomi accanto a lei. Mi balzò quindi in testa un'idea stupida, ma al tempo stesso si sarebbe rivelata geniale. Allungai una mano, che ora penzolava sopra la sua testa, successivamente, la feci scendere di scatto, dandole una leggera pacca fra i capelli. Con mio grande stupore, lei aveva appena stropicciato gli occhi. In pratica, le ero letteralmente piombato addosso e lei non aveva battuto ciglio, ma ora, semplicemente sfiorandole i capelli, si era svegliata. Spalancò gli enormi occhi, mi sembrava quasi di vivere un déjà vu della mattina precedente.
«Buongiorno.»
Mormorai io. Lei si mise seduta, continuando a fissarmi silenziosamente. Non riuscivo a leggere alcunché dalla sua espressione, avevo paura di quale potesse essere la sua prossima mossa.
«Gin?»
Provai a dire. Volevo davvero sapere se quello fosse il suo nome, ma avevo anche paura della risposta. Lei sobbalzò e la sua espressione cambiò all'istante. I suoi occhi iniziarono a brillare e sul suo volto vi era ora stampato un sorriso stupidissimo. Spaventato da quel repentino cambiamento, mi portai subito una mano davanti alla bocca, conoscendo ormai le sue cattive abitudini.
«Ti sei ricordato il mio nome!»
Esclamò lei, lanciandosi addosso, nel tentativo di abbracciarmi. Fui totalmente sorpreso, persi l'equilibrio e caddi con lei dal materasso. Per fortuna, atterrammo sul morbido sacco a pelo posizionato lì vicino. A mia volta, io attutii invece la caduta della ragazza. Ora era sdraiata sul mio petto, e mi aveva intrappolato nella sua presa intrecciandomi le braccia dietro al collo.
«Allora? Cos'altro ricordi?!»
Non riuscivo più a sostenere quella situazione, era tutto così dannatamente imbarazzante!
Allora perché lei non faceva una piega?
«Che sei una rompiscatole!»
Esclamai, spostandola di peso. Io scattai in piedi, tenendomi a distanza di sicurezza da lei.
Questa volta ero pronto: che avesse provato a baciarmi o ad abbracciarmi, sarei riuscito ad evitarla.
Anche lei aveva seguito il mio esempio, ed ora rimaneva lì, immobile a fissarmi, come sempre.
«Oh, bé. Sono felice anche così!»
Sorrise, piegando un po' la testa di lato, com'era solita fare.
«E quiiindi... questa è la tua stanza!»
Iniziò a muoversi con nonchalance, analizzando ogni elemento presente in quelle piccole quattro mura.
«Spero di non trovare giornaletti poco adatti...»
Aggiunse, continuando ad indagare.
«P-per chi mi hai preso?! E smettila di fissare ogni cosa!»
Volteggiando su di un piede, riportò la sua visuale su di me.
«Cos'è che fai nella vita? Lavori? Studi? Fai il mantenuto a casa di mamma e papà?»
Stava diventando davvero insopportabile. Intanto, preso un libro dalla scrivania, iniziò a far sfogliare velocemente la pagine.
«Per tua informazione, studio! E sono già al terzo anno di università. A differenza tua, io ho una mia vita.»
Le tolsi di colpo il libro dalle mani e lo rimisi a posto. Lei gonfiò le guance e mi fissò un po' offesa.
«Cosa vuoi insinuare?! Guarda che anch'io studio, sapientone.»
«L'unica differenza è che io non te l'ho chiesto!»
Mi posizionai dietro di lei, e poggiandole le mani sulla schiena, iniziai a darle diverse spinte.
«E ora forza, va' via prima che i miei rientrino e inizino a farsi strane idee.»
«Aaah? Andare via? Senza nemmeno far colazione?!»
In qualche modo, nonostante lei si opponesse, ero riuscita a farla uscire dalla stanza. Ora mi bastava semplicemente farle scendere le scale e il gioco era fatto. Non mi interessava nemmeno più sapere cosa fosse successo il giorno prima, volevo solo tornare alla mia noiosa e tranquilla esistenza. O meglio, era quello che avrei voluto.
«Daichi, che stai combinando?»
Alzai leggermente lo sguardo, richiamato da quella voce. Perché lei era qui? Perché niente poteva andare come volevo io?
«Mamma posso spiegar-»
Mi sarebbe piaciuto poter finire la frase e invece quello che accadde in seguito mi creò soltanto più sgomento.
«Prof Minamoto!»
Urlò lei, saltellando sui gradini che componevano le scale, fino a raggiungere mia madre, che si trovava ai piedi di questi.
«Voi... vi... conoscete...»
Sentivo che da un momento all'altro sarei potuto svenire.
Loro si erano messe a sedere nel tavolo della cucina, così, a malincuore, decisi di raggiungerle.
«Non sapevo vi conosceste!»
Disse mia madre. Afferrai una sedia e, trascinandola fuori dal tavolo, mi ci sedetti su.
«Già... nemmeno io sapevo di conoscerla.»
Mormorai, lanciando occhiatacce alla ragazza, che ora sogghignava tutta soddisfatta.
«Ma dimmi mamma... perché ti ha chiamato “prof”?»
«Perché è la mia professoressa, mi sembra ovvio.»
«Mia madre insegna all'università... non alle medie...»
Dopo quella affermazione, mi sentii fulminato. Vedevo il fuoco ardere negli occhi di Gin, e potevo sentire il suo sangue ribollire.
«Quando ti ho detto che anch'io studio... intendevo che anch'io frequento l'università, idiota.»
Rimasi qualche secondo in silenzio. Fisicamente parlando, Gin poteva essere tutto fuorché un'universitaria.
Non era bassa, forse fra tutte le ragazze che avevo conosciuto fin ora, era la più alta. Però, intorno a lei si creava una sorta di aura di “fragilità”, forse perché la sua figura era davvero esile, partendo dalle mani piccole, alle spalle strette. Ora che la guardavo meglio, sembrava davvero una bambola di porcellana, quelle con la pelle bianca e gli occhi grandi. Come se non bastasse, i capelli argentati con quella piccola ciocca che sfumava all'azzurro, la rendevano ancor più delicata. Poi, mi bastava semplicemente ricordare il suo pessimo carattere, che quella figura quasi angelica, ai miei occhi diveniva il peggiore degli incubi.
«Sai, Gin è una delle mie migliori alunne, la mia preferita, se vogliamo dirla tutta!»
“Eh, guarda che fortuna...”
Pensai, facendo una smorfia.
«Non dica così prof, o mi imbarazzo! È solo grazie a lei che rende la storia così affascinante ed è impossibile non star lì ad ascoltarvi!»
Continuarono a farsi complimenti a vicenda per almeno altri cinque minuti. Per intenderci... mia madre è professoressa universitaria di storia antica. Ipotizzai quindi che lei frequentasse il primo anno dei suoi corsi. Chissà, forse lei sapeva già fossi suo figlio o dove abitassi. Tutto ciò mi metteva ancor più ansia.
«Hm... avrei una domanda. La vostra famiglia ha antiche discendenze? »
Ci fu qualche secondo di silenzio. Mia madre iniziò a riflettere, dopodiché...
«In effetti sì! Devi sapere che gli avi del padre di Daichi erano gente illustre del passato! Il mio Daichi ha preso il nome proprio da uno di questi! Era un giovane principe che però si divertiva a fare il samurai. Ora che mi ci fai pensare... sai che sua moglie si chiamava proprio come te? Già, già! I due giovani si chiamavano Daichi e Gin! Che coincidenza!»
Io continuai a rimanere in silenzio, tuttavia l'espressione che Gin ora aveva sul volto mi rattristò parecchio. Non era solita avere un viso così serio, anche quando pensavi stesse per dire qualcosa di sensato, continuava a sorridere o mantenere un'espressione abbastanza neutrale. Ora invece sentivo come se potessi percepire una certa sofferenza.
«In realtà... i due non si sposarono mai. Il giovane morì poco prima che la ragazza potesse compiere diciotto anni, l'età necessaria affinché i due potessero celebrare le nozze. Però, tutto quello che ha detto lei è giusto!»
Per tutto il tempo, aveva mantenuto il viso chino, solo dopo aver finito, lo rialzò mostrando un sorriso, o qualcosa che doveva somigliarci.
«Aaaah! Ecco perché ti adoro! Sai sempre così tante cose che nemmeno in cento libri troverei!»
Sentivo che da un momento all'altro, mia madre le sarebbe saltata addosso riempiendola di baci e abbracci. Sembrava quasi che provasse un senso di adorazione nei suoi confronti, e questo non giocava a mio vantaggio.

«Mi è piaciuto tanto chiacchierare con voi! Mi fate sentire giovane. Però ora devo proprio andare, spero che tornerai a trovarmi qualche altra volta!»
Si alzò dalla sedia e raggiunse velocemente l'uscio della porta: la vita di mia madre era sempre così, tutta una corsa.

«Certo, verrò a trovarvi più spesso, non si preoccupi.»
Pronunciando quelle parole, le tornò quell'ambiguo ghigno sul volto, come se volesse dire “Non ti libererai mai di me”... mi dava davvero i brividi. Con un cenno della mano, salutammo, dopodiché, rimanemmo di nuovo soli. Ogni volta, si creava quell'odioso silenzio che ero solito interrompere, però, questa volta...
«Allora, hai capito?»
«Capito cosa?»
«Hai seguito il nostro discorso o stavi dormendo?!»
Borbottò lei, spazientita.
«Sì che ho seguito! Vendiamo un po'... ora vorresti dirmi che la tua famiglia invece discende da quella tipa col tuo stesso nome e noi siamo destinati a stare insieme come quei due?»
«Noi... non siamo destinati. Noi... siamo loro.»
«Ma che stupidaggini dici. Vuoi dire che siamo delle sorta di reincarnazioni? E che i nostri avi sono... non dirmelo non dirmelo... quei due di cui abbiamo preso l'aspetto ieri?»
«Oh, allora sei sveglio davvero!»
Mi prendeva in giro?
«Tutto questo non ha senso.»
«Come ho già detto a tua madre... la loro storia d'amore... la nostra... non ha avuto un lieto fine, visto che all'età di vent'anni tu fosti ucciso. Per cui... credo che ci sia stata data un'altra possibilità per creare il nostro futuro.»
«E quella collana?»
«Quella... era tua. O meglio, te la regalai io. Tuttavia, prima di morire, decidesti di restituirmela. Credo sia stata proprio quella e le spade, a farci assumere l'aspetto che avevamo circa cento anni fa.»
Non sapevo se crederle o meno. Era tutto così assurdo, sembrava quasi il racconto di chissà quale libro. Però non vedevo nemmeno il senso di mentirmi, oltretutto, avevo ricordato così dal nulla proprio il suo nome.
«Quindi... ora cosa pretendi? Che io...»
«So cosa pensi. Da quel che ho capito, tu non ricordi niente... o forse non vuoi ricordare, non mi è ancora chiaro. Io voglio semplicemente... aiutarti a recuperare questi ricordi. Vedi, già il fatto che tu sappia il mio nome, è un grande passo in avanti!»
«Non potrei mai innamorarmi di una ragazzina odiosa come te, capito?»
«Te l'ho già detto... non mi arrenderò mai, signorino.»
Scattò dalla sedia, e la vidi correre fuori dalla stanza. Sentii dei tonfi, probabilmente stava di nuovo tornando nella mia stanza. Decisi di non seguirla. Poggiai una gomito sul tavolo, dopodiché posizionai il mento sulla mano e, sospirai. Da quando Gin aveva fatto la sua entrata in scena, la mia vita era stata completamene stravolta. Quei tipi loschi il giorno prima, ora questa storia degli avi che non sono avi. Ero in pratica l'antenato di me stesso? E, oltretutto, ero morto. Dopo circa dieci minuti, Gin era di nuovo tornata. Si era messa sia le scarpe che il cappotto, e portava sulla spalla la solita borsa, che ormai sapevo contenesse le due katane.
«Forza, datti una mossa!»
Mi afferrò per il braccio, iniziando a tirarlo con forza.
«Calmati, dove vuoi andare?»
Mi alzai, fissandola dall'alto al basso.
«Ti porto a fare un giro!»

Fare... un giro?”
Prima che potesse trascinarmi fuori, tornai anch'io in camera per darmi una sistemata, visto che ero ancora in pigiama. Indossata una normalissima t-shirt e dei pantaloni, tornai dalla ragazza. Lei era rimasta lì, sull'uscio della porta ad aspettarmi come un cane che non vede l'ora di essere portato fuori a fare un giro, tuttavia, questa volta, sarei stato io l'animale da portare a spasso. Sorridente, mi trascinava da una parte all'altra della città. Mi portò a visitare diversi luoghi che io, nonostante vivessi lì da ormai ventitré anni, non avevo mai visto. Mi parlava delle loro origini, la loro storia.
«Oh, guarda questo laghetto! Qui è dove mi portasti la prima volta a pescare!»
Diceva, puntando il dito.
«E invece sotto quell'albero ci sedevamo spesso a pranzare!»
Provavo come un senso di tristezza. Lei si stava affannando così tanto nel farmi visitare tutti i posti che, da quel che avevo capito, “avevamo già visitato”, e io non riuscivo a ricordare nulla. Dall'altra parte, invece lei era così felice, nonostante tutti i miei rifiuti. Quando mostrava questo suo lato era quasi... carina.
“No, no. Cosa mi passa per la testa.”
Inizia a scuotere velocemente il capo, come a voler mandare via quel leggero rossore che avevo sulle guance. Per fortuna lei era troppo affannata nel parlare e a indicare cose per prestarmi attenzione.
«Senti, perché non mi aspetti lì? Vado a prendere qualcosa da mangiare.»
«Vuoi scappare?»
«EH? Ma... vado davvero a prendere qualcosa e torno, giuro!»
Tese una mano, allungando il mignolo.
«È una promessa. E questa volta... non dimenticartene.»
A mi volta, le strinsi forte il mignolo e gli allegai un cenno con la testa. Ricordavo che lì nelle vicinanze c'era un negozio che preparava pietanze davvero deliziose, non potevo di certo farmi sfuggire l'occasione di mangiarle. Avevo deciso di prendere due panini uguali e qualche bibita, in effetti non conoscevo i gusti di Gin, ma se lo sarebbe fatto piacere. Era la prima volta che passavo così tanto tempo con una ragazza; c'è da dire che durante la mia vita, il numero di relazioni che avevo portato avanti puntavano allo zero. No che le ragazze non mi interessassero, per intenderci, ma fra lo studio e altro, non erano il mio principale pensiero. Forse anche per lei era lo stesso, probabilmente l'idea di frequentare un ragazzo che non fossi io non le era mai balzato in testa. Ma erano solo delle mie supposizioni. Non so se furono questi pensieri o altro a farmi perdere l'equilibrio, tanto ché cercai supporto poggiando le spalle contro un muro. Sentii un forte dolore alla tempia e, socchiudendo gli occhi, mi parve di vedere qualcosa. Erano ricordi legati al passato: vi ero “io”, sdraiato a terra, e Gin, che mi sosteneva sulle sue gambe. Potevo semplicemente udire poche parole fuoriuscire dalle mie labbra “Non avere paura... non ti abbandonerò. Un giorno, ci rincontreremo. Te lo prometto. Tu... non dimenticarti di me, però.”
Scossi veloce la testa e, riaprendo gli occhi, tornai al “presente.”
“Anche lei, quella volta... disse che ero stato proprio io a chiederle di non dimenticarmi...”
Già, il giorno prima, Gin mi aveva rimproverato per la mia scarsa memoria. Io ero morto e, nonostante ciò, per tutto questo tempo, le avevo chiesto di aspettarmi e non dimenticarsi di me. Eppure, ero io quello che non voleva avere niente a che fare con lei.
Che essere spregevole.
Facendo finta di nulla, tornai dalla ragazza.
«Ci hai messo davvero tanto!»
«C'era la fila, che credi.»
«Bé... però, sei tornato.»
Nonostante le rispondessi sempre con minor gentilezza possibile, lei si accontentava, e continuava a sorridermi.
«Certo che sei proprio strana.»
«Ah? Daffero?»
Aveva già addentato il panino. E dire che avevo quasi “paura” che potesse non piacerle!
Continuammo a mangiare e chiacchierare, tirando in ballo qualsiasi cosa che ci venisse in mente. Il tempo trascorse velocemente e il sole, pian piano, iniziò a tramontare. Non era ancora primavera, quindi il cielo diveniva scuro già nel tardo pomeriggio.
«È meglio che ti riaccompagni a casa, prima che si faccia troppo tardi.»
Non potevo rischiare di averla di nuovo nella mia stanza, io avevo bisogno della mia privacy, ma sopratutto del mio letto. Lei disse semplicemente “sì”, successivamente, iniziai a far strada.

Passata mezz'ora, in cui nessuno dei due proferì alcuna parola – per nessun motivo preciso -, mi fermai d'avanti una casa a due piani.
«Stavo pensando... se è casa tua... perché stai seguendo me?»
Me ne ero accorto con un po' di ritardo.
«Questa... è questa casa mia.»
Rispose lei.
«Ah.»
Come era accaduto per il suo nome, ora sapevo persino dove abitasse. Sembravo quasi io lo stalker della situazione.
«Su, su! Non fare quell'espressione sconvolta! Sia la mia vecchia abitazione che quella attuale, sono state costruite nello stesso punto. Non è un caso che ricordassi la strada...»
Cercava in tutti i modi di trattenere una risata, evidentemente la mia faccia era davvero buffa.
«Capisco...»
Tirai un sospiro di sollievo, non che ci fosse qualcosa di cui preoccuparmi... ma iniziavo a farmi paura da solo.
«Senti Gin... hm... ecco. Anche se sei antipatica e continuo a non sopportarti... oggi mi sono divertito. Quindi, grazie.»
Per me, dire quelle parole, era stato estremamente difficile. Non volevo dargliela vinta, farle vedere che la sua compagnia, in fin dei conti, non era tanto male.
Ero abbastanza dispettoso.
Lei spalancò gli occhi e sul suo viso, tornò a disegnarsi quel sorriso stupido, che le faceva risaltare le guance. Senza che potessi reagire in alcun modo, mi si era subito fiondata addosso e mi aveva baciato. Questa volta non feci nessun piega, mi ero limitato a socchiudere gli occhi. Infatti, chi rimase stupito da tutto ciò, fu proprio Gin stessa. Passarono solo pochi secondi e lei si era già staccata da me.
«C...credevo mi avresti bloccata. Che vergogna.»
Affondò subito il viso contro il mio petto. Io, in tutta risposta, scoppiai a ridere.
«Ma come! Fin ora non hai mai fatto una piega... e ora che non ti respingo... tu ti vergogni!»
Le diedi una pacca in testa, scompigliandole un po' i capelli. Lasciai per un po' la mano appoggiata sulla sua testa e smisi anche di ridere.
Vi era di nuovo silenzio.
«Prima... ho ricordato la promessa che ti feci.»
Lei sobbalzò, spostando un po' il viso, affinché potesse guardarmi.
«Come ti ho detto questa mattina... io non mi innamorerò di te.»
«Non importa... ci sono voluti così tanti anni per trovarti... che ora il tempo non ha alcuna importanza, purché possa passarlo con te.»
Si staccò completamente da me, e mosse alcuni passi, in direzione della porta.
«Ti farò cedere, Daichi!»
Aveva già infilato la chiave nella serratura e dopo avergli fatto fare alcuni giri, aveva spalancato l'entrata. Prima di attraversare l'uscio ed entrare in casa, si voltò un'ultima volta verso di me, sorridendomi. La vidi muovere lentamente le labbra, come a voler dire qualcosa, ma pretendeva che lo capissi senza alcun suono. In effetti, il messaggio mi fu ben chiaro. Infine, chiuse la porta. Rimasi a fissarla qualche secondo, poi, con le mani in tasca, me ne andai via di lì con una sola certezza: domani l'avrei sicuramente rivista.

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Capitolo 3
*** Gusto amaro ***


Dopo i precedenti giorni ricchi di imprevisti, la mia vita sembrava aver preso di nuovo quella sua noiosa e normale piega, ma mi sbagliavo. Quella mattina ero andato in università – se ve lo foste chiedendo, frequento la facoltà di lettere e filosofia – ma per fortuna, avevo avuto solo delle lezioni mattutine, quindi sarei potuto rientrare a casa per l'ora di pranzo. Per raggiungere gran parte delle università, si era necessariamente costretti a spostarsi in una città vicina a quella in cui abitavo, e io usavo come mezzo di trasporto il treno. A quell'ora, era anche più affollato del solito, visto che la mia era semplicemente la terza fermata. Facendomi spazio fra i vari passeggeri, riuscii a ritagliarmi pochi centimetri, il necessario per non soffocare in quella folla. La mia vita universitaria era sempre stata così, ma appunto... era. Con le spalle contro il finestrino e le braccia conserte, facevo vagare lo sguardo da una parte all'altra del vagone, finché non notai qualcosa che attirò particolarmente la mia attenzione.
“Ma quella... è Gin.”
Non credevo che l'avrei rivista così presto. No, in effetti, lo sapevo... però credevo che avrei potuto avere più tempo di tregua da lei, ma evidentemente il mio destino era quello.
Seduta su di un sedile, teneva stretta fra le braccia la borsa e, come sempre, dormiva.
Come poteva essere così incosciente nell'addormentarsi sul treno? Mi lasciai scappare un sospiro, lasciando il mio sguardo su di lei. Quello che accadde dopo mi fece parecchio perdere l'autocontrollo, diciamo. Accanto a Gin vi era un ragazzo, poteva avere sì e no la mia età. Con delle cuffie nelle orecchie, probabilmente fingeva di ascoltare della musica per allontanare da sé l'attenzione. Fu allora che notai che una sua mano, lentamente, si stava avvicinando alla ragazza addormentata. Non mi interessava sapere quello che avrebbe fatto dopo, ma già sapevo che non sarebbe stato nulla di buono. Sciolsi le braccia e appoggiando i gomiti contro la parete, mi diedi una leggera spinta. Pochi passi ed ero ormai di fianco a Gin, che stava seduta nel sedile esterno. Velocemente, fiondai la mia mano sul quella del tipo, stringendogli il polso con quanta più forza potessi avere in corpo.
«Hai bisogno di qualcosa?»
Dissi, fissandolo. Lui, sentendosi bloccare, voltò di colpo il capo dedicandomi uno sguardo altrettanto infastidito. Ritirò subito il braccio, massaggiandosi più volte il polso. Dopodiché voltò il capo, borbottando qualcosa contro il finestrino. Spostai nuovamente lo sguardo su Gin, per accertarmi che stesse bene. Lei sobbalzò, forse rendendosi conto di essersi addormenta. Dopo aver sbattuto più volte le palpebre, si lasciò scappare uno sbadiglio, successivamente, alzò leggermente il capo.
«Ah, Daichi. Mi sono addormentata di nuovo...»
Con una mano iniziò a strofinarsi gli occhi, mentre l'altra rimaneva salda sulla borsa.
«Sei proprio scema.»
Le diedi un colpetto fra i capelli, lei mi rispose con una mezza smorfia.
«Se hai così sonno, torna pure a dormire. Ti sveglio io quando saremo arrivati.»
Lei fece un semplice cenno con la testa, dopodiché spiaccicò di nuovo il viso contro il sedile, tornando a ronfare dopo qualche secondo. Rimasi lì accanto a lei, per vegliare sul suo sonno, ma sopratutto sulle strane idee che sarebbero potute venire al suo vicino. Ora che ci pensavo, probabilmente anche Gin stava tornando a casa dopo una lezione universitaria e se ricordavo bene, la sua facoltà si trovava proprio non molto lontana dalla mia, ma per comodità, si preferiva prendere la fermata prima del treno, rispetto quella che avevo preso io.
Bé... la prossima volta o lei viene da me o viceversa. Farla stare sola sul treno è pericolos... aspetta, che diavolo sto pensando?!”
Scossi velocemente il capo, come a voler mandare via quei pensieri. Tutto ciò non era affar mio, eppure non potevo far a meno di preoccuparmi. Passarono altre due fermate, la nostra meta era sempre più vicina. Di colpo, il tipo seduto accanto a Gin, si alzò, lasciando libero il posto. Probabilmente sarebbe dovuto scendere alla prossima fermata. Per fortuna, non riuscivo più a sopportare la sua presenza. Poco dopo svegliai anche la ragazza e, com'era successo il primo giorno che c'eravamo incontrati, ci trovammo a percorrere la medesima strada. Io le portavo la pesante borsa e lei, qualche centimetro dietro, continuava a sbadigliare.
«Certo che te dormi sempre. Non va bene.»
Non potevo di certo esserci sempre io a bloccare possibili ladri o molestatori.
«Uff... è colpa delle medicine!»
Disse lei, in tutta risposta.
«Medicine? Che medicine?»
«AAAH! Ma niente! Sai com'è, si avvicina la primavera, eh, eh! E l'allergia è davvero insopportabile... coooosììì, prendo un sacco di medicine che mi danno sonnolenza!»
Non mi sembrava tanto convinta, ma ora non mi andava di indagare. Mossi altri passi, fummo di colpo richiamati da una voce.
«EHI! TU!»
Un tipo, incappucciato, ci venne incontro, sbarrandoci la strada. Certo che quel percorso era davvero maledetto, ogni volta trovavamo sempre qualcuno che ci veniva contro.
«Oh, aspetta. Sei il tipo del treno!»
Nonostante avesse il capo coperto, lo avevo subito riconosciuto. Ma la cosa più importante era... che voleva da noi? Pensai che prima, quando s'era alzato, in realtà si era messo in disparte per vedere quale fosse la nostra fermata, così da poterci seguire.
«Esatto! Ora ti faccio vedere io cosa succede a chi mi mette i bastoni fra le ruote.»
Mi ero posto davanti a Gin, la quale continuava ad osservarci completamente disorientata.
«Il tipo... del treno?»
Chiese lei, a bassa voce.
«Ah, bé... era il tipo seduto vicino te, non l'hai notato? Voleva farti delle cosacce.»
Lo indicai con un pollice, mentre mi gustavo divertito il cambiamento d'espressione della ragazza. Ora era rossa rossa, come se da un momento all'altro fosse esplosa.
«E ci sarei riuscito, se tu non avessi rotto. Ma ti capisco amico, vuoi tenerti tutto quel ben di dio per te...»
Non riuscivo a seguire assolutamente il suo discorso. Iniziai a fissare Gin, partendo dal basso verso l'alto. In effetti, oggi era vestita diversamente. Mentre il mio sguardo saliva, notavo continui cambiamenti... quando giunto all'altezza delle spalle, inizia un po' a comprendere ciò che il ragazzo voleva dirmi.
«Ah.»
Commentai, battendo un pugno sul palmo della mano. In tutta risposta, questa volta il pugno di Gin mi arrivò dritto nel fianco destro.
«Siete dei... dei...»
Okay... forse l'averla fissata così intensamente l'aveva infastidita. Ma i giorni prima aveva sempre portato quel ingombrante cappotto, quindi non avevo mai notato come effettivamente il suo fisico fosse.
«Non perdiamo altro tempo.»
Non ebbi nemmeno il tempo di riprendermi dal colpo che mi aveva dato la ragazza, che il molestatore si era tolto la felpa, gettandola a terra. Si alzò le maniche della camicia e portò i pugni in avanti.
«Cos... vuoi fare a botte?!»
«Esatto, fatti avanti.»
“Ma questo è tutto matto...”
Sospirai. Non avevo nessuna voglia di prendermi a pugni con un perfetto sconosciuto, e poi non è che fossi questo granché a dar botte. Puntavo più alla diplomazia, ma con lui sembrava non poter avere nessun effetto. Girai velocemente lo sguardo, Gin accanto a me si era messa di spalle, affinché non potessi più fissarla. Fu lì che mi venne quel lampo di genio. Sulla sua schiena non c'era più la borsa, perché la tenevo io, e dentro questa c'erano...
“Le due katane! Mi trasformo nel tipo lì e lo faccio scappare via in pochi secondi... eh, eh, sono proprio un geniaccio.”
Inizia a ridere. Lentamente, mossi un braccio, piegandolo all'indietro. Tuttavia, sembrava che anche la ragazza avesse intuito quale fosse il mio piano.
«Non sono un giocattolo, non permetterò che un maiale come te le tocchi!!»
Mi aveva appena sottratto la borsa, stringendola forte a sé. Bene, ora ero davvero fregato.

Passò mezz'ora e lo scenario era completamente cambiato: vi ero io, seduto davanti a un tavolino e Gin, posta difronte a me, tutta concentrata nel disinfettarmi e medicarmi alcune ferite che mi ero fatto sul volto.
«A-ah, brucia!»
«Shh... sto cercando di farti meno male possibile!»
Alla fine, ero stato costretto a far botte col tipo, e con mia grande sorpresa, ne ero uscito vittorioso, ma con parecchie ferite. Non potevo di certo tornare a casa in quello stato, così Gin mi aveva proposto di andare da lei.
«Ho quasi fatto.»
Dovendo stare fermo immobile davanti a lei, il mio unico intrattenimento si limitava nell'osservare l'interno della casa. In quel momento ci trovavamo nella sala da pranzo, che era direttamente collegata alla cucina. I mobili che la componevano erano quasi tutti antichi, nonostante ci fossero molti oggetti di ultima generazione. Accanto a me vi erano appunto il tavolo e poco distante, un grosso schermo piatto. Alle mie spalle vi era un'altra stanza, completamente al buio, mentre dal lato opposto, oltre la cucina, vi erano le scale. Sembrava molto simile a casa mia, anche se lo spazio era organizzato in modo diverso. Finita la perlustrazione, non mi rimaneva che guardare la ragazza stessa. Mi soffermai ad osservare le sue piccole mani che si muovevano velocemente fra i vari medicinali, dopodiché passai agli occhi.
«Certo che avresti potuto farmi usare la katana. Dopotutto è mia, no?»
L'iride aveva davvero un colore particolare, avevo sempre creduto fosse semplicemente grigio, invece, se osservato da vicino, si potevano vedere delle lievi sfumature d'azzurro.
«Non puoi sbandierare ai quattro venti quello che sai fare. Sapendo che quegli uomini potrebbero tornare da un momento all'altro, non dovremmo attirare l'attenzione...»
Mi scocciava ammetterlo, ma aveva perfettamente ragione. Mentre mi parlava, continuava a occuparsi delle mie ferite, però...
«Il tuo occhio destro... è strano. »
Lei sobbalzò all'indietro.
«Quello ad essere strano sei tu... e ho finito!»
La sua reazione, simile a quando le avevo chiesto delle medicine, mi aveva fatto insospettire... mi nascondeva qualcosa.
Gin si alzò e, mettendo via la cassetta del pronto soccorso, raggiunse i fornelli, tirando fuori varie pentole.
«Oggi cucino io!»
In qualche modo, mi sembrò volesse cambiare discorso.
«Dai... davvero, non c'è niente che non vada?»
Intanto aveva indossato un grembiule bianco, sembrava proprio una cuoca professionista, non l'avrei mai detto.
«È una cosa che dovresti già sapere.»
Mi ammutolì.
«Appoggiati una mano sul fianco sinistro e dimmi se senti dolore.»
Perché quella richiesta stramba tutta d'un tratto?
«Forza, fallo!»
Seguii senza far pieghe il suo ordine, e inizia a far passare la mano su tutto il fianco, ma non accadde nulla.
«Non sento niente... e poi tu mi hai picchiato sul fianco destro, se intendevi quello.»
Lei lasciò ciò che teneva in mano, abbassò leggermente la fiamma su cui prima aveva appoggiato una pentola e mi raggiunse.
«Devo fare proprio tutto io, eh?»
Per la prima volta, fu lei quella a sospirare. Si piegò su una gamba e, con fare deciso, andò a premere contro un punto preciso del fianco due dita. Il dolore che provai fu indescrivibile, mi sembrava che qualcuno mi avesse appena trafitto con una spada.
«Bingo.»
Disse lei, notando la mia espressione piena di dolore. Se non fosse stato imbarazzante, mi sarei messo a piangere. Lei tornò in cucina, era più preoccupata che il cibo in pentola non si bruciasse, che del male che mi aveva appena inflitto. Improvvisamente, mi tornarono in mente diversi ricordi, proprio come era successo il giorno prima. Vi eravamo sempre io e la Gin del passato, io le chiedevo il perché stesse indossando quella strana maschera che aveva sempre sul viso. Lei si rifiutava in tutti i modi di dire la verità, dicendo semplicemente che le piaceva avere qualcosa di particolare. Tuttavia, con un po' di sforzo, ero riuscita a sottrargliela, notando che dal sopracciglio, fino a metà guancia, il suo viso era deturpato da una cicatrice. Il ricordo si interruppe lì, e tornai al presente.
«Una cicatrice! Ma tu... non ce l'hai... che senso ha?»
Non mi rispose subito, prima pensò ad impiattare, poi, mi raggiunse con in mano il cibo.
Li poggiò sul tavolo, uno davanti a me e l'altro nel suo posto. Dopo essersi seduta, aprii finalmente bocca.
«Io... hm... non vedo dall'occhio destro. Sono cieca. Allora fu una freccia a provocarmi tale cecità, mentre non capisco il perché... questa volta sono nata già così. Anche tu... nel punto in cui ti ho toccato poco prima, venisti colpito a morte. Quindi ho ipotizzato che fosse quello il tuo punto debole. Sembra quasi che, in qualche modo, ci abbiano voluto comunque infliggere le ferite che abbiamo avuto in vita. Sembra così buffo, non trovi?»
Come poteva trovare buffo qualcosa del genere? Perché era così spensierata mentre diceva una cosa così grave.
È ingiusto.”
Nel mentre, lei aveva iniziato a mangiare. Noncurante di ciò, allungai una mano verso di lei, appoggiandola sulla sua guancia destra. Con un po' di pressione, le feci voltare il capo, volgendolo verso di me, nonostante il resto del suo corpo era ancora immerso in ciò che stava facendo precedentemente. Alzai il pollice, trascinandolo sulla palpebra del suo occhio, soltanto quando lo allontanai di pochi millimetri, lei separò le due estremità, mostrando l'iride. Ecco perché prima mi era sembrata così strana, visto che, a differenza dell'altra, stava completamente immobile, non seguendo il movimento delle sue mani.
«Che ti prende?»
Disse lei, accennando un sorriso. Qualche secondo dopo, quel sorriso si trasformò in una smorfia.
«Ehi, ehi, d-dai, calmati!»
Lasciò cadere la posata che aveva nella mano, e si fiondò subito su di me. Mi avvolse la testa con le braccia e mi portò a sé, stringendomi al petto.
«Ma ti sembra normale metterti a piangere, dov'è finita la tua virilità?!»
«Ogni tanto anche i ragazzi hanno bisogno di sfogarsi, ok?»
Involontariamente, una dopo l'altra, delle lacrime avevano iniziato a rigarmi il viso. Non volevo piangere, ma non riuscivo nemmeno a smettere. Lei non mostrava mai espressioni tristi, nemmeno quando mi rivelava i problemi legati al suo occhio. Eppure a me faceva davvero male, sembrava quasi che soffrissi io al posto suo.
«Mi dispiace. Io me la sono cavata con così poco... mentre tu... devi avere sempre la parte peggiore.»
Ad ogni mia parola, il suo abbraccio si faceva sempre più forte. Le sue sottili dita si facevano spazio fra i miei capelli, accarezzandoli di tanto in tanto.
«Tu non hai nessuna colpa. Quindi ora basta piangere.»
Mi allontanò un po', facendo scivolare le mani sul mio viso. Mosse entrambi i pollici, e seguendo la forma dell'occhio, spostò quelle poche lacrime che erano rimaste.
«E ora torniamo a mangiare. Sarei triste se si raffreddasse tutto e non fosse più buono.»
Così lei mi lasciò completamente, e dopo avermi rivolto un sorriso, tornò tranquilla a mangiare. E io feci lo stesso. In pochi minuti, avevo quasi del tutto svuotato il piatto. Era davvero brava a cucinare, ed era tutto così delizioso che avrei fatto più volte il bis.
«Abiti da sola?»
Non mi piaceva stare in silenzio per così tanto tempo.
«No, no. Sto con mio padre, ma al momento non c'è. Di solito lavora fino a tardi, quindi mi tocca spesso pranzare da sola.»
Da questo punto di vista, eravamo molto simili. Entrambi i miei genitori erano professori, quindi più volte mi toccava trovarmi da solo il pane da mettere sotto i denti. Per non parlare delle volte in cui anche mio fratello rientrava, e quindi, nonostante fosse lui più grande, mi toccava cucinare anche per lui.
«Hm... e tua madre?»
Non capivo se non l'avesse citata di proposito, o semplicemente se ne fosse dimenticata.
«Non so, potresti metterti a piangere di nuovo.»
La vidi spostare lo sguardo prima sul mio piatto, forse per accertarsi che avessi mangiato tutto, poi su di me.
«Ah! Non fare la scema! Giuro che la prima volta che ti vedrò piangere, invece di consolarti ti riempirò di insulti.»
«Peccato che io non pianga mai! Sembra che toccherà a me essere l'uomo in questa coppia...»
Mentre parlava, era scattata in piedi e, afferrandomi da un braccio, mi tirò con sé.
«N—noi non siamo una coppia e... e dove stiamo andando!?»
Mi feci trascinare senza opporre resistenza. Ci ritrovammo nella stanza sulla sinistra, quella completamente al buio che prima era alle mie spalle. La sua mano ora stringeva forte la mia.
«Ecco qui. Mamma, ti presento Daichi.»
Di fronte a noi ora vi era un altarino, con posto al centro la foto di una donna, la madre di Gin. Rimasi immobile a bocca semi aperta. Non mi sarei mai immagino un risvolto del genere.
«Ehi, non fissarla così!»
Mi disse lei, dandomi un leggero colpetto.
«A—ah, giusto. M—mi dispiace... ecco... buon pomeriggio signora.»
Gin iniziò a raccontare alla madre quello che aveva fatto quella mattina, prima che ci incontrassimo. Per tutto il tempo, guardai i suoi occhi. Non erano lucidi e sopratutto non facevano trasparire alcun emozione negativa, sembrava così felice mentre immaginava di parlare alla madre, mentre davanti a lei c'era soltanto una fotografia. Tuttavia, continuava a stringermi con forza la mano. Ogni giorno che passava, quella ragazza mi sorprendeva sempre di più. Passarono circa cinque minuti, dopodiché, sempre mano nella mano, tornammo nell'altra stanza. Solo quando arrivammo vicini al tavolo, lei mi lasciò per mettere via i piatti. Mentre lei s'era messa in cucina a lavare le stoviglie, io mi ero andato a sedere su uno sgabello vicino a lei. Incrociai le braccia sul lungo piano posto davanti a me, e ci feci sprofondare il mento, lasciando visibili solo gli occhi, impegnati a seguire i movimenti della ragazza.
«Sei rimasto senza parole? »
Mi disse lei, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo.
«Non so cosa dire. Tutto ciò che penso mi sembra così inappropriato... »

«Sai... ormai sono rassegnata. Che sia questa o una vita passata, le persone che amo mi vengono sempre portate via. Quindi cerca di non metterti nei guai!»
Arrossii. Certe volte il suo essere così spontanea mi spiazzava completamente.
«Posso chiederti cosa le è successo?»
Avrei preferito cambiare discorso, ma la storia di sua madre mi incuriosiva parecchio.
«Una malattia l'ha portata via due anni fa. Lei sapeva che la sua vita non sarebbe stata lunga... e in questi anni ho imparato ad accettarlo.»
Lei aveva perso la madre così presto, come la Gin del passato aveva dovuto subire la mia morte in così giovane età. Ad un tratto, recuperare i ricordi del vecchio “me”, mi faceva quasi paura... forse io non avrei sopportato così tanti lutti nella mia vita, e non sapevo cosa quelli potevano riserbarmi.
«Stavo pensando... se gli orari delle nostre lezioni coincidono, potremmo prendere il treno insieme. Anche al ritorno... vorrei evitare di dover fare a pugni con qualcun altro.»
Dissi tutto d'un fiato. In qualche modo, mi sembrava una proposta troppo azzardata, stavo passando dall'ignorarla completamente a prestarle fin troppe attenzioni. Però, dopo tutta la tristezza che per colpa mia aveva riesumato, strapparle un sorriso mi sembrava doveroso.
«Aaaah, dici davvero?! Potremmo fare la strada insieme ogni volta!»
Non riuscendo a contenere la felicità, andò subito ad abbracciarmi.
Per poco non sarei caduto dallo sgabello.
«N-non farmi pentire di questa decisione, va bene?»
Cercavo in tutti i modi di farla allontanare, visto che non si era nemmeno asciugata le mani e quindi ora mi stava inzuppando d'acqua.
«D'accordo!»
Anche se per tutta la giornata sul suo viso vi era sempre stato il medesimo sorriso, sapevo bene che quello che ora mi stava rivolgendo, era vero e sincero... e questo mi rendeva davvero felice.
Quando lasciai casa di Gin si erano fatte circa le quattro del pomeriggio. Non sapevo ancora come avrei passato il resto della giornata, sicuramente sarei dovuto rientrare a casa prima di mia madre, o vedendomi quei lividi sulla faccia avrebbe iniziato a riempirmi di domande insopportabili. Quella giornata era stata così piena di novità, che la mia testa stava scoppiando. In realtà, c'erano tante altre cose che avrei voluto chiederle, ma avremmo avuto tempo.
“Ah... avrei dovuto scrivermi il suo numero di cellulare. Va bé... non importa... glielo chiederò la prossima volta.”
Quando mi vennero in mente quei pensieri, ero già arrivato a casa.
Ma ancora più importante, non sapevo che, la prossima volta, non sarebbe stata così vicina come immaginavo.

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Capitolo 4
*** Basta un sorriso. ***


«Sono a casa.»
Chiudendo piano la porta alle mie spalle, finalmente ero rientrato. Sin dal mattino presto, fino a quell'ora tarda, ero rimasto fuori a studiare con dei ragazzi che frequentavano i miei stessi corsi. Ero distrutto.
«Oh, tesoro. Hai fatto così tardi anche oggi.»
Mia madre venne subito ad accogliermi. Quando sapeva che rientravo così tardi per via dello studio, si dimostrava sempre così gentile. Infatti era ormai una settimana che facevo quella vitaccia, ma gli esami si stavano avvicinando minacciosamente, e io dovevo darmi da fare.
«Già... sono davvero stanco. Ho sola voglia di entrare in simbiosi col mio letto. »

Le dissi, iniziando a muovere alcuni passi verso le scale. Non vedevo l'ora di sprofondare sul mio morbido materasso, e perché no, andare in letargo.
«Hm, prima che tu possa portare a termine questi grandi obiettivi, hai notizie di Gin?»

Sobbalzai, fermandomi bruscamente al primo gradino della scalinata.
«Gin? Perché me lo chiedi?»

Voltai un po' il capo verso di lei.
«Ecco... non viene a lezione da quasi una settimana, quindi sono un po' preoccupata. So che non è interesse mio la vita privata dei miei studenti, ma non è da lei assentarsi per così tanto tempo.»
«In effetti... è vero. Sentivo come un senso di libertà in questi giorni.»

Nessuno che mi rincorreva, che provava a molestarmi... era stato davvero breve, ma intenso.
«Ho anche provato a chiamarla... ma non mi ha risposto. Magari se provi tu, avrai più possibilità. Allora? Lo fai questo favore alla mamma?»

Mi grattai il capo. Avevo davvero sonno, ma non potevo dirle di no. Sopratutto perché...
«N-non guardarmi con quegli occ-... d'accordo.»
Puntualmente, cercava di colpire i miei sentimenti di figlio. E ci riusciva sempre!
«Però... prendo la moto di Sora!»

Tuttavia, avevo anch'io le mie condizioni. Avevo velocemente memorizzato il numero di Gin sulla rubrica, e recuperato un casco, mi ero subito messo in sella alla moto. Avevo accennato già tempo addietro l'esistenza di questo fantomatico fratello maggiore, e bé, visto che il più delle volte ero la sua domestica personale, prendevo la mia paga sottraendogli la moto quando mi andava.
“Come ho fatto a dimenticarmi completamente di Gin? Ero così preso dalle lezioni che non ho nemmeno fatto caso alla sua assenza. Mi ucciderà, me lo sento.”
Pensai, cercando in tutti i modi una possibile soluzione affinché non mi provocasse una morte istantanea soltanto con lo sguardo. Dopo quello che le avevo detto l'ultima volta, ero stato davvero cattivo dimenticandomi così di lei.

In poco tempo ero già arrivato davanti casa sua, lasciai la moto dentro il giardino e, tolto il casco, mi posizionai a pochi centimetri dalla porta, iniziando a bussare dando leggeri colpi col pugno.
«Giiin!»
Non ottenni nessuna risposta.
«Hm... provo a chiamarla.»
Presi in mano il cellulare, cliccai il suo numero e feci partire la chiamata. Nonostante il telefono segnasse libero, lei non rispondeva.
«Bé... forse non risponde vedendo un numero sconosciuto. Magari se le scrivo un messaggio firmandolo...»
Decisi quindi di inviarle un'email. Ma nonostante passarono più di dieci minuti, lei non rispose.

«Gin? Sei in casa? Apri!»
Mi spostai da davanti la porta, posizionandomi sotto il balcone del secondo piano.

Forse non era davvero in casa?
Ad un tratto il telefono che tenevo in mano vibrò, segnalando l'arrivo di un messaggio. Quindi aveva risposto! Speranzoso aprì l'email, tuttavia...
“Vai via...?”
La mia espressione mutò totalmente, assumendo un broncio infastidito.
«Che razza di risposta!»
Urlai contro la finestra.
«Giiin, aprimi! Fa freddo, e io di qui non mi muovo!»

Era in casa, e non voleva aprirmi! Ed era anche piuttosto tardi, e io avevo sonno! Tornai davanti alla porta, riprendendo a bussare, questa volta rumorosamente. Dopo il quinto pugno, la porta si mosse.
«Ah. Ha aperto.»
Già, ero così preso dal sfogare la mia frustrazione sulla porta, da non rendermi conto che fosse aperta già da un po'.

«Ehi... dove sei?»
Mi addentrai lentamente dentro la stanza, chiudendo la porta alle mie spalle. Era tutto buio, sembrava il degno scenario di un film horror. Fortunatamente, ricordavo bene la disposizione dei mobili nella stanza, quindi, nonostante la scarsa visibilità, non mi fu difficile orientarmi. E dopo qualche minuto, avevo finalmente trovato la piccola fuggitiva.
«Che ti prende?»
Si trovava nel salotto, rannicchiata a terra, con le spalle contro il muro.
«Perché sei venuto? Pensavo stessi bene senza di me.»
Rimanendo sempre in posizione fetale, fu l'unica cosa che riuscì a dirmi.

«Che diavolo stai dicendo... mia madre ha detto che è da quasi una settimana che non ti vede. È vero?»
Mi posizionai davanti a lei, continuando ad osservarla dall'alto.

«Prima te ne lamenti e poi fa tu lo stalker?»
C'era davvero qualcosa che non andava. Non era la Gin di sempre.
«Smettila di rispondermi così male... e guardami in faccia mentre ti... parlo.»
Mi dava davvero fastidio questo suo improvviso cambio di comportamento. Okay, forse era anche colpa mia che la rimproveravo di essere fin troppo espansiva nei miei confronti, ma questa totale apatia era davvero pesante. Mi inginocchiai, volevo che mi parlasse in faccia, non rannicchiata in quello stato. Dovetti forzarla e finalmente aveva alzato il viso... ma forse avrei preferito non lo avesse fatto.

«O..r..a sei... felice?»
Avevo gli occhi rossi e umidi. Le guance erano rigate da lacrime, come se non bastasse, aveva un colorito più pallido del solito, che faceva risaltare le occhiaie violacee. Mi sembrava di avere davanti un cadavere, avevo quasi i brividi.
«Gin... cos'è successo?»
Deglutì, cercando di trovare le parole giuste per affrontare la situazione.

«Nulla, nulla! Vai via... ti prego!»
Visto che le tenevo fermi entrambi i polsi, affinché non ritornasse alla sua posizione precedente, lei iniziò ad agitarsi.
«Non vado proprio da nessuna parte.»
Ma non poteva di certo averla vinta contro di me.

«C-che fai!»
Con forza, la strattonai, facendola ricadere su di me. Questa volta, mi misi io con le spalle al muro, mentre lei aveva le sue contro il mio petto. L'avvolsi con entrambe le braccia, affinché non potesse scappare via.
«Avevi detto che non piangevi mai.»
Le feci notare.
«E tu avevi detto che se mi avessi vista piangere, mi avresti insultata.»
Controbatté subito.
«Anche questo è vero, siamo proprio dei bugiardi.»
Mi lasciai scappare un amaro sorriso.


«Non vuoi davvero dirmi cosa ti è successo?»
Per almeno cinque minuti, nessuno dei due proferì parola.
«Ho pensato che... avrei voluto allontanarmi da te. In realtà, credevo che ci sarei riuscita senza problemi, visto che era questo il tuo desiderio.»
Continuava a dipingermi come se fossi il peggiore dei mostri. Ma forse... ero davvero stato così fin ora?
«Ti sei chiusa in casa solo per non vedermi?»
«No... sono stata male.»
«Aaah, basta questi giri di parole, dimmi cosa succede una volta per tutte!»

«E a te che importa?! Non volevi tornare alla tua vita tranquilla? È questo il tuo momento! Non ascoltarmi e va' via.»
Era ormai la decima volta che mi consigliava di andare via.
«Gin... voglio davvero saperlo. Sono serio. Non ho intenzione di andare via da qui, né di cacciarti dalla mia vita da un momento all'altro. Cos'è? Prima ti intrufoli di forza, e poi credi di potertene andare così facilmente? Non funziona così.»
Fui il più sincero possibile. Forse era questo l'unico modo per far sì che in qualche mondo, mi si aprisse. Lei sospirò, facendo cadere indietro la testa e socchiudendo gli occhi.

«Ricordi... quando ti dissi che mi madre morì a causa di una malattia? Bé... il suo era un male ereditario.»
«Non è possibile...»

La situazione era più grave di quanto immaginassi.
«Per questo... ho paura. Non posso rischiare... non voglio morire. Ora che ti ho trovato. Ora che posso starti vicino... non voglio andarmene. Nessuno mi darà una terza occasione. Non posso... non voglio.»

Continuava a parlare tenendo gli occhi ermeticamente chiusi, forse non riusciva a guardarmi in faccia senza scoppiare a piangere?
«Così... volevo che se anche fossi morta... tu non ne avresti sofferto. Per questo non volevo più starti accanto. Ma allo stesso tempo, soffrivo perché se davvero non ho più tempo, vorrei passare quel poco che mi resta... solo con te.»

Mi sentivo davvero un mostro. Ogni volta, lei pensava sempre e solo al mio bene. Mentre io? Cosa avevo fatto in cambio? Dimenticarmi della sua esistenza per tutti qui giorni, non pensando a quanto stesse soffrendo.
«Andrà tutto bene, te lo prometto.»
La strinsi ancor più forte a me, appoggiando la guancia contro la sua testa. Non volevo che niente la potesse toccare, se mi fosse stato possibile avrei evitato persino che l'aria potesse sfiorarle la pelle.
«Daichi... sai perché ho la certezza di quale sia il fine della nostra reincarnazione? Io non ricordo altri che te. Del mio passato... ho soltanto memorie in cui esisti anche tu. Dopo la tua morte, essi finiscono. Non ricordo niente di mia madre, di mio padre e dei miei fratelli. Per questo sono così legata alla storia e so tutto di essa, proprio perché non conoscevo nulla di me stessa, a parte il fatto di averti conosciuto e amato.»

Non riuscivo davvero a “sopportarla” quando parlava così. Dovevo essere io l'uomo. Quello forte, coraggioso. E invece, avevo solo voglia di mettermi a piangere e chiederle scusa.
«Aaaah, smettila di dire tutte queste cose!»
Esclamai, dandole un piccolo colpo sulla testa.
«S—scusami... ma volevo... che sapessi tutto.»
Mi sembrò quasi di sentirla ridere, divertita dalla mia reazione.

«Gin.»
Ci fu di nuovo qualche minuto di silenzio.
«Hm.»

«Tu... hai contratto la malattia?»
Osai chiedere.
«Forse... per questo prendo continue medicine. Da quando sono nata, non ho fatto altro che combattere contro questa ipotetica malattia... però... ora... posso saperlo. Ho fatto degli esami e... una settimana fa, sono arrivati i risultati.»
«L—li hai letti...?»
Deglutì. Sudavo freddo, la situazione si faceva sempre più tesa. Ce l'avrei fatta?
«No, non ne ho avuto il coraggio. Cosa avrei fatto se lì ci fosse scritto che sono malata? Così mi sono rinchiusa in me stessa... fino ad oggi.»
Spostò lo sguardo verso una grossa busta gialla che stava poggiata su un mobile poco distante da lì.
«Allora... facciamo così. Li leggiamo insieme.»
Liberai per qualche secondo la ragazza dalla mia presa. Mi rimisi in piedi, afferrai la busta e tornai da lei.
«N—no Daichi, aspetta...»
«Niente ma, di cosa hai paura se ci sono qui io?»
«Proprio il non averti più vicino a me.»
«Per quanto tu mi stia antipatica... il nostro fato sembra così minuziosamente intrecciato che non credo di potermi liberare così facilmente di te.»

Cedetti a lei l'oggetto, e per infonderle un po' di coraggio, poggiai le mie mani sulle sue.
«Ecco qua, afferra. Quando ti senti pronta, apri la busta e leggiamo insieme.»
Lei teneva stretta fra le piccole mani la grande busta gialla. La vedevo ogni tanto oscillare, visto che il suo corpo non faceva altro che tremare per l'ansia. Allo stesso modo, quei secondi che ci separavano dal risultato, non facevano altro che farmi impazzire. Chiusi le palpebre, per poi riaprirle poco dopo. Di nuovo si chiusero, questa volta il tempo fu più lungo. Quando le riaprii, tutto intorno a me era meno nitido, come se avessi perso improvvisamente non so quanti gradi. La testa mi si fece pesante, tanto che avevo l'impressione che il collo non potesse sostenerla. La gettai in avanti, facendola sprofondare fra i capelli della ragazza. Nonostante stesse cercando di parlarmi, non sentivo nulla. Mi ero addormentato in un momento così cruciale, che crudele.

«L—la busta.»

Scattai in avanti, spalancando gli occhi.
La stanza non era più avvolta dalle tenebre, bensì era illuminata de una luce naturale... era dunque già mattina. Mi ritrovavo sul divano del salotto, con addosso una coperta. Mi ero sicuramente addormentato, e avevo passato il resto della notte sdraiato lì.
«Gin.. Gin! Dove sei?! La busta? I risultati! Gin!»
Poco dopo mi ricordai tutto ciò che era successo la sera prima, e mi agitai parecchio. Mi lancia letteralmente giù dal divano, per poi tirarmi velocemente in piedi. Sembravo fuori controllo, agivo senza una qualsiasi logica. Ma dovevo saperlo. Dovevo sapere dov'era Gin, e sopratutto come stava.
«Ehi, ehi! Buongiorno anche a te!»
E fu proprio allora che lei apparì nella mia visuale. Si trovava in cucina, poco distante dal tavolo posto nel centro della stanza. Mi si illuminarono gli occhi. Non sembrava la Gin di ieri sera... perché stava sorridendo. Quel sorriso così bello che riusciva a cambiarti l'esito di un'intera giornata. Scossi velocemente il capo, non era quello il momento di farsi prendere dai sentimentalismi, e corsi da lei.
«Gin! Scusami, mi sono addormentato! N-non volevo, ma ero davvero stanco, e la tua testa così comoda! No, cioè... come ci sono finito sul divano?»

Feci più volte degli inchini, implorando il suo perdono.
«Ti ha spostato ieri sera mio padre. Non ho così tanta forza, e tu non sei nemmeno così leggerino!»
Chissà cosa avrà pensato quell'uomo quando rientrando s'è ritrovata sua figlia a casa da sola con un ragazzo addormentato. La mia povera reputazione di ragazzo per bene sarebbe stata inabissata dalla mia negligenza?
«E i risultati?»
Ora era la cosa più importante. Inizia a sudare freddo. In effetti, non glielo avrei nemmeno voluto chiedere. Forse ero persino meno pronto di lei nel sapere il responso.
«Perché ti sei ammutolita?! Non dirmi che sono positivi...? Dai, parla!»
Aveva chinato il viso, e non osava proferire parola.
Di colpo le poggiai entrambe le mani sulle spalle.

Iniziai a pensare “Ti prego Gin, parla. Di qualcosa. O quello a morire qui sarò io!”
«N-e-g-a-t-i-v-o.»
Silenzio.
Aveva rialzato il volto, mostrandomi una smorfia.
Io invece non sapevo che espressione assumere. Erano fin troppe le emozioni che mi stavano percorrendo il corpo.
«E me lo dici così?!»
Esclami, entusiasta. L'afferrai senza preavviso da sotto le braccia, facendola volteare una o due volte.

«Aaah, c-almati, aiuto! Mettimi giù, mettimi giù!»
«M-mi sono fatto prendere dalla situazione.»

Sorrisi, facendola tornare con i piedi per terra.
«Ti ho preparato la colazione, io vado un attimo a cambiarmi, ok?»
Spostai lo sguardo verso il tavolo, notando che su di esso vi erano più e più pietanze.
«D'accordo...»
In effetti lei, a differenza mia, si era anche messa in pigiama. Ma degli indumenti del genere potevano essere davvero classificati come tali? Indossava una semplice canotta e degli short davvero, ma davvero corti. Forse, ieri sera, per via del buio, non li avevo completamente notati. Mentre rimasi lì fermo impalato ancora un po', il mio stomaco sembrò ribellarsi, così corsi subito a mettere qualcosa sotto i denti. Come sempre, tutto ciò che mi preparava Gin era estremamente delizioso. Mi ci volle davvero poco tempo per pulire completamente i piatti, e ora mi stavo annoiando. Lei non era ancora tornata, nonostante fossero passati circa dieci minuti. Eppure sapevo bene quanto le donne potessero essere lente, visto che ogni volta che si faceva qualche uscita in famiglia, mia madre era sempre in ritardo. Feci vagare lo sguardo, dovevo necessariamente trovare qualcosa che mi intrattenesse. Fu allora che notai la borsa che di solito conteneva le due katane. Era lì, poggiata contro un muro della cucina. Non avevo avuto chissà quante occasioni per osservarle da vicino, tranne il primo giorno che incontrai Gin. Erano passati quasi dieci giorni, eppure a me sembrava fosse soltanto ieri. Mi alzai in piedi, presi la borsa, e portandomela dietro, mi rimisi a sedere. Aprendola, decisi di tirar fuori soltanto la mia katana.

«È davvero bella.»
Commentai, analizzandola minuziosamente. La fodera esterna era completamente nera, come anche il manico. Tuttavia, risaltando fra quell'oscurità, apparivano dei decori orizzontali color oro. Non mi ero mai interessato a delle armi così tradizionali, anche quando provavo un nuovo gioco online, finito per utilizzare sempre quei grossi spadoni.
Facendole fare un piccolo scatto, estrassi lentamente la lama.
Non altrettanto lentamente, il mio aspetto mutò.
«AAAAAAAAAAAAAAAAH!!»
Non feci in tempo a rendermi conto di quello che stava succedendo che sentii un urlo. Era Gin, e proveniva dal piano superiore.
«C-che le è successo...»
Scattai subito, tenendo ancora fra le mani il fodero e la katana. Salii come un fulmine le scale, trovando subito dopo la sua posizione.
«Gin!»
La porta della stanza era chiusa, così, facendo girare il pomello, lentamente la aprii. Infilai prima metà viso, per dare uno sguardo veloce all'interno.
«Va... tutto... b...ene?»
Provai a dire, aprendo di più.
«Sei idiota!!»

In tutta risposta, ottenni solo insulti. Gin era lì, sembrava stare bene. Ma ovviamente, come era avvenuto il cambiamento per me, anche lei aveva assunto l'aspetto della Gin del passato. Mi ero completamente dimenticato dell'effetto collaterale che portava sfoderare le katane.
«Ah? Eri... sotto la doccia?»
Esattamente. La Gin che mi trovai davanti era un'infuriatissima ragazza completamente inzuppata dalla testa ai piedi. Probabilmente, quando avevo avuto quella fantastica idea di esplorare l'arma, lei si trovava sotto la doccia. Era completamente rossa in viso, e si era avvolta con entrambe le braccia affinché non potessi guardarla. Era tutto così divertente, sarei scoppiato a ridere da un momento all'altro.

«S-scusami... la poso subit-»
«No, no, no! Fermati! Ero n...nuda prima! Se chiudi il fodero...»

Era un dettaglio a cui non avevo pensato.
«Ah... è così?»
Sogghignai.
«E-ehi... non pensarci nemmeno!»

Lei divenne ancora più rossa.
«Ho il potere nelle mie mani.»
Proferì, assumendo l'aria del cattivo pronto a commettere chissà quale sgarro all'eroe.

«No, quello ce l'ho io.»
Ma appunto, come i peggiori dei cattivi, venivo sempre preso sconfitto. Gin iniziò a sussurrare qualcosa in non so quale strana lingua, proprio come aveva fatto la prima volta che avevamo combattuto insieme. Aspetta... non dirmi che...

«Questa la prendo io... se non ti dispiace.»
«C-così... non è... giusto.»
Mi aveva appena lanciato un incantesimo contro, e questo, a sua volta, mi aveva scaraventato contro la parete del corridoio, al di fuori della porta. Lei mi raggiunse poco dopo, mi sottrasse la katana e rientrò in bagno, chiudendo la porta alle sue spalle. Successivamente, capì che aveva rimesso la katana nel fodero, visto che avevo ripreso il mio normale aspetto, solo che rimanevo ancora malridotto e dolorante.

«Scusami...»

Non appena fui in grado di rimettermi in piedi, tornai al piano inferiore. Per non causa altri problemi, e sopratutto per evitare che mi picchiasse di nuovo, decisi di mettermi seduto sul divano, immobile. Dieci minuti dopo, Gin mi raggiunse. Indossava dei pantaloncini di jeans e una maglia abbastanza lunga che le arrivava oltre i fianchi. Ai piedi invece aveva dei sandali con qualche centimetro di tacco. Di solito indossava vestitini o gonne, mi faceva un po' strano vederla con quei panni. Non che le stessero male, c'è da dire. Anzi, con quegli abiti attirava anche meno l'attenzione, sarebbe stato più semplice evitare gli sguardi indiscreti.
«Mh.»
Rispose semplicemente lei, lasciandosi cadere sulla poltrona posta proprio davanti al divano. Accavallò le gambe e incrociò le braccia. L'avevo davvero fatta infuriare?

«Non vuoi parlarmi?»
«Ti piacerebbe.»

Borbottò lei.
«Stavo scherzando... non l'avrei mai fatto...»
Tossì, schiarendomi la voce. Dovevo riuscire a riacquistare quel poco di fiducia che aveva nei miei confronti.
«S-senti... pomeriggio hai da fare?»
Idea! L'avrei portata in quel posto segreto, sicuramente sarebbe stato in grado di farle passare qualsiasi broncio.
«Ho un po' di commissioni, in effetti.»
«Allora ti accompagno io... poi vorrei farti vedere un posto.»
«Mi stai chiedendo una appuntamento?!»
Sobbalzò lei, col sorriso sulle labbra.
«Ah?! Ma neanche per sogno!»
Sapevo che si sarebbe fatta subito chissà quale strana idea!
«Uhm, peccato. Ci avevo un po' sperato.»
Entrambi lasciammo la nostra comoda posizione, e ci incamminammo fuori dall'abitazione. Chiusa la porta e riposte le chiavi dentro una borsa a tracolla, la ragazza diede uno sguardo veloce all'esterno, notando qualcosa che non quadrava.

«Ma guarda un po', chi è il deficiente che ha posteggiato una moto dentro il mio giardino.»
«Ah... scusami.»
Dissi io, grattandomi il capo. Presi il casco e lo passai alla ragazza, per fortuna mio fratello ne teneva sempre uno di scorsa nel portabagagli dietro.

«Non avevo idea che la sapessi guidare. Anche se in realtà ci sono un sacco di cose che ancora non so di te!»
L'aiutai a salire, dopodiché feci lo stesso anch'io. Misi in moto, mentre lei s'era già apprestata a fissarsi ermeticamente al mio corpo. Non capivo se si stesse semplicemente approfittando della situazione solo per starmi il più vicino possibile, ma quando voltai un poco il viso, potei leggere il terrore nei suoi occhi.
«Invece... ogni cosa nuova che scopro sul tuo conto, non fa altro che sconvolgermi.»

Come potevo farmi sfuggire un'occasione del genere?
«Tieniti forte, si accelera!»
«EH? Cosa?! Stai attento!!»
Più volte durante il tragitto mi aveva urlato di stare attento, di andare pano, di non fare lo spericolato... probabilmente non sarebbe mai più salita su un mezzo di trasporto guidato da me. Passammo gran parte della mattinata in giro, pranzammo pure fuori – tanto ché Gin mi chiese se fosse proprio il fast food il posto in cui volevo portarla -. Non volevo ammetterlo, ma quello sembrava un vero appuntamento. Anche se, per ora, a me interessava semplicemente che Gin sorridesse e fosse felice. Da quando mi aveva incontrato, forse erano stati più i momenti in cui le avevo provocato dispiaceri che quelli in cui le avevo strappato una risata. E dopo ieri, mi ero ripromesso che mai più l'avrei vista piangere, se non appunto dal ridere.
«E anche questa è fatta!»

Tornò tutta soddisfatta, infilandosi il casco in testa. In poco tempo si era già abituata, ormai non era nemmeno più divertente farla spaventare. Mi toglieva subito tutto il divertimento.
«Ma non finiscono mai?!»

Avevamo fatto il giro della città almeno cinque volte.
«Sono stata a casa per una settimana... ho accumulato un po' di cose...»
Rispose lei, dando uno sguardo veloce al cellulare.
«Si è quasi fatta sera, tra poco il sole tramonterà.»
Controllò prima l'orario e poi, alzò il capo verso il cielo.

«Già.»
Risposi semplicemente.
«No, aspetta.»

Come era già così tardi?!
«Ah? Che ti prende?»

Il mio improvviso cambio di umore la lasciò stranita.
«È tardissimo e dovevo portarti in quel posto! Forza, sali e andiamo!»
«Allora non era davvero il fast food!»
«Certo che no, scema!»

Visto che ormai per lei la velocità non era più un problema, riuscii a raggiungere il posto in pochissimo tempo. Tuttavia, per arrivare nel punto preciso, dovevamo percorrere un tratto a piedi.
«Sono stanca, manca ancora molto?»
«Scusami, non potevo arrivare fin qui con la moto. Ma manca poco, te lo giuro!»

A svantaggio della già poca voglia di camminare che aveva la ragazza, il punto si trovava in cima ad una collinetta.
«Ci siamo!»
Nonostante non fosse chissà quanto alta, da lì era possibile vedere tutta la città e, sopratutto, ciò che mi premeva maggiormente mostrarle: il tramonto. Tutti i palazzi si dipingevano dei colori del sole, era davvero uno spettacolo da immortalare. Improvvisamente, sentì qualcosa afferrarmi la manica della giacca. Era la mano di Gin che, tremante, cercava supporto.
«È tutto... ok...?»
Distolsi un attimo lo sguardo dal panorama, e volgendolo alla ragazza, notai stesse piangendo. Non era quello il risultato che volevo ottenere. Cosa avevo combinato questa volta? Mentre la mia testa si riempiva delle più svariate idee che avessero potuto provocare in lei quella reazione, fu la ragazza stessa a rassicurarmi. Fece scivolare la mano via dalla manica, finendo per afferrare la mia con forza. Portò in avanti il viso e sorridendo, mi rispose.

«Sì, va tutto bene!»
Soltanto quando la riaccompagnai a casa, mi spiegò il motivo di quelle lacrime.

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