Eravamo Schiele

di Feynman
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***



Capitolo 1
*** I. ***


 Questa storia partecipa al concorso "V'è piacere nello scrivere" indetto sul forum di efp. Il concorso prendeva spunto dalle opere di Ovidio e io ho scelto di costruire questa storia sull' Ars Amandi. Ovviamente, non credo di esserci riuscita [il concorso era leggermente più complicato e non sto qui a spiegarvelo] comunque, questo è il risultato! Una storia che mi ha consumato i polpastrelli, per quante volte l'ho riscritta e che mi ha offuscaro la vista, per quanto ho pianto. 
Spero possa piacervi; io ho fatto del mio meglio. 

P.S.: per chi volesse leggere il seguito, "Siamo Soutine" potete - ovviamente - trovarlo sul mio profilo! Se avete letto "Siamo Soutine", spero che il prequel non vi deluda. 
Un saluto, 
Feynman





I.
 
 
Gallipoli
 
 
 
 
Il mare era cristallino, quella mattina.
Sua madre aveva obbligato lei e sua sorella a scendere in spiaggia alle sette e trenta, subito dopo la colazione, perché la spiaggia era libera e, per le otto, sarebbe stata già piena e invasa da famiglie con i bambini piccoli che si divertivano a lanciar sabbia come se ne andasse della loro stessa vita.
A Marina piaceva il mare.
O meglio, le piaceva cosa rappresentava: due mesi lontana da suo padre, dalla scuola e dalle finte amicizie di un liceo che non sopportava e che era stata costretta a frequentare; era arrivata al quarto anno di liceo scientifico solo per grazia ricevuta e, a settembre, avrebbe iniziato l’ultimo anno. Il futuro era una di quelle x incognite che non aveva mai capito come trovare.
Il lido della Purità, a due passi dal centro storico di Gallipoli, era la spiaggia preferita di sua madre, quando passava le vacanze estive con lei. Ormai, Marina conosceva Gallipoli come il centro di Roma, con i suoi vicoli che sbucavano in enormi piazze circondate da bar e ristoranti. Odiava vivere con suo padre, ma amava Roma e amava perdercisi tenendo sottobraccio solo il suo album da disegno, invece di passare il pomeriggio su equazioni logaritmiche e teoremi di trigonometria.
«Ti dovrò comprare una scatola di colori, Mar» disse la madre, continuando a prendere il sole con gli occhi chiusi. La ragazza, stesa accanto alla sorella che stava leggendo un libro, alzò il viso dal suo album e guardò la madre. «Che ne dici di una scatola di acquerelli, Mar?».
«Mh, perché no?» rispose Marina, tornando ad alternare il suo sguardo tra una coppia di ragazze sul bagnasciuga e il disegno a matita.
«Sì», iniziò la sorella togliendo il libro dal suo viso, «così papà avrà nuovi buoni motivi per lamentarsi dell’andamento scolastico di Marina. Non dovresti dargli dei motivi per rimproverarla, sai mamma?».
La madre sbuffò, posizionandosi meglio gli occhiali sul naso e continuando a prendere il sole. «Sei una guastafeste, Carlotta» le disse, infine.
«Non è una guastafeste, mamma. Ha solo ragione» disse Marina, sovrappensiero, sfumando le ombre sulle schiene delle due giovani che, nel mentre, completamente ignare, si erano alzate e avevano raggiunto alcuni ragazzi.
Marina le seguì con lo sguardo. Le vide avvicinarsi al gruppo di amici – tutti maschi, neanche una ragazza –, le due non davano impressione di conoscerli e iniziarono a parlare, come se fosse davvero così dannatamente semplice.
Marina si voltò, come pizzicata da una zanzara, e si accorse che la madre guardava nella sua stessa direzione. «Sai, dovresti fare amicizia con i ragazzi della tua età. Sono dieci anni che vieni in vacanza qui e…».
«Loro li conosco, mamma».
«Allora perché non vai a parlarci?».
«Perché…».
«Perché i tempi sono cambiati» la interruppe la sorella, intromettendosi nel discorso, «quelli erano Tommy, Salvo e Carota, fino a cinque anni fa. Adesso sono Tommaso, Salvatore e Cristiano. Degli sconosciuti, praticamente».
Carlotta aveva la capacità di far apparire tutto stupido e superfluo, dopo aver parlato. Era fuori dal mondo, sua sorella. Fuori da ogni tipo di norma sociale o buonsenso civile; Carlotta faceva le cose perché voleva farle e non si chiedeva se fosse giusto farle, se fosse giusto parlare, se fosse giusto pensare con la propria testa o con quella degli altri, della massa, della società.
Carlotta viveva solo per i libri e per i numeri che Marina non riusciva ad afferrare, a capire. La sorella le diceva che era indole, te li dovevi sentire dentro i numeri. Carlotta le diceva che il compito di Marina era capire le persone, intrappolarle tra le sue iridi color nocciola e farle vivere su carta perché era lei che capiva le persone, non Carlotta.
Marina la ringraziò in silenzio, voltandosi a guardarla e donandole uno dei suoi piccoli sorrisi con gli occhi, di quelli che non venivano condivisi con la bocca. Era un linguaggio silenzioso tra lei e sua sorella, quando volevano sfuggire agli interrogativi pressanti del padre, quelli cattivi che ferivano Marina nel profondo perché lei, la facoltà di Medicina, non l’avrebbe mai frequentata.
«Nel pomeriggio c’è la cuccagna al mare» parlò di nuovo la donna, fingendo disinteresse alle figlie. Germana aveva sempre fatto così: proponeva attività, dava opinioni personali ma non guardava mai in viso i suoi interlocutori. Fingeva disinteresse, guardava da un’altra parte; è stato così che lei e il padre di Marina e Carlotta si erano lasciati. Germana, guardando fuori dalla finestra del loro appartamento a Roma, gli aveva detto che le mancava Gallipoli, Antonio le aveva risposto che le vacanze estive erano ancora lontane e Germana, continuando a guardare fuori dalla finestra, gli aveva detto che lei se ne andava, che gli avrebbe lasciato casa, che non avrebbe voluto né la sua carità né la custodia delle figlie. Avrebbe rinunciato a tutto, tranne che alla sua bella Gallipoli.
«Divertente. Una ventina di uomini che si vanno ad arrampicare su un palo pieno di grasso, per cosa poi? Per il tricolore! Capisco che amor patriæ nostra lex, ma fino a un certo punto» rispose Carlotta, calcandosi ancor di più il cappellino da baseball sulla testa e ritirandosi, ancor di più, sotto all’ombrellone.
«Dai, musona! Vi farà bene uscire un po’. E poi, per una sadica come te dovrebbe essere il miglior divertimento».
«Lo sarebbe se, invece di cadere in mare, cadessero sul cemento del porto».
«Marina», disse la donna, tornando all’attacco «tu cosa ne dici di uscire, questo pomeriggio?».
La ragazza, mentre sua sorella e sua madre avevano continuato a parlare, non aveva spostato lo sguardo da Tommaso e gli altri. Avevano giocato assieme per sei anni di seguito, ma quando il suo corpo aveva iniziato a cambiare, le sue spalle si erano aperte, il seno era cresciuto e i suoi fianchi avevano iniziato ad ammorbidirsi e incurvarsi, allora la storia era cambiata. Tommaso non le aveva più chiesto di accompagnarli a caccia di granchi, sotto gli scogli, quando preferiva andar a caccia di ragazze assieme a Salvatore e Cristiano. Ormai avevano tutti la stessa età, non le parlavano quasi più e Marina non avrebbe saputo nemmeno cosa dirgli, per riallacciare i rapporti.
La madre aveva iniziato a parlarle dei festeggiamenti di Santa Cristina, ma Marina annuì silenziosamente e disegnò due lunghe code squamate alle ragazze abbracciate sul bagnasciuga, stracciò il foglio e decise, in silenzio, di correre verso il mare.
«Ehi» la chiamò Carlotta, correndole dietro, «si può sapere che ti prende? Cinque minuti prima disegni e sorridi, un attimo dopo stracci il foglio e corri via». La sorella si piegò tenendo le mani sulle ginocchia: non era fuori forma, ma qualsiasi movimento che prevedesse uno scatto la portava ad avere il fiatone e la bomboletta per l’asma sempre sotto mano. «Non sarà per quello che ha detto mamma, vero? Anche a me non fa impazzire l’idea di uscire ma-».
«No» la interruppe Marina, agitando l’acqua con le dita e portandosi le mani, a coppa, sulle spalle per abituarsi alla temperatura. «Non è per la festa, o per la cosa di “usciamo a fare amicizia”».
«Allora cos’è?» le chiese la sorella, rincorrendo lo sguardo dell’altra.
«Ma niente, in realtà… mi andava solo di farmi un bagno, tutto qui».
«A te non piace l’acqua del mare: ti secca i capelli».
«Sentirmi dire cose stupide tutto il giorno non deve essere piacevole, per una come te».
Carlotta le circondò le spalle con entrambe le braccia, stringendola da dietro, in uno dei suoi rari abbracci avvolgenti. Il padre l’abbracciava così, quando era piccola e aveva avuto un incubo. Adesso le diceva solo che non andava bene.
«Tu non sei stupida, Marina. Sei solo diversa dalle altre persone che conosci, ma questo non vuol dire che tu sia sbagliata» le sussurrò in un orecchio, appoggiando il mento sulla sua spalla destra. Carlotta, a diciassette anni da compiere, aveva raggiunto e superato il metro e settanta di Marina che dopo ogni osservazione sull’altezza della sorella, diceva che Carlotta era nata per guardare lontano.
«Non dovresti dirmi queste cose» bisbigliò Marina, accarezzandole le braccia ancora bianche, nonostante fossero lì da dieci giorni.
«E perché no, scusa?».
«Sono io la sorella grande; si presuppone sia io, a consolare te. Non il contrario».
«Non ti formalizzare sulle cazzate, Marina».
Pensò che dovevano sembrare due stupide, agli occhi degli altri. Due ragazzine bionde abbracciate in mezzo al mare, una che si trattiene dal piangere e l’altra con un sorriso da trattenere sulle labbra. Carlotta era la sorella Sperilli che sarebbe andata lontano, oltre i confini di quel mare, mentre lei sarebbe rimasta a terra.
«Dovremmo uscire veramente, stasera» disse d’un tratto Carlotta, lasciando la stretta su Marina. Sentì il freddo sulla schiena e si ritrovò a pensare che mai, con diciassette anni di vita condivisa, Carlotta le era stata così vicina.
«E dove vorresti andare?».
«A ballare» esclamò l’altra, ignorando il sopracciglio alzato della sorella maggiore. «Ieri, Maria mi ha chiesto se fossi mai scesa in paese, con i suoi amici. Io le ho detto che dovevo pensarci e ho detto che la mamma non m’avrebbe lasciata, se non ci fossi stata anche tu».
«La mamma? Sarebbe capace di buttarti fuori di casa!».
«Sì, ma Maria mi lascia perdere e ieri sera non mi andava» le disse, distogliendo lo sguardo e riportandolo sulla striscia di spiaggia dove la madre stava amabilmente chiacchierando con un uomo che avrà avuto sessant’anni e tre matrimoni alle spalle. «Allora?».
«Va bene, va bene!» rispose Marina, alzando le braccia, «stasera si esce, per somma gioia di nostra madre…».
«Ottimo!». Carlotta batté le mani fra loro e l’abbracciò, di nuovo; stavolta fu meno costrittivo e meno intimo. «Tu fatti il bagno, io vado a soccorrere la mamma».
«Sarebbe capace di dire che fosse anche un bell’uomo. È in astinenza da troppo tempo, quella donna».
Carlotta sorrise, girò la visiera del cappello da baseball e raggiunse la madre in spiaggia. Marina la vide fulminare il vecchio con lo sguardo e lo costrinse a lasciarle in pace. Borbottò qualcosa, toccando le falde del cappello di paglia e si diede una mossa a fuggire via, ignorando persino la sabbia bollente.
Marina si spinse un po’ più a largo, giusto dove fosse sicura di non toccare, e si immerse cercando di non chiudere gli occhi, per godersi il fondale pulito e sabbioso.
 
 
 
 
 
La casa della madre di Marina e Carlotta, si trovava a Gallipoli vecchia in una traversa di via De Pace Antonietta. Il borgo aveva mantenuto, nel tempo, la tipica organizzazione di una città greca, come lo era Gallipoli ai tempi.
Sarebbero stati gli amici di Maria ad accompagnare le ragazze sul lungomare Galilei, dato che avrebbero dovuto attraversare il ponte che collegava la città vecchia alla città nuova e se fossero volute arrivare prima dell’indomani mattina, si sarebbero dovute far accompagnare. Gli amici di Maria, la figlia dei vicini di casa della madre di Carlotta e Marina, erano i tipici vacanzieri di fuori Gallipoli che, ogni anno, a luglio, sembravano non aver mai visto il mare e qualche coscia scoperta dal bikini. Avevano tutti dai diciotto anni in su ed erano tutti talmente fissati con cose incomprensibili come i videogiochi, l’informatica e i giochi di ruolo che con poca probabilità sarebbero riusciti a concludere, anche quella sera.
Maria aveva detto a Carlotta che la obbligavano ad uscire ogni sera, per presentare loro tutte le sue amiche – quasi tutte ancora liceali – per avere qualche storia da raccontare una volta tornati fra la nebbia, a soffrire il freddo e la depressione.
Marina si era chiesta tante di quelle volte perché Maria uscisse ancora con loro, quando venivano d’estate che, molto presto, aveva rinunciato a trovare una risposta. O meglio, una risposta l’aveva trovata ma quando aveva raccolto il coraggio per parlarne con Maria, lei si era talmente arrabbiata che Marina aveva preferito lasciar stare e parlare d’altro.
Erano le nove e mezza e Carlotta stazionava ancora davanti all’armadio che condivideva con la sorella, per trovare qualcosa da indossare. Marina aveva optato per una gonna a pieghe, non troppo corta, e una camicetta senza maniche azzurra, solo per non far notare quanto poco le andasse di uscire. In compenso, si era legata i capelli bagnati con un matita e stava lasciando che si asciugassero e arricciassero quanto volessero.
«Lot, ne stai facendo una questione di stato. È solo un’uscita».
La sorella si voltò, la guardò in cagnesco per un paio di minuti e poi portò nuovamente l’attenzione all’armadio. Marina ruotò gli occhi: «Ti concedo ancora due minuti, Carlotta. Se ancora non avrai trovato nulla, ti vesto io e non ti piacerebbe».
La ragazza si morse il labbro inferiore, infilò la mano nell’armadio e tirò fuori un paio di pantaloncini di jeans – una volta era stato un paio di jeans a vita alta ma Marina glieli aveva tagliati, rendendoli più giovanili – e mostrandoli alla sorella: «Che ne dici?».
«Con la canotta gialla?».
Carlotta annuì. «Non mi va di vestirmi di nero, almeno quando è estate».
«Fa’ in fretta, però» le disse Marina, uscendo dalla camera da letto e andandosi a sedere sulle scale in pietra fuori dalla porta della casa. La madre non aveva cenato con loro: era uscita con le ragazze del circolo e poi avrebbero trascorso la serata in uno dei piccoli bar a picco sulla costa di Gallipoli vecchia. Le sue compagne di classe, a Roma, le invidiavano tutte la madre: Germana era una donna ancora bellissima nonostante avesse raggiunto i cinquantatré anni. I suoi lunghi capelli biondi, tendenti al bianco perlaceo, il fisico ancora tonico e per niente provato dalle due gravidanze, faceva sì che risultasse una donna estremamente piacente. Inoltre, era una grande estimatrice d’ogni tipo d’arte ma, nonostante questo, non aveva avuto libertà di opinione quando Marina aveva detto di voler frequentare il liceo artistico e il padre glielo aveva proibito.
«Ciao Marina!».
Maria proveniva dall’inizio della strada, solo un paio di case più su. Per Carlotta era iniziata come la semplice “amicizia da vacanza” anche se si sentivano più spesso di quanto la sorella fosse mai pronta ad ammettere. Si mandavano un regalo, anche stupido, per ogni tipo di festa e quando Marina e Carlotta scendevano per quei due mesi, Maria era sempre con loro e sempre pronta per far casino.
«Carlotta è ancora a-».
«Andiamo, forza! O faremo tardi!» esclamò Carlotta, uscendo fuori e correndo ad abbracciare Maria, come se non si fossero lasciate due ore prima. Marina alzò gli occhi al cielo, che iniziava a rabbuiarsi, prese le chiavi dalla tasca della gonna e chiuse il portone blu. Si accodò, in silenzio, alle due ragazze che continuavano a chiacchierare. Quando vide, però, Maria prendere la strada che portava verso il lido della Purità e non l’altro lato di via De Pace, le fermò: «Ehi, non dovremmo andare dall’altra parte?».
Maria, continuando a camminare tenendo sottobraccio Carlotta, si volse indietro: «Cambio di programma! C’è una festa, sulla spiaggia. Lot non te l’ha detto?» aggiunse, alzando un sopracciglio in direzione dell’amica. Carlotta, per risposta, fece spallucce e chiese a Maria di proseguire con il discorso.
Marina, ormai, aveva perso la speranza con la sorella: pensava, veramente, che avrebbero trascorso la serata, con un gelato in mano, e tranquillamente a passeggio per lungomare Galilei? Insomma, aveva quasi diciotto anni e cadeva ancora in tranelli così infantili…
«Non fare quella faccia, Mar!» le disse Carlotta, ridendo «partecipare a una festa ogni dieci anni ti fa bene!».
Marina sbuffò, sciogliendosi i capelli ancora umidi e agitandoli, esasperata. «Cosa ci andiamo a fare, ad una festa, se nessuna di noi può bere?».
«Il trucco è quello sorellina: farsi offrire da bere e-».
«E nel caso ci sono sempre Mirko e gli altri» finì Maria, completando la frase di Carlotta e facendola ridere.
Iniziano a completarsi perfino le frasi, ‘ste due, pensò distrattamente Marina, cercando di aumentare il passo per raggiungerle. Non era mai stata un’amante delle feste sulla spiaggia, doveva ammetterlo, e non sapeva nemmeno come diavolo avrebbe fatto a farsi offrire anche solo una birra. Con molta probabilità, si disse, non avrebbero controllato troppo e poi… mancava poco ai suoi diciotto anni. Così poco, che se ne erano dimenticati tutti.
 
La festa sulla spiaggia è un cliché, lo è sempre stato.
C’è il gruppetto con la chitarra attorno a un falò che sarà semplice da spegnere se arriveranno i vigili, quelli con la birra in mano che chiacchierano e scherzano, quelli che stanno progettando di farsi un bagno completamente nudi quando ci sarà meno gente, quelli che ridono, quelli che non sarebbero voluti andare, quelli che si stanno pentendo e, alla fine, ci sono quelli che ballano.
Sono sempre tanti, quelli che ballano. Invadono lo spazio antistante il bancone del bar, per dissetarsi in fretta dopo essersi agitati per quaranta minuti, amano stare in silenzio perché, anche se ballano, sono solitari tanto quanto quelli che si stanno pentendo seduti sul bagnasciuga, facendosi carezzare i piedi dalle onde. Quelli che ballano, raramente cantano le canzoni che li accompagnano: non sanno le parole perché, la loro musica, non ne ha. Quelli che ballano sono i più tristi, anche se pensi che si stiano divertendo: vogliono solo ballare, spegnere il cervello e dimenticare tutto quello che non va nella vita che gli è capitata.
Le ragazze ballano in gruppo, per farsi invidiare i sorrisi smaglianti e i vestiti svolazzanti; i ragazzi fanno finta di impegnarsi e, intanto, cercano la nuova fortunata della notte senza chiedersi se, l’altra, la fortunata, lo voglia davvero e le faccia piacere.
Poi, c’è la ragazza che balla da sola perché ha deciso di smettere di pentirsi della decisione di scendere in spiaggia, ha lasciato che i suoi amici continuassero a lamentarsi e si è infilata senza paura, con una birra in mano e troppa voglia di non sapere cosa sta facendo, tra i corpi pressati. Quella ragazza – la ragazza che balla da sola, quella che ha in progetto di bere talmente tanto da dimenticare il suo nome e di vomitare anche l’anima, sulla strada verso casa – ha i capelli dello stesso colore della brace del falò e guizzano, quando salta e muove il bacino, come la fiamma delle fiaccole.
Marina la guarda, poco lontano, e invidia il suo volto rilassato, le labbra arricciate appena in un sorriso e le palpebre abbassate. La birra non esce dalla bottiglia, anche se la ragazza continua a ballare e ad agitarsi. Il dj ha messo su una di quelle canzoni prive di senso compiuto, di quelle che servono solo per acuire il senso di alienamento, mentre si balla. La musica è alta e Marina non riesce quasi a sentire i suoi stessi pensieri, anche mentre prende la matita fra i capelli e inizia ad alternare lo sguardo fra la ragazza che balla e il tovagliolo con cui teneva il cono gelato. È solo una silhouette disegnata con movimenti veloci, ci sono solo i capelli, la curva della schiena e i fianchi tondi. C’è solo quella mezzora di osservazione quasi adorante, quegli sguardi che tutti hanno ignorato perché erano rivolti a qualcuno che a loro non interessava. A qualcuno che non rientrava nei canoni di bellezza.
«Marina!».
La voce della sorella la riporta al presente, alla musica assordante e alle chiacchiere che aveva isolato in un parte del cervello.
«Cosa?» chiese, quasi esasperata.
«Mi avevi promesso che non ti saresti isolata, ecco che c’è».
Marina guardò la sorella. Aveva le gote arrossate e gli occhi lucidi perché aveva bevuto troppo – Mirko avrebbe dovuto darci un taglio – e non sembrava veramente arrabbiata. Subito dopo, infatti, un leggero sorriso le increspò le labbra che diverse in una risata aperta, da ubriaca. Sentì le sue sopracciglia arcuarsi e le labbra stringersi in una linea sottile e severa.
«Non fare quella faccia, Marina» le disse Carlotta, dandole una pacca sulla spalla sinistra. «Sembri papà».
Rimase in silenzio, si alzò e lasciò Carlotta alla spiacevole compagnia di Maria e dei suoi altri amici ubriachi. Facessero ciò che più faceva loro comodo, a lei non interessava. Carlotta aveva le chiavi di casa e se pensava di essere abbastanza coraggiosa da rientrare alle cinque della mattina, facesse pure.
Marina si vide costretta a fiancheggiare la pista da ballo sulla sabbia, per avvicinarsi al bar e prendersi da bere – aveva appena rimproverato la sorella, silenziosamente, perché stava esagerando con i drink e lei, per dimenticare se ne stava per prendere uno –, riuscì a guardare la pista senza inciampare sulla sabbia o sulle coppie distese e intente a baciarsi. C’era solo lei che, da vicino, aveva i capelli di una particolare sfumatura di marrone, le labbra piene e le spalle ampie. Lei che non era per niente alta e nemmeno bellissima. Era solo bella, a modo suo.
«Cosa ti do?» le chiese il barista – un tipo molto carino, che l’aveva già adocchiata – distogliendola da quell’analisi ingombrante.
«Baileys, senza ghiaccio» rispose lei, sicura. Lui alzò appena un sopracciglio e Marina fece in modo di risultare il meno patetica possibile, non distogliendo lo sguardo. Le protagoniste dei libri ordinavano sempre un Baileys senza ghiaccio, per darsi un tono e per risultare più dure di quanto non fossero veramente. Il ghiaccio avrebbe solo annacquato la bevanda e loro non potevano permetterselo.
«Ecco il tuo Baileys».
Prese il bicchiere e bevve tutto d’un sorso, come una boccata d’aria. Sentì quel 17% di alcol salirle fino al cervello, aprirle le via respiratorie e allargarle le pupille; ecco cosa voleva dire non essere abituate all’alcol e riuscire a ubriacarsi con un solo drink. Marina riuscì a sentirsi patetica ma il Baileys le permise di non pensarci troppo e di inghiottire anche quelle stille di panico e di autocommiserazione che le si erano installate in fondo allo stomaco.
Si voltò, lasciando il bicchiere sul bancone e il suo sguardo venne di nuovo calamitato dalla sconosciuta che ballava l’ennesima canzone. La ragazza prese un sorso di quella birra, sicuramente diventata una brodaglia senza schiuma e calda, aprì gli occhi e sorrise a un’altra ragazza che ballava, davanti a lei, sulla pista. Le strinse i fianchi con entrambe le braccia e se la portò più vicina, facendo cozzare i loro bacini e iniziando a ballarle contro, respirandone l’odore nell’incavo del collo.
Marina si ritrovò ad annaspare senza un motivo apparente. Sentiva lo stomaco in fiamme e diede la colpa all’alcol. Sentì gli occhi umidi e diede la colpa al vento serale che aveva alzato la sabbia. Sentì la rabbia montarle nello stomaco e non seppe più a chi dare la colpa. Abbassò lo sguardo e vide le dita strette rabbiosamente attorno al bordo della gonna, come a volerla strappar via, con un gesto. Era solo una ragazza sconosciuta, con una birra in mano, che stava ballando con un’altra. Le stava sfiorando la schiena, le stava sussurrando qualcosa di divertente all’orecchio perché l’altra le gettò le braccia al collo e le posò un leggero bacio, dietro all’orecchio sinistro.
 
Le gambe si mossero da sole.
Le braccia si staccarono dal sostegno del bancone.
I piedi, nudi, accarezzarono la sabbia fredda.
Le orecchie sentirono il frastuono crescere.
Il suo cervello sostituì quella patetica canzone di Guetta o chissà chi altro, con la Danse Macabre.
I suoi occhi videro la figura della ragazza farsi sempre più vicina. Aveva un neo sul lato sinistro della bocca, i capelli le sfioravano la base della schiena dove si intravedeva un frammento di un qualche tatuaggio.
Da vicino, era ancora più bella.
La fronte appena imperlata di sudore e i capelli, quelli più corti sul collo, attaccati dal sudore.
Marina, adesso, poteva sentirne l’odore. Una fragranza salina mista a menta e fumo, un drink alcolico che nessuno avrebbe potuto assaporare senza ritrovarsi irrimediabilmente ubriaco dopo un solo sorso. Era come l’acido cloridrico che la professoressa di chimica le aveva fatto usare, quell’unico giorno di laboratorio in quattro anni di frequenza. Era pungente, bruciante e dannatamente pericoloso: se lo sentiva nelle ossa che, se avesse tentato un approccio, non ne sarebbe uscita viva.
Dapprima, Marina rimase abbastanza lontana dalla ragazza sconosciuta, pur rimanendole abbastanza vicina da poterne sentire l’odore. Dopotutto stavano ballando tutti quanti e se le fosse finita, casualmente, contro non si sarebbe posta molte domande. Iniziò a ballare, quindi, dicendosi che avrebbe dovuto interrompere la riproduzione della Danse e focalizzarsi sulla musica della spiaggia.
Il dj aveva diffuso un irritante remix di “Call me” di Blondie quando l’altra ragazza, voltandosi verso Marina, decise di lasciar da parte l’amica e prestare attenzione a lei.
Marina avvertì il calore salirle fin sulle guance ma si incoraggiò a continuare a ballare, ignorando la ragazza che le si era fatta sempre più vicina. Aveva dato la bottiglia di birra all’amica, prima di prenderne un ennesimo sorso, e si era avvicinata a lei, continuando a ballare, e guardandola in viso. Sorrideva, la ragazza, e quando arrivò ad un passo da Marina le chiese, avvicinandosi al suo orecchio: «Posso?». 

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Capitolo 2
*** II. ***


Note d'autrice:
Ed eccomi, di ritorno, con il secondo capitolo di "Eravamo Schiele". 
Spero possa piacervi! 
Alla prossima, 
Feynman
 


II.
 
 
«Posso?».
Si muoveva sinuosa, con le mani fra i capelli e ondeggiando i fianchi.
Era sale, menta e fumo.
Era birra, brace e sesso.
La sua pelle era calda, il suo respiro era vita, i suoi occhi erano perdizione.
Non attese un cenno, le si gettò contro comunque, iniziò a ballarle contro ma si astenne dal toccarla. Le sue dita percorrevano la linea della spina dorsale rimanendo a distanza eppure se la sentiva ovunque: sopra, sotto, intorno, dentro.
«Posso?».
Ovvio che poteva, ma non glielo aveva detto.
C’era la sua lingua che le percorreva la linea del collo, il suo respiro che si infrangeva contro la sua pelle e la bocca che iniziò a concentrarsi sul lobo dell’orecchio, in un percorso di fiamme e calore bruciante. Asfissiante.
«Posso?».
«…».
NO!
 
Si era svegliata in un bagno di sudore.
Dalla finestra aperta, arrivava una leggera brezza fresca che proveniva direttamente dal mare, che si infiltrava fra le viuzze di Gallipoli vecchia e correva via, disperdendosi al ponte. Si alzò di scatto dal letto con le lenzuola zuppe, provando a non fare troppo rumore per non svegliare Carlotta e Maria che, al letto affianco al suo, dormivano abbracciate e ancora vestite.
I ricordi della notte precedente l’avevano accompagnata anche nel mondo onirico. Sembravano solo più realistici: c’erano tutti gli odori della notte, le luci delle fiaccole e il calore del corpo dell’altra ragazza, così vicino al suo. Sentì immediatamente il suo cuore prendere a battere forsennato, come se dovesse sopportare una corsa lunga chilometri. Il suo respiro si fece sempre più rumoroso e l’ultima immagine, quella di lei che fuggiva dall’odore di fumo dell’altra, dai suoi capelli color brace e gli occhi scintillanti, la convinsero ad uscire dalla stanza che si era fatta tremendamente calda.
La porta di casa era aperta.
La leggera luce di un mattino imminente la investì e, vedendo sua madre seduta sulle scale bianche con una tazza fumante in mano e avvolta in un leggero scialle, decise di avvicinarvisi, sedendosi accanto a lei.
«Chi è rientrata prima?».
«Io».
«Perché hai lasciato tua sorella da sola?» le chiese, guardando dritta davanti a lei, verso la congiunzione con via De Pace. La madre aveva parlato piano, quasi temendo che l’altra figlia potesse sentirla.
«È grande abbastanza per-».
«Non c’entra. E se le fosse successo qualcosa?».
E se fosse successo qualcosa a me, una volta tanto?
La donna sbuffò. «Io mi preoccupo per voi, anche se vostro padre sostiene il contrario».
«Non… non dovresti dar retta a quello che dice papà».
«Questo pomeriggio verranno una mia amica e sua figlia. Vorrei che tu e Carlotta rimaneste, per conoscerle» le disse, voltandosi a guardarla.
«Non sono io che ho l’ossessione per il mare».
Germana rimase in silenzio, guardando di sottecchi la figlia. Riprese a sorseggiare il caffè e guardava, distrattamente, le persone passeggiare sulla strada e riflettendo su quello che le aveva detto Marina. Era in momenti come quello che Germana si rimproverava e si diceva che se fosse rimasta vicina alle figlie, forse Marina non sarebbe cresciuta così consapevole e che le avrebbe risparmiato tutta quell’empatia nei confronti degli altri. Le carezzò i lunghi capelli biondi e la guardò negli occhi, che aveva ereditato da lei e si accorse solo in quel momento, Germana, di quanto la figlia le assomigliasse e di quanto si rimproverasse, per questo.
«Prenditi un po’ di caffè, Marina. E tra un’ora sveglia tua sorella».
Marina aveva sostenuto lo sguardo della madre, affondando negli occhi che erano come i suoi, annuì e si alzò dalle scale bianche di pietra e rientrò in casa.
 
 
Un paio d’ore dopo, sua madre l’aveva costretta a svegliare Carlotta e Maria che, per tutta risposta, le lanciarono contro un paio di cuscini e qualche oggetto non meglio identificato. Rientrare alle cinque della mattina, sbronze, puzzolenti e bagnate non era il massimo per nessuno. Carlotta aveva passato una buona mezzora sulla tazza del water per espellere tutto quello che aveva ingurgitato la sera precedente e si era dovuta far raccontare gran parte della serata, si era subita una ramanzina da parte di sua madre e una sessione di schizzi veloci e inconsapevoli da parte di sua sorella.
«Manca gran parte della serata, Mar!» le fece notare, con tono lamentoso.
«Sono andata via presto e-».
«Mi hai lasciata da sola?!» gridò la sorella, improvvisamente, brandendo un bicchiere di cristallo come una spada. «Ero ubriaca, Marina! Come hai potuto?».
La sorella strabuzzò gli occhi, posizionando le posate ai lati del piatto di porcellana. «Ho fatto come qualsiasi altra persona: non mi sono ubriacata! È stata la prima cosa che ti ho insegnato, quando ti ho portata fuori per la tua prima bevuta, Lot! Prima regola: mangiare abbastanza» le disse, girando attorno al tavolo e affiancandola. Le tolse i bicchieri dalle mani e li appoggiò sul tavolo. «Il cibo ti permette di assorbire parte dell’alcol ed è importante anche vomitare, per non sentirsi troppo male il mattino dopo».
Carlotta la guardò brevemente poi abbassò lo sguardo, appoggiando le mani sul tavolo e stringendo la stoffa della tovaglia tra le dita. «Perché te ne sei andata?».
«Non… non mi piaceva la gente che c’era».
«Non era una buona scusa per lasciarmi sola».
«Ti stavi divertendo e non volevo rovinarti la serata».
Carlotta la guardò di sottecchi e alzò un sopracciglio come a dirle “non mi freghi, ragazza” e Marina si ritrovò a sospirare, riprendendo ad apparecchiare la tavola per il pranzo: aspettavano ospiti e la madre voleva far bella figura con la “sua cara amica di Firenze che è venuta a Gallipoli solo per me” e tante altre cazzate che Marina non aveva registrato per non sovraccaricare il cervello. Il succo del discorso era stato “mettetevi un bel vestito e non mi fate fare una figura di merda, con i vostri vestiti da barbone”; Carlotta aveva borbottato qualcosa, con la testa ancora infilata nel water e Marina non aveva aperto bocca, iniziando a contare le ore che la separavano dalla fine della giornata.
«Qualcuno ti ha dato fastidio, Mar?» le chiese, aggirando a sua volta il tavolo e distogliendola dall’importante compito del posizionare le posate.
«No, Lot. Non mi ha dato fastidio nessuno» le rispose Marina guardandola negli occhi. Leggeva la poca convinzione nello sguardo della sorella ma non poteva farci niente: già aveva le sue domande esistenziali alle quali pensare.
Marina era fidanzata.
Era fidanzata con Gianpaolo.
Di base, Gianpaolo Moreschi era una testa di cazzo, un figlio di papà e un pariolino. Lo aveva pensato lei stessa, la prima volta che lo aveva visto con i suoi capelli pettinati all’indietro, le Clark ai piedi e la camicia ben stirata mentre, dall’altro lato della classe, le sorrideva e ammiccava. Mettersi assieme, a metà anno, prima dei pagellini di aprile, era stato talmente naturale da essere anche noioso al solo ripensarci.
Gianpaolo Moreschi piaceva a suo padre.
Gianpaolo Moreschi era il ragazzo normale, quello con cui mettere su famiglia e sfornare tanti bambini.
Gianpaolo Moreschi era uguale a suo padre e Marina Sperilli si sentiva sempre più come Germana Forleni, quando era in sua compagnia.
Per Gianpaolo, l’arte era inutile, i libri una perdita di tempo, la cultura un mero specchietto per le allodole. A Gianpaolo non piaceva che Marina disegnasse e passasse il tempo con la testa fra le nuvole a scarabocchiare il libro di matematica.
Gianpaolo era cieco.
Gianpaolo era normale.
Niente capelli di brace. Niente occhi scintillanti. Niente odore di sale, menta e fumo. Niente fianchi morbidi e ondeggianti. Niente voce flautata e graffiante. Niente pelle calda.
Gianpaolo era un ragazzo.
Lei era… una lei.
Marina non era… lesbica.
 
«…oro? Tesoro? Marina!».
«Eh? Scusa, mamma. Volevi qualcosa?».
«Hanno suonato alla porta, potresti andare ad aprire? Devono essere Margherita e Serena».
Marina annuì, finì di sistemare le posate e diede una leggera stirata, con le mani, alla gonna dell’abito. Aveva racchiuso i capelli in una grossa treccia bionda che le arrivava fino al seno e aveva fermato il resto dei capelli con un paio di forcine. Sua madre l’aveva voluta perfetta per quell’occasione e lei l’aveva accontentata come ogni buona figlia.
Si diresse con passo sicuro alla porta di casa, sfoggiò il suo miglior sorriso e aprì la porta.
«Oh! Tu devi essere Marina, giusto?».
«Sì, signora! È un piacere conoscerla. Vi stavamo aspettando… se vuole accomodarsi, intanto».
«Oh cara, non c’è bisogno di tanto formalismo, sai? Io e tua…».
Il resto del discorso si disperse.
Marina vide un paio di occhi scintillanti e grigi come la cenere.
Una cascata di capelli ribelli e dello stesso colore della brace bruciante.
Indossava una maglietta a maniche corte e un paio di pantaloncini di jeans che mettevano in mostra le cosce tornite e i polpacci scattanti.
Era bella, pur non essendolo.
Marina sentì il fiato mancarle, la gola bruciarle e lo stomaco dolerle.
La ragazza le sorrise, scoprì i denti e le disse: «Posso?».
Marina deglutì e lasciò che entrasse in casa.
La ragazza, Serena, le sorrise nuovamente quando le passò accanto, sfiorandole la gonna del vestito. Le labbra, aprendosi, misero in mostra i canini appuntiti e bianchi e il neo si distese. La sua pelle non sapeva più di sale. Aveva un forte sentore di menta, limone e sempre quel retrogusto bruciato, come se avesse spento una sigaretta nel momento in cui stava aprendo la porta e l’aveva buttata per non farsi vedere.
Il tuo cervello corre troppo, Marina.
La madre aveva già accolto la sua amica all’interno della casa, Carlotta si era presentata con un leggero cenno della mano e Germana aveva presentato lei, per ultima: la figlia artista, quella che disegnava, come lei, quella che non aveva niente a che fare con i numeri, al contrario della sorella che era un genio nelle materie scientifiche e che… oddio, la quiche si brucia!
Marina aveva sorriso ed era rimasta appoggiata allo stipite della porta del soggiorno. Serena era esattamente dall’altro lato, contro l’infisso della finestra che dava sulla strada, e la stava guardando. O meglio, la stava studiando. Marina, in un attimo di semi-incoscienza, pensò che Serena avesse gli occhi più belli che avesse mai visto: luminosi, grigi come la cenere che tendevano al nero, verso la pupilla che si era mangiata l’intera iride, quasi. Aveva smesso di sorridere e di mostrare i canini da predatore. Adesso la stava studiando da lontano, la stava misurando.
Germana fece il suo ingresso nel soggiorno, portando il vassoio con la quiche e tutte presero posto. Serena aspettò che Marina si sedesse e prese posto davanti a lei, accanto a Carlotta, prese il tovagliolo di lino e se lo pose sulle gambe, rimanendo in silenzio e facendo finta di ascoltare Germana e Margherita che ciarlavano sugli affari del circolo. Marina non vide nemmeno sua sorella lanciarle un paio di occhiate, prima di iniziare a mangiare.
«Marina, tua madre mi ha detto che ti piace molto disegnare» iniziò Margherita, rivolgendole l’attenzione. Vide Serena, davanti a lei, con la coda dell’occhio, farsi più attenta e addentare il pezzo di quiche che la madre le aveva servito.
«Sì, è una delle mie passioni».
«Marina è molto umile e-».
«Gli artisti non lo sono mai» disse Serena, piantando i suoi occhi color cenere in quelli nocciola di Marina. Si sentì esposta. Si sentì come se la sua anima, la sua parte più nascosta, fosse stata messa sotto una lampada da dentista. L’altra ragazza stringeva fra le mani un bisturi e Marina vedeva solo un sorriso deturparle il viso e assottigliarle le labbra in modo innaturale. «Non potrebbe passare neanche per timidezza. Gli artisti non sono nessuna delle due cose. L’umiltà non fa parte degli artisti e la timidezza, poi, gli è solo d’impiccio».
«Scusala, Marina. La mia Serena ha il vizio di parlare senza pensarci troppo».
«Ha ragione, invece» s’intromise Carlotta, poggiando la forchetta sul lato del piatto. «Marina non è umile per niente. Dovreste sentirla quando un disegno le riesce particolarmente bene e come si difende davanti a nostro padre… no, Marina non è né umile né, tantomeno, timida».
Serena sorrise e girò la testa verso Marina, tornando a guardarla. «Dipingi?».
Marina bevve un generoso sorso d’acqua: «Non molto. Dipingere mi porterebbe via molto tempo che devo dedicare allo studio».
«Quanti anni hai?» le chiese.
Marina rispose: «Diciassette» e vide l’altra rabbuiarsi brevemente e si sbrigò ad aggiungere: «Tra non molto ne farò diciotto».
«Sei giovanissima» sussurrò, quasi. «Ma non devi perdere tempo. Hai intenzione di frequentare un istituto d’arte?».
«Io… non credo che mio padre me lo permetterebbe».
«’Fanculo tuo padre» le disse, quando vide che Marina aveva abbassato la testa verso il bordo del tavolo e la rialzò all’istante, quando sentì le parole di Serena. «Te ne devi fottere di tuo padre. Se ti ritieni un’artista, arrabbiati e fatti sentire».
Marina spalancò gli occhi. Serena le aveva preso la mano che teneva sulla tavola e aveva intrecciato le sue dita a quelle di Marina. La pelle di Serena era più scura della sua, caramellata e la sua mano era calda. Soffocante.
Marina riuscì a dimenticarsi degli altri che erano nel soggiorno. Della fame. Delle domande. Delle paranoie. Possibile che si fosse innamorata di una ragazza? Possibile che le bastassero, davvero, le parole giuste per sentire il cuore allargarsi e la pelle delle braccia riempirsi di piacevoli brividi?
Cazzate, Marina.
Ritrasse la mano velocemente e si sforzò di ignorare il freddo improvviso che sentiva sui polpastrelli. Avrebbe voluto toccarla di nuovo: il suo corpo lo esigeva, lo sentiva. Era una morsa all’altezza del petto. Era il sudore gelido sulla nuca. Era l’assenza della saliva all’interno della bocca. Era quel fastidioso calore al livello del suo inguine e un desiderio estraneo che, con Gianpaolo, non aveva mai sperimentato.
«Serena, non sei qui per dare lezioni di vita» la rimproverò Margherita. Marina sentì un leggero movimento sotto il tavolo come se la donna, seduta accanto a lei, avesse allungato il piede e avesse dato un calcio alla figlia ma Serena non diede impressione di aver sentito qualcosa.
Marina le sorrise, come se si sentisse in dovere di ringraziarla e cercò di dimenticare le sue parole. Sapeva che avrebbe dovuto arrabbiarsi e fare quello che desiderava ma erano già troppi le cose che suo padre le rimproverava e gettare carne sul fuoco non sarebbe stato il massimo, né per lei né per Carlotta che doveva sopportare le sue continue lamentele.
Il resto del pranzo si svolse tranquillamente.
Marina sparecchiò la tavola, Carlotta portò la frutta, sua madre e Margherita andarono in cucina per preparare il caffè per tutte e Serena uscì di fuori. Marina la vide sedersi sulle scale bianche, con la schiena appoggiata all’intonaco, si stava accendendo una sigaretta e si stava godendo, con gli occhi chiusi, la piacevole brezza che veniva dal mare e stemperava il caldo del primo pomeriggio. Marina rimase ad osservarla, mezza nascosta dallo stipite finché l’altra, ancora con gli occhi chiusi le disse: «Non mordo mica, sai?».
Marina sussultò. Era sicura che Serena non l’avesse vista, almeno non subito, ma il suo respiro accelerato doveva essere più rumoroso del previsto.
«Vieni a sederti» la invitò Serena, battendo sulle scale polverose. Marina uscì e si sedette, accanto all’altra, stando attenta alla gonna.
«Scusa se prima sono stata… indiscreta».
Abbassò lo sguardo, Marina, e si scostò una ciocca di capelli dal viso portandola dietro l’orecchio. «No, tranquilla. So che dovrei… fottermene, come dici tu».
«Mi dà fastidio quando, ragazze giovani come te, sprecano il talento che hanno».
«Non sai se ce l’ho davvero. Non hai visto nessuno dei miei disegni…».
Serena si voltò e Marina sentì le sue guance avvampare. I tratti del viso dell’altra erano irregolari: aveva il naso un po’ all’insù, la bocca ben disegnata e dalle labbra carnose, un neo e gli occhi non troppo vicini fra loro. Era una miscela di dettagli discordanti che, insieme, creavano l’armonia sul viso della ragazza. Le sopracciglia spesse le davano l’aria di una bambina seria, perennemente corrucciata così come il mento che era un po’ sporgente.
«L’artista è un creatore di cose bellissime» sussurrò, Serena, accostandosi al suo orecchio e prendendole in mano una ciocca bionda. Marina la vide, con la coda dell’occhio, passarsela fra le dita e iniziare a giocarci, attorcigliandola e srotolandola. Alla fine, se la portò al naso e le sorrise, famelica.
«Mi ricordo di te, sai?» le disse, avvicinandosi con il resto del corpo e facendo sfiorare le loro spalle. «Mi sono chiesta se, davvero, fosse stato solo ieri sera. Perché te ne sei andata?».
Marina deglutì a secco: non aveva saliva e aveva iniziato a respirare a bocca aperta, per inghiottire più aria possibile: «Mi… mi dispiace…».
Serena rise e lasciò andare la ciocca. «Non devi dispiacerti. Insomma, anche se sei stata tu, ad approcciarmi per prima».
Si portò le ginocchia al petto, stando attenta che la gonna non le lasciasse le cosce scoperte; fortunatamente aveva optato per un vestito che non aveva la gonna eccessivamente corta, ma avrebbe preferito indossare un paio di pantaloni, in quel momento… come poteva pensare all’abbigliamento, quando Serena stava continuando a parlarle di qualcosa? Sentiva la sua spalla premere contro la pelle dell’altra, così calda e asfissiante eppure piacevole, in un certo modo. Serena, di profilo, era ancora più particolare: la punta del naso tendeva verso l’alto e il profilo dello zigomo era ben disegnato. Le ciglia non erano lunghe, ma erano folte e tendevano al rosso, nonostante la ragazza avesse i capelli quasi castani.
«Ti stai godendo lo spettacolo?» le chiese Serena, continuando a guardare davanti a sé, spegnendo la sigaretta sul gradino.
Marina, colta sul fatto, arrossì leggermente e si grattò la nuca lasciata scoperta. «Hai… hai solo un profilo molto particolare».
«Hai intenzione di farmi un disegno, Marina?».
La voce di Serena era bassa, sensuale e Marina ci sentì dentro così tanti sottintesi da chiedersi se non fosse malata, sbagliata, impazzita. Serena era una di quelle ragazze che potevano anche solo star bevendo un bicchiere d’acqua, sbucciando una mela o comprando della carne e sprigionavano la loro carica sessuale con naturalezza e sfacciataggine. Marina si sentì accaldata, a un certo punto: aveva le mani sudate e lo stomaco le doleva, come se fosse in attesa di qualcosa.
«Sere», la voce della madre di Serena fece sobbalzare Marina che, come se si fosse bruciata, si scostò velocemente dalla pelle dell’altra. «Serena, io e Germana dobbiamo andare al circolo».
Serena si alzò dal gradino e si pulì i pantaloni, guardò verso Marina e la scavalcò, per scendere l’altro gradino e finire in strada. «Vengo con voi. Francesca mi ha chiesto di uscire e non le ho potuto dire di no».
«Non vi eravate lasciate?».
Serena lanciò un’occhiata eloquente alla madre e aggiunse, a denti stretti: «Non qui, mamma».
«Va bene, va bene!» disse la donna, alzando le mani in aria e rientrando in casa.
Marina vide Serena abbassare lo sguardo a terra, imbarazzata e spostarlo verso la congiunzione con la strada principale di Gallipoli vecchia.
Marina si sentiva quasi in dovere di aggiungere qualcosa, qualsiasi cosa. Una frase che tranquillizzasse l’altra perché, per Marina, non c’era problema se Serena…
Insomma, se anche Serena fosse stata…
«Non pensare troppo: ti si sovraccaricherà il cervello» le disse Serena, interrompendo la scia di pensieri confusi che aveva colto l’altra ragazza. «Per te è un problema?».
Marina scosse velocemente la testa: «No, assolutamente! Insomma… non sono affari miei».
«Tu sei…».
«Ho un ragazzo».
La spada di Damocle calò sulla nuca di Serena e Marina vide la testa della ragazza rotolarle tra i piedi, spargere sangue sulla strada. Il corpo cadde a terra, senza vita, come un fantoccio di paglia e segatura. Marina vide il viso di Serena indurirsi, iniziò ad annuire ma rimase in silenzio – come se dovesse dire qualcosa.
«Credo che… dovrei andare, adesso» concluse Serena, infilando le mani nelle tasche dei jeans. Marina annuì. Voleva chiederle il numero di telefono, avrebbe voluto stringerla o sentirla per un altro attimo vicina, come prima. L’odore dell’altra le sembrava già un sogno, come il calore asfissiante della sua pelle.
«Ci vediamo in giro».
«Già, in giro».
 

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Capitolo 3
*** III. ***


III.

 
 
Sua madre aveva passato giorni e giorni a parlare di Serena, di quanto fosse intelligente, arguta, un’ottima compositrice e bellissima, ma questo sua madre non lo aveva detto. La notte, quando Carlotta rientrava a casa dopo aver salutato Maria, Marina aspettava che la sorella si addormentasse, allora accendeva il piano luminoso sul quale disegnava e lasciava che la matita prendesse vita: disegnava fiamme, occhi scintillanti, figure danzanti e mani che stringevano sigarette. A Marina bastava chiudere gli occhi per vedersela davanti in ogni momento e in ogni luogo.
Gianpaolo l’aveva contattata molte volte, in quelle settimane di lontananza, e le sue risposte erano sempre a monosillabi e anche scocciate, a volte. Il ragazzo le parlava dei compiti di matematica, del libro di chimica che avrebbero dovuto leggere durante l’estate, dei problemi di fisica di cui Marina non aveva mai capito nulla eppure lui continuava a cercarla, a volerla sentire e a riempirla di frasi dolci e carezzevoli. Le diceva che sentiva la sua mancanza, che la vedeva in ogni dove e lei immaginava di parlare con Serena e non con Gianpaolo; sostituiva la voce nasale del ragazzo con quella bassa e sensuale della ragazza e si sentiva meglio.
Si era chiesta tante di quelle volte perché continuasse a stare con lui, se non lo amava e si era risposta che lo faceva per suo padre, per dimostrargli quanto fosse normale, in realtà. Suo padre aveva bisogno di essere rassicurato e Marina gli dimostrava che sicuramente avrebbe frequentato la facoltà di medicina e fuori di ogni dubbio si sarebbe sposata e avrebbe fatto dei figli.
Te ne devi fottere, di tuo padre.
Già, se ne doveva fottere di suo padre, ma Serena cosa ne poteva sapere? Lei viveva con sua madre e il padre lo aveva completamente cancellato dalla sua vita. Lei componeva musica, usciva la sera, non aveva pensieri sul rendere felici le persone che le vivevano accanto. Serena se ne fotteva di tutti, mentre Marina veniva fottuta.
Scosse la testa con forza e strappò il foglio, pieno di disegni e schizzi veloci, dall’album da disegno e lo gettò nel cestino, stizzita. Quella era tutta colpa della madre che non la finiva mai di parlare bene di Serena, ecco perché continuava a vederla ovunque. Sentì qualcuno bussare alla porta ma non si voltò, sicura che fosse sua sorella Carlotta che si era dimenticata qualcosa, prima di uscire con Maria. Il rumore, però, si ripeté e Marina si sentì costretta a rispondere con un mugugno: era di cattivo umore e chiunque fosse, non avrebbe ricevuto un trattamento diverso.
«Posso entrare?».
Bene, era talmente impazzita che adesso sentiva anche la voce di Serena, in camera sua.
«Sarebbe buona educazione rispondere, sai?».
E faceva anche la spiritosa, oltretutto.
«E va bene».
Una mano calda le afferrò la spalla e la costrinse a girarsi, facendo roteare la sedia girevole della scrivania. Marina fu costretta ad accettare il fatto di essere impazzita visto che, davanti a lei, c’era Serena con le braccia intrecciate sul petto e una borsa a tracolla ai piedi. «Tua madre mi ha chiesto di farti uscire di qui» le disse, sedendosi sul suo letto, rimanendo il più lontana possibile. «E direi che ha anche ragione. Da quanto non pulisci o non apri le finestre?».
«Sto ancora dormendo, e non so nemmeno perché ti sto rispondendo».
Serena alzò un sopracciglio ma non chiese nulla, all’altra ragazza. Marina, notando che Serena non aveva aperto bocca, tornò al suo album da disegno, distogliendo l’attenzione dall’altra.
«Senti, neanche io sarei voluta venire ma…».
«Sto ancora dormendo e questo è un sogno» rispose Marina, come se fosse la conclusione più logica.
«Ti posso assicurare che non stai sognando».
«Lo dicono tutti i sogni».
Serena sospirò. «Perché dovresti sognarmi?».
«Perché ti sogno ogni notte».
Si alzò dal letto di Marina e si sporse sulla spalla della ragazza, per vedere cosa stesse facendo di così importante. Marina era completamente assorta e i capelli biondi fermati da una matita, le solleticavano il naso quando poggiò il mento sulla sua spalla.
«Nei film, in momenti come questo il ragazzo bacia la ragazza».
«Nei film degli anni ’90 succede così, sì».
Serena abbassò la testa e guardò la mano di Marina che muoveva la matita sopra il foglio: tracciava linee precise e sinuose ma la figura era difficile da inquadrare.
«Sembra una bistecca sul fuoco» le fece notare, prendendo il foglio in mano.
Marina riprese il foglio, voltandosi verso l’altra. «Be’, non è una bistecca».
«Ah no? E cosa si presuppone che sia?».
«Tu» confessò, fissandola negli occhi. Serena non arrossì, ma rimase in silenzio e solo dopo sessanta estenuanti secondi di silenzio, iniziò a ridacchiare trascinandosi dietro anche Marina.
«Dovremmo uscire sul serio. Pensavi fossi un sogno».
«Lo penso ancora, in realtà» sussurrò Marina, alzandosi dalla sedia per dirigersi verso l’armadio e tirare fuori un paio di pantaloncini. «L’altro giorno ti ho trattata di merda e me ne sono uscita con quella… cosa».
«La cosa del ragazzo?».
Marina annuì e si sfilò la camicia da notte, dalla testa. Serena rimase in silenzio, a guardarla ma dopo poco distolse lo sguardo, voltandosi dall’altra parte e tossì, imbarazzata.
«Mai vista una ragazza nuda?» scherzò Marina.
«Anche troppe, in realtà. È per questo che… insomma…».
«Sto con Gianpaolo solo per sembrare il più normale possibile, a mio padre».
«Si fa tutto per i genitori, non è vero?» le chiese, ridendo. Marina le poggiò una mano sulla spalla, come Serena, prima, aveva fatto con lei e la fece voltare. Le due ragazze erano alla stessa altezza. Gli occhi di Marina erano lucidi, le labbra di Serena erano aperte e il fiato di lei accarezzava il viso dell’altra. Serena sentiva il peso della mano di Marina sulla sua spalla e Marina sentiva il calore di Serena sul fianco e sulla schiena. Come erano arrivate, a quel punto?
«Sei tu che devi dirmi di fermarmi, Marina» sussurrò Serena, a pochi centimetri dalla bocca dell’altra ragazza.
«Non credo che lo dirò, Serena».
Serena la baciò, delicatamente. Fu solo un leggero sfiorarsi, all’inizio. Marina doveva abituarsi all’idea di star baciando una ragazza e di essere praticamente nuda, davanti a lei. Capì che sarebbe stata lei a dover fare il prossimo passo perché, Serena, non l’avrebbe mai fatto; dopotutto Marina le aveva detto di essere fidanzata con un ragazzo e Serena non voleva prendersi responsabilità di sorta, ma Marina non amava Gianpaolo ed era sempre più sicura, anche quando toccò il labbro inferiore di Serena con la sua lingua, di starsi innamorando della ragazza e che se ne stava altamente fottendo di tutto il mondo all’esterno. Serena, sentendo che l’altra ragazza stava facendo forza, aprì le labbra e lasciò che iniziasse a esplorarle la bocca, mentre si costringeva a non pensare che Marina, probabilmente, lo aveva già fatto con un ragazzo dai lineamenti sconosciuti. Fu per quello che Serena la prese in braccio e la inchiodò all’anta dell’armadio, accarezzandole la schiena e le cosce, ancorate ai suoi fianchi. Marina le baciò le guance, le palpebre, la fronte e di nuovo le labbra mentre Serena le succhiava la pelle del collo, lasciandole un vistoso succhiotto viola.
«Questo rimarrà per un po’» le sussurrò Serena, prendendo fra i denti il suo orecchio.
Marina ansimò forte contro il collo di Serena e le afferrò i capelli, alla base della nuca e li tirò indietro, facendole inarcare il collo per ricambiarle il favore: Marina le lasciò il segno del suo passaggio in corrispondenza della giugulare e sentì Serena gemerle contro, voltarsi e buttarla sul letto.
Marina indossava solo un reggiseno sportivo e un paio di mutande in microfibra, il suo ventre era piatto e Serena si gettò sul suo ombelico, leccò la pelle e succhiò, rilasciandola con un sonoro schiocco. Marina continuava a stringerle i capelli e la riportò sulle sue labbra, famelica.
«Non porti troppi vestiti, per quello che stiamo facendo?».
«Speravo tu potessi darmi una mano, in realtà» le rispose Serena, scoprendole un seno e leccandole il capezzolo che, quasi subito, si inturgidì e fece gemere l’altra un po’ più forte di prima. «Queste cose il tuo ragazzo non te le fa, vero?». Marina riuscì a fare un gesto di diniego con la testa, aprì gli occhi e vide Serena, sopra di lei, che la guardava con le iridi completamente inghiottite dal nero della pupilla. Marina la prese per le spalle e la fece alzare dal suo seno, si tirò su a sua volta e le sfilò la canotta: Serena non portava il reggiseno, sotto.
«L’hai fatto per me?».
«Non pensavo che saremmo andate a finire così» le rispose, riprendo a baciarla dolcemente e riportandola con la schiena sul materasso. «Oggi è solo per te, dear».
Serena finì di sfilarle il reggiseno, le baciò entrambi i capezzoli, obbligandola ad aprire le gambe per posizionarsi in mezzo. Gli inguini combaciavano e Serena iniziò a strusciarsi contro di lei, continuando ad accarezzarle i fianchi e la schiena fino alla base. Le mani si spostarono dai seni, al ventre, fino a raggiungere il bordo delle mutande che, lentamente, vennero sfilate e lasciate scivolare lungo una gamba. Marina sentì il contatto ruvido tra le sue cosce e i pantaloncini di jeans che Serena ancora indossava e decise di smetterla di star ferma e di sbottonarglieli. Glieli sfilò in fretta, assieme alle mutande e le agganciò le cosce attorno ai fianchi, costringendola ad entrare in contatto con lei, pelle contro pelle. Serena ansimò dalla sorpresa per l’improvvisa vicinanza con l’inguine dell’altra e decise di iniziare a muoversi contro di lei, continuando ad accarezzarla e baciarla.
Presto, i gemiti di Marina si fecero sempre più alti e Serena respirò sempre più a fatica. La stanza, con le serrande abbassate e le finestre chiuse, si fece incredibilmente calda e i corpi delle due ragazze iniziarono a costellarsi di gocce di sudore. Marina annusò l’odore di sale, fumo e menta di Serena e lo trovò ancora più eccitante della prima volta perché, adesso, Serena sapeva anche di lei.
Marina portò una mano fra i bacini e iniziò a toccare Serena, facendola urlare per la prolungata eccitazione non ancora sfogata e decise di inserire un dito, di sfiorarla lì dove anche lei, quando suo padre non era in casa e Gianpaolo la lasciava insoddisfatta, si toccava. Serena iniziò a muoversi più in fretta, attorno al suo dito e Marina si rese conto che Serena stava per fare lo stesso, con lei, ma che l’aveva preceduta, lasciandola sorpresa. Serena, però, si scostò e Marina le diede una leggera pacca sul sedere e l’altra la guardò: «Avevo specificato che oggi era per te» le disse, ansimando leggermente e scostandosi i capelli da davanti agli occhi. Tracciò un percorso infuocato, con la lingua, dal collo di Marina fino ai fini peli biondi del pube, schioccandole un bacio sul Monte di Venere e riempiendosi le orecchie con i gemiti sempre più alti della ragazza. Marina alzò la testa e fu costretta ad attaccarsi alle lenzuola per non cadere dal letto: il tocco della lingua di Serena le stava provocando una scarica di brividi che dalla base della schiena le arrivarono fino al cervello. Sentì le sinapsi aumentare, le costole distendersi e i polmoni aprirsi in cerca d’aria, avvertì la sua voce uscirle fuori dalla gola e gridare, gridare per interi secondi mentre Serena continuava, senza pause, aggiungendo anche le dita, oltre alla lingua. Voleva farla impazzire, ne era certa. Sentì i muscoli della gambe cederle, le mani erano informicolite per quanto forte aveva stretto le lenzuola finché, finalmente, un abbacinante lampo bianco dietro le palpebre la liberò definitivamente e la fece crollare, finalmente spossata e senza pensieri.
Sentì gli scricchiolii del materasso e lo avvertì abbassarsi, accanto a lei. Seren le coprì entrambe con il lenzuolo azzurro caduto a terra e le baciò teneramente la tempia sudata, scostandole i capelli dalla fronte. Le baciò le palpebre abbassate, le spalle doloranti e le guance arrossate. Passò quasi l’intero pomeriggio a sussurrarle, nelle orecchie, tutto quello che avrebbero potuto fare con ancora un mese a disposizione. Marina si accorse che non si era mai preoccupata del rumore che aveva fatto, delle grida e dei gemiti che avevano riempito la sua camera da letto e, ancora assonata, si voltò nell’abbraccio costrittivo di Serena. «Ci avrà sentite qualcuno?».
«Tua madre è uscita dopo che io sono entrata in camera tua. Andava da mia madre».
«Che fortuna» disse, stiracchiandosi e avvolgendo il petto nudo di Serena, con un braccio. «Spero di non aver fatto una brutta figura».
Serena si sollevò, appoggiandosi alla mano e iniziò a giocare con una ciocca di capelli biondi, come aveva fatto la settimana precedente sulle scale bianche. «Affatto» la rassicurò, posandole un bacio a fior di labbra. «Che ne dici di una sigaretta?».
«Non è un cliché, quello della sigaretta dopo il sesso?» le chiese, scherzando, Marina e beandosi della pelle nuda e abbronzata dell’altra, mentre si piegava a cercare il pacchetto di Marlboro nella borsa di tela.
«Tutto questo è stato un cliché cinematografico, Marina» rispose l’altra, accendendo la sigaretta, si sedé sul lenzuolo e iniziò ad accarezzare la coscia dell’altra. «Se fosse un film, a questo punto dovrei declamare una poesia».
«Be’, puoi provarci» scherzò Marina, alzandosi e togliendo la sigaretta dalle labbra di Serena che, velocemente, l’afferrò per la nuca e le soffiò il fumo all’interno delle labbra.
«Aspira» sussurrò.
Marina lo fece e Serena, rimanendole vicina, approfondì il bacio. L’altra sentì il suo sapore mischiarsi al fumo e al sapore di dentifricio, all’odore di Serena e al gusto della sua lingua.
«Ti dirò uguale a un giorno d'estate?» iniziò Serena, sfiorandole le spalle, adagiandola di nuovo sul materasso e salendole a cavalcioni.
«Più temperanza tu hai, più dolcezza:
i molli bocci sferza il vento al maggio
e l'estate ha scadenze troppo brevi.» continuò, baciandole le clavicole e mordendole il collo.
 «Talor l'occhio del cielo a dismisura
arde, e si vela il dorato sembiante,
e per sorte o mutevole natura
pur inclina ogni cosa bella e cade.» le sussurrò, soffiandole sui capezzoli e leccandoli.
 «Ma la tua estate eterna non scolora
e non si priverà di tua bellezza,
non ha vinto su te la morte, l'ombra,» le rivelò, guardandola negli occhi e carezzandole le guance di nuovo rosse.
«quando al tempo tu cresci in linee eterne.
Finchè l'uomo avrà occhi, avrà respiro,
vive la mia parola, e in lei sei vivo.» concluse, posandole un bacio sulle labbra che, Marina, volle approfondire affondando la sua lingua nella bocca dell’altra, assaggiandola di nuovo, finché non fosse arrivato il momento di dire addio.
Ma, come le aveva sussurrato Serena, finché lei avesse avuto gli occhi, l’altra sarebbe vissuta e le avrebbe raffigurate sempre così: abbracciate nella sua camera da letto, con le serrande abbassate e la prepotente luce estiva che voleva penetrare comunque, nel loro rifugio lontano dal mondo esterno.
Sarebbero state come Gli Amanti di Schiele.
Sarebbero rimaste come loro, abbracciate infinitamente e impresse su tela.
I capelli color mogano di Serena, la pelle bianchissima di Marina, il fumo fra le labbra e il rossore sulle loro guance.
Le servivano solo i colori, per vivere infinitamente come Amanti.
Perché loro avevano colore.





N.d.A.

E Serena e Marina hanno fatto le cose, finalmente. 
Il sonetto, che ho usato, è di William Shakespeare ed è il numero XVIII. 
Hasta la vista, 
Feynman
 

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Capitolo 4
*** IV. ***


IV.

 
 
Di binari morti, la stazione di Gallipoli ne aveva più di uno.
Marina non aveva fatto domande a Serena sul perché, la sua ultima sera lì a Gallipoli, avesse deciso di portarla alla stazione dei treni. Avevano comprato un paio di pezzi di pizza, una bottiglia di vodka e Serena aveva pensato alle sigarette anche se Marina le aveva detto che avrebbe preferito del Jack Daniel’s ma Serena le aveva detto che non le bastava il whiskey, per ubriacarsi. Erano risalite in moto e avevano raggiunto la stazione, quasi alle undici della sera. Germana non aveva trovato da ridire, quando le aveva beccate a baciarsi, sotto la finestra della camera di Marina e Carlotta, mentre suo padre, durante la classica conversazione su Skype settimanale, le aveva detto che avrebbero fatto i conti. L’indomani, quindi, Marina sarebbe tornata a Roma e Serena se ne sarebbe tornata a Firenze, al suo appartamento, dai suoi amici, alla sua vita da ventenne senza una vera aspirazione di vita.
In quel momento, però, erano solo due giovani donne stese sull’erba rada di una stazione morta una con la testa sulla clavicola dell’altra e fissavano il cielo stellato e sentivano l’odore del mare, poco lontano. Erano in silenzio: Marina sbocconcellava la pizza, senza un reale interesse a farlo e Serena aveva già acceso la terza sigaretta della nottata.
«Come sarebbe, se avessimo più tempo?» le chiese Marina, d’un tratto, alzandosi dall’altra e incrociando le gambe. Serena sospirò, prese una boccata di fumo e lo buttò fuori, continuando a guardare il cielo. «Probabilmente ti annoieresti. Io mi annoierei e finirebbe male».
«Non potremmo farla diventare una cosa… seria?».
«Dovresti iniziare a fregartene della gente, per davvero però. Dovresti permettermi di abbracciarti e baciarti in pubblico, di parlare con tuo padre e sputargli in faccia. Dovremmo prendere un appartamento assieme, magari a Parigi…».
«Suona bene».
«Suona come un’utopia, dear» sussurrò Serena, accarezzandole una guancia e guardandola dal basso.
«Vale la pena di sognarle, le utopie».
Serena si tirò su, la guardò negli occhi e le posò un leggero bacio sulle labbra che decise di interrompere quando Marina le posò la mano sulla guancia, per approfondirlo. «Non iniziare adesso a parlare come gli artisti, dear» le disse, sorridendole debolmente.
«Quindi cosa dovrei fare? Dimenticare tutto questo? Dimenticare… le cose che mi hai detto?».
Serena sospirò e prese tra le sue mani quelle di Marina che erano fredde e leggermente sudate. I lampioni del lungomare Marconi illuminavano un pezzo della ferrovia e si sentivano, in lontananza, gli schiamazzi della gente che passeggiava. «Voglio solo dirti di non contarci troppo, Marina. Tu sei bellissima, io mi sono innamorata di te in neanche un mese… ma sei appena nata e non puoi precluderti un’intera vita per colpa mia».
«Roma e Firenze non sono così lontane, Serena! Ormai ho diciotto anni e posso prenderlo un treno, da sola!» protestò Marina, sottraendosi alla presa di Serena che si ritrovò a sospirare, di nuovo, e a prendere un sorso di vodka.
«Lo so che non saremo così lontane, Marina. Tu… promettimi solo che non penserai, a me, come alla tua ragazza, okay?» le chiese, sorridendo. Marina intravide gli occhi grigi e scintillanti di Serena e sentì, nuovamente, le sue mani sul viso. Stavolta, Serena l’avvicinò e la baciò più profondamente, Marina aprì le labbra ed accolse la lingua dell’altra in un lungo accarezzarsi che tolse il fiato a entrambe.
Si staccarono con uno schiocco umido e Serena posò la sua fronte su quella di Marina e le sfiorò la punta del naso, con le labbra. «Potremmo provare ad essere amiche, nell’attesa».
«Mi piacerebbe».
«Cosa c’è di meglio di una buona e solida amicizia, con l’aggiunta di qualche scopata?».
Marina rise, forte e per la prima volta da quando la conosceva, Serena non la vide coprirsi la bocca per soffocarla o per renderla più gentile. Marina era bella – bella davvero. Le sarebbero mancati, a Firenze, i suoi occhi da cerbiatta color nocciola, le sue dita sempre sporche di tempera o grafite, i lunghi capelli biondi che amava intrecciarsi attorno al polso e tirare indietro per baciarle e succhiarle la pelle del collo, i suoi seni piccoli che coincidevano così bene con i palmi delle sue mani. Le sarebbe mancato l’odore di Marina così salato, dolce e amaro assieme. Sapeva di caffè, di mare e di tempere a olio. Le sarebbe mancato quell’animo d’artista perennemente corrucciato e malinconico che si illuminava non appena le concedeva di disegnarla, anche nuda.
«Facciamo un gioco» le propose Serena, poggiando la testa sull’incavo lasciato dalle gambe incrociate dell’altra.
«Che gioco?».
«Un gioco che faccio da sola e mai così spesso quanto vorrei. Ai miei amici non piace, ma voglio proporlo a te…».
«O-okay…».
«Io ti dico due parole, che fa loro non hanno alcuna connessione logica o di altro tipo, tu ne devi scegliere una e devi darmi una motivazione e devi articolarla. Ma non deve essere per forza coerente: un’immagine, una sensazione che ti dà la parola… una cosa così, capito?».
«Credo… credo di sì».
«Bene!» esclamò Serena, battendo le mani. «Piazza o penna?».
«Penna» rispose Marina, dopo poco. «Mi fa pensare a storie scritte a mano, con un calamaio sopra a fogli di pergamena, fiabe narrate attorno al fuoco, piume di corvo e ali di albatros… e notti di luna piena» le spiegò, in un sussurro. Lo raccontò al vento che veniva dal mare e glielo donò. Marina non capì il senso del gioco delle parole, ma le sembrò di star raccontando lei stessa una storia, attraverso delle immagini e le stava consegnando all’altra che ne avrebbe fatto musica e parole. «Tu, invece?».
«Piazza. Odora di estate e mi fa pensare alle ginocchia sbucciate, a partite di calcio con palloni mezzi sgonfi e bambine che vogliono diventare donne, anche se non è ancora il loro tempo e non sanno quanto lo rimpiangeranno. E zucchero filato» le disse Serena, tutto d’un fiato. Lei, quel gioco, lo conosceva bene e sapeva che ci si poteva bruciare come con il fuoco. Era intimo, quel gioco e pericoloso – come tutte le cose intime.
«Sei più realista di me» notò Marina, sorridendole e accarezzandole uno zigomo.
«Tu vivi in un altro mondo, Marina. È normale e giusto, che tu non lo sia».
«Puoi promettermi che tutto questo, anche da amiche, non cambierà?».
Serena rimase in silenzio e si perse a guardarla negli occhi, con la debole e lontana luce dei lampioni e quella della luna, in alto, che copriva la flebile luce di tutte le altre stelle. La guardò a lungo, per non scordarsela e per imprimersi bene la sua immagine, in quella sera d’agosto, per riportarsela alla memoria quando avrebbe sentito la sua mancanza, quando le sarebbe venuta la voglia di baciarla e di affondare dentro di lei, per sentirsi di nuovo piena. Avrebbero fatto sesso di nuovo, anche quella notte, perché voleva ricordarsi ogni singolo sospiro che le aveva procurato, i gemiti che le vibravano nelle costole e le gocce di sudore che le avrebbero solcato la pelle calda e arrossata da baci, morsi e graffi.
Marina le aveva fatto vedere il quadro che aveva dipinto – perché è ancora in vacanza, e poteva permettersi di dipingere – e c’erano solo loro due, con uno sfondo giallo e marrone, come se del caffè ci fosse caduto sopra. Erano due figure abbracciate e fuse fra loro in un delirio di biondo, rosso, fuoco e neve. C’era la pelle bianca di Marina, gli occhi color cenere di Serena, i capelli di grano e le labbra rosso sangue, i capelli di brace e le dita di tempera. C’erano loro due, che facevano male all’anima e, così fuse, così assieme, così una dentro l’altra si facevano del male a vicenda perché, Marina glielo aveva spiegato, loro due erano come un quadro Schiele dove sono gli spigoli dei corpi, i lati non visti, gli occhi profondi ed i colori a fare male. Sono i soggetti, a farsi male, in un quadro di Schiele e loro erano Schiele, perché non sarebbero potute essere altro. Serena, allora, le aveva detto che lei non avrebbe voluto farle del male e Marina le aveva risposto che, alcune volte, era con il dolore che ci si sentiva vivi.
Era per questo che Serena non poteva prometterle che non sarebbero cambiate. Lei sapeva cos’era, ma Marina? Il dolore era vitale. Marina era dolore, allora Marina doveva essere vitale perché altrimenti niente avrebbe avuto più senso.
«Non ci pensare» le disse Marina, senza aspettare una risposta. «Ce ne fottiamo, del mondo».
Serena allungò una mano, la posò sulla carotide e rimase così, a sentire sotto i polpastrelli, la vita dolorante di Marina che continuava a respirare e che la pregava di fottersene delle domande che le proponeva il suo stesso cervello.
Marina le strinse il polso e cercò di rallentare il suo respiro, per sincronizzarsi con il cuore tranquillo di Serena, per berne la serenità e per chiederle di non dimenticare mai quel momento, anche se avrebbe fatto male ad entrambe. Se Serena non sapeva dove si sarebbero incagliate, Marina sperava che avrebbero continuato una lunga e tranquilla navigazione in mare aperto. Non le poteva chiedere di amarla per sempre, quando sapeva che non si sarebbero viste per tanto tempo ancora, quando sapeva che suo padre le avrebbe dato di nuovo contro, quando sapeva che avrebbe riempito alla rinfusa la sacca della palestra e avrebbe preso il primo pullman, dalla stazione Tiburtina, verso Gallipoli, per fuggire da sua madre. Sapeva che, una volta alla stazione, avrebbe preso un treno per Firenze e si sarebbe dimenticata anche di sua madre e che ci sarebbe stata solo Serena, la sua vita da reietta e una fantasia adolescenziale che sapeva di menta, fumo e tempere ad olio.
«Ti posso promettere che non mi dimenticherò mai di te, Marina».
«Questa è la miglior promessa d’amore che puoi farmi, Serena».
 
 
 
 
 
Ti amo.
Ti amerò.
Ti amavo.
Ti amai.

Ti amerei






 
N.d.A
Eccomi qui, con l'ultimo capitolo di questa storia che, personalmente, ho adorato talmente tanto da essere indescrivibile. Marina e Serena, per me, contano molto di più di qualsiasi altro personaggio di cui abbia mai scritto - in solitaria. 
Ho concluso anche questa che, in realtà, era già finita... ma, dettagli. 
Spero che sia piaciuto anche a voi, questo percorso anche se è stato incredibilmente breve. 
Magari, un giorno, torneranno anche Serena e Marina. 

Grazie a tutti quelli che hanno letto, recensito e inserito questa storia nelle liste. 
Feynman

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