Il cosmo nel caos

di Matih Bobek
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Caotico Cosmo ***
Capitolo 2: *** Papaveri - Quartina in cinque parole ***
Capitolo 3: *** Il vagone del treno ***
Capitolo 4: *** Doppio ***
Capitolo 5: *** Notturno del 12 luglio ***
Capitolo 6: *** Ad un passo dalla vetta ***
Capitolo 7: *** Sagoma di Luna ***
Capitolo 8: *** Bacio cosmico ***
Capitolo 9: *** Pavor Nocturnus ***
Capitolo 10: *** Una donna ***
Capitolo 11: *** Il lamento delle netticore ***
Capitolo 12: *** scrivere di te ***
Capitolo 13: *** Notte afosa di maggio ***
Capitolo 14: *** Paper Boy ***
Capitolo 15: *** Il falò ***
Capitolo 16: *** Prima di dormire ***
Capitolo 17: *** Divenire ***
Capitolo 18: *** Il tribunale ***
Capitolo 19: *** Sarò femmineo ***
Capitolo 20: *** Stella del nord ***
Capitolo 21: *** E viene la pioggia ***
Capitolo 22: *** TeleVisione ( La visione della fine) ***
Capitolo 23: *** Ricordo ( L'estate del 2013) ***
Capitolo 24: *** Pantasema ***
Capitolo 25: *** Il solstizio ***
Capitolo 26: *** Livorno ***
Capitolo 27: *** Vagabondo ***
Capitolo 28: *** Nove tempeste ***
Capitolo 29: *** Piombino ***
Capitolo 30: *** l'attacco del pirata ***



Capitolo 1
*** Caotico Cosmo ***


Il mondo mio si sfascia;
Ansante si sgretola in un
guizzo vertiginoso e precipita
confuso in un angolo di nulla;
intanto, appena sotto la finestra
azzurra ed enorme
spalancata, piomba
uno svirgolio di ponentino.
Mi spargo scomposto
con il dorso bagnato e disteso
su una riga discontinua di ciottoli e granelli
per sentirmi dardeggiare dalla canicola:
Il fragore spumoso della risacca
si disperde col vigore dell'estate
sul lembo dorato ove io
muto miro i flutti.
Pare che persino la falce oblunga,
che sogghigna chiara appesa al giorno,
la possa udire.



Le ceneri morenti e spente
di questo mio caotico cosmo
sfrecciano remote in un turbinio
condannato a non terminar mai.
La mia realtà è un adesivo
applicato nell'incavo dei miei occhi.
Che la brezza notturna non sia altro
se non l'affanno morente d'un drago ferito?
e che quei sinuosi pendii adamantini 
che sfolgorano dall'alto della volta
non siano che lo sguardo socchiuso
di un demone dormiente?
Che il grido stridente della civetta
non sia che il lamento impenitente
di una distante Anguana 
venuta giù dalle vette?


E che importa ormai...
Volteggia intrepido ora,
in spirali briose, l'ebbro abbraccio
velato delle schegge 
di questo mondo mio che
balugina stentoreo
nella mia litania funerea.
E ora io,
scisse le pastoie alienanti
e esorcizzate le risa atroci
delle schiere di pesti spettri,
mi libero a viaggiare silente
in un disgiunto percorso 
senza né fine né affetti
aldilà delle via lattea. 

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Capitolo 2
*** Papaveri - Quartina in cinque parole ***




Esercito scarlatto, pieghe delle labbra;
nel cuore di maggio rivoli
di vital linfa densa scorre
tra campi di rubeo oro.


il componimento è strutturato seguendo lo schema di un genere poetico cinese di epoca Tang, definita juéjù ( 絕句) ovvero quattro versi di cinque caratteri ciascuno. In questa poesia, come altre, ho cercato di ripdodurre tale struttura metrica.

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Capitolo 3
*** Il vagone del treno ***


Il vagone del treno è nudo
come la dolce pelle
di una novizia sposa,
la prima notte di nozze.
Sopra il mio capo,
il riflesso di quest'infinita
distanza straccia i suoi lembi
d'azzurro respiro
 sotto le fameliche fauci
di una coltre plumbea.
La pioggia si avvicina,
e intanto spigolose risate
di giovani sgraziate
attraversano ubriache
i corridoi sporchi, venendo
a morire in seno al mio petto.
Il treno rallenta la sua corsa, 
mentre il mio sguardo
percorre le lunghezze bionde
dei vasti campi selvaggi.
Per un momento mi pare
di carpire il vuoto che 
circonda il nostro nulla
mentre fluttuo vagabondo
tra spume di cotone 
e grida di gelo. 
Il metallo arioso
di una lontana voce
riduce in frammenti
l'eco dei miei sogni,
che con un sordo
tonfo si vanno a posare
sui sedili vuoti 
tutt'intorno.
Mi ritrovo seduto
e intorpidito, mentre
ormai il vagone del treno
è una tomba di metallo
sepolta dal tamburellare
incessante della pioggia.
Le porte si aprono,
la mente si chiude
mentre la ruota del giorno
torna a premere col suo
peso sulle mie ore.

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Capitolo 4
*** Doppio ***


Lente, le ombre della
notte si sgretolano sotto
l'incedere tenue delle nuove luci. 
Nuvole d'ovatta si ammassano
al disopra e mistificano
le violenza del giorno.
Lo specchio in bagno riluce
timido e riflette tagliente
il mio viso, senza giudizio.
Mi vedo diverso; 
la normalità mi ha reso
differente, mantenendomi
lo stesso. Il viso è scarno
ma nell'occhio guizza 
tremante una scintilla.
Nel petto una voragine
aperta inghiotte vorace.
Chi sono, oggi?
Anche il giorno cerca un
altro novilunio per precipitare
nel riflesso della sfera lunare.
E io, nel torace ho uno squarcio.
Come se la punta affilata
di una spilla da balia
avesse percorso le sue
miglia sulla mia pelle
aprendomi un sentiero
di stelle. 
Miro muto l'infinito gurge
e riconosco la natura doppia
dei miei respiri, che sonando
l'un con l'altro, sempre son parsi 
uno solo.
Ecco, sono doppio, io.
Io che ho navigato col vento
secco le vastità incomplete
dei miei anfratti segreti
per aggiungere alla mia sagoma
un altro frammento di me.
Io che ho marciato fluttuando
a passi uniti e incerti
i terreni polverosi dei miei tessuti
per ricongiungere estremità
che credevo in me spezzate.
Io, io che ho cercato te, 
chiunque tu sia,
nascosto in uno sguardo
sfuggente di un passeggero
distratto.
Io che ho crepato pareti
di cemento per evadere,
per poi cadere ancora
 in una scatola
di cartone, senza aver mai capito
che l'acqua penetra il suolo
perchè priva di angoli.
Io che ho voluto racchiudere
il celestiale e diabolico
scontro polifonico delle
urla dentro di me
In sillabe monolitiche
e marmoree.
Io, parte di questo noi
che ancora rifugge dal
tremolare sbrigliato
in questo gioco senza
forma che è l'esistenza.

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Capitolo 5
*** Notturno del 12 luglio ***


Notturno del 12 luglio - quartina breve


Son nudo e distante.
Mi vesto; mi svesto
di cellulosa e inchiostro
nel chiaro pallido alone.

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Capitolo 6
*** Ad un passo dalla vetta ***


AD UN PASSO DALLA VETTA

A passi uniti,
marciamo sul dorso nudo
e aguzzo di rocce 
di questo nostro monte.
La cima svetta candida,
squarcia un sentiero di nuvole.
Dista, dista ancora
e ancora di più se ti volti
a guardar fugace
ogni impronta lasciata dietro.
Tra i pendii si aprono brecce
di roccia fresca; è il monte
ad offrirci la dimora.

Quando il primo fiotto di luce
al mattino colora la vastità
della cupola che ci ammanta
di roseo candore, io son sveglio 
a vegliare sui nostri corpi impavidi.

senza far rumore, mi trascino
di fronte alla bocca di un burrone:
la vastità dell'assoluto
si estende dinanzi alla mia umanità
trascinandomi in un impotenza
senza confini.
Raccolgo le mie piccole cose:
quelle che mi piegano il capo
in vorticose spirali di sabbia;
che impastano i miei sogni
in pozze di nulla;
che ci impongono
di condurre a stenti 
un'esistenza misera e vana
sepolta tra i passi incerti
di quest'arida gente.
Raccolgo le mie grandi cose,
quelle che mi tengono distante
da te, e dal tuo spirito d'aria
che sfugge alle correnti;
che mi tengono distante da me
e dalle mie pure astrazioni
cristallizzate in gocce
d'armonia; che mi obbligano
a restare qui, dove sono ora:
in bilico tra gli abissi dei miei limiti
e apici di ignota beatitudine.
Raccoglo le mie cose, e le getto
nel buio del baratro.
Le sento schiantarsi sulla
ruvida roccia nuda,
frantumarsi nell'urto
con le aguzze lame 
della pietra dura, 
sgretolarsi in un fumo
sabbioso e toccare buie
il fondo, senza alcun suono.
Tutto questo, affronto io
prima che il sole baci il tuo volto:
ricompongo me stesso
e mi stendo di nuovo
e ancora al tuo fianco.
Ora e così.
Ed essere qui,
ad un passo dalla cima,
al riparo dalle intemperie
della nostra realtà,
solo
con te
è la mia beatitudine.

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Capitolo 7
*** Sagoma di Luna ***


Sfugge un rivolo di luce
alla padrona Luna, che trafigge
in silenzio il vuoto vitreo della
finestra.
E' la sola  luce, qui e ora,
a fendere l'immenso
buio di questa stanza; l'unica
scheggia luminosa traffita
nel fianco di questa cupa sfera
che mai smette di girare.

Stendo un braccio e le dita
accarezzano il buio; 
mi alzo in piedi e sono
parte del nero. 

Solo qualche passo, 
solo pochi, verso di lei,
che mi guarda impavida
aldilà dei campi incolti
sul versante stellato
di un lembo di questo
cielo che m'illudo sia
solo mio.

Incastonato vivo
tra le braccia levigate
di questa stanza, io non
sono che un pulsante
respiro avido di colore
che agogna morente
ad un sorso di luce
per poter evadere
e poi brillare sotto quella
 pioggia scrosciante
e infine, tuffarmi ad
occhi chiusi nell'alone
dorato del disco calante,
fino a tatuarmi caldo sulla 
pelle lo splendore etereo.

Rimango qui: sul fondo
vile dei miei fallimenti,
tra teschi di sogni
e ossa di speranze:
sdraiarsi sul fondo è facile,
altro è sfuggire al buio
e arrampircarsi incerti
sui pendii disseminati
di edere e rampicanti
seguendo chissà
che luce. 
La peggiore delle certezze
è sempre meglio
di qualsiasi incertezza.

Sul pavimento freddo,
almeno, qui, ora
a piccoli passi,
tra un singhiozzo e
un sorriso, inseguo 
quella piccola, unica
goccia di luce che lucida
sguizza tra le venuzze
del marmo e così so
riconoscere i miei contorni; 
il mio principio; la mia fine.

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Capitolo 8
*** Bacio cosmico ***


Bacio cosmico - quartina breve.

Un ruotare imperituro e
la rincorsa nel vuoto;
Bacio, poi la fuga.
Serafico candore, sublime apparenza.

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Capitolo 9
*** Pavor Nocturnus ***


Pavor  Nocturnus I - Quartina breve in rima ( ABAB )

Di sudore madido, tremabondo
Un infante mai cullato.
Bianco scema il mondo,
Trema e grida inascoltato.
 

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Capitolo 10
*** Una donna ***


Una donna
siede sulla sedia in vimini in giardino;
tra le dita, una camel quasi spenta.
Il suo sguardo insegue il vuoto
e si spezza sulla linea dritta
di un nuovo orizzonte.
Lo scorrere dei minuti
è scandito dal fumo grigiastro
che le sue labbra riversano
di tanto in tanto.
Pensa alla vita del figlio
stroncata da una pallottola.
Ricorda di averlo accolto
un'ultima volta nel suo petto
e poi di averlo lasciato andar via.

Una donna
piega le lenzuola pulite
sul terrazzo del nuovo appartamento.
Le mura color del fango,
una pila di piatti sempre sporchi,
e la cena non ancora pronta
per il marito che torna dal lavoro.
Guarda lontano, aldilà dei cumignoli
delle palazzine: si fa strada
per viuzze strette, tra passanti
e negozi chiusi, e poi si getta
nel mare, immaginando
di poter nuotare
fino a toccare l'altra riva.
Pensa al suo paese
disossato dalla guerra
macchiato di sangue innocente
e si chiede se sia meglio
esser morta combattendo
oppure vivere da serva.

Una donna
stringe in mano la sua chitarra
mentre con gli occhi scorre
lo spartito sulle sue cosce incrociate.
Le mani scorrono morbide sulle corde
e le labbra dischiuse liberano un canto.
Fuori dalla sua stanza 
il mondo brulica senza sosta
ma lei non lo sa.
Pensa ad amare soltanto
nel segreto del suo tempio
ma senza dirlo a nessuno
per non aizzare voci 
senza senno,
e spera un giorno di poter
baciare chi ama
sotto il tremolio luccicante
di un miliardo di stelle.

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Capitolo 11
*** Il lamento delle netticore ***


La linea tenue rinvigoriva 
i suoi contorni al dilatarsi piano
della nebbia e i vessilli
smeraldini spuntavano ingenui
dalle fessure rocciose.
si stagliò terrosa la sagoma dell'isolotto
i cui margini eran cinti dallo sguazzare placido
delle spettrali correnti cobaltee.
Le netticore in volo si richiamarono
liberando alto un lamento d'amore,
poi s'accompagnarono struggendosi
e planarono infine regali sulle pieghe
infeste dell'acquitrino che riluceva
 coriaceo sottomesso al crepuscolo.
Le ore macinavano lente come
le ruote di un carro nelle fanghiglie della palude.
Il ventre mio fu vessato: 
una fortezza in stato d'assedio
nella stoica attesa di vedersi
capitolare sublime.
La brezza piegò l'acqua
in schiere di turgide crespe
che riflettavano nel cuore mio
le stesse inquietuini.
Attesi che le ore diventassero giorni
e i giorni mesi e i mesi anni
lì, sull'altra sponda della riva
e tu non arrivasti mai.
Avrei sacrificato l'ultimo respiro
tra le braccia affamate del destino
affinchè tu sapessi quanto ho sofferto,
affinchè tu sapessi quanto ti ho amato.
Che ora le onde dell'ansa ti accolgano!
E io allora tornerò ad oscillare incostante
con la disperazione incastrata
nel petto e il divino cielo al di sopra,
che maestoso, ceruleo e mirabile
ospita paterno il lamento delle netticore.
Esse si innalzano con un colpo d'ali,
sollevando gocce di fiume 
e si disperdono alte e lontane
dove il sole esaurisce bianco l'ultima luce.

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Capitolo 12
*** scrivere di te ***


Scrivere mi ha salvato. Salvato da te. Prendendo in mano la penna, armandomi di tutte mezze frasi che ho lasciato morire in bocca, liberando il cuore dalla stretta in cui l'avevo imprigionato per attutire i battiti, sono riuscito a neutralizzarti. Il foglio bianco è stato il trampolino di lancio dal quale ho potuto librarmi in alto e vederti da lontano, senza permettere che la rete dei miei sentimenti filtrasse i tuoi contorni, per poi ripiombare a braccia aperte nella fitta coltre di corde in cui il tuo ricordo si distorce. La combinazione di ciò che avrei voluto e ciò che realmente eri, è quello che traspare dalle righe. Non direi che ti ho amato, no. Almeno, non per tutto il tempo. L'abitudine del sentimento, come la cresta maestosa di un'onda, ha affogato la purezza del sentimento, e si è sostituito a lui. Sei diventato poco più che una consuetudine. Solo lo spettro di ciò cui amavo pensare; la sagoma sbiadita di un sospiro al quale mi aggrappavo. Resti ancora qui, da qualche parte in me. Ma non sei più irrispettoso. Obbedisci a me, alle mie volontà; non te ne vai in giro a spremere i miei battiti per riempire la giara delle tue conquiste. Sai quando addormentarti e chetarti. Sai quando rimanere in silenzio, quando sussurrarmi e quando lasciarmi dormire in santa pace. Eppure, di tanto in tanto, spalanchi le tende che serrano la profondità dei tuoi occhi, e fai capolino. Con quel sorriso stronzo; con quella presunzione insostenibile; torni, di tanto in tanto; galleggi colpevole e mi saluti da lontano. Allora io di nuovo, stringo quel bastoncino di plastica che secerne nero d'inchiostro e scrivo di te; di come saremmo stati tristemente felici insieme o felicemente tristi; di come né tu né io avremmo potuto ritrovarci nei bisogni degli altri, nelle alcove notturne delle nostre inquietudini; la penna resuscita la consapevolezza, altrimenti sepolta, che noi saremmo un pericolo l'uno per l'altro. E' tutto ciò che  mantiene la mia lucidità, la sanità in me. Un'irrazionale razionalità scagionata dallo scorrere intrepido delle parole sulla superficie bianca e rugosa di un foglio strappato agli angoli. Con gli anni, con i giorni, con le ore e i minuti, l'immagine di te che pervade la mia poesia è ruotata, come un pianeta che percorra la sua orbita intorno all'arte; si è lasciata illuminare fugacemente da sprazzi di diversa luce, proveniente dalla stessa fonte. Ed è sempre cambiata, sempre mutata. Non sei mai stato lo stesso, in me. Ma sei sempre rimasto, dopotutto. Sei una fonte inesauribile di poesia; una vena rigonfia che si ricarica solo quando torce le carni da cui trae sostentamento. Vige un patto mai firmato, forse. Uno scambio vicendevole di energie e vita: vivi nascosto in me, radicato ai tessuti miei come un parassita, e io da te traggo i versi che utilizzo per parlare di te. Un rapporto simbiotico ben noto sin dai tempi dei poeti elegiaci, nell'antica remota Roma. 
Certo è che, prima di trasformarti, di rilegarti a feticcio dal quale succhiare via poesia e ricordi, ho combattuto nel fango, aprendomi sul dorso e sul petto ferite che non credevo rimarginabili. Non pensavo che sarei sopravvissuto. Ti trascinavo dietro da tempo, troppo. O forse, meglio, tu trascinavi me. E io come un satellite, facevo di te il mio pianeta verde, dalle chiome nere e gelidi poli.
Tenendoti fisso al centro di un sistema da me creato, in cui non potevo però vedere che te, mi son piano piano dimenticato di aver seminato i miei percorsi tutt'attorno di punte di stelle, di potenziali realtà che, come semi piantati in un gelido inverno senza sole, non sarebbero mai potute crescere e sbocciare. Per anni, son stato un cimitero di speranze e semi secchi. Di teschi di sogni e ceneri di parole. Ma dal letame e dalle ceneri, son emerso e rinato. Dopo averti colpito, verso dopo verso; ho viaggiato su un eterno treno che baciava ad intervalli regolari le due estremità, l'immagine che avevo di te e la realtà oltre al velo che dipanavo ( districavo) con le unghie. Tutt'ora, non posso fare a meno di ancorarmi a ciò che speravo che fossi. A quella idea di te che avevo disegnato con saliva e lacrime. Certo, non sono contorni netti, e la coscienza risvegliata mi permette di camminare tra le coltri di ombre di questi incubi innamorati con in mano una lanterna che setaccia le oscurità. Non mi perdo. Non posso perdermi. Solo se volessi non troverei più le strade che mi hanno allontanato da te. Ma io le ho seminate di briciole e fili di cotone. Dunque, di perdermi nuovamente non ho voglia. Te lo dico però: delle notti, quando i venti si innalzano e i diluvi si abbattono sul tetto della mia casa, mi piace sedermi sullo strapiombo in cui respiri affannosamente. Mi piace accostarmi a quello che mi ha accompagnato per gli anni delle mia crescita; che mi ha trascinato giù, ferito e poi, pur nolente, respinto in alto. Mi piace distendermi ai pendii di un ricordo che non morrà mai in me.  Restare lì, per l'intera lunghezza della notte e aspettare che spiova, e che la corona solare cosparga d'oro l'orizzonte. Quando poi il giorno è nuovo, gli abissi tornano ad essere abissi e tu ti assopisci di nuovo, io mi raccolgo e mi allontano, carico di prosa ed elegie che un giorno comporranno di te un profilo preciso, ma lontano.

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Capitolo 13
*** Notte afosa di maggio ***


Il soffio morbido dello scirocco
anima le mie quattro mura
di una tenue tinta di
tramonto sudato.
Il tessuto sottile
del lenzuolo accarezza
la mia coscia nuda
e si attorciglia intorno
alla caviglia.
Il mio respiro è lento
e torbido come l'aria
di questo maggio
che attanaglia la Capitale.
Una sottile sonnolenza
dondola il mio capo 
e frammenta i miei
pensieri in un caleidoscopio
alienante di vermiglie passioni.
La dita percorrono 
sinuose la lunghezza
del mio busto, solleticando
l'elastico del pigiama.
Poi, si addentrano in
Fulvi luoghi inesplorati
che la mia adolscenza
ha visitato diverse notti.
La mia mente tiene 
fissa l'immagine
di un ricordo, che oscilla
fumosa per i contorni
poco netti.
Cinque dita si stringono
attorno al mio uno
e lo rendono partecipe
di una euforica e incessante
cadenza ritmica.
Il tuo spettro si aggira intorno
alle mie fantasie recondite
popolandomi il basso ventre,
ma mai il cuore.
Un effluvio di plasma
corre spietato  a
riempire percorsi altrimenti
vuoti, e innalza intrepido
il monumento della vita.
Il mio fiato si accorcia, 
sfugge al controllo,
incespisca e si rialza
per poi liberarsi in un
grido silenzioso.
Disperdo caldo il soffio
primordiale, e la mia
mano rilascia la sua stretta
cadendo inerme al mio fianco.
Gli occhi son chiusi,
la mente è vuota.
Il tuo spettro è svanito
in una nuvola di bianco
candore e mi ritrovo 
ancora qui,
sul materasso,
steso ad enumerare
quanti gemiti ancora
mi distanziano da te.

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Capitolo 14
*** Paper Boy ***


Conosco un ragazzo di carta

Oh, paper boy!
Oh, paper boy!

Il destino, di tanto
in tanto, gli va a sbattere
contro e gli imprime
le sue decisioni d'inchiostro.

Un giorno il vento lo solleva
e poi lo lascia cadere;
un giorno un fetido meticcio
gli piscia sopra;
un giorno si adagia sul
marciapiede bagnato di
pioggia, e attende che la
mano di lei lo raccolga da lì.

Oh, paper boy!
Oh, paper boy!
Such a poor boy!
Such a poor boy!

Il ragazzo di carta cammina
alla mesta luce di un lampione,
in piena notte.
Le strade son deserte,
così come deserti sono
i pendii delle suo umido torace.
Una pozzanghera,come
una cicatrice nei pressi
del cuore,
goccia dopo goccia
ha divorato il nero di penna.

Oh, paper boy!
Oh, paper boy!
Such an empty boy!
Such an empty boy!


Che triste  condizione, la sua!
Preda dei mutamenti della vita.
Su di lui, i segni del tempo
si evolvono intrepidi
sotto l'implacabile ticchettio
del grande orologio,
che dal torrione, lì su, in alto
lo guarda camminare 
avvolto in un giacchetto
di bianca cellulosa.


Che decidi, oh paper boy,
se non di morire?
Nel timido riserbo, il tuo,
il tutto si specchia 
per un guizzo di tempo,
ma l'immagine fugge,
si perde, non torna.
Ti rimane il nulla,
e col nulla vivrai.

Oh paper boy!
Oh paper boy!
Such a stupid boy
Such a stupid boy

Barcolli, forse ubriaco,
forse di lacrime e pioggia.
Ti accasci sotto il fusto
del tuo amato lampione.
La sua giallastra luce
si frastaglia e si colora
nelle righe di acqua che
ti solcano trasparenti.

Oh paper boy
Oh paper boy
Such a sad boy
Such a sad boy

Dove vai? Dove vai?
Resta, il tuo dorso ruvido
ne ospiterà di strattoni
e di urla mai espresse,
di quelle lettere pestate
con tante ardore,
e di frasi e versi
oppure di note e canti.

Oh, paper boy,
sei nelle mani
di chi sguaina penne
come armi e di chi le 
agita per tutto il cielo
richiamando a sè,
nostre serve felici,
parole e parole e parole.

Oh, paper boy!
Oh, paper boy!
Just my paper boy!
Just my paper boy!

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Capitolo 15
*** Il falò ***


E' il chiaro pallore di una luna lattiginosa
a specchiarsi sulla vellutata marina,
come una vergine appena sbocciata
che si china a mirar l'onda che si spezza.

La mezzanotte rintocca la sua presenza
alimentando il tenero candore
di quelle stelle laggiù,
che sono solo l'estremo saluto
di un cielo che una volta sola
fu come lo vediamo ora.

Intorno al falò, svuotiamo
bottiglie di vino e 
le lasciamo vuote 
su un letto di ghiaia.
Come se l'alcool agisse
da bianca colata di indelebile
vernice sulla patina tremolante
di tutte le incertezze seminate in noi.

Come brucia questa fiamma!
E intanto lo sguardo si affloscia,
la notte si cosparge intorno a noi
e le parole, bolle di sapone dal
sapore gutturale che giganteggiano
su sabbia e carboni,
scoppiano nel tragitto
tra le due bocche, senza
che il senso le pervada.

Tu sembri avvolto da una coperta
di fuoco, e il fumo mistifica 
una scintilla agonizzante nei tuoi occhi.
L'alcool passa sopra l'idillio
notturno un panno di morbida
illusione; insapona e smorza
un durezza che già l'umida
notte marina ha edulcorato.


Non mi guardi.
Stai galleggiando in un sogno
nella veglia; assapori un limbo
di incanto celeste e terrena realtà.
Io solo sul bagnosciuga
mi sento cullato dall'
eterno ritorno della schiuma marina
che bacia e bacia e bacia
lembi di sabbia,
come vorrei fare io
con la tua pelle fredda.

Non mi guardi, ancora,
ed è bene che sia così,
in modo che il lento scivolare
di alcune lacrime sfuggite
non catturi il tuo interesse,
non riveli un recondito
pensiero che, qualche volta,
la notte, balena fugace
nelle retrovie della mia mente.

Te lo direi, te lo direi eccome,
se ora il caso combinasse i suoi sforzi
per far sì che magari, per una folata
di vento, ti voli via lo sguardo dalla fiamma,
rapito da un lapillo svolazzante
che rimbalza sulla soffice sabbia
fino a miei piedi cinti dal mare.

Il cosmo intero però,
col suo ritmo serrato 
con il quale macina 
qualsiasi escresenza tumorale
che lo traghetterebbe fuori dalla sana
orbita che il destino ha dipinto sulla volta,
cospira contro di me.
Così restiamo separati
seppur vicini, con lo sguardo
percorrente le stesse direzioni
ma  un solo verso.

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Capitolo 16
*** Prima di dormire ***


Prima di dormire -  Quartina breve
 
Il telefono gracchia tenace,
nascondo rude il suono.
Lascio sprofondar la testa
sul cuscino; pesco stelle.

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Capitolo 17
*** Divenire ***



Sono puro divenire
io che
sfreccio in fumi di fango
di fronte ad occhi increduli
mentre le ore si stracciano,
e cadono gelide a terra;
e poi ancora m'innalzo
tra lampi di colori,
tanti che
 ne rimane uno solo.
Sono puro divenire
Io che
 muto e cambio
cangiante nelle forme
diverso nei modi;
non mi siedo
e non mi quieto,
irrompo in un boato
di scalpitanti tuoni.
Sono puro divenire
io che
sono io e un attimo dopo
non lo son già più;
come la rissaca del mar
risucchio il passato 
e ne faccio il mio suolo,
ma non affondo radici
bensì travolgo
e stravolgo terra
e aria e
fuoco e acqua;
fermo, volteggio libero
implacato, sgorgo limpido.
Sono puro divenire
io che
scorro fluido al di sotto
del mio sguardo;
Sono bianco e subito nero
e son tutto, e allora nulla
e quindi ancora tutto;
muoio nel darmi
ancora una vita
e vivo per morire di nuovo.
non mi placo eppur
vivo immobile e
in equilibrio 
tra gli squilibri.
Navigo perpetuo
in questo divenire
come i secondi che
secondo dopo secondo
secondi non son più.
Solo trotto senza meta
senza calpestare erbe
o far razzia di vita,
e viaggio muto 
in un ciclo di mutamenti
che non muta mai.
Siamo solo divenire noi,
cascate dilaganti 
 di materia vitale
che cessa e comincia,
incespica e si spezza,
muta e sempre diviene.

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Capitolo 18
*** Il tribunale ***


Solo e nudo,
al cospetto di un tribunale vuoto.
incantenato e col capo chino.

In me scolpita l'idea 
che gli altri han di me
a me mai conforme.

ad occhi chiusi assaporo
questi ultimi squarci
d'essenza, in attesa
dell'implacabile giudizio.

I miei altri occhi
piombano su di me
sferzando famelici
la mia coscienza.

Le mie altre dita
affilano gelida la lama
della memoria
e mi lasciano umido
e stordito ad impastar
di saliva le croste.

Alzo il capo.
Mi vedo.
Mi vedo due volte:
nello scambievole
percorso di due
sguardi in conflitto;
Nel reciproco riflesso
che infinito precipita
in se stesso;
Nell'inconscia
consapevolezza che
son carnefice e
carcerato, 
con i polsi
serrati da intrepide
paure e con in mano
l'arma che mi porta
a giacere a terra, 
di nuovo.

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Capitolo 19
*** Sarò femmineo ***


Sarò femmineo

Apriti a me.
Si nuota; pelle nuda.
Gelido tocco di sale.
Chiudi gli occhi:
Lo scoglio si erge
e il mare vince
perchè s'arrende
alla pietra.
Sarò femmineo
se lo vorrai.
Ricevente;
passivo;
umido.

Spalanca le porte.
la riva dista, come
le nostre pelli.
Cingici, Mare
e trascinaci in
un vortice spietato
in cui l'unica salvezza
la si trova uniti!
Sarò femmineo,
so che lo vuoi.
Pronto
a donarmiti,
a districarmi;
ad esser tuo.

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Capitolo 20
*** Stella del nord ***


Stella del nord


...E così costante come
lo scintillio sidereo, laggiù
affisso alla scura distanza.

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Capitolo 21
*** E viene la pioggia ***


E viene la pioggia, ancora.

Si fionda giù,
dalle pareti del profondo
cielo scuro
che immobile veglia sulle
distese silenti.

E viene la pioggia, ancora.

Viene a morire, qui
sul vetro del finestrino
di questo treno che
non si arresta mai.

E viene la pioggia, ancora

Ogni goccia serpeggia
muta, e cangiante
si separa da sè
mentre il treno è fermo
e io mi allontano.

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Capitolo 22
*** TeleVisione ( La visione della fine) ***


TELEVISIONE ( La visione della fine)


ll tramonto esala l'ultimo respiro
sciogliendosi sul Bel paese
e le cicale disperdono il loro ultimo
canto che nessun pare udir.
L'ultimo lume della nostra stella
scivola via dalla parete liscia
della finestra, che ora accoglie
le scolorite sagome del tubo
catodico.
Davanti allo schermo lucido, io,
col giovane sangue che bolle e
con la disperazione di chi sboccia
nel gelo dell'inverno,
nella voragine delle pupille.
Compagni d'età, come me
in precario equilibrio tra
la futura incertezza e l'incerto futuro,
osannano il loro demone
prostrandosi al suo cospetto
pronti a carpire ogni sillaba
masticata dal mezzobusto bugiardo. 
Sembra siano sereni,
quasi felici, nel farsi iniettare
ideali di plastica e modellare
la loro realtà d'argilla,
a macerare inermi senza
far nulla, e ad esser
mobili burattini nelle 
grinfie di una rete di inganni.
Con un solo tasto, lo schermo si colora;
facile,  come aprire una finestra,
eppure non è la stessa cosa.
I canali sono come sottili fili
congiunti alle estremità delle dita
di chi trae vantaggi dall'averci vuoti.
Vuoti e incatenati ad un mausoleo
d'avorio sgargiante, ma con
arazzi zuppi di sangue marcio.
Gli abitanti di questo mondo
sottosopra calpestano
leggi ataviche che alcuni
di noi non ricordano di aver
mai rispettato.
Ed io, nel mio furore 
iconosclasta, 
io, antagonista primo di 
questa grettezza alienante,
 mi figuro già sepolto
dalla ruota seghettata
di un ingranaggio malato.
Ora son sul davanzale
della mia finestra, con la punta
di un piede a dondolar nell'aere
crepuscolare dello zefiro estivo,
e con l'estremità dell'altro immerso
nelle pastoie purulente di un
sistema famelico.
Di essere scansato ai margini del mio mondo
io ne ho abbastanza.
Di essere un contenitore per gli interessi di terzi
io non ne ho più voglia.
Di essere gettato nel cuore
di questa democratica ignoranza
io non ne posso più.
Libero l'ultima nota ribelle
stanotte, poi mi addormento
mentre la mia Nave,che si
crede sicura al porto,
sotto le sciabole dei
suoi stessi marinai,
affonda muta in questo mare nero.
La luna a metà si ritaglia
un lembo d'argento e il respiro
del cielo fende il Bel paese;
Il brusio leggero delle cicale
si è spento, e tutto tace.

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Capitolo 23
*** Ricordo ( L'estate del 2013) ***


Ricordo ancora quelle notti
passate con l'anima danzante
a raccogliere i rimpianti spezzati
e sepolti sotto le macerie dei miei sogni;
quelle notti più buie del buio
trascorse a osservar
il disco solare far capolino 
tra gli ardui pendii dei colli di fronte;
Ero madido di sudore per le battaglie
che avevo perso e gonfio di lacrime
per il sale che passavo sulle ferite.
Ricordo ancora di aver camminato
in punta di piedi col fiato sospeso
su una fune di incubi scalpitanti
che urlvano il mio nome.
Abitavo la mia estate come un
guscio d'uovo vuoto, avvolgendomi
attorno a quelle concave pareti
di bianco vestite, senza mai uscire.
Piano piano, frammento dopo frammento
seguendo il fluire immobile delle ore
ricollegavo in un nodo indolente
le mie funi spezzate,
mentre la calura estiva si spegneva.
Ricordo ancora di aver sollevato il volto,
noncurante dei segni ormai permenanti
che richiamavano la mia resa, perchè
solo quello potevo fare: sperare; 
sperare di poter scalare ancora
le impervie alture e sedermi,
satollo di trionfi, in cima;
sperare che la risacca del tempo
mi trascinasse con la sua inerzia
al sicuro sulla riva secca.
Agosto giungeva al termine
e quell'ultima scintilla solare
si aggrappava alle redini
del mio muscolo.
Ricordo che da allora,
il capo non l'ho mai più chinato.

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Capitolo 24
*** Pantasema ***


Pantàsema - quartina breve

Vaga vaneggi sola, Pantàsema.
Il raccolto sfila dorato.
Oh, dammi un figlio! 
Subiaco canta, tu muta.

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Capitolo 25
*** Il solstizio ***


Il solsitizio - quartina breve

Un riverbero nel solstizio;
pietre aguzze si rispondono.
contemplo spazi vuoti e
spedisco affetto in carta.

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Capitolo 26
*** Livorno ***


Una lingua d'asfalto che
precipita tra le braccia tese del mare,
dardeggiata dall'ultima curva del sole,
e poi tu e i tuoi capelli  fluttuanti,
la scia di fumo che scivola via
dal tubo di scappatoio della
macchina davanti a noi,
il profilo sgargiante di fiamma
della Rossa, coi suoi litorali
festosi e il fragore delle chitarre,
e ancora, il sommesso tepore
della penna che scorre sulla cellulosa
bianca del mio quaderno,
mentre la radio canta e stride.

Livorno si combina
in una percezione mista
di suoni e colori.
La rete filtrante delle mie sensazioni
si districa e si spalanca
setaccia granelli
e poi distilla un succo
che sà di sale,
che odora di sangue:
 il ricordo.

La corsa s'arresta.
Si scende.
La visione scema.
Ora si vive.

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Capitolo 27
*** Vagabondo ***


Ancora sillabe di vana magnificenza
galleggianti su significati morenti,
perdute sulle via, senza alcuna destinazione.
Ancora i fuochi di queste nostre battaglie
svanite in siderei lapilli  e ferri
pregni di grumosa linfa rubea,
consunti dalla fredda ruggine.
Pur se strisciando sul ventre,
incontrando gli spigoli aguzzi
e levigati delle sporgenze del suolo,
mi sto muovendo; 
stavolta lontano da te.
Non so dove andare,
 non so come andare.
Annaspo in una caotica plasticità
che a ben pensarci, mi è sempre
parsa come il petto di una madre.
Sembra che qui gli arbusti e 
le selci siano intatte, mai 
corrotte dal peso della civiltà,
e che le radici di cinabro
abbiano conosciuto solo il sospiro
di questi venti e mai il suono
dei nostri passi discontinui.
 Il sentiero che hai scelto
segue il percorso parallelo
e opposto al mio,
eppure una manciata di minuti prima
eri qui, al mio fianco a spergiurare
in un tono gelido come la tua terra
che saresti rimasto.
Non importa, comunque.
Eravamo condannati a 
vagare con lo sconforto delle
tempeste sciolto in viso,
in solitudine.
E questo sto facendo: vago.
Senza direzione, cerco;
sono ormai andato.
I pendii spogli dei colli
qui attorno mi ricordano
che troppe primavere devon giungere
per colmare quel vuoto indomito.
Mi abituerò come ho sempre fatto.
Senza di noi, come deve essere.

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Capitolo 28
*** Nove tempeste ***


Cascate arboree di cime
verdazzurre mi piovevano 
sul capo fino a coprirmi il viso,
 ed io con la schiena giacente
sulla corteccia maestosa 
e rugosa, consumavo
l'orizzonte lontano 
in attesa di vedere 
il tuo miraggio.

E allora venne il vento
a far oscillare la tua sagoma
scolpita nel fondo dei miei battiti,
eppure i tuoi contorni
non si persero in bigie
scie di fumoso autunno,
ma le linee, come intatte
scavarono fino a 
gettare polvere di grafite
nell'impeto del mio sangue.

Poi arrivò la pioggia
a riversarsi con umido
ardore sul tuo ricordo
ricoprendolo col suo
manto lucido, ma goccia
dopo goccia, essa si esaurì
schiantandosi morente
sulle gote tiepide del
viso tuo.

Allora le gocce divennero
aguzze pietre che fendendo l'aere
squarciarono la curva del tuo
labbro che però mai
versò un rivolo di vermiglia
linfa sul prato lucente.

Tutte intorno a me
disseminate come battufoli
mortali, esplosero 
in boati laceranti 
le mine, e ancora 
puntati al centro
dei miei battiti, 
innumerevoli fuochi
diedero inizio ad una 
danza morente senza
pietà, che però ti vide
resistere in lacrime 
stretto alle pareti dei
miei tessuti.

Le pareti celesti si separarono,
ferite nel centro,
e vomitarono distese di
lapilli incandescenti
che precipitarono indomite
sul tuo simulacro
d'amianto scolpito e
si posarono sopite
sul tuo ricordo; poi
furono cenere, ma 
nemmeno queste, con
il perpetuo scivolare
dei secondi su questo
sputo d'esistenza,
ti erosero mai.

Il caldo vento d'Africa
trascinò in un turbinio
frizzante oceani
di soffice sabbia bionda
che granello dopo granello
andarano a soffocare 
l'aguzza scintilla
nella voragine della
tua iride;
eppure l'ibrida lucentezza
del tuo sguardo
scavò nelle sabbie
per catturare trionfante
un nuovo respiro.

La sabbia si congiunse
alle pozze d'acqua
 tutt'attorno;
divenne fango, e il fango
nero e bollente
colò come pece dalle profondità
del grande specchio blu
mozzandoti il fiato.
eppure,
troneggiasti troppo alto
per poter cadere inerme.

Infine giunsero i veli
oscuri delle tenebre,
senza ombra di stelle
a decorar il manto.
Fui io a perdere l'equilibrio;
fui io a non vederti più;
fui io allora a cercarti,
ovunque il tuo ricordo
potesse aver scalfito 
la crosta terrestre.
ti ritrovai però ancora una volta
raggomitolato nel buio
 sotto i pendii
del mio sudicio muscolo;
ancora qui,
ad un passo dalla frenesia
dei miei sospiri,
sotto le cime verdeazzurre
del salice rugoso

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Capitolo 29
*** Piombino ***


Rovina di rame secco
Acciaio ruvido e operai
a capofitto nel mare
mentre scivola il tramonto

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Capitolo 30
*** l'attacco del pirata ***


Entra, entra in punta di piedi
ma non toccare nulla;
I miei confini celano 
racconti e miti 
che nessuna voce ha
mai narrato.
Il pavimento che ora calpesti
è un tormentato oceano di
fagocitante disperazione,
che ondeggia e ribolle
al mio esclusivo comando.
I mobili di legnoso azzurro,
spalancono le loro cavità
liberando taglienti zanne
come spettrali squali 
dalla pinna argentea.
Il lampadario appeso sulla 
superficie instabile di
questo disordinato 
cosmo prosciugato,
è un sole morente e
pallido che illumina 
ad intermittenza le perdite
sanguinolente di chi,
tra queste onde, ha esalato
l'ultimo respiro.
 l' ombra che vedi
sulle pieghe dell'acqua,
è di quella sagoma maestosa
che si impone su di te;
sono le ante cavernose di un
armadio che occulta
tesori e teschi, fuggendo
dalla impalpabile luce
che penetra di tanto in tanto.
Il letto è la mia nave che
solca muta e timorosa
questo mio immenso mare;
Arroccato sulle cime
di queste alture,
distante dal procelloso,
cangiante e incessante
respiro marino,
abito la fortezza aspettando
l'ammutinamento dell
'equipaggio sottomesso.
Mio pirata con le cicatrici
sulle palbebre e la barba 
impregnata di rancido rum,
entra, entra pure,
La mia nave non è salpata
In braccio al vento per
naufragare sotto la tua sciabola.

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