Double Mirror

di Pachiderma Anarchico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Time will tell ***
Capitolo 2: *** Sit down or I send everything to hell ***
Capitolo 3: *** Close enough to fall ***



Capitolo 1
*** Time will tell ***


Ci vuole una premessa.
Qui ci vuole una premessa. 
Non avrei mai pensato di scrivere nel fandom di Spider-man neanche una one shot di 50 parole e invece eccomi, con una storia per il quale sto vedendo i folletti verdi (letteralmente) e che mi sono messa a pensare e a ripensare e a cambiare e a scrivere su qualunque superficie scrivibile tanto che la mia mente è una bufera di neve in Alaska e ho fogli (e tovaglioli di carta) sparsi per tutta la casa.
Mi sono messa a cantare le canzoni di High School Musical gente. 
La situazione sta precipitando più velocemente di Gwen... okay okay, di Albus Silente dalla Torre di Astronomia.
Niente sarcasmo! 
So che siete ancora tutti scioccati per la tragica morte della Stacy.
E tutto questo a causa di The Amazing Spider-man 2.
In ogni caso spero che questo inizio di percorso (sembro un parroco) vi porti alla luce (eh) e vi piaccia, soprattutto. 
Se così non fosse prendetevela con le seguenti persone:
•Peter Parker per essere shippabile con qualsiasi cosa meno cucciolosa di lui e perchè mentre guardavo il film aveva una complicità con il Signor Osborn da urlare "Shippaci dannazione, shippaci!"
• Harry Osborn perchè mi fa il duro e l'autoritario e poi è bastato uno sguardo (occhi da cerbiatto potenza 10) del Peter Parker per sciogliersi come il mio budino alla vaniglia fuori dal frigorifero;
Megara X. Lei è l'incolpabile numero 1.
È lei che mi spinge a scrivere certe cose con i nostri vaneggiamenti quotidiani.
E' lei che tenta di mettere ordine nel chaos dei miei personaggi che si prendono le ferie anticipate.
Ed è a lei che dedico questa storia, perché senza di lei probabilmente avrei ammazzato Peter nel secondo capitolo realizzando che è un ragno e che dopo la fine di quel maledetto film è brutalmente incazzato con Harry. 
(Non si può essere incazzati con Harry.)
Ma questo Megara X non vuole che lo dica perchè sostiene che io debba essere imparziale nel mio Harem di protagonisti, e per questo l'ho messo tra parentesi.
E il titolo è suo, altra parentesi.
Non so cosa ho scritto e non so perché, ma io non ho potere sui miei personaggi.
Loro fanno quello che vogliono quando vogliono e come vogliono e io devo andarmene in giro a tentare di scendere a compromessi con tutti e a soddisfare le loro richieste se non voglio che mi boicottino la fan fiction.
Chiunque abbia mai detto che lo scrittore decide qualcosa della sua storia ha mentito.
Pachiderma Anarchico
 
PS: il banner è stato creato dalla bravissima HilaryC
PS2: la storia inizia dopo 6 mesi dalla fine di The Amazing Spider-man 2.
 
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 Double Mirror
 
 
 di

Pachiderma Anarchico




Megara X,
la Felicia Hardy della mia vita, 
cerca sempre di dare un contegno alle mie oscene turbe mentali e
sostiene le mie idee anche quando era meglio non farlo.
 
 

Capitolo 1

 TIME WILL TELL 


 

 
 
 
Il Ravencroft è silenzioso.
Il Ravencroft è estremamente silenzioso.
Come se avvertisse che qualcosa è cambiato.
Come se potesse avvertire il dolore.
È qui grazie a Spider-man. Grazie alle sue conoscenze; grazie al fatto che nessuno può dire di “no” a Spider-man.
E’ Spider-man quello forte.
E’ Spider-man quello che ha tentato di salvarla.
E’ Peter Parker che li ha persi. Entrambi. 
Vorrebbe urlare così forte che è strano che le guardie che lo scortano attraverso questi corridoi di luce artificiale non lo sentano. 
Si meraviglia persino che Spider-man non corra a rimproverarlo: “c’è sempre un prezzo.” 
E’ troppo alto… è troppo alto.
“Signor Parker ha 15 minuti.”
Spider-man aveva fatto in modo che sarebbero rimasti soli.
Perché è Spider-man quello potente.  
Non lui.
Chi è lui?
Solo un diciottenne che ha perso due delle persone più importanti della sua vita. E la cosa peggiore è che una di loro è ancora qui. 
Ma Peter, le mani bloccate da corde invisibili e la voce che fatica a fingersi integra, non può raggiungerla.
Non è pronto e non vuole esserlo. Non vuole essere responsabile. Non stavolta.
Ma dopotutto Spider-man ha mosso mari e monti per vederlo e permettere a Peter Parker di dirgli quello che deve dirgli. 
Lo scortano dentro, una sedia si sposta, lui si ci lascia cadere. Non che Peter lo stia guardando. 
Se lo stesse guardando potrebbe certamente dirvi che le occhiaie sono così evidenti da lasciare voragini sul suo volto, che la bocca è spaccata in più punti, che la pelle è più bianca del bianco stesso. 
Ecco, ora lo sta guardando.
“Peter Parker.”
“Harry Osborn.”
Quanto può essere familiare un semplice scambio di battute? Quanto può far male? 
“Sei in isolamento, ho saputo.”
“Hai ottime fonti.” 
La sua voce. Un paio di manette, un paio di brillanti occhi blu; segni, bruciature e aloni neri, questo è tutto quello che rimane del suo migliore amico. 
"Se non avessi le mani legate mi uccideresti?”
“Non mi servono le mani per ucciderti Peter.”
C’è una sorta di insofferente divertimento nella sua voce. 
“Godi nel sapere che soffro?”
“Godo nel sapere che finalmente anche tu sai cosa significa morire.”
Non guardarmi, non con quel viso così familiare, non dopo quello: ne hai perso il diritto. E se tu mi guardassi non potrei sopportarlo. Sarebbe difficile, molto più difficile rimanere lucidi davanti al volto di Harry Osborn.
Lo è sempre stato.
“Siediti”, dice l'uno.
“Non darmi ordini” risponde l'altro.
“Allora non sederti” continua.
“Stai continuando a darmi ordini” continua a rispondere.
“Allora fa’ ciò che vuoi.”
“E’ comunque un ordine implicito.”
Si muove sulla sedia come se fosse ad una delle sue importanti riunioni, accomodato sulla sua poltrona dallo schienale alto, con indosso un vestito d'argento creato su misura per lui e quell'aria da gran signore piuttosto che in carcere con manette ai polsi e un’accecante tuta arancione che non mostra niente del suo corpo se non gli avambracci rovinati.
Peter ricorda che è questo uno degli aspetti di lui che non ha mai dimenticato: la sua infallibile capacità di sembrare il padrone anche quando sono gli altri a comandare.
“E quindi sei venuto fin qui, ottenendo un permesso speciale di 15 minuti per incontrare un detenuto tenuto in isolamento da una prigione di massima sicurezza solo per poter fare l’analisi logica delle sue frasi?” il sorriso si spezza, diventa un ghigno malconcio. 
“In realtà è più lungo di 15 minuti” dice Peter sedendosi. “Ti porto via da qui, per due ore, domani.”
Harry assottiglia lo sguardo, gli occhi sono come saracinesce abbassate per metà, da cui spicca un limpido pezzo di cielo turchese.
“Come hai fatto a…”
“Ti sorprenderebbe cosa riesce a fare un diciottenne in tuta di latex.”
“E questo diciottenne in tutina di latex cosa vuole esattamente da me?”
Le manette tintinnano. Le sue mani tremano. E più tremano più il suo sguardo si fa sinistro.
Peter finge di non notarle. Lui fa lo stesso.
“Fare un patto.”
Il cigolio di una sedia è quello di un uomo che si sposta. Lui si avvicina a al diciottenne, sporgendosi sul tavolo che li divide. 
“E perché dovrei voler fare un patto con lui?”
Peter è come roccia sferzata da rapide di lava incandescente, ma resiste.
“Perché può farti uscire di qui.”
 Il cigolio torna al suo posto, e anche lui.
“C’è ancora chi ti chiama Peter Parker?”
“C’è ancora chi ti chiama Harry Osborn?”
Si guarda i bracciali di ferro. Strisce rosse sono vivide sulla sua carne. Sorride, annuisce, non solleva lo sguardo.
“C’è ancora gente che crede che l’assassino sia io?”
B A N G . Come una pallottola spuntata. 
Peter temeva sarebbero arrivati a questo punto. Solo non credeva che ci sarebbero arrivati così in fretta.
“Cosa intendi dire?”
“Beh… mi hanno detto che eri al suo funerale… piangevi sulla sua tomba… la sua morte… Cosa si prova a sapere che è stata colpa tua?”
Scatta. Dalla sedia. Dalla rabbia. Dal dolore. 
Peter scatta e sbatte le mani sul tavolo, palmi aperti e cuore dolente. 
“Dovresti dirmelo tu visto che l’hai uccisa.”
“Aaa…” alza gli occhi, un sorriso rotto sul suo bel viso. 
Questo mondo è una partita persa.
“Ma non l’ho uccisa io… l’hai uccisa tu.”
Gli parte la mano. 
Forte, molto forte.  
Doloroso, Peter lo spera.
L’aveva sulla punta delle dita, proprio qui. 
Poteva trattenerlo. Non l'ha fatto.
Ma lui l’ha fatto apposta. 
Nell’istante in cui la mano del diciottenne dai grandi occhi marroni collide con la faccia del ventenne dalle iridi in tempesta e lo schiaffo graffia sulla sua guancia, la sedia perde equilibrio e lui perde stabilità: si alza, i muscoli tesi, l’espressione folle.
“Signori! Fermi!!”
Grosse mani e sodi muscoli si interpongono tra loro. Dividono l'indivisibile. Evitano l’inevitabile. Rimandano il peggio.
Sono otto gli uomini grossi quanto un fuoristrada e non sono sicura che riusciranno a fermarli.
“Signor Parker se ne vada, è meglio.”
Peter riprende il controllo di se quanto basta per arretrare da solo senza che debbano strattonarlo.
“Harry... Harry!" Grida. "Ti devo vedere domani!" 
E mentre le guardie lo forzano a camminare l’ultima cosa che Peter sente è l’ultima cosa che vorrebbe sentire. Il grido lontano di una chimera che si mangia a pezzi i resti del suo cuore: “Si dice Signor Osborn, non siamo amici.”
 
 
 
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“Signor Parker, il Signor Osborn ha accettato di usufruire del permesso di uscita speciale dalle 17.00 di questo pomeriggio sino alle 19.00 dello stesso giorno, per un tempo massimo di 2 ore. Il Signor Osborn non indosserà le manette e\o alcun tipo di ferro ma un localizzatore che permetterà all’istituto di supervisionare la sua uscita e rintracciarlo dovunque egli sia. Se allo scoccare del 120esimo minuto il Signor Osborn non sarà entro l’area interna del Ravencroft entrambi sarete ritenuti responsabili e gli ufficiali si metteranno immediatamente sulle vostre tracce.
 Durante l’uscita il Signor Osborn non potrà:
 
- entrare in possesso di un’arma da fuoco;
- oltrepassare i confini della città di New York;
- parlare e\o entrare in contatto con persone che non siano lei -Signor Parker-    o i familiari di lei -Signor Parker-;
- bere alcun tipo di alcolico e\o super acolico;
- fumare tabacco e\o qualunque altra sostanza;
- commettere atti ritenuti potenzialmente pericolosi per sé stesso e\o per altri.
 
E’ presente una penale riconoscibile come reato per qualsiasi violazione di suddette norme.
All’eventuale insorgere di problemi chiami all’istante il contatto di Emergenza del Ravencroft.”
 
La donna che sta parlando meriterebbe tutta l'attenzione dei sette cieli, ma dopo aver capito che una volta usciti di qui è già tanto se potranno respirare senza essere arrestati, c’è ben poco da stare attenti, e la razionalità di Peter si perde nell'attesa.
 Non gli metterò armi da fuoco in mano, non parlerà con nessun altro che non sia io, non si ubriacherà e quindi non cadrà in coma etilico e non fumerà. Questo non basterebbe comunque a fermarlo.
“Se acconsente ad ogni parola firmi qui Signor Parker.”
“Sì, sì.”
Peter vorrebbe solo che lo facessero uscire. Tipo adesso.
“Non appena avranno finito di applicare il localizzatore al Signor Osborn potrete andare.”
Non ci vuole molto. Alle 17.00 precise un ragazzo di vent’anni gli va incontro.
Ci sono uomini con lui, ma alla fine lo lasciano andare. 
“Andiamo” dice Peter, soltanto.
Cammina avanti ed Harry cammina dietro. Sono vicini, ma non abbastanza. Si conoscono, ma non abbastanza. 
Harry non indossa altro che una felpa nera. Il cappuccio gli ricade sulla fronte. 
Non vuole essere riconosciuto. 
E in ogni caso Peter dubita che qualcun altro vedrebbe in lui il ricco e abbagliante figlio di Norman Osborn, giovane erede di un’azienda bilionaria, con la messa in piega perfetta e le lucide scarpe marchiate Versace.
No… ora sono altri i marchi che si porta addosso: botte, caos e il suo odio.
Per un attimo Peter ci crede davvero che avrebbe potuto odiarlo. Così, semplicemente. Come si odia l’autista dell’autobus che fa ritardo; come si odia la professoressa di matematica quando ti mette D; come si odiano i mostri sotto al letto quando da bambino il buio ti fa paura.
“Dove stiamo andando?”
“Cammina.”
Fa un altro passo prima di insistere.
“Vorrei saperlo.”
“Io vorrei che tenessi la bocca chiusa.”
“Rettifico: io voglio saperlo.”
Ah non ve l’ho detto? Harry è la persona più testarda che Peter abbia mai conosciuto. Più di… di lei. Più di suo padre. E suo padre era testardo eh. Penso che devi esserlo quando hai intenzione di trasformare la gente in lucertole giganti pur di salvarti la vita.
Più di Peter. 
Il che è tutto dire.
Per questo si ferma in mezzo al marciapiede, rifiutandosi di fare un altro passo, con quel broncio testo e infantile e quelle labbra di rosa arricciate.Perché è testardo. E orgoglioso. Ed è un fottutissimo maniaco del controllo. E ama gettare i resti della logica in pasto al caos.
“Cammina.”
“Ah-ah.”
“Cammina.”
“No.”
A mali estremi, estremi rimedi. E’ così che si dice no?
Peter sa solo che con mali estremi ci vuole roba forte e mente salda, ossa ferme e nessun passato a fissarti da lontano con i suoi brillanti occhi accusatori.
Ecco perché lui tende a sbagliare.
La sua mano si chiude sul grosso bracciale di plastica e metallo sul polso di Harry, imprimendoglielo sulla pelle. Il localizzatore.
“E io ho detto: cammina.”
“Che... merda lasciami!”
Peter ubbidisce. Ma a metà, perché continua a tenerlo. Continua a scaldarsi. Continua a tirarlo senza delicatezza,
“Ora non c’è la tua scintillante armatura verde smeraldo a pararti i colpi, eh?”
La voce è più rabbiosa, gratta al suolo come gli artigli affilati di un gatto rosso su un divano di cristallo verde.
Lo lascia, si volta, per Peter la conversazione é finita e…
“Credi davvero abbia bisogno di un’ armatura per ferirti? A me non serve una maschera per essere coraggioso, Peter.” e Peter continua a dargli le spalle. 
Non osa. Non si volta. Se osasse anche solo guardarlo sarebbe la fine. Peter vedrebbe trionfo e rancore nei lineamenti di Harry ed Harry vedrebbe dolore ed incubi in quelli di Peter e Peter, diamine, non può permetterselo.
“Di qui." il più piccolo entra in un vicolo.
E’ abbastanza buio, è abbastanza grande. 
Harry lo segue senza obbiettare, ma solo perché è fuori di prigione dopo 6 mesi ed è momentaneamente troppo stanco per reagire. 
Momentaneamente.
Può farcela. 
“Non è Montecarlo…” l'ironico sarcasmo dell'altro si guarda intorno, “ma potrei abituarmici. Cosa devi dirmi?”
“Aspetta, non qui.”
è spazientito. “Sei tu che mi hai portat—“
Sempre più in alto, i grattacieli fanno a gara col sole per il monopolio del cielo, e nessuno dei due può fare a gara con Peter.
L’ultima ragnatela si spezza sul tetto della NY Times Building. 
New York s’nchina ai loro piedi.
“Qui.”
Lo tiene ancora per la vita quando poggiano i piedi sul tetto del mondo. 
Probabilmente lo sta stringendo troppo, Harry ha il respiro mozzo e la voglia di prenderlo a calci.
Questo non lo dice né lo da a vedere, ma non potrebbe essere altrimenti. Lo lascia andare.
“Che ti succede? Volavi con tanta disinvoltura su quell’aeroplano in miniatura..”
“E’ un aliante e sì, lo sono, quando guido io.” borbotta scuotendo il capo. “Chi ti ha dato la patente…”
Solo adesso se ne accorge Peter, con la luce del tramonto negli occhi e il vento fra le ossa, di quanto Harry sia stanco. Ombre nere sugli zigomi e piccoli tagli rossi sul collo. Capelli spettinati e indomiti sulla fronte chiara, labbro spaccato e occhi assenti, quasi come se nulla potesse più interessargli. 
Questo è un lato di lui che Peter non aveva mai visto, ma d’altronde sono successe cose che non erano mai successe.
Quando il corso degli eventi decide di prendersi gioco di te devi affilare coltelli che avevi giurato di non impugnare mai.
“Non è Monte Carlo… ma peso che possa andar bene comunque.” 
L'Uomo Ragno imita il suo sarcasmo e si siede, non saprebbe dire se accanto a lui o no. Ma non vuole toccarlo. 
“E ora che abbiamo anche la location perfetta puoi, in nome di Dio, dire quello che devi dire? Stai per chiedermi di sposarti?”
“Qualcosa di molto peggio.” Il localizzatore ticchetta come une bestia addormentata.
“Come ho detto ieri, voglio fare un patto con te. Anzi non voglio… devo, perché tu hai bisogno di me e... io ho bisogno di te.”
Il ragazzo più grande osserva in silenzio il suo interlocutore, con quel suo fare inquisitore, con il luccichio negli occhi di chi ha il mondo in mano, nonostante tutto e dopotutto. 
Ma come fa?
“A costo di far sembrare tutto un grande deja-vu devo chiederlo.” Si schiarisce la voce come se dovesse dire qualcosa di molto importante. In un film starebbe per dire la battuta che racchiude tutta la storia. “Tu hai bisogno di me?”
So già dove vuole andare a parare. “Del tuo aiuto, s’intende.” Peter si difende.
“Hai bisogno del mio aiuto, quindi hai bisogno di me. E ciò comporta un mio interesse alla questione… o sbaglio?”
“Hai interesse nell’uscire dal Ravencroft?”
“Sì.”
“Eccolo trovato.”
Sbatte le palpebre. Le ciglia si toccano.
“Tu puoi farmi uscire di lì?”
“In cinque giorni. Quattro se non fai cazzate.”
Il vento diventa gelido sulla cima più alta, la diffidenza di Harry è palpabile nel riflesso ombroso delle nuvole.
“Ho avvocati eccezionali dalla mia, potrei comunque uscire—“
“Ah lo so che potresti… ma che dico, puoi... ma in quattro giorni?”
Neanche lui può negare che niente conta di più della libertà di andarsene in giro nelle sue macchine di prima classe e stare seduto nell’ufficio vetrato del grattacielo che porta il suo nome e bersi quante bottiglie di Cognac vuole. Niente conta di più della libertà… e della vendetta. 
Per Harry Osborn la vendetta ha avuto un valore più alto della libertà.
“D’accordo... supponiamo che sia interessato. Tu cosa vuoi in cambio?”
“E’ un patto, quindi io do a te e tu dai a me. Quello che voglio io da te e che tu torni ad essere il capo della Oscorp.” Peter si ferma un attimo, giusto il tempo di adocchiare l’immensa torre difronte a loro E’ così alta che solo a guardarla gli viene la nausea. E le vertigini. “Quindi ti sto chiedendo... semplicemente... di tornare ad essere Harry Osborn.”
So che “semplicemente” non è il vocabolo più adatto, che è tutto meno che semplice, che la sua scelta lessicale non è delle migliori, ma mentre Spiderman è quello audace e sfrontato che si butta dai palazzi di New York (e sottolineo: i palazzi di New York) Peter Parker non vuole pensare al domani, e a quanto tutto questo sarà difficile. 
Il ragazzo che un tempo era il suo migliore amico lo osserva con due occhi così azzurri che sembrano uno scherzo della sera o di una qualche magnetica illusione ottica; probabilmente è colpa delle occhiaie che gli stanno mangiando la pelle o del pallore eccessivo, ma non sono mai stati così azzurri. 
Fino ad ora.
Non risponderà, sta valutando la questione, ed evidentemente non lo convince.
“E voglio questo… perché nella Oscorp e con la Oscorp stanno accadendo cose strane… sospette. Gente che scompare, ricerche occultate... Nasconde più di quello che sappiamo, e i fatti insoliti che stanno capitando, ci scommetto le mie ragnatele, derivano tutte da lì. Nessuno sa far sparire le persone meglio della Oscorp.”
Perché Harry lo sta guardando come se fosse un povero scemo?
“Cosa scommetti..? Okay e io cosa dovrei scommettere, il mio Aliante?”
“Aspetta, stai parlando del piccolo aeroplano… vero?”
Doveva aspettarselo che avrebbe alzato gli occhi al cielo. L’ha sempre fatto in risposta al suo essere… Peter. Ma dopo sorrideva. Sorrideva sempre, alla sua goffagine, alla sua seplice voglia di vivere al massimo delle sue capacità, all'umile timidezza di chi ha una bufera dentro ma agli altri dona sempre il sole. Gli sorrideva Harry, con quel fare indulgente e amabile, come quel sorriso alla Osborn. 
Adesso non sembra sappia più come si faccia a sorridere.
“Sono dentro per omicidio Parker. Come posso tornare ad essere uno degli uomini più importanti della ricerca scientifica mondiale se—“
“Farò sparire le prove.” butta lì Peter prima che lui stesso possa fermarsi. Tirandosi un pugno in testa magari. “Tutte. Le nasconderò dove nessuno possa trovarle.”
Peter Parker non ricorda bene quando è giunto a questa conclusione: se nelle sue continue visite al Cimitero Centrale o nel letto, sveglio e sudato dopo uno dei suoi ormai amichevoli incubi notturni di una figura sfocata e nitida, vicina e lontana che sfoggia il suo ultimo addio in una caduta libera verso la morte. Ma gli era sembrata la soluzione migliore, allora. 
Adesso vorrebbe aver fatto tutto -tutto- ma non questo. Non funzionerà. 
Intendiamoci, è un piano perfetto. Sono loro che non lo sono. 
La sera si affaccia sul tramonto ormai morente. Le stelle non ci sono. 
Sì che ci sono, ma a New York è impossibile scorgerle tranne che in pochi punti che come Spider-man Peter ha scoperto e imparato a memoria. Uno di questi è il grattacielo della Oscorp. L’edificio è così alto che le stelle non solo ci sono, ma ti sbattono negli occhi ed è… meraviglioso. 
Non si rende conto che Harry si è alzato fino a quando non lo vede già in piedi, a parlare con una delle sue mille voci, questa volta un suono basso e ambiguo.
“E tu faresti questo perché…”
“Perché, come ho già detto, mi serve Harry Osborn.”
“E se io ti tradissi?”
“Ti farei sbattere di nuovo dentro, e se ciò non bastasse, ti ucciderei.”
Fa un passo indietro, si alza anche Peter. Lo conosce troppo bene. Adesso, lo conosce per davvero. Sa fin dove arriverebbe per raggiungere i suoi scopi.
Harry Osborn sarebbe disposto ad uccidere pur di provare di avere ragione.
O peggio.
“Tu non mi uccideresti...”
Un passo indietro e uno avanti. Sembra una danza ma è una guerra.
“Tu non mi ucciderai.”
“Smettila..”
“So chi sei Peter Parker…”
“Harry.”
“E per tua sfortuna… lo sa anche lui.
E si lascia cadere.
Così.
Lascia che le sue gambe sprofondino nel vuoto oltre il cornicione. La gravità vince per un secondo prima che i riflessi del ragno vincano su tutto il resto. 
Le ragnatele lo portano da lui, sono mani traslucide che lo afferrano per un braccio, rapide e insaziabili. Il cappuccio cade indietro quando cozza contro di lui. Il cuore gli sbatte contro il collo. Quello di Peter è finito da qualche parte nelle gengive. 
Ma se Harry sapeva che Peter lo avrebbe afferrato e Peter sapeva che ci sarebbe riuscito, allora perché diamine sbattono così? 
Un braccio stringe la vita dell'altro. E’ sottile. Più di quel che Peter si sarebbe aspettato, e le labbra sono screpolate ma del colore dell’uva fresca nella penombra, e la carne della guancia destra è tranciata da una cicatrice provocata da un ingranaggio spaccatosi nella Torre dell’Orologio nella notte in cui il tempo si è spaccato. 
E sembra quasi che il suo ex- migliore amico si stia spaccando pure fra le le sue braccia.
Ma poi Peter gli guarda gli occhi, e Times Quare sembra una stanza da letto buia al confronto. 
E Peter sa che il suo ex- migliore amico non può spaccarsi fra le sue braccia perché lui è Harry Osborn, e potrebbe morire, ma non spaccarsi.
Potrebbe spegnersi tutto a un tratto ma non smettere di sfolgorare.
E se non avesse avuto davanti, a colpo di respiro, le sue labbra da bambola avrebbe capito che c’era qualcosa che non andava, che la sua voce era… difficile, simile a unghie appuntite su una lavagna arrugginita dal tempo, e che i suoi occhi non avevano abbandonato quelli di Peter neanche quando lui aveva abbandonato lo sguardo da qualche parte fra il mento e il labbro superiore di Harry.
Peter avrebbe capito che c’era qualcosa che non andava da come Harry non sbatteva le palpebre, dal respiro sottile e silenzioso di un ladro in una banca blindata, dagli occhi improvvisamente soddisfatti.
Ma aveva quelle labbra davanti e Peter non capì niente, niente, di tutto questo.
“Devo portarti indietro.”
Ammette soltanto, allontanandosi con una sorta di fredda malinconia sulle fronde giovani del suo volto mai troppo adulto.
“Sì, devi.”
Risponde l'altro, senza muoversi. Senza facilitargli le cose. Senza smettere di avere le luci della città riflesse negli occhi.
È solo Settembre. Settembre e la sua malinconia e i suoi ricordi e le sue luci.
Harry sente nuovamente una presa forte cingergli la vita, e lui si lascia avvicinare, docilmente. Ma è teso, Peter lo sente dalla rigidità della schiena. Può avvertire l’osso dell’anca sui polpastrelli.
“Potrebbe essere un grosso errore Spider-man…”
Il cielo lo sente sussurrare. Sulla lingua di Harry sa come un dato di fatto, come la rovina di un impero.
“Allora lascia che sia Peter Parker a farlo.”
Scendono giù senza guardarsi, mentre il cielo minaccia di crollare loro addosso.

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Capitolo 2
*** Sit down or I send everything to hell ***





 

Double Mirror
 
 
 di

Pachiderma Anarchico

 
 

Capitolo 2

 Sit down or I send everything to hell 






Ha rispettato i patti: Harry è fuori di prigione giovedì sera, quattro giorni dopo la loro piccola chiacchierata. 
Harry è arrivato scortato dagli uomini del Ravencroft ma varca la soglia da uomo libero. 
C'è qualcosa di inquietante nel vedere la causa della morte di Gwen Stacy vagare libera per l'appartamento al 108esimo piano della Oscorp. C'è qualcosa di sbagliato. E' qualcosa che Spider-man è ancora restio ad accettare.
Ma ha dovuto farlo, perché Harry Osborn si rivela sempre, in un modo o nell’altro, il nodo della questione, l’elemento che apre tutte le porte (e che dopo te le sbatte in faccia) e senza di lui Spider-man non potrebbe fare ciò che deve fare. 
Sarà per il suo cognome, sarà per la sua caparbietà, sarà per quella maniacale sete di controllo, ma è meglio averlo dalla propria in situazioni pericolose. Forse perché lui sa esserlo molto più.
“Cristo erano mesi che non facevo una doccia così.”
Esce dalla sua stanza con i capelli umidi di acqua calda e lusso (non avete visto la sua doccia) e un qualche shampoo all’olio pregiato di un qualche seme raro che si trova solo sul lato Ovest delle montagne della Cina occidentale, ma con indosso una semplice e larga canottiera nera e un paio di vecchi jeans scuri.
Senza la liscia piega ai capelli di precisione millimetrica e senza la cravatta al collo dalla giusta sfumatura di cobalto in molti direbbero che quello che Parker ha davanti non è il giovane erede delle Osborn Industries ma una sua copia disadorna, non all’altezza del suo nome. 
E Peter, che ha conosciuto l’Harry dietro i vestiti firmati e il contegno troppo adulto, può giurarvi che era un Harry che non vi sareste mai aspettati, che si divertiva a provare i jeans strappati dell’amico e le sue t-shirt arancioni quando si chiudevano in casa nei pomeriggi di pioggia, mentre zia May preparava la cioccolata calda e Gennaio infuriava alle finestre. Ma quella pioggia e quel vento e quel gelo non li raggiungevano mai. 
Le loro risate e il vedere Harry osservarsi allo specchio con ai piedi le infradito troppo grandi di zio Ben con lo stesso interesse di come Peter osservava il suo riflesso con indosso una delle giacche blu di Harry cucite a mano avrebbero sciolto qualsiasi freddo.
Era pura magia.
“Tu hai intenzione di stare qui ancora a lungo?”
Era.
Ora basta un’occhiata ai suoi occhi dove il ghiaccio ha condensato quelle iridi su cui da sempre bramava il possesso per rinunciare ad ogni passato.
“Credo che faresti meglio a darmi una mappa dell’attico perché… beh, ho paura che mi vedrai spesso qui intorno.”
In risposta gli lancia uno sguardo che si porta dietro la stessa sensazione di quando al secondo anno i bambini gli lanciavano le palle avvelenate durante l’ora di ginnastica: aggressivamente.
Che cosa?
“A meno che tu non voglia tornare al Ravencroft.” Peter alza le mani. “Decidi tu.”
“Quindi adesso funziona così? Sono prigioniero di Spider-man?”
“Per il momento c’è solo Peter Parker.” il ragazzo nasconde le mani nelle tasche del Jeans,  la sua voce è paziente ma si sporca di fuliggine. 
“E né Spider-man né Peter Parker fanno prigionieri. A loro piace tenere solo le cose lontano dai pericoli.”
 E la voce dell'altro si sporca di sabbia bollente sui palmi delle mani. “Allora puoi dire a Spider-man che spero gli piacciano anche le sfide.”
Fa per allontanarsi nelle spire del corridoio ma non lo fa abbastanza velocemente. La risposta del moro è già palpabile nell’aria, rancorosa, sanguinante, stretta in una morsa d’acciaio.
“E io cosa dovrei dire a lui?”
E la sua è calma, e compiaciuta. 
Una prostituta che fa delle avances avrebbe la stessa voce. Una prostituta che non vuole soldi ma che continua nel suo gioco… vorrà qualcos’altro. 
“Chi ti dice che tu non ci stia già parlando?”

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In una stanza di vetro squilla un cellulare. Un uomo da le spalle al tramonto. Il sole incendia di rosso i suoi occhi. 
Il cellulare continua a squillare. 
L’uomo sa esattamente quanti squilli farà. All’ottavo squillo risponde. Immagina un uomo vestito di nero dall’altra parte.
“Ce l’hai fatta.” dice la voce grossa oltre la linea.
“Avevi dubbi?” risponde l’accento spesso di Harry Osborn.
“Sulla tua intelligenza? Assolutamente no. Ma sul collaborare con Parker…”
“Peter Parker non è un problema. E’ troppo sensibile per rappresentare una minaccia.”
La conversazione si interrompe quel tanto che basta a Harry per versarsi del Bourbon in un bicchiere di cristallo.
“A proposito di minacce… Max Dillon, aka Electro, è ufficialmente morto; è stato ucciso dalla sua stessa energia che Spider-man ha rivoltato contro di lui.”
Qualcosa si rompe dentro Harry. 
Non come l'ultima volta, quando il verde è diventato denso come sangue che sgorga copioso da un fiume di vene, ma altrettanto violentemente. Altrettanto devastante.
Max era davvero suo amico?
Harry era amico di qualcuno?
Non ti perderai proprio adesso nel sentimentalismo spero.
No. Harry andrá avanti. I patti andranno avanti.
Max era solo qualcuno di cui Harry si era servito per uscire di scena alla grande.
Era solo un mezzo. 
lo so io e lo sai tu... noi due sappiamo le stesse cose.
Ma non le sentiamo allo stesso modo.
Il giovane dal volto di porcellana si rende conto tardi che sta parlando, o almeno pensando da solo, dopo tre richiami da parte del suo interlocutore e il sole scomparso nel cielo fosforescente di New York.
“Sovraccaricamento elettrico…” mormora Harry.
“Esatto. Max Dillon poteva rappresentare un valido alleato e un altrettanto valida minaccia. Meglio così.”
“E di me?” il giovane sorride, ma non c’è gioia incastonata nel suo bel volto. “Di me non pensi che possa essere una minaccia?”
“Tu sai con precisione ciò che vuoi e sei disposto a tutto pur di ottenerlo. Tu sei diverso, l’ho capito subito. Diverso da tuo padre perché non ti arrendi, trasformi il tuo dolore in oro e utilizzi la paura contro gli altri: la affili, la rendi feroce, la lucidi per farla splendere… solo attento, non puoi fidarti di nessuno.”
“Neanche di me stesso?”
“Come procede… quella cosa?
“Va e viene. Spesso.”
L’uomo respira profondamente, il sollievo tangibile nel maturo silenzio. Il respiro rimbomba come un eco sibilante.
Harry conosce già la risposta, è nelle sue orecchie prima che venga pronunciata.
“Non trattenerlo. E’ ciò che sei, è ciò che ti rende forte. Non trattenerlo.”
“Non lo farò. Devo andare.”
“Ti chiamo io. Dieci squilli questa volta. Pensa a Parker.”
“Parker è innocuo, è di Spider-man che devi preoccuparti.” dice, come se non fossero la stessa persona, come se l'anima potesse scindersi in due entità distinte.

 

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Peter Parker non è mai stato bravo a fare piani. 
O forse, più semplicemente, non è bravo a realizzarli. 
C’è sempre qualcosa che sconvolge il progetto iniziale: un bambino di dieci anni che se ne sta travestito da Spider-man in piedi davanti ad un criminale appena evaso di galera; una ragazza coraggiosa che rimane vittima del suo stesso amore; la persona che pensavi di conoscere meglio al mondo che si trasforma in un mostro.
No, non sono metafore; è la verità.
E per questo Peter Parker, il ragazzo che se ne sta seduto solo ad un tavolo in un affollato pub, con lo sguardo basso e il silenzio sulle palpebre, non vuole proprio farli, i piani.
Ma questa volta sarà diverso: le circostanze sono appese al filo di un rasoio, la posta in gioco troppo alta.
E’ così alta che persino la rabbia deve fare un passo indietro.
“Cos’hai intenzione di fare?” è la prima domanda che si concede di porre ad un Harry Osborn impassibile seduto difronte a lui.
“Tornerò alla Oscorp, domani.”
Ha la risposta pronta Harry, come se si fosse aspettato che questo sarebbe stato il primo quesito. 
Alza il bicchiere. La luce gioca sull’oro del liquido. “E me la riprenderò.”
E’ difficile non credergli quando il colore della sua voce è così dannatamente scuro.
“Non devi solo tornarci per comandare, devi...”
“Credi che sia facile?”
Le parole rimangono sospese sui piatti della cena, il punto interrogativo è un ingrediente aspro nei Nachos. 
“Non credo che sia facile.” Incomincia Peter. “Credo che tu dovresti quantomeno cercare di impegnarti.”
“Sai come m’impegnerò? Preservando le apparenze.” 
Harry si sporge in avanti; potrebbe avere delle manette ai polsi e una tuta arancione, e non ci sarebbe alcuna differenza.
“Vedi Peter… tu pensi che tutto si riduca al soccorrere vite innocenti e vecchiette che attraversano la strada all’ora di punta e che basti indossare una tutina rossa e blu e cimentarti in quei commoventi atti eroici per salvare il mondo-“ la divisa di un cameriere si interpone fra loro: divide in due il discorso, ma solo per un attimo. Le due metà sono perfette. “..ma ci sono altre cose, cose che si chiamano potere, apparenza e reputazione –o altresì note come le ‘falle nei tuoi piani’-.”
Harry ordina altro vino, Peter non ha ancora finito il suo. 
Vorrebbe gettarselo tutto in gola, certo, lasciare che il liquido ambrato gli spezzi in due le corde vocali, ma non è mai stato tanto attratto dall’alcol. 
Dalle lacrime, piuttosto.
“Potere? Tu ne hai a bizzeffe.” Il ticchettio di un orologio è quanto c’è di più scomodo fra i due. “Apparenza, non ne parliamo.” Tic Tac Tic Tac Tic- “Non so cosa i pezzi grossi pensino adesso di te, ma la tua reputazione non sarà un problema.”
“Il problema è che anche altri hanno potere, apparenza e reputazione. E nessuno è disposto a rinunciarvi.” Ribatte l’altro, fermo.
Peter può vedergli attraverso e non vederlo affatto. 
“Perciò la prima cosa che faremo” continua il giovane erede, “sarà fingere che tutto quello non sia mai accaduto. Nulla, di tutto quello.”
“Mi stai chiedendo…” e Peter non riesce a crederci. Può quasi sentirle le mani che fremono per afferrare i bordi del tavolo e lasciare solchi sul legno, rompere ogni venatura di marrone pur di non sentire lo sfrigolio di bile amara che frigge in gola. Ma non c’è limite al peggio. Ed Harry Osborn glielo dimostra puntualmente anche stavolta.
“Io non sto chiedendo niente Peter. Dobbiamo farlo, devi farlo… se non vuoi che i sospetti si nascondano anche nel dentifricio del tuo bagno.” 
Peter artiglia l’aria. Fa per parlare. Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa è meglio di questo. Ma Harry non ha limiti, ed è il peggio, agli occhi di Peter. 
“Agli occhi di tutti, agli occhi del mondo che ti sta a cuore quanto un cucciolo di Panda, io e te siamo amici Peter. Come prima.”
Come prima. 
Io e te non eravamo amici. Eravamo i migliori. 
Non funzionerà.
Non voglio che funzioni. 
Ma deve funzionare Peter. Deve
“Come… come pensi di fare con la… Oscorp.”
Il silenzio si scheggia come pietra al sole.
“La Oscorp è mia di diritto. Chiunque la gestisca adesso dovrà alzarsi da quella sedia, girare sui tacchi, fare un passo indietro e…” spiega semplicemente l’erede di Norman Osborn, strascicando le parole che gli sembrano scontate sulla lingua. “andarsene.”
“Non saranno tutti disposti a crederti. A volte non basta il sangue per convincere le persone di chi sei.”
Le parole restano appese a un filo. E’ candido, e traslucido, e invisibile. Sembra una ragnatela, ma è il destino. Penzolante come un condannato a morte. 
“Un tempo sarebbe bastato.” mormora Harry. Quasi con rimpianto. Se Peter non lo conoscesse bene avrebbe scambiato quell'incerto sussurro per velata malinconia.
Il filo è sottile.
“Un tempo il tuo sangue non era sporco.” Le parole nascoste fra le labbra di Peter rovinano fra loro.
“A volte ci si deve sporcare… quando si va con le mani nel fango della tua vita consumata giorno dopo giorno da una malattia deleteria e incurabile chiamata genetica.”
Il filo si sfilaccia. Il bicchiere trema fra le sue mani. 
“Un tempo…” Peter rinuncia all’appetito. Non ha più alcun motivo di sradicare dalla gola i rovi affilati quanto il veleno che sgorga dagli occhi di Harry Osborn: non risale l’acqua di un fiume. “Ci sarebbe bastato guardarci negli occhi per riconoscerci.” 
Non sa se quello che dice è vero, ma deve dirlo, Peter sente che deve mettere dei cancelli fra il prima e il dopo in questo spazio infinitesimale dove passato e presente stanno giocando a dadi con il mondo.
“Ma quei tempi sono morti, penso che tu abbia buttato giù dalla Torre dell’Orologio anche loro.”
Peter si vede alzarsi, rifiutarsi di guardarlo, logorarsi, gettare la spugna impregnata di destini e ragni da qualche parte negli angoli più neri del pub e sentirsi afferrare. Forte. 
Non riesce a liberarsi. Con il sangue di Spider-man nelle ossa n on riesce a liberarsi. 
E la verità si fa di piombo fuso e bollente su un mare di fredda consapevolezza.
Siediti o mando tutto a puttane.
E’ possibile dimenticare la voce di Harry Osborn?
No.
E’ possibile dimenticare la voce della parte più sgualcita e oscena di Harry Osborn?
No.
Peter si volta. 
Lentamente. 
Guarda un film che non ha mai visto. Ne conosce gli attori.  Ma non sa come finirà.
E’ imbambolato dinnanzi allo schermo di una TV in bianco e nero.
“Qui è pieno di gente, non vuoi che succeda qualcosa, vero… Peter?”
Fanno un silenzioso tira e molla per sei secondi, ma la televisione si spegne sul finale e Peter rinuncia a prevederne il male. 
Ma lo sa che sarà puro, e sarà tanto. Sensuale come il jazz, corposo come la pioggia che si getta nel fiume, nero come il lutto.
Si siede. 
Il suo polso viene lasciato all’istante. 
“Sei così prevedibile...”
La verità è che Harry lo conosce troppo bene. 
Ed è per questo che Peter non riesce a guardarlo negli occhi. 
Per questo e perché quegli occhi sanno di urla di donna e ‘c’era una volta’.
“Evita di essere tanto debole Peter o ci farai ammazzare entrambi.”
“Stai parlando di me e te o di te e qualcun altro?” sibila Peter. Non ha intenzione di dargliela vinta tanto facilmente. Ha lottato con sé stesso per essere qui ora, seduto a questo tavolo di rancore e di perché, ha lottato perché il mondo non gli crollasse addosso con il suo insostenibile peso, lotta ogni notte per soffocare sotto il cuscino impregnato del suo sudore gli incubi che, sorridenti e grossi come enormi gatti neri gli fanno visita la notte: non lascerà che Harry Osborn renda tutto questo lottare e ingoiare la tristezza in silenzio vano.
Ma Harry è… Harry. Il suo sorriso di Harry si fa incerto un attimo, solo per poco, prima di fare la sua lussureggiante comparsa. 
“Permettimi di essere realistico Peter", perché Harry è… Harry, e non te la darebbe vinta neanche se da ciò ne dipendesse la sua vita. "Non si gioca in quattro una partita a scacchi.”
La porta si chiude. 
Peter non se n 'è accorto che è andato via.
Il suo sguardo viene catturato dalle crepe sul vetro del bicchiere che fino a pochi secondi prima era nelle mani di Harry. 

 

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“La notizia che l’unico erede delle industrie Osborn è tornato libero e scagionato da tutte le accuse a capo dei suoi immensi possedimenti ha fatto il giro dell’America nelle prima ore del mattino e quello del mondo nel tempo seguente.
Le voci sono tante, le verità molteplici. Le fantasie galoppano di pari passo con le testate nere dei quotidiani e quelle colorate dei giornali di gossip che si sono dati da fare nello sguinzagliare paparazzi in tutti i cinque distretti di New York pur di immortalare il bilionario padrone della più avanzata area di ricerca al mondo in atteggiamenti equivoci.
Nulla di tutto questo è accaduto.
Harry Osborn è impeccabile come sempre.
Si è dimostrato capace di intendere e di volere già dai primi giorni e ha ripreso abilmente in mano le redini della sua
ricchezza.

Inoltre, il giovane Osborn, si fa vedere spesso in compagnia di Peter Parker, suo vecchio amico. 
Tutti conosciamo i fatti primordiali di questa storia: l’affetto che li legò da piccoli, la lontananza di Harry –durata la bellezza di otto anni- per frequentare una prestigiosa scuola privata, viaggiando da Venezia a Monte Carlo passando per Singapore.
Harry era tornato a New York -sua città natale-, alla morte del celebre padre sei mesi fa, ereditando tutto il suo oro e nel farlo aveva rincontrato il suo amico. Si sono ritrovati entrambi. Si frequentano. Si volevano bene otto anni fa e se ne vogliono oggi, anche dopo l’accusa dell’assistente amministrativo di Norman Osborn Donald Menken sul coinvolgimento di Harry nell’occultamento di incidenti fra i suoi ricercatori. 
Forse la troppa lontananza, il decesso dell’ultimo parente in vita di Harry, le accuse infondate (mancanza di prove concrete) che lo hanno trattenuto in prigione sono cose che possono distruggere un’amicizia, o renderla immortale.”

Una mano accartoccia il foglio stampato. E’ furiosa. 
Le grasse parole in indelebile inchiostro nero finiscono nella pattumiera. 
Un uomo prenota il primo volo della giornata. 
Destinazione: New York. 
Obbiettivo: non permettere al passato di ripetersi. 
Il destino non avrebbe affilato i suoi coltelli per colpire una seconda volta dove la prima ne portava ancora i segni, vividi e mai cicatrizzati. 
Se l’esperienza insegna, gli anni passano e non si scordano, non c’è tempo che possa sconfiggere il dolore e la fuga da tutto ciò che hai sempre amato servono a qualcosa, questo qualcosa sarà impedire alla storia di ripetersi.
La storia non si ripeterà.

 

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“Devo vedere Harry.” 
Peter osserva la rigida donna bionda al banco informazioni prima di aggiungere: “Osborn. Harry Osborn.”
“Ha un appuntamento?”
Peter si rende conto troppo tardi che non lo ha, che l’unico motivo per cui è alla Oscorp è una telefonata di Harry che non gli da alcuna garanzia con la donna dalla crocchia di sottili fili d’oro più stretta di quella di Minerva McGranitt e che quest’ultima lo sta squadrando come se fosse una fastidiosa macchia di unto sul lucido pavimento immacolato dell'azienda.
“Non… ho… un appuntamento.”
“Il Signor Osborn è a conoscenza della sua visita?”
“…Sì! Vede, lui mi ha chiamato..”
“Mi scusi Signor…” il telefono aziendale si illumina, silenzioso come il nulla, sembra che la donna abbia ricevuto una scarica elettrica. Il suo volto cambia. Le dita laccate di rosso sfiorano la scrivania trasparente. Perché il telefono non esiste, non materialmente. E’ un tocco sull’immensa superficie touch ad alta sensibilità. 
Accetta la chiamata con una serietà che le grava sugli zigomi.
Non parla. Non pronuncia una parola.
Peter sa che è perché la persona che la donna sta ascoltando parlare non glielo permette.
Un altro tocco e: “Signor Parker, il Signor Osborn la attende.”
“Centesimo piano, giusto?”
Il sorriso sornione che dona alla donna bionda scheggia persino il suo volto serio e distaccato. 
Due mondi così diversi, neanche Peter sa cos’è precisamente accaduto quel giorno di parecchi anni fa. Nessuno ci credeva. Nessuno ci crede neanche adesso. La differenza è che prima loro ci credevano alla loro amicizia. 
Peter prova a bussare, dopo aver salito novantanove piani con un ascensore di vetro più veloce di uno shattle, ma la voce pungente del proprietario della Oscorp sbatte ai vetri della porta chiusa. 
Non è un mio problema, sono io che prendo le decisioni qui dentro e ho appena deciso che lo voglio fuori dalla Oscorp entro cinque minuti. Due se continuate a ripetermi tutti di quanto utile sia stato per questa azienda che dovrà fare a meno di lui se non vuole che io faccia a meno di lei e la venda al primo acquirente che mi offre gli occhiali della nuova collezione di Armani.”
Peter si fa di lato proprio mentre un possente uomo in giacca e cravatta rischia di travolgerlo. È il doppio di Harry e il suo volto è stralunato, rapido e impegnato.
Il tipico volto compresso di qualcuno che preferirebbe trovarsi rinchiuso in una gabbia con una tigre affamata ricoperto di salsa Barbecue piuttosto che fare da paziente mediatore fra Harry Osborn e qualcuno che vuole disobbedire a Harry Osborn. 
La porta si apre nuovamente prima che le nocche di Peter possano toccarla. 
“Finalmente. Entra.”
“Come sapevi che ero di sotto?” 
Peter si sposta giusto per assicurarsi che la cravatta color uva dell’uomo non gli schiaffeggi un orecchio.
“Beh vediamo… dopo la mia telefonata ci avresti impiegato circa due minuti per decidere se venire o no. Scelto il sì avresti preso la metropolitana alla stazione più vicina e visto che la Oscorp è nel terzo distretto di New York una di esse si ci ferma praticamente davanti. Contando all’incirca altri sei minuti di viaggio andiamo a otto. Mariah, la bionda attraente al piano terra, ti avrebbe certamente trattenuto per.. cinque minuti? Diciotto. Diciotto minuti.” Harry da un’occhiata elegantemente distratta all’orologio che ha al polso. “Ho sbagliato di un minuto." Inarca un sopracciglio. "Ci hai messo tre minuti a decidere se venire o no.”
“Sei terrificante.”
“Oh, grazie. Beh, devo esserlo, altrimenti qui i muri ci cadono addosso… e farò in modo che li prendano in testa!” Dice ad alta voce sperando che lo senta l’intero corpo impiegati della Oscorp. 
“Loro e la loro nauseante puzza sotto il naso…”
Il più giovane non risponde. Peter ha già vissuto questi momenti, quando Harry diceva qualcosa che non si aspettava, o faceva qualcosa che non riusciva a veder legata a lui, ma lui la faceva lo stesso e sembrava tremendamente giusta sulla sua lingua tagliente o nelle sue mani indecifrabili, così tanto da fargli chiedere sempre: 'quante facce può avere un dado? E arriverò mai a conoscerle tutte?'
“Sei tornato al tuo posto, in ogni caso.”
“In ogni caso… mi piace. 'In ogni caso' mi fa sembrare estremamente capace, non trovi?”
“Stai dicendo che non lo sei? Harry Osborn sta ammettendo ad alta voce la sua incapacità nel fare qualora?”
“Harry Osborn sta dicendo” e qui Harry si ferma. Si ferma e ascolta i muri, come se loro potessero ascoltare lui di rimando, e sussurrare alle sue spalle, “che non sarà così facile questa volta.”
“Qual è il problema?”
“Felicia.”
“Eh? Felicia?”
“No, Felicia!”
“Felicia?”
“Signor Osborn.”
“Aaah Felicia…”
“Buongiorno Peter.”
“Felicia chiamami Jonathan. Spero per lui che Menken stia prendendo un taxi in questo preciso istante." 
“Menken?” Peter continua a guardare la giovane assistente del Signor Osborn. Quel vestito blu notte che indossa non è per niente corto, non è scollato, non ha pizzi o veli che lascino intravedere la pelle chiara ma Peter la trova comunque troppo provocante nel modo sottile in cui aderisce all'esile corpo della ragazza.
“Credevo fosse stato arrestato…”
“E io credevo fosse dal creatore. A quanto pare è più resistente di quanto pensassimo.”
Harry continua a parlare. Parla e dice qualcosa. Felicia annuisce. Parla e sembra un fiume in piena senza argini. 
Parla e Peter non lo ascolta.
Era un plurale. 
Quell’insulso “pensassimo” era un plurale. 
Perché? Perché non può fare come Harry, che gira intondo alla scrivania premendo tasti e sfiorando vetri senza che l’uso di quella parola scalfisca minimamente la sua aurea di lussuosa impassibilità? 
Perché a lui non interessa. 
Lui è oltre. 
Niente di nuovo, niente di importante. Non vale la pena fermarsi su certi dettagli. 
Sono solo dettagli, dopotutto.
Ma Peter continua a non ascoltarlo, riflettendo sul fatto che il suo ex migliore amico è plasmato da dettagli fino a quando non viene gettata una busta da lettera sulla lucida superficie dinnanzi a lui. E’ chiusa.
“Sai cos’è questo?”
Peter alza le mani in automatico.“Qualunque cosa sia non sono stato io, non uso carta da cinque dollari a foglio per mandare cartoline.”
“Questo” c’è da preoccuparsi quando Harry inizia a diventare meno ‘Harry’ e più ‘Osborn’, “è un invito. Sai di chi?”
“Le interrogazioni di geometria quantistica erano meno impegnative.”
“Della Camera Nazionale della Moda Italiana, organizzatrice di uno dei più prestigiosi eventi di sempre. Sai cosa significa?”
Peter fa per parlare, giusto per fargli credere che stia tentando di rispondere, di rendersi utile alla conversazione che Harry sta costruendo da solo. 
“Vogliono provocarmi! giocare sporco. Innalzare trincee di falsa tranquillità dietro le quali spiare il vero pericolo: Wall Street.”
E a Peter piace così. 
Nonostante tutto i gesti di quest’uomo sono ancora fin troppo familiari. Il suo domandarsi e rispondersi in solitudine per il semplice gusto di portare avanti da solo la conversazione ma il gusto di avere Peter vicino che annuisce e sembra assente ma in realtà si beve ogni parola sarcastica, priva di gioia, velenosa che esce dalla bocca del suo interlocutore dagli occhi azzurri. 
Perché è giusto così.
“Faccio… fatica a inquadrare la metafora filo-storica ma… ancora non capisco qual è il problema. Tu sei tornato sulla tua, lasciamelo dire, magnifica sedia in pelle, le azioni della Oscorp vanno a meraviglia –ho letto un quotidiano- e basta il tuo cognome per far piovere oro. Era scontato che la Camera.. di.. qualcosa… ti invitasse.”
Perché Harry non ha mai smesso di parlare con Peter di cose che Peter non capiva perché lontane anni luce dal suo mondo, eppure lui gliene parlava lo stesso, e sorrideva dello sforzo di Peter di comprendere, di calmarlo e consigliarlo, di essergli amico.
“Era scontato che invitasse me, non che invitasse te.”
Peter ci mette un tantino più del dovuto a capire, ma basta un’occhiata allarmata al suo nome scritto in bella grafia obliqua in inchiostro rosso sulla busta per provocargli un attacco di panico violento quanto un terremoto subacqueo.
“Al… Signor Peter… Parker” legge come se non fosse il suo nome e cognome. “Non… non ti hanno invitato?”
“Ah certo che mi hanno invitato!” sbotta Harry, impaziente di gestire la surreale situazione sotto un solo controllo: il suo. 
“Ma quella busta porta il tuo nome, quindi devi esserci anche tu.”
Non se ne parla
Peter scuote energicamente il capo, prima di aprire la spessa carta color crema e inorridire riga dopo riga di fine scrittura color porpora. O sangue.
'La preghiamo di prender parte… saremmo lieti di averla… Settimana della Moda… Milano.'
E se pensa che il peggio sia che la sua anonima identità sia stata impressa come un marchio infuocato sullo stesso invito fatto ad uno come Harry Osborn, in cima alla catena economica mondiale, quando alza lo sguardo si rende conto che al peggio, signori miei, non c’è limite. 
Harry sorride.
E Peter capisce qual è il problema. 
Perché il diciottenne timido e impacciato impegnato a salvare il mondo tutte le sere con un coraggio che non vedresti nei suoi capelli spettinati conosce ogni sorriso del ventenne sicuro di sé e dalla piega tornata magicamente perfetta sulla fronte pallida. 
Peter conosce ogni suo sorriso e automaticamente conosce ogni sua arma, perché i sorrisi di Harry sono questo: armi. 
E lui li sfoggia tutti come splendenti, acuminate, armi. Tutte rigorosamente resi efficienti dal viso attraente e Peter vorrebbe svanire, sprofondare nei cento piani della Oscorp e venire squadrato ancora dalla donna bionda con la crocchia di ferro piuttosto che guardare quel viso che sorride così dannatamente bene. 
Perché Peter sa che quando Harry Osborn sorride, le cose automaticamente prendono fuoco.
“No… no. Harry… no. Non iniziare… non lo farò mai.”
“Cosa, indossare un vestito elegante e sorseggiare champagne con dei VIP?”
“Lasciare a te il controllo del vestito elegante e dello champagne!”
“E’ fra una settimana, a Milano. Se pensi di riuscire a trasformare Peter Parker, il neo-diplomato occhialuto fotografo di Spider-man, amante delle Converse e dei maglioni XXL in un giovane invitato a un evento stile Grande Gatsby nella capitale della moda fa’ pure. Non sarò certo io a fermarti.”
“E tu di trasformazioni ne sai qualcosa in più degli altri, vero?”
Peter si sente offeso. Il tono di Harry era un'accusa al suo essere un semplice neo-displomato che tenta di farsi ammettere a un college? Non è colpa sua se lui non ha ereditato il mondo. Da quanto in qua Harry lo guarda dall'alto in basso? Da quando si è trasformato in uno snob elitario con lui? Dov'è il suo Harry, sarcastico e protettivo?
Adesso è solo preludio di tempesta.
“Tutti si trasformano Peter, solo che io sono più bravo a farlo. E' per questo che si nota di più.”
E’ come se tutto il suo corpo… quella posa vagamente piegata, quella penna che si rigira ossessivamente fra le dita, la giacca bianca e il jeans scuro… il fondoschiena poggiato al lato della scrivania... fossero campanelli d’allarme pronti a scoppiare, spie rosso acceso che incendiano gli espressivi occhi di Peter, tondi e castani da bambino intelligente e discreto.
E Peter se lo chiede se è così che fanno gli squali prima di attaccare. 
Indovinano i punti che sanguineranno di più? Si può sanguinare più di così
Peter non ci crede. La sua gola è una ferita apert, ogni parola è uno sforzo in più, ogni accenno di quel che era una sofferenza, ogni briciola di ciò che sarebbe potuto essere una condanna. 
Non ha niente da perdere, solo il mondo intero. Ma agirà da diciottenne ferito. Da semplice essere umano che ha perso la donna che amava. 
Ne ha bisogno.
E se ne pentirà. Se ne pentirà l’attimo dopo averlo detto. Ma se tanto gli da tanto e l’anima vuole sanguinare, Peter vuole che sia più rosso.
“Provi una tale soddisfazione quando ne parli… sei così fiero di te stesso e di ciò che sei diventato… mi dai il voltastomaco, Harry Osborn.”
BLACKOUT. 
Nei suoi occhi, sul nero del pavimento, sui vetri immensi. 
New York continua a brillare, ma la Oscorp si spegne.
“Peter.”
“Harry…”
“La Oscorp non può spegnersi…”
“E’ appena successo!”
“Me ne sono accorto testa di ragno! Aspettami qui.”
Peter può vederlo anche nel buio latente grazie ai suoi sensi amplificati. L'oscurità è solo lieve penombra ai suoi occhi. E adesso per Harry è la stessa. identica. cosa. 
Il proprietario della Oscorp si allontana nel lungo corridoio. Da qualche parte la sua ombra si unisce a quella sottile di qualcun altro. Una donna. Dai lisci capelli di pece.
“Cosa diamine è successo? La nostra centrale è la lampadina dell’intera città, com’è possibile che noi siamo senza luce mentre lì fuori non ha tremolato neanche un lampione?”
“Signor Osborn non è la luce… è l’elettricità.” 
La chiara voce di una donna squarcia il nero. “Per qualche strano motivo è concentrata tutta nella centrale idroelettrica e non accenna a muoversi. Come se fosse controllata da-“
“-qualcuno.”
Peter non ha bisogno di sentire altro. 
Harry non ha bisogno di tornare nel suo ufficio per sapere che non Peter non sarà lì.
Gli basta trovare un paio di blue Jeans ammassati sul pavimento come in una caduta scomposta e fare 2+2 per capire che qualcuno gli ha mentito.
E che Peter non può fare a meno di fare l’eroe.
Il ‘Signor Osborn’ dell’attraente ragazza si tramuta in un veloce “Harry, cosa facciamo?’ quando gli compare alle spalle.
“Dai ordine di accendere tutte le luci d’emergenza, poi predi dell’acqua. Ci troviamo alla centrale idroelettrica fra dieci minuti e assicurati che nessuno ti segua. Svelta Felicia.”
Felicia non si pone domande. Sa di non avere il tempo di darsi risposte. 
Gira sui tacchi e scompare velocemente. Dopotutto non vede, ma conosce la Oscorp a memoria.

 

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E quando arriva alla centrale, dopo dieci minuti esatti -perché quei corridoi sono immensi e la mancanza di luce crea sempre il panico- il casino.
L’esatto, preciso e logico casino che ti lascia interdetto: il silenzio.
Un silenzio perfetto. Impassibile. Impossibile da scalfire. 
Il silenzio che ti urla dentro. Il silenzio dei film horror. Il silenzio che non è silenzio, ma tensione narrativa. 
E la tensione si condensa in parole sulle belle labbra di Harry, e l’elettricità vibrante nell’aria glielo conferma: “Sovraccaricamento elettrica… sei vivo.” 
E l’elettricità diventa caos. 
E il caos Felicia che viene spinta a terra dal corpo del suo capo proprio mentre uno scoppio di luce e stelle ribalta il nero. 
“Cosa.. cosa è stato?! Che riflessi…”
“Felicia, ora ascoltami: collega l’acqua alla cisterna e sparisci di qui." ordina a un palmo dal suo viso. "Non chiamare nessuno, solo vai via.”
Harry si solleva tirandosela dietro. Il suo corpo è troppo leggero. 
“Harry… non cacciarti nei guai, d’accordo?”
“Felicia, vai.”
La chioma di pece ballonzola. Si allontana con rapidità. 
Harry avverte poco dopo i tacchi dirigersi verso l’uscita del tetto. La notte non è priva di stelle ma un’altra fuga elettrica le surclassa per dieci secondi buoni.
Harry li conta, uno per uno, prima di lanciarsi nelle profondità del labirinto intrico di ferro e metallo e corrente della centrale di acqua e energia. 
Corre alla cieca all’inizio, sa che potrebbe fare più in fretta. Solo non riesce ad ammettere di sentire ogni minuscola particella di elettricità intorno a lui muoversi, come se stesse vedendo ad occhi aperti la loro danza chimica. 
I sensi sono così… così, che se cadesse un cellulare al primo piano della torre lo sentirebbe distintamente. 
Il silenzio vibra come un cobra prima di attaccare.
Ma se un cellulare cade, lui non lo sente. 
L’elettricità che pensa di testa propria e si getta sul tuo migliore amico o ex migliore amico o chiunque esso sia non te lo permette. 
Ad Harry gli ha schiaffeggiato forte il viso, molto più forte di quanto abbia fatto Peter al Ravencroft, molto più forte di quanto avrebbe pensato. 
Quando l’elettricità in persona vuole distruggerlo, stando possente e invincibile come Zeus che ha il potere del mondo nelle mani e i fulmini negli occhi innaturali e collerici, Harry non ci riflette nemmeno. Non ci pensa nemmeno. E non da
a nessun altro
dentro di lui il tempo di pensarci. E’ più solo, più cattivo. 
Ma nessuno tocchi quell’uomo in tuta rossa e blu.
“MAX non farlo!”
Si ci butta in mezzo alla battaglia e a loro due e a quel filo rosso che non s’arresta. E l’elettricità neanche. 
Max non fa in tempo a fermarla.
La scienza non sa come fermarla.
Harry deve farlo ora. 
Peter eviterà il primo colpo ma il suo corpo è intrappolato in una zona ad alta conducibilità. Intrappolato come un ragno nella tela.
Peter tira indietro Harry, con quella prontezza di riflessi che costringe Felicia a fare un salto indietro, rivelando la presenza che non ha mai davvero ubbidito Harry. 
Harry gli cade addosso, artigliando fra le mani la pompa ad idro-pressione. La pressione è quella di una cascata in caduta libera. La cisterna contiene oltre dieci litri d’acqua.
E Harry glieli sta per scaraventare tutti contro.
Glieli scaraventa contro. 
L’elettricità assassina delle mani di Max viene bruscamente deviata, cozza come un flipper impazzito fra la centrale, sobbalza nel cielo, incendia il nero, svanisce nell’occhio della luna.
Max sbatte da qualche parte, Peter fa di tutto per alzarsi, vi giuro, di tutto ed Harry fa di tutto per tenerlo inchiodato al suolo. 
L’acqua li sommerge, la pressione del getto li getta di nuovo a terra. E’ gelido.
Harry cerca di allontanare il becco dell’acqua, Peter cerca di allontanare Harry per capire cosa diamine sta succedendo, e si guardano negli occhi sul sottofondo dei tacchi di Felicia che gira la valvola risparmiando il tetto della Oscorp dal diventare una piscina balneabile e borbottando qualcosa che somiglia molto ad un contrariato “uomini”.
E il silenzio si riattacca alle stelle, e Peter scoppia a ridere dinnanzi a quegli occhi azzurri, come non faceva da mesi, come non faceva da una vita. Non indossa la maschera, caduta qualche metro più in là e i suoi capelli sembrano un porcospino confuso dagli aculei spettinati e la risata è candida ed è vera e raggiunge il cielo. 
Harry non la segue.
Ma sorride, piano, circospetto, ma sorride e non è una minaccia, un avvertimento, una scintilla su benzina pronta a dare ogni cosa in pasto alle fiamme, ma solo un sorriso. Semplice. Anche banale per gli standard di Harry. Il sorriso più banale e vero che abbia mai fatto. Banale, vero e qualcos altro.
Qualcos altro che né l’uno né l’altro possono prendersi il lusso di analizzare adesso perché ora è Max ad aver bisogno d’aiuto, ed Harry si solleva. E non si era reso conto del freddo della notte prima che il suo corpo fosse stato stretto contro quello di Peter.
L’alto uomo di puro potere si erge a fatica in tutta la sua altezza, fradicio e indebolito. Le mani emanano sinistre scariche perlate. 
Stringe un pugno e Harry alza le mani. In fretta. Non c’è neanche più il tempo di rimanere interdetti. Prevede tutto, sente tutto. 
“Cosa.. cosa è stato?! Che riflessi…”
“Harry… perché?”
“Ho dovuto farlo Max, ci stavi arrostendo..” allora era vivo. Era vivo per davvero. Potente e pericoloso come sei mesi fa. Bugiardi. 
“Comunque… lui è Peter-“
“Lui è Spider-man” la sua voce sfrigola come olio su gas, “e voglio fargli rimpiangere di essersi messo fra me e il controllo di questa città. E credevo lo volessi anche tu.”
“Lui è… Spider-man… ed è anche Peter… e mi serve. Ci serve.”
“Cosa… di cosa stai parlando? Hai dimenticato cosa ci ha fatto?!”
“No, ah ti assicuro che non potrei dimenticarlo neanche volendo... ma abbiamo bisogno di lui.” 
Max vuole capirci di più. Felicia vuole capirci di più, ora perfettamente visibile nel suo vestito blu elettrico. Ironico. 
Harry vuole smetterla di parlare. 
Ma capisce ben presto che non ha scelta. 
Fa un passo indietro, trova la mano di Peter. Non ha bisogno di voltarsi. Era solo un passo dietro di lui. 
“Io ho bisogno di lui.”
La gola graffia.
Non le piacciono queste parole.
Il silenzio non può tacere, eppure non appena Osborn serra le labbra Dillon si pietrifica, Hardy inarca un sopracciglio, poi li inarca entrambi calcolando somme invisibili e Parker non crede alle proprie orecchie. 
Anche se è un trucco, anche se è una strategia, anche se sta fingendo, non crede alle proprie orecchie. 
E sdrammatizza, anche a costo che un tacco di Felicia gli venga conficcato nello stomaco, perché non si può sostenere tanto in una sola sera.

“Però… Felicia, sembra che tu e Max indossiate lo stesso vestito.”








-Angolo Autore-
La terza persona mi ucciderà. O io ucciderò lei.
Grazie a tutti per le visite al primo capitolo, ve ne sono davvero grata. 
Pachiderma Anarchico.


(Banner creato dalla bravissima HilaryC)

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Capitolo 3
*** Close enough to fall ***






 
Double Mirror
 
 
 di

Pachiderma Anarchico

 
 

Capitolo 3

 Close enough to fall 




 
You got that medicine I need
Fame, Liquor, Love give it to me slowly
Put your hands on my waist, do it softly

You got that medicine I need
Dope, shoot it up, straight to the heart please
I don't really wanna know what's good for me




 
Una lucente automobile nera sfila per lo sfavillio di New York: i vetri sono oscurati, l’autista è in giacca e cravatta, l’avvenenza dello sguardo del passeggero è celato da specchiate lenti firmate , camicia verde acido e gilè nero. Una gamba poggiata sull'altra, una guancia poggiata sulla mano, la disinvoltura di un attore sul Red Carpet la notte degli Oscar, il silenzio di chi non ha nulla da dire e tutto da criticare: dalla guida del suo autista che non riesce a deviare il pressante, soffocante traffico di New York perché alle macchine non sono ancora spuntate le ali a finire alla terribile musica che la stazione radio su cui è sintonizzato si ostina a scegliere.
Pum pum pum pum.
Ha il pum pum pum pum nelle orecchie Harry Osborn.
Quando si deciderà a spegnere quell'affare sarà troppo tardi, pensa.
Non lo dice.
Ma lo pensa così intensamente che potrebbero fumargli le orecchie da un momento all'altro. O per questo o per quel dannatissimo pum pum pum pum.
"Quando ci vuole."
"Le strade sono bloccate Signor Osborn."
"Donald mi dice a cosa serve essere me se poi devo rimanere bloccato nel traffico come chiunque altro?"
Donald non risponde. Quello che dice Harry è senza senso. Ed Harry lo sa.
Lo sa così bene che continua imperterrito ad arricciare le labbra in una meravigliosa quanto obsoleta espressione di disgusto e a lamentarsi di cose delle quali potrebbe lamentarsi solo qualcuno nella sua posizione, sul tetto del mondo: il cielo è troppo blu, il sole è troppo giallo, New York è troppo affollata, prendete la metropolitana dannazione!, questa camicia è troppo verde.
"Io trovo che la sua camicia sia adatta, Signore."
Ed Harry distoglie lo sguardo dal finestrino oscurato per posarlo interdetto sull'uomo al volante.
"Cosa vuoi dire?"
"Che non delude le aspettative di chi è abituato alla sua solita eleganza."
"Le persone si abituano troppo in fretta.” Riprende con una nota di disgusto. “Non sei d’accordo?”
Donald non è uno sciocco.
Sa che quello che sta scarrozzando in giro per le strade della Grande Mela all'ora di punta è l'uomo più importante che vedrà mai nel corso della sua vita, l'uomo che assorbe le parole come una spugna in abiti di Armani e che te le riversa tutte addosso come una doccia bollente quando si sarà stancato dei tuoi servigi.
"Certamente, Signore."
"Dannazione, si deve uscire alle cinque di mattina in questa città per non impiegare un'ora solo per uscire dal parcheggio!?"
Si lascia andare contro il sedile con un colpo stufo di anche, le corde vocali aride di delicatezza e sferzanti come carta vetrata su un muro molto ruvido.
"Cos'è questa roba."
Harry si sporge, afferra una cartelletta da un angolo che sporgeva da sotto un sedile, la apre, sbuffa, riversa le carte che contiene come un'improbabile scrigno del tesoro sulle sue gambe, sbuffa, scorre fra le dita i fogli stampati, uno per uno, sbuffa, velocemente, sbuffa, distrattamente, sbuffa.
"Problemi Signore?"
Chiede Donald, osservando il suo datore di lavoro dallo specchietto retrovisore.
Chiedere "cosa sono tutte quelle scartoffie nell’auto che poi io dovrò mettere in ordine" era fin
troppo ineducato.
Ma Harry risponde subito.
Una voce impostata, ferrea, asettica, quasi robotica.
"Nessun problema, Donald."
E, con la meraviglia del suo autista stampata addosso, raccoglie i fogli, uno ad uno, li ripone ordinatamente nella cartelletta e non la guarda più.
Sono ancora bloccati nella moltitudine di macchine, ma non sbuffa più.
Piega qualcosa in mano. Una, due, tre volte. La nasconde in tasca.
Harry si sente proprio così mentre lo fa, come se stesse nascondendo qualcosa di fondamentale importanza, inestimabilmente prezioso.
Ma lo fa lo stesso, perché è sempre devastante quando gli scheletri non ci stanno più negli armadi e iniziano a camminare per casa. Potresti trovarli dovunque, sul divano, nella vasca da bagno, nel letto, perfino in macchina.
"È Spider-man!"
Donald e la sua sorpresa esclamazione gli fanno alzare la testa. E di seguito anche gli occhi, in una chiara espressione di finto giubilo.
"aaaah! Ecco spiegato il motivo di questo maledettissimo ingorgo. Quel simpatico ragno si sarà messo in mezzo alla strada per salvare il mondo. Ma il mio tempo non è infinito."
Spalanca la portiera.
Robert cerca di fermarlo. Non ci riesce.
"Signor Osborn aspetti, c'è qualche emergen-"
"Così come la mia misericordiosa pazienza."
E sbatte la portiera.
L'autista poggia la fronte allo sterzo cercando di attuare quelle rilassanti manovre di yoga che con Harry Osborn devi imparare ad utilizzare anche in bagno se non vuoi che la sua voce esigente ti segua nei tuoi incubi più sfrenati.
"Spidey!"
inspira, enspira, inspira..
La macchina giallo canarino di un taxi vola dall'altra parte della strada.
"Oh, mi scusi! Signor Osborn, qual buon vento la porta qui?"
"Ti prego dimmi che ieri non hai visto Pirati dei Caraibi."
"...No."
Harry si spalma il palmo di una mano sulla fronte mentre l'Uomo Ragno si fa avanti cercando di non scontrarsi con le pistole dei poliziotti che sono indecisi se puntarle verso i criminali che si stanno dando da fare per dare fuoco all’intero grattacielo di fronte o verso l'uomo in tuta tutto intento a fare il loro lavoro e a farlo maledettamente bene.
"Signora non può portare il suo gatto a fare le sue cose qui, questa è una missione di salvataggio! Aspetti, ma quel gatto è al guinzaglio?"
"Spidey..." Sbuffa Harry a malincuore. Vorrebbe strangolarsi con le sue stesse parole. "Ti serve una mano?" e poi aggiunge, contrariato e stizzito "Io sono in ritardo!"
"E io non avrei bisogno di una mano se oggi tutti non avessero deciso di voler conquistare il mondo. Tieni questo Osborn." e gli molla in braccio il gatto della signora, che sbraita urlando che quella macchia di pelo grigio è come un figlio e che se gli torcono un solo pelo lei torcerà loro il collo.
"Signora le ho già detto che questa è.."
Spider-man si allontana verso gli urli incontenibili della signora e viene seguito da quelli un tantino meno vistosi ma molto più straziati di Harry.
"Spider-man! Io sono allergico ai gatti."
"Signor Osborn per cortesia non adesso. Signora io non posso salvare il mondo se lei continua a urlarmi contro."
"Il mio gatto… il mio piccolo tesoro! Vero Kitty??" La donna rivolge all’animale il più nauseabondo dei sorrisi come se stesse parlando al più bello dei bambini. O a Brad Pitt.
"Diglielo Kitty!"
"Spider-man..."
"Non ora Signor Osborn. Signora io così sto salvando anche il suo gatto!"
"Non posso affidare il mio Kitty a un mezzo scarafaggio."
"Spider-man..."
"Sca-scarafaggio?! Io sono un ragn-"
"Spider-man!"
"Harry, per diana, cosa c'é!?"
Il giovane miliardario si limita ad indicare il palazzo. Ha le fiamme riflesse negli occhi. Le fiamme del grattacielo che va a fuoco.
"O porca... Perché non me l'hai detto prima?"
"Ah io??"
"Stai lì a guardare la città che brucia come un baccalà in giacca e cravatta."
"Come… come mi hai chiamato?" a Spider-man quasi non viene rotta la mascella quando Harry alza il mento offeso. "Per tua informazione io tenevo d'occhio il fuoco mentre tu passavi il tuo tempo a litigare con l'amante dei gatti."
"Eh? Com’è la situazione?"
"Eh... dal tragico esito."
"Aaa! Dovrei avere uno stipendio fisso per questo." borbotta issandosi su una ragnatela.
"Stai iniziando a parlare come Felicia.” fa un passo indietro. “E la cosa mi inquieta parecchio.” Harry Lascia all'eroe lo spazio per lanciarsi verso il grattacielo dardeggiante, prima di gridare un chiaro e parentorio "Non tornare ferito perché ti ammazzo!"
La situazione degenera facilmente.
Un vetro al cinquantesimo piano scoppia, i suoi cocci lucenti si riversano al suolo come una pioggia di coltelli di cristallo. Un uomo minaccia di buttarsi dal cornicione più alto: ha in mano una provetta contente un denso liquido rosato, le calde lingue rosse gli lambiscono le punte delle scarpe, serpenti mortali di giallo e arancio e qualche poliziotto gli intima di scendere, di non fare stupidaggini, la voce ferma amplificata dai megafoni e per niente umana.
L'uomo li osserva tutti dall'alto della sua discesa nell'aria ma sembra non vederli.
Harry lo guarda. E vede.
Vede la determinata luce di chi non ha niente da perdere fra quelle palpebre lontane, la mano sbiancata nell'afferrarsi a quella provetta, il coraggio dell'azzardo.
La provetta diventa verde.
Lui fa qualcosa.
Qualcosa di grosso.
Qualcosa di non pensato.
Qualcosa che la parte razionale che ha sinistramente la voce di Felicia gli rinfaccerà per il resto dei suoi giorni.
Ma lui lo fa lo stesso.
Perché lui non è Felicia, è Harry Osborn, e se si fosse fermato a pensare probabilmente sarebbe morto.
Dov'è quel diciottenne in tutina di latex?
È questo ciò che pensa mentre le sue gambe volano nel palazzo, superando barriere di ufficiali e auto lampeggianti. L'incendio è al cinquantesimo piano. L'uomo al cinquantaduesimo.
Inizia a correre.
Uno, due, tre...
Corre come un forsennato, il fumo che occupa le scale, il nero della fuliggine che imbratta i muri bianchi come ermetici schizzi d’arte.
Dieci, venti, trenta...
"Allontanatevi o mi butto giù! E butto giù anche questa sostanza al-altamente tossica... Allontanavi!"
"Quella è zetalina, non è così?"
L'uomo si volta al suono di quella voce.
È disperato e sconvolto, ma non è pazzo. Questo Harry puó capirlo dalla paura che gli scorge dipinta sulle tempie in minuscole gocce di sudore traslucido.
"Azoto + Zirconio + Vanadio. Può avvelenare Central Park in due minuti. Molto furbo."
"È... un'invenzione della... della Oscorp... come fai a conoscerla? Solo Norman Osborn sapeva della sua esistenza..."
"Ah lo so..." fa un passo avanti. Lo guardai fisso negli occhi. Chiaro nello scuro.
Gli occhi di Harry sono così sinceri che per lo sconosciuto che minaccia di distruggere tutti è difficile non credergli. "Sono Harry Osborn."
Ma certo. Com'era stato possibile non riconoscere quegli occhi? Quel colorito estremamente pallido, quel modo di vestirsi, la scelta dei colori... la piega dei capelli baciati dal debole sole di settembre.
"L'erede dallo sguardo di ghiaccio", così erano soliti chiamarlo i giornali di gossip, gli articoli che lo raffiguravano in compagnia di personaggi importanti o modelle statuarie di un qualche paese straniero.
"Stia indietro Harry Osborn, o-"
"-butti tutto giù... ho capito."
Harry adesso è costretto a pensare, ad evitare che il marciapiede qui sotto diventi la tomba di un perfetto estraneo e la provetta non rilasci tossine nell'aria circostante, pronte ad ingurgitare ogni particella di ossigeno.
"Quello che non ho capito è perché." dice allora, nel tono più tranquillo possibile.
"Perchè... Ah! Perchè.Ho lavorato per suo padre per vent' anni... e lui alla fine mi ha liquidato voltandomi quelle fottutissime spalle quando non gli servivo più... dopo essersi appropriato di ogni mia idea... di ogni mia... Io ho una famiglia! e dei figli e... questa è l'unica quantitá esistente... della grande invenzione che ha spacciato per sua! La pagherá... Mi senti Norman!? La pagherai!"
Il cielo si sgretola lentamente. Il fumo è un'astratta stanza claustrofobica dai muri grigi, le fiamme sono rampicanti cocenti sulle mura, l'allarme di una macchina scandisce i secondi.
Non c'è tempo.
“Come si chiama?”
“Emerson… Gregory.”
“Gregory… ascoltami. Nessuno ti fermerà se sei convinto di volerci ammazzare tutti... ma ascolta. Io sono Harry Osborn, io posso darti quello che mio padre ti tolse venti anni fa... Vieni a lavorare alla Oscorp, vieni a lavorare per me."
"Perché dovrei fidarmi di suo figlio?!"
"Perché se la Zetalina è davvero una tua invenzione io ho bisogno di scienziati come te. Scendi da quel cornicione."
Harry si muove cautamente, ha già un piede avanti, l'altro pronto a seguirlo, vuole guardare l'uomo negli occhi ma quello gli nega lo sguardo, il contatto visivo perso fra passato e presente.
Harry non è da meno: equilibrista su un ponte pericolante fra ciò che è stato è ciò che non sarà mai più; equilibrista sulla corda del destino che gocciola sangue nero su meravigliose, demoniache rose rosse.
Ma il demonio non è rosso.
È del color delle foglie d'estate, dell'erba viva, dello smeraldo sugli anelli d'oro bianco.
E l'uomo lo osserva per poco, decide di credergli, annuisce, ma non c'è la fa, e scivola.
Scivola da un cornicione del cinquantaduesimo piano ed Harry si butta in avanti per afferrarlo, il braccio teso, la mano pronta.
Ci riesce.
I palmi collidono, le dita si stringono, qualcuno urla, una donna.
Una donna che Harry non fa difficoltà a immaginare bionda e disperata d'amore.
Non lascia la presa.
Sente passi, voci, altri lampeggianti, forse telecamere che, avide di riprendere il momento in diretta, si godono il Signor Osborn sporto fino allo spasimo per frenare la caduta libera di un innocente.
È un quadro perfetto per New York.
"Non mi lasci!"
Tiralo su Harry... è facile... fin troppo facile per te... hai la forza per farlo. Fallo
Harry ci prova a tirarlo su. Mentre l a polizia cerca di raggiungerli attraverso il fuoco che incenerisce i muri per le scale, ci prova, a salvarlo.
Ma per quanto facile possa essere, Harry non ci riesce.
Perché mentre lui fa forza sull'altro braccio immagina che un braccio altrettanto forte stia tirando lo scienziato verso il basso. Verso morte certa.
Non farlo.
Lo sente.
Lo sente forte e chiaro.
I pensieri di Harry sono spenti, ma c'è un altro adesso che pensa al suo posto.
Ed Harry non capisce perchè l'uomo è ancora fra la vita e la morte, appeso a un'ancora di salvezza che non vuole salvarlo.
Perchè tu non vuoi salvarlo, vero?
Vattene... Vattene.
E dove vuoi che vada? Siamo una cosa sola Signor Osborn, non dimenticarlo.
Non lo lascerò.
Allenta la presa.
No.
Allenta la presa Harry.
Dov'era questo grande scienziato quando la malattia ti consumava dentro? Dov'erano tutti loro quando stavi morendo? Non c'erano, c'ero io. Lascialo andare.
••Harry! Lasciala andare!••
Non sei tu l'eroe.
Ed Harry allenta la presa. Guardando l'uomo negli occhi che diventanoazzurri, imploranti e consapevoli, sferzati da ricci capelli biondo sole mossi teatralmente dallo spietato vento della gravità.
La ucciderà una seconda volta.
Un dito lascia, poi l'altro.
Sta per ucciderla una seconda volta.
"Forza... resista..."
Una terza mano si interpone fra loro. È rossa. È convinta di voler fare del bene. È così pura e sensibile che per un attimo Harry è sopraffatto dalla nausea.
Spider-man tira da un braccio, lui dall'altro, l'uomo si salva. Ansimante, paonazzo in volto, ma si salva, buttandosi sul tetto come un animale sfinito, ma vivo.
È Harry che sta morendo dentro.
"Harry."
Spider-man lo chiama: è preoccupato.
Ma per Harry è inevitabile sentire la voce di Peter Parker.
"Sei ferito." constata Harry, atono come un fantasma incolore.
"Harry sei pallido..."
Spider-man gli poggia una mano sulla spalla e tutto ciò che Harry vede è il suo odio più grande.
Non c'è traccia di Peter Parker sotto quella tuta.
Non c'è traccia di Harry Osborn sul quel grattacielo.
"Non. Osare. Toccarmi." E un ringhio basso e feroce si fa strada fra i suoi denti, fra le labbra tirate fino allo spasimo e gli occhi di puro oro bollente.
Spider-man d'istinto si fa indietro. Ma non si allontana. Non riesce a dire altro, non può dire altro, perché sa, eccome se lo sa, che qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lui.
"Harry..."
Harry corre via.
Si potrebbe dire che scappi, ma non può fuggire.
E non serve a niente il fermarsi della gente, gli sguardi ammirati di chi loda il suo coraggio.
Niente ferma la sua corsa, tranne una cosa.
Qualcuno lo chiama eroe.
Un giornalista forse, o è solo il vento che si prede gioco di lui.
In ogni caso lui si volta. Gli occhi azzurri, bellissimi, si scontrano con il grigio del cemento, disumani, disperati.
Ed Harry sa, mentre parole che sanno di incenso e funerale prendono vita sulle sue labbra, che non si può sfuggire alla parte peggiore di te.
"Non sono io, l'eroe."
 

 
 
 
 
 
 
 
 
|- - -|

 
 
“Male… molto male…”
“Che c’è di male?”
“Per iniziare la tua capigliatura.”
“Cos’ha che non va?”
“Pensi davvero di poter andare a Milano conciato così?”
“Così come??”
“Felicia, luce dei miei occhi, pensiamo dopo ai capelli. Ora preoccupiamoci del vestito.”
“Sì ma… guarda i suoi capelli.”
“Guardare perché?!”
Il menage-a-trois fra Harry Osborn e la sua brillante assistente su tacco 12 Peter non l’aveva considerato quando quel piccolo milionario bastardo l’aveva trascinato di prima mattina via dalla redazione del giornale a cui vende le foto di Spider-man borbottando cose come “è il momento di indossare un nuovo costume.”
Peter non aveva in mente questo tipo di costume quando si era ritrovato incastrato fra Harry, Felicia e nomi di stilisti che a malapena riesce a pronunciare.
“Io ho degli abiti eleganti… ho sempre indossato quelli.”
Gli occhi di Felicia volano per aria con un’alzata al cielo così violenta che è come se volesse vedere attraverso il soffitto.
Harry gli da almeno il beneficio del dubbio. Scettico, pignolo, ma glielo da, e al momento, date le circostante drastiche e l’ignoranza totale di Peter per l’alta moda, quest’ultimo non può chiedere di meglio.
“Bene, quali sono?”
“Posso farteli vede-“
“Mi bastano i nomi. Dimmi i nomi.”
“Sono… ehm… e c’è… oh! Uhm..-“
“No.”
Si sente offeso.
“Come sarebbe a dire no? I miei vestiti non hanno mai fallito un colpo!”
“Certo, quando non c’era mezzo mondo a guardarti, osservarti, registrare ogni tua più insignificante mossa, metterti di nascosto sassi grandi quanto pallide da golf in tasca per farti affondare più velocemente del Titanic.”
E ora si sente male.
“Perché hanno invitato lui?” chiede la bella Felicia in tutta la sua cortese nonchalance nel fargli comprendere che non trova alcun motivo valido per il quale Peter dovrebbe prendere parte a questo evento.
"Sai benissimo come funzionano queste cose Felicia: ognuno di quei galletti dalla cresta d'oro e il blocco assegni pieno vuole assaggiare un pezzetto di me, e adesso che siamo su tutti i giornali come “La sospetta e inaspettata amicizia del decennio” anche di lui. La gente non è totalmente stupida, almeno non per quanto riguarda le relazioni sociali, e non serve un occhio attento per capire che è successo qualcosa e che noi siamo coinvolti fino al collo. Saranno sciacalli assetati di sangue e carcasse di notizie pronti a banchettare sulle ossa dei veri Harry Osborn e Peter Parker."
Il giovane Osborn è l'apoteosi del tranquillo, placido fuoco che rischia di bruciarti le dita con cui tieni la carta fiammante; il guanto che non solo raccoglie la succosa sfida della società di riuscire a impressionare gli standard con la capacità di stare sotto ai riflettori, ma te la lancia addosso con il doppio della forza e del sarcasmo pungente che ti farà pentire di averci anche provato. 
Il giovane Parker è invece più che sull'orlo della nausea, sull'orlo di una crisi di terzo grado, pronto a urlare ai cinque continenti che lui salva il mondo con tanta appariscente disinvoltura solo perché coperto da una maschera e che i palchi al centro del circolo di attenzioni e parole non sono il suo forte e non lo saranno mai, anche a costo di strangolarsi con una delle sue ragnatele.
Felicia li osserva nel più assoluto silenzio, aiutando Harry nella scelta di una pettinatura che faccia sembrare Peter Parker meno... Peter il porcospino Parker.
Li osserva e non saprebbe dire dove inizi la lingua pungente di uno e finisca la battuta ironica dell'altro.
Ed è strano, Felicia si trova a pensare, è stranissimo, che due creature così diverse, così modellate da due pezzi di argilla di diverso colore e consistenza, persino da diverse mani, possano trovarsi a metà strada così bene, incastrandosi alla perfezione come tasselli mancanti di un errore, nel mezzo dell'impacciato cercare di Peter di sconvolgergli il ciuffo e nel glaciale ma mal celato divertito tentativo di Harry di allontanargli le mani dalla sua testa.
"Non toccarmi i capelli, Peter."
E Felicia si chiede quale sia il loro segreto, quello più grande, quello del quale chiunque sarebbe irrimediabilmente, tragicamente geloso.
Anche lei.
"Max."
Harry scorge nel suo riflesso una quarta presenza nella stanza che, non appena varcata la soglia tormentandosi le mani, sorride imbarazzato all'avvenente assistente in nero e si avvicina ad Harry come a volerlo proteggere dall'energia negativa che sente provenire, per qualche ambigua ragione, da Peter.
Gli rivolge un cipiglio serio come se potesse vedere davvero spirali tossiche emanate dal suo corpo e macchiare il gigantesco lampadario dell'armadio di Harry.
Sì, perché l'armadio di Harry è una stanza dove entrano comodamente quattro persone.
"Pensavo che non ti piacesse guardarti allo specchio." dice Max, e sotto gli occhi straniti di Harry si scusa con un "Me l'hai detto tu."
"Max, ricordi quando ti ho detto che la cosa che apprezzo di più in una persona è l'onestà?"
L'altro annuisce immediatamente.
"Ho mentito." 
Max si affloscia su se stesso. "...Oh."
"E dovresti farlo anche tu."
"Come mi sta questa giacca?"
Tutti i presenti reagiscono alla domanda di Peter con sopracciglia tese e smorfie, sguardi eloquenti e sbuffi silenziosi, ma è Max che si fa avanti, lo affianca sorridendo di un'allegria contagiosa sul volto e declama, con un assoluto, spettacolare sorriso: "Benissimo!"
E Peter si passa una mano tra i capelli scombinati, sorridente a sua volta e sorpreso. "Grazie... Max."
Passa un minuto. 
Forse due.
Poi Peter sente una vocina dentro di sé, spocchiosa e irritata, che gli chiede qualcosa simile a ‘non ci sei ancora arrivato, vero?’
"Aspetta... Ma stavi mentendo?!"
La risata scombinata di Harry glielo conferma.
 
 

 
 |- - -|


 
“Signore, la cena è pronta.”
Peter non si è mai abituato alla gente che attende la tua presenza ed entra in una stanza solo per prendere i tuoi ordini. I maggiordomi in casa Osborn sono stati una presenza strana e asettica nell’infanzia di Peter. Quando si sporcavano nelle pozzanghere, quelle rare volte in cui Norman Osborn non aveva modo di scoprirli, immediatamente qualcuno in frack chiedeva lui “come preferisce che vengano lavati i suoi vestiti?”
Peter a quell’età doveva ancora capire il funzionamento di uno sgrassatore.
E lo stesso per quanto riguardava la colazione che Peter spesso persuadeva Harry di fare a casa sua, con zia May che metteva sul tavolo tutto ciò che aveva e riscaldava loro il latte e li osservava con quello sguardo amorevole, combattuta fra il dare il buongiorno a Peter o salutare prima Harry. Ma quando si incontravano sul lungo tavolo silenzioso al mattino, uomini e donne chiedevano cosa volessero per colazione, ed erano tutti nomi particolari di cereali di malto e succhi di ribes e se esisteva il latte esisteva con la cannella e non certo con il grasso e zuccherato cacao in polvere.
Peter doveva ammettere che era sensazionale venir serviti in ogni più infima parte della colazione e avere a portata di mano zucchero di canna, stevia, miele e fruttosio al posto del comune zucchero bianco. Ma mancava qualcosa intorno a quel tavolo. Harry in casa sua era più taciturno e zia May non toccava loro i capelli ogni due minuti e zio Ben non varcava la soglia della cucina coperto da olio di macchina e fango.
Solo uomini e donne al servizio di due ragazzini.
Quando Robert annuncia la cena due giorni dopo, Peter è piegato sul tavolino di Harry del soggiorno di Harry, e quello che gli parla è il maggiordomo di Harry. Sta analizzando le foto fatte recentemente a Spider-man da rendere al suo giornalista.
Di Harry neanche l’ombra, per tutto il giorno.
Ma gli aveva permesso di rintanarsi nella quiete di quelle mura, nella speranza che zia May la smettesse di fare domande sul bucato che diventava rosso e blu a giorni alterni e che i college a cui aveva fatto domande si decidessero a rispondere alle sue e-mail e domande di iscrizione. Il ragazzo aggiorna la pagina ogni cinque minuti. Controlla la cassetta della posta ogni mattina. Zia May dice che è ancora presto, e Peter ci crede, ma è in ansia lo stesso.
“Robert… secondo te quale fra queste due foto è la migliore?”
“Perché non ti infili la maschera e ti fai delle selfie? Faresti più velocemente.” Prorompe una voce pungente.
“Sei qui, pensavo non arrivassi.”
“Vuoi cenare da solo?”
Peter sospira gettando una foto su un mucchio sparpagliato accanto a lui. “No.”
Harry si ferma accanto a lui. La maglia che indossa gli lascia scoperte le braccia. Sono martoriate.
“Dai, vieni.”
“Devo selezionare queste stramaledettissime foto per domattina o…”
“Dopo ti aiuto io, ora alza il culo Parker.”
Peter fa una smorfia alzandosi, il suo viso si arriccia, ma lo segue in sala da pranzo, in una camerata di quadri e lampadari dove entrerebbero comodamente venticinque.
Se queste pareti avessero gli occhi Peter si sarebbe sentito in soggezione.
Harry si siede ad un capo del tavolo, Peter subito alla sua destra.
E non se ne rende conto fino a quando qualcuno non gli mette davanti il piatto con spezzatino in crosta di basilico con spolverata di timo e succo di prugne, fino a quando Robert non rimane in silenzio in un angolo, attendendo nuovi ordini o che finissero la prima portata.
Sono passati otto anni e sembra ieri.
E’ tutto come allora, così identico, Harry capo tavola perché doveva mantenere la sua posizione di preminenza nel caso il padre tornasse prima dal lavoro, ma non troppo distante da Peter perché non avrebbe retto di essere lontano da lui in quella casa perfetta e screziata di solitudine.
Peter lo guarda per la prima volta da quando si è seduto. Non v’è tracia di aggressività incasellata nei suoi lineamenti, non c’è traccia dell’Harry che ha minacciato un intero locale per il gusto di stringere in mano le redini della conversazione.
Perché quello non era Harry.
Questo è Harry, il ragazzo dagli occhi di cielo senza nuvole in un giorno d’estate, dalle ciglia che si incastrano fra loro e il ciuffo liscio spossato da qualche passata di mano.
E’ un armistizio? Stanno davvero deponendo le armi?
Dopotutto Peter non può dare per scontato che Electro… Max… quell’ex impiegato della Oscorp aveva il desiderio sfrenato di ucciderlo l’altra sera. L’avrebbe fatto.
O almeno ci avrebbe provato. E senza Gwen… non è sicuro che c’è l’avrebbe fatta. Non questa volta. Non con il peso del dolore sulle spalle.
E’ un armistizio.
Hanno un patto che li unisce, un accordo, una collaborazione reciproca, stanno cenando allo stesso tavolo e Harry sembra solo stanco.
Può permetterselo per qualche ora di dimenticare di avere nelle vene la responsabilità di difendere l’innocenza.
“Ti ricordi quando a nove anni volevi incendiarmi il sedere?” domanda il più giovane sporgendosi per prendere una bottiglia e facendo un cenno a Robert di non scomodarsi per un  bicchiere d’acqua. “Credevo davvero che l’avessi fatto, invece tu avevi soltanto buttato della terra si miei pantaloni per farli sembrare bruciati.”
“Tu avevi otto anni e hai creduto per delle ore che ti mancasse mezza chiappa.” Risponde prontamente l’altro, sbuffando nel vino la sua risata.
“Camminavo di lato cercando di non consumare… la parte di sedere rimasta…”
Le risate dei due sbattono sui quadri elaborati e sul freddo marmo del camino.
E’ così facile.
Sembrano molto giovani adesso, molto più giovani dei loro demoni, e delle loro ferite.
“Alla fine sono contento di non averti bruciato il fondoschiena.”
Le risate si spengono, i sorrisi rimangono. Ma sono strani.
Non sono più giovani, ma gravi e contaminati dal passato che si atteggia ad essere un presente convincente, che li rende pericolosi.
Peter abbassa il viso, gli occhi seguono le venature legnose del tavolo senza riuscire a nascondere l’accenno di un po’ di quel pericolo in un piccolo sorriso.
“Mio padre diceva che non si abbassa mai lo sguardo.” Butta lì Harry in teoria con noncuranza, in pratica desiderando che l’altro lo guardasse ancora.
E quando Peter torna a farlo, il gesto si accompagna di poche parole: “Allora tuo padre non ti ha mai guardato negli occhi.”
Spider-man non vuole che le cose si complichino, ma Peter stasera ha gettato le armi. Vuole un po’ di quel passato a condire il cibo stasera, vuole che la luna torni ad essere di formaggio e la vicinanza di Harry gli riempia i polmoni.
“Non ci sono paparazzi adesso, puoi anche continuare ad odiarmi.”
Non è un’accusa, solo un dato di fatto.
Harry si sente più a suo agio nell’odio, a stretto contatto con persone di cui non gliene importa niente e alle quali non importa niente di lui perché è così che è stato cresciuto: nell’odio. Negli echi di pareti silenziose e fantasmi di affetti.
Fatti temere, fatti disprezzare, fatti odiare, ma non farti mai amare.
La voce di Norman Osborn è vivida nella mente di Peter, quando disse questo al figlio la prima volta. Aveva dieci anni. Un bambino di dieci anni non dovrebbe sentirsi dire certe cose.
Ma il piccolo Harry non battè ciglio, osservò il padre in devoto silenzio, la schiena dritta, le pupille ferme.
Un bambino di dieci anni non dovrebbe comportarsi così.
E questo il punto, io non sono sicuro di non come vorrei Sulla torre dellOrologio è stato facile fingere che non fossi tu. Ma ora…”
Non pronuncia queste parole.
Perché Peter Parker sa che Harry Osborn sa difendersi da tutto tranne che dall’amore.
E lui ha bisogno che Harry si difenda, che si tenga lontano.
Perché deve odiarlo, deve crollare di notte quando il corpo di Gwen penzola inerte da quel filo di ragnatela che come una mano disperata ha tentato di salvarla. Ha il bisogno fisico di odiarlo.
Ma come si fa quando il tuo migliore amico sembra così sé stesso?
 

Un bambino se ne sta  rinchiuso in un bagno. Ha sei anni, corti capelli color del legno scuro, un visino pieno e grandi, espressivi occhi mogano, da cerbiatto.
Ha paura di uscire.
Continua a rimirarsi allo specchio, ma non per vanità. Un bambino di sei anni se si guarda allo specchio ha una ragione ben precisa.
E troppo grande come faccio a nasconderlo tutti mi prenderanno in giro.
Chi ti prenderà in giro?
Un altro bambino entra nel bagno. Ha sette anni. E ciò che c’è di più diverso dal primo bambino: i suoi tratti sono morbidi, i suoi capelli più chiari, gli occhi troppo azzurri.
Non…” il primo bambino si fa coraggio, prende in mano un bel respiro e Non si bussa prima di entrare?
Adesso c’è lhai con me? ma il secondo bambino è divertito. Non è abituato a sentirsi rivolgere questo tono, di solito tutti pendono dalle sue labbra, o fingono di farlo.
E sicuramente non credeva che la preoccupazione negli immensi occhi di quel bambino potesse trasformarsi in determinazione.
La colpa è mia?
No…”
E allora di chi è?
Del mio apparecchio e dei tuoi occhi.
Coshanno i miei occhi?
Sono troppo azzurri.
Il bambino sbatte i suoi occhi azzurri un paio di volte, perplesso, prima di chiedere Non credo sia un male.
Lo è, perché distraggono. Io prima ero concentrato sul mio apparecchio, ora sui tuoi occhi azzurri.
Non è giusto. Perché a lui lapparecchio e a quel bambino degli occhi così?
Eppure non ha mai voluto gli occhi azzurri, fino ad ora: fino al non aver visto quelli di questo bambino.
Ma forse è proprio una mania dei bambini il voler possedere le cose degli altri.
Cosha che non va il tuo apparecchio?
Gli altri bambini mi prenderanno in giro…”
E cosa vuoi fare?
Non lo so indossare una maschera.
Pensi che questo aggiusterà tutto? Ci sei sempre tu di sotto.
Ma mi sentirei protetto.
Non si può indossare sempre una maschera. E impossibile.
E perché?
Perché… le maschere non possono provare emozioni. I volti sì. E i volti sono sotto le maschere.
Il bambino dagli occhi color del legno ci pensa su.
E sveglio, ma le parole del bambino sono strane. Deve rifletterci un po.
Il bambino che gli sta parlando usa parole difficili e il ciuffo che gli lambisce la fronte è perfettamente liscio e ordinato.
Lui non vuole essere da meno.
E allora come si fa a distinguere il volto dalla maschera?
E importante fare le giuste domande. Per il bambino fare le domande giuste è più importante di dare le risposte.
Mmm pensaci. Tu non distingueresti i miei occhi da quelli di una maschera?
Il più piccolo sembra preoccupato che la risposta non giunga abbastanza velocemente.
Certo che li distinguerei! spalanca gli occhi offeso. Nessuna maschera potrebbe nascondere il loro colore.
E se fosse una maschera con gli occhi molto simili ai miei?
Non importa. e per quel piccolo bambini insicuro dalla voce vivacemente pronta non ci sono dubbi. E sicuro di quello che dice. E quasi una promessa. Capirei comunque quali sono quelli veri.
I due bambini si guardano attraverso la schietta onestà della loro età prima che il più ponga la domanda più importante.
Promesso?
E per il bambino più piccolo è naturale rispondere che sì, di quegli occhi azzurri non se ne poteva fare una copia o copiare come i compiti in classe di grammatica. Come faceva una maschera a rendere la stessa luce viva, la stessa fulgida innocenza, lo stesso azzurro privo di nuvole di quegli occhi?
Promesso.
Laltro sorride.
Allora se puoi fare questo potrai anche camminare davanti agli altri con lapparecchio ai denti.
E e se inciampo? E se cado?
Se inciampi e cadi sarò dietro di te.
Gli sta bene al bambino preoccupato. E per un attimo lo sembra meno preoccupato, fino a quando non si volta allarmato. E se cado in avanti?!
Allora io starò accanto a te.
E così facile crederci a quegli occhi, allespressione candida del bambino dagli occhi azzurri. Ora che lo osserva bene, ha anche la pelle molto chiara. Come se fosse leggera. Al bambino preoccupato ricorda un po uno di quegli angeli che la mamma aveva attaccato alla sua culla da piccolo per proteggerlo. E il bambino non è preoccupato più.
Promesso?
Promesso.
Ed è prima di uscire, superare la porta del bagno, silenzioso e sicuro, e addentrarsi nello strambo e complesso corridoio della vita che uno dei due chiede quello che non era necessario sapere.
Era risultato così spontaneo per quei due parlare di maschere, volti e promesse che nessuno aveva trovato curioso non sapere come si chiamassero, quali fossero i loro nomi.
Capita, quando con qualcuno vai al di là delle frasi fatte e del disagio. Quanti ti senti come se potessi conoscerla da sempre.
Come ti chiami?
Peter, tu?
Harry Osb Harry. Mi chiamo Harry.
 

"Harry, dovremo ballare in questa Milano?" Chiede Peter. "Perché tu lo sai, io sono una minaccia sulla pista da ballo." 
Harry si volta. Una corrente di aria gelida si insinua nella stanza e la nostalgia si insinua in Harry. È una sensazione strana, quasi sconosciuta per chi, come lui, ha guardato sempre avanti, solo avanti. È da otto anni che Harry Osborn non osa voltarsi indietro. Ha paura di cosa potrebbe vedere sulla strada di familiari ciottoli che si è lasciato alle spalle. 
Esatto, Harry Osborn ha paura, per la prima volta, per la prima sera, nostalgia e orgoglio fanno a pugni col destino.
"Mi sembrava di averti insegnato."
"Sì... ma avevo otto anni. E io salivo sui tuoi piedi."
"..quando io ero ancora più alto di te." 
Peter sorride ed Harry non puó fare a meno di pensare a quel meraviglioso bambino di otto anni che aveva due piedi sinistri e un'attitudine al ridere a squarciagola ogni qual volta inciampava nei suoi stessi passi. 
L'Harry di allora impazziva per quel timido uragano dagli occhi color nocciola.
L'Harry di ora è più solo, più freddo, più cattivo, consumato dentro da strette allo stomaco e mezze verità, ma può ancora specchiarsici nei grandi occhi di Peter, e può ancora amare il suo riflesso. E allunga una mano, apre le dita, gli offre lo sguardo può sincero che riesce a donargli. Non è sicuro di riuscirci. 
Ma Peter non ci mette molto a farsi vicino e ad accettare quelle dita, richiudendole fra le sue.
È così perfetto il modo in cui il loro tocco è familiare sulla pelle che fa quasi male. Per Peter è come se il passato gli avesse tirando un pugno.
Ma non lascia quella mano. 
Può superare il trauma di essere stato morso da un ragno geneticamente modificato, lanciare ragnatele come fossero stelle filanti, buttarsi dai palazzi in caduta libera, sfidare la gravità, affrontare armi da fuoco e boss in cima alla piramide della criminalità organizzata, ma non può lasciare quella mano. 
E gli manca il coraggio, come gli è mancato quella notte, di credere a ciò che la realtà spacciava per vero.
Harry ha quel sapore sarcastico sulle labbra, Peter si accorge di starle guardando quando l'altro gli poggia la mano sulla spalla sinistra.
"Puoi fare il maschio." Sorride. "Altrimenti, quando Felicia vorrà a tutti i costi ballare con te… soddisferai la sua sete di figure imbarazzanti. Sa essere piuttosto stronza quando vuole."
Il vento è freddo attraverso la finestra, la luna è una spia d'argento nel manto mai troppo fosco nella città dove la notte non esiste, ma Peter non prova interesse per il cielo, é troppo nero, mentre lui ha davanti l'azzurro più chiaro che abbia mai visto in un paio di occhi. 
"Fai un passo avanti..." mormora Harry, "e poggia la mano sul mio fianco." 
La sua voce è così fredda da fargli fare un passo indietro, ma Harry lo tira in avanti impedendogli di allontanarsi da lui. 
Non so perché Peter volesse scappare, ma so di certo che nulla dura per sempre. 
Non appena appoggia la mano sul suo fianco, e le loro mani si fanno più strette e i loro occhi si incontrano, più vicini di quanto siano mai stati nell'ultimo decennio, Peter dimentica perché volesse fuggire.
Era sicuramente un motivo valido.
Era sicuramente quello che direbbe il buonsenso: scappa.
Ma non se lo ricorda.
Perchè il buonsenso non ha una voce affascinante quanto quella di Harry e non mi impedisce di pensare che "Dio, questo bastardo, instabile viziato mi farà andare fuori di testa.
"Cos'è successo stamattina?"
Lo colglie di sorpresa.
Si irrigidisce, si fa diffidente, si chiude dietro un velo di educata freddezza.
"Niente."
È falso.
"Non mentirmi." E prima che Harry possa rispondere Peter continua con un definitivo "e non osare uscirtene fuori con la storia del 'non darmi ordini' perché ti mollo un pugno dritto dritto in fronte."
Harry serra le labbra, sibilando un secco "bene."
"Allora?" Peter calca la mano, non vuole dargli la possibilità di occultare la verità. "Potevi farti male."
"HAHAHAHAHAHAHAHAHA!"
Sono questi i momenti in cui Peter ne ha più paura.
Quando i muri crollano, le porte si sfasciano, le inibizioni si squagliano come ambigue statue di cera e ciò che vi trovi dietro ti fa desiderare ardentemente di non aver mai spinto tanto a fondo per conoscere la verità.
Perché la verità fa più paura della menzogna.
È mostruosa.
Come la sua risata, che risuona nella stanza, che si assorbe nei muri e rimbalza negli occhi, che non lascia traccia di alcuna gioia.
"Farmi male... Ah Peter... A volte mi chiedo se tu lo faccia apposta ad essere così esilerante.” Si asciuga una lacrima che non c’è. “...hahaha.." 
"Non sto scherzando. Harry."
Il tono del più piccolo non gli piace. 
Gli si avvicina con imponenza, si ritrovano a pochi centimetri di distanza.
"Pensi che non abbia bramato con ogni osso del mio corpo che qualcosa in quel macello potesse farmi male?” sibila con il veleno in bocca. “Ma non sarebbe successo... non sarebbe successo niente anche se mi fossi buttato nelle fiamme."
"Ma avresti potuto tenertene fuori e invece hai salvato Gregory."
"Salvato? Hahaha, se non ci fosse stato l"eroe" io non avrei mai..."
"..ti abbiamo visto tutti, hai cercato di dissuaderlo dal buttarsi e quando è scivolato gli hai impedito di cadere..."
"..voi non avete visto... io so cosa c'era su quel tetto.."
"..io so chi sei, impulsivo e sconsiderato, ma hai salvato una persona da morte certa.."
".. tu non sai un bel niente, tu NON mi conosci io so chi c'era su quel fottuto tetto!"
"Io... non ti conosco?"
Non risponde. 
Harry Osborn non risponde.
La lingua più affilata che Peter abbia mai conosciuto non taglia. Non brucia. Non morde. 
Se ne sta meramente in silenzio, come una lingua qualunque. E il suo sguardo vorrebbe dirigersi altrove e ogni tendine del suo corpo è in delirante tensione. Non sa cosa dire. Non era mai successo. 
E ne approfitto, usando la stessa lingua, rendendo affilate le stesse lettere, avvolgendo con le labbra le parole che voglio emergano chiare e incisive.
Dopotutto… ho imparato dal migliore.
"Allora, puoi dire a chiunque fosse con te su quel tetto che non mi interessa se lui è dentro la tua testa o il tuo cuore... o fosse anche la tua anima, nessuno ti conosce quanto me, nessuno, e non cedo questo primato a nessuno. Mi sentite? A nessuno."
E il migliore non si aspettava questo sbalzo di ruoli, quella voce che detta legge, declama priorità, scopre le carte del fato... Fa un passo indietro. 
Ma Peter prevedo anche questo.
Il suo braccio si stringe attorno alla sua vita.
Peter lo tiene così vicino che ha il suo odore sui suoi vestiti. Ed Harry se ne accorge un secondo più tardi, che non può allontanarsi.
E se la verità fa paura, Peter hoa smesso di aver paura nell'istante in cui il corpo di Gwen gli si è sgretolato fra le braccia.
E adesso la vuole, la verità. La pretende. 
Si dimena piano ma con indolenza, sa che è inutile, che c'è più della forza di un essere umano. 
E allora Harry si chiede: perché comportarsi da esseri umani?
È così faticoso fingere di essere il ventenne di sei mesi fa. Non lo è: i suoi occhi sono più freddi, simili all'acqua gelida sulle cosce; il rosso delle sue labbra è più simile al sangue che alle ciliegie; la diffidenza gli aleggia intorno come aria sporca; le emozioni che tenta disperatamente di rinchiudere negli armadi dei suoi scheletri scalpitano e ringhiano, minacciando vendetta; la sua mente è in guerra, spaccata a metà dalla luce e dalle ombre, dal tempo che scorre e non si ferma, dalla sensazione di star perdendo il controllo proprio con il viso di Peter così vicino e i suoi grandi occhi ma, dannazione!, il corpo subisce i colpi di questa guerra invisibile gli altri ma che lui sente ogni giorno, ogni ora... e fa male, fa maledettamente male avere rimorso e tripudio dentro.
Provarli entrambi. 
Ti logora dentro. 
Il rimorso, quel bellissimo sentimento serpeggiante fra ansia e cuore, quella lingua biforcuta che si attorciglia fra le costole appuntite, stritolando la cassa toracica con la forza devastante dell’umanità, vorrebbe nascondersi, abbassare le tende e osservare ogni ferita, ogni segno, ogni ricordo e urlare: che cosa hai fatto?
Ma l'altro... il tripudio, la soddisfazione, il compiacimento dell’estasi eh, è una nota amara nel budino alla cannella deliziosamente speziato, irresistibile, agghindato da un'esotica sfoglia di zenzero e decorato da un'aromatica, vellutata, cremosa glassa di vaniglia. E tu lo mangi, affamato e insaziabile, bisognoso del suo gusto perfetto sulle tue papille gustative nonostante l'amaro, insignificante in confronto a tutta la dolcezza, ma puoi sentirlo, puoi percepirlo e non ti ferma, non ti ferma fino a quando, con orrore, non scopri che è veleno.
Ti scorre nelle vene al posto del sangue.
Ti colora gli occhi al posto della vita.
Ti adombra le ombre del volto come un pittore ossessionato dal chiaro-scuro.
Ti fa desiderare che il tuo migliore amico la smetta di tenerti le mani addosso perché potrebbe finire squisitamente male.
E quando Peter serra la presa Harry salta.
Serra la mano, la stringe in un pugno, la alza, è pronto a colpire. Ma qualcosa va storto.
Spider-man lo blocca.
E Peter si sente fregato.
Ed Harry si sente in trappola, quando ha l'odore di Peter nelle narici e i suoi occhi a leggergli l'anima e un polso stretto fra le sue dita, sospeso a mezz’aria fra i loro volti.
'Avevi promesso che non sarebbe accaduto. Avevi giurato che niente sarebbe stato abbastanza da farci vacillare.'
Harry sta parlando con se stesso e se stesso non risponde, più silenzioso che mai. Le sue domande sono un'eco infinito nel bel mezzo del nulla.
Davvero la più grande mutazione genetica mai realizzata viene sconfitta così, da un paio di occhi marroni?
"Come fai?" chiede Harry.
Spider-man non può permettersi di andare fuori di testa; di perdersi per sentieri lastricati di buone intenzioni che portano dritti nella bocca dell'inferno: ha delle labbra meravigliose.
Ma Peter Parker?
Peter Parker non ha mai smesso di andare fuori di testa con lui.
"A fare cosa?" sussurra di rimando, le labbra vicine a respirare la stessa aria.
"Ad andare avanti."
Peter sbatte le palpebre un paio di volte, le sottili ramificazioni di oro liquido nel bronzo scuro dei suoi occhi brillano perplessi, come se la domanda fosse scontata e la risposta ovvia.
"Perché andare avanti è l'unica cosa che posso fare. Lo faccio per la gente... lo faccio per lei." si interrompe. Sente che ha qualcosa da aggiungere.
"Lo faccio perché non accetto di perderti così." 
Le parole vengono fuori veloci, fluide come acqua, roventi come fuoco. 
Le loro dita incastrate, la vita di Harry fra le braccia di Peter, il braccio di Peter intorno alla vita di Harry, il mondo che infuria lì fuori, i respiri che si uniscono qui dentro.
Harry sa che potrebbe annegare nella purezza degli occhi di Peter e nel loro colore così scuro e così limpido; Peter non vede altro che la carne piena delle labbra di Harry, così finemente disegnate da non lasciare spazio a nient altro. Gli si avvicina piano, lentamente, come a sperare che qualcuno lo fermi dal mordere quelle labbra. Vuole fargli male, trattenere quella carne rosea tra i denti, tirare il labbro inferiore fino a farlo...
“Harry, cos’è questo?”
Harry non ha bisogno di seguire lo sguardo dell’altro per capire che il colletto della camicia non gli sta coprendo il collo come dovrebbe.
Può vederlo riflesso negli occhi di Peter il sottile segno viola e rosso impresso all’altezza della carotide.
“Niente.”
Ma Peter non ci crede. Ha smesso di credere agli incidenti, al caso, alle coincidenze.
Ha smesso di credere al destino, quel sottile filo cremisi come la piccola ferita di Harry che ci lega tutti ad un unico finale.
Oggi, Peter Parker, crede solo nelle scelte.
“Promesso?”
E teme quelle che potrebbe compiere Harry Osborn. Teme per le persone che ama e per gli innocenti. Teme che gli orologi impazziscano e tutti il passato rinchiuso in cassetti fintamente dimenticati inizi a riversare fuori i suoi ricordi.
Ed infatti il “promesso” che il ragazzo riceve in risposta seguito da un conato un ventenne dagli incredibili occhi di zaffiro che si alza ed esce dalla stanza veloce e con una gravità sulle labbra come se stesse per rimettere l’anima non più quel promesso di quattordici anni fa in quel bagno di una scuola elementare di New York dove un bambino di sei anni cercava di nascondersi dal mondo e uno di sette anni di sette lo spinse ad uscire fuori e combatterlo.
Allora sembrava tutto così facile.
Persino quando le cose iniziarono a mostrarsi per ciò che erano realmente e Peter conobbe Harry per davvero, le due debolezze… i suoi segreti… e capì che quel ragazzino non era così intoccabile come si aspettava, era facile.
Fra di loro.
Cosa era successo? Quando, esattamente, avevano deciso che loro due insieme non erano più abbastanza?
Peter troverà l’anima di Harry nel cesso, stanotte?











- Angolo Autore -
Non ho scuse per questo ritardo e non ho scuse per non aver risposto alle recensioni lasciate al precedente capitolo.
Ma provvederò! (santi buoni propositi)
Ho fatto una rilettura veloce del capitolo perchè devo scappare, ma ci tenevo ugualmente a lasciarvi questo capitolo. 
Spero non mi siano sfuggiti molti errori.
Le recensioni sono sempre graditissime e, anche se non rispondo subito, mi fanno davvero tanto, tanto piacere, voi non avete idea quanto.
Ho aumentato la dimensione della scrittura, a dimostrazione che vi leggo sempre e cerco di venrvi incontro come posso.
Grazie ovviamente anche ai lettori che non lasciano tracce ma che mi donano le miridiadi di visualizzazioni, siete fondamentali anche voi!
Scappo,
alla prossima,

Pachiderma Anarchico

PS: Le strofe all'inizio sono tratte dal lyrics della canzone di Lana Del Rey "God and Monsters".


 
 

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