Il parallelo mondo dei giocattoli difettosi

di The Lady of His Heart 23
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***



Più terrificante di un taglio di capelli sbagliato, c’è solo un taglio di capelli sbagliato il giorno precedente al tuo primo giorno di liceo. Partendo dal presupposto che l’immagine è tutto nella vita e dato che viviamo in una società di merda che ogni due per tre ci ricorda che se non hai un fisico da sballo e indossi Chanel non sei nessuno, ho deciso scioccamente di rinnovare il mio look.
Dopo aver infatti passato tre anni d’inferno alle scuole medie e altri tre alle superiori della mia precedente città, tra prese per il culo e roba varia, mi ero ripromessa che la cosa non sarebbe capitata e con il liceo alle porte sarei potuta ripartire da zero e essere io la strafiga di turno ma, evidentemente, i miei “amici”(si fa per dire) non la vedevano in questo modo. Forse avrei dovuto aspettarmelo che, nel momento stesso in cui ho bruciato i miei soldi per un taglio orribile, che le cose non sarebbero andate esattamente come le avevo programmate.
Onestamente non era un taglio così brutto … per la mia parrucchiera ovviamente. Grazie tante aveva combinato un casino sulla mia testa che cavolo poteva fare se non dirmi che ci stavo benissimo?
Non che mi sia messa a piangere o roba simile, ma passare da capelli lunghi quasi fino al sedere a non averli affatto è un bel trauma. In fin dei conti era stata tutta colpa mia … e di mio padre, dato che era stato lui a consigliarmi quella parrucchiera. Solo lui poteva raccattare certa gente dall’altra parte del mondo e spacciarla per professionisti.
Quante volte avrei voluto spiegargli che il mio concetto di bello non coincideva con il suo concetto di bello. Anzi per lui non era neanche bello era stra forte e ogni volta che provavo a dirgli che quel termine era ormai giurassico per l’anno in cui vivevamo lui iniziava a tirare fuori la sua tiritera dove ogni cosa vecchia prima o poi torna di moda, così lascio correre e basta. Non che ci stessi male con il mio taglio, in fin dei conti visto da lontano e strizzando gli occhi poteva anche sembrare una cosa carina. Il punto era che sembrava uno di quei tagli per cui non ci giureresti che sei andato da qualche professionista per fartelo, ma ti aspetti che per risparmiare i soldi tua nonna ti abbia ficcato una scodella per la pasta in testa e mentre stavi legato alla sedia qualcuno ti tagliava i capelli seguendo il bordo in acciaio.
E così mi ritrovai ad affrontare il mio primo giorno di liceo in stile Star Trek. Il ché è una cosa figa (per citare mio padre stra- forte) assomigliare a un Vulcaniano. Dato che in quel periodo ero in fissa con i fumetti e la saga la cosa mi sembrava del tutto normale e essere la versione di Spock al femminile mi regalava un senso di onnipotenza, ma avevo dimenticato che non ero su Iowa, bensì nel mio schifoso piccolo paesino.
Per carità adoro il mio paesino,ma è così piccolo che ti basta un battito di ciglia per vederlo tutto. E poi è uno di quei classici posti in cui tutti conoscono tutto di tutti. In pratica, per quanto tu cercherai di passare inosservato, la tua vita sarà sempre più affascinante della vita altrui e tutti si sentiranno in dovere di ficcarci il naso. Mentre aspetto lo scuolabus vedo passare dei ragazzi in bicicletta. Beati loro e la loro benedetta innocenza. Per fortuna qualche giorno fa comprai una felpa con cappuccio, il che mi aiuta a mimetizzare il disastro e non farmi pensare ai miei soldi bruciati al vento per non dire altro.
In poco tempo la fermata si riempie di ragazzi e anziane con borsoni. Dopo qualche istante in lontananza si avverte il rumore rampante di un pullman e successivamente, eccolo sbucare da dietro l’angolo e parcheggiare di fronte a noi. La portiera si apre con un cigolio e tutti si strattonano per cercare di entrare e accaparrarsi i posti migliori, ovviamente quelli infondo fuori dalla portata degli sguardi minacciosi dell’autista.
Il pullman è infatti l’ennesimo strumento della società di selezionarci e dividerci in classi. Davanti ci sono i secchioni, in fondo gli svitati e casinisti e nel mezzo i “normali”come li definisco io, ma anche li va tenuto un certo occhio. Se non presti l’adeguata attenzione finisci di sederti accanto a qualche svitato con qualche allergia strana, qualche mania strana o qualche strana anomalia. Non che la cosa mi dispiaccia, infondo siamo tutti un po’ strani al mondo e la diversità ci rende speciali e soprattutto consapevoli di quanto bello possa essere il mondo che ci circonda (okay, questa l’ho presa di internet), ma finire con Jonny Mocciolo è una cosa che non sopporterei. Diciamo che sulla scala sociale della popolarità il mio è un uno e mezzo e il suo uno zero meno, se mi sedessi accanto a lui il mio uno scenderebbe di un meno e non posso permetterlo. Cercando di non dare nell’occhio mi siedo nell’unico posto libero accanto a una ragazza che mi pare simpatica. Così io le chiedo “E’ libero?” e lei annuisce con capo, allora io le dico “Grazie”e mi siedo.
Non ho idea del motivo per cui ho ringraziato quella ragazza, ma mi sembrava il minimo dopo avermi quasi sorriso senza aver commentato il mio taglio. Non possedendo di un telefono cellulare tutto mio ancora, e non avendo nemmeno un mp3 come tutta la gente normale sono costretta a sorbirmi una mezzora di urla e chiacchiere confuse. La maggior parte dell’autista. E no, non scherzo.
Giunti finalmente davanti scuola vi è un susseguirsi di spintoni vari che cercano di farmi cadere a terra e lasciarmi inerme nella mia pozza di sangue. Cerco di resistere il più possibile e finalmente sono fuori. La corsa per raggiungere i cancelli della scuola fu altrettanto più traumatica dato che per poco non venivo investita da un magiolino giallo limone. A quanto pare alle auto al giorno d’oggi, per passare in quel modo, non frega un accidente se una mandria di caproni senza cervello sta attraversando la strada per raggiungere l’unico posto che gli darà un po’ di cultura (si spera).
Una volta dentro mi dirigo verso l’unico posto in grado di rispondere alle mie domande (si spera anche in questo caso), la segreteria. Al bancone c’è una donna intenta a sistemare delle carte. Ha l’aria di chi è molto indaffarata, ma sono pronta a scommettere che è una scusa per evitare di fare altro.
“Sa dirmi dove si trova la 4A?” le domando e lei senza rispondermi mi fa un piccolo cenno con il dito indicandomi il soffitto. Suppongo ci sia un piano sopra. Mi guardo attorno ma non trovo nessuna scala.
“E sa dirmi dove …”ma non faccio neanche in tempo a finire la frase che subito la donna dietro il bancone mi indica le scale alla mia sinistra. Senza dire niente mi ci dirigo. Quella scuola era tremenda, ma essendo l’unico indirizzo nella nuova città lavorativa di papà che coincideva con la nostra vecchia città, non avevo molta scelta. In verità i miei insistettero affinchè continuassi i miei studi nella mia vecchia scuola, ma fui io a insistere perché cambiassi. I miei tre anni di liceo in quella vecchia scuola furono la cosa più brutta che potesse mai capitarmi e presto lo sarebbero stati anche questi due restanti anni dato il mio taglio. Comunque restavano sempre solo due anni di maledetto liceo, dove io ero la maledetta ragazza nuova, oggetto di attenzioni per i primi giorni, che passava subito a non essere cacata più i giorni successivi, quindi la cosa poteva andarmi bene in un certo senso. Dovevo solo sperare che il caschetto vulcaniano appena sotto le orecchie crescesse per arrivare almeno fin sopra al collo. Dopo un’attenta analisi di corridoio dopo aver controllato circa due volte ogni cartellino di ogni aula, per evitare di entrare dove non dovrei e fare figure di cacca, finalmente trovai la mia aula.
La porta era chiusa … fantastico ero in ritardo. Busso leggermente e una voce al suo interno mi invita ad entrare. Lascia ogni speranza tu che entri – continuo a ripetere a me stessa come una vecchia filastrocca imparata a memoria all’asilo e mai dimenticata. Maledetta mamma e le sue letture di Dante pomeridiane.
Solo quando sono finalmente dentro l’aula, sotto gli occhi curiosi e annoiati dei miei futuri compagni di classe, che focalizzo la mia fatal fine. Non potevo mica tenere il cappuccio in testa per tutta la lezione. Il professore non dice niente e io mi limito a prendere posto accanto alla finestra infondo all’aula. Me ne sto tranquilla per i fatti miei quando il professore mi fissa con sguardo attento e mi fa “Il suo vecchio indirizzo coincide con quello attuale?” e io “Si” e lui “Quindi non avrà difficoltà con il nostro programma giusto?” e io “Spero di no” e lui “Spero si trovi bene nella nostra scuola” ed io “Lo spero anch’io”e poi niente, tutto qui. La lezione di economia iniziò tranquillamente. Come primo giorno non abbiamo fatto niente se non chiacchierato e socializzato tra noi. Il prof ha fatto l’appello ma una volta concluso avevo resettato tutti quei nomi dal mio cervello. Per me erano un susseguirsi di volti anonimi con cui avrei dovuto trascorrere 365 giorni prima che l’incubo avesse fine e ne incominciasse un ultimo di altri 365 giorni.
A fine lezione (si fa per dire) ne seguì un’altra. Appuntai sul diario a matita le materie sull’orario provvisorio. Prime due ore di economia. Di lunedì. Grandioso. Ovviamente non potevo aspettarmi che tutte le lezioni successive sarebbero state all’acqua di rosa come questa ed ergo, avere due ora consecutive il lunedì mattina sarebbe stato un vero e proprio incubo.
Non mi resta che sperare che le cose cambino con l’orario definitivo. L’insegnante di economia era una donna lata e snella dai capelli corti leggermente ramati. Vestiva in modo strano del tipo figlia dei fiori con strani anelli e collane abbinate. Un abbigliamento insolito per un’insegnate di economia.
All’ora successiva vi fu inglese. Il mio professore di inglese è un uomo molto abile nel colloquiare in lingua madre … magari un po’ strano ma qualcosa mi dice che forse è uno dei professori più competenti qua dentro. Non so esattamente cosa sia, ma è una stana sensazione. Una sensazione che mi fa sperare in meglio. Segue finalmente la ricreazione e con essa la chiamata del preside in presidenza. Il preside è un tipo strano. Molto più strano della professoressa hippy e del tizio che vende giornali sotto la mia vecchia casa.
Così inizia il suo discorso fatto di balbettii e tremolii vari e io non capisco molto a parte parole come Benvenuta e Buona Permanenza. Quel discorso di circa quattro parole mi ha impegnata tutti e dieci i minuti impedendomi di fare merenda. Per fortuna avevo qualche gomma in tasca e cercai di masticarne una silenziosa senza farmi notare. Il problema principale di avere un pacchetto nuovo di gomme da masticare consiste infatti nel cercare di non essere scoperti, altrimenti te le chiederanno tutti e tu resterai senza. Non che sia tirchi ovvio, ma regalare gomme agli sconosciuti che hanno appena strafocato di pizza al salame quando io non ho mangiato niente, non mi sembra tanto equa come cosa.
Così infilo quella dannata gomma alla menta in bocca nel tentativo di non farmi notare ma a quanto apre devo aver fallito perché vengo beccata dal professore dell’ora successiva. Noto che entra in classe fissandomi con occhi arguto e pungente. Sono pronta per il rimprovero ma subito dei ragazzi si alzano in piedi e corrono verso di lui iniziando a parlare di una non so quale partita di calcio contro le altre classi dell’istituto. Sputo la gomma e l’appiccico sotto la sedia. Successivamente il professore si guarda attorno con aria confusa e poi scuote la testa e si accomoda. Indossa un tutina di pile azzurro chiaro, scarpette da ginnastica del mercatino e una valigetta ventiquattro ore blu scuro. Resto silenziosa e cerco di non dare nell’occhio quando all’improvviso tutti si alzano e escono in maniera confusa e disordinata fuori dall’aula, e non mi resta nient’altro da fare che seguirli.
Ora di ginnastica … leggera, o almeno così pensavo.
La palestra era divisa in due da una rete da pallavolo, condivisa con una classe del terzo che aveva un altro professore molto più giovane nel mio e senza peli nelle orecchie. Rimasi palesemente sorpresa di quanto un’ora di ginnastica potesse essere tanto dolorosa. In pratica, mentre l’altra classe faceva del rilassante e stimolante yoga, noi esercitavamo gli allenamenti proibiti e super segreti della marina militare americana.
Il professore a un certo punto ha tirato furori un fischietto e si è messo a inseguire un ragazzo grosso e paffuto della mia classe che al ventesimo giro era praticamente svenuto semi morto a terra senza fiato rosso per lo sforzo.
La reincarnazione del Duce, ecco cos’era quell’uomo. Ora finalmente posso affermare che l’educazione fisica uccide la gente e non la rilassa. Concentrata sulla scena da commedy-drama, mi scontro accidentalmente contro una certa ragazza della mia classe. Una ragazza alta e snella con una coda di cavallo bionda alta fissa sulla testa. La tipa, che poi pare chiamarsi Gioia, mi ha fissato (meglio, fulminato) e sibilato contro qualcosa senza senso. Stando all’accusa l’avrei pagata per averle stropicciato la t-shirt / top rosa imbottito di silicone per le tette e sudore.
All’ora successiva seguì matematica e, a tal proposito posso riconfermare che questa è davvero una brutta giornata, perché (a) sono una schiappa in matematica e (b) non mi piace la matematica.
Di gran lunga meglio la letteratura. Con la letteratura puoi dare un senso alla maggior parte delle cose, spiegarle e tentare di comprenderle, ma con la matematica non hai via di scampo.
Non che faccio proprio schifo in matematica, certo so fare calcoli e roba varia e mi diverto un sacco alle volte, ma la matematica delle scuole medie è leggermente diversa da quella delle superiori.
Statistica in particolare è il mio incubo. Come diavolo faccio ad ipotizzare la situazione economica in Vietnam se nemmeno so dove si trova sulla cartina? E poi a discapito di quella santa donna che mi insegnava alle medie, nei miei tre anni di superiori nella precedente scuola non ho mai avuto un professore fisso e tosto che la insegnasse. E per tosto intendo uno in grado di farsi rispettare. Perché sta tutto li il problema, nel rispetto. Se un professore è in grado di farsi rispettare e anche temere, magari si riesce a seguire meglio la lezione e magari, dico magari, io non mi ritroverei sempre i capelli pieni di palline di carta e saliva. La mia attuale professoressa però sembra una tosa a suo modo. Magari riuscirò a farmi piacere questa materia.
Quando finalmente torno a casa mia madre mi aspetta in cucina. La tavola è apparecchiata già con tutto l’occorrente e un piatto di fusilli al pesto è li che mi aspetta. Lei è tutta euforica e mi fa le classiche domande tipo: “Come è andata oggi a scuola?” ed io le rispondo “E’ andata”e lei allora mi fa “Andata andata?” e io “E’ andata!” e lei allora attacca “Ti ho fatto solo una domanda”ed io “E ti ho dato una risposta” e lei “Non posso mai dire niente in questa casa!” e io “Hai appena detto otto parole se tu non potessi dire niente non avresti neanche detto otto parole” e lei “Nessuno mi considera, stai sempre a rimproverarmi, ti mancherò quando morirò …”ecc. ecc. ecc. … . Così non mi resta nient’altro da fare se non mangiare e chiudermi in camera con la musica ad alto volume nelle cuffie che pompa dritta nelle orecchie fino a farmi male i timpani. Successivamente mi auto convinco che forse è meglio mettermi alla apri col programma e non perdere tempo, così anche se non abbiamo fatto assolutamente niente prendo il libro di letteratura e inizio a leggere, ma mi imbambolo davanti a Big Bang Theory e non concludo niente.
A fine di questa infermale giornata ho appreso tre cose fondamentali.
La prima: non discutere con la mamma prima di pranzo se non voglio sorbirmi le sue frecciatine antidigestive per tutto il pasto.
La seconda: a scuola sono diventata nerd-scodella per il mio taglio.
E la terza: io odio, odio, odio, ODIO IL MIO NUOVO TAGLIO DI CAPELLI!

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***



Il mattino seguente mi alzo mezza rimbambita e dato che la sveglia non ha suonato sono costretta a chiedere un passaggio a mio padre. Con un permesso entro alla seconda ora e con trovo un insegnate tutto abbottonato e rigido dietro la cattedra. Inizialmente penso che sia il prof di diritto e invece, con mio grande stupore, è il mio professore di italiano. Un uomo leggermente grassoccio dai capelli e la barba bianca con un completo beige e una cravatta azzurrina. Porta degli occhiali e mi fissa senza dire nulla. Mi ricorda il bianconiglio di Alice nel paese della meraviglie. Timidamente mi avvicino alla cattedra e gli do il permesso che mi aveva fatto la bidella al piano di sotto. Inutile dire che fu un incubo. Dovetti pronunciare il mio nome circa otto volte prima che la tipa dietro il bancone imparasse a scriverlo correttamente.
“Sasha” ripete il professore e io annuisco sorridendogli appena
“Come mai questo nome?”
“Piaceva ai miei” rispondo io.
Onestamente non ho idea del motivo per cui i miei abbiano scelto quel nome e, anche se mi piace tanto, mi sembra abbastanza ingiusto che le persone non possano scegliersi da sole il nome da darsi. Siamo liberi di fare quello che vogliamo ma non di avere il nome che vogliamo. Certo si può sempre andare all’anagrafe e farselo cambiare, ma chi si scomoda tanto. Credo che questa sia una delle infinite ingiustizie della vita.
C’è chi ha infatti la fortuna di avere un bel nome, insolito o esotico addirittura, ma c’è molta altra gente che becca nomi orribili e senza senso. Non capisco neanche questa storia che una persona non possa avere un nome straniero insolito nel proprio stato. Oppure che debba avere per forza il nome di un santo se si battezza in chiesa. E’ insolito trovare in Italia qualche ragazza che si chiami Ashley ed è altrettanto insolito andare in altre parti del mondo e trovare nomi Italiani o Tailandesi, almeno che tu non ti trovi in Italia o Tailandia.
Una cosa altrettanto sciocca secondo me è chiamare i figli con i nomi dei nonni. Capisco che si voglia mantenere viva la tradizione, ma alla volte sarebbe meglio evitare. Esattamente come quella strana indecisione cronica che hanno le donne incinte nei nove mesi di gravidanza che le portano a dare tre o quattro nomi al nascituro.
Avete idea della coda che si possa formare alle poste per avere una loro firma completa?
Alle medie un mio compagno di classe aveva cinque nomi e non scherzo era atroce, soprattutto ogni volta che doveva firmare il programma. Si chiamava Carlo Alberto Vittorio Enrico Emanuele e lasciamo stare il cognome, che è un’altra interminabile tragedia. Ogni volta che lo pronunciava tutto rimaneva a corto di saliva. La gente alle volte non si rende proprio conto delle cavolate che fa. Magari lui avrebbe preferito non so avere un nome semplice e veloce come Ugo invece di tutta quella tiritera.
Una cosa molto interessante riguardanti i nomi nel mio paese è la netta divisione che si scava tra Italia nord e Italia sud. Al nord si è un tantino più aperti, mentre al sud si è più attaccati alle tradizioni. In entrambi i casi resta sempre una cosa odiosa non poter scegliere da soli come chiamarsi. Il nome fa parte di noi, ci caratterizza in pratica. Molte volte si finisce per attribuirne uno a un bambino nella speranza che abbia quelle caratteristiche, ma poi si finisce per rendersi conto di aver fatto una cazzata.
E’ come se una persona depressa si chiamasse Felice e una di nome Assunta venisse sempre licenziata.
Altri invece sono proprio orrendi. Per carità adoro il mio nome, ma sono stanca di vedere gente che mi fissa strana pensando che sia di origine cubana ogni volta che gli dico come mi chiamo. Quanto vorrei urlargli contro che il mondo è di tutti è qualcosa di internazionale, certo bisogna salvaguardare le tradizioni del proprio paese per non perderle ma bisogna anche essere aperti alle molteplici sfumature del mondo e della vita. Se potessi rinascere o scegliere il mio nome penso che mi chiamerei Francesca. Mi sembra un bel nome italiano, dato che un nome straniero già lo porto e dato che sono italiana, sceglierei uno italiano, ma per mia libera scelta e non per salvaguardare nessuna strana decisione. Se un domani avrò mai dei figli (cosa che non credo proprio accadrà, perché diciamocela tutta chi mai mi prenderebbe) penso che chiamerò mio figlio Andrea e mia figlia Daiana.
Si con la i, non me ne frega niente se non va ma a me Diana non piace, mi sa di qualcosa che si spezza. Se potranno essere liberi di cambiare il loro nome? Certo, ma con i loro soldi, fino a che vivranno in casa mia e sotto le mie dipendenze avranno quei nomi. Alla fine gli piacerà, in fondo non sono dei brutti nomi. E poi ci si abitueranno e magari applicheranno il loro di nome preferito ai loro figli un futuro. Perché è così che va a finire, ciò che non puoi avere tu, speri lo abbia tuo figlio. E poi la scelta di un nome fa parte di un momento di onnipotenza dei figli, perché privare i genitori di questo loro compito.
La lezione prosegue tranquilla mentre io continuo a farmi le mie pippe mentali sui nomi. Pensandoci, Pippa? Che nome … lasciamo stare. Ogni tanto scrivo qualcosa sul mio quaderno, ma sono per lo più scarabocchi e non appunti. Ad un tratto il prof si mette a fare delle domande sull’argomento che stava spiegando. Ovviamente nessuno risponde o alza la mano e … indovinate un po’ chi è la sua vittima?
Così mi indica e io gli chiedo gentilmente di ripetere la domanda. In sostanza, voleva avere una semplice spiegazione personale da parte mia sulla concezione del concetto di apparenza che caratterizzava parecchi scrittori snob materialisti di quel tempo, e di come tutto ciò si ripeta e influisca la nostra società odierna. Resto qualche minuto il silenzio per riflettere e infine gli dico la mia.
“Be, non trovo niente di così poi sconvolgente. Certo sono passati secoli d’allora, ma la mentalità umana è sempre la stessa”
E a questo punto lui mi fa “In che senso sempre la stessa?”
E allora io gli faccio “Ottusa”e tutti ridono. Tutti tranne il professore ovviamente che invece di rimproverarmi sembra incuriosito da cosa io abbia da dirgli.
“La prego continui”dice incitandomi a procedere con un gesto della mano. Ispiro a fondo. Ma quant’è difficile spiegarsi davanti a una classe che ti fissa come se fossi un dinosauro resuscitato dai ghiacci.
“Be ottusa nel senso meno aperta. E’ come se molta gente si rifiutasse di comprendere che l’apparenza non è tutto. Ma purtroppo i media non fanno altro che ripeterci quanto questo sia un fattore dominante nella nostra società, basti pensare alle modelle … auto condizionano la mentalità delle ragazza convincendole che se non si ha quel fisico non si è belle, quando non c’è niente di più sbagliato. E poi influisce anche il fatto che molti di quegli artisti non pensano davvero con la loro testa ma appoggiavano il movimento in cui vivono perché gli sembra la cosa più giusta in quel momento e così fa molta gente ora, non pensa, ma si aggrega. Così gli anni passeranno ma noi non cambieremo mai davvero, e siamo così morbosamente attaccati al passato da non renderci conto che forse alcuni concetti vanno cambiati per migliorare effettivamente e quindi bisogna distaccarsene.”
“E secondo lei, cosa conta davvero?”mi chiede il prof.
“La speranza”dico io.
“La speranza?”domanda lui scettico.
“Si, la speranza”dico io.
“In che senso la speranza?”mi domanda lui.
“La speranza che le cosa possano cambiare. Che l’uomo decida e capisca soprattutto che pensare in autonomia è la cosa migliore da fare, si risparmierebbero molti errori inutili. Prenda Hitler per esempio, viene ricordato il pazzo folle dello sterminio e unico e solo responsabile, ma secondo me la responsabilità dell’accaduto non è solo sua, ma anche di tutti quei miliardi di soldati nazisti che obbedivano ai suoi ordini pur sapendo che quello che facevano era sbagliato, ma lo facevano ammaliati dalla figura di onnipotenza che Hitler stesso rappresentava.
Finché l’uomo si lascerà ammaliare da falsi e benevoli artisti non sarà in grado di pensare da solo e soprattutto non sarà in grado di cambiare. Siamo così attaccati a queste figure quasi divine dei grandi artisti di un tempo da prendere per oro ogni loro concetto. Non dico che tutti gli artisti di un tempo hanno sbagliato, ma molti di loro sicuramente lo hanno fatto, perché è umano e se ciò è vero allora l’umano sbaglia e lo fa proprio perché non riesce a realizzare se stesso e di conseguenza a riscoprire il proprio io.”
Il professore mi fissa qualche istante e solo dopo mi rendo conto che tutta la classe è voltata verso di me e mi fissa con altrettanto stupore. Alla ricreazione tutti escono di classe urlando come pazzi, ma io resto in classe con il mio panino al prosciutto crudo e formaggio Emmental in mano. Il prof si avvicina al mio tavolo e toglie gli occhiali dal naso per pulirli con il bordo della giacca beige.
“Frequentava per caso qualche corso avanzato nella sua vecchia scuola?”mi chiede e io scuoto la testa facendogli segno di no.
“Dovrebbe.”mi risponde. E io annuisco appena. Davvero la cosa non mi interessa più di tanto.
“Purtroppo non presiedo io quel corso pomeridiano, ma un altro collega, se vuole le do i suoi nominativi”
“Mi piacerebbe, ma devo mettermi in pari con il programma”mento accollando velocemente una scusa. “sarebbe bello se provasse. Non partecipa mai nessuno di questa classe. La sezione B ci batte ogni anno con il suo studente migliore.”dice e io annuisco.
“Mi spiace signore, ma ho il mio programma da studiare”dico io mortificata e al tempo stesso sollevata.
“Come preferisce”dice ed ecco la campanella suonare.
Onestamente non ho pensato molto a quella proposta, ma qualcosa continuava a fischiarmi nelle orecchie e una vocina fastidiosa nella testa continuava a ripetermi che dovevo ripensarci ma, dato che è la stessa vocina che continua a ripetermi che i biscotti spezzettati fanno ingrassare meno di quelli interi, non gli ho dato ascolto.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***



Già nella seconda settimana di inizio anno, il prof di letteratura ha deciso di farci fare una specie di tema – test d’ingresso per verificare quanto i suoi alunni si fossero allenati durante le vacanze, ma soprattutto per accertarsi che io sapessi davvero scrivere e che la mia risposta della settimana scorsa non fosse stata solo una semplice botta di culo leggiucchiata qua e la.
Il tema da trattare riguardava “casualmente” la risposta che gli avevo dato qualche settimana fa, ma con qualche approfondimento specifico.
Ovviamente a chi pensate abbia dato al colpa la classe per una cavolata del genere?
Inizio il mio tema e l’aula si carica di un silenzio funebre. Quei silenzi in cui sei in grado di sentire lo spostamento dei pianeti, se non fosse per gli uccelli e le macchine fuori dalla finestra. Abbiamo tre ore per quel tema, a io alla seconda ho già praticamente finito tutto.
Osservandomi attorno vedo un sacco di gente preoccupata e sinceramente non riesco proprio a capire il perché di tanta agitazione. E’ squallido vedere ragazzi e ragazze con i telefonini sotto il banco o nel borsellino intenti a scopiazzare le idee di qualcun altro da internet. Le idee dovrebbero essere personali, si dovrebbe ragionare con la propria testa e non ereditare un difetto altrui. Ma alle volte mi chiedo se ciò che dico a senso. Della serie: che senso ha parlare con gente che non capisce il senso delle tue parole, insomma non ha senso. E non ha ancora più senso non saper cosa scrivere. Ci possono essere ovviamente dei momenti di dubbi o indecisioni o semplici blocchi pomeridiani ma non penso che la gente sia così ingenua o poco interessante da non aver niente da dire. Insomma come si può rimanere inermi e non dire la propria davanti agli eventi catastrofici della nostra società.
Dopo averlo letto circa dieci volte, mi alzo e lo consegno. Il professore solleva leggermente il capo per osservare chi sia e sono pronta a scommettere, dal suo volto che non è poi così sorpreso che la prima a consegnare sia io. Prende il mio compito e ci avvolge attorno una fascetta con su scritto Compiti del Primo Quadrimestre della 4° A. Gli chiedo se posso andare al bagno e lui mi fa cenno di si con la testa. E poi niente, è finita li.
Esattamente tre giorni dopo aveva già corretto tutti i compiti.
Camminava tra i banchi porgendo i fogli sui vari tavoli dei vari ragazzi dicendo frasi del genere “Non ti sei applicato abbastanza” “Potevi fare di più” “Niente male” “Applicarsi fa miracoli” e “Signor Ricci, per lei copiare non ha il minimo senso, dato che non è capace di fare correttamente anche quello” tutti ridono.
Quando arriva a me mi irrigidisco, ma mi sciolgo appena vedo il voto.
“Un lavoro eccellente. E non aggiungo altro”mi dice. Proprio sotto il mio noma a grandezza cubitale in modo che tutti possano vederlo, anche per quelli di quinto dalla finestra di fronte, scintilla un gigantesco e rosso 9. Sorrido soddisfatta di me stessa, ma la gioia dura poco. Qualcuno tira un calcio alla mia sedia facendomi sbattere contro il tavolo. Cavolo se fa male. Mi volto e Gioia Caputo mi fissa con il suo sguardo acido da vipera velenosa e mi fa “Quanto hai preso frocia?”mi domanda. Mi volto senza risponderle e nascondo il voto con la manica della maglia.
Credeteci o no, lei è il niente male della situazione, con il suo otto e mezzo che punta a raggiungermi. Non mi va di dirle che le ho rubato il primato e quindi chino il capo e mi sto zitta. Non ho la minima idea del mio attuale comportamento, ma sono pronta a dedurre che è scaturito dal fatto che, come ho scritto nel mio tema, tentiamo a unirci alla massa (anche se sbagliato)solo per sopravvivere.

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