Metamorfosi di Artemide12 (/viewuser.php?uid=541754)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bevenuti, o bentornati ***
Capitolo 2: *** Pazzia, o genialità ***
Capitolo 3: *** Spiegazioni, o almeno in parte ***
Capitolo 4: *** Perfettamente imprevisti ***
Capitolo 5: *** Cercare, o cercarsi ***
Capitolo 6: *** Conoscersi, o riconoscersi ***
Capitolo 7: *** Confondere, o sorprendere ***
Capitolo 8: *** Fare ritorno ***
Capitolo 9: *** Bloccati, o controllati ***
Capitolo 10: *** 10. Unisciti, o perisci ***
Capitolo 11: *** 11. Il male necessario ***
Capitolo 1 *** Bevenuti, o bentornati ***
Metamorfosi
Cap1;
begin
write('Benvenuti,
o bentornati');
readln;
end.
Elisabeth
incrociò lo sguardo del proprio riflesso sul portafoto
vuoto, poi
tornò a fronteggiare i due ragazzi seduti davanti a lei
dall’altra
parte della scrivania.
Le
sembrava solo ieri la prima volta che se li era ritrovati nel suo
ufficio, aveva riconosciuto i loro cognomi e si era rassegnata agli
anni di tormento che sarebbero seguiti.
Ludovic
Dumbar e Rebecca Belpois.
L'indisciplinato
e il genio.
Nel
corso di un solo anno scolastico, lui si era presentato in presidenza
almeno due volte al mese. Ad un certo punto aveva preso tanta
confidenza con l’ambiente che a volte sembrava lui il preside
ed
Elisabeth la studente indisciplinata. Era una sensazione frustrante
–
Ludovic aveva un talento naturale per mettere a disagio le persone.
Forse il segreto stava nei suoi occhi, così neri da essere
tutta
pupilla, e nello sguardo fisso e perforante. O forse, più in
generale, stava nel suo modo di muoversi, camminando come se tutto il
mondo fosse suo e atteggiandosi con la consapevolezza del suo corpo
prestante.
Il
primo giorno che Elisabeth lo aveva visto non le era sembrato altro
che uno di quei ragazzi che sono cresciuti troppo
all’improvviso,
estremamente alto e magro, con una zazzera incontrollabile di capelli
scuri e un certo scoordinamento dovuto alle nuove proporzioni del suo
corpo. Non avrebbe mai immaginato che in pochissimi mesi sarebbe
diventato un atleta così dotato che il professore di
ginnastica
aveva smosso mari e morti per non parlo espellere.
Rebecca
era tutta un'altra storia.
L'unico
ricordo che aveva di lei era di quando aveva trascinato lei stessa
Ludovic in presidenza per la prima volta perché le aveva
danneggiato
dei dischi, o qualcosa del genere. Elisabeth ricordava i capelli rosa
perché erano una particolari, ma per il resto era
praticamente
impossibile richiamare alla memoria le altre caratteristiche fisiche.
Aveva gli occhi azzurri, praticamente trasparenti, ma portava gli
occhiali? Era alta o bassa? Femminile o no?
Il
suo nome ricorreva quando si parlava di eccellenze. Era sempre
puntuale e non perdeva neanche una lezione. Dire che sapeva tutto di
tutto era dire poco – il suo cervello sembrava capace di
immagazzinare tonnellate di informazioni senza nessuno sforzo. Le
attività scolastiche per lei erano una specie di semplice
routine
quotidiana: si svegliava, mangiava, andava a scuola e poi…
Cosa ci
fosse “poi” era un mistero. Si chiudeva in camera
sua? Andava in
giro per la scuola? Passava il tempo a studiare sui tetti?
Appena
la campanella suonava, di Rebecca Belpois si perdevano
definitivamente le tracce.
Si
era presentata in presidenza prima dell’inizio delle lezioni
del
secondo anno perché Ludovic aveva lanciato sassi alla sua
finestra.
Dopo
averli congedati, Elisabeth si voltò a guardare fuori dalla
finestra.
Il
cortile esterno era ormai pieno di nuovi studenti appena arrivati.
Era
il momento di entrare in scena.
–
ʘ –
Carlotta
saltò giù dalla panchina appena li vide arrivare.
Emma
corse ad abbracciarla e per un momento le due non furono altro che un
groviglio unico di braccia e di capelli neri e lunghi di una e corti
e biondi dell’altra. Quando finalmente si separarono, Chris e
Franz
salutarono Carlotta con un sorriso e andarono a sistemarsi su un
muretto.
Da
lì potevano vedere oltre la calca di gente.
«Wow,
la preside non è niente male!» commentò
Chris individuando la
donna vestita di rosso ferma in cima alle scale d’ingresso.
Aveva
già iniziato il suo discorso di benvenuto.
Franz
si portò una mano sopra gli occhi per ripararsi dal sole.
C’era
una luce particolare quel giorno, fredda ma intensa, che faceva
sembrare bianchi i suoi capelli biondi.
Entrambi
ridacchiarono. Pensare che la preside una volta aveva una cotta per
il padre di Chris li divertiva, già pensavano di mettere in
giro
quella voce.
–
ʘ –
Elisabeth
prese un bel respiro, poi sfoggiò un altro sorriso studiato
e prese
un elenco.
«Classe
I A» annunciò. «Xavier
Audrier.»
Un
ragazzo con naso e guance bruciati dal sole salì i gradini e
le
venne a stringere la mano.
Stese
le labbra in una sottospecie di sorriso e ritornò al foglio.
Gli
angoli della bocca si abbassarono all'istante, ma riuscì a
ricomporsi in fretta.
«Franz
Belpois» chiamò e subito sollevò lo
sguardo per vedere chi tra i
ragazzi della folla.
Un
ragazzo che aveva tutta l'aria di essere mezzo albino scese dal
muretto e si fece largo tra la folla.
In
effetti era molto pallido, ma non poteva essere albino. Non con
quegli occhi.
Dorati.
È
solo la luce, si disse.
Il
ragazzino le porse la mano e lei si ricordò di stringerla,
ma non
ricambiò il sorriso.
«Fratello
di Rebecca Belpois?» chiese, ricordandosi
all’improvviso che anche
lei era molto pallida.
Franz
annuì vigorosamente, poi si voltò e
tornò indietro.
Elisabeth
tornò all'elenco. E si chiese se non lo avessero fatto
apposta. Se
il fato non se la fosse presa con lei.
«Carlotta
Dunbar.»
Un'altra
figlia di William. Sperò che non le avrebbe creato tanti
problemi
quanto il fratello.
Appena
si mosse, quella ragazza attirò su di sé gli
sguardi di tutti. Era
alta e slanciata proprio come il fratello, con lunghissimi capelli
mossi, così neri da avere riflessi viola, e enormi occhi blu
elettrico.
Carlotta
le arrivò davanti e le porse la mano con un movimento
fluido. Quasi
troppo fluido, come se il suo intero corpo fosse
fatto di
fumo.
Non
sorrise minimamente, proprio come avrebbe fatto Yumi.
Sissi
– improvvisamente sentì tornare a galla quel suo
vecchio
soprannome – si sentì obbligata a fare altrettanto.
–
ʘ –
Jeremy,
che aveva finalmente trovato parcheggio, corse per raggiungere gli
altri.
«Hanno
già cominciato?» chiese tirandosi su gli occhiali.
«Sì»
rispose Aelita. «E hanno già chiamato Franz.
Classe I A»
«Questa
sì che è sfortuna!» commentò
il biondo, riferendosi chiaramente
al fatto di essere arrivato in ritardo.
«Hanno
chiamato anche Carlotta, ma non Emma e nemmeno Chris»
riassunse
William.
«Sembra
strano tornare qui dopo tanto tempo» osservò
intanto Odd, le
braccia incrociate e le spalle appoggiate al muro.
Ulrich
saltò giù dal muretto. «Almeno questa
volta non ci sono mostri
digitali in circolazione.»
«Già,
una vera noia» continuò Odd. «Senza
Lyoko dove passare il tempo
libero, come faranno a sopportare le giornate?»
«Forse
se la caveranno meglio di noi» osservò Yumi. Lei,
tra tutti, era
forse quella che era cambiata di più.
–
ʘ –
Carlotta
si stava costringendo a rimanere composta, ma un’orribile
sensazione di disagio si stava facendo strada dentro di sé.
Era
cominciata appena era scesa dalla macchina e si intensificò
appena
entrò nell’edifico del Kadic.
Sembrava
che migliaia di occhi la stessero osservando attraverso le pareti.
Percepiva una specie di presenza.
«Stessa
classe» esultò Franz e lei sussultò nel
ritrovarselo davanti.
«Come
sempre» fu tutto ciò che trovò da
replicare.
Ormai
la classe si era formata.
«Non
ci sono Emma e Chris.»
Carlotta
fece spallucce.
Furono
condotti in un'aula ampia e luminosa. Carlotta e Franz si sedettero
accanto alla finestra. La ragazza allungò la testa per
guardare
fuori e incrociò lo sguardo di un uccello variopinto.
Lui
strillò qualche nota pimpante e un po' comica che la fece
sorridere.
Poi l’'uccello prese a cantare ininterrottamente.
Carlotta
dovette tapparsi le orecchie ad un certo punto.
«Sshh»
gli fece, ma quello la ignorò.
Afferrò
la prima cosa che trovò sul banco e gliela lanciò
contro. La
piccola gomma gli passò attraverso, ma l'uccello si
zittì. I suoi
occhi divennero cerchi bianchi e azzurri, spiegò le ali e
volò
dentro la stanza.
Nessuno
si accorse di nulla.
L'uccello
si posò sulla spalla di Carlotta, gli artigli praticamente
affondati
nella carne. Cercò di scacciarlo, ma proprio non voleva
lasciarla.
«Carlotta,
sta' ferma, che ti prende?» fece Franz.
«Maledetto
uccello!»
«Quale
uccello? Non hai niente sulla spalla.» Per dimostrarglielo
agitò la
mano dove c'era l'uccello. Lo attraversò, ma produsse un
suono
stranissimo fendendo l’aria.
L'uccello
si zittì di nuovo e volò via.
Carlotta
si ricompose. Si guardò intorno preoccupata e lo sguardo le
cadde
sulla porta socchiusa. Suo fratello era proprio lì fuori e
la
fissava con occhi sgranati.
Carlotta
chiese di poter andare in bagno e corse fuori.
«Che
ci fai qui?» sussurrò.
«È
anche la mia di scuola.» Ludovic la afferrò per un
braccio e si
incamminò verso le scale.
«Che
stai facendo? Dove andiamo?»
«Non
dire nulla. Non qui.»
«Perché?
Cosa dovrei dire?»
«Tu
li vedi.»
«Vedo
chi?»
Salirono
le scale velocemente e non si fermarono neanche davanti al cartello
che avvertiva dei lavori all'ultimo piano.
«Ludo,
che stai facendo?»
«Non
ci sono i lavori, tranquilla. Il soffitto perde e le aule sono tutte
messe male, non vogliono che gli studenti ci vadano.»
Si
fermarono di botto. Carlotta riuscì a liberarsi dalla
stratta del
fratello.
«Cosa
c'è?»
Ludovic
indicò l'allarme. «Ehi, Jonny, che si
dice?»
L'allarme
si accese, ma non suonò.
«LUDOVIC!
È GiÀ
PASSATA TUTTA L'ESTATE?»
Carlotta
strillò. «Ma che… ?»
«Sì
dormiglione. Dì a Jessy di chiudere un occhio.»
«SPIACENTE,
MA ABBIAMO LITIGATO E...»
«E
non vi rivolgete più la parola se non in caso di emergenza,
proprio
come l'anno scorso. Dai, su, che vi presento una persona.»
L'allarme
produsse uno strano suono, una specie di sbuffo.
Carlotta
guardava il fratello e il sistema elettronico con gli occhi sgranati.
Una
telecamera, posizionata poco più in alto, ruotò
all’improvviso e
si puntò su di loro. «QUELLA
Sì CHE È UNA BELLA RAGAZZA, COME LA CONOSCI?»
gracchiò
stridula.
«Carlotta
è mia sorella, dobbiamo andare sul tetto.»
«UN
MINUTO E 30 SECONDI: 90, 89, 88,...»
Ludovic
la condusse fuori dalla finestra in una scala antincendio piuttosto
pericolante. Arrivarono sul tetto proprio mentre la telecamera
strillava gli ultimi numeri.
«Ludovic,
cosa diavolo significa?»
«Tu
lo vedevi, quell'uccello? Lo vedevi, vero?»
«Certo
che lo vedevo! Perché me lo chiedi?»
«Perché
è un anno che quei mostri mi perseguitino e se anche tu li
vedi, se
anche tu senti parlare l’allarme e la telecamera, significa
che non
sono pazzo.»
«Cosa
sono?»
«Non
lo so. Ma anche Jonny e Jessy li vedono. Per questo mi sento al
sicuro sotto qui.»
«E
non possono venire qui su?»
«Non
possono uscire dalla scuola.»
|
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Capitolo 2 *** Pazzia, o genialità ***
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Metamorfosi
Cap2;
begin
write('Pazzia,
o genialità');
readln;
end.
«Che
cos'era? Quell'uccello, dico.»
«Non
lo so di preciso. Vedo esseri simili dall'inizio dell'anno scorso.
Appaiono praticamente all'improvviso, senza una logica apparente. Non
sono sempre animali, a volte li ricordano solo vagamente. Ci ho messo
un po' a capire che ero il solo a vederli. Gli altri non si accorgono
minimamente della loro presenza. Ma loro possono attraversarli come
fossero inconsistenti, io se vado loro contro mi faccio male.»
Carlotta
annuì ripensando agli artigli dell'uccello che le
arpionavano la
spalla.
«Credevo
di essere impazzito. Credevo di vedere delle specie di demoni nella
mia testa» continuò Ludovic. «Quando ho
cominciato a parlare con
ogni apparecchio elettronico stavo seriamente per farmi
ricoverare.»
«Come
hai fatto prima con l'antifurto e la telecamera?»
«Già,
se non fosse stato per quei due non sarei mai sopravvissuto. Riescono
a vedere quei cosi e avvertirmi prima che mi raggiungano. Credevo che
anche loro fossero il frutto della mia immaginazione, una specie di
campanello per avvertirmi dell’arrivo di allucinazioni
più grosse.
Tu però li hai sentiti. Ah, non posso crederci! È
troppo bello per
essere vero!»
«Sì,
Ludovic, davvero è fantastico vedere cose che non ci
sono…»
«Ma
se le vediamo entrambi significa che ci sono eccome! Che sono gli
altri ad essere ciechi!»
Una
folata di vento sollevò i capelli di Carlotta e glieli
spalmò sulla
faccia. Lei se li risistemò furiosamente dietro le orecchie
e tornò
a stringersi le ginocchia al petto. Non soffriva di vertigini, ma il
tetto spiovente non le sembrava esattamente sicuro.
«Se
ci trovano qui siamo fregati» commentò mentre
saggiava la
resistenza di una delle mattonelle con il piede.
«Nessuno
viene mai sul tetto» le assicurò il fratello.
«E, anche se
qualcuno dovesse farlo, Jessy mi avviserebbe subito. È una
gran
pettegola, sai?»
«Ludo,
stai parlando di una telecamera, come poi essere tanto
tranquillo?»
«Possibile
che tu non ti renda conto? Abbiamo delle specie di super-poteri, come
quelli dei film.»
«Quelli
in cui i malcapitati finiscono in laboratorio, o quelli in cui sono
costretti a vivere emarginati a causa del loro segreto e a combattere
nemici per poi sentirsi dire dalla stampa che sono a loro volta dei
criminali?»
Ludovic
sbuffò. «Ti ho fatto vedere troppe volte l'uomo
ragno e X-man,
Lott.»
«Decisamente.»
Finalmente
un sorriso attraversò il viso di Carlotta. I suoi occhi blu
scintillarono alla luce del sole mentre quelli di Ludovic si fecero,
se possibile, ancora più neri.
–
ʘ –
Emma
sbadigliò rumorosamente e appoggiò la testa alle
braccia incrociate
sul banco. Era il primo giorno, ma già sentiva che non ce
l'avrebbe
mai fatta.
Chris,
accanto a lei, si appoggiò allo schienale della sedia.
«Se questa è
la prof più allegra penso che troverò il modo di
farmi espellere.»
«Perché?
È così male?»
Chris
la fissò divertito. «Ma la stai
ascoltando?»
Emma
scosse la testa. «Per niente.»
«Una
più noiosa non poteva capitarci. Meno male che non
c'è Franz a
ricordarci quanto sia importante la storia.»
«Già,
però se lo dovrà sorbire Lott!»
«Lei
potrebbe sopportare un terremoto senza neanche alzarsi dalla
sedia.»
Emma
alzò la mano e chiese di poter andare in bagno. Chris la
seguì
fuori dalla classe senza dire niente e senza farsi notare.
«Hai
intenzione di seguirmi anche in bagno?»
«Perché,
hai davvero intenzione di andare in bagno?»
«No»
rispose la bionda, incrociando le braccia dietro la testa e
riprendendo a camminare.
Chris
si infilò le mani nelle tasche e la seguì.
«Giro
di esplorazione?» propose dopo un po' il ragazzo.
«Io
voto per il cortile.»
«Chi
arriva per ultimo fa i compiti all'altro per un settimana»
dichiarò
Chris cominciando a correre.
Emma
assottigliò lo sguardo. Si chinò in avanti e
scattò. Guadagnò
terreno in poco tempo.
Quando
si vide raggiungere, Chris accelerò all'istante.
Sfrecciarono
per i corridoi così velocemente che molti non li videro
neanche
passare.
Erano
così concentrati da dimenticare tutto il resto. In quel
momento per
loro esisteva soltanto il terreno sotto i piedi e l'avversario da
superare.
Girarono
un angolo a tutta velocità e per poco non si schiantarono
contro una
parete.
«Ma
qui...» ansimò Chris «non doveva...
esserci... una porta?»
«Forse...
dobbiamo... studiare meglio la piantina della scuola prima della
prossima gara.»
«Sono
d'accordo. Tanto penso che in questa prima settimana non ci daranno
tanti compiti.»
Emma
stava per ribattere, ma dei passi interruppero entrambi.
La
preside fu davanti a loro in pochi istanti. Non sembrava più
la
donna avvenente che li aveva chiamati all'entrata, o meglio, lo era
ancora, ma in quel momento tutto in lei incuteva rispetto.
Divaricò
leggermente le gambe trovando il giusto equilibrio sui tacchi alti e
li fulminò con lo sguardo. «Della Robbia, Stern,
che state
facendo?»
«Noi...
ci siamo persi, dobbiamo ancora orientarci.»
Lo
sguardo di Elisabeth si spostò sulla parete dietro di loro.
«Tornate
in classe. Subito!»
Emma
e Chris le sfilarono accanto e si affrettarono a tornare sui loro
passi. Rientrarono in classe proprio durante il cambio d'ora e nessun
insegnate sembrò accorgersi di nulla.
Fecero
appena in tempo a tornare ai loro posti in terza fila, che
entrò un
uomo alto e muscoloso. Li scrutò uno per uno, poi disse loro
di
accomodarsi.
Si
presentò come il professore di ginnastica. Aveva un'aria
giovanissima, avrà avuto poco più di vent'anni.
Il suo bell'aspetto
bastò ad attirare l'attenzione di Emma, gli occhi vispi e il
sorriso
simpatico quella di Chris.
–
ʘ –
Franz
guardò l'ora per l'ennesima volta. Non era da Carlotta
assentarsi
così a lungo da una lezione.
Tra
poco la nuova professoressa avrebbe rifatto l'appello e avrebbe
certamente notato la sua mancanza.
Ma
Carlotta rientrò appena in tempo. Aveva lo sguardo
completamente
assente, ma almeno c'era fisicamente.
Un
paio di ragazzi non riuscivano a levarle gli occhi di dosso. Lei li
ignorò. Franz spesso si chiedeva se almeno li notasse. A
volte era
convinto di no.
«Dove
sei stata?»
«In
giro.»
«A
fare che?»
«A
chiacchierare con mio fratello, una telecamera e un
antifurto.»
Franz
alzò gli occhi al cielo e la lasciò perdere.
–
ʘ –
«Forza
ragazze, basta riscaldamenti. Sono solo cento metri,
prenderò i
tempi migliori» annunciò il professore prendendo
il cronometro che
portava appeso al collo.
Emma
si posizionò insieme alle altre cinque ragazze sulla linea
di
partenza.
Alla
destra del percorso si trovavano dei grossi alberi secolari, a
sinistra c'erano i maschi e le altre ragazze che si stavano ancora
riscaldando.
Guardò
le altre ragazze. A parte una, non sembravano molto atletiche.
«Forza,
ragazze!» le incitò l'insegnante.
Emma
si chinò in avanti, le mani che toccavano terra.
«Ai
vostri posti,»
Fissò
intensamente la linea di arrivo.
«pronti,»
Tese
i muscoli.
«VIA!»
Il
suo scatto fu talmente rapido che distanziò immediatamente
le altre
ragazze di almeno dieci metri. Sentiva il terreno sotto i piedi
retrocedere, come se fosse esso a muoversi e lei a stare ferma. Il
vento le si infrangeva sulla faccia e su tutto il corpo cercando
inutilmente di rallentarla.
A
meno di due metri dall'arrivo, la vista le si appannò
leggermente e
batté più volte le palpebre. Quando nel giro di
pochissimi istanti
tutto tornò nitido, davanti a lei c'era un gatto viola.
Fermarsi
di botto a quella velocità era impossibile. Puntò
i piedi e tentò
di scavalcarlo saltandolo. Rotolò a terra fermandosi sulle
quattro
zampe.
Sentiva
il ritmo martellante del suo cuore nelle orecchie.
Girò
la testa. Le altre ragazze erano ancora a metà percorso.
Il
gatto viola era al suo posto. Lo vide agitare la coda e voltarsi
verso di lei e, per quanto assurdo che fosse, sorriderle. Fu un
movimento appena accennato, ma spaventosamente reale.
Batté
di nuovo le palpebre. Il gatto era scomparso. Non come se fosse corso
via, come se quel semplice movimento lo avesse cancellato.
Le
altre ragazze ormai erano arrivate e tutti la guardavano sbigottiti.
«Miglior
tempo e nuovo record della scuola per una ragazza del primo anno
durante la prima corsa» si complimentò il
professore. «Mi aspetto
molto da te, della Robbia.»
Emma
annuì senza alzare lo sguardo.
Si
spostarono dalla pista.
«Come
diavolo hai fatto? A saltare in quel modo, intendo!» La voce
di
Chris le fece risollevare lo sguardo.
Il
ragazzo trasalì e si zittì.
«Che
c'è?»
«I
tuoi occhi! Sono lilla.»
«Ah»
commentò svogliatamente la ragazza.
«No,
Emma, non sono grigiastri come al solito, sono serio, sono proprio
lilla!»
«Sì,
e il gatto era viola. Dev'essere colpa della luce.»
«Quale
gatto?»
Emma
si morse la lingua.
Se
l'era immaginato. Doveva esserselo immaginato. Non
esistevano
gatti viola. Così come non esistevano gatti che apparivano e
scomparivano o che sorridevano.
Andò
a sedersi su una panchina e immediatamente una ragazza dai capelli
rossi e ricci e gli occhi verdi le fu accanto.
«Fai
atletica? Sei una campionessa? Non ho mai visto nessuno così
veloce!
Potresti tenere testa ad un maschio!» La ragazza la guardava
eccitata.
«Mi
alleno al parco ogni tanto» si limitò a dire.
Un
miagolio attirò la sua attenzione. Abbassò lo
sguardo.
Il
gatto viola era proprio ai suoi piedi. Gli occhi gialli la fissavano
giocosi.
Ignoralo,
Emma, ignoralo.
Il
gatto le si avvicinò e si strusciò
affettuosamente sulle sue gambe.
Come poteva non essere reale? Quel gatto era lì, non c'era
dubbio!
Alzò
immediatamente lo sguardo sulla rossa che stava continuando a farle
domande a raffica.
«Io
sono Anna, tu come ti chiami? E come si chiama il tuo amico moro? E
conosci anche quella spilungona con gli occhi blu? Vi ho visto
parlare insieme e...» trasalì e sgranò
gli occhi.
Avvicinò
il volto così velocemente a quello di Emma che lei
capì di essersi
ritratta solo dopo qualche secondo.
«Hai
degli occhi bellissimi! È impossibile, sono lilla. Hai le
lenti a
contatto?»
Forse
quella era un'ottima scusa. Si limitò ad annuire.
«Oh,
corrono i maschi!»
Emma
fissò Chris. Lui non fece altrettanto. Era concentrato sul
percorso
come lo era stata lei pochi minuti prima.
Il
professore diede il via.
Chris
non diede il meglio di sé. Emma lo vide chiaramente: si
impegnò per
arrivare secondo invece che primo.
Il
gatto continuava a strusciarsi insistentemente contro la sua gamba.
Facendo finta di allacciarsi una scarpa si chinò e
tentò di
allontanarlo.
Le
saltò in grembo, poi balzò sulle ginocchia di
Anna. Lei non sembrò
accorgersi di nulla. Continuava a parlare praticamente da sola e a
gesticolare.
Alcuni
ragazzi si stavano lamentando di essere stati spinti e insistevano
nel rifare la gara.
Il
gatto viola saltò su un muretto e scomparve
dall’altra parte, ma
il suo miagolio continuò a sentirsi. Si fece sempre
più forte.
Emma
si portò le mani alle orecchie.
«Tutto
bene?» sobbalzò e soffocò un grido nel
sentire la voce di Chris
così vicina. Mentre tentava inutilmente di regolarizzare il
respiro,
Emma lo fissò con gli occhi spalancati.
La
testa le girava leggermente. La vista di Chris le dava
inspiegabilmente fastidio. Era come se lui fosse troppo nitido
rispetto a tutti gli altri ragazzi. Come se tutti gli altri non
fossero altro che uno sfondo per qualcos'altro.
Per
un momento Chris la fissò come se fosse pazza, la
lasciò andare e
fece qualche passo indietro. Il modo in cui si muoveva era troppo
dinamico, troppo fluido... Troppo!
Emma
inspirò profondamente e chiuse gli occhi. Quando li
riaprì Chris
era accanto alla fontanella e si stava sciacquando la faccia.
Emma
allontanò le mani dalle orecchie. Tutto sembrava stranamente
silenzioso.
Aguzzò
l'udito.
Sentiva
gli uccelli sugli alberi canticchiare dei motivetti allegri e
rispondersi a vicenda. Uno seguiva l'altro, come in un'infinita e
incessante reazione a catena.
Più
ascoltava e più sentiva.
Troppi
suoni le arrivavano alle orecchie e sembravano rimbombarle
all'interno del cranio. Con orrore si accorse che le sue orecchie si
stavano muovendo autonomamente, quasi avessero autonomia propria. Al
contrario di quanto ordinava loro il cervello, continuavano a
tendersi per registrare nuovi suoni, come un'antenna della radio
avida di nuove frequenze.
Ma
non erano solo le orecchie a ribellarsi al suo controllo e a
funzionare troppo bene.
La
sua vista si fece all'improvviso nitidissima. Poteva vedere tutto:
ogni singolo granello di polvere nell'aria, ogni singola foglia su
ogni singolo ramoscello su ogni singolo albero, ogni singolo
sassolino sul terreno, ogni singolo studente all'interno delle aule
attraverso ogni singola finestra.
Al
suo naso arrivavano molti più odori di quanti potesse
registrare. Si
accumulavano creando ancora più confusione in quel delirio
di sensi.
Si
guardò intorno senza sapere cosa fare.
Il
naso le bruciava, le orecchie le pulsavano, gli occhi sembravano
dover uscire fuori dalle orbite.
Serrò
le palpebre. Si portò le mani alle orecchie. Trattenne il
respiro.
Mentre
i polmoni smaniavano aria nuova, lei si trovò a chiedersi se
fosse
più insopportabile quel dolore o il caos incontrollabile
nella sua
testa.
Poi
l'istinto ebbe la meglio e ispirò.
L'aria
che le uscì dalla bocca portò con sé
un rantolo.
Il
suo cervello, incapace di gestire tutti quei dati, sembrò
andare in
tilt. In un istantaneo blackout tutto si fece nero e silenzioso e
ogni sensazione si annullò.
Non
sentì il suo corpo cadere a terra. Accolse con sollievo
torpore e
incoscienza. Sperò che il buio inghiottisse tutto il resto
abbastanza a lungo.
–
ʘ –
Seduta
sul letto, le cuffie stereo in testa, gli occhi fissi sullo schermo
del portatile posizionato sulle gambe incrociate e la schiena
appoggiata alla parete, Rebecca non sollevò neanche lo
sguardo
quando qualcuno entrò con la chiave.
Entrò
una ragazza minuta con lunghi capelli ricci color sangue e occhi
verde smeraldo.
«Ciao.»
Rebecca
non sembrò neanche accorgersi di lei.
«Io
sono Anna, condivideremo la stanza.»
Le
dita di Rebecca continuarono a scorrere rapidissime sulla tastiera e
mosse impercettibilmente la testa a ritmo della musica.
Anna
appoggiò la valigia e le due borse che portava con
sé sul letto e
cominciò a disfarle.
«Tu
quale armadio hai preso?» chiese avvicinandosi ai due mobili
identici.
Ne
aprì uno e lo trovò vuoto. Aggrottò le
sopracciglia e aprì anche
l'altro. Vuoto. Anna fece spallucce e mise i suoi vestiti in quello
di sinistra.
«I
capelli li hai tinti, vero?» domandò continuando a
tentare di
cominciare una conversazione.
Rebecca
non annuì neanche. Tanto, anche se avesse detto la
verità, che
quello era il suo colore naturale, nessuno le avrebbe creduto. Si
assicurò che gli chignons in cui aveva legato i capelli rosa
fossero
ancora ben saldi sulla testa.
Gli
occhi così chiari da avere solo un vago riflesso azzurrino
non si
staccarono neanche per un momento dallo schermo.
–
ʘ –
«Franz?
Tutto okay?»
Carlotta
gli sventolò una mano davanti alla faccia.
Lui
si riscosse appena. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla
lavagna.
L'insegnante
aveva scritto una semplice espressione, ma appena aveva posato il
gesso lui aveva visto altri numeri e strani simboli comparire sulla
lavagna come se non fosse altro che uno schermo.
Cercava
di leggere, di capire. Inutilmente. Era come ipnotizzato, non
riusciva a distogliere lo sguardo.
Le
sue pupille si muovevano freneticamente nel tentativo disperato e
praticamente involontario di comprendere la logica con cui numeri e
simboli nuovi si affollavano sulla superficie nera mentre altri
scomparivano come se vi affondassero.
«Franz!»
Allarmata,
Carlotta lo scosse leggermente.
Pessima
idea. Franz per poco non diede di stomaco. Si prese la testa tra le
mani, premendosi le tempie con le dita. Serrò le palpebre
sugli
occhi finché non vide altro che nero.
Altra
pessima idea. I simboli riapparvero. Tornarono a galla e gli si
ripresentarono davanti agli occhi. Scacciarli era impossibile.
Spalancò
gli occhi, ma continuava a vederli. Gli stavano entrando nella testa.
Li sentiva vorticare dentro al cervello, intrecciarsi ai suoi
pensieri fino a rendere incomprensibili entrambi.
Per
un attimo, sfruttando uno dei suoi ultimi pensieri coerenti, credette
di impazzire.
Poi,
all'improvviso, tutto cominciò a defluire, come acqua
stangante che
aveva finalmente trovato uno sbocco.
La
vista tornò nitida. E Franz si rese conto che Carlotta gli
aveva
afferrato il polso e lo fissava preoccupata.
Si
sentiva già maglio, ma il respiro accelerò di
nuovo quando si rese
conto di quello che stava succedendo. Era come se tramite il contatto
Carlotta stesse scaricando informazioni direttamente dal suo
cervello. Lo stava liberando da quei segni demoniaci, ma come? Cosa
stava facendo?
Era
così tranquilla, se ne rendeva conto? Lo stava facendo
apposta, per
aiutarlo, o era un gesto inconscio e involontario? E perché
funzionava?
Poi,
come se seguissero lo stesso flusso dei simboli, anche quelle domande
scivolarono via. Il vuoto nella testa lo fece sentire meglio, anche
se leggermente disorientato.
«Tutto
okay, grazie» disse sorridendo per il sollievo.
Gli
occhi blu di Carlotta lampeggiarono, ma così rapidamente che
Franz
credette di esserselo immaginato. Come tutto il resto, d'altronde.
Anche
Carlotta accennò un sorriso.
Cautamente,
Franz rialzò lo sguardo sulla lavagna. Un ragazzo, Xavier se
ricordava bene, stava risolvendo l'espressione. Era a buon punto.
Nessuno
sembrava essersi accorto di nulla.
–
ʘ –
Stava
chiacchierando con Julien quando sentì bussare.
«Vado
io» fece il suo compagno di stanza alzandosi.
Ludovic
si appollaiò sulla sedia e cominciò a disfare lo
zaino dando le
spalle alle porta.
«Porca
miseria, Ludov, c'è uno schianto di ragazza fuori dalla
porta che
cerca te! Ma dove l'hai trovata?»
Ludovic
alzò un sopracciglio. «Capelli neri e occhi
blu?»
«Proprio
lei.»
«Carlotta
è mia sorella.»
«Vuoi
dire che non state insieme?»
Ludovic
alzò gli occhi al cielo divertito, poi sorpassò
il suo compagno di
stanza e aprì la porta.
«Devo
parlati» annunciò secca Carlotta.
«Dritta
al punto, eh?» fece Julien alle loro spalle.
Ludovic
lo ignorò.
«E
serviva avventurarsi nel dormitorio maschile?»
«Ho
usato la scusa di accompagnare Franz, mi sembrava piuttosto...
stordito. E poi di Emma e Chris non c'è
nemmeno l'ombra.»
Con uno sguardo eloquente fece capire al fratello che dovevano
parlare da soli.
Ludovic
si voltò verso Julien che gli vece l'occhiolino, poi
uscì in
corridoio chiudendosi la porta alle spalle. Alcuni ragazzi fuori
dalle stanze si fermarono a lanciare occhiate poco discrete a
Carlotta.
«Cosa
c'è?» chiese Ludovic andando verso una finestra
aperta. «Ne hai
visti altri?»
Carlotta
annuì. «Anche Franz.»
Il
ragazzo alzò immediatamente lo sguardo su di lei.
«Ne
sei sicura?»
«Non
me l'ha detto, ma sì, ne sono sicura.»
Gli
occhi nerissimi di Ludovic si illuminarono. «Questo vuol dire
che
non siamo gli unici! Che sono reali, avevo ragione poco fa! Cos'era?
Il gatto viola con gli occhi gialli? Lo vedo spesso. O l'uccello che
hai visto tu? Magari ti ha presa di mira. O il granchio
verde?»
«Numeri»
tagliò corto Carlotta. «E simboli. Sono comparsi
sulla lavagna
all'improvviso. Ho visto il panico nei suoi occhi. Per un momento ho
creduto che fossero più dorati del normale, che brillassero.
Gli
occhi intendo. Poi l'ho toccato e si è calmato. Non li ha
più
visti.»
«E
tu?»
«Sono
spariti quando Xavier ha finito l'espressione e cancellato
tutto.»
Ludovic
era pensieroso. «Non mi era mai successo niente del
genere» ammise.
«Deve
esserci una spiegazione logica!» protestò
Carlotta, sebbene non ce
l'avesse con lui.
«È
quello che penso anch'io.»
«...ma
non possiamo dirlo a nessuno perché ci prenderebbero per
pazzi e bla
bla bla» la ragazza imitò la voce del fratello
maggiore.
«Invece
io credo di sapere a chi chiedere» dichiarò
Ludovic fiondandosi
fuori dal corridoio e imboccando quello che portava al dormitorio
femminile.
«Chi?»
«Hai
detto che anche Franz li vedeva.»
«Sì,
e allora?»
«Ci
sono solo due persone in tutta la scuola che possono sapere tutto di
tutti: una è la preside, l'altra è
Rebecca.»
Ludovic
si fermò davanti ad una porta senza neanche assicurarsi che
fosse
quella giusta. Bussò ma non ricevette risposta.
Entrò
come se qualcuno lo avesse invitato a farlo. Rebecca era nella stessa
identica posizione in cui l'aveva trovata e poi lasciata Anna
mezz’ora prima.
«Ehi,
Becky, ci serve una mano.»
La
ragazza non alzò lo sguardo.
«Sta
bene?» fece Carlotta «Sembra più
stramba, apatica e asociale del
solito» disse, sapendo che di solito quella battuta bastava a
risvegliare l'amica.
Probabilmente
la musica sparata al massimo nelle cuffie stereo inghiottì
le sue
parole.
Carlotta
fece per avvicinarsi al letto, ma un essere verde fosforescente
attraversò la porta e le sfrecciò davanti. Ci
mise un po' ad
identificare in quello strano essere un granchio.
Ludovic
si mosse quasi all'improvviso e ad una velocità sorprendete.
Levò
le cuffie a Rebecca e con un gesto fece ricadere il portatile sul
letto.
Per
la prima volta la ragazza alzò gli occhi. Le iridi erano di
un
verdeacqua inconsistente.
«Ciao
Ludovic» la sua voce era spettrale, come in trance.
«Allora
ci sei! Abbiamo bisogno di aiuto.»
«Non
posso esserti utile» dichiarò meccanicamente la
ragazza dai capelli
rosa.
Ludovic
alzò un sopracciglio. Carlotta si arrampicò su
una sedia per
sfuggire alle chele del ragno verde. Nessuno dei due si accorse della
porta che si apriva e della ragazza che entrava.
«Lei
sicuramente non potrà dirti niente, ma io
sì» dichiarò una
seconda Rebecca, le braccia incrociate e la schiena appoggiata alla
porta chiusa.
Lo
sguardo dei due fratelli Dunbar saettò tra la Rebecca ancora
seduta
sul letto e quella in piedi alla loro destra.
Erano
identiche. O quasi. Quella sul letto aveva un che di troppo perfetto.
Quella in piedi era decisamente più reale, ma la differenza
si
sarebbe notata solo avendo davanti entrambe.
«Congratulazioni,
sei il primo che riesce ad attirare la sua attenzione toccandola
anziché attraversandola» disse Rebecca indicando
la se stessa sul
letto con un cenno del capo.
«Che
vuol dire?» chiese Carlotta frastornata.
«Solo
che spesso non voglio far sapere dove sono veramente»
dichiarò la
rosa afferrando un telecomando che era dentro un cassetto del suo
comodino e puntandolo verso la ragazza sul letto. Premette un
pulsante e quella scomparve sotto gli occhi degli altri due ragazzi.
«E
in questo caso dove sei stata?» chiese Ludovic mentre
allontanava da
sé il granchio verde con una gamba, senza darlo troppo a
vedere.
Rebecca
non sembrò accorgersi di nulla finché il granchio
zampettò fino a
lei e chiuse una chela intorno alla sua caviglia e un rivolo di
sangue le scivolò lungo il piede.
Puntò
gli occhi sul granchio. «Reverso»
sibilò e le sue iridi si
illuminarono d'argento.
L'essere
sussultò e corse via attraversando la porta.
«Ma
che...» fece Ludovic.
«Lenti
a contatto modificate, sarei impazzita senza.»
|
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Capitolo 3 *** Spiegazioni, o almeno in parte ***
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Metamorfosi
Cap3;
begin
write('Spiegazioni,
o almeno in parte');
readln;
end.
«Sedetevi»
li invitò Rebecca sistemandosi a gambe incrociate sul propri
letto,
nella stessa posizione che poco prima aveva il suo ologramma. La
somiglianza era impressionante e Carlotta e Ludovic erano ancora
scossi.
Carlotta
girò la sedia di una delle due scrivanie e vi si sedette
mentre il
fratello si accomodò sul letto, proprio di fronte a Rebecca.
«Quindi
anche tu vedi quegli... pseudo-animali da... un anno?»
«Sì.
Dai primissimi giorni di scuola.»
«E
perché non mi hai detto niente? Insomma, io ho capito subito
che
Carlotta li vedeva, tu devi aver fatto lo stesso con me.»
«Ma
tu non hai fatto altrettanto con me» gli fece notare Rebecca.
«Già!
E non mi spiego neanche questo.»
«Be',
è semplice in realtà. Tu li vedevi e ti davano
fastidio, ma li
sopportavi. Io no. Non so come spiegarlo. È come se il mio
cervello
si sovraccaricasse ogni volta che comparivano. Era snervante. Nel
giro di due settimane sono finita in infermeria almeno sei volte. E
non ero tanto stupida da dire la verità. All'inizio ero
confusa, ma
come al solito, mi sono imposta di dare una logica a quello che stava
succedendo. Solo dopo mi sono accorta che anche tu vedevi quelle
creature. Mi sono sorpresa. Com'era possibile che solo vederle mi
provocasse un'emicrania e che invece tu potessi limitarti ad
allontanarle?»
«E
hai trovato una spiegazione?»
Rebecca
distolse lo sguardo puntandolo testardamente sul ghirigoro del
copriletto. Lo seguì distrattamente con un dito fino a
trovare il
punto in cui c’era un errore nel disegno.
«No»
rispose frustrata.
«E
quelle creature?» questa volta fu Carlotta a fare la domanda.
«Per
loro hai trovato una spiegazione?»
La
ragazza dai capelli rosa sollevò su di lei i suoi occhi
chiari. «Più
o meno.»
«Cosa
sono?»
Rebecca
chiuse gli occhi. «Anche questo è difficile da
spiegare.» Fece una
pausa per riorganizzare le idee. Quando li riaprì, i suoi
occhi
furono attraversati da un lampo argentato. «Sono esseri
digitali.
Creati da un computer che si trova da qualche parte all'interno della
scuola e probabilmente fatti comparire da proiettori collocati
ovunque nell’edificio. Per questo non possono uscire. Si
allontanerebbero troppo dal loro alimentatore.»
«Quindi
sono solo... programmi?»
La
ragazza annuì. «E come tali rispettano degli
ordini precisi.»
Ludovic,
che era rimasto in silenzio, riprese la parola. «E tu puoi
dare loro
ordini? Come hai fatto poco fa?»
«Non
è esatto.» Fissò lo sguardo sulla carta
da parati verde ghiaccio
che ricopriva le pareti. Sopra c'era un motivo ricorrente di quadrati
argentati. In alcuni punti non coincidevano. «Posso invertire
i loro
comandi. Se loro vengono verso di me posso farli voltare e andare
via.»
«Come?»
incalzò Carlotta.
«Come
ti ho detto, sono alimentati da un computer all'interno della scuola.
Ricevano ordini con una specie wii-fii. Sono riuscita a trovare la
frequenza su cui viaggiano queste informazioni.»
«Ma
allora,» osservò Carlotta «non puoi
risalire alla loro fonte?»
Rebecca
stese le labbra in un sorriso compiaciuto. «È
quello che ho pensato
anch'io. Ma non ci riesco. È come se spuntassero dal nulla.
Un
attimo prima non c'è niente e quello dopo ecco che si forma
un
“animale” che riceve ordini. Ordini che viaggiano
su frequenze
sempre presenti, ma che sembrano spuntare dal nulla. È
snervante!»
All’ultimo la sua voce salì di qualche tono e lei
si prese la
testa tra le mani per un attimo.
Ludovic
si sorprese di quella reazione. Raramente Rebecca si scomponeva
tanto. Ma quello che stava succedendo era qualcosa che non rientrava
in uno schema logico, non ancora almeno, e questo mandava in crisi la
sua amica.
«Tu
vedi solo animali?» chiese Carlotta.
Rebecca
la studiò. Come se le stesse facendo una domanda che sapeva
già e
stesse valutando se rispondere correttamente o no. «Cos'altro
dovrei
vedere?» si limitò a chiedere.
«Numeri,
simboli, non lo so!»
La
ragazza annuì. «Sì, li vedo. E una
volta ho anche registrato la
loro comparsa.»
«Non
ci credo» sbuffò Ludovic, tanto per dire qualcosa
visto che era
sicuro che l'amica ci fosse riuscita.
«È
davvero strano» commentò quasi tra sé e
sé Rebecca prendendo il
computer e mettendoselo sulle gambe incrociate.
Ludovic
valutò la possibilità che potesse trattarsi di
nuovo di un
ologramma.
«Cosa
c'è di strano?» chiese Carlotta alzandosi e
avvicinandosi per poter
guardare nello schermo.
«Vedi,
quegli animali non compaiono proprio dal nulla. Sono programmi,
qualcuno deve dare loro il via. Poco prima che uno di loro appaia, si
verifica una condensazione delle informazioni necessarie e
poi...»
premette il tasto invio.
Un
video di pochi secondi riprendeva il davanzale della finestra della
camera. Gli stessi simboli che Carlotta aveva visto in classe, questa
volta di un verde fosforescente e irreale, cominciarono a comparire
praticamente dal nulla, quasi fossero generati dall'aria circostante,
e si avvicinarono tra di loro. Un rapido lampo, poi al loro posto
comparve l'uccello che se l'era presa con lei qualche ora prima.
«Come
hai fatto a riprenderli?»
«Ho
creato un programma specializzato. Ora guarda. Questo è
quello che
succede quando invece ci sono solo i simboli.»
Fece
partire un altro video.
Questa
volta era inquadrato un angolo del cortile. Cominciarono ad apparire
quegli strani simboli, esattamente come nel filmato precedente, ma
questa volta, invece di unirsi e diventare un animale, cominciarono
ad accumularsi e poi a disperdersi.
«Non
capisco» ammise Carlotta.
«È
come se in certi momenti i programmi non riuscissero a
completarsi»
spiegò Rebecca. «Come se sviluppassero una specie
di tumore.»
«Io
non ho mai visto niente del genere» disse invece Ludovic.
Per
la prima volta, Rebecca sembrò stupita.
–
ʘ –
Emma
riprese coscienza lentamente. Accolse di buonavoglia il silenzio
dell'infermeria.
Tese
leggermente le orecchie.
Il
suo lettino era proprio sotto la finestra. Poteva sentire il vento
soffiare leggero tra i rami degli alberi e accarezzare le foglie
facendole frusciare. Qualche uccellino canticchiava.
Inspirò
lentamente, lasciandosi invadere da quel momentaneo senso di pace.
Poteva illudersi di trovarsi stesa su un prato.
Aprì
adagio gli occhi. Li sentì pizzicare. Se li
strofinò e poi tornò a
mettere a fuoco.
Il
gatto viola era seduto sul davanzale, completamente immobile eccetto
la coda.
Emma
emise un verso a metà tra uno sbuffo e un sospiro.
«Andiamo bene»
commentò ad alta voce, sarcastica.
Si
girò su un fianco. Quel lettino era straordinariamente
comodo.
Il
gatto cominciò a miagolare con insistenza.
«Oh,
vattene! Tu non esisti!»
Lo
sentì saltare sul letto, dietro di lei, e strusciarsi contro
la sua
schiena. Le fece il solletico.
«E
se esisti non sei viola.»
Si
girò sperando di vederlo nero, o di qualsiasi altro colore.
Viola.
Quasi magenta.
«Fantastico.»
Il
gatto le salì sulla pancia. Lei si sollevò sui
gomiti. Allungò una
mano per accarezzargli la testa e lui la assecondò.
Come
può non essere reale? si chiese.
Si
ristese senza smettere di guardare il gatto che aveva cominciato a
camminarle sul ventre e sul petto facendo le fusa.
–
ʘ –
Franz
allontanò da sé il libro con un moto di
frustrazione. Perché non
riusciva a concentrarsi?
Semplice.
Perché la sola vista di parole scritte gli ricordava quello
che era
successo in classe.
«Tutto
bene?» chiese Chris, steso sul letto a leggere fumetti.
«Sì»
mentì Franz portandosi una mano alla testa e cominciando a
massaggiarsi una tempia.
Si
alzò e andò in bagno a sciacquarsi la faccia. Si
sentiva ancora
stordito. Sollevò lo sguardo fino ad incrociare quello del
suo
riflesso nello specchio.
Era
abituato a definire i suoi occhi dorati, ma era ovvio che in
realtà
fossero solo di una particolare sfumatura marrone. Per questo
trasalì
e quasi fece un salto all'indietro quando si rese conto che in quel
momento le sue iridi erano proprio dorate.
E
i suoi capelli, invece di avere quel colore biondo perlaceo
chiarissimo, erano spaventosamente incolori.
Doveva
esserci qualcosa nello specchio. O nella luce. O nei suoi occhi.
Magari aveva un difetto di vista come sua sorella. Come suo padre,
dopotutto.
Continuò
a fissare lo specchio come se si aspettasse di veder cambiare
l'immagine da un momento all'altra. Tentò di mettere ancora
di più
a fuoco, fino a sentire gli occhi pizzicare.
Vide
apparire sulla superficie dello specchio dei cerchi concentrici.
Una
fitta improvvisa alla testa lo fece barcollare. Si premette una mano
contro la tempia e si affrettò ad uscire dal bagno.
Aprì
la porta della stanza senza degnare Chris di un'occhiata. Doveva fare
qualcosa almeno per quell'intollerabile mal di testa. Di sicuro in
infermeria avevano qualcosa da dargli.
Una
volta, da piccolo, gli era capitata una cosa simile quando era
rimasto quattro ore davanti al computer. Ricordava che sua madre gli
aveva dato delle pasticche, anche se non ricordava quali.
Avrebbe
potuto chiedere a Rebecca, ma lei si sarebbe sicuramente accorta che
quello non era un normale mal di testa.
Arrivò
al piano giusto in pochi minuti. L'infermiera in quel momento non
c'era. Decise di aspettare e si diresse nella stanza accanto, dove
immaginava ci fossero almeno un paio di lettini.
Appena
richiuse la porta alle sue spalle e si voltò,
sentì il suo cuore
perdere un battito e il suo viso sbiancare.
Emma
era distesa immobile su uno dei tre lettini in posizione supina.
Teneva gli occhi chiusi e respirava regolarmente. Sul suo ventre era
seduto un gatto magenta che lo fissava con i suoi occhi gialli.
A
spaventarlo davvero, però fu che, appena incrociò
il suo sguardo,
il gatto scomparve. Esplose in una nuvola degli stessi simboli che
aveva visto in classe.
Si
affollavano nell'aria sopra Emma scontrandosi tra loro. I numeri, le
uniche cose che riusciva a leggere, facevano capolino tra i simboli
vorticando freneticamente insieme ad essi.
La
ragazza inspirò e parte dei simboli fu risucchiato insieme
all’aria.
Emma ebbe una specie di spasmo.
Franz
corse fuori respirando affannosamente con la testa che minacciava di
esplodergli. Si portò le mani alle tempie mentre si piegava
su se
stesso. Per un attimo immaginò il proprio cervello esplodere
all'interno del cranio.
Ansimava,
ma si costrinse ad allontanarsi il più in fretta possibile.
Inciampò
per le scale mentre provava a tornare al piano di sopra.
–
ʘ –
Emma
scattò in avanti, mettendosi seduta. Si chinò di
lato in preda ad
un conato, ma dal suo stomaco non uscì nulla. Si
portò una mano al
petto. Aveva l'impressione che qualcuno le avesse gettato dell'alcool
attraverso le narici e giù per la gola, fino ai polmoni.
Tossì,
ma emise solo un verso rauco. Si mise a cavalcioni del lettino, per
respirare meglio.
Senza
allontanare la mano dal petto sollevò leggermente lo
sguardo. Il
gatto viola teneva il muso alzato e gli occhi fissi su di lei.
Per
un attimo, mentre teneva gli occhi chiusi per fingesi addormentata a
chi era entrato, le era sembrato che il peso sul ventre fosse
scomparso.
Rimase
immobile a fissare il gatto.
Poteva
quasi vedere il proprio riflesso in quegli occhi giallo limone.
Poteva vedere i suoi capelli biondi, corti e spettinati, e i suoi
occhi lilla e lucidi.
Nelle
iridi del gatto apparve dell'azzurro. Come inchiostro che si spande
seguendo delle scanalature preesistenti, andò a formare dei
cerchi
concentrici, una piccolo tratto verticale in alto e altri tre in
basso.
Emma
poteva vedere quello stesso simboli riflettersi nei propri occhi.
La
sua lucidità stava venendo meno. Parte del suo cervello di
stava
adattando a ricevere un nuovo tipo di ordini.
Il
gatto miagolò e saltò di nuovo sul davanzale.
Emma si rese conto di
averlo seguito solo quando si ritrovò appollaiata sul bordo
della
finestra, con lo sguardo fisso verso il basso.
Ma
che sto facendo? Si chiese.
Poi
il gatto cominciò a camminare sul cornicione e lei si
sentì
costretta a seguirlo. Si alzò in piedi e gli andò
dietro,
nonostante la parte di muro sporgente fosse evidentemente troppo
piccola per lei.
Si
sbilanciò in avanti. Fece roteare le braccia, ma era
inutile. Con il
cuore in gola fissò la terra sassosa due piani sotto di lei.
D'istinto portò un piede in avanti.
Si
aspettava di trovare il vuoto, invece affondò in qualcosa di
morbido
che le ricordò la consistenza dei gonfiabili.
Abbassò
lo sguardo. Dal cornicione si era allungata una rete compatta di
filamenti verde fluo e quadratini di varie tonalità di
azzurro che
formavano una superficie liscia e semitrasparente che le aveva
impedito di cadere.
Cercando
di controllare il tremore, Emma si abbassò fino a toccare
quel piano
con le mani. Sembrava solido e irreale allo stesso tempo, come un
pavimento di vetro. Era inquietante. La dita affondarono leggermente.
Sembrava gomma.
Il
gatto viola la stava aspettando.
Avanzando
con cautela sulle quattro zampe lo seguì senza chiedersi il
perché.
–
ʘ –
Carlotta
rimase impietrita quando vide una testa bionda passare accanto alla
finestra aperta della camera di Rebecca come se si trovassero al
piano terra anziché al secondo. Corse ad affacciarsi e
sgranò gli
occhi.
«Emma!»
gridò.
La
ragazza si fermò e voltò la testa.
«Ciao Lott.»
«Che
diavolo...»
«Con
chi parli?» chiese Ludovic avvicinandosi. Sbiancò.
«Non
chiedetemi com'è possibile» disse Emma.
«Non chiedetemi nemmeno
perché sono quassù, ora che ci penso»
aggiunse subito dopo,
riflettendoci. Si riportò una mano alla tempia. Riflettere
le faceva
venire il mal di testa.
Il
gatto viola miagolò impaziente davanti a lei. Doveva andare
avanti.
Doveva farlo. Era un ordine, non si poteva
discutere. Era come
se una parte di lei avesse perso la sua autonomia.
Lottò
disperatamente contro quella parte, ma ottenne solo
un'immobilità
straziante.
«Emma?»
la chiamò Carlotta, capendo che qualcosa non andava.
Ludovic
rimise la testa dentro.
Rebecca
aveva lo sguardo fisso sul computer e non si era accorta di niente,
un po' come avrebbe fatto il suo ologramma. Quando si sentì
chiamare
alzò la testa sorpresa. Andò alla finestra e si
affacciò. Sgranò
gli occhi. Non ebbe il tempo di studiare bene la scena,
però, perché
gatto e ponte esplosero in un vortice di numeri impazziti appena
puntò gli occhi su di loro.
–
ʘ –
Chris
continuò ad aggirarsi per il parco, le mani nelle tasche,
finché
non fu sicuro di essere completamente solo e abbastanza distante
dalla scuola. Aveva aspettato che Franz uscisse per poter sgusciare
via.
Infondo
non era vietato passeggiare da quelle parti.
Si
fermò appena trovò un pezzo di sentiero
abbastanza lungo e dritto.
Si
rigirò tra le mani il cronometro. Una parte di lui avrebbe
preferito
non sapere nulla. Ma non poteva ignorare quello che aveva visto.
Lo
scatto di Emma era stato esagerato, inumano. Eppure, vedendola
correre, gli era sembrata una cosa assolutamente naturale.
Perché
non avrebbe dovuto accelerare in quel modo? Sembrava tanto semplice!
Si
era fermata di botto, senza un motivo, ma dopo non aveva il fiatone e
sembrava freschissima, come se correre in quel modo, a quella
velocità, non le avesse richiesto il minimo sforzo.
Chris
non sapeva se Emma avrebbe potuto dare di più o no, ma
sapeva che
quando avevano gareggiato nel corridoio della scuola entrambi avevano
dato il massimo. Ed erano arrivati pari.
Questo
voleva dire che anche lui era così veloce? Se l'era chiesto
poco
prima di cominciare la sua gara. E si era impegnato per arrivare
secondo. Era stato fin troppo facile. Aveva avuto l'impressione di
camminare, come se fosse stato costretto a muoversi al rallentatore.
Lui
poteva dare molto, molto di più. Lo sentiva.
Fissò
la fine del sentiero.
Era
poco più lungo della pista su cui aveva gareggiato quella
mattina.
Si
chinò in avanti e poggiò le mani a terra.
Inspirò profondamente,
poi scattò in avanti.
Dopo
i primi secondi si sentì improvvisamente pesante. Come se
stesse
correndo contro una corrente impetuosa, come se mani invisibili lo
stessero trattenendo.
Arrivò
alla fine del percorso con il fiatone.
Guardò
il cronometro. Nulla di strano. Era un tempo buono, ma assolutamente
normale. Quasi svenne per il sollievo, ma c'era ancora qualcosa che
non gli quadrava.
Si
girò e si posizionò di nuovo a terra.
Fissò lo sguardo nel punto
da cui era partito. Fece appello a tutti i suoi muscoli e li
sentì
tendersi.
Scattò.
Fu
tutto completamente diverso. E facile. Le falcate si alternavano
fulminee e fluide. Ebbe l'impressione che fosse il mondo intorno a
lui a muoversi ad una velocità vertiginosa e lui a stare
fermo.
Si
fermò di botto. Il battito era a mala pena accelerato.
Respirava
benissimo e gli sembrava di essersi appena stiracchiato. Aveva
superato il punto in cui si sarebbe dovuto fermare di una buona
ventina di metri.
Guardò
il cronometro. 5 secondi.
Scosse
il piccolo apparecchio, anche se sapeva che funzionava benissimo.
Ripeté la misurazione più volte e sempre con
risultati simili.
All'andata otteneva un tempo assolutamente normale, al ritorno doveva
andare a contare i decimi di secondo.
Si
sentiva inebriato, come se correre gli avesse dato in un leggero
senso di assuefazione. Spense il cronometro e se lo rimise in tasca.
Sentì
uno strano verso. Alzò lo sguardo. Su un ramo era
appollaiato un
uccello variopinto, una specie di pappagallo gigante con le ali blu
elettrico e verde brillante e la pancia giallo acceso. Lanciava degli
strilli acutissimi che dovevano essere parte di una musica.
Chris
si portò le mani alle orecchie. «Sta'
zitto!» gli urlò.
L'uccello
prese a strillare ancora più forte.
Chris
strinse i pugni. Poi, prima ancora che potesse rendersene conto, i
muscoli delle gambe scattarono come molle e le sua mani afferrarono
il ramo. Si lasciò oscillare, poi, con uno slancio, si
ritrovò
accovacciato sul ramo.
L'uccello
strillò, ora sembrava spaventato.
«Te
ne vuoi andare?»
Il
pappagallo si zittì. Lo fissò dritto negli occhi.
Poi spiegò le
ali e gli saltò addosso.
Chris
si ritrovò con la schiena nella terra polverosa e gli
artigli
dell'uccello sugli avambracci. L’animale era diventato
enorme.
Chris cominciò a rotolare, nel tentavo di liberarsene.
Sentiva gli
artigli graffiargli i polsi e vide del sangue cominciare a colare. Si
spostò a sinistra sbattendo l'uccello a terra, ma quello
attraversava il terreno così come fendeva l'aria.
Il
pappagallo cominciò a sbattere la ali e a tentare di
sollevarsi in
volo, come se volesse portarsi dietro il ragazzo. Grosso com'era
diventato, avrebbe potuto benissimo farcela.
Era
come avere delle manette. Chris si ritrovò in ginocchio e
poi in
piedi. Li puntò a terra, tentando di opporre resistenza.
Indietreggiò e già sentiva il terreno mancargli
sotto i piedi
quando l'uccello sbatté contro un muro invisibile e lo
lasciò
andare.
Chris
si piegò in due per riprendere fiato. I polsi gli bruciavano
da
morire, i tagli erano profondi, anche se non tanto da essere
pericolosi.
Guardò
l'uccello provare ad avvicinarsi in volo, ma scontrarsi ogni volta
con un ostacolo invisibile. Alla fine volò via e scomparve.
Fece
un passo avanti e poi indietro. Lui non sentiva niente.
Avanzò
di nuovo. Una strana sensazione gli invase i polsi. Un freddo
eccessivo ma sopportabile li intorpidiva.
Il
sangue si stava già seccando. Lo grattò via.
E
poté vedere chiaramente le ferite che si rimarginavano.
–
ʘ –
Non
ebbe paura neanche per un momento. Cosa avrebbe dovuto temere?
Bastava
tendere le gambe, toccare terra con i piedi e piegare le ginocchia
per attutire il colpo. Per sicurezza piantò anche le mani a
terra.
Nemmeno
un graffio.
Guardò
in alto. Rebecca, Ludovic e Carlotta la fissavano con gli occhi
sgranati dalla finestra del secondo piano.
«Scendiamo!»
disse subito il ragazzo corvino e la sua testa e quella di Rebecca
sparirono dalla sua visuale.
«Stai
bene?» chiese Carlotta appena si fu ricomposta.
«Sì»
rispose tranquillamente lei rialzandosi in piedi.
«È facile.»
Cercò il gatto viola con lo sguardo, ma era sparito.
«Facile?»
«Sì»
ripeté. «Non ci vuole niente.»
La
testa dell'amica rientrò, poi la vide arrampicarsi sul
davanzale.
Solo
un quel momento Emma si rese conto del pericolo. «Ma sei
matta? Che
stai facendo?»
«Hai
appena detto che è facile.»
«Sì!
No! Cavolo.» Era precipitata da quell'altezza? Com'era
possibile?
Prima
che potesse dire qualcosa, Carlotta saltò. Si mosse con
estrema
grazia, come una ginnasta che esegue un salto spettacolare ma che
ormai ha imparato a fare da anni. Atterrò sulle punte dei
piedi,
leggiadra, senza neanche piegarsi in avanti, come se fosse
semplicemente atterrata dopo un saltello.
«Avevi
ragione!» esclamò. «Era
facile!» Mentre parlava si rese conto
dell'assurdità delle sue parole.
Entrambe
alzarono lo sguardo.
–
ʘ –
Rebecca
scese le scale il più in fretta possibile, ma senza perdere
la sua
compostezza. C'era qualcosa di inquietante nel suo modo di muoversi,
qualcosa di quasi irreale. Era come se fosse solo un'immagine
proiettata nella realtà. Un'immagine sempre eretta,
composta, in
perfetto equilibrio. Perfetta. Persino nello scendere le scale. Non
si sbilanciava in avanti o indietro, rimaneva perfettamente
verticale. I suoi piedi sfioravano a mala pena la superficie dei
gradini. Sembrava volare.
Arrivò
al piano terra diversi minuti prima di Ludovic e rimase immobile ad
aspettarlo, senza però girarsi mai a guardare indietro. Si
lanciò
giusto un'occhiata intorno, ma sapeva già cos'avrebbe visto.
In
parte aveva mentito. Se Ludovic aveva detto di aver visto sempre e
solo animali, lei aveva sempre visto solo numeri e simboli impazziti.
Quei codici avevano trovato una forma solo quando aveva cominciato a
portare quelle lenti a contatto.
Mentire
era così spaventosamente facile per lei. Era il motivo per
cui lo
faceva il vero problema. Mentiva perché ciò che
vedeva non aveva
senso.
E
questo la faceva impazzire più di ogni altra cosa.
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Capitolo 4 *** Perfettamente imprevisti ***
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Metamorfosi
Cap4;
begin
write('Perfettamente
imprevisti');
readln;
end.
«E
tu che ci fai qui?»
esclamò Ludovic vedendo la sorella.
«Sono
saltata giù.»
«Cosa?
Ma sei
impazzita?»
«No,
è stato facile.»
Ludovic
alzò lo
sguardo.
«E
non ti sei fatta
nulla?» insistette Rebecca, aveva un tono interessato e
distaccato
allo stesso tempo, come se stesse semplicemente raccogliendo dati.
«No,
atterraggio
perfetto.»
Rebecca
stava per fare
un'altra domanda, ma registrò un movimento con la coda
dell'occhio e
fece appena in tempo a voltarsi per vedere Ludovic che si accucciava
a terra e saltava.
Riatterrò
pesantemente, proprio com'era prevedibile. Assottigliò lo
sguardo e
lo fissò sul davanzale della finestra.
Poteva
farcela, lo
sentiva. Doveva solo darsi la spinta giusta.
Trovare
il modo giusto
in cui saltare.
Trovare
il mondo
giusto in cui saltare.
E
li vide. Vide il
fitto reticolo che ricopriva le mura della scuola come una carta da
parati. Poteva deformarla quando e come voleva. Sapeva di poterlo
fare.
Si
diede di nuovo lo
slancio, ma questa volta non puntò sull'altezza.
Andò verso il muro
e ne deformò la superficie creando delle specie di gradini.
Li salì
senza fermarsi e ad una velocità impressionante. Si
fermò sul
davanzale e guardò giù.
«Come.
Diavolo. Hai.
Fatto???» urlò Emma.
«Non
lo so» rispose e
nella voce c'era eccitazione, come dopo una gara di corsa.
«Era...
bellissimo,
sembrava che il muro si allungasse lì dove posavi i
piedi!»
Ludovic
spostò lo
sguardo sulla sorella.
«Arriva
qualcuno» li
avvertì Rebecca.
Elisabeth
fu davanti a
loro in pochi minuti. «Che ci fate in questa parte della
scuola?»
«Ci
scusi, Emma e
Carlotta non si sanno ancora orientare» rispose Rebecca
sorridendo
appena.
Si
affrettarono a
sfilare accanto alla preside e a correre via.
«Ci
vediamo stanotte
nella camera di Emma e Lott» disse Rebecca, poi prese a
salire le
scale di corsa.
«Aspetta!»
tentò di
fermarla Emma, ma quando giunse in cima alle scale della ragazza non
c'era più nemmeno l'ombra.
–
ʘ –
Chris
entrò correndo e
si chiuse la porta alle spalle.
«Mi
hai fatto prendere
un colpo!» esclamò Franz, che era balzato in
piedi. «Che diavolo
succede?»
«Un
pappagallo gigante
ce l'ha con me, c'è una barriera invisibile nel bel mezzo
del parco
e una fabbrica abbandonata non lontano da qui» rispose Chris
tutto
d'un fiato.
«Un
pappagallo?»
«Sì.
È gigantesco e
nessuno lo vede, però è reale perché
mi ha graffiato e...»
Si
sentì un colpo
violento e la porta vibrò.
«e...?»
fece Franz
titubante.
«Ed
è qui fuori!»
«Apri
la porta.»
«Ma
sei matto!»
«Sto
seriamente
pensando di esserlo, apri.»
Chris,
che fino ad ora
si era tenuto con le spalle contro la porta per evitare che si
aprisse, si spostò di scatto e quella si
spalancò. L'enorme uccello
entrò sbattendo le ali e smuovendo così tanta
aria che molti fogli
volarono per la stanza. Strillava come un ossesso.
Franz
si mise difronte
al pappagallo dando le spalle alla finestra. Divaricò
leggermente le
gambe e strinse le mani a pugno.
Fissò
l'uccello dritto
negli occhi. Le sue iridi ebbero un guizzo dorato, un vero e proprio
lampo di luce.
L'attimo
dopo l'animale
esplose.
«Ma
che diavolo...»
Numeri
e simboli
bianchi vorticavano frenetici per la stanza, scontrandosi contro le
pareti e contro la porta che nel frattempo si era richiusa.
I
vetri della finestra
tremavano. Chris rotolò sotto il letto.
Franz
era rigido al suo
posto, pietrificato.
I
simboli si
riavvicinarono tra loro, senza però riunirsi. Formarono
un'onda di
una potenza impressionante che si sollevò verso il ragazzo.
Franz
aveva il respiro
affannoso e il cuore gli martellava nel petto e nelle orecchie, ma il
suo corpo non rispondeva ai comandi. Le gambe sembravano fatte di
marmo e non ne volevano sapere di spostarsi, di correre via.
Terrorizzato, cercò almeno di distogliere lo sguardo, ma i
suoi
occhi tornarono a fissare il caos davanti a sé, come
calamitati.
Poteva
percepire il
sangue scorrere rapido nelle vene, denso e potente.
All'improvviso,
come in
un flash o un cambio d'inquadratura, qualcosa in lui scattò
ribaltando la situazione. Non stava più temendo di essere
vittima di
quella strana forma di energia, ora stava solo aspettando. Ora era
impaziente.
Che
lo attaccassero!
Non aspettava altro.
L'onda
si abbatté su
di lui con una violenza tale che i vetri della finestra alle sue
spalle andarono in frantumi, ma non lo sfiorò nemmeno.
Chris,
da sotto al
letto, fissò la scena a bocca aperta.
Era
come se intorno
all'amico si fosse creata una bolla di vuoto. I simboli che vi
s'infrangevano cambiavano direzione o si frantumavano in polvere
inconsistente. Aggiravano Franz e uscivano fuori, mentre il vento
provocato dal loro muoversi rapidissimo sollevava fogli, tende e
lenzuola dei letti.
Il
tutto durò pochi
secondi. Poi la stanza cadde in un silenzio di tomba.
Franz
rimase immobile
per qualche altro istante, poi crollò sulle ginocchia e
infine a
terra.
Chris
indugiò solo un
momento, poi sgusciò fuori dal suo nascondiglio e corse
dall'amico.
«Franz? Franz!» lo chiamò scuotendolo.
Il
ragazzo mormorò
qualcosa di incomprensibile.
«Franz»
«Se...
se ne sono
andati?»
«Sì
amico, se ne sono
andati, ma come diavolo hai fatto?»
«Io...»
Franz riaprì
gli occhi e sbatté più volte le palpebre. Le sue
iridi erano
tornate marroni. «...non lo so.» Richiuse gli
occhi, ma rimase
cosciente.
Chris
lo aiutò a
rimettersi in piedi. Si guardarono intorno per qualche minuto.
«Credo
sia il caso di
rimettere a posto» mormorò Chris.
Franz
annuì. «E dopo
mi porti in quella fabbrica che hai visto.»
«Diamoci
da fare
allora.»
–
ʘ –
Quando
Rebecca ritornò
in camera vi trovò Anna.
«Mi
chiedevo dove
fossi finita!» la voce squillante della ragazza e il suo tono
fin
troppo allegro le diedero quasi sui nervi.
Si
controllò e si
chiuse la porta alle spalle senza ricambiare il saluto.
«Non
hai ancora messo
nulla nell'armadio, devi ancora disfare le valigie? Vuoi che ti
aiuti?»
Rebecca
sfilò la sua
valigia grigio argento da sotto il letto e la aprì. Dentro i
vestiti
erano piegati e riposti in modo ordinato secondo uno schema preciso.
Prese dei vestiti puliti con una mano e un libro dalla copertina nera
con l'altra.
«Ma
mi senti?» chiese
Anna mentre Rebecca entrava in bagno.
Per
tutta risposta la
ragazza fece girare la chiave nella serratura.
Fece
un respiro
profondo. Depose vestiti e libro su un mobile, poi si sfilò
la
maglietta e si mise una canottiera grigia, di quelle accollate che
lasciano tutta la schiena scoperta. Indossò anche dei
calzoncini
rosa e infine ripiegò accuratamente i vestiti che aveva
prima e li
nascose in uno scomparto del mobile.
Poi
aprì il libro, che
in realtà era solo la custodia di una specie di telecomando.
Armeggiò con i tasti per qualche istante, poi al centro del
bagno
apparve il suo ologramma, identico a lei anche nei vestiti. Lo
programmò perché uscisse dal bagno di
lì a dieci minuti e si
andasse a sedere sul letto, nella sua solita posizione. Lei gli
avrebbe solo aperto la porta.
Sistemò
il telecomando
nel finto libro e mise anche quello nel mobile con i vestiti.
Si
avvicinò allo
specchio alto e stretto e si mise di profilo per potersi vedere la
schiena.
Si
levò le lenti a
contatto e sbatté più volte le palpebre. Ed
eccoli, quei sottili
filamenti rosa, viola e argento che formavano una ragnatela proprio
sotto la pelle, come fossero vene in trasparenza.
Un
brivido la
attraversò e i filamenti cominciarono a muoversi come
serpentelli.
Si disposero in modo ordinato, poi cominciarono a fuoriuscire
attraversando la pelle e allungandosi nell'aria, fluidi e senza peso.
Si inspessirono e si intrecciarono.
Fissò
il riflesso dei
propri occhi, ora più argentati che azzurri, poi
spostò lo sguardo
sulle sue ali.
Capì
che i dieci
minuti erano passati quando il suo ologramma cominciò a
muoversi.
Lei gli aprì e chiuse la porta. Sentì Anna
tentare per l'ennesima
volta di impiantare un discorso.
Andò
ad aprire la
finestra del bagno e si arrampicò sul davanzale. L'altezza
non la
rallentò. Aveva passato tutto l'anno precedente a saltare
giù dal
terzo piano. Rimase accucciata per qualche secondo, poi
saltò verso
l'alto.
Sentì
le ali spiegarsi
e sollevarla quando si esaurì la forza dello slancio. Il
movimento
fluido delle scapole per farle sbattere risvegliò tutti i
suoi
muscoli addormentati.
Diede
un rapido sguardo
all'orologio da polso. Era ancora presto. La notte era lontana.
Avrebbe saltato la cena, lo faceva spesso, e poi sarebbe rientrata
per andare alla riunione in camera di Emma e Carlotta.
Probabilmente
avrebbe
sonnecchiato sui rami alti di qualche albero in attesa del tramonto,
poi il buio avrebbe fatto da protettore ai suoi voli notturni.
L'importante
era non
allontanarsi troppo dalla scuola.
–
ʘ –
Carlotta
entrò in
bagno stiracchiandosi. Aveva proprio bisogno di una bella doccia.
L'acqua
fredda era
frizzante e risvegliò la sua pelle calda. Era una sensazione
così
gradita che rimase sotto il getto molto più a lungo del
necessario.
Uscendo
si avvolse in
un asciugamano, poi si appoggiò ad un mobile e
cominciò a
districarsi i lunghi capelli nerissimi.
Si
portò una ciocca
davanti al viso. I riflessi blu in quel momento erano così
marcati
che sembrava avesse i capelli tinti. Ancora bagnati, li legò
in una
coda di cavallo. Erano così lunghi che le arrivavano
comunque quasi
alla vita.
Cominciò
a rivestirsi,
ma, mentre era ancora in intimo, lo sguardo le cadde sullo specchio
sulla parete difronte a lei. Rimase a fissarsi a lungo, percorrendo
il proprio corpo mentre aguzzava la vista per essere sicura di
ciò
che vedeva.
Si
guardò intorno.
Dalla finestra entrava molta luce. Andò a chiudere le tende
e il
bagno cadde nella penombra.
Si
avvicinò cautamente
allo specchio.
«Oh
mio dio» mormorò
tra sé e sé, quasi senza accorgersene, mentre con
sguardo
meravigliato percorreva il proprio corpo.
Il
rosa pallido della
pelle si vedeva a mala pena. Tutto il suo corpo era diviso in
quadratini luminosi, di sfumature che andavano dal blu all'azzurro,
al verdeacqua, al verde pastello. Sembrava fatta di una strana pietra
liscia e sfaccettata, regolare e perfetta, come se qualcuno l'avesse
intagliata.
Non
avvertiva nulla a
parte un leggero e gradevole formicolio che risvegliava e acuiva i
sensi.
Per
ultimo scrutò il
proprio viso. I contorni degli occhi, delle sopracciglia e delle
labbra, le iridi stesse e i capelli, erano di un blu intenso ed
elettrico. La carnagione del viso sembrava bianca o addirittura
argentata, solo le labbra e i cristallini degli occhi avevano una
sfumatura beige.
A
prima vista credette
che lì non ci fossero quadratini a suddividerla come nel
resto del
corpo, ma poi, avvicinandosi ancora di più allo specchio,
vide che
invece il suo viso era fatto di miliardi di minuscole sfaccettature
che riflettevano la luce come se fosse ancora bagnata.
Si
passò una mano
sulle guance. Nonostante l'aspetto, non avevano perso la loro
naturale morbidezza.
Era
come avere una
seconda pelle. Elastica e superficiale, ma non estranea come i
vestiti.
«Carlotta?»
Le giunse
la voce di Emma da dietro la porta. «Hai fatto?»
«Io...»
le mancavano
le parole, non riusciva a distogliere lo sguardo da se stessa.
«Io...» riprovò.
«Tutto
bene?»
«Io»
disse soltanto.
E questa volta era un'affermazione, una rivendicazione di se stessa.
«Posso
entrare?»
Carlotta
annuì. Poi,
ricordandosi che l'amica non poteva vederla, ripeté il
consenso ad
alta voce. Quando entrò, Emma rimase a bocca aperta.
«Carlotta?»
«Sono
io.»
Per
qualche secondo non
fecero altro che guardarsi negli occhi.
«Cosa...
cosa ti è
successo? Come hai fatto?»
«Non
lo so» sussurrò
la ragazza.
«Tu...
non sembri
neanche tu!»
«Lo
so.»
«E
smettila di
guardarti come se ti fossi incantata!»
A
quell'improvviso
cambio di tono, Carlotta si riscosse. Afferrò Emma per il
braccio.
«Dobbiamo dirlo a Rebecca!»
«Sì,
ma non
stritolarmi il braccio!»
«Ah
scusa, non me ne
ero...»
Rimasero
in silenzio a
guardare l'impronta di quadretti lilla, viola, magenta e giallo fluo
a forma di mano.
«Ma
che...»
I
quadretti si
espansero a macchia d'olio sul suo braccio e in pochi minuti
ricoprirono tutto il corpo. Ora era uguale a Carlotta, eccetto i
colori.
«Incredibile.»
«Sei
contagiosa!»
«Dobbiamo
dirlo a
Rebecca!»
«Ma
sei matta? Vuoi
uscire in questo stato?»
«Già...
non ci avevo
pensato.»
«Ho
un'idea! Ci
scattiamo delle foto, così se quando arrivano siamo tornate
normali
gliele possiamo mostrare.»
«Ci
sto.»
–
ʘ –
«Ma
è enorme!»
commentò Franz guardandosi intorno. «E pensare che
è così vicina
alla scuola.»
«Sorprendente,
eh?»
«Come
l'hai trovata?»
«Cercavo
solo di
allontanarmi il più possibile.»
«Dici
che
quell'ascensore funziona?»
Chris
premette più
volte il pulsante rosso sulla parete, ma non successe nulla.
«No.»
Franz
si guardò
intorno e fece una smorfia. «Dobbiamo
arrampicarci?» chiese mentre
con lo sguardo sondava ciò che rimaneva della struttura.
«Be',
possiamo salire
sugli alberi che gli stanno intorno e entrare da una
finestra.»
Franz
annuì
distrattamente. Si fidava molto più dei grossi alberi
all'esterno
che della fabbrica fatiscente. A dirla tutta, sembrava che fosse solo
grazie a quegli alberi che si reggeva ancora in piedi. Rampicanti
robusti ne ricoprivano quasi tutta la superficie.
Chris
si arrampicò con
facilità, Franz lo seguì leggermente
più titubante. Si fermarono
su un ramo abbastanza robusto da sostenerli entrambi e abbastanza
largo da potercisi camminare.
Chris
si spinse fino a
quella che doveva essere una finestra. Scostò i rampicanti e
forzò
quello che rimaneva del vetro, poi saltò dentro.
«Che
razza di posto
è?» chiese Franz, quasi tra sé e
sé, bisbigliando.
La
polvere degli anni
aveva ricoperto quasi ogni cosa ingrigendo tutta la grande sale e
facendola sembrare ancora più vecchia e fatiscente di quanto
non
fosse in realtà.
«Non
ne ho idea»
rispose Chris, sussurrando a propria volta.
–
ʘ –
Appostata
sui rami alti
di un albero molto alto, Rebecca aveva visto Chris e il fratello
addentrarsi nel parco e istintivamente li aveva seguiti. Quando si
erano allontanati troppo aveva dovuto rinunciare alle ali, ma a quel
punto erano quasi arrivati.
Rebecca
non si era mai
spinta tanto oltre, proprio per non dover abbandonare il volo, ma la
curiosità era stata troppa.
L'apparizione
della
fabbrica abbandonata la stupì. Cosa ci facevano
lì i ragazzi?
Seguì
il loro stesso
percorso sull'albero e poi attraverso la finestra. Atterrò
sulle
punte dei piedi, senza fare il minimo rumore.
Sentiva
i sussurri dei
ragazzi provenire dalla stanza accanto.
Si
mosse con passo
felpato.
Chris
stava esaminando
delle cabine cilindriche mentre Franz si dava da fare con quello che
sembrava un computer enorme.
«È
così vecchio che
mi sorprendo sia ancora intero.»
«Io
mi sorprendo che
ti interessi tanto.»
«Non
lo so nemmeno io»
imprecò Franz sottovoce per essersi fatto male alla mano.
«Non
capisco nemmeno come si accende!»
«Forse
vi serve
un'esperta di computer.»
Sobbalzarono
entrambi e
si voltarono nella direzione da cui veniva la voce.
«Becky!
Che diavolo ci
fai qui?»
«Potrei
fare la stessa
domanda a voi, quindi evitiamo di farcela a vicenda così
siamo
contenti entrambi, okay?»
Il
fratello si limitò
a tacere.
«Sai
far funzionare
quel coso?» chiese Chris.
«Posso
provarci.»
«Allora
va bene.»
Rebecca
si avvicinò al
computer. Franz e Chris si fecero da parte per lasciarla lavorare. La
videro armeggiare con diversi fili prima di rialzarsi.
«Posso
scoprire cos'ha
in memoria, ma non credo di poterlo riaccendere.»
«Perché
è troppo
vecchio o troppo danneggiato?» chiese Franz.
«Nessuna
delle due in
realtà, semplicemente chiunque l'abbia spento non voleva che
venisse
riacceso.»
«Vediamo
cosa ricorda
quel rottame allora» fece Chris, che si era sempre sentito un
po'
tagliato fuori dai discorsi dei fratelli Belpois.
Rebecca
sfilò dalla
tasca dei calzoncini il suo cellulare e vi collegò un cavo
che
partiva dal computer.
«Hai
mai pensato di
fare la programmatrice di cellulari? Diventeresti
ricchissima»
commentò Chris.
«Ma
non avrei più
l'esclusiva» rispose distrattamente lei.
Sullo
schermo nero del
telefono si susseguirono colonne e colonne di dati per cinque minuti
buoni, poi la facciata tornò normale. Scorse un menu
lunghissimo e
utilizzò strani programmi fino ad ottenere dei file
leggibili e
delle immagini.
I
due ragazzi
sbirciavano da sopra le sue spalle, ma rimanevano in silenzio.
«Allora?
Cos'è?»
chiese infine Franz, spazientito dal mutismo della sorella.
«Per
lo più dati.
Tonnellate.»
«Dati
di cosa?»
«Sono
relativi a dei
ragazzi, è come se gli avessero fatto una scansione del
corpo, solo
non capisco a cosa serva.»
«Scansione
del corpo?
Ragazzi?» Chris era ancora più confuso dell'amico.
«Già.»
Rebecca non
staccava gli occhi dallo schermo «C'è praticamente
tutto, come se
volessero ricostruire una persona.»
«Ricostruirla
dove?»
«Non
ne ho idea, ti
dico solo quello che vedo. Sono...» s'interruppe.
Per
la prima volta in
vita loro Chris e Franz videro l'espressione controllata della
ragazza vacillare e lasciare emergere la sorpresa.
«Cosa
sono?»
Lei
on rispose.
Franz
capì che quella
non era la domanda giusta. «Chi sono?»
Rebecca
sollevò lo
sguardo sul fratello. «Sono i nostri genitori!»
–
ʘ –
Ludovic
si aggirava per
la propria stanza, inquieto. Da quando era rientrato aveva la
sensazione costante e opprimente di essere osservato.
Julien,
il suo compagno
di stanza, era in giro come tutti i giorni.
Si
stese sul letto, il
viso rivolto al soffitto bianco, e tentò di rilassarsi, ma
era
impossibile. Si mise a sedere sbuffando nervosamente dal naso. Si
guardò intorno, in cerca di qualche particolare fuori posto
che
segnalasse che qualcosa non andava davvero.
Niente.
Solo
quella inquietante
sensazione di essere osservato. Seguito.
Si
alzò di scatto,
uscì dalla camera e attraversò a grandi falcate
il corridoio. Salì
le scale il più in fretta possibile, i muscoli tesi e i
sensi in
allerta. Arrivò all'ultimo piano in pochi minuti.
«Jonny?
Jessy?»
chiamò.
Nessuna
risposta. Si
avvicinò all'antifurto. Era spento. D'istinto mise una mano
sull'apparecchio e quello si rianimò con uno strano fischio.
«RIMANERE
SVEGLIO… RIMANERE SVEGLIO, RIMANERE…»
«Jonny?»
«STUPIDA
INFLUENZA»
«Influenza?
Sei un
antifurto Jonny!»
«RIMANERE
SVEGLIO, … RIMANERE...»
Si spense con una specie di
grugnito metallico.
«Jonny?
Si può sapere
che succede? Jonny?»
L'antifurto
si accese e
poi spense un paio di volte, poi non diede segni di
“vita”.
Ludovic alzò gli occhi. Anche la telecamera era spenta.
«Che
diavolo sta
succedendo?»
«RIMANERE...
RIMANERE... ALLARME... RIMANERE...»
Il
sole tramontò
dietro l'orizzonte proprio in quel momento. I neon del corridoio si
spensero velocemente, uno dopo l'altro, lasciandolo nella penombra.
Poco
dopo gli giunsero
le voci agitate dei ragazzi dai piani sottostanti. Nessuna luce si
accendeva più.
Sentì
un formicolio
lungo tutto il corpo e i suoi muscoli si tesero. Che stava
succedendo?
Sentiva
una nuova
energia risvegliargli le membra e scorrergli nelle vene insieme al
sangue.
Si
guardò intorno. Si
trovava proprio in mezzo al corridoio e tutto sembrava normale, luci
spente a parte. Eppure non era normale. Qualcosa stava cambiando.
Uno
strano calore si
propagò nei suoi occhi e sentì le pupille
dilatarsi.
Improvvisamente la sua visuale cambiò. O meglio, era sempre
lo
stesso corridoio quello che vedeva, ma ora sembrava solo un disegno
tridimensionale, come quelli fatti al computer. Se socchiudeva gli
occhi poteva anche vedere gli schemi quadrettati che sembravano fare
da base all'ambiente.
Continuò
a guardarsi
intorno. Si sentiva incredibilmente attivo.
Fuori,
li alberi che si
vedevano dalle finestre sembravano quelli di sempre.
Sentì
il battito
accelerare e si portò una mano al petto, come se volesse
prendersi
il cuore e farlo rallentare con le mani.
Sentì
delle specie di
passi attutiti e si voltò.
Non
c'era nessuno. Il
corridoio era vuoto. Come sempre.
O
così gli dicevano
gli occhi.
Il
suo nuovo, acuto,
senso dello spazio era totalmente in disaccordo.
–
ʘ –
«Non
c'è campo»
disse Rebecca riabbassando il telefono. «Se vogliamo chiamare
papà
dobbiamo prima tornare alla scuola.»
Franz
sospirò.
«D'accordo, torniamo indietro.»
Percorsero
la strada
del ritorno con passo sostenuto, forse perché impazienti di
sapere
finalmente qualcosa, forse perché le ombre proiettate dagli
ultimi
raggi del sole che ancora si vedevano avevano un che di inquietante.
Quando
finalmente gli
alberi cominciarono a farsi più bassi e a lasciar
intravedere la
sagoma imponente della scuola, Chris, che camminava davanti agli
altri due, andò a sbattere contro qualcosa di freddo e duro
dall'odore metallico e cadde a terra.
«Chris!»
scattò
subito Franz. «Ma cosa...»
«Tutto
bene, sta'
tranquillo, solo...»
Chris
si mise in
ginocchio e allungò le braccia. Le sue mani incontrarono di
nuovo
quella barriera invisibile che sembrava fatta di vetro.
Guardò
oltre. Poco più
avanti era dove si era scontrato con l'uccello gigante, ne era certo.
Quella era la stessa barriera che aveva bloccato il pappagallo,
perché questa volta bloccava anche loro?
Provò
a batterci il
pugno, ma non ottenne nulla. Non si fece neanche male.
«Che
vuol dire?»
esclamò Franz avvicinandosi. Toccò anche lui la
barriera. Quando si
ritrasse l'impronta grigio-verdastra della sua mano era rimasta
lì,
apparentemente sospesa nel vuoto a mezz'aria.
«Come
hai fatto?»
«Non
ne ho idea!»
L'impronta
si fece
azzurrina, poi sparì velocemente.
«Non
è possibile, non
c'era niente prima!»
Rebecca
li ascoltava
solo in parte. Si avvicinò a sua volta alla barriera. Vi
appoggiò
la mano e la tenne premuta. Vide una specie di muffa propagarsi dalla
propria mano e propagarsi per una buona decina di centimetri in
profondità. Quel muro invisibile era maledettamente spesso.
Rimase
immobile.
Il
verde si fece sempre
più grigio, come se la barriera stesse marcendo a contatto
con la
sua mano. Appoggiò anche l'altra, accanto alla prima. Dopo
poco
sentì la superficie dura farsi più flessibile e
le sue mani
affondarono per un pezzo.
Le
sembrava di toccare
una plastica elastica. Vi affondò le dita. Scavò
con le unghie
mentre affondava nella barriera fino ai polsi.
Quando
trovò il vuoto
e sentì di nuovo l'aria sui polpastrelli ormai non vedeva
più le
proprie mani, immerse come erano nella muffa che stava indebolendo la
barriera propagandosi dalla sua pelle.
«Come
diavolo fai?»
chiese Chris con gli occhi spalancati, per l'ennesima volta.
Per
l'ennesima volta
Rebecca non rispose.
Ormai
il muro
invisibile aveva consistenza di un gonfiabile un po' sgonfio.
«Franz
aiutami»
ordinò.
Il
fratello si
riscosse, la affiancò e, dopo un attimo di smarrimento, la
imitò.
Chris provò a fare altrettanto, ma non ci riuscì.
Franz
e Rebecca
riuscirono a creare un buco abbastanza grande per una persona minuta.
«Chris,
sbrigati,
infilati dentro.»
Il
ragazzo bruno non se
lo fece ripetere due volte. Si girò, puntò le
mani a terra e infilò
prima i piedi e poi le gambe nel buco che Rebecca e Franz
continuavano ad allargare. Le spalle ci passarono appena, ma poi si
ritrovò dall'altra parte.
Franz
si infilò per
secondo e il buco parve cedere sotto il suo peso. Quando
toccò a
Rebecca la ragazza dovette solo scavalcarlo.
Riprese
in mano in
telefono. «Una tacca» annunciò.
«Avviciniamoci ancora» aggiunse,
mentre componeva il numero del padre.
Chris
si sfregò le
mani sulle braccia. «Perché qui fa così
freddo?» si lamentò.
Ormai
era buio e si
muovevano quasi alla cieca.
«Piuttosto...»
ribatté Franz «perché tutte le luci
della scuola sono spente?»
Un
sibilo, seguito da
un gorgoglio basso simile ad un ringhio soffocato, li fece trasalire
e poi voltare.
Rebecca
girò il
telefono nel tentativo di illuminare il sentiero.
Intravidero
una figura
accucciata a terra, che avanzava lentamente spingendo avanti degli
arti lunghi che teneva piegati accanto al corpo.
«Che
diavolo è?»
strillò Chris.
La
luce fioca del
telefono non arrivava abbastanza lontano.
L'essere
sembrava una
specie di rana con la testa piccola, ma era troppo immersa nell'ombra
per poter essere definita. Il sibilo acuto che produsse fece venire
loro la pelle d'oca. Per un attimo degli occhi verdi attraversati da
una pupilla verticale brillarono in quella che doveva essere la
testa.
«Correte!»
strillò
Rebecca.
Franz
e Chris si
stavano già allontanando a tutta velocità. Le
loro falcate si
susseguivano ad un ritmo inumano, ma non era il momento di fermarsi,
non quando sentivano l'essere dietro di loro guadagnare terreno.
Altri
suoni venivano
dalla loro destra e dalla loro sinistra.
«Quanti
sono?» gridò
Franz.
«Non
ne ho idea!»
fece Chris di rimando. «Ma non voglio scoprirlo.»
Proprio
mentre
parlavano, sentirono Rebecca urlare e rotolare a terra. Si voltarono
rallentando, ma senza fermarsi davvero.
Le
ragazza era stesa
sulla schiena, si stava sollevando sui gomiti.
«Rebecca!»
chiamò il
fratello.
Lei
gettò la testa
all'indietro. «Correte!» urlò loro.
«Correte!»
Dopo,
a causa dei sensi
di colpa, se ne sarebbero pentiti, ma in quel momento l'istinto di
sopravvivenza ebbe la meglio e scattarono in avanti verso la scuola
che sembrava non avvicinarsi mai.
Strani
rumori giunsero
loro, ma erano consapevoli solo del fatto che quelle creature non li
stavano più inseguendo. Non rallentarono in
prossimità della porta
d'ingresso e vi andarono dolorosamente a sbattere visto che era
chiusa.
Vi
fu un attimo di
smarrimento, poi, seguendo un istinto innato e sconosciuto
cominciarono ad arrampicarsi su per il muro fino alla prima finestra
aperta. Si ritrovarono in un'aula e corsero in corridoio.
Solo
allora si
fermarono e ripresero fiato.
Franz
cadde in
ginocchio per la fatica.
Le
luci di emergenza,
che fino a quel momento erano rimaste spente come tutte le altre, si
accesero di colpo dissipando almeno in parte il buio della scuola.
Dal piano di sopra venivano le voci agitate degli studenti.
«Rebecca»
ansimò
Franz rialzandosi in piedi e puntando di nuovo la finestra.
Chris
scattò in avanti
e lo afferrò. «Franz no!»
«Lasciami!
È mia
sorella!»
«Non
sai cosa c'è là
fuori! Dobbiamo aspettare!»
Franz
si accasciò di
nuovo a terra, esausto, mentre l'adrenalina abbandonava il suo corpo.
–
ʘ –
«Che
succede?» chiese
Carlotta allontanandosi dalla finestra alla quale era rimasta
affacciata per quasi tutti il tempo.
«Sembra
che la luce
stia tornando» rispose Emma.
Una
lampada sopra la
porta si accese di colpo. I corpi ancora quadrettati e luminosi delle
ragazze, invece, si spensero e tornarono al loro normale aspetto.
Carlotta
si rese conto
di essere ancora in intimo.
–
ʘ –
Era
caduta a terra
perché una mano dalle dita lunghe e forti come acciaio le
aveva
afferrato la caviglia prima di ritrarsi di scatto.
Ansimando,
Rebecca
tentò di rialzarsi. Rimase impietrita e in ascolto.
I
fruscii e i sibili
indicavano che era circondata, che quelle creature erano almeno una
decina.
Avvicinò
le gambe al
corpo, poi si portò in avanti e poggiò la mani a
terra.
Si
guardò intono.
Ogni
tanto degli occhi
blu, verdi, viola, rossi e gialli si illuminavano per qualche
secondo, abbastanza da terrorizzarla.
Non
ricordava di
essersi mai sentita così. I suoi occhi continuavano a
saettare senza
mai fermarsi davvero, i sibili acuti venivano da ogni direzione. Il
suo cervello lavorava velocemente, anche se non riusciva a formulare
un solo pensiero coerente.
«Cosa
siete?» ansimò,
la voce che le si strozzava in gola.
Degli
occhi verdi si
accesero e rimasero illuminati.
Si
fissarono a lungo.
Il
suo sangue freddo fu
messo alla prova come mai prima d'ora. Sapeva che scappare avrebbe
peggiorato la situazione.
Gli
altri esseri si
zittirono, ma il verde continuò a sibilare.
Con
un brivido Rebecca
si rese conto che stava tentando di comunicare. Si sporse in avanti.
«Chi siete?» scandì lentamente.
Vide
anche gli occhi
verdi che la fissavano avvicinarsi. Cominciò a sudare
freddo, ma si
costrinse a rimanere ferma.
Sentì
le altre
creature annusare.
«Chi...»
riprovò, ma
poi un trillo acuto vece scattare tutti.
Le
creature fecero un
balzo indietro al suono del suo telefono e lei sentì le ali
spuntarle sulla schiena. Si sollevò in aria, ma
incontrò dei rami
che le impedivano di salire. Le ali argentate con filamenti rosa
erano leggermente luminose. Individuò un varco tra le
creature che
si stavano di nuovo avvicinando e vi si infilò.
Si
tastò
freneticamente i calzoncini e recuperò il cellulare prima
che
smettesse di squillare. «Pronto?»
«Rebecca,
mi avevi
chiamato? Che succede?»
«Papà!»
urlò,
incapace di trattenersi. «Io...» qualcosa la
colpì e cadde a
terra.
Mani
robuste e ossute
la afferrarono quasi ovunque. Urlò con tutto il fiato che
aveva in
gola. Poi sbatté la testa contro qualcosa di duro e tutto
sparì
velocemente.
–
ʘ –
Ludovic
sentì
finalmente il proprio battito rallentare, come se l’ansia si
fosse
improvvisamente spenta.
Si
guardò intorno.
Sbatté le palpebre e tutto tornò normale. Con un
suono breve e
squillante sia la telecamera che l'allarme si riaccesero.
«STUPIDE
LAMPADE, SONO SEMPRE IN RITARDO! NON VEDO NULLA!»
«Jessy!»
–
ʘ –
«Rebecca?
Rebecca!»
Jeremy si portò una mano alla testa e per l'agitazione si
conficcò
le unghie nel collo. «Becky!» chiamò di
nuovo, ad alta voce.
Ormai
dal telefono
provenivano solo fruscii e suoni indistinti.
Il
buio della stanza
rifletteva la paura del suo animo.
Il
telefono di Rebecca
dovette sbattere da qualche parte, ma non si spense.
Jeremy
si allontanò
dalla grande finestra e fece saettare lo sguardo nella stanza. Aelita
era seduta sul bordo del letto, gli occhi fissi su di lui che
esprimevano spavento e ansia.
Si
portò indice e
pollice al naso e si tirò su gli occhiali mentre restava in
ascolto.
Sentì movimento, poi un suono flebile ma profondo, un sibilo
distorto.
Rimase
in silenzio
mentre una voce animalesca si modellava in un verso orribile e
terribilmente simile alla parola “papà”.
«Re-Rebecca?»
chiamò,
con un fil di voce.
Dall'altra
parte c'era
molta agitazione. Gli arrivarono dei versi agitati, ancora quella
voce sibilante, dei colpi ripetuti, poi la comunicazione si
interruppe.
«Che
succede?» chiese
subito Aelita, senza nascondere l'ansia nella sua voce.
«Non
ne ho idea.
Chiama gli altri. Di qualunque cosa si tratti, qualcosa non va in
quella scuola!»
|
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Capitolo 5 *** Cercare, o cercarsi ***
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Metamorfosi
Cap5;
begin
write('Cercare,
o cercarsi');
readln;
end.
Ludovic
percorse il corridoio deserto con passo felpato. Alle sue spalle Emma
e Carlotta, rimaste sulla soglia della loro camera, lo seguivano con
lo sguardo.
Si
fermò davanti alla stanza di Rebecca. Bussò
piano. Non ottenne
nessuna risposta. Si chinò per guardare attraverso la
serratura, ma
ovviamente fu inutile.
Era
impossibile che Rebecca si fosse addormentata, quindi non era in
camera. Ma dove? Perché non era venuta, come lei stessa
aveva
organizzato?
«Ludo,
allora?» sussurrò Emma nervosa.
«Aspettatemi
lì. Non muovetevi.»
Corse
lungo il corridoio, poi imboccò quello che conduceva al
dormitorio
maschile. Controllò velocemente i nomi sulle porte fino a
trovare la
stanza Belpois – Stern.
Sentiva
delle voci provenire da dentro. Bussò forte.
«Chi
è?» la voce di Franz tradiva non poca agitazione.
«Ludovic.»
Gli
arrivarono rumori di sedie e mobili spostati. Li avevano messi
davanti all’entrata? La porta si socchiuse, Franz
sbirciò fuori
prima di aprirla completamente.
«Sì?»
«Cerco
tua sorella. Sai dov'è?» mentre parlava Ludovic
studiò l'amico.
Franz
aveva gli occhi rossi, anche se asciutti, e i suoi vestiti erano
sporchi di terra. «Lei...»
Ludovic
lo inchiodò con lo sguardo.
–
ʘ –
Jeremy
guidava tenendo lo sguardo fisso sulla strada. Tentava invano di
concentrarsi sul percorso che conosceva bene, la sua mente continuava
a tornare a quella raccapricciante telefonata. A quella voce
spettrale, per non dire animale.
L'ipotesi
di una “normale” aggressione da parte di un
malintenzionato non
lo aveva neppure sfiorato. Rebecca non era quel tipo di ragazza, non
dare nell'occhio era la sua specialità.
Strinse
ancora di più le mani intorno al volente. La macchina nera e
lucida
sfrecciava per le strade deserte molto al di sopra dei limiti di
velocità. Nell'abitacolo regnava il silenzio più
assoluto.
Aelita,
sul sedile del passeggero, teneva le ginocchia strette contro il
petto. Yumi, William, Odd e Ulrich si stringevano in silenzio nei
sedili posteriori. L'unica soluzione era stata che Yumi si sedesse in
braccio a William.
Erano
tutti ancora piuttosto assonnati. Jeremy non aveva dato il tempo ad
Aelita di chiamarli, si erano presentati direttamente a casa loro,
buttandoli letteralmente giù dal letto uno dopo
l’altro.
Dylan,
il golden retriever di Ulrich, era stato sistemato nel bagagliaio e
Odd, in ginocchio sul sedile con il busto appoggiato allo schienale e
le braccia a penzoloni nel bagagliaio senza tettuccio, si limitava a
scompigliargli il pelo sulla testa. Avrebbe voluto che avessero preso
la sua macchina, quella a sei posti, ma Jeremy aveva personalmente
apportato delle modifiche al motore della propria.
Yumi,
in braccio a William, estrasse di nuovo il cellulare dalla tasca dei
pantaloni neri e compose velocemente i. numero di Ludovic. Si
portò
il telefono all'orecchio, in attesa, ma per l'ennesima volta
scattò
la segreteria telefonica.
–
ʘ –
Erano
da poco passate le due di notte quando cominciò a piovere,
non
gradualmente, ma di botto. Grosse gocce d'acqua picchiavano contro la
finestra con violenza e ogni tanto qualche lampo di
elettricità
violacea squarciava il cielo delineando per pochi secondi le sagome
degli enormi nuvoloni neri che occupavano il cielo e incombevano
sulla scuola come belve malvagie sulla preda. I tuoni sembravano
ruggiti e facevano tramare tutto.
Strinse
le dita al bordo della scrivania di legno. Ormai le unghie rosse
stavano lasciando delle tacche.
Si
rifiutava di farsi spaventare da un temporale estivo, ma per quanto
fosse forte la sua volontà, il suo corpo era debole e
l'istinto di
allontanarsi il più possibile dall'acqua si faceva sempre
più
aggressivo. Era più un comando che un istinto vero e
proprio. E la
paura era legata alla confusione, non tanto al temporale.
Si
costrinse ad aprire le mani e a lasciare il bordo del tavolo.
Appoggiò i gomiti sul legno, poi si premette i palmi sulle
tempie e
affondò le dita nei capelli neri.
Un
nuovo fulmine illuminò il cielo e la stanza.
Per
soffocare un urlo si morse il labbro inferiore finché non
sentì un
sapore metallico sulla lingua.
Stava
succedendo. Stava impazzendo.
Infondo
lo sapeva, sapeva che sarebbe successo. Lo aveva sempre saputo, ma
era il prezzo da pagare. Il prezzo da far pagare.
Sì,
li avrebbe fatti pagare per quello che le avevano fatto.
Ricacciò
indietro le lacrime e il suo sguardo passò dal dolore alla
rabbia.
Si alzò in piedi di scatto e andò verso la
finestra. Allungò una
mano fino a toccare il vetro gelido e ve la tenne premuta.
«Hai
promesso» sussurrò.
«Anche
tu, Elisabeth.»
–
ʘ –
«Oddio»
ripeté Carlotta per l'ennesima volta, sempre più
agitata, mentre
continuava a gettare lo sguardo fuori. Era seduta a gambe incrociate
accanto ad Emma, sul letto di Chris. Lui e Franz stavano sul letto di
quest'ultimo.
Ludovic
girava inquieto per la stanza. «No, no, no. No! Rebecca era
l'unica
di noi che avrebbe potuto venire a capo di tutto questo
macello!»
esclamò.
«Lo
hai già detto» commentò Chris.
Ludovic
fece per ribattere, ma uno strano beep lo
interruppe. Estrasse
il cellulare dalla tasca. «Che succede?» chiese ad
alta voce.
«TI
HA CHIAMATO TUA MADRE, ALMENO UNA DECINA DI VOLTE»
rispose il
cellulare.
Emma,
Franz e Chris si scambiarono occhiate perplesse e stupite.
«E
non potevi dirmelo mentre mi chiamava?»
«EHI!
È GIÀ TANTO SE TE L'HO DETTO IN ANTICIPO, QUESTO
STUPIDO CAMPO
ELETTROMAGNETICO BLOCCA LE COMUNICAZIONI.»
«Ti
riferisci alla pioggia?»
«CERTO
CHE NO! SE SMETTESSIMO DI FUNZIONARE TUTTE LE VOLTE CHE PIOVE SAREMMO
PRESTO SOSTITUITI, TI PARE? C'È UN CAMPO DI FORZA INTORNO
ALLA
SCUOLA.»
Ludovic
si guardò intorno, istintivamente cercò Rebecca
per avere
spiegazioni, ma lei non c'era. «Sai dov'era mia madre quando
ha
chiamato?»
«E
COME FAREI A SAPERLO?»
«Oh,
avanti, lo so che volendo puoi essere meglio di qualsiasi GPS o roba
simile, sei o non sei il cellulare più efficiente del
mondo?»
L'apparecchio
rimase in silenzio per un po'. «OKAY,
ERA SULLA STRADA PER ARRIVARE QUI, MA ANCORA PARECCHIO LONTANA. FORSE
SARÀ QUI DOMANI.»
«Non
potresti essere un po' più preciso?»
«SONO
SOLO UN CELLULARE.»
«Va
bene, va bene, ho capito» disse Ludovic rimettendoselo in
tasca dopo
averlo bloccato.
«Ha...
ha parlato. Lo avete sentito?» balbettò Emma
«Un cellulare che
parla!»
«Lui
non ce l'ha un nome?» chiese invece Carlotta.
«Non
ancora, non ne trovo uno adatto.»
«Il
suo telefono ha parlato!» gridò ancora Emma,
rivolta più che altro
a Chris che era l'unico che le dava retta e che si limitò a
commentare: «Incredibile».
«Ha
parlato!» insistette Emma.
«Abbiamo
capito!» esclamarono Franz, Ludovic e Carlotta in coro.
Emma
si zittì.
Chris
alzò lo sguardo su Ludovic. Al momento, essendo il
più grande, era
stato silenziosamente ma comunemente eletto capo. «Che
facciamo?»
gli chiese con la massima serietà.
«No
ne ho idea» ammise il ragazzo passandosi una mano tra i
capelli
neri.
«Dobbiamo
andare a cercare Rebecca!» esclamò Franz e la voce
non sembrava la
sua per quanto era intrisa di preoccupazione.
«Lì
fuori?» fece Emma con un tono di voce troppo alto che si
affrettò a
correggere. «Ti rendi conto che c'è un temporale
con i fiocchi? E
poi cosa vuoi che facciamo? Che ci mettiamo a girare intorno alla
scuola con delle torce gridando il suo nome?»
L'espressione
di Franz diceva che era esattamente quello che avrebbe voluto fare.
«Ma
sei matto?» insistette la ragazza bionda scattando in piedi.
«Ci
prenderemo una polmonite e ci andrà bene se finiremo in
presidenza e
ci arresteranno per vagabondaggio, disturbo della quiete pubblica e
magari anche tentato suicidio! Nel migliore dei casi! Perché
quelle... creature potrebbero essere ancora
là fuori e
potrebbero catturare anche noi e farci chissà che
cosa!»
«Se
sono ancora là fuori...» provò ad
osservare Franz.
«Sono
passate ore, non credo che Rebecca sia ancora lì»
disse Carlotta
più dolcemente, ma guardandolo dritto negli occhi con
fermezza.
Franz
tentò di ribattere, ma di nuovo fu interrotto.
«Andare
lì fuori, ora, è fuori discussione
Franz» tagliò corto Ludovic e
la sua decisione bastò a metterlo a tacere.
«E
allora che facciamo?» chiese di nuovo Chris.
«Non
lo so! Accidenti non lo so! Aspettiamo domani mattina. Si
accorgeranno dell'assenza di Rebecca, la faremo notare noi, o ci
penserà la sua compagna di stanza. La cercheremo dopo le
lezioni.»
«Dopo
le lezioni!» Franz era sconvolto. «Saranno passate
dodici ore!»
«Ludovic,
ha ragione» lo sostenne Carlotta.
Ludovic
si lasciò cadere su una sedia. «Allora lo faremo
prima. A colazione
avvicineremo Anna, la sua compagna di stanza, e le chiederemo
dov'è
Rebecca con la scusa di doverle dire qualcosa. Lei non saprà
dircelo
e noi cominceremo a cercare in tutta la scuola, qualcuno ci
noterà e
si spargerà la voce, vedrete, ma prima non possiamo fare
nulla.»
«Okay,
ma se ci chiedono cosa dovevamo dirle?» domandò
Chris.
«Ehm...»
«Che
sto male, ho un'emicrania e non so cosa dovevo prendere»
suggerì
Franz. «Non è del tutto falso, ho davvero mal di
testa, da
stamattina. A casa mamma mi dava delle pasticche, ma non ricordo cosa
fossero.»
Ludovic
annuì. «D'accordo, faremo così, ora
però cerchiamo di dormire.»
Gli
altri annuirono.
Lui,
Carlotta ed Emma uscirono dalla stanza.
In
corridoio faceva più freddo e i vetri meno spessi non
attutivano i
rombi dei tuoni né schermavano i lampi dei fulmini.
«A
domani» le salutò Ludovic in un sussurro prima di
dirigersi verso
la sua stanza.
Carlotta
ed Emma, invece, dovettero tornare al dormitorio femminile.
Camminando sobbalzando ogni volta che i loro passi riecheggiavano nei
corridoi deserti, rabbrividendo ogni volta che un fulmine squarciava
il cielo e pietrificandosi ad ogni tuono.
Mentre
Emma armeggiava con la chiave della stanza, Carlotta osò
avvicinarsi
ad una finestra. «Emma! Vieni a vedere»
soffiò.
L'altra
avanzò a scatti.
«Guarda»
Carlotta indicò il cielo.
Videro
chiaramente un fulmine violaceo illuminare i nuvoloni grigi. Solo che
non proveniva dalle nuvole. Aveva la sua origine da qualche parte,
oltre il bosco, e si abbatteva su quella che sembrava una cupola
sopra la scuola.
«Non
ha senso.»
«Non
mi importa cosa ha senso!» sibilò Emma
rabbrividendo. «Voglio solo
che smetta!»
–
ʘ –
«Perché
ci fermiamo?» chiese William.
«Proseguire
è troppo rischioso» rispose Jeremy indicando il
temporale poco
prima di entrare nel parcheggio del motel. «Dormiremo qui,
domani
mattina ripartiremo e per le undici saremo arrivati.»
Yumi
mise via il telefono. «Inutile, qui c'è campo, ma
non funziona»
disse prima di scendere dalla macchina.
Ulrich
andò ad aprire il bagagliaio per fare uscire Dylan, ma poi
fu Odd ad
occuparsi del cane.
L'uomo
della reception stava insultando il proprio computer e la connessione
internet e per poco non fece cadere delle tazze di caffè
ormai vuote
impilate accanto al monitor gesticolando.
Guardò
i nuovi arrivati non troppo bene. «Il cane resta
fuori» disse come
benvenuto. «Non voglio che impeli tutte le mie camere. A
proposito,
me n'è rimasta solo una matrimoniale.»
«Andrà
bene lo stesso» dichiarò Jeremy.
«Contenti
voi» commentò l'uomo con un'alzata di spalle.
«Il cane fuori.»
«E
dove in corridoio?» sbottò Odd.
«Può
restare in macchina.»
«Allora
dormo anch'io lì» dichiarò il biondo.
«Come
vuoi» continuò l'uomo. «Voi
altri?»
«Ci
faremo bastare la camera matrimoniale» ribadì
William.
«Io
dormo in macchina con Odd» annunciò Ulrich.
Gli
altri quattro salirono nella camera.
Il
letto lo presero William e Yumi, Aelita si sistemò su una
poltrona
reclinabile e Jeremy disse che comunque non sarebbe riuscito a
dormire. Si andò a sedere sulla poltrona e si prese la testa
tra le
mani.
«Jeremy,
dovresti riposare.»
«Sarebbe
inutile.»
«Ci
servi lucido, Jeremy.»
«Io...»
Aelita
lo fece sedere sulla poltrona reclinabile e gli si accoccolò
in
grembo. «Andrà tutto bene, Rebecca se la
caverà» disse,
costringendosi a crederci per prima.
«Tu
non l'hai sentita quella voce» replicò Jeremy.
«Non era umana.» E
queste non erano solo le parole di un padre, era un dato di fatto,
qualcosa che lo spaventava, ma che era indiscutibilmente vero.
–
ʘ –
Ulrich
si sistemò sul sedile del passeggero, abbassandolo al
massimo mentre
Odd si sedette accanto a lui. Erano entrambi molto assonnati ora che
lo spavento iniziale si era lievemente attutito, ma nessuno dei due
sembrava realmente intenzionato a addormentarsi subito.
Ulrich
si preparò all'inevitabile chiacchierata. Non che gli
dispiacesse.
Non capitava spesso, ormai che avesse tempo per dare retta a Odd.
Decidette di precederlo.
«Odd...»
cominciò, ma le parole gli morirono in gola.
«Sì?»
fece l'altro tenendo un solo occhio aperto.
«Tu
e Melanie?» chiese cambiando completamente discorso.
Odd
lo fissò per qualche istante, come se la domanda richiedesse
concentrazione. Probabilmente si stava chiedendo cosa diavolo
passasse per la testa dell'amico.
«Non
c'è male» disse in tono neutro, forse senza
neanche rendersene
conto. Richiuse l'occhio e cercò di rispondere anche alla
domanda
che Ulrich non gli aveva fatto. «Non devi per forza tornare
in
quella scuola se non ti va. Puoi aspettare in macchina con
Dylan.»
Il
golden retriever lanciò un sommesso verso di risposta, nel
sonno.
«Molto
spiritoso.»
«Dicevo
sul serio.»
«Tu
non sei mai serio, Odd.»
Il
biondo sorrise, come se gli avesse fatto un complimento.
Ulrich
sospirò.
«Non
è la scuola che mi preoccupa, ma le persone che ci
sono.»
«Hai
paura di qualche ragazzo ficcanaso?» scherzò Odd.
«Non
sto parlando dei ragazzi! Anche noi eravamo dei ficcanaso.»
«E
allora di chi? I professori saranno tutti diversi, il preside
è
cambiato... oh, hai paura di rivedere
Elisabeth?» Odd stava
cercando di buttarla sullo scherzo, ma entrambi erano consapevoli
della tensione.
«Perché
dovrei avere paura?» borbottò
Ulrich.
«Tutti
hanno paura di vedere la gente pazza.»
«Non
è pazza.»
«Nooooo»
Odd ridacchiò. «C'ero anch'io quando a Natale si
è presentata a
casa di Jeremy ed è svenuta sulla soglia. Emma e Chris non
la
smettevano più di piangere.»
«Sono
passati dieci anni! E suo padre era morto da poco.»
«Si
è pazzi per sempre! Ed era la mia macchina quella con cui
l'abbiamo
portata all'ospedale. Il suo profumo non se n'è andato per
un mese,
Melanie credeva che fossi stato con un'altra.»
«Odd...»
«L'hanno
imbottita di farmaci psico-di tutto finché non è
rimasta così
intontita che ci ha fatto ciao-ciao con la mano quando siamo entrati.
Aveva un sorriso da ebete irripetibile. Vorrei aver fatto una foto!
Me la stamperei sulla maglietta e la indosserei per andare a parlare
con i professori.»
Ulrich
non poté trattenere le risate.
«Taci
Odd» riuscì a dire.
–
ʘ –
Chris
era steso sul letto, immobile, lo sguardo fisso sul soffitto, ad
aspettare il suono della sveglia.
Non
aveva chiuso occhio. Era abbastanza sicuro che neanche Franz l'avesse
fatto, ma nessuno dei due si era voltato a guardare l'altro.
Non
sarebbe mai riuscito a prendere sonno. Non dopo quello che aveva
visto.
Una
cosa era sentirsi raccontare che Rebecca era stata rapita da degli
essere a dir poco inquietanti e anche meno umani, un'altra era averlo
vissuto. Aver sentito quelle voci, o meglio, quei versi. Aver
percepito quelle presenze. Aver sentito il loro fiato sul collo.
C'era
qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo, lo sentiva.
Nella
fabbrica si era sentito ansioso, anche se se ne rendeva veramente
conto solo adesso, ma una volta superata la barriera si era sentito
al sicuro, protetto. Come aveva quasi fermato loro,
la
barriera avrebbe fermato chiunque altro, giusto?
E
invece erano stati attaccati proprio lì, a pochi passi dalla
scuola.
Gli
venne la pelle d'oca.
La
sveglia sul comodino di Franz suonò e subito fu spenta. Si
alzarono
entrambi con movimenti meccanici.
Franz
sembrava essere da tutt'altra parte. Il suo sguardo dorato era vago e
distante.
Chris
non vece nulla per richiamarlo alla realtà, sospettava che
si
sarebbe sentito anche peggio. Si vestì in fretta e
uscì senza
aspettarlo.
Secondo
i piani, Franz sarebbe dovuto rimanere in camera.
Scese
le scale lentamente, forse troppo lentamente, per
dare il
tempo agli altri ragazzi di raggiungerlo e non arrivare per primo a
mensa.
Si
sedette al solito posto, davanti al solito vassoio. Guardò
il cibo
con astio.
Si
costrinse a bere il latte. Le mani gli tremavano e la tasta per poco
non gli cadde.
Ogni
suono, ogni voce che si andava ad aggiungere alle altre, somigliava
ad un sibilo o ad un ringhio. Le immagini si confondevano. Sembrava
di essere di nuovo nella foresta.
Si
ritrovò a fissare il biscotto che teneva tra le mani con il
cuore in
gola.
Non
fare lo stupido, si disse, adesso alzi la testa e
non c'è
nessuno!
Lo
fece. Dopo due respiri profondi.
Scandagliò
velocemente la mensa con lo sguardo. Individuò Carlotta che
si
andava a sedere ad un tavolo pieno di ragazzi, accanto al fratello,
seguita a ruota da Emma.
Avevano
dormito, ma non sembravano troppo in forma. Di sicuro, comunque, lo
erano più di lui.
Ci
avrebbero pensato loro a mettere in giro la voce che Rebecca era
sparita.
Continuò
la sua panoramica e lo sguardo gli si fermò fuori dalla
finestra.
Alcuni ragazzi erano usciti all'esterno per vedere i danni causati
dal temporale. C'era anche il professore di ginnastica.
Fu
allora, con calma e normalità, che Rebecca passò
davanti alla
finestra.
Non
ricordava di essersi mosso, ma era in piedi.
Quella
era Rebecca, non c'erano dubbi. Solo lei aveva i capelli rosa e solo
lei poteva essersi fatta degli chignons così perfetti. Solo
lei
aveva quegli occhi azzurro-argento.
All'inizio
era così sorpreso che non si accorse di nient'altro.
Poi,
man mano che Rebecca avanzava senza essersi accorta minimamente di
lui, notò che accanto a lei camminava Anna Zuz, la ragazza
dai ricci
sanguigni e gli occhi color prato con cui condivideva la stanza. Non
faceva che parlare, come sempre. Chris aveva già avuto modo
di
conoscerla – stavano nella stessa classe – e di
capire che era
meglio evitarla. Se ne stava sempre all'ultimo banco, da sola, a fare
commenti inopportuni e battute un po' stupide che tutti ignoravano.
Chiacchierava
in continuazione, praticamente da sola. Rebecca annuiva o scuoteva la
testa ogni tanto, come se facesse solo finta di ascoltarla.
Però la
seguiva.
Si
andarono a sedere in uno dei pochi tavoli da due che c'erano.
Da
dove era, Chris non poteva sentirle, ma vedeva le labbra di Anna
muoversi senza sosta. Rebecca restava in silenzio, come al solito, ma
sorrideva e rispondeva con qualche smorfia.
Di
nuovo, non si rese conto di essersi mosso finché non si
trovò a
pochi passi da loro.
«Becky?»
chiamò.
La
ragazza non si girò, non diede segno di averlo sentito, era
troppo
impegnata a seguire i discorsi di Anna.
Percorse
praticamente ci corsa i pochi passi che lo separavano dal tavolo.
«Rebecca?» disse di nuovo, con più
determinazione.
La
ragazza voltò la testa e incontrò il suo sguardo.
Per qualche
istante non fecero altro che guardarsi negli occhi. Chris si sorprese
della calma quasi indifferente che lesse in quelli dell'amica.
«È
un tuo amico?» chiese Anna portandosi dietro l'orecchio un
ricciolo
rosso scuro.
Rebecca
tornò a guardarla e annuì sorridendo leggermente.
Chris
rimase interdetto.
Quell'espressione
non apparteneva a Rebecca, ne era sicuro. Era tipico di lei stare
zitta e comunicare affidandosi alle espressioni del volto, ma non
così. Si teneva sempre in disparte, ma perché
nessuno venisse a
disturbarla, non perché non voleva essere notata, non era da
lei
farsi piccola sulla sedia. Non era da lei quello sguardo mesto al
posto delle sue solite occhiate.
Lei
non era timida. Non lo era mai stata in vita sua.
Chris
prese un sedia da un tavolo vicino e si sistemò accanto a
lei.
Continuava a fissarla, senza sapere cosa dire né cosa
pensare.
Guardò
Anna. «Era in camera stamattina?»
«Che
domande! Certo che era in camera, sempre davanti a quel computer.
È
stata un'impresa catturare la sua attenzione, ma alla fine ce l'ho
fatta. Ho capito. L'importante è non toccarla e non farle
domande
aperte.» Si rivolse direttamente a Rebecca.
«Avresti potuto dirmelo
subito, così saremmo andate d'accordo
dall’inizio.»
Rebecca
sorrise timidamente e annuì, poi tornò a
tamburellare con le dita
sul tavolo, altra abitudine che non aveva mai avuto.
Non
aveva nessun vassoio davanti a sé, né sembrava
intenzionata a
prenderne uno.
Neanche
Anna ce l'aveva, ma questa non era una novità, era sempre
troppo
impegnata a chiacchierare per mangiare, persino a pranzo. Chris si
chiese distrattamente come facesse a non morire di fame. Era magra,
ma non eccessivamente.
Tentò
di catturare lo sguardo di Rebecca, ma lei si ostinava a tenerlo
basso, come se non volesse essere guardata direttamente.
Chris
sollevò un sopracciglio. Allungò una mano verso
il suo braccio
quasi senza accorgersene e lei lo ritrasse all'istante.
Chris
rialzò gli occhi e questa volta la inchiodò con
lo sguardo.
Quella
non era Rebecca, ne era sicuro. Lei non rifiutava il contatto fisico,
erano gli altri a stare alla larga da lei – per diffidenza
soprattutto– non il contrario. Quell'espressione non era sua,
quella postura non era sua. Persino il fatto che sembrasse aver fatto
amicizia con una come Anna non era da lei.
Chris
allungò la mano di scatto, riuscendo ad afferrarle il
braccio.
Entrambi spostarono lo sguardo su quel contatto fisico, entrambi
stupiti, anche se per ragioni diverse.
Chris
non allentò la stretta, ma la saggiò. Era come se
la stesse tenendo
direttamente con le ossa, come se la propria carne fosse
inconsistente per la sua pelle. Come se dovesse arrivare in
profondità per poterla toccare davvero.
Nel
punto in cui lo stringeva, il braccio di lei era diventato
leggermente trasparente. Poteva vedere le proprie dita che vi
affondavano per un pezzo.
Sgranò
gli occhi tornando a guardarla. «Cosa sei?»
Lei
non rispose, ma nel suo sguardo si leggevano la confusione e il
panico.
Anna
rimaneva in silenzio, ad osservare la scena.
«Che
cosa sei?» chiese più forte, urlando sopra il
frastuono della
mensa. I ragazzi più vicini si voltarono a guardarli.
«Dov'è
Rebecca?»
Lei
– non sapeva neanche come definirla – scosse la
testa
nervosamente, l'espressione sconvolta, come a dire che non lo sapeva
e che non c'entrava niente.
Chris
scattò in piedi, trascinandola.
«Chris
adesso basta!» esclamò Anna riprendendo vita
all'improvviso. «Si
può sapere che ti prende? Noi stavamo tranquillamente
parlando, poi
boom, arrivi tu e la aggredisci. Ma che ti salta per
la testa?
Siamo in un luogo pubblico, non puoi fare come ti pare...»
Chris
la ignorò e spinse lei contro il muro.
«Chi
sei? Che cosa è successo a Rebecca?»
urlò con tutto il fiato che
aveva.
Tutti
nella mensa si zittirono e si voltarono a guardarlo, come se fosse
pazzo.
Anna
si alzò e circumnavigò il tavolo avvicinandosi.
«Chris, lasciala
andare! Subito.»
Non
seppe nemmeno lui perché lo fece.
Fu
un istinto innato, qualcosa che scattò dentro di lui.
Così come era
stato certo che la barriera intorno alla scuola lo
avrebbe
protetto, in quel momento era sicuro che quella ragazza magra e non
molto alta, con quei ricci rossi che sembravano viticci vivi e quegli
occhi verdi che parevano spiritati, fosse un pericolo, qualcosa da
cui avrebbe dovuto proteggersi.
Prima
ancora di averlo deciso e quantomeno pensato, strinse la presa sul
braccio della finta Rebecca e con la mano libera assestò un
pugno
sulla mandibola di Anna.
Non
sentì né l'impatto né nessun suono, ma
lei indietreggiò e dalla
gola le uscì uno strano verso acuto, più simile
ad uno stridio
metallico che a un grido di dolore. Si portò una mano sulla
mandibola, ma più per coprirsela che per altro.
Indietreggiò
lanciandogli delle occhiate piatte e spiritate allo stesso tempo.
Chris
non ebbe tempo di riflettere su quell'azione insensata. Strinse la
mano sulla finta Rebecca che stava tentando di divincolarsi e correre
via. La sbatté di nuovo contro il muro.
«Dov'è
Rebecca?» strillò, e non era più in
sé. Degli istinti più forti
avevano preso il sopravvento.
«Lasciami»
disse lei, con un tono neutro anche se molto flebile che mal si
accostava con la sua espressione.
«Dov'è?»
Dei
ragazzi si stavano alzando dai tavoli, dei professori si avvicinavano
e dei mormorii si diffusero velocemente.
«Stern»
lo chiamò il professore di ginnastica, ma lui lo
ignorò.
Sbatté
di nuovo la ragazza contro il muro, ma lei non sembrò
neanche
accorgersene, lo attraversò con la schiena e Chris
sentì sulle
proprie mani l'impatto con la parete.
«Stern,
che succede?»
Il
professore lo afferrò per le braccia trascinandolo indietro.
Chris
si divincolò, ma la presa dell'uomo era troppo salda.
Cominciò a
scalciare.
«Non
è lei!» urlò. «Non
è Rebecca!»
«Che
sta dicendo?» chiese qualcuno alle sue spalle.
Si
voltò e vide Ludovic a pochi passi di distanza, circondato
da dei
compagni di classe.
«Non
è Rebecca! È un'impostora! Non è
neanche umana.»
«Che
gli prende?» domandò un ragazzo facendo d'istinto
un passo
indietro.
«Io...»
Ludovic non sembrava confuso, solo indeciso su cosa dire.
«Deve
avergli detto qualcosa...»
«Ludovic, ma ci sei? Ha preso a
pugni l'aria.»
Ludovic
lo guardò con espressione forzatamente neutra.
«Ero girato»
farfugliò.
«Non
c'era nessuno a quel tavolo, si è alzato e ha strillato al
nulla.
Non c'è nulla lì.»
Chris
guardò davanti a sé, senza smettere di dimenarsi.
Rebecca, o chi
per lei, era ancora lì, la schiena contro il muro e lo
sguardo fisso
su di lui, agitata e incredula.
Non
poteva essere un'allucinazione, anche Ludovic l'aveva vista.
«Cosa
sei?» strillò di nuovo, anche se con meno rabbia.
Lei
aprì la bocca per parlare, ma se disse qualcosa, lui non la
sentì.
Lo avevano già trascinato fuori.
–
ʘ –
Lentamente,
cominciò a riprendere coscienza del proprio corpo.
Era
rannicchiata in posizione fetale su una superficie inconsistente.
Era
come galleggiare nell'acqua: c'era gravità, ma attutita, e
avvertiva
pressione da tutte le direzioni.
Rimase
immobile.
Ad
un certo punto si accorse che non stava respirando. Spaventata,
ispirò all'istante.
Non
sentì niente. Né odori, né
l’aria attraversarle le narici e poi
la gola, o i polmoni gonfiarsi – se non molto vagamente,
così
vagamente che avrebbe potuto essere un ricordo.
Si
portò una mano al petto, sul cuore. Non lo sentì
battere. Ma non
come se fosse fermo, come se fosse semplicemente troppo lontano per
poterlo sentire.
Tenne
gli occhi chiusi e chiamò all'appello tutti i muscoli del
proprio
corpo. Ogni cosa era al proprio posto, non sentiva dolore.
Il
suo cervello lavorava più velocemente man mano che si
svegliava del
tutto.
Era
una bella sensazione quella di essere sospesa nel vuoto.
Dietro
le sue palpebre chiuse regnava l'oscurità. Le
sollevò. E non vide
assolutamente nulla. Né il nero delle tenebre né
il bianco della
luce.
Era
semplicemente il nulla.
Non
vedeva neanche il proprio corpo.
Schioccò
le dita, ma non le giunse nessun suono. Né sentì
le proprie dita
sfiorarsi, anche se era consapevole che lo avessero fatto.
In
qualunque posto si trovasse – ammesso che il nulla potesse
definirsi “posto” – i sensi normali non
avevano nessun valore
lì, erano come spenti.
Chiuse
di nuovo gli occhi. Almeno, in questo modo, vedeva il nero.
Forse,
però, lì si sviluppavano altre percezioni. La
gente parla spesso di
un sesto senso, anche se lei non ci aveva mai creduto.
La
gente, però, diceva anche che quel sesto senso era legato al
cuore,
all'istinto e a volte ai sentimenti. No, non poteva essere il cuore.
L'istinto era legato ad una parte irrazionale del cervello e
così
anche i sentimenti.
Forse
era lì che doveva cercare, nel cervello.
Si
concentrò.
Per
molto tempo non sentì nulla, ma non si arrese. Non c'era
molto da
fare e lì le normali regole della fisica sembravano
inesistenti.
Sembrava che il tempo non potesse scorrere né fermarsi, ma
che
saltellasse sul posto. L'energia andava e veniva, ma non diminuiva.
Cosa
c'era intorno a lei?
Fu
la cosa più strana e allo stesso tempo più
naturale che avesse mai
fatto. Fu come far uscire il proprio cervello dal cranio e
permettergli di srotolarsi tutt'intorno.
Avvertì
una specie di gravità dentro di sé, in
corrispondenza del suo
cervelletto. La controllò e la mosse, così come
avrebbe chiuso una
mano a pugno dopo essersi ripresa da uno svenimento. Poi la
lasciò
espandere, così come avrebbe disteso le dita.
La
sentì irradiarsi in tutto il suo corpo, risvegliarne una
parte
dormiente e sepolta e infine risucchiarla.
Un
battito le risuonò nel petto così all'improvviso
che le fece quasi
male e la lasciò ansimante.
Impiegò
diversi minuti per riprendere il controllo. Ritrovò
quell'energia
pulsante, ma questa volta la lasciò lì dov'era.
Tornò
a concentrarsi.
Avvertiva
nell'aria l'elettricità statica e solo dopo diverso tempo si
rese
conto che proveniva da lei.
Si
re-impadronì del proprio cervello costringendolo a tornare
al
proprio posto e qualunque sensazione fuori dalla norma scomparve.
I
suoi sensi si riaccesero.
«È
qui» sentì dire ad una voce.
«Bene»
rispose cordialmente un'altra, molto più vicina.
Aprì
gli occhi di scatto, ma l'accecante luce azzurra la costrinse a
richiuderli.
«Ben
arrivata» disse la seconda voce. «Ci dispiace per
l'incidente di
Fuori.»
Non
sentiva ancora nessun odore, ma registrò un leggero ronzio
simile a
quello degli apparecchi elettrici. Era stesa su qualcosa di duro,
freddo e regolare, un pavimento.
Socchiuse
leggermente gli occhi.
«Dove
sono?» chiese, e subito si interruppe perché la
propria voce
suonava strana in confronto alle altre, un po' sibilanti.
«Sei
a Cartagine, capitale di Lyoko.»
|
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Capitolo 6 *** Conoscersi, o riconoscersi ***
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Metamorfosi
Cap6;
begin
write('Conoscersi,
o riconoscersi');
readln;
end.
Nessuno
dei ragazzi sapeva bene che fare e finirono per non fare proprio
niente.
Corsero
ognuno nella propria classe, o quasi.
Di
Chris girava voce che fosse stato portato in presidenza, altri
sostenevano che l'avessero chiuso in infermeria in attesa di un
medico, altri ancora, i più maligni, che fosse
già chiuso in un
manicomio.
Franz
era rimasto in camera fino a tardi. La testa aveva cominciato a
fargli male veramente, forse per il fatto di non essere riuscito a
dormire. Minuto dopo minuto il dolore si faceva sempre più
insopportabile. Non riusciva nemmeno a pensare lucidamente.
Verso
le otto e mezza allontanò le coperte con un movimento
scomposto e
scese dal letto. Si mosse così velocemente che fu assalito
da
potente senso di vertigine. Si portò una mano alla testa e
premette
forte le mani sulle tempie finché non passò.
Fece
degli affannosi respiri profondi e aprì lentamente gli
occhi. Era
caduto per terra. Probabilmente si era appena procurato qualche
livido, ma non gli importava.
Si
aggrappò al letto e si alzò in piedi con cautela.
Gli pulsavano le
orecchie e si sentiva poco stabile. Sorreggendosi alla parete con una
mano barcollò fino al bagno.
Cosa
diavolo avrebbe alleviato quel dannato mal di testa? Aprì
l'armadietto accanto allo specchio ma, a parte gli spazzolini e il
dentifricio che lui stesso vi aveva messo, lo trovò vuoto.
Si
sorresse al lavandino per riprendere fiato. Tutto quel movimento e
quella concentrazione su cosa doveva fare gli stavano costando uno
sforzo enorme.
Aprì
l'acqua, prima gelida e poi bollente, e per un po' non fece altro che
guardarla scorrere. Si sciacquò il viso, ma non
servì a nulla.
Percepì appena l'acqua sulla pelle.
Per
la prima volta alzò lo sguardo sullo specchio. Per qualche
istante
lo stupore gli fece dimenticare del mal di testa. I suoi occhi erano
sempre stati ambrati – cosa che lo aveva sempre lasciato
molto
perplesso visto che entrambi i suoi genitori li avevano azzurri,
proprio come Rebecca – ma mai così indubbiamente dorati
come
in quei giorni. Inclinò leggermente la testa in varie
angolazione
per poter studiare meglio le proprie iridi. Riflettevano la luce
proprio come se fossero state delle monete forate posate sulle
palpebre.
Chiuse
e riaprì gli occhi più volte, ma non
cambiò nulla.
Distolse
lo sguardo da quello del proprio riflesso e andò oltre. Si
portò
una mano alla guancia per assicurarsi che fosse reale, ma ebbe dei
dubbi anche sulla propria mano.
Si
avvicinò allo specchio per vedere meglio. Era come se la sua
pelle
stesse diventando trasparente rivelando ciò che c'era sotto.
Non si
vedevano però capillari o muscoli, ma solo uno strano
reticolo, come
se sotto l'epidermide vi fosse un'impalcatura fatta di piccolissimi
pannelli. Ce n'erano di bianchissimi, di grigi, color crema e dorati.
Erano
dappertutto, sul naso, sulle orecchie, sulle palpebre.
Cosa
diavolo gli stava succedendo? Si stava forse trasformando in un
alieno?
Una
specie di risata nervosa gli risalì la gola, ma prima che
potesse
aprire bocca gemette per un'altra fitta alla testa.
Si
aggrappò al lavandino per non cadere a terra. Quando la
fitta passò
rialzò lo sguardo. Non era cambiato nulla.
Tornò
al letto e vi si lasciò cadere pesantemente.
Affondò la testa nel
cuscino per soffocare un altro gemito.
Non
ne poteva più.
A
chi poteva chiedere aiuto? L'infermeria al piano di sotto gli
sembrava troppo lontana, irraggiungibile. E poi era sempre piena di
ragazze pettegole che andavano lì inventandosi malanni
inesistenti
solo per saltare le lezioni. Attirare l'attenzione e stare ancora
peggio non rientrava affatto nei suoi piani.
Rebecca.
Quanto avrebbe voluto che fosse lì. Lei aveva sofferto molto
di mal
di testa l'anno prima. Si ricordava bene di tutte le volte che aveva
chiamato casa per avere consigli dalla madre su cosa fare.
Sua
madre! Avrebbe potuto chiamarla anche lui.
Senza
sollevare la testa dal cuscino e muovendo solo gli occhi,
perlustrò
la camera cercando di ricordare doveva aveva messo il telefono in
modo da compiere il percorso più breve per arrivarci. Lo
individuò
sulla scrivania, ben in vista, e sospirò di sollievo.
Si
alzò, attese che le vertigini passassero e in poche, lunghe,
falcate
arrivò alla scrivania, riprese fiato, afferrò il
telefono, si voltò
e tornò al suo letto. Vi rimase steso per diversi minuti
prima di
riuscire a riprendere lucidità.
Premette
il tasto di chiamata rapida e portò il cellulare
all'orecchio.
Ascoltò gli squilli con insofferenza.
«Franz!»
esclamò Aelita dopo un tempo così lungo che il
ragazzo credette di
aver sentito la voce della segreteria telefonica.
«Mamma!»
ansimò con un fil di voce.
«Franz,
stai bene?»
«Io...
no. Mamma... ho mal di testa.»
Aelita
rimase in silenzio per qualche istante. «Mal di
testa?» ripeté
poi.
«Sì»
gemette Franz. «Come Rebecca l'anno scorso,
ricordi?»
«Sì.»
«Non
ne posso più» si lamentò.
«Non ne posso più!» Gli veniva da
piangere.
«Franz,»
riprese Aelita, ora confusa oltre che agitata. «Franz che
succede?»
«Non
lo so!»
«Dove
sei?»
«In
camera mia.»
«Dove
sono gli altri?»
«Non
lo so!» Si sforzò di pensarci. «In
classe credo.»
«E
tua sorella? Dov'è? Sta bene?»
Franz
sentiva di non poter rimanere lucido ancora a lungo. «Non lo
so!»
ripeté e sentì delle lacrime di frustrazione
inondargli gli occhi
serrati. «Voglio solo che smetta, voglio che
smetta.» Una parte di
lui era consapevole di starsi comportando come un bambino, ma ad
un'altra non importava.
«Il
mal di testa?»
«Sì!»
Fece dei respiri profondi.
«Avevo
dato a Rebecca delle pillole.»
Franz
si limitò a grugnire. «Fa male»
mormorò.
«Lo
so, lo so, sembra che ti debba esplodere la testa, sta' tranquillo,
stiamo arrivando.»
Franz
ebbe un momento di lucidità. Gli bastò per
rendersi conto che non
era come diceva sua madre. Non aveva l'impressione che la testa gli
stesse per scoppiare. Sembrava più di avere una animale che
vi si
muoveva dentro procurandogli fitte ora in punto ora in un altro.
Sua
madre stava ancora parlando al telefono. «Franz? Franz mi
senti?»
«Sì»
sussurrò.
«Come
stanno gli altri?»
«'ene»
abbozzò.
Il
dolore stava scemando. La sua testa si stava finalmente svuotando.
Strinse il telefono come se potesse aggrapparsi alla voce della
madre.
«'amma?»
«Sì?»
«Davvero
state venendo qui?»
«Sì
tesoro.»
Si
sentì invadere da un profondo senso di sonnolenza.
«Ho
sonno.»
«E
il mal di testa?»
«'n
so» mormorò prima di chiudere le palpebre.
–
ʘ –
Emma
continuò a disegnare sul banco, sovrappensiero, e quasi non
si
accorse della campanella che indicava che la prima ora era finita.
Anna
apparve sulla soglia, si fece largo tra i banchi passando davanti a
ragazzi troppo intenti a chiacchierare per accorgersi di lei e si
fermò accanto ad Emma.
«Posso
sedermi vicino a te?» chiese.
Emma
alzò lo sguardo dal proprio scarabocchio e annuì
senza particolare
interesse.
«Dove
sei stata?» chiese, giusto per non rimanere in silenzio come
aveva
fatto per tutta l'ora precedente.
«In
infermeria, sai, dopo che Chris mi ha sferrato quel pungo.» E
si
portò la mano alla mascella.
Emma
annuì. E poi, all'improvviso, le venne in mente quello che
era
successo nella mensa. «Aspetta un attimo!»
esclamò all'improvviso,
raddrizzandosi. «Tu l'hai vista!»
Anna
la guardò senza capire.
«Rebecca!
Tu l'hai vista!»
«Che
domande! Certo che l'ho vista, sono la sua compagna di stanza,
ricordi?»
«Appunto!
Tu l'hai vista, stamattina, a mensa, ci hai parlato.»
«Certo.»
«Quindi
Chris non se l'è immaginata. E nemmeno io!»
aggiunse rendendosi
conto di ciò che lei stessa aveva visto. Balzò in
piedi. «Dobbiamo
assolutamente dirlo alla preside!»
«Cosa
dovresti dire di preciso alla preside, Della Robbia?» chiese
la
professoressa di storia, appena entrata. «E tu e
chi?»
Emma
fu troppo sorpresa per rispondere. Guardò Anna che fece
spallucce.
La professoressa di storia seguì il suo sguardo, ma era
chiaro che
non vedeva niente lì dove c'era Anna.
Emma
sentì il cuore batterle forte. Stava avendo
un'allucinazione? Come
Chris? No, avevano visto entrambi la stessa cosa, non potevano avere
avuto la stessa allucinazione. E poi come faceva
Anna a non
essere reale? C'era dall'inizio dell'anno. Si era sempre seduta
dietro di lei. Certo, al banco era da sola, ma era normale visto che
erano di numero dispari. Diversamente, perché avrebbero
dovuto
tenersi un banco in più?
La
guardò.
Era
troppo perfettamente imperfetta per non essere reale.
Come
potevano i suoi ricci stretti come cavatappi e rossi come il sangue
essere finti? Come potevano i suoi tratti così definiti
essere
un'illusione? Come potevano i suoi occhi verdi ed espressivi non
esistere?
Cercò
qualcosa che le dicesse che non poteva essere vera.
Il
gatto che la perseguitava dalla prima lezione di ginnastica era viola
e sorrideva, ma Anna? Anna Zuz, la chiacchierona dell'ultimo banco
che si lamentava tutti i giorni che il suo nome veniva saltato
perché
era l'ultimo dell'appello.
Il
cuore le batteva forte.
Voltò
la testa e fissò di nuovo la professoressa, dritta negli
occhi. La
vide sussultare per un istante.
«Nessuno,
era un modo di dire» abbozzò.
La
professoressa sbuffò dal naso e si voltò, per
tornare alla
cattedra.
Emma
si risedette, continuando a studiare Anna.
«Oddio,
hai gli occhi lilla!» esclamò lei, nel silenzio
totale, eppure
nessuno si voltò a guardarla. «E sono proprio
lilla, non azzurri.»
Emma
non rispose.
–
ʘ –
Erano
tutti e sei seduti intorno ad un minuscolo tavolino rotondo. Non
avevano mai visto un motel più scadente.
«Io
non capisco dove sia il problema» insistette Odd.
«Noi entriamo
nella scuola e chiediamo dei nostri figli, cosa vuoi di più?
In
questo modo farai anche notare che Rebecca è
sparita.»
«Non
possiamo irrompere nella scuola» osservò Ulrich.
«Infatti
non stiamo irrompendo, ci stiamo solo presentando.»
«Io
sono d'accordo con Odd» affermò William.
«Tu cosa dici, Jeremy?
Infondo è Rebecca che sembra sparita.»
Jeremy
però era assente, fissava il vuoto davanti a sé,
inespressivo e
allo stesso tempo preoccupato. Odd gli sventolò una mando
davanti
agli occhi e lui sbatté le palpebre.
«Stavamo
dicendo...»
Ma
proprio in quel momento un cellulare cominciò a squillare.
Ulrich
si tastò prima i pantaloni, poi il giacchetto. Quando
finalmente
trovò il telefono fissò lo schermo e fece una
smorfia delusa.
«È
la scuola» osservò sollevando le sopracciglia.
«Che
aspetti a rispondere?» esclamò Yumi.
Ulrich
sbuffò e si portò il telefono
all’orecchio. «Pronto?»
«Buongiorno,
parlo con Ulrich Stern?»
«Sì»
confermò Ulrich. «Il padre di Chris»
aggiunse, per velocizzare la
conversazione.
«Sono
Lea, dalla segreteria scolastica. La contatto perché suo
figlio è
stato ripreso questa mattina per dei disordini a mensa. A causa delle
sue reazioni ai richiami abbiamo ritenuto necessaria la convocazione
dei genitori.»
«Che
tipo di disordini?»
«Vi
sarà spiegato tutto durante un colloquio con la preside. Vi
è
possibile raggiungere la scuola in breve tempo?»
«Posso
essere lì in un’ora» si
affrettò ad assicurare Ulrich. «Mio
figlio sta bene?»
«Io…
credo che sia meglio che vi sia spiegato tutto di persona.»
«Ma
sta bene?» insistette.
La
segretaria sembrava a disagio. «È stato sotto
osservazione per un
po’, ma sta bene.»
Ulrich
non riuscì a trattenere un’imprecazione.
«Signor
Stern?»
«Cos’altro
c’è?» sbottò.
«C’era
solo il suo recapito nella scheda di suo figlio Chris.
C’è una
madre da contattare?»
Ulrich
si irrigidì, ma sentiva addosso gli sguardi di tutti gli
altri
perciò si costrinse a mantenere un’espressione
neutra. «No»
disse solo.
«D’accordo.»
Per
qualche momento vi fu silenzio da entrambi i capi del telefono, poi
la segretaria salutò e riattaccò senza aggiungere
altro.
«Allora?»
chiese subito Odd, prima ancora che Ulrich avesse messo via il
cellulare.
«Sono
stato convocato, pare che Chris si sia messo nei guai.»
«Questa
sì che è una bella notizia!»
esclamò l'amico. «Vuol dire che ha
preso da te! O da me!»
«Significa
che ora abbiamo un buon motivo per presentarci a scuola»
sentenziò
Jeremy. «Muoviamoci» aggiunse alzandosi.
–
ʘ –
Ludovic
non resse che la prima ora di lezione.
Allo
squillo della campanella chiese di andare in bagno e non
rientrò.
Uscì in giardino accodandosi ad una terza che andava a fare
lezione
di ginnastica all'aperto e fece il giro della scuola. Si
arrampicò
su un muro e vi camminò per un po'.
Alzò
lo sguardo verso il cielo.
Non
c'era nemmeno una nuvola, faceva persino caldo, non c'era traccia
della tempesta di quella notte. Ispirò l'aria frizzante
della
mattina. Un brivido piacevole lo percorse risvegliando ogni singolo
muscolo.
Si
guardò intorno.
A
diversi metri dal muretto c'era un grosso albero nodoso. Percorse con
lo sguardo il tratto d'aria che li separava. Un salto sarebbe stato
troppo azzardato.
Flesse
le gambe e si spinse in avanti, verso l'alto. Il muretto parve
modellarsi come una molla sotto il suo peso e ne aumentò la
spinta.
Ludovic atterrò su un grosso ramo.
«Forte.»
Puntò
lo sguardo davanti a sé.
Corse
finché il ramo non si fece troppo sottile per sostenerlo e
balzò su
quello dell'albero accanto. Continuò a saltare da uno
all'altro,
salendo e scendendo, mantenendo un equilibrio perfetto, come in un
videogioco. Si fermò solo quando arrivò su un
albero
particolarmente vicino alle finestre di un'aula.
Si
assicurò di essere nascosto dalle foglie già
più marroni che verdi
e sbirciò dentro la stanza. Riconobbe l'altra seconda della
scuola.
Avanzò
di qualche passo sul ramo, saggiandone la resistenza ad ogni passo e
tese il collo il più possibile.
Rebecca
era lì. Seduta al secondo bando, nella fila di centro. La
sua solita
compagna di banco, però era seduta accanto ad un altro
ragazzo.
Nessuno
vedeva quella Rebecca, ne era sicuro, ma lei non sembrava
accorgersene.
Chi
era? Cosa era?
Ai
suoi occhi che quella non fosse la vera Becky era lampante.
Come
poteva attirare la sua attenzione? Lei poteva anche essere invisibile
agli altri, ma lui no.
Avvertì
uno spostamento d'aria e alzò lo sguardo.
Sgranò
gli occhi.
L'uccello
variopinto di era posato qualche ramo più in alto e puntava
lo
sguardo su di lui. Ludovic s'irrigidì, poi ebbe un'idea.
Stupida,
e forse inutile, ma pur sempre un'idea.
Si
alzò lentamente in piedi per essere più vicino
all'uccello che lo
fissava con intensità, vigile. Rimase immobile per qualche
secondo,
poi gli afferrò le zampe con un movimento così
repentino che quasi
non vide le sue stesse mani.
L'uccello
gridò e si divincolò.
Ludovic
lo lasciò andare all'istante. Aveva ottenuto ciò
che voleva.
Rebecca,
o chi per lei, si era voltato verso di lui.
Agitò
le braccia per essere sicuro di farsi notare.
Rebecca
rispose con un incerto cenno della mano.
Ludovic
le fece segno di avvicinarsi.
Lei
si guardò intorno, poi si alzò e si
avvicinò alla finestra aperta
sporgendosi leggermente in avanti.
«Vieni!»
soffiò Ludovic, timoroso di farsi sentire dagli latri
ragazzi dentro
la classe.
La
ragazza granò gli occhi.
«Dai!»
la incitò.
Lei
fece un passo indietro, poi si sedette sul davanzale e portò
le
gambe verso l'esterno e si lasciò cadere.
Ludovic
credette che fosse impazzita, poi si ricordò che quella non
era
Rebecca, che probabilmente non era neanche umana. Saltò da
un ramo
all'altro fino ad arrivare a terra a propria volta.
Ora
che era faccia a faccia con lei non sapeva cosa fare. Che fosse
identica a Rebecca lo aveva già notato a colazione e se ne
era già
stupito.
«Ciao»
fu tutto ciò che trovò da dire.
Lei
abbozzò un sorriso.
«Come
ti chiami?»
Lei
sollevò un po' le spalle.
«Rebecca?»
Lei
si limitò a guardarlo confusa.
«Non
puoi parlare?» chiese spazientito.
Lei
scosse la testa e lui alzò gli occhi al cielo.
«Da
dove vieni?» provò.
Lei
si voltò a guardare la scuola e indicò una
finestra.
Ludovic
si chiese cosa fosse. «Portamici» le
ordinò.
Lei
si incamminò senza aspettare che la seguisse e
rientrò
nell'edificio del Kadic.
Evitarono
di farsi vedere dai bidelli e salirono le scale. Imboccarono il
corridoio del dormitorio femminili e si fermarono davanti ad una
delle camere.
Ludovic
lesse il nome sulla targhetta.
Belpois
– Zuz
«Fantastico!
Ed è la tua stanza?»
Lei
annuì.
«Da
quando?»
Fece
roteare la mano verso dietro.
«Ieri?»
Lei
annuì.
«Ieri
sera?»
Lei
scosse la testa e ripeté il gesto.
«Prima
di ieri sera, dal pomeriggio?»
Lei
annuì.
«Hai
preso il posto Rebecca ieri pomeriggio?»
Annuì.
«Perché?»
Dischiuse
leggermente le labbra e si indicò la bocca.
«Te
l'hanno detto?»
Annuì.
«Chi?»
Indicò
il nome Belpois sulla porta.
Ludovic
sgranò di nuovo gli occhi.
«Rebecca
ti ha detto si sostituirla ieri pomeriggio?>
Lei
annuì, felice di essersi fatta comprendere.
Ludovic
non riusciva a crederci. Perché mai Rebecca avrebbe dovuto
chiede a
chiunque, e per di più a una ragazza invisibile, di
sostituirla?
E
poi un'idea gli attraversò la mente come un fulmine a ciel
sereno
che per un attimo gli illuminò i pensieri e poi li
lasciò nel buio
per diversi secondi.
Fissò
la ragazza che aveva davanti.
No.
Non poteva essere. Eppure non vedeva come potesse essere
diversamente. Non vedeva cos'altro potesse esserci di più
logico.
«Sei...
un programma?» chiese, e dirlo ad alta voce lo fece sembrare
ancora
più stupido. «Sei una specie di ologramma? Quello
che la sostituiva
quando doveva uscire dalla camera indisturbata?»
Lei
annuì.
Ludovic
stentava ancora a crederci. Insomma, un conto era che Rebecca, che
sapeva bene essere un genio, avesse creato un ologramma che rimanesse
fermo sul suo letto quando lei non c'era, un altro era che
l'ologramma in questione se ne andasse in giro per la scuola e
interagisse con gli altri.
Cercò
di mettere ordine alle idee. Il giorno prima Rebecca era uscita dalla
sua camera di pomeriggio lasciando un programma al suo posto, poi era
arrivata nella fabbrica abbandonata in cui erano andati Franz e Chris
e sulla strada del ritorno era stata rapita da qualche strano essere.
Era
tutto molto più assurdo che logico.
Si
diede del matto.
Si
era creduto pazzo anche l'anno prima, però, quando credeva
di essere
l'unico a vedere quegli strani animali, e non era così.
Anche gli
altri li vedevano. Anche Chris aveva visto questa Rebecca e aveva
capito che non era lei.
Il
resto della scuola però aveva creduto che se la stesse
prendendo con
il vuoto.
Quindi
gli altri studenti non erano mai riusciti a vederla. Quella che
Rebecca aveva creduto una valida copertura per tutto l'anno poteva in
realtà funzionare solo sui suoi amici?
«Mi
gira la testa» affermò.
«Vieni.»
Si
diresse per istinto verso le scale e cominciò a salirle per
arrivare
all'ultimo piano. Lì avrebbe potuto ragionare in santa pace.
Per
qualche motivo quando era lì, al sicuro dagli animali
invisibili,
che una parte della sua mente si svuotava. Era una sensazione
piacevole e un po' strana a dire il vero.
Aveva
capito che quegli esseri non potevano arrivare lì per caso,
quando
l'anno scorso il granchio verde lo aveva rincorso per tre rampe di
scale e poi si era fermato all'improvviso, come ostacolato da una
barriera.
Salì
i gradini velocemente, senza fermarsi neanche una volta. Si
voltò
solo quando fu arrivato in cima.
La
non-Rebecca era ferma a metà della rampa.
«Dai,
vieni!» la incitò.
Lei
scosse la testa. Alzò la mano e stese le dita come se
fossero
appoggiate contro un vetro invisibile.
Ludovic
scese i primi gradini fino a trovarsi davanti a lei. Alzò a
propria
volta le mani, ma non sentì nulla se non un leggero
formicolio.
«Non
puoi avanzare?»
Lei
scosse la testa.
Evidentemente
seguiva le stesse regole di quegli esseri. Infondo erano tutti
programmi. Possibile che Rebecca fosse riuscita a ricreare la loro
tecnologia senza accorgersene?
–
ʘ –
Batté
più volte le palpebre per riuscire a mettere a fuoco. Le
girava la
testa, ma in maniera quasi piacevole.
«Cartagine?»
ripeté, ma tutto ciò che le venne in mente furono
le guerre puniche
di Roma e la regina Didone dell'Eneide.
Si
mise a sedere, poi voltò la testa nella direzione da cui era
venuta
la voce. Sussultò e granò gli occhi.
Davanti
a lei c'era l'essere più bello e più inquietante
che avesse mai
visto.
Aveva
una forma umanoide, ma nessun tratto somatico. Il suo corpo era
trasparente, un involucro vuoto e lucido sulla cui superficie erano
incavate ovunque lettere, numeri e simboli sconosciuti, simili a
tatuaggi. Gli stessi che vedeva al posto dei mostriciattoli, a
scuola, solo che questa volta avevano un ordine e, in qualche modo,
un senso.
Erano
un codice. L'intuito le diceva che ognuno di quegli esseri ne aveva
uno differente, come un corredo genetico.
Confusa,
turbata e affascinata, si guardò intorno.
L'ambiente
in cui si trovava sembrava la sala operatoria di un ospedale:
asettica e in qualche modo perfetta, anche se vuota.
La
tavola argentata su cui era stesa – perfettamente
orizzontale,
senza spessore, e sospesa nel vuoto – era al centro di una
stanza
quadrata interamente azzurra. Pavimento e soffitto erano
così lucidi
che potevano benissimo passare per specchi. Le pareti, si rese conto,
non erano altro che schermi.
Alla
sua destra una linea continua sembrava monitorare un battito
cardiaco. Si portò una mano al petto. Non c'erano ventose
né nessun
altro tipo di sensori. Eppure il suo cuore batteva allo stesso ritmo
della linea sulla parete.
Alla
sua destra, invece, delle linee colorate indicavano la sua
attività
cerebrale. O almeno così credeva.
Tornò
a guardare le creature.
«Dove
sono?» chiese, incerta. Per qualche motivo le sue parole le
suonarono strane, come falsate.
«Sei
a Cartagine» ripeté la creatura trasparente.
«Capitale di Lyoko.»
«Cos'è
Lyoko?»
«Il
nostro mondo.»
In
un altro momento una risposta del genere le avrebbe dato sui nervi.
«Chi
siete?»
«I
nostri nomi sono codici, troppo lunghi e complessi da pronunciare in
questa lingua.»
All'improvviso
si rese conto che non era la sua voce a suonarle strana, ma quella
della creatura che aveva davanti. Era priva di imperfezioni, cadenze,
accenti scorretti, tono. Di tutto ciò che l'avrebbe resa
umana.
«Abbiamo
assorbito dalla tua mente la tua lingua, in modo da poter
comunicare.»
Si
portò d'istinto una mano alla testa, sembrava quella di
sempre.
Alzò
lo sguardo per potersi specchiare sul soffitto. Qualcosa era
cambiato. I suoi tratti si erano distesi, la sua pelle era liscia e
priva di imperfezioni. Si rese conto di indossare un vestitino
verdeacqua, piuttosto corto e smanicato, una specie di versione alla
moda di un camice da ospedale.
«I
vestiti non ti hanno potuta seguire durante il passaggio.»
«Passaggio?»
ripeté.
Si
sentiva ancora confusa. La sua mente lavorava in fretta, persino
più
in fretta del solito, ma era come uno strumento nuovo che deve ancora
riscaldarsi.
Si
rese conto che, escludendo le piccole rotazioni del collo e lo
spostamento dello sguardo, non si era ancora mossa. Si
sollevò
lentamente, mettendosi a sedere. Il suo corpo rispondeva alla
perfezione, si sentiva persino più elastica e libera nei
movimenti
del solito.
«Tra
il tuo mondo e il nostro» rispose intanto la creatura.
Aspettò
che continuasse, ma non lo fece. Evidentemente bisognava fare domande
precise.
«Quanto
tempo è passato da quando... mi avete presa?»
«Circa
dodici delle vostre ore.»
«Circa?»
ripeté, sorpresa da una risposta così imprecisa.
«Qui
misuriamo il tempo in maniera molto diversa e di gran lunga
più
accurata, ma dandogli meno importanza.»
«Dove
sono, di preciso?» era consapevole del fatto che le sue
domande
erano sconnesse, ma poneva quelle che le venivano in mente senza
rifletterci troppo e le creature non ne sembravano affatto
disturbate.
«In
uno del blocchi di Cartagine. Credo però, che il termine
più adatto
nella tua lingua sia “un palazzo del
centro”.»
«Cartagine
è una città?»
«Così
si può definire nella tua lingua.»
Rebecca
gli scoccò un'occhiataccia per l'ennesima risposta breve, ma
la sua
espressione non fu interpretata in alcun modo. Infondo quelle
creature sembravano non avere lineamenti, quindi probabilmente non
conoscevano il valore delle espressioni.
Doveva
cambiare tattica.
Poggiò
i piedi a terra. Si aspettava che il pavimento fosse freddo, ma la
superficie riflettente non aveva temperatura. Nulla lì aveva
temperatura probabilmente.
Si
mise in posizione eretta. Sentì la colonna vertebrale
distendersi,
vertebra per vertebra, come se fosse in acqua. Non avvertiva,
però,
il proprio peso gravare sulle ossa.
«Mostrami
Cartagine» ordinò, ma facendolo suonare come un
invito «e parlami
di ciò che siete e da dove venite».
La
figura si spostò di lato, fece un cenno rapidissimo a quella
che era
rimasta alle sue spalle e posò una mano sulla parete. Gli
schermi
che monitoravano battito, attività cerebrale e altro che non
era
riuscita ad identificare, scomparvero all'istante.
Difronte
a lei una porzione della parete si sollevò in pochi istanti.
Seguì
la figura fuori.
«Lyoko
è un mondo digitale creato molti anni fa.»
«Quanto
di preciso?» chiese, di nuovo disturbata dall'inesattezza
dell'informazione.
«Non
possiamo dirlo di preciso. Noi siamo comparsi in seguito. Occupiamo
Cartagine solo da quindici dei vostri anni.»
«Per
mondo digitale intendi un programma? Un computer?»
«Entrambi.
E nessuno dei due.»
«Parlami
di Lyoko.»
–
ʘ –
Ulrich
entrò per primo, seguito, a distanza di diversi passi, dagli
altri.
Una
bidella venne loro incontro.
Ulrich
si presentò con tutta la calma che riuscì a
trovare, ovvero molto
poca.
«La
preside ve sta aspettando» confermò la donna, poi
si rivolse agli
altri «Voi...»
«Potremmo
fare un giro della scuola, almeno all'esterno?» chiese subito
Aelita, come stabilito. «Siamo ex-studenti, ci piacerebbe
dare
un'occhiata.»
La
donna annuì con noncuranza e spiegò a Ulrich come
raggiungere la
presidenza. Lui non la ascoltò nemmeno. Ricordava fin troppo
bene la
strada.
Si
voltò un'ultima volta verso gli altri. Odd
sollevò un pollice nella
sua direzione prima di uscire.
Ulrich
salì le scale cercando di svuotare la mente. Si
fermò solo quando
sentì una voce familiare venire dall'alto.
Riprese
a salire, questa volta più velocemente, superò
dei cartelli di
lavori in corso e arrivò sull’ultimo pianerottolo,
ad una rampa di
scale dall’ultimo piano.
Ludovic,
il figlio di Yumi, stava fissando un punto davanti a sé,
come se ci
fosse qualcuno.
«Ludo!»
esclamò.
Il
ragazzo sobbalzò e si voltò con il cuore in gola.
«Ulrich?»
esclamò incredulo lanciando uno strano sguardo al vuoto
accanto a sé
mentre scendeva le scale. «Che ci fai qui?»
sembrava più
preoccupato che felice di vederlo.
«Sono
stato convocato» spiegò. «Pare che Chis
si sia messo nei guai.»
«Lui...»
Ludovic non sapeva esattamente che dire «non ha fatto nulla
di male,
era solo scosso». Lo sguardo del ragazzo continuava a
spostarsi alla
sua destra.
Ulrich
inclinò la testa per cercare di capire cosa guardasse, ma
non vide
nulla.
«Devo
andare, ci sono anche gli altri, magari incontri i tuoi
genitori»
disse facendo per andarsene. «Ma tu non dovresti essere in
classe?»
notò all'improvviso.
«Ora
di buco» rispose Ludovic ed era chiaro che fosse una scusa.
Ulrich
abbozzò un sorriso, poi tornò sui propri passi,
più confuso di
prima.
Cosa
diavolo aveva Ludovic?
–
ʘ –
«Io
propongo di separarsi» disse Jeremy.
«Così potremo scoprire di
più.»
Gli
altri annuirono.
«Io
entro nella scuola» affermò Aelita.
«Devo trovare Franz,
specialmente se sta ancora male.»
Jeremy
annuì. «Vengo con te.»
«Noi
perlustreremo l'esterno» si offrì Yumi guardando
William che annuì.
«No,
all'esterno penserà Odd, voi dovete andare alla fabbrica,
non ne
sono sicuro e spero di sbagliarmi, ma temo che c'entri
qualcosa.»
William
e Yumi annuirono e corsero subito via, seguiti da Odd.
Jeremy
e Aelita si scambiarono un rapido sguardo, poi ripresero a camminare
finché non trovarono una finestra aperta che desse su un
locale
vuoto. Entrarono muovendosi con disinvoltura. Si ritrovarono in
un'aula vuota, probabilmente un laboratorio mai usato. Forzarono la
porta e sbucarono in un corridoio che portava direttamente a delle
scale di servizio. Le salirono in silenzio, fermandosi solo nei
pianerottoli per lanciare sguardi all'esterno attraverso le finestre.
Jeremy
ritrovò facilmente il corridoio del dormitorio maschile.
Faceva un
certo effetto tornare a girare nel Kadic, ma quello non era il
momento di soffermarsi su questo.
Si
separarono e lessero i nomi su tutte le porte fino a trovare Belpois
– Stern.
Aelita
bussò, ma non ottenne nessuna risposta. Jeremy si
tastò le tasche
fino a trovare un passepartout e lo usò per aprire.
Aelita
sollevò un sopracciglio, ma non fece domande. Si
fiondò dentro
appena le fu possibile.
Franz
era steso sul letto in una posizione scomposta, come se fosse svenuto
invece che essersi addormentato. Il cellulare era ancora sul cuscino.
Il
respiro era regolare.
Aelita
si sedette sul bordo del letto e appoggiò le mani sulle
spalle del
figlio. Jeremy era alle sue spalle, guardingo.
«Franz?
Franz?» chiamò Aelita cominciando a scuotere
leggermente il figlio.
Il
ragazzo reagì solo dopo diversi minuti. Mugolò
qualcosa di
incomprensibile, poi smise di muoversi.
Spalancò
gli occhi all'improvviso, scattando a sedere nello stesso istante,
chiaramente spaventato. Fissò i genitori confuso, ansimando.
«Mamma!»
esclamò poi. «Papà!»
Aelita
lo abbracciò di slancio, stringendolo a sé e
affondando il viso nei
suoi capelli. «Mi hai fatto morire di paura!»
Franz
non rispose, ma era chiaro che la pensava allo stesso modo. Si
raddrizzò e anche Jeremy si sedette accanto a lui.
«Cos'era
questa storia del mal di testa? Ora stai bene?»
«Credo
di sì.» Si portò le mani alle tempie.
«Sì.» Si stropicciò gli
occhi, ancora non del tutto sveglio. «Per ora.»
–
ʘ –
La
vide appena imboccò il corridoio.
Se
ne stava accanto alla porta della presidenza, la schiena appoggiata
alla parete, lo sguardo concentrato e vuoto allo stesso tempo fisso
davanti a sé.
Chissà
sotto l'effetto di quali farmaci era.
I
capelli scuri erano sciolti e le ricadevano lisci in avanti, coprendo
parte del volto. Teneva le braccia incrociate sul petto, le mani
nascoste. Portava una maglietta a maniche lunghe, aderente ma
morbida, dello stesso pallido beige della carnagione. La scollatura a
barchetta lasciava scoperti il collo, le clavicole e parte delle
spalle. Le gambe erano fasciate da un paio di jeans neri e stivali
lucidi. La sinistra era piegata e il piede appoggiata alla parete.
Non
sembrava essere lì in veste di preside.
Ulrich
continuò ad avanzare tentando di concentrarsi solo sui
propri passi.
Come l'avrebbe trovata? Imbottita di psicofarmaci e poco presente? O
fin troppo lucida?
Scherzando
l'avevano sempre ritenuta un po' svitata, ma non così tanto.
Nessuno
sapeva com'era possibile che da un giorno all'altro fosse impazzita,
perché era quello che era successo, non si poteva negarlo.
Gli
psicologi avevano ripetuto costantemente che la causa era stato il
trauma per l’improvvisa perdita del padre, avvenuta poco
più di
dieci anni prima, ma Ulrich aveva sempre pensato che il motivo
dovesse essere un altro.
E
se ora si fosse ripresa? Se fosse tornata quella di una volta?
Ulrich
sperò solo che Chris non ci andasse di mezzo più
del dovuto.
Elisabeth
voltò la testa all'improvviso, sentendo i suoi passi.
Ci
fu una specie di flash e immediatamente qualcosa – nella sua
postura, o nel suo sguardo – cambiò. Si
staccò dal muro e si mise
in posizione perfettamente eretta, quasi schematica.
I capelli
neri che le nascondevano metà del viso furono gettati
all'indietro.
Le
labbra di uno sgargiante rosso acceso si stesero in quello che
sembrava più un sorriso di sfida che di benvenuto.
Spiccavano in
maniera impressionante considerando che il resto di lei sembrava
uscito da una foto in bianco e nero.
«Finalmente
ci incontriamo» lo salutò e allungò la
mano destra. Anche le
unghie erano rosse e sembravano artigli.
Ulrich
la strinse con cautela.
«Chris?»
chiese subito.
«È
dentro.»
Elisabeth
si voltò per aprire la porta della presidenza, poi si fece
da parte
per lasciarlo passare. Con gli stivali era alta quanto lui.
Pronto
com'era a trovarsi davanti una stanza per nulla cambiata negli ultimi
vent'anni, Ulrich all'inizio si trovò spiazzato. Era molto
più
piccola di quanto ricordasse e praticamente vuota.
Chris,
che se ne stava seduto su una delle sedie davanti alla scrivania,
balzò immediatamente in piedi.
«Papà!» esultò.
Ulrich
gli sorrise, ma non si sbilanciò oltre. Infondo era
lì per
discutere del comportamento indisciplinato del ragazzo.
«Prego»
disse Elisabeth facendogli un cenno verso la sedia accanto a quella
del figlio e andando a posizionarsi dalla parte opposta della
scrivania.
Ulrich
non se lo fece ripetere due volte. Mentre si muoveva non
staccò li
sguardo dal figlio. Era chiaro che stava cercando un modo per dirgli
qualcosa all'insaputa della preside.
«Allora,»
esordì Elisabeth ignorando completamente le loro occhiate e
rivolgendosi a Ulrich «sapete già
perché siete stato convocato.»
Ulrich
si riscosse e decise di comportarsi esattamente come lei, come se non
si conoscessero. «Temo che le spiegazione che ho ricevuto
siano
stato poco vaghe.»
Lei
lo guardò a lungo, come se volesse incolparlo del tempo che
stava
per perdere solo per spiegare di nuovo gli avvenimenti. Poi
sbatté
le palpebre sfoderò un sorriso misurato e si rivolse a
Chris.
«Perché non ce ne parli tu, così
potremo avere direttamente la tua
versione.»
Chris
rimase evidentemente spiazzato. Aprì la bocca, ma per
qualche
istante non ne uscirono che suoni sconnessi. «Io... stavo
facendo
colazione. Da solo. Perché Franz non si sentiva
bene» fece una
pausa e guardò il padre.
Ulrich
annuì una sola volta sperando che il ragazzo capisse che
sapeva già
di Franz e non lo stava semplicemente esortando a continuare.
«Ho
visto Rebecca... Rebecca Belpois» aggiunse rivolto alla
preside
«seduta ad un altro tavolo. Stava chiacchierando con la sua
compagna
di stanza. Io non la vedevo da ieri sera, prima del
temporale,»
altra occhiata ad Ulrich che si limitò a mostrarsi
interessato
«avevo una cosa importante da dirle e mi sono
avvicinato».
«Cosa
di preciso, se si può sapere?» domandò
subito Elisabeth.
Chris
indugiò solo un secondo. «Che il fratello stava
male e forse lei
sapeva cosa fare.» Sembrava una battuta da copione imparata a
memoria e recitata male.
Ulrich
vide Chris chiudere le mani a pugni.
«E
perché mai non avrebbe potuto rivolgersi
all'infermeria?» osservò
la preside.
«Perché...
era solo un mal di testa. Un mal di testa molto forte, ma...
è una
cosa di famiglia, lui... ricordava che anche Rebecca ne aveva
sofferto l'anno scorso» abbozzò. «Era
forte, non grave» aggiunse
vedendo che i due adulti rimanevano in silenzio.
«Va'
avanti» lo incitò Ulrich.
«Mi
sono seduto al tavolo e ho provato a parlarle, ma lei non mi ha
risposto. Non sembrava neanche conoscermi.»
Sottolineò l'ultima
frase e fissò intensamente il padre. «Era strana,
si comportava
come se non fosse più lei.» Sembrava essersi
momentaneamente
dimenticato della preside. «Infatti non era lei. Anna l'ho
colpita
solo per sbaglio, volevo solo sapere dov'è Rebecca, non so
cosa mi
sia preso. Era tutto così irreale! Come
se fossimo ancora...»
e qui s'interruppe.
Ulrich
si sentì come se la tv si fosse spenta sul più
bello di un film.
Spostarono
entrambi lo sguardo sulla preside. Lei si limitò a spostare
lo
sguardo da uno all'altro.
«Qual'è
la vostra versione invece?» chiese Ulrich.
Elisabeth
abbassò lo sguardo sui fogli che teneva sulla scrivania, poi
incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo
schienale della
sedia. «Semplicemente che quella di vostro figlio non
sussiste.»
Ulrich
non seppe cosa ribattere, ma non ve ne fu bisogno.
«Ci
risulta che Rebecca Belpois non sia più nella scuola da ieri
notte e
stamattina risulta assente a tutte le lezioni, mi sembra improbabile
che fosse a mensa.»
«Non
era lei infatti!» esclamò Chris con slancio.
Elisabeth
lo fulminò con lo sguardo e lui tacque.
«Nessuno
l'ha vista. Ciò che ha attirato l'attenzione di tutti
è stato un
ragazzo del primo anno che ha cominciato a parlare al vuoto e dare
pugni alla parete prima che un professore intervenisse e lo portasse
qui.»
«Nessuno
l'ha vista?» ripeté Chris incredulo.
«Era con la sua compagna di
stanza, Anna Zuz, non hanno visto nemmeno lei.»
Elisabeth
si lasciò sfuggire un sorriso. «Sei sicuro di
quello che dici?»
Chris
aprì la bocca per rispondere subito, ma poi il suo sguardo
si
abbassò all'improvviso sulla scrivania, spalancò
gli occhi e disse,
con molta incertezza: «Assolutamente».
«Allora
sarà il caso che tu sappia che alla fine dell'anno scorso
Rebecca
Belpois ha chiesto esplicitamente e formalmente di non dover
più
dividere la stanza con qualcun altro e la sua richiesta è
stata
accolta. Inoltre non risulta nessuna Anna Zuz iscritta a questa
scuola.»
–
ʘ –
Rebecca
continuò a salire le scale dietro a quella strana creatura.
Tutte le
volte che le aveva chiesto il nome le era stato risposto che nella
sua lingua era troppo difficile da pronunciare. Sembrava
l'identità
più importante in quella
“città”, Cartagine,
perciò
l'aveva mentalmente soprannominata Didone.
Si
era presto resa conto che quel posto, ovunque si trovasse, non
seguiva leggi fisiche come le aveva sempre conosciute. L'alto e basso
dipendevano solo da dove teneva i piedi, un paio di volte aveva
incontrato esseri che camminavano a testa in giù o in
orizzontale,
muovendosi su quelli che per lei erano soffitto e pareti.
Aveva
lasciato che Dido le raccontasse la storia di Lyoko, per quanto
incredibile fosse. C'erano ancora degli inspiegabili vuoti, ma
Rebecca si guardava bene dall'interrompere il racconto.
Aveva
capito che esistevano altri quattro luoghi all'interno di Lyoko: la
foresta, la banchisa, il deserto, la montagna. Le creature come Dido
abitavano delle specie di città-torri.
Rebecca
non capiva come potessero arrivarci se non erano fisicamente
collegati, ma forse non era il momento di avere questa risposta.
«Ancora
non capisco» affermò ad un certo punto, fermandosi
e sedendosi a
terra. La stanchezza che provava era molto diversa da quella a cui
era abituata. Si ripercuoteva sul suo corpo, ma era puramente
mentale. «Voi che cosa c'entrate con virus virtuali e
guerrieri
digitali?»
«Noi
siamo venuti dopo, quando questo posto è stato abbandonato,
lasciato
a se stesso, ma non distrutto. Come già aveva cominciato a
fare in
precedenza, ha preso vita propria. Non è il concetto di
“vita”
che si intende nella tua lingua, ma gli si avvicina molto.»
Rebecca
appoggiò la schiena alla parete e allungò le
gambe. Gettò indietro
la testa. Sentì il proprio baricentro spostarsi. Ora era
distesa su
quello che prima era un muro verticale e le gambe erano stese verso
l'alto, su quello che prima era il pavimento.
Dido
era orizzontare rispetto a lei.
Cercò
di non farsi distrarre.
«Siete
delle forme di vita digitale? Nate dal nulla?»
«Solo
se definisci “nulla” l'intero Lyoko.»
Rebecca
sollevò le sopracciglia. «È tutto
così assurdo» esclamò.
«E
la tua mente è abbastanza elastica da comprenderlo e
accettarlo, ce
ne siamo assicurati dopo il tuo arrivo» replicò
con la massima
tranquillità Dido. «Hai un'innata
familiarità, per non dire
compatibilità, con questo
mondo.» Il modo di esprimersi di
Dido si era ampliato mentre parlava.
Rebecca
sollevò la testa. Il suo baricentro si spostò di
nuovo e tornò
come all'inizio.
«Siamo
quasi arrivati» annunciò Dido voltandosi.
Rebecca
si alzò in piedi e la seguì.
Il
corridoio dalla sezione quadrata che attraversavano si curvò
fino a
divenire verticale. Le scale erano ripide se usate per salire, ma
anche in rapida discesa se si continuava a camminare senza prestare
attenzione al cambio di angolazione.
Arrivarono
in una specie di terrazza quadrata.
Lì
la luce era fortissima. Rebecca si voltò verso la fonte. Non
sentiva
il bisogno di chiudere gli occhi, ma le servì comunque
qualche
istante per abituarsi.
Per
un po' non vide altro che una distesa di piattaforme quadrate e
azzurre, come quelle in cui si trovavano, poi riuscì ad
individuare,
all'orizzonte un'enorme sfera pulsante. O almeno così
sembrava.
«Cos'è
quella?»
«La
nostra fonte di energia. Un po' come il vostro Sole, ma molto
più
complessa. Ci permette di ricaricarci e continuare a funzionare. Noi
ci impegniamo affinché sia costantemente alimentata. Ognuno
di noi è
programmato per assolvere ad un compito preciso. Ecco, forse, come
puoi definirci: siamo programmi. Di una struttura molto più
complessa di quella che conosci, ma programmi.»
«Nessun
programma può agire autonomamente.»
«Non
lo facciamo. Ci limitiamo a seguire degli schemi di comportamento.
Diversi per ognuno di noi ed estremamente articolati e complessi, ma
schemi. La vita sta nella consapevolezza di questi
schemi.»
«Questa
consapevolezza può portare alla loro rottura?»
chiese Rebecca. «Nel
momento in cui l'uomo, o chi per lui, si accorge di quali sono i
propri limiti tenta di superarli, è la natura.»
«Lo
abbiamo fatto, o almeno stiamo cercando di farlo, ma in maniera
diversa da come lo intendi. In questo mondo non possiamo uscire dai
nostri schemi perché rappresentano la nostra ragione di
vita. Siamo
consapevoli che se smettessimo di seguirli arriveremo a distruggerci.
Sono ordini ai quali non possiamo e non vogliamo
disobbedire.
Sono continui, non hanno un punto di arrivo, come quelli che regolano
i vostri computer, composti da cicli che si ripetono.»
«Ma?»
la spronò Rebecca.
«Ma
non abbiamo ordini a cui ubbidire al di fuori di Lyoko.»
La
ragazza rimase in silenzio per diversi istanti, nonostante avesse
capito quasi subito dove quel discorso andava a parare.
«State
tentando i uscirne. State cercando di andare nel mio mondo. Ci site
già riusciti. Mi avete rapita.»
E finalmente pose la domanda
che da ore le attraversava la mente senza riuscire a prendere forma
definita: «Perché?»
«Non
è come sembra. È vero, abbiamo trovato un modo
per uscire, ma non
per rimanere nel tuo mondo. Senza nulla ad alimentarci le nostre
energie si esauriscono e siamo costretti a tornare.»
«E
voi programmi una volta all'esterno riuscite ad acquistare una forma
corporea?»
«Eravamo
convinti di no fino a poco tempo fa. Ci è capitato di
incontrare
qualche umano, ma nessuno è mai sembrato vederci,
né tanto meno
sentirci. Ci attraversavano senza accorgersene. La nostra forma
è
sempre stata incompleta, inadatta ai vostri habitat. Tu e i tuoi
amici, invece, avete avvertito la nostra presenza, sentito le nostre
voci. Abbiamo potuto toccarci. Non era mai successo, per questo dico
che hai un'innata compatibilità con questo mondo.»
«Ma
perché dovrei averla?» ma mentre formulava questa
nuova domanda le
risposta le venne in mente, chiara, anche se non soddisfacente:
«I
miei genitori. C'erano i loro dati nella memoria del super-computer,
come se qualcuno li avesse scannerizzati. Loro erano i guerrieri
digitali?»
Dido
non rispose.
«No,
è assurdo, come avrebbero potuto entrare fisicamente in un
computer?»
«Come
hai fatto tu, suppongo.»
«Già,
come ho fatto?»
«Non
lo sappiamo. Ti ho spiegato che quando il super-computer venne spento
Lyoko non cessò di esistere. Furono semplicemente tagliati i
ponti
tra questo mondo e il vostro.»
«Come
avete fatto ad uscire allora?»
«Non
ci è stato possibile finché qualcuno non ha
collegato un
dispositivo elettronico funzionante al super-computer. Ci siamo...
telegrafati in esso e poi proiettati
all'esterno.»
«Come
quando ho scaricato i dati sul mio cellulare, siete usciti attraverso
il mio telefono!» Non era una domanda, anche se un po'
suonava come
tale. «Quindi in tutto siete stati nel mio mondo solo due
volte?»
Dido
annuì. «Anche allora provammo a portare qualcuno
qui, anche se non
ci era possibile interagire. Non riscontrammo risultati
soddisfacenti. Tutto ciò che ottenemmo fu una copia
inanimata e
l'impossibilità di tornare lì fuori. Tu invece
sei arrivata qui,
seppure priva di sensi, esattamente come noi.»
«Mi
sono telegrafata qui?» esclamò
Rebecca incredula. Non
ricordava molto della notte passata a parte la paura provata. O forse
qualcosa sì. Si concentrò. Aveva tentato di
volare via, ne era
sicura, ma non aveva funzionato bene. Aveva corso. Verso dove?
Ricordava solo il buio. Di sicuro non nella direzione della scuola.
Che fosse tornata da sola alla fabbrica? Che fosse arrivata da sola a
Lyoko? No, impossibile. Le sarebbe servito il telefono, no? E lo
aveva lasciato cadere, giusto? No. Se lo era ripreso. Le faceva male
la testa.
«Sì.»
«Quindi,
volendo, potrei tornare nel mio mondo?»
«No.
Il passaggio è rimasto aperto per delle ore, poi si
è interrotto.»
Doveva
essersi scaricata la batteria, ne era certa.
–
ʘ –
Ludovic
aveva aspettato che Ulrich si fosse allontanato per rivolgersi alla
non-Rebecca.
Era
evidente che Ulrich non l'aveva minimamente vista.
«Nessuno
ti aveva mai vista a parte Rebecca e me?»
Lei
scosse la testa.
«E
allora come facevi a sostituirla?»
Allargò
leggermente le spalle, come a dire che faceva il possibile.
A
Ludovic venne da ridere. Tutti avevano sempre ignorato la falsa
Rebecca perché non la vedevano! Di certo Rebecca, abituata a
non
attirare l'attenzione, non se n'era resa conto. Lei poteva vederla,
ma quelli che voleva ingannare no. Avrebbe depistato solo loro, i
suoi amici fidati, gli unici che avrebbero potuto fare a meno
dell'inganno.
Si
sedette sulle scale, appoggiò i gomiti alle ginocchia e si
prese la
testa tra le mani, ridendo. «È assurdo!»
La
non-Rebecca sorrise e si sedette accanto a lui, anche se
evidentemente per lei la posizione in cui si trovava non faceva
differenza.
«Dobbiamo...
devo trovare un modo per chiamarti, un nome. Non-Rebecca non si
può
sentire.»
Lei
lo guardò inespressiva. Probabilmente non dava molta
importanza alla
cosa.
«Rebecca
B? Dove B non sta per “Belpois”, ma per
“seconda”, sai, come
A, B, C,...» nessuna risposta. Ludovic sospirò
«Okay, no. Non si
può sentire nemmeno Rebecca B si può sentire.
Solo B? “Bea”!,
con un po’ di fantasia. Per te va bene?»
Lei
annuì. Di sicuro avrebbe avuto la stessa reazione per
qualsiasi
altro nome, ma Ludovic non se ne curò.
«Vada
per Bea allora.»
–
ʘ –
Chris
non sapeva cosa fare.
Sulla
scrivania della preside zampettava imperterrito un granchio verde
fluo che nessuno altro vedeva. Brandiva le chele nella sua direzione.
Lui
era troppo impegnato ad appiattirsi contro lo schienale per tenersi
fuori tiro per ascoltare gli adulti.
La
preside stava facendo un interminabile discorso a suo padre sulla
sicurezza e, presumibilmente, sulla sua salute mentale. Avrebbe
voluto protestare, ma come poteva spiegare a suo padre quello che
aveva visto se era chiaro che lui non vedeva nulla? Neanche lui
sapeva bene cosa fosse successo, come poteva risultare credibile?
All'improvviso
si rese conto che nessuno stava più parlando.
Si
guardò intorno. Stavano aspettando che parlasse lui.
«Non
stavo ascoltando» ammise.
«La
mia domanda era:» disse la preside senza scomporsi, ma con
una
stranissima espressione in viso «ti è capitato
altre volte di
vedere cose che non ci sono?»
Sì,
pensò. Vedeva granchi verde fluo che se ne stavano
tranquillamente
fuori dall'acqua, gatti viola che sorridevano e uccelli variopinti
che cambiavano dimensione.
No,
si corresse poi. Li vedevano anche gli altri, era impossibile che
avessero avuto tutti la stessa allucinazione. Che anche gli altri
fossero frutto della sua fantasia?
«Come
faccio a saperlo?» rispose allora.
Questa
risposta spiazzò sia suo padre che la preside, ma in modi
totalmente
diversi.
Ulrich
era stupito, quasi incredulo e in minima parte anche divertito da
quella risposta ragionevole.
Elisabeth,
per quei brevi istanti in cui lasciò che le emozioni
plasmassero la
sua espressione, parve sconvolta. In bene e in male allo stesso
tempo. Come se le avessero diagnosticato una malattia incurabile.
Quando si ricompose il suo viso non riuscì a tornare neutro.
I suoi
occhi continuavano ad esprimere un'improvvisa consapevolezza.
«Non
puoi» mormorò alla fine, dopo un lungo conflitto
interiore.
Chris
era ormai così confuso che si limitò a fissare
suo padre.
Fu
il turno di Ulrich, infatti, di essere colpito in pieno dalle proprie
emozioni. Fissò Elisabeth con stupore, poi risentimento per
aver
risposto così a suo figlio, e infine con quella che a Chris
parve
comprensione.
«Scusatemi»
abbozzò Elisabeth, ancora visibilmente turbata, alzandosi in
piedi,
facendo in pochi istanti il giro della scrivania e uscendo dalla
presidenza.
«Ma
che diavolo le è preso?» chiese Chris voltandosi a
guardare la
porta appena chiusa. Prima che Ulrich potesse rispondere il ragazzo
sentì una fitta lacerante al braccio. Strillò e
si voltò.
Il
granchio lo aveva ferito e ora scappava via.
Ulrich
spalancò gli occhi alla vista del taglio profondo apertosi
apparentemente senza una ragione apparente.
–
ʘ –
Carlotta
stava tranquillamente disegnando sul retro della lavagna durante
l'intervallo. In realtà stava scarabocchiando quelli che
sembravano
i simboli che apparivano nell'aria al posto di qualche animale
impossibile, come le aveva spiegato Rebecca.
La
classe era praticamente vuota perché quasi tutti erano in
corridoio.
Sarebbe
dovuta andare in cerca di Emma o di suo fratello, o a trovare Franz,
ma aveva deciso di non fare nessuna delle tre cose.
Sentì
qualcuno di incredibilmente vicino sussultare.
Si
voltò e trattenne un'esclamazione di sorpresa. La preside
era a
pochi passi da lei, lo sguardo fisso su ciò che aveva
scarabocchiato
e gli occhi spalancati.
Fece
per dire qualcosa, ma la preside si voltò e uscì
quasi correndo.
Carlotta
non pensò.
Posò
il gesso e la seguì.
|
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Capitolo 7 *** Confondere, o sorprendere ***
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Metamorfosi
Cap7;
begin
write('Confondere,
o sorprendere');
readln;
end.
«Che
diavolo...» Ulrich non credeva ai propri occhi.
Chris
si portò di scatto la mano al petto premendo il polso
sanguinante
contro la maglietta. Il taglio non era molto profondo, ma gli faceva
male da morire. «Papà!» gemette.
Ulrich
si riscosse. Balzò in piedi.
Seguendo
l'istinto fece il giro della scrivania della preside e
cominciò ad
aprire i cassetti uno dopo l'altro finché non ne
trovò uno
stracolmo di flaconi con etichette mediche, scatole di pastiglie e,
grazie al cielo, bende e disinfettante.
Frugò
in cerca dell'acqua ossigenata. Non era un medico, ma di certo era un
genitore, conosceva le regole basi.
«Dammi
il braccio.»
Chris
lo allontanò leggermente dal petto tenendoselo premuto con
l'altra
mano.
«Brucerà»
lo avvertì Ulrich mentre avvicinava alla ferita la garza
imbevuta di
acqua ossigenata.
Chris
si tese al contatto, trattenendo il respiro, ma si rilassò
quasi
subito dopo. «Non brucia per niente»
sospirò.
«Come
no?» Ulrich lo fissò stupito. Sollevò
la garza per poter
controllare la ferita, appena in tempo per vederla rimarginarsi
davanti ai suoi occhi.
Padre
e figlio sgranarono gli occhi.
«È
successo anche a me.»
Sobbalzarono
allarmati e si voltarono. Ludovic era sulla soglia. E non era solo.
«Rebecca?»
esclamò Chris. «No!» strillò
poi balzando in piedi e
indietreggiando fino a sbattere contro la scrivania.
«Tu!»
«Chris,
ma che stai dicendo?» più che allarmata, la voce
di Ulrich era
preoccupata.
Chris
si rese conto che suo padre credeva davvero possibile che lui stesse
impazzendo. Fu come ricevere una pugnalata alle spalle.
«Tu... non
vedi niente?» balbettò.
«No»
rispose Ludovic per lui. «Non vede nulla. E lei non
è Rebecca, è...
Bea.»
«Chi?»
«Tranquillo
Chris, non è pericolosa. È l'ologramma di
Rebecca, te la ricordi? A
quanto sembra non può parlare, così le ho dato io
un nome.»
«Fermi
un momento, di chi state parlando?» li interruppe Ulrich, il
cui
sguardo balzava da uno all'altro.
«A
quanto pare non puoi vederla» rispose Ludovic.
«Come non hai visto
la cosa che ha ferito Chris, ma se la sua ferita è reale lo
devono
essere anche loro.» Indicò l'aria accanto a
sé. «Qui c'è Bea, è
un ologramma identico a Rebecca, creato da lei stessa come...
esperimento. A quanto pare solo noi sei riusciamo a vederlo. Non
può
uscire dalla scuola e non può salire sul tetto,»
aggiunse rivolto a
Chris «proprio come quegli animali.»
«Animali?»
«Sono
delle specie di ologrammi anche loro, proprio come Bea, girano per la
scuola e ci attaccano quando ne hanno l'occasione, solo che non
sappiamo chi li abbia creati.»
«Non
siamo gli unici a vederli» ricordò Chris.
Ludovic
alzò un sopracciglio.
«Anna
Zuz. Anche lei vedeva Rebecca, ricordi?»
«Già,
non ci avevo pensato.»
«Anna
Zuz? Ma Elisabeth... cioè, la preside, ha appena detto che
non
esiste nessuna Anna Zuz in questa scuola.»
«Cosa?»
esclamò Ludovic.
–
ʘ –
Carlotta
si tenne con la schiena contro il muro. Tentò, in qualche
modo, di
fondersi con esso. Per qualche istante ebbe persino l'impressione che
si deformasse intorno al suo corpo, ma non si soffermò a
pensarci.
Continuò
a seguire la preside per i corridoi, finché non si
trovò
all'esterno. Indugiò sulla soglia, nascosta nell'ombra
mentre la
guardava correre verso il bosco.
Elisabeth
avanzava in modo strano. Barcollava. Come se stesse trascinando
qualcuno. O se stessa. Come se qualcosa la trattenesse,
strattonandola all'indietro o tentando di farla cadere in avanti.
Riusciva a riacquistare l'equilibrio appena in tempo.
Carlotta
attese che si fosse allontanata abbastanza da non poterla vedere, poi
uscì fuori a propria volta e corse fino a primi alberi. Vi
si
arrampicò con un'agilità inumana di cui si rese
conto appena. Si
fermò solo quando fu abbastanza in alto da spiare la preside
senza
essere notata.
Corse
da un ramo all'altro come avrebbe fatto su una qualsiasi strada piena
di pozzanghere. I rami più sottili si spostavano, obbedienti
alla
sua inconscia volontà, si intrecciavano tra di loro,
formando una
rete solida e resistente sotto i suoi passi e sciogliendosi l'attimo
dopo il suo passaggio.
Si
fermò solo quando vide la preside interrompere il suo
instabile
percorso.
Carlotta
si acquattò e aguzzò la vista.
Elisabeth
teneva le braccia protese avanti, le mani sospese a
mezz’aria, come
se fossero appoggiate contro un muro invisibile.
Carlotta
avanzò per poter vedere meglio e superò la
preside di diversi
metri, anche se si trovava più in alto. Non
incontrò nessuna
resistenza.
Elisabeth
rimase immobile per qualche istante. Poi una leggera luce verde si
propagò dalle sue mani e delineò per pochissimi
istanti i contorni
di un'enorme specie di scudo che ingabbiava la scuola. All'inizio
sembrava una cupola, ma poi si notava anche la concavità ad
imbuto
proprio al centro che aveva il suo cuore all'interno della scuola
stessa, poco sotto il tetto. Nel complesso assomigliava ad un
ciambellone con il buco centrale che non arrivava fino al fondo.
La
luce verde lampeggiò un paio di volte, alla terza invece si
estendersi completamente, delineò solo un ovale abbastanza
grande
perché Elisabeth potesse passarci attraverso.
Così fece. E quello,
con un ultimo lampo verde, si richiuse.
Carlotta
si portò oltre il limite che la luce aveva segnalato a poca
distanza
da lei, ma non incontrò nessun ostacolo. A parte il fatto
che,
andando avanti, i rami degli alberi non si intrecciavano più
sotto i
suoi passi come avevano fatto fino a quel momento. Tornando indietro,
invece, tutto era “normale” come prima.
Quei
minuti di distrazione purtroppo le fecero perdere di vista la
preside. Sapeva che aveva proseguito, ma ora non la vedeva da nessuna
parte. Provò a spostarsi mantenendosi sul confine della
cupola-ciambellone, ma non vide nessuno.
Più
o meno.
Si
sporse in avanti e aguzzò la vista per poterne essere
sicura. Saltò
da un albero all'altro per avvicinarsi, ma non c'erano dubbi.
«Mamma!
Papà!» chiamò ad alta voce correndo
come un fulmine sui rami più
spessi per avvicinarsi.
Yumi
e William si guardarono intorno per qualche secondo. Alzarono lo
sguardo appena in tempo per vedere la figlia compiere un salto di
quattro metri verso il basso e atterrare senza il minimo sforzo.
«Carlotta!»
esclamò William. «Che ci fai qui?»
«Che
ci fate voi qui?» osservò lei.
«Siamo
venuti a cercarvi» rispose Yumi. «Dopo che Rebecca
ha chiamato
Jeremy...»
«Rebecca
ha chiamato Jeremy?» ripeté lei.
«Quando?»
«Ieri
sera. Quando è stata rapita a quanto sembra. Si
può sapere cosa è
successo?»
«Io,
noi… insomma» Carlotta si stava ancora guardando
intorno in cerca
della preside. «Non lo so. Cioè, non lo sappiamo.
Io non c'ero, ero
in camera mia con Emma, dovete chiedere a Chris e Franz.»
«Dov'è
Ludovic adesso?»
Carlotta
alzò istintivamente lo sguardo verso il tetto della scuola,
ma non
vide nessuno. «Di sicuro non a lezione.»
«Già,
e non dovreste essere entrambi in classe?» le fece notare
William.
Lei
si limitò a scrollare le spalle. «Stavo seguendo
la preside.»
«Elisabeth?»
«Se
preferite chiamarla così.»
«Ma
da qui può andare solo....» Yumi e William si
guardarono. «Alla
fabbrica» esclamarono entrambi.
«Chiamo
Jeremy» Yumi aveva già il telefono in mano.
«Carlotta
tu torna dentro.»
«No!»
protestò la ragazza.
–
ʘ –
Emma
si fiondò in giardino appena suonò la campanella
della ricreazione.
Aveva visto suo padre fuori dall'edificio, ne era sicura, ma non
poteva certo mettersi ad urlarlo nel bel mezzo di una lezione. Tanto
meno mentre era seduta accanto ad una chiacchierona, invisibile Anna
Zuz.
Non
voleva neanche pensare alla ragazza dai capelli rossi in quel
momento. Tutto ciò che importava era che suo padre si
trovava lì,
da qualche parte, e lei avrebbe potuto andarsene.
Corse
fin dove l'aveva visto passare e poi proseguì nella sua
stessa
direzione.
«Papà!»
chiamò quando lo vide in lontananza. Stava correndo anche
lui, non
sarebbe riuscita mai a raggiungerlo «Odd!»
provò inutilmente a
chiamarlo per nome.
Si
fermò e si acquattò come aveva fatto sulla pista
di atletica. Si
diede un momento per riprendere la concentrazione, poi
scattò. Le
falcate si susseguirono con un'automaticità strabiliante.
Prima di
quanto fosse umanamente possibile, andò a sbattere contro
suo padre
e caddero entrambi a terra.
«Emma!»
esclamò Odd.
«Papà»
rispose lei. Mentre riprendeva fiato, si mise in ginocchio e lo
sguardo le cadde sulle proprie mani. La pelle era sbiadita,
ricoprendosi di nuovo di quel reticolo colorato che era comparso la
sera prima. Cacciò un urlo quasi senza accorgersene. Si
portò le
mani alla faccia. Era liscia come vetro al contatto con le dita.
Ansimò.
«Emma?
Ma che ti è preso?»
«Papà,
dimmi che non è vero! Dimmi che mi sto immaginando
tutto»
piagnucolò sbilanciandosi di lato e abbracciandolo forte.
Odd
le fissò i capelli – l'unica parte della sua testa
che riusciva a
vedere – e rimase immobile e confuso per qualche istante.
«Cos’è
che dovrei dire?» fu tutto ciò che
riuscì a rispondere.
–
ʘ –
Rebecca
teneva lo sguardo fisso sul soffitto. O almeno su quello che era il
soffitto dall'angolazione in cui si trovava.
Era
stesa su una lastra levitante liscia e dal colore metallico –
l'equivalente di un letto su Lyoko. Il suo corpo non sembrava
desiderare un cuscino o un materasso.
C’erano
così tante cose da assimilare in una volta sola. Persino la
sua
mente faceva un po' di fatica a stare al passo.
A
dire il vero, aveva capito tutto. Ecco cosa la preoccupava: vedeva
perfettamente una logica in qualcosa che non poteva
averne.
Lei non poteva essere davvero lì, in un mondo digitale,
abitato da
programmi; non poteva essere lì con il corpo, non poteva
esserci
arrivata tramite un banale cellulare. Eppure non ci vedeva niente di
strano.
Era
la sensazione più assurda che avesse mai provato.
E
poi quel nome.
XANA.
Dido
l'aveva definita un virus. Eppure lei era sicura di conoscere
qualcosa di più. Era come un campanellino minuscolo che
suonava da
lontano, in qualche remoto angolo della sua mente.
XANA
era sempre esistita su Lyoko, c'era anche prima che questo fosse
abitato dai Programmi.
Anche
i suoi genitori rientravano nella storia di Lyoko precedente ai
Programmi.
Le
due cose erano collegate? Voleva dire che aveva sentito parlare di
XANA a casa, magari per caso? Le sembrava assurdo e ovvio allo stesso
tempo.
Sospirando,
allungò tutte e due le braccia verso il soffitto, come per
stiracchiarsi. Mise indice e pollice di entrambe le mani in modo da
formare un rettangolo che incorniciava un pezzo di parete liscia e
uniforme.
Senza
sapere bene perché, si concentrò su quel ritaglio
blu con estrema
intensità. Dopo pochi istinti, sul muro si formarono delle
specie di
crepe, come se certe parti non si fossero mai formate.
Separò le
mani e mise giù le braccia di scatto. Le crepe erano ancora
lì. E
mentre continuava a fissarle simboli bianchi ne sgorgarono fuori
spandendosi sulla parte.
Erano
diversi da quelli a cui era abituata. Questi non vagavano in modo
disordinato nell'aria come se fossero esplosi, ma si allineavano con
scrupolosità davanti a lei.
Poteva
leggere ciò che esprimevano. Riusciva ad interpretarli come
se
fossero stati la sua lingua madre.
Si
sparsero velocemente in tutta la stanza e oltre, fin dove poteva
spingersi il suo sguardo.
Chilometri
di programmazione si srotolarono davanti a lei.
Era
questo Lyoko? Un complicatissimo e sofisticatissimo programma?
Poteva
essere modificato? O il più piccolo e insignificante
cambiamento lo
avrebbe fatto crollare?
L'anno
precedente aveva imparato a cambiare ciò che vedeva, ad
invertire i
comandi che seguivano gli esseri digitali che giravano per la scuola.
Poteva fare la stessa cosa?
Sollevò
di nuovo una mano e mosse le dita davanti a sé, come su uno
schermo
touch screen, solo senza toccare altro che aria.
I
simboli risposero ai suoi comandi, cambiando ordine e forma e poi
riassestandosi fino a sparire.
La
stanza si riformò, solo che la forma era cambiata. Ora era
perfettamente cubica e il lettino di Rebecca si trovava in un punto
diverso. Persino il colore, per quanto insignificante, era cambiato:
invece dell'uniforme blu di Cartagine, ora erano viola.
Chiuse
gli occhi. Non le faceva male la testa né si sentiva
stordita.
Inspirò
lentamente, impegnandosi a gonfiare i polmoni quanto più
possibile.
E sentì qualcosa di denso scivolarle in gola dalla bocca
semiaperta.
Scattò
a sedere, con la sensazione di soffocare. Tossì, ma non
servì a
nulla. Le mancava l'aria.
Spalancò
gli occhi e si ritrovò circondata da una densa nube nera.
Non aveva
mai visto nulla del genere e non aveva tempo di soffermarcisi. Si
afferrò le gola con le mani, come se potesse aprirsela a
forza.
Provò un dolore al petto lancinante poi uno alla testa.
Tentò
di urlare, ma le uscì solo un gemito straziato.
Rotolò
giù dal letto, provò a trascinarsi via avanzando
carponi, ma la
nebbia si spostava con lei. Voleva essere respirata. E lei non aveva
scelta, perché aveva un bisogno disperato di aria.
Inspirò
con forza. I polmoni si aprirono ed ebbe un istante di sollievo, ma
aveva solo respirato altro fumo. Lo sentiva ancorarsi alle proprie
cellule, introdursi nel suo sistema circolatorio e spandersi in tutto
il corpo.
Si
accasciò completamente a terra. Nessuno dei muscoli
rispondeva più
ai comandi, era come se all'improvviso fossero fatti di acido. Quando
credette che fosse impossibile sopportare oltre ed ebbe inalato tutto
il fumo nero una scarica elettrica le attraversò tutti i
nervi
contemporaneamente per poi risalirle la colonna vertebrale e sfociare
nella sua testa.
Fu
come se mille agi le penetrassero nello stesso istante direttamente
nel cervello.
Per
alcuni interminabili minuti si ritrovò incapace di muoversi
e
incapace di pensare.
Una
frazione di una parete si aprì e ne entrò un
programma, forse Dido,
ma non riusciva a vederla bene. Da quella angolazione Rebecca
sembrava essere in piedi.
«Si
è aperto un varco» annunciò il
Programma. «Potete tornare nel
vostro mondo.»
Furono
le ultime parole che riuscì a sentire prima che tutti i suoi
sensi
si spegnessero, ma la sua testa stava annuendo.
–
ʘ –
Quando
erano entrati nella vecchia fabbrica si erano aspettati di trovare
qualsiasi tipo di scenario. Tranne quello che trovarono
effettivamente.
Non
era cambiato niente, se non che la vecchia costruzione era ancora
più
vecchia dell'ultima volta. Difficile dire se quel poco che si notava
di diverso fosse dovuto solo ai venti anni passati o all'opera di
qualcuno in particolare.
Il
super-computer era esattamente come lo avevano lasciato: spento. E
polveroso.
Le
uniche anomalie erano i due corpi stesi a terra, accanto a dei cavi
scoperti.
Jeremy,
Yumi e William si scambiarono intense occhiate. Erano venuti solo
loro, tutti gli altri a quel punto dovevano essersi già
riuniti in
infermeria.
«Rebecca!»
esclamò Carlotta correndo a inginocchiarsi accanto
all'amica. Era
stesa a pancia in su, le mani sulla pancia, la testa tenuta
perfettamente dritta dagli chignons. Respirava lentamente e con
regolarità e la sua postura era rilassata più che
abbandonata. Se
avesse avuto gli occhi aperti, avrebbe potuto benissimo trovarsi
stesa sul suo letto a meditare.
Lo
stesso non poteva dirsi di Elisabeth, proprio accanto a lei.
Stringeva con una mano il cellulare di Rebecca – che sfiorava
la
resta della sua proprietaria –, ma per il resto sembrava
essere
stata buttata sul pavimento o esserci caduta di peso. La sua
posizione era scomposta, al limite dell'umano, la pelle così
pallida
e fredda e gli arti così abbandonati che sembrava morta. Il
suo
cuore, però, batteva ancora.
«Non
toccarla!» William fermò la figlia prima che
potesse appoggiare una
mano sulla spalla di Rebecca. Si vedeva lontano anni luce che
qualcosa non andava. Nessuno sarebbe stato così rilassato se
era
stato portato lì dopo essere stato rapito.
«Dobbiamo
portarle via di qui» decretò Jeremy, per quanto
banale fosse. Non
riusciva a staccare gli occhi dalla figlia, ma qualcosa frenava il
suo impulso di toccarla. Si diede dello stupido e si
affrettò a
prenderla in braccio. Era molto più leggera di quanto
ricordasse, e
effettivamente più magra, come se fosse stata svuotata. Le
braccia e
le gambe dalle ginocchia in giù penzolarono a peso morto
verso il
basso, il collo si reclinò all'indietro.
Mentre
invece William, aiutato da Yumi, sollevò Elisabeth, la donna
ebbe la
reazione contraria. Tutti i suoi muscoli si contrassero
automaticamente al primo contatto.
William
guardò Jeremy, che ancora non aveva sollevato la figlia da
terra.
Lui non seppe cosa dirgli. Fece leva sulle gambe per tirare su
Rebecca.
Una
scarica elettrica attraversò i capelli rosa della ragazza
quando si
separarono dallo schermo del telefono, ancora stretto tra le mani
della preside. Era così forte che si videro le scintille
violacee.
Elisabeth
sussultò e i suoi occhi si spalancarono automaticamente per
un
attimo. Persino William la sentì. Jeremy no. Si
irrigidì di
riflesso, ma non sentì nulla.
Il
corpo di Rebecca assorbì tutta l'elettricità
senza avere la minima
reazione.
«Andiamo»
li spronò Yumi dopo un momento di silenzio mentre toglieva
il
telefono di Rebecca dalle mani di Elisabeth e lo staccava dal
super-computer.
Carlotta
li precedette fuori e poi lungo il sentiero che li avrebbe riportati
a scuola. Ebbero la fortuna di arrivare durante il pranzo, per cui
nessuno fece caso a loro.
«Cosa
diremo all'infermiera?» chiese Carlotta.
«Che
le abbiamo trovate sul sentiero.»
«Jeremy,
guarda» li interruppe Yumi.
Il
biondo si voltò.
Yumi
sollevò i capelli di Elisabeth fino a scoprirle il collo.
Alla base
del cranio c'era una specie di reticolato, come se qualcuno avesse
cercato di disegnarle tanti piccoli quadrati sulla nuca. La pelle in
quel punto era più scura e più lucida.
«Portatela
direttamente nella presidenza» decise Jeremy dopo averla
fissata a
lungo. «Non credo sia qualcosa che può risolvere
un'infermiera.»
«E
Rebecca allora?» osservò Carlotta.
Jeremy
abbassò lo sguardo sulla figlia. Sperava con tutto se stesso
che
stesse bene, che fosse davvero solo svenuta. Sapeva di illudersi, ma
non poteva farne a meno.
«Che
una ragazza si sia sentita male è abbastanza normale, se
portiamo la
preside svenuta è un'altra storia.»
|
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Capitolo 8 *** Fare ritorno ***
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Metamorfosi
Cap8;
begin
write('Fare
ritorno');
readln;
end.
Silenzio.
Tranquillo,
confortante e ristorante silenzio della mente.
Era
passato così tanto tempo dall'ultima volta che c'era stata
tanta
quiete che era difficile ricordarsene, che ora sembrava una
sconvolgente novità.
Silenzio.
E immobilità.
Un
corpo immobile, debole e inerte, ma non spento, e perfettamente
controllabile.
Niente
voci, stridii, impulsi nervosi, esplosioni dentro la scatola cranica.
Niente momenti di panico controllato o isteria repressa. Niente
missioni impossibili o storie assurde. Niente mondi e creature
virtuali.
Niente
di niente.
Un
pensiero. Solo, senza eco né alcun tipo di risposta.
Sono
sola.
Mai
nulla era stato più perfetto di quel momento.
Sono
sola.
Ascoltò
la propria voce nella propria testa come se non l'avesse mai sentita,
come se la stesse assaporando dopo averla dimenticata.
Il
sollievo fu una bolla d'aria tiepida che esplose nei polmoni
regalando nuova aria e nuova forza e dissipando qualsiasi peso avesse
oppresso prima il suo petto. Il sollievo fu pura gioia.
Tutti
i muscoli si rilassarono e delle lacrime calde le sgorgarono dagli
occhi mentre si girava a pancia in su e dei sospiri tremolanti le
sfuggivano dalle labbra.
«Sissi?»
si sentì chiamare da una voce vicina.
Aprì
gli occhi umidi e mise a fuoco il volto di Ulrich. Sembrava non
essere passato nemmeno un minuto. Doveva essersi appena avvicinato al
divano – aveva sentito i passi – e si era seduto
sul bordo, con
aria preoccupata.
«Ulrich.»
Non
stava più piangendo. Si asciugò il viso con due
rapidi gesti, poi
si slanciò in avanti, si aggrappò alle sue spalle
e lo baciò.
Ulrich
rimase così interdetto che restò immobile, con
gli occhi spalancati
e l'espressione stupita.
Elisabeth
si fece indietro poco dopo. «Non ti sforzare, mi
raccomando» lo
schernì mentre si metteva seduta.
Ulrich
si raddrizzò. «Che ti è saltato in
mente?»
Lei
sollevò le spalle. «Sono di buon umore.»
Fletté le ginocchia e si
alzò. «Sono sola!» esclamò ad
alta voce, come se fosse la notizia
più bella del secolo.
«Come?»
«Sono
sola» ripeté lei.
«Assolutamente sola dentro la mia testa e
dentro il mio corpo!»
«Sissi,
cioè Elisabeth, cosa stai dicendo?»
«Senti,
so che sembrerà assurdo, ma lo giuro, non sono pazza. Avrei
potuto
impazzire, forse sono impazzita, ma è vero, devi
credermi.»
«Senza
offesa, ma non sembri molto lucida» commentò
Ulrich, ma era
tranquillo. «Sempre meglio Sissi della preside irriverente
comunque.»
«Preside
irriverente?» ripeté aggrottando le sopracciglia.
«Non importa.
Quanto tempo è passato? Aspetta, lo so. Chris ha undici anni
quindi
ne sono passati… dieci.» Il
suo entusiasmo si smorzò di
colpo. «Oddio» si risedette sul divano.
«Dieci anni» scandì.
«Che cosa ho combinato?» domandò a se
stessa.
«Come
sarebbe a dire che hai combinato? Sissi, che succede?»
«Siediti.»
Ora era seria. Ma in un modo umano e naturale.
Ulrich
obbedì e si sistemò accanto a lei sul divano.
«Non
so nemmeno da dove cominciare» si lamentò lei
incrociando le
braccia al petto e sprofondando nello schienale.
Ulrich
sospirò. «Dall'inizio?»
«Ma
è scontato» replicò lei con una leggera
smorfia, ma poi si arrese.
«Okay» disse lentamente. «L'ultima cosa
che ricordo chiaramente
è...» si rabbuiò «quando
è morto mio padre.»
Lui
non disse nulla, ma appariva in qualche modo deluso dalla risposta.
«Prima
che tu me lo chieda, no, non ho buco di dieci anni di memoria, ma
sono tutti ricordi frammentati.» Tacque. Davvero non sapeva
come
andare avanti.
«Credevo
che stessi solo male per… il lutto. Insomma, nel modo
normale, ma
non ti sei mai ripresa. Sei stata in ospedale e sotto
psicofarmaci...»
«Sì,
me lo ricordo. Almeno quelli funzionavano abbastanza da intontirmi.
Comunque mi ero ripresa»
sottolineò. «Ma c’era qualcosa
che non andava e dovevo saperne di più. Mio padre
è morto in
circostanze misteriose nella fabbrica vicino questa scuola. Ci sono
andata, non credevo fosse pericoloso.»
«Tuo
padre è morto nella fabbrica?»
esclamò Ulrich. «Perché
non lo sapevo?»
«Che
razza di domanda è?»
«Credevo
fosse stato un attacco di cuore. Avevi detto…»
«Ha
avuto un attacco di cuore.»
«Non
me lo avevi detto.»
«Ero
sconvolta! Non ti aspetterai che una figlia in lutto si metta a
parlare lucidamente della morte del padre.»
«Okay,
okay. Sei andata nella fabbrica e… ?»
«Ho
trovato un computer. Nel senso di un computer enorme, non uno
normale. E enorme non solo nel senso di grandezza quel coso
era…
era...»
«Super.»
«Super?»
Ulrich
voltò la testa e la fissò negli occhi.
«Hai trovato il
super-computer.»
«Che
nome fantasioso» disse ironica, poi riprese: «L'ho
trovato. Non
avevo idea di cosa fosse, ma sapevo che non doveva essere
lì. Non
poteva essere lì. L'ho ispezionato e ho trovato una
chiavetta
attaccata ad un terminale, una di mio padre. Ho provato a levarla e
ho preso la scossa.»
Silenzio.
Dopo
un po' Ulrich sollevò un sopracciglio. «Tutto
qui?»
«Già.»
«Mi
prendi in giro?»
«No.
Dopo ricordo solo il buio che si espandeva nella mia testa e il mio
corpo che diventava pesante. Mi sono alzata poco dopo, ma non ero in
me. Era come se fossi sonnambula, non del tutto cosciente. Credo di
essere arrivata a casa.»
«Oh
sì, sei comparsa sulla soglia con una faccia allucinata e
sei
crollata a terra.»
«Ricordo
che qualcuno si è messo ad urlare.»
«Chris.»
«Mi
sono svegliata in ospedale.»
«Ti
ci abbiamo portato io e Odd.»
«Da
allora… c'è sempre stata quella presenza costante
nella mia
testa.»
«Una
voce?»
«No,
raramente era una voce. Era più un coscienza estranea che
mandava
impulsi al mio corpo. Movimenti, parole, azioni. Se provavo a
contrastarle mi esplodeva la testa, potevo quasi vedere le scintille
nel mio cervello, come se stessi andando in cortocircuito.»
«E
cosa ti faceva fare?»
«Non
lo so, mi ha fatto costruire delle cose, interagivo con qualcosa, con
qualcuno, ma io non vedevo nulla.»
«Non
capisco.»
«In
certi momenti avevo l'impressione di star parlando con qualcuno, o
tenendo in mano qualcosa, eppure non c'era nulla davanti a me. Subito
dopo mi venivano dei mal di testa così forti che spesso
svenivo.»
«Sei
sicura di poter parlare al passato?»
«Sì.
Oh sì, ne sono certa, ora non c'è nulla dentro di
me. A parte me. È
così bello essere di nuovo se stessi!»
esclamò con un sorriso
smagliante che si smorzò poco dopo. «Dio, dieci
anni. Cosa… cosa
è successo...» si voltò verso di Ulrich
e si interruppe davanti
alla sua espressione indecifrabile. Sembrava in contemplazione.
«Ulrich? Tutto bene.»
«Sembra
proprio di sì» sussurrò lui. La
guardava come se fosse stata
fragilissima. Le prese il viso tra le mani e fu il suo turno di
baciarla.
Lei
si ritirò quasi subito. «Bravo, ora hai reazioni
ritardate?»
Ulrich cerò di baciarla ancora. «Ehi no! Aspetta,
devo ancora dirti
di Lyoko e allora sì che mi prenderai per pazza! E tu devi
dirmi
cosa è successo in dieci anni mentre… Ulrich!»
Lui
esitò per un momento nel sentire il nome di Lyoko, ma poi si
riscosse e la afferrò per i fianchi. «Possono
aspettare.»
«No!»
«Sì,
invece. Devo approfittare di questo momento, prima che tu torni
quella di prima o senta il resto della storia e decida di
uccidermi.»
«Non…»
«Credimi,
lo vorrai» le assicurò mentre la trascinava verso
di sé finché
lei non fu costretta a mettersi a cavalcioni sulle sue ginocchia.
«Ah,
ora devi dirmi perché. Che diavolo hai combinato mentre io
avevo in
virus malefico nella testa?»
«Non
ti piacerà per niente.»
«A
te non piacerà Lyoko.»
«Mi
piace Lyoko.»
«Sei
matto. Non ti piacerà XANA.» La sua voce si stava
abbassando man
mano che i loro volti si facevano sempre più vicini e i loro
corpi
sempre più intrecciati.
«No,
XANA decisamente non mi piace» concordò Ulrich
mentre stringeva la
presa sulle sue gambe e riprendeva a baciarla. Questa volta fu uno
scambio bidirezionale. Sissi gli prese il viso tra le mani e lui le
circondò la vita con le braccia. Si premettero l'uno contro
l'altro,
come se insistendo potessero fondersi insieme.
–
ʘ –
Erano
tutti e quattro seduti fuori dall'infermeria, Carlotta in braccio a
William e Ludovic seduto tra lui e la madre.
Le
ore di lezione erano finite perciò adesso diversi studenti
giravano
per i corridoi.
«Io
continuo a non capire cosa c'entri la preside con tutto
questo»
borbottò Ludovic.
«Considerando
che non abbiamo avuto ancora nessuna spiegazione non mi
sorprende»
commentò William. «Però in effetti
è strano, lei con Lyoko, non
c'entra niente.»
«Lyoko?»
ripeté Carlotta. «È una
persona?»
«No,
Lyoko è un posto, più o meno.»
A
quelle parole di Yumi due ragazzi che stavano passando si voltarono
come se li avessero chiamati. Le loro espressioni erano
indecifrabili.
«Julien.»
esclamò Ludovic riconoscendo il proprio compagno di stanza
«Tutto
bene?»
Il
ragazzo fissò i due adulti in modo decisamente strano, ma
loro non
ricambiarono. «Sì, ci vediamo dopo.»
disse soltanto, dopo un po',
mentre si girava e spingeva via il ragazzo che era con lui.
«Julien?»
chiamò Ludovic alzandosi, ma l'amico si limitò ad
accelerare il
passo mentre si allontanava.
«Che
gli è preso?» chiede Carlotta.
«Non
ne ho idea.»
«Ma
di chi state parlando?» li interruppe Yumi.
I
due fratelli si scambiarono un lungo sguardo.
«Del
ragazzo che si è appena fermato davanti a noi quando ti ha
sentito
dire “Lyoko”» fece Carlotta scandendo
ogni parola.
La
madre la guardò confusa.
«Quale
ragazzo?» domandò William.
«Non
l'avete visto?»
I
due scossero la testa.
«È
uno scherzo?» Ludovic dovette sforzarsi di mantenere un tono
di voce
basso. «Insomma, quello è il mio compagno di
stanza dall'anno
scorso, abbiamo un sacco di amici in comune, anche se non siamo in
classe insieme, come avete fatto a non vederlo?»
«Quel
Julien, davvero?» William si guardò di nuovo
intorno. «Sul serio,
ragazzi, non abbiamo visto nessuno.» Yumi annuì in
conferma.
Carlotta
aggrottò le sopracciglia, pensierosa. «Avete degli
amici in comune
hai detto?»
«Certo,
e loro lo vedono.»
«E
questi amici sono un gruppo stretto?»
«Sono
un gruppo normale!»
«Sì,
ma parlano con altri ragazzi?»
«Che
domande! Sì, certo, credo. Immagino. Non con tutti, alcuni
gli
stanno poco simpatici e si ignorano a vicenda, ma è normale.
Era con
uno di loro poco fa e gli ha anche preso il braccio, lo hai visto,
quindi è reale!»
«I
ragazzi erano due?» chiese William. Evidentemente non avevano
visto
proprio niente.
«No,
no» fece Ludovic. «Ho passato tutto l'anno scorso
con loro e sono
assolutamente... veri, reali. Siamo finiti nei guai quasi tutti i
giorni, siamo una specie di squadra!»
«Stai
dicendo che tutte le volte che ci hanno chiamato per il tuo
comportamento avevi combinato qualcosa con loro?»
«Sì.»
«E
perché non li ho mai sentiti nominare?»
«Beh
perché… la preside becca sempre me. O almeno sono
sempre io quello
che finisce nei guai, credo che abbia una specie di predilezione per
loro.»
«Li
ha mai chiamati per nome?» chiese Carlotta.
«Come?»
«Anche
Anna era normale, vera, reale.»
«Chi
è Anna?»
«La
compagna di stanza di Rebecca. Chris ha detto che la preside
sosteneva non esistesse nessuna Anna Zuz» rispose Yumi.
«Venite»
ordinò Carlotta alzandosi in piedi. Gli altri tre la
seguirono.
Attraversarono i corridoi evitando gli altri studenti e cominciando a
chiedersi se vedessero tutti gli stessi oppure no.
Carlotta
e Ludovic tennero gli occhi aperti.
E
cominciarono a notare.
C'erano
ragazzi, o piccoli gruppi, che si muovevano in modo diverso.
Parlavano e scherzavano tra di loro, ma zigzagavano tra gli altri
studenti come se volessero evitare qualsiasi contatto fisico. Quelli
che venivano loro incontro non si spostavano di lato per farli
passare.
Una
ragazza che sembrava troppo piccola per essere anche solo del primo
anno era seduta sul davanzale della finestra e faceva smorfie a tutti
quelli che le passavano accanto facendo ridere un'altra ragazza
vicino a lei, ma nessuno faceva caso a loro. Nessuno tranne il gruppo
che zigzagava in modo strano.
Arrivarono
nei dormitori femminili e Carlotta li condusse nella stanza di
Rebecca e Anna. Indicò la targhetta che recitava Belpois
– Zuz.
«Cosa
leggete?»
«Belpois»
risposero in coro i genitori.
I
due fratelli si guardarono.
Carlotta
prese la mano della madre e le fece passare le dita sulle lettere
incise del cognome Zuz.
«Non
senti niente?»
«Niente.
È tutta lascia.»
La
ragazza fece un passo indietro. «No, non è
possibile. Non ci
credo.»
Bussò.
«Chi
è?» strillò la voce di Anna
dall'interno.
«Sono
Carlotta, posso entrare?»
«Arrivo.»
«Sentito
niente?» sussurrò guardandosi indietro.
Yumi
e William scossero la testa mentre Ludovic li fissava sgranando gli
occhi.
Anna
aprì la porta. E i due adulti sussultarono.
Anna
li fissò mentre i loro sguardi vagavano nella stanza come se
potessero attraversarla. Sembrò scossa di un brivido.
«Co-cosa
c'è?» balbettò ritirandosi il
più possibile.
«Cercavo
Rebecca.»
«Non
so dove sia.» La rossa fece per chiudere la porta, ma
Carlotta la
fermò con un piede e poi con la mano.
«Anna,
vieni un momento fuori? Questi sono i miei genitori, vorrei
presentarteli.»
«Perché?»
uggiolò la ragazza da dietro la porta.
«Perché
sei mia amica e vorrei che ti conoscessero.»
«Non
siamo nemmeno in classe insieme.»
«Sì,
ma siamo amiche lo stesso, giusto?»
«Ma
è la prima volta che ci rivolgiamo la parola!»
protestò
giustamente la rossa tentando di spingere la porta. Carlotta si
oppose.
Yumi
l'aiutò. La figlia lasciò la presa.
Yumi
e Anna continuarono a spingere, le loro forze continuarono ad
annullarsi a vicenda. Quale illusione poteva fare una cosa del
genere?
Yumi
lasciò andare la porta che si chiuse.
«Anna...»
«Vattene!»
«Ma...»
«Cosa
vuoi? Ti ho detto che non so niente di Rebecca!»
«Non
sai dov'è ora, ma l'hai vista stamattina. Per caso ti
è sembrata
strana, diversa?»
Nessuna
risposta.
«Anna.»
«Vattene.
Per favore.» Stava piangendo? Stava per farlo? «Ti
prego, non
voglio.»
«Cosa?
Non vuoi cosa?»
«Lasciami
stare!»
«Tu
la vedevi» intervenne Ludovic. «Lei non era altro
che un ologramma,
ma tu la vedevi! Ci hai parlato e lei reagiva. Nessun altro l'ha
vista.»
«Non
è vero. Me lo ha detto lei.»
«Lei
non parla!» replicò automaticamente Anna. Dopo
piombò il silenzio.
«No,
infatti.»
La
porta si aprì di nuovo, questa volta del tutto.
Yumi
e William non videro nulla oltre la stanza vuota, ma non dissero
niente.
Anna
aveva gli occhi gonfi, ma non piangeva.
«Io
sto bene qui» gemette. «Non voglio
andarmene!»
«Perché
dovresti andartene?» si stupì Carlotta.
«Perché
loro sono qui!» puntò il dito contro William e
Yumi. «Tenteranno
di fermarla e lei ci rispedirà tutti su Lyoko!»
–
ʘ –
«Si
sveglierà?» insistette Franz.
Aelita,
seduta sul bordo del letto, si voltò a guardare Jeremy che
strinse
le labbra.
«Starà
bene?»
«Franz...»
«Che
cosa può esserle successo? Una botta in testa. O
sarà svenuta per
la paura.»
«Oppure
potrebbero averla drogata, iniettato sieri velenosi, condotto
esperimenti su di lei. Potrebbero averla fatta a pezzi e ricucita e
nascosto le cicatrici in qualche modo. Potrebbero averle asportato
degli organi. Averla sottoposta ad un elettroshock»
elencò Emma.
Odd rise un po'.
«Certo,
oppure usata per un rituale satanico» la interruppe Chris.
«Non sei
di aiuto Emma.»
«Se
è per questo non lo è neanche Franz con le
domande insistenti, né
tu che te ne stai lì zitto e imbronciato, né
l'infermiera che non
sa dove mettere le mani, né nessun altro in questa
stanza.»
«Non
ha tutti i torti» la appoggiò il padre.
«Non
sei di aiuto neanche tu che mi dai ragione papà.»
«Hai
torto marcio.»
Aelita
li mise a tacere con lo sguardo, poi fissò il volto
inespressivo
della figlia e le prese la mano.
«Si
sveglierà» le assicurò Jeremy
mettendole una mano sulla spalla.
«Non
so quanto ci convenga.»
Si
voltarono tutti verso Ulrich, appena entrato nell'infermeria. Sissi
era dietro di lui e non sembrava affatto la preside Elisabeth Delmas
di poche ore prime. Aveva persino del colore sulle guance e una
fascetta rossa che teneva indietro i capelli leggermente
scompigliati.
Tutti
tacquero.
Chris
si irrigidì. Tentò di spostarsi per essere
coperto dagli altri, ma
le gambe della sedia stridettero sul pavimento e si ritrovò
a
fissare la preside intimorito. Poi confuso. Perché non aveva
mai
visto uno sguardo simile in nessuno. Prima che potesse dire qualsiasi
cosa, Sissi spostò gli occhi su Ulrich con un'espressione
che diceva
chiaramente “questa me la paghi”.
«C'è
qualcosa che dovete dirci?» chiese Emma.
Ulrich
guardò Sissi, in attesa.
«Ho
riportato io Rebecca fuori da Lyoko» buttò
lì lei, come se avesse
appena spiegato di essere stata lei a riportarla a casa dopo una
festa movimentata.
La
frase non poté fare più effetto.
Un'ondata
di «Cosa?», «Rebecca?»,
«Lyoko?», «Tu?» e
«Aspetta un
attimo!» si abbatté su di lei
all’istante.
Sissi
incrociò le braccia al petto e si impedì di
urlare a tutti di stare
zitti. «Non accalcatevi per ulteriori informazioni, mi
raccomando»
disse quando si furono leggermente calmati.
«Cosa
sai di Lyoko?» la domanda di Jeremy scavalcò tutte
le altre.
«Tutto
quello che c'è da sapere. Al momento ne so anche
più di voi visto
che siete all'oscuro degli ultimi vent'anni di sviluppi.»
«Sviluppi?»
«Sviluppi»
confermò Sissi drizzando le spalle. «Non crederai
che in tutto
questo tempo non sia successo niente.»
«Ma
abbiamo spento il super-computer!» protestò Odd.
«Tagliando
i ponti tra mondo reale e virtuale» lo corresse Sissi.
«Non puoi
certo spegnere Lyoko.»
«Spiegati.»
Sissi
si andò a sedere su un letto. «Okay, ma dovete
promettermi una
cosa.»
«Cosa?»
«Che
non… no, allora due cose» precisò.
«La prima è che mi starete a
sentire dall'inizio alla fine.» Tutti annuirono.
«La seconda è che
non tenterete di fermare XANA.»
«Scordatelo!»
esclamò Odd.
«Perché
dovremmo?» chiese più educatamente Aelita.
«Perché
avete promesso di starmi a sentire.»
«Okay,
quella promessa è ancora valida, ma in quando a non fermare
XANA ci
riserviamo di decidere più tardi»
sentenziò Jeremy.
Sissi
si issò completamente sul letto, prese il cuscino tra le
mani e si
appoggiò con la schiena al muro in modo da fissare il vuoto
davanti
a sé mentre parlava.
«Non
avete distrutto XANA, l'avete solo rallentata. Era previsto che
succedesse – anzi, che potesse succedere – ed era
programmata una
risposta a questa evenienza. Il fatto che qualcuno fosse riuscito a
superare lo stadio “distruzione” indicava che Lyoko
era…
autonomo, credo, che aveva modo di difendersi ad ogni modo e
sostenersi. Questo faceva sì che si…
“salisse di livello”.
Quando ve ne siete andati e lo avete isolato, il sistema si
è
evoluto. I programmi hanno preso un aspetto più…
umano, nel senso
che hanno creato una società e sviluppato una coscienza.
XANA ha
modificato il proprio scopo.»
«Com'è
possibile?» Jeremy era scettico quanto affascinato.
«E
che ne so?» fu la risposta secca di Sissi. «Sei tu
lo scienziato,
non io.»
«Caduta
di stile» commentò Emma a bassa voce e Odd
soffocò una risata.
«Comunque,»
riprese Sissi «XANA è rimasta quiescente
finché mio padre, dieci
anni fa, non ha trovato la fabbrica e il super-computer. Non l'ha
accesso, ma ha tentato di scaricare dati.»
«Come
Rebecca» osservò Chris. Si zittì
immediatamente, ma l'occhiataccia
che si aspettava non arrivò.
«Il
trasporto di dati crea un ponte momentaneo.»
«XANA
l'ha usato per uscire?» intuì Jeremy.
«Sì.
Non esiste nessuno scanner che crei nel mondo reale un avatar per un
essere digitale, perciò per agire aveva bisogno di un corpo
ospite.»
«Tuo
padre.»
«Sì,
ma lui è morto sul colpo. XANA lo ha consumato. Non so di
preciso
cosa sia successo dopo, credo sia rimasta nella chiavetta che mio
padre aveva inserito. Quando sono andata lì e l’ho
recuperata, si
è trasferita in me.»
«Ma
tu non sei morta» osservò Odd, sorpreso.
«Che
intuito brillante!» Sissi alzò gli occhi al cielo.
«Casualità,
non sono morta. Sono stata posseduta.»
«Per
dieci anni?» Aelita la guardò atterrita.
«Già»
la voce di Sissi si fece molto più bassa.
«E
cosa ti ha fatto fare in tutto questo tempo?»
«Ristrutturare
la scuola.»
«Cosa?»
«Mi
hai sentita Odd.»
«Perché
XANA vorrebbe far ristrutturare il Kadic?»
«Per
renderlo adatto ad ospitare programmi fuoriusciti da Lyoko.»
Odd
fissò il soffitto con aria assorta mentre Aelita si alzava e
affiancava Jeremy. «Spiegati, per favore» la
incitò quest’ultimo.
«Nel
momento in cui è stato possibile trovare un modo per uscire
dal
mondo virtuale,» riprese Sissi «XANA si
è evoluta ad un secondo
stadio. Tramite dei ponti per il trasporto dati anche i programmi di
Lyoko possono uscire e arrivare nel mondo reale. Questo è
possibile
perché non si tratta propriamente di programmi, quanto di
vere e
proprie forme di vita digitali. Nel mondo esterno, però, non
sono
supportati da un corpo, perciò devono tornare su
Lyoko.»
«Non
possono possedere un corpo a propria volta?»
osservò Aelita.
«No,
solo XANA può farlo in qualità di virus. Quando i
programmi escono
nel mondo reale di solito non sono percepibili e vi possono rimanere
solo per pochissimo tempo a seconda delle loro riserve di energia,
della loro carica per così dire.» Fece una pausa e
si tirò un po'
su, per un momento si fissò le mani con aria critica, poi
riprese a
parlare. «Lo scopo attuale di XANA è quello di
portare i Programmi
nel mondo reale. Ciò che fa è reinserirsi nel
super-computer e
agganciarci a quanti più programmi possibile, infettarli per
poterli
portare via.»
«Portare
dove di preciso?» chiese Aelita.
«Qui.
La ristrutturazione è stata complessa. Nel cuore della
scuola c'è
una specie di generatore-»
«E
questo generatore forma una specie di scudo intorno alla
scuola» la
interruppe Jeremy.
Lei
gli lanciò un'occhiataccia, ma poi annuì.
«I
programmi non possono stare all'esterno,» continuò
il biondo
socchiudendo gli occhi e seguendo il proprio ragionamento
«sono
tutti in una specie di enorme generatore, è
così?»
«Sì.»
«Il
generatore non arriva sul tetto, vero?» chiese Emma.
Sissi
scosse la testa.
Emma
non diede altre spiegazioni.
«Ecco
perché lo scudo circondava la scuola e non la
fabbrica» osservò
invece Franz rivolgendosi a Chris che annuì.
Jeremy
riprese con le proprie deduzioni. «E all'interno dello scudo
possono
interagire con il mondo reale.»
«No.»
Jeremy
riaprì gli occhi e sollevò le sopracciglia.
«I
programmi all'interno del generatore si muovono in una specie di
ricostruzione tridimensionale che coincide perfettamente con
l’edificio vero e proprio. Ogni interazione viene trasmessa
da una
versione all’altra della scuola in tempo reale.»
«Perciò
se un programma apre una porta, tutti se ne possono
accorgere»
conclude Carlotta. «Ma allora perché nessuno oltre
a noi li vede o
sente?»
«Perché
XANA non ha ancora trovato il mondo di renderli percepibili agli
umani. Aveva pensato di impiantare altoparlanti e proiettori, ma
così
non risolverebbe il vero problema: dare un corpo reale ai programmi.
Al momento sono in mezzo a noi e possono interagire indirettamente
con noi, ma nessuno può registrare direttamente la loro
presenza.»
«Nessuno
tranne noi» ricordò Franz.
«Già,
ma voi siete un'anomalia.»
«Com'è
possibile?»
Sissi
sollevò le spalle.
«Quindi
erano programmi» intervenne di nuovo Franz. «Gli
animali strani.»
«E
Anna» aggiunse Chris.
«Chi?»
fece Sissi.
«Anna
Zuz, la compagna di stanza di Rebecca.»
«Rebecca
non...» Sissi lasciò la frase in sospeso e
aggrottò la fronte come
se stesse compiendo un grande sforzo mentale. «Non lo
so» disse
alla fine. «I nomi se li danno da soli.»
«Dov'è
XANA?» esclamò Aelita all'improvviso, allarmata,
come se stesse
parlando di un gatto scomparso. «Voglio dire,» si
riprese «se lei
non è più dentro di te, ora
dov'è?»
Sissi
abbassò lo sguardo, improvvisamente molto interessata alle
lenzuola
del letto su cui era seduta. «Le serviva qualcun altro,
qualcuno di
più idoneo, qualcuno con cui avesse più
possibilità di portare a
termine il suo piano. Per quanto fantastica, io sono solo
un'umana.»
Calò
il silenzio.
Lentamente,
come se i loro corpi si rifiutassero di vedere ciò che
voleva la
mente, si voltarono tutti verso il letto su cui era distesa Rebecca.
Ed
era vuoto.
–
ʘ –
Bea
rimase seduta su un comodino scombro anche quando uscirono tutti
dall'infermeria. Guardò Sissi e Ulrich andarsene per ultimi,
dopo
che lei ebbe borbottato una decina di frasi incomprensibili.
Si
erano dimenticati di lei. In realtà gli unici che poteva
incolpare
erano Emma, Chris e Franz.
Tentare
di avvisarli che Rebecca di era svegliata, alzata e lasciata cadere
giù dalla finestra nel giro di pochi istanti, era stato
inutile. Non
poteva parlare. Non poteva produrre nessun suono, nemmeno schioccando
le dita o battendo i piedi a terra. Aveva guardato la sua alter-ego e
creatrice farsi spuntare un paio di ali nere durante la caduta e
sfrecciare chissà dove.
Incrociò
le braccia al petto, saltò giù dal comodino e si
avvicinò alla
finestra. Da lì poteva vedere la macchina con cui i
guerrieri erano
arrivati e il cane che dormiva sui sedili posteriori. Di Rebecca
nessuna traccia.
Lei,
dal canto suo, era abbastanza sicura di non potersi far spuntare le
ali – non era nella sua programmazione –
perciò era inutile
tentare di seguire la sua matrice.
Uscì
dall'infermeria e si inserì nel flusso di studenti stando
attenta ad
evitare quelli che le venivano addosso senza saperlo. L'avrebbero
attraversata, ma non era piacevole, creava una momentanea
instabilità
nel suo sistema.
Quando
svoltò nel corridoio successivo una ragazza minuscola
appollaiata
sul davanzale di una finestra le fece la linguaccia. Rimase impalata
per la sorpresa e un'altra ragazza scoppiò a ridere
così forte che
tutti si sarebbero girati se l'avessero sentita. Invece solo alcuni
si voltarono nella sua direzione.
Bea
li fissò tutti come fossero animali di una razza sconosciuta.
«Dai,
scusa!» esclamò dopo un po' la bambina che le
aveva fatto la
linguaccia saltando giù dal davanzale e facendo oscillare la
zazzera
di capelli chiari. «Non credevo che potessi vedermi, di
solito non
ti giri mai.»
Bea
sollevò un sopracciglio.
«Non
sei del secondo anno? Nella sezione A.» Arricciò
le labbra. «Non
mi ricordo il tuo nome.»
«Belpois»
le suggerì l'amica. «Quella che sparisce dopo le
lezioni.»
«Giusto»
esclamò la ragazzina, poi non ne sembrò
più tanto convinta. «Però
hai qualcosa di diverso.»
Bea
si limitò a farsi di lato fino ad appoggiarsi al muro per
poter
evitare altri studenti.
«Ma
non parla?» chiese l'altra ragazza.
Bea
scosse la testa.
«Ti
è andata via la voce?» domandò la
seconda.
Fece
di nuovo di no con il capo.
«Come
no?»
Si
indicò la gola e poi agitò il dito facendo segno
di no.
«Non
hai proprio la voce?»
«E
come farebbe ad essere interrogata, scusa?» sbottò
l'altra.
Bea
alzò gli occhi al cielo per la frustrazione.
«Tranquilla,
aspetta.»
La
ragazzina si alzò in punta di piedi e le posò una
mano sulla
fronte.
Bea
sussultò a quel contatto. Nessuno l'aveva mai toccata
– esclusi
Chris e Ludovic ovviamente. Nessuno erano mai stato capace
di
farlo. Si ritrasse d'istinto.
«Tranquilla»
ripeté la ragazzina e le affondò di nuovo i
polpastrelli sopra un
sopracciglio. Fu come se la testa di una e il braccio dell'altra si
fondessero per un istante.
E
le informazioni viaggiarono da una all'altra.
Quando
la ragazzina ritrasse il braccio aveva gli occhi spalancati.
«Forte»
disse con lo stesso tono con cui avrebbe esclamato
“oddio”.
«Vieni!» strillò di contentezza l'attimo
dopo, afferrandola per un
polso e cominciando a correre. L'altra ragazza venne loro dietro
incuriosita. Si fiondarono per le scale e attraversarono i corridoi
finché non furono davanti alla presidenza.
La
ragazzina spinse la porta. «XANA?»
chiamò. Non c'era nessuno.
Bea
si sentì raggelare. Puntò i piedi.
«Non
preoccuparti, la preside sa di noi. È lei che ci ha portati
qui.
Devi solo presentarti.»
«Non
la conosce?» esclamò l'altra ragazza
raggiungendole mentre si
legava i capelli castani.
«Non
viene da Cartagine,» spiegò la bionda
«né da una città-torre.
Non è di Lyoko.»
«Com'è
possibile?»
«L'ha
creata la ragazza della seconda A, Belpois.»
«Non
ci credo.»
«L'ho
visto io.»
«Sai
cos'è Lyoko almeno?»
Bea
annuì.
«E
di XANA?»
Annuì
di nuovo, più vigorosamente.
«Sì,
e lo sanno anche i guerrieri.»
«I
guerrieri?» La mora sembrò improvvisamente
incapace di respirare.
«Quei guerrieri?»
«Sì!»
«Loro
sono qui?»
«Sì.»
«No!
Loro la fermeranno.»
«Hanno
promesso di non farlo.»
Bea
non poté fare a meno di osservare che invece non lo avevano
più
promesso.
«No,
non lo hanno fatto» una terza voce zittì le altre
due.
I
tre programmi si voltarono.
Rebecca
era accovacciata sulla scrivania delle preside come se vi fosse
appena atterrata, le ali nere ancora spiegate dietro la schiena. Le
sue iridi erano tre cerchi azzurri concentrici.
«Oh
no!» sussurrò la mora.
«Dobbiamo
accelerare i piani» tagliò corto XANA.
«Raduna tutti i programmi
che trovi. Non devono arrivare al generatore.»
«E
tu?»
«Io
devo tornare su Lyoko e portare via tutti i programmi
restanti.»
«Ma
saranno migliaia! Anche se riuscissi ad infettarli tutti e a
trasportarli il generatore non può contenerli, non
è abbastanza
potente. Andremo tutti in tilt!» La sua voce salì
di due ottave
mentre parlava.
«La
mia nuova ospite sarà in grado di potenziarlo.»
Le
due ragazze annuirono, tranquillizzate e rassegnate allo stesso
tempo. «C'è altro che possiamo fare?»
«Trattenete
i guerrieri il più a lungo possibile. Devo distruggere Lyoko
prima
che riattivino il super-computer.»
–
ʘ –
Il
granchio verde comparve praticamente dal nulla –
sembrò emergere
dal pavimento – e per evitarlo Emma fece un balzo indietro
così
improvviso che finì addosso ad Odd e caddero entrambi a
terra.
«Che
succede?» chiese Jeremy, ancora sulle scale.
«Oh
no, di nuovo quello» gemette Chris.
«Quello
cosa?» Ulrich fissò invano il corridoio.
«Il
granchio.»
«Dove?»
gli occhi di Sissi saettarono con sicurezza sul pavimento mentre si
metteva davanti agli altri e sembrò colpita quando non vide
nulla.
Aggrottò lo sopracciglia.
«Ci
penso io» assicurò Franz correndo a mettersi tra
Emma e la
creatura. La fissò con intensità e quella esplose.
«Forte!»
esclamò Emma.
«Non
chiedetemi come funziona.»
«Come
funziona cosa?» insistette Jeremy.
«L'ha
fatto scoppiare» spiegò Emma.
«Diavolo
ecco chi era che lo faceva!» esclamò Sissi.
«La mandava in bestia
quando succedeva. XANA intendo.»
I
simboli bianchi volteggiavano ancora per aria. A differenza delle
altre volte, però, non si stavano dissolvendo. Anzi,
cominciarono a
farsi più nitidi e più vicini. Il granchio si
ricompose.
«Brutte
notizie» annunciò Emma alzandosi e cominciando ad
indietreggiare.
«Si è riformato.»
«Ma
non è possibile!» protestò Sissi.
«Ci vogliono sei ore.»
Nessuno
dei ragazzi l'ascoltò.
In
quello stesso istante il pappagallo gigante fuoriuscì dalla
parete e
il gatto viola saltò giù dal soffitto
attraversando Aelita. Lei
tossì, ma per il resto non si accorse di nulla.
Emma,
Chris e Franz si ritrovarono vicini.
«Se
non li vediamo vuol dire che non possono farci niente,
giusto?»
osservò Odd.
«Hai
una logica un tantino illogica, sai?» lo prese in giro
Ulrich.
Furono le sue ultime parole. Il granchio gli si arrampicò
addosso,
sprofondò nel suo petto e ci rimase. Ulrich ebbe uno spasmo,
come un
improvviso singhiozzo, poi si irrigidì. I suoi occhi
divennero scuri
e vi comparvero tre cerchi azzurri.
«Immagino
che questa sia la risposta alla tua domanda, papà»
gemette Emma
mentre premeva la schiena contro quelle di Chris e di Franz.
Odd
si voltò a fissarli e spalancò gli occhi.
Emma
guardò i suoi due amici. La loro pelle era suddivisa in
quadretti.
Lei doveva avere lo stesso aspetto inquietante. Tornò a
guardare il
padre. «Attento!» strillò, ma era troppo
tardi. Il gatto viola gli
balzò in testa per poi sparire tra i suoi capelli biondi.
«Odd!»
chiamò inutilmente Aelita.
«Mamma
abbassati!» esclamò Franz e lei obbedì
appena in tempo per evitare
il pappagallo.
«Cosa
sta succedendo?» chiese Jeremy mentre si schiacciava contro
il muro.
«Due
di quegli animali, sono entrati loro nel petto e nella
testa!»
spiegò Chris fissando il padre. Ulrich e Odd erano ancora
immobili.
«Ne rimane uno.»
«Dov'è?»
fece Sissi continuando a guardare in alto in attesa di riuscire a
vedere qualcosa, anche se evidentemente non ne era più in
grado
senza XANA nella testa.
«Viene
verso di te!» l'avvertì Chris.
Sissi
non ebbe riflessi abbastanza pronti, ma Aelita sì. La
afferrò per
un braccio trascinandola di lato e finirono entrambe a terra.
«È
sparito» notò Emma. «Ha attraversato il
soffitto ed è sparito.»
«Credevo
non potessero farlo» osservò Jeremy rivolgendosi a
Sissi. «Che
interagissero con l'ambiente come persone.»
«I
programmi portati da Lyoko sì, ma quegli animali sono di
XANA.
Dannazione, Rebecca deve averli potenziati.»
«Cosa
facciamo a fermarli se non possiamo distruggerli?» Franz
fissava il
soffitto come se volesse incenerirlo.
«Riprogrammandoli»
decise Jeremy.
«Rebecca
ci riusciva» borbottò Sissi.
«Le
lenti a contatto!» ricordò Franz e corse verso le
scale. Jeremy gli
venne dietro e così Emma e Chris.
Aelita
e Sissi invece urlarono quando Ulrich e Odd le afferrarono mentre si
rialzavano. Sembrano degli automi.
Il
pappagallo spuntò di nuovo dal soffitto cadendo in picchiata.
Emma
prese la rincorsa e spiccò un salto. Gli si
schiantò contro e lo
incollò al pavimento. Quello stridette e le
graffiò la pancia con
le zampe. Lei si rovesciò all'indietro. La ferita
sanguinante si
stava già richiudendo, ma l'uccello le era sfuggito.
Chris
corse per prenderlo, ma quello scoppiò sotto lo sguardo di
Franz.
Sissi
e Aelita approfittarono della distrazione per divincolarsi da Odd e
Ulrich. Scattando in avanti, però, Aelita finì
proprio sulla nube
di simboli. Tremò come se avesse preso una scossa tremenda.
«No!»
esclamarono Franz e Jeremy insieme.
Anche
gli occhi di Aelita divennero cerchi.
«Via
di qui!» ordinò Sissi correndo verso le scale.
«Prima che si
assestino!»
Nessuno
trovò nulla da obiettare.
–
ʘ –
«Cos'è
questo ronzio?» chiese Carlotta all'improvviso.
L'attimo
dopo Anna si irrigidì come una statua. I due fratelli si
guardarono
e videro la pelle dell'altro farsi liscia e quadrettata.
«Un
messaggio» Anna puntò lo sguardo su Yumi e
William. «Dice di
fermarli.»
«Fermarli
da cosa?» domandò Ludovic mentre ignorava gli
sguardi stupiti dei
suoi genitori – non doveva essere una bella vista quella dei
propri
figli “pixelati”.
«Dal
riaccendere il super-computer.»
«Quello
nella fabbrica?»
Anna
annuì.
«Bene!»
fece il ragazzo.
Gli
altri quattro lo fissarono. Lui si rivolse ai genitori.
«Dobbiamo
andare alla fabbrica. Subito.» Si voltò e
cominciò a correre
immediatamente senza aspettare di essere seguito.
«Guarda.»
Anna indicò il cielo a Carlotta.
Una
luce verde delineò i contorni dello scudo.
«Si
sta irrobustendo» spiegò la rossa.
Carlotta
accelerò, ma quando fu sul sentiero finì comunque
contro un muro
invisibile e cadde a terra.
«Carlotta!»
Ludovic tornò indietro, ma andò anche lui a
sbattere contro lo
scudo. Entrambi lo tastarono. Era come se un vetro perfettamente
trasparente improvvisamente li separasse. Un'altra ondata verde lo
rese visibile per qualche istante. La pelle di Ludovic era tornate
normale.
Yumi,
che era rimasta indietro insieme alla figlia, avanzò
cautamente, ma
non incontrò nessun ostacolo. Si voltò
preoccupata, ma né lei né
William fecero domande.
«Andate!»
ordinò Carlotta.
Ludovic
annuì, poi si voltò e riprese a correre, seguito
dai genitori.
«Anna,
noi dobbiamo...» si interruppe notando il modo in cui si era
irrigidita la rossa. Seguì il suo sguardo e si
voltò in tempo per
vedere Rebecca atterrare sul sentiero qualche metro dietro di lei.
Dalla schiena le spuntavano grosse ali nere.
«Rebecca!»
«Fatti
da parte.» La voce della ragazza era assolutamente
inespressiva.
Carlotta
divaricò leggermente le gambe e puntò le mani sui
fianchi. Non è
lei, non è davvero lei, si ripeté.
«Scordatelo» annunciò
poi.
XANA
sorrise.
–
ʘ –
Bea
rimase seduta nell'angolo.
La
piccola stanza era sovraffollata di programmi nervosi. Julien, Fee e
Lea – le due ragazze che l'avevano accompagnata in presidenza
–
le giravano intorno con aria vagamente tranquilla, ma lei sapeva che
le stavano facendo la guardia.
Si
guardò intorno per l'ennesima volta. Non c'erano finestre e
la porta
era l'unico modo di uscire o di entrare. Ed era irraggiungibile.
Su
un tavolo al centro della stanza un grosso portatile era collegato ad
un’antenna parabolica grande quanto una poltrona –
il generatore.
Ricordava
vagamente la strada che aveva fatto per arrivare lì, ma era
abbastanza sicura che ritrovarla sarebbe stato facile. Se solo avesse
potuto andare a cercare gli altri!
Se
solo non fosse stata collegata solo pochi minuti prima al computer.
Ora ogni suo movimento era tracciabile. Ora ogni sua azione poteva
essere controllata.
Aveva
l'ordine di rimanere lì, perciò se anche solo pensava
di
andarsene, il comando che le era stato inserito entrava in collisione
con le sue idee e lei andava in tilt per qualche istante. Appena si
riprendeva non faceva che cercare un nuovo modo di allontanarsi
perciò zac, era di nuovo in tilt.
–
ʘ –
Yumi
tirò fuori il telefono dalla tasca mentre William studiava
inutilmente il computer. Scorse la rubrica, poi portò
l'apparecchio
all'orecchio. Squillò diverse volte.
«Pronto?»
rispose poi la voce affannata di Jeremy.
«Dove
siete?»
«Nella
scuola. Siamo bloccati sul tetto, Odd, Ulrich e Aelita ci
inseguono.»
«Cosa?»
«Lascia
stare, cosa succede?»
«Ci
serve il tuo aiuto, come si accende il super-computer?»
Ludovic,
che era rimasto fermo in un angolo con aria pensierosa, prese il
giacchetto che il padre aveva lasciato su una sedia e frugò
nelle
tasche interne fino a trovare il cellulare.
«Okay,»
disse intanto Jeremy a Yumi «seguite alla lettera le mie
istruzioni.»
«Che
vuoi fare con quello?» esclamò William.
«Qualcuno
deve avvertire i programmi viventi di cosa sta succedendo.»
Trovò
il cavo a cui era stato attaccato il telefono di Rebecca e vi
collegò
quello del padre. «Sbrigatevi ad accendere questo
coso.»
Lo
schermo del telefono si illuminò di blu e la pelle di
Ludovic si
riempì di nuovo di quadretti.
Venne
risucchiato dentro il super-computer, dritto verso Lyoko.
Intervento
dell'autrice n1
Se avete letto la storia fino a questo punto,
innanzitutto grazie.
Se poi avete anche trovato il tempo di recensirla o di scrivermi
privatamente per farmi sapere cosa ne pensate, sappiate che mi avete
reso una persona immensamente felice.
Questo era il capitolo delle spiegazioni. Be', quantomento era il primo. Non penso di
soprendere nessuno dicendo che ci sarà moooolto altro da
chiarire. Spero di essere stata chiara (per quanto possibile,
ovviamente!), in caso contrario non esitate a fare domande.
Artemide12
|
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Capitolo 9 *** Bloccati, o controllati ***
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Metamorfosi
Cap9;
begin
write('Bloccati,
o controllati');
readln;
end.
«Si
è stabilizzato. È qui con noi.»
«Può
già sentirci?»
«Sì.»
«Ci
ha messo meno dell'altra.»
«L'altra
era come noi solo per un quarto, lui per metà.»
Ludovic
spalancò gli occhi. Nonostante la luce diretta non
sentì il bisogno
di richiuderli. Si sentiva estremamente bene, più leggero
del
solito, più sciolto nei movimenti.
Si
guardò intorno e per un momento credette di essere
circondato da
fantasmi. Le figure umanoidi che si trovavano nella stanza sembravano
fatte di vetro e riempite d'acqua e, seppur non in modo perfetto, vi
si poteva vedere attraverso.
Non
erano tutti sul suo stesso piano. Alcuni camminavano su quelle che
per lui erano le pareti, sopra a quelli che sembravano schermi che
monitoravano le sue funzioni vitali.
«Dove
sono?» Non si sorprese più di tanto nel constatare
che la sua voce
era limpida e non impastata come dopo un lungo sonno.
«A
Cartagine, capitale di Lyoko» rispose una delle figure.
«Capitale?»
ripeté Ludovic. «Ci sono
città?»
«Sì.»
«Quante?»
«Cinque.
Questa e quattro città-torri, una in ogni habitat di
Lyoko.»
«Mi
chiamo Ludovic Dunbar, sto cercando Rebecca Belpois, credo si trovi
qui.»
«Si
trovava qui fino a poche ore fa.»
Ludovic
si alzò in piedi. La superficie piatta e all'apparenza
metallica su
cui era disteso era sospesa nel vuoto.
«Cos'è
successo?»
«La
ragazza è stata infettata da XANA.»
XANA.
Ludovic sentiva che avrebbe dovuto riconoscere quel nome, ma proprio
non gli venne in mente nulla. «Cos'è
XANA?» chiese alla fine.
«XANA
è un virus che ha infettato e distrutto molti di noi
programmi.»
«Programmi?
Siete i programmi viventi?» Non diede alla creatura nemmeno
il tempo
di rispondere. «Distrutto? Nel senso che Rebecca è
stata
distrutta?»
–
ʘ –
«Jeremy
sbrigati!» esclamò Chris. Era seduto insieme ad
Emma sul letto che
avevano spostato davanti alla porta della camera.
Ogni
volta che un colpo faceva tremare il legno e i cardini, Sissi
sussultava.
«Ecco,
ecco» fece Jeremy. «Meraviglioso»
aggiunse poi tra sé e sé.
«Tutto questo lavoro...»
«Risparmiaci
i commenti» lo fulminò Sissi.
«Trovate!»
esclamò Franz uscendo dal bagno e brandendo una scatolina
fatta di
semplice cartoncino bianco ripiegato. «Bisogna solo sperare
che
funzionino» aggiunse filando dalla scatolina un contenitore
rotondo
dentro cui dovevano trovarsi lenti a contatto di Rebecca.
«Funzioneranno»
gli assicurò il padre staccandosi finalmente dal computer
della
figlia. «Ma non ti serviranno a niente.»
Il
sorriso morì sul volto di Franz.
«Perché?»
«Ne
ho trovato il progetto. Le lenti non hanno nessuna capacità
di
programmazione, si limitano ad elaborare le immagini in modo da
renderle visibili.»
«Non
ti seguo» ammise il figlio.
«Nemmeno
io» lo sostenne Emma e Chris annuì.
Jeremy
guardò la ragazza bionda. «Tu vedi
quegli… esseri?» le
chiese con calma.
«Intendi
il gatto viola e gli altri due. Sì.»
«E
tu Franz?»
Franz
esitò un momento. «No, io vedo solo simboli
vaganti.»
«Sì,
quando li fai scoppiare» precisò Chris
«li vediamo anche noi.»
«No,
io li vedo sempre. E non scoppiamo, si disperdono mentre prima sono
addensati.»
«Quindi
non hai mai visto il pappagallo gigante?» fece Chris.
«Né
il gatto viola?» continuò Emma.
Franz
scosse la testa. «Be' riesco a distinguere la sagoma se mi
concentro, ma mi fa venire il mal di testa»
spiegò, poi aggiunse:
«Credo che sia per questo che sono stato male.»
Sissi
soffocò un urlo e Jeremy si voltò verso i
ragazzi. Il legno della
porta era deformato e prossimo alla rottura. Chris ed Emma lo
sostenevano con tutto il loro peso. Sissi li fissava preoccupata ma
senza decidersi a dare loro una mano.
«Insomma»
riprese Jeremy parlando molto più velocemente di prima
«Rebecca ha
creato le lenti a contatto solo per poter elaborare in immagini quei
simboli e forse quindi anche per combattere i mal di testa. Doveva
avere la tua stessa visione.»
«Quindi
non servono a farli… be', non so cosa facesse di preciso
Rebecca.
Lei… Ludo ha raccontato che ha detto
“reverso” e il granchio se
n'è andato.»
«Qualunque
cosa abbia fatto, non si è servita di nulla.»
Il
cellulare di Jeremy ricominciò a squillare nel momento
esatto in cui
la porta andò in frantumi e Ulrich rotolò dentro
la stanza.
Mentre
Odd finiva di fare a pezzi la porta, Ulrich balzò verso i
ragazzi
come fanno i vampiri nei film.
Emma
rotolò via e Chris si accucciò fuori portata.
Franz
si limitò a strillare.
Ulrich
cadde a terra come se improvvisamente fossero stati tagliati i fili
che lo tenevano in piedi. Simboli bianchi e luminosi volteggiarono
frenetici intorno alla sua testa.
«Ulrich!»
Sissi gli si avvicinò di corsa, ma lui aveva già
inspirato e
risucchiato tutti i simboli. La afferrò e la
inchiodò a terra
serrandole le dita intorno al collo.
Da
fuori, Odd allargò il buco nella porta, poi entrò
scavalcando il
letto, seguito a ruota da Aelita.
Emma
balzò addosso al padre e Chris lo afferrò per le
caviglie. Odd
scivolò di lato. Emma riuscì rotolare via, ma
Chris non fu
abbastanza rapido. Odd gli serrò la mano sulla fronte e il
ragazzo
sentì delle scosse elettriche attraversargli il corpo.
Spalancò gli
occhi e urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
Emma
tentò di colpire il braccio del padre perché
lasciasse l'amico, ma
tutto ciò che ottenne fu un manrovescio che la fece andare a
sbattere contro la scrivania.
Ulrich,
intanto, sembrava non sentire nemmeno le grida del figlio. Continuava
a stringere la gola di Sissi per soffocarla mentre lei gli arpionava
le dita e rantolava nel disperato tentativo di prendere aria. In
preda a spasmi di dolore, Sissi si dimenò come un pesce
tirato fuori
dall'acqua. Riuscì a liberare una mano e colpì
Ulrich in faccia. Il
suo naso scrocchiò e un rivolo d'ossigeno appena sufficiente
per
sopravvivere un'altra manciata di secondi le scivolò nella
gola
prima che le mani di Ulrich si chiudessero di nuovo intorno al suo
collo.
Sissi
contrasse i muscoli di scatto e le sue ginocchia lo colpirono sul
costato facendolo sussultare. Gli chiuse le mani intorno ai polsi
sforzandosi di allontanarli dal proprio collo.
Si
ricordò che portava gli stivali e gli conficcò i
tacchi nelle
cosce. La reazione fu di gran lunga minore di quella che avrebbe
avuto in una situazione normale, ma evidentemente l’essere
che
controllava Ulrich non poteva ignorare del tutto il dolore.
Franz
approfittò del momento di distrazione di tutti gli altri per
mettere
il portatile di Rebecca tra le braccia del padre e spingere
quest’ultimo dentro il bagno.
Jeremy
aveva appena girato la chiave dall’interno quando il suo
telefono
riprese a squillare. Quasi gli volò di mano mentre cercava
di
rispondere.
«Pronto?»
urlò.
«Jeremy,
sono Yumi. È fatta, il super-computer è acceso,
siamo in contatto
con Lyoko.»
«Fantastico.»
«Jeremy
non puoi nemmeno immaginare...»
Jeremy
non seppe cosa Yumi stesse per dire. La porta del bagno fu sfondata
con un'unica, decisa, spallata e lui sussultò
così improvvisamente
che il telefono gli sfuggì di mano.
Per
qualche istante non successe nulla.
Sentiva
solo le urla di Chris e i versi di Sissi provenire dalla camera.
Poi,
senza particolare fretta e con un vago senso di spaesamento, Aelita
entrò nel bagno camminando in modo assolutamente normale. Si
guardò
intorno finché non lo mise a fuoco.
«Jeremy»
mormorò poi facendo un passo verso di lui che d'istinto
indietreggiò. Aelita si fermò come se quel gesto
l'avesse colta di
sorpresa. «Sono io» disse confusa, quasi ferita.
Jeremy
strinse il portatile sotto un braccio e usò la mano libera
per
spingersi gli occhiali più su sul naso.
Gli
occhi di Aelita erano sempre stati chiari e piccoli perciò
ora era
impossibile capire se fosse ancora posseduta o meno.
«Non
ti avvicinare» le ordinò comunque.
Lei
obbedì. «Ti prego, Jeremy, sono solo io. Dobbiamo
aiutare gli
altri.»
«E
come?»
«Dammi
il computer.»
«Come?»
Jeremy strinse la presa sul portatile.
«Il
computer» ripeté Aelita. «Rebecca
avrà trovato un modo per
fermarli.»
«C'è
troppa roba, non abbiamo abbastanza tempo.»
«Jeremy,
avanti, dammi il computer.»
–
ʘ –
Anna
si era accucciata a terra, la schiena appoggiata alla barriera
invisibile e le braccia strette intorno alle gambe, e piangeva
disperata.
Una
minuscola parte di Carlotta si chiese se un programma potesse davvero
piangere – be' forse sì se era programmato
per farlo – ma
per il resto era concentrata sulla ragazza che aveva di fronte.
Che
fosse casuale o intenzionale, XANA aveva scelto l'ospite migliore.
Chi sarebbe stato in grado di trovare qualcosa di anomalo in quella
postura perfettamente dritta, in quello sguardo fisso e attento, in
quel volto vuoto ma espressivo, se quelle erano già di
natura
caratteristiche di Rebecca?
Non
è lei, non è Rebecca,
si ripeteva costantemente
Carlotta, sforzandosi di non mostrare nessun cedimento.
Davanti
a lei, XANA continuò a sorridere come se stesse ammirando
qualcosa
di meraviglioso e soddisfacente. Tutto ciò che fece fu
portarsi i
pugni sui fianchi e socchiudere leggermente gli occhi.
Carlotta
sentì un brivido correrle lungo la schiena fino a
trasformarsi in
una specie di scossa che la fece sussultare.
Anna
gemette piano. Aveva smesso di piangere e ora tremava come una
foglia.
«Con
te farò i conti dopo» sibilò XANA.
«Lei
non c'entra niente!» scattò Carlotta.
«Lasciala stare.» Fece per
spostarsi e mettersi davanti alla ragazza dai capelli rossi ma si
schiantò contro qualcosa di solito e duro.
Cadde
a terra e subito protese le mani in avanti. Le sue dita incontrarono
una superficie identica a quella dello scudo che circondava la
scuola.
«Ma
cosa...»
La
risata di XANA – così diversa da quella di Rebecca
– la
interruppe.
«Ora
posso controllare il generatore a distanza. Questo corpo non
è
debole e inadatto come la donna di prima. È perfetto. Posso
fare ciò
che voglio.» Spostò lo sguardo su Anna.
«Anche cancellarti, qui e
ora.»
Anna
scosse la testa disperata. «No, ti prego!»
supplicò.
«No?
Dovevi pensarci prima. È questo il modo di ripagare chi ti
dà la
libertà?»
Anna
cominciò a strillare e i contorni della sua figura divennero
sfocati.
Carlotta
avrebbe voluto aiutarla, ma in quel momento la sua mente era altrove.
“La
donna di prima”. Pensò alla preside e a come si
comportava quando
l'aveva seguita proprio su quel sentiero. Era come se due
volontà
diverse comandassero lo stesso corpo tentando di imporsi l'una
sull'altra.
«Rebecca!»
chiamò con tutto il trasporto possibile.
XANA
smise di fissare Anna, che ormai era una sagoma sfocata, e si
voltò
verso di lei con aria seccata.
«Rebecca,
so che sei lì» continuò Carlotta.
«So che puoi sentirmi. Non puoi
lasciarglielo fare! Devi resistere.»
XANA
venne verso di lei con incedere calmo e si fermò dall'altra
parte
del nuovo muro invisibile, fissandola dall'altro.
«Mi
dispiace» disse senza alcun dispiacere. «Ma non
può sentirti.»
«Sì
invece! Rebecca svegliati! Ora! Devi reagire.»
XANA
rise. «Forse non mi sono spiegata. Quella di prima era solo
umana,
non potevo che inviare impulsi, ma qui… Questa mente, questo
corpo…
sono perfetti, sono compatibili con me. Sono persino meglio di
te.»
La studiò come fosse una confezione di carte nel reparto di
un
supermercato. «Tu saresti persino più completa, ma
altrettanto
speciale? Io non credo.»
La
aggirò per proseguire sul sentiero.
Carlotta
si alzò in piedi e la seguì per quanto possibile.
«Arriverai
troppo tardi. A quest'ora i miei genitori avranno riacceso il
super-computer e messo in allarme tutti.»
«Tu
non sai nemmeno di cosa stai parlando, ragazzina» a derise
XANA. «Lo
hanno riacceso? Lo spegnerò di nuovo.»
–
ʘ –
Emma
batté le palpebre e faticò a mettere a fuoco la
stanza.
Probabilmente
non erano passati che pochi istanti da quando suo padre, o chi per
lui, l'aveva spinta contro una scrivania, ma non era sicura.
Appena
tentò di muoversi, una fitta alla schiena le fece salire le
lacrime
agli occhi per il dolore.
Si
guardò disperatamente intorno, ma la sua vista continuava ad
appannarsi.
Tastò
il pavimento intorno a sé finché le sue dita non
si chiusero
intorno ad un oggetto allungato vicino ai piedi della scrivania.
Poteva essere un telefono o un telecomando e sembrava essere stato
assemblato a mano unendo pezzi diversi. Era di Rebecca?
Una
lucetta verde illuminava il tasto con il simbolo di accensione. Emma
lo premette e la luce divenne rossa. Non successe nulla.
Chris,
da qualche parte, ricominciò ad urlare. Emma ebbe
l’impressione
che stesse gridando anche per lei. Non sapeva nemmeno più
cosa le
facesse male di preciso, il dolore era ovunque.
Disperata
e incapace di muoversi, Emma si abbandonò completamente. Le
sue
braccia caddero inermi ai lati del corpo, le gambe non le sentiva, la
testa era appoggiata a qualcosa, la schiena piegata in un angolo
strano.
Pianse
silenziosamente mentre le grida di Chris le facevano pulsare le
tempie.
Stava
per scivolare via, lo sentiva.
Tremando,
le sue dita schiacciarono pulsanti a caso sul telecomando.
L’ultima
cosa che vide, fu la lucetta in alto ritornare verde.
–
ʘ –
Bea
la avvertì con secondi di anticipo. Una sensazione che
scaturì
dall'interno del suo petto e si diffuse rapidamente in tutto il
corpo.
La
riconobbe subito. Si stava spegnando. Qualcuno l'aveva
momentaneamente disattivata. Ne fu profondamente grata. Accolse
quella specie di anestesia sperando in un sonno lungo e ristoratore
–
non era mai restata in funzione per così tanto tempo.
In
realtà si svegliò nel giro di nemmeno un minuto,
ma si sentiva come
nuova.
Si
rese subito conto che si trovava nella sua stanza. O meglio, in
quella di Rebecca. Era lì che si trovava il suo generatore
locale
perciò era lì che si riformava ogni volta che
veniva riavviata.
Si
guardò intorno.
Nella
stanza regnava il caos. Gli umani combattevano gli uni contro gli
altri, alcuni controllati da programmi. Si stava mettendo male.
Provò
l'impulso di aiutarli e poi una logorante sensazione di impotenza.
Non si era mai sentita così. Doveva essere cambiato qualcosa
nella
sua programmazione nei pochi secondi in cui non era stata attiva.
Si
guardò intorno ansiosa, in cerca di qualcosa che fosse alla
sua
portata.
E
vide Franz. Aveva gli occhi sbarrati dalla paura, ma nessuno si stava
occupando di lui. Era rannicchiato nell'angolo dove prima c'era il
letto e in lui leggeva la sua stessa impotenza. Anche se era assurdo.
Lui era il fratello di Rebecca, lui avrebbe potuto fermarli tutti!
Se
solo lo avesse saputo…
«Oh,
Franz» mormorò dispiaciuta.
E
Franz sollevò allarmato la testa e puntò gli
occhi su di lei, come
se lo avesse chiamato.
«Rebecca?»
Scosse
la testa. «Sono Bea.»
E
solo allora si rese conto di cosa era davvero diverso nella sua
programmazione. Poteva parlare. Poteva comunicare vocalmente con il
mondo esterno.
«Franz!»
questa volta quasi gridò.
Attraversò
la stanza con grandi falcate, quasi ignorando tutti quanti, e si
buttò in ginocchio accanto al ragazzo dagli occhi dorati.
«Franz!»
ripeté. «Devi fermali!»
«Io?
Non riesco più nemmeno a farli scoppiare.»
«È
perché sei agitato, ci vuole concentrazione. E non devi
farli
esplodere, non serve a niente, poi si riformano, ora più in
fretta
di prima.»
«LO
SO!» strillò lui.
«Rebecca
ci riusciva. Li cambiava.»
«Come?»
«Non
lo so. Lei era… non umana. Lei poteva farlo.»
«Io
non sono lei.»
«Sei
suo fratello. Avete un codice genetico simile, se lei può
riuscirci
puoi farlo anche tu.»
«Anche
se fosse vero, Rebecca ci ha messo un anno per riuscirci. Ricordo
quando chiamava casa per i mal di testa.»
Chris
lanciò un urlo più forte e Franz si premette le
mani sulle
orecchie.
«Sono
i tuoi amici!» scattò Bea. «Non puoi
lasciare che si facciamo del
male così!»
«Io…
non posso… non so come...»
«Concentrazione.
Ci vuole concentrazione.»
–
ʘ –
Quando
XANA sparì lungo il sentiero, coperta dalla vegetazione,
Carlotta
smise di chiamare ad alta voce il nome di Rebecca e di prendere a
pugni il muro invisibile. Tanto era inutile, quel muro non era
fisico, non poteva rompersi. Non nel senso che lei aveva sempre
associato al concetto di rottura.
E
pensare che una persona normale non si sarebbe accorta di niente! I
suoi stessi genitori non avevano percepito nessun muro. Non avrebbero
visto Anna che ora se ne stava immobile, come congelata, per terra,
la figura sfocata fino a non essere altro che una chiazza di colori
sbiaditi e sovrapposti.
Ma
lei... Lei aveva qualcosa di più. Se fosse stata solo
umana avrebbe potuto camminare tranquillamente lungo il sentiero e
seguire la sua amica posseduta. E non avrebbe potuto vedere Anna,
né
essere attaccata da quelle creature. Ma, evidentemente, in lei c'era
qualcos'altro. Qualcosa di più.
Una
parte di lei non poteva attraversare quelle barriere. Ma poteva
rimanerne all'interno mentre il resto di lei ne usciva?
Appoggiò
di nuovo i palmi sulla barriera, con più delicatezza e allo
stesso
tempo con più determinazione.
Chiuse
gli occhi e si concentrò sul contatto. Era strano. Ebbe
l'impressione di essere divisa in due: un involucro esterno simile ad
un palloncino pieno di farina e una sostanza interna come gas
pressurizzato. Quale delle due parti poteva attraversare la barriera
e quale no? Era la sostanza esterna che avrebbe potuto filtrare fuori
o il contrario? Faticò per mettere a fuoco la sensazione.
Alla
fine ci riuscì. Capì che non sentiva davvero la
barriera sulla
pelle, che la carne delle mani non si appiattiva contro una parete.
Era come se la superficie si scontrasse direttamente con le sue ossa,
o almeno con qualcosa di solido ma malleabile dentro di lei.
Cominciò
a premere, ma in modo diverso da come aveva fatto prima. Usò
la
barriera come una leva per separare la parte di sé che la
poteva
oltrepassare da quella che non ne era in grado.
Fu
straziante. Persino, in qualche modo, doloroso, ma non come lo
sarebbe stato una ferita. Ebbe l'impressione che le ossa stessero
scomparendo da dentro il suo corpo, risucchiate dall'interno,
lasciandolo debole e fragile, molle e pesante, difficile da
governare.
Il
tempo si dilatò e ogni istante divenne un'ora insopportabile.
Quando
si accasciò a terra, oltre la barriera, si chiese se avrebbe
avuto
ancora la forza di alzarsi in piedi e muoversi.
Si
girò su un fianco.
La
prima cosa che notò era che non vedeva più Anna,
o almeno ciò che
restava di lei. Non c'era nessun segno della sua presenza né
sul
terreno su cui doveva essere stesa né sul sentiero da cui
erano
venuti accanto alle impronte di Carlotta e degli altri.
Quando
spostò lo sguardo, però, vide se stessa.
Solo
più tardi si stupì di come avesse potuto
riconoscersi in quella
figura semitrasparente e incorporea e così vaga, ma in quel
momento
non ci pensò neppure.
Fissò
con interesse la parte di sé da cui si era appena separata
così
come avrebbe studiato il proprio riflesso in uno specchio per
decidere se si era truccata bene o se indossava la cosa giusta.
La
sua sagoma, immobile e inespressiva, era quadrettata come lo era
stata altre volte nei giorni precedenti, ma questa volta non le fece
impressione. Si disse che sembrava uscita da un programma di grafica,
come se qualcuno avesse provato a creare un suo alter-ego in stile
cartone animato.
Dopo
un po', si rese conto che quella che credeva stanchezza non era altro
che una potentissima attrazione verso la sua sagoma bluastra quasi
fosse stata un'enorme calamita e lei un minuscolo magnete.
Devo
sbrigarmi, pensò mentre trovava la forza di
alzarsi e di
voltarsi.
Corse
lungo il sentiero sperando che non fosse troppo tardi.
Non
incontrò nessun ostacolo.
–
ʘ –
Chris
non avrebbe saputo dire cosa di preciso provocasse il dolore. Non era
nemmeno sicuro che si trattasse di vero e proprio dolore.
Se
urlava era per la paura, per la sensazione di panico e allarme che
tutto il corpo gli inviava. Quel tocco, quella pressione sulla
fronte, era tutto un altro tipo di violenza.
Non
era solo contatto fisico: sentiva degli impulsi elettrici propagarsi
dal braccio di Odd fino al suo cervello, come se dei comandi
viaggiassero da Odd a lui.
Ciò
che assoggettava Odd stava cercando di fluire dentro di lui e di
controllare entrambi.
Lottò
così come avrebbe fatto per spingere via un aggressore molto
più
grosso e forte di lui, dimenandosi mentalmente al punto da avere
l'impressione che il suo cervello si stesse ritraendo e premendo
contro la sua nuca per allontanarsi da quel contatto.
Poi,
all'improvviso, qualcosa di caldo e piacevole come miele interruppe
il contatto. Chris sentiva ancora la mano di Odd sulla fronte, ma
nient'altro. Qualcosa si stava frapponendo.
Riprendendo
aria come dopo un lunghissimo periodo di apnea, Chris
inspirò e si
ritrasse, strisciando su un fianco per allontanarsi. Odd invece
trattene il fiato e si prese la testa tra le mani.
In
piedi dall’altra parte della stanza, Franz teneva gli occhi
puntanti su Odd, le iridi che brillavano come fari. Al suo fianco,
Bea bisbigliava nel suo orecchio.
Questa
volta non ci fu nessuna esplosione di simboli. Il gatto viola
saltò
fuori dal petto di Odd così com'era entrato e se ne
andò dalla
stanza come avrebbe fatto un vero gatto.
Franz
spostò lo sguardo su Ulrich che subito si
immobilizzò lasciando
andare Sissi.
«Emma!»
esclamò Odd appena si fu ripreso.
Chris
seguì il suo sguardo. Emma era stesa a terra ai piedi di una
delle
scrivanie, priva di sensi. Gemette e batté le palpebre
quando il
padre la sollevò, ma poi svenne di nuovo.
«Che
diavolo è successo?» fece Odd guardandosi intorno.
Non lo vide, ma
il granchio verde che si allontanava da Ulrich gli passò
proprio
accanto.
Tossendo,
Sissi si mise in ginocchio. Il suo volto era rosso e la sua gola
viola, gli occhi gonfi come se stessero per schizzarle fuori dalle
orbite.
«Dove
sono mio padre e mia madre?» chiese Franz appena i suoi occhi
si
spensero.
Si
guardarono tutti intorno, ma il ragazzo si era già mosso
verso la
porta aperta del bagno.
Jeremy
stava bene. Stava tenendo il più ferma possibile Aelita che,
chiaramente fuori di sé, cercava di raggiungere il portatile
caduto
a terra.
Nel
momento il cui Franz entrò, Aelita spalancò gli
occhi e spinse via
Jeremy. Si dimenticò del computer. Balzò sul
davanzale della
finestra mentre un paio di ali verdi da pappagallo le spuntavano
sulla schiena. Saltò giù.
Franz
corse ad affacciarsi, ma non la vide.
Si
voltò.
«Stai
bene papà?»
«Sì»
gli assicurò Jeremy mentre raccoglieva il portatile ancora
miracolosamente integro. «Sì sto bene.»
«Voleva
il computer di Rebecca?»
«A
quanto pare.»
«Dobbiamo
trovare subito la mamma. So come fermare quei cosi. L'ho appena fatto
con Odd e Ulrich.»
«Davvero?»
Jeremy tornò nella stanza.
«Jeremy!»
lo chiamò subito Odd e lui si avvicinò. Misero
Emma su uno dei due
letti – quello che non avevano spostato davanti alla porta.
«Credo
che abbia battuto la schiena.»
«Perché
non guarisce subito?» li interruppe Ulrich.
Si
voltarono a guardarlo.
«Prima
lo ha fatto con i graffi di quel… coso,
e anche Chris.
Perché adesso no?»
Fu
Bea a rispondere, anche se non tutti poterono sentirla.
«Perché
quelle ferite non erano state inferte al suo corpo umano, quelle
potevano guarire con il solo pensiero, queste no, sono
fisiche.»
–
ʘ –
Carlotta
ancora non vedeva la fabbrica quando sentì il rumore di
qualcosa che
andava a sbattere contro la barriera energetica.
Si
voltò, ma da quella distanza poté solo vedere una
sagoma indefinita
premere contro la barriera, a circa dieci metri da terra.
Non
poteva trattarsi di una creatura digitale – non era
più in grado
di vederle – ma aveva qualcosa di troppo strano per essere
umana.
Nell'involucro energetico si aprì un varco grande abbastanza
da
farla passare, poi si richiuse dietro di lei con uno scintillio
verdognolo. Improvvisamente soggetta alla gravità, la sagoma
scivolò
sulla superficie convessa e invisibile della barriera fino a rotolare
a terra. Si infilò nella vegetazione prima che potesse
metterla a
fuoco.
Carlotta
si accucciò e rimase assolutamente immobile.
Dopo
pochi secondi sentì il rumore di qualcuno che le passava
accanto
correndo. Balzò in piedi appena in tempo per distinguere due
teste
rosa sparire tra gli alberi.
Capì
che la sagoma che aveva visto non era altro che una figura umana che
ne portava un’altra sulle spalle.
–
ʘ –
«Ancora
niente lì?» chiese Ludovic.
Una
superficie argentata piegata a novanta gradi e sospesa a
mezz’aria
gli faceva da sedia e una porzione della parete difronte da schermo.
L’immagine
di suo padre scosse la testa. «Non si vede
nessuno.»
Yumi
era seduta su una sedia girevole che appariva ai margini
dell’inquadratura. Teneva le braccia abbandonate sui
braccioli e la
testa reclinata all'indietro, lo sguardo sul soffitto, ma aveva
un'aria estremamente concentrata piuttosto che completamente
abbandonata.
«Allora,»
proseguì William «com'è
Lyoko?»
«Considerando
che fin'ora ho visto solo stanze blu tutte uguali non potrei
definirlo granché. Mi piace da morire la gravità
che c’è qui
però.»
«Prega
di non vedere mai Cartagine come campo di battaglia.»
Ludovic
non sentì rumore di passi e chiaramente nemmeno suo padre,
ma Yumi
si raddrizzò e voltò la testa. William
seguì il suo sguardo.
«Che
succede?» chiese Ludovic che sullo schermo non vedeva niente
di
nuovo.
«Rebecca?»
esclamò William «Stai bene!»
«Si
è svegliata poco fa, ha detto che doveva venire
qui» rispose una
voce femminile e familiare, anche se non della ragazza.
William
si spostò e Ludovic poté finalmente vedere chi
era entrato.
Aelita
teneva un braccio intorno alle spalle della figlia. Rebecca aveva la
sua solita espressione mesta ma non timida, quasi fosse semplicemente
stanca.
«Rebecca!»
chiamò Ludovic.
La
ragazza si guardò intorno più volte prima di
individuarlo sullo
schermo.
«Ludovic.
Che ci fai lì dentro?»
«Cercavo
di scoprire cosa ti è successo.»
«Ora
ti raggiungo» annunciò la ragazza.
«Cosa?
Perché? Sono io che voglio uscire.»
Improvvisamente esitò. «Mi
avevano detto che eri stata infettata da XANA.»
Lei
scosse la testa. «Sto bene, sono riuscita a combatterla, ma
è
ancora là dentro, dobbiamo fermarla.»
«Allora
dobbiamo venire anche noi!» intervenne William e Yumi
annuì.
«No»
replicò Rebecca fissandoli entrambi. «Dovete
rimanere qui ed
impedire che esca. Ha già posseduto la preside, potrebbe
farlo anche
con voi. Dovete stare attenti.»
«Potrebbe
possedere voi» ribatté Yumi.
Rebecca
scosse la testa. «Con me non c'è
riuscita.» Si allontanò dalla
madre e raggiunge il computer in cerca di un terminale.
«Arrivo tra
qualche secondo Ludovic» disse quando trovò quello
a cui era
collegato il telefono di William, poi si rivolse alla madre.
«Dovete
rimanere qui, mi raccomando.»
Solo
Aelita annuì.
Sullo
schermo del cellulare comparvero righe e righe i codice bianco su
sfondo nero, poi, com’era successo poco prima con Ludovic, il
flash
della telecamera intera si attivò. La luce bianca
investì Rebecca
in pieno e la ragazza scomparve nel giro di pochi secondi.
Il
telefono cadde a terra, lo schermo di nuovo totalmente nero.
«Sicura
che stia bene?» chiese Yumi ad Aelita. «Sembrava
strana.»
«Dev'essere
molto provata» rispose lei semplicemente. Recuperò
il cellulare e
lo staccò da terminale.
«Che
stai facendo?» protestò William.
«Mi
assicuro che XANA non possa uscire e possedere uno di noi.»
Pochi
momenti dopo, lo schermo del computer si oscurò.
«Ludovic!»
scattò Yumi. Allungò le mani verso la tastiera ma
non aveva idea di
cosa premere e si fermò. «Ludo!»
chiamò ancora.
«Mamma!
Papà!» la voce che rispose era acuta e non veniva
dal computer.
Yumi
e William si voltarono e videro Carlotta entrare affannata nella
stanza.
William
corse da lei e la sorresse prima che cadesse a terra.
«Carlotta!
Credevo fossi bloccata.»
«Lo
ero. Io…» fissò Aelita.
«Dov'è Rebecca?» chiese, a nessuno in
particolare.
«È
su Lyoko» rispose Aelita fissandola con vuota
intensità e con un
sorriso trattenuto.
«No!»
urlò Carlotta, le gambe che tremavano.
–
ʘ –
Rebecca
apparve gradualmente sul lettino.
All'inizio
non fu altro che una sagoma vuota, identica a tutti i programmi che
si trovavano nella stanza, poi, lentamente, acquistò
consistenza e
prese colore.
Ludovic
si avvicinò, ma non la toccò.
Rebecca
scattò a sedere all’improvviso, con gli occhi
ancora chiusi. Li
aprì lentamente mostrando i cerchi azzurri che si
susseguivano sullo
fondo scuro dell’iride.
Tutti
i programmi cominciarono ad agitarsi e qualcuno persino ad urlare.
«Becky?»
azzardò Ludovic.
Lei
gli rivolse un sorriso gelido.
«Io
sono XANA, guerriero.»
|
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Capitolo 10 *** 10. Unisciti, o perisci ***
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Metamorfosi
Cap10;
begin
write('Unisciti, o perisci');
readln;
end.
Rebecca
era ancora seduta sulla lastra argentata sospesa a mezz’aria,
una
gamba stesa e una piegata, le mani puntate ai lati del corpo
– una
posa estremamente fluida, quasi sbagliata per lei.
Ludovic
era a pochi passi da lei ma si sentiva lontano chilometri.
L’ambiente
estremamente geometrico e asettico non faceva che rendere
più
irreale la scena.
Tutti
i programmi erano corsi fuori dalla stanza. Il fatto che dei
programmi avessero abbandonato i loro compiti e
fossero corsi
via come presi dal panico era decisamente preoccupante.
Eppure
Ludovic non sentiva nessun campanello di allarme squillare nella
propria testa – nulla, a parte un forte senso di
incongruenza.
Guardava Rebecca, consapevole che non si trattasse della Becky che
conosceva ma incapace inquadrare la nuova arrivata.
«Io
sono XANA, guerriero», aveva detto.
Era
la XANA si cui parlavano i programmi?
«Il
virus?»
La
ragazza annuì. «In persona.»
«Che
nei hai fatto di Rebecca?»
XANA
roteò gli occhi sotto le palpebre. «L’ho
infettata. Ho
colonizzato il suo organismo. Mi sto servendo del suo corpo e del suo
cervello. Non provoco nessun danno fisico.»
Sepolto
da qualche parte nel profondo del suo petto digitale, il cuore di
Ludovic cominciò a battere più velocemente.
Rabbia e terrore
gonfiarono a la sua voce.
«È
cerebralmente morta?»
«“In
coma” sarebbe una definizione molto più
appropriata.» XANA scese
dalla lastra sospesa con un unico movimento fluido e si
portò di
fronte a Ludovic. «La lascerò andare, quando non
mi sarà più
utile.»
«Ovvero
quando?»
«Presto»
gli
assicurò. «Se sarai collaborativo»
aggiunge.
Ludovic
sollevò entrambe le sopracciglia, poi incrociò le
braccia al petto,
decisamente non disposto a trascinare la conversazione in quel modo.
XANA
parve
apprezzare il suo atteggiamento. «Tu, il più
potente di tutti i
guerrieri, mi saresti di grande aiuto. Questo cervello mi permette di
ampliare le mie competenze esponenzialmente, con il tuo aiuto potrei
completare la mia missione in pochi giorni, fare in poche ore
ciò
che fino ad adesso ha richiesto anni.»
«Ma
quale
missione!» sbottò Ludovic. Se c’era una
cosa su cui i suoi
genitori e quei programmi erano d’accordo era che XANA era un
virus
programmato per la distruzione. «Non ti aiuterò a
distruggere
questo posto!»
XANA
scoppiò
a ridere – prima di gusto, poi in maniera sarcastica, infine
con
una certa forzatura. «Distruggerlo? Io sono qui per portarlo
al suo
massimo potenziale!»
Improvvisamente
gli fu vicinissima. Gli prese la testa tra le mani e lo
fissò dritto
negli occhi. «Io sono qui per rendere reale il digitale. Io
sono qui
per sostenere il miracolo, per completare questa
Creazione.»
Lo aveva spinto contro la parete. «Io»
continuò quasi
spremendogli il viso «sarò la loro
Salvatrice.»
Superato
il
momento di shock, Ludovic la spinse via. “Tu sei solo
pazza”
avrebbe voluto dirle, ma si trattenne. «Devi spiegarmi,
non
gettarmi contro i tuoi discorsi di auto-incoraggiamento. Se vuoi il
mio aiuto dovrai convincermi.» Si concesse di gonfiare
leggermente
il petto. «Consideralo un reclutamento.»
XANA
rise di
nuovo, questa volta più brevemente.
«Davvero
avrei bisogno di convincerti, guerriero?» Si
avvicinò di nuovo.
Aveva uno sguardo davvero magnetico. «Questa non è
una trattativa,
né un reclutamento.» Sollevò una mano e
gli accarezzò prima una
ciocca di capelli e poi il lato del viso. Di scatto, poi,
infilò le
dita tra i suoi capelli e gli affondò i polpastrelli nella
cute.
Ludovic
ansimò, tendendosi prima ancora dell’arrivo del
dolore.
La
pressione
dentro la sua scatola cranica aumentò velocemente mentre un
fluido
acido zampillava dai punti in cui le dita di XANA premevano sulla sua
testa. Lottare contro la nebbia che dilagava nella sua mente era come
combattere contro il sonno in un momento di estrema stanchezza.
«Anche
tu
appartieni a questo mondo, guerriero» sibilò XANA
e la sua voce
riecheggiò all’infinito nella sue orecchie.
Lo
lasciò
andare all’improvviso e lo spinse all’indietro.
Stordito,
Ludovic cadde a terra e vi rimase, una mano premuta contro la tempia,
l’altra puntata per sorreggersi.
«Mi
seguirai
volontariamente,» disse XANA torreggiando su di lui
«o ti infetterò
come ho fatto con questa Rebecca.»
– ʘ –
Chris
spalancò
la porta dell’infermeria con un calcio, Odd entrò
subito dopo di
lui, con Emma tra le braccia.
«C’è
stato
un incidente.» Chris praticamente urlò e la sua
voce rimbombò
nella piccola stanza. «Emma ha sbattuto forte la schiena ed
è
svenuta.»
La
donna
seduta alla scrivania rimase immobile e inespressiva. Aveva gli occhi
puntati sulla porta, ma lo sguardo completamente assente, come se in
realtà si fosse trattato solo di un manichino.
Mentre
Odd
stendeva la figlia sul lettino, Chris raggiunse la donna e le
sventolò una mano davanti alla faccia.
Nessuna
reazione.
Il
suo petto
non sembrava nemmeno sollevarsi per respirare, le palpebre non
sbattevano.
«Chris
che
stai facendo?» chiese Odd. «Dobbiamo andare a
chiamare… oh!» Si
irrigidì. «È un altro di quei
cosi?»
«Credo
sia la
dottoressa di turno» spiegò Chris mentre anche
Ulrich e Sissi si
affacciavano nell’infermeria. «È uno di
quei programmi.»
«Fantastico!»
sbottò Odd tornando al lettino e sistemando meglio Emma.
«A
quest’ora
l’altra starà andando a cena» intervenne
Sissi.
Ulrich
annuì.
«Okay andiamo» disse subito. «Odd tu
rimani qui» aggiunse poi
inutilmente prima di uscire dalla stanza con Sissi.
Chris
esitò.
Voleva seguire suo padre, correre il più velocemente
possibile e
trovare qualcuno che potesse aiutare Emma, ma allo stesso tempo non
si sentiva sicuro ad allontanarsi. Odd non poteva vedere i programmi,
se un’altra di quelle creature digitali si fosse avvicinata a
lui o
ad Emma non avrebbe potuto fare niente.
Forse
se si
fosse sbrigato…
Ma
non poteva
sapere quanto tempo ci sarebbe voluto, né se
l’infermiera sarebbe
stata davvero d’aiuto.
– ʘ –
«Sicura
che
sia questa la strada?» bisbigliò Franz mentre
scendevano l’ennesima
rampa di scale.
Bea
rimase in
silenzio così a lungo che Franz pensò non lo
avesse sentito.
«Ne
abbiamo
fatta un’altra quando mi ci hanno portato, ma ricordo dove si
trova.»
Arrivarono
alla fine delle scale e sbucarono in un corridoio del seminterrato.
Bea rimase sull’ultimo gradino e si sporse quanto bastava per
sbirciare oltre.
«Via
libera»
sussurrò, poi attraversò di corsa il corridoio
fermandosi alla
prima svolta.
Franz
la seguì
e quasi le andò a sbattere contro. Si appiattì
contro la parete e
sbirciò oltre a propria volta.
Tre
nuvole di
numeri e simboli bianchi erano sospese a mezz’aria davanti ad
una
porta chiusa. Concentrandosi, Franz riuscì a distinguere tre
sagome
umanoidi.
«Sono
tre
ragazzi?» chiese appena ebbe ritirato la testa.
Bea
annuì
senza guardarlo. «Erano con me prima. Siamo nel posto
giusto.»
«Okay,
li
faccio esplodere.»
Bea
si voltò
a fissarlo di scatto, spaventata.
«Che
c’è?»
«Quelli
non
sono i mostri digitali che vi hanno attaccato»
protestò. «Questi
sono…» non sapeva come spiegarlo.
«…reali» fu tutto
ciò
che trovò da dire.
Franz
sollevò
un sopracciglio in attesa che continuasse.
«Non
si
riformeranno come quegli animali.»
Franz
sostenne
lo sguardo dell’ologramma per qualche secondo, poi lo
distolse in
segno di resa. «Okay» disse mentre si sporgeva di
nuovo. Le tre
nuvole di simboli erano ancora lì.
«Okay» ripeté. Si sfilò lo
zaino dalle spalle e ne tirò fuori la scatola delle lenti a
contatto
di Rebecca. Ne prese solo una. Con una mano si tenne aperto
l’occhio
destro, con l’altra applicò la lente.
Sbatté
le
palpebre velocemente, infastidito dalla sensazione, ma quando
riuscì
ad abituarsi e guardarsi intorno non notò nulla di diverso.
Si
sporse di
nuovo.
L’immagine
delle nuvole di simboli si sovrappose a quella di tre normalissimi
ragazzi.
Per
un po’
Franz si limitò a fissarli. Il suo cervello continuava a
passare da
una visione all’altra come se invece di trattarsi degli
impulsi di
due occhi diversi fosse solo questione di messa a fuoco. Poteva
osservare la loro fisionomia e poi i codici, come ossa in una
radiografia.
Lentamente,
i
simboli cominciarono ad acquistare un senso. Erano come una lingua
straniera che si può apprendere ascoltando a ripetizione le
stesse
frasi incomprensibili, notando di volta in volta i suoni ricorrenti e
associandoli a qualcosa di concreto.
C’era
una
particolare sequenza che appariva che si illuminava ad ogni battito
di ciglia e una che corrispondeva alla respirazione. Una
preannunciava movimenti della braccia, una indicava la ricezione di
suoni.
Franz
si
sporse di più.
Una
sequenza
per i capelli, una per le orecchie, una per il mento, una per le
labbra. Una per il tono di voce, una per la prontezza dei riflessi.
Più
guardava
e più ne decodificava. Più ne decodificava e
più se ne
aggiungevano.
Righe
e righe
di codice – informatico?, genetico? – si
avvolgevano dentro
quelle tre figure. Erano programmi? Esistevano programmi del
genere? Se erano programmi, chi li aveva scritti? Chi poteva
progettare qualcosa di tanto complesso?
Franz
era
troppo estasiato per essere vigile.
Lesse
il
comando di movimento – movimento del collo, ricezione di
nuove
immagini – ma non si mosse.
Lesse
il
momento in cui il ragazzo lo vide.
Lesse
l’impulso di parlare per richiamare l’attenzione
degli altri due.
E
lo fermò.
Fu
un battito
di ciglia. Non servì nessuna parola. Lavorò con
gli occhi?, con la
mente?, con qualche organo sconosciuto?
Funzionò
e
basta.
Franz
bloccò
il codice e fu come fermare il tempo. Sapeva di
poter
spingersi oltre, di poterlo anche modificare, riscrivere da zero se
necessario, ma aveva il terrore di rompere il delicato equilibrio che
lo rendeva speciale.
Spostò
lo
sguardo su gli altri due e fece lo stesso. Li bloccò.
«Andiamo»
disse poi, alzandosi in piedi.
«Ma
come...»
Bea gli andò dietro d’istinto, stupita che i tre
non avessero
nessuna reazione.
«Non
so
nemmeno io come ho...» Franz fissò Bea per la
prima volta da quando
aveva indossato la lente.
La
vedeva
nello stesso modo degli altri tre. Solo che nel suo caso era
l’occhio
con la lente a mostrare il codice e quello normale il suo aspetto
–
il che a dirla tutta aveva molto più senso.
«Andiamo»
ripeté solo, rivolto più che altro a a se stesso.
Attraversarono
il corridoio e spalancarono l’ultima porta.
Ad
un primo
sguardo la stanza non sembrava altro che uno sgabuzzino, ma a Franz
bastò qualche battito di ciglia per mettere a fuoco il
codice che
scorreva dietro una delle pareti e modificarlo per creare una varco.
Dall’altra
parte c’erano una scrivania con un computer fisso in stand-by
e
un’enorme antenna parabolica. E una decina di
ragazzi-programma che
lo fissavano increduli.
– ʘ –
Jeremy
era
ormai davanti alla fabbrica quando sentì il telefono vibrare.
COMPUTER
TROVATO, STO TENTANDO L’ACCESSO, diceva il messaggio di
Franz,
FIN’ORA NESSUN PROBLEMA.
Jeremy
si
concesse un sospiro di sollievo e rimise il telefono in tasca.
Lanciò
un
ultimo sguardo all’edificio abbandonato. Ci risiamo,
pensò
prima di entrare.
– ʘ –
La
città era
deserta.
Abbandonata
da
tutti i Programmi, Cartagine si riduceva ad un groviglio intricato di
cubi e cilindri mobili. Ludovic si sorprese di non aver pensato prima
ad un videogioco.
«Dove
sono
andati tutti?»
XANA
era solo
qualche passo avanti a lui. «Al mio arrivo hanno attuato una
procedura di emergenza» rispose senza fermarsi. «Si
stanno
ritirando tutti nelle torri dei vari settori, ma è una
procedura che
richiede tempo, alcuni sono ancora qui.» Ad un gesto della
sua mano,
una porzione di parete e di pavimento di ritirarono, rivelando delle
scale. «Devi coprirmi le spalle.»
Ludovic
doveva
quasi correre per starle dietro. Si chiese se nei videogiochi era
possibile cadere dalla scale – probabilmente sì,
arrecando punti
danno magari. «Tutto qui?» borbottò.
«Per
ora»
ringhiò XANA in risposta.
Si
infilarono
in un tunnel in cui furono costretti a strisciare e sbucarono su uno
strapiombo. Un unico stretto sentiero sospeso del vuoto portava
dall’altra parte, dove un gruppo di Programmi si affollava
agitato.
«Trovati»
mormorò XANA trionfante.
Quando
li
videro, i Programmi tentarono di scappare. Con semplici gesti delle
mani, XANA fece scomparire ogni possibile via di fuga. I Programmi
sembrarono seriamente valutare l’eventualità di
gettarsi nel
baratro.
«Coprirmi
le
spalle» ribadì XANA, poi attraversò di
corsa la passerella per
arrivare dall’altra parte. Si fiondò sui Programmi
come un
predatore, puntandone uno alla volta e atterrandoli con tutto il
proprio peso.
Appena
li
toccava, i Programmi sussultavano quasi avessero preso la scossa.
Quelli che non riuscivano a liberarsi in tempo diventavano
completamente grigi e cadevano a terra inermi.
Dopo
essere
rimasto qualche momento impalato, Ludovic agì mosso quasi
esclusivamente dalla paura.
Invece
di
preoccuparsi di proteggere XANA, si assicurò che nessuno dei
Programmi riuscisse a scappare. Cambiò angolazione della
gravità,
correndo sulle pareti del baratro e rispingendo indietro quelli che
tentavano di allontanarsi, come un cane pastore con un gregge
indisciplinato.
In
poco più
di dieci minuti fu tutto finito. Raccolsero i Programmi inermi e li
distesero uno accanto all’altro, poi XANA si
inginocchiò accanto
al più vicino.
Fece
scorrere
una mano sopra la figura umanoide, dalla testa ai piedi,
scannerizzandola. Una dopo l’alta, dall’interno si
illuminarono
delle righe di scritte incomprensibili attorcigliate tra loro e
dall’aria estremamente solida.
Quando
passò
sopra ad una spaccatura sulla gamba – una ferita –
mosse
leggermente le dita, come digitando su una tastiera invisibile, e
nuove indecifrabili parole nere comparvero dal nulla riempiendo e
cicatrizzando la zona.
XANA
ripeté
l’operazione più volte. Ad un certo punto
fermò la mano
all’altezza del ventre. Non c’erano danni visibili
ma due gruppi
di simboli continuavano a illuminarsi alternativamente.
XANA
aggrottò
le sopracciglia.
«Cos’è?»
chiese Ludovic avvicinandosi.
«Un
errore»
rispose lei senza distogliere lo sguardo. «Che non
è opera mia»
aggiunse dopo un momento, sovrappensiero. Premette la mano aperta
sulla pancia del Programma e dopo poco una delle due scritte di
annerì.
XANA
rimase
immobile per qualche istante, fissando i simboli illuminati e quelli
che aveva appena fatto spegnere. «Un tumore» disse
alla fine,
sollevando lo sguardo su Ludovic.
«Un
tumore?»
«Un
errore
nel codice personale di questo programma che non ha motivo di
esistere, è apparso senza una causa apparente e ruba energia
preziosa» spiegò XANA.
«L’equivalente del vostro tumore.»
Ludovic
si
fece ancora più vicino e si accovacciò per poter
vedere meglio. «E
tu puoi rimuoverlo?»
XANA
sollevò
la mano e le parole annerite sparirono definitivamente.
«L’ho
appena fatto.»
«Lo
hai
guarito?»
«L’ho
riportato alla sua massima efficienza.»
«È
l’equivalente della nostra guarigione?»
XANA
esitò a
lungo. «Immagino di sì» concluse infine.
«E
adesso?»
XANA
abbandonò
le mani in grembo e chiuse gli occhi.
D’istinto,
Ludovic fece un passo indietro.
Sotto
i suoi
capelli, delle sezioni della testa si illuminarono
dall’interno.
Dalla base della nuca fuoriuscirono due tentacoli grigi opalescenti.
Serpeggiarono nell’aria dietro di lei, allungandosi sempre di
più,
poi curvarono, le si portarono davanti e affondarono nel corpo del
Programma appena curato. Lo assorbì lentamente, tramutandolo
prima
in una massa fluida e informe e risucchiandone il codice riga per
riga.
Quando
ebbe
finito, i tentacoli si ritirarono e XANA riaprì gli occhi.
Senza la
minima reazione, raggiunse il Programma successivo e
ricominciò con
la scansione.
«Che
significa?» fece Ludovic. Quella procedura era rischiosa per
Rebecca? C’era una parte di Becky che era ancora cosciente,
che
cercava di ribellarsi? «Che cosa hai fatto a quel
Programma?»
XANA
lo
ignorò. Non trovò tumori nel suo nuovo paziente.
Appena ebbe curato
le ferite, chiuse gli occhi e tornò a concentrarsi.
«No!»
scattò
Ludovic. La afferrò per la spalla, allontanandola dal
Programma.
«Lasciami!»
Istantaneamente,
una fitta di dolore gli attraversò il braccio. Ludovic la
lasciò
andare con un urlo, ma rimase davanti al Programma.
«Spostati»
ringhiò XANA. «Lasciami lavorare.»
«NO,
se non
mi dici cosa stai facendo.»
«Non
sei
nella posizione di avanzare richieste, guerriero.»
«Hai
bisogno
di me» ribatté Ludovic. «Forse non
ancora, o non qui, ma hai
bisogno di me. O non ti saresti disturbata a trascinarmi con
te.»
XANA
gli
rivolse uno sguardo gelido. «Tu non sei che un piccolo anello
in
questa catena di eventi» dichiarò. «Tu e
i tuoi fratelli guerrieri
potete essere speciali – qualsiasi sia la metamorfosi subita
dai
vostri genitori – e io posso avere delle ritrosie ad
assoggettarti
perché sei un’interessante materia di studio, ma
non pensare mai,
nemmeno per un momento, di poter avere la meglio su
di me.»
Ludovic
sentì
un brivido gelido percorrergli la colonna e paralizzarlo. Le sue
gambe erano rigide come roccia.
XANA
si portò
proprio davanti a lui.
Aprì
la bocca
per chiederle di smetterla, ma dalle sue labbra non uscì un
suono.
«Hai
visto di
cosa sono capace» continuò lei.
«Così come guarisco i Programmi
posso anche danneggiarli. Posso distruggerli con un gesto della mano
se voglio. Credimi, è persino più
facile.»
Ti
credo, avrebbe
voluto gridare
Ludovic, TI CREDO!
Stava soffocando.
«Tu
appartieni a questo mondo più di quanto credi. Non so ancora
come
funzioni, ma non sei immune al mio potere.»
Allungò una mano e
gliela posò sulla spalla. «Per favore,
non farmi correre il
rischio di danneggiarti.»
La
pressione
si allentò di colpo, i polmoni si riempirono
all’istante, con un
risucchio, e Ludovic cadde in ginocchio.
XANA
lo aggirò
e tornò ad inginocchiarsi accanto al Programma. Le
spuntarono i
tentacoli dalla nuca e lo assorbì come aveva fatto con il
primo, poi
passò al successivo.
Ludovic
chiuse
gli occhi e si fece coraggio. «Ti sarò
più utile» disse
infondendo quanta più sicurezza possibile nella propria
voce, «se
so cosa stai facendo.»
«Li
scarico
sulla mia memoria» rispose XANA mentre si spostava sul
quarto.
«Aelita li porterà al generatore.»
– ʘ –
La
bambina –
Carlotta – le era sfuggita.
Yumi
e William
erano stesi sul pavimento. Erano bastati due colpi ben piazzati per
far perdere loro i sensi, ma la bambina era già sgusciata
via quando
si era girata per affrontarla.
Era
ancora lì
nella stanza, nascosta dietro qualche vecchio macchinario. Aelita
poteva sentire il suo respiro riecheggiare tra vecchie tubature e
circuiti caldi.
Sollevò
l’ennesimo lenzuolo ingrigito dalla polvere e
scoprì l’ennesima
scrivania. Un cumulo di cavi, vecchi hard disk e documenti scritti
fitti affollava il ripiano, ma della ragazzina nessuna traccia.
Maledetti
undicenni – abbastanza grandi da cominciare a pensare da
adulti, ma
ancora piccoli a sufficienza per potersi nascondere facilmente.
Aelita
stava
per scoprire un altro tavolo, probabilmente pieno solo di monitor
rotti e schede madri bruciate, quando un segnale acustico
richiamò
la sua attenzione. Tornò al super-computer.
Un
messaggio
di download lampeggiava sullo schermo. Aelita poteva quasi sentire
sul collo il respiro della ragazzina – ovunque fosse
nascosta, la
stava osservando. Sorrise e premette il pulsante di avvio.
Una
spia
cominciò a lampeggiare sulla tastiera. Ascensore in
movimento. Stava
arrivando qualcuno.
Aelita
lanciò
uno sguardo alle proprie spalle, verso la porta ancora chiusa. Quanto
tempo aveva? Minuti? Forse meno.
Pareti
e
soffitto erano attraversati da cavi e tubature di tutte le
dimensioni.
Mentre
i suoi
occhi continuavano ad ispezionare la stanza in cerca di nascondigli,
le sue dita tornarono alla tastiera e vi volarono sopra, le schermate
con i dati inviati da XANA che si susseguivano interminabile sullo
schermo.
– ʘ –
Nella
stanza
del super-computer l’aria era persino più stantia
di quanto Jeremy
si fosse aspettato.
Appoggiò
una
mano allo stipite della porta e per un momento rimase fermo sulla
soglia.
Tutto
sembrava
essere ancora esattamente come lo aveva lasciato. Il monitor era
acceso su una delle schermate iniziali, la sedia leggermente girata,
come se l’avesse lasciata così dopo essersi alzato
di fretta.
Solo
che
l’ultima persona ad essersi seduta lì doveva
essere stata…
«Yumi?
Will…»
Gli
bastò
avanzare di qualche passo per vedere i suoi amici accasciati a terra,
privi di sensi. Corse da loro, ma una figura piccola e scura gli si
parò davanti.
«Ma
che…!»
Carlotta
era
sporca di ruggine e aveva negli occhi uno sguardo tra lo spaventato e
il feroce. «Stai indietro» sibilò
brandendo un rubo rotto.
Jeremy
sollevò
le mani in segno di disarmo. «Che ti prende?»
«Come
so che
non sei posseduto anche tu?»
«Chi
altro…
Aelita. È stata qui?»
Carlotta
fece
per rispondere, poi si trattenne. «Come so che non sei
posseduto
anche tu?» ripeté.
Jeremy
ci
pensò seriamente «Non lo sai» rispose
alla fine. «Se fossi
posseduto avrei comunque a disposizione tutti i miei ricordi.
Credo.»
– ʘ –
Aelita
scivolò
dietro un’altra tubatura. In quel punto della stanza i
circuiti
erano così surriscaldati che c’erano ventole per
il raffreddamento
in ogni angolo. Il loro fischio costante copriva il rumore di ogni
suo passo.
Poteva
sentire
le voci di Jeremy e della bambina, ma non abbastanza bene da
distinguere ogni parola.
Si
fermò solo
quando trovò un pannello di controllo su una delle pareti.
Districò
il groviglio di fili che aveva raccolto da uno dei tavoli
finché non
trovò un cavo che vi si potesse inserire.
Il
download
dei dati di XANA era ancora in corso. Era riuscita a nasconderlo alla
vista sul monitor digitale, ma non aveva dubbi che Jeremy avrebbe
potuto trovarlo se avesse saputo cosa cercare.
Prima
di
lasciare il Kadic, XANA l’aveva rifornita di tutti i supporti
di
memoria esterna che era riuscita a procurarsi. Aelita
collegò il
primo al pannello e la barra di controllo cominciò subito a
riempirsi. Quanti programmi era già riuscita ad assimilare
XANA?
– ʘ –
«Dobbiamo
svegliarli» disse Carlotta mentre posava la sua arma di
fortuna su
uno dei tavoli. «E se avessero qualche contusione o qualcosa
del
genere? Qualcosa di grave.»
«Non
ci sono
traumi evidenti» le assicurò Jeremy mentre girava
intorno a
William. Lo girò a pancia in su e poi lo prese da sotto le
braccia.
«Aiutami. Prendi tua madre.»
«Non
riusciremo mai a portarli via di qui da soli»
protestò Carlotta.
Jeremy
scosse
la testa. «Dobbiamo solo arrivare agli scanner»
spiegò cominciando
a trascinare William. «I loro dati sono ancora sul computer.
Si
sveglieranno direttamente su Lyoko.»
Carlotta
lo
fissò senza capire, ma non fece altre domande.
– ʘ –
Il
download
del primo programma durò quasi dieci minuti, ogni secondo
più lungo
del precedente. Appena da blu la barra di caricamento divenne verde e
smise di avanzare, Aelita sostituì la memoria esterna e
avviò lo
scaricamento del programma successivo.
Premette
un
pulsante sul lato della memoria piena e la barra di caricamento
tornò
blu. Cominciò a scendere lentamente – i dati
venivano inoltrati al
generatore del Kadic con successo.
– ʘ –
La
mensa si
stava già iniziando a svuotare. Alcuni ragazzi tornavano in
camera a
dormire, altri progettavano come passare la serata, altri ancora
semplicemente indugiavano ai tavoli in grandi gruppi parlando tra
loro ad alta voce e talvolta arrampicandosi sulle sedie per dare
spettacolo.
Ulrich
e Sissi
si guardarono intorno leggermente storditi.
La
confusione
delle ultime ore aveva reso tutti più arzilli, ma nessuno
neanche
lontanamente agitato come lo erano loro. Per gli studenti e i
professori del Kadic c’era stato un temporale e poi qualche
problema di amministrazione.
Per
quelli
umani almeno. Né Ulrich né Sissi avevano idea di
quale fosse la
situazione tra i programmi.
«L’infermiera»
ricordò Ulrich, ma Sissi scosse la testa.
«Non
la
vedo.»
«Ma
Emma…»
Sissi
non
incrociò il suo sguardo. «Sarebbe inutile in ogni
caso» concluse
dopo un po’. «Se il problema di Emma è
la schiena, allora è
troppo grave per una semplice infermiera. E se non lo è
nessun
medico umano potrà aiutarla.»
«Allora
torniamo indietro. Oppure… non so, tu sei la preside, credi
che
tutti questi ragazzi siano al sicuro?» accennò con
un gesto a tutta
la mensa. O forse a tutto il Kadic.
«Farò
mettere un coprifuoco in modo che vadano tutti nelle loro
camere.»
Sissi adocchiò il personale scolastico presente, poi si
diresse
verso un tavolo occupato solo da professori. «E per domani
organizzerò qualche cosa in aula magna, in modo che stiano
tutti lì
quanto più tempo possibile.»
«Okay.»
Ulrich
rimase
indietro mentre Sissi parlava con i professori.
– ʘ –
La
lista di
nomi sembrava non finire più.
Franz
era
riuscito a trovare un elenco di tutti i programmi che erano stati
integrati nella scuola come studenti o personale. Da quanto risultava
nelle schede c’erano intere classi e interi collegi di
professori
costituiti esclusivamente da programmi. Solo alcuni, in via
sperimentale, erano stati inseriti in classe con ragazzi umani e
condividevano le stanze con alcuni di loro – come Anna con
Rebecca
e Julien con Ludovic.
«È
impressionante» commentò, rivolto a nessuno in
particolare. Bea era
di guardia, pronta ad avvertirlo se si fosse avvicinato qualcuno,
mentre tutti gli altri programmi erano come pietrificati.
I
primi aveva
dovuto controllarli con la mente perché non lo attaccassero,
ma poi
era riuscito a gestire i comandi dal computer e trovare il modo di
mandarli tutti in stand-by. Probabilmente tutta la scuola era piena
di persone invisibili congelati nel bel mezzo di una conversazione o
di un corridoio. Cosa stavano pensando tutti i ragazzi umani.
Niente,
visto che non possono vederli, ricordò a se stesso.
Stava
ancora
scorrendo la lista quando la schermata si riavviò da sola.
«Ma
che…»
Un
aggiornamento.
Quando
riapparve, nell’elenco c’era una nuova riga. Una
fatta solo di
lettere e numeri apparentemente senza senso, come un’immagine
scaricata da internet e non ancora rinominata.
Gli
bastò
usare il pensiero per aprire il nuovo file.
Un
programma
era appena stato inserito nel sistema. Uno nuovo, amorfo, senza un
nome, né un aspetto, né indicazioni
particolarità. Nel file
c’erano solo righe e righe di codice informatico, verde su
nero
così fitte da far venire il mal di testa.
«Tu
da dove
spunti?» mormorò Franz, e i suoi pensieri
avviarono dei nuovi
comandi.
Il
file
proveniva da una trasmissione appena completata. Una seconda montagna
di dati stava per essere scaricata proprio in quel momento.
Ma
da dove?
Sul
monitor
comparve una specie di grafico che mostrava la posizione della scuola
e poi un puntino luminoso ad una certa distanza.
La
fabbrica.
Era
suo padre
a mandare quei file? No, suo padre lo avrebbe avvertito.
Franz
spostò
lo sguardo sul cellulare lasciato accanto alla tastiera. La chiamata
partì ancora prima che avesse finito di formulare il
pensiero.
– ʘ –
Per
quanto
potesse sembrargli che il tempo non fosse passato, Jeremy era fuori
allenamento. Il processo di scannerizzazione era sempre la fase
più
delicata. Non poteva permettersi di distogliere lo sguardo dallo
schermo del super-computer.
Il
telefono
che squillava lo fece sobbalzare. Lo estrasse dalla tasca e lo porse
a Carlotta senza nemmeno guardare.
Sentì
la
ragazza afferrarlo e rispondere – era Franz – ma
non riuscì a
prestare attenzione alla conversazione.
– ʘ –
Su
Lyoko non
faceva freddo – non c’era temperatura –
ma la vista della
banchisa le mise i brividi. Yumi si limitò a osservare mente
il suo
corpo prendeva consistenza nel mondo digitale.
Alla
sua
destra, il ghiaccio si estendeva interminabile, liscio e lucido come
plastica, tagliente come non mai nel punti in cui era fratturato o
modellato in spuntoni.
Era
stata qui
più volte dopo aver lasciato il Kadic – nei suoi
sogni. Ma questa
volta era fin troppo consapevole di essere sveglia.
L’aria
intorno a lei aveva quella consistenza densa, quasi gelatinosa,
tipica non di un gas necessario alla respirazione ma semplicemente di
un altro elemento, consistente e modellabile proprio come la terra o
l’acqua.
L’acqua.
Alla
sua
sinistra, il ghiaccio era fratturato in pezzi sempre più
piccoli che
galleggiavano immobili sul mare digitale.
All’improvviso,
Yumi fu di nuovo consapevole di avere delle gambe, una schiena, della
braccia. Barcollò per un momento mentre tornava ad avere un
peso, ma
ritrovò subito l’equilibrio. Anzi, appena i suoi
sensi furono
tornati alla loro normale funzionalità si ritrovò
a pensare di
sentirsi particolarmente leggera.
William
comparve accanto a lei.
Le
loro forme
digitali non erano invecchiate. Nel mondo reale potevano essere
cresciuti e cambiati, ma su Lyoko erano sempre gli stessi guerrieri,
agili e forti come il giorno che se n’erano andati.
Yumi
ritrovò
i propri ventagli. Se li rigirò tra le mani, stupita che le
sue dita
ricordassero esattamente come manovrarli.
Un
senso di
euforia la pervase.
Prese
la
rincorsa e scavalcò una sporgenza di ghiaccio. Poi
un’altra, e una
terza. Saltando lanciò uno dei ventagli che distrusse uno
spuntone e
poi le tornò in mano, un attimo dopo aver toccato di nuovo
terra.
Rise
mentre
girava su se stessa e tornava verso William. «È
meraviglioso!»
urlò lui brandendo la sua spada gigantesca.
«Sembra di essere
tornati indietro nel tempo!»
«Yumi,
William. Mi sentite?»
La
voce di
Jeremy riecheggiò nelle loro teste.
«Jeremy!»
saluto William. «Jeremy è grandioso! Non credevo
che mi mancasse
ma…»
«Cosa
ci
facciamo qui?» lo interruppe Yumi.
«Aelita
vi
aveva messi KO. È posseduta. Ho pensato che portarvi
direttamente su
Lyoko fosse la scelta migliore.»
«Lo
era!»
esclamò William.
«Perché?»
chiese invece Yumi. «Cosa dobbiamo fare?»
Jeremy
produsse una specie di risata. «Oh,
la solita roba»
affermò. «Fermare
XANA. Combattere gli eventuali mostri
digitali lungo la strada. Salvare il mondo digitale dalla
distruzione.»
Yumi
strinse
la presa sui ventagli e passò in rassegna la banchisa con lo
sguardo
finché non individuò la sagoma di una torre in
lontananza. Sorrise.
«Nulla che non abbiamo già fatto.»
|
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Capitolo 11 *** 11. Il male necessario ***
CodeLyoko METAMORFOSI banner
Metamorfosi
Cap11;
begin
write('Il male necessario');
readln;
end.
Franz
non
aveva nemmeno più bisogno di guardare lo schermo. Era
proteso in
avanti con le dita intrecciate davanti alla tastiera e la testa
protesa in avanti, i capelli attirati verso il monitor
dall’elettricità statica. Da sotto le palpebre
socchiuse poteva
percepire le luci sullo schermo cambiare continuamente, ma le
procedure ormai avvenivano quasi esclusivamente nella sua testa.
Esplorare
i
dati del computer era diventato ormai semplicissimo, ma modificarli
era ancora un problema. C’era qualcosa all’interno
dei programmi
che codificavano per i ragazzi ologramma che li rendeva intoccabili.
Franz poteva cambiare il modo in cui le informazioni in loro
contenute venivano lette dal computer ma non la loro base –
come
una foto di cui poteva alterare colori e contrasti, persino le
dimensioni a volte, ma mai le proporzioni dell’immagine di
fondo.
«C’è
qualcosa che ti sfugge» disse Bea da chissà dove
nella stanza –
forse non era affatto nella stanza, forse Franz non l’aveva
nemmeno
sentita con le orecchie ma con qualche altro senso. «A cosa
stava
lavorando chi ha scaricato questi Programmi?»
La
ricerca
durò pochissimi secondi.
Un
sistema di
proiezione efficace.
I
Programmi
erano funzionanti e attivi. Giravano autonomamente
all’interno
della scuola e interagivano tra di loro, ma non con gli umani.
Chiunque ci stesse lavorando – XANA, a quanto pareva
– non era
ancora riuscito ad inserirli nel mondo reale.
«Ma
io cosa
dovrei fare?» si chiese Franz. «Riuscire dove altri
hanno fallito o
distruggere tutto?»
«Potresti
farlo?» Non c’era sorpresa nella voce di Bea, ma
Franz percepì
ugualmente la sua paura.
– ʘ –
Jeremy
aveva
individuato i download appena Franz glieli aveva segnalati, ma non
riusciva a interromperli. Doveva esserci qualche tipo di bug, una
rudimentale protezione informatica che gli permetteva di assistere al
processo di scaricamento dati ma che gli impediva di intervenire.
«Non
puoi
scoprire dove si trova chi sta scaricando i file?»
domandò
Carlotta, in piedi accanto a lui come una guardia del corpo.
«Posso
provarci. Ammesso che il sistema del super-computer sia attrezzato
per farlo.»
«Contiene
un
intero modo digitale e non riesce a localizzare un
terminale?»
esclamò la ragazza incredula.
A
Jeremy non
sfuggì l’ironia della situazione. «Chi
l’ha costruito era
sicuramente un genio, ma è comunque un sistema di
trent’anni fa,
non uno smartphone con il GPS.»
Carlotta
fece
una smorfia di disappunto, poi sembrò illuminarsi.
«Il
super-computer forse no, ma il telefono di Aelita
sì.» Afferrò il
cellulare che Jeremy aveva lasciato accanto al mouse.
– ʘ –
Per
tutto il
tempo in cui avevano corso verso la torre, William e Yumi avevano
sentito dei rumori provenire dalla costruzione e Jeremy aveva
segnalato loro un’intensa attività al suo interno.
Quando la
raggiunsero, però, c’era il silenzio
più assoluto.
Sotto
i loro
occhi, l’alone azzurro che circondava la torre si
affievolì fino a
scomparire e divenne rosso.
«Qualcosa
mi
dice che per farla tornare normale non basterà inserire il
solito
CODE LYOKO come ai bei vecchi tempi» commentò Yumi.
«Purtroppo
lo penso anch’io»
replicò la voce di Jeremy. «È
cambiato tutto» aggiunse dopo un
istante. «Non
riconosco nessuna delle vecchie funzionalità della torre.»
William
spostò
il peso della spada da una spalla all’altra. «Tu
aprici un varco,
al resto pensiamo noi.»
Nel
giro di
pochi istante una porzione della base della torre si fece traslucida
e Yumi e William non esitarono a passarci attraverso. Si ritrovarono
sulla solita piattaforma rotonda, circondati dalla solita miriade di
schermi olografici attraversati da righe e righe di codice binario.
Per
un momento
sembrò una delle torri di sempre.
Poi
notarono
la spirale di scale che si arrampicava sulla parete e i ripiani
sporgenti come tanti piccoli balconi. E accasciati ovunque, come
cadaveri dopo una strage, c’erano dei corpi umanoidi vuoti e
trasparenti come degli involucri di vetro.
Yumi
strinse
la presa sui propri ventagli e precedette William sulla prima rampa
di scale. Si chinò accanto al primo corpo che
incontrò e lo tastò
cautamente. Al tatto era caldo e aveva la consistenza del silicone.
«Jeremy…»
sussurrò.
«Vedo
ciò
che vedete voi» fu la risposta. Yumi dovette
sforzarsi di
ricordare che solo lei e William potevano sentire la sua voce.
William
rimase
in piedi ma si fece più vicino, la spada abbassata al suo
fianco.
«Cosa sono?»
«…persone?»
mormorò Yumi.
«No,
è impossibile. Nessun altro oltre a voi è stato
scannerizzato e poi
i miei dati sono diversi. Ci sono dei programmi dietro di loro
–
dentro di loro.»
«Solo
degli
essere digitali quindi?»
«Non
ho mai visto niente del genere. Non ho mai visto…
È SPARITO!»
Yumi
e William
sussultarono all’urlo improvviso di Jeremy. Yumi
balzò in piedi.
«Ne
stavo guardando uno ed è sparito. Proprio sotto i miei
occhi!»
William
si
guardò intorno senza notare nulla di diverso da prima.
«Dov’era?»
«In
alto.»
Ripresero
a
salire, guardandosi sempre intorno e aggirando tutti i corpi che
incontravano, silenziosi come fantasmi.
Yumi
si fermò
per prima. Diede un leggero colpo alla spalla di William e gli
indicò
un punto in alto. Su una piattaforma circolare si muovevano due
figure, una chiara e una scura.
Continuarono
a
salire finché non ebbero una visuale migliore.
La
figura
scura non faceva che raccogliere corpi trasparenti e portarli sulla
piattaforma dove quella chiara li ispezionava uno per uno. Dopo poco
lunghi tentacoli traslucidi le spuntarono dalla nuca e cominciarono a
risucchiare alcuni dei corpi.
«Ne
stanno sparendo altri» li
informò Jeremy. «In qualche
modo qualcuno li sta…»
«…cancellando?»
suggerì William.
«No.
No, li
sta scaricando. I file che XANA sta scaricando e Aelita
ritrasmettendo alla scuola sono questi… corpi. Qualunque
cosa
siano…»
«Fermala
Jeremy» disse William. «Qualunque cosa significhi,
se è XANA deve
essere fermata.»
«Posso
provarci. Sto cercando di-- Will-- XA-- ‘ando fuori--
‘mmi--»
«Jeremy?
JEREMY?»
– ʘ –
«No.
No, NO!»
stava urlando Jeremy. «William? Yumi? Mi sentite? XANA mi sta
tagliando fuori. Dovete…»
Carlotta
smise
di ascoltarlo.
Si
arrampicata
su pilastri e tubature e ora era appollaiata su una grata sporgente,
proprio sopra una ventola di aerazione che con il suo ronzio copriva
il rumore dei suoi passi.
Poteva
vedere
Aelita da lì, nascosta tra un tavolo e il muro, concentrata
su un
piccolo pannello di controlli.
Carlotta
sorrise e si mise in tasca il telefono di Jeremy ora che il GPS non
le serviva più. Doveva riuscire ad avvicinarsi ancora senza
farsi
notare.
Poco
più in
là c’era un’altra grata sporgente.
Avrebbe potuto arrivarci con
un salto ma avrebbe fatto troppo rumore. Afferrò un tubo
poco sopra
la sua testa, sporgendosi il più possibile. Rimanendo
aggrappata
solo con le braccia, sollevò i piedi. Rimase appesa per
qualche
istante, poi allungò le gambe verso la nuova piattaforma.
Quando
fu di
nuovo stabile tornò a guardare Aelita. Non si era ancora
accorta di
lei. Era vicinissima orma, ma non sapeva che fare. Avrebbe dovuto
stordirla? L’idea di colpire quella che considerava una zia
non le
piaceva, ma quale altro modo aveva di fermarla?
Saltò
giù.
L’atterraggio fece male ma non ebbe il tempo di
preoccuparsene.
Aelita
sussultò e le fu addosso in un batter d’occhio,
inchiodandola a
terra.
Carlotta
urlò
e scalciò con tutte le proprie forze. Tastò il
pavimento intorno a
sé finché le sue dita non si strinsero attorno a
qualcosa di solido
con cui colpì la propria avversaria su un fianco.
Aelita
rimase
senza fiato e Carlotta poté sgusciare via dalla sua presa,
ma fece
solo in tempo a rialzarsi prima che l’altra tornasse alla
carica.
Carlotta
portò
le braccia davanti alla testa e Aelita si bloccò un istante
prima di
colpirla. I suoi occhi erano puntati sull’oggetto che la
bambina
stringeva ancora in mano – una grossa memoria esterna che
stava
trasmettendo.
«Sta’
indietro o la distruggo» ruggì subito Carlotta
minacciando di
sbatterla contro la parete.
«No!»
Aelita
alzò le mani in segno di resa. «Non pensarci
nemmeno.»
– ʘ –
«Posso
fare
qualcosa per voi?»
Odd
dovette
trattenere un urlo. Si voltò di scatto.
«Scusi,
non
intendevo spaventarla» gli assicurò
l’infermiera alzandosi da
dietro la scrivania.
«Lei
non era
lì fino ad un attimo fa!»
«Mi
scusi»
ripeté la donna, poi aggrottò le sopracciglia
confusa. «Credo di
essermi addormentata.»
«Lei
non…»
Odd ricordò che Chris aveva detto che c’era una
donna seduta
immobile alla scrivania, una di quelle persone che solo i ragazzi
riuscivano a vedere. «Mia figlia è
caduta» si limitò a dire.
La
donna si
avvicinò al lettino su cui Emma era ancora distesa immobile.
Tastò
la ragazza in modo strano, come se la trovasse estremamente
scivolosa, ma dopo un po’ riuscì a girarla su un
fianco. «C’è
qualcosa che non va nella sua schiena.»
Odd
aggrottò
le sopracciglia. «Non è un commento molto
medico.»
«Non
riesco a
vedere bene con la maglietta.»
Odd
allungò
una mano verso la spalla della donna. Le sue dita la attraversarono
senza incontrare il minimo ostacolo.
Lei
invece fu
percorsa da un brivido e fissò la sua mano a bocca aperta.
«Voi…»
Aveva gli occhi spalancati, pieni di stupore. Li spostò su
Emma.
Fece scivolare di nuovo la mano sulla sua schiena. La maglietta della
bambina non si sollevò, ma era evidente che le dita della
donna
riuscissero a toccare la pelle. «Non è
possibile…» sussurrò
tornando a guardare Odd. «Siete umani.»
Non
era una
domanda, ma Odd annuì.
Fu
il turno
della donna di allungare una mano verso di lui. Non incontrò
ostacoli. Se avesse avuto gli occhi chiusi avrebbe giurato che
c’era
solo aria intorno a lei.
Rimase
in
quella posizione per pochi lunghissimi momenti, con una mano
affondata nel petto di Odd e l’altra ancora appoggiata sulla
schiena di Emma.
«Voi…
potete-» I suoi occhi erano lucidi. «potete
vedermi? E-- e
sentirmi?»
Odd
si portò
una mano sul petto, proprio nel punto in cui scompariva il polso
della donna. Continuava a non sentire niente – non un
cambiamento
di pressione, non una differenza di temperatura. Forse solo
dell’elettricità statica – ma poteva
trattarsi di suggestione.
«Vi
vedo»
confermò. «E vi sento.»
La
donna emise
un sospiro commosso. «È bellissimo»
disse ritirando la mano.
L’attimo
dopo scomparve.
– ʘ –
Chris
aveva
appena raggiunto suo padre e la preside quando sentirono il primo
urlo. Gli altri non tardarono ad arrivare. Non erano suoni che
esprimevano dolore, ma spavento.
Si
voltarono
tutti e tre contemporaneamente e tornarono verso la mensa.
Gruppi
di
ragazzi si guardavano a vicenda, confusi.
«Mi
sembrava
fossero molti di meno» osservò Ulrich.
Chris
aggrottò
le sopracciglia. «Io non noto differenze.»
«Da
dove
diavolo saltano fuori?» strillò una ragazza
appiattendosi contro
una parete e indicando un gruppo seduto al tavolo più vicino
a lei.
«Non
erano lì
prima!» esclamò un altro ragazzo riferito ad un
altro piccolo
gruppo.
«Stanno
parlando con noi?» chiese uno dei ragazzi puntati riferendosi
a
quello accanto.
«Riuscite
a
vederci?» scattò un altro.
Per
un momento
calò il silenzio e Sissi si fece avanti. «Di che
classe siete?»
domandò ad alcuni dei ragazzi che tutti puntavano.
«2°L»
rispose subito uno di loro.
«Non
esiste
la sezione L!» ribatté qualcuno. Altri gli fecero
eco.
Eppure
Sissi
ricordava quella sezione. «Da quanto tempo sei
qui?» chiese ancora
al ragazzo che aveva risposto.
«Due
mesi.»
Significava che doveva essere arrivato durante l’estate,
prima
dell’inizio della scuola. Prima di qualsiasi studente.
«Avete
proceduto voi al mio inserimento nel sistema.» Il ragazzo la
guardava come se allo stesso tempo lo terrorizzasse e le fosse grato.
Dopo un po’ sembrò confuso. «Vengo dalla
foresta di Lyoko»
specificò.
Ulrich
trattenne il fiato. Sissi si limitò a sbattere
più volte le
palpebre e a guardarsi intorno.
«C’è
forse
qualche problema con il sistema?» domandò la voce
fievole di una
bambina.
Sissi
la fissò
senza sapere cosa rispondere.
Tra
i ragazzi
comparsi dal nulla cominciò a diffondersi un mormorio
agitato.
«Che
sta
succedendo?» ruggì un ragazzo da un altro tavolo.
Quando si alzò
in piedi tutti quelli che gli stavano intorno si fecero indietro
–
un paio strillarono che non era lì fino ad un attimo prima.
«Dov’è
XANA?»
«Chi
sta
gestendo il generatore?»
«Che
sta
succedendo?»
«Dov’è
XANA?»
La
sala
sembrava sul punto di esplodere quando i ragazzi scomparvero. Di
punto in bianco, la metà dei tavoli erano vuoti e le voci si
erano
dimezzate. Quasi tutti urlarono di nuovo.
Sissi
guardò
Ulrich e Chris in cerca di aiuto.
Ulrich
scosse
la testa impotente, per dire che ne sapeva quanto lei.
«Io
vedo
ancora tutti» disse invece Chris.
– ʘ –
«C’è
qualcuno» disse XANA appena riaprì gli occhi.
Ormai
riusciva
ad assimilare più programmi insieme, e ogni volta diventava
più
veloce – gli ultimi cinque erano svaniti in meno di un minuto.
Ludovic
si
guardò intorno finché non individuò
due figure che salivano dai
livelli più bassi.
«Sono
i tuoi
genitori.»
Ludovic
sgranò
gli occhi, poi li socchiuse per mettere a fuoco meglio. Le sagome
corrispondevano effettivamente a sua madre e suo padre, ma il loro
modo di muoversi era diverso. Erano cacciatori nel loro ambiente
naturale.
«Non
devono
arrivare a me» continuò XANA. «Conoscono
Lyoko, sono guerrieri
esperti. Non sottovalutarli.»
«Non
devo per
forza scontrarmi con loro» tentò di protestare
Ludovic, ma lei lo
ignorò.
«Ti
servirà
un’arma.»
Improvvisamente,
una cinghia comparse di traverso sul suo petto e un nuovo peso
gravò
sulle sue spalle. Quando allungò una mano
all’indietro le sue dita
trovarono una faretra piena di frecce. L’attimo dopo un arco
alto
quasi quanto lui apparve al suo fianco.
«Dammi
più
tempo possibile.»
Ludovic
lanciò
a XANA una lunga occhiata prima di correre giù per le scale.
Si
mosse molto più velocemente di quanto si aspettasse. In
pochi
secondi solo un livello lo separava dai propri genitori.
Vederli
da
vicino era ancora più strano. Erano giovani –
molto più giovani
di quanto li avesse mai visti di persona e diversi da qualsiasi
fotografia gli avessero mai mostrato. Prima non si era reso conto di
quanto Lyoko sembrasse avere la grafica di un videogioco.
Yumi
stava
esaminando l’ennesimo Programma inerme.
«Jeremy!»
stava invece ripetendo William. «Dannazione! Questo non era
mai
successo.»
Yumi
fece per
rispondergli, ma quando alzò la testa il suo sguardo
incontrò
quello del figlio.
«Ludovic!»
Un sorriso di sollievo le illuminò il volto mentre balzava
in piedi
ma poi adocchiò l’arco e le frecce e
esitò.
«Stai
bene,
Ludo?» chiese William.
Annuì.
«Non
sono posseduto» assicurò loro. «Ma
dovete allontanarvi dai
Programmi.»
«I
Progra--?»
Yumi capì che si riferiva ai corpi. Il suo sguardo si
indurì. «Chi
c’è con te?» con la testa fece un cenno
verso l’alto.
«Rebecca?»
Ludovic
annuì
di nuovo, poi si corresse: «È XANA.»
Yumi
stringeva
nelle mani dei ventagli. Ludovic era sicuro non ci fossero un attimo
prima. Strinse la presa sull’arco.
William
scavalcò il Programma inerme e salì di qualche
gradino. «Ci
occuperemo noi di lei.»
«Sta’
indietro» lo ammonì Ludovic.
«Lo
abbiamo
già fatto.»
«Non
voglio
arrivare ad uno scontro, papà.»
«Qualunque
cosa ti abbia detto, non è vera. Ludo, XANA è
pericolosa, ma
possiamo batterla.»
«Non
sai di
cosa è capace. Non hai visto come ha neutralizzato i
Programmi. O
come…»
«Non
è
invincibile. Noi-»
«Sta’
indietro!» ripeté Ludovic quando suo padre
ricominciò a salire. Si
rese conto di non saper usare un arco, ma subito la sua mano si mosse
per estrarre una freccia dalla faretra e incoccarla con una
fluidità
allarmante. XANA lo aveva dotato anche di una buona mira?
«Mamma,
allontanati da quel Programma.»
Lei
obbedì e
raggiunse William. «Cosa ci fa XANA? Se vuole distruggerli,
allora
dobbiamo proteggerli.»
«No!»
ruggì
Ludovic. «Lei li cura.»
«Ti
sta
raggirando, Ludo!» Mentre parlava, Yumi fissò un
punto in alto.
Ludovic
riconobbe la leggera luminescenza che emanavano i tentacoli che XANA
usava per assorbire i Programmi. Si concesse un’unica
occhiata
rapidissima – fece in tempo solo a notare che
c’erano ancora più
tentacoli della volta precedente, quasi una decina.
«Al
diavolo!»
imprecò William, poi scattò. Prima che Ludovic
potesse agire, gli
era davanti, lo superò con un balzo sovrumano e
continuò a salire.
Ludovic
prese
la mira e scoccò in una frazione di secondo. Aveva
già in mano una
nuova freccia quando la prima si conficcò a pochi passi da
suo
padre. Ci fu una piccola esplosione, i gradini più vicini
scomparvero e William precipitò fino al livello inferiore.
Ludovic
puntò
per farlo cadere ancora più in basso, ma quando
scoccò la freccia
qualcosa lo colpì e ne deviò la traiettoria. Ebbe
il tempo di
sbattere le ciglia prima che il ventaglio tornasse indietro. Si
chinò
per non essere colpito e l’arnese tornò tra le
dita di sua madre.
«Non
sei in
te» esalò Yumi coprendo la distanza che li
separava. «Mi dispiace»
disse solo, prima di colpire.
Ludovic
parò
il primo colpo con l’arco, ma il calcio che seguì
lo mandò a
terra. Sfruttò la caduta, rotolò e
scoccò di nuovo appena fu in
ginocchio. La freccia si scontrò con un ventaglio a
mezz’aria e
l’esplosione si perse inutilmente.
Yumi
gli fu di
nuovo addosso. Ludovic cercò di farla cadere usando
l’arco, ma lei
lo evitò con una capriola e poi lo colpì alle
gambe.
Cadde
in
ginocchio. Si buttò sulla schiena e usò le gambe
per sferrare calci
finché non riuscì ad allontanarla.
William
li
aveva raggiunti di nuovo. Ludovic lanciò una freccia nella
sua
direzione, ma William la deviò con la spada mandandola a
schiantarsi
molto più in basso.
Ludo
era di
nuovo in piedi in mezzo ai suoi genitori. I due si scambiarono
un’unica occhiata d’intesa, poi Yumi si
voltò e riprese a
salire, William rimase ad affrontare il figlio.
«Se
non sei
posseduto allora non devi farlo per forza.»
Ludovic
fu
sfiorato dall’idea che quello era il momento giusto per
voltare le
spalle a XANA e aiutare i suoi genitori, magari riuscire persino a
tornare nel mondo reale.
Eppure
c’era
qualcosa che gli diceva che quella non era la scelta giusta. Che se
XANA avesse voluto solo una guardia del corpo allora avrebbe potuto
possederlo davvero.
«Se
puoi
scegliere, Ludo, …»
Non
ascoltò.
XANA aveva guarito quei Programmi. E perché guarirli se il
suo scopo
era distruggerli?
«Allora
scelgo di difenderla.» Impugnò l’arco
con entrambe le mani, come
un bastone da combattimento, e piroettò su se stesso per
imprimere
più forza al colpo.
Will
riuscì a
scansarsi e poi a contrattaccare con la spada. «Sta facendo
del male
a Becky?»
«Becky»
disse tra un colpo e l’altro «starà
– bene»
Rebecca
doveva
essere ancora lì, da qualche parte. Se la sua coscienza non
faceva
nulla per opporsi a XANA doveva esserci un buon motivo. Rebecca non
poteva essere stata semplicemente spenta.
– ʘ –
Carlotta
non
ci avrebbe pensato due volte a lasciar cadere a terra la memoria
esterna e schiacciarla con lo scarpone fino a distruggerla
completamente se una mano non si fosse chiusa sulla sua impedendole
di mollare la presa.
«Jeremy!»
esclamò incredula voltandosi.
Aelita
tornò
a respirare, ma lo fissò con lo stesso stupore.
Carlotta
cercò
invano di liberarsi dalla sua presa. «Che diavolo stai
facendo?»
«La
cosa
giusta» rispose Aelita. «Finalmente sta aprendo gli
occhi.»
«Non
so
ancora quale sia la cosa giusta da fare» ribatté
Jeremy. Posò la
mano libera sulla spalla di Carlotta nel tentativo di calmarla.
Lentamente liberò la memoria esterna dalle sue dita.
«Così
la
aiuti!» protestò ancora la ragazza.
«Chissà cosa sta
trasmettendo! Chissà cosa…»
«Sono
programmi. XANA li sta prelevando da Lyoko e lei li ritrasmette ad un
altro computer all’interno della scuola.»
L’espressione
di Aelita si tese.
«Franz
ne ha
il controllo» rivelò Jeremy. «Ha il
controllo di tutta la scuola.»
Aelita
serrò
la mascella. «Non è vero.»
«La
scuola
non è tutta un computer»
protestò Carlotta. «Franz non
può…» ma era inutile finire la frase,
nessuno dei due adulti la
stava ascoltando – sembravano impregnati in una conversazione
telepatica piuttosto.
«Qualsiasi
cosa siano gli esseri che vi hanno posseduto,» disse infine
Jeremy
ad alta voce «sono collegati al computer della scuola e qui
siamo
fuori dal suo raggio d’azione.
Significa…»
«...sono
cosciente» finì Aelita. «Ma
anche…» il suo sguardo si fece
vacuo.
Jeremy
non
aspettò una vera risposta. «Questi
programmi» accennò alla
chiavetta nella propria mano, «cosa hanno di
speciale?»
Aelita
lo
fissò con una intensità tale che i suoi occhi
parvero più azzurri
che mai.
«Tutto»
rispose.
– ʘ –
Quando
Will
arrivò sull’ultima piattaforma i corpi trasparenti
erano quasi
tutti scomparsi. I pochi rimasti erano stati tutti agganciati ai
tentacoli di XANA.
Rebecca
era
sospesa a mezz’aria, gli occhi chiusi e la testa reclinata
all’indietro. Tutto il suo corpo era illuminato
dall’interno,
come il paralume di una lampada accesa.
Will
maledisse
XANA per aver scelto di possedere proprio lei –
l’ultima persona
a cui avrebbe voluto fare del male – ma non esitò.
Fece
roteare
la spada e con un movimento secco recise ben due tentacoli. Il rumore
di uno strappo precedette l’urlo di XANA. Mentre i due
monconi si
agitavano impotenti, come se stessero cercando di colpirlo alla ceca,
Will raggiunse i due corpi trasparenti che aveva liberato. Fece per
trascinarli via, ma quelli si spaccarono sotto la sua presa come
gusci d’uovo troppo fragili.
Will
rimase
interdetto, una manciata di frammenti ancora tra le mani. Si era
aspettato che fossero freddi e duri come vetro, o almeno lisci come
silicone. Invece irregolari, umidi fin quasi ad essere scivolosi,
della consistenza del formaggio duro.
«NO!»
XANA
era tornata a terra, tutti i tentacoli rientrati e gli altri corpi
spariti con essi. «Che cosa hai fatto!» Nella sua
espressione c’era
rabbia, ma nella sua voce… nella sua voce c’era
dolore.
Corse
verso di
lui e William si spostò di lato impugnando la spada con
entrambe le
mani, ma lei gli passo accanto e si buttò in ginocchio
accanto ai
due corpi. «No, noNONO!»
Muovendosi a scatti, con mani
tremanti, tastò loro il petto, esaminò i punti in
cui le dita di
Will si erano strette e spaccato la spalla di uno e il gomito di un
altro. Li toccava come se fossero fragili, e preziosi – come
se
tenesse davvero a loro.
«No!»
urlò
ancora, e questa volta fu un grido di dolore. Quando alzò lo
sguardo
su Will, i suoi occhi erano azzurri, senza nessuna traccia dei cerchi
simbolo di XANA – quando alzò lo sguardo, era di
nuovo Rebecca.
«Li hai uccisi.»
«Io…»
«LI
HAI
UCCISI!» ripeté alzandosi in piedi, le mani
strette e pugno e gli
occhi lucidi. Lo raggiunse, ma tutto ciò che fece fu
spintonarlo e
sferrargli pugni da bambina contro il petto. «Sono morti, morti!»
«Rebecca,
Rebecca sei tu?» Lasciò cadere la spada. Le
afferrò i pugni e la
fissò negli occhi. «Se sei
tu….»
«Credete
di
sapere tutto! Tutto! Erano un miracolo, erano un miracolo e tu li hai
uccisi!» continuò ad urlare lei, sempre
più sconvolta. «Non
sapete niente, invece, NIENTE.»
William
vide
l’esatto momento in cui la rabbia ebbe la meglio sul dolore.
In cui
XANA tornò, questa volta così in sintonia con la
propria ospite da
non aver nemmeno bisogno di controllarla.
«Non
vi
lascerò rovinare tutto» dissero entrambe.
«Non dovete vincere
questa battaglia.»
Le
sue iridi
brillarono come fari. William dovette distogliere lo sguardo.
Qualche
livello più in basso, Yumi e Ludovic li fissavano con il
fiato
sospeso.
Le
pareti
della torre si illuminarono di rosso e una cascata di olografici 0 e
1 si riversò su di loro come grandine.
_CODE_XANA_,
lesse Will ad un certo punto, poi sentì la piattaforma
sparire da
sotto i suoi piedi. Si ritrovò a precipitare senza
però cadere
davvero. Si ritrovò a stringere il vuoto invece che i polsi
di
Rebecca. Non c’era più nessuno, non
c’era più nulla intorno a
lui se non un mare rosso in codice binario. E un dolore non suo che
toglieva il fiato.
Ci
fu
un’implosione, semplice come fiato trattenuto, dolorosa come
una
pallottola piantata nel cuore. Il mondo intero sembrò
comprimersi,
ripiegarsi su se stesso, vorticare, bruciare fino a consumarsi del
tutto, fino a spegnersi per sempre.
Quando
riaprì
gli occhi – di nuovo in un corpo, di nuovo vivo, nonostante
tutto –
Will si sentì più disorientato che mai.
Era
al buio,
era a corto di aria. Aveva bisogno di correre, sferrare pugni e
nuotare fino a prosciugare tuta quell’energia repressa che
stava
bollendo dentro di lui.
Si
agitò.
Batté le mani contro le pareti che lo circondavano.
Chiamò i nomi
di Yumi, Ludovic, Rebecca, Jeremy, XANA persino.
Furono
gli
istanti più lunghi della sua vita. Poi, come era successo
dopo ogni
singola missione su Lyoko, il pannello della sua capsula per lo
scanner si aprì scivolando di lato e lui poté
fare un passo fuori,
alla luce, e tornare a respirare.
Lo
assalì una
vertigine e dovette puntellarsi con una mano alla parete, ma poi,
finalmente, tutto passò.
Batté
le
palpebre e tornò a vedere normalmente. Si sentì
stanco, ma lucido.
Di
Rebecca e
Ludovic non c’era traccia, ma Yumi stava uscendo in quel
momento
dalla capsula accanto. William la raggiunse con due ampie falcate e
la prese tra le braccia prima che perdesse l’equilibrio. La
strinse
a sé con tutte le proprie forze, accarezzandole una tempia
con la
propria e ripetendo il suo nome.
– ʘ –
Non
sentirono
la spia di allarme finché non fu una vera e propria sirena.
Jeremy
fu il
primo a girarsi. Lasciò andare Carlotta e tornò
di corsa al
supercomputer, la chiavetta ancora in mano.
«Non
è
possibile» esclamò quasi senza accorgersene.
Carlotta
lanciò uno sguardo esitante ad Aelita, poi lo raggiunse.
«Che
succede?»
«È
XANA, ha
distrutto una torre. Un’intera
torre.»
Per
Carlotta
quella frase non aveva senso.
«E
i
download?» chiese Aelita.
Jeremy
digitò
qualcosa sulla tastiera e si aprirono nuove schermate.
«Completati»,
rispose inserendo nell’apposito portale la chiavetta che
aveva
tenuto in mano. Poi qualcosa catturò la sua attenzione.
«Un
momento.» Scorse rapidamente il riepilogo del download.
«Due file
sono incompleti. Lo scaricamento deve essersi interrotto quando la
torre è stata distrutta. Dio, è un miracolo che
non abbia distrutto
tutto il settore.»
«Impossibile»
decretò Aelita. «XANA non lo avrebbe mai fatto.
Dev’essere colpa
dei guerrieri!»
Carlotta
aggrottò le sopracciglia. «Intendi i miei
genitori?»
«William
e
Yumi!» Jeremy trattenne il fiato mentre riprendeva a digitare
comandi. Riprese a respirare solo quando lesse che erano tornati con
successo nel mondo reale.
– ʘ –
«Pronto?»
«Franz!»
Odd
schiacciò il telefono contro l’orecchio appena il
ragazzo rispose
alla chiamata. «Alleluja, gli altri non rispondo al telefono
e io
non so cosa cavolo fare.»
«Ho
tutto
sotto controllo zio Odd, l’importante è che Emma
stia bene e--»
«Emma
non sta
bene! Non è ancora ripresa e più tempo passa
più mi preoccupo.
Senza contare che l’infermiera è appena comparsa
dal nulla e poi
sparita di nuovo!»
Seguì
un
momento di pausa.
«Davvero?»
fece Franz dopo un po’.
«Sì,
davvero.»
Di
nuovo
silenzio.
«Adesso
provo
una cosa» disse ad un certo punto. «Tu dimmi se
riappare.»
Odd
cercò di
protestare e fare domande, ma dall’altra parte del telefono
Franz
non diede nessun segno di star ascoltando.
«Niente?» chiedeva ogni
tanto, e puntualmente Odd rispondeva che “no, non era
cambiato
niente”.
Stava
per
ripeterlo per la testa volta quando la donna riapparve. Esattamente
la stessa, esattamente nello stesso punto in cui era scomparsa.
«Davvero non riesco a crederci» disse, come se non
fosse passato
neanche un secondo dall’ultima volta che aveva parlato.
Notò che
Odd era in una posizione diversa da quella in cui l’aveva
lasciato
e sollevò entrambe le sopracciglia.
«Li
avevo
mandati tutti in stand-by perché credevo di non essere
riuscito a
cambiare niente» spiegò intanto Franz.
«Davvero non credevo…
insomma ma è comparsa o no?»
«Sì»
rispose semplicemente Odd. «È proprio qui, davanti
a me.»
«Incredibile»
commentarono contemporaneamente Franz e la donna.
«Credo
che
abbia appena parlato. Odd hai sentito cosa ha detto?»
«Sì.
Lo
sentivo anche prima.»
«Ottimo!
Puoi
descrivermela?»
Odd
spostò il
peso da un piede all’altro, nervoso. L’infermiera
intanto aveva
ricominciato ad esaminare Emma. «È alta, con
capelli scuri. Porta
un camice bianco.»
«Sono
Lisa
Guard.»
«Dice
di
chiamarsi Lisa Guard.»
«Sì,
sì!
SÌ!» la voce di Franz era un
concentrato di gioia. «Dimmi
altro ti prego. Tutto quello che vedi di lei, è importante.
Tutto.
Non ti preoccupare non si offenderà.»
«Tu
cosa…
okay… Ho già detto che è molto alta?
E… ha un brutto naso.»
La
donna non
reagì minimamente.
«Che
significa un brutto naso?»
«Aquilino,
credo si dica. Senti, perché non mi fai tu delle domande?
Anzi,
perché non mi spieghi cosa sta succedendo, Franz?»
Ci
fu qualche
rumore, come se il ragazzo si fosse spostato, poi riprese a parlare.
«Sono Programmi, zio Odd. E li ho tutti davanti a me. A
quanto pare
ci sono da un sacco di tempo, ma nessuno riusciva a vederli. Tranne
noi, anche se non so perché. Ora sto cambiando delle
impostazioni in
modo che tutti possano riuscire a vederli, sentirli, insomma a
interagire. Io non noto differenze per questo avevo smesso, ma mi
stai dicendo che invece ci sono riuscito! Odd, chiunque abbia creato
questo server ci ha provato per anni! L’ho visto nelle schede
di
memoria. Siamo circondati da Programmi. La tua descrizione della
donna mi serve per sapere se vedi correttamente il Programma
“6U4RD_L154” o devo apportare
delle correzioni alle
proiezioni.»
L’infermiera
aveva girato Emma a pancia in giù sul lettino e continuava a
tastarle la schiena.
«Ora
sta
visitando Emma?» chiese Franz.
«Sì,
perché?»
«Sto
ricevendo dati da lei. Sto ricevendo il suo referto. Si carica
lentamente. Odd, intanto dimmi: di che colore sono i suoi occhi? Ha
la pelle chiara o scura? Le sue braccia…»
Delle
voci
allarmate richiamarono l’attenzione di Odd. Corse alla porta
e si
affacciò nel corridoio.
«Franz?»
«Sì?»
«Se
io vedo
l’infermiera, significa che sono comparsi anche tutti gli
altri
Programmi che sono nella scuola?»
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