Metamorfosi

di Artemide12
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bevenuti, o bentornati ***
Capitolo 2: *** Pazzia, o genialità ***
Capitolo 3: *** Spiegazioni, o almeno in parte ***
Capitolo 4: *** Perfettamente imprevisti ***
Capitolo 5: *** Cercare, o cercarsi ***
Capitolo 6: *** Conoscersi, o riconoscersi ***
Capitolo 7: *** Confondere, o sorprendere ***
Capitolo 8: *** Fare ritorno ***
Capitolo 9: *** Bloccati, o controllati ***
Capitolo 10: *** 10. Unisciti, o perisci ***
Capitolo 11: *** 11. Il male necessario ***



Capitolo 1
*** Bevenuti, o bentornati ***


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Metamorfosi Cap1;

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    write('Benvenuti, o bentornati');

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end.


Elisabeth incrociò lo sguardo del proprio riflesso sul portafoto vuoto, poi tornò a fronteggiare i due ragazzi seduti davanti a lei dall’altra parte della scrivania.

Le sembrava solo ieri la prima volta che se li era ritrovati nel suo ufficio, aveva riconosciuto i loro cognomi e si era rassegnata agli anni di tormento che sarebbero seguiti.

Ludovic Dumbar e Rebecca Belpois.

L'indisciplinato e il genio.

Nel corso di un solo anno scolastico, lui si era presentato in presidenza almeno due volte al mese. Ad un certo punto aveva preso tanta confidenza con l’ambiente che a volte sembrava lui il preside ed Elisabeth la studente indisciplinata. Era una sensazione frustrante – Ludovic aveva un talento naturale per mettere a disagio le persone. Forse il segreto stava nei suoi occhi, così neri da essere tutta pupilla, e nello sguardo fisso e perforante. O forse, più in generale, stava nel suo modo di muoversi, camminando come se tutto il mondo fosse suo e atteggiandosi con la consapevolezza del suo corpo prestante.

Il primo giorno che Elisabeth lo aveva visto non le era sembrato altro che uno di quei ragazzi che sono cresciuti troppo all’improvviso, estremamente alto e magro, con una zazzera incontrollabile di capelli scuri e un certo scoordinamento dovuto alle nuove proporzioni del suo corpo. Non avrebbe mai immaginato che in pochissimi mesi sarebbe diventato un atleta così dotato che il professore di ginnastica aveva smosso mari e morti per non parlo espellere.

Rebecca era tutta un'altra storia.

L'unico ricordo che aveva di lei era di quando aveva trascinato lei stessa Ludovic in presidenza per la prima volta perché le aveva danneggiato dei dischi, o qualcosa del genere. Elisabeth ricordava i capelli rosa perché erano una particolari, ma per il resto era praticamente impossibile richiamare alla memoria le altre caratteristiche fisiche. Aveva gli occhi azzurri, praticamente trasparenti, ma portava gli occhiali? Era alta o bassa? Femminile o no?

Il suo nome ricorreva quando si parlava di eccellenze. Era sempre puntuale e non perdeva neanche una lezione. Dire che sapeva tutto di tutto era dire poco – il suo cervello sembrava capace di immagazzinare tonnellate di informazioni senza nessuno sforzo. Le attività scolastiche per lei erano una specie di semplice routine quotidiana: si svegliava, mangiava, andava a scuola e poi… Cosa ci fosse “poi” era un mistero. Si chiudeva in camera sua? Andava in giro per la scuola? Passava il tempo a studiare sui tetti?

Appena la campanella suonava, di Rebecca Belpois si perdevano definitivamente le tracce.

Si era presentata in presidenza prima dell’inizio delle lezioni del secondo anno perché Ludovic aveva lanciato sassi alla sua finestra.

Dopo averli congedati, Elisabeth si voltò a guardare fuori dalla finestra.

Il cortile esterno era ormai pieno di nuovi studenti appena arrivati.

Era il momento di entrare in scena.


ʘ –


Carlotta saltò giù dalla panchina appena li vide arrivare.

Emma corse ad abbracciarla e per un momento le due non furono altro che un groviglio unico di braccia e di capelli neri e lunghi di una e corti e biondi dell’altra. Quando finalmente si separarono, Chris e Franz salutarono Carlotta con un sorriso e andarono a sistemarsi su un muretto.

Da lì potevano vedere oltre la calca di gente.

«Wow, la preside non è niente male!» commentò Chris individuando la donna vestita di rosso ferma in cima alle scale d’ingresso. Aveva già iniziato il suo discorso di benvenuto.

Franz si portò una mano sopra gli occhi per ripararsi dal sole. C’era una luce particolare quel giorno, fredda ma intensa, che faceva sembrare bianchi i suoi capelli biondi.

Entrambi ridacchiarono. Pensare che la preside una volta aveva una cotta per il padre di Chris li divertiva, già pensavano di mettere in giro quella voce.


ʘ –


Elisabeth prese un bel respiro, poi sfoggiò un altro sorriso studiato e prese un elenco.

«Classe I A» annunciò. «Xavier Audrier.»

Un ragazzo con naso e guance bruciati dal sole salì i gradini e le venne a stringere la mano.

Stese le labbra in una sottospecie di sorriso e ritornò al foglio. Gli angoli della bocca si abbassarono all'istante, ma riuscì a ricomporsi in fretta.

«Franz Belpois» chiamò e subito sollevò lo sguardo per vedere chi tra i ragazzi della folla.

Un ragazzo che aveva tutta l'aria di essere mezzo albino scese dal muretto e si fece largo tra la folla.

In effetti era molto pallido, ma non poteva essere albino. Non con quegli occhi.

Dorati.

È solo la luce, si disse.

Il ragazzino le porse la mano e lei si ricordò di stringerla, ma non ricambiò il sorriso.

«Fratello di Rebecca Belpois?» chiese, ricordandosi all’improvviso che anche lei era molto pallida.

Franz annuì vigorosamente, poi si voltò e tornò indietro.

Elisabeth tornò all'elenco. E si chiese se non lo avessero fatto apposta. Se il fato non se la fosse presa con lei.

«Carlotta Dunbar.»

Un'altra figlia di William. Sperò che non le avrebbe creato tanti problemi quanto il fratello.

Appena si mosse, quella ragazza attirò su di sé gli sguardi di tutti. Era alta e slanciata proprio come il fratello, con lunghissimi capelli mossi, così neri da avere riflessi viola, e enormi occhi blu elettrico.

Carlotta le arrivò davanti e le porse la mano con un movimento fluido. Quasi troppo fluido, come se il suo intero corpo fosse fatto di fumo.

Non sorrise minimamente, proprio come avrebbe fatto Yumi.

Sissi – improvvisamente sentì tornare a galla quel suo vecchio soprannome – si sentì obbligata a fare altrettanto.


ʘ –


Jeremy, che aveva finalmente trovato parcheggio, corse per raggiungere gli altri.

«Hanno già cominciato?» chiese tirandosi su gli occhiali.

«Sì» rispose Aelita. «E hanno già chiamato Franz. Classe I A»

«Questa sì che è sfortuna!» commentò il biondo, riferendosi chiaramente al fatto di essere arrivato in ritardo.

«Hanno chiamato anche Carlotta, ma non Emma e nemmeno Chris» riassunse William.

«Sembra strano tornare qui dopo tanto tempo» osservò intanto Odd, le braccia incrociate e le spalle appoggiate al muro.

Ulrich saltò giù dal muretto. «Almeno questa volta non ci sono mostri digitali in circolazione.»

«Già, una vera noia» continuò Odd. «Senza Lyoko dove passare il tempo libero, come faranno a sopportare le giornate?»

«Forse se la caveranno meglio di noi» osservò Yumi. Lei, tra tutti, era forse quella che era cambiata di più.


ʘ –


Carlotta si stava costringendo a rimanere composta, ma un’orribile sensazione di disagio si stava facendo strada dentro di sé. Era cominciata appena era scesa dalla macchina e si intensificò appena entrò nell’edifico del Kadic.

Sembrava che migliaia di occhi la stessero osservando attraverso le pareti. Percepiva una specie di presenza.

«Stessa classe» esultò Franz e lei sussultò nel ritrovarselo davanti.

«Come sempre» fu tutto ciò che trovò da replicare.

Ormai la classe si era formata.

«Non ci sono Emma e Chris.»

Carlotta fece spallucce.

Furono condotti in un'aula ampia e luminosa. Carlotta e Franz si sedettero accanto alla finestra. La ragazza allungò la testa per guardare fuori e incrociò lo sguardo di un uccello variopinto.

Lui strillò qualche nota pimpante e un po' comica che la fece sorridere. Poi l’'uccello prese a cantare ininterrottamente.

Carlotta dovette tapparsi le orecchie ad un certo punto.

«Sshh» gli fece, ma quello la ignorò.

Afferrò la prima cosa che trovò sul banco e gliela lanciò contro. La piccola gomma gli passò attraverso, ma l'uccello si zittì. I suoi occhi divennero cerchi bianchi e azzurri, spiegò le ali e volò dentro la stanza.

Nessuno si accorse di nulla.

L'uccello si posò sulla spalla di Carlotta, gli artigli praticamente affondati nella carne. Cercò di scacciarlo, ma proprio non voleva lasciarla.

«Carlotta, sta' ferma, che ti prende?» fece Franz.

«Maledetto uccello!»

«Quale uccello? Non hai niente sulla spalla.» Per dimostrarglielo agitò la mano dove c'era l'uccello. Lo attraversò, ma produsse un suono stranissimo fendendo l’aria.

L'uccello si zittì di nuovo e volò via.

Carlotta si ricompose. Si guardò intorno preoccupata e lo sguardo le cadde sulla porta socchiusa. Suo fratello era proprio lì fuori e la fissava con occhi sgranati.

Carlotta chiese di poter andare in bagno e corse fuori.

«Che ci fai qui?» sussurrò.

«È anche la mia di scuola.» Ludovic la afferrò per un braccio e si incamminò verso le scale.

«Che stai facendo? Dove andiamo?»

«Non dire nulla. Non qui.»

«Perché? Cosa dovrei dire?»

«Tu li vedi.»

«Vedo chi?»

Salirono le scale velocemente e non si fermarono neanche davanti al cartello che avvertiva dei lavori all'ultimo piano.

«Ludo, che stai facendo?»

«Non ci sono i lavori, tranquilla. Il soffitto perde e le aule sono tutte messe male, non vogliono che gli studenti ci vadano.»

Si fermarono di botto. Carlotta riuscì a liberarsi dalla stratta del fratello.

«Cosa c'è?»

Ludovic indicò l'allarme. «Ehi, Jonny, che si dice?»

L'allarme si accese, ma non suonò.

«LUDOVIC! È GiÀ PASSATA TUTTA L'ESTATE?»

Carlotta strillò. «Ma che… ?»

«Sì dormiglione. Dì a Jessy di chiudere un occhio.»

«SPIACENTE, MA ABBIAMO LITIGATO E...»

«E non vi rivolgete più la parola se non in caso di emergenza, proprio come l'anno scorso. Dai, su, che vi presento una persona.»

L'allarme produsse uno strano suono, una specie di sbuffo.

Carlotta guardava il fratello e il sistema elettronico con gli occhi sgranati.

Una telecamera, posizionata poco più in alto, ruotò all’improvviso e si puntò su di loro. «QUELLA Sì CHE È UNA BELLA RAGAZZA, COME LA CONOSCI?» gracchiò stridula.

«Carlotta è mia sorella, dobbiamo andare sul tetto.»

«UN MINUTO E 30 SECONDI: 90, 89, 88,...»

Ludovic la condusse fuori dalla finestra in una scala antincendio piuttosto pericolante. Arrivarono sul tetto proprio mentre la telecamera strillava gli ultimi numeri.

«Ludovic, cosa diavolo significa?»

«Tu lo vedevi, quell'uccello? Lo vedevi, vero?»

«Certo che lo vedevo! Perché me lo chiedi?»

«Perché è un anno che quei mostri mi perseguitino e se anche tu li vedi, se anche tu senti parlare l’allarme e la telecamera, significa che non sono pazzo.»

«Cosa sono?»

«Non lo so. Ma anche Jonny e Jessy li vedono. Per questo mi sento al sicuro sotto qui.»

«E non possono venire qui su?»

«Non possono uscire dalla scuola.»

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Capitolo 2
*** Pazzia, o genialità ***


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Metamorfosi Cap2;

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end.


«Che cos'era? Quell'uccello, dico.»

«Non lo so di preciso. Vedo esseri simili dall'inizio dell'anno scorso. Appaiono praticamente all'improvviso, senza una logica apparente. Non sono sempre animali, a volte li ricordano solo vagamente. Ci ho messo un po' a capire che ero il solo a vederli. Gli altri non si accorgono minimamente della loro presenza. Ma loro possono attraversarli come fossero inconsistenti, io se vado loro contro mi faccio male.»

Carlotta annuì ripensando agli artigli dell'uccello che le arpionavano la spalla.

«Credevo di essere impazzito. Credevo di vedere delle specie di demoni nella mia testa» continuò Ludovic. «Quando ho cominciato a parlare con ogni apparecchio elettronico stavo seriamente per farmi ricoverare.»

«Come hai fatto prima con l'antifurto e la telecamera?»

«Già, se non fosse stato per quei due non sarei mai sopravvissuto. Riescono a vedere quei cosi e avvertirmi prima che mi raggiungano. Credevo che anche loro fossero il frutto della mia immaginazione, una specie di campanello per avvertirmi dell’arrivo di allucinazioni più grosse. Tu però li hai sentiti. Ah, non posso crederci! È troppo bello per essere vero!»

«Sì, Ludovic, davvero è fantastico vedere cose che non ci sono…»

«Ma se le vediamo entrambi significa che ci sono eccome! Che sono gli altri ad essere ciechi!»

Una folata di vento sollevò i capelli di Carlotta e glieli spalmò sulla faccia. Lei se li risistemò furiosamente dietro le orecchie e tornò a stringersi le ginocchia al petto. Non soffriva di vertigini, ma il tetto spiovente non le sembrava esattamente sicuro.

«Se ci trovano qui siamo fregati» commentò mentre saggiava la resistenza di una delle mattonelle con il piede.

«Nessuno viene mai sul tetto» le assicurò il fratello. «E, anche se qualcuno dovesse farlo, Jessy mi avviserebbe subito. È una gran pettegola, sai?»

«Ludo, stai parlando di una telecamera, come poi essere tanto tranquillo?»

«Possibile che tu non ti renda conto? Abbiamo delle specie di super-poteri, come quelli dei film.»

«Quelli in cui i malcapitati finiscono in laboratorio, o quelli in cui sono costretti a vivere emarginati a causa del loro segreto e a combattere nemici per poi sentirsi dire dalla stampa che sono a loro volta dei criminali?»

Ludovic sbuffò. «Ti ho fatto vedere troppe volte l'uomo ragno e X-man, Lott.»

«Decisamente.»

Finalmente un sorriso attraversò il viso di Carlotta. I suoi occhi blu scintillarono alla luce del sole mentre quelli di Ludovic si fecero, se possibile, ancora più neri.


ʘ –


Emma sbadigliò rumorosamente e appoggiò la testa alle braccia incrociate sul banco. Era il primo giorno, ma già sentiva che non ce l'avrebbe mai fatta.

Chris, accanto a lei, si appoggiò allo schienale della sedia. «Se questa è la prof più allegra penso che troverò il modo di farmi espellere.»

«Perché? È così male?»

Chris la fissò divertito. «Ma la stai ascoltando?»

Emma scosse la testa. «Per niente.»

«Una più noiosa non poteva capitarci. Meno male che non c'è Franz a ricordarci quanto sia importante la storia.»

«Già, però se lo dovrà sorbire Lott!»

«Lei potrebbe sopportare un terremoto senza neanche alzarsi dalla sedia.»

Emma alzò la mano e chiese di poter andare in bagno. Chris la seguì fuori dalla classe senza dire niente e senza farsi notare.

«Hai intenzione di seguirmi anche in bagno?»

«Perché, hai davvero intenzione di andare in bagno?»

«No» rispose la bionda, incrociando le braccia dietro la testa e riprendendo a camminare.

Chris si infilò le mani nelle tasche e la seguì.

«Giro di esplorazione?» propose dopo un po' il ragazzo.

«Io voto per il cortile.»

«Chi arriva per ultimo fa i compiti all'altro per un settimana» dichiarò Chris cominciando a correre.

Emma assottigliò lo sguardo. Si chinò in avanti e scattò. Guadagnò terreno in poco tempo.

Quando si vide raggiungere, Chris accelerò all'istante.

Sfrecciarono per i corridoi così velocemente che molti non li videro neanche passare.

Erano così concentrati da dimenticare tutto il resto. In quel momento per loro esisteva soltanto il terreno sotto i piedi e l'avversario da superare.

Girarono un angolo a tutta velocità e per poco non si schiantarono contro una parete.

«Ma qui...» ansimò Chris «non doveva... esserci... una porta?»

«Forse... dobbiamo... studiare meglio la piantina della scuola prima della prossima gara.»

«Sono d'accordo. Tanto penso che in questa prima settimana non ci daranno tanti compiti.»

Emma stava per ribattere, ma dei passi interruppero entrambi.

La preside fu davanti a loro in pochi istanti. Non sembrava più la donna avvenente che li aveva chiamati all'entrata, o meglio, lo era ancora, ma in quel momento tutto in lei incuteva rispetto.

Divaricò leggermente le gambe trovando il giusto equilibrio sui tacchi alti e li fulminò con lo sguardo. «Della Robbia, Stern, che state facendo?»

«Noi... ci siamo persi, dobbiamo ancora orientarci.»

Lo sguardo di Elisabeth si spostò sulla parete dietro di loro.

«Tornate in classe. Subito!»

Emma e Chris le sfilarono accanto e si affrettarono a tornare sui loro passi. Rientrarono in classe proprio durante il cambio d'ora e nessun insegnate sembrò accorgersi di nulla.

Fecero appena in tempo a tornare ai loro posti in terza fila, che entrò un uomo alto e muscoloso. Li scrutò uno per uno, poi disse loro di accomodarsi.

Si presentò come il professore di ginnastica. Aveva un'aria giovanissima, avrà avuto poco più di vent'anni. Il suo bell'aspetto bastò ad attirare l'attenzione di Emma, gli occhi vispi e il sorriso simpatico quella di Chris.


ʘ –


Franz guardò l'ora per l'ennesima volta. Non era da Carlotta assentarsi così a lungo da una lezione.

Tra poco la nuova professoressa avrebbe rifatto l'appello e avrebbe certamente notato la sua mancanza.

Ma Carlotta rientrò appena in tempo. Aveva lo sguardo completamente assente, ma almeno c'era fisicamente.

Un paio di ragazzi non riuscivano a levarle gli occhi di dosso. Lei li ignorò. Franz spesso si chiedeva se almeno li notasse. A volte era convinto di no.

«Dove sei stata?»

«In giro.»

«A fare che?»

«A chiacchierare con mio fratello, una telecamera e un antifurto.»

Franz alzò gli occhi al cielo e la lasciò perdere.


ʘ –


«Forza ragazze, basta riscaldamenti. Sono solo cento metri, prenderò i tempi migliori» annunciò il professore prendendo il cronometro che portava appeso al collo.

Emma si posizionò insieme alle altre cinque ragazze sulla linea di partenza.

Alla destra del percorso si trovavano dei grossi alberi secolari, a sinistra c'erano i maschi e le altre ragazze che si stavano ancora riscaldando.

Guardò le altre ragazze. A parte una, non sembravano molto atletiche.

«Forza, ragazze!» le incitò l'insegnante.

Emma si chinò in avanti, le mani che toccavano terra.

«Ai vostri posti,»

Fissò intensamente la linea di arrivo.

«pronti,»

Tese i muscoli.

«VIA!»

Il suo scatto fu talmente rapido che distanziò immediatamente le altre ragazze di almeno dieci metri. Sentiva il terreno sotto i piedi retrocedere, come se fosse esso a muoversi e lei a stare ferma. Il vento le si infrangeva sulla faccia e su tutto il corpo cercando inutilmente di rallentarla.

A meno di due metri dall'arrivo, la vista le si appannò leggermente e batté più volte le palpebre. Quando nel giro di pochissimi istanti tutto tornò nitido, davanti a lei c'era un gatto viola.

Fermarsi di botto a quella velocità era impossibile. Puntò i piedi e tentò di scavalcarlo saltandolo. Rotolò a terra fermandosi sulle quattro zampe.

Sentiva il ritmo martellante del suo cuore nelle orecchie.

Girò la testa. Le altre ragazze erano ancora a metà percorso.

Il gatto viola era al suo posto. Lo vide agitare la coda e voltarsi verso di lei e, per quanto assurdo che fosse, sorriderle. Fu un movimento appena accennato, ma spaventosamente reale.

Batté di nuovo le palpebre. Il gatto era scomparso. Non come se fosse corso via, come se quel semplice movimento lo avesse cancellato.

Le altre ragazze ormai erano arrivate e tutti la guardavano sbigottiti.

«Miglior tempo e nuovo record della scuola per una ragazza del primo anno durante la prima corsa» si complimentò il professore. «Mi aspetto molto da te, della Robbia.»

Emma annuì senza alzare lo sguardo.

Si spostarono dalla pista.

«Come diavolo hai fatto? A saltare in quel modo, intendo!» La voce di Chris le fece risollevare lo sguardo.

Il ragazzo trasalì e si zittì.

«Che c'è?»

«I tuoi occhi! Sono lilla.»

«Ah» commentò svogliatamente la ragazza.

«No, Emma, non sono grigiastri come al solito, sono serio, sono proprio lilla!»

«Sì, e il gatto era viola. Dev'essere colpa della luce.»

«Quale gatto?»

Emma si morse la lingua.

Se l'era immaginato. Doveva esserselo immaginato. Non esistevano gatti viola. Così come non esistevano gatti che apparivano e scomparivano o che sorridevano.

Andò a sedersi su una panchina e immediatamente una ragazza dai capelli rossi e ricci e gli occhi verdi le fu accanto.

«Fai atletica? Sei una campionessa? Non ho mai visto nessuno così veloce! Potresti tenere testa ad un maschio!» La ragazza la guardava eccitata.

«Mi alleno al parco ogni tanto» si limitò a dire.

Un miagolio attirò la sua attenzione. Abbassò lo sguardo.

Il gatto viola era proprio ai suoi piedi. Gli occhi gialli la fissavano giocosi.

Ignoralo, Emma, ignoralo.

Il gatto le si avvicinò e si strusciò affettuosamente sulle sue gambe. Come poteva non essere reale? Quel gatto era lì, non c'era dubbio!

Alzò immediatamente lo sguardo sulla rossa che stava continuando a farle domande a raffica.

«Io sono Anna, tu come ti chiami? E come si chiama il tuo amico moro? E conosci anche quella spilungona con gli occhi blu? Vi ho visto parlare insieme e...» trasalì e sgranò gli occhi.

Avvicinò il volto così velocemente a quello di Emma che lei capì di essersi ritratta solo dopo qualche secondo.

«Hai degli occhi bellissimi! È impossibile, sono lilla. Hai le lenti a contatto?»

Forse quella era un'ottima scusa. Si limitò ad annuire.

«Oh, corrono i maschi!»

Emma fissò Chris. Lui non fece altrettanto. Era concentrato sul percorso come lo era stata lei pochi minuti prima.

Il professore diede il via.

Chris non diede il meglio di sé. Emma lo vide chiaramente: si impegnò per arrivare secondo invece che primo.

Il gatto continuava a strusciarsi insistentemente contro la sua gamba. Facendo finta di allacciarsi una scarpa si chinò e tentò di allontanarlo.

Le saltò in grembo, poi balzò sulle ginocchia di Anna. Lei non sembrò accorgersi di nulla. Continuava a parlare praticamente da sola e a gesticolare.

Alcuni ragazzi si stavano lamentando di essere stati spinti e insistevano nel rifare la gara.

Il gatto viola saltò su un muretto e scomparve dall’altra parte, ma il suo miagolio continuò a sentirsi. Si fece sempre più forte.

Emma si portò le mani alle orecchie.

«Tutto bene?» sobbalzò e soffocò un grido nel sentire la voce di Chris così vicina. Mentre tentava inutilmente di regolarizzare il respiro, Emma lo fissò con gli occhi spalancati.

La testa le girava leggermente. La vista di Chris le dava inspiegabilmente fastidio. Era come se lui fosse troppo nitido rispetto a tutti gli altri ragazzi. Come se tutti gli altri non fossero altro che uno sfondo per qualcos'altro.

Per un momento Chris la fissò come se fosse pazza, la lasciò andare e fece qualche passo indietro. Il modo in cui si muoveva era troppo dinamico, troppo fluido... Troppo!

Emma inspirò profondamente e chiuse gli occhi. Quando li riaprì Chris era accanto alla fontanella e si stava sciacquando la faccia.

Emma allontanò le mani dalle orecchie. Tutto sembrava stranamente silenzioso.

Aguzzò l'udito.

Sentiva gli uccelli sugli alberi canticchiare dei motivetti allegri e rispondersi a vicenda. Uno seguiva l'altro, come in un'infinita e incessante reazione a catena.

Più ascoltava e più sentiva.

Troppi suoni le arrivavano alle orecchie e sembravano rimbombarle all'interno del cranio. Con orrore si accorse che le sue orecchie si stavano muovendo autonomamente, quasi avessero autonomia propria. Al contrario di quanto ordinava loro il cervello, continuavano a tendersi per registrare nuovi suoni, come un'antenna della radio avida di nuove frequenze.

Ma non erano solo le orecchie a ribellarsi al suo controllo e a funzionare troppo bene.

La sua vista si fece all'improvviso nitidissima. Poteva vedere tutto: ogni singolo granello di polvere nell'aria, ogni singola foglia su ogni singolo ramoscello su ogni singolo albero, ogni singolo sassolino sul terreno, ogni singolo studente all'interno delle aule attraverso ogni singola finestra.

Al suo naso arrivavano molti più odori di quanti potesse registrare. Si accumulavano creando ancora più confusione in quel delirio di sensi.

Si guardò intorno senza sapere cosa fare.

Il naso le bruciava, le orecchie le pulsavano, gli occhi sembravano dover uscire fuori dalle orbite.

Serrò le palpebre. Si portò le mani alle orecchie. Trattenne il respiro.

Mentre i polmoni smaniavano aria nuova, lei si trovò a chiedersi se fosse più insopportabile quel dolore o il caos incontrollabile nella sua testa.

Poi l'istinto ebbe la meglio e ispirò.

L'aria che le uscì dalla bocca portò con sé un rantolo.

Il suo cervello, incapace di gestire tutti quei dati, sembrò andare in tilt. In un istantaneo blackout tutto si fece nero e silenzioso e ogni sensazione si annullò.

Non sentì il suo corpo cadere a terra. Accolse con sollievo torpore e incoscienza. Sperò che il buio inghiottisse tutto il resto abbastanza a lungo.


ʘ –


Seduta sul letto, le cuffie stereo in testa, gli occhi fissi sullo schermo del portatile posizionato sulle gambe incrociate e la schiena appoggiata alla parete, Rebecca non sollevò neanche lo sguardo quando qualcuno entrò con la chiave.

Entrò una ragazza minuta con lunghi capelli ricci color sangue e occhi verde smeraldo.

«Ciao.»

Rebecca non sembrò neanche accorgersi di lei.

«Io sono Anna, condivideremo la stanza.»

Le dita di Rebecca continuarono a scorrere rapidissime sulla tastiera e mosse impercettibilmente la testa a ritmo della musica.

Anna appoggiò la valigia e le due borse che portava con sé sul letto e cominciò a disfarle.

«Tu quale armadio hai preso?» chiese avvicinandosi ai due mobili identici.

Ne aprì uno e lo trovò vuoto. Aggrottò le sopracciglia e aprì anche l'altro. Vuoto. Anna fece spallucce e mise i suoi vestiti in quello di sinistra.

«I capelli li hai tinti, vero?» domandò continuando a tentare di cominciare una conversazione.

Rebecca non annuì neanche. Tanto, anche se avesse detto la verità, che quello era il suo colore naturale, nessuno le avrebbe creduto. Si assicurò che gli chignons in cui aveva legato i capelli rosa fossero ancora ben saldi sulla testa.

Gli occhi così chiari da avere solo un vago riflesso azzurrino non si staccarono neanche per un momento dallo schermo.


ʘ –


«Franz? Tutto okay?»

Carlotta gli sventolò una mano davanti alla faccia.

Lui si riscosse appena. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla lavagna.

L'insegnante aveva scritto una semplice espressione, ma appena aveva posato il gesso lui aveva visto altri numeri e strani simboli comparire sulla lavagna come se non fosse altro che uno schermo.

Cercava di leggere, di capire. Inutilmente. Era come ipnotizzato, non riusciva a distogliere lo sguardo.

Le sue pupille si muovevano freneticamente nel tentativo disperato e praticamente involontario di comprendere la logica con cui numeri e simboli nuovi si affollavano sulla superficie nera mentre altri scomparivano come se vi affondassero.

«Franz!»

Allarmata, Carlotta lo scosse leggermente.

Pessima idea. Franz per poco non diede di stomaco. Si prese la testa tra le mani, premendosi le tempie con le dita. Serrò le palpebre sugli occhi finché non vide altro che nero.

Altra pessima idea. I simboli riapparvero. Tornarono a galla e gli si ripresentarono davanti agli occhi. Scacciarli era impossibile.

Spalancò gli occhi, ma continuava a vederli. Gli stavano entrando nella testa. Li sentiva vorticare dentro al cervello, intrecciarsi ai suoi pensieri fino a rendere incomprensibili entrambi.

Per un attimo, sfruttando uno dei suoi ultimi pensieri coerenti, credette di impazzire.

Poi, all'improvviso, tutto cominciò a defluire, come acqua stangante che aveva finalmente trovato uno sbocco.

La vista tornò nitida. E Franz si rese conto che Carlotta gli aveva afferrato il polso e lo fissava preoccupata.

Si sentiva già maglio, ma il respiro accelerò di nuovo quando si rese conto di quello che stava succedendo. Era come se tramite il contatto Carlotta stesse scaricando informazioni direttamente dal suo cervello. Lo stava liberando da quei segni demoniaci, ma come? Cosa stava facendo?

Era così tranquilla, se ne rendeva conto? Lo stava facendo apposta, per aiutarlo, o era un gesto inconscio e involontario? E perché funzionava?

Poi, come se seguissero lo stesso flusso dei simboli, anche quelle domande scivolarono via. Il vuoto nella testa lo fece sentire meglio, anche se leggermente disorientato.

«Tutto okay, grazie» disse sorridendo per il sollievo.

Gli occhi blu di Carlotta lampeggiarono, ma così rapidamente che Franz credette di esserselo immaginato. Come tutto il resto, d'altronde.

Anche Carlotta accennò un sorriso.

Cautamente, Franz rialzò lo sguardo sulla lavagna. Un ragazzo, Xavier se ricordava bene, stava risolvendo l'espressione. Era a buon punto.

Nessuno sembrava essersi accorto di nulla.


ʘ –


Stava chiacchierando con Julien quando sentì bussare.

«Vado io» fece il suo compagno di stanza alzandosi.

Ludovic si appollaiò sulla sedia e cominciò a disfare lo zaino dando le spalle alle porta.

«Porca miseria, Ludov, c'è uno schianto di ragazza fuori dalla porta che cerca te! Ma dove l'hai trovata?»

Ludovic alzò un sopracciglio. «Capelli neri e occhi blu?»

«Proprio lei.»

«Carlotta è mia sorella.»

«Vuoi dire che non state insieme?»

Ludovic alzò gli occhi al cielo divertito, poi sorpassò il suo compagno di stanza e aprì la porta.

«Devo parlati» annunciò secca Carlotta.

«Dritta al punto, eh?» fece Julien alle loro spalle.

Ludovic lo ignorò.

«E serviva avventurarsi nel dormitorio maschile?»

«Ho usato la scusa di accompagnare Franz, mi sembrava piuttosto... stordito. E poi di Emma e Chris non c'è nemmeno l'ombra.» Con uno sguardo eloquente fece capire al fratello che dovevano parlare da soli.

Ludovic si voltò verso Julien che gli vece l'occhiolino, poi uscì in corridoio chiudendosi la porta alle spalle. Alcuni ragazzi fuori dalle stanze si fermarono a lanciare occhiate poco discrete a Carlotta.

«Cosa c'è?» chiese Ludovic andando verso una finestra aperta. «Ne hai visti altri?»

Carlotta annuì. «Anche Franz.»

Il ragazzo alzò immediatamente lo sguardo su di lei.

«Ne sei sicura?»

«Non me l'ha detto, ma sì, ne sono sicura.»

Gli occhi nerissimi di Ludovic si illuminarono. «Questo vuol dire che non siamo gli unici! Che sono reali, avevo ragione poco fa! Cos'era? Il gatto viola con gli occhi gialli? Lo vedo spesso. O l'uccello che hai visto tu? Magari ti ha presa di mira. O il granchio verde?»

«Numeri» tagliò corto Carlotta. «E simboli. Sono comparsi sulla lavagna all'improvviso. Ho visto il panico nei suoi occhi. Per un momento ho creduto che fossero più dorati del normale, che brillassero. Gli occhi intendo. Poi l'ho toccato e si è calmato. Non li ha più visti.»

«E tu?»

«Sono spariti quando Xavier ha finito l'espressione e cancellato tutto.»

Ludovic era pensieroso. «Non mi era mai successo niente del genere» ammise.

«Deve esserci una spiegazione logica!» protestò Carlotta, sebbene non ce l'avesse con lui.

«È quello che penso anch'io.»

«...ma non possiamo dirlo a nessuno perché ci prenderebbero per pazzi e bla bla bla» la ragazza imitò la voce del fratello maggiore.

«Invece io credo di sapere a chi chiedere» dichiarò Ludovic fiondandosi fuori dal corridoio e imboccando quello che portava al dormitorio femminile.

«Chi?»

«Hai detto che anche Franz li vedeva.»

«Sì, e allora?»

«Ci sono solo due persone in tutta la scuola che possono sapere tutto di tutti: una è la preside, l'altra è Rebecca.»

Ludovic si fermò davanti ad una porta senza neanche assicurarsi che fosse quella giusta. Bussò ma non ricevette risposta.

Entrò come se qualcuno lo avesse invitato a farlo. Rebecca era nella stessa identica posizione in cui l'aveva trovata e poi lasciata Anna mezz’ora prima.

«Ehi, Becky, ci serve una mano.»

La ragazza non alzò lo sguardo.

«Sta bene?» fece Carlotta «Sembra più stramba, apatica e asociale del solito» disse, sapendo che di solito quella battuta bastava a risvegliare l'amica.

Probabilmente la musica sparata al massimo nelle cuffie stereo inghiottì le sue parole.

Carlotta fece per avvicinarsi al letto, ma un essere verde fosforescente attraversò la porta e le sfrecciò davanti. Ci mise un po' ad identificare in quello strano essere un granchio.

Ludovic si mosse quasi all'improvviso e ad una velocità sorprendete. Levò le cuffie a Rebecca e con un gesto fece ricadere il portatile sul letto.

Per la prima volta la ragazza alzò gli occhi. Le iridi erano di un verdeacqua inconsistente.

«Ciao Ludovic» la sua voce era spettrale, come in trance.

«Allora ci sei! Abbiamo bisogno di aiuto.»

«Non posso esserti utile» dichiarò meccanicamente la ragazza dai capelli rosa.

Ludovic alzò un sopracciglio. Carlotta si arrampicò su una sedia per sfuggire alle chele del ragno verde. Nessuno dei due si accorse della porta che si apriva e della ragazza che entrava.

«Lei sicuramente non potrà dirti niente, ma io sì» dichiarò una seconda Rebecca, le braccia incrociate e la schiena appoggiata alla porta chiusa.

Lo sguardo dei due fratelli Dunbar saettò tra la Rebecca ancora seduta sul letto e quella in piedi alla loro destra.

Erano identiche. O quasi. Quella sul letto aveva un che di troppo perfetto. Quella in piedi era decisamente più reale, ma la differenza si sarebbe notata solo avendo davanti entrambe.

«Congratulazioni, sei il primo che riesce ad attirare la sua attenzione toccandola anziché attraversandola» disse Rebecca indicando la se stessa sul letto con un cenno del capo.

«Che vuol dire?» chiese Carlotta frastornata.

«Solo che spesso non voglio far sapere dove sono veramente» dichiarò la rosa afferrando un telecomando che era dentro un cassetto del suo comodino e puntandolo verso la ragazza sul letto. Premette un pulsante e quella scomparve sotto gli occhi degli altri due ragazzi.

«E in questo caso dove sei stata?» chiese Ludovic mentre allontanava da sé il granchio verde con una gamba, senza darlo troppo a vedere.

Rebecca non sembrò accorgersi di nulla finché il granchio zampettò fino a lei e chiuse una chela intorno alla sua caviglia e un rivolo di sangue le scivolò lungo il piede.

Puntò gli occhi sul granchio. «Reverso» sibilò e le sue iridi si illuminarono d'argento.

L'essere sussultò e corse via attraversando la porta.

«Ma che...» fece Ludovic.

«Lenti a contatto modificate, sarei impazzita senza.»


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Capitolo 3
*** Spiegazioni, o almeno in parte ***


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Metamorfosi Cap3;

begin

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readln;

end.


«Sedetevi» li invitò Rebecca sistemandosi a gambe incrociate sul propri letto, nella stessa posizione che poco prima aveva il suo ologramma. La somiglianza era impressionante e Carlotta e Ludovic erano ancora scossi.

Carlotta girò la sedia di una delle due scrivanie e vi si sedette mentre il fratello si accomodò sul letto, proprio di fronte a Rebecca.

«Quindi anche tu vedi quegli... pseudo-animali da... un anno?»

«Sì. Dai primissimi giorni di scuola.»

«E perché non mi hai detto niente? Insomma, io ho capito subito che Carlotta li vedeva, tu devi aver fatto lo stesso con me.»

«Ma tu non hai fatto altrettanto con me» gli fece notare Rebecca.

«Già! E non mi spiego neanche questo.»

«Be', è semplice in realtà. Tu li vedevi e ti davano fastidio, ma li sopportavi. Io no. Non so come spiegarlo. È come se il mio cervello si sovraccaricasse ogni volta che comparivano. Era snervante. Nel giro di due settimane sono finita in infermeria almeno sei volte. E non ero tanto stupida da dire la verità. All'inizio ero confusa, ma come al solito, mi sono imposta di dare una logica a quello che stava succedendo. Solo dopo mi sono accorta che anche tu vedevi quelle creature. Mi sono sorpresa. Com'era possibile che solo vederle mi provocasse un'emicrania e che invece tu potessi limitarti ad allontanarle?»

«E hai trovato una spiegazione?»

Rebecca distolse lo sguardo puntandolo testardamente sul ghirigoro del copriletto. Lo seguì distrattamente con un dito fino a trovare il punto in cui c’era un errore nel disegno.

«No» rispose frustrata.

«E quelle creature?» questa volta fu Carlotta a fare la domanda. «Per loro hai trovato una spiegazione?»

La ragazza dai capelli rosa sollevò su di lei i suoi occhi chiari. «Più o meno.»

«Cosa sono?»

Rebecca chiuse gli occhi. «Anche questo è difficile da spiegare.» Fece una pausa per riorganizzare le idee. Quando li riaprì, i suoi occhi furono attraversati da un lampo argentato. «Sono esseri digitali. Creati da un computer che si trova da qualche parte all'interno della scuola e probabilmente fatti comparire da proiettori collocati ovunque nell’edificio. Per questo non possono uscire. Si allontanerebbero troppo dal loro alimentatore.»

«Quindi sono solo... programmi

La ragazza annuì. «E come tali rispettano degli ordini precisi.»

Ludovic, che era rimasto in silenzio, riprese la parola. «E tu puoi dare loro ordini? Come hai fatto poco fa?»

«Non è esatto.» Fissò lo sguardo sulla carta da parati verde ghiaccio che ricopriva le pareti. Sopra c'era un motivo ricorrente di quadrati argentati. In alcuni punti non coincidevano. «Posso invertire i loro comandi. Se loro vengono verso di me posso farli voltare e andare via.»

«Come?» incalzò Carlotta.

«Come ti ho detto, sono alimentati da un computer all'interno della scuola. Ricevano ordini con una specie wii-fii. Sono riuscita a trovare la frequenza su cui viaggiano queste informazioni.»

«Ma allora,» osservò Carlotta «non puoi risalire alla loro fonte?»

Rebecca stese le labbra in un sorriso compiaciuto. «È quello che ho pensato anch'io. Ma non ci riesco. È come se spuntassero dal nulla. Un attimo prima non c'è niente e quello dopo ecco che si forma un “animale” che riceve ordini. Ordini che viaggiano su frequenze sempre presenti, ma che sembrano spuntare dal nulla. È snervante!» All’ultimo la sua voce salì di qualche tono e lei si prese la testa tra le mani per un attimo.

Ludovic si sorprese di quella reazione. Raramente Rebecca si scomponeva tanto. Ma quello che stava succedendo era qualcosa che non rientrava in uno schema logico, non ancora almeno, e questo mandava in crisi la sua amica.

«Tu vedi solo animali?» chiese Carlotta.

Rebecca la studiò. Come se le stesse facendo una domanda che sapeva già e stesse valutando se rispondere correttamente o no. «Cos'altro dovrei vedere?» si limitò a chiedere.

«Numeri, simboli, non lo so!»

La ragazza annuì. «Sì, li vedo. E una volta ho anche registrato la loro comparsa.»

«Non ci credo» sbuffò Ludovic, tanto per dire qualcosa visto che era sicuro che l'amica ci fosse riuscita.

«È davvero strano» commentò quasi tra sé e sé Rebecca prendendo il computer e mettendoselo sulle gambe incrociate.

Ludovic valutò la possibilità che potesse trattarsi di nuovo di un ologramma.

«Cosa c'è di strano?» chiese Carlotta alzandosi e avvicinandosi per poter guardare nello schermo.

«Vedi, quegli animali non compaiono proprio dal nulla. Sono programmi, qualcuno deve dare loro il via. Poco prima che uno di loro appaia, si verifica una condensazione delle informazioni necessarie e poi...» premette il tasto invio.

Un video di pochi secondi riprendeva il davanzale della finestra della camera. Gli stessi simboli che Carlotta aveva visto in classe, questa volta di un verde fosforescente e irreale, cominciarono a comparire praticamente dal nulla, quasi fossero generati dall'aria circostante, e si avvicinarono tra di loro. Un rapido lampo, poi al loro posto comparve l'uccello che se l'era presa con lei qualche ora prima.

«Come hai fatto a riprenderli?»

«Ho creato un programma specializzato. Ora guarda. Questo è quello che succede quando invece ci sono solo i simboli.»

Fece partire un altro video.

Questa volta era inquadrato un angolo del cortile. Cominciarono ad apparire quegli strani simboli, esattamente come nel filmato precedente, ma questa volta, invece di unirsi e diventare un animale, cominciarono ad accumularsi e poi a disperdersi.

«Non capisco» ammise Carlotta.

«È come se in certi momenti i programmi non riuscissero a completarsi» spiegò Rebecca. «Come se sviluppassero una specie di tumore.»

«Io non ho mai visto niente del genere» disse invece Ludovic.

Per la prima volta, Rebecca sembrò stupita.


ʘ –


Emma riprese coscienza lentamente. Accolse di buonavoglia il silenzio dell'infermeria.

Tese leggermente le orecchie.

Il suo lettino era proprio sotto la finestra. Poteva sentire il vento soffiare leggero tra i rami degli alberi e accarezzare le foglie facendole frusciare. Qualche uccellino canticchiava.

Inspirò lentamente, lasciandosi invadere da quel momentaneo senso di pace. Poteva illudersi di trovarsi stesa su un prato.

Aprì adagio gli occhi. Li sentì pizzicare. Se li strofinò e poi tornò a mettere a fuoco.

Il gatto viola era seduto sul davanzale, completamente immobile eccetto la coda.

Emma emise un verso a metà tra uno sbuffo e un sospiro. «Andiamo bene» commentò ad alta voce, sarcastica.

Si girò su un fianco. Quel lettino era straordinariamente comodo.

Il gatto cominciò a miagolare con insistenza.

«Oh, vattene! Tu non esisti!»

Lo sentì saltare sul letto, dietro di lei, e strusciarsi contro la sua schiena. Le fece il solletico.

«E se esisti non sei viola.»

Si girò sperando di vederlo nero, o di qualsiasi altro colore.

Viola. Quasi magenta.

«Fantastico.»

Il gatto le salì sulla pancia. Lei si sollevò sui gomiti. Allungò una mano per accarezzargli la testa e lui la assecondò.

Come può non essere reale? si chiese.

Si ristese senza smettere di guardare il gatto che aveva cominciato a camminarle sul ventre e sul petto facendo le fusa.


ʘ –


Franz allontanò da sé il libro con un moto di frustrazione. Perché non riusciva a concentrarsi?

Semplice. Perché la sola vista di parole scritte gli ricordava quello che era successo in classe.

«Tutto bene?» chiese Chris, steso sul letto a leggere fumetti.

«Sì» mentì Franz portandosi una mano alla testa e cominciando a massaggiarsi una tempia.

Si alzò e andò in bagno a sciacquarsi la faccia. Si sentiva ancora stordito. Sollevò lo sguardo fino ad incrociare quello del suo riflesso nello specchio.

Era abituato a definire i suoi occhi dorati, ma era ovvio che in realtà fossero solo di una particolare sfumatura marrone. Per questo trasalì e quasi fece un salto all'indietro quando si rese conto che in quel momento le sue iridi erano proprio dorate.

E i suoi capelli, invece di avere quel colore biondo perlaceo chiarissimo, erano spaventosamente incolori.

Doveva esserci qualcosa nello specchio. O nella luce. O nei suoi occhi. Magari aveva un difetto di vista come sua sorella. Come suo padre, dopotutto.

Continuò a fissare lo specchio come se si aspettasse di veder cambiare l'immagine da un momento all'altra. Tentò di mettere ancora di più a fuoco, fino a sentire gli occhi pizzicare.

Vide apparire sulla superficie dello specchio dei cerchi concentrici.

Una fitta improvvisa alla testa lo fece barcollare. Si premette una mano contro la tempia e si affrettò ad uscire dal bagno.

Aprì la porta della stanza senza degnare Chris di un'occhiata. Doveva fare qualcosa almeno per quell'intollerabile mal di testa. Di sicuro in infermeria avevano qualcosa da dargli.

Una volta, da piccolo, gli era capitata una cosa simile quando era rimasto quattro ore davanti al computer. Ricordava che sua madre gli aveva dato delle pasticche, anche se non ricordava quali.

Avrebbe potuto chiedere a Rebecca, ma lei si sarebbe sicuramente accorta che quello non era un normale mal di testa.

Arrivò al piano giusto in pochi minuti. L'infermiera in quel momento non c'era. Decise di aspettare e si diresse nella stanza accanto, dove immaginava ci fossero almeno un paio di lettini.

Appena richiuse la porta alle sue spalle e si voltò, sentì il suo cuore perdere un battito e il suo viso sbiancare.

Emma era distesa immobile su uno dei tre lettini in posizione supina. Teneva gli occhi chiusi e respirava regolarmente. Sul suo ventre era seduto un gatto magenta che lo fissava con i suoi occhi gialli.

A spaventarlo davvero, però fu che, appena incrociò il suo sguardo, il gatto scomparve. Esplose in una nuvola degli stessi simboli che aveva visto in classe.

Si affollavano nell'aria sopra Emma scontrandosi tra loro. I numeri, le uniche cose che riusciva a leggere, facevano capolino tra i simboli vorticando freneticamente insieme ad essi.

La ragazza inspirò e parte dei simboli fu risucchiato insieme all’aria. Emma ebbe una specie di spasmo.

Franz corse fuori respirando affannosamente con la testa che minacciava di esplodergli. Si portò le mani alle tempie mentre si piegava su se stesso. Per un attimo immaginò il proprio cervello esplodere all'interno del cranio.

Ansimava, ma si costrinse ad allontanarsi il più in fretta possibile. Inciampò per le scale mentre provava a tornare al piano di sopra.


ʘ –


Emma scattò in avanti, mettendosi seduta. Si chinò di lato in preda ad un conato, ma dal suo stomaco non uscì nulla. Si portò una mano al petto. Aveva l'impressione che qualcuno le avesse gettato dell'alcool attraverso le narici e giù per la gola, fino ai polmoni.

Tossì, ma emise solo un verso rauco. Si mise a cavalcioni del lettino, per respirare meglio.

Senza allontanare la mano dal petto sollevò leggermente lo sguardo. Il gatto viola teneva il muso alzato e gli occhi fissi su di lei.

Per un attimo, mentre teneva gli occhi chiusi per fingesi addormentata a chi era entrato, le era sembrato che il peso sul ventre fosse scomparso.

Rimase immobile a fissare il gatto.

Poteva quasi vedere il proprio riflesso in quegli occhi giallo limone. Poteva vedere i suoi capelli biondi, corti e spettinati, e i suoi occhi lilla e lucidi.

Nelle iridi del gatto apparve dell'azzurro. Come inchiostro che si spande seguendo delle scanalature preesistenti, andò a formare dei cerchi concentrici, una piccolo tratto verticale in alto e altri tre in basso.

Emma poteva vedere quello stesso simboli riflettersi nei propri occhi.

La sua lucidità stava venendo meno. Parte del suo cervello di stava adattando a ricevere un nuovo tipo di ordini.

Il gatto miagolò e saltò di nuovo sul davanzale. Emma si rese conto di averlo seguito solo quando si ritrovò appollaiata sul bordo della finestra, con lo sguardo fisso verso il basso.

Ma che sto facendo? Si chiese.

Poi il gatto cominciò a camminare sul cornicione e lei si sentì costretta a seguirlo. Si alzò in piedi e gli andò dietro, nonostante la parte di muro sporgente fosse evidentemente troppo piccola per lei.

Si sbilanciò in avanti. Fece roteare le braccia, ma era inutile. Con il cuore in gola fissò la terra sassosa due piani sotto di lei. D'istinto portò un piede in avanti.

Si aspettava di trovare il vuoto, invece affondò in qualcosa di morbido che le ricordò la consistenza dei gonfiabili.

Abbassò lo sguardo. Dal cornicione si era allungata una rete compatta di filamenti verde fluo e quadratini di varie tonalità di azzurro che formavano una superficie liscia e semitrasparente che le aveva impedito di cadere.

Cercando di controllare il tremore, Emma si abbassò fino a toccare quel piano con le mani. Sembrava solido e irreale allo stesso tempo, come un pavimento di vetro. Era inquietante. La dita affondarono leggermente. Sembrava gomma.

Il gatto viola la stava aspettando.

Avanzando con cautela sulle quattro zampe lo seguì senza chiedersi il perché.


ʘ –


Carlotta rimase impietrita quando vide una testa bionda passare accanto alla finestra aperta della camera di Rebecca come se si trovassero al piano terra anziché al secondo. Corse ad affacciarsi e sgranò gli occhi.

«Emma!» gridò.

La ragazza si fermò e voltò la testa. «Ciao Lott.»

«Che diavolo...»

«Con chi parli?» chiese Ludovic avvicinandosi. Sbiancò.

«Non chiedetemi com'è possibile» disse Emma. «Non chiedetemi nemmeno perché sono quassù, ora che ci penso» aggiunse subito dopo, riflettendoci. Si riportò una mano alla tempia. Riflettere le faceva venire il mal di testa.

Il gatto viola miagolò impaziente davanti a lei. Doveva andare avanti. Doveva farlo. Era un ordine, non si poteva discutere. Era come se una parte di lei avesse perso la sua autonomia.

Lottò disperatamente contro quella parte, ma ottenne solo un'immobilità straziante.

«Emma?» la chiamò Carlotta, capendo che qualcosa non andava.

Ludovic rimise la testa dentro.

Rebecca aveva lo sguardo fisso sul computer e non si era accorta di niente, un po' come avrebbe fatto il suo ologramma. Quando si sentì chiamare alzò la testa sorpresa. Andò alla finestra e si affacciò. Sgranò gli occhi. Non ebbe il tempo di studiare bene la scena, però, perché gatto e ponte esplosero in un vortice di numeri impazziti appena puntò gli occhi su di loro.


ʘ –


Chris continuò ad aggirarsi per il parco, le mani nelle tasche, finché non fu sicuro di essere completamente solo e abbastanza distante dalla scuola. Aveva aspettato che Franz uscisse per poter sgusciare via.

Infondo non era vietato passeggiare da quelle parti.

Si fermò appena trovò un pezzo di sentiero abbastanza lungo e dritto.

Si rigirò tra le mani il cronometro. Una parte di lui avrebbe preferito non sapere nulla. Ma non poteva ignorare quello che aveva visto.

Lo scatto di Emma era stato esagerato, inumano. Eppure, vedendola correre, gli era sembrata una cosa assolutamente naturale. Perché non avrebbe dovuto accelerare in quel modo? Sembrava tanto semplice!

Si era fermata di botto, senza un motivo, ma dopo non aveva il fiatone e sembrava freschissima, come se correre in quel modo, a quella velocità, non le avesse richiesto il minimo sforzo.

Chris non sapeva se Emma avrebbe potuto dare di più o no, ma sapeva che quando avevano gareggiato nel corridoio della scuola entrambi avevano dato il massimo. Ed erano arrivati pari.

Questo voleva dire che anche lui era così veloce? Se l'era chiesto poco prima di cominciare la sua gara. E si era impegnato per arrivare secondo. Era stato fin troppo facile. Aveva avuto l'impressione di camminare, come se fosse stato costretto a muoversi al rallentatore.

Lui poteva dare molto, molto di più. Lo sentiva.

Fissò la fine del sentiero.

Era poco più lungo della pista su cui aveva gareggiato quella mattina.

Si chinò in avanti e poggiò le mani a terra. Inspirò profondamente, poi scattò in avanti.

Dopo i primi secondi si sentì improvvisamente pesante. Come se stesse correndo contro una corrente impetuosa, come se mani invisibili lo stessero trattenendo.

Arrivò alla fine del percorso con il fiatone.

Guardò il cronometro. Nulla di strano. Era un tempo buono, ma assolutamente normale. Quasi svenne per il sollievo, ma c'era ancora qualcosa che non gli quadrava.

Si girò e si posizionò di nuovo a terra. Fissò lo sguardo nel punto da cui era partito. Fece appello a tutti i suoi muscoli e li sentì tendersi.

Scattò.

Fu tutto completamente diverso. E facile. Le falcate si alternavano fulminee e fluide. Ebbe l'impressione che fosse il mondo intorno a lui a muoversi ad una velocità vertiginosa e lui a stare fermo.

Si fermò di botto. Il battito era a mala pena accelerato. Respirava benissimo e gli sembrava di essersi appena stiracchiato. Aveva superato il punto in cui si sarebbe dovuto fermare di una buona ventina di metri.

Guardò il cronometro. 5 secondi.

Scosse il piccolo apparecchio, anche se sapeva che funzionava benissimo. Ripeté la misurazione più volte e sempre con risultati simili. All'andata otteneva un tempo assolutamente normale, al ritorno doveva andare a contare i decimi di secondo.

Si sentiva inebriato, come se correre gli avesse dato in un leggero senso di assuefazione. Spense il cronometro e se lo rimise in tasca.

Sentì uno strano verso. Alzò lo sguardo. Su un ramo era appollaiato un uccello variopinto, una specie di pappagallo gigante con le ali blu elettrico e verde brillante e la pancia giallo acceso. Lanciava degli strilli acutissimi che dovevano essere parte di una musica.

Chris si portò le mani alle orecchie. «Sta' zitto!» gli urlò.

L'uccello prese a strillare ancora più forte.

Chris strinse i pugni. Poi, prima ancora che potesse rendersene conto, i muscoli delle gambe scattarono come molle e le sua mani afferrarono il ramo. Si lasciò oscillare, poi, con uno slancio, si ritrovò accovacciato sul ramo.

L'uccello strillò, ora sembrava spaventato.

«Te ne vuoi andare?»

Il pappagallo si zittì. Lo fissò dritto negli occhi. Poi spiegò le ali e gli saltò addosso.

Chris si ritrovò con la schiena nella terra polverosa e gli artigli dell'uccello sugli avambracci. L’animale era diventato enorme. Chris cominciò a rotolare, nel tentavo di liberarsene. Sentiva gli artigli graffiargli i polsi e vide del sangue cominciare a colare. Si spostò a sinistra sbattendo l'uccello a terra, ma quello attraversava il terreno così come fendeva l'aria.

Il pappagallo cominciò a sbattere la ali e a tentare di sollevarsi in volo, come se volesse portarsi dietro il ragazzo. Grosso com'era diventato, avrebbe potuto benissimo farcela.

Era come avere delle manette. Chris si ritrovò in ginocchio e poi in piedi. Li puntò a terra, tentando di opporre resistenza. Indietreggiò e già sentiva il terreno mancargli sotto i piedi quando l'uccello sbatté contro un muro invisibile e lo lasciò andare.

Chris si piegò in due per riprendere fiato. I polsi gli bruciavano da morire, i tagli erano profondi, anche se non tanto da essere pericolosi.

Guardò l'uccello provare ad avvicinarsi in volo, ma scontrarsi ogni volta con un ostacolo invisibile. Alla fine volò via e scomparve.

Fece un passo avanti e poi indietro. Lui non sentiva niente.

Avanzò di nuovo. Una strana sensazione gli invase i polsi. Un freddo eccessivo ma sopportabile li intorpidiva.

Il sangue si stava già seccando. Lo grattò via.

E poté vedere chiaramente le ferite che si rimarginavano.


ʘ –


Non ebbe paura neanche per un momento. Cosa avrebbe dovuto temere?

Bastava tendere le gambe, toccare terra con i piedi e piegare le ginocchia per attutire il colpo. Per sicurezza piantò anche le mani a terra.

Nemmeno un graffio.

Guardò in alto. Rebecca, Ludovic e Carlotta la fissavano con gli occhi sgranati dalla finestra del secondo piano.

«Scendiamo!» disse subito il ragazzo corvino e la sua testa e quella di Rebecca sparirono dalla sua visuale.

«Stai bene?» chiese Carlotta appena si fu ricomposta.

«Sì» rispose tranquillamente lei rialzandosi in piedi. «È facile.» Cercò il gatto viola con lo sguardo, ma era sparito.

«Facile?»

«Sì» ripeté. «Non ci vuole niente.»

La testa dell'amica rientrò, poi la vide arrampicarsi sul davanzale.

Solo un quel momento Emma si rese conto del pericolo. «Ma sei matta? Che stai facendo?»

«Hai appena detto che è facile.»

«Sì! No! Cavolo.» Era precipitata da quell'altezza? Com'era possibile?

Prima che potesse dire qualcosa, Carlotta saltò. Si mosse con estrema grazia, come una ginnasta che esegue un salto spettacolare ma che ormai ha imparato a fare da anni. Atterrò sulle punte dei piedi, leggiadra, senza neanche piegarsi in avanti, come se fosse semplicemente atterrata dopo un saltello.

«Avevi ragione!» esclamò. «Era facile!» Mentre parlava si rese conto dell'assurdità delle sue parole.

Entrambe alzarono lo sguardo.


ʘ –


Rebecca scese le scale il più in fretta possibile, ma senza perdere la sua compostezza. C'era qualcosa di inquietante nel suo modo di muoversi, qualcosa di quasi irreale. Era come se fosse solo un'immagine proiettata nella realtà. Un'immagine sempre eretta, composta, in perfetto equilibrio. Perfetta. Persino nello scendere le scale. Non si sbilanciava in avanti o indietro, rimaneva perfettamente verticale. I suoi piedi sfioravano a mala pena la superficie dei gradini. Sembrava volare.

Arrivò al piano terra diversi minuti prima di Ludovic e rimase immobile ad aspettarlo, senza però girarsi mai a guardare indietro. Si lanciò giusto un'occhiata intorno, ma sapeva già cos'avrebbe visto.

In parte aveva mentito. Se Ludovic aveva detto di aver visto sempre e solo animali, lei aveva sempre visto solo numeri e simboli impazziti. Quei codici avevano trovato una forma solo quando aveva cominciato a portare quelle lenti a contatto.

Mentire era così spaventosamente facile per lei. Era il motivo per cui lo faceva il vero problema. Mentiva perché ciò che vedeva non aveva senso.

E questo la faceva impazzire più di ogni altra cosa.


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Capitolo 4
*** Perfettamente imprevisti ***


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Metamorfosi Cap4;

begin

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    readln;

end.


«E tu che ci fai qui?» esclamò Ludovic vedendo la sorella.

«Sono saltata giù.»

«Cosa? Ma sei impazzita?»

«No, è stato facile.»

Ludovic alzò lo sguardo.

«E non ti sei fatta nulla?» insistette Rebecca, aveva un tono interessato e distaccato allo stesso tempo, come se stesse semplicemente raccogliendo dati.

«No, atterraggio perfetto.»

Rebecca stava per fare un'altra domanda, ma registrò un movimento con la coda dell'occhio e fece appena in tempo a voltarsi per vedere Ludovic che si accucciava a terra e saltava.

Riatterrò pesantemente, proprio com'era prevedibile. Assottigliò lo sguardo e lo fissò sul davanzale della finestra.

Poteva farcela, lo sentiva. Doveva solo darsi la spinta giusta.

Trovare il modo giusto in cui saltare.

Trovare il mondo giusto in cui saltare.

E li vide. Vide il fitto reticolo che ricopriva le mura della scuola come una carta da parati. Poteva deformarla quando e come voleva. Sapeva di poterlo fare.

Si diede di nuovo lo slancio, ma questa volta non puntò sull'altezza. Andò verso il muro e ne deformò la superficie creando delle specie di gradini. Li salì senza fermarsi e ad una velocità impressionante. Si fermò sul davanzale e guardò giù.

«Come. Diavolo. Hai. Fatto???» urlò Emma.

«Non lo so» rispose e nella voce c'era eccitazione, come dopo una gara di corsa.

«Era... bellissimo, sembrava che il muro si allungasse lì dove posavi i piedi!»

Ludovic spostò lo sguardo sulla sorella.

«Arriva qualcuno» li avvertì Rebecca.

Elisabeth fu davanti a loro in pochi minuti. «Che ci fate in questa parte della scuola?»

«Ci scusi, Emma e Carlotta non si sanno ancora orientare» rispose Rebecca sorridendo appena.

Si affrettarono a sfilare accanto alla preside e a correre via.

«Ci vediamo stanotte nella camera di Emma e Lott» disse Rebecca, poi prese a salire le scale di corsa.

«Aspetta!» tentò di fermarla Emma, ma quando giunse in cima alle scale della ragazza non c'era più nemmeno l'ombra.


ʘ –


Chris entrò correndo e si chiuse la porta alle spalle.

«Mi hai fatto prendere un colpo!» esclamò Franz, che era balzato in piedi. «Che diavolo succede?»

«Un pappagallo gigante ce l'ha con me, c'è una barriera invisibile nel bel mezzo del parco e una fabbrica abbandonata non lontano da qui» rispose Chris tutto d'un fiato.

«Un pappagallo?»

«Sì. È gigantesco e nessuno lo vede, però è reale perché mi ha graffiato e...»

Si sentì un colpo violento e la porta vibrò.

«e...?» fece Franz titubante.

«Ed è qui fuori!»

«Apri la porta.»

«Ma sei matto!»

«Sto seriamente pensando di esserlo, apri.»

Chris, che fino ad ora si era tenuto con le spalle contro la porta per evitare che si aprisse, si spostò di scatto e quella si spalancò. L'enorme uccello entrò sbattendo le ali e smuovendo così tanta aria che molti fogli volarono per la stanza. Strillava come un ossesso.

Franz si mise difronte al pappagallo dando le spalle alla finestra. Divaricò leggermente le gambe e strinse le mani a pugno.

Fissò l'uccello dritto negli occhi. Le sue iridi ebbero un guizzo dorato, un vero e proprio lampo di luce.

L'attimo dopo l'animale esplose.

«Ma che diavolo...»

Numeri e simboli bianchi vorticavano frenetici per la stanza, scontrandosi contro le pareti e contro la porta che nel frattempo si era richiusa.

I vetri della finestra tremavano. Chris rotolò sotto il letto.

Franz era rigido al suo posto, pietrificato.

I simboli si riavvicinarono tra loro, senza però riunirsi. Formarono un'onda di una potenza impressionante che si sollevò verso il ragazzo.

Franz aveva il respiro affannoso e il cuore gli martellava nel petto e nelle orecchie, ma il suo corpo non rispondeva ai comandi. Le gambe sembravano fatte di marmo e non ne volevano sapere di spostarsi, di correre via. Terrorizzato, cercò almeno di distogliere lo sguardo, ma i suoi occhi tornarono a fissare il caos davanti a sé, come calamitati.

Poteva percepire il sangue scorrere rapido nelle vene, denso e potente.

All'improvviso, come in un flash o un cambio d'inquadratura, qualcosa in lui scattò ribaltando la situazione. Non stava più temendo di essere vittima di quella strana forma di energia, ora stava solo aspettando. Ora era impaziente.

Che lo attaccassero! Non aspettava altro.

L'onda si abbatté su di lui con una violenza tale che i vetri della finestra alle sue spalle andarono in frantumi, ma non lo sfiorò nemmeno.

Chris, da sotto al letto, fissò la scena a bocca aperta.

Era come se intorno all'amico si fosse creata una bolla di vuoto. I simboli che vi s'infrangevano cambiavano direzione o si frantumavano in polvere inconsistente. Aggiravano Franz e uscivano fuori, mentre il vento provocato dal loro muoversi rapidissimo sollevava fogli, tende e lenzuola dei letti.

Il tutto durò pochi secondi. Poi la stanza cadde in un silenzio di tomba.

Franz rimase immobile per qualche altro istante, poi crollò sulle ginocchia e infine a terra.

Chris indugiò solo un momento, poi sgusciò fuori dal suo nascondiglio e corse dall'amico. «Franz? Franz!» lo chiamò scuotendolo.

Il ragazzo mormorò qualcosa di incomprensibile.

«Franz»

«Se... se ne sono andati?»

«Sì amico, se ne sono andati, ma come diavolo hai fatto?»

«Io...» Franz riaprì gli occhi e sbatté più volte le palpebre. Le sue iridi erano tornate marroni. «...non lo so.» Richiuse gli occhi, ma rimase cosciente.

Chris lo aiutò a rimettersi in piedi. Si guardarono intorno per qualche minuto.

«Credo sia il caso di rimettere a posto» mormorò Chris.

Franz annuì. «E dopo mi porti in quella fabbrica che hai visto.»

«Diamoci da fare allora.»


ʘ –


Quando Rebecca ritornò in camera vi trovò Anna.

«Mi chiedevo dove fossi finita!» la voce squillante della ragazza e il suo tono fin troppo allegro le diedero quasi sui nervi.

Si controllò e si chiuse la porta alle spalle senza ricambiare il saluto.

«Non hai ancora messo nulla nell'armadio, devi ancora disfare le valigie? Vuoi che ti aiuti?»

Rebecca sfilò la sua valigia grigio argento da sotto il letto e la aprì. Dentro i vestiti erano piegati e riposti in modo ordinato secondo uno schema preciso. Prese dei vestiti puliti con una mano e un libro dalla copertina nera con l'altra.

«Ma mi senti?» chiese Anna mentre Rebecca entrava in bagno.

Per tutta risposta la ragazza fece girare la chiave nella serratura.

Fece un respiro profondo. Depose vestiti e libro su un mobile, poi si sfilò la maglietta e si mise una canottiera grigia, di quelle accollate che lasciano tutta la schiena scoperta. Indossò anche dei calzoncini rosa e infine ripiegò accuratamente i vestiti che aveva prima e li nascose in uno scomparto del mobile.

Poi aprì il libro, che in realtà era solo la custodia di una specie di telecomando. Armeggiò con i tasti per qualche istante, poi al centro del bagno apparve il suo ologramma, identico a lei anche nei vestiti. Lo programmò perché uscisse dal bagno di lì a dieci minuti e si andasse a sedere sul letto, nella sua solita posizione. Lei gli avrebbe solo aperto la porta.

Sistemò il telecomando nel finto libro e mise anche quello nel mobile con i vestiti.

Si avvicinò allo specchio alto e stretto e si mise di profilo per potersi vedere la schiena.

Si levò le lenti a contatto e sbatté più volte le palpebre. Ed eccoli, quei sottili filamenti rosa, viola e argento che formavano una ragnatela proprio sotto la pelle, come fossero vene in trasparenza.

Un brivido la attraversò e i filamenti cominciarono a muoversi come serpentelli. Si disposero in modo ordinato, poi cominciarono a fuoriuscire attraversando la pelle e allungandosi nell'aria, fluidi e senza peso. Si inspessirono e si intrecciarono.

Fissò il riflesso dei propri occhi, ora più argentati che azzurri, poi spostò lo sguardo sulle sue ali.

Capì che i dieci minuti erano passati quando il suo ologramma cominciò a muoversi. Lei gli aprì e chiuse la porta. Sentì Anna tentare per l'ennesima volta di impiantare un discorso.

Andò ad aprire la finestra del bagno e si arrampicò sul davanzale. L'altezza non la rallentò. Aveva passato tutto l'anno precedente a saltare giù dal terzo piano. Rimase accucciata per qualche secondo, poi saltò verso l'alto.

Sentì le ali spiegarsi e sollevarla quando si esaurì la forza dello slancio. Il movimento fluido delle scapole per farle sbattere risvegliò tutti i suoi muscoli addormentati.

Diede un rapido sguardo all'orologio da polso. Era ancora presto. La notte era lontana. Avrebbe saltato la cena, lo faceva spesso, e poi sarebbe rientrata per andare alla riunione in camera di Emma e Carlotta.

Probabilmente avrebbe sonnecchiato sui rami alti di qualche albero in attesa del tramonto, poi il buio avrebbe fatto da protettore ai suoi voli notturni.

L'importante era non allontanarsi troppo dalla scuola.


ʘ –


Carlotta entrò in bagno stiracchiandosi. Aveva proprio bisogno di una bella doccia.

L'acqua fredda era frizzante e risvegliò la sua pelle calda. Era una sensazione così gradita che rimase sotto il getto molto più a lungo del necessario.

Uscendo si avvolse in un asciugamano, poi si appoggiò ad un mobile e cominciò a districarsi i lunghi capelli nerissimi.

Si portò una ciocca davanti al viso. I riflessi blu in quel momento erano così marcati che sembrava avesse i capelli tinti. Ancora bagnati, li legò in una coda di cavallo. Erano così lunghi che le arrivavano comunque quasi alla vita.

Cominciò a rivestirsi, ma, mentre era ancora in intimo, lo sguardo le cadde sullo specchio sulla parete difronte a lei. Rimase a fissarsi a lungo, percorrendo il proprio corpo mentre aguzzava la vista per essere sicura di ciò che vedeva.

Si guardò intorno. Dalla finestra entrava molta luce. Andò a chiudere le tende e il bagno cadde nella penombra.

Si avvicinò cautamente allo specchio.

«Oh mio dio» mormorò tra sé e sé, quasi senza accorgersene, mentre con sguardo meravigliato percorreva il proprio corpo.

Il rosa pallido della pelle si vedeva a mala pena. Tutto il suo corpo era diviso in quadratini luminosi, di sfumature che andavano dal blu all'azzurro, al verdeacqua, al verde pastello. Sembrava fatta di una strana pietra liscia e sfaccettata, regolare e perfetta, come se qualcuno l'avesse intagliata.

Non avvertiva nulla a parte un leggero e gradevole formicolio che risvegliava e acuiva i sensi.

Per ultimo scrutò il proprio viso. I contorni degli occhi, delle sopracciglia e delle labbra, le iridi stesse e i capelli, erano di un blu intenso ed elettrico. La carnagione del viso sembrava bianca o addirittura argentata, solo le labbra e i cristallini degli occhi avevano una sfumatura beige.

A prima vista credette che lì non ci fossero quadratini a suddividerla come nel resto del corpo, ma poi, avvicinandosi ancora di più allo specchio, vide che invece il suo viso era fatto di miliardi di minuscole sfaccettature che riflettevano la luce come se fosse ancora bagnata.

Si passò una mano sulle guance. Nonostante l'aspetto, non avevano perso la loro naturale morbidezza.

Era come avere una seconda pelle. Elastica e superficiale, ma non estranea come i vestiti.

«Carlotta?» Le giunse la voce di Emma da dietro la porta. «Hai fatto?»

«Io...» le mancavano le parole, non riusciva a distogliere lo sguardo da se stessa. «Io...» riprovò.

«Tutto bene?»

«Io» disse soltanto. E questa volta era un'affermazione, una rivendicazione di se stessa.

«Posso entrare?»

Carlotta annuì. Poi, ricordandosi che l'amica non poteva vederla, ripeté il consenso ad alta voce. Quando entrò, Emma rimase a bocca aperta.

«Carlotta?»

«Sono io.»

Per qualche secondo non fecero altro che guardarsi negli occhi.

«Cosa... cosa ti è successo? Come hai fatto?»

«Non lo so» sussurrò la ragazza.

«Tu... non sembri neanche tu!»

«Lo so.»

«E smettila di guardarti come se ti fossi incantata!»

A quell'improvviso cambio di tono, Carlotta si riscosse. Afferrò Emma per il braccio. «Dobbiamo dirlo a Rebecca!»

«Sì, ma non stritolarmi il braccio!»

«Ah scusa, non me ne ero...»

Rimasero in silenzio a guardare l'impronta di quadretti lilla, viola, magenta e giallo fluo a forma di mano.

«Ma che...»

I quadretti si espansero a macchia d'olio sul suo braccio e in pochi minuti ricoprirono tutto il corpo. Ora era uguale a Carlotta, eccetto i colori.

«Incredibile.»

«Sei contagiosa!»

«Dobbiamo dirlo a Rebecca!»

«Ma sei matta? Vuoi uscire in questo stato?»

«Già... non ci avevo pensato.»

«Ho un'idea! Ci scattiamo delle foto, così se quando arrivano siamo tornate normali gliele possiamo mostrare.»

«Ci sto.»


ʘ –


«Ma è enorme!» commentò Franz guardandosi intorno. «E pensare che è così vicina alla scuola.»

«Sorprendente, eh?»

«Come l'hai trovata?»

«Cercavo solo di allontanarmi il più possibile.»

«Dici che quell'ascensore funziona?»

Chris premette più volte il pulsante rosso sulla parete, ma non successe nulla. «No.»

Franz si guardò intorno e fece una smorfia. «Dobbiamo arrampicarci?» chiese mentre con lo sguardo sondava ciò che rimaneva della struttura.

«Be', possiamo salire sugli alberi che gli stanno intorno e entrare da una finestra.»

Franz annuì distrattamente. Si fidava molto più dei grossi alberi all'esterno che della fabbrica fatiscente. A dirla tutta, sembrava che fosse solo grazie a quegli alberi che si reggeva ancora in piedi. Rampicanti robusti ne ricoprivano quasi tutta la superficie.

Chris si arrampicò con facilità, Franz lo seguì leggermente più titubante. Si fermarono su un ramo abbastanza robusto da sostenerli entrambi e abbastanza largo da potercisi camminare.

Chris si spinse fino a quella che doveva essere una finestra. Scostò i rampicanti e forzò quello che rimaneva del vetro, poi saltò dentro.

«Che razza di posto è?» chiese Franz, quasi tra sé e sé, bisbigliando.

La polvere degli anni aveva ricoperto quasi ogni cosa ingrigendo tutta la grande sale e facendola sembrare ancora più vecchia e fatiscente di quanto non fosse in realtà.

«Non ne ho idea» rispose Chris, sussurrando a propria volta.


ʘ –


Appostata sui rami alti di un albero molto alto, Rebecca aveva visto Chris e il fratello addentrarsi nel parco e istintivamente li aveva seguiti. Quando si erano allontanati troppo aveva dovuto rinunciare alle ali, ma a quel punto erano quasi arrivati.

Rebecca non si era mai spinta tanto oltre, proprio per non dover abbandonare il volo, ma la curiosità era stata troppa.

L'apparizione della fabbrica abbandonata la stupì. Cosa ci facevano lì i ragazzi?

Seguì il loro stesso percorso sull'albero e poi attraverso la finestra. Atterrò sulle punte dei piedi, senza fare il minimo rumore.

Sentiva i sussurri dei ragazzi provenire dalla stanza accanto.

Si mosse con passo felpato.

Chris stava esaminando delle cabine cilindriche mentre Franz si dava da fare con quello che sembrava un computer enorme.

«È così vecchio che mi sorprendo sia ancora intero.»

«Io mi sorprendo che ti interessi tanto.»

«Non lo so nemmeno io» imprecò Franz sottovoce per essersi fatto male alla mano. «Non capisco nemmeno come si accende!»

«Forse vi serve un'esperta di computer.»

Sobbalzarono entrambi e si voltarono nella direzione da cui veniva la voce.

«Becky! Che diavolo ci fai qui?»

«Potrei fare la stessa domanda a voi, quindi evitiamo di farcela a vicenda così siamo contenti entrambi, okay?»

Il fratello si limitò a tacere.

«Sai far funzionare quel coso?» chiese Chris.

«Posso provarci.»

«Allora va bene.»

Rebecca si avvicinò al computer. Franz e Chris si fecero da parte per lasciarla lavorare. La videro armeggiare con diversi fili prima di rialzarsi.

«Posso scoprire cos'ha in memoria, ma non credo di poterlo riaccendere.»

«Perché è troppo vecchio o troppo danneggiato?» chiese Franz.

«Nessuna delle due in realtà, semplicemente chiunque l'abbia spento non voleva che venisse riacceso.»

«Vediamo cosa ricorda quel rottame allora» fece Chris, che si era sempre sentito un po' tagliato fuori dai discorsi dei fratelli Belpois.

Rebecca sfilò dalla tasca dei calzoncini il suo cellulare e vi collegò un cavo che partiva dal computer.

«Hai mai pensato di fare la programmatrice di cellulari? Diventeresti ricchissima» commentò Chris.

«Ma non avrei più l'esclusiva» rispose distrattamente lei.

Sullo schermo nero del telefono si susseguirono colonne e colonne di dati per cinque minuti buoni, poi la facciata tornò normale. Scorse un menu lunghissimo e utilizzò strani programmi fino ad ottenere dei file leggibili e delle immagini.

I due ragazzi sbirciavano da sopra le sue spalle, ma rimanevano in silenzio.

«Allora? Cos'è?» chiese infine Franz, spazientito dal mutismo della sorella.

«Per lo più dati. Tonnellate.»

«Dati di cosa?»

«Sono relativi a dei ragazzi, è come se gli avessero fatto una scansione del corpo, solo non capisco a cosa serva.»

«Scansione del corpo? Ragazzi?» Chris era ancora più confuso dell'amico.

«Già.» Rebecca non staccava gli occhi dallo schermo «C'è praticamente tutto, come se volessero ricostruire una persona.»

«Ricostruirla dove?»

«Non ne ho idea, ti dico solo quello che vedo. Sono...» s'interruppe.

Per la prima volta in vita loro Chris e Franz videro l'espressione controllata della ragazza vacillare e lasciare emergere la sorpresa.

«Cosa sono?»

Lei on rispose.

Franz capì che quella non era la domanda giusta. «Chi sono?»

Rebecca sollevò lo sguardo sul fratello. «Sono i nostri genitori!»


ʘ –


Ludovic si aggirava per la propria stanza, inquieto. Da quando era rientrato aveva la sensazione costante e opprimente di essere osservato.

Julien, il suo compagno di stanza, era in giro come tutti i giorni.

Si stese sul letto, il viso rivolto al soffitto bianco, e tentò di rilassarsi, ma era impossibile. Si mise a sedere sbuffando nervosamente dal naso. Si guardò intorno, in cerca di qualche particolare fuori posto che segnalasse che qualcosa non andava davvero.

Niente.

Solo quella inquietante sensazione di essere osservato. Seguito.

Si alzò di scatto, uscì dalla camera e attraversò a grandi falcate il corridoio. Salì le scale il più in fretta possibile, i muscoli tesi e i sensi in allerta. Arrivò all'ultimo piano in pochi minuti.

«Jonny? Jessy?» chiamò.

Nessuna risposta. Si avvicinò all'antifurto. Era spento. D'istinto mise una mano sull'apparecchio e quello si rianimò con uno strano fischio.

«RIMANERE SVEGLIO… RIMANERE SVEGLIO, RIMANERE…»

«Jonny?»

«STUPIDA INFLUENZA»

«Influenza? Sei un antifurto Jonny!»

«RIMANERE SVEGLIO, … RIMANERE...» Si spense con una specie di grugnito metallico.

«Jonny? Si può sapere che succede? Jonny?»

L'antifurto si accese e poi spense un paio di volte, poi non diede segni di “vita”. Ludovic alzò gli occhi. Anche la telecamera era spenta.

«Che diavolo sta succedendo?»

«RIMANERE... RIMANERE... ALLARME... RIMANERE...»

Il sole tramontò dietro l'orizzonte proprio in quel momento. I neon del corridoio si spensero velocemente, uno dopo l'altro, lasciandolo nella penombra.

Poco dopo gli giunsero le voci agitate dei ragazzi dai piani sottostanti. Nessuna luce si accendeva più.

Sentì un formicolio lungo tutto il corpo e i suoi muscoli si tesero. Che stava succedendo?

Sentiva una nuova energia risvegliargli le membra e scorrergli nelle vene insieme al sangue.

Si guardò intorno. Si trovava proprio in mezzo al corridoio e tutto sembrava normale, luci spente a parte. Eppure non era normale. Qualcosa stava cambiando.

Uno strano calore si propagò nei suoi occhi e sentì le pupille dilatarsi. Improvvisamente la sua visuale cambiò. O meglio, era sempre lo stesso corridoio quello che vedeva, ma ora sembrava solo un disegno tridimensionale, come quelli fatti al computer. Se socchiudeva gli occhi poteva anche vedere gli schemi quadrettati che sembravano fare da base all'ambiente.

Continuò a guardarsi intorno. Si sentiva incredibilmente attivo.

Fuori, li alberi che si vedevano dalle finestre sembravano quelli di sempre.

Sentì il battito accelerare e si portò una mano al petto, come se volesse prendersi il cuore e farlo rallentare con le mani.

Sentì delle specie di passi attutiti e si voltò.

Non c'era nessuno. Il corridoio era vuoto. Come sempre.

O così gli dicevano gli occhi.

Il suo nuovo, acuto, senso dello spazio era totalmente in disaccordo.


ʘ –


«Non c'è campo» disse Rebecca riabbassando il telefono. «Se vogliamo chiamare papà dobbiamo prima tornare alla scuola.»

Franz sospirò. «D'accordo, torniamo indietro.»

Percorsero la strada del ritorno con passo sostenuto, forse perché impazienti di sapere finalmente qualcosa, forse perché le ombre proiettate dagli ultimi raggi del sole che ancora si vedevano avevano un che di inquietante.

Quando finalmente gli alberi cominciarono a farsi più bassi e a lasciar intravedere la sagoma imponente della scuola, Chris, che camminava davanti agli altri due, andò a sbattere contro qualcosa di freddo e duro dall'odore metallico e cadde a terra.

«Chris!» scattò subito Franz. «Ma cosa...»

«Tutto bene, sta' tranquillo, solo...»

Chris si mise in ginocchio e allungò le braccia. Le sue mani incontrarono di nuovo quella barriera invisibile che sembrava fatta di vetro.

Guardò oltre. Poco più avanti era dove si era scontrato con l'uccello gigante, ne era certo. Quella era la stessa barriera che aveva bloccato il pappagallo, perché questa volta bloccava anche loro?

Provò a batterci il pugno, ma non ottenne nulla. Non si fece neanche male.

«Che vuol dire?» esclamò Franz avvicinandosi. Toccò anche lui la barriera. Quando si ritrasse l'impronta grigio-verdastra della sua mano era rimasta lì, apparentemente sospesa nel vuoto a mezz'aria.

«Come hai fatto?»

«Non ne ho idea!»

L'impronta si fece azzurrina, poi sparì velocemente.

«Non è possibile, non c'era niente prima!»

Rebecca li ascoltava solo in parte. Si avvicinò a sua volta alla barriera. Vi appoggiò la mano e la tenne premuta. Vide una specie di muffa propagarsi dalla propria mano e propagarsi per una buona decina di centimetri in profondità. Quel muro invisibile era maledettamente spesso.

Rimase immobile.

Il verde si fece sempre più grigio, come se la barriera stesse marcendo a contatto con la sua mano. Appoggiò anche l'altra, accanto alla prima. Dopo poco sentì la superficie dura farsi più flessibile e le sue mani affondarono per un pezzo.

Le sembrava di toccare una plastica elastica. Vi affondò le dita. Scavò con le unghie mentre affondava nella barriera fino ai polsi.

Quando trovò il vuoto e sentì di nuovo l'aria sui polpastrelli ormai non vedeva più le proprie mani, immerse come erano nella muffa che stava indebolendo la barriera propagandosi dalla sua pelle.

«Come diavolo fai?» chiese Chris con gli occhi spalancati, per l'ennesima volta.

Per l'ennesima volta Rebecca non rispose.

Ormai il muro invisibile aveva consistenza di un gonfiabile un po' sgonfio.

«Franz aiutami» ordinò.

Il fratello si riscosse, la affiancò e, dopo un attimo di smarrimento, la imitò. Chris provò a fare altrettanto, ma non ci riuscì.

Franz e Rebecca riuscirono a creare un buco abbastanza grande per una persona minuta.

«Chris, sbrigati, infilati dentro.»

Il ragazzo bruno non se lo fece ripetere due volte. Si girò, puntò le mani a terra e infilò prima i piedi e poi le gambe nel buco che Rebecca e Franz continuavano ad allargare. Le spalle ci passarono appena, ma poi si ritrovò dall'altra parte.

Franz si infilò per secondo e il buco parve cedere sotto il suo peso. Quando toccò a Rebecca la ragazza dovette solo scavalcarlo.

Riprese in mano in telefono. «Una tacca» annunciò. «Avviciniamoci ancora» aggiunse, mentre componeva il numero del padre.

Chris si sfregò le mani sulle braccia. «Perché qui fa così freddo?» si lamentò.

Ormai era buio e si muovevano quasi alla cieca.

«Piuttosto...» ribatté Franz «perché tutte le luci della scuola sono spente?»

Un sibilo, seguito da un gorgoglio basso simile ad un ringhio soffocato, li fece trasalire e poi voltare.

Rebecca girò il telefono nel tentativo di illuminare il sentiero.

Intravidero una figura accucciata a terra, che avanzava lentamente spingendo avanti degli arti lunghi che teneva piegati accanto al corpo.

«Che diavolo è?» strillò Chris.

La luce fioca del telefono non arrivava abbastanza lontano.

L'essere sembrava una specie di rana con la testa piccola, ma era troppo immersa nell'ombra per poter essere definita. Il sibilo acuto che produsse fece venire loro la pelle d'oca. Per un attimo degli occhi verdi attraversati da una pupilla verticale brillarono in quella che doveva essere la testa.

«Correte!» strillò Rebecca.

Franz e Chris si stavano già allontanando a tutta velocità. Le loro falcate si susseguivano ad un ritmo inumano, ma non era il momento di fermarsi, non quando sentivano l'essere dietro di loro guadagnare terreno.

Altri suoni venivano dalla loro destra e dalla loro sinistra.

«Quanti sono?» gridò Franz.

«Non ne ho idea!» fece Chris di rimando. «Ma non voglio scoprirlo.»

Proprio mentre parlavano, sentirono Rebecca urlare e rotolare a terra. Si voltarono rallentando, ma senza fermarsi davvero.

Le ragazza era stesa sulla schiena, si stava sollevando sui gomiti.

«Rebecca!» chiamò il fratello.

Lei gettò la testa all'indietro. «Correte!» urlò loro. «Correte!»

Dopo, a causa dei sensi di colpa, se ne sarebbero pentiti, ma in quel momento l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e scattarono in avanti verso la scuola che sembrava non avvicinarsi mai.

Strani rumori giunsero loro, ma erano consapevoli solo del fatto che quelle creature non li stavano più inseguendo. Non rallentarono in prossimità della porta d'ingresso e vi andarono dolorosamente a sbattere visto che era chiusa.

Vi fu un attimo di smarrimento, poi, seguendo un istinto innato e sconosciuto cominciarono ad arrampicarsi su per il muro fino alla prima finestra aperta. Si ritrovarono in un'aula e corsero in corridoio.

Solo allora si fermarono e ripresero fiato.

Franz cadde in ginocchio per la fatica.

Le luci di emergenza, che fino a quel momento erano rimaste spente come tutte le altre, si accesero di colpo dissipando almeno in parte il buio della scuola. Dal piano di sopra venivano le voci agitate degli studenti.

«Rebecca» ansimò Franz rialzandosi in piedi e puntando di nuovo la finestra.

Chris scattò in avanti e lo afferrò. «Franz no!»

«Lasciami! È mia sorella!»

«Non sai cosa c'è là fuori! Dobbiamo aspettare!»

Franz si accasciò di nuovo a terra, esausto, mentre l'adrenalina abbandonava il suo corpo.


ʘ –


«Che succede?» chiese Carlotta allontanandosi dalla finestra alla quale era rimasta affacciata per quasi tutti il tempo.

«Sembra che la luce stia tornando» rispose Emma.

Una lampada sopra la porta si accese di colpo. I corpi ancora quadrettati e luminosi delle ragazze, invece, si spensero e tornarono al loro normale aspetto.

Carlotta si rese conto di essere ancora in intimo.


ʘ –


Era caduta a terra perché una mano dalle dita lunghe e forti come acciaio le aveva afferrato la caviglia prima di ritrarsi di scatto.

Ansimando, Rebecca tentò di rialzarsi. Rimase impietrita e in ascolto.

I fruscii e i sibili indicavano che era circondata, che quelle creature erano almeno una decina.

Avvicinò le gambe al corpo, poi si portò in avanti e poggiò la mani a terra.

Si guardò intono.

Ogni tanto degli occhi blu, verdi, viola, rossi e gialli si illuminavano per qualche secondo, abbastanza da terrorizzarla.

Non ricordava di essersi mai sentita così. I suoi occhi continuavano a saettare senza mai fermarsi davvero, i sibili acuti venivano da ogni direzione. Il suo cervello lavorava velocemente, anche se non riusciva a formulare un solo pensiero coerente.

«Cosa siete?» ansimò, la voce che le si strozzava in gola.

Degli occhi verdi si accesero e rimasero illuminati.

Si fissarono a lungo.

Il suo sangue freddo fu messo alla prova come mai prima d'ora. Sapeva che scappare avrebbe peggiorato la situazione.

Gli altri esseri si zittirono, ma il verde continuò a sibilare.

Con un brivido Rebecca si rese conto che stava tentando di comunicare. Si sporse in avanti. «Chi siete?» scandì lentamente.

Vide anche gli occhi verdi che la fissavano avvicinarsi. Cominciò a sudare freddo, ma si costrinse a rimanere ferma.

Sentì le altre creature annusare.

«Chi...» riprovò, ma poi un trillo acuto vece scattare tutti.

Le creature fecero un balzo indietro al suono del suo telefono e lei sentì le ali spuntarle sulla schiena. Si sollevò in aria, ma incontrò dei rami che le impedivano di salire. Le ali argentate con filamenti rosa erano leggermente luminose. Individuò un varco tra le creature che si stavano di nuovo avvicinando e vi si infilò.

Si tastò freneticamente i calzoncini e recuperò il cellulare prima che smettesse di squillare. «Pronto?»

«Rebecca, mi avevi chiamato? Che succede?»

«Papà!» urlò, incapace di trattenersi. «Io...» qualcosa la colpì e cadde a terra.

Mani robuste e ossute la afferrarono quasi ovunque. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Poi sbatté la testa contro qualcosa di duro e tutto sparì velocemente.


ʘ –


Ludovic sentì finalmente il proprio battito rallentare, come se l’ansia si fosse improvvisamente spenta.

Si guardò intorno. Sbatté le palpebre e tutto tornò normale. Con un suono breve e squillante sia la telecamera che l'allarme si riaccesero.

«STUPIDE LAMPADE, SONO SEMPRE IN RITARDO! NON VEDO NULLA!»

«Jessy!»


ʘ –


«Rebecca? Rebecca!» Jeremy si portò una mano alla testa e per l'agitazione si conficcò le unghie nel collo. «Becky!» chiamò di nuovo, ad alta voce.

Ormai dal telefono provenivano solo fruscii e suoni indistinti.

Il buio della stanza rifletteva la paura del suo animo.

Il telefono di Rebecca dovette sbattere da qualche parte, ma non si spense.

Jeremy si allontanò dalla grande finestra e fece saettare lo sguardo nella stanza. Aelita era seduta sul bordo del letto, gli occhi fissi su di lui che esprimevano spavento e ansia.

Si portò indice e pollice al naso e si tirò su gli occhiali mentre restava in ascolto. Sentì movimento, poi un suono flebile ma profondo, un sibilo distorto.

Rimase in silenzio mentre una voce animalesca si modellava in un verso orribile e terribilmente simile alla parola “papà”.

«Re-Rebecca?» chiamò, con un fil di voce.

Dall'altra parte c'era molta agitazione. Gli arrivarono dei versi agitati, ancora quella voce sibilante, dei colpi ripetuti, poi la comunicazione si interruppe.

«Che succede?» chiese subito Aelita, senza nascondere l'ansia nella sua voce.

«Non ne ho idea. Chiama gli altri. Di qualunque cosa si tratti, qualcosa non va in quella scuola!»


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Capitolo 5
*** Cercare, o cercarsi ***


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Metamorfosi Cap5;

begin

    write('Cercare, o cercarsi');

    readln;

end.


Ludovic percorse il corridoio deserto con passo felpato. Alle sue spalle Emma e Carlotta, rimaste sulla soglia della loro camera, lo seguivano con lo sguardo.

Si fermò davanti alla stanza di Rebecca. Bussò piano. Non ottenne nessuna risposta. Si chinò per guardare attraverso la serratura, ma ovviamente fu inutile.

Era impossibile che Rebecca si fosse addormentata, quindi non era in camera. Ma dove? Perché non era venuta, come lei stessa aveva organizzato?

«Ludo, allora?» sussurrò Emma nervosa.

«Aspettatemi lì. Non muovetevi.»

Corse lungo il corridoio, poi imboccò quello che conduceva al dormitorio maschile. Controllò velocemente i nomi sulle porte fino a trovare la stanza Belpois – Stern.

Sentiva delle voci provenire da dentro. Bussò forte.

«Chi è?» la voce di Franz tradiva non poca agitazione.

«Ludovic.»

Gli arrivarono rumori di sedie e mobili spostati. Li avevano messi davanti all’entrata? La porta si socchiuse, Franz sbirciò fuori prima di aprirla completamente.

«Sì?»

«Cerco tua sorella. Sai dov'è?» mentre parlava Ludovic studiò l'amico.

Franz aveva gli occhi rossi, anche se asciutti, e i suoi vestiti erano sporchi di terra. «Lei...»

Ludovic lo inchiodò con lo sguardo.


ʘ –


Jeremy guidava tenendo lo sguardo fisso sulla strada. Tentava invano di concentrarsi sul percorso che conosceva bene, la sua mente continuava a tornare a quella raccapricciante telefonata. A quella voce spettrale, per non dire animale.

L'ipotesi di una “normale” aggressione da parte di un malintenzionato non lo aveva neppure sfiorato. Rebecca non era quel tipo di ragazza, non dare nell'occhio era la sua specialità.

Strinse ancora di più le mani intorno al volente. La macchina nera e lucida sfrecciava per le strade deserte molto al di sopra dei limiti di velocità. Nell'abitacolo regnava il silenzio più assoluto.

Aelita, sul sedile del passeggero, teneva le ginocchia strette contro il petto. Yumi, William, Odd e Ulrich si stringevano in silenzio nei sedili posteriori. L'unica soluzione era stata che Yumi si sedesse in braccio a William.

Erano tutti ancora piuttosto assonnati. Jeremy non aveva dato il tempo ad Aelita di chiamarli, si erano presentati direttamente a casa loro, buttandoli letteralmente giù dal letto uno dopo l’altro.

Dylan, il golden retriever di Ulrich, era stato sistemato nel bagagliaio e Odd, in ginocchio sul sedile con il busto appoggiato allo schienale e le braccia a penzoloni nel bagagliaio senza tettuccio, si limitava a scompigliargli il pelo sulla testa. Avrebbe voluto che avessero preso la sua macchina, quella a sei posti, ma Jeremy aveva personalmente apportato delle modifiche al motore della propria.

Yumi, in braccio a William, estrasse di nuovo il cellulare dalla tasca dei pantaloni neri e compose velocemente i. numero di Ludovic. Si portò il telefono all'orecchio, in attesa, ma per l'ennesima volta scattò la segreteria telefonica.


ʘ –


Erano da poco passate le due di notte quando cominciò a piovere, non gradualmente, ma di botto. Grosse gocce d'acqua picchiavano contro la finestra con violenza e ogni tanto qualche lampo di elettricità violacea squarciava il cielo delineando per pochi secondi le sagome degli enormi nuvoloni neri che occupavano il cielo e incombevano sulla scuola come belve malvagie sulla preda. I tuoni sembravano ruggiti e facevano tramare tutto.

Strinse le dita al bordo della scrivania di legno. Ormai le unghie rosse stavano lasciando delle tacche.

Si rifiutava di farsi spaventare da un temporale estivo, ma per quanto fosse forte la sua volontà, il suo corpo era debole e l'istinto di allontanarsi il più possibile dall'acqua si faceva sempre più aggressivo. Era più un comando che un istinto vero e proprio. E la paura era legata alla confusione, non tanto al temporale.

Si costrinse ad aprire le mani e a lasciare il bordo del tavolo. Appoggiò i gomiti sul legno, poi si premette i palmi sulle tempie e affondò le dita nei capelli neri.

Un nuovo fulmine illuminò il cielo e la stanza.

Per soffocare un urlo si morse il labbro inferiore finché non sentì un sapore metallico sulla lingua.

Stava succedendo. Stava impazzendo.

Infondo lo sapeva, sapeva che sarebbe successo. Lo aveva sempre saputo, ma era il prezzo da pagare. Il prezzo da far pagare.

Sì, li avrebbe fatti pagare per quello che le avevano fatto.

Ricacciò indietro le lacrime e il suo sguardo passò dal dolore alla rabbia. Si alzò in piedi di scatto e andò verso la finestra. Allungò una mano fino a toccare il vetro gelido e ve la tenne premuta.

«Hai promesso» sussurrò.

«Anche tu, Elisabeth.»


ʘ –


«Oddio» ripeté Carlotta per l'ennesima volta, sempre più agitata, mentre continuava a gettare lo sguardo fuori. Era seduta a gambe incrociate accanto ad Emma, sul letto di Chris. Lui e Franz stavano sul letto di quest'ultimo.

Ludovic girava inquieto per la stanza. «No, no, no. No! Rebecca era l'unica di noi che avrebbe potuto venire a capo di tutto questo macello!» esclamò.

«Lo hai già detto» commentò Chris.

Ludovic fece per ribattere, ma uno strano beep lo interruppe. Estrasse il cellulare dalla tasca. «Che succede?» chiese ad alta voce.

«TI HA CHIAMATO TUA MADRE, ALMENO UNA DECINA DI VOLTE» rispose il cellulare.

Emma, Franz e Chris si scambiarono occhiate perplesse e stupite.

«E non potevi dirmelo mentre mi chiamava?»

«EHI! È GIÀ TANTO SE TE L'HO DETTO IN ANTICIPO, QUESTO STUPIDO CAMPO ELETTROMAGNETICO BLOCCA LE COMUNICAZIONI.»

«Ti riferisci alla pioggia?»

«CERTO CHE NO! SE SMETTESSIMO DI FUNZIONARE TUTTE LE VOLTE CHE PIOVE SAREMMO PRESTO SOSTITUITI, TI PARE? C'È UN CAMPO DI FORZA INTORNO ALLA SCUOLA.»

Ludovic si guardò intorno, istintivamente cercò Rebecca per avere spiegazioni, ma lei non c'era. «Sai dov'era mia madre quando ha chiamato?»

«E COME FAREI A SAPERLO?»

«Oh, avanti, lo so che volendo puoi essere meglio di qualsiasi GPS o roba simile, sei o non sei il cellulare più efficiente del mondo?»

L'apparecchio rimase in silenzio per un po'. «OKAY, ERA SULLA STRADA PER ARRIVARE QUI, MA ANCORA PARECCHIO LONTANA. FORSE SARÀ QUI DOMANI.»

«Non potresti essere un po' più preciso?»

«SONO SOLO UN CELLULARE.»

«Va bene, va bene, ho capito» disse Ludovic rimettendoselo in tasca dopo averlo bloccato.

«Ha... ha parlato. Lo avete sentito?» balbettò Emma «Un cellulare che parla!»

«Lui non ce l'ha un nome?» chiese invece Carlotta.

«Non ancora, non ne trovo uno adatto.»

«Il suo telefono ha parlato!» gridò ancora Emma, rivolta più che altro a Chris che era l'unico che le dava retta e che si limitò a commentare: «Incredibile».

«Ha parlato!» insistette Emma.

«Abbiamo capito!» esclamarono Franz, Ludovic e Carlotta in coro.

Emma si zittì.

Chris alzò lo sguardo su Ludovic. Al momento, essendo il più grande, era stato silenziosamente ma comunemente eletto capo. «Che facciamo?» gli chiese con la massima serietà.

«No ne ho idea» ammise il ragazzo passandosi una mano tra i capelli neri.

«Dobbiamo andare a cercare Rebecca!» esclamò Franz e la voce non sembrava la sua per quanto era intrisa di preoccupazione.

«Lì fuori?» fece Emma con un tono di voce troppo alto che si affrettò a correggere. «Ti rendi conto che c'è un temporale con i fiocchi? E poi cosa vuoi che facciamo? Che ci mettiamo a girare intorno alla scuola con delle torce gridando il suo nome?»

L'espressione di Franz diceva che era esattamente quello che avrebbe voluto fare.

«Ma sei matto?» insistette la ragazza bionda scattando in piedi. «Ci prenderemo una polmonite e ci andrà bene se finiremo in presidenza e ci arresteranno per vagabondaggio, disturbo della quiete pubblica e magari anche tentato suicidio! Nel migliore dei casi! Perché quelle... creature potrebbero essere ancora là fuori e potrebbero catturare anche noi e farci chissà che cosa!»

«Se sono ancora là fuori...» provò ad osservare Franz.

«Sono passate ore, non credo che Rebecca sia ancora lì» disse Carlotta più dolcemente, ma guardandolo dritto negli occhi con fermezza.

Franz tentò di ribattere, ma di nuovo fu interrotto.

«Andare lì fuori, ora, è fuori discussione Franz» tagliò corto Ludovic e la sua decisione bastò a metterlo a tacere.

«E allora che facciamo?» chiese di nuovo Chris.

«Non lo so! Accidenti non lo so! Aspettiamo domani mattina. Si accorgeranno dell'assenza di Rebecca, la faremo notare noi, o ci penserà la sua compagna di stanza. La cercheremo dopo le lezioni.»

«Dopo le lezioni!» Franz era sconvolto. «Saranno passate dodici ore!»

«Ludovic, ha ragione» lo sostenne Carlotta.

Ludovic si lasciò cadere su una sedia. «Allora lo faremo prima. A colazione avvicineremo Anna, la sua compagna di stanza, e le chiederemo dov'è Rebecca con la scusa di doverle dire qualcosa. Lei non saprà dircelo e noi cominceremo a cercare in tutta la scuola, qualcuno ci noterà e si spargerà la voce, vedrete, ma prima non possiamo fare nulla.»

«Okay, ma se ci chiedono cosa dovevamo dirle?» domandò Chris.

«Ehm...»

«Che sto male, ho un'emicrania e non so cosa dovevo prendere» suggerì Franz. «Non è del tutto falso, ho davvero mal di testa, da stamattina. A casa mamma mi dava delle pasticche, ma non ricordo cosa fossero.»

Ludovic annuì. «D'accordo, faremo così, ora però cerchiamo di dormire.»

Gli altri annuirono.

Lui, Carlotta ed Emma uscirono dalla stanza.

In corridoio faceva più freddo e i vetri meno spessi non attutivano i rombi dei tuoni né schermavano i lampi dei fulmini.

«A domani» le salutò Ludovic in un sussurro prima di dirigersi verso la sua stanza.

Carlotta ed Emma, invece, dovettero tornare al dormitorio femminile. Camminando sobbalzando ogni volta che i loro passi riecheggiavano nei corridoi deserti, rabbrividendo ogni volta che un fulmine squarciava il cielo e pietrificandosi ad ogni tuono.

Mentre Emma armeggiava con la chiave della stanza, Carlotta osò avvicinarsi ad una finestra. «Emma! Vieni a vedere» soffiò.

L'altra avanzò a scatti.

«Guarda» Carlotta indicò il cielo.

Videro chiaramente un fulmine violaceo illuminare i nuvoloni grigi. Solo che non proveniva dalle nuvole. Aveva la sua origine da qualche parte, oltre il bosco, e si abbatteva su quella che sembrava una cupola sopra la scuola.

«Non ha senso.»

«Non mi importa cosa ha senso!» sibilò Emma rabbrividendo. «Voglio solo che smetta!»


ʘ –


«Perché ci fermiamo?» chiese William.

«Proseguire è troppo rischioso» rispose Jeremy indicando il temporale poco prima di entrare nel parcheggio del motel. «Dormiremo qui, domani mattina ripartiremo e per le undici saremo arrivati.»

Yumi mise via il telefono. «Inutile, qui c'è campo, ma non funziona» disse prima di scendere dalla macchina.

Ulrich andò ad aprire il bagagliaio per fare uscire Dylan, ma poi fu Odd ad occuparsi del cane.

L'uomo della reception stava insultando il proprio computer e la connessione internet e per poco non fece cadere delle tazze di caffè ormai vuote impilate accanto al monitor gesticolando.

Guardò i nuovi arrivati non troppo bene. «Il cane resta fuori» disse come benvenuto. «Non voglio che impeli tutte le mie camere. A proposito, me n'è rimasta solo una matrimoniale.»

«Andrà bene lo stesso» dichiarò Jeremy.

«Contenti voi» commentò l'uomo con un'alzata di spalle. «Il cane fuori.»

«E dove in corridoio?» sbottò Odd.

«Può restare in macchina.»

«Allora dormo anch'io lì» dichiarò il biondo.

«Come vuoi» continuò l'uomo. «Voi altri?»

«Ci faremo bastare la camera matrimoniale» ribadì William.

«Io dormo in macchina con Odd» annunciò Ulrich.

Gli altri quattro salirono nella camera.

Il letto lo presero William e Yumi, Aelita si sistemò su una poltrona reclinabile e Jeremy disse che comunque non sarebbe riuscito a dormire. Si andò a sedere sulla poltrona e si prese la testa tra le mani.

«Jeremy, dovresti riposare.»

«Sarebbe inutile.»

«Ci servi lucido, Jeremy.»

«Io...»

Aelita lo fece sedere sulla poltrona reclinabile e gli si accoccolò in grembo. «Andrà tutto bene, Rebecca se la caverà» disse, costringendosi a crederci per prima.

«Tu non l'hai sentita quella voce» replicò Jeremy. «Non era umana.» E queste non erano solo le parole di un padre, era un dato di fatto, qualcosa che lo spaventava, ma che era indiscutibilmente vero.


ʘ –


Ulrich si sistemò sul sedile del passeggero, abbassandolo al massimo mentre Odd si sedette accanto a lui. Erano entrambi molto assonnati ora che lo spavento iniziale si era lievemente attutito, ma nessuno dei due sembrava realmente intenzionato a addormentarsi subito.

Ulrich si preparò all'inevitabile chiacchierata. Non che gli dispiacesse. Non capitava spesso, ormai che avesse tempo per dare retta a Odd. Decidette di precederlo.

«Odd...» cominciò, ma le parole gli morirono in gola.

«Sì?» fece l'altro tenendo un solo occhio aperto.

«Tu e Melanie?» chiese cambiando completamente discorso.

Odd lo fissò per qualche istante, come se la domanda richiedesse concentrazione. Probabilmente si stava chiedendo cosa diavolo passasse per la testa dell'amico.



«Non c'è male» disse in tono neutro, forse senza neanche rendersene conto. Richiuse l'occhio e cercò di rispondere anche alla domanda che Ulrich non gli aveva fatto. «Non devi per forza tornare in quella scuola se non ti va. Puoi aspettare in macchina con Dylan.»

Il golden retriever lanciò un sommesso verso di risposta, nel sonno.

«Molto spiritoso.»

«Dicevo sul serio.»

«Tu non sei mai serio, Odd.»

Il biondo sorrise, come se gli avesse fatto un complimento.

Ulrich sospirò.

«Non è la scuola che mi preoccupa, ma le persone che ci sono.»

«Hai paura di qualche ragazzo ficcanaso?» scherzò Odd.

«Non sto parlando dei ragazzi! Anche noi eravamo dei ficcanaso.»

«E allora di chi? I professori saranno tutti diversi, il preside è cambiato... oh, hai paura di rivedere Elisabeth?» Odd stava cercando di buttarla sullo scherzo, ma entrambi erano consapevoli della tensione.

«Perché dovrei avere paura?» borbottò Ulrich.

«Tutti hanno paura di vedere la gente pazza.»

«Non è pazza.»

«Nooooo» Odd ridacchiò. «C'ero anch'io quando a Natale si è presentata a casa di Jeremy ed è svenuta sulla soglia. Emma e Chris non la smettevano più di piangere.»

«Sono passati dieci anni! E suo padre era morto da poco.»

«Si è pazzi per sempre! Ed era la mia macchina quella con cui l'abbiamo portata all'ospedale. Il suo profumo non se n'è andato per un mese, Melanie credeva che fossi stato con un'altra.»

«Odd...»

«L'hanno imbottita di farmaci psico-di tutto finché non è rimasta così intontita che ci ha fatto ciao-ciao con la mano quando siamo entrati. Aveva un sorriso da ebete irripetibile. Vorrei aver fatto una foto! Me la stamperei sulla maglietta e la indosserei per andare a parlare con i professori.»

Ulrich non poté trattenere le risate.

«Taci Odd» riuscì a dire.


ʘ –


Chris era steso sul letto, immobile, lo sguardo fisso sul soffitto, ad aspettare il suono della sveglia.

Non aveva chiuso occhio. Era abbastanza sicuro che neanche Franz l'avesse fatto, ma nessuno dei due si era voltato a guardare l'altro.

Non sarebbe mai riuscito a prendere sonno. Non dopo quello che aveva visto.

Una cosa era sentirsi raccontare che Rebecca era stata rapita da degli essere a dir poco inquietanti e anche meno umani, un'altra era averlo vissuto. Aver sentito quelle voci, o meglio, quei versi. Aver percepito quelle presenze. Aver sentito il loro fiato sul collo.

C'era qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo, lo sentiva.

Nella fabbrica si era sentito ansioso, anche se se ne rendeva veramente conto solo adesso, ma una volta superata la barriera si era sentito al sicuro, protetto. Come aveva quasi fermato loro, la barriera avrebbe fermato chiunque altro, giusto?

E invece erano stati attaccati proprio lì, a pochi passi dalla scuola.

Gli venne la pelle d'oca.

La sveglia sul comodino di Franz suonò e subito fu spenta. Si alzarono entrambi con movimenti meccanici.

Franz sembrava essere da tutt'altra parte. Il suo sguardo dorato era vago e distante.

Chris non vece nulla per richiamarlo alla realtà, sospettava che si sarebbe sentito anche peggio. Si vestì in fretta e uscì senza aspettarlo.

Secondo i piani, Franz sarebbe dovuto rimanere in camera.

Scese le scale lentamente, forse troppo lentamente, per dare il tempo agli altri ragazzi di raggiungerlo e non arrivare per primo a mensa.

Si sedette al solito posto, davanti al solito vassoio. Guardò il cibo con astio.

Si costrinse a bere il latte. Le mani gli tremavano e la tasta per poco non gli cadde.

Ogni suono, ogni voce che si andava ad aggiungere alle altre, somigliava ad un sibilo o ad un ringhio. Le immagini si confondevano. Sembrava di essere di nuovo nella foresta.

Si ritrovò a fissare il biscotto che teneva tra le mani con il cuore in gola.

Non fare lo stupido, si disse, adesso alzi la testa e non c'è nessuno!

Lo fece. Dopo due respiri profondi.

Scandagliò velocemente la mensa con lo sguardo. Individuò Carlotta che si andava a sedere ad un tavolo pieno di ragazzi, accanto al fratello, seguita a ruota da Emma.

Avevano dormito, ma non sembravano troppo in forma. Di sicuro, comunque, lo erano più di lui.

Ci avrebbero pensato loro a mettere in giro la voce che Rebecca era sparita.

Continuò la sua panoramica e lo sguardo gli si fermò fuori dalla finestra. Alcuni ragazzi erano usciti all'esterno per vedere i danni causati dal temporale. C'era anche il professore di ginnastica.

Fu allora, con calma e normalità, che Rebecca passò davanti alla finestra.

Non ricordava di essersi mosso, ma era in piedi.

Quella era Rebecca, non c'erano dubbi. Solo lei aveva i capelli rosa e solo lei poteva essersi fatta degli chignons così perfetti. Solo lei aveva quegli occhi azzurro-argento.

All'inizio era così sorpreso che non si accorse di nient'altro.

Poi, man mano che Rebecca avanzava senza essersi accorta minimamente di lui, notò che accanto a lei camminava Anna Zuz, la ragazza dai ricci sanguigni e gli occhi color prato con cui condivideva la stanza. Non faceva che parlare, come sempre. Chris aveva già avuto modo di conoscerla – stavano nella stessa classe – e di capire che era meglio evitarla. Se ne stava sempre all'ultimo banco, da sola, a fare commenti inopportuni e battute un po' stupide che tutti ignoravano.

Chiacchierava in continuazione, praticamente da sola. Rebecca annuiva o scuoteva la testa ogni tanto, come se facesse solo finta di ascoltarla. Però la seguiva.

Si andarono a sedere in uno dei pochi tavoli da due che c'erano.

Da dove era, Chris non poteva sentirle, ma vedeva le labbra di Anna muoversi senza sosta. Rebecca restava in silenzio, come al solito, ma sorrideva e rispondeva con qualche smorfia.

Di nuovo, non si rese conto di essersi mosso finché non si trovò a pochi passi da loro.

«Becky?» chiamò.

La ragazza non si girò, non diede segno di averlo sentito, era troppo impegnata a seguire i discorsi di Anna.

Percorse praticamente ci corsa i pochi passi che lo separavano dal tavolo. «Rebecca?» disse di nuovo, con più determinazione.

La ragazza voltò la testa e incontrò il suo sguardo. Per qualche istante non fecero altro che guardarsi negli occhi. Chris si sorprese della calma quasi indifferente che lesse in quelli dell'amica.

«È un tuo amico?» chiese Anna portandosi dietro l'orecchio un ricciolo rosso scuro.

Rebecca tornò a guardarla e annuì sorridendo leggermente.

Chris rimase interdetto.

Quell'espressione non apparteneva a Rebecca, ne era sicuro. Era tipico di lei stare zitta e comunicare affidandosi alle espressioni del volto, ma non così. Si teneva sempre in disparte, ma perché nessuno venisse a disturbarla, non perché non voleva essere notata, non era da lei farsi piccola sulla sedia. Non era da lei quello sguardo mesto al posto delle sue solite occhiate.

Lei non era timida. Non lo era mai stata in vita sua.

Chris prese un sedia da un tavolo vicino e si sistemò accanto a lei. Continuava a fissarla, senza sapere cosa dire né cosa pensare.

Guardò Anna. «Era in camera stamattina?»

«Che domande! Certo che era in camera, sempre davanti a quel computer. È stata un'impresa catturare la sua attenzione, ma alla fine ce l'ho fatta. Ho capito. L'importante è non toccarla e non farle domande aperte.» Si rivolse direttamente a Rebecca. «Avresti potuto dirmelo subito, così saremmo andate d'accordo dall’inizio.»

Rebecca sorrise timidamente e annuì, poi tornò a tamburellare con le dita sul tavolo, altra abitudine che non aveva mai avuto.

Non aveva nessun vassoio davanti a sé, né sembrava intenzionata a prenderne uno.

Neanche Anna ce l'aveva, ma questa non era una novità, era sempre troppo impegnata a chiacchierare per mangiare, persino a pranzo. Chris si chiese distrattamente come facesse a non morire di fame. Era magra, ma non eccessivamente.

Tentò di catturare lo sguardo di Rebecca, ma lei si ostinava a tenerlo basso, come se non volesse essere guardata direttamente.

Chris sollevò un sopracciglio. Allungò una mano verso il suo braccio quasi senza accorgersene e lei lo ritrasse all'istante.

Chris rialzò gli occhi e questa volta la inchiodò con lo sguardo.

Quella non era Rebecca, ne era sicuro. Lei non rifiutava il contatto fisico, erano gli altri a stare alla larga da lei – per diffidenza soprattutto– non il contrario. Quell'espressione non era sua, quella postura non era sua. Persino il fatto che sembrasse aver fatto amicizia con una come Anna non era da lei.

Chris allungò la mano di scatto, riuscendo ad afferrarle il braccio. Entrambi spostarono lo sguardo su quel contatto fisico, entrambi stupiti, anche se per ragioni diverse.

Chris non allentò la stretta, ma la saggiò. Era come se la stesse tenendo direttamente con le ossa, come se la propria carne fosse inconsistente per la sua pelle. Come se dovesse arrivare in profondità per poterla toccare davvero.

Nel punto in cui lo stringeva, il braccio di lei era diventato leggermente trasparente. Poteva vedere le proprie dita che vi affondavano per un pezzo.

Sgranò gli occhi tornando a guardarla. «Cosa sei?»

Lei non rispose, ma nel suo sguardo si leggevano la confusione e il panico.

Anna rimaneva in silenzio, ad osservare la scena.

«Che cosa sei?» chiese più forte, urlando sopra il frastuono della mensa. I ragazzi più vicini si voltarono a guardarli.

«Dov'è Rebecca?»

Lei – non sapeva neanche come definirla – scosse la testa nervosamente, l'espressione sconvolta, come a dire che non lo sapeva e che non c'entrava niente.

Chris scattò in piedi, trascinandola.

«Chris adesso basta!» esclamò Anna riprendendo vita all'improvviso. «Si può sapere che ti prende? Noi stavamo tranquillamente parlando, poi boom, arrivi tu e la aggredisci. Ma che ti salta per la testa? Siamo in un luogo pubblico, non puoi fare come ti pare...»

Chris la ignorò e spinse lei contro il muro.

«Chi sei? Che cosa è successo a Rebecca?» urlò con tutto il fiato che aveva.

Tutti nella mensa si zittirono e si voltarono a guardarlo, come se fosse pazzo.

Anna si alzò e circumnavigò il tavolo avvicinandosi. «Chris, lasciala andare! Subito.»

Non seppe nemmeno lui perché lo fece.

Fu un istinto innato, qualcosa che scattò dentro di lui. Così come era stato certo che la barriera intorno alla scuola lo avrebbe protetto, in quel momento era sicuro che quella ragazza magra e non molto alta, con quei ricci rossi che sembravano viticci vivi e quegli occhi verdi che parevano spiritati, fosse un pericolo, qualcosa da cui avrebbe dovuto proteggersi.

Prima ancora di averlo deciso e quantomeno pensato, strinse la presa sul braccio della finta Rebecca e con la mano libera assestò un pugno sulla mandibola di Anna.

Non sentì né l'impatto né nessun suono, ma lei indietreggiò e dalla gola le uscì uno strano verso acuto, più simile ad uno stridio metallico che a un grido di dolore. Si portò una mano sulla mandibola, ma più per coprirsela che per altro. Indietreggiò lanciandogli delle occhiate piatte e spiritate allo stesso tempo.

Chris non ebbe tempo di riflettere su quell'azione insensata. Strinse la mano sulla finta Rebecca che stava tentando di divincolarsi e correre via. La sbatté di nuovo contro il muro.

«Dov'è Rebecca?» strillò, e non era più in sé. Degli istinti più forti avevano preso il sopravvento.

«Lasciami» disse lei, con un tono neutro anche se molto flebile che mal si accostava con la sua espressione.

«Dov'è?»

Dei ragazzi si stavano alzando dai tavoli, dei professori si avvicinavano e dei mormorii si diffusero velocemente.

«Stern» lo chiamò il professore di ginnastica, ma lui lo ignorò.

Sbatté di nuovo la ragazza contro il muro, ma lei non sembrò neanche accorgersene, lo attraversò con la schiena e Chris sentì sulle proprie mani l'impatto con la parete.

«Stern, che succede?»

Il professore lo afferrò per le braccia trascinandolo indietro.

Chris si divincolò, ma la presa dell'uomo era troppo salda. Cominciò a scalciare.

«Non è lei!» urlò. «Non è Rebecca!»

«Che sta dicendo?» chiese qualcuno alle sue spalle.

Si voltò e vide Ludovic a pochi passi di distanza, circondato da dei compagni di classe.

«Non è Rebecca! È un'impostora! Non è neanche umana.»

«Che gli prende?» domandò un ragazzo facendo d'istinto un passo indietro.

«Io...» Ludovic non sembrava confuso, solo indeciso su cosa dire. «Deve avergli detto qualcosa...»
«Ludovic, ma ci sei? Ha preso a pugni l'aria.»

Ludovic lo guardò con espressione forzatamente neutra. «Ero girato» farfugliò.

«Non c'era nessuno a quel tavolo, si è alzato e ha strillato al nulla. Non c'è nulla lì.»

Chris guardò davanti a sé, senza smettere di dimenarsi. Rebecca, o chi per lei, era ancora lì, la schiena contro il muro e lo sguardo fisso su di lui, agitata e incredula.

Non poteva essere un'allucinazione, anche Ludovic l'aveva vista.

«Cosa sei?» strillò di nuovo, anche se con meno rabbia.

Lei aprì la bocca per parlare, ma se disse qualcosa, lui non la sentì. Lo avevano già trascinato fuori.


ʘ –


Lentamente, cominciò a riprendere coscienza del proprio corpo.

Era rannicchiata in posizione fetale su una superficie inconsistente.

Era come galleggiare nell'acqua: c'era gravità, ma attutita, e avvertiva pressione da tutte le direzioni.

Rimase immobile.

Ad un certo punto si accorse che non stava respirando. Spaventata, ispirò all'istante.

Non sentì niente. Né odori, né l’aria attraversarle le narici e poi la gola, o i polmoni gonfiarsi – se non molto vagamente, così vagamente che avrebbe potuto essere un ricordo.

Si portò una mano al petto, sul cuore. Non lo sentì battere. Ma non come se fosse fermo, come se fosse semplicemente troppo lontano per poterlo sentire.

Tenne gli occhi chiusi e chiamò all'appello tutti i muscoli del proprio corpo. Ogni cosa era al proprio posto, non sentiva dolore.

Il suo cervello lavorava più velocemente man mano che si svegliava del tutto.

Era una bella sensazione quella di essere sospesa nel vuoto.

Dietro le sue palpebre chiuse regnava l'oscurità. Le sollevò. E non vide assolutamente nulla. Né il nero delle tenebre né il bianco della luce.

Era semplicemente il nulla.

Non vedeva neanche il proprio corpo.

Schioccò le dita, ma non le giunse nessun suono. Né sentì le proprie dita sfiorarsi, anche se era consapevole che lo avessero fatto.

In qualunque posto si trovasse – ammesso che il nulla potesse definirsi “posto” – i sensi normali non avevano nessun valore lì, erano come spenti.

Chiuse di nuovo gli occhi. Almeno, in questo modo, vedeva il nero.

Forse, però, lì si sviluppavano altre percezioni. La gente parla spesso di un sesto senso, anche se lei non ci aveva mai creduto.

La gente, però, diceva anche che quel sesto senso era legato al cuore, all'istinto e a volte ai sentimenti. No, non poteva essere il cuore. L'istinto era legato ad una parte irrazionale del cervello e così anche i sentimenti.

Forse era lì che doveva cercare, nel cervello.

Si concentrò.

Per molto tempo non sentì nulla, ma non si arrese. Non c'era molto da fare e lì le normali regole della fisica sembravano inesistenti. Sembrava che il tempo non potesse scorrere né fermarsi, ma che saltellasse sul posto. L'energia andava e veniva, ma non diminuiva.

Cosa c'era intorno a lei?

Fu la cosa più strana e allo stesso tempo più naturale che avesse mai fatto. Fu come far uscire il proprio cervello dal cranio e permettergli di srotolarsi tutt'intorno.

Avvertì una specie di gravità dentro di sé, in corrispondenza del suo cervelletto. La controllò e la mosse, così come avrebbe chiuso una mano a pugno dopo essersi ripresa da uno svenimento. Poi la lasciò espandere, così come avrebbe disteso le dita.

La sentì irradiarsi in tutto il suo corpo, risvegliarne una parte dormiente e sepolta e infine risucchiarla.

Un battito le risuonò nel petto così all'improvviso che le fece quasi male e la lasciò ansimante.

Impiegò diversi minuti per riprendere il controllo. Ritrovò quell'energia pulsante, ma questa volta la lasciò lì dov'era.

Tornò a concentrarsi.

Avvertiva nell'aria l'elettricità statica e solo dopo diverso tempo si rese conto che proveniva da lei.

Si re-impadronì del proprio cervello costringendolo a tornare al proprio posto e qualunque sensazione fuori dalla norma scomparve.

I suoi sensi si riaccesero.

«È qui» sentì dire ad una voce.

«Bene» rispose cordialmente un'altra, molto più vicina.

Aprì gli occhi di scatto, ma l'accecante luce azzurra la costrinse a richiuderli.

«Ben arrivata» disse la seconda voce. «Ci dispiace per l'incidente di Fuori.»

Non sentiva ancora nessun odore, ma registrò un leggero ronzio simile a quello degli apparecchi elettrici. Era stesa su qualcosa di duro, freddo e regolare, un pavimento.

Socchiuse leggermente gli occhi.

«Dove sono?» chiese, e subito si interruppe perché la propria voce suonava strana in confronto alle altre, un po' sibilanti.

«Sei a Cartagine, capitale di Lyoko.»



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Capitolo 6
*** Conoscersi, o riconoscersi ***


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Metamorfosi Cap6;

begin

    write('Conoscersi, o riconoscersi');

    readln;

end.


Nessuno dei ragazzi sapeva bene che fare e finirono per non fare proprio niente.

Corsero ognuno nella propria classe, o quasi.

Di Chris girava voce che fosse stato portato in presidenza, altri sostenevano che l'avessero chiuso in infermeria in attesa di un medico, altri ancora, i più maligni, che fosse già chiuso in un manicomio.

Franz era rimasto in camera fino a tardi. La testa aveva cominciato a fargli male veramente, forse per il fatto di non essere riuscito a dormire. Minuto dopo minuto il dolore si faceva sempre più insopportabile. Non riusciva nemmeno a pensare lucidamente.

Verso le otto e mezza allontanò le coperte con un movimento scomposto e scese dal letto. Si mosse così velocemente che fu assalito da potente senso di vertigine. Si portò una mano alla testa e premette forte le mani sulle tempie finché non passò.

Fece degli affannosi respiri profondi e aprì lentamente gli occhi. Era caduto per terra. Probabilmente si era appena procurato qualche livido, ma non gli importava.

Si aggrappò al letto e si alzò in piedi con cautela. Gli pulsavano le orecchie e si sentiva poco stabile. Sorreggendosi alla parete con una mano barcollò fino al bagno.

Cosa diavolo avrebbe alleviato quel dannato mal di testa? Aprì l'armadietto accanto allo specchio ma, a parte gli spazzolini e il dentifricio che lui stesso vi aveva messo, lo trovò vuoto.

Si sorresse al lavandino per riprendere fiato. Tutto quel movimento e quella concentrazione su cosa doveva fare gli stavano costando uno sforzo enorme.

Aprì l'acqua, prima gelida e poi bollente, e per un po' non fece altro che guardarla scorrere. Si sciacquò il viso, ma non servì a nulla. Percepì appena l'acqua sulla pelle.

Per la prima volta alzò lo sguardo sullo specchio. Per qualche istante lo stupore gli fece dimenticare del mal di testa. I suoi occhi erano sempre stati ambrati – cosa che lo aveva sempre lasciato molto perplesso visto che entrambi i suoi genitori li avevano azzurri, proprio come Rebecca – ma mai così indubbiamente dorati come in quei giorni. Inclinò leggermente la testa in varie angolazione per poter studiare meglio le proprie iridi. Riflettevano la luce proprio come se fossero state delle monete forate posate sulle palpebre.

Chiuse e riaprì gli occhi più volte, ma non cambiò nulla.

Distolse lo sguardo da quello del proprio riflesso e andò oltre. Si portò una mano alla guancia per assicurarsi che fosse reale, ma ebbe dei dubbi anche sulla propria mano.

Si avvicinò allo specchio per vedere meglio. Era come se la sua pelle stesse diventando trasparente rivelando ciò che c'era sotto. Non si vedevano però capillari o muscoli, ma solo uno strano reticolo, come se sotto l'epidermide vi fosse un'impalcatura fatta di piccolissimi pannelli. Ce n'erano di bianchissimi, di grigi, color crema e dorati.

Erano dappertutto, sul naso, sulle orecchie, sulle palpebre.

Cosa diavolo gli stava succedendo? Si stava forse trasformando in un alieno?

Una specie di risata nervosa gli risalì la gola, ma prima che potesse aprire bocca gemette per un'altra fitta alla testa.

Si aggrappò al lavandino per non cadere a terra. Quando la fitta passò rialzò lo sguardo. Non era cambiato nulla.

Tornò al letto e vi si lasciò cadere pesantemente. Affondò la testa nel cuscino per soffocare un altro gemito.

Non ne poteva più.

A chi poteva chiedere aiuto? L'infermeria al piano di sotto gli sembrava troppo lontana, irraggiungibile. E poi era sempre piena di ragazze pettegole che andavano lì inventandosi malanni inesistenti solo per saltare le lezioni. Attirare l'attenzione e stare ancora peggio non rientrava affatto nei suoi piani.

Rebecca. Quanto avrebbe voluto che fosse lì. Lei aveva sofferto molto di mal di testa l'anno prima. Si ricordava bene di tutte le volte che aveva chiamato casa per avere consigli dalla madre su cosa fare.

Sua madre! Avrebbe potuto chiamarla anche lui.

Senza sollevare la testa dal cuscino e muovendo solo gli occhi, perlustrò la camera cercando di ricordare doveva aveva messo il telefono in modo da compiere il percorso più breve per arrivarci. Lo individuò sulla scrivania, ben in vista, e sospirò di sollievo.

Si alzò, attese che le vertigini passassero e in poche, lunghe, falcate arrivò alla scrivania, riprese fiato, afferrò il telefono, si voltò e tornò al suo letto. Vi rimase steso per diversi minuti prima di riuscire a riprendere lucidità.

Premette il tasto di chiamata rapida e portò il cellulare all'orecchio. Ascoltò gli squilli con insofferenza.

«Franz!» esclamò Aelita dopo un tempo così lungo che il ragazzo credette di aver sentito la voce della segreteria telefonica.

«Mamma!» ansimò con un fil di voce.

«Franz, stai bene?»

«Io... no. Mamma... ho mal di testa.»

Aelita rimase in silenzio per qualche istante. «Mal di testa?» ripeté poi.

«Sì» gemette Franz. «Come Rebecca l'anno scorso, ricordi?»

«Sì.»

«Non ne posso più» si lamentò. «Non ne posso più!» Gli veniva da piangere.

«Franz,» riprese Aelita, ora confusa oltre che agitata. «Franz che succede?»

«Non lo so!»

«Dove sei?»

«In camera mia.»

«Dove sono gli altri?»

«Non lo so!» Si sforzò di pensarci. «In classe credo.»

«E tua sorella? Dov'è? Sta bene?»

Franz sentiva di non poter rimanere lucido ancora a lungo. «Non lo so!» ripeté e sentì delle lacrime di frustrazione inondargli gli occhi serrati. «Voglio solo che smetta, voglio che smetta.» Una parte di lui era consapevole di starsi comportando come un bambino, ma ad un'altra non importava.

«Il mal di testa?»

«Sì!» Fece dei respiri profondi.

«Avevo dato a Rebecca delle pillole.»

Franz si limitò a grugnire. «Fa male» mormorò.

«Lo so, lo so, sembra che ti debba esplodere la testa, sta' tranquillo, stiamo arrivando.»

Franz ebbe un momento di lucidità. Gli bastò per rendersi conto che non era come diceva sua madre. Non aveva l'impressione che la testa gli stesse per scoppiare. Sembrava più di avere una animale che vi si muoveva dentro procurandogli fitte ora in punto ora in un altro.

Sua madre stava ancora parlando al telefono. «Franz? Franz mi senti?»

«Sì» sussurrò.

«Come stanno gli altri?»

«'ene» abbozzò.

Il dolore stava scemando. La sua testa si stava finalmente svuotando. Strinse il telefono come se potesse aggrapparsi alla voce della madre.

«'amma?»

«Sì?»

«Davvero state venendo qui?»

«Sì tesoro.»

Si sentì invadere da un profondo senso di sonnolenza.

«Ho sonno.»

«E il mal di testa?»

«'n so» mormorò prima di chiudere le palpebre.


ʘ –


Emma continuò a disegnare sul banco, sovrappensiero, e quasi non si accorse della campanella che indicava che la prima ora era finita.

Anna apparve sulla soglia, si fece largo tra i banchi passando davanti a ragazzi troppo intenti a chiacchierare per accorgersi di lei e si fermò accanto ad Emma.

«Posso sedermi vicino a te?» chiese.

Emma alzò lo sguardo dal proprio scarabocchio e annuì senza particolare interesse.

«Dove sei stata?» chiese, giusto per non rimanere in silenzio come aveva fatto per tutta l'ora precedente.

«In infermeria, sai, dopo che Chris mi ha sferrato quel pungo.» E si portò la mano alla mascella.

Emma annuì. E poi, all'improvviso, le venne in mente quello che era successo nella mensa. «Aspetta un attimo!» esclamò all'improvviso, raddrizzandosi. «Tu l'hai vista!»

Anna la guardò senza capire.

«Rebecca! Tu l'hai vista!»

«Che domande! Certo che l'ho vista, sono la sua compagna di stanza, ricordi?»

«Appunto! Tu l'hai vista, stamattina, a mensa, ci hai parlato.»

«Certo.»

«Quindi Chris non se l'è immaginata. E nemmeno io!» aggiunse rendendosi conto di ciò che lei stessa aveva visto. Balzò in piedi. «Dobbiamo assolutamente dirlo alla preside!»

«Cosa dovresti dire di preciso alla preside, Della Robbia?» chiese la professoressa di storia, appena entrata. «E tu e chi?»

Emma fu troppo sorpresa per rispondere. Guardò Anna che fece spallucce. La professoressa di storia seguì il suo sguardo, ma era chiaro che non vedeva niente lì dove c'era Anna.

Emma sentì il cuore batterle forte. Stava avendo un'allucinazione? Come Chris? No, avevano visto entrambi la stessa cosa, non potevano avere avuto la stessa allucinazione. E poi come faceva Anna a non essere reale? C'era dall'inizio dell'anno. Si era sempre seduta dietro di lei. Certo, al banco era da sola, ma era normale visto che erano di numero dispari. Diversamente, perché avrebbero dovuto tenersi un banco in più?

La guardò.

Era troppo perfettamente imperfetta per non essere reale.

Come potevano i suoi ricci stretti come cavatappi e rossi come il sangue essere finti? Come potevano i suoi tratti così definiti essere un'illusione? Come potevano i suoi occhi verdi ed espressivi non esistere?

Cercò qualcosa che le dicesse che non poteva essere vera.

Il gatto che la perseguitava dalla prima lezione di ginnastica era viola e sorrideva, ma Anna? Anna Zuz, la chiacchierona dell'ultimo banco che si lamentava tutti i giorni che il suo nome veniva saltato perché era l'ultimo dell'appello.

Il cuore le batteva forte.

Voltò la testa e fissò di nuovo la professoressa, dritta negli occhi. La vide sussultare per un istante.

«Nessuno, era un modo di dire» abbozzò.

La professoressa sbuffò dal naso e si voltò, per tornare alla cattedra.

Emma si risedette, continuando a studiare Anna.

«Oddio, hai gli occhi lilla!» esclamò lei, nel silenzio totale, eppure nessuno si voltò a guardarla. «E sono proprio lilla, non azzurri.»

Emma non rispose.


ʘ –


Erano tutti e sei seduti intorno ad un minuscolo tavolino rotondo. Non avevano mai visto un motel più scadente.

«Io non capisco dove sia il problema» insistette Odd. «Noi entriamo nella scuola e chiediamo dei nostri figli, cosa vuoi di più? In questo modo farai anche notare che Rebecca è sparita.»

«Non possiamo irrompere nella scuola» osservò Ulrich.

«Infatti non stiamo irrompendo, ci stiamo solo presentando.»

«Io sono d'accordo con Odd» affermò William. «Tu cosa dici, Jeremy? Infondo è Rebecca che sembra sparita.»

Jeremy però era assente, fissava il vuoto davanti a sé, inespressivo e allo stesso tempo preoccupato. Odd gli sventolò una mando davanti agli occhi e lui sbatté le palpebre.

«Stavamo dicendo...»

Ma proprio in quel momento un cellulare cominciò a squillare.

Ulrich si tastò prima i pantaloni, poi il giacchetto. Quando finalmente trovò il telefono fissò lo schermo e fece una smorfia delusa.

«È la scuola» osservò sollevando le sopracciglia.

«Che aspetti a rispondere?» esclamò Yumi.

Ulrich sbuffò e si portò il telefono all’orecchio. «Pronto?»

«Buongiorno, parlo con Ulrich Stern?»

«Sì» confermò Ulrich. «Il padre di Chris» aggiunse, per velocizzare la conversazione.

«Sono Lea, dalla segreteria scolastica. La contatto perché suo figlio è stato ripreso questa mattina per dei disordini a mensa. A causa delle sue reazioni ai richiami abbiamo ritenuto necessaria la convocazione dei genitori.»

«Che tipo di disordini?»

«Vi sarà spiegato tutto durante un colloquio con la preside. Vi è possibile raggiungere la scuola in breve tempo?»

«Posso essere lì in un’ora» si affrettò ad assicurare Ulrich. «Mio figlio sta bene?»

«Io… credo che sia meglio che vi sia spiegato tutto di persona.»

«Ma sta bene?» insistette.

La segretaria sembrava a disagio. «È stato sotto osservazione per un po’, ma sta bene.»

Ulrich non riuscì a trattenere un’imprecazione.

«Signor Stern?»

«Cos’altro c’è?» sbottò.

«C’era solo il suo recapito nella scheda di suo figlio Chris. C’è una madre da contattare?»

Ulrich si irrigidì, ma sentiva addosso gli sguardi di tutti gli altri perciò si costrinse a mantenere un’espressione neutra. «No» disse solo.

«D’accordo.»

Per qualche momento vi fu silenzio da entrambi i capi del telefono, poi la segretaria salutò e riattaccò senza aggiungere altro.

«Allora?» chiese subito Odd, prima ancora che Ulrich avesse messo via il cellulare.

«Sono stato convocato, pare che Chris si sia messo nei guai.»

«Questa sì che è una bella notizia!» esclamò l'amico. «Vuol dire che ha preso da te! O da me!»

«Significa che ora abbiamo un buon motivo per presentarci a scuola» sentenziò Jeremy. «Muoviamoci» aggiunse alzandosi.


ʘ –


Ludovic non resse che la prima ora di lezione.

Allo squillo della campanella chiese di andare in bagno e non rientrò. Uscì in giardino accodandosi ad una terza che andava a fare lezione di ginnastica all'aperto e fece il giro della scuola. Si arrampicò su un muro e vi camminò per un po'.

Alzò lo sguardo verso il cielo.

Non c'era nemmeno una nuvola, faceva persino caldo, non c'era traccia della tempesta di quella notte. Ispirò l'aria frizzante della mattina. Un brivido piacevole lo percorse risvegliando ogni singolo muscolo.

Si guardò intorno.

A diversi metri dal muretto c'era un grosso albero nodoso. Percorse con lo sguardo il tratto d'aria che li separava. Un salto sarebbe stato troppo azzardato.

Flesse le gambe e si spinse in avanti, verso l'alto. Il muretto parve modellarsi come una molla sotto il suo peso e ne aumentò la spinta. Ludovic atterrò su un grosso ramo.

«Forte.»

Puntò lo sguardo davanti a sé.

Corse finché il ramo non si fece troppo sottile per sostenerlo e balzò su quello dell'albero accanto. Continuò a saltare da uno all'altro, salendo e scendendo, mantenendo un equilibrio perfetto, come in un videogioco. Si fermò solo quando arrivò su un albero particolarmente vicino alle finestre di un'aula.

Si assicurò di essere nascosto dalle foglie già più marroni che verdi e sbirciò dentro la stanza. Riconobbe l'altra seconda della scuola.

Avanzò di qualche passo sul ramo, saggiandone la resistenza ad ogni passo e tese il collo il più possibile.

Rebecca era lì. Seduta al secondo bando, nella fila di centro. La sua solita compagna di banco, però era seduta accanto ad un altro ragazzo.

Nessuno vedeva quella Rebecca, ne era sicuro, ma lei non sembrava accorgersene.

Chi era? Cosa era?

Ai suoi occhi che quella non fosse la vera Becky era lampante.

Come poteva attirare la sua attenzione? Lei poteva anche essere invisibile agli altri, ma lui no.

Avvertì uno spostamento d'aria e alzò lo sguardo.

Sgranò gli occhi.

L'uccello variopinto di era posato qualche ramo più in alto e puntava lo sguardo su di lui. Ludovic s'irrigidì, poi ebbe un'idea.

Stupida, e forse inutile, ma pur sempre un'idea.

Si alzò lentamente in piedi per essere più vicino all'uccello che lo fissava con intensità, vigile. Rimase immobile per qualche secondo, poi gli afferrò le zampe con un movimento così repentino che quasi non vide le sue stesse mani.

L'uccello gridò e si divincolò.

Ludovic lo lasciò andare all'istante. Aveva ottenuto ciò che voleva.

Rebecca, o chi per lei, si era voltato verso di lui.

Agitò le braccia per essere sicuro di farsi notare.

Rebecca rispose con un incerto cenno della mano.

Ludovic le fece segno di avvicinarsi.

Lei si guardò intorno, poi si alzò e si avvicinò alla finestra aperta sporgendosi leggermente in avanti.

«Vieni!» soffiò Ludovic, timoroso di farsi sentire dagli latri ragazzi dentro la classe.

La ragazza granò gli occhi.

«Dai!» la incitò.

Lei fece un passo indietro, poi si sedette sul davanzale e portò le gambe verso l'esterno e si lasciò cadere.

Ludovic credette che fosse impazzita, poi si ricordò che quella non era Rebecca, che probabilmente non era neanche umana. Saltò da un ramo all'altro fino ad arrivare a terra a propria volta.

Ora che era faccia a faccia con lei non sapeva cosa fare. Che fosse identica a Rebecca lo aveva già notato a colazione e se ne era già stupito.

«Ciao» fu tutto ciò che trovò da dire.

Lei abbozzò un sorriso.

«Come ti chiami?»

Lei sollevò un po' le spalle.

«Rebecca?»

Lei si limitò a guardarlo confusa.

«Non puoi parlare?» chiese spazientito.

Lei scosse la testa e lui alzò gli occhi al cielo.

«Da dove vieni?» provò.

Lei si voltò a guardare la scuola e indicò una finestra.

Ludovic si chiese cosa fosse. «Portamici» le ordinò.

Lei si incamminò senza aspettare che la seguisse e rientrò nell'edificio del Kadic.

Evitarono di farsi vedere dai bidelli e salirono le scale. Imboccarono il corridoio del dormitorio femminili e si fermarono davanti ad una delle camere.

Ludovic lesse il nome sulla targhetta.

Belpois – Zuz

«Fantastico! Ed è la tua stanza?»

Lei annuì.

«Da quando?»

Fece roteare la mano verso dietro.

«Ieri?»
Lei annuì.

«Ieri sera?»

Lei scosse la testa e ripeté il gesto.

«Prima di ieri sera, dal pomeriggio?»

Lei annuì.

«Hai preso il posto Rebecca ieri pomeriggio?»

Annuì.

«Perché?»

Dischiuse leggermente le labbra e si indicò la bocca.

«Te l'hanno detto?»

Annuì.

«Chi?»

Indicò il nome Belpois sulla porta.

Ludovic sgranò di nuovo gli occhi.

«Rebecca ti ha detto si sostituirla ieri pomeriggio?>

Lei annuì, felice di essersi fatta comprendere.

Ludovic non riusciva a crederci. Perché mai Rebecca avrebbe dovuto chiede a chiunque, e per di più a una ragazza invisibile, di sostituirla?

E poi un'idea gli attraversò la mente come un fulmine a ciel sereno che per un attimo gli illuminò i pensieri e poi li lasciò nel buio per diversi secondi.

Fissò la ragazza che aveva davanti.

No. Non poteva essere. Eppure non vedeva come potesse essere diversamente. Non vedeva cos'altro potesse esserci di più logico.

«Sei... un programma?» chiese, e dirlo ad alta voce lo fece sembrare ancora più stupido. «Sei una specie di ologramma? Quello che la sostituiva quando doveva uscire dalla camera indisturbata?»

Lei annuì.

Ludovic stentava ancora a crederci. Insomma, un conto era che Rebecca, che sapeva bene essere un genio, avesse creato un ologramma che rimanesse fermo sul suo letto quando lei non c'era, un altro era che l'ologramma in questione se ne andasse in giro per la scuola e interagisse con gli altri.

Cercò di mettere ordine alle idee. Il giorno prima Rebecca era uscita dalla sua camera di pomeriggio lasciando un programma al suo posto, poi era arrivata nella fabbrica abbandonata in cui erano andati Franz e Chris e sulla strada del ritorno era stata rapita da qualche strano essere.

Era tutto molto più assurdo che logico.

Si diede del matto.

Si era creduto pazzo anche l'anno prima, però, quando credeva di essere l'unico a vedere quegli strani animali, e non era così. Anche gli altri li vedevano. Anche Chris aveva visto questa Rebecca e aveva capito che non era lei.

Il resto della scuola però aveva creduto che se la stesse prendendo con il vuoto.

Quindi gli altri studenti non erano mai riusciti a vederla. Quella che Rebecca aveva creduto una valida copertura per tutto l'anno poteva in realtà funzionare solo sui suoi amici?

«Mi gira la testa» affermò. «Vieni.»

Si diresse per istinto verso le scale e cominciò a salirle per arrivare all'ultimo piano. Lì avrebbe potuto ragionare in santa pace.

Per qualche motivo quando era lì, al sicuro dagli animali invisibili, che una parte della sua mente si svuotava. Era una sensazione piacevole e un po' strana a dire il vero.

Aveva capito che quegli esseri non potevano arrivare lì per caso, quando l'anno scorso il granchio verde lo aveva rincorso per tre rampe di scale e poi si era fermato all'improvviso, come ostacolato da una barriera.

Salì i gradini velocemente, senza fermarsi neanche una volta. Si voltò solo quando fu arrivato in cima.

La non-Rebecca era ferma a metà della rampa.

«Dai, vieni!» la incitò.

Lei scosse la testa. Alzò la mano e stese le dita come se fossero appoggiate contro un vetro invisibile.

Ludovic scese i primi gradini fino a trovarsi davanti a lei. Alzò a propria volta le mani, ma non sentì nulla se non un leggero formicolio.

«Non puoi avanzare?»

Lei scosse la testa.

Evidentemente seguiva le stesse regole di quegli esseri. Infondo erano tutti programmi. Possibile che Rebecca fosse riuscita a ricreare la loro tecnologia senza accorgersene?


ʘ –


Batté più volte le palpebre per riuscire a mettere a fuoco. Le girava la testa, ma in maniera quasi piacevole.

«Cartagine?» ripeté, ma tutto ciò che le venne in mente furono le guerre puniche di Roma e la regina Didone dell'Eneide.

Si mise a sedere, poi voltò la testa nella direzione da cui era venuta la voce. Sussultò e granò gli occhi.

Davanti a lei c'era l'essere più bello e più inquietante che avesse mai visto.

Aveva una forma umanoide, ma nessun tratto somatico. Il suo corpo era trasparente, un involucro vuoto e lucido sulla cui superficie erano incavate ovunque lettere, numeri e simboli sconosciuti, simili a tatuaggi. Gli stessi che vedeva al posto dei mostriciattoli, a scuola, solo che questa volta avevano un ordine e, in qualche modo, un senso.

Erano un codice. L'intuito le diceva che ognuno di quegli esseri ne aveva uno differente, come un corredo genetico.

Confusa, turbata e affascinata, si guardò intorno.

L'ambiente in cui si trovava sembrava la sala operatoria di un ospedale: asettica e in qualche modo perfetta, anche se vuota.

La tavola argentata su cui era stesa – perfettamente orizzontale, senza spessore, e sospesa nel vuoto – era al centro di una stanza quadrata interamente azzurra. Pavimento e soffitto erano così lucidi che potevano benissimo passare per specchi. Le pareti, si rese conto, non erano altro che schermi.

Alla sua destra una linea continua sembrava monitorare un battito cardiaco. Si portò una mano al petto. Non c'erano ventose né nessun altro tipo di sensori. Eppure il suo cuore batteva allo stesso ritmo della linea sulla parete.

Alla sua destra, invece, delle linee colorate indicavano la sua attività cerebrale. O almeno così credeva.

Tornò a guardare le creature.

«Dove sono?» chiese, incerta. Per qualche motivo le sue parole le suonarono strane, come falsate.

«Sei a Cartagine» ripeté la creatura trasparente. «Capitale di Lyoko.»

«Cos'è Lyoko?»

«Il nostro mondo.»

In un altro momento una risposta del genere le avrebbe dato sui nervi.

«Chi siete?»

«I nostri nomi sono codici, troppo lunghi e complessi da pronunciare in questa lingua.»

All'improvviso si rese conto che non era la sua voce a suonarle strana, ma quella della creatura che aveva davanti. Era priva di imperfezioni, cadenze, accenti scorretti, tono. Di tutto ciò che l'avrebbe resa umana.

«Abbiamo assorbito dalla tua mente la tua lingua, in modo da poter comunicare.»

Si portò d'istinto una mano alla testa, sembrava quella di sempre.

Alzò lo sguardo per potersi specchiare sul soffitto. Qualcosa era cambiato. I suoi tratti si erano distesi, la sua pelle era liscia e priva di imperfezioni. Si rese conto di indossare un vestitino verdeacqua, piuttosto corto e smanicato, una specie di versione alla moda di un camice da ospedale.

«I vestiti non ti hanno potuta seguire durante il passaggio.»

«Passaggio?» ripeté.

Si sentiva ancora confusa. La sua mente lavorava in fretta, persino più in fretta del solito, ma era come uno strumento nuovo che deve ancora riscaldarsi.

Si rese conto che, escludendo le piccole rotazioni del collo e lo spostamento dello sguardo, non si era ancora mossa. Si sollevò lentamente, mettendosi a sedere. Il suo corpo rispondeva alla perfezione, si sentiva persino più elastica e libera nei movimenti del solito.

«Tra il tuo mondo e il nostro» rispose intanto la creatura.

Aspettò che continuasse, ma non lo fece. Evidentemente bisognava fare domande precise.

«Quanto tempo è passato da quando... mi avete presa?»

«Circa dodici delle vostre ore.»

«Circa?» ripeté, sorpresa da una risposta così imprecisa.

«Qui misuriamo il tempo in maniera molto diversa e di gran lunga più accurata, ma dandogli meno importanza.»

«Dove sono, di preciso?» era consapevole del fatto che le sue domande erano sconnesse, ma poneva quelle che le venivano in mente senza rifletterci troppo e le creature non ne sembravano affatto disturbate.

«In uno del blocchi di Cartagine. Credo però, che il termine più adatto nella tua lingua sia “un palazzo del centro”.»

«Cartagine è una città?»

«Così si può definire nella tua lingua.»

Rebecca gli scoccò un'occhiataccia per l'ennesima risposta breve, ma la sua espressione non fu interpretata in alcun modo. Infondo quelle creature sembravano non avere lineamenti, quindi probabilmente non conoscevano il valore delle espressioni.

Doveva cambiare tattica.

Poggiò i piedi a terra. Si aspettava che il pavimento fosse freddo, ma la superficie riflettente non aveva temperatura. Nulla lì aveva temperatura probabilmente.

Si mise in posizione eretta. Sentì la colonna vertebrale distendersi, vertebra per vertebra, come se fosse in acqua. Non avvertiva, però, il proprio peso gravare sulle ossa.

«Mostrami Cartagine» ordinò, ma facendolo suonare come un invito «e parlami di ciò che siete e da dove venite».

La figura si spostò di lato, fece un cenno rapidissimo a quella che era rimasta alle sue spalle e posò una mano sulla parete. Gli schermi che monitoravano battito, attività cerebrale e altro che non era riuscita ad identificare, scomparvero all'istante.

Difronte a lei una porzione della parete si sollevò in pochi istanti.

Seguì la figura fuori.

«Lyoko è un mondo digitale creato molti anni fa.»

«Quanto di preciso?» chiese, di nuovo disturbata dall'inesattezza dell'informazione.

«Non possiamo dirlo di preciso. Noi siamo comparsi in seguito. Occupiamo Cartagine solo da quindici dei vostri anni.»

«Per mondo digitale intendi un programma? Un computer?»

«Entrambi. E nessuno dei due.»

«Parlami di Lyoko.»


ʘ –


Ulrich entrò per primo, seguito, a distanza di diversi passi, dagli altri.

Una bidella venne loro incontro.

Ulrich si presentò con tutta la calma che riuscì a trovare, ovvero molto poca.

«La preside ve sta aspettando» confermò la donna, poi si rivolse agli altri «Voi...»

«Potremmo fare un giro della scuola, almeno all'esterno?» chiese subito Aelita, come stabilito. «Siamo ex-studenti, ci piacerebbe dare un'occhiata.»

La donna annuì con noncuranza e spiegò a Ulrich come raggiungere la presidenza. Lui non la ascoltò nemmeno. Ricordava fin troppo bene la strada.

Si voltò un'ultima volta verso gli altri. Odd sollevò un pollice nella sua direzione prima di uscire.

Ulrich salì le scale cercando di svuotare la mente. Si fermò solo quando sentì una voce familiare venire dall'alto.

Riprese a salire, questa volta più velocemente, superò dei cartelli di lavori in corso e arrivò sull’ultimo pianerottolo, ad una rampa di scale dall’ultimo piano.

Ludovic, il figlio di Yumi, stava fissando un punto davanti a sé, come se ci fosse qualcuno.

«Ludo!» esclamò.

Il ragazzo sobbalzò e si voltò con il cuore in gola.

«Ulrich?» esclamò incredulo lanciando uno strano sguardo al vuoto accanto a sé mentre scendeva le scale. «Che ci fai qui?» sembrava più preoccupato che felice di vederlo.

«Sono stato convocato» spiegò. «Pare che Chis si sia messo nei guai.»

«Lui...» Ludovic non sapeva esattamente che dire «non ha fatto nulla di male, era solo scosso». Lo sguardo del ragazzo continuava a spostarsi alla sua destra.

Ulrich inclinò la testa per cercare di capire cosa guardasse, ma non vide nulla.

«Devo andare, ci sono anche gli altri, magari incontri i tuoi genitori» disse facendo per andarsene. «Ma tu non dovresti essere in classe?» notò all'improvviso.

«Ora di buco» rispose Ludovic ed era chiaro che fosse una scusa.

Ulrich abbozzò un sorriso, poi tornò sui propri passi, più confuso di prima.

Cosa diavolo aveva Ludovic?


ʘ –


«Io propongo di separarsi» disse Jeremy. «Così potremo scoprire di più.»

Gli altri annuirono.

«Io entro nella scuola» affermò Aelita. «Devo trovare Franz, specialmente se sta ancora male.»

Jeremy annuì. «Vengo con te.»

«Noi perlustreremo l'esterno» si offrì Yumi guardando William che annuì.

«No, all'esterno penserà Odd, voi dovete andare alla fabbrica, non ne sono sicuro e spero di sbagliarmi, ma temo che c'entri qualcosa.»

William e Yumi annuirono e corsero subito via, seguiti da Odd.

Jeremy e Aelita si scambiarono un rapido sguardo, poi ripresero a camminare finché non trovarono una finestra aperta che desse su un locale vuoto. Entrarono muovendosi con disinvoltura. Si ritrovarono in un'aula vuota, probabilmente un laboratorio mai usato. Forzarono la porta e sbucarono in un corridoio che portava direttamente a delle scale di servizio. Le salirono in silenzio, fermandosi solo nei pianerottoli per lanciare sguardi all'esterno attraverso le finestre.

Jeremy ritrovò facilmente il corridoio del dormitorio maschile. Faceva un certo effetto tornare a girare nel Kadic, ma quello non era il momento di soffermarsi su questo.

Si separarono e lessero i nomi su tutte le porte fino a trovare Belpois – Stern.

Aelita bussò, ma non ottenne nessuna risposta. Jeremy si tastò le tasche fino a trovare un passepartout e lo usò per aprire.

Aelita sollevò un sopracciglio, ma non fece domande. Si fiondò dentro appena le fu possibile.

Franz era steso sul letto in una posizione scomposta, come se fosse svenuto invece che essersi addormentato. Il cellulare era ancora sul cuscino.

Il respiro era regolare.

Aelita si sedette sul bordo del letto e appoggiò le mani sulle spalle del figlio. Jeremy era alle sue spalle, guardingo.

«Franz? Franz?» chiamò Aelita cominciando a scuotere leggermente il figlio.

Il ragazzo reagì solo dopo diversi minuti. Mugolò qualcosa di incomprensibile, poi smise di muoversi.

Spalancò gli occhi all'improvviso, scattando a sedere nello stesso istante, chiaramente spaventato. Fissò i genitori confuso, ansimando.

«Mamma!» esclamò poi. «Papà!»

Aelita lo abbracciò di slancio, stringendolo a sé e affondando il viso nei suoi capelli. «Mi hai fatto morire di paura!»

Franz non rispose, ma era chiaro che la pensava allo stesso modo. Si raddrizzò e anche Jeremy si sedette accanto a lui.

«Cos'era questa storia del mal di testa? Ora stai bene?»

«Credo di sì.» Si portò le mani alle tempie. «Sì.» Si stropicciò gli occhi, ancora non del tutto sveglio. «Per ora.»


ʘ –


La vide appena imboccò il corridoio.

Se ne stava accanto alla porta della presidenza, la schiena appoggiata alla parete, lo sguardo concentrato e vuoto allo stesso tempo fisso davanti a sé.

Chissà sotto l'effetto di quali farmaci era.

I capelli scuri erano sciolti e le ricadevano lisci in avanti, coprendo parte del volto. Teneva le braccia incrociate sul petto, le mani nascoste. Portava una maglietta a maniche lunghe, aderente ma morbida, dello stesso pallido beige della carnagione. La scollatura a barchetta lasciava scoperti il collo, le clavicole e parte delle spalle. Le gambe erano fasciate da un paio di jeans neri e stivali lucidi. La sinistra era piegata e il piede appoggiata alla parete.

Non sembrava essere lì in veste di preside.

Ulrich continuò ad avanzare tentando di concentrarsi solo sui propri passi. Come l'avrebbe trovata? Imbottita di psicofarmaci e poco presente? O fin troppo lucida?

Scherzando l'avevano sempre ritenuta un po' svitata, ma non così tanto. Nessuno sapeva com'era possibile che da un giorno all'altro fosse impazzita, perché era quello che era successo, non si poteva negarlo.

Gli psicologi avevano ripetuto costantemente che la causa era stato il trauma per l’improvvisa perdita del padre, avvenuta poco più di dieci anni prima, ma Ulrich aveva sempre pensato che il motivo dovesse essere un altro.

E se ora si fosse ripresa? Se fosse tornata quella di una volta?

Ulrich sperò solo che Chris non ci andasse di mezzo più del dovuto.

Elisabeth voltò la testa all'improvviso, sentendo i suoi passi.

Ci fu una specie di flash e immediatamente qualcosa – nella sua postura, o nel suo sguardo – cambiò. Si staccò dal muro e si mise in posizione perfettamente eretta, quasi schematica. I capelli neri che le nascondevano metà del viso furono gettati all'indietro.

Le labbra di uno sgargiante rosso acceso si stesero in quello che sembrava più un sorriso di sfida che di benvenuto. Spiccavano in maniera impressionante considerando che il resto di lei sembrava uscito da una foto in bianco e nero.

«Finalmente ci incontriamo» lo salutò e allungò la mano destra. Anche le unghie erano rosse e sembravano artigli.

Ulrich la strinse con cautela.

«Chris?» chiese subito.

«È dentro.»

Elisabeth si voltò per aprire la porta della presidenza, poi si fece da parte per lasciarlo passare. Con gli stivali era alta quanto lui.

Pronto com'era a trovarsi davanti una stanza per nulla cambiata negli ultimi vent'anni, Ulrich all'inizio si trovò spiazzato. Era molto più piccola di quanto ricordasse e praticamente vuota.

Chris, che se ne stava seduto su una delle sedie davanti alla scrivania, balzò immediatamente in piedi. «Papà!» esultò.

Ulrich gli sorrise, ma non si sbilanciò oltre. Infondo era lì per discutere del comportamento indisciplinato del ragazzo.

«Prego» disse Elisabeth facendogli un cenno verso la sedia accanto a quella del figlio e andando a posizionarsi dalla parte opposta della scrivania.

Ulrich non se lo fece ripetere due volte. Mentre si muoveva non staccò li sguardo dal figlio. Era chiaro che stava cercando un modo per dirgli qualcosa all'insaputa della preside.

«Allora,» esordì Elisabeth ignorando completamente le loro occhiate e rivolgendosi a Ulrich «sapete già perché siete stato convocato.»

Ulrich si riscosse e decise di comportarsi esattamente come lei, come se non si conoscessero. «Temo che le spiegazione che ho ricevuto siano stato poco vaghe.»

Lei lo guardò a lungo, come se volesse incolparlo del tempo che stava per perdere solo per spiegare di nuovo gli avvenimenti. Poi sbatté le palpebre sfoderò un sorriso misurato e si rivolse a Chris. «Perché non ce ne parli tu, così potremo avere direttamente la tua versione.»

Chris rimase evidentemente spiazzato. Aprì la bocca, ma per qualche istante non ne uscirono che suoni sconnessi. «Io... stavo facendo colazione. Da solo. Perché Franz non si sentiva bene» fece una pausa e guardò il padre.

Ulrich annuì una sola volta sperando che il ragazzo capisse che sapeva già di Franz e non lo stava semplicemente esortando a continuare.

«Ho visto Rebecca... Rebecca Belpois» aggiunse rivolto alla preside «seduta ad un altro tavolo. Stava chiacchierando con la sua compagna di stanza. Io non la vedevo da ieri sera, prima del temporale,» altra occhiata ad Ulrich che si limitò a mostrarsi interessato «avevo una cosa importante da dirle e mi sono avvicinato».

«Cosa di preciso, se si può sapere?» domandò subito Elisabeth.

Chris indugiò solo un secondo. «Che il fratello stava male e forse lei sapeva cosa fare.» Sembrava una battuta da copione imparata a memoria e recitata male.

Ulrich vide Chris chiudere le mani a pugni.

«E perché mai non avrebbe potuto rivolgersi all'infermeria?» osservò la preside.

«Perché... era solo un mal di testa. Un mal di testa molto forte, ma... è una cosa di famiglia, lui... ricordava che anche Rebecca ne aveva sofferto l'anno scorso» abbozzò. «Era forte, non grave» aggiunse vedendo che i due adulti rimanevano in silenzio.

«Va' avanti» lo incitò Ulrich.

«Mi sono seduto al tavolo e ho provato a parlarle, ma lei non mi ha risposto. Non sembrava neanche conoscermi.» Sottolineò l'ultima frase e fissò intensamente il padre. «Era strana, si comportava come se non fosse più lei.» Sembrava essersi momentaneamente dimenticato della preside. «Infatti non era lei. Anna l'ho colpita solo per sbaglio, volevo solo sapere dov'è Rebecca, non so cosa mi sia preso. Era tutto così irreale! Come se fossimo ancora...» e qui s'interruppe.

Ulrich si sentì come se la tv si fosse spenta sul più bello di un film.

Spostarono entrambi lo sguardo sulla preside. Lei si limitò a spostare lo sguardo da uno all'altro.

«Qual'è la vostra versione invece?» chiese Ulrich.

Elisabeth abbassò lo sguardo sui fogli che teneva sulla scrivania, poi incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo schienale della sedia. «Semplicemente che quella di vostro figlio non sussiste.»

Ulrich non seppe cosa ribattere, ma non ve ne fu bisogno.

«Ci risulta che Rebecca Belpois non sia più nella scuola da ieri notte e stamattina risulta assente a tutte le lezioni, mi sembra improbabile che fosse a mensa.»

«Non era lei infatti!» esclamò Chris con slancio.

Elisabeth lo fulminò con lo sguardo e lui tacque.

«Nessuno l'ha vista. Ciò che ha attirato l'attenzione di tutti è stato un ragazzo del primo anno che ha cominciato a parlare al vuoto e dare pugni alla parete prima che un professore intervenisse e lo portasse qui.»

«Nessuno l'ha vista?» ripeté Chris incredulo. «Era con la sua compagna di stanza, Anna Zuz, non hanno visto nemmeno lei.»

Elisabeth si lasciò sfuggire un sorriso. «Sei sicuro di quello che dici?»

Chris aprì la bocca per rispondere subito, ma poi il suo sguardo si abbassò all'improvviso sulla scrivania, spalancò gli occhi e disse, con molta incertezza: «Assolutamente».

«Allora sarà il caso che tu sappia che alla fine dell'anno scorso Rebecca Belpois ha chiesto esplicitamente e formalmente di non dover più dividere la stanza con qualcun altro e la sua richiesta è stata accolta. Inoltre non risulta nessuna Anna Zuz iscritta a questa scuola.»


ʘ –


Rebecca continuò a salire le scale dietro a quella strana creatura. Tutte le volte che le aveva chiesto il nome le era stato risposto che nella sua lingua era troppo difficile da pronunciare. Sembrava l'identità più importante in quella “città”, Cartagine, perciò l'aveva mentalmente soprannominata Didone.

Si era presto resa conto che quel posto, ovunque si trovasse, non seguiva leggi fisiche come le aveva sempre conosciute. L'alto e basso dipendevano solo da dove teneva i piedi, un paio di volte aveva incontrato esseri che camminavano a testa in giù o in orizzontale, muovendosi su quelli che per lei erano soffitto e pareti.

Aveva lasciato che Dido le raccontasse la storia di Lyoko, per quanto incredibile fosse. C'erano ancora degli inspiegabili vuoti, ma Rebecca si guardava bene dall'interrompere il racconto.

Aveva capito che esistevano altri quattro luoghi all'interno di Lyoko: la foresta, la banchisa, il deserto, la montagna. Le creature come Dido abitavano delle specie di città-torri.

Rebecca non capiva come potessero arrivarci se non erano fisicamente collegati, ma forse non era il momento di avere questa risposta.

«Ancora non capisco» affermò ad un certo punto, fermandosi e sedendosi a terra. La stanchezza che provava era molto diversa da quella a cui era abituata. Si ripercuoteva sul suo corpo, ma era puramente mentale. «Voi che cosa c'entrate con virus virtuali e guerrieri digitali?»

«Noi siamo venuti dopo, quando questo posto è stato abbandonato, lasciato a se stesso, ma non distrutto. Come già aveva cominciato a fare in precedenza, ha preso vita propria. Non è il concetto di “vita” che si intende nella tua lingua, ma gli si avvicina molto.»

Rebecca appoggiò la schiena alla parete e allungò le gambe. Gettò indietro la testa. Sentì il proprio baricentro spostarsi. Ora era distesa su quello che prima era un muro verticale e le gambe erano stese verso l'alto, su quello che prima era il pavimento.

Dido era orizzontare rispetto a lei.

Cercò di non farsi distrarre.

«Siete delle forme di vita digitale? Nate dal nulla?»

«Solo se definisci “nulla” l'intero Lyoko.»

Rebecca sollevò le sopracciglia. «È tutto così assurdo» esclamò.

«E la tua mente è abbastanza elastica da comprenderlo e accettarlo, ce ne siamo assicurati dopo il tuo arrivo» replicò con la massima tranquillità Dido. «Hai un'innata familiarità, per non dire compatibilità, con questo mondo.» Il modo di esprimersi di Dido si era ampliato mentre parlava.

Rebecca sollevò la testa. Il suo baricentro si spostò di nuovo e tornò come all'inizio.

«Siamo quasi arrivati» annunciò Dido voltandosi.

Rebecca si alzò in piedi e la seguì.

Il corridoio dalla sezione quadrata che attraversavano si curvò fino a divenire verticale. Le scale erano ripide se usate per salire, ma anche in rapida discesa se si continuava a camminare senza prestare attenzione al cambio di angolazione.

Arrivarono in una specie di terrazza quadrata.

Lì la luce era fortissima. Rebecca si voltò verso la fonte. Non sentiva il bisogno di chiudere gli occhi, ma le servì comunque qualche istante per abituarsi.

Per un po' non vide altro che una distesa di piattaforme quadrate e azzurre, come quelle in cui si trovavano, poi riuscì ad individuare, all'orizzonte un'enorme sfera pulsante. O almeno così sembrava.

«Cos'è quella?»

«La nostra fonte di energia. Un po' come il vostro Sole, ma molto più complessa. Ci permette di ricaricarci e continuare a funzionare. Noi ci impegniamo affinché sia costantemente alimentata. Ognuno di noi è programmato per assolvere ad un compito preciso. Ecco, forse, come puoi definirci: siamo programmi. Di una struttura molto più complessa di quella che conosci, ma programmi.»

«Nessun programma può agire autonomamente.»

«Non lo facciamo. Ci limitiamo a seguire degli schemi di comportamento. Diversi per ognuno di noi ed estremamente articolati e complessi, ma schemi. La vita sta nella consapevolezza di questi schemi.»

«Questa consapevolezza può portare alla loro rottura?» chiese Rebecca. «Nel momento in cui l'uomo, o chi per lui, si accorge di quali sono i propri limiti tenta di superarli, è la natura.»

«Lo abbiamo fatto, o almeno stiamo cercando di farlo, ma in maniera diversa da come lo intendi. In questo mondo non possiamo uscire dai nostri schemi perché rappresentano la nostra ragione di vita. Siamo consapevoli che se smettessimo di seguirli arriveremo a distruggerci. Sono ordini ai quali non possiamo e non vogliamo disobbedire. Sono continui, non hanno un punto di arrivo, come quelli che regolano i vostri computer, composti da cicli che si ripetono.»

«Ma?» la spronò Rebecca.

«Ma non abbiamo ordini a cui ubbidire al di fuori di Lyoko.»

La ragazza rimase in silenzio per diversi istanti, nonostante avesse capito quasi subito dove quel discorso andava a parare. «State tentando i uscirne. State cercando di andare nel mio mondo. Ci site già riusciti. Mi avete rapita.» E finalmente pose la domanda che da ore le attraversava la mente senza riuscire a prendere forma definita: «Perché?»

«Non è come sembra. È vero, abbiamo trovato un modo per uscire, ma non per rimanere nel tuo mondo. Senza nulla ad alimentarci le nostre energie si esauriscono e siamo costretti a tornare.»

«E voi programmi una volta all'esterno riuscite ad acquistare una forma corporea?»

«Eravamo convinti di no fino a poco tempo fa. Ci è capitato di incontrare qualche umano, ma nessuno è mai sembrato vederci, né tanto meno sentirci. Ci attraversavano senza accorgersene. La nostra forma è sempre stata incompleta, inadatta ai vostri habitat. Tu e i tuoi amici, invece, avete avvertito la nostra presenza, sentito le nostre voci. Abbiamo potuto toccarci. Non era mai successo, per questo dico che hai un'innata compatibilità con questo mondo.»

«Ma perché dovrei averla?» ma mentre formulava questa nuova domanda le risposta le venne in mente, chiara, anche se non soddisfacente: «I miei genitori. C'erano i loro dati nella memoria del super-computer, come se qualcuno li avesse scannerizzati. Loro erano i guerrieri digitali?»

Dido non rispose.

«No, è assurdo, come avrebbero potuto entrare fisicamente in un computer?»

«Come hai fatto tu, suppongo.»

«Già, come ho fatto?»

«Non lo sappiamo. Ti ho spiegato che quando il super-computer venne spento Lyoko non cessò di esistere. Furono semplicemente tagliati i ponti tra questo mondo e il vostro.»

«Come avete fatto ad uscire allora?»

«Non ci è stato possibile finché qualcuno non ha collegato un dispositivo elettronico funzionante al super-computer. Ci siamo... telegrafati in esso e poi proiettati all'esterno.»

«Come quando ho scaricato i dati sul mio cellulare, siete usciti attraverso il mio telefono!» Non era una domanda, anche se un po' suonava come tale. «Quindi in tutto siete stati nel mio mondo solo due volte?»

Dido annuì. «Anche allora provammo a portare qualcuno qui, anche se non ci era possibile interagire. Non riscontrammo risultati soddisfacenti. Tutto ciò che ottenemmo fu una copia inanimata e l'impossibilità di tornare lì fuori. Tu invece sei arrivata qui, seppure priva di sensi, esattamente come noi.»

«Mi sono telegrafata qui?» esclamò Rebecca incredula. Non ricordava molto della notte passata a parte la paura provata. O forse qualcosa sì. Si concentrò. Aveva tentato di volare via, ne era sicura, ma non aveva funzionato bene. Aveva corso. Verso dove? Ricordava solo il buio. Di sicuro non nella direzione della scuola. Che fosse tornata da sola alla fabbrica? Che fosse arrivata da sola a Lyoko? No, impossibile. Le sarebbe servito il telefono, no? E lo aveva lasciato cadere, giusto? No. Se lo era ripreso. Le faceva male la testa.

«Sì.»

«Quindi, volendo, potrei tornare nel mio mondo?»

«No. Il passaggio è rimasto aperto per delle ore, poi si è interrotto.»

Doveva essersi scaricata la batteria, ne era certa.


ʘ –


Ludovic aveva aspettato che Ulrich si fosse allontanato per rivolgersi alla non-Rebecca.

Era evidente che Ulrich non l'aveva minimamente vista.

«Nessuno ti aveva mai vista a parte Rebecca e me?»

Lei scosse la testa.

«E allora come facevi a sostituirla?»

Allargò leggermente le spalle, come a dire che faceva il possibile.

A Ludovic venne da ridere. Tutti avevano sempre ignorato la falsa Rebecca perché non la vedevano! Di certo Rebecca, abituata a non attirare l'attenzione, non se n'era resa conto. Lei poteva vederla, ma quelli che voleva ingannare no. Avrebbe depistato solo loro, i suoi amici fidati, gli unici che avrebbero potuto fare a meno dell'inganno.

Si sedette sulle scale, appoggiò i gomiti alle ginocchia e si prese la testa tra le mani, ridendo. «È assurdo!»

La non-Rebecca sorrise e si sedette accanto a lui, anche se evidentemente per lei la posizione in cui si trovava non faceva differenza.

«Dobbiamo... devo trovare un modo per chiamarti, un nome. Non-Rebecca non si può sentire.»

Lei lo guardò inespressiva. Probabilmente non dava molta importanza alla cosa.

«Rebecca B? Dove B non sta per “Belpois”, ma per “seconda”, sai, come A, B, C,...» nessuna risposta. Ludovic sospirò «Okay, no. Non si può sentire nemmeno Rebecca B si può sentire. Solo B? “Bea”!, con un po’ di fantasia. Per te va bene?»

Lei annuì. Di sicuro avrebbe avuto la stessa reazione per qualsiasi altro nome, ma Ludovic non se ne curò.

«Vada per Bea allora.»


ʘ –


Chris non sapeva cosa fare.

Sulla scrivania della preside zampettava imperterrito un granchio verde fluo che nessuno altro vedeva. Brandiva le chele nella sua direzione.

Lui era troppo impegnato ad appiattirsi contro lo schienale per tenersi fuori tiro per ascoltare gli adulti.

La preside stava facendo un interminabile discorso a suo padre sulla sicurezza e, presumibilmente, sulla sua salute mentale. Avrebbe voluto protestare, ma come poteva spiegare a suo padre quello che aveva visto se era chiaro che lui non vedeva nulla? Neanche lui sapeva bene cosa fosse successo, come poteva risultare credibile?

All'improvviso si rese conto che nessuno stava più parlando.

Si guardò intorno. Stavano aspettando che parlasse lui.

«Non stavo ascoltando» ammise.

«La mia domanda era:» disse la preside senza scomporsi, ma con una stranissima espressione in viso «ti è capitato altre volte di vedere cose che non ci sono?»

Sì, pensò. Vedeva granchi verde fluo che se ne stavano tranquillamente fuori dall'acqua, gatti viola che sorridevano e uccelli variopinti che cambiavano dimensione.

No, si corresse poi. Li vedevano anche gli altri, era impossibile che avessero avuto tutti la stessa allucinazione. Che anche gli altri fossero frutto della sua fantasia?

«Come faccio a saperlo?» rispose allora.

Questa risposta spiazzò sia suo padre che la preside, ma in modi totalmente diversi.

Ulrich era stupito, quasi incredulo e in minima parte anche divertito da quella risposta ragionevole.

Elisabeth, per quei brevi istanti in cui lasciò che le emozioni plasmassero la sua espressione, parve sconvolta. In bene e in male allo stesso tempo. Come se le avessero diagnosticato una malattia incurabile. Quando si ricompose il suo viso non riuscì a tornare neutro. I suoi occhi continuavano ad esprimere un'improvvisa consapevolezza.

«Non puoi» mormorò alla fine, dopo un lungo conflitto interiore.

Chris era ormai così confuso che si limitò a fissare suo padre.

Fu il turno di Ulrich, infatti, di essere colpito in pieno dalle proprie emozioni. Fissò Elisabeth con stupore, poi risentimento per aver risposto così a suo figlio, e infine con quella che a Chris parve comprensione.

«Scusatemi» abbozzò Elisabeth, ancora visibilmente turbata, alzandosi in piedi, facendo in pochi istanti il giro della scrivania e uscendo dalla presidenza.

«Ma che diavolo le è preso?» chiese Chris voltandosi a guardare la porta appena chiusa. Prima che Ulrich potesse rispondere il ragazzo sentì una fitta lacerante al braccio. Strillò e si voltò.

Il granchio lo aveva ferito e ora scappava via.

Ulrich spalancò gli occhi alla vista del taglio profondo apertosi apparentemente senza una ragione apparente.


ʘ –


Carlotta stava tranquillamente disegnando sul retro della lavagna durante l'intervallo. In realtà stava scarabocchiando quelli che sembravano i simboli che apparivano nell'aria al posto di qualche animale impossibile, come le aveva spiegato Rebecca.

La classe era praticamente vuota perché quasi tutti erano in corridoio.

Sarebbe dovuta andare in cerca di Emma o di suo fratello, o a trovare Franz, ma aveva deciso di non fare nessuna delle tre cose.

Sentì qualcuno di incredibilmente vicino sussultare.

Si voltò e trattenne un'esclamazione di sorpresa. La preside era a pochi passi da lei, lo sguardo fisso su ciò che aveva scarabocchiato e gli occhi spalancati.

Fece per dire qualcosa, ma la preside si voltò e uscì quasi correndo.

Carlotta non pensò.

Posò il gesso e la seguì.



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Capitolo 7
*** Confondere, o sorprendere ***


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Metamorfosi Cap7;

begin

    write('Confondere, o sorprendere');

    readln;

end.


«Che diavolo...» Ulrich non credeva ai propri occhi.

Chris si portò di scatto la mano al petto premendo il polso sanguinante contro la maglietta. Il taglio non era molto profondo, ma gli faceva male da morire. «Papà!» gemette.

Ulrich si riscosse. Balzò in piedi.

Seguendo l'istinto fece il giro della scrivania della preside e cominciò ad aprire i cassetti uno dopo l'altro finché non ne trovò uno stracolmo di flaconi con etichette mediche, scatole di pastiglie e, grazie al cielo, bende e disinfettante.

Frugò in cerca dell'acqua ossigenata. Non era un medico, ma di certo era un genitore, conosceva le regole basi.

«Dammi il braccio.»

Chris lo allontanò leggermente dal petto tenendoselo premuto con l'altra mano.

«Brucerà» lo avvertì Ulrich mentre avvicinava alla ferita la garza imbevuta di acqua ossigenata.

Chris si tese al contatto, trattenendo il respiro, ma si rilassò quasi subito dopo. «Non brucia per niente» sospirò.

«Come no?» Ulrich lo fissò stupito. Sollevò la garza per poter controllare la ferita, appena in tempo per vederla rimarginarsi davanti ai suoi occhi.

Padre e figlio sgranarono gli occhi.

«È successo anche a me.»

Sobbalzarono allarmati e si voltarono. Ludovic era sulla soglia. E non era solo.

«Rebecca?» esclamò Chris. «No!» strillò poi balzando in piedi e indietreggiando fino a sbattere contro la scrivania. «Tu!»

«Chris, ma che stai dicendo?» più che allarmata, la voce di Ulrich era preoccupata.

Chris si rese conto che suo padre credeva davvero possibile che lui stesse impazzendo. Fu come ricevere una pugnalata alle spalle. «Tu... non vedi niente?» balbettò.

«No» rispose Ludovic per lui. «Non vede nulla. E lei non è Rebecca, è... Bea.»

«Chi?»

«Tranquillo Chris, non è pericolosa. È l'ologramma di Rebecca, te la ricordi? A quanto sembra non può parlare, così le ho dato io un nome.»

«Fermi un momento, di chi state parlando?» li interruppe Ulrich, il cui sguardo balzava da uno all'altro.

«A quanto pare non puoi vederla» rispose Ludovic. «Come non hai visto la cosa che ha ferito Chris, ma se la sua ferita è reale lo devono essere anche loro.» Indicò l'aria accanto a sé. «Qui c'è Bea, è un ologramma identico a Rebecca, creato da lei stessa come... esperimento. A quanto pare solo noi sei riusciamo a vederlo. Non può uscire dalla scuola e non può salire sul tetto,» aggiunse rivolto a Chris «proprio come quegli animali.»

«Animali?»

«Sono delle specie di ologrammi anche loro, proprio come Bea, girano per la scuola e ci attaccano quando ne hanno l'occasione, solo che non sappiamo chi li abbia creati.»

«Non siamo gli unici a vederli» ricordò Chris.

Ludovic alzò un sopracciglio.

«Anna Zuz. Anche lei vedeva Rebecca, ricordi?»

«Già, non ci avevo pensato.»

«Anna Zuz? Ma Elisabeth... cioè, la preside, ha appena detto che non esiste nessuna Anna Zuz in questa scuola.»

«Cosa?» esclamò Ludovic.


ʘ –


Carlotta si tenne con la schiena contro il muro. Tentò, in qualche modo, di fondersi con esso. Per qualche istante ebbe persino l'impressione che si deformasse intorno al suo corpo, ma non si soffermò a pensarci.

Continuò a seguire la preside per i corridoi, finché non si trovò all'esterno. Indugiò sulla soglia, nascosta nell'ombra mentre la guardava correre verso il bosco.

Elisabeth avanzava in modo strano. Barcollava. Come se stesse trascinando qualcuno. O se stessa. Come se qualcosa la trattenesse, strattonandola all'indietro o tentando di farla cadere in avanti. Riusciva a riacquistare l'equilibrio appena in tempo.

Carlotta attese che si fosse allontanata abbastanza da non poterla vedere, poi uscì fuori a propria volta e corse fino a primi alberi. Vi si arrampicò con un'agilità inumana di cui si rese conto appena. Si fermò solo quando fu abbastanza in alto da spiare la preside senza essere notata.

Corse da un ramo all'altro come avrebbe fatto su una qualsiasi strada piena di pozzanghere. I rami più sottili si spostavano, obbedienti alla sua inconscia volontà, si intrecciavano tra di loro, formando una rete solida e resistente sotto i suoi passi e sciogliendosi l'attimo dopo il suo passaggio.

Si fermò solo quando vide la preside interrompere il suo instabile percorso.

Carlotta si acquattò e aguzzò la vista.

Elisabeth teneva le braccia protese avanti, le mani sospese a mezz’aria, come se fossero appoggiate contro un muro invisibile.

Carlotta avanzò per poter vedere meglio e superò la preside di diversi metri, anche se si trovava più in alto. Non incontrò nessuna resistenza.

Elisabeth rimase immobile per qualche istante. Poi una leggera luce verde si propagò dalle sue mani e delineò per pochissimi istanti i contorni di un'enorme specie di scudo che ingabbiava la scuola. All'inizio sembrava una cupola, ma poi si notava anche la concavità ad imbuto proprio al centro che aveva il suo cuore all'interno della scuola stessa, poco sotto il tetto. Nel complesso assomigliava ad un ciambellone con il buco centrale che non arrivava fino al fondo.

La luce verde lampeggiò un paio di volte, alla terza invece si estendersi completamente, delineò solo un ovale abbastanza grande perché Elisabeth potesse passarci attraverso. Così fece. E quello, con un ultimo lampo verde, si richiuse.

Carlotta si portò oltre il limite che la luce aveva segnalato a poca distanza da lei, ma non incontrò nessun ostacolo. A parte il fatto che, andando avanti, i rami degli alberi non si intrecciavano più sotto i suoi passi come avevano fatto fino a quel momento. Tornando indietro, invece, tutto era “normale” come prima.

Quei minuti di distrazione purtroppo le fecero perdere di vista la preside. Sapeva che aveva proseguito, ma ora non la vedeva da nessuna parte. Provò a spostarsi mantenendosi sul confine della cupola-ciambellone, ma non vide nessuno.

Più o meno.

Si sporse in avanti e aguzzò la vista per poterne essere sicura. Saltò da un albero all'altro per avvicinarsi, ma non c'erano dubbi.

«Mamma! Papà!» chiamò ad alta voce correndo come un fulmine sui rami più spessi per avvicinarsi.

Yumi e William si guardarono intorno per qualche secondo. Alzarono lo sguardo appena in tempo per vedere la figlia compiere un salto di quattro metri verso il basso e atterrare senza il minimo sforzo.

«Carlotta!» esclamò William. «Che ci fai qui?»

«Che ci fate voi qui?» osservò lei.

«Siamo venuti a cercarvi» rispose Yumi. «Dopo che Rebecca ha chiamato Jeremy...»

«Rebecca ha chiamato Jeremy?» ripeté lei. «Quando?»

«Ieri sera. Quando è stata rapita a quanto sembra. Si può sapere cosa è successo?»

«Io, noi… insomma» Carlotta si stava ancora guardando intorno in cerca della preside. «Non lo so. Cioè, non lo sappiamo. Io non c'ero, ero in camera mia con Emma, dovete chiedere a Chris e Franz.»

«Dov'è Ludovic adesso?»

Carlotta alzò istintivamente lo sguardo verso il tetto della scuola, ma non vide nessuno. «Di sicuro non a lezione.»

«Già, e non dovreste essere entrambi in classe?» le fece notare William.

Lei si limitò a scrollare le spalle. «Stavo seguendo la preside.»

«Elisabeth?»

«Se preferite chiamarla così.»

«Ma da qui può andare solo....» Yumi e William si guardarono. «Alla fabbrica» esclamarono entrambi.

«Chiamo Jeremy» Yumi aveva già il telefono in mano.

«Carlotta tu torna dentro.»

«No!» protestò la ragazza.


ʘ –


Emma si fiondò in giardino appena suonò la campanella della ricreazione. Aveva visto suo padre fuori dall'edificio, ne era sicura, ma non poteva certo mettersi ad urlarlo nel bel mezzo di una lezione. Tanto meno mentre era seduta accanto ad una chiacchierona, invisibile Anna Zuz.

Non voleva neanche pensare alla ragazza dai capelli rossi in quel momento. Tutto ciò che importava era che suo padre si trovava lì, da qualche parte, e lei avrebbe potuto andarsene.

Corse fin dove l'aveva visto passare e poi proseguì nella sua stessa direzione.

«Papà!» chiamò quando lo vide in lontananza. Stava correndo anche lui, non sarebbe riuscita mai a raggiungerlo «Odd!» provò inutilmente a chiamarlo per nome.

Si fermò e si acquattò come aveva fatto sulla pista di atletica. Si diede un momento per riprendere la concentrazione, poi scattò. Le falcate si susseguirono con un'automaticità strabiliante. Prima di quanto fosse umanamente possibile, andò a sbattere contro suo padre e caddero entrambi a terra.

«Emma!» esclamò Odd.

«Papà» rispose lei. Mentre riprendeva fiato, si mise in ginocchio e lo sguardo le cadde sulle proprie mani. La pelle era sbiadita, ricoprendosi di nuovo di quel reticolo colorato che era comparso la sera prima. Cacciò un urlo quasi senza accorgersene. Si portò le mani alla faccia. Era liscia come vetro al contatto con le dita. Ansimò.

«Emma? Ma che ti è preso?»

«Papà, dimmi che non è vero! Dimmi che mi sto immaginando tutto» piagnucolò sbilanciandosi di lato e abbracciandolo forte.

Odd le fissò i capelli – l'unica parte della sua testa che riusciva a vedere – e rimase immobile e confuso per qualche istante. «Cos’è che dovrei dire?» fu tutto ciò che riuscì a rispondere.


ʘ –


Rebecca teneva lo sguardo fisso sul soffitto. O almeno su quello che era il soffitto dall'angolazione in cui si trovava.

Era stesa su una lastra levitante liscia e dal colore metallico – l'equivalente di un letto su Lyoko. Il suo corpo non sembrava desiderare un cuscino o un materasso.

C’erano così tante cose da assimilare in una volta sola. Persino la sua mente faceva un po' di fatica a stare al passo.

A dire il vero, aveva capito tutto. Ecco cosa la preoccupava: vedeva perfettamente una logica in qualcosa che non poteva averne. Lei non poteva essere davvero lì, in un mondo digitale, abitato da programmi; non poteva essere lì con il corpo, non poteva esserci arrivata tramite un banale cellulare. Eppure non ci vedeva niente di strano.

Era la sensazione più assurda che avesse mai provato.

E poi quel nome.

XANA.

Dido l'aveva definita un virus. Eppure lei era sicura di conoscere qualcosa di più. Era come un campanellino minuscolo che suonava da lontano, in qualche remoto angolo della sua mente.

XANA era sempre esistita su Lyoko, c'era anche prima che questo fosse abitato dai Programmi.

Anche i suoi genitori rientravano nella storia di Lyoko precedente ai Programmi.

Le due cose erano collegate? Voleva dire che aveva sentito parlare di XANA a casa, magari per caso? Le sembrava assurdo e ovvio allo stesso tempo.

Sospirando, allungò tutte e due le braccia verso il soffitto, come per stiracchiarsi. Mise indice e pollice di entrambe le mani in modo da formare un rettangolo che incorniciava un pezzo di parete liscia e uniforme.

Senza sapere bene perché, si concentrò su quel ritaglio blu con estrema intensità. Dopo pochi istinti, sul muro si formarono delle specie di crepe, come se certe parti non si fossero mai formate. Separò le mani e mise giù le braccia di scatto. Le crepe erano ancora lì. E mentre continuava a fissarle simboli bianchi ne sgorgarono fuori spandendosi sulla parte.

Erano diversi da quelli a cui era abituata. Questi non vagavano in modo disordinato nell'aria come se fossero esplosi, ma si allineavano con scrupolosità davanti a lei.

Poteva leggere ciò che esprimevano. Riusciva ad interpretarli come se fossero stati la sua lingua madre.

Si sparsero velocemente in tutta la stanza e oltre, fin dove poteva spingersi il suo sguardo.

Chilometri di programmazione si srotolarono davanti a lei.

Era questo Lyoko? Un complicatissimo e sofisticatissimo programma?

Poteva essere modificato? O il più piccolo e insignificante cambiamento lo avrebbe fatto crollare?

L'anno precedente aveva imparato a cambiare ciò che vedeva, ad invertire i comandi che seguivano gli esseri digitali che giravano per la scuola. Poteva fare la stessa cosa?

Sollevò di nuovo una mano e mosse le dita davanti a sé, come su uno schermo touch screen, solo senza toccare altro che aria.

I simboli risposero ai suoi comandi, cambiando ordine e forma e poi riassestandosi fino a sparire.

La stanza si riformò, solo che la forma era cambiata. Ora era perfettamente cubica e il lettino di Rebecca si trovava in un punto diverso. Persino il colore, per quanto insignificante, era cambiato: invece dell'uniforme blu di Cartagine, ora erano viola.

Chiuse gli occhi. Non le faceva male la testa né si sentiva stordita.

Inspirò lentamente, impegnandosi a gonfiare i polmoni quanto più possibile. E sentì qualcosa di denso scivolarle in gola dalla bocca semiaperta.

Scattò a sedere, con la sensazione di soffocare. Tossì, ma non servì a nulla. Le mancava l'aria.

Spalancò gli occhi e si ritrovò circondata da una densa nube nera. Non aveva mai visto nulla del genere e non aveva tempo di soffermarcisi. Si afferrò le gola con le mani, come se potesse aprirsela a forza. Provò un dolore al petto lancinante poi uno alla testa.

Tentò di urlare, ma le uscì solo un gemito straziato.

Rotolò giù dal letto, provò a trascinarsi via avanzando carponi, ma la nebbia si spostava con lei. Voleva essere respirata. E lei non aveva scelta, perché aveva un bisogno disperato di aria.

Inspirò con forza. I polmoni si aprirono ed ebbe un istante di sollievo, ma aveva solo respirato altro fumo. Lo sentiva ancorarsi alle proprie cellule, introdursi nel suo sistema circolatorio e spandersi in tutto il corpo.

Si accasciò completamente a terra. Nessuno dei muscoli rispondeva più ai comandi, era come se all'improvviso fossero fatti di acido. Quando credette che fosse impossibile sopportare oltre ed ebbe inalato tutto il fumo nero una scarica elettrica le attraversò tutti i nervi contemporaneamente per poi risalirle la colonna vertebrale e sfociare nella sua testa.

Fu come se mille agi le penetrassero nello stesso istante direttamente nel cervello.

Per alcuni interminabili minuti si ritrovò incapace di muoversi e incapace di pensare.

Una frazione di una parete si aprì e ne entrò un programma, forse Dido, ma non riusciva a vederla bene. Da quella angolazione Rebecca sembrava essere in piedi.

«Si è aperto un varco» annunciò il Programma. «Potete tornare nel vostro mondo.»

Furono le ultime parole che riuscì a sentire prima che tutti i suoi sensi si spegnessero, ma la sua testa stava annuendo.


ʘ –


Quando erano entrati nella vecchia fabbrica si erano aspettati di trovare qualsiasi tipo di scenario. Tranne quello che trovarono effettivamente.

Non era cambiato niente, se non che la vecchia costruzione era ancora più vecchia dell'ultima volta. Difficile dire se quel poco che si notava di diverso fosse dovuto solo ai venti anni passati o all'opera di qualcuno in particolare.

Il super-computer era esattamente come lo avevano lasciato: spento. E polveroso.

Le uniche anomalie erano i due corpi stesi a terra, accanto a dei cavi scoperti.

Jeremy, Yumi e William si scambiarono intense occhiate. Erano venuti solo loro, tutti gli altri a quel punto dovevano essersi già riuniti in infermeria.

«Rebecca!» esclamò Carlotta correndo a inginocchiarsi accanto all'amica. Era stesa a pancia in su, le mani sulla pancia, la testa tenuta perfettamente dritta dagli chignons. Respirava lentamente e con regolarità e la sua postura era rilassata più che abbandonata. Se avesse avuto gli occhi aperti, avrebbe potuto benissimo trovarsi stesa sul suo letto a meditare.

Lo stesso non poteva dirsi di Elisabeth, proprio accanto a lei. Stringeva con una mano il cellulare di Rebecca – che sfiorava la resta della sua proprietaria –, ma per il resto sembrava essere stata buttata sul pavimento o esserci caduta di peso. La sua posizione era scomposta, al limite dell'umano, la pelle così pallida e fredda e gli arti così abbandonati che sembrava morta. Il suo cuore, però, batteva ancora.

«Non toccarla!» William fermò la figlia prima che potesse appoggiare una mano sulla spalla di Rebecca. Si vedeva lontano anni luce che qualcosa non andava. Nessuno sarebbe stato così rilassato se era stato portato lì dopo essere stato rapito.

«Dobbiamo portarle via di qui» decretò Jeremy, per quanto banale fosse. Non riusciva a staccare gli occhi dalla figlia, ma qualcosa frenava il suo impulso di toccarla. Si diede dello stupido e si affrettò a prenderla in braccio. Era molto più leggera di quanto ricordasse, e effettivamente più magra, come se fosse stata svuotata. Le braccia e le gambe dalle ginocchia in giù penzolarono a peso morto verso il basso, il collo si reclinò all'indietro.

Mentre invece William, aiutato da Yumi, sollevò Elisabeth, la donna ebbe la reazione contraria. Tutti i suoi muscoli si contrassero automaticamente al primo contatto.

William guardò Jeremy, che ancora non aveva sollevato la figlia da terra. Lui non seppe cosa dirgli. Fece leva sulle gambe per tirare su Rebecca.

Una scarica elettrica attraversò i capelli rosa della ragazza quando si separarono dallo schermo del telefono, ancora stretto tra le mani della preside. Era così forte che si videro le scintille violacee.

Elisabeth sussultò e i suoi occhi si spalancarono automaticamente per un attimo. Persino William la sentì. Jeremy no. Si irrigidì di riflesso, ma non sentì nulla.

Il corpo di Rebecca assorbì tutta l'elettricità senza avere la minima reazione.

«Andiamo» li spronò Yumi dopo un momento di silenzio mentre toglieva il telefono di Rebecca dalle mani di Elisabeth e lo staccava dal super-computer.

Carlotta li precedette fuori e poi lungo il sentiero che li avrebbe riportati a scuola. Ebbero la fortuna di arrivare durante il pranzo, per cui nessuno fece caso a loro.

«Cosa diremo all'infermiera?» chiese Carlotta.

«Che le abbiamo trovate sul sentiero.»

«Jeremy, guarda» li interruppe Yumi.

Il biondo si voltò.

Yumi sollevò i capelli di Elisabeth fino a scoprirle il collo. Alla base del cranio c'era una specie di reticolato, come se qualcuno avesse cercato di disegnarle tanti piccoli quadrati sulla nuca. La pelle in quel punto era più scura e più lucida.

«Portatela direttamente nella presidenza» decise Jeremy dopo averla fissata a lungo. «Non credo sia qualcosa che può risolvere un'infermiera.»

«E Rebecca allora?» osservò Carlotta.

Jeremy abbassò lo sguardo sulla figlia. Sperava con tutto se stesso che stesse bene, che fosse davvero solo svenuta. Sapeva di illudersi, ma non poteva farne a meno.

«Che una ragazza si sia sentita male è abbastanza normale, se portiamo la preside svenuta è un'altra storia.»



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Capitolo 8
*** Fare ritorno ***


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Metamorfosi Cap8;

begin

    write('Fare ritorno');

    readln;

end.


Silenzio.

Tranquillo, confortante e ristorante silenzio della mente.

Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che c'era stata tanta quiete che era difficile ricordarsene, che ora sembrava una sconvolgente novità.

Silenzio. E immobilità.

Un corpo immobile, debole e inerte, ma non spento, e perfettamente controllabile.

Niente voci, stridii, impulsi nervosi, esplosioni dentro la scatola cranica. Niente momenti di panico controllato o isteria repressa. Niente missioni impossibili o storie assurde. Niente mondi e creature virtuali.

Niente di niente.

Un pensiero. Solo, senza eco né alcun tipo di risposta.

Sono sola.

Mai nulla era stato più perfetto di quel momento.

Sono sola.

Ascoltò la propria voce nella propria testa come se non l'avesse mai sentita, come se la stesse assaporando dopo averla dimenticata.

Il sollievo fu una bolla d'aria tiepida che esplose nei polmoni regalando nuova aria e nuova forza e dissipando qualsiasi peso avesse oppresso prima il suo petto. Il sollievo fu pura gioia.

Tutti i muscoli si rilassarono e delle lacrime calde le sgorgarono dagli occhi mentre si girava a pancia in su e dei sospiri tremolanti le sfuggivano dalle labbra.

«Sissi?» si sentì chiamare da una voce vicina.

Aprì gli occhi umidi e mise a fuoco il volto di Ulrich. Sembrava non essere passato nemmeno un minuto. Doveva essersi appena avvicinato al divano – aveva sentito i passi – e si era seduto sul bordo, con aria preoccupata.

«Ulrich.»

Non stava più piangendo. Si asciugò il viso con due rapidi gesti, poi si slanciò in avanti, si aggrappò alle sue spalle e lo baciò.

Ulrich rimase così interdetto che restò immobile, con gli occhi spalancati e l'espressione stupita.

Elisabeth si fece indietro poco dopo. «Non ti sforzare, mi raccomando» lo schernì mentre si metteva seduta.

Ulrich si raddrizzò. «Che ti è saltato in mente?»

Lei sollevò le spalle. «Sono di buon umore.» Fletté le ginocchia e si alzò. «Sono sola!» esclamò ad alta voce, come se fosse la notizia più bella del secolo.

«Come?»

«Sono sola» ripeté lei. «Assolutamente sola dentro la mia testa e dentro il mio corpo!»

«Sissi, cioè Elisabeth, cosa stai dicendo?»

«Senti, so che sembrerà assurdo, ma lo giuro, non sono pazza. Avrei potuto impazzire, forse sono impazzita, ma è vero, devi credermi.»

«Senza offesa, ma non sembri molto lucida» commentò Ulrich, ma era tranquillo. «Sempre meglio Sissi della preside irriverente comunque.»

«Preside irriverente?» ripeté aggrottando le sopracciglia. «Non importa. Quanto tempo è passato? Aspetta, lo so. Chris ha undici anni quindi ne sono passati… dieci.» Il suo entusiasmo si smorzò di colpo. «Oddio» si risedette sul divano. «Dieci anni» scandì. «Che cosa ho combinato?» domandò a se stessa.

«Come sarebbe a dire che hai combinato? Sissi, che succede?»

«Siediti.» Ora era seria. Ma in un modo umano e naturale.

Ulrich obbedì e si sistemò accanto a lei sul divano.

«Non so nemmeno da dove cominciare» si lamentò lei incrociando le braccia al petto e sprofondando nello schienale.

Ulrich sospirò. «Dall'inizio?»

«Ma è scontato» replicò lei con una leggera smorfia, ma poi si arrese. «Okay» disse lentamente. «L'ultima cosa che ricordo chiaramente è...» si rabbuiò «quando è morto mio padre.»

Lui non disse nulla, ma appariva in qualche modo deluso dalla risposta.

«Prima che tu me lo chieda, no, non ho buco di dieci anni di memoria, ma sono tutti ricordi frammentati.» Tacque. Davvero non sapeva come andare avanti.

«Credevo che stessi solo male per… il lutto. Insomma, nel modo normale, ma non ti sei mai ripresa. Sei stata in ospedale e sotto psicofarmaci...»

«Sì, me lo ricordo. Almeno quelli funzionavano abbastanza da intontirmi. Comunque mi ero ripresa» sottolineò. «Ma c’era qualcosa che non andava e dovevo saperne di più. Mio padre è morto in circostanze misteriose nella fabbrica vicino questa scuola. Ci sono andata, non credevo fosse pericoloso.»

«Tuo padre è morto nella fabbrica?» esclamò Ulrich. «Perché non lo sapevo?»

«Che razza di domanda è?»

«Credevo fosse stato un attacco di cuore. Avevi detto…»

«Ha avuto un attacco di cuore.»

«Non me lo avevi detto.»

«Ero sconvolta! Non ti aspetterai che una figlia in lutto si metta a parlare lucidamente della morte del padre.»

«Okay, okay. Sei andata nella fabbrica e… ?»

«Ho trovato un computer. Nel senso di un computer enorme, non uno normale. E enorme non solo nel senso di grandezza quel coso era… era...»

«Super.»

«Super?»

Ulrich voltò la testa e la fissò negli occhi. «Hai trovato il super-computer.»

«Che nome fantasioso» disse ironica, poi riprese: «L'ho trovato. Non avevo idea di cosa fosse, ma sapevo che non doveva essere lì. Non poteva essere lì. L'ho ispezionato e ho trovato una chiavetta attaccata ad un terminale, una di mio padre. Ho provato a levarla e ho preso la scossa.»

Silenzio.

Dopo un po' Ulrich sollevò un sopracciglio. «Tutto qui?»

«Già.»

«Mi prendi in giro?»

«No. Dopo ricordo solo il buio che si espandeva nella mia testa e il mio corpo che diventava pesante. Mi sono alzata poco dopo, ma non ero in me. Era come se fossi sonnambula, non del tutto cosciente. Credo di essere arrivata a casa.»

«Oh sì, sei comparsa sulla soglia con una faccia allucinata e sei crollata a terra.»

«Ricordo che qualcuno si è messo ad urlare.»

«Chris.»

«Mi sono svegliata in ospedale.»

«Ti ci abbiamo portato io e Odd.»

«Da allora… c'è sempre stata quella presenza costante nella mia testa.»

«Una voce?»

«No, raramente era una voce. Era più un coscienza estranea che mandava impulsi al mio corpo. Movimenti, parole, azioni. Se provavo a contrastarle mi esplodeva la testa, potevo quasi vedere le scintille nel mio cervello, come se stessi andando in cortocircuito.»

«E cosa ti faceva fare?»

«Non lo so, mi ha fatto costruire delle cose, interagivo con qualcosa, con qualcuno, ma io non vedevo nulla.»

«Non capisco.»

«In certi momenti avevo l'impressione di star parlando con qualcuno, o tenendo in mano qualcosa, eppure non c'era nulla davanti a me. Subito dopo mi venivano dei mal di testa così forti che spesso svenivo.»

«Sei sicura di poter parlare al passato?»

«Sì. Oh sì, ne sono certa, ora non c'è nulla dentro di me. A parte me. È così bello essere di nuovo se stessi!» esclamò con un sorriso smagliante che si smorzò poco dopo. «Dio, dieci anni. Cosa… cosa è successo...» si voltò verso di Ulrich e si interruppe davanti alla sua espressione indecifrabile. Sembrava in contemplazione. «Ulrich? Tutto bene.»

«Sembra proprio di sì» sussurrò lui. La guardava come se fosse stata fragilissima. Le prese il viso tra le mani e fu il suo turno di baciarla.

Lei si ritirò quasi subito. «Bravo, ora hai reazioni ritardate?» Ulrich cerò di baciarla ancora. «Ehi no! Aspetta, devo ancora dirti di Lyoko e allora sì che mi prenderai per pazza! E tu devi dirmi cosa è successo in dieci anni mentre… Ulrich

Lui esitò per un momento nel sentire il nome di Lyoko, ma poi si riscosse e la afferrò per i fianchi. «Possono aspettare.»

«No!»

«Sì, invece. Devo approfittare di questo momento, prima che tu torni quella di prima o senta il resto della storia e decida di uccidermi.»

«Non…»

«Credimi, lo vorrai» le assicurò mentre la trascinava verso di sé finché lei non fu costretta a mettersi a cavalcioni sulle sue ginocchia.

«Ah, ora devi dirmi perché. Che diavolo hai combinato mentre io avevo in virus malefico nella testa?»

«Non ti piacerà per niente.»

«A te non piacerà Lyoko.»

«Mi piace Lyoko.»

«Sei matto. Non ti piacerà XANA.» La sua voce si stava abbassando man mano che i loro volti si facevano sempre più vicini e i loro corpi sempre più intrecciati.

«No, XANA decisamente non mi piace» concordò Ulrich mentre stringeva la presa sulle sue gambe e riprendeva a baciarla. Questa volta fu uno scambio bidirezionale. Sissi gli prese il viso tra le mani e lui le circondò la vita con le braccia. Si premettero l'uno contro l'altro, come se insistendo potessero fondersi insieme.


ʘ –


Erano tutti e quattro seduti fuori dall'infermeria, Carlotta in braccio a William e Ludovic seduto tra lui e la madre.

Le ore di lezione erano finite perciò adesso diversi studenti giravano per i corridoi.

«Io continuo a non capire cosa c'entri la preside con tutto questo» borbottò Ludovic.

«Considerando che non abbiamo avuto ancora nessuna spiegazione non mi sorprende» commentò William. «Però in effetti è strano, lei con Lyoko, non c'entra niente.»

«Lyoko?» ripeté Carlotta. «È una persona?»

«No, Lyoko è un posto, più o meno.»

A quelle parole di Yumi due ragazzi che stavano passando si voltarono come se li avessero chiamati. Le loro espressioni erano indecifrabili.

«Julien.» esclamò Ludovic riconoscendo il proprio compagno di stanza «Tutto bene?»

Il ragazzo fissò i due adulti in modo decisamente strano, ma loro non ricambiarono. «Sì, ci vediamo dopo.» disse soltanto, dopo un po', mentre si girava e spingeva via il ragazzo che era con lui.

«Julien?» chiamò Ludovic alzandosi, ma l'amico si limitò ad accelerare il passo mentre si allontanava.

«Che gli è preso?» chiede Carlotta.

«Non ne ho idea.»

«Ma di chi state parlando?» li interruppe Yumi.

I due fratelli si scambiarono un lungo sguardo.

«Del ragazzo che si è appena fermato davanti a noi quando ti ha sentito dire “Lyoko”» fece Carlotta scandendo ogni parola.

La madre la guardò confusa.

«Quale ragazzo?» domandò William.

«Non l'avete visto?»

I due scossero la testa.

«È uno scherzo?» Ludovic dovette sforzarsi di mantenere un tono di voce basso. «Insomma, quello è il mio compagno di stanza dall'anno scorso, abbiamo un sacco di amici in comune, anche se non siamo in classe insieme, come avete fatto a non vederlo?»

«Quel Julien, davvero?» William si guardò di nuovo intorno. «Sul serio, ragazzi, non abbiamo visto nessuno.» Yumi annuì in conferma.

Carlotta aggrottò le sopracciglia, pensierosa. «Avete degli amici in comune hai detto?»

«Certo, e loro lo vedono.»

«E questi amici sono un gruppo stretto?»

«Sono un gruppo normale!»

«Sì, ma parlano con altri ragazzi?»

«Che domande! Sì, certo, credo. Immagino. Non con tutti, alcuni gli stanno poco simpatici e si ignorano a vicenda, ma è normale. Era con uno di loro poco fa e gli ha anche preso il braccio, lo hai visto, quindi è reale!»

«I ragazzi erano due?» chiese William. Evidentemente non avevano visto proprio niente.

«No, no» fece Ludovic. «Ho passato tutto l'anno scorso con loro e sono assolutamente... veri, reali. Siamo finiti nei guai quasi tutti i giorni, siamo una specie di squadra!»

«Stai dicendo che tutte le volte che ci hanno chiamato per il tuo comportamento avevi combinato qualcosa con loro?»

«Sì.»

«E perché non li ho mai sentiti nominare?»

«Beh perché… la preside becca sempre me. O almeno sono sempre io quello che finisce nei guai, credo che abbia una specie di predilezione per loro.»

«Li ha mai chiamati per nome?» chiese Carlotta.

«Come?»

«Anche Anna era normale, vera, reale.»

«Chi è Anna?»

«La compagna di stanza di Rebecca. Chris ha detto che la preside sosteneva non esistesse nessuna Anna Zuz» rispose Yumi.

«Venite» ordinò Carlotta alzandosi in piedi. Gli altri tre la seguirono. Attraversarono i corridoi evitando gli altri studenti e cominciando a chiedersi se vedessero tutti gli stessi oppure no.

Carlotta e Ludovic tennero gli occhi aperti.

E cominciarono a notare.

C'erano ragazzi, o piccoli gruppi, che si muovevano in modo diverso. Parlavano e scherzavano tra di loro, ma zigzagavano tra gli altri studenti come se volessero evitare qualsiasi contatto fisico. Quelli che venivano loro incontro non si spostavano di lato per farli passare.

Una ragazza che sembrava troppo piccola per essere anche solo del primo anno era seduta sul davanzale della finestra e faceva smorfie a tutti quelli che le passavano accanto facendo ridere un'altra ragazza vicino a lei, ma nessuno faceva caso a loro. Nessuno tranne il gruppo che zigzagava in modo strano.

Arrivarono nei dormitori femminili e Carlotta li condusse nella stanza di Rebecca e Anna. Indicò la targhetta che recitava Belpois – Zuz.

«Cosa leggete?»

«Belpois» risposero in coro i genitori.

I due fratelli si guardarono.

Carlotta prese la mano della madre e le fece passare le dita sulle lettere incise del cognome Zuz.

«Non senti niente?»

«Niente. È tutta lascia.»

La ragazza fece un passo indietro. «No, non è possibile. Non ci credo.»

Bussò.

«Chi è?» strillò la voce di Anna dall'interno.

«Sono Carlotta, posso entrare?»

«Arrivo.»

«Sentito niente?» sussurrò guardandosi indietro.

Yumi e William scossero la testa mentre Ludovic li fissava sgranando gli occhi.

Anna aprì la porta. E i due adulti sussultarono.

Anna li fissò mentre i loro sguardi vagavano nella stanza come se potessero attraversarla. Sembrò scossa di un brivido.

«Co-cosa c'è?» balbettò ritirandosi il più possibile.

«Cercavo Rebecca.»

«Non so dove sia.» La rossa fece per chiudere la porta, ma Carlotta la fermò con un piede e poi con la mano.

«Anna, vieni un momento fuori? Questi sono i miei genitori, vorrei presentarteli.»

«Perché?» uggiolò la ragazza da dietro la porta.

«Perché sei mia amica e vorrei che ti conoscessero.»

«Non siamo nemmeno in classe insieme.»

«Sì, ma siamo amiche lo stesso, giusto?»

«Ma è la prima volta che ci rivolgiamo la parola!» protestò giustamente la rossa tentando di spingere la porta. Carlotta si oppose.

Yumi l'aiutò. La figlia lasciò la presa.

Yumi e Anna continuarono a spingere, le loro forze continuarono ad annullarsi a vicenda. Quale illusione poteva fare una cosa del genere?

Yumi lasciò andare la porta che si chiuse.

«Anna...»

«Vattene!»

«Ma...»

«Cosa vuoi? Ti ho detto che non so niente di Rebecca!»

«Non sai dov'è ora, ma l'hai vista stamattina. Per caso ti è sembrata strana, diversa?»

Nessuna risposta.

«Anna.»

«Vattene. Per favore.» Stava piangendo? Stava per farlo? «Ti prego, non voglio.»

«Cosa? Non vuoi cosa?»

«Lasciami stare!»

«Tu la vedevi» intervenne Ludovic. «Lei non era altro che un ologramma, ma tu la vedevi! Ci hai parlato e lei reagiva. Nessun altro l'ha vista.»

«Non è vero. Me lo ha detto lei.»

«Lei non parla!» replicò automaticamente Anna. Dopo piombò il silenzio.

«No, infatti.»

La porta si aprì di nuovo, questa volta del tutto.

Yumi e William non videro nulla oltre la stanza vuota, ma non dissero niente.

Anna aveva gli occhi gonfi, ma non piangeva.

«Io sto bene qui» gemette. «Non voglio andarmene!»

«Perché dovresti andartene?» si stupì Carlotta.

«Perché loro sono qui!» puntò il dito contro William e Yumi. «Tenteranno di fermarla e lei ci rispedirà tutti su Lyoko!»


ʘ –


«Si sveglierà?» insistette Franz.

Aelita, seduta sul bordo del letto, si voltò a guardare Jeremy che strinse le labbra.

«Starà bene?»

«Franz...»

«Che cosa può esserle successo? Una botta in testa. O sarà svenuta per la paura.»

«Oppure potrebbero averla drogata, iniettato sieri velenosi, condotto esperimenti su di lei. Potrebbero averla fatta a pezzi e ricucita e nascosto le cicatrici in qualche modo. Potrebbero averle asportato degli organi. Averla sottoposta ad un elettroshock» elencò Emma. Odd rise un po'.

«Certo, oppure usata per un rituale satanico» la interruppe Chris. «Non sei di aiuto Emma.»

«Se è per questo non lo è neanche Franz con le domande insistenti, né tu che te ne stai lì zitto e imbronciato, né l'infermiera che non sa dove mettere le mani, né nessun altro in questa stanza.»

«Non ha tutti i torti» la appoggiò il padre.

«Non sei di aiuto neanche tu che mi dai ragione papà.»

«Hai torto marcio.»

Aelita li mise a tacere con lo sguardo, poi fissò il volto inespressivo della figlia e le prese la mano.

«Si sveglierà» le assicurò Jeremy mettendole una mano sulla spalla.

«Non so quanto ci convenga.»

Si voltarono tutti verso Ulrich, appena entrato nell'infermeria. Sissi era dietro di lui e non sembrava affatto la preside Elisabeth Delmas di poche ore prime. Aveva persino del colore sulle guance e una fascetta rossa che teneva indietro i capelli leggermente scompigliati.

Tutti tacquero.

Chris si irrigidì. Tentò di spostarsi per essere coperto dagli altri, ma le gambe della sedia stridettero sul pavimento e si ritrovò a fissare la preside intimorito. Poi confuso. Perché non aveva mai visto uno sguardo simile in nessuno. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, Sissi spostò gli occhi su Ulrich con un'espressione che diceva chiaramente “questa me la paghi”.

«C'è qualcosa che dovete dirci?» chiese Emma.

Ulrich guardò Sissi, in attesa.

«Ho riportato io Rebecca fuori da Lyoko» buttò lì lei, come se avesse appena spiegato di essere stata lei a riportarla a casa dopo una festa movimentata.

La frase non poté fare più effetto.

Un'ondata di «Cosa?», «Rebecca?», «Lyoko?», «Tu?» e «Aspetta un attimo!» si abbatté su di lei all’istante.

Sissi incrociò le braccia al petto e si impedì di urlare a tutti di stare zitti. «Non accalcatevi per ulteriori informazioni, mi raccomando» disse quando si furono leggermente calmati.

«Cosa sai di Lyoko?» la domanda di Jeremy scavalcò tutte le altre.

«Tutto quello che c'è da sapere. Al momento ne so anche più di voi visto che siete all'oscuro degli ultimi vent'anni di sviluppi.»

«Sviluppi?»

«Sviluppi» confermò Sissi drizzando le spalle. «Non crederai che in tutto questo tempo non sia successo niente.»

«Ma abbiamo spento il super-computer!» protestò Odd.

«Tagliando i ponti tra mondo reale e virtuale» lo corresse Sissi. «Non puoi certo spegnere Lyoko.»

«Spiegati.»

Sissi si andò a sedere su un letto. «Okay, ma dovete promettermi una cosa.»

«Cosa?»

«Che non… no, allora due cose» precisò. «La prima è che mi starete a sentire dall'inizio alla fine.» Tutti annuirono. «La seconda è che non tenterete di fermare XANA.»

«Scordatelo!» esclamò Odd.

«Perché dovremmo?» chiese più educatamente Aelita.

«Perché avete promesso di starmi a sentire.»

«Okay, quella promessa è ancora valida, ma in quando a non fermare XANA ci riserviamo di decidere più tardi» sentenziò Jeremy.

Sissi si issò completamente sul letto, prese il cuscino tra le mani e si appoggiò con la schiena al muro in modo da fissare il vuoto davanti a sé mentre parlava.

«Non avete distrutto XANA, l'avete solo rallentata. Era previsto che succedesse – anzi, che potesse succedere – ed era programmata una risposta a questa evenienza. Il fatto che qualcuno fosse riuscito a superare lo stadio “distruzione” indicava che Lyoko era… autonomo, credo, che aveva modo di difendersi ad ogni modo e sostenersi. Questo faceva sì che si… “salisse di livello”. Quando ve ne siete andati e lo avete isolato, il sistema si è evoluto. I programmi hanno preso un aspetto più… umano, nel senso che hanno creato una società e sviluppato una coscienza. XANA ha modificato il proprio scopo.»

«Com'è possibile?» Jeremy era scettico quanto affascinato.

«E che ne so?» fu la risposta secca di Sissi. «Sei tu lo scienziato, non io.»

«Caduta di stile» commentò Emma a bassa voce e Odd soffocò una risata.

«Comunque,» riprese Sissi «XANA è rimasta quiescente finché mio padre, dieci anni fa, non ha trovato la fabbrica e il super-computer. Non l'ha accesso, ma ha tentato di scaricare dati.»

«Come Rebecca» osservò Chris. Si zittì immediatamente, ma l'occhiataccia che si aspettava non arrivò.

«Il trasporto di dati crea un ponte momentaneo.»

«XANA l'ha usato per uscire?» intuì Jeremy.

«Sì. Non esiste nessuno scanner che crei nel mondo reale un avatar per un essere digitale, perciò per agire aveva bisogno di un corpo ospite.»

«Tuo padre.»

«Sì, ma lui è morto sul colpo. XANA lo ha consumato. Non so di preciso cosa sia successo dopo, credo sia rimasta nella chiavetta che mio padre aveva inserito. Quando sono andata lì e l’ho recuperata, si è trasferita in me.»

«Ma tu non sei morta» osservò Odd, sorpreso.

«Che intuito brillante!» Sissi alzò gli occhi al cielo. «Casualità, non sono morta. Sono stata posseduta.»

«Per dieci anni?» Aelita la guardò atterrita.

«Già» la voce di Sissi si fece molto più bassa.

«E cosa ti ha fatto fare in tutto questo tempo?»

«Ristrutturare la scuola.»

«Cosa?»

«Mi hai sentita Odd.»

«Perché XANA vorrebbe far ristrutturare il Kadic?»

«Per renderlo adatto ad ospitare programmi fuoriusciti da Lyoko.»

Odd fissò il soffitto con aria assorta mentre Aelita si alzava e affiancava Jeremy. «Spiegati, per favore» la incitò quest’ultimo.

«Nel momento in cui è stato possibile trovare un modo per uscire dal mondo virtuale,» riprese Sissi «XANA si è evoluta ad un secondo stadio. Tramite dei ponti per il trasporto dati anche i programmi di Lyoko possono uscire e arrivare nel mondo reale. Questo è possibile perché non si tratta propriamente di programmi, quanto di vere e proprie forme di vita digitali. Nel mondo esterno, però, non sono supportati da un corpo, perciò devono tornare su Lyoko.»

«Non possono possedere un corpo a propria volta?» osservò Aelita.

«No, solo XANA può farlo in qualità di virus. Quando i programmi escono nel mondo reale di solito non sono percepibili e vi possono rimanere solo per pochissimo tempo a seconda delle loro riserve di energia, della loro carica per così dire.» Fece una pausa e si tirò un po' su, per un momento si fissò le mani con aria critica, poi riprese a parlare. «Lo scopo attuale di XANA è quello di portare i Programmi nel mondo reale. Ciò che fa è reinserirsi nel super-computer e agganciarci a quanti più programmi possibile, infettarli per poterli portare via.»

«Portare dove di preciso?» chiese Aelita.

«Qui. La ristrutturazione è stata complessa. Nel cuore della scuola c'è una specie di generatore-»

«E questo generatore forma una specie di scudo intorno alla scuola» la interruppe Jeremy.

Lei gli lanciò un'occhiataccia, ma poi annuì.

«I programmi non possono stare all'esterno,» continuò il biondo socchiudendo gli occhi e seguendo il proprio ragionamento «sono tutti in una specie di enorme generatore, è così?»

«Sì.»

«Il generatore non arriva sul tetto, vero?» chiese Emma.

Sissi scosse la testa.

Emma non diede altre spiegazioni.

«Ecco perché lo scudo circondava la scuola e non la fabbrica» osservò invece Franz rivolgendosi a Chris che annuì.

Jeremy riprese con le proprie deduzioni. «E all'interno dello scudo possono interagire con il mondo reale.»

«No.»

Jeremy riaprì gli occhi e sollevò le sopracciglia.

«I programmi all'interno del generatore si muovono in una specie di ricostruzione tridimensionale che coincide perfettamente con l’edificio vero e proprio. Ogni interazione viene trasmessa da una versione all’altra della scuola in tempo reale.»

«Perciò se un programma apre una porta, tutti se ne possono accorgere» conclude Carlotta. «Ma allora perché nessuno oltre a noi li vede o sente?»

«Perché XANA non ha ancora trovato il mondo di renderli percepibili agli umani. Aveva pensato di impiantare altoparlanti e proiettori, ma così non risolverebbe il vero problema: dare un corpo reale ai programmi. Al momento sono in mezzo a noi e possono interagire indirettamente con noi, ma nessuno può registrare direttamente la loro presenza.»

«Nessuno tranne noi» ricordò Franz.

«Già, ma voi siete un'anomalia.»

«Com'è possibile?»

Sissi sollevò le spalle.

«Quindi erano programmi» intervenne di nuovo Franz. «Gli animali strani.»

«E Anna» aggiunse Chris.

«Chi?» fece Sissi.

«Anna Zuz, la compagna di stanza di Rebecca.»

«Rebecca non...» Sissi lasciò la frase in sospeso e aggrottò la fronte come se stesse compiendo un grande sforzo mentale. «Non lo so» disse alla fine. «I nomi se li danno da soli.»

«Dov'è XANA?» esclamò Aelita all'improvviso, allarmata, come se stesse parlando di un gatto scomparso. «Voglio dire,» si riprese «se lei non è più dentro di te, ora dov'è?»

Sissi abbassò lo sguardo, improvvisamente molto interessata alle lenzuola del letto su cui era seduta. «Le serviva qualcun altro, qualcuno di più idoneo, qualcuno con cui avesse più possibilità di portare a termine il suo piano. Per quanto fantastica, io sono solo un'umana.»

Calò il silenzio.

Lentamente, come se i loro corpi si rifiutassero di vedere ciò che voleva la mente, si voltarono tutti verso il letto su cui era distesa Rebecca.

Ed era vuoto.


ʘ –


Bea rimase seduta su un comodino scombro anche quando uscirono tutti dall'infermeria. Guardò Sissi e Ulrich andarsene per ultimi, dopo che lei ebbe borbottato una decina di frasi incomprensibili.

Si erano dimenticati di lei. In realtà gli unici che poteva incolpare erano Emma, Chris e Franz.

Tentare di avvisarli che Rebecca di era svegliata, alzata e lasciata cadere giù dalla finestra nel giro di pochi istanti, era stato inutile. Non poteva parlare. Non poteva produrre nessun suono, nemmeno schioccando le dita o battendo i piedi a terra. Aveva guardato la sua alter-ego e creatrice farsi spuntare un paio di ali nere durante la caduta e sfrecciare chissà dove.

Incrociò le braccia al petto, saltò giù dal comodino e si avvicinò alla finestra. Da lì poteva vedere la macchina con cui i guerrieri erano arrivati e il cane che dormiva sui sedili posteriori. Di Rebecca nessuna traccia.

Lei, dal canto suo, era abbastanza sicura di non potersi far spuntare le ali – non era nella sua programmazione – perciò era inutile tentare di seguire la sua matrice.

Uscì dall'infermeria e si inserì nel flusso di studenti stando attenta ad evitare quelli che le venivano addosso senza saperlo. L'avrebbero attraversata, ma non era piacevole, creava una momentanea instabilità nel suo sistema.

Quando svoltò nel corridoio successivo una ragazza minuscola appollaiata sul davanzale di una finestra le fece la linguaccia. Rimase impalata per la sorpresa e un'altra ragazza scoppiò a ridere così forte che tutti si sarebbero girati se l'avessero sentita. Invece solo alcuni si voltarono nella sua direzione.

Bea li fissò tutti come fossero animali di una razza sconosciuta.

«Dai, scusa!» esclamò dopo un po' la bambina che le aveva fatto la linguaccia saltando giù dal davanzale e facendo oscillare la zazzera di capelli chiari. «Non credevo che potessi vedermi, di solito non ti giri mai.»

Bea sollevò un sopracciglio.

«Non sei del secondo anno? Nella sezione A.» Arricciò le labbra. «Non mi ricordo il tuo nome.»

«Belpois» le suggerì l'amica. «Quella che sparisce dopo le lezioni.»

«Giusto» esclamò la ragazzina, poi non ne sembrò più tanto convinta. «Però hai qualcosa di diverso.»

Bea si limitò a farsi di lato fino ad appoggiarsi al muro per poter evitare altri studenti.

«Ma non parla?» chiese l'altra ragazza.

Bea scosse la testa.

«Ti è andata via la voce?» domandò la seconda.

Fece di nuovo di no con il capo.

«Come no?»

Si indicò la gola e poi agitò il dito facendo segno di no.

«Non hai proprio la voce?»

«E come farebbe ad essere interrogata, scusa?» sbottò l'altra.

Bea alzò gli occhi al cielo per la frustrazione.

«Tranquilla, aspetta.»

La ragazzina si alzò in punta di piedi e le posò una mano sulla fronte.

Bea sussultò a quel contatto. Nessuno l'aveva mai toccata – esclusi Chris e Ludovic ovviamente. Nessuno erano mai stato capace di farlo. Si ritrasse d'istinto.

«Tranquilla» ripeté la ragazzina e le affondò di nuovo i polpastrelli sopra un sopracciglio. Fu come se la testa di una e il braccio dell'altra si fondessero per un istante.

E le informazioni viaggiarono da una all'altra.

Quando la ragazzina ritrasse il braccio aveva gli occhi spalancati. «Forte» disse con lo stesso tono con cui avrebbe esclamato “oddio”. «Vieni!» strillò di contentezza l'attimo dopo, afferrandola per un polso e cominciando a correre. L'altra ragazza venne loro dietro incuriosita. Si fiondarono per le scale e attraversarono i corridoi finché non furono davanti alla presidenza.

La ragazzina spinse la porta. «XANA?» chiamò. Non c'era nessuno.

Bea si sentì raggelare. Puntò i piedi.

«Non preoccuparti, la preside sa di noi. È lei che ci ha portati qui. Devi solo presentarti.»

«Non la conosce?» esclamò l'altra ragazza raggiungendole mentre si legava i capelli castani.

«Non viene da Cartagine,» spiegò la bionda «né da una città-torre. Non è di Lyoko.»

«Com'è possibile?»

«L'ha creata la ragazza della seconda A, Belpois.»

«Non ci credo.»

«L'ho visto io.»

«Sai cos'è Lyoko almeno?»

Bea annuì.

«E di XANA?»

Annuì di nuovo, più vigorosamente.

«Sì, e lo sanno anche i guerrieri.»

«I guerrieri?» La mora sembrò improvvisamente incapace di respirare. «Quei guerrieri?»

«Sì!»

«Loro sono qui?»

«Sì.»

«No! Loro la fermeranno.»

«Hanno promesso di non farlo.»

Bea non poté fare a meno di osservare che invece non lo avevano più promesso.

«No, non lo hanno fatto» una terza voce zittì le altre due.

I tre programmi si voltarono.

Rebecca era accovacciata sulla scrivania delle preside come se vi fosse appena atterrata, le ali nere ancora spiegate dietro la schiena. Le sue iridi erano tre cerchi azzurri concentrici.

«Oh no!» sussurrò la mora.

«Dobbiamo accelerare i piani» tagliò corto XANA. «Raduna tutti i programmi che trovi. Non devono arrivare al generatore.»

«E tu?»

«Io devo tornare su Lyoko e portare via tutti i programmi restanti.»

«Ma saranno migliaia! Anche se riuscissi ad infettarli tutti e a trasportarli il generatore non può contenerli, non è abbastanza potente. Andremo tutti in tilt!» La sua voce salì di due ottave mentre parlava.

«La mia nuova ospite sarà in grado di potenziarlo.»

Le due ragazze annuirono, tranquillizzate e rassegnate allo stesso tempo. «C'è altro che possiamo fare?»

«Trattenete i guerrieri il più a lungo possibile. Devo distruggere Lyoko prima che riattivino il super-computer.»


ʘ –


Il granchio verde comparve praticamente dal nulla – sembrò emergere dal pavimento – e per evitarlo Emma fece un balzo indietro così improvviso che finì addosso ad Odd e caddero entrambi a terra.

«Che succede?» chiese Jeremy, ancora sulle scale.

«Oh no, di nuovo quello» gemette Chris.

«Quello cosa?» Ulrich fissò invano il corridoio.

«Il granchio.»

«Dove?» gli occhi di Sissi saettarono con sicurezza sul pavimento mentre si metteva davanti agli altri e sembrò colpita quando non vide nulla. Aggrottò lo sopracciglia.

«Ci penso io» assicurò Franz correndo a mettersi tra Emma e la creatura. La fissò con intensità e quella esplose.

«Forte!» esclamò Emma.

«Non chiedetemi come funziona.»

«Come funziona cosa?» insistette Jeremy.

«L'ha fatto scoppiare» spiegò Emma.

«Diavolo ecco chi era che lo faceva!» esclamò Sissi. «La mandava in bestia quando succedeva. XANA intendo.»

I simboli bianchi volteggiavano ancora per aria. A differenza delle altre volte, però, non si stavano dissolvendo. Anzi, cominciarono a farsi più nitidi e più vicini. Il granchio si ricompose.

«Brutte notizie» annunciò Emma alzandosi e cominciando ad indietreggiare. «Si è riformato.»

«Ma non è possibile!» protestò Sissi. «Ci vogliono sei ore.»

Nessuno dei ragazzi l'ascoltò.

In quello stesso istante il pappagallo gigante fuoriuscì dalla parete e il gatto viola saltò giù dal soffitto attraversando Aelita. Lei tossì, ma per il resto non si accorse di nulla.

Emma, Chris e Franz si ritrovarono vicini.

«Se non li vediamo vuol dire che non possono farci niente, giusto?» osservò Odd.

«Hai una logica un tantino illogica, sai?» lo prese in giro Ulrich. Furono le sue ultime parole. Il granchio gli si arrampicò addosso, sprofondò nel suo petto e ci rimase. Ulrich ebbe uno spasmo, come un improvviso singhiozzo, poi si irrigidì. I suoi occhi divennero scuri e vi comparvero tre cerchi azzurri.

«Immagino che questa sia la risposta alla tua domanda, papà» gemette Emma mentre premeva la schiena contro quelle di Chris e di Franz.

Odd si voltò a fissarli e spalancò gli occhi.

Emma guardò i suoi due amici. La loro pelle era suddivisa in quadretti. Lei doveva avere lo stesso aspetto inquietante. Tornò a guardare il padre. «Attento!» strillò, ma era troppo tardi. Il gatto viola gli balzò in testa per poi sparire tra i suoi capelli biondi.

«Odd!» chiamò inutilmente Aelita.

«Mamma abbassati!» esclamò Franz e lei obbedì appena in tempo per evitare il pappagallo.

«Cosa sta succedendo?» chiese Jeremy mentre si schiacciava contro il muro.

«Due di quegli animali, sono entrati loro nel petto e nella testa!» spiegò Chris fissando il padre. Ulrich e Odd erano ancora immobili. «Ne rimane uno.»

«Dov'è?» fece Sissi continuando a guardare in alto in attesa di riuscire a vedere qualcosa, anche se evidentemente non ne era più in grado senza XANA nella testa.

«Viene verso di te!» l'avvertì Chris.

Sissi non ebbe riflessi abbastanza pronti, ma Aelita sì. La afferrò per un braccio trascinandola di lato e finirono entrambe a terra.

«È sparito» notò Emma. «Ha attraversato il soffitto ed è sparito.»

«Credevo non potessero farlo» osservò Jeremy rivolgendosi a Sissi. «Che interagissero con l'ambiente come persone.»

«I programmi portati da Lyoko sì, ma quegli animali sono di XANA. Dannazione, Rebecca deve averli potenziati.»

«Cosa facciamo a fermarli se non possiamo distruggerli?» Franz fissava il soffitto come se volesse incenerirlo.

«Riprogrammandoli» decise Jeremy.

«Rebecca ci riusciva» borbottò Sissi.

«Le lenti a contatto!» ricordò Franz e corse verso le scale. Jeremy gli venne dietro e così Emma e Chris.

Aelita e Sissi invece urlarono quando Ulrich e Odd le afferrarono mentre si rialzavano. Sembrano degli automi.

Il pappagallo spuntò di nuovo dal soffitto cadendo in picchiata.

Emma prese la rincorsa e spiccò un salto. Gli si schiantò contro e lo incollò al pavimento. Quello stridette e le graffiò la pancia con le zampe. Lei si rovesciò all'indietro. La ferita sanguinante si stava già richiudendo, ma l'uccello le era sfuggito.

Chris corse per prenderlo, ma quello scoppiò sotto lo sguardo di Franz.

Sissi e Aelita approfittarono della distrazione per divincolarsi da Odd e Ulrich. Scattando in avanti, però, Aelita finì proprio sulla nube di simboli. Tremò come se avesse preso una scossa tremenda.

«No!» esclamarono Franz e Jeremy insieme.

Anche gli occhi di Aelita divennero cerchi.

«Via di qui!» ordinò Sissi correndo verso le scale. «Prima che si assestino!»

Nessuno trovò nulla da obiettare.


ʘ –


«Cos'è questo ronzio?» chiese Carlotta all'improvviso.

L'attimo dopo Anna si irrigidì come una statua. I due fratelli si guardarono e videro la pelle dell'altro farsi liscia e quadrettata.

«Un messaggio» Anna puntò lo sguardo su Yumi e William. «Dice di fermarli.»

«Fermarli da cosa?» domandò Ludovic mentre ignorava gli sguardi stupiti dei suoi genitori – non doveva essere una bella vista quella dei propri figli “pixelati”.

«Dal riaccendere il super-computer.»

«Quello nella fabbrica?»

Anna annuì.

«Bene!» fece il ragazzo.

Gli altri quattro lo fissarono. Lui si rivolse ai genitori. «Dobbiamo andare alla fabbrica. Subito.» Si voltò e cominciò a correre immediatamente senza aspettare di essere seguito.

«Guarda.» Anna indicò il cielo a Carlotta.

Una luce verde delineò i contorni dello scudo.

«Si sta irrobustendo» spiegò la rossa.

Carlotta accelerò, ma quando fu sul sentiero finì comunque contro un muro invisibile e cadde a terra.

«Carlotta!» Ludovic tornò indietro, ma andò anche lui a sbattere contro lo scudo. Entrambi lo tastarono. Era come se un vetro perfettamente trasparente improvvisamente li separasse. Un'altra ondata verde lo rese visibile per qualche istante. La pelle di Ludovic era tornate normale.

Yumi, che era rimasta indietro insieme alla figlia, avanzò cautamente, ma non incontrò nessun ostacolo. Si voltò preoccupata, ma né lei né William fecero domande.

«Andate!» ordinò Carlotta.

Ludovic annuì, poi si voltò e riprese a correre, seguito dai genitori.

«Anna, noi dobbiamo...» si interruppe notando il modo in cui si era irrigidita la rossa. Seguì il suo sguardo e si voltò in tempo per vedere Rebecca atterrare sul sentiero qualche metro dietro di lei. Dalla schiena le spuntavano grosse ali nere.

«Rebecca!»

«Fatti da parte.» La voce della ragazza era assolutamente inespressiva.

Carlotta divaricò leggermente le gambe e puntò le mani sui fianchi. Non è lei, non è davvero lei, si ripeté. «Scordatelo» annunciò poi.

XANA sorrise.


ʘ –


Bea rimase seduta nell'angolo.

La piccola stanza era sovraffollata di programmi nervosi. Julien, Fee e Lea – le due ragazze che l'avevano accompagnata in presidenza – le giravano intorno con aria vagamente tranquilla, ma lei sapeva che le stavano facendo la guardia.

Si guardò intorno per l'ennesima volta. Non c'erano finestre e la porta era l'unico modo di uscire o di entrare. Ed era irraggiungibile.

Su un tavolo al centro della stanza un grosso portatile era collegato ad un’antenna parabolica grande quanto una poltrona – il generatore.

Ricordava vagamente la strada che aveva fatto per arrivare lì, ma era abbastanza sicura che ritrovarla sarebbe stato facile. Se solo avesse potuto andare a cercare gli altri!

Se solo non fosse stata collegata solo pochi minuti prima al computer. Ora ogni suo movimento era tracciabile. Ora ogni sua azione poteva essere controllata.

Aveva l'ordine di rimanere lì, perciò se anche solo pensava di andarsene, il comando che le era stato inserito entrava in collisione con le sue idee e lei andava in tilt per qualche istante. Appena si riprendeva non faceva che cercare un nuovo modo di allontanarsi perciò zac, era di nuovo in tilt.


ʘ –


Yumi tirò fuori il telefono dalla tasca mentre William studiava inutilmente il computer. Scorse la rubrica, poi portò l'apparecchio all'orecchio. Squillò diverse volte.

«Pronto?» rispose poi la voce affannata di Jeremy.

«Dove siete?»

«Nella scuola. Siamo bloccati sul tetto, Odd, Ulrich e Aelita ci inseguono.»

«Cosa

«Lascia stare, cosa succede?»

«Ci serve il tuo aiuto, come si accende il super-computer?»

Ludovic, che era rimasto fermo in un angolo con aria pensierosa, prese il giacchetto che il padre aveva lasciato su una sedia e frugò nelle tasche interne fino a trovare il cellulare.

«Okay,» disse intanto Jeremy a Yumi «seguite alla lettera le mie istruzioni.»

«Che vuoi fare con quello?» esclamò William.

«Qualcuno deve avvertire i programmi viventi di cosa sta succedendo.» Trovò il cavo a cui era stato attaccato il telefono di Rebecca e vi collegò quello del padre. «Sbrigatevi ad accendere questo coso.»

Lo schermo del telefono si illuminò di blu e la pelle di Ludovic si riempì di nuovo di quadretti.

Venne risucchiato dentro il super-computer, dritto verso Lyoko.





Intervento dell'autrice n1


Se avete letto la storia fino a questo punto, innanzitutto grazie. Se poi avete anche trovato il tempo di recensirla o di scrivermi privatamente per farmi sapere cosa ne pensate, sappiate che mi avete reso una persona immensamente felice.

Questo era il capitolo delle spiegazioni. Be', quantomento era il primo. Non penso di soprendere nessuno dicendo che ci sarà moooolto altro da chiarire. Spero di essere stata chiara (per quanto possibile, ovviamente!), in caso contrario non esitate a fare domande.

Artemide12       

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Capitolo 9
*** Bloccati, o controllati ***


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Metamorfosi Cap9;

begin

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    readln;

end.


«Si è stabilizzato. È qui con noi.»

«Può già sentirci?»

«Sì.»

«Ci ha messo meno dell'altra.»

«L'altra era come noi solo per un quarto, lui per metà.»

Ludovic spalancò gli occhi. Nonostante la luce diretta non sentì il bisogno di richiuderli. Si sentiva estremamente bene, più leggero del solito, più sciolto nei movimenti.

Si guardò intorno e per un momento credette di essere circondato da fantasmi. Le figure umanoidi che si trovavano nella stanza sembravano fatte di vetro e riempite d'acqua e, seppur non in modo perfetto, vi si poteva vedere attraverso.

Non erano tutti sul suo stesso piano. Alcuni camminavano su quelle che per lui erano le pareti, sopra a quelli che sembravano schermi che monitoravano le sue funzioni vitali.

«Dove sono?» Non si sorprese più di tanto nel constatare che la sua voce era limpida e non impastata come dopo un lungo sonno.

«A Cartagine, capitale di Lyoko» rispose una delle figure.

«Capitale?» ripeté Ludovic. «Ci sono città?»

«Sì.»

«Quante?»

«Cinque. Questa e quattro città-torri, una in ogni habitat di Lyoko.»

«Mi chiamo Ludovic Dunbar, sto cercando Rebecca Belpois, credo si trovi qui.»

«Si trovava qui fino a poche ore fa.»

Ludovic si alzò in piedi. La superficie piatta e all'apparenza metallica su cui era disteso era sospesa nel vuoto.

«Cos'è successo?»

«La ragazza è stata infettata da XANA.»

XANA. Ludovic sentiva che avrebbe dovuto riconoscere quel nome, ma proprio non gli venne in mente nulla. «Cos'è XANA?» chiese alla fine.

«XANA è un virus che ha infettato e distrutto molti di noi programmi.»

«Programmi? Siete i programmi viventi?» Non diede alla creatura nemmeno il tempo di rispondere. «Distrutto? Nel senso che Rebecca è stata distrutta?»


ʘ –


«Jeremy sbrigati!» esclamò Chris. Era seduto insieme ad Emma sul letto che avevano spostato davanti alla porta della camera.

Ogni volta che un colpo faceva tremare il legno e i cardini, Sissi sussultava.

«Ecco, ecco» fece Jeremy. «Meraviglioso» aggiunse poi tra sé e sé. «Tutto questo lavoro...»

«Risparmiaci i commenti» lo fulminò Sissi.

«Trovate!» esclamò Franz uscendo dal bagno e brandendo una scatolina fatta di semplice cartoncino bianco ripiegato. «Bisogna solo sperare che funzionino» aggiunse filando dalla scatolina un contenitore rotondo dentro cui dovevano trovarsi lenti a contatto di Rebecca.

«Funzioneranno» gli assicurò il padre staccandosi finalmente dal computer della figlia. «Ma non ti serviranno a niente.»

Il sorriso morì sul volto di Franz. «Perché?»

«Ne ho trovato il progetto. Le lenti non hanno nessuna capacità di programmazione, si limitano ad elaborare le immagini in modo da renderle visibili.»

«Non ti seguo» ammise il figlio.

«Nemmeno io» lo sostenne Emma e Chris annuì.

Jeremy guardò la ragazza bionda. «Tu vedi quegli… esseri?» le chiese con calma.

«Intendi il gatto viola e gli altri due. Sì.»

«E tu Franz?»

Franz esitò un momento. «No, io vedo solo simboli vaganti.»

«Sì, quando li fai scoppiare» precisò Chris «li vediamo anche noi.»

«No, io li vedo sempre. E non scoppiamo, si disperdono mentre prima sono addensati.»

«Quindi non hai mai visto il pappagallo gigante?» fece Chris.

«Né il gatto viola?» continuò Emma.

Franz scosse la testa. «Be' riesco a distinguere la sagoma se mi concentro, ma mi fa venire il mal di testa» spiegò, poi aggiunse: «Credo che sia per questo che sono stato male.»

Sissi soffocò un urlo e Jeremy si voltò verso i ragazzi. Il legno della porta era deformato e prossimo alla rottura. Chris ed Emma lo sostenevano con tutto il loro peso. Sissi li fissava preoccupata ma senza decidersi a dare loro una mano.

«Insomma» riprese Jeremy parlando molto più velocemente di prima «Rebecca ha creato le lenti a contatto solo per poter elaborare in immagini quei simboli e forse quindi anche per combattere i mal di testa. Doveva avere la tua stessa visione.»

«Quindi non servono a farli… be', non so cosa facesse di preciso Rebecca. Lei… Ludo ha raccontato che ha detto “reverso” e il granchio se n'è andato.»

«Qualunque cosa abbia fatto, non si è servita di nulla.»

Il cellulare di Jeremy ricominciò a squillare nel momento esatto in cui la porta andò in frantumi e Ulrich rotolò dentro la stanza.

Mentre Odd finiva di fare a pezzi la porta, Ulrich balzò verso i ragazzi come fanno i vampiri nei film.

Emma rotolò via e Chris si accucciò fuori portata.

Franz si limitò a strillare.

Ulrich cadde a terra come se improvvisamente fossero stati tagliati i fili che lo tenevano in piedi. Simboli bianchi e luminosi volteggiarono frenetici intorno alla sua testa.

«Ulrich!» Sissi gli si avvicinò di corsa, ma lui aveva già inspirato e risucchiato tutti i simboli. La afferrò e la inchiodò a terra serrandole le dita intorno al collo.

Da fuori, Odd allargò il buco nella porta, poi entrò scavalcando il letto, seguito a ruota da Aelita.

Emma balzò addosso al padre e Chris lo afferrò per le caviglie. Odd scivolò di lato. Emma riuscì rotolare via, ma Chris non fu abbastanza rapido. Odd gli serrò la mano sulla fronte e il ragazzo sentì delle scosse elettriche attraversargli il corpo. Spalancò gli occhi e urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

Emma tentò di colpire il braccio del padre perché lasciasse l'amico, ma tutto ciò che ottenne fu un manrovescio che la fece andare a sbattere contro la scrivania.

Ulrich, intanto, sembrava non sentire nemmeno le grida del figlio. Continuava a stringere la gola di Sissi per soffocarla mentre lei gli arpionava le dita e rantolava nel disperato tentativo di prendere aria. In preda a spasmi di dolore, Sissi si dimenò come un pesce tirato fuori dall'acqua. Riuscì a liberare una mano e colpì Ulrich in faccia. Il suo naso scrocchiò e un rivolo d'ossigeno appena sufficiente per sopravvivere un'altra manciata di secondi le scivolò nella gola prima che le mani di Ulrich si chiudessero di nuovo intorno al suo collo.

Sissi contrasse i muscoli di scatto e le sue ginocchia lo colpirono sul costato facendolo sussultare. Gli chiuse le mani intorno ai polsi sforzandosi di allontanarli dal proprio collo.

Si ricordò che portava gli stivali e gli conficcò i tacchi nelle cosce. La reazione fu di gran lunga minore di quella che avrebbe avuto in una situazione normale, ma evidentemente l’essere che controllava Ulrich non poteva ignorare del tutto il dolore.

Franz approfittò del momento di distrazione di tutti gli altri per mettere il portatile di Rebecca tra le braccia del padre e spingere quest’ultimo dentro il bagno.

Jeremy aveva appena girato la chiave dall’interno quando il suo telefono riprese a squillare. Quasi gli volò di mano mentre cercava di rispondere.

«Pronto?» urlò.

«Jeremy, sono Yumi. È fatta, il super-computer è acceso, siamo in contatto con Lyoko.»

«Fantastico.»

«Jeremy non puoi nemmeno immaginare...»

Jeremy non seppe cosa Yumi stesse per dire. La porta del bagno fu sfondata con un'unica, decisa, spallata e lui sussultò così improvvisamente che il telefono gli sfuggì di mano.

Per qualche istante non successe nulla.

Sentiva solo le urla di Chris e i versi di Sissi provenire dalla camera.

Poi, senza particolare fretta e con un vago senso di spaesamento, Aelita entrò nel bagno camminando in modo assolutamente normale. Si guardò intorno finché non lo mise a fuoco.

«Jeremy» mormorò poi facendo un passo verso di lui che d'istinto indietreggiò. Aelita si fermò come se quel gesto l'avesse colta di sorpresa. «Sono io» disse confusa, quasi ferita.

Jeremy strinse il portatile sotto un braccio e usò la mano libera per spingersi gli occhiali più su sul naso.

Gli occhi di Aelita erano sempre stati chiari e piccoli perciò ora era impossibile capire se fosse ancora posseduta o meno.

«Non ti avvicinare» le ordinò comunque.

Lei obbedì. «Ti prego, Jeremy, sono solo io. Dobbiamo aiutare gli altri.»

«E come?»

«Dammi il computer.»

«Come?» Jeremy strinse la presa sul portatile.

«Il computer» ripeté Aelita. «Rebecca avrà trovato un modo per fermarli.»

«C'è troppa roba, non abbiamo abbastanza tempo.»

«Jeremy, avanti, dammi il computer.»


ʘ –


Anna si era accucciata a terra, la schiena appoggiata alla barriera invisibile e le braccia strette intorno alle gambe, e piangeva disperata.

Una minuscola parte di Carlotta si chiese se un programma potesse davvero piangere – be' forse sì se era programmato per farlo – ma per il resto era concentrata sulla ragazza che aveva di fronte.

Che fosse casuale o intenzionale, XANA aveva scelto l'ospite migliore. Chi sarebbe stato in grado di trovare qualcosa di anomalo in quella postura perfettamente dritta, in quello sguardo fisso e attento, in quel volto vuoto ma espressivo, se quelle erano già di natura caratteristiche di Rebecca?

Non è lei, non è Rebecca, si ripeteva costantemente Carlotta, sforzandosi di non mostrare nessun cedimento.

Davanti a lei, XANA continuò a sorridere come se stesse ammirando qualcosa di meraviglioso e soddisfacente. Tutto ciò che fece fu portarsi i pugni sui fianchi e socchiudere leggermente gli occhi.

Carlotta sentì un brivido correrle lungo la schiena fino a trasformarsi in una specie di scossa che la fece sussultare.

Anna gemette piano. Aveva smesso di piangere e ora tremava come una foglia.

«Con te farò i conti dopo» sibilò XANA.

«Lei non c'entra niente!» scattò Carlotta. «Lasciala stare.» Fece per spostarsi e mettersi davanti alla ragazza dai capelli rossi ma si schiantò contro qualcosa di solito e duro.

Cadde a terra e subito protese le mani in avanti. Le sue dita incontrarono una superficie identica a quella dello scudo che circondava la scuola.

«Ma cosa...»

La risata di XANA – così diversa da quella di Rebecca – la interruppe.

«Ora posso controllare il generatore a distanza. Questo corpo non è debole e inadatto come la donna di prima. È perfetto. Posso fare ciò che voglio.» Spostò lo sguardo su Anna. «Anche cancellarti, qui e ora.»

Anna scosse la testa disperata. «No, ti prego!» supplicò.

«No? Dovevi pensarci prima. È questo il modo di ripagare chi ti dà la libertà?»

Anna cominciò a strillare e i contorni della sua figura divennero sfocati.

Carlotta avrebbe voluto aiutarla, ma in quel momento la sua mente era altrove.

La donna di prima”. Pensò alla preside e a come si comportava quando l'aveva seguita proprio su quel sentiero. Era come se due volontà diverse comandassero lo stesso corpo tentando di imporsi l'una sull'altra.

«Rebecca!» chiamò con tutto il trasporto possibile.

XANA smise di fissare Anna, che ormai era una sagoma sfocata, e si voltò verso di lei con aria seccata.

«Rebecca, so che sei lì» continuò Carlotta. «So che puoi sentirmi. Non puoi lasciarglielo fare! Devi resistere.»

XANA venne verso di lei con incedere calmo e si fermò dall'altra parte del nuovo muro invisibile, fissandola dall'altro.

«Mi dispiace» disse senza alcun dispiacere. «Ma non può sentirti.»

«Sì invece! Rebecca svegliati! Ora! Devi reagire.»

XANA rise. «Forse non mi sono spiegata. Quella di prima era solo umana, non potevo che inviare impulsi, ma qui… Questa mente, questo corpo… sono perfetti, sono compatibili con me. Sono persino meglio di te.» La studiò come fosse una confezione di carte nel reparto di un supermercato. «Tu saresti persino più completa, ma altrettanto speciale? Io non credo.»

La aggirò per proseguire sul sentiero.

Carlotta si alzò in piedi e la seguì per quanto possibile. «Arriverai troppo tardi. A quest'ora i miei genitori avranno riacceso il super-computer e messo in allarme tutti.»

«Tu non sai nemmeno di cosa stai parlando, ragazzina» a derise XANA. «Lo hanno riacceso? Lo spegnerò di nuovo.»


ʘ –


Emma batté le palpebre e faticò a mettere a fuoco la stanza.

Probabilmente non erano passati che pochi istanti da quando suo padre, o chi per lui, l'aveva spinta contro una scrivania, ma non era sicura.

Appena tentò di muoversi, una fitta alla schiena le fece salire le lacrime agli occhi per il dolore.

Si guardò disperatamente intorno, ma la sua vista continuava ad appannarsi.

Tastò il pavimento intorno a sé finché le sue dita non si chiusero intorno ad un oggetto allungato vicino ai piedi della scrivania. Poteva essere un telefono o un telecomando e sembrava essere stato assemblato a mano unendo pezzi diversi. Era di Rebecca?

Una lucetta verde illuminava il tasto con il simbolo di accensione. Emma lo premette e la luce divenne rossa. Non successe nulla.

Chris, da qualche parte, ricominciò ad urlare. Emma ebbe l’impressione che stesse gridando anche per lei. Non sapeva nemmeno più cosa le facesse male di preciso, il dolore era ovunque.

Disperata e incapace di muoversi, Emma si abbandonò completamente. Le sue braccia caddero inermi ai lati del corpo, le gambe non le sentiva, la testa era appoggiata a qualcosa, la schiena piegata in un angolo strano.

Pianse silenziosamente mentre le grida di Chris le facevano pulsare le tempie.

Stava per scivolare via, lo sentiva.

Tremando, le sue dita schiacciarono pulsanti a caso sul telecomando. L’ultima cosa che vide, fu la lucetta in alto ritornare verde.


ʘ –


Bea la avvertì con secondi di anticipo. Una sensazione che scaturì dall'interno del suo petto e si diffuse rapidamente in tutto il corpo.

La riconobbe subito. Si stava spegnando. Qualcuno l'aveva momentaneamente disattivata. Ne fu profondamente grata. Accolse quella specie di anestesia sperando in un sonno lungo e ristoratore – non era mai restata in funzione per così tanto tempo.

In realtà si svegliò nel giro di nemmeno un minuto, ma si sentiva come nuova.

Si rese subito conto che si trovava nella sua stanza. O meglio, in quella di Rebecca. Era lì che si trovava il suo generatore locale perciò era lì che si riformava ogni volta che veniva riavviata.

Si guardò intorno.

Nella stanza regnava il caos. Gli umani combattevano gli uni contro gli altri, alcuni controllati da programmi. Si stava mettendo male.

Provò l'impulso di aiutarli e poi una logorante sensazione di impotenza. Non si era mai sentita così. Doveva essere cambiato qualcosa nella sua programmazione nei pochi secondi in cui non era stata attiva.

Si guardò intorno ansiosa, in cerca di qualcosa che fosse alla sua portata.

E vide Franz. Aveva gli occhi sbarrati dalla paura, ma nessuno si stava occupando di lui. Era rannicchiato nell'angolo dove prima c'era il letto e in lui leggeva la sua stessa impotenza. Anche se era assurdo. Lui era il fratello di Rebecca, lui avrebbe potuto fermarli tutti!

Se solo lo avesse saputo…

«Oh, Franz» mormorò dispiaciuta.

E Franz sollevò allarmato la testa e puntò gli occhi su di lei, come se lo avesse chiamato.

«Rebecca?»

Scosse la testa. «Sono Bea.»

E solo allora si rese conto di cosa era davvero diverso nella sua programmazione. Poteva parlare. Poteva comunicare vocalmente con il mondo esterno.

«Franz!» questa volta quasi gridò.

Attraversò la stanza con grandi falcate, quasi ignorando tutti quanti, e si buttò in ginocchio accanto al ragazzo dagli occhi dorati.

«Franz!» ripeté. «Devi fermali!»

«Io? Non riesco più nemmeno a farli scoppiare.»

«È perché sei agitato, ci vuole concentrazione. E non devi farli esplodere, non serve a niente, poi si riformano, ora più in fretta di prima.»

«LO SO!» strillò lui.

«Rebecca ci riusciva. Li cambiava.»

«Come?»

«Non lo so. Lei era… non umana. Lei poteva farlo.»

«Io non sono lei.»

«Sei suo fratello. Avete un codice genetico simile, se lei può riuscirci puoi farlo anche tu.»

«Anche se fosse vero, Rebecca ci ha messo un anno per riuscirci. Ricordo quando chiamava casa per i mal di testa.»

Chris lanciò un urlo più forte e Franz si premette le mani sulle orecchie.

«Sono i tuoi amici!» scattò Bea. «Non puoi lasciare che si facciamo del male così!»

«Io… non posso… non so come...»

«Concentrazione. Ci vuole concentrazione.»


ʘ –


Quando XANA sparì lungo il sentiero, coperta dalla vegetazione, Carlotta smise di chiamare ad alta voce il nome di Rebecca e di prendere a pugni il muro invisibile. Tanto era inutile, quel muro non era fisico, non poteva rompersi. Non nel senso che lei aveva sempre associato al concetto di rottura.

E pensare che una persona normale non si sarebbe accorta di niente! I suoi stessi genitori non avevano percepito nessun muro. Non avrebbero visto Anna che ora se ne stava immobile, come congelata, per terra, la figura sfocata fino a non essere altro che una chiazza di colori sbiaditi e sovrapposti.

Ma lei... Lei aveva qualcosa di più. Se fosse stata solo umana avrebbe potuto camminare tranquillamente lungo il sentiero e seguire la sua amica posseduta. E non avrebbe potuto vedere Anna, né essere attaccata da quelle creature. Ma, evidentemente, in lei c'era qualcos'altro. Qualcosa di più.

Una parte di lei non poteva attraversare quelle barriere. Ma poteva rimanerne all'interno mentre il resto di lei ne usciva?

Appoggiò di nuovo i palmi sulla barriera, con più delicatezza e allo stesso tempo con più determinazione.

Chiuse gli occhi e si concentrò sul contatto. Era strano. Ebbe l'impressione di essere divisa in due: un involucro esterno simile ad un palloncino pieno di farina e una sostanza interna come gas pressurizzato. Quale delle due parti poteva attraversare la barriera e quale no? Era la sostanza esterna che avrebbe potuto filtrare fuori o il contrario? Faticò per mettere a fuoco la sensazione.

Alla fine ci riuscì. Capì che non sentiva davvero la barriera sulla pelle, che la carne delle mani non si appiattiva contro una parete. Era come se la superficie si scontrasse direttamente con le sue ossa, o almeno con qualcosa di solido ma malleabile dentro di lei.

Cominciò a premere, ma in modo diverso da come aveva fatto prima. Usò la barriera come una leva per separare la parte di sé che la poteva oltrepassare da quella che non ne era in grado.

Fu straziante. Persino, in qualche modo, doloroso, ma non come lo sarebbe stato una ferita. Ebbe l'impressione che le ossa stessero scomparendo da dentro il suo corpo, risucchiate dall'interno, lasciandolo debole e fragile, molle e pesante, difficile da governare.

Il tempo si dilatò e ogni istante divenne un'ora insopportabile.

Quando si accasciò a terra, oltre la barriera, si chiese se avrebbe avuto ancora la forza di alzarsi in piedi e muoversi.

Si girò su un fianco.

La prima cosa che notò era che non vedeva più Anna, o almeno ciò che restava di lei. Non c'era nessun segno della sua presenza né sul terreno su cui doveva essere stesa né sul sentiero da cui erano venuti accanto alle impronte di Carlotta e degli altri.

Quando spostò lo sguardo, però, vide se stessa.

Solo più tardi si stupì di come avesse potuto riconoscersi in quella figura semitrasparente e incorporea e così vaga, ma in quel momento non ci pensò neppure.

Fissò con interesse la parte di sé da cui si era appena separata così come avrebbe studiato il proprio riflesso in uno specchio per decidere se si era truccata bene o se indossava la cosa giusta.

La sua sagoma, immobile e inespressiva, era quadrettata come lo era stata altre volte nei giorni precedenti, ma questa volta non le fece impressione. Si disse che sembrava uscita da un programma di grafica, come se qualcuno avesse provato a creare un suo alter-ego in stile cartone animato.

Dopo un po', si rese conto che quella che credeva stanchezza non era altro che una potentissima attrazione verso la sua sagoma bluastra quasi fosse stata un'enorme calamita e lei un minuscolo magnete.

Devo sbrigarmi, pensò mentre trovava la forza di alzarsi e di voltarsi.

Corse lungo il sentiero sperando che non fosse troppo tardi.

Non incontrò nessun ostacolo.


ʘ –


Chris non avrebbe saputo dire cosa di preciso provocasse il dolore. Non era nemmeno sicuro che si trattasse di vero e proprio dolore.

Se urlava era per la paura, per la sensazione di panico e allarme che tutto il corpo gli inviava. Quel tocco, quella pressione sulla fronte, era tutto un altro tipo di violenza.

Non era solo contatto fisico: sentiva degli impulsi elettrici propagarsi dal braccio di Odd fino al suo cervello, come se dei comandi viaggiassero da Odd a lui.

Ciò che assoggettava Odd stava cercando di fluire dentro di lui e di controllare entrambi.

Lottò così come avrebbe fatto per spingere via un aggressore molto più grosso e forte di lui, dimenandosi mentalmente al punto da avere l'impressione che il suo cervello si stesse ritraendo e premendo contro la sua nuca per allontanarsi da quel contatto.

Poi, all'improvviso, qualcosa di caldo e piacevole come miele interruppe il contatto. Chris sentiva ancora la mano di Odd sulla fronte, ma nient'altro. Qualcosa si stava frapponendo.

Riprendendo aria come dopo un lunghissimo periodo di apnea, Chris inspirò e si ritrasse, strisciando su un fianco per allontanarsi. Odd invece trattene il fiato e si prese la testa tra le mani.

In piedi dall’altra parte della stanza, Franz teneva gli occhi puntanti su Odd, le iridi che brillavano come fari. Al suo fianco, Bea bisbigliava nel suo orecchio.

Questa volta non ci fu nessuna esplosione di simboli. Il gatto viola saltò fuori dal petto di Odd così com'era entrato e se ne andò dalla stanza come avrebbe fatto un vero gatto.

Franz spostò lo sguardo su Ulrich che subito si immobilizzò lasciando andare Sissi.

«Emma!» esclamò Odd appena si fu ripreso.

Chris seguì il suo sguardo. Emma era stesa a terra ai piedi di una delle scrivanie, priva di sensi. Gemette e batté le palpebre quando il padre la sollevò, ma poi svenne di nuovo.

«Che diavolo è successo?» fece Odd guardandosi intorno. Non lo vide, ma il granchio verde che si allontanava da Ulrich gli passò proprio accanto.

Tossendo, Sissi si mise in ginocchio. Il suo volto era rosso e la sua gola viola, gli occhi gonfi come se stessero per schizzarle fuori dalle orbite.

«Dove sono mio padre e mia madre?» chiese Franz appena i suoi occhi si spensero.

Si guardarono tutti intorno, ma il ragazzo si era già mosso verso la porta aperta del bagno.

Jeremy stava bene. Stava tenendo il più ferma possibile Aelita che, chiaramente fuori di sé, cercava di raggiungere il portatile caduto a terra.

Nel momento il cui Franz entrò, Aelita spalancò gli occhi e spinse via Jeremy. Si dimenticò del computer. Balzò sul davanzale della finestra mentre un paio di ali verdi da pappagallo le spuntavano sulla schiena. Saltò giù.

Franz corse ad affacciarsi, ma non la vide.

Si voltò.

«Stai bene papà?»

«Sì» gli assicurò Jeremy mentre raccoglieva il portatile ancora miracolosamente integro. «Sì sto bene.»

«Voleva il computer di Rebecca?»

«A quanto pare.»

«Dobbiamo trovare subito la mamma. So come fermare quei cosi. L'ho appena fatto con Odd e Ulrich.»

«Davvero?» Jeremy tornò nella stanza.

«Jeremy!» lo chiamò subito Odd e lui si avvicinò. Misero Emma su uno dei due letti – quello che non avevano spostato davanti alla porta. «Credo che abbia battuto la schiena.»

«Perché non guarisce subito?» li interruppe Ulrich.

Si voltarono a guardarlo.

«Prima lo ha fatto con i graffi di quel… coso, e anche Chris. Perché adesso no?»

Fu Bea a rispondere, anche se non tutti poterono sentirla. «Perché quelle ferite non erano state inferte al suo corpo umano, quelle potevano guarire con il solo pensiero, queste no, sono fisiche.»


ʘ –


Carlotta ancora non vedeva la fabbrica quando sentì il rumore di qualcosa che andava a sbattere contro la barriera energetica.

Si voltò, ma da quella distanza poté solo vedere una sagoma indefinita premere contro la barriera, a circa dieci metri da terra.

Non poteva trattarsi di una creatura digitale – non era più in grado di vederle – ma aveva qualcosa di troppo strano per essere umana. Nell'involucro energetico si aprì un varco grande abbastanza da farla passare, poi si richiuse dietro di lei con uno scintillio verdognolo. Improvvisamente soggetta alla gravità, la sagoma scivolò sulla superficie convessa e invisibile della barriera fino a rotolare a terra. Si infilò nella vegetazione prima che potesse metterla a fuoco.

Carlotta si accucciò e rimase assolutamente immobile.

Dopo pochi secondi sentì il rumore di qualcuno che le passava accanto correndo. Balzò in piedi appena in tempo per distinguere due teste rosa sparire tra gli alberi.

Capì che la sagoma che aveva visto non era altro che una figura umana che ne portava un’altra sulle spalle.


ʘ –


«Ancora niente lì?» chiese Ludovic.

Una superficie argentata piegata a novanta gradi e sospesa a mezz’aria gli faceva da sedia e una porzione della parete difronte da schermo.

L’immagine di suo padre scosse la testa. «Non si vede nessuno.»

Yumi era seduta su una sedia girevole che appariva ai margini dell’inquadratura. Teneva le braccia abbandonate sui braccioli e la testa reclinata all'indietro, lo sguardo sul soffitto, ma aveva un'aria estremamente concentrata piuttosto che completamente abbandonata.

«Allora,» proseguì William «com'è Lyoko?»

«Considerando che fin'ora ho visto solo stanze blu tutte uguali non potrei definirlo granché. Mi piace da morire la gravità che c’è qui però.»

«Prega di non vedere mai Cartagine come campo di battaglia.»

Ludovic non sentì rumore di passi e chiaramente nemmeno suo padre, ma Yumi si raddrizzò e voltò la testa. William seguì il suo sguardo.

«Che succede?» chiese Ludovic che sullo schermo non vedeva niente di nuovo.

«Rebecca?» esclamò William «Stai bene!»

«Si è svegliata poco fa, ha detto che doveva venire qui» rispose una voce femminile e familiare, anche se non della ragazza.

William si spostò e Ludovic poté finalmente vedere chi era entrato.

Aelita teneva un braccio intorno alle spalle della figlia. Rebecca aveva la sua solita espressione mesta ma non timida, quasi fosse semplicemente stanca.

«Rebecca!» chiamò Ludovic.

La ragazza si guardò intorno più volte prima di individuarlo sullo schermo.

«Ludovic. Che ci fai lì dentro?»

«Cercavo di scoprire cosa ti è successo.»

«Ora ti raggiungo» annunciò la ragazza.

«Cosa? Perché? Sono io che voglio uscire.» Improvvisamente esitò. «Mi avevano detto che eri stata infettata da XANA.»

Lei scosse la testa. «Sto bene, sono riuscita a combatterla, ma è ancora là dentro, dobbiamo fermarla.»

«Allora dobbiamo venire anche noi!» intervenne William e Yumi annuì.

«No» replicò Rebecca fissandoli entrambi. «Dovete rimanere qui ed impedire che esca. Ha già posseduto la preside, potrebbe farlo anche con voi. Dovete stare attenti.»

«Potrebbe possedere voi» ribatté Yumi.

Rebecca scosse la testa. «Con me non c'è riuscita.» Si allontanò dalla madre e raggiunge il computer in cerca di un terminale. «Arrivo tra qualche secondo Ludovic» disse quando trovò quello a cui era collegato il telefono di William, poi si rivolse alla madre. «Dovete rimanere qui, mi raccomando.»

Solo Aelita annuì.

Sullo schermo del cellulare comparvero righe e righe i codice bianco su sfondo nero, poi, com’era successo poco prima con Ludovic, il flash della telecamera intera si attivò. La luce bianca investì Rebecca in pieno e la ragazza scomparve nel giro di pochi secondi.

Il telefono cadde a terra, lo schermo di nuovo totalmente nero.

«Sicura che stia bene?» chiese Yumi ad Aelita. «Sembrava strana.»

«Dev'essere molto provata» rispose lei semplicemente. Recuperò il cellulare e lo staccò da terminale.

«Che stai facendo?» protestò William.

«Mi assicuro che XANA non possa uscire e possedere uno di noi.»

Pochi momenti dopo, lo schermo del computer si oscurò.

«Ludovic!» scattò Yumi. Allungò le mani verso la tastiera ma non aveva idea di cosa premere e si fermò. «Ludo!» chiamò ancora.

«Mamma! Papà!» la voce che rispose era acuta e non veniva dal computer.

Yumi e William si voltarono e videro Carlotta entrare affannata nella stanza.

William corse da lei e la sorresse prima che cadesse a terra. «Carlotta! Credevo fossi bloccata.»

«Lo ero. Io…» fissò Aelita. «Dov'è Rebecca?» chiese, a nessuno in particolare.

«È su Lyoko» rispose Aelita fissandola con vuota intensità e con un sorriso trattenuto.

«No!» urlò Carlotta, le gambe che tremavano.


ʘ –


Rebecca apparve gradualmente sul lettino.

All'inizio non fu altro che una sagoma vuota, identica a tutti i programmi che si trovavano nella stanza, poi, lentamente, acquistò consistenza e prese colore.

Ludovic si avvicinò, ma non la toccò.

Rebecca scattò a sedere all’improvviso, con gli occhi ancora chiusi. Li aprì lentamente mostrando i cerchi azzurri che si susseguivano sullo fondo scuro dell’iride.

Tutti i programmi cominciarono ad agitarsi e qualcuno persino ad urlare.

«Becky?» azzardò Ludovic.

Lei gli rivolse un sorriso gelido.

«Io sono XANA, guerriero.»


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Capitolo 10
*** 10. Unisciti, o perisci ***


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Metamorfosi Cap10;

begin

    write('Unisciti, o perisci');

    readln;

end.



Rebecca era ancora seduta sulla lastra argentata sospesa a mezz’aria, una gamba stesa e una piegata, le mani puntate ai lati del corpo – una posa estremamente fluida, quasi sbagliata per lei.

Ludovic era a pochi passi da lei ma si sentiva lontano chilometri.

L’ambiente estremamente geometrico e asettico non faceva che rendere più irreale la scena.

Tutti i programmi erano corsi fuori dalla stanza. Il fatto che dei programmi avessero abbandonato i loro compiti e fossero corsi via come presi dal panico era decisamente preoccupante.

Eppure Ludovic non sentiva nessun campanello di allarme squillare nella propria testa – nulla, a parte un forte senso di incongruenza. Guardava Rebecca, consapevole che non si trattasse della Becky che conosceva ma incapace inquadrare la nuova arrivata.

«Io sono XANA, guerriero», aveva detto.

Era la XANA si cui parlavano i programmi?

«Il virus?»

La ragazza annuì. «In persona.»

«Che nei hai fatto di Rebecca?»

XANA roteò gli occhi sotto le palpebre. «L’ho infettata. Ho colonizzato il suo organismo. Mi sto servendo del suo corpo e del suo cervello. Non provoco nessun danno fisico.»

Sepolto da qualche parte nel profondo del suo petto digitale, il cuore di Ludovic cominciò a battere più velocemente. Rabbia e terrore gonfiarono a la sua voce.

«È cerebralmente morta?»

«“In coma” sarebbe una definizione molto più appropriata.» XANA scese dalla lastra sospesa con un unico movimento fluido e si portò di fronte a Ludovic. «La lascerò andare, quando non mi sarà più utile.»

«Ovvero quando?»

«Presto» gli assicurò. «Se sarai collaborativo» aggiunge.

Ludovic sollevò entrambe le sopracciglia, poi incrociò le braccia al petto, decisamente non disposto a trascinare la conversazione in quel modo.

XANA parve apprezzare il suo atteggiamento. «Tu, il più potente di tutti i guerrieri, mi saresti di grande aiuto. Questo cervello mi permette di ampliare le mie competenze esponenzialmente, con il tuo aiuto potrei completare la mia missione in pochi giorni, fare in poche ore ciò che fino ad adesso ha richiesto anni.»

«Ma quale missione!» sbottò Ludovic. Se c’era una cosa su cui i suoi genitori e quei programmi erano d’accordo era che XANA era un virus programmato per la distruzione. «Non ti aiuterò a distruggere questo posto!»

XANA scoppiò a ridere – prima di gusto, poi in maniera sarcastica, infine con una certa forzatura. «Distruggerlo? Io sono qui per portarlo al suo massimo potenziale!»

Improvvisamente gli fu vicinissima. Gli prese la testa tra le mani e lo fissò dritto negli occhi. «Io sono qui per rendere reale il digitale. Io sono qui per sostenere il miracolo, per completare questa Creazione.» Lo aveva spinto contro la parete. «Io» continuò quasi spremendogli il viso «sarò la loro Salvatrice.»

Superato il momento di shock, Ludovic la spinse via. “Tu sei solo pazza” avrebbe voluto dirle, ma si trattenne. «Devi spiegarmi, non gettarmi contro i tuoi discorsi di auto-incoraggiamento. Se vuoi il mio aiuto dovrai convincermi.» Si concesse di gonfiare leggermente il petto. «Consideralo un reclutamento.»

XANA rise di nuovo, questa volta più brevemente.

«Davvero avrei bisogno di convincerti, guerriero?» Si avvicinò di nuovo. Aveva uno sguardo davvero magnetico. «Questa non è una trattativa, né un reclutamento.» Sollevò una mano e gli accarezzò prima una ciocca di capelli e poi il lato del viso. Di scatto, poi, infilò le dita tra i suoi capelli e gli affondò i polpastrelli nella cute.

Ludovic ansimò, tendendosi prima ancora dell’arrivo del dolore.

La pressione dentro la sua scatola cranica aumentò velocemente mentre un fluido acido zampillava dai punti in cui le dita di XANA premevano sulla sua testa. Lottare contro la nebbia che dilagava nella sua mente era come combattere contro il sonno in un momento di estrema stanchezza.

«Anche tu appartieni a questo mondo, guerriero» sibilò XANA e la sua voce riecheggiò all’infinito nella sue orecchie.

Lo lasciò andare all’improvviso e lo spinse all’indietro.

Stordito, Ludovic cadde a terra e vi rimase, una mano premuta contro la tempia, l’altra puntata per sorreggersi.

«Mi seguirai volontariamente,» disse XANA torreggiando su di lui «o ti infetterò come ho fatto con questa Rebecca.»


ʘ –


Chris spalancò la porta dell’infermeria con un calcio, Odd entrò subito dopo di lui, con Emma tra le braccia.

«C’è stato un incidente.» Chris praticamente urlò e la sua voce rimbombò nella piccola stanza. «Emma ha sbattuto forte la schiena ed è svenuta.»

La donna seduta alla scrivania rimase immobile e inespressiva. Aveva gli occhi puntati sulla porta, ma lo sguardo completamente assente, come se in realtà si fosse trattato solo di un manichino.

Mentre Odd stendeva la figlia sul lettino, Chris raggiunse la donna e le sventolò una mano davanti alla faccia.

Nessuna reazione.

Il suo petto non sembrava nemmeno sollevarsi per respirare, le palpebre non sbattevano.

«Chris che stai facendo?» chiese Odd. «Dobbiamo andare a chiamare… oh!» Si irrigidì. «È un altro di quei cosi?»

«Credo sia la dottoressa di turno» spiegò Chris mentre anche Ulrich e Sissi si affacciavano nell’infermeria. «È uno di quei programmi.»

«Fantastico!» sbottò Odd tornando al lettino e sistemando meglio Emma.

«A quest’ora l’altra starà andando a cena» intervenne Sissi.

Ulrich annuì. «Okay andiamo» disse subito. «Odd tu rimani qui» aggiunse poi inutilmente prima di uscire dalla stanza con Sissi.

Chris esitò. Voleva seguire suo padre, correre il più velocemente possibile e trovare qualcuno che potesse aiutare Emma, ma allo stesso tempo non si sentiva sicuro ad allontanarsi. Odd non poteva vedere i programmi, se un’altra di quelle creature digitali si fosse avvicinata a lui o ad Emma non avrebbe potuto fare niente.

Forse se si fosse sbrigato…

Ma non poteva sapere quanto tempo ci sarebbe voluto, né se l’infermiera sarebbe stata davvero d’aiuto.


ʘ –


«Sicura che sia questa la strada?» bisbigliò Franz mentre scendevano l’ennesima rampa di scale.

Bea rimase in silenzio così a lungo che Franz pensò non lo avesse sentito.

«Ne abbiamo fatta un’altra quando mi ci hanno portato, ma ricordo dove si trova.»

Arrivarono alla fine delle scale e sbucarono in un corridoio del seminterrato. Bea rimase sull’ultimo gradino e si sporse quanto bastava per sbirciare oltre.

«Via libera» sussurrò, poi attraversò di corsa il corridoio fermandosi alla prima svolta.

Franz la seguì e quasi le andò a sbattere contro. Si appiattì contro la parete e sbirciò oltre a propria volta.

Tre nuvole di numeri e simboli bianchi erano sospese a mezz’aria davanti ad una porta chiusa. Concentrandosi, Franz riuscì a distinguere tre sagome umanoidi.

«Sono tre ragazzi?» chiese appena ebbe ritirato la testa.

Bea annuì senza guardarlo. «Erano con me prima. Siamo nel posto giusto.»

«Okay, li faccio esplodere.»

Bea si voltò a fissarlo di scatto, spaventata.

«Che c’è?»

«Quelli non sono i mostri digitali che vi hanno attaccato» protestò. «Questi sono…» non sapeva come spiegarlo. «…reali» fu tutto ciò che trovò da dire.

Franz sollevò un sopracciglio in attesa che continuasse.

«Non si riformeranno come quegli animali.»

Franz sostenne lo sguardo dell’ologramma per qualche secondo, poi lo distolse in segno di resa. «Okay» disse mentre si sporgeva di nuovo. Le tre nuvole di simboli erano ancora lì. «Okay» ripeté. Si sfilò lo zaino dalle spalle e ne tirò fuori la scatola delle lenti a contatto di Rebecca. Ne prese solo una. Con una mano si tenne aperto l’occhio destro, con l’altra applicò la lente.

Sbatté le palpebre velocemente, infastidito dalla sensazione, ma quando riuscì ad abituarsi e guardarsi intorno non notò nulla di diverso.

Si sporse di nuovo.

L’immagine delle nuvole di simboli si sovrappose a quella di tre normalissimi ragazzi.

Per un po’ Franz si limitò a fissarli. Il suo cervello continuava a passare da una visione all’altra come se invece di trattarsi degli impulsi di due occhi diversi fosse solo questione di messa a fuoco. Poteva osservare la loro fisionomia e poi i codici, come ossa in una radiografia.

Lentamente, i simboli cominciarono ad acquistare un senso. Erano come una lingua straniera che si può apprendere ascoltando a ripetizione le stesse frasi incomprensibili, notando di volta in volta i suoni ricorrenti e associandoli a qualcosa di concreto.

C’era una particolare sequenza che appariva che si illuminava ad ogni battito di ciglia e una che corrispondeva alla respirazione. Una preannunciava movimenti della braccia, una indicava la ricezione di suoni.

Franz si sporse di più.

Una sequenza per i capelli, una per le orecchie, una per il mento, una per le labbra. Una per il tono di voce, una per la prontezza dei riflessi.

Più guardava e più ne decodificava. Più ne decodificava e più se ne aggiungevano.

Righe e righe di codice – informatico?, genetico? – si avvolgevano dentro quelle tre figure. Erano programmi? Esistevano programmi del genere? Se erano programmi, chi li aveva scritti? Chi poteva progettare qualcosa di tanto complesso?

Franz era troppo estasiato per essere vigile.

Lesse il comando di movimento – movimento del collo, ricezione di nuove immagini – ma non si mosse.

Lesse il momento in cui il ragazzo lo vide.

Lesse l’impulso di parlare per richiamare l’attenzione degli altri due.

E lo fermò.

Fu un battito di ciglia. Non servì nessuna parola. Lavorò con gli occhi?, con la mente?, con qualche organo sconosciuto?

Funzionò e basta.

Franz bloccò il codice e fu come fermare il tempo. Sapeva di poter spingersi oltre, di poterlo anche modificare, riscrivere da zero se necessario, ma aveva il terrore di rompere il delicato equilibrio che lo rendeva speciale.

Spostò lo sguardo su gli altri due e fece lo stesso. Li bloccò.

«Andiamo» disse poi, alzandosi in piedi.

«Ma come...» Bea gli andò dietro d’istinto, stupita che i tre non avessero nessuna reazione.

«Non so nemmeno io come ho...» Franz fissò Bea per la prima volta da quando aveva indossato la lente.

La vedeva nello stesso modo degli altri tre. Solo che nel suo caso era l’occhio con la lente a mostrare il codice e quello normale il suo aspetto – il che a dirla tutta aveva molto più senso.

«Andiamo» ripeté solo, rivolto più che altro a a se stesso.

Attraversarono il corridoio e spalancarono l’ultima porta.

Ad un primo sguardo la stanza non sembrava altro che uno sgabuzzino, ma a Franz bastò qualche battito di ciglia per mettere a fuoco il codice che scorreva dietro una delle pareti e modificarlo per creare una varco.

Dall’altra parte c’erano una scrivania con un computer fisso in stand-by e un’enorme antenna parabolica. E una decina di ragazzi-programma che lo fissavano increduli.


ʘ –


Jeremy era ormai davanti alla fabbrica quando sentì il telefono vibrare.

COMPUTER TROVATO, STO TENTANDO L’ACCESSO, diceva il messaggio di Franz, FIN’ORA NESSUN PROBLEMA.

Jeremy si concesse un sospiro di sollievo e rimise il telefono in tasca.

Lanciò un ultimo sguardo all’edificio abbandonato. Ci risiamo, pensò prima di entrare.


ʘ –


La città era deserta.

Abbandonata da tutti i Programmi, Cartagine si riduceva ad un groviglio intricato di cubi e cilindri mobili. Ludovic si sorprese di non aver pensato prima ad un videogioco.

«Dove sono andati tutti?»

XANA era solo qualche passo avanti a lui. «Al mio arrivo hanno attuato una procedura di emergenza» rispose senza fermarsi. «Si stanno ritirando tutti nelle torri dei vari settori, ma è una procedura che richiede tempo, alcuni sono ancora qui.» Ad un gesto della sua mano, una porzione di parete e di pavimento di ritirarono, rivelando delle scale. «Devi coprirmi le spalle.»

Ludovic doveva quasi correre per starle dietro. Si chiese se nei videogiochi era possibile cadere dalla scale – probabilmente sì, arrecando punti danno magari. «Tutto qui?» borbottò.

«Per ora» ringhiò XANA in risposta.

Si infilarono in un tunnel in cui furono costretti a strisciare e sbucarono su uno strapiombo. Un unico stretto sentiero sospeso del vuoto portava dall’altra parte, dove un gruppo di Programmi si affollava agitato.

«Trovati» mormorò XANA trionfante.

Quando li videro, i Programmi tentarono di scappare. Con semplici gesti delle mani, XANA fece scomparire ogni possibile via di fuga. I Programmi sembrarono seriamente valutare l’eventualità di gettarsi nel baratro.

«Coprirmi le spalle» ribadì XANA, poi attraversò di corsa la passerella per arrivare dall’altra parte. Si fiondò sui Programmi come un predatore, puntandone uno alla volta e atterrandoli con tutto il proprio peso.

Appena li toccava, i Programmi sussultavano quasi avessero preso la scossa. Quelli che non riuscivano a liberarsi in tempo diventavano completamente grigi e cadevano a terra inermi.

Dopo essere rimasto qualche momento impalato, Ludovic agì mosso quasi esclusivamente dalla paura.

Invece di preoccuparsi di proteggere XANA, si assicurò che nessuno dei Programmi riuscisse a scappare. Cambiò angolazione della gravità, correndo sulle pareti del baratro e rispingendo indietro quelli che tentavano di allontanarsi, come un cane pastore con un gregge indisciplinato.

In poco più di dieci minuti fu tutto finito. Raccolsero i Programmi inermi e li distesero uno accanto all’altro, poi XANA si inginocchiò accanto al più vicino.

Fece scorrere una mano sopra la figura umanoide, dalla testa ai piedi, scannerizzandola. Una dopo l’alta, dall’interno si illuminarono delle righe di scritte incomprensibili attorcigliate tra loro e dall’aria estremamente solida.

Quando passò sopra ad una spaccatura sulla gamba – una ferita – mosse leggermente le dita, come digitando su una tastiera invisibile, e nuove indecifrabili parole nere comparvero dal nulla riempiendo e cicatrizzando la zona.

XANA ripeté l’operazione più volte. Ad un certo punto fermò la mano all’altezza del ventre. Non c’erano danni visibili ma due gruppi di simboli continuavano a illuminarsi alternativamente.

XANA aggrottò le sopracciglia.

«Cos’è?» chiese Ludovic avvicinandosi.

«Un errore» rispose lei senza distogliere lo sguardo. «Che non è opera mia» aggiunse dopo un momento, sovrappensiero. Premette la mano aperta sulla pancia del Programma e dopo poco una delle due scritte di annerì.

XANA rimase immobile per qualche istante, fissando i simboli illuminati e quelli che aveva appena fatto spegnere. «Un tumore» disse alla fine, sollevando lo sguardo su Ludovic.

«Un tumore?»

«Un errore nel codice personale di questo programma che non ha motivo di esistere, è apparso senza una causa apparente e ruba energia preziosa» spiegò XANA. «L’equivalente del vostro tumore.»

Ludovic si fece ancora più vicino e si accovacciò per poter vedere meglio. «E tu puoi rimuoverlo?»

XANA sollevò la mano e le parole annerite sparirono definitivamente. «L’ho appena fatto.»

«Lo hai guarito?»

«L’ho riportato alla sua massima efficienza.»

«È l’equivalente della nostra guarigione?»

XANA esitò a lungo. «Immagino di sì» concluse infine.

«E adesso?»

XANA abbandonò le mani in grembo e chiuse gli occhi.

D’istinto, Ludovic fece un passo indietro.

Sotto i suoi capelli, delle sezioni della testa si illuminarono dall’interno. Dalla base della nuca fuoriuscirono due tentacoli grigi opalescenti. Serpeggiarono nell’aria dietro di lei, allungandosi sempre di più, poi curvarono, le si portarono davanti e affondarono nel corpo del Programma appena curato. Lo assorbì lentamente, tramutandolo prima in una massa fluida e informe e risucchiandone il codice riga per riga.

Quando ebbe finito, i tentacoli si ritirarono e XANA riaprì gli occhi. Senza la minima reazione, raggiunse il Programma successivo e ricominciò con la scansione.

«Che significa?» fece Ludovic. Quella procedura era rischiosa per Rebecca? C’era una parte di Becky che era ancora cosciente, che cercava di ribellarsi? «Che cosa hai fatto a quel Programma?»

XANA lo ignorò. Non trovò tumori nel suo nuovo paziente. Appena ebbe curato le ferite, chiuse gli occhi e tornò a concentrarsi.

«No!» scattò Ludovic. La afferrò per la spalla, allontanandola dal Programma.

«Lasciami!»

Istantaneamente, una fitta di dolore gli attraversò il braccio. Ludovic la lasciò andare con un urlo, ma rimase davanti al Programma.

«Spostati» ringhiò XANA. «Lasciami lavorare.»

«NO, se non mi dici cosa stai facendo.»

«Non sei nella posizione di avanzare richieste, guerriero.»

«Hai bisogno di me» ribatté Ludovic. «Forse non ancora, o non qui, ma hai bisogno di me. O non ti saresti disturbata a trascinarmi con te.»

XANA gli rivolse uno sguardo gelido. «Tu non sei che un piccolo anello in questa catena di eventi» dichiarò. «Tu e i tuoi fratelli guerrieri potete essere speciali – qualsiasi sia la metamorfosi subita dai vostri genitori – e io posso avere delle ritrosie ad assoggettarti perché sei un’interessante materia di studio, ma non pensare mai, nemmeno per un momento, di poter avere la meglio su di me

Ludovic sentì un brivido gelido percorrergli la colonna e paralizzarlo. Le sue gambe erano rigide come roccia.

XANA si portò proprio davanti a lui.

Aprì la bocca per chiederle di smetterla, ma dalle sue labbra non uscì un suono.

«Hai visto di cosa sono capace» continuò lei. «Così come guarisco i Programmi posso anche danneggiarli. Posso distruggerli con un gesto della mano se voglio. Credimi, è persino più facile.»

Ti credo, avrebbe voluto gridare Ludovic, TI CREDO! Stava soffocando.

«Tu appartieni a questo mondo più di quanto credi. Non so ancora come funzioni, ma non sei immune al mio potere.» Allungò una mano e gliela posò sulla spalla. «Per favore, non farmi correre il rischio di danneggiarti.»

La pressione si allentò di colpo, i polmoni si riempirono all’istante, con un risucchio, e Ludovic cadde in ginocchio.

XANA lo aggirò e tornò ad inginocchiarsi accanto al Programma. Le spuntarono i tentacoli dalla nuca e lo assorbì come aveva fatto con il primo, poi passò al successivo.

Ludovic chiuse gli occhi e si fece coraggio. «Ti sarò più utile» disse infondendo quanta più sicurezza possibile nella propria voce, «se so cosa stai facendo.»

«Li scarico sulla mia memoria» rispose XANA mentre si spostava sul quarto. «Aelita li porterà al generatore.»


ʘ –


La bambina – Carlotta – le era sfuggita.

Yumi e William erano stesi sul pavimento. Erano bastati due colpi ben piazzati per far perdere loro i sensi, ma la bambina era già sgusciata via quando si era girata per affrontarla.

Era ancora lì nella stanza, nascosta dietro qualche vecchio macchinario. Aelita poteva sentire il suo respiro riecheggiare tra vecchie tubature e circuiti caldi.

Sollevò l’ennesimo lenzuolo ingrigito dalla polvere e scoprì l’ennesima scrivania. Un cumulo di cavi, vecchi hard disk e documenti scritti fitti affollava il ripiano, ma della ragazzina nessuna traccia.

Maledetti undicenni – abbastanza grandi da cominciare a pensare da adulti, ma ancora piccoli a sufficienza per potersi nascondere facilmente.

Aelita stava per scoprire un altro tavolo, probabilmente pieno solo di monitor rotti e schede madri bruciate, quando un segnale acustico richiamò la sua attenzione. Tornò al super-computer.

Un messaggio di download lampeggiava sullo schermo. Aelita poteva quasi sentire sul collo il respiro della ragazzina – ovunque fosse nascosta, la stava osservando. Sorrise e premette il pulsante di avvio.

Una spia cominciò a lampeggiare sulla tastiera. Ascensore in movimento. Stava arrivando qualcuno.

Aelita lanciò uno sguardo alle proprie spalle, verso la porta ancora chiusa. Quanto tempo aveva? Minuti? Forse meno.

Pareti e soffitto erano attraversati da cavi e tubature di tutte le dimensioni.

Mentre i suoi occhi continuavano ad ispezionare la stanza in cerca di nascondigli, le sue dita tornarono alla tastiera e vi volarono sopra, le schermate con i dati inviati da XANA che si susseguivano interminabile sullo schermo.


ʘ –


Nella stanza del super-computer l’aria era persino più stantia di quanto Jeremy si fosse aspettato.

Appoggiò una mano allo stipite della porta e per un momento rimase fermo sulla soglia.

Tutto sembrava essere ancora esattamente come lo aveva lasciato. Il monitor era acceso su una delle schermate iniziali, la sedia leggermente girata, come se l’avesse lasciata così dopo essersi alzato di fretta.

Solo che l’ultima persona ad essersi seduta lì doveva essere stata…

«Yumi? Will…»

Gli bastò avanzare di qualche passo per vedere i suoi amici accasciati a terra, privi di sensi. Corse da loro, ma una figura piccola e scura gli si parò davanti.

«Ma che…!»

Carlotta era sporca di ruggine e aveva negli occhi uno sguardo tra lo spaventato e il feroce. «Stai indietro» sibilò brandendo un rubo rotto.

Jeremy sollevò le mani in segno di disarmo. «Che ti prende?»

«Come so che non sei posseduto anche tu?»

«Chi altro… Aelita. È stata qui?»

Carlotta fece per rispondere, poi si trattenne. «Come so che non sei posseduto anche tu?» ripeté.

Jeremy ci pensò seriamente «Non lo sai» rispose alla fine. «Se fossi posseduto avrei comunque a disposizione tutti i miei ricordi. Credo.»


ʘ –


Aelita scivolò dietro un’altra tubatura. In quel punto della stanza i circuiti erano così surriscaldati che c’erano ventole per il raffreddamento in ogni angolo. Il loro fischio costante copriva il rumore di ogni suo passo.

Poteva sentire le voci di Jeremy e della bambina, ma non abbastanza bene da distinguere ogni parola.

Si fermò solo quando trovò un pannello di controllo su una delle pareti. Districò il groviglio di fili che aveva raccolto da uno dei tavoli finché non trovò un cavo che vi si potesse inserire.

Il download dei dati di XANA era ancora in corso. Era riuscita a nasconderlo alla vista sul monitor digitale, ma non aveva dubbi che Jeremy avrebbe potuto trovarlo se avesse saputo cosa cercare.

Prima di lasciare il Kadic, XANA l’aveva rifornita di tutti i supporti di memoria esterna che era riuscita a procurarsi. Aelita collegò il primo al pannello e la barra di controllo cominciò subito a riempirsi. Quanti programmi era già riuscita ad assimilare XANA?


ʘ –


«Dobbiamo svegliarli» disse Carlotta mentre posava la sua arma di fortuna su uno dei tavoli. «E se avessero qualche contusione o qualcosa del genere? Qualcosa di grave.»

«Non ci sono traumi evidenti» le assicurò Jeremy mentre girava intorno a William. Lo girò a pancia in su e poi lo prese da sotto le braccia. «Aiutami. Prendi tua madre.»

«Non riusciremo mai a portarli via di qui da soli» protestò Carlotta.

Jeremy scosse la testa. «Dobbiamo solo arrivare agli scanner» spiegò cominciando a trascinare William. «I loro dati sono ancora sul computer. Si sveglieranno direttamente su Lyoko.»

Carlotta lo fissò senza capire, ma non fece altre domande.


ʘ –


Il download del primo programma durò quasi dieci minuti, ogni secondo più lungo del precedente. Appena da blu la barra di caricamento divenne verde e smise di avanzare, Aelita sostituì la memoria esterna e avviò lo scaricamento del programma successivo.

Premette un pulsante sul lato della memoria piena e la barra di caricamento tornò blu. Cominciò a scendere lentamente – i dati venivano inoltrati al generatore del Kadic con successo.


ʘ –


La mensa si stava già iniziando a svuotare. Alcuni ragazzi tornavano in camera a dormire, altri progettavano come passare la serata, altri ancora semplicemente indugiavano ai tavoli in grandi gruppi parlando tra loro ad alta voce e talvolta arrampicandosi sulle sedie per dare spettacolo.

Ulrich e Sissi si guardarono intorno leggermente storditi.

La confusione delle ultime ore aveva reso tutti più arzilli, ma nessuno neanche lontanamente agitato come lo erano loro. Per gli studenti e i professori del Kadic c’era stato un temporale e poi qualche problema di amministrazione.

Per quelli umani almeno. Né Ulrich né Sissi avevano idea di quale fosse la situazione tra i programmi.

«L’infermiera» ricordò Ulrich, ma Sissi scosse la testa.

«Non la vedo.»

«Ma Emma…»

Sissi non incrociò il suo sguardo. «Sarebbe inutile in ogni caso» concluse dopo un po’. «Se il problema di Emma è la schiena, allora è troppo grave per una semplice infermiera. E se non lo è nessun medico umano potrà aiutarla.»

«Allora torniamo indietro. Oppure… non so, tu sei la preside, credi che tutti questi ragazzi siano al sicuro?» accennò con un gesto a tutta la mensa. O forse a tutto il Kadic.

«Farò mettere un coprifuoco in modo che vadano tutti nelle loro camere.» Sissi adocchiò il personale scolastico presente, poi si diresse verso un tavolo occupato solo da professori. «E per domani organizzerò qualche cosa in aula magna, in modo che stiano tutti lì quanto più tempo possibile.»

«Okay.»

Ulrich rimase indietro mentre Sissi parlava con i professori.


ʘ –


La lista di nomi sembrava non finire più.

Franz era riuscito a trovare un elenco di tutti i programmi che erano stati integrati nella scuola come studenti o personale. Da quanto risultava nelle schede c’erano intere classi e interi collegi di professori costituiti esclusivamente da programmi. Solo alcuni, in via sperimentale, erano stati inseriti in classe con ragazzi umani e condividevano le stanze con alcuni di loro – come Anna con Rebecca e Julien con Ludovic.

«È impressionante» commentò, rivolto a nessuno in particolare. Bea era di guardia, pronta ad avvertirlo se si fosse avvicinato qualcuno, mentre tutti gli altri programmi erano come pietrificati.

I primi aveva dovuto controllarli con la mente perché non lo attaccassero, ma poi era riuscito a gestire i comandi dal computer e trovare il modo di mandarli tutti in stand-by. Probabilmente tutta la scuola era piena di persone invisibili congelati nel bel mezzo di una conversazione o di un corridoio. Cosa stavano pensando tutti i ragazzi umani.

Niente, visto che non possono vederli, ricordò a se stesso.

Stava ancora scorrendo la lista quando la schermata si riavviò da sola.

«Ma che…»

Un aggiornamento.

Quando riapparve, nell’elenco c’era una nuova riga. Una fatta solo di lettere e numeri apparentemente senza senso, come un’immagine scaricata da internet e non ancora rinominata.

Gli bastò usare il pensiero per aprire il nuovo file.

Un programma era appena stato inserito nel sistema. Uno nuovo, amorfo, senza un nome, né un aspetto, né indicazioni particolarità. Nel file c’erano solo righe e righe di codice informatico, verde su nero così fitte da far venire il mal di testa.

«Tu da dove spunti?» mormorò Franz, e i suoi pensieri avviarono dei nuovi comandi.

Il file proveniva da una trasmissione appena completata. Una seconda montagna di dati stava per essere scaricata proprio in quel momento.

Ma da dove?

Sul monitor comparve una specie di grafico che mostrava la posizione della scuola e poi un puntino luminoso ad una certa distanza.

La fabbrica.

Era suo padre a mandare quei file? No, suo padre lo avrebbe avvertito.

Franz spostò lo sguardo sul cellulare lasciato accanto alla tastiera. La chiamata partì ancora prima che avesse finito di formulare il pensiero.


ʘ –


Per quanto potesse sembrargli che il tempo non fosse passato, Jeremy era fuori allenamento. Il processo di scannerizzazione era sempre la fase più delicata. Non poteva permettersi di distogliere lo sguardo dallo schermo del super-computer.

Il telefono che squillava lo fece sobbalzare. Lo estrasse dalla tasca e lo porse a Carlotta senza nemmeno guardare.

Sentì la ragazza afferrarlo e rispondere – era Franz – ma non riuscì a prestare attenzione alla conversazione.


ʘ –


Su Lyoko non faceva freddo – non c’era temperatura – ma la vista della banchisa le mise i brividi. Yumi si limitò a osservare mente il suo corpo prendeva consistenza nel mondo digitale.

Alla sua destra, il ghiaccio si estendeva interminabile, liscio e lucido come plastica, tagliente come non mai nel punti in cui era fratturato o modellato in spuntoni.

Era stata qui più volte dopo aver lasciato il Kadic – nei suoi sogni. Ma questa volta era fin troppo consapevole di essere sveglia.

L’aria intorno a lei aveva quella consistenza densa, quasi gelatinosa, tipica non di un gas necessario alla respirazione ma semplicemente di un altro elemento, consistente e modellabile proprio come la terra o l’acqua.

L’acqua.

Alla sua sinistra, il ghiaccio era fratturato in pezzi sempre più piccoli che galleggiavano immobili sul mare digitale.

All’improvviso, Yumi fu di nuovo consapevole di avere delle gambe, una schiena, della braccia. Barcollò per un momento mentre tornava ad avere un peso, ma ritrovò subito l’equilibrio. Anzi, appena i suoi sensi furono tornati alla loro normale funzionalità si ritrovò a pensare di sentirsi particolarmente leggera.

William comparve accanto a lei.

Le loro forme digitali non erano invecchiate. Nel mondo reale potevano essere cresciuti e cambiati, ma su Lyoko erano sempre gli stessi guerrieri, agili e forti come il giorno che se n’erano andati.

Yumi ritrovò i propri ventagli. Se li rigirò tra le mani, stupita che le sue dita ricordassero esattamente come manovrarli.

Un senso di euforia la pervase.

Prese la rincorsa e scavalcò una sporgenza di ghiaccio. Poi un’altra, e una terza. Saltando lanciò uno dei ventagli che distrusse uno spuntone e poi le tornò in mano, un attimo dopo aver toccato di nuovo terra.

Rise mentre girava su se stessa e tornava verso William. «È meraviglioso!» urlò lui brandendo la sua spada gigantesca. «Sembra di essere tornati indietro nel tempo!»

«Yumi, William. Mi sentite?»

La voce di Jeremy riecheggiò nelle loro teste.

«Jeremy!» saluto William. «Jeremy è grandioso! Non credevo che mi mancasse ma…»

«Cosa ci facciamo qui?» lo interruppe Yumi.

«Aelita vi aveva messi KO. È posseduta. Ho pensato che portarvi direttamente su Lyoko fosse la scelta migliore.»

«Lo era!» esclamò William.

«Perché?» chiese invece Yumi. «Cosa dobbiamo fare?»

Jeremy produsse una specie di risata. «Oh, la solita roba» affermò. «Fermare XANA. Combattere gli eventuali mostri digitali lungo la strada. Salvare il mondo digitale dalla distruzione.»

Yumi strinse la presa sui ventagli e passò in rassegna la banchisa con lo sguardo finché non individuò la sagoma di una torre in lontananza. Sorrise. «Nulla che non abbiamo già fatto.»

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Capitolo 11
*** 11. Il male necessario ***


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Metamorfosi Cap11;

begin

    write('Il male necessario');

    readln;

end.


Franz non aveva nemmeno più bisogno di guardare lo schermo. Era proteso in avanti con le dita intrecciate davanti alla tastiera e la testa protesa in avanti, i capelli attirati verso il monitor dall’elettricità statica. Da sotto le palpebre socchiuse poteva percepire le luci sullo schermo cambiare continuamente, ma le procedure ormai avvenivano quasi esclusivamente nella sua testa.

Esplorare i dati del computer era diventato ormai semplicissimo, ma modificarli era ancora un problema. C’era qualcosa all’interno dei programmi che codificavano per i ragazzi ologramma che li rendeva intoccabili. Franz poteva cambiare il modo in cui le informazioni in loro contenute venivano lette dal computer ma non la loro base – come una foto di cui poteva alterare colori e contrasti, persino le dimensioni a volte, ma mai le proporzioni dell’immagine di fondo.

«C’è qualcosa che ti sfugge» disse Bea da chissà dove nella stanza – forse non era affatto nella stanza, forse Franz non l’aveva nemmeno sentita con le orecchie ma con qualche altro senso. «A cosa stava lavorando chi ha scaricato questi Programmi?»

La ricerca durò pochissimi secondi.

Un sistema di proiezione efficace.

I Programmi erano funzionanti e attivi. Giravano autonomamente all’interno della scuola e interagivano tra di loro, ma non con gli umani. Chiunque ci stesse lavorando – XANA, a quanto pareva – non era ancora riuscito ad inserirli nel mondo reale.

«Ma io cosa dovrei fare?» si chiese Franz. «Riuscire dove altri hanno fallito o distruggere tutto?»

«Potresti farlo?» Non c’era sorpresa nella voce di Bea, ma Franz percepì ugualmente la sua paura.


ʘ –


Jeremy aveva individuato i download appena Franz glieli aveva segnalati, ma non riusciva a interromperli. Doveva esserci qualche tipo di bug, una rudimentale protezione informatica che gli permetteva di assistere al processo di scaricamento dati ma che gli impediva di intervenire.

«Non puoi scoprire dove si trova chi sta scaricando i file?» domandò Carlotta, in piedi accanto a lui come una guardia del corpo.

«Posso provarci. Ammesso che il sistema del super-computer sia attrezzato per farlo.»

«Contiene un intero modo digitale e non riesce a localizzare un terminale?» esclamò la ragazza incredula.

A Jeremy non sfuggì l’ironia della situazione. «Chi l’ha costruito era sicuramente un genio, ma è comunque un sistema di trent’anni fa, non uno smartphone con il GPS.»

Carlotta fece una smorfia di disappunto, poi sembrò illuminarsi. «Il super-computer forse no, ma il telefono di Aelita sì.» Afferrò il cellulare che Jeremy aveva lasciato accanto al mouse.


ʘ –


Per tutto il tempo in cui avevano corso verso la torre, William e Yumi avevano sentito dei rumori provenire dalla costruzione e Jeremy aveva segnalato loro un’intensa attività al suo interno. Quando la raggiunsero, però, c’era il silenzio più assoluto.

Sotto i loro occhi, l’alone azzurro che circondava la torre si affievolì fino a scomparire e divenne rosso.

«Qualcosa mi dice che per farla tornare normale non basterà inserire il solito CODE LYOKO come ai bei vecchi tempi» commentò Yumi.

«Purtroppo lo penso anch’io» replicò la voce di Jeremy. «È cambiato tutto» aggiunse dopo un istante. «Non riconosco nessuna delle vecchie funzionalità della torre.»

William spostò il peso della spada da una spalla all’altra. «Tu aprici un varco, al resto pensiamo noi.»

Nel giro di pochi istante una porzione della base della torre si fece traslucida e Yumi e William non esitarono a passarci attraverso. Si ritrovarono sulla solita piattaforma rotonda, circondati dalla solita miriade di schermi olografici attraversati da righe e righe di codice binario.

Per un momento sembrò una delle torri di sempre.

Poi notarono la spirale di scale che si arrampicava sulla parete e i ripiani sporgenti come tanti piccoli balconi. E accasciati ovunque, come cadaveri dopo una strage, c’erano dei corpi umanoidi vuoti e trasparenti come degli involucri di vetro.

Yumi strinse la presa sui propri ventagli e precedette William sulla prima rampa di scale. Si chinò accanto al primo corpo che incontrò e lo tastò cautamente. Al tatto era caldo e aveva la consistenza del silicone.

«Jeremy…» sussurrò.

«Vedo ciò che vedete voi» fu la risposta. Yumi dovette sforzarsi di ricordare che solo lei e William potevano sentire la sua voce.

William rimase in piedi ma si fece più vicino, la spada abbassata al suo fianco. «Cosa sono?»

«…persone?» mormorò Yumi.

«No, è impossibile. Nessun altro oltre a voi è stato scannerizzato e poi i miei dati sono diversi. Ci sono dei programmi dietro di loro – dentro di loro.»

«Solo degli essere digitali quindi?»

«Non ho mai visto niente del genere. Non ho mai visto… È SPARITO!»

Yumi e William sussultarono all’urlo improvviso di Jeremy. Yumi balzò in piedi.

«Ne stavo guardando uno ed è sparito. Proprio sotto i miei occhi!»

William si guardò intorno senza notare nulla di diverso da prima. «Dov’era?»

«In alto.»

Ripresero a salire, guardandosi sempre intorno e aggirando tutti i corpi che incontravano, silenziosi come fantasmi.

Yumi si fermò per prima. Diede un leggero colpo alla spalla di William e gli indicò un punto in alto. Su una piattaforma circolare si muovevano due figure, una chiara e una scura.

Continuarono a salire finché non ebbero una visuale migliore.

La figura scura non faceva che raccogliere corpi trasparenti e portarli sulla piattaforma dove quella chiara li ispezionava uno per uno. Dopo poco lunghi tentacoli traslucidi le spuntarono dalla nuca e cominciarono a risucchiare alcuni dei corpi.

«Ne stanno sparendo altri» li informò Jeremy. «In qualche modo qualcuno li sta…»

«…cancellando?» suggerì William.

«No. No, li sta scaricando. I file che XANA sta scaricando e Aelita ritrasmettendo alla scuola sono questi… corpi. Qualunque cosa siano…»

«Fermala Jeremy» disse William. «Qualunque cosa significhi, se è XANA deve essere fermata.»

«Posso provarci. Sto cercando di-- Will-- XA-- ‘ando fuori-- ‘mmi--»

«Jeremy? JEREMY?»


ʘ –


«No. No, NO!» stava urlando Jeremy. «William? Yumi? Mi sentite? XANA mi sta tagliando fuori. Dovete…»

Carlotta smise di ascoltarlo.

Si arrampicata su pilastri e tubature e ora era appollaiata su una grata sporgente, proprio sopra una ventola di aerazione che con il suo ronzio copriva il rumore dei suoi passi.

Poteva vedere Aelita da lì, nascosta tra un tavolo e il muro, concentrata su un piccolo pannello di controlli.

Carlotta sorrise e si mise in tasca il telefono di Jeremy ora che il GPS non le serviva più. Doveva riuscire ad avvicinarsi ancora senza farsi notare.

Poco più in là c’era un’altra grata sporgente. Avrebbe potuto arrivarci con un salto ma avrebbe fatto troppo rumore. Afferrò un tubo poco sopra la sua testa, sporgendosi il più possibile. Rimanendo aggrappata solo con le braccia, sollevò i piedi. Rimase appesa per qualche istante, poi allungò le gambe verso la nuova piattaforma.

Quando fu di nuovo stabile tornò a guardare Aelita. Non si era ancora accorta di lei. Era vicinissima orma, ma non sapeva che fare. Avrebbe dovuto stordirla? L’idea di colpire quella che considerava una zia non le piaceva, ma quale altro modo aveva di fermarla?

Saltò giù. L’atterraggio fece male ma non ebbe il tempo di preoccuparsene.

Aelita sussultò e le fu addosso in un batter d’occhio, inchiodandola a terra.

Carlotta urlò e scalciò con tutte le proprie forze. Tastò il pavimento intorno a sé finché le sue dita non si strinsero attorno a qualcosa di solido con cui colpì la propria avversaria su un fianco.

Aelita rimase senza fiato e Carlotta poté sgusciare via dalla sua presa, ma fece solo in tempo a rialzarsi prima che l’altra tornasse alla carica.

Carlotta portò le braccia davanti alla testa e Aelita si bloccò un istante prima di colpirla. I suoi occhi erano puntati sull’oggetto che la bambina stringeva ancora in mano – una grossa memoria esterna che stava trasmettendo.

«Sta’ indietro o la distruggo» ruggì subito Carlotta minacciando di sbatterla contro la parete.

«No!» Aelita alzò le mani in segno di resa. «Non pensarci nemmeno.»


ʘ –


«Posso fare qualcosa per voi?»

Odd dovette trattenere un urlo. Si voltò di scatto.

«Scusi, non intendevo spaventarla» gli assicurò l’infermiera alzandosi da dietro la scrivania.

«Lei non era lì fino ad un attimo fa!»

«Mi scusi» ripeté la donna, poi aggrottò le sopracciglia confusa. «Credo di essermi addormentata.»

«Lei non…» Odd ricordò che Chris aveva detto che c’era una donna seduta immobile alla scrivania, una di quelle persone che solo i ragazzi riuscivano a vedere. «Mia figlia è caduta» si limitò a dire.

La donna si avvicinò al lettino su cui Emma era ancora distesa immobile. Tastò la ragazza in modo strano, come se la trovasse estremamente scivolosa, ma dopo un po’ riuscì a girarla su un fianco. «C’è qualcosa che non va nella sua schiena.»

Odd aggrottò le sopracciglia. «Non è un commento molto medico.»

«Non riesco a vedere bene con la maglietta.»

Odd allungò una mano verso la spalla della donna. Le sue dita la attraversarono senza incontrare il minimo ostacolo.

Lei invece fu percorsa da un brivido e fissò la sua mano a bocca aperta. «Voi…» Aveva gli occhi spalancati, pieni di stupore. Li spostò su Emma. Fece scivolare di nuovo la mano sulla sua schiena. La maglietta della bambina non si sollevò, ma era evidente che le dita della donna riuscissero a toccare la pelle. «Non è possibile…» sussurrò tornando a guardare Odd. «Siete umani.»

Non era una domanda, ma Odd annuì.

Fu il turno della donna di allungare una mano verso di lui. Non incontrò ostacoli. Se avesse avuto gli occhi chiusi avrebbe giurato che c’era solo aria intorno a lei.

Rimase in quella posizione per pochi lunghissimi momenti, con una mano affondata nel petto di Odd e l’altra ancora appoggiata sulla schiena di Emma.

«Voi… potete-» I suoi occhi erano lucidi. «potete vedermi? E-- e sentirmi?»

Odd si portò una mano sul petto, proprio nel punto in cui scompariva il polso della donna. Continuava a non sentire niente – non un cambiamento di pressione, non una differenza di temperatura. Forse solo dell’elettricità statica – ma poteva trattarsi di suggestione.

«Vi vedo» confermò. «E vi sento.»

La donna emise un sospiro commosso. «È bellissimo» disse ritirando la mano.

L’attimo dopo scomparve.


ʘ –


Chris aveva appena raggiunto suo padre e la preside quando sentirono il primo urlo. Gli altri non tardarono ad arrivare. Non erano suoni che esprimevano dolore, ma spavento.

Si voltarono tutti e tre contemporaneamente e tornarono verso la mensa.

Gruppi di ragazzi si guardavano a vicenda, confusi.

«Mi sembrava fossero molti di meno» osservò Ulrich.

Chris aggrottò le sopracciglia. «Io non noto differenze.»

«Da dove diavolo saltano fuori?» strillò una ragazza appiattendosi contro una parete e indicando un gruppo seduto al tavolo più vicino a lei.

«Non erano lì prima!» esclamò un altro ragazzo riferito ad un altro piccolo gruppo.

«Stanno parlando con noi?» chiese uno dei ragazzi puntati riferendosi a quello accanto.

«Riuscite a vederci?» scattò un altro.

Per un momento calò il silenzio e Sissi si fece avanti. «Di che classe siete?» domandò ad alcuni dei ragazzi che tutti puntavano.

«2°L» rispose subito uno di loro.

«Non esiste la sezione L!» ribatté qualcuno. Altri gli fecero eco.

Eppure Sissi ricordava quella sezione. «Da quanto tempo sei qui?» chiese ancora al ragazzo che aveva risposto.

«Due mesi.» Significava che doveva essere arrivato durante l’estate, prima dell’inizio della scuola. Prima di qualsiasi studente. «Avete proceduto voi al mio inserimento nel sistema.» Il ragazzo la guardava come se allo stesso tempo lo terrorizzasse e le fosse grato. Dopo un po’ sembrò confuso. «Vengo dalla foresta di Lyoko» specificò.

Ulrich trattenne il fiato. Sissi si limitò a sbattere più volte le palpebre e a guardarsi intorno.

«C’è forse qualche problema con il sistema?» domandò la voce fievole di una bambina.

Sissi la fissò senza sapere cosa rispondere.

Tra i ragazzi comparsi dal nulla cominciò a diffondersi un mormorio agitato.

«Che sta succedendo?» ruggì un ragazzo da un altro tavolo. Quando si alzò in piedi tutti quelli che gli stavano intorno si fecero indietro – un paio strillarono che non era lì fino ad un attimo prima. «Dov’è XANA?»

«Chi sta gestendo il generatore?»

«Che sta succedendo?»

«Dov’è XANA?»

La sala sembrava sul punto di esplodere quando i ragazzi scomparvero. Di punto in bianco, la metà dei tavoli erano vuoti e le voci si erano dimezzate. Quasi tutti urlarono di nuovo.

Sissi guardò Ulrich e Chris in cerca di aiuto.

Ulrich scosse la testa impotente, per dire che ne sapeva quanto lei.

«Io vedo ancora tutti» disse invece Chris.


ʘ –


«C’è qualcuno» disse XANA appena riaprì gli occhi.

Ormai riusciva ad assimilare più programmi insieme, e ogni volta diventava più veloce – gli ultimi cinque erano svaniti in meno di un minuto.

Ludovic si guardò intorno finché non individuò due figure che salivano dai livelli più bassi.

«Sono i tuoi genitori.»

Ludovic sgranò gli occhi, poi li socchiuse per mettere a fuoco meglio. Le sagome corrispondevano effettivamente a sua madre e suo padre, ma il loro modo di muoversi era diverso. Erano cacciatori nel loro ambiente naturale.

«Non devono arrivare a me» continuò XANA. «Conoscono Lyoko, sono guerrieri esperti. Non sottovalutarli.»

«Non devo per forza scontrarmi con loro» tentò di protestare Ludovic, ma lei lo ignorò.

«Ti servirà un’arma.»

Improvvisamente, una cinghia comparse di traverso sul suo petto e un nuovo peso gravò sulle sue spalle. Quando allungò una mano all’indietro le sue dita trovarono una faretra piena di frecce. L’attimo dopo un arco alto quasi quanto lui apparve al suo fianco.

«Dammi più tempo possibile.»

Ludovic lanciò a XANA una lunga occhiata prima di correre giù per le scale. Si mosse molto più velocemente di quanto si aspettasse. In pochi secondi solo un livello lo separava dai propri genitori.

Vederli da vicino era ancora più strano. Erano giovani – molto più giovani di quanto li avesse mai visti di persona e diversi da qualsiasi fotografia gli avessero mai mostrato. Prima non si era reso conto di quanto Lyoko sembrasse avere la grafica di un videogioco.

Yumi stava esaminando l’ennesimo Programma inerme.

«Jeremy!» stava invece ripetendo William. «Dannazione! Questo non era mai successo.»

Yumi fece per rispondergli, ma quando alzò la testa il suo sguardo incontrò quello del figlio.

«Ludovic!» Un sorriso di sollievo le illuminò il volto mentre balzava in piedi ma poi adocchiò l’arco e le frecce e esitò.

«Stai bene, Ludo?» chiese William.

Annuì. «Non sono posseduto» assicurò loro. «Ma dovete allontanarvi dai Programmi.»

«I Progra--?» Yumi capì che si riferiva ai corpi. Il suo sguardo si indurì. «Chi c’è con te?» con la testa fece un cenno verso l’alto. «Rebecca?»

Ludovic annuì di nuovo, poi si corresse: «È XANA.»

Yumi stringeva nelle mani dei ventagli. Ludovic era sicuro non ci fossero un attimo prima. Strinse la presa sull’arco.

William scavalcò il Programma inerme e salì di qualche gradino. «Ci occuperemo noi di lei.»

«Sta’ indietro» lo ammonì Ludovic.

«Lo abbiamo già fatto.»

«Non voglio arrivare ad uno scontro, papà.»

«Qualunque cosa ti abbia detto, non è vera. Ludo, XANA è pericolosa, ma possiamo batterla.»

«Non sai di cosa è capace. Non hai visto come ha neutralizzato i Programmi. O come…»

«Non è invincibile. Noi-»

«Sta’ indietro!» ripeté Ludovic quando suo padre ricominciò a salire. Si rese conto di non saper usare un arco, ma subito la sua mano si mosse per estrarre una freccia dalla faretra e incoccarla con una fluidità allarmante. XANA lo aveva dotato anche di una buona mira? «Mamma, allontanati da quel Programma.»

Lei obbedì e raggiunse William. «Cosa ci fa XANA? Se vuole distruggerli, allora dobbiamo proteggerli.»

«No!» ruggì Ludovic. «Lei li cura

«Ti sta raggirando, Ludo!» Mentre parlava, Yumi fissò un punto in alto.

Ludovic riconobbe la leggera luminescenza che emanavano i tentacoli che XANA usava per assorbire i Programmi. Si concesse un’unica occhiata rapidissima – fece in tempo solo a notare che c’erano ancora più tentacoli della volta precedente, quasi una decina.

«Al diavolo!» imprecò William, poi scattò. Prima che Ludovic potesse agire, gli era davanti, lo superò con un balzo sovrumano e continuò a salire.

Ludovic prese la mira e scoccò in una frazione di secondo. Aveva già in mano una nuova freccia quando la prima si conficcò a pochi passi da suo padre. Ci fu una piccola esplosione, i gradini più vicini scomparvero e William precipitò fino al livello inferiore.

Ludovic puntò per farlo cadere ancora più in basso, ma quando scoccò la freccia qualcosa lo colpì e ne deviò la traiettoria. Ebbe il tempo di sbattere le ciglia prima che il ventaglio tornasse indietro. Si chinò per non essere colpito e l’arnese tornò tra le dita di sua madre.

«Non sei in te» esalò Yumi coprendo la distanza che li separava. «Mi dispiace» disse solo, prima di colpire.

Ludovic parò il primo colpo con l’arco, ma il calcio che seguì lo mandò a terra. Sfruttò la caduta, rotolò e scoccò di nuovo appena fu in ginocchio. La freccia si scontrò con un ventaglio a mezz’aria e l’esplosione si perse inutilmente.

Yumi gli fu di nuovo addosso. Ludovic cercò di farla cadere usando l’arco, ma lei lo evitò con una capriola e poi lo colpì alle gambe.

Cadde in ginocchio. Si buttò sulla schiena e usò le gambe per sferrare calci finché non riuscì ad allontanarla.

William li aveva raggiunti di nuovo. Ludovic lanciò una freccia nella sua direzione, ma William la deviò con la spada mandandola a schiantarsi molto più in basso.

Ludo era di nuovo in piedi in mezzo ai suoi genitori. I due si scambiarono un’unica occhiata d’intesa, poi Yumi si voltò e riprese a salire, William rimase ad affrontare il figlio.

«Se non sei posseduto allora non devi farlo per forza.»

Ludovic fu sfiorato dall’idea che quello era il momento giusto per voltare le spalle a XANA e aiutare i suoi genitori, magari riuscire persino a tornare nel mondo reale.

Eppure c’era qualcosa che gli diceva che quella non era la scelta giusta. Che se XANA avesse voluto solo una guardia del corpo allora avrebbe potuto possederlo davvero.

«Se puoi scegliere, Ludo, …»

Non ascoltò. XANA aveva guarito quei Programmi. E perché guarirli se il suo scopo era distruggerli?

«Allora scelgo di difenderla.» Impugnò l’arco con entrambe le mani, come un bastone da combattimento, e piroettò su se stesso per imprimere più forza al colpo.

Will riuscì a scansarsi e poi a contrattaccare con la spada. «Sta facendo del male a Becky?»

«Becky» disse tra un colpo e l’altro «starà – bene»

Rebecca doveva essere ancora lì, da qualche parte. Se la sua coscienza non faceva nulla per opporsi a XANA doveva esserci un buon motivo. Rebecca non poteva essere stata semplicemente spenta.


ʘ –


Carlotta non ci avrebbe pensato due volte a lasciar cadere a terra la memoria esterna e schiacciarla con lo scarpone fino a distruggerla completamente se una mano non si fosse chiusa sulla sua impedendole di mollare la presa.

«Jeremy!» esclamò incredula voltandosi.

Aelita tornò a respirare, ma lo fissò con lo stesso stupore.

Carlotta cercò invano di liberarsi dalla sua presa. «Che diavolo stai facendo?»

«La cosa giusta» rispose Aelita. «Finalmente sta aprendo gli occhi.»

«Non so ancora quale sia la cosa giusta da fare» ribatté Jeremy. Posò la mano libera sulla spalla di Carlotta nel tentativo di calmarla. Lentamente liberò la memoria esterna dalle sue dita.

«Così la aiuti!» protestò ancora la ragazza. «Chissà cosa sta trasmettendo! Chissà cosa…»

«Sono programmi. XANA li sta prelevando da Lyoko e lei li ritrasmette ad un altro computer all’interno della scuola.»

L’espressione di Aelita si tese.

«Franz ne ha il controllo» rivelò Jeremy. «Ha il controllo di tutta la scuola.»

Aelita serrò la mascella. «Non è vero.»

«La scuola non è tutta un computer» protestò Carlotta. «Franz non può…» ma era inutile finire la frase, nessuno dei due adulti la stava ascoltando – sembravano impregnati in una conversazione telepatica piuttosto.

«Qualsiasi cosa siano gli esseri che vi hanno posseduto,» disse infine Jeremy ad alta voce «sono collegati al computer della scuola e qui siamo fuori dal suo raggio d’azione. Significa…»

«...sono cosciente» finì Aelita. «Ma anche…» il suo sguardo si fece vacuo.

Jeremy non aspettò una vera risposta. «Questi programmi» accennò alla chiavetta nella propria mano, «cosa hanno di speciale?»

Aelita lo fissò con una intensità tale che i suoi occhi parvero più azzurri che mai.

«Tutto» rispose.


ʘ –


Quando Will arrivò sull’ultima piattaforma i corpi trasparenti erano quasi tutti scomparsi. I pochi rimasti erano stati tutti agganciati ai tentacoli di XANA.

Rebecca era sospesa a mezz’aria, gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro. Tutto il suo corpo era illuminato dall’interno, come il paralume di una lampada accesa.

Will maledisse XANA per aver scelto di possedere proprio lei – l’ultima persona a cui avrebbe voluto fare del male – ma non esitò.

Fece roteare la spada e con un movimento secco recise ben due tentacoli. Il rumore di uno strappo precedette l’urlo di XANA. Mentre i due monconi si agitavano impotenti, come se stessero cercando di colpirlo alla ceca, Will raggiunse i due corpi trasparenti che aveva liberato. Fece per trascinarli via, ma quelli si spaccarono sotto la sua presa come gusci d’uovo troppo fragili.

Will rimase interdetto, una manciata di frammenti ancora tra le mani. Si era aspettato che fossero freddi e duri come vetro, o almeno lisci come silicone. Invece irregolari, umidi fin quasi ad essere scivolosi, della consistenza del formaggio duro.

«NO!» XANA era tornata a terra, tutti i tentacoli rientrati e gli altri corpi spariti con essi. «Che cosa hai fatto!» Nella sua espressione c’era rabbia, ma nella sua voce… nella sua voce c’era dolore.

Corse verso di lui e William si spostò di lato impugnando la spada con entrambe le mani, ma lei gli passo accanto e si buttò in ginocchio accanto ai due corpi. «No, noNONO!» Muovendosi a scatti, con mani tremanti, tastò loro il petto, esaminò i punti in cui le dita di Will si erano strette e spaccato la spalla di uno e il gomito di un altro. Li toccava come se fossero fragili, e preziosi – come se tenesse davvero a loro.

«No!» urlò ancora, e questa volta fu un grido di dolore. Quando alzò lo sguardo su Will, i suoi occhi erano azzurri, senza nessuna traccia dei cerchi simbolo di XANA – quando alzò lo sguardo, era di nuovo Rebecca. «Li hai uccisi.»

«Io…»

«LI HAI UCCISI!» ripeté alzandosi in piedi, le mani strette e pugno e gli occhi lucidi. Lo raggiunse, ma tutto ciò che fece fu spintonarlo e sferrargli pugni da bambina contro il petto. «Sono morti, morti!»

«Rebecca, Rebecca sei tu?» Lasciò cadere la spada. Le afferrò i pugni e la fissò negli occhi. «Se sei tu….»

«Credete di sapere tutto! Tutto! Erano un miracolo, erano un miracolo e tu li hai uccisi!» continuò ad urlare lei, sempre più sconvolta. «Non sapete niente, invece, NIENTE.»

William vide l’esatto momento in cui la rabbia ebbe la meglio sul dolore. In cui XANA tornò, questa volta così in sintonia con la propria ospite da non aver nemmeno bisogno di controllarla.

«Non vi lascerò rovinare tutto» dissero entrambe. «Non dovete vincere questa battaglia.»

Le sue iridi brillarono come fari. William dovette distogliere lo sguardo.

Qualche livello più in basso, Yumi e Ludovic li fissavano con il fiato sospeso.

Le pareti della torre si illuminarono di rosso e una cascata di olografici 0 e 1 si riversò su di loro come grandine.

_CODE_XANA_, lesse Will ad un certo punto, poi sentì la piattaforma sparire da sotto i suoi piedi. Si ritrovò a precipitare senza però cadere davvero. Si ritrovò a stringere il vuoto invece che i polsi di Rebecca. Non c’era più nessuno, non c’era più nulla intorno a lui se non un mare rosso in codice binario. E un dolore non suo che toglieva il fiato.

Ci fu un’implosione, semplice come fiato trattenuto, dolorosa come una pallottola piantata nel cuore. Il mondo intero sembrò comprimersi, ripiegarsi su se stesso, vorticare, bruciare fino a consumarsi del tutto, fino a spegnersi per sempre.

Quando riaprì gli occhi – di nuovo in un corpo, di nuovo vivo, nonostante tutto – Will si sentì più disorientato che mai.

Era al buio, era a corto di aria. Aveva bisogno di correre, sferrare pugni e nuotare fino a prosciugare tuta quell’energia repressa che stava bollendo dentro di lui.

Si agitò. Batté le mani contro le pareti che lo circondavano. Chiamò i nomi di Yumi, Ludovic, Rebecca, Jeremy, XANA persino.

Furono gli istanti più lunghi della sua vita. Poi, come era successo dopo ogni singola missione su Lyoko, il pannello della sua capsula per lo scanner si aprì scivolando di lato e lui poté fare un passo fuori, alla luce, e tornare a respirare.

Lo assalì una vertigine e dovette puntellarsi con una mano alla parete, ma poi, finalmente, tutto passò.

Batté le palpebre e tornò a vedere normalmente. Si sentì stanco, ma lucido.

Di Rebecca e Ludovic non c’era traccia, ma Yumi stava uscendo in quel momento dalla capsula accanto. William la raggiunse con due ampie falcate e la prese tra le braccia prima che perdesse l’equilibrio. La strinse a sé con tutte le proprie forze, accarezzandole una tempia con la propria e ripetendo il suo nome.


ʘ –


Non sentirono la spia di allarme finché non fu una vera e propria sirena.

Jeremy fu il primo a girarsi. Lasciò andare Carlotta e tornò di corsa al supercomputer, la chiavetta ancora in mano.

«Non è possibile» esclamò quasi senza accorgersene.

Carlotta lanciò uno sguardo esitante ad Aelita, poi lo raggiunse. «Che succede?»

«È XANA, ha distrutto una torre. Un’intera torre.»

Per Carlotta quella frase non aveva senso.

«E i download?» chiese Aelita.

Jeremy digitò qualcosa sulla tastiera e si aprirono nuove schermate. «Completati», rispose inserendo nell’apposito portale la chiavetta che aveva tenuto in mano. Poi qualcosa catturò la sua attenzione. «Un momento.» Scorse rapidamente il riepilogo del download. «Due file sono incompleti. Lo scaricamento deve essersi interrotto quando la torre è stata distrutta. Dio, è un miracolo che non abbia distrutto tutto il settore.»

«Impossibile» decretò Aelita. «XANA non lo avrebbe mai fatto. Dev’essere colpa dei guerrieri!»

Carlotta aggrottò le sopracciglia. «Intendi i miei genitori?»

«William e Yumi!» Jeremy trattenne il fiato mentre riprendeva a digitare comandi. Riprese a respirare solo quando lesse che erano tornati con successo nel mondo reale.


ʘ –


«Pronto?»

«Franz!» Odd schiacciò il telefono contro l’orecchio appena il ragazzo rispose alla chiamata. «Alleluja, gli altri non rispondo al telefono e io non so cosa cavolo fare.»

«Ho tutto sotto controllo zio Odd, l’importante è che Emma stia bene e--»

«Emma non sta bene! Non è ancora ripresa e più tempo passa più mi preoccupo. Senza contare che l’infermiera è appena comparsa dal nulla e poi sparita di nuovo!»

Seguì un momento di pausa.

«Davvero?» fece Franz dopo un po’.

«Sì, davvero

Di nuovo silenzio.

«Adesso provo una cosa» disse ad un certo punto. «Tu dimmi se riappare.»

Odd cercò di protestare e fare domande, ma dall’altra parte del telefono Franz non diede nessun segno di star ascoltando. «Niente?» chiedeva ogni tanto, e puntualmente Odd rispondeva che “no, non era cambiato niente”.

Stava per ripeterlo per la testa volta quando la donna riapparve. Esattamente la stessa, esattamente nello stesso punto in cui era scomparsa. «Davvero non riesco a crederci» disse, come se non fosse passato neanche un secondo dall’ultima volta che aveva parlato. Notò che Odd era in una posizione diversa da quella in cui l’aveva lasciato e sollevò entrambe le sopracciglia.

«Li avevo mandati tutti in stand-by perché credevo di non essere riuscito a cambiare niente» spiegò intanto Franz. «Davvero non credevo… insomma ma è comparsa o no?»

«Sì» rispose semplicemente Odd. «È proprio qui, davanti a me.»

«Incredibile» commentarono contemporaneamente Franz e la donna.

«Credo che abbia appena parlato. Odd hai sentito cosa ha detto?»

«Sì. Lo sentivo anche prima.»

«Ottimo! Puoi descrivermela?»

Odd spostò il peso da un piede all’altro, nervoso. L’infermiera intanto aveva ricominciato ad esaminare Emma. «È alta, con capelli scuri. Porta un camice bianco.»

«Sono Lisa Guard.»

«Dice di chiamarsi Lisa Guard.»

«Sì, sì! !» la voce di Franz era un concentrato di gioia. «Dimmi altro ti prego. Tutto quello che vedi di lei, è importante. Tutto. Non ti preoccupare non si offenderà.»

«Tu cosa… okay… Ho già detto che è molto alta? E… ha un brutto naso.»

La donna non reagì minimamente.

«Che significa un brutto naso?»

«Aquilino, credo si dica. Senti, perché non mi fai tu delle domande? Anzi, perché non mi spieghi cosa sta succedendo, Franz?»

Ci fu qualche rumore, come se il ragazzo si fosse spostato, poi riprese a parlare. «Sono Programmi, zio Odd. E li ho tutti davanti a me. A quanto pare ci sono da un sacco di tempo, ma nessuno riusciva a vederli. Tranne noi, anche se non so perché. Ora sto cambiando delle impostazioni in modo che tutti possano riuscire a vederli, sentirli, insomma a interagire. Io non noto differenze per questo avevo smesso, ma mi stai dicendo che invece ci sono riuscito! Odd, chiunque abbia creato questo server ci ha provato per anni! L’ho visto nelle schede di memoria. Siamo circondati da Programmi. La tua descrizione della donna mi serve per sapere se vedi correttamente il Programma “6U4RD_L154” o devo apportare delle correzioni alle proiezioni.»

L’infermiera aveva girato Emma a pancia in giù sul lettino e continuava a tastarle la schiena.

«Ora sta visitando Emma?» chiese Franz.

«Sì, perché?»

«Sto ricevendo dati da lei. Sto ricevendo il suo referto. Si carica lentamente. Odd, intanto dimmi: di che colore sono i suoi occhi? Ha la pelle chiara o scura? Le sue braccia…»

Delle voci allarmate richiamarono l’attenzione di Odd. Corse alla porta e si affacciò nel corridoio.

«Franz?»

«Sì?»

«Se io vedo l’infermiera, significa che sono comparsi anche tutti gli altri Programmi che sono nella scuola?»


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