Il cielo è pieno di stelle

di nyawinchester
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1- Partenze ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2-Filofobia ***



Capitolo 1
*** L'inizio ***


Nella mia vita, Enrico esiste davvero. Come esiste anche Francesca, il paese in cui vive, la gente citata con nomi diversi. Tutti noi ci siamo chiesti come sarà la nostra vita tra dieci anni. Eppure, non so perchè, tra dieci anni immagino che ci sia ancora lui a tormentare i miei sentimenti, nonostante qualunque vita io scelga di condurre. Ho provato ad immaginare, rendendo il mio futuro reale in qualche modo.
Spero che possa piacervi, allo stesso modo in cui è piaciuto a me scrivere queste righe, per quanto doloroso sia stato aprire alcune ferite che credevo di aver chiuso.
Se le emozioni messe per iscritto sono ancora più forti, evidentemente, ci sono ancora.
Sto solo cercando di andare avanti con la mia vita, e forse, dopo che avrò scritto tutto questo, posso chiudere anche il capitolo reale rimasto incompleto nella mia vita.
Ma ho bisogno che tutto questo non muoia dentro me. Ho bisogno di ricordarmi di lui, ancora per un pò.
Voglio farvi conoscere Enrico.
E voglio farvi conoscere Francesca.
Questa storia la dedico a me. E la dedico anche a te.
Alla fine della storia vi dirò chi è davvero Enrico.
E chi è davvero Francesca.
Buona lettura!




 

 

Di notte il mare è un’enorme distesa buia, illuminata da stirature argentee. La luna si riflette sulle onde che bagnano la costa, ed è impossibile vedere l’orizzonte.
Chissà, di notte, in quale punto finisce il mare. La notte, inoltre, è bella perché il cielo ed il mare hanno lo stesso colore. Cielo ed acqua che si uniscono in un punto che nessun essere umano toccherà mai. Nessuno sa dove finisca il mare. Eppure, di notte, ciò che è diverso può anche diventare uno la parte complementare dell’altro.
Quella notte, Enrico e Francesca erano distesi sulla spiaggia, lontani qualche metro dal calore del falò, della musica, della gente.
Enrico appoggiava le testa sul ventre di Francesca, mentre lei gli accarezzava i ricci castani.
Si chiese se si fosse addormentato. Lo guardava, con gli stessi occhi lucidi ed emozionati come quando guardava le stelle, e aspettava che aprisse gli occhi in fermento come quando aspettava di vedere una stella cadente. Cadde una stella, un fascio di luce argenteo che sembrò piombare proprio addosso Enrico. In quell’istante il ragazzo strabuzzò gli occhi dalle ciglia lunghe. Francesca gli sorrise.
Enrico allungò una mano, e la fece scivolare lungo il suo viso. D’improvviso, lui la prese fra le braccia.
-Non dormi?- le sussurrò.
-No, guardavo le stelle. Stanotte è la notte dei desideri, no?-
Enrico sorrise. Francesca era sicura che non ci fosse nessuno al mondo che avesse un sorriso così bello. Quando sorrideva, appariva sulla sua guancia sinistra una piccola fossetta.
-Ne hai viste?-
Francesca scosse il capo, poi, si rannicchiò con le ginocchia al petto tra le sue braccia e le sue gambe. Chiuse gli occhi, ascoltando il suo cuore. Batteva regolare. Era la melodia più bella. Era restia a credere che tutto quel che c’era fra lei ed Enrico, così diversi, così distanti, ma così vicini, potesse essere davvero reale, qualcosa di concreto da poter sentire sotto le sue mani, sul suo corpo, sulla sua pelle. Così reale, come il privilegio che aveva nel poter sentire la sua voce sussurrarle cose che a volte Francesca non ascoltava nemmeno, perché era troppo immersa nel sentirne il suono. E poi lui le chiedeva se la stesse ascoltando, e lei mentiva.
-Chi ha bisogno di una stella cadente, quando hai già quel che vuoi?-
Enrico le baciò delicatamente le labbra, poi premette la sua fronte contro quella di lei.
-Sicura che io sia quel che desideri?-
Lo ripeteva sempre, Francesca aveva perso il conto di tutte quelle volte in cui lo supplicava di guardarsi allo stesso modo in cui lei lo guardava,di amarsi allo stesso modo in cui lei lo amava. Ma questo non gliel’aveva mai detto. Nessuno dei due, ancora se l’era detto.
Ma forse, non è importante dire ad una persona la ami. Forse basta fargli sapere soltanto quanto l’ami. Dimostrarlo.
Francesca sbuffò: -Sì, non sono mai stata sicura di quel che voglio. Ci sono momenti della giornata in cui so quel che voglio, ma poi nello stesso istante in cui decido, sto già cambiando. Con te non mi è mai successo. Sei ciò che non cambierà mai.-
Francesca gli scivolò addosso, distendendosi su di lui. Lo baciò, forte, come se fosse l’ultimo bacio, e fu così intenso come se fosse stato il primo.
-Tra poco sarà l’alba.- gli sussurrò Francesca, dandogli un bacio sul collo.
-E tu resterai ancora con me ?- le disse.
Francesca annuì: -Ogni giorno iniziato insieme a te, è un motivo per restare.-
-Sei bellissima. Se fossi una stella, brilleresti più di tutte. Hai quella luce ne nessun’altra persona avrà mai. Non per me.- gli disse. Le accarezzò lo sterno, con la mano sinistra.
Sull’anulare, portava l’anello che lei le aveva regalato, il giorno in cui si conobbero.
Su di esso, vi era inciso “Esprimi un desiderio”, in inglese. Chissà se lui, l’aveva espresso, quel desiderio. E se quel desiderio, fosse restare insieme a lei finché il cuore avesse voluto.
Francesca non credeva nei per sempre, ma nella forza del cuore.
Se il cuore lo vuole, allora anche l’amore lo vorrà.
Ma se, all’improvviso, il cuore non vuole, ma l’amore sì, che si fa?
Come farà l’amore a far battere un cuore che vuole rimare zitto, fermo e spento?
Qualche mese dopo, in un pomeriggio di fine settembre, il cuore di Enrico improvvisamente non volle più l’amore di Francesca. La portò nella stessa spiaggia in cui lui promise di non abbandonarla. Lunghi minuti di silenzio accompagnarono quel che Enrico stava per dire. Francesca non voleva sentirlo. Non voleva che da quelle labbra che aveva baciato fino a consumarla, adesso uscisse quel che pensava che Enrico non potesse mai dirle. Era sicura, lui non l’avrebbe mai abbandonata.
Si sedettero, e lui rimase a guardare il mare con quegli occhi castani, improvvisamente bui, quel viso d’angelo mutato in un’espressione truce e fredda.
Si sfregò le mani, toccando l’anello e rigirandolo con il pollice destro. Poi se lo sfilò.
-Forse credo che tu debba riprenderlo.-
Francesca si sentì travolta delle onde del mare, annegandoci dentro e sprofondando nell’oblio, sentendo il respiro mancarle come se non potesse più riemergere.
Scosse il capo.
Enrico rimase a guardarla. Lei non lo guardava, stavolta. Sapeva che doveva evitare di guardarlo negli occhi, se non voleva piangere. Odiava piangere.
Odiava piangere davanti l’unica persona che era capace di farla sorridere davvero.
-Illuderei te. Illuderei anche me. Non voglio illuderti. Non voglio farti credere che io sia capace di amarti. Io non posso amarti. Non posso amarti allo stesso modo in cui tu mi ameresti.-
Fu come se un coltello le fosse stato piantato al centro del petto, e lo guardò con gli stessi occhi di una vittima che riconosce il suo assassino, colto all’improvviso.
Fa più male quando ti colpiscono davanti. Se lo fanno alle tue spalle, pensava Francesca, senti solo dolore. Ma se lo guardi negli occhi, mentre ti uccide, ti uccide due volte.
Dentro e fuori. E poi rigira la lama dentro al cuore, senza lasciarti morire:
-Con te ho imparato a voler bene a qualcuno in tutti i modi. Ma forse non è abbastanza. Non me la sento, Francesca. Mi dispiace.-
Non deglutiva. Stavolta si specchiarono uno negli occhi dell’altra e fu in quell’istante che Francesca si sentì morire. In quell’istante, dentro di lei, qualcosa si era spento, una parte era andata bruciata via per sempre e ridotta in cenere. Un pezzo strappato via dal cuore, impossibile da riattaccare.
Erano gli ultimi giorni d’estate, presto sarebbe arrivato l’inverno, ma il cuore di Francesca si era già congelato, come le sue lacrime. Francesca non pianse, non in quel momento.
-Ti prego.-le disse. -Dimmi qualcosa.-
-Tu non puoi amarmi. Tu non vuoi amarmi. Potere è diverso da volere. Se non vuoi amarmi, allora quel che ho fatto non è stato abbastanza. Credimi Enrico, io ho dato il massimo. Non ho amato mai nessuno prima d’ora, non so cosa sia il massimo in amore, ma credo che io l’abbia davvero sfiorato, se non superato. Ma se non è arrivato a te, allo stesso modo in cui tu sei arrivato dentro al mio cuore, allora forse ho sbagliato qualcosa.-
Enrico scosse il capo: -No, Francesca, no. Non è colpa tua. La colpa è mia, perché io non so più come si ama. Non so più come si fa ad amare di nuovo. Io ho sofferto tanto, per lei. E adesso non so più come fare.-
Francesca stavolta lo guardò con rabbia. Via il dolore, via lo sconforto. Solo rabbia:
-L’ami ancora?-
Silenzio.
-L’ami ancora.- si rispose.  Dopo un po’, aggiunse: -Non c’è altro da dire.-
-No, non c’è altro.-
Francesca annuì, facendo spallucce, e guardando l’ora sullo schermo del cellulare. Sua madre l’aveva chiamata già quattro volte. Prima andava a casa, meglio era. E poi, non c’era più nulla che doveva dire ad Enrico. Aveva solo voglia di svegliarsi, dentro la sua testa non faceva altro che ripetersi quanto questo non fosse reale, eppure lo era.
Enrico uscì qualcosa dal suo zaino. Un pacchetto rosso.
-Mi prendi in giro?- disse Francesca. -Da quando si usa fare i regali quando molli una persona? Adesso dopo l’anniversario esiste il “lasciversario”?-
Enrico rise: -No, l’avevo comprato la settimana scorsa. Ma non c’è stato tempo.-
Francesca annuì. Quando scartò il regalo, vide fra le sue mani il cd dei Green Day, “American Idiot”. L’ultima traccia, era “Wake me up when september ends”.
Infondo anche Francesca avrebbe voluto che quel Settembre finisse  e che si svegliasse come se niente di tutto questo fosse mai accaduto, e che accanto a lei ci fosse ancora lui a ripeterle quanto fosse bella. Ma adesso, nemmeno lei ci credeva più.
Lei avrebbe avuto sempre qualcosa in più che Francesca non avrebbe mai avuto.
Semplicemente perché lei era solo Francesca, e nessun’altra.
Qualcuno, per Enrico, risplendeva più di lei. E non si può costringere qualcuno a restare, quando vuole andare via. Quello, secondo Francesca, non era amore.
E lei era solo d’amore, amore vero, che aveva bisogno.
Francesca andò via, lasciandolo lì da solo seduto a gambe incrociate a guardare il mare.
Lei corse in strada, era troppo tardi per tornare indietro, e lei era già corsa via per poter permettergli di fermarla.
E lui non sarebbe mai più tornato. Quella, fu l’ultima volta che lo vide.
Accadde in quell’estate dei suoi diciotto anni, ormai agli sgoccioli, che si portò via quell’amore tanto forte come un soffio di vento gelido.

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1- Partenze ***


~~

Capitolo 1

 

 


La verità è che malgrado le difficoltà insormontabili,
tutti noi aspettiamo sempre che ci succeda qualcosa di straordinario.
K. Hosseini

 




Riposto, Catania, agosto 2022

 


-Credo che tu debba pensarci meglio.-
Francesca sbuffò, stufa. Sua madre non faceva altro che rincorrerla per tutta la casa, angolo dopo angolo, mentre trascinava dietro sé l’aspirapolvere. Francesca correva a passo spedito verso la sua stanza, salì le scale calpestando i pioli con forza, e teneva in mano tovaglie e vestiti, creando una sorta di torre pronta a crollare. La casa a due piani è sempre stata scomoda, soprattutto quando si fanno le valigie. Non sai se fare la valigia al piano di sopra, o al piano di sotto, ma in ogni caso le scale dovrai farle comunque. E poi, se il tuo nome è Francesca Le Mura, allora stai pur certa che dimenticherai qualcosa per cui dovrai fare comunque quelle insopportabili scale.
-Io dico soltanto che tu debba valutare meglio questa faccenda. Partire, andare via. Puoi sempre strappare il biglietto.-
Francesca alzò gli occhi al cielo, sforzandosi di non badare troppo alla madre paranoica che apprese la partenza della figlia per la magistrale, come la sua partenza per la guerra in Afghanistan. Buttò i vestiti sul letto e cominciò a separare le tovaglie dai maglioni.
-Mamma, stiamo parlando di Milano! Mi-la-no, okay?- sbotta Francesca scandendo le parole. -Puoi prendere un aereo e salire su quando vuoi!-
Ma sua madre non era ancora del tutto convinta e, nervosa, attorcigliò i capelli biondi in uno chignon disordinato. Francesca non era bionda e non era paranoica. Era riccia, castana ed aveva ereditato dal padre lo spirito d’avventura quanto i suoi tratti genetici, al contrario del fratello che invece era la copia conforme della madre.
-Starò bene.- ribadì.
-L’hai sentita mamma? Starà bene! Sta già dicendo che la vita eterna è una meraviglia, e la casa esploderà anche se dovrà preparare un’insalata a pranzo.- disse suo fratello, dall’altra stanza. Rompiscatole sin dalla nascita. Quattordici anni buttati tra youtube, playstation, xbox e Call Of Duty. Gabriele girava a torso nudo per casa con le sue preziosissime cuffie targate Sony che Francesca gli regalò appena uscito dalla terza media come premio. Erano troppo grandi per il suo viso tondo e gli occupavano quasi tutte le guance.
-Idiota.-commentò Francesca, riguardo l’intervento rassicurante del fratello.
Tra Francesca e Gabriele c’era un muro di dieci anni di differenza. Gabriele stava attraversando ancora quell’età di cui Francesca sentiva sempre la nostalgia: un adolescente di bell’aspetto, con i capelli biondi luminosi come i raggi del sole e gli occhi verdi, il cui unico pensiero scomodo era il primo giorno delle superiori, mentre tutto il resto girava attorno la playstation, le partite di basket, le ragazze, il cinema in seconda serata e che non gli importa nulla di studiare, tanto c’era ancora tempo per aprire i cancelli della vita.
Invece Francesca, remava nel lato opposto, oltre quei “cancelli della vita”, che improvvisamente le furono sbattuti in faccia ed era rimasta ferma a chiedersi se di tutti quegli anni di studio ne fosse valsa la pena. In Sicilia non esistevano cancelli aperti, ma solo piccoli cerchi in cui il cane si morde la coda: tanta strada e poi, sempre al punto di partenza. Conseguita la laurea a Catania in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, Francesca decise di mettere in pausa gli studi per due anni a chiedersi cosa ne sarebbe stato di lei se non avesse fatto un passo in più.
Per lei ogni passo aveva un nome, e quel passo si chiamava coraggio. Lavorò saltuariamente come barista e baby sitter, indossò sempre gli stessi vestiti e lesse sempre gli stessi libri quasi da conoscerli a memoria riga per riga, Francesca riuscì a metter da parte abbastanza denaro per sé stessa, lasciare tutto indietro, ricominciare e partire.
Dopo esser stata ammessa alla magistrale all’Università di Milano, adesso il suo sogno era eccellere, sfiorare ogni limite, e superarli uno dopo l’altro.
Niente poteva più fermarla, nemmeno l’unica cosa che fino a quel momento l’aveva trattenuta lì: sua madre, suo fratello e suo padre.
Piegò i maglioni nella valigia blu alla quale riservò i vestiti invernali, e mise in una piccola scatola tutti i suoi diari.
-Porti anche quelli?- chiese la madre, sbalordita.
-Venticinque anni di problemi infondo sono soltanto qualche grammo in più in valigia. Devo portali per ricordarmi di non fare altri venticinque anni di stronzate.-
Sua madre rise. Francesca sapeva che non rideva davvero. Odiava pensare ad una partenza definitiva di Francesca, e Francesca era sempre andata via in giro per l’Italia e l’Europa insieme al padre fin da bambina quando gareggiava a livelli agonistici. Cintura nera di kick boxing, un talento da quando aveva sette anni, durato fino ai diciassette.
Ma poi, cambiò idea. Francesca era la persona più instabile che sua madre avesse mai conosciuto, e la cosa più buffa era che Francesca fosse proprio sua figlia. Ogni qual volta vedeva il suo modo veloce di cambiare idea in ventiquattro ore dal vestito da indossare a cosa fare della sua vita, aveva paura di lei. Forse, per il semplice fatto che aveva sempre avuto il coraggio di osare, sbagliare, combinare guai e rimediare alla meno peggio. Quel coraggio che a lei  mancava e che la rendeva insoddisfatta della sua vita. A quel punto, per quanto desiderasse fermare Francesca, sapeva che non ci sarebbe riuscita.
-Hai avvisato tuo padre per domani mattina? Qualcuno deve accompagnarti in aeroporto.-
Francesca agitò il cellulare: -Papà mi chiama ripetutamente da un mese e mezzo e non fa altro che chiedermi quando parto e perché parto. Sta messo peggio di te. Secondo te credi che dimenticherà di accompagnarmi in aeroporto?-
Sua madre fece spallucce, sospirando : -Evidentemente no. Non pensavo ne facesse una tragedia.-
-Lo stai biasimando? Mi stai pregando in ginocchio di piantare di fare le valigie che quasi ho il terrore che cancellino il volo. Smettila!- rise Francesca.
-Okay.- si arrese sua madre. -Fai le valigie la cena è quasi pronta.-
Sua madre alzò i tacchi e continuò a trascinarsi dietro l’aspirapolvere. Ma poi tornò indietro:
-Vuoi portare le ricette per cucinare?-
-Mamma!- la ammonì Francesca.
-Va bene, va bene! Che insensibili, questi figli.-
Sospirò. Francesca si sedette addosso la prima valigia e la chiuse sperando di non spaccare la cerniera. Se quella valigia si fosse rotta, non avrebbe avuto tempo per comprarne un’altra.
Guardò fuori dalla finestra. Dalla sua camera non vedeva né una strada, né il mare, ma l’Etna così lontana ma così vicina da riuscire a toccarla con il pollice.
Faceva sempre così caldo, era la camera più calda di tutta la casa. Francesca non sopportava il caldo estivo in Sicilia, l’idea di abbandonarlo per sempre la rallegrava. Quel paese le stava stretto come indossare un paio di jeans dopo le feste natalizie. Non sapeva esattamente se partire fosse la cosa giusta, se le fosse mancato quel paese di qualche migliaio di abitanti, il mare inquinato, le strade dissestate, i venditori ambulanti, le persone che sbirciavano soli o in compagnia alla ricerca di pettegolezzi, la gente che la salutava con abbracci calorosi e le ripeteva ogni giorno quanto fosse cresciuta anche se l’aveva incontrata soltanto il giorno prima nello stesso –ed unico- panificio, il cinema all’aperto, il porto pieno di barche, navi e yacht.
Ma qualcosa le suggerì di andare per ricominciare da qualcosa che neanche lei stessa sapeva dire con certezza cosa fosse. C’era qualcosa fuori posto, da sistemare. E, paradossalmente, era lontana chilometri da lei. Si trattava di quella vita, di quel futuro povero che le suggeriva di partire alla ricerca di sé stessa, di quella voglia di riscatto.
E se sua madre avesse avuto ragione?
E se da sola, come diceva Gabriele, avrebbe fatto esplodere la casa?
E se, come diceva suo padre, i soldi non sarebbero bastati e avrebbe deluso ancora una volta sé stessa e la sua famiglia?
E se, e se, e se. Il primo punto da affrontare alle porte di un radicale cambiamento è un “e se”: se non lo superi non puoi passare al punto due.
Portò qualche libro in valigia. Era l’unica cosa a cui era legata. Era sicura che Milano le sarebbe piaciuta. E poi, c’è già stata innumerevoli volte. Gli zii vivevano ad Olgiate, un paese tutto verde a primavera e neve in inverno, vicino Como. Arrivare a Milano era molto semplice in treno e metropolitana. Quando suo cugino anni prima si sposò, lei e le cugine andarono a Como per il matrimonio. Quella fu la settimana in cui Francesca decise cosa fare della sua vita, doveva solo capire come. Stava per iniziare il secondo anno di università, ma era sicura che con ogni mezzo, avrebbe raggiunto quel posto per sempre.
Così, una delle cugine, Anna, era andata a vivere a Milano prima di lei. Anna era per Francesca la sorella che non aveva mai avuto. La sua partenza l’aveva resa triste per mesi, e non fece altro che rafforzare il suo obiettivo. Adesso, Anna era una psicologa e da Anna, Francesca sarebbe andata a vivere. No, se state pensando che Francesca andasse a vivere dalla cugina psicologa per la sua instabilità mentale, state sbagliando.
O forse no. Insomma, uno psicologo non può essere amico o parente del paziente, altrimenti rischia di essere emotivamente coinvolto, o meglio questo è quel che Anna ripeteva a Francesca ogni volta che le chiedeva se fosse mentalmente andata.
Ma Anna le diceva soltanto di stressarsi meno. Nello stesso istante in cui Anna le diceva ciò, Francesca si stressava di più.
-Io credo che la mamma abbia ragione, resta. Si sta male qui senza te.-
Gabriele entrò in stanza e fece irruzione nei pensieri di Francesca. In quell’istante, Francesca pensò davvero di disfare le valigie. Suo fratello non faceva altro che farla arrabbiare, ma si chiese se lasciare lui lì da solo con sua madre fosse la cosa giusta.
I suoi genitori erano separati, si separarono nell’estate del duemilasei, quando Gabriele aveva soltanto un anno. Essere lontano dalla sorella, oltre che dal padre, forse lo rattristava. Ma ormai aveva deciso, doveva continuare a tenere duro.
Abbracciò Gabriele : -Lavorerò, e ti regalerò un biglietto aereo ogni estate. Verrai da me e Anna ogni quando vorrai.- gli sorrise.
Gabriele annuì, non convinto: -E le tue amiche?-
-Cristina è partita per Milano l’anno scorso. Le altre ragazze verranno da noi.-
-Ma cos’ha Milano che Riposto non ha?-
Francesca chiuse con la combinazione anche la seconda valigia. Era fatta.
-Tutto, Gabriele. Quando supererai la tua paura di volare, magari, potrai venire tu stesso a vedere quanto splende, nonostante la nebbia.- ripose.
-E il tuo fidanzato?-
Era l’unico che le aveva chiesto di cosa ne sarebbe stato tra lei e Simone. Francesca impallidì, quasi da sentire tutta l’ansia di quel viaggio attorno al collo come un cappio.
Simone. Chissà se l’aveva mai amato davvero. L’idea di lasciarlo non la spaventava. Le cose tra i due ormai erano ai ferri corti, ma nonostante l’intenzione di Francesca di volerlo lasciare andare, lui non aveva mollato. Le aveva chiesto di provarci e che sarebbero stati forti. Lui sarebbe andato da lei appena sarebbe stato possibile.
Ma Francesca credeva poco nei sentimenti a lunga distanza. Riflettendoci meglio, Francesca credeva poco ai sentimenti in generale. L’amore è così forte che non può essere separato da niente, nemmeno da un biglietto aereo. A quel punto, si chiese se l’amore per Simone fosse sincero. Stavano insieme da due anni. Le aveva dato il mondo con un bacio, ma questo non le era ancora bastato. Non le bastava o non voleva farselo bastare?
Le bastava per accontentarsi e star bene? O per vivere bene davvero?
Si ricordava di lui, ogni tanto. Di quella persona a cui aveva dato sé stessa, e le aveva detto che non avrebbe potuto ricambiare perché non sapeva se ci sarebbe riuscito.
E le aveva detto anche che non era sicuro che tornare ad amare come prima, prima di soffrire per amore, fosse possibile.
Adesso, Francesca, quasi aveva paura di esser diventata fredda ed incapace di dare e ricevere amore, proprio come lui. Proprio come Enrico.
Erano anni che non sentiva parlare di lui. Che non lo vedeva, nemmeno per strada, nemmeno quando passava sotto casa sua. Abitavano vicini, eppure non l’aveva più rivisto.
Ogni tanto incontrava suo fratello Alessandro, che di Enrico non ne parlava mai o sua madre che la guardava schiva e diffidente, fingendo di non conoscerla.
Era come se Enrico fosse esistito solo per lei, nel suo cuore e nei ricordi della sua mente, e che nessuno se ne ricordasse più. O forse nessuno pensava a lui come ci pensava lei.
Enrico era figlio di un geometra, e quell’ultima estate in cui furono insieme, lui era stato ammesso nella facoltà di ingegneria, per seguire le orme del padre.
Sperava che anche lui, avesse realizzato la sua ambizione.
-Francesca?- la chiamò suo fratello. -Sei già partita senza le valigie?-
Francesca rise: -Scusami, pensavo.-
-Pensavi a dire la verità sul fatto che lasciare Simone non ti importa ?-
Francesca annuì : -Gabriele, lascia perdere. Non puoi capire.-
-Sarà qui a momenti, parla ora o ti porterai questo fardello in una quarta valigia. E poi ammettilo, da quando ti fai regalare tutti questi fiori? Dov’è finita la mia sorella frigida, con la birra sul comodino a san Valentino e i telefilm in streaming? Sei innamorata come un gatto ama farsi la doccia.-
Il senso dell’umorismo tagliente di suo fratello era fastidioso proprio perché sapeva sempre quel che diceva, consapevole del fatto di sembrare impiccione.
Per quanto fosse piccolo, riusciva ad essere a volte più intelligente di lei.
Aveva ragione: i fiori, gli anniversari, i regali. Venticinque anni e mai una storia d’amore vera, e adesso tutto quell’amore le stava stretto.
Eppure, pensava che se al suo posto ci fosse stato Enrico, forse i fiori avrebbero avuto un profumo diverso. Era rimasto il suo più grande rimpianto.
Lui aveva ammesso di non riuscire ad amare nessuna che non fosse l’altra. Mentre lei si era imposta di riuscirci per non diventare mai fredda come lui.
Tra i due, la bugiarda era lei.
Quella virgola tra lei ed Enrico, era solo una virgola. Non era mai stato, per lei, un punto.
Aveva cercato di muovere la sua vita come pedalare una bicicletta in una ripida salita, ma le mancava sempre qualcosa. E ogni volta che qualcuno pronunciava il suo nome, continuava a voltarsi per vedere se fosse, ancora una volta o solo per un secondo, lui.
Gabriele andò via, l’iphone squillò. Simone la stava chiamando.
Non rispose. Si buttò sul letto a fissare il pallido soffitto vuoto, bianco, sporco e spoglio di quella casa in affitto sotto la quale viveva ancora.
Se si torna sempre dove si è stati bene, allora bisognava andar via per capirlo.
Stava bene? Non seppe rispondersi.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2-Filofobia ***




Capitolo 2- Filofobia

 


Sua madre non riuscì ad accompagnarla all’aeroporto. L’aveva salutata a casa, giusto il tempo di poter piangere senza che tutta la gente in coda agli imbarchi e ai check-in la guardasse. Per quanto Francesca continuasse a ripeterle che le avrebbe telefonato ogni giorno, sua madre non aveva smesso di disperarsi.  Così, al suo posto, Simone decise di accompagnarla. Aveva cercato di evitare una partenza straziante, eppure sembrava inevitabile. Era come se non avesse nulla da dire. Come se non fosse importante il fatto di lasciare il suo fidanzato da solo, per sempre, in una vana speranza che lei potesse tornare o che lui potesse raggiungerla.
Simone fece scivolare le dita lungo il sedile per intrecciarle con le sue. In quell’istante Francesca trasalì, e appoggiò la testa sulla sua spalla. Gli voleva bene, un bene immenso e impossibile da misurare, che la faceva ricredere ogni qual volta credeva di potercela fare senza di lui. Studiava giurisprudenza. Lei non gli avrebbe mai chiesto di mollare il suo sogno per lei, e lei non ci aveva nemmeno pensato. Altrimenti, lui avrebbe valutato davvero l’ipotesi di abbandonare tutto per seguirla. Non era questo che Francesca voleva.
Voleva solo ritrovare sé stessa, potersi lavare via ogni tipo di paura, senso di colpa, passato ingombrante e provare a realizzare il suo sogno più grande: diventare una famosa giornalista.
Simone le baciò la fronte. Era un ragazzo molto dolce, i capelli lisci e castani, la barba curata, gli occhi castano scuro.
Suo padre aveva deciso di concedere loro gli ultimi momenti insieme prima della partenza, così li seguiva con la sua fiat idea in autostrada. Gabriele gli teneva compagnia.
Simone era l’unico ragazzo che suo padre era riuscito ad apprezzare. Francesca era sicura che fosse quello giusto perché aveva superato a pieni voti la più terribile delle prove: “Piacerà a mio padre?”.
Era incorreggibile. Non che Francesca avesse mai avuto relazioni così lunghe, e non aveva presentato nessuno alla sua famiglia prima di lui, ma suo padre odiava a prescindere qualunque ragazzo le si avvicinasse ancor prima che lei si ricordasse della sua data di nascita. Enrico, invece, a suo padre non piaceva e Francesca non era mai riuscita a capire il motivo. Non gli aveva nemmeno stretto la mano.
Simone accese la radio, e partì il cd. La prima canzone era dei Queen “Crazy Little Thing Called Love”. Chissà cos’era davvero, questa piccola cosa chiamata amore.
-Spero che tu ti ricorderai ogni giorno di quanto ti amo.- le disse.
Simone era davvero di pessimo umore. Gli ultimi raggi del sole prima del tramonto gli illuminavano il volto concentrato a guidare.
Francesca si morse le labbra, voleva dirle “sì ti amo anch’io”, ma per la prima volta quelle due parole le si fermarono sulla lingua le mandò giù.
Si girò e guardò le colline che scorrevano veloci fuori dal finestrino.
-Non me ne dimenticherò.- sorrise.
-Comincio a guardare qualche volo, verso l’ultima settimana di ottobre. Magari posso raggiungerti a Natale.-
Francesca voleva sfondare il finestrino e urlare, rimproverarlo, litigare a morte con lui.
Voleva andare via, scendere da quella macchina e dirgli di smetterla di tentarle tutte per raggiungerla. Ma poi la rabbia si placò immediatamente. Si disse, fra sé, di restare tranquilla e che quella rabbia e angoscia dentro non fosse causata da Simone, ma che fosse solo  paura.
-A Natale scenderò io, per stare insieme anche alla mia famiglia. Ma non affrettarti, lascia che io prenda un po’ familiarità con il posto. Magari… tornerò.-
Simone annuì : -Come preferisci. E’ solo che ho paura di perderti.-
Era la prima volta che Simone le dicesse qualcosa del genere. Improvvisamente si pentì per aver pensato di sbottare e rivolgersi a lui in tono sgarbato. Si sentiva così insensibile per non aver provato a mettersi nei suoi panni nemmeno un secondo.
La coda verso il parcheggio era infinita. Simone aveva deciso di posteggiare la sua auto nel parcheggio a pagamento, per non beccarsi una multa.
Aiutò Francesca a tirar fuori le valigie dal porta bagagli, e a causa del peso enorme del bagaglio blu, cadde proprio addosso al fidanzato.
Simone la guardò negli occhi, con la stessa dolcezza di un adulto che culla una bambina, che per quanto capricciosa fosse, non poteva fare a meno di amarla.
Francesca desiderava essere di nuovo una di quelle ragazze spensierate, ma la corazza in cui nascondeva sempre la testa e che a fatica aveva costruito per mostrarsi più forte di quel che era davvero, le impediva di lasciarsi andare, di amare e lasciarsi amare.
Si era volutamente rifiutata di affezionarsi a Simone più di quanto bastasse, ma non perché non l’apprezzava, ma semplicemente perché non ci riusciva. Non immaginava la sua corazza a pezzi, non aveva idea di come rimetterla insieme pezzo dopo pezzo se ancora una volta qualcuno avesse mandato in frantumi il suo cuore.
Ora, mentre guardava Simone negli occhi, e attorcigliava le braccia al suo collo per baciarlo così forte, premendo il corpo contro il suo, a sentirsi battere il cuore fino a sentirne il rumore assordante nelle orecchie, avrebbe voluto scusarsi, fare l’amore con lui e implorare di perdonarla per non averlo amato abbastanza.
Simone, la allontanò un attimo: -Aspetta, Francesca.-
Francesca lo guardò smarrita: - Qualcosa non va?-
-Baciarti così e lasciarti tra qualche minuto. Mi spezza il cuore.-
Simone tirò fuori dalla tasca una sigaretta, cominciando a fumarla così rapidamente da annebbiarsi i polmoni.
-Io ti amo.- gli disse. Le uscì spontaneo, ma il tono non era troppo convinto.
Il punto era che, vedere Simone al punto di piangere, non le avrebbe fatto bene nemmeno un po’. –Ce la faremo, vedrai.-
-Da quanto tempo stiamo insieme, Francesca?-
Francesca non capì il motivo di quella domanda. Tuttavia, rispose decisa: - Due. Due anni.-
Simone accese subito un’altra sigaretta, poi tolse la sua collana dove teneva un plettro d’acciaio e la mise al collo di Francesca. Simone suonava la chitarra elettrica, quando i libri universitari non gli occupavano abbastanza tempo.
-Sono due anni che mi chiedo se tu mi abbia amato come io ho amato te. Ultimamente litighiamo spesso anche per la canzone da mettere in radio quando guidiamo. Mi guardi con gli occhi vuoti, e svuoti anche me. Ti ho fatto mancare qualcosa? Perché stai andando via? Se vuoi scappare da me, voglio solo che tu lo dica. Ma non lasciarmi qui, nella speranza che vuoi portarmi nella tua vita che costruirai. –
Francesca era in lacrime, lo baciò ancora : -Vado via perché voglio andare alla ricerca per un posto nel mondo per me.-
-Ti ho dato le mie braccia.-
-Un posto per me, Simone. Un posto per me, che appartenga solo a me.-
Lui l’attirò a sé. Sentiva il suo corpo irrigidirsi sotto la sua pelle fredda:
-Se sei felice…-
-Sono felice.-

Aveva appena finito il check-in, adesso doveva passare ai controlli, attraversare quella linea gialla che la prendeva per mano verso la sua nuova vita.
Salutò suo padre:
-Pensa a studiare. Studia e torna prima del possibile. Non sperperare tutti i risparmi, e non fare irritare Anna o la zia. Per il resto, ti auguro il meglio, amore mio.-
Francesca abbracciò suo padre. Sembrava un uomo freddo, ma con lei era sempre stato un padre esemplare. Dopotutto, ogni figlia vorrebbe un insegnante di arti marziali come padre. Aveva dei tatuaggi, lo facevano sembra un duro. Ma in realtà, era un padre davvero dolce, disponibile e responsabile nonostante non abitasse più con loro da anni.
Gabriele aveva soltanto un anno quando i loro genitori si separarono.
-Lo farò papà.-sorrise Francesca.
-Devo farti anche la ramanzina sui ragazzi?- disse, dando una pacca sulla spalla a Simone. E poi lo guardò. Entrambi si scambiarono un sorriso complice-No, non credo ce ne sia bisogno, per una volta.-
-Ma smettila.- rise Francesca. Poi abbracciò Gabriele.-Sta attento tu. Non fare arrabbiare la mamma altrimenti ti stacco la testa e la porto su con me .-
-Come sei dolce, sorellona.-
Il loro saluto si concluse in un abbraccio non troppo lungo, per evitare di far sgorgare le lacrime.  E pensare che una partenza definitiva le era sembrato, fino a quella sera, un momento che nella sua vita non sarebbe mai arrivato.
Simone le accarezzò il volto, le diede un bacio in fronte ed uno sulle labbra.
Ma la ragazza non gli voltò le spalle, senza averlo abbracciato un’ultima volta. Agitò la mano, salutando tutti e poi corse via oltre il metal detector, e dopo il controllo sfrecciò verso l’imbarco con il cuore a mille.


Si sedette a prendere un tè al bar, per calmarsi prima di salire sull’aereo. Aveva ancora la paura di volare. Non l’aveva mai detto a nessuno. Era una paura stupida, qualcosa che ormai poteva controllare. Non era una fobia. Ma c’erano ancora paure che Francesca non aveva ancora superato.
Prese la sua agenda viola, era una moleskine nuova. Aveva giurato che avrebbe scritto una pagina al giorno. Una pagina che raccontasse la sua nuova esperienza, così che nel bene o nel male non se ne sarebbe mai dimenticata.
Decise di iniziare con una sua paura, tra le più grandi, così da ricordarsi di superarla.
Allora le venne in mente la più grande delle sue paure:

Filofobia: paura di innamorarsi, paura d’amare.

C’è un posto dove mi piace sempre andare, dove mi piace sempre restare. Credo sia il bar.
Ci sono sempre tante persone al bar, le cui voci si nascondono dietro al rumore dei cucchiaini che sbattono con le tazzine del caffè, le loro storie di celano dietro l’odore del cioccolato, del gelato, dello stesso caffè.
Ci sono un sacco di persone diverse, al contempo tutte uguali.
Qualcuno si è appena conosciuto, qualcuno si è ritrovato… qualcun’altro ha appena scoperto di essere innamorato. Qualcun’altro, infine, aspetta.. cosa aspetta, chi lo sa. Aspetta con le mani giunte, gli occhi fissi sulle sue ginocchia la cannuccia che gira nel bicchiere di succo di frutta, sinonimo di noia, di stanchezza. Arresa. Poi la porta si apre, scorrono milioni di volti. Penso addirittura che qualcuno che entra, che esce, che paga e se ne va con le mani in tasca, sia lì per me. Mi piace illudermi che stia cercando me, come succede nei film, ma poi mi accorgo che non è così e a quel punto mi sento piccola come un granello di zucchero sparso sul tavolo. Mi piace sempre starmene in disparte. Lascio che siano gli altri a trovarmi, io non cerco mai nessuno. Poi qualcuno incrocia il mio sguardo e a quel punto la mia testa comincia a fare viaggi, di quelli infiniti, grandi, immensi, in pochi secondi, senza aver prenotato, senza aver fatto un biglietto.
Quante volte vi è successo? Incrociare uno sguardo,sentire che i suoi occhi trapassano il tuo corpo facendoti rabbrividire,dandoti una sensazione che non hai mai sentito prima, cosi’ da pensare che forse quella persona sconosciuta ti cercava e ti aveva trovata, e poi lascia in te quel senso di vuoto e delusione quando si nasconde tra la folla perdendosi fra mille persone?Pensandoci, in quante forme conosciamo l’amore? Quante volte al giorno ci dimostriamo innamorati? Quante volte ci sentiamo amati? Mi rendo conto di essermi costruita una barriera attorno, invisibile agli altri, che mi impedisce di spingermi oltre ogni qual volta voglio buttare fuori qualche parola. Non riesco a liberarmene, sono imprigionata dentro un labirinto in cui io stessa mi sono imprigionata. Scappare da sé stessi è la cosa più difficile. Ho così tanto dentro, sento che vuole uscire fuori. Un demone che si dimena, che si lamenta, che freme. Credo che tutto quello che ho voglia di esternare, abbia preso forma in una sottospecie di demone che continua a lottare e sento che mi fa del male, sento che mi spacca le ossa e mi brucia la gola come se avessi ingerito un tazza di té caldo. Vorrei parlare, vorrei potermi liberare. Ma si sono portati via tutto, voglio proteggere questa piccola parte di me che chiede di essere liberata. Fremo dalla voglia di poterlo fare.
E spero di poterlo urlare in faccia a qualcuno prima o poi, perché sto per esplodere. Vorrei andare da una di quelle persone che incrociano il mio sguardo al bar, alla stazione, a scuola ,persone che non mi conoscono, persone a cui di me magari non importa nulla e vorrei soltanto essere ascoltata da qualcuno.
Ma poi capisco che sono cose che non puoi dire a chiunque, quelle che io porto dentro.
Voglio dirle a chi ci sarà per me quando tutto sembrerà crollare pezzo dopo pezzo, quando sentirò il cuore battere così forte che possano sentirlo dall’altra parte del continente, quando qualcuno mi prenderà la mano con dolcezza e a me sembrerà come se mi stia tirando fuori dalle più pericolose sabbie mobili esistenti al mondo, a qualcuno che mi abbraccia per distruggere quella barriera invisibile che mi sono creata attorno, che sia la causa del mio primo sorriso e il mio ultimo pensiero un attimo prima di addormentarmi.
E’ voglia d’amare, ma non amare chiunque. Amare chi non mi faccia sentire così piccola come un granello di zucchero su un cucchiaino da caffé,  amare chi decide di starmi accanto nonostante i miei mille difetti, le mie paranoie insopportabili. Non so perché ultimamente sento questo bisogno folle di amare qualcuno, ma sembra quasi che io non possa farne più a meno, quasi che io non riesca più ad aspettare.
Voglio amare, non voglio più avere paura di amare e di lasciarmi amare. Che poi di cosa ho paura non lo so, ma è così spaventosa l’idea di dipendere dal profumo della pelle di qualcuno, dal suo sorriso, dalle sue battute, dai suoi abbracci, dal suo Ti amo quando meno me l’aspetto. E’ spaventoso. Spaventoso il mondo in cui potrebbe travolgermi senza sapere se riuscirò mai a riemergere eppure, nonostante la paura, voglio davvero amare. Filofobia, è così che la chiamano.
Eppure io so che c’è un modo per sconfiggerla. Devo solo trovare come.

Peccato che, mentre la penna scivolava sul foglio come se non fosse lei a controllarla,
il nome di Simone non le venne in mente nemmeno una volta.


L’aereo decollò con qualche minuto di ritardo. La Sicilia si allontanava sempre di più. Francesca vedeva le case, le autostrade, le auto, prima grandi e poi sempre più piccole fino a diventare dei piccoli punti luminosi come stelle sulla terra.
Improvvisamente, quando l’aereo era abbastanza alto, il cuore si liberò, come un uccello imprigionato in una gabbia che finalmente dispiega le ali e vola.
La sua vita, quella vera, quella che aveva sempre sognato stava per avere inizio.

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