Ge smak daun, gyon op nodotaim (Get knocked down, get back up)

di Katnip_GirlOnFire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Reunion ***
Capitolo 2: *** Forgiveness ***
Capitolo 3: *** Influences ***
Capitolo 4: *** Confession ***



Capitolo 1
*** Reunion ***


Bellamy non riesce a comprendere cosa causi tutto quello scompiglio.
Non vede il campo così frenetico da un lungo tempo, ormai.
Allunga il passo cercando di raggiungere il cancello, già pronto a imbracciare il fucile, ma qualcuno gli blocca la strada.
«Harper?» alza un sopracciglio confuso.
«Bellamy, ehm…io -»
Bellamy la liquida con un cenno del mento, cercando di guardare oltre le sue spalle.
«Che succede?»
Sta accadendo qualcosa nei pressi dei cancelli.
La ragazzina che lo fronteggia balbetta, alla ricerca delle giuste parole. «In infermeria c’è…c’è una ragazzino che chiede di te»
Bellamy aggrotta le sopracciglia «Di me?»
«Si, di te» risponde Harper con un po’ più di sicurezza.
La cosa non ha alcun senso alle orecchie dell’ormai consacrato capo del campo.
Da quando i quarantadue si sono staccati dall’insediamento dell’Arca, troppo diversi da quegli adulti che non erano passati per l’inferno per il quale erano passati loro per sopravvivere, è passato ormai più di un anno.
Da quando se n’è andata Clarke è passato più di un anno.
Bellamy scuote la testa cercando di scacciare il pensiero che è fisso nella sua testa da un lungo tempo.
È richiesto in infermeria. Non era mai stato richiesto in infermeria, se non in situazioni ingestibili.
Harper era diventata la nuova guaritrice del campo, del Campo 42. Aveva imparato in fretta, in situazione di necessità.
Da quando sono diventati un campo indipendente hanno perso solo quattro membri, sepolti sul lato est del campo.
Sul muro davanti al quale sorge il cimitero è appeso un cartello.
“In pace, tu posso lasciare la riva.
Nell’amore, possa trovare la prossima.
Ci rincontreremo.”

Bellamy si era occupato personalmente di incidere quelle parole sulla tavola di legno, omettendo la penultima frasedell’elogio funebre che pronunciavano sull’Arca.
“Ti auguro molti viaggi sereni, fino al nostro ultimo viaggio verso la terra”.
Avevano ormai conosciuto la terra.
La terra, meta sognata, meta agognata.
Avevano conosciuto i suoi segreti, i suoi pericoli, le sue sofferenze.
Sulla terra avevano versato sangue, proprio e di altri.
Sulla terra avevano perso ciò che restava della loro innocenza.
L’unico viaggio da augurare alle persone che li avevano lasciati era, semmai, verso l’alto, verso il cielo.
Verso la pace.
Fanno del loro meglio per non aggiungere altre fosse in quella radura.
Harper se la cava, anche se non è una grande esperta.
Anche se non è Clarke, sussurra una vocina nella testa di Bellamy, ma lui la scaccia stizzito.
Torna a guardare Harper che lo osserva, confusa dal suo silenzio prolungato.
«Il ragazzo può aspettare» afferma infine scostandola gentilmente e proseguendo sulla sua strada verso i cancelli.
Qualcuno deve avercela con lui, quel giorno, perché pochi metri più avanti è Raven a fermarlo.
«Ei» lo saluta con una pugno sul braccio.
Da un anno a questa parte, Raven era diventata ciò di più vicino ad un amica che Bellamy avrebbe potuto avere.
Come leader della sua gente, teneva profondamente a ognuno degli individui che dimoravano nel campo, ma alcune persone gli erano rimaste vicine e fidate: Raven, Wick, Miller…
Poi c’erano Lincoln e Octavia.
Octavia, la sua piccola sorellina, che ormai non era più tale.
Poche settimane dopo il ritorno da Mount Weather, la coppia aveva deciso di intraprendere un viaggio, alla ricerca della propria identità.
Ormai non si sentivano più parte di niente.
Entrambi ripudiati dalla comunità dei Terrestri, avevano provato a tornare con il Popolo del Cielo, ma erano troppo cambiati, troppo diversi. Si sentivano reietti.
Così, nonostante il grande legame che legava i due fratelli, Octavia aveva deciso di partire col suo compagno promettendo a Bellamy che, prima o poi, sarebbe tornata al nuovo campo.
Dalla loro ripartita, Bellamy non si era mai sentito più solo.
Vincolato dalla promessa fatta a Clarke, di prendersi cura della loro gente, era rimasto in testa al gruppo ridotto, le spalle curve sotto il peso della colpa che si era ritrovato a sostenere da solo.
Fortunatamente c’era Miller, c’era Wick. E c’era Raven.
Nè Wick nè Miller avevano avuto un legame con Clarke simile a quello che avevano avuto lui e Raven.
Il meccanico sentiva di aver subito diversi torti da parte di Clarke, ma non voleva bene a nessuno come ne voleva a lei.
L’uccisione di Finn aveva portato Raven a rinnegare quell’amore.
Era in lutto, era distrutta, ma in fondo al cuore sapeva che Clarke aveva fatto ciò che era giusto.
Clarke era diventata famiglia.
E poi se n’era andata.
Era Wick a voler dare la notizia a Raven.
Ma appena potè alzarsi dal lettino dell’infermeria dopo l’asporto di gran parte del midollo, fu Bellamy a dirglielo. Gli sembrava giusto così, e Wick si era fatto da parte, comprendendo.
Inizialmente, Raven era rimasta immobile davanti a Bellamy.
Poi aveva cominciato a urlare, a insultare Clarke con tutti gli epiteti possibili e immaginabili. Si era rivoltata contro Bellamy, incolpandolo per averla lasciata partire. Lo aveva preso a pugni sul petto, mentre lui restava immobile.
Aveva infine rovesciato il lettino a cui era stata inchiodata per tutto quel tempo con un urlo rabbioso, e poi era caduta in ginocchio in mezzo all’infermeria vuota, dove la presenza di Clarke aleggiava ancora, singhiozzando silenziosamente.
A quel punto Bellamy si era inginocchiato accanto a lei, stringendola fra le braccia e lasciandola piangere sulla sua spalla, incurante della maglietta che si stava ormai inzuppando di lacrime.
Avrebbe voluto rassicurarla. Avrebbe voluto dirle che sarebbe andato tutto bene, che Clarke sarebbe tornata.
Ma non voleva illuderla, ne voleva illudersi.
Allore le aveva solo accarezzato i capelli, dondolando da una parte e dall’altra.
«Ce la caveremo» aveva sussurrato, forse più nel tentativo di convincere se stesso che di convincere lei.
L’aveva tenuta stretta finchè non aveva smesso di piangere, condividendo silenziosamente la sua pena.
Era stata quella pena ad unirli, ad avvicinarli, a renderli compagni, amici, confidenti.
«Ciao R», la saluta ricambiando il pugno. «Come va la gamba?»
Da quando Murphy le aveva sparato, più di un anno fa, rendendola disabile dal ginocchio al piede della gamba sinistra, Bellamy glielo chiedeva ogni singolo giorno. Nonstante fosse passato più di un anno e il tutore di Wick le permettesse di camminare senza difficoltà.
Quasi.
«Ah, sei uno sballo» risponde sarcastica a quello che ormai è diventato una specie di rituale, una battuta giornaliera.
«Senti, Wick ha un problema con l’apertura dei cancelli, ti convoca nel settore dell’elettronica» gli comunica sbrigativa.
«Lo vedo che ci sono problemi ai cancelli»
Bellamy legge l’espressione di Raven e capisce che c’è qualcosa che non va. Non gli sta dicendo tutto.
«Ma se è un problema di elettronica che bisogno c’è di creare tutta quella confusione lì davanti?»
Cerca di passare oltre al meccanico, ma lei gli si para davanti di nuovo, poggiandogli le mani sul petto.
«Che ci posso fare se questo campo è pieno di idioti?» sbuffa roteando gli occhi. «Dai, Wick ha bisogno di te. Adesso» conclude con enfasi.
Ma Bellamy ha un brutto presentimento. Perché tutti cercano di tenerlo lontano dai cancelli?
«Digli che arrivo subito» scarta di lato e si avvia a passo veloce verso la piccola folla che si è radunata davanti all’entrata.
«Ei, aspett-» Raven cerca di afferrarlo per un braccio e trattenerlo, ma la gamba non le permette di essere abbastanza veloce.
«Figlio di puttana» borbotta senza curarsi che lui la possa sentire.
Bellamy si lascia sfuggire un sorrisetto, all’insulto. Raven è sempre Raven.
Torna subito serio. C’è un campo che ha bisogno di tornare all’ordine.
«Che succede qui?»
La sua voce baritonale fa voltare tutti nella sua direzione.
Alcuni sorridono, altri sgranano gli occhi sorpresi.
Miller salta giù dalla sua posizione rialzata di vedetta e gli si para davanti.
«Amico…»
«Che succede, Miller», chiede Bellamy con nuova autorità. In mancanza di una risposta, Bellamy cerca di superarlo, ma il ragazzo gli blocca nuovamente la strada. «Senti, io non lo farei-»
Bellamy stringe i denti.
Si è sempre fidato di Miller, ma qui sembra che tutti gli tengano nascosto qualcosa, scavalcando la sua autorità. «Miller, fatti da parte»
Il suo secondo, dopo un attimo di esitazione, abbassa la testa e si sposta.
Tutta la folla si apre, lasciandolo passare.
Quando Bellamy arriva davanti ai cancelli il suo cuore perde un colpo.
Perché dietro le sbarre c’è Clarke.
 

Bellamy non sa che fare.
Ha immaginato così tante volte questo momento che ora ha paura sia un’altra delle sue illusioni.
È cambiata.
Da quando l’ha vista l’ultima volta è cambiata.
È più magra, i vestiti sono quelli di un terrestre, i capelli biondi sono stati tagliati corti e ricadono in ciocche disordinate sulla sua fronte. Li ha probabilmente tagliati con un coltello di pietra.
«Bellamy» sussura Miller, aspettando l’ordine per aprire i cancelli.
Ma il capo del campo non da nessun ordine.
Si avvicina di più al cancello.
«Clarke?» sussura.
«Ciao Bell»
La voce di Clarke lo fa trasalire, riportando alla mente tantissimi ricordi.
Il suo cuore batte errante.
La scruta a lungo, in stato confusionale.
Quando alza il fucile verso di lei, attraverso le sbarre, tutti sussultano e si allontanano.
Tutti tranne Clarke che, nonostante gli occhi tradiscano come quel gesto l’abbia ferita, mantiene la sua posizione. Ferma.
Bellamy non riesce a sentire niente intorno a se, Raven che gli urla di abbassare l’arma - con un testa di cazzo extra -, Miller che cerca di farlo ragionare.
Ci sono solo gli occhi di Clarke, azzurri, ma non più azzurri come un tempo. Sono annebbiati come un cielo ricoperto di nuvole.
«Sono io, Bellamy» sussurra avanzando lentamente di un passo.
Bellamy però non abbassa l’arma.
«Qual è l’ultima cosa che mi ha detto?» chiede con voce tremante.
Clarke lo guarda confusa. «Bell…»
«Qual è l’ultima cosa che mi ha detto Clarke?» ripete alzando la voce.
Clarke sobbalza un poco, non sa se per la voce che ha usato o se per il fatto che si riferisca a lei come ad un’altra persona. Si stupisce quando comprende che Bellamy crede che non sia reale. Che lei sia un’illusione.
«Ci rincontreremo» sussurra cercando di trattenere le lacrime.
In quel momento non le importa se ha un arma puntata contro, non le importa se il cancello potrebbe essere elettrificato e fulminarla all’istante.
Clarke allunga una mano tremante attraverso le sbarre e la poggia sul volto di Bellamy, pietrificato.
«Bellamy, sono io»
Lo guarda con tutta l’intensità di cui è capace. «Sono qui»
Il ragazzo si riscuote, allontanandosi all’istante come se il tocco di Clarke lo avesse bruciato.
Fa un cenno col mento a Miller, che tira un sospiro di sollievo e apre i cancelli.
Clarke entra lentamente, guardandosi intorno, guardando cosa hanno costruito e le facce conosciute.
Ma non si sofferma su nessuna di queste troppo a lungo.
La sua attenzione è per Bellamy, a pochi metri da lei. Il fucile gli dondola a fianco, e i suoi occhi sono vuoti.
Il tempo sembra fermarsi. A Clarke sembra quasi di volteggaire verso di lui, le orecchie che rimbombano, estranee a qualsiasi suono esterno.
Gli cinge i fianchi con le braccia e lo stringe forte a se, affondando la testa nel suo petto, incurante di ciò che ha intorno.
Sono qui, vorrebbe dirgli.
Non ti lascerò mai più.
Dopo un primo momento di immobilità, le braccia di Bellamy la circondano in un movimento quasi meccanico.
La sua mente è bianca mentre la stringe sempre più forte, mentre affonda il volto tra quei capelli sbarazzini e respira a pieno il suo odore. Respira come un uomo che è stato in apnea per un lunghissimo tempo. I polmoni gli bruciano e le mani gli tremano.
Dopo un momento che sembra durare anni, Bellamy scoglie l’abbraccio.
La guarda dritta negli occhi.
Si allontana.
L’assenza delle sue mani brucia sul corpo di Clarke.
 
---

Eilà salve.
Benvenuti nella testa della Bellarke shipper più disperata del secolo.
Sono anche una minor Clexa shipper. Lo so, le due cose sono inconciliabili, ma ehi, nel mio cuore c'è posto per tutte le ship. 
Momentaneamente, however, sono più in mood Bellarke, dopo aver visto il finale. E soprattutto dopo aver letto che (SPOILER ALLERT!) potrebbe non esserci una riunione nella terza stagione.
Quindi questa è la prima di una lunga serie di OS sullo sviluppo del rapporto tra Clarke e Bellamy.
Inizialmente ci sarà angst da vendere, perchè il mio Bellamy si sente abbandonato e arrabiato con la mia Clarke. Ma la perdonerà.
Tra queste OS potrei anche infilarci traduzioni di OS di altri autori (che segnalerò, così che possiate leggere le originali), perchè ho letto certe cose bellissime e Fluff che potrebbero adattarsi alla linea della mia "storia", più in là.
Sono molto ripetitiva quando scrivo, e spesso quando rileggo non noto gli errori che faccio.
Quindi se stai leggendo e hai incontrato qualche strafalcione orrendo, per piacere recensisci, chiunque tu sia.
Cia' :)
E.
 

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Capitolo 2
*** Forgiveness ***


È passato un mese.
Un mese da quando Clarke è tronata al campo.
Un mese che Bellamy praticamente non le rivolge la parola.
È tornato tutto come prima, lei in area medica, lui ai suoi soliti compiti.
La loro gente si rivolge a Clarke con lo stesso rispetto e ammirazione riverenziale con il quale le si rivolgevano prima che se ne andasse.
Ma i due leader non hanno ancora affrontato l’argomento più importante di tutti.
Bellamy si rifiuta categoricamente di parlare di quel giorno quando, davanti ai cancelli del Campo Jaha, con cuori pesanti e mani tremanti, si erano promessi di incontrarsi di nuovo.
E quanto lo aveva aspettato Bellamy, quell’incontro.
Ogni giorno si svegliava, pensando che avrebbe potuto essere quello il giorno in cui la principessa sarebbe tornata.
Ma non era così.
Non era successo ne quel giorno, ne il giorno dopo. Ne quello dopo ancora.
Modo di ricevere notizie non ce n’era.
Bellamy rischiava di impazzire: poteva essere prigioniera di qualche clan. Poteva essere morta di fame, di sete, di freddo.
Tutti i peggiori scenari avevano attraversato la sua mente.
Un paio di volte era anche andato a cercarla, ma senza risultato.
L’unico suo segno che avevano ricevuto, l’avevano trovato a Mount Weather.
Nonostante i sensi di colpa che ancora lo assillavano, Bellamy sapeva che un capo non poteva permettersi il lusso del lutto.
Una settimana dopo il loro ritorno aveva guidato una squadra nel luogo dove il delitto ogetto dei suoi incubi era stato consumato, per prendere dal monte disabitato ciò che poteva tornar loro utile.
Mentre entrava nelle stanze sotterranee prelevando coperte, vestiti e medicine, Bellamy chiedeva mentalmente perdono.
Chiedeva perdono davanti alle fotografie, davanti ai libri, davanti ai pupazzi che dovevano appartenere a qualcuno. A qualche innocente che non avrebbe mai più avuto la possibilità di far scorrere gli occhi su quelle piccole cose che rendevano quel posto la sua casa.
I morti sono morti, si ripeteva.
Ricordati: chi siamo, e chi dobbiamo essere per sopravvivere, sono due cose molto diverse.
Riemerso dalla montagna, Bellamy stava quasi per scoppiare a piangere come un bambino.
Perché ai piedi di quella montagna, sul lato opposto rispetto a quello dal quale loro avevano fatto irruzione, erano state scavate più di duecento fosse.
All’ombra degli alberi, dove il sole pomeridiano filtrava facendo timidamente capolino tra le fronde e creando giochi di luce sul terreno, riposavano in pace gli abitati del monte.
Quel monte che tanto strenuamente avevano difeso ora incombeva su di loro, proteggendo le loro tombe dalle intemperie.
E su ogni porzione di terra smossa era stao trapiantato un fiore, un fiore diverso per ogni anima, rendendo quella radura una distesa di colori.
Clarke.
Bellamy si era inginocchiato fra le fosse, con gli occhi spenti e la testa bassa, e aveva chiesto di nuovo perdono.
Mi dispiace, mi dispiace. Mi dispiace davvero.
Ma a rispondergli fu solo il fruscìo del vento.
 
Clarke non è guarita, sente ancora gravare sulle sue spalle il peso delle proprie colpe.
Ma in quei mesi di lontananza aveva capito cosa voleva e cosa era giusto.
Le era servito del tempo da sola, per riflettere, ma alla fine era giunta alla conclusione che non poteva scappare, che doveva tornare a casa.
Dalla sua gente.
Dalle persone che amava.
Aveva maturato quella conclusione attraverso la solitudine e la sofferenza, e le sembrava giusto che la sua gente conoscesse le motivazioni.
Non era servito granchè, nessuno era rimasto ad ascoltare le sue motivazioni: Raven le si è lanciata addosso piangendo, ridendo e insultandola allo stesso tempo.
Monty l’aveva abbracciata con forza e le era rimasto incollato al fiaco tutto il giorno per avere notizie su ciò che aveva passato e per informarla sulle novita del Campo 42.
Tutti l’avevano accolta e celebrata.
Persino Jasper aveva accantonato i suoi rancori, aiutato da un’ingente dose giornaliera di alcohol.
Gli ci era voluto tempo per piangere il suo amore perduto, la sua amata Maya.
La giovane, bellissima ragazza che aveva dato la vita nel tentativo di salvare quella dei quarantadue.
Così pura, così giusta. Così innocente.
Non aveva perdonato Clarke, non ancora, ma aveva capito che qualunque decisione avesse preso quel giorno in quel monte, sarebbe stata comunque sbagliata.
Aveva fatto del suo meglio per proteggere la sua gente.
Quindi quando era uscito dalla tenda per vedere cosa causasse tutto il trambusto e aveva visto Clarke, all’inizio era rimasto fermo, indeciso su cosa fare.
Anche Clarke lo aveva guardato, gli occhi pieni di scuse e di rimorso.
Jasper aveva fatto qualche passo nella sua direzione, sorriso incerto e aveva teso la mano.
La tensione nelle spalle della ragazza si era allentata mentre gli aveva stretto la mano, producendosi in ciò che più vicino a un sorriso era capace di fare.
Magari non sarebbero diventati di nuovo amici.
Ma quello era un inizio.
Bellamy l’aveva guardata da lontano per tutto il giorno. L’aveva vista interagire di nuovo con la gente a cui aveva salvato la vita e poi abbandonato, e familiarizzare con il nuovo campo, con Monty e Raven sempre vicini.
Non poteva crederci.
Era tornata.
Dopo un anno la sua principessa – la principessa, si era corretto, dandosi uno schiaffo mentale – era tornata a casa.
Non sapeva cosa pensare, non sapeva come comportarsi.
Più volte, il giorno del suo ritorno, lei lo aveva cercato con lo sguardo, ma lui l’aveva evitata.
Si era ritirato nella sua tenda, in compagnia del Moonshine gentilmente fornito da Monty.
Per quel giorno, aveva deciso, il campo poteva prendersi cura di se stesso.
Clarke fece la sua comparsa nella tenda quando il falò era stato acceso, e tutti stavano mangiando e chiacchierando allegramente.
Le sembrava così strano, così bello vederli tutti tranquilli, tutti felici.
A quanto pare, in sua assenza, i guai si erano tenuti lontani dai quarantadue, concedendo loro un po’ di serenità.
Aveva sentito molte parole, e visto molti sorrisi, quella sera. Ma mancava qualcosa.
Mancava lui.
Aveva vagato per il campo, cercando la sua tenda.
Raven le aveva detto che era la più grande dopo l’infermeria. Le ha raccontato come avessero organizzato il nuovo campo, di come Bellamy fosse stato un leader impeccabile.
La prima tenda che avevano tirato su, le aveva raccontato il meccanico, era stata quella di Bellamy.
Una degna dimora per un degno capo, così Monty l’aveva presentata a Bellamy.
Ma lui si  era rifiutato categoricamente di dormirci finchè tutti avessero avuto la propria tenda.
Aveva dormito fuori, accanto alle braci morenti del falò, e aveva lasciato la sua nuova abitazione a cinque più giovani membri del campo.
Tipico di Bellamy, aveva pensato Clarke con tenerezza durante il racconto di Raven.
Era entarta silenziosamente, trovandolo in un degno stato di ebbrezza.
Non era ubriaco, non ancora, ma non era neanche sobrio.
Sedeva su uno sgabello, piegato sul piccolo tavolino di legno che Monroe era riuscito a intagliare grossolanamente per lui, rigirandosi la bottiglia semivuota tra le mani.
«Dovresti mangiare» aveva sussurrato Clarke poggiando sul tavolo uuna piastra di metallo con sopra della carne alla griglia.
Bellamy non aveva alzato la testa, e Clarke avrebbe disperatamente voluto vedere i suoi occhi, avrebbe voluto parlare, sapere come si sentiva.
Si era dondolata imbarazzata da un piede all’altro.
Non era mai stata così difficile, la comunicazione tra loro.
Si erano sempre scambiati opinioni, urlati contro, rassicurati a vicenda.
Le parole non li avevano mai spaventati.
«Wow, ti sei sistemato bene» aveva detto la prima cosa che le era passata per la testa, nel disperato tentativo di sollecitare una sua reazione.
Bellamy aveva alzato lentamente la testa.
«Cosa vuoi, Clarke?» aveva sputato con rancore, l’alcohol a renderlo più aggressivo del solito.
«Parlare»
La risata amara uscita dalla bocca di lui non era durata molto.
«E di cosa?» aveva chiesto alzandosi lentamente e guardandola sprezzante. «Di cosa vorresti parlare
Clarke non si era mai sentita così piccola al suo cospetto, sotto lo sguardo pungente dei suoi occhi scuri.
«Di tutto. Di quello che è successo, di - »
«Non c’è niente di cui parlare» aveva tagliato corto lui, scostando con una mano un lembo della tenda e facendole un cenno brusco con la testa, invitandola esplicitamente ad uscire.
Ma Clarke era rimasta al centro della tenda, a braccia conserte e labbra serrate.
Vedendo che non era intenzionata a lasciarlo in pace, Bellamy decise che allora sarebbe uscito lui.
L’alcohol lo aveva reso però, molto più lento della ragazza che, capite le sue intenzioni, si era subito interposta tra lui e l’uscita con uno sgrado deciso.
«No, tu non te ne vai» aveva detto, e a Bellamy era sembrato di sentire una nota di disperazione nella sua voce. «Non finchè non avremo parlato»
La distanza tra loro si era notevolmente ridotta, e gli occhi scuri di Bellamy facevano sentire Clarke irrequieta. Tuttavia non meno testarda.
Era rimasta al suo posto, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi, finchè non era stato lui a parlare, alzando la voce esasperato.
«Cosa vuoi che dica?» aveva detto duramente cercando di scostarla. «Cosa vuoi che faccia?»
Clarke non sapeva più che fare, ma stava cominciando ad arrabbiarsi.
Era lì per lui, perché teneva a lui. Non si meritava quella durezza.
E poi aveva perso le staffe.
«Vorrei che reagissi!» aveva alzato la voce a sua volta poggiandogli le mani sul petto muscoloso e spintonandolo con forza. Bellamy era inciampato indietreggando verso il centro della tenda, colto alla sprovvista.
Aveva riaquistato l’equilibrio solo per essere attaccato di nuovo.
«Vorrei che urlassi, che mi insultassi» Clarke lo aveva spintonato, ancora e ancora. Non le importava che tutto il campo sentisse: voleva che Bellamy percepisse la sua frustrazione.
«Vorrei che facessi qualcosa, qualunque cosa» Bellamy le aveva afferrato i polsi, tenendola ferma e impedendole di continuare a spingerlo.
Voleva che facesse qualcosa. Voleva che facesse qualcosa.
Con i freni inibitori pressochè nulli e il giudizio obnubilato dall’alcohol, Bellamy aveva dato sfogo a tutta la sua ira, il suo dolore, la sua frustrazione. Tutto quello che per un anno si era tenuto dentro era uscito fuori come un uragano impossibile da controllare.
Di certo gli abitati del campo avrebbero avuto qualcosa su cui spettegolare, il giorno dopo.
«Cosa pensavi, principessa, che sarebbe tornato tutto come prima?» aveva stretto la presa sui polsi di Clarke, strattonandola.
Clarke non aveva mai avuto paura di Bellamy, non veramente. I primi giorni che avevano passato sulla terra, anche allora sapeva che quella di Bellamy era una facciata.
Ma questo Bellamy la stava terrorizzando.
Si stava muovendo come un animale ferito, e Clarke sapeva che stava per sputarle addosso un sacco di cose che lei non si sarebbe mai voluta sentir dire.
«Tu te ne sei andata» le aveva urlato contro.
«Mi hai abbandonato perché eri troppo codarda per fare i conti con quello che avevi fatto. Quello che avevamo fatto»
Appunto, aveva pensato Clarke.
La presa sulle sue mani era forte, ma non abbastanza. Non avrebbe piagnucolato come una bambina davanti a lui.
«Ero pronto a starti accanto. Volevo starti accanto, avremmo superato la cosa insieme, come abbiamo sempre fatto. Insieme, ricordi?»
L’immagine delle loro mani su quella leva, come l’avevano tirata, le ritornò alla mente. Insieme.
Clarke aveva deglutito a fatica, cercando di non far prevalere le emozioni.
«E invece hai preferito abbandonarmi, come se io non dovessi convivere coi tuoi stessi demoni. Non sei l’unica assassina qui»
Le parole dure di Bellamy la avevano colpita come un pugno.
«L'ho fatto per la nostra gente, perché non portassero quel peso che era mio dovere portare»
«Stronzate»
«Bellamy -»
«Tutte stronzate!»
La sua voce era rauca. «Non era solo tuo»
La sua stretta era diventata ancora più ferrea.
«Bellamy, lasciami andare». Clarke aveva tentato di imprimere un tono autorevole e minaccioso.
«Era anche mio»
«Bellamy»
«Puoi anche mentire a te stessa fino a credere alle tue stesse bugie, ma io so la verità.
Non l’hai fatto per nessuno, se non per te stessa»
«Mi fai male» aveva sussurrato alla fine Clarke con voce tremante, perdendo il suo rigido autocontrollo.
Bellamy si era reso conto solo in quel momento della sua stretta e l’aveva subito lasciata, allontanandosi da lei.
Si era voltato dandole le spalle, passandosi le mani tra i capelli, cercando di controllare il loro tremito.
Dopo lunghi secondi di silenzio, era stato lui a parlare di nuovo, con voce sommessa.
«Non ho contestato la tua decisione. Ti ho lasciata andare, nonostante la cosa mi distruggesse. Capivo la tua paura e il tuo dolore ed ero disposto a darti dello spazio.
Capivo e rispettavo ciò che avevi deciso. E in quest’anno che sono rimasto solo ho continuato a capire e rispettare. Forse troppo. L’ho fatto per te, ma ciò non vuol dire che condivida la tua decisione di abbandonarci tutti»
Finalmente si era voltato a guardarla. E forse Clarke avrebbe preferito se non l’avesse fatto, perché il suo sguardo l’aveva ferita come una lama.
«Le cose possono tornare come prima, se lo desideri» le aveva detto guardandole un punto indefinito dietro di lei, come se le stesse guardando attraverso.
«Potrai prenderti cura della tua gente, e io farò finta che niente sia mai successo. Insieme funzioniamo bene. Tu tornerai a essere la principessa, tornerai in infermeria e gestiremo il campo fianco a fianco come abbiamo sempre fatto»
Clarke alzò lo sguardo, trattenendo le lacrime.
Una transizione politica, è questo che vuole da me.
«Ma tra me e te non cambierà niente. Il tuo ritorno non cambia niente. Non ti ho perdonata»
Clarke era giunta al limite, stava per crollare, ma voleva che Bellamy concludesse. Voleva che la torturasse fino alla fine, dicendole tutto ciò che aveva da dire.
«Tutto questo solo se sei qui per restare. Questi ragazzi sono felici. Abbiamo costruito una nuova vita e stiamo bene. Sono ancora più felici ora che sei tornata. Hanno bisogno di te»
Io ho bisogno di te.
«Ma non ho intenzione di illuderli per poi dover dare loro la notizia di un altro abbandono da parte tua»
Abbandono. Continuava a usare quella parola, e Clarke la odiava.
«Quindi te lo chiedo ora. Resterai?»
Con quel poco di voce che aveva la forza di tirar fuori, Clarke sussurrò un si.
«Mi devi dare la tua parola, Clarke» Bellamy l’aveva guardata con intensità e lei aveva annuito.
Si, aveva intenzione di restare.
Il ragazzo le aveva fatto un cenno con la testa, aveva recuperato la sua bottiglia e l’aveva superata, uscendo dalla tenda.
Clarke era rimasta immobile, in piedi, finchè una scossa di singhiozzi non le aveva dilaniato il corpo facendola cadere sulle ginocchia.
Pianse sommessamente per un tempo infinito.
Forse si meritava la durezza di Bellamy, dopotutto.
 
(Lui era ancora fuori dalla tenda.
Rimase lì finchè Clarke non smise di piangere)
 

 
 
 
Bellamy vaga per il campo rabbrividendo. Dove diavolo si è cacciata Clarke?
Alla ragazza in infermeria, Christina, è salita la febbre. Ancora.
Poco più di un mese da quando la principessa è tornata, e già l’infermeria è in fermento.
Siamo a Gennaio, si dice Bellamy.
L’inverno è quasi finito. Sa bene che farà freddo fino a Marzo, ma mentire a se stesso è l'unica cosa che gli rimane.
È stata dura sopravvivere all’inverno, soprattutto prima che arrivasse Clarke.
Harper se l’era cavata, non avevano perso nessuno per via delle temperature rigide, ma avevano avuto moltissimi ammalati, tanto che Harper aveva dovuto reclutare persone che si improvvisassero infermieri, per poter aiutare tutti.
Con la presenza della principessa, il numero delle presenze in infermeria era notevolmente ridotto, ora che aveva anche Harper come aiutante.
Ma questa ragazza era in infermeria da una settimana, e la febbre non sembrava scendere.
Potrebbe prendersi una polmonite, aveva detto Clarke a Bellamy, e allora sarebbero guai grossi.
Tra lui e Clarke le cose funzionavano bene. Avevano subito ritrovato la coordinazione e la complicità nel comando di un tempo.
Ma non erano mai andati oltre quello, non dopo il litigio quella sera del giorno del ritorno di Clarke.
 
(«Mi dispiace per ieri, ero ubriaco» aveva detto Bellamy mentre Clarke cercava di nascondere il livido che le aveva lasciato sul polso.
«Già» aveva detto lei. )

 
A volte Clarke cercava di riaffrontare l’argomento, ma lui trovava sempre qualche dovere irrimandabile che richiedeva la sua presenza e si allontanava subito da lei.
Entra nella tenda dedicata alla meccanica e elettronica.
«Wick» fa un cenno del capo all’ingeniere che lavora con Raven. «Hai visto Clarke?»
Wick distoglie l’attenzione dall’affarino che sta studiando curvo sul tavolo.
«Credo si sia presa un po’ di gente, tra cui Monroe, che l’accompagnassero a trovare una qualche alga» risponde dopo aver fatto un attimo di mente locale. «ha detto qualcosa riguardo la febbre di qualcuno che stava peggiornado»
Bellamy stringe i pugni.
È uscita per una spedizione.
Senza dirglielo.
Meraviglioso.
«Grazie amico»
Wick gli fa un debole cenno della testa prima di totnare al suo lavoro.
 
(Due ore dopo non sono ancora tornati.
Il sole sta calando. )
 
Bellamy cammina avanti e indietro nella tenda di Raven.
«Clarke ha il secondo walkie talkie» afferma esaminando nervosamente il suo.
«Se fosse successo qualcosa mi avrebbe avvertito»
«Immagino di si» risponde Raven.
«E smettila, stai scavando un fosso nella mia tenda» aggiunge irritata.
Bellamy la guarda di traverso. Dovrebbe essere un’occhiata minacciosa, ma la sua preoccupazione è così evidente da non lasciar spazio per altro.
«Ei» Raven gli poggia una mano sulla spalla. «Se non tornano entro un’ora mandiamo una squadra a cercarli»
Bellamy annuisce e fa per uscire dalla tenda, quando la voce di Raven lo blocca. «Tornerà. Andrà tutto bene»
 
(La prima previsione di Raven era giusta.
La seconda no. )
 
Mezz’ora dopo i cancelli vengono aperti, e il nome di Bellamy chiamato a gran voce.
Sono tornati. È tornata.
Corre verso i cancelli.
La prima persona che vede è Monroe, una sacca piena di alghe marroni a tracolla, una mano stretta sull’avambraccio.
È ferita.
E poi è come se tutti i suoi incubi siano diventati realtà.
Clarke trascinata da due ragazzi. Ha i capelli bagnati, è avvolta con due giacche ed è blu. E incosciente.
«Cosa è successo?» grida agitato.
«Non so che le è preso, non poteva aspettarci per prendere quelle cazzo di alghe» inveisce uno dei due ragazzi che la tiene. «Un secondo prima era a riva, un secondo dopo era caduta nel fiume ghiacciato. La corrente la stava portando via e Monroe si è - »
Bellamy non ha neanche interesse ad ascoltare il resto della storia.
Prende Clarke tra le braccia, esaminando il suo colorito. Da vicino è anche peggio.
«Portate Monroe in infermeria» ordina correndo verso l’area medica.
Entra come un fulmine nella tenda gridando il nome di Harper.
La ragazza arriva subito e si copre la bocca con le mani. «Dio, che è successo?»
«È caduta nel fiume ghiacciato, e ci è rimasta un po’, credo. Monroe è ferita»
Harper le sente il polso.
«Mettila sul tavolo» gli ordina, poi si rivolge a Monroe.
«La tua ferita non è grave, a te penso dopo. Resta seduta, potresti perdere altro sangue e avere dei giramenti, è normale però»
Rivolge la sua attenzione nuovamente a Clarke.
«Devi portarmi dell’alochol. Il Moonshine di Monty, il wiskey di Miller, qualcunque cosa» lo istruisce mentre libera Clarke dalle giacche aggiuntive.
«Che succede?» chiede Bellamy agitato.
«Shock termico» spiega Harper con voce piatta. «Bisogna asciugarla e riscaldarla in fretta, dobbiamo fermare l’ipotermia»
«Cioè?»
«Ti ho appena dett - »
«Starà bene, Harper?»
Nonostante la domanda fatta, Bellamy non è sicuro di voler conoscere la risposta.
Harper esita un attimo.
«Non lo so» ammette.
Non può star succedendo.
«Che devo fare?» il panico di Bellamy viene sostituito da determinazione.
Non ti azzardare a morire.
Spera che Clarke senta i suoi pensieri.
«Chiama Colin e  Alec, dì loro di portare tutte le coperte più calde che abbiamo»
Bellamy obbedisce velocemente.
I due assistenti arrivano in un lampo, radunandosi intorno al tavolo.
Harper estrae un coltello dalla tasca dei pantaloni e comincia dilaniare i vestiti di Clarke, esponendo porzioni sempre più ingenti di pelle dal colorito bluastro. Non c’è tempo per spogliarla, bisogna fare in fretta.
Sta per tagliarle via il regiseno quando Bellamy la ferma. «Harper, che cazzo fai?»
«Devo toglierle i vestiti bagnati»
Bellamy si volta paonazzo verso i due assistenti.
«Uscite» ordina loro.
I due fanno per obbedire, ma Harper li blocca. «No, mi servono»
«Ti basto io» afferma Bellamy stringendo i pugni. Non permetterebbe mai che qualcuno la veda nuda.
Harper sta per perdere la pazienza.
«Non me ne frega un cazzo se coprono o no i loro occhiucci innocenti, Bellamy, sto cercando di non farla morire di ipotermia, cristo santo!»
Bellamy non l’ha mai vista così fuori di se.
«Bene, siamo in due» afferma poi deciso.
Si rivolge subito dopo verso i due assistenti, indecisi sul da farsi, ordinando a uno di andare a rimediare l'alcohol e all'altro di riempire un pentolone con le braci ddel falò.
I due escono velocemente, felici di non trovarsi più in quella situazione compreomettente.
Harper procede a tagliare gli indumenti di Clarke. «Adesso devi seguire quello che ti dico parola per parola, o ti caccio fuori immediatamente, chiaro?»
Bellamy annuisce vigorosamente.
«Togliti la giacca» È il primo ordine che arriva.
Harper si sta sfilando la sua.
«Dobbiamo asciugarla completamente prima di coprirla di nuovo»
Bellamy esegue scrupolosamente, usando la sua giacca per strofinare con forza i capelli gocciolanti e cercando di  asciugare ogni goccia sul suo corpo.
Arriva il pentolone colmo di brace bollente e l’alcohol, e poco dopo le coperte.
Non morire.
Resta con me.

Harper comincia ad avvolgerla con le coperte. «Falla bere»
Bellamy le alza la testa delicatamente, inclinando la bottiglia di moonshine verso le sue labbra.
Un rivoletto di alcohol le scivola sulla guancia, e lui è quasi sicuro che non ne abbia ingerito neanche un po’.
Le mette un dito sotto il naso. Respira ancora.
«Ricordi quando hai detto che non potevi perdermi?» le dice piano, ignorando la presenza di Harper. «La cosa vale anche per te, non ti azzardare a lasciarmi»
Prova di nuovo a farla bere, questa volta tappandole il naso e costringendola a ingoiare il liquido.
Clarke tossisce.
Bellamy sospira di sollievo e Harper si avvicina.
La ragazza apre un poco gli occhi, guardandosi intorno.
«Bell?»
Bellamy le stringe la mano. «Sono qui»
«Fai un infuso con le alghe e fallo bere a Christina»
Bellamy ride, sollevato. La sua voce non è altro che un sussurro, ma almeno è cosciente.
«Certo, principessa»
Poi Clarke chiude di nuovo gli occhi.
 
Si sveglia un giorno e mezzo dopo, completamente inconsapevole di dove si trovi e perché.
L’unica cosa che sa è che c’è una testa riccioluta appoggiata al tavolo, accanto al suo fianco, e che una mano forte sta stringendo la sua.
Sorride dolcemente.
Bellamy. Ha dormito lì.
Il suo movimento lo sveglia subito.
«Ei» sussurra Clarke passandogli una mano tra i capelli disordinati.
«Ei a te, Principessa» risponde lui con aria assonnata, felicissimo di sentirla parlare di nuovo. «Come ti senti?»
Clarke cerca di mettersi un po’ più dritta.
«Bene. Un po’ indolenzita» stiracchia le gambe.
«Certo, avreste potuto mettermi su un letto» cerca di usare un tono canzonatorio.
Un angolo della bocca di Bellamy si alza leggermente.
«Avevamo paura ti fossi rotta qualcosa, non volevano spostarti finchè non fossi stata cosciente» torna subito serio.
«Non azzardarti mai più a farmi una cosa del genere, a rischiare la vita per una tale stupidaggine» le dice, la voce più roca del solito.
«Ho perso dieci anni di vita»
Clarke tossicchia. «Mi dispiace».
Prende un respiro profondo. «Non solo per questo. Per tutto»
Bellamy si alza lentamente, dandole un bacio sulla fronte.
«Lo so» dice semplicemente, un mezzo sorriso sulle labbra. «Vado a chiamare Harper»
Fa per uscire dalla tenda quando la voce di Clarke lo ferma.
«Questo vuol dire che mi perdoni?»
Bellamy ridacchia. «Non è molto corretto chiedermelo dopo che sei quasi morta, sai?»
Clarke fa spallucce risoluta.
«Può essere» risponde alla fine Bellamy uscendo dall’infermeria.
 
---
 
Questa non è un OS. È un libro a se.
Perdonate il flashback di proporzioni cosmiche all’inizio, ma ho deciso che queste OS saranno collegate, quindi ci sarà sempre una specie di salto indietro per far capire come si è arrivati al punto attuale. È poi dovevo scrivere il litigio. Sorry not sorry, è stata la parte più bella.
Comunque il “salto indietro” sarà più breve nelle prossime, lo prometto.
Sono una frana a scrivere Flashback, che però non sono a se stanti, ma sono inseriti in una storia coi tempi verbali al presente. Avrò sicuramente fatto un sacco di errori che vi invito a segnalarmi.
Perdonate se sono andata un po’ OOC.
E…basta.
Ciaoooooone :)
E.
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Influences ***


                                                                                                                                                                        Attenzione, il livello di fluff di questa OS potrebbe uccidervi.

Dopo la quasi morte per congelamento di Clarke, le cose fra lei e Bellamy sono tornate come prima. Ci era voluto un po’, ma erano finalmente andati oltre le loro problematiche.
Ma la prima volta che la nuova questione si propone, Clarke viene totalmente colta di sorpresa, e ne resta basita. Per non dire sconvolta.
Lei e Bellamy stavano discutendo sui trattati di pace con le tribù vicine.
Bellamy voleva a tutti i costi estendere il loro territorio di caccia, Clarke invece sosteneva che per il sustentamento del campo fosse sufficiente il cibo che riuscivano a procurarsi nel normale territorio di caccia, e che espanderlo avrebbe potuto creare inintenzionalmente un conflitto di interessi con le tribù vicine.
Siamo riusciti a trattare la pace senza spargimenti di sangue, gli aveva detto lei con le mani sui fianchi. Perché devi sempre rendere tutto più difficile?
- Ne abbiamo bisogno, aveva replicato lui.

- No, non è vero.
- Ascoltami una volta tanto, principessina dei miei stivali.
- Sei tu che dovresti ascoltare me, cafone impertinente.

E così via, a un livello sempre crescente di voce.
Clarke era infine uscita come una furia dalla sua tenda, con uno sbuffo esasperato e sbattendo i piedi.
Era passata davanti a un gruppo di ragazzi che pulivano la carne fresca di caccia accanto al falò acceso.
«Oh no, mamma e papà hanno litigato di nuovo», aveva borbottato uno di loro sottovoce.
Ma non abbastanza.
Clarke aveva sentito e aveva boccheggiato.
Mamma e papà?
Che cos’era questa storia? Credevano che lei e Bellamy fossero in una relazione?
Lei e Bellamy?
Di tutte le persone che c’erano nel campo avevano accostato quelle meno probabili.
Non era una cosa seria, dopotutto, ma aveva davvero destabilizzato Clarke.
Era entrata nella tenda di Raven come una furia.
«Non ci posso credere!» aveva urlato.
Il meccanico aveva alzato la testa da un qualche progetto su cui stava lavorando.
«Che c’è, mamma?»
Clarke aveva cominciato a camminare avanti e indietro per la tenda, gesticolando animatamente.
«Prima quell’imbecille se ne esce con una delle sue: Allarghiamo il territorio di caccia. Allarghiamo il  territorio di caccia, principessa dei miei stivali», aveva ripetuto una seconda volta scimmiottando il timbro profondo di Bellamy.
«Ma dico, cos’ha nel cervello, segatura?» Raven per poco non era scoppiata a ridere mentre ascoltava lo sproloquio della ragazza.
«Poi scopro che alcuni ragazzi del campo ci-». Clarke si era bloccata di colpo, le mani a mezz’aria e le spalle rivolte a Raven.
Si era voltata di scatto, guardandola con le sopracciglia aggrottate.
«Mi hai chiamata mamma?», aveva domandato confusa.
«Eh?» aveva risposto Raven distrattamente.
Clarke si era messa le mani sui finchi. «Mi hai appena chiamata mamma»
La cosa cominciava a farsi strana. Che stava succedendo.
«Clarke, ti chiamo mamma da tipo…due mesi. Te ne accorgi ora?». Il meccanico aveva studiato l’espressione dell’amica. «Qual è il problema?»
«Un ragazzo si è riferito a me e Bellamy come- » le parole le erano uscite di bocca come un grugnito. «Mamma e papà»
Raven l’aveva sollecitata, non capendo il punto della questione. «E…?»
Clarke si era buttata a peso morto sul materasso improvvisato, coprendosi il volto con le mani. «Non lo so è- » aveva cercato la parola giusta, senza trovarla. «Strano. E stressante»
Raven aveva scosso la testa, divertita dal disagio della ragazza. Non l’aveva mai vista così preoccupata per una cosa tanto futile.
«Cosa c’è di tanto strano?», le aveva chiesto sedendosi accanto a lei.
«Avete salvato la vita a ogni singolo individuo che brancoli in questo campo. Insieme.
Siete stati i loro leader fin dal primo momento che hanno messo i piedi su questa terra, sempre insieme.
Prendete decisioni, condividete colpe.
Insieme, avete dato ciò di più vicino ad una famiglia che questi criminali avrebbero mai potuto avere dopo essere stati condannati».
Clarke aveva riflettuto. Era tutto vero, era sempre stato così. Bellamy e lei si bilanciavano, erano due facce contrapposte della stessa medaglia.
Avevano bisogno l’uno dell’altra.
Si fidavano ciecamente  l’uno dell’altra.
«E in più», aveva continuato Raven «Riuscite a comunicare anche solo con uno sguardo, vi migliorate a vicenda e litigate come una coppietta sposata».
Le era sfuggita una risata sull’ultimo punto dell’elenco.
Clarke l’aveva fulminata. «Io e Bellamy non facciamo niente come una coppietta sposata»
«E invece si», aveva ribattuto il meccanico. «Metabolizzate e acquisite le abitudini dell’altro, anche, proprio come una coppietta sposata»
Clarke era scattata in piedi. «Questo non è vero!»
«Si che lo è, ma non è questo il punto» aveva rilanciato Raven prendendola per un braccio prima che uscisse dalla tenda. «Quello che intendevo dire, è che non vedo niente di strano in quegli innocui, stupidi nomignoli. Cerca di vedere le cose per quello che sono»
 
(Clarke era uscita dalla tenda, ripromettendosi di fare attenzione per individuare ed eliminare i suddetti comportamenti da “coppietta sposata”.
Molta attenzione.
Che poi non ci sia riuscita, quella è un’altra faccenda.)
 
Pochi giorni dopo, Clarke sta lottando con un armadietto di metallo sigillato recuperato da Mount Weather, pieno di medicinali.
Non devi averci a che fare per forza, le aveva detto Bellamy, ma lei aveva insistito.
Doveva combattere i suoi fantasmi, in qualche modo.
Nonostante tutto l’impegno che sta mettendo nel tentare di scassinare il lucchetto con delle vecchie forcine, l’arnese di metallo non sembra intenzionato ad aprirsi.
È da mezz’ora che sta sudando su quel dannatissimo lucchetto, ma si rifiuta di chiedere aiuto a qualcuno. È una cosa che deve fare lei, e non ha alcuna fretta.
Cazzo, pensa quando una delle due forcine si spezza.
Un lamento disperato, misto a un ringhio di frustrazione le sfugge dalle labbra.
«Principessa?» Clarke non si volta, troppo impegnata.  «Ho bisogno di una mano a-»
Bellamy entra nella tenda/infermeria, per trovare una Clarke accucciata per terra, col sedere per aria, a litigare con quell’armadietto arrivato in infermeria più di una settimana fa.
«Che sta facendo?», domanda confuso.
La risposta arriva  confusa alle sue orecchie. «Solo un attimo Bellamy, devo –figlio di puttana- ehm, finire di fare una cosa».
Bellamy scoppia a ridere per l’imprecazione, facendo voltare la ragazza.
«Cosa?», sibila inviperita.
Bellamy ride ancora più forte alla sua faccia arrossata, coi capelli che sparano in tutte le direzioni e gli occhi fiammeggianti.
«Sembri una matta psicolabile». Ride ancora più forte.
Clarke si alza, infastidita della sua ilarità.
«Vorrei vedere te aprire un lucchetto che sembra fatto di fottuto cemento armato con una forcina rotta, brutto cazzone avariato»
A quel punto Bellamy si sta reggendo la pancia.
«Che c’è?» urla la ragazza esasperata.
Quando recupera fiato, il ragazzo si asciuga le lacrime raccolte all’angolo dell’occhio con un dito. «Dovrei lavarti la bocca col sapone, principessa. Da quando dici tutte queste belle parole?»
Clarke si blocca. Non è solita essere scurrile.
«E poi, cazzone avariato?» continua Bellamy alzando un sopracciglio folto. «Devo chiedere i diritti d’autore?»
È piuttosto sicuro di essere l’unico ad inventare insulti così creativi. Da chi può averlo imparato la principessa, se non da lui?
Clarke si accorge in quel momento di quello che sta succedendo.
Metabolizzate e acquisite anche le abitudini dell’altro…
Non poteva essere.
Non poteva aver acquisito il vocabolario colorito di Bellamy.
No, no. No.
«No, Bellamy» risponde infine raddrizzando le spalle. «Non sei l’unico a poter dire parolacce qui. Vedi, questa principessa può dire tutte le parolacce che vuole»
E detto ciò, Clarke snocciola tutte le imprecazioni più colorite presenti nel suo vocabolario e poi esce dalla tenda con un sorrisino soddisfatto.
Bellamy rimane al centro della tenda con un sorriso da ebete sulle labbra.
 
(Perchè la maggior parte delle imprecazione che compongono il suo arsenale, Clarke le ha imparate da lui)
 
Un episodio analogo si verifica non più di una settimana dopo.
Clarke aveva deciso di creare un piccolo orticello dietro la tenda medica.
Aveva realizzato che sarebbe stato molto meglio riuscire ad avere delle piante utili all’assistenza medica a portata di mano, piuttosto che dover andare a cercarle nel bosco.
Sempre a Mount Wheater era stato recuperato un contenitore di semi di ogni genere.
Proprio come sull’Arca, gli abitanti del monte coltivavano usando la luce indiretta dei panneli solari.
Molti dei semi recuperati erano prettamente di ortaggi commestibili, utili, ma non indispensabili al momento.
Clarke aveva selezionato quelli più adatti alle sue cure, facendosi aiutare dalle conoscenze botaniche di Monty.
L’orticello è piccolo, e vi sono solo due piccoli germogli, attualmente, ma è meglio di niente.
Ogni mattina Clarke si sveglia e si dedica alla cura delle pianticelle.
È un rituale rilassante, ormai.
Bellamy la sta cercando, al solito, e la trova accucciata sulla terra, ad armeggiare con utensili strani e acqua.
Si avvicina piano, meditando di farle uno scherzo.
È in quel momento che la sente mormorare.
Non aveva mai sentito Clarke parlare da sola. Non sapeva lo facesse.
Era una cosa strana, ma dolce al tempo stesso.
Bellamy avanza un altro po’ di soppiatto, cercando di capire quello che sta dicendo.
«È bello passare del tempo con voi signore, che ascoltate senza fare domande», la sente dire mentre versa dell’acqua sul terriccio.
«E le vostre foglie sono ogni giorno più verdi». Ora sta praticamente tubando.
«Mi date molta soddisfazione»
Bellamy non riesce più a trattenersi.
«Ti sei procurata degli interlocutori molto loquaci, principessa».
Clarke si volta di scatto, acquisendo una tonalità di rosso quasi improbabile davanti al ghigno divertito del ragazzo.
«Io…ehm», balbetta imbarazzata guardandosi le mani sporche di terra.
«Avevo letto una storia, da piccola, e c’era una signora che diceva cose carine alle sue piante tutti i giorni, per farle crescere meglio» spiega.
«Certo, lei coltivava fiori. È molto più facile fare complimenti ad una rosa che a una pianta di aloe berbadensis…» aggiunge piano, quasi parlando con se stessa.
Bellamy annuisce comprensivo. «Si, immagino le rose siano un compagnia molto migliore»
Clarke alza lo sguardo inarcando un sopracciglio.
Lui riesce a mantenere un’espressione seria per circa cinque secondi, poi il solito sorrisino canzonatorio gli increspa le labbra.
«Avanti, donna che parlava con l’aloe, sei richiesta in infermeria» la prende in giro poggiandole una mano sulla schiena e spingendola delicatamente fuori dalla sua oasi di tranquillità.
«Sei un cretino», sbuffa lei. «Non offenderti poi, in caso preferissi la compagnia di una delle mie piante spinose alla tua»
«Ne sarei ferito oltremodo» Bellamy si mette una mano sul cuore assumendo un'espressione tormentata.
«Ma credo che sopravviverei»
La guarda andare via stizzita.
In quel momento, l’unico aggettivo che si sente in grado di attribuire alla principessa è – e non lo credeva possibile – carina.
L’importante è che si ricordi di non dirglielo, altrimenti potrebbe beccarsi un cazzotto.
 
(Il giorno dopo Clarke va al suo orticello un po’ più tardi del solito.
Lo trova occupato.
La sera prima si era lamentata di come una piantina -una su due, sai che media, era stato il suo commento sarcastico - si stesse accartocciando su se stessa.
Morirà prima di subito se non si tira su, aveva detto in tono lamentoso.
L'occupante illegittimo è Bellamy, piegato sulla pianta, concentrato nel tentativo di legarla ad un legnetto di sostegno per farla stare su.
Clarke si avvicina sorridendo.
«Avanti, piantina bella» lo sente cantilenare mentre cerca di annodare lo spago intorno alla pianta con le sue dita troppo grandi. «Ho bisogno che collabori qui»
Clarke si mette una mano davanti alla bocca per non ridere.
«Forza bastarda schifosa», lo sente sibilare frustrato fra i denti. «Stai su!»
Non è proprio così che funziona la conversazione con le piante, pensa.
Però ci ha provato.
Come aveva detto Raven?
Metabolizzare e acquisire, eh?)
 
---
 
Dei, amo il flufffffff.
Fluff fluff fluff come un coniglietto bianco fluffoso.
Ok, sto sclerando.
So che avevo detto tutto quel mucchio di cavolate, che ci sarebbe voluto un po’ perché Bellamy perdonasse Clarke. Era quella l’idea originale, si, ma poi la mia mente da fangirl ha preso il sopravvento e beh, questo è quanto.
Sono una pessima scrittrice.
Ma li amo tanto.
E amo tanto anche voi, che leggete queste…cose e  riuscite comunque a farvele piacere.
Stavo pensando: potremmo fondere le nostre menti di fangirl! Che ne dite di scrivermi una situazione in cui vi piacerebbe che i miei Bellarke si trovassero. Una cosa che vorreste vedere nella serie tv. Se si adatterà alla linea della mia storia potrei scriverci sopra una OS da aggiungere alla raccolta. Un po’ come i prompt su tumbler (si chiamano così?)
Boh, fatemi sapere, lasciate una recensione. Consideratelo un atto di donazione alla fondazione RCSFA (Recupero Cervello in Stato di Fangirling Avanzato)
Ciaaaooooo J
E.
 
 

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Capitolo 4
*** Confession ***


                                                                                        ATTENZIONE! L'idea per questa OS non è farina del mio sacco.
                                                                                           Perciò dedico questo capitolo all'utente Nala River, la prima persona ad avermi fatto una richiesta: 
Come l'avrebbe presa Bellamy a scoprire la bisessualità di Clarke, la gelosia, e il pensiero di Clarke con un'altra donna.
Grazie, Nala River, per l'idea geniale e originale. Mi sono divertita molto a scrivere questo capitolo e, anche se non è tutto incentrato sulla tua idea, spero ti piaccia comunque.
                                                                                          (Si, ti avevo detto che ci sarebbero stati altri capitoli in mezzo, ma poi ci ho ripensato ahahahah)




Lexa si presenta al nuovo campo a più di un anno dal suo tradimento, e sceglie il momento peggiore. Tutte le piante nell’orto di cui Clarke si è presa assiduamente cura sono morte per il freddo (tranne l’aloe puntigliosa), è pieno inverno e il freddo ha portato con se un’ondata di influenza devastante.
 
Avevano rischiato di perdere tre individui solo durante il mese di Febbraio. Fortunatamente Clarke era riuscita a risolvere la situazione.
Quella mattina, Bellamy si occupa personalmente di andarla a chiamare.
«Vieni subito, è importante», borbotta uscendo dalla tenda medica alla stessa velocità a cui vi è entrato.
La prima cosa che Clarke nota, è che Bellamy è di cattivo umore.
La seconda è che è stato lui stesso a chiamarla. Di solito manda Miller, o Raven, o altra gente.
Questa volta è venuto lui. Significa che è successo qualcosa di grosso.
Ripone in una bacinella gli aghi che stava sterilizzando  sulla fiamma che era riuscita a creare nella stufetta rudimentale, posizionata in un angolo dell’infermeria.
L’infermeria è l’unica ad avere quell’innovativo congegno.
Era stato creato da Wick e Raven, e Bellamy aveva decretato che il primo prototipo sarebbe stato destinato all’infermeria così da poter, all’occorrenza, sterilizzare velocemente sulla fiamma gli attrezzi medici. Alla dichiarazione tutti i ragazzi si erano lamentati, ma Bellamy non aveva accettato obiezioni.
Alcuni dei più giovani avevano avuto l’idea di fingere una qualche ferita e recarsi in infermeria, dove l’ambiente era un po’ più caldo. Quando Clarke l’aveva scoperto si era arrabbiata tanto, che l’infermeria era rimasta vuota per giorni: i ragazzi preferivano tenersi i malanni, piuttosto che affrontare una mamma Clarke di  malumore.
Clarke medita di estinguere la fiamma, prima di seguire Bellamy.
Poi pensa a quanto ci ha messo ad accenderla, e fa marcia indietro.
Sa che se Bellamy lo scoprisse andrebbe su tutte le furie.
La stufa non è collaudata, potrebbe essere pericoloso lasciarla accesa senza supervisione, le aveva detto uno volta.
Aveva ragione.
Oh andiamo, bisbiglia una vocina nella sua testa.
Quanto tempo potrà portarti via questa faccenda? Di certo non abbastanza perché la tua stupida stufa provochi un incendio.
Clarke ci pensa su qualche secondo in più e poi decide che un po’ di calore in più non avrebbe fatto male ai suoi prossimi pazienti.
Si tira le maniche della pelliccia, nascondendovi dentro le mani, e si calca il cappuccio sul volto.

È molto fiera della sua giacca.
Quando Bellamy era entrato nella sua tenda, presentandole con orgoglio la loro prima pelliccia, Clarke era rimasta a bocca aperta.
«Come…?»
Bellamy aveva alzato le spalle. «Abbiamo preso una lince, e Jackson lavorava nel reparto tessile prima di essere arrestato, sull’Arca, quindi…»
Clarke si era lasciata scorrere tra le dita il tessuto morbido.
Bellamy lo aveva lasciato sulle sue braccia, e lei aveva barcollato sotto il peso del tessuto. Sembrava quasi di avere in braccio l’intero animale.
«È per te», aveva borbottato Bellamy. Sembrava non volesse farsi sentire.
Lei aveva strabbuzzato gli occhi. «Per me?». Aveva ammirato il tessuto.
Poteva farne una coperta morbidissima…
Aveva infine scosso la testa tendendola nuovamente a Bellamy. «No, sono sicura che ci sono persone che ne hanno bisogno più di me»
Bellamy aveva alzato gli occhi al cielo e l’aveva ignorata.
«Prendi la pelliccia dannata e basta», aveva borbottato frustrato fra i denti.
Ero uscito borbottando platealmente e facendo ridere Clarke. «Guarda tu, io cerco di essere cortese, e lei deve rendermi le cose difficili…»
Aveva deciso di tenerla, e di farne una giacca per l’inverno che incombeva.
L’aveva cucita con le sue mani, contando solo sulle sue doti di infermiera.
Aveva ricucito insieme così tanti corpi, che una ghiaccetta sarebbe stata una passeggiata.
Era venuta un po’ strana, una manica era più corta dell’altra, e il cappuccio era così grande che poteva calcarselo sulla fronte e poi anche giù fino al naso. Ma era così calda che non interessava proprio a nessuno, menchemeno a lei.
Nel giro di un mese, grazie al nuovo talento scoperto di Jackson, tutti i membri del campo sfoggiavano giacche e coperte nuove di zecca.
Fortunatamente avevano pensato a tutto in tempo, perché non appena era arrivato Dicembre, le temperature si erano abbassate drasticamente. Sarebbero morti di freddo, senza le loro preziose pellicce.
 
(Quando Clarke arriva ai cancelli, stringendosi nella sua giacca, e vede chi sta aspettando dall’altra parte, pensa che forse avrebbe dovuto spegnere la stufa.
Perché questa questione le prenderà molto più tempo di quanto potesse immaginare.)
 
Lexa, non può fare a meno di notare, non è cambiata affatto.
Porta gli stessi capelli lunghi e la stessa pittura nera sul volto, e nei suoi occhi azzurri non c’è cenno di insicurezza.
Ma anche quello che prova Clarke nei suoi confronti non è cambiato.
Nonostante l’anno passato per conto suo, nonostante abbia imparato a convivere con i suoi demoni, Clarke non si è mai perdonata per quello che è successo. Per quello che ha fatto.
E non vede perché Lexa dovrebbe meritarsi quel perdono che lei non ha concesso nemmeno a se stessa.
Quando la vede, dietro le sbarre dei cancelli, affiancata da un gruppo di terrestri, riemergono gli stessi sentimenti provati quella notte in cui Lexa le ha voltato le spalle.
In cui li ha traditi. In cui l’ha tradita.
Clarke sa di non aver mai amato nessuno oltre a Finn, da quando ha messo piede sulla terra. Ma quello che aveva con Lexa, era simile all’amore, in un certo senso.
Era fiducia. Era rispetto.
(Un po’ come tra me e Bellamy, si era sorpresa a pensare. Poi aveva scosso la testa, scacciando il pensiero)
E avevano condiviso qualcosa, quel giorno in cui Lexa le aveva permesso di appiccare le fiamme alla pira dove giaceva Finn.
Quella volta in cui Clarke le aveva salvato la vita.
Quando Lexa aveva deciso di salvare solo lei dall’attacco del missile.
O quando l’aveva baciata.
Ma Lexa aveva distrutto tutto, lasciando solo rancore e disprezzo nel cuore di Clarke.
Bellamy le strizza un braccio, confortandola, quando la vede impietrita davanti al cancello.
Clarke vede la sicurezza negli occhi di Lexa vacillare.
Ma il comandante non si smentisce mai.
«Bellamy», fa un cenno al ragazzo alzando orgogliosamente il mento. «Clarke», dice guardandola dritta negli occhi.
«Siamo qui per trattare una pace»
Clarke rimane impietrita.
Una pace? Un accordo con la persona che li aveva traditi, portandola ad affrontare mesi di sofferenza atroce e sensi di colpa per quello che aveva dovuto fare dopo l’abbandono?
Bellamy scruta le reazioni di Clarke.
Lui era nel monte, quando il tradimento ha avuto luogo, non sa cosa sia successo di preciso, anche se gli eventi gli sono stati riportati dettagliatamente.
La ragazza al suo fianco resta immobile, lo sguardo fisso su un punto indefinito oltre i cancelli.
«Non possiamo rischiare di stringere accordi con comandanti che non mantengono la parola data», afferma Bellamy con calma, cercando di essere il più diplomatico possibile.
È responsabile di un intero campo, ora, non c’è spazio per sbalzi d’umore che mettano a rischio la sua gente. Stringe i pugni cercando di controllare l’ira.
«Stiamo trattando con molti clan al momento, non possiamo accettare la tua proposta».
Lexa annuisce, e poi si rivolge a Clarke. Chiaramente considera lei il capo.
È la risposta di Clarke che le interessa, non quella di Bellamy.
«Clarke?»
La ragazza non risponde. È confusa, è indecisa, è arrabbiata.
Ma non riesce a esprimere niente di tutto questo, mentre guarda Lexa che attande la sua risposta dietro le sbarre del cancello.
Bellamy la prende per un braccio, allontanandola un po’ dal gruppo.
«Ei», le mette un dito sotto al mento, alzandole il viso in modo che possa vederla in faccia.
«Tondc non è più la capitale, non è importante prendere accordi con Lexa, a meno che tu non lo voglia».
Clarke non è sicura. Di cosa sarebbe capace di fare Lexa, in caso rifiutassero?
«La scelta è tua, principessa»
Ancora una volta, Bellamy le sta dando carta bianca. Le sta dando fiducia.
La stessa fiducia che lei aveva dato a Lexa.
Ma era stato un errore.
Un errore che non ha intenzione di commettere di nuovo.
Raddrizza le spalle e annuisce leggermente.
È pronta ad affrontare Lexa, ora.
«È una scelta, Lexa?», chiede Clarke scrutandola con diffidenza. «O il rifiutare causerebbe altre morti?»
«Certo che no, Clarke, sei libera di rifiutare. Lo giuro sul mio onore», risponde.
«Ma ti invito a prendere in considerazione l’offerta, per favore», aggiunge piano il comandante.
Bellamy viene preso in contropiede dallo scambio. Come se Lexa stesse chiedendo qualcosa a Clarke, come se non le interessasse un accordo con il campo.
Tondc è a più di due giorni di viaggio da qui, sussurra una vocina nel suo orecchio.
Tutta quella strada per un trattato di pace con un campo che non entrerà mai a contatto con il loro territorio. Perché?
Alla fine Bellamy giunge alla conclusione che Lexa è qui per Clarke, anche se non sa il perché.
La risposta di Clarke, in ogni caso, non lascia spazio a dubbi.
«Non stringeremo accordi con la tua tribù, Lexa», dice con decisione. «Non ne abbiamo bisogno, al momento»
Le due si guardano negli occhi per qualche secondo in più del dovuto, poi Lexa annuisce piano.
«Osir fis gon we», ordina seccamente ai suoi accompagnatori, che voltano le spalle e cominciano a ritirarsi.
Lexa si trattiene, guardando Clarke negli occhi un’altra volta.
«Mebi oso na hit choda op nodotaim, Klark com skaikru», dice.
«Leidon, Leksa com trikru», replica Clarke.  *
Bellamy non l'aveva mai sentita parlare nella lingua dei terrestri. Evidentemente l'aveva imparata nel suo anno di pellegrinaggio.
Quando Lexa si volta e si allontana, tutti i membri del campo che hanno assistito allo scambio si guardano perplessi. Non si era mai vista una trattativa di pace conclusa così in fretta, senza neanche aprire i cancelli.
Qualcuno chiede spiegazioni a Bellamy, ma lui li liquida senza troppi complimenti.
Sa che questa non era una trattativa di pace. Non era neanche un tentativo di riconciliazione tra due Clan.
Era solo Lexa, che voleva il perdono di Clarke.
Ma per quale motivo era così importante?
 
Bellamy cerca di chiedere spiegazioni a Clarke, più tardi, ma lei lo evita.
Sa che non è capace di mentirgli, e si vergognerebbe troppo ad ammettere che il suo errore di valutazione rispetto il comandante  fosse stato causato dai sentimenti che provava nei suoi confronti.
 
L’unica persona a cui ha confessato tutta la verità è stata Raven.
«Ti ha baciata?!», aveva esclamato il maccanico strabbuzzando gli occhi.
Clarke l’aveva zittita. «Vuoi che lo sappia tutto il campo?»
«Dio, no, sai quante persone farebbero un pensierino su di te e -»
«Santo cielo, Raven!» l’aveva bolccata Clarke. «Sono queste le uniche cose a cui riesci a pensare?»
Raven aveva ridacchiato davanti alla sua faccia scandalizzata.
«Scusa, è che questa davvero non me l’aspettavo». La serietà aveva subito sostituito l’ilarità. «Ne sei innamorata?»
«No», aveva risposto seccamente Calrke.
«Sei sicura?»
Clarke si era nascosta il viso tra le mani, imbarazzata.
«Dio, come siamo arrivate a questo genere di conversazione?»
Era andata da Raven per liberarsi di un peso. Per confessare la sua colpa a qualcuno.
Tutto sommato, se lei non si fosse fidata di Lexa, forse Raven non sarebbe stata torturata fino al midollo. Letteralmente.
Raven era rimasta confusa dalla domanda, anche se retorica. «Cosa ti aspettavi?»
Clarke aveva sospirato. «Non lo so»
Ma il meccanico la conosceva troppo bene. Le era bastato guardarla in faccia per capire.
«Ti aspettavi che mi incazzassi perché avevi una cotta per quella che poi ci ha voltato le spalle?»
«Forse»
 Raven aveva roteato gli occhi e aveva marciato verso di lei, invadendo il suo spazio.
«Sei incredibile!» Clarke aveva indietreggiato confusa dall’aggressività dell’altra.
«Vai in giro aspettando solo che qualcuno ti dia addosso per colpe che non hai.
Ti abbiamo perdonata per quello che è successo. Tutti ti hanno perdonata.
Solo tu sei rimasta indietro e continui a punirti per quello che hai fatto.
E non potevi sapere che quella stronza di Lexa ci avrebbe traditi, non penso che una pomiciata possa metterti a parte di quel genere di informazioni.
Quindi piantala di fare la vittima e volta pagina. L’abbiamo fatto tutti, ed è ora che lo faccia anche tu»
Clarke era rimasta colpita da quelle parole. Ferita da un certo punto di vista, ma era grata che Raven le avesse pronunciate.
Forse aveva ragione.
«Raven?» Stava per fare un’uscita drammatica dalla tenda in cui si erano rintanate, ma la voce di Clarke l’aveva fermata.
«Grazie»
Il meccanico si era bloccato con un piede fuori dalla tenda e l’altro ancora dentro, indecisa sul da farsi.
«Prego», aveva detto infine.
Poi aveva rinfilato la testa nella tenda e aveva aggiunto con un sorrisino «Non è che poi ti viene voglia di baciare anche me?»

(Raven era uscita dalla tenda appena in tempo per schivare la scarpa che le era stata lanciata, e la risata di Clarke era riecheggiata in tutto il campo.)
 
Bellamy entra nella tenda di Raven quando tutti hanno finito di mangiare.
«Ei, come va la gamba?»
Lei alza gli occhi al cielo. «Ah già, oggi ancora non me lo avevi chiesto»
Bellamy si lascia cadere sul suo materasso a peso morto.
«Accomodati» dice Raven sarcastica.
Ma ormai il suo sarcasmo scivola sulla pelle di Bellamy come acqua, e lui decide di andare dritto al punto. «Sai che problemi hanno, o avevano, Clarke e Lexa?»
Raven non si fa prendere dal panico alla domanda. Aveva promesso a Clarke che non lo avrebbe detto a nessuno, e aveva intenzione di mantenere la promessa. «Di cosa parli, Blake
Bellamy la scruta con attenzione.
«So che lo sai, ma non me lo vuoi dire», afferma inclinando un po’ la testa di lato. «Perché?»
Ma il meccanico non cede. «E come sapresti tutte queste cose, Blake
Bellamy sorride sornione.
Oh, si aspettava quella domanda.
«Ti conosco bene ormai, Reyes», afferma socchiudendo gli occhi. «So che non piangi spesso, ma se vedi le lacrime di qualcuno ti apri anche tu come un rubinetto.
So che un tuo sorriso non è vero se non stringi gli occhi fino a quasi chiuderli.
So che ti mangi le unghie quando sei nervosa.
E so che quando menti alzi più volte il sopracciglio destro»
Merda, pensa Raven, l’ho appena fatto.
«E so che mi chiami per cognome ogni volta che menti a me.
Quindi, cosa hai da dire in tuo discolpa?»
Raven forza una risata. «Tu bevi troppo moonshine, Blake»
Cazzo, lo ha fatto di nuovo.
Bellamy sorride soddisfatto.
«E se tutto questo non basta a convincerti a dirmi la verità, dirò a Clarke che la settimana scorsa ho beccato te e Wick a giocare al dottore e l’infermiera nella tenda medica»
«Stai bleffando»
«E che nessuno dei due era malato» prosegue imperterrito Bellamy con un sorriso malizioso sulle labbra.
Raven strabuzza gli occhi. «Non oseresti», sibila.
«Vuoi vedere?»
Alla fine la ragazza cede, ma in sua discolpa bisogna dire che ha tentato con tutte le sue forze di resistere alla furia indagatrice di Bellamy.
Alla fine del racconto, Raven sbuffa, spingendolo fuori dalla sua tenda.
«Ecco, ora torna nella tua tenda e sfoga un po’ della tua frustrazione. Ho appena aperto nella tua mente un hard-disc pieno di immagini della tua principessa in situazioni sessualmente interessanti»
«Io non penserei mai a Clarke in…oh - » Bellamy si blocca subito, accorgendosi di averlo appena fatto.
«Si, come no» dice Raven sarcastica.
 
Bellamy la cerca per tutto il campo. Nella sua tenda non c’è, e neanche nella tenda medica.
Dove si è cacciata?
Magari si è trovata qualche altra ragazza…
Quando si sorprende a pensare una cosa del genere, Bellamy vorrebbe schiaffeggiarsi.
Non poteva essere geloso. Geloso di Clarke.
Erano co-leader. Erano quasi famiglia.
Spero che non pensi determinate cose anche degli altri membri della tua famiglia, lo riprende una vocina nella sua testa. La scaccia infastidito.
Con Clarke non era così, non era quel tipo di rapporto. La loro era più una relazione intellettuale, strategica.
Anche se pensando a…
Bellamy tenta di bloccare il pensiero sul nascere.
La cosa gli sta sfuggendo di mano.
La trova sulla collinetta. È il punto più alto del campo, dove di solito montano i turni di guardia.
Ma ora c’è solo lei, lo sguardo rivolto verso il cielo, i capelli che brillano alla luce pallida della luna.
«Non dovresti stare qui per troppo tempo» dice affiancandola. Lei sobbalza, spaventata, ma riconosce subito la voce e si rilassa. «Non vorremo che il nostro medico si prenda l’influenza»
«Non prenderò l’influenza, Bellamy»
«Me lo prometti?»
Clarke sbuffa. «Si, te lo prometto»
Restano in silenzio per un po’, lo sguardo rivolto verso l’alto, a guardare le stelle e le nuvolette che le loro bocche creano nella fredda aria notturna.
Bellamy decide di affrontare la questione di petto.
«Senti, principessa, per quello che è successo oggi -»
«Bellamy…»
Lui non la lascia intervenire. «So tutto»
Clarke non si volta per guardarlo, spaventata da quello che avrebbe potuto trovare sul suo volto.
Rabbia? Disprezzo? Disgusto?
«So tutto. E posso dirti che niente di tutto quello che so ha importanza»
Vorrebbe credere a quelle parole. Clarke vorrebbe davvero farlo, ma sa che non è la verità.
«Andiamo, Bellamy» dice piano, continuando a guardare davanti a se. «Sappiamo entrambi che non è così»
«Non puoi farti una colpa di quello che è successo solo perché -» Bellamy si blocca, in cerca delle parole.
Finalmente, Clarke si volta verso di lui.
«Solo perché cosa, Bellamy?» sibila. «Solo mi sembra una parola un po’ riduttiva per descrivere il concetto si è inafatuata del comandante a tal punto da non capire che li avrebbe traditi»
Entrambi restano in silenzio per un po’, e alla fine è di nuovo Clarke a parlare.
«Me l’aveva detto anche lei», sussurra. «Anche Lexa mi aveva detto che l’amore è una debolezza. Avrei dovuto ascoltarla.»
Sentire quelle parole fa piangere il cuore di Bellamy. Quei primi anni di vita sulla terra li avevano provati tanto da non conoscere più il vero significato dell’amore.
Ma alla fine, Bellamy era arrivato a capirlo. Contro ogni pronostico, era la persona meno probabile ad avere la risposta.
Vuole che Clarke lo sappia.
Vuole estirpare quel concetto marcio dalla sua mente, e mostrarle la gabbia in cui si era rinchiusa da sola, in modo che si possa liberare.
«Clarke» le poggia entrambe le mani sulle spalle e la costringe a guardarlo.
«Queste sono tutte stronzate, e dovresti saperlo tu meglio di chiunque altro.
Cos’è stato a creare quello che abbiamo intorno, eh? A costruire questo campo?
L’odio? Il potere?
O è stato l’amore che proviamo per la nostra gente?»
Ormai le parole scorrono sulla sua lingua e non riesce a fermarle. Clarke pende dalle sue labbra.
«Nonostante io mi sia opposto con tutte le mie forze, è stato l’amore tra O e Lincoln a unirci con le altre tribù.
È stato l’amore che condividevano Jasper e Maya a convincere molti uomini della montagna a nascondere e proteggere i ragazzi che erano prigionieri lì, nonostante queto li abbia condotti verso la morte.
È stato il nostro amore per la vita a farci sopravvivere fino a oggi. E guardati intorno» Bellamy indica il campo sotto di loro. Il loro campo. «Siamo felici, per quanto possibile»
Clarke non parla. Non saprebbe cosa dire.
«Quindi non venirmi a rigurgitare quelle stronzate sull’amore e la debolezza, perché chiunque creda in quelle cose o è pazzo, o è un idiota, o è cieco»
Bellamy conclude il suo discorso, sollevato per aver detto tutto quello che le voleva dire.
Vorrebbe che Clarke vedesse quello che vede lui.
Vorrebbe che vedesse quanto la loro gente li prenda a riferimento, li rispetti, e li ami.
Vorrebbe che si sentisse amata.
Perché lo è, e neanche lo sa.
Clarke resta al suo posto, apre e chiude la bocca senza emettere suoni.
Poi fa l’unica cosa che riesce a fare, e che possa trasmettere a Bellamy tutta la gratitudine che prova nei suoi confronti.
Lo abbraccia.
Stringe le braccia intorno alla sua vita e affonda il volto nella sua maglietta.
Odora di muschio, di legna bagnata, di pioggia. Di lui.
Bellamy è preso un attimo in contropiede, ma poi la stringe a se, dandole piccole pacche sulla testa.
«Stiamo facendo un buon lavoro», le sussura fra i capelli. «Stiamo andando bene»
Clarke annuisce sul suo petto e poi si allontana, un po’ imbarazzata.
«Ehm si-»
«Si…» Bellamy si passa una mano dietro al collo. «Io vado a…ehm, spegnere il falò»
«Giusto»
Bellamy sta per scendere la collina, quando Clarke lo blocca.
«Posso chiederti l’ultima cosa?»
Lui si volta verso di lei.
Clarke prende un respiro profondo. «Cosa pensi del fatto che io fossi…emotivamente coinvolta da una donna?»
Aveva letto diversi libri in riguardo, sull’Arca. Discriminazione, suprusi.
Gli erano giunte voci anche di alcune coppie sull’Arca. Ma non interessava a molti, siccome lassù meno si procreava, meglio era.
Però si chiede, ora che non c’è più quel genere di problema, cosa potrebbe pensarne la sua gente. A Raven non era interessato.
Bellamy per un attimo non sa cosa rispondere: non aveva pensato a quell'aspetto, al fatto che Clarke potesse sentirsi insicura per via del suo orientamento sessuale. Allora rivolge lo sguardo verso il cielo, e si ricorda di un libro letto sull’Arca.
«Sai, una volta ho letto di un filosofo che spiegava come siano nati l’uomo e la donna.
Inizialmente erano una sola unità, ma poi il padre dell’olimpo Zeus, accecato dall’invidia verso la perfezione di quell'essere ermafrodita, lo aveva tagliato a metà, dando origine all’uomo e la donna.
Da quel giorno tutti gli uomini e le donne sono in cerca della loro metà, la metà complementare. La metà che li renda di  nuovo perfetti»
Clarke è affascinata dalla spiegazione, ma non capisce il motivo di quella lezione di filosofia.
«E…?»
Bellamy sorride. «Il mito vuole che dal momento che trovano la loro metà non saranno più capaci di amare nessun altro in vita loro.
Ma l’amore più alto, è quello che prova l’uomo verso un altro uomo, o la donna verso un’altra donna, perché in questo modo non ha alcun desiderio…corporale. È un amore intellettuale, spirituale.
È puro
«E come si chiamava il filosofo?»
«Non me lo ricordo» Bellamy sorride. «Ma sono d’accordo con lui»
Clarke sorride a sua volta, e Bellamy è contento che sia per merito suo.
Le sue labbra sono ancora più belle, illuminate solo dalla luna. E chissà quante cose –
Bellamy! Riprenditi.

«Posso farti una domanda io?»
Clarke sta per andarsene, ma si blocca immediatamente. «Certo»
«Come è stato baciar - »
La voce nella sua testa lo rimporovera allo stesso tempo in cui lo fa Clarke.
Bellamy Blake, adesso basta.
«Dio, Bellamy!»
Alla sua espressione scandalizzata non riesce a fare a meno di ridere di cuore.
«No, seriamente, è per - »
Clarke praticamente corre giù per la collina.
«Io vado a letto», gli urla. «Cerca di dimenticare tutto, friggiti il cervello nella candeggina, se necessario, Blake»
«Non abbiamo candeggina», gli urla dietro lui.
«Chiedi aiuto a Monty, allora».
Bellamy ride, perché sa che non basterebbe nemmeno la candeggina a eliminare le immagini che il suo cervello ha creato.

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*Le frasi in Trigedaslang tradotte in ordine di apparizione:
«Ce ne andiamo»
«May we meet again, Clarke del popolo del cielo»
«Addio, Lexa del popolo degli alberi»

Ho cercato su internet. Apparentemente il dialetto usato nel telefilm è ripreso da un dialetto inglese antichissimo. 
Ci ho messo tanto a scrivere il capitolo perchè ho trovato un sito fighissimo dove è spiegato tutto di questo Trigedaslang, dai tempi verbali, agli aggettivi possessivi ecc..
In poco tempo lo parlerò fluentemente, ne sono convinta ahahahhaha.


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Eeeeeeiiiiiii.
Scusate il ritardo, ma credevo che tra questa OS e quella precedenti ci sarebbero stati altri capitoli. Poi ci ho ripensato.
Mi scuso, perchè mi sono accorta che ci sono certe incoerenze temporali, che andrò subito a correggere.
Apparte quello, non ricordo il nome di nessuno dei 42. Quindi per evitare di mettere sempre in mezzo Monty, o Miller, o Monroe, o Jasper, o chissoio, ho deciso che inventerò altri nomi. Yeeee.
Per il resto...per chi non lo sapesse (e dubito che ci sia qualcuno che non lo sappia, ma io lo scrivo lo stesso, per sicurezza), il filosofo di cui parla Bellamy è Platone, che usa il mito delle metà scritto dal commediografo greco Aristofane, per spiegare la sua idea di amore platonico. Se non lo sapevate, tranquilli, lo studierete a scuola, e vi ci faranno una testa grossa quanto un capanno. Ergo, non c'è bisogno che vi rompa io i cabbasisi.
E niente. Spero vi piaccia questa cosina, perchè a me è piaciuto scriverla.
Se avete richieste o critiche, al solito, vi prego di farmelo sapere.
Bellaaaaaaaa :)
E.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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