L'angolo cieco

di Gwen Chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte Seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***
Capitolo 4: *** Parte Quarta ***
Capitolo 5: *** Parte quinta ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


-Note autore: Il contest prevedeva di ambientare un fandom a scelta, tra le opzioni proposte, in un altro fandom!Au. Data la mia passione per la fantascienza, ho scelto l'Asimov!Au, più precisamente il suo celeberrimo "Ciclo della Fondazione". Per varie ragioni, ho deciso di concentrarmi sul primo libro della Trilogia della Fondazione originaria, cioè su “Prima Fondazione” (o “Cronache della Galassia”, se si possiede un’edizione vecchia). Caratteristica di questo primo libro era la divisione in parti, ciascuna suddivisa a sua volta in sottocapitoli, che si concentravano su episodi quasi autosufficienti, per quanto accumunati da un unico filo conduttore, ovvero il Progetto Seldon.
La seguente sarà una raccolta di cinque OS, come cinque sono le parti di “Prima Fondazione”, in cui ho voluto inserire i personaggi di Hetalia non in contatto con i protagonisti dell’opera originale (fatta eccezione per la prima OS), ma come semplici cittadini. A questo proposito ho intitolato la raccolta “L’angolo cieco” facendo riferimento al fatto che la Psicostoria non tiene in considerazione i singoli individui. Le loro storie sono quindi “l’angolo cieco della Psicostoria”. 
Ritengo che la raccolta possa essere compresa anche senza avere letto "Prima Fondazione" e di aver dato sufficienti elementi. Tuttavia, rimando a santa wikipedia per un quadro generale.
https://it.wikipedia.org/wiki/Fondazione_(romanzo)
 
PARTE PRIMA
 
"GILBERT BEILSHMIDT. Nato su Trantor da una famiglia di burocrati, fu un ottimo matematico, forse secondo solo al Grande Hari Seldon. Nonostante il temperamento acceso e violento - si racconta che a tredici anni ... - il suo contributo alla Fondazione ...
Suo fratello non fu da meno, dando un input fondamentale al processo di miniaturizzazione che sarebbe stato indispensabile  per l'economia di Terminus."
ENCICLOPEDIA GALATTICA
 
I fratelli Beilshmidt erano nati su Trantor, cresciuti su Trantor, lavoravano su Trantor e avevano la granitica convinzione che su Trantor sarebbero anche morti.  Questo, almeno, era quello che credevano. Di famiglia benestante, non erano mai usciti dal pianeta, ma quest'ultimo era tanto vasto e variegato da soddisfare da solo, con gli innumerevoli settori in cui era divido e i suoi quaranta miliardi di abitanti, i loro più accesi desideri di esplorazione. 
Gilbert Beilshmidt, il maggiore, un uomo sulla ventina dal notevole curriculum scolastico, accolse senza mostrare particolare entusiasmo la notizia che Hari Seldon, il grande Hari Seldon, il fondatore della Psicostoria applicata, desiderava colloquiare in privato con lui. Per una proposta di lavoro, aveva rivelato infine il messo, pressato dalle rumorose insistenze. Lo stesso messaggero avrebbe detto a un paio di amici, davanti a un buon bicchiere di vino dolce, che il signor Beilshmidt avesse commentato con un: "Mi stupisco che Seldon non sia venuto prima da me".
Tuttavia, a dispetto delle maniere grezze, al limite della maleducazione, con cui era solito trattare con gli altri, il giorno del colloquio Gilbert si presentò tirato a lucido da capo a piedi. Non un granello di polvere o una grinza erano visibili sul suo costoso completo, mentre controllava che tutto fosse in ordine. 
"Sembro il damerino" sbuffò davanti allo specchio. "Certo, lui questo portamento e questa classe può solo sognarseli" aggiunse. Gonfiò il petto. Si pavoneggiò un po'. Quando Seldon suonò alla porta, andò ad aprire personalmente.
"Hari Seldon", lo scortò nel salotto spartano, invitandolo ad accomodarsi. "Desidera da bere?"
Seldon rifiutò educatamente. Beilshmidt da par suo ordinò a una domestica di portargli un boccale di birra. "E che sia ben fresca" si raccomandò, prima di gettarsi a peso morto sul divanetto. 
"Allora, a cosa devo l'onore di una sua visita?" 
"La falsa modestia non le si addice, signor Beilshmidt" replicò serafico Seldon. 
"Ed è anche faticosa. D'accordo, voi avete bisogno di me. Dopotutto sono uno dei migliori matematici su Trantor e oserei dire dell'Impero, dopo di Lei ovviamente. Ma voi siete vecchio e io giovane. La domanda è: che cosa volete?" concluse. Sorbì un sorso della bevanda che era stata portata nel frattempo e si asciugò la schiuma dalle labbra col dorso della mano, emettendo un sospiro soddisfatto. "Ottima, davvero. Dovreste provarla."
"Temo che l'alcol alla mia età non sia più indicato" - Gilbert storse la faccia come se l'ospite avesse detto una bestemmia - "Comunque, sono qui per offrirle un lavoro. Sto raccogliendo persone capaci per un mio progetto a lungo termine.  Possedete i requisiti adeguati."
"So già che vuole offrirmi un lavoro, il suo inviato è stato tanto cortese da informarmi... " tagliò corto il padrone di casa, interrompendosi però a metà frase. Aveva notato, infatti, che i vivaci occhi di Seldon lo stavano fissando. Catturare l'attenzione non gli dispiaceva, tuttavia l'anziano ospite riusciva nel difficile intento di metterlo a disagio. "Ci sono problemi" si risolse infine a chiedere. Seldon parve divertito. "Problemi? Certamente, decine, centinaia di problemi in tutto l'Impero."
Gilbert lo interruppe di nuovo, con un gesto stizzito. "No, qui! Perché continuate a fissarmi?"
"Avete buon spirito di osservazione" si complimentò Seldon. "Studiavo il vostro aspetto... singolare."
Chiarita la faccenda, Beilshmidt si rilassò, arrivando ad accavallare le gambe sul tavolino del salotto. "Albinismo, una malattia dei tempi antichi. Sono certo di non essere il primo che incontrate."
"No, ma siete molto rari."
Le labbra sottili di Gilbert si storsero in un ghigno compiaciuto. Si passò una mano fra i già disordinati capelli argentei e socchiuse sornione gli occhi cremisi. "Una mutazione genetica ricomparsa dopo migliaia di generazioni" Rivelò con orgoglio. "Non letale, solo fastidiosa. La mia salute purtroppo ne risente e non posso espormi al sole. Non che qui sia un problema" fece un ampio gesto col braccio, a indicare la volta metallica che copriva quasi il cento per cento della superficie abitata del pianeta. "Purtroppo quando ero ragazzo il settore dove viveva la mia famiglia conobbe una crisi, durante la quale cibo e medicine furono contingentati. Piccola, circoscritta e breve, tuttavia sufficiente a lasciarmi i suoi segni", senza però rivelare di che segni si trattasse.
Eppure a un occhio attento non sarebbero sfuggiti le occhiaie e la magrezza , segnali di una salute cagionevole. 
La pulizia eccessiva della casa, che contrastava con il disordine dei modi di Beilshimidt, lasciava intuire la presenza di qualcun altro più attento alla cura domestica. Su una parete faceva bella mostra una fotografia di Gilbert insieme a un uomo serio che lo superava in altezza di una testa buona. Si faceva fatica a credere che quel giovanotto tutto muscoli fosse il fratello minore di Gilbert Beilshmidt. 
"Ecco, parlando di crisi" riprese Seldon ed estrasse l'inseparabile calcolatrice. Quando ebbe finito il discorso, il padrone di casa era perplesso. Ripeté a grandi linee quanto appena udito e attese per ogni frase una conferma o una smentita da parte del matematico. Infine, fu chiaro che non aveva equivocato nulla. 
"Ovviamente il Progetto provvederà al sostentamento vostro e della vostra famiglia" aggiunse Seldon. Gilbert replicò che, dopo una serie di esperienze amorose in tutti i sensi, aveva stabilito di essere perfetto per la vita da celibe. Suo fratello, poi, era perfettamente in grado di badare a se stesso, anche economicamente. 
"Vorrei che anche vostro fratello entrasse nel progetto."
"Non è un matematico" obiettò Gilbert. Non che a Ludwig mancasse l'intelligenza necessaria. Semplicemente trovava maggiore soddisfazione nella pratica. 
"No, vero, ma è un ottimo meccanico. Uno dei migliori secondo quanto ho udito. Come dicevo, il Progetto prevede la stesura di un'Enciclopedia per preservare il sapere e la civiltà."
Gilbert sorseggiò con innaturale lentezza gli ultimi rimasugli di birra. "Devo parlarne con Ludwig" concluse, dopo un'attenta e silenziosa riflessione. "È lui quello responsabile. Il mio adorato fratellino."
Accettò il limite di tempo di un giorno. Quindi fece scortare Hari Seldon, soprannominato Cassandra e ora capiva il perché, alla porta. 
La caduta dell'Impero. Ordinò un altro boccale di birra. 
Da quel giorno erano passati otto anni. Pur dubbiosi - i dubbi sgorgavano da Ludwig, Gilbert si buttava in ogni novità senza riflettere -, i fratelli Beilshmidt avevano finito con l'accettare la proposta di Seldon, ciascuno per le proprie ragioni. Ora, con la valigia aperta e tristemente vuota, nonostante mancassero pochi giorni alla partenza coattiva su Terminus, Gilbert si chiedeva se fosse stata la scelta corretta. I lati positivi c’erano, per chi voleva vederli: l’ebbrezza di una nuova avventura; l’onore di essere stati scelti per un compito tanto alto; l’occasione di non vedere mai più una serie di persone la cui sola presenza lo irritava. Significava anche dire addio ai pochi legami stretti in una vita di solitudine.
Fu distratto da un cauto bussare alla porta della sua stanza, sorta di prigione a domicilio dove era stato confinato. "Tu chi sei?"
Il ragazzino in piedi davanti a lui sgranò gli occhi, eccitato, poi lo investì con una raffica di parole dal forte accento periferico. Non era di Trantor.
"Feliciano Vargas" si presentò, saltellando da un piede all'altro. "Giornalista. Mi hanno chiesto di intervistarla", spiegò, sempre muovendosi. La stasi gli era sconosciuta. A riprova delle sue parole, estrasse dalla tasca della giubba un tesserino iridescente. Gilbert lo esaminò da ogni angolazione. Soddisfatto, si fece da parte per lasciare entrare il nuovo arrivato. Dopo Seldon, nulla aveva potuto davvero nutrire il suo ego. Attese con infantile impazienza che l'altro preparasse il registratore. 
"È incredibile!" sussurrò Vargas dopo quasi quattro ore di parlare ininterrotto.
"Non avete assistito al processo contro Hari Seldon immagino."
Il giornalista scosse la testa. Lo avrebbe desiderato, ma all'epoca una sciocca inchiesta su Korell lo stava tenendo  impegnato da mesi. "Un’indagine sull’aumento del prezzo dei cavolfiori! Un incubo!"
L'esilio di Seldon era però una notizia troppo succulenta perché la redazione del giornale non decidesse di sfruttarla al massimo, raccogliendo il maggior numero possibile di informazioni possibile dai ventimila uomini coinvolti nel Progetto, Ludwig e Gilbert compresi. 
La lancetta corta dell'orologio ebbe il tempo di compiere altri due giri e mezzo prima che Gilbert permettesse a Feliciano di congedarsi, con la sua preziosa registrazione. Stabilì che quel ragazzo gli piaceva. Un onore che concedeva raramente.
"Arrivederci. È un saluto del mio pianeta natale. Significa che ci rivedremo." Vargas gli strinse la mano in una calorosa stretta.
"Non in questa vita, temo. Non in questa vita" replicò Gilbert, serio. E quando Gilbert Beilshmidt diventava davvero serio, la situazione era grave.
Ghignava di nuovo, però, quando mise piede sul terreno arido di Terminus. Solo l'ampio edificio destinato a ospitare la Volta del Tempo e pochi altru casolari deturpavano il paesaggio. "Ludwig, vieni a vedere! È tutto così vuoto! È incredibile. Non incredibile quanto me, ma si merita tutta la mia attenzione! Guarda, un territorio vergine pronto a essere conquistato!"
Gilbert indicava con entusiasmo il nulla. Si voltò verso il fratello, il quale non sembrava condividere il suo entusiasmo. 
"Non pensavo che stare all'aria aperta potesse essere così ... piacevole."
"Sì, non è male."
Il rombo alle loro spalle li informò che la nave spaziale, scaricato l'ultimo passeggero, era decollata nuovamente. Non ne avrebbero viste per molto tempo.

 

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Capitolo 2
*** Parte Seconda ***


PARTE SECONDA
 
"VIAGGI SPAZIALI. Fin dalle origini, l'uomo ha mostrato uno spiccato interesse per il cosmo ... Tali esplorazioni furono però possibili solo quando l'uomo capì come viaggiare nell'iperspazio. La Fondazione iniziò presto a costruire le sue astronavi. Tra esse, le affusolate e veloci Pixie [...] si devono alla collaborazione di Arthur Kirkland e Francis Bonnefoy."
ENCICLOPEDIA GALATTICA
 
Francis Bonnefoy apparteneva alla prima generazione di giovani nati su Terminus. Il padre era uno degli enciclopedisti reclutati da Hari Seldon ed esiliati all'estrema periferia della Via Lattea perché considerati una minaccia alla già fragile stabilità dell'Impero. Il genitore, esperto in tecniche agricole, aveva cercato con ogni mezzo di trasmettere al figlio la passione per l'Enciclopedia e i valori a essa collegata, ma senza successo. Francis non era interessato a trascorrere la vita a trascrivere nozioni del passato per i posteri, di agricoltura o di qualsiasi altro argomento. Al contrario era entrato con entusiasmo in politica. Prima ancora era stato collaboratore del Quotidiano di Terminus e, indirettamente, di Salvor Hardin.
Al momento stava discutendo con un amico di infanzia e rivale nell'adolescenza a proposito della recente minaccia del neo indipendente regno di Anacreon.
"Arthur, se passassi metà del tempo che dedichi a quell'Enciclopedia a guardarti attorno, sapresti che lo status speciale di Terminus è carta straccia."
L'interlocutore, un uomo le cui spesse e scure sopracciglia contrastavano con la folta capigliatura bionda, sbuffò: "La Fondazione ha un unico scopo: l'Enciclopedia. E lo sai bene. Dovresti darci una mano."
"Trovo più utile dedicarmi al presente. Più piacevole e proficuo", ribatté il primo, soffiando un bacio a una ragazza carina seduta poco lontano.
Arthur fece schioccare la lingua in segno di disapprovazione. "Ricordami di segnare da qualche parte questa tua massima" disse sarcastico "così le generazioni che vivranno nel caos e nella barbarie sapranno chi incolpare."
Sbatté con rabbia una moneta d'acciaio sul tavolo e si allontanò. Rispetto a una cinquantina di anni prima, la Fondazione era profondamente mutata e con essa Terminus. Inizialmente composta da un nucleo di ventimila persone, donne e bambini compresi, aveva assistito al susseguirsi di almeno due nuove generazioni, delle quali solo una parte di sentiva ancora legata al grandioso Progetto Seldon. Gli altri avevano preferito dedicarsi alla vita del pianeta.
Arthur Kirkland osservò i libri che tappezzavano le quattro pareti del suo studio. Se li avesse illuminati con un apposito raggio, i testi in essi contenuti sarebbero diventati tridimensionali. Stava per iniziare la lettura di un vecchio volume di fisica quantistica, quando lo schermo per le comunicazioni incastonato nel muro, uno dei residui dell'Impero, si accese con un beep.
"Sì?"
"Il signor Francis Bonnefoy desidera vedervi."
Sì, e fare altro, quella sottospecie di maniaco che non sa tenere le mani al loro posto, pensò Arthur. Rispose: "Digli che sono occupato. Per sempre!"
Era passato circa un mese dal loro litigio. Nel frattempo le pressioni di Anacreon si erano fatte più insistenti, insieme alla popolarità di Hardin.
"Lo manda Hardin in persona" lupus in fabula "un dignitario anacreoniano vorrebbe conoscere meglio il lavoro della Fondazione."
Arthur inspirò con forzata lentezza. Il cancelliere Lord Dowin aveva già fatto un giro turistico tra gli Enciclopedisti, ma era stato comunque un emissario dell'Impero, con interessi diretti nei riguardi della Fondazione. Ma Anacreon? No, doveva essere sicuramente una scusa.
"Scenderò tra cinque minuti."
La storia si rivelò vera e falsa allo stesso tempo. Francis era accompagnato da un anacreoniano, un certo Yao Wang dagli esotici occhi a mandorla, il quale pareva anche interessato all'Enciclopedia. Arthur, però, conosceva abbastanza il rivale da non fermarsi lì.
"Chi lo avrebbe detto che la corte di Anacreon avrebbe mandato una giovane così adorabile" esclamò Francis, esibendosi in un affettato baciamano. Wang si ritrasse di scatto, affrettandosi a pulire sulla giubba di velluto la zona di pelle sfiorata dalle labbra.
"Come già detto, temo che abbiate equivocato. Ripeto: sono un uomo."
"Ostacolo facilmente... " assicurò Bonnefoy, prima che Arthur gli impedisse di continuare con una pedata ben assestata, per quanto discreta, negli stinchi. Con il sorriso più falso che riuscì a produrre, Kirkland si voltò verso l'anacreoniano. "Siete interessato all'Enciclopedia?"
Wang annuì. Si teneva a distanza di sicurezza da Francis - un metro e mezzo - e continuava a lanciare occhiate sospettose in giro. "Ho sentito che possedete dei rari volumi di calligrafia, di quando l'uomo ancora scriveva a mano."
"Se volete seguirmi … "
Una settimana dopo, pur con Yao felicemente tornato sul suo pianeta natale con un paio di libri appositamente duplicati sottobraccio, Arthur non riusciva a togliersi dalla testa una frase del l'ospite: solo uno stupido non vedrebbe il sasso a pochi metri dai propri occhi perché troppo concentrato sulla lontana montagna. Di più, per quanto avrebbe preferito tagliarsi la lingua piuttosto che ammetterlo ad alta voce, Francis aveva ragione. Anacreon non considerava l'Impero una minaccia. A malapena lo considerava.
"Ma erano tutte cose che avrei potuto farti comprendere senza dover andare su Anacreon" osservò Francis.
"Dovrei apprezzare la tua dedizione nei miei confronti? Perché su alcuni pianeti le tue attenzioni sarebbero al limite della molestia."
"Suvvia, non esagerare. Mi piace la tua compagnia."
"E anche altro!"
Arthur era nervoso. L'apertura della Volta del Tempo si avvicinava, Hardin metteva il naso dove non avrebbe dovuto e il popolo non sosteva più gli Enciclopedisti come un tempo. Inoltre, memore dell'ultima volta, quando si era svegliato nudo in un letto non suo, con un dolore sospetto al fondoschiena- e non aveva voluto indagare oltre - Kirkland non aveva toccato un goccio d'alcool, il che lo rendeva ancora più irritabile. Francis che si ostinava a far scintillare davanti a lui un calice di vino di Smyrno era la ciliegina sulla torta. O la goccia che avrebbe fatto traboccare il metaforico vaso. Deglutì. rumorosamente. Quando riprese a parlare, la voce tradiva il nervosismo. Si trovavano ai confini della città. Al di là si estendeva una piana deserta, destinata a ospitare la base militare che Anacreon era riuscito a imporre.
"Se è una crisi, Seldon l'avrà prevista e con essa una soluzione."
"Conto di trovarti all'apertura della Volta."
"Non esserne sicuro."
Invece, quattro giorni dopo erano entrambi seduti in trepidante attesa che Hari Seldon, o meglio, il suo ologramma parlasse, rivelando la via per uscire dal labirinto. Arthur si guardò attorno, ignorando con ostentazione i tentativi di Francis di attirare la sua attenzione. La sala era semi-vuota: il Consiglio dei fiduciari, Salvor Hardin e il suo braccio destro, chi, come egli stesso, era riuscito a ottenere un permesso speciale. Poi la Volta si aprì. Il pubblico trattenne il fiato, all'unisono.
Quando il messaggio cessò, Arthur seppe di dover abbandonare Terminus e fuggire, fuggire lontano, correre all'estremità opposta della Via Lattea, dove si mormorava Seldon avesse posto la Seconda Fondazione, e là chiedere asilo. Avrebbe elaborato un motivo plausibile durante il viaggio.
Altrimenti, ora che era stato rivelato come l'Enciclopedia fosse solo una gigantesca farsa, Francis lo avrebbe tormentato, prendendosi gioco di lui, fino alla tomba.
Nella mente sfilarono in bell'ordine le continue frecciatine dell'amico-rivale, gli anni passati sui libri, le occasioni sprecate, il visetto gonfio di risentimento di suo fratello Peter, quando non poteva giocare con lui, ovvero quasi sempre. La certezza del proprio operato, dell'importanza di preservare le tradizioni, la gloria del passato, si frantumarono. Fu vittima prima dello sconforto, quindi di un violento desiderio di bruciare tutti i volumi già pubblicati o in lavorazione. In preda alla nausea, premette la faccia contro le ginocchia.
A pochi metri di distanza, Francis sorrideva sornione da un orecchio all'altro.
Non credeva che quel sorriso, capace di risvegliare i suoi più profondi istinti omicidi e di annodargli le viscere allo stesso tempo, potesse diventare più ampio. Evidentemente si sbagliava.
Arthur incrociò le braccia al petto, a difendersi dal mondo, e attese che Francis finisse di leggere un plico di fogli che gli aveva passato. Erano scritti nella sua scrittura piccola e nervosa. "Dunque, cosa ne pensi?"
A tre mesi dall'apertura della Volta, con la sua sferzante verità, si ritrovava a chiedere aiuto alla sua nemesi, la quale non riusciva proprio a non gongolare.
"Sono misure e calcoli... " rispose Francis, incerto. "Lo sa che la matematica non è mai stata il mio forte."
Questa volta fu Arthur a concedersi il lusso di un ghigno beffardo: "Nemmeno il vecchio Beilshmidt è riuscito a inculcarti qualcosa."
"Non farti sentire da lui!"
A settant'anni e passa, Gilbert Beilshmidt non solo aveva ancora una mente arzilla, ma sembrava non essersi accorto che il suo corpo era invecchiato, ignorandone i nuovi limiti e gli acciacchi. "È la teoria per la costruzione di un'astronave, per viaggi rapidi e in solitaria. Sai disegnarla?"
"Terminus riesce a malapena a riparare le astronavi dell'Impero, le rare occasioni in cui riesce ad averle. Non ha le risorse per costruirne di nuove."
Eppure Francis, a dispetto delle sue parole, aveva già aperto un cassetto alla ricerca di un foglio e di una penna. Gli piacevano il fruscio della carta e l'odore dell'inchiostro, le tradizioni, il gusto dell'antico.
"Le risorse arriveranno."
Arthur aveva bisogno di certezze. Per ventitré anni l'Enciclopedia era stata la sua certezza, insieme alla convinzione che la missione della Fondazione non sarebbe fallita, nonostante gli ostacoli che si sarebbero frapposti lungo il cammino. Privato della prima ancora, aveva un bisogno quasi fisico di credere che Terminus sarebbe cresciuto. Si sarebbe espanso. Avrebbe riportato la civiltà dove la barbarie aveva già diffuso le sue tossiche radici.
"Nel frattempo, come deve essere lo scafo?"
Francis lo strappò dai suoi pensieri. Succhiava la punta della penna, tracciando con eleganza ghirigori distratti. "Dovrebbe essere... " e cominciò a descrivere.

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Capitolo 3
*** Parte terza ***


PARTE TERZA
 
"SPIRITO GALATTICO. Forza che controlla l'Universo, fonte di ogni energia ...
Fu oggetto di un culto particolarmente acceso durante i primi decenni della Fondazione ... "
ENCICLOPEDIA GALATTICA
 
Antonio Carriedo e Ivan Braginski erano due uomini pericolosi. Di interessi diametralmente opposti in numerosi campi, dallo studio al tempo libero, mascheravano le proprie emozioni dietro una perenne espressione di accondiscendenza.
Antonio spogliò la tunica cremisi del culto, gettandola senza cura sul letto.
"Giornata faticosa?" chiese pacato Ivan. Teneva in grembo una bottiglia dal collo lungo e, a tratti, ne sorbiva il liquido trasparente, un alcool ricavato dalle patate.
"Servire lo Spirito Galattico è faticoso."
"Se lo Spirito Galattico esistesse!"
"Non abbiamo nemmeno prove del contrario. Non mi stupirei se finissi incenerito nel giro di pochi minuti" commentò Antonio, scuro in volto. I colleghi sostenevano che applicasse la dottrina con eccessivo ardore, quasi si sentisse un soldato dello Spirito mandato per combattere gli infedeli e convertire le anime perse. Non cessava la finzione nemmeno su Terminus o in presenza di altri membri della Fondazione, quando tutti sapevano che la religione era stato solo un modo escogitato dal sindaco Salvor Hardin per esportare la tecnologia atomica su quei pianeti limitrofi che l'avevano persa.
"Tu, piuttosto, tormenti ancora quei tre poveri ragazzi?"
"Li punisco solo quando si comportano da bambini cattivi. Tanto diventeremo tutti parte dello Spirito."
"A volte ho l'impressione che ti identifichi troppo con lo Spirito" borbottò Carriedo.
Toris Lorinatis, Edward Von Bock e Ralvis Galante erano tre anacreoniani rispettivamente di diciannove, diciassette e quindici anni. Non erano fratelli, né avevano particolari interessi o passioni in comune (nemmeno le idee politiche coincidevano), ma abitavano vicini e la gente si era abituata a vederli muoversi insieme. Soprattutto, desideravano intensamente liberarsi dal giogo che Ivan aveva imposto loro.
"Ralvis mette le mani dove non dovrebbe, ma senza malizia. Toris è un bravo ragazzo, anche se non mi piacciono le compagnie che frequenta. Edward si rifiuta di accettare che sia lo Spirito Galattico a far funzionare le macchine ... "
In quell'istante il telefono squillò. "Spegni i macchinari." Lo stesso ordine fu ripetuto in tutta Anacreon.
Quando la luce si estinse in casa Lorinatis, Ralvis che era ospite per la cena, iniziò a sussultare come una foglia. Un altro ospite, Feliks, gonfiò indispettito le guance, perché il forno, che lui si ostinava a chiamare magico, aveva cessato di collaborare. Solo Toris mantenne una parvenza di calma. Certo, la prossima visita medica gli avrebbe rivelato che la sua ulcera cronica era peggiorata. Sperando che Ralvis non andasse in iperventilazione e Feliks non combinasse una delle sue stramberie, s’incamminò verso la casa di Edward. Una lampada a olio, cimelio di prima che la Fondazione portasse le macchine miracolose, illuminava la via. Dieci chilometri separavano la sua abitazione da quella dell’amico. Impiegò quasi un’ora a percorrere il tragitto, a causa dei tumulti che già stavano scoppiando in ogni via. Gli anacreoniani, in preda al panico, correvano al tempio più vicino, stringendo frullatori e coltelli atomici ormai inutilizzabili. Preghiere per la salvezza della propria anima si mescolavano a invettive più pragmatiche sulla cena che non si sarebbe scaldata e simili problemi. Quando bussò alla porta di Edward, Toris aveva già raccolto una quantità discreta di informazioni.
“Ci sono stati incidenti durante l’Incoronazione di Leopoldo” disse senza preamboli accomodandosi nella cucina, buia come centinaia di altre. Sgranocchiò con gratitudine una pagnotta rafferma che si ritrovò tra le mani.
“Sembra che Wienis abbia arrestato Hardin e fatto infuriare lo Spirito Galattico. Non so se un Essere inventato ad arte possa provare un sentimento come la rabbia. O sentimenti in generale. No, Wienis ha urtato i preti, cioè coloro che manovrano le macchine.”
Edward cessòil suo parlare per bere un sorso d’acqua e permettere a Toris di esprimere i suoi dubbi. Quindi continuò: “Rifletti. Credi che lo Spirito Galattico, grande e potente, abbia bisogno di complicati macchinari per manifestarsi? O che, davvero, si infuri per uno starnuto? I preti come Braginski usano questa scusa per abusare dei macchinari alla prima occasione, quando quest’ultimi sono in realtà solo il frutto dell’ingegno umano.”
“Come fai a esserne sicuro?”, Toris già avvertiva un principio di emicrania in mezzo agli occhi.
“Conosci il vecchio Wang?”
“Di fama.”
“Wang era uno dei dignitari del precedente sovrano, ma questo ha poca importanza. Ciòche conta, invece, èche la sua famiglia ha tramandato per generazioni la storia di Anacreon, accuratamente trascritta e conservata, a partire da quando eravamo ancora una Prefettura imperiale e l’energia atomica costituiva la normalità.”
“Perché allora non mette a disposizione del popolo tali nozioni?”
“Per timore, credo. L’uomo è imprevedibile di fronte alle novità, anche se le novità sono solo frammenti di un passato ormai dimenticato.”
Wang Yao, tuttavia, spiegava con l’entusiasmo di un bambino a chi volesse prestargli orecchio. Soprattutto, favoriva il racconto del suo viaggio su Terminus, patria di ogni bene, secondo le idee inculcate nel popolino; il suo sapere era sussurrato alle spalle dei preti, racchiuso in libri sepolti sotto terra.
“Cosa hai intenzione di fare” domandò Toris, mentre le grida isteriche della gente giungevano dalla strada attraverso la finestra aperta. Acute, confuse, in un roboante miscuglio, non sembravano più nemmeno umane. Era l’incarnazione di una psicosi collettiva. Se la televisione avesse funzionato, avrebbe trasmesso immagini di sacerdoti in atteggiamento solenne, che con un gesto della mano amministravano intere folle in implorante adorazione. Di nuovo, sperò che Ralvis e Feliks avessero seguito il suo ordine, di chiudersi in casa, mangiare gli avanzi freddi del pranzo prima che andassero a male e di fare luce con le candele. Toris ne aveva conservate un discreto numero: era una persona previdente.
“Aspettare che i tumulti si plachino. Presto tornerà l’elettricità. A parte questo, voglio abbandonare Anacreon. Voglio andare su Terminus e restarci! Voglio la mia libertà.”
Quella notte Toris fu ospite di Edward, per sicurezza. Parlarono a lungo, non solo di come avrebbero fatto a raggiungere Terminus. Tornato a casa e trovandola intatta, ringraziò, tutto sommato, lo Spirito Galattico.
Occorsero quasi dieci anni perché Toris e i suoi amici potessero realizzare il progetto di Edward. Ralvis, il cui desiderio di libertàs i scontrava con la paura delle punizioni di Ivan, fu il più difficile da convincere. Soprattutto, pareva impossibile procurarsi un’astronave. Un tempo, un tempo che già sfumava nella leggenda, si viaggiava senza sforzo in tutta la Galassia. I fili che legavano i pianeti erano solidi, ben amministrati dal governo centrale di Trantor, destinato a crollare sotto il peso del suo stesso sistema organizzativo. L’Impero aveva cessato di interessarsi alla Periferia, l’aveva esclusa dal suo corpo malato come un arto ormai in cancrena e insalvabile.
Nel frattempo, a loro insaputa, su Terminus la Volta del Tempo si era aperta nuovamente e la Fondazione aveva avuto la necessaria rassicurazione sulla correttezza del proprio operato.
I tre giovani finsero di voler intraprendere la carriera ecclesiastica. In un’inspiegabile, nonché sospetta, impennata di fede, cominciarono a frequentare con eccessiva assiduità i templi. Si appassionarono di colpo ai testi sacri. Impararono a memoria preghiere e lodi, da sciorinare davanti ad ammirati Alti Preti in visita. Di fronte ad una devozione così ardente, sarebbe stato un peccato, anzi un sacrilegio, privare lo Spirito Galattico di simili nuove leve. La finzione durò giusto il tempo di posare il piede sul suolo di Terminus.
Successe che durante i corsi in seminario, Edward, Toris e Ralvis, la cui adorazione nei confronti della divinità pareva rimasta su Anacreon, adottarono un comportamento così al limite dell’eretico, che la Fondazione ritenne saggio non permetter loro di lasciare il pianeta per evitare che diffondessero le loro dannose idee sovversive nei Quattro Regni. O in altre parti della Galassia. In teoria furono condannati ad arresti domiciliari preventivi, in pratica godevano di ogni libertà, salvo quella di comunicare con l’esterno. Ciò era qualcosa di cui non sentivano la mancanza, perché non avevano parenti in vita o amici stretti su Anacreon. Toris si preoccupò un po’ per l’amico di infanzia Feliks, rimasto laggiù, con le sue cicatrici e il suo mondo di fantasia, dove uno schiocco di dita era sufficiente a trasformare in una fiaba una vita altrimenti grama.
“Mamma dice sempre che da bambino ho avuto così tanti incidenti che sarei dovuto morire almeno cinque volte. Dice che sono come la Fenice”
Aveva dovuto spiegargli cosa fosse una Fenice, l’uccello di fuoco che rinasceva dalle sue ceneri, perché Toris conosceva solo il nyak, il rapace simbolo delle cacce riservate alla Corte.
Seppe che lavorava presso il palazzo reale, felice perché Ivan era stato mandato altrove a predicare la fede nello Spirito Galattico, con il suo alcool, i suoi fiori alti come un uomo e il suo disperato, goffo, bisogno di affetto.
A tutta la faccenda, Ivan reagì meglio del previsto, limitandosi a inviare una cartolina, con auguri di buona salute che, letti attentamente, somigliavano più a una minaccia. Toris propose di distruggerla, Ralvis si oppose per paura di un’improvvisa vendetta, Edward volle conservarla come cimelio per i posteri.
La missiva finì in un cassetto, insieme a molte altre.

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Capitolo 4
*** Parte Quarta ***


Parte Quarta 
“KYTO. Pianeta capitale dell’omonima prefettura, grazie alle sue ricchezze fu spesso oggetto di interesse per i mercanti, tuttavia ...
Trovandosi senza il sostegno dell’impero, optò per una soluzione drastica ... “
ENCICLOPEDIA GALATTICA
 
Jan Visser fumava soddisfatto la lunga pipa. La stiva della nave, ormai vuota delle merci della Fondazione, era piena di tungsteno e di altri metalli preziosi, importantissimi per Terminus che invece ne era sprovvisto. La cabina di pilotaggio scintillava, grazie alla cura maniacale che Jan le riservava, e l’uomo, di Smyrno, già pregustava il pagamento. Per contratto, poteva trattenere l’1% di ogni carico destinato alla Fondazione e rivenderlo privatamente. Inoltre, riceveva uno stipendio in monete d’acciaio, ancora in voga su Terminus. Di recente stava accarezzando l’idea di accettare la ghiotta offerta di un ettaro di terreno coltivabile nell’emisfero sud del pianeta, in un’area non ancora colonizzata, a quasi un secolo dall’arrivo degli Enciclopedisti.
Mentre Jan contava con piacere una serie di crediti, un’astronave si affiancò alla sua. Aspettava il suo arrivo.
“Viaggio proficuo?” domandò poco dopo un mercante dai capelli castani raccolti in un codino, di nome Alfonso Mendes. “Ho un messaggio per te” aggiunse, senza attendere una risposta al precedente quesito. Quindi lanciò una capsula a Jan, che la prese, accigliato. Il cipiglio s’intensificò man mano che la lettura procedeva e il messaggio si autodistruggeva.
“Allora?”
“Jones è riuscito a entrare nell’orbita di Kyto e minaccia di usare la forza se non lo faranno atterrare.”
Kyto si trovava da circa quarant’anni alla periferia dell’Impero. Pur non avendo mai dichiarato la propria indipendenza e considerandosi formalmente ancora parte dei territori imperiali, il pianeta si era trovato di colpo abbandonato a se stesso. Dopo un periodo di spaesamento, il governatore di Kyto aveva deciso che la chiusura nei confronti dell’esterno fosse la soluzione migliore. Solo pochi mercanti di Smyrno e Lys, Jan e Alfonso, compresi, potevano commerciare, in apposite aree assegnate al millimetro. Kyto era ricchissimo di ferro, silicio e platino. Inoltre era in una posizione strategica, l’ultimo pianeta in ogni direzione prima di migliaia di parsec di vuoto freddo siderale.
“Più passa il tempo e più mi convinco che Alfred ragioni con la pistola a raggi atomici che si porta sempre appresso” borbottò Alfonso. Persona altrimenti solare, non ammetteva interferenze nei suoi interessi economici. Jan fece un cenno di assenso, ma già pensava a come ottenere il massimo vantaggio dalla situazione.
“Nemmeno la morte ostacolerà i miei commerci” era il suo motto. Vicino, lontano, in pace o in guerra, amico, nemico, non avevano importanza di fronte alla prospettiva di un lauto guadagno.
Una settimana dopo, Jones aveva fatto cadere per errore - stando alla sua versione - una piccola bomba, su Kyto, per fortuna in mare e con danni collaterali abbastanza contenuti. Il permesso per atterrare non si era fatto attendere.
“La situazione è delicata” disse Jan atono a un Alfred fin troppo entusiasta. Nello stesso momento, Alfonso e un altro paio di uomini cercavano di blandire le autorità locali. “Onestamente, non mi importa dei tuoi metodi o di cosa vuoi fare qui, finché non ostacoli i miei affari. Tuttavia ti sei messo in una posizione scomoda.”
Jones sbuffò: “Bel ringraziamento! Volevo solo aggiungere un altro pianeta alla sfera di influenza della Fondazione ... “
Jan si preparò a spiegare perché la situazione fosse ben diversa. Parlò senza sprecare fiato, perché non era tipo da lunghi discorsi. Il tutto si riduceva a tre punti.
Primo: il governatore di Kyto avrebbe ordinato il suo arresto non appena fosse uscito dall’astronave, adducendo una qualche scusa.
Secondo: Non agiva su mandato diretto della Fondazione, la quale di conseguenza non aveva alcun obbligo nei suoi confronti, nonostante spesso ricavasse beneficio dalle sue azioni.
Terzo: Tra Kyto e la Fondazione sarebbe potuta scoppiare una guerra. I nativi erano persone bellicose e con un forte senso dell’onore. Minacciavano di attaccare se solo Alfred osava fuggire.
“Non conoscono la parola resa.”
Se Jan aveva il suo bel daffare con Alfred, la situazione per Alfonso non era migliore. I Kytoniani avevano un modo di parlare arcaico e ambiguo e ciò gli provocava brividi di inquietudine. “Certamente saranno presi provvedimenti” esordì, nella speranza di convincerli a non arrestare Jones. “Tuttavia, bisogna ricordare che è un mercante che agisce per conto della Fondazione... “ e nel mentre pregava che non si accorgessero del suo bluff.
Uno dei presenti lo interruppe. Gli occhi scuri, dal taglio a mandorla, scintillavano di curiosità. “Fondazione?”
Era la prima volta che il nome veniva udito su Kyto. I mercanti avevano sempre affermato di agire per interesse personale e, comunque, i Kytoniani valutavano più la parola del singolo che i trattati ufficiali tra pianeti. “Vorrei che mi parlaste di questa Fondazione.”
Alfonso era cresciuto sentendo parlare di Seldon e Hardin, prima come eroi da inserire nella fiaba della buonanotte, poi quali padri della Patria sui libri di testo. Eppure, di fronte a Kiku Honda, tale era il nome del Kytoniano, le parole si ingarbugliavano.
“Hari Seldon ha previsto il futuro.”
Raccontò di come il matematico Hari Seldon, convinto che l’Impero sarebbe stato distrutto dalla sua stessa eccessiva specializzazione, aveva lasciato due fiaccole perché gli uomini non vagassero in un’oscurità di eterna disperazione. “Questa è la Fondazione. Ora, io e Jan...”, ma un gesto della mano lo indusse a tacere. Si ritrovò a stringere una tazza di tè bollente, in mezzo a persone che aspiravano le verdi volute di fumo con espressioni eccessivamente pacate.
Lentezza. Contemplazione dell’istante. Dieci minuti per sgranocchiare un pasticcino!
E nel frattempo Alfred scalpitava a bordo della sua Free Eagle, primo di una numerosa schiera di mercanti desiderosi di mettere le mani sul pianeta, rompendo l’oligopolio di pochi fortunati.
“L’Impero è morto!” sbottò con esasperazione. “Vi ha abbandonati e isolarsi non serve a nulla! Altri come Jones arriveranno e ...”
Si accorse che lo fissavano come uno strano animale. Se ne accorse e si convinse di aver rovinato ogni possibilità di accordo. Dopotutto, i Kytoniani erano sopravvissuti quasi cent’anni con i loro metodi, allora perché cambiarli?
“La bomba non è stata un incidente
“Lo sappiamo. Per questo due navi della flotta imperiale sono in prossimità di Smyrno, pronte a far fuoco se il Suo amico decide di fuggire.”
Mendes si promise di vendicarsi su Alfred nella maniera più perfida possibile non appena fossero riusciti a uscire dal ginepraio in cui si era cacciato. Pregò che Jan avesse più fortuna di lui nello spingere Jones a formulare delle scuse ufficiali. I Kytoniani adoravano le scuse. Più elaborate erano, più le apprezzavano.
Si sentiva soffocare. Chiese il permesso di congedarsi nelle stanze che gli erano state assegnate. Gli fu concesso.
Sedeva sul letto, a tracciare col dito una rotta immaginaria verso il soffitto, un libello che fungeva da libro mastro aperto sulla pancia, quando uno sconosciuto aprì; la porta. Allarmato, Alfonso scattò in piedi, le mani che già cercavano un’arma inesistente, poiché gliel’avevano sequestrata prima di farlo sbarcare. Riconobbe Honda.
“Problemi?” indagò, privo del suo abituale buonumore.
“Lei crede che dovremmo aprire il pianeta?”br /> Annuì;. Lo invitò ad accomodarsi. Cinque mercanti si dividevano una porzione del pianeta, minima percentuale rispetto alla superficie totale emersa. Li chiamavano Eletti. Per qualche anno la situazione aveva mantenuto un certo equilibrio, nonostante l’invidia dei numerosi commercianti esclusi dalla ghiotta torta. Ne bramavano una fetta con sempre maggiore insistenza. Quando non erano interessati ai tesori del sottosuolo, chiedevano a gran voce almeno uno scalo per fare rifornimento.
“Kyto non può vincere una guerra senza autodistruggersi. Altri mercanti arriveranno e Alfred ha creato un precedente. Altri provocheranno incidenti ad hoc per mettervi in ginocchio, finché non sareste costretti a cedere. O finché non lascerete un pianeta disabitato. La sostanza non cambia.”
Jan fu più duro, quando Alfonso e Honda salirono a bordo della Free Eagle. Alfred, invece, sorrideva con eccessivo calore. Visser concesse la possibilità di una o più vittorie contro la flotta della Fondazione o dei Quattro Regni. Le aree di influenza erano ancora piuttosto labili. Lodò la caparbietà della popolazione, succhiando la pipa. Soffiava eleganti e perfetti cerchi di un fumo verdolino. Kyto avrebbe continuato a vivere, esattamente come aveva vissuto nel secolo precedente, ignaro della crisi imperiale, di Terminus, di Hari Seldon e della sua Profezia, finché un giorno qualcuno avrebbe sabotato le centrali elettriche. Qualcuno sarebbe riuscito a superare un sistema di sicurezza già blando.
“Le centrali sono indistruttibili.”
“Non avete mai avuto guasti?”
“Mai ... mai” ripeté, con voce sempre più flebile. La pelle già chiara parve impallidire. “Io devo andare.”
Honda se ne andò, con un passo troppo veloce e una mano premuta sulla bocca.
Come prevedibile il numero di guardie fu raddoppiato. I turni divennero serrati. Fu ordinato alle navi in assetto da guerra di tornare alle basi. Il passo verso la completa apertura fu breve.
“Sai, a volte mi pento della nostra decisione” fece Alfonso osservando l’ennesima astronave che atterrava dolcemente in uno dei nuovi spazioporti. “Troppa concorrenza, ma meglio questo di niente, no?”
Jan spuntò distrattamente l’ultima casella dell’inventario. Lo spazio nella stiva aumentava di anno in anno e non perché avesse acquistato un mezzo di trasporto più grande. “Sì;”, ma già ipotizzava nuove mete. Solo la morte avrebbe impedito i suoi commerci. Una splendida villa lo attendeva su Terminus, costruita sul terreno che infine aveva deciso di acquistare.
Per la cronaca, contro ogni logica, Jones e Honda divennero buoni amici, nonostante le barriere culturali. Kyto non entrò mai nella sfera di controllo della Fondazione. Non ufficialmente.

Note d’autore:
Sì, ho preso spudoratamente ispirazione dall’episodio delle Navi Nere e dell’apertura del Giappone.
Jan Visser è Olanda. Alfonso Mendez è Portogallo.

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Capitolo 5
*** Parte quinta ***


PARTE QUINTA
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“MATHIAS KOHLER. Detto il “mercante gentile”.
... Molti faticano a credere che sia lo stesso mercante arrivista coinvolto nell’incidente ...
Operò soprattutto a Korell, dove conobbe ...”
ENCICLOPEDIA GALATTICA

Il primo elettrodomestico a guastarsi era stata la lavastoviglie. Le avvisaglie si erano manifestate in piatti ancora coperti di macchie dopo un ciclo o negli aloni sui bicchieri. Le due dita d’acqua sporca sul pavimento della cucina una domenica mattina erano state l’ultimatum.
Berwald aveva provato a ripararla, perché era bravo con i lavori manuali, ma senza risultati soddisfacenti. Pertanto Tino si rassegnò a lavare le stoviglie a mano, nell’acqua del lavello. Scendeva gelida, spesso a singhiozzo, con l’impianto di riscaldamento che tossiva in cantina.
Tuttavia, il giovane non si demoralizzò. Dopotutto, aveva fatto a meno dell’energia atomica per diciotto anni. Ora ne aveva venti e il suo pianeta, Korell, da due era in guerra con la Fondazione. Non comprendeva appieno le cause dietro al conflitto, commentato alla radio con enfasi fasulla, nella migliore tradizione propagandistica.
Poi era stato il turno del forno e addio arrosto. Delle piastre elettriche. Della lavatrice. Ogni volta, Tino si arrangiava come poteva, sebbene avesse sfiorato la crisi isterica di fronte alla montagna di panni sporchi che cresceva di ora in ora.
Berward trascorreva giorni e giorni nel suo piccolo laboratorio, nel tentativo infruttuoso di far ripartire almeno un elettrodomestico.
Qualsiasi cosa per aiutare Tino, col quale conviveva da qualche mese. I vicini non si erano mai lamentati, almeno non apertamente. I pettegolezzi di certo passavano da orecchio a orecchio dietro le porte chiuse. Ufficialmente nessuno osava criticare Berwald in sua presenza, perché aveva un volto sempre ombroso che incuteva timore, sorrideva raramente e parlava a monosillabi, nonostante fosse la persona più premurosa che Tino conoscesse. Lui stesso si spaventava quando il compagno, in risposta a una battuta detta per rompere il silenzio, sollevava i gelidi occhi acquamarina dal lavoro di cucito e lo investiva con una smorfia di apparente rabbia. Il più delle volte era solo imbarazzo, unito al dispiacere di non poter esternare una ricchezza emotiva insospettabile.
Il campanello aveva cessato di funzionare il giorno prima, perciò non fu un allegro trillo, bensì un sordo, ma insistente bussare alla porta ad annunciare l’ospite. Tino si asciugò sul grembiule le mani insaponate di detersivo.
“Arrivo! Ciao, Mathias” accolse l’uomo sulla soglia. Da lì a sedersi al tavolo davanti a una tazza di latte caldo, il passo fu breve.
Mathias era un mercante, di un pianeta di cui Tino non ricordava il nome. Smyrno? Metà dei mercanti erano nativi di Smyrno, dopotutto.
Prima che il Commodoro di Korell dichiarasse guerra alla Fondazione, privando i cittadini del prezioso apporto dei mercanti che periodicamente giungevano con le loro navi cariche di meraviglie, Mathias aveva frequentato con assiduità casa Oxiesterna-Vainamonen. Nel giro do pochi mesi, Aveva venduto la lavastoviglie, la lavatrice, il frullatore e tutto il resto. Promise di rimanere disponibile per ogni guasto, con la sua parlantina allegra. Ogni garanzia recava in calce la sua firma a svolazzi.
“Ed eccomi qui!” esclamò. Salutò con energia Berwald, che bofonchiò una risposta.
“Come sta Lukas?” chiese Tino. Lukas era per Mathias quello che Tino era per Berwald.
“Il solito. Voleva venire, ma ha l’influenza.”
Tino aveva incontrato Lukas in una sola occasione, durante la consegna di un carico particolarmente delicato che, secondo quel poco che era riuscito a capire, Mathias non sapeva gestire. Un dettaglio, però, gli era rimasto in mente: il comunicatore mascherato da spilla cruciforme tra i capelli chiari. L’eleganza dell’oggetto aveva colpito anche Berwald.
“Allora, comincio da quello?”.
Mathias indicò il telefono, ora della stessa utilità di un fermacarte.
“Oppure questo?” e il suo indice puntò il cubo in plastica, ex televisore. A ogni opzione, Tino scuoteva la testa. Berwald grugniva il proprio disappunto.
“Certo, che sbadato! La lavatrice! Volete che ripari la lavatrice” esultò Mathias, come se stessero giocando al gioco dei mimi. Tino gli sfiorò il braccio.
“Temo non sia possibile. Non devi riparare nulla.”
Notando l’espressione confusa dell’ospite, aggiunse: “Come reagirebbero gli altri se si accorgessero che i nostri elettrodomestici funzionano? Unici in tutta la città o in tutto il pianeta. Verremmo accusati di collaborazionismo e linciati.”
Il sorriso di Mathias si spense.
“Lukas aveva ragione.”
Lukas, sepolto sotto una spessa coperta termica, si infilò un dito nell’orecchio per cacciare un inspiegabile e fastidioso fischio. Si girò nella sua cuccetta. Fu colto da un nuovo attacco di tosse: certe cose sarebbero rimaste le stesse per tutta la storia dell’uomo. Sputò il catarro in una bacinella ai piedi del capezzale, desiderando una doccia. Il pigiama era fradicio di sudore, ma lui aveva a malapena la forza per tenere gli occhi aperti, figurarsi per alzarsi.
Per questo motivo lanciò uno sguardo accusatore a Mathias quando a tarda sera lo vide comparire nella cabina. Dall’inusuale silenzio dell’amico comprese come l’uscita non avesse avuto esito positivo. La lingua gonfia gli impedì di articolare un rimprovero degno di questo nome. Riuscì però a mugugnare un “Mettimi giù!” quando Marhias lo prese in braccio.
Era imbarazzante: non era un bambino o una fragile donna bisognosa di cure. Nonostante la gola in fiamme, il cerchio alla testa, il naso pieno di muco, la febbre a quaranta, i coltelli nelle ossa, rimaneva uno scienziato della Fondazione. Anzi, un tecnico uscito a pieni voti dalla migliore università di Terminus.
Eppure, con Mathias nulla di tutto ciò aveva importanza. Per essere più precisi, Mathias aveva la fastidiosa tendenza a ignorare i dettagli sopracitati e, alla fine, Lukas non aveva altra scelta se non arrendersi all’essere infilato sotto il getto fresco, come una bambola. C’erano momenti in cui Mathias lo faceva sentire così e Lukas li detestava.
Passò un altro anno, durante il quale l’idea di recarsi in territorio nemico non fu ripetuta - Hobert Mallow aveva minacciato di chiuderli in prigione buttando via la chiave - e la guerra finì. Korell, stremata, firmò la resa incondizionata. Il Commodoro, che non doveva più essere tanto Ben Amato dalla popolazione, ammise l’impossibilità di governare un popolo stanco, affamato, infuriato, stremato, gonfio di risentimento per un sovrano che li aveva ridotti all’età della pietra.
Per Mathias questo significava non tanto la riapertura di un polo commerciale non indifferente, ma soprattutto la possibilità di riparare ogni apparecchio funzionasse ad energia atomica nella casa di Tino. Che Berwald minacciasse di congelarlo con una sola occhiata ogni volta che si avvicinava troppo a “sua moglie”, era un particolare trascurabile.
Korell somigliava a un pianeta fantasma. Nelle case, dove i cittadini avevano da poco ricominciato a vivere, si vedevano i moccoli di candela e le strisce di cenere sul pavimento, residuo di falò di fortuna. In alcune stanze, la tappezzeria sudicia brulicava di insetti e non sarebbe stata poi una grande sorpresa se un paio di pantaloni avesse iniziato a camminare da solo. Anche l’abitazione di Tino e Berwald era abbandonata. Meglio tenuta di altre, ma abbandonata. Abbandonata e aperta.
Mathias, violando il domicilio senza preoccuparsi delle conseguenze, si ricordò di una fiaba raccontata da Tino, qualcosa a proposito di una festa persa nel passato pre-Impero e di regali portati ai bambini buoni.
“E’ un’idiozia!”, gli pareva quasi di sentirlo, con le braccia incrociate e l’espressione di rimprovero che tanto amava. Tuttavia Lukas era altrove, ad addestrare un riluttante fratello minore, Emil. Riluttante persino a riconoscerlo quale suo parente.
Mathias si sfregò le mani. Agire da solo avrebbe richiesto più tempo del solito, aggiungendo a ciò una componente di rischio variabile dovuta al non conoscere l’entità dei danni. Stava giusto svitando una serie di minuscole viti che bordavano il frigorifero, quando un fumo sottile cominciò a diffondersi per la sala. Mathias lo ridusse a: contrattempo facilmente superabile. Che gli causasse un violento attacco di tosse era trascurabile.
La verità era che stava invecchiando. Aveva quasi quarant’anni e i numerosi viaggi interstellari lo avevano logorato. Sempre più spesso si sorprendeva ad immaginare come sarebbe stato accasarsi, magari con Lukas. L’idea gli piacque e si ripromise di rendere l’amico partecipe del progetto. Poi, si immaginò i rimproveri di Visser, suo mentore in gioventù, e un largo sorriso gli abbellì il volto. Si passò una mano sulla fronte. Ah, Jan Visser era quasi una leggenda nel mondo dei mercanti. Vent’anni prima aveva contribuito a forzare il blocco di Kyto e quella era solo una delle sue imprese. A sentire il vecchio mercante, esisteva ancora spazio per nuove conquiste.
Mathias se lo immaginò, ormai decrepito, a gestire una fitta rete di affari dalla lussuosa villa su Terminus, circondata da un giardino tenuto in maniera impeccabile.
Fu distratto da un ringhio; fece appena in tempo a girarsi verso la fonte del rumore che venne travolto da un batuffolo di pelo uggiolante, sparato a tutta velocità contro il suo petto.
“Ma guarda un po’” esclamò Mathias: i cani, così come ogni altra forma di vita animale, erano quasi scomparsi. “Da dove sbuchi fuori? Come ti chiami?”.
La risposta alla seconda domanda giunse tramite un urlo, mentre Mathias stava già coccolando la bestiola.
“Hanatamago! Qui, bello!”, seguito poco dopo da un viso molto familiare. Tino esibiva un volto scavato da anni di privazioni, ben diverso dalle tenere rotondità con cui Mathias lo ricordava, ma era comunque inconfondibile.
“Cosa ci fai qui?”
“Il cane è tuo? Ripeti il nome!”
Sì, la cagnolina era sua. Sua e di Berwald, si intendeva. Perché, Hanatamago non era un bel nome?.
Mathias scoppiò in una fragorosa risata: “Ho pensato che vi servisse una mano con questo”. E allargò le braccia a indicare la casa e il suo contenuto.
“Non sta andando bene” constatò Tino, annusando l’aria. “C’è puzza di bruciato.”
“Un contrattempo col frigorifero.”
Tino soppesò il fatto per cinque minuti buoni, prima di chiedere: “Piuttosto. ripareresti la lavatrice?”


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