La Legge del gioco

di Pizee_01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nell'ufficio ***
Capitolo 2: *** Innocenza Parziale ***
Capitolo 3: *** Il cassiere ***
Capitolo 4: *** Pain ***
Capitolo 5: *** Radici ***
Capitolo 6: *** Speranza Mortale ***
Capitolo 7: *** Senza speranza di fine ***
Capitolo 8: *** Maledizione ***
Capitolo 9: *** Tutti i miei Sbagli ***
Capitolo 10: *** Ignorando ***
Capitolo 11: *** Incapace ***
Capitolo 12: *** È finito il tempo ***
Capitolo 13: *** Svolta ***
Capitolo 14: *** Disegno in movimento ***
Capitolo 15: *** Nascita ***
Capitolo 16: *** Sventuratamente ***
Capitolo 17: *** Nero Onice ***
Capitolo 18: *** Fragile ***
Capitolo 19: *** Passato ***
Capitolo 20: *** La Fine ***



Capitolo 1
*** Nell'ufficio ***


La legge del gioco
Capitolo 1: Nell'ufficio
Accendo la sigaretta. Aspiro. Il sottile strato di nebbia del fumo inizia a riempire il mio buio e grigio ufficio. Mi sento incredibilmente meglio, come se oggi non fosse accaduto niente di vagamente emozionante. Invece, è successo. Guardo fuori dalla finestra, vedo il cielo grigio, e sento odore di pioggia. Mi alzo, e vado a chiudere la finestra.
Torno verso la scrivania e mi siedo sulla mia vecchia e logora sedia in pelle nera. Aspiro ancora, guardo la sigaretta consumarsi lentamente.
Oggi c'è stata la grande rimpatriata dei concorrenti del reality. La prima cosa che pensai quando ricevetti la chiamata da Bridgette fu “perché?”. Perché? Continuai a chiedermelo mentre, parlando con lei, mi fingevo entusiasta. Mi disse che alcuni vecchi compagni non sarebbero potuti venire. Quella piccola informazione mi rallegrò un poco. Ma non troppo. Io non volevo vedere nessuno di loro. Nessuno faceva eccezione.
Quei due non c'erano. Per fortuna. Quindi la serata è andata avanti a sorrisi e risate finte.
Dopo il reality io tagliai completamente i ponti con la mia vita precedente. Non sento la mia famiglia da allora. Be', almeno, non mi dovetti preoccupare di trovare il modo di dire ai miei genitori che me ne sarei andata di casa: ci pensarono loro. Non avevo concluso niente con il reality. E avevo sprecato anni che avrei potuto passare all'università per rincorrere l'idea di vincere il milione di dollari. Non ero una figlia degna di far parte di quella famiglia
Per colpa di quello stupido show ho perso la mia famiglia. Non che, a casa, qualcuno mi volesse bene, però, sarebbe stato bello avere delle persone a cui poter dire: “ho trovato lavoro” oppure “mi sono laureata”.
Ormai la sigaretta si è quasi consumata completamente, perciò la spengo nel posacenere pieno che sta vicino al portapenne. Guardo il mio ufficio; un po' mi rispecchia: disordinato, abbandonato e pieno di polvere.
Non ho un cliente da mesi. Non so il perché, ma ormai non me lo chiedo neanche più. Vengo qui cinque giorni alla settimana solo perché il mio appartamento è messo peggio di questo trasandato ufficio.
Guardo fuori. Le gocce ormai cadono copiosamente. Sento un tuono. Mi viene un brivido.
Il mio orologio da polso inizia ad emettere quel fastidiosissimo e penetrante suono: è ora di tornare nella bettola.
Faccio per alzarmi ma la porta si apre. È il mio capo. Sono sorpresa: sarà da due anni che non entra nel mio ufficio.
-Barlow, ho un caso per te.-
Come? Un caso? Non parlo, ma la mia sorpresa può benissimo essere colta semplicemente guardando i miei ormai vuoti occhi.
-Bene, domani comincerò a lavorarci su.-
-Inizierai a lavorarci ora.-
Butta malamente il fascicolo sulla mia polverosa scrivania, senza lasciarmi il tempo di terminare la frase.
Mi porto una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio, valuto l'ipotesi di passare la notte a lavorare su un caso. Una notte senza ratti che camminano sul pavimento non può farmi che bene.
-Come vuole. Per quando è fissato il processo?-
-Tra una settimana.- dice, facendo un ghigno divertito nel momento in cui vede il mio viso che muta dal sorpreso-indifferente al sorpreso-indignato: è rimasto talmente poco rispetto in me da affidarmi un processo che sarò sicuramente destinata a perdere? Che schifo di vita.
-Le conviene fare in fretta.- aggiunge.
Il nervoso sostituisce la sorpresa. Perché me l'ha assegnato solo ora?
-L'imputato ha chiesto solo ora un avvocato.- risponde, svogliatamente, come se io fossi solo una bambina che non merita alcuna spiegazione.
Trascorriamo alcuni secondi immersi nel silenzio, riempito solo da secco rumore della pioggia che penetra la finestra chiusa.
-Be', la lascio lavorare. Arrivederci, Barlow.- Si congeda.
Mi dà abbastanza fastidio il fatto che mi abbia chiamato solo “Barlow”, invece che “avvocato Barlow”, ma è il mio capo, perciò me ne sto zitta.
-Arrivederci, Mr. Daniels.- dico, cercando di non far trapelare quanto la cosa mi irriti.
Esce dal mio ufficio sbattendo la porta. Sospiro profondamente.
Mi siedo sulla mia poltrona. Non apro subito il fascicolo. Mi alzo di nuovo, e mi avvicino alla finestra, la apro e mi affaccio. Sento le gocce che mi bagnano il viso. Ormai la pioggia è l'unica cosa che mi dà la piacevole illusione che io sia un essere vivente, e non questo vuoto e inutile involucro. Vedo un lampo.
Sorrido amaramente. Mi ricordo di quando, ai tempi del reality, quando vedevo un fulmine, la prima cosa che pensavo era: io sono forte come un fulmine. Che sciocca che ero.
Una sciocca principessina viziata e totalmente ignorante.
Però, un po' mi manca quel periodo. Il periodo in cui l'unica persona che mi amava ero io. Ora non mi ama nessuno.
Riporto la testa dentro all'ufficio. Chiudo la finestra.
Mi siedo sulla poltrona. Cigola.
Avvicino a me il fascicolo, lo apro e... no, non può essere...
“Imputato: Duncan Nelson
Accusa: omicidio di secondo grado.”
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Salve, popolo di efp! Allora, vi è piaciuto questo primo capitolo? Fatemelo sapere con una recensione; soprattutto se potete farmi delle critiche costruttive. Il mio unico obiettivo è migliorare. Grazie per aver letto, ed al prossimo capitolo!
 
Pizee

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Capitolo 2
*** Innocenza Parziale ***


La legge del gioco
Capitolo 2: Innocenza parziale
Cammino, con passo stanco. I miei passi risuonano tra le pareti grigie.
L'unica cosa che stona è la mia tuta arancione. Ho le manette.
Continuo a camminare. Gli sbirri che mi scortano (neanche fossi una celebrità) hanno sguardi stanchi quasi quanto i miei. Immagino quanto amano il loro lavoro; hanno delle pance talmente grandi e tonde che mi stupisce il fatto che abbiano affidato un “omicida” a questi due.
Arriviamo alla fatidica porta. Come sono emozionato!! Certo, certo... scommetto che l'avvocato che mi hanno assegnato sarà il più merdoso di tutti.
Uno sbirro entra e scambia parole che non capisco con il mio avvocato. È la voce di una donna. Fantastico.
Lo sbirro mi dice di entrare, io vado verso la porta e lui mi spinge dentro. Inizia a ridere... se i maiali potessero ridere farebbero questo rumore. Giro lo sguardo verso il tavolo al centro della stanza.
… no, la cosa è talmente incredibile che inizio a ridere sguaiatamente. Ah, non ci credo che mi sia capitata proprio lei.
-Signor Nelson, la prego di mantenere un minimo di contegno.- dice in modo così formale che inizio a ridere ancora più di prima.
Lei storce la bocca. Sghignazzo, ma ho smesso di ridere.
Mi siedo in modo scomposto, come se mi fossi appena buttato sul divano.
-Bene, signor Nelson, io sono l'avvocato Barlow. La rappresenterò al...-
-Oh, andiamo, principessa, c'è bisogno di tutto questo tono formale? Noi ci conosciamo molto bene.-
Lei non lascia trapelare nessuna emozione, se l'era aspettato che avrei risposto così. Come ho già detto, ci conosciamo molto bene.
-La prego di chiamarmi avvocato Barlow. Il nostro passato non deve influire sul nostro rapporto professionale.-
Ricomincio a sghignazzare. È una situazione troppo divertente.
-Ok, ok, principessa. Tu continua a chiamarmi “signor Nelson”, io continuo a chiamarti principessa.-
La sua espressione muta spaventosamente dall'esasperato all'incazzato. Si alza. In un secondo il suo viso è ad un centimetro del mio.
-Senti bene, stronzetto. Se io perdo questo caso perdo il lavoro. Perciò vedi di fingere che della mia o della tua vita te ne freghi qualcosa.- sibila, incazzatissima.
Sono sorpreso. Ma sul mio volto si apre velocemente un ghigno.
-Ok, “avvocato Barlow”- dico, scimmiottandola.
Lei ringhia. Afferra il colletto della tuta arancione.
-Senti, stronzo, se non prendi la cosa seriamente io farò di tutto perché tu finisca con una siringa iniettata in quel tuo schifoso braccio.-
Lei non mi spaventa; però mi piace un sacco quando mi minaccia.
-Principessa, a me, ormai, non frega più un cazzo della mia vita. Però mi impegnerò, come vuoi tu; ma sappi che lo faccio solo per te.- dico, e le tocco scherzosamente il naso.
Mi ritrovo con la testa voltata verso la parete laterale, e la sua voce mi giunge all'orecchio sinistro.
-Bene, allora, signor Nelson, direi di iniziare a lavorare.-
Mi pulsa la guancia.
Lei si è già ricomposta. Lo noto solo adesso: gli occhi sono vuoti, i capelli trasandati e i vestiti, stranamente, non sono di marca.
Di sicuro non se la sta passando bene.
-Allora, signor Nelson, prima di tutto: lei è colpevole o innocente?-
-Innocente.- dico.
-Non le credo.- dice.
-Be' dovresti, dato che è la verità.- sto iniziando ad innervosirmi, io non ho ammazzato nessuno.
-Signor Nelson, le voglio spiegare una cosa.- dice, parlandomi come se fossi un ritardato.
-Ormai i processi si sono trasformati in squallide recite scolastiche. Vince quello che recita meglio. O chi ha la storia più commuovente, dipende.-
Conclude. Non sono stupito, mi sento come se lo sapessi già: io non mi sono mai fidato del sistema, degli sbirri, benché meno degli avvocati.
-Lei mi deve spiegare perché ci sono le sue impronte sull'arma del delitto.-
Sospiro. Sono quasi tentato di dichiararmi colpevole. Velocizzerebbe le cose.
-Volevo rubare qualcosa, e le luci di quella casa erano spente. Sono entrato, ero in cucina, stavo per andare nel salotto, che era adiacente, poi ho sentito degli strani rumori metallici, come di catene, venire verso di me, così ho preso un coltello dal mobile che mi stava vicino.- mi interrompo un attimo. -Poi ho sentito una donna urlare, e un uomo dire: stai zitta, troia. Ho lasciato cadere il coltello e sono scappato.-
Questo è quanto. Da quando vivo tra i vicoli bui ed il mercato nero, ho imparato a non farmi domande.
-È quello che hai detto ai poliziotti?-
-Sì.- questa volta, non ho avuto bisogno di mentire.
-Bene, allora credo che ci sia qualche possibilità che lei ne esca vivo.-
Attira a sé il fascicolo che è stato lì sul tavolo grigio ad ascoltarci per tutto questo tempo.
Tira fuori una foto e me la mostra. Ho un sussulto, ma niente di più.
È una donna, il volto è coperto di lividi e sangue, i capelli rossi quasi si mischiano con la pozza in cui la sua testa è immersa; e sul petto e sullo stomaco ci sono evidenti segni di accoltellamento.
-Lei è... era... Zoey Humble, la vittima. La conosceva?- mi chiede.
-No, mai vista prima.-
Sono stanco, me ne voglio tornare in cella.
Lei sembra notarlo, perché chiude il fascicolo dopo averci reintrodotto la foto e si alza.
-Bene, signor Nelson, comincerò a lavorarci immediatamente. Si prepari, il primo processo è tra una settimana.-
La vedo andare via, e rivivo nella mia testa tutta la nostra conversazione: il volto pallido, gli occhi vuoti, tristi... ora lo capisco... intrisi di nostalgia.
-Courtney.- la chiamo, io sono ancora seduto.
Lei si ferma, dandomi la schiena.
-Sì?-
Prendo fiato.
-Mi dispiace.- non so di cosa mi sto scusando, sento solo che lo devo fare.
Lei inizia a ridere, sarcasticamente.
-Ah, Duncan, tu tendi a prendere la strada più facile.- tace per una manciata di secondi.
Poi parla:
-È facile scusarsi davanti ad un cadavere.-
Se ne va.
Mi brucia ancora la guancia.
 
 
 
 
ANGOLO DELL'AUTRICE
Ok, scusate se ci ho messo un po' ad aggiornare, ma questo capitolo è stato molto difficile da scrivere.
Bene, come molti di voi avranno capito, il capitolo è stato narrato da Duncan. Non ho messo nessuna avvertenza nel capitolo precedente, ma il narratore dei vari capitoli si alternerà tra Courtney e Duncan.
Come vi è sembrato? Fatemelo sapere con una recensione. E se notate qualche errore, vi prego di dirmelo.
Be', ci vediamo al prossimo capitolo!
 
 
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Capitolo 3
*** Il cassiere ***


La legge del gioco
Capitolo 3: Il cassiere
Mi butto sul letto; scricchiola. Sospiro. È stato più difficile del previsto.
Quando l'ho visto, mi sono spaventata. Ha buttato nel cesso la sua vita, è così evidente.
L'ho capito appena l'ho visto; è accusato di omicidio, ma la cosa non lo turba minimamente. È innocente, io gli credo, ma lui non si fida del sistema, e non credo sia così sicuro di poterne uscire vivo, ma la cosa sembra non importargli.
Ormai la persona che era è diventata una maschera trasandata e poco credibile. Sono stati buffi e allo stesso tempo spaventosi i momenti in cui lui cercava di fare lo strafottente, cercando di tirare fuori quella parte di lui giovane; che è ormai morta.
Chissà che cosa ha fatto dopo il reality. Sarà rimasto con Gwen? No, credo di no. Il loro era un amore adolescenziale destinato a finire, come il nostro.
È diventato un senzatetto, non so come. Molto probabilmente la sua famiglia dopo un po' si è decisa a ripudiarlo, e lui non è riuscito a tirare fuori le palle per andare avanti.
Sento il rumore delle macchine che passano sotto la mia finestra. Ci sono abituata. Ora che ci penso, vivo a New York da ormai dieci anni.
Dieci anni si schifo.
Sbuffo. Ora come ora, mi odio, penso, ed odio il mondo che mi circonda.
Saranno state scuse quelle? Forse sì. Sa che forse morirà, e vuole avere la coscienza pulita. Ma ormai è troppo tardi.
Ringhio, incazzata. Mi alzo velocemente e tiro un calcio alla vecchia poltrona color verde oliva; vicino alla quale ho appoggiato la spesa: un panino e una confezione di formaggio a fette.
Una vocina stridula e fastidiosa si insinua nella mia testa.
Oh, andiamo, Courtney, ti stai incazzando così tanto solo per quel deficiente? Insomma, eravate ragazzi, è così che va l'adolescenza. Aspetta, credevi davvero che lui ti amasse? O che tu amassi lui? Eravate in preda agli ormoni, tu più di tutti.
Sono arrabbiata, arrabbiata con quella parte bambina di me che non si decide a crepare.
Suona il campanello. Sobbalzo. Nei cinque anni che ho passato in questo appartamento il mio campanello è suonato due volte, entrambe da parte del proprietario che pretendeva i soldi dell'affitto. Vado al citofono.
-Chi è?- chiedo, con voce stanca.
-Sono il cassiere del market... ha dimenticato il suo resto.- dice, apparentemente indifferente.
-Mi ha seguita fino a casa mia solo per restituirmi il resto?- chiedo, con voce sorpresa. Solo in questo momento capisco che, dal mio tono, lui possa pensare che l'abbia additato come una specie di stalker. Non era mia intenzione.
-Sì. Sa, in questa zona non ci sono solo stupratori e ladri.- è convinto di quello che dice. Un'altra persona potrebbe pensare che sia solo un maleducato. Però mi è simpatico: è da tanto tempo che non parlo con qualcuno che dice quello che pensa.
Cerco di essere un po' più accomodante.
-Va bene. Entra, che per sdebitarmi ti offro un caffè.- il mio caffè fa vomitare, ma non ho altro da offrirgli.
Chiudo il citofono e gli apro, prima che lui possa dire qualcosa, non voglio costringerlo a rispondere.
Aspetto vicino alla porta, e dopo una trentina di secondi, sento dei passi avvicinarsi. Prima che possa bussare, apro la porta. Mi trovo davanti un uomo che deve essere più o meno mio coetaneo, è più alto di me, ed ha i capelli color carota.
Sorrido, accomodante.
-Dai, vieni dentro per il caffè.- è incredibilmente serio, ma dai suoi occhi capisco che dentro di lui stanno turbinando un mare di emozioni. Ma non riesco a capire quali.
Entra, sicuro, ma non così tanto da poter sembrare strafottente.
Chiudo la porta. Mi rendo conto solo adesso che lui forse deve tornare al lavoro.
-Tu forse devi tornare al lavoro?-
-Resisteranno dieci minuti senza di me.-
Lo guardo. Sul mio volto si apre un sorrisetto compiaciuto. Vuole rimanere qui. Metto la caffettiera sul fuoco.
-Ok.-
Lui sembra non accorgersi del mio sguardo indagatore, oppure sta solo fingendo di non vederlo.
La caffettiera inizia a fare quel suono stridulo. La tolgo dal fornello e prendo due tazzine dallo scaffale.
-Quanto zucchero vuoi?- chiedo, intanto metto nella mia tazzina due zollette.
-Non lo voglio, grazie. Io lo bevo nero il caffè.- dice, senza esitare.
Non dico niente, facendo però intendere di aver capito.
Gli porgo il suo caffè, e mi siedo. Immergo il cucchiaino nel caffè, e inizio a girare.
-Allora, devo continuare a chiamarti cassiere o...?-
-Scott, mi chiamo Scott.- dice, ed inizia a bere il suo caffè. -E tu?- cerca di abbozzare un sorriso.
-Courtney.- sorrido anch'io. Bevo il caffè.
Io tengo lo sguardo rivolto alla tazzina, ma con la coda dell'occhio riesco a vedere che lui mi fissa, mentre beve.
-Fa schifo, eh?- chiedo, cercando.
Lui mi guarda perplesso. Sta valutando la risposta: mentire spudoratamente per cercare di essere gentile o dire semplicemente la verità? Spero scelga la seconda
-Beh, sì. Ma ti assicuro che ne ho bevuti di peggio.- mi è simpatico questo tipo. Ha fatto la scelta giusta.
Poi parliamo, parliamo, parliamo. Ridiamo. Scherziamo. Poi lui butta un occhio all'orologio.
-Oddio! È passata mezz'ora e neanche me ne sono accorto! Devo tornare al lavoro!-
è evidentemente preoccupato.
-Oh, certo. Vieni, ti accompagno alla porta.-
Mi alzo, lui è già in piedi. Raggiungiamo in due passi la porta del mio lurido monolocale. Chissà cosa avrà pensato quando ci è entrato.
Gli apro.
-Ciao, ci vedremo alla prossima spesa, Scott!- dico sorridendo.
-Sì, ciao.- fa un sorriso tirato.
Esce. Sto per chiudere la porta, quando lui si ferma. Sta lì in piedi per due secondi, poi si gira velocemente.
-Usciresti a cena con...-
-Sì- dico, repentinamente.
Lui sorride, veramente.
-Tieni, il mio numero.- prendo un vecchio documento dalla pila che sta vicino al letto ed una penna. Scrivo velocemente ma chiaramente il mio numero di telefono.
-Ok, ti chiamo io- dice, continuando a sorridere.
Poi se ne va, quasi correndo.
Chiudo la porta, e mi ributto sul letto; scricchiola. Mi addormento sorridendo.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Salve!
Prima di tutto vorrei precisare che, in questa storia, non teno in considerazione la quarta, quinta e sesta stagione (l'ho scritto anche nella descrizione della storia; anche se in ritardo -si, sono cretina).
Be', è entrato in scena Scott, che ve ne pare?
Ditemelo con una recensione; e, vi ricordo, se trovate degli errori vi imploro di dirmelo!
Al prossimo capitolo, un bacio!

 

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Capitolo 4
*** Pain ***


La legge del gioco
Capitolo 4: Pain
Fisso il soffitto grigio. Qui è tutto grigio, compreso il cibo.
Sospiro.
Che vita di merda. E tutto per colpa di quel dannato reality... non ci avessi partecipato.
Dopo l'ultima stagione di quello stupido show, ho passato un anno insieme a Gwen.
Ora che ci penso, non saprei come definirlo. Fantastico? No, assolutamente no.
Orribile? No, non proprio. Vivibile, ecco, questa è la parola giusta.
Lei mi salvava il culo quando ne avevo bisogno e viceversa. Sono stato io a indurla ad entrare nel giro della droga: io fumavo erba da molto tempo prima che ci mettessimo insieme, e diciamo che essere circondata da drogati non ha giovato alla sua situazione.
Ma io lo so... lei voleva iniziare a drogarsi da tempo; io sono solo stato la scusa per iniziare a farlo.
Del periodo in cui siamo stati fidanzati mi sono reso conto di come lei fosse diversa da come si presentava: il suo interesse prioritario era quello di mantenere l'immagine della gotica che odia tutto.
Il reality aveva rovinato anche lei.
Poi si è decisa a lasciarmi, non mi è dispiaciuto più di tanto: in fondo io stavo con lei solo per poter andare in giro a dire: io non sono un fallito come voi, io ho una ragazza.
Che coglione che ero.
Non ho idea di che fine abbia fatto: mi ha lasciato un biglietto in cui diceva le solite cose, “io non ce la faccio più”, “tu non hai alcun rispetto per me” ed altre cose che non ricordo. Adesso che ci penso, forse non l'ho neanche letto tutto quel bigliettino.
Poi la mia famiglia mi ha allontanato, non ho idea cosa li aveva spinti ad aspettare così tanto per farlo. Forse la speranza che io sarei potuto cambiare? Non lo so. Non credo che quello sbirro di mio padre sia un tipo molto speranzoso. Forse è stata mia madre a convincerlo ad aspettare.
Be', dopo ho iniziato a rubare.
Dovevo pur ricavare i soldi da qualche parte, e la vita dell'operaio non mi andava a genio.
Una guardia inizia a bussare molto delicatamente alla porta della mia cella. Oh, dio santo, ma è possibile che gli sbirri abbiano tutti la delicatezza di un elefante obeso?
-Nelson, hai visite.- dice, schifato.
Molte volte i piedipiatti quando mi parlano, mi chiamano “feccia”, “spazzatura” o “sudiciume”, ma questa volta no, non so e francamente non mi interessa sapere il perché.
Mi alzo senza dire niente: io non parlo con questi stupidi pinguini.
Esco dalla porta porgendo i polsi, annoiato; conosco bene la procedura.
Mi ammanettano.
Cammino, con affianco i poliziotti.
Dopo due minuti circa arrivo nella sala delle visite. Entro nella cella e mi siedo.
Alzo lo sguardo... be', quando pensi al diavolo spuntano le corna.
Prendo la cornetta che sta alla mia destra, e lei segue i miei movimenti come uno specchio.
-Perché sei qui?- la fisso.
Lei cerca di fare la dura, come al solito, mostrandosi fredda ed impassibile, ma fallisce miseramente: le sue mani tremano.
-Sai, ho letto sul giornale che hai ammazzato una tizia.-
-Non hai risposto alla mia domanda.- perché diavolo è venuta qui?
-Volevo solo vedere come stavi...-
-Sto bene. Hai finito adesso?-
Non ho voglia di stare qui a parlare con lei.
Abbassa lo sguardo per un attimo; sembra che neanche lei sappia perché è qui.
-Quando è il processo?-
-Tra una settimana.- la vuole smettere di fare queste domande di circostanza?
Mi sto innervosendo, troppo.
-E... hai un buon avvocato?-
Faccio un sorrisetto divertito.
-Be' sì, diciamo di sì.- passano due secondi. -Credo che tu la conosca.-
Lei sorride, crede davvero che ora sia più felice di parlare con lei?
-Ah sì? E chi è?-
Rido sommessamente.
-Courtney.-
Lei spalanca gli occhi e socchiude la bocca.
Inizia a balbettare cose impossibili da capire, sono sempre più innervosito.
-Gwen, sai che io detesto perdere tempo, mi vuoi dire perché cazzo sei venuta a trovare il ragazzo che hai mollato anni fa, e che avevi detto di detestare?-
Lei mi guarda, con troppo pietà negli occhi per i miei gusti.
-Volevo solo dirti che mi trasferisco; torno a Toronto.-
È palese che non è l'unica cosa che aveva pensato di dirmi.
-E..?- ormai la devo spronare a parlare. Sembra una bambina; e io detesto i bambini.
-Mi sposo.-
Sono leggermente sorpreso, ma ancora non capisco come lei abbia potuto pensare che la cosa potrebbe interessarmi.
-Quindi?-
-Con Trent.-
Faccio un sorrido ironico. Si è sposata con il suo ex ex ragazzo, con il pazzo.
-Quindi sei riuscita a farlo uscire dal manicomio?-
-Oh, Duncan non fare lo stupido.- dice, esasperata.
-Quindi, Gwen, cosa vuoi che ti dica? Avete la mia benedizione; ora sei contenta?-
Lei mi guarda come se fossi io il pazzo. La cosa mi fa incazzare.
-Duncan, vuoi che venga al processo?-
-A quale fine?-
Ora è lei che si incazza.
-Duncan, ma ti rendi conto di come ti sei ridotto? Non hai amici, non hai una famiglia, e quando una persona cerca di aiutarti, la tratti come spazzatura. Sai cosa ti dico? Vai a farti fottere.-
Poi rimette bruscamente la cornetta al suo posto e se ne va, con passo svelto.
Le guardo la schiena, è molto più donna rispetto a quando stavamo insieme. Ha una borsa, i tacchi, una gonna attillata ma non troppo, come una donna adulta.
E io sono qui, con una tuta arancione indosso, come un bambino.
La guardia viene a prendermi. Torno in cella.
Sono di nuovo steso sul letto. A fissare il soffitto.
Penso a quello che è successo.
Gwen ha ragione, ha totalmente ragione. La mia unica compagna ormai è la solitudine.
Che è anche diventata la mia migliora amica da qualche anno.
Chissà cosa succederà dopo il processo... di sicuro tornerò alla vita di prima. Sospiro rumorosamente.
Chiudo gli occhi, saranno due giorni che non dormo.
Ma non mi addormento: penso a Gwen, al suo matrimonio ed al processo... e a Courtney.
Credo che mi abbia fatto bene il nostro incontro, è da tanto.... tropppo che non litigavo con qualcuno.
Rivivo tutta la mia vita.
Sono nato, prendevo sempre quattro a scuola. Poi il reality, mi ero messo insieme a Courtney... ricordo ancora quel teschio intagliato che le lanciai alla sua eliminazione.
Ma soprattutto, penso a tutte le emozioni che provavo: paura, felicità, adrenalina....
Ora invece niente.
Sono vuoto. Completamente.
Chiudo gli occhi e precipito nell'oscurità che mi avvolge da troppo tempo.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Buongiorno Efp!
Volevo regalarvi questo capitolo, dato il fatto che d'ora in poi ci metterò un po' di tempo in più per aggiornare. Perché... comincia la scuola! Il mio primo anno di liceo!
Ma, mie pazzie a parte, vi è piaciuto il capitolo? È un capitolo molto riflessivo, e in cui non succede niente di troppo rilevante, ma è un capitolo di transizione.
Comunque, ditemi quello che pensate con una recensione, vi prego!
Vi saluto, un abbraccio!
 
 
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Capitolo 5
*** Radici ***


La legge del gioco
Capitolo 5: Radici
-È stata una serata bellissima.-
Siamo qui, vicino al portone marcio del mio condominio, brulicante di tarme.
Nessuno di noi due sa che fare; solo perché nessuno sa cosa vuole fare l'altro.
È una situazione quasi paradossale; in questo momento ogni mio azione dipende dalla sua e viceversa. Quindi se tutti e due non facciamo niente, nessuno farà nulla.
Si avvicina di un passo.
Ora capisco cosa vuole: vuole vivere la classica scena del bacio a fine serata dei film.
E io? Non ne ho idea.
Ci avviciniamo di un centimetro.
Lui si perde nei miei occhi. Com'è possibile? I miei occhi sono grigi, brutti, vuoti.
I suoi sono scuri, ma fantastici, ed incredibilmente profondi.
Lui socchiude gli occhi.
Io non sono ancora sicura.
Ok, Courtney, o ora o mai.
Sto per baciarlo, ma mi sembra di morire: tutta la mia vita mi passa davanti, ora me ne rendo conto... io non ho mai veramente dimenticato né superato tutto quello che mi è successo durante la mia vita.
Penso alla mia infanzia, mia madre non mi amava, ma almeno fingeva: di sicuro non voleva ritrovarsi ad avere una figlia insicura per carenza d'affettività.
Poi iniziò l'adolescenza. La scuola, avevo sempre voti alti. O quasi.
Alle medie prendevo sempre dieci, in qualsiasi materia, anche in educazione fisica.
Una volta, in terza media, in un tema, presi nove e mezzo. Mia madre mi picchiò.
Io sanguinavo dal labbro spaccato, il mio volto era viola per i lividi, e il mio occhio era nero.
-Dirai che hai avuto un incidente sul tetto, o sulle scale, insomma, sei una deficiente, ma non così tanto da non riuscire a trovare una scusa.- mi disse, con rabbia.
Mio padre stette a guardare per tutto il tempo, impassibile. Lasciava fare a mia madre il “lavoro sporco”. Ma a lei piaceva, si divertiva, cercava di trovarmi qualsiasi difetto, solo per potermi correggere: ma io ero una ragazzina quasi perfetta: educata, bella, intelligente, studiosa, socievole, ma agguerrita.
Le dovevo dare del lei, diceva che mi dovevo sentire più che onorata a poter essere etichettata come sua figlia.
Poi il reality. La sera che decisi di partecipare al reality, io e lei litigammo furiosamente, lei tentò di picchiarmi ancora, ma io non stetti ferma: reagii, ma lei non si arrese, lottammo.
Poi mi tirò una botta in testa talmente forte che svenni; non la vidi, ma sono quasi certa che aveva preso l'abat-jour che stava sul comodino vicino al divano.
Mi svegliai nel mio letto. Rimasi chiusa lì per giorni, mia madre aveva ordinato alla servitù di non darmi niente da mangiare finché non avessi chiesto umilmente scusa a lei.
-Dovrebbe venire a strisciare sui miei piedi baciando il terreno su cui cammino- aveva detto.
Ma la cuoca e la cameriera si erano messe d'accordo, ed ogni mattina e sera, mi passavano un po' di cibo.
Passò una settimana. Mia madre per la prima volta venne a vedere se ero morta o se ero ancora viva. Tanto a lei non faceva nessuna differenza. Vide che ero sana, non avevo perso neanche un chilo.
-Io lo vincerò, e tu lo sai.- dissi solo questo; per la prima volta in vita mia le avevo dato del tu.
-Giuro che se non vinci, non rivedrai mai più casa mia.-
Poi sbatté la porta, ma non la chiuse a chiave.
Quella sera, scoprii che le cameriere e la cuoca furono licenziate e sostituite.
Circa un mese dopo, alla fine della scuola, partii per il reality, nessuno mi salutò, dovetti partire presto, e di sicuro la mia famiglia non si sarebbe presa quel disturbo solo per salutarmi.
Poi il reality... Duncan... il teschio... Gwen... poi basta, la mia vita andò a rotoli. In tre stagioni del reality non avevo vinto neanche un soldo, ero una persona inutile.
Ci avviciniamo di un altro centimetro; io lo so. Se lo bacio, tutto quello che ho vissuto sarà completamente cancellato. Forse è un bene. E so che sembra assurdo, ma non sono sicura che io lo voglia.
Sarebbe come far finta che io per ventinove anni non abbia vissuto.
Sento come se fosse una cosa sbagliata, offensiva nei miei confronti.
Ci avviciniamo ancora. Questo bacio sarà così diverso da quello che diedi a Duncan, quello era un bacio frenetico, istintivo, partito da due persone che avevano solo bisogno di un po' di amore nella vita. Amore? Non lo so, non so se quello fosse amore. Ma credo di no.
Quello che provo per Scott, cos'è? Siamo usciti sol una volta, ci conosciamo da neanche tre giorni. È giusto quello che sto per fare? Non lo so.
Be', almeno, durante la mia vita, una cosa ho imparato: l'istinto non mi ha mai portato niente di buono dalla vita.
Oramai non manca neanche un centimetro.
Ormai anch'io ho socchiuso gli occhi.
-Vuoi salire?.- non lo voglio cacciare, voglio che stia con me. Mi sento bene, ora.
Ma non so se ora mi posso permettere di avere una relazione.
Lui mi guarda sorpreso, ed un po' deluso, ma poi il suo viso s'illumina di nuovo.
-Certo.- acconsente.
Annuisco, per porre fine alla conversazione. Prendo le chiavi del portone del mio condominio.
Iniziamo a salire le scale. Adesso ci penso: il mio appartamento non è proprio il posto più romantico di New York, ma almeno ho un minimo di tempo per capire cosa fare.
Quindi... cosa faccio?
La vocina si insinua di nuovo nella mia mente, con quella sua odiosa voce stridula e fastidiosa.
Oh, Courtney, sono dieci anni che non ti diverti. È un bravo ragazzo.
Poi fa una pausa.
Oh, oh, adesso ho capito, continua la vocina, ho paure di quello che sta per dire. Tu stai pensando a Duncan!
Non ci provare nemmeno, mi rifiuto di credere che tu stia davvero per rifiutare quello che può essere il tuo futuro marito per un cazzo di assassino.
-Lui non è un assassino.- sibilo tra i denti.
-Courtney, tutto bene?.- una voce alle mie spalle, mi ero quasi dimenticata che lui è qui.
-Sìsì.-
Quella ricomincia.
Anche se non lo fosse, ti ha tradita. E, non so se ti ricordi, ma lui aveva affermato di non avere rimpianti; Courtney, ti ha usata, usata come un oggetto. Ti ricordi? Lui riteneva più importante il suo fottuto ragno che te.
Stringo i denti.
Tu sei ancora innamorata vero? Lo dice con evidente disgusto.
No, come potrei? Rispondo nella mia testa.
Allora prendi quello che passa il convento, che questa volta non così male.
La sua voce fastidiosamente ironica svanisce.
Sono davanti alla porta la apro, e sorrido. Non ho intenzione di dimenticare.
Vivrò con il mio passato cercando di offuscarlo con i pensieri del futuro.
Chi non è stato in grado di affrontare il proprio passato è costretto a conviverci per il resto della vita
Mi giro, e gli sorrido. Il sorriso più sincero che faccio da dieci anni a questa parte.
Lo invito con la mano ad entrare. La porta si chiude.
Non si riaprirà prima dell'alba.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Buona prima settimana di scuola a tutti!
Allora, mi dispiace molto se ci ho messo così tanto ad aggiornare, ma la prima settimana di scuola mi ha letteralmente distrutto: torno a casa e crollo sul letto.
Ma, comunque, come vi è sembrato il capitolo?
Sì, sì, lo so, non avrei dovuto scrivere un ALTRO capitolo così introspettivo, ma non avevo idea di come rappresentare la prima serata di Scott e Courtney (non sono molto brava a descrivere appuntamenti romantici o cose comunque sdolcinate o eccessivamente romantiche).
Be', direi che la loro prima serata è finita in rose e fiori, eh? ;)
Ok, ora vado a fare il ripasso serale di geostoria.
Ci vediamo al prossimo capitolo!
 
 
Pizee_01

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Capitolo 6
*** Speranza Mortale ***


La legge del gioco
Capitolo 6: Speranza Mortale
Oggi ci rincontreremo.
Da quel giorno, non faccio altro che pensare che questa sia una cosa stupida. Tanto, anche se decidessero di assolvermi, cosa potrebbe offrirmi la vita?
Ho solo trent'anni, ma mi sembra di averne ottanta: non riesco a dormire, e mi sono stancato di vivere.
Quante volte ho pensato di suicidarmi in qualche modo nelle ultime ventiquattr'ore?
Però non ho fatto niente, non ne ho la forza: avrei potuto reperire un veleno da alcuni detenuti che, non si sa come, ne sono in possesso, avrei potuto fare una specie di sciopero della fame, e morire di stenti... ma non ho fatto niente.
Non mi sento degno neanche di morire, l'unica cosa che merito è essere assolto, tornare alla mia vita da drogato, e morire in mezzo a spazzatura, bottiglie di birra e erba.
Arriva la guardia; seguo la solita procedura. Mi ammanetta, lui trema. Sogghigno, lui mi vede, e il suo sguardo assume una sfumatura di leggero spavento.
È quello nuovo. Continuo a fissarlo, con il mio ghigno stampato in faccia. È da quando sono entrato qui che non mi sento superiore a qualcuno.
La cosa non può farmi che bene.
Continua a tremare, anche mentre camminiamo lungo il corridoio. Guarda fisso, per sembrare imperturbabile, fallendo, ovviamente.
Lo guardo, con la coda dell'occhio, non può avere più di trent'anni, come me, anche se sembra più giovane.
(o sono io che sembro più vecchio?)
È anche abbastanza basso, lo supero di quasi dieci centimetri.
Arriviamo alla fine del corridoio, davanti alla porta grigia.
Lui tira fuori le chiavi, e apre la porta, sempre tremando. Si scosta, per farmi entrare, senza dire niente.
Entro nella stanza, si chiude la porta.
Lei è seduta dall'altro lato del tavolo, che legge concentrata un documento.
Mi siedo, facendo abbastanza rumore da distoglierla dai suoi pensieri.
Mi guarda per un secondo.
-Allora, ho studiato approfonditamente il rapporto della polizia e le accuse che ti sono state rivolte. Non c'è niente che non si possa contestare.-
Lei mentre parla mi guarda negli occhi.
-Tu sei stato accusato dalla famiglia della vittima. Però, ti voglio rassicurare, i loro testimoni si possono ritenere praticamente inutili, c'è solo una vecchia signora con l'alzheimer che dici di aver scorto un'ombra che scappava dalla porta della cucina.-
continuo a guardarla negli occhi, non ho capito molto di quello che ha detto, perché sono impegnato a pensare cosa ha di diverso.
Saranno i capelli così diversi, molto più curati rispetto a due giorni fa?
Sarà che la sua pelle è ritornata di quel colore abbronzato di quando eravamo giovani?
-Però, c'è anche da considerare che la tua testimonianza per alcuni potrebbe essere contestabile...-
Oppure... ho capito!
-Ma sono certa di essere...-
-I tuoi occhi.-
Lei è spaesata. Ma io ho capito, quel qualcosa di diverso erano i suoi occhi, così di nuovo vivi, non più grigi e morti come due giorni fa.
-C... che?-
-Tu sei cambiata.-
Lei mi fissa, con la bocca semiaperta.
Quest'ultima espressione conferma la mia teoria. Solo due giorni fa lei non l'avrebbe fatto, sarebbe rimasta nascosta nella sua freddezza, nel suo dolore.
-Duncan, di che diavolo stai parlando?-
-Cos'è successo?- chiedo, con lo sguardo di chi sa.
Lei non sa cosa rispondere. È così evidente il suo cambiamento, ha davvero pensato che io non me ne sarei accorto?
-Io.. non.. ehm...- inizia a balbettare, forse non ha capito, anche se ne dubito.
-Sei diversa. Sei più felice. Voglio sapere cosa è successo.- affermo, non so perché lo voglio sapere. In fondo, non sono affari miei.
Forse, solo perché mi confortava sapere che io non ero l'unico che soffre.
-Ma... Duncan... non è successo niente...- sta mentendo, è così evidente.
-Voglio saperlo. Non dicendomelo allungheresti solo le cose.- faccio una pausa, per vedere se mi risponde.
Non lo fa, perciò continuo.
-Ieri sera, o ieri pomeriggio, è successo qualcosa, qualcosa che ti ha reso felice per un momento. Voglio che tu me lo dica.- insisto.
La sua espressione cambia repentinamente, torna alla freddezza che conosco.
-Anche se fosse, non mi pare che questi siano affari tuoi.- cerca di non far trasparire nessuna emozione, ma si tradisce, sono abbastanza sicuro di aver intravisto un sorrisetto sul suo viso.
Mi metto a ridere.
-Andiamo Courtney, lo so che muori dalla voglia di raccontarlo a qualcuno. L'unico problema è che tu non hai nessuno, come me. Sta tranquilla, non lo vado a dire a nessuno.-
Lei mi guarda, esasperata, so che ormai sta cedendo.
Sospira.
-Ho conosciuto una persona, siamo diventati amici.-
Adesso rido, rido, rido e ancora rido.
-Amici? Amici?! Ti sei fatta scopare, ecco la verità!- continuo a ridere.
La sua faccia diventa rossa. Rabbia? Vergogna? Non mi importa, è sempre esilarante!
-Duncan!- cerca un modo per rimproverarmi, ma non ci riesce: ha talmente tanta rabbia in corpo che non sa come riversarla su di me senza cadere nella “volgarità”.
-Cosa Courtney? E comunque voglio sapere i particolari, siete usciti, avete fatto la vostra cenetta romantica, poi avete limonato sotto il portone di casa tua, te lo sei portato di sopra e avete fatto sesso. Stai tranquilla, è così che funziona per tutti.-
La provoco, ma nella mia testa mi immagino la scena: un altro che bacia Courtney, che la tocca, tocca Courtney... la cosa mi fa rabbia.
-Duncan.. andiamo, non fare il bambino...-
-Non ci devi più uscire.- ma da dove diavolo mi è uscita questa frase?! Lei non mi appartiene più, non mi è mai appartenuta
-Cosa diavolo dici Duncan?-
È arrabbiata, tanto, io un tempo l'ho ferita, che diritto ho adesso di dirle cosa fare della sua vita?
Ma sembra quasi che le parole escano dalla mia bocca senza che io possa controllarle, in questo momento, dentro la mia testa, il cervello e l'istinto stanno combattendo ferocemente; sta vincendo l'istinto.
-Sto dicendo che non lo devi più vedere.-
-Duncan, piantale di dire stronzate, io posso fare quello che voglio della mia vita!-
-Lui non ti merita!- ululo.
-Ah sì? E chi mi meriterebbe?- chiede, strafottente.
Questa volta penso.
Cosa risponderle?
Il mio istinto egoista mi urla di risponderle io; ma non lo farò.
Mi alzo, mi avvicino a lei. Mi guarda incuriosita, con una punta di timore nello sguardo.
La guardo dall'alto in basso.
Mi rendo conto solo adesso che mi piace guardarla.
-Di sicuro non io.- è la cosa più stupida che potessi dire, ma è quella più... giusta.
Lei mi guarda, con un sorrisetto comprensivo sulle labbra.
-No, non lo sei, non so lei mai stato.-
È bellissima.
(ma che diavolo penso?!)
La fisso. Che cosa vuol dire? Non lo so, e credo che non mi farebbe bene saperlo.
-Tempo scaduto!-
Una voce rude e graffiante ci interrompe. Tutto svanisce, e torno alla realtà.
Lei non mi ama più, forse mi vuole ancora bene, ma non mi ama più, e io non posso pretendere niente da lei.
Io mi giro, e mi avvio alla porta, non mi devo girare, ma lo faccio.
La vedo. È lì, una donna fragile, che sta recuperando la sua vita, con un'altra persona.
La guardia mi ammanetta. Non è il giovane di prima: questo deve avere almeno cinquant'anni, ed è grasso, come il novanta per cento degli sbirri.
Cammino, circondato da pareti grigie, come al solito. Arrivo davanti alla mia cella, come al solito, entro, e mi stendo sul letto, come al solito.
Chiudo gli occhi, vorrei non poterli riaprire più, vorrei non vivere più. Tutto di me è morto; ora.
Non ho più niente per vivere.
Mi alzo, il mio corpo si muove da solo.
Toglie il lenzuolo dal letto, lo arrotola.
Si arrampica sul letto a castello, e lega il lenzuolo ad una delle sbarre della finestra.
Forma un cappio con l'altra estremità.
Lo mette sul mio collo.
Si lancia dal letto.
È quello che voglio.
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
MI DISPIACE, CHIEDO UMILMENTE SCUSA!!
Ok, calmiamoci, mi scuso veramente tanto se ci ho messo UNA SETTIMANA ad aggiornare, ma la scuola è ormai cominciata, e non ho avuto testa per scrivere il capitolo.
Ma parliamo di quest'ultimo, come vi è sembrato. Ho cercato di rendere le scene di Duncan e Courtney meno sdolcinate possibile, ci sono riuscita?
E il finale. Lo so, lo so, forse è fin troppo deprimente... ma la storia mica è finita qui.
Se ho fatto qualche errore, anche solo di battitura, vi imploro di dirmelo.
E lasciatemi una recensione, mi raccomando!
Un bacio, e ancora mi dispiace per il mio ritardo.
 
Pizee_01
 
P.S
Ho cambiato il rating della storia perché per rendere più credibile il personaggio di Duncan, inserirò dialoghi un po' più forti (come in questo capitolo).

 

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Capitolo 7
*** Senza speranza di fine ***


La legge del gioco
Capitolo 7: Senza speranza di fine
-Dove sei stata?-
Sono appena entrata in casa, con Duncan oggi ho impiegato più tempo del solito.
È lì che mi aspetta; saranno le nove, di solito arrivo alle sette e mezza.
Mi guarda, preoccupato. Be', di sicuro non lo fa notare: ha sempre stampata sul viso quell'espressione che palesa sicurezza, così finta ma così dannatamente affascinante.
-Ho fatto più tardi al lavoro.- sembra quasi che con questa così semplice frase tutte le sue preoccupazioni svaniscano. Certe volte proprio non lo capisco.
Mi avvicino e gli do un veloce bacio a stampo sulle labbra.
Mi tolgo il cappotto grigio-scuro e mi spalmo sul divano rosso.
Casa sua è fantastica: ha tutto quello che il mio appartamento non ha: un letto a una piazza e mezzo (senza molle che spuntano dal materasso), un divano da due posti, una televisione, e perfino un forno a microonde. Adesso che ci penso, lui fa il cassiere, come fa a permettersi tutto questo; non credo che lui guadagni così tanto soldi.
-Come va il caso?- si stende vicino a me sul divano. Appoggio la testa sulla sua spalla, piegando le ginocchia e portando le gambe sul divano
-Oserei dire bene, sono abbastanza sicura che Duncan verrà assolto.- gli rispondo molto sbrigativamente, dopo quello che è successo oggi, è l'ultima cosa di cui ho voglia di parlare.
-E a te, com'è andata?- cerco di cambiare argomento.
Da quando stiamo insieme -un giorno- mi sono resa conto che, contrariamente a come il suo comportamento potrebbe suggerire, Scott è una persona molto loquace.
Vuole fare lo scrittore, infatti, quando ha un po' di tempo libero, si dedica alla stesura del suo libro: un giallo; e la cosa mi fa letteralmente impazzire.
-È andata come al solito, le solite vecchiette che non hanno più voglia di vivere, donne di mezza età che riversano tutto il loro stress su di me, e bambini urlanti. Insomma, una giornata come le altre.- faccio un risolino. Lui mi dà un bacio tra i capelli. Mi giro e gli sorrido.
Mi alzo.
-Allora, cos'hai preparato di buono?- chiedo, ridendo.
Si alza anche lui, e mi viene incontro, prendendomi per la vita.
-Ti ho preparato un delizioso panino guarnito con pomodoro, insalata, formaggio e burro d'arachide; il tutto offerto dal bar al piano di sotto.-
-Mmmmh, sembra una cosa deliziosa.-
Mi siedo sul piccolo tavolo, lui, invece, si avvia verso il mobile della cucina, prendendo un sacchetto di carta.
Tira fuori i panini, e me ne porge uno.
Ho una fame da lupi, perciò do un bel morso al panino, iniziando a masticare.
Ora come ora, la cosa che mi interessa di meno è il sapore: se è commestibile è perfetto, è questo il mio motto da quando vivo a New York.
Sento un fastidiosissimo rumore che si interseca al suono di vibrazione che proviene dal mio cappotto.
Sbuffo, e mi alzo, mi avvio all'attaccapanni. Chi diavolo può essere a quest'ora?!
Il mio telefonino è un minuscolo Nokia di dieci anni fa.
È un numero sconosciuto.
Premo il tasto verde per rispondere.
-Pronto?- cerco di essere il più cordiale possibile.
-Salve, è lei la signorina Barlow?- la voce di un uomo mi arriva alle orecchie. È una voce umana, ma meccanica, come se quest'uomo faccia telefonate del genere tutto il giorno.
-Sì, perché, è successo qualcosa?- ora sono preoccupata.
-Deve venire immediatamente al Manhattan Hospital... è per il signor Nelson.-
C...che?! Cos'è successo a Duncan?!
Sto zitta per un paio di secondi, necessari per metabolizzare il tutto.
-S...sì, arrivo subito!- spengo il telefono, e lo butto nella tasca del cappotto.
Freneticamente, mi infilo il cappotto, me lo chiudo. Apro la maniglia per uscire.
-Cos'è successo?- ah, già, c'è Scott, me n'ero dimenticata.
-È... è successo qualcosa a Duncan, devo andare subito al Manhattan Hospital!-
Anche lui velocemente si infila il cappotto e fa per uscire.
Io sto ferma sulla porta, con un'espressione a dir poco sorpresa sul volto.
-Che diavolo fai Court? Andiamo, ti accompagno!-
Lui si incammina con passo veloce attraverso il corridoio, io lo seguo, quasi correndo.
 
 
Siamo qui, all'ospedale, nella sala d'aspetto, aspettando notizie.
Sono sempre più nervosa, quando diamine pensano di darmi uno straccio di notizia?!
È da quando sono seduta qui che muovo freneticamente la gamba, ho i gomiti appoggiati alle ginocchia, e le testa bassa.
Giro il collo, e guardo Scott, che è seduto vicino a me, smetto di muovere la gamba, adesso che ci penso, è da quando abbiamo preso il taxi che non parliamo.
Ha lo sguardo fisso nel vuoto, la mascella serrata, le braccia e le gambe conserte, sembra arrabbiato, ma non riesco a capire il perché.
-Hei- lo chiamo, cercando di attirare la sua attenzione. Lui gira la testa verso di me, pur sempre rimanendo nella stessa posizione. -Va tutto bene?- gli appoggio una mano sulla gamba, cerco di essere il più gentile possibile.
-Sì, certo.- riporta lo sguardo dritto verso il vuoto, nella sua risposta non c'è alcuna emozione.
Mi fa innervosire, ma reprimo questa mia emozione.
-Lo sai che con me puoi parlare.- che frase fatta, ma ora non ho voglia di inventarmi un modo migliore di essere gentile.
Lui sospira.
-So che hai capito che c'è qualcosa che non va, ma ora devi pensare a Duncan, parleremo del mio problema dopo.-
È così incredibilmente adulto, questa era l'esatta risposta che avrei voluto ricevere.
Ha dato di nuovo la risposta giusta.
Gli prendo il viso tra le mani e gli do un bacio.
-Grazie.- gli dico, sorridendo.
Lui mi sorride di rimando, e ritorniamo ai nostri posti.
Alzo lo sguardo verso il corridoio circondato da pareti bianche, e vedo un dottore che mi guarda negli occhi, e si incammina con passo sicuro verso di me.
Mi alzo, e gli vedo incontro. Voglio sapere cosa è successo.
Sono di fronte a lui.
-È lei la signorina Barlow?-
-Sì, sì, sì, dannazione, sono io! Dov'è Duncan?-
Lui non cambia espressione davanti alla mia scortese presentazione. Ma non me ne frega un beneamato cazzo. Io voglio sapere dov'è.
-Venga signorina, mi segua.- il suo sguardo si sposta dai miei occhi a Scott, che è dietro di me.
-Il signore ha chiesto che sia presente solo la signorina Barlow.-
Non mi giro, non voglio vedere la sua espressione, ora ho altro a cui pensare, e che diamine.
Il dottore si gira, ed inizia a camminare con passo svelto, io lo seguo, quasi correndo.
Voglio sapere, voglio sapere cos'è successo, dannazione!
E come mai, cara? Di nuovo quella maledetta vocina, ti prego, non ora!
Eh, no, no, dolcezza, adesso tu mi spieghi perché ti stai preoccupando tanto. Il tuo fidanzato ha dovuto far spazio a quell'assassino.
Ora smettila! Grido, nella mia mente, sono davvero stanca di questa insulsa, infantile vocina.
Oh, oh, no che non la smetto, io pretendo una risposta! Tu non puoi vivere senza di me, come potresti andare avanti senza di me?
Ammazzati, le rispondo.
Ora, il dottore svolta a destra, io lo seguo, trovandomi davanti una porta bianca.
Ora vorrei buttare giù questa cazzo di porta, invece, questo simpatico dottore, mette la mano sulla maniglia, girandola con una lentezza irritante.
La porta si apre.
È steso. Con un respiratore inserito nelle narici, la testa appoggiata al cuscino bianco, come le lenzuola, e tutto in questa stanza.
Gli occhi serrati, sembra morto, è molto più pallido, e il suo corpo sembra essere pronto per entrare in una bara.
La porta si chiude, il dottore non è nella stanza.
Mi avvicino lentamente, e il cuore mi martella nel petto; mi fa male.
Sembro una pecora che entra, di sua sponte, nella tana del lupo.
-D... duncan?- provo a chiamarlo, sussurrando.
Probabilmente non mi sente.
-Courtney?- sobbalzo, la sua voce è così... cadaverica.
Non so cosa dire, dovrei essere molto incazzata, ma non lo sono; e non riesco a capire il perché.
Stiamo una manciata di tesi secondi in silenzio. Non ho idea di cosa fare.
-Avanti, chiedimi cos'è successo, so che le vuoi.- la sua voce... mi spaventa, tanto, sembra che abbia totalmente abbandonato l'idea di vivere.
Io non apro bocca, lui sospira; io non riuscirò mai a parlargli.
-Mi sono impiccato, o, almeno, ci ho provato. Non ci sono riuscito.-
Che... che cosa? Si è impiccato?! Non dovrei essere così sorpresa; lui aveva già abbandonato totalmente la felicità, o anche solo l'idea di poterla raggiungere; come me.
Solo che adesso mi rendo conto che, per quanto in parte palese, riusciva a nascondere la sua depressione come un vero maestro.
Fa una risatina rauca, sembra che qualcuno lo stia accoltellando.
-Ah, non sei sorpresa?- cerca sempre di essere strafottente, e mi rendo conto che, è una cosa paradossale, ci riesce meglio rispetto a quando stava in galera.
-No.- ho risposto in tutta sincerità, senza freddezza, senza il tono di chi sa di aver ragione.
Io voglio parlargli, voglio sentire la sua voce, per quanto spaventosa sia, voglio capacitarmi che non sia morto.
Mi sento dell'acqua salata che mi cresce lungo l'angolo destro della palpebra inferiore; no, non posso piangere, io sono forte, sono un'adulta, non posso piangere.
Ma il mio corpo mi abbandona completamente, non è più sotto il mio controllo, e io detesto quando qualcosa di mio sfugge al mio controllo.
Si avvicina al suo letto, si inginocchia, e lo abbraccia.
NO! NO! Courtney, staccati, lui non è niente, lui è un traditore, è un assassino, ricordati, lui è un bastardo! Non la ascolto, non voglio più sottostare a quelle inutili regole che la mia mente mi impone, io so di star facendo un errore, ma ne sono consapevole, e questo è l'importante.
-Non lo fare mai più!- io non sono la sua fidanzata, la devo smettere con queste stupide frasi fatte, io non ho nessun diritto di imporre le mie regole alla sua vita.
Courtney, ora ti alzi, la pianti di piangere, e te ne vai. La voce è così potente che la seguo, mi stacco, torno alla mia solita freddezza, il mio viso rimane decorato solo con i rivoli delle mie lacrime, si asciugheranno.
Mi avvio verso la porta.
-Oh, andiamo, lo stai veramente facendo? Sai, non ti facevo così debole.- la sua voce, per quanto morta, riesce ad uccidermi.
Lo sai Duncan, mi dispiace, so che non dovrei farlo, ma io sono debole.
Le parole non mi escono dalla bocca, però mi fermo.
-Verrò domani, signor Nelson, e, se vuole privarsi della vita, la prego di avvertirmi per tempo.- sembro un robot.
-Andiamo, mi stai deludendo, lo sai? Sei molto più umana quando fai così, però sei così stupida da non rendertene conto. Vai vai, non voglio più affrontare nessun processo, mi dichiaro colpevole.-
Duncan, ti prego, non mi fare questo.
Io non rispondo. Sto resistendo alla vocina che mi intima di rifiutarlo, sto combattendo, il mio corpo si irrigidisce.
Lui lo nota, lo capisce, non è stupido.
-Principessa, andiamo, lo sappiamo entrambi che tu ed io stiamo fingendo, perché non la smettiamo?-
-Io non ci riesco Duncan!- sto piangendo a dirotto, sono come un temporale, solo infinitamente più debole, più fragile.
-Non ho nessuno per cui combattere! Perciò mi arrendo! È la strada più facile!- sto urlando, molto probabilmente adesso qualcuno entrerà per vedere che diavolo stia succedendo, e il fatto più esilarante è che io non saprei spiegarlo, perché non lo so.
-Va' via Courtney.-
-C... cosa?- mi... mi sta abbandonando.
-Questa non è la persona che conoscevo, sei debole. Ah, no, tu non sei debole, tu sei pigra.- mi accusa, poi continua a accoltellarmi -tu trovi qualsiasi scusa per non resistere, tu sei una persona inutile, come me. Infatti, io mi odio. Perciò odio anche te; solo in modo diverso.- sposta lo sguardo: ora guarda il soffitto.
Lui mi odia. E fa bene, anche io mi odio, ma io mi odio meno rispetto a quanto mi odia lui.
Si mette a ridere, tristemente. I miei occhi sono rossi, pieni di dolore.
-Sai, è esilarante il fatto che ti odio, con tutto me stesso, ma, allo stesso modo, ti amo.-
Che? Lui.. che cos'ha detto?
-C... come?-
-Esattamente quello che ho detto: ti odio, ma sono innamorato di te.-
Lui mi guarda, pretende una risposta, ma non spera che io gliela dia.
Quindi? Ancora lei. Non voglio influenzarti, eh, Courtney, ma ricordati che nell'altra stanza c'è il tuo fidanzato?
Lei si zittisce. Ma io non tengo in considerazione quello che mi dice. Ora, questa stanza bianca è immersa nell'oscurità, niente prima, niente dopo; niente passato, niente futuro, niente presente.
Ora dovrei avvicinarmi a lui e baciarlo, ma non faccio niente.
Ora vorrei avvicinarmi a lui ed abbracciarlo.
Vorrei dirgli che anch'io sono innamorata di lui, ma non faccio niente, sto ferma al mio posto.
I miei piedi si muovono, non riesco a capire in quale direzione.
Cosa avrò scelto? Non posso parlare di scelta tra felicità e tristezza, o tra solitudine e amore. Perché non so niente.
I miei piedi continuano a muoversi, sono in un limbo, il mio corpo ha scelto per me.
La domanda è: avrà comandato la mente o lo stomaco?
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Buonasera (o buonanotte) a tutti!
Ho deciso di postare questo capitolo così presto perché... così, ne avevo voglia :)
Ora so che adesso avete voglia di tirarmi una bomba sopra casa, ma lsciatemi spiegare prima!
Allora, so che la prima parte è fin troppo sdolcinata per il mio stile, ma io credo che una coppia che si è formata da solo un giorno sia ancora nella fase “luna di miele”.
E poi, so che sembra che io vi voglia male, ma non è così! Ho concluso così il capitolo perché altrimenti diventava troppo lungo (già questo è molto più lungo del solito).
Be', io vado a dormire, arrivederci a tutti!
Alla prossima!
 
 
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Capitolo 8
*** Maledizione ***


La legge del gioco
Capitolo 8: Maledizione
Mi sento stranamente libero.
E la cosa è alquanto strana dato il fatto che in realtà ciò che mi ha abbandonato è il vuoto; e il vuoto pesa più del peso stesso.
Mi ha abbracciato, lei piange, poi si raffredda, poi comincia a frignare di nuovo.
È così debole, ma, in fondo, non è totalmente colpa sua. Ma io ora non la perdono.
Adesso sono io quello che ha bisogno di una persona forte, sono io quello che ha il diritto di diventare debole; non lei. Lei, che si rifà una vita, lei, la principessina.
Le ho detto che se ne deve andare, non è quello che voglio. Voglio solo farle una specie di test, voglio sapere cosa farà.
Perché qui non è più un discorso di sentimenti, amore o non amore, qui si parla di forza, di serietà e di maturità interiore.
Lei sa che la strada più facile, me lo ha persino detto, ma sa anche che quello che lei deve fare è affrontarmi; affrontare sé stessa.
È lì ferma sulla porta, non si muove, e le speranze vanno affievolendosi.
Ah, speranza, e chi ce l'ha mai avuta? Di sicuro non io.
Chiudo gli occhi e sospiro; non voglio vederla.
Sento dei singhiozzi, apro gli occhi, lei è lì, non si è mossa di un millimetro. Però sta piangendo.
Oh, santo Dio, cosa diavolo ha adesso?!
Continua a piangere, la deve smettere: non mi piace sentirla piangere.
Ma lei continua, da egoista quale è. Qual è sempre stata.
Si gira. Sono spaventato, quello che vedo è un ragno, lei ha la faccia di un ragno. Ma continua a piangere.
-Duncan,- capisco che è lei a parlare, ma la sua voce è terribilmente cavernosa e rauca; come un mostro. -tu non capisci, non hai mai capito. E probabilmente mai lo farai.-
Il mio cuore batte all'impazzata; ora vorrei prendermi un infarto, così tutto potrà finire. I miei occhi si spalancano, le pupille si rimpiccioliscono, il respiro si affanna.
Terrore, paura.
-Perché mi guardi così?.- lei torna normale. I suoi occhi sono rossi, le guance rigate.
Sto diventando pazzo: venite, uomini dal camice bianco, sto dando i numeri. Faccio un risolino, nella mia mente, tra un po' vedrò scritto con il sangue REDRUM sul muro.
Lei continua a guardarmi.
Non la smette. Deve smetterla!
-Non mi guardare!- cerco di ringhiare, ma la gola mi fa troppo male, perciò il risultato è solo un mediocre rumore gutturale.
Lei si avvicina, e i suoi occhi iniziano lentamente a gonfiarsi di pietà, quella pietà che solitamente odio.
Ma stranamente non se lo fa lei.
In realtà, non così stranamente, in fondo, poco meno di dieci minuti fa le ho detto che la amo. Che dichiarazione romantica. Mi avrà considerato uno stupido, ma, in fondo, lo ha sempre fatto.
Si avvicina sempre di più, piano, come per volersi vendicare per tutto il dolore che ha sofferto, mi tortura, crudelmente.
Passo per passo: punta, pianta, tallone, punta, pianta, tallone...
arriva a fianco del mio letto e si accovaccia. La posso guardare negli occhi senza alzare la testa.
I suoi occhi erano vivi, ieri, ora sono di nuovo vuoti. Ma una strana vuotezza, diversa, più profonda, come se solo guardandola si potesse annegare in questo mare grigio. Ma su di me non fa effetto. Io ho già abbastanza dolore in cui naufragare.
Mi prende la mano io non reagisco, voglio vedere dove vuole andre a parare.
La guardo, ma cerco di essere il più possibile distante, non ho idea se ce la sto facendo.
Lei continua a guardarmi con quei maledetti bellissimi occhi, seppur tristemente profondi.
Io inizio quasi a tremare, e a muovere compulsivamente la mano, sotto il lenzuolo.
Si avvicina, millimetro per millimetro, al mio volto.
No... ha capito perfettamente il mio punto debole.
È sempre più vicina... vicina... vicina.
Ad un centimetro.
-So che cosa desideri e cosa odi. Ma non pensare che mi avrai sfruttando la mia fottuta debolezza.- mia alita quasi in faccia, profumo di menta, forte.
Si allontana, lascia la mia mano, che cade sul lenzuolo, facendo muovere il materasso. Il mio sguardo è fisso, sento i suoi passi, che si allontanano. Si ferma. Si riavvia verso la porte. Essa sbatte.
Sono solo. Continuo a guardare il muro bianco.
Ora ho davvero un motivo per suicidarmi. Ma non lo farò.
I ruoli erano ribaltati, e io non me ne sono accorto, sono uno stupido.
Era, ed è ancora, lei che sta testando me. Sono io il più debole. Ci è voluta una donna per farmelo capire. Non sono riuscito a aprirlo da solo.
Continuo a fissare il muro bianco.
Lo fisso.
Lo fisso.
Nella ristretta inquadratura che mi dà lo sguardo, compare un'ombra nera.
È dietro di me. È un ragno.
Continua a scendere, usando come fune la sua ragnatela. Inizia a tessere come un fanciulla dell'antica Grecia. Ora la vedo, a me non erano mai piaciuti i miti greci, troppo mancanti di logica per me. Ma adesso la vedo, vedo Aracnide.
Il ragno-ombra atterra sul comodino-ombra.
Faccio un sussulto. È un'ombra, ricordati coglione, è solo una fottuta ombra.
Vedo di nuovo quegli occhietti verde acido. È solo un' ombra, non può farmi niente.
Cammina, lentamente, strano, per un ragno. Più si avvicina, più mi rendo conto che è incredibilmente grande per essere un ragno. È una cosa logica, in fondo, è solo un'allucinazione. Saranno questi stupidi anestetici che mi hanno somministrato per farmi stare fermo.
Anche se non ho mai sentito di anestetici che causano allucinazioni.
Si avvicina sempre di più, fissandomi con quegli occhi verdi.
Scavalca lo spazio di vuoto che c'è tra il comodino e il letto.
Ora non sentirò niente, è solo un'allucinazione.
E, invece sento. Sento un peso che non ci dovrebbe essere sul lato opposto del letto.
Avanza, verso di me. Non mi giro.
Chiudo gli occhi, cerco di dormire, è un'allucinazione.
Ma sento ancora quel peso.
Ora riaprirò gli occhi, e quell'ombra dagli occhi verdi e quel peso impossibile svaniranno.
Li riapro.
C'è il peso, c'è l'ombra.
La zampa si appoggi alla mia spalla. È nera e pelosa. Mi fa venire il vomito.
Non smuovo lo sguardo.
Ma l'ombra c'è ancora.
Scatto nero.
Veri occhi verdi che mi fissavo.
Zampa che mi colpisce.
 
Sono nel letto, riapro gli occhi.
Lei è lì, che piange davanti alla porta.
Assottiglio gli occhi.
Voglio capire che diamine è successo.
-C... courtney?- sono spaesato.
Appena parlo, lei scappa fuori dalla porta piangendo.
Rimango qui, con la mano incatenata al bordo nel letto.
Sospiro.
Appoggio la testa al cuscino, sono esausto, non riesco più a fare niente, né a pensare a niente.
Non ho più nessuna energia.
Chiudo gli occhi, ma non mi voglio addormentare.
E invece mi addormento.
E, dico solamente la verità così com'è, non sogno il ragno, non sogno il processo, non sogno sangue. Sogno due occhi, tristi, pietosi, vuoti, ma maledettamente, dannatamente bellissimi.
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Uffff. Non so, veramente, non so.
Mi rendo conto che è un capitolo mooooolto strano.
Sarà che sto leggendo Shining (infatti, l'ho citato in questo capitolo. Ti prego Stephen King non mi denunciare!), ma mi è venuta una voglia matta di scrivere un capitolo in cui il protagonista è un'allucinazione.
Cosa ne pensate? Vi prego, se non vi è piaciuto (e, come al solito, se trovate errori) ditemelo con una recensione.
Io vado, arrivederci a tutti!
Un bacio!
 
 
Pizee_01

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Capitolo 9
*** Tutti i miei Sbagli ***


La legge del gioco
Capitolo 9: Tutti i miei Sbagli
Sono corsa fuori.
Perché l'ho fatto? Sono davvero diventata così debole e fragile? A quanto pare sì.
Sospiro, e mi passo stancamente una mano sul viso.
Ora appoggio l'avambraccio sui miei occhi, e giro la testa, facendo in modo che riesca a vedere il viso supino di Scott che dorme.
Le macchine fanno quel costante rumore quasi trascinato; per quanto possano sembrare enormemente fastidiosi, oramai hanno la capacità di calmarmi.
Sospiro ancora. Anche solo l'idea di addormentarmi mi ha ormai abbandonato.
Continuo a guardare Scott. Povero. Con tutte le donne che ci sono nella Grande Mela, gli sono capitata proprio io.
Ora me ne rendo conto. Lui è troppo per me.
Ieri ha capito che io non ero in vena di far niente, così non ha neanche accennato a quel suo problema di cui avremmo dovuto parlare oggi.
Vedo che piano il sole sta sorgendo.
Non ho dormito stanotte, ma non ci avevo mai sperato.
Io sono debole e fragile. Così come aveva detto lui. Maledetto bastardo.
Quanto lo odio, lo odio con tutta me stessa.
No... non è vero, tesoro... a malincuore di devo rivelare una sconvolgente verità: tu lo ami ancora. Sei rimasta una brufolosa adolescente; mi fai davvero ribrezzo.
Ecco, mi sembrava strano che mi avesse lasciato in pace tutta la notte. Mi ero quasi dimenticata di lei.
Ti eri davvero dimenticata di me? Seriamente? Io sono la parte più razionale ed intelligente di te. Tu non sei niente. Anzi, non sei una persona inutile, sei una persona inutilmente complicata.
Come? Che diavolo dice?
Oh, andiamo, hai trovato il principe azzurro, però sprechi il tuo tempo a cercare di salvare un bastardo; di cui sei ancora innamorata. Poi, il suddetto bastardo ti dichiara il suo amore, seppur in modo molto discutibile, e tu scappi via piangendo... sembra quasi che ti diverti a soffrire. Sei forse una masochista?
La vocina ride. Risata maligna.
Ormai la luce ha completamente avvolto la stanza. L'odore della notte abbandona l'ambiente, così come le voci oscure che ogni notte accompagnano il sonno a New York.
Rimano a letto, non mi voglio alzare, non voglio fare niente.
Lui si muove, facendo un verso che mi fa capire che si sta stiracchiando, ovvero svegliando.
Si gira verso di me, e mi sorride.
Mi sento uno schifo. Lui è qui, che mi trasmette tutto il suo amore solo con gli occhi, mentre io ho passato la nostra notte a pensare a Duncan.
-Come ti senti?- santo Dio, vuole veramente farmi crepare.
-Un po' meglio.- cerco di essere il più gentile possibile, lui meriterebbe di più, ma non posso fare altro adesso.
Mi fa un leggero sorriso gli occhi si assottigliano leggermente. Vedo troppo amore per me, è troppo per una persona come me, per una merda come me.
Lui si alza, si infila un paio di pantaloni a caso e dice:
-Dato che è evidente che stai ancora male, credo che andrò a preparare la colazione.-
-Aspetta, vengo a darti una mano!- finalmente ho la possibilità di sminuire un minimo la sua gentilezza.
-No. Stai a letto, te la porto io.- lo sta facendo apposta, lo sta facendo apposta. No, non lo sta facendo apposta, sono io che non lo merito.
Non lo merito... l'unica cosa che merito è la vita che avevo prima, a vivere in uno squallido monolocale, con un lavoro per nulla appagante, e nessun amico.
Sento le lacrime che minacciano i miei occhi.
Perché ho una voglia matta di piangere? Non ne ho motivo.
Be', di sicuro adesso non sono propriamente serena, ma non così tanto da mettersi a piangere.
-Avanti, mettiti a piangere, dimostrami ancora che sei solamente una persona fragile, debole e schifosamente comune.-
Chi diavolo è?!
Ora sono seduta sul letto, gli occhi spalancati e il cuore che vuole uscire dal petto.
Chiudo gli occhi. Ricordati, non c'è nessuno qui, non c'è nessuno qui, non c'è...
-Oh, invece sì che c'è qualcuno...- io però questa voce sono sicura di averla già sentita; è una persona che conosco bene. Ma non propriamente lei. -Principessa, sei davvero diventata questo; io non mi sono innamorato di questo stupido sacchetto di plastica bianco e vuoto.-
No, non può essere... apro gli occhi. E lì c'è Duncan.
-T... tu?- non capisco nulla, ora voglio veramente piangere.
-Non solo lui.-
Giro repentinamente lo sguardo, e la vedo.
-Tutto questo non ha alcun senso!- sono terrorizzata.
Lì c'è Gwen che mi guarda come Duncan, mi guardano come si guarda la spazzatura, come si guarda il gabinetto di un bagno pubblico, come si guarda un topo di fogna.
-C... che ci fai anche tu qui?- ora sto piangendo a dirotto.
-Siamo tutti qui Courtney.- questa è lei, quella maledetta vocina.
Mi giro verso di lei.
E... sono io. O, comunque, quella io di dieci anni fa.
Sono tutti qui, attorno al mio letto, che lentamente si avvicinano.
-Sei debole, lo sei sempre stata, per questo Duncan aveva scelto me.- è Gwen che mi parla, con una malignità della voce terribilmente inusuale per lei. Lei non è mai stata cattiva.
-L'unica differenza sai qual è, principessa?- mi chiede, io sto zitta, ma lui mi guarda, avvicinandosi, e pretende una risposta.
-Q... qua... quale?- cerco di dire in mezzo ai singhiozzi.
-Che io sono consapevole, io non sono un bugiardo, tu, invece, ti ostini e mentire agli altri e, peggio ancora a te stessa.-
Nello stesso momento in cui termina la frase, la vecchia Courtney si avvicina a me come un fantasma, velocemente. Ora siamo faccia a faccia.
-Sai perché io ti tormento?- io non rispondo, ma lei non è come Duncan, e lei non importa di cosa dicono gli altri. -Perché io voglio farti capire che mentire è sbagliato. Soprattutto a me, che sono l'unica persona che non ti ha mai abbandonato. Anche quando sbagliavi.-
Mi prendo il viso tra le mani, piango a dirotto. Non riesco più a sopportare tutto questo.
-Andatevene! Voi non siete qui! Voi non siete reali!- urlo, come se la mia voce possa cacciarli, ma non è così.
-Noi siamo sempre con te. Anche se noi adesso ce ne andassimo, l'unica cosa che faremmo sarebbe ritornare all'interno della tua testa- è Gwen.
-Noi non siamo come gli altri, non staremo sempre con te.- sono terrorizzata, le loro voci insieme sono insopportabili.
Urlo. Urlo e chiudo gli occhi, mi tappo le orecchie con le mani.
Le urla si mischiano ai singhiozzi causati dal pianto.
Sento delle mani che mi afferrano i polsi. No, lasciatemi, lasciatemi!
-Hei, hei, hei, hei, hei, calma, stai calma.- non è una delle voci demoniache: questa voce mi calma. Ma non la riconosco, perciò urlo ancora.
-Stai tranquilla! Sono Scott! Sono Scott!-
Che? È Scott? Apro gli occhi, che sono rossi a causa delle lacrime. La gola mi fa un po' male a causa delle urla. Mi guardo attorno. Non ci sono più.
Sono ancora sotto shock.
-Courtney, ti senti meglio?- mi tiene ancora i polsi, ma più delicatamente rispetto a prima.
Io lo sento, ma non riesco a vederlo. Vedo solo le immagini di quello che è appena successo. È tutto così confuso.
Io non vedo, i miei occhi vedono solo ciò che il mio cervello gli ordina di vedere; cervello che è totalmente sfuggito al mio controllo.
Vedo tutto sfocato. Però pian piano lo sguardo inizia a diventare più chiaro. Inizio a vedere l'arancione dei capelli di Scott, il roseo colore della sua pelle, e infine vedo lo scuro dei suoi occhi.
La mia espressione però non è comunque cambiata.
-Courtney!- lui continua a chiamarmi, ed io vorrei rispondere, ma il mio corpo non risponde più ai miei comandi. I miei pensieri sono ormai lucidi, ma non riesco ancora a muovermi, o a parlare.
-Adesso chiamo il 911!- che? Vuole chiamare l'ambulanza?
Mi rianimo, muovo un dito, poi un braccio e una gamba, chiudo la bocca e i miei occhi ritornano alla loro grandezza naturale.
-N..no... sto bene.- biascico un po', ma almeno parlo.
Muovo lentamente la mano verso la sua figura, ma i miei occhi non hanno ancora il senso della profondità, perciò non mi accorgo che lui è lontano due metri da me.
Lui mi guarda, valutando la mia condizione.
Sospira; ha ceduto.
Si avvicina al letto, si siede, e prende le mie mani tra le sue; io non le sento.
-Ne sei sicura?-
I miei occhi sono puntati nei suoi, ma in realtà non lo sto guardando.
-S... sì...- non riesco a smettere di biascicare.
Stiamo alcuni secondi un silenzio. Il mio corpo continua lentamente a tornare sotto al mio controllo.
Lui apre la bocca, prendendo fiato, ma non parla. Odio quando la gente fa così.
-Che cosa?- chiedo.
Mi guarda, chiedendosi se chiedermelo. Perché io già lo so, è una cosa abbastanza ovvia, lui vuole sapere che diamine è successo.
Lui ancora non parla, guardandomi con tanta comprensione da sembrare pietà.
-Andiamo, lo so cosa vuoi chiedermi.- lo invito a parlare.
Sospira, e stringe di più le mie mani.
-Te la senti di raccontarmi cos'è successo?.- ora che faccio?
Ho fatto tanto la strafottente, ma ora non so che rispondergli.
Io non voglio mentirgli, però se gli dico la verità mi prenderà per pazza. Inoltre, non ho idea di come spiegarlo.
-Se non te la senti non ti sentire obbligata.- continua ad essere così dannatamente gentile. Prima lo trovavo troppo bello, ma adesso è fin troppo sdolcinato.
-Piantala di essere così gentile con me.- mi guarda come se se lo aspettasse. Allora l'aveva fatto apposta.
-Ok, dimmi cos'è successo.- non l'ha detto con il tono di chi vuole fare lo stronzo, ma semplicemente con il tono di chi si è tolto un peso.
Tiro un gran sospiro e cominciò a raccontargli tutto per filo e per segno.
Lui non mi interrompe mai, e non cambia mai espressione. Ogni tanto annuisce, ma niente di più.
-E poi sei arrivato tu.- concludo.
Lui mi guarda, mi sta valutando, e continua così per circa trenta secondi, che a me sembrano due ore.
Inizia a respirare rumorosamente, fa vagare lo sguardo per la stanza, cercando parole per esprimere il suo pensiero; che questa volta non riesco nemmeno a scorgere dal suo sguardo.
-Questa è la prima volta?- mi chiede. Sì, se non teniamo in conto la vocina (che in realtà era la me giovane).
-Sì. Anche se la io più giovane mi parlava attraverso una vocina nella testa da un po' di tempo.-
-Da quando?- già, da quando?
Oh, Dio. Ora me ne rendo conto. Lo guardo mentre la mie espressione muta totalmente.
E lui capisce.
-D... da quando ho visto Duncan...- la mia voce è un sussurro.
Lui mi guarda come un maestro che riesce ad inculcare le tabelline nella testa di una scolaretta.
-Tu lo sai che cosa devi fare.- sì, Scott, lo so. Ma non voglio. Questo è quello che avrei dovuto dirgli, ma non riesco a trovare il coraggio.
-Ma non vuoi farlo.- cosa? Ora sono diventata io il libro aperto.
-Courtney, io so che questo non è il momento migliore per porti questa domanda, però c'è anche da dire che da quando stiamo insieme ci siamo occupati solo dei tuoi problemi. Perciò... tu mi ami Courtney?- me l'aspettavo, ma la domanda mi spiazza comunque.
Che rispondergli? No, io non ti amo, io amo Duncan. Questa è la pura e semplice verità, ma, a volte, la verità non va detta. È troppo presto per parlare di amore. Che frase fatta. Questa è l'ultima mia opzione. Sì, io ti amo. Questa è una bugia, ma è la cosa più plausibile da dire.
No, non è vero, perché lui ha già capito.
-Senti, Court, io non vorrei, ma te lo devo chiedere. O lasci il caso o noi rompiamo.-
Cosa?! Da lui non me lo sarei mai aspettato.
Io so che se continuo con questo maledetto processo finirò in manicomio. Però, se abbandono il processo, probabilmente il caso finirà in mano ad un avvocato d'ufficio, a cui non importerà niente della vita di Duncan.
Ritorno seria. Voglio affrontare questo discorso con la mente lucida.
-Scott, io non abbandonerò il caso. Se io lo abbandono, Duncan muore.-
-E a te cosa cambia se muore?- me lo chiede, indossando una maschera di sarcasmo, ma i suoi occhi sono impregnati di dolore -Chi è, per te? Un amico? Un amore? Un amante?-
-Scott, io non amo Duncan, io sono innamorata di te. Però io ci tengo che Duncan viva, è stata una persona importante per me, durante l'adolescenza. Lui mi ha fatto cambiare.-
Lui si arrabbia, sbuffa e fa spostare la testa a destra a sinistra come se fosse attaccata con lo spago al collo.
Chiude gli occhi.
Sospira -Ok, senti, io... io esco, non so quando torno.-
-Dove vai?- chiedo, quasi preoccupata .
-Esco.-
Va in salotto, sento che si infila velocemente il cappotto e prende le chiavi. La porta si chiude. Sono sola.
Mi stendo e chiudo gli occhi.
Ti prego, Dio, se esisti, fa' che loro non tornino. Fa' che io ora mi addormenti.
Io non credo in Dio, ma tentar non nuoce.
Sento che pian piano io non sento più il mio corpo e mi addormento.
Finalmente un po' di pace
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Ciao a tutti!
Sì, sono ancora molto influenzata da Shining.
Come vi è sembrato questo capitolo? Sì, ancora un'allucinazione.
E poi, abbiamo il primo (semi?)litigio tra Scott e Courtney.
Non è sempre tutto rosa e fiori, eh?
Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione! (come al solito) :)
Allora, vi avverto subito che molto probabilmente nel prossimo capitolo ci sarà un'eccezione: il capitolo sarà narrato o di nuovo da Courtney o da Scott.
Be', io vi mando un abbraccio gigante e vi saluto!
 
 
Pizee_01
 
 
P.S.
Il titolo del capitolo è tratto dal titolo di una canzone dei Subsonica. Che, in realtà, non c'entra molto con il capitolo in sé, però è fantastica, perciò vi consiglio di ascoltarla :)

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Capitolo 10
*** Ignorando ***


La legge del gioco
Capitolo 10: Ignorando
È notte. Ho fatto notte.
Vedo tutto sfocato, per quanto riesca a tenere la mente abbastanza lucida, nei limiti che può avere un tizio ubriaco marcio.
Mi sento sporco, sia dentro che fuori. I capelli sono appiccicati alla testa dal sudore.
Entro in casa, barcollando e alitando un puzzo insopportabile di alcool.
Non chiudo la porta. Mi butto sul divano. Non mi sono tolto il cappotto, e ho ancora le chiave strette in mano.
Ora svengo, ora mi addormenterò, e mi sveglierò domani con il classico mal di testa
post-sbronza.
-Scott? Sei tu?- una voce di donna.
Sarà Courtney. Cerco di risponderle, anche solo con un gemito, ma non riesco a fare neanche quello.
Io ho gli occhi che hanno lo sguardo puntato sulla gamba della sedia in legno che mi sta davanti al divano.
Sento dei passi felpati, di una persona che non indossa le scarpe, e molto probabilmente neanche le calze.
Di sicuro è Courtney, ma tutti i miei sensi ora sono totalmente sballati, quindi la sua voce mi giunge come dei suoni confusi, seppur comprensibili.
Sento che continua a camminare, e la sento avvicinarsi sempre di più. Poi si ferma, sarà lì sulla porta.
Alzo la testa, lei si è appoggiata allo stipite che mi guarda con nello sguardo un misto di senso di colpa e di sorpresa. Non si è neanche cambiata, ha ancora il pigiama, però si è avvolta la coperta sulle spalle, la quale le arriva quasi ai piedi.
Lo sforzo è troppo, perciò in un movimento repentino riporto la testa nella sua postazione originale. Tengo la bocca semiaperta, respirando con essa.
Lei si avvicina piano, fino a che non riesco a scorgere con la coda nell'occhio una parte della sua gamba, da cui pende la coperta.
-Scott, ha bevuto?- chiede.
Io non ho voglia di risponderle. Ora vorrei solo addormentarmi, ma lei come al solito fa l'egoista.
-Sì..- bofonchio.
Sento lei che sospira, come se mi volesse rimproverare, ma allo stesso tempo capire.
Ah, adesso non fa più tanto la strafottente, eh?
-Scott, adesso parliamo di quello che è successo prima.-
Adesso mi incazzo. Lei è così intelligente, possibile che non riesca a capire che questo non è propriamente il momento adatto per parlarne.
Inizio a sentirmi un po' meglio.
-Sai, tesoro, non so se ti rendi conto che questo non è il momento più adatto per parlarne.-
io cero di essere il più sarcastico possibile, non riuscendoci a causa del mio biascicare.
Mi giro sul fianco, mi sento un impedito con questo cappotto autunnale addosso.
-Non m'importa.- mi fa davvero incazzare quando fa così!
-Oh, Cristo, Courtney! Sono ubriaco marcio, non riesco a stare in piedi! Non riesci a sentire come parlo?! Dai, cazzo, Courtney!- urlo, e la mia voce sembra migliorare un minimo.
Le fa un piccolo passo indietro, come movimento istintivo.
Aggrotta le sopracciglia, e mi guarda incazzata. Ma non me ne frega niente.
-Scott!- squittisce, indignata.
-Cosa, cara?- con un lento movimento mi alzo dal divano e, per riuscire a stare in piedi mi appoggio allo schienale della sedia.
-Andiamo, non volevi parlare? Avanti dimmi. Sono qui a tua totale disposizione.- cerco di fare una specie di inchino per prenderla in giro, ma quando rischio ti tirare una facciata contro il pavimento, desisto.
Le tira un sospiro. Adesso lo so, a lei non importerà niente di discutere, vorrà solo sfogarsi.
Prima di parlare, però, si avvicina alla sua borsa, appoggiata malamente sulla sedia. Estrae il pacchetto di sigarette, l'accendino, e con la grazia degna solo di chi ha fumato più sigarette di quanti sono gli alveoli nei propri polmoni se ne pone una delicatamente tra le labbra e, chinandosi sulla fiamma, l'accende, aspirando.
Aspira, e chiude gli occhi, in estasi.
Mi guarda.
-Allora, per prima cosa: ti sembra una cosa degna di un uomo adulto pormi davanti alla costrizione di scegliere tra lavoro e relazione?- continua a guardarmi, incitandomi con gli occhi a risponderle; la sigaretta le sta facendo bene.
Sbuffo, guardando il pavimento, per poi spostare di nuovo velocemente lo sguardo su di lei, con uno sguardo più che divertito stampato in faccia.
-Ok, anche se tu avessi ragione, non ti sembra che la mia richiesta sia abbastanza legittima?- lei apre la bocca prendendo fiato per rispondermi, ma io la anticipo. Mi avvicino a lei, alitandole nel viso. -Guarda, mia cara, che io l'ho capito, non pensare che io sia un cretino di merda.- faccio una pausa.
Lei mi guarda incuriosita, curiosa di sapere dove diavolo voglio andare a parare.
La guardo, mi sto incazzando sempre di più, sento la rabbia che mi sale dal centro del petto. Io la guarda dall'alto in basso.
Stringo un pugno.
-Io l'ho capito... io l'ha capito, stronzetta. Io ho capito che ti ti sei innamorata di quel... Duncan.- pronuncio il suo nome schifato. Perché è così, mi fa letteralmente schifo, ribrezzo. -Quell'assassino, quell'uomo con le mani rosse, ma che tu ti ostini a difendere. E questo m fa incazzare!- sbatto violentemente il pugno sul tavolo. Lei fa un piccolo sussulto, e mi guarda sorpresa.
-Mi fa incazzare il fatto che tu neghi la realtà; tu vuoi a tutti i costi salvare la vita di una persona che non merita e non vuole vivere.- le sibilo in faccia. Mi allontano. Cerco di dominare la mia rabbia, per quanto l'alcool non mi stia molto aiutando.
Mi sento svenire, la vista si va sdoppiando, vedo due Courtney, due sedie di legno, sue sigarette...
Le gambe mi cedono e cado sul pavimento.
-Bastardo...- è l'ultima cosa che sussurro, prima di sentire lei che mi chiama e tutto che va scurendosi, fino a scomparire del tutto.
 
 
 
Ah, è la seconda volta in due giorni che mi ritrovo all'ospedale.
Mi sono svegliato da un bel po', ma nessun dottore né infermiera è venuto a vedere come sto, però, in fondo, ci saranno persone che sono più gravi di me, persone che hanno bisogno, a volte per motivi non proprio specificati, di tutta l'attenzione delle persone che dovrebbero prendersi cura di me.
Ah no, quello con i medici non succede, ma con le fidanzate sì, a quanto pare.
La porta si apre, e un dottore, finalmente, trova un po' di tempo da dedicare a me.
-Come si sente, signore?- una merda.
-Molto meglio, grazie.- la propria definizione di mentire spudoratamente.
L'uomo non cambia espressione, chissà quante volte si trova costretto a fare conversazioni come questa al giorno; povero dottore.
-La signorina Barlow chiede di vederla.- che? Ah, già, se non fosse venuta, avrebbe fatto la figura della fidanzata stronza.
-Posso farla entrare?- no, assolutamente no.
-Certamente.- come sono sincero oggi.
L'uomo in bianco annuisce e, in modo molto composto e dignitoso, esce. Chiudendosi la porta alle spalle, senza guardarsi indietro.
Appoggio al testa al cuscino, la aspetto.
Ora dovrei dire che non ho voglia di vederla, ma non è così, e almeno a me stesso non voglio mentire.
Io voglio vederla, voglio farle capire che sbaglia, voglio che la discussione finisca con lei che dice: sì, scusa, non avrei dovuto, io ho sbagliato.
No, non succederà, per quanto abbia pochissima stima di sé, le è rimasto ancora un minimo di orgoglio.
La maniglia si gira, lentamente, lei indugia.
E la porta si apre, lentamente.
Lei entra lentamente.
Si avvicina velocemente a me e mi tira uno schiaffo, facendo girare la mia testa verso la finestra.
-Come ti sei permesso?!- è tremendamente arrabbiata, ma non l'arrabbiato-preoccupato che mi aspettavo, no, lei è veramente incazzata.
-È così che pensavi di risolvere il problema, eh?! Andando fuori, tutto il giorno ad ubriacarti, poi tornare a casa, buttarti sul divano, e iniziare a tirare pugni a destra a manca! Per poi iniziare a parlarmi come se mi dovessi ammazzare da un momento all'altro!- ha urlato, ed ora ha il fiatone. Io sono sorpreso. Io pensavo che sarebbe venuta qui, mi avrebbe chiesto scusa e avremo fatto la pace; e invece no!
-Oh, Courtney! Tu devi sempre complicare le cose!- le rispondo. -Se veramente mi ami, mi avresti chiesto scusa, rendendo le cose molto più facili per tutt'e due - e un altro schiaffo.
Mi innervosisco.
-Porca troia, Courtney! Smettila!- le afferro il polso, forse un po' troppo forte, dato che le scappa un piccolo gemito di dolore.
Le lascio subito il polso. Mi guardo la mano, schifato da me stesso.
Lei mi guarda, con le lacrime agli occhi.
Stiamo così, in silenzio, io la guardo con gli occhi spalancati, sorpreso da me stesso, come a chiederle scusa. Lei, con gli occhi spalancati come me, che si tiene il braccio stretto in mezzo al petto.
Silenzio.
Lei inizia a piangere, piano, in silenzio.
Silenzio.
Lei si asciuga gli occhi con il braccio, mentre tenta di sorridere.
-Ok,- tira su con il naso. -facciamo finta che tutto questo non sia accaduto.-
La continuo a guardare, senza riuscire a riafferrare la capacità di parlare.
Deglutisco.
-Io non posso rinunciare al caso, Scott.- mi dice, con tutta la convinzione di cui è capace, calcando su “posso”. -Io voglio bene a Duncan, mi sentirei terribilmente in colpa se, per colpa mia, lui morisse, o finisse in prigione. Lui è innocente e, sai, quando sono diventata avvocato, ho fatto un patto implicito con me stessa. Che io devo fare il mio lavoro, perciò devo onorare la giustizia, e Duncan è innocente, quindi non merita di pagare per qualcosa che non ha fatto.- caspita, si sente che è un avvocato.
Non so cosa dire, né cosa pensare. Sono ancora scosso da prima.
Però ora mi arriva come un calcio il significato implicito di quello che sta dicendo. Continua e negarlo, e questo mi fa incazzare ogni volta di più.
Inizio a ridere, lei si sta umiliando, mente in modo talmente sfacciato che no capisco come faccia a pensare che io possa crederle.
-Ah ah ah, Courtey! Andiamo, piccola... Non pensare che io sia stupido. Perché io non sono stupido.- aggiungo con una durezza nella voce spaventosamente voluta. -Te l'ho ripetuto centinaia di volte che io ho capito, non cercare di salvarti la faccia, te la sei sputtanata talmente tanto che ormai è impossibile recuperare anche solo un grammo di dignità.-
Lei mi guarda, sorpresa. Che cazzo ti sorprendi?! È da due giorni che le ripeto che ho capito, ho capito, ho capito, cazzo!
-E non guardarmi come se fossi la vittima, come se stessi dando di matto, perché non è così!- mi alzo, sempre più incazzato.
-Tu lo sai, ma non vuoi dirmelo, perché sai che io ti mollerei. Ma, sai, stupida, mi sembra una cosa abbastanza giusta: tu ami un altro, Cristo!- faccio una pausa per riprendere fiato dopo le urla. -Ma tu ragioni come l'egoista che in realtà sei. Anche se io amo un altro, dato che non mi ci voglio mettere insieme perché è un sospettato di omicidio, mi tengo il mio bel zerbino, che mi ama, si prende cura di me e ascolta tutti i miei problemi. Però, e qui viene il bello, dato che è uno zerbino, non mi rinfaccerà mai quello che faccio!- la imito. La mia voce non è credibile, ma il senso del discorso racchiude tutto ciò che le passa per la testa.
Lei mi guarda, spaesata, come se io fossi uno sconosciuto.
Ma non lo sono.
Sento un istinto, dentro di me, un qualcosa che mi intima di metterle le mani addosso, per farle capire ciò che provo, in fondo, se lo merita, giusto?
Mi avvicino a lei con fare minaccioso, voglio incuterle paura.
-S... scott?- la sua voce mi fa risvegliare, che diamine sto facendo?! Io ho davvero pensato di picchiarla!
Mi allontano lentamente, verso il letto. Lei continua a guardarmi.
Prende la borsa che ha appoggiato prima, quando è entrata, sulla sedia, se la stringe al petto, come per proteggersi e dice:
-Forse... forse è meglio se ci prendiamo una piccola pausa.- non poteva inventarsi qualcosa di più originale, eh? Ma io ragiono come un ragazzino, e mi convinco che, in fondo, non ci stiamo lasciando ci stiamo solo prendendo una pausa. No, lei mi sta lasciando, ed ha tutte le ragioni del mondo per farlo.
Mi fissa per altri due secondi, poi si incammina con passo svelto verso la porta e, appena appoggia la sua mano sulla maniglia io dico:
Ricordati che è solo una pausa...- ora avrei dovuto aggiungere: “perché io ti amo”, ma mi sembra che io oggi abbia parlato un po' più del dovuto.
Lei non si gira e se ne va. Questa probabilmente è l'ultima volta che la vedo.
Per cosa poi? Non mi ha mai tradito, non avrebbe potuto. Io rovino sempre tutto. Per la mia dannata gelosia, e la mia dannata convinzione che lei era mia. Lei non appartiene a nessuno, neanche a sé stessa. E questo l'ho capito solo adesso.
Mi siedo sul letto, e mi metto la testa fra le mani, scompigliandomi i capelli. Vorrei che adesso mi cogliesse un moto di determinazione, ma non arriva.
Cosa succederà, adesso? Lo so: lei riuscirà a far passare per innocente quel bastardo, lei non vorrà troncare il rapporto con lui e, gira e rigira, si troveranno su un altare, con io che mi congratulo con lei; semmai voglia invitarmi al suo matrimonio.
Che ottimista che sono.
Vado alla finestra, e, caso vuole, lei è lì che esce e si dirige verso la strada, aspettando sul ciglio per prendere un taxi. Com'è bella. E io non la rivedrò più.
Ma ne troverò un'altra,
ne troverò un'altra,
ne troverò un'altra...
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Ciao a tutti!
Eh sì, sono consapevole che Scott ubriacone possa sembrare un po' OOC, ma io lo volevo rappresentare come un semplice uomo che si rende conto che la donna che ama è innamorata di un altro.
E, dato che io ho una grande considerazione dei maschi (tranne, ovviamente, quelli di Efp, loro sono tutti fantastici ;)), l'ho fatto ubriacare.
Cosa ne pensate? Ditemelo con una recensione, che fa sempre piacere!
Io non ho nient'altro da dire; perciò vi saluto!
Un abbraccio!
 
 
 
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Capitolo 11
*** Incapace ***


La legge del gioco
Capitolo 11: Incapace
E ci siamo arrivati, finalmente.
Io ho odiato la vita per gran parte della mia esistenza, ma ora sto iniziando ad odiare anche il tempo.
Me li immagino sempre così: due specie di dei che stanno sopra le nuvole, e che si divertono a rendere l'esistenza delle persone letteralmente impossibile.
Io ormai non ci credo più. Non credo più in niente, tutte le certezze, semmai ne ho avute, della mia vita sono andate frantumandosi da quando sono nato. La felicità, l'amicizia, l'amore... sono tutte frantumate in mille pezzettini, impossibili da vedere.
Lei è lì, che con un ardore che ancora non comprendo, mi difende, di fonte a persone che hanno già probabilmente dato per scontato che io sia colpevole.
Mi difende, ha energia, ma qualcosa nuovamente le manca; come se avesse perso qualcosa. Be', lei non possiede tante cose, perciò può essere solo a causa del suo ragazzo.
Giuro che se l'ha fatta soffrire dovranno veramente mettermi arrestarmi per omicidio.
Ma probabilmente lei non sarebbe d'accordo riguardo a questo mio ultimo pensiero. Sarà anche una fallita, ma è pur sempre un'adulta, e ormai sa che la violenza non risolverebbe niente. Ma, dato che io non ne ho più l'energia, non voglio maturare; lo faccio solo quando ne ho bisogno.
Per esempio, quando ho iniziato a vivere nella strada, ho dovuto maturare, perché lì i bambini non durano molto. Perciò io ho finto di essere uno di quei ragazzi che, anche se giovani, hanno passato tutte le pene dell'inferno, e che per loro la strada è come un paradiso.
Io mi sono inventato una piccola storiella da rifilare a tutti gli impiccioni: mio padre era un alcolizzato drogato, che, una volta entrato nel giro della droga, non è più riuscito ad uscirne. E, a causa di questo, mia madre si è suicidata. Così io, dopo la morte di mio padre causata da un'overdose di eroina, ho iniziato a drogarmi, a bere, poi mi sono ritrovato in strada, eccetera, eccetera... insomma, la solita banale storiella dei drogati.
Però, io dovevo inventarmi qualcosa, insomma, non potevo andare in giro a dire che venivo da una borghese famiglia di poliziotti: mi avrebbero sparato immediatamente.
Mentre io penso alla mia vecchia vita, lei continua imperterrita a parlare, non la ascolto, non ne ho bisogno: io mi fido; lei sa essere estremamente convincente quando parla. E, guardando i giurati, sembra quasi che li stia convincendo. Però non devo essere così ottimista, l'altro avvocato non ha ancora fatto la sua arringa. Sono sicuro che parlerà del mio passato, dicendo che sono un drogato che per avere un po' d'erba ammazzerebbe sua madre. Lei sta ringraziando la giuria, in modo estremamente distaccato.
Ritorna al suo posto, accanto a me.
Mi guarda. Vede che non parlo.
-È andata bene, comunque.- mi dice, come se si aspettasse un qualche tipo di interessamento da parte mia. Be', forse avrei dovuto interessarmi.
Mi fissa, poi alza gli occhi al cielo e sbuffa. Mi sembra che sussurri anche “Non cambierà mai...”.
Poi, dopo aver messo in ordine quasi compulsivamente alcuni fogli, si concentra sul discorso dell'altro avvocato. Tendo anch'io un po' l'orecchio, voglio proprio vedere quale discorso snocciolerà adesso questo tizio.
-Allora, qui una ragazza è morta, uccisa brutalmente da ben venti coltellate. E io voglio far presente alla giuria che sono state ritrovate le impronte dell'imputato sull'arma del delitto.- ora fa una pausa, indicandomi con quella sua curatissima mano. -E che il suddetto imputato è un tossicodipendente. E credo che tutti noi sappiamo che uno tra i tanti orribili effetti collaterali è ovviamente una dipendenza che porta l'uomo ad adottare qualsiasi metodo per poter ricavare oldi per una dose. Uno di questi può essere l'omicidio.- ora smetto di ascoltarlo.
È divertente perché oltre ad essere un lurido borghese, è anche un avvocato di merda.
Non solo non ha tenuto minimamente conto di ciò che ha detto Courtney prima, ma ha anche ignorato una delle prove: non è stato rubato niente da quella casa, perciò il discorso del tossico che vuole soldi per la droga e quindi pur di riuscire a rubare qualcosa uccide una persona non regge.
Continua il suo discordo e, ogni tanto, sento Courtney che, di fianco a me, sospira, irritata.
-Questo avvocato è un emerito idiota!- le sfugge anche.
Ad un certo punto al porta dell'aula di apre rumorosamente.
Mi giro, è uno sbirro. Che diamine ci fa qua?
Inizia a camminare, con lo sguardo fisso negli occhi del giudice, lentamente ma con decisione.
Quando arriva al giudice, gli sussurra qualcosa che non riesco a comprendere, poi il giudice annuisce, così il piedipiatti si gira e se ne va.
-Ah-hem, mi è stato appena comunicato da un'esponente della polizia di New York che sono state trovate nuove prove, e che quindi si avvieranno altre indagini. Perciò il processo è rinviato.-
Ora, non ho idea di cosa pensare. Mi giro, con sguardo perplesso, verso di lei. Si gira per ricambiare il mio sguardo, anche lei è, come dire... indecisa.
La gente inizia ad uscire e noi seguiamo il gregge. Accompagnati ovviamente dal fedele sbirro che mi sorveglia. Noi camminiamo l'uno vicino all'altra, senza parlare. Però, ad un certo punto vedo che lei, sentendosi chiamare, rallenta, per andare dal suo interlocutore. Mi giro. È l'avvocato, che con lo sguardo di chi vuole “conquistare” la guarda. Lei risponde titubante, con lo sguardo fisso a terra. Lui le passa un biglietto da visita, le sussurra qualcosa nell'orecchio e si allontana.
Lei mi raggiunge. Ha le guance rosse, e lo sguardo basso.
-Che voleva?- chiedo, apparentemente indifferente. Ma in realtà sto bruciando dentro. La guardia mi guarda male, non dovrei parlarle, ma fa finta di non vedere.
Le sue guance si imporporano ancora di più e, sempre con sguardo fissato sul pavimento, mi risponde, quasi balbettando.
-N... niente, nulla di importante...- tiro su con il naso.
-Andiamo, non me lo vuoi dire?- forse se cerco di fare un po' lo strafottente mi risponderà.
Lei sospira, le gote sempre rosse.
-Mi... mi ha chiesto di uscire, un giorno...- che? Ma ora che ci penso, ho la possibilità di togliermi ogni dubbio.
-E tu gli hai detto che sei fidanzata, giusto?-
Lei per la prima volta alza gli occhi verso di me, e i suoi occhi acquistano una nota di tristezza.
-Io e Scott ci siamo lasciati...- abbassa di nuovo lo sguardo, però non è più imbarazzata, ora è proprio triste.
Non mi piace l'idea di averla resa triste.
-Mi dispiace.- che cosa squallida che ho detto. Per un semplice motivo: non mi dispiace affatto.
Lei abbozza un sorriso.
-Grazie...-
Arriviamo in strada e la guardia mi strascina letteralmente verso la macchina della polizia parcheggiata davanti al tribunale. Lei si avvia dalla parte opposta, fermandosi sul ciglio, cercando di intercettare un taxi. Io mi giro per guardarla, e mi rendo conto che anche lei mi sta guardando, triste.
Perché diamine è sempre così dannatamente triste?!
La guardia mi spinge dentro l'auto pressando sulla mia spalla; perciò perdo la vista su di lei, e quando cerco di recuperarla tramite il finestrino posteriore, ma vedo solo la sua gamba destra che sale sul taxi giallo e la sua nuca coperta dai capelli castani.
Poi, quasi contemporaneamente il taxi e quest'auto partono, allontanandoci.
 
 
 
-Nelson, hai visite.- apro l'occhio destro, guardando oltre le sbarre. Una visita? Oggi non dovevamo vederci.
Faccio un grugnito e scendo dal letto a castello. Come al solito mi ammanettano e iniziamo a camminare lungo il corridoio che ho percorso forse troppe volte nell'ultima settimana.
Però, non andiamo nella specie di camera d'interrogatorio dove mi incontravo solitamente con Courtney. Forse non è lei.
La guardia apre la porta, e, attraverso il vetro trasparente, vedo che è proprio lei, che, appena sente la porta aprirsi alza la testa, guardandomi con gli occhi rossi, ancora colmi di lacrime.
Quasi corro verso la sedia, ed alzo la cornetta.
-Courtney, che diamine è successo!?- sono preoccupato.
Lei ha afferrato la cornetta grigia, tremando.
-Oh, Duncan...- inizia a piangere, pur cercando di contenersi.
-Courtney!- sono estremamente preoccupato, ora.
Smette di piangere, ma la sua voce è ancora rotta.
-D... duncan... hanno... hanno trovato le sue impronte...- ricomincia a piangere.
-Le impronte di chi?- il mio pensiero si tramuta immediatamente in parole.
-L... le impronte di... di... di Scott...- come?
Sono sconvolto, che diamine c'entra quel bastardo con l'omicidio?! La guardo con gli occhi spalancati, sono disarmato.
-E... erano su... su delle catene che... che hanno tro... trovato in una botola ne... nel pavimento.- singhiozza, cercando disperatamente di non scoppiare a piangere, fallendo.
In una botola nel pavimento? Be', però questo spiega il rumore di catene che avevo sentito dal salotto. Voglio chiederle una cosa, ma voglio aspettare che si calmi.
La lascio sfogare, stando in silenzio; non sono la persona più indicata per consolarla.
Dopo circa un minuto, lei smette completamente di piangere, guardandomi.
-Courtney, però, se la vittima è stata accoltellata, perché non hanno trovato le impronte sul coltello?-
-È la stessa cosa che ho chiesto io. Mi hanno detto di aver trovato un guanto in lattice in un bidone vicino a casa della Humble. Non sanno però se può essere ricollegato al caso.-
Tutto questo non ha alcun senso.
-Ma, Courtney, come diavolo ha fatto? Cioè, ha preso le catene senza il guanto ma il coltello con indosso il guanto?-
Lei sospira.
-Non lo sanno. Molto probabilmente, dato che le coltellate segnalano il fatto che l'assassino era pieno di rabbia, quest'ultimo si sia semplicemente dimenticato...- i suoi occhi si riempiono nuovamente di lacrime.
-Oh Dio, Scott!- si copre il volto bagnato con le mani.
Ora sta proprio piangendo, singhiozza, e tira su con il naso.
-Courtney, non piangere...- la porta si apre. E la guardia entra, no... vi prego non ora. Quanto odio gli sbirri.
È la guardia giovane che mi ha accompagnato per la prima volta da lei. Io lo guardo impassibile, nascondendo, palesemente, tutta la mia supplica.
Anche lui mi guarda, senza un emozione negli occhi, e, senza dire niente, se ne va.
Forse non tutti gli sbirri sono dei pezzi di merda.
-Ok... ok... ora mi calmo... ora mi calmo... in fondo, Scott non può c'entrare niente con questa storia.- cerca di sorridere, per dimostrare di avere ancora il controllo si sé stessa.
Io la guardo, e la aspetto, paziente.
-Courtney, io sono sicuro che Scott non è minimamente coinvolto in questa storia.- stavolta cerco di consolarla un minimo.
-Allora come lo spieghi, Duncan?!- ora mi urla quasi contro, io l'ho detto che io non sono in grado di consolare le persone.
-Le sue impronte! La sua gelosia! Il fatto che ieri mi ha quasi picchiato!- cosa?!
Lei mi guarda, consapevole di aver detto qualcosa che non si sarebbe dovuta sfuggire.
Lui l'ha picchiata?! Ora esco di qui e vado ad ammazzarlo quel bastardo!
-Cosa ti ha fatto, Courtney?- ora ringhio, ma non sono arrabbiato con lei, ormai non sono più capace di arrabbiarmi con lei.
Lei si stringe nelle spalle, abbracciandosi, e sposta in basso lo sguardo, che è seguito quasi subito dalla testa.
-Non... non è successo niente di grave...- cerca di difenderlo, seriamente?!
-Ma Courtney! Tu hai detto che è quasi arrivato a picchiarti! Insomma, che bastardo deve essere un uomo che arriva alla violenza contro una donna?!- sono incazzatissimo. Ora lo ammazzo! Lo strangolo, quel pezzo di merda!
Il mio sguardo si fa ancora più incazzato. Tremo dalla rabbia.
-Duncan, calmati, non mi ha messo le mani addosso...-
-Però ci ha provato!- la interrompo.
Lei mi guarda, come per supplicarmi di non arrabbiarmi per ciò che sta per dire.
-Be', a me è sembrato che qualcosa dentro di lui lo spingesse a farmi del male, ma prima anche solo di sfiorarmi, si è fermato, e io me ne sono andata.
-Non me ne frega un cazzo! Non me ne frega niente! Se lui ci ha anche solo pensato, giuro che lo ammazzo!- no, io non mi calmerò.
-Senti, Duncan, calmati. Lui non mi ha fatto niente. Ed ora io devo pensare a tirarlo fuori da questo casino.- cosa?!
-Tu non devi pensare a lui: voi non state più insieme, perciò ora lui è un estraneo. Quindi, tu non ti devi affatto preoccupare per lui.- cerco di calmarmi, forse riuscendoci, forse no, sta di fatto che lei non piange.
Mi guarda, i suoi occhi mi stanno dicendo che ho ragione, ma lei non riesce a non pensare a lui.
-Ok, Courtney, ho capito. Io non ti posso aiutare. Io farò in modo di farti stare un po' meglio, ma lo sai che io detesto Scott.- concludo, ora se lei non parla ci sarà solo silenzio.
-Duncan, cosa succederà dopo tutto questo?- che... che ha detto? Il mio sguardo è alquanto perplesso.
-Cosa succederà, nel caso tu sarai liberato? Cosa succederà se veramente Scott è il colpevole? E se invece tu sarai giudicato colpevole?- è seria, non sta affatto scherzando. Lo vuole sapere davvero, vuole una risposta... da me.
Stiamo un po' in silenzio. Penso, io so cosa vorrei che succedesse, ma non so se è questa la risposta che lei vuole.
-Non lo so.- affermo, serio. -Nessuno può saperlo, e credo che questo non sia il momento di pensare a questo.- non è solamente una frase fatta; è davvero quello che penso.
Lei mi guarda, non la capisco.
-E tu cosa vorresti che succedesse?- mi chiede. Cazzo, e adesso che cosa le devo rispondere.
Be', ora come ora credo che le debba dire la verità.
-Vorrei che non ci dividessimo.- mi ero preparato psicologicamente prima di dare questa risposta, ma ora sono sicuro che le mie guance si siano totalmente imporporate.
Lei mi guarda, con un sorrisetto dolce stampato sul viso. Sapeva che cosa avrei risposto.
La guardo, i suoi occhi hanno acquistato una luce diversa. Sarà per merito mio? No, probabilmente no, ma crederlo mi rassicura un minimo.
-Il tempo delle visite è finito.- una voce bassa e piena arriva al mio orecchio.
Non è lo stesso poliziotto di prima. È uno dei tanti obesi e esauriti sbirri che lavorano qui.
Vede che non mi muovo, continuo a guardarla negli occhi.
Sbuffa.
-Andiamo, muoviti, feccia.- mi prende per la spalla, alzandomi di forza dalla sedia.
Lui mi trascina via, ed io cerco fino all'ultimo di mantenere il mio sguardo su di lei.
Poi la porta grigia si chiude e non la vedo più.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Ciao a tutti!
Sì, lo so, sono in ritardo, ma la settimana scorsa ho avuto 355 interrogazioni e due verifiche scritte.
Però non sono qui a parlare del mio esaurimento nervoso, passiamo al capitolo.
Allora, allora, sono state trovate le impronte di Scott sulla scena del delitto... che ne pensate? E che mi dite del dialogo tra Duncan e Courtney? Scrivetemelo con una recensione, e non dimenticatevi, se trovate qualche errore, di segnalarmelo.
Ora, anche se è presto, vado a dormire, che sto svenendo!
Arrivederci a tutti!
 
 
 
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Capitolo 12
*** È finito il tempo ***


La Legge del gioco
Capitolo 12: È finito il tempo
Sto muovendo freneticamente la gamba; non potrei essere più nervosa.
Osservo il mio vecchio telefono appoggiato sul tavolo fatto di legno scuro, quasi marcio. E aspetto, aspetto... cosa posso fare altrimenti? Non posso fare nulla. Posso solo aspettare.
Sento quel peso che mi sta sullo stomaco ingrandirsi sempre di più, diventando quasi insopportabile. Finora ho resistito, ma ora non ce la faccio più.
Perché c'erano le sue impronte? Non c'è alcuna spiegazione logica: cosa c'entra lui con Zoey Humble? Perché proprio su quelle catene? Non può essere semplicemente un caso, lui c'entra qualcosa, anche se non voglio nemmeno pensare in cosa c'entri.
L'avrà uccisa lui? Eppure, mi sembrava che non potesse far male ad una mosca, la prima volta che lo vidi.
Chi vorresti che si salvasse? No, ancora lei, no ora. Lei arriva sempre nel momento in cui sono più debole, sia fisicamente che mentalmente.
Sì, è così. Ma, comunque, rispondi alla mia domanda: preferiresti che si salvasse Scott o Duncan? Non ti voglio rispondere, le dico. Cara, tu sai benissimo che ora gli unici due sospettati sono loro; quindi, o l'uno o l'altro, decidi. Mi impone. Ma ora che ci penso, lei non può uscire dalla mia testa, se le rispondo lo sapremo so lei ed io. Ci penso...
No, non ci devi pensare, Courtney. È vero, ora non devo usare il cervello. Be', di sicuro Scott è infinitamente più dolce ed affidabile di Duncan, in parte, ma Duncan è molto più affascinante ed imprevedibile, cosa che può risultare sia positiva che negativa.
Dato che non riesco a decidermi, provo ad immaginarmi la loro immagine: prima Scott poi Duncan. Chiudo gli occhi.
Mi immagino Scott e la cosa che la mia subdola e maligna mente mi fa vedere è il momento in cui stava per picchiarmi. Riapro subito gli occhi. Mi calmo, li richiudo.
Mi immagino Duncan, e la mia mente mi fa vedere lui che corre verso di me, con indosso la tuta arancione, con il vetro trasparente che ci separa. Riapro lentamente gli occhi. Be', direi che sono stata abbastanza chiara con me stessa. Anche se ora non ci voglio più pensare. Ora io devo pensare a Scott, lui ha solo me.
I suoi genitori lo odiano, e sua sorella è morta in un incidente circa un anno fa. Se non penso io a lui non lo fa nessuno.
Incrocio le braccia e le appoggio sul tavolo, appoggiandoci a loro volta la testa.
Continuo a guardare il telefonino. Ed aspetto, aspetto, aspe.... inizia a vibrare.
Faccio un sussulto, il telefonino è subito sul mio orecchio.
-Sì?- cerco di essere un minimo composta, ma il mio nervosismo è palese.
-È lei la signorina Barlow?-
-Sì, sì, sì, SÌ DANNAZIONE!-
-Adesso può venire a trovare il signor Parsons.-
-Arrivo subito!- chiudo la chiamata senza aspettare la risposta dell'uomo, prendo la giacca, me la infilo velocemente, senza neanche chiuderla, prendo la borsa, e corro verso la porta. Mi fermo. Il telefono! Torno indietro e velocemente ritorno verso la porta, esco e la sbatto, violentemente.
 
 
 
 
Sono arrivata alla stazione di polizia, corro, con la borsa che sbatte contro la mia gamba. Vedo il lontananza una donna vestita di tutto punto, è formale, sta leggendo dei documenti mentre cammina velocemente. Le corro incontro.
-Mi scusi!- lei alza lo sguardo, svogliata.
-Sono qui per visitare il signor Scott Parsons-
Mi guarda come se fossi appena scappata dall'ospedale psichiatrico. Ma ora non ho tempo per offendermi.
-Lei è la signorina Barlow?-
-Sì, sono io.- scandisco duramente le parole. Dannazione! Lo devo vedere!
-Mi segua.- è totalmente apatica, non fa trasparire nulla, a parte un leggero alone di fastidio che la circonda.
Inizia a camminare velocemente verso la parte opposta rispetto a quella in cui stava andando prima.
La seguo, tengo la tracolla della borsa stretta nella mia mano destra. La stringo e la lascio, la stingo e la lascio... mentre continuo a camminare circondata da muri colo verde oliva o grigio chiaro. Chissà dove lo hanno portato.
Svoltiamo ogni tanto, fino ad arrivare in una specie di sala d'interrogatorio, però leggermente più confortevole ed accogliente. La scrivania che divide le sue sedie è più piccola e fatta in modo che non metta troppa distanza tra le due sedie anch'esse color verde oliva.
-Aspetti qui.- chiude la porta, senza aspettare alcuna mia risposta.
Mi guardo attorno, spaesata, questa stanza è troppo vuota, non c'è nulla, sembra quasi che manchi anche l'aria.
Mi siedo su una delle due sedie, quella da cui posso vedere chiaramente la porta. Abbasso lo sguardo.
Mi mordo il labbro inferiore, forte ma non troppo. Continuo a mordicchiarmelo finché non sento il rumore della maniglia della porta che lentamente di gira. Alzo lo sguardo, fisso la porta, lentamente si apre.
Ha ancora i vestiti dell'altro giorno. Non si è mai cambiato.
Mi guarda, in modo strano, come se fosse in Paradiso, sorride beato.
Lo fanno sedere, è ammanettato. Una delle due guardie che lo accompagnano si avvicina a me e mi dà una specie di walky talky e mi dice, sussurrando al mio orecchio:
-Se c'è qualche problema, schiacci questo pulsante.- e mi indica un tasto rosso più grande rispetto agli altri.
Annuisco, con lo sguardo vacuo, e una situazione così strana per me.
L'agente cerca di sorridermi, senza riuscirci, e si avvia verso la porta con il suo collega; ed escono.
Io fisso ancora per alcuni secondi la porta.
-Sai che non ci speravo più?- mi dice, ambiguo.
Lo guardo, confusa.
-C... come?- la mia voce è strozzata, non ho pianto da quando sono andata a visitare Duncan, ma vedendolo e sentendolo parlare le lacrime iniziano a minacciarmi gli occhi.
-Non pensavo che saresti venuta dopo quello che è successo l'alto giorno.- sorride, leggermente, come se non fosse minimamente preoccupato.
Ci fissiamo per un paio di minuti, che a me paiono come due ore. Lui continua a sorridere e a guardarmi come se fossi una Musa. Io non sono una Musa. Io sono qui che lo guardo, preoccupata per lui, ma solo questo, mentre lui s'illude.
-Io non c'entro niente.- scandisce lentamente le parole, come se non volesse semplicemente convincere me, ma anche sé stesso.
Io sento le lacrime che sempre più minacciose vincono contro la mia volontà, e così inizio a piangere, in silenzio, avendo un sussulto ogni tanto. Però continuo a guardarlo. Ma la sua espressione non cambia minimamente, come se se l'aspettasse. Sorride, maledizione, sorride!
-Che cazzo ridi?!- gli grido, le lacrime continuano però a scendere dagli angoli dei miei occhi.
Continua a sorridere.
-Non c'è niente da ridere! Sei accusato di omicidio! Che cazzo ci facevano le tue dannate impronte su quelle dannate catene?!- mi alzo, facendo scivolare rumorosamente al sedia contro il pavimento.
-Rispondi!- lo guardo. La mia faccia ora deve sembrare una specie di paradosso. I miei occhi sono rossi, sento quel fastidioso bruciore, e le lacrime salate continuano a rigare le mie guance, però la mia faccia esprime tutta la mia rabbia.
Perché non risponde?!
Non parla e continua a guardarmi con quell'espressione che prima mi faceva sentire colpevolmente lusingata, ma che adesso mi fa solo incazzare.
Mi avvicino a lui, la mia mascella è totalmente serrata, e la mia fronte è corrugata.
Prendo fiato, per urlare più forte che posso.
-RISPONDI!- gli tiro un pugno sulla guancia con tutta la forza che la rabbia mi ha conferito.
La sua faccia si gira verso la porta.
Mentre gli tiravo il pugno ho sentito la mia carne a contatto quasi diretto con la sua mandibola; solo la pelle a dividere il mio cazzotto dal suo osso.
Vedo che, dal suo profilo, il suo sorrisetto non è ancora scomparso.
Il suo collo lentamente si gira verso di me, e la sua espressione non è cambiata.
-Courtney, cos'è veramente quello che vuoi sapere?- non rifletto sulle parole che mi ha detto.
-Io voglio sapere cosa cazzo ci facevano le tue cazzo di impronte su quelle cazzo di catene.- parlo lentamente, cercando di calmarmi, ma facendogli palesemente percepire che tutto il mio corpo è intriso di rabbia rossa.
Il suo sorriso si allarga.
-Io sono innocente.-
-Dimostramelo!- sbatto la mano sul tavolo.
Sorride. Sorride. Sorride e poi ride.
Ride. Ride. Ride e ride.
-Courtney, se tu rispondi alla mia domanda io rispondo alla tua.- cosa?!
-Io dovrei risponderti?! TU devi rispondermi!-
Sorride.
-Tu rispondi, e io prometto che ti rispondo.- sospiro, facendo uscire dalla mia bocca un alito di una nuvola di nervosismo piena di fulmini.
-E va bene!- dico, esasperata.
Sorride.
-Chi hai scelto, Courtney?-
-Rispetto a che, Scott?- chiedo, sarcastica e nervosa.
Sorride.
-Ok, ti pongo la domanda in maniera diversa.- fa una pausa. Sorride. -Me o Duncan?-
Lo guardo, spaesata. Che cosa?
-Cosa?!- sono a dir poco indignata. -Che diritto hai di chiedermi questo!?-
Sorride. Senza rispondermi.
Oh, oh, oh, sì che ne ha il diritto, tesoro. Proprio ora doveva arrivare, questa stronza. Sì, proprio ora, cara. Comunque, di diritto ne ha. Lui vuole il tuo bene, lui è il tuo principe azzurro, ora tu lo farai scagionare e manderai in galera quel bastardo di Nelson.
No, non lo farò mai.
Oh, no, ora me ne rendo conto. Io non voglio che Duncan finisca in prigione; preferisco che ci finisca Scott. Io credo che Scott sia colpevole e Duncan innocente.
-Chi hai scelto, Courtney?- mi chiede, nuovamente. Sorride ancora, ma questo suo sorrisetto è più spento rispetto a trenta secondi fa.
-Chi hai scelto, Courtney?-
Inizio a fissare il vuoto. Non lo guardo più, muovo gli occhi, i tengo bassi. Ritorno lentamente alla mia sedia, sempre con lo sguardo fisso nel vuoto; ora ho capito tutto. Tutti i miei pensieri, le mie paranoie, i miei film mentali.... tutti inutili. Mi sento un'adolescente in preda agli ormoni.
Perché è quello che sei. Non la ascolto neanche più. Ho preso coscienza. E quest'ultima è troppo potente e schiaccia la vocina.
I miei occhi sono sempre spalancati e vuoti, però sposto lo sguardo nei suoi occhi.
Non sorride più, forse ha capito anche lui.
-Chi hai scelto, Courtney?- insiste, aggrappandosi a quell'ultima sicurezza in sé stesso che si sta sgretolando.
Lo guardo.
-Duncan.- sussurro, quasi impercettibilmente, ma lui sente benissimo. I suoi occhi si spalancano, ma quasi subito il sorrisetto ritorna sul suo viso.
-Va bene. Chiama la guardia.-
Io gli obbedisco, quasi come se fossi in trans, e premo quel tasto rosso.
La guardia arriva, con la pistola in mano, pensando che ci fosse un'emergenza.
Ma vede che non sta succedendo niente.
-Cosa succede?- mi chiede.
-Sono stato io a chiederle di chiamarla.- risponde però Scott.
Il poliziotto lo guarda, con disprezzo.
-Be', e quindi cosa vuoi?- Scott gli sorride.
-Vorrei confessare l'omicidio.-
-Cosa?!- mi alzo, e lo guardo. Ora ho ricominciato a piangere.
La guardia non ha parlato, ma ha avuto un sussulto di sorpresa, però riprende subito il pieno controllo di sé.
-Bene, allora venga con me in sala d'interrogatorio.-
Scott si alza e si avvicina alla porta, la guardia lo prende per la spalla e lo conduce fuori.
Si fermano per un momento.
-Signorina, ora le mando il mio collega che la accompagnerà fuori.- mi sorride cordiale, ma io non guardo il poliziotto, io guardo lui. Che si è girato verso di me, e mi sorride.
Escono, chiudendo la porta.
Mi siedo. Abbasso la testa, mettendomi le mani sulle orecchie.
Chiudo gli occhi.
Mi sento in colpa perché non sento il bisogno di salvarlo.
Io ora devo andare da Duncan.
Questo è quello che voglio.
Ciò che desidero. E non mi sento in colpa.
 
 
 
 
ANOLO AUTRICE
Sì, sono in ritardo. Vi sono mancata? :)
Questo direi che non è un capitolo di transizione. Scott si è confessato. Ma sarà davvero colpevole?
E poi Courtney ha capito. (I'm sorry fan della Scottney...)
Voglio sapere la vostra opinione! Mandatemi una recensione! (please)
E, se trovate errori, vi prego, ditemelo!
Be', io quello che dovevo dire l'ho detto, perciò vi saluto!
Vi voglio bene!
 
 
Pizee_01

 

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Capitolo 13
*** Svolta ***


La Legge del gioco
Capitolo 13: Svolta
“Ciao, Courtney,
è da un po' che non ci vediamo, eh? Dal nostro ultimo incontro, ho perso l'abitudine di impegnarmi di contare i giorni che passano. Perciò, esattamente, quanto tempo è passato? Una settimana? Un mese? Un anno? Non lo so; tanto, nel posto in cui andrò a breve, il tempo e lo spazio non contano.
Forse incontrerò mia sorella, questa cosa mi consola un po', nonostante la morte non mi spaventi. Sai che mi manca tanto? Era l'unica che mi è sempre stata vicino, capendomi. Capiva quello che ero, quello che facevo, e mi copriva. Capiva. Come nessuno ha mai fatto; neanche tu, ma non te ne faccio una colpa. Quello che faccio -o, meglio, facevo- era sbagliato, e me ne rendo conto, ma io non riuscivo a farne a meno. Come il fumo: io lo so, tu non riesci stare tre ore senza fumare una sigaretta. È la stessa cosa. Comunque, io non pretendo che tu capisca; non è una cosa facile. A volte, neanch'io riuscivo a capire me stesso.
Forse, nell'aldilà, riuscirò a scusarmi con Zoey. Perché sì, io sono veramente colpevole.
Man lei mi tradiva.
Sai, io e Zoey eravamo molto simili e noi due, Courtney. Lei aveva dimenticato la borsa in quel market, così io la seguii per restituirgliela. Lei mi sorrise, dolcemente, come solo lei sapeva fare; con quella bocca rossa, portava sempre quel rossetto rosso come i suoi capelli.
Mi diede il suo biglietto da visita: lavorava per un'agenzia che si occupava della salvaguardia degli animali in via d'estinzione. Infatti, il suo animale preferito era il panda.
E, ovviamente, era vegetariana.
Aveva provato a seguire la dieta vegana, ma poco dopo ebbe un'intossicazione alimentare, così si ritrovò costretta a mangiare le uova.
Era la ragazza più dolce che abbia mai conosciuto.
Così, iniziammo ad uscire insieme. Ci amavamo molto. Lei mi amava molto. E io l'amavo molto. Eravamo felici, ma lei era confusa, era in un periodo difficile, ed io cercavo di farle capire che il nostro amore era la cosa più importante.
Cercavo di farle capire che lei era mia, ed io ero suo. Così, ogni tanto, debbi punirla. Ma lei mi era grata.
Poi, una sera, andai a casa sua, volevo farle una sorpresa, e la trovai in “compagnia” di un altro. Sai chi era? Un barbone, quel barbone che si era sistemato nella stazione degli autobus vicino a casa di lei; e a cui lei dava un dollaro ogni volta che ci passava vicino. Io ero stato uno stupido, non avevo capito. Ma ero pronto per farle capire il suo sbaglio.
Così entrai in casa sua, dalla finestra: quello stupido inconveniente non avrebbe rovinato la mia sorpresa.
Appena lei mi vide, nell'ombra, si mise ad urlare... cavolo, era proprio molto confusa.
Afferrai quel barbone per il collo, lo strinsi forte, intanto lei piangeva ed urlava: poteva disturbare i vicini. Così le tirai un calcio alo stomaco.
Intanto, continuavo a stingere. Lei, con una flebile vocina, continuava a ripetere “Mike... Mike... oh, Dio... Mike”. Così si chiamava Mike quel bastardo.
Ad un certo punto, lo stronzetto la smise di dimenarsi, e il suo corpo cadde a terra, con gli occhi spalancati. Il primo problema era stato risolto. Adesso, dovevo punire Zoey... che diamine sto facendo?! Cosa cazzo sto scrivendo?! Courtney! La mia mano si muove da sola.
Non credere ad una parola di quello che la parte oscura di me ha scritto prima! Io non sono così. È stato tutto un incidente, un incidente...
Quello che ti ha incontrato, non ero io. Io ti amo, ti ho sempre amata, e sempre lo farò, se mi ami anche tu, ti prego, non mi abbandonare, Courtney...”
Da quel punto, ci sono solo scarabocchi incomprensibili.
Quante volte ho letto questa lettera? Probabilmente un migliaio.
La guardia ha detto che stava scrivendo, e poi, ad un certo punto, si è messo ad urlare, e lanciò questo foglio di carta fuori dalla cella.
Sopra c'era scritto “per Courtney, l'ultima ma la più importante”.
Quando vidi per la prima volta questa scritta, un brivido di terrore mi percorse la schiena, ora sono totalmente apatica. Ho subito tante di quelle emozioni in una settimana che ormai sono vuota, non provo più nulla.
Sono sempre qui, seduta sulla mia solita sedia, con le braccia incrociate ed appoggiate sul solito tavolo di legno marcio.
Questo è uno di quei momenti in cui ti metti a pensare a tutta la tua vita, e alla persona che sei diventata. Ma io mi chiedo anche: per chi sto vivendo? Per me no di sicuro, dato il fatto che ogni giorno della mia vita è la reincarnazione di una tortura medievale. Forse per Duncan. Ma, in fondo, ora non ha più bisogno di me, il colpevole è stato trovato, e sarà giustiziato a breve. Non ha più bisogno di un avvocato.
Tra un paio d'ore lo rilasceranno. Io dovrei andare lì, ad accompagnarlo chissà dove. Ora ci penso, devo decidere cosa fare con Duncan. Di sicuro non lo posso abbandonare in mezzo alla strada, però il mio monolocale è troppo piccolo per ospitare entrambi, e io non ho soldi per affittare un appartamento più grande.
Una soluzione potrebbe essere di ricontattare i genitori, forse riuscirei a convincere la madre ad ospitarlo a casa loro per un po'. Sì, credo che farò così, a discapito di quello che dirà Duncan.
Però... i suoi genitori vivono a Toronto, in Canada, e io vivo qui, a New York, in America, e l'idea di separarci mi fa soffocare dentro. Ormai non ho nessun motivo per mentire a me stessa. Io amo Duncan, e credo che anche lui ami me.
Però noi non potremo mai stare insieme. Siamo troppo poveri, e io non ho intenzione di trascinarlo nel libo che è la mia vita.
Io devo decidere per lui. Lui non è abbastanza maturo per farlo.
Sospiro e mi alzo, dirigendomi verso il letto.
Mi ci butto letteralmente sopra, facendolo cigolare rumorosamente.
Fisso il soffitto. Forse è la cosa più interessante nella mia casa: almeno ogni tanto passa un ragno.
Poi, quando si vive nella povertà, molte cose acquisiscono un valore diverso. Riesci ad apprezzare la bellezza di una ragnatela, o di una coppietta che si bacia sotto casa tua.
Sento il campanello suonare. Chi può essere? Mi chiedo stancamente.
Mi alzo svogliatamente e vado al citofono. Alzo la cornetta.
-Chi è?- chiedo, palesando a chiunque sia il mio nervosismo e la mia stanchezza.
-Courtney?- questa voce mi suona familiare, anche se non capisco chi è. -Sono Gwen.- chi? Gwen? Che diavolo ci fa qui? Non sono arrabbiata, ma solo incredibilmente sorpresa.
-Posso... posso entrare?- mi chiede esitante, notando che non rispondo.
-Sì... sì, certo...- sono sconcertata.
Rimetto la cornetta al suo posto. Lentamente. Mi sembra quasi che il mio corpo dalla sorpresa abbia perso sensibilità.
Mi siedo. La mia mente è stata completamente sgomberata dalla sorpresa. Le domande sono talmente tante che non me le pongo neanche.
Sento rumore di passi. Mi alzo e vado ad aprire la porta. La persona che mi trovo davanti è una donna, dai capelli neri, che indossa dei jeans e un cappotto nero. Però è una donna, una donna sicura di sé, che è orgogliosa si essere quello che è, ed io la invidio. È tutto ciò che io non sono.
-Ciao, Courtney.- cerca di sorridere, e ci riesce.
-Ciao, Gwen.- io sono volutamente fredda, la detesto ora.
-Posso entrare?-
-Certo.- la mia freddezza la mette a disagio, e la cosa mi consola un po'.
Entra, si toglie la giacca e si guarda intorno, probabilmente alla ricerca di un appendiabiti. Mi dispiace, cara, ma in questa casa non c'è.
-Oh, la giacca appoggiala pure sulla sedia.- le dico, senza far trasparire alcuna emozione.
Lei sembra sentirsi molto più a disagio dopo la mia risposta; ma la cosa non mi consola più.
Appoggia la giacca e si mette a strofinarsi le mani sui jeans, con lo sguardo basso. Dato che lei è a disagio, mi posso permettere di fare la dura.
-Perché sei qui?- la fisso, con le braccia incrociate.
Lei mi guarda stupita, poi vedo nascere sul suo volto un sorriso divertito. La guardo innervosita.
-Che c'è da ridere?- chiedo, nervosa.
Fa un risolino, ora è a suo agio, e io mi sento a disagio facendo la dura.
-Siete uguali.- mi guarda sorridendo.
-Uguale a chi?- mi fa molto molto innervosire il fatto che lei mi parli per antifone, senza andare dritta al punto. Detesto non capire.
-A Duncan.- a chi? A Duncan? Che c'entra ora lui?
La guardo, sconcertata. Non riesco a capire dove vuole andare a parare.
-Anche lui ha usato lo stesso tono, e le stesse parole che ha usato lui quando sono andata a visitarlo in prigione.- lei è andata a trovare Duncan? Io non lo sapevo. La cosa mi stupisce.
-Perché... perché sei andata a trovarlo?- chiedo, balbettando dalla sorpresa.
Lei sorride, e io non provo più nessun gusto nel fare la dura.
-Be', in realtà avevo letto sul giornale che era stato arrestato per omicidio,- si siede, sempre più a suo agio. -e così ho voluto andare a vedere come stava. In fondo, è stato uno dei miei migliori amici.- la fisso. Non sapendo che pensare. La sua risposta è talmente normale che non torvo niente da ridire.
Lei mi sorride.
-Senti, io ho voglia di un bel caffè;- no, ti prego, non chiedermi di fare un caffè, -che ne dici di andare al bar qua sotto?- oh, grazie al cielo.
-Sì, perché no?- le sorrido, sinceramente.
Di tacito accordo, ci alziamo e prendiamo le rispettive giacche. Io, mentre lei mi aspetta sul ciglio della porta, prendo chiavi e telefono.
Usciamo, sorridendoci l'un l'altra, io chiudo la porta a chiave, così ci incamminiamo lungo il corridoio.
Camminiamo.
-Allora, Courtney, come va la vita?- la guardo, quanto ho sperato che non mi facesse questa domanda? Non me la sento di mentirle.
Sospiro.
-Non bene.- faccio un alto sospiro. -Il caso di Duncan è il primo da due anni. Non lavoravo più.- faccio una pausa, fisso il pavimento. Vedo un ratto che scorrazza sul pavimento. -E poi, la mia famiglia mi ha abbandonato. Non che mi manchi, ma sai, era pur sempre la mia famiglia...- da dove mi stanno venendo fuori queste parole? Perché sto raccontando proprio a lei queste cose? Lei è praticamente un'estranea per me.
Lei non dice niente. E ci credo. Che cosa avrei fatto io se, da una semplice domanda, lei avesse iniziato a raccontarmi la storia della sua vita?
Stiamo in un silenzio imbarazzate per alcuni secondi.
-E... ehm... sei riuscita a far scagionare Duncan, ho sentito.-
-Eh? Ah, sì...- cosa dovrei fare, raccontarle tutta la verità, come prima? Lo farò, ma in modo velato e discreto.
-Sì, in realtà, proprio durante il processo, è arrivata un poliziotto che ci ha informato che erano state trovate nuove prove. Così, il processo è stato rimandato.- concludo, omettendo volutamente... chi... sia stato giustiziato e... quali prove hanno trovato. Normalmente ora sarebbero andate a formarsi delle lacrime agli angoli dei miei occhi ma, come ho detto prima, quando provi così tante emozioni diverse in così poco tempo, diventi apatica. Totalmente.
Lei fa una specie di verso per farmi intendere di aver capito, mentre si stiracchia le braccia portandole verso l'alto.
-E tu?- chiedo, cercando di nascondere la mia esitazione.
Gira lo sguardo verso di me, guardandomi negli occhi. I suoi sono così... normali, così felici, così realizzati. L'opposto dei miei.
-Be', niente di speciale...- dice, nascondendo palesemente il fatto che non vede l'ora di dirmi qualcosa. -Sì... niente di speciale... solo che mi sto per sposare... e che ritorno a Toronto.- cosa?
-E con chi ti sposi?- chiedo, sinceramente interessata.
-Non credo che tu lo conosca.-
-Oh, ok...- speravo di conoscerlo, davvero, ero davvero curiosa di sapere chi fosse il fidanzato di Gwen.
-Scherzo!- urla, facendomi fare un salto per lo spavento. -Con Trent!- cosa? Con Trent?
Non credevo possibile che loro si siano anche solo rivisti dopo il reality. Ed invece si sono innamorati di nuovo. Mi chiedo come Trent l'abbia perdonata.
In fondo, lei lo ha lasciato in diretta mondiale, per poi mettersi non più di due mesi dopo con un altro.
Io ero in una situazione simile, solo che io non avevo avuto il privilegio di ottenere quest'informazione. Io l'ho semplicemente scoperto.
Ma direi che non è questo il momento per pensare a queste cose.
Siamo appena uscite dal mio palazzo. Il sole è già calato, anche se sono solamente le cinque del pomeriggio. Sta arrivando l'inverno.
Ci avviamo verso il bar che sta dall'altra parte della strada. Ci posizioniamo di fonte alle strisce pedonali, e, insieme ad una ventina di persone, aspettiamo che il semaforo diventi verde. Aspettiamo, senza parlare. Io mi concentro solamente sul freddo che ha totalmente invaso il mio viso.
Il semaforo diventa verde, così, fianco a fianco, attraversiamo. Io ho sempre quell'ansia che mi pervade ogni volta che attraverso la strada. A New York non sei mai al sicuro. Che ne sai? Magari, può arrivare uno che, preso da un raptus di follia, tira fuori una pistola e si mette a sparare a tutti.
Arriviamo dall'altro lato della strada, sane e salve.
Continuiamo a camminare, io ogni tanto mi giro, per evitare di perderla di vista in mezzo a tutta questa folla.
Entriamo nel locale, piuttosto intimo, devo dire, per essere un bar di New York.
Appena varchiamo l'entrata della porta, un caldo tepore mi invade, così mi tolgo la giacca.
Ci sediamo, sempre in silenzio, anche se questo silenzio non è affatto imbarazzante.
-Tu cosa prendi?- mi chiede.
-Oh, solo un caffè.- rispondo, ho con me giusto giusto i soldi per comprarmi un caffè.
-Sta' tranquilla, offro io.- mi fa l'occhiolino, complice, ed io sono tentata di rifiutare l'offerta per buone educazione (e per orgoglio), ma il mio stomaco inizia a brontolare.
Così l'unica cosa che faccio è arrossire e borbottare imbarazzata “grazie...”.
Vedo un'ombra che investe il nostro tavolo. Alzo lo sguardo: faccio fatica a non scoppiare a ridere. È la cameriera: una ragazza con dei lisci capelli biondo platino legati in una coda di cavallo, una gomma da masticare in bocca e un seno fin troppo prorompente. Inoltre, il fatto che è truccata più che pesantemente non fa altro che pormi un ulteriore ostacolo dallo scoppiare a ridere.
Guardo Gwen, indicando con gli occhi la cameriera che ci guarda dall'alto in basso.
-Ehm... io prendo una fetta di torta alla crema e una cioccolata con panna.- dice Gwen, la cameriera fa un verso, per far capire di aver scritto.
Adesso guarda me.
-Eh, ehm... io prendo un caffè macchiato e una brioche.- dico, guardandola. Lei continua a masticare; e, senza dire niente, se ne va.
Io e Gwen ci guardiamo e, in meno di due secondi, scoppiamo a ridere.
Da questo momento, io e Gwen iniziamo a parlare, ridere e scherzare come delle vere amiche.
Continuiamo così per un po', fino a quando, dopo un momento di pausa in cui ci fissiamo negli occhi, un'ombra scura non prende possesso del viso di Gwen.
-Che c'è?- chiedo. Avrò detto qualcosa di sbagliato?
Lei mi guarda. Poi abbassa lo sguardo, iniziando a giocherellare con il cucchiaino di plastica che sta dentro al bicchiere della cioccolata.
-No... niente, ci cosa stavamo parlando?- cerca di riprendere il controllo di sé, fallendo.
-Andiamo, perché non me lo vuoi dire?- cerco di essere il più cordiale possibile.
Sospira.
-Non sono sicura di voler sposare Trent...- e dove diavolo se l'è tirata fuori questa?
Mi viene quasi da ridere, ma mi trattengo, per ovvi motivi.
-Perché?- cerco di essere il più seria ma affabile possibile.
-In realtà, non lo so neanche io...- io la ascolto, però il mio sguardo cade sull'orologio che sta attaccato al muro alle spalle di Gwen... santo Dio, io devo andare da Duncan!
Gwen vede che la mia attenzione non è più riservata a lei, e si gira per vedere cosa sto guardando. Non capendo, si gira verso di me, guardandomi confusa.
-Duncan! Oggi rilasciano Duncan! Sono in ritardo!- il suo sguardo ora è estremamente comprensivo.
-Sì, giusto. - io mi alzo, freneticamente. -Oh, aspetta! Courtney!- la guardo, intimandola con lo sguardo. -Tieni il mio biglietto da visita, chiamami, magari...- prendo il biglietto e, senza neanche guardarlo, me lo infilo in tasca.
-Grazie, Gwen. E scusami!- le urlo, uscendo dal locale.
Uscendo, mi giro, e vedo lei che guarda il pavimento, triste.
Quasi frustata.
Ma ora devo pensare a Duncan.
Oh, Dio! Duncan sta per essere liberato!
Mentre cerco un taxi, un sorriso si forma sul mio viso.
Sono felice.
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Ho fatto in fretta, avete visto? Sono stata brava! :D
Ho avuto una botta di ispirazione e così ho buttato giù questo capitolo.
Sì, ammetto che in questo capitolo ho inserito una cosa che io ho sempre sognato (perché All Stars mi ha lasciato con l'amaro in bocca all'eliminazione di Courtney): l'amicizia tra Gwen e Courtney. Andiamo, sono fatte per essere amiche!
Ma comunque.... che ne pensate?
Vi prego, supplico, chiedo in ginocchio di scrivermi una recensione!
Segnalatemi tutti gli errori che trovate!
Vi saluto.
Un abbraccio
 
 
Pizee_01

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Capitolo 14
*** Disegno in movimento ***


La legge del gioco
Capitolo 14: Disegno in movimento
Oggi mi rilasceranno.
Provo qualcosa, forse è felicità, ma di sicuro ciò che sento non è quella travolgente felicità di cui mi hanno sempre parlato.
In fondo, cosa mi può offrire adesso la vita? Nulla, come al solito.
Be', almeno ho Courtney, credo. Di sicuro lei non mi abbandonerà in mezzo alla strada. Lei non è così crudele.
Oggi mi verrà a prendere. Cazzo, mi sento come un bambino delle elementari, che è appena uscito da scuola deve aspettare la madre, perché non può andare in giro da solo.
Ma cosa faremo? Lei non mi ospiterà a casa sua, per un motivo o per l'altro. Di sicuro non vive in un attico di 500 metri quadrati, e poi, se fossi in lei, non mi sentirei totalmente sicuro di ospitare me stesso in casa mia.
E allora, cosa farò? Probabilmente dovei dirle che l'unico modo è che io torni a vivere in strada. Perché, per quanto io non voglia, lei viene prima di me, lei merita più di me di avere una vita felice.
Passa uno sbirro, mi guarda, con la palese voglia negli occhi di insultarmi. Ah, questi piedipiatti, amano insultare la gente che, tecnicamente, sta sotto di loro. Per questo li odio, sono talmente poveri di autostima che si mettono ad insultare persone che non possono ribattere. Perché i poliziotti possono benissimo e senza conseguenze insultare i carcerari, ma i prigionieri non possono neanche aprire bocca, altrimenti li accusano di oltraggio a pubblico ufficiale.
Per esempio, quando ero dentro, conobbi un giovanissimo prigioniero: non poteva avere più di vent'anni. Condannato per rapina a mano armata. Si vedeva che quello non era il suo posto, lui tremava sempre, ogni volta che lo si guardava. Non è mai stato coinvolto in risse: io lo proteggevo; pensavo che quella piccola buona azione poteva ricompensare tutte le cose sbagliate che ho fatto durante tutta la mia vita. Però non ci parlavamo mai. Non ho mai sentito la sua voce.
Un giorno, eravamo in mensa, e lo vidi coperto di lividi. Non era possibile, io lo tenevo sempre d'occhio, nessuno lo aveva picchiato.
Così, mi avvicinai a lui, e gli chiesi cosa fosse successo. Lui non mi rispose, distolse lo sguardo e si allontanò, tremando più del solito.
Io tornai al mio posto.
Continuai a guardarlo, e aguzzai i miei sensi quando vidi il gruppetto che lo prendeva costantemente di mira, nonostante la mia costante protezione.
Pensavo che, come al solito, sarebbero andati ad attaccar briga con lui, ma, contro ogni mia aspettativa, lo guardarono, in modo quasi... comprensivo. Non capivo.
-Lo hanno picchiato quegli stronzi degli sbirri.- sentii rivolgermi la parola.
Sentii una voce calda raggiungere il io orecchio destro. Era Collins. Un vecchio nero, considerato un po' il saggio della situazione.
Non gli risposi, io non parlavo quasi mai.
Semplicemente girai lo sguardo verso il mio protetto, vedendolo con la faccia rivolta verso il basso, tremava, ed ogni tanto si toccava lievemente le ferite che aveva sul volto.
Poi, quel giorno passò come gli altri.
Passai la notte sveglio, cosa non sorprendente, a pensare al ragazzino; e a quanto fosse rassicurante il fatto che fossero proprio i piedipiatti a far rispettare la legge.
Il giorno dopo, in mensa, giravo lo sguardo, cercandolo, ma non trovandolo.
Che fosse in infermeria? Sarebbe plausibile, anche se mi sembrava strano.
Anche quel giorno passò.
Il giorno dopo, in mensa, lui non c'era. In carcere, se manchi da due giorni, vuol dire che sei morto.
Ma com'era morto? Quando un carcerario ne ammazza un altro, viene processato pubblicamente. E non c'era stato nessun processo, e non c'è n'era nessuno in programma.
Questo voleva dire che lo avevano ucciso gli sbirri.
Non sarebbe la prima volta che succedeva, perciò non mi sembrava una cosa così poco plausibile, però devo ammettere che ci rimasi male. Questo mi fece detestare gli sbirri ancora più di prima.
Quel giorno mi sembrò più lungo degli altri, forse perché ero leggermente più depresso rispetto al solito.
Rimasi, ovviamente, sveglio a pensare. Sentii il caldo verso di un gufo, e in quel momento realizzai: non conoscevo il suo nome.
Intanto lo sbirro non la smette di guardarmi con in mare di odio negli occhi. E rido, gli rido praticamente in faccia, ora posso farlo.
Rido perché l'odio che riempie i suoi occhi non è rivolto a me, ma a sé stesso, e lui è così stupido da non rendersene conto.
Si gira e se ne va, incazzato. Io rido più forte per farmi sentire.
Appena non entra più nella mia visuale la smetto.
Sono seduto nella sala d'aspetto della centrale. Mi hanno spostato qui stamattina.
Guardo l'orologio affisso al muro: manca ancora un'ora. Sbuffo. Non vedo l'ora di andarmene. Ne ho abbastanza di sbirri, e qui ne è pieno.
Chissà che starà pensando adesso lei. Non avrà una buona considerazione di me. Io non ho dato alcun contributo alla mia assoluzione. Ho solo avuto una gigantesca botta di culo. Niente di più, niente di meno.
Sbuffo. Adesso come faccio a far passare un'ora.
Mi passa un'idea per la testa, ma mi sembra una cosa talmente infantile che la scarto subito.
Però, in fondo, cosa me ne frega di quello che pensano questi stronzi degli sbirri?
Davanti a me passa un ragazzino, probabilmente uno stagista, che, cercando di non far cadere la disordinata pila di fogli che sta tenendo tra le braccia, si sistema gli occhiali.
-Hei!- lo chiamo.
Si gira verso di me, con la bocca semiaperta. La sua espressione, appena capisce chi l'ha chiamato, muta spaventosamente. Ora gli prende un attacco cardiaco a questo ragazzino.
Approfitto malvagiamente della situazione.
-Dammi un foglio e una penna.- gli ordino, con un ghigno stampato sul volto.
Lui annuisce semplicemente e si avvicina ad una piccola scrivania che sta alla sua destra. Apre un paio di cassetti e tira fuori un foglio bianco leggermente stropicciato; poi sposta di nuovo il suo sguardo sopra alla scrivania e prende una penna nera da un portapenne in legno chiaro.
Appoggia le scartoffie sulla scrivania e si avvicina a me con solamente in mano il foglio banco e la penna. Trema ancora.
Li appoggia sul tavolo che mi sta di fronte, restando a debita distanza da me.
Io li trascino verso di me, fissandolo. Un brivido lo scuote. Mi sto divertendo davvero un sacco.
Faccio uno scatto con la testa verso la sua direzione, lui ha un sussulto, e corre via, a riprendere le scartoffie e andarsene via velocemente.
Mi lascio scappare un altro risolino.
Abbasso lo sguardo sul foglio, prendo la penna in mano. Inizio a disegnare.
Me la cavavo nel disegno, quando ero ragazzo. Be', almeno sapevo fare i graffiti.
Continuo a fare veloci movimenti con la mano.
Sento un rumore lontano, come di urla, alzo lo sguardo e vedo una ragazzina che non può avere più di diciassette anni. Sta cercando di divincolarsi dai piedipiatti che la tengono per le braccia. Scalcia e urla.
-Lasciatemi! Brutti sbirri di merda! Siete degli stronzi! Stronzi egoisti!- lancia continuamente insulti gratuiti ai poliziotti, che semplicemente la ignorano.
-Voi! Luridi ricconi! La gente che muore di fame, e voi che fate? Venite ad arrestare me! Una persona del ghetto!-
-Adesso smettila!- uno dei poliziotti che la teneva perde la pazienza. -Tu sei una del ghetto, eh? Nel ghetto la gente si aiuta. Mentre tu che fai? Vai a rubare alla mensa dei poveri!- ha rubato alla mensa dei poveri? Ma non ha senso.
Be', ha senso se la ragazza è una tossica.
Lei capisce il messaggio tra le righe che le ha mandato lo sbirro e tace.
Loro si allontanano, e io non li vedo più. Ricomincio a disegnare. Ha rubato alla mensa dei poveri.
Non so perché, ma la prima cosa che mi viene in mente è il furto che abbiamo fatto io e Courtney al reality.
Sorrido, ricordando quei tempi. Era bello, essere giovani, poter fare, semplicemente fare, senza pensare al futuro. Senza dover pensare al futuro.
Disegno.
Erano veramente belli quei tempi. Io e Courtney ci divertivamo a stare insieme, io pensavo che il nostro rapporto fosse un passatempo, per tutti e due. Ma mi sbagliavo. Io, quando la tradii, non pensavo che si sarebbe offesa. Invece, pianse tanto, si rotolava per terra dalla disperazione.
Io mi sentivo uno stupido, come avevo potuto, solamente il giorno prima, ammettere di non aver rimpianti, che non mi pentivo delle mie azioni.
Quante volte mi sarei pentito durante la mia vita. Ora vorrei andare da quello stupido ragazzino, con quella cresta verde che aveva solo il compito di farlo sembrare un ribelle, e tirargli un cazzotto in pancia. Un ragazzino ignorante, stupido e dannatamente egocentrico.
Continuo a disegnare.
Almeno, ai tempi della prima stagione del reality, Courtney non era depressa, forse non era felice, ma se ne stava nella sua beata ignoranza, che la proteggeva come uno scudo.
Invece, adesso, lei è sempre triste, piange tanto. E la cosa mi fa male.
Però, la tristezza dona maturità alle persone. Se sei sempre triste, sarai quasi sicuramente più maturo rispetto ad una persona costantemente felice.
Ora il mio schizzo inizia leggermente a prendere forma.
Io sto disegnando, ma non ho propriamente il pieno controllo della mia mano.
Però devo ammettere che la Courtney matura, consapevole, anche se triste, mi piace di più rispetto alla ragazzina viziata che pretende sempre la perfezione dagli altri ma soprattutto da sé stessa.
Questa però non è la città adatta a lei. Lei è fredda, e New York è fredda. Perciò lei non ha niente che la riscaldi.
Questa è una città orrenda. Sarà la città delle opportunità, però questa è una di quelle grandi metropoli in cui la gente non si può fidare neanche della propria madre.
Ho quasi finito il disegno.
Quanto manca? Guardo l'orologio. Mancano solamente dieci minuti.
Il disegno è ufficialmente finito.
Tolgo la mano, e lo guardo.
Sospiro. Possibile che abbia totalmente preso il controllo di me?
Ho disegnato lei, seduta su una panchina. Il vento le smuove leggermente i capelli e ha la testa girata verso il lato del foglio.
Non è felice, ma neanche triste.
È diventata un'ossessione. Ho bisogno di vederla al più presto.
-Signor Nelson,- sento una voce che pronuncia il mio nome schifato: è la guardia a cui ho riso in faccia prima. -è arrivata la signorina Barlow.- dice, e se ne va, senza attendere alcuna mia risposta.
Mi alzo, lentamente, le mie mani tremano.
Percorro i corridoi, vedo la porta davanti a me.
Esco, la flebile luce invernale mi investe.
Giro lo sguardo, cercandola. E la trovo. Lì, con il suo cappotto, che mi guarda, il vento le smuove leggermente i capelli.
 
 
Siamo nel taxi, lei mi sta portando a casa sua. Non ci siamo ancora detti una parola.
Io guardo fuori dal finestrino di destra, lei da quello di sinistra.
Il taxi si ferma. Scendiamo, lei ringrazia e paga l'autista che, cosa del tutto unica, le fa uno sconto.
La aspetto.
Appena ha finito mi raggiunge ed inizia ad incamminarsi verso l'entrata di un palazzo grigio e trasandato, molto probabilmente il suo. Entriamo nella hall e la prima cosa che vedo è il banco dell'accoglienza marcio e pieno di crepe, con un anziano signore seduto su uno sgabello dietro il suddetto bancone.
Io la seguo. Si dirige verso la rampa di scale. L'ascensore c'è, ma è decorato da un cartello bianco attaccato con lo scotch sulle porte che recita: “FUORI SERVIZIO”.
Quindi prendiamo le scale, e saliamo, saliamo, saliamo...
Lei ad un certo punto svolta, e io la seguo.
Arrivo davanti ad una porta verde vomito, tira fuori delle chiavi dalla tasca della giacca e la apre.
Entriamo.
Cavolo, questo è uno di quei monolocali in cui ti sembra che non potesse entrarci neanche una piuma.
Sento la porta chiudersi alle mie spalle.
-Dobbiamo parlare.- dice, non propriamente tranquilla.
Sento le mani che iniziano a tremare.
-Sì.- dico, semplicemente. Voglio che sia lei a parlare, io non so cosa dire.
-Ok.- prende un gran respiro. -Tu devi tornare a casa dai tuoi.-
-Cosa?!- esclamo, senza pensare. -Courtney, io non tornerò a casa dei miei genitori.- cerco di non urlare. Però, cazzo! I miei mi detestano. Che senso avrebbe andare da loro?
-Ma Duncan! È l'unico modo! Tu non puoi vivere qui con me! Non c'è abbastanza spazio. E poi nessuno dei due ha abbastanza soldi per affittare un appartamento più grande.- il suo discorso regge. Però... io non voglio tornare dai miei.
-No Courtney, no! Io non lo farò!-
-Perché?- sto per rispondere, ma lei mi precede. -E non mi venire a dire che i tuoi ti odiano perché ho telefonato a tua madre stamattina e mi ha detto che sarebbe sinceramente felice di aiutarti.- mia madre? Be', alla fine è una cosa piuttosto plausibile. Mia madre era l'unica che mi voleva veramente bene.
-Però no!- sembro un bambino, non penso a quello che dico. Sto dando solamente risposte di pancia.
-Oh, cazzo, Duncan! Dimmi almeno perché!- già. Perché? Perché non me ne voglio andare? Io detesto questa città. Però, un motivo per restare ce l'avrei.
Mi avvicino a lei. Lei è il motivo per cui non mi è mai passato neanche per la testa di andarmene.
Lei non si allontana. Siamo praticamente attaccati. Le accarezzo una guancia. Da quanto tempo aspetto questo tanto agognato contatto...
Vedo delle lacrime che vanno formarsi agli angoli di suoi occhi.
-Perché piangi?- le sussurro.
Lei scuote la testa.
-Perché tutto questo non è giusto.-
-Perché? Niente è giusto a questo mondo. Noi facciamo quello che vogliamo fare. Senza catene.-
Lei mi sorride.
Io avvicino lentamente il mio viso al suo. Mi sembra di essere in trans. Niente c'è intorno a noi. Però allo stesso tempo c'è tutto.
Poi faccio incontrare le nostre labbra. Ora sono in Paradiso, ne sono sicuro.
Approfondisco il bacio. Sono avido, avido di lei come un povero è avido di cibo.
Io ho bisogno di lei. Non me ne frega un cazzo di cosa penserà la gente, non me ne frega niente se vivremo senza un soldo.
Io ho tutto quello di cui ho bisogno...
tutto ciò che voglio.
Io ho lei.
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Ciao, ciao, ciao, ciao, ciao a tutti!
Eh, già, la mia indole di fan della Duncney ha preso totalmente il controllo di me in questo capitolo.
Forse Duncan può risultare un po' OOC, però la mia intenzione era di dare giusto una briciola di felicità alla sua vita. Insomma, povero Duncan! E un momento di non-depressione lasciateglielo!
Be', comunque, io voglio sapere la vostra opinione in merito! Scrivetemi una recensione!
Io credo di aver detto tutto.
Vi saluto!
 
 
 
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Capitolo 15
*** Nascita ***


La Legge del gioco
Capitolo 15: Nascita
Sento che lentamente il corpo rinsavire. Sbatto due volte gli occhi.
Vedo il soffitto del mio appartamento.
Sento un respiro pesante alla mia destra, giro la testa. È Duncan, ovvio.
Siamo stesi sul pavimento, la leggera morbidezza della moquette, per quanto lurida, riesce a farmi sentire un leggero torpore.
Sposto i capelli che mi coprono gli occhi dietro le orecchie. Alzo la schiena, stando seduta sul pavimento. Individuo i miei vestiti vicino alla poltrona verde oliva, così mi alzo e vado a recuperarli.
Mi inizio a vestire. Sì, sono felice di quello che è successo ieri, ma non riesco a capire come andremo avanti. Siamo adulti, non possiamo vivere nel dubbio.
Mentre mi infilo la mia camicia bianca stropicciata, sento delle braccia avvolgermi la vita.
Appoggia la sua testa nell'incavo tra il mio collo e la mia spalla destra.
Gli lascio una leggera carezza sul viso e mi allontano, così lui si può vestire.
Ah, quindi è così? No, non mi può lasciare un momento di felicità, questa dannata voce! Tu hai fatto la scelta sbagliata, Courtney. E lo sai. Potevi benissimo salvare Scott, che ti amava, non ti avrebbe mai tradito e non ti avrebbe mai ferito. Lasciami in pace! No che non lo faccio. Tu hai sbagliato, e io voglio fartelo capire. Smettila! Ok, io me ne vado. Ma ricordati che gli errori si pagano, in un modo o nell'altro.
Se ne va. Rilasso il mio viso e sospiro.
-Va tutto bene?- mi chiede.
-Certo.- rispondo freddamente.
Mi fissa, scettico.
-Andiamo, che c'è?- nella sua voce avverto una leggera preoccupazione.
Mi avvicino a lui.
-Non c'è niente.- gli sussurro. Lui mi prende il viso tra le mani e mi dà un bacio.
-Che ore sono?- chiedo, appena ci stacchiamo.
-Sarà circa mezzogiorno.- cosa? È così tardi? Appena cerco di parlare, il mio stomaco mi precede, facendo un rumore di gorgoglii.
Lui mi sorride.
-Esco a prendere qualcosa da mangiare.- lo guardo.
-Ma... Duncan... non abbiamo soldi.-
-Andiamo, sono stato rilasciato ieri. Ti prometto che cercherò di spendere il meno possibile.- mi dà una carezza, cercando di convincermi. Sospiro, guardandolo severa.
-E va bene...- acconsento.
Mi dà un altro bacio, si allontana da me, si dirige verso la porta. Prima di uscire mi guarda, alzando le sopracciglia, guardando le mie gambe nude con un sorrisetto malizioso.
-Oh, vattene!- gli dico, arrossendo.
Fa un risolino divertito e chiude la porta.
Il mio sorriso si spegne appena la porta si chiude. Forse Duncan non capisce, ma noi non abbiamo un soldo bucato. Lui dovrà trovare un lavoro e io ne cercherò un secondo. Mi abbraccio. Come andremo avanti? Come sarà possibile vivere serenamente? Io fin'ora ho avuto giusto i soldi per pagare l'affitto e comprarmi il minimo indispensabile per bere e mangiare.
Ora siamo in due a vivere in un monolocale in cui già io stavo stretta. Mi viene da piangere. Perché? Perché il destino è così crudele? Ci sono persone orribili che vivono nuotando nell'oro, come i miei genitori, invece io e Duncan, che, anche se non siamo dei santi, non abbiamo mai fatto niente di così gravemente punibile.
Mi siedo sulla poltrona, la quale appena mi appoggio lascia uscire una nuvola di polvere.
Mi asciugo con l'indice le piccole goccioline che sono andate formandosi agli angoli dei miei occhi.
Io mi ricordo che da ragazzina davo per scontato che sarei diventata un avvocato di successo, che me ne sarei andata da casa mia perché ero troppo ricca.
Invece, guardami adesso, a piangere su una squallida poltrona in uno squallido monolocale, non ho un soldo. Be', almeno, a differenza di mia madre e mio padre, ho trovato una persona che mi ama e che amo. E questa, devo dire, è una cosa di cui, da ragazza, non mi era mai importata, la consideravo una cosa di secondo piano: più inutile che necessaria.
Sussulto. Il campanello ha suonato.
Non è possibile che sia Duncan, è appena uscito.
Chiunque sia, questo non è il momento giusto.
Comunque vado al citofono.
-Chi è?- chiedo stancamente
-Courtney? Sono Gwen.- oh, be', forse mi farà bene vedere una persona amica.
-Oh, Gwen. Sali, dai.- le dico, leggermente più felice di prima.
Rimetto la cornetta al suo posto. Chissà come mai Gwen è venuta oggi. Ora che ci penso, la sua voce era piuttosto... triste. Be', in fondo, l'ultima volta che ci siamo viste mi ha detto che non voleva più sposare Trent, e questo credo che sia un problema bello grosso per lei.
In effetti, ora lei dovrebbe essere a Toronto, invece è qui, e io non so il perché.
Sento i suoi passi che si avvicinano alla porta, così la apro.
Gwen ha la testa rivolta verso il pavimento. Appena mi vede la alza per guardarmi, e io mi rendo conto che ha due righe nere sulle guance e gli occhi rossi. Io sono spaesata; che diamine è successo?! Mi guarda per alcuni secondi, poi scoppia a piangere.
-Oh, Courtney!- mi abbraccia. Velocemente. Io, sorpresa, ci metto alcuni secondi per ricambiare l'abbraccio.
-Gwen, che diamine è successo?!- non mi piace vederla così disperata; in fondo, è una mia amica.
-I... io... so... sono...- mi parla ad intermittenza, la voce spezzata dai singhiozzi. Non riesce a terminare la frase e scoppia di nuovo a piangere. Ora lo noto: ha indosso un abito bianco lungo e pieno di pizzo, piuttosto rovinato.
Mi rendo conto che siamo ancora sulla soglia della porta.
-Dai, Gwen, entra, così cerchi di calmarti.- le dico, cercando di usare più tatto possibile.
Lei annuisce e entra. Io chiudo la porta.
Lei si siede su una sedia. Si copre il viso tra le mani, continuando a piangere disperata. Io non faccio niente: adesso ha solo bisogno di sfogarsi.
Dopo alcuni secondi smette di piangere, pur continuando a singhiozzare. Vado nel mio minuscolo bagno e prendo alcuni pezzi di carta igienica. Non ho fazzoletti.
Ritorno da lei.
-Gwen, vuoi soffiarti il naso?- lei annuisce, pulendosi gli occhi con le mani. Le porgo la carta igienica. Le si soffia il naso, facendo un rumore simile ad una trombetta.
Aspetto che finisca.
-Gwen, te la senti di dirmi cosa è successo?- le chiedo, comprensiva.
-È che... sono scappata...- sussurra. Io non dico niente, ma la invito con gli occhi a continuare. -dal... dal mio matrimonio...- cosa? È scappata? Cerco di non farle capire la mia perplessità. E mi trattengo da chiederle il perché. Deve continuare da sola, io cerco di confortarla, seppur senza dire niente. -Io non me la sentivo. Mi ero immaginata la mia vita con... lui...- capisco, non riesce a dire il suo nome. -...e... il mio corpo ha manifestato così tanta riluttanza che... che ho vomitato.- fa una pausa. -Così ho iniziato a piangere disperata. E, presa da veramente non so che coraggio,- fa un sorriso divertito ma triste. -sono scappata della finestra. Ho preso il primo treno che... che andava a New York. E...- prende un respiro. -... sono venuta qui.- per tutto il racconto, lei si è impegnata a non guardarmi mai negli occhi, tenendo lo sguardo puntato sul tavolo.
Tira su con il naso. Ogni tanto ha dei sussulti causati dai singhiozzi.
Ora non so che fare.
-Senti... Duncan è andato a comprare qualcosa da mangiare. Se vuoi puoi rimanere qui oggi. Però, non saprei dove farti dormire...- azzardo. Io vorrei veramente farla dormire qui. Ma fisicamente non c'è abbastanza spazio per te persone.
Lei annuisce.
-Sì... c'è... c'è una amica di mia zia che vive qui a New York. Posso chiederle di ospitarmi per una notte.- dice, sempre senza guardarmi.
Lei incrocia le braccia sopra il tavolo e ci appoggia sopra la testa.
Io, esitante, le inizio ad accarezzare lievemente la schiena. Stiamo un paio di minuti in silenzio.
-Allora... come va con Duncan?- mi chiede, con una voce graffiata dal pianto.
-Be'... direi bene...- arrossisco.
Lei sorride, anche se non mi guarda.
-Vi siete messi insieme?- mi chiede, come se sapesse già tutto.
-Sì... direi di sì.- il rossore sulle mie guance non se ne va.
Gwen alza la testa e finalmente mi guarda. Sono sinceramente colpita dai suoi occhi. Mi guarda come se fosse felice per me, e io non capisco. Io, se fossi stata in lei, mi sarei sentita ancora più triste nel sapere che io avevo appena perso l'amore, però che ne era appena nato un altro.
Forse è questa la differenza sostanziale tra me e Gwen. Lei non è e non è mai stata egoista. Io invece lo sono stata e lo sono tutt'ora. Lei è probabilmente una persona migliore di me, allora perché a lei è successo questo e a me no? Perché lei ha dovuto perdere l'amore? Ma soprattutto, cosa ho fatto io per meritarmelo?
Tutti i miei pensieri... così dannatamente egoisti. Io ho molto più di quello che mi merito. E Gwen ha molto meno di ciò che si meriterebbe.
Ora mi è venuta ancora più voglia di aiutarla. Lei merita tanto, ma la vita gli dà così poco; e questa cosa è incredibilmente ingiusta.
Il campanello suona.
-Sarà Duncan.- dico.
Vado al citofono, non alzo neanche la cornetta, apro subito.
Aspetto vicino alla porta di sentire i suoi passi. I pensieri di prima mi assaliscono. Io ho Duncan, mentre Gwen non ha nulla. E io non ho idea di come aiutarla: io non posso donarle l'amore di cui ha bisogno.
Sento i passi, apro la porta.
C'è Duncan con in mano un sacchetto di carta.
-Ho preso un paio di panini.- dice solamente.
Io mi sposto per farlo entrare, senza dirgli che c'è Gwen.
Appena la vede ha un sussulto, molto probabilmente a causa della sorpresa.
Mi guarda, chiedendomi implicitamente spiegazioni.
Mi avvicino al suo orecchio.
-È appena scappata dal suo matrimonio, perciò sii delicato.- gli sussurro.
Entra completamente dell'appartamento. Ora lo spazio del monolocale si sta esaurendo.
Gwen alza un po' la testa ma non lo guarda. Duncan appoggia il sacchetto sul tavolo. L'atmosfera si sta facendo troppo tesa, perciò intervengo.
-Ehm... Gwen vuoi mangiare qualcosa?- lei annuisce quasi impercettibilmente, come se si vergognasse.
-Però...- dice lei. -se io mangio non ci sarà abbastanza cibo per tutti..- le sorrido, anche se lei non mi guarda.
-Oh, Gwen non ti preoccupare.- andiamo, cosa dovrei fare? Lei è appena scappata dalla sua festa di matrimonio, ora ha bisogno di tutto il supporto possibile.
Lei timidamente prende il sacchetto e estrae uno dei due panini, lo scarta e inizia a mangiare lentamente.
Io alzo la testa, e guardo Duncan.
Lui mi guarda duramente, come se fosse arrabbiato.
-Eh... Gwen, io e Duncan usciamo un attimo a parlare.- dico, continuando a guardarlo.
Lei mi guarda come se fosse spaventata, ma in fondo ha solo paura di averci disturbato. Duncan incrocia le braccia al petto, precedendomi e uscendo prima di me. Io lo seguo, chiudendomi la porta alle spalle.
Lui mi dà le spalle.
-Allora... che c'è?- gli chiedo, cercando di fargli capire che non è questo il momento di fare l'offeso.
-Se ne deve andare.- dice, spaventosamente convinto.
-Ma... Duncan... lei non sta passando un brutto momento: sta passando un momento terribile. Insomma, mettiti nei suoi panni.- gli dico.
Adesso si è girato.
-Oggi dovevamo essere solo noi due.- sembra quasi ferito. Adesso ho capito.
Mi avvicino a lui e gli lascio una lieve carezza sulla guancia. Lui rimane imperturbabile.
-Andiamo, lei non ha un posto dove andare.- lo guardo. -E poi, noi abbiamo tutto il tempo per stare da soli.- gli sorrido. Lui sembra sciogliersi un po'.
-E va bene...- dice, andando verso la porta.
Non cambierà mai, ma in fondo non voglio che cambi. E poi, credo che io avrei reagito allo stesso modo.
Sorrido, divertita.
Lui è fermo sulla soglia della porta.
Perché non si muove? Lo faccio spostare a forza.
Gwen è seduta in un angolo, trema e piange. Ha la testa immersa nelle sue ginocchia. Mi avvicino velocemente a lei.
-Gwen! Che cos'è successo?- chiedo, preoccupata. Alza la testa, però lei scoppia a piangere prima di riuscire a guardarmi negli occhi.
La guardo, non ho idea di cosa fare. La lascio sfogare. Piano piano smette di piangere.
-Mi... mi ha chiamato...- dice, con voce quasi traumatizzata.
-Chi?- chiedo, forse con troppo poco tatto.
Fa un sorriso amaro.
-Trent...- deglutisco. Ora capisco. Ma non poteva aspettare un po', quel decerebrato!? Che idiota. Ora Gwen sta dieci volte peggio rispetto a prima.
-Mi...- tira su con il naso. -... mi ha detto che... che mi ama... e che farà di tutto per rendermi felice...- inizia a sospirare, cercando di prendere coraggio. -E mi ha chiesto perché sono scappata...- quanto ho sperato che non gliel'avesse chiesto? -... e io non ho saputo rispondere...- scoppia in lacrime.
Non mi piace vederla piangere.
-No... Gwen... non...- cerco disperatamente di calmarla in qualche modo, ma fallisco miseramente. Lei inizia a piangere ancora più forte, sembra quasi che voglia far crollare il palazzo con la sola forza della sua voce.
Le accarezzo la schiena, stavolta senza dire niente.
Dopo alcuni minuti di pianto isterico di calma. Le passo un pezzo di carta igienica, lei si soffia il naso e si asciuga le lacrime.
-Sai... sai perché sono scappata?- mi chiede, guardando in terra.
Io socchiudo la bocca, presa alla sprovvista da questa domanda. Inizio a produrre strani versi dato che non riesco a trovare le parole per formulare una frase che neanche conosco.
-Perché mi sono resa conto che lui era un sostituto della sicurezza che da tempo mi manca.- acquista con questa frase una sicurezza che ora come ora mi disarma letteralmente.
-E poi...- sta in silenzio per alcuni secondi. -... mi sono resa conto che voglio più bene a te che a lui.- stavolta mi guarda negli occhi. Mi sento trapassata. Vuole... vuole più bene a me? Ma come è possibile? Ieri ci siamo riviste per la prima volta dopo quasi dieci anni.
-Be'..- dice, alzandosi, come se nulla fosse successo. -Credo che ora io debba andare.- si incammina verso la porta con il vestito bianco che le intralcia i piedi.
-Ma...! Gwen!- la chiamo, quando finalmente riprendo il controllo di me.
Mi alzo, ero seduta per terra; me ne rendo conto solo adesso.
Lei si gira, e mi sorride. Sinceramente, senza maschere, senza nessun vetro che possa offuscarla. Mi rivolge un sorriso che mi fa quasi dimenticare che le sue guance sono rigate di nero, e che i suoi occhi sono ancora rossi.
-Va tutto bene, se ho qualche problema ti chiamo.- e, lasciandomi a dir poco pietrificata, se ne va, chiudendo la porta.
Duncan è rimasto per tutto il tempo appoggiato al muro con le braccia incrociate.
Lo guardo, come a chiedere spiegazioni... certo, come se lui ne potesse avere. Mi rivolge un sorriso che è a metà tra il divertito e l'amaramente ironico.
-Tu non l'hai capito, vero?- cosa? Lo guardo, più sconcertata di prima. -Piccola stupida...- gira la testa verso la finestra, guardando il vuoto, mantenendo sul viso un'espressione dura e apparentemente impassibile. Non continua la fase, e ora sono troppo curiosa di conoscere ciò che non ho capito che non bado a quello che mi ha detto. Ora non sono nella fase emotiva migliore per arrabbiarmi.
Riporta lentamente gli occhi su di me.
Prende un respiro.
-Gwen è innamorata di te.-
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti!
Ben bene bene... la nostra cara Gwen ha una cotta, vero?
Lo so che la mia è una scelta un po' azzardata, ma questa era la mia idea sin da quando Scott e Courtney si erano messi insieme.
Vorrei sapere la vostra opinione!
Certo che, però, io un po' cattiva sono: e non li lascio mai in pace i poveri Courtney e Duncan!
Mi raccomando, scrivetemi una recensione!
A presto!


 

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Capitolo 16
*** Sventuratamente ***


La Legge del gioco
Capitolo 16: Sventuratamente
E ho sganciato la bomba.
Che piccola idiota, da quanto tempo io lo avevo capito? Da troppo. L'ho vista, ed ho capito tutto.
A volte, detesto la mia intelligenza.
Perché diamine non si può stare un attimo tranquilli in questa schifo di vita?! È sempre stato così, e credo fermamente che sempre lo sarà.
Perché, Gwen? Perché mi... ci hai fatto questo? Non potevi sposarti, vivere una vita felice, con un uomo che letteralmente impazzisce per te? No, non potevi, effettivamente.
Io non ci sarei riuscito, figurati una persona così insicura come Gwen.
È da un bel paio di minuti che mi fissa, incredula, pietrificata.
Io la guardo, è una stupida. Adesso cosa farà? Io sono sicuro che mi ama, però lei avrebbe voluto avere Gwen come un'amica, e, invece, si sta rendendo conto che quest'ultima cosa non sarà mai possibile.
-No... non è possibile...- mi dice, con il tono di chi è consapevole che si sta agganciando a speranze ridotte in briciole, però che cerca di autoconvincersi che niente è successo.
-No... tu non puoi sapere niente...- guarda in terra, come a dire a sé stessa che quello che ho detto è vero.
Io non dico niente, adesso lei sta lottando con sé stessa, perciò io non devo intervenire.
Deve solo stare tranquilla per un po'.
Si appoggia a muro, abbracciandosi, e, lentamente, si lascia scivolare, fino a sedersi in terra.
-Io... io ora che devo fare...?- inizia lentamente a piangere, prima in silenzio, ora urla. Letteralmente urla. Sembra che urli di dolore, e la cosa mi fa stare incredibilmente male.
-Courtney, andiamo, calmati...- cerco di consolarla, ma lei non mi ascolta. Continua a lanciare urli, interrotti solo da altrettanti singhiozzi.
Mi abbasso al suo livello, piegandomi sulle ginocchia. Lei nasconde il viso tra le gambe.
-Hei, hei, hei, hei....- le prendo il mento tra le dita e le faccio alzare il viso. Ora mi guarda. Sembra quasi scettica, come se fosse profondamente convinta che niente si risolverà. -... risolveremo tutto.- dico semplicemente.
Lei però non sembra affatto confortata dalle mie parole.
Non ricomincia a piangere, ma è così affranta che è vuota dentro. Non riesco più a percepire niente dai suoi occhi. Più nulla. E la cosa mi spaventa terribilmente.
-No Duncan, no!- mi grida contro, incazzata nera. -Niente si risolverà! Finalmente avevo trovato una vera amica, una persona che mi capiva! E che cosa succede? Si innamora di me! Andiamo, quante possibilità c'erano?- parla con arrabbiata ironia. È incazzata, ma non con me, né con sé stessa, si sente semplicemente ingannata dalla vita. In fondo, Courtney era appena riuscita a ottenere un minimo di felicità, e la vita che fa? Gliela toglie violentemente in un secondo. Ma è così che funziona.
È ora che anche lei lo capisca.
-Fanculo!- impreca, tirando un calcio alla sedia, senza un apparente motivo.
Si passa stancamente una mano sulla faccia, sospirando.
-Courtney adesso non serve a niente arrabbiarsi così. Questa non è una cosa da risolvere, è una cosa da affrontare.- le dico, completamente senza tatto, voglio essere il più schietto possibile. -E poi, comunque, Gwen ha già capito che tu non ricambi. È già un passo avanti che tu non debba dirglielo.- incrocio le braccia. Non capisco questa sua così grande preoccupazione, sinceramente.
Lei mi fissa incredula, come se avessi detto qualcosa di incredibilmente stupido.
-Bah... io non ti capisco.- affermo.
La guardo, mi viene quasi da ridere.
Mi sembra di essere in un cartone animato. La sua faccia letteralmente diventa rossa come un pomodoro. Mi punta l'indice contro.
-Tu? Tu non mi capisci?- mi chiede, retoricamente. -E sai a me che cazzo me ne fotte?- dice irritata.
Ha gli occhi spalancati e gesticola freneticamente con le mani.
-Sai, adesso il problema adesso non è quello che tu capisci o no, razza di deficiente!- mi spara insulti, ma io ovviamente non mi offendo; non mi offenderei neanche se parlasse seriamente, e adesso è la rabbia e la preoccupazione che la fanno parlare.
Sospira, chiude gli occhi e si porta una mano sulla fronte.
-Allora, Duncan, io adesso che diavolo dovrei fare quindi secondo te?- mi chiede, con un minimo di sincerità.
-Tu non devi fare niente.- le dico.
-Cosa? Io non dovrei fare niente? Ti ricordo, caro, che la mia migliore amica è innamorata di me! Io non posso fare finta di niente!- dice istericamente.
Sospira e si gira.
Io veramente non la capisco. Perché sta facendo così? Non avrebbe avuto questa crisi isterica se Gwen fosse stata un uomo.
-È perché è una donna, vero?- le chiedo. Si gira e mi guarda. Apre la bocca convinta di parlare, ma poi le parole le muoiono sulla bocca.
L'ho messa in difficoltà. Neanche lei se n'è resa conto.
-Non... non lo so...- abbassa lo sguardo, sconfitta. Vedo che sta per iniziare a piangere, e ora mi sento in colpa. Non mi piace vederla piangere.
Mi avvicino, e le accarezzo le braccia.
-Andiamo, non c'è bisogno di piangere.- le dico, apparentemente scocciato. -Ti ho già detto che Gwen ha già capito, tu non le devi dire niente.- cerco si rassicurarla.
In un secondo mi ritrovo con la sua testa sul mio petto; sento le sue lacrime che mi bagnano la maglietta.
Esitante, inizio ad accarezzarle la schiena, e subito sento che si stringe più a me. Ricambio il suo abbraccio.
Non sono mai stato un tipo troppo romantico, ma ora lei è tutto ciò che ho, letteralmente: non ho una casa, non ho più una famiglia, non ho amici e non ho soldi.
Lei è come una piccola briciola in una buia stanza grigia. Anche se piccola, quasi invisibile, si può vedere benissimo in quanto intorno a lei non c'è nulla.
 
 
 
 
Ma quale diavolo amica di mia zia?! Io non ricordo il nome di una sola delle mie zie.
Ora devo trovare un motel. Però, prima, devo trovare i soldi per pagarlo il suddetto motel. Mi guardo la mano sinistra. Il mio anello di fidanzamento. Non è così prezioso, però se lo impegno posso ricavare i soldi per prendere una stanza.
Mi incammino per le strade dell'affollata New York, cercando un negozio di pegni. Mi rendo conto che la gente appena mi vede si gira a guardarmi... beh, è abbastanza ovvio, ho indosso una abito da sposa e ho il trucco totalmente colato sulle guance. Mi fermo un attimo. Mi spavento di me stessa. Solo ora me ne rendo conto. La freddezza con cui ho pensato al mo anello, non ho provato niente, nessun senso di tristezza nel sapere che di lì a poco me ne sarei dovuta separare.
Un po' ci avevo sperato, lo ammetto. Avevo sperato che la mia fosse solo una paranoia passeggera, invece mi rendo conto che non è così. Io sono totalmente asettica nei confronti di Trent. Chissà come sono finita ad accettare a sua proposta di matrimonio.
Ricomincio a camminare.
Mi ricordo, me la ricordo la sua proposta. È stato uno di quei momenti che tutte le donne sognano.
Mi ha portato a fare un giro con la barca di suo padre al lago Ontario. Un posto freddo, ma a dir poco meraviglioso. Lì la natura è in pace con sé stessa. Tutti gli animali sono lì con un obiettivo, e lo seguono, senza esitazioni, perché è su questo che si basa la loro esistenza.
E, in mezzo a quel paesaggio quasi fantastico, si inginocchiò, come da prassi, e mi chiese di sposarlo, uscendosene fuori con uno di quei discorsi tipici di Trent, tu sei tutta la mia vita, la mia felicità è la tua, eccetera eccetera...
Lì lì la prima cosa che il mio stomaco mi impose di dire fu uno schietto e semplice No!, ma poi ragionai con il cervello, e da lì cominciarono i guai.
Gli dissi di sì. Che cosa potevo volere di più. Un uomo mi chiedeva di sposarlo, un uomo che andava fuori di testa per me, un uomo che, sono sicura, metterebbe la mia vita prima della sua... con questi pensieri in testa, riuscii a farmi entrare un po' di felicità nel cuore.
Però, mente organizzavo i vari preparativi per il matrimonio, cominciai a soffrire di insonnia, di attacchi di panico e crisi nervose. Io non gli diedi molta importanza, in fondo, credevo fosse normale per una donna che di lì a poco avrebbe rivoluzionato la propria vita.
Faccio vagare da una parte all'altra della strada il mio sguardo, continuando a cercare.
Però, oggi non ce l'ho fatta a sopportare. Così sono scappata, che vigliaccata che ho fatto...
Però, la cosa più deprimente è che, ripensando a tutti questi avvenimenti, non provo nessuna emozione. Solo un vivido ricordo di tristezza, e basta, nulla di più, nulla di meno.
Finalmente intercetto un insegna luminosa che recita “PAWN SHOP – OPEN 24h”.
attraverso la strada, immergendomi nel gruppo di persone che mi circonda e, appena arrivata davanti all'entrata del negozio, prendo un gran sospiro ed entro.
Non ci sono molte persone, però ce ne sono abbastanza per farmi aspettare un paio di minuti in coda.
Arriva il mio turno. Mi faccio avanti, consapevole che questo vecchietto dall'aria severa riserverà per me lo stesso sguardo delle persone in strada.
Invece, non lo fa. Quindi, quasi involontariamente, mi si forma un'espressione sorpresa sul volto. Ma lui non fa una piega.
-Mi faccia indovinare, deve impegnare un anello?- mi dice, ironicamente. Come fa ad aver già capito tutto?
-Sa quante ne vedo di donne come lei ogni giorno.- sembra quasi poter capire i miei pensieri solamente guardandomi in faccia. La cosa mi inquieta abbastanza.
-Ehm... sì, vorrei impegnare questo anello.- dico, esitante.
Me lo tolgo dal dito. E non provo nulla.
Glielo porgo. Con occhio critico lo osserva, da sopra, da sotto, in diagonale, da destra, da sinistra, lo tocca, lo accarezza...
-Beh, il suo presunto marito ci avrà speso un sacco di soldi in questo anello.- afferma. Davvero? Non pensavo che Trent avesse potuto spendere tanti soldi per un anello. Sì, ok, mi ama, ma non era messo molto bene per quanto riguarda la situazione economica.
Ora che ci penso, non mi sono mai soffermata a riflettere su che materiale era fatto quell'anello. Non mi è mai veramente importato, a quanto pare.
-Quanto mi può dare?- chiedo, speranzosa, anche se so che non dovrei.
Mi guarda per alcuni secondi, valutando la risposta.
-Allora, sarò chiaro con lei. Io voglio comprarlo.- cosa? Io non ho mai detto di volerlo vendere. Apro la bocca per parlare. -La prego non mi interrompa.- mi precede. -Questo anello è forgiato in vero oro, con una piccola decorazione incastonata in mezzo formata da un diamante circondato da fili di vero platino.- io non ci credo, mi sta prendendo in giro. Non è possibile, non è affatto possibile. -Se me lo vende, le do 5.500 dollari.- conclude, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma no, cazzo, non lo è!
-E... e se lo volessi impegnare?- chiedo, anche se l'idea dei 5.500 dollari nelle mie tasche sta già prendendo forma.
-In quel caso non le darò più di 200 dollari.- no, non posso accettare così poco. Basta ho deciso. Io non ho intenzione di rivedere Trent, benché meno ho intenzione di sposarmelo, perciò...
-E va bene, lo vendo.- affermo, convinta.
Il vecchietto mi sorride, quasi malignamente.
-Bene, allora questo lo prendo io. Ben!- chiama. Dalla porta posteriore al banco spunta un ragazzo giovane, avrà massimo ventisei anni, se non di meno. -Accompagna la... signorina a firmare i documenti.- marca in modo inquietante la parola “signorina”. Voglio andarmene al più presto da qui.
Velocemente mi dirigo verso il bancone opposto, firmo i documenti che neanche leggo e, dopo aver riscosso i miei 5.500 dollari in contanti, esco dal negozio attraverso la porta girevole.
Mi ritrovo fuori, vengo investita dal rumore assordante che la gigantesca folla di persone provoca. Chiudo gli occhi e prendo un profondo respiro; tutto lo smog che circonda New York mi dà una fastidiosissima sensazione all'interno delle narici.
Adesso dove li metto tutti questi soldi? Non posso andare in giro per la Grande Mela con tutti questi soldi in bella vista. Guardo al lato della strada e vedo un sacchetto di plastica bianca abbandonato. Mi avvicino, lo prendo e velocemente vi infilo i soldi dentro.
Ricomincio a camminare, cercando un posto deve poter dormire.
Ora molto probabilmente non la rivedrò più.
No, avrò tempo di farmi tutte le paranoie che voglio dentro una squallida stanza di un motel da quattro soldi.
Continuo a camminare lungo la strada affollata, intorno a me vedo solo edifici fatti cemento grigio o di vetro, decorati con luminose insegne pubblicitarie.
Continuo a guardarmi in giro, concentrata sul mio obiettivo.
Giro lo sguardo verso destra: c'è una strada più piccola rispetto a questa, anche se non è un vicolo.
C'è un insegna. “MOT L BEN Y S”. Che squallore, metà delle lettere mancano. Ma questa non può essere che una buona notizia per me: più è squallido e meno consterà.
Imbocco l'entrata della strada. Non è molto illuminata, così capisco che deve essere quasi sera ormai. Chissà da quanto tempo sono in giro.
Ah, la porta sembra quasi di classe: è ricoperta da una strana pellicola rosso cremisi. Entro.
C'è una puzza insopportabile qui. Il bancone della reception è a circa dieci metri da me. Mi guardo intorno, e vedo solamente qualche pianta morta e un paio di divanetti marroni da ogni lato.
Ma io non sono un interior designer, perciò mi dirigo verso il ragazzino che sta dietro al bancone. Sta giocherellando con un mazzo di chiavi. Io tossisco, così lui alza stancamente lo sguardo su di me.
-Che cosa vuole, signorina?- chiede, riportando la sua attenzione al mazzo di chiavi e biascicando.
Sospiro.
-C'è una stanza libera?- alza lo sguardo su di me, guardandomi come se fossi una cretina.
-Certo che ce n'è. Per quante notti?- eh, già. Per quante notti?
-Facciamo... quattro.- dico.
Lui, senza rispondere, si alza e, dandomi le spalle, guarda il pannello adibito a racchiudere tutte le chiavi. Ne mancano due, da quanto vedo.
Ne prende una a caso e viene verso di me passando per un buco malfatto a lato del banco.
-Mi segua.- dice senza fermarsi.
Lo seguo per gli stretti corridoi circondati da muri crepati. Intanto lascio le briglie della mia mente.
Non la rivedrò. Non la rivedrò più. Sorrido amaramente. Quanto tempo ci avevo messo ad accettare quello che provo? Troppo.
Troppo tempo speso a cercare di convincermi che non era possibile, che lei è una mia amica... e sì, che lei è una donna.
Però, quando accettai i miei sentimenti, mi resi conto che non era così impossibile che io fossi lesbica. In fondo, i ragazzi sì, mi interessavano, però mi affascinavano molto di più le ragazze.
I ragazzi erano sempre dannatamente imperfetti. Chi aveva una voce troppo profonda, chi aveva troppo brufoli, chi era un gigantesco stronzo... invece, le ragazze no.
Sì, anche loro avevano dei difetti, però venivano inspiegabilmente oscurati dai loro numerosi pregi. Loro erano belle, dolci, sincere, sensibili e soprattutto mature.
Il ragazzino si ferma. Mi indica con il braccio una porta.
Senza parlare prendo le chiavi che mi ha dato. Neanche il tempo che giro la chiave nella serratura che lui se ne è già andato.
Entro.
Cazzo.... Mai visto una stanza così squallida e lurida come questa.
C'è un minuscolo letto nell'angolo vicino a quello che suppongo sia il bagno. C'è un'unica poltrona marrone con centinaia di molle che vi fuoriescono, esattamente come quei divanetti all'ingresso.
Chiudo la porta alle mie spalle.
Mi rendo conto adesso che sto svenendo dal sonno. In questo momento quel piccolissimo letto mi sembra la dimora degli angeli.
Mi avvicino come uno zombie al letto e mi ci butto letteralmente sopra. Chiudo gli occhi. Li riapro di scatto. Non è possibile, sta diventando una cazzo di ossessione!
Ho chiuso gli occhi e l'ho vista. Mi sento lo stomaco stranamente vuoto, ed un brivido mi attraversa la schiena. Merda, sono veramente innamorata.
Sospiro.
È un problema. Perché lei non mi ama. E non potrò mai sperare che lei si innamori di me. Lei ha già trovato l'amore, ed io non ho nessun diritto di portarglielo via. Ora lei ha una vita più felice, e io non voglio renderla triste.
Forse non l'ha capito, anzi, sicuramente non lo ha capito, ma Duncan sì: l'ho letto nei suoi occhi. Spero solo che non glielo abbia detto.
Ma comunque, è inutile stare qui a pensarci. Io non ho intenzione di rivoltarle di nuovo l'esistenza. Presto si dimenticherà di me e, per lei, la vita passerà senza pensare a me.
Però la cosa non mi rende triste. Io la amo veramente, e voglio la sua felicità.
Sospiro.
Forse anch'io riuscirò a farmi una nuova vita, spero, anche se non credo.
Ora dormo. Ho incredibilmente sonno.
Mi addormento, sentendo il velluto del mio abito che mi pizzica fastidiosamente la pelle.
 
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Ciao a tutti!
Sì, sono leggerissimamente in ritardo, no... perché sapete... le verifiche... e... e poi dovevo studiare.... no, non è vero, non avevo l'ispirazione.
Ma dai, non pensiamoci...
Allora... passiamo al capitolo.
Che ne pensate? In questo capitolo mi sono finalmente potuta occupare dell'introspezione di Gwen: non vedevo l'ora! Gwen è un personaggio che sinceramente adoro, è profonda e intelligente.
Ora anche lei è a New York. Che ne pensate? Voglio sapere la vostra opinione!
Ora io vado.
Ciao!
 

 

 

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Capitolo 17
*** Nero Onice ***


La Legge del gioco
Capitolo 17: Nero Onice
Sono passati due giorni. Due giorni in cui non sono andata nel mio ufficio neanche una volta. Domani molto probabilmente consegnerò le dimissioni. Non si accorgeranno che io me ne sono andata; ma ora come ora non me ne importa un cazzo.
Io sto sempre in casa, vivo come uno zombie, cammino come uno zombie, parlo come uno zombie... sono uno zombie.
Sì, la presenza di Duncan mi ha aiutato e mi aiuta, ma, mi dispiace dirlo, non è abbastanza. Oh, ma oggi non è un giorno qualsiasi, no... da oggi probabilmente tutto cambierà.
Mi sento quasi sporca ad essermi scordata di lui così facilmente. E da oggi non ci sarà più. Aveva tutta la vita davanti, ma la sua malata mente lo ha tradito. Ed oggi lui ne pagherà le conseguenze.
Oggi, Scott morirà. E la cosa più straziante è conoscere in anticipo l'ora, il minuto, il secondo, in cui morirà. In cui non respirerà più, in cui la sua anima andrà in Paradiso, in cui il suo cuore smetterà di battere... in qualsiasi modo in cui lo voglio chiamare, il destino non cambierà.
Io so che per la mia già instabile sanità mentale non dovrei andare alla sua esecuzione. Non mi farebbe bene vedere quella siringa infilarsi nella sua pelle, una siringa piccola, ma che gli porterà via la cosa più importante.
No, non mi fa bene nemmeno pensarci, figuriamoci vederlo. Però... l'idea di andarci mi è passata per la mente, e con le ore ha preso una sua forma quasi ben definita.
So dove si svolgerà e a che ora sarà. Mi basterebbe prendere un taxi e andarci, e basta.
Ovviamente non ne ho parlato con Duncan, lui mi proibirebbe categoricamente di andarci. In questo periodo si sta preoccupando molto per me.
Per me si è impegnato per trovare un lavoro, e ce l'ha fatta. In meno di due giorni. Lavora come tuttofare in una birreria poco fuori dal pieno centro: da quanto mi ha raccontato, lui lava i pavimenti, le finestre, le cucine, i piatti, e ogni tanto dà anche una mano in sala.
Lavora da mezzogiorno a mezzanotte e mezza, da martedì a domenica escluso il giovedì: lunedì è il giorno id chiusura, e giovedì è il suo giorno libero. Lavora ben dodici ore. Per venti dollari all'ora.
Si preoccupa, è da quando ho scoperto di Gwen che non esco da casa. Gwen... chissà dov'è. Ho provato a chiamarla, per sapere dov'era, ma ha il telefono sempre spento.
Ah... una fitta mi attraversa la tempia. Troppi pensieri in una volta.
A cosa devo dare la priorità? Trovare Gwen, l'esecuzione di Scott o la mia vita con Duncan?
Probabilmente l'esecuzione di Scott, dato che avverrà oggi. Cazzo, oggi!
Domani lui non vivrà più! Domani lui non ci sarà più!
Oggi lui morirà alle quattordici e quindici minuti, secondo più secondo meno.
Chissà come sta. Oh Dio, Courtney! Come diavolo vuoi che stia?! No, non ora ti prego... le lacrime si formano agli angoli dei miei occhi.
Eh, come vuoi che stia? Tu l'hai lasciato morire! L'hai condannato a morte, preferendo a lui un uomo dalle mani rosse! No, no, no, no... Scott... Scott ha confessato di essere stato lui... cerco in qualsiasi modo di convincerla.
Sempre, sempre cerchi di difenderlo... io non capisco. Anche se non avesse veramente ammazzato qualcuno, lui non può donare niente di buono né alla società né alla tua vita, Courtney. Tu sei una stupida. Una stupida perché hai rinunciato alla felicità eterna per uno stupido sentimento come l'amore! Non... non è stupido... Ah, no? Andiamo, dimmi, illuminami, che bei momenti ti ha donato il cosiddetto amore durante la vita? Mi passano per la mente i momenti felici con Duncan, quelli del reality e quelle che sono così fortunata da vivere ora. Ok, ok, i momenti felici ci sono, ma quelli brutti, quelli orribili, quelli strazianti, eh? Pensaci, Courtney.
La mia mente è affollata di ricordi che, sentendosi chiamare, scalpitano per uscire, per mostrarsi in tutta la loro magnifica e tremenda coerenza.
Non riesco a focalizzarli tutti insieme, perciò tutto quello che il mio corpo sfuggito al mio controllo fa è mettersi a piangere in silenzio.
Sempre, sempre questa diavolo di morte... sempre a circondarci, per sempre.
Perché io lo so, io mai mi dimenticherò di Scott, e per questo non potrò mai vivere una vita totalmente felice. Ma questo, devo dire, non lo ho mai neanche sperato.
Quindi ci andrai o no? Ti devi decidere. Arriva aspra la sua voce dal mio cervello. No, non ho deciso. Courtney cara, sai che è mezzogiorno e mezza? Non hai molto tempo. Sì, non molto ma abbastanza per decidere. Ah, beh... se lo dici tu. Che simpatica la sua ironia. E ne va, finalmente.
Però, in fondo, ha anche un minimo di ragione. Io non lo so, non lo so cazzo! Ora penso a Duncan, che è appena andato al lavoro, che lavora in un posto che odia per me, solo e solamente per me. E io come lo ringrazio? Primo nascondendogli il fatto dell'esecuzione, e secondo non chiedendogli il minimo parere.
Però... io so già cosa mi direbbe. Lui mi proibirebbe di andare, mi costringerebbe a non andare.
Ma lo farebbe per me, solo e solamente per me. E io non merito di essere così importante. Io sono egoista. Sono meschina.
Io ci andrò. Ho deciso. Io sono un'adulta, io ho il dovere di assumermi le mie responsabilità.
Io sapevo, forse anche inconsciamente, era letteralmente una questione di vita o di morte. Chi non avessi scelto sarebbe morto. E io ho scelto Duncan, e così come ho il piacere di vivere con lui, amare ed essere amata da lui, devo pagare il prezzo della mia scelta.
È una questione di orgoglio. Sempre e solo orgoglio.
Mi alzo, vado verso la mia giacca, buttata malamente sulla poltrona. Infilo le mani nelle tasche, cercando la lettera del distretto di polizia.
Non la trovo, cazzo, dove diavolo l'ho messa?! Forse...
Cerco nella tasca interna e la trovo. Già, l'avevo messa lì per fare in modo che Duncan non se ne accorgesse.
La apro.
“Egregia Sign.na Barlow,
il distretto di polizia ha ritenuto doveroso informarla del luogo e dell'ora in cui si applicherà la pena decisa dal Tribunale di New York per quanto riguarda il Sign. Scott Parsons.
La pena verrà eseguita come regolarmente stabilito dalla legge dello Stato di New York, sotto forma di iniezione.
Essa verrà eseguita al carcere Sing Sing, alle ore quattordici del 20 novembre 2015.
I miei più distinti saluti,
 
Il Capitano Oliver Jackson Luckly.”
Poi segue una firma quasi illeggibile.
A Sing Sing... ci vorrà un po' per arrivarci. Devo partire con largo anticipo.
Prendo il mio telefono, e guardo l'ora. È l'una. Ora parto. Non so precisamente quanto tempo impiegherò ad arrivarci, perciò meglio partire il prima possibile.
Prendo la giacca, il portafoglio che infilo nella tasca, e il mio telefono.
Sono sicura di tornare a casa prima del rientro di Duncan, perciò non mi pare una cosa intelligente lasciare un qualsivoglia biglietto.
Sono pronta per uscire di casa. Chiudi la cerniera della giacca.
Esco, e chiudo la porta alle mie spalle.
Sto andando all'esecuzione di Scott. Tra poco meno di un'ora io lo vedrò morire davanti ai miei occhi.
Il mio corpo vuole tornare dentro, al sicuro. Ma no. Io devo essere responsabile.
Ricordati, Courtney, assumiti le tue responsabilità, mi dico, per farmi coraggio. Allontano la mia mano dalla maniglia e mi incammino lungo il corridoio.
Consapevole che quando tornerò niente potrà essere esattamente come prima.
 
 
 
 
 
Mi hanno portato qui stamattina.
È da quando mi hanno rinchiuso che non dormo. Mi sembra una cosa abbastanza comprensibile, considerando il fatto che ero consapevole del fatto che sarei morto di lì a poco.
Non verrà nessuno, ed è meglio così. Io non voglio che nessuno mi veda morire, non voglio qualcuno che possa testimoniare la mia incompetenza e sconfitta.
La vita ha vinto su di me, è solamente questo che è successo. Io sono stato schiacciato, e la vita mi ricompensa con la morte.
Io voglio che il mio nome venga spazzato via dal vento della vita. Comunque, sono sicuro che gli agenti che sono qui oggi, domani già la loro mente mi avrà cancellato.
Ho programmato tutto. Tutti i pensieri che si dovranno susseguire nella mia mente mentre sarò seduto su quella sedia, mentre la siringa verrà inserita nella mia pelle e quando il liquido mortale verrà inserito nel mio organismo.
Tre pensieri saranno i fili conduttori.
Zoey, il motivo per cui sono qui oggi, mi sorella, colei senza la quale sarei già morto da molto tempo e che mi ha sempre capito ed aiutato ad esistere in tutta la mia completezza e complessità, e Courtney, infine. Colei di cui mi sono davvero innamorato, l'unica e l'ultima. Colei che ha scelto un altro, consapevole che sarei morto. Colei che ha vinto contro di me, contro la parte considerata dal più della gente troppo... estrema.
Be', forse non dovei sperare che Dio esista in questo momento, dato il fatto che, se lui esistesse, io sicuramente andrei all'inferno. Però, se andassi all'inferno almeno sicuramente rincontrerei mia sorella.
Saprò cosa c'è dopo la morte. L'aldilà, cosa che è talmente oscura e misteriosa da non essere neanche studiata, perché impossibile. Più impossibile dell'oscuro Universo, a quanto pare.
Potrò vederlo con i miei occhi. E quando sarò lì avrò due possibilità: o gioire o disperarmi. Chissà cosa ci sarà... magari non esiste ciò che è giusto e cosa è sbagliato, magari c'è un Paradiso personale per ogni persona. Be', è un'ipotesi assurda, ma questa è l'ultima ora in cui posso usufruire di uno dei più belli e perfettamente imperfetti che l'essere umano ha: l'immaginazione.
Io non potrò più immaginare, e per me questo significa morire.
Ora che ci penso, io non mi guardo allo specchio d chissà quanti anni. Se avessi un mio clone davanti ora, non mi riconoscerei, credo.
Ora però sono un po' spaventato da me stesso: io ora non ho paura di morire, non sto impazzendo, non ho cercato di cercare di salvaguardare la mia vita. Questo vuol dire che non me ne è mai importato niente? La mia vita consisteva nel togliere la vita ad alte persone, io vivevo a spese degli altri.
Come se mi ricaricassi, ogni volta, come se resuscitassi da un'esistenza vuota; per poi, però, annegare di nuovo nella mia debolezza ed incapacità di vivere.
Sospiro.
Ripenso alla mia vita, a tutto quello che ho passato, cosa normale cedo per una persona consapevole del fatto che morirà tra un'ora scarsa.
Mi ricordo della fattoria, dei maiali, delle vacche, delle capre... e delle botte di mio padre. Mio padre, il classico vecchio contadino che, dato che ormai troppo vecchio per lavorare, se ne stava seduto su una vecchia sedia di legno che lo reggeva a stento a lucidare il fucile che teneva appoggiato sulle sue ginocchia.
L'unica esperienza padre-figlio che ho avuto il piacere di vivere con lui è stato quando mi ha insegnato a sparare. Mi ricordo, avevo quasi undici anni, mi portò in un posto isolato, lontano dalla città a valle e dalla fattoria. Aveva portato i cadaveri di alcune galline che la notte precedente una faina aveva ucciso.
Per prima cosa, per farmi vedere come si faceva, mi ordinò di lanciare in aria uno di quei corpi senza vita. Io lo feci, e lui lo prese esattamente dove sarebbe stato il cuore.
Io rimasi affascinato, quella fu l'unica volta in cui sperai di diventare come lui. Per fortuna superata l'infanzia aprii gli occhi e capii che uomo meschino era.
Comunque, quando mi disse di imitarlo, lanciò un altro cadavere e io mirai, quando fu nel punto più alto sparai. Colpii la sua ala, per puro caso.
Mi girai verso mio padre, che guardava stupito il punto in cui avevo sparato.
L'ala sarebbe il punto migliore dove puntare un uccello in fuga, perché lo si ferisce in un punto con poca carne, e che quindi se viene contaminato dalla polvere da sparo non è un grande problema. Però, è il punto più difficile da colpire; ma io ce la feci, anche se per puro caso.
“Ottimo lavoro, figliolo.” mi disse. Quella fu la prima ed ultima volta in cui lo sentii pronunciare quella frase.
Quel giorno fu felice.
Poi il buio.
Da quel giorno ricordo solo un odore insopportabile di alcool, soprattutto birra, e botte, tante tante tante botte.
Ogni tanto, quando non sveniva, mia sorella cercava di difendermi, mettendosi tra me e il bastone, o cintura, o bottiglia di vetro, o pungo...
La mamma, poi... non faceva nulla. Stava lì, a farsi picchiare e violentare da mio padre, al volte non urlava neanche. Be', in fondo, a cosa sarebbe servito? Quell'uomo non si fermava davanti a niente.
Poi ci fu la loro morte.
Me la ricordo bene, quello fu un altro giorno felice. Mi ricordo che sentii lei alzarsi nel cuore della notte, quel giorno, stranamente, non c'erano state botte, e andare in cucina.
Quando fu abbastanza lontana, io mi alzai e andai anch'io in cucina. La vidi aprire uno dei cassetti e tirare fuori un coltello che assomigliava ad una mannaia. Lo fissò serissima. Poi si girò verso il corridoio, e mi vide. Ebbe un sussulto, ma si ricompose subito.
“Ti va di fare un gioco, Scotty?” mi chiese. A quel tempo io avevo quindici anni, lei ne aveva diciassette, e io non ero più un bambino, ma lei mi trattava sempre così, come se non capissi nulla.
Annuii, lentamente, capendo perfettamente in cosa consisteva il “gioco”.
Mi invitò con la testa a venire verso di lei, e mi indicò il cassetto. Io aprii e, con cura, presi un coltello più piccolo del suo però con la punta più seghettata e più tagliente.
Lei mi guardò, indicandomi con la testa il corridoio.
Lei si incamminò verso la stanza dei nostri genitori, con me al seguito. Entrammo, sperando che la porta cigolante non li svegliasse.
Mio padre russava come un maiale, e, ogni tanto, si girava, con la delicatezza di un elefante.
Mia sorella prese un grande sospiro e si avvicinò a lui.
“Hei, papà...” lo chiamò. Lui si svegliò. Si stava per mettere ad urlare, ma lei lo precedette accoltellandolo al petto. Mio pare spalancò gli occhi, pietrificato.
Lei estrasse il coltello dal suo torace, continuando a guardarlo negli occhi. Pochi secondi dopo mio padre di accasciò sul letto, con gli occhi spalancati ma morti. Le lenzuola continuavano a macchiarsi di rosso.
La mamma continuava ad urlare come se fosse indemoniata, e in quel momenti non capii... lui la picchiava in continuazione, una volta era quasi arrivato ad ammazzarla, e lei ora si disperava così tanto per lui? Io pensavo di fare un piacere anche alla mamma. E, evidentemente, anche mia sorella la pensava come me.
“Perché urli, mamma?” le chiese, con un tono che non dimenticherò mai.
La mamma non parlò, semplicemente continuava a piangere e strillare.
“Basta, mamma, ora è tutto finito.” le disse mia sorella, avvicinandosi a lei, con il coltello in mano. “Non ci farà più del male.” sentivo dalla sua voce che la sua mente stava degenerando sempre di più, ma la cosa non mi spaventava, perché lei non mi aveva mai fatto del male, lei mi voleva bene.
La mamma non la finiva di piangere, e lei perse la pazienza.
“Oh, mamma, ora piangi, eh? E tutte quelle volte che lui ci picchiava fino a farci svenire e tu non facevi niente? Eh, mamma?” disse lei, con rabbia, ma senza urlare.
La mamma piangeva e piangeva, e urlava. “Ora basta, mamma, sei troppo debole per vivere in questo mondo.” nella sua voce, avvertii chiaramente che aveva già preso una decisione ben precisa già da svariato tempo. Quella era tutta una commedia, lei sapeva già che avrebbe ucciso tutti e due.
Lei si avvicinava alla mamma, però ad un certo punto si fermò e mi disse di andare vicino a lei. Io obbedii.
“Scotty, fallo tu.” mi disse, indicando il coltello che tenevo ben stretto nella mia mano destra e la mamma.
Io la fissai, spaventato.
“Non ti preoccupare, pensa che ci stiamo vendicando, stiamo iniziando una nuova vita insieme.” e con quello mi convinse.
Mi avvicinai a mia madre, guardandola freddamente.
“No... Scotty... no... ti prego...” e lì mi fece imbestialire. Solo lei poteva chiamarmi Scotty, solo lei aveva il diritto di farlo, solo la mia sorellona.
E così la accoltellai al petto, come lei aveva fatto prima. Mia madre spalancò gli occhi, rossi e colmi di lacrime.
Vidi i suoi occhi spegnersi, lentamente, ed estrassi il coltello e il suo corpo cadde sul letto, vicino a quello di mio padre. Tutti e due avevano gli occhi spalancati, e i loro corpi si toccavano.
Spostai lo sguardo dai loro corpi morti a lei. Anche lei li fissava, ma pochi secondi dopo spostò la testa, e mi guardò negli occhi, e mi sorrise.
“Ora saremo felici, Scotty...” mi disse.
Pochi anni dopo morì in un incidente stradale. Venne investita da una coppia di anziani che vivevano in campagna, in una fattoria...
La guardia entra nella mia cella.
Mi guarda, senza dirmi niente, facendomi capire che è arrivata l'ora.
Chiudo gli occhi per due secondi e mi alzo, andando verso di lui, gli porgo i polsi e, quando viene aperta la porta della cella, lo seguo.
È arrivata l'ora, non mi è mai sembrata così vicina.
Camminiamo, io ho totalmente svuotato la mia mente, non penso più a nulla. Com'era, quella lista di cose a cui pensare prima delle fine? Non me la ricordo.
Arriviamo in una stanza buia, in cui l'unica cosa che si può distinguere chiaramente è una sedia di metallo nero.
Mi ci fanno sedere.
C'è una grande finestra che dà sul corridoio in cui siamo passati prima. E la vedo.
Il mio cuore inizia a battere ad una velocità incredibile. Perdo sensibilità alle gambe, il respiro si affanna e mi sento lo stomaco stranamente vuoto.
Mi guarda, come se volesse chiedermi scusa. Le sorrido. Lei non ha colpe. Io l'ho amata veramente, solo che il mio modo di amare non era abbastanza per lei, a quanto pare.
Lei mi fissa, non pensavo che fosse così forte da poter reggere il mio sguardo. Allora mi ero sbagliato, lei non è come la mamma, lei è forte, ma non così tanto da riuscire a darlo a vedere.
Il mio sguardo si oscura, mi hanno bendato. Loro sì che sono dei deboli, non si assumono le loro responsabilità. Loro hanno deciso che io devo morire, allora perché non mi guardano negli occhi?
Sento l'ago che mi attraversa l'interno del gomito. Ora rivedrò lei. E ne sono felice. Forse rivedrò anche i miei genitori, chissà se avranno imparato la lezione...
Sento il liquido entrare nel mio organismo.
Sento la vita che se ne va.
Tutto si oscura.
Il nulla.
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Eh, già... vi prego non mi ammazzate!
Sì, Scott è morto. Che ne pensate...?
Be', guardate il lato positivo: almeno adesso Courtney ha un pensiero in meno! Ehehe...
Ehm... sì. Però, almeno sappiamo che Duncan si è sciolto un po'.
Mandatemi una recensione!
Io vi saluto!
 
 
 
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Capitolo 18
*** Fragile ***


La Legge del gioco
Capitolo 18: Fragile
Ormai siamo praticamente arrivati all'inverno.
Respiro con la bocca, e il risultato è una nuvoletta bianca che esce dalla mia bocca.
Sono nel vicolo accanto al bar dove lavoro. Il tutto è illuminato solamente dalla flebile luce che arriva dalla superstrada su cui il vicolo sbocca.
Cazzo se fa freddo. Ha piovuto, oggi, quindi l'asfalto è ricoperto di quella che sembra un sottile strato trasparente che riflette la luce, e da ogni sporgenza di tetti o balconi c'è dell'acqua che gocciola andandosi a schiantare contro l'asfalto nero, producendo un rumore fastidiosissimo.
Continuo a camminare lungo il vicolo, tenendo le mani nelle tasche della giacca. Non vedo l'ora di tornare a casa, da Courtney, e buttarmi sul letto. Io lavoro, lavoro e lavoro ma riusciamo a campare sempre per il rotto della cuffia. Perché, mi chiedo io. Perché? Lei dovrà trovarsi un altro lavoro, io non ho intenzione di pretendere nulla da lei, perciò non gliene ho parlato, ma so che lei ha capito. Adoro quando rende le cose così facili, si nota subito che non è più una ragazzina. Lei è un'adulta e sa assumersi e proprie responsabilità, sia per il suo bene personale che per il bene di entrambi.
Ho conosciuto tante di quelle stupide oche durante la mia vita. Ogni tanto, ai tempi della strada, quando ero abbastanza fortunato da guadagnare abbastanza soldi per comprarmi una vera birra, andavo ad un bar vicino al vicolo nel quale vivevo. Quello era un bar da quattro soldi, in cui ci andava solo gente povera, però, a volte, qualche borghese andava lì, solo per riempire il suo ego, con qualche donna al suo fianco. La maggior parte non parlavano, ma semplicemente sorridevano ammiccanti a destra e a manca.
Un giorno, mentre ero lì a scolarmi una birra, una si appoggiò al bancone, vicino a me, e iniziò a fissarmi. Io avevo percepito la sua presenza, ma avevo spudoratamente fatto finta di non essermene accorto. Lei iniziò ad attaccare bottone, così io non ci trovai niente di male a portarmela in bagno.
Era proprio una puttana, come tutte le altre, così fastidiosamente stupida. Be', alcune di loro sotto sotto erano anche intelligenti, ma in strada la gente ritorna all'era mentale del Medioevo, in cui le donne sono nettamente inferiori agli uomini, e così, le donne intelligenti vengono ignorate o eliminate, perché tanto loro sono meno di un ciocco di legno. Inutili ma fastidiose.
Invece, cazzo, è una cosa che non mi piace pensare, ma è solo la verità, Courtney è infinitamente al di sopra di loro. Lei è... tutto. Mi sto facendo salire il diabete da solo. Velocizzo il mio passo.
sono quasi all'uscita del vicolo.
-Hei!- mi sento chiamare, da una voce sussurrata ma chiaramente udibile. Mi giro verso l'origine del suono e mi ritrovo davanti una specie di barbone, è sudicio ed emana una puzza insopportabile. Si guarda con circospezione a destra e a sinistra. -Vuoi un po' di roba?- mi chiede, tirando fuori da una delle tasche del suo logoro cappotto un sacchettino di plastica con dentro... merda... dell'erba. Io mi inumidisco le labbra. È da quando mi hanno rinchiuso che non fumo. Finora ho avuto abbastanza pensieri che hanno offuscato la mia dipendenza. Ma ora, me la ritrovo davanti, certo, non sarà la migliore, ma sono abituato a fumare erba scadente. La fisso. La voglio. Ogni singola fibra, ogni singola cellula del mio corpo la reclama. Ed è dannatamente più forte di me. Ora non combatto più.
-Quant'è?- chiedo, sconfitto. Lui sorride, mostrandomi lo splendido spettacolo che sono i suoi gialli e marci denti.
-10 dollari a grammo.- solo? Be', meglio per me. Tiro fuori dalla tasca le mance di oggi. Circa venti dollari. Me lo farò bastare.
Gli passo i soldi e lui mi passa l'erba. Tutto questo usando come copertura il mio corpo e la sua giacca.
-Grazie, amico.- dice, e se ne va svelto. Chiudo gli occhi e sospiro. È meglio che mi metto a fumare adesso, prima che i sensi di colpa mi assaliscano così tanto da impedirmi di drogarmi. Apro l'involucro di plastica e noto che c'è dentro anche una cartina. Non ho idea del perché, be', però in effetti quello sembrava proprio un pivello, quello è veramente un prezzo più che irrisorio per un po' d'erba di seconda mano.
Inizio a farmi la sigaretta, o canna. Però, sigaretta mi fa sentire meno in colpa.
Però non ho niente con cui accendere. Faccio vagare il mio sguardo intorno a me, cercando un fumatore. Vedo che, sul limite tra il vicolo e la strada affollata c'è una coppia che sta fumando e ridendo. Lo chiederò a loro. Speriamo che non si accorgano che è droga, o che almeno non siano dei moralisti.
Sono vicino a loro.
-Scusa, amico.- chiamo l'uomo, mi sento troppo sporco per parlare con una donna ora. -Hai da accendere?- gli chiedo, forse in modo un po' troppo sospetto, però è la voglia di fumo che mi fa parlare.
Lui si gira verso di me, guardandomi per circa due secondi elaborando quello che ho detto.
-Oh, certo.- mette la mano nella tasca dei pantaloni, cercando l'accendino, però evidentemente non lo trova perché inizia a guardare in tutte le tasche tra giacca e pantaloni. Ad un certo punto guarda la donna, chiedendole con gli occhi se ce l'ha lei questo dannato accendino. Lei fa la classica faccia da “Cosa? Io non so niente!”. Però comunque inizia a cercare nelle tasche e nella sua borsa. Finalmente sembra trovarlo in quella diavolo di borsa infernale alla Mary Poppins. Lo tira fuori e lo porge al tizio. Certo, perché io sono un estraneo. Lui me lo porge, io mi giro, cercando di non fare vedere cosa sto accendendo né il suo odore.
Appena accesa inspiro ed espiro, senza girarmi. Poi lo faccio.
-Grazie.- dico, porgendogli l'accendino ed andandomene velocemente, ritornando nel vicolo.
Mi appoggio ad un muro a metà strada tra l'uscita del bar dove lavoro e la strada.
Inspiro. Questa magnifica sensazione di appagamento, mi rendo conto solo adesso che era questo che aspettavo da così tanto tempo. Butto fuori il fumo, facendo in modo che anche l'odore del fumo si immetta nel mio organismo. Continuo a fumare, sentendomi sempre meglio. Sento lo stress abbandonarmi e la pace dei sensi mi avvolge. Mi sento benissimo, tutte le preoccupazioni mi abbandonano. La mia mente si apre, mentre continuo a fumare.
Mi ricordo i tempi del liceo, i tempi della prima sigaretta. Mi ricordo benissimo, me la passò uno dell'ultimo anno, mentre io ero al primo. Quanto vorrei non averla mai accettata.
Solo ora mi rendo conto che una sola ed unica misera sigaretta mi abbia rovinato la vita. Se non avessi mai fumato, non mi sarei mai drogato, non sarei mai finito a vivere in strada e non avrei mai rischiato di finire nel braccio della morte. Be', però non avrei mai rincontrato Courtney. E questo non mi avrebbe certo fatto stare meglio. La mia vita sarebbe stata comunque un inferno.
Sono questi i pensieri che mi portano a credere nel destino, l'unica cosa in cui ho fede. Be', semplicemente per il fatto che per odiare qualcosa devi crederci. È logica. Però il destino è una cosa illogica; perciò la mia mente ora come ora si è ridotta ad un paradosso.
Non che la mia mente sia stata sempre totalmente a posto.
A volte, mi metto a pensare a che cosa il destino riserva per me. Sarò nella lista dei buoni o dei cattivi? Non lo so, e la cosa mi fa rabbia, molta rabbia.
La mia misera erba finisce, e mi ritrovo a fumare solo la cartina. Quando finisco butto quel che resta della sigaretta in terra.
Chiudo gli occhi e cerco di prepararmi psicologicamente a quello che accadrà tra poco. Ed arrivano.
Perché cazzo l'ho fatto?! Perché? Io adesso ho una vita felice. Ho un lavoro, magari non il migliore, ma almeno qualcosa guadagno, e ho Courtney. Cosa potevo anche solo sperare di più? E ho rovinato tutto. Questi venti dollari potevano essere investiti nella mia vita con lei, ma io li ho spesi per della schifosa erba di seconda mano.
Sono un idiota, solo una lurida e infame persona. Courtney è a casa, che mi aspetta, ed è dannatamente depressa, e io che faccio? Corro a casa? No, sto qui a drogarmi in un bagnato e sporco vicolo; come l'ultimo dei falliti.
Ok, speriamo solo che Courtney non se ne accorga.
Ritorno verso la strada, senza neanche guardarmi in giro. Il mio tempo ora è speso in azioni macchinose a cui neanche penso.
Ora sono sul taxi e sto tornando. Io non permetterò a una dannata canna di rovinare la mia vita.
 
 
 
Sono arrivato a casa.
Sono davanti al palazzo grigio. Lo fisso, sospiro, preoccupato. Ok, Courtney non se ne accorgerà. Sta tranquillo.
Entro, come al solito attraverso la hall e i corridoi crepati, sudici e logori. Camminando mantenendo lo sguardo fisso davanti a me.
Arrivo davanti alla porta del nostro appartamento. Sospiro. Ora posso solo sperare e pregare.
Entro.
Lei è seduta su di una sedia, con un bicchiere d'acqua di fronte a sé. Ha una coperta avvolta sulle spalle, e ha lo sguardo fisso su di me.
-Finalmente sei tornato...- mi dice, e il senso di colpa non fa che iniziare a divorarmi sempre più velocemente da dentro. -... ti devo dire una cosa...- mi dice, colpevolmente, abbassando lo sguardo. Niente può essere più grave rispetto a quello che ho fatto io.
-Dimmi.- le dico, forse con troppa freddezza.
Prende un respiro, deglutisce, nervosa.
-Oggi... c'è stata l'... l'esecuzione di Scott...- oh... il respiro mi si blocca. Ma, che c'entra adesso? -E io ci sono andata...- che?
-Che cosa?!- le ruggisco contro. Lei chiude gli occhi e ritrae a testa, sentendosi colpevole.
-Tu non ci dovevi andare?! Ma capisci che ti stai facendo solo del male?!- non è possibile. Lei sicuramente si era resa conto in che situazione era, eppure non ha fatto niente per far sì di stare meglio. Perché? Perché si ostina a farsi del male? Io non capisco... non riesco a capire!
-Perché Courtney?- mi avvicino a lei. Non voglio che pensi che la voglio abbandonare. -Ti prego, dimmelo...- mi piego sulle ginocchia, così ora la guardo dal basso.
Lei ancora non mi guarda, tiene la testa bassa, come a chiedermi scusa.
Inizia a piangere. No, cazzo, no! Non piangere!
-Dai, non piangere.- le dico. Detesto vederla piangere.
-Mi... mi dispiace...- mi dice, tra i singhiozzi. -Lo so... non... non dovevo farlo... Ma... ma dopo tutto quello che è successo... non po... potevo lasciarlo da solo...- lei continua a piangere.
-No, dai, fa niente, non sono arrabbiato con te. Sono solo preoccupato per te, tutto qui.- lei alza lo sguardo, guardandomi sollevata e felice, anche se i suoi occhi rossi la tradiscono, in un certo senso.
Mi abbraccia, tendendomi talmente stretto da mozzarmi il respiro.
-Oh, Duncan...- io ricambio il suo abbraccio. Spero che questo abbraccio finisca il prima possibile, lei potrebbe sentire quell'odore. Ma ormai il pericolo sembra scampato.
Sento che il suo abbraccio si allenta, e i suoi muscoli si contraggono, e allontana lentamente la sua testa dalla mia spalla... fino a portarla davanti alla mia, a pochi centimetri di distanza. Mi guarda, con un'unione di rabbia, frustrazione e tristezza negli occhi. Mai le ho visto tanto dolore in quei due buchi neri.
-Duncan...- sussurra, addolorata. -Tu... tu odori di... di...- non finisce la frase, ma continua a fissarmi e silenziosamente delle lacrime vanno a formarsi negli angoli dei suoi occhi, ora scendono lungo le sue guance. No, non può averlo capito!
-Tu...- ora mi ringhia contro, alzandosi dalla sedia ed allontanandosi da me. -Tu hai fumato! Non ci posso credere!- inizia ad urlare, arrabbiatissima. Io la guardo.
-Io...- -Non provare a dire una parola!- mi zittisce. Deglutisco, non posso ribattere, non posso dire niente, ho sbagliato, ed ora il minimo che posso fare è stare in silenzio e subire.
-Questo dimostra che non te ne importa niente di me! Non te ne è mai fregato niente! Mai!- mi urla contro. Schifata da me. Sto male. -Immagino che tu per comprarti quella dannata, schifosa erba tu abbia speso i nostri soldi! I nostri, Duncan! Soldi che potevano essere spesi per costruire la nostra vita! Lo capisci questo?- mi chiede, sinceramente. Con gli occhi che ancora sgorgano lacrime. -Perché Duncan? Mi dici perché? Tu... tu...- si morde il labbro, come a voler trovare il coraggio per dire qualcosa di terribile. -...tu non... non mi ami?- -Ma certo che ti amo!- rispondo istintivamente. -Non puoi neanche pensare una cosa del genere!- le dico, convinto.
-Allora perché?- chiede, flebilmente, quasi non la sento. -Perché sei così egoista?- una coltellata. Al petto, mi ha trapassato. Devo convincerla. Ora devo giocare la mia ultima carta. È successo così velocemente; ma io lo voglio. Devo solo sperare.
Sospiro.
-Ok, Courtney, ora devo dirti una cosa, e tu non mi devi interrompere.- faccio una pausa, come a chiederle anche velatamente se a lei va bene. -Allora, partendo dalla premessa che io sono un idiota... e che mi dispiace terribilmente, io... ti amo. E tengo a te più di quanto io tenga a me stesso. E lo sai.- si morde il labbro, per fermare le lacrime. -Io ho pensato molto a noi negli ultimi giorni. E ho preso una decisione.- la guardo. La mia decisione è presa, o la va o la spacca. -So che la nostra situazione non è delle migliori, ma io voglio stare con te.- faccio un triste ed amaro sorriso. -E so che queste parole, dopo la stronzata che ho fatto oggi ti sembreranno come il vento, senza valore. Ma io sto parlando seriamente. Non sono mai stato così serio e deciso in vita mia, credimi.- mi avvicino a lei. Il mio cuore inizia a battere più che velocemente, le gambe sembrano non avere intenzione di sorreggermi, mi tremano incredibilmente le mani, e mi sudano. Ma ho preso una decisione, e non ho alcuna intenzione di rimangiarmi nessuna promessa fatta a me stesso.
Lei non sembra più tanto arrabbiata. Meglio per me.
-Courtney, vuoi sposarmi?-
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti!
Sì, è un capitolo un po' più corto del normale, ma almeno è abbastanza intenso!
Eh, già, da un litigio alla fatidica proposta. Che ne pensate?
Voglio una recensione, ve lo dico subito.
Ah, prima di salutarvi vi devo avvertire di una cosa: molto probabilmente tra un paio di capitoli la ff finirà. Sì, la cosa rende triste anche me, ma piangeremo a tempo debito, non è questo il momento.
Io vi dico buona sera e me ne vado.
Alla prossima!
 
 
 
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Capitolo 19
*** Passato ***


La Legge del gioco
Capitolo 19: Passato
-Courtney, vuoi sposarmi?- che cosa?!
-Tu sei completamente pazzo!- gli dico, istintivamente. Come gli è venuto in mente di chiedermelo, adesso, dopo quello che ha fatto!
Non ci posso credere!
-No, Courtney, io dico davvero!- mi dice, con trasporto. Ma io sono irremovibile. Non ho intenzione di rispondergli. Perché di certo non posso accettare, ma non posso neanche rifiutare, altrimenti la nostra storia andrebbe a quel paese.
-Perché non ci sposiamo? Domani, anzi... andiamoci adesso! Andiamo al municipio e ci sposiamo!- urla quasi, dall'emozione. Ma no, lui sta impazzendo.
-Duncan! Non è che quella canna ti ha fottuto il cervello?- gli chiedo, arrabbiata. Ora il suo cervello non è lucido. La mia mascella si è irrigidita quasi da sola.
Il suo sorriso si spegne. Lo guardo, adesso non sorridi più, eh?
-Courtney, te l'ho già detto, mi dispiace, sono il più grande coglione che sia mai esistito su questa Terra.- mi guarda, e mi sento un po' più appagata nel sentire queste parole. Almeno lo sa. -Però se non mi hai ancora cacciato via da questa casa un motivo ci sarà.- che cosa diamine ha detto!? È la cosa più rischiosa che potesse dire, eppure l'ha detta, come a fare appello alla parte di me che è innamorata di lui. Sa come convincermi, ma questa volta non ce la farà.
-Infatti, io non voglio che ci lasciamo. Per non ti sembra un po' presto per parlare di matrimonio?- gli chiedo, cercando di rimanere il più calma possibile.
Lui mi guarda, come se non capissi. E la cosa mi fa innervosire parecchio, ma chiudo gli occhi e sospiro per cercare di calmarmi.
-Ma noi ci amiamo, Courtney. E comunque, se ci sposassimo, concretamente non cambierebbe niente. Però, almeno saremmo legati anche su carta.- non sorride più, e guarda per terra, cercando delle parole a me ancora sconosciute. Il discorso di Duncan regge, ma io sono ancora arrabbiata con lui. E il matrimonio non è una cosa da prendere alla leggera. -Senti, Courtney, io non ce la faccio più.- cosa? Il mio battito si blocca per un secondo, e le gambe mi cedono per un secondo, ma comunque non cado. -Io sono sempre stato un bastardo, una persona che non sa dove andare né dove andrà, e io voglio cambiare. Però, per fare questo devo essere legato a qualcosa. Voglio sapere che mentre io lavoro, per noi, voglio... voglio essere sicuro che da qualche altra parte anche mia moglie sta facendo lo stesso.- mi guarda, con occhi da cane bastonato. Ma non è eccessivamente finta, perciò inizio ad ascoltarlo con meno rabbia in corpo. -Sai, i miei non mi hanno mai dato troppo amore. E...- lo vedo in difficoltà. Ma non voglio che continui.
-Non c'è bisogno che tu continui.- gli dico. -Ho capito.- lo guardo, lui è spaventato da ciò che gli potrei dire. Mi avvicino a lui, fino a quando i nostri visi sono distanti una decine di centimetri l'una dall'altra. -Anch'io ti amo, Duncan.- vedo una luce nei suoi occhi, anche se il suo viso non cambia. -Ma noi dobbiamo aspettare. Ora non abbiamo soldi, dobbiamo aspettare...- gli ripeto. -Però...- inizio, severa. -... non ti permettere di farti passare per la testa che io non ti ami.- gli sorrido e lui mi bacia, frenetico. Non dice niente. Ma è meglio così. Questa sera facciamo l'amore. Io lo amo tanto, forse troppo.
 
 
 
 
 
Mi risveglio.
Ho solo un vago ricordo del dormiveglia: un lieve bacio sulla mia fronte, poi di nuovo il buio.
Mi sveglio, velocemente.
Cosa ti avevo detto io, Courtney?
Mi sono appena svegliata, ti prego!
Andiamo, cara, non ti lamentare, non ho voluto rovinarti il tuo bel momento di pace a amore ieri. E poi io ti devo parlare.
Ma io non voglio parlare con te, le rispondo.
Ma non hai scelta, mi dispiace, tesoro.
Mi dice, ironicamente compassionevole.
Cosa ti avevo detto io? Lui non ti ama.
O, ma smettila, lui mi ama, cerco di controbattere, anche se so che è inutile.
Infatti, è inutile, perciò non interrompermi. Io e te dobbiamo fare una lunga chiacchierata. E va bene, prima si inizia, prima si finisce, tanto è inutile discutere con lei; mi arrendo.
E fai bene, cara. Allora, hai visto ieri, eh? Lui ha speso i vostri soldi per fumarsi una canna, da vero egoista quale io ti ho sempre detto che è. Avevo ragione, hai visto? Però, almeno, non è stupido il ragazzo. Si fuma una canna e per farsi perdonare ti chiede di sposarlo, poi, quando vede che non ti ha convinto, ti fa il solito discorso da pulcino bagnato, da povero ragazzo che non ha mai avuto amore nella vita, e ora che lo ha trovato non vuole più perderlo.... blah blah blah. Non sono un essere umano, eppure mi sta venendo il diabete. Non cadere nella trappola. Non lo sposare, altrimenti non avrai più alcuna via di fuga; ora hai la possibilità di scappare in qualsiasi momento. Approfittane.
Secondo te, lui potrà mai essere un buon padre?
Questa domanda retorica mi fa male fisicamente, non solo mentalmente, lei mi conosce, e questo è un problema grosso. Sa di tutte le idee che mi passano per la testa, sa di qualunque ombra che attraversa la mia mente, cosa che magari anch'io non so.
L'hai capito, eh, Courtney? Ti ricordi di ieri, mentre lui era al lavoro e tu eri qui a deprimerti, ti sei resa conto di avere ventinove anni, quasi trenta, e non avere ancora uno straccio di speranza di vita. Allora che cosa ti è venuto in mente? Quella volta in cui, quando avevi tredici anni, hai dovuto badare alla figlia di quel ricco investitore che era andato a parlare con i suoi genitori. Te lo ricordi? Quanto ti era piaciuto, quando quella bambina così piccola ti ha dato speranza, cosa che da ragazzina non avevi.
E ieri, cos'hai pensato? Hai pensato che vuoi un bambino. Tu lo vuoi, ma sei spaventata. E, in fondo, sai bene perché. Perché Duncan non è un uomo affidabile. Lo hai visto tu stessa. Lui cede così facilmente, e nessun discorso sdolcinato strappalacrime potrà mai ricostruire tutta quella fiducia che ha perso. Che tu non hai più verso di lui. E la cosa divertente è che tu ne sei pienamente consapevole.
Per un po' non parla.
Ricordati, Courtney, che gli errori si pagano.
Due secondi di silenzio, e poi scompare.
Mi passo stancamente una mano sulla fronte. Lei non dice la verità, lei cerca solo di manipolarmi, me lo devo ricordare, altrimenti impazzisco.
Però lei mi conosce, io veramente avevo pensato all'idea di avere un bambino, anche se non ora, ovviamente; non riusciamo a mantenerci da soli, figuriamoci se ci fosse un'altra creatura.
Ma io potrò veramente fidarmi di Duncan? Essere padre non è una cosa facile, e ora Duncan non è pronto.
Forse in futuro, ma non ora... devo avere fiducia in lui.
Mi butto sul letto, sento le lenzuola spiegazzate che sfiorano la mia pelle. Guardo il nostro appartamento, come faremo ad andare avanti? Io do per scontato che prima o poi ci risolleveremo da questa situazione, ma forse non accadrà.
No basta, devo piantarla di essere così pessimista. Ora non è proprio il momento.
Sospiro.
Io ringrazio il Destino, il Fato, Dio, o come lo si voglia chiamare per avermi donato Duncan. Io non avevo mai pensato di porre fine alla mia vita, ma molto probabilmente, andando avanti con il tempo, questa idea invisibile sarebbe diventata realtà.
Un sorriso fa a formarsi involontariamente sul mio viso. Io dovrei ancora essere arrabbiata con lui, io non avrei dovuto cedere così facilmente. Eppure, non ci riesco. Io mi innervosisco, perché io dovrei avere il totale controllo del mio corpo e delle mia mente. Dannazione a lui....
Un trillo arriva al mio orecchio sinistro.
È il telefono.
Mi alzo, pigramente, e vado verso il tavolo, sul quale ieri ho appoggiato il telefono. Lo guardo.
Numero privato. Speriamo che non sia una di quelle fastidiose pubblicità.
-Pronto?- dico, facendo capire al mio interlocutore che non ho voglia di parlare con nessuno.
-Courtney?- io ho già sentito questa voce. Però, ora è più... vecchia.
Spalanco gli occhi. Ho capito.
-Ha.. Harry?- chiedo, pensavo che non mi avrebbero più voluto sentire. Mio padre. Istintivamente l'ho chiamato per nome, sono sempre stata abituata così da piccola.
-Hai due minuti? Ti devo parlare.- è molto molto serio. Ma la cosa più strana è che nella sua voce non percepisco alcun tipo di disgusto nei miei confronti.
-Certo.- non balbetto, voglio essere fredda con lui. Dopo tutto ciò che non ha fatto per me, non merita di essere il destinatario di alcuna mia emozione.
-Courtney, non ho tempo da perdere, perciò sarò molto conciso. Tua madre è morta.- il mio respiro si blocca. Che.... che cosa? Non... non è possibile, aveva appena cinquantacinque anni. -Il funerale si terrà al Meadowvale Cemetery, mercoledì prossimo alle nove di sera. A tua discrezione se venire o no.- non parla più. Io voglio sapere perché. Com'è successo? Com'è possibile? Ho tante domande per la testa, ma dalla mia bocca non esce nessun suono. Sento lui che sospira. -Beh, io devo organizzare il funerale perciò ti saluto. Arrivederci, Courtney.- chiude la chiamata. Allontano il telefono dal mio orecchio, e lo appoggio sul tavolo.
Le mani mi tremano, il mio respiro si affanna, le gambe mi cedono. Cado per terra. Sento un groppo in gola. Tossisco. Le lacrime scendono lungo le mie guance, i singhiozzi si fanno sempre più potenti e dolorosi.
Mi dispero, urlo.
Mia madre è morta.
E io non la vedo da dieci anni.
E ora non la potrò rivedere mai più.
 
 
 
 
Sono tutti vestiti di nero.
Non mi è mai piaciuto il nero, così poeticamente triste, ma ora così giusto.
Ho speso una grande parte dei nostri risparmi per comprarci dei vestiti un minimo eleganti, è così che lei immaginava il suo funerale. Lei era sempre ambiziosa, anche da bambina, me lo raccontava quando io ero piccola, per spronarmi a diventare come lei. Alla fine però lei ce l'ha fatta. E lei non ha vissuto in una famiglia ricca, come me. Eppure, io non ce l'ho fatta.
Ci è riuscita. Qui, al suo funerale ci sono alcune tra le persone più importanti del Canada e degli Stati Uniti. Anche se non tutti sono venuti unicamente per compiangere la sua scomparsa, molti di loro sono qui sono per interessi, per denaro. Perché, dato che mio padre è ancora vivo, avrebbero fatto una brutta figura a non venire.
Addirittura credo che alcune di queste persone detestavano mia madre. Ma di questo non posso farne una colpa a nessuno, anche io la detestavo. Non so se la odio ancora, mi sento in colpa ad odiarla ora. In fondo è morta.
Qui c'è tutta gente sulla soglia della terza età, uomini e donne con sguardi di pietra. Né dolore, né felicità, nessuna emozione. Sembrano dei robot, ed è una delle cose più inquietanti che abbia mai visto.
Ma sopporterò, resterò qui fino alla fine, con il disagio, e il dolore.
Perché è così che lei immaginava il suo funerale: con tanta gente come lei, fredda e calcolatrice, ambiziosa e capace.
La cosa triste è che forse l'unica che non voleva al suo funerale ero io. O almeno, la me di adesso, una fallita senza un dollaro. Anche se non me l'ha mai detto esplicitamente lei avrebbe permesso la mia presenza solo se ce l'avessi fatta nella vita.
Non ho idea del perché mio padre mi abbia chiesto di venire. Beh, non me l'ha propriamente chiesto. Mi ha solo informato. Forse credeva che io non sarei venuta dato il rapporto che intercorreva tra me e mia madre.
Almeno qui con me c'è Duncan. Non so se i miei genitori si amavano, io non li ho mai visti darsi un bacio o un abbraccio.
Per lei il fatto che io sia innamorata non conta niente, ma lui è l'unica cosa che ho, perciò la mostro con orgoglio a tutti questi avvoltoi.
Ho lo sguardo basso, è da due giorni che non spiccico quasi nessuna parola. Sono sicura che dopo questo funerale tutto tornerà come prima, ma io ora devo superare questo ostacolo.
Non spero neanche che mio padre mi venga incontro. Fingerà che io non sia sua figlia: tutti sapevano che la mia famiglia mi aveva ripudiata, perciò è come se fossi una sconosciuta.
Alzo per un secondo lo sguardo e lo vedo. È lì, vicino all'entrata della Chiesa, che stringe mani e risponde meccanicamente a domande che lui aveva già previsto.
Gira lo sguardo verso destra e per un secondo incontra i miei occhi, io giro la testa, come a voler far finta che non sia successo niente. Con la coda dell'occhio vedo che ritorna a parlare con un vecchio signore vestito con un completo nero di Armani. Rigiro la testa verso di loro e noto che il signore ha un Rolex d'oro al polso.
Come ho fatto a vivere a stretto contatto con questa gente per tutto quel tempo?
Ma soprattutto, come ha fatto a diventare normalità per me?
Guardo mio padre e vedo chiaramente dalla posizione del suo corpo che vuole venire nella mia direzione. Perciò congeda l'anziano e si avvicina a me, fissandomi negli occhi.
Io non abbasso lo sguardo. Sono al funerale di una donna che non si arrendeva mai, usava qualunque mezzo pur di arrivare al suo obbiettivo; il fine giustifica i mezzi.
Siamo faccia a faccia. Il mio sguardo diventa duro e freddo.
-Sono felice del fatto che tu abbia deciso di venire, Courtney.- mi dice, come se fossi una lontana cugina, mi parla con schifose frasi fatte, frasi che durante la mia infanzia gli ho sentito pronunciare migliaia di volte. Non può parlarmi così.
-Andiamo, piantala. Sappiamo entrambi che lei non avrebbe voluto che io fossi qui.- gli dico. Ora il mio animo non nutre alcun tipo di rispetto né di stima verso di lui, perciò mi sento giustificata a parlargli in questo modo. Tanto non mi può più togliere niente.
Mi guarda e, in modo molto composto, fa un respiro profondo di rassegnazione.
-Mi dispiace che tu la pensi in questo modo. In fondo tu eri sua figlia.-
-Certo, ma lei aveva smesso tempo fa di considerami tale.- gli rispondo.
Mi guarda, e io rimango colpita. Non cerca di nascondere le sue emozioni, anzi, me le lancia senza alcun ritegno. È triste. Non so per quale motivo, non riesco a carpirlo dai suoi occhi, ma solo il fatto che mi mostri pienamente le sue emozioni mi lascia pietrificata.
Ma ora i suoi occhi sono di nuovo freddi.
-Ma comunque, cambiando argomento, chi è questo signore?- mi chiede, riferendosi a Duncan. Cosa gli sta succedendo? Perché dovrebbe iniziare ad interessarsi a me proprio in questo momento? Lo guardo stranita.
-Harry, lui è Duncan, il... il mio compagno.- ho intenzione di continuare a chiamarlo per nome, non lo sento ancora come padre. Non lo è mai stato, e il suo treno è partito da tempo. Se non era mio papà prima, non lo potrà mai essere.
Loro si stringono le mani, vedo che tutti e due cercano di usare quanta più forza possibile.
Capisco che Duncan cerchi di fare una buona impressione su mio padre, questo è comprensibile, ma perché mio padre si ostina a dimostrare, anche se solo con questi piccoli gesti, che io gli appartengo? Lo vedo, da come guarda Duncan, copre con una maschera di finta tranquillità il suo fastidio nel vedermi con un uomo.
Io mi ricordo che quando mia madre mi diseredò, lui aggiunse di essere completamente e incondizionatamente d'accordo con lei.
Le loro mani si sciolgono, lui mi guarda, mi sorride falsamente. E io lo guardo, confusa.
-Beh, è stato un piacere. Ora io devo andare. Spero che troveremo un momento in cui potremmo parlare per più tempo e con più libertà.- si gira, congedandosi, e se ne va, sparendo nella folla.
Io fisso il punto in cui è sparito, poi guardo Duncan. Lui mi guarda, stranito quanto me.
Io non capisco. Perché deve criptare tutti i suoi sentimenti con messaggi subliminali impossibili da comprendere?
Io dovrò trovare il coraggio di parlare apertamente con lui, perché a quanto pare lui non ha intenzione di farlo.
Stringo la mano a Duncan.
Mia madre è morta. Ora lo realizzo.
Silenziosamente una lacrima mi attraversa la guancia.
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
Ciao a tutti!
No... io non sono affatto in ritardo. Siete voi che vi siete resi conto girando sul vostro account che l'ultimo aggiornamento della storia era del 12 novembre. Io non sono affatto in ritardo.... ok, la smetto.
Sì, ci ho messo quasi una settimana ad aggiornare, ma sono stata particolarmente impegnata con la scuola e con la stesura di una one-shot (La Guerra a Parigi, finale alternativo di questa storia, ispirata ai fatti di venerdì 13 novembre 2015).
Però passiamo al capitolo.
Lo so, in ogni capitolo muore qualcuno, ma state tranquilli, la strage finirà presto: questo molto probabilmente è il penultimo capitolo. Questo vuol dire, se la matematica non è un'opinione, che il prossimo è l'ultimo. Sì, sono triste anche io. Questa ff è molto importante per me, ma ne parlerò meglio nel prossimo capitolo.
Mi lasciate una recensione?
Io credo di aver detto tutto... anzi, no!
Siamo arrivati a più di mille visualizzazioni sul primo capitolo! Vi ringrazio tanto!
Ora ho davvero detto tutto.
Al prossimo capitolo
 
 
 
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Capitolo 20
*** La Fine ***


La Legge del gioco
Capitolo 20: La Fine
La morte ci ha sempre circondato.
Prima Scott, poi la madre di Courtney... e tutto in poco più di due anni. E una cosa alquanto ironica, no?
Tutto è nato dal fatto che io rischiavo di morire, quindi, in un certo senso, è grazie alla morte che ci siamo rincontrati. Quindi io in teoria sono in qualche modo debitore alla morte.
Me la sono sempre immaginata come la classica oscura figura incappucciata, con un'arrugginita ma tagliente falce in mano.
Ma io mi sono sempre chiesto cosa nascondesse quel cappuccio. Uno scheletro? Uno zombie? Semplicemente l'oscurità?
Una notte, da ragazzino, mi misi a pensarci. Quella notte non avrei dormito, faceva freddo, nonostante fosse appena inizio settembre. Ero coperto fino al mento dal mio piumone, ma avevo comunque freddo.
Non era insostenibile, ma in quel momento mi chiesi fino a quanto io avessi potuto resistere al gelo. E, con un grande volo pindarico, pensai al presunto freddo della morte. E arrivai alla conclusione che la morte non ha una forma propria.
Si adatta alla persona. La prima cosa che pensai fu il ragno. La morte con faccia da ragno.
L'unica cosa che non mi quadrava era che a me i ragni piacevano, li adoravo, soprattutto le tarantole.
Perché il ragno?
Me lo sono sempre chiesto. Ma non ho mai trovato risposta.
Ma ora la morte non mi spaventa.
Perché stiamo andando verso una nuova vita, e non mi voglio più tirare indietro.
Tra le strade di New York, una città che non mi è mai piaciuta, troppo rumorosa, troppo stupida e ignorante. Così io ho sempre considerato i newyorkesi.
Ma questa è la città più... giusta, credo. Ma, in fondo, chi sono io per giudicare 8,406 milioni di persone?
Tra le strade di una città grigia, ma anche rossa, verde e blu.
Camminiamo, senza parlare, con il nostro silenzio colmato soltanto dal frastuono che macchine, persone e artisti di strada provocano.
Vedo che dall'altra parte della strada c'è una ragazzina, non può avere più di quindici anni, che suona il basso elettrico. È quasi ipnotica da quanto è brava. Da ignorante in musica quale sono ho sempre considerato il basso come uno strumento inutile, ma quella ragazzina mi sta facendo cambiare idea.
È solo una ragazzina, ma mi ha fatto cambiare idea, chi l'avrebbe mai detto?
Davanti a sé tiene la custodia del basso aperta, assottiglio lo sguardo e sono contento di vedere che dentro ci sono molte monete e alcune banconote.
Intorno a lei c'è un grande stormo di persone che ascoltano rapite le sue note.
Ecco cosa siamo tutti noi, tutti noi che siamo persone, ci consideriamo adulti, senza mai sentire il bisogno di imparare. Perché noi sappiamo già tutto. Ma non è vero.
Noi siamo eterni bambini per alcune cose. Abbiamo sempre da imparare, ma siamo troppo orgogliosi per ammetterlo. Anch'io ero così, e ora come ora vorrei andare dal me di due anni fa e tirargli uno schiaffo su quella arrogante faccia che si ritrova.
Continuando a camminare, non riesco più a vederla.
Ma mi ha fatto nascere un sorrisetto sul viso.
-Perché sorridi?- il mio sorriso si accentua.
-Niente.- le rispondo senza guardarla ma continuando a sorridere.
Lei non dice nulla, ma mi fissa sconcertata per alcuni secondi, poi anche lei viene influenzata da me e sorride.
Non c'è motivo per essere tristi oggi, non riuscirei a trovarne uno.
C'è tanta gente contro cui ci scontriamo, tutta gente grigia. Gente che ha un obbiettivo nella vita, e non pensa ad altro. Altri invece sono coloro che un obbiettivo non ce l'hanno e non lo vogliono. È una scelta di vita come tante, è superficiale, arrogante e sciocca, ma pur sempre una scelta, una scelta che anch'io avevo intrapreso da giovane ignorante quale ero.
Un obbiettivo ora ce l'ho, e lo sto raggiungendo proprio adesso, in questo momento, camminando per le strade di New York, con lei.
Un tizio alza gli occhi e, dopo un momento di smarrimento, mi saluta, sorridendomi.
Io rispondo al saluto, anche se non ho idea di chi sia.
Ma non importa, forse stava salutando qualcuno dietro di me, ed io ho fatto la figura dell'idiota. Ma, sinceramente, dell'opinione di una persona media, con una vita media e con un'intelligenza media non me ne importa nulla. Niente. Non sono più una persona così stupida da anteporre il pensiero degli altri al mio.
Mi si forma spontaneamente un sorriso sulla faccia. Sono in pace. Ed è la cosa migliore che io potessi anche solo sperare. Anche se io non speravo mai in niente, non ero attaccato a niente, se escludiamo la mia misera esistenza. Quella era l'unica cosa che ero certo di possedere, ero spaventato dal fatto che se ne andasse via da me, lasciandomi in balia di demoni che mi avrebbero trascinato nelle fiamme degli Inferi. Non credendo in niente, non potevo sperare in niente. Ora mi torna alla mente: ero talmente narcisista da reputare Dio come una divinità effimera, che sarebbe intervenuta per me solo per darmi del bene.
Forse perché io non volevo odiare Dio. Ma finii per farlo.
Tutto quello che mi è successo mi ha allontanato anche dalla sola idea di credere, di una qualsiasi idea di fede; come effettivamente può essere comprensibile.
Non mi ci sono più ravvicinato, per una mia scelta.
Mi ricordo che il momento in cui capii che nulla mi avrebbe mai convinto a credere che in cielo ci sia qualcuno che veglia su di noi accadde quando avevo quindici anni. Ero già un punk, o almeno mi vestivo da punk, non ero ancora arrivato al livello di fare proteste o simili, mi limitavo a fare il ribelle con i professori.
Era il 2001. Più precisamente l'11 settembre 2001. Io vivevo con i miei a Toronto.
Era martedì. La scuola non era ancora iniziata, perciò alle otto e mezzo io ero ancora addormentato nel mio letto.
Erano le nove di mattina quando mia madre mi svegliò brutalmente, gridando che dovevo andare in cucina, che era importante. Era spaventata, vedevo che tremava, perciò non feci storie e le dissi che sarei arrivato un minuto dopo, giusto il tempo di mettermi qualcosa di decente addosso. Presi le prime cose che trovai sul pavimento e me le infilai svogliato, imprecando tra me e me, ma in realtà curioso di sapere che diamine fosse successo.
Appena arrivai in cucina vidi che i miei genitori stavano guardando la televisione, quasi ipnotizzati. Era il telegiornale.
Mi avvicinai a loro, per sapere cosa ci fosse di così interessante in un programma che avevo sempre considerato di una noia insostenibile. Vidi due immagini che mi segnarono a vita.
Le riprese della Torre sud in fiamme e la ripresa di una ragazzina, che aveva più o meno la mia età, che piangeva a dirotto, urlando disperata, vicino agli assistenti sociali invocando i genitori.
In queste immagini vidi che tutto quello che migliaia di uomini si sono impegnati a costruire può crollare. Tutto ciò che noi riteniamo più che normale è sempre a rischio. Che gli esseri umani sono costretti a vivere nel terrore eterno.
Questi furono i miei primi pensieri.
Dopo mezz'ora che fissavo la televisione, pugnalato da quelle immagini, me ne andai in camera mia senza dire niente, in religioso silenzio, tanto che i miei non si accorsero nemmeno che me ne ero andato.
Dopo, quando crebbi, metabolizzai i miei pensieri infantili, e capii che noi sì viviamo in un mondo che è a rischio, ma che di sicuro non è così che potremo mai curare il tumore che è andato espandendosi in tutto il mondo dopo l'11 settembre.
Per questo io ho scelto questo obbiettivo, perché voglio dimostrare a loro che io posso vivere una vita più che felice, che anche se loro mi puntassero una pistola alla tempia io continuerei a sorridere.
Tutto questo mi ha portato qui. Mi ha fatto diventare un uomo. Perché se si è adulti non vuol dire né che si è maturi né che si è uomini. Ci sono vecchi di ottant'anni che non si possono definire uomini, ma ragazzini.
Almeno New York ha un pregio: è una città in cui c'è vita. Persone che fanno cose, vanno in luoghi, incontrano altre persone. Questo è il bello di New York: potresti trovarti morto per mani di un tizio con una pistola preso da un atto di follia, ma potresti anche raccogliere da terra un biglietto della lotteria vincente che ti fa diventare milionario. È il Destino.
Mi ha sempre incuriosito pensare che, un semplice sguardo, un semplice incontro ci può portare dove siamo ora. Se i miei bis nonni non si fossero mai incontrati io non sarei qui, e molto probabilmente le persone che ho incontrato durante la mia vita non sarebbero le stesse. Non sono narcisista, forse se io non avessi rubato quel minuto a qual ragazzo per chiedergli quell'accendino, lui sarebbe stato investito da una macchina. Così come se lì lui non ci fosse stato, forse io non avrei mai fumato quella canna. Tutti siamo collegati, non si può credere il contrario.
New York... la città del Destino.
Tutte queste persone che camminano qui, vicino a me, su questo marciapiede, pensano si essere indipendenti dal mondo, da tutto. Se qualcuno nel mondo muore, loro non ne risentono, a loro non cambia nulla, continuano a vivere la loro vita, da egoisti.
Io sono orgoglioso di credere che io dipendo da tutti questi sconosciuti.
E, grazie a questo, ho il diritto di essere orgoglioso del fatto che tutte queste persone dipendono da me.
-Cos'hai? Se silenzioso.- lei interrompe delicatamente i miei filosofici pensieri.
-Non ho niente.- le rispondo tranquillo. Ci sono pensieri che non hanno il bisogno di essere condivisi.
-Sei emozionato?- ipotizza, intelligentemente. È una teoria plausibile.
-Probabile.- le dico, ridendo.
-Ti capisco. Io sto tremando.- non riesce a trattenere un meraviglioso sorriso che va formandosi sul suo viso. E riesco a intravedere delle felici lacrime che si sono formate nei suoi occhi. Sorrido anch'io. La amo troppo.
Prendo una sua mano nella mia. Lei mi guarda negli occhi sorridendomi. Ci fissiamo per due secondi, poi lei riporta lo sguardo davanti a sé, e il suo sorriso scompare. Si ferma. Immediatamente anche il mio si spegne. Guardo nella stessa direzione e la capisco.
Lì c'è Gwen.
Ecco quello di cui parlavo. Il Destino a volte sa essere proprio un gran bastardo. Sorrido ironicamente divertito. Avevo ragione, per una volta.
Courtney cerca di cambiare rotta, per far sì di poter far finta di non averla vista, ma ormai il danno è fatto: anche Gwen ci ha visto. Anche lei si ferma.
Si fissano per alcuni secondi. Ora noto che Gwen sta tenendo la mano ad una ragazza dai capelli ricci e rossi; che probabilmente non sta capendo niente di ciò che sta succedendo.
Courtney deglutisce, nervosa. Non sa che fare. Sono passati due anni, era anche ora che succedesse, vorrei dirle, ma mi sembra più opportuno tacere, per questa volta.
Gwen prende un grande respiro e si avvicina, assumendo un sorriso di circostanza totalmente fuori posto, adesso.
Arriva davanti a noi. La ragazza riccia ha un'espressione che unisce arrabbiato e confuso. Forse sta iniziando a diventare gelosa.
-Hei.- dice. E dopo alcuni secondi si rende conto che la sua voce è spezzata da un dolore che neanche lei riesce a comprendere.
Courtney non parla, è paralizzata. Gwen non riesce a spiccicare nessun'altra parola, così abbassa la testa e fissa il marciapiede.
Tutte le persone ci superano, innervosite dal fatto che ci siamo stazionati in mezzo al marciapiede.
-Ehm... che ne dite se ci andiamo a prendere un caffè?- chiede la riccia, cercando di nascondere il suo nervosismo e la sua perplessità. Indica un bar che sta sull'altro lato della strada, sia Courtney che Gwen guardano in quella direzione senza realmente vedere niente. Vogliono solo fare in modo di non incrociare i loro sguardi.
Vedo che Courtney sta per mettersi a piangere, quindi devo intervenire. Ma non ho alcuna intenzione di allontanarle di nuovo: Courtney non ha nessun vero amico a parte me, quindi cerco di calmare un po' le acque.
-Sì, credo che sia una buona idea. Del resto, non siamo in anticipo per l'appuntamento?- chiedo retoricamente a Courtney. Lei mi guarda preoccupata, non era quello che immaginava io dicessi. Ma sono adulte, è ora che si chiariscano.
-Sì...- mormora, abbassando lo sguardo e avvinghiandosi al mio braccio.
Gwen semplicemente annuisce debolmente.
Ci avviamo insieme, come di tacito accordo, verso le strisce pedonali. Il rumore che ci circonda contribuisce nel mantenere l'atmosfera non eccessivamente tesa.
Attraversiamo appena la luce del semaforo si accende e quel piccolo omino verde che cammina ci dà il permesso di attraversare.
Arriviamo davanti all'entrata del bar, tutti sono indecisi su chi deve entrare per primo. Io mi sposto, Courtney mi segue rimanendo abbracciata al mio braccio, e le faccio entrare. Gwen accenna un impercettibile segno con la testa, ma non mi guarda, mentre la rossa mi sorride nervosa ed entra, trascinando quasi Gwen con sé.
Il bar è piccolo, accogliente e non affollato.
Sempre in silenzio ci accomodiamo in un tavolo da quattro, io e Courtney vicino alla porta, Gwen e la riccia di cui non si conosce il nome di fronte a noi.
Nessuno guarda negli occhi nessuno.
Poi, vedo con la coda dell'occhio la riccia che mi guarda, come se mi stesse chiedendo aiuto. Allora lei non è totalmente all'oscuro da ciò che è successo.
-Ehm... a che appuntamento dovete andare, se ve lo posso chiedere?- cerca di intavolare la conversazione con una domanda che non può che fare del male. Guardo Courtney, lei mi dice rassegnata con gli occhi di dire la verità.
-Stavamo... andando all'orfanotrofio.- non dico altro. Credo che sarebbe troppo continuare. Gwen ha alzato la testa e spalancato gli occhi sorpresa. La riccia la imita.
Faccio passare due secondi di gelo, poi cambio argomento.
-Ma raccontateci di voi. Noi non sappiamo neanche come ti chiami.- cerco di essere il più cordiale e amichevole possibile. La rossa sorride, arrossendo un po' per la vergogna.
-Ah, giusto, io mi chiamo Johanna.- dice, solare. È proprio una bella persona.
L'aria continua ad essere tesa, e Courtney stringe sempre di più il mio braccio, come una bambina timida davanti ad uno sconosciuto.
-Oh, andiamo, piantatela.- la voce flebile di Gwen riempie il silenzio che è andato formatosi. -Vi state solo rendendo ridicoli.- la stretta di Courtney si accentua. Quasi non mi sento più il braccio.
-Cosa... cosa intendi dire, Gwen?- chiede Johanna, cercando di farle capire che questa sua frase non sta contribuendo a rilassare l'atmosfera.
-Io e Courtney ci siamo divise per una ragione. Anche se sono passati due anni nulla potrà mai cambiare; il danno è fatto. Io mi sono rifatta una vita con te, e lei si è rifatta una vita con Duncan. Non ha senso continuare a sprecare tempo.- non ha alzato la testa neanche per un secondo. Molto probabilmente altrimenti non sarebbe riuscita a far uscire dalla bocca una parola. Debole era e debole è rimasta.
Il silenzio riempie per l'ennesima volta la nostra conversazione.
Gwen sospira.
-Andiamocene, Johanna.- si alza e va verso la porta. Johanna la segue, pur cercando di fermarla con parole che Gwen non vuole ascoltare.
-Gwen, aspetta.- questa non è Johanna. È Courtney.
Gwen si blocca, dandoci la schiena. Io e Courtney siamo rimasti seduti.
-Addio, Gwen. E vivi una vita felice, mi raccomando.- le dice, tristemente. Ora credo che Gwen se ne vada, e che non la rivedremo mai più.
Ma mi stupisco, perché Gwen non se ne va, al contrario: dopo una manciata di secondi in cui è rimasta a fissare una porta trasparente chiusa, si gira verso di noi.
Non mi guarda, sta guardando Courtney negli occhi, e, stupendomi, lei sta sostenendo il suo sguardo.
Courtney si alza. Mi alzo anch'io, sono curioso di sapere che cosa ha intenzione di fare. Si guardano, come se si studiassero, e, all'improvviso, si mettono a ridere di gusto. Io, come Johanna, le fisso sconcertato. Era l'unica cosa che non mi aspettavo.
Si sono parlate con gli occhi, un modo di comunicare che sono loro potevano avere, che io e Johanna ci sogniamo.
Continuano a ridere.
-Oh, adesso basta...- cerca di dire Gwen tra le risate. -Ora devi andare a prendere tuo figlio.- le risate si placano, ma i sorrisi sono ancora sui loro visi.
Courtney annuisce.
-Mi raccomando, chiamami quando arrivi a casa.- le dice Gwen. -Perché niente è veramente cambiato.- Courtney annuisce seria.
-Andiamo, Duncan.- mi dice, e io la seguo. Non si salutano, e nessuno guarda indietro.
La vita va avanti, così come le nostre vite, ma questo non vuol dire che non si possono intrecciare. Una... due... centinaia di volte.
E io ringrazio ogni giorno per questo.
Mi viene solo da ridere se penso al me adolescente che pensava che io non mi sarei mai sposato, che avrei avuto mille donne nella mia vita, fino a quando non sarei diventato vecchio, troppo vecchio per anche solo parlare.
E invece no.
Ora ho una moglie, un bambino che sta per diventare mio figlio.
Ma ora voglio dire addio alla mia vecchia dicendo una cosa alla vita che il Destino mi ha fatto vivere fino ad oggi:
Io vivo e vivrò felice per il resto della mia vita. Che si fotta il Destino.
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
E siamo arrivati alla fine! (con un ingiustificabile ritardo, ma fa niente!)
Questo è stato un capitolo in cui mi sono totalmente abbandonata ai miei pensieri, ai pensieri di Duncan.
Questa è stata una storia che mi ha coinvolto personalmente, perché voi, anche se non ve ne rendevate conto, stavate leggendo di me. Perché non c'è bisogno di alcuna presentazione: io ho i capelli di questo colore, mi piacciono queste cose, odio invece queste altre... basta leggere le mie storie per conoscermi.
Io forse mi sono aperta anche troppo scrivendo questa storia, ma non me ne pento. Ogni riga, ogni parola, ogni lettera l'ho scritta per sfogarmi, principalmente, quando avevo bisogno di alienarmi.
Inoltre, so che sembra assurdo, ma io, mentre scrivevo un capitolo, ero all'oscuro di cosa sarebbe successo due righe dopo, esattamente come voi. Tutte le emozioni che descrivevo erano quelle che provavo io. Perché ogni mio personaggio (anche se non creati totalmente da me) era, ed è, una parte di me.
Sì, lo so, tutti questi discorsi sono un po' noiosi, eh?
State tranquilli, ho finito.
Per ultima cosa, ma assolutamente non la meno importante, volevo ringraziare tutti coloro che hanno recensito, tutti quelli che hanno messo la mia storia tra le preferite, tra le seguite e tra le ricordate. Ma ringrazio anche coloro che leggono in silenzio.
Be', io ho detto quello che dovevo dire.
Alla prossima! (perché non credete di potervi liberare così facilmente di me!)
 
 
 
Pizee_01

 

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