Forse poteva andare peggio: il diario di Kenny di Luine (/viewuser.php?uid=53775)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Un diario per cominciare ***
Capitolo 2: *** Presentazioni ***
Capitolo 3: *** I Cavalieri della Tavola Rotonda ***
Capitolo 4: *** Vita di caserma ***
Capitolo 5: *** Le persone più a posto ***
Capitolo 6: *** Una prova di resistenza ***
Capitolo 7: *** Hangar 14 ***
Capitolo 8: *** Quando tuo marito va a comprare le sigarette ***
Capitolo 9: *** Avanzi di... galera ***
Capitolo 10: *** Arale Holmes ***
Capitolo 11: *** Domande imbarazzanti ***
Capitolo 12: *** Non c'è mai un attimo di tregua ***
Capitolo 13: *** Una giornata da dimenticare ***
Capitolo 14: *** Il quinto incomodo ***
Capitolo 15: *** Le brutte notizie non arrivano mai da sole... e portano qualcuno a cena ***
Capitolo 16: *** Una gita fuori programma ***
Capitolo 17: *** Casa Satan ***
Capitolo 18: *** Il racconto di Kenpachi ***
Capitolo 19: *** Un brusco ritorno ***
Capitolo 20: *** Pan vuole scappare... e Arale non vuole mollare ***
Capitolo 21: *** Riunione in biblioteca ***
Capitolo 1 *** Prologo: Un diario per cominciare ***
Prologo
Un
diario per cominciare
Quando
mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non
credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto
intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi
sopra e a raccontare la mia (strana) vita.
Mi
chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e
Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.
Cosa
c'è da dire su di loro? Bah, un sacco di cose...
Forse
dovrei partire col dire che nella famiglia di mio padre, da secoli,
si insegnano e si conoscono tutte le arti marziali.
Mio
nonno, Goku Iccijojji*,
è il migliore del mondo. Ha sempre tentato di far avvicinare
mio padre alla sua passione, ma non ci è mai riuscito: papà
ha, penso da sempre, una passione sviscerata per tutto quello che è
musica e adora il Va’
Pensiero
di Verdi, tanto che quando compone lo ascolta e riascolta senza
fermarsi mai.
In
famiglia detestiamo questo suo pallino: è fastidioso avere a
che fare con la stessa solfa per tutta la giornata (tranne quando
mangiamo, ma questo è stato un compromesso con la mamma che
aveva minacciato il divorzio). E non possiamo nemmeno convincerlo ad
ascoltarla in cuffia, perché poi dice che interrompiamo il suo
flusso creativo.
«Secondo
me,» ha detto Pan una volta che ci eravamo rotti le scatole
tutti quanti. «ha bisogno di farsi vedere da uno bravo.»
«Oh,
Pan!» l'ha rimproverata la mamma. «Non posso mica
portarcelo di peso!»
«Sarebbe
un'idea niente male...»
«E
poi chi la sente tua nonna?»
Già,
nonna Kiki. Nonna Kiki è tutto l'opposto del nonno che è
molto comprensivo e cordiale. Lei è ambiziosa e indisponente.
E anche un po' isterica.
Non
è mai stata molto felice di avere un figlio musicista (ha
sempre sognato che il suo primogenito diventasse uno studioso o un
letterato). Nei primi tempi in cui papà si è chiuso in
conservatorio, non gli ha mai parlato e ha fatto finta di non avere
un figlio.
«Non
credo» ha detto una volta la mamma. «che tua nonna gli
parlerebbe ancora, se nessuno suonasse la roba di vostro padre, io ve
lo dico sinceramente.»
«Ma
non credo...» avevo tentato di dire, ma mia sorella mi ha
sbranato (a parole).
«Certo.»
ha risposto, inviperita. «Ecco il buonista della situazione!»
«Che
vuol dire buonista?»
Nessuno
mi ha risposto e sto ancora col dubbio.
Il
nonno, invece, è stato molto meno scontroso della nonna e ha
preso la cosa con filosofia. Così non è stato papà
ad aver sfondato come lottatore, ma zio Goten sì. Adesso vive
in una villa con piscina che non è niente male e si gode tutti
i suoi soldi.
I
nonni vivono in campagna, in un posto dimenticato da Dio: i monti
Paoz. Al contrario di ogni aspettativa, riescono a venire a trovarci
una volta l'anno, solitamente per le feste, con grande disappunto di
mia madre: non è contenta in nessuna di queste occasioni,
perché con nonna Kiki si trova male; litigano sempre per via
della casa, dei figli, del marito... insomma, per tutto ciò
che riguarda la vita casalinga.
Non
sarebbe male se non urlassero come pazze scatenate! Alla fine è
normale che io e mia sorella prendiamo le loro brutte abitudini e
diventiamo isterici come loro.
Ma
non è ancora finita. Perché questi sono solo i parenti
di papà!
Ho
anche un altro nonno, il papà di mamma (la nonna è
morta prima che io nascessi): è il “famoso” combattente di
arti marziali Al Satan. In realtà è un fallito, ma
nessuno, nemmeno la mamma, glielo fa notare, soprattutto quando si
mette a elucubrare, dicendo di essere un grande.
Papà
non litiga mai con lui, anzi: si ignorano a vicenda.
Ma
anche per questo c'è un motivo: papà e mamma si sono
conosciuti alle superiori ed è stato amore a prima vista. Solo
che nonno Satan non è mai molto convinto del loro matrimonio,
perché papà voleva fare il musicista e il compositore e
il nonno è convinto che nella vita bisogna sapersi difendere.
Per
evitare che sua figlia vivesse nella paura, ha tirato su Pan a forza
di pugni e cazzotti, anche se papà voleva fargli notare che
non tutti quelli che tengono famiglia sono cintura nera.
Niente
da dire, non c'è mai riuscito.
Pan,
però, ha imparato bene la filosofia del nonno, tanto che,
all’età di sei anni, era già cintura nera con la
forza di un lottatore di sumo sovrappeso.
Io,
al contrario suo, non sono mai stato portato per la lotta: la prima
volta che ho provato ad avvicinarmi a questa disciplina mi sono
spaccato il naso e un braccio, tutto merito dell'“entusiasmo”,
come disse il nonno, della mia sorellona.
«Papà!»
mi ricordo che la mamma ha gridato, portandomi via dalla mischia.
«Che cavolo fai? Kenny è troppo delicato per queste
cose! Sei impazzito a fargli fare questi giochi pericolosi?»
Io
mi trovavo pienamente d'accordo, ma questo ha decretato la fine dei
miei rapporti, non solo con il nonno, ma anche con mia sorella.
Mi
sono dimenticato di dire che il nonno, povero in canna, si è
sistemato in pianta stabile a casa nostra.
Mia
sorella Pan è il tipo più strano di sorella che si
possa pensare: odia la scuola e lo studio e dice che tutte le materie
sono inutili e uguali, tranne l'educazione fisica.
Anche
se è stata bocciata una volta ed è finita nella mia
classe, la sua voglia di studiare è ridotta a zero. La mamma,
quando ha visto i quadri, ha scoperto la cosa ed è andata dai
professori a dire che non avevano mai capito Pan e che erano stati
ingiusti con lei.
Il
bello è stato che mia sorella stessa aveva ammesso di non aver
mai fatto «un cazzo».
Questa
è la mia famiglia.
Rileggendo
queste poche righe, mi vien da pensare che siamo parecchio strani.
Ma
ora passiamo al racconto che volevo fare da che ho aperto queste
pagine, che è cominciato non più tardi di due giorni fa: era
l’ultimo giorno di scuola e quasi tutti erano in cortile a giocare,
tranne la mia classe perché stavamo svolgendo dei questionari
che ci servivano per capire quali scuole medie erano più
adatte a noi.
I
test sono sempre difficili ed è quasi impossibile sperare di
passarli con una bassa preparazione. Purtroppo non sono mai stato una
cima (soprattutto in matematica e scienze) e mi sono trovato
malissimo. Pan, invece, non ha fatto neanche un commento,
liquidandomi con il più classico: «Non me ne frega un
cazzo della scuola.»
Insomma,
due giorni fa ero a scuola, al mio banco in terzultima fila, al
centro della classe, e segnavo crocette quasi a caso, spaventato dal
giudizio e dallo sguardo del professor Kagetano.
Lui
sembra sapere quando non sai niente e ti passa vicino più e
più volte, a metterti ansia. Deve avere qualche dote naturale.
Il
mio compagno di banco, al contrario mio, è stato velocissimo e
ha consegnato il tutto dopo dieci minuti, beccandosi le sue lodi.
Ricordo
di aver cercato di guardare sul foglio in mano al professore, ma lui
accorgendosene, l'ha nascosto sotto l'ascella, impedendomi di
copiare.
Così,
assolutamente incapace di svolgere il test, mi sono girato a
guardarmi intorno e ho visto Pan, due posti davanti a me, vicino alla
finestra.
Non
stava facendo niente nemmeno lei, o meglio, qualcosa la faceva, ma
non era il compito: lanciava e riprendeva una pallina di carta, con
l'aria concentrata di chi sta facendo un esperimento di grande
rilevanza scientifica.
«Ma
bene, Iccijojji!» ha esclamato il professore, acido, facendomi
sussultare. Ma non parlava con me, bensì con Pan. «Dov'è
il tuo compito?»
Pan
lo ha guardato, incuriosita. «Che?» ha chiesto.
Il
professore ha battuto la mano sul suo banco due o tre volte e il
resto della classe, incuriosito, ha alzato lo sguardo su di loro.
«Il
compito!» ha ripetuto Kagetano, in un ringhio.
«Eccolo!»
Pan ha riafferrato per l'ultima volta la pallina e gliel'ha
allungata. Non potevo vedere la sua faccia, ma dal sorriso sornione
apparso sulla bocca di mia sorella riuscivo a pensare ad una faccia
sconvolta.
Ho
cominciato a tremare di paura, quando mia sorella si è alzata
senza permesso.
Non
so se è chiaro il tipo di persona che è il professor
Kagetano: un omaccione alto quasi due metri, con spalle larghe uno e
una stazza da lottatore di sumo... faccio ben immaginare.
Non
consiglierei a nessuno di farlo arrabbiare perché è in
grado di lanciare certe urla rilevabili dai sismografi.
Ed
è anche in grado di dare punizioni che sfiorano l'assurdo...
l'ultima volta ha chiesto a un mio compagno di pulire lo sporco di
vernice a terra con l'aiuto di un pennarello, per fargli capire (così
disse) cos'era la vera fatica, perché lui, non studiando, dava
molto da fare ai professori.
«Dove
stai andando, Iccijojji?» ha chiesto, quando Pan lo ha
aggirato, ringhiando come un animale rabbioso.
«Fuori!»
ha risposto Pan, con estrema tranquillità, come se la domanda
fosse stata del tutto fuori luogo.
«Mettiti
subito a sedere!» ha ordinato Kagetano, alzando la voce e
portandola ad una tonalità che avrebbe potuto rompere la
barriera del suono.
«Non
ci penso proprio!»
Ricordo
che la penna mi tremava in mano e, in tutta la classe, non si sentiva
volare una sola mosca. Il fiato di tutti era sospeso, perfino quello
del mio compagno di banco, che mi ha lanciato, ricambiato,
un'occhiata preoccupata.
«Dici
che... adesso urla?» mi ha chiesto.
«Non
dirlo!» gli ho risposto, spaventato, portandomi le mani ai lati
della testa.
«AL
SUO POSTO!» ha gridato il professore, facendo tremare i muri.
Tutti, a quel punto, siamo balzati sotto al banco. Ma Pan si era
avvicinata ancora di più alla porta, senza preoccuparsi di
niente.
Ancora
tremando e con le mani sulla testa, guardavo le uniche due paia di
piedi che non erano nascoste dai miei compagni sotto i banchi, piedi
che si muovevano verso la porta.
«FERMATI
SUBITO, PICCOLA PESTE!»
«IL
TERREMOTO!» ho gridato, pieno di terrore.
«Non
credo che sia il terremoto!» ha detto il mio compagno, ma anche
lui con la testa sotto il banco e il volto contratto in una smorfia
di paura incontrollabile. «Voglio la mamma!»
Pan,
intanto, aveva aperto la porta della classe, ma, a discapito di tutte
le mie speranze, Kagetano si è gettato su di lei e l'ha
strattonata verso l'interno.
Lei
si è divincolata, ha urlato come una pazza e, dopo una breve
colluttazione, lo ha preso di peso per il colletto della camicia e
per la cintura dei pantaloni. L’ha lanciato sulla cattedra, come si
potrebbe fare con una bambola. Il professore ha battuto la testa
nello spigolo e non si è più mosso.
L'urlo
da sotto i banchi è stato ben udibile, penso, anche da
Pechino.
«E'
morto!» ha gridato qualcuno.
Una
professoressa, sentendo il catafascio della cattedra che si spaccava
in due, è arrivata di corsa, cercando di ristabilire l'ordine
e la calma. Pan era sparita.
Ci
abbiamo messo un po' a rialzarci, tutti quanti. Alcuni piangevano,
altri tremavano ancora. Io e il mio compagno ci stringevamo la mano
come i primi anni, quando ancora dovevamo uscire a coppie di due e
mano nella mano.
E,
alzandoci, abbiamo visto il terribile spettacolo provocato da Pan: il
povero Kagetano accasciato accanto alla cattedra spezzata e un rivolo
di sangue che gli colava dalla fronte.
Quel
pover’uomo è stato portato in infermeria dall'infermiere e
dal professore di educazione fisica, mentre la professoressa che ci
aveva calmati, rimaneva a sorvegliarci, ma ha fatto una fatica
madornale per rimetterci tutti a posto.
«Chi
è stato?»
Tutti
abbiamo abbassato la testa. Io e il mio compagno di banco ci siamo
lasciati andare e nessuno dei due osava guardare noi o gli altri.
«Insomma,
come ha fatto Kagetano a ridursi in quel modo?» continuava la
professoressa.
«E'
stata Pan Iccijojji.» è stata la risposta stridula di
una mia compagna a primo banco. «L'ha fatto lei...»
«E
dov'è adesso?»
«Non
lo so...»
Ed
effettivamente non lo sapeva nessuno. La professoressa ha mandato due
di noi a cercarla.
L'ho
trovata io, all'ora di uscita, appoggiata al muro di cinta della
scuola, con il walkman alle orecchie, tranquilla e allegra come non
la vedevo da tempo.
«Non
andiamo a vedere come sta il professore?» le ho chiesto,
titubante.
«Ma
anche no!» ha risposto, come se avessi detto una grandissima
scemenza. «Andiamo, invece di sparare stronzate senza motivo!»
«E
se fosse morto?»
«Che
palle!» ha detto. «Senti, signor perfettino leccaculo,
vuoi muovere quelle chiappe flaccide?»
«E
se ci inseguono?» ho insistito. Mi sono guardato alle spalle:
mi aspettavo un'orda di poliziotti che ci correva dietro, con i
manganelli alzati, le pistole puntate e che ci portava in galera per
aver ucciso il professore. Giuro, avevo cominciato a credere che
fosse morto e che questa sua decisione di non andarlo a trovare fosse
perché sapeva.
Lei
ha alzato gli occhi al cielo.
«E
piantala!» mi ha preso per una spalla e mi ha trascinato per
tutta la strada, fino a casa, anche se tentavo di protestare.
Quando
siamo stati sul cancello del giardino della nostra villetta bianca e
viola, mi ha finalmente lasciato andare e mi sono dovuto reggere alla
staccionata per non cadere.
«Senti,
Pan...»
«Che
cazzo vuoi?» ha sbottato lei, lasciando inorridite due
vecchiette, nostre vicine, che portavano fuori i loro cani.
«Forse
avresti dovuto andare dal preside!»
Mi
aspettavo uno scapaccione, ma Pan ha solo aperto il cancello.
«Stronzate!
Poi mi avrebbe espulso!» La paura che Kagetano fosse morto
cresceva sempre di più in me. «Ed essere espulsi
l'ultimo giorno di scuola è una gran perdita di tempo!»
«Ma...»
ho tentato di parlare, ma Pan mi ha guardato malissimo.
«Ora,
se non la pianti di aprire quella fogna, perfettino paraculo, te lo
spacco il culo, capito?» mi ha puntato un dito contro. Ho
deglutito: lei, essendo più alta di me di ben sei centimetri,
mi mette una certa soggezione. Il suo pregio, poi, è che
mantiene sempre le promesse.
Così
siamo rientrati a casa, ho salutato, mentre Pan ha lanciato un
grugnito a cui la mamma ha risposto, dal salotto, con un «ciao,
ragazzi» distratto: era l'ora di Beautiful e non si sarebbe
persa le vicende di Brook e compagnia nemmeno se le fosse andato in
fiamme il divano.
Una
volta, prima del suo primo esaurimento nervoso, la mamma era
parrucchiera, poi ha liquidato l’attività ed è
diventata casalinga a tempo pieno.
In
alcuni momenti, è meglio evitare di starle accanto, se non si
vuole finire male... e non dico per scherzo. Mia madre è più
strana di Pan, il che è tutto dire.
Per
fortuna io e mia sorella abbiamo una camera ciascuno e non ci
scontriamo mai per questioni di territorio, a parte quando lei entra
senza bussare per prendermi i giornalini e per restituirmeli
distrutti.
Qualche
minuto dopo che ho chiuso la porta, è arrivata una telefonata.
Mi
sono fiondato sulle scale: ero convinto che era la polizia e che ci
avvertisse della morte del professore.
La
mamma, però, non mi ha fatto capire niente di quello che
succedeva, ha più che altro ascoltato, perché ha detto
poco meno di «Grazie» e «Buonasera».
Quando
ha riattaccato, l'ho sentita alzarsi dal divano con passo pesante e
si è avvicinata alle scale. Ha cominciato a urlare, tanto che
mi sono convinto a scappare in camera mia e a richiudere la porta.
Tanto era lo stesso che se fosse stata aperta.
«PAN!»
«Cosa
c’è?» ha risposto lei, sbadigliando e uscendo dalla
sua camera. «Ti ha morso Sparky?»
Sparky
è la sua tarantola che, ogni tanto, lascia libera di muoversi
per casa.
«SPARKY?»
urlava la mamma. «TE LO DO IO SPARKY! PERCHE’ HAI SPACCATO LA
TESTA DEL TUO PROFESSORE, OGGI, EH?»
Era
morto. Era ufficiale.
«Ma
perché rompeva i cosiddetti coglioni!» ha detto Pan,
camminando a passo pesante davanti alla mia porta, avvicinandosi alle
scale e difendendo le sue ragioni.
«LUI
HA DETTO CHE LUI HA SOLO TENTATO DI FARTI SEDERE! SEI STATA TU A
SBATTERGLI LA TESTA NELLA CATTEDRA!»
«MA
CERTO! COME NO! ADESSO E’ SEMPRE COLPA DI PAN, QUALSIASI COSA
SUCCEDA! PURE SE IL PROFESSORE E’ UN MINCHIONE E NON SA METTERE I
PIEDI UNO DAVANTI ALL’ALTRO E’ COLPA MIA! MA GUARDA TU CHE MONDO
DI MERDA!»
La
mamma non ha voluto sentire ragioni e ha continuato a sbraitare come
una matta, mentre Pan tornava in camera sua e si serrava, accendendo
lo stereo a tutto volume.
A
cena, ho scoperto che papà e mamma sono stati convocati dal
preside e che, per fortuna, Kagetano era in piena salute. La notizia
mi ha aperto lo stomaco e mi ha dato modo di gustarmi quei panini
vuoti che la mamma ci aveva rifilato per punizione.
«Ma
perché anche noi?» si è lamentato papà.
«Perché
altrimenti che punizione sarebbe?» ha replicato la mamma,
lanciandogli occhiatacce.
«La
punizione sarebbe se lei mangiasse panini vuoti e noi imbottiti.»
«Ma
che ne sai tu di pedagogia, Gohan?» ha sbuffato la mamma. Papà
ha fatto spallucce, deciso di non rispondere e si è infilato
in bocca il suo panino.
Il
nonno, intanto, elogiava il lavoro di mia sorella.
«Andiamo,
racconta al tuo vecchio nonno come lo hai steso!»
Pan
lo ha guardato con orgoglio. «Semplice! Allora, eravamo insieme
in quella giungla. Un serpente al mio fianco e un... ehm...
licantropo dall'altro.»
«Un
licantropo?» ha replicato papà, una volta inghiottito.
«Ma... i licantropi non sono quelle creature mezze uomini e
mezze lupi che non esistono?»
«Papà,
ma tu che ne sai di giungle?» ha risposto Pan.
Papà
ha fatto spallucce, deciso di non rispondere e si è infilato
in bocca un secondo panino.
«Pan,
ti prego, ora basta!» ha esclamato la mamma, furibonda, quando
mia sorella era arrivata a raccontare di due coyote che le mordevano
una gamba.
«Che
palle!» ha sbuffato lei, prima di riprendere a mangiare
l'ultimo panino rimasto in tavola.
Dopo
cena, verso le dieci, mentre uscivo dal bagno, ho sentito la mamma e
papà che parlavano dalla loro camera da letto. Mi sono
accucciato e ho messo un orecchio sulla porta chiusa.
«Tesoro,
Pan è in una fase di cambiamento! Forse l’anno prossimo
Kenny si comporterà allo stesso modo!» stava dicendo
papà. Della cosa ho qualche dubbio: non sono mica tanto
convinto di riuscire a prendere di peso un professore! E,
soprattutto, quel professore.
«Gohan,
non dire sciocchezze!» ha detto, infatti, la mamma. «Pan
è in una fase di cambiamento dall’età di tre anni, è
possibile che ancora non sia cambiata?»
«Dai,
domani andremo a scuola e sapremo qualcosa di più da questo
professore... Cagata o come cavolo si chiama!»
«Kagatoma!»
ha detto la mamma, con tono di rimprovero. «Possibile che non
ti ricordi mai il nome di quel povero professore di lingua?»
Peccato
che non si chiami neanche Kagatoma...
«Sì,
va bene... Io non so che fare con quella bambina! E' tutta colpa di
tuo padre!» ha tagliato corto papà.
«Mio
padre non c'entra proprio niente!»
«Come
no! Infatti non le ha mai detto di farsi strada a suon di pugni,
vero? E stasera non le ha dato del genio!»
«MA
COSA NE SAI TU?»
«Che
cazzo fai, lingua-a-cotoletta?» ha chiesto mia sorella,
vedendomi accovacciato con un orecchio sulla porta. Le ho chiesto di
fare silenzio, mettendomi un dito davanti alla bocca, ma lei mi
tirato un calcio nel sedere. «Spione!» ha detto e si è
accovacciata al posto mio, mentre mi massaggiavo il mio povero
sedere.
Ho
deciso di dileguarmi in camera mia e di lasciar perdere. Ormai la
giornata era finita.
Il
giorno dopo...
Ieri
mattina, quando mi sono svegliato, ho scoperto che io e Pan eravamo
soli in casa. La mamma, che era andata a scuola con papà,
aveva messo in forno la colazione perché si mantenesse calda.
Nonno Satan, probabilmente, era andato in palestra e quindi eravamo
proprio soli.
Pan,
che era seduta al tavolo, ha fatto finta di non vedermi e ha
continuato a mangiare quello che aveva davanti (che non era poco). Mi
sono seduto anche io e ho preso una grossa tazza di muesli; mia
sorella, non ho capito perché, non ha gradito il gesto, ha
urlato: «Giù le mani!» e ha battuto il pugno sulla
tazza piena di latte, schizzandomelo tutto addosso. Purtroppo, il suo
colpo è stato così forte da rompere non solo la tazza
che mi ero preso, ma anche tutto il tavolo: l'aveva spaccato in due,
facendo, in questo modo, cadere rovinosamente a terra tutto quello
che c’era stato sopra.
«Simpatico...»
ha detto lei, guardandosi la mano arrossata. «Davvero
simpatico!»
«E
adesso?»
«E
adesso ciccia, paramecio!» si è alzata ed è
uscita dalla cucina.
E'
tornata in camera sua, dove ha messo la sua musica assordante a tutto
volume. I vicini la detestano per questo. Ma la follia per la musica
è una chiara eredità di papà... anche se papà
è molto meno rumoroso.
Sono
rimasto un bel po' seduto sulla mia sedia, lo stomaco brontolante e
nella mente la domanda più pressante: chi avrebbe rimesso
tutto a posto in tempi decenti, in modo che la mamma non venisse a
saperne niente?
La
mamma è gelosissima della sua cucina: è la sua stanza
preferita, quella che non lascerebbe nemmeno se fosse costretta da un
incendio. Ma, tra tutte le cose che potrebbe amare della cucina, le
stoviglie sono quelle che ama di più.
Non
osavo immaginare cosa avrebbe potuto fare, vedendone un paio a terra
e in cocci, peraltro.
Mi
sono armato di coraggio, palo per lavare, scopa e strofinaccio. Ho
cominciato con la scopa, ma ho fatto solo più casino,
sporcando anche zone che erano rimaste intonse. E sulle spazzole
della scopa erano anche rimasti dei cereali.
Mi
chiedo come fa mia mamma a far risplendere tutto come uno specchio,
anche quando la casa è ridotta a un letamaio e sembra
impossibile da pulire. Avevo fatto il possibile, ma il latte era ora
sparso per tutta la cucina e le stoviglie si erano sminuzzate anche
di più, perché, mentre tentavo di prenderne qualcuna
con le mani, ne spezzavo altre sotto i piedi.
Avevo,
tra le altre cose, tentato di portare fuori il tavolo, ma ho ottenuto
solo di incastrarlo nella porta che dà sul retro del giardino.
Mentre
cercavo di liberarla, sono rientrati i miei genitori. Per la paura,
ho tentato di spingere un altro po' il tavolo, sperando che uscisse
e, così, una sua gamba mi è rimasta in mano.
«Forse
il signor Kagatoma ha ragione: la nuova scuola sperimentale dovrebbe
essere buona per Pan!» stava dicendo la mamma. «Speriamo
che abbiano mangiato!»
È
entrata in cucina e mi ha visto con quella gamba del tavolo in mano,
il tavolo incastrato nella porta e il latte cosparso per la sua
adorata cucina. La scena potrebbe sembrare divertente, ma era
drammatica.
«Che
è successo?» ha gridato, sgranando gli occhi, alla vista
di quel pandemonio.
«Ecco,
vedi...» non sapevo davvero cosa dire. Che potevo inventare?
Potevo dirle la verità? Chi mai mi avrebbe creduto?
«Mamma!»
ha gridato Pan, scendendo le scale di corsa. Non mi ero neanche
accorto che la sua musica assordante si era zittita. «Kenny è
un idiota! Si era messo i pattini in casa ed è caduto sul
tavolo, mentre io stavo beatamente facendo colazione! Che imbecille
sadico! Voleva dare la colpa a me, pure! Che stronzo!»
Dalla
faccia che ha fatto, ho capito che la mamma non ha creduto a nemmeno
una parola.
«E
dove sono i pattini?» ha chiesto, inviperita.
«Chiedilo
a lui!» ha risposto Pan, indicandomi. «Io che ne so?
Voglio dire... non ho voglia di impicciarmi nei suoi affari! Che ne
dici di dargli una bella punizione? Una di quelle che non
dimenticherà per il resto della sua vita? E guarda come ha
ridotto quel povero tavolo! Ha anche una gamba in mano!»
Pan
sorrideva maliziosamente, guardandomi. Ha, quindi, guardato la mamma
con finta aria innocente, mentre io gettavo quel pezzo di legno che
mi incriminava.
Papà
guardava prima Pan, poi me, dubbioso.
«Videl...
ma... che è successo?»
«CHE
NE SO IO? CHIEDILO AI TUOI FIGLI! C'ERANO LORO IN CASA!»
Papà
annuiva, preoccupato. «Sembra che sia passato un ciclone!»
ha esclamato. «Come ha fatto il tavolo a finire nella porta?»
«Ma
è stato Kenny, chiaramente!» ha detto Pan.
«Non
ti credo, Pan!» è stato il commento della mamma.
«Ma...
ma se io ero di sopra!»
Ho
annuito. «Volevo portarlo fuori!» ho detto. «Era
rotto e...»
«E
CHI l'ha rotto, Kenny?» mi ha chiesto mia madre, in tono
stridulo.
«Ecco...»
«Hai
messo i pattini?»
Ho
guardato Pan che mi faceva vedere i pugni.
«Noi
non li abbiamo nemmeno i pattini, mamma...» le ho ricordato.
«Tu non ce li hai mai voluti comprare...»
«Ma...»
Pan sembrava un pesce fuor d'acqua e aveva fatto cadere le braccia
lungo i fianchi, incredula. Mi ha indicato. «Sta dicendo
stronzate! Mamma, sta dicendo un mucchio di stronzate esagerate!»
«No...
aspettate... io questa cosa me la ricordo!» ha esclamato papà,
grattandosi il mento. «Sì, Videl, Kenny ha ragione! Tu
non glieli hai mai comprati i pattini perché avevi paura che
si rompessero il sedere e... mi stavo ascoltando per la
quattordicesima volta quell'aria divina che è il Va'
Pensiero e...»
«VA
BENE, VA BENE!» ha gridato mamma. «PAN, KENNY, ANDATE IN
CAMERA VOSTRA. SIETE IN PUNIZIONE FINO ALLA FINE DEL SECOLO!»
«Ma...»
questa volta abbiamo tentato di protestare entrambi.
«NIENTE
MA! ANDATE SUBITO DI SOPRA!»
Stranamente,
mia sorella non ha dato in escandescenze e, anzi, ha preferito andare
subito di sopra, mentre io ho attraversato la cucina e, una volta
sulla porta, la mamma mi ha subito dato uno scapaccione sulla nuca,
dicendo che mi dovevo vergognare del mio orribile comportamento.
Mentre
salivo, Pan mi ha aspettato su per le scale e mi ha tirato un altro
scapaccione sulla nuca. «Idiota!» ha detto e si è
di nuovo chiusa in camera.
Ho
passato praticamente la giornata a leggere fogli di fumetti andati
perduti, mentre mamma e papà discutevano animatamente in
cucina. I rumori della porta che veniva liberata dal tavolo e dei
cocci che venivano raccolti facevano da contorno alle loro voci
decisamente troppo alte. Figuriamoci poi che bel concertino che è
venuto fuori, non appena è arrivato il nonno che ha subito
preso le difese di Pan, dicendo che ero io ad aver mentito e Pan ad
avermi visto coi pattini.
«PAPÀ
NON TI CI METTERE PURE TU, ADESSO!» ha gridato mamma. «NON
CI SONO PATTINI IN QUESTA CASA!»
Fortunatamente,
quando le vivande sono state pronte (ed erano le due e mezza), le
urla erano completamente cessate e la pace era tornata in casa
Iccijojji. Dopo uno strano pic-nic in cucina, la mamma non ha nemmeno
sparecchiato che ha guardato sia me che Pan con aria grave.
«Andate
in salotto e sedetevi: devo dire una cosa importante a tutti e due!»
Io
e Pan avevamo una faccia abbastanza preoccupata: andare in salotto ci
ha sempre messo in soggezione, sarà perché quando ci
andiamo tutti insieme per parlare, è per qualcosa di grave o
molto solenne, a volte tutte e due le cose, ma insomma, è
sempre un po' preoccupante, pure per Pan, anche se tenta di sembrare
spavalda.
Ieri
ci volevano parlare di quello che il professore aveva detto a lei e
papà.
Papà,
mamma e nonno si sono seduti sul divano, mentre io e Pan sulle
poltrone. Ci guardavano come se avessimo delle bombe in mano e
avessimo minacciato di farle esplodere da un momento all'altro. Non
mi è piaciuto che i miei genitori mi squadrassero in quel
modo: mi sono sentito molto in colpa.
Mamma
ha inspirato più volte, poi si è rivolta a mia sorella:
«Pan,
sappiamo che fai molta fatica ad ambientarti, ad avere degli amici e
ad essere gentile col tuo prossimo. Abbiamo fatto una lunga
chiacchierata con Kagatoma...»
«Mamma...»
ho cercato di dirle che il prof non si chiama Kagatoma, ma lei mi ha
ordinato di non interromperla più. Ho annuito.
«Ha
detto che, per le tue attitudini, dovresti frequentare una scuola per
ragazzi difficili... me ne ha consigliata una sperimentale. Prendono
ragazzi dai dodici anni in su, è una scuola fuori città,
aperta già da vent’anni, un po’ fuori mano... un collegio.
Sai, dormi, mangi, studi lì nove mesi l’anno e ritorni a
casa solo per le vacanze natalizie, pasquali ed estive!»
Pan
ha ascoltato fino in fondo questa descrizione con fare scettico.
«Quindi... mi stai chiedendo di prendermi baracca e burattini e
di andarmene di casa?» ha chiesto, disgustata.
Io
sono rimasto perplesso: una scuola per ragazzi difficili? Pan non era
esattamente «facile», ma, addirittura mandarla in una
scuola simile... mi sono sentito piuttosto inquieto.
«No,
che dici?» ha esclamato la mamma, come se Pan l'avesse punta
nel vivo. «Non ti mando da nessuna parte: ti faccio frequentare
una scuola adatta a te, cara mia! Sarà una bella esperienza,
adattissima per una ragazzina come te! Ti abbiamo già
iscritto! E, forse, dato che... dato che anche Kenny sta cominciando
ad avere i tuoi stessi... ehm... problemi... ho deciso che ci
andrà anche lui!»
«Come
anch’io?» ho urlato, scattando in piedi. Il misfatto del
tavolo e delle stoviglie deve averla convinta a farmi questo. E
cominciavo a spaventarmi.
«Certo,
caro!» ha risposto la mamma, orgogliosa. «Perché
non voglio che tu diventi irrecuperabile come tua sorella!»
«Ma...
mamma, io non sono come Pan!» mi è scappato.
«Scusa,
che hai detto, paramecio?» ha detto lei, alzandosi anche lei e
prendendomi per il colletto della camicia.
«N...
niente... Pan, niente!» ho tentato di rimediare, ma è
stato inutile.
«Non
è vero!» ha gridato lei, stringendo forte il pugno.
«BASTA!»
ha ordinato la mamma e tutti e due l'abbiamo guardata. «Lo so,
caro, che non sei come lei! Ma, purtroppo... dopo quello che ho visto
oggi, è meglio che vada anche tu, credimi!»
«Stronzate!»
è stato il commento, stavolta azzeccatissimo, di mia sorella.
Solo perché ho tentato di portare via un tavolo, mi ritrovo a
dover andare in una scuola per ragazzi disturbati!
Ho
paura e anche diversi dubbi, ma non ho potuto dire niente alla mamma
che mi guardava con tante aspettative, quasi credesse che,
frequentando una scuola simile, avrei potuto diventare imperatore. Ho
balbettato qualcosa, ma non sono stato incapace di esprimere la mia
rabbia, la mia paura, forse per quello sguardo luccicante di mia
madre che non ammetteva repliche.
Pan,
comunque, ha cominciato a sbraitare, a battere i piedi.
«QUESTE
SONO TUTTE STRONZATE!» ha detto e io, per la prima volta nella
vita, ho annuito. «RAGAZZI DIFFICILI? PERCHE'? COME SONO I
RAGAZZI FACILI? IO NON VADO DA NESSUNA PARTE!»
Ho
annuito ancora, stavolta più vigorosamente di prima.
Anche
mamma si è alzata in piedi. «TU CI ANDRAI! E ANCHE TUO
FRATELLO!»
«NON
CREDO PROPRIO! SE LUI VUOLE ANDARE, LIBERISSIMO DI FARLO! IO ME NE
VADO DI CASA, PIUTTOSTO!»
Il
nonno si è intromesso. «Andiamo, Videl cara!»
ha esclamato, posandole una mano sulla spalla, guardandola con fare
paterno. «Se Pan non vuole andare non dobbiamo di certo
costringerla!»
«Papà,
fatti i cazzi tuoi!» poi si è rivolta a Pan. «E
DOVE PENSI DI ANDARE, EH?»
«ME
NE VADO DI CASA! ME NE VADO SUI MONTI PAOZ E TI VADO NEL CULO!»
Nonno
Satan l'ha guardata con occhi sgranati. Sembrava un pesce lesso,
tanto che ho dovuto fare i salti mortali per non scoppiare a ridergli
in faccia. Il pandemonio è continuato a lungo. Io e papà
ci guardavamo interdetti, mentre nonno, mamma e sorella gridavano a
più non posso.
Credo
che i vicini non abbiano chiamato la polizia giusto perché ci
conoscono...
Non
abbiamo concluso niente: tutti sono rimasti dell'idea di cui erano in
partenza e, l'unica cosa che è cambiata, è stato il
fatto che la mamma ci ha spediti filati in camera.
Mia
madre, però, somiglia a mia sorella e, se dice che andremo in
quella scuola, so che ci finiremo, volenti o nolenti. Mi chiedo solo
come farà a convincere Pan...
*****
*Iccijojji
è il cognome di Ken (Digimon 2), nonché protagonista
della serie, ma talmente stravolto da essere irriconoscibile.
Ho
deciso di estenderlo a tutta la famiglia Son, semplicemente perché
all'epoca non sapevo il cognome di Goku (avevo visto solo l'anime di
Italia 1). Non l'ho mai cambiato per questioni di affetto verso la
mia storia, quindi spero non me ne vogliate.
Ken
Iccijojji è diventato Kenny molto tempo fa, per un motivo che
non ricordo neanch'io... ma ci sono così affezionata che mi
duole il cuore al solo pensiero di doverlo cambiare.
Molti
nomi, anche se la storia è ambientata in Giappone, sono
inglesi e alcuni anche italiani, ma anche qui, sempre per le
motivazioni spiegate più sopra, non saranno cambiati, perché
ormai i nomi sono parte di quei personaggi e non sarebbero più
loro con un nome diverso.
Personaggi
da un po' tutti i cartoni animati, anime e i libri che mi sono
piaciuti arriveranno con l'evolversi della storia (ma non aspettatevi
caratteri IC).
Alcuni
saranno personaggi originali, ma saranno molto esigui (e prima che me
lo chiediate: no, non andranno ad Hogwarts, anche se la storia dei
sette anni l'ho pescata da lì).
A
questo punto, vi sarete posti una domanda: se tutti tutti i
personaggi non saranno come nell'originale, perché non
scrivere un racconto originale? Sempre per la questione dei nomi
spiegata qualche riga più sopra. Per me, purtroppo, un nome è
tutt'altro che banale.
Che
altro dire? Spero che vi sia piaciuto questo lunghissimo prologo,
spero che non vi abbia annoiato e che, anzi, continuerete a leggere
anche i prossimi capitoli e che non mi abbandonerete.
Quel
che avevo da dire l'ho detto, adesso la parola a voi, lettori.
Luine. |
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Capitolo 2 *** Presentazioni ***
Le
lezioni al primo anno.
Presentazioni
La
mamma, quando ci ha parlato della scuola per ragazzi disturbati e
disadattati, non ci aveva detto proprio tutto tutto... ci aveva dato
solo qualche assaggio. E anche piuttosto deludente.
Ho
passato tutta l'estate ad attendere il mio destino e il primo di
settembre, il momento in cui sarei entrato in una scuola piena di...
persone come Pan.
Sapevo
che sarei diventato il tappetino di altri, se solo mia sorella
l'avesse voluto.
E
l'estate è volata via, così, come è arrivata e
non me la sono goduta minimamente. Agosto, poi, è stato un
vero inferno, non solo per il caldo: la mamma ha preteso che
cominciassimo a prepararci le valigie.
«Se
no, poi, arrivate lì e vi manca un paio di mutande!» ha
detto, mentre posava tutte quelle che trovava nel mio borsone da
viaggio. Le volevo dire che non sarebbe stato il paio a fare la
differenza, ma poi preferivo optare per altre domande, quali
parastinchi, parapalle e quant'altro per sopravvivere nella giungla
degli energumeni. Ma lei mi rideva in faccia e, come sempre quando
le facevo di queste richieste, andava da un'altra parte che, di solito, era la
camera di Pan.
La
mia sorellona era più irascibile del solito ed era meglio
evitare di stare per più di due minuti nella stessa stanza con
lei, se non si voleva dire addio a timpani e ossa. Persino nonno
Satan non è stato risparmiato: la ferita sul labbro che lei
gli ha procurato si deve ancora rimarginare e ce l'ha da due
settimane, ormai!
Mamma,
comunque, non è mai riuscita a farle cambiare idea: le ha
semplicemente preparato le valigie e, dopo le prime due volte in cui
Pan le risvuotava, ha imparato a metterle in un «posto sicuro»,
di cui nessuno ha mai saputo l'esatta locazione.
Ma comunque Pan
non è mai scappata. Forse perché detesta cordialmente
nonna Kiki e non andrebbe mai a vivere sotto il suo stesso tetto.
1
Settembre
Stamattina
mi sono alzato molto presto, svegliato dalla mamma che batteva il
mestolo di metallo sul retro di una padella, dal fondo delle scale.
Pan
ha sbattuto la porta di camera sua, cominciando a urlare:
«CHE
CAZZO C'È?»
Era
la stessa domanda che mi stavo facendo io. Mi sono messo seduto e ho
sbadigliato sonoramente, mentre lei entrava, ancora sbattendo la
porta.
«Sei
di una finezza disarmante, Kenny!» ha avuto il coraggio di
dirmi. Ho alzato gli occhi per chiederle che stesse dicendo, ma era
già corsa in bagno. Dato che, quando entra lei in bagno, ci
mette sei quarti d'ora ad uscirne, sono sceso in cucina per la
colazione.
Non
ho mai visto casa mia in quello stato: il corridoio di fronte alla
porta d'ingresso era stivato di valigie e borsoni, quasi dovesse
partire uno squadrone, non due ragazzini. La porta era aperta e papà
andava e veniva portandone un paio alla volta verso la macchina
parcheggiata fuori. Aveva una faccia da funerale, così come il
nonno che era seduto sul bordo di una poltrona e aveva anche gli
occhi lucidi.
Non
l'avevo mai visto piangere.
La
mamma, intanto, era ancora in cucina e accarezzava una tovaglietta da
colazione e singhiozzava silenziosamente. E' stato il momento più
brutto della mia vita: ho realizzato che avrei lasciato la mia
famiglia per molti mesi e che li avrei passati in un postaccio
terribile. Non riuscivo a trattenere le lacrime, ma ho fatto del mio
meglio, peccato che, quando sono entrato in cucina, non ce l'ho fatta
e mi sono messo a piangere come un vitellino.
«Oh,
Kenny!» piangeva la mamma, alzandosi e venendo ad abbracciarmi.
Mi sentivo un condannato a morte. «I miei bambini che se ne
vanno di casa! Non vedrò i miei bambini per quattro
lunghissimi mesi!»
«L'unica
cosa che dovevi fare, mammina cara...» è stata Pan a
parlare. Non appena l'abbiamo sentita, io mi sono girato e la mamma
ha sciolto il nostro abbraccio. Mia sorella sembrava l'unica a non
essere stata affetta da crisi di pianto. «L'unica cosa che
dovevi fare era di non iscriverci a quella cazzo di scuola, ma,
dopotutto devi avere dei figli che, non appena gli schioppano una
frusta poco vicino al culo, devono scattare, per cui...»
Non
ha finito la frase, si è seduta e ha cominciato a trangugiare
la colazione. Intanto, notavo il suo abbigliamento: era vestita da
mare, con il prendisole e le ciabatte, una cosa che fa quando non ha
voglia di andare da qualche parte e non la si può convincere
del contrario.
Per
questo è stata una bella impresa caricarla (nel vero senso
della parola) in macchina. Dopo che abbiamo finito tutti di
prepararci, pure il nonno, eravamo pronti per partire, solo che,
appunto, Pan non voleva salire.
Ero
dietro di lei, con a fianco la mamma che continuava ad asciugarsi le
lacrime con un fazzolettino di carta, quando mia sorella si ferma
davanti alla portiera aperta della macchina e guarda me.
«Su...»
mi ha detto, quasi gentile. «Posa le chiappe su questo cazzo di
sedile!»
Ho
annuito, incapace di contraddirla, ma la mamma mi ha bloccato
afferrandomi per una spalla.
«Prima
tu, Pan! E smettila di essere volgare!» ha detto, categorica.
«Ma
non rompere, mammina cara!» ha risposto lei, ancora usando quel
tono falsamente gentile. Non sapevo che pensare... ma sapevo che la
faccenda mi preoccupava: Pan non è mai così
accondiscendente, a meno che non abbia un piano in mente. E i suoi
piani mi spaventano sempre un po', perché sono tutto meno che
sicuri. Cioè, sicuri sono, ma per quanto riguarda le costole
rotte.
«PAN!
UN PO' DI RISPETTO! SONO TUA MADRE!»
«Fai
salire Kenny!» Pan mi ha indicato.
«HO
DETTO PRIMA TU!»
«E
IO TI DICO PRIMA KENNY!»
«PRIMA
TU!»
«PRIMA
KENNY!»
«TU!»
«KENNY!»
«HO
DETTO: TU!»
Mamma
ha fatto un balzo avanti, cosa che né Pan né io ci
aspettavamo. L'ha afferrata per le spalle, decisa a spingerla dentro.
Il
problema è che Pan ha fatto resistenza ed è anche
riuscita a girarsi, così che ha potuto afferrare il tettuccio
della macchina con le mani e puntare i piedi sulla strada, in modo
che, comunque la mamma la spingesse, non potesse entrare.
«NON
CI VERRO' MAI IN QUELLA SCUOLA! SCORDATELO!» gridava mia
sorella, continuando a opporre fiera resistenza, con la mamma che, da
dietro, la spingeva e gridava a sua volta.
«NON
FARE STORIE, TESORUCCIO! MUOVITI, ENTRA IN MACCHINA!»
«MAI!»
Papà
guardava tutto con fare preoccupato dal posto di guida, mentre il
nonno tifava per Pan dal marciapiede. Aveva lasciato perdere le
valigie che non erano ancora state caricate e mi sembrava quasi di
essere allo stadio. I vicini avevano cominciato ad affacciarsi,
credendo ad un rapimento, forse.
Il
signor Parker, il nostro dirimpettaio era uscito in giardino come
tutte le mattine, aveva aperto il tubo dell'acqua con il quale
annaffia i fiori e guardava il tutto come se non credesse ai suoi
occhi o come se non ci vedesse molto bene. Ma forse un po' tutti e
due.
«Ehm...
Videl...» ha chiamato papà, ad un certo punto.
«PERCHE'
NON VIENI A DARMI UNA MANO, GOHAN, INVECE DI STARE LÌ A FAR
NIENTE? PAN, ENTRA...»
«HO
DETTO DI NO!»
Nemmeno
il poliziotto che passa tutti i giorni nel nostro quartiere si è
fermato... ormai conosce bene la nostra famiglia e nemmeno i vicini
inviano più segnalazioni alla polizia, ma, chissà come
mai, la nostra zona è famosa per il più basso tasso di
vendite immobiliari... comincio a credere che sia colpa nostra.
«Pan,
tesoro...» ha cominciato papà, uscendo dall'auto, mentre
ero nel bel mezzo di queste elucubrazioni mentali.
«NON
MI AVRETE! IMMOLATEMI, PERCHE' IO NON PARLERO'!»
«NON
ABBIAMO BISOGNO CHE PARLI! SOLO CHE COLLABORI E TI INFILI IN
MACCHINA!» ha continuato la mamma, ancora spingendo con forza.
Davvero non sapevo se ridere o nascondermi, se aiutare mia madre o
continuare a starmene fermo in quel modo come un cretino. La verità
era che mi sentivo davvero un cretino.
«VAI,
PAN, CHE SEI FORTE!» questo è stato il grido del nonno.
«PAPÀ,
PIANTALA E DAMMI UNA MANO! A TE DÀ ASCOLTO!»
Il
nonno, alle parole della mamma, ha smesso di fare il tifo, ma anche
di fare qualsiasi altra cosa.
Mamma
continuava la sua lotta contro mia sorella che, adesso, si scuoteva
come una scimmia, appesa al tettuccio, mentre io tentavo di non
ridere. Chi non c'era non può capire l'ilarità, il
problema è che credo di essere stato l'unico a coglierla,
insieme al dirimpettaio, che continuava a guardare la scena con la
bocca e l'acqua aperte, un mezzo sorriso incerto, mentre la vecchia
della casa alla destra di quella di Parker aveva chiuso le tende,
indignata.
«Ma
io non voglio che la mia nipotina mi lasci!» ha spiegato il
nonno alla mamma che gli chiedeva perché non faceva niente.
«NONNO,
NOI NON CI PIEGHEREMO A QUESTI AMERICANI SCHIFOSI!» gridava mia
sorella, allungando un braccio verso di lui. Il nonno non ha capito e
ha cominciato a guardarsi intorno.
«Quali
americani?»
«BASTA!
SIETE TUTTI CONTRO DI ME! KENNY, COMBATTI TU PER ME! IO SONO
SCONFITTA!»
Ho
fatto una smorfia strana: che avrei dovuto fare? Mi sono guardato
intorno più spaesato del nonno, mentre la mamma continuava a
chiedere aiuto a papà. Ma Pan era davvero sconfitta: le sue
mani non sono riuscite a resistere alle spinte di mamma e, sudando,
sono scivolate. Così è entrata in macchina.
Il
resto è stato un secondo: non so cosa o chi mi abbia
afferrato. Mi sono sentito catapultare in macchina e mi sono
ritrovato proprio sopra Pan.
«CHE
FAI? MANIACO!» mi ha tirato un pugno sulla testa e poi mi ha
spinto con una ginocchiata fin sullo sportello prontamente richiuso
dalla mamma. Meglio così, altrimenti mi sarei ritrovato con la
testa spaccata sull'asfalto e, questa sera, avrei scritto questa
pagina di diario al fianco di San Pietro. Scommetto che Pan non
sarebbe stata così dispiaciuta.
Ma
nel frattempo mi sono lamentato parecchio.
«Invece
di aiutarmi, pensi di finirmi addosso! E tu ti dichiareresti mio
fratello! Che schifo!» ha detto, delusa e disgustata, prima di
sputare sul sedile davanti, mentre il nonno riapriva la portiera dal
suo lato. Ho immaginato un luccichio sinistro negli occhi di Pan,
prima del suo nuovo tentativo di fuga: «BRAVISS... MERDA!»
Il
nonno era salito prima che lei potesse solo provare a mettere un
piede a terra.
«Perché,
nonnino?» ha chiesto, a quel punto, Pan, in tono lamentoso.
«Perché vuoi abbandonarmi in quella scuola per pazzi? CI
GODETE A FARMI SOFFRIRE?»
Il
nonno stava di nuovo per farsi venire i lacrimoni agli occhi, cosa
che stava facendo commuovere anche me, non solo per via delle
stelline che ancora riuscivo a vedere dopo quel colpo in testa.
«Adesso
possiamo andare!» ha esclamato la mamma, non appena ha chiuso
tutte le portiere con la sicurezza-bambini, per paura che Pan le
potesse sfuggire con la macchina in corsa.
Il
viaggio è stato indolore. Sì, fino all'autostrada!
Siamo
rimasti imbottigliati nel traffico per rimanervi fino oltre le due,
con un caldo e una fame che ci stava uccidendo. Perché, come
se non bastasse, la mamma non aveva preparato nemmeno un panino,
convinta che ci saremmo fermati in qualche autogrill. Almeno ha
portato sei bottiglie d'acqua, peccato che Pan se ne sia scolate due
e mi sia toccato lottare per avere la terza.
Il
nonno continuava a lamentarsi e io ero decisamente andato K.O., non
solo per la fame, ma anche per il caldo, perché papà ha
comprato la macchina senza l'aria condizionata per via dei costi
troppo alti. E non potevamo nemmeno aprire i finestrini: non è
il massimo finire asfissiati dallo smog dei tubi di scappamento. Una
volta ci abbiamo provato ed è un'esperienza da non ripetere.
Non
abbiamo potuto nemmeno entrare in autogrill, perché, anche per
entrarci, c'era una fila che non auguro neanche al mio peggior
nemico.
«Io
lo sapevo che oggi sarebbe stata una fottuta giornata!» diceva
Pan, disperata. Anche lei non sembrava messa troppo bene: sudava come
un maiale e aveva cominciato a puzzare. «Sapevo che saremmo
crepati in questo caldo!»
Fortunatamente,
non appena abbiamo lasciato l'autostrada, la strada si era fatta più
sgombra e abbiamo potuto aprire i finestrini e far entrare un po' di
aria fresca.
La
mamma, a un certo punto, ha detto a papà di girare a sinistra
al primo svincolo. Giuro che Pan ha dato voce ai miei pensieri, cosa
che mi ha lasciato del tutto impreparato:
«Ma...
se gira a sinistra, mammina cara, finisce nel covo dei militari.
Guarda: c'è un filo spinato e sui cartelli c'è scritto:
“Vietato l'ingresso. Zona militare”.»
Io
mi chiedo dove ha trovato la forza per parlare, ma l'ha fatto e col
tono che si usa coi bambini scemi e la mamma, per una volta che mi
ero premunito e mi ero tappato le orecchie, non ha cominciato a
urlare, ma, anzi, ha risposto tranquillamente.
«Ho
un passy speciale. Me lo sono fatto inviare per posta!»
«Ma
quante stronzate che spari!» ha sbuffato mia sorella,
spaparanzandosi sul sedile, accanto al nonno che si era scolato
l'ultima bottiglia d'acqua.
«IO
NON SPARO STRONZATE, MIA CARA FIGLIA MALEDUCATA!»
Vorrei
tanto essere come mia madre e mia sorella: con tutto il loro argento
vivo. Sono davvero incredibili, anche con lo stomaco vuoto.
«E
di chi è la colpa, se sono maleducata?» ha sbottato Pan,
sarcastica.
«TACI!»
«Ehm...
allora...» ha domandato papà. Il suo tono era abbastanza
incerto, ma non posso biasimarlo: la mamma sarebbe capace di farci
finire fuori strada, se non si tenta di calmare le acque. «Che
faccio? Giro o non giro?»
«GIRA,
GOHAN! GIRA!»
«Ehm...
sì, okay, giro!» così ha messo la freccia e, dopo
qualche metro, ci siamo ritrovati davanti alla cabina della guardia
del “covo dei militari” che aveva abbassato la sbarra.
«Buon
pomeriggio!» ha detto la guardia, chinandosi sul finestrino,
con la mano sopra al tettuccio e guardandoci dubbioso, come a
chiederci chi eravamo.
«Abbiamo
il passy!» ha esclamato la mamma, tirandolo fuori dalla
borsetta e sventolandolo come un fazzolettino.
Pan
non ci poteva credere (neanche io, fino a che non l'ho visto, devo
essere sincero): come poteva avere un passy per entrare in una zona
militare spaziale?
«FAMMI
VEDERE!» si è spinta tra i due posti davanti e ha
allungato la mano per strappare il passy dalle mani di mamma che,
però, non voleva cederglielo e tentava di spingerla indietro a
suon di gomitate.
«STAI
SEDUTA, PAN! STAI SEDUTA!»
«Vi
prego, smettetela!» diceva papà, in tono disperato.
La
guardia ci guardava con gli occhi sgranati. Aveva perso tutto il suo
contegno militare e io mi vergognavo come un ladro. Il nonno aveva
ripreso a fare il tifo per Pan.
«FAMMI
VEDERE E MI METTO SEDUTA!» diceva lei, lottando e sventolando
quel braccio come per salutare qualcuno molto lontano.
Papà
ridacchiava nervosamente. «Le scusi!» diceva al soldato.
«Basta
che non mi fanno stare qui tutto il pomeriggio...» ha replicato
lui, come se la scena cui assisteva fosse stata normale. «Stanno
per arrivare anche i pullman dalla città... e un sacco di
altri genitori. Devo ammettere che...» ha guardato me, sul
sedile posteriore. «avete fatto piuttosto in fretta... il
traffico dell'autostrada è davvero incredibile a quest'ora!»
«Ha
ragione...» ha ammesso papà. Ha cercato di intavolare
una conversazione, ma non ce l'ha fatta, grazie alle grida di mia
madre, di mia sorella e del nonno. Mentre io mi chiedevo come mai
quel tizio ci stesse aspettando... e un pensiero orribile si è
formato nella mia mente: che la scuola per ragazzini disturbati...
fosse... dentro?
«ADESSO
BASTA!» gridava la mamma. «GOHAN, PRENDI IL PASSY E
DALLO...»
«A
ME!» ha risposto Pan.
«ALLA
GUARDIA!» l'ha corretta mamma.
«Scusa,
Pan...» ho chiesto. Lei ha smesso di lottare con mamma e, senza
pensarci un attimo, papà ha afferrato il passy dalle mani di
mamma e l'ha ceduto alla guardia che, sospirando, l'ha preso.
«Sei
scusato, ma solo se la tua è una domanda intelligente!»
mi stava dicendo Pan, intanto. Ero dubbioso: la mia sarebbe stata una
domanda abbastanza intelligente? Ho deciso di cambiarla all'ultimo.
«Ecco...
ehm... perché volevi il passy?»
La
sua espressione, da curiosa, è diventata delusa e disgustata.
«MA CHE CAZZO DI DOMANDA È? MA SECONDO TE?»
«Potete
andare!» ha detto la guardia, restituendoci il passy.
Papà
ha messo in moto, mentre mi beccavo un pugno sulla guancia. Non so
come la mia mandibola o i miei denti abbiano retto all'urto, ma sono
felice che sia successo. Peccato per il dolore che, se ci ripenso,
torna tutto intero.
«Sì,
ma... perché?» ho chiesto ancora, mentre seguivamo il
grosso viale.
«Perché...»
Pan si è sporta di nuovo verso il davanti e, stavolta, è
riuscita a strappare di mano a mamma il passy. «Perché
volevo vederlo... ma a quanto pare è autentico...»
Ha
guardato sospettosa nello specchietto retrovisore, mentre io guardavo
il passy della discordia nelle sue mani. C'era solo scritto:
Autorizzazione all'ingresso nel distretto militare spaziale,
seguito da disegnino dell'aquila
che era stato anche sul berretto della guardia. Ora sì che ero
preoccupato. Ho deglutito a vuoto un paio di volte, prima di prendere
coraggio e di parlare di nuovo.
«Senti,
mamma... ma la scuola è... qui?»
«Ma
certo che è qui!»
«COSA?»
ha gridato Pan, indignata. «COSA VUOL DIRE CHE LA SCUOLA È
QUI? DOVE MI HAI MANDATO?»
«Su,
Pan, calmati!» stavolta è stata la mamma a parlare con
sufficienza.
«CALMARMI?
MI STAI MANDANDO DA QUESTI FASCISTI ASSASSINI!»
«ORA
BASTA!»
Eravamo
finiti in una zona militare che, a priva vista, era identica alle
altre, coi suoi fabbricati grigi, i camion verdi e qualche soldato
vestito di nero che guardava passare la nostra macchina rosa.
Il
rosa è un colore imbarazzante, soprattutto per una macchina,
ma era il colore che costava meno e, quando abbiamo deciso di
cambiarla, la mamma non ha voluto sentire ragioni.
Sì,
è imbarazzante all'inverosimile, ora che ci penso.
«Avevo
capito che era una scuola per ragazzi difficili!» ho detto,
sentendomi improvvisamente molto più teso.
«Beh...»
ho visto la mamma fare una smorfia dallo specchio retrovisore. «La
vita militare è l'unica che può plasmarvi davvero e
farvi diventare bravi ragazzi, come voglio che siate.»
Ora
sì che volevo davvero scappare.
«Mamma...»
ha continuato Pan, inorridita. «Lo sai che mi stai mandando a
una scuola di obbedienza, come ai cani?»
«Ma
non è una scuola di obbedienza! E' un collegio militare
speciale!» credo che la mamma non abbia colto l'ironia di mia
sorella, ma non è una novità. Se prima ero stato
terrorizzato dai ragazzi difficili e disturbati, lascerei solo
immaginare quello che ho provato, non appena ho sentito le parole
“collegio militare speciale”. Unire le due cose mi ha
riempito del terrore più puro. Credo di sapere cosa prova uno
ad avere la pistola puntata alla tempia, perché era così
che mi sentivo.
«Che,
a casa mia, è sinonimo di scuola di obbedienza!» ha
detto Pan, in risposta all'obiezione di mamma.
«Fino
a che vivi a casa mia, sarà un collegio militare!» è
inutile: la mamma, quando vuole, non capisce l'ironia neanche se la
paghi. Pan ha deciso di ignorarla, mentre io meditavo il suicidio.
Dopo
un paio di metri, abbiamo trovato un cartello con una freccia che
recitava: “Collegio Militare – 100 m”.
«SVOLTA,
PRESTO!» ha gridato la mamma. Papà, per la sorpresa, ha
cominciato a sbandare e abbiamo preso tutti a urlare, mentre papà,
terrorizzato, tentava di riprendere il controllo del mezzo. Giuro, se
non me la sono fatta addosso in questa occasione, non me la farò
mai più. Non so neanche come non ci siamo cappottati, mentre
papà muoveva velocemente il volante e frenava
contemporaneamente. Mamma continuava a gridare come una pazza,
insieme a me, mentre Pan si reggeva dal manico sopra il finestrino
accanto al nonno. Lui sembrava l'unico in grado di apprezzare quello
che, più tardi, avrebbe chiamato «grazioso
contrattempo».
«MORIREMO!»
erano queste le confortanti parole di mia sorella, mentre posava i
piedi sopra il sedile davanti, quello di mamma, e la testa sul suo
poggiatesta e si metteva a dondolare di qua e di là, nella
grottesca imitazione di una scimmia.
Neanche
il tempo di dirlo ancora, che la macchina era di nuovo in
carreggiata, solo qualche metro più avanti rispetto a dove
dovevamo andare. La cosa positiva era il silenzio calato sulla
macchina. Papà, ho visto dallo specchietto retrovisore, era
incazzato nero e stringeva convulsamente il volante.
«Videl...»
ha detto, dopo un po', tremante. «La prossima volta che vedi un
cartello... taci! Ci penso io!»
«Certo!»
è stato l'acido e leggermente isterico commento di mamma.
«Così poi ci fai morire! Se non c'ero io, eravate tutti
già all'altro mondo!»
«Mah...»
ha sbottato Pan, che continuava a dondolarsi. «Io dico che
papà, per una volta, ha ragione e non ha detto le solite
stronzate! E tu sei solo un'isterica!»
«IO
NON SONO ISTERICA!»
«CAZZO,
VIDEL! TACI UNA BUONA VOLTA!»
Il
silenzio, poi, è calato davvero sulla macchina: era la prima
volta, penso, in tutta la mia vita, che sentivo mio padre urlare a
quel modo... e per zittire la mamma! Persino Pan, scioccata, ha
deciso di riprendere a fare la persona normale e si è seduta
composta. Solo il nonno ha parlato e solo per dire, appunto del
«grazioso contrattempo», al quale Pan ha risposto con un
«Tu sei tutto scemo!».
Nemmeno
una parola, da allora, è volata all'interno della macchina,
perché avevamo tutti paura, credo, di sentire papà
fare, di nuovo, una cosa così strana come urlare. Se non
l'avessi sentito con le mie orecchie, non l'avrei creduto possibile.
Abbiamo
girato in tondo per un po', fino a che un soldato caritatevole ci ha
indicato la strada giusta.
Incredibilmente,
abbiamo lasciato la zona dei fabbricati e ci siamo infilati in una
via alberata, in netto contrasto con il panorama precedente. Davanti
a noi, una caserma nella caserma, più protetta di Fort Knox.
Insomma, all'insegna del benvenuto.
Il
muro era grigio, alto e spesso. Credo che, là sopra, ci poteva
stare per lungo tutta la macchina di papà e anche molto
comodamente. E all'ingresso c'era pure un cancello blindato, ma che
per fortuna era aperto. Almeno il passy non è servito di
nuovo. Anche perché non c'era manco un sorvegliante.
Ci
siamo ritrovati in un cortile di terra battuta, davanti ad un
edificio alto, grigio e triste. Pare una scatola, pieno di finestre
piuttosto piccole come quelle di una prigione. Il benvenuto trasudava
da tutti i pori.
Abbiamo
parcheggiato davanti al muro, di profilo, così che si vedesse
meglio il colore rosa da qualunque angolazione la si volesse guardare
«La
mamma ci ha mandando in un carcere di obbedienza.» continuava a
borbottare Pan, che si era stretta nelle spalle e guardava torva il
lungo cortile davanti a noi.
Il
portone dell'edificio, sempre di metallo, è preceduto da una
scalinata spoglia. Ho guardato bene: c'erano tre ragazzi là
seduti, tutti vestiti di nero. Non sembravano molto più grandi
di me.
Erano
tre dei famosi ragazzi disturbati e difficili.
Ho
deglutito molto rumorosamente, mentre mi facevo forza e scendevo
dalla macchina. Pan mi ha, stranamente, seguito e, come me, guardava
tutto con la bocca spalancata.
«E
io dovrei venire a vivere qui?» diceva. «Ma tua madre,
Kenny, è fuori come un cazzo dalle mutande!»
«Senti,
Pan... che ne dici di lasciare i francesismi e di cercare di fare una
buona impressione?» ha chiesto papà, gentilmente,
chiudendo la macchina con un colpo di telecomando.
«Tanto
a che serve? Questa prigione è fatta apposta per farmi
smettere di dire certe parole... anche se io intendo far diventare la
vita di quelli che ci proveranno un fottuto inferno!» ha
risposto lei, guardando quei ragazzi sulle scale che ridacchiavano.
Io so perché lo facevano: la macchina rosa. E io mi vergognavo
peggio di un ladro.
«Certo,
tu potresti anche evitare di...» cercava di dire papà.
«Non
scassare il cazzo!» ha tagliato corto Pan.
Papà
non ha detto niente davvero. Mi chiedo se avessimo potuto crescere
diversamente, se, ogni tanto, ci avesse dato uno scapaccione. Ma lui
non l'ha mai fatto: ha sempre detto che non vuole metterci in
pericolo e distruggerci con la sua enorme forza. Il bello è
che io non l'ho mai visto usare la forza... solo quella volta, quando
avevo tre anni, in cui ha sollevato la macchina per prendere il mio
ciuccio che era finito là sotto. E, a quel tempo, la macchina
non era di certo rosa...
«Su,
ragazzi, andate a fare amicizia!» ci ha spronati la mamma.
«Non
ci penso proprio!» è stato il commento di Pan, che si è
stretta nelle spalle e si è voltata, in modo da darle a quei
ragazzi. Anche io ero piuttosto titubante. Uno di loro è
entrato nella prigione, mentre gli altri continuavano a osservarci,
come se fossimo stati degli animali strani.
«Gohan,
tu scarica i bagagli!» ha esclamato la mamma, mentre porgeva un
fazzoletto al nonno che aveva ripreso a piangere e a dire che è
stata crudele a mandare Pan in una scuola per ragazzi disadattati
come questa.
Quelli
seduti sulle scale erano vestiti con la stessa uniforme nera della
guardia al posto di blocco. Qualcosa mi diceva che anche io, presto o
tardi, l'avrei messa... e anche mia sorella e che tutti i vestiti che
la mamma ha messo nelle nostre valigie li potevamo usare per
accendere il fuoco. Se ci fosse un camino.
Dieci
minuti dopo, sono usciti dall'edificio due persone: la prima era uomo
alto, coi capelli biondo platino con una maschera che gli copriva la
parte superiore del viso; l'altra era una donna. Era più bassa
di lui, aveva i capelli castani raccolti in due crocchie ai lati
della testa, era brutta e portava degli occhialini tondi che le
facevano sembrare gli occhi ancora più piccoli e, cosa ancora
più grave, ci guardava come se fossimo delle merde. Entrambi
erano vestiti di rosso, avevano molte medaglie e i soliti polsini e
colletto a strisce dorate.
«Non
hanno un'aria molto raccomandabile...» ha detto il nonno,
preoccupato, tanto che ha acceso la curiosità di mia sorella
che ha deciso di voltarsi e guardare.
«Che
facce di cazzo!» ha esclamato. Fortunatamente, erano ancora
abbastanza lontani. La mamma, comunque, le ha dato lo stesso una
botta sulla spalla per farla tacere.
I
ragazzi sulla porta hanno fatto il saluto militare e, non appena i
due in rosso sono passati, si sono rilassati. Già mi
preoccupava il dover scattare in piedi ogni volta che vedevo
qualcuno: non conoscevo i gradi e non li conosco. Continuo a
chiedermi se salutare chiunque o solo qualcuno... di loro due, almeno
sono sicuro.
«Benvenuti!»
ha esclamato la donna, non appena è stata vicino a noi. Si è
fermata in una rigida posa militare, quasi avesse avuto un palo nel
sedere. «Sono il Colonnello Une, insegnante e direttrice di
questo collegio. Questo è il Colonnello Zack Marquise, uno dei
nostri qualificatissimi insegnanti.»
L'uomo
con la maschera ha fatto un cenno con la testa.
«Abbiamo
parlato con lei al telefono!» ha detto la mamma, allungando una
mano che il Colonnello Une ha preso con titubanza. «Siamo la
famiglia Iccijojji!»
Le
ha mostrato il passy che quella donna ha a malapena guardato.
«Sì,
mi ricordo...» ha tagliato corto. «Lei è la
signora che voleva iscrivere entrambi i suoi figli!»
«Precisamente!»
ha risposto la mamma, orgogliosa che ci si ricordasse di lei. «Bene.
I suoi figli possono salire in camera coi loro bagagli, mettersi in
divisa e andare dritti in Sala Conferenze, dove il nostro Generale
terrà un discorso di benvenuto per il nuovo anno! Seguitemi,
prego!»
Ha
fatto un mezzo giro su se stessa, imitata dal Colonnello Marquise e
si è diretta verso i ragazzi che ancora rimanevano in piedi
sulla porta.
«Caporale
Yuy!» ha chiamato lei. Il ragazzo che era entrato a chiamarli
ha rifatto il saluto.
«A
rapporto!» ha detto. Non aveva che qualche anno più di
me, forse aveva quindici o sedici anni, i capelli castani e uno
sguardo severo e leggermente snob. Il Colonnello Une si è
voltato verso di noi e ci ha lanciato certe occhiate che avrebbero
fatto rabbrividire un morto: credo che non avremo vita facile con
questa donna... fa davvero paura. Pure gli altri si sono portati
sull'Attenti. Tutti quanti erano poco più grandi di me.
«Scorterà questi due ragazzi nel loro dormitorio, sono i
soldati semplici Iccijojji!» ha detto la Une, in tono di
comando, al Caporale Yuy.
«Sissignora!»
ha esclamato lui, riunendo i piedi. La Une e Marquise sono rientrati,
con tutti noi al seguito. Gli altri due ragazzi rimasti si sono messi
a borbottare al nostro passaggio, ma non ci hanno seguito.
«Questa
caserma si riserva di formare i migliori piloti spaziali del mondo!»
ha detto la Une. «Ci vuole disciplina, rispetto delle regole e
amore per la patria! E ora, signori Iccijojji, vogliate seguirmi in
Sala Conferenze, mentre i vostri figli si cambiano!»
I
miei e il nonno non hanno detto niente, mentre a me cominciava a
gelarsi il sangue nelle vene: non credo di amare abbastanza la mia
patria per poter andare a pilotare un aereo spaziale, magari per
qualche guerra coloniale...
Abbiamo
seguito il Caporale Yuy fino al quarto piano (non ci sono ascensori,
solo scale, tante scale) e lui ha preso un enorme foglio dalla
tasca. Sopra c'era un elenco lunghissimo di nomi.
«Iccijojji...»
ha sussurrato. «Eccovi... quarto piano, primo anno corso B!»
«Corso
B?» ha ripetuto Pan, come se Yuy avesse detto chissà che
parolaccia.
«Sì...»
ha risposto lui, atono, mentre salivamo le scale e io e Pan ci
guardavamo intorno, cercando qualcosa che potesse diventare
familiare, come un quadro, una scritta qualsiasi sul muro. Ma niente,
tutto era spoglio e freddo. Persino il Caporale Yuy lo era.
«Questa
prigione ha anche dei... corsi? Non siamo quattro gatti?» ha
insistito mia sorella.
«No...»
ha risposto lui, scrutandola. «Siamo molti di più, mi
spiace deluderti! Ci sono ragazzi che vengono da tutto il Giappone e
anche dalle colonie spaziali.»
«Poveri
sfigati!» è stato il commento disgustato di Pan, quando
siamo arrivati al quarto piano.
«Direi
che ti stai dando della sfigata!» Yuy ha ripiegato il foglio e
se lo è rimesso in tasca, prima di guardare di nuovo mia
sorella.
«Sì,
lo sono, dato che, se non fosse stato per mia madre, io qui non ci
stavo!»
«La
vostra camera è l'ultima in fondo. C'è scritto “Primo
anno corso B”, non potete sbagliarvi!»
Ho
guardato Pan, in cerca di coraggio, ma temo che mia sorella sia stata
ben lungi dal volermi fare coraggio, infatti non mi ha degnato di
un'occhiata. Ci siamo, senza ulteriori indugi, diretti verso la porta
indicata da Yuy. Comunque sia, ci ha seguiti.
«I
tre piani successivi sono tutti dormitori.» ci ha detto. «E
io sono il responsabile di questo, quindi, se succede qualcosa,
dovrete chiamare me, chiaro?»
«Quindi
tu sei il più rompicoglioni e il più leccaculo qua
dentro, ho capito bene?» è stata la risposta di Pan.
Ogni tanto vorrei che avesse un po' più di pudore...
Lui
non ha risposto, o se l'ha fatto, non l'ho sentito, perché, in
quel momento, ho visto una ragazza uscire da una camerata sulla cui
porta c'era scritto “Quarto anno corso A”. Ed era una
ragazza... una di quelle vere, non come mia sorella che è più
un maschiaccio.
«Ma...
qui vengono anche le ragazze?» ho chiesto, prima di capire di
aver detto un'enorme stronzata.
«Sembra.»
è stata la risposta pacata di Yuy. Meno pacata è stata
quella di Pan che mi ha tirato uno scappellotto.
«IDIOTA!
E IO CHE SONO? UN FUNGO?» ha preparato il pugno e tirato
indietro il braccio, pronta a tirare.
«No...
scusa, scusa, Pan!» ho detto, proteggendomi la faccia con le
braccia: ho troppa paura dei suoi destri... non che coi sinistri la
mia paura migliori...
«E
sarà meglio!» ha detto, ritirandosi, per mia fortuna.
Yuy ci guardava perplesso, come se non capisse, poi, facendo un
cenno, ci ha invitato a proseguire.
Una
volta dentro, sono rimasto io perplesso... la nostra camerata era...
enorme, un appartamento, più che altro. Aveva un piccolo
disimpegno e tre porte. Una aveva una piccola targhetta con su
scritto “Ragazzi” e, sotto, un foglio attaccato che
conteneva un elenco di nomi; sull'altra c'era una targhetta con
“Ragazze” e un foglio analogo e, sulla terza, la
targhetta recitava “Bagno”.
«Le
camerate sono confortevoli. Ogni soldato ha il suo armadietto,
biancheria per il letto e per il bagno personali. Naturalmente, il
bagno è in comune...» ci ha informato Yuy.
«E
io dovrei pisciare dove hanno pisciato...» Pan si è
messa a contare il numero di alunni maschi. «Diciassette esseri
dotati di cazzo?»
Ho
guardato Yuy spaventato, pregando perché non facesse rapporto
già dal primo giorno. Ma lui sembrava ragionare su quanto
detto da Pan.
«Sì...»
ha risposto, senza scomporsi. «Altrimenti ci sono i bagni
comuni su tutti i piani, ma, anche quelli vengono usati dagli...
ehm... esseri dotati di cazzo... e ora scusa, ma devo parlare
con uno di loro...»
Si
è avviato verso la porta della camera dei ragazzi e ha aperto
senza manco bussare.
«Ramazza?»
ha domandato, ficcando la testa dentro. Dal disimpegno non vedevo
niente e quasi avevo paura di entrare. «Dov'è Ramazza?»
«Chi
cazzo è Ramazza?» è stata la risposta che mi ha
spiazzato.
«Lascia
perdere, lo aspetto qui!» ha risposto Yuy. Pan, intanto, si è
diretta verso la camera delle ragazze e ha aperto la porta, guardando
dentro, come se si aspettasse che, una volta dentro, sarebbe stata
assalita da un mostro o da uno zombie. Stavo facendo un passo verso
la camera dei ragazzi, quando l'urlo disumano di mia sorella e di
qualcun altro che non ho riconosciuto mi ha fatto decidere di
schizzare là dentro.
«Che
c'è?» ho gridato, convinto che lo zombie ci fosse
davvero. «Che c'è?»
«TU!»
ha gridato Pan, ma non si stava riferendo a me. Indicava una ragazza
dai capelli azzurri che stava sistemando il letto vicino alla
finestra. «TU CHE CAZZO CI FAI QUI?»
La
ragazza si è girata e, non solo lei, ma anche io ho sgranato
gli occhi: di tutte le persone che mi aspettavo di trovare, lei
era davvero l'ultima.
«Che
ci fai qui?» ho domandato, con un filo di voce.
«Kenny...»
mi ha chiamato mia sorella, con finta gentilezza. «Questa
domanda l'ho già fatta io! VEDI DI FARNE UN'ALTRA!»
«Ehm...
sì... scusa...» ho detto, ancora scosso, guardando lei.
Non credevo che suo padre avrebbe mai permesso alla sua adorata
figlia di fare una cosa come... chiudersi in una caserma.
Bra
è la figlia di una grandissima amica di nonno Goku, Bulma, la
proprietaria di un’azienda molto importante, la Capsule
Corporation. E' anche figlia di Vegeta, amico-rivale del nonno. Lui
non mi piace granché... si sente un nobile, ma è solo
uno sfigato che vive a scrocco di sua moglie Bulma. Si sente troppo
superiore per fare un lavoro come tutti i comuni mortali.
Sua
figlia, Bra, che ama tingersi i capelli di blu come sua madre, ha un
anno più di Pan e loro due si odiano come mai nessuno si è
mai odiato. Pan dice che Bra è una vera troia e Bra dice di
Pan che è una sfigata violenta.
Non
ho idea se lei sia una troia o no, dopotutto non ci frequentiamo
molto... la conosco giusto perché abbiamo frequentato le
stesse scuole elementari e per via del nonno. E comunque, dal rosso
vestitino striminzito che indossava al momento del nostro arrivo,
devo dire che il sospetto che lo sia davvero ce l'ho avuto.
«Chi
si vede!» ha detto, stupita, lasciando andare la sua divisa sul
letto, guardandoci dall'alto in basso. «Lo sapevo che Pan
sarebbe venuta qui... dicono che questa sia una scuola di obbedienza
per animali indisciplinati, oltre che una scuola sperimentale per
persone normali!»
«Cosa
vorresti dire, Bra?» ha chiesto mia sorella, già sul
piede di guerra. «Possibile che ogni volta che ci incontriamo
non puoi fare a meno di darti tante arie? Lo sai che poi diventi un
pallone con la testa di muffa su un cazzo ammazzato dalle pecore in
lotta?»
«Eh?»
a quelle parole, Bra sembrava disgustata. «Ma che dici?
Lasciamo perdere.. piuttosto...» si è rivolta a me.
«Ken, lo sai che questa è la camera delle ragazze? Ma
già... si dice in giro che sei un po'...» ha fatto una
smorfia, ma non ha continuato.
«Un
po'...?» l'ho spronata.
«UN
PO' FROCIO, PARAMECIO RIGURGITANTE!» ha gridato mia sorella.
«BELLE FIGURE CHE MI FAI FARE!»
Sono
arrossito per l'imbarazzo. In quel momento avrei voluto avere la
forza di mia sorella per spaccare la faccia a Bra.
«E
chi... chi lo dice?» ho chiesto, cercando di far finta di
niente.
«A
scuola lo dicevano tutti...» ha risposto Bra.
Non
sapevo più cosa dire. Ho abbassato lo sguardo e stavo per
andarmene, quando un'ombra mi ha impedito di continuare.
«Ehi,
ma è che questo casino?» mi sono voltato, forse ero
ancora rosso come un peperone. Davanti a noi, sulla porta della
camera delle ragazze, c'era un ragazzo a torso nudo e i pantaloni
della divisa sbottonati che lasciavano intravedere delle mutande
tutt'altro che pulite. «Voi dovete essere i miei nuovi
camerati...» ha detto, cordiale. Si è avvicinato e ha
porto la mano a Pan. Mentre camminava, una ventata puzzolente si è
sollevata da non si sa dove: mi ha investito una puzza di sudore così
intensa, da farmi credere di essere finito vicino a una discarica.
Solo la spazzatura puzza così e solo dopo un bel po' che l'hai
lasciata al sole, come è successo una volta a casa mia, quando
papà si è dimenticato di buttarla nel cassonetto. «Alex
Ramazza, piacere!»
Pan
ha fatto la mia stessa smorfia disgustata e Bra non è stata da
meno. «Lo sapremo solo vivendo!» ha detto mia sorella,
senza provare a muovere un muscolo per stringergli la mano. Alex si è
guardato la mano, come chiedendosi se Pan non l'avesse stretta perché
era sporca, ma non se l'è presa affatto, almeno così mi
sembra di aver capito.
Ha
porto la mano a me e a Bra, che ci siamo presentati e siamo stati un
po' più educati.
«Allora
io vado!» ha detto Yuy, facendo capolino. «Tutti vestiti,
gli esseri dotati di... ehm...»
«Topa!»
ha concluso mia sorella.
«Sì...»
ha risposto lui, piuttosto in imbarazzo. «Okay, io vado, Alex!»
«Certo...
e grazie ancora per le sigarette, Heero!»
Non
so che espressione avevo in quel momento, ma tutto mi ero aspettato
meno che un “rompicoglioni leccaculo” come Yuy potesse
essere uno che porta le sigarette di nascosto, perché, come
lui stesso ci ha detto dopo, le sigarette sono proibite.
«Acqua
in bocca!» ci ha detto. «Altrimenti ci inculano tutti!»
«E
vorremmo evitare!» ha ribattuto mia sorella, che ha capito
tutto al volo.
«Appunto!»
ha annuito Alex.
Lui
è un tipo strano, ma sembra molto simpatico, peccato che puzzi
come una capra in decomposizione.
Nel
momento in cui se n'è andato Heero Yuy, è entrato un
ragazzo alto coi capelli neri e corti, un tipo che Bra e Pan hanno
guardato come se fosse stato una specie di Dio. Sembrava che quello
fosse il primo esemplare maschio che vedevano sulla faccia della
terra. E non era neanche tutto questo granché: aveva i capelli
neri e due sopracciglia che partivano in due diramazioni verso le
tempie... un che di fantastico.
Era
seguito da una ragazzina bassa, coi capelli lunghi fin sotto le
spalle e dei grossi occhiali dalla montatura bluastra. Aveva un
visino simpatico, un po' stralunato, al contrario di lui, che
sembrava appena stato portato nella nostra camerata con una lettiga
corredata di sventagliatrici.
«Buonasera...»
ha detto lui, guardandosi intorno, con noi che eravamo tutti sulla
soglia della camera delle ragazze.
«Ciao
a tutti!» ha esclamato la ragazzina, tutta denti. «Mi
chiamo Arale Norimaki, piacere!»
Ha
stretto la mano di tutti, pure quella di Pan che, però, voleva
riservare a lei lo stesso trattamento che aveva riservato ad Alex.
Non ce l'ha fatta, perché Arale Norimaki l'ha presa e gliel'ha
scossa mezz'ora, così come ha fatto con tutti noi.
«E,
invece, tu sei...» ha detto Bra, sbattendo gli occhioni in
direzione del nuovo arrivato.
«Frank?»
ma non è stato il ragazzo a parlare, era stato Alex, che
sembrava stupito e anche tanto. Frank ha aggrottato la fronte e
guardato Alex come se si chiedesse dove l'aveva già
incontrato.
«Sei...
Alex Ramazza?» il ragazzo ha cominciato a ridere e ha mostrato
una fila di denti bianchissimi e perfetti. «Che diamine ci fai
qui?»
Alex
ci ha fatto scansare tutti ed è corso ad abbracciare quello
che abbiamo intuito tutti essere un vecchio amico.
«Sono
secoli che non ci vediamo!» ha esclamato Alex, commosso.
Diciamo
che Frank non sembrava proprio contento di essere abbracciato da
Alex... mi chiedo come mi sentirei, se abbracciasse me, ma non sono
sicuro di volerlo scoprire.
«Due
anni...» ha risposto Frank, sciogliendo l'abbraccio e
guardandosi intorno. Arale e Bra erano sparite nella camera delle
ragazze per cambiarsi. Io e Pan rimanevamo sulla porta.
«Sì,
da quando sono entrato qui dentro...» ha risposto Alex,
annuendo.
«Cosa
ci fai qui dentro da due anni?» ha chiesto Arale. «Non
sei del nostro anno?»
«Oh,
sì che lo sono!» ha risposto lui, tranquillo, anzi,
quasi compiaciuto.
Lei
ha inclinato la testa, dubbiosa. «E com'è possibile?»
«Sono
stato bocciato due volte. Vieni, Frank, prendiamoci i letti vicini!»
Ho
seguito i due amici dentro la camerata dei ragazzi, per riuscire a
prendermi un letto prima di ritrovarmi con quello più umido.
La
camera sembrava essere stata strappata ad un ospedale: diciassette
letti di metallo, come quelli ospedalieri di una volta, disposti su
due file uno accanto all'altro. In fondo alla stanza, diciassette
armadietti. Era il formato più grande della camera delle
ragazze.
Ho
trovato il mio armadietto (anche questo di metallo, stretto ed alto,
come tutti gli altri), perché sopra c'era una targhetta con il
mio nome e dentro una divisa, le lenzuola, delle coperte pesanti e
due asciugamani. Fortunatamente era tutto pulito.
Dieci
minuti dopo, ero pronto, con la mia divisa un po' più grande
della mia taglia, i pantaloni che mi scivolavano sotto le scarpe e
una giacca e una camicia dentro cui nuotavo perché erano due
volte più grandi della mia taglia. Pan, diversamente, aveva
deciso di starsene in completo da mare.
«Non
è una buona idea!» ha esclamato Alex, non appena siamo
tutti usciti dalla camera, lui con macchie d'unto gigantesche sulla
sua giacca della divisa sbottonata a far vedere la camicia che,
invece di essere bianca, è gialla. «La Une non ama
questo genere di cose...»
«La
Une?» ho chiesto, senza capire. Lui mi ha guardato e ha
annuito, serio.
«Quella
troia della direttrice! E' un'insegnante di storia dei Mobile Suit e
ce l'abbiamo per tutto l'anno! Gli insegnamenti pratici li fanno solo
dal secondo anno in su, ma è una palla!» ha raccontato,
mentre scendevamo le scale. «Con qualcuno si gioca anche!»
«Meglio
così!» ha esclamato mia sorella, annoiata.
Bra
si è esibita in uno sbuffo sdegnoso, Arale e un altro ragazzo
che si è presentato come Trowa Burton hanno ridacchiato.
Alex
ha fatto spallucce. «Dopo un po' ti spacchi le palle!»
«E
tu ancora non sei fuggito?» gli ha chiesto ancora Pan.
«Macché!
Ti portano davanti a una corte per... come si dice...»
«Diserzione?»
ha proposto Frank, accanto a lui. La sua divisa, al contrario di
quella di Alex, era perfetta, impeccabile e anche il suo modo di
indossarla. Non so perché, ma quel tipo non mi piace granché.
«Sì...»
ha annuito Alex.
«Allora
sei idiota!» è stato il commento gentile di mia sorella.
«Chi te l'ha fatto fare di farti bocciare?»
«Non
è colpa mia, se non me ne frega un cazzo di quello che succede
qua dentro!» ha replicato Alex, con foga. «Sono stato
costretto a venire qui.»
«Allora
non sono la sola!»
Siamo
arrivati al primo piano, sempre seguendo Alex, che ci ha condotto
fino alla Sala delle Conferenze. Quella, più che per delle
conferenze, sembrava adatta per ospitare una rappresentazione
teatrale, perché era esattamente un piccolo teatro. C'erano
centinaia di file di poltrone, fino al palco, dalla parte opposta
dell'entrata, su cui stavano: la direttrice; un uomo vestito di
un'alta uniforme blu chiaro, molto alto e coi capelli biondo scuro;
il Colonnello Marquise; due tipi, uno moro e uno biondo, vestiti
tutti e due di blu, ma di una tonalità più scura
rispetto a quella dell'uomo biondo; un altro tizio piuttosto grasso
e, infine, uno smilzo, ma tutti e due erano vestiti di nero.
«Venite,
prendiamoci i posti davanti!» ha detto Alex. «Tanto è
lì che la Une ci farà stare!»
Pan
ha borbottato, ma, alla fine, l'ha seguito anche lei, come abbiamo
fatto tutti noialtri.
*****
Salve!
Allora, che ne pensate di questo nuovo capitolo? Si cominciano a
delineare la storia e a conoscere i personaggi che ci accompagneranno
da qui per molto tempo...
Prof:
sono felice che il primo capitolo ti sia piaciuto e spero che
continui ad essere così, adesso e per i prossimi capitoli. Hai
ragione: Pan fa un po' paura e la adoro. XD Chissà che poi non
possa migliorare (o peggiorare), così da far felice anche la
povera Videl. XD
Una
sola domanda: cosa intendi per “ritmo troppo ridondante”?
A spero presto. ^^
Un
ringraziamento anche a coloro che hanno solamente letto e uno
ulteriore a Prof che ha messo la storia nei suoi preferiti.
Saluti,
Luine.
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Capitolo 3 *** I Cavalieri della Tavola Rotonda ***
Le
lezioni al primo anno
I
Cavalieri della Tavola Rotonda
|
Più
che in un collegio militare, mi sembrava di essere finito a una sagra
di paese. L'ambiente non sembrava affatto quello freddo e distaccato
di una caserma militare, l'allegria e la confusione regnava sovrano:
migliaia di ragazzi, anche se tutti vestiti di una semplice divisa
nera, si alzavano e sedevano, salutavano i vecchi amici, ridevano di
barzellette e saltavano da una sedia all'altra come se ci fosse la
corsa ad ostacoli. Ho ascoltato sprazzi di conversazioni, alcuni
chiedevano delle lezioni, altri si raccontavano delle loro vacanze,
altri ancora erano primini come me e, nervosi all'inverosimile,
schizzavano di qua e di là come palline da ping pong, quando
quelli più grandi li prendevano in giro.
Molti
salutavano Alex, quasi fosse stato un fratello o il salvatore del
loro porcellino d'India e lui rispondeva con un'alzata di pollice.
«Sei
famoso, Alex!» gli ha detto Arale, ammirata.
«Solo
un po'...» ha minimizzato lui, alzando le spalle.
«E
come mai?» ho chiesto, mentre facevo passare una ragazza che
camminava in direzione opposta alla nostra, che cercavamo di
raggiungere i posti davanti.
«Mah,
niente di speciale!» Il nostro compagno di corso si è
fermato vicino a una fila e ha fatto passare noi che gli andavamo
dietro. «Te lo racconterò, un giorno.»
Mi
sono seduto in fondo alla fila, davanti a una ragazza con cespugliosi
capelli castani che parlava a raffica con due ragazzi che sicuramente
erano più grandi. Dalle medaglie che questi due avevano sul
petto, ho capito che non erano del primo anno.
«Ma...
dicono che Lady Une sia molto severa... e che il tenente Bristow*,
invece, sia un po' più malleabile... anche se le sue lezioni
sono difficili...» diceva la ragazza coi capelli castani.
Doveva essere una primina, come me. «Ma, faremo anche la Teoria
sui Gradi, non è vero? Ho studiato qualcosa a casa, ma non
credo di ricordarmi tutto! Oh, cielo... se avessi saputo...»
Studiare
qualcosa a casa? Mi sono fatto prendere dal panico: noi non sapevamo
di dover studiare qualcosa, dato che la mamma aveva omesso di dirci
che ci aveva spediti in una caserma militare...
«Quelli
sono due dei secchioni più secchioni e sono anche Caporali
maggiori.» ha spiegato Alex, a bassissima voce, tanto che è
stato difficilissimo seguirlo, soprattutto in quella penombra.
«Leccaculo di merda! Pure Heero non li può sopportare e
anche lui è uno che lecca parecchio! Però è a
posto.»
«Sì,
si vede!» ho risposto. «Ti porta le sigar...»
«Shh!»
ha detto Alex, cominciando a muovere su e giù una mano, come
per mandar via l'odore di fumo. «Vuoi che mi inculino?»
«Scusa...»
ho esclamato, mortificato.
Ma
Alex ha fatto spallucce e ha ripreso ad indicare persone vicine e
lontane, dicendo i loro nomi.
Arale,
però, non sembrava molto interessata a quello che il nostro
compagno di classe aveva da dire: raccontava ad una annoiatissima Bra
della sua famiglia. Ho deciso di girarmi verso di loro e di
intromettermi per evitarmi la lista degli studenti della caserma.
Arale
è la vivacità in persona, una che ha l'allegria nel
sangue e sembra non stancarsi mai di parlare. Pan non sembrava molto
contenta di lei e della sua parlantina: aveva l'aria annoiata mentre
la nostra nuova compagna ci raccontava un aneddoto sulla sua
famiglia.
«Insomma,
mio fratello di elettronica non ci capisce un tubo, ma si crede un
genio... alla fine puf è scoppiato tutto l’impianto
stereo...» diceva.
«Era
costoso?» ha chiesto Alex, che aveva smesso di indicare persone
proprio quando ha sentito parlare di impianto stereo.
«Da
morire! Mio fratello si sarebbe suicidato se Midori non l'avesse
fermato!» ha esclamato Arale, ridendo come una matta.
«Peccato...»
ha detto Alex, sinceramente deluso.
«Perché?»
ha chiesto l’altro ragazzo, Frank.
«Perché
non posso più rubarlo per rivenderlo!»
Arale
ha sgranato gli occhi. «Mio fratello?»
«No,
lo stereo!»
Io
e Arale abbiamo riso. Frank, al contrario, è rimasto serio, ma
quasi me lo aspettavo: non sembra uno che ride molto spesso. Comunque
nemmeno Alex ha partecipato al momento di ilarità. Bra ha
fatto una smorfia snob e Pan ha fatto schioccare la lingua, annoiata.
Alla
fine non era male come battuta...
«No,
guardate che parlo seriamente! Io sono un ladro vero, eh! E non
fatemi rubare le vostre mutante per provarvelo!» ha detto, con
fare teatrale Alex. Stavolta, oltre a me e Arale, hanno riso anche
Frank e Trowa, che si era sistemato tra il nostro compagno anziano e
un altro ragazzo che non conoscevo.
«Stronzate!»
è stato il commento di mia sorella.
Mentre
Arale riprendeva a raccontare dello stereo, Pan mi ha dato una botta
sulla nuca.
«Ahi,
ma cosa...»
Mi
ha tirato i capelli e mi ha costretto a fissare un punto davanti a
noi. E così ho notato la posizione dei nostri genitori, seduti
proprio sotto il palco insieme a un altro enorme manipolo di persone,
tutti anziani.
«Genitori!»
ha spiegato Frank, a cui ho chiesto spiegazioni, essendo il più
vicino a me. «Vengono tutti quelli dei ragazzi del primo anno!
O quasi, almeno...»
«I
tuoi dove sono?» gli ho chiesto.
«Non
ci sono. Sono arrivato con i pullman, come la maggior parte degli
altri studenti.»
Ho
annuito, distrattamente, mentre i miei occhi ricercavano i miei
genitori che, comunque, sembravano non preoccuparsi per noi (almeno
ci avessero cercato per sapere che fine avevamo fatto), ma
parlottavano tra loro. Mi chiedo di che cosa. Il nonno, intanto,
stava intrattenendo un paio di ragazze che Alex ci ha detto
appartenere al settimo anno.
«Però
è forte quel vecchio! Alla sua età pensa ancora alle
pollastre!» ha esclamato, con un sorriso sulle labbra, quando
il nonno si è messo a ridere come uno sguaiato. Chissà
come mai, la bocca gli diventa grande quanto un forno, quando lo fa.
«Per
forza!» ha risposto Pan, orgogliosa, alla dichiarazione di
Alex. «E' mio nonno!»
Non
so perché, ma mi imbarazza sempre un po' dire che quello è
mio parente: quando ride lo sentono anche da Pechino, per non parlare
di quando urla... diciamo che è un vizio di famiglia...
«Figo
tuo nonno!» ha detto anche Arale, con un sorriso a trentadue
denti. «Purtroppo io il mio non lo vedo mai...»
«E'
perché è crepato?» ha chiesto mia sorella, con il
tatto di un elefante.
«Non
lo so...» ha risposto, però, Arale, senza scomporsi,
anzi continuando a parlare col tono spensierato con il quale è
entrata nella nostra camerata. «Mio fratello non mi parla mai
di lui... vivo con lui e la moglie!»
«Ah,
però...» il tono di mia sorella era molto ironico. Ho
avuto l'impressione che Arale non le fosse piaciuta nemmeno un po'.
«Come ci si sente ad essere la reggicaccole più bassa
del pianeta?»
Vorrei
che, ogni tanto, avesse un po' più di delicatezza e la
smettesse di insultare chiunque.
Arale,
però, sembrava addirittura entusiasta. «Benissimo!»
Il
suono stridulo del microfono che veniva spostato si è levato
in sala, ci ha distolto dai nostri pensieri, sollevando, tra l'altro,
da tutti noi che eravamo seduti, una sonora protesta.
«Seduti,
prego!» ha esclamato lady Une, in tono autoritario. Tutti
quelli che avevo visto in piedi hanno preso posto e quelli che erano
stati seduti sullo schienale scivolavano sul sedile. Le chiacchiere,
però, non si sono fermate: si sono solo fatte più
sommesse.
«Adesso
preparatevi a spaccarvi le palle!» è stato il commento
che è arrivato da dietro. Mi sono voltato e ho visto Heero
Yuy, seduto accanto a Pan, proprio dietro di me. «Il discorso
del Generale dura sempre un po'...»
«Che
si sbrighino: ho fame!» è stato tutto quello che ha
detto mia sorella, senza preoccuparsi di abbassare la voce.
Cominciavo già a sentire parecchi sguardi puntati su di noi,
mentre la mia aggraziata sorellona se ne fregava altamente.
«Tanto
la cena fa schifo e anche il pranzo e la colazione!» è
stata l'informazione preziosa dataci da Alex.
«Ecco...»
mia sorella, ma non posso darle torto, sembrava parecchio sconsolata.
«Mi tolgono pure i piaceri della tavola, adesso! Ma si può
essere più sfigati di me?»
Di
nuovo, il microfono ha fatto quel rumore fastidioso e tutti si sono
di nuovo lamentati.
«Un
po' di silenzio, prego!» ha ripetuto la Une. «Benvenuti,
studenti!» ha cominciato, quindi, con una voce dura e altera.
«Io sono il Colonnello Une, direttrice di questo istituto
sperimentale. Il mio compito, come avete avuto modo di leggere negli
opuscoli – «Quali?» è stato il commento a
voce alta di mia sorella, al quale è stato risposto con un
borbottio da parte di quelli che ci stavano attorno. Avrei preferito
che abbassasse la voce, ma non aveva tutti i torti: nessuno ce ne ha
mai fatti vedere. - che abbiamo inviato alle scuole elementari, è
quello di insegnare le regole, le discipline militari, di fare in
modo che i nostri giovani, che rappresentano il futuro della nazione,
siano in grado di pilotare i Mobile Suit, le speciali macchine di cui
è in dotazione il nostro esercito. Ma non voglio tediarvi
troppo, quindi passo immediatamente la parola al nostro Generale,
Treiz Kushrenada, l'uomo grazie al quale è nato questo
collegio militare sperimentale.»
Mentre
cedeva il passo all'uomo in alta uniforme che si è alzato
dalla sua sedia sul palco, tutti quelli in platea si sono alzati in
piedi e Heero ci ha consigliato di imitarli.
«E'
il Generale! Non si può non alzarsi di fronte al Generale! E
non siamo a teatro!» ha detto, quando mi ha visto con le mani
pronte ad applaudire. Pieno di vergogna, mi sono infilato le mani in
tasca e, con la testa bassa, mi sono alzato in piedi.
«Ma
i vecchi davanti non fanno un cazzo!» ha esclamato Pan,
indignata. «Quindi io non faccio un cazzo!»
Non
la vedevo, ma me la potevo immaginare con le braccia conserte e la
sua perenne aria di sfida stampata in faccia.
«Fai
come ti pare!» ha tagliato corto Heero, ma anche lui era in
piedi. Alex, invece, ha seguito l'esempio di Pan... e ha preso a
scaccolarsi.
«Ma...
non ti alzi?» gli ho chiesto, in un sussurro.
«Ma
anche no!» è stata la sua risposta indignata. “E
se fossi in voi...” ha continuato, guardando quelli che aveva
intorno. “fareste bene a sedervi, tanto il Generale dice solo
stronzate!”
La
ragazza con i capelli castani di fronte a me si è girata e gli
ha lanciato un'occhiataccia, prima di tornare a guardare il Generale,
rigida come un palo.
«Grazie,
lady Une.» ha cominciato l'uomo in alta uniforme. L'ho guardato
meglio e ho visto che aveva un sorriso bianchissimo, come i
testimonial delle pubblicità dei dentifrici. Le sopracciglia
avevano una doppia diramazione in direzione delle tempie... erano
orribili. Secondo me, somigliava a qualcuno che ho visto di recente,
ma non mi veniva in mente chi. «Credo che sia inappropriato
dare a me tutto il merito per la nascita di questo collegio militare.
Infatti, è stato il Ministero della Difesa, in collaborazione
con quello dell'Istruzione, a permettere che questi studenti e questi
genitori fossero qui oggi, insieme a noi.» ha fatto un ampio
cenno con le braccia, indicando così tutti noi. «Questo
collegio sperimentale, come già detto dal Colonnello Une, è
stato ideato perché i giovani si avvicinino più alla
loro patria e promuovano la pace, attraverso gli strumenti che noi
daremo loro. Impareranno, in questi sei anni di scuola, la storia, la
geografia astronomica e terrestre, verranno loro date nozioni di
ingegneria, perché possano costruire e modificare le parti di
un Mobile Suit, che sia d'aria, d'acqua, di terra o spaziale. Nel
corso dei sei anni che passeranno in questo collegio verranno in
contatto con ognuno di questi Suit. Il settimo anno, da sempre, è
un periodo di tirocinio sulle colonie spaziali, al termine del quale
effettueranno un giuramento che li renderà dei veri e propri
soldati dell'esercito spaziale. Quest'anno, abbiamo deciso che gli
studenti del settimo partiranno con un mese di ritardo, in quanto non
hanno potuto fare prepararsi adeguatamente per il viaggio nello
spazio, durante i mesi estivi, per un guasto delle attrezzature che è
stato egregiamente riparato dai nostri bravissimi tecnici.
«Ma
non voglio entrare in dettagli che gli interessati conoscono fin
troppo bene. Vorrei ricordare che il settimo anno è
facoltativo. Coloro i quali decideranno di non continuare la loro
carriera militare, infatti, riceveranno un attestato e un diploma,
equipollente ad una laurea universitaria. Non avranno nessun obbligo
con la nostra organizzazione. Sappiano solo che, in caso di
colloquio, avrebbero un posto assicurato nell'equipe coloniale di
ingegneri che, ogni anno, richiediamo in numero sempre maggiore.
«Naturalmente,
coloro i quali diventeranno soldati del nostro esercito a tutti gli
effetti, avranno maggiori possibilità di lavoro, sia in ambito
terrestre che spaziale. Sono molti, infatti, gli ingegneri richiesti
sulla Base Lunare.» ha fatto una breve pausa, proprio mentre
Heero, dietro di me, sbuffava.
«Il
nostro obiettivo a breve termine» continuava il Generale. «E'
quello di dare una formazione culturale a questi giovani, che sono il
futuro della nostra nazione. Il nostro obiettivo a lungo termine è
quello di formare soldati formidabili e preparati, capaci di
difendere questa nazione, di proteggere le colonie e la pace
nell'universo conosciuto.
«I
ragazzi del primo anno non si spaventino. Alcuni, sono sicuro, sono
stati spronati dai genitori a venire qui e potrebbero vedere tutto
questo come una punizione. Li esorto a capire che loro sono dei
prescelti e dei privilegiati ed hanno modo di essere vicini alla loro
nazione in misura molto maggiore rispetto ai loro coetanei!»
«Ipocrita!»
è stato il commento a mezza voce di Alex. Frank, come me, si è
girato a guardarlo, ma solo io gli ho chiesto come mai lo dicesse: a
me sembrava che dicesse cose molto belle.
«Lui
è così vicino alla nazione solo quando gli danno uno
stipendio da capogiro.» mi spiega il mio compagno di classe.
«Non è mai andato in guerra, nemmeno durante l'ultima
battaglia sulle colonie! È un pezzo di imbecille: ha fatto lo
stesso discorso l’anno scorso e due anni fa, quando sono
arrivato io. Non è mai cambiato... due palle così... ma
l'anno prossimo, non mi vede di certo!»
Kushrenada
ha continuato a parlare a lungo, mentre Pan, a voce abbastanza alta,
ma coperta dal rumore della voce amplificata del Generale, rimuginava
sulle sue parole.
«Ingegneria?»
stava dicendo, come se quella parola fosse particolarmente sporca
persino per lei. Non ha urlato, credo, solo perché è
rimasta molto, ma molto scioccata. «Cazzo, ho solo tredici
anni! Cosa cazzo ne so io dell'ingegneria?»
Alcuni
davanti si sono girati, tipo la ragazza coi capelli cespugliosi; ha
rivolto a Pan un'occhiata altezzosa, si è risistemata al suo
posto e per il resto del discorso del Generale non si è più
girata.
Alcuni
dei nostri compagni si sono messi a ridacchiare, ma è stato
Alex a rispondere:
«Non
lo so... però partiamo con la matematica... poi c'è la
fisica, la chimica... insomma, due coglioni!»
«Non
sono tanto male...» ha replicato Heero.
«Forse
per te che ci capisci qualcosa!»
«Oh,
no!» ha detto Bra, che stava due posti dopo Pan, portandosi le
mani davanti alla bocca. «Ma è terribile!»
«Materie
in cui vado forte!» diceva, invece, Arale, tra lei e Pan. «Ti
do una mano io, se vuoi! Stai tranquilla!»
«Non
parlavo delle materie!» ha esclamato lei, come se avessimo
dovuto capirlo subito. «Ma i nastri rosa che ha la direttrice
nei capelli: fanno a pugni con la divisa!»
«Ah,
questa sì che è una tragedia!» è stato il
commento sarcastico di Pan.
Non
appena il discorso è finito, distrutti ma felici (perché
ci hanno dato il permesso di andarcene), siamo usciti dalla Sala
Conferenze, diretti al refettorio.
«Ah,
questo me lo ricordo dov'è!» ha esclamato Alex, con un
sorriso soddisfatto.
«Facci
strada, allora!» ha risposto Arale, piantandosi al suo fianco.
Siamo
scesi al pianoterra. La mamma ci è venuta incontro e,
praticamente, ci ha travolti con il suo corpo. Ha cominciato a
stringerci forte, mentre alcuni, passando, ci indicavano. Avrei
voluto sotterrarmi, ma il mio imbarazzo era niente in confronto a
quello di Pan che tentava di spingerla via, quasi stesse cercando di
allontanare da sé un macigno.
«Sono
così orgogliosa dei miei bambini che vanno a difendere la
patria!» diceva la mamma, tra le lacrime. «Oh, come sono
orgogliosa! Ricopritevi di onore, mi raccomando!»
«Mi
sa che ci ricopriranno di terra, se tenti di soffocarmi!» ha
ringhiato Pan, riuscendo a liberarsi, solo per finire tra le grinfie
del nonno che piangeva come un disperato.
«Mi
raccomando, piccola mia, picchia duro!» ha detto, come se ci
fosse bisogno di una raccomandazione.
«Come
vuoi!» ha risposto lei, anche se poco contenta, dato che la
stava abbracciando. E il nonno, soddisfatto della risposta, l'ha
lasciata andare, per farla finire tra le braccia di papà. Lo
stesso giro l'ho fatto io, saltando il nonno che si ritirato, non
appena la mamma mi ha lasciato andare.
Li
abbiamo accompagnati alla macchina, anche per evitare lo sguardo
delle migliaia di ragazzi che, passando, ci indicavano come se
fossimo stati degli animali in gabbia.
Per
tutta la strada, mamma ha continuato a parlare a raffica: «Ah,
questo è il posto migliore in cui potevo mandarvi! Troverete
un posto di lavoro sicuro e ben retribuito, difenderete la vostra
patria e siete anche dei privilegiati! Oh, aspetta che lo sappia
quella Bulma! Lei e la sua orribile puzza sotto il naso solo perché
costruisce capsule inutilissime!»
«Mamma,
io non vorrei rovinarti le uova nel paniere...» ha continuato
Pan, torva. «C'è pure la sua orribile figlia qui
dentro!»
Ma
la mamma non ha sentito, o ha fatto solo finta, perché ha
continuato a sproloquiare. «E quando lo sapranno le zie Polly e
Molly avranno un infarto!»
Le
zie Polly e Molly sono le sorelle di nonno Satan, due vecchie megere
che abitano insieme nel sud del Giappone e che non vengono mai a
trovarci, ma che ci chiamano ad ogni ricorrenza e parlano come se
sapessero tutto della nostra famiglia. Personalmente, non so manco
che faccia abbiano.
«E
poi voi diventerete dei graduati! Kenny diventerà Generale un
giorno, ma ve lo immaginate?»
«Sì,
certo...» ha esclamato Pan, sarcastica, e per una volta dovevo
darle ragione. «Te lo dico io come andrà a finire: ci
metteranno nelle truppe d’assalto e il nostro futuro sarà
segnato. Morte certa!»
«Sempre
la solita tragica!» ha ridacchiato la mamma. «Fate il
vostro dovere e non fatemi pentire, altrimenti...» ha stretto
gli occhi in modo minaccioso e il groppo che mi si è formato
in gola non se n'è andato nemmeno quando ho deglutito. «vi
mando a raccogliere pannocchie sui monti Paoz!» ha sibilato,
puntandoci un dito contro. Un totale cambiamento rispetto ad una
frase prima.
Ci
ha abbracciato di nuovo, scoppiando in lacrime e poi, camminando
all'indietro, commossa, si è diretta verso il suo posto in
macchina. Il nonno urlava istericamente e si soffiava il naso dentro
un fazzoletto grosso quanto una tovaglia. Se non fosse stato che
dovevo rientrare ed affrontare una mandria di bufali impazziti che
erano i miei commilitoni, mi sarei dato anche io al pianto libero.
La
macchina rosa era sparita dal cortile prima ancora che avessi il
tempo di realizzare che non avremmo dormito nei nostri letti. Mi è
subito preso il desiderio di correre loro dietro: non volevo
lasciarli andare, non volevo rimanere in questo posto.
Non
voglio ripensare a quel momento. Se avessi saputo che era così
doloroso, mi sarei fatto abbracciare un po' di più...
La
mensa è un altro luogo parecchio affollato: è un enorme
salone bianco, dove pure il pavimento è fatto da mattonelle
lucenti. I tavoli sono di freddo metallo, rotondi ed enormi. Ho
notato che hanno dai diciassette ai venti posti, ognuno. Sul fondo,
c'è una porta che, come mi ha detto dopo Alex, dà sulle
cucine e, attaccato alla parete accanto, un tavolo lungo e
rettangolare sui cui, quando siamo entrati io e Pan, erano appoggiati
migliaia di vassoi grandi e carichi di pietanze. Una lunga fila di
ragazzi aspettava di servirsi.
«Pure
a self service...» ha sbuffato Pan, mentre guardavamo tutto
questo. «Che culo!»
«Dove
ci sediamo?» ho chiesto, girando gli occhi sulla sala gremita.
«Io
il più lontano possibile da te!» mi ha risposto.
«D'accordo...»
ho cercato con lo sguardo Heero, Arale e Alex: erano gli unici che
conoscevo fino a quel momento e avrei voluto sedermi con loro. Heero,
però, era già seduto ad un tavolo ed era circondato da
quelli che sembravano tutti suoi coetanei.
Allora
ho cercato gli altri due e, fortunatamente, erano seduti vicini ad un
tavolo al centro della sala; Alex ha alzato un braccio e ha
cominciato a sventolarlo per farsi vedere. Io e Pan ci siamo
avvicinati.
«Sedetevi!»
ha indicato due sedie vuote proprio di fronte a lui.
Ho
accettato molto volentieri l'invito, mentre mia sorella è
rimasta in piedi e scrutava quelli che erano seduti con noi.
«Mi
dispiace: non mi sederò mai allo stesso tavolo di Bra!»
ha spiegato, quando l'ha vista, a pochi posti da Alex, fissandola
disgustata. Si è posata le mani sui fianchi. «Se volete
scusarmi...»
«Se
mi vuole scusare lei, soldato...» ha detto la direttrice,
acida. Non ho urlato solo perché il suo sguardo raggelante me
lo ha impedito. Si è fermata proprio dietro a Pan che, invece,
non si era accorta di niente. «Devo ricordarle che tutti gli
alunni devono indossare la divisa e si devono sedere al tavolo del
loro anno. Sempre e comunque.»
Mia
sorella si è voltata e ha guardato la direttrice dall'alto in
basso, come se non le fossero state rivolte parole molto dure.
«Pure
se il tavolo salta in aria?» ha replicato, sfacciata. Mi
rendevo conto in quel momento che aveva ancora il completo da mare...
e ho represso la voglia di ridere, anche perché, se lo avessi
fatto, già mi vedevo ai lavori forzati. E la minaccia di mia
madre mi ha definitivamente fatto passare questo desiderio.
«Sì!»
è stata la risposta secca della Une. «Non voglio sentire
un'altra parola. Da domani, se non avrà la sua divisa, avrà
la sua prima nota di demerito!»
«Oh,
che paura!» mi sono morso le dita (virtualmente parlando), per
il terrore: cosa l'avrebbe costretta a fare, adesso? Perché
Pan deve sempre mettersi nei guai, invece di scansarli, soprattutto
adesso che siamo in un collegio militare?
«Si
sieda immediatamente, soldato!» ha sibilato la Une, facendosi
più rigida di quello che è, assottigliando le labbra.
«Non le consiglio questo comportamento. Potrebbe avere una vita
difficile!»
Pan
ha inarcato un sopracciglio, per niente intimidita. «Mi sta
minacciando?»
La
Une le ha lanciato un'occhiataccia, prima di indicare l'unico posto
vuoto a tavola.
«Le
regole sono regole!» ha detto, glaciale. «E, finché
rimarrà sotto questo tetto, dovrà seguirle ciecamente.
La vita militare non è un gioco, né è uguale a
quella che ha vissuto finora. Seduta!»
Sulla
faccia di Pan è apparsa una smorfia pensierosa. Quasi quasi
riuscivo a sentire le rotelle nel suo cervello lavorare velocemente.
«Va
bene...» ha detto, tirando verso di sé una sedia e non
senza fare molto rumore e facendomi quasi morire di spavento: da
quando in qua, mia sorella si faceva così docile? «Non
si scaldi! Poteva dirlo subito!»
Si
è seduta e la Une, decisamente compiaciuta, è tornata
al tavolo dove stavano tutti quelli che erano stati sul palco per il
discorso di inizio anno. Alex mi ha riferito che, a quel tavolo, da
sempre, si siedono tutti gli insegnanti e, quando viene, anche il
Generale. Non ero molto attento, comunque: ero decisamente sconvolto
e ancora spaesato per il comportamento anomalo di Pan perché
di solito, quando ubbidisce, non è un buon segno.
«Alcuni,
tipo Sark*,
ce l'abbiamo solo dal quarto anno in poi...» ha continuato
Alex, strappando a grossi morsi le fette di pane al centro della
tavolata. «sapete, insegna Fisica Subacquea, per i Cancer, i
Suit d'acqua, appunto... è quello biondo con la divisa blu!»
L'ho guardato: aveva uno sguardo che faceva paura e ho evitato
accuratamente di guardare gli altri. Se erano come quello là,
allora volevo tenermi la sorpresa per quando ce li avrei avuti in
classe.
Mi
sono concentrato sul nostro tavolo, sui miei compagni di classe,
cercando di non pensare troppo alle stranezze di Pan che mi facevano
saettare lo sguardo su di lei che, invece, sembrava concentrata sul
suo piatto.
Nel
nostro corso, il B, siamo ventidue in tutto, diciassette maschi e
cinque femmine. Il ragazzo che mi è rimasto più
impresso di tutti è Matt Ishida: è così pallido
e biondo che credevo fosse albino, ma il suo amico, sempre nostro
compagno, Tai Yagami, ci ha detto che ha solo avuto, di recente, una
carenza di non so che proteine, per cui è poco in forma.
Credevo che sarebbe morto durante la cena, se devo essere sincero
perché si muoveva avanti e indietro sulla sedia e respirava
come un asmatico durante una crisi. Ma Yagami continuava a dire che
era normale.
Trowa
Burton, ho scoperto, conosceva Heero già da prima perché
vengono dalla stessa colonia.
«Non
sapevo che venisse gente anche dallo spazio!» è stato
quello che ha detto Frank, di cui condividevo le perplessità.
«Viene
da dovunque!» è stato il commento di Trowa. «Avrei
anche potuto andare a studiare sulle colonie, ma mi affascinava il
clima terrestre...»
«Io
lo preferirei in qualunque caso!» ha esclamato un altro
ragazzo, Joe, che ha tanto l'aria da secchione. «Lo spazio è
così sconfinato... mettete che una navetta venga colpita da un
asteroide e...»
«Succede
una volta ogni milione di anni!» è stato la risposta di
Alex.
«E
le navette di solito viaggiano in condizioni di estrema sicurezza! Se
c'è una previsione minima di meteoriti in avvicinamento, non
partono!» ci ha informato Arale.
«Ho
sentito dire che ci manderanno sulle colonie, qualche volta, come
esercitazione, vero?» ha chiesto di nuovo Tai Yagami.
«Sì,
l'ho sentito anche io!» ha risposto Frank. «Ma solo dal
terzo anno...»
«Fantastico!
Non vedo l'ora... io mi sono iscritta apposta per andare nello spazio
su uno di quei robot!» ci ha confidato Arale.
Alcuni,
Mimi Takikawa, per esempio, è stata costretta dai genitori ad
entrare in caserma, mentre Sora, che è arrivata anche lei
dalle colonie, ha fatto fuoco e fiamme per riuscire a convincere i
suoi perché vuole conoscere la Terra.
«E
tu, Bra?» ha chiesto Pan, annoiata, stretta nelle spalle. «Come
mai una principessina, col culo sempre pulito da qualcun altro come
te, è finita in un posto dove le regole sono regole?»
Lei
l'ha deliberatamente ignorata e ha continuato a mangiare.
Ho
preferito ascoltare, più che parlare. Persino Alex, se si
andava in zona colonie, sembrava a disagio quasi quanto me. Tutti
sembravano così informati su tutti i fatti che vi accadevano,
i collegi, i Mobile Suit, che mi sentivo parecchio da meno.
Pan,
invece, sembrava star legando, con nientepopodimeno che Arale, che
stava all'altro suo fianco.
«Io
picchio perché sì... il nonno ha sempre detto che è
un linguaggio universale. Insomma, tutti possono capirsi,
picchiandosi...»
«Mah,
non lo so...» rispondeva Arale, grattandosi la testa. «Insomma,
come puoi dire con un pugno... che ne so, qualcosa come... ti voglio
bene?»
Pan
ci ha pensato un attimo. «Si può dire!»
«E
come?» ha insistito Arale.
Mia
sorella ha fatto una smorfia infastidita e, per un istante, ho avuto
il terrore che volesse picchiare la nostra nuova compagna di classe.
«Che cazzo ne so? E mi vuoi lasciare in pace?» ha
ringhiato soltanto, invece. Intimorito, ho guardato verso il tavolo
degli insegnanti e ho visto la Une scrutarci con uno sguardo
eccessivamente cattivo.
Mi
sono di nuovo girato verso il mio piatto pieno di quello che doveva
essere brodo di pollo, ma che, in realtà, era acqua sporca.
Alex aveva ragione: si mangia da schifo.
Da
quel momento, comunque, Arale e Pan non si sono più dette una
parola. Forse non si poteva dire davvero che socializzassero...
Quando
ormai quasi tutti, a parte i più lenti, abbiamo finito di
mangiare una cena da dimenticare, la Une si è alzata di nuovo
e, aiutata dall'insegnante biondo che ha accolto me e Pan
all'ingresso, ha cominciato a distribuire una busta per ogni tavolo;
quando è passata dal nostro ha lanciato un'altra occhiataccia
a mia sorella, mentre lei, come tutti noi, guardava quella busta come
se potesse contenere dell'antrace pronta a schizzarci addosso.
«Cosa
c'è là dentro?» ho chiesto ad Alex.
Lui
ha alzato le spalle. «Non lo so proprio...» ha
confessato.
«Qualcuno
dovrebbe aprirla...» ha detto Bra, con voce acuta. Non mi
sembrava spavalda come quando mi aveva dato del frocio quella brutta
antipatica. «Un ragazzo forte e aitante!»
Alex
ha alzato lo sguardo su di lei e le ha rivolto un sorriso maniacale.
«Lo faccio io, se mi lasci il tuo numero di telefono!»
Bra
ha risposto con una smorfia che esprimeva solo disgusto.
«Dovrebbe
aprirla un ragazzo!» ha rincarato Mimi.
«No,
dovrebbe farlo una ragazza...» ha replicato Tai. «Prima
le signore...»
«Ma
i ragazzi sono più coraggiosi!» ha continuato lei,
sbattendo le palpebre.
«Mah...»
è stato il commento di Frank.
«I
prodi Cavalieri della Tavola Rotonda!» ha detto mia sorella,
sarcastica. Ma la sua espressione è cambiata improvvisamente,
divenendo di una cattiveria spaventosa. Ha sbattuto un pugno sul
tavolo e, per poco, non ho urlato dal terrore di poterlo vedere
aprirsi in due. Qualcuno, anche dal tavolo degli insegnanti, ha
alzato la testa verso di noi, così come alcuni ragazzi degli
altri tavoli, sorridendo in modo complice. «Branco di
smidollati che non siete altro! Cosa ci vuole a prendere una stupida
busta e ad aprirla, eh?»
Senza
dire altro, l'ha presa e tutti abbiamo trattenuto il respiro. Quando
l'ha lacerata e gettato il suo contenuto sbattendo di qua e di là
le braccia, come per spandere davvero tutto intorno a noi la polvere
d'antrace, ci siamo coperti la testa con le braccia, urlando come
pazzi. Pure Alex che, dopo due anni, avrebbe dovuto sapere cosa c'era
in quella busta.
Risate
da ogni dove si sono alzate, mentre la Une cercava di ristabilire la
calma. Ma la sua voce era così bassa rispetto al casino di
risate ed urla che nessuno se l'è filata. Io l'ho sentita solo
perché eravamo abbastanza vicini.
Ho
sbirciato da sotto le braccia cosa stava succedendo sopra di me:
moltissimi fogli stavano svolazzando sopra le nostre teste e, piano
piano, si sono posati sulle nostre braccia, teste e piatti pieni.
Alcuni si sono unti, altri sono risultati illeggibili.
Frank,
accanto ad Alex e di fronte a me, è stato il primo ad
afferrarne uno, finito in uno dei piatti e lui sembrava l'unico a non
essersi minimamente scomposto, durante tutto quel trambusto.
«E'
solo l'orario delle lezioni!» ha esclamato, con un mezzo
sorriso divertito stampato in faccia.
A
quelle parole, mi sono fatto coraggio e ho preso il foglio che mi era
caduto accanto alla sedia, mentre anche gli altri si facevano
coraggio e si allungavano per prendere quelli che erano finiti al
centro della tavolata.
«L'anno
scorso ce li hanno dati la mattina delle lezioni!» è
stato il commento di Alex che scuoteva su e giù il suo orario
perché bagnato.
«E
noi ci siamo cagati in mano per niente?» ha sbottato mia
sorella, che non ha mai avuto intenzione di prendere il suo foglio.
Bra
ha fatto una smorfia spazientita. «Potresti evitare di usare
certi termini? Mi dai sui nervi!» ha esclamato.
Mia
sorella l'ha guardata con disgusto. «Potresti evitare di
parlarmi? Mi stai sul cazzo!»
Non
so come la Une, in mezzo a tutto questo, abbia deciso di lasciar
perdere e di non darci punizioni, ma sono felice che l'abbia fatto.
Comunque
sia, ho cominciato a leggere: posso dire tuttora di voler scappare, a
casa mia, dai miei genitori, nel mio bel lettuccio comodo. Però
voglio ricopiare l'orario del prossimo trimestre quassù, così
magari riesco a impararlo prima...
|
Lunedì
|
Martedì
|
Mercoledì
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Giovedì
|
Venerdì
|
08-09
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 10)
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Attività
motoria (Salvini, palestra)
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 10)
|
Storia
(Lady Une, aula 12)
|
09-10
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 10)
|
Teoria
dei gradi (Lady Une, aula 24)
|
Teoria
dei gradi (Lady Une, aula 20)
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 10)
|
Storia
(Lady Une, aula 12)
|
10-11
|
Teoria
dei gradi (Lady Une, aula 12)
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 24)
|
Storia
(Lady Une, aula 20)
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 10)
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
11-12
|
Storia
(Lady Une, aula 12)
|
Attività
motoria (Salvini, palestra)
|
Storia
(Lady Une, aula 20)
|
Storia
(Lady Une, aula 12)
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 10)
|
12-13
|
Pausa
pranzo
|
Pausa
pranzo
|
Pausa
pranzo
|
Pausa
pranzo
|
Pausa
pranzo
|
13-14
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Attività
motoria (Salvini, palestra)
|
Attività
motoria (Salvini, palestra)
|
Attività
motoria (Salvini, palestra)
|
Matematica
(Jack
Bristow, aula 10)
|
14-15
|
Attività
motoria (Salvini, palestra)
|
Teoria
dei gradi (Lady Une, aula 10)
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Attività
motoria (Salvini, palestra)
|
Storia
(Lady Une, aula 12)
|
15-16
|
Attività
motoria (Salvini, palestra)
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 10)
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Teoria
dei gradi (Lady Une, aula 12)
|
17-18
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Matematica
(Jack Bristow, aula 10)
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Geografia
(Lucrezia Noin, aula 21)
|
Non
appena abbiamo visto questo orario, si possono solo immaginare le
reazioni. Più che altro quelle di Alex che, già,
conosce i professori...
«Tre
ore di Une? Domani?» ha detto, guardando la colonna del
mercoledì con occhi sgranati.
«Perché,
l'idea bestiale di mettere l'attività fisica subito dopo
pranzo, come ti sembra?» ha replicato Frank. A quelle parole,
Pan non ha potuto resistere alla curiosità e si è presa
l'ultimo foglio rimasto nella zuppiera al centro della tavola.
«E'
una cosa che queste bestie hanno fatto... tre giorni a settimana! Ma
sono proprio deficienti!» ha detto, disgustata, dopo una rapida
occhiata e gettando di nuovo il suo orario nel suo piatto pieno.
«E
delle tre ore di matematica filate il venerdì che mi dite,
gente?» ha detto Trowa, indignato.
«E
cos'è Teoria dei Gradi?» ha chiesto Mimi. Ha guardato
Alex.
Tutti
abbiamo guardato Alex, l'unico che sappia più di noi. Lui ha
lanciato a noi uno sguardo smarrito, poi ha fatto una smorfia, per
dirci che non lo sapeva.
«Non
l'ho mai capito!» ha ammesso candidamente. «E' un corso
che non ho mai seguito e, se l'ho fatto, dormivo!»
«Deve
essere molto interessante, allora...» ha detto Frank, ironico.
Ho annuito, ricordando che avevo già sentito parlare di Teoria
dei Gradi... proprio da quella ragazza coi capelli cespugliosi che se
ne stava a due tavoli di distanza e parlava animatamente con un
ragazzo biondo dall'aria scontenta. Lei aveva già imparato
tutto! Ha detto che non ricordava solo qualcosa...
«Siamo
fottuti!» Queste sono
state le parole di Pan. E' rude, ma mai come in quel momento, le sue
parole hanno rispecchiato i miei pensieri.
*****
* Jack Bristow e Julian
Sark sono personaggi di Alias, un telefilm di spionaggio messo in
onda su RaiDue un paio di anni fa. Sono due dei miei personaggi
preferiti della serie e ho voluto riportarli in questa sede –
uno decisamente stravolto e l'altro estremizzato – per farli
diventare due dei professori-militari del collegio.
Eccoci
alla fine del terzo capitolo. Dal prossimo, si parte con la vita di
Kenny e Pan in caserma.
Prof:
mi fa molto piacere leggere i tuoi pareri ed impressioni sulla storia
e sono anche molto contenta che Kenny sembri un personaggio “vero”
e non un semplice spettatore ignaro. Sto cercando in tutti i modi di
renderlo parte attiva del racconto, anche se non mi sembra sempre di
riuscirci egregiamente. Ti invito a farmi presente quando fallirò.
Naturalmente, tra Pan e la Une ci sarà una guerra che durerà
lunghi capitoli ed anni... e il loro primo incontro ravvicinato la
dice lunga sui loro successivi rapporti. Ammetto che anche a me Videl
e Pan piacciono troppo. :) Alla prossima!
Ringrazio
coloro che hanno letto la storia, che vorranno leggerla, e, spero,
che continueranno a seguirmi.
Tengo
molto ad avere vostri pareri, quindi non siate timidi. Critiche di
qualsiasi tipo non saranno mai disprezzate. ^^
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Capitolo 4 *** Vita di caserma ***
Le
lezioni al primo anno
Vita
di caserma
|
2
Settembre
Alzarsi
alle cinque della mattina è faticosissimo, soprattutto se la
sera prima si va a letto a mezzanotte. La verità è che,
vedendomi fuori casa, mi sentivo libero di fare questo ed altro.
Ci
ha svegliati Heero Yuy, urlando e battendo sulla porta, prima di
andarsene a svegliare quelli della camera a fianco. Ammetto di aver
fatto una scemenza, ma le cinque della mattina è un orario
decisamente disumano!
Lamentandomi,
mi sono stretto ancora più sotto il lenzuolo e stavo per
riaddormentarmi, quando un urlo di Pan mi ha costretto ad aprire gli
occhi.
«CHE
CAZZO SUCCEDE? ORA NON SI PUO' NEANCHE DORMIRE, PORCA TROIA?»
Ma,
dopo questo, non abbiamo più sentito la sua voce, come se
quella fosse stata la sua sveglia. La conosco abbastanza bene per
dire che si era riaddormentata, senza neanche passare a guardare.
Alex
si è seduto sul letto e si è stropicciando gli occhi.
«E
si ricomincia!» ha detto, guardandomi con l'unico occhio pesto
che riuscivo a vedere. «Se tua sorella fa così tutte le
mattine, sarà impossibile ignorare questa routine di merda!»
«Ma
perché? Ci svegliamo tutti i giorni a quest'ora?» ha
chiesto Frank, dall'ultimo letto dall'altra parte della stanza.
«Eh,
secondo te?» Alex si è alzato e si è
stiracchiato, sbadigliando sonoramente.
«Ma
sono le cinque e cinque!» ho protestato, guardando la sveglia
che la mamma mi aveva provvidenzialmente messo in valigia solo
l'altroieri.
«Cosa?»
ha esclamato Tai Yagami, che mi aveva sentito. «Ma questi sono
scemi! Buonanotte, ci vediamo tra qualche ora a colazione!»
«Eh,
sì, bravo!» ha esclamato Alex, aprendo la porta della
stanza. «Così la salti proprio. Quella troia della Une
te la fa fare in piedi, a guardare gli altri, mentre si abbuffano di
quelle merdate che ci preparano!»
«Eh?»
Frank si è alzato in piedi di scatto, a quelle parole.
«Andiamo, muovetevi, tutti a prepararsi!»
Non
si sa chi gli abbia dato l'autorità per darci degli ordini,
ma, per amor di pace e per via del sonno che ci felpava il cervello,
abbiamo ubbidito tutti e preso la strada del bagno che, purtroppo,
era chiuso e aveva anche un mucchio di ragazze in fila.
«Ma
che è?» ha domandato Trowa Burton, sconcertato.
«Alex
si è chiuso in bagno!» ci ha informati Arale Norimaki,
che era in fondo alla fila. «Ha detto di dover cagare!»
«Va
beh, quanto ci potrà mettere mai?» ha domandato Frank,
con leggerezza, stringendosi nelle spalle. «Aspetteremo!»
Ma
erano arrivate e passate le cinque e un quarto e Alex non era ancora
uscito. Alcuni erano tornati a letto, tipo Bra, Mimi, Tai, Matt e
qualche altro ragazzo di cui non so ancora il nome. Arale, come
Frank, invece, ha optato per i bagni comuni in corridoio ed è
uscita.
«Io
mi cambio e basta. Mi laverò dopo.» ha dichiarato Trowa,
rientrando nella camera dei ragazzi. L'ho seguito: ci sarebbe stato
tutto il tempo per lavarsi, dopo l'alzabandiera. Ma mi sbagliavo di
grosso.
Credevo
che fossimo arrivati in ritardo, invece, era appena iniziato
l'appello. Un uomo grasso, con i capelli brizzolati e la voce
monotona stava chiamando un certo Howard James al microfono, proprio
mentre stavamo scendendo le scale del portone.
«Cazzo!»
ha esclamato Alex. Era dietro di noi, con i pantaloni ancora mezzi
sbottonati come la giacca «Sono già al secondo anno
corso C! Siamo fottuti!»
«Può
dirlo forte, Ramazza!» la voce della Une ci ha investiti come
acqua ghiacciata. Si era materializzata davanti a me, che
scendevo accanto a Trowa Burton e Mimi Takikawa.
«Tutti
quelli che non hanno risposto all'appello, stamattina, non faranno
colazione!» ha esclamato, freddamente.
«Questa
è un'ingiustizia!» ha replicato Alex, sistemandosi la
camicia nei pantaloni. «Io dovevo cagare!»
La
Une lo ha incenerito con lo sguardo. «Soldato Ramazza, le ho
detto mille volte di usare termini più appropriati a un
collegio del nostro stampo.» ha risposto, gelida. «Non è
un'ingiustizia: una regola è una regola e lei dovrebbe
saperlo, dopo due anni. E ora vada insieme ai suoi compagni. Stiamo
per cantare l'inno.»
Ci
siamo guardati intorno: c'erano così tanti ragazzi in quel
cortile che credevo fossero tutti quelli del mondo.
Alcuni
rispondevano «Presente», non appena venivano chiamati
dall'uomo grasso con la voce monotona, che ho saputo, da Alex,
naturalmente, essere Jack Bristow, l'insegnante di matematica.
Ci
è voluto un bel po' perché finisse (siamo sette anni,
con cinque corsi ciascuno) e si erano fatte le sei. Solo quando
Bristow ha finito, un ragazzo del settimo anno, a sentire Alex, ha
alzato la bandiera e la Une ci ha ordinato di portare la mano sul
cuore.
«A
che servirà mai...» domandava Alex, in un borbottio,
senza muovere un muscolo.
Uno
stereo, non appena la bandiera è stata alta sull'asta, ha
cominciato a suonare la musica dell'inno e, al momento giusto, un
coro di voci scompagnate ha cominciato a cantare. Alex mi ha indicato
i professori che erano proprio dietro di noi: avevano la mano sul
cuore e cantavano come se ne andasse della loro vita, mentre la Une
muoveva appena le labbra. Non appena mi ha visto, ha smesso di farlo
e mi ha puntato contro un dito.
«Si
volti e canti!» mi ha ordinato a voce alta. Mi sono girato di
nuovo, spaventato.
Arale,
accanto a me, cantava con ardore e un enorme sorriso stampato in
faccia, come se non ci fosse stato niente di più bello del
cantare un inno a quell'ora indegna della mattina. Alex, all'altro
mio fianco, mi ha fatto l'occhiolino.
«Credo
che non lo sappia nemmeno l'inno. La Une, intendo...» mi ha
informato, con un sonoro sbadiglio che non ha nemmeno coperto con una
mano, tutte e due infilate in tasca.
Non
ha nemmeno aperto bocca per cantare, mentre io, incerto, cercavo di
intonare la seconda strofa.
«Cazzo!»
ha detto ancora lui. «Dopo due anni non mi sono ancora abituato
a quest'andazzo schifoso!»
Dopo,
i professori se ne sono andati e, tutti quelli più grandi, che
erano anche davanti a noi, alti come torri, si sono voltati indietro,
come una sola persona e hanno fatto il saluto militare. Li ho imitati
perché la Une non venisse a sgridarmi di nuovo.
In
quel momento non sapevo chi mi faceva più paura, se lei o mia
sorella, che non si era proprio presentata in cortile.
Ho
guardato verso Alex, che, invece di fare il saluto, voltato di spalle
agli insegnanti, guardava il cielo con la bocca semiaperta e
un'espressione da catalessi. Dieci secondi dopo, ha starnutito.
«Rompete
le righe!» ha esclamato la Une, con la sua solita aria da
vipera, prima di andarsene e rientrare.
«Cosa?»
ho chiesto ad Alex. «Che vuol dire?»
«E'
come "Toglietevi di culo", ma poi non sarebbe abbastanza
fine per un collegio di questo stampo, capisci? La finezza è
la finezza...» ha risposto lui, guidandoci dentro, insieme a
una calca di ragazzi tutti in uniforme che parlavano piano, alcuni
anche lamentandosi. E non erano solo primini.
«E
adesso?» ho chiesto. «Che succede? Sono quasi le sette!»
«Adesso
possiamo tornare a dormire!» ha risposto Alex. Ho inarcato un
sopracciglio, incerto.
«A
dormire?» ha esclamato Rareba, stupito. «Ma... ci sono le
lezioni tra un'ora!»
«Ma
ho trovato solo gente ligia al dovere, quest'anno? E va bene:»
Alex ha guardato Frank, al suo fianco, mentre ci fermavamo tutti
insieme sulle scale. Aveva un'aria di finto interesse. «Che
abbiamo alla prima ora, Frankie?»
Lui,
forse non capendo la battuta, ha preso il foglio con l'orario e l'ha
guardato. «Attività fisica che, dopo colazione, è
la morte sua!»
«No,
la morte nostra!» è stata Pan a parlare. Scendeva le
scale, fresca come una rosa ed indossava l'uniforme come la indossava
Alex, cioè in modo sciatto e disordinato; il cappello lo
faceva roteare su un dito. «Dove siete stati?» ha
chiesto, guardandoci incuriosita.
«All'alzabandiera!»
ha risposto Frank. «Tu, piuttosto, dov'eri?»
«Non
sono mica una fessa come voi!» ha replicato lei, seria. «Io
ho dormito come un angioletto!»
«Ed
è proprio per questo che salterà la colazione, al
contrario di questi fessi!» ha risposto la Une, che era
rientrata, accanto a Zack Marquise e il ragazzo coi capelli neri e
con l'uniforme blu che aveva visto l'altroieri sera alla cerimonia.
«Cosa?»
ha chiesto mia sorella, inorridita. «Che novità è
questa?»
«Mi
sembra di averle già spiegato le ragioni, soldato...?»
«Iccijojji,
purtroppo.» ha risposto Pan.
«Soldato
Iccijojji, e non mi piace dovermi ripetere. Ci sono delle regole e
una di queste è la disciplina. Da sempre, in questa
scuola, ci si alza alle cinque, si fa l'appello e l'alzabandiera e,
chi disubbidisce, non fa colazione e guarda gli altri farla. In
piedi!» mentre parlava, il suo tono si è fatto sempre
più cattivo. E ha goduto nel dire le ultime due parole.
«Si
calmi, signora, si calmi!» ha risposto mia sorella, sarcastica.
«Non le fa bene alla pressione, se ce l'ha alta!»
Si
è diretta verso la mensa e non ha detto altro. La Une aveva
un'aria interdetta, come se nessuno mai avesse provato a parlarle in
quel modo.
«Muovetevi!»
ha ringhiato, rivolta a noi. E, senza aspettare altro, io, Alex,
Frank, Arale, Trowa e gli altri che c'erano con noi, siamo entrati a
mensa, in quella giungla di scalmanati che mangiavano, si lanciavano
i tovaglioli e urlavano saluti a quelli degli altri tavoli.
«Ma...
fanno sempre così?» ho chiesto ad Alex.
«Sì.
E' l'unico posto dove possiamo! Ehi, ciao, Ernesto, come stai?»
si è fermato con un ragazzo basso e i denti sporgenti, mentre
noialtri tornavamo al tavolo centrale, quello del nostro anno. Pan
era seduta e si stava imburrando una fetta biscottata.
«Scusa
se te lo dico, ma tua sorella ha la faccia come il culo!» mi ha
detto Arale, sedendosi accanto a lei, senza smettere di sorridere
nemmeno per un attimo. «Buongiorno!»
«Buongiorno
un cazzo!» ha abbaiato Pan. Arale ha fatto una smorfia e si è
presa la brocca del latte che era sistemata al centro della tavola.
Non sapevo cosa fare, dato che avrei dovuto rimanere in piedi, senza
colazione e, con Tai e Trowa, ci guardavamo spaesati.
Ma,
quando ho visto che anche Alex si sedeva e prendeva da mangiare, ci
siamo sentiti in dovere di imitarlo.
«Ma
bene!» ha esclamato la Une, venendoci incontro. «Vedo che
non avete capito: niente colazione significa che
non-dovete-toccare-CIBO!»
Pan
ha addentato la sua fetta biscottata, mentre il silenzio calava
imbarazzante sulla mensa. La Une la guardava rabbiosa. Sembrava
pronta per esplodere.
«Lei!»
ha sibilato, puntandole contro il dito. «Finirà in cella
di isolamento, prima o poi!»
Pan
ha masticato il pezzo di fetta biscottata, come se la cosa non la
riguardasse. «E se io la denunciassi per maltrattamenti a
minori?» ha chiesto, con la bocca piena e nessuna dignità.
«Ho letto tutto sull'argomento, quest'estate!»
Io
ho spalancato gli occhi, incredulo, e la Une è diventata
ancora più rossa della sua divisa.
«Co-cosa?»
ha chiesto, interdetta.
«Lei
non può maltrattare dei minorenni!» ha risposto Pan, con
semplicità.
«Già...»
ha esclamato Alex, scattando in piedi, come se sulla sua sedia ci
fosse stato uno spillo. «La sorella di Ken ha ragione! Siamo
tutti minorenni a questo tavolo?»
Alcuni
hanno annuito, tipo Mimi, ma anche persone che non avrei mai creduto,
tipo Frank; altri, tipo me o Joe o Trowa Burton, siamo stati un po'
vigliacchi e abbiamo preferito far finta di niente.
«Tu,
Ken, sei minorenne, no?» mi ha spronato Alex.
«Ehm...
s-sì!» ho balbettato, messo con le spalle al muro.
«Lo
siamo tutti!» ha continuato Frank, stringendosi nelle spalle.
«Ha visto?»
«Kushrenada!»
ha esclamato la Une, indignata. «Proprio lei, tra tutti!»
Tutti
quanti, a sentire quel nome, ci siamo girati verso di lui e tutti
avevamo gli occhi fuori dalle orbite. Probabilmente, si chiedevano,
come me, dove avessero già sentito quel nome.
«Cosa?
Sto dicendo le cose come stanno?» ha chiesto lui, alzandosi ed
ignorando le nostre teste puntate su di lui. Avrà quattordici
anni, ma è più alto della Une di tutta la testa. «Se
deve punire la ragazza, allora deve punire tutti gli altri!»
«Ben
detto!» ha esclamato Alex, fiero, annuendo con forza.
«Non
credo dobbiate essere voi a dirmi come devo procedere! Se non
sbaglio, sono io che gestisco questa scuola!» ha replicato la
Une, riprendendo un po' del suo contegno.
«Nei
limiti e nel rispetto del codice militare istituito dal Consiglio
dell'Alleanza!» ha replicato Frank. La Une ha inarcato un
sopracciglio, ma non ha ribattuto. Sembrava interessata a ciò
che il nostro compagno aveva da dire. «Secondo l'articolo 12
comma C, non tutte le punizioni applicabili ai maggiorenni possono
essere inflitte ai soldati di questa scuola, se minorenni. Una delle
punizioni bandite è, guarda caso, quella della cella di
isolamento. Mio zio ha stilato questo punto di suo pugno!»
L'abbiamo
ascoltato tutti a bocca aperta. Ora, le sue parole non sono state
precisamente queste, ma ricordo di aver cambiato totalmente idea su
di lui.
Bra
e Pan sbattevano le palpebre, guardandolo, di nuovo, come se fosse
stato Dio. Alex ha applaudito e così tutti quelli dei tavoli
vicino che avevano ascoltato e, ben presto, tutta la caserma
applaudiva il loro nuovo eroe. Applaudivamo con ardore: ero
impressionato dal coraggio che aveva dimostrato nel fronteggiare
quella donna così spaventosa.
La
Une lo guardava, però, con aria di sufficienza.
«Ha
finito?» ha chiesto, quasi annoiata.
Lei
e Frank si sono scrutati per alcuni lunghissimi secondi. La tensione
si poteva tagliare col coltello. Persino Pan aveva perso l'appetito.
«Bene.»
ha continuato la Une. Ha guardato tutti noi con le labbra arricciate.
«Kushrenada, voglio avvertirla: lei sarà anche il nipote
del Generale, ma io sono il Colonnello Une e sono la direttrice della
scuola. Forse alcuni insegnanti le permetteranno di godere di certi
privilegi, ma non sarò tra quelli.» ha sorriso
dolcemente. «Posso rendere molto difficile la vita ai miei
alunni.»
Lui
si è morso un labbro. Guardavo da lei a lui e mi batteva il
cuore: quella donna fa davvero paura.
«Nei
limiti del regolamento, spero!» ha risposto Frank, dopo un
secondo, ma tutti abbiamo sentito il tremore nella sua voce.
«Naturale!»
ha risposto lei, abbozzando un sorriso velenoso. Se n'è
andata, lasciandoci tutti confusi, con lo stomaco serrato e gli occhi
fuori dalle orbite. Nessuno, davvero, ha toccato più cibo. Ma,
oltre al terrore messoci addosso dalla Une, adesso avevamo qualcosa
di cui parlare: Frank.
Era
il nipote del Generale Treiz. Ecco dove avevo già sentito il
suo cognome. Se si comincia così, con questi vuoti di memoria,
mi immagino come farò a studiare le nozioni di ingegneria!
Alex
è stato il primo a riprendersi: ha dato delle pacche
affettuose sulle spalle di Frank che ha sorriso timidamente.
«Che
troia! Beh, almeno qualcuno ha le palle!» ha detto mia sorella,
disgustata. Ma poi ha guardato Frank e gli ha dato la mano. «Pan
Iccijojji, piacere!»
«Frank
Kushrenada!» ha risposto lui, stringendogliela.
«Ah...»
ha esclamato Arale, dando voce ai miei pensieri. «Ecco perché
il tuo cognome, quando ieri ti sei presentato, mi suonava
familiare... sei nipote di quell'ipoc... ops...»
Si
è zittita, ma Frank non ha detto niente – non ho capito
se se l'è presa oppure no –, mentre Alez si è
messo a ridere apertamente.
Solo
in quel momento mi è sovvenuto che, alla cerimonia d'apertura,
Alex ha dato davvero dell'ipocrita al Generale di fronte a Frank.
«Perché
non ce l'hai detto prima?» ha chiesto Bra, sistemandosi una
ciocca di capelli dietro l'orecchio e sfoggiando il più
smagliante dei sorrisi.
«Perché
non me l'avete chiesto...» ha risposto lui, ridacchiando.
«Uno
a zero, palla al centro!» ha esclamato Alex, ancora battendogli
sulla spalla. «Non tutti riescono a tenere testa alla Une,
almeno non al primo anno!»
Pan,
a quelle parole, le ha scoccato un'occhiata cattiva. Sono entrato nel
panico. Cosa avesse in mente, non potevo saperlo e, se potessi, non
vorrei mai saperlo. Ma so già che non sarà così.
La
prima lezione di oggi è stata l'attività fisica. Il
professore è un Capitano, un tipo così simpatico che ci
fa fare tutto quello che vogliamo, a patto che non rompiamo niente e
che non lasciamo la palestra.
Gli
spogliatoi sono molto grandi e, come nelle camerate, ognuno ha il suo
armadietto con dentro un accappatoio e due paia di magliette e di
pantaloncini.
«Di
là ci sono le docce!» ha detto Alex, indicando una porta
che, a scanso di equivoci, aveva attaccata sopra una targhetta con
scritto "Docce".
«Grazie,
Ramazza.» ha esclamato Trowa Burton, sarcastico. «Meno
male che ce l'hai detto tu...»
«Prego!»
ha risposto lui, forse senza aver colto l'ironia, andando al suo
armadietto. Il brutto era che lui ce l'aveva lontano da noialtri,
perché, ci ha spiegato, era ancora vicino ai suoi vecchi
compagni che, adesso, stanno al terzo anno.
Il
mio era tra quello di Tai Yagami e quello di Trowa.
Una
volta che ci siamo cambiati (il mio completo mi sta grande quasi
quanto la divisa), siamo scesi nell'enorme palestra della caserma: il
pavimento era quello solito delle palestre ed era di un
bell'arancione. C'erano diversi campi, due da pallavolo, due da
pallacanestro e, fuori, ci stava il campo da calcio.
«Allora...
salve! Sono il Capitano Salvini, il vostro insegnante di educazione
fisica. Direi di cominciare con dieci giri di corsa intorno alla
palestra!» così ha esordito il professore. Era diverso
da come me lo aspettavo: era magro, poco più alto di me, i
capelli grigi e un viso abbastanza gentile.
«E'
uno dei più a posto qua dentro!» ha detto Alex, mentre
cominciava a riscaldarsi con un po' di stretching. Poi si è
stiracchiato e ha sbadigliato sonoramente, come se si fosse appena
alzato. «Muoviamoci, ragazzi!»
Ha
fatto i suoi giri in poco più di dieci minuti e Frank ha
tenuto il suo tempo. Durante il mio secondo giro solitario, già
si stavano sfidando a chi dei due riusciva, in meno tempo, a correre
da una parte all'altra della palestra, per lungo.
Mi
sono fermato a riposare al quarto e, in quel momento, sono arrivate
le ragazze, in branco, vestite come noi. Pan era rimasta indietro e
guardava tutto annoiata nella sua divisa due taglie più grandi
della sua.
Le
ho fatto un cenno di saluto e lei, per un secondo mi ha stupito,
perché mi ha risposto, sorridendo anche. Ma poi il suo sorriso
si è trasformato in una smorfia e mi ha rivolto gestaccio,
congelandomi con la mano a mezz'aria.
«Allora,
che dobbiamo fare? Giochiamo a pallavolo?» ha chiesto Bra,
guardando le reti.
«No!»
il Salvini ha ripetuto quello che ha spiegato a noi.
«Io
non lo farò di certo!» è stata la risposta di
Pan. E la reazione del professore mi ha fatto capire che è
proprio un tipo a posto, come ha detto Alex: ha fatto finta di
niente ed è tornato nel suo ufficio, uno stanzino che pare uno
sgabuzzino, oltre la scala che porta agli spogliatoi maschili e se
n'è fregato di noi per il resto dell'ora.
E'
passata molto velocemente e non l'abbiamo nemmeno finita.
«Poi
Lady Une mi scuoierebbe vivo!» ha spiegato il professore,
rimandandoci negli spogliatoi cinque minuti prima del suono della
campanella. Dopotutto, sembra quasi essere a scuola, se non fosse
tutto così... militare.
Ridendo
della battuta del professore, siamo tornati indietro, a cambiarci e a
commentare entusiasti quanto avevamo appena vissuto. Solo Trowa non
sembrava contento.
«Credevo
che avremmo cominciato con qualcosa per tonificare i muscoli,
accelerare i riflessi...» ha esclamato. Alex ha fatto
schioccare la lingua.
«Non
lamentarti!» gli ha detto. «Meglio che ci sia un'ora
così, se non vuoi morire dopodomani! Non hai visto ancora
niente di questo posto, te l'assicuro!»
«Adesso
ce l'abbiamo dopo pranzo, di nuovo!» ha sbuffato Tai, coprendo
il "bah" scocciato del nostro compagno. «Io ve lo
dico. Sto seduto e non faccio una mazza!»
«Beh,
visto?» ha commentato Alex, indicandolo, ma rivolgendosi a
Trowa. «Comunque, Frankie, ho vinto io!»
Frank
si è messo a ridere. «Ma se facevi fatica a starmi
dietro!»
«Stronzate!
Eri tu quello che mangiava la mia polvere!»
«Sì,
ok, Alex. Sogna pure.»
«I
sogni son desideri...» si è messo a cantare Alex,
suscitando l'ilarità generale, mentre si portava un microfono
immaginario alla bocca e balzava su una panca, per usarla come un
palco.
L'atmosfera
era delle migliori, anche se erano già cominciate le
lamentele: in tutte le scuole, da sempre, non sono mai stati
accontentati tutti gli alunni. Ancora non riesco a capire se mi
troverò bene con loro, eppure non mi sembrano antipatici,
tutt'altro.
E'
stato un vero peccato che abbiamo dovuto abbandonare gli spogliatoi
per andare in Aula 20 per la prima vera lezione della giornata.
L'Aula
20 è come la Une: precisa, perfetta e ordinata. Infatti, mi ha
spiegato Alex, ogni insegnante è responsabile di alcune aule e
la Une lo era di quella.
La
direttrice ci aspettava dietro la cattedra, in piedi, in rigida posa
militare e ci guardava come se fossimo delle merde. All'insegna del
benvenuto.
«Seduti,
soldati! E non fate confusione. Da che prenderete i vostri posti,
quelli saranno fino alla fine dell'anno. Mi sono spiegata?»
così ha esordito, mentre entravamo in una fila tutt'altro che
ordinata.
Mia
sorella si è seduta in ultima fila, mentre io mi sono messo al
centro, con Frank, Alex, Trowa e Rareba. Non ci sono banchi come a
scuola, solo alcune sedie e un banchetto laterale che bisogna tirare
su.
«Nessuno
di voi ha carta e penna!» ha constatato la Une, guardandoci con
una smorfia di puro disgusto.
«Perché,
servivano?» ha chiesto Alex. La Une lo ha guardato di traverso.
«Ah,
ha finalmente deciso di seguire questo corso, soldato Ramazza?»
ha chiesto, con una nota di sarcasmo.
«Questi
ragazzi sembrano più simpatici di quelli degli altri anni!»
ha risposto lui, con un sorriso e i gomiti sulla spalliera.
La
Une ha fatto una smorfia indispettita. «Veda di mettersi
composto, Ramazza! Qui non siamo al bar!»
«Aspettatevi
di sentirlo ogni giorno della vostra vita!» ha borbottato lui,
rivolto a me e a Frank, mentre la Une guardava verso le ultime file.
«Lei,
Iccijojji...» ho alzato la testa di scatto, ma ce l'aveva con
mia sorella che, al contrario mio, continuava a grattarsi dietro le
orecchie e a guardare un punto imprecisato del soffitto. «Iccijojji?»
Solo
dopo un paio di secondi, Pan ha abbassato la testa verso di lei, ma
ha guardato me. «Kenny, cazzo, vuoi rispondere a questa signora
che ti sta chiamando? Sei un gran maleducato!» mi ha detto.
«Parlavo
con lei, Iccijojji!» ha risposto la Une, acida. «Vorrei
che anche lei si mettesse composta.»
«E
chi sta facendo niente?»
«La
smetta di grattarsi le orecchie e si metta composta!» ha detto
la Une, tra i denti.
«Ma
io grattavo dietro le orecchie...» ha detto mia sorella,
come se non capisse il perché di tutta quella cagnara. Alex si
è piegato in avanti per nascondere le sue risate alla vista
della Une che sembrava un pesce fuor d'acqua: probabilmente non ha
mai avuto a che fare con una persona come mia sorella.
«Allora,»
ha cominciato, riducendo la voce ad un sussurro. «Molti di voi
si saranno chiesti cosa significhi Teoria dei Gradi, giusto?»
«Veramente...
no...» ha replicato Pan. Alex ha ripreso a ridere e Frank gli
ha dato una gomitata, per fargli segno di tacere. La Une ha
continuato ad ignorare le battute fuori luogo.
«E'
presto detto: voi siete del primo anno e dovete imparare i gradi di
tutti i militari, in modo da poter portare il dovuto rispetto e,
soprattutto, riempire quelle teste ignoranti.»
«Ma
che culo!» ha provato di nuovo mia sorella. La Une non l'ha
proprio calcolata, mentre mi chiedevo se quella fosse la sua nuova
strategia per farsi notare... o se facesse parte di un suo piano.
«Partiamo
dal fondamento. Nell'esercito spaziale, oltre alle medaglie, cambiano
anche le divise. Voi ne indossate una nera, io una rossa...»
«Ma
va'...» ha insistito mia sorella. «Questo l'avevo visto
pure io...»
«Iccijojji,
vuole essere così gentile da lasciarmi finire un discorso?»
ha abbaiato la Une, guardandola in modo feroce. Pan ha alzato le
mani, con un'espressione accondiscendente stampata in faccia.
«Partiamo
dall'imparare tutti i gradi.» ha, quindi, continuato la Une,
facendo come se niente fosse. «Ho preparato delle fotocopie
apposta.» ha preso dal cassetto della cattedra un pacco di
fogli e ci ha contati, poi ha contato i fogli e li ha distribuiti.
Sopra
a tutti, c'era disegnata una tabella con tutte le medaglie e le
divise connesse a ognuna. Sul primo riquadro a sinistra non c'erano
medaglie, ma solo un'uniforme e sotto la scritta "Soldato".
«Come
potete vedere,» ha continuato la Une. «i soldati delle
Truppe e i Sottoufficiali, portano la divisa nera, gli Ufficiali
Inferiori la divisa blu, gli Ufficiali Superiori, tra cui io («C'è
pure bisogno di sottolinearlo!» ha mormorato Alex.), quella
rossa e gli Ufficiali Generali quella azzurra, come il nostro
Generale Treiz. Ora, voi potete benissimo riconoscervi come Soldati
Semplici.
«Nel
corso di questi sei anni, potrete aspirare a diventare questo!»
ci ha fatto indicato, dal foglio che teneva in mano l'ultima casella
della prima riga. «Cioè Caporal maggiore capo scelto. Se
proseguirete con i vostri studi militari, cosa che spero, potrete
benissimo andare avanti e conquistare molte più medaglie.»
Rareba
Winner ha alzato la mano. «Sei anni? Sui depliant c'è
scritto che gli anni sono sette!»
«Sì.»
la Une ha annuito e ha intrecciato le mani. «E se avesse
ascoltato il discorso del Generale, ieri pomeriggio, saprebbe anche
perché. Gli anni che dovrete affrontare chini sui libri sono
sei. Il settimo è un anno facoltativo di tirocinio sulle
colonie spaziali, al termine del quale dovrete superare un test
finale e poi, naturalmente, potrete giurare fedeltà al vostro
Stato e all'Alleanza!»
Stavolta,
la mano l'ha alzata Mimi Takikawa. «E chi, invece, volesse
terminare al sesto anno?»
«Alla
fine dell'esame del sesto anno, potrà chiedere la licenza.»
«E
cosa bisogna fare per prendere le medaglie?» ha voluto sapere
Tai Yagami.
«Una
lotta con i Pokémon!» ha esclamato Alex, facendo ridere
tutta la classe. La Une, però, ci ha urlato di fare silenzio.
«Le
sue battute sono del tutto fuori luogo, Ramazza!» ha esclamato,
acida. «Le consiglio di studiare quest'anno, se vuole
continuare a frequentare questi... ragazzi simpatici!»
ha detto le ultime due parole con una smorfia di disgusto, come se
non credesse che, davvero, possiamo essere simpatici. «Per
rispondere alla sua domanda, soldato...?»
«Yagami!»
ha risposto Tai, pronto.
«Per
rispondere alla sua domanda, soldato Yagami: servono disciplina,
ottimi voti agli esami di fine anno e...»
«Esami
di fine anno?» ha gridato Pan. «Che vuol dire esami di
fine anno?»
La
Une ha sospirato, decisamente sconsolata. «Quello che ho
detto.» ha risposto, però, con durezza. «Ci sono
degli esami per testare la vostra preparazione e per vedere se siete
pronti ad affrontare l'anno successivo.»
«Ma
che bel castello, marcondirondirondello, ma che bel castello,
marcondirondirondà.» ha cantato, allora, mia sorella,
senza nessuna enfasi.
La
Une le ha rivolto uno sguardo sconvolto, quindi si è portata
una mano alla tempia. «Non è possibile.» l'ho
sentita mormorare per quattro volte. «Non voglio crederci!»
Non
era la prima ad avere questa reazione, al primo impatto con mia
sorella. Ed io, se prima ero preoccupato, in quel momento cominciavo
ad essere terrorizzato per ciò che potrebbe esserci nella
mente di quella pazza scatenata che è Pan.
Abbiamo
ripreso la lezione senza intoppi, comunque. La Une ci ha spiegato che
ne avremo fino alla fine del trimestre per Teoria dei Gradi e che
avremmo studiato la storia della caserma in queste ore.
Come
primo compito per domani, abbiamo avuto da imparare tutti i gradi, da
Soldato a Generale, a memoria!
«Ma
è crudeltà mentale, questa!» ha protestato Alex,
non appena la Une ha finito di parlare.
«Non
le pare di esagerare, Ramazza?» ha ribattuto la Une. «Non
mi pare che nessuno, prima di lei, si sia lamentato. Lei ha mai
sentito i suoi vecchi compagni farlo?»
«Beh,
io mi lamento!» ha risposto lui, offeso, stringendosi nelle
spalle.
Alla
fine, la Une è esplosa, cosa che non riuscivo a credere, per
com'era sempre stata composta e impeccabile: «LEI NON DEVE
LAMENTARSI, DEVE UBBIDIRE! E adesso cominciamo con la Storia!»
La
Storia non ha niente a che vedere con quella della caserma. Ha a che
vedere con le colonie, costruite negli anni Sessanta, dopo lo sbarco
sulla Luna, che è divenuta una grande base spaziale militare
dell'Alleanza, cioè degli eserciti uniti di terra e colonie
spaziali.
La
Une ci ha anche elencato i vari settori nei quali sono divisi i
"territori spaziali", nei quali ci stanno dalle tredici,
alle venti colonie, ma non me ne ricordo manco uno, non avendo avuto
nemmeno un quaderno per prendere appunti.
Rareba,
che ci vive, ha spiegato che le colonie sono come i pianeti, solo
costruite dall'uomo, vivibili e che si mantengono nell'orbita solare,
grazie a dei dispositivi che, secondo la Une, studieremo solo al
sesto anno, se mai ci arriveremo.
Queste
specie di Terre hanno cibo e acqua perché vengono forniti
dalla Terra.
Durante
l'ultima guerra degli anni Ottanta, molte persone sono morte di sete
perché tutti i Suit e navicelle-cargo che trasportavano
l'acqua, venivano abbattuti dai nemici.
«Ogni
settore coloniale appartiene a uno Stato o continente. Per esempio,
le colonie appartenenti al settore L74» spiegava la Une. «sono
amministrate dal governo giapponese; quelle di Z21, dalla Russia. Una
parte di quelle di A80 dalla Comunità Europea...» ha
continuato per un po' e non sono nemmeno sicuro dei numeri. E' stata
una lezione interessante, di introduzione, soprattutto. E sono
passate in fretta anche le due ore, senza che nessuno fiatasse,
nemmeno mia sorella, che non ha mosso un muscolo. E il mio terrore
cresce, anche adesso che scrivo: mia sorella non è mai stata
una che cede così facilmente.
La
maggior parte di noi, però, era entusiasta della prima lezione
con la Une e, a pranzo, è stata l'argomento principale di
conversazione.
«Ma
che è successo di tanto interessante?» ha chiesto Pan,
servendosi di quello che doveva essere brodo di pollo, ma che
sembrava solo acqua gialla. «Io mi sono rotta le palle!»
«E
c'era da rompersele!» ha confermato Alex. «Tutte quelle
stronzate, quei settori... ma chi se ne frega?»
«Ma
che ci sei venuta a fare, se non ti piace?» ha detto Bra,
altezzosa, squadrando Pan come se fosse stata una cacca sotto la sua
scarpa firmata.
«Perché
sono fatti miei!» è stata la risposta rabbiosa di mia
sorella.
«Non
ha senso che tu sia qui e che faccia la spiritosa in quel modo!
Finora non sei stata punita perché è il primo giorno.
Ma non vedo l'ora che tu finisca a pulire i cessi con la lingua!»
«Tu
finirai su un marciapiede a fare ben altro con la lingua!» ha
detto mia sorella. Ho corrugato la fronte e ho guardato Pan in cerca
di una spiegazione che non è mai arrivata: certo che, quando
ci si mette, fa delle battute che non riesco a capire. Ma Bra sembra
averla capita molto bene perché ha risposto:
«Ecco,
quando non sai che dire, offendi!»
«Sempre
meglio di te che spari solo cazzate!»
«Io
dico le cose come stanno!»
«Tu
apri la bocca e le dai fiato, sempre che non ci metta un...»
Ma
Frank le ha impedito di continuare. Essendo vicino a lei, le ha
posato una mano sulla spalla, suscitando la più prevedibile
delle reazioni in lei. Beh, prevedibile solo se ci sei vissuto per
dodici lunghi anni: ha fatto scattare la testa verso di lui, gli
occhi fuori dalle orbite e un'espressione omicida che si estendeva a
tutto il suo volto.
«Che
cazzo vuoi?» gli ha chiesto, disgustata.
«Ti
va di passarmi il sale?» ha avuto la brutta idea di dire Frank.
«Brutto
coglione!» è stata la risposta di Pan, infatti. «Non
vedi che sto parlando?»
«No,
stai solo sparando parolacce!»
Altra
cosa da non dire: la verità fa male, ma fa ancora più
male se la si dice a Pan. Ero convinto che avrebbe preso una
forchetta e che gliel'avrebbe ficcata in una mano, se non in un
occhio. Già mi immaginavo le urla, il sangue che schizzava
dappertutto e le corse isteriche di tutte le persone colpite. Ho
detto ad Alex, al mio lato destro, di mettersi un piatto davanti alla
faccia. Stranamente, lui non ha fatto una domanda e, ancora più
stranamente, ha preso il piatto. Peccato che fosse pieno di pollo
alla birra (sì, è disgustoso! L'unica cosa buona era
che di birra non ce n'era) e che gli sia finito sulla divisa,
ungendolo dal petto fin sul cavallo dei pantaloni, dove il pollo si è
fermato.
Eppure,
Pan non si è armata di niente: ha ruttato sonoramente per due
volte. E ho visto Bra, da dietro il piatto ancora sollevato sulla mia
faccia, curvo sul tavolo e i gomiti appoggiativi sopra, che si
allontanava con tutto il suo, di piatto.
In
quel momento è arrivata Arale, si è messa alla mia
sinistra e guardava me e Alex in quella strana – per chiunque
non sappia – posizione.
«Che
gioco è?» ha chiesto, curiosa, inclinando la testa da
una parte all'altra.
«Non
lo so...» ha risposto Alex.
Ho
guardato lei da dietro il piatto e le ho fatto un cenno di fronte a
me, dove stava seduta Pan. Arale ha capito subito.
«Sì,
che c'è?» mi ha chiesto.
«Che
fa?» ho sibilato.
«Mangia.»
ha risposto lei, come se non ci fosse stato niente di più
naturale che essere seduti ad un tavolo a mangiare. Ok,
effettivamente non esiste niente di più naturale, ma non
quando si tratta di avere mia sorella nei paraggi...
Arale
si è seduta e ha cominciato a piluccare il suo pollo. «Avete
intenzione di tenervi quei piatti in faccia per tutto il resto della
pausa pranzo?» ha chiesto.
«Ehm...»
non lo sapevo, a dire la verità: prima avrei preferito sapere
se la burrasca era finita. «Non sta lanciando niente, vero?»
«No...»
ha risposto lei, dubbiosa.
«Kenny,
sei proprio un coglione!» è stato il commento di Pan.
«CHE CAZZO CI FAI CON UN PIATTO DAVANTI ALLA FACCIA?»
A
quel punto, non potevo più sottrarmi all'evidenza, così
ho abbassato il piatto di nuovo sul tavolo. Alex mi ha imitato.
«Ah,
abbiamo finito?» ha chiesto. Ho visto Frank scuotere la testa,
rassegnato, mentre Pan alzava gli occhi al cielo, esasperata. Arale
ha ridacchiato, mentre vedevo che quasi tutti i ragazzi del nostro
corso ci stavano guardando, ridendo sotto i baffi.
«Allora,»
ha continuato Arale, distogliendo la mia attenzione da
quell'imbarazzante situazione. «che ve ne è parso della
lezione con la Une?»
«Io
non sapevo che le colonie appartenessero agli stati terrestri!»
ho detto, velocemente.
«Ma
se tu non sai manco come ti chiami!» è stato quello che
ha risposto Pan, guardandomi con cattiveria.
«Certo
che sono nostre!» ha detto Frank, ignorando mia sorella e
guardandomi. «Però, hai sentito la Une, vogliono
staccarsi da noi e amministrarsi per conto loro. Purtroppo per acqua
e cibo dipendono da noi; le colonie sono artificiali...»
«Ovvieremo
anche a questo.» ha replicato Trowa, come se l'avessero offeso
personalmente. «Ci stiamo lavorando!»
«Perché
non volete essere comandati dalla Terra?» ha chiesto Arale.
«Perché
non è giusto: la Terra è la Terra. E le colonie sono al
di fuori di essa.» ha risposto Rareba, molto più pacato
di Trowa. «Vogliamo solo poterci governare da soli. Non è
giusto che la Terra debba controllarci solo perché dipendiamo
da lei per cibo e acqua.»
«Ma
senza queste cose sareste inchiappettati e morti stecchiti!» ha
detto mia sorella, indicandolo con disprezzo. «E' giusto che vi
controlliamo! Dovreste esserci grati e basta: non vi facciamo morire
di fame e sete, come degli ingrati del genere, meriterebbero!»
«E'
per via di persone che la pensano come te che ci sono le guerre nello
spazio!» ha protestato Trowa, guardandola in cagnesco.
«Migliaia di colonie sono andate distrutte proprio per questo e
non solo loro, ma anche gli abitanti. Donne e bambini!»
«Siete
solo degli ingrati!» ha ripetuto Pan. «Se vi stavate al
vostro posto, niente morti!»
«Iccijojji,
gli abitanti delle colonie non si sentono più terrestri!»
ha tentato di spiegarle Frank, mentre posava il bicchiere davanti al
suo piatto. «Vogliono la loro indipendenza e non possiamo dar
loro torto. Ci sono state molte guerre in passato e non è
giusto continuare su questa via. Troppi morti, troppi sacrifici!»
«Il
vero problema sono i terrestri.» ha replicato Trowa, battendo
il pugno sul tavolo. «Non vogliono perdere il controllo sullo
spazio, adesso che ce l'hanno! Lo distruggerebbero, pur di non
perdere la loro supremazia!»
«Quanto
la fate lunga!» ha detto Pan, allargando le braccia,
esasperata. «Rompete poco i coglioni e vivrete meglio, niente
guerre, niente sacrifici! Visto com'è facile?» La
questione sarebbe caduta lì, se lei non avesse continuato con
questa frase, rivolta all'agguerritissimo Trowa: «E tu che
disprezzi tanto la Terra, perché sei venuto a stare in un
collegio militare sulla Terra? Lo sai di essere un povero incoerente,
vero?»
«Questo
non è solo un collegio militare terrestre.» ha ribattuto
lui, inviperito. «E' il miglior centro dove imparare a
costruire e pilotare i Mobile Suit. Se fosse stato sulle colonie,
credimi, non sarei venuto qui a farmi insultare da te!»
«Ti
dicevo le cose come stavano, il mio caro perfettino!»
«Finché
le dici tu le cose come stanno, Iccijojji, va tutto bene, vero? Se
sono gli altri a dirle a te, allora è tutto sbagliato!»
ha ribattuto Bra, acida. «Sei tu l'incoerente, non Burton!
Vero, Burton?» ha detto, mielosa. Ma Trowa le ha solo scoccato
un'occhiata indifferente e ha ripreso a mangiare, particolarmente
corrucciato.
Arale
ha fatto una smorfia dubbiosa, mentre io mi chiedevo se era davvero
normale morire per una cosa così: se quelli delle colonie
vogliono l'indipendenza, perché non ne parlano con i
terrestri, invece di fare le guerre?
Il
pranzo è finito poco dopo ed eravamo pronti per un'altra ora
di educazione fisica, che abbiamo passato tutti negli spogliatoi
senza che nessuno ci venisse a chiamare o ci desse note di demerito.
Trowa è stato l'unico, insieme a Rareba Winner e pochi altri
ad andare in palestra. Frank è rimasto con me, Matt Ishida,
Tai Yagami e Alex che ha provato a pulire la divisa, ma ha ottenuto
solo di sporcarla di più.
«Che
cazzo!» ha sbuffato, arrabbiato.
«Va
beh.» ha risposto Frank. «La porti in lavanderia, più
tardi!»
«Lavanderia?»
ho esclamato, perplesso. «C'è una lavanderia?»
«Secondo
te, le cose come le pulisci?» ha ghignato Tai Yagami. «Con
lo sputo?»
A
dire il vero, non ci avevo proprio pensato.
«Ah,
e dove sono?» ho chiesto, rivolto ad Alex. Ma lui ha fatto
spallucce. Non lo sapeva, ma, chissà come mai, non sono stato
del tutto stupito.
Su
Jack Bristow c'è veramente poco da dire. E' una palla mortale:
parla in modo così monotono che, quando ha cominciato a
spiegare le funzioni, che cos'erano e come funzionavano (che
terribile gioco di parole!), mi sono lasciato trasportare dal suo
torpore e ho sonnecchiato per tutte e due le sue ore, riprendendomi
dalla stanchezza di tutta la giornata.
Ma
le nostre ore di lezione, dopotutto, non erano ancora finite: mancava
geografia.
Quello
che credevo essere un professore, quello con l'uniforme blu e la
frangia lunga, lo stesso che, quella mattina, aveva accompagnato la
Une e il professore con la maschera, in realtà, è una
professoressa, il cui nome è Lucrezia Noin ed è un
Tenente. Già questo, ha suscitato non poche perplessità
in noi, quando Alex ci ha avvertito.
Ma
la cosa che ti colpisce più di tutto è la sua voce: non
si sente manco a pagarla.*
«La
Noin è uno spasso! E' così simpatica che ci fa
addormentare tutti!» ha detto Alex, dal primo banco, vicino a
Frank. Io mi ero messo dietro, vicino ad Arale e all'ancora
arrabbiatissimo Trowa che non mi ha rivolto la parola per tutto il
resto della giornata, come se fossi stato io a parlargli in quel
modo delle colonie. «Quanto scommettete che non duriamo per più
di dieci minuti?
Non
ho capito cosa intendesse, ma poi la Noin è entrata in classe
e si è avvicinata alla cattedra con una lentezza allucinante.
Si è seduta con altrettanta lentezza e quasi quasi mi chiedevo
se non dovessimo ricaricarle le batterie. Quando ha cominciato a
parlare, poi, è stato il momento più drammatico della
giornata, anche peggio della lite tra mia sorella e Bra a mensa:
muoveva la bocca, sì, ma non emetteva suono. C'era un silenzio
tale (persino noi eravamo col fiato sospeso) che sembrava avessero
tolto l'audio alla stanza. Ma, quando ho sentito Bra, dal posto
davanti al mio, dire qualcosa all'orecchio di Mimi Takikawa, mi sono
tranquillizzato. Così mi sono sporto in avanti per tentare di
captare un suono, ma con scarsi risultati. E ho capito cosa intendeva
Alex.
«Non
ho capito una parola!» è stato il commento sconcertato
di Arale.
«E
nessuno ci riuscirà mai!» ha detto Alex, girandosi verso
di noi, senza neanche preoccuparsi di abbassare la voce. «Io
l'anno scorso seguivo questo corso giusto per vedere i miei compagni
dormire e russare come porci!»
La
Noin si è accasciata alla cattedra con aria sconsolata e ha
cominciato a leggere "a voce alta" dal libro, peccato che,
ancora una volta, non si sentisse niente.
«VOLUME!»
ha gridato Pan, dall'ultimo banco, suscitando l'ilarità di
tutta la classe. Stava sola come un cane e, un po', mi dispiaceva.
«Cazzo, ma è sorda, oltre che muta?»
«Più
o meno...» ha risposto Alex.
«Ma
non potrebbe scrivercelo, signora?» ha chiesto Arale, parlando
più gentilmente. «Così capiremmo qualcosa!»
La
Noin, nella tua lentezza, si è alzata, ha preso un gesso e ha
solo scritto, a lettere cubitali, sulla lavagna dietro di lei: «FATE
ATTENZIONE E ZITTI!!!», poi è tornata alla cattedra, si
è seduta ed ha ripreso a leggere. Siamo rimasti davvero in
silenzio, ma tutto quello che riuscivamo a sentire era il respiro dei
nostri compagni di banco.
«Questa
sì che è una lezione!» ha esclamato Pan, facendo
finta di essere impressionata e rompendo quell'irreale silenzio.
«Cazzo, com'è interessante! Dai, VOLUME! ALZA IL
VOLUME!» ha cominciato a battere le mani, come per sollecitare
un animale a muoversi. «NON SI SENTE UNA MISERIA!»
La
povera Noin, che ci aspettavamo reagisse come la Une e cominciasse a
gridare come un'isterica, si è alzata in piedi ed è
scappata via in lacrime, il tutto molto velocemente. Tutti noi,
invece, siamo rimasti seduti, in silenzio e spiazzati. Non avevo mai
visto una professoressa così... beh, così. Impossibile
definirla altrimenti.
«Ma
come ha fatto questa a diventare Tenente?» ha chiesto Arale,
guardandola andare via, condividendo i miei pensieri un tantino
sconclusionati, in quel momento di massimo scalpore.
«Ma,
sai... raccomandazioni ce ne sono tante...» ha risposto Tai,
intrecciando le braccia.
«Ecco,
sei contenta, Iccijojji?» ha sbottato, acido, Trowa.
«E
quanto la fai lunga, pure te!» ha ribattuto mia sorella. Già
mi ero preparato all'eventualità che, tra loro due, non
sarebbe mai corso buon sangue, e, dopo questo, credo che si odieranno
fino a che saremo in classe insieme. «Scommetto che tu sentivi
tutto!»
«Se
le leggevi le labbra...»
«Oh,
beato che te che ci riuscivi!»
«Pan,
ma perché non fai un po' di silenzio?» ha chiesto Bra,
esasperata. «Non sei mica divertente, lo sai?»
«Ma
se stavi ridendo pure te, troietta, quando chiedevo che alzasse la
voce? Che ridevate a fare, se non vi va bene, me lo dovete proprio
far capire!»
«Io
non ridevo!» ha gridato Bra. «Testimoni quelli che erano
vicino a me!»
Ma
nessun testimone ha confermato o smentito.
«Cazzate!»
ha detto mia sorella.
Alex,
nel frattempo, incurante di tutte le discussioni in cui si infila Pan
(mi chiedo spesso perché non posso farlo anch'io, senza
sentirmi un vigliacco e un indifferente) si è alzato.
«Dai...»
ha detto, guardando Frank, me e Arale, i più vicini. «Andiamo,
che ci stiamo a fare qui? Tanto la cena è alle otto precise e
manca ancora un bel po'!»
«Oh,
che bello!» ha esclamato Arale, tutta denti, scattando in
piedi. «Dove andiamo?»
«A
dormire!» ha risposto lui, come se avesse dovuto essere ovvio.
«Ma
non ci facciamo un giro?» ha chiesto lei, delusa, seguendolo
fuori dalla fila di banchi.
«Io
vado a dormire, tu vai pure dove vuoi!»
Se
n'è andato dall'aula e Arale si è girata verso di me.
Mi ha squadrato a lungo, tanto che mi sono sentito parecchio a
disagio: nessuno mi aveva guardato tanto intensamente e per tanto
tempo. Mi sono guardato la divisa: magari ero sporco. E invece ero
pulito.
Ho
rialzato gli occhi su di lei, per chiederle cosa avesse visto di
anomalo, ma lei stava sorridendo. Giuro che ero parecchio confuso.
«Che
c'è?» mi sono
ritrovato a chiedere, con filo di voce, perplesso.
Mi
ha fatto cenno di seguirla.
«Vieni?»
mi ha chiesto. «Ti chiami Ken, vero?»
«Gli
amici mi chiamano Kenny!» ho risposto, con un sorriso incerto.
Ma lei era radiosa.
«Allora
ti chiamerò così!» ha esclamato, afferrandomi per
un polso e tirandomi fino all'uscita dell'aula. Travolgente. Ecco
com'è Arale.
*****
Sono
tornata!
Scusate
l'immenso ritardo, ma non ho avuto il tempo di ricontrollare il
capitolo. Sto riscrivendo praticamente tutto e solo pochi capitoli
sono davvero buoni. Di questo non sono completamente soddisfatta, ma
non saprei davvero come esprimerlo in modo diverso – e migliore
– purtroppo.
Prof:
leggere i tuoi commenti mi fa un enorme piacere. Sono proprio come
piacciono a me, lunghi e schietti! Non ti preoccupare, non sono
scoraggiata. :) Sto, appunto, riscrivendo tutto e devo anche finire
la fanfiction delle Winx (fortunatamente manca solo un capitolo),
prima di dedicarmi completamente a Kenny. Allora, che cosa ne pensi
di questo capitolo? Condividi le mie perplessità? Dimmi quello
che pensi e non farti scrupoli!
Se
inserirò Relena? Questo è sicuro, ma non penso che
diventerà una “regular”, sarà più
una “special guest”. Poi come la tratterò... io
non intendo trattarla male, ma i miei personaggi non so quanto
saranno d'accordo. XD
Alla
prossima!
Ringrazio
coloro che continuano a seguirmi e vi do appuntamento al capitolo
successivo!
Luine.
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Capitolo 5 *** Le persone più a posto ***
Le
lezioni al primo anno.
Le
persone più a posto
|
«Volevo
andare in biblioteca!» mi ha spiegato Arale, quando siamo
usciti in corridoio. Era tutto deserto, l'unica cosa che si poteva
vedere erano le finestre e i pavimenti luccicanti. «Sai,
dobbiamo trovarla e prendere in prestito i libri di testo. Bisognerà
anche farci le fotocopie, ma per questo c'è la segreteria. Ho
chiesto ieri a quel ragazzo carino che sorveglia il nostro piano,
Heero Yuy! Dice che è impossibile passare il primo anno, se
non usi i libri, soprattutto con la Noin. E ora capisco perché!»
Arale
parla molto e molto velocemente, tanto che ho fatto molta fatica a
starle dietro; ma è molto allegra e la sua allegria è
contagiosa: riesce in un modo che non sono riuscito a capire, a farti
sorridere anche quando dice la cosa più stupida, forse è
perché anche i suoi occhi sono sempre sorridenti.
Quando
è suonata la campana, nel corridoio si sono riversati tutti i
ragazzi che seguivano le lezioni e ho sentito molti di loro, e più
grandi, commentare con frasi ben poco rassicuranti. Alcuni, invece,
sistemavano i libri in una borsa che tenevano a tracolla, qualche
altro li portava a mano. Ma tutti avevano la stessa aria distrutta:
già mi vedo, tra qualche anno, a crollare a terra e dormire
dove mi capita. Se già ero distrutto all'inizio della
mattinata, posso solo immaginare quello che capiterà tra un
mese.
«Ancora
un'ora...» ho sentito che un ragazzo diceva, in tono devastato,
alla tipa che gli camminava a fianco.
«Chiediamo
a quel ragazzo laggiù?» Arale mi ha indicato un tizio
alto, coi capelli castani, la divisa abbottonata in modo impeccabile.
Aveva un'aria leggermente snob e si era sistemato davanti a una
finestra per guardare fuori. Non mi piaceva manco un po'.
«E
se cercassimo qualcun altro?» ho chiesto, indeciso.
«Ma
no!» Arale mi ha preso per mano e mi tirato verso di lui.
«Ciao!» lo ha salutato, con un sorriso che le andava da
un orecchio all'altro.
Lui
ha abbassato lo sguardo su di noi e ci ha rivolto un'occhiata carica
di sufficienza. Non si è degnato di rispondere ed è
tornato a guardare fuori, come se nessuno gli avesse mai rivolto la
parola. Mi è stato subito più antipatico di quanto non
fosse successo a prima vista.
Il
sorriso sulla faccia di Arale si è spento e, con una smorfia,
mi ha guardato.
«Avevi
ragione!» ha detto, ma non si è arresa. Ha continuato a
trascinarmi e ci siamo fatti strada tra la folla, fino a quando non
abbiamo chiesto a una ragazza con lunghi capelli rosso fuoco dove si
trovasse la biblioteca.
«E'
quella lì!» ha detto, con l'aria di chi non abbia capito
se era stata presa in giro o meno, ma ho capito perché girando
gli occhi verso il punto che indicava: una porta su cui c'era una
grossa targhetta con su scritto a lettere cubitali: “Biblioteca”.
Arale
ed io ci siamo scambiati un'occhiata. «Siamo degli emeriti
ciechi!» mi ha detto, poi si è rivolta alla ragazza,
regalandole uno dei suoi smaglianti sorrisi: «Grazie tante!»
«Certo
che quel tipo avrebbe anche potuto rispondere...» mi ha detto,
mentre sorpassavamo alcuni ragazzi che andavano nella direzione
opposta alla nostra. «E' peggio di tua sorella. Com'è
che si chiama?»
«Non
lo so.» ho risposto. Cosa ne potevo sapere qual era il nome di
quel maleducato?
Lei
si è fermata e mi guardava come se fossi stato un alieno. E io
non capivo. «Non sai come si chiama tua sorella?» ha
chiesto, quindi, con gli occhi fuori dalle orbite.
«Certo
che so come si chiama mia sorella!» ho esclamato.
«E
allora perché mi hai detto che non lo sai?»
Mi
sono grattato la testa, perplesso. «Non volevi sapere il nome
di quel ragazzo?» ho chiesto, timoroso di sbagliare.
Lei
ha inarcato un sopracciglio. «In realtà, immaginavo che
tu non lo conoscessi! Ma se sapessi come si chiama anche il signor
Maleducato non sarebbe male... è carino!»
Mi
ha sorriso con tutti i denti che ha.
«Ah...
ehm... mia sorella si chiama Pan...» ho detto, per evitare di
approfondire l'argomento su quel tipo e per evitare di fare altre
stupide figurette. «Ma credo che per essere peggio di lei non
ci voglia poi così poco...»
Arale
ha fatto una smorfia. «Secondo me, tua sorella fa solo la parte
della dura, ma nasconde un cuore d'oro!»
«Se
è così lo nasconde molto bene!» ho risposto,
dubbioso. Perché glielo dicessi, per me era un mistero: la
verità è che, con Arale, mi sono trovato subito bene.
Non so perché, dato che non la conosco. E' una cosa a pelle...
è strano, ma non so davvero spiegarmi altrimenti come mai sia
riuscito a parlarci così senza conoscerla.
Ci
siamo fermati davanti alla porta della biblioteca, dove, oltre alla
targhetta, c'era un foglio stampato che recitava: “SE DEVI
ENTRARE, ALMENO FALLO IN SILENZIO!”
Ci
siamo lanciati un'occhiata ancora più dubbiosa, poi lei è
tornata ad osservare il foglio ed ha fatto spallucce.
«Facciamo
silenzio!» ha risposto, pratica, e ha aperto. Dentro è
piuttosto piccolo, ma ci sono così tanti scaffali
stracolmi di libri che cadono a pezzi, da poterci riempire
tranquillamente tutta la mia cameretta, senza lasciare un solo angolo
libero.
In
fondo, vicino alle finestre, ci sono due tavoli da sei posti e le
sedie sotto di essi quasi non si possono spostare per via dello
spazio esiguo a loro disposizione.
«Non
deve essere molto fornita, eh?» mi ha chiesto Arale, con il
naso per aria, verso le lampade al neon sopra le nostre teste.
Non
ho risposto, ero ancora piuttosto confuso, mentre mi guardavo ancora
intorno, alla ricerca della porta segreta: non avevo mai davvero
visto una biblioteca così piccola e così stretta.
Sulla
sinistra, dietro l'ingresso e attaccato al muro c'è un altro
cartello su cui c'è scritto: “Ufficio del
Bibliotecario”. Questo ufficio non è un ufficio: è
un banchetto nascosto tra gli scaffali ed è attaccato alla
parete dietro la porta. Dietro di essa, c'era un ometto dall'aria
gioviale e una pancia che gli sporgeva da sopra la cintura
dell'uniforme nera. Non appena siamo entrati, ci ha rivolto un
sorriso smagliante a trentadue denti.
Era
il bibliotecario, un tipo allegro e vivace, che ci ha salutati come
se fossimo stati parenti stretti che non vedeva da tanto tempo.
«Benvenuti!»
ha detto, alzandosi per aggirare la scrivania buco e stringendo ad
entrambi la mano. «Benvenuti, ragazzi miei! Prego,
accomodatevi, prendete tutto quello che volete e firmate questi
moduli!»
Ci
ha messo tra le mani dei fogli, i soliti della biblioteca, di quando
richiedi un libro. Arale, intanto, si guardava intorno.
«Ehm...
ecco... signor... signor...» Sulla scrivania c’è
la targhetta col nome: Sergente A. Hopkins. «Ecco, signor
Hopkins...» ho balbettato, cercando di non farmi cadere la pila
di fogli che mi aveva messo tra le braccia.
«Ha
libri di geografia?» ha chiesto Arale, mentre io mi
inginocchiavo sotto il peso delle scartoffie che il sergente stava
impilando sopra i moduli.
«Di
che tipo?» ha chiesto lui, fermandosi un attimo.
«Geografia
terrestre. Quest'anno facciamo quella!»
«Ah,
boh...» ha risposto lui e sia lei che io abbiamo sgranato gli
occhi: il bibliotecario che non sapeva cosa c'era in biblioteca?
Alex,
solo poco dopo, ci ha detto che lui è un altro che, in
caserma, è a posto, anche se un po' svampito e che, qualsiasi
libro gli si chieda, è molto probabile che non sappia dove
sia.
Quando
siamo riusciti a liberarci delle scartoffie e delle gentilezze del
sergente Hopkins – ci voleva offrire addirittura una cioccolata
calda – siamo tornati in camerata e abbiamo trovato proprio
Alex in ginocchio sul mio letto e piegato in avanti, che si sporgeva
oltre la finestra aperta e fumava allegramente due sigarette
contemporaneamente. Sul proprio letto, c'era Frank che, seduto con le
gambe intrecciate l'una sull'altra, leggeva qualcosa che somigliava
molto alla fotocopia che ci aveva dato la Une la mattina.
«E
se ero nudo?» ha chiesto Alex, vedendo entrare, senza alcun
imbarazzo, Arale.
«Ma
piantala!» ha risposto lei, ridacchiando.
Mi
sono guardato intorno. «E gli altri dove sono?»
Alex
ha fatto spallucce. «Non saprei... le ragazze, però,
sono di là.»
«E
tu non dovevi dormire?» gli ha chiesto Arale, incuriosita,
sedendosi sul mio letto, accanto a lui. L'odore di fumo entrava dalla
finestra e devo ammettere che era un po' fastidioso.
«Non
ci riesco, prima di una buona sigaretta!» ha risposto lui,
prendendo un'altra boccata. «Allora, dove siete stati?»
«In
biblioteca.» ho risposto, sedendosi davanti ad Arale, sul letto
di Alex.
Lui
ha scosso la testa, ridendo.
«Ah,
avete conosciuto il vecchio Hopkins!» ha esclamato. «E'
un grande. Lui e Heero tengono il più grosso traffico di
giornalini di tutta la caserma.»
«Traffico?»
ha chiesto Frank, alzando per la prima volta la testa da quando
eravamo entrati. «Che intendi per traffico?»
«Traffico,
Frank...» ha sbuffato Alex, spegnendo le sigarette sul
davanzale e richiudendo la finestra, facendo rimanere dentro la puzza
di fumo. Si è messo seduto sul mio letto e mi ha guardato,
indicando il letto. «Ti dispiace, Ken?»
«Tanto,
ormai...» ho risposto, allargando le braccia, rassegnato. Non
che mi infastidisse, è solo che Alex puzza un po' e,
diciamolo, non mi andava che le mie coperte puzzassero. Ma poi ho
pensato ad un altro problema: «Avete visto mia sorella?»
«E'
di là!» ha risposto sempre Alex, indicando col pollice
verso la camera delle ragazze. «Credo stia dormendo, perché
quella coi capelli azzurri si lamentava del suo russare...»
Tipico
di Pan: ha problemi respiratori, ma la mamma dice che un po' di sano
russare non ha mai ucciso nessuno.
A
parte quello che le dorme accanto.
«Insomma,
che cavolo vuol dire traffico?» ha chiesto ancora Frank,
interrompendo il nostro scambio di battute. Alex aveva aperto la
bocca per parlare, mentre qualcuno ha bussato alla porta. Credendo
che sarebbe andato ad aprire qualcuno, nessuno di noi si è
degnato di fare una mossa.
«Traffico,
Frank... contrabbando! Qua ci sono troppe cose proibite e qualcuno
dovrà pure guadagnarci su! Io tengo la contabilità.»
ha detto, indicandosi fiero.
«Allora
sì che possono stare tranquilli i contrabbandieri!» ha
sogghignato Frank.
«Ehi,
io mi prendo solo la mia parte!» ha risposto Alex.
«Oh
sì, mi immagino!» Frank ha sorriso.
Hanno
riso insieme e io e Arale ci siamo limitati a scambiarci un'occhiata
vacua. Credo che nessuno dei due abbia capito molto, ma almeno mi
sono consolato, pensando che, per una volta, non ero stato il solo.
Stavo
per chiedere qualcos'altro sul Sergente, così da riportare la
conversazione su un piano su cui potessimo discutere tutti insieme,
quando una voce mi ha interrotto:
«C'è
nessuno? E' mezz'ora che busso! Si può?» era Heero Yuy.
Un catafascio terribile ed una sua imprecazione ci ha fatto scattare
nel disimpegno come delle molle. «Ahio... chi è il
coglione che ha messo per terra un asciugamano?»
«Ah...»
Alex, l'unico era rimasto impassibile di fronte al trambusto, è
balzato giù dal mio letto e ci ha raggiunti. «Io no...
testimoni Arale e Ken!»
«Kenny!»
l'ho corretto. Ormai sono troppo abituato a farmi chiamare così
e, se mi chiamano Ken, quasi quasi non rispondo.
«Che
culo!» ha sbuffato Heero, rialzandosi e raccogliendo
l'asciugamano con due dita.
«MA
POSSIBILE CHE NON SI RIESCA A DORMIRE NEMMENO DUE MINUTI? CI ALZIAMO
ALLE CINQUE DELLA MATTINA E POI NON POSSIAMO NEMMENO FARE IL RIPOSINO
POMERIDIANO, CHE CAZZO!» era, naturalmente, mia sorella che ha
aperto la porta della stanza, scardinandola. Se fosse stato solo
questo, sarebbe stato niente: trattenendola per il pomello, riusciva
anche a tenerla sollevata!
«Se
non ho capito male, tu ti sei svegliata molto dopo le cinque!»
stava dicendo Heero, inarcando un sopracciglio, mentre io ero
sconvolto: per quanto conoscessi la forza di Pan, non sapevo che
arrivasse a tanto e già me la vedevo, pronta a lanciargli
quella porta addosso. Mia sorella, però, ha guardato il
responsabile del nostro piano come un cane rabbioso guarda un gatto
randagio; gli si è avvicinata come un lottatore di sumo al suo
primo incontro e lo ha raggiunto, sempre tenendo la porta in mano.
«Però,
è forte, tua sorella!» ha esclamato Arale,
impressionata.
«Eh...
un pochino...» ho cercato di minimizzare, senza riuscirci
peraltro.
«Tu...»
stava dicendo Pan, intanto, minacciosa, puntando un dito contro
Heero. «fammi incazzare ancora e ti troverai del figlio da
torcere, tanto, tanto figlio da torcere!»
«Ehm...
Pan?» l'ho chiamata. Lei si è girata di scatto e mi ha
guardato con occhi rossi e minacciosi. Ho indietreggiato di un passo.
«Non...
non si dice figlio da torcere... si dice filo!» dalla faccia
che ha fatto, però, credo che non fosse il momento migliore
per correggerla.
«E
CHI CAZZO SE NE FREGA, PARAMECIO!» ha gridato, guardandomi con
così tanta cattiveria che avrei voluto farmi piccolo piccolo e
sparire fino a che la sua furia non si fosse placata. Ma lei, invece
di pestare me, ha preferito tornare a guardare Heero. «Hai
capito?»
«E
io che credevo che il nonnismo lo facessero solo quelli più
grandi alle matricole...» ha replicato Heero, ancora più
sarcastico. «Dai, Come-ti-chiami, non prendertela con me, ma
con chi ha lasciato questo per terra!» ha detto, sventolando su
e giù l'asciugamano che ancora teneva stretto. Mi sarei
complimentato con lui per il sangue freddo: nessuno è mai
riuscito a sfidare Pan per così tanto tempo ed è
sopravvissuto per raccontarlo. Cioè, sopravvissuto sarà
anche stato, solo che non aveva voglia di dire di essere stato messo
a tappeto da una ragazzina.
Comunque,
Pan ha guardato l'asciugamano.
«DI
CHI CAZZO E'?» ha gridato, allora, strappandolo di mano a Heero
e sventolandolo come una bandiera, continuando a trattenere la porta
per il pomello. Avevo paura che la rompesse e che la Une ci mettesse
davvero in isolamento. «AVANTI, VENGA FUORI IL COLPEVOLE!»
«Ma
perché urli?» la voce di Bra ci ha costretto tutti a
guardare verso il bagno. Lei stava in accappatoio, ma, per come era
(s)coperta poteva anche non averlo.
Ho
guardato Alex che aveva gli occhi fuori dalle orbite e una bavetta
orrenda che gli colava dall'angolo della bocca; Frank e Heero avevano
un'espressione ebete stampata in faccia. Tra i pochi presenti, solo
io ero quello imbarazzato e tenevo gli occhi piantati a terra. Arale
la guardava con tanto d'occhi, ma, come ha detto dopo, non aveva mai
visto tanta sfacciataggine nemmeno in sua cognata.
«Brauccia,
dimmi che non sei stata tu a lasciare questa asciugamano schifosa per
terra!» ha detto mia sorella, in tono lamentoso, anche lei
guardando Bra, come se fosse stata vestita.
«E
perché no?» ha chiesto lei, ridacchiando. Ho visto che
sollevava una gamba fino al ginocchio, ma non ho osato andare più
su.
Pan
ha sbuffato dalle narici. Credevo che avrebbe cominciato ad urlare,
invece, si è limitata a dire, tra i denti: «Vai a
lavarti, Bra. E' meglio per tutti.»
«L'ho
fatto solo perché poi avrei macchiato il pavimento...»
ha ribattuto lei, come se avesse dovuto essere ovvio.
«NON
HAI MACCHIATO IL PAVIMENTO, MA IL MIO SONNO SI', CAZZO! VAI A LAVARTI
E NON ROMPERE I COGLIONI!»
«Finezza!»
ha replicato Heero, quando Bra è, finalmente, sparita in
bagno. Pan lo ha deliberatamente ignorato.
«Però...
quella mi sa che la svende!» ha mormorato Alex, asciugandosi la
bocca.
«Già...»
ha mormorato Frank. Di cosa parlassero, per me rimane un mistero.
«Ah...
che volevi, Heero?» ha domandato Alex, scuotendo la testa, per
riprendersi davvero.
«Per
ora, sistemare quella porta, prima che passi qualcuno!» ha
detto, indicando Pan che sembrava non voler lasciare andare la porta.
L'unica cosa positiva di quella faccenda era che non stava urlando.
«Spero
solo che si possa.» ho esclamato, ma speravo di averlo fatto in
modo che lei non sentisse. «Pan è nota per distruggere
tutto quello che tocca!»
Ma,
a quanto pare, avevo parlato a voce troppo alta: «CHE CAZZO
DICI, MAIALE?» ha lasciato andare la porta e, prima che potessi
vedere che fine ha fatto, mi ha dato un pugno sul naso e tutto, ma
proprio tutto, prima è diventato rosso e poi nero.
«Che
gancio impressionante!» il fischio di Alex è stata la
prima cosa che ho sentito quando mi sono risvegliato.
Ero
disteso da qualche parte, con un dolore lancinante sul naso e due
visi preoccupati sopra il mio e un forte, familiare odore di ospedale
aleggiava intorno a me.
«Come
stai, Kenny?» ha chiesto quella che ho riconosciuto essere
Arale.
«Sono
stato meglio!» ho borbottato, massaggiandomi il naso. Non
sembrava essere rotto o cose del genere. Però quando lo
toccato sentivo ugualmente le stelline. Ho tentato di mettermi
seduto, mentre aprivo gli occhi per guardare diversi letti
ospedalieri, le finestre ampie con le tende tirate. Ero l'unico
ospite ed ero nell'infermeria della caserma.
«Non
capita mai di avere un visitatore il primo giorno!» ha
esclamato una energica voce femminile. Ho guardato verso di lei e
Arale si è spostata per farmi vedere chi era: una donna,
abbastanza giovane, vestita di un'uniforme bianca coi polsini dorati
e, sul petto, appuntato il simbolo dell'esercito spaziale. Al posto
dei pantaloni questa aveva una gonna e un cappellino con la croce
rossa in testa che le raccoglieva i capelli castani. E' molto carina
e ha anche un viso simpatico.
«Lei
è Jenny Johnson!» mi ha detto Alex. «L'infermiera.
Ti avevo parlato di lei, se non sbaglio. E' a posto!»
«Ciao!»
mi ha detto la Johnson, con un sorriso.
«Che
mi è successo?» ho borbottato, ancora cercando di
mettermi a sedere.
«Beh,
chiaramente hai ricevuto un bel colpo sul naso.» ha risposto
lei. «Ho due notizie, ma non so se sono buone, cattive o una
buona e una cattiva. La prima è che domani puoi andare a
lezione, la seconda è che il tuo naso è sanissimo. Il
che è ben strano, dato che mi hanno detto che ti hanno dato un
bel gancio.» mi ha guardato, aggrottando la fronte con fare
inquisitore. Cosa mi avrebbe chiesto? Beh, ero terrorizzato. «Non
hai l'aria di uno che fa a botte. Chi è stato? Howard James?»
«Ehm...»
la verità è che non sapevo chi fosse Howard James,
anche se mi pareva di averlo già sentito nominare.
«È
il colosso della caserma, il più grosso ciccione e zuccone che
possa capitare al mondo!» mi ha spiegato Alex, dalla sua sedia
alla mia sinistra. «È al secondo anno da ben...
aspetta... quattro anni?»
La
Johnson si è messa a ridere. «Sì, sì! E da
quanti è qui?» ha chiesto.
«Almeno
sei!» ha risposto lui.
«Ha
stabilito il record delle bocciature... peccato che ami così
tanto la boxe!» la Johnson ha scosso la testa, sconsolata.
«L'anno scorso ho dovuto tenere qui due suoi compagni di
dormitorio per un mese! Sei costole rotte. Non potevano andare da
nessuna parte e i genitori non hanno mai denunciato nessuno perché
non l'hanno mai saputo.»
«E
non l'hanno mai espulso a questo energumeno?» ha chiesto Arale,
indignata. La Johnson ha sbuffato.
«Ragazzi,
suvvia! Non espellerebbero mai qualcuno come James: il suo è
un padre famoso...» ha esclamato in tono eloquente, prendendosi
una sedia e sedendosi accanto ad Arale. Io sono rimasto con tanto
d'occhi: era la prima volta che mi capitava di vedere un'infermiera
comportarsi come lei. E io, di ospedali, ne ho visti parecchi...
Arale
le ha lanciato un'occhiata perplessa, forse per quel che ho notato
io, ma forse per via di Howard James.
«E
perché?» ha chiesto, infatti.
«Perché
suo padre è un pezzo grosso. E' un diplomatico che intrattiene
rapporti con le colonie o qualcosa di simile...» ha risposto
Alex per l'infermiera. «Un po' come Frank, che è il
figlio del senatore Douglas Kushrenada, l'uomo più ricco del
paese.»
«Frank
Kushrenada?» ha esclamato la Johnson, con occhi sgranati,
piegandosi un poco in avanti. «Tu mi stai dicendo che il figlio
di Kushrenada, nipote del Generale dell'esercito spaziale giapponese
Treiz, è qui?»
Questa
notizia mi ha lasciato vagamente perplesso. Così scoprivo (sì,
ricollego le cose per tempo) che Frank, oltre ad essere nipote del
Generale, era il figlio del tipo che mamma considerava un uomo
affascinante dal grande carisma. Però, avendo sempre trovato
la politica una grande noia, non mi ci sono mai interessato più
di tanto. E ora, io andavo a scuola con il figlio di quella
meraviglia d'uomo.
«Sì...
è nel mio corso!» ha detto Alex.
La
Johnson ha emesso un leggero fischio. «E che tipo è?»
ha chiesto, col tono di una portinaia pettegola, posando il gomito
sul materasso dove stavo disteso e appoggiando una guancia sul pugno
chiuso.
«Frank
è a posto!» ha detto Alex, fiero.
«Sì,
lo dici pure di Hopkins che è totalmente andato di cervello e
di Salvini, che lo è anche di più!» ha ribattuto
scontrosa l'infermiera.
«Se
è per questo, lo dico anche di lei, infermiera Johnson!»
«Non
mi sento molto lusingata, sai?»
Io
e Arale ci limitavamo a seguire quello scambio di battute, anche
perché, immaginavo, anche lei fosse nelle mie stesse
condizioni.
Sembra
che Alex e la Johnson abbiano un rapporto particolarmente stretto,
come amici di vecchia data.
«Anche
la Noin sarebbe a posto...» ha continuato Alex.
«La
Noin?» ha replicato sconcertata la Johnson, balzando in piedi.
«Ramazza, se essere a posto significa essere come la Noin,
allora preferisco non esserlo!»
«Ma
che c'entra? La Noin ha solo un problema di voce!» ha esclamato
Alex, come se fosse stato offeso. «Tutti quelli che la Une odia
sono tipi a posto, perché vuol dire che fanno qualcosa che a
lei non piace e, quindi che hanno un cervello e non una sua
sottospecie!»
«Ma
anche Heero è a posto!» ha detto Arale, che sembrava
essersi inserita perfettamente nel discorso, dopo un attimo di
silenzio, durante il quale la Johnson ha fatto una smorfia,
tutt'altro che convinta dalle parole di Alex. «Eppure lui è
Caporale e anche responsabile del nostro piano. Come la metti?»
«Heero
Yuy!» ha ridacchiato la Johnson. «Ah, lui sì che è
davvero a posto! E' l'unico che ha capito abbastanza della vita per
poter vivere con la Une, dire la sua e non farla arrabbiare!»
«E
come fa?» ho chiesto, incredulo.
«Ci
vuole arte. Io stessa non ci riesco.» ha esclamato la Johnson,
allegramente, come se questa fosse una cosa di cui andare molto
fieri. «Hopkins la odia e glielo dice in faccia,» ha
cominciato a elencare, alzando ogni volta un dito. «la Noin è
una morta con la maiuscola e Salvini non svolge il suo lavoro di
mastino. Io faccio il mio, ma non ho peli sulla lingua. Non so dire
le cose con classe, è questo il mio grande difetto!»
Si
è messa le mani sui fianchi e ci guardava come se fossimo noi
a dover dire qualcosa, ma ci siamo limitati a guardarla con con la
bocca aperta, Alex incluso.
«Ah...»
è stato lui il primo a riprendersi dalla parlantina veloce
dell'infermiera. «Lei ha classe, infermiera Johnson, inutile
che dice il contrario!»
Lei
ha fatto un gesto con la mano, come per scacciare una mosca.
«Piantala di adularmi, Ramazza!» ha detto. «Io non
posso aumentarti i voti! E ora andate, prima che la Une vi veda e
decida di spedirmi chissà dove per avervi tenuto lontano dai
vostri letti!» ha tirato la sedia da sotto il sedere di Arale
che si è ritrovata con gli occhi fuori dalle orbite e
sconcertata esattamente quanto me. «Ci vuole un valido motivo
per trasferirmi e ancora non ce l'ha! Forza, fuori di qui! Tranne
tu.» mi ha trattenuto a letto, spingendomi energicamente sul
cuscino, quando ha visto che volevo alzarmi e seguirli. «Dormi
qui e domani mattina lascia perdere la bandiera. Ti scrivo un
permesso.»
«Ah,
no! Aspettate, ragazzi!» ho esclamato, ricordandomi
improvvisamente il motivo per cui ero lì. Alex e Arale si sono
fermati sulla porta: dovevo sapere, non potevo rimanere col dubbio
per sempre. «Ehm... che... che fine ha fatto la porta della
camera delle ragazze?»
«Beh,
adesso andiamo a scoprirlo! Tranquillo, ragazzo!» ha risposto
Alex, facendomi l'occhiolino. «Buonanotte!»
Se
ne sono andati e la Johnson si è subito messa a scrivere il
mio permesso. Io, invece, sono rimasto un bel po' a guardare il
soffitto e ad ascoltare il dolore al mio povero naso, oltre che a
lambiccarmi il cervello per quello che potrebbe succedere se la porta
della camera delle ragazze fosse irrimediabilmente rotta. Già
mi vedevo con le valigie, pronto a tornare a casa. Non che la cosa mi
dispiacesse più di tanto, perché avrei potuto tornare a
casa, dalla mia mamma, nel mio caldo lettuccio nella mia cameretta;
era più per la mamma che, conoscendola, e vedendoci tornare
con la coda tra le gambe dopo un solo giorno, sarebbe rimasta molto
delusa... e poi, quella promessa di mandarci a raccogliere pannocchie
sui Monti Paoz... mi è corso un brivido lungo la schiena.
Dopo
una giornata estenuante come questa, tra questi pensieri, non ero
ancora riuscito a prendere sonno e, quando è tornata la
Johnson per controllare cosa facevo, ero più arzillo di un
vecchio grillo.
Proprio
mentre mi stava esortando a dormire un po', si è ricordata
della domanda che mi aveva fatto e a cui io non avevo mai risposto:
«Aspetta un attimo, chi ti ha rotto il naso?»
Non
sapevo se rispondere o no: e se Pan fosse finita nei guai per colpa
mia, oltre che per via della porta? Per un secondo, il viso sconvolto
dalla rabbia della mamma che ci urlava di andarcene sui monti Paoz mi
ha fatto venire un groppo in gola.
«Ecco...
non la denuncerà, vero?» ho voluto sapere.
«La?»
ha ripetuto, però, l'infermiera, sgranando gli occhi per lo
stupore. «Santo Cielo, come sono cambiate le cose! Adesso sono
le donne che picchiano gli uomini! E poi parlano di sesso debole,
bah. Che le hai fatto, l'hai tradita?»
«Ehm...
come si tradisce una sorella?» ho chiesto, incerto.
Lei
ci ha pensato un po' su. «Ah, era tua sorella?» ha scosso
la testa. «Per caso l'hai messa in ridicolo di fronte ai vostri
compagni?»
«No!»
ho risposto. «Beh, almeno credo...»
Lei
mi ha guardato con fare materno. Solo la mamma mi guarda così
e solo quando Pan mi picchia. Mi sono venuto le lacrime agli occhi e
li ho serrati, perché l'infermiera non mi vedesse. «Che
hai combinato?» ha insistito lei.
«Beh,
non lo so... Pan ha sempre un qualche motivo per picchiarmi...»
«Ah!
Tua sorella è un tipo orgoglioso, immagino, e tu una povera
vittima, giusto?»
«Ecco...»
non avevo mai riflettuto su questo punto e non sapevo cosa
rispondere. «Non... non so...»
«Ah,
ma tu sarai stanco... dai, dormi!» mi ha consigliato. «Ti
sveglio io domani mattina!» e così dicendo è di
nuovo sparita nel suo ufficio e io, rimasto perplesso dalle ultime
parole dell'infermiera, ho continuato a guardare le ombre lunghe e
scure della notte sul tetto, fino a che, davvero, non sono riuscito a
prendere sonno, consolato dal fatto che la mamma, di questa faccenda,
se la Johnson era a posto come diceva Alex, non avrebbe saputo
niente.
******
Scusate
l'immenso ritardo che ho messo per aggiornare. Avevo detto che avrei,
per prima cosa, finito la fanfic sulle Winx, ma ho perso l'ultimo
capitolo e quindi devo riscriverlo (so che non ve ne frega, ma mi
pareva giusto riferirlo). Poi ho avuto esami e quindi... tutto è
andato un po' a farsi friggere. XD
Questo
capitolo è un regalino estivo prima delle vacanze vere e
proprie, così che non vi dimentichiate di Kenny & company.
Spero che sia stato di vostro gradimento e che sia valsa la pena di
aspettare così tanto. ^^
Prof:
sono molto contenta che il capitolo ti sia piaciuto e che sia
realistico (ogni volta ho timore di scrivere cavolate). Ci sto
mettendo tutta me stessa per questo lungo e ambizioso progetto, senza
contare che mi sto divertendo da morire a scriverlo. Quindi, spero
che vorrai commentare anche questo capitolo, lasciandomi le tue
dettagliatissime opinioni. Alla prossima! ^^
Un
ringraziamento particolare va ad Anonimo9987465
che ha
deciso di seguire questa storia.
Alla
prossima, allora.
Luine.
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Capitolo 6 *** Una prova di resistenza ***
Le
lezioni al primo anno.
Una prova
di resistenza
|
3
Settembre
Dopo
una lunga e salutare dormita, tanto che mi ero ripreso da tutte le
emozioni della giornata prima, quando sono sceso a colazione, tutti i
miei compagni mi guardavano come se fossi stato una bestia immonda,
tranne Pan e giusto perché non c'era, Alex e Frank, perché
stava mangiando e Arale, perché era girata di spalle.
Bra
si è chinata su Mimi Takikawa e le ha detto qualcosa, mentre
entrambe mi guardavano; Mimi ha annuito, sorridendo malignamente.
L'unica
cosa che sono riuscito a fare, è stato abbassare lo sguardo e
sedermi accanto ad Arale.
«E'
successo qualcosa?»
ho chiesto, a mezza bocca, mentre incrociavo lo sguardo impietoso di
Trowa Burton. «Perché tutti mi guardano male?»
Lei
ha strappato con l'angolo della bocca un grosso pezzo del suo panino
vuoto. «Ma niente, lascia perdere...» ha risposto, con la
bocca piena. «Sai, soliti pettegolezzi del cazzo...»
Non
ho capito, davvero. Ho insistito, ma ho ricevuto solo una serie di
masticazioni in risposta, quindi ho desistito.
«E
la porta?» ho domandato, allora.
Arale,
a questo, è stata ben felice di rispondere: «Tutto
bene... Heero è un genio! E' riuscito a risistemarla e Frank
gli ha dato una mano... meno male che c'erano loro, altrimenti...»
ha detto, muovendo qua e là il suo panino e lasciando la frase
in sospeso, ma facendomi ben capire come sarebbe andata, se loro due
non fossero stati capaci a mettere tutto a posto.
Ho
scoccato un'altra occhiata a Bra che, adesso, ridacchiava con la sua
vicina e continuava a fissarmi.
Ho
annuito distrattamente, mentre Arale continuava ad abbuffarsi. Niente
da fare, non riuscivo proprio a capire perché tutti ce
l'avessero con me.
Ho
preso un cucchiaio e l'ho infilato nella mia tazza piena di latte e
corn flakes. Mentre lo portavo alle labbra, col latte che grondava
nella tazza, ho sentito Bra che schiamazzava dalle risate insieme a
Mimi. Ho alzato di nuovo gli occhi e, mentre una batteva forte una
mano sul tavolo, l'altra mi indicava e strizzava gli occhi dal troppo
ridere.
Ho
guardato prima il mio cucchiaio, cercando in lui qualcosa che potesse
darmi un aspetto buffo, ma era solo un normale cucchiaio con dentro
dei fiocchi di cereali imbevuti di latte... non capivo. Così
ho guardato Arale, sperando che, stavolta, mi rispondesse.
«Ma
che gli è preso a quelle due?» ho chiesto, facendo un
cenno. Arale ha scoccato loro un'occhiataccia prima di dare un altro
morso al suo panino.
«Lasciale
perdere.» mi ha nuovamente consigliato.
«Ma...
perché mi guardano e ridono?» la cosa mi dava parecchio
fastidio e, anzi, mi faceva venire voglia di sotterrarmi.
Arale
ha deglutito prima di rispondere. «Come dice il vecchio
proverbio, il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi!»
Alex,
che stava chiacchierando con Tai Yagami, sentendo questa frase, si è
girato verso di lei e ha chiesto, stupefatto: «Ah, ma non era
perché gli stupidi mangiano troppo riso?»
Mi
sono sporto davanti ad Arale che, allo stesso tempo, si è
girata per guardare il nostro compagno di classe all'altro suo lato.
«Alex, ma che stai dicendo?» ha chiesto lei, in tono
sconcertato.
Lui
ha fatto spallucce. «E che ne so? Pensavo che quella storia del
riso riguardasse il cibo.» si è giustificato. Ho visto
Frank, a pochi posti da quello di fronte a me, battersi una mano
sulla fronte, sconfortato, ma non so se per le risate di Bra e Mimi
che continuavano a susseguirsi senza sosta o se per la frase di Alex.
«Perché
quelle due stanno ridendo come due galline?» ha chiesto mia
sorella, arrivandomi alle spalle e facendomi sobbalzare di paura.
«Pan...»
ho sospirato, mettendomi una mano sul cuore che batteva furioso. Lei
mi ha lanciato uno sguardo ben poco lusinghiero, quasi disgustato.
Pure lei, ma, almeno, questo era normale.
«Ah,
sei qui, paramecio!» mi ha detto. «E bravo lui... che ha
trovato l'ottimo modo per evitare di svegliarsi presto la mattina!»
Si
è seduta accanto a me, mi ha preso la tazza e ha cominciato ad
ingurgitare quello che c'era dentro.
«Pan,
veramente... era mia!» ho protestato. Lei mi ha lanciato solo
uno sguardo obliquo molto minaccioso, prima di riprendere a mangiare
come se niente fosse stato. Bra e Mimi hanno ululato ancora più
forte e non mi sono mai sentito tanto in imbarazzo come in quel
momento.
Ma
Pan non ha fatto una piega. Ha alzato gli occhi sulle due e ha
continuato a masticare i miei cereali, come per cercare di capire il
motivo di tanta ilarità – e se l'avesse capito, mi
sarebbe tanto piaciuto saperlo – ma ha solo riabbassato lo
sguardo e ripreso a mangiare come se niente fosse stato.
A
quel punto non mi rimaneva che una cosa da fare: mi sono alzato e
sono andato a prendermi un'altra tazza.
«Bravo,
Kenny!» mi ha elogiato mia sorella, stupendomi, ma prendendomi
la tazza che mi ero messo davanti. «Come sapevi che ne volevo
un'altra?»
L'ha
trangugiata prima che avessi il tempo di aprire la bocca per
rispondere. Quando ha finito, si è pulita le labbra col dorso
della mano e mi ha messo la tazza vuota davanti.
«Ma...
veramente...» ho tentato di protestare.
«Già
che ci sei, paramecio,» ha chiesto, ben poco gentilmente.
«perché non me ne vai a prendere un'altra?»
«Ma...»
«MUOVITI!»
Non
ho potuto fare a meno di girarmi verso il tavolo degli insegnanti, ma
il volume delle chiacchiere era così alto che era riuscito a
coprire il vocione di Pan e a non arrivare alle orecchie della Une.
Sospirando,
mi sono alzato e ho deciso di eseguire l'ordine di mia sorella: con
un po' di fortuna, sarei riuscito a mangiare pure io e avevo una
fame!
Ho
fatto come mi ha chiesto, poi, mentre le posavo davanti la tazza, mi
sono preso quella che lei ha svuotato e ho fatto per andarmi a
servire di nuovo di latte. Peccato che tutto fosse contro di me,
questa mattina: Pan mi stava facendo segno di portargliene un'altra,
così non ho potuto fare a meno di riempire nuovamente la
tazza. Peccato che, subito dopo, mentre adocchiavo l'ultima rimasta
sul tavolo del self-service, qualcuno se la sia portata via,
lasciandomi a bocca asciutta.
«Beh?»
ha chiesto Pan, guardandomi con il consueto disgusto. «Non mi
hai portato un'altra tazza?»
Ho
aggrottato la fronte. «E questa cos'è?» ho
ribattuto, titubante.
«Io
te ne ho chieste altre due!»
«Ma...
non hai mangiato abbastanza?» le ho chiesto, disperato. Il mio
stomaco ha cominciato a brontolare e pure questo ha suscitato molta
ilarità, chissà come mai.
«HO
FAME!» ha gridato Pan, distogliendo la mia attenzione da tutto
questo. Stavolta siamo stati meno fortunati: la Une stava passando di
tavolo in tavolo e, scoccando occhiate maligne ad ognuno, passava al
successivo.
«Che
succede?» ha chiesto, glaciale. Mi sono seduto al mio posto,
terrorizzato.
Pan
ha guardato da me e a lei. «Che succede?» ha ripetuto,
tranquillamente.
La
Une ha inarcato un sopracciglio. «Perché ripete a
pappagallo quello che dico?»
«Perché
ripeto a pappagallo tutto quello che dice?»
La
Une le ha lanciato uno sguardo così terribile che, per un
attimo, ho creduto che, di Pan, sarebbe rimasto un mucchietto di
cenere su quella sedia. Ho deglutito e anche abbastanza
rumorosamente.
«Iccijojji?»
ha detto la Une, arricciando le labbra.
«Che
c'è?» è stata la risposta serafica di Pan.
«Si
alzi!» ha ordinato la direttrice, stringendo gli occhi in modo
così minaccioso che, se non l'avesse ordinato a Pan, sarei
scattato in piedi.
«Perché?»
«PERCHE'
SI'! NON MI FACCIA RIPETERE L'ORDINE! SI ALZI!»
L'urlo
della Une ha zittito l'intera mensa. Tutti gli occhi erano puntati
sul nostro tavolo, di alunni, insegnanti e inservienti vari.
Lei
si è piegata un po' su Pan. «Adesso» ha detto, in
un sibilo. «lei starà in piedi fino al suono della
campane...»
La
campanella è suonata.
Sul
volto di Pan si è delineato un sorriso furbo. «Ottimo!»
ha detto, scivolando via da sotto l'ombra della Une.
«Iccijojji!»
ha ringhiato la Une, rimettendosi dritta.
«Beh,
l'ha detto lei: in piedi finché non suona la campanella e ora
è suonata... vado in classe!» e così dicendo,
saltellando, mia sorella è uscita dalla mensa. La Une era a
dir poco allibita, ma non era l'unica in quella stanza.
«Muovetevi!»
ha ordinato, cercando di riprendere un contegno. «Tutti in
classe o vi beccherete una punizione coi fiocchi!»
Non
abbiamo perso tempo: tutta la mensa si è sollevata a tempo di
record e già eravamo tutti pressati sull'entrata per riuscire
a guadagnare il corridoio e arrivare in classe.
Ci
aspettava Bristow nell'aula 10, ma io non ricordavo dov'era. Per
fortuna c'era Arale con me.
«Ho
un gran senso dell'orientamento!» ha confessato, mentre mi
portava su una grossa rampa di scale. «Pensa che mio fratello
mi usa come navigatore!» Ha riso come una matta. «Ma ci
pensi? Io sopra il cruscotto a dire: "girare a destra"!»
ha imitato la voce metallica di un robottino ed ha ripreso a ridere.
Tre
ore di matematica filate sfiancherebbero più di un sonnifero
in quantità industriali. E' così pesante che Alex, dopo
mezz'ora dall'inizio, aveva già chiesto una pausa.
«Suvvia,
Ramazza.» l'ha rimproverato Bristow, con la sua voce monotona.
«Abbiamo cominciato adesso. Adesso... dimostriamo questo
teorema.» e così ha ripreso a scrivere sulla lavagna,
cancellando tutto quello che era riuscito a scrivere prima e
scrivendo complicate formule per me senza senso.
«Eh...»
ha sospirato Alex, sconsolato, annuendo e aggrappandosi al suo banco,
quasi avesse avuto paura di poter cadere.
Ma
Bristow non l'ha più degnato di uno sguardo, molto più
preso da quello che stava dicendo e scrivendo su quelle strane
lambda, iota e chissà che altri lettere greche di cui dovrei
memorizzare i simboli, ma, ogni volta che ci ho provato, mi parevano
geroglifici incomprensibili.
Mi
sono buttato sul banco al lato della sedia, esausto, benché
fino a poco prima dall'inizio delle lezioni fossi stato pimpante e
riposato; ho guardato con sguardo vacuo l'unica persona che non
sembrava essere stata contagiata dall'aura soporifera di Bristow:
Arale. Sul suo quaderno consacrato alla matematica, annotava tutte le
formule e le dimostrazioni alla velocità della luce.
«Mi
chiedo come fai...» ha sospirato Alex, mentre, in branco, ci
spostavamo verso l'aula 12, dove ci aspettava la Une, dopo tre ore
estenuanti.
Arale
ha sorriso. «La matematica mi piace!»
«Non
è una buona ragione per riuscire a seguire Bristow!» ha
ribattuto lui. Ha scosso la testa ed ha sbadigliato sonoramente. «Non
è umano quello lì!»
In
quel momento, mentre svoltavamo, Bra e Mimi, di nuovo insieme, mi
hanno guardato ed hanno ricominciato a ridere. Ho cominciato ad
arrabbiarmi.
«Si
può sapere che hanno?» ho chiesto, quando ormai non
erano più a portata d'orecchio. «Perché mi
guardano e ridono?»
Pan,
che ci passava accanto in quel momento, mi ha lanciato un'occhiata
cattiva. «SARÀ PERCHÉ HAI LA PATTA APERTA?
DEFICIENTE!»
Mi
sono bloccato, facendo sì che quello che avevo dietro mi
finisse addosso.
«Attenzione!»
ho riconosciuto la voce infastidita di Trowa il quale mi ha
sorpassato scoccandomi un'altra occhiata molto simile a quella che mi
aveva lanciato a colazione.
Non
solo: mentre Pan urlava, in direzione opposta alla nostra stava
arrivando un gruppo di ragazze che, sentendola, hanno cominciato a
ridacchiare e a guardarmi, perché Pan, non contenta di urlare
che avevo la cerniera dei pantaloni abbassata, mi ha anche indicato,
così che potessi fare meglio la mia figuretta.
Mi
sono sistemato ed ho raggiunto gli altri che si erano già
riversati in classe. La Une non c'era e Trowa, Tai, Matt Ishida, Sora
e altri ne hanno approfittato per lanciarmi un'altra occhiata
perfida.
«Si
può sapere che ho combinato?» ho chiesto, in un soffio,
ad Alex e Arale, che erano seduti vicini. Mi è sovvenuto che
la Une ci aveva detto di sederci come il primo giorno, ma mi è
passato di mente, quando Alex ha risposto: «E' perché
credono che tu abbia fatto il furbo, ieri sera!»
«Ma...
Pan mi ha picchiato!» ho ribattuto, indignato: davvero
credevano che ne avessi approfittato per farmi un riposino in
infermeria?
Arale
ha scoccato un'occhiata torva a Pan, stravaccata in ultima fila,
mentre Alex continuava il suo racconto: «Abbiamo cercato di
dirlo, ma tua sorella continuava a ripetere che l'avevi fatto apposta
per dormire, perché sei uno smidollato e cose del genere.»
Non
era molto strano che dicesse queste cose, solo che Alex non lo sapeva
ed era indignato. Non ci sono rimasto male, sono rimasto male,
invece, perché gli altri ci hanno creduto; ma non posso
neanche biasimarli, perché non mi conoscono, ancora. È
una situazione davvero strana la mia.
«Heero
e Frank hanno provato a difenderti, e anche noi!» ha precisato
Arale. «Ma Bra ha dato man forte a Pan, quindi... indovina a
chi hanno creduto gli altri...»
La
Une è entrata, nel momento esatto in cui tutti si zittivano e
il mio stomaco brontolava sonoramente. Ho trattenuto il respiro, già
immaginandomi di dover essere punito, ma lei non sembrava essersene
accorta, perché ha esordito, a mo' di buongiorno: «Tutti
ai vostri posti, mettevi composti e prendere i quaderni!» ha
sbattuto sulla cattedra un grosso libro che, sulla copertina aveva
scritto a grosse lettere rosse: "Storia delle Colonie Volume I".
«Ieri abbiamo fatto una lezione introduttiva, oggi si comincia
seriamente. Ascoltatemi fino alla fine e, forse, potrò
mandarvi via prima.»
Tutti
ci siamo abbassati sulle nostre borse e abbiamo tirato fuori un
quaderno, Alex un foglio che Frank ha strappato dal suo e io uno dei
tanti quaderni che la mamma mi aveva infilato in valigia, sotto le
mutande.
«Vedete
di scrivere tutto, perché non ripeterò.» ha
dichiarato la Une, prima di cominciare a parlare dello sbarco sulla
Luna. Parlava con gli occhi fissi sul libro e, ogni tanto, girava una
pagina. Ma non ho potuto farci molto caso, perché scrivevo
velocemente per riuscire a riportare tutto quello che diceva. Spesso
mi bloccavo, dimenticavo le parole e, dopo le prime volte in cui mi
sono perso anche pezzi di spiegazione, ho cominciato a lasciare spazi
vuoti. Poi avrei ricopiato da Arale: in un momento di puro sconforto,
ho smesso di fare qualsiasi cosa e ho guardato lei che scriveva pari
pari quello che la Une un secondo prima aveva detto.
Alex
era nelle mie stesse condizioni e, quando mi sono fermato, lui era
piegato sul banco, con un braccio a sorreggergli la testa, la bocca
aperta e lo sguardo vacuo puntato sulla Une.
Stranamente,
Pan non ha detto niente, anzi. Ha lasciato finire la lezione in santa
pace, forse perché, appunto, la direttrice ci aveva promesso
di farci andare via prima.
Ma
la promessa è andata a farsi friggere, perché la Une si
è interrotta solo quando la campanella ha suonato la fine
delle lezioni della mattina.
Ci
siamo alzati, grattando le sedie sui pavimenti, attivando una sonora
protesta da parte dell'insegnante.
«Per
domani» ha detto, sopra il nostro vociare. «voglio che
studiate tutto quello che avete appreso oggi, perché vi
interrogo!»
Stavolta,
la protesta è stata nostra.
«Abbiamo
appena cominciato!» ha esclamato Tai Yagami. «Ci vuole
interrogare il terzo giorno?»
«Non
vedo perché no, soldato.» ha ribattuto la Une,
arricciando le labbra. «Credo che sia mio diritto darvi da
studiare, no?»
«Ma...»
«Un
altro ma e si ritroverà a dover studiare il doppio rispetto ai
suoi compagni!» ha detto la Une, rigida. «Potete andare!
Tranne lei, Iccijojji!»
Sia
io che Pan ci siamo bloccati. Lei era sulla porta e la stava aprendo,
mentre io ero indietro, insieme ad Arale nella nostra fila di banchi.
«Che
cos'ho fatto, stavolta?» si è lamentata mia sorella.
«Sono stata buona, come voleva. Aveva detto che ci avrebbe
fatto uscire prima e, invece, ci ha fregati! Adesso che cosa vuole?
Non posso camminare sulle mani!»
La
Une ha allargato le narici ed ero quasi sicuro che le sarebbe uscito
del fumo nero, tipo drago.
«Non
lei, Iccijojji!» ha ringhiato. «Suo fratello!»
A
quelle parole, avrei preferito ricevere un pugno nello stomaco e
finire ucciso, piuttosto che dover rimanere da solo con la Une. E
perché mi voleva parlare? Di cosa? Ero già un bagno di
sudore. Lo sapevo che aveva sentito il mio stomaco brontolare! Era
per questo che ce l'aveva con me, accidentaccio!
«Ah,
e perché non si spiega meglio, allora?»
Pan
è riuscita a smorzare la tensione, ma solo per un istante: la
Une ha allungato una mano e puntato un dito sulla porta su cui
eravamo accalcati. «VADA FUORI!» ha gridato. Mia sorella
non se l'è fatto ripetere due volte e, ancora prima che la Une
avesse il tempo di terminare la parola "fuori", lei c'era
già, insieme a tutti i nostri compagni nel corridoio, pronta
per il pranzo che io non avrei mai fatto.
Solo
Arale è rimasta indietro e solo per darmi una pacca di
incoraggiamento sulla spalla. «Ti aspetto fuori.» mi ha
detto. Le sono stato veramente molto grato: avrebbe potuto andare a
riempirsi lo stomaco e prepararsi per le due ore di educazione fisica
che ci aspettavano dopo e fregarsene di me.
Ma
per il momento ero solo, insieme alla Une, nell'aula 12. Io e lei, a
fronteggiarci. E solo per il brontolio di uno stomaco.
«Si
avvicini.» mi ha ordinato.
Mi
sono mosso in fretta e furia, talmente tanta che sono inciampato in
una sedia e sono finito a terra. Fortuna che ho messo le mani avanti
o sarei dovuto tornare in infermeria col naso rotto e questa volta
davvero.
«Si
alzi in piedi, soldato!» mi ha detto lei, rigida, portandosi le
mani dietro la schiena, come se avessi fatto apposta a cadere. Con il
ginocchio e il piede con cui avevo sbattuto doloranti, ho ridotto
ancora le distanze tra me e la Une e, più mi avvicinavo, più
la vedevo diventare grande come uno spietato drago rosso.
Però,
quando le sono stato a pochi passi, è stata lei ad
allontanarsi ed ha ripreso il suo posto dietro la scrivania, dove ha
chiuso il libro da cui aveva preso la sua spiegazione. «Mi è
arrivato un permesso da parte dell'infermeria stamattina, soldato
Iccijojji, per via... di un controllo medico.» ha detto
le ultime parole come se fossero state disgustose.
«Un...
controllo medico?» ho ripetuto, dato che non credevo alle mie
orecchie.
«Non
ne sa niente?» ha ribattuto, acida, guardandomi con una certa
ironia.
«No,
cioè... sì, lo so, ma... non ce l'ha con me... ehm...
per il mio stomaco?»
Avrei
fatto meglio a tacere: la Une mi guardava come se avesse davvero
potuto incenerirmi sul posto.
«Fa
anche lo spiritoso...»
«No,
davvero! Prima il mio stomaco ha brontolato e...»
«SILENZIO!»
Non
me lo sono fatto ordinare di nuovo. Accidenti! Mi ero scavato la
fossa da solo. Adesso mi avrebbe chiesto per cosa era quel controllo
e io avrei dovuto mentire? Avrei dovuto dire la verità?
Sentivo un caldo pazzesco, avrei voluto scappare, ma i miei piedi
erano saldamente ancorati a terra.
«Ne
conosco di tipi come lei, Iccijojji!» mi ha detto, in tono
accusatorio. Ho ricambiato il suo sguardo per un paio di secondi,
mentre cercavo nella mia testa il significato di "tipi come me":
tipi succubi della propria sorella? Tipi che finiscono in infermeria
un giorno sì e l'altro pure?
«In...
in che senso?» ho avuto il coraggio di balbettare.
«Furbi
che credono di poter saltare i propri doveri facendosi aiutare da
persone come Ramazza e dall'infermiera Johnson!» la Une ha
sbattuto una mano sul tavolo, facendomi sobbalzare. «Ne conosco
tanti come lei, glielo assicuro, Iccijojji. E le assicuro anche che
non hanno vita facile, con me!» ha stretto gli occhi in modo
minaccioso e io mi sono limitato a deglutire, impaurito.
«I-io...
io non... faccio il furbo.» mi sono ritrovato a balbettare.
«Ah,
no? E come mai la Johnson ha sentito il bisogno di firmarle un
permesso?»
Ecco.
Era il momento di scegliere: monti Paoz o punizione della Une?
Ripensando alla reazione di mamma, forse sarebbe stata meglio la
punizione della Une. Per questo sono rimasto zitto.
Il
mio sguardo si è abbassato sui miei piedi.
«Bene...»
ha continuato la Une, in tono flautato. «Credo che lei abbia
bisogno di una punizione, non è d'accordo?»
Non
ho risposto.
«Si
metta sull'attenti, Iccijojji!»
Ho
ubbidito.
«Alzi
meglio quella testa, non vede che ce l'ha attaccata al petto?»
ha detto, esasperata.
Ho
cercato di seguire le sue indicazioni. Molte delle cose che facevo
non andavano bene: i piedi non uniti, le braccia troppo ciondoloni,
le espressioni che avevo. Quando è stata soddisfatta del
lavoro – quando cioè ero in una scomodissima posa da cui
non vedevo l'ora di liberarmi – mi ha ordinato: «Rimarrà
così per le prossime cinque ore.»
Al
che ho perso la posizione e sgranato gli occhi. «C-come?»
«Mi
ha capito benissimo.» ha risposto lei, acida. «Adesso si
rimetta immediatamente in posizione. SI MUOVA!»
Non
me lo sono fatto ripetere due volte. Sudavo come un maiale e, per
rimettermi come prima, ho dovuto fare la stessa fatica che ho fatto
la prima volta.
La
Une, per tutto il tempo, mi ha addirittura impedito di sbattere le
palpebre e lei è rimasta con me, seduta dietro la scrivania e
io, rigido, dovevo rimanere lì, di fronte a lei. Ci siamo
squadrati per non so quanto tempo, lei bella spaparanzata ed io
rigido in quella scomoda posizione senza neanche potermi grattare.
C'erano momenti in cui ero nel panico più totale, per esempio
quando cominciava a prudermi il naso o un tallone. Avrei voluto
gridare, spostarmi, ma gli occhi della Une mi perforavano e
congelavano.
Il
mio respiro si era fatto affannoso solo dopo mezz'ora e le lacrime
lottavano per uscire dai miei occhi per il dolore ai polpacci
costretti a quello sforzo inumano. Avrei voluto gridare, solo per
accorgermi che gridare non sarebbe stato abbastanza. Mi formicolavano
le mani e facevano male le ginocchia, oltre al fatto che il mio
stomaco continuava a brontolare senza sosta. Cosa avrei dato per
sedermi, con tante sedie poco dietro di me! Ma niente, la Une mi
guardava, in silenzio, da dietro la sua cattedra e io speravo che si
alzasse e dicesse di avere una lezione per cui la punizione era
sospesa.
Ma
non l'ha mai fatto. Una volta ho flesso le ginocchia, ne avevo
bisogno, ma lei se n'è accorta e mi ha dato un'altra mezz'ora
di punizione.
«Ad
ogni infrazione, le aggiungerò una mezz'ora, che ne dice?»
Avrei
voluto risponderle che era una pazza sadica, ma non ho fiatato:
credevo che avrei solo risolto di farla arrabbiare ancora di più.
Non ho fatto niente. Credevo che, anchilosato com'ero, probabilmente
mi sarei soltanto fatto più male o spezzato qualcosa. E un
buon odore di pollo aveva anche cominciato ad entrare dalla finestra,
rendendo il brontolio del mio stomaco ancora più selvaggio.
Ho
atteso ancora. Non sapevo che ore erano, ma ad ogni istante che
passavo lì, credevo che fossero passate delle ore. Ogni tanto
arrivavo a chiedermi se non fossero già passate e la Une
continuasse a tenermi lì. Eppure no, perché la
campanella non suonava mai e pregavo perché lo facesse, che
scandisse il mio tempo.
Invece,
aveva suonato quella della fine del pranzo e di ripresa delle
lezioni. Solo un'ora. Era passata un'ora e io ero già
stremato, oltre che quantomai affamato.
Non
so come ho retto per un'altra ora. Non so perché il mio povero
stomaco vuoto non sia stato un buon motivo per la Une per trattenermi
ancora, ma sono stato felice che sia stato così, altrimenti,
probabilmente non potrei essere qui a scriverne.
Le
ho provate tutte, cercavo di distrarmi, di pensare ai miei a casa,
alla mamma e ai monti Paoz per darmi maggiore forza, ai miei compagni
che giocavano in palestra. Ma niente riusciva a farmi dimenticare il
peso sulle ginocchia. Niente riusciva a distogliermi dai miei
polpacci brucianti o dalla mia spina dorsale leggermente piegata
all'indietro o, ancora, ai piedi formicolanti e decisamente troppo
caldi.
Avevo
i lacrimoni agli occhi, non solo perché dovevo tenersi
sbarrati e non ci riuscivo. Mi pizzicavano e, non appena gli occhi
della Une si spostavano di un millimetro, li sbattevo un po' e poi
tornavo a fissare intensamente la lavagna sgombra.
Non
sono arrivato alla fine della seconda ora. Sono crollato.
«Non
ce la faccio.» ho piagnucolato, mortificato. «Mi
dispiace, lady Une.»
«Si
rialzi subito in piedi, Iccijojji!» ha ribattuto lei. Volevo
piangere, volevo andarmene. Perché farmi fare tutto quello?
Mi
sono ridotto a supplicare, mentre sentivo i miei muscoli sospirare di
sollievo, se i muscoli potessero sospirare, certo. «La prego,
lady Une, non ce la faccio!»
Ma
lei non ha voluto sentire ragioni. Ero allo stremo, avrei voluto
scappare e stavo piangendo come un bambino. Sì, stavo
piangendo. E mi vergognavo di me stesso, della mia debolezza, senza
che lei ci mettesse quel suo sguardo impietoso e cattivo.
«Si
rialzi immediatamente!» mi ha detto. Non l'avrei mai convinta.
«E la smetta di piangere. Un vero uomo non piange!»
Già,
un vero uomo, forse. Ma io sono solo un ragazzino... ho dodici anni,
anche se in quel momento mi sentivo piccolo, un pulcino indifeso, un
essere inutile, come mi diceva spesso Pan. Mi ricordavo del nonno,
quando mi chiamava "gelatina". Forse è per questo
che ho trovato la forza di rialzarmi e, forse, è anche per
questo che sono svenuto.
Quando
mi sono risvegliato, ero ancora una volta in infermeria. Mi hanno
risvegliato delle urla. Era una voce di donna, una voce alterata e
irosa.
«Mi
chiedo come le sia venuto in mente!» diceva. «Un ragazzo
così giovane! Lei è pazza, lady Une! Pazza!»
Sentire
quel nome mi ha fatto aprire gli occhi di scatto e mettere seduto.
Ero sullo stesso letto dove ho passato la notte precedente e, accanto
a me, c'era Arale.
«E
tu che...» non mi ha fatto finire. Mi ha semplicemente premuto
una mano sulla bocca e fatto cenno di stare zitto.
«Ho
il diritto di insegnare ai miei studenti la disciplina, infermiera!»
gridava la Une, di rimando, intanto. «Non le permetto di
criticare i miei metodi!»
«Lei
non può togliere la salute a questi poveri ragazzi! Ma dove ce
l'ha il cuore?»
«Ho
tutto il diritto di punire i miei studenti per le trasgressioni!»
continuava la Une. Dovevano essere nell'ufficio della Johnson, perché
l'infermeria era totalmente deserta e scura, se non fosse stato per
la presenza di mia e di Arale. Devo ammetterlo: quella ragazza è
davvero dolcissima. Si comporta come una vera amica anche se ci
conosciamo da così poco. «E lei ha il dovere di
fargliele rispettare!»
Ho
sentito il rumore di una scrivania che tremava, forse perché
la Johnson le aveva dato un pugno. «Io li curo i suoi
studenti!» gridava, intanto. «E lei ha il dovere di non
farli ammalare con i suoi metodi da caserma militare!»
«Le
posso ricordare che questa è
una caserma militare?»
«Sono
dei ragazzini!» ribatteva con maggiore forza la Johnson. «Sono
dei ragazzini, non degli adulti! Lei non può mettere in
pericolo la loro salute per punirli! Lo capisce, o no?»
«Il
regolamento non vieta di certo di farli rimanere in piedi fermi e
zitti, no?»
«Il
regolamento vieta di dar loro punizioni che possano attentare alla
loro salute! E attentare alla salute, significa farli ammalare in
qualunque modo, lady Une!»
«E
vieta anche di coprirli e far finta che abbiano malattie inesistenti
per avere dei permessi da lei!»
«MA
COME SI PERMETTE DI CRITICARE LA MIA PROFESSIONALITA'?» il
ruggito della Johnson ha fatto tremare sia me che Arale.
«E'
uno scontro all'ultimo sangue...» ha bisbigliato, guardando con
aria grave la porta chiusa dell'ufficio. Non ho risposto, mi sono
limitato ad annuire e ho pensato che, se la Johnson si esponeva così
tanto per un singolo studente, l'ultimo arrivato, allora aveva
ragione Alex, a dire che era a posto.
«Lei
l'ha sempre fatto!» ribatteva la Une.
«Ora
la smetta di offendermi! Sono una persona puntigliosa e scrupolosa!»
ha sbottato la Johnson. «Se sento che i miei pazienti hanno
bisogno di passare una nottata in osservazione, allora gliela faccio
fare e me ne infischio della sua bandiera!»
«Q-questa
è...» la Une balbettava. Ebbene sì, l'ho sentita
proprio balbettare. Questo credo che sia un evento da ricordare.
«QUESTA E' INSUBORDINAZIONE!»
«NO!»
ha gridato di rimando la Johnson. «È pararle il culo,
mia cara direttrice!»
«Ma...
ma che diavolo dice, Johnson?» la Une mi è parsa
allibita. «Spero che lei abbia un buon motivo per queste sue
parole oltremodo oltraggiose!»
«Sa
quante volte ha portato qui alunni, dicendo che non sono stati in
grado di reggere alle sue punizioni? Lo sa quanti alunni hanno detto
che lei li fa sgobbare come muli e li ricovero per stress ed
esaurimento nervoso, eh? Quante volte l'ho denunciata? Quante volte
ho mandato al Generale le cartelle cliniche dei suoi studenti? MAI! E
le dirò di più: se viene un'ispezione, lei è
fottuta, le verrà tolto il posto! E sa che le dico? Che se lo
meriterebbe!»
«Johnson,
le impedisco di...»
«Le
do un ultimo avvertimento, colonnello Une: continui su questa strada
e la prossima persona con cui parlerò, sarà il
Generale, chiaro?»
Io
e Arale ci siamo scambiati un'occhiata carica di ammirazione: la
Johnson era la persona più coraggiosa che avessi mai visto in
vita mia.
Abbiamo
aspettato una risposta che non è mai arrivata. La serratura è
scattata e la porta si è aperta. Mi sono ributtato giù
sul cuscino e ho serrato gli occhi, mentre Arale cominciava a
strizzare un panno dentro la tinozza accanto al mio comodino.
«Per
oggi finisce così, Johnson.» ha detto la Une, come se
fosse stata lei ad aver avuto l'ultima parola. Un attimo dopo, il suo
passo cadenzato si è allontanato da noi e, solo quando la
porta dell'infermeria si è richiusa, ho osato riaprire gli
occhi.
Ho
sentito il pluk del panno che veniva buttato di nuovo in acqua e
Arale sospirare.
«Puttana!»
ho sentito sibilare alla Johnson, mentre, con passo pesante e
marziale, si avvicinava a noi. Mi ha guardato. «Ah, sei
sveglio...» ha detto, come se fosse stata una colpa.
Si
è messa al mio fianco, dal lato opposto a quello di Arale e ha
preso da dentro un armadietto un apparecchio per la pressione. «Devi
aver avuto un calo di zuccheri.» mi ha detto, mettendosi lo
stetoscopio nelle orecchie. «Non ti ha fatto manco mangiare
quella... lady Une!» l'ha detto con un tono così
inviperito che mi ha fatto capire che non erano quelle le parole che
voleva usare.
«Ma
sta bene?» ha voluto sapere Arale, in tono preoccupato.
La
Johnson ha alzato la testa e ho visto che aveva gli occhi sgranati.
«Certo che sta bene! E chi la ammazza quella?»
«Guardi,
infermiera...» ha risposto Arale, titubante. «Che io
parlavo di Kenny!»
«Ah.»
ha risposto lei, torva, ha cominciato a strizzare quell'aggeggio
dell'apparecchio che fa gonfiare la fascia. Poi ha aggiunto, in un
soffio: «non ci posso credere!»
Il
mio cuore è sobbalzato. «Sto... sto così male,
infermiera?» ho chiesto, preoccupato. Lei mi ha guardato, come
se mi avesse visto solo in quel momento.
«Ma
no!» ha risposto, sgarbata. «Stai benissimo, non mi hai
sentito?»
«Ma
allora... a cosa non può credere?»
Lei
ha smesso di strizzare e la fascia sul mio braccio ha cominciato a
sgonfiarsi. Ha soltanto scosso la testa, in risposta. Dopo diversi
"pi-pi" prodotti dalla macchina, la Johnson mi ha tolto la
fascia.
«Tutto
a posto.» ha detto. «Dovrei fare altri esami, ma non
posso senza il dottore. Dovrò aspettare la visita medica degli
studenti.» ha scosso le spalle e si è messa a sistemare
l'apparecchio della pressione nella sua scatola, senza guardare
nessuno in particolare.
Mi
sono messo seduto, sistemandomi la manica della camicia. «Me ne
posso andare?»
Lei,
però, non mi ascoltava. Mentre si rimetteva lo stetoscopio
dietro al collo, la sentivo borbottare: «Non può andare
avanti così per sempre... non può!»
«Ehm...
infermiera?»
Niente.
«Infermiera?»
ha provato anche Arale.
Ancora
Niente.
«Infermiera?»
l'abbiamo chiamata insieme e lei si è girata di scatto verso
di noi.
«Che
c'è?» ha chiesto, come se non avessimo provato a
chiamarla così tante volte.
«Posso
andarmene?»
Lei
ha corrugato la fronte, poi ha annuito, svogliatamente. «Sì,
sì... fatti una bella mangiata e una buona dormita...»
ha sbuffato. «E smettila di metterti nei guai!»
Ho
annuito, chiedendomi, però, come avrei fatto a non mettermi
nei guai con mia sorella che ci metteva del suo, unito alla Une che
puniva in quei modi terribili.
Con
Arale, ci siamo diretti verso la mensa, dalla quale arrivava un
odorino niente male. Di nuovo, il mio stomaco ha brontolato.
«Sono
qui da due giorni e non vedo l'ora di andarmene!» ho
confessato, abbassando lo sguardo. Arale ha alzato lo sguardo su di
me. «Non sono tagliato per la vita militare...»
«L'hai
detto tu che sei qui da due giorni!» ha ribattuto lei. «Come
fai a sapere se sei tagliato oppure no?»
«Andiamo,
guarda come sono ridotto! Non riesco neppure a stare in piedi, fermo,
per cinque ore!»
«Cinque
ore è proibitivo, Ken!» ha sbottato lei, severamente.
«Noi siamo ancora piccoli... e nemmeno tanto addestrati.»
«Lo
so, ma...» come potevo spiegarle che, per me, era stato
umiliante aver addirittura pianto di fronte alla Une? Ho preferito
tacere la mia vergogna e tenerla tutta dentro. «Pan ce
l'avrebbe fatta!» ho detto, convinto.
«Tu
ne sei così sicuro?»
«Pan
è fortissima!» ho esclamato, fermandomi sul pianerottolo
tra il primo e il secondo piano e costringendola a fare lo stesso.
«Andiamo, Arale! Non hai visto che è riuscita a fare? Ha
tenuto sollevata una porta con una mano sola! Ha preso di peso un
professore delle elementari mesi fa, uno grosso! E ha vinto anche un
torneo... uno di lottatori professionisti!» ho specificato. Lo
pensavo e lo penso tuttora: «Lei sarebbe capace.»
Arale
mi ha guardato tristemente, ma capivo dal suo sguardo che non
riusciva a comprendere il mio disagio. Non la biasimavo per questo:
lei non aveva avuto per tutta la vita un nonno e una sorella sempre
disposti a disprezzarla per la sua poca resistenza. «Mica siete
uguali...» mi ha detto.
«A
volte vorrei avere metà della sua forza.» ho mormorato,
abbassando lo sguardo.
«Ed
essere altrettanto prepotente? Scusami, Kenny, se te lo dico, ma
secondo me la forza non è tutto nella vita, né la
resistenza!»
«Ma
non andrò mai avanti qui!»
Lei
ha arricciato le labbra. «Senti,» ha detto, appoggiandomi
una mano sul gomito. «io non lo so se andrai avanti, ma non
puoi mollare senza provarci, no?»
Ho
continuato a tenere gli occhi bassi e, per un po', l'unica cosa che
riempiva il silenzio, erano i nostri respiri. «Dai, andiamo a
mangiare...» ha continuato, abbozzando un sorriso allegro. «Sto
morendo di fame! E smettila di tenere il muso. Vedrai che le cose
andranno meglio!»
Spero
tanto che abbia ragione, perché, per come si stanno mettendo
le cose, credo che raccogliere pannocchie sia il minore dei mali.
*****
In
mostruoso ritardo come al solito – voglia di lavorare saltami
addosso – posto il sesto capitolo. Credo di aver esagerato
facendo svenire Kenny, ma è un fatto molto importante per lo
sviluppo della trama. Non dico altro, anche se credo di avervi
confuso. ^^
Prof:
quando dici che accadrà qualcosa che turberà la normale
vita accademica, hai perfettamente ragione. L'idea è proprio
quella, poi trattandosi di Pan, Alex e Arale puoi metterci la mano
sul fuoco. I prossimi capitoli saranno un po' più di
passaggio, ma faranno capire qualcosa di più sulla trama –
anche se chiamarla trama non è propriamente corretto, almeno
per come la sto sviluppando. Il bibliotecario e l'infermiera, sì,
sono personaggi miei e sono davvero contenta di essere riuscita a
caratterizzarli bene (gli originali mi spaventano sempre un po' XD).
Per le tue domande non posso ancora rispondere. Vorrei solo chiederti
che cosa ti ha fatto pensare che ad Alex piaccia la Noin. ^^ Aspetto
con impazienza i tuoi pareri!
Inoltre,
ringrazio _Pan_ che ha inserito la storia tra le sue preferite.
Al
prossimo mese (o forse dopo, dipende dal livello di pigrizia XD),
Luine.
|
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Capitolo 7 *** Hangar 14 ***
Le lezioni al
primo anno
Hangar 14
|
30 Ottobre
Nell'ultimo
periodo la mia depressione “da caserma” è andata a
periodi alterni: un po' tornava, un po' me ne dimenticavo. Questo è
stato soprattutto grazie ad Arale, anche se un po' hanno avuto merito
lo studio e le lezioni che mi hanno portato via un sacco di pensieri.
Nell'ultimo periodo, che è stato parecchio lungo, dato che è
praticamente dal secondo giorno che non scrivo più niente, ho
evitato l'infermeria e anche la Une, anche se sono stato costretto a
vederla in classe e a farmi interrogare da lei.
La
storia dell'alzabandiera continua ad andare avanti. Ormai, riesco a
svegliarmi da solo alle cinque e anche a rimanere sveglio alle
lezioni di Bristow. Attenzione: rimanere sveglio, non seguirlo. Un
grande passo avanti, rispetto ai primi tempi.
Alex,
invece, è ancora un po' arrugginito e, se riesce a svegliarsi
alle cinque da solo, ha ancora un po' di problemi con Bristow e con
la Noin, di cui non segue le lezioni neanche morto. Però,
rispetto agli altri anni, almeno a sentire i professori, è
molto migliorato.
«E'
merito di Arale, che mi fa studiare come un matto!» ha detto,
una sera, in biblioteca, al sergente Hopkins che, con una cioccolata
calda in mano, ascoltava il tutto con vivo interesse.
Quell'uomo
passa un sacco di tempo con il gruppetto di cui faccio parte –
formato da Frank, Arale e Alex – ci offre le cioccolate e
chiacchieriamo del più e del meno, soprattutto di fumetti o di
studio (ma questo molto più di rado).
«Sì,
ok...» Arale ha trangugiato l'ultimo sorso della sua tazza,
lasciandosi intorno alla bocca, come ricordo, un bel cerchio di
cacao, e riuscendo a tagliare il discorso a metà. «Vogliamo
ripassare la dimostrazione delle funzioni iniettive e suriettive?»
Alex
ha ragione: studiamo come matti. Fosse solo questo, sarebbe una
pacchia: ogni tanto, almeno una volta a settimana, siamo costretti ad
alzarci nel cuore della notte per rifarci il letto.
«Sono
metodi di addestramento...» ci ha confidato Heero Yuy, una sera
che era venuto a portare ad Alex un pacchetto di sigarette.
Il
fatto è che, se ci rifacessero fare il letto in modo normale,
sarebbe molto più facile. Invece, la Une pretende che ci
rifacciamo il letto e che le coperte e le lenzuola le mettiamo a
cubo. Alex non ci è mai riuscito e io solo ultimamente riesco
a fare un qualcosa che gli assomigli.
Il
mio amico, ogni volta, fa una palla e la appoggia al centro del suo
letto.
«E
questa cos'è?» ha chiesto la Une, l'ultima volta,
disgustata, quando gli è passata davanti.
«Il
cubo, colonnello!» ha risposto Alex, grattandosi un fianco,
assonnato.
«Si
metta sull'attenti, soldato Ramazza!»
Alex,
controvoglia, ha eseguito.
«Insomma,
cos'è?»
«Il
cubo, colonnello...» ha ripetuto, sospirando.
«E
dove sono gli angoli?» ha ringhiato la direttrice.
Alex
si è grattato la testa, guardando le sue coperte
appallottolate, dubbioso, mentre io, cercando di nascondermi il più
possibile per non farmi vedere da lei, sbadigliavo come un disperato.
«Beh, sono un po' smussati...»
«Fa
anche lo spiritoso? Bene!» la Une ha fatto una smorfia di puro
disgusto. «Rimarremo qui, in piedi, Ramazza, finché non
farà un cubo come si deve!»
E
così ha fatto. Alex ci ha messo tutto se stesso, ma senza
risultati. Tutti quanti siamo stati costretti a fare quel cubo
schifoso finché non fosse stato, non perfetto, ma quantomeno
decente. Finora, gli unici due ragazzi della camerata che ci siano
riusciti, sono stati Frank e Trowa Burton.
Insomma,
la vita in caserma è un vero schifo.
Pan
è l'Alex delle ragazze, imbranata e svogliata esattamente
quanto lui, solo che, al contrario suo, invece di ubbidire, protesta
ed è per questo che è già finita diverse volte
in punizione. L'ultima volta, per esempio, è stata messa in
piedi, accanto al suo letto, ferma in piedi, zitta e immobile, mentre
le altre potevano tornare a dormire. Ma lei non è mai svenuta
e io non mi sono mai sentito così scemo.
«Secondo
me,» ha detto Arale, un giorno che eravamo andati a trovare
l'infermiera Johnson. «non dovresti farti tante paranoie...»
«No,
infatti!» ha confermato la Johnson. «Siete diversi...»
Già, la stessa cosa che mi aveva detto Arale, ma io non sono
mai riuscito a superare questa cosa, sebbene faccia di tutto per non
pensarci.
«Lei
è più forte di me. Più resistente!» ho
protestato per l'ennesima volta.
«Beh,
non è colpa tua!» ha ribattuto Frank, con veemenza. Dato
che era amico di Alex e che io e Arale passavamo tanto tempo con lui,
abbiamo cominciato a frequentare anche lui. Mi sta molto simpatico,
anche se, ogni tanto, ha degli atteggiamenti piuttosto snob.
«Piuttosto del Salvini che non ci fa fare la corretta attività
fisica!»
La
Johnson ha convenuto con lui e si posata le mani sui fianchi. «Hai
perfettamente ragione, Kushrenada!» ha sospirato, mentre girava
la testa verso una delle ampie finestre. «E sei anche più
piccolo di lei.» mi ha ricordato.
«E
la Une vuole vederci crollare!» ha aggiunto Alex, rabbioso.
«Sarà...
ma se non fa le cose per bene...» la Johnson non ha continuato.
Si è semplicemente allontanata, come per impedirsi di dire
qualcos'altro.
Già,
loro mi hanno appoggiato, ma non Heero, al quale Arale, più
che io, ha raccontato quello che entrambi abbiamo sentito il secondo
giorno in caserma. Lui, però, non ha avuto la stessa reazione
indignata dei miei amici.
Si
è seduto sul letto di Alex e si è stretto nelle spalle.
Lui ci viene a trovare spesso, ma solo per questioni “contabili”,
come dice Alex, o per portare qualcosa che gli chiedono i miei
compagni (sono sicura che Sora gli abbia chiesto delle sigarette, la
scorsa settimana). «Beh, siamo una caserma militare?
Comportiamoci da militari! Questa scuola non è uno scherzo!»
è stato il suo commento.
«Ma...
ma...» ha protestato Arale, visibilmente scossa. «Qui si
tratta della salute degli alunni!»
Lui
ha fatto spallucce. «Vedi, Norimaki,» ha detto. «di
solito, per intraprendere la carriera militare, si fanno dei test
attitudinali, una visita medica... qui queste cose vengono fatte solo
per figura, perché tutti quanti i ragazzini giapponesi –
e non – possano entrare in questa scuola speciale. Purtroppo,
non tutti quelli che entrano, riescono ad arrivare in fondo e si
ritirano.» al che, il mio stomaco si è contratto in modo
orribile, perché ho capito che anche io, presto o tardi, sarei
entrato in quel mucchio. «I metodi duri che usa la Une sono
tipici di quelli che hanno ricevuto un addestramento militare. Non la
condanno per la sua rigidità, anzi, la capisco: deve formare
un esercito, non un gruppo di ballerine!»
«Ma
siamo ragazzini!» ha sbottato Arale. «Questo non ha
nessuna importanza?»
«No.»
ha risposto il responsabile del nostro piano, con tranquillità.
Frank,
quando ne abbiamo parlato a cena, è stato d'accordo con lui,
provocando l'indignazione sia di Alex che di Arale. Anche io ero
piuttosto perplesso: avevo pensato che, appoggiandomi, aveva dato il
suo dissenso ai metodi di addestramento della Une e, invece, a quanto
pare, parlava solo del fatto che mi sentivo molto indietro rispetto a
mia sorella.
«Non
ci posso credere!» ha esclamato Arale, alla rivelazione del
nostro amico. «Tu, proprio tu che odi Heero Yuy!»
Frank
non può vedere Heero e non ho capito perché. Ogni volta
che lo vede portare qualcosa di “illegale” in camera
nostra, lo guarda torvo e quasi quasi non lo saluta.
«Non
è questione di odio o amore!» ha esclamato, infastidito.
«E' questione di avere ragione o torto. E lui, stavolta, ha
ragione.»
«Ma...
insomma, Frank, siamo ragazzini!»
«Tu
non avevi idea di quello a cui andavi incontro, quando ti sei
iscritta, giusto?» ha chiesto.
«Beh,
ecco... io volevo studiare i Mobile Suit!»
«Ecco.
Quindi non lo sapevi.» ha esclamato Trowa che era accanto ad
Arale, all'altro suo lato. «Vi ho sentito parlare...»
così ha giustificato la sua entrata nella nostra
conversazione. «Quello che devi capire è che qui, se non
sei motivato abbastanza, non resisti e te ne vai. Devi conoscere
quello a cui vai incontro! Non si tratta solo di studiare, ma di
formare i futuri soldati del Giappone.»
Alex
ha sbadigliato sonoramente nel sentirlo parlare così. «Burton,
te la posso dire una cosa? Parli come un politico!»
Trowa
ha fatto un gesto spazientito. «Non è parlare da
politici.» ha ribattuto. «Dicevo solo le cose come
stavano per poter essere dei bravi soldati.»
«Ma
tu non vuoi essere un soldato giapponese...» gli ha fatto
notare Frank, corrugando la fronte.
«No...
hai ragione.» ha risposto Trowa, senza alcuna vergogna. «Dico
solo che è giusto avere una motivazione forte per poter
sopportare la vita militare. E chiunque abbia capito con quale
spirito frequentare questa scuola, dirà quello che ho detto
io.»
Frank
ha sorriso amaramente in risposta. «Già...» ha
sospirato. Mi è sembrato molto malinconico, ma non ho capito
perché.
«Io
non sono d'accordo...» ha replicato Arale, battendo un pugno
sul tavolo, più che mai infervorata. Non l'ho mai vista così
presa da una discussione come in quel momento. «Possiamo essere
bravi soldati anche senza bisogno di venire pressati e umiliati!»
«E'
un modo per formare il nostro carattere e non farci fuggire di fronte
alla prima difficoltà.» ha risposto Trowa, senza nessuna
particolare intonazione. «E' necessario!»
«Bah.»
Arale ha girato la testa dall'altra parte ed ha chiuso la
conversazione.
Alla
luce delle considerazioni dei miei compagni di classe e di Heero,
credo di essere fuori posto: la mamma mi ha costretto a venire qui e
non mi ha mai detto che quella era la vita militare. La dura
vita militare.
Non
mi sentivo motivato abbastanza, né all'altezza di gente come
Heero, Trowa o Frank...
Ieri,
davanti ai miei appunti di storia, seduto sulle scale che portavano
al refettorio, ragionavo proprio su tutto questo (è anche per
questo che ho deciso di scrivere qualcosa dopo tanto tempo), e non
facevo altro che sentirmi sempre più incapace: i miei
risultati scolastici non sono eccezionali e quelli militari... beh,
meglio lasciar perdere. Riesco sempre a strappare la sufficienza
nelle interrogazioni, ma come soldato lascio molto più a
desiderare.
«Ehi,
ragazzo, che ci fai per le scale?» sono quasi morto di paura,
soprattutto quando, alzando la testa, ho visto che, davanti a me, in
fondo alle scale, c'era l'uomo con la mascherina che mi ha accolto
all'ingresso il primo giorno di scuola: Zack Marquise. Devo ammettere
che quel tipo mi inquieta assai.
Mi
sono alzato in piedi di scatto, rivolgendogli un rigido saluto
militare, come avevo fatto tante volte. «Stavo studiando,
signore!»
La
sua bocca, l'unica cosa che la maschera non copriva, si è
deformata in un sorriso. Ha salito le scale e quando mi ha raggiunto,
ha abbassato la testa verso di me. «Forse è meglio se
usi la biblioteca, non credi?» mi ha chiesto, gentilmente, ma
si vedeva che era un invito a togliermi dalle scatole.
Mi
sono rigirato gli appunti tra le mani. «Ecco... io, veramente,
vengo da lì.» ho ammesso.
Sorprendentemente,
non mi ha sgridato come avrebbe fatto chiunque altro, la Une in prima
fila. «Volevi un po' di privacy?» mi ha domandato il
colonnello.
«Ehm...
sì, più o meno...» la verità era che
scappavo da un'altra conversazione sull'essere un buon soldato o meno
che Tai Yagami aveva ingaggiato con Arale che sembrava voler
ingaggiare una specie di rivolta contro questa vitaccia.
Nell'ultima
settimana quello è l'argomento che va per la maggiore nel
nostro corso ed è un po' difficile ignorare l'argomento
“resistenza”, quando tutti sembrano intenzionati a
ricordarmelo. Almeno hanno smesso da un po' di guardarmi male, come
se fossi un cane rognoso. Solo Bra e solo ogni tanto, dato che non
reagisco, pensa bene di scaricarmi addosso qualche battuta maligna.
Non
so cosa mi abbia spinto ad agire. So solo che l'ho fatto: ho
richiamato indietro il colonnello, quando lui mi ha sorpassato. Ha
abbassato la testa su di me. Quella maschera mi impediva di vedere i
suoi occhi e non riuscivo a capire cosa pensasse del mio gesto. Mi
sono sentito in soggezione, quasi fosse stata la Une stessa a
guardarmi.
«Posso...
posso farle una domanda, signore?» ho voluto sapere, chiedendo
a me stesso perché volessi fargliene una così
personale. Dopotutto, lui era un perfetto estraneo per me. Non era
neanche un mio professore!
«Ma
certamente.» ha risposto lui, girandosi di nuovo e sorridendo,
incoraggiante. Non passava anima viva e c'era uno strano silenzio
intorno a noi.
«Ecco...
non... non deve rispondere per forza...» ho esordito:
effettivamente, non erano neanche fatti miei. «Mi chiedevo,
lei... lei è sempre stato molto motivato?»
Ero
sicuro che mi guardasse fisso. «A fare cosa?»
«A
fare la caserma!»
Marquise
ha continuato a fissarmi per un po', poi ha sorriso, forse ridendo di
me e del modo in cui gli avevo posto quella domanda. Ma non potevo
dirgli “è sempre stato motivato ad essere un buon
soldato?”. In quel momento avevo il cervello felpato.
«Perché
vuoi saperlo?»
«Ecco...
non voglio farmi gli affari suoi...» ho balbettato. Facevo la
parte del maleducato a guardarmi le scarpe, invece che lui, ma non
avevo il coraggio di alzare gli occhi più di quello. «E'...
che...»
«Ho
fatto una promessa.» ha detto, senza aspettare la mia risposta.
Stavolta
sono stato io a non capire. «Una promessa?» ho ripetuto,
riuscendo, per lo stupore, ad alzare lo sguardo sulla sua maschera
bianca.
«Sì.»
ha confermato, con naturalezza, senza perdere il suo sorriso.
Ho
solo annuito, anche se la curiosità mi divorava per sapere che
tipo di promessa potesse rendere resistenti e motivati.
«Quindi...
per lei... è una motivazione molto forte...»
Nessuna
emozione traspariva dalla parte visibile del suo viso. «Immagino
di sì...» ha risposto, lentamente. Sembrava soppesare le
mie parole e io mi sentivo sotto esame.
«Vede,
colonnello, io...» ho deglutito. «Io non credo di essere
abbastanza motivato.»
Lui
non ha detto niente. Non ha provato a consolarmi come ha fatto Arale,
non mi ha attaccato come ha fatto Heero il giorno di quella
discussione.
Non
parlava. Forse ha semplicemente pensato che ero uno smidollato
capitato per sbaglio sul suo percorso. Comunque non se n'è
manco andato ed è stato per questo che ho insistito: «Dove
posso trovare una motivazione?»
«Non
te lo posso dire io.» è stata la sua risposta. Se la sua
immobilità fosse stato il suo sguardo, allora avrei detto che
mi stava fissando intensamente. «Questa è una cosa che
devi sapere tu.»
Lo
stomaco mi si è contratto. «O... mollare?»
Lui
ha inclinato la testa. «Tu vuoi mollare?»
«I-io...
io... no, non lo vorrei, ma...» mi sono fermato.
«Ma?»
mi ha spronato, con fermezza. Conosceva sicuramente la risposta, ma
credevo che volesse sentirlo uscire dalle mie labbra per mandarmi via
più in fretta, magari umiliandomi.
«Ma...
sono una schiappa!» l'avevo detto. E nel peggiore dei modi.
Anche stavolta, però, la maschera di Marquise mi ha impedito
di vedere cosa gli passasse per la testa. Ho abbassato la testa. «Mi
scusi...» ho cercato di rimediare.
L'ho
sentito sorridere. «Come ti chiami?» mi ha chiesto. La
mia testa è scattata verso il punto in cui la maschera
disegnava due occhi. I miei erano sgranati, forse facevo l'effetto di
uno che non ha capito la domanda. Non era propriamente così.
Diciamo che non capivo perché farmi quella domanda.
«Ken
Iccijojji. Cioè... sono... sono il soldato semplice
Iccijojji.» ho detto, correggendomi: la Une è sempre
categorica su questo punto, quando ci mette in fila, davanti al muro
ed ognuno deve dire il suo grado e il suo cognome, urlando.
«Va
benissimo Ken Iccijojji.» mi ha detto, scendendo di nuovo le
scale. Mi ha stupito, ma quello che mi ha fatto del tutto andare in
confusione è stato il fatto che mi abbia messo una mano sulla
spalla. «Su, vieni con me.» è stato tutto quello
che mi ha detto, precedendomi lungo le scale che portavano al
cortile.
L'ho
seguito, perplesso: perché voleva farmi uscire dalla caserma?
Avevo cominciato ad avere paura che volesse legarmi e buttarmi nel
retro di un camion e che dicesse al guidatore di portarmi a casa mia.
In questo caso avrebbe avuto senso chiedermi il nome.
Ma
nel cortile di terra battuta non c'erano camion in cui potermi
sbattere o corde con cui potermi legare. L'abbiamo attraversato in
silenzio, io che arrancavo alle sue spalle, guardandomi intorno
timoroso.
«Colonnello,
dove... dove stiamo andando?»
«All'hangar
quattordici.» così ha risposto lui. La cosa non mi ha
detto niente: non sapevo neanche cosa fosse... così gliel'ho
chiesto.
«E'
uno degli hangar in cui quelli del sesto anno si esercitano per
riparare e costruire parti dei Mobile Suit che progettano.»
così ha risposto Marquise, rallentando e permettendomi di
camminargli a fianco.
«E
perché ci stiamo andando, signore?»
«Perché
credo che lì ci sia qualcosa che possa rispondere alla tua
domanda, Ken Iccijojji.»
Non
ho capito che cosa intendesse e non l'ho nemmeno capito, quando,
attraversata una porta incassata nel grosso muro di cinta, ci siamo
ritrovati in una specie di capannone rivestito di metallo, pieno di
persone vestite di una tuta argentea, col simbolo dell'esercito
spaziale appuntato sul petto. Molti erano chini su tavoli sparsi di
qua e di là, spesso davanti ad altissime macchine
mastodontiche, altri parlavano tra loro a voce molto alta, spesso per
sovrastare il rumore di seghe circolari che lavoravano sulle
macchine: i Mobile Suit.
Era
la prima volta che ne vedevo uno dal vivo. Gli altri erano state
illustrazioni portateci dalla Une e neanche tanto accurate, dato che
abbiamo una fotocopiatrice vecchia di ventimila anni.
Comunque
questi Suit avevano sembianze quasi umane, se non fosse per i musi
sostituiti da grate o occhi vuoti ed inquietanti o per le migliaia di
fili colorati che uscivano dalle braccia non ultimate.
Capivo,
di fronte a loro, come doveva sentirsi una formichina nel vedere un
essere umano.
«Ti
piace?» ha chiesto Marquise, mentre camminavamo lungo il
corridoio principale.
«E'...
magnifico.» sono riuscito a dire, ma “magnifico”
era limitativo per quelle macchine. «Qui aggiustate i Suit, ho
capito bene?»
«Sì,
e ne costruiamo di nuovi.»
Ci
siamo fermati di fronte ad un Suit tutto bianco, dove stavano
lavorando sei persone, tutte nella cabina di pilotaggio, situata nel
petto della macchina.
«E
questo cos'è?» ho chiesto.
«Si
chiama Pioggia di Fuoco. E' uno dei Suit più potenti
dell'intero esercito terrestre e spaziale. E' di gran lunga superiore
a tutti i Suit in nostro possesso e in grado di tenere testa ad un
Gundam.»
Ho
girato la testa verso di lui che, invece, aveva gli occhi puntati sul
Pioggia di Fuoco.
«Cos'è
un Gundam?»
«Un
Suit formato di una lega particolare, chiamata Gundanium, ma
immagino che la studierai l'anno prossimo, a Materiali per la
Costruzione di Macchine.»
Una
materia con un nome così altisonante non deve essere niente di
facile, ma in quel momento non ci ho pensato: ero tutto preso dal
Suit che torreggiava su di me. Dalla mia posizione, proprio davanti
ad un tavolo che sorreggeva una gran quantità di progetti
dettagliatissimi che raffiguravano parti di Pioggia di Fuoco, non
riuscivo a vedergli la testa.
«Chi
lo pilota?» ho voluto sapere.
Lui
non ha risposto.
«Deve
essere molto in gamba: deve essere difficile da comandare.»
Ho
creduto di aver detto una cavolata, perché lui ha ridacchiato,
ma non mi ha preso in giro, anzi: mi ha posato una mano sulla spalla.
«Ogni
volta che si combatte, bisogna sempre avere in mente il perché
si combatte, altrimenti viene meno il motivo per cui queste macchine
vengono costruite.» ha sospirato, riprendendo un tono serio. Ho
abbassato gli occhi, ma cominciavo a capire:
«Chi
guida queste macchine, deve anche essere pronto a morire?»
«E
ad uccidere.» ha risposto lui, mestamente. Quelle parole mi
hanno fatto stringere lo stomaco. «E' per questo che bisogna
avere una motivazione forte per poter porre fine alla vita di un uomo
o la propria. Bisogna averlo bene in mente.»
«Ma...»
ho ribattuto, spaventato. «Noi... noi non dobbiamo andare in
guerra... no? Il... il Generale ha detto che potremmo finire al sesto
anno e...»
Ho
sentito Marquise sospirare ancora, mentre la sua mano si stringeva
più forte intorno alla mia spalla. «Non sono molti
quelli che frequentano questa accademia e decidono di lasciarla alla
fine del sesto anno.»
«E...
e sono tutti consapevoli di questo?» ho mormorato, abbassando
lo sguardo sulle mie scarpe: non riuscivo più a guardare il Suit.
«Non
tutti, purtroppo.» ha risposto, mestamente.
Siamo
rimasti in silenzio per un po', poi, dopo che lui ha dato un ordine
ad uno con la tuta argentea.
«E
chi continua senza aver trovato il suo motivo?»
Marquise
ha abbassato la testa, quasi dovesse dare omaggio ad un amico morto
da poco. «Sarà relegato alle ultime linee, guarderà
i suoi compagni morire e non sarà in grado di reagire.»
Non
ho risposto, angosciato com'ero. L'ho imitato e ho abbassato anche io
la testa. Mi sentivo in dovere di farlo.
«Il
suo pilota si chiamava Milliardo Peacekraft.» mi ha detto, dopo
un attimo di silenzio, rotto solo dalla fiamma ossidrica che troncava
di netto un grosso pezzo di metallo a pochi metri di altezza da noi,
su un'impalcatura fissa ai lati di Pioggia di Fuoco.
«Il
pilota di chi?» ho chiesto, stupidamente.
«Di
Pioggia di Fuoco.» ha risposto. Non ha mostrato stizza o altro;
tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé, il corpo rigido, il
passo marziale e monotono, ha cominciato a condurmi all'uscita. «Era
il principe di Sanc Kingdom, il suo regno, eppure non ha mai trovato
una motivazione abbastanza forte per morire per esso.»
Non
sapevo neanche di cosa stesse parlando. Mi sono grattato la testa,
perplesso.
«E...
e quindi?» ho chiesto, non sapendo esattamente cosa aspettarmi.
Lui
ha abbassato lo sguardo su di me. «Non ne conosci la storia?»
Ho
scosso la testa e lui ha di nuovo sollevato la sua verso la strada
per tornare dentro la caserma. Eravamo arrivati nel cortile, dove la
luce del tramonto dava alla terra battuta una tonalità rosso
sangue.
«Il
regno è andato distrutto.» è stato il suo
lapidario racconto.
«E...
il principe? Cosa gli è successo?» ho voluto sapere.
Avevo subito provato una certa simpatia per quel tipo, forse perché
mi somigliava tanto, anche se io non ero di certo un principe.
Marquise
ci ha messo un po' a rispondere. Sembrava voler mantenere la suspense
del momento. «E' morto.» ha detto, dopo quella che mi è
parsa un'eternità, in un tono così definitivo che
sembrava che io potessi, in qualche modo, confutare le sue parole.
«Oh...»
è stata l'unica cosa che ho saputo dire, triste. Era così
che mi sarei ridotto, senza una motivazione forte? Era quello che mi
voleva dire Marquise? Non l'ho capito.
«E...
Pioggia di Fuoco... l'ha preso il nostro esercito?»
Stavolta
Marquise ha proprio evitato la domanda e io non ho voluto insistere,
anche perché era così freddo che cominciavo a sentire
i brividi. Ma lui mi ha di nuovo posato la mano su una spalla e l'ha
stretta forte, proprio come dentro l'hangar.
«Mi
hai fatto una domanda molto importante, poco fa.» mi ha detto.
E io mi lambiccavo il cervello per capire quale fosse. Probabilmente
ha capito che me ne ero completamente scordato, così ha
ripreso: «Mi hai chiesto come scoprire qual è la tua
motivazione... e ti ho detto che solo tu puoi saperlo, giusto?»
Ho
annuito, senza capire dove volesse andare a parare.
«Credo
di non essere stato esauriente.»
Non
ho detto niente: non è carino dire ad uno dei tuoi superiori
che avrebbe fatto prima a non rispondere...
«Quindi,
per trovare la tua strada, per sapere qual è la motivazione
che ti spinge ad andare avanti, devi vivere le tue esperienze.»
si è fermato, mentre nel mio cervello cominciavano a vorticare
dubbi senza forma che non riuscivo a trasformare in domande. «Hai
detto di non voler mollare. Adesso sai a cosa vai incontro. Trova la
tua motivazione, tenendo bene a mente quello che ti ho detto oggi.»
Quella
sera, appoggiato al davanzale della finestra sopra il mio letto,
guardavo le stelle, ascoltando il russare lento di Alex e quello
irruente di Pan, attutito dalla porta chiusa della camera delle
ragazze.
Non
riuscivo a dormire: continuavo a pensare alle parole di Marquise, al
fatto di non dover mollare, alla motivazione forte che serve per
vivere o morire per la propria patria. Era qualcosa a cui non avevo
mai pensato, qualcosa che mi aveva turbato a tal punto da farmi
perdere il sonno.
Ora
capivo le parole di Trowa e di Heero. Loro sapevano perché
vivere o morire, come lo sapeva Frank.
E
poi... la storia di Milliardo Peacekraft e del Sanc Kingdom. Marquise
non mi aveva voluto spiegare molto, eppure la storia mi incuriosiva:
come era morto il pilota di quel magnifico Suit bianco? Non aveva una
motivazione forte, ma... l'amore per il suo regno e per i suoi
sudditi non bastava? Mi sono reso conto di non averlo chiesto a
Marquise e ho subito capito che andare a chiederglielo non era per
niente delicato.
Un
grugnito più forte degli altri mi ha fatto scattare,
spaventato, verso Alex che, adesso, non era più composto sul
suo letto, ma piegato su un lato, un piede nudo fuori del materasso.
Mi sono seduto sul bordo del mio letto e l'ho guardato. Mi sono
chiesto perché lui fosse in quella caserma e cosa lo spingesse
a continuare a venire, ogni anno e a ripetere sempre il primo. Non
gliene fregava niente davvero come aveva detto il primo giorno? Lo
faceva solo perché poi lo avrebbero arrestato?
«Kenny?»
la voce di Frank mi ha fatto sussultare. Lui era seduto sul suo letto
e, nel bagliore della luce della luna, riuscivo a vedere che aveva
gli occhi aperti. «Non è che puoi chiudere quella
finestra?»
Ho
annuito e, inginocchiandomi di nuovo sul materasso, mi sono voltato
per chiudere le imposte. Un secondo peso mi ha detto che lui si era
seduto sul mio letto.
«Che
c'è?» mi ha chiesto, in un soffio.
«Niente...»
ho borbottato, chiudendoci nella più totale oscurità.
«Oggi
sei sparito e, a cena, non hai voluto dire dove sei stato... e non
sei venuto in biblioteca dopo.»
Ero
stato piuttosto in disparte, a mensa e, con mia sorella, sembravamo
l'accoppiata dei fratelli asociali: lei non fa molta vita sociale coi
nostri compagni di corso, diciamo che la evita, se può.
«E
ora non dormi... sono le due di notte!» ha continuato lui,
guardando la sveglia sul mio comodino. «Vuoi parlarne?»
Non
ero pronto a raccontargli dell'hangar, né delle parole di
Marquise.
«Perché
sei venuto qui, Frank?» gli ho chiesto, senza preamboli. Lui
non ha risposto. Anzi, sembrava quasi che non respirasse proprio.
«Ci
sono una serie di motivi...» ha risposto, dopo un po'. «E
sono troppi per poterteli spiegare così su due piedi...»
Ho
annuito, anche se lui non poteva vedermi: quello era un modo elegante
per dirmi che non erano fatti miei, ma era comprensibile.
Effettivamente non lo erano.
«Conosci
il Sanc Kingdom?» ho domandato, allora. Speravo che mi dicesse
di sì e che, l'indomani, ne avremmo parlato, se non subito.
«Ne
ho sentito parlare...» mi ha detto, facendomi ben sperare.
«E
cosa sai?»
«So
che è stato distrutto.»
«E
poi?»
Lui
ha sospirato. «Come mai tutte queste domande?»
Non
sapevo cosa dire: non volevo dirgli che Zack Marquise mi aveva messo
una pulce nell'orecchio, non volevo fargli capire che avevo parlato
con lui, nel periodo di tempo in cui ero, per così dire,
“sparito”. Il mio amico non ha insistito, mi ha solo dato
una pacca sulla spalla.
«Ne
parliamo domani mattina, Ken. Dai, mettiti un po' a letto, prima che
arrivi qualcuno a chiederci di fare strane forme geometriche con le
coperte!»
Ho
ridacchiato e, mentre lui si rialzava, ho deciso di infilarmi sotto
il piumone e cercare di chiudere gli occhi per dormire. Eppure le
parole di Marquise sulla guerra e sui Suit mi tenevano sveglio.
Dovevo fare le mie esperienze e non mollare. Solo dopo avrei capito
cosa volevo fare davvero...
«Frank?»
l'ho chiamato, in un soffio. Speravo che non si fosse addormentato.
Lui
ha risposto con un mugolio.
«Voglio
trovare una motivazione forte.»
«Bravo...»
ha borbottato lui, con voce impastata di sonno.
«Ho
un po' di tempo per riuscirci, no?»
Altro
mugolio.
«Ho
sei anni per trovarla.» poi ci ho pensato: «Cinque e
mezzo.»
La
risposta da parte del mio amico, però, non è cambiata.
Ho
chiuso gli occhi davvero, stavolta. «Saprò cosa fare
prima del diploma, no?»
Stavolta,
Frank non ha proprio risposto.
Ho
stretto i pugni sotto il cuscino. «Non voglio mollare. Per una
volta, non voglio proprio saperne. Non voglio essere il solito
smidollato.»
*****
L'avevo
detto che ci saremmo ritrovati dopo un mese. Voglia di lavorare
saltami addosso! XD
Capitoletto
forse un po' stereotipato, ma l'ho riletto tutto d'un fiato e mi è
piaciuto (tra la stesura e la pubblicazione lascio passare diverso
tempo, così che possa rivedere ogni capitolo con mente fredda.
In questo modo non mi lasci condizionare dalle prime impressioni che,
molto spesso, da parte mia, sono errate). ^^ Spero comunque vorrete
commentare e darmi le batoste che mi merito. XD
_Pan_:
sono contenta che tu abbia deciso di commentare. Vuol dire che la
storia ti ha colpito! XD Adoro il personaggio di Alex e, sebbene sia
così cattiva, anche Pan è assolutamente tra i miei
preferiti. Un giorno (molto lontano), però, si riscatterà
di tante cattiverie! XD Alla prossima.
Prof:
ero quasi preoccupata che non commentassi più! XD sono troppo
affezionata ai tuoi commenti precisi e puntigliosi. Spero di aver
spiegato in modo abbastanza esauriente il perché dei
comportamenti della Une. Certo che è umana, anche se,
all'inizio di questo capitolo, ho dovuto darti ragione in pieno sulle
tue impressioni su di lei... ma non dimentichiamo che è dal
punto di vista di Kenny che la vediamo e, per adesso, lui vede solo
l'aguzzina che è in lei. XD Ora taccio, perché se poi
faccio spoiler la storia non la legge più nessuno. XD Per
quanto riguarda i verbi, mi trovo sempre un tantino in difficoltà:
ci sono delle situazioni che richiedono il presente perché
continuano ad accadere anche mentre Kenny scrive sul diario, ma mi
rendo conto che stona un po' col resto della frase. D'ora in poi
cercherò di stare più attenta. ^^ E dopo questa
risposta più lunga del capitolo ti lascio. XD Alla prossima!
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Capitolo 8 *** Quando tuo marito va a comprare le sigarette ***
Le lezioni al
primo anno
Quando tuo
marito va a comprare le sigarette
|
9
Novembre
«Sanc
Kingdom?» la domanda di
Alex ha risuonato sinistra per i corridoi ormai quasi deserti. Ancora
lui e Arale non sanno molto dei miei propositi: ho preferito tenere
per me questi e le parole di Zack. Credo che i miei amici farebbero
fatica a capire e, sinceramente, non mi va che Arale metta su un
altro dei suoi comizi sulla durezza dei metodi della caserma. Frank è
l'unico che sa qualcosa, ed è l'unico che non fa mai troppe
domande; forse è per questo che mi sono confidato con lui. Il
fatto è che non sono neanche tanto sicuro che mi sia stato a
sentire... mi aveva detto che avremmo parlato del Sanc Kingdom il
giorno dopo, ma poi se ne deve essere dimenticato e io, sinceramente,
non ho voluto insistere e fare la parte della persona petulante.
Mentre
scendevamo all'alzabandiera, stamattina, però non ho potuto
più mantenere il segreto. L'argomento Sanc Kingdom mi faceva
arrovellare il cervello da troppi giorni, ormai, e speravo che uno
dei miei amici sapesse qualcosa su questo regno e il principe
Peacekraft. «Che roba è?»
«Era
un piccolo stato tra Polonia e Germania.» ha spiegato Frank,
mentre scendevamo in fretta e furia le scale. «Ma fu distrutto
durante l'ultima guerra coloniale. Ma come ti è venuto in
mente, Kenny?»
Non
avevo ancora voglia di parlare di Marquise e dell'hangar 14, così
ho inventato sul momento che l'avevo letto casualmente su uno dei
libri della biblioteca.
«E
come si chiamava il testo?» ha insistito Frank, mentre uscivamo
all'aria gelida del mattino. Era ancora molto scuro e nel cielo si
potevano vedere grossi nuvoloni grigi che mandavano odore di pioggia.
«Non
mi ricordo...» ho risposto, evasivo.
«Beh,
glielo chiediamo a Hopkins, stasera, dopo le lezioni.» ha
tagliato corto Arale, infilandosi in terza fila, quella dedicata agli
alunni del corso B. In lontananza, vedevo Marquise al fianco della
Une, nelle retrovie. Ho pensato che quella sua maschera, alla luce
artificiale del cortile, era ancora più inquietante che in
pieno pomeriggio, col sole alto.
Cantava,
sì, ma le sue labbra si muovevano appena ed erano curvate
verso il basso e la sua faccia sembrava alquanto triste. Se potessi,
direi che è la stessa espressione che aveva il giorno in cui
mi raccontava di quel misterioso principe Miliardo. Nome strano per
una persona, Miliardo, ma forse per un principe non tanto...
Ci
ho rimuginato un bel po' sopra, ma ho dovuto interrompermi, quando
sono cominciate le lezioni. Oggi è successo un fatto davvero
inquietante: la Noin ha cominciato ad interrogare. Farsi interrogare
da lei non equivale a farsi venire o un orecchio grosso come un
pitone, oppure un mal di testa coi fiocchi, come invece credevo. Sarà
che devi stare accanto a lei...
Ha
chiamato me e Pan, almeno è quello che è riuscito a
capire Trowa, dalla prima fila.
«Sei
sicuro che abbia chiamato proprio tutti e due?» ha voluto
sapere Arale, sotto mia richiesta, dato che io, con Trowa, non ho
tutto questo gran rapporto e ho quasi sempre paura di vedergli
arricciare il naso pieno di disgusto, come fa quando incrocio il suo
sguardo.
«Ho
sentito Iccijojji due volte.» è stata la laconica
risposta del nostro compagno. Arale non ha ribattuto e si è
stretta nelle spalle. Io mi sono alzato, ma mia sorella no, anche
perché non sapeva di essere stata chiamata. Il motivo? Non
segue geografia.
«Ehm...
tenente?» l'ho chiamata, titubante. Mi tremavano le gambe e non
so dire come mai sono riuscito a rimanere in piedi. E non so nemmeno
perché fossi così nervoso, dato che si trattava solo
della Noin, la donna più placida che conosca, che non si
arrabbia mai e, solo qualche volta, scappa via piangendo, quando vede
che nessuno la segue o che la guardiamo tutti smarriti e annoiati.
Lei ha alzato gli occhi su di me. Le brillavano speranzosi, forse era
per questo che stavo sulle spine: mi stava caricando di un grosso
peso. Ma io dovevo solo dirle che Pan non era in classe. Lei ha
sgranato gli occhi, quando ci sono riuscito. Avevano perso un po' del
loro luccichio e, adesso, sembravano terrorizzati. Ha mosso le
labbra.
«Chiede
dov'è.» ha tradotto Trowa, annoiato.
«Oh,
beh... non lo so.» ed effettivamente era vero.
«Chiede
ora come si fa.»
Lo
chiedeva lei a me? Non sapevo effettivamente cosa dire, né
cosa consigliarle. Alla fine è stata la Noin a decidere per
tutti: mi ha fatto cenno di avvicinarmi alla cattedra e non ha più
parlato di Pan.
Non
me lo sono fatto ripetere due volte e tutta la classe aveva lo
sguardo puntato su di me. Lo potevo capire: ero l'animale
sacrificale. Ho visto Arale, non appena mi sono girato verso la
classe, sventolare bandierine immaginarie per farmi coraggio. Non che
non avessi studiato (con Arale, Frank e Alex frequentiamo spesso la
biblioteca e, con un po' di fortuna, siamo riusciti a trovare libri
di geografia terrestre, scritti proprio dalla Noin), ma essere il
primo è sempre una prova in più.
Da
così vicino, però, la voce piccola della Noin si sente
abbastanza bene. Mi ha chiesto di parlarle un po' della conformazione
del territorio Giapponese, confrontarlo con quello Cinese e con
quello Americano, vantaggi e svantaggi di ognuno. Ho dovuto lavorare
molto di memoria, nel senso che ho dovuto solo ripetere a pappagallo
quello che c'era scritto nel libro che abbiamo trovato. Per vantaggi
e svantaggi è stato peggio, perché il libro non ne
descriveva molti. Alla fine ho deciso di parlare di coltivazioni,
metodi di irrigazione e cose che lei ha scritto sul libro. Alla fine,
mi ha dato un nove pieno. Arale ha ricominciato a sventolare
bandierine.
«Sei
un mostro, Kenny!» mi ha detto Alex, a cena, impressionato.
«Non ho mai visto un nove uscire dalla penna di nessuno dei
professori.»
«E'
stato tutta una gran botta di culo!» ha esclamato mia sorella,
disprezzando così il mio voto. Ma nessuno, in quel momento,
sarebbe riuscito a togliermi il buonumore: neanche Heero o le
motivazioni che mi mancano.
«Io
starei zitta, Iccijojji.» ha borbottato Trowa, addentando un
pezzo della sua ala di pollo. «La Noin ti ha dato una nota
perché non eri in classe!»
«Non
c'era manco Ramazza!» ha ringhiato lei.
«Sì,
ma non se n'è accorta.» ha ribattuto Frank.
«E
comunque farsi dare una nota dalla Noin vuol dire proprio fare
schifo!» ha esclamato Alex.
Pan,
per tutta risposta, ha picchiato forte sul tavolo con il pugno,
facendo tremare tutte le stoviglie e tutti i brodini nei piatti. «CHE
CAZZO VORRESTI DIRE, EH?» ha gridato. «Perché non
gliel'avete detto, brutti bastardi, che non c'era manco questo pezzo
di merda?»
«Perché
non ci piace essere chiamati bastardi!» ha sbottato Mimi, da
due posti da lei. «E comunque non siamo spie!»
«Ma
andate a fanculo!» Pan ha rimarcato il concetto facendo anche
un gesto inequivocabile con il braccio, prima di alzarsi e di
andarsene dalla sala mensa. Arale ha scosso la testa, ma non ha detto
niente. Solo la sua faccia era molto indignata. Insomma, felice per i
miei risultati scolastici, una volta tornati in camerata, stavo per
scrivere alla mamma per darle la lieta novella. Il mio proposito,
però, è andato a farsi friggere, quando Alex è
piombato in camera per dire che, finalmente, aveva trovato un lettore
DVD degno di questo nome, per poter, “finalmente” vedere
i suoi filmini porno.
«Davvero?»
Arale sembrava entusiasta.
«E...
e se ci beccano?» ho chiesto, immaginandomi la Une che ci becca
a vedere un film. Non sarebbe stata una festa: sicuramente ci avrebbe
chiesto se avessimo creduto di essere al cinema, o cose del genere.
Lei adora frasi d'effetto simili.
«Kenny,
che palle!» ha sbuffato Alex che, per rendere il discorso un
po' più enfatico, si è aiutato anche con le mani,
scuotendole su e giù. «Dai, Anthony Stevens è uno
a posto e non ci faremo manco beccare! Ha un portatile che è
una forza. Frankie, vieni anche tu a vederlo?»
Ha
sbirciato dentro la camera, mentre Frank era impegnato con gli
appunti di Storia. Quando ha sentito qualcuno che lo chiamava, ha
alzato gli occhi dal quaderno e ha guardato Alex, annoiato. «Che
cosa?»
Alex
ha scosso la scatola del DVD e io ho sbirciato il titolo. C'era una
donnina completamente nuda e tra le sue gambe ci stava scritto a
chiare lettere rosse: “Quando tuo marito scende a comprare le
sigarette”. Ho preso il DVD e ho guardato il retro, dove c'era
un abbozzo di trama, una cosa del tipo: “Cornelio scende a
comprare le sigarette, intanto la mogliettina fa salire il suo
amante. Riuscirà a finire il suo appagante lavoro prima che
Cornelio ritorni?”. Aveva un che di interessante. Sotto di
essa, c'era solo qualche altra immagine un po'... un po' così,
ecco, immagini che, nel film, comunque, non ci sono state.
Ci
ho pensato su e ho concluso che il titolo era inverosimile: quanto ci
mette una persona a far salire l'amante, farci quello che ci deve
fare e poi farlo sparire, prima che il marito torni col suo pacchetto
di sigarette? C'è un problema di tempistica e ho cercato di
farlo notare ad Alex.
«Ma
dai, Kenny!» ha sbuffato lui. «Solo tu puoi pensare a
queste stronzate stilistiche, parlando di film porno!»
«E
che vuol dire?» ho insistito.
«E'
un titolo come un altro!» ha risposto lui, leggermente
spazientito. «Nei film porno si sa che si fa una cosa sola!»
«Cioè?»
«Eh,
se ci muoviamo, lo vedi!»
Frank,
intanto, ha declinato l'invito.
«Preferisco
studiare.» ha detto, sollevando il quaderno come se avessimo
avuto bisogno di vederlo meglio. Tanto il mio quaderno degli appunti
mi aspetta minaccioso per il lunedì. Poteva ben aspettare
qualche ora!
Alex
ha fatto una faccia strana, quasi disgustata. «Contento te...»
ha borbottato. Io e Arale l'abbiamo seguito fin nella camerata di
questo Anthony Stevens, un tipo del primo anno corso A, figlio di un
ministro delle colonie spaziali “col culo foderato di
quattrini”, come ha detto Alex, presentandocelo. Stevens non se
l'è presa, anzi, si è messo a ridere. È stato
anche molto gentile nell'invitare Heero che ci ha permesso di
rimanere in camera fin dopo mezzanotte, a patto che lo aspettassimo
per fargli godere lo spettacolo. Dopo il suo giro di ronda, eravamo
tutti pronti, tutti appollaiati sul letto o seduti a gambe incrociate
a terra. Arale era sulle spalle di Alex (tanto è piccola e
leggera), mentre io ero a terra, vicino ad un ragazzino dall'aria
decisamente poco sveglia di nome Timothy e ad una ragazza di nome
Marine, che viene da una colonia russa, come Yuri Ivanov, seduto
all'altro suo lato. Yuri è un campione di non so che sport (me
l'ha detto Arale) ed ha costantemente un'aria snob stampata in
faccia.
Quando
è arrivato Heero, erano appena le dieci.
«Siamo
tutti pronti?» ha chiesto, buttandosi accanto ad Alex. «Oh,
Kushrenada non è dei nostri?»
«No...»
ha risposto Alex, con una lieve nota di esasperazione. «Preferisce
studiare, il pazzo!»
Heero
ha riso. «Dovevo aspettarmelo.»
Non
ho chiesto cosa, perché Anthony ha chiesto un po' di silenzio
e d'attenzione. Voleva cominciare a fare un discorsetto d'inizio, ma
gli è bastato mettersi impettito e schiarirsi la voce perché
tutti cominciassero a gridare stizziti: «Metti il film,
coglione!»
Insomma,
non capivo tutta quell'ostilità: se voleva fare
un'introduzione al film, che ben venisse. Mi ricordo che nel
“progetto Cinema” della scuola elementare, i professori
chiamavano sempre un critico che spiegava un po' il film e quello che
avremmo dovuto vedere e poi ci faceva dare le nostre impressioni, una
volta finito. Mi ricordo che l'unico che Pan ha visto con un certo
interesse è stato “l'Esorcista”, per il quale non
ho dormito diverse notti, senza contare che lei voleva esorcizzarmi
ogni due per tre e farmi vomitare verde, e che è stata la
mamma a farla smettere, minacciandola di metterla a mangiare panna
montata finché non avesse avuto la diarrea. E si sa che Pan
odia la panna montata, più della diarrea.
Ma,
dopo tutte queste proteste, Anthony non ha potuto fare il suo
discorso introduttivo e noi ci siamo ritrovati a guardare la stessa
foto della copertina del DVD e il titolo che è rimasto sullo
schermo per un secondo, dopo che è scomparsa l'immagine. Poi
una telecamera ha cominciato ad inquadrare un letto sfatto – e
sporco – e una donna in grembiule e un paio di tacchi rossi
come lo smalto alle unghie e alle labbra troppo gonfie. Era intenta a
lavare i piatti. In sottofondo una musichetta da film dell'orrore.
«Cara,
esco a prendere le sigarette!» la prima battuta, detta da un
uomo che non si è manco visto. «Torno subito!»
«Sì,
ciao Cornelio!» ha risposto lei, prima di sentire lo scatto di
una porta che si chiude. «Oh, finalmente!» ha esclamato
ancora lei, esibendo un sorriso falso come quello delle pubblicità
dei dentifrici.
«Ma
che coglioni!» ha sbottato Alex, infastidito, mentre guardavamo
tutti lei che si asciugava le mani e si andava ad affacciare alla
finestra.
«Quali?»
ha subito risposto Arale, da sopra la sua testa. «Ancora non si
è vista una mazza!»
«E
nel vero senso della parola!» ha rincarato la dose il ragazzo
che era accanto a me. Se proprio devo essere sincero, non ho capito
di che stessero parlando e perché avrebbero dovuto vedere
delle mazze, quando qui si parlava di un film di tutt'altro tipo, che
non c'entrava niente con lo sport. Altrimenti si sarebbe chiamato
“film sportivo”, non “porno”. Comunque la
donna si è tolta il grembiule e, in un secondo, si è
ritrovata completamente nuda. Ero un po' perplesso. Dagli altri,
invece, si è alzato un boato, come se un calciatore avesse
fatto goal. Non ci deve essere molta differenza tra sport e porno, mi
ricordo di aver pensato.
«Siete
dei maiali!» ha esclamato Arale. «Ha le tette in culo.»
«No,
ce l'ha davanti!» ho risposto, cosa che ha suscitato l'ilarità
di molti. Diciamo che quel film cominciava a non piacermi: non ho mai
apprezzato vedere certe scene di nudo integrali.
Mi imbarazzano, ecco. Ma la signora del film se n'è fregata: è
addirittura andata alla finestra (che dava sulla strada!) e l'ha
aperta. Da lì, è entrato un tizio, anche lui tutto nudo
– al che i ragazzi hanno commentato le dimensioni del suo
aggeggio e le ragazze ridacchiavano, pure Arale – pieno di
muscoli, come i culturisti, solo molto più sudato e
abbronzato. Avrei volentieri chiesto di mandare queste scene così
indelicate un po' avanti, a quando sarebbero stati tutti e due un po'
più vestiti, ma ho avuto paura delle conseguenze che le mie
richieste avrebbero portato negli altri, che avevano tutti uno
sguardo febbrile rivolto allo schermo del portatile.
L'uomo
nudo ha detto un gravissimo: «Ciao» e il film si è
concluso. Schermo nero.
Questo
ha prodotto le più disparate reazioni: c'era chi urlava
parolacce, Alex in particolare lanciava bestemmie a volume
supersonico; Heero rideva, tenendosi le mani sul viso. Non sono
sicuro se stesse ridendo o piangendo, se devo essere sincero, perché
quando si è tolto le mani dagli occhi, ce li aveva rossi e
lucidi. Arale scuoteva la testa, incredula, ma non riusciva a
staccare gli occhi dallo schermo.
«Ma
che cazzo di porno era?» ha gridato Timothy, lanciando lontano
una ciabatta. «Ma vaffanculo!»
«Non
puoi vedere se è rotto il lettore?»
«No,
mi avrebbe dato errore!»
«Controlla
il DVD!»
Ma
prima che Anthony avesse il tempo di toglierlo, il film è
ripreso: la donna stava al lavello, di nuovo col grembiule addosso, e
il marito era tornato. Ancora una volta, si è sentita solo la
sua voce. «Sono tornato.» ha detto. E sono partiti i
titoli di coda.
Un
silenzio di tomba è calato sulla stanza e tutti avevano la
stessa espressione: occhi sgranati e bocca aperta. «Ehm... un
po' ermetico come film, eh?» ho detto, per cercare di
stimolarli a riprendere un po' di vita. Sembravano essere stati
pietrificati. Mi è tornato in mente The Ring, solo che poi ho
pensato che lì c'era una bambina che diceva “tra sette
giorni”... non è che loro l'avevano vista e io ero stato
l'unico a non aver sentire niente?
«Ermetico?»
ha soffiato il ragazzo poco sveglio, indignato, guardandomi come se
io gli avessi detto che doveva morire davvero, tra sette giorni.
«Ermetico? Non c'era un cazzo!»
«No,
ne abbiamo visto uno di sfuggita!» gli ha fatto notare Anthony,
prendendo il DVD dal lettore e lanciandolo ad Alex. «Dai, dacci
quello vero!» ha chiesto, con un sorriso che somigliava di più
ad una smorfia.
«Ma...»
Alex era quello che ci stava capendo meno di tutti, pure meno di me,
se proprio devo essere sincero. «Era questo quello vero!»
Hanno
riso un po' tutti, pure Arale, ancora arrampicata sulle sue spalle.
«Dai, non fare il buffone!» lo hanno pregato. Lui cercava
di spiegare ancora che non aveva un altro DVD e che, forse, il tipo
che gliel'aveva procurato lo aveva fregato, ma tutti continuavano a
credere che ci fosse del marcio in quella storia.
A
fugare ogni dubbio, è stato Heero, che ha preso la scatola del
DVD ed ha cominciato a spulciarla, come se avesse pensato a qualcosa
a cui nessun altro sarebbe mai potuto arrivare. Aveva un'aria
circospetta, quasi la scatola potesse esplodere e lo sguardo
concentrato di chi cerchi una bomba. E l'ha trovata. Non proprio una
bomba, ma un unico fogliettino, scritto a mano, tra la custodia e la
locandina.
«Ehi,
Alex, chi è Martin?»
«Perché?»
ha chiesto di rimando Alex, corrugando la fronte e osservando Heero
come se avesse osato dirgli che aveva ucciso il Generale.
Heero
ha ghignato, alzando di poco il fogliettino, così che
potessimo vederlo tutti. «Perché è proprio un
tipo simpatico!»
Ora
Alex sembrava proprio disorientato, mentre tutti noi eravamo con lo
sguardo puntato sull'uno e sull'altro, aspettando il verdetto: cosa
c'era scritto su quel biglietto scritto da quel tipo così
simpatico di nome Martin? Mi chiedo se solo io ho notato
l'espressione omicida di Alex, mentre prendeva il foglietto dalle
mani di Heero e lo leggeva.
Arale
è scesa da sola dalle sue spalle e gli si è messa
davanti e lo guardava con la bocca spalancata, mentre lui fissava con
sguardo inceneritore il fogliettino.
«Che
coglione!» ha detto, semplicemente, accartocciandolo.
«Che
c'era scritto?» ha voluto sapere Arale.
«Che
Alex è troppo piccolo per vedere certe immagini e che gli ha
copiato il DVD in quel modo di proposito, così impara e non fa
pensieri e atti impuri.» Heero ha riso con tutto se stesso.
«Eh,
bravo, ridi!» ha sbuffato Alex, improvvisamente spento, quasi
quel Martin, con il suo biglietto, fosse riuscito a trovargli il
tasto d'accensione.
«E'
troppo divertente!» si è giustificato Heero, senza
riuscire a smettere di sghignazzare. Alex non ha apprezzato, ma
neanche molti altri che, facendo schioccare la lingua, si sono alzati
e sono tornati alle loro occupazioni, senza degnare né il DVD,
né il computer, né qualsiasi altra cosa appartenente a
Anthony Stevens o a noi, di uno sguardo. Le ragazze erano tornate
nella loro camera e qualcuno si era anche infilato a letto.
«Che
pensieri e atti impuri?» ho chiesto, sempre più confuso,
quando ormai, sul letto di Stevens non c'eravamo rimasti che io,
Alex, Arale e Stevens stesso. Lui era intento a nascondere il
computer, mentre noi stavamo lì, seduti e in silenzio, con
Alex che aveva un umore pessimo. Nessuno mi ha risposto.
«Va
beh, dai... ci rifaremo la prossima volta!» così ci ha
congedato Anthony, dando una pacca sulla spalla ad Alex, in segno di
incoraggiamento.
«Eh...»
ha borbottato il nostro amico che si è alzato senza
protestare, scuotendo la testa. «Mi dispiace. Mi aspettavo una
bella serata. Ho combinato un casino!»
Si
vedeva che gli dispiaceva da impazzire e a me dispiaceva per lui,
perché era la prima volta dopo mesi che lo vedevo in quelle
condizioni, così triste, quando lui è il guru della
vivacità, un po' come Arale, solo molto più spiritoso e
meno petulante, per certi versi.
Heero
era l'unico che ancora rideva sotto i baffi, seguito da lei. Io non
riuscivo a capire perché quel Martin avesse dovuto tagliare
tutta la parte centrale del film. Non è che recitavano nudi
tutto il tempo? Vai a sapere... l'ho chiesto ad Arale, ma, di nuovo,
ho ricevuto solo un silenzio indifferente.
Siamo
tornati in camerata, con Alex che continuava ad essere di pessimo
umore ed io che continuavo a non capire.
E,
in fin dei conti, mi sono anche dimenticato di Hopkins e del Sanc
Kingdom.
*****
Non
sono quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho
aggiornato, ma fa lo stesso. XD
Questo
è un capitolo “di passaggio” (e anche demenziale, almeno secondo me, più di quanto fosse nei miei intendimenti, ma quando mi è venuta l'idea non ho resistito), nel senso che ho
voluto inserirlo principalmente per smorzare la tensione dei
precedenti, sperando di non aver toppato in pieno. La storia è
lunga e i propositi di Kenny non si possono realizzare in tre,
quattro capitoli. ^^
Prof:
davvero è stato così emozionante?! Non posso fare a
meno di provare un pizzico di orgoglio di fronte a tanti complimenti.
XD Ora è un po' tardi e sono completamente andata, quindi,
pigrizia (e memoria!) permettendo, se mi viene in mente qualcosa da
aggiungere, lo farò nel prossimo capitolo. ^^ Come al solito,
spero che vorrai darmi le tue impressioni su questo. Alla prossima.
|
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Capitolo 9 *** Avanzi di... galera ***
Le
lezioni al primo anno
Avanzi
di... galera
|
10
Novembre
Il
pessimo umore di Alex è durato poco. Questa mattina era il
solito di sempre: si è comportato normalmente, quando si è
alzato, è andato in bagno e ci è rimasto il tempo che
bastava perché, di nuovo, noialtri non riuscissimo a fare i
nostri bisogni prima dell'alzabandiera. Fortuna che oggi è
sabato e che non ci sono lezioni.
«Allora,
qual è il programma di studio di oggi?»
ho esordito, non appena ci siamo seduti intorno al tavolo della
mensa. Pan, che per qualche strana ragione era seduta accanto a me,
mi ha guardato con disgusto.
«Ma
parli sul serio?» mi ha chiesto.
«Ehm...
sì.» ho risposto, dubbioso sul perché mi
rivolgesse quella domanda. Dopotutto, tutti i sabato, io, Frank,
Arale e Alex ci chiudiamo in biblioteca per fare i compiti per il
lunedì.
«Che
fottuto secchione!» ha borbottato disgustata e si è
seduta dall'altro lato del tavolo, da sola, quasi avesse avuto paura
che potessi infettarla con la malattia dello studio. Credo che ne sia
immune, sotto certi aspetti.
Il
sabato e la domenica, la mensa è un posto molto meno rumoroso.
I ragazzi più grandi, come Heero, ne approfittano per visitare
la base militare al di fuori delle mura dell'accademia, così
la mensa sembra anche molto più vuota, anche se ci sono gli
alunni del primo e del secondo anno a popolarla e neanche tutti,
perché alcuni prendono la colazione e – senza permesso –
la portano in camera, dove la consumano fumando e ridendo tra loro,
proprio come fanno Bra, Mimi e Sora, per esempio.
Ho
visto di sfuggita Anthony Stevens, che non ci avrebbe rivolto la
parola, se non fosse stato per Arale che si era sbracciata un quarto
d'ora per salutarlo.
«Insomma,
che facciamo oggi?» l'ha incalzata Frank.
«Direi
Storia, Matematica e... Geografia, penso che Kenny possa saltarla.»
ha ribattuto lei, masticando una fetta biscottata. Effettivamente,
dopo una bella interrogazione come quella di ieri, potrei saltarla
per il resto dell'anno. Ma poi mi sono ricordato che devo mantenere
la media e che la mamma non avrebbe mai e poi mai accettato di vedere
un quattro affiancato ad un nove, neanche se fosse per salvare il
mondo.
«Intendevo,
quando abbiamo finito...»
«Di
solito non finiamo poco prima dell'ora di cena!» gli ha
ricordato Arale, guardandolo con attenzione, come se il nostro amico
avesse detto di voler mettere una bomba sotto il letto della Une.
«E'
vero, ma per adesso abbiamo poche cose. Potremmo anche concederci
qualche ora libera...» ha continuato Frank, mantenendo un tono
disinvolto.
Alex
ha corrugato la fronte e gli ha messo una mano sulla fronte. «Eppure
non ha la febbre.» ha constatato. Effettivamente, sentire Frank
parlare in quel modo dava da pensare: se c'è da studiare, di
solito, lui è il primo che si fionda ed è ben strano
che cerchi di svicolare proprio ora, a poco più di un mese dal
primo congedo della nostra vita.
«Sto
benissimo!» ha sbottato il nostro amico, togliendo con
malagrazia la mano di Alex dalla fronte.
«E
allora perché pensi di disertare i compiti?» gli ha
chiesto Arale.
«Non
penso di disertare proprio niente!»
«Ma...
hai detto...»
Frank
ha scrollato le spalle ed ha ripreso a mangiare le sue uova. «Volevo
solo fare qualcos'altro...» ha concluso così la nostra
conversazione, ma ha lasciato tutti noi col dubbio. Anche quando
abbiamo cercato di cavargli qualcosa di bocca, lui continuava a
riempirla con uova e pane e a masticare con eccessiva lentezza.
«Ragazzi...» ha detto, quando ha inghiottito. «Sto
bene.» ha scosso la testa, alzando gli occhi al cielo, come se
non riuscisse a credere a quello che stava vedendo.
«Scusa...»
ha risposto Arale, per tutti. «E' che... è strano.»
«Più
strano di Matt Ishida che si siede a tavola con noi?» ha fatto
un cenno alla sua sinistra, distogliendo la nostra attenzione da lui.
Abbiamo
guardato tutti verso Matt: effettivamente era proprio seduto e stava
mangiando. E' una vera novità saperlo qui: le sue ultime due
settimane le ha passate in infermeria per una malattia della pelle
che nessuno sa bene quando o dove l'abbia presa. «Non ha
un'aria sanissima.» ha constatato Alex, ficcandosi un dito nel
naso.
«Alex,
non è che puoi...»
Lui,
sempre tenendosi il dito nel naso ha guardato Frank con curiosità.
«Cosa?» ha chiesto, con naturalezza. Frank si è
limitato a scuotere la testa e Alex, facendo una smorfia stordita, si
è rimesso composto, attaccando la caccola sul tovagliolo
accanto al piatto.
Alla
fine dell'ora di colazione, ci siamo diretti in biblioteca, dove ci
aspettava un affettuoso sergente Hopkins, che ha stretto la mano a
noi ragazzi e ha baciato la mano di Arale.
«Che
succede, sergente?» ha chiesto la mia amica, sbattendo le
palpebre, come se dovesse cacciare un moscerino. In effetti era
strano vedere il sergente comportarsi così.
Lui
ha ridacchiato, grattandosi la pelata. «Sto leggendo un libro
intitolato “Vecchie storie di cavalieri e dame”. Mi ci
sto appassionando. Volete che ve lo presti? Peccato per l'asfissiante
assenza di erotismo.»
Mi
ha fatto l'occhiolino e io non ho capito. Ho tentato di avere una
spiegazione da Arale, ma in questo periodo deve essere di cattivo
umore, perché mi guarda male e non dice una parola, quando,
invece, io vorrei ricevere spiegazioni.
«Guardi...»
ha sbuffato Alex, sedendosi al capotavola, su uno dei due tavoli
rimasto libero. L'altro era occupato da una sola persona che, però,
aveva preso tutti i posti disponibili: era la ragazza coi capelli
cespugliosi che ho incontrato il primo giorno e con cui non ho mai
scambiato una parola. L'unica cosa che so è che è del
corso D, che si chiama Hermione e che ha un cervello eccezionale.
Solo che, di quelli che ho sentito, dicono tutti che sia un bel po'
una rompipalle. Non ci ha salutati, ma solo rivolto un'occhiataccia,
come se stessimo commettendo chissà quale infrazione. Non
stavamo nemmeno parlando a voce così alta! «Lasciamo
perdere l'erotismo!»
Il
sergente, a quelle parole, ignorando Hermione che guardava male anche
lui, si è seduto tra me e Frank, che ha dovuto prendere posto
accanto ad Arale, dalla parte del tavolo. Quando siamo stati tutti
seduti, un po' scomodi a dire la verità, Hopkins ha chiesto:
«Che è successo?»
«Ieri
sera ci volevamo vedere un porno.» ha raccontato Alex.
Il
sergente ha annuito, interessato. «E...?» lo ha spronato,
quando ha visto che il mio amico non aveva intenzione di continuare.
Non è riuscito comunque a smuoverlo.
«E
il porno non c'era.» ha concluso Arale, aprendo di scatto il
quaderno con gli appunti di Storia.
«Ah,
vuol dire che era ben fatto e per niente volgare?» ha domandato
il sergente, davvero impressionato.
«No,
non c'era proprio.» ha ribattuto Alex. Frank ha cominciato a
ridere, piegandosi sul tavolo, proprio la stessa reazione che ha
avuto ieri sera, quando ce ne siamo tornati con la coda tra le gambe
in camera.
«L'hanno
spacciato per un porno e poi non lo era?»
«No,
signore.» ha risposto Arale, il più educatamente
possibile, ma la sua espressione era a dir poco furente. Deve essere
davvero di cattivo umore, in questi giorni. «La scena di sesso
era stata tagliata da uno spiritosone di nome Martin, un amico di
Alex, almeno credo.»
Alex
si è rabbuiato, ma è stato solo un breve istante,
mentre scoccava un'occhiata a Frank che cercava di soffocare le
risate, senza riuscirci. Perlomeno, ho capito cos'è un porno e
sono rimasto alquanto imbarazzato: insomma, eravamo andati a vedere
un film dove due si mettevano a concepire bambini? La cosa mi ha
decisamente turbato e, per evitare di far vedere a tutti come ero
diventato rosso, ho pensato anch'io di aprire il mio quaderno di
Storia.
Le
ultime cose sono parecchio impegnative, anche perché la Une
vuole sapere a memoria i nomi di tutti gli astronauti che
parteciparono alla Missione Alfa, missione che è servita ad
ispezionare il territorio lunare, per vedere se era idoneo ad
ospitare vita umana. Insomma, una gran noia. Non è finita:
secondo lei, dobbiamo anche ricordare tutta una serie di trattati che
sono serviti per mettere d'accordo tutte le nazioni del mondo, una
volta che sulle colonie spaziali hanno cominciato ad insediarsi
esseri umani.
Il
bello è che non ci ha mai parlato del Sanc Kingdom. Pensando a
questo, mi sono chiesto come introdurre il discorso a Hopkins, che
sembrava molto più interessato alla trama del porno, che a
svolgere il suo lavoro di bibliotecario.
La
ragazza di nome Hermione, dopo averci scoccato un'altra occhiata di
disapprovazione, ha raccolto tutta la sua roba e se n'è
andata, non senza borbottare qualcosa sulla maleducazione. Ora
capisco, quando sentivo dire che era una vera bacchettona e che, per
questo, è la pupilla della Une. Ma nessuno, a parte me,
sembrava interessato a lei, più coinvolti nel racconto del
sergente, che, gesticolando forsennatamente, cercava di far capire
quanto era grande uno dei castelli di cui parlava uno di quei
racconti.
«Insomma,
c'è una principessa rinchiusa nella torre...» stava
dicendo Hopkins. Arale e Frank non lo ascoltano mai quando comincia a
sproloquiare. Di solito, gli unici che gli danno udienza siamo Alex
(solo che anche lui, oggi, sembrava parecchio annoiato) e io, se non
ho la testa altrove. «Non fa niente tutto il giorno, si annoia
e aspetta che arriva il suo principe, invece, quello... beh, è
un poco di buono: è partito, sì, per andare a
liberarla, ma, invece di compiere tutte quelle imprese, sai, quelle
epiche e cose del genere, si ferma di osteria in osteria, seduce le
cameriere, padrone, persino i cavalli o i gatti, beve come un
cammello e poi riparte, per la prossima osteria. Uno schifo...»
«E
chi va a liberare la damigella?» ho chiesto, curioso.
«Si
libera da sola.» ha risposto lui, come se avesse dovuto essere
ovvio. «E si sposa col calzolaio.»
Frank
ha alzato gli occhi dal suo quaderno e ha ghignato. «Ma che
storie sono queste, sergente?» ha chiesto. «Dame e
cavalieri? Sembrano più delle parodie.»
Il
sergente ci è rimasto male, ma solo per qualche istante. Si è
passato la mano davanti alla bocca e poi ha alzato un indice verso
l'alto. Io e Alex abbiamo guardato verso il punto che indicava, ma
sul soffitto non c'era niente. «Aspettatemi qui» ha
chiesto il sergente, alzandosi in piedi.
La
biblioteca era vuota, come al solito: alla gente non piace che
Hopkins sia così espansivo, così cerca di prendere
quello che gli serve, riempie il modulo e se ne va. Noi quattro
rimaniamo, anche perché fa certe cioccolate calde che sono la
fine del mondo ed è anche molto simpatico. Solo che stavolta
non ci ha portato la cioccolata, ma un libro con la copertina rigida,
rosa, al cui centro c'era disegnata la caricatura di un castello. Si
intitolava davvero “Vecchie storie di dame e cavalieri”,
ma, in piccolo, vi era anche scritto: “Parodie demenziali per
inguaribili bambini”. Arale gliel'ha fatto notare.
«Ah,
mannaggia alla presbiopia...» ha sbuffato lui, sedendosi di
nuovo. «Ecco perché sembravano parodie. Me
l'hanno regalato per il mio compleanno.»
«Oh,
ha compiuto gli anni?» ha voluto sapere Arale. «Tanti
auguri!»
«Sì,
un paio di settimane fa. Grazie, comunque, Norimaki.» ha
risposto, con un sospiro, come se dircelo lo avesse fatto invecchiare
di un altro paio d'anni e ora fosse troppo stanco per parlarne. «I
miei nipoti hanno pensato che mi avrebbe fatto piacere e me l'hanno
spedito. Che teneri, eh?»
«Oh,
sì, bambini davvero di cuore!» ha annuito Arale,
intenerita. Ma il sergente le ha rivolto un'occhiata smarrita.
«Bambini? No, hanno uno trenta e l'altro quasi trentasei...»
ha replicato, quasi offeso. Nessuno è riuscito a commentare di
fronte a questa dichiarazione.
Abbiamo
chiacchierato un altro po', poi ci ha lasciato studiare, soprattutto
perché è entrato il professore biondo di Fisica
Subacquea, Sark, l'uomo più spaventoso e freddo di tutto il
sistema solare e oltre, che ha chiesto “un altro paio di
occhi”, così si è espresso, per cercare un libro.
«Come
minimo glieli vuole cavare!» ci ha sussurrato Alex, allarmato,
facendomi rabbrividire. «Teniamo gli occhi aperti.»
«Io,
invece,» ha ribattuto Arale, mettendogli davanti al naso i suoi
appunti. «direi di studiare.»
«Ma
se...»
Frank
non l'ha fatto finire: «Non farà niente con noi
davanti!»
«Potrebbe
sempre ucciderci tutti per non lasciare testimoni.»
Ho
deglutito. «D-davvero?» ho domandato, guardando Arale
pieno di preoccupazione.
«Kenny,
non starlo a sentire.» ha tagliato corto lei. «Secondo
te, come li nasconde quattro cadaveri?»
Un
po' più rincuorato da questo pensiero, ho deciso di abbassare
lo sguardo sul mio quaderno. Alla fine, abbiamo studiato fino a
mezzogiorno, cimentandoci sulla Storia. Ho cercato disperatamente per
tutto il tempo di non pensare al sergente a terra, urlante, in un
lago di sangue e con le cavità oculari vuote, mentre Sark se
ne usciva tutto contento con un paio di occhi in più.
Alla
fine ognuno di noi è riuscito a ricordare tutti i nomi e
cognomi di tutti quegli astronauti. Solo io e Alex facevamo ancora un
po' di confusione ed accostavamo il nome di uno al cognome di un
altro, scambiavamo le date e trattati e loro contenuto. Ma, diciamo
che l'impegno c'era stato (non so da parte di Alex, ma da parte mia
poca, almeno finché Sark non se n'è andato, senza occhi
in più, fortunatamente!), per cui Arale, al suono della
campanella per il pranzo, ha decretato che andrà benissimo
ripassare domani.
La
mensa era più vuota di quanto lo fosse stata questa mattina e
gli unici pieni, proprio come a colazione, erano quelli dei primi e
dei secondi anni, più quello dei professori.
Ho
scorto Marquise che, vedendomi entrare, mi ha rivolto un mezzo
sorriso cortese, a cui ho risposto con un cenno della testa. Poi ho
incrociato lo sguardo cattivo di Sark e, pensando che non volevo fare
la fine che avevo previsto per il sergente, ho salutato anche lui,
solo che non mi ha risposto, anzi: è tornato a fissare il suo
piatto.
«Ma
che bello! Brodino di pollo!» ha sbuffato Arale, buttandosi a
sedere e guardando il pentolone al centro del nostro tavolo. Non si
era accorta di nulla. «Sono stufa di mangiare sempre le solite
cose.»
«Abituati!»
le ha consigliato Alex, sedendosi accanto a Frank, di fronte a noi.
«Tanto sarà lo stesso per i prossimi cinque anni. Pensa
poi se ti bocciassero...»
Frank
ha ridacchiato. «Non credo che Arale si farà mai
bocciare.»
«Adesso
non esageriamo...» ha borbottato lei, prendendomi il piatto e
cominciando a riempirlo di brodo.
Pan
è arrivata per ultima, quando ormai avevamo quasi finito il
secondo; ha grattato la sedia sul pavimento, senza alcun ritegno, mi
ha dato una gomitata, che per poco mi faceva finire addosso ad Arale
e cadere a terra, e si è servita anche lei di brodo di pollo.
In tutto questo, non ha detto una parola.
«Oh,
andiamo, Alex!» stava dicendo Arale, che non si era accorta di
nessuna delle azioni di Pan, e che stava difendendo a spada tratta
Sark, con grande scorno di noialtri. «Forse si comporta così
perché è molto timido!»
«Ma
se è un torturatore!» ha sbottato Alex, indignato.
«Altro che timido! Se quello ti becca...» si è
passato un dito sotto al collo, in un gesto tremendamente eloquente.
«Mi
sembra che noi e il sergente siamo ancora vivi!» gli ha fatto
notare Frank.
«Solo
perché non gli abbiamo pestato i piedi in nessun modo!»
Ho
deglutito, mentre rabbrividivo di paura, pensando al saluto che gli
ho rivolto prima: se l'avesse vista come un'offesa, mi avrebbe rapito
e cavato gli occhi davvero. Mi sono girato, preoccupato. Forse
speravo di poter capire dal suo sguardo assassino, se avesse
intenzione di uccidermi o meno, ma lui se ne stava seduto accanto
alla Une e mangiava con indolenza un panino. Lui non guardava né
me, né nessuno dei miei amici, ma la Une sì. Per
qualche strano motivo, aveva lo sguardo puntato sul nostro tavolo.
Ho
capito dopo perché: Pan si era messa con i piedi sulla sedia e
si dondolava su di essa, canticchiando una canzone sconcia di cui
ricordo solo le parole “cazzo”, “culo” e
“barbagianni”. Insomma, quelle che usa più spesso.
Ma, con tutte le sue stranezze, non è comunque riuscita a
togliermi dalla testa l'inquietudine che mi hanno dato le parole di
Alex.
Ho
lanciato uno sguardo ad Arale che, adesso, dimentica di Sark,
ridacchiava allegramente con Frank. Nessun altro si era accorto di
niente, a parte me, neanche Alex, che era impegnato a mangiare una
mela senza toglierle la buccia.
«Comunque,
dato che siamo stati bravi, che ne dite se oggi pomeriggio ci
grattiamo allegramente i coglioni?» ha continuato, masticando
sfacciatamente in faccia a Frank.
«Veramente
abbiamo fatto solo Storia.» gli ha fatto notare Arale.
«Ma
io sono stanco!»
La
nostra amica ha sospirato e scosso la testa. «Ti do un'ora per
riposarti.» gli ha concesso, dopo averci pensato qualche
attimo. Pan, intanto, aveva cominciato a dondolarsi sulle gambe
posteriori della sedia, continuando a cantare la strana canzone del
barbagianni.
«Un'ora?
Io ci metto un'ora solo per addormentarmi!» ha protestato Alex,
col tono di uno che ha subito una grossa ingiustizia. Ma stava
mentendo e sia io che Frank potevamo confermare che a lui bastava
posare la testa sul cuscino per cominciare a russare come un maiale.
Devo ammettere che l'ho sempre invidiato per questo.
«O
un'ora o niente.» quella era l'ultima offerta di Arale e Alex
non ha potuto accettarla perché un terribile tonfo ci ha
distolto dalla discussione. Ammetto che ci ho messo un po' per
capire, anche se le urla di Pan – sconclusionate e infarcite di
parolacce – avrebbero dovuto portarmi sulla strada giusta
immediatamente. Solo il fatto che non la vedessi più accanto a
me, ma che vedessi le sue scarpe da ginnastica vecchie e sporche, mi
ha spinto a guardare a terra, dove lei stava a gambe all'aria, il
sedere ancora incollato alla sedia rovesciata.
«Ehm...
ti... ti sei fatta male?» le ho chiesto, cautamente, non appena
l'invettiva di Pan contro la forza invisibile che l'ha fatta cadere
si era quietata. Ma la forza invisibile aveva l'aria di un ragazzino
spaurito dai corti capelli castani che la guardava con occhi
sgranati, a metà tra il mortificato e il terrorizzato. Avrei
voluto dirgli di cominciare a scappare, ma ero interdetto quasi
quanto lui per fare qualsiasi cosa che non fosse guardare Pan.
Tutta
la mensa si è messa a guardare, la Une si era addirittura
alzata e io avevo cominciato a farmela addosso.
«M...
mi dispiace.» ha balbettato il povero ragazzo. «L'ho...
urtata... per sbaglio... mi... mi dispiace davvero.»
Gli
credevo, davvero. Anche ora mi chiedo cosa mi abbia trattenuto dal
farlo scappare, troppo preso ad aggrapparmi al sedile della mia
sedia, quasi avessi avuto paura che la gravità avesse potuto
abbandonarmi da un momento all'altro, mentre anche i miei tre amici
si irrigidivano e trattenevano il respiro, in tensione.
«Secondo
te, coglione, POSSO STARE BENE?» per smentire le proprie
parole, con un balzo, la mia sorellona si è rimessa in piedi e
si è fiondata sul tavolo, rabbiosa e veloce quanto il vento.
Ha afferrato qualcosa, non sono riuscito a vedere bene, ma era una
posata e, incurante del fatto che la Une si stava dirigendo verso di
noi, l'ha puntata contro il ragazzo. E non una posata qualsiasi: un
coltello e noi, in caserma, ce li abbiamo anche belli affilati!
Atterrita,
persino la direttrice si è fermata in mezzo alla sala.
«LO
VEDI QUESTO?» per farglielo vedere meglio, ha piantato il
coltello sotto il naso di quel povero ragazzo (mi rendo adesso conto
che non so neanche come si chiama) e glielo ha premuto contro le
narici. «TE LO FICCO SU PER IL...»
«ICCIJOJJI!»
mai come in quel momento ho apprezzato le urla della Une.
Tutti
i presenti hanno trattenuto il fiato. Non so cosa mi abbia trattenuto
dall'urlare, ma ho lasciato che lo facessero le mie nocche per il
dolore; i miei polpastrelli non avevano più sensibilità
e sapevo anche che, se fossi stato forte la metà di quanto lo
è Pan, avrei spaccato la sedia. Ero sicuro che il coltello ben
presto sarebbe finito nella carne di quel poveretto e nella mia
testa si era già formata una sequenza confusa di immagini in
cui lo vedevo a terra, in una pozza di sangue, mentre gli insegnanti
correvano di qua e di là per cercare di tamponare le ferite.
Per un folle attimo, mi sono visto in un cimitero in mezzo a gente
vestita di nero, ma è stato un secondo, prima che i vetri che
stanno sulla parte alta delle mura della sala mensa tremassero,
quando la Une ha urlato e si è gettata come una leonessa su
Pan. Mi ero aspettato una lotta all'ultimo sangue. Ero pronto a tutto
quello che avevo pensato, stavolta riferito alla Une, ma mia sorella
si è limitata solo a spingerla via, lasciandole il coltello,
come un segno di resa o, forse, per far sì che fosse lei a
dare al ragazzo la punizione che meritava, secondo lei.
Intorno
a noi, tutto era silenzio; il ragazzino è scappato via dalla
mensa, per andare in bagno, secondo me. Eravamo immobili esattamente
come la Une, le cui palpebre non si muovevano e i cui occhi erano
vacui e sgranati. Ho avuto paura che il suo cuore si fosse fermato,
tanto quanto ero sicuro che il mio stesse battendo così
ferocemente da farmi perdere il respiro.
Persino
l'aria sembrava essersi bloccata, atterrita. Pan stessa era
completamente annichilita, il che è tutto dire. E anche Sark,
ma la cosa non mi dispiaceva più di tanto.
Ma
è stato solo un secondo, prima che il grido esplodesse potente
dalla bocca della Une, il cui viso si era contratto di un'espressione
di puro furore. «ICCIJOJJI!» i vetri hanno tremato di
nuovo e dalla mia bocca è uscita una illogica sequenza di
suoni, come se fossi stato io ad aver minacciato quel tipo con il
coltello. Mia sorella, invece, si è seduta, lentamente, come
se quel grido l'avesse privata delle forze. Anche lei aveva gli occhi
sgranati esattamente quanto la Une, che si muoveva come una pantera
assassina, gli occhi iniettati di sangue, verso di noi. Quando è
arrivata a destinazione, Arale e Alex si sono fatti da parte.
Guardavano la direttrice come se avessero avuto paura che potesse
tirare fuori una pistola e farci fuori tutti. Ma la Une ci ha
risparmiato: ha sbattuto il palmo di una mano sul tavolo, fissando
mia sorella con uno sguardo omicida; se quello fosse bastato, Pan si
sarebbe trovata stecchita all'istante, ma lei, si sa, ha una gran
faccia tosta e si è limitata a ricambiare lo sguardo con
tranquillità. La ammiro, sotto un certo punto di vista: se
fossi stato io al suo posto, sarei morto davvero.
«Mi
dica, Iccijojji» la Une ha parlato e la sua voce era ridotta ad
un debole sussurro di spavento. «che cosa... aveva... in...
mente?»
«Lo
stronzo mi ha fatto cadere.» ha risposto mia sorella, con
semplicità.
«Lo...
l'ha... fatta... cadere...» ha ripetuto la Une, quasi fosse
stata un robottino che doveva imparare le parole.
«Sì,
e mi sono fatta male.» ha continuato Pan, seria, mostrando il
gomito sbucciato.
Mi
aspettavo la bomba e, infatti, è arrivata poco dopo:
continuando a ripetere queste parole, sempre più velocemente,
quasi, ad ogni nuova formulazione diventassero più
comprensibili, la Une è arrivata ad un punto in cui ha detto
la frase a così alto volume che, ho avuto paura, avrebbe
fracassato la barriera del suono. «SI È FATTA MALE,
ICCIJOJJI? LE HANNO MAI INSEGNATO A CONTROLLARSI O VIVE IN MEZZO AGLI
ANIMALI? POTEVA UCCIDERE QUALCUNO!»
Pan
si è guardata intorno, quasi a disagio e la cosa mi ha molto
colpito. «Suvvia, non la faccia così tragica! Non è
morto nessuno!» ha detto, in quello che ho percepito come un
debole borbottio imbarazzato.
La
Une ha battuto un pugno sul tavolo. «E' una fortuna che non sia
successo!» ha abbassato lo sguardo, mentre tutta la sala calava
nuovamente in quel silenzio teso e spaventato. Ho trattenuto il
respiro e sentivo Frank, al mio fianco, borbottare parole che
somigliavano a “non è possibile” e “non ci
posso credere”. La Une, intanto, stava respirando pesantemente.
Sembrava una donna incinta in pieno travaglio. «Lei deve
imparare a conoscere la pericolosità dei coltelli e l'unico
modo che conosco per riuscirci è farglieli maneggiare!»
ha dichiarato, tornando a guardare Pan. Avrei voluto protestare, ma
non ne ho avuto il coraggio: farglieli maneggiare? E che diavolo
aveva fatto fino a quel momento?!
Comunque
fosse, il suo tono di voce era tornato quello di sempre, rigido e
freddo. Un grande cambiamento, ma era qualcosa che potevo sopportare:
non riuscivo a guardare la Une in quello stato isterico. «Passerà
il resto del semestre in cucina col cuoco. A partire da stasera!»
ha dichiarato.
Pan
è sbiancata. Sì, sono sicuro che sia successo,
altrimenti ho avuto le allucinazioni. Ma non è stata l'unica
ad avere una reazione simile: pure Arale era fuori di sé e i
suoi occhi sgranati lo dimostravano in pieno. Gli altri ragazzi,
anche agli altri tavoli, si scambiavano delle occhiate allucinate,
alcuni erano riusciti a trovare la forza di conversare con gli altri.
«Che ha detto?» ha balbettato mia sorella, disgustata.
«Mi
ha sentito. E, ogni giorno, vorrò dei rapporti dettagliati da
lei, sulle potenzialità pericolose di ogni singolo coltello. È
chiaro?»
Pan
ha corrugato la fronte. «Non mi espellerà?» ha
chiesto. Sembrava triste e non capisco perché, sinceramente,
pensando alla mamma ed alla sua ormai famosa promessa.
La
Une, comunque, in barba a tutto questo, si è portata in
posizione eretta ed ha intrecciato le mani dietro la schiena, mentre
le restituiva uno sguardo grave.
«Se
lo facessi, vorrebbe dire che sono venuta meno ai miei doveri. Se lo
meriterebbe, mi creda. Ma questa scuola ha, da sempre, forgiato i
caratteri più duri. E creda anche a questo...» ha creato
una pausa, con un sospiro. «riuscirò a forgiare anche il
suo!» lo ha detto, come se quella fosse stata la sua missione
personale.
«Ne
dubito.» è stato il commento di Arale, quando, a pranzo
finito, tornavamo in biblioteca. La Une ha concluso che avrebbe
chiamato i nostri genitori e poi ha lasciato la sala nel più
completo sgomento: il suo discorso ha sconvolto tutti, non solo me e,
almeno su questo, mi sono consolato.
«E
perché?» ha voluto sapere Alex, che camminava dietro di
noi.
«Credo
sia perché Pan ha la strada spianata per il riformatorio...»
è stato il commento di Frank che, accorgendosi di cosa aveva
detto, si è messo una mano sulla bocca, prima di guardarmi con
cautela. «Scusa, Ken...»
Gli
ho detto di non preoccuparsi: a dire la verità, credo che
abbia ragione e che anch'io, inconsciamente, l'abbia sempre pensato.
L'ho vista lanciare di peso un professore e attentare alla vita di un
ragazzino perché, involontariamente, l'ha fatta cadere. Dopo
questo, credo che sarà una sorvegliata speciale e, forse,
anche il suo curriculum verrà macchiato in modo permanente.
Non basteranno tutti i solventi del mondo per riuscire a far sbiadire
questo crimine. Ed è stata quest'ombra che mi ha lasciato
distratto per tutto il resto della giornata di studio.
È
stato orribile immaginare i vari modi in cui la mamma potrebbe
prendere questa faccenda. Magari urlerebbe addosso alla Une, magari
per darle ragione. Riuscivo a vederla scendere dalla macchina rosa,
mentre prendeva Pan per i capelli, la scuoteva urlando qualcosa del
tipo “delinquente patentata! Ora ti porto a raccogliere
pannocchie a vita! Anzi: ti mando al riformatorio, dove devono stare
gli avanzi di galera come te!”.
Il
solo pensiero di avere una sorella galeotta mi ha perseguitato e,
tuttora, non sono proprio contento di immaginarmela dietro delle
sbarre di ferro. Però, poi, mi sono detto: se la Une riesce a
forgiare il suo carattere – qualsiasi cosa abbia voluto dire –
forse potrà rimanerne fuori.
«Ma
non è detto che ci riesca.» ha commentato Arale, quando
abbiamo preso una pausa, verso le cinque e mezza.
«No,
infatti.» ha confermato Alex. «Metti Howard James, che lo
teniamo solo perché suo padre è un pezzo grosso!»
Ho
picchiato il libro di matematica con la penna. «Mio padre non è
un pezzo grosso...» ho borbottato, prima di sospirare
disperatamente.
«Forse,
Kenny, ma la Une non mi sembra il tipo che molla facilmente.»
Frank mi ha posato una mano sulla spalla e mi ha sorriso,
incoraggiante. L'ho guardato, cercando in lui quella sicurezza che io
non avevo.
«Secondo
te... ce la farà? Insomma, le eviterà la prigione?»
Lui
ha sorriso, mentre Alex rideva apertamente. «Io ce la vedo.»
ha ammesso. «Sarebbe un bel capetto, in quel postaccio. Io ci
sono finito una volta, ma...»
Lo
abbiamo guardato tutti con tanto d'occhi. Arale aveva la bocca
spalancata. «Dove sei finito?» gli ha chiesto. Alex ha
tossicchiato. Mi è sembrato molto in imbarazzo.
«Beh,
è stato tempo fa.» ha tagliato corto.
«Alex,
ma... hai tredici anni!» gli ha fatto notare la nostra amica,
indignata. «Perché...»
Il
difetto di Arale, secondo me, è che quando si fissa su una
cosa, andrebbe avanti per giorni finché non ottiene quello che
vuole e si vedeva chiaramente che Alex si sentiva a disagio a
parlarne. Anche io ero piuttosto sorpreso di scoprirlo e già
pensavo a cosa avrebbe detto la mamma, una volta che anche lei avesse
appurato che uno di quelli con cui passo più tempo è un
ex-galeotto.
«Ho
quattordici anni, veramente.» le ha fatto notare il mio amico.
«E' successo prima che entrassi in caserma, ma non voglio
parlarne.»
Così
ha liquidato il discorso, ma Arale non voleva mollare. Ha aperto la
bocca per replicare, però stavolta è stato Frank ad
intervenire in favore di Alex, che si stava davvero accigliando. «Ora
basta. Se ha detto che non vuole parlarne, non dobbiamo costringerlo,
ti pare?»
«Ma...»
«Basta,
Arale!» ha sbottato Alex. «Non rompere i coglioni!»
E'
stato abbastanza triste vedere la nostra amica abbassare il capo,
mortificata. Da una parte mi è dispiaciuto davvero per lei,
dall'altra... capisco il punto di vista di Alex: sono cose personali,
anche se anche io mi sto rodendo di curiosità. Eppure non ho
proprio il coraggio di chiederglielo e non credo neanche di essere
abbastanza amico suo, per poter pretendere che mi faccia una simile
confidenza. A dire il vero, non sono neanche tanto sicuro di volerlo
sapere.
*****
Eccomi
tornata, ad un mese esatto dalla precedente pubblicazione. Mi sono
autoimposta di rispettare le scadenze, stavolta, altrimenti campa
cavallo! XD
Prof:
hai riso davvero? *.* Per quanto riguarda la Noin... beh, c'è
un motivo (non molto nobile) per cui è così: quando
nacque questa storia, correva l'anno 2001 o giù di lì
e, dato che non riuscivo a sopportarla (mentre adoravo la Une, quasi
tutti i cattivi e Heero), le detti questa parte ben poco IC. Da
allora non ho mai pensato di cambiarla e non mi è manco
passato per la testa. XD Quindi, per adesso, non c'è una vera
motivazione per cui è mezza muta, ma forse gliela troverò
in futuro. XD Una versione molto meno ricca di questa storia esiste,
una versione che non comprende i primi due anni di Kenny in caserma
(appartenenti ad una versione ancora più vecchia ed
inutilizzabile) che sto riscrivendo in toto, quindi... tutto è
possibile!
Infine
ringrazio NemoTheNameless
per aver deciso di seguire questa storiella.
Prossimo
capitolo tra un mese, sempre che non mi ubriachi di spumante. XD Ne
approfitto per augurarvi Buone Feste!
Luine.
|
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Capitolo 10 *** Arale Holmes ***
Le
lezioni al primo anno
Arale
Holmes
|
12
Novembre
«Insomma,
tu non sei curioso?» mi
ha chiesto Arale, quest'oggi, a pranzo. Ci siamo ritrovati da soli,
perché Alex e Frank avevano deciso di dare quattro tiri al
pallone. In realta, avevano invitato anche me, ma ho preferito andare
a mangiare. Ora so che è stata una pessima idea.
«Di
cosa?» ho alzato lo sguardo su di lei, per non dover guardare
le polpettine di carne cruda che Pan ci aveva propinato. Lei era
qualche sedia più in là, coi capelli sporchi di sugo e
niente davanti.
«Non
mangi i tuoi... manicaretti?» le ha chiesto Tai Yagami,
sarcastico.
«FATTI
I CAZZI TUOI!» ha abbaiato lei, tornando a guardare in cagnesco
il suo piatto vuoto. Non ha preso molto bene la sua punizione e,
l'altra sera, in camerata, ha sbraitato un sacco contro la Une, tutti
i suoi parenti in vita e pure contro i morti.
Arale,
intanto, mi lanciava uno sguardo rabbioso. «Parlo di Alex e del
perché è stato in riformatorio!» ha riassunto in
modo egregio. A quel punto, non ho potuto fare altro che riabbassare
lo sguardo. È stato solo un peccato non poter riempire la
bocca col macinato che troneggiava nel piatto.
«Cosa?!»
la voce penetrante ed acuta di Bra ha rischiato di perforarmi le
orecchie e mi ha fatto sobbalzare. Era appena arrivata ed esibiva
un'espressione inebetita sul volto, mentre le sue amiche, Sora e
Mimi, che la seguono dovunque, guardavano da me ad Arale con occhi
sgranati e decisamente disgustati, come se fossimo stati ricoperti di
letame. «Ramazza è stato in galera?» Bra ci ha
guardato con quella stessa espressione. «Dovevo proprio
aspettarmelo... ehi, Burton, hai sentito?»
Trowa
ha alzato gli occhi dalla sua insalata.
Ho
cominciato a pensare che volesse diventare vegetariano, vedendogli
fare quell'espressione disperata rivolta alle polpettine crude.
«Cosa?»
ha chiesto, però, piuttosto annoiato.
«Alex
Ramazza è un delinquente!» ha detto Bra, come se avesse
dovuto indovinarlo da solo.
«Alex
non è un delinquente!» mi è scappato e Trowa è
tornato semplicemente a farsi gli affari propri.
Bra
ha ridacchiato, portandosi indietro i capelli. «Ah, no? Pensi
davvero che non lo sia, uno che è stato in riformatorio?
Guarda che l'ha detto la tua amica Norimaki, non me lo sto inventando
io!»
Mi
ha rivolto uno sguardo trionfante, quando ha visto che non ero capace
di difendere il mio amico. Non avrei neanche saputo come fare!
Insomma, l'aveva detto lui stesso di essere stato in carcere!
Senza
dire nient'altro, intanto, Bra si è andata a sedere al posto
che occupa di solito, dall'altra parte del tavolo, in mezzo alle
altre due, mentre Arale scoccava loro un'occhiata carica di
disapprovazione.
«Beh,
devi ammettere che ha ragione...» mi ha fatto notare la mia
amica, distogliendo l'attenzione da loro. «Insomma, non sarebbe
stato in riformatorio, se fosse stato innocente.»
Non
so perché, ma mi dispiaceva davvero sentirla parlare così
e mi ha anche un po' infastidito: lei ha sempre passato molto tempo
con Alex, esattamente come me e Frank, eppure era già pronta a
condannarlo. «Potrebbe anche essere stato messo in mezzo a
qualcosa di più grande di lui, no?» le ho fatto notare.
Lei mi ha risposto con un cenno condiscendente della testa, cosa che
mi ha fatto arrabbiare. «Non puoi credere che...»
«Ti
ricordi che cos'ha detto il primo giorno?» mi ha chiesto,
picchiettando la punta del dito sulla superficie liscia del tavolo.
Ho scosso la testa e, quando me l'ha detto, mi sono rammentato di
dover rileggere più spesso ciò che scrivo. «Ha
detto che voleva rubare l'impianto stereo di mio fratello. E ha anche
aggiunto di essere un vero ladro; è favorevole al contrabbando
e tiene la contabilità dei traffici di Yuy e...» si è
fermata e guardata intorno, come se qualcuno fosse stato nei paraggi
e stesse origliando. «E poi fuma.»
Lo
ha detto come se fosse il crimine peggiore che una persona potesse
compiere. Non avevo mai pensato ad Alex come ad una cattiva persona
solo perché fuma. Evidentemente, per Arale è diverso.
«E
allora?»
Lei
ha sospirato con fare paziente. «Kenny, fuma ed ha quattordici
anni. Per te, non significa niente?»
Ho
alzato le spalle. Sinceramente non ci avevo mai pensato e non ho
fatto molto altro che balbettare, ma, ora che ci penso, per me non
significa davvero niente.
«Che
eloquenza!» ha constatato Pan, con fredda ironia, girandosi
verso di noi.
«Tu
che ne pensi?» ha voluto sapere Arale, ignorandola. Mia sorella
ha inarcato un sopracciglio e l'ha guardata con disgusto.
«Riguardo
a cosa?»
«Alex.»
Se
devo essere sincero, ero davvero molto curioso anche io di sapere
cosa potesse dire lei a proposito del fatto che Alex si sia fatto
qualche tempo in prigione.
«Che
puzza come un caprone in decomposizione e che ha il cervello di un
sottaceto andato a male.» ha risposto, senza pensarci neanche
un attimo. Ma ad Arale non andava bene: ha alzato gli occhi,
esasperata, e non è andata di certo per il sottile, quando ha
dichiarato che voleva sapere soltanto che cosa ne pensava del fatto
che fosse stato arrestato. «Ah.» ha ribattuto Pan, senza
nessuna particolare enfasi, anzi, diciamo che sembrava che si stesse
aspettando una domanda del genere. «L'ho sempre saputo che era
un rifiuto umano.»
Sono
rimasto in silenzio. Trowa e Tai si sono scambiati un'occhiata, ma
neanche loro hanno commentato. Mimi, Bra e Sora si sono semplicemente
strette di più tra loro ed hanno cominciato a confabulare. È
stato il pranzo più squallido che abbia mai fatto e non solo
per la mancanza di cibo.
«Secondo
me, è un pezzo grosso.» ha continuato Arale, quando ci
stavamo sedendo in classe, per la lezione pomeridiana della Une.
«Chi?»
ho chiesto ancora una volta, molto stupidamente. Lei ha sbuffato.
«Alex.»
ha detto, esasperata. «Di chi sto parlando da più di
un'ora?» Almeno, mi sono detto, si rende conto di essere un
tantino ossessiva. Non mi piace parlare male degli amici, davvero, e
anche scrivere queste cose su di lei non mi fa stare in pace con me
stesso, ma non posso farne a meno. Sono arrabbiato. Questo lato di
lei mi dà un po' fastidio, ma in quel momento mi sono limitato
ad annuire. «Secondo me, fa parte della mafia.» ha
continuato.
Le
ho rivolto un'occhiata spaventata. «Mafia?» ho ripetuto
quella parola come se fosse particolarmente pericolosa solo da
pronunciare. Mi sono girato indietro, quasi mi aspettassi di vedere
un tizio che metteva una testa di cavallo sulla cattedra. Non è
colpa mia, se il film preferito della mamma è “il
Padrino”. Arale ha annuito fortemente.
«Certo.»
ha esclamato, come se la cosa avrebbe dovuto essere ovvia anche per
me. «Pensaci bene: lui non è in galera, ma qui dentro.»
Ho
fatto una smorfia preoccupata. «Giuro che non ti seguo.»
ho ammesso. Lei ha sospirato.
«Se
fosse stato un ladro di polli e fosse stato incensurato, sarebbe
finito a casa con una pacca sulle spalle.» ha dichiarato,
alzando un dito, per cominciare ad enumerare le sue varie teorie. Ho
fatto un po' di fatica a starle dietro, anche perché parlava
come un avvocato. «Se l'avesse fatto più volte, sempre
nel caso che fosse un ladro di polli, sia ben chiaro, qualsiasi
giudice lo avrebbe condannato ai suoi mesi di riformatorio. Se avesse
fatto qualcosa di più grave... non sarebbe comunque qui. E,
invece...» ha concluso con una smorfia eloquente.
Il
suo ragionamento non faceva una grinza e, quando Alex e Frank sono
entrati in classe, non sono stato l'unico a girarmi. Tutti i miei
compagni lo hanno fatto, si sono zittiti e hanno seguito Alex con lo
sguardo, fino a che non si è seduto al suo posto, vicino a
Trowa che ha stretto gli occhi in un'espressione sospettosa, ma non
ha fatto nessun tipo di commento. Alex, invece, aveva l'aria persa e
si guardava intorno confuso. Dopo un po' ha sorriso, in modo sincero,
come avrebbe fatto il solito Alex di sempre. E non ho visto proprio
un mafioso in lui.
«Che
è successo?» ha voluto sapere.
«Sei
un rifiuto umano.» ha risposto Pan, con infinito disprezzo. Se
si fosse rivolta a me con quel tono, penso che mi sarei sentito
veramente mortificato, ma Alex è abituato a queste uscite da
parte di mia sorella ed è stato per questo che, secondo me, ha
fatto finta di niente.
Mentre
la Une entrava in classe, chiedendo il silenzio, mi sono girato verso
Arale e le ho dato le mie impressioni sulla faccenda della mafia,
rischiando grosso, ma la direttrice era girata di spalle e non mi ha
visto, né sentito. Penso che sia stata la prima volta in tutta
la mia vita. Avrei festeggiato se non avessi avuto altri problemi per
la testa.
«Sono
sempre i più insospettabili i colpevoli, non lo sapevi?»
ha dichiarato la mia amica, in un sibilo che mi dava tanto
l'impressione di essere finito in uno di quei film di spionaggio che
ti fanno venire il cuore in gola. Le ho lanciato uno sguardo ancora
più preoccupato e lei ha aperto di nuovo la bocca.
«Norimaki,
ci dica, cos'ha di così interessante da raccontare?» ha
chiesto la Une, glaciale. La mia amica ha alzato gli occhi su di lei
e le ha rivolto uno sguardo tranquillo, come io non saprei fare nella
stessa situazione. La Une mi fa paura. È innegabile.
«Mi
scusi, lady Une.» ha detto Arale, senza perdere la calma. La
direttrice ha solo fatto un cenno secco con la testa, per dire che
l'avrebbe fatto. Per il resto della lezione, nessuno ha più
parlato di Alex e del suo passato in riformatorio. Ho pensato alla
mamma e a quello che avrebbe potuto dire: molto probabilmente che non
dovrei frequentarlo, anche se a me sta simpatico.
Anche
mentre stavo tornando in camerata per prendere i miei appunti di
matematica, ci ho pensato e mi sono detto che, se Alex non è
mai stato cattivo, non vedevo perché avesse dovuto cominciare
ad esserlo adesso che sapevamo che ha passato qualche tempo dietro le
sbarre.
Avrei,
oltretutto, voluto sapere come comportarmi, se essere il solito di
sempre e fare finta di niente o fare come gli altri, che hanno
cominciato a scansarlo. Per quel che riguarda Arale, è deciso:
lei non vuole più avere niente a che fare con lui. Addirittura
ha deciso di dover evitare la biblioteca, anche perché era lì
che Alex e Frank si erano messi a studiare, oggi. Quindi mi ha
trascinato in un'aula vuota, senza darmi neanche il tempo di
protestare.
«Senti,
non è per cattiveria.» ha chiarito, quando avremmo
dovuto essere concentrati sulle dimostrazioni delle derivate. «E'
che... sai, quando si stanno coi poco di buono, e se poi ti fanno i
favori...» ha fatto una smorfia. «prima o poi li
rivogliono indietro... e poi... è amico di Frank.»
Anche
questo l'ha detto come se fosse una prova incontrovertibile del fatto
che Alex faccia parte di una famiglia mafiosa. «E che c'entra?»
ho chiesto, invece, sempre più confuso.
«C'entra!»
ha ribattuto lei, con convinzione. «Perché un ragazzo
ricco e viziato, figlio di un famoso senatore e nipote del Generale
degli Eserciti Spaziali dovrebbe essere amico di un qualunque
ragazzino puzzolente, se non è un mafioso? Sai cosa penso?»
mi guardava, come se si aspettasse che io le chiedessi di andare
avanti. E l'ho fatto, divorato com'ero dalla curiosità e dalla
preoccupazione sempre crescenti. «Penso che Douglas Kushrenada
accetti soldi sporchi.»
«Co-cosa?»
è stata l'unica cosa che sono riuscito a balbettare. Arale ha
annuito di nuovo, quasi io le stessi dicendo qualcosa di innegabile.
«Sì,
altrimenti tutta questa amicizia come te la spieghi?»
«Ma
Alex non ha mai detto di essere ricco.» le ho fatto notare.
Arale
ha fatto spallucce, come se non considerasse la cosa importante. Mi
ha mostrato i palmi, quasi lassù vi fosse la verità.
«Ma non ha mai neanche detto di essere povero.»
«Ha
sempre lo stesso paio di mutande.» le ho ricordato.
«Magari
in famiglia sono tirchi.»
«E
preferiscono dare soldi agli altri?»
«Certo.»
Arale ha annuito ancora. «Perché sa che Kushrenada è
un buon investimento.»
Ho
scosso la testa. Non sapevo cosa pensare, ero confuso più che
mai: Alex poteva essere un esponente della mafia e non solo, il padre
di Frank avrebbe anche aver accettato soldi sporchi da quello di
Alex. Ora che lo scrivo, mi sembra assurdo, ma in quel momento ero
fuori di me dal terrore. «Ma la Une... lo sa?» ho
chiesto, infatti.
Arale
si è guardata intorno. Ho avuto come l'impressione che
cercasse microfoni nascosti o agenti segreti in impermeabile nero e
cappello a tesa larga. Con la stessa impressione di essere spiato, ho
cominciato ad imitarla.
«Secondo
me,» ha continuato la mia amica, quando è stata sicura
che non ci fosse nessun altro. «dobbiamo indagare per conto
nostro.»
Lo
stomaco mi si è contratto. «Che cosa?»
«Dobbiamo
andare in fondo a questa faccenda.» ha ripreso lei, puntandomi
un dito contro. «Forse Kushrenada non sa di essere in combutta
con un mafioso. Dobbiamo inchiodarlo...» ha sbattuto un pugno
sul palmo della mano, producendo un sonoro schiocco che mi ha fatto
sussultare. «E mandarlo in galera!»
13
Novembre
Le
nostre indagini sono cominciate subito dopo colazione. Avevamo il
Salvini e questo ci ha dato un enorme aiuto, dato che, in palestra,
possiamo fare praticamente tutto quello che vogliamo. Ci siamo
sistemati in un angolino della palestra e Arale teneva un taccuino
tra le mani e una penna dietro l'orecchio destro.
«Allora,»
ha esordito con fare professionale, tanto che io mi sono di nuovo
guardato intorno. Gli altri ragazzi stavano giocando a basket e Frank
stava andando a canestro con agilità. Ha messo la palla nel
cesto e non ho potuto fare a meno di applaudire, contento, prima che
Arale mi distogliesse da quello stringendomi il mento tra le mani e
costringendo la mia testa a girarsi verso di lei. «la prima
cosa da fare è porre delle domande ai testimoni.»
«Te-testimoni?»
ho ripetuto, perplesso. Sinceramente non capivo dove potesse trovare
dei testimoni (di cosa?), ma lei ha annuito convinta.
«Oh,
sì. Ce ne sono un paio molto interessanti, anzi, tre.»
ha riposto, scrivendo i nomi nella sua calligrafia precisa: lady Une,
Frank e Treiz. Ho fatto una smorfia, dubbioso.
«E
come fai a chiamare il Generale? Nessuno ci permetterà mai di
prenderci il suo numero personale!»
Lei
mi ha aggrottato la fronte. Mi guardava come se avessi detto qualcosa
di particolarmente strano, ma a me sembrava logico: se avessimo detto
a qualcuno che volevamo indagare su Alex e che Treiz poteva saperne
qualcosa, ci avrebbero detto di non scassare, figuriamoci poi se non
davamo nessuna spiegazione.
«Kenny,
non è questo il problema.» mi ha spiegato Arale,
paziente.
«E
allora qual è?»
Lei
ha sospirato ed ha ripassato la 'a' di lady. Ha lasciato passare
diversi secondi, durante i quali Trowa ha sfilato la palla da sotto
il naso di un alquanto affaticato Matt Ishida ed ha fatto canestro,
facendo sollevare le proteste della squadra di Frank per gioco
scorretto.
«Il
problema è che, anche se riuscissimo a chiamarlo,» ha
continuato Arale, senza riuscire a distogliermi da un fatto molto
importante: Alex era in disparte e non giocava con gli altri. E' da
ieri che sono tutti particolarmente freddi e schivi con lui. Anche
stamattina a colazione, Mimi ha voluto fare a cambio con Matt, per
non stargli vicino. Al mio amico non è importato molto, ma,
quando lo ha fatto anche Arale, l'ho visto cambiare espressione. Beh,
non riesco a biasimarlo. Credo che, anche io, nella stessa
situazione, mi stupirei nel vedere una delle persone con cui passo
più tempo comportarsi in questo modo. «non ci
rivelerebbe niente.»
«Oh,
e perché?» la ascoltavo solo a metà. Frank ha
richiamato Alex che, con un sorriso, è entrato in squadra, ma
nessuno gli ha passato la palla ed ha cercato di tenersi lontano,
anche se erano della sua squadra!
Arale
ha di nuovo sospirato. «Perché negherebbe!»
«E
allora perché l'hai messo nella lista?»
«Perché
possiamo arrivare a lui, tramite altri.»
«Ah,
sì?»
Lei
ha annuito. «La Johnson, per esempio!»
Ho
distolto lo sguardo da quella strana e squallida partita. Alex aveva
cominciato a camminare svogliatamente su e giù per il campo,
scontento, anche se Frank era l'unico che cercava di coinvolgerlo di
più.
«La
Johnson? Che cosa ne può sapere di Alex? E che legami ha col
Generale?»
«Lei
e Alex hanno un rapporto abbastanza stretto. Con il Generale non so
se abbia davvero dei legami, ma... magari sa qualcosa di qualcuno che
potrebbe portarci a lui. Nei film succede sempre!» era convinta
di quel che diceva e io non ce l'ho fatta a farle sapere che, i film,
non sempre corrispondono alla realtà. «Poi c'è
Heero, con cui intrattiene rapporti... illegali. Poi ci sono i suoi
ex compagni di classe, di ben due anni!» ha elencato,
appuntandosi ognuno di loro ogni volta che li nominava. «Abbiamo
una lista ben nutrita.»
«Non
credo che...»
Ha
strappato il foglietto e ne ha fatto un altro, che mi messo sotto il
naso, zittendomi. «Interroga questi, dopo le lezioni,
d'accordo?» Sul foglietto c'erano tre nomi: infermiera Johnson,
Heero Yuy, Ernesto Taylor (secondo anno corso B). «Io penserò
a Hopkins, Frank e la Une... considerati i vostri rapporti, è
meglio che vada io...» Ho guardato il foglietto e Arale. Ero
appena entrato in un poliziesco, non c'era altra spiegazione. Cioè...
io credevo scherzasse, quando diceva che voleva indagare! Dovevo
avere una faccia stranita, perché lei ha arricciato le labbra.
«Andiamo, Kenny, dov'è il problema? Sono solo domande!»
«Ma...»
ho guardato di nuovo quei tre nomi. «Ecco... che cosa dovrei
chiedergli?»
«Che
cosa sanno di Alex. Annota tutto, pure le facce che fanno.»
Ora
io ne stavo facendo una molto preoccupata, dato che mi
immaginavo di entrare in infermeria con un quaderno e una penna,
oltre all'impermeabile lungo e il sigaro. Lei ha sospirato.
«Non
hai ancora capito?»
«Ehm...
no, cioè... chi è Ernesto Taylor?»
Arale
si è messa le mani in grembo ed ha messo su un'aria saputa.
«Te lo ricordi quel ragazzo che Alex ha salutato il primo
giorno?»
Ho
inarcato un sopracciglio e storto le labbra. «Chi?»
Lei
ha sollevato di nuovo gli occhi al cielo, quasi avesse avuto bisogno
di una buona dose di pazienza. «Ernesto era suo compagno di
classe, l'anno scorso. È quel tipo bassino, con i denti
sporgenti, bruttino...»
Non
ricordavo nessuno con questa descrizione.
Ho
scosso la testa, mostrando tutto il mio rammarico. Mi dispiaceva
davvero, anche perché lei sembrava tenerci molto. Così,
per non deluderla, le ho promesso che l'avrei cercato e interrogato.
Solo che non volevo davvero andare da nessuno per interrogarlo, tanto
meno da uno sconosciuto per fare strane domande come “quand'è
l'ultima volta che ha visto Alex?”.
Ma,
dato che ogni promesso è un debito, ho trattenuto il respiro e
mi sono buttato a capofitto nella mia missione.
Dopo
le lezioni pomeridiane, mi sono avviato verso l'infermeria con tutta
la borsa, in questo modo avrei avuto la scusa per avere dietro sia un
quaderno che una penna. Mi arrovellavo il cervello, cercando il
momento adatto per prenderli e, alla fine, mentre bussavo, ho deciso
che sarei andato a memoria.
Anche
il fatto di bussare, in un'infermeria, è davvero la cosa più
scema da fare, per questo sono entrato, titubante e in punta di
piedi, quasi fossi stato un ladro. Ero così preoccupato che
farlo mi ha dato almeno un po' di sicurezza.
I
letti erano tutti vuoti, tranne uno, ma era nascosto da un paravento
e non ho potuto vedere chi ci era steso.
«Ehm...
infermeria?» l'ho chiamata. Anche la mia voce mi sembrava
strana e avevo una gran voglia di scappare via e di lasciar perdere.
Mi sembrava un'idiozia, soprattutto pensando che dopo dovevo andare
da Heero e cercare questo Ernesto Taylor che non avevo neanche idea
di come fosse fatto.
«Un
attimo!» ha risposto la Johnson, da dietro il paravento. Ho
preso una sedia di ferro che, di solito, usano Arale, Alex e Frank,
quando vengono a trovarmi, dopo che la mia sorellona usa il suo
entusiasmo su di me.
Quando
la Johnson è spuntata da dietro il paravento, si stava
sistemando lo stetoscopio dietro il collo, ma, vedendomi, si è
bloccata.
«Ti
ha picchiato di nuovo?» mi ha chiesto, allarmata.
«Chi?»
ho ribattuto, educatamente, inclinando la testa da una parte. Lei ha
corrugato la fronte e si è subito rilassata.
«Allora
perché sei qui?»
Ho
deciso di andare subito al sodo, anche perché non sapevo come
iniziare. «Ehm... Arale vuole che la interroghi.» Lei mi
ha guardato come se fossi impazzito. Mi rendevo conto benissimo che
la mia richiesta era alquanto assurda.
«Interrogarmi?»
ha ripetuto, lentamente, come se dovesse cercare quella parola sul
suo vocabolario mentale. Poi ha inclinato la testa anche lei,
improvvisamente incuriosita. «Su cosa?» ha voluto sapere.
«Su...
ehm...» ho deglutito. «Su Alex.»
Lei
ha inarcato un sopracciglio e si è fatta molto sospettosa.
«Alex.» ha ripetuto, come per chiedere conferma.
«Alex
Ramazza.» ho precisato.
Si
è avviata verso di me, scrutandomi. Arale ha subito detto,
quando gliel'ho raccontato, che è stato un comportamento
sospetto, ma a me sembrava la solita infermiera di sempre che reagiva
in modo piuttosto normale ad una richiesta piuttosto strana.
«E
cosa vorrebbe sapere... Arale... su Alex?»
«Beh,
ecco... non lo so bene. Credo che si tratti di qualcosa che riguarda
il riformatorio.»
L'infermiera
ha chiuso gli occhi e poi li ha riaperti, il tutto contraendo il viso
in una smorfia carica del più autentico stupore. «Alex è
stato in riformatorio?»
Ho
annuito. «Così ha detto lui.»
«E
io che c'entro?»
«Beh,
Arale pensa che lei possa sapere qualcosa.»
«E
perché?»
Mi
sono grattato la nuca, a disagio. «Magari...» ho
borbottato. «Magari pensa che... dato che siete così in
buoni rapporti...»
«Alex
è un bravo ragazzo!» ha tagliato corto la Johnson. «E
mi piace molto: non ha peli sulla lingua, ma ogni tanto mi sembra un
po'...» non ha continuato, forse sperando che io completassi,
ma non deve aver capito che, solitamente, non sono un tipo molto
ricettivo. Le ho chiesto di spiegarmi come fosse Alex con l'aiuto
dello sguardo, ma lei si è limitata a sospirare e a scuotere
la testa. «Di' ad Arale di pensare a studiare, invece di
mandare te a farmi stupide domande.»
Mi
sono alzato: quella era la chiara fine della nostra discussione. La
Johnson si stava pure allontanando. «Ma a lei...» ho
comunque continuato. «A lei non interessa che Alex... sì,
insomma, sia stato in prigione?»
Lei
ha corrugato la fronte e non ha risposto. «Vai a studiare,
Iccijojji. Devo occuparmi dei miei malati.»
A
quel punto, non ho potuto fare molto altro che allontanarmi davvero
dall'infermeria. Arale non l'ha presa molto bene e, come ho già
detto, crede che l'infermiera sia sospetta.
«Certo
che tu...» mi ha detto, quando ci siamo ritrovati nella stessa
aula in cui aveva deciso che Alex era un mafioso. «potevi
essere più diplomatico! Per esempio: sa, infermeria Johnson,
avrei bisogno di un farmaco per il mal di testa e poi, dopo averla
ammorbidita, potevi cominciare a parlare del più e del meno e
far venir fuori così il discorso di Alex. E comunque non
dovevi parlare del riformatorio! Dovevi chiederle come lui e Frank si
sono conosciuti, per esempio, chi sono i genitori di Alex, da che
famiglia proviene... insomma, queste cose che lui non ci ha mai detto
e che dobbiamo scoprire.»
«Scusa,
Arale... ma non glielo possiamo chiedere direttamente?» ho
voluto sapere, titubante. «Insomma, mi sembra il modo migliore
per...»
«Oh,
certo! Ma poi vorrà dei favori in cambio!» ha continuato
lei, senza darmi peso.
«Per
avergli chiesto come si sono conosciuti lui e Frank?»
Lei
ha alzato gli occhi al cielo. «No, ma potrebbero sospettare le
nostre indagini. Alex cercherebbe di boicottarci!» Non ero
convinto del significato della parola “boicottare”, ma,
da come suonava, non doveva essere niente di buono. E Arale me l'ha
confermato: «Potrebbe anche ucciderci pur di riuscire a
mantenere il suo segreto. Pensaci: adesso che tu hai detto
all'infermiera che indaghiamo su di lui... siamo già in grave
pericolo! Potrebbe mandarci due amici, farci trovare una testa di
cavallo nel letto o... magari quella di tua sorella o...» è
impallidita. «Quella di mio fratello!»
L'idea
mi terrorizzava, anche se non ce lo vedevo Alex a tagliare la testa
di qualcuno. Ci vedevo di più Sark e Alex ha paura di Sark,
quindi non penso neanche che possa chiedergli di farlo per lui. Non
ho comunque potuto fare a meno di deglutire anch'io, mentre nella mia
mente si materializzava minacciosa l'immagine della testa mozzata di
mia sorella che, magari, mi guardava con una delle sue solite
espressioni truci.
Ho
scosso la testa, per cacciarmi dalla testa quella terribile visione,
ma la visione è diventata reale, quando la testa di Pan,
accompagnata da tutto il suo corpo, è entrata come una furia
in quell'aula che io e Arale credevamo sterile.
«Pan!»
l'ha salutata la mia amica, mettendo su un sorriso molto convincente,
molto di più della mia espressione che doveva essere
disinvolta, ma che, invece, era terrorizzata, soprattutto perché
mia sorella mi guardava come se fossi stato una specie di assassino o
traditore, proprio ciò che mi sentivo, nei confronti di Alex.
Che
avesse scoperto tutto e che venisse a sgridarmi, a darmi della merda?
L'idea mi ha sfiorato, ma se n'è subito andata, quando mi ha
sbattuto sul banco quattro fogli bianchi a righe ed una penna.
Ho
guardato prima loro e poi lei, chiedendole silenziosamente cosa
volesse, soprattutto quando, con un'espressione piena di pretese, si
è stretta nelle spalle.
«C'è
qualche problema?» ha continuato Arale, educatamente, forse
anche lei preoccupata per i miei stessi motivi.
«Scrivi.»
mi ha ordinato lei, ignorando la mia amica. Ho deglutito ancora una
volta. Mettere i brividi, per lei, non è una definizione che
calza, perché lei riesce in qualcosa di peggio che non so
descrivere. Mi sentivo come se mi stesse puntando contro il naso un
coltello, proprio come è successo qualche giorno fa a quel
ragazzino a mensa. Ma, con tutto ciò, ritenevo che non fosse
un paragone adeguato.
«Che...
che cosa?» ho balbettato.
«La
Une vuole quei fottuti temi sui coltelli.» mi ha spiegato,
piena di disprezzo. «Gliene devo dare quattro, entro stasera,
se no scassa i coglioni. Sono tre giorni che mi insegue, quella
troia. E dato che non so che cazzo scriverci, li farai tu.» poi
ha aggiunto, stringendo gli occhi in modo minaccioso: «E vedi
che li vuole per le otto. Alle sette e cinquantacinque ci vediamo per
le scale, tra il primo e il secondo piano.» mi ha preso i
capelli ed ha cominciato a tirarmeli. Ho provato a chiederle di
smetterla, che mi stava facendo male; persino Arale ha cominciato a
protestare, ma Pan ci ha, non ho ancora capito come, ignorati e
aggiunto, in modo che potessimo sentirla anche da sopra le nostre
parole, ma senza per questo alzare la voce: «Usa una
calligrafia decente e cerca di essere convincente.»
E'
inquietante. Mia sorella, più tempo passa, più diventa
inquietante.
Non
solo: è diventata anche più veloce del vento. Infatti,
così come è arrivata, se n'è andata e non ho
avuto la possibilità di accettare o rifiutare. Mentre mi
massaggiavo la testa, guardavo Arale che aveva uno sguardo truce
rivolto alla porta, come se fosse stata quella a chiedermi non uno,
ma ben quattro temi.
«Non
glieli fare.» mi ha consigliato.
Ho
risposto con una smorfia. «Se non glieli faccio, finisco in
infermeria fino a che campo. In confronto Matt Ishida sembrerà
sanissimo.»
«Beh,
non puoi dargliele tutte vinte.» mi ha fatto notare lei, con
disinvoltura.
Ho
afferrato la penna e le ho scoccato un'occhiata di sufficienza; c'è
tanta gente che mi ha sempre dato lo stesso consiglio e nessuno
sapeva cosa significa stare a contatto con Pan, a venire picchiati e
maltrattati senza possibilità di difendersi. Fa schifo, e io
stesso mi odio, ma ancora non riesco a trovare un modo per
impedirglielo. E, mentre cercavo qualcosa da scrivere sui coltelli,
mi sono chiesto: se non riesco neanche ad impormi su mia sorella,
sulla sua forza e sul potere che esercita su di me, come posso
trovare una motivazione per cui rimanere nell'esercito, per cui
uccidere? Il mio pensiero è andato a Zack, al Sanc Kingdom e
al principe Miliardo. Ho alzato la testa per confidarmi con Arale,
magari si sarebbe dimenticata di Alex e della mafia, ma lei si è
alzata subito e mi ha impedito di pronunciare una sola parola.
«Vado
a parlare con Hopkins.» mi ha riferito, un po' fredda.
Probabilmente si è arrabbiata perché, ancora una volta,
stavo eseguendo gli ordini di mia sorella senza fare una piega. «Ci
vediamo a cena.»
E
così mi sono ritrovato solo, con quattro fogli davanti ed una
penna. Quando ho cominciato a scrivere, sentendomi decisamente a
terra, erano più o meno le sette. Non ricordo molto bene cosa
ho scritto, non so neanche come sono riuscito a riempire tutti i
fogli in tempo per la consegna. Ricordo l'ultimo, che ho letto e
riletto finché non sono stato completamente sicuro di non aver
ripetuto troppe volte lo stesso concetto.
Oggi,
per fare contenti i miei commilitoni, ho deciso di cucinare un po' di
carne alla brace (in realtà
era molto al sangue, quasi cruda e completamente senza sale), anche
se non credo che mi sia riuscita molto bene.
È stato molto faticoso, anche perché ho
dovuto convincere il cuoco (il
che non è del tutto falso, dato che ieri sera Pan continuava a
gridare contro di lui perché “è un vero negriero
di povere Pan indifese”, ma non ha spiegato la ragione per cui
lo fosse. Diciamo che mi sono dato un po' di licenza poetica.),
ma poi mi sono messa al lavoro e, con timore, ho afferrato il
coltello più lungo, quello con la punta e un sacco di denti
seghettati (sono dovuto andare
un po' ad improvvisazione, ripensando a quei coltelli che la mamma
tiene nascosti nei ripiani più alti della cucina, tanto che
anche lei ha bisogno della scala per prenderli. Tanto li usa poco, se
non per i cenoni di Natale). Dovevo togliere tutto il
grasso dalla carne ed avevo una gran paura perché avrei potuto
tagliarmi le dita. Il coltello era lungo e ben affilato e io ci
mettevo tutta me stessa, stando attenta, insieme alla supervisione
del cuoco (a volte è troppo apprensivo), a non fare qualcosa
di male, tipo tagliarmi. Mi sarei fatta male, avrei spaventato quel
pover'uomo e poi (avevo pensato
di cancellare questo pezzo, ma poi mi sono detto che calcare un po'
la mano non avrebbe fatto male e che i miei commilitoni mi sarebbero
stati grati per averla tolta dai fornelli.) se mi fossi
fatta male, quando avrei potuto scrivere? Comunque, a parte quando
sono in cucina, non uso mai i coltelli: l'insalata la taglio in
cucina, prima di servirla. La metto nelle ciotoline che gli studenti
prendono dal tavolo self-service e che condiscono come vogliono.
Mangio poca carne ultimamente (perché
a lei piace ben cotta e ce la serve sempre cruda), quindi
uso solo le forchette e il cucchiaio se serve, tanto mi nutro bene
anche senza coltelli, che sono molto pericolosi, se non si è
esperti nel maneggiarli. Io sto imparando adesso e sono felice di
avere quest'opportunità.
Come
conclusione, vorrei esprimere un parere personale, a cui pensavo
mentre scrivevo quest'ultimo tema. Nella vita non si può fare
a meno dei coltelli: in cucina sono indispensabili, quando bisogna
affettare le cipolle, le carote, il sedano, l'insalata di cui parlavo
poco fa, o togliere il grasso dalla carne o dal pollo, così
mangiamo cibi nutrienti e sani. Non ne possiamo fare a meno, e, se
sappiamo come usarli, è anche meglio, così non
rischiamo di fare del male a noi e a chi ci sta intorno.
Soddisfatto
del mio lavoro, ho guardato l'orologio sulla parete: segnava le sette
e cinquantacinque precise. Ho preso i fogli e mi sono diretto al
pianerottolo tra il primo e il secondo piano, per il mio incontro con
Pan. Lei è arrivata addirittura dopo di me, verso le otto e
cinque, sporca di sugo (e secondo me aveva anche del pangrattato nei
capelli) e mi ha strappato di mano i fogli. Non mi ha neanche
ringraziato; ha lanciato ai temi un'occhiata distratta e poi si è
diretta al primo piano. Il tutto senza dire una sola parola.
«Ehi,
Pan...» l'ho richiamata. «Non li leggi per sapere se
vanno bene?»
Lei
ha sollevato i fogli e non si è neanche girata. «Tanto
eri un fottuto secchione a grammatica!» mi ha risposto, con
leggerezza e anche con un certa allegria. E così è
sparita nel corridoio.
In
quel momento ho avuto paura che la Une potesse capire che non era
stata lei a scrivere i temi e chi, invece, era stato il vero autore.
Già mi immaginavo a scrivere lavagne e lavagne con la frase
“non devo scrivere i temi al posto di mia sorella, non devo
scrivere temi al posto di mia sorella”, mentre Arale, alle mie
spalle, mi sorvegliava con l'aria di una che ti sta dicendo: “io
te l'avevo detto”.
Invece,
Arale era a mensa, seduta dove di solito era sistemata Bra, dalla
parte opposta rispetto a dove si trovavano Frank e Alex, che mi ha
rivolto un caloroso cenno di saluto e mi ha detto di sedersi vicino a
lui. Del tutto istintivamente, lo stavo facendo, quando Arale ha
cominciato a chiamarmi verso di lei che, sicuramente, doveva dirmi
cosa era successo con Hopkins. Sono rimasto a metà strada per
qualche secondo, guardando dall'uno all'altra, indeciso: erano i miei
amici, quelli con cui ho passato tre lunghi mesi, con cui ho
condiviso paure e perplessità. Ho riso, studiato, parlato con
loro, ma la strana immagine della testa di Pan ai piedi del mio letto
mi ha fatto di nuovo rabbrividire.
Dovevo
avere una faccia strana, perché Frank, corrugando la fronte
per scrutarmi, mi ha domandato: «Che c'è, Kenny? Va
tutto bene?»
«Ecco...
ecco...» ho balbettato, terrorizzato.
«Kenny?»
mi richiamava Arale, a voce più alta per farsi sentire da
sopra il rumore della sala, picchiettando le dita della mano destra
impazientemente sul tavolo. «Muoviti!»
Non
potevo scegliere tra i miei amici, qualsiasi cosa avesse combinato
uno di loro. Mi sembrava crudele quella discriminazione che tutti
stavano compiendo nei confronti di Alex. Lo ammiro, soprattutto
pensando che tutti i nostri compagni lo guardano con sospetto e lui
se ne sbatte altamente. Addirittura, Bra si è chinata con fare
cospiratore su Tai, fissando Alex con astio, quasi con paura, mentre
io stavo cercando una soluzione per quella situazione. È stato
quello a farmi deglutire, a rendermi così ritroso.
Se
avessi potuto, mi sarei seduto lontano da tutti loro. Ma, in quel
caso, tutti mi avrebbero chiesto cosa avevo, magari che mi stavo
facendo influenzare dalle voci che giravano per la caserma, anche per
colpa mia. E Alex avrebbe fatto bene ad odiarmi. Mi sono morso il
labbro inferiore, guardato entrambi e poi ho voltato loro le
spalle. A tutti. Arale, Frank e Alex.
E
sono andato a letto senza cena.
*****
Innanzitutto,
buon Anno a tutti!
Poi:
ce l'ho fatta! Pubblico in tempo e sono anche sobria. XD Capitoletto
"in onore" di Sherlock Holmes che, in questo periodo, è stato
anche al cinema (decisamente intrigante il film *sìsì*).
Sembra quasi fatto apposta, anche se è stata una coincidenza.
XD
Prof:
avrei dovuto essere più chiara io, riguardo a Kenny. Riguardo
al libro di parodie, avevo anche pensato di scriverci una fanfiction,
dopo che hai detto di volerlo leggere... chissà che un giorno
non riesca a farlo, se mai mi verrà l'ispirazione, ma già
stare dietro ad una fanfiction mi sfianca, figuriamoci due o più.
XD E per Alex... beh, credo che dovrai continuare a leggere. Arale
non si lascia di certo scoraggiare dalle prime difficoltà! :P
|
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Capitolo 11 *** Domande imbarazzanti ***
Le
lezioni al primo anno.
Domande
imbarazzanti.
|
14
Novembre
«Si
può sapere che diamine ti ha preso ieri sera, Kenny?» ha
voluto sapere Arale, piazzandosi accanto a me, durante
l'alzabandiera, posandosi una mano sul cuore, mentre partiva la
musica. «Dovevo parlarti di cose importantissime e tu sei
scappato come se avessi le fiamme al culo!»
Ho
fatto una smorfia e finta di cantare, così come ieri ho fatto
finta di dormire, quando sono tornati tutti dalla mensa: in questo
modo sono scampato al terzo grado già da subito. Non avrei
saputo come giustificare il mio comportamento: diciamo che non mi
sarebbe piaciuto per niente dover dire "ehi, veramente non
volevo scegliere tra i miei amici", sarebbe stato un po' come
tradirsi da soli e, dato che mi sentivo abbastanza in colpa, ho
preferito evitare la discussione.
Ero
sicuro che Arale non avrebbe capito il mio punto di vista e non
avevo, né ho un modo efficace per spiegarglielo.
«Allora?»
ha insistito lei.
«Avevo
sonno.» ho buttato lì, improvvisamente folgorato da
quella scusa banalissima. In quel momento mi sembrava la migliore che
potessi inventarmi. Ho ripreso a far finta di cantare e, teso, ho
spinto più forte la mano contro il mio petto. Batteva
parecchio forte: era per via di quella discussione, del fatto che mi
sentissi un vero verme nei confronti di Alex e, un po', anche in
quelli di Frank che, forse, era implicato in faccende losche.
«Senti,
lo capisco che tu hai paura!» mi ha detto Arale, dopo un po'.
«Ma se ci facciamo mettere i piedi in testa così, non
scopriremo mai cosa è successo. E Kushrenada, con la faccenda
dei soldi sporchi, la farà franca!» L'ho ignorata e lei
ha sbuffato, spazientita. «Kenny, non puoi fare finta di niente
per sempre! Devi affrontare la realtà dei fatti e combattere
per ciò in cui crediamo.»
«E
cioè?» ho chiesto, dubbioso.
«E
cioè la libertà e l'onestà.» ha dichiarato
lei, subito, pronta. Non ho replicato neanche a questo, decisamente
più perplesso di prima: potevo capire l'onestà, ma non
me la sentivo proprio di mettermi contro qualcuno che poteva tirarmi
il collo senza che io potessi fare qualcosa per impedirlo. Sì,
è una cosa abbastanza vigliacca, ma non posso farci niente se
tengo tanto al mio collo.
«Fai
come ti pare.» ha sbottato, irritata, quando ha visto che non
avrebbe ottenuto niente.
«Arale...
sono i nostri amici!» ho esclamato, lasciando scivolare la mano
dal petto. Subito dopo, mi sono voltato indietro, ma per fortuna, la
Une era impegnata a guardare altrove. «E... non me la sento
di... scegliere!»
«Scegliere...»
ha ripetuto Arale, solo quando ci avviavamo a colazione, come se
avesse dovuto ragionare sul significato di quella parola. Ho cercato
di mettermi il più lontano possibile da lei e da tutti gli
altri, ma non ci sono riuscito: mi seguiva come un'ombra. «Kenny,
qua non si tratta di scegliere tra me e loro... si tratta di fare ciò
che è giusto.» ha tagliato corto. «Onestà e
libertà sono le parole chiave!»
Ho
cercato di ignorarla ed ho mangiato come un animale, dato che avevo
saltato la cena. Ma qualsiasi cosa mangiassi, andava giù a
fatica, come se, invece di mettere in bocca cibo, avessi preso pezzi
di ferro e anche parecchio aguzzi. Mi sentivo un mangiatore di
chiodi, ma capivo cos'era: era la stessa angoscia che mi aveva preso
i primi giorni, prima di incontrare Marquise per le scale.
Mi
sentivo proprio come allora, solo che questo problema mi pare
insormontabile, più di quanto non fosse capire se essere un
buon soldato o meno. Ho guardato il tavolo degli insegnanti e mi sono
reso conto che Marquise non c'era. Ero sicuro, in qualche modo, che
lui mi avrebbe capito e saputo consigliare. Magari mi avrebbe detto
che quella era una delle tante prove alle quali avrei dovuto
sottopormi.
La
sua mancanza mi ha fatto sentire anche peggio, mi ha chiuso lo
stomaco e impedito di finire quel panino croccante e caldo che avevo
trangugiato fino a metà (non doveva averlo cucinato mia
sorella).
Arale,
intanto, aveva continuato a parlare di qualcosa, ma me ne sono reso
conto soltanto quando ha concluso con un perentorio: «Hai
capito?»
«Cosa?»
l'ho fissata confuso e lei ha semplicemente arricciato le labbra.
«Devi
parlare con Heero ed Ernesto Taylor.» mi ha ricordato.
«Arale...»
ho cominciato a giocare con le molliche di pane che erano cadute
sulla tovaglia, indeciso se continuare a fissare loro o lei. «Ecco...
non so se lo farò.»
«Ma
certo che lo farai!» ha esclamato, battendomi il dorso della
mano sulla spalla. «Capisco come ti senti, è normale!»
Stavolta ho davvero alzato gli occhi su di lei: non si era fatta
molti scrupoli a condannare sia Frank che Alex, ma scoprivo che aveva
i miei stessi dubbi.
Lei
ha sospirato, con fare saputo ed io sono stato più attento che
potevo: «Anche io ho paura di quel che potranno farmi, come
tutti quelli che sono stati uccisi per mafia, ma se siamo coraggiosi,
saremo ricordati come degli eroi! Onestà e...»
«Libertà.»
ho concluso, con un sospiro stanco.
Ha
riso divertita, mentre io facevo una smorfia. Non aveva capito
niente.
«Dai,
andiamo a lezione.»
Me
ne sono andato, corrucciato. Sembravo la versione maschile di mia
sorella persino a me stesso. Mi sono messo in disparte in tutte le
lezioni, a parte in quelle della Une, nelle quali sono costretto a
sedermi accanto ad Arale per cause di forza maggiore, dato che la
direttrice ci impedisce di cambiare i posti come ci va.
La
mia amica ha anche più volte tentato di coinvolgermi nelle sue
chiacchiere; mi bastava guardare la Une, scrivere qualcosa sul
quaderno mentre interrogava o girarmi dall'altra parte quando Arale
cominciava a parlare per riuscire a farla desistere. E alla fine
credo di averla fatta davvero arrabbiare, perché dopo la
lezione si è allontanata da me senza dire una sola parola.
Mi
sono sentito in colpa, ma mai come quando incrociavo lo sguardo di
Alex e mi affrettavo a distogliere il mio. Mi sentivo un vero verme,
un pessimo amico e anche una persona deprecabile perché
preferivo nascondermi ed ignorare piuttosto che discutere
apertamente. La verità è che mi spaventa molto il dover
parlare con Alex: dire quelle cose potrebbe farmi perdere la sua
amicizia e dall'altra, potrebbe essere come dice Arale e Alex, invece
di una risata, si farà venire un raptus kennycida.
Il
bisogno di confidarmi con qualcuno, a quel punto della giornata, era
diventato sempre più impellente, quasi simile a quello di
respirare. Volevo parlare con qualcuno che sapesse ascoltarmi, che
fosse neutrale. Volevo liberarmi di quel peso e far sì che il
qualcuno che mi avrebbe ascoltato mi indirizzasse nella direzione
giusta, per sapere come dovevo comportarmi. È stato così
che, durante l'ora di pranzo, invece di correre a mensa anche se
avevo una gran fame, sono andato alla ricerca di Marquise. Sono sceso
al pianoterra, dove sono affissi gli orari di tutti gli insegnanti e,
dato che sapevo quale materia insegnava lui, cioè Materiali
per la Costruzione di Macchine, mi sono fiondato sulla colonna del
mercoledì. Ho visto che aveva avuto lezione con quelli del
secondo anno corso B e che avrebbe avuto un'altra ora subito dopo
quella di pranzo.
Sono
corso nella sua aula, la 19, sperando che non fosse già sceso
a mensa. Ma anche quella era vuota, anzi, deserta.
«Ehi,
stai cercando qualcuno?» un ragazzo biondo e gli occhi azzurri
ha attirato la mia attenzione. Era un primino, anche se era più
alto di me di almeno dieci centimetri e sembrava anche più
grande. Se non sbaglio, si chiama Ryan, ma non ne sono sicuro. E' in
classe con Hermione Granger e dicono che è un secchione quasi
quanto lei, ma che alla Une non piaccia perché è uno
senza troppi peli sulla lingua. Ha anche uno strano accento, pare
americano.
«Ecco...
io... cercavo... il professore...» ho borbottato.
«Ah.
Non sei l'unico.» ha sorriso lui. «Tutti quelli delle sue
classi non l'hanno visto per tutto il giorno.»
Ho
sbattuto le palpebre, cominciando a preoccuparmi. «Sta... sta
male, per caso?»
Lui
ha fatto spallucce. «Non lo so... so solo che c'è stato
il caos per il corridoio tutta la mattina. Questo finché non è
arrivata la Une a dire che Marquise non si sarebbe presentato a
lezione. Vai a sapere...»
L'ho
ringraziato e me ne sono andato con la coda tra le gambe. Sono sceso
in cortile, al freddo di metà novembre. C'era un vento
pungente che faceva muovere le chiome degli alberi esterni alle mura
della caserma. Mai come in quel momento questo posto mi è
sembrato una prigione. I miei amici erano in guerra tra loro ed io mi
sentivo nel mezzo, incapace di prendere una decisione.
Quella
situazione era solo un altro colossale dejà vu: mi sembrava di
essere tornato indietro, a prima del mio incontro con Marquise e
dovevo scegliere da che parte stare.
Mi
sono buttato a sedere sulla scalinata d'ingresso, sconfortato. Mi
faceva schifo quel comportamento, eppure non facevo niente di diverso
da quelli che ignoravano o scansavano uno dei miei amici. Mi sembrava
di non avere nessuna scelta e l'unico che poteva aiutarmi a cercare
una soluzione sembrava irreperibile.
Poi
i miei occhi si sono spostati da soli sul terreno in terra battuta
rossa, verso il punto in cui sapevo trovarsi l'hangar 14. Mi sono
chiesto se Marquise, per caso, fosse lì e cosa sarebbe
successo se avessi percorso quei pochi metri che ci separava.
Probabilmente mi avrebbe solo mandato via: se era lì, stava
sicuramente dando una mano a sistemare i Suit e Pioggia di Fuoco.
Lui,
mi sono ricordato, è un graduato, un insegnante, un importante
pilota dell'esercito spaziale e non ha di certo tempo da sprecare per
i miei stupidi problemi. Così, sconfortato, ho semplicemente
abbassato lo sguardo, sconfitto, sulle mie scarpe sporche. Sono
rimasto così, finché una folata di vento più
forte delle altre non mi ha convinto a rifugiarmi all'interno.
Neanche
stavolta sono andato a mensa. Mi sono diretto in biblioteca senza un
motivo preciso, forse lo ritenevo l'unico posto che potesse aiutarmi
a ritrovare un po' di buonumore.
In
realtà, era deserta; persino Hopkins se n'era andato. Aveva
lasciato il suo vecchio Olivetti acceso ed un messaggio sulla sua
scrivania che recitava: "torno subito".
Mi
sono sentito più solo che mai.
Per
un attimo mi sono soffermato a guardare il nostro tavolo, quello
dove, ogni fine settimana e momento libero, con Arale, Alex e Frank
ci sedevamo per studiare. Mi è sembrato che fosse passata
un'eternità dall'ultima volta e, invece, non era stato più
tardi di sabato passato. Poco più di quattro giorni fa.
Ho
soffocato l'impulso di mettermi a piangere. Dopotutto, mi rendo
conto, non c'era neanche un vero motivo per cui dovessi farlo. Mi
sentivo sciocco e infinitamente puerile, un vero cagasotto, come
avrebbe detto Pan. Ero contento che non fosse nei paraggi. I ragazzi
non piangono, di solito... non in pubblico. Anche se non c'era
nessuno, però, mi sentivo come spiato, come se non fossi
davvero solo.
Ho
capito di essere diventato paranoico senza motivo, forse perché
ancora aleggiava in me il terrore di Sark che cercava un altro paio
di occhi.
Ho
fatto un giro nell'angusta biblioteca, guardavo i titoli dei libri
senza realmente capirli. Credo che siano inseriti negli scaffali del
tutto casualmente, ma mi aspetto questo ed altro dal vecchio
sergente. Il giro non è stato particolarmente lungo ed alla
fine mi sono ritrovato davanti alla scrivania del sergente,
illuminato dalla luce azzurrognola ed inquietante del suo Olivetti e,
seduto lì davanti, Heero Yuy.
«Iccijojji.»
ha esclamato, la fronte appena appena corrugata, quando mi ha visto.
«Ehi,
Heero... che ci fai qui?» mi sono avvicinato.
«Ehm...»
lui ha indicato il computer. «Una ricerca... per la Une. Se
cerchi Hopkins, è andato in bagno.»
Ho
annuito, ancora indeciso sul da farsi: andarmene o non andarmene?
L'orologio alla parete mi diceva che l'ora di pranzo stava finendo e
che, comunque, sarebbe stata la campanella a decidere per me.
Finché
l'immagine spettrale di Arale non ha aleggiato nella mia mente,
sentire il ticchettare veloce dei tasti premuti da Heero erano stati
una valida compagnia. Ma l'immagine di Arale mi ha fatto ricordare
che dovevo interrogare proprio il responsabile del mio piano che
stava a pochissimi passi da me, illuminato dalla luce azzurrognola di
quel vecchio Olivetti.
«Ehm...
Heero?»
Aveva
smesso di scrivere, mentre io avevo smesso di respirare, teso. «Che
c'è?» è stato allora che ha alzato la testa,
lentamente, scoccandomi un'occhiata leggermente infastidita, forse
per via della mia interruzione. Diciamo che lui non mi aiutava a dire
quello che volevo dire.
«Ehm...»
mi sono grattato la nuca, cercando il coraggio. «Hai... ehm...
saputo di Alex?»
«Sì.»
ha risposto lui, lapidario, tornando a digitare sulla tastiera. Siamo
piombati di nuovo nel silenzio e io non avevo idea di continuare:
avevo paura che, qualunque cosa avessi detto, avrei suscitato la sua
ira.
«E...
che ne pensi?»
In
effetti, è proprio quello che è successo: ha smesso di
scrivere e ha alzato gli occhi su di me. «Penso che sia una
stronzata.»
Ho
sussultato. «In... in che senso?»
«Nel
senso che parlarne non cambierà le cose.»
Mi
sono ritrovato a grattarmi nuovamente la nuca. «Che... che vuoi
dire?» ho balbettato. Lui ha sospirato e si è passato
una mano tra i capelli, sembrava, per qualche motivo, rassegnato.
«Voglio
dire che Alex rimane comunque Alex, qualunque cosa possa aver
combinato.»
Quelle
parole mi hanno colpito, perché somigliavano a quelle che ha
detto la Johnson appena qualche giorno fa, sul fatto che, per lei,
Alex rimane un bravo ragazzo.
«Ma
i mafiosi vogliono i favori indietro e... ti fanno trovare la testa
di tua sorella nel letto... o...» mi sono ritrovato a
sciorinare le convinzioni di Arale, senza un motivo particolare.
Avevo capito poco e niente di ciò che aveva voluto dirmi e
quelle parole mi sono uscite di bocca prima che avessi il tempo di
fermarmi; in più, lui mi guardava come se fossi impazzito.
«Kenny...»
mi ha chiamato per nome, e la cosa mi ha mandato ancora di più
in confusione: quella doveva essere la prima, se non una delle
rarissime volte in cui l'ha fatto. «ma che cazzo di film hai
visto?»
Film?
Perché avrei dovuto vedere un film?
«Il
Padrino?» ho chiesto, infatti, piuttosto perplesso.
«Ma
quale Padrino?»
Sembravamo
due dementi. Mia madre parla spesso di fare un "dialogo tra
sordi", ma solo in quel momento capivo cosa significasse.
Heero
ha ripreso a sospirare. «Senti, non so quanto ci sia di vero
nelle voci che sono state messe in giro... non credo nella storia
delle sparatorie e nelle altre stronzate. Alex non sarà uno
stinco di santo, ma non è né un trafficante d'armi, né
tanto meno un mafioso.»
«E
tu... come fai ad esserne sicuro?»
«Lo
conosco da molto più tempo di te.» ha risposto,
risoluto. «Parola, Iccijojji, credevo che fossi un po' più
sveglio...»
«Eh?»
Heero
ha fatto una smorfia che ritengo tuttora indecifrabile e poi ha
scosso la testa, sospirando stancamente. «Niente, niente...»
«Arale
pensa che sia invischiato in faccende di soldi sporchi.» ho
buttato lì, senza pensarci. Dopo che l'ho fatto, ho capito di
aver fatto una sciocchezza: Heero mi ha rivolto uno sguardo torvo,
molto più di quanto sarebbe stato necessario. Probabilmente,
se ne avessi parlato con lei, mi avrebbe detto che ero stato troppo
precipitoso o che lui era sospetto.
E
da come mi guardava, mi sembrava di averci azzeccato in pieno: mi
faceva paura, Heero, in quel momento, mi metteva la tremarella
addosso e già me lo immaginavo a prendere un mitra da sotto la
scrivania di Hopkins e puntarmelo addosso, dicendomi: "ora che
hai scoperto tutto, non puoi più vivere".
Mentre
pensavo alle possibilità che avevo per sbrogliarmi da quella
spinosa situazione e trovare il modo di andarmene, la porta della
biblioteca si è aperta ed io sono balzato sulla sedia. Ho
lanciato un grido di spavento, e sono saltato verso l'interno della
biblioteca, mentre Heero è rimasto pressoché
impassibile.
«Ehilà,
Iccijojji! Siamo nervosetti?» è stata la domanda allegra
del sergente, quasi quanto lo era la sua faccia. Poi, quando ha visto
che io non gli rispondevo, si è rivolto a Heero e ha fatto un
cenno verso di me. Mi sentivo come se non ci fossi. «Ma che
ha?»
«Crede
che Ramazza sia un poco di buono.» ha risposto Heero, tornando
a guardare il computer.
«Ah,
anche lui?» Hopkins ha scosso la testa e sospirato con fare
stanco. Mi sono chiesto perché. «Povero Ramazza, è
un tipo così per bene... è triste vedere che, per una
stupida voce, anche i suoi amici non si fidino più di lui...
pure la ragazzina bassa... Norimaki...» ha scosso di nuovo la
testa, stavolta davvero dispiaciuto. «E' così
simpatica... ma ha idee bizzarre, in testa. Pensa che Douglas
Kushrenada sia un esponente della mafia.»
Heero
ha alzato gli occhi su di lui, un'espressione sconcertata gli ha
deformato il volto. «D-davvero?»
«Eh...»
ha confermato il bibliotecario. Heero ha nascosto il viso tra le
mani, ma, come già un'altra volta, non ho capito se ridesse o
piangesse.
Ma
la sua reazione ha avuto il potere di farmi sentire anche peggio: ho
sempre saputo che avrei dovuto pensare anche io che era una
grandissima scemenza, eppure mi ero lasciato abbindolare dal fatto
che Alex e Frank fossero amici e che il primo sia stato in
riformatorio. Mi ha fatto spaventare e non ho pensato alla cosa più
importante: che Alex è un mio amico.
«Sergente,
a parte gli scherzi, non ha un programma per aprire gli zip?»
ha chiesto Heero, interrompendo il profondo silenzio che si era
venuto a creare.
«Mi
dispiace, ho solo solo solitari di terza categoria!» ha
ribattuto lui e ha rivolto a Heero un sorriso colpevole. «Il
Ministero mi impedisce di avere un computer un pelino più
potente. Sai com'è... i soldi che mancano. Mancano sempre e
quando c'è da tagliare, chi tagliano fuori, eh? Il povero
bibliotecario, ecco chi! Uno che di computer ci capisce quanto un
dromedario.»
Non
ho fatto in tempo a pregare che suonasse la campanella e mi desse la
scusa per allontanarmi da quel posto, che il suo suono inconfondibile
è esploso quasi a festa. Salutando a malapena, sono corso
fuori, in cerca della libertà. Avrei voluto tornare in
camerata, in barba a tutte le lezioni (oltretutto c'era educazione
fisica), ma Arale mi ha intercettato su per le scale.
«Ah,
ti ho trovato! Dov'eri?» ha chiesto, affiancandomi e seguendomi
fino al pianerottolo del secondo piano.
«In
biblioteca.»
«A
fare che?»
«Ho
parlato con Heero.»
Lei
si è illuminata. «Oh, bravo!» mi ha lodato, con un
sorriso radioso. «E che cosa hai scoperto?»
Per
esempio che eravamo pessimi amici, ma ho evitato accuratamente di
dirlo. «Ehm... non molto.» mi sono limitato a rispondere.
«E
cos'è questo... non molto?» ha insistito.
«Heero
non crede che le voci che circolano siano vere...»
«E
ci credo!» ha ribattuto lei, con convinzione. Mi sono sentito
un idiota: perché lei stessa diceva che ci credeva, quando
anche lei ha contribuito ad alimentare le voci? «Chi può
credere alla storia del falso rapimento di Kushrenada o al fatto che
Alex è il figlio segreto del senatore Douglas? Dai...»
ha scosso la testa, con indignazione. «sono supposizioni che
non reggono!»
Se
lo diceva lei ci credevo, anche perché era la prima volta che
sentivo dire che Alex è il figlio segreto di Douglas
Kushrenada. A dire la verità, non ho ancora ben chiara la
faccia di questo senatore.
«Ma
no...» ho risposto. «Parlavo delle sparatorie e della
mafia.»
«Oh,
certo... anche lui non ci può credere... sembra che nessuno ci
creda. E la cosa mi puzza assai.» si è grattata il
mento, osservando il soffitto illuminato e grigio, mugolando tra sé
e sé. «Un vero rompicapo...»
«Arale?»
l'ho chiamata, dopo che, arrivati al quarto piano, ci avviavamo verso
la nostra camerata. Non ne potevo più di sentirla borbottare
cose che non riuscivo ad intendere e che, sicuramente, portavano Alex
nella posizione di essere ancora più pericoloso di quanto non
credessimo.
«Che
c'è?»
«Perché
non lasciamo perdere?»
«Onestà
e...»
«A
parte quelle!»
«Perché
dovresti trovare un altro motivo?» ha sbuffato. «Anzi, ce
l'ho: la giustizia!» di nuovo, si è battuta il pugno sul
palmo; nei suoi occhi c'era una luce sinistra che mi ha fatto una
paura enorme. Somigliava a Pan, in uno dei suoi momenti maniacali.
«Ma...»
«Niente
ma. Adesso io e te andiamo da Ernesto Taylor e finiamo di raccogliere
informazioni.»
«Veramente...»
Non
ho potuto ribattere: la mia amica mi ha trascinato fino alla camerata
del suo anno ed è entrata senza neanche bussare. La cosa non
ha suscitato stupore, ma non in quelli che avrebbero dovuto provarlo:
in quella camerata, nella stanza dei ragazzi, insieme ad un gruppo,
in cui riconobbi anche Ernesto, c'erano Alex e Frank. Erano tutti
intorno ad un letto e, sebbene non potessi vedere cosa ci fosse nel
mezzo, vedevo che avevano tutti delle carte tra le mani.
«Oh,
Kenny, Arale!» ci ha salutati Alex, con un sorriso smagliante.
«Perché non venite a giocare con noi?»
«A
che si gioca?» ha voluto sapere lei, con una faccia tosta così
incredibile che sono arrivato a chiedermi se tutto quello che è
successo nei giorni precedenti non fosse stato altro che un brutto
sogno.
«A
poker.» ha risposto lui, orgoglioso.
«Sì,
ma fasciamo puntate piccole.» ha risposto Ernesto Taylor. A
guardarlo da vicino è ancora più brutto di quanto si
possa immaginare: non solo ha la faccia costellata di brufoli pieni
di pus, ma ha anche i denti gialli e un fiato pestilenziale. Il
fatto, poi, che li abbia sempre fuori non migliora le cose.
Ci
ho passato tutto il pomeriggio accanto, a giocare a poker e a perdere
i pochi spiccioli che mi rimanevano. Immaginavo solo cosa avrebbe
detto la Une, nel vederci sperperare il nostro denaro, piuttosto che
arricchire le nostre menti. Ho preferito non pensarci, sinceramente,
e di godermi quel momento di assoluta tranquillità insieme a
tutti i miei amici. Mi hanno dovuto insegnare le regole, ma sarebbe
stato più facile insegnarlo ad un muro e questo se le
ricorderebbe sicuramente meglio di me. Tutti gli altri giocatori,
quando buttavo via delle carte, ululavano come lupi. «Kenny,
quella dovevi tenerla!» mi dicevano sempre. L'ultima volta,
Alex ha imprecato.
«Ah...
ah, sì?»
Arale
ha annuito. «Non che ci dispiaccia che l'hai buttata, ma sai...
in questo modo perderai tutto...»
«Beh,
forse è meglio che mi ritiro, allora...» ho detto,
mogio.
«Ah,
tranquillo, ti restituiamo tutto.» mi ha consolato Frank.
«Eh,
no, Frankie!» ha ribattuto Alex, indignato. «Se io vinco,
me li prendo! Lo sai che Heero ha alzato i prezzi delle sigarette?»
«E
come mai?» ha voluto sapere Ernesto.
«Perché
quella vacca della Une ha qualche vago sentore di questi traffici, a
quanto sembra... e Heero ci gioca il culo, ogni volta. È il
prezzo del rischio!»
«E
come l'ha scoperto?» ho chiesto.
Frank
ha lanciato un'occhiataccia ad Alex. «Colpa di qualche coglione
che ha buttato il pacchetto vuoto in uno dei cestini in corridoio.»
«E
chi è stato?» ho chiesto.
Arale
ha alzato gli occhi al cielo, mentre Alex ha sbuffato.
«Io,
io sono stato! Sono io il coglione! Porca puttana... è che ho
visto una sventola del terzo anno... porcaccia la miseria, aveva due
bombe qui davanti!»
«Grazie
per la delucidazione, Alex.» ha risposto Arale, piccata.
«Non
c'è di che.»
Abbiamo
riso tutti quanti, persino Arale che, però, ogni tanto mi
lanciava degli sguardi significativi, come per dire che era tutto
calcolato o che, in quella partitella tra amici, c'era invece un giro
di soldi sporchi o qualcosa di simile.
Ci
siamo staccati da lì solo verso l'ora di cena, per scendere
tutti insieme. Gettando le carte in mezzo al tavolo, ero pronto a
lasciare la stanza e la compagnia di Ernesto, quando proprio lui mi
ha afferrato per una spalla. Arale ha notato il gesto e così
ha esortato tutti gli altri a sbrigarsi, spingendoli letteralmente
fuori dalla stanza. «Su, sbrigatevi! Ho una fame da lupi!»
«Piano,
Arale, non spingere!» ha protestato Alex.
«Tu
non hai fame?»
«Sì,
ho fame, ma hai proprio bisogno di mandarmi col culo per aria?»
«Oh,
quanto la fai lunga...»
Nel
giro di qualche secondo, io ed Ernesto eravamo soli, in piena
intimità. Mi sentivo come una specie di animale braccato. Ho
deglutito, particolarmente nervoso.
«Scenti...»
ha esordito. «Arale mi ha detto che tua sciorella ha un debole
per me.»
La
mia prima reazione è stata quella di ridergli in faccia, ma
poi mi sono trattenuto: mia sorella, che io sapessi, non aveva un
debole per nessuno e, chissà perché, ero convinto che
non potesse piacerle Ernesto. Insomma, non rientrava nei suoi canoni
di bellezza, o almeno così pensavo, dato che dice sempre che
Trunks, il figlio di Bulma e Vegeta, che è tutt'altro tipo di
ragazzo, rispetto ad Ernesto, anche se, devo dire, Trunks è
anche molto più grande. Anzi, per la verità, dice
sempre che è l'unica cosa buona che quei due siano mai stati
in grado di fare.
Mi
sono salvato in calcio d'angolo con un mezzo sorriso. «Eh?»
«Eh...
Arale mi ha detto che io le pascio. Non è incredibile?»
«Sì...
sì, abbastanza.»
Ernesto
mi ha guardato con un'espressione di educata perplessità.
«Scenti, allora... posso chiederti un favore?»
Stava
per chiedermi il modo migliore per dirle che non era il caso, che lui
amava un'altra o che non era il suo tipo. Già mi figuravo la
scena: Ernesto che cadeva a gambe all'aria, il naso sanguinante e mia
sorella di fronte a qualche corte marziale, insieme a qualche
pannocchia.
Ho
deglutito, ma ho annuito, per educazione.
Lui
sembrava soddisfatto. «Le puoi dire che sarò felisce di
passare la pauscia pranzo di domani con lei? E che, sce vuole,
posciamo shtudiare inscieme?»
Sono
letteralmente saltato sul posto gridando, cosa che mi ha garantito
un'occhiata più che stupefatta da parte sua.
La
sola idea di fare una cosa del genere mi faceva pensare a me stesso
in una bara. Ebbi l'impulso di dire di no, ma mi fermai di nuovo e
stavolta in tempo: avrei fatto la parte dello schifoso maleducato a
rifiutare così. Poteva anche non piacermi per via del suo
alito o dei suoi brufoli, ma non mi andava di essere la causa dei
mali di qualcun altro: dopo aver ammazzato me, Pan avrebbe ammazzato
pure il mandante.
«Vedi...»
mi sono grattato dietro la nuca, in imbarazzo. «Pan... è...
un po'... complicata.» ed era l'aggettivo più carino che
mi fosse venuto in mente. Insomma, non ha visto che cosa aveva voluto
fare a quel ragazzino, motivo per cui mangiavamo schifezze tutti i
giorni?
«In
che scenscio?»
«Ehm...
nel senso che... ogni tanto... picchia la gente.»
«Oh,
lo scio. È per queshto che mi piasce.»
La
mamma dice spesso che nessun uomo sano di mente chiederebbe la mano
di mia sorella, a meno che non cambi e diventi una perfetta donna di
casa, paziente, disponibile e sensibile. Ora ho un dubbio: o Ernesto
è completamente matto, oppure mia madre ha torto marcio. Ma io
propendo di più per la prima.
«Ti
prego, diglielo tu!» ha continuato. «Io sciono troppo
timido... poi, quando sono davanti ad una ragazza che mi piasce,
divento roscio e balbetto come un idiota. Ma quella è tua
sciorella. Sciono scicuro che ti ashcolterà.»
Mi
ha preso sottobraccio e, come se fossimo stati amici di vecchia data,
mi ha condotto fino alla sala mensa. Abbiamo tenuto lontano
l'argomento Pan (io non ho mai neanche accettato di parlarle), e ci
siamo concentrati sulle lezioni.
Pare
che anche per Ernesto le lezioni di Bristow siano monotone. Mi ha
raccontato che, l'anno prima, quando era al primo, si è fatto
delle dormite impressionanti. Mi ha anche confidato che per il suo
esame di fine anno non mi devo preoccupare e che Bristow dà
una mano e che non fa come la Une, che se si è titubanti su
qualcosa, ti marca ancora più stretto.
«E
come sono quelli del secondo?»
«Sciono
più cattivi, ma lo devono escere perché le materie
sciono più difficili.»
«E
Marquise?»
«Oh,
Marquish è fantashtico! Shtudiereshti sciolo la sciua materia
per come è interesciante. Sciolo che ci sciono anche le altre.
Sciono più pescianti, ma non sciono male. Il primo anno è
il più duro, poi ci fai l'abitudine.»
Sono
rincuorato solo da questo, perché per il resto...
Quando
siamo entrati nella mensa, mi ha stretto, se possibile, ancora di più
a lui. «E' belliscima!» ha sospirato. Stavo per
chiedergli chi, ma mi è bastato seguire il suo sguardo per
capire che stava davvero parlando di mia sorella, seduta di spalle al
tavolo del primo anno corso B.
Bellissima,
non è l'aggettivo che userei per mia sorella, a meno che non
debba farlo sotto una delle sue peggiori torture.
«Se...
se lo dici tu...» mi sono ritrovato a borbottare.
«Oh,
mi raccomando! Diglielo!»
E
così dicendo, mi ha lasciato andare e si è fiondato al
tavolo con i suoi compagni. Sono andato al mio e, con lo stomaco che
brontolava per la fame, mi sono seduto tra Arale e Tai Yagami, che
stava mangiando un pezzo di pane al burro. Dato che tutto quello che
c'era nei piatti degli altri era qualcosa di informe e di un
improbabile color viola, ho seguito il suo esempio.
«Allora,
che ti ha detto?» mi ha chiesto Arale, solo quando ho finito il
secondo.
«Che
gli piace Pan.» ho risposto, in un sussurro, troppo spaventato
che lei potesse sentirmi, a due posti di distanza.
«Ma
no! Io parlavo di Alex e Frank!»
«Perché
avrebbe dovuto parlarmi di...» mi sono fermato, mentre mi
tornava in mente un'informazione. Ho abbassato la voce, stando bene
attento a quello che facevano gli altri prima di continuare. Nessuno
era interessato a noi: Bra era impegnata a parlare con le altre,
Yagami parlottava con Trowa Burton dall'altra parte del tavolo, Alex
e Frank non c'erano, Pan mangiava e stava in silenzio, del tutto
incurante di quello che le accadeva intorno. «Sei stata tu a
mandarlo da me, dicendo che a Pan piace Ernesto!»
Arale
ha alzato gli occhi al cielo, esasperata. «Sì, perché
volevo che tu lo interrogassi!»
Non
credevo di aver capito. «Non sarebbe stato più facile
dirglielo e basta?»
Di
nuovo, ha mostrato esasperazione. «Kenny, ti prego... connetti
il cervello, ogni tanto.» mi ha detto. «Vedi, se gli
avessi detto che lo dovevi interrogare su Alex, non pensi che si
sarebbe insospettito e gli avrebbe detto qualcosa, che ci avrebbe
smascherati? Così ho pensato: diamogli un pretesto per
avvicinarsi a Kenny così le nostre teste staranno al sicuro
sui nostri colli!»
«Ma...
scusa... tu eri vicino a lui, oggi... perché non gliele hai
fatte tu, le domande?»
«Oh,
che suocera!» ha
sbottato lei. «Senti, Kenny, se tu vuoi fare il cagasotto a
vita, fai pure. Non vuoi partecipare alle indagini? Bene! Continuo da
sola! Stai pure con i tuoi amici mafiosi!» e così
dicendo si è presa un altro panino e l'ha trangugiato. Ho
abbassato lo sguardo, sentendomi un bel po' in colpa: quello poteva
essere considerato l'ennesimo tradimento ad un amico?
Arale
sembra pensarlo, perché non mi ha parlato per tutto il resto
della sera.
*****
Aggiorno
con un mostruoso ritardo, ma spero che sia valsa la pena di
aspettare. La verità è che ho proprio avuto un blocco
mostruoso con questa storia e solo stasera mi è venuta voglia
di riprenderla e di completare questo capitolo, già a buon
punto da diversi mesi.
Prof:
spero che la mia fedelissima commentatrice non abbia perso le
speranze! XD Come ho già detto, ho avuto qualche difficoltà
a completare il capitolo, ma spero che ti sia piaciuto ugualmente.
Non esitare a farmi notare errori e imprecisioni, anche di trama. >.<
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Capitolo 12 *** Non c'è mai un attimo di tregua ***
Le
lezioni al primo anno
Non c'è mai un attimo di tregua
|
24
Novembre
Arale
non mi ha parlato per tutto il resto della sera e pure per tutti i
giorni successivi. Ormai sono dieci giorni che non mi calcola neanche
di striscio; ci incrociamo di fronte ai bagni e gira la testa
dall'altra parte, ci vediamo a lezione e comincia a fischiettare o a
cantare oppure si inserisce in conversazioni che fino ad un attimo
prima non le erano minimamente interessate. Sembra fare di tutto per
evitare me, Alex e Frank, con i quali ho riallacciato i rapporti.
Con
loro, mi dispiace ammetterlo, mi trovo meglio, non perché
Arale sia antipatica, ma perché evito di pensare a cose strane
come mafia e soldi sporchi. Più guardo Frank e Alex e meno mi
sembrano i tipi che farebbero cose del genere; sono ragazzi
simpatici, con cui si può fare una risata e parlare di
qualunque cosa senza preoccuparsi di passare per scemo. Nessuno di
loro due mi rinfaccia mai di essere poco perspicace o mi dice di
stare attento a questo o a quello; da quando sono con loro, mi sembra
di vivere meglio, anche perché non mi sento costretto a
nascondermi o a dovermi vergognare come un ladro, parlando male di
altri miei amici; anche se ci stavo male perché non eravamo
tutti insieme, non dovevo nascondermi come un ladro, in preda alla
paura.
Mi
sembra che tutte le congetture fatte da Arale siano così
strampalate, che mi sono ritrovato a riderne anch'io, nel buio della
mia mente: non mi è sembrato giusto rivelarlo ai ragazzi che
poi se la sarebbero sicuramente presa con lei. Non mi andava che ci
fossero altre inimicizie e crepe, più di quelle che si erano
formate.
Arale,
adesso, cerca maggiormente la compagnia di Trowa Burton, o di Heero
Yuy, ma loro non le danno molta corda e lei se ne va scornata. Mi
dispiace e vorrei anche sedermi vicino a lei, ma l'ultima volta che
ci ho provato, lei è scattata in piedi e se n'è andata.
Frank,
quando ne ho parlato, si è stretto nelle spalle e si è
accigliato. «E' lei ad aver spalato merda su Alex, la maggior
parte delle volte! Che se ne stia dove vuole!»
Non
so come lo abbia scoperto e non gliel'ho chiesto. Mi sono vergognato
come un ladro, però: come aveva scoperto di lei, avrebbe
potuto scoprire che anche io avevo fatto delle indagini per lei e
così, senza quasi accorgermene, ho vuotato il sacco. Tutte le
congetture, i vari inseguimenti, Ernesto, la Johnson, Heero, il
Sergente. Tutto.
A
proposito di Ernesto, mi ha fermato, qualche giorno fa.
«Ehi,
sciao. Che ti ha detto Phan?»
Ci
ho messo un po' a capire che "Phan" era mia sorella. Non mi
sembrava che l'altra volta l'avesse chiamata così, a causa dei
suoi dentoni sporgenti.
«Le
hai pharlato?»
«Ehm...»
ho optato per una bugia e non so neanche come mi sia uscita, al
momento giusto. Chissà come mai non mi riesca mai quando mi
trovo faccia a faccia con le autorità. «Sì, beh,
sai... in questo periodo, con la cucina, lo studio e tutto il resto.
Mi ha detto... mi ha detto che... finché non sarà
passato, che è meglio... evitare... sì, evitare... di
pensare al, ehm, amore.»
Ernesto
mi è parso deluso, ma poi mi ha abbracciato e mi ha detto:
«Grazie, davvero, scei un amico. Quando il periodo sciarà
pasciato, glielo ricorderai, vero?»
Ho
annuito, ma avevo già deciso con me stesso che avrei fatto
finta di dimenticarmene.
Ma
non dovevo parlare di questo. Dicevo di Arale e del fatto che avessi
vuotato il sacco con Alex e Frank che, una volta finito il mio
racconto, si è alzato di scatto dal suo letto, indignato,
strappando anche delle proteste dal moribondo Matt Ishida. Alex no.
Alex ha cominciato a ridere come un matto: si è buttato sul
suo letto e ha cominciato a scalciare via le coperte, stringendosi la
pancia.
«Alex,
la vuoi smettere?» ha chiesto Frank. «Guarda che è
una cosa seria! Ti rendi conto di quello che...» si è
interrotto, quando ha visto che Alex non accennava a smettere.
«E
così è stata lei a mettere in giro quella meravigliosa
stronzata sulle armi chimiche! Ah, la adoro!»
«Quali
armi chimiche?» ho chiesto. Di tutte le cose che lei aveva
detto sul suo conto, le armi chimiche mi erano nuove.
«Ah.
Non è stata lei?» Alex si è rimesso a sedere, a
gambe incrociate, togliendosi dall'occhio destro una lacrima e ancora
ridacchiando. «E allora chi è stato? Quella era davvero
speciale! Mi piacerebbe stringergli la mano, se lo incontrassi.»
Ma
non abbiamo mai scoperto chi potesse essere stato. Arale non parla e
neanche le misteriose fonti di Frank che mi ha tenuto il muso per un
paio di giorni, prima che Alex lo prendesse da parte.
«Senti,
Frankie, io non me la prenderei più di tanto. Arale
riuscirebbe a mettere nel sacco anche l'Imperatore. E poi, pensaci, è
troppo divertente!»
«Non
è divertente un corno! Ci hanno preso per mafiosi.» ha
replicato Frank, accigliato.
«Non
farla tanto lunga. Se vedono che ti incazzi, lo faranno di più.
Cavolo, se avessi saputo che veniva fuori questo casino, l'avrei
detto prima di essere stato in riformatorio! Ehi tu!» aveva
additato un ragazzino alto poco più di una sedia, anche lui
del primo anno, che era trasalito. «Lo sai che sono un
ex-galeotto?»
Il
ragazzino è scappato via strillando. Alex rideva a più
non posso. E io rimanevo sempre più perplesso.
«Frank,
dico davvero, smetti di avercela con Kenny. Siamo in caserma e credo
che la cosa migliore da fare... come diceva sempre Heero? Sì,
dice che dobbiamo essere tutti uniti. Lui lo dice per il
contrabbando, ma immagino che sia la stessa cosa. Su, stringetevi la
mano e quel che è stato è stato!» ha detto,
mettendosi tra noi in posa solenne. Anche Frank era molto impettito e
io non sapevo bene cosa fare: mi metteva in soggezione, questo devo
ammetterlo, e non riuscivo a guardarlo negli occhi per più di
un paio di secondi. Alla fine, ha sospirato.
«E
va bene.» ha ceduto. «Ci conosciamo da poco, però
sei stato leale: ci hai detto subito come stavano le cose e questo è
da apprezzare, in un amico.»
Non
sapevo cosa dire, ma sono stato felice di sentire quelle parole
uscire dalla sua bocca. Non pensavo neanche di meritarle. Ci siamo
stretti la mano e, davvero, mi sono sentito quasi in pace con me
stesso.
Se
solo Arale avesse deciso di perdonarci, sarebbe tutto andato per il
meglio, ma Frank, su questo punto, è stato irremovibile:
subito dopo aver sciolto la nostra stretta di mano, si è
rivolto ad Alex. «Non intendo perdonare quella voltafaccia,
chiaro?»
«Ah,
Frank, tu non hai proprio senso dell'umorismo!» ha sbuffato
Alex, ma non ha preteso di fare pace anche con Arale.
Credo
di aver fatto male a non dire niente, magari avrei potuto ottenere
qualcosa, ma forse avrei potuto incrinare la mia appena ritrovata
amicizia con Frank e ho evitato di tornarci su. Mi sono comunque
ripromesso che, quando le acque si fossero un po' calmate, avrei
risollevato la questione: non mi piace che il nostro piccolo gruppo
sia così diviso.
Intanto
Pan continua imperterrita a preparare piatti immangiabili.
«Invece
di migliorare, peggiora.» ha detto Alex, ieri sera, quando a
tutti i tavoli è stata servita una zuppa color puffo,
chiazzata di bianco (forse formaggio). «Forse ne ha presi un
paio, li ha scuoiati e li ha messi qui dentro... sai, ho sempre
pensato che somigliasse un po' a Gargamella...»
Al
nostro tavolo, abbiamo riso tutti, persino Arale. Sembrava tutto
tornato alla normalità, ma quando è finita l'ora di
cena, lei se n'è andata per conto suo, proprio come ha fatto
Pan a cui tutta la caserma lancia occhiatacce torve.
Studiamo
e non mangiamo. Persino la Une sembra deperita e poco reattiva, tanto
che non si accorge che sono spesso distratto. Non è colpa sua,
come per Bristow che, in questo periodo, sembra essere diventato
ancora più soporifero. Sarà che l'inverno è
ormai inoltrato per cui i termosifoni sono sempre accesi e in aula
c'è un teporino niente male, sarà la sua voce, fatto
sta che quando la campanella suona, l'ora sembra essere appena
cominciata e sul quaderno degli appunti c'è solo la data del
giorno. Ma probabilmente è perché non mangiamo molto.
Se
sono distratto con la Une è perché sono accanto ad
Arale e, anche se non cerco di fare conversazione, mi arrovello di
trovare un modo per riuscire a fare tutti pace. Stamattina ho trovato
il coraggio di parlarne con i miei amici; Frank si è stretto
nelle spalle, mentre Alex mi ha guardato e ha detto: «Senti,
Kenny, te l'ho detto, se mette voci in giro sul mio conto e quello
del padre di Frank a me non viene niente... cioè, io mi
diverto un mondo e basta. Però, se lei non vuole stare con
noi, mica possiamo costringerla, ti pare?» Mi ha rivolto un
enorme sorriso. «Peggio per lei. Si perde la compagnia del più
farabutto della caserma!»
E
si è messo di nuovo a ridere come un matto.
«Ma
se voi spiegaste come stanno le cose...» ho detto (e mi è
sembrata la soluzione migliore di tutte quelle che mi sono passate
per la testa). «Se tu spiegassi il motivo per cui sei finito in
galera... la gente smetterebbe di fare congetture e anche Arale!»
Lui
ha alzato le spalle. «Ti dirò, questo posto non mi è
sembrato così spassoso come quest'anno. Te l'ho detto: vorrei
aver scoperto prima che era così! Ma tu che stai facendo?»
Mentre
parlavamo, eravamo in biblioteca e Pan mi aveva nuovamente incaricato
di svolgere il suo tema giornaliero sui coltelli e stavolta proprio
non so che cosa ho scritto. Continuo a scrivere banalità su
banalità, ma Pan non si è mai lamentata, anche perché
continua a non voler leggere ciò che scrivo. Ma finché
va bene alla Une e a Pan, va benissimo pure a me.
Quando
l'ho spiegato, Frank si è accigliato proprio come Arale e,
proprio come Arale, ha detto che non avrei dovuto farlo. Neanche lui
pare voler capire che cosa significa avere a che fare con Pan, sarà
che si stanno lontani a vicenda perché non si sopportano,
mentre Alex mi ha appoggiato e, anzi, ha deciso che mi avrebbe dato
una mano.
Frank
ha scosso la testa, contrariato.
14
Dicembre
Sono
venti giorni esatti che non scrivo più una riga. Probabilmente
se i diari avessero una vita propria, il mio direbbe che lo trascuro
un bel po' e probabilmente avrei continuato a farlo, se non fosse
successa una cosa che...
Beh,
ancora più probabilmente, questo diario direbbe che sono un
approfittatore, ma non è colpa mia se dall'inizio di questo
mese la nostra routine è diventata ancora più serrata.
È cominciata praticamente il lunedì successivo al mio
ultimo sfogo, mentre correvamo intorno alla palestra, piegandoci a
ogni mezzo giro per toccarci le punte dei piedi.
Il
Salvini ci ha detto di dover prendere delle valutazioni per la fine
del trimestre e per questo dovevamo cominciare a fare delle prove
fisiche di vario genere.
«Ma
manca ancora un secolo alla fine del trimestre!» ha protestato
Pan. E, per la prima volta dopo mesi, qualcuno si è
arrischiato a fare cenni di assenso: Pan non è molto ben
vista, in caserma, soprattutto perché ormai è più
di un mese che ci affama tutti. «Non crede che sarebbe il caso
di farci continuare a non fare una sega?»
«Ehm...»
il Salvini sembrava un po' frastornato da quelle parole e si è
grattato il capo. «Veramente mancano solo tre settimane...
dobbiamo mettervi delle valutazioni da mandare a casa e...»
«Ci
fotte una sega!»
In
questo periodo, mia sorella è tornata sboccata come un tempo,
forse per via dello stress. O così direbbe la mamma, credo.
Jack
Bristow è stato molto più impietoso, tanto che ha
cominciato a mandarci alla lavagna a spiegargli dimostrazioni
piuttosto difficili sui limiti, sui quali siamo dall'inizio del mese
perché, secondo lui, dobbiamo aver già acquisito le
nozioni di base alle elementari.
Il
problema è che, con tutte queste prove scolastiche, più
quelle militari in senso stretto, non riusciamo a stare al passo con
lo studio. La Une, nell'ultimo periodo, ci fa addirittura preparare
gli zaini con i mattoni e ce li fa portare in spalla per diversi
chilometri, prima di farci stramazzare davanti alle porte
dell'accademia. E lady Une vuole che tutti i voti siano definiti
prima del 21!
Persino
la Noin vuole che ci diamo dentro in previsione delle interrogazioni
di fine trimestre e siamo tutti disperati.
Alex
ci ha informato che lei farà un compito scritto, così
non dovrà sgolarsi per farci le domande. «L'interrogazione
che ha fatto a te, Ken, era per vedere se poteva reggere per
diciassette persone. Ma non ce l'ha fatta con dieci, l'anno che sono
arrivato io... mi chiedo perché continui a provarci!» ha
sospirato.
«Forse
sgolarsi significa parlare ad un tono di voce normale per un essere
umano...» ha esclamato mia sorella, la sera che il nostro amico
ci ha informati della faccenda.
«Si
sa che gli alunni vanno col cervello in vacanza prima del tempo...»
la Une l'ha detto all'inizio del mese ed ha guardato Pan, lanciandole
un'occhiataccia, solo per il fatto che l'aveva interrogata e non
aveva saputo rispondere a niente. «E noi dobbiamo non solo
consegnarvi le pagelle, ma anche i vostri rapporti comportamentali al
dipartimento della difesa. Vi consiglio caldamente di studiare, se
non volete fare la fine di Ramazza!»
Il
bello è che Alex è allegro come sempre e non sembra
volersi mettere sotto. Il fatto è che lo capisco: con tutte le
marce che abbiamo avuto in questa settimana è un miracolo se
troviamo il tempo per prendere in mano un libro.
«Pan,»
ha esclamato Arale, durante la marcia di ieri mattina all'alba, che
ha previsto un lungo giro intorno all'accademia a passo di corsa. È
una cosa improponibile e Alex ci ha detto di andare piano, dove la
Une non vede. Per questo motivo abbiamo trovato il tempo per
chiacchierare. Anzi che Arale fosse insieme a noi e Pan rimasta
indietro per nascondere i mattoni a ridosso del muro e portare uno
zaino vuoto. «lo sai che se non studi rimani qui molto più
di Alex?» Ha accennato con la testa al nostro amico e si è
rivolta a lui. «E tu, Alex, credi che riuscirai a passare al
secondo anno, se continui così?»
Ci
è parso così strano che gli parlasse che siamo
trasaliti tutti, pure Frank. Ma dopo lo sconcerto iniziale, Alex ha
sorriso. «Ora non cominciare a fare la Une, per favore!»
Pan
non ha detto niente: in questo periodo è così di
malumore che non pensa nemmeno ad insultarmi quando le passo davanti.
Mentre io mi sento veramente più leggero: non so cosa abbia
spinto Arale a tornare nel nostro gruppo, ma sono felice che siamo di
nuovo tutti insieme. Certo, c'è ancora un po' di attrito per
via di Frank, ma non mi posso lamentare.
«Che
cosa vorrà?» ha chiesto. «Non siamo più
tanto mafiosi?»
«La
vuoi smettere di essere così burbero, Frankie?» ha
sbuffato Alex.
«Perché
ha ripreso a parlarci così di punto in bianco?»
«Ma
che ne so!»
«Dovremmo
chiedercelo, ti pare?»
«A
me non importa.» mi sono intromesso.
«Questo
è lo spirito!» ha esclamato Alex, battendomi una pacca
sulla spalla. Frank ha sbuffato, ma non ha detto una parola. E Arale
non ha mai più fatto riferimenti a mafie e cattiverie. Solo
che non tutti sono ancora convinti che Alex non sia la cattiva
persona che credono che sia e lui continua a spaventare i primini per
farci ridere.
Comunque,
durante questa settimana, apposta per i ritmi serrati a cui ci
sottopongono, Mimi si è fatta prendere da una crisi di nervi e
Matt Ishida, stamattina, è svenuto durante un'interrogazione
con Bristow.
«Si
vede che finge!» è stato il commento cattivo di Bra,
durante la lezione della Une.
«Non
riesco a credere che tu possa essere davvero così sciocca e
superficiale.» ha replicato Trowa. «Sta male davvero ed è
davvero ovvio. E' un ragazzo molto fragile, ma come posso pretendere
che tu capisca, dato che sei così superficiale?»
Non
si sa perché Pan abbia dovuto mettersi in mezzo, ma dove ci
sono casini, lei è sempre in mezzo, soprattutto se deve
mettersi contro Trowa. «Ma che cazzo vuoi? Chi vuole parlare
con te, coglione?»
Lui
ha risposto con uno sbuffo sdegnoso. «Ecco, non sai che dire e
devi aprire la bocca per insultare.»
E
l'unico commento di Pan è stato a suon di pugni, tanto che ha
fatto finire il povero Trowa in infermeria. La Une ha deciso che, con
questo, le ammonizioni sul curriculum saranno già due.
«Alla
terza» ha concluso. «la trascinerò a forza davanti
ad una corte marziale, gliel'assicuro!»
Pan
l'ha guardata, annoiata. «Tutto questo per dire che...?»
La
Une le ha rivolto un'occhiata raggelante; io, al posto di mia
sorella, me la sarei fatta nei pantaloni. «Alzi un solo dito su
chiunque in questo edificio o entro il perimetro di qualsiasi luogo
io comandi e le assicuro che la sbatto in galera! Ah, e dopo le
lezioni, voglio che lei e suo fratello mi raggiungiate nel mio
ufficio.»
Mi
si è gelato il sangue nelle vene nel sentirla parlare in quel
modo e, se prima ero preoccupato per una reazione di nostra madre, in
quel momento ero terrorizzato: perché ci voleva tutti e due
nel suo ufficio? Forse... quei temi che Pan mi costringe a scrivere
al posto suo, non sono di suo gradimento, o, ancora peggio, aveva
scoperto che ero stato io a scriverli.
Comunque
fosse, ho colto la palla al balzo e sono fuggito dalla classe: ho
aiutato Frank a portare Trowa in infermeria, solo per accorgerci che
non c'erano più posti liberi. L'infermeria era così
piena, ma così piena che, se avessi lanciato un fagiolo in
aria, non avrebbe toccato terra una volta tornato indietro.
La
Johnson correva di qua e di là e urlava ordini a quei ragazzi
che non erano seduti sui lettini, li indicava, ne faceva correre con
lei altri, mentre quelli che stavano coricati la chiamavano a gran
voce e, a volte, anche in coro.
«Che
casino!» è stato il commento di Frank. «Infermiera?»
La
Johnson ci è passata davanti sei volte almeno, prima di
accorgersi della nostra presenza: stavo per cadere a terra, sotto la
metà del peso di Trowa, quando, finalmente, si è
fermata.
«Ah,
che è successo?» ha chiesto, spiccia. «Siate
veloci!»
«Pan...»
è tutto ciò che ho detto. Lei ha alzato gli occhi al
cielo e ha imprecato a voce altissima, tanto che ha riscosso Trowa.
«Che...
che è successo... io...» borbottava.
«Non
ho letti, ragazzi!» è stato tutto quello che ha detto la
Johnson, schizzando via.
«Sì,
ma non possiamo...» cercava di gridare Frank sopra al caos che
c'era in quella stanza. Ho visto Matt Ishida, disteso su un letto e
la testa reclinata quasi fosse stato morto. Devo dire che mi ha fatto
davvero impressione, ma non ho potuto ignorare le mie ginocchia che
mi chiedevano di sedermi.
«Ragazzi?
Lasciatemi...» borbottava Trowa. «Sto bene... le do io
una lezione a quella... stron-za. Pan è solo una stron-za.»
Non
so perché scandisse così la parola "stronza",
mi sono semplicemente piegato e messo in ginocchio, costringendo
anche Frank a farlo, per non doversi tenere i tre quarti del suo
peso.
«Aspetta,
Ken!» mi ha detto. «Appoggiamolo al muro!»
Ho
annuito e, con grande sforzo, mentre Trowa continuava a borbottare
insulti senza senso contro mia sorella, siamo riusciti a farlo sedere
con le spalle al muro. Il bello è che non sono potuto uscire
di lì, perché la Johnson mi ha afferrato per un polso e
mi ha tirato verso l'armadietto dei medicinali.
«Prendi
tutti quelli scritti su questa lista, in fretta!» ha detto,
velocemente, mettendomi in mano un foglietto stropicciato che aveva
in tasca. Poi mi ha indicato uno scatolone. «Mettili tutti
dentro quella scatola e portala vicino a quel ragazzo al letto
quattro. Non dargli niente. Posali solo sul suo comodino!» è
scappata via, da un malato che la stava chiamando a gran voce. «Solo
sul comodino!» ha gridato di nuovo, indicandomi con un senso
d'urgenza, non solo nella voce, ma anche stampata sul viso.
Il
letto quattro, tanto per la cronaca, era di Matt Ishida.
Ho
saltato le ultime lezioni per aiutare l'infermiera e quasi quasi
speravo di poter scampare anche l'appuntamento con la Une: ero con la
Johnson e questo, speravo, sarebbe valso a qualcosa, ma è
stata lei a mandarmi via, dicendo che la Une aveva bisogno di
vedermi. E questo bisogno si è dimostrato quantomai
impellente, dato che me la sono ritrovata davanti appena fuori
dall'infermeria, con un'espressione omicida stampata in faccia e
accanto ad un'annoiatissima Pan che mi ha salutato con un: «Ce
l'hai fatta, finalmente, paramecio!»
«Seguitemi.»
ci ha detto la Une glaciale come solo lei sa essere. Non abbiamo
fatto molta strada: abbiamo attraversato il corridoio fino alla sua
esatta metà e siamo entrati nell'antro della strega, detto
anche Ufficio della Direttrice.
Non
è così orribile come me l'ero immaginato, anzi, sarebbe
accogliente, se non fosse per quella grossa scrivania e quella
poltrona nera al centro della stanza che incutono un certo timore,
forse di più corredate di Une.
Mentre
lei si sedeva, mi sono guardato un po' in giro, comunque: ai due lati
della scrivania, c'erano due grosse librerie, entrambe adibite a
schedari scolastici, uno per classe, e alcuni erano dedicati anche
agli insegnanti. Il primo che ho individuato è stato quello di
Sark e ho avuto i brividi, pensando che quello poteva essere un
presagio.
Ma
niente è stato come gli occhi della Une che ci hanno trafitto
come lance.
«Vi
chiederete perché siete qui.» ci ha chiesto, dopo averci
fatto accomodare su due sedie imbottite di fronte alla sua scrivania.
Pan si è buttata sulla sedia a gambe larghe e un'espressione
decisamente strafottente.
«No.»
ha risposto.
«Sì.»
ho detto io, contemporaneamente, beccandomi un'occhiataccia da parte
di mia sorella.
«Sempre
il baston contrario, eh!»
«Veramente,
Iccijojji, quello è il bastian
contrario.
Comunque...»
«Bastone,
Bastiano, che differenza fa?» ha replicato Pan,
interrompendola.
La
Une ha sospirato e penso che l'avrei fatto anch'io, se non fossi
stato troppo teso. Credo addirittura che mi sarei dimenticato come si
respira, se non fosse una cosa che va fatta, volenti o nolenti.
Ma
nessuno ha detto altro e un lugubre silenzio che mi è parso
fin troppo lungo è calato sulla stanza. Riuscivo a sentire
strani ronzii e le chiacchiere di quelli che si affrettavano nella
sala mensa. Mi ricordo di essermi chiesto, per un attimo, chi
cucinasse, se mia sorella era lì insieme a me, ma il pensiero
è stato spazzato via dal gesto della Une che ha preso un pacco
di fogli e li ha gettati con un tonfo sulla scrivania, piantandoci
sopra un indice.
«Sapete
cosa sono questi?» ha domandato.
Sia
Pan che io abbiamo scosso contemporaneamente la testa. Penso che
questo sia uno delle poche volte che è successo, da che sono
al mondo.
La
Une si è rivolta a mia sorella. «Lei, Iccijojji, non lo
sa?»
«Perché
dovrei?»
«Beh,
legga lei stessa, così me lo dice.»
Le
ha porto il foglio in cima alla pila e Pan glielo ha strappato di
mano così violentemente che ancora ora mi viene da chiedermi
come mai non si sia strappato. Lo avrei preferito, a dire il vero.
Ho
guardato Pan che lo leggeva e ho visto la sua faccia cambiare di
colore: da un colorito normale, roseo, diciamo, era improvvisamente
sbiancata, poi, mentre il suo volto prendeva un'aria disgustata, è
diventata giallina e solo in fondo, quando ha accartocciato il
foglio, ringhiando con aria assassina, è diventata rosso
pomodoro.
«Chi
è stato a scrivere così tante stronzate?» ha
sbraitato, centrando il cestino vicino alla porta senza neanche
vederlo.
«A
quel che ne so, lei, Iccijojji.»
Pan
l'ha guardata con aria inebetita. «I-io?»
Ho
scoperto così che tutti i miei sospetti erano più che
fondati e l'amara verità mi ha colpito come una valanga di
mattoni: la Une sapeva chi era che faceva i temi. Ho riconosciuto la
mia scrittura, l'avrei riconosciuta dovunque.
«Certo,
dato che sono i suoi temi sui coltelli, Iccijojji.»
Pan
ha guardato me. «Brutto beota!» ha gridato. «Ti sei
fatto scoprire!»
Sono
arrossito e ho preso a balbettare frasi sconnesse.
«Bravo!
Complimenti! Non potevi fare qualche errore di grammatica, brutto
pezzo di idiota?»
«Ma...
ma...»
«Non
è stata la grammatica, a tradirla, Iccijojji.»
Lei
ha smesso di inveire contro di me e ha guardato la Une con sospetto.
«Ah, no?»
«No.»
ha replicato la direttrice, sistemandosi gli occhiali. «Ho
visto il suo ultimo compito in classe e, beh, mi è parso
subito chiaro che non è stata lei l'artefice degli altri. E,
ora che ci penso, mi sarebbe dovuto sembrare strano, dato il suo
comportamento, ricevere quelle parole sui temi sulla pericolosità
dei coltelli. Un po' banali, lo ammetto, abbastanza perché
fossero di suo pugno, ma non per essere davvero suoi.»
«Che
cazzo sta dicendo?»
Ed
era quello che mi domandavo anche io, carico di imbarazzo.
«Moderi
i termini, Iccijojji. Sto dicendo che avevo già dei sospetti,
ma che non potevo provare. Adesso che lo so, credo che dovrò
punire entrambi.»
Ho
fatto un sobbalzo sulla sedia.
«Era
così complicato fare i temi da sola, Iccijojji?»
«Erano
delle emerite stronzate e io non perdo tempo a scrivere.» ha
risposto lei, stringendosi nelle spalle. «Vatti a fidare dei
fratelli, oh!»
«Già,
per questo la sua grammatica è penosa. E lei, Iccijojji,»
si è rivolta a me. «Perché ha assecondato sua
sorella?»
Non
ho risposto: potevo dire che era per paura di lei? Di sicuro no. Così
ho semplicemente distolto lo sguardo.
«Come
dicevo, mi vedo costretta a punirvi: una nota di demerito per lei,
Iccijojji Ken, che stanotte aiuterà Heero Yuy nella ronda e
pulirà i bagni del suo piano. Tutti quanti. Domani li voglio
vedere risplendere. In quanto a lei, Iccijojji Pan: per ogni tema che
non ha consegnato, avrà dei nuovi turni in cucina.»
E'
stato in quel momento che mi sono svegliato davvero e ho guardato la
Une dritto negli occhi. «Per pietà!» ho esclamato,
ma forse dovrei dire che ho gridato. «Non potrebbe rifarli e
basta?»
«Stai
zitto, pezzo di idiota! Le dai pure suggerimenti?»
«E'
sottinteso che li debba rifare.» ha ribattuto la Une. «Per
i suoi nuovi turni.»
Pan
mi ha guardato e non ha parlato, ma ha articolato benissimo poche
parole, muovendo solo le labbra: "dopo ti ammazzo".
La
Une non si accorta di niente. Si è sistemata di nuovo gli
occhiali e ha cominciato a riordinare la scrivania, mentre Pan è
diventata la maschera della donna assassina. Quasi quasi sarei
rimasto in quell'ufficio ancora un altro po', invece lei ci ha
congedato con un solo, sbrigativo cenno della mano.
Sono
uscito dalla porta con lo stato d'animo di un condannato che va verso
il patibolo, ma Pan ha aspettato ancora un po', prima di affrontarmi.
L'ha fatto solo quando eravamo nel corridoio che conduceva a mensa.
Era deserto e si sentivano solo gli schiamazzi provenienti
dall'interno: nessuno mi avrebbe sentito gridare.
Mi
ha preso per il bavero della giacca e mi ha letteralmente sollevato,
appiccicandomi al muro e guardandomi con sguardo feroce e assassino.
«Sei
un idiota!» ha dichiarato, ringhiando come una bestia.
«M-ma...
Pan...» ho provato a protestare. «Tu non hai mai voluto
leggere i temi!»
«D'ora
in avanti, cercherai di imitare la mia scrittura! Chiaro? E di fare
anche gli stessi errori di grammatica!»
«Ma...»
«O
ti faccio a pezzi!»
«Che
succede qui?»
Quella
voce è arrivata come una manna dal cielo, insieme al suo
proprietario. Zack Marquise stava scendendo le scale e pareva che,
attraverso la sua mascherina, i suoi occhi guardassero verso di noi.
Pan mi ha mollato immediatamente e sono atterrato di sedere sul
pavimento; lei mi ha guardato per un attimo e mi ha puntato addosso
un dito.
«Tu»
ha detto. «sei un ragazzo molto fortunato, ma se mi capiti di
nuovo sotto mano, sappi che ti faccio a pezzi!»
E
se n'è andata, velocemente, dentro la mensa, scomparendo alla
nostra vista. Marquise si è fermato vicino a me che mi stavo
spazzolando gli abiti dalla polvere del pavimento.
«Va
tutto bene?» mi ha chiesto.
Mi
sono limitato ad annuire, ma non ho avuto il coraggio di alzare lo
sguardo. Lui mi ha solo posato una mano sulla spalla, forse in segno
di incoraggiamento o di compassione, ancora non lo so, e poi ha
proseguito dritto per la sua strada. A metà, però, si è
fermato e si è voltato indietro.
«Ci
sono delle battaglie» mi ha detto. «che devono essere
combattute anche se non vogliamo.»
Non
ho ben capito le sue parole: si riferiva a Pan, o a qualcos'altro?
Non lo so. Ho provato ad aprire bocca per chiederglielo, ma anche lui
è sparito dentro la mensa e, quando sono entrato anche io, era
ormai seduto vicino a Sark, come se avesse capito che non mi sarei
avvicinato, se lo avessi visto al suo fianco.
Ero
arrivato molto in ritardo: la cena era quasi finita e Alex me l'ha
fatto notare molto candidamente. «Ma ti abbiamo lasciato un po'
di minestra di miglio! È il miglior pasto che abbiamo fatto in
queste ultime settimane!»
E
mi ha messo di fronte il piatto, con un sorriso smagliante. Quando ho
cominciato a mangiare, ho dovuto dargli proprio ragione: dopo Pan, ho
pensato, qualunque schifezza commestibile diventa la cosa più
buona del mondo.
E
la frase di Marquise mi è totalmente passata di mente.
Mi
sono messo ad ascoltare Frank, che parlava con Tai Yagami a proposito
di quello che è successo oggi pomeriggio.
«Non
sai che casino che c'era in quell'infermeria!» lui era riuscito
a svignarsela molto prima di me, non so come.
«La
Johnson non ha il tempo per respirare negli ultimi giorni!» ci
ha detto Alex. «L'ho vista ieri, ma non mi ha degnato di uno
sguardo... è sempre così in questo periodo!»
«Grandi
influenze?» ho chiesto, impressionato.
Lui
ha schioccato la lingua. «Non essere ingenuo!» mi ha
detto. «Sono le prove di fine trimestre a mandare tutti in
agitazione!» Ha fatto un cenno verso il tavolo di Heero. «Lo
vedi come sta studiando il nostro amico?»
Abbiamo
girato la testa davvero e l'abbiamo visto chino sul piatto, con
accanto un grosso libro di testo. Non solo: al tavolo del primo anno
corso D, Hermione Granger parlava isterica con chiunque le capitasse
a portata di voce. Per questo tutti cercavano di svicolare e di fare
il giro più largo per non essere costretti a passarle vicino.
Il
tavolo più giù, quello del primo anno corso E, come
quello di Heero, era quasi vuoto, anche se c'era una confusione del
diavolo in quella stanza, anche con la cena ormai quasi giunta alla
conclusione.
«Ehi,
Kenny» mi ha chiamato Arale, dandomi una gomitata che mi ha
fatto cadere di mano il cucchiaio colmo di brodino e sporcare i
pantaloni. Fortunatamente, non era troppo caldo. «Ops...
scusa... dimmi un po', cosa voleva la Une?»
Ho
visto Pan scoccarmi un'occhiata di fuoco dall'altra parte del tavolo.
«Ehm... niente di che.» ho risposto. Era meglio che non
lo sapesse, ancora, altrimenti mi avrebbe detto che lei l'aveva
sempre saputo e, dato che lo sapevo, non mi andava di farmelo
rinfacciare.
Una
acuta risatina mi ha distolto dai miei pensieri. Era stata Bra che
parlottava con Mimi e Sora, gesticolando. Loro tre, stranamente, sono
le uniche che apprezzano queste giornate caotiche e sono le uniche
che si lamentano come non mai, ogni volta che la Une viene a chiamare
noi e tutti quelli del nostro piano per la marcia.
«Lo
avete visto quello lì?» stava dicendo Bra a voce
decisamente alta. Pan, benché non fosse entrare in
conversazione, era diventata molto attenta alla direzione del suo
dito puntato. Ma nemmeno io sono rimasto insensibile alla curiosità.
E così ho visto un ragazzo, media altezza, capelli nerissimi
cortissimi e tratti cinesi che arrivava in direzione opposta a quella
presa dallo stesso ragazzo maleducato cui Arale aveva chiesto
informazioni il primo giorno.
«Si
chiama Wufei...» ha continuato Bra, tutta eccitata. «Ci
ho limonato mezz'ora!»
Le
sue amiche hanno cominciato a lanciare gridolini estatici, quasi non
ci credessero. Mi sono girato verso Alex, al mio fianco sinistro.
«Che
vuol dire limonare?» gli ho chiesto. Lui mi ha guardato come se
fossi stato una bestia immonda.
«Limonare
è... ehm... limonare è limonare!» ha detto, come
se non avessi mai dovuto fare una domanda così sciocca. Aveva
anche l'aria di uno che stia dicendo: "è ovvio", ma
per me non lo era affatto.
«E
che significa?»
Arale
si è sbattuta la mano sulla fronte, Frank ha, come al solito,
fatto finta di niente e Pan ha giunto le mani e alzato gli occhi al
cielo per elevare una muta preghiera.
Alex,
intanto, mi rivolgeva una smorfia preoccupata. «Fai sul serio?»
Ho
annuito, ma ho risolto solo di farlo sospirare: ho avuto come
l'impressione che avrei dovuto saperlo, ma non mi sovveniva proprio
cosa potesse significare quella parola. Il mio amico sembrava proprio
rassegnato, mentre si passava una mano sulla fronte. «Ehm...
limonare è... sì, insomma, limonare è...»
«Slinguazzare,
imbecille!» è stata la brusca e infastidita risposta di
Pan. «Bacio con la lingua, bacio alla francese, sai quelle
schifezze che può fare solo quella troia di Bra con un nano
cinese e...» si è voltata di nuovo a squadrare il
ragazzo che si era seduto accanto a Heero. «Amico di Yuy! Hai
capito, paramecio? Dimmi tu se questo non è essere proprio
caduti in basso!»
Non
ho detto niente, incredulo.
Bra,
che ha ascoltato la nostra conversazione come noi abbiamo ascoltato
la sua, si è girata e ha guardato Pan, disgustata. E' stato
l'inizio della fine.
«Ma
che hai?» le ha chiesto. «Sei invidiosa, vero? Hai visto
che figo che è?»
«Non
mi pare proprio! Mi pare solo un nano magrolino senza spina dorsale e
con lo stomaco d'acciaio!» è stata la risposta
sarcastica di Pan.
«E
come sai com'è il suo stomaco?» ha ridacchiato Mimi,
forse credendo di ferire mia sorella. Ma per ferire Pan ci vuole
molto altro... si è stretta nelle spalle e ha fatto un cenno
verso Bra.
«Beh,
ha limonato con lei... vuol dire che è molto forte di stomaco.
Ed è anche coraggioso!»
Stavolta
è stata Sora ad inveire: «Sicura di non parlare di te,
Iccijojji?»
«No,
di quella troia di tua madre!»
Indignate,
tutte e tre hanno trattenuto il fiato. Beh, anche io, perché
già mi immaginavo le urla isteriche e la rissa sul tavolo che
si sarebbe tradotta in un'altra avventura in infermeria, seguita
dall'espulsione, se non dalla prigione come la Une aveva promesso
solo poche ore prima, in classe. Ho guardato Arale e,
dall'espressione sul suo volto, ho capito che stavamo pensando la
stessa cosa.
«Ma
come ti permetti!» ha gridato con voce acuta Sora. «Mia
madre è una donna irreprensibile! La tua sta sui marciapiedi
la sera e la dà per pochi spiccioli, l'ho vista io!»
«Perché
frequenti gli stessi marciapiedi e la dai gratis!» ha replicato
Pan, piena di disprezzo, senza curarsi del fatto che stessero
offendendo nostra madre, in modi che non capivo (e di cui non ho
voluto chiedere per non fare di nuovo la figura dell'idiota).
«Meglio
gratis che a pagamento!» si è intromessa Mimi, di nuovo
come se fosse stata la più furba. «Almeno chi la dà
gratis lo fa solo per divertimento!»
«E
chi si fa pagare ci guadagna sopra!» ha ribattuto Pan.
«Quello
si
chiama essere troie!» è stato il commento altezzoso di
Bra.
«No,
quello significa prostituirsi.»
Grazie
alla spiegazione di mia sorella ho cominciato a capire qualcosa di
più su quegli insulti. Il bello era che, se quelle tre si
spalleggiavano a vicenda, io rimanevo inerte a seguire quello
squallido scambio di battute.
«E
ti sembra meglio che andare con qualcuno solo per puro divertimento?»
ha continuato Mimi. «Scusami, ma chi è il suo
magnaccia?»
«Tuo
padre, che va con le puttane e ha preso tutte le malattie veneree
possibili e immaginabili!»
«Si
vede che è andato con la tua, che alle malattie veneree c'ha
l'abbonamento!»
Pan,
a quel punto, si è alzata in piedi. Sono sicuro che la
discussione si sarebbe tramutata in rissa per davvero, se la Une non
si fosse alzata dal tavolo degli insegnanti e ci avesse raggiunto,
guardandoci tutti come se fossimo stati sul punto di lanciare una
bomba a mano.
«Va
tutto bene?» ha chiesto, con una tranquillità che la sua
faccia non esprimeva.
«Sì,
lady Une, certo!» ha risposto Bra, composta e così
educata che non sembrava che, fino a quel momento, non avesse offeso
mia madre in quel modo, ma avesse parlato di tutt'altro.
«Lei,
Iccijojji, perché si è alzata?» ha continuato la
Une. Aveva un'intonazione di voce che faceva capire che sapeva che
non tutto stava andando così bene.
«Perché
stavo per levarmi di...» mia sorella ha alzato gli occhi da Bra
e li ha posati sulla Une che aveva uno sguardo col quale sarebbe
stata in grado di uccidere chiunque e, quando dico chiunque, dico
anche mia sorella. «Stavo per uscire, insomma.»
La
direttrice ha annuito. «Perfetto. Allora si sbrighi.»
E
così dicendo, se n'è tornata al suo tavolo. Mentre ci
voltava ancora le spalle, Pan si è piegata su Bra: «Non
finisce qui, brutta troia!» E poi si è rivolta a me.
«Stupido coglione, con te faccio i conti dopo!» detto
questo, se n'è andata velocemente, lasciandomi lì,
fermo e impietrito di paura.
Ho
guardato i miei amici, preoccupato. Frank ha ripreso a mangiare la
sua insalata e non ha risposto e Arale l'ha imitato. Alex, invece, si
è stretto nelle spalle e ha scosso la testa.
«Kenny...»
è stato quello che mi ha detto. «mi sa che sei nei guai,
amico mio.»
Ho
guardato Bra e le sue amiche, ma non erano interessate a me. Ridevano
di Pan e ripetevano le sue battute, sghignazzando come delle sciocche
di qualsiasi parola.
«Com'è
rozza!» rideva Mimi.
«E
com'è volgare!» rincarava Bra, riprendendo a ridere.
«Beh,
mi sembra che anche voi abbiate risposto per le rime!» ha
sbottato Arale, guardandole in cagnesco. «Non mi pare proprio
che vi siate comportate da grandi signore, mentre dicevate che sua
madre è una puttana!»
«Ma
pensa alla tua di madre, Norimaki!» ha sbuffato Sora. «Se
vai in giro a difenderla vuol dire che sei uguale!»
«La
sai una cosa?» ha continuato Arale. «Meglio essere come
Pan che pecora come te e Mimi che fate solo quello che dice questa
stronzetta coi capelli blu!» ha fatto un cenno verso Bra. «Vi
dirò una cosa: non è offendendo la madre di Pan che
risolverete i vostri problemi!»
«Dillo
a Pan, è stata lei a cominciare!» ha risposto Bra,
acida, voltando la testa, in modo da dare le spalle alla mia amica.
«Già!»
ha ammesso Sora. «Noi le abbiamo solo risposto. Avremmo dovuto
farci dare delle troie impunemente?»
«Beh,
se vi ritenete superiori a Pan e alla gente come lei, dovreste
dimostrarlo usando termini un po' meno scurrili di quelli che usa
lei, no?»
«Io
non devo proprio dimostrare niente a nessuno!» ha ribattuto
Bra, ruotando la testa di scatto e guardando Arale con i suoi
occhioni sgranati. Lei e Arale si sono fronteggiate a lungo, prima
che la mia amica rispondesse ancora, astiosa:
«E
allora non ti permettere di ridere di lei!»
«Tu
non mi puoi dire quello che devo fare, Norimaki!»
«Allora
sei un'ipocrita!»
«E
tu difendi una ragazzina violenta e piena di problemi con un fratello
senza palle e pure frocio!»
Al
che Arale si è messa in piedi e, con mio grande dispiacere, si
vedeva che non riusciva comunque a fronteggiare Bra che, comunque
fosse seduta, era molto più alta di lei. «Stai ancora
offendendo, Bra.»
Ho
abbassato la testa, mortificato e anche un po' arrabbiato: stavano
parlando di me come se io non ci fossi. Avrei dovuto dire qualcosa,
lo sapevo benissimo, ma non sapevo cosa dire. Avrei semplicemente
voluto sprofondare e ritrovarmi nei più bassi recessi della
Terra e precisamente al centro, nel magma. Ma sapevo anche che avrei
dovuto dire qualcosa, lo dovevo a Pan, alla mamma che era stata
offesa così pesantemente. E anche un po' a me. Mi sono alzato,
deciso a fronteggiare Bra e le idee confuse.
«Piantala!»
le ho detto. «Io... io... io non so che hai detto a mia madre.
Ma devi smetterla di offendere la mia famiglia. Perché...
perché...»
Lei,
per tutta risposta, si è messa a ridere, facendomi sentire
ancora più tonto. «Ma lo vedi come balbetti? E pretendi
pure che io ti stia a sentire? Ah, sei veramente patetico!»
Ho
stretto i pugni: sentivo le guance avvampare. Avrei voluto
sprofondare ancora più giù, sciogliermi in quel magma
per l'umiliazione, eppure rimanevo fermo, impettito e in piedi. Se
solo mi fossi preparato un discorso, non saremmo stati a questo punto
e neanche se non fossi stato così scemo, accidenti a me!
Ma
stavolta è stato Frank a venire in mio aiuto.
«Brief,
ma lo sai di essere veramente sgradevole?» le ha chiesto. «Se
tu avessi un po' di rispetto, adesso ascolteresti Kenny e lo
lasceresti parlare. Secondo me, fai così perché non
vuoi ascoltarlo, per paura che possa dire qualcosa di vero e possa
metterti a tacere!»
Lei
si scostata i capelli di nuovo dietro le spalle, con un sorrisetto
carico di sufficienza. «Dimmi, Kushrenada, l'hai visto?»
ha fatto un cenno verso di me con la testa. «Kenny... già
uno che si fa chiamare col suo diminutivo non è esattamente
uno da prendere sul serio... comunque...» si è alzata e
si è rivolta alle sue amiche. «Su ragazze, andiamo... la
cena è finita e mi sono stancata di questi sterili discorsi.»
«Sì,
è vero!» è stato il commento altezzoso di Mimi.
«E'
inutile discutere con certa gente!» ha rincarato la dose Sora.
E
così dicendo sono sparite dalla nostra vista, ridendo e
scimmiottando le nostre parole, soprattutto i miei insulsi balbettii.
Era andata così. Uno sfacelo. Bra e le sue amiche dieci, Kenny
e i suoi meno di zero.
Mi
sono buttato sulla sedia.
«E
dopo questo... anche le botte di Pan!» ho mormorato,
sconsolato. Ormai la mensa era quasi vuota e gli ultimi ragazzi si
attardavano a parlare con i pochi rimasti. Noi quattro eravamo soli e
io lottavo per non piangere.
Quasi
quasi tornavo in infermeria, anche senza niente di rotto, per
prevenire, come se questo potesse bastare per evitarmi il dolore
delle botte.
«Dai,
Kenny, non fare così!» ha risposto Arale, sedendosi di
nuovo e posandomi una mano sulla spalla, in segno di incoraggiamento.
«L'hai
sentita Pan!» ho replicato. «Mi picchierà, non
appena rientreremo in camerata! È stata tutta colpa di quei
temi.»
Alex
mi ha dato una leggera pacca sulla spalla, con fare comprensivo.
«Dai, non ti preoccupare!» mi ha detto, ma non mi ha
consolato, purtroppo. «Lo sapevamo che sarebbe finita così.
E lo sapevi pure tu, solo che non si ascolta mai Arale, eh?»
Ho
risposto facendo spallucce.
«Dai,
Ken,» ha continuato Frank. «Brief è un'imbecille.»
«Sì,
al posto del cervello ha acqua bollita...» ha risposto Alex,
annuendo vistosamente.
«Pigne
morte!» ha rincarato la dose Arale.
«Prugne
secche.» è intervenuto Frank.
«Che
fanno anche cagare.»
Abbiamo
ridacchiato tutti alla battuta di Alex.
«E
non ti preoccupare!» ha continuato il mio amico. «Se per
caso dovessi avere dei problemi, conta pure sul tuo amico galeotto!»
Ho
trattenuto il respiro. Mi ero aspettato che Arale o Frank dicessero
qualcosa, magari che arrivassero alle mani. Invece non è
successo niente.
«Dai,»
ha detto soltanto, Frank. «E' ora di affrontare la bufera.»
In
quel momento mi sono sovvenute le parole di Marquise, a proposito
delle battaglie che vanno affrontate anche se non vogliamo. Forse
quella era una di quelle. Dovevo farlo. Me l'aveva detto Marquise,
qualcosa significava. Eppure, quando siamo tornati in camerata, Pan
si è avvicinata e mi ha puntato contro un dito, minacciosa
come sa essere lei.
L'unica
cosa positiva è che non ho balbettato come una femminuccia,
forse perché avevo la lingua secca e incollata al palato. La
paura mi aveva congelato e mi sono pietrificato proprio dove mi ero
fermato, davanti ai miei amici che, dietro di me, osservavano la
scena.
«Dai,
Pan... non è il caso di...» stava provando Arale, ma Pan
le ha rivolto un'occhiataccia che l'ha zittita e che ha fatto
desistere anche gli altri dal tentare nuovamente.
Quindi,
è tornata ad osservare me. «Sai che sei un paramecio
molto, ma molto fortunato?» mi ha chiesto. «Chiedimi
perché!»
Non
l'ho fatto: c'era il trabocchetto. Ne ero sicuro.
«CHIEDIMI
PERCHE'!» ha gridato lei.
«O-ok...»
ho
risposto, in tono lamentoso. «P-perché?»
«Perché
quella troia di Bra, per quanto troia, ha ragione: se ammazzo di
botte lei e le sue amiche puttane e poi te, paramecio, finisco
inculata di fronte ad una corte marziale ed è l'ultima cosa
che voglio, finire i miei giorni in galera! Quindi, vaffanculo tu e
VAFFANCULO A QUELLE TROIE! Ma...» si è fatta più
vicino e il suo naso ha premuto contro il mio, mentre i suoi occhi
minacciosi si incrociavano per riuscire a vedere i miei. «se si
trattasse solo di espulsione... ti ridurrei in briciole le ossa. E
IMPEDIREI A BRA DI LIMONARE CON CHIUNQUE SIA DOTATO DI LINGUA!»
Se
n'è andata di nuovo in camera sua, declamando al vento i suoi
propositi e io mi sono semplicemente lasciato cadere: la tensione che
si scioglieva mi impediva di sentire le gambe. I miei amici mi hanno
dovuto sorreggere perché non cadessi come una pera cotta.
«Sono...
sono salvo!» è stato tutto quello che sono riuscito a
far uscire dalla mia bocca.
*****
Ce
l'ho fatta! Sono riuscita a finire anche questo, dopo molto, molto,
molto tempo. I prossimi due o tre sono già stati scritti un
po' di tempo fa, ma penso di mantenere ritmi di aggiornamento
piuttosto lenti perché la mia voglia di scrivere Kenny, in
questo periodo, è piuttosto scarsa. Diciamo che mi deve venire
una voglia fulminante, come è successo oggi. XD
A
proposito (grazie a Prof per avermelo ricordato): il Ryan
dello scorso capitolo è Ryan (Ryo) Shirogane delle Tokyo
Mew Mew.
Dovrei,
ogni volta che inserisco un personaggio, specificare da dove viene,
ma tra una cosa e l'altra me ne dimentico sempre. Prometto che
cercherò di starci più attenta.
Prof:
ma che sadica! Kenny è un po' indignato che si rida sulle sue
disgrazie. U.U Naturalmente, anche io mi diverto troppo (ma non
glielo diciamo! Mwhahaha). E il Sergente ti porge i suoi saluti. È
contento di risultare così simpatico! XD Di Marquise e Pioggia
di Fuoco ho intenzione di montarci su una storia, ma penso più
in là, al secondo/terzo anno di Kenny e ne sarà la
colonna portante, se mai riuscirò a scriverlo. XD In questo
capitolo non mi sembra che ci sia nessuno da segnalare, in quanto a
personaggi, ma se non è così, dimmelo e cercherò
di rimediare. Grazie come sempre per la tua recensione. ^^ A (spero)
presto!
|
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Capitolo 13 *** Una giornata da dimenticare ***
Le
lezioni al primo anno.
Una
giornata da dimenticare
|
23
Dicembre
Il
trimestre è finito e anche il nostro soggiorno in caserma, per
adesso. Siamo tornati oggi a casa e ci sono così tante novità
che non so da quale cominciare. Quindi, forse è meglio partire
dall'inizio senza troppi problemi.
Erano
le cinque, quando mi sono svegliato. Heero ha, come al solito,
battuto due o tre volte il pugno sulla porta, ci ha urlato di alzarci
ed è andato a fare lo stesso alla camera successiva. La solita
routine, insomma. Il bello era che, la sera prima, eravamo stati
tutti d'accordo nel pensare che, essendo finito il trimestre, fossimo
esentati dai nostri obblighi dell'alzabandiera. E così, tutti
e cinque, abbiamo disattivato le nostre sveglie.
Alex,
che doveva sapere che non era col trimestre che finivano i nostri
doveri di soldati, è sempre l'ultimo a sapere le cose,
stranamente. Ma forse non più di tanto, ormai.
«Ma
che palle!» è stato il commento, condiviso, di ognuno di
noi. Pan, per quel che ne sapevo, non doveva aver realizzato che ce
ne andavamo per le vacanze, perché non ha proprio fiatato.
Quando
mi sono alzato, mi sono affacciato in camera delle ragazze, dove ho
visto i comportamenti più disparati e strani: noi ragazzi non
teniamo così tanto al nostro aspetto la mattina presto,
sembriamo più delle scimmie urlatrici che sbadigliano
rumorosamente, scoreggiano e ruttano (non voglio dire che siamo
proprio tutti così, ma, ecco, almeno per la mia esperienza,
non ci stiamo così attenti).
Bra
si stava pettinando davanti allo specchietto sul suo comodino, Mimi
si truccava e Sora si stringeva nelle coperte, la faccia nascosta da
una maschera verde e alcuni cetrioli. Arale, invece, stava rifacendo
il suo letto. Quello di Pan, vuoto, era ancora tutto disordinato.
«Buongiorno,
Kenny!» mi ha salutato la mia amica, alzando gli occhi e
provocando reazioni che hanno spaventato anche me: Bra e Mimi sono
schizzate in piedi, urlando isteriche e lasciando cadere spazzole e
trucchi; Sora è balzata a sedere sul letto, stringendosi nelle
coperte e, scuotendo la testa, ha cominciato ad urlare a
squarciagola: «Aiuto! Aiuto!»
I
cetrioli sono caduti sulle sue mani e questo ha provocato nuove
ondate di panico. Una scena così era ancora tutta da vedere.
«E
PIANTATELA!» così Arale le ha fermate, mentre si
richiudeva la porta alle spalle. Confuso, anche se decisamente
sveglio, mi sono grattato la testa. Trowa, ripresosi a meraviglia
dall'ultima batosta di Pan, mi ha fatto un occhiolino con fare
complice, mentre, con uno spazzolino da denti, si dirigeva nel bagno,
ormai occupato da Alex. Il suo comportamento nei miei confronti è
molto cambiato da che l'ho portato in infermeria aiutato da Frank. Mi
ha pure ringraziato, quando si è ripreso.
«Tu
non sei come tua sorella.» mi ha anche detto.
«Ehm...»
ho balbettato, tornando a guardare Arale. «E Pan?»
«Stavo
per venire a chiederlo a te!» mi ha risposto lei, candidamente.
La mia prima reazione è stata quella più esagerata.
Panico: mia sorella non era nel suo letto, non ronfava come un maiale
e non sbraitava nel momento in cui veniva svegliata... c'era
decisamente qualcosa di sbagliato. E se fosse stata male?
Sarebbe
stato un trauma: Pan non ha mai preso una malattia, da che la
conosco. Non ha mai preso la varicella, quando io, per sfiga, l'ho
presa due volte; non ha mai preso l'influenza e io ero sempre a letto
con la febbre; non ha mai avuto la polmonite e io sono stato mandato
a forza da nonna Kiki per due inverni di fila perché avevo
“bisogno di aria buona”, almeno secondo il dottore.
Quindi,
Pan non poteva stare male. Ma, se così era, che fine aveva
fatto? Ho deciso che ci avevo pensato troppo: sono uscito in pigiama
ed ho cominciato a correre verso l'infermeria, ostacolato dai vari
ragazzi che tentavano di raggiungere i bagni comuni. Le scale non
erano mai state tanto intasate ed io non mi sono mai sentito così
lento, nel mio tentare di dare una risposta decente alla domanda del
giorno.
Quando
sono arrivato alla porta dell'infermeria, l'ho spalancata ed ho fatto
il mio ingresso, gridando: «PAN!» ma, quando mi sono
visto sei paia di occhi puntati addosso, assonnati ed eccessivamente
preoccupati, ho deciso di darmi una calmata per non allarmare più
di quanto non fossero già quei sei ragazzi.
«Ehm...
sapete... sapete dov'è la Johnson?» ho cercato di usare
un tono il più calmo possibile, ma ero proprio trafelato.
«E'
nel suo ufficio.» ha mormorato, assonnato, lo stesso ragazzo
biondo che, tempo fa, mi aveva detto che Marquise non aveva fatto
lezione. Si è posato una mano sulla fronte, come per spiegarmi
il perché fosse così poco reattivo. «No...
svegliarsi col mal di testa è davvero uno schifo!»
Non
l'ho ascoltato più di tanto, mi guardavo intorno, alla
disperata ricerca di un segno che tradisse la presenza di Pan, ma
niente: tutto era troppo al suo posto perché potesse essere
passata di lì.
Mi
sono fermato di fronte alla porta dell'ufficio dell'infermiera
Johnson. Ma era totalmente inutile chiederlo a lei: era chiaro che
Pan non c'era. Sono corso fuori, ma non avevo davvero idea di dove
andare.
Ero
davvero preoccupato: avremmo dovuto partire alle nove precise dalla
caserma e lei era sparita. Non sapevo che fine avesse fatto e già
mi immaginavo le scene di me che tornavo a casa da solo, in mezzo a
persone che si chiedevano quanto me che fine avesse fatto mia
sorella, se fosse ancora viva. E mi immaginavo nonno Satan che urlava
come un folle che la sua nipotina era sparita; la mamma che urlava
isterica e papà che rimaneva ammutolito e smarrito, mentre
davo la tragica notizia.
In
mezzo a questi tristi presentimenti, mi sono fermato in mezzo al
corridoio, fulminato da un pensiero. Le valigie di Pan, quelle che ha
preparato ieri sera, prima di andare a dormire. Correndo, sono
tornato in camerata, travolto dalla fiumana di persone che si
apprestavano ad andare in cortile per l'alzabandiera, percorrendo la
strada in senso contrario al mio.
Sono
sgusciato sotto il braccio di un ragazzo alto e grosso che stava
ridacchiando sguaiatamente e sono scivolato con la pancia tra le
gambe di un altro. Non so come ho fatto, ma erano molti che, dopo
questa prodezza, mi guardavano e additavano, forse anche per il fatto
che ero in pigiama e scalzo, i piedi nudi sul pavimento gelido.
Quando
ho spalancato la porta della nostra camera, mi sono guardato intorno:
magari mi ero sognato tutto, magari Pan era semplicemente caduta dal
letto e nessuno se ne era accorto. Magari non ha neanche sentito le
urla isteriche delle Scope: quando dorme non la svegliano nemmeno le
cannonate. Ma quando sono rientrato nella camera vuota delle ragazze,
solo il letto di Pan era ancora disfatto e il suo borsone era l'unico
ancora aperto.
Mi
sono fiondato su di esso senza pensarci: speravo di trovarci
qualcosa. Ho cominciato a togliere tutto quanto, dalle mutande, ai
vari giornalini che aveva comprato dal Sergente Hopkins in tutti
questi mesi.
Li
ho sfogliati, alla ricerca di un biglietto, di un messaggio che mi
portasse a capire dove potesse essersi cacciata. E solo quando avevo
perso ogni speranza, nel raccattare dalla borsa l'ultimo giornalino,
ho visto l'indizio.
L'ho
raccolto: era la scatola bianca e blu di un medicinale. Dentro c'era
il foglietto illustrativo, ma non il flacone. Febbrilmente, cercando
di far presto, mi sono messo a cercare a cosa servisse, prima di
ricordarmi che nonno Satan lo prendeva tutte le sere. Quella che
avevo tra le mani, era la scatola di un potente lassativo.
Ma
se Pan ce l'aveva, mi sono detto in quel momento di folle lucidità,
voleva dire che aveva problemi di intestino. O così speravo.
Mi è cascato l'occhio su una frase inequivocabile stampata a
chiare lettere sul foglietto illustrativo: ATTENZIONE!, recitava,
AD ALTE CONCENTRAZIONI PUO' ESSERE FATALE.
E
il terrore, a quel punto, è stato puro. Sono scattato in
piedi: adesso sapevo dove andarla a cercare.
Sono
scappato fuori dalla camerata, lasciando la porta aperta; ho
cominciato ad aprire quelle di ogni bagno che trovavo, chiamandola a
gran voce. La conosco abbastanza bene da sapere che mi avrebbe urlato
di andarmene e che ero un maniaco. Questo mi avrebbe detto che stava
bene e che potevo smettere di preoccuparmi.
Speravo
di arrivare in tempo: Pan non ha mai saputo che il troppo stroppia e
ha sempre esagerato su tutto, anche sulle medicine. Ogni volta che
starnutiva, l'anno scorso, si andava a prendere l'antibiotico, ma, se
il foglietto illustrativo diceva di prenderne un misurino da cento
millilitri, lei se ne prendeva una sorsata direttamente dalla
bottiglietta.
Memore
di questo, mi sono messo a guardare sotto ogni cubicolo, ma, ogni
volta che erano tutti deserti, passavo al successivo, pure in quello
dei maschi: Pan non ha mai fatto distinzioni tra bagni dei maschi e
bagni delle femmine.
Ci
ho messo due ore, ogni volta ripetendo le stesse operazioni. Erano
passate le sette ed era sorto il sole; tutti erano rientrati e si
erano diretti in sala mensa per l'ultima colazione del trimestre, ma
io ero ancora al secondo piano a controllare il primo dei sei bagni.
Mezz'ora
dopo, scendevo le scale, ancora una volta sconfitto. Mi mancavano
solo quelli privati dei professori, anche se dubitavo di trovarla lì:
insomma, chi mai gliel'avrebbe fatto fare di andare proprio lì,
quando ci sono da sempre stati proibiti? Ma si sa, Pan è
strana e se le fosse passato per la testa, anche quello era
possibile.
Così
sono entrato nell'unico bagno del primo piano, il più pulito
della caserma, se proprio devo essere sincero. Subito, quello che mi
ha colpito, è stata l'ondata di fetore che mi ha aggredito le
narici. Sì, quello era l'odore della cacca di nonno Satan,
quindi, per ovvie deduzioni logiche, Pan doveva essere lì.
Finalmente l'avevo trovata! Un po' del mio groppo in gola si era
sciolto.
«Pan?»
ho domandato, timidamente.
Nessuna
risposta. E il mio groppo si è riannodato saldamente: quella
pazza di mia sorella aveva usato dosi troppo elevate. Ma forse potevo
fare in tempo e salvarla! L'infermeria non era lontana: l'avrei presa
di peso, sotto le ascelle, magari l'avrei anche coperta, se...
Mi
sono piegato sul primo cubicolo, poi sul secondo. E, infine, al
terzo, l'ho trovata: pantaloni calati e scarpe pulite. Quando avesse
avuto il tempo di lucidarle non lo sapevo, ma non mi importava. Mi
sono messo in ginocchio e ho allungato una mano.
Ho
afferrato la sua caviglia e l'urlo che lei ha cacciato, ha
terrorizzato anche me, che ho cominciato a gridare a mia volta,
ritirando velocemente la mano e gettandomi all'indietro, seduto a
fissare con terrore la porta sprangata.
«Ma
allora stai bene!» le ho detto, quando mi sono ripreso.
«Ma
chi è?» ha chiesto una voce isterica che non era
sicuramente quella di Pan. Mi sono sentito ghiacciare le ossa: non
poteva essere...
«Ehm...
ecco... lady Une?» ho risposto, incerto.
«SE
NE VADA, PRIMA CHE LA FACCIA ESPELLERE, CHIUNQUE LEI SIA!»
Non
me lo sono fatto ripetere due volte e sono corso via dal bagno. Ma,
adesso, non ne avevo più da controllare. Dovevo accettare
l'evidenza: mia sorella era sparita dalla faccia della Terra.
Così,
scalzo, in pigiama, con un groppo in gola e senza più un
briciolo di forza, mi sono diretto a mensa, sperando che i miei amici
potessero aiutarmi.
Mi
chiedevo quale fosse il modo migliore per dirlo ai miei e alla Une
quando fosse uscita da quel bagno.
«Sa,
lady Une, mia sorella è evaporata!», era decisamente
sgradevole. E: «Sai, mamma, Pan è scomparsa nel nulla!»
mancava di tatto. Cosa avrei dovuto fare?
Sono
semplicemente entrato a mensa, dove l'allegria regnava sovrana, il
caos sembrava moltiplicato per cento rispetto al solito. Non sembrava
che agli altri mancasse Pan, ma io sentivo che non c'era, che era
tutto profondamente sbagliato.
Quando
mi sono avvicinato al nostro tavolo, mi sono piazzato tra Arale e
Frank, che stavano mangiando allegramente, mentre io lottavo per non
piangere.
«Kenny!»
mi ha accolto la mia amica, gioviale. «Dove diamine sei stato?»
«Già,
paramecio! Ti sei perso la miglior alzabandiera del globo! Oh, avessi
visto la faccia della Une quando ha visto che al posto della bandiera
c'erano un paio di mutandoni!»
«Ma
non è vero! Lasciala perdere, Kenny!» mi ha consigliato
Arale, ma l'ho ascoltata piuttosto distrattamente.
O
avevo le allucinazioni, oppure avevo cercato una persona che era
sempre stata sotto il mio naso. Ho alzato lo sguardo e l'ho vista.
Lei era lì, seduta scompostamente di fronte ad Arale, una
fetta biscottata in una mano e un bicchiere di succo d'arancia
nell'altra.
«E
tu che ci fai qui?» è stato tutto quello che sono
riuscito a dire.
«Però...»
ha risposto lei, disgustata. «La tua gioia di vedermi è
invidiabile, schifoso verme!»
«NO!»
ho gridato, ancora sconvolto. «S-sono felice di vederti! Ma...
ti ho cercata tutta la mattina!»
Ho
aggirato il tavolo e mi sono messo davanti a lei. «Che fine
avevi fatto?»
Lei
mi guardava come se fossi stato una cacca nel suo bicchiere e non
capivo il perché.
«Che
c'è?» ho chiesto. «Perché non parli?»
Lei
ha accavallato le gambe. «Kenny, avessi capito un cazzo di
tutte le stronzate che hai sparato! Si può sapere di che stai
blaterando?»
«Tu...»
l'ho indicata. «Tu eri sparita!»
«Ah,
sì?» lei si è guardata il petto. «E
quando?»
«Ma...
ma... prima!»
O
lei non capiva, o io non riuscivo a spiegarmi. Ero confuso,
decisamente intontito per riuscire a concludere coerentemente una
frase.
«Senti,
Kenny, diciamocelo: piombi qui in pigiama, scalzo, e deliri pure. Sei
sicuro di non aver bevuto qualcosa, preso un allucinogeno...»
mi ha chiesto, sarcastica. Mi sono guardato i piedi e solo allora mi
sono reso conto che non avevo preso le ciabatte. Cominciavo a pensare
di aver preso qualcosa di pesante davvero. Ho guardato Arale, in
cerca di aiuto.
«Stamattina...
in camera... non c'era!» ho detto.
«E
allora?» è stato il momento di Arale di fare le domande
a cui non sapevo rispondere.
«E
allora?» ho ripetuto, indignato. «Arale, ma... la stavamo
cercando! Eravamo preoccupati!»
«Veramente...»
ha risposto la mia amica, titubante. «Era all'alzabandiera.»
ha aggiunto poco dopo, come se avessi dovuto pensarci da solo.
«Già.»
ha confermato Pan, annuendo orgogliosa. «E ho anche preparato
la colazione, come da punizione. E ho anche apparecchiato la tavola
degli insegnanti!»
Mi
sono voltato a guardarla: in quel momento mi ricordavo che la sua
punizione si era protratta dato che i temi glieli avevo fatti io.
«Che
c'è, paramecio?» ha detto, disgustata, squadrandomi
dalla testa ai piedi. Dovevo avere una faccia davvero sconvolta. «Non
credi che possa averlo fatto? Non mi ritieni una persona abbastanza
seria? Ma guardati tu, che vai in giro scalzo come un barbone! Ah,
che gentaglia che c'è in giro!»
Ha
dato un morso alla fetta biscottata, mentre io mi sedevo al suo
fianco, sconfitto.
Tutti
i miei pensieri vorticavano furiosamente nella mia testa. Se avessi
pensato a cercare direttamente in cucina o fuori, in cortile, non mi
sarei dato tanta pena, non avrei trovato la Une in bagno e...
«Pan,
dove l'hai trovato il lassativo?» ho chiesto, attirando
l'attenzione dei nostri amici. Lei ha rischiato di affogarsi col
succo d'arancia. Mentre tossiva, Alex le dava pacche sulle spalle per
aiutarla a riprendere fiato.
«Che
cazzo ne sai tu del lassativo?» mi ha aggredito lei.
«L'ho...
visto nella tua borsa!» ho risposto, spaventato.
Si
è alzata in piedi, furiosa, sbattendo il bicchiere sul tavolo.
Credevo che, presto, avrei sentito lo stesso odore che c'era nel
bagno della Une, ma questa volta sarebbe provenuto dai miei
pantaloni. «HAI FRUGATO, BRUTTO LADRO!» ha gridato,
attirando gli sguardi di tutta la sala.
«Oh,
cielo, arriva Sark!» ha esclamato Alex, scattando in piedi.
Davanti a noi, si è materializzato il professore biondo di cui
Alex ci aveva parlato, dicendoci, tra le altre cose, che è un
torturatore.
Si
è fatto avanti, ma mi ha salvato, perché ha afferrato
la mano di Pan, impedendole di darmi un pugno.
«Suvvia,
sono sicuro che ci siamo modi più civili per...» ha
guardato da lei a me con aria di sufficienza. «Per discutere.»
«Per
esempio?» ha ringhiato mia sorella, col pugno pronto a colpire
il mio naso.
«Nei
paesi arabi, usano tagliare la mano destra dei ladri.» ha
continuato Sark, freddamente.
«Professore,
non credo che dovrebbe dare certi suggerimenti...» ho sentito
dire ad uno spaventatissimo Alex. «Non a Pan, almeno...»
Ma
mia sorella aveva già afferrato un coltello. «Buona
idea!» ha approvato. Mi aveva afferrato un polso e, balbettando
sconclusionatamente, cercavo di sottrarmi: già mi vedevo senza
mano destra, urlante e con fiotti di sangue che sgorgavano dal mio
povero braccio mutilato.
Inutile.
Non aveva imparato la lezione.
Quando
era riuscita ad imprigionare la mia mano sul tavolo, il polso teso,
pronto per essere sacrificato, Sark ha afferrato quello di Pan.
«Ma...»
ha continuato, opponendo fiera resistenza alla forza di mia sorella
che, rabbiosa, guardava il mio polso, desiderosa di tagliarlo. «Qui
non siamo in un paese arabo, o mi sbaglio?»
«Mi
lasci!» ha ringhiato Pan. «Questo disgraziato merita una
punizione!»
«Mi
sbaglio?» ha ripetuto lui.
Pan
ha stretto la sua presa d'acciaio sul mio polso. Il silenzio regnava
sovrano nella sala. Sudavo copiosamente, mentre cercavo di tirare via
la mano dalla stretta salda di Pan, con scarsissimo successo. Avevamo
gli occhi di tutti puntati addosso e non volava una mosca.
«Ha
frugato nella mia borsa!»
«Mi
sbaglio?»
Perdevo
velocemente sensibilità, qualcuno aveva cominciato a
borbottare, forse per scommettere su chi dei due, tra Pan e Sark,
l'avrebbe avuta vinta. E io già sentivo di rimpiangere il
momento in cui credevo che
fosse scomparsa.
«Ha
invaso la mia privacy!»
«Mi
sba-glio?» ha chiesto Sark, facendo maggiore sforzo per
trattenerla.
«Cazzo,
non sa dire altro?»
Si
sono fronteggiati a lungo, squadrandosi in cagnesco, cercando un
cedimento da parte dell'altro.
«Mi
sbaglio?» ha ripetuto Sark per la centesima volta e speravo
davvero che Pan rispondesse e che mi lasciasse andare, se proprio non
voleva lasciare andare il coltello.
E,
infine, dopo quelle che mi sono parse ore, dopo che avevo pregato
tutto il pregabile, dopo aver promesso di lavare tutti i giorni la
macchina di papà usando una mano sola, dopo aver promesso di
aiutare la mamma col giardinaggio e di non pensare più male di
nonno Satan ogni volta che torna a casa ubriaco, Pan ha ceduto,
sbuffando.
«Cazzo,
ma una soddisfazione, nella vita, me la volete dare?» ha
chiesto, mentre il professore le riprendeva il coltello.
«Non
qui dentro!» ha risposto, glaciale, rimettendo il coltello sul
tavolo. «E ora liberi questo povero... invasore di privacy
altrui.» Gli sarò grato per tutta la vita, lo giuro.
Ha
aspettato che Pan eseguisse l'ordine, per guardarsi intorno e notare
tutti gli sguardi curiosi, mentre io mi allontanavo in fretta dalle
sue grinfie.
«Beh?»
ha chiesto il professore, a voce alta. «Cosa avete da guardare?
Lo spettacolo è finito! Finite le vostre colazioni e tornate a
preparare le vostre valigie. Scommetto che i pullman sono già
fuori che vi aspettano! E lei...» mi ha lanciato uno dei suoi
peggiori sguardi di ghiaccio. «vada a vestirsi. Non credo che
l'ultimo giorno del trimestre sia una buona scusa per credere di
essere già a casa, non trova?»
Non
sapevo cosa rispondere: come potevo raccontare che ero in quelle
condizioni perché avevo cercato mia sorella in lungo e in
largo, prima di scoprire che non era mai scomparsa?
Lui
non ha chiesto; è semplicemente tornato al tavolo degli
insegnanti, prima che avessi il tempo di ringraziarlo. Non sono
comunque andato a farlo, per paura e per vergogna, ma sono felice che
ce l'abbia avuta vinta su Pan, altrimenti ora mi ritroverei con una
mano sola.
E'
stato con lo stomaco vuoto che, vestito di tutto punto e con le
scarpe, mi sono diretto ai pullman, col mio borsone, accanto ad un
Alex davvero impressionato.
«Te
la sei vista proprio brutta!» mi ha detto.
«Sono
con te, amico.» è stato il saluto di Trowa, che mi ha
dato una pacca incoraggiante sulla spalla, prima di sparire su uno
dei quindici pullman parcheggiati nel cortile. C'erano tutti gli
insegnanti con noi, tranne la Une. Alex ha detto che avrebbe dovuto
tenere un discorso, ma Zack Marquise ci ha fatto sapere che per
“gravi problemi” non avrebbe potuto farlo, ma che mandava
tutti i suoi migliori auguri alle famiglie. E io, di quei gravi
problemi, ne sapevo qualcosa...
«Buona
fortuna!» ha rincarato la dose Tai Yagami, nel frattempo.
«Ci
vediamo presto, spero!» mi ha augurato Matt Ishida.
«Non
te la prendere!» mi ha detto Frank, mentre sistemavamo la
valigia nel vano ai lati del pullman verde militare, forse capendo i
miei pensieri. Ci siamo avviati verso la porta e abbiamo aspettato il
nostro turno per salire. Arale era ai piedi del pullman, che ci
aspettava per salire tutti insieme. Non sembrava molto allegra.
«Non
me la prendo!» ho risposto, sconsolato. «Sono dodici anni
che vivo così!»
«Aveva
già provato a tagliarti una mano?» mi ha chiesto Alex.
«La
mano no, ma l'orecchio sì!» ho sospirato, mentre,
finalmente, riuscivamo a guadagnare l'entrata del pullman. Abbiamo
cercato quattro posti liberi. Mentre ci dirigevamo verso alcuni posti
vuoti al centro, ho raccontato la storia: «L'anno scorso,
stavamo studiando Van Gogh e la professoressa ci aveva detto di
disegnare un qualunque soggetto volessimo con la sua tecnica.»
ci siamo seduti, Frank vicino al finestrino, io vicino al corridoio.
«Beh, Pan voleva per forza farmi un ritratto dove io ero senza
orecchio, ma aveva bisogno che lo fossi davvero perché il suo
dipinto trasudasse realismo, almeno così ha detto. Mi ha
rincorso per tutta la casa ed è anche riuscita ad
acchiapparmi!»
«E
chi ti ha salvato?»
«La
vicina!» ho sospirato, nel ricordare. «Era venuta a
portare una torta alla mamma, sai, se le scambiano... ed è
questo che l'ha fermata. Poi mi sono dileguato fino alla sera. Sono
tornato solo quando c'erano mamma e papà, quindi non mi ha
potuto tagliare l'orecchio... in compenso, è arrivata a scuola
senza dipinto!»
Alex
ha fischiato, impressionato.
Arale,
sistematasi davanti a noi, chiedendo uno scambio di posto ad un
ragazzo, che è stato molto gentile a cederglielo, si è
messa in piedi sul sedile, con le braccia incrociate sul poggiatesta.
«Mi
chiedo perché non l'abbiano espulsa.» ha borbottato.
Frank
si è stretto nelle spalle, mentre Alex si batteva un pugno sul
palmo aperto dell'altra mano. «Forse perché era l'ultimo
giorno!»
«Bah...»
è stato il commento di Frank.
«Sì,
effettivamente non vedo altre spiegazioni...» ha confermato
Arale.
«Io
vorrei solo sapere perché ha preso quel lassativo!» ho
sospirato, guardandola mentre si liberava la fila facendo a spintoni
con tutti quelli che le passavano davanti, nel pullman di fronte al
nostro.
«E
soprattutto dove l'ha preso!» ha esclamato Alex.
«Veramente,
è il come, la cosa interessante!» ha risposto Arale.
«L'unico posto dove possa aver preso una medicina è
l'infermeria!»
«O
Heero Yuy!» ha concluso Frank, scontento.
«No...»
Arale ha fatto una smorfia. «Non credo che Heero si vada a
rifornire di lassativi. La Johnson non glieli darebbe e gli
armadietti dei medicinali sono sempre chiusi a chiave.»
«Avrebbe
potuto scassinarli...» le ha fatto notare Frank.
«La
Johnson è sempre in corsia.»
«Non
ci credo che gliel'ha dato lei!» ha esclamato Alex, con
veemenza. Ma poi ha scosso la testa. «La Johnson non ha mai
dato medicine al di fuori dell'infermeria!»
«Magari
Pan l'ha preso senza che se ne accorgesse!» ho proposto.
«Impossibile!»
ha ribattuto Alex. «La Johnson è un mastino, quando si
tratta del suo lavoro!»
«Non
dimenticare che l'infermeria nell'ultimo periodo era piuttosto
affollata! Qualcuno avrebbe anche potuto non vederla!» ci ha
fatto notare Frank. Guardava fuori dal finestrino, verso il pullman
dentro cui si era sistemata Pan. Sembrava molto concentrato, anzi,
direi proprio arrabbiato.
Nel
momento stesso in cui l'autista ha messo in moto, provocando la ola
di tutti quanti intorno a noi, lui si è riscosso.
«E'
stato piuttosto semplice, quindi!» ha detto, mentre dagli
ultimi posti dei ragazzi avevano attaccato a cantare una canzone che
non conosco. Si è piegato un po' in avanti, guardando prima
me, poi Arale ed infine Alex. «Lei ha approfittato della
confusione degli ultimi giorni del trimestre. Avete visto tutti
quanti! Tu, Ken, l'hai sperimentato: la Johnson era oberata di lavoro
e chiunque entrasse in infermeria non veniva notato o comunque la
Johnson lo acchiappava per farsi aiutare e prendere le medicine.
Mettiamo che Pan sia andata in un momento di maggiore caos, abbia
trovato l'armadietto dei medicinali o ce l'abbia mandata la Johnson.
Non sarebbe stato difficile farsi scivolare per sbaglio un lassativo
in tasca, no?»
Lo
seguivamo interessati, appassionati come ad una storia gialla.
Peccato che, in questa, ci fossimo dentro anche noi e, soprattutto,
mia sorella. «Aveva il modo e i mezzi per riuscire ad
“avvelenare” la Une. Non ha chiamato nessuno, è
scesa in cucina senza fiatare e non ha neanche urlato per svegliare
tutta la camerata! Un comportamento molto sospetto, non trovate?»
Abbiamo
annuito.
«Ha
apparecchiato, da sola, il tavolo degli insegnanti e poi... beh, ha
infilato il lassativo nelle uova della Une. Avete sentito Ken, no?
L'ha trovata in bagno...»
Avevo
raccontato, a grandi linee, la vicenda durante la nostra discesa
verso il cortile, ricordandomi di aggiungere il fatto che la cacca
della Une puzza come quella di mio nonno, cosa che ha suscitato
l'ilarità di tutti e quattro. Sì, ripensandoci quella è
proprio una scena da manuale.
«E
se l'è presa perché Kenny, involontariamente, l'aveva
scoperta...» ha concluso Arale.
«Già...»
Abbiamo
sospirato tutti quanti, all'unisono, mentre quelli in fondo cercavano
di coinvolgere il resto del pullman in un'altra canzone.
«Vorrei
che la smettesse di comportarsi così!» ha esclamato
Frank, proprio mentre attraversavamo a passo d'uomo il muro di cinta
dal quale ero entrato in caserma quattro mesi prima, con
quell'imbarazzante macchina rosa. Mi sembrava passata un'eternità
da quel momento. Ci sono entrato così velocemente e così
lentamente me ne stavo andando. Uno strano scherzo del destino...
«Che ci guadagna?»
«Bah,
non la capisco proprio!» ha risposto Arale. «E non è
neanche così stupida, se ha ordito tutto questo!»
«Che
ne dite se la smettiamo di parlare di Pan? Senza offesa, Ken, ma...»
Frank ha scosso la testa, ma lo capivo. Ho annuito volentieri, mentre
il resto del pullman intonava una canzone che conoscevo.
Ho
dato fondo alle mie corde vocali e mi sono unito a loro, cercando di
non pensare ai terribili momenti che ho passato, mentre Pan quasi mi
tagliava una mano. E il bello, ricordavo, era che gliel'aveva
suggerito Sark.
Il
viaggio è durato quasi quanto quello d'andata, forse un'ora o
due in meno: non c'era molto traffico per le strade. I quindici
pullman avevano strada libera, solo che dovevano rispettare i limiti
di velocità che, su quelle strade, è parecchio basso
per i mezzi grossi. Ma tutti siamo stati recapitati alla stazione
degli autobus di Tokyo verso le tre e mezza del pomeriggio. La
stazione era praticamente invasa da mocciosi in divisa nera.
«Ma
non è la stazione civile!» mi ha spiegato Frank, mentre
cercavamo disperatamente le nostre valigie nel vano portabagagli.
«C'è proprio una zona dedicata ai militari... ecco,
tieni, Ken, questa è tua!»
Mi
ha passato la mia valigia, ma non mi sono spostato: volevo
aspettarlo, così da essere tutti insieme per i saluti e gli
auguri. Avevo totalmente perso di vista Pan e la cercavo tra la
fiumana di divise nere, ma senza successo: dopo un po', i volti mi
sono parsi tutti uguali.
Non
appena Frank ha ritrovato il suo bagaglio, ci siamo aperti un varco
tra la muraglia di studenti che si accalcavano per riprendersi le
loro cose e ci siamo avviati verso l'uscita, dove, ad aspettarci,
c'erano Alex e Arale, tutti e due provvisti di un solo zaino.
«E'
lì tutto quello che vi serve?» ho chiesto, perplesso,
mentre trascinavo la mia borsa a fatica.
«Tanto
non è che mi sono portata il guardaroba, in caserma!» ha
esclamato Arale, facendo spallucce. Ha squadrato il mio bagaglio.
«Tu, piuttosto, dobbiamo stare via due settimane, non due
mesi!»
Non
potevo dirle che non avevo mai preparato una valigia da solo prima
d'ora, quindi ho preferito tacere e distogliere l'attenzione da me.
«E
tu, Alex?»
«Io
mi faccio prestare qualcosa da mio fratello Martin!» ha
risposto lui, con leggerezza. Era così che scoprivo che Alex
aveva un fratello. Mi sovviene solo ora che non ha mai parlato della
sua famiglia e ho visto, stranamente, Arale scoccargli un'occhiata
sospettosa come non accadeva da giorni. L'unica cosa che mi sono
ricordato e che ricordo ancora è che lui una volta ci aveva
parlato di sua madre e delle ragazze di cui si doveva occupare, ma
che non erano le sue sorelle. Sono ancora piuttosto confuso, a
riguardo.
Il
mio amico si è sistemato meglio lo zaino sulle spalle e ci ha
rivolto un mezzo sorriso. «Beh, gente... ci vediamo.» ha
stretto la mano a Frank e gli ha dato una pacca sulla spalla; lo
stesso ha fatto con me e ha abbracciato Arale. Poi si è
diretto all'uscita ed è sparito tra la folla che lo stava
imitando.
Non
credevo mi sarebbe dispiaciuto così tanto dover salutare un
amico, anche se solo per due settimane.
«Beh,
vado anch'io.» ha detto, a quel punto, pure Frank, con un mezzo
sorriso impacciato. «Credo mi stiano aspettando!»
Ha
indicato un uomo alto e smilzo, vestito di scuro, ma, da quel che ho
potuto vedere, non era un militare. Sembrava più un uomo
d'affari rigido e inflessibile, con quei suoi baffetti perfetti e lo
sguardo severo.
«Quello
è tuo padre?» ho chiesto, curioso.
«Cielo,
Kenny, non hai mai visto Douglas Kushrenada in vita tua?» ha
sospirato Arale, sconsolata.
Ho
scosso la testa.
Frank,
però, ha riso e mi ha dato una pacca sulla spalla. «No,
Ken, quello non è mio padre. Quello è Kenzo, il mio
autista!»
Gli
occhi di Arale sono diventati enormi come palloni, più o meno
come la mia bocca spalancata.
«Tu...
hai un autista personale?» ha chiesto la mia amica, senza
fiato. Io rimanevo sconvolto, mentre ancora squadravo quel tipo di
nome Kenzo che si avvicinava a noi con passo cadenzato, quasi quanto
quello della Une.
Ci
ha fissato a lungo, soprattutto a me che ho mantenuto una faccia da
pesce lesso molto più a lungo di Arale. «Signorino
Kushrenada, la macchina la attende!» ha detto, compito.
«Sì,
arrivo subito... ehm... saluto... i miei amici!» ha risposto
Frank, dopo un attimo di esitazione. Sembrava diventato tutt'altra
persona rispetto a prima. Ci ha stretto la mano, rigido e formale
come non lo era da quando ci siamo conosciuti. «Allora,
arrivederci presto. Auguro a voi e alla vostra famiglia tanti auguri
di Buon Natale e di felice Anno Nuovo!»
«Ehm...
grazie.» ho mormorato, perplesso, facendo, in automatico, un
piccolo inchino di ringraziamento. Arale ha fatto lo stesso, molto
più allegra.
«Ci
sentiamo presto! Anzi, guarda...» ha messo in mano a lui e a me
un fogliettino con su un numero di telefono. «Questo è
il numero di casa. Chiamatemi, mi raccomando!»
«Non
mancheremo.» ha esclamato l'autista per Frank che guardava il
foglietto perplesso. Sono rimasto piacevolmente sorpreso e ho
guardato Arale, sorridendo.
«Certo!»
«Adesso
andiamo, signorino Kushrenada, suo padre la sta aspettando. Deve
presenziare al party organizzato da sua madre, per il suo ritorno...»
«Sì,
certo...» ha risposto lui e, senza rivolgerci un solo sguardo,
se n'è andato. Mentre si allontanavano, però, ho
sentito qualcosa che mi ha leggermente infastidito. Il maggiordomo
diceva qualcosa che somigliava molto a: «Non dovrebbe farsi
vedere in giro con certa gente, signorino Kushrenada, se posso
permettermi. Un giovane del suo rango non dovrebbe abbassarsi ad
accompagnarsi con gente di tale risma! Uno dei due ha almeno un
titolo nobiliare?»
Avrei
voluto rispondergli che la mia amica ed io non siamo “gente di
tale risma” e che lui era solo un dipendente del giovane di
alto rango. Ma non l'ho fatto: un po' per mancanza di coraggio, un
po' perché Pan mi ha preso alle spalle, battendovi sopra così
forte da farmi lamentare a voce alta.
«Kenny,
brutto idiota, se non ci muoviamo, mamma manderà i Caccia
bombardieri a cercarci!» mi ha detto. Quello era davvero il
modo migliore per dimostrare di non essere plebaglia, ma va beh... si
sa che con Pan nei dintorni non bisogna mai fare programmi.
«Ehm...
sì.» è stata l'unica cosa che ho risposto, memore
di quella mattina. «Ciao, Arale.» ho alzato la mano che
ancora stringeva il suo numero di telefono. Ho abbozzato un sorriso
in sua direzione. «Ti chiamo, allora!»
Lei
è diventata il ritratto della felicità ed ha annuito.
«Ci conto, eh!» ma prima che potessi allontanarmi, mi si
è gettata al collo. «Ottimo piano, Kenny!» ha
detto al mio orecchio. Giuro che sono rimasto molto confuso, finché
non ha continuato: «Tenere d'occhio Alex e Frank fingendoci
loro amici! È stato un colpo di genio e se l'avessi capito
prima, ti avrei dato una mano! Ah, sei così coraggioso!
Incastrarli, in questo modo, sarà un gioco da ragazzi! Sei un
attore nato, ma anche io non me la sono cavata male!»
«Ma...
ma veramente...»
Lei
mi ha lasciato andare e mi ha rivolto un sorriso raggiante. «Smettila
di fare il modesto. Ci vediamo a gennaio!» mi ha detto, ed è
sparita tra la folla, mentre Pan mi ha afferrato per la collottola,
come ad un cane.
«Ti
sei messo con la tappa della Norimaki?» mi ha chiesto, senza
preamboli.
Ho
ricambiato terrorizzato il suo sguardo: io mettermi con Arale, con
una pazza siderale che crede che io voglia essere amico di Alex e
Frank per incastrarli?
«Eh?
Ma che dici?»
«Ma
no, niente...» ha sbuffato lei, prendendo a guardarsi intorno.
«Figurati se tu, con la fama di frocio che hai, potevi metterti
con una ragazza!»
Non
ho detto niente, ma non è comunque giusto che mi tratti così!
Capissi se le ho mai fatto qualcosa di male: l'unica volta in cui
sono stato io a vincere contro di lei è stato da bambini,
quando dovevamo decidere che cartone animato vedere e poi ha deciso
nonno Goku che voleva vedere quello che volevo vedere io.
Un
attimo dopo, però, quando stava per riprendere a parlare, li
ho visti: i nostri genitori, fermi di fronte alla macchina rosa che
avevo visto l'ultima volta andare via dal cortile della caserma. Ci
guardavano e non si muovevano, come se avessero avuto paura che
potessimo non essere noi. Mi chiedevo se fossimo così cambiati
in quattro mesi.
«I
NOSTRI VECCHI!» ha urlato mia sorella.
Un
attimo dopo mi ha inaspettatamente gettato addosso il suo borsone,
facendomi crollare a terra: dentro, sembrava che ci fossero dei
mattoni e, invece, erano tutti i suoi giornalini.
Mamma
ha cominciato ad urlare, sgranando gli occhi, piena di terrore.
«ODDIO!» ha gridato.
Pan,
però, incurante, ha cominciato a correre con le braccia tese.
«MAMMA, PAPA', DOV'E' NONNO SATAN?»
La
mamma l'ha imitata, ma non urlava, guardava verso di me con terrore.
Si sono corse incontro, come in quelle scene idilliache che si vedono
solo nei telefilm strappalacrime con tanto di musica celestiale in
sottofondo. Solo che, stavolta, la musica avrebbe dovuto essere un
requiem tragico: tra me che tentavo di rialzarmi da sotto quel peso
immane, Pan che correva verso la mamma e la mamma che correva verso
di me, credo che ci sarebbe stata proprio bene.
«MAMMA!»
ha gridato Pan.
«KENNY!»
ha gridato la mamma, sorpassando Pan, senza neanche guardarla. Si è
gettata su di me, tirando via il borsone dal mio sterno, poi ha
cominciato a stringermi forte, togliendomi il respiro. «IL MIO
BAMBINO! COM'E' SCIUPATO IL MIO BAMBINO!»
Nel
mio agonizzare, vedevo Pan, a metà strada tra mamma e papà,
sconvolta e sconcertata, mentre guardava noi, a terra, abbracciati.
E, dopo essersi ripresa, ha cominciato a battere a terra un piede.
«DOVE
CAZZO E' MIO NONNO? AVANTI, SALTA FUORI, VECCHIO DI MERDA!»
diceva, guardandosi intorno forsennatamente. «MUOVITI, VECCHIA
BAVOSA! C'E' LA TUA UNICA NIPOTE QUI!»
Attimi
di panico. La mamma ha smesso di stringermi come una piovra e si è
alzata. Nei suoi occhi vedevo solo furore.
«PAN!»
ha gridato, furiosa. «SMETTI SUBITO DI URLARE! NON TI HO
MANDATO IN UNA SCUOLA PER CALMARTI?»
«STAI
ZITTA, VECCHIA MEGERA!» è stata la risposta di Pan.
«SONO MESI CHE NON CI VEDIAMO E TU VAI AD ABBRACCIARE KENNY!»
La
gente aveva cominciato a fermarsi, il traffico era bloccato perché
loro erano in mezzo alla strada e le auto cominciavano a suonare i
clacson con insistenza. Papà si è avvicinato al campo
di battaglia con circospezione, forse per evitare di rimanere ucciso
dalle urla.
«STAVI
AMMAZZANDO TUO FRATELLO E POI PRETENDI ANCHE CHE TI ABBRACCI!»
«CERTO!
ADESSO ANCHE LA PREFERENZA SUI FIGLI! COME MADRE SEI UNA MERDA!»
«NON
OSARE, PAN! SE NON LA FINISCI, TI TENGO IN PUNIZIONE FINO A CHE NON
TORNI IN CASERMA!»
«OSO!
ECCOME SE OSO! LO DEVONO SAPERE TUTTI CHE SEI UNA MERDA!» e
così ha cominciato a guardarsi intorno, incrociando gli
sguardi terrorizzati di quelli che stavano guardando la scena. Ha
indicato la mamma, mentre urlava: «LA VEDETE QUESTA DONNA? E'
UNA MERDA CHE PREFERISCE SUO FIGLIO A SUA FIGLIA! CAPITO? E' UNA
MERD...»
«ORA
BASTAAA!» la mamma, facendomi perdere un battito, si è
gettata su Pan. Hanno cominciato ad azzuffarsi sull'asfalto, mordendo
e scalciando. Solo a quel punto, papà ha davvero avuto il
coraggio di avvicinarsi ed ha strappato Pan dalle grinfie di mamma,
tenendola per le braccia; mia sorella si dimenava, scalciava e
latrava, i denti digrignati come una belva.
«LASCIAMI!
LASCIAMI!» sbavava.
Per
tutta risposta, un secondo dopo, è arrivata la polizia a
sirene spiegate e ci ha arrestati tutti e quattro.
Dopo
quattro ore in centrale, dove ci hanno lasciati tutti e quattro in
cella (io e papà in una, mamma e Pan in due separate), un
poliziotto è venuto davanti alla nostra cella.
«Nome,
prego.» ha esclamato. «Devo fare il verbale! E VOI DUE
SMETTETELA!» ha gridato, rivolto a Pan e mamma, che
continuavano ad urlare come due forsennate parole che non comprendevo
nel rimbombo della stanza. Subito, nel sentire urlare il poliziotto,
tutte e due si sono zittite e lo guardavano sconvolte. «Grazie.»
ha replicato quello, secco. Poi è tornato a guardare papà.
«Insomma, le sue generalità.»
«Ehm...
sono... sono Gohan Iccijojji.» ha risposto papà,
debolmente. Quello ha inarcato un sopracciglio.
«Mmm...
Iccijojji, eh?» ha detto, lentamente.
«Sì.»
ha confermato papà, che ne capiva quasi quanto me.
«Bene.
Torno subito.» il poliziotto è sparito così com'è
arrivato e la mamma e Pan sono tornate alla loro rumorosa lotta
verbale. Io e papà ci siamo lanciati uno sguardo sconfitto,
silenziosi come quando ci hanno messo le manette ai polsi. Un po'
strano che, a dodici anni (tredici, a giugno), un ragazzo sia già
stato messo in galera. Ancora più strano che il suddetto
ragazzo sia messo in galera insieme a tutta la sua famiglia.
Proprio
mentre ero perso in questi pensieri, è arrivato un uomo
vestito di marrone, anziano, i baffi pettinati e grigi come i
capelli, l'espressione severa e gli occhiali rettangolari.
«Sono
l'ispettore Soichiro Yagami.*»
si è presentato, fermandosi di fronte alla nostra cella, con
le mani dietro la schiena.
«Salve.»
ha salutato papà, mentre io mi sono limitato ad un cenno della
testa. Yagami... che fosse un parente di Tai o era solo un caso di
omonimia? Dovrò chiederlo al mio compagno quando torno in
caserma.
La
mamma e Pan, intanto, continuavano la loro guerra.
«INSOMMA,
SILENZIO!» ha gridato il poliziotto che, prima, ci aveva
chiesto il nome. Tutte e due, di nuovo, si sono zittite.
«Grazie.»
è stato tutto quello che ha detto l'ispettore Yagami, prima di
prendere dalla tasca dei pantaloni una chiave. «E ci scusi,
signor Iccijojji. C'è stato un terribile equivoco.»
«E-equivoco?»
ha ripetuto papà, sconvolto quasi quanto me, mentre
l'ispettore ci apriva la porta della cella. «Po-possiamo
andare?»
«Sì,
certo, signor Iccijojji.» ha risposto quello, serio. Sembrava
quasi scocciato. «Gliel'ho detto, c'è stato un equivoco.
Su, venite fuori. Lei,» si rivolse al poliziotto. «liberi
le due donne.»
«Sì,
signore!»
«Ma...»
mentre papà usciva, seguito da me, si è fermato davanti
a Yagami. «Ma lei è sicuro che...»
«Le
ho detto di andare.» ha risposto quello, diventando
improvvisamente glaciale, proprio come Sark. «Un agente vi
accompagnerà fuori. Buon Natale, signor Iccijojji.»
«Buon
Natale anche a lei, ispettore.» gli ha augurato papà.
Yagami lo ha fulminato con lo sguardo.
«Vada,
vada!» ha esclamato, allungando un braccio verso la porta. Papà
ha annuito: ormai aveva capito anche lui che non siamo graditi
neanche in prigione. Credo che il nostro sia l'unico caso di
scarcerazione per cattiva condotta.
«Lo
sa?» ha cominciato la mamma, puntando un dito accusatore contro
l'ispettore Yagami a cui stavano cominciando a tremare i baffi,
mentre a me le gambe: ero sicuro che, se mamma avesse offeso un
ufficiale di polizia, dalla galera non ci toglievano neanche se
cadaveri. «Lei è un gran maled... Gohan!»
Papà
l'ha presa per le spalle, ha guardato me e Pan che, per quanto
vicini, non ci siamo sfiorati neanche con un dito ed ha esclamato:
«Andiamo, cara. Forza, ragazzi, si è fatto tardi.»
Mentre
uscivo, sono sicuro di aver sentito distintamente l'ispettore Yagami
sospirare. Ed era un inequivocabile sospiro di sollievo.
Siamo
saliti in macchina alle sette e mezza di sera. Il viaggio fino a casa
è stato silenzioso, ma quantomai teso. Tutti guardavamo fuori
dal finestrino, ognuno per conto suo (tranne papà,
naturalmente, che guardava la strada), ognuno perso nei propri
pensieri, io troppo sconvolto per aver passato quattro ore chiuso in
una cella e sbattuto fuori non perché innocente, ma perché
casinista! Forse, se il senatore Douglas Kushrenada lo venisse a
sapere, non mi darebbe il permesso di respirare la stessa aria che
respira suo figlio e Arale penserebbe che sono stato condizionato
dalle cattive compagnie.
Quando
siamo scesi, però, ho capito subito che c'era qualcosa che non
andava, che era cambiato qualcosa: la macchina rossa nel vialetto del
garage, per esempio.
«Chi
cazzo ha parcheggiato nel nostro garage? Chi è lo stronzo
che...» ha cominciato ad
inveire Pan, rompendo quel silenzio teso.
«Nessuno
stronzo!» ha risposto mia madre, acida. «E' tutto
perfettamente normale!»
«E
come mai?» ho, finalmente, avuto il coraggio di aprire bocca.
«Ora
lo vedrete!» ha tagliato corto lei. E' scesa dalla macchina e,
una volta che tutti siamo stati in strada, seguiti dagli occhi
indagatori di tutti i vicini, ci siamo diretti verso la porta di
casa, riverniciata di uno stranissimo colore viola.
Mi
aspettavo di tutto, tranne quello. E non parlo della porta.
*****
* Soichiro Yagami, Death
Note
Bene, bene, bene. Ecco
qui il capitolo tredici. È un peccato non poter inserire
quello natalizio proprio durante questo periodo di festa, dato che
comunque ce ne vuole un altro prima di arrivare al cenone cruciale e
visto anche che pubblico con una frequenza piuttosto bassa. Comunque,
a parte questo, ho inserito anche i personaggi di Death Note che
saranno abbastanza marginali, a parte qualcuno, che vedremo nel
capitolo di cui ho parlato qualche riga più su. Ora abbiamo
solo qualche domanda in più: di chi è l'auto rossa? E
cosa dovrà aspettarsi Kenny, una volta varcata la porta di
casa?
Spero sia stato di vostro
gradimento. ^^
Luine.
|
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Capitolo 14 *** Il quinto incomodo ***
Vacanze
natalizie.
Il
quinto incomodo
|
Beh,
sì. La giornata non è ancora finita. Sono successe così
tante cose che sembra non possano bastare ventiquattro ore perché
possano davvero essersi concentrati tanti fatti tutti insieme. Eppure
è così: dopo la sparizione di Pan, i lassativi, la mia
mano che stava per lasciarmi e la prigione, adesso anche quello.
Sulle
prime, la casa, al suo interno, mi sembrava sempre la stessa; gli
stessi mobili, gli stessi quadri e gli stessi tappeti, sia
nell'ingresso, che nel salotto. Era solo la persona nella cucina ad
essere estranea.
Era
un ragazzo, beh, diciamo un uomo, alto, magro, coi capelli di uno
strano colore verde acqua e un codino, il viso sfilato e gli occhi
sottili e marroni. Stava mangiando dentro uno dei nostri piatti
quella che somigliava ad una pizza.
La
mia prima sensazione? Panico. Allo stato puro.
Quando
siamo entrati, la mamma, in mezzo a me e Pan, ci ha posato una mano
ciascuno su una spalla. Non ero pronto a tutto quello, non ad un
ladro che pensava bene di cenare da noi, magari dopo aver arraffato
il bottino. Il bello, però, era che il ragazzo non aveva
nessun sacco con sé. Si è alzato in piedi, non appena
ci ha visto.
«Oh,
Videl, mi dispiace!» ha esclamato, con aria gentile. Già
non mi piaceva. Un ladro falso e ipocrita che conosceva il nome di
mia madre. Non ci avevo pensato su molto, in quel momento; non mi ero
chiesto come mai quel tizio scialbo conoscesse il nome della mamma.
Ero troppo impegnato a pensare ad un modo per stordirlo. «Credevo
non sareste tornati per cena e... spero che non ti dispiaccia!»
Okay.
A questo punto, pensandoci o meno, ho capito che qui c'era davvero
qualcosa di strano: da quando in qua un ladro parla così al
padrone di casa, quasi lo conoscesse? Per un po' sono stato convinto
che i miei genitori avessero deciso di frodare l'assicurazione su
furto e incendio.
«Oh,
no, caro! Hai fatto benissimo.» ha risposto, però la
mamma, tutta zuccherosa. Ho alzato lo sguardo su di lei che osservava
il ragazzo con un certo, mi secca ammetterlo, affetto. «Dopotutto,
questa è diventata anche un po' casa tua... ma, Mizar*,»
è stata gioviale come non è mai stata (un po' casa sua?
Ma stiamo scherzando?). «ti presento i miei figli, Pan e
Kenny!»
Gli
ho lanciato un'occhiataccia che speravo potesse raggelarlo, ma io non
sono bravo come Pan che, disgustata, lo guardava dall'alto in basso e
sembrava, con mio grande piacere, riuscire a metterlo in soggezione.
Se quello era un ladro, e se la mamma lo conosceva e lo trattava come
se fosse uno di famiglia, allora lui era uno di quei truffatori che
si insinuano nelle case delle vecchiette per fregare loro la
pensione. Ma perché aveva scelto proprio noi, questo mi sono
domandato, quando c'era la signora in fondo alla strada? E perché
la mamma gli ha aperto la porta e lo ha anche invitato a restare,
magari lasciando tempo ai suoi complici di svaligiarci mentre i miei
erano alla stazione degli autobus e poi a quella di polizia?
«Ma
bene!» ha esclamato, però, mia sorella, distogliendomi
da tutte queste teorie cospirative. «Adesso anche il ragazzo
alla pari. E poi? Uno stuolo di schiavetti che cospargono la nostra
via di petali di rosa e ci spazzolano anche il culo?»
La
mamma le ha dato una sonora pacca sulla spalla, mentre stringeva di
più la mia. Ho evitato di lamentarmi, concentrato com'ero su
quel tipo che, in casa nostra, si mangiava una pizza, rubava le
pensioni e... faceva il ragazzo alla pari?!
«Andiamo,
Pan! Non è il ragazzo alla pari! Lui è Mizar e viene da
Asgard.»
Ecco,
appunto. Dopo queste parole, sono stato ancora più convinto
della veridicità delle mie teorie.
«E
dove cazzo sarebbe?» è stata l'acida domanda di Pan che,
per tutto il tempo, non gli ha staccato gli occhi di dosso,
minacciosa e battagliera, proprio come avrei voluto sembrare io.
«E'
in Norvegia, molto a nord.» ha detto il tizio, con un debole e
quantomai falso sorriso. Sembrava a disagio, ma forse perché
non si aspettava di poter incontrare due giovani e quantomai
agguerriti ragazzini pronti a difendere con le unghie e con i denti
la loro casa e i loro ingenui genitori. Più lo guardavo e più
mi stava antipatico. E anche adesso, se ci penso, mi viene una rabbia
che andrei a prenderlo a cuscinate. DORME NELLA STANZA DI NONNO
SATAN, PER LA MISERIA!
«Non
te l'ho chiesto.» ha tagliato corto Pan. «Mamma, questo
coglione, che cazzo ci fa in casa nostra, se non è il ragazzo
alla pari? Vuoi dire che è davvero uno schiavetto?» sul
suo viso si è delineato un sorriso sadico.
«Ma
no!» ha sbottato la mamma, indignata. «Mizar è un
inquilino!»
«Inquilino?»
ho ripetuto, cercando nel mio vocabolario mentale il significato di
quella parolaccia. Ma mia sorella ha interrotto la mia ricerca con la
sua solita finezza:
«Significa
che gli piace prenderlo nel culo?»
«PAN,
PIANTALA DI ESSERE VOLGARE!» ha gridato la mamma, isterica. Poi
si è rivolta a quel faccia-da-triglia, di nuovo zuccherosa:
«Scusala tanto, Mizar, ma sai... Pan è un po'...
turbolenta!»
Lui
stava per dire qualcosa come un ipocrita «mi dispiace»,
ma mia sorella l'ha di nuovo fermata sul più bello:
«Turbolenta un cazzo!» ha indicato quell'usurpatore, ma
fissando rabbiosa la mamma. «Tu mi metti un tipo in casa e devo
anche essere contenta?»
«Ehm...
non dovremmo... parlarne da un'altra parte?» ha proposto papà,
che stava rientrando con i nostri bagagli, ammonticchiati su una
spalla.
«No!»
ha esclamato il tizio, riprendendo a parlare, dopo le due frasi
inutili che si poteva anche risparmiare. «Ehm... credo di...
dovermene andare io.»
«Esatto,
cocco!» ha confermato Pan, con cattiveria, ma, per una volta,
ho approvato in pieno la sua condotta. «Quindi, adesso prendi
tutte le tue belle cose, te le ficchi dove vuoi e vai a fanculo.»
Non
l'avesse mai detto (anche se, devo ammetterlo, ero più che
d'accordo con lei): la mamma non l'ha presa molto bene e, anzi, si è
messa ad urlare proprio come ha fatto per strada. Ho pensato che i
vicini avrebbero chiamato la polizia e l'ispettore Yagami, stavolta,
non sarebbe stato così benevolo, nei nostri confronti.
«NON
TI PERMETTO DI PARLARE COSI' AD UN OSPITE!»
«Ma
non era un inquilino?»
«FA
LO STESSO! CHIEDI SUBITO SCUSA!»
«MAI!» «CHIEDI
SCUSA!»
«NO!»
«SI'!»
«NO!»
«SI'!»
Pan
le ha puntato un dito addosso, liberandosi della sua stretta e dando
le spalle a quel faccia-da-pesce-lesso che guardava la scena
allibito. Ma, per una volta, non potevo dargli torto: quelle due
riuscirebbero a spaventare persino Terminator.
«SEI
UNA MERDA! PREFERISCI UN ESTRANEO AI TUOI FIGLI!» ha gridato,
esattamente come in strada. Non ero pronto ad una nuova performance,
ma almeno sono stato contento che “Mizar” lo fosse ancora
più di me.
«PROVA
A RIPETERLO SE HAI IL CORAGGIO!» ha gridato in risposta la
mamma, puntando a sua volta un dito contro Pan che non si è
lasciata intimidire neanche per un istante.
«LO
DICO E LO RIPETO: SEI UNA MERDA!»
E,
per tutta risposta, mamma le ha dato uno schiaffo e Pan ha risposto
allo stesso modo. Un secondo dopo, hanno ripreso la stessa scenetta
della strada, solo che, al posto dell'asfalto, il campo di battaglia
era la cucina e l'unico spettatore ignaro e terrorizzato era Mizar.
Bene. Inquilino o meno, sarebbe scappato a gambe levate. Non vedevo
l'ora.
Papà
è riuscito a sgusciare in cucina, mentre io mi appiattivo
contro la parete per evitare di essere messo in mezzo.
«Ehm...
non ti preoccupare, ma sai...» ha ridacchiato, nervosamente,
rivolto all'“ospite”. Ecco, quindi, se lo tranquillizzava
il mio desiderio sarebbe sfumato. «loro fanno spesso così...»
«Ah...
ehm... bene.» è stata la risposta sconcertata di Mizar
che guardava mia madre e mia sorella a terra che, in un groviglio di
gambe e braccia, scalciavano e si picchiavano senza tregua, lanciando
acuti come scimmie urlatrici. «E... non sarebbe il caso di
fermarle?»
«Sei
proprio un ottimista.» è sfuggito dalle mie labbra. Un
attimo dopo, mi sarei dato un colpo in testa: familiarizzare col
nemico non era esattamente il mio intento e non lo sarà MAI.
«Beh...
ehm... io... andrei in camera, allora.» ha mormorato. Ecco:
quel prepotente norvegese, dopo che gli avevamo chiaramente detto
(beh, Pan almeno) che non era il benvenuto in casa – e la lotta
tra Pan e mamma lo confermava – aveva la faccia tosta di dire
che tornava in camera! Se fosse stato un altro, avrebbe preso i suoi
bagagli e cercato un albergo per non farsi mai più rivedere e,
invece...
«Papà...»
mi sono avvicinato a lui e gli ho preso la mano, guardando Mizar come
se avesse voluto rubarmelo. «Ma, dimmi, dove dorme lui?»
ho fatto un cenno verso l'usurpatore, come se neanche fosse presente.
Volevo assolutamente che capisse una volta di più di non
essere affatto il benvenuto e che ero disposto a tutto – al
pari di Pan – per vederlo andare via e ripristinare l'ordine in
casa Iccijojji.
«Nella
stanza di nonno Satan!» ha risposto papà, con
naturalezza.
«Dorme
con il nonno?» ho gridato, sconcertato.
Non
avrei mai pensato che il nonno potesse davvero condividere il suo
regno con chicchessia: persino Pan non era gradita in quella stanza.
Perché uno sconosciuto qualunque sì?
Ma
queste parole hanno risvegliato Pan che, smesso di lottare con la
mamma, è balzata in piedi, guardandosi intorno inferocita.
«DOV'E' IL NONNO?» ha urlato, ricordandosi, come me, che
non era venuto a salutarla, il che è ben strano, ricordando
soprattutto con quale tristezza l'ha lasciata in caserma. «NONNO!»
ha gridato, isterica, correndo fuori dalla stanza.
«VIENI
SUBITO QUA!» le urlava dietro la mamma, strisciando a quattro
zampe fuori dalla cucina, malandata per i colpi ricevuti. Ma Pan,
come era prevedibile, non ha ubbidito. Correva per casa, chiamando a
squarciagola un nonno che non avrebbe mai risposto.
In
cucina, io, papà e quell'usurpatore aspettavamo che la
burrasca fosse finita e mi chiedevo se la scomparsa del nonno non
fosse simile a quella di Pan di quella mattina. Ma nell'intimo ero
anche preoccupato: chi mai tratteneva il nonno dall'andare a salutare
la sua nipotina adorata? Che gli fosse successo qualcosa?
«Papà...
ma il nonno... che fine ha fatto?» ho chiesto, timoroso di una
risposta.
«Se
n'è andato.» ha risposto lui, mortificato. «C-cosa?!»
mi è crollato il mondo addosso. Non potevo credere che nonno
Satan, sempre così energico e pieno di vitalità,
potesse essere morto così all'improvviso. «Pe-perché
non ce l'avete detto?» ho balbettato, mentre sentivo le lacrime
lottare per venire fuori. Non è mai stato un nonno affettuoso
con me, ma, a modo mio gli volevo bene e, sono sicuro, anche lui ne
voleva un po' a me. In fondo in fondo, anche io ero suo nipote,
esattamente come Pan.
«Ma
perché ormai era programmato da tempo... ci pensava da un bel
po', poi, quando ve ne siete andati... non c'era più niente
per trattenerlo qui.» ha risposto lui.
«Ma...
ma...» ho cominciato a piangere, incapace di trattenermi,
mentre ascoltavo le urla disperate di Pan che, ancora, lo invocava a
gran voce. Nessuno più avrebbe urlato con Pan, nessuno che
avrebbe aperto la bocca come un forno per ridere a crepapelle,
nessuna puzza di cacca che avrebbe infestato il bagno per settimane.
Tutto
quello era finito. Per sempre. E non ci avevano nemmeno avvertito!
«Kenny,
ma perché piangi?» ha chiesto papà, posandomi una
mano sulla spalla. «Non è niente di così grave!»
Come
poteva dire che non era grave? Come poteva pensare che la morte del
nonno fosse una bazzecola? Non riconoscevo più mio padre.
«Dove
cazzo è il nonno?» così Pan ha esordito, rauca,
rientrando in cucina. «E perché Kenny piange come una
fontana?»
«Non
lo so...» ha risposto papà, confuso, mentre mi stringeva
una spalla e cercava di scuotermi. Chi l'avrebbe detto a Pan che il
suo nonno preferito era passato a miglior vita? Se gliel'avessi detto
io, mi avrebbe odiato per sempre e poi, anche il solo pensiero di
dirlo, mi metteva un'angoscia ancora più grande di quella che
provavo.
«Non
sai perché Kenny piange o non sai dov'è il nonno?»
«Il
nonno si è trasferito!»
Il
mio pianto irrefrenabile e doloroso, a quelle parole, ci ha messo un
po' ad interrompersi, confuso com'ero. Ma ricordo perfettamente di
aver pensato: come, trasferito?
«Che...
che vuol dire?» sono riuscito a chiedere, in tono lamentoso,
asciugandomi una lacrima. Mizar mi ha porto un foglio di scottex che
io ho prontamente rifiutato. Lui era rimasto lì, come il pesce
lesso che è, a guardare la mia scena madre senza fare una
piega. Dio, quanto lo odio!
«Vuol
dire che ha trovato una casa per conto suo!» ha risposto papà,
prendendo il fazzoletto dalle mani di Mizar e passandomelo sugli
occhi. «Che avevi capito, sciocchino?»
«Ma...
io...» balbettavo, facendomi asciugare le lacrime. «Tu
avevi detto che... che... che era morto!»
Papà
ha aggrottato la fronte e Pan ha fatto un passo avanti.
«Papà,
ma che cazzo di storia è?» ha chiesto, sconcertata.
Lui
ha sollevato lo sguardo. «Ma no!» ha esclamato,
esasperato. «Il nonno sta benissimo! Sta meglio di me, se
proprio devo essere sincero, ma ha deciso di cambiare casa, tutto
qui.»
«E
chi glieli ha dati i soldi?»
«Li
ha vinti alla lotteria!» ha risposto la mamma, che è
rientrata, stavolta in postura eretta. «Quello spilorcio non ha
sganciato un soldo per noi, perché doveva comprarsi quella
palestra!» ha sospirato. Poi ha guardato Mizar e gli è
andata incontro. «Mi dispiace, caro, che tu abbia dovuto
assistere a questa piccola... ehm... riunione di famiglia così
burrascosa. Non siamo sempre così!»
«No,
siamo anche peggio!» ha risolto Pan, rivolgendogli un sorriso
beffardo e strafottente. «Di solito, quelli che vengono a
pranzo da noi, ce lo mangiamo con le patatine. Sai, essere cannibali
ha i suoi vantaggi... carne rossa di prima qualità!»
«Cannibali...»
ha risposto quello, perplesso.
«Sì.
Sai perché mamma ti ha messo in casa e ti permette di mangiare
la sua roba? Ti sta mettendo all'ingrasso, cocco.» ha
raccontato lei, serafica. «Quando sarai abbastanza in carne,
allora cominceremo ad affettarti e ti metteremo nel congelatore. Sai,
penso che mangiare una delle tue chiappe mi piacerà. Sono la
parte più succosa!»
Abbiamo
così archiviato il caso “nonno Satan”, soppiantato
dal problema dei cannibali. Almeno sono contento che nonno Satan sia
ancora tra noi, sobrio o ubriaco, a donne o solitario. Il nonno è
comunque il nonno. Non lo cambierei nemmeno se, in cambio, Pan
diventasse la persona più buona del mondo.
«Ma
che dici, Pan?» ha ringhiato la mamma. «Non darle retta,
Mizar caro (posso detestarla perché gli dà questo
stucchevole nomignolo?)! Pan lavora troppo di fantasia!»
Ma
Mizar ci guardava come se fossimo stati davvero dei cannibali, anche
se non si muoveva dalla posizione che aveva preso al nostro arrivo.
Credo che si sentisse come un animale braccato, ma credo anche che,
se davvero ci avesse creduto, adesso non starebbe dormendo beato in
camera di nonno Satan.
«Al
sugo, poi, lo spezzatino di polmone, è la morte sua! O meglio,
la tua!» Pan ha sghignazzato. «Beh, amici, vado a farmi
una doccia. Mamma, mi prepari la mano alla brace, stasera? Ciao ciao,
bel pranzetto!»
E
così dicendo è sparita su per le scale.
La
mamma scuoteva la testa, indignata. «Bah!» ha esclamato.
«Non ti abbiamo nemmeno fatto finire la cena!»
«No,
ehm...» Mizar le ha rivolto un sorriso tirato. «Credo...
credo che mi sia passata la fame. Torno a studiare in camera mia, se
non vi dispiace...»
«No,
certo, caro.» ha risposto la mamma, un po' delusa. «Lo
studio innanzitutto!»
E
così Mizar è sparito dalla circolazione, in camera di
nonno Satan, e non ci ha dato fastidio per tutta la sera.
«Mi
spiegate perché cavolo vi siete presi quello in affitto?»
ho chiesto, a quel punto, incapace di trattenermi. Per una volta,
sono stato contento di sentire nella mia voce una nota di
risentimento.
Mamma
ha sospirato, ma poi mi ha guardato accigliata. «Vedete di
essere educati con Mizar. Questa sera siete stati veramente due
grandissimi maleducati, tu e tua sorella! Lo avete spaventato a morte
e lo avete fatto scappare!» mi ha detto, in tono accusatore.
«E' un ospite, paga regolarmente l'affitto ed è uno
studente universitario! Un bravissimo ragazzo diligente e studioso
come ce ne sono pochi in giro. Vedete di comportarvi bene, altrimenti
vi mando sul monte Paoz a raccogliere pannocchie!»
«A
me è sembrato un coglione!» ho sbottato.
«KENNY,
NON DIRE PIU' QUESTE PAROLE! FILA IN CAMERA TUA!» mentre
salivo, sentivo le sue urla e il rumore di piatti spostati: «Sta
prendendo le brutte abitudini di sua sorella, Kenny! Ah, io lo sapevo
che prima o poi sarebbe entrato in una fase di cambiamento!»
No,
ricordo perfettamente che era stato papà a dire che, forse, mi
sarei comportato come Pan, un giorno. Ma io non mi sto comportando
come Pan. Sto semplicemente dicendo le cose come stanno e, anche se
vuol dire essere d'accordo con Pan, per una volta, non vuol dire che
stia diventando come lei.
Voglio
solo che quello se ne vada. E' così grave?
24
Dicembre
Quando
mi sono svegliato, stamattina, ci ho messo un po' per ricostruire gli
ultimi avvenimenti, a partire dalla cattiva notizia ricevuta non
appena arrivati a casa.
La
prima cosa, poi, che ho notato, quando sono arrivato in cucina, era
che Mizar era già seduto, con una tazza di muesli sotto il
naso. Mi ha salutato cordialmente, mentre osservavo quella sua giacca
da camera bordeaux e le ciabatte abbinate. Ho risposto con un «mh»
decisamente poco educato, ma molto adatto al mio umore.
La
mamma era in piedi, stava infarcendo i cornetti con Nutella e
marmellata e li metteva nel forno. Nell'aria si sentiva il delicato
aroma della sfoglia che si scaldava.
Sempre
così nelle vacanze di Natale: la mamma cucina per un esercito,
con o senza ospiti, a colazione, pranzo, merenda e cena. Di solito,
prepara anche torte in quantità ed una, stamattina, era già
al centro del tavolo.
«Buongiorno,
caro.» ha detto, distratta, portando velocemente davanti a me
un piatto di cornetti caldi. «Prendine uno e lascia gli altri
per Mizar, Pan e papà. Il latte è nel bricco.»
L'ho
visto sulla tavola imbandita. Mi stupisco ogni volta di quanta roba
riesca a contenere quel tavolo che, a prima vista, mi è sempre
sembrato più piccolo di quello rotto da Pan il giugno scorso.
Attorno alla torta, oltre al bricco, c'erano la teiera e la
caffettiera, insieme a tazze, bicchieri, succo di limone e succo
d'arancia, burro di arachidi, marmellate e fette biscottate varie.
Davanti ad ogni sedia una bella tovaglietta da colazione con
decorazioni natalizie, fatte dalla mamma apposta per l'occasione. Da
un anno all'altro non sono mai le stesse. Sopra, vi era una tazza,
una piccola zuccheriera piena e un piattino.
Mi
sono seduto di fronte a Mizar e ho afferrato un cornetto, l'ho messo
sul piattino e mi sono versato del latte.
«Allora,
Kenny... giusto?» ha esordito lui, cercando di intavolare una
conversazione. Sorrideva impacciato, ma capivo benissimo che fingeva
imbarazzo per rendersi più simpatico. Gli ho lanciato
un'occhiata che speravo fosse abbastanza fredda. «Videl mi ha
detto che tu e tua sorella frequentate una prestigiosa scuola
sperimentale. Vi trovate bene?»
«Sì.»
ho risposto, senza guardarlo, fingendo concentrazione nel versare un
po' di caffè nel latte.
«E
cosa studiate, di preciso?»
«Un
po' di cose...» ho borbottato, evasivo. Chissà che
gliene fregava, poi...
«Vi
hanno dato molti compiti?»
«Ne
danno sempre.»
«Kenny!»
mi ha rimproverato la mamma, che stava sfornando un'altra torta più
grande di quella che stava in mezzo al tavolo.
E'
stata la prima volta che, in tutta la mia vita, ho fatto davvero
finta di niente, in stile Pan: ho preso il cornetto e gli ho dato un
grosso morso, stupendo persino me stesso.
«N-no,
va tutto bene, Videl!» ha risposto l'ipocrita. Mi ha rivolto un
sorriso. «Capisco di essere una specie di intruso, in casa
vostra...»
«Ma
bravo!» così Pan ha rivelato la sua presenza. «Allora
perché sei ancora qui?»
Si
è buttata tra me e lui ed ha afferrato due cornetti, uno alla
Nutella e uno alla marmellata, mentre Mizar abbassava lo sguardo, in
imbarazzo.
«Buongiorno,
Pan!» ha sillabato la mamma, arcigna.
«Ciao,
ma'. Che cazzo hai preparato di buono, eh?» questa è
stata la risposta allegra di Pan, che ha strappato con un morso il
cornetto alla Nutella.
«Sapete,
i vostri genitori sono stati molto gentili a darmi la loro
ospitalità.» ha continuato Mizar, come se qualcuno
glielo avesse chiesto. Ho preso a bere il mio caffellatte, deciso
com'ero di ignorarlo il più possibile: facendo finta che non
esistesse, prima o poi sarebbe sparito davvero. O almeno così
speravo.
«Cosa
me ne dovrebbe fottere?» ha domandato Pan, girando gli occhi
verso di lui.
«Pan,
ma la vuoi...»
Lui
ha aperto una mano e ha chiesto alla mamma, in quel modo, di lasciar
perdere. Detesto che la riesca a comandarla a bacchetta così:
noi non abbiamo mai potuto farlo, non che ce ne avesse mai dato
l'occasione... «Beh, avevo bisogno di un posto dove stare e...»
«Senti,
cocco, esistono tanti hotel, residence eccetera. Perché non te
ne vai lì e lasci perdere le famiglie per bene?» ha
ribattuto mia sorella. Ho annuito, fortemente convinto che avesse
ragione.
«I
tuoi genitori - Pan, giusto? - mi hanno offerto una stanza a prezzi
molto vantaggiosi... sono nel progetto “Casa dello Studente”
dell'università di Tokyo, così li ho trovati e
contattati.»
Sospettavo
che fossero tutte scemenze.
«E
da quando?» ha chiesto mia sorella, ben poco convinta.
«Da
poco più di tre mesi!» ha risposto la mamma per Mizar,
tranquillamente, come se nessuno pensasse che il suo nuovo ospite
fosse, in realtà un pericoloso criminale. Io ne ero convinto:
insomma, bastava guardare la sua faccia da (troppo) bravo ragazzo per
arrivarci. In quel momento, anche papà ha fatto il suo
ingresso in cucina.
«Buongiorno,
truppa!» ha esclamato, allegro.
«Buongiorno
un cazzo.» è stato il commento di Pan che ha rivolto la
sua attenzione alla mamma, lanciandole un'occhiata impietosa e
accusatoria. «Che vuoi dire con “più di tre mesi”?
Avevi deciso che avevi la casa libera e che dovevi trovarti un
rimpiazzo?»
Ho
visto la mamma arrossire all'improvviso: era così, quindi? Ci
voleva rimpiazzare davvero? Quando Pan l'aveva detto, sulle prime,
avevo creduto alla sua solita esagerazione, ma quando la mamma ha
reagito in quel modo, la mia sicurezza ha vacillato.
«Sentite...»
ha provato ancora Mizar, non interpellato. «io non voglio
rimpiazzare nessuno. Io sono qui...»
«Tu
stai zitto, cervello d'oca! Non mi pare che tu faccia parte del
discorso. Anzi, fai una bella cosa: prendi il tuo culo rotto e
sparisci dalla circolazione!»
«Pan!»
la mamma le ha dato una botta sulla spalla – a cui mia sorella
ha risposto con un sonoro rutto – e poi si è seduta a
tavola, accanto a papà di fronte a lei. «Non osare più
offendere Mizar, chiaro?»
Pan
ha posato i gomiti sul tavolo e i pugni sulle guance, scontenta.
«Vaffanculo.» ha borbottato. Mizar, in cocente imbarazzo
(e stavolta era sincero, forse per la prima volta nella storia), ha
abbassato lo sguardo ed ha finito velocemente il suo tè. E'
sparito così in fretta dalla cucina (con un sussurrato: «buon
appetito») che, se non fosse stato per quelle stoviglie
sporche, avrei creduto di essermelo solo immaginato.
Per
un folle attimo, ho sperato che inciampasse e che si spaccasse il
naso, che la mamma chiamasse l'ambulanza e che papà si
convincesse a cambiare la serratura, così che, quando il
nostro cosiddetto ospite fosse stato dimesso, non avrebbe saputo
rientrare (ero sicuro che avesse anche le chiavi di casa) e sarebbe
rimasto a bocca asciutta.
Purtroppo,
è arrivato in camera DEL NONNO sano e salvo.
Poi
il silenzio è calato sulla tavola imbandita. Abbiamo
continuato a mangiare in quella lugubre atmosfera, così
lontana dalla solita rumorosa, allegra e natalizia; dal canto
suo, neanche Mizar faceva rumore: anche quando spostava le sedie
sembrava che lo facesse in un universo a parte dove i rumori non
esistevano. E c'era da dire che, quando era il nonno a spostare le
sedie, lo sapeva anche il Primo Ministro! Era veramente triste, tutta
quella calma, finché Pan, con un rutto, non ci ha fatto
sussultare tutti di spavento e voltare verso di lei.
«Insomma,»
ha esordito, afferrando un altro cornetto. «perché ci
volete rimpiazzare?»
La
mamma ha arricciato le labbra, scontenta. «Finisci di mangiare!
Guarda tu se devo avere una figlia che rovina la Vigilia di Natale a
tutta la sua famiglia!»
Si
è alzata ed è andata a guardare come procedeva la torta
nel forno. Pan non ha gradito di essere stata etichettata come
«rovina-Natale», così si è alzata –
facendo il giusto rumore spostando la sedia – e si è
rubata altri due cornetti.
«Me
ne vado.» ha dichiarato. «E tu, mamma cara, pensa bene se
hai rovinato a tua figlia, il Natale, facendo entrare in casa
quel delinquente. Non sai che Natale si passa con i tuoi e non con i
tuoi delinquenti? Ah, vedrai che a Pasqua ti porto un paio di mucche
e qualche bue! Sarà interessante vedere l'accoppiamento, molto
più che guardare quel bellimbusto che ci ruba la famiglia! Lo
sai che dorme in calzamaglia?»
Papà
era sconcertato, io non sapevo neanche cosa fosse una calzamaglia. La
mamma, invece, non si è neanche voltata. «Può
dormire come vuole.» ha dichiarato, in un sibilo velenoso.
«E
allora perché non mi fai dormire con un pigiama da maschio ma
mi devi comprare quelle stupide camice da notte con gli orsetti?»
La
mamma si è girata, con fare battagliero. «Ma non te ne
dovevi andare?» ha strillato, isterica.
Pan
è impallidita. «Ah, già.» e se n'è
andata, lasciandoci a finire la nostra colazione, in silenzio. Dopo
cinque minuti, ero salito anche io: quell'atmosfera non mi piaceva
neanche un po'.
Più
tardi, verso le dieci, Pan è entrata in camera mia, dove io
avevo insediato la scrivania con tutti gli appunti e i libri che, con
Frank, eravamo riusciti a fotocopiare. Devo ammettere che cominciare
a studiare non era uno dei miei più rosei pensieri, ma, dato
che ci hanno caricati, ho pensato che fosse meglio cominciare subito,
così da lasciarmi gli ultimi giorni di riposo. Niente da dire,
che appena mi ha visto – è entrata anche senza bussare –
se ne sarebbe andata volentieri, ma sono riuscita a trattenerla con
un banale «aspetta». Probabilmente voleva dirmi davvero
quello che aveva da dirmi, altrimenti se ne sarebbe altamente
fregata, qualunque cosa avessi avuto da dire io.
«Senti,
paramecio,» ha esordito lei, senza guardarmi, ma lanciando uno
sguardo tutto intorno alla mia camera fin troppo ordinata: la mamma
aveva fatto pulizie minuziose durante la nostra lunga assenza. Non
sono entrato in camera di Pan, ma immagino che non abbia trovato
niente di diverso da come l'aveva lasciata, altrimenti avrebbe urlato
come una pazza scatenata. «io ti odio.»
Sentirla
parlare così mi ha dispiaciuto tanto, ma non si era mai presa
la briga di entrare in camera mia, di chiudere la porta e di farmi
simili dichiarazioni senza un motivo. Ho annuito, senza sapere cosa
altro dire.
«Però...»
ha continuato lei, continuando a ignorarmi e avvicinandosi alla
finestra che dava sul retro della casa. Si è appollaiata sul
davanzale e mi ha guardato con fare grave. «Adesso odio di più
qualcun altro.»
«Ah,
sì?» mi sono stupito molto di questa sua confidenza e ho
sgranato gli occhi, davvero incredulo. «E chi è? Arale?»
Non
l'avessi mai detto: la mia sorellona ha stretto i pugni e mi ha
guardato con rabbia. «Idiota.» ha ringhiato. «CHE
CAZZO ME NE FREGA DI ARALE, PEZZO DI IMBECILLE?»
Mi
sono appiattito sullo schienale della sedia, come se questo avesse
potuto proteggermi, nel caso in cui avesse voluto stendermi con un
destro. «Non lo so...» ho balbettato, preoccupato. «E
allora chi odi?»
«Ma
quel coglione che gli piace prenderlo nel culo!»
«Eh?»
«QUEL
COGLIONE CHE VIENE DAL CULO DEL MONDO!» è stata la sua
illuminante risposta. Ho fatto una smorfia preoccupata; la mia testa
era inspiegabilmente vuota e non mi veniva in mente nessuno che Pan
potesse odiare più di quanto odi me. Sinceramente non avevo
capito, finché, compassionevole, mia sorella ha sospirato,
esasperata. Ha scosso la testa diverse volte, prima di fermarsi e di
guardarmi con quanto più astio potesse. «Mizar, pezzo di
idiota!»
Quando
me l'ha detto, ho capito la battuta sul prenderlo nel culo: solo ieri
sera, aveva detto quella cosa sugli inquilini e me ne sono ricordato
solo dopo la spiegazione.
«Oh...
sì,» ho detto allora, riprendendomi subito. «lo
odio anche io.»
Lei
mi è sembrata subito molto più rilassata, anche i pugni
erano scomparsi, sostituiti da mani aperte che si massaggiavano le
ginocchia. «Ottimo.» ha dichiarato, senza alcuna enfasi.
Se posso dirlo, mi è parsa anche un tantinello delusa. «Mi
risparmi la fatica di convincerti che quello è un losco
figuro.»
Ho
annuito fortemente. Se era un losco figuro? Oh, sì che lo era!
«Sì, lo so!» ho esclamato, mettendomi in piedi,
infervorato. «Dobbiamo fare qualcosa, Pan! Dobbiamo cacciarlo
di casa, dobbiamo fare in modo che la mamma...»
«La
smetta di considerarlo una specie di Dio in terra.» ha concluso
lei, annuendo con forza. Era la prima volta che facevamo un discorso
serio e civile assieme, senza sfociare in pugni e cazzotti. Devo dire
che, subito dopo averla sentita, la cosa mi aveva fatto davvero molto
effetto e avevo cominciato a sentirmi scombussolato, ma anche molto
felice: potevo desiderare qualcosa di più di andare d'accordo
con lei?
Mi
sono limitato ad annuire debolmente, mentre un'altra domanda si
affacciava nella mia testa: «E... come pensiamo di fare?»
«Beh,
sapevo che eri un tale paramecio monocellulare con un coriandolo per
cervello, quindi, invece di dormire, ho messo in piedi un piano a
prova di bomba. Tu non devi fare altro che ascoltarlo e approvarlo in
toto.» mi ha informato, senza mai riprendere fiato. «Tutto
chiaro?» Quando ha finito, io ho sbattuto le palpebre e mi sono
seduto lentamente sulla sedia.
Non
ero molto sicuro di poter approvare qualcosa organizzato da Pan,
anche se chiamare organizzazione quello che ha avuto in mente,
è effettivamente troppo. In quel momento, comunque, non ha
perso molto tempo a spiegarmelo. Si è fiondata su di me,
veloce come un ghepardo e mi ha afferrato per un polso, quindi, come
un sacco vecchio, mi ha trascinato fino in fondo alle scale, dove ci
siamo fermati, io un gradino più su di lei che, con fare da
cospiratrice, si è inginocchiata e ha buttato uno sguardo nel
salotto deserto. Dalla cucina, si sentiva un buon odore di frittelle
e il rumore delle stoviglie spostate, insieme al canticchiare allegro
della mamma. Era cominciato come un giorno strano e mi sentivo come
se dovesse capitare la più grossa catastrofe di tutti i tempi.
«Ma
che...» ho provato a parlare, ma Pan mi ha fatto segno di
tacere. L'ho fatto, senza chiedermi perché o percome, proprio
come quando era la Une a darmi lo stesso ordine.
«Ora...»
lei si è girata verso di me, prima di tornare a guardare il
salotto. Mi ha afferrato per la nuca e mi ha spinto a fare lo stesso.
Tralascio il dolore al mio povero cuoio capelluto. «Vedi quei
vasi?»
Erano
i vasi cinesi di mamma. Una collezione di tre vasi uguali e orrendi
che si ostina a tenere in bella mostra sopra al caminetto. Devo
ammettere che li ho sempre odiati e questa convinzione attutisce un
po' il mio senso di colpa.
Pan
mi ha stretto la mano nei capelli e mi ha scosso. «Allora?»
mi ha spronato.
«Certo,
Pan! Non sono... ahi!»
«E
taci, pezzo di cretino!» ha sibilato, scuotendomi ancora.
«L'idea è questa: io vado a prendere uno di quei vasi e
tu... stai qui a fare il palo.»
L'ho
guardata un po' sconvolto. «Perché?» Senza
pensarci, mi ha tirato i capelli ancora di più.
«Perché
poi ci vediamo davanti alla camera del nonno, d'accordo? Tu fai il
palo.»
«Che
cosa?»
«Che
cosa cosa?»
«Che
palo?!» mi sono spiegato. Lei ha alzato gli occhi al cielo,
esasperata.
«Il
palo! Mi avverti se arriva qualcuno!» e con un cenno della
testa, mi ha fatto capire che il qualcuno in questione era la mamma.
Ho annuito, ma non ero molto convinto: non capivo a cosa potesse
servirci un vaso cinese, a dire il vero. Non ho fatto altre domande,
anche perché mia sorella sembrava sul punto di tirarmi un
pugno e la mano stretta che teneva premuta contro la parete me la
diceva lunga.
«Ottimo.»
ha esclamato, quindi, lasciandomi finalmente andare. Lei è
sgusciata giù, verso il salotto, mentre io, immobile e seduto
sulle scale, sbirciavo giù, portando lo sguardo da lei al
corridoio che dava sulla cucina. Non capivo e mi lambiccavo il
cervello su quando alzarmi e, soprattutto, per sapere che cosa avesse
in mente e che c'entrasse il vaso cinese con l'allontanamento di
Mizar da casa nostra. Pensavo a qualcosa di pericoloso, ma il
pensiero di poterlo vedere andare via per sempre ha fatto tacere i
miei scrupoli; quando mia sorella ha afferrato uno dei vasi, mi sono
deciso a raggiungerla, velocemente.
Lei,
intanto, si è messa il vaso sotto il maglione.
«Ma
che...»
«Stai
zitto, pezzo di idiota!» ha sbottato, a voce molto alta, cosa
che ha insospettito la mamma, la cui voce ci ha fatto sussultare.
«Ragazzi!»
ci ha chiamato. «Che fate?»
«Giochiamo,
mamma!» ha risposto Pan, con naturalezza. Se non fossi stato
lì, con quel vaso cinese sotto il suo maglione, avrei pensato
che stesse dicendo la verità. Anche la mamma deve averci
creduto, perché non ci ha detto più niente ed è
tornata in cucina.
Entrambi
abbiamo sospirato di sollievo e, insieme, ci siamo diretti verso la
camera del nonno, la cui porta era chiusa. Se non fosse stato per la
situazione pericolosa e senza senso in cui ci stavamo mettendo, mi
sarei accorto prima di quanto siamo stati sincronizzati, una cosa
fuori del comune, trattandosi di noi.
«Dai,
apri.» mi ha esortato, a bassa voce.
«Ma...»
ho provato a protestare. «E se fosse chiusa a chiave?»
Lei
mi ha ignorato. «Vuoi smetterla di rompere i coglioni? Apri!»
ha tagliato corto.
«E
se poi è chiusa a chiave? Cosa gli diciamo, se ci apre?»
«Kenny...»
mi ha guardato con il suo sguardo minaccioso e, se non mi sono fatto
la pipì addosso, è solo perché l'avevo fatta da
poco. Ho deglutito, mentre con la mano libera (con quell'altra
stringeva il vaso) mi mostrava il pugno. «Ti consiglio di
aprire quella fottuta porta, se non vuoi che ti faccia passare dal
buco della serratura.»
Ho
avuto una brutta immagine di me, incastrato in un buco della
serratura. Mi pareva grottesco ed impossibile, ma, trattandosi di
Pan, avevo come l'impressione che sarebbe riuscita a mantenere la
promessa. Ho annuito e afferrato la maniglia. L'ho abbassata. Speravo
quasi che non si aprisse, arrivati a quel punto, e, invece, sfiga
nera, Mizar non aveva chiuso. Pan mi ha dato una fiancata e mi ha
fatto spostare, in modo che lei fosse di fronte allo spiraglio che
avevo aperto. Ho barcollato solo un po', ma mi sono ripreso
egregiamente. Dopo qualche attimo, lei mi ha guardato.
«Ha
le cuffiette.» mi ha informato. «E non si è
accorto di niente, il coglione. Dai, entriamo!»
«Ma...»
Mi
ha preso per il colletto della camicia e mi ha spinto dentro, insieme
a lei, impedendomi di dire qualsiasi cosa. Comincio a pensare che
fosse parecchio infastidita dalle mie continue proteste. «Chiudi
la porta.» mi ha ordinato e, stavolta, mi sono fiondato ad
eseguire: contestarla ancora non avrebbe fatto altro che farla
arrabbiare di più. È stato un secondo, mentre io
richiudevo, lei si era sfilata da sotto il maglione il vaso cinese.
Mizar, assolutamente preso dal suo libro, di spalle alla porta, non
si era accorto di niente, neanche quando Pan aveva alzato il vaso
sopra la sua testa. Un attimo dopo, era stramazzato sul libro,
svenuto, per via del vaso che Pan gli aveva frantumato sulla nuca. I
pezzi hanno cominciato a cadere, si sono incastrati tra i suoi
capelli, sono finiti a terra e Pan si è spazzolata le mani.
«Ma...
ma...» sono riuscito a balbettare. «Lo... lo hai
ammazzato!»
Lei
mi ha guardato con insofferenza. «No... dorme come un
agnellino.» gli ha gettato uno sguardo sprezzante. «Respira
ancora il maledetto!» poi mi ha fatto un cenno. «Adesso
tu esci e ti metti sotto questa finestra.»
«Perché?»
«Non
fare domande, cazzo!» ha sbraitato. Mi ha fatto un cenno con la
mano, come a voler remare all'indietro, da dietro, verso avanti.
«Vai, vai, vai!»
Non
sono riuscito a dirle di no neanche stavolta. Stavo per scappare
fuori dalla stanza, quando hanno bussato alla porta.»Mizar
caro?!» era la voce zuccherosa della mamma. Mi sono voltato e
ho visto lo sguardo ugualmente terrorizzato di Pan. Doppiamente
strano. «Tutto bene? Ma ci sono i miei figli, lì con
te?»
Non
ho mai guardato così a lungo Pan e lei non mai guardato così
a lungo me. Avrei voluto vedere nei suoi occhi la risposta alle
domande di mamma. E se fosse entrata e avesse visto il vaso... non
immaginavo, e preferisco tuttora non immaginare, cosa avrebbe potuto
farci.
«Ehm...
sì, mamma, siamo con lui.» ha risposto Pan,
improvvisamente, sfoggiando un sorriso ipocrita, ma assolutamente
convincente. Sembrava quasi che la mamma potesse vederla. Sono sicuro
che Pan non sia mai stata una così grande attrice come oggi.
«Ragazzi!
Non date fastidio a Mizar!»
«Ma
vogliamo conoscerlo un po' meglio.» ha insistito Pan, poi ha
ripreso, contraffacendo la voce in modo che sembrasse più
profonda: «Tutto bene, Videl cara. I tuoi... figli... sono
bravissimi, soprattutto Pan.»
Come
imitazione di Mizar, era pessima. E, soprattutto, nessuno poteva
cadere in una trappola del genere, non solo per la voce: chi mai
sarebbe il pazzo che direbbe che Pan è bravissima? Ma devo
ricordarmi che nessuno, nella mia famiglia, è effettivamente
normale. Ma qualche dubbio, non so se per sfortuna o per fortuna, la
mamma lo ha avuto: «Mizar caro, sicuro di star bene?» ha
chiesto, titubante.
«Tutto
benissimo!» ha esclamato Pan, senza smettere di usare quella
voce. «Vai pure, cara, chiacchieriamo un po', Pan. Vai bene a
scuola, no? Oh, sì, Mizy, benissimo! Sono la cocca dei
professori!»
Mi
chiedo se la mamma si sia accorta di venire presa in giro, ma penso
di no, perché con un «quando ti disturbano, non esitare
a cacciarli», si è congedata e se n'è tornata in
cucina.
«Okay,
Videl! Non ti preoccupare. Sono in buonissime mani!»
In
fin dei conti, anche se ora mia sorella cominciava ad esagerare,
avevamo scampato il pericolo. Ed è stato solo quando i passi
della mamma si sono fermati, che mi sono azzardato ad uscire dalla
camera, esortato da una alquanto distrutta Pan che non ha esitato a
farmi notare che le buone idee ce le ha sempre lei.
Ancora
mi chiedo cosa mi abbia spinto ad uscire addirittura di casa, senza
neanche il cappotto, ma credo che, per come sono andate le cose, è
stato meglio, soprattutto perché poi ha cominciato a fare
caldo, davvero molto caldo.
Comunque
mi sono piazzato davanti alla finestra della camera del nonno –
l'unica al pianoterra – e l'ho vista aperta. Mi sono guardato
intorno, chiedendomi cosa potessero pensare i vicini, se avessero
potuto vedermi là sotto, con quell'aria preoccupata e furtiva
stampata in faccia. Strano che il signor Parker non fosse nei paraggi
ad innaffiare i fiori secchi...
Un
attimo dopo, quando ho visto che dalle sue finestre non vi erano
movimenti, ho girato di nuovo la testa verso quella della camera del
nonno e ho fatto un salto sul posto, quando ho visto i calzini di
Mizar (con tutti i piedi!) penzolare giù dal davanzale. «Ma
che...» è stato tutto quello che ho avuto il coraggio di
dire, per quella che ho creduto essere la trentesima volta. La testa
di Pan ha fatto capolino da dietro il suo busto. «Dammi una
mano a farlo uscire!» mi ha ordinato. «Che
rompicoglioni!»
«Pan,
ma mi vuoi spiegare che stai combinando?»
«Non
lo vedi? Lo voglio far passare dalla finestra!» ha risposto
lei, come se far uscire uno svenuto dalla finestra fosse una cosa di
tutti i giorni.
«Questo
lo vedo.» ho ribattuto, preoccupato. «Ma... perché?»
«Perché,
pezzo di idiota, non vorrei che qualcuno mi vedesse. Dammi una mano,
se hai finito di fare domande!»
Ma
non mi sono mosso: «Che cosa ci vuoi fare con lui?»
Lei
ha sbuffato. «Uffa! Te lo dico, se no non la smetti di darmi il
tormento: voglio portarlo fino al cassonetto!» ha risposto,
spingendolo più giù. «Afferragli quei cazzo di
piedi puzzoni!»
Non
ho potuto fare molto altro che ubbidire, ancora guardandomi intorno
furtivo, sperando che nessuno si accorgessero dei due ragazzini che
stavano facendo scivolare fuori dalla finestra il corpo di un uomo
svenuto. Comunque i suoi piedi, tanto per la cronaca, non puzzavano.
Più che spingerlo, mi sono assicurato che non battesse i
talloni e che non si ferisse le gambe: fuori da casa mia sì,
in brutte condizioni o peggio no. Proprio mentre pensavo questo, mi è
sovvenuto quello che ha detto mia sorella: cassonetto?! Ho smesso di
lavorare e ho guardato verso mia sorella, di cui riuscivo a vedere
solo i capelli. «Pan, ma che vuol dire cassonetto?»
«Cassonetto,
Kenny.» ha sbottato lei, irritata, mentre spingeva anche il
busto di Mizar verso di me, allungando le braccia come se facesse i
pesi. Mi sono dovuto appiattire contro di lui per prenderlo sotto le
ascelle. Ormai Pan gli teneva solo la testa. «Dove si butta la
spazzatura.»
«Ma
lui è una persona.»
«Che
coglioni!» ha ribattuto lei, affaticata. Mi ha lanciato il
corpo e io sono caduto di schiena, con Mizar addosso, poi è
saltata sul davanzale come una scimmia. Lui non ha fatto una piega,
ma almeno ero sicuro che era vivo perché respirava. Quando
anche mia sorella si è ritrovata fuori, ha continuato: «Che
cos'è lui? Spazzatura. E dove sta la spazzatura? Nel
cassonetto.»
«Pan,
ma...» ho cercato di farla ragionare, mentre mi spostavo da
sotto il peso di Mizar. «Non credo si possa... insomma, è
vietato buttare le persone nella spazzatura!»
«Ti
ho detto che lui non è una persona!» ha sbraitato. Ho
abbassato lo sguardo e scosso la testa.
«Non
posso, Pan.» ho sospirato, a quel punto: non l'avrei aiutata a
fare una cosa così orribile.
«Oh,
quindi ti pieghi alle prepotenze!» ha ringhiato lei; ho evitato
di ricordarle che la più grande prepotente che conosco è
lei. «Ma BRAVO! CHE BEL FRATELLO DI MERDA!»
Non
mi ha lasciato dire o fare nient'altro: ha preso il corpo di Mizar
come se fosse stato un sacco vecchio e se l'è caricato in
spalla, guardandomi sprezzante, come a volermi sfidare a fare una
cosa simile, ben sapendo che non ne sono in grado.
«Pan...»
ho tentato nuovamente, ma lei mi ha deliberatamente ignorato e si è
diretta in strada. Per un attimo ho pensato di lasciarla da sola ad
affrontare i suoi problemi, ma poi mi sono reso conto che non potevo
lasciarla in una situazione simile. Forse non sono il suo ideale di
fratello, ma non sono neanche una merda. Magari, pensavo, facendola
ragionare, sarei riuscito a combinare qualcosa. A volte, credo
proprio di essere un ingenuo.
L'ho
inseguita, quindi, e mi sono affiancato a lei.
«Pan,
le persone non si buttano nei cassonetti!» ho ripetuto.
«Dici
di no? I barboni ci stanno sempre!» ha ribattuto lei,
camminando sotto lo sguardo attonito dei vicini. Perché sì,
in quel momento i vicini erano tutti col naso appiattito
contro il vetro delle loro finestre.
«Ma
non è la stessa cosa!»
«Come
sei fiscale, però!» ha protestato lei, annoiata. «Ma
quanto cazzo è lontano, questo cassonetto del cazzo?»
Era
poco più giù, ad un paio di metri, in fondo alla
strada, ma camminare con un carico pesante come un uomo di
ottantacinque chili (Pan ha detto che non pesava di più) ci
rallentava parecchio. Anche io cercavo di fare la mia parte, ma senza
molto successo.
Dieci
minuti dopo, eravamo in prossimità del cassonetto e, nello
stesso istante, abbiamo sentito le sirene della polizia di quartiere.
Niente
da dire, siamo finiti di nuovo alla centrale. Io e mia sorella.
Galeotti. Pronti per il più volte citato riformatorio e per
essere additati da Arale come delinquenti patentati. Non è che
ci hanno messo in cella, però: ci hanno fatti accomodare
nell'ufficio di Soichiro Yagami, mentre Mizar è stato portato
nell'infermeria, dove è stato visitato e rimesso in sesto. E
noi, invece, abbiamo aspettato un'eternità, prima che
comparisse qualcuno. La cosa più esilarante di tutte, se
esilarante si può dire, è stato il momento in cui è
comparso sulla porta l'ispettore Yagami. Non appena ci ha visto è
sbiancato ed ha fatto dietro-front.
«Dov'è
Matsuda*?» ha chiesto, fermando un poliziotto di passaggio.
Neanche il tempo di finire di dire quel nome un ragazzo mingherlino,
con una faccia gentile e i capelli neri a caschetto, vestito di un
doppiopetto grigio, si è materializzato al fianco di Yagami,
così velocemente che ho creduto fosse sempre stato lì,
soltanto invisibile agli occhi di tutti.
«Eccomi,
signore.» ha detto, servizievole.
«Oh,
bene.» ha risposto l'ispettore, rigido. «Ti occuperai tu
degli Iccijojji.» gli ha passato il fascicolo che aveva tra le
mani e se l'è decisamente svignata.
«E
lei, ispettore?» lo ha richiamato Matsuda, sollevando la
cartellina, come a volergli dire che gli aveva lasciato il suo lavoro
a tradimento.
«Io
sono in vacanza!» ha risposto, gridando. «Io vado a
passare il Natale con la mia famiglia!»
«Oh,
grazie, signore. Non se ne pentirà!» e, fischiettando e
con un sorriso ebete stampato in faccia, è entrato
nell'ufficio ed ha chiuso la porta, proprio come se quel posto gli
appartenesse. Ero terrorizzato, mentre Pan, che teneva mollemente le
braccia conserte, guardava il tutto con aria strafottente ed
annoiata. Ha aspettato che Matsuda sfogliasse il fascicolo e che
leggesse quello che la signora Reiko Watanuki, la vicina piena di
gatti, aveva raccontato alla polizia per telefono.
«Occultamento
di cadavere, eh?» ha letto Matsuda. Ci ha guardati entrambi,
impensierito. «Siete dei ragazzini, quanti anni avete?»
Pan
si è solo mossa sulla sedia, ma non era a disagio. Diciamo
piuttosto che stava scomoda nella posizione precedente.
«Io
dodici, mia sorella tredici.» ho risposto, allora, debolmente.
«Voglio
un avvocato.» ha tagliato corto mia sorella. «Conosco i
miei diritti, agente.»
«Ehm...
sono un ispettore.» le ha fatto sapere Matsuda. «E
comunque non credo che avrete bisogno di un avvocato.» quindi
ha continuato a leggere, lasciandoci ammutoliti. Davvero non ci
serviva un avvocato? Cioè... a quel punto ero convinto che ci
avrebbero presi, ammanettati e portati in riformatorio per buttare
via la chiave. Un attimo dopo, mi sono chiesto perché farci
passare tutta quella trafila. «Pan e Ken Iccijojji.» ha
detto. «Figli di Gohan Icc...» ha sgranato gli occhi e ci
ha guardato con ammirazione. «Il famoso direttore d'orchestra è
vostro padre!»
«E
allora?» ha voluto sapere Pan, squadrandolo come se lui non
fosse alla sua altezza. «Voglio un avvocato.»
«Non
hai bisogno dell'avvocato. L'inquilino di casa Iccijojji sta bene ed
ha deciso di non sporgere denuncia. Abbiamo chiamato i vostri
genitori e stanno venendo a prendervi.»
«Che
cosa?» sono balzato in piedi, gridando queste due parole. Ero
felice che Mizar stesse bene – non che mi stesse simpatico, ma
umanamente ero felice – ma non che mia madre arrivasse di nuovo
alla centrale, magari riprendendo lo spettacolino del giorno
precedente. Non tanto per lo spettacolino, quando per il motivo per
cui eravamo finiti lì dentro.
«Beh,
ehm... va tutto bene?»
Mi
sono reso conto che la mia reazione è stata esagerata, così
mi sono seduto di nuovo. «No, ehm... tutto a posto.»
Sono
passati diversi minuti, anche se a me sembravano essere un'eternità,
quando Matsuda ha riaperto bocca.
«Posso
chiedervi perché l'avete fatto?»
«Perché
quello è un truffatore.» ha risposto Pan, prima di me.
«Stavamo proteggendo casa nostra. Lo avrebbe fatto anche lei.»
«Eh?»
Matsuda sembrava confuso.
Pan
ha sospirato, esasperata. Si è piegata un po' in avanti.
«Quello è venuto da noi per derubare mia madre. Sa, tipo
quelli che rubano le pensioni. Solo che questo vuole fare il
colpaccio, ha presente?»
Matsuda
ha scosso la testa e Pan ci ha rinunciato. Si è buttata contro
lo schienale rigido della sedia e si messa le mani in grembo,
cominciando a contemplare l'aria.
«A
me...» l'ispettore ha cominciato a sfogliare di nuovo il
fascicolo. «a me risulta che Mizar sia un tipo a posto. Ci ho
parlato e ho chiesto informazioni alla polizia norvegese. Insomma, un
tipo per bene. Sembra che sia anche un pezzo grosso, lì da
dove viene lui.» ha sorriso, di fronte alla mia espressione
vacua.
«In
che senso?» ho voluto sapere.
«Non
ci ho capito molto.» mi ha confidato lui. «E' un
cavaliere o che so io.»
«Un
leccaculo.» ha concluso Pan, mettendo su il tono di quella che
ha capito tutto del mondo. Ho annuito, ed ero molto impressionato:
Mizar, così giovane, e già cavaliere. A dire il vero,
lì per lì sono stato impressionato. Adesso mi rendo
conto di non sapere cosa significhi essere un cavaliere...
Mentre
pensavo a questo, l'ascensore si è riaperto, e la voce acuta
di mia madre ha rimbombato per tutta la centrale di polizia, quasi
avesse usato un megafono. Pan ed io ci siamo girati di scatto, così
abbiamo potuto vederla uscire. Dopo di lei, seguiva Mizar, che aveva
la testa fasciata e l'aria sofferente, ma stava stava bene davvero –
camminava da solo, anche se era ancora in calzini – poi papà,
che aveva l'aria più mortificata del mondo. Avrei voluto
sotterrarmi solo per quello. La mamma, invece, sembrava solo
mortalmente preoccupata.
«DOVE
SONO I MIEI BAMBINI?»
urlava.
A
quel punto anche Matsuda si è alzato. «Su, coraggio,
ragazzi. È ora di tornare dalla vostra famiglia.»
Ed
è stato così che la nostra seconda avventura in due
giorni al commissariato era finita.
*****
*Mizar: Saint Seiya,
serie di Asgard.
*Matsuda: Death Note.
|
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Capitolo 15 *** Le brutte notizie non arrivano mai da sole... e portano qualcuno a cena ***
Vacanze
natalizie.
Le
brutte notizie non arrivano mai da sole... e portano qualcuno a
cena.
|
«Verrete
puniti.» ha
dichiarato la mamma, quando ci hanno permesso di uscire. Eravamo in
macchina, tutti insieme e io ero stivato tra Mizar e Pan, stretto
come una sardina. «Non ci posso credere! Tentare di uccidere il
povero Mizar. Ma dove... dove siamo finiti? E io che vi ho mandati in
una scuola sperimentale per non farvi fare di queste cose! E siete
anche usciti in ciabatte!» ha urlato come se quello fosse un
crimine ancora più grave.
«Toglici
di lì, allora.» le ha consigliato Pan, annoiata,
premendo la punta del naso contro il vetro e facendogli fare ancora
più condensa di quanta non ce ne fosse già. «Prima
non le facevamo queste cose...»
«Piantala,
Pan!» le ha consigliato la mamma. Credo di non sentirla così
arrabbiata, da quando zio Goten le ha rotto la collezione di piatti
con i gatti con lo snowboard perché ci era entrato in casa,
senza prestare attenzione a niente. «Ringraziate Mizar,
intanto, per non avervi denunciato come meritavate!»
Ho
guardato verso di lui, che non parlava e sembrava assorto nei suoi
pensieri. Guardava fuori e pareva anche un po' triste. In quel
momento mi sono sentito un vero verme, ma non riuscivo ancora a
trattenermi dal pensare che ci fosse qualcosa di losco in lui.
«Grazie.»
ho borbottato. Non avrei potuto fare altro. Dopotutto, non ero in
riformatorio giusto perché lui non lo aveva voluto. Forse
proprio perché è un delinquente e sa cosa vuol dire
stare in galera! È l'unica cosa che mi veniva in mente per
giustificarlo.
Pan
non è stata altrettanto comprensiva: «Guarda che non c'è
bisogno che tenti di comprarci con queste carinerie!» ha
esclamato, scrivendo al contrario volgarità sul vetro
appannato della macchina di papà (per farle leggere agli altri
automobilisti).
«Non
voglio comprarvi.» ha assicurato lui, con voce piatta. «Credo
che non sia giusto nei confronti delle due persone che mi hanno
accolto in casa loro, far passare loro un cattivo Natale.»
«Ma
come siamo gentili...» ha ribattuto mia sorella, sarcastica.
«Senti, piantala di fare il leccaculo, tanto non convinci
nessuno! Forse solo questi due coglioni davanti.» ha accennato
ai nostri vecchi, mentre si rimetteva composta.
«Pan!»
l'ha sgridata la mamma. «Un po' di rispetto! Mizar caro, credo
che tu sia troppo buono.»
Lui
ha risposto con un semplice sorrisetto amaro. Non sembrava neanche
lui troppo convinto da questa affermazione.
«Mamma,
se non la pianti, questo tra due giorni, ti sbatte fuori di casa.»
ha ribattuto Pan, con disprezzo. «Cerca di aprire gli occhi,
una buona volta!»
«Pan,
non osare! Mi hai fatto passare per stupida, prima, ma se credi
che...»
«Videl?»
Mizar ha abbassato lo sguardo sulle proprie mani. La mamma ha smesso
subito di parlare.
«Sì,
Mizar caro?»
Lui
ha sospirato. «Non ti posso costringere a scegliere tra me e i
tuoi figli. Per cui, domani mattina prenderò i miei bagagli e
mi troverò un altro posto dove stare.»
Pan
gli ha scoccato un'occhiata diffidente. «E' la prima buona idea
che ti viene da tre mesi.» ha dichiarato. La notizia è
stata accolta con tristezza dalla mamma. L'ho vista attraverso lo
specchietto retrovisore tra lei e papà che non era per niente
felice della notizia e mi chiedevo perché. Davvero. Il
pensiero maligno che ci volesse davvero rimpiazzare mi ha fatto molto
male.
«Non
ti posso convincere a non farlo, vero?» ha solo chiesto,
cercando di modulare il tono della voce. Ma la conosco troppo bene
per non riuscire a capire che, effettivamente, si stava per mettere a
piangere.
«No.»
ha risposto categorico Mizar.
La
conversazione si è chiusa con un semplice, disperato «Okay»
della mamma e nessuno ha più detto una parola. Non mi sono mai
sentito così depresso in tutta la mia vita: quando siamo
andati in caserma, è stata lei ad aiutarci a preparare le
valigie, mentre con questo cretino, intruso, sconosciuto, odioso e
leccaculo ha fatto tutte queste sceneggiate!
La
mattina delle Vigilia di Natale, in casa Iccijojji, è sempre
stato un momento di relax, un momento ritagliato per me e la mamma
soltanto. Papà e Pan, da che mi ricordo, sono sempre stati
mandati a fare la grossa spesa per il cenone di Natale e, di solito,
non sono mai tornati prima di mezzogiorno, quando consumiamo un
frugale pasto per arrivare con lo stomaco vuoto a cena.
Oggi,
non abbiamo proprio pranzato. Mizar si è chiuso in camera del
nonno e la mamma si è chiusa in cucina. Papà è
entrato in salotto ed ha acceso la sua musica; io e Pan ci siamo
relegati di nostra spontanea volontà fin dentro le nostre
camere. Lei ne è uscita poco prima di me, quando papà
l'ha costretta a seguirlo al supermercato.
«Credo
che sia giusto mantenere le tradizioni, dopotutto.» l'ho
sentito dire.
«Tanto
a tua moglie gliene frega un cazzo delle tradizioni. Probabilmente,
se non ci fossimo stati, sarebbe stato lo stesso.» lo ha
rimbeccato.
«Su,
non dire così.»
Non
credo che Pan abbia risposto, anche perché, subito dopo, papà
le ha chiesto: «Allora vuoi venire?»
«Ma
sì, così mi levo un po' da questa casa di merda.»
ha borbottato lei.
Dopo
circa un quarto d'ora dalla loro partenza, la mamma ha bussato alla
mia porta e mi ha detto, debolmente, di seguirla. Non ho opposto
molta resistenza. Effettivamente volevo parlare con lei, capire
perché non ci volesse più bene. Era stata molto fredda
nel chiamarmi e credevo fosse, non solo perché ormai nel suo
cuore c'era solo Mizar, ma anche perché ci avevano portati di
nuovo al commissariato.
«Mamma...
ecco io... ho tentato di fermarla, ma...» non ho avuto il
coraggio di continuare: mi sentivo il fratello pusillanime che cerca
di scaricarsi le colpe. Per fortuna, almeno per questo, lei sembra
non avermi dato ascolto, anche se una parte di me avrebbe voluto che
mi accarezzasse la testa o che mi sorridesse e dicesse: «oh,
sì, Kenny, lo so».
Il
nostro momento di relax è il fare l'albero insieme, in
giardino: io prendo gli scatoloni dal garage e l'albero che lei monta
e sistema, mentre io le passo le cose. Non è un granché,
ma per me è sempre stato un momento importante. Oggi è
stato straziante.
«Non
voglio che la prendiate così!» mi ha detto,
interrompendo il suo silenzio, quando mi ha visto tornare scontento,
mentre trascinavo l'albero dal garage invaso dalla macchina di quel
bellimbusto di Mizar, ancora chiuso in camera. «Mizar è
un bravo ragazzo!»
«Ma
che ci fa in casa nostra?» ho sbuffato, lasciandomi cadere
sull'umido divano da giardino. «Insomma... lui non ci torna a
casa dai suoi?»
«Tra
due settimane ha un esame importante!» ha risposto lei, con
fare comprensivo. «E se tornasse a casa, ha detto che avrebbe
dovuto partecipare alla festa di palazzo della Regina del suo paese.
E addio tempo per studiare, povero ragazzo!»
Ho
sbuffato. «Non sapevo che in Norvegia ci fosse la Regina!»
ho esclamato, piuttosto acido: penso che sia la prima volta nella mia
vita che mi rendo così intrattabile. Lei, comunque, non
sembrava stupefatta dalla notizia. Certo... lei lo sapeva già.
«Ma
non in Norvegia! Ad Asgard!»
Ho
cercato sull'atlante dell'Europa questa regione, senza alcun
successo. La mamma, poi, è contraria all'uso di Internet (dice
che Pan riuscirebbe a venderle anche la casa, se solo capisse come
funziona), per questo non l'abbiamo mai avuto e, penso, mai lo
avremo.
«E
dov'è?» le ho chiesto, allora.
«Ma
non so di preciso...» ha risposto lei, evasiva, mentre, tirato
su l'albero senza il minimo sforzo, abbassava i rami. «So che è
molto su, vicino al Polo Nord. Così mi ha detto lui.»
«E
ti ha anche detto che è un cavaliere?» ho domandato,
senza riuscire a trattenere il disprezzo.
«Beh,
sì, è un'alta carica che viene data ai giovani che si
distinguono nel combattimento e così... conquistano anche
delle armature o che so io... non ci ho capito molto, però.»
mi ha spiegato. Sono balzato in piedi, scontento, e l'ho aiutata a
compiere il lavoro sui rami più bassi. Per quelli più
alti, lei si è messa in piedi su una sedia.
«E
perché ti sta così simpatico?» ho voluto sapere.
«E'
un bravo ragazzo.»
«Ma
che ne sai?» ho sbuffato, arrabbiato. «Potrebbe essere
venuto qui anche con l'intenzione di rubare tutto!»
Lei
ha sospirato. «Te l'ha messo in testa Pan?»
«Lo
penso io!»
«Beh,
avrebbe potuto farlo già da un pezzo, non trovi? E' qui da tre
mesi!» ha ribattuto lei, strappandomi dalle mani un ramoscello
che tenevo troppo stretto e che ho finito per accartocciare. «E
non parlare troppo forte. Quello che gli avete fatto è
inqualificabile! Vi siete comportati davvero molto male, tu e tua
sorella. E' un ospite. E l'ospite è sacro!»
«E
dopo tre giorni puzza!» le ho ricordato.
Lei
ha arricciato le labbra. «Non giustifica quello che gli avete
fatto! Gli avete spaccato un vaso in testa!»
Il
suo prezioso vaso cinese è aleggiato sulla mia coscienza per
un secondo, ma l'ho scacciato: dovevo parlare, vomitare tutto il mio
malcontento.
«Insomma...»
ho tagliato corto, per impedirle di guardarmi ancora in quel modo,
facendomi sentire ancora più in colpa. «Perché ti
sei iscritta a quel programma dell'università?»
Lei
si è morsa il labbro inferiore. Ho intuito che era a disagio.
«Passami le palline, Kenny! Comincio a sistemare l'albero.»
Ma
io non mi sono mosso. «Dimmelo!» ho esclamato, a voce,
forse, troppo alta.
«NON
ALZARE LA VOCE CON ME, HAI CAPITO?»
Ho
fatto un passo indietro: la mamma sa essere pericolosa come Pan e non
devo andare molto indietro con la memoria per darmi una
dimostrazione. «Perché non me lo vuoi dire?» ho
chiesto, però, con gli occhi bassi.
La
mamma, per tutta risposta, ha preso la scatola delle palline per
conto suo, lasciandomi in piedi accanto all'albero come uno
stoccafisso. Ha cominciato ad accarezzare le palline e a cullare la
scatola come si fa con un bambino, guardandole con un'infinita
tristezza.
Credevo
che fosse impazzita, ma quella tristezza nei suoi occhi mi ha stretto
il cuore.
«Mamma?»
l'ho chiamata, incerto.
«Oh,
al diavolo!» ha ribattuto lei, tornando la solita donna
energica che ricordavo. Mi ha posato la scatola ai piedi e ne ha
prese alcune, che ha cominciato a sistemare, canticchiando una
canzone. Lo fa sempre, quando non vuole parlare di qualcosa.
Fare
l'albero in quel modo è davvero una tortura; avrei preferito
andarmene e lasciarla lì. Sono sicuro che non gliene sarebbe
importato per come stavano andando le cose.
«Ho
conosciuto un paio di ragazzi, in caserma.» ho detto, ad un
certo punto, per dissipare la tensione: capivo che non c'erano molti
modi in cui avrei potuto convincerla. Non sono bravo a far leva sul
senso di colpa e non avrei saputo da che parte cominciare. «Uno
di loro è Frank Kushrenada. E' il figlio di Douglas
Kushrenada, il politico, sai?»
L'ho
guardata, i suoi occhi sono diventati come grosse palle da bowling.
«Doug...
Douglas Kushrenada?» ha chiesto, diventato isterica. «Vuoi
dire che tu vai... vai a scuola... con il figlio di quell'uomo
meraviglioso?»
Si
è fiondata addosso a me, stringendomi le mani e guardandomi
con gli occhi che le brillavano per l'emozione. Sembrava aver
dimenticato la discussione appena avuta e il fatto che avessimo
tentato di buttare Mizar in un cassonetto. «Ehm... sì.»
«E,
dimmi, com'è?»
Come
avrei potuto descrivere Frank? Lui è un bravissimo ragazzo, un
tipo simpatico ed intelligente, a cui piace seguire le regole. Ed è
anche un po' formale, ma come lo si può biasimare con una
famiglia del genere? Credo che la sua famiglia, da quello che ho
capito, vorrebbe anche scegliere le persone che Frank dovrebbe
frequentare. Forse, lo hanno anche costretto ad andare in caserma.
Forse non a tradimento, come è successo a me e a Pan, ma
comunque potrebbe non essere stata una sua libera scelta. Lui non
l'ha mai detto e, mi sono reso conto, di non averglielo mai chiesto.
Adesso che ci penso, non so ancora molto su di lui. Quindi, alla
fine, non sapevo proprio cosa dire a mia madre. «Ehm... è
simpatico.»
«Oh,
bene! E tu sei suo amico?»
«Sì.» «OH,
CHE MERAVIGLIA!» ha gridato lei, alzando gli occhi al cielo,
come per ringraziare Dio. E' tornata a guardarmi, mi ha sorriso in
modo maniacale, come quando le vengono le idee più folli. E la
sua era davvero un'idea folle: «Magari riesco a combinare il
matrimonio di Pan con questo ragazzo! E, dimmi, è bello come
il padre?»
«Ehm...
non lo so...» questa è la verità: non so neanche
che faccia abbia Douglas Kushrenada, anche se so che mamma lo adora.
Poi, vedendola così delusa, mi sono deciso ad aggiungere: «Ma
alle ragazze piace. E somiglia molto al Generale Treiz.»
«Un
marito ricco, potente e bello! Pan non potrà che essere
contenta, quando glielo dirò! Ah, ma dovrà smettere di
comportarsi da selvaggia, se...» si è fermata, ha scosso
la testa e ha continuato a fissarmi in quel modo terribile. «Dimmi,
Frank cosa ne pensa di Pan?»
«Ehm...»
la odia, direi. «Non lo so.»
«Ma
te ne avrà parlato!»
«Ehm...»
non nel senso che sperava lei. «Non mi ricordo.»
Mamma
ha sospirato. «E va bene...» ha concluso, piuttosto
delusa. «Allora stai attento, quando torni in caserma, va bene?
Devi dirmi come si comporta. Oh, magari si innamorasse di lei!»
Frank
si sarebbe sposato con Pan solo se, come alternativa, fosse costretto
ad inghiottire chiodi e a bere litri e litri di olio di ricino. E
forse non sarebbe neanche abbastanza.
Ho
annuito, tanto, piuttosto che dire a mamma le cose come stanno,
preferirei sotterrarmi. Spero solo che non si metta a frugare tra le
mie cose e che non scopra mai che tengo un diario, altrimenti sarebbe
una tragedia!
Beh,
abbiamo continuato a sistemare le palline sull'albero, mentre lei
continuava a sproloquiare su quanto suonasse bene il nome “Pan
Kushrenada”. Ed è stato in quel momento che mi è
venuto in mente di riportare la discussione sul piano “Mizar”,
un po' per farla smettere di illudersi, un po' perché avevo
bisogno di sapere.
«Mamma,
perché volevi rimpiazzarci?»
Subito,
ha smesso di parlare di Pan e del suo matrimonio, durante il quale le
zie Polly e Molly, oltre che Bulma e sua figlia, sarebbero schiattate
di invidia sul posto. Mi ha guardato scossa, come se mi avesse visto
davvero solo in quel momento.
«Io...
io non voglio rimpiazzarvi!» ha esclamato, come se, invece, le
avessi detto che, a scuola, era stata una frana. «Come ti viene
in mente?»
«Ti
sei messa in casa quello sconosciuto!» ho spiegato. «Ha
ragione Pan: ci vuoi rimpiazzare!»
«Come
puoi credere a quello che dice tua sorella?»
«Beh,
ci credo!» ho risposto, piccato. «Se non è per
rimpiazzarci, allora perché?»
Di
nuovo, si è morsa il labbro inferiore e, mortificata, ha
abbassato lo sguardo, mentre le sue mani rimanevano sopra la testa,
attaccate al filo della pallina multicolore che stava attaccando al
ramo.
«Mi
sentivo sola...» ha mormorato, con voce piccola. Sono rimasto
spiazzato dalla rivelazione: la mamma si era sentita sola? Anche lei
aveva sentito quel senso di lontananza da casa, quel senso di
assoluto abbandono e di tristezza ogni volta che ripensava a quando
eravamo tutti insieme, a mangiare intorno ad un tavolo e a litigare
come pazzi? «Credevo di poterlo reggere... ma poi anche nonno
Satan se n'è andato di casa e... non mi piaceva tutto quel
silenzio. Tuo padre con quella sua musica ossessiva non è più
un rumore: quello è come... la colonna sonora della nostra
vita.» ha finalmente abbassato le mani e ha cominciato a
tormentarsele l'una con l'altra. «Ma senza di voi, anche la
colonna sonora più bella, diventa monotona. Non avevo più
niente da fare: il mio scopo nella vita era occuparmi di voi, ma dato
che non c'eravate più... ho dovuto occuparmi di qualcun
altro!» Ha sorriso, in modo colpevole. «Forse... forse vi
ho davvero rimpiazzati, ragazzi miei!» ha detto, in un tono
così triste che mi ha fatto stringere il cuore. «Ed è
per questo che... oh, l'avete fatto per me!»
Non
avrei mai potuto immaginare che la mamma potesse davvero pensare a
noi come ad uno scopo nella vita. E mi sono sentito un verme per come
avevo trattato Mizar, fino ad allora: la mamma si era inserita nel
progetto dell'università solo per avere di nuovo l'occasione
per occuparsi di qualcuno, dato che ci ha mandati in caserma. Forse
si è anche pentita della sua scelta e, per questo, ho deciso
di parlare (di mormorare, più che altro):
«Mamma...
io e Pan... ci troviamo bene in caserma...»
Non
mi aspettavo che scoppiasse a piangere; non mi aspettavo nemmeno che
mi balzasse addosso e che mi stringesse forte come ha fatto, scossa
dagli alti singhiozzi che hanno aizzato la curiosità dei
vicini e di quel naso lungo del signor Parker che ha sentito
l'irresistibile bisogno di correre fuori a far scorrere l'acqua dal
tubo di gomma per innaffiare le sue piante secche, come non aveva
fatto durante la scappatina mia e di Pan. Ero in imbarazzo, ma
sentivo anche il bisogno di piangere, così ho sopportato il
suo abbraccio e ne ho approfittato per ricevere anch'io un po' di
consolazione.
«Dai,
mamma... non fare così...» non sono mai stato bravo nel
consolare. Anzi, diciamo che non avevo mai consolato nessuno prima di
oggi e che mi ritrovavo piuttosto impreparato e con gli occhi lucidi.
«Ehm... dai... non piangere!»
«Oh,
il mio bambino!» singhiozzava lei a voce troppo alta. «Il
mio bambino! Com'è sensibile! Com'è caro, dopo che io
lo rimpiazzo con un altro, lui vuole comunque bene alla sua mamma!
Oh, il mio caro bambino!»
Sono
arrossito di imbarazzo e non ho potuto fare a meno di pensare che, se
da quelle parti fosse passata Bra, mi avrebbe preso in giro finché
avessimo avuto vita.
A
salvarmi dalla casualità degli eventi, è stato il
telefono che, dal salotto, ha riscosso entrambi. La mamma,
asciugandosi le lacrime, non ha potuto fare altro che allontanarsi,
ancora tirando su col naso. E' rientrata, passando per la porta a
vetri, mentre io mi gettavo sul divano da giardino, guardando la
scatola di palline ancora piena, mogio: avrei dovuto chiedere scusa a
Mizar. Alla fine, ho capito che lui aveva solo cercato una casa, ha
trovato quella che gli conveniva di più e non era colpa sua se
era proprio la nostra. Non era colpa nemmeno della mamma. Ho
cominciato a desiderare di rimanere a casa e di non tornare più
in quella caserma, anche se questo avrebbe significato non vedere più
Alex, Arale e Frank. Non ci sono ancora motivazioni così forti
da farmi rimanere lì e, in quel momento, non avevo neanche
voglia di cercarle.
Mentre
annotavo mentalmente di parlare con Pan della storia dello scopo
nella vita, lei e papà sono tornati e in macchina tenevano,
oltre alle solite sedici buste della spesa, anche...
«Nonno
Satan!» sono scattato in piedi, gridando il suo nome. Dopo
averlo creduto morto, vedermelo davanti era la più bella delle
sorprese e mi ha fatto dimenticare momentaneamente il mio senso di
colpa. Gli sono corso incontro e, quando è sceso dalla
macchina, l'ho abbracciato io, cosa che ha lasciato di stucco non
solo lui, ma anche me e Pan, che mi guardava come se avessi detto di
voler diventare un serial killer.
«Kenny,
hai preso una botta in testa?» mi ha chiesto, disgustata.
«Insomma... tu e nonno Satan... vi odiate!»
Ma
io mi ero già staccato dal nonno e lo guardavo con un sorriso
che mi partiva da un orecchio e mi arrivava a quell'altro. Ero troppo
contento che sia ancora qui, tra noi. E lo sono anche ora che
ripenso. E' stata una bellissima sensazione vederlo lì, di
fronte a me.
Il
nonno muoveva le braccia avanti e indietro, guardandomi come se fossi
stato folle e, forse, lo sembravo davvero. «Okay... ehm... vi
aiuto a prendere la spesa!»
«GOHAN!»
il grido della mamma gli ha impedito di muovere un altro piede verso
la macchina, mentre mi giravo di scatto verso di lei. E quel che ho
visto, mi ha fatto chiedere se quella fosse davvero la donna che,
poco prima, si era buttata su di me, abbracciandomi disperata. Certo,
aveva ancora gli occhi rossi, ma ora non sapevo se lo fossero per la
rabbia o per la tristezza.
«V-videl?»
ha risposto papà, bloccato con una mano stretta intorno ad una
portiera dell'auto. Persino Mizar è uscito da camera sua e si
è affacciato dalla porta a vetri, incuriosito.
La
mamma ha cominciato ad avvicinarsi con passo pesante, sembrava
l'Incredibile Hulk nei suoi momenti peggiori, se non fosse che la
mamma non era ancora diventata verde ed enorme. Beh, anche se non lo
era, era comunque spaventosa e io e il nonno siamo indietreggiati per
il terrore, come se ci fossimo sincronizzati.
«MI
HANNO CHIAMATA I GIORNALISTI, ACCIDENTI A TE!»
«I...
giornalisti?» ha ripetuto papà, riprendendo
incredibilmente l'uso della mandibola. «E allora?»
«E
ALLORA? MI HANNO FATTO UN SACCO DI DOMANDE!»
«Domande
su cosa?» ha chiesto Pan, l'unica che non sembrava essere stata
intimidita da quella furiosa invettiva della mamma.
«DELLA
GALERA! DEI NOSTRI FIGLI CHE VANNO IN GIRO AD AMMAZZARE LA GENTE!»
Così
tutti i vicini hanno saputo che abbiamo passato un intero pomeriggio
in carcere, oltre che tutta la mattina alla stazione di polizia. Il
mio sguardo è corso al signor Parker che, ancora con l'acqua
aperta, stava affogando le sue piante e guardava verso di noi con una
curiosità che aveva un che di morboso. Il bello era che noi
non facevamo niente per impedirgli di ascoltare i fatti nostri.
«E
io che c'entro?» ha voluto sapere papà, ma non potevo
dargli torto: era colpa di mamma e Pan, se era successo, dopotutto.
«CHE
C'ENTRI? LO SO IO DOMANI CHE BELL'ARTICOLO CHE VERRA' FUORI! FAMOSO
DIRETTORE D'ORCHESTRA ARRESTATO PER AVER PROVOCATO UNA RISSA! FIGLI
ASSASSINI DI UNO STIMATO DIRETTORE D'ORCHESTRA!»
Papà
la guardava come se fosse matta. «Videl, la rissa,
tecnicamente, l'hai provocata tu!»
«NON
RIGIRARE LA FRITTATA!»
«Possiamo
parlarne in casa?» ha riprovato papà.
«QUI
O DENTRO E' LA STESSA COSA!»
«Ma
dentro fa più caldo!»
«FARA'
CALDO ANCHE QUI, SE NON LA PIANTI!»
Un
secondo dopo, la macchina del poliziotto che passa di qui tutte le
mattine – quello che non si ferma mai quando succedono di
queste cose, ma che ci ha arrestati stamattina – ha
parcheggiato di fronte al nostro giardino. Ero sicuro che stesse per
prenderci tutti e portarci di nuovo in commissariato, ma stavolta c'è
stato il colpo di scena: ne è uscita una faccia conosciuta, ma
non quella del solito poliziotto.
«Ma
quello è...» neanche mia sorella ha avuto il coraggio di
dirlo.
«S-salve!»
ha detto, guardando un po' tutti smarrito, chiedendosi, forse, a chi
dovesse rivolgersi. Persino Mizar si era avvicinato, guardando
sconvolto la mamma che inveiva contro papà. Si vede che, nei
giorni in cui è stato da solo con loro, la mamma non ha mai
dato in escandescenze. Quindi... siamo sicuri che non siamo io e mia
sorella a mandarla in agitazione?
«Oh,
buongiorno!» ha esclamato il nonno, con un sorriso gigante.
«Cosa posso fare per lei? Sono Satan, il padre di questa
graziosa ragazza!» ha indicato la mamma che, le mani piantate
sui fianchi, lanciava insulti su papà.
«Salve...
io sono... Tota Matsuda.» l'ispettore ha allungato la mano per
stringere quella enorme del nonno che gliel'ha stritolata, facendogli
sfuggire un gemito. «Mi... mi ha mandato l'ispettore Soichiro
Yagami per...»
«AH!»
l'attenzione della mamma si è spostata sul nuovo arrivato, nel
sentire il nome dell'uomo che ci aveva scarcerato. Ha puntato un dito
contro il povero signor Matsuda. «Ecco, proprio lui! Scommetto
che è stato lui! Mi hanno chiamato I GIORNALISTI! LUI! E'
STATO LUI A FAR TRAPELARE LA NOTIZIA!»
«N-no,
signora, lasci che le spieghi... ero venuto apposta per...» ma
la mamma non lo ha fatto finire. Lo ha fronteggiato, puntandogli un
dito addosso.
«Io
vi denuncio!» ha detto, in tono minaccioso.
«Signora,
la prego...» ha piagnucolato il povero signor Matsuda. «Ero
solo venuto a spiegarle la situazione e porgerle le scuse del
dipartimento per l'incresciosa fuga di notizie!»
«Poteva
venire il suo capo! Anzi, doveva venire lui! E' stato lui a
non proteggere la nostra privacy, quindi deve essere lui a...»
«L'ispettore
Yagami sta... sta, ecco,» l'ha interrotta lui, abbassando lo
sguardo, improvvisamente mortificato. «sta festeggiando il
Natale con la sua famiglia.» ha detto, infine. «E' per
questo che ha mandato me!»
E
l'espressione omicida sul volto della mamma si è trasformata,
facendosi improvvisamente molto dolce. Proprio come il dottor Jekyll
e Mr. Hide. «E la sua famiglia, dov'è, signor...
ehm...?»
Matsuda
ha ripetuto il suo nome e poi ci ha rivelato che i suoi vivono nel
sud del Giappone e che, per questo non sarebbe potuto andare a
trovarli. La cosa che ha riempito di lacrimoni gli occhi di mamma e
le ha fatto dimenticare i suoi propositi legali. Pan, che si era
avvicinata a me e al nonno Satan, guardava la scena con occhi
spiritati. Ma non è stata l'unica, dopo che la mamma ha detto
questa frase: «Le va di passare la sera di Natale con noi? Non
saremo la sua famiglia, ma... ci farebbe piacere!». Anche io
ero fuori di me dallo stupore. Eppure, adesso che ci penso, avrei
dovuto essere quello meno stupito, dopo che mi aveva confessato di
aver preso Mizar in casa solo perché doveva prendersi cura di
qualcuno al posto nostro.
Il
signor Matsuda cercava di svicolare: «Ehm... non so se posso...
insomma...»
«Ma
certo che può!» ha esclamato la mamma. «Andiamo,
non può passare la sera di Natale tutto solo! Sono una mamma e
non posso permetterglielo! O è in servizio anche la notte di
Natale?»
«No...
ecco... è che... non credo di poter approfittare della sua
generosa ospitalità!»
«Ma
certo che può!» ha ripetuto mamma.
Il
nonno, a quelle parole, ha preso il suo fazzoletto grosso come una
tovaglia e ha cominciato a piangere come un disperato tutta la sua
commozione. «La mia bambina è così generosa!»
ululava, tra le lacrime.
«E'
completamente partita!» è stato il commento di Pan.
«Ma...
Videl...» questo quello sconcertato di papà.
Io
e Mizar eravamo gli unici zitti, ma entrambi decisamente sconvolti da
quell'invito all'ultimo minuto e fatto ad un perfetto sconosciuto.
Quindi,
come c'è da aspettarsi, pure Matsuda ha passato con noi questa
Vigilia di Natale, bevendo un bicchiere di vino ogni due cucchiaiate
di minestra (uno dei sei primi) e stando seduto intorno al tavolo del
soggiorno, tra papà e nonno Satan, che rideva ad ogni piè
sospinto per qualsiasi parola che chiunque pronunciava. Nessuno ha
più parlato della fuga di notizie.
Non
che Matsuda fosse una presenza cattiva, per carità, però
raccontava barzellette che raggelavano l'ambiente anche se era così
caldo in quella stanza che Pan e io ci eravamo andati a mettere
magliette a maniche corte: «Lo sapete il colmo per un
ortolano?» ha chiesto, al quarto bicchiere. «Avere un
figlio finocchio e non poterlo vendere!»
Lui
è stato l'unico a ridere e la mamma ha fatto finta per non
ferire i suoi sentimenti di brillo.
«Bella.»
ha detto Pan, annoiata, mezza coricata sul tavolo con il pugno a
sorreggerle la testa.
Io,
intanto, ho deciso di dare a Mizar una possibilità e, tra le
altre cose, abbiamo scoperto che abbiamo un sacco di cose in comune:
per esempio un fratello. E, quando gli ho raccontato uno dei tanti
scherzi che mi ha fatto Pan, lui mi ha rivelato che anche lui, al suo
gemello, da bambino, faceva un sacco di scherzi.
«Ero
un po' come tua sorella.» ha detto. «Pensa che, un
giorno, avremmo avuto... sette anni, l'ho preso per mano e gli ho
detto: “vieni, Alcor, andiamo a giocare nella foresta.”.
Gli ho proposto di giocare a nascondino e che doveva stare sotto lui.
L'ho portato in un punto molto fitto della foresta. Tra i due, io
sono sempre stato quello con più senso dell'orientamento e
lui, invece, era una schiappa. Così, mentre lui contava, sono
scappato via, per impedirgli di ritrovare la strada.» ha fatto
una smorfia. Si vedeva che non andava tanto fiero della bravata.
«E
perché l'hai fatto?» gli ho chiesto.
«Perché...»
ha rivolto uno strano sorriso mesto alla sua mano che giocava con una
mollica di pane vagante per la tavola. «non mi piaceva l'idea
di avere sempre vicino qualcuno uguale a me. Se si fosse perso nella
foresta... beh, ero piccolo e stupido. Lì c'erano anche
animali feroci...»
«E
lo sapete cosa dicono due casseforti che si incontrano?»
domandava Matsuda, nel frattempo. «Che combinazione!»
Ho
fatto una strana smorfia preoccupata, ripensando alle parole di
Mizar. «Bestie feroci?»
«Sì.»
ha ammesso lui. «Lupi, orsi...»
«Ma,
scusa, precisamente, dov'è questa regione di Asgard?»
«E
lo sapete il colmo per uno specchio?» chiedeva ancora Matsuda,
tracannando il contenuto del bicchiere che il nonno gli riempiva.
«Sforzarsi di riflettere!»
Mizar
ha scosso la testa, ma non capisco se per la mia domanda o se per la
battuta penosa del nostro ospite. «Asgard non è una
regione.» mi ha detto. «E' una città.» e la
cosa mi ha lasciato un tantino spiazzato.
«Una...
AHIA!» ho lanciato quell'urlo sovrumano perché Pan,
all'altro mio lato, mi aveva infilzato la mano che tenevo appoggiata
sul tavolo con la forchetta. Quando ho sentito quella puntura così
terribile e violenta, ho ritirato la mano, ma ho solo risolto di
graffiarmi con i denti della posata. «Ma sei impazzita?»
ho gridato.
«Che
cazzo fai? Simpatizzi con il nemico?» ha chiesto lei, in tono
accusatorio.
«Non
è un nemico.» ho ribattuto, scuotendo la mano dolorante.
«AH
NO?» Pan gli ha puntato la forchetta, che aveva usato per
infilzare me, per indicare Mizar. «E' il nemico! Il pericolo
numero uno!»
«E
allora il cetriolo ha detto...» continuava Matsuda, ridendo a
crepapelle. «Ha detto...» è crollato a terra,
addormentato, e non abbiamo mai saputo cosa avesse detto il cetriolo.
Nessuno ha fatto molto caso al fatto che il poliziotto ronfasse della
grossa, neanche il nonno che, vedendo il bicchiere dell'ospite vuoto,
lo ha riempito nuovamente e ha ripreso a ridere come un invasato.
«Ma
non è un nemico!» ho esclamato, come se non lo avessi
mai pensato.
«MA
CERTO CHE LO E'!» ha gridato lei, balzando in piedi e brandendo
quella forchetta come una spada. «E' UN ALIENO CHE STA
SOGGIOGANDO ANCHE LA TUA MENTE!»
La
guardavo sconcertato, mentre Mizar è scoppiato a ridere.
«Sarei un alieno?» ha chiesto, divertito, prima di
soffocare in un'altra risata. Probabilmente anche lui era un po'
alticcio, o forse semplicemente cominciava ad avere dimestichezza di
Pan che gli ha puntato addosso la forchetta. «In guardia,
alieno del cazzo!»
«Posso
chiedere una tregua?»
«PUSILLANIME!
FATTI SOTTO!»
«CORAGGIO,
NIPOTINA!» faceva il tifo il nonno. Insomma, la cena di Natale,
da noi, non rischia mai di cadere nel mortorio. La mamma cerca di
opporsi di solito, ma questa volta ha chiuso un occhio, e ha messo in
tavola nell'ordine: il tacchino, le patatine, il pollo con le
verdure, il maiale arrosto e il vassoio di sushi con contorno di
zucchine (sì, mia madre fa queste cose), il pesce spada al
forno, il tutto sempre senza smettere di sorridere, mentre in casa
regnava il caos.
Penso
che sia stato il miglior Natale da molti anni a questa parte.
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Capitolo 16 *** Una gita fuori programma ***
Vacanze
natalizie.
Una
gita fuori programma.
|
25
Dicembre
Questa
mattina mi sono alzato con un solo scopo: convincere Mizar a rimanere
qui con mamma e papà. Già ieri sera mi sono accorto che
è una persona per bene, e il fatto che abbia anche deciso di
non sporgere denuncia, mi ha fatto ben sperare. Così, prima
che Pan si alzasse, sono sceso di sotto, vestito di tutto punto e con
i denti lavati – la mamma dice che se le cose si dicono con
l'alito fresco, l'interlocutore è più propenso ad
ascoltarti – ho bussato alla porta di camera sua, e mi sono
fatto coraggio. Avrei dovuto essere convincente, ma non sapevo come
fare: tutte le volte che sono stato convinto a fare qualcosa è
stato sotto minacce o paura. Sia Pan che la Une non sono mai state
dei grossi esempi di diplomazia.
Quando
lui ha aperto, aveva l'aria di stare aspettando di ricevere una
bomba. Avrei dovuto, forse, augurargli il buongiorno, o un buon
Natale, ma non mi è venuta in mente di fare nessuna delle due
cose. «Non
te ne devi andare.» ho dichiarato soltanto.
Lui
mi ha guardato come se fossi impazzito. Forse non è stata
effettivamente una grande idea. Neanche un preambolo. Niente di
niente. E ho dovuto continuare su quella via, perché
altrimenti mi sembrava di diventare ancora più stupido:
ripiegare sugli auguri era fuori discussione e gli avrebbe fatto
credere che ero più pazzo di quel che credesse.
«Da
questa casa.» ho specificato quindi. «Devi rimanere!»
ho abbassato lo sguardo, sentendomi in imbarazzo. Mi ero preparato il
discorso, in bagno, mentre mi lavavo i denti e volevo essere al mio
massimo, ma nel momento in cui sono andato a pronunciare le parole,
mi sono sentito un vero imbecille. L'ho fatto comunque, mi sono
uscite quasi involontariamente di bocca. «Vedi, la mamma si è
sentita molto sola, da quando ce ne siamo andati e, adesso che ce ne
andiamo di nuovo, tornerà a sentirsi sola. Tu stai molto
simpatico alla mamma e... e in fondo piaci anche a Pan. Un pochino,
cioè... e anche a me piaci! Se tu, invece, sei qui con lei...
con mamma, intendo, insomma...» mi sono grattato la testa,
perché non sapevo più come continuare. Lui mi ha
guardato ancora per un po'. Sembrava non capire il senso del mio
discorso – e in effetti anche a me, rileggendolo, non sembra
che ne abbia molto – ed è rimasto in silenzio così
a lungo che non ho potuto fare a meno di chiedermi perché
l'avevo fatto. Anche con l'alito fresco, forse Mizar non avrebbe
potuto dimenticare il vaso che gli era finito in testa così
facilmente, né il fatto di essere stato quasi portato di peso
in un cassonetto. Avrebbe detto che non se la sentiva di rimanere,
che non era giusto nei confronti di mia madre o qualcosa di simile.
Invece, con mia grande sorpresa, mi ha posato una mano sulla spalla.
«Grazie,
Kenny.» ha detto. «Sei un bravo ragazzo.»
Le
sue parole mi hanno riempito di orgoglio e di stupore al tempo
stesso. Ho alzato lo sguardo per incrociare il suo e ho visto che
stava sorridendo. Ho sorriso di rimando. «Allora rimani?»
«Sicuramente
rimarrò fino alla fine delle vacanze: gli uffici sono chiusi,
in questo periodo.»
Mi
sono accontentato: avrei parlato con Pan quando saremo andati alle
giostre. Ci andiamo tutti gli anni e quest'anno non saremo da meno.
Passiamo lì la giornata e torneremo la sera, proprio come una
famiglia normale.
Invece,
le cose non sono andate proprio come speravo io.
La
mamma ha detto che lei e papà avrebbe dovuto accompagnare
Matsuda a casa sua (ha dormito sul nostro divano e ha anche vomitato
nel vaso cinese superstite) e poi saremmo andati a far visita agli
amici per gli auguri di Natale.
In
questo non c'è niente di strano: ogni anno siamo costretti ad
uno strano giro di visite, nei giorni dopo Natale, con la variante
che, di solito, sono gli altri a venire a trovare noi. Stavolta,
perché la mamma ha detto che era maleducazione farsi sempre
fare visita e mai fare visita, avremmo dovuto saltare le giostre di
Natale e girare di casa in casa.
Pan
è stata la prima a protestare. «Senti, mamma, questa è
la mia cazzo di festa di Natale. Perché cazzo dovrei saltarla
per fare gli auguri ai Brief?» ha domandato e non ho saputo
darle torto, dato che noi, coi Brief, non ce la diciamo tanto.
«Oh,
falla finita, Pan. Le parolacce anche il giorno di Natale! E comunque
sono nostri amici!» le voleva far notare la mamma, anche se lei
è la prima a non andare d'accordo con Bulma. Mi chiedo perché
si ostini a dichiarare eterna amicizia con lei e i suoi familiari.
«NON
CI VENGO A CASA DI BRA!» ha rimarcato il concetto Pan.
È
stato allora che Mizar ha proposto una soluzione alternativa e questo
mi ha fatto capire che è davvero un ragazzo disponibile e per
niente cattivo: ha detto che avrebbe accompagnato me e Pan alle
giostre, e che sarebbe stato molto contento di farlo, provocando
un'ondata di commozione da parte della mamma. Comincio a pensare che
mandarci in caserma non sia stata la sua mossa migliore. «Sei
un così bravo ragazzo!» ha sospirato. «I miei
figli lo vogliono uccidere e lui si presta a questo! Che ragazzo
nobile e generoso!»
Pan
ha avuto da ridire anche su questo, ma non in faccia a lei, credo
perché la mamma non avrebbe apprezzato, soprattutto dopo che
“avevamo tentato di ucciderlo”: «Quello ci
ammazzerà non appena entreremo in macchina, col tubo di
scappamento!» ha borbottato, camminando dietro di me, verso la
macchina rossa del nostro inquilino. «Vuole vendicarsi, è
questa la verità! Lo farà passare per un incidente e
poi torna nel culo del mondo. Un piano perfetto. Ci porta alle
giostre e puf. Siamo morti. Geniale. Avrei voluto pensarci io.»
Però
è salita in macchina, dal lato del passeggero e ha indossato
perfino la cintura. E lo ha guardato come per sfidarla a togliersela
o a ucciderla adesso che aveva la protezione adeguata. Io mi sono
accomodato dietro Mizar e anche io mi sono messo la cintura, ma non
ero minimamente preoccupato di finire ammazzato in un falso
incidente.
«Guarda
che non c'è bisogno che tenti di comprarci con queste
carinerie!» ha esclamato, quindi, mia sorella, quando ormai
eravamo a due isolati da casa.
«Non
mi sembrava giusto che voi dovevate saltare il vostro... giro di
giostra per via degli impegni dei vostri genitori.» ha
risposto lui, pacato. Adesso non mi sembra neanche più falso
come prima, o forse è solo perché ho voluto concedergli
una possibilità. A dire il vero, mi sta anche parecchio
simpatico. In quel momento, mentre partivamo, stavo cercando le
parole più adatte per spiegare tutto a Pan, magari quando
fossimo stati da soli su qualche giostra.
«Ma
come siamo gentili...» ha risposto mia sorella, sarcastica.
«Senti, piantala di fare il samaritano, tanto non convinci
nessuno! Forse solo quel coglione lì dietro.» mi ha
indicato, mentre si rimetteva composta.
«Come
desiderate, madamigella.» ha risposto lui.
«Che
fai? Pigli pure per il culo?»
«Mi
hanno insegnato a rispettare il volere di una fanciulla e i suoi
desideri.»
Dallo
specchietto retrovisore sul lato di Pan, ho potuto vedere che lei
alzava gli occhi al cielo. Sì, okay, effettivamente era un po'
vomitevole.
Pan
si è stiracchiata, sbadigliando sonoramente, poi si è
portata le braccia dietro la testa. Sembrava infinitamente rilassata,
per una che credeva di stare per morire in un falso incidente.
«Allora, signor Rispetto,» ha cominciato, oziosa. «perché
non sei tra i tuoi Vichinghi a festeggiare il Natale?»
«Non
festeggiamo il Natale noi... Vichinghi.»
«E
perché?» ha domandato lei, annoiata.
«Perché
non crediamo nelle vostre divinità.» è stata la
quieta risposta di Mizar.
«E
tu in cosa credi? Nel culo della gallina?»
«Mai
sentito parlare di Odino?»
«Quello
dei Flinstones?» ha chiesto Pan, dubbiosa. Ho visto la faccia
smarrita di Mizar attraverso lo specchietto retrovisore. Mentre
cercavo di capire la battuta, lei ha continuato, sconcertata:
«Adorate un dinosauro? Bah...»
«Ehm...
non... non è... non è un dinosauro!» ha
balbettato Mizar.
«MA
L'HAI DETTO TU! Hai detto che si chiama Dino!» gli ha
rammentato Pan, tornando improvvisamente calma. Ma, prima che lui
avesse il tempo di replicare qualsiasi cosa, mia sorella ha ripreso
ad urlare, indicando convulsamente il muro di cinta del parco giochi
del quale svettava in lontananza la grossa ruota panoramica. «ECCOLO!
CI SIAMO! FERMIAMOCI!» Ha afferrato il braccio di Mizar
scuotendolo, eccitata. «CORAGGIO, FERMATI, FERMATI, FERMATI!»
«Ehm...»
rispondeva lui, cercando di mantenere fermo il volante e la macchina
che, grazie a Pan, sbandava leggermente verso destra. «Non
posso fermarmi in mezzo alla strada!»
«Tanto
c'è traffico!» ha replicato lei, ignorando le preghiere
di Mizar per essere lasciato. «Dai, fermati!»
Effettivamente
era vero: a Natale sono sempre molte le famiglie cui piace passare la
giornata al parco giochi e quella strada è una delle più
trafficate di Tokyo.
Mizar
ha anche provato a negoziare: «Fammi trovare parcheggio e...»
Ma
Pan non ha voluto sentire ragioni: «No, fammi scendere qui!»
ha detto, risoluta.
Il
nostro autista non sembrava molto d'accordo, anzi, sul suo volto si è
formata un'espressione riluttante: «Ma... se vi perdete?»
«Senti,
cocco,» ha ribattuto mia sorella, indicando il muro di cinta
del parco. «il parco è qui davanti! Dimmi come faccio a
perdermi!»
«Il
parco è grande!»
«Ci
vengo tutti gli anni e non mi sono mai persa!»
«No.»
ha tagliato corto Mizar. «I tuoi genitori ti hanno affidata a
me e non intendo...»
Purtroppo,
in quel momento, il traffico si è congestionato a tal punto
che è stato costretto a fermarsi davvero. Non avendo nessun
tipo di sicurezza-bambini, o qualche meccanismo che blocca le
portiere se la macchina è accesa (beh, non posso biasimarlo:
chi mai penserebbe che una ragazzina di dodici anni ne ha bisogno?),
Pan ha potuto aprire la sua portiera.
«NO!»
Mizar ha provato a fiondarsi alla sua sinistra per afferrare mia
sorella che, ormai, si era sfilata la cintura e si era buttata giù
dalla macchina, quindi ha cozzato ineluttabilmente contro il cambio.
«Pan, dai... torna dentro!»
Ma
mia sorella gli ha rivolto uno dei suoi migliori sorrisi furbi e,
salutandolo con un carinissimo dito medio, gli ha richiuso la
portiera in faccia.
«No!»
ha ripetuto, gemendo, il povero Mizar, facendo per togliersi la
cintura. Non so chi mi abbia dato la prontezza e l'intuizione, e
nemmeno chi mi abbia messo in testa di mettergli una mano sulla
spalla.
«Aspetta.»
gli ho detto. «Meglio che vada io.»
«Oh,
certo, ecco che se ne va anche l'altro!» ha ribattuto lui,
facendo scattare il pulsante della cintura. «E poi come faccio
a trovarvi? No, meglio che...»
«Ci
vediamo di fronte al Caffè Mew Mew!» ho proposto. «Dico
davvero, Mizar. E' meglio se parlo io con mia sorella. Credimi.»
Avevo
come l'impressione che Pan avesse intenzione di cominciare ad urlare,
attirare l'attenzione della polizia e mandare Mizar in galera, oppure
di picchiarlo in mezzo alla strada e farlo sanguinare fino a che non
fosse morto di emorragia. Diciamo che era proprio da lei.
Non
so chi lo abbia convinto, ma, dopo avermi guardato a lungo negli
occhi, ha ceduto. «E va bene.» ha detto, sospirando. «Mi
fido abbastanza di te. Mi sembri un ragazzino assennato. Vi voglio
tra un'ora davanti a questo Caffè.» ho sorriso, felice
di sentirlo parlare di me in quei termini. Nessuno è mai stato
così gentile. «Ma io come lo riconosco?»
Intanto,
io stavo scendendo dalla macchina tutto orgoglioso di me stesso.
Avrei trovato Pan e l'avrei portata al Caffè Mew Mew. Mizar ci
avrebbe ritrovati e tutto perché ero responsabile. «E'
fatto a forma di torta. Non ti puoi sbagliare!» ho richiuso la
portiera alle mie spalle e già correvo in direzione del parco,
per riprendere Pan. Fortunatamente, oggi mia sorella aveva deciso di
infilarsi la sua bandana arancione e così ho potuto
individuarla facilmente. E fortuna anche che lei andasse a passo
spedito ma non corresse, mentre io sì, altrimenti non l'avrei
mai raggiunta.
«Ehi,
Pan!» sono riuscito a dire, appena sono stato dietro di lei,
fermandomi e posandomi una mano sulla milza dolorante.
Lei,
nel sentirmi, si è fermata sul posto e si voltata di scatto a
guardarmi. «Ottimo lavoro, Kenny!» mi ha elogiato,
stupefatta. «Sapevo che la tua era solo una finta!»
Sorridendo
malignamente, si è di nuovo voltata verso la sua meta, con me
al suo fianco. Mi sono ritrovato a pensare che lei e Arale fossero
più simili di quanto entrambe credessero. Sarei stato contento
che, per una volta, mi avesse fatto un complimento, se non fosse che
non avevo fatto nessuna finta e non sapevo neanche di che stesse
parlando.
«Tra
un'ora dobbiamo vederci con lui al Caffè Mew Mew.» l'ho
informata, quando sono stato in grado di parlare.
«Con
chi?» ha chiesto lei, curiosa.
«Ma
con Mizar!» ho risposto, come se avesse dovuto essere ovvio.
Lei
ci ha messo qualche secondo a capire cosa avevo combinato e allora mi
ha lanciato uno sguardo omicida e mi ha mostrato i pugni. «Brutto...»
si è fermata un secondo. «Guarda, non so neanche come
definirti. Coglione è troppo poco!»
Ci
siamo fermati davanti all'ingresso, dove abbiamo comprato i nostri
biglietti e ci hanno permesso di passare con l'augurio di un buon
divertimento.
«Dai,
Pan. Mizar non è cattivo!» ho provato. Mi ero preparato
una specie di discorso che, nella mia testa, avrebbe sciolto il più
duro dei cuori, persino quello di Pan. Ma, mentre ero lì,
accanto a lei che guardava bancarelle e giostre avidamente, mi
rendevo conto che, con quel discorso, avrei convinto solo me stesso.
E la mia bocca non mi ha aiutato come era successo la mattina, prima
di colazione, quando sono andato da Mizar a chiedergli di rimanere.
Con Pan mi è sempre difficile esprimermi, perché non so
mai come potrebbe reagire.
Lei
mi ha guardato, forse per via del silenzio in cui ero caduto. «No,
è solo un leccaculo che non vuole perdere la camera di nonno
Satan!» ha risposto, cattiva.
«La
mamma si sentiva sola...»
«Beh,
le sta bene!» mi ha risposto lei, dura. Poi ha rivolto lo
sguardo altrove. «Oh, guarda! Compriamo lo zucchero filato?»
Non
ho avuto il tempo di replicare: lei è scattata verso il
carretto alla nostra destra e si è messa in fila per comprarne
uno. Sconsolato, l'ho seguita: se l'avessi persa al parco, allora
solo un cane dell'unità cinofila avrebbe potuto ritrovarla e
non ne sono neanche tanto sicuro.
«Dai,
Pan...» ho riprovato, una volta posizionatomi al suo fianco.
«La mamma vuole solo occuparsi di qualcuno! Si è sentita
molto sola senza di noi.»
Lei
si è stretta nelle spalle e ha alzato gli occhi al cielo. «Non
mi sembra un buon motivo per rimpiazzarci!»
«Ma
non ci ha rimpiazzato!»
«Certo
che lo ha fatto!» ha sbuffato lei. «Pensaci bene,
paramecio: ci butta fuori di casa, non solo noi, ma anche nonno
Satan!» e l'ha detto come se fosse stato ancora più
grave che sbarazzarsi di noi. «Poi si iscrive ad un programma
dell'università e si porta dentro casa un perfetto sconosciuto
che venera un dinosauro. Ti sembra una cosa normale?»
«Ma
lei non ha buttato fuori di casa il nonno! Ha vinto alla lotteria,
l'hai sentita anche tu la mamma, mentre lo diceva!»
«Certo!
E lei lo ha convinto a levarsi di culo. Cerca di far funzionare quel
neurone morto di solitudine che ti ritrovi, una volta tanto!»
Non
sapevo cosa replicare. Sapevo solo che la mamma non ha mai avuto
queste intenzioni e che mia sorella se le stava inventando di sana
pianta: lei non avrebbe mai cacciato di casa noi, né il nonno.
«La mamma ci vuole bene!» ho dichiarato, convinto e
risoluto. «E ci ha mandato in caserma solo perché
credeva che siamo troppo indisciplinati e, poi, abbiamo molte...
ehm... aspettative per il futuro!»
«Bla
bla bla!» ha blaterato lei. «Vaffanculo, ti va?»
Il
tizio del carretto dello zucchero filato l'ha incenerita con lo
sguardo. Durante la nostra discussione abbiamo finito la fila e ci
siamo ritrovati di fronte a lui proprio mentre lei mi mandava
gentilmente a quel paese.
«Voglio
dello zucchero filato. Una montagna di zucchero filato!» ha
detto Pan, coprendo la mia voce e mimando con le braccia una
montagna. Il tizio del carretto le ha dato la quantità che ha
dato a tutti. «Lei è proprio uno spilorcio.» lo ha
apostrofato Pan, prima di voltare i tacchi, senza neanche accennare a
prendere il borsellino. Ho dovuto pagare io, con tanto di scuse per
le maniere di mia sorella.
Quando
l'ho raggiunta di nuovo, ha cominciato a guardarsi intorno. «Allora,
cosa potrei...»
«Pan,
abbiamo un budget abbastanza limitato!» le ho ricordato.
«E
piantala di fare il rompicoglioni!» ha sbottato lei. «Siamo
qui per divertirci. Anzi, facciamo una bella cosa: adesso ci
dividiamo!»
«No.»
ho risposto, categorico, stupendo persino me stesso. «Tra poco
meno di un'ora dobbiamo andare...»
Lei
ha di nuovo alzato gli occhi al cielo. «A quel fottuto Caffè
Mew Mew, sì, paramecio! Ho capito che non vedi l'ora di
rivedere quel babbeo!» ha ringhiato, rabbiosa, strappando un
grosso morso dalla stecca di zucchero filato. Ha ripreso a camminare
e io le sono andato dietro. Lei ha cercato di liberarsi di me, ma io
non la mollavo e la seguivo come se fosse la mia ombra: Mizar mi ha
dato un compito e io lo avrei assolto a qualunque costo, anche un
occhio nero. Così abbiamo continuato a vagare in giro per il
parco senza salire su nemmeno una giostra. Lei le guardava tutte,
ignorandomi totalmente, dal bruco per i bambini, alle montagne russe
“più alte di tutto l'estremo oriente”, o almeno
tali si definivano. Ma non c'era niente di abbastanza interessante,
per lei. Quello era noioso, quell'altro troppo costoso, l'altro
ancora c'era troppa fila.
Quando
ho visto il trenino del genio della lampada, l'ho afferrata per il
braccio e la sua reazione mi ha quasi fatto prendere un infarto.
«BASTA!» ha gridato. «LASCIAMI IN PACE!» ed è
scappata via.
«NO,
PAN!» sono scattato anche io, seguendola in mezzo a quella
fiumana di gente che faceva la fila e che mi intralciava la strada.
In
mezzo a così tanti bambini e adulti, il mio inseguimento era
parecchio difficoltoso. Come prima, mi sono fatto aiutare dalla
bandana arancione che aveva sulla testa. Purtroppo, l'ultima volta
che sono riuscito a vederla, prima che un folto gruppo di palloncini
mi si parasse davanti togliendola dal mio campo visivo, era davanti
alla Casa degli Specchi. Ma avrei dovuto pensarci: odio quegli
specchi deformanti che hanno il potere di far credere che ci siano
cose che non ci sono e che non sono dove ci dovrebbero essere.
Così
sono entrato, sicuro com'ero che si fosse nascosta lì, solo
per farmi dannare: lo sa benissimo che quel gioco non mi piace e fa
sempre di tutto per farmici entrare. L'anno scorso, per esempio, mi
aveva nascosto il borsellino lì dentro e sono stato costretto
ad entrare, ben sapendo che la mamma avrebbe dato la colpa a me ed
alla mia distrazione se avessi detto che l'avevo perso.
Ero
immerso in quel labirinto di specchi, guardavo le decine di me stesso
che mi restituivano il mio sguardo perplesso e preoccupato: ogni
volta che entro, ho paura di non saper ritrovare l'uscita. Spesso mi
inganno che ci sia una via, dove in realtà ci sono solo
specchi, ma succede anche che non veda l'uscita, quando invece c'è.
È un incubo.
Per
questo allungo sempre le mani davanti a me e vado quasi alla cieca.
«Ehi,
Pan!» ho gridato, lasciando una lugubre eco dietro di me,
mentre facevo un passo avanti.
Non
so per quanto ho vagato là dentro, spaventato a morte da ogni
me stesso che appariva dal nulla di fronte a me. Non so nemmeno
quante volte ho maledetto mia sorella per quella sua mania di
trascinarmi fino alla Casa degli Specchi. Mi sembrava impossibile che
fosse riuscita a completare il labirinto così in fretta. Forse
non mi rispondeva e basta.
Me
lo sono chiesto solo una volta, poi non ho capito più niente.
Sapevo solo che, se avessi potuto farmela addosso, l'avrei fatto.
Ogni
tanto chiamavo Pan a gran voce, ogni tanto mi perdevo e trovavo altre
persone, perdute quanto me, ma mai tanto terrorizzate: ero l'unico
sudato, l'unico a cui tremavano le gambe e pronto a scoppiare a
piangere senza ritegno.
Alla
fine, mi sono accodato a due fidanzati che, tenendosi mano nella
mano, ogni tanto si davano un bacio e poi continuavano ad avviarsi a
passo sicuro verso l'uscita. Perché sì, mi hanno
condotto all'uscita, per fortuna. Certo, erano un po' infastiditi
perché li seguivo come un'ombra, ma almeno non sono scappati
via. Non mi creava imbarazzo nemmeno quando li vedevo scoccarmi
occhiate cattive, nemmeno quando mi hanno chiesto perché
continuassi a seguirli. Ho detto la verità e hanno avuto pietà
di me.
Nemmeno
il fatto che abbiano riso come pazzi mi aveva fatto male: mi sarei
fatto ricoprire da chili di pece e poi fatto impiumare pur di uscire
da lì.
L'unica
cosa buona era che ero arrivato davanti al Caffè Mew Mew: il
locale sta proprio dietro alla Casa degli Specchi e davanti a quella
dei Dolci, una ruota panoramica, con i seggiolini a forma di bignè.
E'
una delle mie giostre preferite, ma, in quel momento non ho notato
niente di quella meraviglia. Ero più preso dall'osservare la
figura bassa, i capelli neri, la bandana arancione, le braccia
conserte e un piede che batteva distrattamente sull'asfalto davanti
al Caffè.
Impossibile
non riconoscere mia sorella.
Sollevato
e incredulo, sono corso verso di lei: alla fine aveva mantenuto la
promessa!
«Ehi,
Pan!» l'ho chiamata a gran voce, alzando un braccio in segno di
saluto. Lei, però, visto che già mi stava guardando e
aspettando, non ha detto niente. «Perché mi fai sempre
entrare in quell'orribile postaccio?» ho protestato, quando mi
sono avvicinato.
«E
quanto la fai lunga!» ha risposto lei, con leggerezza. «Prima
o poi dovrai pur superare le tue paure!»
«E
tu hai trovato da sola l'uscita?» ho chiesto.
«Io
non ci sono mai entrata!» ha esclamato lei, come se io avessi
dovuto capirlo da solo, ma non lo facevo perché ero un idiota.
E,
in effetti, mi sono sentito proprio così: era da Pan farmi
credere una cosa in luogo di un'altra. È una delle cose che fa
sempre. Ho sospirato, sconfitto: anche questa volta, è
riuscita a farmela e io mi sono lasciato giocare, esattamente come
tutte le altre volte.
«Entriamo?»
mi ha chiesto.
«E
Mizar?»
Pan
ha alzato gli occhi sul grande orologio posto a pochi metri da lì.
«Quel coglione si sarà perso da qualche parte.» ha
detto. «Io mi faccio una scorpacciata di dolci, tu aspettalo
pure per tutto il giorno, se ci tieni!»
Effettivamente
non potevo lasciare Mizar a vagare in giro per il parco, magari
presentarsi sul luogo dell'appuntamento e non trovarci, disperarsi e
chiamare la polizia o i miei genitori perché ci aveva persi di
vista. La mamma, come minimo, lo avrebbe ammazzato, dopo che gli
aveva concesso tanta fiducia e dopo che lui ne aveva concessa tanta a
me.
Era
anche vero che non potevo lasciare sola Pan: sarebbe stata in grado
di distruggere il Caffè Mew Mew e una buona metà del
parco, volendo. Ma lei ha deciso per me ed è sparita
all'interno, prima che avessi avuto il tempo di dire la mia.
Non
mi restava che sedermi sul muretto davanti al Caffè e
attendere l'arrivo di Mizar. Peccato che abbia dovuto aspettare più
di mezz'ora, durante la quale ho visto Pan al tavolino vicino alla
finestra rimpinzarsi senza ritegno e un tizio che usciva velocemente
imprecando contro i pazzi. Eppure mia sorella non aveva fatto niente
di più che mangiare come una scrofa! Forse c'era anche qualcun
altro, peggio di lei. Ma avrei dovuto entrare per saperlo.
Non
è successo nient'altro degno di nota. Mizar è arrivato
in mezzo di un folto gruppo di ragazzi che si stavano dirigendo tutti
al Caffè.
«E'
stata una fortuna che li abbia sentiti nominare le parole Mew Mew!»
ha sospirato, fermandosi accanto a me. Ma poi il suo sguardo ha
vagato preoccupato intorno a me. «Ehm... dov'è
tua sorella?» dal tono della sua voce, ho capito che era
parecchio allarmato.
«E'
dentro.» ho indicato la finestra dalla quale potevo vederla
bene. In quel momento, stava letteralmente trangugiando il contenuto
di un grosso bicchiere da frappè. Sospirando entrambi per
l'ineluttabilità del fato, quasi fossimo stati sincronizzati,
ci siamo diretti verso il locale.
L'interno
è decisamente accogliente e caldo, nell'aria si sente l'odore
di dolci appena sfornati, le pareti sono gialle e il pavimento di
lucide mattonelle fucsia; i tavolini sono di metallo in rosa pallido,
così come le sedie. Le cameriere, da sempre, sono vestite di
strane uniformi di colori diversi.
Ogni
anno, queste ragazze non sono mai le stesse e quest'anno sembravano
più fiacche del solito, tranne una. Mi è rimasta
impressa perché era vestita di fucsia e i suoi capelli erano
dello stesso identico colore; li portava a caschetto ed indossava un
collare con un campanellino, più adatto per un gatto che per
una persona. Correva di qua e di là, ridendo come un'invasata
sotto lo sguardo atterrito di tutti i clienti cui passava accanto
correndo con un vassoio in bilico tra le mani.
In
più, ero sicuro di averla già vista. Ho avuto un dejà
vu in quel momento: la stessa ragazza, con gli stessi capelli fucsia,
che correva in giro per i corridoi della caserma. Sì, sono
sicuro di averla vista in più di un'occasione, ma non avevo
fatto molto caso a lei, forse perché aveva i capelli tinti,
come Bra.
«Ehm...
ma i locali giapponesi sono tutti così?» mi ha chiesto
Mizar, guardando quella ragazza, preoccupato e distogliendomi dalla
mia riflessione.
«A
dire il vero, spero di no!» ho esclamato, non appena la ragazza
è scivolata su una pozza di tè ed ha rovesciato tutto
il contenuto del vassoio sul pavimento e sui pantaloni di un cliente
che le ha lanciato un'occhiata omicida, prima di lanciarsi in
un'invettiva e lasciare il locale, indignato.
«Strawberry,
sei un vero impiastro!» queste le parole acide di una ragazza
vestita di blu, seduta da sola ad uno dei tavoli e con un bignè
sulla testa.
«Ehm...
mi dispiace!» ha risposto la ragazza dai capelli fucsia,
leggermente rammaricata, raccogliendo quello che c'era a terra a
velocità supersonica. «Sono mortificata!»
«Quell'idiota!»
è stato il commento di Pan, quando ci siamo avvicinati a lei e
la ragazza di nome Strawberry scompariva dietro una porta che, ho
potuto intuire, conduceva alle cucine. Mizar si è seduto sulla
sedia di fronte a mia sorella e io su quella che dava le spalle alla
finestra. «Ha gettato il tè, ha quasi spaccato la testa
ad un tizio...» ha cominciato ad elencare lei. «Ha
buttato il tè a terra e nessuno è andato a pulire...
insomma, uno schifo!»
Mizar,
intanto, meno preso da Strawberry, ma più da ciò che
stava sopra al tavolo (sei bicchieri da frappè, dodici
piattini, di cui quattro ancora pieni), ha aperto bocca: «Ehm...
hai mangiato tutto tu?»
«No,
quel tuo dio dei Flinstones.» ha risposto Pan, dando un grosso
morso ad una fetta di torta alle fragole.
Mizar
ha deciso di ignorarla e ha guardato me. «Vuoi ordinare
qualcosa?»
A
dire il vero, mi era venuta una certa nausea a guardare Pan. «Ecco...
non saprei.»
Mizar
ha alzato una mano verso il ragazzo biondo con l'aria scontenta che
c'era alla cassa. E quello è stato il secondo dejà vu
della giornata: anche lui era una faccia conosciuta. Ed era lo stesso
che avevo visto nell'infermeria l'ultimo giorno, quello che si era
alzato con il mal di testa! Mi ricordo benissimo di lui, benché
quel giorno fossi stato preoccupato per la pseudo-scomparsa di Pan.
Il
ragazzo si è avvicinato. Conoscevo il suo nome, ma in quel
momento mi sfuggiva. «Sì?» ha chiesto, sgarbato.
Mizar
ha risposto con un sorriso incerto. Era a disagio. «Vorremmo...
ordinare.»
Il
ragazzo si è massaggiato una tempia e, sospirando, ha tirato
fuori dalla tasca un taccuino e una penna. «Sì, prego.»
«Una
fetta di torta al cioccolato.» ho ordinato. «E un succo
di fragola.»
Il
ragazzo ha scritto tutto. «E lei?» ha chiesto, rivolto a
Mizar.
«Ehm...
facciamo lo stesso.»
«Okay.»
il ragazzo si è voltato di nuovo, mentre strappava il
foglietto dal taccuino. Ha cominciato a sventolarlo: «Mina,
alza le chiappe e vieni a prendere le ordinazioni!»
La
ragazza vestita di blu e col bignè in testa gli ha rivolto
un'occhiataccia e non ha fatto altro che voltarsi di nuovo verso il
tè che aveva sul tavolino di fronte. Il ragazzo biondo ha
sospirato e Mizar aveva l'aria di non aver mai visto niente di più
ridicolo.
Neanche
io, se devo essere sincero, ricordavo la scortesia del Caffè
Mew Mew.
«Dovete
scusarmi.» ha borbottato il biondo e ha preso una sedia e si è
seduto tra me e Mizar, come se l'avessimo invitato a farlo o fosse un
suo diritto. Forse, mi sono detto, lo era davvero. «Da quando
mio cugino Kyle ha rilevato questa baracca, mi costringe a servire ai
tavoli e io non ci so proprio fare. E neanche le cameriere, come
potete vedere.» poi ha lanciato un'occhiata a Pan. «Ma tu
non sei quella della caserma? Quella che cucinava?»
«Proprio
io, cocco, e ora che lo sai, ti va di portarmi ancora un frappè?»
Il
ragazzo ha inarcato un sopracciglio, guardando i bicchieri sparsi sul
tavolino. «Non ne hai presi già abbastanza? Ti verrà
un'intossicazione da zuccheri.»
«Ma
col cazzo!»
L'imbarazzo
ci ha gelati tutti sul posto, anche il ragazzo biondo che ha sbattuto
gli occhi ed è stato incapace di prendere il bicchiere che Pan
continuava a porgergli. Mi sono riscosso per primo. «Mi ricordo
di te!» ho esclamato e lui e Mizar sono stati molto felici di
avere un pretesto per allontanare lo sguardo da Pan che aveva ripreso
a mangiare dolci dai suoi piatti pieni. «Anche tu vieni in
caserma con noi. Sei l'Americano.»
Lui
ha annuito. «Sì, beh... ho passato diverso tempo in
America e mi è rimasto questo fastidiosissimo accento.»
ha esclamato, indicandosi la bocca. «E poi sono tornato, quando
i miei... beh, non vi voglio annoiare col decalogo delle mie
disgrazie. Diciamo che sono venuto a vivere con mio cugino Kyle, il
pasticcere. Pensava che fosse una scuola per pasticceri, la caserma,
intendo.» ha scosso la testa. «Non so come la parola
“caserma” possa essere scambiata per “scuola per
pasticceri” ma lui ci è riuscito. Va beh, comunque sono
un maleducato. Sono Ryan Shirogane, del corso C.»
«Noi
siamo Pan e Ken Iccijojji.» ho esclamato. «E siamo nel
B.»
Pan
mi ha dato un colpo sulla spalla, non so come sia riuscita a non
spaccarmela. «E piantala di dare confidenza al cameriere!»
ha sbottato, acida, poi si è rivolta a Ryan Shirogane. «Alzati
da lì, cocco. E portami questo cazzo di frappè.»
Ryan
ha arricciato le labbra e si è alzato, prendendo il bicchiere
che Pan gli porgeva. «Tu sei proprio come i piatti che cucini.»
ha ribattuto.
«Cioè?»
ha domandato lei, sospettosa.
Lui
non ha risposto. Ha preso il bicchiere dalle sue mani e ha borbottato
un: «Torno tra poco.» e si è alzato, lasciandoci
soli. A me pareva un miracolo che mia sorella non si fosse alzata e
gli avesse dato il ben servito eterno, ma magari, ho pensato, tutti
quei dolci che aveva trangugiato erano riusciti a renderla più
dolce. Mizar continuava a guardarsi intorno, Pan, mentre aspettava il
suo frappè e noialtri le nostre ordinazioni, ha finito quello
che stava mangiando. Pensavo alle giostre su cui sarei voluto salire,
ma avevo già scartato le montagne russe, dopo il pasto.
Pensavo anche a quanto avremmo speso per riuscire a pagare tutto
quello che Pan stava trangugiando e se ci sarebbero rimasti
abbastanza soldi per riuscire ad acquistare tutti i biglietti per
salire sulle attrazioni.
Speravo
almeno che Ryan ci facesse un prezzo di favore per solidarietà
verso i suoi compagni di sventure. Ma non avevo contato che,
dopotutto, voleva farla un po' pagare alla persona che gli aveva reso
tre mesi d'inferno: quando siamo arrivati alla cassa, con lo stomaco
pesante abbastanza perché potesse anche scoppiarci, ci siamo
ritrovati a pagare una cifra esorbitante. Abbiamo dovuto unire il
denaro di tutti e tre – pure quello di Pan che ha fatto diverse
rimostranze e a cui ha dato fine solo perché Mizar le ha detto
che sarebbe arrivata la polizia e che l'avrebbe rimandata in prigione
per il terzo giorno di fila – e non sarebbe neanche bastato se
Ryan, alla fine, non avesse acconsentito a farci lo sconto di quei
pochi yen che ci mancavano.
Quindi,
non ci erano rimasti soldi per le attrazioni del parco. E saremmo
stati costretti a vagare fino al pomeriggio senza avere niente da
fare, solo guardare gli altri che si divertivano. La prospettiva non
piaceva né a me, né a Pan che, non appena siamo usciti
fuori, si è nascosta tra i cespugli e ha fatto qualcosa che
non ho capito, ma, quando è tornata, aveva un bicchierino con
un liquido giallo all'interno, da cui emanava uno strano odore di
pipì.
«Torno
subito.» ha dichiarato. È rientrata e, poco dopo, dopo
un urlo sovrumano, è uscita con un sorriso a trentadue denti.
Cominciavo a sospettare che mia sorella ne avesse combinata una delle
sue, là dentro, ma mi ha fatto dimenticare che le volevo
chiedere che cosa fosse successo, quando lei mi ha preceduto con
un'altra domanda: «Ma dov'è quel tuo amico dinosauro?»
«Chi?»
Pan
ha roteato gli occhi. «Ah, se con te non parlo con i nomi
propri proprio non capisci, eh? Intendo Mizar, razza di paramecio!»
«E'
andato al bagno.» ho risposto, indicando l'interno.
«Ah,
manco se la sa trattenere! Vieni, andiamo a comprargli un paio di
pannoloni!»
«Ma...
non abbiamo soldi! E poi se non ci vede...»
«Ah,
che palle!» ha risposto lei, sospirando, e si è buttata
contro il muretto di fronte al Caffè. Siamo rimasti ad
aspettarlo lì davanti per un paio di minuti. Quando è
tornato, aveva l'aria sconvolta e si guardava indietro ogni due per
tre.
«Voi
giapponesi siete strani.» ha dichiarato.
«Che
è successo?» ha chiesto mia sorella, con fare innocente.
Mi dava ad intendere che non fosse per niente innocente.
«Una
ragazza... era ricoperta di pipì...»
Ho
scoccato un'occhiata a Pan. Improvvisamente ho ricollegato tutto: il
bicchierino col liquido giallo che puzzava di pipì (e che
doveva davvero essere pipì), l'urlo disumano che ho sentito
prima che lei uscisse...
Doveva
aver lanciato il bicchierino contro una delle cameriere ed essere
uscita. La cosa mi faceva voglia di scappare via a gambe legate: se
la galera le era stata solo promessa da Mizar per farle scucire la
grana, ora era quasi una certezza ed ero sicuro che non ci sarebbe
stato Matsuda a tirarci fuori dai guai anche perché era a casa
sua con un mal di testa da manuale, dopo l'ubriacatura che gli ha
fatto prendere nonno Satan al cenone.
«Che
ne dite di andarcene?» ha proposto lei, quasi mi avesse letto
nel pensiero: probabilmente anche lei aveva paura che qualcuno
potesse uscire e riconoscere in lei la vandala che aveva schizzato di
pipì una delle cameriere. «Ormai non abbiamo più
niente da fare, qui.»
Mizar
continuava a guardare verso il Caffè. «Sei sicura di non
sapere niente di tutta questa storia, Pan?» le ha chiesto,
sospettoso. Ha capito subito che tipo è, ma probabilmente gli
è bastato venire colpito da un vaso cinese in testa per sapere
esattamente che cosa aspettarsi. Ha guardato lei che, dopo aver fatto
spallucce, si è voltata e ha costeggiato la tanto temuta casa
degli specchi.
Mizar
ha scosso la testa, lanciato un'occhiata a me senza dire niente e poi
mi ha fatto cenno di seguire Pan. Tanto, lì dentro non avevamo
più niente da fare: potevamo solo riprendere la macchina e
andarcene.
Pan,
però, non aveva voglia di tornare a casa. E neanche io, se
devo essere sincero: avevo paura che Mizar potesse raccontare ai
nostri genitori cos'era successo al Caffè Mew Mew e che la
mamma ci spedisse davvero sui Monti Paoz o qualcosa del genere, ma
anche che ricominciasse a gridare e che si mettesse a fare la lotta
con Pan. Non volevo che, nel giorno di Natale, si distruggesse
quell'armonia tanto faticosamente ritrovata, così mi sono
ritrovato a dire che, effettivamente, potevamo fare qualcosa di
diverso.
«Tipo?»
ha voluto sapere Mizar. Io non ne avevo idea e ho guardato Pan. Non
so perché, ma avevo come la sensazione che lei sapesse
benissimo dove volesse andare e mi sono pentito amaramente di averle
retto il gioco: avrebbe potuto essere qualcosa di pericoloso, magari
ci avrebbe fatto andare nel quartiere più malfamato di Tokyo
solo per scatenare una rissa con qualche malvivente armato di
coltello o pistola e farci, come regalo di Natale, un bel buco in
fronte o uno squarcio così che potessimo portarci le budella
fino a casa in un pacco. L'idea non mi elettrizzava particolarmente.
Non volevo neanche che Mizar ci rimettesse le penne. Mi è
tornato in mente quello che aveva detto a proposito del tubo di
scappamento e mi è venuto un brivido.
«Non
te lo dico.» ha risposto lei, stringendosi nelle spalle.
«E
come faccio a portarti da qualche parte, se non mi dici dove
andiamo?» le ha fatto notare molto giustamente Mizar.
Lei
ha fatto spallucce. «Segui le miei indicazioni.» ha
risposto, come se fosse stata la cosa più ovvia da pensare. E
già questo mi ha fatto capire che aveva davvero intenzione di
andare nel quartiere malfamato, solo che non sapevo come farlo sapere
a Mizar senza che lei se ne accorgesse.
«Ma...»
ho provato. «Non potremmo andare alla casa nuova del nonno?»
Lei
mi ha fulminato con lo sguardo. «Andremo dove dico io, capito,
paramecio?» ha sibilato. «Dai, metti in moto, Mizy.»
Mizar
l'ha guardata, dubbioso, forse per essere stato chiamato “Mizy”,
forse perché, per la prima volta, Pan era stata in qualche
modo gentile con lui. Avrei voluto dirgli di non farci l'abitudine,
ma non credo che lui pensi di poterlo fare, dato il vaso cinese. Ha
messo in moto senza discutere.
Così
ci siamo ritrovati a seguire le strampalate indicazioni di Pan che, a
volte, voleva andare nelle strade dove non si poteva andare, in
quelle a senso unico nel verso opposto e, spesso, ci ritrovavamo a
fare il giro dell'isolato senza sapere come ci eravamo riusciti.
Prima delle tre del pomeriggio ci eravamo persi.
Mizar
ha sbattuto i palmi delle mani sul volante; sembrava che volesse
imprecare (ma si tratteneva per rispetto verso i figli della sua
padrona di casa, penso) e che volesse stritolarlo, quel volante, e
non solo percuoterlo.
Non
dicevo niente, ma ero abbastanza distrutto per conto mio, e
continuavo a chiedermi dove volesse andare Pan. Ci eravamo ritrovati
imbottigliati nel traffico in un punto della tangenziale che non
avevamo mai visto.
«Forse...
ci siamo persi.» ha esclamato Pan, in tono casuale.
Mizar
ha stretto le mani sul volante, stavolta con l'idea di staccarlo dal
suo posto. «Ma davvero?» ha sibilato, tra i denti. Era
davvero molto arrabbiato.
Lei
si è stretta nelle spalle, improvvisamente inviperita. «Non
prendertela con me: sei tu che stai guidando.»
Mizar
si è girato verso di lei e le ha lanciato un'occhiata omicida.
Mi chiedo come si sia trattenuto dallo strangolarla.
«Accidenti,
Mizy, hai il senso dell'umorismo di una patata!» si è
girata verso il cruscotto e ha sbuffato. «Ti ho fatto solo un
piccolo scherzetto innocente!»
«Un...
piccolo scherzetto innocente?!» ha ripetuto lui, indignato.
«Non
farla tanto lunga! Anche a te piaceva fare gli scherzi, da piccolo,
quindi finiscila di fare il bacchettone. E poi, a parte gli scherzi,
volevo davvero andare da qualche parte. Sei tu che non sai dove
girare. Se andavi dove dicevo io, a quest'ora, saremmo arrivati da un
pezzo! Ma tu continuavi a dirmi: “di qua no, Pan”, “c'è
il senso unico, Pan”. Se la smettessi di seguire le regole
stradali, a quest'ora, staremmo tutti meglio.»
«Oh,
certo, se tutti smettessero, a quest'ora ci sarebbe il caos e decine
di morti al giorno!»
«Quanto
sei tragico! Non sareste tutti così stressati, ecco cosa!»
Mizar
è rimasto interdetto per un attimo. A volte, credo che, contro
i ragionamenti ferrei di mia sorella, neanche un genio possa
replicare. «Va bene.» si è ritrovato a cedere. «Si
può mai sapere dove mai volevi andare, almeno?»
«A
casa del nonno!» ha esclamato lei, come se avessimo dovuto
pensarci da soli.
Ho
fatto un balzo sul sedile e mi sono sporto in avanti. «Ma...
era dovevo volevo andare io!» ho esclamato, indignato.
«E
CERTO! A me vengono le idee e lui se ne prende il merito!»
«Ma...»
ho provato a protestare.
Mizar
ha alzato una mano. «Ora basta!» ha dichiarato, in tono
autoritario. Se era un pezzo grosso, al suo paese, lo stava proprio
dimostrando. «Sentite, adesso si fa a modo mio: rientriamo in
città e poi vi porto da vostro nonno, d'accordo? E niente
deviazioni ridicole!»
Pan
ha fatto schioccare la lingua, scettica. «Perché? Sai
dove si trova?» ha chiesto, in tono canzonatorio.
«Per
tua informazione, sì, lo so. E credo anche di saperlo meglio
di te, dato che tu non sapevi neanche che si fosse trasferito, fino a
due sere fa!»
«Oh,
che rottura, solo perché hai fatto una piccola deviazione!
Vedi di goderti un po' la vita, che non ha mai ammazzato nessuno! E
poi come cazzo sai dove abita il nonno? Vuoi per caso rubare una
stanza anche lì?»
«No.
Vado ad allenarmi ogni tanto, per tenermi in forma.» ha
borbottato. Non ho capito, ma non ho voluto indagare, soprattutto
perché Pan mi stava dicendo con le labbra che mi avrebbe
ammazzato alla prima apertura di bocca ed ero piuttosto preso da lei,
abbastanza per dimenticarmi di chiedere a Mizar cosa significasse che
andava dal nonno per “tenersi in forma”.
Mizar
non ha fatto una piega. Ci siamo limitati a tacere; non so come abbia
fatto a tornare in città, so solo che, dopo circa un'ora o
forse anche più, eravamo riusciti, grazie anche alle
indicazioni dei passanti, a ritrovarci in una zona più
familiare.
Poi,
siamo sbucati in una strada che conoscevo, ma in cui non sapevo che
ci fossero delle case. Era più una zona commerciale, dove la
gente andava a fare spese e a rilassarsi in centri di bellezza e
fitness; la mamma, una volta, da quelle parti, aveva il suo negozio
di parrucchiera.
«Che
ci facciamo qui?» ho chiesto. «Il nonno non vive qui.»
«Oh,
eccome se vive qui!» ha risposto Mizar. Sembrava infinitamente
più allegro. «Proprio qui davanti!»
Pan
ha fatto schioccare la lingua di nuovo. «Secondo me, ti sei
perso di nuovo e non vuoi ammetterlo.»
«Guarda
tu stessa.»
Ha
rallentato e, dopo pochi minuti, si è fermato di fronte ad una
palestra di due piani, da cui non entrava o usciva nessuno, sebbene
tutti ci passassero davanti e indicassero verso l'alto e
ridacchiassero. Si trovava tra ad un centro commerciale e un
ristorante di cui si poteva vedere l'interno, ma nessuno indicava
questi due edifici. Indicavano, invece, l'insegna sopra alla
palestra. Era mastodontica e c'era un'immagine a grandezza naturale
di un faccione che apparteneva allo stesso uomo che, ieri sera,
continuava a ridere come un matto e a riempire il bicchiere di uno
sconosciuto che raccontava freddure del tipo peggiore.
Non
era solo lui, però, ad avere la bocca aperta: oltre a me, pure
Pan aveva gli occhi puntati sull'insegna con la foto del nonno, ma
non capivo se per l'ammirazione o l'incredulità, cosa per cui
io ero ammutolito. Non mi veniva da ridere, ma solo di andare a
nascondermi per la vergogna.
Poi
ho guardato il nome della palestra e avrei voluto avere una pala:
Casa Satan.
******
Della
serie: chi non muore si rivede.
Per
questa pubblicazione stavo aspettando i risultati dei Nesa, a cui
questa storia ha partecipato nel Trentesimo Turno, nelle categorie
Best Au, Best Cross-over, Best Male (Alex Ramazza), Best Female (Pan,
ovvio!) e Best Plot, vincendo nella categoria Best Cross Over.
Qui sotto il banner:
In verità, questa storia è ferma,
ferma da tanto e solo da poco l'ho riletta tutta, dal primo capitolo
all'ultimo scritto. Ho modificato qua e là quelli ancora da
pubblicare, questo qui è stato revisionato proprio ieri e mi
pareva brutto lasciarlo nel pc, anche perché, almeno a me, fa
troppo ridere. Pan soprattutto.
Grazie
a tutti coloro che hanno continuato a leggere, e che – spero –
non perdono le speranze.
Amo
questa storia e voglio che veda una fine. Sono più di dieci
anni che la scrivo, che la rimaneggio, che la rielaboro. Per questo,
si va avanti. Almeno fino a qui. Prima o poi continuerò. Non
oggi, però, né domani. Le cose da fare sono tantissime.
Spero che vorrete essere con me, con Kenny, Pan e tutti gli altri,
quando accadrà.
Luine.
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Capitolo 17 *** Casa Satan ***
Vacanze
Natalizie.
Casa
Satan
|
L'interno non
è meno bizzarro dell'esterno: è tutto in legno, come
nelle vecchie palestre, uno scalone che porta ad un corridoio sulla
sinistra e di cui non potevamo vedere niente perché nascosto
da pannelli su cui è disegnato il nonno a figura intera mentre
guarda gli astanti con quel suo sorriso e il suo sguardo da invasato.
Sembra più il testimonial di qualche pubblicità di
dentifrici, piuttosto che il proprietario di una palestra, anche se è
nelle più ridicole pose plastiche: a volte fa vedere i muscoli
di un braccio, a volte sembra un ladro corridore con una borsetta in
mano... insomma, non fa mai la figura dell'insegnante di arti
marziali.
Ho distolto lo
sguardo per la vergogna. Sulla destra, invece, c'è un cartello
che elenca tutti i tipi di arte marziale che vengono insegnate, più
i relativi prezzi, sia per i piccoli che per i grandi. E questa è
la cosa più normale che ci sia lì dentro.
Dall'altra
parte, invece, c'era (sono sicuro che ci sia ancora, proprio come
l'abbiamo lasciata noi) una tinozza con dell'acqua stagnante da cui
emanava un odore poco raccomandabile. Sopra di esso c'era un cartello
che diceva: “se ti puzzano i piedi, lavali!”, e ho anche
capito perché, ma solo dopo, quando Mizar mi ha fatto notare
che, di fronte a noi, c'era un altro cartello che, invece, recitava:
“prima di entrare, togliti le scarpe!”.
«Ma è
davvero così necessario?» ho chiesto.
Mizar si è
stretto nelle spalle.
«Perché?
Ti puzzano i piedi?» ha ribattuto Pan e, senza colpo ferire, si
è tolta le sue e le ha gettate ai piedi dello scalone. Da
allora, l'odore vago di nuovo e di legno dell'ingresso si è
trasformato in un odore disgustoso di piedi. Di certo, se c'era
qualcuno che doveva lavarli era lei, ma a nessuno dei due è
venuto in mente di farglielo notare, un po' perché era Pan e
un po' perché non avrei chiesto neanche al mio peggior nemico
di mettere i piedi in quella tinozza puzzolente.
Ho visto Mizar
sbuffare, mentre anche lui, dubbioso, si è tolto le scarpe e
le ha messe ordinatamente l'una accanto all'altra, a fianco delle
mie.
Mi ha rivolto
un sorriso incoraggiante, mentre Pan saliva lo scalone e lasciava la
sua puzza di piedi ovunque. È sparita dietro i pannelli e
abbiamo guardato la sua ombra che si muoveva fino a sparire oltre un
angolo. L'abbiamo seguita. Il corridoio proseguiva verso l'interno
dell'edificio e un altro cartello ci ha introdotto nella sala delle
iscrizioni. È stranamente composta da una sola sobria
scrivania, anche se le pareti a pannelli non lo sono altrettanto.
Sopra ad ognuno di essi è stampata una foto del nonno nelle
sue tante pose. In alcune sembra anche un maniaco sessuale,
soprattutto in quelle dove sorride e ha le anche rivolte verso chi
guarda. Comunque non c'era nessuno, a parte le repliche del nonno.
«Ma... è
deserto?» ho domandato.
«Non c'è
mai una grande affluenza.» ha spiegato Mizar, senza
specificare, come avremmo scoperto più tardi, che non c'era
nessuna affluenza, a parte la sua.
«E dove
si trova il nonno?»
«Venite
con me.» ci ha guidati di nuovo nel corridoio, fino alle scale
che portano agli spogliatoi e alle palestre; dagli spogliatoi veniva
un odore acre di sudore che, quasi quasi, mi avrebbe fatto vomitare
il dolce che avevo preso al Caffè Mew Mew. Mi sentivo tanto in
un film dell'orrore.
Pan è
andata avanti, verso la palestra e si è completamente
disinteressata a noi. Sembrava che anche lei avesse perso la facoltà
di parlare, traumatizzata da quello che avevamo visto ai piani
inferiori. Almeno, a questo, non ci sono tutte le foto del nonno,
cosa che rende l'ambiente un pochino più confortevole.
Io e Mizar ci
siamo ficcati dentro lo spogliatoio, pensando che quell'odore
disgustoso potesse portarci fino a qualcuno, magari a qualche
invasato muscoloso come il nonno.
In effetti, la
nostra intuizione è stata giusta: c'era qualcuno ed è
la persona più bizzarra che abbia mai visto e anche la più
spaventosa. La mia sensazione di essere finito in un film dell'orrore
si è acuita: quel tizio deve essere alto almeno tre metri e i
suoi capelli tirati su da una quantità enorme di gel,
disegnano una raggiera sulla sua testa e le punte sembrano così
affilate che sembrano delle corna di rinoceronte. Se, in quel
momento, avesse deciso di caricare su di me come quell'animale, credo
che mi avrebbe infilzato e ucciso sul posto. Poi ha certi muscoli
grossi come buoi e – mi ha detto Mizar – va sempre in
giro vestito di un kimono nero che mette in risalto i pettorali
grandi come macigni, e con sopra una specie di giacca bianca tutta
stracciata. Mizar ha detto che, dietro quella giacca, c'è una
storia molto lunga e triste, ma non ha detto niente di più di
questo, dicendo che neanche lui ne sa molto.
Ma qualunque
cosa sia, sulle prime non ci ho fatto molto caso. Diciamo pure che,
mentre lo guardavo, mi sentivo infinitamente piccolo, abbastanza per
decidere di nascondermi dietro Mizar che, pur essendo alto, non
reggerà mai il confronto con lui, in quanto a muscoli. Se
avesse voluto, quel gigante avrebbe potuto afferrare entrambi con una
mano sola e spezzarci in due.
È il
prototipo del migliore amico di Pan. Solo che, probabilmente, mia
sorella avrebbe anche cercato di avere la meglio su di lui, ma sono
sicuro che lei non potrebbe mai avere la meglio su quel tizio e che
morirebbe nel tentativo.
Ero davvero
felice che lei avesse deciso di proseguire e di non fermarsi con me e
Mizar. Oltretutto, era proprio questo bisonte che puzzava in quel
modo osceno.
Ho deglutito,
nervoso. Avrei voluto far capire a Mizar che volevo andarmene, ma
anche lui doveva essersi pietrificato a quella vista – o così
credevo.
Forse
sentendomi, il gigante si è voltato. Mi ha osservato a metà
tra il dubbioso e il divertito, poi si è rivolto a Mizar e ha
alzato una delle sue mani grandi come comodini.
«Ehi!»
lo ha salutato.
«Ehi.»
ha risposto Mizar, con un mezzo sorriso. Si sono stretti la mano e mi
chiedo come mai quella di Mizar non si sia semplicemente piegata come
gomma, ma si sia semplicemente limitata a sparire e riapparire. Mi
sono reso conto solo in quel momento di quanto sia bianco come latte,
al contrario di quel gigante, che ha un colorito florido, di chi sta
molto all'aria aperta. Sicuramente era più colorito persino di
me che stavo svenendo per la paura, anche se ero più
sollevato, nel sapere che non ci avrebbe attaccati.
«E tu
chi sei, scricciolo?» mi ha chiesto, inginocchiandosi di fronte
a me e scompigliandomi i capelli. Mi sono accorto solo allora che
portava una benda sull'occhio destro, proprio come un pirata, e la
cosa mi ha messo addosso la tremarella.
Ho solo aperto
la bocca, ma non ne è uscito alcun suono.
«Timido?»
Mizar ha
sorriso, guardandomi. «Spaventato, credo.» ha risposto e
mi sono semplicemente sentito mortificato, così ho abbassato
lo sguardo. Mizar si è messo a ridere e mi ha dato una pacca
sulla spalla. «Non ti fare intimidire troppo da Kenpachi*. È
grande e grosso, ma non fa male a una mosca!»
Non mi ha
convinto molto, ma ha avuto il solo effetto di farlo alzare in piedi
e guardare Mizar dall'alto in basso. «Ah, così mi fai
perdere il divertimento, caro il mio Esquimese!» ha esclamato.
Mi aspettavo quasi che alzasse il pugno e lo calasse in testa a Mizar
che sarebbe rimasto impiantato al suolo, morto, come un chiodo al
muro. Invece il gigante Kenpachi si è semplicemente messo a
ridere e Mizar con lui.
«Allora
ricominciamo da capo!» ha continuato il gigante, quando si è
ripreso. Mi ha porto la sua manona. «Kenpachi Zaraki, ma gli
amici mi chiamano semplicemente Kenpachi. Sono il coinquilino di tuo
nonno, oltre che bravissimo insegnante di arti marziali.»
«Ehm...»
ho deglutito di nuovo e mi sono fatto forza. Ero troppo spaventato
per stupirmi del fatto che il nonno vivesse con qualcuno e che quel
qualcuno fosse proprio quel colosso. «Ken-ny Iccijojji.»
«E' il
nipote di Satan.» ha completato Mizar per me. Poi si è
girato verso la porta dalla quale siamo disgraziatamente entrati.
«Doveva esserci anche sua sorella, ma... l'abbiamo persa.»
Kenpachi
Zaraki ha inarcato una delle sue sopracciglia folte come siepi.
«Pan?»
Mizar ha
annuito. «Sì, proprio lei.»
«Satan
mi ha parlato molto di lei... sembra una promettente stella delle
arti marziali!» ha detto e non ho mai trovato scusa più
ragionevole per annuire. «Ah, tranquillo, non può
perdersi. C'è una sola uscita.» ha continuato, come se
avessimo sempre parlato solo di quello.
«Non è
questo che mi preoccupa.» ha ammesso Mizar e mi sono ritrovato
a ridacchiare contro ogni mia aspettativa, quando ha detto: «È
che potrebbe distruggere tutto. Satan non c'è?»
«Uscito
a comprare qualcosa da mangiare. Vivevamo da due giorni di solo riso.
Venite, però, vi preparo un tè.»
«D'accordo.»
Mizar mi ha dato una pacca sulla spalla. «Tu vai a cercare tua
sorella.»
«E
raggiungeteci in cucina, d'accordo, scricciolo?»
L'ho guardato,
spaventato, ma ho comunque annuito e ho avuto il coraggio di
chiedere: «E dov'è? L-la cu-cucina.»
«Sali al
piano di sopra,» ha risposto il signor Zaraki. «C'è
un cartello con scritto: “vietato l'accesso ai non addetti”
davanti alle scale. Sali e ti trovi dritto in casa, da lì è
facile.»
Ho annuito e
tentato di ringraziare, ma mi sono usciti solo alcuni balbettii e me
ne sono andato in fretta e furia, felice di avere una scusa per
evitare di stare ancora un po' in sua compagnia. Loro due mi hanno
seguito, mentre prendevo la strada imboccata da Pan poco prima del
mio incontro, ma ci siamo divisi a metà strada. Ero un po'
preoccupato comunque: il fatto che Pan non sapesse perdersi, non era
un buon motivo per pensare che io avrei potuto fare altrettanto.
L'ho cercata
per tutta la palestra. Ci sono tre sale in tutto, sono molto grandi,
in una c'è anche lo stereo e tutta l'attrezzatura per la
ginnastica leggera, cosa che non era compresa nella lista del
cartello al pianterreno, non che importasse qualcosa; ho provato
anche nello spogliatoio femminile che era vuoto e sapeva di nuovo,
nei due bagni, ma niente.
Pan era, di
nuovo, sparita. Non ero tanto allarmato, comunque, memore di quello
che era successo in caserma: credevo che l'avrei ritrovata a bere del
tè al fianco di Kenpachi Zaraki come se niente fosse stato.
Così sono andato al piano di sopra e ho fatto una corsa fino
alla cucina, dove il signor Zaraki e Mizar stavano discutendo di
qualcosa molto allegramente. Eppure Pan non c'era. E io mi sono
leggermente lasciato prendere dal panico.
Quando mi
hanno visto si sono voltati entrambi con un sorriso che non
condividevo. Mi aspettavo che mi chiedessero “dov'è tua
sorella?” e allora avrei dovuto rivelare loro che, stavolta,
era davvero sparita, forse scesa in strada e andata ad attaccare
briga con qualcuno. Il signor Zaraki mi avrebbe azzannato per
essermela fatta sfuggire, ma ho trattenuto un singulto giusto perché
si trattava di un'emergenza e non potevo permettermi di perdere più
tempo di quello che avevo già perso.
«Pan è
sparita...» ho esalato.
Mizar ha
sbuffato, divertito. «Sì, in bagno.» ha
dichiarato, con un ghigno.
Ho sgranato
gli occhi. «I-in bagno?» ho balbettato. Non ero sicuro di
aver capito bene.
«Con
tutto quello che ha mangiato a quel Caffè, è un
miracolo che non stia vomitando...»
«E
allora che sta... che sta facendo?»
Il signor
Zaraki ha ridacchiato. «Dobbiamo davvero specificarlo,
scricciolo?»
Ho deciso di
no. Probabilmente stava facendo quello che faceva la Une quando le ho
afferrato la caviglia credendola Pan.
Poi il signor
Zaraki mi ha indicato la sedia accanto a Mizar. «Siediti, ti
verso un po' di latte caldo, così ti rinforzi un po' le ossa,
eh, scricciolo?»
Non ho
ribattuto, ma non so davvero come una tazza di latte avrebbe potuto
proteggermi da lui. Avrei anche voluto che la smettesse di chiamarmi
“scricciolo”, ma avevo quasi paura che, se avessi provato
a contraddirlo, mi avrebbe staccato la testa, così ho lasciato
perdere.
È
rientrato anche nonno Satan, prima che Pan riuscisse ad uscire dal
bagno, sistemandosi i pantaloni e sospirando soddisfatta. Il nonno ha
buttato gli scarponi in fondo alla cucina, facendo aleggiare un odore
di piedi per tutto l'ambiente, rendendo impossibile, non solo a me,
ma anche al signor Zaraki e a Mizar di finire di bere il tè.
Quando è arrivata Pan, poi, il puzzo si è esteso pure
al corridoio, dato che è corso ad abbracciarla correndo come
un matto.
«Nipotina,
benvenuta a Casa Satan!» ha gridato orgoglioso, riportandola
tra noi. L'ha fatta sedere a capotavola, spostandole anche la sedia,
e le ha messo davanti ogni scatola di cibo e biscotti che avesse
nelle dispense. «Mangia pure tutto quello che vuoi, stella
stellina del nonnino! Mangia, mangia, che sono sicuro che in quel
postaccio dove ti ha mandato tua madre non vi danno che del rancio
disgustoso!»
Pan ha aperto
una scatola di biscotti. «Sì, infatti.» ha
naturalmente omesso che era lei a preparare il cosiddetto “rancio
disgustoso”.
«Pan,
non credo che...» ha cominciato Mizar, ma lei l'ha zittito con
un'occhiata raggelante. Pan fa a Mizar l'effetto che il signor Zaraki
fa a me e, come avevo previsto, non fa a lei. Lo ha guardato
attentamente, mentre sgranocchiava i biscotti del nonno.
«E tu
chi cazzo sei?» ha chiesto, in tutta tranquillità.
«Kenpachi
Zaraki, ma puoi chiamarmi Kenpachi, Pan.» Lei ha continuato a
mangiare, in barba al sorriso inquietante che lui le ha rivolto,
mentre a me si era chiuso lo stomaco. «Insomma, tuo nonno mi ha
detto che hai molto a cuore le arti marziali.»
«Diciamo
che mi piace picchiare la gente.»
Il signor
Zaraki ha annuito con piacere. «Bene, bene. Allora, penso che
apprezzerai l'offerta di tuo nonno!»
Curiosa, Pan
si è girata verso di lui. «Di che parla questo stronzo?»
ha domandato. Avrei voluto sotterrarmi e non essere lì nel
momento in cui il signor Zaraki avesse deciso di sollevare il tavolo
e farci tutti a fette, anche al nonno Satan; invece, contro ogni mia
aspettativa, si è limitato a ridere e a darsi delle pacche su
quel suo ventre di marmo. Mi sono avvicinato di più a Mizar,
come se lui avesse potuto in qualche modo proteggermi, quando anche
lui è sottile come un rametto, in confronto a quel mastodonte.
«Pensavo
che, se non volessi tornare in quel postaccio dove ti ha mandato tua
madre, potresti venire a stare qui da me e ad imparare le arti
marziali.» ha proposto il nonno. E poi ha cominciato a ridere
come un invasato. Si è quindi seduto e ha posato il gomito
sul tavolo e ha teso la mano, come per sfidarla a giocare a braccio
di ferro. «Pensaci: passerai i prossimi anni ad imparare tutti
i segreti della lotta e, quando sarai grande, Casa Satan potrà
diventare Casa Pan e allora sarai ricca da fare schifo!»
Pan era
concentrata sul nonno, non ha afferrato la sua mano, ma lo fissava
molto intensamente. «E la mamma che dice di quest'idea?»
«La
mamma ancora non lo sa. Ma mi piacerebbe che tu accettassi. Con lei
parleremo in un altro momento.»
Lei si è
fatta pensierosa. «E per quanto dovrei stare qui?»
«Per
tutto il tempo che servirà. I prossimi sette anni potrebbero
non essere così schifosi come si prospettano per adesso!»
«E la
scuola?»
«Non
dovrai nemmeno andarci!»
Ho visto un
luccichio sinistro negli occhi di Pan e mi è corso un brivido
lungo la schiena, mentre pensavo che, nei prossimi anni, sarebbe
stata impegnata solo nelle arti marziali e non sarebbe neanche andata
a scuola. Immaginavo la mamma in piena crisi isterica, mentre la
disconosceva come figlia e ci impediva anche di salutarla se la
vedevamo per strada... mi immaginavo anche Pan, mentre andava in giro
a picchiare la gente perché le andava e la vedevo entrare e
uscire di prigione con Soichiro Yagami che testimoniava contro di
lei, insieme alla mamma e persino al papà.
Volevo alzarmi
in piedi e dare la mia netta opposizione, ma Pan mi ha preceduto: ha
stretto la mano di nonno Satan e gliel'ha sbattuta sul tavolo il
quale si è diviso in due, le tazze sono volate e si sono
rotte.
Il fragore
delle risate di Kenpachi e del nonno hanno spezzato lo spettacolare
silenzio stupito che era caduto intorno alla tavolata non appena le
tazze avevano finito di rompersi.
«Era un
sì molto entusiastico.» ha commentato Mizar, senza
fiato.
Ho annuito,
smarrito e pressoché spaventato.
«Nonno,
solo una domanda:» ha continuato Pan. Il nonno, che stava
ridendo come un matto, felice della performance della sua nipote
prediletta, ha smesso subito, ma gli occhi gli brillavano ancora come
stelle. «dove le hai fatte quelle foto che sono sui pannelli,
giù di sotto?»
«Perché,
tesoro?»
«Perché
sono stupende!» ha esclamato mia sorella, scattando in piedi.
Io e Mizar ci siamo girati contemporaneamente l'uno verso l'altro, le
sopracciglia inarcate, entrambi parecchio dubbiosi. «Non vedo
l'ora di poter avere i miei pannelli!»
Il nonno ha
ripreso a ridere e poi si sono stretti in un abbraccio stritolante
con lo stesso impeto, come se si fossero accordati in un momento
precedente. Poi hanno cominciato a ballare e ad intonare: «Siamo
la coppia più bella del mondo», intervallando la canzone
a risate isteriche. Il signor Zaraki guardava tutto con l'aria di uno
che avesse visto avverarsi tutti i suoi desideri. Beh, solo uno
strano poteva vivere con mio nonno e insegnare nella sua palestra.
Siamo tornati
a casa verso le otto di sera, quando la mamma aveva tirato fuori gli
avanzi del cenone e li stava riscaldando. Il nonno e il signor Zaraki
sono rimasti a Casa Satan per ultimare non so cosa, prima di riaprire
ufficialmente la palestra per il nuovo anno. Avrebbero mangiato del
ramen istantaneo, o così ho capito, anche se Mizar aveva detto
che mia madre gli aveva detto di convincere entrambi a passare anche
la sera di Natale con noi. Il signor Zaraki ha rifiutato, proprio
come deve aver fatto per la Vigilia: sono sicuro che mamma non gli
avrebbe rifiutato un posto a tavola, come non lo ha rifiutato
all'ispettore Matsuda.
Per tutto il
viaggio di ritorno, Pan è stata di un inquietante buonumore.
Credevo che niente avrebbe potuto disfarlo, eccetto la mamma che, ne
ero certo, non avrebbe mai accettato l'idea che sua figlia andasse a
imparare tutte le arti marziali senza neanche andare a scuola.
«A
proposito, Mizy... mi sono dimenticata di chiederlo al nonno, ma dato
che sei di casa, dovresti saperlo anche tu...» ha cominciato,
mentre parcheggiavamo.
«Sì?»
ha risposto lui, guardingo.
«Quanti
iscritti vanta la palestra?»
Lui si è
voltato con una strana espressione in viso. «Uno.» ha
dichiarato, quindi, togliendosi la cintura.
«Uno?»
ha ripetuto Pan, incredula. «Ma... ma... pagherà una
cifra esorbitante per...»
«In
realtà, dato che era il primo... beh, ha avuto la sua
iscrizione gratis...» ha continuato Mizar, mantenendo la sua
espressione strana. Non riuscivo a capire, sinceramente.
«Aspetta...»
ho detto, cercando di ragionare. «Ma... non hai detto che tu ci
vai ogni tanto?»
«Sì.»
ha risposto lui, abbozzando un sorriso colpevole. «E' così.»
«Ma...
ma in questo modo... VUOL DIRE CHE SEI TU L'UNICO STRONZO ISCRITTO?»
ha gridato Pan, isterica.
Ho visto Mizar
abbassare lo sguardo e schiarirsi la voce, imbarazzato, ma il rumore
è stato coperto dal borbottio di Pan che aveva perso il suo
buonumore; non ne ero felice, ma diciamo che mi sentivo quasi più
tranquillo nel vederla del suo costante umore tetro: Pan che sorride
mi confonde, anche se so che avrei dovuto essere felice di vederla
finalmente soddisfatta di qualcosa. In quel momento, però, non
lo era per niente. Mentre scendevamo dalla macchina, continuava a
borbottare a proposito di “nonni che ingannano le nipoti con
false promesse”.
«Vuoi
lasciar perdere, allora?» ho chiesto, speranzoso.
Lei si è
voltata di scatto a guardarmi come se fossi stato un chewingum finito
per sbaglio sotto la sua scarpa. «No! Ho intenzione di
organizzare su una campagna pubblicitaria d'impatto!» e così
dicendo si è battuta il pugno contro il palmo aperto
dell'altra mano. Già immaginavo che tipo di impatto avrebbe
dovuto essere e questo implicava una decina di iscritti col naso
rotto o una spalla lussata.
I miei
pensieri mi hanno accompagnato fino a cena, durante la quale la mamma
continuava a brontolare contro Bulma e la sua abitudine di tingersi i
capelli di turchese. «Ma non si rende conto di essere ridicola,
alla sua età? Posso capire Bra, che ha tredici anni, ma lei! E
quel nano di Vegeta? Anche lui ha i suoi anni sul groppone e si spara
quei capelli in aria come se ne avesse quindici!»
Pan annuiva
costantemente ad ogni frase, completando con un “ma quant'è
vero!” o “hai perfettamente ragione”, che faceva
continuare la mamma a pontificare sulla famiglia Brief.
Mizar, dal
canto suo, faceva di tutto per non ridere e io per non nascondere il
viso dietro le mani. Papà era, come per la maggior parte del
suo tempo, perso nel mondo della musica e guardava trasognato il
soffitto; non si è mai unito alla conversazione, ma ogni tanto
faceva come Pan e annuiva convinto anche lui, probabilmente perché
pensava che fosse la cosa giusta da fare.
«E,
Mizar caro, per carità, non ho nulla contro i Brief, sono
ricchi, ben sistemati... ma non farei mai sposare mia figlia con
Trunks!» ha continuato, ad un certo punto. «Trunks è
un bel ragazzo, molto educato... ma anche lui, con la mania di
tingersi i capelli e se li facesse azzurri! No, caro, no, di rosa! Ma
ti pare normale per un bel ragazzo del genere? No, assolutamente:
solo i mascalzoni si tingono i capelli di rosa e Trunks, anche se
diventerà proprietario di una importantissima società,
non va bene per una come Pan.»
Pan continuava
ad annuire e a dichiarare quanto la mamma avesse ragione: mi chiedevo
se lo facesse per prenderla in giro o per rabbonirla quando le avesse
sganciato la bomba, ma per tutta la sera non ha accennato minimamente
alla palestra.
«E poi,
diciamocelo, anche se quel ragazzo mettesse la testa a posto e
smettesse di tingersi i capelli, non riuscirei mai a sopportare Bulma
più di quanto non faccia già. Per carità, Mizar
caro, non ho nulla contro i Brief, ma io e Bulma siamo incompatibili.
Immaginateci come consuocere! No, no! Preferisco che Pan sposi un
partito di un'altra famiglia! Tu che ne pensi, tesoro, di Frank
Kushrenada?»
Io avrei
voluto sotterrarmi, mentre diceva quelle parole, ma Pan, che non la
stava minimamente ascoltando, ha continuato ad annuire e a sorridere
con aria ebete: «Bene, bene, hai proprio ragione, mamma!»
Per la prima
volta dopo un'intera serata di questa pantomima, la mamma ha guardato
Pan con sospetto. «Sicura di stare bene, tesoro?» le ha
chiesto.
Pan ha
continuato ad annuire. «Bravissima, mamma.»
«Ma mi
prendi in giro?»
La mamma aveva
mangiato la foglia e, quando l'ha sentita strillare, Pan ha smesso di
annuire e ha sbattuto gli occhi, incredula. «Scusa, che
dicevi?»
La mamma ha
continuato a guardarla con sospetto e anche con un po' di disgusto.
Ho lanciato un'occhiata a Mizar che stava guardando dall'una
all'altra con l'aria di uno che si stia chiedendo se avrebbero
ripreso a gridare l'una contro l'altra come avevano fatto il giorno
del nostro arrivo. Gli ho dato una pacca sulla spalla. Sapevo bene
che, prima, ci sarebbe stata una breve escalation e solo poi, quando
entrambe sarebbero state sature, sarebbero esplose.
L'unica cosa
che mi chiedevo era quando Pan avrebbe sganciato la bomba: se in
vista della saturazione oppure durante l'esplosione. Mizar non si è
minimamente tranquillizzato, e io non potevo dirmi da meno. L'unica
cosa di cui ero sicuro era che non ero solo sulla barca che, di
solito, dovevo trasportare completamente in solitaria.
Mai come in
quel momento mi sono sentito tanto vicino a Mizar, dopo avergli fatto
passare le peggiori pene dell'inferno, oltretutto aiutando Pan a
tirargli un vaso in testa e a farlo passare dalla finestra. La verità
è che mi sono reso conto, una volta che ho imparato a mettere
da parte i pregiudizi che me l'avevano reso antipatico il giorno del
nostro incontro, che Mizar ha l'aria del fratello maggiore che non ho
mai avuto, del fratello maggiore gentile e che aiuta quello minore,
anche se, per certi versi, sono stato io ad aiutare lui, per quanto
riguarda Pan. Questo mi fa sentire quasi un mentore, e anche più
coraggioso di quanto non mi sia mai sentito negli ultimi tempi: sono
io che devo aiutare qualcuno a proteggersi da Pan e non farmi aiutare
a proteggermi da lei. Mi sono sentito forte come Pan, anche
perché Mizar ha il doppio dei miei anni e non ha mai visto una
come mia sorella.
Comunque,
mentre dentro di me succedeva questo, la mamma e Pan non hanno certo
perso tempo.
«Ti
chiedevo se stavi bene.» ha detto la mamma, senza perdere
l'aria minacciosa e sospettosa.
«Certo
che sto bene.» ha risposto Pan, del tutto tranquilla. «Mai
stata meglio.»
«E
allora perché mi prendi in giro?»
«Non ti
prendo in giro!»
«E
allora perché sorridi?»
«Perché
sono felice!»
La mamma ha
sgranato gli occhi. Stavo per proteggermi la testa con le braccia,
quando mi sono reso conto che Mizar non l'avrebbe fatto e che tutta
la sensazione di potenza che avevo appena avuto sarebbe andata a
farsi benedire. Sarei stato aggredito dalle urla, me lo sentivo.
Invece, la mamma ha solo inarcato un sopracciglio, poi ha perso
l'aria minacciosa, si è fatta perplessa e, infine,
preoccupata. Ha dato una manata al braccio di papà.
«Gohan,
controlla che non abbia la febbre!»
Papà si
è svegliato dal suo stato di trance. Ha guardato me e poi la
mamma. «Kenny ha la febbre?»
«Per la
miseria, Gohan!» ha strillato la mamma, finalmente. «Non
Kenny! Pan! È Pan che ha la febbre!»
Papà ha
sgranato gli occhi, ha guardato me, dubbioso, e poi Pan, ancora più
dubbioso. «Tu non hai la febbre.» ha dichiarato,
stupidamente, senza neanche toccarla.
Mia sorella ha
arricciato le labbra e il suo sorriso si è spento come si
spegne la luce dopo aver premuto l'interruttore. «Certo che no!
Sto bene perché il nonno mi ha fatto una proposta che mi ha
reso la donna più felice del mondo!» e ha ripreso a
sorridere.
La mamma si è
fatta di nuovo sospettosa. Mizar ha borbottato qualcosa sul dover
finire di studiare e poi mi ha fatto cenno di seguirlo, colpendomi
leggermente una spalla proprio come avevo fatto io con lui per dargli
coraggio poco prima. È questo quello che dovrebbero fare due
fratelli: sostenersi a vicenda. Per questo, mi sono alzato da tavola,
grato e sorridente. Papà ci ha fatto un cenno di assenso,
forse dando la sua approvazione ad andarcene, forse perché era
meglio che non fossimo lì quando quelle due avessero
cominciato a dare fondo, non solo alle urla, ma anche alle stoviglie.
Ho seguito
Mizar fino alle scale. In cucina, intanto, c'era una discussione, non
così accesa, ma comunque abbastanza sostenuta.
«Beh,
allora buonanotte.» ho detto, quando ho visto che Mizar non
sapeva bene che cosa fare. Ha solo annuito e si è lanciato
un'occhiata indietro, con l'aria di stare chiedendosi che cosa
sarebbe successo: aveva esattamente l'aria che, per tanti anni, ho
avuto anch'io, prima dell'arrivo della rassegnazione. «Ne
avranno per un po'.» gli ho spiegato. «Loro fanno sempre
così quando non sono d'accordo su qualcosa.»
«In casa
tua non vi annoiate mai, eh?»
Ho
ridacchiato, senza sapere bene che cosa dire. Ma probabilmente ha
ragione: la noia non bussa mai alla nostra porta.
«Beh,
buonanotte, Kenny.»
«Buonanotte,
Mizar. Se riusciamo a dormire.» ho aggiunto e stavolta è
stato lui a ridere. Mi ha dato una pacca sulla spalla e poi mi ha
solo fatto un cenno di saluto. Se n'è andato e io sono salito
in camera mia.
Ho tirato
fuori dalla federa del cuscino, dove lo tengo sempre nascosto, il mio
diario. Volevo scrivere della giornata di oggi, ma mi sono messo,
invece, a trascrivere su un foglio la discussione tra la mamma e Pan,
ma la ricopio solo adesso, per amore della linearità degli
eventi.
«NON
CAPISCI UN CAZZO!» stava gridando mia sorella. «IL NONNO
PENSA AL MIO FUTURO!»
«SONO IO
CHE PENSO AL TUO FUTURO! IO PENSO A QUELLO CHE ANDRAI A FARE DA
GRANDE! NON QUEL FANNULLONE DI TUO NONNO!»
«IL
NONNO E' UN UOMO COME NON CE NE SONO PIU' AL MONDO! IL NONNO MI STIMA
PER QUELLO CHE SONO! TU, INVECE, SEI SOLO UNA MERDA! IO VADO A
LAVORARE DA LUI, CAPITO? NON CI TORNO IN QUELLA CASERMA DEL CAZZO!
NON CI TORNO!»
«SI' CHE
CI TORNI, SE NON VUOI CHE TI MANDI SUI MONTI PAOZ!»
«IO VADO
DA MIO NONNO SATAN, ALTRO CHE MONTI PAOZ!»
«PROVA A
RIPETERLO E VEDI CHE COSA TI COMBINO! TI MANDO IN UNA CASERMA A
TIMBUCTU!»
«MA SE
NEANCHE ESISTE UN POSTO CON QUEL NOME! NON CERCARE DI FREGARMI!»
«IGNORANTE!
SI' CHE ESISTE!»
«NO!»
«SI'!»
«NO!»
«SI'!»
«Ehm...
Videl?» la voce di papà era molto più bassa e ci
ho messo un po' a capire che aveva interrotto lui quella sequela di
«no» e di «sì».
Subito dopo,
la voce della mamma, ringhiante, ha aggredito anche lui. Me la
immaginavo mentre si voltava verso di lui e lo fissava truce e anche
papà che faceva, esitante un passo indietro: come tutti quelli
che conoscono la mamma nei suoi momenti peggiori – e il nonno è
dentro questa lista insieme a tutti gli altri – anche papà
si sente impaurito abbastanza da voler scappare a gambe levate. Se
non lo fa nessuno è perché, io ne sono testimone, hanno
paura che possa rincorrerli per sbranarli.
«Cosa
c'è, Gohan?» gridava, anche se non come gridava con Pan.
«Non vedi che sto cercando di mettere un po' di sale in zucca a
questa scapestrata di...»
«Ehm...
hanno suonato alla porta.» ha risposto timidamente papà.
«E
ALLORA PERCHE' NON VAI AD APRIRE?»
«Ma...»
ha balbettato papà. «Ho aperto! E'...» ha esitato
di nuovo. «Tuo padre.»
Nella mia
mente, mamma si tirava su le maniche del vestito. «Bene.»
ha commentato in modo truce, ma perfettamente udibile anche dalla mia
camera, con la porta chiusa. Ho avuto un effettivo terrore per la
sorte che sarebbe toccata al nonno da un momento all'altro e tenevo
incrociate le dita, oltre che un orecchio sulla porta per carpire
ogni singolo rumore. Non riuscivo a fare più di quello, il
cuore mi martellava nel petto e sembrava che le mie gambe avessero
semplicemente smesso di voler funzionare, come se volessero
proteggermi dal ciclone che si sarebbe abbattuto nel nostro salotto e
a cui gli studiosi avrebbero dato il nome della mamma.
«Papà!»
l'ha salutato con evidente astio. «Proprio tu!»
«Oh,
figliola. Ero venuto qui per chiederti...»
«TU NON
MI PORTERAI VIA MIA FIGLIA!» ha subito sbraitato la mamma.
Anche i vetri hanno cominciato a tremare. Era il preludio della fine,
lo sentivo, ma non sono riuscito a fare altro che a mettermi le mani
tra i capelli per lo spavento e il bisogno di coprirmi le orecchie.
«NON TI PERMETTERO' DI RENDERLA UNA CAVERNICOLA CAPACE SOLO DI
PICCHIARE!»
«Tesoro,»
ha risposto il nonno, con tutta la calma possibile. «è
evidente che sei stanca. Che ne dici di andare a fare un riposino?»
Se il nonno
voleva farla arrabbiare, aveva appena pronunciato le parole giuste e
con la giusta intonazione. Anche i pavimenti tremavano, mentre lei si
trasformava in una specie di drago e lo raggiungeva in salotto, dove
sicuramente si erano spostati. «UN RIPOSINO? TE LO DO IO IL
RIPOSINO! QUELLO ETERNO, SE TI PERMETTI DI METTERE IN TESTA A MIA
FIGLIA STRANE IDEE!»
«Tesoro,»
ha ripreso il nonno, che non aveva evidentemente compreso la gravità
della situazione. «se ti arrabbi, ti si alza solo la
pressione.»
«ME LA
FAI ALZARE TU LA PRESSIONE! MIA FIGLIA DEVE DIVENTARE UN'EROINA DI
GUERRA, NON UNA PICCHIATRICE FOLLE!»
«Ne
parliamo domani mattina. Ho scelto proprio un brutto momento per...»
«Tu non
ti muoverai di qui, papà, finché non dirai a Pan che ti
sei sbagliato su tutto e che l'idea della palestra è
assolutamente insensata!» il cambiamento repentino nel tono
della mamma, da isterico ad autoritario e ringhioso come quello di un
cane, mi aveva fatto capire che l'uragano non si era placato, ma che
era diventato, se possibile, ancora più pericoloso. L'idea di
prendere tutta la carcassa che era il mio corpo tremante in quel
momento e spedirla sotto il letto era l'idea più buona che
avessi, ma avevo paura di non poter più sentire quello che si
sarebbero detti, che era più forte del desiderio di
nascondermi. Era del destino di mia sorella che parlavano, e la cosa
più strana di tutte era che lei non sembrava neanche fare il
più piccolo cenno di voler entrare in conversazione. E questo
mi ha insospettito parecchio... non è da Pan una cosa del
genere.
«Ero
venuto qui a parlare proprio di questo! La mia nipotina adorata deve
poter scegliere la sua strada!» ha replicato il nonno,
inviperito. «Hai sempre Kenny, puoi fare di lui quello che
vuoi! Ma Pan deve diventare ciò che io sono e che tu non hai
mai voluto essere! Voglio che faccia ciò che deve per la
famiglia e per portare avanti il suo buon nome! Lei può
farcela!»
«IO SONO
SUA MADRE, LA SUA VITA LA DECIDO IO FINCHE' E' SOTTO IL MIO TETTO!»
«Videl,
sei veramente irragionevole! Ti giuro che non ho mai visto una donna
più ottusa di te! Ah, tua madre si starà rivoltando
nella tomba, pensando a come sei venuta su!»
«E'
tutta colpa tua, papà!» gridava intanto la mamma. «Tu
che...»
«Ciao,
Videl.» ha risposto il nonno, infastidito. «Gohan,»
mi immaginavo che gli avesse posato una mano sulla spalla, aveva un
tono che mi ricordava molto quel gesto e non era davvero un
comportamento da nonno. Era come se, quella sera, gli avesse passato
un testimone – o un fardello – che lui non era più
in grado di reggere. «falla ragionare tu.»
Papà
non ha detto una parola, ma non essendo stato presente, non so
esattamente che cosa ha fatto.
La mamma
continuava a sbraitare e i passi familiari di mia sorella hanno
raggiunto il corridoio fuori dalla mia porta. Mi sono irrigidito per
il terrore: avevo paura di una sua possibile reazione, ma ha
semplicemente sorpassato la porta ed è andata verso la sua. I
suoi erano passi di una persona tranquilla, non quelli comunque che
avrebbe dovuto avere Pan in una situazione del genere... non quelli
di quando è arrabbiata.
Ho aperto la
porta di uno spicchio, solo per vedere l'espressione sul volto di mia
sorella, convinto com'ero che stesse aspettando solo un'occasione per
picchiarmi solo per scaricare la tensione. Mi aspettavo che lo
facesse, ma si era semplicemente chiusa dentro. Niente musica, niente
di niente. Neanche un suono ha scosso la sua camera, cosa che ha
scosso me.
Avevo anche
paura ad andare a letto, tanto mi aspettavo che lei potesse entrare e
darmi un pugno sul naso per tramortirmi e poi rapirmi. Magari era
questo il suo scopo, per attuare la protesta contro la mamma: usare
me come ostaggio per ricevere condizioni vantaggiose che le
permettessero di andare a studiare arti marziali dal nonno.
Invece non è
successo niente, a parte la mamma che continuava a parlare con papà
in tono concitato e stridulo, non abbastanza però per essere
perfettamente udibile, ma abbastanza perché potessi capire che
parlavano ancora di Pan e del nonno e del fatto che si fossero
coalizzati contro di lei.
Mi sono
addormentato col suo tono di voce nelle orecchie e il mio sonno è
stato agitato da sogni inquietanti su Pan che entrava nella mia
stanza e, dopo avermi usato come moneta di scambio, mentre mi
dirigevo dalla polizia piazzata nel giardino di casa mia, con le armi
spianate, lei mi sparava un colpo dietro la schiena... mi sono
svegliato madido di sudore e con la tremarella. Mamma continuava a
parlare in quel suo tono stridulo, e papà non l'ha fermata
neanche una volta.
*******
*Kenpachi Zaraki, personaggio di Bleach.
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Capitolo 18 *** Il racconto di Kenpachi ***
Vacanze
Natalizie.
Il
racconto di Kenpachi
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26
- 31 Dicembre
Le
cose non sono andate male come mi ero aspettato all'inizio. Da quando
la mamma e Pan hanno litigato, sono giunte ad un tacito armistizio
che ha permesso alla casa di passare un periodo relativamente
tranquillo. Il nonno non è più tornato a casa, ma manda
me come messaggero per dire alla mamma che continuerà così,
a meno che le non giunga a più miti consigli.
È
da quando ho scoperto che era ancora vivo che il mio rapporto con il
nonno è radicalmente cambiato: prima quasi non mi rivolgeva la
parola e faceva finta che non esistevo, adesso si fida di me
abbastanza da rendermi suo tramite.
La
mamma, comunque, non ha notato questa cosa. Ha semplicemente detto,
quando le ho riferito le parole del nonno: «Che vada a quel
paese, quel vecchiaccio. Io sola posso decidere del futuro di Pan e
intendo darle quello migliore possibile.»
Gliel'ho
detto e il nonno ha rimandato l'augurio ad andare a quel paese.
Pan
passa la maggior parte del suo tempo a Casa Satan, e mamma non sembra
dare segno di preoccuparsi della cosa, come se nessuna delle due
pensi che il volere dell'altra potrebbe distoglierle dai loro
rispettivi progetti.
Il
fatto stesso che Pan non abbia voluto continuare la discussione e
che, anzi, se ne sia andata in camera sua senza fiatare, mentre il
nonno era venuto in casa nostra per imporre le sue scelte, mi ha
fatto preoccupare. E lo sono stato fino al giorno dopo, quando siamo
tornati a Casa Satan, accompagnati da Mizar che ci va tutte le sere e
si allena per due ore precise.
In
quel tempo, che lui usa per svagarsi, io lo uso per fare qualcuno dei
tanti compiti assegnatici dalla Une e dagli altri professori. Arale
ha chiamato solo una volta, dicendomi che, al ritorno in caserma, mi
metterà a parte dei mirabolanti segreti che ha scoperto su
Alex.
Improvvisamente,
il bisogno di rivedere lei e tutti i miei compagni se n'è
andato del tutto: sono preoccupato che possa esserci qualcosa di vero
in quello che lei sospetta e, data la sua impazienza di parlarne a tu
per tu (mi ha detto: «il telefono potrebbe essere sotto
controllo, Kenny, è per questo che non posso dirtelo subito»),
ho paura che ci sia qualcosa di vero. Non riuscirei davvero a
sopportare l'idea che Alex e Frank siano due poco di buono. Mi è
stato del tutto inutile ricordarmi che loro mi avevano assicurato che
non è vero niente, e che trovavano l'idea ridicola, ma è
anche vero che un vero delinquente non andrebbe dal primo venuto per
confermargli i suoi sospetti.
Ma,
insomma, il giorno dopo Natale siamo andati fino a Casa Satan tutti e
tre insieme, Pan, Mizar e io, e abbiamo incontrato quella montagna di
Kenpachi Zaraki che ci ha detto che il nonno non c'era perché
era andato a farsi fare dei massaggi. Pan ha commentato così,
disgustata: «Che porco.» e Mizar si è limitato a
ridacchiare. Io mi sono semplicemente grattato la testa.
«Allora,»
ha chiesto Kenpachi. «Cosa volete fare?»
«Io
mi voglio iscrivere.» ha risposto Pan, docile.
Al
che il signor Zaraki le ha rivolto un sorriso con quella sua bocca
grossa come un forno, indubbiamente più grande di quella di
nonno Satan. Prima che la aprisse, credevo che nascondesse delle
zanne, poi ho visto che ha i denti come quelli di tutti gli altri.
«Oh, bene.» ha detto. «Allora vediamo subito di
compilare il modulo di iscrizione.»
Pan
l'ha preso per il suo lungo cappotto bianco strappato in fondo, come
se un animale l'avesse azzannato e strappato con i suoi denti aguzzi.
Mi sono chiesto dove il signor Zaraki avesse vissuto prima di
incontrare nonno Satan. Magari era scappato dal circo...
Pan,
però, non ha notato niente di tutto questo: l'ha tirato verso
di sé con l'unico risultato di fare lei stessa un passo
avanti. La cosa mi ha letteralmente mandato in confusione: Pan, che
ha sollevato e lanciato un professore, non riusciva ad avere la
meglio su qualcuno, fosse anche un energumeno alto come una montagna
come il signor Zaraki. Avevo ragione, pensando che lui avrebbe potuto
davvero essere il suo più grande e unico rivale.
«Voglio
che sia chiaro.» ha dichiarato Pan, con l'aria di essere lei in
netto vantaggio. Ho deglutito: mi aspettavo che il gigante la
piantasse nel pavimento. «Non pagherò neanche io. Così
come non ha pagato il nordico adoratore di Dino.»
Lui
ha sbattuto le palpebre. «Ah, sì?» ha domandato,
con stupore, non sapevo se per la pretesa di non pagare oppure per
via del “nordico adoratore di Dino”. A questo proposito,
Mizar ha reagito solo sospirando. Sono contento che abbia un gran
senso dell'umorismo o credo che, a quest'ora, ci avrebbe impiccati
tutti come blasfemi traditori o cose simili.
«Sono
la nipote del proprietario.» è stata la risposta truce
di Pan alle giuste perplessità di Zaraki. «Ovviamente,
questo mi pone in una condizione di favore. Però, potremmo
metterla in questi termini: si iscriverà anche Kenny e pagherà
il triplo, anche perché non credo che verrà mai ad
allenarsi e, quindi, per il denaro che perderemo, dato che lui non si
farà mai vivo, pagherà una piccola penale che sarà
tre volte il prezzo dell'iscrizione. E, dato che ci siamo, pagherà
anche i primi sei mesi di permanenza. Che te ne pare? Quanto fa?»
L'abbiamo
guardata tutti quanti come se fosse impazzita. «Ma...» il
signor Zaraki si è grattato la nuca, perplesso. «Se
Kenny non vuole venire ad allenarsi... è inutile che si
iscriva, ti pare?»
«Beh,
e come pretendi di fare soldi, se ci iscriviamo tutti gratuitamente?»
Pan si è stretta nelle spalle e le ha sollevate come per dire
che tutte le argomentazioni di Zaraki non erano un problema suo.
«Beh,
ma...»
«Niente
ma. Kenny pagherà tre iscrizioni: la mia, la sua e quella di
Mizar. Ecco qua come si rimpinguano le casse. Più sei mesi:
tre mesi suoi e tre mesi miei. Mizar se li paga da solo. Non mi
sembra giusto farlo venire qui gratuitamente solo perché è
il primo stronzo che avete trovato. Insomma, quanti sono?»
«Ma...
Pan...» ha risposto Zaraki, con un tono di chi voleva essere
ragionevole. «Non si può far pagare qualcuno perché
qualcun altro non ha voglia di pagare!»
La
pensavo come lui, talmente tanto che annuivo in maniera appena
percettibile, preoccupato da quello che Pan avrebbe potuto farmi se
avesse visto a chi andava la mia approvazione.
«Io
non ho bisogno di pagare.» ha dichiarato lei,
solennemente, premendosi il pollice contro il petto. «Sono la
nipote del proprietario che, a sua volta, diventerà
proprietaria. Il mio contributo è perfettamente inutile.
Pagherà Kenny. Sarà... come un socio di maggioranza
senza potere decisionale.»
Non
avevo capito la metà delle cose che aveva detto, ma sembrava
che ci avesse pensato parecchio, forse tutta la notte passata. Zaraki
si è limitato a scuotere la testa, per qualche secondo, prima
di rispondere con un diplomatico: «Dovrò parlarne con
Satan.»
«Non
ne hai bisogno. Parlare con me è come parlare con lui.»
Lui
ha annuito. «Ovviamente.» ha risposto con gentilezza. «Ma
preferisco comunque che me lo confermi.»
«Considerati
licenziato, pezzo di merda.» ha ringhiato Pan, fissandolo
minacciosa. Kenpachi Zaraki si è limitato a rivolgerle uno
sguardo imperturbabile, prima di spostarlo da lei a me e poi a Mizar.
Dieci
minuti dopo, mentre Kenpachi e Mizar si allenavano nelle arti
marziali, io e Pan eravamo seduti in fondo alla sala l'uno accanto
all'altra. Lei aveva un taccuino e segnava dei numeri. Mi ricordava
tantissimo Arale quando faceva la lista delle persone che avrebbero
potuto aiutarci a smascherare l'organizzazione mafiosa con a capo
Alex e Frank. Speravo che non avesse in mente niente di simile.
«Ma
che stai facendo?» le ho chiesto, quando la curiosità
era salita a mille.
«Dei
piccoli conti.» ha risposto lei, tranquilla. «Questo
postaccio è in rosso e io intendo, in poche settimane,
renderla così ricca da potermi pulire il culo, coi soldi.»
Ho
aggrottato le sopracciglia. «E come pensi di fare?»
«Farò
pagare un extra a chi vuole iscriversi. Il primo lo riceverà
di centomila yen, il secondo di duecentomila, il terzo di
trecentomila e così via.»
«Ma...
così non si iscriverà nessuno.»
«Oh,
se entrerà qui e non vorrà iscriversi dovrà
pagare una penale di ben sette milioni.» ha risposto lei,
fissando il foglio su cui faceva i suoi calcoli. «Come vedi, è
tutto sotto controllo.»
«Però...»
ho commentato, perplesso. «Non puoi costringere la gente ad
iscriversi.»
«Sono
d'accordo.» era la prima volta che mi parlava in tono così
gentile e la cosa si faceva sempre più strana: prima non
protestava contro la mamma e poi mi trattava come se mi volesse bene.
«Posso costringerli a spendere, però. Saranno loro a
decidere qual è il male minore.»
«Ma...»
Tutto
il mio stupore è svanito quando lei si è girata verso
di me e mi ha fissato con l'aria di volermi uccidere, se avessi
continuato a contraddirla. «Senti, Kenny, a me non frega un
cazzo se tu sei scrupoloso. È per questo che, nella vita, non
diventerai mai ricco. Io, invece, ho un cervello fatto per far soldi
e questo è sicuramente il motivo per cui questo posto, nel
giro di qualche settimana, sarà pieno di gente desiderosa di
picchiare e io nuoterò nell'oro. Così la mamma vedrà
che sono sprecata per la caserma e del tutto portata per questo
lavoro.»
Ho
sbattuto le palpebre. «Vuoi dire che non ti sei arrabbiata
perché... vuoi dimostrarle di essere in grado di fare soldi?»
«No.
Non mi sono arrabbiata perché è la mia vita e decido io
che cosa farne. La dimostrazione viene solo per non farla parlare.
Quella donna mi dà il mal di testa.» ha aggiunto
quest'ultima informazione, sospirando e scuotendo la testa.
«Ma...
e la tua cultura e... Pan, hai solo tredici anni!»
Mi
ha agguantato per i capelli e il suo sguardo non è mai stato
pericoloso come quel giorno. Ho deglutito, mentre il cuore che
martellava furioso nel mio petto lottava per schizzare via, verso il
punto della palestra dove Mizar e Kenpachi si prendevano a pugni,
insultandosi di tanto in tanto. «Come ho detto,» ha
sibilato mia sorella, rendendosi ancora più minacciosa. «è
la mia vita e se tu vuoi passarla a fare quello che ti dice la
mammina, sei padrone di farlo. Io farò solo quello che mi
interessa, cioè gestire questa palestra. Sì, paramecio,
anche se ho solo tredici anni. Ho il pallino degli affari e me ne
sono resa conto troppo tardi, per i miei gusti. Se non ti sta bene,
fottiti. E che si fotta anche la cultura. Non me ne faccio niente,
quando posso avere i soldi!»
Non
ho trovato niente con cui replicare e anche se l'avessi avuto sarei
stato zitto per non finire a tappeto come ci era finito Mizar che
sembrava più nel mondo dei morti che in quello dei vivi.
Kenpachi è così forte e violento che, per un attimo, ho
pensato che Mizar fosse decisamente morto, invece si è ripreso
presto. Ha persino ringraziato Zaraki, quando si è rialzato!
Insomma,
questa è stata la nostra routine fino ad oggi, quando ho
appreso una notizia che mi ha riportato ai miei primi giorni di
caserma, una storia che non credevo avrei più avuto occasione
di sentire, soprattutto fuori dalla caserma, una storia che, mosso
dagli eventi, avevo completamente dimenticato.
Era
cominciata come una giornata qualunque, una delle solite, una di
quelle in cui mia sorella si alza arrabbiata, in cui mia madre si
alza arrabbiata e mio padre è tra le nuvole. Una di quelle
giornate in cui qualunque cosa potrebbe far scoppiare il terzo
conflitto mondiale e non ci sarebbe verso di fermarlo. Una di quelle
giornate monotone rotte soltanto dalla presenza di un inquilino che,
come il sottoscritto, guarda la situazione e tenta di dileguarsi il
più in fretta possibile.
«Ho
trovato il regolamento della scuola.» ha dichiarato la mamma,
ad un tratto, tagliente, mentre versava il caffè nella tazza
di Mizar. «Bevi, Mizar caro, ti serve proprio, con quanto
studi.» ha aggiunto, tutta uno zucchero. Pan non ha alzato gli
occhi dalla sua colazione, al contrario di me, che sentivo il muesli
desiderare di uscire dal mio stomaco, ma dalla parte sbagliata. «Al
contrario di mia figlia, che pensa che studiare sia superfluo.»
Mizar
non ha commentato, ma scommetto che stava pregando perché una
forza sovrannaturale lo prendesse e lo facesse sparire dalla
circolazione. Io, almeno, ero di quell'avviso.
«Vedi,
Mizar caro,» ha continuato la mamma, mischiando il tono
zuccherato con quello tagliente che ha usato con Pan poco prima. Era
una tattica che non aveva mai utilizzato, e che, proprio per questo,
mi spaventava a morte. «sono convintissima che tu capisca
meglio di lei che, per farsi strada nella vita, bisogna avere una
cultura. E che bisogna ascoltare la propria madre, perché,
forse, ne sa qualcosina in più della vita, di una tredicenne.»
ha scoccato un'occhiata assassina a Pan che, invece, sembrava non si
stesse neanche parlando di lei. Beveva dalla tazza con fare incurante
e indifferente, come se la mamma stesse parlando del tempo, o non
stesse parlando affatto.
«Naturalmente,
se non volesse farlo,» ha continuato la mamma, in tono del
tutto casuale. «ci sono sempre le regole della scuola da
considerare. Quando l'ho scelta, ho pensato proprio a tutto.»
quando ho alzato anche io lo sguardo, ho visto che la mamma aveva una
strana luce negli occhi, una luce che, se non fossi stato seduto, mi
avrebbe costretto ad indietreggiare. «Devi sapere, Mizar caro,
che ho letto attentamente tutto il regolamento e ho scoperto che è
impossibile uscire da quella scuola, a meno di essere espulsi. E che
è molto difficile essere espulsi. La direttrice Une mi ha
rassicurata sul fatto che Pan sarà il suo orgoglio personale,
una volta finiti i sei anni di addestramento e studi. E, Mizar caro,
lasciami dire che quella donna mi ha convinto. Ha detto, tra l'altro,
Mizar caro, che, nel caso Pan volesse lasciare la scuola, sarebbe
comunque tenuta lì dentro fino a che saranno i genitori a
decidere diversamente. Dovrebbe avere un'autorizzazione firmata dai
suoi genitori, altrimenti niente. Verrebbe prelevata e portata lì,
che lei acconsenta o no.»
Ha
cominciato a sorridere soddisfatta e Pan ha sollevato lo sguardo su
di lei. Io ero terrorizzato: mi immaginavo esistere, nei sotterrai
della caserma, una piccola cella grigia e buia di un metro per un
metro, ma col soffitto molto alto, una porta di ferro con una grata
dove far passare il cibo e, come unico collegamento con l'esterno,
una finestrella minuscola, posta in alto, impossibile da raggiungere,
ma comunque dotata di sbarre spesse e indistruttibili. Non solo:
vedevo Pan seduta contro la parete di fronte alla porta sbarrata, con
una camicia di forza, i capelli spettinati e l'aria deperita, pallida
come un cadavere, prossima alla morte. Mi sono venuti i brividi.
Ho
guardato Mizar che, invece, guardava il suo caffè senza dare
minimamente segno di volerlo bere.
«Non
è possibile.» ha dichiarato Pan, distogliendomi dalla
mia visione del futuro, con una tranquillità che mi ha fatto
gelare il sangue. Nei suoi occhi, però, brillava la luce del
trionfo. «Perché sarebbe sequestro di persona.»
«No,
mia cara.» ha risposto la mamma, rivolgendosi direttamente a
lei, stavolta, con aria piccata. «Quella è una scuola
per ragazzi problematici e, pertanto, sono presenti celle di
isolamento che servono per quelli come te.»
«Però,
ricordo espressamente che Frank Kushrenada ha detto che le celle di
isolamento non verranno usate contro i minori, perché il
Generale ha voluto così!»
«In
realtà, mia cara, ho autorizzato la cara lady Une a usare il
pugno di ferro, non che ne avesse bisogno. Ha detto di avere un certo
conto in sospeso con te, signorinella... non voglio neanche sapere di
cosa si tratta! Non che lei me ne abbia fatto cenno, ma se avessi
insistito, me l'avrebbe detto di sicuro!»
Pan
si è stretta nelle spalle, mentre un sorrisetto impertinente
le deformava la bocca. Mi chiedevo cosa avesse in mente, se pensava
che, una volta tornata in caserma, sarebbe stata rinchiusa. Tra
l'altro, posso bene immaginare di quale conto in sospeso la Une
stesse parlando: il lassativo col quale Pan l'aveva costretta a
passare una mattinata nel bagno dei professori.
«Quella
vecchia papera non vale uno sputo sulle mie scarpe.» ha
sbottato mia sorella, con disprezzo. «Lei usi pure il pugno di
ferro. Io userò quello di acciaio.» ha mostrato il pugno
e ha colpito la tazza di Mizar dall'alto e quella si è
frantumata, schizzando tutto intorno il caffè. Ho gridato per
lo stupore, le schegge sono volate sulla mia testa mentre Mizar,
mozzandomi il respiro, con una velocità sorprendente, mi ha
sbattuto a terra, seguendomi un attimo dopo. Ho sentito le grida
della mamma, le imprecazioni di papà e le urla di Pan che
scappava di casa. È stato un attimo di puro panico, non
sapevamo dove andare, cosa fare, cosa pensare.
Per
riuscire a rimettermi in piedi, tra le urla di mia madre e i
tentativi di Mizar e papà di riportarla alla calma, ci sono
voluti parecchi minuti. Neanche io so con precisione come sono
riuscito a rimettersi seduto, dopo aver spolverato la mia sedia dai
detriti impazziti della tazza che Pan ha distrutto con l'aiuto di un
pugno ben assestato. Adesso che ci penso, se non fosse stato per
Mizar, avrei potuto scrivere il diario, questa sera, non come Kenny
Iccijojji, ma come Capitan Uncino.
Quando
la calma si è ristabilita, la mamma è scoppiata a
piangere. «Ma cosa ho sbagliato, con lei?» gemeva, sulla
spalla di papà, in un modo che mi ha fatto stringere lo
stomaco. «Dove ho sbagliato? Sono una pessima madre!»
Mizar,
a quel punto, come capendo cosa mi stava succedendo, mi ha preso
gentilmente per un gomito e mi ha portato fuori dalla cucina, dove la
mamma ha continuato con le sue domande strappacuore. Mi sentivo in
colpa: lei pensava che Pan sia cresciuta male per colpa sua, ma non
credo che sia vero. Insomma, dovrei essere come lei, altrimenti,
giusto? Oppure no? Forse mi sto semplicemente attribuendo
un'importanza che non ho. Non so cosa pensare, sono piuttosto
confuso. E le domande di mamma non fanno altro che contribuire a
rendere i miei dubbi più forti.
Abbiamo
trovato Pan in palestra. Mizar non ha mai avuto dubbi sul fatto che
si fosse diretta lì, così, vedendomi preoccupato per
lei e la sua salute e per dimostrarmi che aveva ragione, mi ha
portato a Casa Satan. Abbiamo trovato una situazione grottesca: Pan
che si era appena accorta che Kenpachi non è stato licenziato,
ha preso il nonno per un braccio e lo ha sbattuto al muro, cosa che
ha rotto uno di quei pannelli orrendi.
Il
nonno non si è disperato come credevo che avrebbe fatto,
allagando il pavimento di una pozza d'acqua salata, un nuovo laghetto
artificiale sicuramente più pulito della tinozza
nell'ingresso. Si è, invece, messo a ridere a crepapelle,
facendo rimbombare il suono della risata fino al secondo piano,
credo, anche perché i miei timpani erano lì lì
per fare le valigie e andarsene.
«La
mia nipotina!» diceva, tra i singhiozzi. «Che adorabile!»
«Che
cazzo ridi?» ha gridato Pan. «Tu non hai silurato questo
stronzo e ridi? Ma vaffanculo!»
«Ma
non posso, nipotina!» ha replicato lui, mettendosi seduto con
la velocità di un razzo e perdendo immediatamente l'aria
sorridente per fare spazio ad un'espressione seria.
«Non
puoi cosa? Andare a fanculo? Ti aiuto io!»
«Ma
no, che hai capito? Kenpachi è un insegnante dotato e poi...
beh, diciamo che se lo cacciassi via, mi sentirei molto solo. Ecco.
L'ho detto.»
«L'unica
cosa che avevi da fare, grasso idiota con l'alito di una discarica
abusiva, era rimanere in camera tua, in casa nostra, invece di
lasciarla al dinosauro!»
Il
labbro inferiore del nonno ha cominciato a tremare e i suoi occhi si
sono riempiti di lacrime. È stato allora che si è
formato davvero il laghetto artificiale, e nel frattempo lui
farfugliava qualcosa a proposito delle nipoti che non capiscono che i
nonni, dopo un po', vogliono andarsene di casa e vivere la loro vita.
«La mia nipotina mi vuole a casa con sé! Oh, che
emozione!» gridava tra le lacrime.
Mi
si è stretto il cuore nel vedere il nonno in quelle
condizioni, esattamente come succede ogni volta che si comporta in
questo modo. Quando eravamo piccoli, se piangeva lui, piangevo anche
io, ma anche Pan... solo che lei ha smesso quando ha cominciato a
pronunciare il suo primo “cazzo”, e io mi trattengo a
stento, ancora oggi. Stavolta, però, mia sorella non ha fatto
la benché minima piega: ha solo sputato a terra ed è
uscita dalla palestra dicendo una frase abbastanza inquietante,
soprattutto perché detta da lei: «Come al solito, ci
devo pensare io.»
È
tornata dieci minuti dopo, dopo che Kenpachi, Mizar e io abbiamo
portato il nonno in cucina e lo abbiamo aiutato a sedersi sulla
sedia, dove Kenpachi gli ha servito del tè corretto con la
grappa, che a quell'ora del mattino, a detta sua, è un
toccasana. Il nonno non ha protestato e l'ha trangugiato come se
fosse acqua fresca.
Poi,
voltandomi, ho visto Pan che, furtiva, stringendo qualcosa al petto
con entrambe le mani, stava camminando in punta di piedi davanti alla
porta aperta della cucina, diretta verso le stanze del nonno e di
Kenpachi. Erano le uniche della palestra che non avevamo mai
visitato, ma erano anche le uniche che non volevo vedere: un po'
perché avevo paura che puzzassero del loro sudore e dei loro
piedi, un po' per privacy. Il fatto che Pan, però, stesse
andando verso di esse con qualcosa stretto tra le dita mi inquietava
assai.
Nessuno
si era accorto di niente.
Mizar
era occupato a dire a nonno che trovava normalissimo voler vivere per
conto proprio, ad una certa età, e Kenpachi stava annuendo con
vigore. Ero l'unico che potesse fare qualcosa e i casi erano due:
fare la spia o seguire Pan e tentare di persuaderla dal fare
qualunque cosa stesse tentando. Come al solito, ho pensato che fare
la spia non mi avrebbe dato nessun punto nella classifica di Pan e
che lei ne avrebbe approfittato per legarmi al sacco per i pugni e
che nessuno le avrebbe detto niente.
Preferivo
tentare un dialogo. Così l'ho seguita, stando attento a
rimanere invisibile come sembravo in quel momento agli occhi degli
altri tre.
«Ehi,
Pan?» l'ho chiamata e, dato che l'avevo presa da dietro, si è
voltata di scatto, così fulminea che anche io ho avuto qualche
difficoltà a raccapezzarmi: mi ha sollevato a qualche metro da
terra, lasciandomi con la schiena spalmata contro il muro, i piedi
penzoloni e un braccio di Pan contro lo stomaco e l'altro sotto la
gola. Non mi stava soffocando solo per permettermi di parlare, nel
caso dovesse farmi qualche domanda.
«Stai
zitto o ti strappo le ossa una per una, capito?» ha sibilato.
Ho annuito ed è stato allora che ho visto tra le sue mani la
rotella di un inconfondibile accendino.
«Che...»
Lei
ha stretto la morsa sotto la gola, serrandomi il respiro. Il panico è
salito alle stelle nello stesso momento.
«Ti
ho detto di non parlare.»
Volevo
sapere che cosa stava facendo, ma volevo anche che non mi soffocasse,
così ho annuito di nuovo, per il poco che potevo, e lei mi ha
misericordiosamente lasciato andare. Sono caduto sul pavimento come
una pera secca e ho cominciato a tossire convulsamente; nessuno dei
tre nella cucina aveva sentito niente, perché il nonno, col
suo vocione tonante, stava chiedendo a Kenpachi dove fossero le carte
per cominciare una “bella partita a rubamazzo, Mizar, ti
insegno io, sono un asso in questo gioco”.
Non
è vero, ma glielo lasciamo credere da anni, da quando, una
volta, a Pasqua, papà gliel'ha rubato e lui ha risposto
dandogli un pugno sulla faccia e riprendendosi quello che aveva
chiamato “il maltolto”. Da allora abbiamo convenuto che
era meglio farlo vincere e fargli credere di essere imbattibile. Solo
Pan può rubargli il mazzo senza ricevere una sonora strigliata
o un pugno e solo perché lei picchia forte quanto lui.
Ma
intanto io ero sbiancato e stavo annaspando in cerca di aria, Pan mi
ha bellamente ignorato e ha continuato la sua avanzata verso le
camere del nonno e di Kenpachi. Ancora non sapevo cosa volesse fare
con l'accendino, ma anche con il fiato corto e il bisogno d'aria
sapevo che non era niente di buono. Così mi sono affrettato a
rimettermi in piedi, stringendomi una mano sotto la gola ancora
dolorante e prendendo dei respiri profondi come ci ha insegnato il
Salvini – una delle poche cose che ci ha insegnato, in effetti
– e l'ho seguita.
Si
è addentrata in una delle due camere sbattendo il pannello di
lato con violenza, tanto che si è staccato dalla parete a metà
e ha cominciato a dondolare avanti e indietro. Non so come sia
successo esattamente, ma quando l'ho visto, mi è sembrato un
condannato a morte, agonizzante sulla forca. Immaginavo me stesso,
fino ad un attimo prima, quando stavo soffocando e credevo che, tra
me e quel povero, inconsapevole pannello ci fossero più
affinità che non tra due esseri umani.
Pan,
intanto, si stava aggirando per la camera spartana: c'era solo un
futon, in mezzo alla stanza, e una coperta ancora non ripiegata.
Poteva sembrare che fosse la camera di nonno Satan, ma c'era un
oggetto così fuori del comune che non poteva sicuramente
essere suo.
Ho
capito che ci trovavamo nella camera di Kenpachi solo perché
quell'oggetto non sarebbe appartenuto a nonno Satan neanche nei suoi
sogni più selvaggi (il nonno, per quanto ami picchiare la
gente, ha paura delle armi): una katana, con una lama insolitamente
lunga, avvolta da bende. Proprio come una mummia. Non che io mi
intenda di spade, ma quella ha un guardamano che ricorda tantissimo
un osso... forse di qualcuno a cui l'ha strappato via dopo averlo
aperto in due con quella cosa.
Pan
si era fermata poco lontana da quell'oggetto infernale, anche lei lo
ammirava e, dalla mia postazione, accanto al pannello impiccato, ho
visto che era a dir poco estasiata. Non ha lasciato andare
l'accendino, ma i suoi occhi erano sgranati come cocomeri.
Ero
preoccupato a morte: insomma, se Kenpachi ci avesse visto lì,
con un pannello impiccato, e avesse fatto due conti, non ci avrebbe
messo poi molto a srotolare la katana-mummia e a farci a fette, per
usare i nostri femori come nuovi guardamano... beh, ora che ci penso,
non credo che il nonno sarebbe stato poi così contento di
vedere i suoi nipoti affogare nel loro stesso sangue nella sua
nuovissima palestra. Tra l'altro, volendo proprio essere cinici, non
sarebbe una gran pubblicità per Casa Satan...
«Pan,
forse è meglio se ce ne andiamo.» ho detto, in un filo
di voce, tremante. «Dico davvero... il signor Zaraki non sarà
felice, se rimaniamo qui.»
L'incantesimo
in cui l'aveva avvolta la spada si è spezzato nel momento in
cui ho finito di parlare. Si è voltata a guardarmi.
«Che
cazzo vuoi?» mi ha domandato, aggressiva. «Non ti è
bastato prima?»
«Beh...»
per un attimo ho pensato di rispondere, poi ho capito che era più
importante svignarsela. «Pan, dico davvero, dovremmo
andarcene.»
«Neanche
per idea, sono qui per un motivo e non me ne vado prima di aver
finito!»
«Ma...
che devi fare?»
«Un
attentato, ovviamente. Lui non riuscirà a capire chi sia stato
a bruciare la sua camera, e, debilitato dal terrore, scapperà
via. Io sono naturalmente insospettabile, quindi... tutto okay,
direi.»
«Ho
capito, ma... perché bruciare la camera? Pan, hai presente chi
è quel tipo?» non riuscivo a dire che aveva una katana
con un guardamano a forma di osso, l'avrebbe reso troppo reale.
«Perché,
cretino d'un paramecio ambulante col cervello ridotto in pappa, se
bruci la camera questa diventa inagibile, no? Ma che te lo spiego a
fare? Solo un genio come me potrebbe arrivare a comprendere!»
Sono
convinto della stessa cosa e lo ero anche allora, ma il mio sudare
copioso mi portava sempre più a guardarmi indietro e ad
aspettarmi che l'omaccione entrasse e ci vedesse tra le sue cose...
«Però
questa me la prendo.» ha dichiarato Pan, afferrando la spada
bendata. «E' davvero un gioiellino.»
«Certo!
E lui non ti vedrà andartene via, vero? Dove la nascondi una
spada di quelle dimensioni?»
«Non
mi vedrà semplicemente perché... oh, ciao Kenpachi,
qual buon vento ti porta?» il suo sorriso è diventato
quello di un alligatore e un'ombra minacciosa, subito dopo le sue
parole, è calata su di me. Letteralmente. Ha coperto me e
inghiottito Pan. Avrei venduto cara la pelle, me lo sentivo nelle
giunture che avevano cominciato a suonare come nacchere. Guardavo Pan
ed è stata la prima volta in vita mia che ho sperato che
usasse la sua forza bruta per salvarci entrambi, che tramortisse
Kenpachi o che semplicemente ci facesse sparire come nei giochi di
prestigio.
Tutto,
pur di non dover subire il destino che, crudele, incombeva su di noi
sotto la forma di quel gigante.
Mi
aspettavo un urlo disumano, che avrebbe fatto tremare le pareti e,
invece, ha solo schioccato la lingua, ma terrorizzato com'ero, in
quel momento, mi è parso lo schiocco di un osso che si
spezzava e così ho urlato io, ma come una donnetta isterica.
«Che
succede, scricciolo?» mi ha chiesto, allora, curioso.
Paralizzato, l'ho visto allungare la sua mano grossa come una borsa e
ha preso la spada dalle mani di Pan anche se lei tentava di opporre
resistenza. Neanche lei ha potuto niente contro la forza di Kenpachi.
«E no, Pan, quella non si tocca. Ti puoi fare male!»
«Stronzate.
Chi te l'ha data?»
«Questa?»
Kenpachi l'ha soppesata nella sua manona. Mi rendo conto adesso che
gli ci stava davvero bene. Era come se fosse stata fatta su misura
per lui. «Oh, è stato un regalo. Insomma,
un'onorificenza, diciamo.»
Pan
mi ha praticamente spinto via – e io l'ho lasciata fare, tanto
mi ero pietrificato e sembravo un birillo – e si è
avvicinata alla spada per ammirarla più da vicino. «E
come si chiama, quella meraviglia?»
Kenpachi
ha guardato la spada, dubbioso. «Ah, non lo so. Non me l'ha mai
detto.»
«Ah,
se ti aspetti che ti parli...» ha risposto lei, con un tono a
metà tra l'ironico e uno da “campa cavallo”.
«No,
voglio dire che il tizio che l'ha fabbricata non me l'ha detto: è
morto prima di riuscire a finirla.»
«Oh.
Si è trafitto da solo, l'idiota?»
Kenpachi
si è rabbuiato un attimo e, nell'attimo stesso in cui credevo
che avrebbe srotolato la spada dalla benda per decapitare Pan, ha
posato quell'arnese al proprio fianco e si è seduto a terra a
gambe incrociate. L'attimo dopo ha chiesto a mia sorella di fare lo
stesso e così a me che me ne stavo in piedi con la verve di
uno stoccafisso, a fissare il vuoto, col cuore che batteva talmente
veloce che credevo mi sarebbe schizzato fuori dal petto e che si
sarebbe fatto un giro per tutta la stanza, prima di fermarsi ai piedi
del mio cadavere.
Ho
ubbidito prima ancora che lo facesse Pan, spaventato dalla spada e
dalla sua collocazione, a terra, accanto a Kenpachi che dava delle
affettuose pacche all'osso che faceva da guardamano.
«Visto
che me lo chiedi, te lo racconterò. Ma vi avverto: è
una storia molto, molto triste.»
«Ah.
Certo. Ovvio. Si è infilzato come uno spiedino.» ha
tagliato corto Pan.
Le
ho dato una gomitata per farla tacere. Ho guardato negli occhi di
Kenpachi e ho visto che luccicavano. Sono apparsi in quel momento
anche il nonno e Mizar che stava per chiedere che cosa fosse successo
al pannello della porta e il nonno l'ha zittito e si è messo
in posa solenne, come se si stesse per cantare l'inno nazionale. Mi
ricordava molto me quando siamo all'alzabandiera, la mattina alle
cinque, a parte la barba incolta e la peluria folta che compare dalla
camicia aperta.
«Senti,
se pensi che ci pisceremo gli occhi anche noi per una storia
inventata, risparmia il fiato.» Pan ha stretto le braccia al
petto, poi mi ha guardato. «No, forse lui se li piscerà
lo stesso.»
«Non
è una storia inventata.» ha risposto Kenpachi, con tutta
la sua calma. È stato allora che mi è sembrato che
stringesse il pugno molto forte contro l'osso. Mi si era seccata la
gola: eravamo all'altezza giusta per essere sgozzati senza neanche
troppa fatica. «Ed è un vero peccato che non la
insegnino a scuola.»
Sarebbe
stato comunque tempo perso, dato che gli studenti sono tutti molto
svogliati e Pan non fa eccezione. «Ma sarebbe giusto che
qualcuno lo sapesse. Voi andate in una caserma sperimentale,
un'accademia dove si studia la storia delle colonie... queste cose
dovreste saperle. Almeno voi.»
Ho
guardato il nonno, e ho visto che si stava trattenendo il labbro
inferiore i denti superiori e stava cercando di controllarsi dal
piangere apertamente. Mizar gli stava dando delle pacche sulle
spalle.
Mi
sono sentito come se loro fossero tutti a conoscenza di cose che solo
io e mia sorella ignoravamo. Ancora adesso sento una strana
sensazione alla bocca dello stomaco. Ho pensato ad Arale, ho pensato
ad Alex e Frank, agli unici con cui vorrei parlare in questo momento
per ricevere un po' di pareri, per aiutarmi a far uscire fuori i
dubbi che mi affollavano la mente in modo indefinito.
Dal
canto suo, Pan non sembrava interessata a quello che Kenpachi voleva
dirci, tanto che si stava esplorando l'orecchio con il mignolo,
osservando il soffitto come se fosse tutto molto più
interessante di lui.
Ancora
non ero preparato al fatto che avremmo parlato di un argomento che,
per un motivo o per l'altro, avevo accantonato in favore di altro, di
problemi più immediati, quali lo studio e poi anche i sospetti
di Arale sui nostri due amici più intimi.
«Beh,
sapete cosa significa la giacca che indosso?»
Io
ho scosso la testa.
«Simbolo
del tuo essere barbone?» ha replicato, invece, Pan, che si era
stretta nelle spalle.
Lui
non ha reagito con rabbia, ma con rassegnazione. «No. Questa
giacca bianca, sotto un kimono nero, è un simbolo per indicare
una persona di un certo lignaggio. E anche la spada, simbolo di
potere; badate, nessuno l'ha mai usata, non per fare del male. Ognuna
ha un nome che rispecchia qualche caratteristica del suo
proprietario, ma non so quale sia quella della mia perché,
come vi ho detto, il fabbro è morto prima che potesse dirmelo.
Anzi, se proprio devo essere sincero, è come se gliel'avessi
presa, perché non era neanche finita, quando andai a
cercarlo... sotto... sotto quelle macerie.» ha scosso la testa
e chiuso gli occhi, come per nascondere a se stesso il terribile
spettacolo del fabbro rimasto ucciso sotto le macerie prodotte da una
guerra. Ho sentito un brivido, mentre ne parlava: il suo tono
tenebroso rendeva la faccenda ancora più cupa di quello che
era. «Ero... il ministro degli esteri del...»
«Ah,
l'hanno scelto proprio bene, il ministro degli esterni...» l'ha
interrotto mia sorella, scettica, ignorando totalmente la storia. «E,
dimmi, rifacevi le facciate degli edifici?»
«Esteri,
Pan.» l'ho corretta. Non avrei dovuto farlo e lo so, dato che
la conosco, ma la mia lingua si è mossa prima della mia testa.
«Significa che cura i rapporti con gli altri paesi. L'ha
spiegato la Une a lezione, qualche settimana fa.»
Il
ringraziamento di Pan per questa correzione non gradita è
stato un pugno sulla spalla, che mi ha strappato un lamento e mi ha
fatto distendere sull'altro fianco per la forza dell'impatto. «Stavo
solo facendo una battuta, pezzo di idiota!» ha gridato. Non
avrei risposto comunque, ammutolito com'ero dal dolore, ma Kenpachi
ha impedito che Pan, balzandomi addosso come intendeva fare, mi
fracassasse il cranio.
«Vi
prego. Non ero così una volta... beh, non così brutto,
in effetti. Se ho perso l'occhio è stato a causa della guerra.
Ma andiamo con ordine. Ero il ministero degli esteri del piccolo
regno del Sanc Kingdom, non so se ne avete...»
Ho
gridato, nel sentire quel nome, e ho anche sussultato, come se avessi
avuto un porcospino sotto il sedere... da quando Marquise me ne aveva
parlato per la prima volta, nell'Hangar 14, di fronte a quel
colossale Mobile Suit chiamato Pioggia di Fuoco nessuno ne aveva più
fatto cenno o quasi.
Kenpachi
mi guardava stupefatto e io mi sono affrettato a farmi piccolo
piccolo e a scusarmi.
«Che
c'è, scricciolo?» mi ha chiesto. «Ne hai sentito
parlare?»
«No...
è solo un isterico, lascia perdere.» ha minimizzato Pan.
«Di cosa vuoi che abbia sentito parlare, questo paramecio?»
Kenpachi
l'ha ignorata e ha guardato me come se fossi appena diventato
un'enorme pepita d'oro. Mi sono limitato ad annuire, dato che non
riuscivo a spiccicare parola: quello era il ministro degli esteri del
Sanc Kingdom... lo stesso che era stato distrutto per l'inettitudine
del principe. Era di fronte a me e non riuscivo a staccargli gli
occhi di dosso; non riuscivo a fare a meno di pensare che sarebbe
stato perfetto accanto a Pioggia di Fuoco: erano due colossi che
incutevano timore allo stesso modo.
«E...
e da chi?» mi ha chiesto, improvvisamente interessato.
«Ecco...
da... da un professore.»
«Chi
era?» Kenpachi si è sporto verso di me con un interesse
che aveva del maniacale, cosa che mi ha fatto ritirare con un certo
spavento. Ma c'era qualcosa nel suo sguardo che era magnetico come
una calamita che mi impediva di distogliere il mio e che mi ha spinto
a rispondere, seppure con un balbettio che mi ha fatto sembrare un
topolino, più che una persona. Ora che ci penso, è
strano che Pan non mi abbia preso in giro.
«Zack
Marquise...»
«E
chi cazzo è?» è stata la domanda di Pan che ha
rotto la strana, tesa connessione che si era creata tra me e
Kenpachi.
«E'
un professore del secondo anno.» le ho rivelato. «Quello
con la mascherina e la divisa come quella della Une.»
«Ah,
sì, quel pagliaccio.» ha risposto lei, alzando le
spalle. Ma poi, come rendendosi conto di qualcosa che non tornava, si
è voltata di nuovo a guardarmi. «Ma tu come lo conosci?
Non dirmi che sei così secchione da seguire anche con quelli
del secondo anno!»
«E
com'era?» ha domandato Kenpachi, impedendomi di rispondere.
«In
che senso?»
«Intendo...
che tipo è?»
Ho
un solo modo per descrivere Marquise e, in quel momento, l'ho fatto
senza esitazioni: «E' l'uomo più in gamba che conosca.»
«E
come mai vi siete ritrovati a parlare del Sanc Kingdom?»
«Beh,
mi ha fatto vedere Pioggia di Fuoco e... mi parlato del principe
Miliardo.» ho deglutito.
«Ehi,
di che cazzo parlate, voi due?» è sbottata Pan,
guardando da me a lui, fissandoci in cagnesco. «Cos'è
questa storia? Di che cazzo parlate?»
Kenpachi
ha annuito con fare grave, con l'aria di aver sempre capito tutto.
Pan è stata completamente ignorata. «Quindi è
proprio vero che è nella caserma militare sperimentale. Gin ci
aveva visto giusto.» si è grattato il mento. Non ha
voluto dirci chi fosse quel Gin e noi non gliel'abbiamo chiesto.
Nessuno sembrava molto interessato a farlo e anche io, in quel
momento, ero più impegnato a guardarlo mentre guardava assorto
il soffitto e a borbottare frasi che non capivo che a fare domande.
La mia mente era in subbuglio: pensavo al Sanc Kingdom e al fatto che
avevo davanti un uomo che era stato ministro e che si è
ritrovato ad essere un banale insegnante di arti marziali in una
palestra che non viene frequentata da anima viva e che condivide la
casa con uno zotico come mio nonno.
«E
com'è?» mi ha domandato, dopo un po', rompendo quel
silenzio.
«Zack
Marquise?» ho replicato, stupidamente.
«Ma
no! Pioggia di Fuoco. Come è? In che condizioni?»
«Beh...
un po' malandato...» mi ci arrovello ancora adesso: dovevo
dirlo oppure no? Era un segreto oppure no? Non ricordo che cosa mi ha
detto Marquise, se di mantenere il segreto oppure se potevo parlarne
liberamente, ma credo di aver fatto la cosa giusta, in fondo:
Kenpachi è ministro del Sanc Kingdom. E poi non credo che
Marquise mi avrebbe fatto vedere qualcosa di top secret.
«Ma
può volare?» ha domandato ancora Kenpachi.
«Brutte
teste di cazzo, volete dirmi che sta succ...»
«Pan,
per favore, dammi un attimo, ti spiegherò tutto a tempo
debito.» le ha chiesto gentilmente Kenpachi.
«A
tempo debito un cazzo. È questo il tempo debito!» ha
urlato lei, dando un pugno sul pavimento. Neanche a dirlo, ha fatto
saltare una trave. «E poi come lo dimostri di essere davvero un
ministro? Ce l'hai un pezzo di carta che lo attesta? Eh? Ce l'hai?
Per me sono tutte stronzate. Te le stai inventando perché vuoi
che ci muoviamo a pietà e che ti teniamo qui. Ma sai quanto me
ne frega? Zero. Quindi ti puoi prendere quella spada, ficcartela nel
culo e andare via.»
Kenpachi
ha sospirato. «Stiamo parlando di un Mobile Suit, contenta?»
ha detto, allora.
«Ah,
chissà che mi credevo!» ha sospirato lei, tornando a
ispezionarsi l'orecchio col mignolo.
«Pioggia
di Fuoco è il nostro tesoro nazionale.» ha risposto
Kenpachi, un po' punto nell'orgoglio. «Era il Suit dei
Peacekraft, la famiglia reale. Solo un membro della famiglia avrebbe
potuto pilotarlo; il compito del re è sempre stato quello di
guidare la gente in guerra, se ce ne fosse stato bisogno, ma, come
tutti dovrebbero sapere, il Sanc Kingdom non è mai stato un
paese assetato di sangue. Perseguiva ideali di pace. Ma ha fallito su
tutta la linea.» ha scosso la testa, con evidente rammarico.
«Per
forza. Se è vero che hanno scelto te come ministro, allora
erano davvero dei coglioni.» ha risposto Pan, stringendosi
nelle spalle. «Se volevano farsi valere, dovevano usare il
pugno di ferro.» e si è battuta un pugno nel palmo
aperto dell'altra mano, come per rendere ancora più forte il
concetto. «Parlare non serve ad un cazzo. Vuoi avere ragione?
Pesta a sangue! È questo il mio motto!»
Kenpachi
ha scosso la testa di nuovo, ma non so ancora se fosse per
disapprovare le parole di Pan. Una cosa è certa: sentire
parlare di pace un tizio così grosso, con una spada al fianco
e dei muscoli grossi come mattoni, fa uno strano effetto. «Beh,
ma lasciate che parta dall'inizio.» ha detto. «Come vi
dicevo, sono... ero il ministro degli esteri.»
«E
come sei finito a picchiare la gente?» ha domandato Pan.
«Beh,
avevo l'hobby del pugilato.»
«L'hobby
del pugilato e parole di pace.» ha risposto lei, buttandosi
entrambe le mani in grembo. «Che idiota!»
«Beh,
come dicevo, ero il...»
«Ministro.»
ha completato Pan, strascicando le parole. «Vai avanti, pezzo
di merda.»
Ero
pietrificato: parlare così a un ministro... per di più
armato di spada. Ma lui sembrava aver dimenticato di possedere
un'arma, benché la stesse accarezzando come se fosse un
cocker; guardava a terra con evidente tristezza. Mi ha ricordato il
giorno in cui Zack mi ha raccontato di come il Sanc Kingdom era
andato distrutto e non mi sono mai sentito tanto un verme per aver
creduto che fosse una cattiva persona, o un energumeno fatto solo per
inchiodare la gente al suolo come se fossero dei picchetti per le
tende da campeggio.
«Beh...
ecco... okay.» ha borbottato e si è schiarito la voce.
«Il Sanc Kingdom era un bel paese, sapete? Una di quelle belle
città stato dove sembra che l'idillio non debba mai finire. Il
Sanc Kingdom dava sul mare e il castello Peacecraft era uno dei più
bei luoghi che si potessero immaginare. Vivevamo tutti felici,
soprattutto perché era da poco nata la principessina.»
«Sì,
molto interessante.» ha risposto Pan, annoiata, con le braccia
incrociate e lo sguardo carico di sufficienza. «Ma a noi che
cazzo ce ne fotte?»
Kenpachi
l'ha ignorata e si è asciugato una lacrima che era spuntata
furtiva all'angolo dell'occhio buono. «La piccola Relena era
uno spicchio di sole. Che manine, e che sorriso! Poi sono cominciate
le guerre di indipendenza sulle colonie, nello spazio. E sulla Terra
si è formata la Confederazione degli Stati Terrestri, per
sedare queste lotte: pensavano che facendo fronte comune, gli stati
terrestri sarebbero stati più forti e avrebbero avuto ragione
più facilmente dei facinorosi che predicavano l'indipendenza
delle colonie spaziali. Ma si sbagliavano di grosso: perché
questi facinorosi erano membri stimati di quelli che, una volta,
erano i delegati della Terra, e avevano appoggi potenti su tutte le
colonie che si ritrovarono ad avere un esercito di grandi...»
«Sì,
sì. Mi sembra di stare seguendo una lezione di storia con la
Une. Che palle.» ha replicato Pan, annoiata. «Se non hai
niente di più interessante, ti prego, andiamo a darci due
pugni e finiamola.»
«E
dai, Pan, a me interessa!» ho protestato.
Lei
si è girata verso di me, mi ha guardato con un'espressione
così omicida che mi ha ghiacciato il sangue delle vene e, se
solo avesse potuto, mi avrebbe fatto rimanere stecchito lì
dov'ero. «Tu sta' zitto.» mi ha ordinato, in un tono così
calmo da essere glaciale.
Kenpachi
si è commosso. Sembrava il nonno quando comincia a vedere dei
film d'amore alla “Via col Vento”. «Sono così
felice che esista ancora qualcuno che vuole ascoltare la storia del
mio paese! Mi sento onorato di aver incontrato tuo nonno! E tu,
Kenny, sei stato scelto dagli dei!»
Dubito
fortemente di essere stato scelto da chicchessia, anche se in un modo
o nell'altro, come dice il detto, se l'universo vuole che tu sappia
qualcosa, la saprai comunque. E anche Pan la pensava allo stesso modo
perché ha detto: «cazzate», e si è seduta
di nuovo. Credo che il fatto che fosse stato detto a me di essere
stato scelto dagli dei l'avesse convinta a fermarsi a farsi dare
quella lezione di storia che, fino ad un momento prima, aveva
denigrato con tutta se stessa. Mia sorella, anche se non sembra, è
un sacco vanitosa.
«Insomma,
dove ero rimasto? Ah, sì. Le truppe terrestri erano sempre più
numerose, soprattutto per stanare il grande esercito che,
inaspettatamente, si era formato sulle colonie, decise più che
mai ad avere la loro indipendenza. Sembrava che il numero di morti
dovesse aumentare a dismisura di giorno in giorno. Io, con alcuni dei
ministri terrestri, tra cui il ministro Darlian, ci siamo adoperati
per la pace: eravamo convinti che, continuando così, avremmo
risolto solo di distruggere le colonie e la Terra e che, allora, non
ci sarebbe stato più niente per cui prendersi la ragione e il
torto. Ci abbiamo provato.»
Il
nonno, in quel momento, ha cominciato a far tremolare il mento. Prima
ancora che potesse spiccicare una parola, si era aggrappato al collo
di Mizar e ha cominciato a piangere sonoramente, le lacrime così
copiose che uscivano a fontanella dai lati della spalla del mio nuovo
amico.
«La
Confederazione degli Stati Terrestri rese chiare le sue intenzioni
fin dai primi incontri: non avrebbe posto fine a questa guerra, a
meno che le colonie non si fossero arrese. Sotto il mio consiglio, il
Re Peacekraft, grand'uomo, pace all'anima sua, decise di rendere
legittime le rivendicazioni della fazione coloniale: erano giuste,
White Fang, la fazione coloniale, voleva l'indipendenza ed era giusto
concedere a quelle persone che non sentivano più nessun legame
con i loro fratelli terrestri, la libertà che meritavano.
Volevamo solo il dialogo. Ma la Confederazione non capì. Ci fu
un fraintendimento e... beh, avvenne il bombardamento. Fu uno scontro
senza precedenti. Il Sanc Kingdom non si aspettava un agguato e fu
spazzato via in un batter d'occhio. Migliaia di morti. Non ce la
facemmo ad armarci, il poco che ottenemmo fu di distruggere parte del
nostro armamento. Re Peacekraft...» Kenpachi non è stato
in grado di continuare. Avevo capito immediatamente dove sarebbe
andato a parare, ma non riuscivo a parlare, avevo la gola secca e,
anche adesso, mi sento un bel po' triste: per quanto ne abbia sentito
parlare poco, il Re del Sanc Kingdom doveva essere davvero un
grand'uomo. Mi sono ricordato di Trowa, di quando aveva usato quasi
le stesse parole per descrivere la situazione coloniale, durante il
primo giorno di caserma. Ricordo il litigio che ne venne fuori... ora
mi rendo conto che, forse, lui conosce bene questa storia, conosce
che cosa è successo al Sanc Kingdom ed è per questo che
vuole la libertà delle colonie.
In
quel momento di silenzio, neanche Pan ha avuto il coraggio di
parlare, il nonno continuava a piangere, Mizar rimaneva impettito e
dava ad intermittenza pacche sulle spalle del nonno per fargli
coraggio. Io guardavo Kenpachi e anche mia sorella. Aspettavamo tutti
che fosse pronto per finire la storia. E quando ha ripreso, la sua
voce ha fatto breccia nei nostri cuori come una pugnalata.
«Il
Re è rimasto ucciso dai bombardamenti. È morto nel
palazzo del Sanc Kingdom insieme alla moglie. La piccola
principessa...»
«No!»
ho gridato, pensando alla piccolina di cui Kenpachi ci aveva parlato.
Lui,
però, ha continuato come se io non l'avessi interrotto: «Di
lei si sono perse tutte le tracce. Nessuno sa dove sia. Alcuni dicono
che sia morta anche lei, ma non credo che sia così: non è
mai stato ritrovato il cadavere e... e voglio sperare che lei sia
ancora viva, da qualche parte e che sia felice, lontano dal ricordo
di quell'esperienza.»
Nessuno
ha avuto il coraggio di dire niente. Anche Pan si è trattenuta
dal fare commenti più aperti di uno scettico schiocco di
lingua. A volte mi chiedo se sia solo cinica o se sia solo un modo
per proteggersi da una storia straziante come questa.
«E...
e il principe Miliardo?» ho domandato, ad un tratto, quando ho
visto che Kenpachi non continuava. Lui ha sussultato.
«Miliardo.
Oh... quando è stato il momento della resa dei conti, quando
contavamo sul suo aiuto per... per risollevare le nostre sorti... lui
è sparito nel nulla, proprio come la sorella. Una gran brutta
storia.» ha scosso la testa e ho notato disapprovazione in quel
gesto, e lo stesso rammarico che ho già visto su quella parte
di volto che Marquise non nasconde dietro la maschera. «Era
solo un ragazzo, diamine! Cosa ci aspettavamo da un ragazzo?
Ammetto che, per un po', anche io ero arrabbiato con lui per non
averci saputo guidare. Il nostro paese è stato dilaniato e
distrutto. E questo servì alla Confederazione Terrestre per
stipulare la pace: il mondo e le colonie erano indignati da quanto
era stato fatto e la pace spuntò da dietro l'angolo; la Terra
arrivò a più miti consigli, dette qualche libertà
alle colonie, come contentino, ma niente di davvero significativo. La
ferita prodotta dalla distruzione del Sanc Kingdom fu così
forte da provocare questo. Ci furono pochi sopravvissuti, la maggior
parte dei quali, adesso, indossa una giacca come questa.» alzò
una spalla per farcela vedere. «Il simbolo dell'odio... e anche
del ricordo.»
Poi
ci guardò negli occhi, prima a me e poi a Pan.
In
quel momento riuscivo a pensare solo a questo: alla grande catena di
eventi che ci avevano portati lì, in quel momento, di fronte
ad un uomo che ci ha raccontato una storia che nessun altro aveva
fatto trapelare, neanche la Une, nelle sue lezioni di storia delle
colonie. Abbiamo passato diverse settimane sulla Confederazione degli
Stati Terrestri, ne conoscevamo a memoria gli stati membri –
adesso non ne sono tanto sicuro – e sapevamo tutto della guerra
e di come è scoppiata. La Une non ci ha mai parlato del Sanc
Kingdom, non sapevamo neanche che avesse avuto tanta importanza nella
fine della guerra, quando lei ci aveva fatto studiare dai libri della
caserma che “gli stati della Confederazione capirono che il
numero di morti era diventato troppo ingente e che urgeva la pace,
prima di distruggere il mondo intero e le colonie”. Tutte bugie
e mezze verità.
E
poi il destino mi aveva condotto da Marquise che mi aveva parlato dei
Suit. Non contento, poi, lo stesso destino, mi aveva messo in casa
Kenpachi, uno degli ultimi superstiti di uno stato di cui nessuno
parla.
«Beh...
e ora sapete tutto.»
Per
un attimo, siamo rimasti tutti in silenzio. Ero commosso. E il
pensare alla principessina Peacecraft, a cui quest'uomo grande e
grosso voleva bene, che poteva essere morta in un attacco
sconsiderato fatto solo per questioni di potere... Zack Marquise mi
aveva detto solo una parte della storia, ma anche per lui doveva
essere stato lo stesso molto doloroso. Forse l'aveva vissuto, e forse
era stato un amico del principe Miliardo o forse è uno di quei
diseredati che ancora vagano per il mondo, con una giacca come quella
di Kenpachi nascosta nell'armadio.
Poi
Pan ha rotto il silenzio: «Bah.» ha detto, quindi si è
alzata. «Allora, non andiamo a prenderci a pugni? Tutte queste
stronzate mi hanno messo addosso la voglia di mandare qualcuno al
tappeto!»
Tutti
quanti hanno scosso la testa, con aria di disapprovazione. Mentre io
sono rimasto fermo a guardare il pavimento.
Mi
sento come se il destino mi avesse raggiunto e messo un cappio al
collo, come se avesse voluto dare a me, per un motivo che mi è
ignoto, un peso che non posso sopportare e che non saprei neanche
come alleggerire. Forse Arale direbbe che non è compito mio
impicciarmi di questi affari. O magari si butterebbe a capofitto
nella soluzione... ma siamo solo ragazzini? Cosa ne sappiamo noi di
complotti internazionali?
******
Ebbene,
rieccomi. Non aggiorno da una vita perché... esami, vita
universitaria frenetica, lezioni, amicizie... argh. XD Finalmente ho
avuto un po' di tempo per mettermi qui e rivedere questo capitolo,
l'ultimo delle vacanze natalizie. Dal prossimo si torna in caserma e
si andrà avanti con tutta questa carne al fuoco. Ci vorrà
comunque ancora un po' per la fine, ma spero che ne valga la pena.
Alla prossima
|
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Capitolo 19 *** Un brusco ritorno ***
Le
lezioni al primo anno.
Un
brusco ritorno
|
2
Gennaio
Svegliarsi
alle sette del mattino, dopo aver passato quasi tutta la notte in
bianco, con le grida della propria madre e della propria sorella che
non vuole tornare in caserma non è quello che augurerei ad un
amico e, meno che mai, ad un nemico. Sulle prime avevo pensato ad un
incendio, sono balzato nel letto, urlando e con il batticuore,
spaventato a morte; ho tentato di scendere per darmi alla fuga, solo
per scoprire che il mio piede si era aggrovigliato nelle lenzuola
durante la notte, cosa che mi ha fatto fare un capitombolo sul
pavimento che ha fatto vibrare mezza casa. Insomma. Un inizio anno
niente male.
Ero
e sono di umore pessimo anche perché da domani dovrò
tornare a svegliarmi alle cinque del mattino. L'unica nota positiva
che sono riuscito a trovare in mezzo a tutto questo è che ho
potuto rivedere i miei amici, Arale, Frank e Alex; ma stamattina
proprio non ci riuscivo: quando stavo tentando un sorriso, cercando
di immaginare le loro facce alla notizia che avevamo un inquilino e
di tutto quello che ci era successo da quando ci siamo lasciati, mi è
sovvenuto che Arale aveva da darmi delle notizie su Frank e Alex e
che non aveva potuto darmelo per via dei telefoni sotto controllo.
Era questo a non andarmi: non volevo sapere se i miei amici erano dei
manigoldi o no. A me avevano assicurato di no e tanto mi bastava.
Ma
se poi Arale avesse avuto ragione? Il panico mi aveva afferrato,
mentre le coperte mi lasciavano definitivamente andare. Insomma, in
quel caso come avrei dovuto comportarmi?
È
stato papà a strapparmi dalle mie riflessioni. «Oh, sei
sveglio!» ha esclamato, come se questo potesse essere stata
davvero una sorpresa. Mio padre è sempre un po' sulle nuvole.
Ma si è accorto di ciò che ha detto, perché,
dopo un urlo sovrumano da parte di mamma, si è messo a
ridacchiare. «Beh, non è difficile, vero?»
Ho
scosso la testa.
«Dai,
vai a lavarti, che tra poco si parte.»
Stava
per chiudersi la porta alle spalle, quando l'ho fermato con un: «ehi,
pa'», prima di accorgermi che lo stavo effettivamente fermando.
Lui mi ha sentito e si è voltato a guardarmi con fare
interrogativo. La domanda è fluita dalle mie labbra come se
l'avessi sempre avuta in mente, pronta per lui, anche se io stesso,
un attimo dopo, mi sarei stupito dell'incredibile potere del
subconscio: «Ma se un tuo amico fosse un mafioso, tu come ti
comporteresti con lui?»
Papà
ha sollevato gli occhi verso il soffitto, come se fosse stata lì
la risposta. «Un mafioso?» ha ripetuto. «Non lo so.
Non ho mai avuto amici mafiosi.»
«Ma
se uno di loro lo fosse?» ho insistito.
Papà
si è grattato il naso. «Beh, cercherei di non chiedergli
favori. Ora vai a lavarti.»
Non
capisco cosa mi abbia voluto dire papà. Insomma, tutto qui? E
tutta quella paura della mafia, allora, perché? Sicuramente ha
minimizzato il problema, non può essere così semplice,
o Arale non sarebbe così terrorizzata. Probabilmente ha
semplicemente pensato che fossi troppo assonnato o intontito dalle
grida e non mi ha preso sul serio. Ero al punto di partenza. Ho
chiesto a Mizar, quando sono sceso al tavolo della colazione. Mamma e
Pan si erano trasferite fuori. La loro lotta, se solo il vicino si
fosse deciso a prendere una telecamera, avrebbe potuto finire in
Mondovisione.
«Un
amico mafioso?» ha ripetuto lui, proprio come papà. Mi
chiedo cosa chiedessi di così strano.
«Sì.»
ho risposto, paziente.
Lui
ha bevuto il suo caffè. «C'è il trabocchetto?»
«No,
ho solo bisogno di saperlo!» l'ho sollecitato. «Tu come
ti comporteresti?»
«Sinceramente?»
mi ha chiesto Mizar, guardandomi serio e attento. Ho drizzato le mie
antenne: stavo per avere una risposta concreta. Una vera risposta! E
non stavo più nella pelle.
«Ovvio!»
ho esclamato.
«Non
ne ho la minima idea.»
La
sua risposta è stata come una secchiata d'acqua gelida: mi ha
privato di tutta la forza e della voglia di continuare a mangiare.
Papà era fuori con loro a caricare i bagagli ed eravamo
rimasti solo io e Mizar, in cucina, a fare colazione con gli avanzi
delle feste.
«Ma
perché me lo chiedi?» mi ha incalzato.
Per
un po' sono stato riluttante a dirglielo, insomma... non succede
tutti i giorni di legare con qualcuno che è potenzialmente un
mafioso. Ma poi ho ceduto: il bisogno di parlarne con qualcuno di più
grande che potesse darmi un consiglio mi ha fatto vomitare tutto a
valanga. Ma ho dovuto riassumere molto, e non gli ho detto di tutti i
tentativi di Arale per estorcere informazioni alle persone che
conoscevano Alex da anni. Mizar mi ha ascoltato senza dire una
parola, poi ha cominciato a ridere.
«Ma...
che c'è da ridere?» ho chiesto, confuso.
«Scusa,
Kenny... è che... è la storia più incredibile
che abbia mai sentito!»
«Ma
è vera!»
«Lo
immaginavo.» mi ha rassicurato, posandomi una mano sulla spalla
ed elargendomi un sorriso. «Da quando conosco te e tua sorella,
ho capito che può succedere qualunque cosa. Comunque: io non
conosco questi ragazzi, ma mi sembra che tu ti fidi di loro, giusto?»
Ho
annuito. «Sono molto simpatici e gentili. Loro mi hanno
assicurato che non lo sono. Ma se Arale avesse scoperto qualcosa... e
i mafiosi non vogliono che la loro amicizia venga tradita, o ti
tagliano la testa!»
Mizar
ha scosso la testa. «Tu hai visto troppi film, Kenny. Dipende
da te, e da quello che vuoi. Se ti trovi bene con questi amici e sono
davvero tuoi amici, devi difenderli dalle calunnie a qualunque costo.
E se è vero che sono mafiosi, ma ti hanno mentito, allora
forse non meritano la tua fiducia. Sta a te, Kenny. È una
decisione che devi prendere da solo.»
«Ma
se poi...»
La
mia domanda mi è rimasta in gola: la mamma ha sbattuto la
porta del retro e il vetro ha tremato con violenza. Aveva la faccia
rossa, ma non solo per la rabbia, Pan deve averla picchiata e, a
giudicare da come aveva le mani, anche la mamma doveva aver picchiato
Pan.
Mizar
mi ha dato una pacca di incoraggiamento sulla spalla. «Passa un
buon semestre.» mi ha augurato.
«Kenny,
muoviti.» ha ringhiato la mamma, squadrandomi in cagnesco. Mi
sono alzato come un condannato pronto per il patibolo, ho ringraziato
Mizar per gli auguri e mi sono diretto pesantemente verso l'auto. Pan
era dentro, seduta, si dimenava, da quel che potevo vedere dalla
soglia della porta e mi chiedevo come mai ancora non avesse tentato
la fuga verso la portiera aperta che mi aspettava. Che la mamma fosse
riuscita ad incollarla al sedile? Ne dubitavo.
«Muoviti!»
mi ha ordinato ancora la mamma, dandomi uno spintone verso l'esterno.
«Non voglio fare questa brutta figura! Voglio che siate in
orario, il primo giorno! Non farmi ripetere quello che ho cominciato
con tua sorella!»
Non
volevo che lo facesse, sinceramente, così mi sono sbrigato ad
eseguire.
È
stato quando sono entrato in macchina, che ho capito perché
Pan si dimenava ma non usciva: era legata come un salame con la
catena delle ruote dell'auto, tra l'altro emetteva suoni animaleschi,
ma non gridava parolacce perché aveva una pezza di cuoio in
bocca.
Mi
dispiaceva per lei, davvero tanto: so quanto tenesse a rimanere da
nonno Satan e imparare le arti marziali, ma so anche che è
impossibile finché starà in caserma. Le ho dato delle
pacche sulle spalle, ma ho smesso quando lei mi ha dato una testata.
Il
viaggio è stato meno turbolento della prima volta: siamo
arrivati fino alla stazione degli autobus senza fare il pit-stop alla
polizia – un record, penso. Credevo che avrebbero slegato Pan e
che le avrebbero permesso di camminare da sola, invece mamma mi ha
ordinato di scaricare tutti i bagagli e a papà di prendere Pan
che, per tutto il viaggio, non aveva fatto altro che dimenarsi con
quelle catene addosso. Io non mi sono più avvicinato neanche
di un millimetro e neanche quando mi si stavano anchilosando le
chiappe. Ho preferito tenermi il formicolio.
«Sei
sicura, Videl?» ha chiesto papà.
E
mamma: «Gohan, non farmi alzare la voce, per favore!» e
credevo che non avrebbe potuto essere più alta di così.
Sospirando, mi sono limitato a fare quello che mi avevano chiesto.
La
stazione degli autobus erano pieni di ragazzi in uniforme nera,
proprio come quando siamo arrivati il 23 Dicembre. Sembrava passata
una vita e, invece, erano stati meno di quindici giorni. Ho dovuto
trascinare tutto da solo fino al piazzale centrale, dove speravo che
avrei incontrato i miei amici. La prima a incontrare è stata
proprio l'ultima che volevo vedere: Arale, che mi ha chiamato
gridando col suo solito entusiasmo e sbracciando felice. Mi si è
aggrappata al collo con così tanta foga che credevo mi sarei
ribaltato e che, insieme, avremmo provocato una valanga, portandoci
dietro un bel po' di nostri commilitoni. E immediatamente la cattiva
sensazione si è trasformata in contentezza: in fondo, era una
dei miei migliori amici.
«Come
va?» si è liberata di me e mi ha lanciato un'occhiata
critica. «Ho grandi notizie!»
«Sì,
beh...» ho sorriso, incerto. «Anche io.»
Arale
mi è sembrata subito molto più reattiva. «Oh,
anche tu hai fatto indagini su Alex e Frank? Bravo! Non me
l'aspettavo proprio! Questo sì che è il Kenny che mi
piace!» mi ha dato una pacca sul braccio che avrebbe potuto
spezzarmelo e si è messa a ridere.
Mi
sono portato la mano sul braccio, con una smorfia. «A dire il
vero... non proprio.»
«Oh,
e allora su che?»
Non
ho avuto il tempo di rispondere: è arrivato Heero. «Eccoli
qui, i miei primini preferiti.» ci ha salutati. Era sorridente,
rilassato e abbronzato. Doveva essere stato in un posto esotico per
le vacanze.
«Ciao,
Heero!» lo ha salutato Arale, con la stessa foga con cui ha
salutato me. «Ti vedo in forma!»
Lui
ha sogghignato. «E tu sprizzi gioia.» ha risposto. «Che
c'è? Trovato l'uomo?»
«Quale
uomo?» ho voluto sapere, immaginandomi che avesse anche
cominciato una caccia all'uomo per via di Alex e Frank.
Heero
ha fatto cenno di lasciar perdere.
«Ma
non dovresti essere già in caserma?» gli ha chiesto
Arale. «Insomma, tu sei un caporale!»
«Sì,
beh, è stato Natale per tutti.»
«Oh,
anche per la Une, eh?»
Heero
ha annuito. «Ovvio. Ma... Iccijojji, perché tua
sorella...» ha indicato col pollice alle proprie spalle. «è
legata con le catene dell'auto?»
Ho
guardato il punto da lui indicato e ho visto la scena più
assurda del pianeta: i miei genitori che, come gli indigeni delle
barzellette, portavano Pan – la mamma per i piedi e il papà
per le spalle – ancora incatenata e ringhiante e si dimenava
come un'anguilla.
È
stata la scena più umiliante di tutto il trimestre, anche
perché tutti i nostri commilitoni, che ci conoscessero o no,
li hanno additati e qualcuno, compresa quell'antipatica di Bra, ha
fatto delle foto e sogghignava in modo maligno.
Già
mi immaginavo, per il giorno dopo, un cartellone pubblicitario, in
caserma, che ritraeva quella scena impietosa.
Sono
quasi sicuro – e la mamma lo sarebbe ancora più di me –
che ne avesse mandato una copia a sua madre, Bulma. Non so perché
lei e la mamma non si sopportino, fatto sta che certe cose non si
potranno mai cambiare e che anche Bulma si farà grasse risate
alle nostre spalle.
Persino
Arale rideva.
L'unico
– e gli sono grato per questo – che non rideva era Heero,
ma guardava la scena con l'aria di non aver mai visto niente di
simile. «Non l'ha presa bene, eh?» ha capito.
«Per
niente. Il nonno le aveva promesso di vivere nella sua palestra e di
non dover andare a scuola.»
«Il
sogno di ogni adolescente...» ha replicato lui, sarcastico.
«Ma
non lo so, Heero...» ha ribattuto Arale, portandosi una mano
sotto il mento.
Lui
non ha risposto, ha sollevato una mano. «Beh, ora vado. Credo
di dover fare la mia parte per il servizio d'ordine.» e detto
questo se n'è andato. E mentre lui spariva tra la folla, io
cercavo di sondarla per ritrovare Alex e Frank: in quel momento,
avrei voluto che fossimo tutti insieme. Ho idea che anche Alex
avrebbe riso della scena, se ci fosse stato, mentre Frank no. Per
certi versi, lui è molto simile a Heero. Ma nessuno dei due
era nei paraggi. Ho, invece, incrociato lo sguardo di Ryan Shirogane,
il proprietario del Caffè Mew Mew, ma non aveva una buonissima
cera e, quando mi ha salutato, la ragazza dai capelli rosa di nome
Strawberry gli ha fatto il terzo grado per sapere chi avesse o meno
salutato e perché. Povero Ryan, con una ragazza del genere,
sarebbero tutti un po' stressati.
In
quel momento, mi sono chiesto chi mai sarebbe stato il povero diavolo
disposto a sopportare mia sorella, ma, proprio mentre lo pensavo, una
vocina nella mia testa mi ha detto che, dopotutto, anche la mamma
l'aveva trovato, il suo povero diavolo, e non c'era nessuno migliore
di papà. Ho sorriso: c'è speranza per tutti.
«Vieni,
Kenny!» ha esclamato Arale. «Ti devo aggiornare!»
Mi
ha preso per mano, ma non ha fatto in tempo a trascinarmi via che un
grido («Guardate! Una limousine!») ci ha fatto voltare
verso la direzione in cui tutti si erano già girati prima di
noi. C'erano diverse dita puntate e molti sguardi ammirati e così
abbiamo visto anche noi la limousine nera che veniva parcheggiata
poco fuori dallo spiazzo dove eravamo parcheggiati noi studenti. Ne è
uscito un ragazzo coi capelli castani molto alto, e l'ho riconosciuto
subito: è lo stesso ragazzo maleducato che, il primo giorno,
non ha degnato Arale di uno sguardo quando lei voleva chiedergli dove
fosse la biblioteca. Non ho mai saputo il suo nome, benché lo
abbia visto più volte gironzolare per i corridoi.
«Oh,
eccovi finalmente!» a dirlo era stato Frank. Ci siamo voltati
di nuovo e l'ho visto.
«Frank!»
ho esclamato. «E Alex!» il nostro amico, sudicio come
sempre, era proprio lì accanto e si stava togliendo una
caccola dal naso in modo alquanto determinato. Solo quando ha finito,
ha sorriso, si è appiccicato la caccola ai pantaloni e ha
sollevato la mano per salutare.
«Come
va?»
Li
ho abbracciati tutti e due, in barba alla caccola, ma da Alex mi sono
ritirato subito perché il suo odore sembrava essersi fatto
ancora più fetido. «Visto lo spaccone?» mi ha
chiesto, ma non avevo capito di chi stesse parlando.
Frank
ha indicato con un cenno della testa il ragazzo maleducato. «Seto
Kaiba.» ci ha detto.
«E
tu come lo conosci?» ho chiesto, proprio mentre Arale diceva:
«Che gran pezzo di gnocco!»
«E'
solo una testa di cazzo.» ha dichiarato Alex, come se fosse
assodato.
«Perché?»
ho voluto sapere.
«Ma
perché ce l'ha la faccia da testa di cazzo.» ha risposto
lui, come se avessi dovuto pensarci da solo. «Mi fa schifo solo
perché è ricco da fare schifo. A parte Frank, non c'è
un ricco che valga la pena di essere smusato dal sottoscritto. Sempre
che non debba essere derubato, è ovvio.»
«E'
ovvio.» ha ripetuto Arale, acida. Se cominciavamo così
eravamo davvero ad un passo dalla fine. L'ho guardata, cercando di
capire che cosa avesse in mente, ma lei si era aggrappata a Frank.
Gli occhi le brillavano con fare maniacale; a volte credo che mi
faccia più paura lei di Pan.
«Insomma?
Che cosa sai di quel Seto Kaiba? Voglio sapere tutto! Non tralasciare
neanche la taglia delle sue mutande!»
Frank
ha ridacchiato, in imbarazzo, mentre Alex ha riso di cuore. Tutto
come al solito. «Quella non la so.»
«Beh,
allora cosa sai? A quale titolo? Come lo conosci?»
Io
e Alex, l'uno di fianco all'altro, guardavano quell'interrogatorio
con gli occhi sbarrati. «Secondo te, tra poco lo tortura?»
ho chiesto.
«Non
parlare di torture, Kenny, tra poco rivedremo Sark!»
Nel
sentire quel nome ho deglutito: Sark era l'ultima persona che mi
andava di rivedere, effettivamente. Persino la Une era più in
alto, nella lista delle mie simpatie. È anche vero che Sark mi
ha salvato dall'amputazione della mano, ma il suo solo sguardo mi
mette i brividi.
«Dai,
Frankie, non farti pregare!» stava pregando Arale, a dispetto
delle sue stesse parole.
«Ma
che ti devo dire? Il suo patrigno è il presidente fondatore
della Kaiba Corporation.»
«E
che cazzo è?» ha domandato lei.
Frank
si è liberato della sua morsa stritolante. «E con quella
bocca baci tua madre?»
«A
dire il vero non ci vediamo poi molto.» ha risposto Arale,
alzando le spalle. «Dai, avanti, che è la Kaiba
Corporation?»
«E'
un'azienda che produce armi. La più grande industria bellica
di tutto il Giappone. Costruisce i suit ed è tra le aziende
finanziate direttamente dal Ministero della Difesa. È la Kaiba
che fornisce i suit e tutte le armi che ci sono in questa caserma.»
«E
cosa ci fa qui, suo figlio?» ho domandato, stupefatto.
«Beh,
Seto, all'inizio, doveva ereditare l'impresa. La storia è
lunga, ma ve la faccio breve: Gozaburo Kaiba, il presidente attuale
dell'azienda, non aveva figli e quindi aveva pensato di adottare un
ragazzino per istruirlo e farlo diventare il futuro Kaiba. Così
ha trovato Seto. A quanto sembra, è un piccolo genio, tanto
astuto da vincere una partita a scacchi per garantire che anche il
suo fratello minore potesse essere adottato con lui.»
Arale
ha sgranato gli occhi. «Oh, bello, alto e pure intelligente!»
ha sospirato, languida. «E' la perfezione fatta persona.»
«E'
una testa di cazzo.» ha ripetuto Alex.
«La
perfezione?» ha domandato lei, perplessa.
«No,
Seto Kaiba!»
Frank
ha fatto un cenno per chiedere attenzione. «Non vuoi sapere
come finisce, Arale?»
«Sì,
certo.»
«Beh,
qualche anno dopo aver adottato Seto e Mokuba, il fratello minore, la
mogliettina di Kaiba gli sforna un figlioletto. Si chiama Noah, ma se
devi parlare con Seto, non nominarglielo, perché gli sta sulle
palle.»
Arale
ha tirato fuori un taccuino da non si sa dove e ha segnato la cosa.
«Bene, bene. E poi?!»
«Niente
di che: Gozaburo ha deciso che doveva essere Noah il vero erede della
Kaiba e ha relegato Seto in un angolino. Lo ha spedito in caserma per
liberarsi di lui, o almeno così si dice nell'alta società.
Secondo mio padre, invece, lo ha fatto per intenzioni non meglio
precisate: Gozaburo non è uno che fa le cose per caso. Ha
sempre uno scopo, ed è viscido come una serpe. Secondo me,
Arale, dovresti fare attenzione a Seto Kaiba: potrà anche
essere il rampollo decaduto, ma non devi dimenticare che è
stato allevato da un uomo che, non appena ti volti, ti incula a
sangue e che non si fa nessun tipo di problema a prendere e a dare
mazzette, se questo gli servisse.»
«Ehi,
Frankie, chi è che deve baciare sua madre, ora?» ha
sogghignato Alex. «Lo sa, lady Kushrenada, che sei così
sboccato?»
Frank
gli mostrato il dito medio.
«Mazzette?»
ha domandato, invece, Arale. Ho visto i suoi occhi saettare verso di
me. «E ha contatti anche con la mafia?»
Frank
ha annuito. «Si pensa proprio di sì.»
Arale
mi ha lanciato un'altra occhiata eloquente e io, più in
imbarazzo che mai, mi sono voltato verso l'autobus su cui mamma e
papà hanno scaricato Pan. La mamma stava scendendo e si stava
pulendo le mani l'una sull'altra con l'aria di non aver mai fatto
niente di più soddisfacente in tutta la sua vita.
«Forse
è meglio se ci scegliamo i posti...» ho detto. «Così
stiamo tutti insieme.»
Alex
era d'accordo con me. «Buona idea!» ha esclamato, con un
sorriso. Poi ha preso Frank per le spalle. «Andiamo, amico, ho
voglia di ascoltare tutte le parolacce che hai imparato durante
questo periodo di lontananza. Poi ti insegno a fare il rutto più
lungo del mondo!»
Stavo
per seguirli, perché ero proprio curioso di sapere come si
facesse a fare il rutto più lungo del mondo, quando Arale mi
ha fermato tenendomi il braccio con entrambe le mani e mi ha
costretto a girarmi verso di lei.
«Secondo
te, come faceva Frank a sapere della mafia e di Gozaburo Kaiba, se
lui stesso non è invischiato in queste cose?» mi ha
chiesto, con aria severa.
«Arale...
sono i miei amici e io mi fido di loro!»
«Beh,
non dovresti! Lo vuoi sapere che cos'ho scoperto?» mi ha
guardato a lungo, ma quando ha visto che non avevo intenzione di
starle dietro, ha sbuffato. «Te lo dico lo stesso: sono stata a
Tokyo, in questi giorni, e così sono andata in tribunale.
Volevo scoprire qualcosa di più su come mai Alex è
finito in prigione, ma sono troppo piccola per questo e così
il tipo che custodisce gli atti mi ha mandata via, così sono
tornata con mia cognata, sai, è una pettegola.»
«Sì,
okay, ma...» mi sono guardato indietro. I nostri amici si erano
allontanati senza curarsi di noi e Frank stava ridendo di una battuta
di Alex. Avrei preferito di gran lunga essere con loro, in quel
momento, non ascoltare le cattiverie di Arale. Mizar ha ragione: se
io voglio stare con loro, e se mi fido di loro, non ho ragione di
credere alle dicerie.
«Comunque...
il punto è questo: Alex è qui perché gli hanno
fatto uno sconto di pena. Proprio così: Kushrenada ha deciso
che, invece che in carcere, avrebbe scontato l'accusa di rapimento in
caserma. E poi senti che famiglia: il padre è un certo Robert
Ramazza che sta in galera, ma nessuno l'ha più visto da anni,
latitante probabilmente, senti quello che ti dico io; la madre è
la tenutaria di un bordello che è entrata e uscita di galera
non si sa quante volte, e i suoi fratelli, Martin e James, gestiscono
un traffico di autoradio rubate. Se ne stanno a Tokyo, in un
quartiere malfamato e anche loro vanno e vengono di prigione. Che te
ne pare?»
«Mamma!
Papà!» ho gridato e così ho evitato di rispondere
che cosa me ne pareva, perché mi pareva solo che Arale fosse
solo riuscita a gettare fango su Alex più di quanto non avesse
fatto nel primo semestre.
I
miei si sono accorti di me, ma per fortuna non di quello che mi
passava per la testa.
«Oh,
il mio bambino!» la mamma mi ha stretto e baciato ovunque tanto
che, dopo, sembrava che una lumaca mi avesse camminato in faccia. È
stato umiliante, oltre che disgustoso. Ho preferito l'approccio di
papà: una pacca sulla spalla e un «Buona fortuna»,
all'umidità di mamma, che continuava a piangere. «E, mi
raccomando,» mi ha detto lei, prima di lasciarmi andare.
«prenditi cura di tua sorella... e di' alla cara lady Une di
slegarla soltanto quando sarà ben sicura che non possa
scappare... me lo prometti, tesoruccio della tua mamma?»
Mi
sono limitato ad annuire: meglio non commentare, certe volte. Sono
corso sull'autobus, dove Arale mi aveva tenuto un posto al suo
fianco. Sfortunatamente, eravamo lontani da Alex e Frank che erano in
fondo, insieme a Bra e alle sue tre amiche che li avevano separati in
modo che non potessero stare vicino.
Mimi
e Sora avevano incastrato Alex tra di loro e non sembravano troppo
contente della cosa, mentre Bra giocava con i capelli tinti di
azzurro e sorrideva, ammiccando, verso Frank che era così a
disagio da stare talmente composto da sembrare un pezzo di legno.
Arale
ha fatto una smorfia. «Non appena li hanno visti, li hanno
agguantati.» ha spiegato. «Bra vuole fare la gattamorta
con Frank... beh, che se lo tenga. Meglio, così abbiamo più
tempo per noi.»
Ma
io ho cercato Pan, che occupava due sedili e continuava a muoversi e
a gridare attraverso il bavaglio di cuoio. Mi chiedevo se non fosse
il caso di toglierglielo, quando Arale, notando la direzione del mio
sguardo, ha aggiunto, come leggendomi nel pensiero: «Io la
lascerei così. Lasciala sbollire. Tanto prima di arrivare in
caserma si calma! Siediti, dai!»
Mi
sono sentito un po' in colpa, ma che altro potevo fare? Se le avessi
tolto quel bavaglio, forse mi avrebbe sbranato.
«Insomma,»
ha continuato la mia amica, pronta a ricominciare a parlare dei
nostri amici. «hai capito che bella famiglia che ha, Alex?»
«Sì,
ma non c'entra niente con la mafia!»
«E
cosa ne sai?» ha replicato lei, tutta offesa. «Robert
Ramazza è latitante! Probabilmente tiene per le palle
Kushrenada per qualche motivo. Secondo te, perché Alex sarebbe
finito in caserma e non in un istituto di correzione, dove doveva
stare?»
«Ma
perché era piccino!»
«E
perché Robert Ramazza lo tiene per...»
«E
va bene.» l'ho interrotta. «Ma... non parliamone più.
Sono nostri amici e non c'entrano niente con i casini dei loro papà,
no?»
«Sarà...
ma i figli finiscono per somigliare ai padri, si dice...»
«Mah,
non saprei.»
«Nemmeno
io, a dire il vero.» ha risposto lei, facendosi pensierosa. «Di
certo, se lo fosse, il mio doveva essere davvero un coglione! Tu non
hai idea di come sia mio fratello, certe volte! Per esempio, ieri...»
e ha finito di raccontarmi una strana storia che la riguardava,
secondo cui Sembei, il fratello di Arale, una volta, aveva tentato di
costruire un robot femmina capace di sostituire una moglie in tutto e
per tutto, anche per gli atti fisici, qualunque cosa voglia dire.
E,
dopo mezz'ora di viaggio, quando ormai eravamo in autostrada e io
credevo che si fosse dimenticata di tutta la faccenda di Alex e
Frank, mi ha detto: «Comunque, ti capisco: per una buona
copertura, non c'è niente di meglio che la segretezza. Se tu
sapessi qualcosa, potresti tradirti e, in fondo, tu sei così
incapace di mentire...» mi ha anche sorriso. «Ti
appoggerò, Kenny. Fidati di me! Faremo in modo che non
sappiano che noi sappiamo!»
«Sei
senza speranza.» le ho risposto. E lei si è limitata a
ridacchiare.
3
Gennaio
E'
stato bello rivedere tutti gli altri, nella nostra vecchia camerata,
prima di dirigerci a cena. Pacche e abbracci si sono sprecati,
insieme con i racconti delle nostre vacanze. Tutti hanno fatto un
sacco di cose divertenti e non me la sono proprio sentita di dire che
il luogo più esotico che abbiamo visitato noi è stato
il penitenziario. Solo Matt non ha partecipato: ha fatto in tempo ad
arrivare che si è già sentito male e per Bra, Mimi e
Sora che, non appena sono entrate, hanno detto: «Meno male che
c'è Frank in questa classe, altrimenti sareste tutti degli
sfigati!»
Alex
le ha mandate a quel paese, soprattutto dopo che ha dovuto sorbirsi
un intero viaggio senza che nessuna delle due amiche di Bra si
fossero degnate di parlare con lui, anche quando lui ha provato ad
attaccare bottone. Intanto Bra ha continuato ad appiccicarsi a Frank,
ma dal mio posto non sono stata in grado di capire che cosa volevano
e Alex era stato troppo impegnato a sbuffare e spazientirsi con
quelle due per captare anche solo qualche parola e Frank, quando gli
abbiamo chiesto, ha detto solo che erano tutte cazzate.
«Guarda,
Ramazza,» ha risposto Bra. «non ti rispondo neanche. E
tu, Iccijojji, l'hai liberata tua sorella?» e si è messa
a ridere.
A
liberare Pan, però, è stato l'autista, e questo mi ha
permesso di evitarmi un livido e un occhio nero già il giorno
prima dell'inizio delle lezioni. È stata calma, si è
fatta togliere le catene e la pezza di cuoio dalla bocca e poi ha
preso tutte le catene e le ha spezzate con la sola forza bruta.
Peccato per il povero autista, che ha dovuto passare la notte in
infermeria.
Quando
è scesa dall'autobus, tutti le sono stati lontani. Quelli
della nostra classe che hanno provato a salutarla, hanno ricevuto una
sola risposta: «Muori.» con la variante per Joe: quando
ha tentato di declamare un'ode al ritorno in caserma, Pan lo ha
zittito con un: «Ma vaffanculo, coglione!»
Comunque,
sono preoccupato per un altro motivo: le lezioni di chimica che
sostituiscono teoria dei gradi e, quindi, anche lady Une. Ieri sera
c'è stato un vero tripudio al nostro tavolo, quando abbiamo
ricevuto i nuovi orari. A dire il vero, l'unica cosa che è
cambiata rispetto al trimestre scorso è proprio teoria dei
gradi, perché continuiamo ad avere attività fisica dopo
colazione e dopo pranzo, e Jack Bristow alla prima lezione del
lunedì. Continuiamo anche a fare geografia con la Noin.
«Con
la Noia!» ha esclamato Alex, che ha preso una penna e ha
modificato tutte le enne finali del nome della Noin e le ha
sostituite con una a.
Pan
se ne stava con le braccia incrociate davanti al petto e guardava la
busta che le era stata presentata davanti al piatto con l'aria che
quella fosse la causa di ogni suo male. Non ha neanche risposto a
Ernesto Taylor che ha alzato un pollice entusiastico in mia
direzione, e io non ho potuto fare molto altro che alzarlo a mia
volta, molto meno convinto di quanto fosse lui. Dovrò
chiedergli che ci trova in mia sorella, prima o dopo...
«Secondo
me, è masochista.» ha dichiarato Alex, questa mattina,
quando lo abbiamo visto passare, mentre cercava in tutti i modi lo
sguardo di una furibonda Pan che, come ieri sera, non ha toccato
cibo.
«Pan...»
l'ho chiamata, e le ho messo dei corn flakes davanti. Dei problemi di
Ernesto, in quel momento, non mi importava molto. Era molto peggio
vedere Pan in quelle condizioni. «Devi mangiare qualcosa,
oppure non riuscirai a seguire le lezioni, oggi.»
«NON
ME NE FOTTE UN CAZZO DELLE LEZIONI!» ha gridato Pan, poi mi ha
rovesciato la tazza coi corn flakes sulla testa e questi mi sono
svolazzati davanti agli occhi a mo' di fiocchi di neve. A dire il
vero, è un grande paragone, perché ancora mi chiedo
come al soffitto non siano attaccate delle stalattiti di ghiaccio,
per quanto fa freddo, in questa caserma. Prima della fine delle
lezioni avevano sicuramente spento i riscaldamenti, ma adesso sembra
si siano dimenticati di riaccenderli.
La
Une, benché metà del nostro tavolo e metà di
quello dietro, si fosse voltato per guardare nella direzione di
quello degli insegnanti, sembrava troppo presa dalla sua discussione
con Sark per rendersi conto di qualunque altra cosa.
«Già,
già...» ha risposto Arale, pronta a scacciare la
questione. Ha preso dei corn flakes dalla mia testa e se li è
piazzati in bocca senza troppe cerimonie. Si è girata
dall'altra parte. «Allora, Alex, dicci un po', chi è
l'insegnante di chimica?»
Frank
si è chinato su di me. «Scommettiamo che non lo sa?»
mi ha chiesto, piano.
Io
non ho detto niente, dubbioso, ma quando il nostro amico ha guardato
verso il tavolo degli insegnanti, ha sollevato le spalle e Frank è
scoppiato a ridere, mi sono dovuto ricredere.
«A
me la chimica faceva schifo anche alle elementari. Ci cappa cappa,
acca ci elle... ma che cazzo è? Se vuoi chiamare una cosa con
un nome, perché gli devi dare delle abbreviazioni e metterle
in quelle tabelle periodiche? Ma perché periodiche, se poi non
si ripete niente? Cioè, capite? E poi... vogliamo parlare dei
laboratori di chimica? Ce n'è uno grosso, qui, a questo piano,
dietro gli hangar di volo ed pieno di roba strana, cartine che non si
possono fumare e che si colorano se ci metti sopra le cose... e
quindi non ho mai seguito neanche questo corso...» ci ha
spiegato, tutto d'un fiato. Sembrava demoralizzato. «Se penso
che quest'anno devo pure seguire e devo passare, se voglio passare
all'anno successivo... che palle, ragazzi, non ci voglio stare un
altro anno, al primo.»
Arale
gli ha dato una pacca sulla spalla. «Dai che non è così
difficile come sembra!» ha cercato di tirarlo su di morale. Mi
chiedo come fa a fare finta così bene, se non si fida di lui.
«Sì,
ci daremo una mano a vicenda.» ha annuito Frank. «Come
abbiamo fatto lo scorso trimestre.»
«Eh...
sì, intanto dicono che l'esame di chimica, alla fine
dell'anno, è il più difficile e che quella che lo
insegna è più troia della Une.» il nostro amico
Alex era proprio giù. «No, ragazzi, tanto ho capito che
anche quest'anno mi tocca vedere il mio nome tra i bocciati!»
«E
dai, Alex, non essere così pessimista! Lo scorso trimestre hai
preso dei buoni voti!» gli ha fatto notare Arale.
«Sì,
ma quanto pensi che dura? Anche l'anno scorso ho preso qualche buon
voto, eppure... guardami qua!»
«L'anno
scorso la Une ti ha messo mai un sei?» gli ha domandato Frank.
«No,
ma che c'entra? Lei è una e gli insegnanti sono tanti!»
«Da
quello che so, alla fine è lei che ha l'ultima parola.»
«E
poi magari non andrà male. Dai, Alex.» l'ho consolato
anch'io, ma lui ha alzato le spalle.
«L'anno
scorso non hai seguito un cazzo!» ha esclamato Arale.
«Quest'anno, invece, non hai saltato un giorno.»
«Infatti.»
ho annuito.
Alex
non ha risposto. Era proprio inconsolabile, questa mattina.
Mi
sono girato verso Pan, allora, per vedere cosa ne pensasse lei, ma
era semplicemente scomparsa. L'ho cercata nella sala e l'ho vista che
si allontanava verso l'uscita.
Mi
sono alzato anche io, allora. «Ci vediamo dopo dal Salvini.»
ho detto e le sono corso dietro. «Ehi, Pan!» l'ho
chiamata, ma non mi sono stupito, quando lei ha semplicemente
continuato a camminare come se niente fosse stato. Tipico, ho
pensato, però, ho continuato ad andarle dietro correndo finché
non sono riuscito a raggiungerla. Stava direttamente uscendo dalla
porta principale, dalla quale eravamo rientrati dopo l'alzabandiera.
Lei si era presentata con tutti gli altri, ma non ha cantato neanche
una nota e, anzi, ha avuto lo sguardo perso nel cielo ancora scuro
per tutto il tempo. «Pan, dove stai andando?» ho
insistito. «Tra poco iniziano le lezioni!»
Fuori
faceva più freddo che dentro.
Lei
si è fermata e si è girata verso di me. Mi guardava in
cagnesco. «Non mi rompere il cazzo, paramecio. Torna dentro a
fare le tue belle lezioni, se ci tieni tanto. Io devo fare una cosa
e, se tu provi a fermarmi, io ti spacco il culo. Con un tubo di
ferro, hai capito?»
«Ma,
Pan...» ho insistito, cercando di scacciare con forza dalla mia
mente l'immagine del tubo di ferro nel mio deretano.
«Ma
Pan un cazzo!» ha sbraitato lei. «Io non ci volevo
tornare qui! Io volevo andare da nonno Satan e non me ne frega una
sega se tu sei la spia della mamma e le vai a dire che io qui non ci
studio! Non ci voglio stare! Io non ce li passo i sette anni più
bella della mia vita qua dentro! Io voglio picchiare la gente, non
diventare un fantoccio da sacrificare a una fottuta causa che non so
quale è! Quindi, adesso, fottuto paramecio, se non te ne vai,
io ti frantumo i coglioni!»
«Ma
cosa vuoi fare? Dimmi almeno questo! Non c'è modo di scappare
da qui, Pan! Siamo nel bel mezzo del nulla! E se lo fai ti riprendono
e ti spediscono di fronte a un giudice! Dai... la mamma ci rimarrà
male!»
«ME
NE SBATTO IL CAZZO!»
Ho
sospirato. «E allora che cosa vuoi fare?»
Lei
mi ha scoccato un'occhiata torva. «Non hai detto che qui ci
sono dei cosi che volano?» ha detto, dopo un po', come se fosse
stata una domanda retorica. «Prenderò uno di quelli,
così me ne torno da nonno Satan e, se qualcuno prova a
fermarmi, gli sparo un colpo.»
«Cosa?»
per un attimo, sono rimasto disorientato, ma quell'attimo è
bastato perché lei se ne andasse nella direzione che aveva
guardato per tutta la durata dell'alzabandiera. «Pan! Non puoi
andare da quella parte! Non puoi rubare un Mobile Suit!»
Lei
non mi ha detto perché poteva farlo o perché no. Si è
semplicemente girata e mi ha mandato a fare in culo con un gesto del
braccio. Ho capito che l'avrebbe fatto comunque, che io fossi stata
con lei che se me ne fossi andato. Così ho preferito andare
con lei, così avrei potuto fare opera di convincimento strada
facendo. Lei si era già voltata, quando ho fatto il primo
passo.
«Seguimi
e ti strappo la faccia!» mi ha minacciato. E ha cominciato a
correre verso gli hangar di volo, dove si trova anche Pioggia di
Fuoco. Comincio a pensare che quella storia raccontata da Kenpachi le
sia piaciuta più di quello che pensavo.
«Ma
Pan!»
«Kenny?»
si è voltata e ha sfoderato i suoi pugni. «Se non vuoi
che ti mandi in infermeria e farti mettere una nota dalla tua adorata
Une, perché non te ne vai? Vedi che se ti ostini a seguirmi,
ti faccio saltare tutti i denti e ti strappo la faccia. A morsi.»
Ammetto
che la cosa mi ha inquietato più del tubo di ferro nel sedere,
ma so anche che Pan è bravissima a mantenere le promesse.
Abbiamo continuato a fissarci per un po'. Non so a cosa pensava lei,
forse al punto migliore per cominciare a mangiarmi la faccia, ma io
pensavo a come fermarla senza andare a denunciarla ad un insegnante.
Ho pensato a tutti, da Sark a Zack Marquise... ma sapevo che il
risultato sarebbe sempre stato lo stesso. No. Sapevo da chi dovevo
andare. Così ho fatto dietrofront.
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Capitolo 20 *** Pan vuole scappare... e Arale non vuole mollare ***
Le
lezioni al primo anno.
Pan
vuole scappare... e Arale non vuole mollare.
|
Sono
arrivato nello spogliatoio dove gli altri si stavano cambiando. Alex
era ancora in mutande e, piuttosto incavolato, stava parlando di Bra.
«Io te lo dico, Frankie, quella lì ti vuole dare una
bella ripassata di anatomia. È da ieri che ci prova. Ancora un
po' e ti si presenta nuda nella doccia!»
«Ma
noi non studiamo anatomia.» ha commentato Matt. Avrei obiettato
anch'io così, se non fosse stato che avevo il fiatone e avevo
un problema più urgente.
Alex,
però, non si è accorto di me e si è girato verso
Matt. «Ishida, rubi le battute a Kenny?» e, a dispetto
del suo malumore, ha cominciato a ridere. «Te lo ricordi,
Frank? Ma che vuol dire limonare? Ah, è troppo
divertente! Ah, Kenny, sei qui!» ha aggiunto, quando mi ha
visto. «Dov'eri finito?»
«Già,
non vorrai arrivare in ritardo alla prima lezione!» ha
esclamato Trowa, con una certa severità.
Ho
dovuto fare altri due profondi respiri prima di poter parlare: «Pan!»
è stato tutto ciò che ho esclamato, con una certa
agitazione, ma gli altri non hanno colto. Hanno improvvisamente perso
interesse, come se avessi disatteso tutte le aspettative. «Pan
sta andando a rubare un Mobile Suit!»
Trowa
ha alzato la testa, Alex che stava indossando i pantaloncini si è
fermato, Frank si è fermato con la mano sullo sportellino
dell'armadietto e ha girato la testa guardandomi da sopra il braccio.
Matt non ha dato segno di vita, gli altri hanno interrotto
l'annodamento delle stringhe delle scarpe da ginnastica. Poi sono
scoppiati tutti a ridere contemporaneamente. Alex era quello che si
stava divertendo di più: si è piegato su se stesso e ha
cominciato a battersi il palmo della mano sul ginocchio.
«Ma...
ma...» ero senza parole. «Ragazzi!» li ho
richiamati. «Pan sta per rubare un Mobile Suit!»
Alex
ha dovuto aspettare che la crisi di risate gli passasse per venire
verso di me. Mi ha dato una pacca sulla spalla e, ancora
ridacchiando, si è tolto una lacrima dall'angolo dell'occhio.
«Sei uno spasso, amico mio!»
«Oh,
Iccijojji, ma secondo te dove lo va, tua sorella, a prendere un
Mobile Suit?» Trowa aveva un sorriso che somigliava di più
ad un ghigno e mi parlava come se fossi un completo cretino.
«Sta
andando verso l'hangar!» ho gridato. Mi sembrava importante far
capire la gravità della situazione, ma tutti avevano quello
strano sorriso, come se li stessi prendendo in giro. «Ha detto
che vuole scappare e che sparerà chiunque provi a fermarla!»
Alex
si è passato le mani sul viso, secondo me per riprendere
contegno, più che per vera disperazione.
«Dobbiamo
fare qualcosa! Se non facciamo qualcosa, rischia di essere espulsa!
Ragazzi! »
Tai
ha sogghignato. Joe, invece, ha sbuffato. «Non sarebbe male,
sai?» ha detto. «Finalmente ci libereremo di quella
maniaca che non capisce niente di arte!»
«Ma
se facesse del male a qualcuno...» ho insistito.
Frank
era l'unico che era rimasto più serio di tutti ed è
stato lui a parlare: «Ken, qui dentro le mura dell'accademia
non ci sono Mobile Suit funzionanti. Gli hangar di volo sono più
che altro delle officine dentro cui si aggiustano i Mobile Suit,
figuriamoci se li tengono, dove ci sono gli alunni. Ci fanno lezione
gli ultimi anni. Pensi che Pan potrebbe, anche con tutta la buona
volontà, e avendo anche la fortuna di trovarne uno
funzionante, prenderlo così o saperlo manovrare? Ci vogliono
anni di addestramento per guidare uno di quei cosi. Io starei
tranquillo, fossi in te, e mi cambierei per la lezione.»
Mi
sono grattato la nuca, dubbioso. «E se lei ci riesce?»
mia sorella mi ha sempre stupito. Non c'erano motivi per cui non
potesse avere la fortuna di trovare un Mobile Suit funzionante,
pronto per tornare ai depositi dove stanno le armi che vanno, e di
azionarlo in qualunque modo. E non tanto per farlo volare, o qualcosa
del genere, ma perché potrebbe innescare un'esplosione e
andarci di mezzo anche lei. «E se lo trova?»
«Senti,
se riesce a trovare un Mobile Suit che funziona» ha detto Alex.
«e lo aziona in qualunque modo, io vado nudo nell'ufficio della
Une. Te lo giuro. E poi vado a baciare la Noia sulla bocca.»
Non
mi ha consolato. E vedere gli altri che annuivano e fischiavano la
loro approvazione non mi ha fatto per niente piacere. Ho spinto via
il mio amico che mi sbarrava l'uscita e ho cominciato a correre in
direzione dello spogliatoio delle ragazze: se c'era una cosa di cui
ero sicuro era che Arale non mi avrebbe riso in faccia come i
ragazzi.
E
il destino, una volta tanto, mi ha favorito. Proprio mentre stavo per
imboccare il corridoio che portava allo spogliatoio, le ragazze mi
sono comparse davanti, tutte in pantaloncini e maglietta. Bra stava
bevendo da una borraccia e, proprio mentre stava per riporla, invece
di coprirla col tappo, se l'è versata sulla maglietta. Poi ha
cominciato a gridare come un'isterica, e Mimi e Sora lo hanno fatto
subito dopo di lei. «Accidenti come sono sbadata!» ha
gridato Bra. «Adesso guarda qua! Mi si vede tutto il reggiseno!
Sembro nuda!»
In
effetti, era vero: tutta l'acqua era finita sulle sue tette e potevo
vedere benissimo il suo reggiseno di pizzo. Mi sono chiesto per un
attimo perché gridasse tanto, quando era stata lei a buttarsi
addosso l'acqua del tutto consapevolmente, ma poi l'ho scartata e ho
visto Arale che stava arrivando con l'aria più annoiata che
mai.
Ha
lanciato un'occhiata storta a Bra e poi, vedendomi, mi ha sorriso.
«Kenny, che faccia! Che ti è successo? E perché
non ti sei ancora cambiato? La lezione...»
«Pan
è andata a rubare un Mobile Suit!» ho gridato, tutto
d'un fiato, tanto che anche Bra e le sue amiche hanno smesso di
gridare per la maglietta bagnata.
Arale
ha inarcato le sopracciglia. Non era la reazione che mi aspettavo:
credevo che mi avrebbe travolto come il solito uragano che era e mi
avrebbe detto che non avevamo un minuto da perdere. Invece, del tutto
tranquillamente, mi ha chiesto: «E dove l'avrebbe trovato un
Mobile Suit da rubare?»
«Ma
non capisci?» ho gridato. «Perché nessuno vuole
ascoltarmi? Pan sta andando all'hangar di volo a rubare un Suit!»
«Chi
sta andando a rubare un Suit?» la voce del Salvini seguita da
tutta la sua persona era proprio l'ultima cosa che mi sarei mai
aspettato. Non volevo coinvolgere i professori, ma ormai era cosa
fatta. E i ragazzi stavano uscendo dallo spogliatoio, pronti. Alex
aveva ancora i lacci delle scarpe sciolti.
«Ma
niente, professore!» ha esclamato. «Kenny è
convinto che sua sorella possa rubare un Suit solo perché lei
gliel'ha detto. Ma ha presente Pan Iccijojji, no?»
Il
Salvini ha corrugato la fronte. «E' proprio perché ce
l'ho presente che mi preoccuperei, se non fosse che non è
successo niente.» poi ha guardato me e mi ha sorriso con la
bonarietà che lo contraddistingue. «Tranquillo,
giovanotto, i Suit della base sono super sorvegliati, e poi quelli
interni all'accademia sono pochi e tutti quanti in fase di
riparazione. Penso che vi ci faranno fare un giro l'anno prossimo,
col professor Marquise, per Materiali per la Costruzione di Macchine.
E poi quelli in riparazione vengono chiusi tutte le notti negli
hangar, e gli viene anche tolta la batteria. Questioni di norme di
sicurezza. Quando hanno finito di essere aggiustati, vanno al
deposito, con un camion. Non prendono mai il volo e, speriamo, non
debbano farlo tanto presto. Vai a cambiarti, dai, e cominciate a fare
qualcosa.»
«Ma...»
«Sbrigati
o mi costringi a metterti una nota! Non mi va di fare la parte del
professore cattivo.»
Così
sono entrato nello spogliatoio sbottonandomi svogliatamente il
colletto della camicia e mi sono seduto su una panca di fronte al mio
armadietto. Mi stavo slacciando la scarpa destra, quando mi sono
messo a riflettere sulla storia dei camion: quanto avrebbe potuto
metterci Pan a salirci su e nascondersi finché il Suit non
fosse stato portato nel suo deposito, funzionante e anche corredato
di batteria? E in cosa consisteva la sorveglianza speciale di cui
parlava il Salvini?
Non
ho resistito: ho riallacciato in tutta fretta la scarpa e, senza
riabbottonarmi il colletto della giacca della divisa, mi sono diretto
correndo e senza indugio verso l'uscita principale. Avrei salvato
Pan, a qualunque costo. E da solo.
Mi
sono diretto agli hangar insieme ad un gruppo di ragazzi del terzo
anno che stavano andando a fare lezione. Non si sono accorti di me, e
neanche Sark, il professore di fisica subacquea che li stava
accompagnando. Anche perché eravamo tutti una massa di divise
nere e io sono anche abbastanza piccolo per passare inosservato.
Sono
sgusciato via quando loro hanno svoltato verso l'aula di fisica,
verso l'hangar 14, dove sta Pioggia di Fuoco. Ero sicuro che le altre
officine non potessero essere lontane, anche perché anche il
Suit che mi ha fatto vedere Zack Marquise si trovava proprio lì.
Immaginavo che, dopo aver sentito la storia, Pan non avesse potuto
resistere all'idea di vederlo con i propri occhi. Così è
là che sono andato e, proprio come l'altra volta, c'era
Pioggia di Fuoco collegato a fili e gente che lavorava con la sega e
la fiamma ossidrica nel petto del grande Suit bianco.
Le
pedane a ridosso delle pareti erano di freddo metallo e in alcuni
punti erano prive di balaustra, lì dove, ho intuito, ci
dovranno essere alloggiati i Suit che devono essere sistemati, ma
mettevano comunque una certa paura perché si trovavano ad
un'altezza considerevole e cadere da lì non sarebbe stato
indolore.
Ho
tentato in tutti i modi di scacciare dalla mente Pan che cadeva da
lassù e ho cercato di convincermi che non avrebbe potuto
penetrare lì dentro senza che nessuno se ne accorgesse: tutti
avevano delle tute da lavoro grigie con il simbolo dell'aquila
stampata sul petto ed erano per la maggior parte uomini adulti,
quindi immaginavo che una ragazzina in nero sarebbe spiccata molto
più del necessario.
Non
credevo nemmeno sarebbero stati tutti così calmi e tranquilli
a lavorare e a guardare i progetti che, forse, erano gli stessi che
avevo visto anch'io quando Marquise mi ha portato a vedere Pioggia di
Fuoco, all'inizio dell'anno, se ci fosse stato un estraneo. Eppure,
mi dico solo adesso, quella gente che lavorava avrebbe potuto
sbattersene altamente di chi entrava. In fondo, è un'accademia
militare e come tale ci sono un sacco di ragazzi che vanno avanti e
indietro.
Ma
in quel momento, l'assoluta mancanza di altri Suit e di buchi o armi
spianate mi ha persuaso che Pan non doveva essere lì, così
mi sono limitato ad andare altrove.
Mi
sono avvicinato al capanno che più probabilmente lei avrebbe
scelto: quello con la serranda abbassata e una porta laterale, dove,
su entrambe, c'era scritto: “Vietato l'ingresso ai non
addetti”. Mi ero convinto che Pan dovesse essere stata attirata
dallo stesso cartello, però, memore della casa degli specchi
alle giostre, mi sono sentito un po' dubbioso.
Comunque
mi sono avvicinato. La porta era bloccata e, per sbloccarla, serviva
un badge che, ovviamente, non avevo.
Così
mi sono guardato intorno. Non stava passando nessuno e sembrava che
nessuno mi avesse intenzione di cercarmi. Mi chiedevo solo che cosa
sarebbe successo se qualcuno mi avesse beccato a gironzolare lì
intorno e che cosa avrei potuto raccontare. Cominciavo a pensare che
dire la verità avrebbe attirato solo altre risate su di me.
Mi
sono infilato tra il capanno misterioso e un altro, uno stretto
vicolo in cui non batteva il sole e faceva più freddo che mai.
Mi sono stretto nelle spalle e sono arrivato in fondo. Lì, ho
visto che c'era solo un altro capanno, però aveva finestre e
una porta chiusa.
La
finestra era aperta, per cui mi sono avvicinato tenendomi accucciato
e ho sbirciato all'interno. Era una classe, corredata di banchi,
lavagna e cattedra. Il professore era di fronte a questa e scriveva
con un gesso alla lavagna.
Era
Sark.
«E
come, mi auguro, avete studiato a meccanica razionale, per indicare
il movimento in un fluido viscoso, bisogna inserire nell'equazione di
Newton il coefficiente beta...»
Mi
sono allontanato, confuso abbastanza da quella sequela di parole
incomprensibili. È stato allora che sono andato a sbattere
contro qualcosa che mi ha mandato a gambe all'aria. Ho chiuso gli
occhi, quando ho visto una mano grossa come un elefante avvicinarsi
pericolosamente veloce alla mia faccia. Pensavo che mi avrebbe
staccato la testa, invece mi ha solo preso per la giacca, all'altezza
della spalla e mi ha trascinato via, all'ombra.
Ero
pronto a vender cara la pelle, quando, socchiudendo gli occhi, ho
visto la bandana arancione della mia sorellona presentarsi davanti ai
miei occhi. «Ah, ma allora non ci tieni alla tua faccia!»
mi ha apostrofato. «Beh,» ha detto, dopo averci pensato
un po'. «al tuo posto, non ci terrei neanch'io.»
«Pan!»
ho esclamato, sollevato. «Ti cercavo!»
«Ma
va'!» ha risposto lei, sarcastica. «Pensavo volessi
ascoltare la lezione di quel torturatore di Sark, guarda.»
Ero
così felice di vederla che mi sarei gettato tra le sue
braccia, se lei non mi avesse spinto di nuovo contro il muro.
«Ma
che cazzo fai?» mi ha domandato. «Non mi toccare con
quelle manacce!»
«Per
un attimo ho pensato che volessi Pioggia di Fuoco!» le ho
confessato, sollevato che non lo avesse fatto.
«Ma
chi? Quel rottame? Ne cerco uno che funziona, razza di cretino che
non sei altro! Però devono essere tutti in quel posto chiuso a
chiave...» ha fatto un cenno verso il capanno chiuso. «Devo
entrarci.» ha specificato, guardando con desiderio verso
l'ingresso.
«Ma
non si può!»
Pan
ha arricciato le labbra. «Grazie al cazzo. Per questo devo
prendere il badge della Une!»
«Il
badge della Une?» ho ripetuto. Quella faccenda cominciava a
farmi venire i brividi.
«Pezzo
di scemo!» ha risposto lei, piena di disprezzo. «La Une è
la direttrice, sicuramente avrà i privilegi di accesso più
alti. Non li guardi mai i film d'azione?»
A
dire il vero non avevo pensato ai film d'azione. I film sono l'unica
cosa che non mi passano quasi mai per la mente, anche perché
quando ho a che fare con la realtà, per esperienza personale,
so che non andrà mai come in un film, dove i protagonisti si
salvano sempre. E io so una cosa: se prendiamo il badge della Une e
qualcuno ci scopre in un'area non autorizzata, ci crivella di colpi e
butta i nostri cadaveri ai cani. «Pan... torniamo dentro, qui
fa freddo... e poi se perdiamo la lezione con quella nuova sono guai!
Hai sentito che Alex diceva che è difficile!» ho
tentato, ben sapendo che avrei dovuto sudare sette camicie per
convincerla.
Invece
Pan ha sbuffato e mi ha lasciato di stucco quando ha detto: «Sì,
va beh, andiamo.» e poi ha aggiunto: «Tanto dopo abbiamo
la Une, no?» cosa che mi ha fatto capire il vero motivo per cui
si è arresa praticamente subito. Avevo i brividi.
«Ehm...
sì.»
Lei
ha sorriso in modo inquietante. «Ottimo. Muovi quelle chiappe
flaccide che ti ritrovi.» e, senza aspettarmi, si è
diretta a passo spedito verso la caserma.
Quando
sono entrato in classe, nell'aula 20 dove facevamo anche teoria dei
gradi, tutti sembravano particolarmente eccitati all'idea di
cominciare con la chimica. Trowa parlava con Tai Yagami e Arale dei
libri di testo più buoni per prepararsi ad un corso di questo
tipo, mentre Bra si era seduta vicino a Frank e si stava
contemporaneamente sistemando i capelli e parlando con lui. Le sue
amiche erano lontane, qualche posto più indietro e
ridacchiavano tra di loro mentre guardavano la loro amica.
Gli
altri sembravano tutti sfiancati. Mi sono chiesto che cosa avesse
fatto fare loro il Salvini per renderli così poco reattivi a
quell'ora di mattina. È anche vero che erano le nove ed
eravamo svegli dalle cinque, però doveva essere stata un'ora
difficile, quella passata, se già stavano in quelle
condizioni.
«Ehi,
Kenny!» non appena Alex mi ha visto mi ha fatto un cenno per
dirmi di sedermi accanto a lui.
«Sì,
arrivo.» gli ho detto, però ho raggiunto Pan che era
all'ultimo banco con l'aria annoiata. «Pan, non puoi prendere
il badge della Une!» le ho detto, senza preamboli. Lei, come
risposta, si è infilata il mignolo nell'orecchio e ha
cominciato a ruotarlo prima da una parte e poi dall'altra. Poi lo ha
tolto, ha guardato, si è impastata il cerume sul polpastrello
e si è girata verso di me, sorridendomi con un fare innocente
che non avrebbe convinto nessuno.
«Hai
detto qualcosa, Kenny?»
Ho
sospirato. Mia sorella mi ha fatto un cenno per dirmi “sciò”.
«Vai,
vai dai tuoi amichetti fottuti, vai.»
Ho
fatto quello che diceva. Tanto è inutile parlare con lei,
certe volte. Mi sono seduto di fianco ad Alex e mi sono girato verso
di lui, sporgendo poi un braccio sul banco vuoto dietro al mio.
«Ah,
eccoti!» mi ha detto il mio amico, con un sorriso
incoraggiante. «L'hai ritrovata, alla fine, eh?»
Ho
guardato Pan e poi di nuovo lui, preferendo non rispondere. «Salvini
mi ha messo una nota?»
Alex
ha alzato le spalle. «Ma figurati! Non si è manco
accorto che non c'eri! Quello non si accorge se gli casca il
parrucchino e si accorge che mancavi tu? Kenny, sii realistico!»
«Salvini
porta il parrucchino?» ho chiesto, impressionato.
«Sì,
oggi gli è caduto e ci ha anche camminato sopra un paio di
volte, prima di rendersi conto che aveva freddo alla testa e... dai,
non fare quella faccia! A volte capita di essere pelati!»
Ma
io non stavo facendo una faccia strana per i capelli del Salvini:
stavo guardando Bra che si era tolta la giacca della divisa e si era
sbottonata i primi tre bottoni della camicetta, facendo sì, di
nuovo, che si vedesse bene il reggiseno. «Oggi fa un caldo,
vero, Frank?» e intanto si sventolava con le mani. Lui sembrava
trovare sempre più interessante la punta delle proprie dita
che lei.
Mi
chiedo perché si comportasse così. Gli ha dato fastidio
per tutto il giorno e stasera ci ha anche confessato che aveva paura
a tenere la porta aperta, perché lei poteva entrare a
violentarlo.
«Perché
a me queste cose non capitano mai?» ha domandato Alex,
incredulo.
«Perché
non ti lavi, ecco perché! E perché sei uno sfigato
pazzesco.» ha risposto Bra, sporgendosi davanti a Frank, poi è
tornata a guardare lui, con un sorriso stucchevole. «Pensavo
che oggi pomeriggio potremmo studiare insieme, che ne pensi? Non ho
proprio capito le derivate e mi hanno detto che il programma si sta
facendo ancora più difficile. Che ne pensi, Frank? Invece di
fare ginnastica, dopo mi dai qualche ripetizioncina?»
«Ehm...
non credo... non credo che...»
«Tutti
in piedi! Saluto!» ha gridato una voce sconosciuta, la
proprietaria della quale poi ha anche sbattuto la porta dell'aula.
Frank ha tirato un sospiro di sollievo. «Non ho mai visto una
classe più indisciplinata della vostra!» e questo perché
Bra si è rivestita in tutta fretta prima che la professoressa
potesse girarsi e guardarci bene in faccia. Poi mi chiedo che cosa
avrebbe detto di noi e sulla nostra disciplina. Il bello è
che, quando ho guardato la mia compagna di classe, aveva anche
l'espressione più innocente del mondo, come se non si fosse
mai spogliata.
In
classe, comunque, era calato un lungo e teso silenzio. La
professoressa, una donna alta e bionda vestita dello stesso blu della
Noin, con le sopracciglia diramate come quelle di Frank e del
generale, aveva lo sguardo glaciale di un assassino su commissione.
Se la Une metteva soggezione, lei era probabilmente la versione
femminile di Sark.
«Mi
chiamo Dorothy Catalonia.» ha dichiarato, con voce forte e
sicura, con l'aria di provare un certo orgoglio per il suo stesso
nome.
Ho
sentito Alex che borbottava qualcosa come: «Ti prego, no.»,
come se stesse provando paura, per qualche motivo. Non mi sono girato
a guardarlo solo perché la Catalonia guardava nella nostra
direzione.
«Sono
la vostra insegnante di chimica, una materia molto importante per la
vostra formazione e che, nel corso della vostra carriera militare e
di studi vi servirà per affrontare molte delle materie che
studierete nei prossimi anni. Perciò, insieme a matematica,
algebra e geometria, che studierete in questa parte dell'anno, sarà
fondamentale per passare al secondo. Il suo peso sarà pari al
trenta percento del totale delle prove, matematica e algebra
costituiranno il quaranta percento e il restante trenta percento
tutte le altre materie, quindi storia, geografia e attività
motoria. Come futuri soldati e potenziali costruttori di Suit, o
addirittura progettisti, mi aspetto il massimo da ognuno di voi,
perciò se i vostri voti saranno inferiori a sette decimi,
frequenterete delle lezioni aggiuntive il sabato pomeriggio, questo
finché non raggiungerete una preparazione sufficiente. Questo
significa che il sei è da considerarsi insufficiente.»
Questo
ha sollevato molte proteste da parte della classe, soprattutto da
parte di Alex. «Ma professoressa!» ha detto, alzando la
voce sopra le altre e così facendoci tacere. «Il sabato
lo usiamo per studiare quello che non abbiamo potuto durante la
settimana! Abbiamo lezione tutti i giorni fino alle sei del
pomeriggio! Come facciamo a venire anche alle lezioni aggiuntive?»
«Per
evitarle, basta che vi impegnate al massimo. E ora aprite i quaderni,
cominciamo immediatamente la lezione.»
«Ehm,
mi scusi?» Arale ha alzato la mano.
La
Catalonia l'ha incenerita con lo sguardo. «Un'altra regola che
imparerete molto presto» ha dichiarato. «è che io
detesto essere interrotta quando parlo. Per cui, qualunque siano le
domande che avete da fare, se avete dei dubbi su quello che dico e
non vi è chiaro, appuntatevelo da qualche parte sul quaderno
e, quando avrò finito la lezione, sarò disponibile a
fugare i vostri dubbi. Quindi, alla fine di ogni lezione, mi
riserverò dieci minuti per rispondere ad una domanda ciascuno,
per chi ne avrà. Tutto chiaro? Quindi lei, soldato, qualunque
sia la sua domanda, può aspettare fino a fine lezione. Aprite
i quaderni. Cominciamo con le definizioni fondamentali.»
Ho
visto Arale, scontenta, perdere il suo consueto sorriso e rivolgere
una smorfia alla schiena della Catalonia, la quale aveva preso un
gesso e ha cominciato a tracciare strani simboli alla lavagna.
«Io
lo sapevo.» ha detto Alex, quando la Catalonia è uscita
dalla classe. Sarebbe arrivata la Une, di lì a poco, e quindi
quelli di noi che non avevano preso i soliti posti dell'inizio
dell'anno, si sono dovuti spostare. Persino Bra, ma l'ha fatto a
malincuore, perché, sospirando, ha detto “a presto,
Frank” e si è dileguata tra le sue due amiche. Frank non
se l'è presa e penso che neanche l'abbia sentita, perché
stava dando retta al nostro amico. «Lo sentivo... è il
suo nome!»
«A
fare cosa?» ha replicato Arale, scontenta, buttandosi al mio
fianco. «Le volevo solo chiedere quando ci sarebbero state le
esercitazioni in laboratorio! Era una cosa che interessava tutti e
hai visto che cosa ha fatto alla fine, quando nessuno ha osato farle
una domanda su quello che ha spiegato? Ha ripreso a spiegare, perché
nessuno aveva domande! Piuttosto che chiederle qualcosa, mi cavo un
occhio, la prossima volta.»
«Possiamo
chiedere a qualcuno del secondo anno.» ha proposto Frank, con
un sorrisetto. «Dato che Alex non ha la minima idea di come
funzioni.»
Lui
ha alzato le spalle. «Senti, Frank, io sarei per non seguirla
proprio, questa materia! Non mi piace, lo sai... e non mi piace
neanche quella, se devo proprio dirtela tutta. E il suo nome mi dà
i brividi.»
«Perché?»
ha voluto sapere Arale, sconcertata.
Alex
si è agitato sulla sedia. «Beh... sapete chi è
Dorothy, no?» abbiamo tutti scosso la testa. Lui ha continuato,
a malincuore: «E' la protagonista del mago di Oz. Io odio il
mago di Oz. È la storia più inquietante che abbia mai
sentito... voglio dire, quella storia delle scarpe e poi l'uomo di
latta che vuole il cuore e poi quegli altri... secondo me, il mago di
Oz era un trafficante di organi e Dorothy una pazza assassina che ha
ammazzato la strega del nord per un paio di scarpe... e quindi ogni
volta che sento il nome Dorothy io vado fuori di testa!»
Abbiamo
guardato Alex per alcuni secondi, credo per assimilare la notizia.
Poi, senza che ci fossimo accordati, ma con una sincronia
inquietante, siamo scoppiati a ridere senza ritegno.
«E
dai! Non ridete! È una cosa seria!» protestava il nostro
amico.
Frank
era quello che rideva più di tutti. Probabilmente se non ci
fosse stato il banco di fronte a lui sarebbe crollato a terra e si
sarebbe rotolato di qua e di là e questo ci ha fatto ridere
ancora di più. Alex, invece, se l'è presa, perché
si è stretto nelle spalle e, con la fronte corrugata, ha
borbottato: «Begli amici!»
In
quel momento, è arrivata la Une. Sembrava incazzata già
di primo mattino e vedere noi che ridevamo, forse, non ha contribuito
a renderla più ben disposta nei nostri confronti. Proprio il
modo migliore per cominciare il trimestre. Ma l'idea di Alex che
aveva paura della storia del mago di Oz era così divertente
che ci ha accompagnato con le risate durante il pre-lezione, durante
il quale la Une ha guardato il registro, controllato le materie che
avevamo avuto e detto qualcosa a proposito di quello che saremmo
andati a studiare. Ho cercato di smettere, ma i miei tentativi erano
inutili e anche premere le mani davanti alla bocca ha avuto lo stesso
effetto di un bicchiere d'acqua per fermare la febbre. Arale era
piegata in due, Frank cercava di nascondersi sotto il banco, con
scarso successo e questo contribuiva a farci ridere più che
mai.
«Norimaki,
Iccijojji, Kushrenada, vorreste essere così gentili da mettere
a parte pure noi dei motivi per cui state ridendo?» ha chiesto
la Une, arcigna.
Non
ce l'abbiamo fatta.
«N-niente,
lady Une.» ha balbettato Arale, dopo un po'.
«C-ci
scusi.» Frank si è passato una mano sotto gli occhi.
Aveva le lacrime.
«Non
ci vedo niente di così divertente. Smettetela o sarò
costretta a mettervi una nota.»
Forse
è stato per la nota, ma la ridarella è finita in un
secondo. Ho inspirato più volte, ma avevo sempre un mezzo
sorriso idiota stampato sulla faccia. Ho cercato di non guardare
Arale o uno degli altri perché altrimenti sapevo che avrei
ripreso.
Ma
quello non ha dato fastidio alla Une, perché, anche se mi ha
scoccato un'occhiata assassina, ha ripreso a guardare il libro di
testo. «Come dicevo, abbiamo svolto gran parte del programma.
Adesso dobbiamo solo finire di parlare di alcuni trattati tra Terra e
Colonie e poi potremo passare agli argomenti successivi che, al
contrario dell'anno scorso, saranno legislazione ed economia. In
queste vacanze, al contrario vostro, nessuno dei vostri insegnanti è
stato con le mani in mano. Ho avuto un colloquio personale con il
ministro della difesa e, insieme al Generale Treiz Kushrenada,
abbiamo concordato che è giusto che i nostri studenti abbiano
delle conoscenze in tal senso e che non si limitino a imparare
nozioni ingegneristiche avanzate. Per cui, dalla settimana prossima,
cominceremo insieme ad occuparci di queste cose.»
Il
sorriso è definitivamente scomparso dalla mia faccia.
Di
nuovo, come è successo con la Catalonia, abbiamo cominciato a
protestare. Anche Pan.
«Che
coglioni!» ha gridato.
«Perché,
lady Une? Pensavo che avremmo continuato con la storia!» ha
protestato Trowa.
«Già
la storia è una barba spaziale!» ha esclamato Alex,
coprendo le voci degli altri. «Lady Une, ma che ci importa
della legge?»
«Proprio
lei parla, Ramazza!»
Arale
mi ha dato una gomitata, come se volesse dirmi qualcosa.
Io,
invece, ho alzato la mano. Non so come mi sia venuto il pallino di
farlo, o di chiederlo. La Une mi ha dato il permesso di parlare e,
forse perché era una cosa che non si vedeva tutti i giorni, io
– io! – che alzavo la mano, tutti si sono zittiti subito.
«Lady Une,» ho detto. «non studiamo il Sanc
Kingdom?»
«Oh,
che coglioni!» è stato il commento di mia sorella. «Ci
mancava solo il paramecio che le dà suggerimenti!»
La
reazione degli altri è stato uno sguardo vacuo. Trowa è
l'unico che si è girato verso di me, con un'espressione
curiosa stampata sul viso. La Une, invece, è quella che mi ha
stupito più di tutti: è diventata dello stesso colore
della sua divisa, ma non per la rabbia. Sembrava più
sconcertata che altro.
Ed
è stata anche la prima volta che l'ho sentita esitare. «I-il
Sanc Kingdom.» ha ripetuto.
«Sì,
lady Une.» ho continuato, imperterrito. «Non ne
parliamo?»
Lei
si affrettata a ridarsi un contegno. Si è schiarita la voce.
«Non c'è molto da dire, Iccijojji.» ha dichiarato.
«E' un paese che ormai non esiste più. La guerra di
liberazione delle colonie, come dovrebbe aver studiato, fu molto
sanguinosa, e il Sanc Kingdom fu uno dei tanti stati terrestri che
venne bombardato. Il caso fu più eclatante di altri perché,
essendo piccolo, ci furono maggiori danni rispetto a quelli
riscontrati in altri paesi con maggiore densità territoriale.
Tutto qui. Abbiamo già parlato della guerra di liberazione e
non mi sembra il caso di tornare indietro ad argomenti conclusi lo
scorso trimestre.»
«A
me, però, risulta» ha insistito Trowa, con un certo tono
polemico. «che il Sanc Kingdom fu distrutto. Non che subì
semplicemente dei danni, lady Une.»
«Come
ho detto, era un piccolo stato.» ha risposto lei, acida. «E
ora basta con questa discussione! Abbiamo un lungo programma da
portare avanti. Consegnatemi i vostri compiti per le vacanze e
cominciamo la lezione.»
«Ma...»
ha provato Trowa.
«Dica
un'altra parola, soldato Burton, e le metterò una nota.»
Trowa
si è lasciato andare sullo schienale della sua sedia,
sconfitto. E nessuno ha avuto il coraggio di aggiungere altro.
«Questa
storia è sospetta.» ha dichiarato Arale, quando ci siamo
seduti al tavolo del pranzo. C'era dello spezzatino con i piselli.
Non è la cucina di mia madre, ma abbiamo riscontrato un netto
miglioramento rispetto a quando c'era Pan, che si è seduta al
mio lato destro e succhiava il suo pezzo di carne come se fosse un
ghiacciolo. Aveva lo sguardo puntato su Alex che, forse accorgendosi
del suo sguardo, teneva il proprio fisso sul piatto.
Mangiava
i piselli, lui, e ogni tanto scoccava un'occhiata al tavolo degli
insegnanti dove, per la prima volta da quando avevo cominciato a
frequentare la mensa, era apparsa anche la Catalonia. Il fatto che si
chiamasse Dorothy doveva averlo inquietato parecchio più di
quello che aveva detto a noi. Arale ha visto Heero che passava e,
dato che ci è passato vicino per farci un saluto, lei lo ha
afferrato per la giacca e lo ha costretto a inginocchiarsi tra lei e
Frank.
«E'
una cosa veloce?» ha chiesto Heero. «Dovrei mangiare
anch'io...»
«Ecco,
prendi qui.» Arale gli ha preso un piatto pulito dal centro del
tavolo e lo ha riempito di spezzatino e piselli. Glielo ha messo
davanti senza troppe cerimonie, e poi gli ha dato anche il suo
cucchiaio.
Heero
ha sospirato. «Fammi almeno prendere una sedia.» e così
è andato a prendersene una vuota vicino ad Alex che ha
trascinato di nuovo di fronte al piatto che Arale gli aveva riempito.
«Insomma,»
ha continuato la nostra amica, una volta che anche Heero si è
seduto. «oggi Kenny ha fatto una domanda alla Une...»
«Ah,
bravo.» ha risposto Heero, ma con l'aria di uno che non gliene
fregava niente. «E allora?»
«Non
è questo il punto!» ha replicato la mia amica, con
fastidio. «Il punto è che gli ha domandato del Sanc
Kingdom e del motivo per il quale non ne abbiamo parlato durante le
lezioni di storia. E lei... si è un po' agitata.»
«Un
po'?» le ha fatto eco Alex, scettico.
«Un
po' tanto.» si è corretta lei.
Heero
ha annuito, ma ha continuato a mangiare come se niente fosse.
Dall'espressione che aveva sembrava che non avesse ascoltato una
parola.
«Perché
tanto imbarazzo sul Sanc Kingdom?» ha insistito lei. «E
perché liquidare così una faccenda che ha
dell'interessante dato che, come mi sono ricordata proprio un attimo
fa, qui c'è un Suit che è del Sanc Kingdom? Yuy, ma ci
stai ascoltando?»
Lui
ha inghiottito. «Sì, Norimaki, ti ascolto. Ma che ti
devo dire?»
Lei
ha scosso la testa, contrariata.
«Kenny
sa tutta la storia.» Alex ha fatto un cenno verso di me.
«A
dire il vero, non ne so poi molto...» ho specificato. «so
solo che c'era un principe e una principessa... e che sono morti nel
bombardamento... forse.»
«Non
può essere una coincidenza.» ha concluso Arale.
«A
voi non sfugge nulla, eh?» ha commentato il responsabile del
nostro piano con un sorriso storto. «Vedete, giovani Sherlock,
è che il Giappone è in parte responsabile per quello
che è accaduto.»
Ci
siamo sporti verso di lui per saperne qualcosa di più, quando
la voce di Pan ha interrotto Heero che aveva aperto la bocca per
spiegarci meglio.
«Senti,
chi se ne frega.» ha tagliato corto. «Possibile che siate
tutti malati di 'sto cazzo di Sanc Kingdom? Ma fatevi una vita,
sfigati di merda!»
Ci
siamo tutti girati verso di lei. Heero aveva l'aria sconcertata.
«Scusa, Iccijojji, ma stavamo facendo un discorso tra di noi.»
«Ah
certo, un discorso tra di voi!» lo ha scimmiottato lei. «Questo
cretino si preoccupa di un posto morto e tutti quanti dietro come i
pecoroni. Smettetela di parlare di cose vecchie e pure morte! Tu,
topo di fogna,» e ha guardato Alex. Il mio amico non ha capito
che parlava di lui e così si è girato per vedere se
c'era qualcuno alle sue spalle, ma quando ha visto che non c'era
nessuno, si è indicato come per dire: “chi, io?”.
«Sì, proprio tu. Hai detto che sei un ex galeotto, no?»
Frank
ha sbuffato.
Heero,
invece, ne ha approfittato per alzarsi. «Sì, sentite, io
me ne vado al mio tavolo. Avete cose più importanti di cui...»
«Sì,
sì!» lo ha interrotto mia sorella. «Vaffanculo.»
Lui
non ha detto niente. Si è allontanato dopo un cenno di saluto
a noialtri, decisamente irritato. E allora Arale si è girata
verso Pan. «Ma lo sai che sei una grandissima maleducata?»
l'ha apostrofata. «Stavamo facendo un discorso interessante e
tu...»
«Me
ne sbatto i coglioni dei vostri pseudo discorsi seri. Vaffanculo pure
tu, io devo parlare con il topo di fogna... come cazzo di chiami...»
«Mi
chiamo Alex, non topo di fogna, e comunque di quello che devi dire
non me ne fotte una mazza, ci sei?» si è alzato pure
lui. «Io comincio ad avviarmi in palestra.»
«La
verità» ha detto Pan, con aria di trionfo,
interrompendolo dal sistemare la sedia sotto il tavolo. «è
che sei solo un quaquaraqua. Ti fai tanto il grande ladro, ma in
realtà sei solo un coglione che gli piace vantarsi. Scommetto
che se ti chiedessi se sei bravo nel taccheggio, tu diresti subito di
sì, no?»
Alex
l'ha guardata. «E allora? Lo so fare, sì. Qualche
problema?»
Lei
ha ricambiato l'occhiata. «Il problema è che non ti
credo.»
Lui
ha fatto spallucce. «Fai quello che vuoi.»
«Quaquaraqua.»
lo ha rimbeccato lei. «Ti propongo una sfida.»
Non
capivo dove volesse arrivare. Avevo quasi paura di scoprirlo anche
perché stava insultando il mio amico in modo anche pesante e
non mi andava che lo facesse. «Pan?» l'ho chiamata, ma
lei mi ha ignorato bellamente.
Arale
ha, invece, guardato Alex. «Lasciala stare.» gli ha
consigliato.
«No,
scusa, Arale.» ha risposto lui. «Voglio proprio vedere
fin dove arriva.» si è sporto in avanti, appoggiandosi
sullo schienale della sedia che aveva occupato. «Dai, spara.»
Pan
ha sorriso, trionfante. «La Une ha un badge attaccato alla
cintura, hai visto?»
Alex
si è girato verso la nostra insegnante, mentre io capivo
finalmente dove voleva arrivare. Non aveva smesso un attimo di
pensarci, dopo un'intera mattinata passata a fare la brava, almeno
relativamente. E io pensavo che se ne fosse dimenticata! «Embè?»
è stata la risposta di Alex.
«Embè»
ha risposto Pan. «se sei davvero il ladro che dici di essere,
rubaglielo senza che lei se ne accorga.»
Sono
scattato in piedi. «No, Alex!»
«Oppure
sei solo un cretino che racconta palle su palle.» Pan ha fatto
spallucce. «O, peggio, un cacasotto come questo qui.» e
mi ha indicato.
«Pan!
Ma non puoi chiederglielo!» ho esclamato.
«Me
ne sbatto di quello che pensi.» ha dichiarato il mio amico. «Io
non mi metto nei guai. Se la Une mi becca, mi fa espellere e io non
ci voglio tornare in prigione per te!» e stavolta se n'è
andato davvero. Anche Arale e Frank si solo alzati, tutti e due senza
finire di pranzare e se ne sono andati. Io l'ho guardata, mentre lei
guardava malevola i miei amici che si avviavano fuori dalla mensa di
gran carriera. Non potevo credere che avesse tentato di far leva
sull'orgoglio di Alex per indurlo a rubare il badge della Une.
«Che
stronzo.» ha pure avuto il coraggio di dire.
«Questa
volta hai davvero esagerato, Pan!» le ho risposto, e ho
cominciato a correre per raggiungere i miei amici.
Ho
raggiunto Alex e gli altri quando ormai erano già dentro lo
spogliatoio dei maschi. C'era persino Arale, ma nessuno ha pensato di
dirle di andarsene, anche perché eravamo solo noi quattro e
nessuno pensava di mettersi in mutande tanto presto.
Alex
camminava avanti e indietro come un'anima in pena. Prima di oggi,
penso di non averlo mai visto in queste condizioni. È da ieri
sera che è un po' strano, prima con la storia delle lezioni,
poi con la paura di venire bocciato. Adesso con questo. E stavolta
non era niente di divertente come il suo terrore per il mago di Oz.
Era tutta colpa di Pan e di quello che aveva detto che gli aveva
ricordato la prigione o qualcosa connessa.
Mi
sono avvicinato a loro e mi sono seduto sulla panca di fianco ad
Arale, la stessa su cui mi ero seduto prima di andarla a cercare solo
qualche ora prima, come se solo la mia presenza potesse essere di
qualche conforto.
«E
dai, Alex, non c'è bisogno che fai così.» gli ha
detto Frank che, invece, se ne stava in piedi e lo guardava mentre
faceva le vasche tra un armadietto a quello di fronte. «Lo
sappiamo tutti come è fatta Iccijojji.»
Ho
annuito. «Sì, Pan è arrabbiata perché non
voleva tornare in caserma.» mi sono zittito subito, però,
quando mi sono accorto di quello che stavo dicendo: che gliene poteva
importare agli altri dei fatti di Pan?
«Non
è nemmeno la cosa peggiore che ha fatto!» ha continuato
Arale, per riempire il silenzio che si era venuto a creare, un
silenzio particolarmente imbarazzante. «Pensa alla volta che ha
cercato di tagliare la mano di Kenny e che, se non c'era Sark, ora
lui aveva un moncherino. Oppure quando ha messo il lassativo nelle
uova della Une. Oppure quando...»
Lui
non l'ha lasciata finire. Non si calmava in nessun modo. «E se
poi fa qualcosa di strano e mi dà la colpa? Se la Une mi
espelle, io sono fottuto!» si è girato verso di noi e ci
ha guardato con aria smarrita. «La mamma... ieri la mamma mi ha
fatto promettere che non sarei tornato in gattabuia! E adesso Pan può
rovinare tutto, porca puttana! Io sto cercando di rigare dritto
quest'anno, ci sto provando con tutto me stesso e poi arriva lei e
rovina tutto! Cazzo, cazzo, cazzo!»
Arale
non ha detto una parola, ha fatto finta che non sapesse niente e
intanto annuiva comprensiva, ma intanto guardava Alex che dava calci
all'armadietto di Tai Yagami. Povero Alex, quante ne ha passate nella
sua vita!
Frank
ha dato una pacca sulla spalla del nostro amico. «Non è
successo niente. E noi saremo dalla tua parte, lo sai. Se succede
qualcosa e lei ti dà la colpa, pensi che noi non ti
scagioneremmo se sei innocente?»
«E
se la Une non ci crede?» Alex ha scosso la testa. «Lei lo
sa che sono capace di rubarle il badge. L'ho anche fatto, due anni
fa, e se succede di nuovo, questa volta sono fottuto al quadrato!»
Ho
sussultato e anche Frank. Arale, invece, sembrava essere al corrente
di tutto. Mi chiedevo come fosse possibile che sapesse anche quello.
Di certo, negli atti del tribunale non c'erano anche i furtarelli che
Alex può aver commesso qua dentro.
Lui
non si è accorto di cosa capitava dentro di me e la mia amica.
Era solo molto scosso e, come se non riuscisse più a stare in
piedi, si è seduto sulla panca di fronte alla nostra e si è
nascosto il viso tra le mani. Quella è stata forse l'occasione
più brutta della mia vita: vedere un mio amico piangere e non
potere fare niente per aiutarlo.
«Dai,
Alex!» ha continuato Frank. «La Une lo sa che non lo
faresti più!»
«Ma
non capisci, Frankie? È la stessa cosa che ho fatto io due
anni fa! Se la fa Pan, allora la Une penserà che le ho dato io
l'idea! Io volevo essere espulso, ecco perché l'ho
fatto e perché non mi sono nemmeno premurato di scoprire il
tipo di codice. Mica lo sapevo che c'era la fregatura!» ha
inspirato per fare una pausa, poi ha ripreso, senza che nessuno
osasse interromperlo: «Mi aveva detto già l'anno prima,
quando ho preso l'accetta, che se non avessi rigato dritto sarei
stato espulso e così volevo prendere la palla al balzo...»
«L-l'accetta?»
ho domandato, inorridito. Se c'è una cosa che non riesco ad
immaginare è proprio Alex che prende un'accetta. Il
tranquillo, buono e un po' imbranato Alex... insomma... non ce lo
vedo proprio con un'accetta.
Lui
ha sbuffato una risata. «Sì, Kenny. Ho preso l'accetta
che sta in corridoio, sai, quella dell'antincendio. L'ho usata per
sfondare le pareti dell'aula della Noin durante la sua lezione.»
e qui Arale mi ha dato un'altra gomitata. «I ragazzi si sono
subito spaventati, ovviamente, e sono corsi a chiamare la Une che è
subito corsa a cercarmi. E così mi ha detto:» si messo
impettito e ha puntato un dito verso l'alto, con un'espressione molto
simile a quella della Une: «lei, Ramazza, se non riga dritto,
sarà espulso in via direttissima. E lo sa cosa accadrà
quando questo succederà? Pensa che verrà rispedito a
casa come se niente fosse? Nossignore, verrà rimandato in
prigione, sì, quella stessa che le è stata risparmiata
dal senatore Douglas Kushrenada e dal suo buon cuore.»
Per
un attimo, la stanza è stata immersa nel silenzio più
assoluto. Arale mi ha dato di nuovo una gomitata forte nel fegato,
tanto forte che io ho creduto di poter morire di emorragia epatica.
«Sapete,»
ha continuato ad un tratto. La sua voce sembrava strana dopo tutto
quel silenzio. «credo che se mi avessi conosciuto due anni fa,
non saremmo amici, oggi... sarei più come Pan, o come Howard
James... però,» si è passato una mano dietro il
collo. «quando ho provato a rubare il badge e ad andarmene,
l'anno scorso, la Une mi ha solo dato una nota di demerito e così...
eccomi qui. Non c'è modo di fuggire da questa prigione,
ragazzi... l'unica è darsi un contegno e smetterla con queste
cazzate. E poi non è vero che ho cercato di rapirti, Frankie!
Volevo solo rubare qualche oggetto prezioso! Mio fratello mi aveva
sfidato a entrare in casa tua, mica volevo...»
Frank
gli ha messo una mano sulla spalla. «Lo so, Alex.» ha
sorriso a mezza bocca. Per un attimo, mi è parso che ci
fossero solo loro nella stanza: parlavano di cose che noi, Arale ed
io intendo, non sapevamo e che non avremmo dovuto sapere. Mi sentivo
uno spettatore involontario, che si era intrufolato nelle loro vite
per morbosa curiosità e adesso mi sentivo proprio così:
una merda.
Anche
Alex ha sorriso. «Già...» ha risposto. Poi ha
guardato verso di noi e allora io credo di essere diventato rosso
come un pomodoro maturo. «Ragazzi, mio padre è un
truffatore, non è un assassino, e nemmeno un mafioso. Lui, coi
ricchi, ci ha avuto a che fare solo per spillargli dei soldi, non per
usarli in chissà quale altro modo, almeno così dice la
mamma. Poi un giorno la polizia lo ha pizzicato e, pur di non pagare
i suoi conti con la giustizia, è scappato via e adesso non si
sa più dov'è. Forse è andato alle Antille o
forse è tornato in America. O magari è andato in Italia
dal nonno, e ha sposato un'altra signora Ramazza. Io e Frank ci siamo
conosciuti per caso, perché era in casa quando io sono entrato
dalla finestra e, invece di stordirlo o di farlo scappare a chiamare
i suoi, mi sono messo a giocare con lui. Fine della storia.»
Lei
è arrossita. «Ma... ma... come... perché ce lo
dici?» ha balbettato, in imbarazzo.
Frank
le ha sorriso. «Come se non stessi morendo dalla voglia di
saperlo.»
«Ma...
ma io...»
«E
dai!» le ho dato una pacca sulla spalla come consolazione. Dal
canto mio, ero felice di sapere la verità sui miei amici, su
come mai si conoscessero da prima dell'arrivo di Frank in caserma. Me
li ha resi più vicini, li ha resi, in qualche modo... più
veri. Non so spiegarli meglio. «Non fare così. Almeno
hai saputo la verità, no? Ci tenevi tanto!»
Credevo
che avrebbe sollevato la testa, che avrebbe sorriso o che mi avrebbe
portato via per dirmi che era tutta una scusa e che dovevamo fidarci
ancora meno di loro, dopo questa pseudo-spiegazione, invece non è
successo niente di tutto questo. Le sue spalle hanno cominciato a
sussultare e, pochi attimi dopo, è scoppiata a piangere senza
ritegno, travolgendoci con le sue grida isteriche.
Quello
era peggio che vedere Alex spaventato.
Ho
tolto la mano dalla sua spalla, con la paura di aver in qualche modo
innescato una bomba, e, come se fosse stata quella a trattenerla, è
scattata in piedi ed è corsa via.
«Arale!»
ho esclamato, balzando in piedi come se ci fosse stato qualcosa di
appuntito sotto il mio sedere. Tutti e tre abbiamo cominciato a
correrle dietro, ma lei era sparita al primo angolo. Ho guardato Alex
e Frank che sembravano smarriti tanto quanto me.
Frank
ha sospirato. Alex ha guardato oltre l'angolo con l'aria timorosa di
uno che si aspetti di trovare una bomba. «Non lo so...»
ha detto, tornando a guardare noi, che eravamo rimasti dietro il
muro. «Non mi piace quando le femmine piangono... mi sa sempre
di guerra nucleare...»
«Ma
non possiamo lasciarla così. Andiamo dai!» li ho
sollecitati. E siamo andati tutti, guerra nucleare o meno. Arale è
una nostra amica e, come eravamo stati tutti insieme per Alex,
dovevamo esserlo anche per lei. Ma quando l'abbiamo trovata, in fondo
alle scale, e ci ha sentito arrivare, quando si è girata, è
scappata di nuovo. Non ce la siamo sentita di correrle dietro di
nuovo, adesso, perché era evidente da come si era comportata
che non voleva averci tra i piedi.
«Ma
che le prende?» ha domandato Frank, guardando la sua figura
minuscola che si allontanava.
«Beh,»
Alex si è grattato la testa. «dicono che le donne fanno
così... piangono, ogni tanto.»
«Ma
dai!» lo ha ripreso Frank. «Così, senza motivo!»
«Ma
non lo dico io!» si è difeso il nostro amico. «Lo
dice Martin!»
Frank
ha scosso la testa, per niente d'accordo. Anche io non lo ero: Arale
è una ragazza solare, pronta a ridere di qualunque cosa e che
non si arrende di fronte a niente, neanche all'evidenza, quindi era
ancora più strano che fosse scoppiata a piangere senza motivo,
quale che fosse la conoscenza di Martin delle donne.
Avevo
l'impressione che c'entrasse quello che ci aveva detto Alex a
proposito della sua famiglia e di suo padre che era scappato in
Italia, ma, se così era, non vedevo perché non essere
contenta che il nostro amico stesso avesse deciso di aprirsi con noi.
«Dai,
Ken.» mi ha sollecitato Frank, dandomi una pacca sulla spalla.
«Andiamo, o perderemo l'ora col Salvini. Ad Arale pensiamo
dopo.»
Ho
annuito, anche se il mio sguardo ha vagato alla ricerca di una
traccia di Arale. Speravo che si fosse calmata e che tornasse
indietro con noi, che dicesse che aveva scherzato e che non era
successo niente. Ma così non è stato.
Sono
stato pensieroso per tutto il resto dell'ora, ogni tanto osservavo il
parrucchino del Salvini che, adesso che lo so, mi sembra più
un gatto morto che un ammasso di capelli. In effetti, adesso che ci
penso, avevo sempre notato che gli facevano difetto sul lato
sinistro, ma pensavo che fosse pessimo il suo parrucchiere e non me
ne ero mai dato pena.
Arale,
comunque, non si è fatta vedere per tutta l'ora e mi sono
sentito parecchio solo: lei, di solito, mi sta a sentire quando le
dico le cose e certamente avremmo riso un mondo nel vedere il difetto
del parrucchino. E mi sono anche sentito un po' uno schifo: insomma,
era una dei miei migliori amici e l'avevo lasciata sola ad affrontare
il suo dolore, di qualunque cosa si trattasse, perché mi ero
fatto prendere dal panico.
Alla
fine dell'ora, deciso più che mai a riscattarmi, mi sono
rivestito in fretta e, senza neanche abbottonarmi la giacca, sono
andato a cercarla. Credevo che sarebbe stato più difficile del
previsto, dato che Arale non è Pan e non era mai scappata
prima di oggi. Ma, proprio perché Arale non è Pan, sono
riuscito a ritrovarla facilmente senza girare tutta la caserma: era
seduta sulle scale che portano al primo piano, quello dell'ufficio
della direttrice e dell'infermeria. E ora che ci penso... non ho
proprio visto mia sorella, al corso di ginnastica.
Ma
comunque, tornando al mio racconto, Arale se ne stava tutta piegata
su se stessa con l'aria triste e sconsolata e, quando mi ha visto,
sembrava che volesse riprendere a piangere. Mi sono comunque seduto
di fianco a lei, cercando le parole giuste per consolarla. Solo che
non mi usciva niente e, allora, sono rimasto zitto che, forse, è
stata anche la cosa migliore.
«M-mi
dispiace!» ha detto, dopo un po', la mia amica, togliendosi le
lacrime dagli occhi. «I-io non... io...» e, come se
avesse intuito le domande che avevo in testa, si è girata
verso di me. «Oh, Kenny,» i suoi occhi erano sgranati,
rossi e lucidi, mentre lucciconi scivolavano sulle sue guance paffute
che, di solito, erano sempre tirate in un sorriso. «non mi sono
mai sentita così umiliata in tutta la mia vita come oggi!»
e, senza pensarci un attimo di più, si è gettata tra le
mie braccia, prima di ricominciare a piangere a dirotto.
Da
parte mia, ero nel panico. Mi sono guardato in giro in cerca di
presenze umane: l'ultima cosa che volevo era che passasse qualcuno e
che ci vedesse così e che potesse fraintendere. E poi volevo
era un po' d'aiuto, perché non me ne intendo proprio di
ragazze che piangono. Nei film, di solito, i ragazzi danno loro le
pacche sulle spalle, dicono qualcosa di carino e di epico, ma poi
finisce sempre con un bacio... e l'idea mi terrorizzava. Insomma! Non
voglio dire che... ma bleah! È di Arale che stiamo parlando!
«Ehm...
ma... ma perché ti senti umiliata?» ho chiesto, sperando
che si staccasse presto.
E
lei, per fortuna, l'ha fatto e io non sono riuscito a trattenere un
sospiro di sollievo.
«Beh,»
ha risposto lei, asciugandosi di nuovo le lacrime col palmo, tutta
demoralizzata. «Insomma... lui lo sapeva che avevo letto gli
atti di tribunale!»
«E
come, se non gliel'hai mai detto?»
Lei
ha messo di nuovo su la sua aria di sopportazione quando le faccio
domande sciocche. «Ma insomma! È la mafia, lo vuoi
capire sì o no? Quelli sanno tutto!»
«Eh,
già...» ho commentato, anche se, a dire il vero,
continuavo – e continuo – a non capire.
Arale
ha sospirato. «Lui ha voluto farmi sapere che ha capito e che
tutto quello che so per lui non conta niente. Anzi, è disposto
a dirlo così come viene, perché sa di essere in una
botte di ferro!»
«A
me sembrava sincero.»
«A
te sembrerebbe sincero pure l'assassino con la mannaia grondante di
sangue che ti dice che è innocente!» ma poi ha
cominciato a scuotere la testa con aria di disapprovazione e mi ha
messo una mano sul braccio. «No, scusa, Kenny. È una
cosa cattiva da dire.»
«Oh,
tranquilla, mi hanno detto di peggio.» e ho sorriso con fare
incoraggiante. In confronto, quello era niente in confronto a
“paramecio”, anche se ormai alle mie orecchie quello era
quasi diventato un nomignolo affettuoso. Penso che mi dispiacerebbe
se Pan non mi chiamasse più così.
Lei
ha fatto un gesto secco con la mano, come se volesse dirmi di fare
silenzio o stesse scacciando una mosca fastidiosa. «Comunque,
non ti fidare troppo di Alex. Tutta la storia puzza un po'... a
partire dal fatto che lui è stato mandato in casa di Frank per
rubare. Anche se fosse vero, quando mai un ragazzino viene arrestato
per essere entrato in casa di qualcun altro e viene beccato a giocare
col proprio figlio? Magari poteva essere stato Frank a invitarlo,
anche se il senatore dice di no. Ma perché dovrebbe dire di
no? È questa la domanda che mi frulla! Un bambino non finisce
in prigione per essere stato beccato a giocare col proprio figlio, no
no.» e qui ha scosso la testa. Ha parlato come una macchinetta,
quindi era tornata la solita Arale di sempre, anche se aveva ancora
gli occhi un po' rossi. «Dovremo indagare, Kenny!»
All'inizio,
ho pensato di dirle di lasciar perdere, ma avevo anche paura che
potesse mettersi a piangere di nuovo. Così le ho promesso che
avrei fatto il possibile per aiutarla. Per questo adesso non mi sento
del tutto in pace con me stesso, anche perché poi, convinto di
aver fatto una sciocchezza, pentito di aver tradito anche solo
potenzialmente i miei amici, alla fine della giornata, nella camerata
dei ragazzi, prima di andare a letto, ho raccontato ad Alex e Frank
il motivo per cui Arale aveva avuto la sua reazione.
Eravamo
seduti sul letto di Frank, accanto a quello di Alex che se ne stava
disteso con le gambe larghe e le braccia dietro la testa, tenendo
anche la bocca aperta come se vedesse il più bello spettacolo
del mondo proprio sul soffitto grigio topo.
Frank
non sembrava più sconcertato, ma piuttosto contrariato. «E'
andata in tribunale!» ha esclamato, incredulo e anche un po'
indignato. «E' andata in tribunale per farsi i fatti tuoi!»
«E
dai, non farla lunga!» ha risposto Alex, con tutta la
leggerezza del mondo, anzi, anche un po' più allegro. «Che
cosa vuoi che sia? In fondo, se anche gliel'avessi detto prima,
saremmo punto e a capo. Spero quasi che venga fuori un casino come
quello del semestre scorso! Quanto mi sono divertito!» ha
guardato Frank, sorridendo, ma Frank aveva la testa girata dall'altra
parte, offeso. Sospirando, Alex si è dato un colpo di reni e
si è messo a sedere sul letto. «Frank... dai, che male
fa?»
«Che
male fa? Credevo che questa storia fosse finita mesi fa!»
Alex
ha fatto spallucce, sempre sorridendo. «Io voglio vedere fin
dove arriva. Sarà divertente!» e poi si è
allungato verso di me, mi ha dato una botta sulla spalla. «Grazie
Kenny, mi hai davvero risollevato la giornata!»
È
andato a letto poco fa, fischiettando.
Spero
solo di non aver fatto l'ennesima stupidaggine...
________________
Eccomi
di nuovo, dopo... ben otto mesi. Diciamo che ho avuto molto tempo per
scrivere e... per riflettere. ;)
Kenny
è arrivato a buon punto, ho scritto una decina di capitoli
negli ultimi sei mesi e me ne mancano all'incirca sette. Il punto è
che non so se continuerò la sua avventura o la terminerò
alla fine del primo anno, perché non scriverò (o non
pubblicherò) i seguiti. Questo perché mi sembra che la
storia non abbia avuto alcun successo e non lo intendo nel modo in
cui fanno alcuni che hanno fior fior di recensioni, ma ancora più
letture. Perché sono proprio queste che mancano: le letture.
54 in otto mesi mi sembrano un segnale più che evidente che
qualcosa non va.
Ora,
io non so se è il fandom che non “tira” o se è
la storia in sé, anche se, devo ammettere, a me la storia non
fa così schifo, anzi la adoro, ma io sono l'autrice ed è
difficile, su questo punto, che sia obiettiva. XD
Cerco
di capire che cosa non va, perché i segnali che ci sia
qualcosa da questo punto di vista ci sono tutti. Mi manca un feedback
di qualunque genere, da qualche capitolo a questa parte. Dal 2009,
quando ho pubblicato, ho avuto 4 seguiti, 2 preferiti e 1 ricordato e
la situazione è in stallo. Perciò vorrei capire, di
quei 54 che hanno acceduto al capitolo scorso, quanti sono
effettivamente tornati e quanti hanno aperto e chiuso subito.
Ovviamente, chi la apre e chiude subito non può rispondere, ma
per coloro che leggono (se ce ne sono): è perché la
storia non vi interessa? Non vi suscita niente, è stupida, è
per via delle parolacce (come mi disse un ragazzo e, di parolacce,
molti non infarcissero i loro discorsi), è troppo lunga, è
pallosa? È perché gli aggiornamenti vanno a rilento e
avete perso le speranze? Non lo so... mi sono interrogata a lungo e
non arrivo alla risposta. -.-''
Grazie
in anticipo a chiunque voglia aiutarmi. :)
Luine.
|
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Capitolo 21 *** Riunione in biblioteca ***
4 Gennaio
Stamattina, Arale è arrivata a colazione molto dopo di noi ed è piombata al nostro tavolo del tutto inaspettata. Ha sbattuto le mani sul tavolo, nel posto vuoto al mio fianco, quello che ho occupato con la borsa dei quaderni per evitare che qualcun altro prendesse il suo solito posto. È piombata nel vero senso della parola, tanto che tutti quanti abbiamo sollevato la testa di scatto. Il tavolo aveva pure preso a vibrare per la forza del colpo e Alex si è quasi rovesciato addosso il suo latte; Bra, che era impegnata ad appolparsi a Frank, si è voltata di scatto, con gli occhi sgranati; tutti quanti, da Trowa a Joe, hanno fatto un salto sulla sedia che li ha fatti balzare a tetto o quasi; per non parlare dei tavoli intorno, i cui occupanti si sono girati perplessi, hanno guardato Arale che ha annunciato solennemente: «Da oggi cominciano le indagini!»
A quel punto, si sono girati di nuovo verso i loro piatti, capendo che erano solo quegli scalmanati del primo anno corso B che ne stavano per combinare una delle loro.
Pan è stata l'unica che ha continuato a fare tutto come se niente fosse. Mangiava i suoi fiocchi d'avena uno alla volta, gli occhi rivolti al soffitto e la testa altrove, per niente spaventata dalla violenza con cui Arale aveva dato il suo buongiorno.
Ma io, quando Arale ha parlato di indagini, dimenticandomi del cuore che mi era salito agli occhi, ho creduto avrei rimesso quelle due uova che mi ero costretto a mettere in pancia, prima della lezione con la famigerata Dorothy del Mago di Oz, soprannominata così dopo la confessione di Alex.
«Quali i-indagini?» ho balbettato, preoccupato che stesse parlando di quelle indagini che riguardavano proprio i nostri amici e la loro appartenenza alla mafia.
«Quelle su noi due, ovviamente!» ha risposto Frank, per lei, acido. Evidentemente, non ero stato l'unico a pensarla allo stesso modo.
«Che me ne frega!» ha replicato lei, allo stesso modo, fissandolo in cagnesco. E poi, quando si è accorta di quel che ha detto, ha aggiunto: «In questo momento, almeno. Io parlavo del Sanc Kingdom! Sono stata in biblioteca per prenotare dei libri e così ho detto al sergente che volevo parlargli. Il punto è che ci aspetta non appena finiscono le lezioni.»
A quel punto, Pan si è girata verso di noi. «Ancora?» ha chiesto, disgustata.
«Sì, ancora.» Arale si è seduta accanto a me con aria assai compiaciuta. «Ho deciso che, se la Une si rifiuterà anche oggi di darci spiegazioni esaurienti, andremo nell'unico posto in cui possano darci delle informazioni!»
«Cioè?» ha domandato Alex, che era impegnato a pulirsi la divisa dal latte con una mano, riuscendo, per questo a spandere il latte anche dove prima era tutto pulito. Frank, per compassione, gli ha allungato un fazzoletto di carta.
«Cioè in biblioteca.» ha ribattuto immediatamente Arale. «Di cosa sto parlando da quando sono arrivata, meno di due minuti fa?»
«Sì?» ha criticato Trowa, che era di fianco a Bra e quindi molto vicino a noi. «E cosa pensi di trovare, dato che la Une è così reticente? Non credo che troveresti qualcosa. Sarebbe un controsenso bello e buono, dato che non ne vuole parlare!»
«Ma io non parlavo di documentazione scritta! C'è il sergente, la Johnson... e un migliaio di soldati che stanno aggiustando Pioggia di Fuoco, nell'hangar quattordici. Mi sono informata, cosa credete? Mentre voi eravate impegnati a rimpinzarvi, ieri a cena, io ho parlato con Heero e mi ha detto che è lì che lo tengono, ma che agli studenti è vietato di entrare nel capannone perché è pericoloso, così mi hanno detto.»
«Ma io ci sono stato.» ho risposto, perplesso.
«Sì, ma eri col Marquise.» ha subito spiegato lei, come se ci avesse pensato a lungo, cosa di cui non ho mai dubitato.
«Che c'entra?» ha detto Tai Yagami. «Se è pericoloso per noi, è pericoloso per loro!»
Arale lo ha indicato. «Appunto!» ha esclamato, con fervore. «Quindi hanno mentito. Questo mi fa chiedere: perché tanto mistero?»
Trowa non ha replicato, ma dalla smorfia che ha fatto si vedeva che anche lui era dello stesso avviso.
«Un altro mistero!» ha commentato Frank, asciutto. «Davvero, Arale, dove troverai il tempo di studiare, questo semestre, se ti devi mettere a indagare su tutti i misteri del mondo...»
Alex gli ha tirato una botta. «E dai, smettila! Io ci sto, Arale, ci sono sempre stato sulle cose misteriose. Tranne che su Mortimer, il segretario... non so se l'avete mai visto, ma... lasciamo perdere. Se vuoi, comunque, Arale, ti do anche una mano con l'altro caso.» Ha ammiccato.
Lei, invece, si è solo accigliata. «No, grazie. Sto benissimo così.» E poi, rivolta a me, ma solo a mezza bocca. «Al posto della bocca hai un forno.»
Mi sono sentito – e mi sento – un vero imbecille, per non dire uno stronzo: ho combinato un grande casino, parlandone con gli altri, quando pensavo di fare una cosa buona per mettere pace ancora prima che scoppiasse la bomba. Invece adesso Frank ce l'ha con Arale e Arale tratta male Alex. Spero che questa storia della mafia finisca presto, perché è stressante!
«Ma che ce ne frega?» ha domandato, invece, Bra, con disprezzo. «Del Sanc Kingdom e tutto il resto? Insomma, è stato distrutto tempo fa, no?»
«Sì, ma non mi sembra un buon motivo per ignorare la cosa.» ha replicato Trowa, che sembrava avere molto a cuore, chissà perché, la faccenda. «Soprattutto perché adesso la base giapponese dell'aviazione spaziale ha il suo Suit, che, per inciso, è il suo tesoro nazionale. Non ci avevo pensato, prima di ieri, ma Iccijojji ha ragione: perché non ne abbiamo parlato?»
«Ma che importa? Sai di quante cose non abbiamo parlato?» ha continuato Bra, mettendosi una mano nei capelli e facendola scorrere dalla nuca fino alle punte. Questa cosa non l'ho capita, ma non volevo chiederlo ad Arale che è stata fortemente arrabbiata con me per tutto il resto della giornata. «Tutto questo casino per un Mobile Suit e per il regno da cui è stato portato via... pare più una storiella romantica senza senso.»
«Mi chiedo perché tentare di aggiustarlo, tra l'altro.» ha commentato Sora, pensierosa.
«Perché?» ha voluto sapere Tai Yagami.
A rispondere è stata Mimi che, per imitare Bra, anche lei ha mostrato a tutti i capelli. «Perché i Mobile Suit sono cose superate, ormai.» ha detto e con molta aria di superiorità. «Io, l'anno prossimo, probabilmente cambierò scuola, per questo.»
«Speriamo!» ha ribattuto Pan, fiduciosa. «Quanto manca al lieto evento?»
«Me ne andrò a studiare in America.» ha continuato Mimi, senza dare minimamente ascolto a mia sorella. «Lì sì che sono all'avanguardia, mica come qui che ancora costruiscono i Mobile Suit e ce li fanno studiare come il massimo della tecnologia!»
«Cosa c'è di più avanzato di un Suit?» ha voluto sapere Alex, spaventato a morte. «Io non l'ho mai manco visto da vicino e già mi viene il vomito!»
Ho annuito dietro di lui. Quella faccenda degli americani già mi stava facendo venire il dubbio che questi anni a venire siano anche più duri del previsto e che tutto quello che hanno studiato gli altri sarà troppo obsoleto per noi, che dovremo ricominciare tutto da capo, essere come cavie per esperimenti di insegnamento, cose che odio, soprattutto perché, anche a scuola, quando facevamo da cavie, eravamo sempre quelli che la prendevano più nel sedere...
«Non c'è niente di più avanzato di un Suit!» ha detto categorico Trowa.
«Guardate qua, scettici!» Mimi, tutta orgogliosa, ha tirato fuori dalla sua borsa dei quaderni un giornale, straniero a giudicare dal nome, People. Sulla copertina c'era stampato il faccione serio di un uomo dai capelli scuri e mossi, il viso pallido e il pizzetto ben curato che guardava il lato della copertina, puntando gli indici di entrambe le mani verso lo stesso punto. I am Iron Man, recitava la didascalia rossa sotto di lui. Kagetano non era stato uno dei professori di inglese più bravi che ho avuto, ma è riuscito a farmi entrare in testa almeno il verbo essere e la prima persona singolare e quindi ho potuto capire che quel tizio si chiamava Iron Man.
Pan ha preso il giornale prima che Arale potesse allungarsi sul tavolo per fare lo stesso. La mia sorellona ha dato un'occhiata alla copertina e poi ha lanciato di nuovo il giornale sul tavolo, il più lontano possibile da me e dalla mia amica. «Che faccia da cazzo!» ha commentato.
«Faccia da cazzo?!» ha ribattuto Sora, indignata. «Ma lo sai chi è quello?»
«Iron Man.» ha risposto Pan, alzando le braccia, con fare menefreghista. «Embè?»
«Non sai chi è questo?» l'ha derisa Bra, prendendo il giornale, che era finito molto vicino a lei. E ha mostrato la copertina a tutti. «Iccijojji, è Tony Stark!»
«Embè? Iron Man o Tony qualcosa rimane sempre una faccia da cazzo.»
«Ne hanno parlato tutti i giornali, ultimamente!» ha esclamato Arale, in tono sognante, proprio mentre Bra alzava gli occhi al cielo per il commento di Pan. «Quest'uomo è l'idolo del momento! Non hai letto i giornali? Guardato un notiziario?»
«E che me ne faccio?» E' stata la domanda di Pan, che ha pure alzato le spalle, perplessa per quella domanda, ma su questo non potevo certo darle torto: in casa nostra non è mai entrato un quotidiano e mai è stato guardato un telegiornale, perché il nonno ha sempre detto che queste cose danno acidità di stomaco, papà non se ne interessa e la mamma non ha mai tempo per queste cose, tranne quando, ascoltando le pubblicità alla radio, sente che il senatore Douglas Kushrenada terrà una conferenza.
«Non mi stupisco che Iccijojji non guardi la tv!» ha risposto Bra, mordace, guardandola con profondo disgusto. «Forse è troppo impegnata con sua madre ad escogitare un piano per entrare nella mia famiglia e poi a piangere perché i loro sogni sono stati infranti così in fretta! Aveste visto come sua madre corteggiava Trunks, facendo mille domande su come trovava Pan!» Qui, in molti hanno cominciato a ridere. «Sono venuti a Natale, i suoi genitori! E mio fratello era nel panico più totale, quando ha detto che considerava Pan solo un'amica, perché abbiamo creduto tutti che a sua madre venisse un embolo! Che imbarazzo!»
L'imbarazzo lo provavo io, perché i miei amici ridevano e perché mi ricordo benissimo il Natale, quando la mamma, quella sera a cena, aveva cominciato a parlar male con Mizar dei Brief e, soprattutto, di Trunks e dei suoi capelli rosa. Avrei voluto che la terra mi inghiottisse tutto, sedia compresa, perché mai e poi mai avrei immaginato che la mamma potesse anche solo pensare di fare sul serio una cosa del genere. Era vero che mi aveva chiesto di come Pan trovasse Frank, ma non credevo che saremmo arrivati a questo punto!
«Ma che cazzo stai dicendo?» ha replicato Pan, in tono così calmo e assassino da farmi venire i brividi.
«Ma ci credo!» ha continuato Bra, quando le risate erano calate di parecchio, facendo finta che Pan non avesse detto nemmeno una parola. «Perché mio fratello è un figo! Ci credo che Pan e sua madre lo vogliono come partito!»
«MA SE TUO FRATELLO E' PIU' IDIOTA DEL MIO!»
Bra l'ha fulminata con un'occhiata, mentre io mi stupivo che dicesse una cosa del genere: Pan, in fondo, pensava che Trunks non fosse male, e sentirla dire il contrario mi lasciava perplesso. Non mi sono sentito ferito, credo di esserci abituato.
«Bada a come parli!» ha esclamato Mimi, indignata.
«Bada tu a come parli, troietta,» e Pan le ha mostrato i pugni, digrignando i denti come un animale. «o i capelli ti sembreranno bianchi, a furia di pugni che ti darò sulla faccia!»
«Non sarà mai figo quanto Tony Stark!» ha dichiarato Arale, categorica, riprendendo immediatamente le redini della situazione, distogliendo l'attenzione generale da Pan e da Bra.
«Bah! Mio fratello è ricco e intelligente tanto quanto Stark.» ha dichiarato proprio Bra, altezzosa. «Se non ci credi chiediglielo tu!»
«Ecco qui!» ha sbuffato Alex. «Un altro riccone con la puzza sotto il naso! Questo mondo è pieno di gente così, che palle!»
«Ma quale puzza sotto il naso! È un genio! Ha inventato l'arma Iron Man!» ha strillato Sora, indignata dal commento di Alex.
«Ma chi? Il fratello di Bra?»
«No! Tony Stark!» ha replicato Arale, che era indignata che qualcuno avesse potuto scambiare l'uno per l'altro.
«Ma non si chiamava lui, Iron Man?» ho domandato, confuso.
Nessuno mi ha risposto.
«Ormai i Mobile Suit sono solo macchine ingombranti! Con una di quelle macchine Iron Man... ah, io voglio assolutamente andare in America e vederlo! Dicono che sia ancora meglio che in foto!» diceva Sora, tutta eccitata.
«Mah.» ha risposto Alex. «Per me poteva anche inventare il pulitore di naso automatico... anche se, in quel caso, ammetto che mi sarebbe più utile.» E, come per dimostrarlo, si è infilato un dito nel naso e ha cominciato a scavare con decisione.
Bra gli ha lanciato un'occhiata disgustata e ha pensato che fosse proprio l'ora di togliere il disturbo. «Beh, penso che andrò a prendere posto. Ciao, Frank,» ha detto, accarezzandogli una spalla. «non esitare ad unirti a noi, se vuoi una compagnia... un po' più glamour.» E ha lanciato un'occhiata a me, ad Arale e infine, di nuovo disgustata, ad Alex, che aveva tolto una caccola dal naso e, tutto orgoglioso, se la stava ammirando.
Mimi e Sora l'hanno seguita fuori dalla mensa e io non ho potuto fare a meno di notare che tutte e tre dondolavano i sederi come fossero pendoli perfettamente sincronizzati.
«Ah, se n'è andata, finalmente?» ha chiesto Alex, alzando gli occhi. E ha lanciato via la caccola. «Ve lo giuro, ragazzi, mi sta così sulle palle, quella!»
«Ma almeno ha lasciato People!» ha esclamato Arale, tutta felice, ed è corsa ad accaparrarsi il giornale come se fosse il miglior trofeo che avesse mai visto.
«Scusate...» ho detto, mentre guardavo lei che si abbracciava la copertina e, a tratti, se lo spostava dal petto per guardare la faccia seria di Tony Stark. «Ho capito che questo tizio ha inventato... Iron Man, qualunque cosa voglia dire, ma... chi è? Io non ci ho capito niente!»
«E sai che novità!» ha risposto Pan, oziosa. Si era appoggiata al tavolo, reggendo la testa con la mano, il busto buttato in avanti e lo sguardo vacuo di chi se ne freghi del mondo.
«Ti ricordi quando abbiamo parlato della Kaiba Corporation?» mi ha chiesto, invece, gentilmente Frank.
Ho annuito, anche perché mi ricordavo alla perfezione che Arale voleva sapere assolutamente la taglia delle sue mutande. Ora Kaiba era al tavolo del primo anno corso E, lo stesso di Ryan, e stava sorseggiando il suo caffè latte, tenendo lo sguardo puntato su un libro dalla copertina nera. Non doveva avere tanti amici e nemmeno aver legato molto con i sui compagni. In compenso, Ryan Shirogane era stato letteralmente assediato dalla sua ragazza con i capelli rossi, che lo teneva stretto stretto e gli dava baci continui sulla guancia. Lui, però, stranamente, aveva la stessa aria annoiata di Pan, forse un po' più sconsolata.
«Beh,» ha continuato Frank, notando la direzione del mio sguardo. «Tony Stark è... era la controparte americana di Gozaburo Kaiba. Era l'amministratore delegato della società fondata da suo padre, la Stark Industries, famosa per le armi ad alta tecnologia che esportava in tutto il mondo. Parte del merito della creazione dei Gundam è andata proprio a Howard Stark, il padre di Tony.»
«I Gundam?» ho chiesto, sempre più perplesso. Sembrava che questa mattina si divertissero a bombardarmi di informazioni e nomi strani. E non erano ancora cominciate le lezioni! Però, adesso che ci penso per bene, mi sembra di aver già sentito parlare di questi Gundam, da qualche parte, ma non riesco proprio a ricordare né dove né quando.
Frank mi ha spiegato: «I Gundam sono dei potentissimi Suit in lega di Gundanium, ecco perché vengono chiamati Gundam. A quanto pare, questa lega fu proprio Stark a crearla. Pioggia di Fuoco appartiene alla strettissima cerchia di quei Suit che furono creati dalla Kaiba Corporation per tenere testa a quei bestioni. Ma tanto è stato inutile, perché hanno smesso di costruirli.»
«E perché?» abbiamo chiesto in coro Alex e io, gli unici che sembravano quantomeno confusi, mentre Arale, che pareva sapere tutto, annuiva alla fine di ogni frase di Frank. Pan, al contrario, continuava a fare finta di niente e, anzi, si lanciava molliche di pane cadute sulla tavola per tentare di afferrarle con la bocca.
Al posto di Frank, ha risposto Trowa, anche lui molto dentro all'argomento: «Perché i progetti sono stati distrutti, per qualche motivo. Nessuno è stato più in grado riprodurre la lega e i Gundam sono diventati dei pezzi da museo, fine della storia.» ha tagliato corto e poi ha anche guardato l'orologio. «Anche perché tra cinque minuti dobbiamo essere in classe.»
«Adesso Stark è nel campo dell'energia pulita!» ha sospirato Arale, ignorandolo e guardando la copertina con aria sognante. «Da quando ha creato Iron Man, si dice che abbia capito che la guerra è una cosa inutile e stupida e così... ah, che uomo, che maschio! Se fossi sicura di incontrarlo, andrei anche io in America come Mimi!»
Pan si è risvegliata dal suo stato di torpore. «Ti levi di culo anche tu, tappoide? Ah, che meraviglia! Due in un colpo solo! Non mi resta che rendere blu la faccia di Bra, cambiare i connotati di Kenny e mettere due spilloni su per il culo a Heero Yuy, magari ficcare due stecche da biliardo nel naso dello scaccolatore puzzone e magari mandare a cagare la Une, poi... no, forse potrei anche appendere Burton per le palle...» Mentre elencava tutte queste carinerie, sollevava un dito per tenere il conto e intanto aggiungeva sempre più gente. «Poi sì che sarei la persona più felice dell'universo!» Ha sorriso serafica, guardando tutti noi.
Trowa, a cui era arrivato il fatto che mia sorella voleva appenderlo per le palle, è stato il primo ad alzarsi e subito dopo lo hanno fatto Frank e Alex. Io sono rimasto seduto, un po' perché Pan non si era alzata e un po' perché volevo parlare con lei a tu per tu. Non avevo dimenticato che voleva scappare e rubare il badge della Une, così volevo sincerarmi che non stesse architettando qualche stratagemma per riuscirci.
«Se vogliamo cercare informazioni sul Sanc Kingdom, io ci sono. Alle sei in biblioteca?» Si è accertato Trowa.
«Sì. Alle sei» ha confermato Arale.
«Ci vediamo in classe» ha salutato lui.
Pan si è alzata subito dopo di lui, di scatto, come se l'avessero punta sulle chiappe ed è scappata via come se dovesse correre in bagno il più in fretta possibile. O quello, o aveva capito le mie intenzioni, tant'è che non sono riuscito a chiederle che cosa avesse in mente di fare. Non mi sono deciso a correrle dietro perché Arale, stringendo People come se fosse Stark in persona, si è diretta verso il tavolo del terzo anno corso B, dove era seduto Heero, da solo.
Il nostro amico mandava messaggi da un vecchissimo cellulare che pareva dell'età del mesozoico con la velocità di un fulmine. Tra l'altro, lo faceva stando bene attento a tenerlo sotto il tavolo, in modo che da quello degli insegnanti non si potesse notare niente. In effetti, non ho mai visto nessuno usare il cellulare, qui in caserma.
«Ehi, Heero!» Lo ha salutato la mia amica, con un sorriso. Al che, Frank che stava per avviarsi anche lui fuori dalla mensa, si è fermato per guardare cosa succedeva. Alex, invece, ha seguito Arale per andare anche lui a salutare Heero che, quando lui si è sentito chiamare, ha fatto un salto fino al tetto e, arrossendo come un ladro, ha fatto sparire il telefono in tasca.
«Ah, ciao!» Li ha salutati, con un sorriso per niente sincero, come se non fosse contento di vederli. «State ancora indagando sul Sanc Kingdom oppure avete desistito perché sono cose troppo vecchie e antiquate per voi? Ma che era quella cagnara di là, al vostro tavolo?»
«Un riccone di merda di nome...» Alex ha cominciato a rimuginarci sopra. «Non mi ricordo. Comunque suonava molto come Sark.»
«Stark.» l'ha corretto Arale, come se l'avessero offesa nel profondo. «Comunque, ero solo passata per dirti che ci riuniamo stasera, in biblioteca, alle sei.»
Heero l'ha guardata come se non capisse a cosa si riferisse. «Veramente... alle sei ho appuntamento con un gruppo di compagni per studiare...»
«Stasera.» ha ripetuto truce Arale, puntandogli contro un minacciosissimo dito indice. «Alle sei.»
Heero ha spalancato le braccia. «Ho altra scelta?» ha ironizzato, ma quando Arale gli ha lanciato una seconda occhiata assassina, lui ha alzato le mani in segno di resa. «E va bene, va bene, in biblioteca.»
«Alle sei!» Si è raccomandata Arale.
Poi ha preso la strada per la classe della Une, Alex dietro, ignorato come se non ci fosse, e poi dietro ancora siamo arrivati noi, che abbiamo affiancato il nostro amico per non fargli fare la figura meschina di quello che segue una persona come un cane bastonato.
«Aveva un cellulare, vero?» ha domandato Frank, guardandosi indietro e riferendosi a Heero.
«Sì, figo, vero?» ha confermato Alex, tutto allegro. «Ah, mi sono dimenticato di chiedergli di comprarmi delle cose!»
«Non saranno altre sigarette!» ho sperato, perché Alex, con il fatto che fa freddo, ha smesso anche di aprire la finestra di camera nostra, la quale adesso sembra una ciminiera.
«Ma no!» ha replicato lui, come se avessi osato dire che gli indiani d'America erano africani. «Il problema è che non so dove metterli! Cazzo, ad avere una ghiacciaia sotto il letto!»
«Che te ne fai di una ghiacciaia sotto il letto?» ho chiesto.
Alex ha sorriso e guardato la nostra amica che ci camminava davanti, ma non troppo perché non potesse sentirci. «Ci devo nascondere il cadavere di Arale!» ha esclamato.
Arale si è girata di scatto e lo ha trucidato con lo sguardo. «Non mi farò ammazzare facilmente.» ha decretato. «E se pensate di potermi incantare con i vostri discorsi vi sbagliate di grosso! Dimostrerò che appartenete alla mafia!»
«Accomodati.» le ha risposto Frank, secco.
Alex sorrideva come se non avesse aspettato altro che sentire Arale fare quella promessa. Io mi sono sentito uno schifo, invece, perché pensavo che, se eravamo arrivati fino a questo punto, era tutta colpa mia e della mia bocca come un forno, proprio come ha detto lei. Perché, se fossi stato zitto, forse saremmo ancora tutti un gruppo, Arale e Frank sarebbero in pace tra loro e non dovremmo essere costretti a queste schermaglie. Ma cosa devo fare, se Arale ha preso ad ignorarmi e a cambiare strada quando mi vede, proprio come fa mia sorella?
Durante tutta la giornata, si è comportata in modo strano: si era seduta in ultima fila a due posti da Pan per tutte le ore che non abbiamo avuto con la Une, che vuole, invece, che teniamo i nostri posti fino alla fine dell'anno, poi a pranzo ha preso posto accanto a Trowa Burton e durante i cinque minuti di pausa tra una lezione e l'altra, se non parlava con lui e gli altri di Stark, leggeva di lui sul giornale che aveva preso a Bra e Mimi.
Non mi aspettavo che la spaccatura tra noi potesse diventare tanto grande per colpa mia: all'inizio, quando ho visto che con la lezione di Bristow – che finalmente ha cominciato gli integrali! – si sedeva in fondo, a due posti di distanza dalla mia sorella sbracata, credevo che lo facesse per studiare altre materie e non farsi vedere dai professori che faceva altro o che era distratta e perché la Catalonia le sta antipatica. Era un comportamento un po' strano, dato che è solo il secondo giorno, così ho sospettato che dovesse proprio avercela con me.
Pensavo anche che ci saremmo rappacificati nel giro di qualche ora, soprattutto perché eravamo reduci da quello che è successo nel primo trimestre. Non mi aspettavo di certo che facesse finta che non esistevamo. Questo, se possibile, ha fatto adirare Frank più di tutto il resto. Quando è arrivato il momento di andare in biblioteca, dopo due ore estenuanti con la Noin, si è fermato in mezzo al pianerottolo delle scale.
«Andate voi.» ci ha detto.
«Ma... perché?» ha voluto sapere Alex, sorpreso. «Dai, Frankie, sarà divertente! Andiamo a sentire che cosa ne sa il sergente del Sanc Kingdom!»
«No, non vengo. Sarà l'Arale Norimaki Show, come al solito, e non credo di doverle dare tutta questa importanza. Se il sergente dice qualcosa di interessante, me lo riferite quando tornate.»
Alex ha scosso la testa, mentre Frank se ne andava via senza dare il tempo a nessuno di noi due di dire qualcosa per dissuaderlo. «Che senso dell'umorismo da patata!» ha esclamato Alex, rivolto a me.
«E' tutta colpa mia!» ho risposto. «Se non vi avessi detto niente...»
«Sì, sei stato un po' infame.» ha detto lui, con leggerezza e, prima ancora che avessi il tempo di accusare il colpo e di riprendermi dallo shock, mi ha battuto una pacca sulle spalle ed è scoppiato a ridere. «E dai, non fare quella faccia! Mica lo sapevi che veniva fuori questo casino e poi Frank se la prende troppo per tutto. Prima o poi gli passa a tutti e due, lui e Arale!»
Lui ci ha provato, a tirarmi su di morale, anche se non ci è riuscito molto bene. Mi sentivo proprio come aveva detto lui che ero: infame. Non riuscivo a giustificarmi come faceva lui.
Ho annuito, comunque, e siamo andati in biblioteca. Mi aspettavo che saremmo stati in cinque ad aspettare il sergente: Alex, io, Trowa, Arale e Heero, reclutato coattivamente. Invece c'erano almeno una decina di persone, tra cui anche Bra, Mimi e Sora. Ma più sorprendente di tutto è stata la presenza di Pan, che era sembrata la meno interessata di tutti alla faccenda, sia questa mattina che ieri, quando ha poi tentato di far prendere ad Alex il badge della Une. Ma c'erano anche altre facce nuove: Ryan Shirogane con la sua fidanzata-ventosa, Seto Kaiba che se ne stava in disparte, su una sedia, con le gambe accavallate e le braccia incrociate sul petto. Per ultimo, un ragazzino basso basso con una pettinatura strana, che poi ho scoperto chiamarsi Yugi Muto.
«Ma... come mai così tanti?» ho chiesto a Trowa.
Lui ha aperto le braccia. «Passaparola.»
«A chi?» ha chiesto Alex, sorpreso.
«No, Ramazza.» ha ribattuto Burton, con un sospiro rassegnato. «Volevo dire che tutta questa gente c'è perché si è sparsa la voce.»
Guardandomi ancora intorno, ho visto che c'era anche Ernesto, che cercava in tutti i modi di attirare l'attenzione di Pan su di sé in un modo abbastanza patetico: «Ma sciamo qui per lo shtessho motivo?»
«Non so.» ha risposto Pan, con glaciale tranquillità. «Sei qui per farti ridurre i denti con un pugno? Perché, se è per questo, sono un ottimo dentista!» E così, senza indugiare, gli ha inferto un colpo che lo ha fatto finire a gambe all'aria.
Bra, Mimi e Sora, che erano lì vicino, hanno lanciato un grido, ma invece di soccorrere il povero Ernesto, si sono allontanate. Per questo, ho cominciato a pensare che fosse morto e così, facendomi strada in mezzo alla gente stivata all'interno della biblioteca che parlava e quasi non si accorgeva di lui e di quello che gli era successo, mi sono inginocchiato al suo fianco. L'ho guardato. Aveva il sangue al naso e un'aria ebete stampata in faccia, mentre guardava il soffitto. Per un lungo momento di terrore ho pensato che fosse morto per davvero.
Però poi ha cominciato a muovere le labbra, ma sembrava che non ne uscissero suoni. C'era un caos incredibile intorno a noi ed è stato difficilissimo per me riuscire a comprendere che Ernesto stava dicendo: «La voglio shposhare!»
Alex ha proprio ragione: è masochista.
L'ho aiutato a rimettersi seduto e gli ho tenuto un braccio dietro le spalle, spaventato all'idea che potesse cadere di nuovo, battere la testa e morire davvero. «Come stai?»
«Mai shtato meglio!» ha sospirato lui e si è sistemato gli occhiali sul naso. Erano un po' più storti, ma credo che lui lo prenderà come un segno dello sconfinato “amore” di Pan per lui.
«Ce la fai ad alzarti?»
«Shì... forshe vuol dire che non mi ha picchiato troppo forte... le chiedi, per piascere, se mi dà un'altra botta?»
«Più tardi, magari» gli ho promesso, incerto.
«Io la amo!» ha gridato, ma nessuno, proprio perché erano tutti impegnati a chiacchierare tra di loro, ha notato niente. Solo Bra, Mimi e Sora, che se n'erano andate quando Ernesto è caduto loro ai piedi per il pugno di Pan ci stavano guardando con un sorriso maligno che non lasciava intendere niente di buono. Chissà che avevano tutte e tre, da guardare. Potevano anche dare una mano, invece di ridere del povero Ernesto e del suo strano interesse per Pan!
Alex, che era dietro di me, mi ha dato una mano a metterlo in piedi e a portarlo fuori, in infermeria. È probabile che ci saremo persi la prima parte del racconto, ma non potevamo lasciare quel povero diavolo di Ernesto ad annegare del suo sangue per un racconto che avrei potuto risentire quando volevo, visto che il sergente non è uno che ama farsi pregare.
L'infermeria era deserta, ma l'odore di pulito e disinfettante persisteva. La Johnson, che era nel suo ufficio quando Alex ha cominciato a chiamarla a gran voce, ci è venuta incontro solerte come suo solito. «Lo sapevo!» ha esclamato. «Lo sapevo che questa calma piatta non poteva durare! Due giorni senza nemmeno un ferito sarebbe stato troppo bello... che è successo?» ha chiesto, spiccia, quando è arrivata davanti a noi, ha afferrato energicamente il mento di Ernesto e lo ha sollevato fino alla sua altezza. Ha osservato il sangue e il naso di Ernesto, poi lo ha lasciato andare ed è tornata velocemente verso uno degli armadietti dei medicinali. «Mi chiedo perché voi ragazzi abbiate tutta questa fretta di fare a botte... per cosa, poi? Dovete stare qui dentro e convivere, non potete azzuffarvi per tutto!»
Non abbiamo detto niente, o almeno, questa era l'idea che avevo io e che, forse, aveva anche Alex.
«Non era una giuffa!» ha decretato Ernesto che, oltre che il suo strano problema di dizione, aveva preso a parlare con voce nasale. «Era amore! Cercava di aiutarmi. È un ottimo dentishta!»
«Sì.» ha grugnito la Johnson. «Mettetelo seduto. Fare a botte pure per le ragazze! Ah, gli adolescenti! Questi ormoni! Tenetelo fermo, tirategli indietro la testa. Un dentista! Ma da dove le tirate fuori?»
Alex, mentre eseguivamo gli ordini, guardava la Johnson come Ernesto guardava Pan, forse un po' meno invasato, comunque io mi immaginavo che anche l'infermiera potesse rispondere picche come Pan e dargli un pugno sul naso, per questo suo insistente sguardo puntato. Sono stato preoccupato che lo facesse, mentre lei metteva dei piccoli tamponi di spugna nel naso di Ernesto, dopo che l'aveva ripulito da quello che aveva provocato Pan. Aveva l'aria assassina che ha anche mia sorella nei suoi momenti più neri.
Quando ha finito, l'infermiera ha detto: «Rimani qui per stasera, così dopo ti cambio i tamponi e speriamo che il sangue abbia smesso di scendere. Ma è meglio che non ti stendi.»
«Ma io devo tornare in biblioteca. C'è Phan che mi ashpetta!»
«Fai come dice l'infermiera. Rimani.» gli ho detto, preoccupato che Pan, vedendolo tornare, decidesse di dargli la seconda scarica.
E, mentre io cercavo di convincere Ernesto, Alex voleva attaccare bottone con la Johnson che si era allontanata per lavarsi le mani: «La... la vedo in forma, infermiera Johnson! Un po' esaurita, magari… ma che le è successo?»
«In forma!» ha sbottato lei, mentre strofinava il sapone con foga eccessiva. Era evidentemente diversa dalla infermiera di sempre che era sì energica, ma mai così sfasata, aveva ragione Alex. «Sarei in forma, se fossi in un centro termale, sarei in forma se potessi stendermi sul letto e leggere un buon libro! Invece sono qui... e non sai cosa ho trovato sulla mia scrivania, un bel ritorno davvero! Potevo starmene alle terme e invece... un bel richiamo formale! Un richiamo! A me!»
Io e Alex ci siamo scambiati un'occhiata perplessa.
«Ah!» ha continuato lei. E si è allontanata dal lavandino per asciugarsi le mani, ma non sembrava che ci stesse davvero guardando. Era più come se stesse parlando tra sé e sé e noi fossimo lì solo per caso. «Già. Un richiamo per l'infermiera che fa il suo lavoro!» diceva, tra una strofinata e l'altra. «Un richiamo perché l'infermiera che fa il suo lavoro è sospettata di aver aiutato gli studenti a bigiare le lezioni. Io! Jenny Johnson! Che ho fatto della mia professione una missione! Che sono stata anche negli ospedali da campo, finita in una infermeria di ragazzini che fanno a botte tra loro per una ragazza, vengo sospettata di aver dato falsi permessi agli studenti! Ah, ma il Generale mi sentirà! Eccome se mi sentirà! Farò un rapporto anche io! Eccome se lo farò! Gliela faccio vedere io...»
Senza degnarsi di uno sguardo, dopo aver gettato nel cestino il fazzoletto di carta, inspirando con violenza, si è ritirata nel suo ufficio sbattendo la porta.
«Vengo con voi.»
«Meglio di no.» ho detto. «Davvero Ernesto... rimani con la Johnson.»
«E she mi uccide?»
«Ma figurati!» ha replicato Alex, irritato. «Basta che non la infastidisci.»
«Ma... ho paura!»
Alex l'ha guardato in modo strano, penso nello stesso modo in cui l'avrei guardato io, se lui fosse stato girato verso di me. Ha paura della Johnson che sbraita, ma non di Pan che per poco non lo ammazza con un pugno? Quel ragazzo è strano. Molto strano.
«Figurati... non può fare peggio di Pan!» ha detto, infatti, Alex, dandogli una pacca sulla spalla.
«Quello era amore!» ha ribattuto lui, convinto. «Lo fasceva per aiutarmi!»
«Sì, va be'.» ha risposto Alex. «Andiamo, Kenny. Così riusciamo a vedere la fine dello spettacolo, se non è già finito!»
Anche secondo me era finito, ma siamo andati comunque, giusto per scrupolo. E abbiamo scoperto che lo “spettacolo” non era mai neanche cominciato... perché ne era in corso un altro.
Quando siamo arrivati davanti alla porta della biblioteca, questa era spalancata e davanti c'era una ragazza coi capelli cespugliosi che bloccava il passaggio. Tutti gli altri erano ammassati davanti a lei e la stavano fissando, chi con malevolenza, chi con evidente fastidio. Il sergente, tra i due fuochi, guardava dall'una all'altra parte con l'aria di non sapere da quale delle due stare. E il brutto della faccenda era che non vedevo Pan: sospettavo che fosse scappata a combinarne una delle sue.
«Questa è una biblioteca!» diceva, intanto, la ragazza con i capelli cespugliosi, con tono puntiglioso e acido. «Non potete fare questa confusione! La biblioteca serve per studiare e per trovare pace, non per fare le riunioni di classe e parlare a voce così alta, è ingiusto per chi invece...»
«Ma stai zitta, befana!» ha sbraitato Pan. Era lei, non c'erano dubbi e mi sono sentito subito sollevato perché vuol dire che non cercava di fare qualcosa di strano ai danni suoi o della Une e, sprattutto, non stava cercando di sottrarle il badge. Mi sono messo in punta di piedi per vedere se riuscivo a vedere qualcosa oltre la spalla della ragazza con i capelloni.
«Io non sto zitta!» ha replicato lei. «Io vengo tutti i giorni a studiare e spesso non posso perché c'è qualcuno che parla a voce alta e che non mi permette di concentrarmi! Ne parlerò con la direttrice, se non ve ne andate immediatamente!»
«Vai, vai, almeno ti levi dai coglioni!» ha risposto Pan, sempre gridando.
«Scusa? Ci fai passare?» ha chiesto invece Alex, picchiettando un dito sulla spalla della ragazza.
Lei si è girata di scatto e l'ha fulminato con lo sguardo. «Ma non lo vedi che non si può? La biblioteca è piena di questi ragazzi che stanno facendo una riunione di classe! Ah, ma c'è anche Kaiba! Kaiba, che cosa stai facendo lì nel mezzo, come fai a stare lì e...»
Seto Kaiba che si era alzato in piedi un secondo prima, la guardava con aria di sufficienza. «Granger, se vuoi studiare, la biblioteca ha ancora... ah, no, niente più posti. Che peccato. Credo proprio che dovrai andare altrove a studiare...» ha detto, senza mai cambiare di un'ottava il tono di voce. Quel ragazzo ha un che di gelido che mi dà i brividi.
La ragazza si è irrigidita tutta, poi si è voltata di scatto verso l'uscita, e quindi verso di noi, e ho potuto vedere che aveva le lacrime agli occhi. Mi ha guardato e poi ha fatto lo stesso con Alex, risoluta. «Venite con me a parlare con lady Une?» ha chiesto, quasi speranzosa che noi le dicessimo di sì.
Io e Alex ci siamo scambiati un'occhiata, entrambi chiedendoci perché mai avremmo dovuto andare volontariamente dalla Une a dire che ci stavamo riunendo in biblioteca, che gliela stavamo facendo sotto il naso per farci spiegare dal sergente che cosa è successo al Sanc Kingdom, quindici anni fa.
Volevamo rispondere di no, ma stranamente lei deve aver capito perfettamente quello che pensavamo. «Fate come volete!» ha sbuffato, con un tono da: e sentitevi in colpa! Quindi ci ha dato una spallata l'uno, passandoci nel mezzo, e ha cominciato a percorrere il corridoio a grandi passi.
Da dentro la biblioteca si è levato un coro di strilli, applausi e fischi.
Noi siamo entrati e il sergente ha richiuso la porta con un sospirone di sollievo che ho sentito probabilmente solo io perché Alex si è fiondato su Pan, le ha preso la mano e ha cominciato a mandarla su e giù come se fosse stato tutto merito di mia sorella se quella ragazza – Hermione Granger, se non ricordo male – è andata via.
«Ma lasciami, lurido caprone in decomposizione!» ha gridato lei, riprendendosi la mano con violenza. Almeno non ha replicato il pugno di Ernesto e si è ritirata all'interno della biblioteca.
«Ragazzi, facciamo piano.» ha chiesto il sergente. «Perché se quella torna... che rompipalle, che è! Dovrei essere io a rimproverarvi, ma ci pensa lei. Bah, che tempi! Ma se davvero va dalla Une, va a finire che...»
Si è passato un dito sotto la gola per fare intendere che eravamo tutti fregati.
«Non se lo facciamo prima a lei.» ha risposto Pan, senza scomporsi.
Ma non si è scomposto nemmeno nessun altro.
Il sergente mi ha spinto gentilmente verso l'interno, al tavolo dove si erano tutti riuniti e nessuno ha più detto una parola in merito.
Arale era proprio al centro della tavolata, davanti a me, ma ha fatto completamente finta di non vedermi. Anzi, a volte pareva che mi guardasse e vedesse solo l'aria. Pan si è seduta al suo fianco, Alex ancora dall'altra parte. Poi tutti gli altri hanno girato intorno al tavolo. Dall'altro lato rispetto a dove si trovava Alex, era seduto Heero, lì dove l'avevo trovato, col bacino in avanti, le gambe allargate e le mani in grembo chiuse sul cellulare dal quale stava messaggiando con impegno, ignorando del tutto quello che aveva intorno.
Chissà a chi scriveva...
«Allora, perché siamo qui?» ha domandato il sergente, tutto allegro. «Norimaki ha tanto insistito perché ci incontrassimo a quest'ora!»
Arale ha annuito. «Sì. Si tratta del Sanc Kingdom.»
«Ah, non troverete libri sull'argomento.»
«Lo immaginavo.» ha risposto Trowa. «E' stata una perdita di tempo venire.»
«Non direi proprio! Sergente!» Arale è balzata in piedi. Stringeva ancora tra le braccia quel dannatissimo giornale con la faccia di Stark. «Se siamo qui, tutte queste persone, è perché vogliamo saperne qualcosa di più. Da lei!»
«Da me?» ha ripetuto il sergente e ha cominciato a scuotere la testa con disapprovazione. «Non sono argomenti da bambini... troppe brutte cose...» e si è girato a metà, pronto a correre verso la sua scrivania, al suo vecchio Olivetti.
«Saranno brutte cose, ma non vi fate scrupolo a tenere Pioggia di Fuoco in un hangar dell'accademia. Il quattordici, per la precisione.» ha insinuato la mia amica, al che il sergente si è girato verso di lei e l'ha guardata con tutto lo sbigottimento possibile.
«E tu come lo sai?» ha chiesto, sospettoso.
«Beh, diciamo che ho le mie fonti...» ha risposto lei, misteriosa, stringendosi nelle spalle per darsi ancora più importanza.
Lui si è accigliato, invece. «Sì, le tue fonti...» ha borbottato. «Beh, è comunque una cosa non adatta ai bambini!»
«Non siamo bambini.» ha insistito Arale. «Heero, ha quindici anni e anche Alex!»
«Ancora no.» l'ha informata Alex.
«Eh? Che vuoi da me?» ha chiesto invece Heero, sollevando appena gli occhi dal cellulare.
Arale lo ha guardato con disgusto. «Dico solo che, se siamo abbastanza grandi per entrare in una caserma sperimentale, possiamo anche sapere che cosa succede nel mondo, no?»
«Ma è un segreto militare!» ha esclamato il sergente, muovendo le mani avanti e indietro davanti ad Arale, con aria quasi contenta, come se avesse appena trovato un modo per ovviare a tutti i problemi.
Ma Arale non si è data nessun tipo di pensiero. «Siamo militari.»
Il sergente è rimasto un attimo interdetto: da un certo punto di vista, la mia amica aveva perfettamente ragione. «Beh, comunque non posso parlarne.»
«Perché? Se Zack Marquise ha il permesso di parlarne agli studenti, perché lei no?»
Heero ha di nuovo sollevato lo sguardo dal telefonino, ma con più lentezza rispetto a prima. Guardava Arale con gli occhi appena socchiusi, come se si stesse chiedendo se aveva sentito bene oppure se fosse possibile una cosa del genere.
«Zack Marquise, eh?» ha detto, però, il sergente, anche lui abbastanza perplesso. «Non credo che l'abbia fatto...»
«E invece le dico di sì! Lo chieda a Kenny!»
Il fatto che mi mettesse in mezzo e che lo sguardo di tutti fosse puntato su di me in attesa che io dicessi qualcosa mi ha innervosito parecchio, perché sentivo che avrei messo nei guai Zack Marquise. E non mi andava proprio di farlo, se devo essere sincero. Già avevo fatto litigare i miei amici, se poi quel professore che mi aveva aiutato tanto a non sprofondare nella depressione più nera avesse passato dei brutti momenti per causa mia non mi sarei mai potuto perdonare. Tanto valeva andare a raccogliere pannocchie o ad elemosinare iscritti per la palestra del nonno con addosso solo una mutanda da lottatore di sumo.
E un Dio, forse, mi ha voluto aiutare, facendo svegliare la ragazza di Ryan Shirogane dal torpore in cui era caduta praticamente dall'inizio della conversazione.
«Ah, Zack Marquise!» ha esclamato, balzando in piedi e permettendo che l'attenzione generale passasse da me a lei. «Lo conosco! È il nostro professore di Materiali! Porta sempre la mascherina!»
Ryan, che era seduto e appoggiato con i gomiti al tavolo, usava il braccio per coprirsi il più possibile. «Sì, Strawberry, lieto che tu abbia collegato finalmente i neuroni! Per informazioni superflue, ma è stato un grande passo avanti.»
«Oh, Ryanuccio!» ha sospirato lei e si è fiondata di nuovo tra le sue braccia, con tanta foga che ha fatto ribaltare la sedia dove era seduto lui con lui sopra. Ryan ha gridato come un matto, ma quando è piombato a terra con un tonfo ed è scomparso sotto il tavolo, la biblioteca è piombata in un imbarazzante e sconcertante silenzio, poi abbiamo cominciato a sentire rumore di schiocchi di baci.
«Oh, piano, dai ragazzi! Che infoiati!» ha esclamato Alex, con fare malizioso. «Non vogliamo bambini, in biblioteca!»
«A-aiuto!» gridava Ryan e ha sollevato un braccio che è spuntato inquietante da sopra il piano del tavolo.
Avevo paura di scoprire che cosa stessero combinando quei due là sotto, ma ho avuto paura di chiedere dato che, di solito, quando domando, mi guardano tutti in modo strano, chissà perché.
Heero, dal canto suo, non dava nessun aiuto a nessuno, si è sporto per guardare meglio, con un mezzo sorriso sghembo.
«Aiutatemi!» rantolava il povero Ryan.
Nessuno si è mosso per qualche secondo. Poi ad andare in suo soccorso, benché tutti riuscissero a vedere e nessuno si desse una mossa per fare lo stesso, io compreso, è stata Pan, che ha preso Strawberry per i capelli e l'ha tirata via da Ryan, tra urla e spintoni e calci della ragazza con i capelli rossi. Tutti quanti eravamo attoniti, pure quel pezzo di ghiaccio di Seto Kaiba.
«E che palle! Basta!» ha sbottato mia sorella, spingendola lontano. «Che cazzo! Se hai i bollori, fatti una sega! Non trombare quando c'è la gente che vuole scoprire i misteri che potrebbero sputtanare la Une e permettermi di prendere il potere di questo posto! Cazzo! Devo firmarmi il permesso di espulsione, idiota, e tu mandi tutto a puttane!»
Non appena ha finito di urlare, il silenzio è calato, tombale.
Mi sono reso conto, allora, che Pan è venuta in biblioteca questo pomeriggio soltanto per quello: trovare i segreti sporchi della Une per usarli contro di lei, ma non ho ben capito il resto del piano... quello dove lei prende il potere e firma la sua stessa espulsione. La dinamica della cosa mi sfugge.
Ma è stato proprio per il silenzio che è sceso subito dopo che abbiamo potuto sentire il rumore dei passi che si avvicinavano.
Era una roba inquietante, da film dell'orrore, perché credo che, come li ho riconosciuti io, li hanno riconosciuti tutti gli altri. È impossibile non conoscere quel passo cadenzato, quel ritmo marziale che scandisce i minuti delle sue estenuanti ore di storia.
Ho guardato Alex, che ha guardato me e poi Trowa, il quale ha guardato Mimi, che ha guardato Sora, che ha guardato Bra che si guardava le unghie, pure con noia. Pan guardava la porta e un attimo dopo la maniglia si è abbassata cigolando.
È stato allora che abbiamo lanciato tutti un grido, come se fossimo stati uno solo. Il panico si è scatenato. Il primo a fuggire è stato Alex, che si è nascosto tra gli scaffali. A seguirlo c'è stato il ragazzino con i capelli a punta, Strawberry che strillava più di tutti: «Dov'è il mio Ryanuccio?», Sora e Mimi che correvano da una parte all'altra come due galline spaventate e, alla fine, si sono pure scontrate tra di loro. Arale si è nascosta sotto il tavolo e si è aggrappata alle gambe della sedia, più o meno come ho fatto io. Pan è piombata sul tavolo e ha cominciato a fare il gorilla, battendosi il petto con i pugni. Gli unici rimasti tranquilli sono stati Bra, Heero, Ryan, Trowa e Seto Kaiba, che erano rimasti seduti dove si trovavano da prima dell'assalto di Strawberry.
Ma è stato tutto inutile, perché la Une era già entrata e aveva visto tutto.
«Siete un branco di imbecilli!» ha sibilato. E ha fissato con occhio truce sopra al tavolo, dove c'era Pan, probabilmente ancora in piedi e con i pugni pronti a battere sul petto.
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