Anatomia dell'Irrequietezza

di Jailer
(/viewuser.php?uid=123329)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 6. ***
Capitolo 6: *** 5. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


La storia è già conclusa, sarebbe una one shot, ma la dividerò in dieci capitoli perché è una storia di più di undicimila parole, ed è più piacevole la suddivisione.. Essi saranno pubblicati a blocchi tematici, per renderla continuativa.

La storia parte dal tema del pregiudizio: Manigoldo e Sisifo sono due personaggi perseguitati da questo, ma che possono anche perseguitare allo stesso modo.
Cancer per il suo temperamento (immagino che difficilmente al Santuario se ne possa parlare bene) e Sagittarius per i motivi esposti nel Gaiden (motivi spiegati velocemente anche qui, per cui la mancata lettura dell’extra non preclude la quella della ff). 

  Il titolo è quello di una raccolta di scritti di Bruce Chatwin.
L’irrequietezza è il tratto dominante di Sisifo a parer mio, ma è qualcosa di molto forte anche in Manigoldo, seppur meglio celato.

Altre cose verranno spiegate durante lo svolgimento.
Mi farebbe piacere qualche parere, di qualsiasi tipo, se vorrete concedermene anche solo uno.
Grazie in anticipo e buona lettura (spero).

 

ANATOMIA DELL’IRREQUIETEZZA

 

 

1

 

Dalla Quarta Casa, Manigoldo alzò indolentemente lo sguardo verso l’alto.
Il sole abbacinante di giugno allagava il Santuario con violenza; non c’era una nuvola in cielo, come se ormai l’estate non avesse più dubbi ad arrivare, a dispetto della primavera stentata che avevano avuto.

Dalla Nona Casa un bagliore dorato – Sisifo era di guardia e il sole lo benediceva.
Manigoldo strinse le palpebre per indovinarne meglio la figura: le ali erano distese e Sagittarius guardava verso il basso. Il mantello sulle sue spalle era immobile come un sudario scolpito nel marmo.
Manigoldo immaginò un’aquila di pietra. Potrebbero impagliarlo, pensò, incattivito dalla noia; sbadigliò.
Sisifo non gli era mai andato a genio, aveva troppe certezze, per i suoi gusti. Troppa fierezza e serietà addosso.

La vita è un’onda, il Cancro lo sa perché è un segno che viene dal mare.
La vita è acqua che si schianta, acqua che può distruggere e tornare al mare o rimanere sulla roccia ed evaporare via. Un fluido che sale e scende, senza certezze e senza requie.
Come può saperlo il Fuoco, che brucia come se non ci fosse un domani, per poi spegnersi senza rumore?

Sisifo non vede le anime, pensò; se le vedesse, scapperebbe. Non è lui il migliore di noi.
È solo il più fedele – e rimarrà fregato.

Manigoldo guardò allora il mare e chiuse gli occhi, il suo mantello oscillava lieve ad una brezza leggera e intristita.
Che lui lo avesse voluto o no, la vita lo aveva condotto fin lassù.

Davvero è un’onda, pensò.

 

Quando il caldo fu insopportabile, Sisifo decise di rientrare nel tempio.
Guardò un’ultima volta verso Atene, come se in quell’istante fosse potuto succedere qualcosa di terribile, ma vide solo un banco di nubi farsi vivo sull’orizzonte.
Si sentì irrequieto, d’improvviso avrebbe voluto piangere perché tutta la sua vita era stata una nuvola all’orizzonte.
Pregò che un vento lontano, là sul mare, le portasse via.

 

***

Fu una convocazione inaspettata con un esito altrettanto inusuale.
l Gran Sacerdote aveva camminato nervosamente davanti a loro durante la spiegazione della missione.

“Occhi che guardino lontano, più in alto di tutti – Sage guardò Sisifo per poi rivolgersi al suo allievo - e qualcuno che sia tutto proiettato nel presente. Non è ammesso idealismo, come non lo è nessuna forma di eroismo.
Siamo alle soglie di una guerra, signori, ricordatelo. Non si scherza.”

Nell’ultima frase Sisifo aveva scorto una punta di provocazione; il Gran Sacerdote aveva pungolato Manigoldo con lo sguardo, ma non era potuta mancare una punta di affetto nostalgico. Sagittarius percepì una piccola invidia corroderlo da dentro, silenziosa e inspiegabile.
Sage e Manigoldo erano ancora maestro e allievo, si conoscevano bene, erano l’uno fiero dell’altro – complici, il gatto e la volpe, pensò il biondo; Cancer sorrise birbante e si piegò nell’inchino rituale.

Sisifo seguì il compagno uscendo dalla grande sala, le spalle di Manigoldo erano più larghe delle sue, malgrado la minore altezza; il suo incedere era quello di chi non si fa troppe domande e resiste bene alla nostalgia.
Sisifo pensò a Sasha – no, Athena – e ad Ilias, il grande assente.
All’orizzonte nessun vento era giunto a spostare le nuvole, c’era solo una brezza che scompigliava i capelli di Manigoldo, come un campo di grano nero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2 ***


2

 Non erano mai andati in missione insieme, avevano parlato poche volte e brevemente, di argomenti impersonali, cenni sulla guerra.
Si resero conto di essere poco più che spettri l’uno per l’altro.
Non si conoscevano e, tuttavia, ciascuno aveva già espresso il proprio verdetto.

“Irresponsabile inaffidabile” e “esibizionista tronfio”.
Non si stimavano, non erano compagni, ma due generali in competizione – Achille ed Ettore riuniti sotto la stessa bandiera.

Parlare non fu facile, sebbene Cancer fosse piuttosto chiacchierone: ogni sua frase sembrava una sfida lanciata, un provocazione mal celata.
“In missione sempre con El Cid tu, eh?”
Sisifo scoprì che intorno a Manigoldo regnava sempre un’elettricità inquieta, pregnante e carica; era come trovarsi innanzi ad un cavallo immenso e giovane, sempre in bilico tra il gioco e la minaccia. Il suo sorriso era eterno, ma nascondeva migliaia di sfumature – tra di esse, non vi era mai quella della gioia sincera, mentre dominava un’amarezza sarcastica, una presa in giro verso la vita.
“Spesso.”
Sagittarius rispondeva freddamente, lo sguardo rabbuiato. Egli guardava lontano, un punto imprecisato all’orizzonte, nella direzione in cui la costa era scomparsa.
“Da brividi quel tizio.”
“Parla poco, ma è assolutamente affidabile.” il custode della Nona Casa aveva sottolineato aspramente l’ultimo aggettivo.

La barca che li portava a destinazione dondolava pigra, Manigoldo si appoggiò scompostamente al parapetto e inclinò la testa verso Sisifo. Le labbra si tesero in un sorriso gelido, mentre gli occhi brillavano di una scintilla curiosa e divertita.
“Leggo una velata critica nei miei confronti.”
“Non ho affermato nulla di tutto ciò, io.” le labbra del Sagittario erano una linea pallida e rigida, la mandibola serrata.
“Oh no, questo no.
Be’, allora vorrà dire che ho la coda di paglia!”
Manigoldo rise reclinando il capo verso il cielo, una risata breve e leggera, piacevole. Sisifo non poté evitare di piegarsi ad un sorriso complice.

“Ridi?”, chiese come se non fosse ovvio. Fu solo per sentire che risposta l’altro avrebbe dato.
“Mica posso piangere come quelli che si prendono sul serio.
Finché si ride si possono cambiare le sorti, e, chissà, magari potrei anche diventare affidabile.
Ma dimmi: si dice così male di me al Santuario?”
Sisifo ricordò quanto si diceva di lui un tempo - solo l’ombra del fratello – e si sentì colpevole per aver ascoltato e prestato fede a pettegolezzi su altri. Non rispose.

Manigoldo era rilassato, però. Era leggero come la nave, che già puntava verso il porto dell’isoletta.
Non gliene importava davvero, dondolava i piedi al di là del parapetto, come un bambino.
“Siamo arrivati...”, interruppe Sisifo, indicò la piccola baia con un gesto lieve, e si preparò a caricare in spalla lo scrigno della Cloth.
Manigoldo lo seguì poco dopo.

Scendendo a terra, il biondo sentì che Cancer gli era diventato un poco fratello, un poco proiezione di quella leggerezza cercata e mai davvero raggiunta, la leggerezza della brezza che porta via le nuvole incombenti.
Manigoldo, specchio e proiezione.   
E mille altre sfumature indefinibili – quante quelle del suo sorriso.

 

***

 Lo sguardo sospeso perennemente verso un orizzonte più distante e l’umore del cielo d’Irlanda - Sisifo era un’altalena tra la serenità dell’uomo forte e un dolore lacerante e profondissimo.
Come chi ha sempre qualcosa da nascondere, anche a se stesso, pensò Manigoldo, chissà cosa, alzò le spalle e spostò l’attenzione verso un grosso e brutto edificio poco fuori della cittadina portuale.

Era costruito su tre piani, un parallelepipedo ingombrante e dall’intonaco grigio e scrostato dalla salsedine. Le finestre avevano però una certa eleganza, anche se ormai decadente; agli ultimi piani si vedevano pesanti tende rosse. Una grande cancellata proteggeva il giardino e impediva di vedere l’entrata al piano terra.

Manigoldo fischiò sfacciatamente e sibilò: “Certo che è notevole per una cittadina così piccola, hai capito i pescatori…”
“Una casa di piacere…” meditò Sisifo.
“Così la chiamano i ben pensanti e gli amanti delle perifrasi. Sì, è un bordello.”
“Una casa di piacere.”, ripeté indispettito e accigliato Sisifo: esigeva rispetto per le armature che avevano addosso.
Manigoldo capì al volo – conosceva l’antifona, giacché anche Sage aveva la stessa fisima del “parlar bene e comportarsi adeguatamente con le Cloth addosso – e sarebbe bene farlo anche senza”, gli sembrò di sentire la voce del suo maestro che lo rimbrottava.
“Casa di piacere, aggiudicato.” 

 Sisifo corrugò la fronte con aria grave, “Che sia la risposta a ciò che stiamo cercando?”
Continuò tra sé e sé: “Sparizioni di donne e ragazzini; Surplici di Specters distrutte che tornano come nuove. Tutti coloro che hanno indossato le armature restaurate avevano qualche legame con questa cittadina.
Ma qui non c’è niente, eccetto questo posto.
Manigoldo, una Surplice esige necessariamente il sangue del suo legittimo proprietario per tornare alla vita, dopo essere stata distrutta?”
Cancer meditò un istante: “Una Surplice in realtà non ha propriamente un legittimo proprietario. Nel caso degli Specters è la Cloth a dominare e ad annichilire la personalità del guerriero*. Si nutre dei sentimenti negativi, ma non importa chi tu sia, lei ti annullerà in ogni caso. Quindi…”
“Quindi non conta di chi sia il sangue... è solo sangue per sangue. Basterebbe che il donatore sia dominato dalla negatività.”
“Non ho mai visto prostitute sinceramente allegre. Se poi si tratta di donne e ragazzetti rapiti e rinchiusi qui dentro...”
“L’agnello sacrificale perfetto.”
“È il posto che stavamo cercando.” chiuse Manigoldo. Rivolse uno sguardo affilato e trepidante all’edificio.

 

* Gli Specter hanno tutti la stessa faccia da una guerra all’altra perché sono spiriti ridestati e le Surplici plagiano il loro possessore.

***

 “Bene, controlliamo ancora in giro per toglierci ogni dubbio, poi torniamo sta notte.”
“Non pensavo che si sarebbe mai visto il grande Sagittario in un simile postaccio!”, lo provocò Cancer.
“Parli come se te ne intendessi.”  il Sagittario lo pungolò, a ciò Manigoldo rispose con un sorriso enigmatico.

 “E poi ho alternative?”, continuò indispettito Sisifo.
Manigoldo si atteggiò in una posa profondamente saggia e pensierosa, parlò con voce bassa e suadente e  rivolse uno sguardo penetrante al suo interlocutore:  “C’è sempre un’alternativa”.
Egli rimase per un istante come stordito – la mente di Sagittarius era stata per un attimo preda dall’ansia per tutti i suoi rammarichi.
Sembrava che quelle parole e il loro tono lo avessero davvero colpito, rimase cupo.
Rivolse uno sguardo nostalgico al cielo, Manigoldo sorrideva da solo, in preda ad un ricordo divertente.

Un’arietta leggera si era sollevata sul far della sera e muoveva leggermente le fronde degli alberi, il suono del ridere di Manigoldo vi si mischiava naturalmente come l’acqua di un ruscello ad un fiume.
Sisifo avrebbe voluto divenire fibra di quella corale di leggerezza e voglia di vivere; si morse le labbra per la frustrazione.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3 ***


3

Manigoldo intonò una canzone fischiettando e, volgendosi verso la città, iniziò a camminare in direzione della piazzetta centrale.
“Vuoi aspettare qui che cali il buio? Guarda che poi ingaggiano anche te.”
La leggerezza di un'altalena, la sfrontatezza di un gatto non toccato da nulla della scena che gli si consuma davanti – erano irritanti tanto quanto capaci di esercitare un sortilegio a cui era impossibile sottrarsi.
Manigoldo non era un superbo, e per questo era tollerabile ed enigmatico. La sua sicurezza derivava da una sorta di noncuranza balorda – e tuttavia gli importava, perché, da quando aveva la Cloth, non aveva mai fallito, e non poteva essere stata fortuna.
Una calma sibillina e provocatrice – che cosa nascondeva?
Niente, Manigoldo non nasconde niente, e questo è vero – ed è ciò che fa paura. Una sincerità candida e crudele come quella dei bambini.

 
Fa un caldo tremendo, pensò Sisifo con le labbra impastate dall'afa, infiacchito dal caldo e dalla salsedine che gli era addosso dal viaggio.
"Ti offro da bere”, lo anticipò il compagno, indicando una piccola osteria a pochi passi dal molo in cui la nave con cui erano arrivati era ormeggiata.
Sisifo esitò un'istante, tentato al pensiero della birra. Se la sentiva già giù per la gola, un fiume dorato e frizzantino capace di ristorargli il corpo e l'umore cupo di quei giorni.
“Non bevo mai in missione.”
“Suvvia, Sisifo”, innanzi al suo nome pronunciato con tale persuasività, Sagittarius rabbrividì “una birra. Nemmeno la senti, e poi di qui a quando cala il buio ti passa.”

L'uomo dalle crine paglierine assottigliò le labbra un singolo istante, Manigoldo aveva uno sguardo profondo e indescrivibile, sembrava già ebbro.
“Una sola.”
Sisifo se ne pentì immediatamente.

"Una, dai, per la nostra prima missione”, Cancer guardò verso il mare quieto con nostalgia e pensò alla vita, di qui aggiunse: “Vuoi rischiare di morire senza aver bevuto un'ultima birra?”

Dalla una finestrella della locanda si vedeva il sole declinare lentamente.
Il posto si chiamava la Bella Bionda, “perché qui non se ne vede mai nessuna”, disse il gestore, un uomo robusto e perennemente scocciato ma loquace.
“Quest'osteria è sempre piena, perché qui non c'è nulla da fare”, aggiunse. “Confidiamo nell'accidia della gente.”
“Doppio malto per me e una chiara per lui” annunciò Manigoldo, lasciando roteare sul banco un paio di monete di basso valore.

Manigoldo indicò un tavolo in un angolo; Sisifo apprezzò: per quanto riparato, teneva d'occhio tutti gli altri, “Ottima scelta”, disse.
“Mi piace un po' forte, la birra.”
“Il tavolo, dico”, e Sisifo indicò la sala, ma sapeva che Cancer aveva capito benissimo fin dall'inizio. “Potrebbero esserci alcuni di loro...”
“Oh, sì, anche.” Lo interruppe Manigoldo assottigliando gli occhi con un sorriso sornione e, per contrario, scrollando le spalle come se non gli importasse.
Il moro lo guardava intensamente, come se fosse un oggetto del tutto nuovo.

 “Adesso facciamo un gioco!”
Cancer batté il pugno sul tavolo, Sisifo sussultò come se quel colpo lo avesse davvero sorpreso e lo guardò stranito.
Chissà perché tutti se la fanno nelle braghe quando esordisco così davanti ad una birra, si chiese Manigoldo, con un lieve e sadico compiacimento verso se stesso.

“E adesso dimmi: se questa fosse l'ultima birra della tua vita e tu andassi a morire subito dopo, a cosa brinderesti?”
Il Sagittario guardò meglio l'uomo che aveva davanti: delle mille sfumature del suo sorriso, sembrava sopravvissuta solo quella della debolezza. E Manigoldo sembrò invecchiare di colpo, come se solo la curiosità che gli bruciava negli occhi fosse l'unica cosa capace di tenerlo appeso alla vita.
Non era un gioco: egli voleva davvero sapere a cosa – a chi - sarebbe stato rivolto il suo ultimo augurio.
“Non è una domanda qualsiasi, sai”

 Sisifo in risposta guardò il fondo del bicchiere, corrugando la fronte e pensandoci intensamente.
“Saprei di andare a morire?”, chiese Sisifo. Il colore della birra era uguale alle crine di Ilias e Regulus e al colore di un buon miele che era solito mangiare da bambino.
“Nella vita lo sai che vai a morire?”, rispose Manigoldo, guardando le sfumature corpose della bevanda.
“So che morirò, sempre e con certezza, ma non lo so mai con precisione”, Manigoldo sorrise, apprezzando quella risposta. Sisifo chiuse gli occhi per un lungo istante, poi riprese a parlare:
“Domanda difficile... Fammi un esempio”
“Se te lo faccio cade il senso ultimo del gioco.”

Il biondo si morse le labbra, rispondere significava svelarsi. La birra tremolava invitante nel bicchiere, egli ardeva all'idea di bere.
“Bene... Allora brinderei... Brinderei alla morte che cancella tutto fuorché l'onore, alla morte che mette tutte le malelingue a tacere.”
Sisifo si rovesciò fra le labbra un lungo sorso, come a cancellare quanto detto. Manigoldo sorrise annuendo, con la faccia di uno che la sa lunga.

 “Faccio questa domanda per capire chi ho davanti.
Rasgado mi disse che avrebbe brindato alla buona sorte di quelli che lo uccideranno, perché è triste la morte dei nostri assassini, se questi sono degni di ucciderci, e se abbattono il Toro lo sono, ha detto – non è stupido, quello lì.
Kardia brinda all'Inferno, che sia un bel posto, almeno quello. E ha più ragione di tutti.”
Risero assieme e poi tacquero, Sisifo assaporò un'altra sorsata, le bollicine gli solleticavano piacevolmente la gola. Ora si sentiva allegro, leggermente alticcio – non era abituato a bere ed era arrivato stanco alla locanda.

Egli si incurvò sulle spalle e poggiò pesantemente i gomiti sul tavolo. Non badava più alla gente nella sala e fissò Manigoldo: “E tu? Tu a cosa bevi?”
Il moro allargò le labbra nel suo sorriso birbone: “Alla salute, la mia, visto che nessuno di noi pensa mai a se stesso”

“Prima di morire brinderesti alla tua salute.”
“Se non prima di morire, quando?”
“Quando la salute ti serve di più”

“Brindare è un augurio, mica una preghiera. È soprattutto prima di morire che me la auguro, perché io mica lo so che vado a morire, diversamente da voi tutti, che sembra abbiate la sfera magica.
Io morirei con la volontà di vivere un giorno di più.
Cin cin!”
Sisifo rise e fecero tintinnare i boccali, sebbene già mezzi vuoti, l'uno contro l'altro, e anche Manigoldo accostò le labbra al vetro e chiuse gli occhi.

Il fuoco si spegne piano, e lo sa che va a morire, per questo vive e muore triste. L'onda mica lo sa quando urterà troppo forte contro lo scoglio e perderà tutta la sua forza, sa solo che un giorno accadrà – ma gioca gagliarda comunque tutta la vita, e soprattutto nell'ultimo dei suoi atti.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4. ***


4

 

Quando uscirono dalla locanda il sole era già tramontato, ma la luce non era cessata. C'era un'atmosfera quieta e sospesa tutt'intorno.
Poche persone e il brontolio del mare presso il molo, il dondolare pigro dei pescherecci ormeggiati, l'aria umida e fresca tipica delle sere sul mare.
Era una pace estranea ad Atene, come se si fosse a migliaia di chilometri da essa, e non a poche miglia di nave. Sul far della sera la capitale greca era una groviglio di persone e vicoli, il Pireo diveniva un formicaio, era una fiera senza fine e senza festa, la sagra del male di vivere.

 Sisifo pensò che, forse, se fosse nato qui e non ad Atene sarebbe potuto cambiare qualcosa del suo spirito, o forse no, perché l'animo inquieto non conosce porto sereno, e la serenità, come quella della piccola città, non può che generargli nuova irrequietezza, nuovi rammarichi.
Gli irrequieti non percorrono strade, ma dondolano nei labirinti dei se e dei ma.
Sisifo amava per questo Atene: vi si specchiava, era la sua parallela.

 Restarono lungo tempo in silenzio ad attendere che il buio calasse; lentamente, le figure delle case e delle navi si fecero pure sagome, e anche i lineamenti di Sisifo e Manigoldo sembrarono quasi scomporsi in quell'oscurità. L'unica fonte di luce erano i pochi e baluginanti lampioni disseminati avaramente per la città e il ruotare nervoso e indifferente del faro, il cui fascio quasi opalescente, quando giungeva, urtava gli occhi con la violenza di un'apparizione divina.
L'atmosfera era lievemente inquietante, le uniche tracce di vita risalivano al vociare ovattato proveniente dalla Bella Bionda.

 Fu quando Sisifo ruotò il capo per guardare proprio in direzione della locanda che scorse una donna con una mantella gialla* che riconobbe subito.
Costei era appoggiata con le spalle contro le mura di un'abitazione, illuminata poco poco dalla luce di un lampione. Indossava una lunga gonna rosa e i capelli biondissimi e sciupati le ricadevano oltre spalle fino ad incorniciarle il seno. La distanza e il buio non permettevano di dire se fosse bella o no.

 
Intorno a lei regnava una languida desolazione, che pareva corporea, sembrava colarle addosso come la luce del lampione, un liquame metafisico e densissimo.
Il Sagittario richiamò con uno schiocco di dita l'attenzione di Manigoldo che, da tempo, era perso nella contemplazione dei deboli flutti che battevano contro il molo.

 Quando egli la vide, le rivolse uno sguardo grave che Sisifo non gli aveva mai visto fare. Allora il custode del Cancro si caricò in spalla lo scrigno della Cloth, e disse: “Abbiamo il nostro passpartout. Lasci parlare me, sì?”

Sisifo non si oppose, tuttavia una saetta sdegnata gli attraversò lo sguardo: “Sembri molto pratico di
queste cose.”
“Ho la faccia di uno pratico?” Manigoldo rigirò contro Sisifo la stessa malizia irosa.
Per la prima volta sembrarono pesargli addosso i pensieri altrui: “Sono pratico meno di quanto pensiate tutti...
Ma visto che, almeno esternamente, io sono esattamente chi gli altri pensano che io sia,  per la signorina lì presente io sarò un cliente da manuale.”
“Non ha senso quello che stai dicendo, te ne rendi conto?”
“Nemmeno la tua espressione sdegnata aveva un senso, visto che siamo sulla stessa barca.
Stiamo andando a puttane insieme, Sisifo. E questo è solo l'inizio, visto che finiremo nel solito bagno di sangue.
Tieniti per te le tue sentenze da quattro soldi, perché la faccia, oggi, ce la metti anche tu.
Anche il perfetto Sagittario, capo dei cavalieri, varcherà le soglie di un bordello, e in compagnia del pratico sottoscritto. Sissignore.”

Sisifo ammutolì, mortificato e offeso al medesimo tempo. Manigoldo si calmò immediatamente, e sorrise diplomatico: “E ora, Sisifo – calcò volontariamente e con disprezzo sul nome – reggimi il gioco. Si aprono le danze.”

 

 Non è vero che chi è stato ferito cesserà di ferire. Sarà, anzi, il più feroce.
Sisifo si era ripromesso di rendere quella sentenza solo una fandonia. Aveva giurato di non giudicare mai più nessuno, di attribuire solo secondo i meriti o le colpe verificati da lui medesimo in prima persona.
Se non vedo non credo**, né al bene né al male – ecco la sua massima di vita.
Una vita e non hai imparato nulla: è per la tua scarsa capacità di gestire te stesso che condannerai tutti.
Non sei fedele nemmeno a te stesso,
si disse.

 

*La mantella con la quale si identificavano, soprattutto nel medioevo, ma anche successivamente, le prostitute

**S. Tommaso apostolo

***

 

Manigoldo si avvicinò lentamente alla giovane prostituta guardandola negli occhi. La giovane si richiuse nelle spalle, come una tartaruga; aveva occhi vuoti e delle manine magre magre che stringevano nervosamente la gonna.
Doveva essere una delle donne rapite, non aveva più di diciassette anni.

 Manigoldo sulle labbra sfoggiava il suo sorriso più rassicurante e tremendo, mentre lo sguardo da predatore faceva gelare il sangue nelle vene. C'era una malizia autentica e bestiale nella sua posa.
Egli percepiva la paura della donna e sembrava piacergli farvi leva,vederla annaspare.
Introdusse Sisifo, il quale era rimasto leggermente in disparte a guardare per aria, indicandolo come: “il mio amico qui presente” e trattò velocemente.

“Però vorremmo un luogo, come dire: più... intimo e riparato” disse con voce strascicata, sfumando il suono della parole. Nel buio del porto sembrava tutto più losco.
La ragazza tirò un sospiro di sollievo: “Allora non è con me che dovete parlare, andate alla casa, lì troverete il posto che cercate.”

Mentre la giovane donna parlava, Sisifo aveva visto affacciarsi sul viso di Manigoldo un sorriso smaliziato e cattivo.
Ecco, una delle sue trovate. Il Sagittario ebbe un moto di stizza, perché voleva concludere in fretta e provava pena per quella giovane. Non approvava il modo di fare di Manigoldo, uguale a quello del gatto che ammazza il topo ma si limita a giocarvi crudelmente, senza mangiarlo.

 “E se non mi andasse bene?” In un attimo Manigoldo balzò in avanti e strinse la ragazza tra sé e il muro, puntellandosi sulle braccia. Il viso della prostituta divenne la maschera del Terrore, spalancò i grandi occhi scuri e le narici si dilatarono come quelle di un animaletto. Si era portata le mani al petto, la sinistra era salita al proprio collo a stringere un piccolo crocifisso dorato.

Sisifo tirò, dall'altra parte, Manigoldo per il tessuto della camicia: “Dacci un taglio!”, sibilò con rabbia.
“Oh, insomma!”, liberò la giovane con delicatezza: “stavo solo scherzando, signorina, ovviamente.
Lei li guardò spaesata. 

Sisifo aveva già cominciato ad allontanarsi, Manigoldo si voltò un ultima volta verso la prostituta e le lanciò una moneta di alto valore.
“Statemi bene, signorina. Da questa notte andrà meglio, parola di Manigoldo.” Cancer finse di togliersi un cappello immaginario per il saluto e fece un piccolo inchino galante.

 
“Mi spieghi perché devi sempre perderti in queste cose?!”
Sagittarius era sinceramente arrabbiato, decisamente furibondo, pensò il moro. Quando Sisifo era arrabbiato, scoprì Manigoldo, non alzava il tono di voce, come le persone normali, no: sibilava.
Assottigliava gli occhi e le labbra.
Pareva proprio un serpente, e più che di semplice ira, sembrava gonfiarsi di un rancore profondo e velenoso.
Siamo vendicativi, qui, lo canzonò nella mente il compagno.

“Oh, suvvia, non essere lagnoso. Ci ho solo giocato un po', non abbiamo nemmeno perso tempo.”
“Spiegami perché.”
Manigoldo ridacchiò e accelerò un poco, abbastanza da trovarsi di un paio di passi avanti a Sisifo, il quale ne vedeva ora solo la spalla e le crine nerissime nella notte.

“Ho visto un sacco di cose a questo mondo, e anche nell'altro, a dir la verità – Manigoldo indicò verso il basso – ma ancora non ho trovato nulla di così sorprendente come la reazione del terrore. È sempre diversa, non te ne stufi mai. È un rivelatore anche migliore di “A che cosa brinderesti?”.”
Sisifo trovava invero la questione estremamente interessante, ma non poteva concederglielo: “Non è questo il punto. Qui, ora.”

“Perché un'altra volta ho fatto una cosa del genere con un'altra prostituta e quella aveva tentato di infilzarmi con un coltello che teneva nel reggiseno.” Manigoldo rise e continuò: “Tu non hai idea di che sberla di lama tenesse in mezzo alle te...”
Sisifo lo zittì, muovendo una mano in aria: “Siamo arrivati.”
Cancer lo guardò contrariato, era uno dei suoi aneddoti preferiti, sbuffò.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 6. ***


6

 

 

Sisifo capì che lui era sempre stato lì, dal primo istante.
Gli erano passati davanti quando erano entrati nella stanza, ed era stato lì anche quando si erano voltati a guardare la maman uscire dalla sala, aveva visto Manigoldo piegarsi sulla donna, e Sisifo mentre la contemplava svuotato da tutti i pensieri.

Sisifo non avrebbe saputo dire da che cosa lo aveva capito, ma l'espressione dell'uomo in fondo alla stanza glielo confermava.
Li guardava con un riso sardonico e occhi iniettati di sangue, che parevano tagliare l'oscurità, occhi di brace, vivi come quelli della faina che conficca le zanne nella preda e ne assapora il sangue che ben presto la inebria, mentre la linfa rossa le inzuppa l'intero muso.

“Ci hai messo tanto a notarmi, Gold Saint. La punta di diamante dell'armata di Athena non sa nemmeno scovare un nemico nascosto dietro la porta?”
Aveva una voce metallica e bassissima. Appena la ragazza la udì cominciò a piangere più disperatamente: “perdono, perdono”, diceva.

 

 Lo Specter si incamminò verso il centro della sala, i suoi passi erano inudibili. Sembrava levitare, si frusciava solo il suo pesante mantello, ma sarebbe potuta benissimo essere una delle tende lievemente scossa da un alito di brezza.

 La superficie lucidissima della Surplice rifletteva una luce tremolante, e sembrava prendere consistenza sottraendola alle tenebre. Era un'armatura superba, con un immenso busto e gambali solidissimi che proteggevano l'intera gamba.
Non aveva ali, ma non era meno imponente dell'armatura di Minosse.
Sulle braccia e sulla vita vi erano degli intagli in oro, componevano la figura di un serpente,  e sembrava che esso si muovesse insieme al suo possessore.

 “Ofiuco”, sussurrò senza forza Sisifo, comprendendo a chi si riferisse la decorazione.
“Ofiuco, della saggezza celeste*.” confermò l'uomo per poi piegarsi in un profondo inchino, “E sono qui per uccidervi”.
Manigoldo imitò il gesto con ironia sprezzante: “Guarda un po’ i casi della vita.”.

 “Le nostre strade condividono la medesima meta, e questo è buono. Purtroppo è un fine che non ci concede un percorso in amicizia.” concluse il nemico.
Quando si fece più vicino mostrò un volto fastidiosamente giovane, che strideva con la gravità della sua voce e la profondità indecifrabile dei suoi occhi – rossi, proprio come quelli di un demonio.
“E non solo la meta ci impedisce quanto detto. Siete voi a costringermi a questo lavoro infame.
Voi distruggete le Surplici, io devo ripararle.
Hades vuole questo e lo comanda.
Io obbedisco, ma – capite – la mia vocazione mi spingerebbe alla ricerca del sapere.
E tuttavia proprio questa mia sapienza mi impedisce di dedicarmi alla sapienza stessa.”
Parlava come se ogni sua frase fosse la premessa di un sillogismo, scandiva ogni affermazione con un pausa pesante.

Aveva una strana fretta però, una frenesia furiosa che non tardò a manifestarsi.
“Perché in tutto l'esercito di Hades non c'è un maledettissimo competente! E io devo stare qui a sbudellare troie e rigenerare infime Surplici per dei mentecatti che si fanno sbranare da degli idioti che non notano nemmeno il nemico quando sta fermo dietro di loro!” ululò con tale rabbia da sbilanciarsi in avanti.

 “È un po' frustrato dalla situazione”, osservò Manigoldo provocatoriamente.
Sisifo tirò per un braccio il Cancro: “Taci, maledizione”, il moro lo guardò offeso e confuso: “Taci”, ripeté in un ringhio il compagno
Manigoldo si liberò bruscamente dalla sua stretta.

“Avanti, diglielo!, diglielo, Sisifo, capo dei Saints, di' a quello sprovveduto chi avete davanti, digli chi è Ofiuco!” urlò lo Specter, allargando le braccia e mostrandosi.
Il serpente d'oro sembrò dimenarsi sul suo corpo.

Sembrò che Sisifo dovesse prendere fiato per rispondere. Poi parlò con tono grave, guardando dritto innanzi a sé la figura del nemico che sorgeva dalle tenebre, più diretto a lui che a Manigoldo.
“Un semidio. Ofiuco, conosciuto anche come Asclepio, dio guaritore, figlio di Apollo.”
C'era però fierezza negli occhi del Sagittario, perché un nemico invincibile è sempre un meraviglioso fregio per un grande guerriero.

 Manigoldo si sentì rinvigorito alla notizia e fece un sorriso ferino: “So benissimo chi è Ofiuco. Allora dopo che ti avremo ucciso intoneremo un peana**.”
Ofiuco avanzò ancora di qualche passo verso la luce, guardando la donna con fastidio, e così concentrato nel suo disprezzo verso di lei da non ribattere alla provocazione dell'avversario.

 

*POSTILLA DEGNA DI NOTA:

Tra le stelle celesti degli specters, in LC quella della saggezza non è incarnata da nessuno e quindi ho pensato che per Ofiuco andasse bene.
Troppo tardi  mi sono ricordata che Ofiuco fosse  la costellazione di Shaina.
Tra l’altro Ofiuco, identificato con Asclepio, è figlio di Apollo, e si trova tra le 88 moderne costellazioni, non potrebbe essere tra le 108 stelle malefiche.
D’altra parte, sebbene ci fosse già Shaina, mi pare di aver letto che nel Next Dimension si accenni ad un tredicesimo cavaliere d’oro, risalente ai tempi del mito, Ofiuco, che fu maledetto.
Fingiamo che per qualche motivo nel XVIII secolo fosse passato dalla parte di Hades. Ok? Ok.
Anche se non fosse così, vi chiedo di aver pazienza: Ofiuco mi piaceva davvero tanto come antagonista per questo contesto, e molti problemi sono emersi solo dopo che la storia era stata completamente avviata e quindi non potevo, né volevo, sconvolgere tutto.
Prendetela come mera Fan Fiction.
Lo dico per “onestà intellettuale” (parola troppo grande per una cagata del genere): se non avessi scritto nulla a proposito, forse molti non ci avrebbero nemmeno fatto caso. Ma amo Saint Seiya vergognosamente, ritengo di doverlo rispettare completamente.

 

**Canto di vittoria che si dedicava al dio Apollo

***

 

 “Un pessimo sangue...”, borbottò. Lo Specter tendeva a tenersi lontano dalla fonte luminosa principale, guardava la luce con diffidenza. Aveva occhi piccoli, ed erano rossi per davvero.
Le mani erano curatissime e sottili, da medico, ed era evidente che non si avvaleva della forza bruta; anche il resto del corpo sembrava piuttosto esile. Sulle spalle portava lo scrigno nero di una Surplice.
Egli si portò nell'ala sinistra della sala, superò Sisifo che lo seguì con sguardo diffidente, e, da un punto in ombra, sibilò qualcosa chiamando a sé la ragazza.
Lei si alzò come un burattino e cadde mollemente tra le sue braccia.

 “L'ho chiamata Elena, è una personalità immobile come colei che condannò Troia. Colpevole e immobile.
Solo che è stata una delusione: un nome troppo elevato per qualcosa di così infimo e attaccato alla vita.
Volevo chiamarla Lucrezia*, per fortuna che ho risparmiato tale offesa a quella mirabile donna.” Ofiuco prese delicatamente il mento della donna tra le dita, scrutandone intensamente gli occhi – la guardava e ne parlava come un allevatore parla di un cavallo di razza: “Questa non riuscirebbe ad ammazzarsi nemmeno davanti alla promessa di un'eternità di dolore, resta attaccata alla sua miserabile vita a qualsiasi costo.
A qual pro, poi, proprio non lo so.”

 *La matrona romana che, violentata sa Sesto Tarquinio, nipote del re,
si suicidò per non dover convivere con un tale disonore.
Personalità agli antipodi della bella Elena di Troia, che, per quanto abbia potuto soffrire della sua condizione,
rimane sempre attaccata alla vita.

 
***

 

La donna si specchiava nello sguardo dello Specter con occhi sgranati, sotto le dita di Ofiuco a sua pelle sembrava ardere. E bruciava veramente, la pelle del viso poco a poco cominciò a piagarsi.
Ella piangeva con le labbra serrate e in un miserevole silenzio. Chiuse gli occhi innanzi alla sua sorte.
Fu allora che Ofiuco sembrò soddisfatto e la lasciò ricadere ai suoi piedi come un bambola rotta.

L’uomo armato di nero levò il capo e lo sguardo nella direzione dei Santi. Aveva una chioma scura e leonina, la scosse con forza, chiudendo gli occhi come in preda ad un piacere carnale intensissimo.
“Ma come tutte le prede insulse, serve a qualcosa – chissà perché i grandi, proprio in virtù della loro magnificenza, cadono sempre nell’infamia, mentre gli insetti se la cavano puntualmente.
Buffo che solo un sangue tanto sporco possa nutrire una delle armature più grandiose dell’esercito di Hades, e di questo me ne dispiaccio.
Ma mi consolerò: anche il vostro sangue parteciperà alla libagione per Radamanthys*.”

 

*Mi piaceva l’idea che Radamanthys fosse l’assassino di Ilias
e, l’armatura danneggiata in quello scontro, tornasse davanti a Sisifo.

***

 

 Il bel viso di Sisifo era teso in una smorfia sdegnata, le labbra immobili e pallide, gli occhi così concentrati sul figuro davanti a sé da sembrare vuoti.
Manigoldo tenne il fiato, come se quel gesto avesse potuto fermare anche il tempo.

Si erano già trattenuti troppo in inutili chiacchiere.

 Fu un momento: centinaia di fuochi cilestrini apparvero nella sala, illuminando tutto di una luce spettrale. L’istante dopo convergevano tutti su Ofiuco.
“Hai sbagliato persona”, disse quello, prima di sparire nella successiva esplosione con il sorriso.
 
Manigoldo aveva annerito le pareti e bruciato le tende con il suo attacco. La luce lunare inondò allora la sala, tutto ciò che era nella stanza assunse contorni marmorei, i volti, già pallidi, divennero cadaverici, le espressioni plastiche. Le candele erano state spente dallo spostamento d’aria.

Ofiuco sembrava sparito assieme ad Elena; tuttavia il suo cosmo doveva bruciare nella tenebra di qualche recanto, perché quello della donna era ancora lì, flebile come la sua tristezza.
Sisifo estrasse il suo arco, aveva l’espressione tesa mentre cercava nel buio, un’inquietudine rabbiosa dentro gli occhi. Manigoldo lo guardò per un istante e pensò al fuoco vivo che sta per divenire incendio, e mangia piano, segretamente ingordo, il combustibile – latitante.

 Ofiuco sorse d’improvviso dalla tenebra al fianco di Sisifo. Egli levitava, gli appoggiò il mento sullo spallaccio destro dell’armatura e passò l’unghia dell’indice sinistro sulla giugulare, gesto che il Sagittario accolse con un’espressione raggelata, rimase immobile con gli occhi sbarrati, stringendo l’arco – non riusciva a compiere altri movimenti.

 “Fattura meravigliosa, armatura degna di un Giudice Infernale, se avesse avuto la fortuna di essere Surplice…” Ofiuco parlava con voce strascicata, reggeva sull’altro braccio il corpo immobile di Elena, la quale aveva la testa reclinata tanto all’indietro che i capelli sfioravano il pavimento.
“Ma non è una Surplice, e finirà oggi”

L’uomo carezzò le decorazioni sulla schiena di Sisifo, fino a che Manigoldo non tentò di afferrarlo per il collo. Quando questo avvenne, il Riparatore si dissolse in una nube nera.
Parve una seppia, e sarebbe stato divertente da guardare, se il Sagittario non fosse rimasto immobilizzato da quel breve contatto.

 Come quel mattino al Santuario, Sisifo sembrò nuovamente un’aquila di marmo. Manigoldo incontrò quella visione con un nuovo terrore, un gelo indefinibile che gli tolse il fiato.
Guardò con occhi vuoti il fumo nero tra le sue dita e le ali della Cloth del compagno.

La voce del nemico rimbombò allora tra le pareti: “Un racconto dice che Athena mi donò il sangue della Gorgone, e, da quel dì, il sangue del mio fianco sinistro è velenoso.
Io non so se la premessa sia vera, tuttavia dispongo di tale potere.
Adesso tocca a te, Cancer. E poi guarderemo tutti insieme la resurrezione della Viverna, alla quale verserete anche voi il vostro contributo.”
Di nuovo la cadenza da sillogismo, la cantilena della razionalità perfetta.
Manigoldo chiuse gli occhi per sentire da dove provenisse, quei toni non gli erano mai piaciuti.

Cancer scagliò i fuochi fatui nella direzione della fonte sonora e circondò di altri se stesso e il Sagittario. Appoggiò le spalle a quelle di Sisifo per essere certo di avere almeno un lato coperto.
Urtandosi, le Cloth generarono un tintinnio argentino e acuto, piacevole, per quanto sbagliato nel contesto della battaglia.

Si verificò un’altra piccola esplosione nell’angolo vicino alla porta, e la nube nera sorse di nuovo – Manigoldo lo aveva quasi colpito.

Avrebbe voluto poter vedere Sisifo cosa fare in quel momento, perché proprio non ci capiva nulla: Elena era sacrificabile? Certo che no, avrebbe detto Sagittario – e avrebbe detto Sage, e avrebbero detto tranne lui che non ne era così sicuro, perché nella sua testa il valore della vita umana a volte ancora vacillava.

E come fare, comunque, ad essere certi di non averla uccisa?
Bisognava colpire solo Ofiuco, che l’aveva in braccio.
E Ofiuco?
Manigoldo imprecò.

Immagino che lo Yomotsu Hirasaka* non sia contemplato, eh, Sisifo?”
Percepì le spalle di Sisifo irrigidirsi ulteriormente e comprese: “Roger”, disse.

 

*L’anticamera del mondo dei morti,
l’allegro parco giochi, in cui il cavaliere di Cancer ha l’abitudine di
spedire i suoi nemici.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5. ***


5

 
La casa troneggiava nel buio, era così imponente che sembrava pesare terribilmente sul terreno; quasi tutte le luci erano accese, un vociare lieve proveniva dall'interno. Se non avessero saputo della sua reale funzione, avrebbero pensato di essere capitati nella residenza di un nobile che aveva organizzato un qualche ballo.

 
Dopo essersi allontanati dalla giovane donna, avevano indossato le armature e si erano coperti con dei vestiti larghi perché non si vedessero*. Erano molto imponenti o molto buffi abbigliati così.
Sisifo continuava a ticchettare il dito sul suo petto, per sentire l'armatura sotto il tessuto e calmarsi.
“Allora entriamo” affermò Manigoldo, già dimentico del discorso precedente.
Sisifo lo seguì lentamente, a due passi di distanza.
Sagittario sembrava camminare sulle uova, aveva le labbra secche, un'inspiegabile ansia addosso. Si voltò indietro a controllare che nessuno li vedesse.
Ti pesa ancora il giudizio altrui, sibilò una voce nella sua testa. Fratello di Ilias, disse.
Schiavo del tuo sangue.

 Per il Santuario, pensò. Nessuna vergogna.
Si guardò indietro un'ultima volta.

 

*Vi ricordate quando Sage incontra Manigoldo la prima volta? Le armature erano coperte su per giù alla stessa maniera.

 

***

 Le pareti erano ricoperte di moquette rossa, così come i pavimenti. Le lampade erano dei complicatissimi candelieri appesi al soffitto, centinaia di fiammelle grondavano luce e cera. A prima vista sembrava di entrare in una dimora di lusso, ma basta un'occhiata in più per scorgere il tessuto tarlato e le macchie di cenere ovunque, qualche pulce saltellava sui cuscini di un divano nell'angolo.

 Manigoldo si sentì con una certa soddisfazione nel Satyricon*.
Sisifo non pensava a niente, sentiva solo l'ansia crescergli in petto, come se una colonnina d'acqua gli risalisse attraverso la trachea.

Non sapeva come spiegarselo, sapeva di avere avuto la medesima sensazione la prima volta in cui aveva per sbaglio scorto due giovani imboscati nel mezzo di un coito.
I tamburi nella testa, un vago senso di colpevolezza per sé e di disgusto verso gli altri, la voglia di scappare e, invece, l'immagine del sedere di uno dei due, che si alza e si abbassa, fissa come un chiodo nel cervello.

 L'atmosfera era pesante e l'aria opprimente non aiutavano: le candele profumate servivano a coprire un lezzo indescrivibile di cui le pareti erano impregnate, un misto di umori umani e pareti marcite per l'umidità; tuttavia esse non solo riuscivano male nel loro intento, ma scaldavano terribilmente.
Dei mormorii giungevano da una sala adiacente, davanti all'entrata della quale vi era solo uno spesso tendaggio; da lì provenivano odore di sigari e risatine femminili e sommesse, sopraffatte da altre risa maschili e sguaiate.

 Sisifo si sentì ancora peggio quando vide Manigoldo appoggiarsi al bancone per parlare con la maman, una donna grassa e severa. Nel mentre vide brillare l'armatura del Cancro vicino al colletto della camicia di Manigoldo.
Sisifo pregò che fosse voluto, ma, ad ogni modo, inveì contro il pessimo tempismo del suo collega. Se l'attacco fosse stato immediato, lui non avrebbe avuto la forza di reagire.
La maman li squadrò diffidente, ma non sembrò aver colto nulla dietro a quel breve bagliore.

 La donna li guardo torva: “Siete insieme?”
Sisifo rispose impallidendo ulteriormente, Manigoldo annuì fiero.
La donna li condusse in una piccola stanza al secondo piano, salendo le scale si sentivano gemiti salire e scendere dagli altri piani, un'atmosfera da girone infernale.

 

 Manigoldo sulla scala aveva preso a braccetto Sisifo, per prenderlo da parte. Cercava di sussurrare, ma riuscì solo ad urlare sottovoce. Fortuna volle che quella sembrasse la discussione di un amico che cerca di coinvolgere un compagno benpensante in qualche impresa.
“Si può sapere cosa ti prende?”
“Eh?”
Sisifo era semplicemente stordito da tutto, consumato e ottenebrato da quell'angoscia che lo macerava da dentro.

“Vedi? Sembri demente, dov'è il tuo solito smalto?!”
L'uomo biondo lo guardò in modo isterico, non aveva la forza di mentire, si sentiva nuovamente ubriaco: ”Dov'è? Fuori dalla porta è...
“Ma che diamine...”
“Vuoi sapere che c'è?! Questo posto, tutto, voglio farla finita con questa storia”, solo quello scatto d'ira riuscì a scuotere Sisifo.

 Manigoldo scrollò le spalle, poi gli sorrise saccente e soddisfatto: ”Allora sei un essere umano
anche tu, eh.”
 

*La brillantissima opera di Petronio, I sec. a.C.,
nella quale l’autore mostra la pacchianeria di un liberto arricchito, Trimalchione.

 

 

***

 La donna li condusse senza parlare ad una grande stanza in fondo al piano, chiusa dietro una pesante porta. All'interno vi era un enorme salone, dai soffitti altissimi, completamente vuoto, eccezione fatta per un pesante letto a baldacchino sul fondo, rialzato da una pedana in legno. Dalle finestre penetrava solo qualche debole spiraglio di luce lunare, quando lo permetteva qualche fessura tra le tende. Solo sul fondo, intorno al baldacchino, erano accese delle candele, dei mozziconi già consumati per metà.

 
L'atmosfera era molto pittoresca, i passi rimbombavano tra le pareti bianchissime e spoglie.
Una figura esile e dai lunghi capelli era seduta sul bordo del letto, guardava dritta innanzi a sé il tremolare della fiamma, come se non avesse notato la loro presenza.

 La maman scomparve presto e in silenzio, chiudendosi la porta alle spalle. Sbattendo, le porte sembrarono produrre uno strano suono metallico, inadatto al legno di cui erano fatte.
Sisifo si guardò per un istante indietro, ma il passaggio dalla luce al buio gli aveva momentaneamente indebolito la vista; pensò che in quel momento la donna fosse sembrata un monaco che usciva rispettoso da una chiesa.

 L'ansia del Sagittario era stata sostituita dalla nuova curiosità per quella figurina.
Lui e Manigoldo si guardarono per un istante, suggerendosi senza parlare di stare in guardia.

 

Camminarono lentamente verso il baldacchino; ogni passo risuonava forte, unico rumore, e sembrava una condanna a morte, come quando il boia sale sulla forca e nessuno parla, e tutti ascoltano solo lui che cammina.

 La ragazza restava immobile davanti alla candela, le spalle esili e ingobbite, i capelli d'oro sciolti lungo una spalla eburnea. Stava recitando un rosario, le labbra rosee di muovevano senza pronunciare nulla, tra le dita sgranava una coroncina.
Ella era immobile come una statua, ma le ombre che danzavano intorno per il baluginare della fiamma, rendevano difficile definirne i lineamenti e la posa. Ora bisognava farla parlare.

Costei non si mosse nemmeno quando Sisifo le fu davanti ad un lato del letto e Manigoldo si posizionò dall'altro lato alle sue spalle.
E nemmeno quando il cavaliere moro, audace, posò un ginocchio sul materasso e avvicinò il viso al suo collo. Parlò con voce bassissima, quasi un sospiro, con una dolcezza sensuale e pericolosa: “Niente da dichiarare?”

La giovane, che Sisifo giudicò bellissima, per quanto di una bellezza abbacchiata e tendenzialmente invisibile, reagì solo quando il Saint del Cancro le passò una mano tra i capelli.
Era quello che voleva Manigoldo: una reazione.

 La videro irrigidirsi e d'improvviso la sua schiena fu scossa da un singhiozzo. Pensarono entrambi che fosse scoppiata a piangere: si era ripiegata tutta su se stessa, portandosi le ginocchia al petto e posando la testa su di esse.
La veste bianca le era scivolata lungo le cosce, scoprendo un paio di gambe magre e troppo bianche per indossare con grazia quel colore; il pallore non era smorzato dalla luce calda della candela, sembrava opalescente.

Nulla c'era nulla in quella donna che potesse far pensare ad una prostituta.
Manigoldo e Sisifo si trovarono innanzi ad un agnello sacrificale – all'innocenza immolata e insultata.

La donna, piegata su se stessa, non piangeva ma parlava fittamente tra sé, con il passare del tempo il tono di voce salì e alcune parole di scusa divennero comprensibili.
“Io mi scuso... voi... No, voi con me...!”
Ella sollevò la testa all'indietro: “No! No!
Dio si scusi con noi!...” sussurrò sibilando: “Maledetti tutti!”

 Fu solamente allora che la donna cominciò davvero a piangere. Singhiozzava forte e stringeva la stoffa del vestito con rabbia.
Manigoldo pensò con stizza ad un maiale che sta venendo portato all'ammazzatoio.
Piangeva con lamenti lunghi, come un cervo in autunno, rimbombavano contro le pareti dell'ampia sala, il buio sembrava dilatare lo spazio e amplificare i suoni.

 Il Sagittario pensò alla litania delle Troiane catturate dagli Achei, a Cassandra e alla sua eternità di frustrazione e dolore; la punizione di Apollo abbattutasi su di lei prima, la tragedia della storia dopo
Per un istante Sisifo si rivolse verso la porta, come a cercare di vedere dove andassero a finire quei lamenti.
Fu allora che lo vide.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 7. ***


 

7

 

Ofiuco si era di nuovo manifestato innanzi a loro; gli sembrarono sufficientemente immobili da poter mettere a terra Elena. Egli guardò Manigoldo con aria di superiorità compiaciuta.
“Hai intenzione di sferrare lo stesso attacco per l’ennesima volta?
Non puoi fare nulla, Cancer. Puoi solo ritardare con colpi insulsi una fine già annunciata, ma non si cambia il destino.
Volete salvare capra e cavoli, ma non salverete nulla, non Elena, e neppure voi stessi.”

 Manigoldo fu solo capace di rivolgergli un’occhiata rancorosa. I fuochi fatui baluginavano innanzi a loro, proiettavano le loro ombre opache su tutte le pareti.
“E adesso taci e osserva come rinasce una Surplice.
È un grande onore per due che stanno per morire come topi.”

Ofiuco posò lo scrigno di Wivern a terra, in un punto in cui fosse visibile a Sisifo, immobile, e che costringesse Manigoldo a voltarsi in direzione opposta rispetto alla quale era.
Sopra di esso, il nemico poggiò la schiena dell’esanime Elena che prese una posa scomposta da burattino, il collo tutto all’indietro e le gambe in una posa spastica.

 L’unghia dell’uomo divenne un lungo artiglio, Ofiuco la avvicinò pericolosamente al collo della donna. Manigoldo scagliò un nuovo colpo per allontanare il nemico, il quale, nuovamente scomparve nella sua nube nera e si manifestò alle sue spalle.
L’artiglio era stato preparato per Cancer, non per Elena, e Manigoldo si sentì stupido. Ofiuco colpì lo stesso identico punto di Sisifo.


Il Gold Saint fu percorso da una scossa improvvisa e violentissima: gli sembrò che il corpo dovesse implodere, per un attimo i suoi nervi ebbero una percezione totale del mondo circostante, come se la sua coscienza si fosse espansa a tutto l’ambiente, per poi richiudersi nuovamente all’interno del suo corpo, ormai bloccato.
Come respirare tutta la forza della vita per un istante, per poi trovarsela negata.
Fu bellissimo e straziante, durò un solo momento, prima di essere costretto all’immobilità.
Riusciva a muovere solo gli occhi, la sua espressione doveva essere bloccata nello spasmo di sorpresa di un attimo prima.

Ofiuco ricomparve innanzi a loro dalla sua nube nera, accanto alla donna.
La osservò con occhi vivaci e percorse con la punta dell’indice la linea che avrebbe percorso con il pugnale che sfilò da una guaina della cintura.
La lama e l’elsa dell’arma, incrociandosi, formavano una croce.

Sotto questo segno vincerai*, pensò Ofiuco, carezzando l’intersezione delle parti.

 

*La frase che un angelo dice in sogno a Costantino, prima della battaglia di Ponte Milvio.
Si riferisce alla croce.

 
***

 Lo scrigno si aprì da solo svelando la Viverna – nera, feroce e fredda. Già essa sola trafiggeva Elena, gettata sulle sue punte.
Quando l’uomo si piegò in avanti e affondò la lama nella gola, Sisifo provò freddo.
La donna emise un gemito gorgogliante e affogò nel suo stesso sangue – solo allora, finalmente, morì.

Il plasma eruppe elegante e crudele, grondando abbondante su tutto il corpo e scivolando sul metallo. E scorreva come un fiume sulla pelle, ma, appena toccava la superficie della Surplice, esso scompariva – la Viverna se ne nutriva ingorda, goccia a goccia, e riacquisiva lucentezza.

Immobili, i due Gold osservarono la sconfitta stillare rossa da un collo da agnello, saziare il nemico, rinvigorirlo.
E non dissero nulla, perché non potevano.
E non pensarono nulla, perché si vergognarono di loro stessi.

“Dalla gola si stilla il sangue della vita, che nutre l’armatura, ma è dal petto e dal ventre che scorre l’elisir della forza. Lì si annida il dolore.”
Ofiuco spiegava continuando a fissare la sua vittima. Spostò la lama nel centro del petto e tagliò la veste, svelando il seno della donna. Incise una grossa croce passando sui capezzoli, il sangue li nascose.
 La veste divenne un immenso sudario rosso e sfilacciato.

Infine l’uomo scese al ventre, ma prima di sezionare nuovamente guardò verso l’ombelico di Elena con sguardo carico di pietà: “Quanto hai rimpianto di essere donna? Quanto?
Per un uomo non posso immaginare un fato così tanto infelice e miserevole.”
Si protese in avanti , verso il viso di Elena e la diede un bacio sulla fronte, mentre lasciò cadere la lama sul basso ventre, trafiggendola incurante.

 

***

Ofiuco gettò un ultimo sguardo al sangue che grondava sulla Viverna e si voltò nuovamente verso Sisifo e Manigoldo.
Il viso del nemico era una maschera di cera marezzata di sangue, gli occhi erano alienati, l’espressione indecifrabile. Scrutò prima Sisifo e poi Manigoldo, borbottando qualcosa tra sé.

E finiva tutto così? Sconfitti e linfa per il nemico?
In un bordello?, si chiese Manigoldo, qui si schianta la mia onda? Una vita sorta nello squallore, deve morire nella stessa miseria?

Guardò l’anima di Elena sollevarsi dal corpo e attorcigliarsi su se stessa, piccola, desolata e cilestrina. Assomigliava all’Uroboro* – il simbolo dell’eterno ritorno dell’uguale -, era così dunque?

Se avesse potuto, avrebbe riso.
Manigoldo rideva sempre in questi momenti, perché il riso spiazza il nemico e perché si era giurato si non piangere mai, né di rabbia, né di tristezza, né di gioia – quindi non poteva fare altro che ridere.

 

*L’Uroboro è un simbolo che rappresenta un serpente che si morde la coda:
molto antico, indica l’eterno ritorno dell’Identico, la ciclicità, l’unione del tutto.

 

Avrebbe voluto vedere l’espressione di Sisifo, perché, quando era posseduto dai sentimenti più negativi, acquisiva una piacevole umanità, rivelava un’espressività inaspettata e feroce, diveniva mortale e forte e a Manigoldo piaceva.
Manigoldo si caricava.

Passarono alcuni minuti in silenzio, Ofiuco guardava compiaciuto il sangue colare sull’armatura, Manigoldo era un fiume di pensieri sconnessi – buffo, come diventasse riflessivo nei momenti meno opportuni.
Sisifo aveva un piano ed era riuscito a riottenere una minima padronanza delle palpebre, quanto bastasse per chiuderle.

 Glielo aveva spiegato Asmita – l’unica volta in cui avevano conversato di qualcosa. Sentì la sua voce che snocciolava parole come una preghiera: ad occhi chiusi, dimentico del mondo, fatti vicino al tuo cosmo – parlagli e ascoltalo.
Un senso mutilo accresce la forza degli altri: negati per un istante la vista, in realtà zavorra per un Cavaliere, in favore del Settimo Senso.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 8. ***


8

 

Sagittarius cercò di dimenticare tutto: negò l’ira verso Ofiuco e la pietà per Elena, cancellò la stima e l’invidia nuove verso Manigoldo, più lontano ancora celò l’amore per Athena, la rabbia verso la Viverna che gli aveva strappato un fratello già lontano.

 Fu difficile ritrovare l’isolamento, tornare alla dimensione di totale autocoscienza, quasi solipsistica, necessaria per sfruttare il Settimo Senso, dopo tutto quel trambusto. Persino il ricordo della birra, per un istante, lo aveva trattenuto in contatto con il mondo esterno.
l suono delle gocce non doveva essere sangue che scorreva, ma vita che sgorgava dalla volta celeste alla terra; vita che lo aveva benedetto ed eletto, che gli aveva concesso la più fiera delle armature.

Quando ritrovò il governo delle sue stelle, cercò il contatto con il cosmo di Manigoldo.
Gli venne da sorridere, perché, quando si trattava di Cancer, persino il cosmo era confusionario. Bruciava in modo irregolare, come colore che fuoriesce dalla sagoma di un disegno, come acqua non arginabile.

 Entrarvi in contatto non fu facile, Manigoldo era in quel momento tutto proiettato sull’esterno, il suo Settimo Senso era in quel momento completamente frastornato.
Manigoldo… Manigoldo…
Molte volte lo dovette chiamare; la concentrazione di Manigoldo era persa sulla scia del sangue di Elena.

Sagitter percepì fortissima l’amarezza del compagno, il suo cosmo ne era intriso – ma era un dolore legato a qualcosa di molto vecchio, era radicato, irradiava da tutte le stelle del Cancro, come se ne fosse il vero nucleo.
Manigoldo…
Il moro rispose con un sommesso gemito alle spalle di Sisifo. Sentiva, ma non riusciva a gestire il cosmo per rispondere. Egli capì e andò avanti.

 Riprendi la padronanza del tuo cosmo, quanto basta per poter evocare gli spiriti con il Sekishiki Kisouen e disporli ad arco, ad esso incoccheremo una freccia che creerò con il mio cosmo. Comanda all’arma di tendersi e scoccare al mio segnale.
La nube di Ofiuco altro non è che un varco spazio-temporale in cui si rifugia al momento dell’esplosione dei tuoi fuochi, la mia freccia lo seguirà all’interno e all’esterno.
Quando lui esce dalla dimensione rallenta sempre per un istante, sarà possibile colpirlo allora.
Abbiamo ancora un po’ di tempo, prima di versare il nostro sangue dovrà attendere che l’armatura abbia sorbito tutto quello di Elena.

Sisifo si sentì ancora peggio a quel pensiero, ma continuò.
Chiudi gli occhi e concentrati; è un’azione troppo complessa per poter avere un secondo tentativo. I nostri cosmi devono incrociarsi e collaborare, potrebbe non essere piacevole.

 Il cosmo era infatti una dimensione così intima per un individuo che difficilmente e fastidiosamente poteva essere sfruttato per tecniche collettive.
Tanto più perché gli unici che avrebbero potuto effettuare azioni congiunte del genere erano i Gold Saints, gruppo di guerrieri di forte personalità e grandi capacità, ma che, per questo, costituivano gruppo poco coeso, caratterizzato da una grande tensione agonale.

 

***

 Ofiuco era ipnotizzato dalla ragnatela di sangue che sgorgava dal ventre della donna. Ad un certo punto aveva emesso un sospiro, Manigoldò percepì la tensione erotica che pervadeva il nemico in quel momento.
Il cosmo dello Specter era come distorto, bruciava male. Era perverso – offuscato, brutto.

 Cancer si concentrò sulle sue stelle, era come se, quel giorno, avesse perso quella parte di sé in qualche posto.
Dovette cercare se stesso come se si fosse trattato di un’altra persona.
Quando riuscì a sentirlo scorrere in sé, vitale, fu piacevole - un balsamo che allevia il dolore alla gola.
Manigoldo si sentiva, le sue stelle bruciavano vivaci come un falò – le stelle di Cancer lo amavano e lo acclamavano a loro signore. Un conquistatore.
La costellazione di Cancer cedeva la sua forza agli uomini.
Il suo corpo era ancora bloccato, ma non importava. Manigoldo poteva fare qualunque cosa, ora, perché era benedetto e prescelto.
Egli evocò i suoi fuochi, emersero silenziosamente dal pavimento e in sordina si disposero a comporre un enorme arco sopra le teste dei Santi.
L’arma era azzurrina ed eterea, per quanto imponente - il cuore di un bambino nel corpo di un guerriero.
Manigoldo ne fu fiero.

La freccia di Sisifo era già pronta, il suo cosmo era di un oro purissimo, brillava con violenza.
Fu ciò a ridestare Ofiuco dallo stato catalettico in cui era caduto.
Inizialmente osservò la cosa con occhi vuoti – guardava senza vedere nulla, quando torno in sé li sgranò ed emise un’imprecazione simile ad un ruggito.

Non vi badare, procediamo. Veloce!, esortò Sisifo.

Fecero avvicinare le loro creazioni.
Quando la freccia sfiorò i fuochi fatui, Sisifo sussultò.

Diversamente da Manigoldo che usava i fuochi come mezzo per i suoi colpi, Sagittarius metteva una parte della sua vita nella forma della freccia, vi riponeva la sua forza nella più pura delle forme.

 Quando riuscirono ad incoccare la freccia e a tendere l’arco, furono percorsi da una scossa.
Fu allora che si conobbero davvero.

 Non fu una sensazione descrivibile: come passare davanti allo specchio e guardarsi di sfuggita, capire sono proprio io quello, quel buffo individuo allampanato sono io.
E, davanti a quello specchio, chiudere gli occhi per cercare di guardarsi riaprirli.
Fu come quando ci si siede davanti alla tomba del proprio padre e si capisce che il giorno della sua morte è già accaduto – ed è anche passato. E sei già dall’altra parte della vita.

 Fu comprendersi, intuirsi, arrivare alla più profonda consapevolezza l’uno dell’altro.

Sei tu.

E il cosmo di Sisifo era come un fenice, nella sua vicenda eterna di morte e vita – Sisifo e il suo dolore, la morte; Sisifo e le sue virtù, il costante rialzarsi, la vita.

 Come può sapere il fuoco che la vita è un’onda?
Il fuoco lo sa perché si nutre di ossigeno così come l’acqua per schiantarsi cerca la terra.
Perché il vento è capriccioso e può togliergli il fiato da un momento all’altro, salvo poi farlo risorgere e divampare in un istante.
Perché la fiamma stillerà anche l’ultima scintilla in cerca della vita, non si quieterà in pace. Mai si spegnerà con lentezza, sarà un’eterna silenziosa lotta.
Superbo il fuoco, benedetta l’acqua, doni di Dio agli uomini; indomabili, inafferrabili, loro è un’eterna irrequietezza; e il fuoco scivola dalla terra all’aria, come l’acqua dall’aria alla terra.
E scivolano da una parte all’altra della vita, senza morire mai.

 Manigoldo sorrise.
Mon semblable – mon frère!*, aveva detto un poeta.

 

*Baudelaire, Au Lecteur (anacronisticamente citato)

 

***

 
Ofiuco era rimasto immobile ad osservare la freccia rivolta contro di lui. Guardava con occhi affamati i cosmi brillare e incatenarsi, e con sguardo clinico i visi dei suoi nemici, contratti nella concentrazione.
Quando l’arma fu pronta, egli toccò con l’indice la Surplice, la quale si richiuse nel suo scrigno, lasciando cadere a terra il cadavere di Elena.
Ofiuco si portò davanti all’armatura in modo da coprirla con le sue spalle. Sorrideva tutto denti, gli occhi spalancati, in estasi.
Si fermò lì, a gambe divaricate, ben piantato sul terreno. Allargò le braccia in un gesto sorpreso.

 Né Manigoldo né Sisifo capirono, ma non potevano più trattenere il colpo.
Adesso, pensarono contemporaneamente.

La freccia partì, e la spinta che le era stata impressa dall’arco fu tale che i fuochi esplosero.
Nel buio fu un meraviglioso spettacolo: la freccia parve una cometa, correva contro Ofiuco ed egli non si mosse, l’esplosione si verificò nella stanza stessa – il nemico non aveva usato il passaggio dimensionale.

I Saints temettero di aver fallito.
Non un urlo, non un movimento da parte di Ofiuco.
Ma il suo cosmo era sparito; la Viverna era lì, al centro della stanza, ed accanto anche la Surplice dell’Ofiuco si era ricomposta, prendendo la forma di un fiero serpente nero e oro.

 Non dovettero passare più di pochi secondi che le due armature scomparirono.
Erano tornate nell’Ade presso i loro vecchi possessori l'una, in attesa di un nuovo signore l'altra.
Nella stanza restava solo il corpo di una donna riverso nel suo sangue e i due Santi di Athena, immobili.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 9. ***


9

 

L’effetto del veleno svanì nel giro di una quindicina di minuti. I loro arti ripresero sensibilità e mobilità progressivamente, a partire dalle estremità.
In quel tempo non poterono fare altro che guardare in silenzio la devastazione innanzi a loro, e il sole sorgere e illuminare il tutto. Sembrava un modo per accusarli, per rimarcare quanto della missione fosse stato un fallimento.

 Il soffitto era nero per le esplosioni e le pareti rosse di sangue. Non c’era nulla che ricordasse la stanza in cui poche ore prima erano entrati.
Così è la guerra, pensò Sisifo, ma era ancora pronto a combattere.

 Sagittarius fu il primo a riuscire nuovamente a muoversi.
Quando riuscì a camminare si diresse subito verso Elena, senza voltarsi a guardare Manigoldo. Con fatica si tolse il mantello dalle spalle e ve la avvolse.
La seta divenne immediatamente un sudario rosso.
Sisifo si inginocchiò davanti al corpo della donna e chinò la testa.
Cominciò a recitare una preghiera.

 Pochi minuti dopo anche Manigoldo poté avvicinarsi.
Attraversò la stanza fino in fondo, dove prima c’era stato il letto a baldacchino, del quale non restavano che le macerie bruciacchiate.
Dovette spostare alcune tavole e alcuni lenzuoli per trovare quanto cercava.

 Allora si accostò ad Elena, di fronte a Sisifo, il quale alzò il capo per osservare. Ma Cancer eluse il suo sguardo.Posò il rosario che apparteneva alla donna sul suo petto insanguinato; ella lo aveva stretto e vi aveva pianto con tanto dolore all’inizio di quella notte.
Si alzò subito in piedi, e guardò solo di sfuggita e con freddezza  quel corpo martoriato.

 
Allora sì, scoccò un’occhiata a Sisifo cercando il suo beneplacito. Egli comprese e assentì con un cenno del capo.

Il corpo della donna si sollevò a mezz’aria, i due Gold si allontanarono di un paio di passi.
Manigoldo schioccò le dita e il corpo arse in una fiamma blu che divampò violenta; poi si concentrò sulle finestre e le aprì.
Entrò un’aria frizzante, un venticello che scompigliò i capelli, che li rese finalmente consapevoli dell’aria pesante all’interno della stanza.
Quando la pira avesse finito di bruciare, sarebbe stato compito del vento portare via le ceneri e concedere l’ultima – inutile – libertà ad un corpo che probabilmente non l’aveva conosciuta mai.

 Manigoldo uscì prima dalla stanza, senza attendere ulteriormente.
Non gli interessava assistere al funerale di una donna che non conosceva nemmeno, pensò aspramente.
Non gli interessavano i funerali. Bisognava guardare avanti, stringere la vita e festeggiarla.

 Sisifo lo seguì immediatamente, ma egli fino all’ultimo si guardò indietro.
E vide in quel fuoco un cadavere uguale identico a quelli di tutti coloro ai quali era sopravvissuto.
Un giorno anche il suo corpo sarebbe stato avvolto dalle fiamme senza provare dolore – pensò a ciò senza tristezza.

Senza dolore – un giorno.

 
***

 Quando scesero le scale dell’edificio, tutto taceva e le candele erano spente.
All’uscita li attendeva solamente la maman; di giorno sembrava più brutta ma meno cattiva che di notte.
Il suo sguardo lasciava intendere che sapeva. Non disse nulla, ma si chinò in un inchino di dolorosa gratitudine.

In un angolo del giardino, proprio sotto le finestre della grande sala all’ultimo piano, era già stata eretta una piccola croce di legno, già vi era posato un giglio bianco.

 Manigoldo sorrise al simbolo della purezza posto alle soglie di un bordello.
Così è la morte, pensò. Non le si nega nulla, ricongiunge tutti gli opposti.

 

***

 
“Ofiuco…” disse Sage, assorto. Tra le labbra sembrò assaporare ogni lettera di quel nome.
Poi il suo viso si illuminò di una improvvisa giovinezza, perché giovane doveva essere stato il ricordo che gli era sovvenuto.
“Sì… Conoscevo bene quella Surplice: nella passata guerra santa l’aveva indossata un uomo dalla grande saggezza.
Era stata la punta di diamante dell’esercito di Hades, ci ha fatto piangere lacrime amare”, disse. Ma dalla sua espressione sembrò solo un uomo che rimpiange i bei tempi passati.
Sage era ancora il giovane e irruento guerriero di quei giorni, malgrado gli anni.

 “Non ha fatto nulla per schivare o difendersi dal colpo, dunque?”
Sisifo e Manigoldo negarono in silenzio.
Sage sorrise tra sé e sé, vecchia volpe, pensò.

“Pensate che lo abbia fatto in funzione di un piano più grande?”, chiese Sisifo preoccupato.
Il Gran Sacerdote aveva un’espressione furba, nei suoi occhi guizzavano la vita e la curiosità.
“Oh no, Sisifo. Se l’ho conosciuto abbastanza bene – e così è stato -, l’Ofiuco è un guerriero egoista.
È figlio di Apollo, non combatte realmente per Hades. Fa ciò che fa per se stesso, per la conoscenza.”
Nella sala entrava una brezza salmastra. Le pesanti tende che incorniciavano la sala della Tredicesima Casa, quella del Gran Sacerdote, erano aperte e si vedeva brillare il mare sulla distanza.

 “Gli avete mostrato un mirabile spettacolo, sapete. Un attacco coordinato con cosmi allo stato puro non è qualcosa che si vede tutti i giorni.
In favore della conoscenza avrà voluto vedere cosa accadeva a ricevere tale colpo.”
Manigoldo ridacchiò: “Sono dei grandi empiristi, i guerrieri dell’Ofiuco.”

 Sage assentì con un sorriso, “ottimo lavoro”, disse infine, e poi voltò le spalle, tornando alle sue stanze, sparendo dietro al pesante tendaggio bianco.
Sembrò un attore che esce di scena in teatro.
Sisifo e Manigoldo si congedarono con un inchino.

Finita, pensarono tutti e tre con sollievo.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 10. ***


10

 

Erano sui gradini della Tredicesima Casa, il sole brillava intenso come il giorno in cui erano partiti.
Sotto di loro si stendeva tutto il Santuario, a partire dalla superba scalinata delle Dodici Case.
“E adesso?”, chiese Manigoldo, guardando annoiato verso la sua Casa, “si torna alla vita di tutti i giorni?”
Sisifo sorrise: “Prima ti offro una birra.”
Cancer fece un sorriso tutto denti, il suo viso era abbronzato e i capelli ondeggiavano superbi al vento, “Ecco, questo mi piace di più!”.

 “Se va sempre a finire così, chiedo di andare più spesso in missione con te!”, continuò, mettendo una mano sulla spalla di Sisifo.
L’altro gli passò un braccio sulle spalle e lo guardò con occhi complici.
“Se non ci sono più prostitute di mezzo, se ne può parlare”, e finalmente Sisifo rise forte – una risata forte come il fuoco, da vita che divampa.


 
“Ma rispondi a questa domanda, Sisifo: a che cosa brinderesti, ora, se questo fosse l’ultima pinta della tua vita?”
 Sisifo guardò il fondo del bicchiere e sorrise al doppio malto, senza pensare a nulla. Era troppo stanco.
“Alla vita, Manigoldo. Che mi concedesse un’altra birra di queste.”
 “Risposta esatta.”
“Ho imparato dal migliore.”
I boccali cozzarono, più leggeri dell’ultima volta.

 

***

 Al momento del concedo si strinsero in un abbraccio da camerata. Così si usava.
Una stretta brusca, qualche pacca sulla spalla, qualche complimento.
Puzzavano di alcool e sudore, e malgrado tutto era qualcosa di piacevole, perché sapeva di vita vera.

 
Manigoldo trattenne Sisifo stretto a sé per un tempo un poco più lungo del normale: “La prossima volta probabilmente la guerra sarà scoppiata e saremo già sul campo di battaglia”.

 “Ne usciremo vivi”, rispose, senza convinzione.
“Oppure non ne usciremo, ma va bene uguale. Tanto nessuno esce vivo dalla vita!” sdrammatizzò il moro. I ciuffi paglierini di Sisifo gli solleticavano le guance e lo facevano sentire stupido.

 
Sisifo sciolse l’abbraccio in fretta e si volse subito verso le Dodici Case.
“Ci vediamo in guerra, Manigoldo.”
“Ci vediamo all’inferno, mi sa.”
Sagittarius si girò nuovamente verso Manigoldo: “All’inferno.”, ripeté.
Esitò per un istante, fissando intensamente il suo interlocutore.
“Allora devo darti questo”, sussurrò. Manigoldo lo udì appena.

 
Letteralmente, Sisifo gli diede una testata.
Con il senno di dopo, Cancer pensò che fosse stato per tramortirlo e renderlo meno cosciente.

Tempo non ce n’era.
Le labbra di Sisifo si poggiarono su quelle del compagno d’improvviso, quasi con violenza e disperazione.
Erano alle soglie di una guerra.
Manigoldo non attese ulteriormente ad aprire la bocca e cercare la lingua della controparte.
Ci vediamo all’inferno.
Sisifo, mentre baciava, era completamente diverso dalla rigidezza che mostrava in altre occasioni: sapeva assecondare e prendere l’iniziativa al contempo. A Manigoldo piaceva da impazzire.

E mi sa anche prima.

 Quando si allontanarono l’uno dall’altro si guardarono intensamente, prima che Sisifo si incamminasse verso la Nona Casa.
“Grazie di tutto”, sussurrò.
Manigoldò annuì lentamente con un bel sorriso sul viso.

 

***

 

 
Quando fu presso il proprio tempio, Sisifo guardò nuovamente verso il mare.
Il banco di nubi all’orizzonte si era fatto cupo, tirava aria di tempesta. Lo guardò con apprensione per un istante, poi si costrinse a stornare lo sguardo.
Più sotto, la Quarta Casa restava ancora vuota: Manigoldo aveva voglia di vagabondare e se n’era andato al Pireo.

 “Tu fuggi dalle tue ansie”, gli aveva detto Sisifo.
“Semplicemente non sto a guardare una guerra che ci viene incontro con le mani in mano.
Le vado incontro anche io.”, la piega della bocca di Cancer era una smorfia tesa, ma lui aveva ancora voglia di scherzare.
Quando era nervoso, aveva sempre voglia di scherzare.
“Conosci il mito di Sisifo, Sisifo? Lui ha fregato la morte: l’ha fatta ubriacare e l’ha incatenata.
Si è incazzato tutto l’Olimpo, scacco matto al Gran Re!”

 “Poi gli hanno messo un masso sulla schiena a fare su e giù per l’eternità, sai anche questo, Manigoldo? Non sfidare gli dei.”, rispose grave il Sagittario.
“Oh, io a quello non penso. E poi sono sicuro che il nostro eroe trascini il suo masso con gran piacere al gran pensiero delle sue gesta.”

 Un pesante silenzio grave cadde tra loro.
“Cosa hai intenzione di fare?”, l’armatura non gli era mai sembrata così pesante.
“Vivere, Sisifo. Vivere anche in guerra.

Non mi convinceranno a mangiare il pasticcio putrefatto di carne umana che ci offrono*.”

Manigoldo gli aveva sorriso e stretto la mano debolmente. Guardava un punto lontano per evitare gli occhi di Sisifo.

 Sagittarius non disse nulla. Chiuse gli occhi e imparò a vivere.
Nessun futuro, solo il presente.
La guerra non è nemmeno domani,
pensò, e anche domani è ancora lontano.

 Domani sarebbe scoppiata la guerra.
Sisifo sarebbe stato schiavo dei suoi demoni e Manigoldo avrebbe sigillato Thanatos.

Ironia della sorte,
avrebbe pensato Manigoldo.

 

 

*Hugo Ball, dadaista, sulla Prima Guerra Mondiale

 

---

 Siamo alla fine della mia prima long (completa).
E, per me, è stata un’avventura meravigliosa, che mi ha costretto a riflettere e conoscere questi due personaggi – e, aggiungo, me stessa.
Ringrazio in particolare mughetto nella neve, la mia salvezza, e LOL_chan con le loro bellissime e gentilissime recensioni.
Ora, mi permetto di chiedere, a storia finita, delle recensioni, anche brevi per dirmi il vostro sincero parere e capire cosa migliorare e cosa va bene.
Perché, detta sinceramente, a me questa storia piace davvero molto, è un piccolo motivo di orgoglio, ma mi sembra che non sia stata ricevuta con entusiasmo, eccezione fatta per quello, graditissimo, di questi due fantastici recensori.
Non dico ciò come captatio benevolentiae, vorrei davvero capire.
Un po’ come Ofiuco, che si butta allo sbaraglio per amore di scienza.
Ad ogni modo vi ringrazio anche solo per la lettura. Vedo che le visualizzazioni rimangono costanti nel corso dei capitoli, e mi fa piacere di non perdere lettori (anche se questi magari arrivassero alla fine solo per lo schifo, mi piace pensarla differentemente).
Grazie di tutto.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3244853