Ship to wreck

di Roof_s
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chi sei? ***
Capitolo 2: *** La stessa ragazza ***
Capitolo 3: *** Un piccolo diverbio ***
Capitolo 4: *** Una facile preda ***
Capitolo 5: *** Armi ***
Capitolo 6: *** Amici e nemici ***
Capitolo 7: *** Ottimi risultati ***
Capitolo 8: *** Inaspettata gentilezza ***
Capitolo 9: *** Ottimi conoscenti ***



Capitolo 1
*** Chi sei? ***


Chi sei?


Harry


 
Odiavo la pioggia. E odiavo la pioggia in autunno. E odiavo la pioggia in autunno durante i tragitti verso scuola. Se però a tutto ciò si aggiungeva l'inizio di un nuovo anno scolastico, l'odio aumentava in modo spropositato.
Esattamente come quella mattinata.
Chiusi il grande ombrello blu scuro che avevo sottratto all'ultimo minuto a mia madre prima di incamminarmi verso scuola e lanciai un'occhiataccia torva all'ingresso dell'edificio grigio davanti a me.
Ci risiamo, pensai mestamente.
Era finalmente giunto il mio ultimo anno di liceo, anche se l'atmosfera era tutto fuorché rilassata e gioiosa: affrontare quattro anni alla Holmes Chapel Comprehensive School aveva richiesto una grande resistenza fisica e mentale.
Varcai la soglia assieme a svariati gruppi di studenti intenti a raccontare le proprie avventure estive e accelerai il passo per evitare di restare intrappolato nel solito caos da nuovo inizio. La mia classe era sempre la stessa: primo corridoio a sinistra, terza porta bianca. Ampia stanza dalle pareti imbiancate malamente e il soffitto smisuratamente alto, che impediva ai termosifoni di riscaldare in modo adeguato tutta l'aula. Mi cercai un posto libero nella prima fila, lasciando cadere lo zaino ai piedi del mio banco e lanciando un'occhiata furtiva alle mie spalle: la maggior parte dei posti era già stata occupata e nessuno sembrava aver fatto caso al mio arrivo.
Come sempre.
Sospirai, allungai un gomito sulla superficie immacolata del mio nuovo banco e poggiai il mento nel palmo della mano.
Nuovo anno, stessa storia. Ma d'altronde, cos'altro avrei potuto aspettarmi? Avevo convissuto per quattro lunghi anni con la desolante indifferenza dei miei compagni di classe, non mi sarei dovuto stupire del fatto che anche quel giorno nessuno mi avesse visto camminare e prendere posto in prima fila.
Almeno riuscirò a concentrarmi al meglio in vista degli esami, pensai con aria avvilita.



Uscii dalla classe il più in fretta possibile e mi diressi verso la macchinetta delle bevande calde. Infilai le monete, premetti il bottone che cercavo e attesi, mentre la gente sfilava alle mie spalle parlando a voce alta. Potevo sentire chiaramente racconti inerenti le prime lezioni di quel nuovo anno scolastico così come i dettagli minuziosi di appassionanti amori nati in splendide spiagge lontane nel tempo e nello spazio.
Mi allontanai dalle macchinette, attorno alle quali il traffico si stava facendo intenso e insopportabile, e intravidi all'istante i volti che stavo cercando con ansia fin dalla fine della lezione.
“Harry!” esclamò un ragazzo dai capelli biondi e lunghi con tanto di frangia spessa a coprirgli la fronte, Haydn.
Superai tre ragazze che non parvero nemmeno fare caso al fatto che per poco non avevo rovesciato il mio caffè sulle loro magliette attillate e raggiunsi i tre ragazzi dall'aria spaesata che mi aspettavano addossati a un muro.
“Ciao, ragazzi” salutai. “Come state?”
Non avevo più visto nessuno dei miei tre migliori amici per tutto il mese di agosto: Haydn era stato in Scozia dai suoi zii; Will aveva partecipato a un campo estivo come animatore, attività che gli aveva portato via praticamente tutto il tempo a disposizione; Nick, invece, si era concesso una lunga e piacevole vacanza in compagnia di Elisabeth, la sua fidanzata. E io ero rimasto solo a Holmes Chapel, mentre i miei pochi amici pubblicavano fotografie degli splendidi posti che visitavano.
Nick mi diede il cinque e sorrise. “Alla grande! Iniziavamo a preoccuparci per te, eri sparito dalla circolazione”.
Scossi il capo e sbuffai. “Sono rimasto tutta l'estate qui, non sapete che divertimento... Io, mia mamma e i vicini che innaffiavano il prato alle tre di notte”.
Will ridacchiò a quelle parole, anche se non poteva nemmeno lontanamente immaginare quanto in realtà avessi patito la solitudine e la distanza dalle poche persone con cui riuscivo a sentirmi me stesso.
“In ogni caso, ora che siamo di nuovo tutti qui dobbiamo riprendere i lavori da dove li abbiamo lasciati” proseguì Haydn con fare pragmatico.
Annuii convinto. “Non vedevo l'ora che lo dicessi”.
Haydn mi graziò con un sorriso luminoso e Will disse: “Io ho avuto poco tempo per la band, ma sono pronto a ricominciare anche oggi”.
“Già, quando intendiamo riprendere le prove, Haydn?” chiese Nick, curioso.
Haydn si guardò attorno, come se la risposta potesse piombare dal cielo.
Il nostro gruppo era nato proprio grazie a lui, tre anni prima. Io e Haydn eravamo grandi amici fin dai tempi delle scuole elementari, e avevamo sempre condiviso una passione sfrenata per la musica. Quando poi lui aveva iniziato a suonare la chitarra e a comporre pezzi tutti suoi, l'idea di fondare una band era stata quasi scontata.
Rigirai ancora lo zucchero nel bicchierino del caffè, dopodiché gettai via il bastoncino di plastica, ancora in attesa della risposta di Haydn. Quest'ultimo ricominciò a parlare con voce ferma: “Quest'anno ho intenzione di dare una scossa al nostro...”
Haydn non riuscì a terminare la frase perché proprio in quel momento da dietro l'angolo comparve una studentessa alta, dal corpo ben modellato e la carnagione olivastra che risaltava sorprendentemente in mezzo ai coloriti spenti delle altre ragazze lì attorno. Più di una testa si voltò al suo passaggio, e non si trattava solo di ragazzi.
Catherine Alexandra Cavendish aveva la straordinaria capacità di ipnotizzare chiunque la osservasse a distanza di pochi metri: alta abbastanza da spiccare in mezzo alle compagne, il seno sodo che attirava sempre parecchie occhiate, le gambe snelle e perfette per qualsiasi passerella d'alta moda e uno splendido paio di occhi verdi dal magnetismo incredibile. E la sua fortuna non finiva qua, perché Catherine era anche una delle ragazze più ricche della zona, cosa che non finiva mai di esibire regalando feste incredibili in una delle sue tante ville in stile barocco, poco distante dal centro di Holmes Chapel. Ovviamente nessuno di noi si era mai azzardato a farsi vedere in tali occasioni, siccome per lei sembravamo non esistere proprio. Ma se io almeno avevo avuto l'accortezza di non perdere la testa per quella che sembrava la ragazza perfetta uscita dal mondo dei sogni, lo stesso non si poteva dire di Haydn, il quale si era preso una terribile cotta per Catherine molti anni prima. La storia era sempre quella: lui ammutoliva davanti all'immagine di quella specie di dea scesa in terra, che naturalmente non lo conosceva e avrebbe piacevolmente evitato qualsiasi situazione nella quale fosse stata in obbligo di stringergli la mano.
Will rise e io non potei fare a meno di provare pena per il mio migliore amico, intrappolato in una prigione dalla quale non vedeva via di fuga. Haydn, come risvegliandosi da un brutto sogno, tornò a guardare nella nostra direzione e assunse improvvisamente un'aria amareggiata.
“Qual è il nuovo flirt di inizio anno?” domandò Nick con fare provocatorio.
Haydn gli scoccò un'occhiata depressa. “Non lo so”.
“Non avrà ancora avuto tempo di mostrare il suo nuovo cagnolino in pubblico. Aspettiamo domani” ridacchiò Will in tutta risposta.
Sospirai. “Ragazzi, concentriamoci sulla band”.
Haydn annuì, per niente felice. “Quest'anno rivoluzioneremo il nostro repertorio. Vi voglio pronti a schiacciare qualunque band rivale e a dare il massimo”.
“Sarà forse la volta buona?” domandò Nick.
“Per che cosa?” chiesi io.
“Per farci finalmente notare da Catherine” replicò lui, sghignazzando di nuovo.
“Oh, basta!” sbottai a quel punto; tutti si zittirono e fissarono i propri sguardi sul mio volto serio. “Ragazzi, Haydn ha ragione. Lavoriamo sodo per noi stessi e solo dopo penseremo al parere degli altri. La band vale più di una ragazzetta snob qualunque, giusto?”, e guardai in direzione di Haydn.
Lui annuì, seppur mantenendo quella strana espressione di pura infelicità. Potevo capirlo, ma avrei fatto di tutto per evitare che quella situazione degenerasse. Mancava un solo, fatidico anno alla fine di quell'inferno, fatto di solitudine e incertezze. Haydn ed io avremmo potuto uscire a testa alta dal liceo, ma la scelta toccava solo a noi.
“E per quanto riguarda le prove col gruppo” ripresi a parlare, prima che la campanella che segnava la fine della pausa suonasse, “io direi che si potrebbe già iniziare a lavorare da domani o dopodomani. Che ne pensate?”
Sui volti magri di Nick e Will comparvero due enormi sorrisi di sfida.



La verità era che nemmeno io ero troppo entusiasta alla prospettiva di un altro anno nella Holmes Chapel Comprehensive School. Avevo risollevato il morale a Haydn, perché sapevo perfettamente come si sentiva, ma non ero sicuro di essere stato sincero al cento per cento.
Mi sentivo più solo che mai, e le dispute con mia madre a proposito del mio futuro si facevano sempre più serie. Avevo trascorso l'intera estate a fare la spola dalla camera da letto al salotto nel tentativo di trovare un'idea, ma non ce n'erano state di particolarmente significative. Non volevo studiare legge, non mi interessava capire il corpo umano e operare pazienti, non avevo alcuna intenzione di studiare altre lingue che non fossero la mia e la prospettiva di aprire un libro di economia mi toglieva il sorriso. Che cosa avrei potuto fare della mia già inutile esistenza?
Per fortuna c'era la band, e c'erano Haydn, Will e Nick, che capivano il mio stato d'animo e condividevano i miei stessi sogni. La musica era tutto ciò che mi rimaneva, l'unico modo grazie al quale ero riuscito a sopravvivere agli anni infelici del liceo. Volevo cantare, volevo produrre la mia musica e farla conoscere al mondo intero, volevo vivere di canzoni e di note. Ma non mi andava l'idea di poterlo fare solo dopo altri lunghi anni di studi universitari su libri inconcludenti e accompagnato da freddi insegnanti interessati solo al proprio stipendio.
Mia madre insisteva nel dire che le mie erano opinioni fasulle, del tutto condizionate dalla poca voglia che avevo di studiare, e non perdeva nessuna occasione per sbattermi in faccia i successi accademici di mia sorella Gemma, che al contrario di me era una studentessa formidabile.
Infilai le chiavi nella serratura del cancello della modesta villetta a schiera nella quale abitavo assieme alle donne della mia vita, spinsi in avanti e attraversai il giardino frontale. Entrai in casa accolto dall'invitante profumo di carne cotta al forno, mentre la voce di mia madre riempiva il soggiorno.
“... no, certo che no... Be', sì, è ovvio... Ma certo, sai che lo farei in ogni caso... D'accordo, d'accordo, gliene parlerò...”
Mi affacciai dall'entrata della cucina e la intravidi appoggiata al ripiano della cucina, col telefono attaccato all'orecchio e lo sguardo puntato sul pavimento lucido.
“Ciao, ma'!” salutai stancamente.
Lei alzò di colpo gli occhi e mi sorrise. “Ciao, tesoro. Tra poco la cena sarà pronta”.
“Perfetto” risposi, vago.
Tornai in salotto e salii la scalinata che portava all'unico altro piano della casa. La mia stanza, la prima a destra nello stretto corridoio che costituiva il secondo piano, era un tripudio di colori e il disordine vi faceva da sovrano. Non permettevo a nessuno di ficcare il naso nel mio spazio personale, perché quel caos mi trasmetteva una sensazione di calorosa accoglienza.
Sbattei la porta alle mie spalle e poggiai la cartella sul pavimento. Raccolsi un paio di giornali sportivi caduti a terra ai piedi del letto e li gettai sulle coperte sfatte.
Un colpo contro la porta. Mi girai in tempo per vedere mia madre entrare nella mia stanza, storcendo il naso alla vista dei calzini sparpagliati a terra vicino al comodino.
“Allora, com'è andato il primo giorno di scuola?” domandò allegramente.
Mia madre stese una mano sulle coperte e dispiegò un lembo per renderlo più accogliente. Si sedette e mi guardò con l'aria di chi si appresta ad affrontare un lungo discorso.
“Bene” risposi in tono incerto; non ero abituato a quelle ispezioni, perciò sospettavo che ci fosse qualcosa sotto.
“Non hai nulla di più interessante da raccontarmi? Nuovi compagni? Nuovi professori?” proseguì mia madre perplessa.
Scossi il capo e infilai alcuni libri in un cassetto della scrivania.
“No, mamma. Siamo all'ultimo anno, è altamente improbabile che si aggiungano nuovi compagni” dissi.
Soprattutto in un posto sperduto e monotono come questo, pensai con sconforto.
Mia mamma sorrise e sospirò. “Be', allora se tu non hai nulla di grandioso da dirmi, parlerò io. Ho una proposta per te”.
Alzai gli occhi, incuriosito e al tempo stesso dubbioso. “Di che si tratta?”
“Tuo padre mi ha chiamata. Mi ha parlato di uno stage presso la sua azienda. Stanno cercando ragazzi che abbiano voglia di fare nuove esperienze lavorative, e siccome tu non sai ancora che studi intraprendere dopo il liceo, io e tuo padre abbiamo pensato che...” spiegò mia madre tutto d'un fiato.
Lasciai perdere i libri di scuola che stavo riordinando e guardai mia mamma con aria scioccata.
“Mi stai dicendo che papà mi ha proposto per lo stage?!” esclamai, innervosito.
Mia mamma si interruppe e mi guardò con aria colpevole. “No, certo che no, Harry! Mi ha chiesto di proporti questa esperienza. Ci piacerebbe molto vederti impegnato in...”
“Mamma, a me non interessa lavorare nell'azienda di papà” tagliai corto.
Distolsi lo sguardo e la sentii chiaramente sbuffare contraddetta.
“Non mi hai nemmeno lasciato spiegare di che cosa si tratta” mi fece notare.
“Non mi interessa, fine della questione”.
“E che cosa dovrei dire io? Io ti mantengo, Harry. Ti pago le rette della scuola, ti pago i viaggi che fai...”
“Non mi sono mosso da Holmes Chapel per tutta l'estate”.
“Ogni volta che hai bisogno di soldi, io ci sono! Perché non inizi a guadagnarti qualcosa da solo?”
Chiusi gli occhi, sentendo che la rabbia stava riaffiorando velocemente. Ero stanco di sentirmi dire che non facevo abbastanza, che ero un peso sulle spalle di mia madre.
“Se proprio vuoi che guadagni dei soldi, lasciami fare ciò che voglio!” sbottai, lanciando sulla scrivania il mio orologio da polso.
Mia madre si alzò dal letto, gli occhi socchiusi che incutevano timore. Mosse un passo nella mia direzione e, alzando a sua volta la voce, gridò: “Tu non hai la più pallida idea di che cosa vuoi fare, Harry! Sto cercando di aiutarti, non lo vedi?”
“Io non voglio studiare, non voglio lavorare in una stupida azienda!” esplosi.
Mia madre sbatté le braccia contro i fianchi, cercando di reprimere una nuova ondata di rabbia.
“E che cosa vorresti fare?” mi chiese, regolando il tono della voce.
Sospirai profondamente, provando a imitare il suo esempio. Infine decisi di dirle la verità.
“Io voglio cantare”.
Lo sguardo che mia madre assunse sembrava quello di un adulto che veda un bambino provare a volare. Distolsi gli occhi. Ero stato sicuro che avrebbe reagito in quel modo.
“E come pensi di poterlo fare? Sei senza soldi, senza conoscenze...” mi fece notare con voce compassionevole.
“Se hai intenzione di farmi notare quanto sia un povero illuso, la porta è da quella parte”.
“Harry, ascoltami” fece lei, calma. “Non voglio assolutamente insultarti”.
“E allora che cosa abbiamo ancora da dirci?” gridai, afflitto.
Mia madre sospirò, incerta su che cosa dire.
“Sono sicura che cantare ti piaccia molto, ma... suoni in una band amatoriale che non si è mai esibita pubblicamente e io stessa so a stento dire se sai davvero cantare o no. Non sarebbe meglio dedicarsi ad altro e nel frattempo coltivare la passione del canto?”
Scossi il capo, ostinato. “Tu non capisci come mi sento io quando canto. Io sto bene, mamma. Io mi sento un'altra persona. Non sono più... lo sfigato che tutti ignorano, sono forte e indistruttibile”.
Mia madre sospirò nuovamente e rimase in silenzio a guardarmi. Infine sorrise debolmente e disse: “Allora ti consiglio di iniziare a trovare agganci utili al tuo obiettivo. Ci sono migliaia di giovani, là fuori, pronti a seguire la tua stessa strada”.
Alzai gli occhi al cielo e le indicai la porta della stanza. “Possiamo terminare qua questa conversazione? Grazie”.
Lei annuì e si avviò alla porta senza aggiungere altro. Aspettai che se ne fosse andata per gettarmi a pancia in su sul letto, nervoso e inquieto. Purtroppo mia madre aveva ragione, e io non avevo la più pallida idea di che cosa avrei potuto fare per emergere dalla nebbia che avvolgeva i cantanti in erba come me.
Mi rialzai dopo poco e spalancai l'armadio, alla ricerca dei pantaloncini e della felpa: correre mi avrebbe aiutato a scaricare la tensione.



Il posto dove preferivo fare jogging era fuori da Holmes Chapel. A circa venti minuti a piedi da casa mia si poteva raggiungere un bel parchetto isolato dal traffico della strada principale che da Holmes Chapel portava a Manchester.
Quella sera il tempo non era stato molto clemente: il cielo si era oscurato in fretta e grosse nuvole nere cariche di pioggia si avvicinavano in lontananza. Tenendomi strettamente attaccato al bordo della strada e camminando a passo spedito, mi avviai verso il ponticello che precedeva la stretta stradina sterrata posta all'inizio del mio percorso.
Sentii un tuono risuonare lontano, aumentando pian piano di volume. Mi strinsi nella felpa e arrivai sul ponte. Ma a mano a mano che mi avvicinavo al centro del ponte in legno, la mia attenzione al temporale in arrivo diminuiva.
Era già scuro tutto intorno a me, ma fui sicuro di riuscire a distinguere una figura poco lontana da dove mi trovavo io, pericolosamente seduta sul corrimano consumato del ponte.
Non è possibile, pensai, terrorizzato all'idea che la mia vista non mi stesse ingannando.
Accelerai il passo e in un istante fui vicino alla persona che ― ormai era chiaro ― voleva buttarsi di sotto.
“Ehi!” esclamai, il panico udibile nella mia voce.
La persona si voltò di scatto. In un primo momento non riuscii a vederla in volto, ma dopo qualche altro passo riconobbi il volto magro dai lineamenti perfetti e i grandi occhi verdi.
“Chi sei?” sbottò Catherine Alexandra Cavendish con aria inorridita.







 

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Capitolo 2
*** La stessa ragazza ***


La stessa ragazza


Kate

 
 
Rimasi impalata dov'ero, troppo sconvolta dall'interruzione per potermi muovere. Che cosa diavolo ci faceva quel tipo proprio lì? E perché aveva tutta l'aria di avermi riconosciuta?
“Che... che cosa stai facendo?!” sbottò lui, incredulo.
Rimasi ferma per un secondo, dopodiché urlai, impaurita: “Ci conosciamo?”
Vidi il ragazzo scuotere prima il capo e poi ripensarci su e dire: “Tu non mi conosci, ma io so chi sei. Frequentiamo la stessa scuola”.
Annuii, raggelata dalla consapevolezza di ciò che stava succedendo: ero stata colta in flagrante proprio da un mio compagno di scuola. Ero in guai seri, ora.
“Vattene” tagliai corto.
“Che cosa vuoi fare?” chiese lui, spaventato.
Lo guardai di nuovo. “Ti ho detto di andare via!”
“Non vorrai mica... buttarti?” domandò con voce tremante.
Fui colta da un singhiozzo e mi voltai velocemente, dandogli le spalle. Le lacrime cominciarono a solcare le mie guance e io staccai una mano dal corrimano per asciugarle.
“Vattene via! Non mi interessa il tuo giudizio, io non ti conosco” sbottai.
“Ascoltami, Catherine...” provò ancora.
“No, lasciami in pace!” urlai, interrompendolo. “Cosa vuoi saperne tu?”
“Che cos'è che dovrei sapere?” domandò lui, sempre più vicino. “Che cos'è successo?”
Mi voltai nella sua direzione e cercai di trattenere le lacrime. Dal suo sguardo, però, fui certa che si fosse accorto del pianto.
“Sono stanca di tutto. Non puoi capire!” urlai.
Non mi piaceva l'idea di dare spiegazioni a uno sfigato qualunque che sicuramente mi seguiva con lo sguardo quando camminavo per i corridoi della scuola.
“Va' via e lasciami fare quello per cui sono venuta qui” continuai in tono sommesso.
Il ragazzo si avvicinò ancora e io sobbalzai, allarmata. Lo vidi finalmente in volto: occhi chiari, capelli molto ricci e vestiti anonimi. Non avevo mai notato quel ragazzo a scuola, sicuramente doveva essere poco conosciuto.
“Catherine, sai che cos'è peggio del... suicidio?” mi chiese, la voce che reggeva a stento il peso della conversazione.
Lo guardai, tremante come una foglia al vento. “Che cosa vuoi da me?”
Lui inspirò e riprese a parlare.
“Peggio del suicidio è il vuoto che lasci nelle persone che ti amano”.
Mi sentii colpire da un senso improvviso di colpevolezza. Ma in fondo a chi sarei mancata? Forse quello stupido ragazzetto poteva pensare che io fossi felice soltanto perché ero bella, ma non si avvicinava nemmeno lontanamente alla verità.
“Nessuno mi ama davvero. Tu non sai nulla di me, va' via!”
“Io so che sei una delle ragazze più popolari della scuola. Tutte, là dentro, vorrebbero avere anche solo la metà di quello che hai tu, e...”
“Vattene via!” strillai, stordita dal dolore. “Non mi conosci, non conosci la verità! Nessuno mi invidierebbe tanto, se si sapesse che razza di vita schifosa sono costretta a vivere!”
“E allora parlamene!” esclamò il ragazzo, inorridendo alla vista della mia determinazione.
Lo sentii poggiare una mano sulla mia e percepii il calore della sua pelle. Pensava che mi sarei buttata di sotto? Forse sì, e la cosa lo spaventava oltremodo. Magari era uno dei tanti innamorati di me. Oppure era semplicemente sconvolto dall'idea di poter assistere a un suicidio. In fondo eravamo compagni di scuola, anche se io non avevo la più pallida idea di come si chiamasse.
“Lasciami perdere, è quello che fanno tutti” tagliai corto, il morale sotto i piedi. “Forse per te sembra impossibile poter scegliere questa strada, ma io sono stanca”.
“E così ti arrendi, giusto?” rispose prontamente lui.
Lo ignorai e sospirai profondamente. Guardai in basso: l'acqua non scorreva impetuosa, ma se io fossi caduta non mi sarei salvata, perché non sapevo nuotare.
“Catherine, tu non immagini nemmeno cosa voglia dire essere me” fece il ragazzo.
“Va' via finché sei in tempo. Questa è una questione privata” lo avvertii.
“Non lo è più”, fu la sua secca risposta.
Deglutii e staccai una mano dal corrimano.
“Ascoltami bene, non sei l'unica ad avere difficoltà” proseguì lui con coraggio. “Io mi sveglio ogni giorno con la paura nera di mettere piede a scuola, perché sono ignorato da tutti e ho pochissimi amici. La gente mi considera uno sfigato, e probabilmente questo è ciò che pensi anche tu di me”.
Fece una pausa. Mi voltai appena e incontrai il suo sguardo fermo puntato sul mio volto.
“E mia madre sta cercando in tutti i modi di obbligarmi a seguire le orme di mia sorella, sminuendo le mie vere capacità”.
Rimasi in silenzio, in attesa che lui proseguisse.
“La ragazza che mi piace non sa nulla di me, perché sono troppo stupido e insignificante per una come lei. Come la mettiamo adesso?” concluse il ragazzo. “Credevi seriamente di essere l'unica a soffrire? Forse tu sembri qualcuno che non sei, ma non puoi pensare di essere sola. Parla dei tuoi problemi, sfoga la rabbia, ma non gettarti da questo stupido ponte. Le persone che ti lasciano perdere non valgono la tua fine”.
Mi strofinai gli occhi di nuovo appannati dalle lacrime. Tirai su col naso e guardai il ragazzo al mio fianco.
“Vivo con mio padre, perché mia madre si è risposata e ha altre priorità adesso” snocciolai automaticamente. “Lui mi ignora, finanzia i miei studi e i miei corsi di danza, ma non mi permetterà di iscrivermi all'accademia teatrale una volta finito il liceo”.
Il ragazzo rimase zitto. Le sue labbra sottili formavano una linea diritta e gli occhi erano fissi dentro i miei.
“Le amiche che ho non sono interessate a me, non sanno quasi nulla di chi sono. Gli piaccio perché sono ricca e con me al loro fianco sembreranno più importanti” aggiunsi, amareggiata. “E i ragazzi che mi seguono ovunque lo fanno perché sono bella. Per loro sono una preda, e io mi sono abituata a recitare questa parte alla perfezione, mi calza a pennello”.
Il ragazzo annuì, serio.
“Ultimamente litigo con chiunque, a casa mi sento terribilmente sola. Questo posto mi mette una gran tristezza addosso. Vorrei andarmene, ma ho paura che fuori da questo piccolo mondo io non sarei nessuno” terminai.
“E dopo avermi raccontato tutto questo, pensi ancora che la tua vita non meriti una seconda chance?” mi chiese lui a bruciapelo.
Singhiozzai e sbuffai. “Non so più nulla”.
Lui, a quel punto, fece leva sulle braccia e si issò sul corrimano del ponte, proprio di fianco a me, con la schiena rivolta al vuoto sotto i miei piedi.
“Quando ero piccolo Holmes Chapel mi sembrava un posto sconfinato, non avevo un'idea chiara delle sue misure. Pensavo che qui sarei stato sempre felice, perché avevo i miei genitori, la mia scuola e i miei amici. Poi sono cresciuto e ho realizzato che Holmes Chapel è solo uno dei tanti paeselli sperduti in cui non concluderò mai un accidente. Ma il mondo mi si è spalancato davanti nella sua vastità. Non sei obbligata a restare qua se hai i tuoi sogni, Catherine”.
Puntai gli occhi sulla superficie scura dell'acqua sotto i miei piedi.
“Se ora mi buttassi, eviterei molti problemi a me e agli altri” confessai.
Il ragazzo al mio fianco sospirò profondamente. “Se ora ti butti giù, mi costringerai a fare lo stesso”.
Mi girai a spiare il suo profilo. Lui non si voltò nella mia direzione, fissava un punto davanti ai suoi occhi con aria scossa; eppure ero sicura che non stesse mentendo.
“Che cosa diavolo vuoi da me? Perché stai facendo tutto questo? Io sono una di quelle persone odiose che ti disprezza e ti fa sentire uno sfigato, lasciami stare!” sbottai, confusa da tutto ciò che stava succedendo.
“Io...”, il ragazzo staccò gli occhi dal nulla alle mie spalle e mi guardò, “... tu non... Insomma, che cazzo ti passa per la testa, Catherine?! Tu sei pronta ad ucciderti per... che cosa?”
Lo vidi scattare in piedi, il volto trasfigurato dal terrore.
“Tu vuoi farla pagare a quelle persone che non ti considerano abbastanza importante, ma questo non è il modo migliore di risolvere i problemi, non lo capisci?”
Scossi il capo. “Io...”
“Tu non sai un bel niente!” sbottò lui, interrompendomi. “Ti stai comportando come se ogni piccola tragedia quotidiana fosse una grande sconfitta. Non è così! Non lasciare che siano queste stronzate a buttarti giù!”
Lo guardai, i piedi ancora saldamente attaccati al bordo esterno del ponte. Il ragazzo sconosciuto respirò con forza, a metà tra lo spaventato e l'incollerito. Potevo scorgere i muscoli del viso tesi per il nervosismo.
E se avesse avuto ragione? E se in fondo avessi agito davvero come una bambina impulsiva?
Pensai per un istante ai corsi di recitazione organizzati dal gruppo teatrale della scuola: da quanti anni desideravo prendervi parte! E le accademie di Londra e Manchester, il mio sogno nel cassetto...
Inspirai l'aria fresca nei polmoni e riaprii gli occhi. Il ragazzo era ancora in piedi dietro di me, gli occhi spalancati come se avesse paura di chiuderli e non ritrovarmi più seduta sul bordo del ponte.
“Prendi la mia mano, Catherine” sussurrò, allungando il braccio destro.
Mi alzai dal corrimano e afferrai docilmente la mano di quello sconosciuto. Alzai una gamba e la poggiai al di là della balaustra. Quando però provai a fare la stessa cosa con l'altra gamba, il piede mi scivolò di qualche centimetro.
Lanciai un grido che spezzò il silenzio della sera. Il ragazzo scattò in avanti e si protese per reggermi. Mi aiutò a issarmi oltre il bordo del corrimano e in pochi istanti fui sana e salva al centro del ponte.
Guardai il mio salvatore dritto nei suoi grandi occhi chiari.
“Chi sei?” soffiai a mezza voce.
Lui tirò un sospiro di sollievo e disse: “Harry. Harry Styles”.
Annuii e gli strinsi la mano, ancora scossa dai minuti trascorsi insieme a quel perfetto sconosciuto. Aveva conosciuto una parte così intima di me che quasi mi vergognavo a guardarlo in faccia.
“Vuoi un passaggio a casa?” mi domandò, cordiale.
Scossi il capo. “Io... è meglio che... vada”.
Harry sbatté le palpebre un paio di volte, un'espressione perplessa stampata sul suo volto magro. Sembrava quasi temere che potessi ripensarci e commettere davvero il suicidio progettato prima del suo arrivo.
Dio, che vergogna!, pensai mestamente.
E se Harry avesse spiattellato ai quattro venti l'accaduto? Tutta la scuola avrebbe parlato di me per mesi, e io sarei passata dall'essere il personaggio più in vista della Holmes Chapel Comprehensive School al diventare lo zimbello della città.
“Se hai bisogno...” ritentò Harry.
“Sto bene!” scattai, innervosita. “Va' via!”
Il ragazzo non mosse un muscolo, ma io non rimasi in attesa di ulteriori proposte. Lo oltrepassai a passo svelto e mi avviai verso la mia bicicletta, abbandonata in una piazzetta che costeggiava la strada. Salii sul sellino rigido e mi allontanai in fretta da quel posto maledetto. Solo quando fui abbastanza lontana dal ponte e dal mio salvatore scoppiai in un lungo pianto liberatorio.



Il mattino seguente mi risvegliai in un bagno di sudore. Aprii un occhio e avvertii il dolore martellante alle tempie. I ricordi della sera precedente si affollarono nella mia testa, gettandomi di nuovo nello sconforto.
La decisione improvvisa, il ponte, i minuti di incertezza, l'arrivo di quello strano tipo ― Harry Styles ― e i suoi tentativi di salvataggio, le mie imbarazzanti confessioni, il modo brusco con cui mi ero congedata dopo essermi arresa...
Mi coprii il volto stanco con entrambe le mani e per un paio di minuti evitai di compiere qualunque movimento. Volevo solamente affondare il più profondamente possibile nel materasso e scomparire per sempre.
Che cosa diavolo mi era saltato in mente? Avevo mandato all'aria la prudenza e mi ero fatta vedere da un mio compagno di scuola! Quel maledetto impiccione mi aveva osservata tentare il suicidio e piagnucolare senza ritegno. Potevo immaginare la gioia selvaggia di quel tale Harry Styles all'idea di avere la ghiotta opportunità di rovinarmi: avrebbe acquisito una certa popolarità e io sarei passata per la psicopatica di turno.
“Sono un'idiota” mormorai attraverso le mani ancora chiuse sul mio viso.
Dovevo pensare a come risolvere quel pasticcio. Sicuramente Harry Styles andava zittito, intimorito. Dovevo evitare che si montasse la testa.
Mi alzai dal letto scalciando via le coperte e spalancai la finestra: l'aria pulita della nuova mattinata invase la stanza e la luce mi colpì agli occhi.
Mantieni la calma e ne uscirai sana e salva.



Normalmente attraversare il cortile della scuola era uno spasso. Le occhiate di ammiratori e curiosi non mancavano mai e io mi sentivo una vera regina in mezzo a tanta venerazione gratuita.
Quel giorno, però, il mio arrivo fu accolto da timori e profonde paure. Varcai la soglia dell'edificio scolastico con le gambe che tremavano. Mi guardai attorno freneticamente ma non vidi nemmeno l'ombra di Harry Styles, che era passato dal non esistere all'essere la mia più grande tortura.
Salii la rampa di scale che conduceva al secondo piano ed entrai nella mia aula. Cinque ragazze tremendamente simili le une alle altre si alzarono in tutta fretta dai due banchi su cui si erano assiepate e mi salutarono con larghi sorrisi di benvenuto. Le raggiunsi e sbattei la mia borsetta di pelle bianca sulla sedia. Mi sfilai la giacchetta di marca e la poggiai allo schienale. Guardai le mie amiche una per una e infine mi decisi a sorridere. Le vidi farsi subito più serene.
“Ciao, ragazze” salutai quel manipolo di arriviste che erano le mie migliori amiche.
Sarah, Jane, Olivia, Mary e Barbara attaccarono subito con il loro parlottio vivace, aggiornandomi su tutte le piccolezze che potevano essere successe dall'ultima volta in cui ci eravamo viste, il pomeriggio precedente.
Annuii distrattamente senza preoccuparmi di mostrare il poco interesse che nutrivo per quelle storielle. La mia mente era completamente persa.
Avevo praticamente ammesso, per la prima volta nella mia vita, che tutto ciò che mi circondava non valeva nulla: le mie amiche, i miei spasimanti, i soldi e i lussi di cui andavo tanto fiera. Tutto questo era una pura menzogna che la gente si era bevuta senza discutere.
“Conoscete un certo Harry Styles?” interruppi le mie amiche all'improvviso.
Tutte ammutolirono e si scambiarono occhiatine sorprese.
Guardai Olivia, la quale si affrettò a scuotere il capo e a rispondere: “Mai sentito prima. Chi è?”
“Qualcuno ti sta infastidendo, Kate?” domandò con fare aggressivo Jane.
Feci cenno di no con la mano e sbuffai. “Era solo una mia curiosità. Va tutto bene”.
Mi accorsi dell'occhiata eloquente che Barbara lanciò a Jane: quelle due avevano forse in progetto di scoprire chi fosse Harry Styles e minacciarlo di starmi lontano?
“Ragazze, state tranquille” aggiunsi, stanca. “Non è qualcuno di cui dovremo preoccuparci”.
“Se hai bisogno di qualsiasi informazione, sai a chi rivolgerti” mi informò Mary con aria cospiratoria.
Annuii di nuovo e osservai il professore di Storia fare il suo ingresso in classe.
“Grazie del supporto, amiche mie”.



Uscii nel cortile spazzato dal vento e strizzai gli occhi per focalizzare meglio le figure che si muovevano nel campo di rugby dietro la scuola. Il cielo si era adombrato velocemente e il freddo s'infilava attraverso gli abiti ancora troppo sottili.
Camminai a passo veloce fino al vasto campo sportivo, adocchiando esattamente la persona che stavo cercando: un ragazzo alto, dal fisico imponente e il sorriso mozzafiato, intento ad abbattere le difese della squadra avversaria e ad aggiudicarsi gli applausi concitati della folla.
La sera prima mi ero lasciata trasportare troppo dalla foga, dal momento di annebbiamento mentale. Ora, tuttavia, vedevo con più chiarezza la situazione: non potevo permettere a qualche momento di instabilità di abbattermi. Sì, in fondo era la mia bellezza ad attirare la gente, ma che cosa c'era di male in tutto questo? Questa era la verità: io ero bella, e ciò non costituiva alcun peccato.
Quando Michael ebbe segnato l'ennesimo colpo, un boato assordante dal lato destro del campo si levò e un gruppetto di ragazze più piccole di me saltellò freneticamente. Sbuffai, sprezzante, e sorrisi al giocatore che avanzava lentamente verso di me.
“Ciao, splendore” mi salutò, facendo scivolare un braccio sui miei fianchi e stringendomi a sé.
Baciai Michael con aria trionfante: ero io la ragazza con cui voleva uscire; io la ragazza a cui avrebbe obbedito come un cagnolino; ed ero io l'unica che avrebbe avuto il potere di spezzargli il cuore con una sola parola.
“Sei venuta a vedermi?” domandò, orgoglioso.
Annuii e assunsi la mia solita aria innocente: sapevo che nessun ragazzo poteva resistermi quando lo guardavo in quel modo.
“Ho aspettato tutta l'estate per rivederti con questi pantaloncini sportivi che ti rendono così sexy” gli sussurrai a un palmo dal viso.
Michael abbozzò un sorriso di pura estasi e mi stampò un altro lungo bacio sulle labbra. Quando si staccò da me, mi salutò con un sorrisetto malizioso e mi diede appuntamento fuori dalla scuola alle cinque. Lo guardai sparire in lontananza assieme al resto della squadra, probabilmente intento a vantarsi con gli amici di quanto la sua fidanzata fosse affascinante.
Sorrisi con aria tronfia e, proprio in quel momento, scorsi un ragazzo dall'aria spaesata fissarmi da lontano, gli occhi velati di una muta accusa: Harry Styles mi aveva osservata insieme a Michael, forse domandandosi se la ragazza che aveva aiutato la sera prima fosse la stessa di quel freddo pomeriggio autunnale.





 

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Capitolo 3
*** Un piccolo diverbio ***


Un piccolo diverbio


Harry


 
La mia vita non era mai stata tanto noiosa come allora. I giorni si fecero più ripetitivi e monotoni che mai, e io arrivai quasi a pensare di non tornare a scuola per evitare di sprecare altre giornate inconcludenti.
Mi ero illuso, per un attimo, di aver finalmente rivoluzionato la mia vita aiutando Catherine Alexandra Cavendish a salvarsi dalle proprie paure. Ero stato sicuro, il giorno seguente, che lei avrebbe nutrito una certa riconoscenza nei miei confronti e che forse mi avrebbe rispettato e accettato.
Invece mi ero sbagliato alla grande, perché non solo Catherine sembrava ancora meno intenzionata di prima ad attaccare bottone con me, ma avevo addirittura l'impressione che mi guardasse con sospetto e timore. Probabilmente temeva che io fossi così spietato da voler divulgare i suoi segreti a tutta la scuola... Non sapeva che, però, io non ero affatto quel tipo di persona.
Era passata una settimana esatta dal fatidico primo giorno di scuola, lo stesso in cui avevo appunto salvato la mia coetanea dal suo istinto suicida. Era un altro piovoso lunedì di settembre, e sebbene una prima settimana fosse trascorsa senza grossi intoppi, la voglia di alzarmi quella mattina era scesa bruscamente sotto lo zero.
Varcai la soglia della scuola accompagnato da Haydn, che parlava concitatamente delle prove del pomeriggio precedente.
“... Nick deve tornare sul pianeta Terra, Elisabeth lo distrae troppo dalle nostre priorità” lo sentii dire distrattamente.
Annuii senza troppa convinzione e risposi: “Lo sai che la adora”.
“Certo, e non ho assolutamente nulla contro quella ragazza, ma...”, sbuffò con evidente stizza, “andiamo, Harry! È della band che si sta parlando, il nostro unico mezzo di evasione e riscatto!”
Camminando affiancai un gruppo di ragazze che sapevo appartenere alla cerchia esclusiva di Catherine Alexandra e notai lo sguardo indagatore del mio amico che sorvolava sulle tre alla ricerca della sua amata.
“Vorrai dire il tuo mezzo di conquista del cuore di Catherine Alexandra Cavendish, piuttosto?” scherzai, facendo bene attenzione a non farmi udire dalle tre snob che avevamo appena oltrepassato.
Haydn sbuffò contrariato. “Ancora con questa storia?! Perché non mi lasciate in pace?”
“Perché, Haydn, dovresti dimenticare quella ragazza, e lo sai perfettamente”.
“Ma lei è... è...”
Sospirai, stanco. “Fidanzata” completai. “E pure con un pezzo grosso della squadra di rugby”.
“Da quando Michael Grennan è considerato un pezzo grosso?” replicò Haydn con una nota di disprezzo.
Raggiunsi la porta della mia aula e lo fronteggiai con aria determinata. “Da quando si è guadagnato il ruolo di capitano della squadra e l'ha portata a vincere i campionati regionali per la prima volta nella storia della nostra scuola”.
Haydn sembrò afflosciarsi come una pianta morente. Mi scocciava dover giocare il ruolo del guastafeste, ma ero convinto — così come Nick e Will — che prima si fosse tolto Catherine dalla testa, e meglio sarebbe stato per la sua salute mentale.
“Con tutte le ragazze carine di questa maledetta scuola, perché mi sono preso una cotta proprio per quell'oca?” sibilò Haydn, abbassando lo sguardo sui propri piedi con aria frustrata.
Alzai le spalle e sorrisi tristemente. “Anche le ragazze che apparentemente non hanno nulla di speciale sono capaci di farti stare male, fidati” biascicai amareggiato.
Haydn tornò a guardarmi negli occhi e abbandonò la sua aria contrita.
“Felicity?” mi chiese timoroso.
Annuii e spostai lo sguardo altrove: non mi piaceva parlare di lei così apertamente. Ero abituato a tenermi tutto dentro, a non pronunciare mai il suo nome e a non mostrare quanto quella ferita aperta facesse ancora male.
“Be', si può proprio dire che siamo sulla stessa barca, amico” sospirò Haydn con fare saggio.
“Ne usciremo” gli garantii a voce bassa. “Ne sono sicuro. In qualche modo ne usciremo”.
La campanella squillò proprio in quel momento, prendendoci alla sprovvista. Alcune mie compagne di classe si affrettarono a rientrare nell'aula alle mie spalle e Haydn si tirò più su lo zaino sulla spalla sinistra.
“Bene, è ora di salutarci. Buona mattinata, Harry” disse.
Gli diedi una pacca e sorrisi. “Ci vediamo più tardi”.
Seguii le mie sciocche compagne di classe camminando a passo lento, sempre meno intenzionato a passare altre cinque ore in quella scomoda aula in cui mi sentivo uno sconosciuto. Spiai l'ora sul quadrante dell'orologio appeso in alto sopra la lavagna ancora sporca dal giorno prima.
Cercai con ogni sforzo di allontanare Felicity Skinner dai miei pensieri, ma trovai l'impresa più difficile del previsto. Ogni volta che pensavo a lei, la mia giornata prendeva inevitabilmente la piega storta.
Sospirai sconsolato e tirai fuori i libri della lezione di Storia della prima ora.
Felicity non era affatto popolare come Catherine, eppure sembrava ignorarmi con la stessa intensità. Ero riuscito a nascondere i miei sentimenti per un anno intero, sicuro com'ero che se si fosse saputo della mia cotta per lei, tutti ne avrebbero riso con disprezzo. Ma dopo mesi e mesi di occhiate sfuggevoli e controlli quotidiani su Facebook, alcune mie compagne di classe avevano scoperto il mio segreto e la voce era arrivata alle orecchie di Felicity.
Chiusi gli occhi, colpito da una nuova ondata di pura vergogna al ricordo del nostro unico faccia a faccia, in cui io ero stato a dir poco ridicolizzato davanti a fin troppi spettatori.
Ehm... Ciao, senti... ho sentito alcune voci su di te...”
“Buon giorno, ragazzi” salutò la professoressa dai lunghi capelli biondi e il sorriso amichevole che ci insegnava la materia più noiosa del mondo.
Il saluto venne ricambiato con particolare enfasi da parte dell'ala maschile della classe. La professoressa Bennet faceva sempre quell'effetto.
Ti chiederei di evitare di parlare di me o di... sì, ecco, esprimere queste tue idee, perché... sto uscendo con un ragazzo e non vorrei essere... associata a te, ecco”.
Il ricordo di quel suo monologo umiliante e delle risate che ne erano seguite mi fece arrossire fino alla punta dei capelli. Come potevo essere così idiota da sbavare ancora dietro a una persona del genere? Una persona che considerava i miei sentimenti delle idee!
Scossi il capo con fare rancoroso. Dovevo seguire gli stessi consigli che dispensavo a Haydn e gettare Felicity fuori dal mio cuore a calci.



Se all'inizio della giornata avevo avuto pochissima voglia di alzarmi dal letto e abbandonarlo in favore della scomoda sedia sulla quale avrei dovuto passare cinque ore, presto mi sarei ricreduto sull'apparente inutilità di quella mattinata. Infatti, a mia insaputa, stavo per dare il via a una serie di eventi che avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
Accadde così che nell'intervallo i miei migliori amici non si fecero vivi e io rimasi in disparte a sgranocchiare il mio solito pacchetto di patatine, osservando attentamente chiunque passasse davanti alla scrivania sulla quale sedevo svogliatamente.
Non mi accorsi nemmeno, in un primo momento, del cambiamento nell'atteggiamento di alcuni ragazzetti di poco più piccoli di me, che improvvisamente si erano messi a sbirciare verso il fondo del corridoio alzandosi in punta di piedi. Solo dopo un attimo vidi arrivare Catherine Alexandra, seguita a ruota dalle sue cinque inseparabili migliori amiche, di cui conoscevo a stento il nome. Ma ciò che colpì maggiormente la mia attenzione fu lo sguardo gelido che la capo-gruppo mi rivolse. Mi fissò apertamente e si fermò poco lontano da dove mi trovavo io.
Controllai alle mie spalle, eppure ero sicuro che non ci fosse nessuno vicino a me. Catherine stava chiaramente guardando me, mi degnava della sua attenzione!
All'improvviso la vidi fare uno strano gesto repentino con la mano. Aggrottai la fronte, confuso dal suo strano atteggiamento. Poi lei ripeté il gesto e si fece più severa in volto.
Mi alzai dalla scrivania in tutta fretta, allarmato. Che cosa diavolo stava succedendo? Perché Catherine mi faceva segno di avvicinarmi a lei?
Non appena fui a meno di due metri dalla ragazza, però, la vidi rivolgersi alle sue amichette dicendo di dover tornare indietro per prendere alcuni fogli da consegnare in segreteria.
“Torno subito” tagliò corto, allontanandosi da loro e da me.
Una delle sue tirapiedi — forse si chiamava Olivia? — annuì piano e proseguì tirandomi una spallata ben poco elegante. Quando tutte e cinque se ne furono andate, accelerai il passo e seguii Catherine. Sbucai in un corridoio deserto che terminava con una larga scalinata scolorita che portava ai piani superiori. Catherine era ferma lì, le braccia incrociate al petto e uno sguardo torvo stampato in viso.
“A che gioco stai giocando?” domandai, scocciato.
Lei sbuffò con aria superiore. “Senti, voglio chiarire un paio di cosette con te, prima che ti passi per la testa di fare il grandioso”.
“Che cosa vuoi dire?” chiesi bruscamente.
Catherine ridacchiò, sprezzante. “Tu hai detto di essere un povero sfigato, e non posso darti torto. Ma conosco quelli come te”, e il suo sguardo si fece più ostile, “e so esattamente come funziona la vostra testolina malata. Tu vuoi aspettare il momento migliore per approfittare della mia... debolezza e rovinarmi e...”
Questa volta toccò a me scoppiare a ridere. “Che cosa?! Sei seria, Catherine?”
Lei sembrò farsi più rossa in volto. “Non usare il mio nome, tu non mi conosci!”
Ero stufo di essere trattato come un deficiente da delle ragazze troppo arroganti.
“Io non ho intenzione di fare nulla” sbottai, arrabbiato. “Ti ho aiutato spontaneamente, non mi aspetto certo di riscattarmi con la notizia del tuo suic...”
“Ssst!” fece lei improvvisamente. “Chiudi quella boccaccia!”
“E tu smettila di darmi ordini!” ricambiai con altrettanto disprezzo.
Catherine sembrò sul punto di scoppiare. Poi, però, prese un profondo respiro e soffiò l'aria fuori dai polmoni con forza.
“D'accordo... Harry Styles. Te lo chiedo con le buone maniere: tieni la bocca chiusa su quanto hai visto e prosegui per la tua strada” disse con voce particolarmente autoritaria. “E se proverai a fare parola con qualcuno del mio gesto, ti scatenerò contro l'intera scuola”.
Ci fissammo negli occhi per qualche istante, e avevo l'impressione che Catherine volesse farmi a pezzi e sbarazzarsi di me per sempre. Possibile che mi odiasse così tanto? Eppure io ero stato scioccamente convinto che il mio salvataggio potesse significare un silenzioso rispetto...
“Non l'avrei fatto comunque” mugugnai alla fine, arrendendomi alle sue condizioni.
Catherine Alexandra sorrise con una certa soddisfazione e si sistemò meglio sulle spalle la giacchetta rosa pallido.
“Molto bene”.
Mi superò senza nemmeno guardarmi negli occhi, proprio come se fossi fatto d'aria. Mi voltai per tenerla d'occhio, finché non sparì oltre la porta che conduceva alle classi del primo piano.
Se possibile, il mio umore era sceso di qualche altra tacca.



Non feci parola dell'accaduto con nessuno, non avrei sopportato l'idea di ritrovarmi contro Michael Grennan e i suoi compagni di squadra. Ma quando alla quarta ora mi avviai verso il piccolo campo sportivo di fianco a quello da rugby, notai con orrore che una delle altre due classi che avrebbero diviso lo spazio con noi era nientemeno che quella di Catherine Alexandra. Poi scorsi Haydn e Will seduti su una panchina, intenti a legarsi le scarpe da ginnastica, e il peso che gravava sul mio cuore si affievolì un po'. Li raggiunsi, lasciando per un attimo la mia classe riunita attorno agli scatoloni contenenti le palle da basket.
“Guarda chi si rivede!” esclamò Will, alzandosi e correndo sul posto per riscaldarsi prima dell'inizio della lezione.
Catherine Alexandra era pericolosamente vicina a noi. L'ignorai, deciso a non darle l'opportunità di fulminarmi con le sue occhiate piene di veleno.
“Non sapevo avessimo lo stesso orario di ginnastica” dissi, rallegrato dalla cosa: non avrei dovuto trascorrere le ultime due ore del lunedì a guardare torvo i miei compagni che formavano le squadre di gioco senza nemmeno includermi.
“Quest'anno abbiamo proprio avuto fortuna, eh, Haydn?” sghignazzò Will, accennando alla classe stanziata vicino alla loro.
Proprio in quel momento due delle amiche di Catherine Alexandra si voltarono e lasciarono vagare i loro sguardi arroganti su di me e i miei amici. Infine mi fissarono con tutta l'aria di volermi eliminare dalla faccia della Terra e scoppiarono in risatine stupide, che mi diedero la nausea.
Mi voltai verso Haydn e Will, i quali non avevano potuto fare a meno di notare quella strana reazione.
“Che gli è preso?” borbottò Haydn, perplesso.
“Lasciale perdere” replicai, sospettando il motivo di quelle risate di scherno.
“Sarah, Jane... andiamo, credevo aveste gusti migliori in fatto di uomini!” cinguettò una voce falsamente dolce.
Non potei trattenermi dal voltarmi: Catherine Alexandra mi guardava con un misto di disgusto e di gioia selvaggia.
Le amiche di Catherine Alexandra risero più forte e lei staccò i suoi grandi occhi verdi dal mio volto.
“Lasciamo gli avanzi a chi fa la fame” disse ancora con voce ben udibile.
A ridere, questa volta, non furono soltanto le sue amiche del cuore. Mi sentii ribollire dalla rabbia, era come avere una bestia imprigionata nel petto e pronta a uscire e divorare tutti. Avevo promesso a Catherine Alexandra di tenere la bocca chiusa sull'accaduto, era passata una settimana nella quale io non avevo assolutamente fatto cenno del suo tentato suicidio: perché, allora, si ostinava a volermi mettere i bastoni fra le ruote?
“Sei ancora sicuro che quella sia la ragazza con cui vorresti procreare, Haydn?” domandò Will, infastidito quanto me dalla sfacciataggine di quelle sei oche.
Il nostro amico scosse il capo e produsse un grugnito difficile da interpretare. Intanto io cercavo di calmarmi e di pensare che nel giro di pochi giorni Catherine Alexandra si sarebbe scordata di me e del nostro piccolo diverbio.
“Chissà perché, dopo cinque anni di liceo in cui lei non sapeva manco della nostra esistenza, ora all'improvviso inizia a prendersi gioco di noi...” rifletté Haydn a voce alta, spiando nel frattempo il fondo schiena della sua musa ispiratrice.
Aprii bocca, tentato come non mai di rivelare la verità ai miei due amici. In fondo, loro erano come fratelli per me, perché non avrei potuto renderli partecipi del mio piccolo segreto? Avrei potuto far giurare loro di mantenere il silenzio e nessun altro sarebbe venuto a sapere dei problemi di Catherine Alexandra...
Ma alla fine il buonsenso tornò a bussare alle porte della mia mente, e io richiusi in fretta la bocca e cancellai ogni maligno proposito. Se quella ragazza parlava sul serio ed era quindi davvero capace di rendermi la vita un inferno, preferivo obbedire ai suoi ordini ed evitare di complicarmi l'ultimo fatidico anno scolastico ad Holmes Chapel.
Il resto delle due ore di lezione si svolse di conseguenza nell'atmosfera più strana e disagevole che avessi mai sperimentato: da una parte c'erano due dei miei migliori amici, che non sospettavano nulla del patto stretto con la ragazza più popolare della scuola; e dall'altra parte c'era proprio la ragazza più popolare della scuola, che ogni volta che ne aveva l'occasione mi punzecchiava con risatine crudeli o sguardi feroci.
Alla fine della lezione di ginnastica, lasciai il campetto in fretta e furia, deciso come non mai a non incrociare nessuno sul mio cammino verso gli spogliatoi.



Haydn suonò un lungo fa diesis imbracciando la sua chitarra con un sentimento di amore quasi paterno e alzò gli occhi su di me, sorridendo.
“Allora, che ne dite?” domandò, al settimo cielo.
Annuii con vigore e mi lasciai andare a un sorriso felice.
“A me è parso un pezzo straordinario, Haydn. Complimenti, davvero!” mi congratulai.
“Sì, è proprio quello che ci serviva, ragazzi!” esclamò Nick, seduto dietro la sua mastodontica batteria composta ormai da infiniti piatti e tamburi di ogni dimensione. “Dobbiamo lavorare sul basso per gli adattamenti, ma io ho già un'idea per il ritmo...”, e prese a battere il tempo canticchiando il motivo che poco prima Haydn aveva suonato con la chitarra.
“E le parole” aggiunsi io. “Dovremo scrivere un testo adatto”.
“Credevo che questo compito spettasse a te” fece Will, strizzando l'occhio in un'espressione di complicità.
“Abbiamo bisogno di un testo graffiante e provocatorio, proprio come la melodia del pezzo” decretò Haydn con passione. “Questa sarà la musica adatta a feste ed eventi pubblici, la gente ci adorerà”.
Stavo per rispondere a quelle fantasie idilliache quando sentimmo bussare alla porta dello scantinato dove quasi ogni pomeriggio ci esibivamo. Una voce femminile al di là della spessa porta di ferro disse: “Nick, tesoro, c'è Elisabeth alla porta”.
Tutti e tre ci voltammo immediatamente a guardare il nostro batterista, che con uno sbuffò d'impazienza annunciò: “Eppure l'avevo avvisata che oggi sarei stato impegnato tutto il pomeriggio!”
Si alzò dallo sgabello e affrettò il passo per raggiungere l'uscita. Non appena la porta si fu richiusa alle sue spalle, Haydn espresse il suo malcontento.
“Non è possibile, quella ragazza è ovunque! Quando capirà che Nick ha anche altro da fare oltre a pomiciare con lei?”
“Parli così perché sei invidioso, Haydn!”
“Ma stai zitto, Will! Non m'interessa se voi siete fidanzati o single, voglio solo fare un buon lavoro con la band. E non vedo come possiamo riuscirci, se ogni prova è interrotta dall'arrivo di...”
“Elisabeth!” esclamai io, interrompendo il mio amico e salutando la ragazza bassa e dal volto ovale che aveva appena fatto il suo ingresso nello scantinato in disordine.
Quest'ultima avanzò in mezzo a cavi e amplificatori, tenendo stretta la mano di Nick nella sua, e sorrise al mio indirizzo. Elisabeth non era quella che si definiva una bella ragazza: non raggiungeva il metro e sessanta, i suoi occhi erano troppo sporgenti sul viso dalla forma allungata e portava un paio di occhiali dalle lenti talmente spesse da farla sembrare una rana. Nonostante ciò era davvero simpatica e divertente, e anche se esagerava nell'imporre la propria presenza al suo fidanzato, era piacevole sentirla elogiare le nostre capacità artistiche. Probabilmente era la nostra unica fan al momento.
“Ciao, ragazzi! Come vanno le prove?” domandò, interessata.
Haydn le sorrise e notai quanto quel gesto fosse forzato e insincero; per lui ogni distrazione era da condannare, anche quando si trattava di una fidanzata.
“Abbiamo in serbo tante sorprese” le rivelò Will, facendo scorrere le dita sulle corde spesse del suo basso. “E quest'anno è molto probabile che ci sentirai finalmente suonare dal vivo”.
Elisabeth si voltò verso il fidanzato con sguardo estasiato.
“Non me l'avevi detto, Nick!” esclamò, raggiante.
Lui si limitò a un'alzata di spalle e un timido sorriso, incapace di dire se le parole di Will potessero essere reali o no. Certo, avevamo fatto notevoli progressi dall'inizio del nostro legame artistico, ma non avevamo mai suonato davanti a più di due persone alla volta. Che effetto ci avrebbe fatto un vero pubblico? Eravamo davvero pronti a un giudizio esterno?
Io, dal mio canto, fremevo d'impazienza all'idea di salire su un vero palco e dare sfogo alla musica che sentivo quasi scorrere nelle mie vene. Mi addormentavo la sera immaginando come sarebbe stato ricevere scroscii interminabili di applausi, e mi svegliavo la mattina con una voglia matta di arrivare al pomeriggio per chiudermi nello scantinato della casa di Nick insieme ai miei migliori amici.
La mia vita, sotto quella prospettiva, non era poi così male.
“Ragazzi, sono felicissima per voi, dico davvero” disse Elisabeth, guardandoci uno a uno. “Ma oggi pomeriggio non sono passata per parlare di band o di concerti. Vorrei parlare con te, Harry”.
Misi su un'espressione sconcertata e fissai Elisabeth per qualche istante prima di annuire e seguirla mentre si avviava fuori dallo scantinato.
Elisabeth non era male e andavamo d'accordo, ma da quando veniva a casa del suo adorato Nick per parlare con me?
Mi chiusi la porta alle spalle e la guardai dritto negli occhi, in attesa che parlasse. Lei sorrise e disse: “Tua madre ha parlato con mio padre di recente. Dice che stai cercando lavoro”.
Lei sta cercando un lavoro per me, è diverso” sbuffai, annoiato da quella storia.
Elisabeth scrollò le spalle e continuò a sorridere serena. “Volevo solo farti sapere che potresti davvero aver trovato un impiego”.
“Davvero? E dove?”
“Nella panetteria di mia madre. Mia sorella sarebbe disposta a insegnarti il lavoro e a seguirti nelle prime settimane”.
Guardai Elisabeth di sottecchi, non del tutto convinto da quell'atto di bontà così inatteso. Conoscevo a malapena Elisabeth, perché sua sorella e sua madre avrebbero dovuto assumermi così facilmente?
Elisabeth sembrò leggermi nella mente e scoppiò in una risatina divertita.
“D'accordo, è vero: mia sorella ha un debole per te e sono sicura che questa cosa l'abbia convinta a fare uno strappo alla regola...”
“Come sarebbe a dire 'uno strappo alla regola'?” domandai, perplesso.
“Be', vedi, mia mamma non sta cercando impiegati. Non hanno davvero bisogno di qualcuno in negozio, ma tua madre è una cara amica di mio padre e questa cotta che mia sorella ha per te...”
La interruppi con un gesto delle mani. “Elisabeth, sei stata molto gentile a parlarmene, ma non sono interessato. Come ti ho già detto, è mia mamma che cerca un lavoro per me, non io”.
La ragazza annuì comprensiva e rispose: “Tua madre voleva lasciare il tuo numero di telefono ai miei genitori, ma io li ho convinti a lasciarmi parlare prima con te. Ero sicura che avresti detto queste cose”.
Sorrisi, divertito. “Sono così prevedibile?” scherzai.
“Senti, Harry, so che voi volete suonare e guadagnarvi da vivere in questo modo, ma non c'è nulla di male nel mettere da parte un po' di soldi con un lavoretto part-time mentre aspettate la vostra grande occasione”.
Sospirai, messo alle strette da quella logica impeccabile.
“Io ti lascio il numero di mia sorella, e tu sarai libero di decidere che cosa farne. Io, però, ti suggerisco di riflettere prima di rifiutare quest'occasione, e non solo per fare un piacere a tua madre” concluse Elisabeth.
Mi porse un pezzetto di carta piegato accuratamente e sorrise. Lo presi e lo infilai nella tasca dei jeans. Mia madre era riuscita a mettermi nel sacco: questa volta aveva mandato un'amica a fare il lavoro sporco per lei. Elisabeth era una ragazza modesta e sapeva che cosa voleva dire guadagnarsi qualcosa: lavorava da anni in una pizzeria poco fuori città e con i suoi soldi si pagava praticamente di tutto, dai viaggi ai libri scolastici.
“Grazie mille, Elisabeth” dissi infine con un sospiro.




 

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Capitolo 4
*** Una facile preda ***


Una facile preda


Kate

 

Ascoltai gli ultimi messaggi vocali affidati alla mia segreteria telefonica, cancellandoli uno dopo l'altro. Arrivata all'ultimo, abbandonai ogni speranza di trovarvi quello che cercavo e lo eliminai con uno sbuffo sonoro. Allontanai il telefono fisso da me e lo guardai ancora per qualche istante con astio, come se la mancanza di notizie di mia madre fosse colpa sua.
Non mi contatta da due settimane, pensai tristemente.
Mi alzai dal letto e raggiunsi l'ampia finestra che dava sul giardino posteriore della villa in cui abitavo. Scrutai con aria delusa le siepi perfettamente potate e gli imponenti alberi da frutto che mio nonno aveva piantato anni prima al confine della nostra proprietà.
Mia madre si era forse stancata di tutto quello? Perché se n'era andata?
Non solo mio padre era cambiato sensibilmente dal suo abbandono, ma mi aveva anche lasciata completamente sola in una casa troppo grande e silenziosa. Non avevo fratelli o sorelle con cui condividere la mia delusione, con cui trascorrere quelle infinite giornate così malinconiche. Salivo e scendevo le scale di casa mia contando i miei passi, contando anche i giorni che mi separavano dalla definitiva partenza verso una città e una vita migliore. Ero prigioniera della mia stessa ricchezza.
Sospirai sconsolata e chiusi le tende della mia stanza di scatto. Ero stanca di fissare sempre i soliti scenari. Avevo voglia di fare due passi, di stare da sola altrove. Le stanze di casa echeggiavano delle grida di mio padre rivolte contro di me, e io ero stanca di essere confinata in un luogo che detestavo.
Uscii dalla mia enorme stanza in penombra e scesi in fretta le scale che portavano al piano terra. Afferrai distrattamente la giacca lasciata sul divano e mi infilai le scarpe da ginnastica bianche. Uscii all'aria fresca di quell'oscuro pomeriggio che non avrebbe potuto essere tanto peggio dei precedenti.
Pensa ad altro, pensa ad altro.
Tutto quel rancore represso contro mia madre, contro mio padre, contro le mie amicizie non faceva che crescere di giorno in giorno, aumentando la sensazione già forte di essere incatenata contro la mia stessa volontà. Lentamente la mia riluttanza per tutto ciò che mi circondava iniziava a prendere il sopravvento: avevo già mentito a mio padre affermando che il corso di danza classica sarebbe iniziato nei primi giorni di ottobre, quando invece avevo segretamente deciso di smettere un'attività che ormai non mi appassionava più. Era un piccolissimo passo, ma quella bugia mi aveva liberata da un peso gravoso. Avevo a lungo detestato la maniera con cui mio padre mi imponeva la danza.
Non essere ridicola, Catherine, il teatro è per i buffoni che non concluderanno mai nulla nella vita. Hai bisogno di un'attività che tempri la tua mente e ti insegni a comportarti come una vera donna”.
Sorrisi trionfante e ripensai alla sera di una settimana prima, quando mi ero trovata sola sul ponte che portava fuori dall'asfissiante Holmes Chapel: ero stata a un soffio dal farla davvero finita, avevo trovato il coraggio che per mesi mi era mancato.
A spingermi verso quel gesto così estremo era stato il desiderio di vendetta; volevo farla pagare cara a mio padre, così distratto dalla sua vita, e a mia madre, ormai del tutto disinteressata alla mia crescita. Si odiavano a vicenda, eppure avevano una cosa in comune: la più completa indifferenza per ciò che desideravo io. Avevo creduto che la mia morte sarebbe stata una bella delusione per entrambi, soprattutto per mio padre: si sarebbe pentito atrocemente delle sue assenze e della sua insopportabile severità, si sarebbe consumato nel dolore e nelle notti di pianto e io avrei avuto la mia rivincita.
Scossi il capo per cacciare via quelle riflessioni così feroci.
E poi era spuntato Harry Styles dal nulla, un povero sciocco che aveva tentato ogni carta nella speranza di salvarmi. Forse l'aveva fatto perché io gli piacevo, o forse perché mi aveva presa più seriamente di quanto non avessi fatto io stessa.
Stupido idiota, pensai con rabbia tra me e me.
Se non avesse ficcato il naso nei miei affari, avrei potuto decidere liberamente che cosa fare e non mi sarei ritrovata a dover condividere quello spaventoso segreto con qualcun altro. Nessuno aveva anche solo la minima idea di ciò che provavo, e il fatto che ora qualcuno possedesse un'arma così potente da usare contro di me mi spaventava da morire.
“Ehi, culo d'oro, levati di mezzo!”
Mi riscossi improvvisamente dalle fantasticherie legate al mio tentato suicidio, e mi ritrovai nel bel mezzo della strada. Mi guardai attorno e individuai subito chi aveva parlato: una ragazza era affacciata dal finestrino della sua vecchia macchina bollata, lo sguardo serio puntato su di me e l'aria piuttosto annoiata.
“Come mi hai chiamata, scusa?” strillai, accigliata.
La sconosciuta alzò gli occhi al cielo e diede un colpo di clacson. Sobbalzai, presa alla sprovvista.
“Vuoi toglierti dalla strada? Credo che non farebbe piacere a molti se riducessi il tuo bel faccino in poltiglia sull'asfalto” fece quella.
Mi schivai in direzione del marciapiedi e guardai la ragazza in cagnesco. Non l'avevo mai vista in città, chi diavolo era?
“Molte grazie” borbottò la sconosciuta, accelerando per sparire in fretta da lì.
Che maleducata e strafottente!, ringhiai tra me e me, incredula per ciò a cui avevo appena assistito. Raramente una ragazza si permetteva tanta schiettezza con me, e quasi mai mi sarebbe capitato di sentirmi chiamare culo d'oro. C'era evidentemente qualcosa che non andava: prima venivo minacciata da una mezzacartuccia come Harry Styles, poi mi ritrovavo ridicolizzata da una perfetta sconosciuta...
Chi sarà il prossimo che proverà a prendersi gioco di me?, mi domandai mestamente, proseguendo per la mia strada, diretta verso il nulla.
Non potevo minimamente sospettare che tutto ciò avrebbe avuto un significato, più avanti.



E così i giorni passarono, portando una relativa pace dei sensi. Iniziarono le prime ardue prove scolastiche, mentre i professori continuavano a ripeterci quanto dovessimo prendere seriamente lo studio e il nostro futuro.
Settembre scivolò lentamente, snodandosi tra giornate davvero pesanti e altre banali e noiose. A parte il fidanzamento di Barbara con un amico di Michael, non ci furono sostanziali novità di cui valesse la pena parlare per settimane; in compenso, però, sviluppai un'incalzante avversione per Harry Styles, che presto portò a risvegliare le mie mattinate dal torpore scolastico. Incrociarlo per i corridoi e fargli il verso, oppure farmi beffe di lui davanti a ragazze sconosciute non aveva prezzo. In mancanza di altri svaghi e di nuovi scoop succulenti, dovevo accontentarmi di tormentare una nullità come lui, giusto per ribadire una questione che, comunque, rimaneva aperta: se non avesse tenuto la bocca chiusa, sarei diventata ancora più spietata.
Certo, Harry Styles non aveva davvero fatto nulla per guadagnarsi tanta antipatia, eppure accanirmi contro di lui sembrava un'ottima medicina contro il dolore che sentivo dentro. E poi, in fin dei conti, lui era un vero perdente: non provava mai a difendersi, non faceva nulla per evitare i miei duri colpi. Si lasciava bersagliare, semplicemente. E questo lo rendeva una preda ancora più facile da attaccare.
Ero sicura che presto mi sarei stancata di lui e del suo essere così patetico, ma per il momento niente e nessuno mi avrebbe distolta da quell'unico passatempo.
Era il ventitré settembre, un mercoledì, quando finalmente un pallido sole autunnale tornò a fare capolino tra spessi nuvoloni frastagliati. Camminavo mano nella mano con Michael, guardandomi attorno e ascoltando a stento ciò che lui stava dicendo sulla partita del giorno prima.
“Oh, ecco Barbara!” lo interruppi di colpo, indicando la mia amica stretta in un abbraccio mozzafiato col suo nuovo fidanzato.
Michael rimase con la bocca mezza aperta, infastidito dalla brusca interruzione. Gli avevo spiegato mille volte che quel suo cianciare a proposito del rugby non era di alcun interesse per me, eppure non sembrava capire il concetto.
“Ciao, tesoro!” salutai la mia amica, andandole incontro.
Albert si staccò da lei alla velocità della luce e mi rivolse un sorriso anche troppo caloroso. Ricambiai scrutandolo velocemente da capo a piedi: non ero sorpresa dalla sua reazione, visto che tutti a scuola sapevano quanto lui avesse desiderato fidanzarsi con me, prima di arrendersi e accettare Barbara come ripiego.
“Ehi, ragazzi...” fece la mia amica, il fiato corto come se avesse corso per chilometri e chilometri.
“Vedo che ve la state proprio spassando!” feci presente, incurante del fastidio che la mia osservazione avrebbe potuto suscitare.
Barbara si riassettò la borsa sulle spalle e sorrise nervosamente.
“Già... Noi...”
La zittii con un brusco gesto della mano e dissi: “Barbie, ho bisogno di te e delle altre. Ti andrebbe di accompagnarmi in classe?”
La mia amica aprì la bocca con aria delusa, e io socchiusi gli occhi con aria maligna.
Ora” aggiunsi, calcando per bene la parola.
Barbara sospirò con afflizione e annuì. “Certo che mi va”.
Sorrisi allegramente e guardai Michael.
“Ci vediamo più tardi, tesoro” lo salutai con una vocetta dolce.
Lui sembrò dimenticare ogni interruzione ai suoi discorsi e tirò fuori quel suo solito sguardo innamorato. Mi diede un bacio appassionato proprio di fronte al suo amico e ci salutammo.
Quando io e Barbara fummo abbastanza distanti dai nostri fidanzati, tornai all'uso del mio consueto tono autoritario.
“Allora, sto pensando di organizzare una festa, e questa volta dovrò lasciare il segno” dissi.
Salimmo la scalinata della scuola e Barbara si affrettò ad aprire le porte per me. Varcai la soglia e attesi che mi raggiungesse.
“Tu e le altre dovrete trovare qualcosa che possa rendere la mia festa memorabile” conclusi.
“Qualcosa?” ripeté Barbara.
Le lanciai un'occhiata di fuoco. “Che ti prende? L'amore ti sta rendendo tocca, per caso?”
“È che... non so proprio cosa vuoi dire con...”
Sospirai fingendomi sovrappensiero. “Meno male che non dovrò fare affidamento solo su di te, altrimenti sarei spacciata”.
Quell'ultima frecciatina sembrò andare a segno, perché Barbara mise su un'aria imbronciata e rimase zitta per il resto del tragitto verso la nostra classe. Mentre io canticchiavo un motivetto ascoltato alla radio quella mattina, scorsi una figura familiare appostata poco prima della porta della mia aula: Harry Styles, che era passato dall'essere un completo sconosciuto al diventare una presenza fissa nelle mie giornate, stava parlando concitatamente con un professore che io non conoscevo.
Torturare Barbara non era stato abbastanza, mi aveva lasciato una certa insoddisfazione; forse proseguire l'opera con Harry Styles mi avrebbe alleviato quella fastidiosa sensazione.
Deviai passando di proposito più vicino a lui e al professore ed esclamai: “C'è qualcuno che si dà da fare per ottenere uno straccio di promozione!”
Il risultato fu immediato: Harry si voltò alla velocità della luce e mi guardò con orrore. Il suo professore sembrò scandalizzato dalla mia spavalderia e si tirò più su gli occhiali per osservarmi meglio.
“E lei come si permette di parlare così davanti a un insegnante?” domandò, brusco.
Barbara sembrava sconvolta e ammirata allo stesso tempo. Io alzai le spalle e sorrisi sfacciatamente.
“Pensavo che lei non avrebbe preso sul serio un'innocente battutina come la mia” mi giustificai, parlando di nuovo con tono dolce.
L'uomo scrollò le spalle e salutò Harry Styles, il quale mi puntò addosso uno sguardo severo.
“Che diavolo vuoi?!” sbottò, incapace di trattenersi oltre.
Aggrottai la fronte, accigliata: come si permetteva di rivolgermi la parola con quel tono? E oltretutto di fronte a Barbara!
“Calmati, pulcino” gli intimai con voce dura. “E fai attenzione a come ti comporti con me”.
Harry Styles sembrò sul punto di scoppiare a urlare: si fece rosso in volto e qualche ignaro passante lo additò divertito. Infine, però, si limitò a lanciarmi un'ultima occhiata intrisa d'odio e se ne andò dalla parte opposta, pestando i piedi con rabbia.
Sbuffai con sufficienza e guardai la mia amica, rimasta in silenzio per tutto il tempo.
“Chi è quello scherzo della natura?” domandò, felice di poter spostare la mia attenzione da lei a Harry.
“Un idiota che mi muore dietro” inventai con aria svogliata; dopotutto, per quel che ne sapevo io, poteva anche essere vero. “Quando l'ho scoperto, ho creduto che il mio nome fosse davvero caduto in basso”.
Barbara mi diede qualche leggera pacca sulla spalla, con aria dispiaciuta.
“Capisco, Kate. Fai bene a trattarlo così”.
Certo che faccio bene, stupida oca, pensai trionfante, immaginandomi di nuovo la scena in cui Harry Styles mi aiutava a scendere dal bordo del ponte e mi offriva il suo aiuto.



Il professore di Matematica continuava a muoversi a destra e a sinistra, indicando i numeri scritti con la sua grafia sghemba sulla lavagna sporca. Sentivo la concentrazione affievolirsi sempre di più man mano che la fine della lezione si avvicinava. Segretamente la materia mi piaceva anche, ma andare a letto tardi ogni sera mi rendeva impossibile capire anche solo una parola di ciò che veniva spiegato.
“Ho bisogno di un caffè” borbottai piano a Olivia, la mia vicina di banco.
La mia amica stava scribacchiando qualche numero sul suo quaderno senza nemmeno controllare alla lavagna.
“Non dirlo a me” la sentii sbuffare tra i denti.
Alzai pigramente il braccio, la mano penzolante e gli occhi appesantiti dalla mancanza di sonno. Il professore non mi notò subito; passarono un paio di minuti, durante i quali mi chiesi se lo stesse facendo apposta.
“Professore?” lo chiamai infine, spazientita.
Lui si voltò di scatto e sembrò risvegliarsi da un lungo sogno agitato.
“Sì?”
“Potrei andare in bagno?”
“Non potrebbe aspettare la fine della lezione, signorina Cavendish?”
Roteai gli occhi al cielo e dissi: “Professore, non mi sento molto bene”.
Questo mi squadrò con aria combattuta e infine indicò la porta, distogliendo in fretta lo sguardo da me. Sorrisi all'indirizzo di Olivia e sgattaiolai in fretta verso l'uscita.
Mancavano circa venti minuti alla fine dell'ora di Matematica, avrei potuto prolungare la mia pausa finché la campanella non fosse suonata.
Se papà mi vedesse!, gongolai trionfante tra me e me.
Avevo smesso di partecipare ai corsi di danza classica, saltavo a mio piacimento le lezioni e controllavo la mia vita senza dover renderne conto a nessuno. Mio padre mi avrebbe odiata per tutto ciò, e non c'era soddisfazione maggiore di questa dolce idea.
Passeggiai fino all'ampio atrio dal quale si snodavano i tre diversi corridoi del secondo piano. Vidi una ragazza dai folti capelli ricci affaccendarsi attorno alla bacheca pubblica, dove evidentemente stava incollando qualche annuncio. Mi avvicinai per controllare gli orari del gruppo teatrale della scuola, e allora mi accorsi che l'annuncio della ragazza dai capelli ricci era proprio il volantino che stavo cercando. Attesi che avesse terminato di infilare le puntine nel riquadro di sughero della bacheca, ma quando questa si voltò, la mia attenzione fu catturata dal suo cipiglio scontroso e i suoi occhi chiari.
“Tu!” esclamai come se avessi appena visto apparire un fantasma.
La sconosciuta non sembrò particolarmente turbata dal mio gesto; si limitò a guardarmi con fare indagatore e poi disse: “Quindi?”
“Tu sei la maleducata che qualche giorno fa, per strada, mi ha... chiamata culo d'oro!” sbottai, offesa.
La ragazza alzò le sopracciglia con fare annoiato. “Tutto qua?”
La scrutai con disprezzo. “Non fai più tanto la spiritosa, ora che non sei in quella tua sporca auto”.
La ragazza sospirò, rigirandosi tra le mani i restanti annunci del corso di teatro.
“Senti, bella, se hai intenzione di farmi perdere altro tempo perché le mie parole hanno urtato la tua sensibilità di bambina di cinque anni, ti avverto che non ho alcuna voglia di...”
“Chiedimi scusa” la interruppi con tono autoritario.
Lei strabuzzò gli occhi, incredula. “Non ci penso nemmeno!”
Incrociai le braccia al petto, messa in difficoltà. La scrutai torva, sempre più infastidita dal suo modo di fare.
“Come ti chiami?” domandai, sempre mantenendo il broncio offeso.
La ragazza non rispose subito.
“Che cosa vuoi esattamente da me?” chiese lei di rimando.
“Delle scuse e delle informazioni” replicai.
La sconosciuta ridacchiò e allargò le braccia con aria esasperata.
“Chi sono non è affar tuo, e non vedo di che cosa dovrei scusarmi” rispose calma. “E dimmi: che informazioni ti servono?”
Non potevo credere che quella ragazza fosse così tanto antipatica. Forse mi importunava ancora di più perché era la prima persona a mettersi palesemente contro di me senza preoccuparsene. Mi infastidiva tutto in lei: i vestiti scuri, i grandi occhi chiari, i capelli troppo lunghi e incolti, il cipiglio scontroso...
“Vorrei sapere quando si tengono le prove del gruppo teatrale” dissi, seria.
Lei abbozzò un sorriso arrogante e indicò il foglio appeso alle sue spalle.
“Non sai leggere? L'ho messo lì apposta”.
Chiusi gli occhi, mentre la rabbia s'impossessava nuovamente di me.
“Grazie tante” sibilai.
La ragazza, a quel punto, scoppiò a ridere e allungò una mano.
“Certo che sei davvero suscettibile, eh? Mi chiamo Alex” fece, in attesa che stringessi la sua mano.
Non lo feci, ovviamente; la guardai dall'alto al basso e sbuffai con aria altezzosa. Almeno aveva ceduto alle mie condizioni e si era degnata di dirmi il suo nome.
“Io sono Catherine Alexandra Cavendish” mi presentai.
La vidi annuire. “Lo so, ti conosco. E da quando vorresti partecipare al gruppo teatrale?”
Alzai le spalle. “Non ne discuterò di certo con te”.
Alex sorrise, bonaria.
“Forse non sei aggiornata, Catherine Alexandra Cavendish” disse, sottolineando il mio nome in una terribile imitazione della mia voce. “Sono la figlia del professore che organizza il corso, e di conseguenza è come se io stessa me ne occupassi”.
La guardai con crescente orrore. “Stai scherzando”.
Lei scosse il capo senza smettere di sorridere con impertinenza.
“Ci vediamo il prossimo giovedì pomeriggio alle quattro, dopo le lezioni” concluse Alex, trattenendosi a stento dal ridere. “E non fare tardi”.
La guardai allontanarsi con il resto degli annunci ancora in mano. Non ero più tanto sicura della decisione di iniziare segretamente a frequentare il corso di teatro della Holmes Chapel Comprehensive School.



Passai il resto della giornata a studiare accuratamente i piani per la futura festa a casa mia; nessun dettaglio andava trascurato, volevo che tutti quelli che contavano vi partecipassero e ne parlassero come della festa del secolo. Ma avevo bisogno di qualcosa di grandioso, appunto, e le mie idee al momento scarseggiavano. O meglio, la mia voglia di trovarne di geniali.
Osservai Mary e Olivia scarabocchiare qualcosa sui loro fogli, ancora praticamente intonsi.
“E se chiamassimo qualche cantante famoso come ospite d'onore?” propose la prima, speranzosa.
Sbuffai. “Sarebbe un lavoro troppo difficile e troppo lungo. La festa avrà luogo il primo week end di ottobre, quindi tra poco più di una settimana. Non possiamo perdere tempo in progetti irrealizzabili”.
Mary si affrettò a cancellare le parole scritte poco prima sul proprio foglio.
Passai in rassegna i volti delle mie amiche, uno a uno.
“Qualcun'altra di voi ha un'idea brillante da espormi?” chiesi.
Nessuna delle cinque fiatò, gli occhi fissi nei miei. Io abbassai lo sguardo sui loro fogli e infine, rialzandolo, sorrisi.
“D'accordo. Ne deduco che siete troppo impegnate a pensare ai fatti vostri per concentrarvi su quella che potrebbe essere la festa migliore degli ultimi anni” annunciai, fredda.
Le mie amiche parvero prese alla sprovvista dal mio improvviso cambio di tono e si lanciarono occhiate furtive. Ignorai tutto ciò, perché scaricare la mia frustrazione su di loro mi aiutava a non tenermi tutto dentro.
Sospirai, perdendo tutta la voglia di continuare a parlare.
Mi sentivo terribilmente male senza di quelle cinque esagerate adulatrici, perché era anche grazie a loro se la mia fama era cresciuta in modo spropositato; ma allo stesso tempo non sopportavo di essere usato così palesemente, di essere un giocattolo nelle loro mani. Se avessi perso loro, forse non sarei più sembrata tanto eccezionale. Eppure, la compagnia di Jane, Sarah, Mary, Olivia e Barbara diventava spesso un peso insopportabile.
“Kate” mi chiamò timidamente Jane. “Che ne dici se, al posto di un cantante famoso, ci servissimo di qualcuno della nostra scuola?”
La guardai a lungo, riflettendo sulla sua proposta. Un cantante decente che frequentasse la Holmes Chapel Comprehensive School doveva ancora essere inventato: tutti coloro che si erano esibiti di anno in anno durante le feste di chiusura dei semestri si erano rivelati dei sempliciotti a stento in grado di tenere in mano una chitarra. Sapevo benissimo che, in una cittadina microscopica come Holmes Chapel, non mi sarei potuta aspettare niente di meglio, ma non ero sicura che l'idea di Jane potesse davvero cambiare qualcosa.
“Non conosco nessuno davvero meritevole a scuola” replicai. “Voi?”
Olivia e Barbara scossero il capo quasi contemporaneamente, Jane aprì bocca ma non disse nulla. Sospirai e spostai il foglio sotto il mio naso.
“Be', vorrà dire che avete più o meno una settimana di tempo per scovare un talento musicale che viva nel nostro raggio d'azione e non sia un completo perdente”.




Ringrazio di cuore tutte le lettici che, silenziosamente e non, mi stanno seguendo passo dopo passo.
La storia è ancora agli inizi, e solo in questi capitoli sta prendendo forma ciò che verrà in seguito.
Ancora grazie, e se vorrete farmi sapere cosa pensate della storia, sarò più che felice di leggere critiche positive e negative.
A presto,



Martina


 

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Capitolo 5
*** Armi ***


Armi


Harry


 
Uno schioccare di dita. Per poco non rotolai a terra dalla sedia sulla quale mi stavo dondolando per riuscire a spiare meglio la ragazza seduta quattro tavoli più avanti del nostro.
“Okay, non sarò una bellezza ultraterrena, ma potresti anche guardare me ogni tanto”.
Nick e Haydn scoppiarono a ridere, ma Elisabeth, che naturalmente era uscita con noi anche quella sera, non seguì il loro esempio. Will le lanciò un'occhiata divertita e alzò le spalle, come a discolparsi.
Sbuffai e accennai un veloce sorriso poco convincente.
“Grazie del sostegno, eh” borbottai.
“Harry, amico, Felicity non ti guarda nemmeno per sbaglio! Mettitelo in testa!” gli fece eco Nick, sporgendosi in avanti sul tavolo per afferrare il proprio bicchiere di vino.
Piantai gli occhi sul tovagliolo di carta che avevo iniziato a spiegazzare e strappare dal nervosismo.
Alla lista delle cose che odiavo — che ormai avevano toccato apici sensazionali — avrei dovuto aggiungere anche il sabato sera. Non solo ero costretto a trascorrere ogni serata sempre negli stessi locali o seduto agli stessi bar, ma dovevo pure sorbirmi l'immagine di Felicity che flirtava con ragazzi sempre diversi e sempre più belli di me.
“Non vedo l'ora di avere l'occasione di vendicarmi” mormorai tra i denti, rivolgendole un'altra occhiata di sbieco, che lei nemmeno notò.
Haydn sbuffò e si stiracchiò con pigrizia.
“Che cosa intendi dire?” domandò.
“Intendo dire” iniziai, frustrato, “che quando saremo una band famosa lei si pentirà amaramente di avermi ignorato per tutto questo tempo”.
“E sarà allora che ti imbambolerà come uno sciocco e andrà in giro a vantarsi di averti in pugno” completò Will.
Nick scoppiò a ridere e Haydn sorrise. Will sembrava compiaciuto di avere il controllo della scena, sapeva che si muoveva su un terreno sicuro perché tutto ciò che diceva non faceva altro che rispecchiare la realtà.
Felicity mi piaceva da impazzire da troppi anni. Che cos'era quella? Una semplice cotta o amore vero? Avevo paura che il mio amico avesse ragione: se lei si fosse accorta di me, forse sarebbe stato impossibile resisterle.
Guardai un'altra volta nella direzione di Felicity: riuscivo a spiare il suo profilo perfetto da dove mi trovavo, e guardarla ridere di gusto alle battute dei suoi amici mi rendeva irrequieto, come se non avessi potuto godermi la bellezza del suo sorriso allegro finché non fossi stato io a procurarglielo.
Ma poi la visione paradisiaca fu interrotta dall'ostacolo che si pose tra me e Felicity Skinner, proprio al tavolo davanti al mio: una ragazza, seguita a ruota dalle amiche, si era avvicinata ad alcune sedie lasciate libere, occupandole e ostruendo la scena.
Alzai gli occhi, profondamente infastidito, e vidi Catherine Alexandra Cavendish sfilarsi una giacca di pelle nera con lentezza snervante. Si passò una mano fra i lunghi capelli castani, quella sera arricciati con maestria come se fosse appena uscita da una sfilata di moda, e gettò la giacca sullo schienale della sedia; si sedette con ricercata grazia e accavallò le lunghe gambe, intrappolate in un paio di collant neri trasparenti decisamente sensuali.
Mi voltai verso i miei amici e vidi Haydn fissare Catherine Alexandra con sguardo vacuo, come molti altri clienti seduti tutto attorno.
“Abbiamo un altro tramortito. Chiediamo rinforzi. Passo e chiudo” fece Nick, fingendo di parlare attraverso un Walkie-Talkie.
Elisabeth, che non si era ancora espressa apertamente a proposito di Felicity, finalmente partecipò alla conversazione dicendo: “Che stupida sceneggiata”.
Haydn e Nick la scrutarono in attesa che aggiungesse altro, e Elisabeth aggiunse: “Non è evidente? Si comporta così perché è il suo unico modo di farsi notare”.
“Non penso passerebbe inosservata nemmeno se fosse vestita con un sacco della spazzatura” scherzò Nick, incauto.
Elisabeth gli scoccò uno sguardo infuocato e lui strabuzzò gli occhi, spaventato.
“Non intendevo...”
“Sei un deficiente! Ti facevo un po' più intelligente di quella lì!”
“Amore...”
“Ehi, ci volete dare un taglio?” intervenni, annoiato dai loro battibecchi. “Tra poco vi sentirà tutto il bar”.
Quando però mi voltai al sinistra per spiare ancora una volta Felicity, notai lo sguardo terribilmente magnetico di Catherine Alexandra puntato su di me. I nostri occhi si incrociarono e io mi sentii immediatamente bruciare dalla sfacciataggine con cui lei mi osservava.
No, non un'altra volta...
Tornai a concentrarmi sul mio bicchiere quasi vuoto e spostai gli occhi sui tavoli vicini, ostinato nel non voler concedere a Catherine Alexandra un'altra scusa per attaccarmi.
“Comunque, lei sta guardando dalla nostra parte” notò Haydn con una punta di emozione nella voce.
Di tutte le persone che avrei desiderato non facessero caso a tale dettaglio, Haydn era forse la prima.
Perfetto. Questa storia sta iniziando a dare nell'occhio, pensai con terrore.
Avevo trascorso intere ore a chiedermi per quale maledetto motivo Catherine Alexandra si stesse accanendo così tanto contro di me, ma non ero ancora giunto a una risposta esaustiva. Potevo capire la sua paura di venire screditata davanti agli amici importanti e ai giocatori di rugby della scuola, ma io le avevo espressamente garantito di tenere il segreto per me: allora perché continuava a minacciarmi e a trattarmi come se fossi un sacco della spazzatura costretta a tenere sempre sotto il naso?
“Da un po' di giorni ho iniziato a pensare che quella non stia tanto bene” sentii dire Will.
Avevo sperato che si fossero distratti da Catherine Alexandra, e invece il discorso era ancora aperto e, a quanto pareva, fruttuoso.
“Sì, insomma... perché se la prende tanto con noi ogni volta che ci vede? Non siamo mai esistiti per lei e ora sembriamo i suoi peggiori nemici” continuò Will, perplesso.
Haydn spostò il proprio sguardo direttamente su di me, forse insospettito dal mio silenzio.
“Tu ne sai qualcosa, Harry?” mi chiese, la voce bassa.
Scossi in fretta il capo, deciso a non fornire dettagli ai miei amici.
“Devo andare un attimo in bagno” proruppi improvvisamente, prendendo i miei amici in contropiede.
Nick, ancora imbronciato dopo il breve litigio con Elisabeth, alzò gli occhi e mi guardò con evidente invidia: avrebbe fatto comodo anche a lui allontanarsi un attimo da lì.
Mi alzai e avvicinai la sedia al tavolo. Feci attenzione a non passare in mezzo ai tavolini occupati, senza smettere di fissare la porta del bar con intensità. Quando però fui all'altezza del tavolo di Felicity e i suoi amici, non potei fare a meno di lanciare un'occhiatina curiosa nella sua direzione: lei non mi stava guardando, ma era intenta a controllare lo schermo del cellulare.
“Guarda chi si vede!” esclamò una voce allegra.
Ebbi un tuffo al cuore e mi voltai in tempo per vedere Catherine Alexandra avanzare nella mia direzione. Quando mi fu vicina, sorrise con ferocia e aggiunse: “Ho visto bene? Stai davvero spiando la tua amata?”
La fissai, pietrificato.
“Non so se l'hai notato anche tu, ma lei non ti degna nemmeno di uno sguardo” esclamò Catherine Alexandra a voce sempre più alta.
Qualcuno ai tavoli più vicini si era già voltato nella nostra direzione e mi stava indicando col dito. Mi sentii sprofondare ancor di più dalla vergogna.
“Catherine, stai zitta” sibilai a labbra strette.
Ma quelle furono le parole sbagliate: il suo sorriso si intensificò e i suoi occhi verdi brillarono dall'eccitazione di avermi in trappola.
“Devo dire che tu hai gusto, Felicity è davvero niente male” esclamò, rivolgendosi adesso al suo nuovo pubblico.
I ragazzi seduti attorno la fissarono con tanto d'occhi, ipnotizzati dalle sue movenze e la sua espressione falsamente cordiale.
Notai con orrore che Felicity, al sentir pronunciare il proprio nome, si era voltata sulla sedia in metallo e ora ci scrutava con aria interrogativa.
Catherine Alexandra tornò a guardarmi dritto negli occhi: le lessi chiaramente in volto tutto il disprezzo che nutriva nei miei confronti.
“Smettila, ti prego...” sussurrai, disperato e immobilizzato nel punto dove mi trovavo.
“Ma siamo proprio sicuri che lei possa abbassarsi ai tuoi livelli?” continuò Catherine, feroce. “Non credo si sentirebbe molto a suo agio con uno come te al suo fianco”.
Strinsi i pugni e mi sentii pronto a mettere le mani addosso a quella strega che mi stava di fronte.
“Smettila” feci, glaciale.
“Ti vergogni, per caso?” mi stuzzicò ancora Catherine Alexandra, felice come non l'avevo mai vista.
Ripresi a camminare diretto verso l'entrata del bar, cercando di ignorare il vociare frenetico tutto attorno a me.
“Dove corri, Harry? Dobbiamo ancora sentire che cos'ha da dire Felicity in proposito!” urlò Catherine Alexandra alle mie spalle.
Qualcuno rise e io mi bloccai proprio sulla porta. Chiusi per un istante gli occhi e inspirai profondamente.
Non era giusto. Non aveva alcun diritto di comportarsi così con me, non dopo che le avevo praticamente salvato la vita e le avevo giurato di proteggere il suo segreto. Si pensava tanto più astuta di me solo perché era bella e popolare, ma io ero stanco di farmi calpestare da lei e dalle sue amiche come se fossi un totale idiota.
Mi voltai di nuovo verso il dehors popolato, e Catherine ne approfittò per ricominciare a parlare.
“Penso che potreste almeno candidarvi per i ruoli di Belle e della Bestia in un futuro remake de...”
Mi avvicinai a lei con passo lento e la guardai con odio.
“Ti credi tanto forte solo perché mi hai chiesto un favore e pensi che manterrò la parola data?” sbottai senza rendermene nemmeno conto.
Improvvisamente Catherine Alexandra si zittì e la sua espressione selvaggiamente felice sparì.
“Credi davvero che mi lascerò trattare così ancora a lungo?” domandai, tutto a un tratto forte. “Ti sbagli, Catherine: io sono stanco e pronto a dire a tutti la verità”.
Catherine Alexandra mi guardò con aria sgomenta, e pian piano sentii diminuire le risate attorno a noi, sostituite da un vivace chiacchiericcio. Lei si guardò attorno, terrorizzata e per un attimo pensai che avrebbe perso il controllo.
“Chiudi quella schifosa bocca se non vuoi che riveli a tutti che cosa hai fatto” sentenziai con un tono velenoso che sorprese persino me.
Qualcuno in lontananza fischiò in segno d'ammirazione e sentii levarsi alcune risatine contenute.
Catherine Alexandra aveva la bocca aperta per l'orrore e restò praticamente immobile. Con la coda dell'occhio vidi Felicity spiarmi confusa.
Girai sui tacchi e mi diressi verso l'ingresso del bar, nauseato dall'umiliazione subita ma forte di un nuovo coraggio che non mi apparteneva.



“Tu ci devi ancora spiegare un paio di cosette, Harry”.
Mi tirai su lo zaino e mi sforzai di guardare altrove, ma era difficile evitare Haydn e allo stesso tempo tutti gli sguardi che improvvisamente mi ritrovavo addosso.
“Ve l'ho già detto: non ho voglia di raccontarlo” mentii stancamente.
Haydn incrociò le braccia al petto e mostrò un broncio insoddisfatto. Will e Nick guardarono da me a lui, preoccupati che quella storia potesse degenerare.
Davanti alla mia classe passarono due ragazze accompagnate da un loro amico e scoppiarono in un mormorio eccitato non appena mi videro.
“Ehi, non sei mai stato tanto interessante! La scuola ora è curiosa di sapere che cosa condividete tu e Catherine Alexandra di tanto segreto” mi fece notare Will, seguendo con lo sguardo le due.
Alzai gli occhi al cielo: i miei amici non aiutavano a risolvere la situazione, visto che Haydn si era fatto più sospettoso che mai.
La mia performance del sabato precedente aveva suscitato parecchi pettegolezzi e congetture sul 'segreto di Catherine Alexandra Cavendish'. La gente era rimasta esterrefatta dalla scoperta che la ragazza più bella e desiderata della scuola potesse aver scelto me come suo confidente, anche se naturalmente nessuno poteva immaginare quale fosse la realtà.
Ora ovunque andassi, ero seguito da sguardi curiosi, come se la gente sperasse di carpire il segreto di Catherine anche solo guardandomi.
E se io avevo subito faccio marcia indietro, evitando di rispondere alle molte domande dei miei amici, Catherine Alexandra si era affrettata a smentire ogni voce. Avevo sentito dire che era addirittura arrivata a proibire alle sue migliori amiche di tirare fuori l'argomento spinoso.
Il problema maggiore, però, era costituito dal mio migliore amico: Haydn, infatti, vedeva la novità come un torto nei suoi confronti. Aveva a lungo insistito affinché gli parlassi di quanto era successo tra me e Catherine Alexandra, arrabbiandosi anche per il fatto che non gli avessi mai detto di aver avuto a che fare con lei, ma io ero stato irremovibile.
Nonostante avessi minacciato Catherine Alexandra apertamente, non mi sentivo davvero pronto a denunciare in pubblico il suo tentato suicidio. Non si trattava di un argomento leggero, di un semplice gossip liceale, la situazione era seria e decisamente delicata. Non avrei mai voluto arrivare a mettere in imbarazzo Catherine Alexandra per un gesto tanto disperato, ma lei si era spinta troppo in là nel farsi beffe di me. Avevo reagito d'impulso e l'avevo minacciata esattamente come lei aveva fatto con me.
Mi riscossi, cancellando dalla mente il ricordo dello sguardo impaurito della mia nemica.
In fondo, è tutta colpa sua se siete arrivati a questo punto, cercai di convincermi.
“... tutto incasinato, vero, Harry?” fece Haydn, scontroso.
Lo guardai, confuso. “Eh?”
Il mio amico sembrò perdere le staffe, ma non rispose. Nick alzò le braccia e intervenne: “Va bene, va bene, calmatevi tutti adesso. Ne riparliamo oggi pomeriggio durante le prove”.
Haydn annuì senza guardarmi negli occhi, e io persi la pazienza.
“Haydn, ti prego, smettila di tenermi il broncio. Non è successo nulla di grandioso tra me e lei” spiegai.
Lui non rispose, ma non si tolse nemmeno quello sguardo tetro di dosso. Will lo prese per un braccio e lo trascinò dietro di sé verso le scale.
“Ci vediamo più tardi, ragazzi!” esclamò.
Nick rimase dov'era e mi guardò di sottecchi.
“Che cosa nascondi, Harry?” chiese.
“Nulla. Vi sarei grato se smetteste di fare domande”.
“Se non volevi domande, avresti dovuto evitare di strillare ai quattro venti che stai coprendo le spalle alla ragazza di cui Haydn è innamorato follemente da anni”.
“Non potevo stare zitto e restare a guardare mentre lei mi ridicolizzava! Vorrei ricordarti che Felicity stava assistendo”.
Nick sospirò stancamente. “Tanto ora il pasticcio è fatto, quindi non ci sono altre soluzioni se non parlare con Haydn”.
Scossi il capo con decisione. “Non ci penso nemmeno!”
Nick alzò un sopracciglio. “Che cosa c'è di tanto sconvolgente? Non avrete... non sarai...”
Lo guardai, perplesso. “Che cosa?”
Nick allargò gli occhi con fare terrorizzato.
“Tu e Catherine non avete avuto una relazione segreta, vero?”
Scoppiai a ridere proprio mentre il mio professore di letteratura Inglese arrivava e varcava la soglia dell'aula.
“Ma sei impazzito? Ti pare che potrei davvero uscire con una così?!” esclamai, divertito.
Nick alzò le spalle e arrossì leggermente. Lo fissai serio, smettendo all'istante di ridere.
“Nick, tu e gli altri pensate davvero che io e Catherine...?” domandai, schifato.
“Senti, Harry, non prendiamoci in giro: lei è... molto bella e...”
“... e senza un minimo di cervello, giusto” terminai con rabbia. “Non potrei mai uscire con una ragazza che si comporta come lei, che si prende così sul serio come fa lei e che...”
La frase mi si spezzò in gola all'istante perché, in lontananza, intravidi proprio Catherine Alexandra, straordinariamente sola per la prima volta da che riuscissi a ricordare.
Si avvicinò a me e a Nick, mantenendo però una certa distanza di sicurezza. Inizialmente pensai che stesse solo controllando le mie mosse, ma quando la vidi fermarsi esattamente di fronte alla porta della mia classe, a qualche metro da me e Nick, dovetti ricredermi.
“Devo andare” dissi al mio amico, fissandola in cagnesco.
Lui si voltò, la vide e annuì senza troppe repliche. Non appena si mosse, io feci dietrofront verso la mia aula.
“Posso parlarti?” sentii alle mie spalle.
Mi fermai davanti alla porta già semichiusa.
Non voltarti, non se lo merita.
Rimasi zitto e immobile, combattuto tra la voglia di terrorizzare ancora un po' quell'arrogante di Catherine Alexandra e quella di ignorarla.
La sera in cui l'avevo salvata dalle sue paure, avevo creduto di intravedere in lei una profondità morale che andava ben oltre l'immagine che dava di se stessa; ma lei aveva fatto sì che la mia stima nei suoi confronti tornasse a livelli bassissimi.
“Che cosa vuoi?” le domandai, voltandomi.
Lei rimase dov'era, ma i suoi occhi si strinsero alla vecchia maniera. Ero pronto ad andarmene, se avesse ricominciato a prendersi gioco di me.
“Parlare con te” disse.
“Bene” feci, raggiungendola. “Sentiamo”.
Catherine Alexandra sospirò, infastidita dalla situazione. Si guardò attorno, indecisa se proseguire o mollare tutto.
“Dopo quello che è successo quattro sere fa, ho capito che la nostra guerra non poterà a nulla di buono” sentenziò con aria pomposa.
“La nostra guerra, hai detto?” ripetei, incredulo. “Pensavo fosse un tuo stupido capriccio, quello di rendermi la vita un inferno”.
Lei mi lanciò un'occhiata furente.
“Ho agito in maniera impulsiva” si giustificò.
“Questo perché non hai alcun rispetto per gli altri” sbottai.
Catherine Alexandra incrociò le braccia al petto e mi fissò con il solito, vecchio sguardo disgustato.
“Ti fa male la verità?” le chiesi.
“Ora smettila, stai diventando ridicolo” cercò di zittirmi. “Puoi lasciarmi parlare?”
Annuii svogliatamente e attesi, ribollendo per la rabbia.
“Ho deciso di gettare le armi” annunciò. “Finiamola qua. Niente più frecciatine o dispetti”.
Lei attese una mia risposta, e anche se cercava di non darlo a vedere, io capii quanto temesse ciò che avrei detto. Mi sentii di nuovo potente, perché possedevo un'arma con la quale tormentarla.
Guardai dritto nei suoi occhi verdissimi e grandi, truccati con meticolosità.
...lei è... molto bella e...”
Per caso anche Nick aveva avuto una cotta per la ragazza che stava di fronte a me? Perché aveva detto quelle cose su di lei in tono allusivo?
“Tutto qua?” domandai.
Lei alzò le spalle. “Non era ciò che desideravi? L'hai detto tu stesso davanti a mezza scuola...”
Sorrisi con la stessa ferocia che lei mostrava nei miei confronti.
“Perché non alzi un po' la posta in gioco?” la sfidai.
Catherine Alexandra socchiuse gli occhi con aria sospettosa.
“Che diavolo vuoi dire?” sibilò.
Continuai a sorridere. “Hai approfittato della mia pazienza anche troppo a lungo. Non mi stanno bene le tue condizioni, le tiri fuori solo ora che vanno a tuo vantaggio. E io? Che cosa ci guadagno?”
“Ehi, furbone, non mi pare di aver parlato arabo!” mi prese in giro lei. “Io smetterò di parlare male di te, non farò più allusioni su Felicity Skinner e...”
“Non avresti mai dovuto farlo, è questo il problema” dissi in tono dolce.
La vidi sbiancare e temetti che potesse davvero arrivare a picchiarmi.
“Hai intenzione di raccontare ai tuoi tre amichetti sfigati che ho provato a uccidermi?” bisbigliò, tornando in fretta ai soliti metodi intimidatori.
Scossi il capo e mi feci serio.
“Io non sono come te, Catherine”.
“E allora che cosa vuoi da me?”
“Non lo so, pensaci tu. Che cosa potresti fare perché io ti perdoni definitivamente?”
Lei ammutolì all'istante. Non riuscivo ancora a credere che io avessi davvero messo a tacere la ragazza più insopportabile e crudele di tutta la scuola.
“Mi stai ricattando” constatò.
“Vedila come ti pare. Intanto, però, aspetto di sapere che cosa farai per me”.
“Non starò ai tuoi patti, sappilo. Hai detto che non intendi rivelare il mio segreto, quindi posso...”
Le feci cenno di no col dito indice. “Ennesimo passo falso, Catherine: non provare a tirarti indietro, altrimenti non mi fermerà nessuno dal mettere in giro voci sul...”
“Basta!” esclamò lei, stanca. “Va bene, farò ciò che vuoi tu, razza di...”
Lei si bloccò per evitare di prolungare quella lite, io sorrisi divertito e la guardai distogliere lo sguardo, accecata dalla rabbia. Non le andava proprio giù di aver perso una battaglia contro uno che considerava una nullità.
E poi, proprio in quel momento, ebbi un'idea geniale.
“Sai, Catherine, io ho una band” la informai.
Lei mi guardò storto.
“Abbiamo un po' di difficoltà nel trovare posti dove suonare, ma forse tu conosci locali adatti dove sarebbero felici di ospitarci” continuai in tono amabile.
Vidi Catherine Alexandra farsi improvvisamente meno scura in volto e la cosa mi insospettì; anche io persi la mia aria trionfante. Poi lei sorrise inaspettatamente e io rimasi in silenzio.
“Sì, conosco un certo posto” disse. “Si chiama casa mia e sarà felice di ospitarvi questo sabato sera, in occasione di una festa dove parteciperà chiunque conti un minimo in questo posto”.
Sentii le gambe tremarmi un po' per l'emozione e un po' per la paura. Esibirci davanti a metà della scuola? Era un'idea tanto assurda quanto spaventosa, ancor più se pensavo che mancavano appena tre giorni al sabato.
“Ah, ci sarà anche Felicity Skinner” aggiunse con aria cattiva. “Vedremo se sarai ancora tanto in gamba, quando sarai in piedi davanti a tutta quella gente che ti disprezza”.
Catherine mi salutò con la mano e se ne andò felice, mentre io tornavo a rimpiangere la sera in cui avevo deciso di impicciarmi delle vicende private di quella ragazza.



Attesi con impazienza la fine delle lezioni di quel giorno. L'agitazione mi stava divorando vivo, mentre pensavo al modo migliore di annunciare ai miei tre amici che avevamo finalmente trovato un aggancio, dopo anni e anni di tentativi. Normalmente la prospettiva di una festa in casa Cavendish sarebbe stata accolta con esclamazioni di gioia da tutti noi; ora che però io mi ero esposto rivelando di avere a che fare con Catherine Alexandra, l'idea di parlarne a Haydn mi spaventava.
Sicuramente s'insospettirà su come tu sia riuscito a convincerla, rimuginai, rigirandomi la matita tra le dita e fissando un punto indefinito fuori dalla finestra al mio fianco.
Be', ora tutti sanno che hai ricattato Catherine, quindi non apparirà tanto strano il fatto che canterai alla sua festa. Lei ha paura di te e fa ciò che tu ordini, semplice.
Sbattei le palpebre e lanciai un'occhiata distratta alla lavagna.
Certo, e chi sarà tanto stupido da crederti? Lo sanno tutti che quella pazza dà retta solamente a se stessa.
Mi sentii colpire leggermente alla spalla e sobbalzai, mandando la matita per terra. Mi voltai e vidi Alex, una delle compagne che più mi stavano simpatiche, reggere un biglietto nella mia direzione.
“Per te” sussurrò, annoiata.
“Perché?” chiesi sottovoce.
“E che ne so! Non l'ho scritto io”.
Afferrai il pezzetto di carta e lo aprii; con grafia precisa e molto femminile, qualcuna delle mie compagne pettegole aveva scritto: Ciao, Harry. Volevo sapere se hai risolto con Kate.
In un primo momento non capii di chi si trattasse; chi era Kate? E perché qualcuno in quella classe così scostante doveva farmi certe domande criptiche?
Rilessi il biglietto e capii finalmente il messaggio: si parlava di nuovo di Catherine e quello era un modo penoso di farsi gli affari miei. Appallottolai il pezzetto di carta con rabbia e lanciai un'occhiata interrogativa ad Alex. Questa alzò le spalle e ripeté: “Non c'entro niente, non so chi me l'abbia passato”.
“Riferisci alle altre che non ho nulla da risolvere con Kate” dissi, pronunciando il nome di Catherine con disprezzo.
Alex aprì bocca per rispondere, ma non fece in tempo a parlare...
“Signor Styles, signorina Rayner, forse preferireste finire la vostra conversazione fuori dall'aula?” tuonò la voce del professore.



“Grazie tante, eh”.
“Non è colpa mia”.
“Oh, certo, non eri mica tu a ricevere bigliettini pieni di stronzate, vero?”
“Vuoi smetterla? Tra dieci minuti la lezione sarà finita”.
Alex incrociò le braccia e continuò a dondolare i piedi avanti e indietro, seduta su una scrivania nel bel mezzo del corridoio.
“Che cosa volevano da te?” mi chiese a un tratto, brusca come sempre.
Non avevo ancora realizzato per bene il fatto che stessi sostenendo una vera conversazione con Alex Rayner, la bisbetica e ombrosa compagna di classe che in cinque anni aveva messo a tacere più professori di chiunque altro in tutta la storia di Holmes Chapel. Non si contavano nemmeno più tutte le punizioni e le note disciplinari che Alex si era beccata, visto il suo caratterino vivace. Tutto ciò che era trapelato sul suo conto riguardava il suo orientamento sessuale: era chiaramente lesbica e provava un certo disprezzo per la maggior parte dei ragazzi della scuola.
“Sapere di più su ciò che è successo con Catherine Alexandra Cavendish” sbuffai, stanco di ritrovarmi sempre a parlare di lei.
Alex sorrise con aria cattiva e annuì. “Ancora lei...”
Guardai la mia compagna con maggiore interesse.
“Tu sapevi che vuole recitare?” domandò lei, chiaramente incredula. “Io le sono scoppiata a ridere in faccia”.
Mi tirai più su dal bordo della scrivania. “Dici davvero?”
“Sì, è stato più forte di me...”
“No, intendevo dire il fatto che lei voglia recitare. Sei sicura?”
Alex annuì, perplessa. “Certo che lo sono, me ne ha parlato lei stessa”.
Ora ero io a non capire la faccenda.
“Come sarebbe a dire che ne ha parlato con te?” domandai.
Alex ridacchiò sprezzante. “Mi ha visto appendere i volantini di mio padre e si è interessata. Perché ti sembra così incredibile, scusa?”
Scossi il capo e tornai in silenzio. E così Catherine Alexandra aveva davvero dato una svolta alla sua vita, si era decisa a iscriversi a quel corso che tanto desiderava frequentare.
Le parole di quella famosa sera in cui aveva tentato di uccidersi mi tornarono in mente e risuonarono più forti che mai: “Lui mi ignora, finanzia i miei studi e i miei corsi di danza, ma non mi permetterà di iscrivermi all'accademia teatrale una volta finito il liceo”.
Allora non mi aveva preso in giro su quel ponte alle porte di Holmes Chapel, non era la persona che voleva mostrare con tanta ostinazione.
Sorrisi tra me e me, perché ora condividevo un segreto in più con Kate.



 

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Capitolo 6
*** Amici e nemici ***


Amici e nemici



Kate

 

Quella sera decisi di non aspettare nemmeno l'arrivo di mio padre. Erano le otto quando aprii la porta di casa, rilassata e di buon umore; avevo passato l'intero pomeriggio in compagnia di Michael, il quale si era adoperato per far sì che non potessi pensare a nient'altro che non riguardasse noi due. Le voci di un certo segreto tra me e 'uno sfigato del nostro corso' erano giunte anche a lui, risvegliando il suo istinto protettivo: Michael mi aveva promesso solennemente di difendermi da qualsiasi accusa e di sistemare l'inventore di quelle bugie.
Chiusi la porta della mia camera da letto, canticchiando un motivetto allegro e reggendo il piatto di verdure che costituiva la mia cena. Spensi la luce e mi sedetti davanti al computer portatile sul letto.
L'affetto mostrato da Michael e il senso di cameratismo delle mie cinque amiche erano riusciti a stemperare l'oppressione delle ultime giornate. Harry Styles, le sue minacce, le occhiate divertite dei miei compagni... tutto concorreva nell'intento di farmi diventare matta. Dopo l'ultimo sabato sera ero stata inquieta e non mi ero sentita a mio agio finché non ero riuscita a convincere, quella mattina, Harry Styles a tacere definitivamente.
“È stata tutta colpa tua” mi dissi a bassa voce, scrivendo 'Facebook' nella barra di ricerca di Internet. “Sei tu che hai scelto un posto poco sicuro dove...”
Mi fermai, incuriosita dal piccolo 1 che segnalava la voce 'richieste d'amicizia'. Cliccai sopra e inorridii all'istante: a chiedermi l'amicizia era stato nientemeno che Harry Styles, che stava velocemente diventando il mio peggior incubo.
“Come osa ancora...?!” esclamai, indignata.
Spostai d'istinto il cursore sulla voce 'rifiuta', ma poi mi bloccai: e se fosse stato un semplice modo di contattarmi per i dettagli della festa alla quale, in fin dei conti, lo avevo invitato? Dopotutto non era saggio farmi vedere a scuola in sua compagnia, e Facebook sarebbe stato un ottimo mezzo di comunicazione.
Sospirai afflitta e rimasi imbambolata sul suo nome scritto in blu. Ero stanca di ritrovarmi quell'impiccione ovunque andassi, ma non potevo più tirarmi indietro: pur di mantenere il silenzio su ciò che avevo fatto, ero disposta a rovinarmi e ad accettare la sua presenza a casa mia.
Con un sospiro rassegnato accettai la sua richiesta d'amicizia, sperando che non fosse online da poterlo notare. Poi rimasi zitta a fissare la finestra vuota delle richieste d'amicizia. Rientrai nella mia home e mi limitai a scrutare lo schermo affollato di foto e di frasi di gente che a stento conoscevo.
Sei una stupida, pensai divertita.
Avevo davvero temuto che Harry Styles potesse tendermi un agguato virtuale?
Scorsi giù nella home di Facebook, leggendo vari stati senza senso e commentandoli tra me e me con battute cattive. Quando però mi comparve la foto di una ragazza bionda e abbastanza carina che sorrideva all'obiettivo con aria spensierata, mi soffermai a guardarla assorta.
La ragazza che mi piace non sa nulla di me, perché sono troppo stupido e insignificante per una come lei...”
E così ecco il punto debole di Styles: Felicity Skinner, l'innocente biondina che sembrava uscita da un film della Disney. M'intrufolai sulla sua bacheca pubblica per curiosare alla ricerca di informazioni. Per prima cosa notai che tra gli amici in comune compariva Michael.
Felicity sembrava proprio il tipo di ragazza che sarebbe stata bene al fianco di Sarah, Jane, Olivia, Mary e Barbara, interpretava il suo ruolo con convinzione e adorava scattarsi foto sempre uguali con sfondi sempre diversi. Non era davvero bellissima, ma il modo in cui si ritraeva davanti a orde di amichette fedeli e ragazzi arrapati la trasformava di colpo in una persona 'interessante'.
Sbuffai e proprio in quel momento fui destata dal familiare squillo della chat che si apriva. Guardai nell'angolo in basso a destra dello schermo e vi trovai il nome di Harry Styles.
Lo sapevo!, mi maledissi silenziosamente.
Avrei ignorato la chat. Non l'avrei aperta. Non avrebbe potuto continuare a scrivermi in eterno.
Ma il suono di un nuovo messaggio risuonò amplificato nella stanza silenziosa e io dovetti costringermi a guardare altrove. Aprii la foto di profilo di Felicity e notai il 'mi piace' di Michael; proseguii con le altre immagini più vecchie, e portavano tutte il segno del passaggio di Michael.
Guarda questi due... proprio sotto il mio naso!, pensai deliziata all'idea che Michael si fosse creduto più scaltro di me. Credeva davvero di poter flirtare su Facebook con altre ragazze senza che io me ne accorgessi?
Risi di cuore e tornai nella pagina principale, ancora in attesa di veder scomparire Harry Styles dalla lista degli utenti in linea.
Questo perché non hai alcun rispetto per gli altri”.
Mi morsi il labbro inferiore, persa nel ricordo della discussione che avevo avuto con Harry Styles quella mattina. Perché non ero davvero gelosa del fatto che Michael sembrasse apprezzare così tanto Felicity Skinner? Perché la cosa mi divertiva?
“Ho bisogno di tempo per legarmi alle persone, ecco tutto” borbottai tra me e me, infastidita dalla possibilità che Harry avesse avuto ragione.
Il suono di un nuovo messaggio mi scrollò un'altra volta di dosso ogni altro pensiero; guardai la chat con Harry Styles e notai che il numero 3 aveva sostituito il precedente 2.
Sbuffai e aprii con un clic violento la finestrella blu.
Ciao Catherine!
O forse dovrei chiamarti Kate ora?
“Che cosa si è messo in testa questo deficiente?” mi chiesi distrattamente.
So benissimo che sei online e mi ignori. Non fare la maleducata, dai!
Dopo aver letto tutti e tre i suoi brevi messaggi, mi convinsi a rispondergli.
Sparisci immediatamente dalla mia vista.
Richiusi in fretta la finestra della nostra conversazione, ma la risposta di Harry non si fece attendere granché; dopo un minuto o poco più, ricomparve un piccolo 1 di fianco al suo nome.
Dovrai pur darmi delle indicazioni sulla tua festa. C'è un dress code da seguire? A che ore si inizia?
Sì, il tuo personale dress code prevede un sacchetto della spazzatura sulla testa.
Potrei anche ridere, se non fosse che la tua è una battuta di pessimo gusto.
La mia non è una battuta, Harry, sono seria. Ciao.
Premetti sulla piccola x che chiudeva la conversazione, ma Harry fu più veloce di me e presto la finestrella si riaprì con un suo nuovo messaggio.
Non ti conviene scherzare tanto. Ho saputo proprio oggi del tuo nuovo piccolo segreto.
Rilessi quelle parole con attenzione, confusa. Che cos'aveva scoperto? Io non avevo fatto niente dopo la sera in cui ci eravamo incontrati sul ponte.
Non ho altri segreti da condividere con te.
Ne sei proprio sicura, Catherine?
Stai cercando di tormentarmi? So che lo fai per vendicarti!
Alex mi ha detto che comincerai a recitare quest'anno. Volevo farti i miei complimenti.
Rimasi immobile sulle coperte profumate del letto, mentre il ronzio del computer portatile s'insinuava nella mia testa. Alex e Harry si conoscevano? Perché quella maleducata si era permessa di rivelare proprio a lui quel dettaglio privato? Non avevo neanche ancora cominciato il corso, ed ecco che qualcuno era già pronto a prendersi gioco di me.
Cercai di affrontare Harry con le solite maniere composte, ma dentro mi sentii immediatamente più debole.
E credi che questo possa spaventarmi? Non ho mai richiesto il tuo parere.
Io non voglio spaventarti. Sono sincero: complimenti.
Non ne potevo più di quella conversazione idiota.
Senti, Styles, che cosa diavolo vuoi ancora da me? Ti manderò i dettagli della festa appena li avrò, e ciò che faccio nel tempo libero non deve nemmeno lontanamente interessarti.
Mi avevi detto di voler recitare, ma di non avere il permesso di tuo padre. Ho pensato che fosse forte il fatto che ti fossi iscritta al gruppo scolastico.
Forte, rilessi nella mia mente più e più volte; non mi stava davvero prendendo in giro? Era serio?
Ti ripeto che non mi interessa il tuo parere, scrissi di getto, arrabbiata e confusa.
Invece pensavo che potesse farti piacere sapere che non sono tutti come le tue amiche e il tuo fidanzatino.
Nonostante detestassi parlare con Harry Styles — che fosse via Facebook o faccia a faccia non importava —, ora morivo dalla curiosità di sapere che cosa volesse dirmi con quelle frasi enigmatiche.
Non capisco dove vuoi arrivare...
Harry non rispose subito. Attesi con la chat aperta e rimasi qualche istante a controllare per accertarmi che continuasse a scrivere, ma non diede segni di vita. Dopo due minuti buoni di silenzio, capii che il mio interlocutore era sparito. Sospirai e chiusi la finestra della conversazione, decisa a fare lo stesso.
Feci per chiudere la pagina di Internet, quando udii nuovamente il suono della chat che si apriva. Corsi a controllare: era proprio Harry.
Mi prendi in giro, Catherine? Sei stata tu a dire che odi tutti, a partire dalle cinque oche di cui ti circondi, che nessuno ti conosce per davvero.
Riflettei un istante sul modo migliore di metterlo a tacere; sapeva ormai troppe cose su di me, cose che nessuno aveva mai nemmeno immaginato. Il mio segreto astio verso tutti, i miei genitori, i ragazzi con cui ero uscita, le mie presunte 'amiche', era sempre stata una questione intima, che non avevo intenzione di affrontare con nessuno. Mi ero convinta da anni che sarei partita da Holmes Chapel con la speranza di ricominciare una vita nuova e migliore, abbandonando per sempre chi aveva fatto parte di quella vecchia.
Non avresti dovuto sapere certe cose. Ho parlato senza riflettere. Mi hai vista, in verità sono uguale a loro se non peggiore.
Harry rispose subito con un semplice:
Bel tentativo, Catherine!
Vuoi forse dire di conoscermi meglio di chi sta al mio fianco ogni giorno? Sei un povero illuso, Harry Styles.
Restai online a fissare la finestrella della conversazione ancora aperta sul mio ultimo sfrontato messaggio. Chissà se mi avrebbe risposto? Forse sarebbe stato meglio offenderlo una volta per tutte ed evitare che tornasse a darmi il tormento con quei giochetti incomprensibili, ma avevo paura che potesse rivoltarsi contro di me in tal caso.
D'accordo, non vuoi ascoltarmi. Be', buona serata. Fammi sapere ora e luogo della festa di sabato.
Lessi le sue parole e fui quasi sorpresa dalla semplicità con cui aveva lasciato cadere la conversazione. Tirai un sospiro di sollievo e premetti sul suo nome; la pagina iniziale del profilo di Harry Styles comparve immediatamente davanti ai miei occhi. Spiai l'immagine del profilo, vecchia quasi di un anno, e scorsi le sue ultime pubblicazioni: video musicali, trailer di film che gli erano piaciuti in particolar modo, qualche citazione che non conoscevo... Notai che spesso pubblicava video di gruppi come i Kings of Leon, i Foster the People, i Coldplay. Incuriosita chiusi la pagina di Facebook e scrissi nella barra di ricerca di Google: Foster the People. Cliccai sul primo risultato della ricerca, un video musicale intitolato 'Pumped up kicks', e mi allungai sul letto, in ascolto. Presto mi ritrovai a seguire la melodia della canzone canticchiando debolmente, e quando questa terminò la feci ripartire senza esitazioni.



Il giorno seguente avrei preso finalmente parte alla prima lezione del corso di recitazione, e non stavo più nella pelle di vedere come sarebbe andata. Sarei stata in grado di sopravvivere in un ambiente nel quale ero del tutto nuova?
Era il primo di ottobre, un fresco giovedì assediato da nuove nuvole scure. Quel tempo mi deprimeva oltremodo, ma la prospettiva di poter finalmente fare ciò che desideravo mi aiutò ad affrontare la mattinata con ottimismo. E così declinai tutte gli inviti delle mie amiche per quel pomeriggio e fui molto vaga nel dirmi occupata quando Michael si offrì di accompagnarmi fuori città per una passeggiata romantica.
“Ho un impegno qua a scuola, una vera rottura...” feci con tono convincente.
Lui aveva sorriso e mi aveva baciata con affetto, credendo a ogni singola parola.
Non avevo rivelato a nessuno le mie intenzioni, perché avevo paura che se la voce si fosse sparsa troppo in fretta mio padre sarebbe venuto a saperlo in men che non si dica. Non mi sentivo troppo al sicuro sapendo di trasgredire le sue ferree regole: era sensazionale disobbedirgli, ma costituiva pur sempre un enorme rischio.
Quel pomeriggio, alle tre e mezzo, mi feci trovare prontissima e scattante davanti alla porta di casa. Fortunatamente trascorrevo la maggior parte del tempo da sola, perché mio padre lavorava spesso fuori città. Uscii e salii in macchina, eccitatissima al pensiero di che cosa stavo per fare.
Quando parcheggiai e scesi dall'auto, mi trovai a camminare per il cortile della Holmes Chapel Comprehensive School straordinariamente vuoto. Tutto ciò che sapevo era che le prove di quel giorno si sarebbero tenute in una delle sale assemblee dell'istituto.
Salii le scale e raggiunsi il secondo piano, svoltai a sinistra nel più piccolo dei tre corridoi e bussai alla porta sul fondo.
“Avanti”.
Aprii la porta con aria decisa ed entrai piena di speranze. Molte teste si voltarono e potei leggere su quei volti sconosciuti tutto il loro stupore nel vedermi lì.
“Ciao, chi sei?” domandò un signore piuttosto basso e dai folti capelli di un grigio luminoso.
Presi un piccolo respiro e feci per parlare, ma qualcuno dal fondo dell'aula mi precedette.
“Lei è Catherine Alexandra Cavendish, e quest'anno farà parte del nostro gruppo, papà” rispose Alex, seduta su una scrivania con le gambe incrociate e il solito sorriso sfacciato stampato in volto.



Dopo le varie presentazioni, che per il resto del gruppo erano piuttosto inutili visto che i partecipanti erano sempre gli stessi ogni anno, il professor Rayner introdusse il corso e spiegò l'opera teatrale sulla quale avrebbe voluto lavorare — 'Pulp fiction', film che io semplicemente adoravo —, assegnando i ruoli in base a ciò che già sapeva dei suoi allievi. Io ero probabilmente l'unica novità nel gruppo, e per questo non fui interpellata o nominata fino a che i ruoli rimasero pochi e minori.
Alex, appena dietro di me, mi si fece più vicina e sorrise. Io la guardai appena, infastidita dal fatto che probabilmente fosse felice del mio disagio.
“Mio padre non ti ha ancora assegnato un ruolo” bisbigliò in modo che la sentissi solo io.
“Ne sei tanto contenta?” ribattei, acida.
Alex alzò le spalle. “Secondo te?”
Sbuffai e incrociai le braccia al petto, ancora in attesa che il professor Rayner terminasse di spiegare a una timidissima ragazza del quarto anno in cosa sarebbe consistito il ruolo di 'Coniglietta' nello spettacolo.
E proprio in quel momento Alex levò il braccio in alto, il volto serio come se non fosse mai stata lì vicino a prendermi in giro.
“Che c'è, Alex?” domandò suo padre, paziente.
Il professor Rayner era un uomo gioviale e amichevole, ma temevo non avesse molta fiducia in me. Forse mi conosceva, forse aveva sentito parlare di me e della mia superficialità, e per questo motivo faceva finta che non fossi mai entrata nella sua aula.
“Papà, non pensi che Catherine Alexandra sia la più adatta per il ruolo di Mia Wallace?” fece a voce alta.
La ragazza precedentemente designata per quella parte, alta e magrissima, si erse in tutta la sua stazza con aria astiosa. Alex la ignorò con il suo solito modo di fare arrogante.
“Perché dici così, Alex?” domandò suo padre, spiazzato. “Non sappiamo ancora come...”
“Guardala!” esclamò Alex, indicandomi; mi sentii improvvisamente al centro dell'attenzione generale. “È bella e con una parrucca in testa sarebbe la copia di Uma Thurman nel film”.
Aggrottai la fronte e spiai Alex sorpresa: perché tutto a un tratto prendeva le mie parti rischiando di creare scompiglio nel gruppo? La ragazza che aveva ottenuto il ruolo di Mia Wallace poco prima, infatti, aveva ormai tutta l'aria di voler compiere un omicidio.
“Io... non so...” tentennò il professor Rayner.
Alex ostentò una risata eccessiva. “Si è iscritta anche lei, o sbaglio? Non sarebbe giusto darle una possibilità?”
Trattenni il fiato, speranzosa. Non avevo idea del perché Alex lo stesse facendo, ma il suo aiuto forse avrebbe cambiato ogni cosa.
Il professor Rayner sospirò e si rivolse alla ragazza magra che aveva già scelto.
“Mi vedo costretto a dare ascolto a mia figlia, Susan”.
La ragazza si fece scura in volto e guardò altrove. Il professor Rayner sembrò sentirsi in colpa per ciò che aveva appena fatto, ma proseguì con l'assegnazione dei posti come se non fosse mai stato interrotto.
Mi voltai verso Alex e sorrisi felice.
“Grazie!” esclamai. “Perché l'hai fatto?”
Alex alzò le spalle e mi piantò addosso uno sguardo perforante.
“Ti avviso che la gente parlerà del mio gesto. Siccome qui tutti sanno che sono lesbica”, e io strabuzzai gli occhi con stupore, “si penserà che abbia una cotta per te”.
Aprii bocca, sorpresa e divertita da quella notizia inattesa, ma non riuscii a rispondere che Alex riprese il suo discorso: “Quindi, sappi che non l'ho fatto per questo motivo. Sarai anche capace di incantare qualunque uomo ti passi di fianco, ma io ho gusti molto diversi”.
“E allora qual è il tuo motivo?” domandai.
Alex mi lanciò un'ultima occhiata sfuggevole e poi guardò verso suo padre; dopo qualche istante di silenzio, sorrise e rispose: “Ho visto che avevi bisogno di un'amica”.
Avrei voluto rispondere, magari anche con cattiveria, a quell'affermazione; tuttavia rimasi zitta a fissare un po' Alex e un po' le punte dei miei piedi. E sebbene la sua risposta fosse stata spiazzante e forse anche offensiva — perché significava dirmi in faccia che ero sola —, sentii che con quelle parole io e Alex avevamo silenziosamente segnato la nostra amicizia.



Erano le cinque e mezzo quando uscii dalla scuola diretta verso la mia automobile parcheggiata poco distante. Salii, mi ci chiusi dentro e controllai i messaggi ricevuti in quell'ora e mezza di prove. Michael e Barbara mi avevano scritto chiedendo di organizzare un'uscita per quella sera. Risposi al mio ragazzo accettando volentieri.
Dopo le prove con il gruppo teatrale ero particolarmente di buon umore e sentivo che niente o nessuno avrebbe potuto scalfire la mia contentezza.
Passai per il centro di Holmes Chapel, superai alcune piccole botteghe in cui non ero mai entrata e mi fermai allo stop per lasciar passare alcune auto in arrivo alla mia destra. Guardai di sfuggita alla mia sinistra e, poco più avanti, intravidi uno dei tre amichetti di Harry Styles uscire da una villetta piuttosto graziosa. Subito dopo fu seguito dagli altri due, e infine anche Harry fece la sua apparizione, portandosi in spalla la custodia di una chitarra. Li scrutai assorta, spiando i loro gesti di congedo e immaginando i penosi resoconti delle loro prove di quel pomeriggio.
Chissà che risate ci faremo questo sabato, pensai divertita.
Harry alzò lo sguardo e, senza smettere di ridere di qualcosa detto dal suo amico biondo, mi vide e incrociò il mio sguardo. Il sorriso sparì dal suo volto e il suo amico si voltò nella mia direzione.
Sgranai gli occhi e premetti sull'acceleratore come se fossi inseguita dalla polizia. Guidai fino a casa cercando di non pensare a quanto fosse stato umiliante essere colta in flagrante mentre spiavo Harry Styles e il suo branco di amici idioti dall'auto.
Adesso devi smettere di pensare alle sue minacce, se non vuoi ritrovarti quel deficiente anche in salotto quando torni a casa!



“Ti ho già spiegato il perché, Jane. Vuoi toglierti quell'espressione stupida dalla faccia?” feci, annoiata, passandomi la lima sull'unghia del mignolo destro.
Non sprecai nemmeno tempo a spiare la reazione della mia amica, ma il silenzio che seguì le mie parole mi fece capire che con Jane la conversazione era chiusa una volta per tutte. Al suo posto, comunque, intervenne Sarah, ancora poco convinta.
“Perché proprio loro? Dopo ciò che quello sfigato ti ha fatto, non ci saremmo mai aspettate...”
Alzai gli occhi e puntai il mio sguardo più ostile su Sarah, la cui voce si affievolì all'istante, sfumando lentamente in un bisbiglio sommesso.
“Hai finito?” domandai, fredda.
Lei annuì, mortificata.
“Bene” dissi calma, posando la lima sul banco e soffiando sulle mie unghie perfettamente modellate. “Ora tocca a me parlare”.
Jane e Barbara si scambiarono un'occhiata preoccupata: le loro proteste per la mia scelta su chi invitare come ospite alla festa del giorno seguente avevano finito per diventare insostenibili, e ora temevano che potessi far loro una terribile sfuriata.
Era un noioso venerdì mattina e noi eravamo in attesa dell'inizio delle lezioni. Stavo affrontando da circa dieci minuti i rimproveri delle mie migliori amiche.
“Non ho intenzione di sentirmi ripetere un'altra volta da voi cinque che quella band di perdenti è una pessima scelta” esordii con voce ferma. “So perfettamente che sono quattro stupidi con la testa piena di sogni, ma li ho scelti proprio per questo. Voglio che domani si esibiscano davanti alla scuola e voglio sentire i fischi della folla quando avranno fallito anche nell'unica cosa che credono di fare bene”.
Olivia sorrise vittoriosa e annuì, per mostrare che lei aveva sempre approvato la mia idea di vendetta nei confronti di Harry Styles.
“Inoltre, la casa in cui la festa si terrà è la mia e gli invitati vi parteciperanno perché sono stata io a organizzare tutto” sottolineai con apposita cattiveria; lanciai un'occhiata di sfida a Sarah e Jane. “Non vorrei che vi montaste tanto la testa da pensare di poter fare ciò che sono capace di fare io”.
Le mie due amiche ammutolirono ma non furono in grado di ribattere. Le vidi richiudere la bocca con aria incredula.
Sorrisi tra me e me e ficcai lima e beauty-case nella borsa.
“Tutto chiaro, ragazze?” domandai con voce dolce.
“Assolutamente” risposero in coro Mary e Olivia.



Carissime lettrici che seguite questa fan fiction,
oltre a ringraziarvi di cuore per le recensioni, il sostegno in generale e l'interesse verso ogni mia nuova storia, vorrei avvisarvi del fatto che per quanto mi faccia piacere aggiornare "Ship to wreck" abbastanza regolarmente, mi rimangono solo più due giorni in Italia dopodiché mi trasferirò a Berlino (ERASMUS!), ergo, almeno all'inizio avrò poco tempo per pubblicare e soprattutto scrivere.
Ma non temete, riuscirò a continuare questa storia (sto già scrivendo il 14esimo capitolo!).
Ancora molte grazie e a presto!


Martina


 

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Capitolo 7
*** Ottimi risultati ***


Ottimi risultati



Harry

 

Ero spaventato, elettrizzato e sconfortato allo stesso tempo. Mi fermai sul bordo della stretta stradina sterrata, ascoltando il lontano suono dell'acqua che scorreva al di là degli alberi dietro cui mi ero riparato.
Spensi il mio lettore mp3 e lo infilai nella tasca dei pantaloni della tuta sportiva. Non riuscivo a concentrarmi su nient'altro che non fosse il pensiero della serata del giorno seguente, quando avrei finalmente suonato per la prima volta davanti a un pubblico vero e proprio. Niente più pareti insonorizzate a nasconderci al resto del mondo, niente più applausi isolati da parte di Elisabeth, l'unica in grado di giudicare la nostra bravura. Avrei davvero impugnato il microfono e cantato davanti a buona parte della scuola che frequentavo da anni nell'anonimato. Se all'inizio avevo pensato che Catherine Alexandra avesse combinato solo più casini del normale nella mia vita, nelle ultime ore mi ero convinto che, in fin dei conti, l'averla salvata fosse stata una vera fortuna.
Mi appoggiai al tronco dell'albero alle mie spalle e restai immobile ad ascoltare il fiume scorrere e il ritmo regolare dei miei respiri affannati dopo la corsa.
Sapevo perfettamente quali erano le sue intenzioni: aveva accettato di invitarmi alla sua festa solo per farmi tacere e, nelle sue più rosee speranze, per ridicolizzarmi in maniera definitiva davanti a mezza scuola. Catherine Alexandra non sapeva nulla della band, non poteva capire quanti sacrifici io e i miei amici avessimo fatto per suonare insieme, non aveva idea di quanto significasse per me il canto; ecco perché ero sicuro di poter vincere anche quella battaglia. Lei si illudeva che io, Haydn, Nick e Will fossimo tanto incapaci nella musica quanto lo eravamo alle prese con la vita di tutti i giorni, ma si sbagliava di grosso e io ero felice di poterla finalmente zittire.
Mi riscossi da quei pensieri e feci marcia indietro, diretto verso il passaggio che dal folto della boscaglia portava al sentiero vicino alla riva del fiume. Ero stanco ma felice, e correre mi aiutava a restare in esercizio per quando mi si sarebbe presentata l'occasione di cantare. Apparentemente sembrava andare tutto alla grande, se non fosse stato per l'aria carica di sospetto che tirava tra me e i miei amici fin da quando era venuta fuori quella storia del segreto che mi legava a Catherine Alexandra.
Se Will e Nick avevano presto smesso di bombardarmi di domande, lo stesso non si poteva di certo dire di Haydn, il quale mi trattava con un certo fastidioso distacco da ormai una settimana. E a poco era servito annunciare ai miei amici l'invito di Catherine Alexandra come la migliore occasione di sempre: la notizia aveva solo aumentato i sospetti del mio migliore amico, rinforzando la sua convinzione che io stessi tramando qualcosa alle sue spalle.
Sospirai e salii il sentiero scosceso fino a raggiungere il ponte.
Non sto facendo nulla di male, Haydn! Come diavolo devo dirtelo?”
Scossi il capo, bruciante di vergogna al ricordo delle domande indagatrici di Haydn il giorno prima. Era difficile cercare di convincerlo della mia sincerità quando in verità ero costretto a tener fede alla promessa fatta a Catherine Alexandra. Non avevo alcuna intenzione di rivelare ai miei amici delle sue idee suicida, perché sapevo che si trattava di una questione delicata; al tempo stesso, però, non potevo fare a meno di pregare Haydn di fidarsi di me senza prove concrete, perché io non ero né interessato né affezionato alla sua amata.
Catherine Alexandra era quanto di più distante e diverso da me ci fosse al mondo: amava far soffrire la gente ed ero certo che, se si fosse ritrovata al mio posto, non avrebbe esitato un istante a spiattellare un segreto così grande alle sciocche amiche che si portava sempre dietro. Non apprezzava le sue amiche e le trattava come schiave; non era nemmeno lontanamente innamorata del suo fidanzato, che usava come icona per sfoggiare la sua influenza su tutto e tutti; eppure qualcosa in tutto ciò continuava a non convincermi. Nonostante Catherine Alexandra giocasse quel ruolo così perfettamente da sembrare reale, io ero convinto che la sua fosse in parte una messinscena. Certo, aveva un modo di fare altamente arrogante e prepotente, ma era davvero così stupida e superficiale come voleva sembrare?
Percorsi i larghi viali di Holmes Chapel pensando all'ultima conversazione avuta con quella ragazza così strana e insopportabile: l'avevo aggiunta su Facebook e lei, insospettatamente, aveva accettato la mia richiesta d'amicizia. Dopo essermi visto trattare con i soliti modi bruschi, avevo dato un'occhiata al suo profilo virtuale: anche lì, come nella vita reale, si era creata un'immagine gloriosa e del tutto falsa. Le sue foto erano contrassegnate da cifre vertiginose di 'mi piace' e i commenti dei suoi ammiratori non facevano altro che accrescere l'idea di perfezione che si era creata attorno a lei.
Quando giunsi a casa, vagando da un pensiero all'altro, notai quasi subito le luci accese al piano terra. Mia mamma aveva detto che sarebbe arrivata da lavoro verso le sette e mezzo, e l'orologio al mio polso segnava appena le sette meno un quarto.
Aprii il cancello e arrivai alla porta. Non ebbi nemmeno il tempo di chiedere chi ci fosse in casa, che una ragazza castana piuttosto carina irruppe nella stanza strillando il mio nome.
“Harryyyy!” urlò mia sorella, allargando le braccia e stringendomi a sé con calore.
“Ge... Gemma!” borbottai a fatica, stretto nel suo abbraccio. “C... che cosa... ci fai qui?”
Mia madre fece capolino dal bagno e sorrise al settimo cielo.
“Tua sorella è venuta a trovarci un po' prima del previsto, non sei felice?” spiegò.
Gemma annuì con vigore. “Non ho ancora gli esami e mi mancavate, così ho pensato di restare a Holmes Chapel prima di tornare a Manchester”.
Sorrisi, riprendendo il fiato dopo essere stato strapazzato come un peluche.
“È proprio una bella notizia, Gemma!” esclamai.
Mia sorella sorrise e poi guardò verso nostra madre. “Mamma, mi stava raccontando che qua c'è un'atmosfera un po' tesa ultimamente”.
Scoccai un'occhiataccia obliqua a nostra madre, la quale sorrise con aria innocente.
“Non vorrete dirmi che state davvero litigando per ciò che penso io?” chiese Gemma con una smorfia.
“Temo proprio di sì” sospirai, slegando le scarpe e gettandole vicino alla porta.
“Gemma forse potrà aiutarti a capire che lo studio è una faccenda seria...” s'intromise nostra madre.
“Non ci penso nemmeno, mamma!” ribatté lei, esterrefatta.
Nostra madre perse la sua aria allegra e fissò mia sorella con aria di rimprovero.
“Che cosa...?”
“Harry, penso che dovresti fare un tentativo” mi disse mia sorella con aria seria.
La fissai incredulo. “Intendi il canto?”
Gemma annuì e sorrise allegramente. “Dovresti venire con me a Manchester e cominciare a esibirti in pubblico”.
“Non mettergli strane idee in testa” fece nostra madre, avviandosi verso la cucina.
Non appena fu sparita, sussurrai a mia sorella: “Domani sera canterò a una festa per la prima volta”.
Gemma lanciò un gridolino eccitato.
“Davvero, Harry? Posso venire a sentirti?”
“In verità...”, esitai mordendomi la lingua: sarebbe stato saggio spiegare a mia sorella che cos'era successo nelle ultime settimane?
Gemma mi guardò con curiosità crescente e io decisi di raccontarle a grandi linee ciò che mi aveva portato a ottenere tale chance.
“Nella mia scuola c'è una ragazza che è davvero... amata da tutti. In pratica le ho fatto un favore, e per sdebitarsi ha deciso di invitare me e gli altri alla sua festa di domani sera” riassunsi.
Gemma annuì. “E io non potrò partecipare?”
Immaginai la faccia di Catherine Alexandra alla vista di mia sorella invitata alla sua festa esclusiva e sorrisi divertito: sarebbe stato molto soddisfacente infliggerle quel colpo basso. Peggio di uno Styles potevano essere solamente due Styles.
“Diciamo che tra me e questa ragazza non corre proprio buon sangue” spiegai.
Mia sorella non parve turbata dalla cosa. Sfoderò l'ennesimo sorriso sereno e riprese a parlare dei miei progetti: “Io penso che tu stia facendo la cosa giusta. Sei sempre stato un ottimo cantante!”
Arrossii imbarazzato e domandai: “Come fai a esserne tanto certa? Non ho mai cantato in pubblico...”
“Ma come? Non ti ricordi del matrimonio di zio Gerard? Ai tempi eri già un piccolo prodigio, lo dicevano tutti” esclamò Gemma.
Risi, ancora più imbarazzato di prima: non avevo del tutto rimosso quei ricordi, in cui ero stato costretto a intonare le note di canzoni a dir poco ridicole, vestito come uno stupido damerino.
“Spero di essere migliorato da allora” ammisi.
Gemma sbuffò e mi afferrò sotto braccio. “Prima che tu scompaia nella tua stanza per darti al canto, voglio un resoconto completo di ciò che hai fatto negli ultimi tempi. Quali altre novità hai da raccontarmi? Quando diventerò zia?”
Scoppiai in una sonora risata, mentre seguivo mia sorella senza oppormi.
“È altamente improbabile, al momento, Gemma. Ho quasi più possibilità io di diventare un cantante famoso che tu zia”.



E il sabato arrivò con estrema velocità, come se qualcuno avesse premuto sull'acceleratore. Col passare delle ore e l'avvicinarsi della serata, la mia spavalderia diminuì vistosamente.
Dopo aver mandato un breve messaggio a Catherine Alexandra per ricevere indicazioni su luogo e orario della festa — e dopo essere stato liquidato con un semplice indirizzo scritto frettolosamente —, mi ero recato a casa di Nick, dove ad attendermi c'erano già i miei tre amici pronti per le ultime prove prima del grande debutto.
Avevamo programmato tutto: dalla nostra entrata in scena fino al grande finale, accompagnato dalle note di 'Are you gonna be my girl?' dei Jet. Nick e Will sembravano al settimo cielo ma non davano segno di paura o agitazione: forse quell'esibizione per loro non sarebbe stata decisiva quanto per me e Haydn. Infatti io e il mio migliore amico sapevamo che, se avessimo fatto una buona impressione sul pubblico, nessuno ci avrebbe più visti come dei poveri sconosciuti qualunque.
Ripresi a cantare dopo una breve pausa, accompagnato dal familiare rullo di tamburi di Nick e dal graffiante suono della chitarra di Haydn.
Stop making the eyes at me, I'll stop making the eyes at you, and what it is that surprises me...
La mia bocca si muoveva quasi automaticamente, avevo cantato quelle parole così tante volte che ormai non avevo più bisogno di concentrarmici sopra. Chiusi gli occhi e feci un passo avanti, il microfono ben stretto in mano. In un lampo vidi nella mia testa una sala enorme, addobbata a festa, e tutto attorno gente che saltava come impazzita, battendo le mani al ritmo della musica; poi vidi Felicity proprio sotto il palco sul quale io cantavo a piena voce; sorrideva e cantava le poche parole che riusciva a capire e mi fissava con quei suoi meravigliosi occhi azzurri...
I bet that you look good on the dance floor, I don't know if you're looking for romance or...
Se solo fossi riuscito, nella realtà, a riscuotere il successo che avevo nei miei sogni, Felicity avrebbe potuto cambiare idea su di me.
Terminai la canzone mettendo tutto me stesso in strofe e ritornelli finali, cercando di trasmettere la mia forza attraverso il canto.
Quando Haydn concluse la canzone con un ultimo tocco alle corde ancora vibranti della sua chitarra elettrica, dal fondo dello scantinato si levò un urlo di pura gioia.
Nick levò i pugni stretti in aria e sorrise. “Siamo stati incredibili!”
Fissai di nuovo il microfono al sostegno e annuii. “Ottime prove, davvero ottime”.
Haydn posò la chitarra con sguardo pieno di traboccante affetto per lo strumento e si voltò nella nostra direzione.
“Allora, ripassiamo la scaletta: si comincia con 'Fat lip' e si prosegue con 'In too deep', d'accordo?” disse, serio come non mai.
Nick e Will annuirono ripetutamente.
“Dopodiché abbiamo 'Pretty fly' degli Offspring, che sarà il nostro pezzo forte” aggiunse, guardandomi dritto negli occhi.
Sorrisi fiducioso, certo che con quel brano ci saremmo conquistati l'approvazione del pubblico.
“Poi suoneremo 'What's my age again?' e 'First date' dei Blink 182, e se per quel momento della serata avremo fatto un buon lavoro, saremo già acclamati da tutti a gran voce” proseguì.
“E così sarà, puoi starne certo” intervenne Nick, rigirandosi le bacchette della batteria tra le dita.
Haydn annuì, ma evitò sorrisi eccitati: sembrava voler mantenere il controllo delle proprie emozioni, per evitare slanci di eccessiva fiducia.
“Infine toccherà a 'I bet you look good on the dance floor', 'More than meets the eye' e 'Are you gonna be my girl'”.
Will annuì e si sfilò il basso di dosso. “Dopo la serata di domani riceveremo inviti ogni settimana”.
“Me lo auguro” dissi, spegnendo l'amplificatore del mio amico. “Mia sorella è tornata a Holmes Chapel e le sarebbe piaciuto sentirmi questa sera”.
Will scattò sull'attenti. “Gemma è qui?”
Haydn e Nick scoppiarono in una serie di fischietti di scherno rivolti a lui, il quale arrossì leggermente e si voltò per sistemare il basso nella custodia.
Nessuno dei miei amici aveva mai fatto segreto del loro debole nei confronti di mia sorella, ma sembrava che Will fosse rimasto maggiormente colpito dai grandi occhi chiari e i modi frizzanti di Gemma.
“Io penso che dovresti invitare Gemma” scherzò Haydn, allegro come non lo avevo visto da giorni. “È pur sempre la sorella maggiore impaziente di sostenere il proprio fratellino”.
Nick scoppiò a ridere ma Will parve ridestarsi da un sogno.
“Lo state facendo apposta?” chiese a Haydn.
Tutti e tre scoppiammo a ridere e Will sbuffò, spazientito.
“Che cosa direbbe la Cavendish se ti permettessi di invitare gente che lei magari non approva?” azzardò Will.
Improvvisamente l'atmosfera si fece meno calda e felice, e Haydn si voltò d'istinto nella mia direzione. Vidi Nick scoccare un'occhiata feroce a Will: aveva toccato di nuovo l'argomento tabù della settimana, ossia il mio rapporto con Catherine Alexandra.
“Non dirà nulla, perché non ho intenzione di invitare Gemma” tagliai corto, distogliendo lo sguardo da Haydn; tornai a maneggiare cavi e strumenti musicali pur di evitare gli occhi accusatori del mio amico.
“Ben detto!” esclamò Nick, intervenendo repentinamente. “Non deconcentriamoci, abbiamo un concerto a cui pensare”.
Tornammo a mettere ordine nel piccolo scantinato dove provavamo i nostri pezzi, tutti immersi in un silenzio denso di significato. Io, dal canto mio, preferivo tenere la bocca chiusa per non dare a Haydn la possibilità di ricominciare a tormentarmi. Dovevo dimostrare al mio amico che tra me e Catherine Alexandra non c'era alcuna relazione sentimentale, e per far ciò avevo bisogno che Felicity Skinner si accorgesse di me. Se fossi riuscito a uscire con la ragazza dei miei sogni, Haydn non avrebbe più avuto nulla di cui temere.



Quella sera ebbi problemi anche con i vestiti, cosa mai successa prima nella mia vita. Rimasi incredibilmente zitto e immobile per una ventina di minuti davanti all'armadio aperto, intento a far vagare lo sguardo da un paio di jeans all'altro.
E ora che cosa mi metto addosso?
Non mi sentivo più così ottimista a proposito della prima grande esibizione. Non sapevo come ci si sarebbe dovuti vestire per un concerto: stile trasandato oppure cura maniacale di ogni dettaglio? Papillon oppure semplice t-shirt? Si trattava di un concerto in piena regola, ma avrebbe avuto luogo nella villa dei Cavendish, che era tutto fuorché sobria. E da qui sorgeva il mio dubbio atroce: che cosa avrebbe detto la gente di me, se mi fossi presentato in jeans e maglietta?
Sospirai, afferrai un paio di pantaloni neri che mi scendevano larghi sulle gambe magre e un maglietta bianca del tutto anonima: non sarei stato elegante, ma neanche troppo appariscente e, forse, ridicolo.
Mi vestii e mi girai verso lo specchio lungo e stretto che avevo fatto installare dietro la porta della mia camera da letto: non avevo assolutamente l'aria di un musicista, ma non sembravo nemmeno un pagliaccio. Eppure mancava qualcosa...
Girai sui tacchi e tornai davanti all'armadio spalancato, frugando con foga tra le maglie e i maglioncini ripiegati in ordine. Sfilai dalla massa una camicia a grandi quadretti blu scuro intramezzati da righe di una sfumatura più chiara. La indossai lasciandola aperta sul petto. Tornai allo specchio e, proprio mentre sorridevo soddisfatto al mio doppione riflesso, qualcuno bussò alla porta.
“Harry, i ragazzi sono qui” annunciò mia madre.
“Ehm... D'accordo, di' loro che arrivo subito” risposi, tutto a un tratto agitato.
Mi affrettai a richiudere l'armadio e ad afferrare il portafogli e il cellulare abbandonati sul letto. Mi spruzzai un goccio di profumo sul collo e spalancai la porta. Correndo lungo il corridoio, incrociai lo sguardo eccitato di mia sorella affacciata dalla sua stanza.
“Buona fortuna, Harry!” esclamò.
Alzai una mano in aria e urlai: “Grazie, Gemma!”
Attraversai il salotto e l'ingresso alla velocità della luce, sfrecciando davanti agli occhi spalancati di mia mamma vicina alla porta di casa.
“Ciao, Harry” fece in tono morbido.
“Ciao, ma'!” esclamai, baciandola sulla guancia di slancio. “Un augurio di buona fortuna?”
Lei sorrise e levò gli occhi al cielo. “D'accordo, in bocca al lupo, Harry”.
“Così sì che va bene!” esclamai, divertito.
Mi richiusi la porta di casa alle spalle e corsi verso la macchina nera di Haydn, parcheggiata proprio di fronte al nostro cancello. Montai in auto con un salto e fui accolto dalle urla eccitate dei miei amici.
“Hai preso tutto? Possiamo partire?” domandò Haydn, che per l'occasione si era vestito interamente di nero.
Notai con un certo sconcerto che lui, Will e Nick apparivano molto più eleganti di me.
“Ragazzi, pensate che sia vestito come un deficiente?” domandai, preoccupato.
“Ma tu sei un deficiente, Harry” rispose Nick, allegro.
Haydn ridacchiò sotto i baffi e Will, al mio fianco sui sedili posteriori, mi diede una pacca leggera.
“Abbiamo capito la tua mossa: vuoi farti notare in mezzo a noi, giusto?” scherzò.
“Come no!” sbuffai.
Nick si voltò sul sedile anteriore e rise. “Harry spera che Felicity sia presa da un attacco di intelligenza acuta e non faccia caso ai suoi abiti da plebeo”.
Sorrisi, anche se dentro di me ero maledettamente inquieto. Che cosa avrebbe detto Felicity vedendomi così diverso dal resto del gruppo? Avrebbe riconfermato la sua idea secondo cui ero un inutile spreco di tempo?
“Non sono poi così male” s'intromise Haydn, spiandomi dallo specchietto retrovisore.
Alzai una mano in segno di gratitudine. “Grazie, amico”.
La strada verso casa Cavendish era piuttosto lunga, perché lei non abitava in centro come noi: la sua villa di proporzioni hollywoodiane non avrebbe trovato abbastanza spazio incastonata tra misere casette di città e condomini scoloriti.
Uscendo dalla strada cittadina, ci immettemmo lungo un percorso incatramato di recente e fiancheggiato da un centinaio di piccoli alberelli ben potati. Alla base della stradina erano state installate luci giallognole che illuminavano il percorso per i visitatori.
Haydn fece un lungo fischio ammirato. “Certo che i Cavendish non badano alle spese, eh?”
Deglutii atterrito: tutto quel lusso non faceva altro che rendermi ancora più spaventato.
“E aspetta di vedere dove suoneremo!” esclamò Nick. “Ieri io e Will siamo venuti a montare la batteria, e non riuscivamo a smettere di fissare... Guardate!”
Davanti all'enorme cancellata in fine ferro battuto stavano due signori elegantemente vestiti, che avevano il compito di accertarsi che chiunque varcasse la soglia fosse il benvenuto.
Haydn tirò giù il finestrino e disse: “Siamo la band che suonerà questa sera”.
“Nome?” domandò la guardia più a sinistra.
White Eskimo”.
Il tizio controllò una lunga lista che teneva fra le mani inguantate e fece un cenno di assenso al compagno.
“Prego” fece quest'ultimo, aprendo il cancello manualmente.
Haydn guidò lungo la stradina acciottolata che portava al fondo del cortile della villa; lì una quindicina di auto erano già state parcheggiate, e molti ragazzi si voltarono al nostro arrivo. Forse si aspettavano chissà quale bella ragazza o influente giocatore di rugby, perché quando noi quattro scendemmo impacciati dall'automobile di Haydn, un mormorio sorpreso si sparse tra la folla.
Will sbuffò e si stirò il colletto della camicia bianca.
“È arrivata l'ora di mostrare a questi ruffiani chi siamo” borbottò, per niente abbattuto dalla gelida accoglienza.
“Venite” disse Haydn, facendosi strada in mezzo ai nostri compagni di scuola, ancora intenti a spiarci e criticarci.
Ci dirigemmo verso uno dei tanti ingressi di quella favolosa villa, proprio di fianco all'entrata del garage che quella sera sarebbe rimasto serrato per chiunque. Haydn sembrava aver perso l'uso della parola: bussò prima di spingere leggermente la porta in avanti e mettere piede in casa.
“Avanti, avanti!” fece una vocetta brusca.
La porta si spalancò e ci ritrovammo a fissare una delle amichette di Catherine Alexandra, il volto contorto in una smorfia schifata. Senza toglierci gli occhi di dosso, questa esclamò: “Kate, sono arrivati gli ospiti d'onore!”
Mi fu subito chiaro che non eravamo davvero i benvenuti: lo capii dal tono di voce di quella ragazza, ma a confermarlo fu l'occhiata sprezzante che ci rivolse la padrona di casa al suo arrivo.
Alta, truccata in maniera impeccabile, infilata in un vestito bianco radente il suolo, che lasciava completamente scoperta la sua schiena liscia, Catherine Alexandra era davvero bella da togliere il fiato. E nonostante ci stesse fissando con enorme disprezzo, nessuno di noi quattro poté fare a meno di notare che tutte le ragazze lì attorno sfiguravano di fronte a tanta bellezza.
Scosse il capo per liberare il volto da alcuni ciuffetti piegati in morbidi boccoli, gli unici sfuggiti al perfetto chignon alto che si era fatta per l'occasione.
“Benvenuti” disse con aria divertita. “Spero che questo non sia troppo per gente come voi”.
Ci indicò la sala preparata apposta per la serata: grandi pilastri in stile dorico raggiungevano il soffitto di un bianco accecante. I miei tre amici superarono Catherine Alexandra senza una parola; io li seguii ma mi sentii afferrare per il braccio. Guardai la ragazza al mio fianco e la vidi abbozzare un sorriso trionfante.
“Ottima scelta degli abiti” mi stuzzicò sottovoce. “Sei pronto a sfigurare?”
Liberai il braccio dalla sua presa e le scoccai un'occhiata fiera.
“E tu? Sei pronta a svelare il tuo segreto?” sussurrai in tono velenoso.
Catherine Alexandra sorrise con strafottenza.
“Vedremo chi riderà per ultimo”.
“Già, lo vedremo... Kate”.
Lei aprì bocca per rimproverarmi l'uso del suo nomignolo, ma non fece in tempo a parlare, perché proprio in quel momento arrivarono nuovi ospiti che andavano accolti. Proseguii, felice di aver avuto la meglio contro di lei.
Raggiunsi i miei amici al fondo dell'enorme sala del piano terra, fingendo che non fosse successo nulla in quei due minuti di assenza, ma intercettai l'occhiata offesa di Haydn. Evitai il suo sguardo e salii sul piccolo palchetto allestito apposta per la serata.
“Dobbiamo aspettare che tutti gli invitati siano arrivati” annunciò Will, sfiorando le corde del basso.
“Certo”.
Accesi il microfono e guardai i miei amici accordare i loro strumenti. Nessuno nell'enorme sala ci stava guardando: Catherine Alexandra aveva attirato tutta l'attenzione su di sé e noi eravamo troppo insignificanti per essere notati.
A un certo punto mi sfuggì il microfono di mano e questo cadde a terra con un colpo secco e un acuto fischio assordante; qualcuno si voltò per maledirmi e io mi affrettai a rimettere tutto a posto. Alzai di nuovo lo sguardo e incrociai gli occhi azzurri di Felicity, che aveva appena varcato la soglia della sala, agghindata in un semplice abito nero con strass e perline agli orli delle maniche. Ci fissammo per qualche istante e poi lei distolse lo sguardo, accennando un sorriso.
Era una forma di derisione? Oppure voleva incoraggiarmi?
Mi sentii infinitamente più leggero e mi passai una mano fra i capelli riccissimi. Avrei voluto avere un taglio più sbarazzino, più affascinante, ma i miei capelli sembravano non voler prendere alcuna altra piega.
Inspirai profondamente e rimasi in attesa che la lunga fiumana di gente in entrata si interrompesse. Solo allora mi sarei davvero sentito a mio agio.



Catherine Alexandra si avvicinò al palco su cui i nostri strumenti erano posizionati già pronti e accordati. S'impossessò del mio microfono e annunciò con la sua consueta vocetta cordiale: “Benvenuti, ragazzi! Sono felicissima di avervi tutti qui questa sera per una delle feste che, ve lo prometto, sarà tra le migliori di sempre”.
Parecchia gente applaudì, e fui sicuro che il motivo di tanto successo fosse dovuto più all'abito provocante di Catherine Alexandra che alla festa in sé.
“E ora vorrei introdurre la band che questa sera suonerà per noi” continuò, accogliendo gli applausi e i fischi d'approvazione con aria orgogliosa. “Sono alla loro prima prova davanti a un pubblico, quindi vi chiedo di essere clementi...”
Molti tra gli astanti non riuscirono a reprimere risatine divertite, e io mi feci piccolo piccolo lì ai piedi del palco.
“Questi sono i White Eskimo!” esclamò Catherine Alexandra, perfetta nei panni di presentatrice televisiva.
Rimise il microfono al suo posto e la guardai scendere dal palco con un'andatura studiatamente lenta. Ero certo che si fosse trattenuta dal parlare male della mia band, glielo si leggeva in volto. Passò a un soffio da dove mi trovavo io e una ventata di profumo fruttato colpì le mie narici.
Io salii la scaletta laterale per primo, senza soffermarmi a controllare di essere seguito dai miei amici. Un leggerissimo applauso si levò dalla folla, e solo in quel momento realizzai davvero quanto vasto fosse il nostro primo pubblico. Non riuscivo nemmeno a scorgere Felicity in mezzo a tutta quella gente.
E poi Haydn e Will partirono con l'attacco combinato di basso e chitarra; Nick si scatenò poco dopo sulle note iniziali di 'Fat lip' dei Sum 41. Sentii il ritmo impossessarsi di me, la voglia di cantare salì vertiginosamente fino a permeare le mie ossa.
Stormin through the party like my name was El Niño. When I'm hangin' out drinking in the back of an El Camino...” cantai, guardando il pubblico davanti a me.
La musica era alta, riempiva la sala come un abbraccio caloroso. La gente inizialmente rimase quasi imbambolata a fissarci con stupore, come se nessuno avesse mai sospettato che sapessimo suonare; pian piano, però, vidi qualcuno iniziare a seguire la musica, muovendo la testa su e giù e canticchiando i ritornelli insieme a me.
“... Maiden and priests were the gods that we praied. 'Cause we like having fun at other people's expense and cutting people down is just a minor offence then...
La gente sembrò sempre più convinta che io e i miei amici non fossimo mostruosi esseri velenosi, e vidi parecchi ragazzi dare avvio a timidi tentativi di headbanging.
Sempre più eccitato da quell'accenno di apprezzamento, proseguii la canzone scatenandomi a mia volta su quel piccolo palco fatto apposta per i White Eskimo.
Terminata la prima canzone, il pubblico applaudì in modo molto più deciso ed entusiasta che all'inizio. Sorrisi di sfuggita a Will, il quale sembrava non riuscire a credere alla scena.
Toccò a 'In too deep', sempre dei Sum 41, e anche sulle note di questa canzone parecchia gente cominciò a perdere l'ostentato autocontrollo iniziale. Intravidi alcune ragazze avvicinarsi al palco per vedere meglio.
La canzone terminò in un accesso di applausi e grida di approvazione. Solo mentre mi preparavo per il brano successivo intravidi Catherine Alexandra, appostata sul lato destro del palco con le braccia incrociate al petto e un'espressione di profonda infelicità stampata in viso.
Sorrisi, al settimo cielo, e annunciai: “La prossima canzone si intitola 'Pretty fly for a white guy' e sono sicuro che tutti la conosciate”.
Ci fu uno scroscio di applausi e urla eccitate, vidi parecchi volti illuminarsi al ricordo della canzone.
Nick attaccò fornendoci il ritmo da seguire e io iniziai a cantare, estasiato dall'ottimo risultato delle prime due canzoni.




Carissime lettrici,
al contrario di quanto potesse sembrare, non mi sono affatta dimenticata di questa fan fiction, a cui tengo molto e che voglio assolutamente portare avanti.
Purtroppo ci ho messo un po' ad aggiornare perché in Erasmus il tempo per cazzeggiare è davvero poco, POCHISSIMO. Ci ho messo due settimane solo per avere internet a casa e ho pure iniziato le lezioni (alquanto difficili, argh!).
Quindi, ecco il settimo capitolo. Spero vi piaccia e ringrazio come sempre chiunque stia seguendo questa storia: per me significa moltissimo.
Un abbraccio,


Martina



 

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Capitolo 8
*** Inaspettata gentilezza ***


Inaspettata gentilezza



Kate

 

Guardai Olivia ballare come una pazza al mio fianco e mi spostai di un passo per evitare che mi colpisse nelle costole. Feci di tutto pur di non alzare lo sguardo sul piccolo palco allestito al fondo della sala di casa mia.
La gente attorno a me cantava a squarciagola ogni canzone che i White Eskimo proponevano. Quando il chitarrista, Haydn, attaccò con le prime note di quella che riconobbi come 'What's my age again?', il pubblico sembrò esplodere. Vidi qualcuno saltellare, altri battere le mani e in molti acclamare i musicisti da quattro soldi che avevo assoldato io stessa.
Fui sballottata da qualcuno alle mie spalle e mi accorsi che si trattava di Jane, scatenata sulle note di una canzone che, a quanto pareva, le piaceva particolarmente.
“Ehi, sono davvero bravi!” strillò Olivia, dandomi un colpetto per smuovermi dall'immobilità in cui ero piombata.
Sbuffai e spostai lo sguardo sul palco: Harry Styles intratteneva il pubblico muovendosi come una vera rockstar. L'osservai avvicinarsi al bordo del palco e muovere il braccio libero in direzione di alcune ragazze che sembravano aver perso la ragione.
Alzai gli occhi al cielo e mi allontanai da quella scena vomitevole. Mi feci largo tra la folla che ora non aveva che occhi per la band. Io passavo praticamente inosservata mentre Harry Styles e compagni si conquistavano le simpatie dei miei amici.
Raggiunsi la porta che dava sul cortile e la spalancai, bisognosa di fuggire dal disastro che io stessa avevo creato.
“Vaffanculo!” sbottai quando, nella fretta di allontanarmi, per poco non rischiai di crollare sui miei tacchi troppo alti.
Mi avvicinai alle automobili parcheggiate, la musica che ancora mi perseguitava. Sentii Harry ringraziare la folla con mille inutili parole.
Chi si crede di essere?, pensai scocciata.
La verità era che lui e i suoi amici erano davvero troppo bravi, e il mio progetto di deriderli davanti a tutta quella gente era andato a farsi benedire. Harry aveva avuto la meglio per l'ennesima volta e io non riuscivo a sopportare il pensiero di averlo aiutato.
“Tesoro!”
Mi voltai in fretta verso la porta da cui ero appena uscita: Michael si stava dirigendo a passo veloce nella mia direzione, due esili bicchieri di vino bianco stretti nelle mani.
“Kate, ti stavo cercando dall'inizio della serata!” fece lui a mo' di rimprovero.
Presi il bicchiere che mi reggeva e in un solo sorso finii tutto il vino.
“Mi dispiace, okay?” replicai brusca, agitando il bicchiere vuoto in aria. “Sono la padrona di casa e devo salutare tutti, non ho tempo per...”
“Calmati, Kate” m'interruppe Michael, poggiando le sue grandi mani sulle mie spalle e sorridendo. “È tutto a posto”.
Mi abbracciò con la consueta tenerezza e io lo lasciai fare, senza però ricambiare il gesto. Ero nervosa e delusa, non mi andava l'idea che Michael fosse uscito apposta per starmi vicino.
“Kate, stai bene?” mi chiese lui, come se avesse letto nella mia mente.
Lo guardai staccarsi da me e scrutarmi con aria preoccupata.
“Gradirei restare sola adesso, Michael. Intesi?” ribattei con arroganza.
Il mio fidanzato sembrò, in un primo momento, non prendere davvero sul serio le mie parole; ridacchiò e mi diede una leggera carezza sulla guancia destra. Ma quando io non accennai un sorriso di rimando, lui si fece più serio e domandò: “Sei seria?”
Annuii e ricacciai via la sua mano sul mio volto.
“Va' via, Michael!” sbottai, stufa.
Lui, mortificato come non l'avevo mai visto prima d'ora, arretrò di qualche passo. Io non lo fermai, rimasi semplicemente in attesa di vederlo sparire.
Intanto, da dentro la mia villa sentii provenire gli inconfondibili suoni che segnavano la fine di un altro brano: applausi smisurati e urla d'incitazione. Harry parlò di nuovo al microfono e ci fu un nuovo boato di battiti di mani e fischi.
Quando Michael fu scomparso, anche io mi avviai verso la sala che avevo lasciato pochi minuti prima. Rimasi sulla soglia, dietro tutti i miei invitati, e alzai lo sguardo sul palco: Harry aveva dato il tempo ai suoi compagni, e il batterista aveva iniziato a tenere il ritmo della canzone seguente.
Mi domandai quanto ancora sarebbe andato avanti quello spettacolo così umiliante per me.
Quando il chitarrista cominciò a suonare le prime note di chitarra, il pubblicò partì alla carica con nuove ovazioni.
“'I bet that you look good on the dance floor', gente! Cantate con noi!” esclamò Harry con voce tonante sopra le urla del pubblico e i suoni combinati di chitarra, basso e batteria.
Lo fissai mentre cominciava a cantare sporgendosi verso le ragazze che, proprio sotto il palco, ormai avevano abbandonato ogni contegno e si scatenavano come delle vere groupies. Harry sapeva muoversi come un vero cantante, non pareva nemmeno più lo stesso ragazzo che avevo incrociato nei corridoi di scuola. Aveva una voce adulta, profonda e roca; si spettinava i capelli con noncuranza come se quello fosse soltanto un altro concerto come tanti prima d'ora; ipnotizzava il pubblico con le sue parole, guardava dritto negli occhi della gente e animava lo spettacolo come un attore. Anche io mi ritrovai mio malgrado a osservarlo attentamente, decisa a non perdermi nemmeno un gesto o una parola.
Ma come fa?!, mi domandai irritata, guardandolo raccogliere nuovi consensi tutto orgoglioso.
La sua presenza scenica mi faceva arrabbiare ancora di più, perché si muoveva in modo impeccabile e sarebbe stato di certo più bravo di me in qualsiasi spettacolo teatrale.



Quando le luci sopra il piccolo palco si abbassarono e la band salutò tutti con profondi inchini, mi feci più avanti schivando la folla. Passando in mezzo agli invitati sentii chiaramente dire a parecchi: “Sono stati bravissimi!”, “E chi l'avrebbe mai detto che quei quattro sapessero suonare così bene!” oppure “Dovrebbero farlo più spesso!”
Raggiunsi il banco bar, allestito esclusivamente per quella serata, e ordinai un Martini liscio senza ghiaccio: mi sentivo umiliata e sconfitta sul mio stesso campo di battaglia. Voltandomi a sinistra intravidi Michael poco distante, uno sguardo offeso stampato in viso mentre mi teneva d'occhio. Alzai gli occhi al cielo e tornai a guardare alla mia destra.
“Kate!”
Sobbalzai e intercettai lo sguardo eccitato di Olivia, giunta in quel momento alle mie spalle. Si accorse subito che non ero dell'umore giusto per commentare quanto formidabili fossero stati i White Eskimo.
“Stai bene?” mi domandò senza smettere di sorridere.
Afferrai il mio Martini e lo levai in alto, gli occhi freddi puntati in quelli della mia amica.
“Mai stata meglio”.
Mentre Olivia mi guardava perplessa, bevvi metà cocktail in un unico lungo sorso. Quando mi staccai dal bicchiere, per poco non fui soffocata da una tosse nervosa e innaturale. La mia amica mi diede qualche colpetto e io tirai su il viso asciugandomi gli occhi.
Alle sue spalle intravidi Harry Styles e il chitarrista dei White Eskimo farsi largo tra la folla, che li fermava per complimentarsi e dargli appuntamento a qualche altro evento musicale.
Harry si defilò da due ragazze tutte intente a profondersi in complimenti esagerati e venne verso di me e Olivia.
“Io... devo... devo andare” mormorai, asciugandomi in fretta gli occhi lacrimanti.
Mi voltai e posai il bicchiere ancora mezzo pieno sul bancone, ma quando tornai a guardare verso Olivia, vidi Harry e il suo amico dietro di lei che mi fissavano trionfanti.
“Piaciuto il concerto?” domandò il primo.
Me lo ritrovai di fianco, troppo vicino perché potessi trattenermi dal maltrattarlo come facevo sempre. Eppure mi accorsi che Olivia guardava i due ragazzi senza più alcuna traccia di odio: piuttosto sembrava incuriosita.
“Non ero di certo sotto il palco a sciogliermi quando gesticolavi con le mani come un mentecatto” ribattei rivolta a Harry.
Lui sembrò interdetto, ma il suo amico sfoderò un sorriso a metà tra il divertito e il meravigliato.
Harry si appoggiò al bancone e sbuffò; si voltò verso il suo amico e disse: “Haydn, Catherine. Catherine, Haydn”.
Io fui costretta a stringere la mano al chitarrista.
“Ci conosciamo già” dissi rivolta a Harry.
Lui alzò le mani in alto. “Non lo sapevo”.
Vidi Olivia sfiorare la spalla di Haydn e presentarsi a sua volta; la cosa mi diede la nausea.
“Sei più delusa di quanto credessi” sussurrò Harry, sorridendo sornione.
Haydn e Olivia stavano parlando e nessuno ci avrebbe sentiti. Fissai Harry, a un soffio dal suo volto, e sibilai: “Fai attenzione, Styles. Sto esaurendo la pazienza”.
Lui ridacchiò e ordinò un cocktail a base di vodka. Poi tornò a guardami con aria divertita, il gomito puntato sul bancone. Distolsi lo sguardo, innervosita.
“Avevi organizzato tutto questo per ridicolizzarmi”.
“E se anche fosse?”
Harry alzò le spalle. “Sei una vera vipera, Catherine”.
Toccò a me ridere sprezzante. “Pensi che la cosa possa offendermi? Sei patetico e pure un illuso”.
“Intanto io mi sto godendo la serata. Tu, invece, stai ribollendo dalla rabbia e hai allontanato tutti per stare da sola. Chi dei due è più patetico, ora?”
Gli scoccai un'occhiata velenosa, ma non potei ribattere perché in quel momento Haydn tornò a guardare nella nostra direzione. Olivia si allontanò e io mi affrettai a seguirla.
Dovevo allontanarmi da quell'arrogante che, in una maniera o nell'altra, continuava a mandare all'aria ogni mio piano. Aveva scoperto segreti che non sarebbero dovuti venire a galla, sapeva della mia iscrizione al gruppo teatrale e, la cosa peggiore di tutte, ora pareva non commettere più alcun passo falso. Forse quell'ulteriore danno era tutta colpa mia... E questo non faceva che aumentare la mia frustrazione.
Mi accorsi solo in quel momento che qualcuno aveva fatto partire un pezzo di musica elettronica abbastanza movimentato. Olivia mi prese per mano e mi trascinò con sé al centro del salone gremito.
“Dov'è Michael?” urlò al mio orecchio.
Vidi Sarah e Mary sgomitare tra la folla per raggiungerci; la prima era evidentemente su di giri per il troppo alcool, mentre la seconda sembrava stanca di doversi occupare di lei.
“Ragazze, Sarah ha già infilato la lingua in bocca a metà degli invitati” sbuffò Mary a voce alta.
La nostra amica, ubriaca marcia, alzò la mano che reggeva il bicchiere di vino in alto e urlò.
Alzai gli occhi al cielo: non era la prima volta che vedevo le mie amiche bere in modo esagerato, ma solitamente io le accompagnavo volentieri. Non accadeva spesso che qualcuna di noi si ubriacasse e le altre rimanessero in disparte a guardarla, ma io non avevo mai toccato l'esagerazione: se bevevo, mantenevo comunque un certo, dignitoso contegno. Non amavo perdere il controllo, perché se qualcuno mi avesse visto, sarei stata subito additata e criticata.
Sarah mi si gettò addosso, avvinghiandosi al mio corpo come se fossimo fidanzate, e diresse le sue labbra verso le mie ridendo. D'istinto le mollai un ceffone in pieno viso e lei si staccò da me come colpita da un fulmine.
“Kate...” borbottò Sarah, tastandosi il volto con stupore. “Sei... sei... impazzita?”, e scoppiò a ridere.
Sbuffai e mi allontanai da loro, lasciandole sorprese e sconcertate. Mi ero ripromessa di organizzare la migliore festa di sempre, ma per colpa del mio crescente malumore non riuscivo proprio a godermi la serata.
Schivai un paio di ragazze che mi salutarono allegramente senza nemmeno ricambiare i loro saluti, attraversai il salone e scorsi di sfuggita Michael, intento, insieme ai suoi migliori amici, a intrattenere alcune ragazze di cui non ricordavo i nomi. Lui si accorse di me in un secondo momento, ma dopo un istante sentii la sua presa dolce sul mio polso. Mi fece voltare con delicatezza e mi fissò preoccupato.
“Kate, possiamo parlare un secondo da soli?”
Sospirai concentrandomi attentamente sulla fontana che, oltre le vetrate del salone, zampillava nel mezzo del mio splendido giardino.
“Non sono di buon umore” risposi con semplicità.
“Vorrei capire che cos'è successo” insistette Michael con dolcezza.
Mi decisi a guardarlo negli occhi e capii in quel momento che lui era innamorato di me. Glielo si leggeva in viso, e non importava quante altre belle ragazze ci fossero a quella mia festa: lui sarebbe stato pronto a rinunciare ad ogni divertimento, se io lo avessi desiderato.
Sapere di avere quel potere su di lui mi rinfrancò un po', e anche il successo di Harry Styles mi parve meno importante; dopotutto, lui rimaneva un perdente e Michael sarebbe stato sempre al mio servizio, quando avessi richiesto di fare fuori un nemico.
“Non importa” dissi, altezzosa. “Torniamo dentro e balliamo”.
Michael stringeva ancora la mia mano nella sua; mi guardò per un po', incerto, ma alla fine non si oppose quando io lo risospinsi verso l'ingresso.



Aprii gli occhi e mi accorsi di trovarmi al caldo sotto le mie morbide coperte bianche. La sera precedente non avevo chiuso le persiane delle finestre e ora, alle prime ore di quella serena domenica mattina, il sole faceva già capolino nella mia stanza. Mi tirai su e poggiai la testa contro il muro, appesantita da un indesiderato mal di testa. Mi resi conto di non ricordare con esattezza come si era svolta la serata precedente dopo che io avevo fatto pace con Michael. Ero certa solo di una cosa: avevo bevuto, e forse anche un po' più del dovuto.
L'assenza di Michael al mio fianco nel letto e il completo silenzio dal piano di sotto segnalavano che la festa doveva essersi conclusa in maniera tranquilla.
Mi alzai dal letto e mi rivestii in fretta. Una volta in corridoio, controllai che ogni antico quadro di mio padre fosse al proprio posto. La casa sembrava come l'avevo lasciata prima di dare inizio alla festa.
Avevo scelto quel fine settimana proprio perché mio padre aveva deciso di concedersi qualche giorno a Londra assieme alla sua fidanzata. Ora però dovevo accertarmi che tutti i tre piani della villa fossero in ordine e puliti, altrimenti mio padre mi avrebbe scuoiata viva.
Scesi nel salotto, controllai la cucina, i due bagni, le camere da letto per gli ospiti al primo piano: anche lì non trovai nulla fuori posto, eccezion fatta per qualche macchia sul pavimento.
Possedere una casa enorme era spesso motivo di vanto, ma in casi come quello costituiva anche un bel problema: controllare stanza per stanza richiedeva più tempo del necessario.
Scesi infine al piano terra, dove avevo dato la festa. Aprii le porte scorrevoli della vasta sala dove ieri avevo fatto allestire il banco bar e il palco, e rimasi a bocca aperta: il pavimento era cosparso di bicchieri di tutti i tipi, larghe chiazze di liquido si erano sedimentate sulle piastrelle di marmo bianco e intravidi diverse impronte di scarpe qua e là; il banco bar era un cimitero di bottiglie e tovagliolini di carta appallottolati; sul palco il microfono era caduto rotolando pericolosamente vicino al bordo, mentre alcuni amplificatori erano stati abbandonati lì nei paraggi. Camminai fino al centro della sala e mi guardai attorno atterrita: avrei dovuto pulire tutta quella schifezza? Mi ci sarebbero volute ore, se non giorni, e mio padre sarebbe tornato verso sera.
Notai uno dei piccoli fanali di luce colorata alle pareti rotto, e mi sentii montare la rabbia dentro. Probabilmente la festa era stata grandiosa per chi vi aveva partecipato come invitato, ma ora toccava a me mettere tutto in ordine.
Sbuffai e tornai indietro fino alla mia camera da letto. Cercai il mio cellulare, che sembrava essere andato perso.
“Dove diavolo l'ho messo?” borbottai, perplessa.
Sollevai i cuscini, guardai in ogni cassetto della scrivania, spalancai l'armadio, ma non c'era traccia del mio telefonino.
Strillai dalla rabbia e scagliai un cuscino contro la porta. Non avevo modo di contattare le mie amiche perché venissero a ripulire casa, mio padre sarebbe ricomparso nel giro di dieci ore e io non sapevo da dove cominciare per provare a rendere la casa un posto decoroso.
Mantieni la calma, Kate. Forse non se ne accorgerà... sì, certo, non lo noterà solo se gli metterai un paraocchi per i prossimi giorni, pensai sconfortata.
Scesi di nuovo al primo piano e cercai un paio di guanti in lattice, due o tre sacchi della spazzatura belli ampli e uno sgrassatore detergente. Uscii dal bagno con il mio armamentario, incerta se darmi davvero alle pulizie di casa: non mi era mai successo di dover fronteggiare una tale sporcizia, non capivo cosa fosse successo la sera prima per riuscire a produrre tutto quel pandemonio. Normalmente le feste a casa mia erano tranquille e all'insegna dell'eleganza. Che cos'era andato storto quella volta?
Arrivai al piano terra e con un sospiro affranto cominciai ad avviarmi alla ricerca dei bicchieri dispersi. Pestai più volte cocci di vetro e mi affrettai a raccogliere anche quelli. Aggirai il banco bar e mi ci intrufolai sotto per ripulire meglio: raccolsi accendini rotti, altri bicchieri, bottiglie ancora mezzo piene e persino un pacchetto di preservativi vuoto.
“Grazie tante, ragazzi” mormorai schifata, gettandolo nel sacco della spazzatura in fretta.
Dopo circa venti minuti di ricerca e di borbottii indignati, sentii suonare il campanello. Ancora piegata sotto il bancone, scattai sbattendo dolorosamente la nuca contro il bordo.
“Ahia!” esclamai, le lacrime agli occhi.
Mi alzai in tutta fretta e mi sfilai i guanti in lattice, abbandonandoli sul bancone angora ingombro di sporcizia. Corsi fuori dalla sala e risalii la larga scalinata che conduceva al primo piano.
Arrivata alla porta di casa, sollevai il ricevitore cercando di nascondere ogni traccia di panico.
“Chi è?”
In un primo momento nessuno rispose, poi riconobbi chiaramente l'ultima voce che avrei desiderato sentire in quel momento.
“Ehm... Ciao, Catherine, sono Harry. Ho dimenticato un paio di cose a casa tua, non è che posso...?”
“No!” sbottai, infastidita.
Riattaccai con forza e mi allontanai dalla porta, ma dopo qualche passo Harry suonò di nuovo al campanello.
Alzai gli occhi al cielo, tornai al citofono e questa volta risposi con decisione: “Torna a casa, ti farò portare la roba lunedì mattina da Sarah”.
“Catherine, ho dimenticato il portafogli con tutti i miei documenti!”
“Non sono affari...”
“Rimarrò qua fino a quando non arriverà qualcuno. Così sarà poi difficile nascondere le prove del...”
Premetti sul tasto del citofono, gli occhi serrati dall'ira. Attesi di sentire il cancello richiudersi prima di aprire la porta di casa.
Harry Styles si fece avanti guardandosi attorno con aria ammirata. Era vestito con un paio di semplici jeans blu scuro e una felpa marrone.
“Sbrigati” gli intimai senza preamboli.
Lui varcò la soglia di casa mia con un allegro “Permesso?” e si fermò alle mie spalle.
“Wow, questa villa è davvero bella!” si complimentò, osservando con attenzione il salotto.
“Che c'è? Per caso questa stanza è grande come tutta casa tua?” lo presi in giro.
Harry mi lanciò un'occhiata stanca. “Simpatica come al solito, noto...”
Sbuffai e lo superai, diretta verso le scale del piano terra.
“A proposito, ottima scelta degli abiti!” mi urlò dietro, quando fui a metà scalinata.
Mi voltai e lo guardai ridacchiare in silenzio. Solo un attimo dopo mi ricordai di avere addosso un semplice paio di pantaloncini corti e una canottiera parecchio scollata. Mi coprii il petto incrociando le braccia e dissi: “Ero sola, prima che tu venissi a ficcare il naso a casa mia”.
“Stai tranquilla, neanche io muoio dalla voglia di restare qui a sentirti dire che sono un fallito” scherzò Harry, raggiungendomi.
Continuai a scendere e tornai nella sala della festa. Dopo qualche istante anche Harry varcò la soglia e si guardò attorno divertito. Lo sentii produrre un lungo fischio e chiusi gli occhi, imponendomi di restare calma.
“Stai davvero pulendo o è frutto della mia immaginazione?” mi derise lui.
“Prendi la tua roba e lasciami in pace!” sbottai, chinandomi sotto il bancone.
“Certo”.
Per qualche minuto lui si limitò a frugare sopra e sotto il palco, alla ricerca degli oggetti smarriti, e io continuai a ripulire il pavimento da scartoffie e pezzi di vetro. Dopo un po', però, Harry ruppe il silenzio con una delle sue snervanti risatine allegre.
“I tuoi amici sono stati proprio degli ospiti scortesi!” esclamò, alzando sopra la testa un preservativo che aveva tutta l'aria di essere stato usato.
Feci una smorfia disgustata e mi affrettai a raggiungerlo.
“Gettalo nel sacco” gli ordinai. “E lavati le mani”.
Harry mi spiò con aria scaltra. “Non avrei mai immaginato che fossi una donna di casa. Cucini anche torte nel tempo libero?”
Gli lanciai la mia occhiata più feroce. “Non ho tempo da perdere con un perfetto idiota come te, Harry Styles. Mio padre sarà di ritorno entro sera e se scopre questo casino, io sono morta”.
Mi allontanai nuovamente da lui e tornai a trafficare con rifiuti e bottiglie. Dopo qualche istante Harry parlò di nuovo.
“E sei sola a fare tutto questo?” domandò, molto meno sfacciato di prima.
Annuii senza alzare lo sguardo.
“Per caso vuoi che ti aiuti?” si offrì con tono cauto.
Appoggiai una mano al bordo del bancone e lo guardai, ancora in ginocchio sul pavimento imbrattato.
“Ti ho chiesto aiuto?” feci, scontrosa. “No, quindi non devi restare qui. Sei d'intralcio”.
Harry assunse un'aria sorpresa, ma non parve particolarmente turbato dai miei modi bruschi: ci stava per caso facendo l'abitudine?
Scossi il capo per cacciare quei pensieri; la sola idea di avere sempre e costantemente a che fare con quel ragazzo mi irritava.
Dopo parecchi altri minuti di completo silenzio, Harry saltò su sollevato e annunciò di aver ritrovato il portafogli con tanto di carte di credito. Si impossessò anche del proprio microfono, dimenticato assieme agli amplificatori, e raggiunse le doppie porte scorrevoli.
“Be', ci vediamo” mi salutò, incerto.
Non gli risposi nemmeno, desideravo soltanto che se ne andasse e mi lasciasse sola. Udii le porte aprirsi. Infilai la mano in un angolino buio sotto il bancone e sentii qualcosa solleticarmi la pelle. Ritrassi la mano e scorsi un ragno sulle mie dita. Cacciai un urlo disumano e balzai su, colpendo lo sgrassatore e il sacco della spazzatura.
“Che c'è?” domandò Harry, subito tornato indietro per assicurarsi che non fosse successo nulla.
Scossi il capo, sentendomi così stupida per aver urlato in quel modo. Borbottai qualcosa d'indistinto, e Harry fu costretto ad avvicinarsi.
“Che hai detto?” domandò.
Lo guardai negli occhi e, piena di una bruciante vergogna per ciò che stavo per fare, dissi: “C'è un ragno là sotto. Potresti catturarlo tu?”
Harry sorrise e io distolsi lo sguardo, un'altra volta umiliata e infastidita.



“Metterò della musica, però, perché la tua eloquenza mi disturba un tantino”.
Guardai Harry di sbieco, mentre lui mi dava le spalle e navigava con fare esperto sul menù del suo cellulare. Dopo poco una canzone che non conoscevo partì inondando la vasta sale di note dolci e delicate.
Avevo accettato l'aiuto di Harry Styles, messa alle strette dalla mancanza di tempo e dalla paura di dover affrontare altri insetti nella mia impresa.
“Chi è?” domandai, incapace di restare in silenzio.
Harry non si distrasse: aveva iniziato a riordinare il palco, spostando gli amplificatori e i cavi sul pavimento.
“Che cosa?” domandò lui.
“Chi canta questa canzone?” ripetei.
“Oh!” esclamò Harry, distratto. “Johnny Cash. Lo amo”.
“Non lo conosco...” mormorai, alzandomi finalmente dal pavimento sporco.
Vidi Harry guardarmi con aria stupefatta.
“Non conosci Johnny Cash?!”
“Be'... no! Che cosa c'è di tanto strano?” risposi, stizzita.
Harry si raddrizzò e disse: “È uno dei padri della musica folk americana, e...”
“D'accordo, lo adori” tagliai corto, gesticolando con la mano. “Discuteremo un'altra volta dei tuoi gusti musicali”.
“Ecco che Catherine Alexandra Cavendish ci mostra come evitare conversazioni spinose...”
“Chiudi il becco, Styles!”
Harry rise e scosse il capo, i ricci folti come scossi dal vento.
Ripresi a lavorare, adesso affaccendata attorno al ripiano del bancone. Vi spruzzai dello sgrassatore sopra e sfregai con l'unica, consunta spugna che ero riuscita a trovare di sopra.
“E tu che musica ascolti?” mi domandò Harry dopo poco.
“La musica chiudi-la-bocca-e-lavora” risposi distrattamente, impegnata a sfregare una macchia nera difficile da cancellare.
“Oh, sì, ottima scelta. E che ne dici del genere potresti-anche-evitare-di-darmi-ordini-dato-che-ti-sto-aiutando?”
“Ah ah, molto divertente, Harry!” feci, seria.
“Ehi, io sto cercando di fare conversazione! Non è mai morto nessuno per aver risposto a un paio di domande” si difese lui.
Sospirai, stanca. “Se avessi voluto rispondere a un paio di domande avrei chiesto a un giornalista di aiutarmi”.
Harry sbuffò e si rimise a lavorare in silenzio. Ero contenta di averlo finalmente zittito. Non mi andava giù l'idea di aver ceduto e accettato che si fermasse per aiutarmi a riordinare il salone, ma d'altronde ero rimasta completamente sola: non avevo modo di contattare le mie amiche e non avevo idea di dove fosse sparito Michael dopo la serata precedente.
Tuttavia continuavo a chiedermi perché Harry Styles si fosse proposto di ripulire casa mia. Io lo avevo trattato nel peggiore dei modi e continuavo a fare di tutto per infastidirlo e mettergli i bastoni fra le ruote, eppure eccolo lì a pulire chiazze di vodka sul pavimento.
Mi ritrovai a spiarlo con la coda dell'occhio, un po' sospettosa e un po' incredula. Per fortuna la musica riempiva il silenzio tra di noi e io non ero obbligata a dover parlare. Non avrei saputo che cosa dire in quella circostanza: conoscevo a malapena il mio compagno di pulizie e tutto ciò che avevamo condiviso fino ad allora erano stati segreti scottanti e ricatti.
“Catherine, ho trovato un cellulare” annunciò Harry, spezzando il filo dei miei pensieri.
Mi tirai su dal bancone e camminai verso di lui. Anche a distanza riconobbi il mio telefono.
“È mio, credevo di averlo perso” mormorai, sollevata. “Grazie” aggiunsi.
Harry fece un cenno del capo e tornò a lavorare. Lo fissai qualche istante in silenzio prima di tornare al mio posto. Posai il cellulare sul lato del bancone già ripulito e ripresi il mio lavoro.
Harry cambiò la canzone e di nuovo la chitarra di Johnny Cash ricoprì il grattare delle spugne. Mentre, assorta nei miei pensieri riguardanti Michael, terminavo di sgrassare la superficie liscia del bancone, Harry prese a cantare con la sua — dovevo ammetterlo — bella voce tonante. Non si preoccupava minimamente di sembrare fuori luogo.
“Da quanto tempo canti?” domandai di colpo, senza quasi accorgermene.
Mi immobilizzai dov'ero, sconvolta dal fatto di aver formulato quella domanda. Harry s'interruppe e dopo poco lo sentii dire: “Mi pareva di aver capito che avessimo abolito qualunque tipo di conversazione”.
Sbuffai e afferrai un bicchiere di plastica che era sfuggito alla precedente pulizia dei pavimenti.
“Comunque, da quasi dieci anni”.
Rimasi in silenzio, ripetendomi la sua risposta nella mente. Ma che diavolo mi era saltato in testa? Lui e la sua band mi avevano rovinato la serata, non volevo dare l'impressione di interessarmi alla sua maledetta musica.
La cosa che mi bruciava maggiormente era stato accorgermi di quanto Harry Styles si muovesse bene sul palco: sembrava nato per farlo, per incantare la folla e coinvolgerla nei suoi spettacoli. Anche io avrei desiderato avere la stessa positiva influenza su chi mi avesse guardata recitare.
“Sembravi a tuo agio al centro della scena ieri” lo informai, fingendo una certa noncuranza.
“È un complimento?” domandò lui.
Feci spallucce. “Immagino di sì...”
Harry ridacchiò e io mi voltai, preoccupata che potesse ricominciare a fare battute su di me.
“Detto da un'aspirante attrice, questo è un complimento!” esclamò, facendomi l'occhiolino.
“Io non sono un'attrice” ribattei, secca.
“Infatti io ho detto aspirante attrice” replicò lui con prontezza.
Hear the trumpets, hear the pipers,
one hundred million angels singin'.

La musica riempì di nuovo il temporaneo silenzio tra me e Harry. Quella canzone mi piaceva, era allegra e motivante, mi faceva sentire più leggera e ottimista.
“Come vanno i corsi, a proposito?” mi domandò Harry, tutto interessato.
Mi avviai verso il sacco della spazzatura e gettai alcuni mozziconi di sigarette ritrovati in un angolo della sala.
“Ho fatto una sola lezione per ora”.
Harry spostò la scaletta di tre gradini che avevamo affiancato al piccolo palco e per un attimo la musica fu coperta dal rombo del legno che grattava contro il pavimento.
“E com'è... andata... questa lezione?” domandò di nuovo lui con la voce contratta dallo sforzo.
Lanciai una breve occhiata nella sua direzione e lo vidi asciugarsi il sudore dalla fronte.
“Bene. Mi hanno assegnato un ruolo importante” risposi, sentendomi assai strana nel conversare così tranquillamente con Harry.
“Qual è il tema dello spettacolo?” mi domandò ancora lui.
Abbandonai il flacone di sgrassatore e agguantai la scopa abbandonata poco prima contro la parete della sala. Mi appoggiai al manico e soppesai la sua domanda.
“Insceneremo Pulp Fiction” spiegai, tranquilla.
Harry si tirò più su e alzò le sopracciglia in un'espressione di stupore.
“Questa è la prima volta che ci propongono un'opera teatrale interessante!” esclamò.
“Ti è piaciuto il film di Tarantino?”, questa volta toccò a me fare domande.
Harry annuì entusiasta. “L'ho adorato! Così come adoro Tarantino e tutto ciò che produce. Quell'uomo è incredibile!”
Ebbi un leggero tuffo al cuore al ricordo di ciò che avevo pensato io quando avevo scoperto che lo spettacolo teatrale si sarebbe basato sul remake del film più celebre del regista: io amavo Tarantino e amavo 'Pulp Fiction'.
Annuii brevemente e mi voltai in fretta per non mostrare il mio stupore. Non volevo che Harry sapesse di condividere quella passione con me; avrei preferito ignorare la verità io stessa, ma ormai era troppo tardi: ci eravamo incamminati lungo un sentiero irto di pericolosi argomenti, e avevo paura che, proseguendo, avremmo scoperto tanti altri punti comuni.
“E dimmi: che ruolo interpreterai?” domandò Harry, sereno come se io e lui non avessimo mai avuto da ridire.
Sbuffai. “Continua a lavorare, altrimenti si farà sera e noi saremo ancora qua occupati con... scope e... guanti”.
Harry non replicò, ma riconobbi il rumore della scopa che spazzava sul legno del palchetto allestito. Rimanemmo in silenzio per parecchio tempo. Tra noi c'era solo più la musica che continuava imperterrita a cullarci con melodie sempre diverse le une dalle altre. Dopo un po' finii quasi per scordarmi di essere in compagnia e tornai a torturarmi con i soliti pensieri angosciati: pensavo a Michael, a come mi ero comportata con lui la sera prima, al fatto che lui mi fosse sembrato troppo innamorato e che ciò mi avesse anche leggermente infastidita. Finii per distrarmi più di una volta, rovesciando ripetutamente l'acqua intrisa di detersivo per pavimenti.
“Catherine, forse dovresti fare una pausa” arrivò a riscuotermi la voce di Harry dopo quella che mi parve un'eternità.
Non ci eravamo più rivolti la parola e io non avevo più prestato attenzione a ciò che faceva: quando mi voltai, vidi che aveva rimesso in ordine metà della grande sala, mentre io ero ancora nel mio solito angolino scuro a cercare di far brillare il marmo sporco.
“Che ore sono?” borbottai, stanca di stare chiusa lì dentro a fare un lavoro che odiavo.
Lui controllò sul suo orologio da polso. “Quasi mezzogiorno”.
Mi battei un colpetto sulla fronte. “Sono passate un sacco di ore!”
“Be'...” cominciò Harry.
Lo interruppi con un gesto della mano. “Vado di sopra a bere qualcosa, qua si muore di caldo”.
Mollai scope e stracci e mi avviai a passo deciso verso le porte scorrevoli. Poi, però, mi ci bloccai a pochi passi di distanza, mentre Harry riprendeva a lavorare senza dire una parola.
Non mi piaceva l'idea che fosse rimasto insieme a me quasi tutto il mattino e mi piaceva ancor di meno il fatto che avessimo parlato come due vecchi amici, ma mi sentivo terribilmente in debito nei suoi confronti. Non avrebbe dovuto fermarsi ad aiutarmi, ma l'aveva fatto e io non potevo ignorare quell'inaspettata gentilezza.
Sospirai e cercai di mettere a tacere la voce che, nella mia testa, suggeriva di oltrepassare le porte e sbatterle in faccia a Harry Styles.
“Vuoi qualcosa da bere?” domandai in tono spiccio, imbarazzata.
Harry si ridestò e si passò il dorso della mano sulla fronte.
“Ehm...” mormorò, colto alla sprovvista. “Sì... Dell'acqua può andare bene, grazie”.
Scossi il capo e tornai alle vecchie maniere.
“Togliti pure dalla testa che io ti porti da bere come una serva, Styles. Tu ora molli quella schifezza e mi segui” ordinai, lieta di avere un pretesto per potermi comportare come sempre.
Vidi Harry alzare gli occhi al cielo, ignaro del fatto che lo stessi osservando, e non potei fare a meno di sorridere sotto i baffi.





Eccoci finalmente a un capitolo dove le cose cambiano un po' dal solito registro: Catherine è costretta a non ignorare il gesto di Harry e da qui ne nasce una prima vera conversazione.
Ovviamente questo non vuol dire amore folle, ma a me è piaciuto scrivere questo capitolo perché finalmente si entra nel vivo della storia e perché mostra che anche Catherine non è poi così insopportabile come cerca di sembrare il più delle volte.
Che pensate del capitolo? Vi è piaciuto? Vi aspettavate questa conseguenza del concerto?
Sarò più che lieta di leggere i vostri pareri, positivi o negativi che siano.
Ringrazio sentitamente tutte le lettrici che stanno ancora leggendo la storia, vi sono grata! Ogni momentino libero che ho qua in Germania lo passo a scrivere o a leggere, quindi... ho intenzione di continuare a pubblicare. :)
Un grande abbraccio,



Martina


 

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Capitolo 9
*** Ottimi conoscenti ***


Ottimi conoscenti



Harry


 
Quando quella domenica tornai a casa stanco e sudato, quasi non riuscii a credere a ciò che mi era successo. Il fatto di aver trascorso quasi un'intera giornata in compagnia di Catherine Alexandra Cavendish — che si era premurata di smontare ogni mio tentativo di fare conversazione — pulendo casa sua senza litigi particolarmente violenti costituiva una novità alquanto stupefacente. Lei si era trattenuta tutto il giorno dal maltrattarmi e io ero riuscito a rilassarmi e ad aiutarla senza che ne nascessero dissapori; in fondo, se casa sua era devastata e sporca era anche in parte colpa mia.
Il sabato precedente avevo trascorso una delle serate più belle della mia vita, attorniato da gente curiosa di sapere di più sui White Eskimo, ma non avevo potuto evitare di notare il disprezzo e l'odio della padrona di casa: Catherine Alexandra si era subito allontanata da me e i miei amici e più di una volta l'avevo osservata scagliarsi con rabbia contro amiche, conoscenti e fidanzato. Fino al momento in cui, com'era prevedibile, aveva finito per esagerare con le bevute e si era ritrovata a barcollare pericolosamente, aggrappata al fianco del suo muscoloso ragazzo.
Dopo che Michael l'aveva portata di sopra perché si stendesse, la vera festa era cominciata: senza Catherine Alexandra di mezzo, la gente aveva preso a bere senza ritegno e a scatenarsi su pezzi dance vivacissimi. Nessuno aveva più imposto limiti sul volume della musica, sul numero di consumazioni concesse o su cosa fosse tollerato all'interno delle mura di casa Cavendish. Gli invitati si erano dati alla pazza gioia, perché la glaciale regina della festa era assopita e ignara di tutto.
Così quel mattino, frugando alla ricerca del mio portafogli, mi ero sentito punzecchiare da una fitta di rimorso: di certo io non mi ero tirato indietro nel momento dei festeggiamenti e dei brindisi.
Mi richiusi la porta del bagno alle spalle e girai la manopola dell'acqua calda nella doccia.
Non avevo spiegato a un'incredula — quanto irritata — Catherine che cos'era accaduto in sua assenza, ma mi ero offerto di aiutare a rendere la casa un po' più presentabile. Ero certo che se lei avesse saputo del pandemonio scatenatosi dopo la sua scomparsa, si sarebbe infuriata. E forse, una volta rimasta da sola, avrebbe anche pianto, perché quelli che credeva i suoi amici erano in realtà approfittatori interessati allo sfarzo e al divertimento. Passando un'intera serata in mezzo a quella gente, mi ero accorto di quanto fosse spietata e arrivista. Un po' come Catherine stessa, solo che lei si era già lasciata sfuggire di bocca che in quel mondo ormai ci stava troppo stretta. Restava solo da capire se avesse detto la verità o una comoda bugia.
Mi lavai e restai quasi tutta la sera steso sul divano in salotto a guardare la televisione, approfittando del fatto che mia madre e Gemma fossero uscite per una cenetta al femminile. Solo quando anche i programmi televisivi cominciarono ad annoiarmi mi distrassi col cellulare. Entrai sul mio profilo di Facebook, che non avevo più aperto dal pomeriggio del giorno prima. Intravidi un numero sorprendentemente alto di richieste d'amicizia — cinque, per l'esattezza — e mi affrettai a controllare. Quando vidi che di queste richieste ben tre erano da parte di ragazze, il cuore mi balzò in gola. Era bastato davvero così poco per trasformarmi da ranocchio a principe azzurro?
Accettai quelle richieste, spiando i profili delle mie nuove amicizie: riconobbi alcune delle ragazze che la serata precedente si erano scatenate sotto il palco.
Sorrisi trionfante e ogni altra preoccupazione residua scomparve: dopo un solo concerto eravamo riusciti a conquistarci la simpatia di metà scuola. E non una metà qualsiasi, bensì quella che contava davvero, quella composta di nomi influenti e belle ragazze.
Per uno sciocco istante mi immaginai con la stessa espressione sprezzante di Catherine Alexandra Cavendish stampata in volto e cinque versioni maschili delle sue patetiche tirapiedi.
Scossi il capo e tornai a giocherellare con il cellulare.
Non potresti mai diventare come lei.



Quello che non immaginavo neanche lontanamente era che ben presto mi sarei dovuto ricredere su parecchie delle mie convinzioni.
Il lunedì seguente mi tirai su dal letto con un brutto paio di occhiaie scure sotto gli occhi e trovai incredibilmente difficile restare sveglio abbastanza a lungo da raggiungere la mia scuola.
Fin dal mio ingresso nell'edificio, comunque, notai che qualcosa era cambiato dopo la serata del sabato precedente: fui salutato al mio arrivo in cortile e persino nell'atrio qualcuno azzardò timidi sorrisi; le mie compagne si spostarono per lasciarmi entrare in classe attaccando con borbottii concitati e sospetti; durante l'intervallo tra le lezioni un ragazzo decisamente più alto e robusto di me mi rifilò una pacca amichevole sulla spalla come segno d'intesa.
Fui talmente sorpreso da tutte quelle improvvise attenzioni che nemmeno ebbi il tempo di ricambiarle adeguatamente. E anche i miei amici sembravano improvvisamente al centro dei riflettori: all'arrivo a scuola avevo trovato Will e Haydn assediati da due ragazzette del terzo anno che avevano trascorso buona parte del sabato sera in nostra compagnia.
La novità fu piacevole e rassicurante: se eravamo riusciti a incantare la folla suonando cover, quando fossimo usciti allo scoperto con pezzi tutti nostri il gioco sarebbe stato doppiamente facile.
Così quel lunedì mattina passò in una serenità che non ricordavo di aver mai provato prima d'ora, e quando riconobbi il consueto squillo della campanella di fine lezioni, provai pure un leggero moto di dispiacere nel dovermene tornare a casa dove nessuno mi spiava con ammirazione.
Dopo aver salutato i miei amici nel cortile della scuola e aver fissato le prove della band per il giorno seguente, mi diressi verso casa guidando a una certa velocità. Mi sentivo euforico e potente, come se fossi un'altra persona.
Una volta varcata la soglia di casa, sentii la familiare voce di Gemma elencare alcune commissioni in tono pragmatico.
“... devo anche passare a comprare della frutta, perché non possiamo continuare a mangiare solo questa schifezza, e ho bisogno di nuovi quaderni per l'università...”
“Buon giorno!” esclamai, affacciandomi dalla porta della cucina.
Mia mamma e Gemma, già sedute in attesa del mio ritorno, alzarono le teste.
“Ciao, Harry!” scattò Gemma, vivace come sempre. “Fai in fretta, sto morendo di fame!”
Corsi a posare la roba di scuola e raggiunsi le due in cucina. La televisione era accesa e il volume era come sempre molto alto. Mia madre mi servì della pasta che sembrava essere appena stata fatta.
“Stavamo parlando di tutto ciò che c'è da fare qua. Tu non aiuti mai mamma, Harry?!” spiegò Gemma, esterrefatta.
Alzai le spalle e non risposi, troppo intento a masticare. Nostra madre alzò gli occhi al cielo e si lasciò sfuggire un sorrisetto accondiscendente.
“Lui ha troppi impegni con i suoi amichetti”.
Gemma aggrottò la fronte e disse: “Be', oggi mi darai una mano con la spesa”.
Alzai la forchetta e protestai: “Ma è uno dei pochi pomeriggi liberi che ho!”
Gemma mi rifilò un colpetto al braccio. “Ehi, principino, anch'io ho gli esami da preparare!”
Intravidi nostra madre servirsi la pasta con un sorrisetto soddisfatto.
“State complottando contro di me?” sbuffai. “Ve lo si legge in faccia”.
“Devo iniziare a tiranneggiare un po'” constatò Gemma, chinando il volto sul suo piatto.
“Ieri ho aiutato a pulire la casa dove abbiamo suonato sabato sera. Questo non è dare una mano?” stuzzicai mia sorella, divertito.
Lei mi lanciò un'occhiata incredula. “Hai svolto faccende casalinghe a casa di altri? Cosa ti hanno promesso in cambio?”
Ridacchiai e tornai a mandare giù bocconi di pasta.
“Nulla, l'ho fatto perché sono un ragazzo a posto” scherzai.
“Benissimo, allora oggi andrai in centro a comprare tutto quello che ho scritto su questa lista”, e Gemma mi porse un foglio della stampante scritto da cima a fondo.
Sgranai gli occhi. “Tutta questa roba?! Pensavo voleste fare la spesa non svaligiare un intero supermercato”.
Gemma si riprese il foglietto. “Molto spiritoso, ma mamma ha poco tempo libero dopo il lavoro e tu sei troppo pigro per organizzarti da solo”.
Sospirai e infilzai della pasta con la forchetta. “Be', sarei dovuto uscire comunque oggi pomeriggio”.



Così partii di gran carriera sulla mia bicicletta, lasciando Gemma intenta a ripulire le finestre del bagno al primo piano. Pedalai con l'aria fresca che mi sferzava il volto, felice di assaporare un po' di tranquillità dopo le ore scolastiche e il pranzo passato a discutere di faccende domestiche.
In cinque minuti fui in centro città, che era davvero piccolo e facilmente percorribile anche a piedi. Legai la bicicletta a un palo nel mezzo di un parcheggio dietro una palestra e mi avviai verso il negozio del fruttivendolo dove Gemma si era raccomandata di fare acquisti.
Controllando più volte la lista scritta da mia sorella, comprai talmente tanta frutta che temetti di non riuscire più a pedalare adeguatamente sotto tutto quel peso.
Uscii dal piccolo negozio e individuai il posto che stavo cercando: una bottega di piccole dimensioni dalla vetrina zeppa di CD musicali e DVD. Attraversai la strada e mi ci avviai, reggendo saldamente la borsa piena di frutta.
Avevo voglia di nuovi acquisti, siccome non compravo un nuovo album da troppo tempo. Era stata una scelta presa su due piedi: il concerto era stato un successone, quindi volevo concedermi un regalo.
La porta del negozio tintinnò al mio ingresso e il negoziante mi salutò con un gesto della mano. C'era poca gente come al solito, e così mi intrufolai senza problemi nel reparto di dischi di musica rock. Scorsi di sfuggita qualcuno che trafficava con alcune confezioni, studiandole a capo chino. Scorsi le lettere dell'alfabeto, cercando la 'C'. Mi spostai leggermente a sinistra, sussurrando tra me e me i nomi che leggevo, fino a quando non urtai il silenzioso cliente al mio fianco.
“Scusi tanto, non...”
Quello alzò il capo e io non terminai la frase. Il cliente, che in realtà era una cliente, in un primo momento non si accorse di nulla, ma poi...
“Di nuovo tu?!” esclamò Catherine Alexandra, due CD diversi ancora tra le mani.
Abbassai lo sguardo sulle sue scelte: il primo era 'Hymns from the Heart' di Johnny Cash, il secondo 'Songs of Love and Hate' di Leonard Cohen.
“Non sono io quello fuori posto quaggiù” le feci notare, indicando i due album. “Piuttosto tu che ci fai qui?”
Catherine Alexandra sembrò perdere l'uso della parola e boccheggiò a caso per qualche istante. Poi si affrettò a gettare i due dischi alla rinfusa nel grande cesto da dove li aveva pescati. Notai che era arrossita in modo evidente.
“Ero di passaggio” mormorò, cercando di riprendersi. “Volevo fare un regalo a un amico”.
Presi in mano l'album di Johnny Cash e la guardai dritto negli occhi.
“Meno male che ieri ti ho fatto scoprire Cash, allora, altrimenti saresti stata a corto di idee per il tuo amico!” la presi in giro.
Catherine Alexandra spostò lo sguardo dal mio viso alla confezione del CD, apparentemente scocciata dalla quell'intrusione nei suoi affari privati, ma non disse nulla. Allora le porsi il CD con un sorriso pietoso e aspettai che reagisse.
“Ti vergogni così tanto di ammettere che ci piace la stessa musica?” dissi.
Catherine guardò il CD con disprezzo.
“Non... Io...” provò a dire, inutilmente.
“Avanti, prendilo” dissi con gentilezza. “È un ottimo acquisto”.
Catherine Alexandra accettò l'album con uno sbuffo di impazienza e lanciò uno sguardo sfuggevole al disco di Cohen abbandonato nel cesto. Intercettai la sua occhiata e dissi: “Penso non dovresti sceglierne uno solo. Sono due album fantastici”, e le misi in mano anche il secondo.
Catherine Alexandra li guardò indecisa, poi alzò il capo e aprì bocca; attesi inutilmente che esprimesse un'opinione, ma lei rimase zitta.
“Be'? Abbiamo già esaurito gli argomenti di conversazione?” scherzai.
“Harry Styles, potresti smettere questa fastidiosa abitudine di spuntare sempre ovunque io vada?” disse finalmente lei, tornando a darmi le spalle.
Afferrai un disco e ne spiai la copertina. “Ti ho già detto che io qui sono di casa, tu no. Sei tu che devi stare alla larga da me”.
Catherine Alexandra si voltò così in fretta che per poco non le sbattei contro.
“Credi di...” provò a parlare.
“E per tua informazione, non sono così fesso da essermi bevuto la scusa del regalo”.
“Non era una scusa!”
“Ah, no? E chi sarebbe il fantomatico amico appassionato di musica rock? Credevo che i tuoi amici avessero appena imparato ad allacciarsi le scarpe da soli, figuriamoci capire questa musica!”
Catherine Alexandra mi fulminò con un'occhiata decisamente ostile.
“Senti chi parla! Dopo un solo concerto ti credi già la reincarnazione di Freddy Mercury, vero?” mi derise lei, e io involontariamente arrossii.
“Almeno io non devo nascondere i miei veri interessi per paura di...” tornai all'attacco.
“Io non ho paura di un bel niente!” scattò lei, offesa.
“Allora perché non ammetti che questi CD sono solo ed esclusivamente per te?” domandai, vittorioso.
Catherine Alexandra proruppe in un borbottio furioso. “Vuoi lasciarmi in pace una volta per tutte?!”
Alzai gli occhi al cielo con fare esasperato e lei ne approfittò per mettere qualche metro di distanza tra noi.
Dopo aver sbollito la rabbia sfogliando diversi poster da parete in maniera brusca, Catherine Alexandra si voltò verso di me e sbottò: “Va bene, sono per me. Sei contento? Mi piace la tua musichetta da quattro soldi e voglio ascoltarla di nuovo. Ora vuoi finirla con questi appostamenti? Mi dai sui nervi!”
Sogghignai tra me e me e la superai per dare un'occhiata ai vecchi vinili in vendita a prezzi altissimi.
"Se non vuoi incontrarmi, cambia città" le dissi.
"Ci stiamo vedendo troppo spesso ultimamente" constatò Catherine Alexandra, per nulla entusiasta. "Lo fai apposta?"
Alzai le spalle e scoppiai a ridere. "Ti pare che voglia pedinarti? Ho di meglio da fare".
Catherine Alexandra fece un cenno del capo alla borsa della frutta nelle mie mani. "Per esempio il fruttivendolo ambulante?"
Sbuffai, interdetto. "Fai battute su di me? Proprio tu che ieri hai passato la giornata a fare la donnina di casa..."
"Non mi stavo di certo divertendo, per tua informazione!"
Io e Catherine Alexandra ci squadrammo con aria scontrosa. Lei si affrettò ad allontanarsi, perché ero sicuro che morisse dalla voglia di alzarmi le mani addosso.
Io, dal canto mio, camminai fino a raggiungere lo stretto corridoio che conduceva alla sala principale del negozio. Mi soffermai ancora un istante vicino al reparto dei DVD, troppo scocciato per studiare meglio i CD musicali.
Non avevo mai condiviso nulla con quell'insopportabile ragazzetta, e ora all'improvviso la ritrovavo ovunque; dovevo ammettere a malincuore che Catherine Alexandra aveva ragione: sembravamo farlo apposta. Non mi piaceva l'idea di dover sopportare la sua lingua tagliente, sempre pronta a farmi notare quanto fossi insignificante ai suoi occhi.
Estrassi un DVD dalla fila ordinata in cui era stato infilato e lessi la trama del film, dopodiché lo posai di nuovo al suo posto. Tornai nella sala d'ingresso e superai la cassa, dove Catherine Alexandra era impegnata a pagare i nuovi acquisti. Notai il negoziante fissarla con sguardo rapito: probabilmente non gli capitava tanto spesso di trovarsi di fronte clienti così belle. Catherine Alexandra terminò di digitare il codice della sua carta di credito e alzò lo sguardo sull'uomo, il quale si riscosse rapidamente.
Scossi il capo e camminai fino alla porta, deciso a rimandare il regalo che avevo sperato di potermi concedere. Avevo ancora parecchie commissioni da svolgere per conto di Gemma, sarebbe stato meglio darsi da fare.
Ero a metà del marciapiede davanti al negozio di dischi quando sentii la voce di Catherine Alexandra fermarmi.
“L'idea che io e te siamo complici mi sta letteralmente facendo impazzire, ma non voglio darti l'impressione sbagliata, Styles”.
Mi voltai lentamente, la fronte aggrottata e le sue parole che frullavano nella mente.
“Che cosa stai dicendo?” le domandai, sorpreso del fatto che mi avesse rivolto la parola.
Scese il gradino davanti alla porta del negozio e si guardò attorno con aria preoccupata, come se temesse di vedere i paparazzi spuntare con le macchine fotografiche. Chiuse la cerniera della sua giacca color caffè e mi raggiunse ancheggiando come una modella, di cui comunque aveva tutto l'aspetto.
“Sto dicendo” fece lei, scocciata, “che non voglio sembrarti arrogante o... cattiva”.
Risi, sprezzante. “E come potresti darmi questa impressione? Hai un atteggiamento talmente docile e rispettoso nei miei confronti!”
Catherine Alexandra assunse nuovamente quello sguardo duro che mi riservava ad ogni incontro.
“Tu non fai nulla per attirarti le mie simpatie, ugola d'oro!” ribatté lei. “Hai ficcato il naso nei miei affari privati e continui a indagare su cose che non ti riguardano affatto!”
“Come che cosa?” la stuzzicai io. “Il fatto che reciti? Non è un segreto di stato, visto che a fine anno ti dovrai esibire davanti a tutta la scuola. O forse non lo sapevi?”
La vidi incrociare le braccia al petto e distogliere i suoi grandi occhi verdi.
“E per la cronaca, io non ho indagato su un bel niente” precisai.
Catherine Alexandra sbuffò. “Hai parlato con Alex”.
“Siamo finiti nel discorso, Catherine. Non sto facendo indagini private sul tuo conto, perché, notizia dell'ultimo minuto, non mi interessa!” risi, esterrefatto.
Lei sembrò presa in contropiede e rimase zitta per qualche istante. Mi guardò con sguardo penetrante, come se sperasse di appigliarsi a una nuova scusa che le permettesse di distruggermi.
“In ogni caso, non voglio che pensi di doverti vendicare dei miei comportamenti un po'... bruschi” disse infine, controllando il tono della voce.
Alzai un sopracciglio, per niente convinto. “Stai facendo tutto questo perché hai paura di me?!”
“Vedila un po' come vuoi!” esclamò lei, infastidita dalla verità. “Sta di fatto che non mi piace l'idea di incontrarti più sovente di mio padre e di dover spartire con te più segreti che col mio prete, ma sono costretta dalle circostanze e voglio che la nostra sia una convivenza il più possibile... pacifica”.
Sospirai, intenerito dal suo goffo tentativo di armistizio. “Allora il tuo piano non sta funzionando molto bene, Catherine...”
“Da oggi!” esclamò lei, fiera. “Da oggi noi due... saremo buoni...”
La guardai con aria incredula, aspettando la fine della frase.
“... conoscenti, ecco. Saremo buoni, anzi, ottimi conoscenti!” terminò lei, estasiata dalla sua trovata.
“Ottimi conoscenti?!” ripetei io, perplesso e divertito allo stesso tempo.
Catherine Alexandra protese la mano destra nella mia direzione, sorridendo con aria importante. La guardai per un po', indeciso se accettare le sue condizioni oppure ribellarmi e negarle la soddisfazione di riuscire a ottenere ciò che desiderava.
“Oh, avanti, Styles! Non crederai davvero di concederti il lusso della scelta!” sbottò lei, tornando al vecchio tono spiccio.
La fulminai con un'occhiatina maliziosa. “Attenzione, Kate... Stai sconfinando nell'aggressività, e non si fa una cosa così tra ottimi conoscenti”.
Lei sembrò mandare giù una medicina amarissima, ma non mi bacchettò più. Infine le strinsi la mano e mostrai il mio sorriso più gioviale.
“Ah, dimenticavo” aggiunse lei, mentre si allontanava da me col suo passo deciso e sensuale. “Ti proibisco categoricamente di chiamarmi Kate”.
Guardai la sua schiena mentre si allontanava, muovendosi come una regina in mezzo alla plebe.
“Credevo avessimo stabilito...” le urlai dietro, divertito.
Alzò una mano per mettermi a tacere, ormai abbastanza lontana. “Scordatelo!”



Una volta finite tutte le commissioni che Gemma mi aveva imposto, mi recai finalmente nel posto dove meno di tutti avrei desiderato trovarmi. Avevo riflettuto a lungo sul ruolo della band nella mia vita e su ciò che avrei voluto fare una volta finito il liceo: non ero mai stato più sicuro di allora di voler fare della musica il mio lavoro. Desideravo partecipare al maggior numero di concorsi, farmi conoscere e provare a trovare un produttore, qualcuno che potesse aiutarmi a sfondare.
Ma avevo bisogno di soldi, tanto per cominciare. Mia madre ed io eravamo sempre più ai ferri corti e la questione universitaria rimaneva sospesa nei nostri prolungati silenzi. Sapevo che mi avrebbe impedito di darmi alla musica una volta terminati gli studi, perciò volevo procurarmi i soldi necessari ad aprirmi una strada in quel mondo ostile.
Spinsi la porta della piccola panetteria dove lavoravano madre e sorella maggiore di Elisabeth, la ragazza di Nick. La signora dietro il bancone non si accorse subito di me e finì di servire i due clienti rimasti; infine mi si rivolse con voce cordiale.
“Dimmi pure!”
Mi passai una mano fra i capelli ricci, imbarazzato dalla sfacciataggine con cui stavo per esordire. Nell'altra mano reggevo ancora le due borse della spesa.
“Ehm... Io sono...”
“... Harry Styles, il nostro ipotetico impiegato” terminò una voce femminile.
Guardai nella direzione della porta che dava sul retro del negozio e sorrisi riconoscente alla ragazza di due anni più grande di me che si stava pulendo le mani su uno straccio blu.
“Ti stavamo aspettando!” esclamò Alice, la sorella di Elisabeth.
Sua madre sembrò riscuotersi e disse: “Oh, così sei tu il famoso Harry! Pensavamo non saresti mai passato in negozio!”
Di nuovo mi spettinai i capelli con una mano, incapace di trovare le parole giuste.
“Io... ho avuto molti impegni in queste settimane” inventai.
Alice annuì e si fece più vicina a sua madre, sempre fissandomi con aria avida. Sapevo bene che Alice aveva un debole per me e questo mi metteva ancora più a disagio del dovuto.
“E sei ancora interessato a lavorare con noi?” mi chiese.
Alzai le spalle. “La questione è se voi siete ancora interessati a volermi qui”.
Alice e sua madre si scambiarono un'occhiata eloquente e la ragazza sorrise; per caso tutta la famiglia era al corrente di ciò che provava per me?
In quell'istante mi pentii di essermi presentato in negozio, e desiderai ardentemente non aver mai varcato la soglia della panetteria.
“Qui sei sempre il benvenuto, Harry” mi comunicò la madre, gioviale. “Anne è una cara amica di famiglia, non ci dispiacerebbe darti una mano”.
Vidi Alice annuire ripetutamente, l'espressione sul suo volto che esprimeva pura gioia.
“Be', in questo caso... sarebbe un piacere lavorare per voi” dissi, cercando di suonare il più convincente possibile.
La madre di Elisabeth si sporse in avanti allungando la mano paffuta e disse semplicemente: “Eleanor. Chiamami solo Eleanor”.
Strinsi la sua mano e sorrisi. “D'accordo...”
Alice spinse lo sportello che divideva il negozio dal retro del bancone, dove i commessi si affaccendavano.
“Ti mostro il locale. Ah, e hai bisogno di un grembiule” m'informò la ragazza.
La seguii dietro il bancone e poi nel retro della panetteria, dove tre panettieri piuttosto robusti lavoravano attaccati ai forni accesi. Mi squadrarono con aria sospetta e io mi sentii piccolo sotto quegli sguardi estranei.
Alice mi presentò ad alta voce: “Ragazzi, questo è Harry Styles, e sarà in prova nei prossimi week end”.
La guardai proseguire fino a un piccolo stanzino che si rivelò essere un bagno stretto e leggermente più sporco del normale. Alice somigliava molto alla sorella nell'aspetto, ma aveva modi decisamente più diretti e autoritari.
“Allora, questo sarà il tuo grembiule” disse questa, estraendo un piccolo grembiule giallo come il suo da una credenza del bagno. “Forse sarebbe meglio che indossassi anche un cappello in negozio. Vedrò di procurartene uno”.
Alice mi sorrise, aspettando che rispondessi qualcosa. Io presi il grembiule con fare esitante e spiai il resto dell'angusto stanzino.
“Quando comincerò?” domandai infine.
“Questo fine settimana?” propose lei.
Annuii e alzai il grembiule. “Grazie mille. Elisabeth mi ha detto perché lo state facendo”.
Alice sembrò addolcirsi e mi diede un leggero buffetto sul braccio. “Sarà un piacere lavorare con te, Harry”.
Mentre la ragazza usciva dal bagno, mi sentii arrossire: il pensiero di dover passare ore vicino ad Alice mi metteva in imbarazzo, perché non mi piaceva sentirmi i suoi occhi innamorati puntati addosso.
Salutai tutti i presenti e ringraziai un'altra volta Eleanor prima di lasciare la panetteria. Mi avviai con aria sollevata verso la mia bicicletta, anche se non ero così sicuro di aver scelto il lavoro giusto per mettere da parte un po' di denaro.







 

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