StrangeShipping - Zexal version

di dispatia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [Cathy x Ryoga] ReserveShipping ***
Capitolo 2: *** [Fuuya x Haruto] AloneShipping ***
Capitolo 3: *** [Vector x Alito] Guardianangelshipping ***
Capitolo 4: *** [Kotori x Kathy] CatrapShipping ***



Capitolo 1
*** [Cathy x Ryoga] ReserveShipping ***


I
ReserveShipping


Quella  fredda mattina di fine agosto avrebbe dovuto essere come tutte.

Non sarebbe dovuto accadere nulla di particolare, tutta avrebbe dovuto essere nella norma.

Eppure, così non fu.

Almeno, non per un ragazzo e una ragazza, completamente diversi eppure uniti... Uniti da un semplice sguardo.

 

La ragazza si chiamava Cathy. Era una dodicenne allegra ma molto possessiva, e amava i gatti.

Persino il suo aspetto ricordava un gatto.

Era una bella ragazza, alta, magra e agile, vestita spesso di nero.

Ogni mattina faceva una camminata lungo una strada che ormai non esiste più, una strada che passava accanto ad un fiume che ormai si è essiccato.

E non guardava mai dove andava.

 

Il ragazzo si chiamava Reginald, e a soli quindici anni aveva già sperimentato ogni singolo tipo di vizio.

Fumava, beveva, tornava a casa tardi la sera, aveva più donne che anni e non frequentava la scuola.

Era l'esempio da non seguire.

Quello che una madre non avrebbe mai voluto da figlio.

Andava sempre in giro per la città con quella banda di poco di buono dei suoi amici per fare disastri

Ma, solo la mattina quando nessuno poteva vederlo e giudicarlo, quando quelli della sua banda malfamata dormivano ancora, lui camminava per la città, in silenzio, come un ragazzo normale.

Un ragazzo normale che non conosceva la normalità.

 

«Attenta a dove vai mocciosa!»

Si erano scontrati per strada, mentre camminavano senza badare alla direzione.

«Ahia!»

Gli aveva risposto Cathy massaggiandosi la piccola testolina.

I due ragazzi avevano alzato la testa allo stesso momento, si erano rispecchiati negli occhi dell'altro.

Cathy aveva visto il riflesso di una bambina con gli occhi lucidi distorto dalla rabbia.

Reginald aveva visto il suo riflesso oscuro ammorbidito dalla dolcezza e l'innocenza infantile.

Ed entrambi si erano innamorati del proprio riflesso negli occhi dell'altro.

 

«Come ti chiami?»

La voce di Reginald era un basso borbottio.

«Cathy»

«Reginald»

La bambina aveva sorriso.

Reginald la aveva guardata, incredulo.

Era così pura...

 

Oh, loro erano così belli assieme, così perfetti...

Ma erano migliori amici.

Nessuno dei due poteva essere di più, perché pensava che l'altro non lo volesse.

Reginald continuava ad andare a donne.

Cathy non sapeva amare.

 

Cathy gli fu sempre accanto, fino alla fine.

Anche quando lui si calmò e si fidanzò seriamente.

Anche quando lui si sposò.

E al suo matrimonio lei era in prima fila, con il cuore straziato, a guardarlo.

 

Reginald la guardava da lontano.

La osservava in ogni gesto, la amava e la odiava, non capiva cosa provava.

E continuava a sbagliare, senza mai dirle quel che sentiva, soffrendo mentre lei si innamorava della persona sbagliata.

Ma non sapeva che la persona sbagliata, in realtà, era lui.

 

Cathy gli fu accanto fino alla fine. Persino al suo funerale.

Aveva solo vent'anni, ma non aveva più nessun gatto. Era ancora innocente, ma la sua purezza era già macchiata dal dolore.

 

Reginald la guardava ancora.

Dall'alto, come spirito, l'osservava farsi una vita.

E quando Cathy morì, lui era ad aspettarla alle porte del paradiso.

 

«Mi sei mancata»

«Anche tu»

«Sai che ti ho sempre amata giusto?»

«Sì»

«Anche tu mi ami, giusto?»

«Esattamente»

«Ce ne abbiamo messo di tempo eh?»

«Ora abbiamo l'eternità»

 

-Angolino degli scleri dell'autrice(Che si sente molto fiera di se nonostante l'obrobrio scritto sopra)-

Per prima, fate tutti gli auguri a Marine, Marina, Marins5 perché è il suo compleanno ewe
E ORA PASSIAMO ALLE COSE
SERIE(?)
Questa... è una fanfiction. Sì, pensavate fosse un semplice obrobrio ma no! Ce ne saranno altre diciannove di questi schifi! Yeee XD
Per la vostra gioia, ben'inteso.
Questo capitolo è strutturato così perché non avevo idea di come farlo. Nel senso, Cathy e Ryoga manco si parlano nella serie. Insomma!
Forse non era così demenziale come coppia, ma visto che nessuno ci scrive ci penso io.
ewe
ok, sparisco e vado a pubblicare il capitolo dell'altra fanfiction.
Ah, questa storia non avrà aggiornamenti regolari, visto che l'ispirazione va e viene...
L'INTERA FANFICTION è dedicata a MARINS5
Grazie per averl letto tutto... Vi voglio bene.
Ok, me ne vado.
[Stella-Ex KykkaStellaBlade]

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** [Fuuya x Haruto] AloneShipping ***


II
AloneShipping


 


|| Fuuya ha un anno più di Haruka. Haruka all'inizio della storia ha sette anni.

 

Kite guardò ancora una volta la sorellina, intenta ad allacciarsi le scarpe dai lacci decisamente troppo lunghi che la facevano puntualmente inciampare, con sguardo rassegnato.

Era cresciuta, non c'era dubbio.

Non era più la bambina che aveva protetto da tutto e tutti, persino da suo padre, ma bensì una ragazzina pronta a rifarsi... O forse a farsi una vita.

«Come sto?»

Kite sobbalzò. Perso nei suoi pensieri, non si era reso conto che la bambina era in piedi e già con lo zaino in spalla, pronta ad andare.

Era davvero carina, con la divisa azzurra, i capelli azzurri legati in una coda alta fermata da un fiocco e gli occhi ambrati scintillanti.

Sembrava quasi una bambina normale, constatò il maggiore lasciandosi sfuggire un sorriso.

«Sei davvero carina, Haruka» Le rispose, prendendola in braccio e chiamando Orbital per andare.

La bambina gli sorrise di rimando, stringendosi a lui e chiudendo gli occhi.

Era stato difficile strappare a Faker la concessione di mandarla a scuola – era persino indietro di due anni, come aveva ovviamente sottolineato lo scenziato – ma alla fine il sorriso della sorellina lo ripagava il biondo di tutti gli sforzi.

Atterrarono davanti alla scuola, sotto gli sguardi impauriti, curiosi e stupiti dei ragazzi – e dei loro rispettivi genitori – lì presenti.

«Ti acccompagno dentro...» Iniziò Kite, prima di venire interrotto da Haruka che – mettendosi sulle punte – gli posava l'indice sulle labbra e scuoteva la testolina azzurra.

«No, no! Voglio essere solo io!» «Ma...» «Per favore fratellone...»

Quando Haruka faceva quella faccia e quella voce da cucciolo era impossibile per Kite resisterle.

Sospirando, il ragazzo si arrese e si sedette sul muretto che circondava la scuola.

 

Nel frattempo Haruka camminava un po' per il cortile, in mezzo al caos assoluto dei genitori che arrivavano, facevano raccomandazioni ai piccoli figli, camminavano nervosi oppure fumavano facendo tossire rumorosamente Haruka e molti altri bambini con lei.

Non guardava dove andava, come al solito. Le capitava spesso, visto che era molto distratta e sbadata, forse anche a causa della sua strana malattia.

«Ahi!» Si lamentò debolmente, alzando la testa verso lo sconosciuto contro cui aveva sbattuto. Era un ragazzo, dai capelli azzurro chiaro e gli occhi verde bottiglia, che subito scattò in piedi e le porse la mano «Scusa!»

La sua voce era cristallina, infantile, nonostante l'atto che aveva appena compiuto avesse un che di fin troppo adulto. La ragazzina sorrise, accettando l'aiuto del ragazzo e alzandosi in piedi.

«Ma... Fai la prima?» Le chiese il ragazzo, stupito. In effetti Haruka era più alta delle primine normali, e anche i tratti avevano qualcosa di più maturo. «Sì» Annuì lei «Sono in ritardo di due anni» Aggiunse, notando la confusione dell'altro. «Ahh, ora capisco! Io mi chiamo Fuuya e tu?» «Haruka!» Si sorrisero, prima che la campanella suonasse segnando l'entrata in classe dei ragazzi.

«Che sezione sei?» «B, tu?» «Anch'io! Senti, ma secondo te ci saranno gli armadietti?» «Certo che no! Siamo ancora piccoli!» «Uffa, io volevo gli armadietti!» «Alle medie scometto che ci sono!» «Ma manca così tanto...» «Dai dai!»

In mezzo a questa chiacchiere i bambini si avviarono verso la classe, entrarono ordinatamente posando le cartelle e si sedettero ai loro posti.

«Buongiorno bambini!» Esclamarono le maestre, vestite in modo strano e buffo. «Noi siamo le vostre maestre, e vi accompagneremo per i prossimi sei* anni!» I bambini salutarono, ancora un po' impacciati e confusi. Qualcuno piangeva, chiedendo di rivedere i suoi genitori.

Era normale.

Haruka, seduta accanto a Fuuya, seguiva attentamente i gesti e i movimenti degli insegnanti, cercando di capire tutto, mentre il ragazzo la guardava di sottecchi.

Tra loro due c'era già una grande amicizia.

Magari un giorno sarebbe nato qualcosa.

 

Cinque anni dopo

 

Haruka camminava sola per il cortile, la divisa azzurra dalla lunga gonna che le batteva le cosce magre.

Era arrabbiata.

Era arrabbiata con Fuuya, per la prima volta dopo anni.

Si era comportato male senza motivo, e aveva picchiato un ragazzino di seconda solamente perché la fissava.

Haruka non capiva perché. Insomma, la sua gelosia era eccessiva.

Inoltre non era la prima volta che rispondeva male a qualcuno che ci provava – sì, lei lo capiva benissimo che ci provavano, ma faceva la finta tonta per cercare di non ferirli – ma era la prima che arrivava alle mani.

Si sedette sul muretto, aggiustandosi la gonna. Erano in autunno, e cominciava a far freddo.

Sentì dei passi poco lontano da lei, ma non si mosse, pur sapendo benissimo chi era.

«Scusa» Cominciò Fuuya sedendosi accanto a lei. La guardò per un po', ma lei rimase gelida e silenziosa. «Mi sono comportato male, è vero» Aggiunse, cercando in lei una qualunque reazione. Il suo cuore pareva piombo, mentre si rendeva conto che con quel comportamento la stava allontando la lui.

Non era mai rimasta in silenzio alle sue scuse, lo aveva sempre perdonato. Ma ora aveva la netta percezione di aver sorpassato il limite.

«Alla fine non si è rotto il naso»

Ancora nessuna reazione. La ragazza pareva una statua di sale, altera e... Bellissima.

«Però è tornato a casa»

Silenzio.

«Perché non mi rispondi?» «Cosa ti dovrei rispondere Okudaira?»

La sua risposta, così fredda e formale, lo paralizzò sul posto, mentre una bruttissima sensazione prendeva il controllo del suo corpo.

Paura.

«Ti ho chiesto scusa» «Hai comunque ferito un ragazz per una sciocchezza. Un ragazzo più piccolo di te, aggiungo. Sei pessimo»

Il ragazzo ebbe l'ennesima, lancinante, fitta al cuore.

Si alzò lentamente, sentendo le gambe e il cervello di piombo.

Stava per mettersi a piangere davanti a lei, e si sentiva stupido e debole per questo.

«Perché? Perché ti comporti così?»

La voce della ragazza lo riscosse.

Fuuya la guardò, guardò quel fisico androgino e ai suoi occhi perfetto, quegli occhi ambrati, la pelle bianca come porcellana e i capelli azzurri che le ricadevano mordibidi sulle spalle.

La guardò, e decise che o andava o la spaccava.

«Perché ti amo»

 

Sei anni dopo

 

«Sono andate in discoteca... Oh, hai le prove... Capisco... Va bene Fu. Ci vediamo domani sera. Non ti preoccupare. Ciao»

Haruka agganciò il telefono, amareggiata.

Solo per quella sera lei era completamente libera e proprio quella sera Fuuya aveva le prove. Il destino pareva proprio avercela con lei.

Si guardò allo specchio. Non si era neanche preparata, perché in fondo un po' si aspettava una cosa del genere.

Sospirando, si mise il pigiama rosso e rosa e si legò i capelli azzurri – che adesso presentavano un ciuffo rosso vivo – in una coda bassae morbida.

Da quando Fuuya era diventato un attore di successo vederlo era quasi impossibile per lei, soprattutto perché aveva cominciato l'università ed era spesso fuori casa. Oltre a questo, Kite non vedeva di buon occhio le sue uscite con Fuuya, e se tornava troppo tardi partiva la Santa Inquisizione con domande irritanti e pressanti. "«Cosa avete fatto?» «Hai mangiato?» «Stai bene?»" e l'immancabile "«La prossima volta che torni così tardi...»".

La diciannovenne si sedette sul letto, sbadigliando.

Non era tardi, non aveva sonno, e aveva voglia di rivedere Fuuya. Erano quasi tre mesi che non si vedevano, e cominciava a sentire quasi una specie di struggente nostalgia dei suoi baci, dei suoi sorrisi e delle sue battutini alla cavolo che la facevano ridere più che altro per la risata meravigliosa che le seguiva.

Si mordicciò il labbro inferiore, guardando la catasta di libri che avrebbe dovuto studiare. Lo aveva promesso a se stessa che se Fuuya non ci fosse stato avrebbe studiato, ma ora le pareva quanto mai difficile.

Guardò il numero del ragazzo sul telefono, e nel bel mezzo della contemplazione al suo viso angelico che le appariva sulla schermata della chat il telefono squillò.

Era lui.

«Fuuya! Ma non avevi le prove?» «Sono sotto casa tua. Su, fa in fretta, loro non sanno che sono qui» «Ma ti è dato di volta il cervello?»Si affacciò alla finestra, stupita, felice ma anche un po' contrariata a quella decisione così improvvisa.

«Dai su... Ti porto via con me, in questa notte fantastica...» Canticchiò, prima di mettere giù.

Haruka si vestì in fretta e furia, sorridendo mentre la canzone di Jovanotti le riempiva la mente.

«Una cascata di passi che fanno brivare, la spina dorsale...» Cantò, volando quasi letteralmente giù dalle scale della Heartland Tower.

La voce di Fuuya cantava da fuori, e da davanti alla porta lui le porse la mano sorridendo.

Era ancora vestito con gli oggetti di scena, tanto che Haruka scoppiò a ridere.

«Non c'è più niente da perdere...» «Ti porto via con me!»

Fuuya le afferrò la mano, trascinandola per le strade di Heartland. Di notte la città era un vero spettacolo, e i due se la volevano godere tutta.

Assieme.

 

*Gli anni di scuola elementare giapponesi sono sei.


-Angolino degli scleri dell'autrice (Che sta per essere mangiata viva dai suoi funz evabbé)-

Ehi ehi ehi, popolo! Come vi butta? :D
...
...
Sì, non ho riletto sta roba.
E sì, ho detto che non avrei più aggiornato nulla fino a Natale.
Vi do il permesso di lasciare una critica in cui insultate anche il trisnonno del mio cane.
Anch'io vi amo.
Già già.
Che altro dire?
Ah sì. Nella storia potrebbero esserci songfic, e devo aggiungere l'avvertimento AU.
E per quest'ultima cosa dovete essere spaventati.
A prestoh.
(Ah, e perdonatemi "Ti porto via con me" di Jovanotti. Davvero, amo troppo quella canzone. Amen.)
Stella

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Capitolo 3
*** [Vector x Alito] Guardianangelshipping ***


III
Guardianangelshipping


 
« Scusa, potresti regalarmi il tuo nome? »
Risuonavano con antica premura, nelle corde dell'anima, il suono di campanelli e il profumo della vaniglia, brillando come oro fuso, senza timore di eccesso, di peccare di tracotanza. Si spandevano nell'aria e lo costringevano a voltare il capo, e poi a sedersi, sopraffatto, come se tanta bellezza mai l'avesse vista in tutta la sua vita mortale.
E sopra tutto quei raggianti occhi viola, plasmati da mani esperte d'inganni e tentazioni, quelle iridi dal luccichìo infantile che lo invogliavano a fidarsi, a lasciarsi andare.
« Il mio nome? »
Alito levò il capo dal verde vibrante del prato su cui si era adagiato, concedendo al principe la sua totale attenzione. Quella domanda fu posta con un'innocenza dolcissima, che colava latte e miele, e che si fondeva così bene con quell'atmosfera che a Vector quasi venne meno la natura di folletto, in favore del desiderio di ammirarne la composizione.
Era raro ormai che un umano inciampasse in un cerchio fatato. Erano diventati furbi, crescevano i bambini con leggende di infanti rapiti e dèmoni crudeli, pronti a tutto pur di strapparli dal grembo materno. Certo, più l'uomo progrediva nella sua disperata corsa al progresso più incauto diveniva nel trattamento delle creature del bosco, ma questo non bastava a convincerli in fallo. Come i lupi temevano il fuoco fatuo delle città umane, così gli umani si ritraevano di fronte a segni incomprensibili e suoni d'arpa.
E se anche sbagliavano, come in quel momento, nella loro mente risuonavano le parole cupe della genitrice, e di un'intera generazione di donne timorate del buio: "Non donate il vostro nome alla bellezza".
Ma Alito di leggende non s'intendeva. Era solo un adolescente ribelle, dagli occhi dello stesso colore degli smeraldi che impreziosivano la gonna del principe, e quella domanda non suscitava nessuna ritrosìa dentro di lui. Solo una bocca socchiusa e palpebre abbassate per schermarsi dal sole che lentamente calava sulla scena.
« Ma certo! Il tuo nome! »
Si chinò verso di lui, chiedendosi se davvero ignorasse o se stesse cercando di evitare il destino. La fata scosse il capo, fra sè, e pensò fosse proprio buffo, con tutti quei vestiti addosso e quella mancanza di rispetto per la natura - non quella che li circondava, ma quella intrinseca dell'uomo, l'unica linea divisoria fra loro e le bestie; poi parlò ancora, posandosi di fronte a lui.
« Non ti fidi? Parlano sempre male di noi là fuori, eh? »
La sua stessa pelle, ambrata, brillava di un'aureo, soffice bagliore. Come un angelo, ma riflesso da uno specchio distorto, avrebbe detto la mamma di Alito, se ci fosse stata abbastanza da parlargli di queste cose importanti.
Invece c'era solo suo padre, a casa, e lui di magia non ne sapeva nulla. Non era colpa sua; si sa che in famiglia solo uno ha il diritto di viziare i figli riempiendoli di stupidaggini e fobie. L'altro doveva mandare concretamente avanti il carro, dare sussistenza, pane, carne, latte e disciplina.
Così avrebbe detto suo padre, se glielo avesse chiesto.
Quel sorriso non poteva essere fasullo, ma non era la fiducia che mancava ad Alito, quanto la comprensione reale dei desideri dell'altro. Trovava solo bizzarro il modo in cui era vestito l'altro, e nonostante fosse chiaramente di rango superiore al suo non riusciva a non vederlo solo come un coetaneo, un po' strano e dai modi particolari - e qualcosa di eccessivamente perfetto attaccato addosso come un vetro traslucido fra la realtà e la finzione...
« Il mio nome è Vector. Sono principe del mio popolo, creatura figlia della Madre di tutte le madri; e se ora tu volessi donarmi il tuo nome, saprei per certo di non avere di fronte a me un nemico. »
« Tu saresti un principe? »
Lo stupore era genuino, e lo prese in contropiede. Inarcò le sopracciglia, mentre annuiva, e con un cenno indicava tutto lo spazio intorno a lui. La musica si fece più soffusa, ma anche più onirica, capace di fargli entrare nelle narici e nel cervello la sensazione di non voler più uscire da lì dentro, come la più inebriante delle ipnosi.
Qualcuno di meno caparbio di Alito gli avrebbe semplicemente detto il nome, ma era un'anima così elementare che si concentrava sui particolari, e non sulle domande.
Era lui che voleva risposte.
E anche se non lo capiva Vector lo trovava divertente, e quasi affascinante, in quella testardìa involontaria.
« Sì, lo sono. Il mio popolo è stato per lungo tempo amico degli uomini, prima che voi iniziaste a scacciarci e dipingerci crudeli. Per questo non posso permetterti di restare, senza che tu... »
« Non posso regalarti il mio nome, non è qualcosa che si dà agli altri. Però puoi chiamarmi Alito... e puoi fidarti di me, Vector. »
Fiducia.
Fu preso di sorpresa da quella scelta di parole. Rimase per qualche istante in silenzio, e quell'arco di tempo fu sufficiente a creare due consapevolezze nella mente di entrambi.
La prima, che si sarebbero rivisti.
La seconda, che c'era una partita sotterranea, che nessuno dei due poteva perdere, e che faceva parte dell'ordine naturale delle cose. Non c'era bisogno di regole, limiti, spiegazioni. Si guardarono negli occhi, e ai loro polsi già c'era un filo argenteo di promessa.
Fu allora che calò la tenebra e Alito si alzò, con un singolo cennò di saluto, scappando via per tornare a casa, lasciando a Vector domande che prima non aveva mai sentito la necessità di porsi.

 
Vector iniziò a prendere un certo gusto nelle visite dell'altro, inizialmente poco frequenti quanto poi quasi giornaliere. Riusciva sempre a raccontargli qualcosa di nuovo del mondo esterno che prima ignorava, tenendolo inchiodato per ore con lo sguardo perso su di lui, una mano sulla guancia e un profumo diverso attorno ogni volta - che fosse incenso, mirto, rosa o violetta lo apprezzava sempre, e finiva a chiedergli che cosa fosse, ampliando una cultura prima sconosciuta di cose oltre il semplice lavoro manuale o le risse di strada -, finché non calava il sole e non si salutavano con il cuore ogni volta un poco più pesante.
I sentimenti gentili erano qualcosa di fin'ora sconosciuto al cuore dei due. Non si parlava di semplice amicizia con i bambini che lo ammiravano, o di un discorso nobile ai sudditi in ascolto; era qualcosa di più profondo e complesso che si sviluppava come il più bello dei palazzi, pietra dopo pietra, ad ogni tocco, frase, respiro lasciato a metà, parole di troppo sospese a mezz'aria finché non trovavano il momento giusto di ignorarle e andare avanti.
Alito non temeva il suo sangue blu, e Vector per quanto si sentisse superiore non sentiva l'ego ferito dalla sua mancanza di etichetta. Lo salutava ogni volta con il solito « Scusa, potresti regalarmi il tuo nome? » al quale l'altro sorrideva, con il solito « Non posso regalarti il mio, nome non è qualcosa che si dà agli altri. », e così il giro ricominciava, sempre uguale a se stesso.
Fu un tiepido pomeriggio di primavera che, mentre stavano sdraiati fra i boccioli di fiori selvatici e l'erba umida di rugiada, con il sole che li accarezzava dolce in un pigro invito e un fuoco dentro che non si spegneva per quanto continuassero a parlare per sovrastarlo, che il principe si acquietò a metà discorso per la prima volta, lo guardò in un modo che mai più, in mille congiunzioni di stelle o nell'eterno ruotare della terra su stessa si sarebbe ripetuto, e mormorò soltanto un debole, timido "Amami".
Amami, come fossimo gli ultimi due al mondo, come se ci fosse solo questo ormai, l'istinto, l'onore, la voce che s'infrange e muore sulle labbra, la lingua che riacquista la funzione comunicativa nel suo piano originale. Come se fosse il giardino dell'Eden, come avessimo appena peccato e fosse l'ultimo istante prima che Dio ci punisca per esserci sporcati, per aver sbagliato. Amami come se stessimo per morire, e come se stessimo per rinascere; come se dovessimo bruciarci fino al tornare al nostro stato originario, che cenere eravamo, e cenere dobbiamo tornare.
Come se fosse una fiaba, di un principe e del suo cavaliere, senza nessun drago da sconfiggere.
E mentre aspettava che il respiro tornasse regolare, la testa dell'amato sul suo petto e dentro solo pace, finalmente pace, come mai aveva avuto il piacere di sentirla, Alito pensava lontano, ad una casa, un focolare sempre acceso, pensava a come sarebbe andato tutto bene perché si era liberato dal peso che prima sentiva tormentarlo, quell'insoddisfazione dell'anima che reclamava libertà. Gli accarezzava i capelli, guardava il cielo, ed era certo che sarebbe andato tutto bene.
E anche se Vector sapeva che la verità era ben più amara,  per quel momento, per quella sensazione bellissima di amare ed essere amato, tacque, e concentrò tutto se stesso nel lento, regolare battito del cuore dell'altro.

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Note dell'autrice
Stranamente, non ho nulla da dire questa volta, se non scusate per questo mini spam che sto facendo ultimamente - sono le vacanze di Natale, il mio unico periodo libero tranne l'estate, capitemi.
Unica cosa, il motivo per il quale Vector chiede ad Alito di "donargli" il suo nome, e non solo di dirglielo è perché nella mitologia comune le fate si appropriano dei nomi degli umani incauti (si parla di folklore inglese, dove ha più senso il modo comune di chiedere il nome "can you give me your name / could you please give me your name?"), arrivando così ad avere potere sulla persona stessa.
Tranquilli che con questo aggiornamento torno a sparire negli angoli remoti degli aggiornamenti annuali da cui provengo.
Sayonara!

PS; Qualsiasi errore di battitura/stilistico è dovuto indubbiamente alla mia pigrizia nel ricontrollare. Se qualcuno me li volesse far notare sarebbe estremamente bene accetto <3

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Capitolo 4
*** [Kotori x Kathy] CatrapShipping ***


IV
CATRAPSHIPPING


|| 4 drabbles basate su 4 prompt scelti con un randomizzatore online. I prompt sono stati presi da qui.

 

i. vines

Kathy lanciò un gridolino di sorpresa, dibattendosi inutilmente fra gli spessi e indistruttibili rampicanti che, in una frazione di secondo, l'avevano avvolta da capo a piedi, maledicendosi fra sé per non aver fatto più attenzione.

L'avevano avvisata di cosa sarebbe successo andando a casa della Strega, eppure si era fatta mettere comunque nel sacco. Pensava di essere più intelligente di così. Più forte, forse.

La Strega le apparve di fronte, seria per quanto riuscisse ad esserlo di fronte alla buffissima immagine del Demone legato come un umano qualunque, per poi lasciarsi sfuggire un'espressione di sorpresa alla realizzazione di cosa avesse di fronte.

« Ti sembra questo il modo di trattare un Demone? Appena scendo da qui io giuro che- »

« Volevi chiedermi di diventare il mio Famiglio, vero? »

Kathy storse il naso, voltando il viso per non doverla guardare negli occhi. Era così tranquilla e serena che le dava il nervoso, eppure suonava nervosa,

« Ho cambiato idea. »

« Oh, scusami, allora... »

Schioccò le dita, e i rampicanti scomparvero, facendo capitolare il Demone a terra. Stava per rialzarsi e saltarle alla gola, ma il suono del suo sussulto e immediato precipitarsi al suo fianco la paralizzarono lì.

« Oh, no, volevo farti scendere piano, sono ancora un disastro con questi poteri e- »

Aveva perso tutta l'aria di sicurezza che aveva prima, sostituita da una sincera preoccupazione, e Kathy sentì qualcosa annodarsi all'interno dello stomaco. Era adorabile.

Adorabile.

Saltò in piedi, con una risata sostenuta, sperando che la coda da gatto che si agitava nervosamente qua e là non la tradisse.

« Si vede che non sei esperta. Ripensandoci, forse avresti bisogno dell'aiuto di qualcuno come me, quindi anche se hai offeso il mio orgoglio sarò caritatevole. »

Kotori batté le mani insieme, in un'espressione di pura felicità che bruciava come acqua santa, per poi cercare di abbracciarla.

« Grazie! Ne avevo davvero bisogno- »

« Scollati da me. »

 

ii. magical

Quando avevano ufficialmente deciso di mettersi insieme nessuno ne era stato particolarmente sorpreso. Apparentemente tutti tranne loro avevano realizzato anni prima che a nessuna di loro due interessavano i ragazzi, e, sopratutto, che le loro costanti lotte per la conquista di Yuuma erano dettate da un'incapacità di ammettere i propri sentimenti l'una per l'altra.

Quindi, l'unica reazione che erano riuscite a guadagnarsi era stato un “wow, finalmente” di Rio, e un ben poco elegante cinque da Yuuma che aveva riscaldato il cuore a Kotori più di qualsiasi altra cosa al mondo. Per quanta paura avevano avuto prima di dirlo, terrorizzate che non capissero, non accettassero, il sollievo bruciante che le aveva attraversato il corpo era stato forte come la scarica di adrenalina dopo aver saltato da un palazzo.

Alle volte il mondo le sembrava grigio, e ogni passo una sconfitta, e allora doveva solo pensare alla sua ragazza per far tornare i colori. Doveva solo pensare al modo in cui aveva imparato a cucire per fare cappellini ai suoi gatti. Al modo in cui la stringeva alle spalle, e si lasciava essere fragile, perche qualcuno ha detto questo, o ques'altro non capisce. Al modo in cui, con la gentilezza di un angelo, aveva baciato tutte le ferite quando l'avevano gettata fuori di casa.

Sì, se c'era qualcosa di magico, nel mondo, doveva essere nascosto nelle pieghe del viso di Kathy, doveva aver fatto nido nell'incavo della clavicola, e si manifestava negli occhi, nelle labbra, nel corpo gentile.

Kathy era tutta la magia del suo mondo.

 

iii. fearless

« Non ho più paura », sussurrò Kotori, stringendo le sue mani fra le proprie come cristalli e gemme, « non ho più paura, perché tu sei con me. »

Kathy socchiuse gli occhi; le lacrime offuscavano il suo viso, e per quanto cercasse di strapparsele via, per quanto volesse urlare che la stavano privando dell'ultimo brillìo prezioso degli occhi del suo amore, loro restavano lì, e continuavano a scendere, rotolando giù dal viso e imbrattandole la maglietta.

« Non andare. Ho paura. Io ho paura. Ho tanta paura senza di te. »

La ragazza rise, tossì, e poi le accarezzò il viso, lasciandole una striscia di sangue lungo il viso, con la dolcezza di un'amante che parve la violenza di uno schiaffo.

« Sarò sempre con te, Kathy. Sempre con te. »

Forse era vero che l'anima non esisteva. Che si perdesse il peso dell'anima nella morte era stato disprovato più e più volte.

Eppure, quello che uscì dal suo urlo quando sentì il suo nome in quell'ultimo respiro, qualsiasi cosa fosse, non poteva essere niente di umano.

 

iv. warmth

Quello che aveva caratterizzato la loro vita era stato indubbiamente il freddo. Non solo fisico – sembrava gli inverni non finissero mai, e le estati durassero un battito di ciglia –, ma emotivo, in una totale disconnessione fra sé e gli altri.

Kotori, prima di conoscere Yuuma, non era neanche sicura di cosa fosse l'affetto. I suoi genitori erano inesistenti, la sua vita piatta, monotona, ripetitiva.

Kathy, d'altro canto, aveva avuto solo i gatti e un'enorme casa vuota e triste sin dalla nascita.

Forse era stato naturale, allora, che anche solo lo sfiorarsi le avesse bruciate sotto pelle, come acido, allontanandole di chilometri, solo per tornare a cercarsi, caute, sorprese, bisognose della prima timida forma di puro amore della loro vita.

Kotori aveva letto da qualche parte che non esisteva il freddo, ma solo mancanza di calore. E aveva creduto non fosse possibile, perché per lei esisteva solo il gelo, terribile e incastrato nelle ossa, che le faceva stringere i denti, e cadere, e morire un pezzo alla volta. Eppure, quando per la prima volta quella ragazza l'aveva stretta fra le braccia, quando le aveva mormorato ti amo, per un attimo si era dimenticata come fosse fatto qualsiasi cosa che non avesse la consistenza del fuoco, il bollore di un vulcano, la bellezza dei petali racchiusi in scintille.

Si era stretta la giacca addosso, si era nascosta nella sua spalla. Aveva sorriso.

E aveva sussurrato, il respiro caldo che creava condensa, anche io.



note

Ehyo! Finalmente ho fatto il mio aggiornamento annuo a questa fic!
Quasi letteralmente.
In realtà se avessi fatto un aggiornamento all'anno adesso avrei un capitolo in più. Questo dice davvero qualcosa sul mio livello di consistenza uh?
Comunque!
Questa fic è... brevissima. Arriva a fatica ad essere una one-shot. Non ne vado neanche fiera. L'ho scritta in meno di un'ora, perché volevo aggiornare.
Sono pessima.
Anyway, loro due sono una ship bellissima. No, non potete cambiare la mia opinione. E no, non potete avere contesto per la iii perché non ne ho idea neanche io, volevo solo un po' di dolore puro.

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