Finché morte non vi separi - Atto I e Atto II

di lilly81
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I ***
Capitolo 2: *** Atto II ***



Capitolo 1
*** Atto I ***


“Finché morte non vi separi”

“Finché morte non vi separi”

di Lilly81

 

Che l’universo sia infinito è una leggenda.

Credendolo infinito, paradossalmente, l’uomo pone un limite alla propria conoscenza.

Non è altro che un esercizio irrisolto di metafisica quello di immaginare cosa ci sia al di là di un’ipotetica linea di demarcazione: pure un baratro potrebbe includere a sua volta un altro universo.

Il nulla, poi, è un concetto ancora più inafferrabile e spaventoso dell’infinito.

C’è da perdere la testa al solo ragionarci intorno, ma chi è abituato a viaggiare nel cosmo sa che non esistono baratri, né altri mondi, ma una comune barriera oltre la quale le capsule spaziali si fermano.

Lì finisce l’universo.

Quell’universo.

E come esistono dei confini, esiste pure un centro di quell’universo.

Non c’è mappa spaziale che non riconduca a quel punto mediano con precisione millimetrica ed è lì che confluiscono, ogni giorno, migliaia di razze in cerca di affari.

Il pianeta Oiko è il cuore pulsante del cosmo, il centro dell’economia, una babele di lingue.

Non importa che non abbia stelle, che la calotta di ghiaccio impedisca pure ad un filo di erba di crescere: c’è più ricchezza lì che su qualunque superficie fertile perché nessuno nell’universo ha il fiuto per gli affari quanto gli abitanti di Oiko.

Si immagini un popolo che, senza materie prime, senza moneta, riesca ad arricchirsi grazie al baratto. Possiede niente altro che ghiaccio, dall’origine dei tempi, e quello incomincia a scambiare con le lande più assolate e deserte.

Da allora giunge su quel suolo ogni genere di materia prima.

Non solo: si barattano tessuti, cibi, le cose più introvabili, le invenzioni più assurde.

E’ un continuo scambio di mani, articolato, preciso, non veloce come si crederebbe.

Occorre che il viandante presti attenzione, perché ogni oggetto che si dà ed ogni oggetto che si riceve deve avere il medesimo prezzo, né più, né meno.

E’ una giungla di rigore e burocrazia, ma sopravvive grazie a questo.

Possono trascorrere anche quindici ore di estenuanti trafile perché l’affare vada in porto, ma gli abitanti non conoscono né il giorno né la notte, e chi atterrà lì in cerca di qualcosa, anche la più introvabile, ci va perché ne ha bisogno.

Il problema, semmai, è di chi atterra senza possedere nulla e crede di fare il furbo.

In tal caso, sarebbe stato meglio per costui non averci mai messo piede.

Ogni cosa ha un prezzo: anche solo respirarne l’aria e calpestarne il terreno.

 

***

 

Nessuna coda, nessuna armatura, non quella tradizionale degli scagnozzi di Freezer: un saiyan, ancor prima che sollevi un dito e incenerisca un sistema solare, si riconosce dalla faccia, dalla fierezza del portamento, dalla superbia del sopracciglio.

Quello che aveva davanti era, senza ombra di dubbio, un saiyan e neppure un esemplare qualunque.

Erano decenni che non ne vedeva uno sul suo territorio.

L’ultima volta, un manipolo di scimmioni aveva barattato cinquecento orci di vino in cambio di un satellite.

Non si produceva vino in quelle remote terre senza sole e neppure sul pianeta Vegeta, ma i saiyan erano abili mercanti, a loro volta, oltre che spietati guerrieri.

Gli era sempre piaciuto fare affari con i saiyan. Il vino che riceveva da loro era sempre quello più pregiato e il suo palato adorava le cose raffinate.

“Cosa porti, saiyan?”.

“Cosa ti fa pensare che io sia un saiyan?”.

Il sovrano si lisciò i baffi e quella movenza produsse uno strano bagliore.

Gli abitanti di Oiko avevano una consistenza simile a quella degli spettri ed emanavano pallidi luccichii ad ogni movenza.

Eppure, nessuno usava il tatto più di loro. Attraversavano mura con la stessa facilità con cui mercanteggiavano oro o profumi.

“Dalla punta dei tuoi stivaletti”.

“Non hanno nulla di strano”, continuò a tenere lo sguardo alto, seppure seccato.

“E’ arrogante. Persino la punta delle tue scarpe è arrogante e l’arroganza di un saiyan puzza a miglia di distanza”.

Vegeta sogghignò.

“Suppongo che l’essere ricevuto dal sovrano in persona sia un vantaggio della mia stirpe”.

“No, non ti sbagli”. Solo le razze più pericolose erano introdotte al suo cospetto, ricevendo un trattamento riservato. “Hai evitato molte trafile per giungere fin qui. Non te ne sei accorto?”.

“Sono sei ore che attendo di essere ricevuto”, sottolineò caustico.

L’enorme lampadario di cristallo oscillò, proprio sopra la sua testa, e un tintinnio rimbombò tra le volte a crociera.

“Solo sei ore? Cosa vuoi che sia? C’è gente che aspetta da due giorni, ma per loro vale sempre la pena. Nessuno se ne va da qui senza essere ricompensato nella giusta misura”.

“La giusta misura…”, scandì il saiyan. “E’ un concetto che non conosco”.

Il sovrano emise un balenio di colore azzurro mentre sorrideva compiaciuto.

“E’ su questo pianeta che si stabiliscono i pesi e le misure. Siamo noi che diamo il prezzo alle cose. Tu devi solo fidarti”.

Un altro spettro attraversò il tappeto di porpora, si affiancò al trono e porse al sovrano un comune foglio di carta al quale era stato apposto un timbro di visto.

Questi lo passò in rassegna qualche istante, prima di dire:

“Dunque… c’è scritto che vuoi vendere un’invenzione, ma io non vedo niente tra le tue mani”.

“Infatti non ce l’ho tra le mani, è nella mia tasca”.

Re Nomia, incuriosito, lo incoraggiò, e mentre faceva cenno di avvinarsi, un bagliore, questa volta di colore verde, lampeggiò all’altezza del gomito e, come il riflesso di un’aurora boreale, si estese a più riprese lungo il petto.

“Allora, mostramela. Che aspetti?”.

Vegeta afferrò l’oggetto dalla tasca e glielo esibì tenendolo tra il pollice e l’indice.

“Tutto lì? Mi sembra una fiala da medicinale”.

“La dimensione e l’aspetto sono quelli, ma al suo interno può contenere qualsiasi cosa tu voglia”.

Era certo che quell’invenzione fosse soltanto una prerogativa dei terrestri e provò una soddisfazione quasi maligna nell’appurare il risultato prodotto: se fosse atterrato con un’astronave tra un popolo indigeno avrebbe suscitato, forse, meno scalpore.

Che sciocchi individui!

Erano il centro dell’universo solo per una questione geografica.

Fu un tripudio di scintillii di svariati colori e sembrava che tante fiammelle si fossero messe a danzare in mezzo all’ampio salone nel momento in cui mostrò la tecnica di incapsulamento.

Re Nomia non riusciva a credere che fosse tutto una questione di poli di attrazione e che bastasse applicare un dispositivo ad un oggetto perché venisse fagocitato dalla fiala.

“Non è nessuna magia, è tecnologia”.

Fu costretto ad arrendersi all’evidenza dei fatti quando vide che un’intera navicella poteva essere racchiusa semplicemente in tasca.

Una sola di quelle capsule avrebbe permesso di recuperare spazio nei depositi e raccogliere ancora più merce da destinare al baratto.

“Quale pianeta vuoi in cambio?”, fece allegramente alla fine, scintillando di bianco.

“Non voglio nessun pianeta”.

La perplessità gli stinse ogni colore e adesso quasi si faticava a distinguerlo sul trono mentre domandava:

“E allora cosa vuoi? Per cosa sei venuto?”.

“Voglio una donna”.

“Una donna?”, scoppiò a ridere e dal doppio mento partì un’altra scarica di colori. “E da quando i saiyan sono interessati ad una donna? Posso darti almeno cinquanta donne in cambio di quell’invenzione e tra le più belle”.

Sulla fronte stempiata la vena era già dura quanto un cordone:

“No. Me ne basta una”.

 

***

 

Bulma Brief non era una scienziata che si arrendeva facilmente.

Era almeno da dieci giorni che tentava di riprodurre in laboratorio il cosiddetto ossiobonio, un minerale di natura aliena prelevato dal suolo di Namecc, tra una ricerca e l’altra delle sfere del drago, con Freezer ed il suo seguito alle calcagna.

Era l’elemento mancante per completare l’ultima delle sue invenzioni. Ottenuto questo, avrebbe contribuito al progresso dell’umanità intera grazie alla costruzione di un manto stradale indistruttibile.

Niente più buche in cui forare le ruote o slogarsi una caviglia!

L’idea le era venuta proprio dopo la rovinosa caduta rimediata all’uscita dei grandi magazzini. Passasse pure sul dolore e sulla escoriazione, ma era stato assai mortificante rialzarsi e mostrare sulla calza una smagliatura più grossa di una vena varicosa.

Non importava nemmeno che sua madre, con le palpebre socchiuse e trasognate, annaffiando il vaso di ciclamini rossi sulla mensola in cucina, le avesse fatto notare che si poteva cadere anche senza finire in una buca.

Alla lista infinita dei suoi brevetti non poteva mancare l’asfalto indistruttibile.

“Forse Vegeta potrebbe suggerirci su quale altro pianeta trovarlo”, disse suo padre.

Non era molto convincente nelle sue vesti di uomo di scienza, quando si metteva a parlare con il gatto nero acciambellato sulla testa.

Tuttavia, Bulma decise di seguire il suo consiglio e di chiedere informazioni all’alieno con cui avesse più confidenza.

“Che vuoi che ne sappia?”, le disse il principe dei saiyan, interrogando il frigorifero e trovando più interessante il pezzo di formaggio che spuntava dietro il cartone del latte scremato.

“Ma se tu ne avessi avuto bisogno, dove avresti pensato di trovarlo?”.

“Non credo che questo ossobio… o come diavolo si chiama sarebbe stato un problema esistenziale”.

Ci mise pochi secondi ad inghiottire il pezzo di formaggio, il tempo necessario perché Bulma incrociasse seccata le braccia.

“Non ti ho chiesto di spiegarmi la composizione chimica o di fabbricarlo. Ti ho soltanto chiesto su quale pianeta trovarlo”.

“Sul pianeta Oiko, in genere, si trova tutto quello che esiste nell’universo”.

“Dista molto?”, fece interessata.

“Cinque giorni e sei lì, ma non te lo consiglio”, chiuse la porta del frigorifero con uno scatto del sopracciglio.

Bulma non si lasciò intimorire nell’apprendere in forma assai succinta - intanto che l’altro ripuliva con il cucchiaino l’intero vasetto di marmellata di ciliegie preso dalla dispensa - quanto snervante fosse la trafila del baratto o che la temperatura esterna al Palazzo degli Scambi si mantenesse costante intorno a -200 gradi celsius.

“Vorrà dire che userò la tuta spaziale che non ho indossato su Namecc. Che importa che non sia alla moda? Non devo andare ad una serata di gala…”, rimuginò giocando con il filo di perle che pendeva al collo.

A quell’osservazione assurda, il cucchiaino cessò di scavare nel vasetto, per poi riprendere con sdegnosa noncuranza. Questo era già vuoto quando Vegeta si sentì chiedere:

“Perché non vieni pure tu? Non abbiamo mai fatto un viaggio insieme. Potrebbe essere l’occasione giusta per cambiare un po’ aria”.

Aveva già programmato tutto in quella manciata di minuti.

Trunks sarebbe stato affidato ai nonni: all’età di quasi quattro anni non si sarebbe neppure accorto della sua assenza se lo avessero condotto tutti i giorni al luna park e gli avessero comprato scorte di caramelle.

“Il pianeta Oiko non è la meta giusta per una gita, ma se ci tieni tanto…”, la liquidò con un significativo gesto del braccio in direzione dell’uscita, “…sei libera di andarci da sola. Per cambiare aria mi basta non averti tra i piedi”.

 

***

 

L’enorme lampadario di cristallo oscillò ancora, producendo questa volta un tintinnio più sonoro, simile all’arpeggio di uno strumento a corde.

Re Nomia teneva particolarmente a quel lampadario, non fosse altro che erano secoli che pendeva indisturbato da quel soffitto.

Neppure un giovanissimo Freezer aveva osato minacciarne la collocazione quando si era presentato in persona, anni addietro, a vendere migliaia di schiavi in cambio di una flotta di astronavi.

A quanto pareva, quel saiyan non voleva una femmina qualunque, bensì era alla ricerca di una donna proveniente da un pianeta chiamato Terra.

“In quale sistema solare si trova? Non ne ho mai sentito parlare…”.

Vegeta non ebbe il tempo di rispondergli perché un essere dai bagliori violacei si avvicinò al sovrano e lo informò a voce alta che, da quando era stato eretto il Palazzo degli Scambi, non erano stati intrattenuti affari con nessun terrestre e meno che mai con una femmina.

“E’ atterrata qui almeno dieci giorni fa”, lo contraddisse Vegeta. “Cercava un minerale chiamato ossiobonio e in cambio avrebbe ceduto due veicoli di manifattura terrestre”.

Seguì un brusio, e tanti altri bagliori opalescenti presero a rincorrersi tra loro. Quando qualcuno annunciò che una terrestre era per davvero atterrata, ma non per acquistare ossiobonio, come si era detto, ma per essere ceduta, insieme ad altre due schiave, da una rappresentanza del pianeta Tragan in cambio di duecento libbre di senape, non solo il lampadario ma pure le mura furono scosse da una vibrazione sussultoria.

Eppure il saiyan se ne stava al centro dell’ampio salone, immobile e con le braccia incrociate e non un muscolo del suo viso pareva essersi scomposto.

Gli abitanti di Tragan erano noti pirati e a Vegeta bastò sentirli chiamare in causa per immaginare, sequenza dopo sequenza, come si fossero svolti i fatti: la navicella di Bulma doveva essere stata attaccata ancora prima di entrare nell’orbita di Oiko.

Dopo averla rapinata di tutto ciò che aveva, dovevano aver deciso di affiancarla alle altre due schiave per alzare il prezzo dello scambio.

Gli sembrava proprio di vederla mentre, tra migliaia di persone provenienti da mondi diversi, in fila per concludere i propri affari ai banchi dei baratti, si dibatteva e urlava che lei valeva molto più di duecento libbre di senape.

Considerato, altresì, che la temperatura, all’interno del Palazzo degli Scambi, fosse compatibile con il suo organismo, essendo circa di dieci gradi centigradi, era possibile che avessero venduto pure la sua divisa spaziale lasciandola letteralmente in mutande.

Le peripezie di Bulma non lo impensierirono affatto, al contrario, provò un perverso godimento nell’immaginare che, nel terribile istante in cui si era vista stringere le caviglie con una catena, avesse meditato “perché non ho dato ascolto a Vegeta?”.

“Allora, che cosa stai aspettando? Prenditi questa capsula e dammi ciò che ti ho chiesto”, ordinò Vegeta.

Re Nomia si grattò perplesso una tempia, dando l’impressione che le sue lunghe unghie penetrassero fin dentro il cervello.

Sembrava quasi di scorgerne la materia cerebrale tra un luccichio e l’altro della fronte appuntita.

“Hai diritto di ricevere la tua ricompensa, saiyan, sempre ammesso che la schiava in questione non sia stata frattanto venduta, il che è assai probabile essendo trascorsi almeno dieci giorni dal suo arrivo”.

Questa volta né il lampadario, né le possenti mura subirono vibrazioni.

Un’impercettibile contrazione si trasmise dalla mandibola fino alla gola e si esaurì nella pianta dei piedi, come se quell’energia silenziosa non avesse trovato altra valvola di sfogo e fosse implosa all’interno del suo organismo.

Vegeta racchiudeva in sé i misteri dell’universo intero, la genesi di un buco nero, lo spegnimento di una stella, il collasso di un pianeta; e il suo universo era per davvero infinito, senza linee di demarcazione, senza un epicentro.

C’era da perdere la testa al solo ragionarci intorno.

“Non ho altro tempo da perdere, trovala!”.

Ci fu un viavai di altre scintille, di brusii sommessi, di ordini impartiti.

Fu necessario interpellare i responsabili dei banchi di baratto, consultare i registri d’ingresso e quelli di uscita degli ultimi dieci giorni.

Le insidie di un apparato amministrativo sanno essere più pericolose di quelle a ridosso di un sistema solare. Il rischio di imbattersi in un buco nero o in un errore di calcolo è assai alto, ma pure l’eccesso di zelo, la precisione, il rigore, i timbri giusti, le autorizzazioni, i nulla osta possono scavare, talvolta, distanze incolmabili di anni luce.

Trascorsero, a rigore di precisione, altri quarantasette minuti perché due subordinati facessero il loro ingresso da un accesso laterale e conducessero una donna con addosso una lunga tunica grigia, di un tessuto ruvido e doppio simile al feltro.

Vegeta, che si era intrattenuto in piedi nella consueta posizione delle braccia incrociate, la vide avanzare barcollante.

Debole, sciupata, i suoi seni sotto il feltro non mettevano più soggezione ma avevano perso almeno due taglie di spessore, eppure i suoi occhi avevano la stessa intensità di azzurro che lui conosceva quando la sentì esclamare:

“Si può sapere perché diavolo sei arrivato soltanto ora?”.

“E’ questa la donna che cercavi?”, chiese conferma il sovrano.

Ma Bulma non diede all’altro neanche il tempo di rispondere:

“Certo che sono io! Quante volte devo ancora ripetere di essere una terrestre, che il mio nome è Bulma Brief, che sono una cittadina libera, che dei farabutti mi hanno rubato tutto ciò che avevo, che mi appello alle leggi intergalattiche, semmai esistono!”, e poi si voltò in direzione del saiyan, “…ti rendi conto come sono stata trattata?”, si batté il petto. “Venduta come una schiava per duecento libbre di senape! Io odio la salsa di senape! Io valgo più di questo pianeta e di tutti i vostri cervelli messi assieme!”.

Re Nomia la ascoltò con condiscendenza, mentre una goccia di sudore traluceva dalla tempia:

“Sei sempre sicuro di volere questa schiava? In cambio di quella capsula posso darti molto di meglio”, domandò a Vegeta.

Questi aveva socchiuso le palpebre, scaricando ancora sulla pianta dei piedi quel flusso di energia che partiva dalla mandibola e passava per la gola.

“Per cosa mi hai barattato, Vegeta?”, inquisì torva.

Vide che tra le mani egli aveva una comune capsula con il timbro della Capsule Corp.

“La mia intelligenza non ha prezzo! Io valgo più di una mia stessa invenzione! Io non sono un oggetto di cui disponete nella misura che volete! Ma che razza di posto è questo?”.

“La vuoi piantare sì o no?”, la ridusse al silenzio con un’occhiata omicida.

A lei non restò altro che scivolare con disperazione teatrale a terra, trascinando con sé il peso di quei dieci giorni trascorsi tra le gelide pareti di una cella:

“Ti supplico, portami via da qui… etciù!”, starnutì espellendo un moccio dal naso.

Ad intervalli più o meno regolari, già da diversi giorni, la febbre assaliva le fibre dei muscoli con qualcosa di simile a scariche elettriche.

Era stato proprio questo stato debilitato di salute a preservarla dal finire su chissà quale altro pianeta, poiché uno schiavo, ai sensi dell’articolo 34, comma 5, dello Statuto di Scambio, al fine di evitare il ribasso, non sarebbe potuto essere oggetto di baratto fino a quando non fosse stato nel pieno delle sue facoltà fisiche.

“Avanti, facciamola finita e concludiamo l’affare!”, fece spiccio Vegeta.

“L’affare non è proporzionato”, sentenziò il sovrano. “Il tuo oggetto ti scambio vale più del prezzo di una schiava. Dimmi di cosa altro hai bisogno e solo allora l’affare sarà concluso nella giusta misura”.

Bulma non aveva neanche più la forza per sentirsi offesa e si asciugò il naso con un lembo ruvido della tunica, l’ultimo rimasto asciutto. Un unico rossore, ormai, fungeva da ponte tra le labbra e le narici, sicchè non era facile distinguere dove finissero le une ed incominciassero le altre.

“Non ho bisogno di niente”.

“Non è possibile. Il baratto deve essere equo perché non si dica, al di fuori di questo pianeta, che gli abitanti di Oiko non conoscono la giusta misura. Mai nessuno è andato via da qui senza ricevere l’esatto compenso di ciò che ha dato”.

La pazienza di Vegeta, già messa a dura prova, incominciava a scendere sotto una soglia assai pericolosa. La pianta dei suoi piedi era ormai annerita e la prossima scarica di energia avrebbe trovato un’altra via di uscita.

“Forse, non è chiaro un concetto. Io sono venuto a prendermi quello che già mi apparteneva”.

“In che senso ti apparteneva?”, chiese Re Nomia, educato e gentile.

“Che era una mia proprietà”.

Bulma smise di asciugarsi il naso gocciolante e sentì che il suo cuore prendeva a battere più forte, ma non era per la febbre.

Alle sue orecchie, soltanto alle sue, un possessivo reso da Vegeta in modo tanto spontaneo, seppure egoista, era l’equivalente di una dichiarazione d’amore.

“Dai registri non risulta che fosse tua schiava. In che senso era una tua proprietà? Che valore aveva? Quale importanza?”.

Quando Vegeta incrociò lo sguardo di Bulma e vide che le sue ciglia fremevano come quelle di una fanciulla innamorata, sperimentò quel malessere fisico che più di tutti detestava: l’imbarazzo.

Non aveva mai provato imbarazzo prima di conoscere quella terrestre. Non sapeva neppure cosa fosse.

Preferiva essere massacrato dal nemico piuttosto che provare quello strano turbamento, così alieno alla sua natura.

Un saiyan non è stato creato per provare imbarazzo, nella stessa misura in cui non è stato creato perché si dedichi all’arte o alla musica.

Invece, aveva scoperto quella sensazione, per la prima volta, quando con audacia Bulma lo aveva invitato a casa sua insieme ai namecciani, dopo l’esplosione del pianeta Namecc; e continuava a subirla ogni volta che lei faceva fremere quelle ciglia.

Anzi, più passavano gli anni e lui più ne diventava facile vittima.

Era incredibile come bastasse un palpito dello sguardo per scuotere un universo.

Quell’universo senza epicentro e senza confini.

E se persino l’eternità non è altro che un battito di ciglia, quanta potenza può nascondersi sotto ognuno di quei battiti?

Bastavano due movimenti per ridurlo ad uno straccio!

“Adesso basta!”, urlò, e sul soffitto, in prossimità del lampadario, incominciò ad allargarsi la temuta crepa.

“Dunque…”, cercò di venirgli incontro il sovrano. “Tu hai detto di non volere altro che questa donna, e poiché è la prima posta quella che conta, secondo l’articolo 4 del nostro Statuto, io posso fare soltanto una cosa per alzarne il prezzo”.

Bulma tornò a starnutire, ma non aveva più lembi asciutti con cui strofinare le narici.

“Io non te la do come schiava”.

“Dammela come ti pare e piace”.

“Te la do come moglie. Una moglie ha un prezzo superiore a quello di una schiava. Affiancherò pure una dote e lo scambio sarà pari”.

Se Bulma ebbe l’impressione che tutti quei barlumi colorati fossero soltanto un’allucinazione dovuta alla febbre, Vegeta, invece, li vide danzare intorno come le fiamme dell’inferno.

Era già stato all’inferno e lì le fiamme bruciavano di meno.

La sua fronte grondava sudore mentre fuori dal Palazzo la temperatura era sotto i duecento.

“Come sarebbe a dire… moglie? Trova una via di mezzo!”.

Ma il Re Nomia sorrise, scintillando di nuovo di azzurro.

“No, non esistono vie di mezzo nel nostro Statuto. Una donna o è schiava o è moglie”.

Se Vegeta non distrusse il pianeta fu soltanto perché nessuno avrebbe raccolto i resti del suo corpo e perso tempo a ricomporli come quello di Freezer.

Pensare di lasciare Bulma alla sua sorte equivaleva, poi, ad arrendersi a quel suo battito di ciglia: i nemici, pure i più temuti, vanno affrontati sino alla fine.

“D’accordo”, assentì laconico. “Purché tra dieci minuti io sia fuori da quest’orbita”.

“Allora…”, allargò le braccia rilucendo ancora come un’aurora boreale. “Fatevi avanti”.

“Ma che cos’è questa storia?”.

Bulma sapeva soltanto che una di quelle fiamme colorate l’aveva sollevata, affiancata a Vegeta e condotta insieme a lui ad un passo dal sovrano.

“Non ci vorrà mica sposare sul serio? Io non sono pronta!”.

Dov’erano il vestito bianco, i confetti, le colombe, i fiori, il riso?

Dov’erano gli anelli d’oro?

A Re Nomia era stato consegnato un cofanetto e dal velluto rosso ne estrasse un pezzo di ghiaccio affilato quanto un coltello.

A quella distanza così stretta, le sfumature del suo corpo si erano accentuate e le dita parevano lunghissime e deformi.

Aveva le sembianze di un sacerdote empio quando afferrò i loro polsi:

“Vegeta, fallo smettere!”, tentò di divincolare il braccio, senza riuscirci.

“Sta zitta. Faremo i conti sulla Terra”.

Quelle dita penzolanti e lunghe erano talmente gelide, a dispetto del colore rosso di cui rilucevano, che Bulma sentì la temperatura corporea abbassarsi di colpo.

Ma fu un istante.

Un intenso calore si concentrò all’altezza del polso quando il ghiaccio affilato lo incise di netto.

Pure Vegeta, il cui corpo recava il ricordo di ferite più profonde, sgranò gli occhi nel momento in cui vide il proprio polso stringersi a quello di Bulma ed il loro sangue divenire un’unica cosa.

“Vi dichiaro marito e moglie, finché morte non vi separi”.

Bulma perse i sensi e cadde ai piedi del trono.

“Ecco, bravo. Hai trovato il modo per farla stare zitta”, commentò Vegeta.

Poi, consegnata la capsula nelle mani di Nomia, così come pattuito, sollevò la donna rudemente e si avviò all’uscita.

 

***

 

Il ghiaccio calpestato produce un rumore tutto suo, soprattutto quando intorno ogni altro rumore tace.

Un mondo di ghiaccio e neve sembra essere fatto apposta per starsene in un’ampolla infrangibile di vetro, pronto a capovolgersi se qualcuno lo scuote appena.

Bulma subiva quella nenia con gli occhi socchiusi, senza che le fosse ancora chiaro cosa o chi generasse quel calpestio.

Sapeva solo che qualcuno la stava sospingendo in avanti, non sapeva come, però lo trovava comodo e rassicurante:

“C’era tanta confusione quando sono atterrata”, mormorò debolmente. “Dov’è finita tutta quella gente? Non sento nulla. Sono morta?”.

“E pensi di morire per colpa di un taglietto?”.

“No, non era un taglietto, ho visto tanto… tanto sangue. Non si trattava di un sogno”.

Nel delirio di quei giorni, generato dalla febbre, aveva fatto molti incubi ma niente che avesse avuto a che vedere con il sangue, almeno non il suo.

Aveva, difatti, vaneggiato sulla distruzione di quel pianeta e sulla morte dei suoi sequestratori, ma lei si era vista incolume a vagare nello spazio con le catene ai piedi.

Sembrava che anche ora stesse delirando.

Dopo essersi congedato dal sovrano senza altri convenevoli, a Vegeta era stato indicato un sentiero alternativo da seguire, assai distante da quello dei banchi del baratto.

Qui c’era niente altro che ghiaccio, sottoforma di aguzzi profili, incastonato nel colore plumbeo della notte.

Il sospiro di lei gli andò a vellicare la piega tesa del collo:

“Vegeta…”, mormorò ancora.

“Cosa hai da ridere, ora?”, le chiese duro.

A lei restò l’ombra svanente di quel sorriso. Era debole, ma riuscì a dire:

“Sto pensando che mi stai conducendo alla navicella tra le tue braccia. E’ tradizione che lo sposo entri in casa portando così la moglie. Lo sapevi?”.

“Non dire idiozie. Potrei sempre gettarti a terra e trascinarti per i capelli”.

Era talmente leggera che, per essere sicuro di avere davvero qualcosa tra le mani, esercitò un’ulteriore pressione delle dita.

“No… non lo faresti”.

“E come fai ad esserne sicura?”.

“Perché se tu in questo momento mi lasciassi cadere, io morirei”.

Solo quando riuscì ad aprire piano gli occhi, riconobbe il prezioso oro del supersaiyan e comprese, allora, da dove venisse quel meraviglioso tepore che le invadeva le membra.

A meno di duecento gradi il vento spirava mortale, ma non un alito attraversò la stoffa di quella tunica di feltro.

Loro stessi sembravano chiusi in un’ampolla di vetro infrangibile.

“Sta zitta, Bulma”, pure il suo fiato era caldo e corroborante. “Non ti conviene suggerirmi in che modo farti morire”.

“Grazie per essere venuto”, sussurrò, chiudendo di nuovo gli occhi.

“Io non sono venuto per te, ficcatelo in testa!”.

“E per chi allora?”.

“Avevo, forse, alternative, oltre a quella di debellare tutta la tua stirpe?”.

Non gli era stata concessa tregua da quando il dott. Brief aveva perso le coordinate della navicella di Bulma.

Sua madre era stata così distratta e preoccupata - a modo suo, sia chiaro - da dimenticare Trunks al luna park in più di un’occasione. L’ultima volta, l’aveva vista rincasare con i palloncini colorati e lo zucchero filato, ma senza il bambino.

Il vecchio, poi, aveva pensato di mettersi egli stesso in viaggio con quel gatto acciambellato sulla testa.

Il principe dei saiyan non era partito in cerca di Bulma: si era dato letteralmente alla fuga.

Quando il sentiero di ghiaccio si allargò, Vegeta arrestò il passo, fece esplodere una capsula ed una navicella si materializzò davanti a loro.

Una volta che furono dentro, avanzò ancora di qualche passo, e su una poltrona in velluto rosso, accanto al posto di guida, Bulma si ritrovò gettata senza alcuna galanteria.

“Ahi! Ma che modi sono?”.

Il rombo dei motori servirono a farla ritornare bruscamente in sé e, usciti dall’orbita, le restarono solo i tremiti della febbre e gli starnuti del catarro.

Fortunatamente, nel kit di pronto soccorso trovò l’antipiretico e dopo venti minuti il terribile cerchio alla testa incominciò a perdere spessore.

Riuscì pure a mangiare un pasto caldo e decente e a fare un bagno, ma non ebbe il coraggio di togliersi quel fazzoletto nero che le era stato messo intorno al polso.

“Mio padre è sempre il solito. Si è preoccupato di inserire l’impianto stereofonico e non ha pensato di mettere una crema idratante tra le boccette del bagno”, disse quando ne venne fuori.

L’ambiente era talmente caldo e confortevole da potersene andare in giro in mutande e canottiera. La tunica di feltro, invece, era stata gettata in una pattumiera e lanciata eloquentemente nello spazio insieme allo scarico del water.

Non era certa che si sarebbe più ripresa dal freddo patito all’interno di quella cella e preferì alzare di altri due gradi la temperatura dell’abitacolo.

Vegeta, intanto, se ne stava disteso sul letto con un braccio incrociato dietro la nuca ed il petto scoperto.

Nel sedersi accanto, Bulma sentì che, sotto le lenzuola, il materasso era ancora avvolto dal cellophane.

Non c’era alcun fazzoletto intorno al polso del saiyan e la ferita, già rimarginata, era soltanto uno dei tanti tagli cesellati sulla pelle.

O forse era l’altro braccio ad essere stato inciso?

Eppure, neanche quello incrociato dietro la testa recava tracce di medicazione.

“Mi brucia, mi brucia terribilmente”, disse la donna con gravità, riuscendo appena a sfiorare la stoffa del fazzoletto.

Pure a lui insolitamente bruciava e per questo lo aveva nascosto dietro la testa, soltanto che non l’avrebbe mai confessato.

 “Volevo dirti che questo matrimonio non ha alcun valore per me”, lo informò Bulma, afferrando un cuscino e portandoselo in grembo.

“Allora la pensiamo allo stesso modo”, mormorò lui, guardando il soffitto metallico.

“Non intendevo in quel senso”, sospirò l’altra, senza risentirsene. “Intendevo dire che io mi reputavo già tua moglie”.

“E sulla base di cosa?” sogghignò tagliente.

“Abbiamo o non abbiamo un figlio insieme? Mi bastava questo, mi bastava sapere che eri rimasto con noi, malgrado tutto”.

Ora, dal momento che lui continuava a trovare interessante il soffitto di metallo, a lei non restò altro che sistemare il cuscino e distendersi accanto.

“Credo di essermi persa qualche passaggio. Quell’essere avaro e saccente ha parlato anche di una dote. Che cosa ti ha dato?”.

Quando il sovrano gli aveva concesso l’opportunità di scegliere il corredo, a condizione di rispettare la proporzione, a Vegeta era venuta in mente la ragione per la quale Bulma avesse intrapreso quella rotta.

Sarebbe stato umiliante far ritorno sulla Terra a mani vuote, soltanto con Bulma come trofeo, e così si era fatto dare una scorta di ossiobonio.

“Davvero?”, fece l’altra senza entusiasmo.

Con le catene ai piedi, denutrita ed ammalata, aveva pensato di non volerne più sentire parlare.

“Non sono certa che l’asfalto indistruttibile riscuota successo. I costi sono troppo alti”.

Pure per Vegeta il prezzo era stato alto e quel taglio all’altezza del polso continuava a  bruciargli inspiegabilmente:

“Non ti azzardare più a farti venire in mente simili idee. La prossima volta te la caverai da sola”.

“Puoi star certo che non metterò più piede su quel pianeta. Io detesto la salsa di senape…”, le venne in mente, come in un rinnovato delirio. “Io valgo più di duecento libbra di senape”.

Ma Vegeta non aveva intenzione di starla più ad ascoltare e con il telecomando spense le luci.

Il rombo dei motori era un sottofondo al quale era abituato fin da bambino e non sarebbe stato questo ad impedirgli di dormire.

Nella sua infanzia, semmai l’aveva avuta, non erano esistite ninna nanne ma soltanto quel rumore di fondo, sempre uguale e monocorde, di pianeta in pianeta.

Bulma continuò a scrutare le ombre nere realizzate dai led intermittenti del monitor di guida, poi esordì in una specie di monologo:

“Avevo sempre immaginato che la mia prima notte di nozze sarebbe stata diversa da questa…”.

Al buio, il contorno delle narici riluceva della crema lenitiva trovata tra i medicinali ed effondeva un odore di ossido di zinco e di aloe.

Vegeta riaprì gli occhi e il tetto di metallo apparve questa volta come un’enorme massa scura. Era la prima volta che si ritrovava a viaggiare nello spazio in compagnia di una donna e comprese la ragione per cui le capsule spaziali dei saiyan fossero fatte per accogliere una sola persona.

“Ed invece mi reggo a stento in piedi, ho la pelle secca e i capelli increspati. Non ho niente di sexy da indossare. Non sono mai stata più impresentabile di come sono ora. Non era così che doveva essere la mia prima notte di nozze. Non c’è nulla di romantico in tutto questo”.

“Sei venuta a letto con me un’infinità di volte. Non vedo cosa ci dovrebbe essere di diverso proprio questa notte”, fece cinico.

Lei si mise su di un fianco e avvolse una gamba intorno a quella di lui. Sapeva bene che la prima notte era passata da un pezzo, tuttavia, quella fitta lancinante, che dal braccio si estendeva fino alle unghie spezzate e senza smalto, le dava la sensazione che qualcosa fosse stato siglato per davvero.

I polsi di entrambi martellavano all’unisono.

“Io non pretendevo nulla di speciale…”, mugugnò. “Ho sempre immaginato due coppe di champagne, un fuoco acceso, le lenzuola di seta, magari una notte stellata…”.

“Una notte stellata?”, storse il labbro. Con un gesto quasi disgustato azionò il telecomando ed il tetto di metallo si divise in due parti per lasciare spazio ad una cupola trasparente.

Il cosmo intero si spalancò davanti ai loro occhi, concentrato in una nebulosa, a forma di anello, dalle sfumature dell’amaranto più spettacolari.

Quell’universo apparteneva soltanto a loro e, per quanto infinito fosse, seppure si fossero persi di vista, non si sarebbero mai smarriti del tutto.

“Scommetto che sulla Terra non hai mai visto niente di simile...”.

 

FINE

 

 

Preciso che questa storia trae spunto da una mia ff, assai acerba e datata, dal titolo “Dopo il Cell-game: nuova versione”, della quale, per mia fortuna, si è persa ogni traccia in rete.

Credo che una copia di questa sia custodita in un floppy disk confinato nell’angolo più nascosto del cassetto della scrivania, ma ho pensato fosse tempo sprecato anche solo andarlo a recuperare.

Già il fatto che ci sia un floppy disk a fare da supporto, vi fa pensare quanto la suddetta storia possa essere vecchia.

Piuttosto, il mio obiettivo era quello di recuperare l’idea principale, ovvero il matrimonio celebrato con un rito non canonico, e sviluppare una storia completamente nuova.

Detto ciò, non mi resta che ringraziarvi per essere arrivate/i a leggere fino a questo punto.

 

 

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Capitolo 2
*** Atto II ***


“Finché morte non vi separi…”

ATTO II

 

L’universo poggia in perfetto equilibrio su di un filo invisibile, estrapolato dal caos primordiale da cui il tutto ha avuto origine.

Dita soprannaturali lo hanno srotolato con pazienza, palmo a palmo lo hanno intrecciato di materia indistruttibile, ricavata dall’impasto di secrezioni orali e polvere infinitesimale. 

Flessibile agli scuotimenti e pronto a rigenerarsi ad ogni strappo, il collasso di un pianeta non è altro che un punto di sutura che cede d’improvviso: su un tessuto di metraggio incalcolabile, seppure di manifattura divina, esistono difetti lasciati apposta a decretarne l’autenticità.

Dal caos, dunque, discendono perfezione ed equilibrio.

Stelle, pianeti, galassie e sistemi, assecondando l’estro di un sarto raffinato e la logica di una mente matematica, sono incastonati geometricamente su di un drappo scuro impreziosito di diamanti, ma esiste un pianeta sul quale, per le dimensioni assai ridotte, questa perfezione ed equilibrio, questa sintesi di creatività e rigore, si sono concentrate più che su tutti gli altri.

Non c’è filo d’erba che nasca tanto per spuntare, né granelli di polvere sospinti dal vento solo per la leggerezza del loro essere.

Esegue una danza su sé stesso senza improvvisazioni; con un ritmo sempre uguale, scandisce l’alternarsi del giorno e della notte dall’origine della sua creazione.

Gli esseri che lo popolano hanno una mente talmente vivida da far credere quasi, a chi viene da lontano, che abbiano creato loro l’aria, la luce, il fuoco, il buio.

Sono una popolazione folta, gran parte ammassata in spazi assai ristretti.

Amano l’arte, la musica, fanno la guerra e l’amore.

Uomo e donna, con la perfezione simmetrica dei rispettivi corpi, sono creati per fondersi in una carne sola, di generazione in generazione, e la maggior parte di essi, per assicurare la sopravvivenza della razza, non segue istinti primitivi, ma si avvale di riti assai antichi che sanciscono la loro unione e la rendono sacra.

Nessun pianeta è talmente perfetto e bello quanto questo.

La Terra.

 

***

 

Era davvero graziosa vestita di bianco, il filo di perle intorno al collo, le peonie color rosa tra le mani, un fiore bianco tra i capelli raccolti.

Per tutti aveva avuto un sorriso, come si confà ad una sposa nel giorno più bello della sua vita; un accenno appena abbozzato - seppur non ricambiato - persino per il principe dei saiyan, che adesso se ne stava in piedi, con la schiena poggiata contro la corteccia di un alto cedro del Libano e le scarpe nere e lucide inzaccherate di terriccio e di fili d’erba.

Non c’era stato modo di convincerlo ad indossare una cravatta, ma la camicia grigio chiaro, nella quale se ne stavano compressi i suoi muscoli, camuffate le cicatrici, sedate le vene pulsanti di istinti guerrieri, era di manifattura assai elegante ed emanava un pallido riflesso ai raggi del sole.

A sancire la libertà di quel pomo d’Adamo sempre proteso ed indurito, neppure l’ultimo bottone era stato agganciato.

Così agghindato, nel punto preciso in cui l’invalicabile natura aliena diradava verso quella appena più umana e dove Bulma era incappata qualche anno addietro, si accentuava del suo aspetto quel non so che di fascino selvatico e tenebroso.

Son Goku sopraggiunse alle sue spalle.

Pure lui, dismessa la consueta tuta arancione, faceva insolitamente sfoggio di una giacca nera ed una cravatta bianca, della quale, se non fosse stata per l’intransigente moglie Chichi, avrebbe fatto volentieri a meno.

Un saiyan costretto a mangiare con la cravatta non è diverso da un fuggiasco costretto a correre con le catene ai piedi.

“E’ da cafoni togliersi la giacca. Non è un pranzo qualunque, siamo ad un matrimonio”, si era sentito rimbeccare davanti all’enorme arrosto di cinghiale, tutto per lui, portato sulla spalla da quattro camerieri in divisa bianca.

In un banchetto tanto lauto, tra profumi di spezie, carni alla brace, pesci fritti, pregiati calici di vino, cesti di frutta di ogni specie, pignatte di nabemono, vassoi zeppi di onigiri, piatti traboccanti di gyoza con salsa di soia e di aceto di riso, era difficile esigere compostezza persino da un terrestre a dieta.

Figurarsi un alieno, e tra quelli più ingordi, per giunta!

Così, avendo ingaggiato una strenua battaglia contro quel nodo scorsoio che aveva al collo e le scarpe che gli andavano strette sotto al tavolo, con la compostezza di un terrestre e la voracità di un saiyan, aveva inghiottito tutto quello che gli era stato portato avanti, nell’ordine rigoroso indicato dal papiro arrotolato su ogni tavolo.

Non solo aveva consultato il menù a più riprese per assicurarsi che ogni portata non fosse l’ultima, ma addirittura aveva chiesto a Chichi di conservarlo e di portarlo a casa, così da riproporre a pranzo o a cena, in un giorno qualsiasi, almeno la metà di quello elencato.

“Scommetto che anche tu detesti ballare”, disse allentando il famigerato nodo al collo e lanciando finalmente un sospiro di liberazione.

Su per l’esofago, di riflesso, gli ritornò il sapore piccante del brodo di polipo.

Da lontano sopraggiungeva una danza popolare eseguita al ritmo dei taiko e con le corde dei biwa.

Vegeta continuò a restare nella posa granitica di chi non si sarebbe schiodato da lì neppure in cambio della vita eterna.

Non che questa gli suscitasse interesse - sia chiaro - in quella fase della sua vita, dove il radar cerca-sfere era a portata di mano nel cassetto di Bulma accanto al letto, tra le mutandine ricamate, i reggicalze, il sacchetto di lavanda e le pillole anticoncezionali.

“Mai mi metterei a ballare”, seguitò Goku, osservando una lucertola attraversare pericolosamente un ramo, appena al di sopra della spalla di Vegeta. “Forse, lo farei soltanto se, mettiamo il caso, da questo dipendesse il futuro della Terra…”, la mise in salvo, deviandola in direzione della sua mano e adagiandola sul terreno.

“In tal caso, per me la Terra potrebbe pure collassare”, ribatté Vegeta.

Fu quando egli tolse le mani dalle tasche dei pantaloni, per incrociarle significativamente al petto, che Goku si accorse di una macchia scura che ghermiva poco alla volta il polso sinistro.

“Ehi, ti sei ferito?”, gli indicò il polsino della camicia.

A Goku parve proprio sangue e non cioccolato e - poiché il suo interlocutore aveva un passato di stragista intergalattico - si guardò intorno per vedere se tra l’erba spuntava il cadavere di qualcuno, magari proprio di quel cameriere con i baffi rossi che, per ben due volte, aveva dimenticato di passare con il vassoio di yakitori arrostiti intorno al suo tavolo.

Solo un istante durò la contrazione preoccupata ai lati dell’ampia stempiatura:

“Bada agli affari tuoi. Neppure la tua cravatta è pulita”, accennò ad una chiazza giallognola di fritto e tornò a fiondare le mani nelle tasche, al sicuro.

Un calpestio di erba annunciò l’arrivo di Bulma, ed il principe dei saiyan, allora, capì che la quiete di quel cedro del Libano, conquistata alla fine del banchetto, quando ormai l’ultimo vassoio di cubetti di gelatina alla frutta era stato portato via e sugli orli dei bicchieri erano rimaste soltanto le impronte unte delle loro labbra, era irrimediabilmente compromessa.

“Ti stavo cercando per la fotografia di rito…”.

E allora Goku vide le fronde dell’albero scuotersi all’improvviso e non era certo che fosse stato il vento.

“Questo è troppo, ti basta Trunks al mio posto!”.

“E dai! Cosa vuoi che sia una fotografia? Persino Piccolo si è messo in fila!”.

E dove non riusciva più la prospettiva di vita eterna, ci riuscivano due occhi azzurri ed una graziosissima frangetta dello stesso colore.

Pure un bel paio di gambe e due turgidi seni, si sarebbe aggiunto in uno spogliatoio di uomini.

Si schiodò alla fine da quel tronco e si incamminò con lei, ma soltanto quando gli fu garantito che non c’era nulla per cui mettersi in posa, che lo scatto sarebbe stato rapido ed indolore, che non era tenuto a guardare l’obiettivo, che Trunks aveva tutto il diritto di conservare per intero il ricordo di quel giorno che ormai volgeva al termine.

Per non affondare con le scarpe nel terriccio più molle, Bulma dovette allungare una gamba e sondare la stabilità di una zolla ghiaiosa, ma per farlo poggiò la mano sulla spalla di Vegeta, producendo un tintinnio tra i grossi bracciali con cui aveva coperto il polso sinistro.

Il saiyan registrò quel dettaglio con un’altra di quelle sue contrazioni ai lati dell’ampia stempiatura, ma non disse nulla.

“Non riesco a capire per quale ragione Gohan e Videl si siano voluti sposare in questo posto!”, si lamentò la donna. “Potevano permettersi gli alberghi più lussuosi, le residenze più eleganti, per non parlare della villa di suo padre! Avrei messo a disposizione, volentieri, anche i giardini di casa nostra!”.

Ma Videl, prima di archiviare il costume da paladina della giustizia nell’armadio, si era conservata gli ultimi scampoli di mascolinità giusto per imporre, contro il parere di Mister Satan, una cerimonia semplice, senza troppi fronzoli; e così, alla fine, era stata allestita una grossa tenda berbera, color dell’oro, ai piedi dei Monti Paoz, accanto ad un suggestivo casale con le assi di legno e le tendine di velluto antico.

Mister Satan aveva dovuto rassegnarsi ad accompagnare la figlia senza la presenza delle telecamere, su di un tappeto bianco neppure tanto lungo, dispiegato tra fiori di campo con le teste all’ingiù.

La pioggia della notte, infatti, aveva impaludato il terreno circostante ed anche ora, sull’imbrunire, le nuvole avevano ripreso ad ammucchiarsi con intenzioni minacciose.

“Tanto valeva che organizzassero un picnic sull’erba!”, seguitò a lagnarsi, schivando appena in tempo un’altra pozzanghera, senza che Vegeta le rivolgesse un minimo di attenzione o le offrisse un’altra spalla.

Ma tra i tavoli di vimini disposti sotto la tenda berbera, addobbati con vasi di ranuncoli selvatici, non si era badata ad alcuna forma di risparmio ed i migliori chef erano stati convocati per satollare intestini fuori dal normale.

Lì si erano radunati gli amici più intimi, quelli di ogni battaglia, di ogni nemico.

Giusto qualche mese dopo la sconfitta di Majinbu, Muten si era domandato, sulla sdraio della sua isoletta, sventolando l’invito ricevuto, se la fretta di quelle nozze fosse dovuta ad un’imprudenza commessa da Gohan.

Ma Gohan era un ragazzo a posto, che aveva soltanto voglia di sposare quanto prima la sua prima ed unica ragazza, emancipandola da un padre un tantino geloso.

Lo conosceva bene sua madre Chichi, che per la prima volta, dinanzi alla prospettiva di imparentarsi con Mister Satan e con tutto il suo impero - guai prima a ricordarle che questo fosse stato conquistato a spese di suo marito! - non aveva pensato su quale spiaggia gli studi di suo figlio sarebbero andati a naufragare dopo il viaggio di nozze.

Anzi, era fermamente convinta che la vita da sposato e, in seguito di padre, lo avrebbero allontanato, una volta per tutte, da quel gruppetto di supereroi fanatici di cui suo marito era il leader.

I preparativi delle nozze, in effetti, avevano già smussato un po’ la massa muscolare del ragazzo e l’oculista gli aveva riscontrato qualche cenno di astigmatismo.

“Non c’è niente di più romantico di un tramonto tra i monti Paoz! Non dimenticherò mai i pomeriggi trascorsi insieme a Gohan, lì ad allenarci!”, con questa osservazione tanto appassionata, inclusa nella strategia di figlia femmina alla quale niente si nega, Videl aveva guardato il buon Mister Satan, e questi non aveva potuto far altro che sospirare in segno di resa - cosa che gli riusciva assai bene - e dimenticare le schiere di giornalisti, le telecamere, i fuochi d’artificio, i castelli, le isole private e accompagnare la sua prediletta su di un tappeto bianco in mezzo a comunissimi fiori di campo, neppure tanto rigogliosi.

Purtroppo, la povera Videl, neanche a farle il peggiore dei dispetti, aveva dovuto rinunciare ad assistere, proprio nel giorno più felice della sua vita, al dipinto infuocato che il sole, al tramonto, abbozzava dietro le cime smerlate dei monti Paoz.

Un ticchettio leggero, difatti, prese a battere sul tessuto impermeabile della tenda berbera quando Bulma raggiunse il gruppo, in procinto di eseguire, ciascuno con le rispettive famiglie, la foto di rito con gli sposi, seguita a debita distanza da un riluttante consorte, che, per la frazione di un flash, volentieri avrebbe rispolverato il suo passato di stragista intergalattico.

 

***

 

"Possiate essere felici ogni giorno della vostra vita, nelle grandi e nelle piccole cose...".

Bulma aveva più dimestichezza con i numeri piuttosto che con le lettere, ma quel rigo scribacchiato su di un cartoncino augurale di colore bianco, tanto per accompagnare l'assegno sostanzioso che fungeva da regalo di nozze, era stato scritto con il cuore.

Nessuno meglio di lei sapeva come la felicità di una coppia risiedesse nelle piccole cose di tutti i giorni: due tazze di cioccolato caldo mentre fuori piove, ad esempio, oppure un risveglio indolente tra due possenti braccia e la scoperta di non esserci finita lì per caso.

Nella sua vita di coppia, persino un battito di ciglia, la carezza di una mano senza guanto, un respiro accelerato al di fuori della stanza gravitazionale, l'indugio di uno sguardo, una ruga in più ai lati della bocca avevano avuto importanza.

Così sarebbe sempre stato.

E quando persino un bacio a fior di labbra, scambiato d'improvviso in un momento qualunque della giornata, riesce ad essere appagante quanto una notte infuocata, è lì, allora, che si trova la felicità.

Il rovescio della medaglia, semmai, è riflettere qualche istante in più del dovuto se menzionare il nome di Vegeta in basso al cartoncino, e alla fine optare per un più comodo "Con affetto, famiglia Brief".

Gohan si aggiustò gli occhiali sul naso per sincerarsi di averci visto giusto:

"E' davvero generoso da parte tua... Sono senza parole!".

"Figurati!", minimizzò Bulma."Sono cifre alle quali ti abituerai. Piuttosto, fanne buon uso".

"Credo che mi pagherò tutti gli studi universitari e anche oltre...".

"D'accordo", gli strizzò un occhio. "Ma divertiti pure! Che darei per avere ancora la vostra età!".

Ma il seno, che spuntava al di sopra del voilà di un’elegante camiciola a pois con le spalline basse, poteva ancora competere con quello di una ragazza dell’età di Videl.

Ci furono altri scambi di regali e molti altri brindisi.

La sposa, ancora una volta, ringraziò i piccoli Goten e Trunks per il dono dell’acqua termale attinta direttamente alla fonte.

Non fu chiaro, sul finire della cerimonia, quando i due novelli sposi furono sul punto di accomiatarsi in direzione del casale con le assi di legno e le tendine di velluto - dove avrebbero trascorso la prima notte - da quale tavolo partì lo scroscio di applausi, ma pure Dende, sacerdote di quelle nozze, con lo slancio della sua giovane età, finì per unirsi al coro acclamante “Bacio! Bacio!”, per poi incrociare lo sguardo severo di Piccolo e tornare a piegare il collo intimidito.

“Tu sei una divinità, queste cose lasciale ai terrestri!”. 

Orbene, se c’era un pesce fuor d’acqua a quel banchetto era proprio il namecciano, forse anche più di Vegeta, perché a lui sfuggiva quella logica per cui un uomo, ad un certo punto della sua vita, ha bisogno di trovarsi una donna e tra le tante ne sceglie una in particolare.

Vomitato dalla scellerata bocca del suo genitore sotto forma di uovo, la gamma dei suoi sentimenti non andava oltre quella di un padre per il figlio e tale era il suo bene per Gohan.

Per il resto, nell’attrazione tra terrestri e saiyan percepiva qualcosa di torbido - seppure utile alla loro riproduzione e sancito da riti sacri - che un cuore puro come il suo non ammetteva.

E quell’impurità si fece ancora più ignota quando Muten, un po’ su di giri, dopo il bacio casto che un imbarazzato Gohan poggiò sulla bocca della sua sposa, esclamò: “Farebbero meglio a riscaldarsi un po’ quei due…”.

Vegeta, intanto, trovò più interessante osservare la pioggia che tornava a raccogliersi nelle stesse pozzanghere scavate dalla notte prima.

Il tappeto bianco era ormai un tutt’uno con il fango e con l’erba, anzi dava l’impressione di essere una sequenza di grosse pietre di porfido.

Quando vide gli sposi correre in direzione del casale ed il velo impigliarsi nella porta sbattuta dal vento, trovò quell’immagine di un’eloquenza… sarcastica ed intuì finalmente che quella giornata volgeva al termine.

Eppure, quando si voltò, vide che gli ospiti se ne stavano ancora a chiacchierare, comodamente in piedi, e che nessuno mostrava l’urgenza di volersi accomiatare, tanto meno Bulma che, per tutta la giornata, non aveva fatto altro che lamentarsi dell’unghia incarnita dell’alluce destro a causa della scarpa troppo stretta.

Vegeta pensò che le avrebbe incarnito anche l’altra unghia se solo ella gli avesse chiesto di trattenersi ancora.

Terminato un banchetto, un saiyan che si rispetti gira i tacchi senza troppi convenevoli, ma Kakaroth  non era un saiyan come tutti gli altri e, libero dal nodo scorsoio della cravatta e dimenticata la giacca nel bagno, se ne stava seduto sopra un tavolo ad inghiottire manciate di confetti:

“Deliziosi questi… gnam… gnam… ma a che gusto sono? Sembrano gnam… gnam… al sapore di ricotta e pera! No… gnam gnam…”, arraffò da un’altra ciotola. “Questi sanno di limone! Ah, che bontà! Io adoro i matrimoni! Ci andrei anche solo per mangiare confetti!”.

“Anche a me piacciono i matrimoni”, aggiunse Bulma. “Ma bisognerebbe permettere agli invitati di venire scalzi. Ho i piedi distrutti!”.

“A proposito…”, le fece Goku, puntando nella sua direzione un dito accusatore. “Tu sei stata un po’ cattivella…”.

“Dici a me?”, Bulma smise di centellinare lo champagne.

Per la sua spontaneità ed il buonumore, Goku aveva la capacità innata di calamitare l’attenzione di tutti e persino Vegeta si ritrovò a prestargli ascolto, domandandosi, però, se i confetti fossero ripieni di vodka e di rum piuttosto che di ricotta e pera.

Goten e Trunks, invece, continuavano a rincorrersi tra i tavoli, gettandosi l’uno contro l’altro i coriandoli bianchi sparati al momento della torta.

Agitati dai loro sbuffi, parevano fiocchi di neve danzanti sopra i tavoli sparecchiati.

“Sì, esatto. D’accordo che io ero all’altro mondo…”, mandò giù un altro pugno di confetti al gusto di cocco. “Ma potevi almeno invitare Chichi quando tu e Vegeta vi siete sposati”.

“Idiota che non sei altro!”, l’apostrofò questi.

Nell’impeto, liberò la mano sinistra dalla tasca dei pantaloni, ma nessuno si accorse del sangue ormai coagulato sull’orlo del polsino.

“Io e Bulma non ci siamo mai sposati!”.

“Ah no?”, si grattò la testa pensieroso. “E allora perché dite… mia moglie o mio marito?”.

Goku ricordava bene che, in merito alla fotografia di Bulma promessa a Kaioshin, Vegeta aveva dichiarato senza mezzi termini che Bulma era sua moglie.

“Io chiamo mia moglie come mi pare e piace!”.

Ecco che proprio lì, sugli zigomi di Vegeta, geneticamente predisposti a ricevere pugni e cazzotti quando non era egli a suonarne di santa ragione, si addensò un inusuale velo di imbarazzo.

“Che ti dicevo? Anche ora l’hai chiamata moglie!”.

“Tesoro…”, intervenne Chichi, ma non fu affatto di aiuto. “Non è il caso di essere invadente, né di fare l’ingenuo. Se si chiamano così è perché, evidentemente, si vogliono bene, anche se non sono sposati”.

Ora, Vegeta ebbe la sensazione che il tappeto fosse sprofondato e che tutti si fossero messi in circolo ad osservare la sua fossa.

Solo Bulma, vedova che non si lascia prendere dallo sconforto, esibiva tutta la sua forza d’animo nella fermezza con cui sosteneva il calice di champagne tra le dita.

“Eh, no, cara Chichi, mi dispiace contraddirti, ma io e Vegeta ci siamo davvero sposati. E’ accaduto esattamente tre anni fa, ma non eravamo qui sulla Terra”.

Trunks e Goten continuavano a raccogliere e a lanciarsi addosso coriandoli di neve, come se il tronco d’albero piovuto dal cielo, dopo aver sfondato il tendone e travolto tutti gli altri, tra cocci immaginari di piatti e bicchieri, avesse scansato volutamente le loro cervici.

Persino il principe dei saiyan, un tempo stragista intergalattico, ebbe bisogno più di un secondo per risalire dalla fossa e sbottare:

“Tu sei completamente matta! Anzi, no, sei ubriaca! Noi ci saremmo sposati? Io non mi metto a fare queste pagliacciate!”.

“Come sarebbe a dire… pagliacciate?”, balbettò offeso Mister Satan, nelle sembianze di una parentesi insignificante che non cambiò l’impostazione del discorso, né spostò l’attenzione degli altri.

“Hai dimenticato il pianeta Oiko?”, insistette Bulma.

Un cameriere le passò accanto con un vassoio e lei si liberò, senza molta delicatezza, del calice di champagne, che finì tra gli altri mezzi vuoti - o mezzi pieni - con lo stelo tranciato in due.

“E quel sovrano? Come si chiamava?”.

Ma Vegeta le aveva già messo le mani addosso, lì sulle belle spalle nude, con una brutalità a sua portata, e la spingeva ad indietreggiare in direzione dell’uscita.

“Io non ti ho sposata! Ti ho letteralmente comprata!”, gli sentirono dire, mentre la pioggia, fuori dalla tenda berbera, li coglieva in pieno ma senza sorprenderli.

Tutti restarono inermi a fissarli da lontano, con l’espressione intontita di prima tramutata in un’altra più interrogativa.

Non era chiaro ciò che i due si stessero dicendo, ma non dovevano essere parole gentili.

Bulma parlava concitata e si strappava i bracciali dal polso con un gesto nevrotico.

Ad un certo punto, la videro afferrare la mano di Vegeta, ma nessuno pensò che fosse con l’intento di trattenerlo, perché un tipo come Vegeta non si trattiene prendendogli semplicemente la mano.

Poi il saiyan agitò un dito nella loro direzione, come ad indicarli con fare quasi minatorio, e tutti, di riflesso, fecero un passo all’indietro.

E infine, mentre Trunks e Goten continuavano a mettere in moto migliaia di coriandoli bianchi tra i tavoli e le sedie, intrappolando tutti in un souvenir di vetro da capovolgere all’ingiù, accadde, più in là, qualcosa che mai nessuno di loro si sarebbe aspettato di vedere.

 

***

 

“Vegeta racchiudeva in sé i misteri dell’universo intero, la genesi di un buco nero, lo spegnimento di una stella, il collasso di un pianeta; e il suo universo era per davvero infinito, senza linee di demarcazione, senza un epicentro…”.

Ma questo già si è detto.

C’è da aggiungere, però, che quest’universo, ad un certo momento della sua storia, contrariamente a qualsiasi teoria scientifica, aveva finito per inglobare in sé un altro cosmo, altrettanto misterioso, caotico, interminabile, e con delle profondità scavate apposta per finirci dentro.

Allora, e solo allora, era terminato il suo universo, quando, pur preservandone tutte le altre caratteristiche, Qaveva scoperto il piacere di addentrarsi e di smarrirsi nell’altro.

“Come sarebbe a dire che mi hai comprata?”, replicò Bulma. “Tu non mi hai affatto comprata! Io ti sono stata data in moglie!”.

La pioggia sottile - ma fitta - ticchettava sulle spalle nude, a pochi passi dall’alto cedro del Libano.

“Fammi il piacere! Era soltanto una farsa e lo sai bene!”.

Dietro di lui, il tappeto bianco, neppure così lontano, sembrava adesso un rigagnolo d’argento che declinava tumultuosamente a valle, e la luce proveniente da una finestra del piccolo casale, dietro le calate di velluto, una stella che rischiarava appena il sentiero.

“E allora perché questa ferita è tornata di nuovo a bruciare terribilmente?”.

I bracciali tintinnarono un’ultima volta tra di loro e poi si sparpagliarono tra l’erba bagnata.

Vegeta strinse il pugno e vide che pure la sua ferita era tornata a sanguinare.

Succedeva ogni anno, di quella ricorrenza, come in un sortilegio, man mano che si approssimava la notte.

Tre anni precisi erano trascorsi da allora.

“Tu sei abituato alle ferite, io no!”.

Quanto si sbagliava!

Nessuna ferita di battaglia aveva mai bruciato quanto quella, né lo sfregio a tradimento di Yajirobei, né il buco diritto al petto scavato da Freezer, e neppure il ridursi in cenere in virtù del sacrificio.

Piccola e sottile, quasi invisibile negli altri giorni dell’anno, dava una percezione del dolore assolutamente sconosciuta.

Forse, non era neanche propriamente dolore corporeo, ma qualcosa di più interiore.

Vegeta fissava quelle stimmate con l’incredulità di un miscredente, mentre il sangue si raccoglieva nel palmo della mano e si mescolava alla pioggia.

Ora, c’era solo un modo per placarne il dolore, ma quello non era il momento, né il luogo.

“Sta zitta! Che ne puoi sapere?”.

Bulma continuava a stringere i denti.

Dov’era il cielo stellato di quella lontana notte cosmica?

Ora c’era solo un ammasso di nubi, che non lasciava filtrare altro che pioggia, e l’unica stella che rischiarava il sentiero era stata appena spenta.

La bellezza contemplata dalla sua capsula spaziale quella volta, tutta concentrata nei colori più brillanti dell’argento e dell’amaranto, le era rimasta impressa nella mente come la cosa più straordinaria che avesse mai visto.

Col più potente telescopio, nei giorni successivi al rientro sulla Terra, aveva cercato di trovare una nebulosa che le rinnovasse quell’estasi e quando ne aveva trovata una con lo stesso impatto visivo, aveva capito che a rendere spettacolare quel quadro erano stati anche altri dettagli: un materasso avvolto ancora dal cellophane, una ferita martellante sotto un fazzoletto, sempre più martellante, finché i loro polsi non erano tornati a cercarsi, un po’ esitanti, un po’ turbati, quasi sconosciuti.

Solo allora avevano sentito quel dolore scemare, man mano che il piacere scalpitava nelle ossa e i loro corpi diventavano un tutt’uno per un bisogno disperato ed impellente.

Poco importava che fosse debilitata dalla febbre o che le pillole contraccettive fossero rimaste accanto al radar cerca-sfere nel suo cassetto.

L’orgasmo che li aveva colti era sembrato essersi diramato proprio dai polsi piuttosto che dal basso ed ambedue avevano urlato nel vuoto cosmico come mai erano stati liberi di fare tra il cemento.

Di pianeta in pianeta, di razza in razza, di rito in rito, volente o nolente, la prima notte va vissuta in questa maniera e quel taglio netto sul polso sarebbe continuato ad andare a fuoco, una volta all’anno, fino a quando il corpo di Bulma non sarebbe stato gravido.

Ma la suddetta aveva già un figlio all’epoca dei fatti e, tornata sulla Terra, ogni sera, prima di coricarsi, apriva puntualmente il cassetto accanto al letto, rovistava tra il radar cerca-sfere, le mutandine ricamate ed il sacchetto di lavanda, e schiacciava sull’apposito blister calendarizzato la dose giornaliera di estrogeni e tranquillità.

E quando per distrazione aveva saltato qualche compressa, a metà della confezione, il seme di Vegeta, per quanto prezioso e regale fosse, non aveva il potere soprannaturale di attecchire su un terreno non fecondo.

“Ti prego, dammi la tua mano…”, lo implorò.

“Smettila!”, le disse, ma il respiro mancò un battito quando si ritrovò la mano dell’altra aggrappata con ardore alla sua.

L’acqua sembrò accelerare la scarica elettrica e Vegeta si ritrovò a sudare freddo, sotto la pioggia e con un vento che gli ululava nelle orecchie con assillo maggiore.

Forse aveva bevuto troppo, pensò lui, forse era colpa di quelle bretelle basse e della pioggia che inzuppava il voilà sopra il seno, ma incominciava a fermentare un desiderio, diverso da tutte le altre volte, nel momento più inappropriato che potesse esserci, mentre i polsi, finalmente vicini incominciavano a pulsare all’unisono ed il bruciore trovava conforto.

“Vedi che va già meglio…”, sussurrò lei, come corroborata, facendo fremere le ciglia.

Ma la tenda berbera riprese ad avere contorni più netti alla vista del saiyan e le sue luci sembrarono meno lontane di quanto fossero apparse prima, tra la nebbia del dolore e del desiderio.

“Piantala! Io me ne vado! Hai dato già troppo spettacolo!”.

La suola in cuoio delle scarpe si scollò dal fango, ma non fece in tempo a decollare.

“Ho detto solo la verità. Perché dovevo nasconderla?”.

Vegeta la fissò con l’ovvietà di chi quella cosa l’aveva taciuta per tre anni.

Pure nelle passate ricorrenze, era bastato un fazzoletto intorno ai polsi ed un incontro nel cuore della notte, più urgente e violento del solito, per non tornare sull’argomento.

“Perché era la cosa più sensata da fare, ma tu, evidentemente, hai bevuto qualche bicchiere di troppo”.

Bulma gli intralciò ancora il passaggio, esibendo fra due gomiti appuntati una camiciola ormai fin troppo aderente.

“Un bicchiere di champagne non mi ha mai dato alla testa! E la cosa più sensata da fare era che tu, una volta tanto, non mi contraddicessi. Non davanti agli altri, facendomi passare come la farneticante di turno”.

“No, sono io che non tollero certe cose alla presenza di altra gente. Dovresti conoscermi bene”.

Qualificare il suo rapporto con Bulma gli veniva naturale già da un po’ di tempo.

Non sapeva come e quando lo era diventata -  sia chiaro -  ma Bulma era sua moglie. Punto.

Ora, gli altri non erano tenuti a domandarsi il perché.

Per il fatto che dietro quel perché si spalancava quell’universo dove, seppure infinito, c’era spazio soltanto per due persone.

A stento.

Tanto meno dovevano farne oggetto di conversazione in sua presenza, considerato che, a parte voltare la schiena, non esisteva corazza contro quel rossore che gli prendeva a pugni gli zigomi.

Ebbene, mai e poi mai avrebbe saputo spiegarsi la ragione per cui Bulma, proprio quel giorno, avesse deciso di aprire una breccia e mostrare agli altri qualcosa del loro mondo, né poteva immaginare quello che di lì a poco sarebbe accaduto.

“Evidentemente, ti conosco così tanto bene che mi sono stufata di essere complice dei tuoi silenzi e delle tue distanze. Chi ha stabilito tutta questa rigidità di protocollo? Sai cosa ti dico? Credo proprio che, una volta tanto, farò qualcosa per cui valga veramente la pena di farti arrabbiare e lo farò apposta davanti a tutti gli altri. Non mi importa! A volte bisogna pur prendersi delle soddisfazioni!”.

Al cospetto del principe dei saiyan - ma non solo - Bulma, determinata più che mai, sapeva tenere la schiena diritta alla pari di qualsiasi avversario giunto dalle profondità dello spazio.

Già il mascara a lunga tenuta, applicato fin dal mattino, aveva mostrato una resistenza alla pioggia considerevole; pure le unghie, grazie allo smalto semipermanente, non erano mai state così scintillanti di rosa confetto.

“Mi stai sfidando, non ti conviene”, sogghignò ancora indulgente. “Commetti sempre l’errore di confidare troppo nella tua lingua. Perciò, te lo do come consiglio, Bulma: non attaccar briga con chi è più forte di te. Prima o poi, ti troverai di fronte qualcuno che ti darà la lezione che meriti”.

“Avrei voglia di prenderti a schiaffi, lo sai?”.

Graffiate da rivoli di pioggia, le braccia non stavano tremando per il freddo.

“Su che aspetti, allora? Vedo che stai scalpitando dal farlo. Togliti la soddisfazione di schiaffeggiarmi davanti a tutti i tuoi amici. Avanti, fallo!”, puntò un dito nella direzione della tenda berbera. “Così sapranno che non sono impazzito d’un colpo quando ti avrò risposto con la stessa moneta”.

La conversazione stava rotolando su di una piega difficile da riassettare e il ticchettio della pioggia, per discrezione, si ritirò in silenzio, concentrandosi soltanto tra le fronde dell’alto cedro del Libano.

“Non fare il gradasso, tanto non avresti il coraggio di colpirmi”.

“Ah, no? Tu faresti perdere la pazienza persino agli dei”.

“Sei soltanto uno stupido… quando ho detto che ti avrei fatto arrabbiare non stavo pensando certo di prenderti a schiaffi davanti a tutti. Che soddisfazione potrei mai ricavarne?”.

“E a cosa diavolo pensavi?”, fece furente.

“A molto peggio”, disse alla fine.

Con le gambe divaricate e le caviglie sprofondate eloquentemente nel fango, le braccia non fecero in tempo a prevedere l’assalto e rimasero sospese in avanti, raggelate, intorno ai fianchi morbidi di quell’avversario sottovalutato.

Nessuna mossa fu mai più efficace di quella con cui Bulma, trovato il varco giusto per fronteggiare quel corpo senza armatura, agganciò i polsi intorno al suo collo, strofinando pioggia e sangue sul colletto della camicia da cerimonia.

Qualcosa di umido e di molto caldo si trattenne per un breve istante sulla bocca di Vegeta, proprio mentre una raffica di vento più gagliarda sollevava migliaia di coriandoli bianchi e li faceva danzare sulle loro teste.

 

FINE

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