Mad world

di _Breath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + Primo capitolo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo + Primo capitolo ***


  PROLOGO.

Quando Gabriele aprì gli occhi, il sole doveva ancora sorgere. Ma era un sole metaforico, quasi inesistente quello che lui cercava, perché anche se questo fosse già stato alto nel cielo, lui probabilmente non lo avrebbe visto.
Erano anni che si chiudeva a riccio nella sua stanza, le gambe strette al petto e la schiena ricurva, mentre le sue labbra sottili, bianche e screpolate, ripetevano ininterrottamente la stessa parola.
Il suo nome. 
Gabriele Esposito. 
Quella era l'unica cosa che Gabriele era certo di ricordare; erano passati così tanti anni dall'ultima volta che era uscito da quella stanza, da fargli dimenticare anche come fosse fatto il mondo. Ed anche il suo volto. Erano dodici  anni che Gabriele non vedeva la sua faccia, riflessa in uno specchio, in una finestra o anche in una pozza d'acqua. 
Forse, alcune volte, si chiedeva anche se lui avesse veramente un viso, dei connotati, degli occhi, e principalmente di che colore questi fossero.
Era un ragazzo di colore?
Era castano, biondo?
Era un ragazzo?
Ogni volta che i dubbi sulla sua identità lo assalivano, Gabriele si prendeva la testa fra le mani e la scuoteva forte, come se così potesse mettere ordine nella sua mente e riportare tutti  i cattivi pensieri al loro posto. Alcune volte urlava, altre volte piangeva. Delle volte urlava e piangeva nel sonno.
Al suo risveglio, però, come ogni mattina, Gabriele si guardava intorno e vedeva sempre lo stesso muro grigio, spento, opaco, triste. Non c'era nemmeno una foto o un poster a fargli compagnia, segno che il colore  era stato letteralmente dimenticato in quel mondo ingiusto. 
Gabriele non sapeva mai che ore fossero, non era a conoscenza neppure del tempo che passava e se realmente trascorreva; delle volte si limitava a guardarsi le scarpe, i piedi nudi, mentre si dondolava sul posto con la schiena ricurva. I suoi capelli gli coprivano la fronte facendogli solletico, ma lui non li scansava; alcune volte aveva paura che se lo avesse fatto, avrebbe perso la concentrazione e avrebbe smesso di sentire quel suono caldo, confortante e di compagnia che gli rimbombava nelle orecchie.
Quella era la sua voce ed era l'unico suono che lui udisse da anni.
Ripeteva: "Gabriele Esposito non è pazzo." 




CAPITOLO 1.


L'ultima volta che Gabriele aveva visto i suoi occhi riflettersi in qualche superficie, aveva avuto all'incirca dodici  anni.
Ricordava vagamente di possedere incredibili occhi color nocciola, quasi dorati, come quelli un cerbiatto in difficoltà che non sa ancora quale  strada percorrere. Solitamente si guardava intorno, con quei occhi, poi si sfiorava il mento in una carezza leggera e vaga, come se gli prudesse il volto e se lo volesse grattare. 
Quando aveva dieci anni sua madre era solita tenergli la mano stretta fra la sua, come una calda coperta, un cuscino terribilmente confortevole e rassicurante; poi sua madre era morta e con lei se ne erano andati anche i buoni propositi di essere felice. 
Aveva undici anni quando Gabriele scoprì di non saper più piangere, ormai. 
Era stato costretto da suo padre ad andare al funerale di sua madre, nonostante lui non volesse, nonostante lui non ci credesse.
Una volta si era opposto a quella morte, aveva sbattuto i piedi per terra, poi aveva fronteggiato Franco Esposito con rabbia, quasi con sfida.
-Io non ci vengo al cimitero con te,- aveva urlato. -Io non ci vengo a trovare la mamma. La mamma non è morta, la mamma è qui con me. Diglielo mamma!- aveva poi continuato a urlare, voltandosi alla sua destra, verso un qualcosa di inesistente che però solo lui vedeva. -Diglielo che io non ci vengo, che posso restare a casa con te a vedere i cartoni. Papà  è cattivo, non mi ascolta. Papà dice che sei morta perché è cattivo e avete litigato. Diglielo mamma, io voglio più bene a te.- 
Ricordava ancora perfettamente lo sguardo di sconforto che Franco Esposito  gli rivolse con sgomento, le sue iridi grigie che si liquefacevano per lo sforzo di trattenere le lacrime. Era una sensazione che qualunque bambino avrebbe vissuto in modo singolare e personale, ma non Gabriele.
Gabriele semplicemente non la viveva, ma la ignorava. Si nascondeva dietro il velo fitto dell'immaginazione, ignorando di indossare un completo troppo elegante per un bambino di soli undici anni,  con una rosa legata al colletto della linda camicia. Se lo strappò di dosso quel fiore, poi lo gettò a terra e ci saltò sopra, caparbio. Franco lo osservò per molto sconvolto, con fare attento, cercando di metabolizzare i movimenti di quel figlio che si era riscoperto orfano troppo in fretta. Troppo presto.
Era come se Gabriele cercasse di denunciare quell'avvenimento, di annullarlo, modificarlo, perfezionarlo e riviverlo nella sua mente come meglio lui credeva. Si ribellava al presente, perché il passato era come una macchia di caffè bollente che si allargava sul suo polso. Odiava stare ad osservare impotente quella cicatrice che prendeva forma, mentre lui non poteva fare niente per evitare che prendesse il sopravvento; soffiarci sopra amplificava solamente il dolore. 
La psicologa disse che la sua era una rara visione del mondo- rara, non impossibile- che solitamente  i bambini di quell'età non erano soliti abbracciare. A undici anni si era ancora troppo giovani, troppo deboli, troppo piccoli per poter essere in grado di prendere in mano la propria vita e cambiarla a seconda dei propri piaceri. Molte volte questo era impossibile farlo anche in tarda età, quando ormai si è maturi e uomini e consapevoli dei propri limiti, fisici o morali. 
Era una dottoressa in gamba, lievemente sopra le righe, ma quale medico poteva cercare di capire i pensieri di un pazzo se non un ulteriore deviato?
Perché questo Gabriele era, questo era almeno ciò che vedeva Franco dai suoi occhi di genitore spento, indebolito e sofferente da quel lutto che anche lui doveva ancora accettare e superare.
Non era raro trovare Franco seduto a gambe larghe sul loro divano ampio e vuoto, così vuoto senza di lei, così spento senza la sua risata intrisa nei cuscini. Era qualcosa che solo i muri conservavano, come se vi ci fosse intrisa dentro, nello specchio di una macchia che nessuno sarebbe mai riuscito a scalfire. E distruggere. E portare via, almeno da lì. 
I sabati sera in casa Esposito erano tutti miti e ripetitivi, freddi, come le mattonelle del pavimento quando Gabriele camminava scalzo la sera per raggiungere il bagno. Era un susseguirsi di episodi, movimenti, azioni; Franco trovava Gabriele sempre placidamente addormentato la  sera, quando prima di ritirarsi nella sua stanza passava accanto a quella del figlio. Tranne una volta. Eccetto una notte.
Gabriele aveva solo dodici anni, qualche dente da latte ancora attaccato alle gengive e una leggera miopia all'occhio destro, ma a parte questo era come ogni bambino della sua età. Eccezion fatta per la sua deviazione mentale, ma quella ormai era diventata un segno particolare della sua pelle, come la famosa macchia di caffè che si allargava giorno dopo giorno sul suo polso e nel suo cuore. 
Quella sera non faceva ancora freddo, ma le prime tracce di un pungente autunno iniziavano a farsi sentire; le dita delle mani di Franco erano gelide, ghiacciate, e nel ricordo di quando sua moglie  gliele stringeva fra le sue, se le riscaldò con le labbra. Ci soffiò sopra una, due, tre volte...poi si alzò dal divano.
Qualcosa gli suggeriva che Gabriele a quell'ora stesse dormendo, ma volle ugualmente andare a controllare. Se solo non lo avesse fatto, probabilmente non avrebbe visto ciò che non avrebbe dovuto vedere e la sanità mentale di suo figlio non sarebbe stata messa ulteriormente in discussione. Eppure si sa, il tempismo umano è qualcosa di così assurdamente fuori luogo da risultare comico, quasi come una moglie orgogliosa e cocciuta che si ostina a voler cucinare il piatto preferito del proprio marito nonostante sia consapevole di essere  un disastro tra i fornelli.  
Franco quella notte si era mosso circospetto tra il corridoio, perché aveva paura di poter svegliare in qualche modo Gabriele dal suo sonno tranquillo;alcune volte era solito sentire suo figlio urlare nella notte e piangere, per poi nascondere la testa nel cuscino perché probabilmente voleva evitare che Franco lo sentisse. Ma lui era sveglio, e questo probabilmente Gabriele non lo avrebbe mai saputo;erano mesi che Franco non dormiva, erano anni che non riposava sereno. La sua vita era come  condannata alla sofferenza, come se l'inferno lo avesse abbracciato con le sue calde fiamme e lo invitasse ogni giorno a lasciarsi ustionare. E lui, masochista, sofferente, si lasciava torturare perché delle volte era quasi certo di meritarsi quel dolore. Era convinto che fosse la sua punizione e il rimanere impotente davanti le lacrime del suo bambino ne era l'ulteriore prova.
Alcune volte sarebbe voluto andare da lui per dirgli che non doveva piangere, ma che diritto ne aveva lui di negargli il proprio dolore? Proprio lui, quando era il primo a piangere disperatamente la sera con la testa sul vecchio cuscino della moglie?
Dunque inforcava la testa nelle spalle, appoggiava un orecchio sul ripiano della porta e stava ad ascoltare i singhiozzi infantili di suo figlio, sperando che un giorno si potessero tramutare nuovamente in una risata. 
Franco non ha mai avuto il piacere di ascoltarla quella risata, e un po' è anche colpa sua. Principalmente colpa sua. 
Sono passati ormai dodici  anni da quella sera, Gabriele ormai ha ventiquattro anni e un po' di barba incolta sul volto, eppure mantiene sempre lo stesso sguardo sperduto, immaturo, sbarazzino e malizioso che ogni bambino di dodici anni ha di diritto. E' come se Franco gli avesse bloccato la crescita, perché Gabriele ha smesso di diventare grande per paura di assomigliare all'adulto odioso che era diventato suo padre. Gabriele ha semplicemente preferito l'immaturità, quella giovinezza eterna, allo sguardo fermo e deciso di Franco Esposito. Non era lo sguardo di un uomo quello di Franco, perché nessun uomo potrebbe rinchiudere il proprio figlio in un manicomio, nonostante sia spaventato, freddo, solo e bisognoso di affetto. Del suo affetto, dell'affetto di un padre, di un genitore, di un amico, di un qualunque essere umano  disponibile a fargli compagnia. 
Franco ha privato Gabriele della possibilità di farsi una vita, perché da dodici  anni a questa parte quella di Gabriele Esposito non può essere più considerata come tale. 
E' un esistenza spenta la sua, insolita, ripetitiva. 
Alcune volte Gabriele si ferma a pensare al motivo che ha spinto suo padre a quella decisione, poi scuote la testa e si porta le mani sul capo. E' sconvolto, ha paura, è terrorizzato dai fantasmi del suo passato.
E pensare che Gabriele è finito in un manicomio esattamente per lo stesso motivo che ora lo spaventa terribilmente. 
Parlava con i fantasmi, diceva.  Parlava con sua madre e aveva uno sguardo terribilmente spiritato quando lo faceva da sembrare quasi indemoniato. 
-Lei è qui. Ti guarda, ci guarda. Ti odia e presto ti ucciderà, papà, esattamente come tu hai ucciso lei. Sei tu il suo assassino!-
Era questo che disse a Franco quella fatidica sera, gli occhi bianchi e rossi, un sorriso perverso sulle labbra e la voce così fredda e incolore totalmente diversa da quella che gli era sempre appartenuta.
E quindi era stato richiuso in un manicomio, in quel triste ospedale psichiatrico che da un po' di tempo era diventata la sua casa. Ma che casa è quella che ti tratta come un deviato mentale? Gabriele era sempre vissuto con l'ideale di una famiglia amorevole, compatta, unita... eppure questo suo desiderio era andato scemando con la morte di sua madre.
Certe volte si chiedeva come sarebbe stata la sua vita se solo lei non fosse deceduta, poi però ricordava cosa l'avesse portata alla morte e trovava una spiegazione a tutte le sue domande. 
Suo padre l'aveva uccisa e dunque sua era la colpa. 
Franco Esposito era un assassino.
Se Gabriele era rinchiuso lì dentro, dunque, non era perché la sua era una malattia mentale, ma perché diversamente era l'unico troppo sano capace di vedere la realtà dei fatti.
E il vero pazzo, colui che veramente meritava quelle atroci punizioni, quella triste reclusione, era ancora in libertà.
Ancora per poco, promise quella sera a se stesso. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***




  Capitolo 2.



     Napoli, 1967. 


Dafne Valenti storse la bocca in un espressione disgustata mentre il suo insegnante di psichiatria parlava e parlava su qualcosa da lei non ben identificato.
Parlava. Dafne sapeva solo che il professor Ruggiero parlava. 
Aveva una grande bocca larga, due baffi enormi e neri ed un vocione fastidioso che le perforava la mente fino a farle venire voglia di urlare. E dentro urlava, Dafne, come probabilmente facevano anche i suoi compagni accanto a lei.
Luca, il suo più intimo compagno di studi, aveva una mano a sorreggere la sua testa bruna, gli occhi socchiusi e impugnava poco saldamente una matita. Probabilmente il suo intento ero quello di prendere appunti, ma non sembrava minimamente propenso a portarlo a termine; continuava, infatti, a disegnare cerchi senza il minimo senso, con una smorfia infastidita a disegnargli le labbra e lo sguardo vacuo.
Dafne, che lo conosceva bene, sapeva che lui aveva sonno. E non era il solo.
Non aveva dormito quella notte e nemmeno la notte prima ancora; ultimamente trascorreva tutto il suo tempo libero chiusa nella sua stanza, con le gambe inrociate e una matita fra le labbra, i capelli legati in una coda disordinata e il trucco sbavato. Doveva studiare, gli esami erano vicini e il prossimo che avrebbe dovuto conseguire sarebbe stato il più difficile di quell'anno. 
Ancora una volta, Dafne si chiese perché mai avesse deciso di intraprendere il ramo della medicina poi, una volta ricordato il motivo della sua scelta, inforcò la testa fra le spalle e sospirò.
Suo padre,era stato lui a forzare e incoraggiare quella sua debole scelta. Michele Valenti era saldamente convinto che essere un medico in quel periodo, in un'epoca non molto distante dalla seconda guerra mondiale, in una Napoli fiorente e frequentata, fosse una buona idea. 
Maledetto uomo, pensò Dafne. Maledetto uomo defunto, fastidioso anche da morto e continuamente presente nella sua vita; se la ragazza continuava a studiare questa ridicola materia che non le piaceva minimamente era senza ombra di dubbio a causa sua. Non lo voleva deludere, per nulla al mondo. 
Dafne sbuffò ancora, annoiata, scossa, frustrata, malinconica; il professor Ruggiero non la degnò minimamente di uno sguardo.  
Era ormai il suo quarto anno di univeristà, l'anno prossimo avrebbe affrontato il quinto anno, ma nonostante tutto Dafne non si era ancora abituata a quell'ambiente maturo e disinvolto che, da qualche anno a quella parte, era diventato il suo mondo. 
Nessuno apparte lei e qualche compagno di corso era veramente interessato alla sua vita; i professori la consideravano unicamente un numero, precisamente un numero da scrivere sul suo libretto. Dafne, il più delle volte, sperava di essere almeno un ventisette... che fosse scritto con una caligrafia tonda e ordinata o spigolosa e disordinata non le importava affatto: cercava solamente la sua laurea, il suo traguardo ancora lontano, per poter finalmente urlare al mondo la sua vittoria.
Per suo padre, per sua madre e per lei. 
Specialmente per lei.
Dafne era una ragazza orgogliosa, testarda e determinata. Se decideva di fare qualcosa, quel qualcosa doveva accadere. 
Non si inchinava mai davanti a niente, che fosse un'imprudente oppositore dei suoi diritti o una difficoltà particolarmente ambigua. 
Qualche volta, quando proprio si sentiva scoraggiata, chinava la testa di lato, picchiettava l'indice destro sul mento e pensava. Pensava, poi pensava ancora. Infine, quando si sentiva pronta, quando finalmente aveva trovato una giusta via di uscita, sorrideva e quel sorriso, glielo dicevano tutti, era come una manna del cielo.
Dafne aveva un sorriso limpido, candido come quello di una bambina; i suoi incisivi non erano puramente perfetti, ma nel complesso il suo sorriso era bellissimo. O forse, a renderlo tale, erano i suoi occhi. 
Occhi scuri, decisamente allungati, a mandorla, ridenti. Dentro quegli occhi era facile perdersi, perché trasmettavano tanta di quella pace e tranquillità che nessuno riusciva a rimanere saldamente ancorato al terreno. Era naturale, automatico ed umano continuare a fissare il proprio riflesso dentro quelle iridi, perché tutto dentro quegli occhi sembrava più bello.
Anche ciò che, forse, in realtà non lo era. 
Dafne, inoltre, era una ragazza totalmente raffinata e la sua eleganza era palpabile in ogni suo gesto. Quando si passava una mano fra i capelli biondi per portarsi qualche boccolo indietro al viso tutti si voltavano a guardarla o forse, più semplicemente, seguivano quelle parole che uscivano dalla sua bocca così piccola e delicata. Aveva una voce dolce, mai squillante e fastidiosa; seppur delle volte tendesse ad urlare troppo o a usare epiteti poco eleganti, nessuno sembrava farci caso. O magari era una cosa che passava tranquillamente inosservata. 
Il professor Ruggiero sembrò riacquistare l'attenzione della classe nell'esatto momento in cui si lasciò sedere sopra la scrivania; il suo fisico asciutto ma per nulla atletico cadde rovinosamente sulla superficie piana in un tonfo degno di nota. 
Luca, divertito, smise immediatamente di disegnare lanciando uno sguardo alla sua compagna sulla destra. Lei ridacchiò, come anche Rachele e Dafne. 
Era un Italia molto tranquilla quella dove vivevano: i loro genitori avevano sulle spalle le memorie di una guerra che avevano ucciso molti dei loro genitori, zii, fratelli. Dafne aveva perso lo zio materno in quella guerra, distrutto da un fuoco amico che proprio sembrava destinare a rovinare la quiete della famiglia Rinaldi.  Nonostante tutto molti dei soldati sopravissuti a quella tragedia erano adesso rinchiusi in quegli ospedali specifici che lei non riusciva proprio a sopportare.
Era destinata ad essere un medico se il suo corso di laurea giungesse al termine, ma nonostante tutto Dafne era molto sensibile a molte cose.
Una di queste erano i manicomi, tanto freddi e spettrali da ricordarle le fossi comuni. C'era qualcosa di osceno, malvagio e fantasma dentro quegli edifici.
C'era qualcosa che non avrebbe mai voluto- e forse dovuto- vedere. 
Ma che, purtroppo, quel corso richiedeva necessario. 
Dafne sapeva che il professor Ruggiero parlava per esperienza quando diceva che molti dei malati ricoverati in quegli ospedali erano  vicini alla morte fisica, forse molto più di quelli che in quel momento si stavano congiungendo con l'amica morte.
Vivere là dentro, a detta del professore, era come essere rinchiusi in un mondo parallelo e solo, senza nessuno pronto a discutere con te della benché minima cosa. Nessuno, eccetto te stesso, era a conoscenza della tua esistenza. 
Molte volte, diceva il professore, i pazienti venivano maltrattati, i loro pranzi erano dimentizzati e le loro cene erano inesistenti ma niente veniva fatto per impedire ciò. Non ancora, per lo meno.
Nessuno, eccetto la paura, era al loro fianco.
I soldati rinchiusi lì dentro avevano gli spettri di chi avevano ucciso, di chi avevano visto morire, a tormentarli per sempre senza mai lasciare loro il tempo di riposare. Sognavano gli occhi dei loro compagni, le loro bocche esangui, il loro spirare verso l'alto. Vedevano i loro arti in cancrena, corpi amputati e poi lasciati in un angolo abbandonati al loro destino una volta morti. 
Sentivano la puzza di morte, cuori che cessavano di pompare sangue, polmoni che inalavno l'ultimo respiro. E poi, infine, quei soldati vedevano bambini orfani, morti anche loro, tristi e disperati. Sognavano bambini che si appoggiavano alle loro gambe, chiedendo loro aiuto, bambini che sarebbero stati destinati ad una morte più veloce di quella che invece poi li spetta. Perchè quei bambini, poi, salteranno in aria insieme alla loro gamba, al loro braccio, nell'esatto momento in cui una bomba finirà loro troppo vicino. E niente, nemmeno il dolore fisico, cancellerà quello morale di aver udito quell'ultimo urlo straziato, invocato, mozzato.
Quei soldati, dice il professore, sono martoriati in eterno dalle loro paure, dai loro ricordi, da loro stessi e da un qualcosa che non avrebbero dovuto vivere. Da qualcosa che, però purtroppo, hanno assaggiato con troppa fatica. 
Oppure vi erano altri pazienti, altre persone, altre anime in pena con storie differenti, sempre diverse ma con sempre lo stesso filo conduttore che era il destino a portarli in un triste manicomio.
Fratelli di orrende vicissitudini.
Il professore narrava queste cose con certezza, con una fitta consapevolezza nei suoi occhi chiari celati dietro un paio di occhiali dalla montatura leggera. Dafne lo guardò a lungo, lo vide stringere le mani in grembo, i denti piccoli che risaltavano dalle sue labbra sottili sotto dei baffi orrendi. Il suo modo di parlare era rigido, freddo, triste.
Guardandolo,Dafne pensò che anche suo fratello o qualche suo caro dovesse essere in quelle condizioni da lui descritte. 
Una fitta al cuore, forse quel cuore che un bambino aveva perso tanti anni orsono, la fece tentennare per qualche secondo. Poi, dopo, solo dopo, solo quando Luca le rivolse uno sguardo familiare e agonizzante, anche lui spaventato da quelle parole, tornò a respirare.
E sorrise ancora, Dafne. 
Sorrise con le labbra, carnose e gentili, ma non con gli occhi. 
Perché quegli occhi a mandorla, belli ed orientali, quella volta rimasero vuoti. 



Dafne guardò la pioggia scivolare lungo il vetro della finestra, lasciando dietro di se una scia umida e retta. Dominata dall'impulso di seguire quel percorso con le dita, fu quasi tentata di aprire la finestra, portare un braccio fuori, e lasciarsi bagnare da quelle calde lacrime del cielo. Poi, però, timidamente, si arrese davanti l'evidenza del clima glaciale che sicuramente vi era al di fuori della sua stanza. 
Era inverno.
Il 13 Dicembre, con precisione. 
Avrebbe tanto voluto vedere la neve scivolare con altrettanta tranquillità sopra il marciapiede che circondava il suo appartamento, eppure non era molto fiduciosa. Viveva a Napoli da sempre, da quando era venuta al mondo, e mai aveva avuto la gioia di assaggiare un fiocco di neve con la lingua. Dafne agognava il momento durante il quale un po' di quella pioggia speciale le avrebbe sfiorato il naso, il palmo delle mani e infine le scarpe di tela. 
Era un suo sogno fin da quando aveva quindici anni e, forse, fin quando avrebbe continuato a vivere in quella città, mai si sarebbe concretizzato. Ma purtroppo era così che la vita andava. 
Con riluttanza Dafne tornò a dedicarsi agli appunti di medicina, seppur la sua voglia di studiare fosse sotterrata sotto quella stessa neve inesistente. 
Sorrise nel momento stesso in cui, con lentezza, si passò una mano dietro il collo e infine dietro le orecchie in una carezza delicata ed intima. Per un solo istante le parve quasi di udire la voce di Luca  ricordale che lo studio non portava a nulla, se non ad una gobba fastidiosa e antiestetica come quella di Leopardi.
Lei aveva riso, di una risata spontanea e genuina, e lui aveva riso con lei perché era sempre un piacere vedere su quel bel volto di donna il ritratto della felicità. Specialmente se si era la causa. 
Aveva un bel sorriso Luca, questo lo sapeva Dafne. Era un bel ragazzo, con i suoi capelli scuri e i suoi occhi verdi, la sua pelle olivastra e sempre abbronzata. Le due fossette che nascevano spontaneamente ogni qual volta che lui sorrideva erano incantevoli, come se queste fossero nate solo per essere due crateri di uno stesso vulcano, precisamente il vulcano degli ormoni di ogni ragazzina in via di sviluppo.
Dafne era sicura che la sua sorellina Beatrice ne sarebbe rimasta incantata e che, probabilmente, avrebbe invidiato quel braccio che in quel momento avvolgeva la sua schiena. Probabilmente si sarebbe invidiata anche lei, se solo si fosse vista ad occhi esterni.
Chiunque avrebbe invidiato quella ragazza che camminava con passo fiero accanto ad un altrettanto bel ragazzo, la postura eretta, le spalle larghe e un libro sotto braccio. Nella tasca dei jeans posteriori di lui fuoriusciva un foglio ripiegato, con qualche disegno privo di senso ai bordi; quello, pensò lei, era sicuramente quel foglio nato nelle migliori intenzioni per prendere appunti dal prof. Ruggiero, ma morto come martire vittima della noia più abissale. E come dargli torto!
Luca la spinse delicatamente dentro la biblioteca, facendola passare per prima, in modo elegante e come un perfetto galantuomo. Dafne lo guardò con un sopracciglio alzato. -Sei diventato tutto un tratto gentile, Luke?- gli domandò, uno sguardo circospetto. 
Lui inforcò la testa nelle spalle, la presa sul libro che andava riforzandosi. -Può darsi.- le rispose- O forse, semplicemente, volevo levarti dalla mia visuale; proprio davanti a te, qualche secondo fa, c'era una ragazza niente male con un altrettanto sedere niente male. Mi farebbe piacere stringere amicizia con loro, sai?-
La ragazza si passò una mano sugli occhi sporcandosi i polpastrelli di nero, segno che quel poco di trucco che si era passata sulle palpebre la mattina prima di uscire era definitivamente crollato. Crollato, esattamente come la sua sopportazione e, contemporaneamente, la sua pazienza.
Nonostante tutto, Dafne falsificò un sorriso.
-Lo so che i tuoi ormoni sono ancora in fase di sviluppo, come d'altronde anche il tuo cervello, ma ti ricordo che io sono una ragazza. E, dunque, sapere quanto frequenti siano le tue erezioni non faranno eccitare anche me per dimostrarti, infantilmente aggiungerei, che la lunghezza del mio membro è superiore al tuo.-
Luca rise divertito, gettando la testa all'indietro con fare esilarante. -Come sei sboccata, mia piccola Daf!- disse dandole una pacca sulla schiena, trattenendosi dallo scendere ancora di più, nonostante fosse sua intenzione. 
Lei gli sorrise ancora con fare angelico. -Non vorrai forse dirmi che ti scandalizzi per così poco, vero? Ti ricordo che siamo laureandi in medicina, quindi queste determinate espressioni non dovrebbero infastidirti. Come neppure il sangue.-
Luca si accigliò per qualche istante, pensieroso ed enigmatico, poi storse la bocca in un'espressione riflessiva che Dafne gli aveva visto addosso solo poche volte nella vita. 
-Non sono affatto infastidito da queste cose e dovresti saperlo bene. Sono interessato, anzi, a tutto ciò che implichi un bisturi e una sala operatoria. Non per niente ho scelto di diventare un chirurgo, non trovi?-
-Veramente io pensavo che tu avessi scelto di diventare un chirurgo per avere l'opportunità di rifare, e dunque anche tastare e vedere, molti seni e molti sederi!-
Luca rise ancora, sempre più divertito. -Oh, anche questo è vero!- acconsentì alzando le mani al cielo- ma questo era prima di diventare maturo. Perché sì, prima che tu possa interferire con il mio strabiliante monologo, io sono maturo!- 
Dafne alzò i suoi scurissimi occhi al soffitto, si passò una mano tra i capelli e si morse le labbra. Non voleva ridere, non poteva ridere, non dentro quella stanza quando ogni minimo rumore veniva interpretato come un inflazione alla  legge pari, quasi, all'omicidio del presidente Kennedy del '63.
Con riluttanza digerì la sua risata, lievemente disgustata dal sapore amaro che aveva. Nello stesso momento Luca si sedette al suo fianco, lasciando strisciare la sedia in moso palesemente rumoroso sul pavimento; qualche studente alzò lo sguardo dai propri appunti e lo trucidò con lo sguardo, ma lui non parve farci caso o forse non volle farci caso. 
Dafne trattenne un ennesimo sorriso nascosto velocemente dietro il suo libro di biologia, largo quasi il doppio di lei. Luca vide quel sorriso e non trattenne uno suo, poi si allungò al suo fianco, quasi sdraiandosi sul tavolo sopra il quale avrebbero dovuto studiare.  Un ragazzo seduto poco distante da loro, su quello stesso tavolo, alzò lo sguardo curioso da quell'altrettanto curioso movimento.
-Tornando al discorso di prima, Daf, oggi mi sono reso conto del tuo tentennamento mentre Secchia spiegava.- 
Secchia, rifletté lei, era il delizioso soprannome con il quale il suo compagno chiamava il Professor Ruggiero quando lui non era a distanza ravvicinata. Il perché lei ancora lo doveva capire.
-Ah, tu dici?- domandò lei con nonchalance cercando di risultare del tutto vaga, ma Luca non si lasciò scoraggiare; la guardò, le regalò un sorriso sfrontato ed annuì.
Dafne prese, da sotto il tavolo, a tormentarsi le mani a disagio mentre, quasi di riflesso, anche le sue labbra subivano la stessa tortura. 
Per un solo istante, forse solo uno, Dafne si guardò veramente intorno studiando attentamente ciò che la circondava. 
Una ragazza stava appena inforcando i suoi occhiali da vista dalla montatura leggera, uno sguardo deciso ma scoraggiato, mentre un ragazzo poco distante da lei chiudeva disperato un libro sul tavolo che riprodusse un fastidioso rumore. Due amiche stavano leggendo una pagina dello stesso paragrafo, stringendosi la mano e cercando di darsi coraggio per affrontare il prossimo esame; dopo una dettagliata analisi, Dafne pensò che dovesse essere quello di anatomia, da lei affrontato solo due anni prima. Ricordava ancora con orrore le notti passate su quello stesso libro, a studiare quei termini e quelle teorie che lei proprio non digeriva. Ma nulla, nemmeno anatomia, sarebbe stata tanto brutta quanto l'esame che avrebbe dovuto affrontare da lì a qualche mese. Forse il peggior esame in tutta la sua carriera di laureanda, in tutta la sua carriera di studentessa.
La maturità?
Oh, che terribile baggianata al confronto!
Lo sguardo della ragazza cadde, quasi autonomamente, senza che lei potesse controllarlo, sul libro accantonato sotto quello di onconologia clinica. Il volume, grosso e maestoso, terribilmente spaventoso di psichiatria la fissava di rimando e il suo sguardo, valutò la ragazza, non aveva niente di amichevole. Rabbrividì ancora, ma non per il freddo.
Luca vide quella sua reazione e, senza poter trattenere un ennesimo sorriso, le circondò nuovamente  le spalle con un braccio quasi cercasse di darle forza. E, forse, un po' ci riuscì. 
-Fammi indovinare- le disse seguendo la direzione del suo sguardo, divertito. -Psichiatria nun te  scenn proprio, giusto?-
La ragazza si voltò verso di lui, il volto pallido e gli occhi spiritati. -Diciamo che preferirei rifare l'esame di anatomia ogni giorno della mia vita.- chiarì con enfasi, strappandogli un ulteriore sorriso. O forse era sempre lo stesso di sorriso che non si decideva ad abbandonare la sua faccia. 
-Come sei tragica, Daf! E' solo una materia, e poi Secchia è un bravo insegnante: sono sicuro che non farà domande tanto difficili durante il colloquio orale.-
-Tu dici?- 
-Ne sono assolutamente certo. Anche perché non saprebbe formulare nemmeno lui domande più complesse del semplice "Allora signorina, potrebbe ripetermi il suo nome lentamente?"
Dafne nascose il viso nel petto del suo amico per trattenere una risata particolarmente vistosa. 
-Sono seria, Luke! A me quella materia mi terrorizza. Hai sentito oggi cosa ha detto il professore? Quando ci ha descritto i manicomi, le persone che ci sono dentro, gli orrori che hanno vissuto? Io..io non credo di farcela.-
-Non credi di farcela.. cosa?-
Dafne sospirò.- Non credo che potrei sopportare i loro dolori, le cose che hanno visto. Non penso di poter diventare uno psichiatra, un qualcuno che possa aiutarli quando ne hanno bisogno. Il professore oggi ha detto che vengono maltrattati perché nessuno li vuole bene.-
Luca le accarezzò una spalla, confortandola. -Sì, Daf, c'ero anche io, ma ringranziando Dio noi dobbiamo solo fare questo esame, non vivere in quei centri per il resto della nostra vita! E' solo un esame, capisci? Finirà tutto presto, prima di quanto tu credi, e poi potrai bruciare questo libro insieme a tutti gli appunti ridicoli che ti ostini ancora a voler prendere a lezione. O, magari, se lo ritieni più opportuno, potrai rivenderlo.-
La ragazza alzò la testa dal suo petto per poterlo guardare negli occhi. I suoi occhi scuri, quasi neri, persi in quelli chiari di lui, erano glaciali. Mettevano soggezione. 
-Possibile che tu riesca ad essere così maledettamente superficiale?- lo accusò.
-Io? Superficiale io? Ma ti ascolti, Daf? Sei tu che stai costruendo mille castelli in aria, demolendoli ancor prima di aver posizionato l'ultima bandierina colorata sulla cima. Hai ventiquattro anni, amica, non cinquantacinque. L'età della menopausa è ancora lontana, quindi goditi la vita.-
-Cosa centra adesso?-
-Centra perché tu hai paura di tutto, come se tu stessi andando a morire. Ma non stai per morire, devi solo affrontare un esame e credimi, il patibolo è cosa ben diversa. Cosa potrebbe mai succedere di brutto? Secchia non ti riconoscerà come la grande studentessa che tu sei? Bhè, tanto piacere! Accetterai con umilità quel ventidue e poi gli bucheremo le ruote della macchina, niente di più facile e divertente. Devi solo avere fede.-
Dafne scosse la testa, un ombra di sorriso sul tenero volto, poi si passò una mano dietro il collo in un tic nervoso. 
Quando parlò, la sua voce era roca. -Luke, mi spieghi come fai?-
Lui la guardò dolcemente, come se fosse una bambina. -A fare cosa?-
-A essere così tranquillo, così solare. A non farti problemi per niente. Potrebbero rubarti l'auto in questo istante e tu forse ironizzeresti anche su questo.-
Il ragazzo mosse la testa a destra a sinistra facendo schioccare il collo in un suono tonfo e sordo. -Penso che la vita sia una sola, unica e irripetibile, e che dunque questa valga la pena di essere vissuta. Penso che siamo appena usciti da una guerra mondiale e non che la stiamo ancora combattendo.-
Dafne lo guardò come si guarda un mentore, come si guarda un padre e un fratello maggiore i quali entrambi non aveva; suo padre era morto e la sua unica sorellina era di sette anni più piccola di lei. 
Tenne posata la sua mano sull'ampio petto di lui, ascoltando il suo cuore rieccheggiare in quel silenzio completo, rotto solo dai loro discorsi. 
-Fai bene a pensarla così, sono molto orgogliosa del tuo ottimismo.-
Lui ricambiò il sorriso, dolcemente.- Anche io lo sono del tuo pessimismo, sai? Siamo una perfetta coppia io e te, ci completiamo.- 
Dafne scosse il capo e i suoi grandi orecchini produssero un rumore forte e assordante scontrandosi sulla sua mandibola. 
Con sguardo attento la ragazza tornò a fissare ciò che li circondava: il grande lampadario sopra di loro, una penna nera che si scalfiva contro un foglio e infine un libro che cadeva sopra il pavimento, lanciato da uno studente particolarmente in crisi.
Tutto era nella norma. Tutto era nella norma, specialmente perché a Febbraio sarebbero iniziati i primi esami. 
Dafne sorrise, respirando la disperazione di molti coetani, il loro lampante terrore seppur causato da materie diverse. Improvvisamente, forse perché Luca la stringeva ancora a se, non si sentì più sola. 
Alzò la testa dalla spalla del suo amico, respirando ancora una volta la sua colonia, poi si inumidì le labbra. Sapeva che lui l'avrebbe mandata al diavolo, ma sapeva che l'avrebbe accompagnata anche lì se solo glielo avesse chiesto, dunque mise da parte il suo spropositato orgoglio e lo guardò con uno sguardo da cucciolo indifeso.
Non a caso lui la chiamava Bambi, il più delle volte.
-Luke, mi accompagneresti da una parte domani pomeriggio? Ti prego.... tu lo sai che ti voglio bene, vero?-



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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 Capitolo 3



Evitava accuratamente di incontrare lo sgurdo del suo amico continuando a tenere gli occhi saldamente impuntati verso le sue graziose scarpe di tela. Per un solo istante le sue scarpette rosse le parvero terribilmente interessanti. 
Luca stava qualche passo dietro di lei, il colletto della sua giacca invernale alzato con l'intento di coprirgli il collo e gli scarponcini alti, molto più caldi delle sue scarpe da ginnastica, ai piedi enormi e singolari. La sua camminata era pesante e frenetica, ma contemporaneamente lenta, come quella di un condannato a morte che si sta avvicinando al proprio boia al di là della collina. Dafne poteva quasi immaginare la faccia contrariata del suo amico, nonostante gli desse le spalle e non potesse veramente vederla. 
Sorrise nascondendo quel sorriso nella sua sciarpa color crema. 
Aveva dovuto usare tutto il suo charme- al quale, lei lo sapeva, Luca non sapeva resistere- per poterlo convincere ad accompagnarla  a fare visita a quel manicomio. 
Voleva vedere tutto da vicino, gli aveva detto, per poter capire al meglio cosa loro provassero sulla loro pelle. 
Luca l'aveva guardata, un'espressione scettica sul volto perennemente abbronzato, chiedendole se il suo masochismo l'avrebbe spinta anche a sedersi sulla sedia elettrica, per poter così capire al meglio anche i poveri cricetini usati come cavie dagli scenziati di tutto il mondo. 
Era da quando gli aveva esposto quella sua contorta idea che il ragazzo la guardava sconvolto, dicendolce che quel carattere da crocerossina non l'avrebbe portata da nessuna parte se non al suicidio suo e di chiunque le stesse intorno. Per esempio, si era esposto con nonchalance, continuare  la loro amicizia lo stava portando a un lento, doloroso, suicidio mentale. 
Dafne aveva riso, si era alzata sulle punte e gli aveva regalato un bacio amichevole sulla guancia che lo aveva fatto sorridere nuovamente, dimenticandosi di quello che probabilmente lei gli aveva domandato. 
O forse era solamente Luca che, con il suo carattere solare, riusciva ad allontanare facilmente dalla sua mente tutti quei pensieri che non riteneva importanti. 
Ed ora eccoli lì, a camminare in fila indiana, come due scolari in gita scolastica, riparati dentro giacche più large di loro, vittime indiscusse di quel vento glaciale. 
Dafne ancora ricordava quando, solo qualche istante prima, lui fosse venuto a prenderla al suo appartamento con una faccia da cane bastonato, domandandole con cortesia di cambiare idea. 
Lei aveva scosso la testa risoluta, divertita, aveva salutato la sua compagna di stanza ed era uscita, la sua borsa nera stesa sopra il braccio. 
Era da quando insieme avevano varcato il portone del suo palazzo che Luca non le rivolgeva la parola, o forse era solamente lei che, impaziente, camminava con un passò così felpato da impedirgli di avvicinarsi ulteriormente. Stranamente da come si sarebbe aspettata solo qualche tempo prima, Dafne era euforica.
Non vedeva l'ora, per esempio, di poter varcare la soglia di un manicomio, poter tastare con mano le pareti solide come marmo e tristi come un cimiterio di quel centro riabilitativo. Voleva vedere con i suoi occhi il volto di alcuni pazienti, cercare di parlare con loro, avere un minimo dialogo anche se limitato. Dafne, in quel preciso istante, aveva un solo desiderio, così ardente e focoso che la stava consumando completamente: voleva capire. 
Voleva capire cosa si provasse a essere considerati diversi, perché nel suo mondo quell'aggettivo veniva usato solo se connesso al bullismo; voleva poter fare chiarezza nella sua mente, trovare la sua vocazione, cercare un appiglio davanti a quella tremenda materia che sembrava essere totalmente in disguido con la sua persona. E se Luca le diceva che psichiatria era solo una materia di un singolo esame... bhé, lei non era d'accordo. 
Perché era una ragazza così perfettina, così maledettamente precisa, da non voler lasciare nulla al caso. Stranamente si ritrovò a pensare che non stava facendo tutto quello per un voto alto, per il suo agognato ventisette o trenta, ma per lei stessa in primis; per la prima volta nella sua vita, Dafne mise la sua cultura personale davanti ai numeri scritti sopra ad un libretto. 
Sorrise ancora dentro la sua sciarpa, orgogliosa di se stessa, poi si voltò a fronteggiare Luca il quale, ancora dietro di lei, la guardava in tralice, quasi abbattuto. E un Luca abbattuto era uno spettacolo più unico che raro. 
-Non fare quella faccia, Luke! Sono sicura che farà bene anche te e che, a esame finito, mi ringrazierai in tutte le poche lingue che conosci.-
-Quanto sei simpatica, Bambi.- le rispose con una smorfia intantile, contraendo i muscoli del suo volto e facendo arricciare in una maniera disumana gli angoli intorno ai suoi occhi. -Non riuscirò mai a capire il tuo carattere lunatico: un momento prima sei angosciata da questi manicomi e da questi  pazienti più vicini a Dio di quanto mio nonno sia stato prima di morire, e un istante dopo sei qui, bella euforica, impaziente di poter loro stringere la mano. C'è qualcosa di satanico in te, Daf!- 
La ragazza ignorò il suo ultimo commento poco raffinato e si sfregò le mani sui jeans, in un tic nervoso dettato anche dal clima freddo. Una strana euforia la invase totalmente, scorrendole sotto la spina dorsale e dentro le vene, pompato dal cuore in ogni signola cavità che lo componeva. 
Si riavviò i capelli con una mano, come faceva sempre da bambina quando qualcosa che aveva aspettato per tanto, troppo tempo, finalmente si stava per concretizzare. Con la mano libera cercò un contatto con il suo amico, dimenticandosi del loro precedente battibecco, necessitando di calore umano in quel momento tanto freddo, sia emotivo che climatico. 
Luca, ancora dietro di lei, le strinse delicatamente un polso. 
-Possiamo ancora tornare a casa, se vuoi. Io, per quanto mi sia concesso parlare, voglio tornare a casa.-
Dafne rise divertita anche se tesa. -Io invece no. Io devo poterli vedere, almeno una volta; non credo che riuscirei a vivere con questo rimpianto, quello di aver potuto almeno accertarmi con i miei occhi di quanto vere siano queste leggende metropolitane che li vedono protagonisti.-
Luca aprì la bocca per risponderle, ma probbilmente almeno una volta nella vita si decise a connettere cervello e bocca e, dunque, a rivalutare quel suo pensiero  probabilmente a Dafne interessava veramente poco. Quindi il ragazzo sorrise ancora, come se non sapesse fare altro nella vita, inclinò la testa verso destra e socchiuse lo sguardo nell'esatto momento in cui il vento gli sbatteva prepotentemente sulla faccia. 
-Questo posto è veramente angosciante- proruppe con voce ferma e incolore mentre guardava, con sguardo incerto, quell'edificio spento davanti a loro. 
Sembrava quasi una villa abbandonata, una casa fantasma, e molto probabilmente mai prima impressione era tanto lontana dalla realtà; Dafne si chiese quanti cadaveri, quanti zombie, quanti uomini vivi ma morti dentro ci fossero lì. Inforcò la testa nelle spalle, rabbrividendo impercettibilmente. 
Una scritta elegante ma anch'essa sporca, brillava sulla facciata frontale del manicomio.
Dettava: Manicomio Leonardo Bianchi. Napoli.
Dafne lo lesse e rilesse più volte nella sua mente, facendo scorrere gli occhi sopra quella didascalia sbiadita ma originalmente dorata. Un brivido le scese lungo la spina dorsale.
Con riluttanza, ma anche con grande coraggio, la ragazza tirò a se il braccio del suo amico incitandolo a camminare di nuovo; voleva entrare in quel edificio, vederlo, visitarlo, fare quello che sentiva di dover fare e poi uscire di lì. 
Si chiese se quella sua decisione fosse veramente tanto importante come lei sentiva che in reatà era, se l'avrebbe aiutata a studiare e capire. Sentì al suo fianco, dietro al suo collo, Luca sospirare.
Avrebbe voluto respirare forte anche lei, ma il respiro le morì completamente in gola quando vide come fossero quei luoghi all'interno. Se possibile erano peggio che fuori!
Non c'era colore, non c'era vita; sul fatto che ci fosse l'ossigeno Dafne era scettica. Nel momento in cui posò piede sul pavimento freddo del manicomio, ebbe quasi paura di poter essere risucchiata dentro qualche strano turbine di dolori e sofferenze. Avrebbe tanto voluto essere avvolta dal vortice di Paolo e Francesca, quello decantato da Dante nell'Inferno, perché almeno lì avrebbe trovato un po' di calore, scaturito dalla passione dei due amanti. Cosa c'era invece lì?
Il grigio era il colore dominante e, per un solo istante, Dafne si sentì come l'unica macchia di colore presente in quel lugubre posto. Le sue scarpe rosse fungevano da luce al neon, seppur non facessero luce, ma almeno la rendevano facilmente riconoscibile come se fosse stata sotto la più calda delle lampade. 
Luca, accanto a lei, non le lasciò per un secondo la mano e Dafne avrebbe potuto giurare di averlo sentito trattenere il fiato e masticare una bestemmina poco elegante. 
Con il senno di poi la ragazza avrebbe trovato quasi esilarante la presenza di un soggetto come Luca- così allegro, così estroverso e insensibile al cattivo umore- lì dentro. Lui era più indirizzato a frequentare feste, discoteche e assurdi pub inglesi!
Dopo essersi guardata un po' intorno ed aver reistrato quel soffitto ammuffito, di odore e di aspetto, consumato agli angoli tanto che per un solo istante temette che potesse cedere e cadere sulle loro teste, Dafne tirò a se ancora il braccio dell'amico per incitarlo a camminare. Lui non se lo fece ripetere due volte e, affiancandola, le circondò le spalle con un braccio; la sovrastava almeno di quindici centimetri.
-Sei ancora sicura di voler stare qua dentro?-
Lei annuì, convinta. -Sicurissima.-
Luca sbuffò affranto. -E adesso spiegami come ti possano spaventare i film horror, quando far parte di uno di questi invece non ti scalfisce affatto!-
Lei si inumidì le labbra secche con fare pensieroso, quasi stesse valutando una giusta risposta, forse quella più esauriente, ma alla fine gli regalò un sorriso che sembrò accontentarlo. Era un sorriso luminoso, forse poco spontaneo, ma probabilmente nessuna risposta verbale era abbastanza per soddisfare quella richiesta stupida. Perché d'altronde da un soggetto supido, pensò Dafne, che domande poteva aspettarsi?
Ancora stretta al fianco del suo migliore amico attraversò la prima stanza chiedendsi dove potesse essere qualche infermiera, qualche medico, qualche psichiatria al quale spiegare la loro situazione.
Che poi, che cosa gli avrebbe mai potuto dire?
Gia si immaginava stringere convulsamente il braccio di Luca, cercare invano di nascondere i suoi denti storti mentre parlava e sussurrare il suo disgusto per la psichitria. E cosa mai le avrebbero potuto rispodendere?
Nel migliore dei casi l'avrebbero mandata a quel paese con tanto di calcio nel posteriore, nel peggiore l'avrebbero denunciata. Ma poi, poteva veramente essere denunciata per una causa tanto assurda?
Luca, con un passo forse più lungo della sua stessa gamba, la riscosse dai suoi pensieri perché per poco non caddero entrambi rovinosamente a terra. Dafne lo guardò con fare omicida, ma vedendo la sua espressione dispiaciuta non poté fingersi arrabbiata ancora a lungo.
Accigliandosi, poi, la ragazza si passò una mano dietro il collo.
-Credo che ci siamo persi, Luke!-
Lui sollevò il sopracciglio destro, scettico. -Ah, tu dici?Perché, tu credi davvero che ci sia realmente una strada da seguire qui? Siamo scesi negli inferi, Daf, e probabilmente dietro qualche muro tra poco spunterà Virgilio pronto a farci da guida, perché anche lui, come te, ha manie di protagonismo e vuole aiutare il prossimo.Ma credimi se ti dico che se questo dovesse succedere mi rifiuto di venire con voi, perché non sopporterei un suo monologo su quanto il suo piccolo Enea sia stato forte e valoroso! Tagliatemi un braccio, ma le lodi di un genitore ogoglioso rivolte al proprio figlio, per di più inventato,  non le sopporto. Rischierei di diventare pazzo!-
Dafne camuffò una risata. -Oh, bhé, nel peggiore delle ipotesi siamo già in un manicomio... mi risparmi la fatica di accompagnarti qui, non trovi?-
Luca le tirò un buffetto sulla guancia, intimamente divertito. -Onestamente questa te la potevi risparmiare, sai? Non faceva ridere.-
-Perché, la tua battuta sì invece? Stai perdendo colpi, Luke. Ti consiglio di aggiornare il tuo repertorio, perché da un po' di giorni non sei più esilarante come un tempo.-
-Ma io sono bello!- si lamentò lui, gonfiando il petto orgoglioso.
Dafne lo guardò con sguardo critico, poi sospirò. -Vero,- ammise- ma cosa vuoi che importi? Diventerai basso, grosso e molle anche tu, come tutti quanti, fra un paio di anni. E' solo questione di tempo!-
Luca si finse per qualche istante offeso, un espressione da cucciolo bastonato sul volto e cercò di ritrarre l'avambraccio sul quale Dafne si era appoggiata, ma lei fu più veloce; lo arpionò con rapidità, lo strinse con forza fra l'ascella e il braccio, vittoriosa. 
Come se fosse stato un bambolotto e non il suo migliore amico, la ragazza lo trascinò con se per qualche istante ancora in un silenzio rigenerante che aveva sempre amato. 
Dafne venerava i silenzi, erano qualcosa che la facevano sentire viva e forte, potente. Le davano allegria, seppur a detta di molti- anche del suo stesso amico- fossero tristi e deprimenti. 
Quando Dafne si ritrovava coinvolta in un silenzio tombale si sentiva come se si stesse caricando di energia positiva e niente e nessuno, in quel momento di autentica pace, avrebbe potuto disturbarla. 
Dunque camminò con delicatezza e felicità, studiando con sguardo circospetto e un po' critico ciò che la circondava, cercando di imprimere nella mente quel odore putrido molto simile ad un cadavere in decomposizione. Era fastidioso,pensò, eppure era sempre una faccia di quella medaglia che era il mondo reale;Dafne aveva ormai ventidue anni e doveva imparare ad accettare che la vita non è necessariamente quello che noi vogliamo, perché ci sono diverse sfumature di colori altrettanto sconosciuti, ma non per questo meno importanti.
Camminò quindi con veneranda tranquillità, cercando forza nel corpo del suo amico, sentendolo al suo fianco come non aveva sentito nessun altro nella sua intera vita; probabilmente lui le era più vicino del suo stesso corpo, rifletté con un sorriso incoraggiante. Con la coda dell'occhio lo osservò e lo ringraziò mille e più volte, per ciò che faceva e rappresentava per lei.
Poi, quando si accorse che quel manicomio sembrava essere un labirinto inesplorato e cupo, si fermò nuovamente davanti ad una porta socchiusa e malandata. Il fiato le si mozzò nuovamente, come se qualcuno l'avesse appena colpita sullo stomaco.
Cercò di nuovo lo sguardo di Luca e lo trovò, sempre più allegro, ancora più rassicurante. Gli strinse più forte una mano.
-E se ti dicessi che sto iniziando a dubitare della natura di questo luogo?- gli disse con voce inferma e terribilmente tremolante.
-Cosa intendi dire, Bambi?-
Lei fece un respiro ampio, quasi volesse inalare tutta l'aria presente nei suoi polmoni; ma quello era ossigeno sporco, vecchio, ammuffito. 
-Ho la sensazione che questo manicomio sia più triste e spettrale di un cimitero, Luke. Mi sento tesa come non sono nemmeno davanti la tomba di mio padre.-
Il ragazzo le sorrise nuovamente, ma questa volta il suo non era un sorriso di circostanza, un sorriso ironico e derisorio. Era un sorriso vero, amichevole, fraterno. 
Con lentezza le baciò la nuca, inalò il profumo dietro le sue orecchie e l'abbracciò totalmente. Dafne si sciolse tra le sue braccia, completamente. 
-Non avere paura, Daf, perché ci sono io qui con te. Ci sono tanti fantasmi al mondo, ma nessuno sarà mai tanto importante da toglierti il sorriso. Ricorda, mia piccola Bambi, che tutto quello che devi fare è sorridere sempre.-
Le labbra di lei tremarono, così come i suoi occhi ormai pieni di lacrime. 
Dafne pensava a suo padre, a sua madre, alla sua sorellina lontana. Pensava a quello zio morto in guerra, quel parente che mai aveva conosciuto, e a chi aveva avuto la sua stessa sorte. Pensava al suo professor di psichiatria, alle sue mani incerte sulle gambe mentre spiegava la mattina prima e infine pensava a chi, dietro quella porta semichiusa, respirava affannosamente, le gambe strette al petto, e un pianto a rigargli le guance. 
-Come faccio a sorridere davanti al dolore, Luke? Come fai a respirare questa aria e a credere nel futuro, a non avere paura per loro e per te stesso?-
Luca arricciò il naso, alzò la testa a fissare quel soffitto ingiallito e le rivolse uno sguardo incuriosito. Non sembrava minimamente divertito, per la prima volta da quando lo conosceva Dafne pensò che lui non si stava prendendo gioco di lei.
-Mi dà forza il fatto che nonostante il grigio di queste pareti, lì fuori c'è sempre un po' di sole pronto a risclaldarci. Credo nella vita e nelle soddisfazioni che prima o poi ognuno di noi avrà lungo il suo percorso. Non ho paura del traguardo finale, perché tutti lo raggiungeremo prima o poi, ma io so che quando varcherò il mio avrò ben impressi nella mente i momenti più piacevoli della mia esistenza. E adesso smettila di piangere, andiamo in quella stanza a conoscere persone come noi. Portiamo un po' di luce dentro questo grigio, perché io mi sono stancato di questa puzza di morte e catrame. Il tuo profumo di pesca e mango è buono abbastanza da scacciare tutto questa purtida puzza insivata nelle pareti.-
E insieme, abbracciati, forti ma anche tanto incerti, entrarono in quel mondo inesplorato.
Forse, avrebbe pensato Dafne qualche tempo dopo, era così che Colombo si era sentito quando aveva scoperto l'America: solo, spento, vivo, energico, spaventato ed eccitato. Ma anche tanto, troppo vulnerabile.




Un uomo piangeva in un angolo striminzito- forse quello stesso uomo che Dafne aveva sentito lamentarsi dietro da quella porta- e si teneva saldamente le mani posate sulle orecchie. Aveva gli occhi chiusi, le braccia nude, le spalle scarne. Guardandolo attentamente, non senza un certo imbarazzo, Dafne notò che lui era completamente nudo; immediatemente distolse lo sguardo verso la sua destra. 
Una donna si mordeva le mani, piangendo anche lei, e le mordeva con forza; sembrava volersi fare male, ma male davvero, quasi odiasse se stessa, quel posto e la vita. Probabilmente era così che le cose veramente stavano. 
Dafne non sapeva niente di lei, di cosa passasse nella sua testa, ma qualcosa le suggerì che i suoi pensieri avessero una natura del tutto perversa. 
Infine, molto distante, dall'altra parte della stanza, lei la vide. Aveva una divisa bianca e pulita, linda e ordinata, un espressione annoiata e un trucco pesante sugli occhi e sulle labbra. Era china su qualcosa- o forse qualcuno!- che nascondeva completamente con la sua schiena robusta. 
Dafne cercò di sbirciare i suoi lineamenti, ma Luca l'attirò nuovamente a se come se lei fosse diventata il suo peluche personale e lui ne avesse uno smisurato bisogno. Le guance di lui erano lisce ed asciutte, diversamente dalle sue ancora lucide e bagnate, ma ora totalmente inesplorate da altre lacrime curiose. 
Dafne si avvicinò al suo amico, posò una mano sulla sua spalla e si alzò in punta di piedi per potergli sussurrare tranquillamente qualcosa all'orecchio.
-Chi è quella donna, secondo te?-
Luca si inumidì le labbra, un espressione perfida a disegnare il suo volto. -Non saprei, ma sicuramente una con troppa autostima e tanti chili di troppo. Mi chiedo quali dei due avranno rotto la sua bilancia stamattina!-
Lei trattenne a stento un sorriso divertito, nonostante la circostanza e il suo stato d'animo. -Sono seria, Luke!-
-Anche io! La vedi come si sta comportando? Non so chi si nasconde dietro il suo fisico molliccio trattenuto a stento in quella divisa più piccola di due taglie, ma lo sta maltrattando alla grande. Posso giurare di averle visto tirare un calcio sulla gamba a quel povero malcapitato.-
L'espressione di Dafne mutò nuovamente e da divertita diventò spaventata. -Dici davvero? E pensi che si sia fatto male?-
Luca la fissò con insistenza, sarcasmo e curiosità che si mischiavano insieme. -Non saprei, Daf. Però, se sei tanto curiosa di valutare la fascia di dolore, potremmo sempre andarle a chiedere di sfogare i suoi istinti repressi anche su di te. Io potrei cronometrare il tempo che ci impieghi a svenire, che te ne pare?-
Anche questa volta Dafne gli tirò uno scalpellotto sulla testa, facendolo sbuffare e imprecare contro la sua violenza. Avrebbe potuto scommetterci un braccio sul fatto che sicuramente lui adesso stesse brontolando, proprio come un bambino, circa il fatto che le donne erano terribilmente manesche con gli uomini, forse più di loro stessi.
Nonostante tutto fece finta di non aver udito nessuno dei suoi commenti e cercò di avvicinarsi a quella donna- che a suo parere sarebbe dovuta essere una sorta di infermiera- senza però dare nell'occhio. 
Stranamente- che poi tanto strano nemmeno era- non ci riuscì perché lei si voltò a fissarli, un espressione furiosa sul volto bello ma paffuto, e gli occhi incandescenti. Dafne non lo avrebbe mai ammesso, ma Luca aveva avuto ragione quando aveva commentato il suo eccessivo peso trattenuto a stento in vestiti più piccoli di lei di almeno qualche taglia. 
Con educazione Dafne alzò una mano in segno di saluto avvicinandosi alla donna.
-Buongiorno signora, io sono Dafne Valenti e lui e il mio amico Luca Pelosi. Siamo venuti qui per poter visitare qualche paziente e poterci... accertare delle loro condizioni fisiche. E' possibile?-
La donna, un tono acido quasi quanto un limone scaduto, fece schioccare la lingua sul palato.
-Queste domande avrebbe dovute farle prima di imboscarsi insieme al suo fidanzatino in questo ospedale, signorina.-
Dafne sentì Luca borbottare una battuta poco raffinata secondo il fatto che quel manicomio non poteva essere minimamente considerato un ospedale, perché in quel caso anche lei, un balena troppo grossa anche per tutto il Pacifico, sarebbe potuta diventare facilmente miss Italia. Ironia della sorte entrambe le cose erano utopiche, oltre che terribilmente irrealizzabili. 
Dafne, però, con estrema maturità- almeno una dei due doveva dimostrare un po' di amor proprio, pensò- evitò commenti più acidi di quelli dell'infermiera. D'altronde cosa avrebbe comportato il risponderle per le rime? Una soddisfazione personale? Vero, ma probabilmente il famoso e forse non più tanto fantasticato calcio nel posteriore, non glielo avrebbe tolto nessuno in quel caso.
Con un po' di saliva ingoiò anche tutto il suo orgoglio e si dipinse un sorriso educato sulle labbra, i denti storti in bella mostra, adesso.
-Non era nostra intenzione imboscarci, signora. Siamo studenti di medicina, prossimamente dovremo svolgere un esame di psichiatria e avremmo tanto voluto poter essere partecipi, anche solo per qualche istante, di questa verità che siamo costretti a studiare su carta.-
La donna gonfiò le guance ancora di più di quanto fossero già paffute, poi distolse lo sguardo da loro. -Non credo sia orario di visite. Siete parenti, almeno?-
Luca fece ruotare lo sguardo per la stanza, un'espressione disgustata sia da ciò che vedeva che da chi era costretto a sentire. 
-No, come le ho detto siamo solo studenti. Ci ha mandato il professor Ruggiero, se può fungere da garanzia. Siamo suoi allievi, lauerandi della Federico II-
Per un solo istante lo sguardo della donna vacillò ancora, quasi si stessero iniziando a sciogliere tutti i suoi dubbi e le sue incertezze. Fece un respirò enorme quasi quanto il suo posteriore, infine si voltò a guardare il paziente che poco prima Luca le aveva visto maltrattare. 
Era una donna dai grandi occhi marroni, notò Dafne con compassione, il volto magro e grandi occhiaia sotto gli occhi; provò pena, oltre che un profondo senso di disagio.
Alla fine, quasi con riluttanza, l'infermiera fece schioccare ancora la lingua sul palato.
-Sono sola  qui dentro, l'unica infermiera in questo schifo di posto. Anche Satana mi ha voltato le spalle, oggi!-
Luca si morse debolmente l'interno guancia, completamente disinteressato.
-Dunque vi posso autorizzare a fare ciò che dovete fare per almeno sessanta preziosi minuti mentre io andrò a visitare altri pazienti nell'altra ala del manicomio. Non credo sia necessario raccomandarmi massima serietà, perché sono persone molto fragili quelle con cui andrete a confrontarvi.-
-Assolutamente signora, e grazie.-
La donna la guardò a lungo, poi accennò un sorriso cortese che si spense completamente quando incorciò lo sguardo di Luca; prima di voltare definitivamente le spalle a loro e andare a sfogare i suoi istinti isterici su altre povere cavie che, Dafne ne era sicura, avrebbero sentito urlare e piangere da lì a qualche istante, si voltò nuovamente a guardare la donna alle sue spalle. 
Dafne, seguendo il suo sguardo, si chiese da quanto tempo non desse loro da mangiare, considerando la loro magrezza e il loro pallido colorito.
Avrebbe tanto voluto poterli aiutare, ma forse in quell'istante l'unico sostegno che poteva darli era quello di essere almeno più decisa e ferma sulle sue posizioni. Alzò il mento con fierezza, salutò ancora l'infermiera e poi strinse la mano di Luca lungo il fianco.
Fu in quel momento, precisamente quando alzò lo sguardo sul soffitto, sospirò e poi lo riportò fra le pareti della stanza, che lo vide. 
Lo vide, e improvvisamente seppe che non avrebbe più potuto vedere occhi uguali e dimenticarsi di quelli. 
Che poi, si chiese con titubanza, avrebbe mai visto occhi identici ai suoi?

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


         Capitolo 4.


   Non aveva mai visto una creatura più silenziosa di quella. Probabilmente neppure le più astute delle volpi, quelle abituate a vivere nei boschi, quelle che si cibano della loro stessa furbizia, sarebbero riuscite a egualiare una simile e pacata tranquillità. Era così silenzioso da passare inosservato, quasi non esistesse.
Guardandolo Dafne ebbe il presentimento che forse  lui fosse veramente morto. 
Aveva grandi occhi chiari, ma non azzurri e neppure grigi. Erano un colore così chiaro da essere lontano dal verde bottiglia di Luca. A primo impatto le parvero gialli, poi semplicementi castani; infine si decise a classificarli come dorati. 
I suoi capelli biondi erano attaccati al volto, come se fossero sporchi e forse un po' lo erano; le bastò guardare le sue mani, le sue ginocchia e l'alluce del suo piede sinistro per capire che non vedeva un bel bagno caldo da minimo una settimana. 
Provò compassione oltre che- si vergognò anche solo a pensarlo- un po' di ribrezzo. 
Inoltre il ragazzo aveva le labbra sottili, screpolate, insanguinnate e terribilmente secche; Dafne si chiese se a ferirlo terribilmente fosse stata una tortura che si era inflitto autonomamente o la stessa vecchia bagascia di prima. Sperò terribilmente nella prima ipotesi, perché meno tragica e insopportabile. 
Con una lentezza inaudita si avvicinò a lui, sciogliendo per la prima volta il nodo di mani e pelli che si era adato a creare con Luca. Sentì il suo amico protestare in modo poco carino, quasi tenero, ma non se ne curò; il suo sguardo, in quel momento, era indirizzato solo verso quel ragazzo tanto vulnerabile  quanto autonomo. 
Qualcosa nel suo sguardo, infatti, lo rendeva diverso dagli altri pazienti in quella stanza. 
-Ciao, io sono Dafne Valenti.-
La sua voce, la udì anche lei, era molto simile a quella di un bambino delle elementari che si ritrova per la prima volta perso in un luogo a lui sconosciuto. Era spaventato quel bambino, esattamente come lei. Anche Dafne, infatti, se ne accorse solo dopo, aveva paura di quello che la circondava. 
Non avere Luca accanto a se le metteva ancora più soggezione di quanto avesse avuto prima; si sentiva debole, facilmente esposta ad ogni tipo di dolore emotivo, ma doveva andare avanti. Aveva ventidue anni, doveva crescere, e non poteva restare per sempre attaccata alla gonnella di una mamma, di una sorella, di un papà o anche di un migliore amico particolarmente simpatico.
Doveva crescere e crescere significava anche lasciarsi andare. 
Con un po' di riluttanza falsificò un sorriso. 
Il ragazzo avanti a lei, ancora rannicchiato in un angolo, smise per un solo istante di studiarsi l'unghia sporca dell'alluce, mosse le labbra in un muto discorso interiore, per poi alzare lo sguardo a fissarla. 
Qualcosa nel suo sguardo le fece intuire che era rimasto profondamente deluso tanto più che sbuffò a mezza voce, inclinò la testa verso destra e poi tornò a studiare i suoi piedi adunchi. Come se niente fosse. 
Dafne gonfiò le guance, sempre più simile a quella bambina infantile delle elementari che non veniva minimamente presa in considerazione il suo primo giorno di scuola. Avrebbe voluto battere i piedi per terra, urlare, prenderlo per le orecchie e sbattere la sua testa al muro. Avrebbe voluto urlargli: "Guardami, stupido deficiente!", ma la sua maturità in quel caso sarebbe andata allegramente buttata nel gabbinetto. E lei non era immatura, vero?
Trattenendo a stento la rabbia si sforzò di simulare tranquillità, cercando di tramutare il suo palpabile nervosismo in un sorriso cordiale. 
-E tu, invece? Quale è il tuo nome?-
Il ragazzo alzò nuovamente lo sguardo e ora, sotto la lieve luce al neon, Dafne riuscì a catalogare veramente il colore delle sue iridi: erano di un color nocciola brillante, quasi velato da uno strato di ingenuità pura che rendevano ancora più evidente il sole dentro quegli occhi. Un sole spento, pronto al tramonto, ma pur sempre incandescente, come una palla di fuoco pronta a donare luce. 
Lui, questa volta, parve essere interessato a mantenere viva la conversazione. 
-Io mi chiamo Gabriele Esposito. Sono gli altri che non chiamano me.-
Dafne sembrò sorpresa più dal fatto che lui le avesse risposto che da ciò che lui le disse veramente. Si accigliò, la fronte lievemente corrugata e gli occhi aggrottati; Luca, alle sue spalle, si avvicinò piano piano. 
-Non ti viene a trovare mai nessuno? Amici, parenti, familiari..- gli domandò ancora, ansia e paura che andavano lentamente scemando. Stava iniziando a calarsi perfettamente in quella stramba ma anche delicata, vera e profonda conversazione. Per la prima volta. 
-Io non ho amici. La mia unica famiglia è morta e mio padre mi odia. Sono solo, ma alcune volte la solitudine fa meno male di un compagno infedele: io so che non mi portò mai deludere.-
Dafne rimase sconcertata dalla freddezza e dalla serietà con la quale il ragazzo fece quella confessione; non era una frase gettata lì con foga e implusività, ma diversamente sembrava essere stata meditata e meditata a lungo. Lei ne rimase sconvolta. 
Con una rapida occhiata alle sue spalle cercò ancora lo sguardo di Luca che, diversamente da poco prima, trovò poco distante da lei; il suo migliore amico restava qualche metro più lontano dalla sua postazione, come se non volesse invadere la sua privacy e quella dello psicopatico avanti a lei, ma nonostante tutto li ascoltava- seppur senza malizia- per avere la certezza di poter intervenire in caso fosse stato necessario 
Dafne gli sorrise, teneramente riconoscente da quella dolce premura, poi si rivolse nuovamente a Gabriele, più forte e decisa di prima. E gli rispose. 
La sua voce tremò debolmente all'inizio della frase, quasi fosse emozionata, ma poi riacquistò il suo sangue freddo e la sua forza di volontà. 
-Come mai sei qui?- cercò di risultare poco interessata, vagamente curiosa, ma non ci riuscì; il suo tentativo di porre quella domanda falsificandola per una qualunque domanda di conversazione amichevole, proprio come se gli stesse chiedendo che tempo avrebbe fatto l'indomani secondo lui, andò velocemente perdendosi. 
Gabriele rise di lei, con gli occhi e con le labbra. Il suo sopracciglio si alzò lievemente mostrando una cicatrice sottile ma lunga tutto il suo sopracciglio, orizzontale e lievemente frastagliata. Dafne la studiò quella cicatrice, studiò ogni minima imperfezione su quel volto bello, sporco e scarno; cercò di curiosare a lungo tra le macerie interiori di Gabriele, quelle che avevano demolito talmente affondo la sua personalità da risultare anche visibili, ma invano. Lui si voltò velocemente mostrandole la schiena, ma con un sorriso sghembo che Dafne continuò a intravedere dalla sua posizione laterale. 
Gabriele sembrò vergognarsi di se stesso o forse, ma anche molto  probabilmente, si voleva solo divertire infastidendola. Proprio come se fosse un bambino. 
-Credevo che voi persone libere foste più intelligenti di noi, sai? Avete la possibilità di leggere, scrivere, confrontarvi fra di voi e anche studiare. L'ultima volta che ho visto un libro io è stato una decina di anni fa, magari qualcosa in più,  avevo dodici anni e leggevo ancora i fumetti di Topolino. Ma tu, ragazza mia, non credo  abbia un cervello poi tanto più sviluppato del mio, o forse no?- 
Dafne si sarebbe dovuta infastidire da quella sua acidità, da quella sua cattiveria e da quello scudo fitto e resistente dietro il quale si nascondeva. Se era riuscita a inquadrarlo almeno un po', si disse, Gabriele aveva solamente paura, paura di quel mondo emerso che si ritrovava a vedere per la prima volta da... dieci anni?
Un brivido di puro terrore le percorse la spina dorsale, facendola rabbrividire. Dieci anni? 
Era davvero passato così tanto tempo da quando quel ragazzo aveva avuto contatti umani? 
Probabilmente non poteva avere più di venticinque anni, perché ad occhio e croce le sembrò essere un suo coetaneo e anche di Luca. Forse, se solo il suo destino fosse stato diverso, sarebbero potuti diventare amici, avrebbero potuto frequentare la stessa università, diventare compagni di studi, studiare insieme per lo stesso esame.
 E invece, si chiese?
Gabriele era nascosto dentro quell'edificio che odorava ancora di piscio e corpo putrefatto da un decennio e forse anche qualcosa di più; era una destino orribile, una tortura inimmaginabile. Probabilmente lei avrebbe scelto la morte.
Invece di farla innervosire, l'atteggiamento di Gabriele le provocò compassione, tenerezza, tristezza. 
Sorrise dolcemente avvicinandosi a lui ancora di più. Si sorprese a pensare che quel ragazzo aveva sicuramente un carattere più forte degli altri pazienti che, come lui, erano rinchiusi lì dentro.
Gabriele- diversamente dalla donna che era stata maltrattata prima proprio davanti ai loro occhi, differentemente dall'uomo che si dondolava ripetutamente sul posto poco distante dall'ingresso e da un'altra donna che si mangiava le mani, piangendo, urlando e provocando attacchi di isteria nell'uomo accanto a lei che, disperato, si strappava continuamente i pochi capelli rimasti sulla sua testa- era un ragazzo forte; forse era leggermente chiuso, spaventato e aggressivo, ma non era pazzo. 
Forse era più sano di lei.
 Sicuramente era più sano di chi lo aveva spedito là dentro.
Con un sorriso e una carezza sul braccio martoriato da mille e più cicatrici, sorelle di quella che aveva sul viso, gli ripeté la sua domanda come se lui non le avesse minimamente risposto o, diversamente, non ci avesse nemmeno provato.
-Come mai sei qui dentro, Gabriele? Perché ti hanno spedito qui?-
Sentirsi chiamare per nome con tanta tranquillità e serenità fu per il ragazzo totalmente disarmante. Magari nessuno in tutta la sua vita lo aveva mai fatto sentire tanto importante come fece invece Dafne con un solo timbro di voce. Avrebbe sorriso, forse, se solo avesse avuto meno paura.
Gabriele non sorrise, ma diversamente da prima non la derise nemmeno. Le rispose normalmente, con serietà e un neutrale senso di angoscia. 
-Perché sono ritenuto pazzo. Loro credono che io sia pazzo e pensano che sia pericoloso per loro.  Mi hanno accusato di cose orribili, di cose disumane. Ma io sono umano, seppur loro non siano d'accordo con me.-
A Dafne mancò nuovamente il respiro che andò mozzandosi contro la sua trachea, perché quella voce di ragazzo -di bambino rinchiuso in un corpo di uomo, di un bambino che non ha potuto crescere, che non ha voluto farlo- la fece rabbrividire. Ancora. 
 -E quale è questa colpa?- indagò ancora con nochalance. -Che peso ti stanno costringendo a portare sulle spalle, Gabriele? Con che cosa ti stanno facendo del male?-
Lui inclinò le labbra in una smorfia diagonale molto lontana da un sorriso, molto lontana da una smorfia di dolore. Se Dafne avesse dovuto catalogarla, probabilmente avrebbe avuto serie difficoltà. Di una cosa era certa: quel ragazzo non era pazzo, altrimenti anche lei lo sarebbe stata perché gli credeva. Gli credeva ciecamente.
Quale pazzo, d'altronde, riesce a rimanere così lucido e imparziale davanti ad un discorso tanto delicato?
-Io non ho nessuna colpa. Mi hanno insegnato che essere diverso è sbagliato, ma stando qui dentro ho imparato anche quanto sia insignificante la coerenza e quanto l'uomo sia ipocrita. Io non sono diverso, io sono esattamente come tutti gli altri lì fuori. Se fossi stato un malato non avrei saputo riconoscere la tua figura, la tua bellezza e non sarei stato attratto da te. Ai miei occhi saresti parsa come una minaccia, ma invece sono convinto che se ti vedessi nuda avrei esattamente le stesse reazioni di un altro ragazzo della mia età. Non sono io ad essere diverso, sono gli altri che diversamente si ostinano a vedermi come tale.-
Dafne abbassò lo sguardo, non seppe nemmeno lei se perché si sentiva terribilmente in imbarazzo o perché le parole di Gabriele la turbarono terribilmente, forse molto più di quanto lei volesse dare a vedere. 
Mentre si guardava le sue scarpe di tela rosse- scarpe che probabilmente Gabriele non sapeva nemmeno esistessero, prima di quell'istante in cui le vide posate ai suoi piedi- si accorse che la sua vita era forse una delle più rosee esistenze del mondo. 
Sicuramente rispetto a quella del ragazzo era pacifica e rassicurante. 
Aveva avuto un padre che credeva in lei, forse così tanto da affidarle un compito troppo grande per la sua stessa persona. Dafne non voleva diventare medico, ma non voleva neppure deluderlo. 
Aveva avuto una sorella con la quale litigare, con la quale tirarsi i capelli quando entrambe non erano d'accordo su qualcosa- il che capitava molto spesso- e con la quale riappacificarsi nel momento del bisogno. 
Aveva avuto una madre che si chinava ogni sera per darle un bacio sulla fronte e poi uno sulla guancia, una madre che le preparava il pranzo e che probabilmente avrebbe continuato a farlo anche negli anni a venire se solo lei glielo avesse chiesto.
Dafne aveva semplicemente avuto una famiglia, quella stessa famiglia che Gabriele Esposito non aveva mai avuto il piacere non solo di possedere, ma anche di conoscere. E se c'era qualcosa di ancora più brutto del non avere qualcosa, forse era proprio la consapevolezza di non sapere nemmeno cosa questa sia. 
E se ne dispiaque. 
E si sentì sporca, lei che era visbilmente più pulita di lui; ma la sua era una sporcizia metaforica, una di quelle radicate nell'animo e negli organi più nascosti. Perché in quel momento il suo cuore le parve così maledettamente piccolo e... sporco, appunto. 
Strinse le labbra in una smorfia che parve disgustata, ma che in verità  era solamente sconvolta dalla reale visione di quel mondo, di quella realtà che aveva sempre ignorato. O che aveva voluto ignorare, forse. 
Senza neppure voltarsi per guardare se Luca fosse ancora-come sempre, come sarebbe stato in eterno, almeno lo sperava- alle sue spalle allungò una mano per intrecciarla a quella del suo migliore amico. 
E la trovò. 
E si sentì per un attimo immediatamente meglio. 
Sorrise, poi si inumidì le labbra e infine, solo infine, dopo un attimo di lunga angoscia, dopo che i suoi polmoni si fossero straziati di quell'aria sporca e triste, parlò. 
E la sua voce non fu mai così stridula come in quel momento. 
-Tu non sei diverso, Gabriele. Hai ragione quando dici che non hai nulla da invidiare a noi altri, quelli che tu stesso definisci liberi. Siamo tutti liberi, anche tu che ti senti legato da mille catene invisibili, perché è proprio questo il bello di queste tue catene: sono invisibili a tutti, sono limitate solo alla tua mente, perché sei tu che te le crei con l'aiuto di chi ti sta facendo del male qua dentro. Ma tu le puoi rompere queste catene, Gabriele, perché non sei diverso. E non lo sono neppure io. E non lo è neppure quel signore laggiù, che si sta chiedendo sicuramente perché le sue mani hanno un sapore tanto orrendo. Bisogna solo avere la forza sufficiente per evadere da tutte le tue paure e strapparti via da quei legami inesistenti che tu ti sei creato, ma che non esistono. Perché hai detto bene: tu sei forse la cosa più normale che esista al mondo e questo ti rende speciale. E credimi quando dico che lo sei davvero, Gabriele.-
Gabriele sorrise per un secondo, un sorriso che non sapeva affatto di felicità e dolcezza, un sorriso che forse non poteva nemmeno essere chiamato  tale. Dafne era sempre stata abituata a pensare che quando uno stende le sue labbra in qualcosa che dovrebbe somigliare a una risata, lo fa perché gli parte dal pronfondo del cuore, quel moto di felicità che non riuscirebbe mai a reprimere nel suo interno, nemmeno volendolo. Eppure sbagliava, come sempre.
Non aveva mai visto sorriso più spento di quello di Gabriele, e forse non avrebbe neppure potuto sperare in qualcosa di diverso visto le cose che il ragazzo era costretto a patire,visto le cose che lui stesso aveva dovuto vedere. 
 Per un solo istante provò ad immaginarsi al suo posto, avvolta in un'aura di sporca consuetudine, di cattiva considerazione personale. Sicuramente Gabriele non viveva la sua vita serenamente perché, nonostante non lo volesse dare a vedere, anche le sue dita avevano violacee macchie che solo i suoi denti avrebbero potuto lasciare nelle notti più solitarie. 
-Non credo sia opportuno paragonare la tua vita alla nostra, ragazza. Noi siamo malati di mente e, per la gran parte della società, siamo anche pericolosi.-
-E io, Gabriele? Io cosa sono?- gli chiese, uno sguardo incoraggiante ma anche spaventato. Era spaventata da ciò che avrebbe potuto sentire, da ciò che non avrebbe voluto udire ma che contemporaneamente, lei lo sapeva, era destinata ad ascoltare.
Lui sorrise ancora, stringendo le labbra in modo convulso, mordendosi le guance e abbassando lo sguardo. Poi lo rialzò, più fiero ma anche più ferito di prima. 
-Tu sei quella parte di società,ragazza.-

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5.




  Osservava con sguardo rapito il disegnino infantile che ancora regnava sovrano sulla sua carta da parati, quella fantasia animalista che ritraeva un po' tutti gli animali della fattoria.
C'era il cane, il maiale, la gallina e anche il pulcino.
Dafne ricordava di aver faticato tanto, all'età di otto anni, per convincere il padre a rendere la sua stanza esattamente come voleva lei. E come era ancora oggi.
In quasi quindici anni la sua camera da letto non era cambiata di una virgola: era sempre la stessa.
C'era ancora la lampada a forma di cuore sopra la scrivania, il temparamatite di Titti e il poster di Topolino sopra la spalliera del letto. Nonostante ora avesse ventidue anni, Dafne amava la sua stanza proprio come era. In un certo qual modo la rendeva ancora bambina, era un tuffo prepotente nell'infanzia che le era stata strappata violentemente con la crescita perché, nonostante ora fosse grande e sapesse bene che Peter Pan non esisteva, Dafne continuava a proclamarsi un eterna Wendy e attendeva invano di essere portata sull'Isola che non c'è.
Più volte Luke le aveva registrato in televisione quel cartone animato per poi rivederlo insieme, sdraiati sul suo divano, divisi solo da una ciotola di popcorn. Quelli erano i momenti in cui Dafne si sentiva veramente felice, soddisfatta e realizzata.
Però poi si chiedeva, con fare triste e sconsolato, se quella sensazione di appagamento fosse una prerogativa di tutti o solo una sua gioia, se tutti gli esseri viventi almeno una volta nella vita si fossero sentiti realizzati e soddisfatti. Se quella sensazione appagante e gioiosa esistesse davvero, anche al di fuori dell'Isola che non c'è.
Per sentirsi più sicura si rispondeva sempre che sì, ognuno era destinato a trovare il proprio posto nel mondo e tornava a guardare la sua amata televisione con la testa poggiata sul petto del suo migliore amico, ma ora- diversamente da tutte le altre volte- si sentiva molto più abbattuta.
E quel cagnolino sbiadito sul soffito della sua stanza non aiutava di certo.
Aveva scoperto, in un solo pomeriggio, fra le pareti di un vecchio manicomio, che la tristezza esiste davvero. E la tristezza, nella sua mente, aveva il volto di Gabriele Esposito.
I suoi occhi accesi e spenti insieme, le sue labbra rotte e i suoi denti bianchi ma sempre nascosti dietro un broncio infantile, i suoi zigomi pronunciati e ammaccati, le dita violacee, i lividi sulle braccia, le gambe percosse e martoriate.
Una mente lucida, però, una dialettica eccellente, una voce profonda.
Gabriele era serio  quando l'aveva accusata di essere superficiale, di essere prevenuta, di avere paura di lui.
Che poi, Dafne era veramente spaventata?
Era triste, era angosciata, era delusa... ma non aveva paura. La paura era un emozione che ti divora, ti carica, ti rende adrenalinico. La delusione, invece, era quella sensazione che ti priva di ogni gioia e di ogni sorriso, di ogni piacevole pensiero.
E lei così si era sentita; come se non potesse essere più felice, perché così facendo avrebbe mancato di rispetto non solo a lui, ma anche a se stessa e a tutti i valori che il suo defunto padre aveva voluto inculcarle. Era morto per insegnarle quei valori, era morto insegnandole a essere rispettosa del prossimo e a lottare per i meno fortunati.
Dafne voleva diventare  un medico solo per quello.
Eppure Gabriele l'aveva giudicata con superifialità, con la stessa rapidità con cui lei accavallava le gambe e si disfava delle scarpe da ginnastica.
E lei si era sentita abbandonata, come le scarpette in un angolo remoto della stanza.
Per cosa poi?, si chiese.
Per non essere anche lei stata rinchiusa in un manicomio, per essere pulita e per poter ancora trovare la positività dentro la negatività della vita?
Per essere riuscita a sorridere davanti i problemi che si era trovata davanti?
Per essere meno pessimista?
O forse perché, nonostante tutto, non riusciva a sentirsi meno turbata, meno angosciata da quei corridoi tristi e opachi che solo poche ore prima aveva percorso?
Dafne credeva di essere forte, di essere onesta, di essere pronta a tutto prima di quel pomeriggio.
Prima di visitare quell'edificio.
Prima di incontrare quegli occhi.
Prima ancora di incontrare lui.




Nonostante avesse sempre odiato studire in compagnia, quella volta Dafne Valenti dovette ricredersi sull'utilità fisica e morale dei suoi migliori amici. Non che la stessero realmente aiutatando nello studio, ma anche solo la loro presenza era di fondamentale importante per cercare di non pensare a cose molto deprimenti e scoraggianti.
Come per esempio le accuse infondate di Gabriele Esposito.
Stretta fra Rachele e Miriana, Dafne cercava invano di sottolineare, riassumere e imprare i concetti scritti sul suo libro di psichiatria; si passò una mano fra i capelli biondi, somposti e leggermente arriciati sulle punte con fare sconfitto. Rachele al suo fianco sbuffò.
-Ragazzi e se appendessimo tutto e ci andassimo a prendere un buon caffè? Offro io, giuro! Però vi prego, basta con sta cagata di materia!-
Miriana fu una delle prime a chiudere il libro che teneva aperto in grembo, in uno scatto repentineo che sollevò anche un po' di polvere dal tavolo e  le sorrise incoraggiante.
-Io ci sto. E tu, Daf?-
Dafne non poté fare a meno che sorridere scambiandosi uno sguardo sconsolato con Luca, seduto nel tavolo accanto al suo con i suoi amici trogloditi. Dalla sua postazione, Luca Pelosi cercava invano di trovare la forza necessaria per cacciare quel noiosissimo libro dallo zaino ai suoi piedi: si guardava i piedi, guardava Raffaele accanto a lui che gli proponeva di fumarsi una sigaretta e cerava di sconfiggere la voglia di nicotina con una scrollata di spalle. Non che Luca fosse un fumatore accanito, ma si sarebbe volentieri fatto sparare in testa pur di non studiare!
Dafne, ogni tanto, lo accusava giocosamente di essere uno scansafatiche ma nonostante tutto era sempre il suo amico a prendere i voti più alti del suo corso, facendo come ancora non si sapeva.
Un po' lo invidiava per questo. Un po' tanto, forse..
-Vengo anche io- disse infine la ragazza con una scrollata di spalle, sfilandosi gli occhiali dalla montatura  leggera e buttandoli nella borsa incurante di poterli così rovinare. -Ormai mi sono arresa all'evidenza: non riesco a studiare!-
Rachele le sorrise raggiante, alzando i pugni al cielo con fare vittorioso, poi le prese la mano tirandola di peso in una posizione vagamente eretta prima che potesse cambiare idea.
Dafne aveva da sempre avuto una reputazione velatamente poco incline al divertimento, specialmente in un periodo che comprendesse gli esami, dunque era da considerarsi un evento più unico che raro il vederla appendere con tanta naturalezza un pomeriggio di sano studio.
Rachele aveva quasi il timore che da un momento all'altro la sua amica si mettesse a sbattere i piedi in mezzo la biblioteca, implorandola di riportarla dal suo amato libro di psichiatria perché aveva riacquistato il lume della ragione; come se prendersi un caffè, per giunta,equivalesse a prostituirsi lungo il Rettifilo.
Miriana si alzò all'istante intercettando lo sguardo allarmato e sbrigativo della sua più cara amica, raccolse velocemente nella borsa i suoi libri e alcune penne di proprietà in quel momento non identificata e si avvicinò cautamente al tavolo di Luca e dei suoi amici.
Era risaputo che lei provasse un interesse nemmeno tanto celato nei confronti del  migliore amico di Dafne, dunque si chinò verso di lui e gli lasciò un lascivo bacio sulla guancia che il ragazzo finse di apprezzare.
-Allora ragazzi, voi non vi unite a noi?-
Ivan, di fronte a Luca, scosse energicamente la testa continuando a sottilenare con forza, per la terza volta di fila, un rigo particolarmente incomprensibile di Geografia Umana.
Nonostante Miriana attendesse che a risponderle fosse quanto meno l'oggetto del suo desiderio, anche solo per rifiutare categoricamente il suo invito, si dovette arrendere presto davanti all'ievidenza che era stata visibilmente ignorata.
Non era mica Dafne, lei.
Cercando di racimolare un po' di dignità raggiunse le sue amiche, saltellando allegramente per mascherare la delusione; poi prese sotto braccio Rachele, evitando accuratamente di posizionarsi accanto a Dafne. Nonostante sapesse che non era colpa sua se chiunque tendeva a provare più simpatia per la sua amica storica, Miriana era terribilmente gelosa della postura delicata, minuta e piacevole di Dafne e, a giorni alterni, la sua gelosia tendeva a tramutarsi in antipatia.
Incurante di tutto, però, Dafne continuò a camminare risoluta, osservando attentamente i propri piedi come se stessero seguendo una lunga linea retta immaginaria; silenziosamente, inoltre, continuava a pensare al pomeriggio della giornata appena trascorsa.
Gabriele.
Gabriele Esposito.
Possibile che un deviato mentale le fosse entrato così dentro?
Avrebbe quasi voluto confidarsi con Rachele, raccontarle il loro breve dialogo, spiegarle la freddezza intrisa nelle parole del ragazzo, ma nello stesso istante in cui prese anche solamente in considerazione la cosa desiderò non averlo mai fatto.
Adorava Rachele, stimava Miriana, ma loro non l'avrebbe mai capita; loro non erano tanto empatiche e sentimentali come lei e, molto probabilmente, l'avrebbero accusata di rimurginare troppo sul passato.
Già immaginava la voce strascicata di Rachele, resa roca dal fumo, dirle: -Andiamo Daf, è un malato mentale! Come puoi anche solamente dare ascolto a quello che dice?-
E forse, in un certo qual modo, la sua amica aveva anche ragione. Dafne avrebbe voluto darle ragione, eppure aveva visto qualcosa di diverso sotto lo sguardo di Gabriele, qualcosa che neppure lei era realmente in grado di spiegare, qualcosa che però voleva capire con tutta se stessa!
Storse il naso, passandosi una mano dietro il collo con fare confuso, poi cercò di dedicare la sua totale attenzione alle due amiche che, al suo fianco, sembravano intenzionate a spettegolare animatamente su qualsiasi ragazzo o ragazza passasse loro accanto.
Proprio come tutte le ragazze di ventidue anni sono solite fare. Un soffio di pura normalità.
Mariana si stava proprio lamentando della totale disattenzione di Luca nei suoi confronti, un tenero broncio sul viso paffuto, quando Rachele rise mettendo in mostra perfino la sua giugulare.
Fece sorridere anche Dafne.
-Andiamo Mirià, non puoi veramente ancora credere di avere qualche speranza con Luke, vero?- la cosa bella o brutta, dipende dai punti di vista, del carattere di Rachele era la sua totale e completa sincerità. A tratti era anche priva di tatto.
-E perché no, scusa? Vorresti dire forse che non sono carina abbastanza?- Miriana gonfiò ancora le sue guance, gli occhi azzurri completamente liquefatti in un prossimo pianto disperato.
Aveva un infatuazione per Luca fin dal primo anno di università, quando lui le si era seduto accanto chiedendole una penna. Quella penna non era mai più tornata dalla propria padrona.
-No, affatto, non intendevo assolutamente dire questo-Rachele alzò le mani in segno di resa, come per proteggersi da un eventuale attacco. -Ma non puoi negare che gli occhi del nostro caro Luca siano solo per la nostra bellissima Dafne.-
Sentendosi interpellata, Dafne alzò lo sguardo.
-Come, scusa?- eruppe, la voce spezzata a metà tra un singhiozzo e una risata trattenuta. Un sorriso le nacque spontaneo tra le labbra. -Io e Luca siamo solo amici.-
-Amici?- Rachele rise ancora, come se non sapesse fare altro, poi si sistemò le braccia sotto al seno guardandola con sguardo severo. -Andiamo Daf, voi non siete solo amici.-
Miriana intervenne nel discorso alzando un sopracciglio innervosita, poi guardò con fare sprezzante la sua amica. -E perché no? Cosa ti lascia pensare che lui provi per lei qualcosa di più oltre che la semplice amicizia?-
Aveva uno strano tic all'occhio, le mani le tremavano e il tono della voce era instabile. Miriana era completamente soffratta dalle sue emozioni, sia perché aveva il timore che Rachele avesse ragione, sia perché anche lei lo aveva sempre sospettato.
Si chiese come facesse Dafne a piacere sempre a chiunque, donna o uomini che fossero, poi la guardò attentamente.
Dafne Valenti aveva lunghi capelli mossi, nè ricci nè lisci, neppure troppo crespi ma neanche troppo sottili. La sua capigliatura perfetta era di un delicato color oro, ma non era niente di eccezionale... niente, per lo meno, che un bravo parrucchiere non sarebbe stato in brado di imitare.
Eppure Luca- secondo quanto diceva Rachele- vedeva in lei qualcosa di speciale. Qualcosa che lei, Miriana Consiglio, non era in grado di imitare.
Che cosa?
Che fossero gli occhi dolci e femminili, ma anche così insignificanti se paragonati ai suoi color del cielo?
Miriana non avrebbe scambiato per nulla al mondo il suo corpo formoso con quello sottile della sua amica, dalle gambe piccole e affusolate, ma dal seno molto meno prosperoso del suo. Che poi Miriana avesse qualche chilo in più poco le importava, almeno lei era carnosa.
Sbuffando, però, prestò la sua totale attenzione alla risposta della sua amica Rachele.
-E' sempre totalmente perso a guardarti, Daf.- Rachele sorrise incoraggiante, un sorriso tenero sul volto olivastro. -Ha sempre quell'aria serena quando tu lo prendi sotto braccio e, nonostante non lo voglia dare a vedere, Luca Pelosi cerca sempre il contatto con il tuo corpo.-
Dafne scosse la testa, poi strinse forte le labbra fra di loro. -Ti stai sbagliando.-
-Non credo, Daf. Anche prima, quando ce ne siamo andate dalla biblioteca, lui ha guardato te.-
La sua interlocutrice scosse la testa, ora palesemente divertita. -Perché siamo amici! Lui è il mio migliore amico!-
Rachele aprì la bocca per risponderle, poi la richiuse senza emettere alcun suono. Sembrava confusa, indecisa se parlare o meno, ma alla fine optò per il silenzio e scosse le spalle con fare rassegnato. -Come vuoi, Daf. Come dici tu!-
Dafne le camminò al fianco per molto tempo e si appoggiò al suo fianco mentre soseggiava un caffè del bar fuori la sede principale della loro università, eppure la sua mente era completamente assente, assorta dalle parole di Gabriele Esposito di qualche giorno prima le quali venivano saltuariamente  sostituite da quelle di Rachele.
Possibile, si chiese, che lei fosse davvero superficiale come aveva sostenuto Gabriele?
Ed era  possibile che Luca provasse per lei qualche sorta di attrazione fisica o mentale?
Se ne sarebbe accorta, di entrambe le cose.
Se fosse stata una ragazza superfiale, si disse,adesso non sarebbe stata concentrata nel ricordare la sua conversazione con Gabriele Esposito, ma diversamente avrebbe cestinato quell'esprienza per poter pensare e riflettere su questioni più superficiali e, forse, anche più attinenti alla sua adolescenza. Magari avrebbe cinguettato con Miriana nel veder passare un ragazzo particolarmente carino o forse si sarebbe passata uno strato di smalto rosso per evidenziare le sue unghie curate.
Invece lei era lì, ferma e dritta vicino il bancone del bar, a pensare e riflettere circa quel ragazzo maltrattato ma anche tanto speciale con il quale aveva dialogato qualche giorno fa.
Se invece Luca avesse provato un qualsiasi sentimento diverso dall'amicizia nei suoi confronti, lei se ne sarebbe accorta. Avrebbe sentito nell'aria qualche vibrazione diversa e avrebbe captato un suo segnale, una sua carezza indiscreta, una qualunque  cosa  le sugerrisse che lui non cercava solo un sorriso amichevole. Ad aggiungersi alla lista, c'era da aggiungere anche il fatto che Luca non era affatto bravo a camuffare i proprio pensieri, figurarsi i propri sentimenti.
Con un sorriso un po' più marcato sulle belle labbra, Dafne sorseggiò animatamente il suo espresso, poi si voltò verso le sue due amiche e sorrise.
Scuotendo la testa cercò quantomeno di dimenticare il volto di Gabriele e quello di Luca e di concentrarsi solo su quello che Miriana e Rachele stavano dicendo.
D'altronde le sue due amiche, almeno per adesso, si stavano solo lamentando ininterrottamente del caffè bruciato che erano costrette a bere  quindi le fu abbastanza facile inserirsi nel discorso.

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