Words as weapons

di lolasmiley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***
Capitolo 4: *** Chapter 4 ***
Capitolo 5: *** Chapter 5 ***
Capitolo 6: *** Chapter 6 ***
Capitolo 7: *** Chapter 7 ***
Capitolo 8: *** Chapter 8 ***
Capitolo 9: *** Chapter 9 ***
Capitolo 10: *** Chapter 10 ***



Capitolo 1
*** Chapter 1 ***


 

 

 

Ciambelle.

(1)

 

 

Il ticchettio delle scarpe col tacco precede la bionda lungo il vialetto che conduce alla porta d’entrata della casa. La ragazza percorre la strada di mattonelle grigie a passo spedito, così spedito che mi chiedo come possa non essere ancora caduta dal tacco dodici, mentre fruga nella borsetta alla ricerca delle chiavi. Quando solleva lo sguardo, però, rallenta, notando che la porta è aperta. Ripone le chiavi nella borsetta e si avvicina alla soglia, infilando la testa dentro casa con circospezione.

Certo che allora sei un cazzo di genio.

«C’è qualcuno?» chiede, entrando. Osserva l’ingresso, ma dalla sua espressione sembra che non ci sia nulla fuori posto. 

Corri.

La bionda si dirige verso il salotto.

Perchè non corri?

«Cam, perchè non corre?» chiedo, senza ottenere risposta.

Ed eccolo, il passo di troppo, il passo che la fa cadere irrimediabilmente nella trappola. La borsa cade a terra mentre delle mani sconosciute si avventano a tapparle la bocca, mentre la ragazza lotta, inutilmente.

Parte la sigla.

«Camille, rivoglio le puntate di Criminal Minds.» mi lamento accarezzando la gatta acciambellata sulla mia pancia. Da qualche giorno il mio programma preferito è finito e adesso mi ritrovo a guardare questi gialli senza capo nè coda. Camille non si degna neanche di alzare la testa per seguire le immagini degli attori che interpretano i protagonisti sfilare sullo schermo uno dopo l’altro. Se non fosse per quel attore stra figo che non avevo mai visto prima di guardare questo programma avrei già spento la tv.

 «Eh Cam, hai ragione. Questo telefilm è pessimo, se l’umanità è stupida come questi personaggi, siamo destinati all’estinzione. Resterete voi gatti a dominare il mondo. Ma noi la guardiamo questa puntata? Dai, ci rifacciamo gli occhi.» Lei mi guarda, si stiracchia, si alza e salta giù dal divano.

«D’accordo, se vuoi mangiare sai dove sono le crocchette, sei abbastanza grande, arrangiati» le urlo, infilando una mano nel pacchetto di patatine per prenderne una manciata. Forse dovrei prendere in considerazione l’idea di mettermi a dieta, o meglio, iniziare a controllare qualcosa di quello che mangio. Non sono grassa, ma ammetto che mi piacerebbe avere delle cosce un po’ più sottili. Colpa di Spongebob, che ci ha messo in testa questo ideale irraggiungibile del thigh gap.

Mi stiracchio, allungando le braccia oltre il divano e mi gratto la nuca, indecisa sul da farsi. Lancio un’occhiata alle pagine di calendario strappate e attaccate con lo scotch  tra le due finestre sul soffitto a spiovente della mansarda in cui vivo. Sono passati nove giorni dall’inizio della mia estate sabbatica. Già da due anni avevo iniziato a insinuare nella testa di mamma l’idea che, una volta finito il liceo, avrei voluto prendermi una pausa, per un anno, prima di iniziare l’università. Un po’ perchè non sapevo ancora che facoltà seguire e avevo bisogno di riflettere, un po’ perchè ero stanca di studiare; sono sempre andata bene a scuola e imparo in fretta le cose, i concetti li capisco subito e non ho problemi a fare dei discorsi di senso compiuto anche se improvvisati, ma il mio grande incubo, a scuola, era lo stress. Stress causato da me stessa, che continuavo a ripetermi che un sette o un otto erano dei buoni voti, ma volevo fare di meglio e arrivare a una verifica a o un’interrogazione con la sensazione di non essere abbastanza preparata mi mandava in ansia e quindi finivo per studiare giorno e notte. Dopo cinque anni di liceo ero spossata e avevo bisogno di staccare un po’. Avendo sempre portato a casa ottimi voti ero riuscita a convincere i miei di aver meritato un anno di vacanza, ma purtroppo le risorse economiche della mia famiglia sono un po’ limitate. Così avevo risparmiato e mi ero fatta aiutare per permettermi due mesi di vacanza qui a Bray. Mi ero innamorata di questo paese dopo averci passato due settimane con la scuola e non vedevo l’ora di tornarci. Durante questi due mesi avevo deciso di scrivere. Al termine della scadenza, se magari avessi trovato il modo di mantenermi qui, sarei potuta restare per tutta la durata del mio anno sabbatico -che in realtà a questo punto potrei definire anno lavorativo. Altrimenti, sarei tornata a casa e avrei cercato lavoro là in attesa di scegliere per il mio futuro.

Da piccola volevo fare la veterinaria. Un lavoro anche azzeccato perchè amo gli animali, soprattutto i gatti, e loro amano me. Ma non sopporto la vista di un animale che soffre. Non ce la faccio. 

Con il tempo, ho iniziato a nutrire un forte interesse per la psicologia e ho coltivato l’idea di diventare una criminologa, d’altra parte però mi piacerebbe anche diventare una scrittrice. Ed ecco il grande dilemma che dovrei risolvere durante questo anno. 

Segretamente spero di riuscire a scrivere un libro in questi due mesi -impresa quasi impossibile- che abbia successo e mi dia quindi la possibilità di continuare a scrivere e, con un po’ di fortuna, di viaggiare.

Sospiro, con gli occhi ancora inchiodati al soffitto. 

Non ho iniziato a scrivere nemmeno mezza pagina.

Mi mancano le idee. Vorrei tantissimo scrivere un giallo, ma tutti i piccoli colpi di genio che mi saltellavano per la mente mentre dovevo concentrarmi per studiare durante l’anno scolastico mi avevano abbandonata.

Forse il trucco era questo. Dovevo iniziare a studiare qualcosa e mi sarebbe venuta l’idea perfetta.

Prima di riuscire a finire di elaborare questo pensiero vengo interrotta dal vibrare del mio telefono appoggiato sulla scrivania, accanto al mio macbook. Grugnisco alzandomi di malavoglia, afferro il telefono e rispondo senza controllare il mittente.

«Pronto?»

«Alice!» l’accento irlandese di Niamh storpia il mio nome in modo buffo.

«Ehi Niamh, come stai?» rispondo, iniziando ad arricciare una ciocca di capelli tra le dita.

Niamh è la figlia della famiglia che mi ha ospitato quando sono venuta qui con la scuola, siamo rimaste in contatto e ora che sono tornata ogni tanto ci incontriamo. Diciamo che è l’unica persona con cui esco qui.

«Benone, tu? Pensavo che avremmo potuto bere un caffè più tardi, che ne dici?»

«Emh» abbasso lo sguardo alle mie caviglie, attorno cui Camille sta formando un otto «veramente l’inquilina del piano di sotto mi ha chiesto se oggi potevo tenere compagnia al suo gatto... Sai, è un po’ vecchia ed è dovuta andare a trovare una qualche sua parente a Dublino, ed è convinta che il gatto senza di lei non possa vivere» spiego.

«E come se la passa?» 

«Ah benone, ha mangiato, cagato, dormito, al momento mi si sta strusciando contro le gambe» riconosco nella mia voce la cadenza di Gollum mentre dice “altrimenti ce lo mangiamo intero”.

«Ali, parlavo della tua vicina.»

«Ah» sollevo le spalle istintivamente «non lo so, bene credo. Comunque se vuoi possiamo vederci domani» propongo.

«Dobbiamo, perchè sai una cosa?» riconosco il tono entusiasta di chi sta per darti la notizia del secolo. Non mi piacciono queste domande retoriche. Il mio primo istinto è di ribattere “no, ma scommetto che me lo dirai”, quando noto che Camille sta prendendo la mira per saltare vicino alla televisione.

«NO!» urlo di riflesso.

«Emh, okay, lo so che non la sai  ma non serve urlare»

«No ecco io,» seguo con lo sguardo la gatta che corre spaventata sotto il mio letto e copro il ricevitore con una mano «scusami mi dispiace» sussurro. Poi posto le dita e riprendo la conversazione con la mia amica.

«Scusa, lascia stare. Dicevi, perchè...?»

«Ho un ragazzo da presentarti!» esclama raggiante.

Oh. Un’ondata di entusiasmo non mi travolge. Alzo gli occhi al cielo. Una me piuttosto scocciata mi imita riflessa nello specchio. La osservo. Mi passo una mano tra i capelli appena tinti di viola, con delle ciocche di colori che vanno dal lilla al blu.

«Emh, d’accordo.» 

 

Due ore dopo Miss Sullivan è venuta a riprendersi il gatto, e come segno di ringraziamento mi ha portato un pacchetto di ciambelle che adesso cerca di tentarmi con il suo profumo di fritto e marmellata alla pesca. Non posso cedere. So che ci sono sei ciambelle, lì dentro. Non ho idea di quante calorie contengano, davvero. Non so nemmeno quante calorie vadano assunte in un giorno, non l’ho mai capito.

Non so come si tenga il conto.

A dire il vero, ho anche delle difficoltà con le uguaglianze del sistema di peso. Non potrei mai mettermi a fare dei calcoli simili, e nemmeno ne ho voglia.

L’unica cosa che so di sapere, è che sei ciambelle alle dieci e ventidue di sera non vanno mangiate. Soprattutto dopo aver cenato. D’accordo, ho mangiato poco. Ma era un trancio di pizza, e non credo sia una buona idea aggiungere le ciambelle. Perchè sono convinta che se ne mangiassi una, poi ne vorrei un’altra.

Sono seduta immobile alla scrivania con davanti al portatile. Un foglio bianco, il cursore nero che lampeggia, il font e il corpo già selezionati nella barra in alto a sinistra. Cerco di distrarmi dal profumo delle ciambelle. Inizio a battere un paio di righe. Le rileggo, sbuffo e tengo premuto il tasto canc finchè la pagina non è di nuovo immacolata.

Sento il richiamo della marmellata provenire dal tavolino di legno davanti al divano. Tamburello con le dita sulla scrivania. Spazientita, mi alzo, afferro il sacchetto, vado in cucina e lo metto nella credenza. La chiudo e faccio per uscire. 

«Fanculo» torno sui miei passi, apro lo sportello, prendo il sacchetto, una ciambella, la tengo tra i denti, rimetto a posto, mi verso un bicchiere d’acqua e esco dalla cucina, chiudendo la porta a chiave sperando che questo sia sufficiente a impedirmi di mangiare ancora.

Torno in salotto -che poi è anche la mia camera, dato che vivo in un bilocale. Trilocale, contando il bagno. Cucina, bagno, soggiorno con divano, scrivania, armadio e letto a due piazze. Mi siedo alla scrivania e appoggio il bicchiere tra il computer e il mio peluches di un canguro. 

Dovrei iniziare a cercare qualcosa. Informazioni. Qualcosa che mi distragga. Le mie dita scorrono verso destra sulla seconda scrivania e apro safari mentre do un morso alla ciambella.

Mi ricordo di un libro che ho letto recentemente: La verità delle ossa, e mi vengono in mente i siti internet citati dedicati alle persone scomparse. Potrebbe essere un punto di partenza, spulciare qua e là.

Digito “NamUs” su google e premo invio. Scorro rapidamente sulla home, e clicco su “missing persons”. Entro nel database delle denunce di scomparsa degli Stati Uniti. C’è un campo “cerca”, in cui si possono compilare nome, cognome, razza, sesso, stato. L’unica opzione che compilo è “stato”: Florida. Ho un debole per la Florida dalla prima volta che ho visto CSI:Miami. Amo Horatio.

Premo invio.

Quando la pagina finisce di caricarsi, per poco un boccone di ciambella non mi cade di bocca.

 

 

 

BUENOS DIAS MIS AMIGAS

non scrivo su efp dai tempi di... idk dai tempi in cui Harry doveva ancora iniziare a indossare le bandane, non so se mi spiego. non so se qualcuna di voi mi conosce per qualcuna delle mie vecchie storie (?) cancellate tutte ahahahah mi facevano troppa pena, sigh. 

parlando di questa storia. è solo il prologo in realtà, in cui si presenta la protagonista, alice, che si legge elis nel caso in cui qualcuno lo legga all’italiana (solo perchè un nome italiano non c’azzeccherebbe un cazzo ahaha) 

comunque questo prologo è al 92% autobiografico, tranne per il fatto che mi chiamo alessandra (tanto piacere c: ) e purtroppo mi aspettano ancora due anni di liceo linguistico CHE DIO MI ASSISTA

dal prossimo capitolo si entrerà nel vivo della storia. credo di essere sicura al 101% che nessuna di voi si aspetta quello che sta per succedere quindi se siete arrivati fin qui... se avete pazienza di aspettare un giorno o due (sono abbastanza decisa a continuare più in fretta che posso prima che inizi la scuola) prima di schifare questa storia perchè sto facendo del mio meglio per renderla ricca di colpi di scena. e originale. e boh.

se avete voglia di lasciarmi un commentino ne sarei molto felice (: 

se volete ciacolare o non so, su twittah sono @ashtonstringimi (sembra che io abbia un profilo inattivo ma actually vedo tutto solo che ultimamente non scrivo ahahah)

 

cieooo

 

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Capitolo 2
*** Chapter 2 ***


 

 

 

 

Nel posto sbagliato al momento sbagliato

(2)

 

 

 

Tiro le maniche del mio chiodo di pelle nera per cercare di coprirmi le mani, fredde come al solito. Non  una brutta giornata, non piove, non fa particolarmente caldo, infatti sopra la canottiera bianca ho indossato il giacchetto, ma non fa così freddo da avere le mani ghiacciate come le mie. Le strofino, poi le infilo nelle tasche dei jeans strappati. Inizio a rallentare notando la piccola folla che si sta formando davanti alle strisce pedonali, segno che il semaforo al momento segnala il verde alle auto. 

Abbasso lo sguardo su due bimbe di circa tre e sette anni, e un brivido mi attraversa la schiena. Mi torna in mente la ricerca di ieri sera, le ore passate ad aprire decide di casi su NamUs. Il numero di persone scomparse e di resti non identificati mi aveva sconvolta, ma la cosa che mi aveva fatta inorridire più di tutto è stata che tra i resti non identificati, avevo trovato il file del ritrovamento avvenuto nello stesso giorno e nello stesso luogo di due corpi di una bambina di tre e una di sei anni. Ho cercato a lungo tra le denunce di scomparsa, ma non avevo trovato nessun file di due bambine scomparse che combaciassero per età e razza ai due corpi ritrovati, in nessuno dei cinquanta stati. Qualcuno da qualche parte non aveva denunciato la scomparsa delle sue figlie.

Mi riscuoto dai miei pensieri quando le persone intorno a me attraversano la strada, e le seguo, puntando verso il bar dove ho appuntamento con Niamh tra tre ore, durante le quali cercherò di scrivere qualcosa e sfrutterò senza pietà il wifi dello Starsbuck, dato che la connessione nel mio condominio è lenta da fare schifo. Mi ritrovo a seguire il ragazzo davanti a me che sembra essere diretto nello stesso locale; apre entra nel Cafè e con la coda dell’occhio mi vede dietro di lui e così, sotto il mio sguardo stupito, mi tiene la porta aperta. Allora esistono ancora dei gentiluomini. Pensavo fossero in estinzione.

«Grazie!» gli sorrido, e lui ricambia timidamente.

Mi dirigo alla cassa, e mentre aspetto il mio turno osservo i vari tipi di caffè, meditando su quale prendere. Poi una specie di frullato al mango cattura la mia attenzione. Amo il mango.

Le due ragazze davanti a me finiscono di ordinare in fretta, permettendomi di chiedere uno di quei frullati. Sempre che sia un frullato. 

Lo ritiro poco dopo e salgo la breve scalinata che mi porta al soppalco all’interno del locale. Mi avvicino a uno di quei tavolini da due posti al massimo e lascio sul ripiano di legno il mio bicchiere mentre prendo il portatile dalla borsa e lo sistemo davanti a me. Mi siedo, accendo il computer e assaggio la bevanda, soddisfatta. Dopo che la rotellina ha finito di girare, inserisco la password accedendo al mio account e apro il file di word rimasto bianco da ieri.

Chiudo gli occhi un secondo e faccio un respiro profondo. Li riapro e prendo un sorso del mio frullato al mango. Mi scrocchio le dita. L’idea che ho avuto ieri notte dopo aver fatto diverse ricerche sulle persone scomparse non era affatto male. Ho già steso una bozza della trama, ma non ho bisogno di ricontrollarla perchè me la ricordo piuttosto bene. Le mie dita iniziano a scorrere veloci sulla tastiera, battendo i tasti senza guardare -sono fiera di questa mia capacità. Le righe di testo cominciano ad allinearsi una sotto l’altra mentre la mia storia prende finalmente forma.

 

 

Il rumore di una risata mi fa aprire gli occhi. Batto le palpebre un paio di volte e mi gratto la nuca sbadigliando. Lancio un’occhiata all’orologio sulla parete. Cazzo. Manca solo mezz’ora all’appuntamento con Niamh.

Sposto lo sguardo sul mio tavolo e sgrano gli occhi.

«Cosa cazzo?! Dov’è il mio portatile?» frugo nella mia borsa in preda al panico, inutilmente. Non c’è. «Merda!» quasi urlo. Mi hanno rubato il portatile. Scuoto la testa, e così facendo noto per caso un uomo sui quaranta, brizzolato, in piedi mentre si guarda intorno e infila qualcosa di argentato nella borsa.

«Brutto stronzo» sibilo, afferrando la mia borsa e buttandola sulla spalla, noncurante di lasciare il frullato ancora non terminato sul tavolino. Il soggetto ignoto ormai ha oltrepassato la soglia e si dirige verso destra. Noto che fuori piove, mentre quando ero arrivata c’era il sole. Accelero il passo, preoccupata di perdere di vista il ladro, quando qualcuno mi si para davanti, bloccandomi la strada.

«E spostati» sbraito spintonando via la persona davanti a me, che non ne è molto felice.

Mi butto fuori dal locale e per fortuna intravedo ancora la figura dell’uomo che cammina sotto la pioggia senza un ombrello, come me. Inizio a correre, anche se non sono sicura di che cosa farò quando l’avrò raggiunto. Ma in quel computer ci sono tutti i miei lavori, le mie foto... Intanto l’uomo svolta a destra, prendendo una via secondaria e io continuo a seguirlo, ma mi sembra di non riuscire mai a raggiungerlo. Forse si è accorto che lo sto inseguendo e cerca di seminarmi. Continua a prendere diverse vie secondarie, che non conosco, fino ad imboccare ad un vicolo schiacciato tra due palazzi di mattoni. 

Sento dei colpi. Svolto l’angolo. Appena faccio ingresso nel vicolo, tre uomini si girano verso di me: l’uomo che stavo inseguendo, uno che non avevo mai visto prima, occhio e croce della stessa età ma senza capelli, vestito elegante; il terzo mi osserva mentre tiene stretto nella mano il manico di un pugnale conficcato nell’addome di un quarto uomo quasi accasciato a terra, contro il muro.

«Merda» sibilo. Non ho il tempo di pensare che già sto correndo nella direzione opposta, pentita di aver quasi sempre trovato una buona scusa per saltare le lezioni di educazione fisica. Pago cara la mia pigrizia, perchè dopo neanche dieci metri l’uomo del bar mi è addosso, afferrandomi per un polso. Improvvisamente mi ricordo della mossa per liberarsi da questo tipo di stretta e la metto in atto, appoggiando l’altra mano sopra la sua e piegando il braccio portando il gomito verso l’interno del suo avambraccio, con la vaga speranza di romperlo. Ma l’uomo d’acciaio non mi lascia completare la mia mossa, colpendomi in faccia con un pugno che mi colpisce sul labbro facendolo sanguinare. Cerco di darmi un contegno e provo a colpirlo anche io, ma senza riuscirci. Non ho idea di come si combatta, così quando vedo arrivare il secondo pugno mi abbasso e gli sferro un destro in mezzo alle gambe. Lui si piega in due, e approfitto per tirargli un calcio più forte che posso su un ginocchio. Non riesco a godermi a lungo la sensazione di aver azzeccato un paio di mosse perchè qualcuno dietro di me, di cui non avevo notato la presenza, mi afferra le braccia e il mio grido d’aiuto viene smorzato in fretta da una cravatta che mi viene messa tra i denti e legata dietro la nuca. Poi qualcosa mi colpisce in testa e vedo tutto nero.

 

 

 

 

 

EHILA’ 

come state?
mi commuove l’entusiasmo e il trasporto con cui seguite questa storia, grazie! *si soffoca con il sarcasmo*

vabbe’. se avete già letto l’anticipazione prima di aprire la storia probabilmente sapevate già del rapimento, ma vi assicuro che siamo solo all’inizio e che i “colpi di scena” che si leggono nell’anteprima non sono dei veri colpi di scena perchè... be continuate a leggere e lo saprete ahahha

mi scuso se il capitolo è un po’ corto ma non volevo dilungarmi troppo per non risultare pesante e noiosa per via dell’assenza di dialoghi *coro: sei noiosa in ogni caso, buuu*

grazie.

mi dispiace che ci siano pochi dialoghi per il momento ma visto che in questi capitoli c’era la nostra alice, non potevo certo farla parlare da sola. anyway, le cose cambieranno molto molto presto, soooo.

le zanzare mi stanno mangiando. mi dileguo.

grazie se avete letto! mi farebbe piacere sapere che ne pensate :)

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Capitolo 3
*** Chapter 3 ***


 

 

 

Mille domande

(3) 

 

 

 

Mi risveglio in un posto buio, stretto. C’è odore di benzina. Cerco di dare un calcio alle pareti, ma mi fermo sentendo le voci di due uomini provenire dall’esterno. Comincio a credere di essere in un bagagliaio. 

«Dobbiamo ucciderla e basta.»

Bene. Parlano di me. Fantastico.

«Potrebbe sapere qualcosa. Torchiamola un po’ prima.»

«Ma cosa vuoi che sappia, è solo una ragazzina che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato.»

«Che per caso si trovava proprio lì? Non finisci per caso in quel buco di vicolo.»

«Sentite, forse voleva giocare alla detective. Forse ha sentito qualcosa e ci ha seguiti» il terzo uomo aveva preso parte alla conversazione «secondo me non è una brutta idea interrogarla. In fondo non possiamo lasciarla qui. O’breien lo abbiamo fatto passare per una rapina finita male ma, due vittime nello stesso vicolo? Dobbiamo portarla via.»

«Hai ragione» l’uomo smette di parlare. Silenzio.

«Ehi!» una quarta voce si aggiunge «scusate, potete dirmi dove si trova il National Museum?» 

Un turista?

Rumori di colpi. Diversi pugni, calci. Rumori di lotta. Sputi di chi viene colpito in faccia. Altri colpi. Non capisco cosa sta succedendo. Poi, silenzio.

Sento armeggiare con l’apertura del bagagliaio. Terrorizzata, cerco di girarmi come posso con le gambe verso il portellone, e quando questo si apre tiro un calcio in faccia alla persona che mi trovo davanti.

«Maledizione» impreca. E’ la voce del quarto uomo. Prima di riuscire ad abituarmi alla luce cerco di trascinarmi fuori dal bagagliaio, ma l’uomo mi afferra per un braccio. Le mie urla sono bloccate dalla cravatta. Come se non bastasse, mi preme una mano davanti alle labbra e mi costringe a voltarmi verso di lui.

«Vuoi stare zitta? Hai già combinato abbastanza guai, almeno dimostra un po’ di gentilezza con chi ti ha appena salvato la vita, al posto di prenderlo a calci in faccia» sbotta «ora ti libero e ti tolgo il bavaglio, non c’è bisogno che urli.» Annuisco, guardandolo negli occhi. Lui è molto più giovane degli altri uomini. Credo abbia tra i venticinque e i trent’anni. Fa come ha detto, e getta la cravatta a terra.

«Stai bene?» chiede. Continua a tenermi per un braccio. Lo fisso, senza dire niente, indecisa se dovrei scappare o saltargli addosso abbracciandolo in lacrime per ringraziarlo. 

Tutto quello che mi esce è

«Quindi tu sei quello buono?»

Mi guarda stupito e un po’ divertito, l’angolo destro delle sue labbra si alza leggermente abbozzando un sorriso sghembo.

«Per te, immagino di sì» annuisce, e i suoi capelli ricci ondeggiano leggermente.

«D’accordo, ora puoi anche lasciarmi il braccio» cerco di scrollarmelo di dosso.

«Perchè non facciamo un giro?»

Sul serio? Alzo un sopracciglio.

«Perchè potresti essere uno stupratore.»

Comincio a preoccuparmi e mi guardo intorno, cercano qualcuno che potrebbe soccorrermi chiedendo aiuto, ma non vedo nessuno. D’altronde, anche se qualcuno mi sentisse, probabilmente nessuno mi soccorrerebbe, secondo le statistiche. Che mondo di merda. 

«Non lo sono.»

«E dovrei crederti perchè..?» lascio la domanda in sospeso.

«Uno stupratore non ti avrebbe salvata.»

«Touchè. Tuttavia non mi sembra una buona idea andarmene con uno sconosciuto.»

«Sì se non sei chiusa in un bagagliaio. Muoviti, è meglio togliersi dai piedi.»

Mi trascina via. Non riconosco la zona di Dublino in cui siamo, non sembra il punto in cui ho incontrato quegli uomini. Mi volto. Accanto all’auto con il bagagliaio ancora aperto, non vedo nessuno. Un brivido mi scorre lungo la schiena.

Ora: due opzioni mi vengono in mente, così su due piedi. Uno: li ha uccisi l’uomo che mi sta quasi tenendo a braccetto, prendendoli a pugni. Due, sa modulare la voce, è schizofrenico e il discorso l’ha fatto tra sè e sè.

«Mi porti alla polizia?» chiedo mentre il mio cervello lavora senza sosta per dare un senso a tutta la situazione delle ultime... ore? Quanto tempo è passato da quando sono uscita dal bar?

«No.»

Ah, bene. Questo non esclude nessuna delle due ipotesi ma anzi, ne conferma una. Più probabilmente la prima. Lo osservo mentre attraversiamo la strada; -non guardo prima di attraversare, do per scontato che l’abbia fatto lui, come sempre quando attraverso insieme a qualcun altro- anche se la seconda opzione è più improbabile, a sostenerla c’è il fatto che non sembra abbia fatto a botte.

«Sono testimone di un omicidio, credo. Hanno ucciso qualcuno, poi sono arrivata io, mi hanno presa e...» cerco di spiegargli, ma lui mi interrompe.

«Puoi andare più piano, per favore?»

Smetto di camminare, lo guardo negli occhi e poi lo squadro, non comprendendo bene la sua richiesta. Restiamo così un attimo, a guardarci negli occhi senza capirci.

«Che c’è?» chiede, alzando le spalle.

«Sei ferito a una gamba?» domando a mia volta, cercando con gli occhi qualche traccia di sangue sui suoi jeans scuri.

«No.» 

Non lo guardo in faccia, continuo a cercare tracce di traumi che possono averlo indotto a chiedermi di rallentare.

«Una caviglia slogata?»

«No.»

«Hai problemi a un’anca?» insisto.

«No» mi fissa allibito.

«Una protesi che ti fa male quando cambia il tempo? In effetti prima pioveva» annuisco della mia stessa osservazione, notando l’asfalto ancora bagnato e le pozzanghere ai lati della strada «oppure una tendinite? Oppure...» faccio una pausa, cercando di ricordare cos’aveva mia nonna al ginocchio, ma non mi viene in mente «problemi al ginocchio?»

Noto che sta per dire qualcosa ma continuo nel fare il mio elenco.

«Eppure a me sembrava che camminassi normalmente. Voglio dire, non ho osservato per controllare che camminassi bene ma se non fosse stato così allora penso che mi sarei accorta... Hai una gamba di legno?»

«Puoi rallentare?»

Inarco un sopracciglio e faccio una smorfia, alzando i palmi delle mani verso l’alto nel linguaggio universale del “ma che cazzo..?”.

«Di nuovo? Ma che cazzo di problemi hai? Siamo fermi!» 

Lui apre la bocca per dire qualcosa, scuotendo la testa, poi stringe gli occhi e li punta nei miei. Non capisco bene se i suoi sono marrone chiaro o verdastri. Serra le labbra e riprende a camminare. Abbassa la mano che teneva stretta attorno al mio avambraccio e la stringe alla mia. Sono sconvolta per un secondo, poi realizzo che adesso stiamo entrando in una via dove c’è un po’ di gente che passeggia e che probabilmente si insospettirebbe se vedesse un ragazzo trascinare una ragazza per il braccio. Dopo questo piccolo ragionamento durato un paio di secondi, soddisfatta delle mie deduzioni mi ricordo della mia repulsione verso il tenere per mano le persone, così mi strappo alla sua stretta in modo brusco e incrocio le braccia al petto.

«Scusa, ma vorrei evitare di perderti per strada o che scappassi via» mi porge di nuovo la mano. Vedendo che non la accetto, la infila in tasca. «Oppure potrei ammanettarti, vedi tu.»

Manette?

«Odio tenere le persone per mano,» ribatto «preferisco le manette» aggiungo borbottando.

Lui mi porge il gomito, tenendo la mano in tasca. Lo osservo un attimo, poi lo prendo a braccetto, apprezzando questo compromesso: sono io che mi sto reggendo a lui e potrei lasciare la presa in qualsiasi momento, e questo mi fa sentire più al sicuro. E poi mi ha salvato la vita, quindi non credo voglia farmi del male. E se anche volesse, finchè non mi tiene per mano e siamo tra la gente, ho buone chances di scappare. Almeno credo.

«Sei un poliziotto?» 

Lui sorride, guardando dritto davanti a sè, poi scuote la testa.

«No, non direi.»

«Hai parlato di manette» scrollo le spalle.

«Non serve essere un poliziotto per averle.»

«Sei un gigolò?» ridacchio, pensando a delle manette coperte di pelliccia rosa che avevo visto una volta in un negozio di articoli per carnevale.

«Ancora una volta, no.»

Sorvolo sulla mia battutina che non l’ha fatto ridere.

«D’accordo, senti, prima ti stavo dicendo che devo andare alla polizia. Tipo adesso. Chiama il 911» poi mi ricordo che siamo in Irlanda, non negli USA, e mi sento un’idiota «...o qualsiasi sia il numero per le emergenze qui.» 

Abbasso il tono di voce, avvicinandomi un po’ a lui.

«Hanno ucciso qualcuno, d’accordo? E io ero lì. Credo che sia per questo che mi hanno presa» lui resta impassibile «...sono un testimone. Dovrei rilasciare una deposizione, dire quello che ho visto e finire in tribunale a giurare di dire “tutta la verità e nient’altro che la verità”.»

Lui prende un respiro profondo e inizia a parlare.

«Ufficialmente, lascerò che sia archiviata come una rapina finita male. Ufficiosamente, non avrebbero comunque nessuno da processare, quegli uomini hanno già pagato per tutto quello che hanno fatto.»

Lo interrompo, sconvolta dalla tranquillità con cui pronuncia quelle parole.

«Vuoi dire che li hai uccisi?» sputo fuori la domanda che mi tenevo stretta da quando ero uscita dal bagagliaio. Lui la ignora, e ho il terrore di avere ragione. Riprende il suo discorso. 

«...Quindi non mi sembra una buona idea andare a sollevare polvere dicendo di aver assistito ad un omicidio, soprattutto finchè hanno degli uomini infiltrati nel corpo di polizia. Potrebbero pensare che tu sappia qualcosa.»

Sto in silenzio per un po’. Valuto dove potrei scappare. Adesso. Potrei iniziare a correre. Ma se lui ha davvero steso tre uomini che nonostante l’età sembravano piuttosto in forma, dubito che riuscirei ad andare lontano con la mia preparazione fisica. Al massimo farei due metri. Anzi, credo che sarebbe abbastanza veloce da bloccarmi prima. Magari farmi lo sgambetto e fingere che io sia caduta per sbaglio. Scelgo di collaborare, per il momento.

«Ma tu, chi cazzo merda sei?»

«Non ha importanza.»

Questa affermazione mi fa ribollire la rabbia anche nelle orecchie.

«Senti, mi hanno sempre dato fastidio i figoni che se ne escono con queste frasi alla James Bond, anzi, ti dirò di più, mi sta abbastanza sulle palle pure lui» mi calmo per fare una breve osservazione a bassa voce «tranne in Casinò Royale, quel film mi piace.» poi riprendo il mio tono incazzato «Ha importanza eccome. Ho assistito ad un omicidio, mi hanno quasi rapita, sei arrivato tu e hai ucciso quelli che mi hanno rapita -se ho capito bene-, e adesso mi porti non so dove e mi dici che non posso andare alla polizia. Ora, non si tratta di avvenimenti irrilevanti per cui chi sei potrebbe non avere importanza. Non sei sbucato dal nulla per comprarmi un gelato, cazzo. Quindi adesso pretendo delle spiegazioni, perchè non ho capito assolutamente nulla di quello che è successo.»

Prendo un respiro profondo dopo la mia lunga arringa conclusiva.

«Quando ti ho detto di rallentare intendevo che parli troppo veloce» si limita a dire.

«Ah» mi lascio sfuggire. Ha ragione, mi dimentico spesso che a volte parlo troppo veloce. Prima che io possa ribattere che non ha risposto alla mia richiesta, riprende a parlare.

«Vorrei darti delle risposte, capisco che tu ne abbia bisogno. Non lo posso fare, però.» fa una pausa e quando riprende a parlare sembra rivolgersi più a sè stesso che a me «Tu sei... Un imprevisto. Hai cambiato completamente il corso delle cose.»

«Non sai se puoi darmi delle risposte?» ripeto. «Ti rendi conto che non mi interessa e che le voglio lo stesso, vero? Spiegami cosa sta succedendo o mi metto a urlare e ti prendo a calci in culo.»

Lui sorride a labbra serrate, senza guardarmi, poi mi lancia un’occhiata divertita. Si ferma, mi appoggia le mani sui fianchi e mi attrae a sè. Sto per colpirlo sul petto, indignata dal fatto che improvvisamente si prenda tutta questa confidenza, quando mi sussurra “scusa” vicino all’orecchio.

«Scusa, davvero, ma così nessuno ci sente» bisbiglia «dimmi che cos’hai visto.»

Chi dovrebbe sentirci?

«Te l’ho già detto» sbotto irritata, forse a voce troppo alta.

«Nient’altro? Hai sentito che dicevano qualcosa?» 

«Perchè dovrei dirtelo se tu neanche mi dici chi sei?» ribatto.

Lui si allontana, impassibile.

«D’accordo, come vuoi. Addio» riprende a camminare, stavolta senza tenermi al suo fianco, e lo fisso allibita mentre si allontana. Resto interdetta per un paio di secondi, poi corro verso di lui, scansando un paio di pedoni che vengono nella direzione opposta.

«Cosa vorrebbe dire?» domando, una volta abbastanza vicina a lui.

«Vorrebbe dire che dovresti andartene per la tua strada, e io per la mia» risponde senza nemmeno girarsi verso di me. Questo mi dà ancora più fastidio.

«Ma sei solo maleducato o anche stronzo, che ti diverte non guardarmi negli occhi quando mi parli?»

«Non ho tempo. Vattene e basta.»

Vorrei tantissimo tirargli un pugno in faccia, ma per oggi abbiamo già stabilito le mie scarse capacità di combattimento.

«D’accordo, andrò alla polizia allora» dico con nonchalance, scrollando le spalle, sperando di attirare la sua attenzione.

«Come vuoi, se hai un forte desiderio di morte, questa è la scelta giusta, bingo!» schiocca le dita.

«Mi stai minacciando?» 

Il desiderio di colpirlo aumenta ogni secondo che passa.

«No, affatto. Ma ti ho già detto che ci sono troppi poliziotti corrotti per andare a raccontare quello che ti è successo. E’ meglio per te starne fuori e dimenticare quello che è successo. Non stiamo parlando di bella gente. Non stiamo parlando di ragazzini di una gang.» si ferma e si gira verso di me, per una volta guardandomi dritta negli occhi «Sei libera di credermi o no, ma tutto quello che sto dicendo e facendo è per il tuo bene. Stanne fuori.» fa una pausa di un paio di secondi, e poi aggiunge: «Per favore.»

Lo guardo, confusa e con la mente piena di ancora troppe domande, senza sapere che cosa fare, cosa dire, cosa provare.

Dovrei fidarmi di lui? Mi sta dicendo la verità? Chi diavolo è? Chi erano quelle persone? In che cosa sono finita? Dovrei davvero evitare di andare alla polizia? 

Lo guardo cercando le risposte nei suoi occhi, ma vedo solo delle sfumature di castano, verde chiaro e una punta di sincerità che per un secondo gli attraversa lo sguardo, che si fa più dolce e meno indecifrabile. Non appena riesco a cogliere questo cambiamento lui si volta e riprende a camminare a grandi falcate senza guardarsi indietro e svanisce velocemente tra la folla, lasciandomi lì schiacciata dalle mie mille domande.

 

 

 

❀❀I’m baaaaack ❀❀
(aggiorno già adesso perchè ho finito di scrivermi tutta la trama, più o meno, e la settimana prossima non so quando avrò accesso a internet {poi devo anche portare il mio gatto dal veterinario perchè gli tolga la steccatura alla gamba aiut} e con l’inizio della scuola dubito che riuscirò ad aggiornare più di una volta a settimana :c)

tornando alla storia: sono schifata dai titoli che do ai miei capitoli, help.

comunque abbiamo fatto conoscenza di emh, lui ahahah be’ penso si capisca perfettamente chi è ma non ve lo dico solo per fare finta che sia un segreto 

ho delle domande per voi ragazze/i:

cosa ne pensate di quello che è successo ad alice? 

voi cosa fareste? 

avete qualche risposta per le domande che si è posta?

(sono terrorizzata all’idea che nessuno di voi risponda aahahah plis fatemi felice)

btw anche se la storia non ha molto successo vorrei ringraziare i quattro gatti che hanno messo la storia nelle preferite/seguite/ricordate! grazie grazie grazie! sono felice che vi piaccia e sarei contenta di sapere i vostri pareri :)

 

 

ps. se avete bisogno di banner contattatemi pure :) qui potete trovare dei miei lavori

 

 

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Capitolo 4
*** Chapter 4 ***


 

 

While the rhythm of the rain keeps time

(4)

 

 

Mi ci vogliono qualcosa come tre secondi per decidere che lo voglio seguire. Cerco i suoi capelli tra la gente mentre mi dirigo verso la stessa direzione che ha preso lui poco fa. Vedo dei riccioli castani qualche metro davanti a me, e per fortuna man mano che procedo la folla si dirada, permettendomi di vedere meglio il mio obiettivo.

Il lato negativo è che adesso anche lui può vedermi più facilmente. Ho sempre sognato di pedinare qualcuno e afferrare da qualche bancarella lungo la strada degli accessori come un foulard, un paio di occhiali o un cappello per mascherarmi, come fa Tom Cruise in Mission Impossible. Tuttavia, mi sentirei in colpa per aver rubato qualcosa e inoltre non ci sono delle bancarelle qui. Quindi opto per prendere i miei occhiali da sole dallo zaino che ho ancora sulle spalle e li indosso; il problema principale potrebbe essere nascondere i capelli viola, che si fanno notare. Non ho un berretto con me, quindi decido di legarmi i capelli in una coda mentre cammino, senza perdere di vista quel ragazzo misterioso. Svolta a destra e io lo seguo mantenendomi a debita distanza. Improvvisamente riconosco il punto in cui ci troviamo: siamo sbucati accanto all’Abercrombie, e lui sembra seguire il percorso che porta al Thrinity College. Alla nostra sinistra le House of Parliament. 

Mi sbagliavo: il ragazzo anzichè svoltare a sinistra per attraversare e andare verso l’università, resta sul marciapiede seguendo il percorso verso destra, e così faccio anche io, una dozzina di metri dietro di lui. Ma quando svolto l’angolo non lo vedo più davanti a me. Rallento, confusa, e mi tolgo gli occhiali -come se servisse davvero a vedere meglio- e mi alzo in punta di piedi. Improvvisamente qualcuno mi tira verso destra, verso l’entrata di un palazzo, e inciampo sugli scalini, ma le braccia che mi hanno trascinata mi sorreggono per non farmi cadere. Mi ritrovo con la schiena al muro, il viso del ragazzo che stavo seguendo a poco più di dieci centimetri dal mio, e le sue mani sulle mie spalle che mi bloccano.

Lo guardo.

Mi guarda.

«Smettila di seguirmi» abbaia. Inarco un sopracciglio.

«Non ti stavo seguendo.»

Lui mi fulmina con lo sguardo e si allontana un po’ da me, lasciando la presa sulle mie spalle.

«Ho detto smettila di seguirmi, vai a casa, vattene. E cerca di non cacciarti nei guai, non ho tempo per farti da baby sitter...» non so se ha intenzione di continuare la frase, ma lo interrompo subito tirandogli uno schiaffo in faccia. Per un secondo credo di essermi fatta più male io di lui, perchè non ha nemmeno voltato la testa, si è limitato ad abbassare gli occhi. Serra la mascella, si morde il labbro e annuisce lentamente, poi solleva le mani in segno di resa e fa un passo indietro, mi lancia uno sguardo piuttosto duro, si volta, rimette le mani nelle tasche dei jeans e se ne va.

Questa volta l’idea di seguirlo non mi attira. Lo osservo allontanarsi, ancora appoggiata al muro, finchè scompare alla mia vista. Resto lì ancora un minuto buono, poi torno sui miei passi, attraverso la strada e vado verso il Trinity perchè dalla parte opposta del College c’è la stazione di Pearce, dove posso prendere la Dart per tornare a Bray. Affretto il passo, desiderosa di tornare presto a casa.

 

 

Mi abbandono sul primo sedile libero che trovo vicino al finestrino -ormai ho una fissa di sedermi sono vicino al finestrino per osservare il mare durante tutto il tragitto da Dublino a Bray- ancora scossa.

Dall’ultimo incontro con quel ragazzo, non ero riuscita a pensare a nulla. Mi ero limitata a mantenere lo sguardo fisso davanti a me, senza emozioni, in attesa di arrivare a casa, al sicuro, per poter mettere a fuoco la situazione. O quantomeno, per esplodere rannicchiata nella mia coperta e non nelle strade affollate di Dublino.

Appoggio la fronte contro il vetro freddo e umido, e il treno parte. Mi lascio cullare dal movimento rassicurante e familiare, chiudendo gli occhi.

I pensieri cominciano a voler venire fuori e prendere forma, e ho paura di iniziare a farmi domande prima di arrivare al mio appartamento, così tiro fuori l’mp3 dalla borsetta e infilo le cuffiette. Premo il tasto play e parte Jet Pack Blues dei Fall Out Boy e alzo il volume, forse anche troppo, per distrarmi.

Mimo le parole con le labbra, socchiudo gli occhi e osservo il mare scuro e le sue onde, i graffiti sul muretto un tempo bianco che traccia il confine tra il piccolo lembo di sabbia scura e il percorso monotono del treno, il cielo cupo. Forse pioverà di nuovo.

 

“She’s in a long black coat tonight, 

waiting for me in the downpour outside.

She's singing, "Baby, come home" in a melody of tears,

while the rhythm of the rain keeps time.”

 

 

 

Infilo le chiavi nella porta del monolocale, con le mani tremanti. Dopo due tentativi riesco a fare centro e quando giro la chiave la serratura scatta. Entro in casa e mi chiudo la porta alle spalle, appoggiandomici contro. Resto così per un paio di minuti, forse di più, poi mi giro e non solo chiudo a doppia mandata, ma inserisco anche il chiavistello.

Mi tolgo gli anfibi neri, lasciandoli vicino alla porta, e appendo la giacca. Lancio lo zaino sul divano e mi dirigo in cucina, dove riempio il bollitore per il tè e lo metto sul fuoco. Nell’attesa che l’acqua bolla, vado in bagno a farmi un doccia, come sempre quando cerco di tornare lucida. Resto sotto il getto dell’acqua abbastanza a lungo e decido di uscire solo per bere il tè. Come immaginavo, il bollitore sta fischiando, così infilo l’accappatoio e vado a spegnere il gas in cucina. Tiro fuori una tazza e ci metto dentro una bustina di tè nero, verso l’acqua e torno in salotto, prendo dall’armadio un paio di leggins e una felpa e li indosso, completando con un paio di calzettoni che tiro su sopra i pantaloni quasi fino al ginocchio. 

Vado in cucina a prendere il tè, ormai pronto, ci verso del latte, due cucchiaini di zucchero e poi mi ricordo delle ciambelle che mi aveva portato Miss Sullivan, così afferro anche quelle e porto tutto in salotto. Mi butto sul divano e mi infilo sotto la spessa coperta. Addento una ciambella e finalmente mi permetto di analizzare quello che è successo.

Quel ragazzo mi ha salvato la vita da dei tizi che non conosco, ma da come ne ha parlato e a giudicare dai riferimenti, che non mi erano sembrati inventati, ai poliziotti corrotti, sembrava che lui sapesse perfettamente di che cosa stava parlando. Tre uomini. Ben vestiti, uno di loro con una borsa maschile dove poteva esserci il mio portatile, ma a questo punto comincio a dubitarne. Perchè rubare il computer di una “ragazzina”? Però prima di uscire dal bar ci aveva infilato qualcosa, ne ero certa.

A questo punto il mistero del portatile resta irrisolto. Prendo mentalmente nota di denunciare il furto alla polizia.

Dunque, tre uomini. Ben vestiti. In un vicolo. Uno di loro ha ucciso un uomo. Una borsa.

Dei trafficanti? Di cosa? Droga? Organi? Esseri umani?

Non mi vengono in mente molte altre idee. Mafiosi? Da quello che sapevo la mafia irlandese operava di più all’estero, come a New York o a Boston, che qui. 

Non mi sembrava neanche avessero l’aspetto di una gang.

Poi c’è lui che decido di chiamare momentaneamente SI -Soggetto Ignoto- in onore di Criminal Minds. Mi ha salvata. Ma: uno, non credo fosse lì per caso, citando uno dei tre uomini che avevano cercato di rapirmi; due, anche se fosse stato lì per caso, sarebbe molto improbabile che per caso un uomo come lui, sì insomma, con le sue capacità da karate kid, si trovassi lì in quel momento; tre, anche ammesso che io avessi questo grandissimo culo e che un esperto di combattimento -perchè doveva saper combattere- fosse per caso lì per salvarmi, è ancora più improbabile che conoscesse quegli uomini. Quindi se li conosceva, potrebbe essere un membro di una famiglia mafiosa rivale? Di un’altra gang?

Eppure anche lui aveva un aspetto... non saprei, da persona per bene. D’accordo che le apparenze ingannano, ma preferirei avere ragione su di lui perchè, per quanto possa essere stronzo, mi ha pur sempre salvato la vita, e preferirei essere riconoscente a un onesto cittadino piuttosto che a un capo mafioso.

Un’idea si insinua nella mia mente.

E se fosse un poliziotto sotto copertura? 

Scarto subito questa ipotesi, perchè parlare male della polizia non mi sembrava poi così un gran metodo per mantenere la sua copertura. Sarebbe stato meglio non nominarla o mostrarsi neutrale, per non dare nell’occhio.

Sorrido. E se fosse un agente segreto? O un investigatore privato, magari.

Soffio sul tè per raffreddarlo e ne bevo un po’. Dei colpi alla porta mi fanno sobbalzare.

«Ali? Sono io, Niamh!» 

Scatto a sedere e a momenti mi rovescio addosso la bevanda bollente.

Niamh, cazzo! L’appuntamento! 

Mi sbatto la mano in fronte. Me n’ero dimenticata completamente.

«Sei in casa?» alza la voce per farsi sentire.

«Sì, sì» rispondo, senza alzarmi «io... non mi sento molto bene, scusa se non sono venuta!»

«Che cos’hai? Comunque tranquilla, se stai male non fa niente... Posso entrare?»

Appoggio la tazza sul tavolino da salotto e sospiro, non posso lasciarla lì dopo averle dato buca. E in fondo, mi farebbe piacere che ci fosse qualcuno in casa insieme a me. Mi avvolgo stretta nella coperta e mi alzo, vado verso la porta, armeggiando un po’ per riuscire ad aprire il chiavistello.

«Scusami» sussurro, facendola entrare «ti va un po’ di tè? Dovrebbe esserci ancora acqua calda nel bollitore» propongo.

«Volentieri!» sorride raggiante, poi si incupisce un po’ e aggrotta la fronte «ma tu che cos’hai?» 

Cerco una scusa plausibile. Penso di adottare la linea dell’influenza, ma ho paura di non riuscire a fingere un naso chiuso senza tradirmi, prima o poi.

«Mal di testa, e anche mal di stomaco... Credo che sia perchè mi sta per scadere l’abbonamento all’essere donna» butto là, scrollando le spalle. La mia amica ridacchia, avvicinandosi per abbracciarmi -probabilmente perchè adesso è sicura che io non sia contagiosa. 

«Mi dispiace! Posso farti compagnia questa sera, se vuoi!» propone, allontanandosi e slacciandosi la giacca che appoggia subito sull’appendiabiti vicino alla porta.

«Certo!» annuisco, improvvisamente sollevata. Non mi ero resa conta di avere paura a stare da sola, non mi ero ancora resa conto di tutto quello che era successo oggi. Sbianco, pensando che mi hanno davvero rapita e chiusa in un bagagliaio. Non è una delle mie storie, è successo davvero. E’ successo a me. 

«Ehi, tutto okay?» chiede Niamh, notando il mio cambiamento di colore.

«Sì, sì» balbetto «mi è solo girata un attimo la testa» mento.

«Va’ a sederti, riesco a fare da sola» cerca di tranquillizzarmi. Mi mette una mano sulla spalla.

«Vuoi un po’ di tè anche tu?» chiede.

«In realtà l’ho già fatto per me, ma se ne fai dell’altro...» abbozzo un sorriso «ci sono anche delle ciambelle in salotto!»

Lei ricambia il sorriso e due fossette spuntano sulle guance spruzzate di lentiggini. Niamh è lo stereotipo della ragazza irlandese. Pallida, lentiggini, capelli biondi con sfumature rossicce e occhi azzurri.

«Perfetto!» corre in cucina, mentre io mi trascino di nuovo in salotto. Mi butto sul divano, mi rannicchio in un angolo e accendo la televisione.

Il canale su cui era sintonizzato sta mandando in onda il telegiornale. Odio il telegiornale, quindi istintivamente sto già per cambiare canale, ma il servizio che sta annunciando la speaker attira la mi attenzione. Alzo il volume.

«Risale a mezz’ora fa il ritrovamento del corpo di un uomo in un vicolo vicino a Wellington Quay, Dublino. L’uomo, sui trent’anni, è stato pugnalato sedici volte. Gli inquirenti non hanno ancora concluso le indagini, ma si pensa ad una rapina finita male: l’uomo, infatti, non aveva con sè cellulare o portafoglio o altri oggetti di valore che hanno reso impossibile l’identificazione...»

 

 

 

 

 

 

 

 

❀❀❀ ciao leopardi nebulosi ❀❀❀

Mi sorro con tutti perrchè nello scorso capitolo lei aveva una borsa e adesso ha uno zaino, ma sono stupida e non avevo pensato che una volta caricata in macchina nessuno avrebbe fatto attenzione a prendere anche la sua borsa :( però se lo zaino ce l’ha in spalla neanche avrebbero fatto attenzione a strapparglielo di dosso... spero

Anyway, un anno fa anche io ero in Irlanda.

A Bray. Nella famiglia più gentile di tutto il paese. Ieri ho riguardato le foto...........

*piange l’anima*

COMUNQUE RALLEGRIAMOCI UN PO’: LUNEDI SI TORNA A SCUOLA E POI SE ANDIAMO AVANTI VELOCI CI SARANNO DI NUOVO LE VACANZE ESITVE.......

Vi giuro è l’unico pensiero che mi trattiene da scavare un tunnel per Dublino. 

Vabbe’, tornando alla storia: ho sistemato (riscritto) il “canovaccio” di tutta la trama a grandi linee ed è venuto fuori un foglio a4 avanti e retro, che dio ci aiuti. Comunque sì, ormai l’avrete capito tutte quindi il tipo misterioso è mio marito aka Ashton Fletcher Irwin. Vi spoilero che ci saranno anche Louis Tomlinson, Calum e forse anche Luke... e se metto Luke ci sarà anche Mike perchè non lo posso mica escludere così dalla storia ahahah

Poi volevo dirvi che siete reattivi come me alle sette di domenica mattina.  :)

((tranne quella santa ragazza che recensisce, a cui faccio un ringraziamento speciale))

Mi farebbe piacere leggere qualche vostro commento, non solo per sapere cosa pensate della storia, ma anche per conoscere le persone che stanno leggendo :) La prima storia che avevo postato qui aveva raccolto molti commenti e la cosa bella era il rapporto che c’era tra me e le lettrici, cosa che ho perso abbandonando il sito così a lungo... Adesso che sono “tornata” con questa storia, mi piacerebbe molto riuscire a riavere qualcosa del genere. 

Forse dovrei iniziare “aprendomi” un po’ di più negli spazi autrice, ma vi assicuro che leggendo questa storia, conoscendo Alice conoscerete anche me, forse più di quanto potreste fare di persona. 

A ME PIACEREBBE CONOSCERE VOI PERO’. 

chiudo la parentesi sui cazzi miei dicendo che SONO TERRORIZZATA perchè tra poco vado dalla parrucchiera e voglio tagliarmi i capelli di tipo 20+ centimetri........ dovrei venire fuori con quella specie di caschetto che aveva miley cyrus prima di farsi il taglio alla maschietto (non so se si dice davvero così ma comunque è una cit di mia mamma) poi colpi di sole o tinta viola (adoro) o tinta cioccolato? aiut

 

 

a prestooo ♥

ps. scusate lo spazio autrice infinito

 

 

-lola

 

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Capitolo 5
*** Chapter 5 ***


 

 

 

Wilkinson, Robert Wilkinson

(5)

 

 

 

Tengo premuto il pollice sul monitor del cellulare, sopra il link blu acceso, e poi seleziono “apri in nuova pagina” e aspetto che la quattordicesima finestra si carichi, allineandosi sotto altri tredici risultati di google per “mafia irlandese” e “gang irlandesi” che sembravano interessanti.

Purtroppo la maggior parte tratta dei mafiosi peggiori di Boston, o di gang di poca importanza nella periferia di Dublino. Tra le notizie sul web non c’è assolutamente nulla che possa fare al caso mio.

Blocco il telefono e lo lancio nella borsa. Seccata dalla mancanza di risposte, decido di alzarmi dalla panchina. Più tardi dovrei andare alla polizia  denunciare il furto del mio portatile. 

Colpisco con un calcio un sassolino della stradina di ghiaia che attraversa il parco, e poi un altro, rimuginando per la cinquecentesima volta nelle ultime ventiquattro ore, valutando se sia meglio raccontare di aver assistito all’omicidio o pure no. Infilo le mani nelle tasche. Arrivo davanti alla statua di Oscar Wilde e la osservo senza fermarmi per evitare che qualcuno dei turisti lì davanti mi chieda di scattargli una foto. Mi viene in mente la foto che ci siamo fatte io e Mary, lì davanti, imitando l’espressione crucciata da grande artista in cerca di ispirazione che ha la statua.

Sto gironzolando per Dublino senza meta da circa un’ora, in attesa di andare alla polizia. Esco dal parco e svolto a destra. 

Accelero leggermente il passo sentendo il rumore di una macchina che rallenta dietro di me. Sono sempre stata un po’ paranoica, probabilmente per le troppe puntate di Criminal Minds, ma adesso lo sono ancora di più.

L’auto si ferma accanto a me. E’ un suv nero.

Cioè, non sono certa al cento per cento che sia proprio un suv perchè non ci ho mai capito nulla di macchine, diciamocelo, ma è il tipo di macchina che non vorresti ti si avvicinasse.

Mi guardo rapidamente intorno e vedo un poliziotto a circa cento metri. Troppo lontano, ma se urlassi forse riuscirebbe ad aiutarmi.

Un uomo esce dalla macchina, interrompendo i miei calcoli. D’istinto mi allontano dal ciglio della strada.

«Signorina Walsh?»

Maledico i miei riflessi che mi hanno fatto girare verso l’uomo. Lo squadro. Anche lui in forma, anche lui sopra i trent’anni, pelato, caucasico, un naso piuttosto importante e il collo corto. Un auricolare nero nell’orecchio destro e un tre pezzi gessato grigio scuro. Si sfila degli occhiali da sole. Direi Ray-ban.

«Alice Walsh?» ripete, allungando la mano destra verso di me. Non la stringo.

«Sì? Lei chi è?» faccio un piccolo passo indietro, riluttante.

Lui annuisce, forse per dimostrarmi la sua comprensione per la mia diffidenza, e porta la mano in una tasca interna della giacca, da cui sfila quello che sembra un piccolo portafoglio. Lo apre, mostrandomi un distintivo.

«Robert Wilkinson, MI5. Dovremmo farle alcune domande.»

Si sposta di lato, invitandomi a salire sull’auto.

«MI5?» ripeto, sollevando un sopracciglio «cioè tipo controspionaggio inglese?»

«Precisamente.»

Ci scrutiamo l’un l’altra, lui aspettando che io salga, io terrorizzata all’idea di entrare in un’auto con degli sconosciuti.

«Avete la legislazione in Irlanda?» chiedo dubbiosa.

«Abbiamo il permesso di agire per la nostra missione. Dovremmo farle alcune domande.»

Sto per chiamare urlando il poliziotto, quando 007 -di cui non ricordo il nome- riprende a parlare.

«Sappiamo cosa le è successo ieri, e dovremmo chiederle alcune cose.» fa una pausa e osserva la mia reazione, mentre i miei occhi vagano ripetutamente tra lui e il poliziotto, poi aggiunge «Offrirle protezione.» 

Queste ultime parole mi fanno voltare di scatto verso di lui. Lo fisso: mi sta di nuovo tendendo la mano. Mi mordo le labbra.

«Posso vedere il... tesserino, distintivo, o qualsiasi cosa sia?» chiedo.

«Certo» lui lo estrae di nuovo, avvicinandolo a me in modo che possa leggere. Sembra autentico.

«D’accordo» dico, salendo in auto, sul sedile posteriore. 007 prende posto accanto a me, mentre davanti ci sono altri due uomini alla guida, che non perdono tempo in convenevoli, mettono in moto e ripartono.

«Ci scusiamo per i modi un po’ bruschi, ma capisce, sono nello standard dell’agenzia.»

«Signor...?»

«Wilkinson, Robert Wilkinson» mi trattengo dall’alzare gli occhi al cielo e chiedergli se Bond era già occupato, mentre mi aspetto un “ma può chiamarmi Robert”, che non arriva. 

«Sappiamo che ieri è stata sequestrata da tre uomini. Saprebbe riconoscerli?» 

«No» lui sembra sorpreso dalla velocità e la certezza della mia risposta, il che mi induce a rifletterci ancora un attimo.

«Forse le voci.» scrollo le spalle.

Ho sempre avuto una fissazione per le voci della gente. E’ terribilmente frustrante il fatto che, quando scrivo, non riesca a descriverle alla perfezione così come le sento. Tuttavia, saprei riconoscere le voci di praticamente chiunque, quindi credo riuscirei a farlo anche con gli uomini di ieri.

«D’accordo.» lo vedo cercare in una cartellina che non mi ero accorta tenesse in mano, ed estrarre un foglio «lui l’ha mai visto?»

Mi allunga una foto stampata su un A4 del volto di un ragazzo sui venticinque anni. Tiene il mento leggermente alzato, ha un’espressione abbastanza dura dipinta sul viso, la mascella contratta e ben delineata. La pettinatura scompigliata non riesce a domare dei riccioli ribelli castano chiaro che gli ricadono a ciocche sulla fronte, gli occhi sono castano chiaro, con delle sfumature verdi. Le labbra serrate non celano l’ombra di un sorriso. Un leggero accenno di barba.

Un irrefrenabile impulso di mentire mi fa uscire un “no” secco dalla bocca, prima che io me ne renda conto.

Passano un paio di secondi prima che Wilkinson ribatta, contrariato, allungandomi un’altra mezza dozzina di foto. 

«A noi risulta il contrario.»

Mi mordo le labbra, consapevole di aver sbagliato a mentire. Osservo gli scatti, simili alle foto sulle riviste di gossip. Una ripresa da lontano di noi due che camminiamo, lui che mi tiene la mano, subito dopo io lo tengo a braccetto. Un primo piano un po’ sgranato di lui che sorride. Continuo a sfogliare le immagini, arrivando a una foto che ci ritrae nel momento in cui mi aveva abbracciata per poter sussurrarmi qualcosa. Lo scatto successivo è molto ambiguo, rubato mentre mi teneva bloccata contro il muro del palazzo, sembra quasi che stiamo per baciarci. Cerco di ignorare le guance che avvampano leggermente.

«L’MI5 lo sta cercando?» domando, staccando gli occhi dall’ultima foto e inchiodandoli in quelli neri di Wilkinson.

«Sì, è indagato per tradimento.»

«Tradimento?» non aspetto che 007 risponda perchè so benissimo quello che ho sentito, ma ripeterlo a voce alta lo fa sembrare più vero. Sputo subito fuori un’altra domanda che mi incuriosisce particolarmente «Vuole dire che lui... lavora per voi? Per l’MI5?»

«Lei non ne sa  nulla? Non gliene ha mai parlato?»

Fisso le foto che tengo ancora strette in mano, sconvolta. Un agente segreto? Un agente segreto indagato per tradimento? 

«L’ho conosciuto ieri, non...» scuoto la testa «io non so nemmeno il suo nome.»

«Dalle foto sembrate piuttosto intimi...» Wilkinson inclina la testa, accennando un invito a dirgli qualcosa di più. Sollevo le spalle, pronta a spiegargli cos’era successo esattamente, e a ripetere che non so niente su quel ragazzo. Mi giro distrattamente verso il finestrino e con la coda dell’occhio noto che la sicura dello sportello è bloccata. Sento i battiti del cuore accelerare, mentre il mio cervello galoppa all’impazzata tra un migliaio di scenari possibili e faccio fatica a respirare. E se questi non fossero veri agenti? D’accordo, ho visto il distintivo, ma non è venuta la regina Elisabetta a firmarlo davanti a me. Mi chiedo quanto sarebbe difficile falsificarne uno.

Deglutisco a fatica, imponendomi di parlare, e mi volto verso Wilkinson, che improvvisamente mi sembra molto più minaccioso. Nei suoi occhi c’è davvero un lampo di cattiveria o è la mia immaginazione da scrittrice a giocarmi brutti scherzi? 

Stringo le foto più forte.

«Dove avete detto che stiamo andando?» sussurro la mia domanda, non so bene a chi.

«Non l’abbiamo detto.»

La voce viene dall’uomo al posto del passeggero. Mi sembra di intravedere dallo specchietto retrovisore le sue labbra storcersi in un ghigno che mi fa rabbrividire.

Wilkinson nota i miei nervi a fior di pelle e interviene, allungando la mano verso di me, con il palmo rivolto verso l’alto. Mi mordo l’interno guancia: mostrare le mani aperte è il modo di mostrare le proprie  buone intenzioni con il linguaggio del corpo. Mi domando se il gesto sia nato spontaneamente o se sia un trucco elaborato per mettermi a mio agio giocando con il mio subconscio. Per qualcuno che conosce il linguaggio del corpo, mentire è molto semplice. Lo so bene, infatti per me fidarmi dei gesti degli altri è difficile.

«La stiamo portando in un posto sicuro» un tono fermo, lontano dal suonare rassicurante.

Le parole “in un posto sicuro” si ripetono all’infinito nella mia testa, rimbalzando da una parte all’altra, e tra me e 007 compare Tom Cruise che mi appoggia una mano sulla spalla e dice «quando ti dicono che puoi stare tranquilla, che sei in salvo, che ti stanno portando in un posto sicuro... Significa che stanno per ucciderti.»

«Signorina Walsh?» la voce di Wilkinson mi riscuote dai miei pensieri. Metto a fuoco il punto che sto fissando intensamente, accorgendomi di avere gli occhi incollati alla punta delle mie scarpe.

«Non mi sento molto bene, io...vorrei scendere» farfuglio.

Infilo una mano nella mia borsa e lentamente cerco la piccola bomboletta di spray all’eucasol. E’ un banalissimo deodorante per ambienti, ma ha un nebulizzatore che crea uno spruzzo simile a uno di spray al peperoncino e sono abbastanza sicura che bruci se finisce a contatto con gli occhi.

«Vuole un po’ d’acqua?»

«No, voglio scendere!» grido.

L’istante dopo la bomboletta di deodorante è puntata contro gli occhi di Wilkinson, spruzzando una nuvoletta di profumo che ha l’effetto sperato: l’uomo si porta le mani agli occhi e urla qualche imprecazione mentre io tengo l’indice saldamente premuto sull’erogatore e disegno dei cerchi con l’arma improvvisata su tutto il viso di Wilkinson. Tutto questo avviene in un secondo, il tempo che i due uomini davanti a noi realizzino cosa sto facendo e agiscano. Intravedo il passeggero portare a mano al petto, verso la giacca, probabilmente cercando una pistola, ma la reazione del guidatore è più veloce: sterza bruscamente, invadendo l’altra corsia. Non mollo la presa al deodorante, il cui odore sta cominciando a dare fastidio anche a me, e spruzzo un po’ anche verso l’uomo davanti a Wilkinson. La macchina è nel caos più totale, e spero che le capacità di guida del conducente siano buone. 

Il tempo di elaborare questo pensiero e il rumore di uno sparo mi assorda. Porto le mani al petto, spaventata, e mi piego in due. 

Un’onda di aria fresca entra prepotentemente nell’abitacolo.

L’auto sbanda e sono troppo spaventata per impormi di seguire le mosse dell’uomo alla guida. Il sangue mi pulsa nelle orecchie. Non sento niente, tranne il suono martellante del mio cuore.

Non credo di provare dolore, ma la paura mi porta a tastarmi freneticamente il petto, alla ricerca di una ferita. Non ne trovo nessuna, e così riprendo a respirare. 

Ascoltando meglio, mi accorgo di sentire un sibilo nell’orecchio sinistro. Quando alzo gli occhi, Wilkinson ha la testa appoggiata al sedile di fronte a sè, gli occhi sbarrati e arrossati. 

Dalla bocca semiaperta gli cola un filo di sangue. Un foro di proiettile che gli buca il cranio.

Sento l’impulso di vomitare.

Un altro sparo mi riporta alla realtà e mi strappa al panico che mi aveva inghiottita, annebbiandomi i sensi, mentre gli avvenimenti degli ultimi secondi mi crollano addosso tutti insieme. Mi aspetto di esserne schiacciata e di strisciare di nuovo nell’oscurità di un altro stato di shock, ma non è quello che succede.

Adrenalina.

L’uomo seduto al posto del passeggero sta rispondendo al fuoco, allungandosi oltre il sedile per sparare alle sue spalle. Mi volto e guardo a quale obiettivo stia mirando. Un uomo si sporge dal finestrino dell’auto dietro di noi. Impugna una pistola. 

Un’idea mi balza per la testa e raccolgo tutto il coraggio infusomi dall’adrenalina per metterla in atto. Mi abbasso e allungo una mano verso il corpo morto di Wilkinson. Tasto il petto alla ricerca della pistola. Credo di riuscire a toccarne il calcio. La sfilo dalla custodia e in quel momento vedo qualcosa sporgere dalla tasca interna della giacca: è il porta documenti. Lo prendo delicatamente, quasi come se lui stesse sonnecchiando e si potesse svegliare al minimo tocco.

Butto il piccolo portafoglio nella borsa, lascio cadere ai miei piedi le foto che mi accorgo di tenere ancora strette nell’altra mano, e impugno la pistola. L’uomo che sta sparando non se ne accorge nemmeno, troppo occupato a cercare di colpire l’auto che ci sta inseguendo. Non riesco a non pensare che sono tutti un po’ troppo stupidi per poter essere nell’MI5.

Prima che io riesca a pensare a un modo per uscire di qui, una pallottola colpisce l’uomo al posto del passeggero. Cerco di non guardare troppo a lungo il sangue schizzato sul finestrino e il parabrezza. Il cadavere si accascia contro il sedile in un abbraccio macabro. 

Un altro sparo. La corsa non è ancora finita. Stavolta hanno colpito una gomma, l’autista rallenta imprecando. Procediamo con una sobbalzante andatura a zig zag.

L’auto dietro di noi invade l’altra corsia come per sorpassarci, ma quando si trova accanto al nostro suv, mantiene la stessa velocità, procedendo accanto a noi. Accanto al mio finestrino c’è quello del sedile posteriore sinistro dell’altra auto. Il vetro si abbassa, e un ragazzo moro, poco più che ventenne, probabilmente asiatico, si sporge sorridendomi e mi accenna con la mano un saluto militare, poi picchietta con le nocche sul mio finestrino.

«Ehi, come va?» chiede.

Io lo fisso sconvolta.

Sento qualcuno nell’altra auto urlare, e il ragazzo moro in tutta risposta sbotta un “ma e vaffanculo!”, dopodichè si volta di nuovo verso di me e bussa di nuovo sul mio finestrino.

«Apri!» esclama.

Resto interdetta per un istante, poi l’auto accanto rallenta in modo che accanto a me ci sia il posto del passeggero. Guardo all’interno dell’abitacolo ma non faccio neanche caso alla persona seduta accanto al guidatore, perchè al volante c’è il mio agente segreto. 

 

 

 

 

 

 

 

 

SBABAM, PICCOLI LEOPARDI NEBULOSI, CAPITOLO 5!

E HA FATTO LA SUA COMPARSA il povero cal, il “a prima vista direi probabilmente asiatico”. a difesa di ali diciamo che il tratto fondamentale che distingue hood da un qualsiasi ragazzo moro sono gli occhi a mandorla, ed era impossibile che, vedendolo per la prima volta, non facesse ipotesi sulle sue origini ahahaha

ebbene sì, è tornato in scena anche il nostro ashton che omg è nell’mi5? così dice wilkinson ma boh, chi lo sa! purtroppo non so bene quando aggiornerò perchè il prossimo capitolo non l’ho ancora finito e siamo pieni di compiti (di già) e boh

anyway, ho tagliato i capelli e li ho tinti di viola e sono molto soddisfatta.

non vi interessa, lo so, lo so.

la settimana scorsa indiana jones (il mio gatto) si è tolto la fasciatura all’ex zampa rotta 

non vi interessa, lo so, lo so.

E’ INIZIATA LA SCUOLA, PIANGO. LA ODIO.

tutti i prof sono tipo “si perchè dovete studiare almeno 21 ore al giorno altrimenti poi la terza prova l’anno prossimo...”

MA BASTA BASTA BASTA BASTA BASTA FATEMI VIVERE LA QUARTA IN FELICITA’ AIUTO

comunque sono molto felice perchè sto parlando con un ragazzo che è una delle persone più simpatiche che conosca e sto cercando di combinarci qualcosa, pregate per me che per una volta qualcosa mi vada bene ahahaha

e voi, quattro amici gatti che leggete, come state? btw, vi ringrazio per aver letto :)

 

 

-lola

 

 

 

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Capitolo 6
*** Chapter 6 ***


 

 


(6)

 

 

 

Apro il finestrino, e il ragazzo moro allunga le braccia verso di me. Vuole davvero che io passi da un auto in corsa ad un’altra?

Un altro sparo, l’uomo davanti a me scivola leggermente di lato, probabilmente anche lui con una pallottola in testa. Per fortuna il piede dev’essere ancora premuto contro l’acceleratore, ma senza autista dubito che il suv procederà ancora a lungo senza schiantarsi.

Infilo la pistola nella borsa e me la assicuro ben stretta sistemandola a tracolla. Non potendo fare altro, accetto l’offerta del ragazzo nell’altra auto, così appoggio le mani sulla portiera per sollevarmi, mi sporgo dal finestrino con la testa e mi infilo nella macchina che continua a procedere a velocità pari a quella del suv. Sposto le mani per aggrapparmi a qualsiasi cosa mi capiti a tiro all’interno dell’altra auto e qualcuno, probabilmente il ragazzo moro, mi afferra per le spalle, trascinandomi dentro l’abitacolo. Con un ultimo sforzo mi giro e riesco a tirare fuori le gambe dal suv, così mi trovo semi distesa con la schiena appoggiata al ragazzo accanto a me e le gambe piegate, ancora con i piedi fuori dal finestrino.

«Tutto bene?» 

Riconosco la voce del ragazzo con i capelli ricci, e mi volto verso di lui. Lo osservo senza dire nulla, mentre tiene le mani strette sul volante e gli occhi incollati alla strada. Non sentendo una mia risposta, si volta verso di me e mi squadra velocemente. 

«Sei ferita?» chiede di nuovo.

Scuoto la testa.

Lui si volta di nuovo verso la strada. Mi accorgo di avere i piedi ancora a penzoloni fuori dal finestrino, così li tiro dentro la vettura e mi abbandono contro il sedile, chiudendo un attimo gli occhi. Appoggio la borsa in grembo.

«Allacciati la cintura, non vorrai farci prendere una multa.»

Guardo il ragazzo asiatico che sorride sornione, e improvvisamente alzare le sopracciglia mi sembra un gesto terribilmente faticoso. Lo guardo di traverso.

«Stai scherzando?» 

Lui fa una smorfia e si allontana di poco, si siede in modo più composto e si allaccia la cintura. Per qualche secondo regna il silenzio. Osservo il ragazzo accanto a me, poi il riccio alla guida. 

Della persona seduta davanti a me riesco a vedere ben poco. Credo che sia l’uomo che prima sparava contro Wilkinson e i suoi.

Abbiamo ormai superato il suv e svoltiamo su una strada secondaria, dopo pochi secondi si sente il botto di due auto che si scontrano. Clacson, allarmi che scattano, grida. Non ci fermiamo.

Sposto di nuovo lo sguardo su chi pare mi abbia salvato la vita ben due volte in due giorni. Come può guidare, così, senza dire nulla? Come può essere così tranquillo?

«Me lo vuoi dire chi cazzo sei?» urlo, tirandogli un pugno sulla spalla. Non si scompone.

«Fammi scendere!» grido di nuovo, ma nessuno sembra darmi retta. Infilo la mano nella borsa e tiro fuori la pistola puntandola contro il ragazzo accanto a me, che sgrana gli occhi, e prima che io riesca a formulare una minaccia -che non avrei mai portato a termine perchè dubito potrei mai uccidere qualcuno-  mi strappa l’arma dalle mani con una mossa fulminea che mi lascia a bocca aperta. Lui svuota il caricatore e una manciata di proiettili cade sul tappetino ai suoi piedi. Poi mi guarda e accenna un sorriso, alza una spalla e inclina leggermente la testa di lato, con l’espressione di chi sa di aver fatto qualcosa di straordinario stampata in faccia. Quando io ancora lo sto fissando sconvolta, si volta verso il guidatore e tamburella con le dita sulla sua spalla.

«Credo che la signorina abbia detto che vuole scendere.»

Il ragazzo riccio non dice niente, ma svolta a destra su una strada che non conosco e poco dopo ci fermiamo. Guardo fuori dal finestrino per accorgermi che siamo in un parcheggio, non molto affollato. Dall’altro lato della strada una piccola chiesa grigia si staglia in un cortile con l’erba appena tagliata. Osservando più attentamente, noto la punta di alcune lapidi sbucare dal muretto che circonda quello che dev’essere un piccolo cimitero. Mi volto di nuovo verso di lui, improvvisamente preoccupata che possa essere già sparito. Invece è ancora seduto lì, girato verso di me, che mi guarda negli occhi. Con mia grande sorpresa, prima che io possa iniziare a insultarlo e a urlargli che voglio delle spiegazioni, lui inizia a parlare.

«Mi dispiace che tu sia stata coinvolta in tutto questo, davvero.» fa una pausa, come per assicurarsi che io abbia sentito «Vorrei non doverlo fare, ma devo chiederti un favore.»

Scoppio in una risatina sarcastica e nervosa. Appoggio la mano sulla guancia e inarco le sopracciglia, continuando a guardarlo dritto negli occhi.

«Certo, come no.» rispondo ironica.

Lancia un’occhiata veloce all’orologio che porta al polso. Un orologio da vecchio, di quelli con il cinturino in pelle e il quadrante bianco senza numeri.

«Abbiamo meno di tre minuti, vediamo di sbrigarci. Devi dirmi tutto quello che è successo, mentre eri in macchina con quegli uomini.»

Sto per ribattere, ma mi fa cenno con la mano di aspettare.

«So che non lo vuoi fare, e non ti biasimo, ma in cambio io ti darò delle risposte. Magari non tutte, dato il tempo che abbiamo. Prima che scada ho bisogno che tu mi dica tutto quello che sai, è fondamentale. Poi io ti dirò quello che potrò, ma sappi che tra poco ti interrogheranno. Ti chiederanno che cosa sai e dovrai mentire, dire che non mi conosci e fingere che questa conversazione non sia mai avvenuta.»

Mi mordo le labbra e faccio appello alla mia capacità di parlare molto velocemente, per raccontargli tutto il più in fretta possibile e avere più tempo per le mie risposte. Faccio più attenzione del solito nello scandire le parole.

«Stavo camminando, mi si è avvicinata l’auto ed è sceso un uomo, si è presentato come agente dell’MI5 Robert Wilkinson. E’ il primo uomo a cui avete sparato. Questo è suo... » prendo il tesserino di 007 dalla borsa e lo lancio al ragazzo che mi guarda sorpeso. Lo prende al volo e lo passa all’uomo seduto accanto a lui, che inizia ad osservare il tesserino.

«...e anche quella.» continuo, indicando la pistola che ormai giace sul sedile accanto al ragazzo moro, scarica.

«Mi hanno chiesto se ti conosco, cosa so su di te. Mi hanno mostrato delle foto che ci hanno scattato ieri mentre eravamo insieme, credevano fossi la tua ragazza o qualcosa del genere. Ho risposto che ti avevo visto ieri per la prima volta e loro hanno insistito, in quel momento ho notato gli sportelli bloccati e ho capito che qualcosa non andava. Ho spruzzato del deodorante in faccia a Wilkinson e poi siete arrivati voi e babam.» schiocco le dita. Soffoco una piccola delusione infantile: non hanno fatto molto rumore. Non sono mai stata brava nello schioccare le dita.

«Ah, e mi hanno detto che sei indagato per tradimento e che hai fatto delle cose orribili.» alzo le spalle «Non so altro. Tocca a te.»

«Chiedi.» risponde semplicemente.

Resto un momento interdetta, con le labbra leggermente socchiuse, cercando di sfilare la prima domanda da porre dalla matassa aggrovigliata di pensieri che ho in testa.

«Chi sei?» 

«Mi chiamo Ashton.»

Istintivamente sollevo di poco il polso, pronta ad allungare la mano per stringere la sua e presentarmi, ma mi blocco. Accavallo le gambe e nascondo la mano infilandola tra le ginocchia. Il nome non basta a soddisfare la mia curiosità. Vorrei avere più tempo, sapere tutto, vorrei che mi spiegasse che diavolo è successo negli ultimi due giorni. Sono impaziente, così quando la domanda seguente lascia le mie labbra se ne tira dietro altre quattro.

«Chi erano quegli uomini? Avevano a che fare con quelli che mi hanno rapita? E loro chi erano? Sei davvero un traditore o lavori per l’intelligence?» sto per continuare l’elenco di domande, la prossima nella mia lista è: “perchè ti sei preso il disturbo di salvarmi, due volte?”, ma Ashton mi interrompe. 

E’ strano avere finalmente un nome da abbinare al suo volto. Devo ammettere che era stato impossibile non fare delle ipotesi su di lui, qualche filmino mentale degno di essere scritturato per una nuova pellicola di Spielberg, ma Ashton è l’ultimo nome a cui avrei mai pensato. E’ un accostamento che adesso mi sembra quasi stonato, come quando ho sentito per la prima volta la voce doppiata di Daniel Craig: non gli si addice. Il ragazzo che mi sta guardando ha un’aria così da duro, mentre il suono del suo nome è quasi ridente.

«Non sono un traditore. Lavoro per l’MI6. E tra poco più di un minuto ci sarà l’MI5, quella vera, a interrogarci tutti. Vorrei spiegarti chi erano quegli uomini, ma è troppo complicato e tecnicamente non ne potrei parlare perchè è materiale di sicurezza nazionale. Sappi solo che sono legati al nostro impiego» nella mia mente l’ultima parola viene sostituita da missione segreta «attuale in qualità di agenti operativi.»

Lui dà un’altra occhiata al suo orologio. Qualche ciocca di capelli ondeggia mentre muove la testa.

«Non abbiamo molto tempo.» esordisce, lanciandomi un’ultima occhiata.

«Tutto qui?»

«Per ora.» 

Si volta verso l’uomo accanto a lui, liquidando ogni mia possibile altra domanda. Mugugno un’imprecazione a bassa voce, decisamente insoddisfatta.

«E’ un falso, ovviamente, anche se ammetto che potrebbe sembrare realistico» l’uomo si volta verso di me e finalmente lo vedo in faccia. Ha gli occhi azzurri, una leggera barba e i capelli castani sono un po’ scompigliati verso l’alto in modo piuttosto giovanile, anche se dimostra più di trent’anni. Potrebbe essere un ottimo candidato ai provini per il nuovo 007: è affascinante. Bellissimo.

«Come sai che non dirà nulla?» chiede il futuro Bond ad Ashton. Lui mi guarda.

«Non lo farò. Sei stato un grandissimo stronzo, ma mi hai salvato la vita. Due volte. Credo di dovertelo.» ho sempre avuto questo bisogno di restituire i favori. Mi sembra che l’ombra di un sorriso attraversi velocemente il viso di Ashton, ma è un movimento così impercettibile che non so dire se l’ho visto davvero o se l’ho immaginato.

Dal nulla mi illumino.

«Mi hanno anche chiesto se avrei saputo riconoscere gli uomini che mi hanno rapita!» esclamo.

«Tu cos’hai risposto?» chiede Ashton.

«Di no.»

«Se avessi detto di sì ti avrebbero uccisa.» si intromette l’asiatico «Probabilmente, nel dubbio che mentissi, ti avrebbero uccisa comunque.»

Il tono arrogante mi fa venire voglia di ribattere a tono, ma prima che qualcuno possa rispondergli, due suv neri fanno ingresso nel parcheggio. Tutti e quattro osserviamo le auto, io trattenendo il respiro. 

Ashton è l’unico a rompere il silenzio che era calato improvvisamente.

«Non ti abbiamo detto nulla. Sei venuta con noi perchè era la tua unica chance di sopravvivere.» annuisco, anche se non mi sta guardando. 

Poi si volta verso di me e aggiunge: «Probabilmente mentiranno per non raccontare verità troppo scomode. Non credere ad ogni cosa.» 

Le macchine si fermano vicino a noi, una alla destra e una alla sinistra. Mi aspetto che scendano con in mano un documento autentico che testimonia la loro appartenenza ai servizi segreti e che si diano una pacca sulla spalla con i loro misteriosi colleghi, ma succede tutt’altro: da ciascuna macchina salta fuori un uomo armato. Puntano prontamente la pistola contro Mr Fascino davanti a me, Ashton e il moro, che subito alzano le mani sopra la testa. 

Perchè lo stanno facendo?

Sembra che nessuno noti la mia presenza. Cerco lo sguardo di Ashton, ma anche lui mi ignora. Sono terribilmente confusa. Nell’intelligence britannica ci si punta le pistole contro tra colleghi? 

Noi non ti abbiamo detto nulla.

Se non mi avessero detto nulla, non saprei che sono dell’MI6. Non saprei che questi uomini fanno parte dei buoni -sempre che lo siano davvero; avrei paura. Subito sollevo anche io le braccia.

«Che diavolo?» sussurro.

Gli uomini con le pistole aprono lentamente le tre portiere, ma nessuno si avvicina alla mia.

«Tenete le mani bene in vista. Uscite lentamente!» urla quello alla mia destra, allontanandosi abbastanza da poter permettere ad Ashton di scendere. Poi è il turno degli altri due.

«Mani dietro la testa. Voltatevi.» 

Credo che li stiano ammanettando. Li scortano bruscamente a una delle auto e li spingono dentro. Sbattono le portiere e uno degli uomini armati sale con loro, poi se ne vanno. Resto lì impalata e confusa con le mani ancora sollevate, finchè l’uomo rimasto non apre anche la mia portiera. Appoggia un braccio sul tetto dell’auto e si abbassa per guardare dentro. Cerco di mascherare lo sguardo seccato mentre osservo l’uomo che mi si para davanti: sono stanca di armadi tirati a lucido con la cravatta che non si abbina al vestito, occhiali a specchio e quel cavetto arricciato di plastica che pende dall’orecchio. Ci osserviamo, lui si sfila gli occhiali e fissa le mie mani alzate. Credo che abbia riposto la pistola.

«Tutto bene?» 

Annuisco poco convinta.

«Lei chi è?»

«Thomas Murray, Military Intelligence.» 

Mi porge una mano, invitandomi ad uscire. Accetto timidamente l’aiuto per non sembrare maleducata e penso che forse la cosa migliore sarebbe interpretare il ruolo della donzella in difficoltà, anche se la cosa non mi va molto a genio. 

«Dovrebbe seguirci al quartier generale e raccontarci quello che è successo.»

 

 

 

 

AAA Cercasi Spie donne. L’intelligence britannica in cerca di 007 in gonnella per MI5, MI6 e GCHQ

 

CHE DITE, VADO A FARE LA SPIA? cioè sarei gasatissima all’idea ma non so nuotare, non so combattere, non so arrampicarmi, non so correre veloce, non so correre abbastanza velocemente per tempi prolungati e non ho riflessi in pratica.

:c

Che tristezza, non pensiamoci. 

Scusate il ritardo :c se non fosse stato che ho l’infuenza e quindi domani sto a casa (yeah) non so quando avrei postato questo capitolo.

Siamo al sesto capitolo. S E S T O. 

Ce ne saranno tipo 43893794203948 ahahah no okay non so quanti ma vi avviso che siamo solo all’inizio in pratica perciò PREPARATEVI PSICOLOGICAMENTE.

E credo che i capitoli finiranno per chiamarsi solo chapter 7, 8, 9 ecc perchè non riesco a trovare titoli decenti (nemmeno il titolo della storia mi convince quindi se avete idee creative e originali per cambiarlo ditemi pure vi prego ahaha)

Volevo anche condividere lo sclero per il taglio di capelli di Ashton e, visto che mi pare di capire che anche voi seguiate programmi polizieschi in generale, per la nuova stagione di the mentalist che ho registrato e devo ancora vedere (attendendo l’undicesima di criminal minds ♥)

Sto anche resistendo a non ascoltare le nuove canzoni perchè di solito voglio sempre aspettare di avere il cd in mano ma è dura..........

Sapete che una mia prof è alta tipo un metro e quaranta? Penserete che io abbia usato un’iperbole (minchia, faccio l’acculturata), ma non è così... E’ proprio un hobbit, un umpa lumpa, o, se preferite, dobby l’elfo libero. Oggi è arrivata in classe trascinando una specie di trolley e l’asta per cui lo trascinava era alta poco meno di lei.

Passando a voiiii, come state? Volevo ringraziare le persone che seguono questa storia e chi si prende anche il disturbo di recensire: vi adoro. Grazie davvero, sono felicissima che la storia vi piaccia e boh ♥♥♥

buona settimanaaaa 

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Capitolo 7
*** Chapter 7 ***


 

 

 



 

(7)

 

 

 

Mescolo distrattamente la tazza di tè. 

Ha un odore strano. Non ho nessuna voglia di berlo, sto solo temporeggiando nell’attesa che Thomas Murray se ne vada e mi lasci da sola, così potrò rovesciare il contenuto della mia tazza nel vaso della pianta grassa al centro del piccolo tavolino davanti a me. Mi sembra di essere in questa stanza da giorni, ma secondo l’orologio appeso al muro sono passate solo tre ore e mezza. Dopo la prima mezz’ora da sola a guardarmi intorno e a studiare l’arredamento di scarso gusto di quella che potrebbe assomigliare a una sala d’attesa, con i muri dipinti di un bianco sbiadito dal tempo, due poltroncine di pelle nera ormai logore e un divanetto da due posti che circondano i lati di un tavolino di plastica ricoperto da un foglio di carta adesiva con disegnate delle venature che dovrebbero farlo sembrare di legno, Thomas era arrivato portando da bere per tutti e due. Aveva preso due semplici bicchieri d’acqua, ma siccome nell’ultima ora avevo iniziato a sentire un po’ di freddo, gli avevo chiesto se potevo avere qualcosa di caldo da bere. Così lui aveva nuovamente lasciato la stanza ed era tornato con la tazza fumante, che stringo ormai fredda tra le dita, e un biscotto -riciclato- incartato in un involucro rosso su cui era stampato il nome dorato di un bar.

Il biscotto l’ho mangiato volentieri: non mi sono accorta di aver fame finchè dopo aver mandato giù l’ultimo boccone non mi sono resa conto di non essere sazia, anzi. Il mio stomaco reclama cibo. 

Ma questo tè... è davvero terribile. Ha comunque svolto parzialmente il suo compito, riscaldandomi le mani. I miei piedi però sono ancora gelati.

Mi abbandono contro lo schienale della poltrona e accavallo le gambe. I miei occhi seguono il percorso della lancetta dei secondi dell’orologio sopra la testa di Thomas. Mi chiedo se dovrà continuare a lungo con le sue domande.

Gli lancio un’occhiata. E’ proteso in avanti, gli avambracci appoggiati alle ginocchia. Mi sta guardando. 

Sollevo le spalle.

«C’è altro?» chiedo, stanca di aver ripetuto almeno una dozzina volte la stessa storia: degli uomini si erano finti dell’MI5, mi avevano fatto salire sull’auto con un pretesto e credo volessero rapirmi, poi degli altri uomini che non conosco hanno sparato alla nostra auto, salvandomi, non so perchè. Ho chiesto loro di portarmi alla polizia, e invece si sono fermati in quel parcheggio e mi hanno chiesto se fossi ferita, e subito sono arrivati i veri agenti. Fine della storia. Non mi ha fatto domande su quello che è successo ieri, sul primo rapimento, e io non ne ho parlato, immagino che non ne sappiano nulla. Thomas non ha neanche risposto alle mie, di domande.

«Mi dia qualche minuto»

Si alza e lascia la stanza senza voltarsi a guardarmi. La porta si chiude con un cigolio troppo rapido per sembrare sinistro. Finalmente sola.

«Scusami» sussurro alla pianta mentre mi libero del tè «spero che tu non muoia»

Appoggio la tazza vuota sul tavolino e mi avvicino alla finestra, attirata dai colori del tramonto. Mi appoggio al vetro freddo e accarezzo con le dita le dolci sfumature di lilla, arancione e rosa. Non posso vedere altro oltre a una striscia di cielo a causa degli edifici che nascondono buona parte del paesaggio. 

Sento un paio di colpi leggeri contro la porta che mi distraggono dai miei pensieri. Mi volto senza sapere se sono solo stupita del fatto che Thomas bussi prima di entrare o anche un po’ seccata per aver interrotto la contemplazione di un cielo così bello. 

«Avan-» mi blocco, stupita «ma cosa..?»

Un pezzo di carta strappato e mal ripiegato a metà giace a terra davanti alla porta. 

«Sul serio?»

Sollevo le sopracciglia e mi lancio un’occhiata intorno, aspettandomi per un secondo che qualcuno salti fuori e risponda davvero alla mia domanda. Siccome nessuno si fa vivo mi avvicino e apro la porta, infilando fuori la testa alla ricerca della persona che ha lasciato il foglietto, ma non c’è nessuno.

Alzo gli occhi al cielo.

«Sì, vabbe’ mi mancava la tuta invisibile.»

Nessun movimento del corridoio alla mia provocazione. Sospiro e mi chino a raccogliere il biglietto, chiudo la porta e torno alla mia postazione alla finestra con le spalle rivolte all’entrata, nel caso in cui qualcuno facesse il suo ingresso e trovasse sospettoso questo pezzetto di carta. Lo apro con poca delicatezza, curiosa di sapere cosa ci sia scritto. Fatico a decifrare il messaggio scarabocchiato in velocità, o almeno così sembra, con una calligrafia piuttosto disordinata.

 

the temple bar

10.00 pm

chiedi di ryan

 

Giro il biglietto per controllare se ci sono altre indicazioni sul retro. Nulla. Guardo l’orologio appeso al muro, che segna le nove e trentasette. Ficco il foglietto nella tasca dei jeans. Il Temple Bar non è molto lontano da qui, potrei arrivarci in dieci minuti a piedi. Mi pizzico leggermente la punta del naso come faccio sempre quando sono intenta a riflettere. 

Non credo che dovrei andarci.

«E’ tutto a posto, può andare.»

Mi volto di scatto. Thomas è arrivato senza che me ne accorgessi e tiene la porta aperta, invitandomi ad uscire. Sorride leggermente, ma è un sorriso tirato, impaziente.

Annuisco decisa a non fargli perdere altro tempo, ma soprattutto ad andarmene di qui il prima possibile. Raccolgo la giacca di pelle che avevo abbandonato sulla poltroncina nonostante la temperatura nella stanza non fosse così alta e mi affretto ad uscire. Aspetto per pura educazione che Thomas chiuda la porta e mi faccia strada, perchè mi ricordo perfettamente il percorso che abbiamo fatto per arrivare qui dall’ascensore. Come previsto lui mi precede a grandi falcate lungo il corridoio, svoltando prima a destra, poi a sinistra due volte. Arriviamo in un atrio abbastanza ampio. 

«Potrò mai sapere chi erano?»

Sono curiosa di sentire la versione ufficiale. Chi è Ashton? E Bond? E Mr. Asiatico Impertinente? Perchè sono stati arrestati? Sono stati arrestati per davvero, quantomeno?

Thomas mi osserva. Preme il pulsante per chiamare l’ascensore.

«Chi?»

Oh, andiamo, non vorrai fare il finto tonto con me.

«Tutti» alzo le spalle.

Scuote la testa.

«Mi dispiace signorina, ma è materiale di sicurezza nazionale»

Ovviamente. Sposto il peso da un piede all’altro, cercando un modo per scucirgli qualche informazione.

«Capisco. Però... vorrei ringraziare gli uomini che mi hanno salvato la vita» azzardo.

«Mi dispiace, ma non le è permesso»

Ovviamente, il sequel.

«Potrebbe... ringraziarli lei da parte mia?»

«Certamente» 

Cerco di mascherare lo stupore: certamente?  

Le porte dell’ascensore si aprono e Murray mi precede all’interno; il bottone tondo contrassegnato da un numero zero piuttosto sbiadito si illumina sotto il tocco delle dita del mio accompagnatore. Mi appoggio alla parete dietro di me e noto che Thomas è un po’ nervoso. Stringe un lembo della giacca tra le dita e si passa l’altra mano sulla fronte, come se si asciugasse del sudore.

«Claustrofobico?»

«Eh?» sobbalza leggermente e si allenta il nodo alla cravatta. Non mi guarda.

«No, si figuri» farfuglia.

Certo, come no.

Un leggero ding annuncia che la corsa è finita e che Thomas può riprendere a respirare regolarmente. Appena le porte si aprono lui schizza fuori e si dirige a quella che potrebbe assomigliare a una reception per ritirare il mio cellulare la mia borsa. Stavolta non credo di dover passare ai metal detector.

Murray mi fa cenno di avvicinarmi e mi porge una penna e un foglio con un elenco di firme. Mi indica uno spazio vuoto accanto all’orario attuale. Scrivo il mio nome un po’ malamente: devo ammettere che, se fossi famosa, il mio autografo sarebbe davvero orribile. 

«Ecco qua» Thomas mi porge i miei effetti personali. 

«Grazie»

Mi butto la borsa in spalla e controllo velocemente che ci sia tutto. Quando alzo lo guardo Murray mi sta guardando e indica con il capo le grandi porte di vetro al di là dei metal detector. Li indico.

«Devo...?» 

«Ah, no, vada pure» accenna un sorriso. Annuisco. 

E’ la tipica situazione di silenzio imbarazzate in cui vorresti andartene via ma temporeggi aspettando il momento opportuno -che non si sa esattamente con che criterio giudichiamo più opportuno di un altro- per andartene, perchè, be’, andartene adesso ti farebbe sentire maleducato. 

Sposto il peso da una gamba all’altra, e decido che è arrivato il secondo perfetto. Sorrido educatamente e porto due dita alla fronte nel saluto un po’ alla “hasta la vista”, giro i tacchi senza aspettare una risposta precisa e mi avvio a grandi falcate verso la libertà. Mi butto contro la porta, che è più pesante del previsto, e fatico un po’ ad aprirla. Una volta fuori vengo accolta dall’aria fresca e un po’ pungente e me ne riempio i polmoni. 

Non andarci.

Scendo la larga scalinata due gradini alla volta.

Torna a casa, Alice.

Sono quasi alla fine della scalinata.

Non andarci. E’ una pessima idea. 

Sì, è davvero una pessima idea. Non appena i miei piedi toccano il marciapiede svolto decisa a destra, diretta verso il Temple Bar.

 

 

«Che cazzo» sbotto alla quinta gomitata che ricevo mentre cerco di farmi strada verso il bancone del bar, che a quell’ora è piuttosto affollato. Tengo stretta la borsa perchè la paura dello shippo è cresciuta dopo l’incidente con il portatile. Sono entrata solo una volta in questo locale prima d’ora, ma è esattamente come me lo ricordavo: dall’aria un po’ rustica, con delle botti di legno usate come tavolini e sottobicchieri da birra appesi alle pareti, poco illuminato dalla luce soffusa. E’ gremito di persone: turisti curiosi di assaggiare la Guinness e gente del posto che si ritrova abitualmente per bere e giocare a carte. L’aria sa di birra e anche un po’ di fumo.

Finalmente riesco a spingere in malo modo una donna un po’ in carne -che mi aveva precedentemente colpita con una gomitata allo stomaco- e ad arrivare al bancone. Ci appoggio un braccio e batto la mano sul ripiano di legno per attirare l’attenzione del barista. 

«Una pinta?» 

Asciuga un boccale appena lavato con uno strofinaccio e lo appoggia vicino agli altri bicchieri.

«Emh, no» devo quasi gridare per farmi sentire.

«...mezza?» chiede, inarcando leggermente le sopracciglia. Fatica a nascondere il disappunto: mezza pinta è da femminuccia.

«No, io sto cercando, emh, Ryan» 

Lui si fa serio improvvisamente, si asciuga le mani sul grembiule e mi fa cenno con la mano di seguirlo. Impreco a bassa voce prima di rituffarmi in mezzo alla folla, lottando per crearmi un varco tra la gente e cercando di non perdere di vista il barista, che sta entrando in una sala accanto. Man mano che mi avvicino all’altra stanza l’ambiente si fa un po’ meno affollato e riesco a procedere con meno difficoltà, fino ad affiancare il ragazzo che -immagino- mi sta portando da Ryan, chiunque lui sia.

La stanza è simile all’altra, un po’ più spaziosa e rumorosa anche se meno affollata. Il barista si avvicina per urlarmi nelle orecchie.

«Laggiù» indica uno dei barili adibiti a tavolini nell’angolo. 

Annuisco, alzandomi sulle punte per vedere chi sia Ryan, ma i capelli stranamente folti di un vecchietto mi coprono la visuale.

«Grazie!» dico, rivolta al barista.

«Di nulla. Fatemi sapere se volete qualcosa»

Si allontana, lasciandomi sola in mezzo alla stanza, principalmente popolata da vecchietti che giocano a carte, qualcuno con l’aria da motociclista punk-rocker in pensione, altri simili in modo inquietante ai folletti irlandesi dei libri per bambini. Nessuno fa caso a me, così mi avvio a passo spedito verso il tavolo mentre la curiosità mi sta letteralmente corrodendo lo stomaco.

Forse è la fame.

Quando vedo la persona seduta al tavolo nell’angolo mi mordo le labbra per mascherare un sorriso. Sta ammirando con attenzione un boccale di birra ancora pieno. Mi siedo di fronte a lui e mi appoggio la borsa in grembo.

Alza lo sguardo.

«Ryan, eh?» 

Le sue labbra si curvano leggermente in un sorriso sghembo. Scrolla le spalle.

«Qualche volta»

Appoggio le braccia sul tavolo. Ci studiamo a vicenda, in silenzio, e sembra che nessuno dei due voglia essere il primo a distogliere lo sguardo. O a parlare.

«Pareva che l’MI5 ti avesse arrestato, Ashton» è la prima volta che pronuncio il suo nome ad alta voce e fa un effetto strano.

«Ho detto di non credere a tutto»

«Ho detto pareva. Mica ci ho creduto»

«Ah no?»

«No. Il tipo che mi ha interrogata non ha parlato affatto male di voi, acconsentendo addirittura di ringraziarvi da parte mia, per avermi salvato la vita, senza pensarci un secondo. Se foste stati arrestati significherebbe che avreste fatto qualcosa di male, e che lui avrebbe avuto delle riserve su di voi... Ma non è stato così, quindi ho immaginato che fosse stata una messa in scena quella dell’arresto» spiego.

«Perspicace» sorride.

«Ma a che scopo tutta questa farsa?»

«Non dovresti sapere che lavoro faccio, ne va della mia copertura, e accoglierci tutti come... colleghi...» fa una pausa, valutando che cosa dire «saresti venuta a conoscenza dell’identità di tre agenti operativi. Avresti potuto anche spiattellarlo su internet. Non si sa mai»

«Prevenire è meglio che curare»

«Esatto»

«Quello che mi stai dicendo non sarebbe qualcosa come... tradimento?»

Abbassa lo sguardo per un secondo alla pinta di birra. Quando punta di nuovo gli occhi nei miei ha un’espressione amareggiata e la mascella contratta.

«Non posso tradire nessuno» ribatte in tono acido. Corrugo la fronte e mi piego leggermente in avanti verso di lui.

«Che vuoi dire?»

«E’ complicato»

«Spiegami»

«Ti ho detto che è complicato»

«Nel 99,9% dei casi questa è solo una banalissima scusa. Potresti fare di meglio, Bond»

Sospira pesantemente e si lascia ricadere sullo schienale dello sgabello, il suo sguardo vaga tra gli altri clienti del Temple Bar. Speravo che chiamarlo Bond lo facesse storcere il naso, o sorridere, o che gli causasse una qualsiasi reazione.

Restiamo in silenzio per un po’, evitando l’una lo sguardo dell’altro.

«Perchè mi hai chiesto di venire qui, se non hai intenzione di spiegarmi nulla?» sbotto.

«Sinceramente? Non lo so»

«Fantastico» ribatto ironica. 

La mia pancia si contorce di nuovo e spero che il chiasso abbia attutito il rumore gutturale del mio stomaco. Tamburello con le dita sul tavolo, pensando a che cosa fare.

«Io vado a mangiare qualcosa, sto morendo di fame» annuncio, alzandomi in piedi.

Lui mi guarda stupito. 

«Puoi...ordinare qualcosa da mangiare anche qui» pronuncia questa frase così piano che faccio fatica a sentirlo nella confusione del bar.

«Intendo cibo vero, tipo, non so, della pizza» azzardo «lontano dalle sfide a carte di questi vecchietti» indico con il pollice dietro le mie spalle.

Lui si limita ad annuire, dopodichè restiamo entrambi in silenzio. Io guardo lui, lui si guarda la punta delle scarpe. 

«Andiamo?» chiedo.

Lui solleva la testa di scatto. Mi fissa, un po’ stupito.

«Come?»

«Ti ho chiesto se vuoi venire con me. Pensavi davvero che ti saresti liberato di me così facilmente?»

Fa per dire qualcosa, però poi scuote leggermente la testa e si limita a sorridere. Scende dallo sgabello, prende la giacca e se la infila.

«Quella?» chiedo, indicando la pinta ancora colma sul tavolo. Lui scrolla le spalle.

«Non mi piace la birra»

Be’, ha senso ordinare una pinta di birra se non ti piace la birra.

 

 

 

 

 

MA CIAO

(scusate il ritardo mostruoso ma vi avviso che prossimamente dubito di riuscire ad aggiornare più di due volte al mese causa scuola -piango)

Prima che mi prendiate per pazza: la storia è ambientata più o meno a luglio inoltrato e in quel periodo in irlanda fa buio per le dieci mi sembra

Che poi voi non avete idea di quante ricerche ho fatto sui servizi segreti e annessi e connessi, ho pure trovato un prototipo di distintivo da agente segreto ahahah 

Però ci sono cose che ancora mi sfuggono e che dovrò inventarmi di sana pianta quindi non prendete tutte le informazioni che scrivo per vere perchè molte lo sono, ma alcune non sono state confermate o me le sono inventate.

MA COMUNQUE

Non sapete quanto lotto con me stessa negli spazi autrice per non iniziare tutte le frasi con “comunque” “che poi” “boh, comuque” “in realtà” “che poi, in realtà” ed evitare i “ma/no vabbe’” “no/ma okay” 

.....COMUNQUE

Oggi mi sono fatta interrogare su Machiavelli e sono piuttosto soddisfatta di com’è andata (alleluia) 

Voi come state/come va a scuola? :)

Cambiando di nuovo discorso: vi prego, leggete Royalty di @cucchiaia (aka extraordinharry -mi pare- su efp) su wattpad PERCHE’ E’ TROPPO BELLA AHAHAHA no sul serio fa straridere

Poi volevo chiedervi se avete qualche fanfiction da consigliarmi (qui o anche su wattpad), o anche libri o film (nella speranza di avere tempo per leggere/guardare la tv) possibilmente non cose drammatiche perchè poi mi deprimo e ci manca anche questa

Quindi plis consigliatemi qualcosa c:

vi salutooo e buonanotte a tutte e grazie a tutti quelli che leggono/recensiscono/preferiscono/seguono la storia, vi adoro ♥

 

 

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Capitolo 8
*** Chapter 8 ***


 

 

 

(8)

 

 

 


Ashton ha pagato prima o se ne va in pieno stile 007 lasciando il conto da saldare? 

Non che la cosa mi interessi davvero, ma la mia mente da scrittrice di gialli che si è pure letta alcuni dei libri di Fleming non può evitare di cercare similarità e differenze con James Bond. Non ce la faccio, è più forte di me.

Camminiamo sul marciapiede, vicini ma non troppo, non abbastanza da sfiorarci, in un silenzio che non mi preoccupo di riempire. Ammiro la città, il cielo, mi gusto una strana sensazione di libertà di cui non saprei spiegare l’origine: non sono appena uscita di prigione, non è l’ultimo giorno di scuola, non sono appena scappata di casa nel cuore della notte. Eppure è così che mi sento. Faccio dei respiri più profondi perché mi sembra quasi che l’aria abbia un profumo diverso.

Ashton è il primo a rompere il silenzio.

«Che te ne pare di quella?» 

Mi volto a guardare dove sta indicando e noto una scritta al neon, rossa, accompagnata da un trancio stilizzato lampeggiante. 

«Perfetta» 

Attraversiamo la strada e entriamo nella piccola pizzeria da asporto. Ci sono solo un paio di persone ma sono già state servite. Chiedo due tranci alla ragazza con il caschetto rosso e il trucco un po’ pesante dall’altro lato del bancone. 

Cerco il taccuino nella borsa e faccio per pagare quando mi accorgo che la ragazza sta infilando dei soldi nel registratore di cassa e subito dopo porge lo scontrino ad Ashton, che ripone il portafoglio nella tasca interna della giacca. 

Quindi lo paga, il conto.

«Emh...Grazie, ma non dovevi» sussurro. Gli porgo comunque una banconota da cinque euro, tentando di restituirglieli. Lui si trattiene dall’alzare gli occhi al cielo.

«Ma per favore» ribatte. Si avvia verso l’uscita della pizzeria, così prendo il piccolo vassoio di cartone con i tranci di pizza e lo seguo. Gli sorrido mentre mi tiene la porta aperta ed esco di nuovo nella frescura irlandese.

«Vuoi sederti?» si guarda intorno, alla ricerca di una panchina o qualcosa del genere.

Scuoto la testa e alzo le spalle.

«Nah, possiamo camminare» propongo. Riprendiamo la stessa andatura di prima, costante, a distanza, mentre io mangio la mia pizza. Gli allungo il vassoio di cartone per invitarlo a condividere la mia cena, ma scuote la testa sussurrando un “no, grazie”.

Dopo un paio di bocconi la curiosità prende il sopravvento.

«Esiste davvero la licenza di uccidere o se l’è inventata Fleming?» chiedo, ancora masticando. 

Sento Ashton ridacchiare e mi volto a guardarlo.

«No, esiste davvero» 

«Quindi tu sei un doppio zero?»

Annuisce e infila le mani in tasca. Dovrei scappare a gambe levate? Avevo sempre cercato di mentire a me stessa dicendo che 007 non è un personaggio poi così affascinante, ma trovarsi faccia a faccia con una spia demolisce fino all’ultimo pezzo questa teoria.

«Perchè prima hai detto che non puoi tradire nessuno?»

«Perché mi hanno sospeso»

«Ah. Perché?» immagino già la risposta. Lui sospira, o forse sbuffa, e dà un calcio a un sassolino sul marciapiede.

«Mi hanno sospeso perché ho rischiato di far saltare la mia copertura, uccidendo gli uomini che avevano cercato di rapirti, parlando con te, salvandoti. Considerano quello che ho fatto irresponsabile, stupido, irrazionale. Mi hanno avvisato che la mia carriera sarebbe potuta essere compromessa da un’altro atto del genere, in pratica mi hanno minacciato di licenziarmi se avessi disobbedito agli ordini»

«E allora perché mi hai aiutata anche oggi?»

«Non potevo semplicemente guardare dall’altra parte. Ho giurato di difendere la nazione, ma non lo farò dimenticandomi di cos’è giusto e cos’è sbagliato. Non tradirò i miei principi per eseguire degli ordini calati dall’alto»

Annuisco, pensierosa. Poi poso il trancio di pizza che stavo mangiando e guardo Ashton in silenzio, in attesa che si volti dalla mia parte.

«Mi piace come la pensi» dico sinceramente. Lui abbozza un sorriso triste e distoglie lo sguardo, riportandolo davanti a sé.

«Comunque credo che tu abbia sbagliato carriera. Non puoi fare la spia e non eseguire gli ordini» 

«Vero. Ma non credo che avrei potuto fare nient’altro senza ritrovarmi ad affrontare qualcuno che mi impartisce degli ordini»

«Puoi salire di grado e prendere tu le decisioni»

«Un giorno lo farò. Ma mi dispiacerà abbandonare il lavoro da operativo»

«Vorresti essere giudice e giustiziere?» chiedo, mordendo l’ultimo pezzo di crosta della pizza.

«Una cosa del genere. Ma non che io mi diverta a uccidere»

Scuoto la testa, contrariata.

«Non intendevo questo. Hai detto che non puoi più tradire nessuno. Quindi puoi spiegarmi che cosa è successo? Chi erano davvero quegli uomini?» azzardo.

«L’ho detto, ma non è proprio vero. Non significa che posso rivelarti i segreti di stato dalla fondazione del Regno Unito ad oggi...» spiega ridacchiando. Ragiono un attimo, cercando dei motivi per convincerlo a rivelarmi dettagli top secret. Ed ecco la lampadina che si accende sopra la mia testa.

«E se per mancanza di informazioni mi dovessi trovare di nuovo in pericolo?»

«Mossa leggermente subdola, la tua»

Ha ragione, fare leva sul suo senso di protezione è una cosa poco carina da parte mia, ma mi sembrava che il fine potesse giustificare il mezzo. Sospiro e preparo un’altra linea per provare a convincerlo.

«Senti, è innegabile che io sia curiosa e interessata a tutto ciò perché è terribilmente intrigante, ma sono anche spaventata da quello che è accaduto negli ultimi giorni, e vorrei capire. Magari potrei anche involontariamente sapere qualcosa» scrollo le spalle.

Non dice nulla e continua a camminare. Potrei sentire il rumore delle rotelline che girano mentre ragiona.

«D’accordo, ma dobbiamo andare in un posto sicuro»

Dentro di me esulto, ma cerco di non darlo troppo a vedere, restando composta e evitando di sorridere troppo.

«L’ultima volta che mi hanno detto una cosa del genere non è finita troppo bene» 

«Non hai tutti i torti. Se hai cambiato idea, puoi tornare a casa»

«Non ho detto questo»

Lui sorride.

Mi accorgo che abbiamo praticamente girato in tondo e che siamo di nuovo nei pressi del Temple Bar quando Ashton tira fuori le chiavi di un’auto e preme il pulsante per aprire le portiere sul telecomando a distanza. Non è la stessa macchona di oggi pomeriggio.

«Niente Aston Martin» dico ironica.

Si avvicina al lato del passeggero e mi apre la porta, aspettando che io salga. Ha fatto un corso di cinque ore su come fare il gentiluomo o cosa mi sono persa? Gli passo accanto sorridente e entro nell’auto, subito dopo richiude lo sportello, fa il giro e sale al posto del guidatore.

«Devi bendarmi?» chiedo, mentre mette in moto. Mi guarda di sottecchi.

«Se vuoi»

Ridacchio e mi allaccio la cintura. 

Sono stati dei giorni davvero assurdi, devo ancora assimilare quello che è successo e forse è proprio per questo che al momento sono più elettrizzata che spaventata. 

 

 

«Vuoi qualcosa da bere? Del tè, caffè..?» chiede Ashton, appoggiando la sua giacca ad un appendiabiti vicino alla porta della stanza d’albergo dove mi ha portata, e dove immagino alloggi già da tempo.

Mi guardo intorno e lo imito, lasciando borsa e giacca accanto all’entrata, che si apre su un piccolo salotto. L’arredamento è molto moderno ma semplice, dai colori scuri contrastati da qualche dettaglio bianco. 

«Vesper Martini agitato non mescolato» rispondo. 

Si ferma, dato che stava andando verso il salottino, e si gira per osservarmi. Un’espressione seccata e un po’ incazzata. Mi mordo la guancia, pensando di aver esagerato, quando mi accorgo che stringe gli occhi, ma poco dopo le sue labbra si curvano in un sorriso che non posso osservare a lungo perchè Ashton si volta di nuovo e riprende a camminare. 

Lo seguo all’interno del salotto. Si siede sul divano di pelle bianca e mi guarda divertito.

«Pensi di smetterla con queste allusioni a James Bond?»

Infilo le mani nelle tasche dei jeans, spostando il peso da un piede all’altro e guardo il soffitto, come a valutare le possibilità. Quando ho preso la mia decisione scrollo le spalle e guardo Ashton dritto negli occhi.

«No»

Mi siedo accanto a lui senza aspettare un suo invito, impaziente di sentire i dettagli della storia. Non mi appoggio allo schienale e invece mi sporgo un po’ verso di lui. 

«Allora, adesso che siamo nel posto sicuro...» inizio, facendogli cenno con la mano di andare avanti.

Probabilmente sembro una bambina che aspetta di sapere il finale di una fiaba.

Lui sospira e si guarda intorno, forse alla ricerca del bandolo della matassa. Non sposto gli occhi da lui per un secondo, in attesa.

«Se non inizi continuerò a parlare di James Bond» lo incito.

«Oh, no! Come posso resistere di fronte a una simile minaccia?» recita fingendosi spaventato. Gli tiro un leggero pugno sulla spalla.

«Vedi, io te lo direi, ma poi dovrei ucciderti» 

«Ashton!» esclamo.

Lui sorride, scuote la testa mormorando “sto facendo una cazzata”. Dopodiché si fa più serio.

«Da mesi ormai mi occupo di un caso. Un altro agente operativo qualche mese fa si era infiltrato come semplice impiegato in una casa farmaceutica sospettata della produzione di un nuovo virus con relativo vaccino. Lui aveva iniziato a raccogliere informazioni e io ero l’agente esterno con cui si doveva incontrare per fornirmi degli aggiornamenti, ma per tutto questo tempo non aveva trovato nulla che potesse provare l’esistenza del virus. Il tempo che l’MI6 ci aveva dato da sprecare» pronuncia l’ultima parola con disprezzo «con questo caso era agli sgoccioli, così decidemmo che avrebbe dovuto esporsi un po’ di più, chiedendo esplicitamente di prendere parte a questo progetto, che ovviamente era spacciato per la ricerca di un semplice vaccino influenzale» fa una pausa e si accarezza il collo.

«Diciamo che non è stata la mossa migliore: devono averlo scoperto. Dovevo incontrarlo, ieri, con urgenza. Mi aveva contattato lui, dicendo di avere nuove informazioni piuttosto rilevanti. Non si è presentato all’appuntamento. Avremmo dovuto trovarci in un bar, ma al suo posto ho visto entrare degli uomini, diciamo i tirapiedi dell’uomo che si occupa di questo progetto farmaceutico, che dovevano aver scoperto luogo e ora dell’appuntamento che avremmo dovuto darci io e l’altro agente. Non si erano accorti che fossi io la persona che stavano cercando, così hanno fatto per andarsene. È stato allora che tu sei saltata su e hai deciso di inseguirli, non ho ben capito perché»

«Pensavo che mi avessero rubato il portatile...» ammetto.

«Ho cercato di fermarti, bloccandoti la strada, ma non ti sei arresa così facilmente»

«Eri tu?» chiedo stupita, ricordandomi dello sconosciuto contro cui avevo sbattuto cercando di uscire di corsa dal bar. Lui annuisce, senza guardarmi, poi riprende a raccontare.

«Così ho deciso di seguirti, a distanza... forse troppa: sono arrivato troppo tardi nel vicolo dove avevano già ucciso l’agente con cui lavoravo.»

«O’breien?» chiedo, ricordando il nome che avevo sentito da dentro il bagagliaio.

Lui fa una smorfia.

«Non era... il suo vero nome. E poi... be’, sai già cosa succede dopo»

Restiamo in silenzio. Non era esattamente la storia che mi aspettavo di sentire, ma questo non significa che non mi abbia incuriosito.

«E ora?» chiedo.

«Ora cosa?»

«Hai detto che ti hanno sospeso... per avermi salvata. Ma ora chi porterà avanti questa “missione”?» mimo le virgolette con le dita.

«C’erano altri due agenti che lavoravano con noi, li hai visti oggi. Loro non sono stati sospesi come me, ma non potranno più lavorare a questo caso»

«Ah. E sai chi lo farà?»

La sua espressione si fa dura. Scatta in piedi e si dirige verso la finestra.

«Nessuno! Non lo farà nessuno!» quasi urla, frustrato «Mancano le basi per continuare! Non abbiamo abbastanza informazioni per sostenere che esista davvero questo virus, e l’MI6 non ha “risorse da sprecare ad inseguire fantasmi”. Nessuno lavorerà al caso, e che Dio ci salvi da questo dannatissimo virus»

Si appoggia alla finestra e cala di nuovo il silenzio.

«Dici che non ci sono prove, ma sei convinto che esista...» sussurro.

«Altrimenti perché uccidere Marcus? Perché quando mi ha contattato mi avrebbe detto di essere ad una svolta? Quel virus esiste» sbotta, tirando un pugno al muro. 

Mi abbandono contro lo schienale del divano, sconvolta. Moriremo tutti per uno stupido virus?

La seconda lampadina della giornata si accende di colpo. Cioè, era lì pronta da un pezzo, aspettava solo il momento giusto per illuminarsi.

«Dicevi che ti hanno sospeso, e questo ti impedisce di indagare per conto dell’MI6...»buttò lì, lasciando la frase in sospeso. Lui annuisce, guardandomi.

«Esatto»

Alzo le spalle, e faccio un leggero sorriso.

«Be’, non vedo perché non potremmo farlo per conto nostro»

 

 

 

 

 

 

 

NO SCUSATE I 5SOS A VERONA E ROMA SCLERO AUGURO A TUTTE (ME COMPRESA) DI RIUSCIRE A PRENDERE I BIGLIETTI

NO SCUSATE IL VIDEO DI HEY EVERYBODY IO RIDO ESULTO E SBAVO BASTA AHAHAH

NO SCUSATE TRA POCO ESCE SPECTRE SONO EMOZIONATA (e hanno anche messo sky cinema 007 e guardo film a manetta)

NO SCUSATE OGGI E’ IL GIORNO IN CUI MARTY MCFLY DOVEVA TORNARE AL FUTURO E IO E MIA MAMMA ANDIAMO AL RITORNO AL FUTURO DAY AL CINEMA

....no scusate ma domani ho verifica di storia dell’arte e vorrei suicidarmi

Vooooi come state? Mi piacerebbe conoscere volti nuovi ahahah vabbe’ tanto non mi caga nessuno (quasi) NOBODY LIKES YOU, EVERYONE LEFT YOU, THEY’RE ALL OUT WITHOUT YOU HAVING FUN perchè i green day a volume sparato ci stanno sempre YEASH

sto abusando del maiuscolo. scusatemi troppo ma sono sclerata perchè ho studiato troppa storia dell’arte in questi giorni, poi il video, l’annuncio delle tappe, tutta la roba che ho già scritto in maiuscolo, capitemi.

Anyway eccovi rivelata una parte della trama, finalmente.

ho appena visto che ho scritto yeash, che non era voluto ma mi piace troppo quindi lo lascio ahahaha

vi abbandono gente :c buona settimana!


ps. un grazie enorme a chi recensisce/segue/preferisce/non so cosa/legge vi adoro grazie grazie grazie grazie!

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Capitolo 9
*** Chapter 9 ***


 

 

 

 

 

(9)

 

 

 

 

«Nostro?» 

Prima ancora che finisca di fare la mia proposta, Ashton si è girato nella mia direzione.

«Nostro» ripeto lentamente, annuendo.

Lui inarca le sopracciglia e mi squadra da testa a piedi. Sta per ribattere qualcosa quando un rumore attira la sua attenzione. Istantaneamente ci voltiamo entrambi verso la porta: qualcuno sta cercando di aprirla dall’esterno. Mi alzo di scatto ma prima che io possa anche solo pensare a che cosa fare Ashton è in piedi davanti a me, rivolto verso la porta, e con un braccio mi fa cenno di stare dietro di lui. Osservo stupita la pistola che stringe nella mano. E quella quando l’ha presa? E dove? Cosa mi sono persa?

Finalmente la porta si apre. Trattengo il respiro.

«E allora io gli dico: ehi amico quello non è uno spazzolino elettrico!» esclama la voce di un ragazzo, prima di entrare. 

Dopo essere entrati tranquillamente e aver chiuso a chiave, le risate che avevano seguito la battuta si interrompono improvvisamente appena il ragazzo asiatico e il perfetto 007 si accorgono della pistola che Ashton gli sta puntando contro e istintivamente indietreggiano di colpo, sbattendo contro la porta, con le mani alzate.

«Ehi amico, che ti prende?» 

Ashton abbassa l’arma, sorpreso, e poi la appoggia sul tavolino. I ragazzi abbassano le mani e i muscoli di tutti si rilassano.

«Scusa, Cal» 

«Ah, tranquillo, un’accoglienza emozionante è sempre piacevole» 

Realizzo di essere ancora dietro ad Ashton quando non riesco a capire chi ha parlato, così mi sposto di lato per vedere meglio. La mia testa fa capolino dietro la sua spalla e noto le facce sorprese dei due ragazzi, che appena mi notano mi osservano sconvolti.

«Ma cos...» inizia Bond, ma l’altro lo interrompe.

«Ehi Ash ma che combini? Credevo che a casa si portasse solo il lavoro, non anche belle ragazze» commenta ironico, avvicinandosi. Segue un momento di imbarazzo in cui ci scrutiamo tutti in silenzio.

«Lei è...» Ashton rompe il silenzio, ma si blocca subito.

«Vuoi dirmi che non sai nemmeno come si chiama?» ride il moro, scuotendo la testa.

«Calum» dice poi, porgendomi la mano. La afferro, abbozzando un sorriso imbarazzato.

«Alice» 

«Bella stretta» commenta, ammiccando. Sfilo la mano dalla sua e le nascondo entrambe nelle tasche posteriori dei pantaloni.

«Grazie»

 «Lui è Louis» aggiunge Calum, indicando alle sue spalle. 

Louis si avvicina per stringermi a sua volta la mano con un gesto veloce, che non si dilunga più del necessario, e poi si rivolge ad Ashton.

«Perchè lei è qui?» 

«Si è trovata in questa merda per caso e l’hanno quasi uccisa per farle delle domande su di me. Il minimo che possiamo fare è proteggerla» il tono di Ashton è a metà tra l’indignato e il rimprovero, tuttavia non dà l’impressione di essere aggressivo.

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. Proteggermi?

«Non credevo di essere qui perchè tu potessi badare a me» mi intrometto, ma nessuno mi ascolta.

«Questo è compito della protezione testimoni» replica Louis. Secco, diretto. Mi ricorda qualcuno, ma non riesco a capire chi.

Vorrei dire che non ho bisogno di essere protetta, vorrei fare la figura della donna forte e indipendente ma, per quanto io sappia cavarmela da sola, non ho mai partecipato a corsi di autodifesa -anche se avrei voluto-, e, mio malgrado, gli avvenimenti degli ultimi giorni dimostrano chiaramente che ho decisamente bisogno di protezione.

«Perchè parlate di me come se non ci fossi?» mi limito a chiedere, incapace dal ribattere altro. Tutti mi ignorano e Louis riprende a parlare, lasciando nuovamente me e Calum fuori dalla discussione. 

«Non è comunque compito dell’MI6 proteggerla, Ashton»

Un campanello risuona nella mia testa quando un cassettino della memoria si apre, rovinando a terra insieme a un mucchio di informazioni che avevo accantonato da tempo. Cho! Cho, il personaggio di The Mentalist. Come ho fatto a non accorgermene? Lui e Louis hanno lo stesso tono di voce piatto, schietto, diretto, capaci di dirti che loro fratello è stato ucciso nello stesso modo in cui racconterebbero di aver appena preso un caffè.

«Al momento non faccio più parte dell’MI6, Louis» 

«Quindi ti dai al babysitting

Prima che Ashton possa ribattere e io richiuda la bocca, che ho spalancato in un riflesso involontario, tiro uno schiaffo a quello che dovrebbe essere Louis. 

«Scusami?» sbotto.

Ci scrutiamo in silenzio, entrambi offesi, io dalle sue parole e lui dal mio gesto. Calum camuffa una risata con qualche colpo di tosse, mentre Ashton cerca di restare serio. Con la coda dell’occhio noto che si sta mordendo le labbra, forse per non sorridere.

«L’educazione ve la insegnano, all’mi stupid?» alzo il mento in segno di sfida verso Louis e incrocio le braccia al petto, mentre gli altri due sembrano continuare a divertirsi.

«Senti Tomlinson» inizia Ashton, attirando l’attenzione di Louis «lo sai che nessuno dà importanza alla faccenda del virus, ergo nessuno crede che lei abbia bisogno di protezione»

A queste parole sulle facce di Calum e Louis si dipinge un’espressione così sconvolta che credo stiano per sentirsi male. Louis sbianca.

«Come?» chiede. Calum gli fa eco con un debole: “hai detto virus?

Passano un paio di secondi di silenzio, in cui i tre ragazzi si fissano negli occhi a vicenda, poi la pressione accumulata esplode.

«Ashton, cazzo! Le hai raccontato tutto?» urla Calum.

«Sono delle fottutissime informazioni riservate!» ringhia Louis, colpendo con un pugno lo schienale del divano.

«Ma l’intelligence britannica rastrella tutti quelli che hanno problemi con la gestione della rabbia?» chiedo accigliata, ricordandomi della scena simile a cui avevo assistito pochi minuti prima. 

Posso sentire la tensione dei ragazzi schiacciarmi fino a togliermi il respiro in questo silenzio agghiacciante. Non mi stupirei se da un momento all’altro iniziassero a prendersi a pugni. 

«Sentite, sediamoci e facciamo le persone civili» dico, mettendomi tra Ashton e gli altri due, sperando di calmare un po’ la situazione. Nessuno si siede. Louis e Calum mi fissano, abbastanza alterati.

«D’accordo, stiamo in piedi allora» scrollo le spalle, poi prendo un respiro profondo «Sentite, ammetto che se non avessi insistito tanto, Ashton non mi avrebbe detto nulla. Ma voi che siete abituati a sapere sempre tutto non potete capire come ci si senta a trovarsi nel bel mezzo di una situazione come questa e non capirci niente» spiego, il più tranquillamente possibile. Cerco una reazione sui volti di Calum e Louis, ma mi sembrano abbastanza impassibili, così decido di aggiungere la stessa “scusa” che avevo rifilato poco prima ad Ashton e che lo aveva convinto a parlarmi «...e, considerando quello che mi è successo, potrei sapere qualcosa di utile a cui posso non aver fatto caso ma di cui forse mi renderei conto conoscendo i fatti»

«Tipo cosa?» sembro aver riscosso l’interesse di Calum, che pare il più tranquillo tra i due.

«Non lo so, siete entrati prima che io avessi il tempo di pensarci. So solo la storia a grandi linee» scuoto le spalle «datemi un po’ di tempo»

Louis sembra rifletterci un attimo.

«D’accordo, la ragazza non ha tutti i torti» ammette infine.

«Alice» lo correggo. Mi osserva, sempre impassibile.

«Alice» ripete.

La situazione sembra più tranquilla. Niente più mascelle serrate, respiri trattenuti e muscoli contratti, la postura e l’espressione di tutti si sono sciolte lentamente.

Batto le mani e le sfrego tra loro con aria teatrale, soddisfatta.

«Bene, esiste un tavolo in questo posto? Ma è qui che lavorate? O ci vivete e basta?» chiedo, impaziente di scoprire qualcosa di più. Non aspetto una risposta e continuo a snocciolare una domanda dietro l’altra.

«Voglio vedere il materiale che avete raccolto fino adesso. Non avete delle foto? Qualche ricerca, mappa, cartine appese alle pareti con dei fili rossi attaccati con delle puntine per collegare luoghi, persone e cose?»

«Ehi, rallenta» mi interrompe Ashton. 

«La pianti di dirmi che devo rallentare? Non è colpa mia se non riesci a starmi dietro» borbotto seccata.

«Niente cartine coi fili rossi. Ti pare che possiamo appendere materiale di sicurezza nazionale così a caso sulle pareti di una stanza d’albergo?» risponde Calum. Faccio spallucce. 

Mi volto verso Ashton, che mi ha sfiorato il gomito per attirare la mia attenzione. Mi fa cenno di seguirlo verso una porta a cui non avevo dato troppo peso, pensando che fosse quella del bagno. La apre, e la prima cosa che mi balza all’occhio è un’ampia finestra che dà sul profilo ormai notturno della città. Resto per qualche frazione di secondo incantata ad ammirare lo sfolgorio delle luci colorate dei palazzi i cui contorni si perdono nell’oscurità del cielo, adesso illuminato da poche deboli stelle. 

L’incanto svanisce quando Ashton preme l’interruttore e il neon del lampadario al centro della stanza si accende con uno sfarfallio. È una cucina modesta, al centro vi è un tavolo piuttosto alto, con un lato addossato alla parete della finestra, attorniato da cinque sgabelli.

Ashton si ferma vicino al frigo per prendere da bere, così io approfitto per accaparrarmi uno dei due posti accanto alla finestra. Mi siedo sullo sgabello e tamburello con le dita sul tavolo in legno chiaro seguendo il ritmo di una melodia inventata, in attesa. Mentre Ashton ancora traffica con i bicchieri di vetro Louis entra nella stanza e prende posto di fronte a me.

Composto, braccia conserte, mi scruta con uno sguardo attento che non tradisce nessuna emozione. Ricambio l’occhiata che presto si fa troppo insistente, così torno a voltarmi verso il panorama notturno, finchè non sento il rumore di qualcosa che viene appoggiato vicino a me sul tavolo e allora mi giro, aspettandomi di trovarmi Ashton accanto. 

Ma al suo posto c’è Calum. Ha appoggiato un portatile sul tavolo e si sta sedendo sullo sgabello accanto a me. Lancio un’occhiata veloce al mio agente segreto che non sembra ancora avere l’intenzione di prendere parte alla piccola riunione improvvisata, e mentirei a me stessa se dicessi che non sono nemmeno un po’ delusa dal fatto che non ci sia lui seduto accanto a me. 

Mi passo una mano tra i capelli, scompigliandoli, come a volermi togliere questo pensiero dalla mente, e tiro una ciocca viola davanti al viso, concentrandomi ad osservarne il colore. Con questa luce è quasi nera, ma si vede comunque che i riflessi sono viola.

«Ci sei?»

Alzo gli occhi di colpo, lasciando la presa sul ciuffo di capelli che mi ricade accanto al viso. Sposto lo sguardo da Louis a Calum, cercando di capire chi dei due è stato a parlare.

«Come?» chiedo.

Calum sorride e deduco che fosse lui ad aver detto quel qualcosa che non avevo sentito.

«Cercavo di richiamare la tua attenzione» ridacchia. Con la coda dell’occhio vedo che Ashton sta appoggiando tre bicchieri sul tavolo, due già riempiti, ma non saprei dire con cosa, e una bottiglia di birra. Mi concentro sul portatile che è già acceso. Le dita del moro scorrono veloci sui tasti. Cerco di guardare che cosa sta facendo, ma il riflesso del neon sullo schermo me lo impedisce. Finalmente il ragazzo sposta il computer in modo che anche io possa vedere, e noto un desktop affollato da file di ogni tipo: in primo piano ci sono diverse foto, volti, principalmente maschili, accompagnati da delle descrizioni scritte, alcune più lunghe di altre; sotto questi dossier mi sembra di distinguere i tratti di una cartina di Dublino, e diverse finestre di Safari di cui non riesco a leggere gli indirizzi. E chissà cos’altro che non riesco a vedere.

Sobbalzo leggermente al rumore inaspettato delle tapparelle che vengono tirate giù, coprendo la vista sulla città. Mi volto leggermente, scorgendo Ashton in piedi alle mie spalle. Appoggia una mano sullo sgabello e con l’altra mi porge un bicchiere, sorridendo.

«Agitato non mescolato» 

Annuisco, ricambiando il sorriso, e prendo il bicchiere tra le mani. Con mia grande soddisfazione, Ashton resta dov’è, e si china leggermente in avanti, tra me e Calum.

Assaggio un sorso del drink. Forte, aspro, un po’ secco. Bevo un altro po’ e poi appoggio il bicchiere sul tavolo, decisa a dedicare la mia completa attenzione a qualsiasi cosa stiano per mostrarmi.

«Ricominciamo da capo» esordisce Ashton, prendendo il controllo del computer. Ingrandisce una foto che era sormontata dalle altre e che non avevo notato. 

«Lui era Marcus» 

«...O’breien?» chiedo. Ashton annuisce in silenzio. Osservo la foto dell’uomo. Capelli biondi pettinati all’indietro e occhi scuri, probabilmente tra i trenta e i quaranta. Vengo scossa da un brivido freddo mentre la mia mente mi riporta in quel vicolo, e mi sembra di rivedere l’uomo conficcare il coltello nell’addome di Marcus. Sento lo stomaco contorcersi e il cuore accelerare e trattengo il respiro. Quell’uomo è davvero morto davanti a me.

La mia reazione dev’essere palese anche agli occhi di Ashton, che mi sfiora leggermente la schiena con il braccio che tiene ancora appoggiato sul mio sgabello. 

Mi mordo le labbra, cercando di scacciare l’immagine di Marcus mentre si accascia a terra e provando a tranquillizzarmi.

Forse Ashton ha solo spostato la mano e mi ha toccata per sbaglio. Non lo so.

«O’breien era il nome che aveva usato per entrare nell’Antek sotto copertura. Lugh O’breien» spiega. 

«Antek?» ripeto.

«La casa farmaceutica» spiega Calum.

Ah, giusto.

«Quindi si era infiltrato perchè sospettavate che stessero producendo un virus?» mi accerto, attenta a non indugiare troppo a lungo con lo sguardo sulla foto di Marcus/Lugh «e come facevate a saperlo?»

«Grandi investimenti ingiustificati. Ordini di attrezzature adatte alla sperimentazione. Conti che non tornavano» Ashton scrolla le spalle e apre un altro documento, una specie di tabella infittita di numeri in cui alcune colonne sono state evidenziate. Annuisco, liquidando quell’elenco di cifre sapendo che dovrei dare per presupposto che Ashton abbia ragione e che il virus esista.

«Marcus avrebbe dovuto scoprire qualcosa. È stato scelto perchè era il più adatto. Prima di entrare nell’intelligence si era anche laureato in medicina. Non è stato difficile assicurargli un posto all’interno...» 

«Il capo del dipartimento di ricerca sperimentale» Ashton ingrandisce un’altra foto «Edgar Jenkins. Ovviamente deve essere lui a gestire lo sviluppo del virus; è a lui che Marcus aveva fatto richiesta per poter prendere parte a questo progetto. In pratica inizialmente aveva cercato di raccogliere voci di corridoio mentre si limitava a svolgere incarichi secondari, ma nessuno pareva sapere nulla o voler rivelare qualcosa in proposito. Così, come ti ho detto, una settimana fa ha chiesto a Jenkins di poter prendere parte al nuovo progetto di questo “vaccino” di cui aveva tanto sentito parlare.»

Osservo Ashton, che se ne sta con gli occhi incollati allo schermo mentre continua a raccontare. Forse nota che lo sto guardando, perchè si volta nella mia direzione e mi scruta con i suoi occhi verdi.

«Io e Marcus ci incontravamo ogni dieci giorni circa. Il luogo cambiava sempre, così come l’orario, per non dare troppi sospetti. Sai già perchè abbiamo deciso di affrettare le cose; cinque giorni fa l’hanno abilitato a collaborare alla creazione di questo virus, grazie alla sua straordinaria competenza medica, e due giorni fa mi ha telefonato. Già la chiamata di per sè è stata un campanello d’allarme: di solito non comunicavamo mai in questo modo. Mi ha dato appuntamento a quel bar, dicendomi una frase in codice. Significava che Marcus aveva scoperto qualcosa di grosso, finalmente.»

Aggrotto le sopracciglia, stupita. 

«Mi prendi in giro? Vorresti dirmi che è tutto qua? Che dopo questa telefonata, Marcus è morto, senza lasciarti nulla?» 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ehilà chicas come state? 

Scusatemi se il capitolo non è particolarmente avvincente ma mi serviva presentare un po’ meglio i personaggi :( inoltre comincio a preoccuparmi perchè adesso inizierà la parte più seria in cui dovrò impegnarmi nelle indagini in pratica ahahah spero di mantenere l’aggiornamento ogni due settimane ma non si sa mai

(((oggi avevo deciso di andare a correre..... ma la pigrizia ha avuto la meglio)))

Comunque, qualcuna di voi andrà ai concerti dei nostri amati cinque secondi? Io sarò a quello di verona (e ho i posti in gradinata non numerata quindi sono terrorizzata e non so a che ora andare là e se qualcuna è nella mia stessa situazione o ha consigli da darmi ditemi pure :c  cioè io mi accamperei anche alla mattina, il problema è che sono con tre mie amiche abbastanza incontinenti e se io ho un’autonomia pipì di dodici ore o più loro a malapena superano le quattro ore quindi HELP) 

Poi volevo un momento di sclero silenzioso per sgfg che è s t u p e n d o. Piango ogni volta che ascolto broken home, li odio per averla scritta. O li amo. O li odio. Devo ancora decidere. Se la faranno il 13 la mia anima si suiciderà probabilmente.

Chiudendo l’angolo roba varia e tornando al capitolo: Alice comincia a mostrare dei segni di apprezzamento su Ashton AHAHAH eh vabbe’ come potrebbe essere altrimenti? Che ne pensate di Louis? E di Cal? E Ash? Chi vi sta più simpatico e chi meno? Avete presente chi è Cho? Se siete fan di the mentalist, palesatevi. Io sono ancora all’inizio della settima stagione e mi rifiuto di andare avanti con le puntate registrate perchè so che non ci sarà l’ottava e non voglio finire la serie :c

Vado a studiare letteratura tedesca! (evviva.) btw grazie per aver letto questo capitolo, vi quiero mucho (oggi ce l’ho con lo spagnolo)

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Capitolo 10
*** Chapter 10 ***


 

 

 

 

 

 

(10)

 

 

 

 
 

«Dopo quella telefonata non l’ho più sentito e...» inizia Ashton, ma lo interrompo puntando l’indice contro un punto a caso della cucina.

«Questo non significa che ti abbia lasciato un indizio o, non so» scrollo le spalle e lancio qualche occhiata a tutti e tre i ragazzi, cercando il bagliore di qualche idea, e trovo lo sguardo serio e puntiglioso di Louis.

«Sai, negli ultimi due giorni siamo stati abbastanza occupati a risolvere i casini che hai creato, e non c’è stato tempo per giocare a Cluedo» 

 Lo fulmino con lo sguardo, piuttosto seccata, e decido che mi sta decisamente antipatico. Lui se ne sta lì seduto, con quell’aria sorniona e le labbra serrate in una linea dritta, rilassata, ma potrei giurare di aver visto nei suoi occhi azzurri luccicare l’ombra di un sorriso beffardo. E’ uno stronzo parzialmente apatico.

«Ce l’hai con me?»

«No» il suo tono così calmo mi dà ancora più fastidio.

«No, dico, ce l’hai con me?» mi indico, spazientita.

«Che problemi ha?» chiede Louis, rivolgendosi più che altro ad Ashton. Giuro che se gli risponde con qualcosa tipo non so, troppi mi giro e gli tiro un pugno dritto in faccia. Ma in che posto sono capitata?

«Piantatela»

La soddisfazione nel sentire Ashton richiamare Louis sbiadisce subito, non appena mi accorgo che il rimprovero era rivolto anche a me. Vorrei ribattere che ha iniziato lui ma decido di lasciar perdere e dedicarmi a qualcosa di più importante, così inizio a giocherellare con il mio orecchino alla ricerca di qualche colpo di genio degno della Signora in Giallo che è in me.

«Diamo un’occhiata alle prove dell’omicidio, magari c’è qualcosa di interessante» esordisco dopo un po’. Louis ridacchia e si guadagna la mia ennesima occhiataccia molto sentita, che però sembra non turbarlo affatto, e io mi trattengo dal fagli la linguaccia. Sto meditando su come vendicarmi.

«Adesso non siamo più nell’MI5, non possiamo chiedere l’aiuto a casa. Niente favori, non possiamo chiamare per avere informazioni su un caso» il tono di Calum è più dolce di quello di Louis mentre mi spiega come mai Mr. Simpatia davanti a me ha riso poco fa.

Annuisco, ma non demordo.

«Non avete proprio nessuno disposto a farvelo, un favore?»

Segue un silenzio piuttosto profondo, di quelli che ti fanno fischiare le orecchie. Calum ha lo sguardo perso nel vuoto, Louis sta osservando con grande concentrazione il bicchiere davanti a sè come una chiromante che ci vede il futuro. Immagino che stiano tutti passando in rassegna le varie conoscenze che hanno all’interno dell’intelligence alla ricerca di qualcuno a cui far fare il lavoro sporco di nascosto.

Infine noto Calum scuotere la testa, e mi affloscio sulla sedia sentendo la mia piccola banale idea che viene soffocata. Sospiro, delusa.

«In realtà... qualcuno ci sarebbe» 

Di scatto ci voltiamo tutti verso Ashton, che è ancora in piedi alle mie spalle, e lo fissiamo aspettano che continui a parlare.

«Chi?» chiediamo io e Louis, poichè Ashton sembra non avere intenzione di spiegarsi meglio, con pochi istanti di differenza. Mi giro velocemente e tiro una sberla leggera sul naso di 007 che ritrae la testa d’istinto, creando un piccolo doppio mento, e mi scruta sconvolto, quasi indignato. Scrollo le spalle, mascherando la soddisfazione della mia piccola vendetta. In realtà non l’ho davvero colpito per dispetto, solo perchè sono abituata a farlo. 

«Abbiamo detto la stessa cosa contemporaneamente» rispondo alla domanda silenziosa di Louis, poi rivolgo la mia completa attenzione ad Ashton. Fa per dire qualcosa, poi scuote la testa e si scompiglia i capelli ricci con una mano.

«Ci sarebbe Hemmings» Ashton si accarezza la mandibola seguendo l’accenno di barba, immerso nei suoi pensieri «tecnicamente mi deve un favore»

Calum scatta sulla sedia, si tasta le tasche dei jeans e poco dopo ne sfila il cellulare e lo porge ad Ashton.

«Che aspetti? Chiamalo!» 

«Hemmings non è uno di quei tecnici di laboratorio?» Louis si ferma solo per aspettare la conferma di Ashton, che annuisce sempre sovrappensiero.

«Sarà a dormire a quest’ora» 

«Non lo conosci» ridacchia Ashton «sarà davanti al suo computer ad esplorare qualche lato oscuro del mondo digitale, probabilmente in modo illegale»

Il sorrisino sulle labbra di Ashton mi farebbe pensare che lui e Hemmings siano grandi amici ma, considerando che il riccio non ha pensato subito di chiedere il suo aiuto, non ne sono così sicura.

Calum punzecchia con il telefono il fianco di Ashton per attirare la sua attenzione.

«Muovi il culo Irwin» 

Lui esita un ultimo momento, poi decide di accettare. Compone il numero a memoria e si porta il cellulare all’orecchio. Passano pochi secondi prima che qualcuno risponda dall’altro lato: il tempo che Calum sbotti “metti in viva voce”. 

«Ehi, Luke» esclama Ashton, zittendo Calum con un gesto della mano. In tutta risposta, l’altro ragazzo insiste e dà un pugno leggero sugli addominali al biondo, che sbuffa e poi mette in viva voce.

«C-chi è?» chiede questo Luke dall’altro lato del telefono. Il suo tono è incerto, e anche un po’ preoccupato.

«Sono Ashton»

«Ashton? Cos-» l’altra persona sembra fermarsi per riflettere «non conosco nessun... Oh santo cielo!» esclama infine, spaventato.

«C-come...?Com-» abbassa la voce, probabilmente preoccupato che qualcuno lo possa sentire «Come fai ad avere questo numero? I-io non... Ma che diavolo... che diavolo ti passa per la testa?» 

Farfuglia, è parecchio agitato. Ridacchio mentre nella mia mente si fa largo l’immagine di Melman, la giraffa di Madagascar, che parla al telefono con Ashton.

«Luke, come stai?»

«Come...c-come sto?» la sua voce si rallegra improvvisamente, dimenticandosi completamente dell’ansia che l’aveva assalito poco fa «Bene, bene, grazie, ho ancora...Ho ancora qualche problema alla schiena, sai. Poi l’altro giorno sono andato dall’oculista e, ecco, adesso ho un nuovo paio di occhiali che ci vedo uno spettacolo e, sì, ecco...» 

Fisso il cellulare appoggiato sul tavolo mentre cerco di non perdere il filo della parlantina di Luke. Melman, con la scoliosi e un paio di occhiali spessi un paio di centimetri, a digitare davanti ad un monitor.

«Sì, bene, mi fa piacere» Ashton lo ferma «Luke, mi servirebbe un favore»

Silenzio.

«Un...un favore? Ma che, che genere di favore, eh?»

«Ho bisogno del dossier sull’omicidio dell’agente Marcus...» non riesce a finire la frase, perchè Luke lo interrompe bruscamente con la sua parlantina sempre più accelerata.

«C-cosa? O-omicidio?» lo sento tichettare sulla tastiera in sottofondo, probabilmente alla ricerca di qualche informazione «Omicidio! Om...Oh cielo. Oh santo, santo cielo. No, no, no, assolutamente no. Non...n-non dovrei nemmeno parlarci io, con te, no, ma sei matto, dico? Adesso riattacco. Riattacco, buon dio» 

«No, fermo! Luke, ti ricordo che mi devi un favore»

Luke resta in linea, in silenzio. Lo sguardo mio, di Louis e di Calum vaga dal cellulare ad Ashton, in attesa. Stiamo tutti trattenendo il respiro e pendiamo dalle labbra di Ashton e Luke.

«Boston» si limita a dire il riccio accanto a me.

«Dannazione!» esplode Luke «Non posso darti queste informazioni, ti hanno... ti hanno sospeso, ti hanno sospeso, per dio! Mi licenzieranno in tronco, oh santo cielo. P-passare un dossier riservato ad un agente sospeso per cattiva condotta. Radiato dall’albo...così, c-così presto, una carriera stroncata ancora prima di nascere. Aspiravo ad uscire da questo buco di posto, s-sai? Il piano di sopra è, è molto meglio. Lì hanno le poltrone reclinabili e Mac a ventisette, ventisette pollici, la vista sul Tamigi e la macchina del caffè che funziona. Era il mio sogno, capisci? Se m-mi beccano a fare una cosa del genere... Grande Giove, cosa sto facendo. Cosa? Non dovevo rispondere, e-ecco. Maledetta mia madre che mi ha insegnato le buone maniere. Non risponderò mai più ad un numero sconosciuto. M-mai più. Oppure ti, ti attaccherò in faccia dopo la prima pa-parola» mi chiedo se Luke respiri, quando parla.

Sentiamo tutti abbastanza chiaramente che sta battendo sulla tastiera del computer, quindi penso che Ashton sia riuscito ad ottenere quello che voleva.

«Sono finito, spacciato, ciccia per gatti, sarò fortunato se l’MI5 mi terrà per pulire le ta-tazze dei gabinetti»

«Piantala Luke, sappiamo entrambi che nessuno riuscirà a rintracciare le ricerche che stai facendo. Sei il migliore» lo incoraggia Ashton.

«Sì, sì, certo, ovvio» la voce di Luke acquista una sfumatura ironica che finora non aveva avuto «“Sei il migliore Luke”, “vai Luke”, “ce la puoi fare Luke”, carino, davvero, tanto poi mal che vada, sì, daranno la c-colpa a me»

«Sei stato un hacker per otto anni» insiste Ashton.

«Già, e poi mi hanno preso e adesso sto qui invece che in prigione e, sai, mi piacerebbe che le cose restassero così»

«Resteranno così, devi solo cancellare le tue tracce»

«“Devi solo cancellare le tracce!” Be’, perchè, perchè non lo fai da te, eh? Oh santo cielo, cosa sto facendo...»

«Luke, ma l’hai trovato o no quel dossier?» 

«Oh, sì, certo che l’ho trovato, da un pezzo»

«E allora che aspetti a mandarmelo?» Ashton è leggermente seccato. Proteso in avanti sul tavolo, il suo viso è a pochi palmi dal mio e osserva il cellulare come se potesse vedere Luke dall’altro capo.

«Il mo-momento»

«Quale momento?»

«Sto scegliendo con cura il momento in cui far colare, far colare a picco la mia carriera. Devono...devono essere esattamente le undici e...»

«Luke! Nessuno ci scoprirà, mandami i file e basta!» sbotta Ashton.

«D’accordo, d’accordo, ora lo faccio. Ecco, l’ho fatto! L’ho fatto! Contento? S-sono finito. Grande Giove. Che ho fatto? Oh dio»

«Grazie, amico. Sei stato fantastico»

«Niente più favori. Ora siamo pari»

«Promesso» Ashton fa una pausa in attesa di una risposta, da parte di Luke, che però non arriva «Non mi chiedi perchè mi serve il dossier?»

«Cosa? Oh cielo no, no-non voglio sapere in quale losco giro mi hai fatto entrare, se mi faranno il test della macchina della verità voglio p-poter dire che non so nulla, nulla, senza far impazzire quel co-cosetto che va su e giù»

Ashton ride, scuotendo la testa.

«Ah, Luke, un’ultima cosa...»

«Eh? No, no, no, no, no, no, no, non se ne parla. Ho detto basta. Hai avuto la tua occasione e te la sei giocata, da qui in poi a-arrangiati. Chiedi a qualcun altro, io non sono più disponibile. Nein, no, niet, hai detto che eravamo pari...»

Ashton lo interrompe.

«...Grazie, davvero»

Luke resta in silenzio.

«Non si tratta di nulla di losco, comunque»

«Ah, no, no, no, no, no! No! Non dirmi nulla! Assolutamente n-nulla! Non lo voglio sapere, non mi interessa, non è affar mio. Divertiti. Ah, e se, se per caso mi danno la pena di morte, trova Cara Delevigne e dille che l’amo»

Luke chiude così la conversazione senza lasciare un secondo ad Ashton per ribattere.

Restiamo tutti in silenzio per qualche secondo.

«Quel tipo... non ha tutte le rotelle a posto» sussurro, agrottando le sopracciglia con lo sguardo ancora fisso sul display del telefono di Calum.

«Ti sorprenderesti, se lo conoscessi» commenta Ashton.

«Già: è peggio di come sembra» aggiunge Calum, ottenendo uno schiaffo dietro il collo da parte del biondo.

«Pensa a cercare il file» lo ammonisce, indicando il computer. Il moro ridacchia e segue le istruzioni di Ashton, esaltando poco dopo.

«Eccolo»

Gira il portatile verso di noi. Un documento pdf, l’analisi dell’autopsia e diverse foto occupano tutto il monitor coprendo ogni centimetro della scrivania. L’occhio mi cade sull’immagine del corpo senza vita di Marcus e rabbrividisco. Mi volto di scatto, trovandomi quasi a sbattere contro Ashton, che mi lancia un’occhiata un po’ preoccupata.

«Stai bene?»

Annuisco. Prendo dei respiri profondi e giocherello con l’anello di legno che porto al medio della mano destra, quando ho ripreso coraggio lancio un’altra occhiata allo schermo. Le foto sono sparite. Guardo Ashton riconoscente ma lui neanche se ne accorge, preso com’è dalla lettura del referto del medico legale.

«Dice che l’hanno pugnalato due volte, ma la seconda non era necessaria: il primo colpo ha reciso l’arteria»

«E’ morto dissanguato» conclude Louis. Ashton annuisce. 

Mi impongo di non sentirmi male. Prendo il bicchiere con il drink e butto giù due sorsi, consapevole che non servirà poi a molto.

«Alcune ferite da difesa, dei lividi sulle nocche, probabilmente era riuscito a colpire uno degli aggressori...Tracce di tessuto epiteliale sotto le unghie che non corrisponde a nessuno nel database...» continua Ashton, con voce piatta, scorrendo velocemente il testo. 

«Quei bastardi hanno portato via gli oggetti di valore»

«Per simulare una rapina» finisco io.

«Già, così buona parte delle prove è andata a fanculo...» 

«No, fermi, ragioniamo un attimo... Se foste stati nella situazione di Marcus, sapendo di aver scoperto qualcosa di importante, non avreste fatto in modo di proteggere le informazioni nel caso in cui vi fosse successo qualcosa?» provo, sperando di trovare una nuova soluzione.

«Ovviamente» risponde Louis, accigliato.

«E chi si porterebbe dietro informazioni del genere? Se ti prendono e ti fanno fuori e hai l’unica testimonianza addosso, è stato tutto un po’ inutile...» scrollo le spalle.

«Hai ragione. Marcus era bravo, quegli uomini sono solo dei mercenari» 

Guardo Ashton, che ha appena parlato, e annuisco.

«Non pensano, agiscono. Marcus non avrebbe nascosto nulla negli oggetti più ovvi come un cellulare o un portafoglio. Cos’altro aveva addosso, che non hanno preso?»

Ashton scorre sul documento.

«Un fazzoletto da taschino, una penna...»

«Ehi, guarda un po’ qui...» Calum gli porge il telefono, dove deve aver scaricato lo stesso file. E’ una foto del corpo in obitorio. Bevo di nuovo. Questa cosa mi brucia la gola. Non è un granchè.

«Questo... si è scritto qualcosa sul braccio» Calum ingrandisce la foto, in modo che si veda solo la parte di braccio con una scritta un po’ sbavata in inchiostro blu.

«“M. Friday, 1:39”» legge Ashton.

«Un appuntamento?» chiedo.

Louis si guarda l’orologio, e da quello che dice immagino che ci siano segnati anche i giorni:

«Venerdì è domani. Se si tratta dell’una del mattino, manca davvero poco. Muoviamoci, andiamo al suo appartamento» trascina indietro la sedia e scatta in piedi, pronto a partire.

«Sarà sigillato dalla polizia» dico. Il sorriso stampato sulla faccia di Calum dice chiaramente “povera ingenua”.

«D’accordo, come non detto» sollevo le mani e mi alzo in piedi. Violare un’altra legge, che sarà mai?

«Se sapete dove si trova, andiamo!» 

 

 

 

L’appartamento di Marcus è abbastanza incasinato, non so dire se sia anche perchè lui era un uomo disordinato o se è stata solo colpa degli agenti di polizia che hanno messo tutto a soqquadro. Lancio un’occhiata a Louis e Calum, che stanno facendo più o meno la stessa cosa: rivoltano tutto quello che trovano, alla ricerca di qualche indizio. Al momento si stanno occupando di quello che dovrebbe essere il salotto e che io non trovo particolarmente interessante. Ho già dato un’occhiata molto attenta al bagno, così mi ritrovo senza impiego e seguo Ashton che sta cercando con più calma tra le cose nella camera di Marcus. Anche questa stanza è stata rivoltata come un calzino. Il materasso è stato spostato, coperte e lenzuola sono sparite e l’armadio è spalancato. 

L’arredamento, in tutte le stanze, non è solo semplice. E’ piatto, privo di gusto, noioso, dai colori scialbi che richiamano il grigio della moquette e delle pareti. 

Ashton sente i miei passi, ma non si volta.

«E’ un casino» 

«Già» annuisco. Mi siedo sul letto e osservo la stanza.

«Marcus passava molto tempo qui?» 

Ashton scuote la testa, in silenzio. Si avvicina alla scrivania e rovista tra i vari fogli e le penne. Mi dà le spalle, così lo guardo indisturbata. Mi piacciono i suoi capelli. Mi chiedo come fa a non avere freddo nella giacca di jeans che indossa: io mi sto costringendo a fare respiri profondi per evitare di tremare troppo.

Dopo dieci minuti buoni, si lascia cadere sulla sedia della scrivania, sbuffando.

«Non c’è nulla qui! Dannazione!» impreca, battendo un pugno sulla scrivania. Poi lancia un’occhiata all’orologio che porta al polso.

«Mancano ventitrè minuti. Stiamo cercando da quasi un’ora» si passa una mano tra i capelli, preoccupato.

Picchietto con le dita sul materasso, alla ricerca di una soluzione, e improvvisamente una cosa attira la mia attenzione: una banale fila di libri appoggiati sulla mensola sopra la scrivania. Mi alzo di scatto e mi arrampico sul mobile sotto gli occhi perplessi di Ashton. Per arrivare ai libri devo stare in piedi sulla scrivania, e per stare in piedi sulla scrivania devo stare piegata.

«Quant’era alto Marcus?» 

«Un metro e settanta circa» risponde Ashton, confuso.

Sorrido soddisfatta della mia intuizione.

«Pochi centimetri meno di me» osservo «raggiungere questa mensola non è il massimo per chi non sfiora il metro e novanta. E’ abbastanza scomodo, ma davanti a due libri non c’è polvere, quindi deve averli usati da poco» concludo «e non penso fossero letture di piacere. Voglio dire, se non aveva tutto questo tempo libero...»

Sfilo i libri che sembrano essere stati spostati da poco e li passo ad Ashton che li appoggia sulla scrivania, aiutandomi poi a scendere. Una volta con i piedi a terra, prendo il primo dei due libri, Il ritratto di Dorian Gray, e lo porgo ad Ashton.

«Forse gli piaceva Wilde, dopotutto era irlandese anche Marcus, no?» butto là. 

«Magari ci ha scritto qualcosa...»

Mi siedo sul materasso con l’altro libro tra le mani. Leggo velocemente il titolo, Robinson Crusoe, e inizio a sfogliarlo. Nessuna annotazione a margine, nessun segnalibro, nemmeno un quadrifoglio secco tra le pagine. Dopo qualche minuto e diversi capitoli, però, un nome mi balza all’occhio. Scatto in piedi.

«Ashton, non è una data!» sollevo in aria il libro, entusiasta, in segno di vittoria «M. Friday! Venerdì! Man Friday

«Sei sicura?» mi guarda dubbioso.

«Qual era l’ora?» 

«Una e trentanove»

«O pagina centotrentanove» sfoglio velocemente fino ad arrivare a dove dovrebbe essere la pagina.

«Non c’è» giro la pagina centotrentasette e mi ritrovo davanti alla centoquaranta. 

Improvvisamente mi sento stupida per non averlo capito subito.

«Sono una cogliona» farfuglio «le ha incollate insieme. C’è qualcosa tra queste due pagine» dico ad Ashton, porgendogli il libro. Alza il libro per guardare il foglio controluce.

«Credo che sia una microsim o qualcosa del genere. Tipo una di quelle memorie espandibili...» strappa la pagina senza tanti compimenti e la piega in due, infilandola poi nella tasca della giacca.

 

 

 

 

QUANTO MI E’ MANCATO SCRIVERE QUESTA STORIA

Sul serio. Mi dispiace non aver aggiornato prima ma un po’ per la scuola, un po’ perchè il capitolo l’avevo scritto ma non mi piaceva e quindi l’ho cambiato, un po’ perchè (udite udite) ho questa idea strabella per una nuova fanfiction (due in realtà... anzi tre) 

Quindi vi annuncio ufficialmente che tra qualche giorno ne pubblicherò una sul genere più romantico dolcioso, a tema natalizio (perchè NO VEDO L’ORA CHE ARRIVI NATALE E VOGLIO LA NEVE E L’ALBERO E IL PANETTONE SENZA CANDITI, OMG)

Btw, la mia gatta si è beccata la sinusite, me l’ha passata, e le ho fatto l’aerosol. Non sto scherzando. Ve lo giuro sul mio biglietto per i Cinque Secondi. Ho fatto l’aerosol alla mia gatta.

A parte questa chicca, ultimamente la mia vita è piuttosto noiosa per cui non ho nulla da dirvi.

Per quanto riguarda questo capitolo....ECCO LUCAS AHAHAH

Amo il suo personaggio. Mi fa troppo ridere, e spero che diverta anche voi. Lo vedo perfetto per la sua parte, sinceramente (tralasciando che alice pensa che sia una vecchia talpa balbuziente con la scoliosi a cui piace dire Grande Giove cit. Doc Emmet Brown di Ritorno al futuro aka uno dei miei film preferiti)

Anywayyys se avete voglia di commentare o idk, fatelo pure! Se avete bisogno di qualcosa mandatemi pure un messaggio (non so cosa, consigli per l’aerosol ai gatti, se volete parlarmi della vostra vita o dei vostri insegnanti stronzi perchè diciamolo, ce ne sono troppi, o altro) molto sciallamente perchè mi farebbe piacere avere vostre notizie

Vi adoro, spero che vi ricordiate di questa storia, che avrete voglia di leggere quella che metterò tra qualche giorno, che le verifiche odiose di dicembre vi vadano bene e che natale arrivi presto! <3

 

 

Ciao ragazzuonzole! -cit. il mio prof di matematica (che è uno dei migliori che io abbia mai avuto)

 

lola 

 

ps. mi sono accorta che è da un fottio di tempo che non mi firmo ma oks

 

 

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