The SAM Plan

di Shrader__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Era una sera di mezza estate quando mi accorsi che qualcuno mi stava seguendo. No, okay, non è vero, non era una sera di mezza estate, era più un pomeriggio piovoso di un'estate arrivata ai suoi cinque sesti di completamento. Però ero veramente seguito da qualcuno. Mi sentivo come in uno di quei thriller in cui l'individuo che vi sta pedinando potrebbe avere fondamentalmente due intenzioni: stuprarvi e derubarvi di ogni vostro avere oppure chiedervi l'ora. Io non avevo nessun avere al di fuori del mio zaino colmo di interessantissimi libri e di un Motorola scheggiato - che per chissà quale miracolo funzionava ancora - e che probabilmente aveva l'orario sballato, cosa che constatai quando lo tirai fuori. Secondo il mio cellulare dovevano essere le 23.47 di una bella serata del marzo del 1998. Ero abbastanza sicuro di essere nel 2014. Ah, dimenticavo, non avevo la benché minima intenzione di voler essere stuprato. Il mio primo rapporto sarebbe stato consenziente, l'avevo deciso il giorno in cui scoprii cosa voleva dire "stupro".

Da buon ammiratore delle serie TV poliziesche sporsi il mio cellulare verso la mia spalla destra con l'intenzione di riflettere nello schermo l'immagine di quello che c'era dietro di me. Da distratto ammiratore delle serie TV poliziesche dimenticai un piccolo dettaglio: non avevo un iPhone o un qualsiasi altro cellulare in grado di riflettere qualcosa che non fosse la mia ombra stilizzata. Mancavano pochi metri al vialetto di casa mia. Sentii l'aura del mio potenziale stalker avvicinarsi sempre di più e più si appropinquava - non ho mai usato un termine come "appropinquare", ma cercavo un sinonimo di "avvicinare" ... mi pento della mia scelta -, più cercavo di allungare il tratto di marciapiede che ci separava. Torcendo un po' il collo all'indietro riuscii a scorgere la sagoma del mio inseguitore: era una figura incappucciata e con un ombrello, perché pioveva. Anche io avevo un ombrello. Questo significava che il mio stalker era un umano. Il pericolo alieno era scampato. Di solito gli alieni sono impermeabili, no?

«Ehi»
Era una voce femminile. Statisticamente, i corsi per diventare stalker sono frequentati al 78% da uomini - a volte ti appaiono degli articoli come questo sulla home di Facebook, non scherzo -. La voce mi era familiare. Non ne ero sicuro. Non volevo voltarmi a risponderle, avrebbe potuto approfittare del mio attimo di debolezza per stendermi e rivelarmi che in realtà era un umanoide proveniente dal futuro il quale voleva stuprarmi, o peggio, chiedermi l'ora.
«Ehi!»
Il tono della voce era più insistente. Notai che apparteneva ad una ragazza e non ad una donna adulta. Non credevo che una potenziale stalker/stupratrice/rapinatrice/tizia-che-chiede-che-ore-sono potesse avere un'età compresa tra i quattordici e i diciotto anni. Elaborando tutto ciò nella mia mente, decisi di risponderle formalmente.
«Hola»
Hola? HOLA?! Che saluto formale è? Avevo in pappa il cervello. Sarei stato fortunato se fosse stato un mariachi con tanto di maracas, ma era altamente improbabile. 
«Ti ricordi di me?»
Certo che sì, altrimenti non ti avrei ignorato come se fossi uno dei peggiori maniaci in circolazione. 
Ero appena arrivato in questa città, ma avevo già capito che la perspicacia non era di casa.
«A dire la verità no. Chi sei?»
Il mio tono era sorprendentemente controllato. 
«Sono la ragazza che era seduta dietro di te a scuola. Seguiamo lo stesso corso di biologia...?»
Il suo tono interrogativo e leggermente nervoso non mi aiutava a ricordare chi fosse. Ero troppo angosciato per pensare razionalmente. In tutto ciò lei mi parlava da sopra la mia spalla destra, il che sembrava molto poco amichevole. Così iniziai a rallentare e mi sistemai al suo fianco. Finalmente riuscii a scorgere il suo viso celato dal cappuccio verde militare. La parte superiore era ancora oscurata, ma le sue labbra erano sottili e prive di rossetto, le guance lievemente scarlatte in contrasto con la pelle del mento, gelidamente pallida. Aveva una sagoma ben definita, ma non squadrata. Una sagoma che proprio non ricordavo di aver visto prima.
«Scusami, ma non riesco proprio a ricordare. Così eri seduta dietro di me? Sembra una cosa piuttosto inquietante»
Ridacchia. Una risatina non proprio elegante, un po' stridula direi. Dopo essersi ripresa da quello che alla fine pareva un lieve attacco asmatico, riprese a parlare.
«Sei simpatico! Sei nuovo, quindi?»
Pensavo che mi avrebbe chiesto come mi chiamavo. Speravo che me lo chiedesse prima che rincasassi, perché ci eravamo fermati fuori il mio vialetto.
Ora ero in grado di scorgere la parte superiore del suo volto: aveva degli splendenti occhi che vantavano una sfumatura che dal verde acqua del contorno della pupilla passava ad una tonalità tenue dell'azzurro. Aveva la fronte non troppo alta e un naso poco pronunciato, con dei capelli castani che le arrivavano alle spalle.
«Già, i miei ed io ci siamo trasferiti qui un paio di settimane fa. Sai, per lavoro»
«Figo!»
Figo? Non definirei 'figo' un trasloco che mi ha fatto quasi finire in rianimazione per la fatica. Perché chiamare una ditta specializzata quando possiamo approfittarne per demolire la massa muscolare di nostro figlio?
«Eh, già! Posso chiederti come ti chiami?»
Visto che non mi sembra che sia molto propensa ai cliché delle conversazioni, faccio io il primo passo verso la conoscenza della mia nuova amica stalker.
«Oh, sì, certo! Mi chiamo Audrey»
'E tu?'
Mi sembrava di averglielo sentito pronunciare, invece se ne stava lì un po' inebetita. Non capivo se era solo svampita o poco incline all'arte della conversazione. Decisi di rompere il silenzio imbarazzante che si era venuto a creare.
«Che bel nome!»
Sembrava una di quelle frasi che si dicono ai battesimi, ma era l'unica che mi era venuta in mente. 
«Grazie!»
Ancora niente. Poco dopo il suo volto parve essere attraversato da un lampo di genio. La sua espressione passò da un placido sorriso a un sorriso un po' più intelligente. Speravo, almeno.
«Tu invece, come ti chiami?»
Non si può dire che sia sveglia. Almeno ce l'ha fatta.
«Sono Sam! Diminutivo di Samuel, sai»
Non conoscevo il motivo per cui ogni volta che mi chiedevano come mi chiamassi rispondessi sempre così. In fondo non fregava a nessuno del mio nome completo. Sam e basta. 
«Anche il tuo è un gran bel nome, proprio figo!»
Oltre che acutissima, la ragazza possedeva anche una fantasia smisurata nello scegliere i termini da utilizzare durante un dialogo. Nonostante tutto, però, aveva quel non so che di amichevole che m'ispirava una simpatia innata verso di lei. Sarebbe stata la mia prima amica qui a Colton Hills, nonché mia prima amica stalker in assoluto. 

Dopo qualche altro attimo di lieve imbarazzo decidemmo che ci saremmo rivisti alla prossima occasione, il che non mi dispiaceva, tutto sommato.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Dopo aver visto la sagoma di Audrey scomparire in una vialetto qualche decina di metri più avanti, decisi di rientrare anch'io. 
La prima giornata a scuola non era stata granché proficua, se si esclude l'incontro con la mia nuova amica. Frequentavo il secondo anno delle superiori alla mia vecchia scuola. In effetti non mi è dispiaciuto molto abbandonarla, se non per qualche piccolo dettaglio. Diciamo che non ero quello che si definirebbe "sfigato", ma ci andavo molto vicino. Avevo pochi amici e quelli che avevo non erano molto contenti della mia presenza. Non voglio fare la vittima, ho un carattere piuttosto complicato, direi atipico. Sono il solito ragazzo disadattato, figlio di genitori tutto sommato amorevoli ma piuttosto devoti al trasloco facile. Non mi dispiace molto, però mi sento sempre un po' sballottato. Sono storie trite e ritrite, cose che sono frequentissime in questo continente - e nel mondo, credo -. Non mi sento l'ombelico del mondo. 

Prima di rientrare controllai l'interno della mia bella villetta verde acqua. Mia madre stava ancora scavando in uno dei mille scatoloni ancora imballati. Siamo qui da due settimane e c'è ancora roba da sistemare. Sembrava di essere in una puntata di Sepolti in casa.
Iniziai a cercare la chiave nuova di zecca all'interno della tasca interna dello zaino. Infilai la mano e iniziai a spostarla a tentoni nella sacca di tessuto. La chiave non c'era. Odio disturbare mia madre, perché quando si concentra nel mettere a posto entra nel suo mondo. Interrompere la sua fase creativa significa scatenare una sicura reazione negativa. Dopo una preparazione psicologica a quello che mi aspettava, premetti il bottone. Il campanello emise uno strano rumore metallico, sembrava una papera robot. 
«Chi è adesso?!»
Il tono non era amichevole. Fa sempre così, anche se non si è vista ombra d'uomo dal primo mattino.
«Sono io, mamma.» Lo dissi con un leggero tono sommesso. C'era un'implicita richiesta di scuse.
«Sam, ma a che cazzo ti servono le chiavi se non ad aprire la porta?!»
Mia madre non è un tipo volgare, ma in quei momenti tira fuori il meglio di sé. Non si preoccupa che io possa assumere atteggiamenti violenti o ripetere quello che dice da quando avevo sette anni. La fase mamma-gentile-e-amorevole se n'è andata per lasciare spazio alla modalità casalinga-disperata.
«Scusa mamma, credo di averle lasciate dentro stamattina. Potrai mai perdonarmi?» Chiedo quando mi si staglia la sua figura accigliata e furiosa sulla soglia. Ero ironico e questo accentua l'incazzatura. 
«Vedi di non fare tanto il deficiente e entra» 
Okay, era meglio se sgattaiolavo di sopra mentre cercava di ricordare dove andava messa quella ciotola di ceramica. Avrebbe potuto lanciarmela contro entro i seguenti dieci secondi. 
Quando salii la scalinata sentii mia madre imprecare. Sapevo che quando avrebbe esaurito il suo repertorio di parole poco carine pronunciate in modo rabbioso sarebbe tornata la mamma amorevole e apprensiva di sempre. A volte penso che soffra di doppia personalità, ma non gliene parlerei mai. Soprattutto in quei momenti. 

Una volta entrato in camera - occupata per tre quarti da scatoloni vuoti e per il restante quarto da roba presa da quegli scatoloni ancora ammassata per terra e sulla scrivania - sprofondai nel mio bel lettone nuovo. Era uno degli aspetti più positivi del trasloco a Colton Hills. Mi immobilizzai a fissare un gigantesco ragno che stava tessendo un'elaborata ragnatela che pendeva qualche metro sopra il mio naso. Non sono un tipo schizzinoso, almeno non in fatto di insetti e aracnidi. Mi avrebbe fatto compagnia. Lo avrei chiamato Willy. Il mio secondo amico. Niente male, Sam, proprio niente male. 
Era uno di quei momenti filosofici in cui fissi qualcosa e pensi all'andatura della tua esistenza; il che non è particolarmente piacevole se sei Samuel Everston.
Il momento intimo con la mia mente venne disturbato dallo squillo ovattato del mio Motorola. Era un trillo piuttosto fastidioso accompagnato dalla consueta vibrazione sconnessa. Guardai lo schermo. Un numero qualsiasi. Lo rilessi più volte. Nada. Decisi di non rispondere. 
Ripresi il mio momento di riflessione. Ero in piena lotta con l'istinto di andarmi a prendere una lattina di Red Bull, quando il cellulare ricominciò a suonare e a vibrare. La cosa mi urtava non poco. Sono un tantino irascibile, forse non si è notato. 
Sempre quel numero che non aveva uno straccio di significato per me. Che seccatura. Siccome sono un dio generoso, decisi di rispondere.
«Pronto?»
«Ehi, ciao!» Stavo cercando di identificare la voce femminile allegra e spensierata, poi ricordai.
«Audrey?» Il sospetto che fosse davvero una stalker in erba s'insinuò più insistente nella mia mente. 
«Volevo chiederti se ti va di...» La interruppi. 
«Audrey, come hai il mio numero di telefono?» Cercai di controllare il tono della voce, ma ero piuttosto inquietato e un tantino spaventato. 
«Hai presente gli elenchi telefonici? Oggi ci è stato recapitato quello aggiornato e c'era anche il tuo numero. Forte, no?» Un mistero era risolto. Se ne era creato un altro, però. 
«D'accordo, ma come sapevi il mio cognome? Non mi dirai che hai tirato a indovinare» 
«Certo che no! Non sono così fortunata. Ho chiamato tutti i numeri dei Samuel che c'erano, fino a quando non ho incontrato quello giusto. Qui a Colton Hills ci sono centoventiquattro Samuel, non è incredibile?» Il suo tono era davvero sorpreso e divertito. Okay, c'erano due possibilità: si era follemente innamorata di me oppure era una pazza schizzata. Propendevo per la seconda. 
«Non ti sembra un tantino esagerato? Avresti potuto aspettare domani e chiedermelo di persona» 
«Lo so, ma mi andava di uscire adesso e con qualcuno di nuovo. Quindi... andiamo al centro commerciale?» Il suo tono non era nemmeno vagamente timido o sommesso: era un tono normale, come se ci fossimo conosciuti da una vita e fossimo migliori amici da quando ci ciucciavamo il pollice. Che poi io non l'ho mai fatto. 
«Ehm... non lo so, sai, ho un po' di disordine in casa e volevo dare una mano...» non ero molto credibile. 
«So che non hai niente fare, stai mentendo.» Probabilmente era una strega o qualcosa del genere. 
«Dai, non ci staremo più di un paio d'ore!»

Fui costretto ad acconsentire. Stavo per andare al centro commerciale con una potenziale stalker che avevo visto solo una volta e che aveva passato la precedente mezz'ora a chiamare a casa di un centinaio di Samuel completamente a caso. Bravo Sam, stavi probabilmente mandando in frantumi la tua promessa di avere un primo rapporto consenziente.

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


Mentre aspettavo fuori il mio vialetto l'arrivo di Audrey, iniziai a riflettere su come potessero girare le rotelle del suo singolare cervello. Non la conoscevo, non potevo giudicare. Ero solo curioso di capire perché mi avesse chiamato. La scusa del voglio uscire con qualcuno di nuovo non reggeva. C'era qualcos'altro. Ero turbato dai suoi atteggiamenti? Probabile. 

Trascorsi circa dieci minuti a pensarci, fino a quando non sentii uno scalpiccio provenire dal lato destro del marciapiede. Audrey camminava a passo di marcia, ma appena incrociò il mio sguardo parve scuotersi dai suoi pensieri. Mi sorrise. Un sorriso che non presupponeva nulla se non cortesia e disinteresse. Eppure c'era qualcosa nel suo sguardo smeraldino che faceva trasparire altro; ma cosa?

«Ehi.»
Questa volta fui io il primo a parlare. Glielo dovevo.
«Ehilà!»
Il suo tono non era cambiato di una nota: era sempre quel timbro sincero e cordiale di un'ora fa. L'avevo appena conosciuta e già stavo per uscirci insieme? Speravo che non fosse un qualcosa di ufficiale. Sarebbe stato imbarazzante. 
«Allora... ehm... dove si va?»
La mia voce era tremula e sottile: ero imbarazzato, lo ammetto. 
«Andiamo al centro commerciale, no? Posso farti da guida, lo conosco come le mie tasche.»
In realtà al centro commerciale ci ero già stato un paio di volte per far compere insieme a mia madre. Mio padre era molto impegnato e non poté accompagnarla. 
«Okay. Andiamo, allora.»
Continuavo ad essere agitato. Non mi sentivo a disagio, era solo una situazione buffa. Non mi sarei mai sognato di uscire con una ragazza il mio primo giorno di scuola qui. Non mi sarei mai sognato di uscire con una ragazza, punto

Lungo il tragitto ci scambiammo qualche parola. In realtà fu più lei a parlare. Sembrava un fiume in piena: si interrompeva ogni tanto solo per aspettare un mio cenno di assenso. Erano più mhah-ah capisco, ma non mi lasciava molto tempo per articolare una frase di senso compiuto e a me andava bene così.

Mi raccontò di quando aveva avuto la varicella ed era rimasta in casa per tre settimane, mentre sua madre le preparava un qualche brodino vegetale a base di una specie di verdura a me completamente ignota. Probabilmente avrei continuato ad ignorarla, a giudicare dai commenti non proprio positivi di Audrey. 

I suoi avevano divorziato da circa otto anni: un fulmine a ciel sereno, mi spiattellò davanti questo particolare come se fosse stato un episodio di influenza durato qualche giorno. Fu una separazione scaturita da una lite piuttosto violenta che coinvolse anche lei e suo fratello maggiore. Non si sprecò in tanti dettagli - come era normale che fosse -, ma disse che fu suo fratello a mettere fine alla discussione, sferrando "un particolarmente ben riuscito gancio destro" a suo padre, il quale stava tentando di mettere le mani addosso a sua madre. Non lo disse esplicitamente, ma mi fece intendere che la loro separazione era stata provocata da questi bruschi sfoghi di suo padre, che andavano avanti da molto tempo prima dello scoppio della bomba. Mi sorprendeva il modo in cui mi raccontava delle vicende legate alla sua famiglia: era tutt'altro che restia a parlarne e sembrava covare una buona quantità di rabbia repressa verso il padre. Era come se io fossi stato il primo a cui stava comunicando quelle cose, ma non lo faceva per me: lo faceva per lei.

«L'assistente sociale, una vecchia donna di una gentilezza condita con una buona dose di disprezzo per il proprio lavoro, fece di tutto per separarci da nostra madre e abbandonarci in qualche casa famiglia.» Il suo tono iniziò ad essere più flebile: si stava davvero aprendo. Dopo aver ripreso fiato, continuò a raccontare. «Mio fratello sarebbe diventato maggiorenne a breve, quindi sarei rimasta sola in quel posto. Lui diceva che non voleva lasciarmi e che non mi avrebbe abbandonata lì dentro, ma io avevo paura.» Stavo ancora cercando di capire il motivo per cui una ragazza che avevo conosciuto poco più di un'ora fa si fosse aperta così tanto con me, quando mi accorsi che l'imponente centro commerciale svettava sul resto delle costruzioni vicine, con tanto di bandiere e insegna luminosa. Continuai a guardare dritto davanti a me, ascoltando silente lo sfogo di Audrey. E io che pensavo che fosse una psicopatica ossessionata dai ragazzi di altre città che si chiamavano Samuel. 
«Alla fine, dopo mille tentativi miei e di mio fratello di far cambiare idea a quella vecchia, il tribunale dei minori acconsentì a lasciare la custodia a nostra madre. Lei decise di non sporgere denuncia, nonostante le numerose sollecitazioni di mio fratello, ma mio padre venne comunque allontanato definitivamente da noi con un'ordinanza restrittiva. Eravamo stati noi a parlare, noi ad allontanarlo.»
Si sentiva un pizzico di rimorso nella sua voce, come se lei, nonostante tutto, si fosse pentita di aver tagliato fuori quell'uomo dalla sua vita. Era pur sempre suo padre, certo, ma per come ne aveva parlato pensavo che non provasse nient'altro che disprezzo per lui; invece c'era ancora quel sentimento di riconoscenza e rispetto verso il proprio genitore, verso colui che aveva contribuito alla sua messa al mondo. 

Eravamo arrivati alle porte di vetro scorrevoli del grande edificio blu, quando parve accorgersi della mia presenza.
«Scusami» 
Ero sorpreso. Il suo sorriso si era indebolito, ma era sempre lì, con la sua sincera cordialità.
«Va tutto bene»
Le sussurrai quelle parole, perché anch'io avevo subito parte del dolore che provava lei. Ero stato una sorta di pattumiera, in cui aveva sputato tutto quello che aveva dentro, tutto ciò che avrebbe dovuto vomitare molto tempo addietro. Ero stato proprio io la sua pattumiera. Perché? 

Ebbi un impulso strano, ma decisi di assecondarlo. La abbracciai. In un primo momento mi parve agitata tra le mie braccia, ma non si sottrasse. Resto lì, si fece piccola, più minuta di quanto non fosse. Non pianse, ma si appoggiò alla mia spalla e rimase lì per un paio di minuti. Era una cosa strana, lo so bene, sembra incredibile, ma successe. Stavo abbracciando la mia amica stalker. 
Dopo quei due minuti rilassai un po' le braccia e la lasciai andare. Guardai attraverso la porta a vetri e intravidi un chioschetto nella piazzetta d'ingresso. Controllai di avere qualche moneta nella tasca destra, poi guardai nei suoi occhi verde-azzurri, che ora erano un po' acquosi. Le sue labbra bagnate si erano incurvate in un sorriso strano, eccessivamente largo e leggermente inquietante. Mi decisi a rompere il silenzio.
«Ehi, ti va una granita? Offro io.»

 

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