Convalescenza

di Iurin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 9: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 10: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 11: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 12: *** Capitolo Undici ***
Capitolo 13: *** Capitolo Dodici ***
Capitolo 14: *** Capitolo Tredici ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quattordici ***
Capitolo 16: *** Capitolo Quindici ***
Capitolo 17: *** Capitolo Sedici ***
Capitolo 18: *** Capitolo Diciassette ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciotto ***
Capitolo 20: *** Capitolo Diciannove (parte I) ***
Capitolo 21: *** Capitolo Diciannove (parte II) ***
Capitolo 22: *** Capitolo Diciannove (parte III) ***
Capitolo 23: *** Capitolo Diciannove (parte IV) ***
Capitolo 24: *** Capitolo Venti ***
Capitolo 25: *** Capitolo Ventuno ***
Capitolo 26: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Prologo

 
 

“Guar…da…mi.” Sussurrò.
Gli occhi verdi incontrarono i neri, ma dopo un attimo qualcosa nel profondo di questi ultimi svanì, lasciandoli fissi e vuoti. La mano che stringeva Harry crollò a terra e Piton non si mosse più.
 
(Harry Potter e i Doni della Morte – pag. 605)

 
 
Harry uscì di corsa dalla Stamberga Strillante, seguito a ruota da Ron e da Hermione. Quasi camminando a quattro zampe tutti e tre percorsero l’oscuro cunicolo che li avrebbe condotti sotto il Platano Picchiatore. Avrebbero poi dovuto pensare a come sfuggire agli attacchi del grosso albero, che per tutto il tempo della battaglia non aveva fatto altro che sferzare l’aria con i propri rami, nella speranza di colpire qualcuno. Sempre che un albero potesse essere dotato di tale sentimento.
Forse anche lui percepiva il pericolo, il fatto che Hogwarts, che altresì non era se non anche la sua stessa casa, fosse sotto assedio. Forse, quando il trio sarebbe uscito nuovamente all’aria aperta, quei rami non si sarebbe scagliati contro di loro, in quanto, alla fine, stavano comunque combattendo sullo stesso fronte.
Ma si stava parlando di un albero, dopotutto, perciò i suoi atteggiamenti sarebbero stati tutt’altro che prevedibili. Senza contare, in ogni caso, che lo stesso Harry, in quel momento, aveva i pensieri da tutt’altra parte. Stringeva nella propria mano la provetta nella quale aveva fatto confluire i ricordi che Piton gli aveva voluto consegnare appena un momento prima che morisse. Harry si chiedeva perché l’uomo si fosse comportato in quel modo. D’altronde Piton era stato il servitore più fedele di Voldemort, colui che aveva sempre apertamente odiato Harry… Cosa lo aveva spinto a comportarsi così?
Anche se persino Harry si chiedeva cosa avesse spinto lui stesso a volersi avvicinare a Piton morente, senza un apparente motivo.
Forse perché nessuno si sarebbe meritato di andarsene da questo mondo in una maniera tanto brutale. E forse Piton, dopo aver constatato su di sé che anni ed anni di fedele servizio erano stati spazzati via senza pietà, considerati totalmente privi di valore da chi lui aveva così costantemente seguito, che, in un moto di vendette verso il suo padrone, si era lasciato andare ad un simile gesto.
E quindi Harry non poteva che continuare a chiedersi cosa contenessero quei ricordi, mentre stringeva il freddo vetro tra le dita, tanta era la tensione e l’aspettativa, rischiando quasi di rompere tutto; e mentre la sua mente volava già all’ufficio di Silente – non di Piton, di Silente – e al Pensatoio di pietra nell’armadio in fondo alla stanza.
Alla fine Harry vide di fronte a sé la fine del cunicolo, e si affrettò ancora di più a raggiungerlo; sentiva dietro di sé il respiro affannoso dei suoi due amici.
“Harry, ma cosa…” Stava per dire la voce di Hermione, ma lui la interruppe.
“Avanti, dobbiamo sbrigarci!” Le rispose infatti, una volta all’aria aperta e cominciato praticamente a correre “Abbiamo solo un’ora!”
“Harry!” Lo fermò però Ron, quasi urlando, subito dopo aver aggirato alcune tristi macerie “Dove stiamo andando?”
Harry si voltò rallentando appena il passo, ma senza smettere totalmente di camminare.
“Quelli che mi ha dato Piton sono ricordi!” Rispose lui “Dobbiamo andare nell’ufficio di Silente e capire perché me li ha dati.”
Ron lo guardò un po’ perso, all’inizio.
“Harry ha ragione.” Intervenne allora Hermione “Dobbiamo sbrigarci, avanti.”
E detto questo afferrò Ron per una manica, trascinandolo e seguendo Harry, che già aveva ripreso a correre.
I Mangiamorte se n’erano andati per tornare dal loro padrone, così come era stato stabilito da Voldemort, perciò il cortile era silenzioso, e deserto. Ora che i maghi di entrambe le fazioni si erano ritirati, l’atmosfera sembrava quasi… innaturale. O meglio: fantasma. Dopo tanto rumore un po’ di silenzio avrebbe dovuto far piacere, e invece non sembrava così. Non era così, in effetti.
Durante la battaglia il pensiero delle vittime, di Hogwarts in fiamme, delle ferite, non trovavano il tempo per potersi insidiare nella mente. Si pensava solo ad attaccare e a difendersi, a correre, a saltare, a nascondersi. Le lacrime non riuscivano neanche a trovare il tempo per presentarsi. Non si riusciva proprio neanche a pensare, in effetti; si agiva e basta.
Il silenzio, invece, rendeva possibile tutto questo.
Non era un silenzio ristoratore, quello. Era un silenzio di morte.
E sottostarvi non faceva altro che far sentire tutti solo che stanchi. Spossati. Deboli.
Quei pensieri, ora, avevano tutto il tempo per insinuarsi a fondo nella mente e nell’animo, di attecchire, e di ferire più di un ‘Crucio’.
Non era una bella sensazione.
Anche Harry, Ron, ed Hermione, quando giunsero alle porte del castello, e poi in Sala Grande, non poterono non scontrarsi con ‘tutto il resto’.
C’era odore di perdita, nell’aria.
E difatti quel che sembrava il peggio non tardò a manifestarsi. Persone che prima erano un nome, uno sguardo, una pacca sulla spalla o una risata, lentamente – ma inesorabilmente – iniziavano di già a trasformarsi in ricordo. Quando si ha davanti una scena del genere, all’inizio non ci si rende neanche veramente conto di cosa si stia realmente guardando; si crede di star sognando, o, almeno, di trovarsi in una specie di bolla, di guardare tutto dall’esterno. No, invece; sì è più dentro di quanto anche solo convenga immaginare. E presto il dolore esplode, partendo dalle viscere, all’inizio, per poi giungere al cuore. Solo dopo arriva lì, ma, quando accade, allora la bolla si rompe, e sembra che anche tutto il resto si stia rompendo lentamente, sfaldandosi; sembra che tutto scivoli via, che quei nomi, quegli sguardi, quelle pacche sulle spalle o quelle risate stiano scivolando via, mentre in realtà si vorrebbe solo trattenerle, riceverne ancora, dire che – no – è tutta una finzione. Mentre invece già ogni cosa inizia a trasformarsi in passato.
Tutto questo, ogni grammo di emozione, è così intenso che avviene soltanto in una frazione di secondo: Harry e gli altri erano appena entrati in Sala Grande, eppure sembrava passata un’intera giornata.
Ron era accucciato accanto a suo fratello, ma gli abbracci tra i familiari non sembravano riuscire a scacciare tutta la tristezza.
Hermione si asciugava le lacrime con la propria manica, incapace, al momento, di proferir parola.
Harry si guardò intorno, invece, quasi spaesato, col respiro veloce, mentre i suoi occhi si posavano su coloro che erano stati ordinatamente stesi a terra, vicini. Guardò il professor Lupin. Non aveva neanche potuto dirgli addio.
Ma non c’era tempo. Bisognava ancora agire, e il freddo del vetro della fialetta che aveva in mano contribuì a risvegliarlo.
“Hermione…” Quasi mormorò lui “Hermione.”
Lei si voltò, ancora con le guance bagnate.
“Dobbiamo andare avanti.” Continuò.
E aveva ragione, in tutti i sensi.
Hermione annuì, calmandosi un po’.
“Sì.” Disse in un soffio “Sì, è giusto.”
Dopodiché lei si voltò verso Ron, andando subito verso di lui, per poi afferrarlo per il braccio, tirandogli appena la maglietta per poter attirare la sua attenzione, con delicatezza.
“Vieni, Ron.” Gli disse lei, quando finalmente lui si voltò “Continuiamo.”
Ron si schiarì la gola, e lanciò un ultimo sguardo a Fred, ancora circondato da tante teste rosse, prima di seguire Hermione, e poi, consecutivamente, Harry.
“Sbrighiamoci, allora.” Disse Ron, risoluto, rivolgendosi proprio a Harry, mentre salivano i gradini a due a due.
Neanche le scale cambiavano più.
“Voglio che questa storia finisca presto.” Continuò il rosso “Che chi ha… osato tanto paghi per questo.”
“Ron, lo vogliamo tutti.” Confermò Hermione.
E presto, allora, raggiunsero la Presidenza.
Il gargoyle di pietra sbarrava l’accesso alle scale, così come aveva sempre fatto, e ancora, anche durante la battaglia, rimaneva fedele al suo incarico, sentinella costante.
“Parola d’ordine?”
“Silente!” Esclamò Harry, senza pensarci.
“Ma Harry…” Cominciò Hermione, dubbiosa, ma persino lei dovette ricredersi, quando il gargoyle scivolò di lato, rivelando la scala a chiocciola.
Tutti e tre si guardarono in viso con sorpresa, ma poi salirono subito i gradini, prima che il passaggio si richiudesse.
Quando arrivarono nella sala circolare Harry notò come quasi tutto fosse rimasto immutato, come se Silente in realtà non se ne fosse mai andato; Ron ed Hermione, invece, all’inizio si guardarono intorno, incuriositi, ma poi i loro occhi si puntarono su Harry, entrambi attendendo una qualsiasi mossa. D’altronde, era Harry quello che, per forza di cose, aveva più familiarità con quella stanza. Harry, infatti, tirò subito fuori dall’armadio il Pensatoio di pietra, appoggiandolo alla scrivania. Stappò la fiala che ancora aveva in mano e versò nel bacile i ricordi di Piton, sotto lo sguardo attendo di Ron e di Hermione.
“E’ questo il Pensatoio?” Chiese Ron, quasi incantato.
“E’ evidente, Ron.” Gli rispose Hermione, provocando uno sbuffo da parte del ragazzo.
Harry, invece, rimase semplicemente ad osservare i ricordi di Piton vorticare in tondo.
“Harry.” Disse poi, però, una voce, improvvisamente.
Una voce che tutti conoscevano bene.
Tutti e tre alzarono gli occhi verso i quadri, all’interno dei quali vi sarebbero dovuti essere i ritratti dei presidi di Hogwarts, che, però, erano vuoti, al momento; tutti tranne uno, in effetti.
“Professor Silente!” Esclamò Hermione, guardando con occhi sgranati il ritratto del defunto preside.
“Sì, sono io, signorina Granger. In carne ed ossa.” Rispose lui, con un sorriso “Più o meno.”
“Che cosa ci fa lei qui?”
“Oh, io ci vivo, signor Weasley. Certo, è da un po’ che girovago nel castello per osservare cosa sta accadendo. Un Mangiamorte, ad un certo punto, credo avesse voluto scarabocchiarmi con un carboncino. Dolohov, presumo.” Fece una pausa “Ma voi, invece, perché siete qui?”
“Piton.” Rispose Harry “Lui… Mi ha dato dei ricordi da vedere.”
“Oh, Severus. L’avete incontrato?”
“Lui… è morto, signore.” Chiarì Hermione.
Silente rispose dopo un po’, continuando a fissare i tre con i suoi occhi azzurri.
“Oh.” Disse soltanto.
“E’ stato ucciso da Voldemort. Dal… Dal suo serpente, per la precisione.”
“Beh, ha avuto quello che si meritava, no?” Fece Ron, convinto.
“Solo Lord Voldemort si merita la morte, signor Weasley.” Puntualizzò però Silente, serio “Spero ne converrai con me.”
Ron non ribatté.
“A proposito,” Continuò allora il professore, rivolgendosi ad Harry “suppongo che tu abbia risolto una gran quantità di grattacapi, in quest’ultimo periodo.”
“Sì, signore.” Fece Harry “Manca solo… solo il serpente. Poi tutti gli Horcrux saranno distrutti.”
“Sei un bravo, bravo ragazzo, Harry. Non ne ho mai dubitato.”
“Anche se non ce l’avrei mai fatta senza Ron ed Hermione.” Ammise il ragazzo con un sorriso, e Silente annuì.
Quest’ultimo, però, continuava a rimanere piuttosto serio, e… pensieroso.
“Per favore, Harry.” Disse poi “Prima di visionare quei ricordi, senza che io vi faccia perdere altro tempo, ti pregherei di venire da quest’altro lato della mia scrivania, e di aprire l’ultimo cassetto a destra.”
Harry fece subito quanto Silente gli stava chiedendo: aggirò la scrivania ed aprì il cassetto. Solo che…
“E’ vuoto.”
“C’è un doppio fondo.”
Harry fece una certa pressione sul fondo del cassetto, allora, e infatti venne subito rivelato uno scomparto segreto, nascosto al suo interno. E stavolta qualcosa c’era. Harry afferrò la bottiglietta che vi trovò: era di cristallo, tonda, e col collo allungato, tutta colorata, probabilmente dipinta a mano.
“Che cos’è?” Chiese.
“Ti ricordi della pietra filosofale, Harry?” Cominciò a spiegare Silente “Certamente che te ne ricordi. Era stata creata dal mio amico alchimista Nicolas Flamel, e con essa lui aveva prodotto…”
“L’Elisir di Lunga Vita!” Esclamò Hermione.
“Esatto, signorina Granger.” Silente fece un lieve sorriso “Dopo che la pietra è stata distrutta è stato impossibile prepararne dell’altro. Questo è tutto l’Elisir rimasto. Nicolas ha voluto farmene dono.”
Harry si rigirò quella bottiglietta tra le mani.
“Cosa… Cosa devo farci?”
“Vorrei che tu tornassi dal professor Piton, Harry. Vorrei che glielo mandassi giù per la gola. Non gli allungherà di certo la vita, ma spero che possa essere abbastanza potente da inibire il veleno del serpente, e da fargli vivere così la vita che ancora gli resterebbe.”
Harry fissò il ritratto di Silente ad occhi e bocca aperti. Stava con molta probabilità per parlare, poi, ma Ron lo precedette.
“Che cosa?! Abbiamo qui l’ultimo preparato di Elisir e dobbiamo usarlo per… per Piton?”
“Ron, calmati…”
“E’ un traditore! Ci ha traditi tutti! Ha tradito lei!” Esclamò ancora Ron, guardando Silente.
“Severus Piton non mi ha mai tradito.” Replicò però il professore.
“Lui l’ha uccisa!” Fu il turno di Harry, stavolta, di parlare “Come può ancora difenderlo?!”
Silente puntò i propri occhi su Harry, guardandolo al di sopra dei suoi occhiali a mezza luna, come aveva fatto sempre, quando era ancora in vita.
“Si potrebbe salvare qualcun altro, con quell’Elisir…” Mormorò Harry debolmente, quasi in un gemito.
“Se c’è qualche altra persona avvelenata, ti prego di riferirmelo, allora.”
Harry tacque, e abbassò lo sguardo verso il pavimento.
Odiava, odiava la morte.
“Harry.” Lo chiamò Silente ancora una volta “La pietà è solamente il riflesso di chi ha un animo buono. Non rifiutare di assecondarla.”
Harry guardò ancora quella bottiglietta di vetro, rigirandosela tra le mani. All’interno vi era l’Elisir di Lunga Vita, un liquido scuro. Ad un primo sguardo sarebbe sembrato persino vino.
“Ron.” Disse poi voltandosi verso quest’ultimo e guardandolo negli occhi “Portaglielo tu.” Allungò il braccio per porgerli la bottiglietta “Io ho da fare con tutta questa roba.” E i suoi occhi si sostarono per un momento sul Pensatoio.
“Stai scherzando, spero.” Fu però quello che disse Ron, inclinando leggermente la testa da un lato.
“Avanti, Ron.”
“Ron.” Si intromise Hermione “Fai come ha detto il professor Silente.”
“Tu da che parte stai?” Le domandò il rosso, piccato.
“Abbiamo già affrontato un discorso simile o mi sbaglio? Ancora a che ridire sulla mia intelligenza?” Replicò Hermione, ancora più indispettita, portandosi anche le mani ai fianchi.
Per un momento Harry pensò che in quella posa Hermione somigliasse veramente tanto alla signora Weasley.
Ron, dal canto suo, invece, sbuffò, ma non si mosse lo stesso.
“Bene.” Continuò dunque lei “Questo vorrà dire che sarò costretta ad andarci io.”
“Cosa?”
Hermione allungò la mano per afferrare la bottiglietta, ancora tra le dita di Harry, ma Ron, stavolta, fu più veloce, e fu lui a ritrovarsi l’Elisir tra le mani.
“Se tu non vuoi andarci” Stava dicendo Hermione “questo non vuol dire che non possa andarci io!”
“E’… E’ pericoloso, lì fuori!”
“Se non l’hai già sentito nella tua testa, te lo ripeto io: Voldemort ha fatto ritirare tutti, al momento!”
“E che vuol dire? Può sempre esserci in giro un… un ragno gigante, per esempio.”
“Come se non me la sapessi cavare.” Sbottò lei “E poi se tu quello che odia i ragni, ti ricordo.”
“Questo cosa c’entra…” Borbottò lui, abbassando appena lo sguardo sulle proprie mani.
Dopodiché alzò la bottiglietta, osservandola come se la stesse rimirando controluce.
“E così tocca salvare il pipistrellaccio, eh?” Disse.
“Ron…” Fece per dire Hermione, ma lui la precedette.
“Beh, spero che almeno un grazie poi riuscirà a farlo uscire dalla sua bocca, se ne è ancora capace.”
Sia Hermione che Harry lo guardarono perplessi.
“Vado.” Confermò Ron, afferrando saldamente l’Elisir e dirigendosi, a quel punto, verso la porta della presidenza.
“Signor Weasley.” Lo richiamò però il ritratto di Silente, che durante tutto quel tempo era rimasto completamente in silenzio, al che Ron si voltò verso di lui, in attesa “Solo Lord Voldemort merita la morte, e tutto ciò che essa comporterà per la sua anima corrotta. Spero che te lo ricorderai spesso.”
Silente gli fece un sorriso, e Ron provò a ricambiarlo, prima di voltarsi per un istante verso Hermione ed Harry. Poi, finalmente, uscì, correndo giù per le scale, diretto di nuovo al Platano Picchiatore.
Hermione e Harry rimasero da soli, a quel punto, ed entrambi, quasi contemporaneamente, si avvicinarono al Pensatoio.
“Ora, professor Silente, vorrà scusarci, ma dovremmo…” Fece Harry, indicando i ricordi che ancora fluttuavano nel bacile di pietra.
“Certamente.” Rispose Silente “Buona fortuna, Harry.” E detto questo, e dopo aver fatto un altro sorriso per congedarsi, sparì, andando a rifugiarsi in chissà quale altra cornice in giro per il castello.
“Harry.” Disse allora Hermione, con l’ansia che ancora le si sentiva nella voce “Cosa pensi Piton voglia farti vedere?”
“Non lo so.” Non poté che rispondere Harry.
“Speriamo che a Ron fili tutto liscio…”
“Ron è in gamba.” Harry fece una breve pausa “Allora, pronta?”
Hermione fece un gran sorriso, prima di annuire.
Poi entrambi immersero i loro volti all’interno del Pensatoio, e il resto del mondo attorno a loro scomparve improvvisamente.
Quando poi si rimisero in piedi, dopo essere caduti lunghi distesi a terra, si resero conto di trovarsi in un vecchio parco giochi.












Angolo autrice:

Salve a tutti!
Un altro progetto inizia, e spero che tutto quanto fili liscio fino alla sua conclusione!
Non c'è molto da dire, a pensarci, riguardo questo prologo; come avrete notato, gli eventi sono decisamente diversi dal libro, ma il tutto è stato necessario per spiegare come ha fatto Piton a sopravvivere. Un Piton che comunque troveremo già a partire dal prossimo capitolo.
Sono piuttosto orgogliosa di aver pensato all'Elisir di Lunga Vita, ad essere sincera. Sì, I know, non è un preparato con delle proprietà curative - come, per esempio, possano possederle un Bezoar e le lacrime di fenice - però, come spiegato all'interno del prologo stesso, ho pensato che potesse comunque essere abbastanza adatto allo scopo. Non farà guarire Piton, oh, no, ma almeno - ho pensato - potrebbe evitargli la morte.
In ogni caso, mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate, e... beh, ci rivediamo con la pubblicazione del primo capitolo che, vedrete, avrà tutto un altro registro e stile, rispetto a questo prologo!

Colgo anche l'occasione per invitarvi tutti ad aprire questo link di Facebook e a mettere un 'mi piace' al racconto che troverete. Sì, la tizia che l'ha scritto sono io. E' per un concorso letterario, e la concorrenza è veramente spietata, tanto che adesso, in classifica, sono terza :(
Per favore, vi ci vogliono due secondini piccini picciò :)
Grazie a tutti, ecco il link:
cliccate qui --->
In equilibrio

Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


Capitolo Uno

 
 
Nonostante ancora i tuoi occhi siano chiusi, senti comunque di essere sveglio. Non di star sognando; sei veramente sveglio, cosciente: senti i rumori, senti il vorticare dei tuoi pensieri, il suono del tuo stesso respiro.
Sei sveglio.
E la cosa ti sorprende più di quanto tu stesso avresti mai ammesso. Eppure, ancora, non hai neanche aperto gli occhi. Non ti va proprio di aprirli, per il momento. Dietro le tue palpebre, tutt’intorno a te, all’interno di quel buio che vedi – ma che in realtà vero buio non è – c’è solo una cosa: l’ignoto. Perché… Beh, tu sei morto. Sai di esserlo, te ne rendi conto. Quindi il fatto di poter ancora provare qualcosa, come il tepore di un raggio di sole che proprio in quel momento ti scalda un lato del viso… semplicemente ti sorpren--
Il sole. C’è il sole che ti scalda una guancia.
È possibile che all’Inferno ci sia il sole?
Strano come va il mondo, a volte: tu non hai mai creduto in un’altra vita; non hai mai avuto motivo di credere che ci fosse un aldilà, una misericordia divina, persino un Dio. Nessuno te ne ha mai parlato, nessuno ti ha mai insegnato niente, a riguardo, e semmai un giorno tu ti sia interessato in qualche modo all’argomento, la tua stessa vita ti ha suggerito che – no – è improbabile che esista Qualcuno. Altrimenti non avrebbe permesso che succedesse tutto quello.
Hai sempre avuto un dubbio, ma poi hai finito con lo smettere di pensarci.
E ora… Ora invece che sei sveglio, dopo essere morto, pensi che forse avresti dovuto informarti un po’ di più. Anche se sarebbe servito bene a poco, dato che, qualora fosse esistito un aldilà – e ormai ne sei praticamente certo, dato che sei sveglio – quante possibilità avresti avuto di godere del lato migliore dell’eternità?
Forse il sole che senti sul viso non è altro che il riverbero delle fiamme dell’Inferno. E non sai ancora, allora, se vuoi aprire gli occhi o meno. Potresti cullarti nell’oscurità della tua mente per tutta l’eternità, ma già sai che un simile atteggiamento porterebbe a ben poco.
Sei all’Inferno. Bene. Te lo sei meritato, dopotutto. Tanto vale mettersi in piedi e cominciare ad abituarsi a tutto l’infinito che hai davanti.
E piano, lentamente, allora, apri gli occhi, un millimetro alla volta.
La prima cosa che vedi, però, è una flebile luce bianca.
L’Inferno te lo immaginavi buio, nero, e forse rosso. Non bianco.
Forse è il Paradiso, allora.
Dentro di te ridi della tua ingenuità. Sciocchezze. Non sei in Paradiso.
Continui ad aprire gli occhi, allora, e la luce bianca si fa più intensa. Forse ci speri; una minima parte di te forse ancora immagina di aver salvato quanto basta della tua anima, ma alla fin fine non ne sei così tanto sicuro. Quel bianco, però, ti spiazza. E quando finisci di aprire gli occhi, il bianco non se ne va. Anzi, si modella, si trasforma, smette di essere una luce, e, semplicemente, diventa un… colore. Ti sembra di trovarti in una stanza bianca; riesci a vedere nettamente l’angolo formato dal soffitto che si unisce alle pareti. Quella è una stanza.
Non è l’Inferno.
L’Inferno non ha stanze bianche. Certo, nell’immaginario comune l’Inferno potrebbe essere un’enorme fossa di pietra nera avvolta dalle fiamme, e, anche se con molta probabilità non è affatto così, sei quasi sicuro di poter affermare che – no – non sarà stata una fossa, l’Inferno, ma di sicuro non è una stanza bianca. Così luminosa, poi.
Poi, all’improvviso, senti un sussurro.
È stato un attimo, ma sei sicuro di averlo sentito.
Senti il cuore sobbalzare dalla sorpresa e di scatto ti volti verso sinistra, verso il punto in cui ti è sembrato sentire qualcuno parlare sottovoce.
Ma non fai in tempo a stupirti ancora per quello che vedi, che richiudi nuovamente gli occhi. Con forza. E il tuo viso assume una non tanto lieve espressione di puro dolore.
Nell’esatto momento in cui ti sei voltato – bruscamente, come se non bastasse – hai sentito la pelle del collo tendersi, tirare. Ti è sembrato quasi che ti si stesse lacerando proprio in quell’istante, che il collo ti si stesse strappando come quando un brutale macellaio strappa a mani nude un filamentoso brandello di carne. La testa ti scoppia, senti ogni nervo in tensione, e torni a guardare il soffitto all’istante, sperando che il dolore svanisca. Hai il fiatone, e la cosa ti agita. Ma pian piano il dolore si attenua, anche se non sparisce completamente, e ti calmi, chiudendo ed aprendo gli occhi in continuazione, e respirando profondamente.
Non sei all’Inferno, no.
Ma non sei neanche in Paradiso.
C’era sempre il Purgatorio, come ultima opzione, ma sai già di poter scartare anche quella.
Lentamente ti volti di nuovo verso sinistra, senza movimenti bruschi. Senti la pelle del collo pizzicare, ma stavolta è più o meno sopportabile.
Ed eccolo lì, chi aveva sussurrato, facendoti, peraltro, quasi mancare il respiro.
Un uomo – un vecchio – steso su un letto, coperto da un lenzuolo verde sin sotto al mento. Dorme, ma ogni tanto le labbra gli si muovono, e qualche sibilo gli esce dalla bocca. Sta dormendo.
Sta sognando.
Abbassi la testa per guardare il tuo corpo, notando così solo allora che anche tu ti trovi su una specie di branda, con lo stesso lenzuolo verde menta che ti arriva all’altezza dello stomaco. Di fronte a te, un altro letto, con un altro uomo steso su di esso, ma non riesci a vederlo in viso.
Hai capito dove ti trovi.
Sei in un ospedale.
Sei vivo.
La bocca ti si schiude nell’ennesimo segno di sorpresa. Perché… Beh, questo che è sorprendente. Avevi una quantità di veleno nel corpo che avrebbero ucciso un elefante, forse, eppure sei lì.
Vivo.
È… singolare. Sul serio. Poche volte in vita tua ti sei sentito così, senza poter avere la situazione sotto controllo o capire cosa stesse succedendo con esattezza.
Non sai perché sei lì, né come ci sei arrivato, né perché.
Dovresti essere morto.
Il morso di Nagini non è stato una cosa da poco… Senza contare che deve averti irrimediabilmente rovinato il collo in un modo niente affatto gradevole da vedere.
E, pensandoci, ti rendi conto di essere rimasto fermo tutto il tempo, senza neanche muovere un muscolo, se non quelli doloranti del tuo collo ferito.
Allora ti porti una mano lì dove senti ci sarebbe dovuto essere perlomeno un taglio profondo, per tastare com’è la tua situazione.
O almeno… Ci provi. Vuoi toccarti il collo con una mano, o con entrambe, non fa molta differenza, ma… non puoi.
Ad un’altra veloce occhiata sul tuo corpo capisci di non essere legato, e che nulla impedisce un tuo movimento. Sei libero, eppure… non ti muovi. Non ce la fai.
Il tuo corpo non risponde agli impulsi.
Vorresti muoverti, ma non ci riesci.
Provi con l’altro braccio, con le gambe, con la schiena.
Niente.
Senti il respiro accelerare.
Non riesci a muovere nulla, se non il collo, l’unica parte del corpo che ti fa veramente male. Ironia della sorte.
Ma devi stare calmo, o almeno devi provarci. Dopo tutto quello che hai passato, almeno ora non stai correndo un pericolo mortale. Anzi, sei appena scampato al più pericoloso che tu abbia mai affrontato. Calma. Sei in un ospedale, quindi qualcuno ha reputato opportuno portarti qui e non lasciarti morire nella Stamberga Strillante.
Oh.
Potter.
Chi, altrimenti?
Senti un moto di rabbia agitarti in fondo alle viscere.
Potter.
I ricordi.
Avresti preferito essere morto sul serio, piuttosto che renderti conto di dover affrontare Potter, che ti guarderà con i suoi occhi verdi, e con chissà quale espressione sul viso.
Ti ripeti che se solo si azzarderà a guardarti in un modo diverso da come ha fatto per sette lunghi anni, gli darai un ceffone.
Ah. No.
Se Potter ha visto tuoi ricordi, però, e se si è comportato di conseguenza, come credi, questo può voler dire solo una cosa: è morto.
Potter è morto.
E tu sei vivo.
Non ne gioisci, per quanto tu abbia detestato quel petulante e arrogante ragazzino. Anzi, senti il tuo stesso respiro accelerare ulteriormente.
Hai sempre detto che la vita con te non è stata giusta. Beh, la vita non è giusta anche con altri. Non lo è stata neanche con Potter, forse, al quale hai rivelato tu stesso, anche se indirettamente, ciò che avrebbe dovuto fare per sconfiggere il Signore Oscuro. E continua a non essere giusto neanche quello che tutt’ora sta succedendo con te.
Tu sei vivo – vivo, per l’amor del cielo – e Potter è morto.
E il Signore Oscuro?
Non lo sai, ma pensi che se ti trovi in un ospedale, presumibilmente perché qualcuno sta tentando di salvarti la vita – ci riuscirà? Non ha molta importanza – allora ciò vuol dire che non è Lui, che ha vinto.
Almeno Potter non è morto invano.
Ma è morto, per il Bene Superiore, e a te sembra lo stesso una stupidaggine trovarti in un letto, con una flebo attaccata ad ogni tuo braccio – te ne sei accorto solo ora – mentre lui, e chissà quanti altri, si trovano sottoterra.
Ti senti svuotato.
Avevi promesso che l’avresti protetto, dopotutto, e l’hai fatto, fino a quanto non è arrivato l’inevitabile. Era necessario che lui accettasse di morire, che il Signore Oscuro in persona provvedesse a ciò, altrimenti la guerra non sarebbe mai finita, ma… Senti lo stesso di aver sbagliato qualcosa.
Suo figlio è morto. E dopotutto non volevi che andasse a finire così. Non hai capito bene se fosse veramente indispensabile che Potter venisse trapassato da un secondo Avada Kedavra, non sai se effettivamente quella fosse stata l’unica soluzione plausibile, ma avresti preferito, dopotutto, che non fosse successo. Potter avrebbe dovuto continuare a vivere. Lontano da te il più possibile, era ovvio – fondamentale, più che altro – e non avresti più voluto avere a che fare con lui per tutto il resto della tua inutile vita, ma… Non sarebbe dovuta andare così. Lei non avrebbe voluto.
Lo supponi, almeno, e pensi di avere ragione.
In un moto di ribellione da tutto… questo, vorresti quasi staccarti le flebo, fare uscire il sangue dagli ulteriori tagli che provocheresti sulle tue braccia, ma non riesci a muoverti. E la cosa è più che frustrante.
Che senso avrà una vita così?
Ma allo stesso tempo… sei stufo: vuoi sapere che diamine sta succedendo, a te e al mondo, vuoi sapere come sono andate le cose, come hai fatto a salvarti, perché non riesci neanche a muovere un dito. Ti hanno fatto ingerire qualche pozione che ha avuto un tale effetto collaterale? Oppure sei stato preso dalle convulsioni e quindi quell’immobilità è uno stato in cui sei stato costretto deliberatamente?
Pretendi di sapere.
Così apri la bocca, e parli.
E parli, ancora; più forte, più deciso, più arrabbiato, ma nessuno ti ascolta. Nessuno ti sente. Il vecchio alla tua destra continua a dormire e a sospirare tra sé e sé, e nessun altro, nella stanza, dà segno ti averti in qualche modo udito. Tu parli. Senti le tue corde vocali vibrare furiosamente… invano. Così come prima hai scoperto che il tuo corpo ha ripudiato il suo padrone, ora scopri che la tua voce se n’è andata.
Ora sì che ti stai preoccupando. La tua voce poteva essere considerata l’unico tuo vanto prettamente fisico, e l’unico strumento… più o meno innocuo per ridurre in soggezione gli individui più disparati. Ti era sempre bastata una sola parola pronunciata con un determinato tono di voce e riuscivi ad azzittire ogni interlocutore più o meno molesto. E ora se n’era andata anche lei.
Senti un sottile senso di panico iniziare a svilupparsi nel tuo petto.
Parli di nuovo, con un tono che sarebbe ben più alto di quello solito, ma, come prima, non succede praticamente nulla.
Poi, improvvisamente, la porta della stanza in cui ti trovi viene spalancata; subito ti volti verso quel rumore girando il collo, ed ignorando la consecutiva fitta di dolore che attanaglia i tuoi muscoli. Non te ne vuoi curare, del dolore; in quel momento, ti sembra veramente il male minore.
Così vedi un guaritore entrare in quella che a quanto pare è la tua camera, ma, invece di dirigersi verso di te, lo vedi andare di fianco al letto che ti è stato posto di fronte. Il nuovo arrivato sembra poco più di un ragazzo, quindi ti viene in mente che è più che probabile che in realtà non sia neanche un vero e proprio guaritore, lui, ma un mero tirocinante. O qualcosa del genere.
Una fortuna, ritrovarsi a fare tirocinio dopo la fine della guerra.
Ma non ti importa: vuoi delle spiegazioni, delle risposte, e di conseguenza vuoi – e devi – catturare in qualche modo la sua attenzione.
Una bella impresa, considerando che non riesci né a muoverti né a parlare.
Allora alzi la testa, e, semplicemente, inizi a fissarlo. Prima o poi si girerà dalla tua parte, e guardandoti si avvicinerà. Sempre che non si tratti del solito scansafatiche inefficiente. Ma è appena finita una guerra – presumi – perciò non c’è il tempo, o lo spazio, per i fannulloni inutili, in un simile frangente.
Lo osservi, mentre studia la cartella del paziente in questione e apre con le dita le palpebre dell’uomo, una alla volta, illuminandogli gli occhi con la luce della sua bacchetta.
Ti chiedi dove sia finita la tua, di bacchetta.
Poi, finalmente, il tirocinante – o qualsiasi sia il suo ruolo – si volta, e ti guarda. Lo vedi sgranare gli occhi, ed assumere un’espressione quasi… spaventata.
Non sai se è perché è sorpreso di vederti sveglio, o se perché ha soltanto paura di te, il riesumato braccio destro del Signore Oscuro, oppure se perché, semplicemente, i tuoi occhi riescono a parlare quasi meglio della tua stessa voce. E non gli stai dicendo cose molto gentili.
Vuoi sapere. Subito.
“Signor… Signor Piton?” Ti chiede.
Ti verrebbe voglia di rispondere piccato se per caso conosce qualcun altro col suo stesso viso, ma, per forza di cose, puoi soltanto inarcare scocciato un sopracciglio.
“Io… Vado a chiamare il professor Sherman.”
Non sai chi sia questo Sherman, ma il fatto che sia un professore – ergo qualcuno che perlomeno si presume sia un po’ più qualificato di un mero tirocinante, o quel che è – tende a soddisfarti un po’ dell’esito della tua occhiata.
Sebbene sia difficile provare un po’ di soddisfazione, in una situazione cotale.
Il tirocinante – per te ormai quello lì è uno studente impacciato, ormai – lascia la stanza, e tu rimani nuovamente da solo. In realtà ci sarebbero altre due persone, nella stanza, il che ti dovrebbe rendere meno solo, ma loro stanno dormendo, e dubiti che anche qualora fossero svegli per te sarebbe di un qualche tipo di utilità. Sicuramente inizierebbero a fare domande, o, nella migliore delle ipotesi, ad insultarti. Meglio così, dunque.
Anche se ti sembra strano che tutti stiano lì a dormire, dato che, per quanto almeno puoi vedere, fuori è giorno. Ti chiedi che ore della mattina siano.
Nella tua testa inizi a contare i secondi passati da quando l’apprendista se n’è andato, ma una volta arrivato a pronunciare nella tua testa il numero trecento, senti già di esserne stufo.
Sei un malato di guerra, per Salazar, non un comune mago bisognoso di qualcuno che lo curi da una banale Fattura Pungente.
Dopo altri cento secondi, però, ti senti persino stanco. Improvvisamente. Pensi solo in quell’istante a quanto il tuo inutile corpo deve essere debole, al momento.
Ti addormenti senza neanche riuscire a finire di formulare un nuovo pensiero.
“Signor Piton.” Senti poi improvvisamente dire da una voce proveniente dal buio “Signor Piton.”
Ti rendi conto che qualcuno ti sta scuotendo una spalla. In realtà non senti nulla, sulla spalla, ma capisci cosa sta succedendo perché anche la tua testa ciondola un po’, a causa di quel movimento. E ti svegli, allora, appurando così di esserti momentaneamente addormentato, quasi senza accorgertene.
“Signor Piton.” Ripete quella voce, e allora ti volti verso chi sta parlando, ma con cautela, stavolta.
Ti ritrovi davanti un ometto con una gran quantità di capelli grigi sulla testa e le sopracciglia folte, nere. Ti sta sorridendo, ma tu non ricambi. L’uomo, almeno, allora capisce di poter smettere di scuoterti in quel modo.
“Signor Piton, sono il professor Amadeus Sherman.” Ti dice subito, sedendosi compostamente su una sedia accanto al tuo letto, che prima non c’era. Neanche il tirocinante impaurito c’è più. Saggia scelta, da parte sua, non tornare.
“Sono il responsabile del quarto piano del San Mungo,” Continua “ovvero dei Reparti Lesioni da Incantesimo e Janus Thickey. In base a quanto le è accaduto non sapevamo, all’inizio, se affidarla al Reparto Ferite da Creature Magiche, tre piani sotto di noi, ma poi abbiamo pensato fosse meglio tenerla qui, in Janus Thickey; è la zona più riservata e controllata dell’ospedale, così… beh, avrà più privacy, almeno.”
Oh, ne dubiti. Sicuramente per te ‘privacy’ ha altri significati.
E così adesso sai di trovarti al San Mungo, e non sperduto chissà dove. E sai anche di essere stato affidato al Reparto Janus Thickey.
Comprensibile, dopotutto, che abbiano deciso di confinarti nel posto in cui sono stati praticamente internati e chiusi a chiave coloro che hanno subito un danno magico permanente e non curabile. Non molto confortante, ma sicuramente comprensibile, sì.
Continui a guardare Sherman, allora, attendendo che lui continui a parlare.
“Ha dormito per quattro giorni interi. Iniziavamo a preoccuparci.” Ti fa un lieve sorriso, ma tu non ricambi neanche stavolta “Come si sente, ora?”
Per un momento pensi che quell’omuncolo ti stia prendendo per i fondelli… Ti sta veramente chiedendo come stai?
Quella che gli lanci è probabilmente una delle occhiate più eloquenti della tua – e sua, probabilmente – esistenza.
“Faremo degli esami.” Continua lui, quando capisce che non otterrà alcuna risposta alla sua domanda “Ne abbiamo già fatti, ma continueremo con le analisi. Ci sono diverse cose che vanno… verificate; non sono molto chiare, sa.”
Quali cose, esattamente?
Ciò, perlomeno, spiegherebbe perché non sei stato portato al reparto in cui sai che tempo fa venne ricoverato Arthur Weasley; sempre per un attacco di Nagini, oltretutto. Lui, però, guarì in pochissimo tempo, e non ti era sembrato, all’epoca, che avesse accusato uno strano effetto collaterale come, per esempio, la paralisi. O il mutismo.
Ironia della sorte, per l’ennesima volta.
A quel punto, in ogni caso, vedi Sherman sedersi in una posizione leggermente differente, aprendo le gambe, e farsi più vicino a te, strusciando a scatti la sedia sul pavimento.
“Prima però di procedere,” Ti dice con un tono di voce un po’ più basso del precedente “sarebbe opportuno se lei mi raccontasse come sono andati davvero i fatti. Almeno in questo modo potrebbe aiutarci a far luce su alcuni punti interrogativi… Noi, fino ad adesso, abbiamo potuto soltanto affidarci a quanto ci ha detto il giovane Harry Potter. Non che non gli crediamo, sia ben chiaro! Ma avere un’ulteriore versione dei fatti direttamente da lei forse potrebbe essere utile.”
Sgrani gli occhi, ascoltando quello che ti ha appena detto, anche se è probabile che lui neanche se ne sia accorto, tanto il tuo ‘sgranare gli occhi’ è davvero impercettibile.
Potter è vivo. Come è possibile, una cosa del genere? Non era stato più necessario che si sacrificasse? Aveva trovato una soluzione alternativa?
Suo figlio era ancora vivo, allora.
…Dovresti gioirne? Non lo sai. Dentro di te vi sono più emozioni contrastanti, in questo momento: sai di dover in qualche modo essere lieto che Potter non sia morto; in questo modo, almeno, le cose sono andate proprio così come sarebbero dovute andare. D’altra parte, però, se Potter è veramente vivo, non dubiti che non passerà non molto tempo prima di ritrovartelo tra i piedi.
Lui sa tutto di te, adesso.
Quasi ti esce un lamento dalle labbra, al pensiero.
“…Allora, signor Piton?” Ti richiama proprio allora Sherman, che nel frattempo è rimasto a fissarti “Può parlarmi di cosa le è successo?”
Lo guardi anche tu per un momento, prima di scuotere lentamente il capo.
“No?” Ti chiede, sorpreso.
Ripeti il gesto, ma lui ti osserva ancora con sguardo perso.
Non riesco’ dici, muovendo solo le labbra.
È più difficile ammettere una cosa del genere in questo modo che se tu avessi avuto la facoltà di parlare normalmente.
“Oh.” Ti fa Sherman, allora, afferrando presumibilmente il concetto “Non può parlare?”
Lo guardi male, dato che, se ha capito, trovi stupido ripetere la domanda. Ma lui continua a guardarti con quella faccia, quindi devi per forza fare un altro cenno di diniego col capo.
Ma chi è che aveva reso responsabile di quel reparto quell’uomo?
“Capisco.” Alla buon’ora “Allora faccio portare subito della carta e dell’inchiostro. Sarà più lunga, come operazione, ma almeno potrà comunicare.”
Perché ti sei dovuto svegliare? Perché?
Vedi Sherman alzarsi, ma inizi di nuovo a scuotere il capo, cercando di fermarlo. Ti viene da tossire più volte.
“Cosa?” Ti fa lui.
Non posso.’
“Non può cosa? Scrivere?”
Annuisci.
“Perché?”
Ti umetti le labbra.
Non riesco. Muovermi.
“Non riesce a far cosa?”
Muo-ver-mi.
“Oh.” Dice lui, per la seconda volta.
Ti senti umiliato come poche volte in vita tua, e in quel momento vuoi solo che quell’idiota di Sherman se ne vada e che ti lasci da solo. Non ti importa che ancora non ti abbia riferito come hai fatto a salvarti e se è stato veramente Potter – come credi – a portarti lì. Non vuoi più saperlo, adesso. Vuoi solo tornare a dormire in pace, e con un po’ di fortuna, magari, neanche ti sveglierai più.
Ma non puoi parlare, è ormai assodato, questo, e Sherman non pare essere un Legilimens, dato che, invece di andarsene come avrebbe dovuto, si siede nuovamente, fissandoti. E tu, non appena lo guardi negli occhi, senti la rabbia montarti dentro. Riconosci quello sguardo. È triste per te, Sherman. Anzi, no: non triste, ci mancherebbe. Quello è uno sguardo di pietà. Vorresti urlargli in faccia tutta la tua frustrazione ed umiliazione, se potessi.
“Allora faremo in un altro modo.” Ti dice poi Sherman, e tu non puoi che ascoltarlo per forza, sebbene l’espressione sul suo viso sia mutata solo di poco “Io le racconterò cosa mi è stato riferito e, una volta che avrò finito, se lei avrà qualcosa da aggiungere, ci penseremo. È d’accordo fino a qui?”
Annuisci, non potendo fare altro.
“Bene.” Prosegue allora lui “Dunque… Non che ci sia molto da dire, ma proverò ad essere il più preciso possibile.”
Lo speri, dato il fatto che non è che tu possa alzarti ed andare in giro a chiedere spiegazioni a qualcuno che sembri più competente di quello lì.
“Lei è giunto qui, signor Piton, quattro giorni fa, svenuto e… beh, insomma, non era propriamente un bello spettacolo. Sa, in quel momento ci stavano arrivando tutti i feriti di guerra, e non ci è sembrato troppo insolito vedere Harry Potter accompagnare qualcuno affinché venisse curato. Era già la… quinta, o sesta volta, che faceva avanti ed indietro. Poi, però, quando l’abbiamo vista, tutti noi ci siamo un po’… sorpresi.”
Nel pronunciare quell’ultima parola la sua voce scema, fino a spegnersi del tutto, per un momento; probabilmente perché ha capito troppo tardi di starsi avventurando per un sentiero minato.
Ti immagini la scena: Potter che arriva portandoti su una barella o qualcosa di simile, chiedendo che venissi curato dopo che stranamente sei stato ritrovato ancora vivo; ti immagini Sherman e il suo tirocinante tuttofare sgranare gli occhi e dire ‘che cosa? Dobbiamo prenderci cura di Severus Piton? L’ultimo Preside di Hogwarts? L’assassino di Albus Silente?’ ed altre sciocchezze simili. Pensi che lui ti abbia accettato come paziente con molta riluttanza, ma pensi anche che, ovviamente, non avesse potuto rifiutare un simile incarico, dato gli era stato chiesto per favore da chi aveva appena sconfitto l’Oscuro Signore.
Ti ritrovi a ghignare, guardando Sherman che fissa il pavimento in difficoltà.
“In ogni-In ogni caso” Riprende poi lui, e alza lo sguardo per puntarlo di nuovo su di te, in un patetico tentativo di imparziale professionalità, mentre tu, invece, non ci pensi assolutamente a cambiare espressione, ora che la cosa si è perlomeno fatta un minimo interessante. Non propriamente piacevole, ma sempre interessante.
“In ogni caso Harry Potter ci ha spiegato quello che le è successo. Ci ha detto che è stato morso dal serpente di, ehm- Lei-Sa-Chi, e che è passato qualche minuto, prima che arrivassero i soccorsi. Ci ha detto che un suo amico – uno di Harry Potter, intendo – le ha fatto bere una cosa, e questo deve aver fermato l’avanzare del veleno del serpente.”
Non puoi fare a meno di inarcare un sopracciglio.
“Ci ha detto che le è stata somministrata una dose di Elisir di Lunga Vita.” Fa una pausa, e cerchi di elaborare l’informazione, ma lui continua a parlare quasi immediatamente “Io non ho idea di dove siano riusciti a trovare una tale pozione, ma questo ha poca importanza. Quell’Elisir ha fatto sì che lei non morisse, signor Piton, anzi, ha fatto anche sì che lei si riprendesse, dato che quasi temevamo che non si sarebbe affatto risvegliato dalla sua incoscienza.”
‘Riprendesse’? ‘Riprendesse’?
Forse la tua idea di ‘riprendersi’ è leggermente differente da quella del professor Sherman.
E poi temevano che non ti saresti svegliato. Oh, che cari. Magari ci speravano, invece.
Come dar loro torto, dopotutto.
“Probabilmente, però, ora che lei mi ha fatto capire che non riesce a parlare o a… muoversi, dovrei aver capito cosa è successo. E’ passato del tempo, dopo il morso del serpente, prima che lei ingerisse l’Elisir di Lunga Vita, e per questo il veleno che già circolava nel suo corpo deve aver fatto in modo di causarle questa… immobilità di cui lei è affetto, al momento. Per quanto riguarda la voce, invece… Non è stato a causa del veleno; è stato proprio il morso – le zanne del serpente, insomma – a crearle un danno talmente profondo da andarle ad intaccare le corde vocali. Le abbiamo ricostruite” Precisò subito lui “ma forse occorrerà del tempo prima che, beh, lei riprenda a parlare normalmente.”
E, quando lo farai, pensi proprio che gli enuncerai tutti i motivi per cui un paziente non si sente molto rassicurato nell’ascoltare una lunga frase piena di ‘probabilmente’ e di verbi al condizionale.
Dal canto suo, invece, Sherman si limita a guardarti – ancora – come se fosse in attesa di qualcosa che tu invece non puoi dargli.
“Ha qualcosa da aggiungere, rispetto a tutto quello che le ho detto io, signor Piton?”
No, affatto. Anzi, è stato proprio lui a renderti più chiare le idee, e il contrario, purtroppo, non è possibile.
Oltre che malato ora ti senti anche più inutile di quanto tu al momento non sia.
Fai un cenno di diniego con la testa, guardandolo serio, e finalmente lui si decide a smettere di parlare, o quasi. Perlomeno si alza dalla sedia, segno che sta per uscire dalla stanza.
Prima di far questo, però, ti poggia una mano sulla spalla, un gesto che forse vuole essere di… conforto? È un tentativo piuttosto scarso.
“Lei guarirà, signor Piton. È una promessa, questa.”
Oh, per favore.
È patetico.
Ma lo guardi comunque, mentre ti sorride con una strana piega delle labbra, e ti chiedi perché ti stia dicendo una cosa del genere, dato che ti conosce come uno degli uomini peggiori del mondo. Non che tu non lo sia fino in fondo, precisi tra te e te.
Poi, però, non appena lo guardi negli occhi, capisci.
Lui sa. Ecco perché si comporta così, ecco perché ha davvero accettato di aiutarti, di fare questo grande favore a Potter.
Lui sa.
In questo momento lo detesti come non l’hai mai veramente detestato fino a quel momento, e lo guardi in una maniera che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque.
Sherman capisce di aver detto qualcosa di sbagliato, o, almeno, che la sua presenza non è più così gradita, e si allontana, fino a sparire fuori dalla porta della stanza, richiudendola poi dietro le proprie spalle.
Tu non smetti di guardarlo con la stessa luce negli occhi fino a quando la porta non si chiude con uno scatto della serratura.
Ora sei solo – più o meno. E ti senti stanco, nonostante tu non abbia veramente fatto un granché. Hai solo appurato di essere ancora vivo e per mano di chi, dopotutto. E che non hai più la privacy mentale di cui godevi in passato.
Capisci di aver bisogno di dormire, e, come prima, sprofondi nell’oblio non appena chiudi gli occhi.
Proprio però come era successo prima, anche stavolta vieni svegliato. Ti esce dalle labbra un sibilo che sarebbe stato un borbottare infastidito, in altre circostanze, dato che, evidentemente, da quando ti sei miracolosamente svegliato, pare che nessuno voglia farti riposare più di tanto.
Quando apri gli occhi, allora, ti ritrovi davanti il professor Sherman, proprio come prima.
Ti ricordi anche del fatto che lui sia a conoscenza dei tuoi segreti, e allora non fai nulla per reprimere l’espressione infastidita che ti nasce sul volto. Sì, è vero, non hai la certezza che lui sappia – sei troppo debole per fargli un Legilimens tramite il mero contatto visivo – ma lo supponi. Ed è capitato poche volte che le tue supposizioni fossero totalmente errate.
Accanto a lui, però, è tornato il tirocinante con la sua espressione sottomessa, e stavolta è presente un altro guaritore, poco più giovane di Sherman, probabilmente.
“Signor Piton, perdoni il disturbo, ma ho preferito svegliarla, dato quanto stiamo per fare.” Iniziò subito Sherman, attirando allora la tua attenzione “Quando si trovava nell’incoscienza ovviamente procedevamo senza remore, ma ora… Sì, beh, stiamo per medicarle la ferita, quindi capirà… E’ meglio che lei sia sveglio, durante la procedura.”
Ah.
In effetti è meglio così: se tu ti fossi svegliato perché in preda a più dolorosi spasmi, la cosa ti avrebbe di certo… irritato.
“Va bene, allora, signor Piton?” Ti chiede Sherman, come se mai ti avesse medicato o  toccato, fino a quel momento.
Ma annuisci, cosa che pare dargli conforto.
“Oh, lui è Abner Witherington, uno dei nostri più esperti guaritori. Mi assisterà nell’operazione.”
Come è giusto che sia, non lo degni di uno sguardo.
A questo punto, però, Sherman smette finalmente di parlare, e si avvicina ulteriormente a te; inizia a scioglierti le bende che senti avvolte intorno al collo, e quando le rimuove anche il minimo alito di vento – e in una stanza come quella, qualora ci sia, è veramente minimo – ti provoca una spiacevole fitta di gelo. Vedi le bende nelle mani del professore, e pensi che un tempo devono essere state bianche, anche se ora, invece, sono macchiate di qualcosa di scuro, sul marrone – sangue, di certo. Il tuo – ma anche di qualcosa di giallognolo. Non indaghi. Non ne hai il tempo. Certo, preferiresti sapere cosa diamine ti spalmeranno sul collo, ma nelle tue condizioni sai che qualsiasi tentativo di chiarimento sarebbe praticamente vano.
Dannazione.
O magari qualsiasi cosa ti daranno, invece che spalmartela addosso te la inietteranno?
Vedi Sherman passare le bende a Wither… Withar… quell’altro, e segui i movimenti di quest’ultimo: afferra la stoffa delicatamente, ripiegandola su se stessa, per poi posare tutto sul comodino accanto al tuo letto. Quando guardi in direzione del mobile, vedi tante ampolle poggiate su di esso. Ma non puoi guardare bene, perché anche solo un lieve movimento adesso ti fa bruciare letteralmente la carne.
“Uhm, d’accordo allora.” Senti dire da Sherman, e lo vedi prendere un batuffolo di quello che doveva essere cotone, imbevuto in una qualche sostanza trasparente, dato che alla luce era leggermente… lucido.
Sherman assume un’espressione concentrata, a quel punto, e poi avvicina il cotone – o quel che è – al punto in cui deve necessariamente trovarsi la tua ferita, posandolo poi direttamente su di essa.
Brucia.
“Sto togliendo il residuo della precedente medicazione, signor Piton.” Ti spiega lui, e tu chiudi gli occhi, concentrandoti.
Più passa quel… coso sul tuo collo, più senti il bruciore aumentare d’intensità, ma rimani impassibile, tu. Se qualche spettatore esterno osservasse la tua espressione in questo momento, direbbe che non stai provando nulla. D’altronde hai affrontato di peggio; un po’ di dolorosa infiammazione è più che sopportabile.
Il problema è che questo è nulla in confronto a ciò che viene subito dopo. Una volta finita quella semplice operazione, infatti, Sherman prende una di quelle ampolle che hai adocchiato prima, e ne versa il contenuto su una piccola spatola. È giallo e piuttosto denso, più simile ad una crema che ad una pozione, difatti Sherman inizia con il ricoprirti la ferita di quella sostanza.
Brucia, di nuovo.
Ma è un bruciore differente, un bruciore molto più… intenso: ti sembra che il dolore penetri all’interno del tuo collo, che vada a contagiare il sangue, che si espanda attraverso di esso per tutto il tuo corpo, fino ai piedi, e oltre le punte dei capelli. Stringi i denti quasi fino a digrignare, ma speri che gli altri non ne odano il suono. Non puoi mostrarti debole. Il tuo vigore, sia fisico che morale – e la tua voglia di esso – è ai minimi storici, ma mai ti sei mostrato debole, e mai lo farai.
Stringi gli occhi ancora di più, mentre il tuo respiro accelera per l’ennesima volta. Ti sembra che Sherman ti stia medicando da ore, mentre di sicuro sono passati solo pochi minuti.
Il tempo alterato dalle sensazioni fisiche sarebbe un’interessante materia di studio psicologico.
Ti concentri su questi pensieri – pensieri esterni – per non venir sopraffatto dal dolore; anche se ti verrebbe da stringere i pugni fino a romperti le dita. Peccato che non puoi.
Fortunatamente, almeno, la ‘tortura’ finisce relativamente presto – relativamente – di modo da riuscire a ritrovare la capacità di respirare in maniera un po’ più normale.
“Abbiamo finito, signor Piton.”
E’ Sherman.
Li senti metterti delle bende pulite intorno al collo, ma non riesci neanche a guardarli: rimani con gli occhi fissi sul soffitto bianco, respirando profondamente di continuo, aspettando che passi. Alla fine i guaritori smettono di toccarti, e ti sembra che ti salutino pure, ma tu non dai loro l’importanza che invece forse si meriterebbero, dato che stanno cercando di… riabilitarti.
Ma già sai che ti interessa abbastanza poco qualunque cosa loro stiano facendo; proprio perché ti interessa poco che tu venga salvato. O riabilitato. Non fa molta differenza.
“Ti posso capire.” Ti dice improvvisamente, poi, qualcuno.
Ti volti piano verso la tua sinistra, lentamente, dal momento che ti dole ovunque, come se ti stesse ardendo la carne viva. Il vecchio che avevi visto addormentato sul letto accanto al tuo ora è sveglio, e ti sta guardando con un sorrisetto apatico. Ha gli occhi semiaperti, grigi: un colore particolare, ma che non dà ai suoi occhi tutta la dovuta lucentezza, perché sembrano irrimediabilmente spenti. E… acquosi.
Sembra che quell’uomo si trovi in quella stanza ma che allo stesso tempo sia altrove.
“Anch’io provo dolore, sai, ragazzo.”
Nessuno ti chiama così da… da neanche ti ricordi più quanto.
Ti limiti a guardarlo, come hai fatto fino a quel momento.
Non sei in vena di alcuna conversazione, sinceramente. Certo, se tu potessi partecipare ad una di esse. Ma tanto anche solo il rimare lì ad ascoltare ciò che quell’uomo sicuramente ti dirà ti annoia, quindi il problema, almeno in quell’unico momento, non ti si pone.
“Ti posso capire benissimo.” Continua lui “Ho visto come cercavi di far finta di niente. Ormai lo riconosco quando qualcuno ci prova; con me fanno sempre finta di niente.” Fa una breve pausa, mentre intanto continua a guardarti con quel suo sorriso annacquato “La mia è una sofferenza continua.” Si mette più dritto con la schiena, quasi seduto “Qui dentro. Ecco perché ti capisco.” E con un dito indica la propria tempia.
Poi si lascia andare ad una breve risata, e a quel punto tu torni a guardare verso il soffitto, disinteressandoti completamente del tuo… vicino.
Ti ci mancava che capitassi nella stanza di un matto.
Sospiri.
Vorresti che tutto finisse all’istante.
E sono passate solo poche ore dal tuo risveglio.









Note:

Salve a tutti! Il primo capitolo è arrivato abbastanza presto, come avrete notato, dato che, in fondo, avevo postato solo il prologo. Quindi... Ecco qua! Spero che vi sia piaciuto, o che comunque vi abbia incuriosito: c'è stato il cambio di persona, come avete visto, e così anche il cambio del punto di vista. D'ora in poi tutta la storia sarà dal punto di vista di Piton, quindi, e l'uso della seconda persona mi piace molto, devo dire! A proposito, un piccolo appunto: se, da adesso in poi, troverete che i pensieri di Piton siano un po'... incoerenti tra loro, il tutto è così perché, semplicemente, è come se fossimo nella sua testa. Chiunque, quando riflette, formula così tanti pensieri così istintivi, che è piuttosto impossibile che siano tutti coerenti; qualcosa sfugge sempre. Certo, a meno che non si tratti di questioni importanti. Ma Piton è in uno stato - diciamocelo - alquanto 'pietoso' e anche la sua mente è provata - almeno, è questo che provo ad esprimere - perciò... non stupitevi se a volte i suoi pensieri vi sembreranno 'strani' XD

Detto ciò... Vi saluto, ci ribecchiamo al prossimo capitolo!

Oh, prima di chiudere, chiedo a tutti voi - vi supplico, sul serio D: - di aprire questo link di Facebook e di mettere un 'mi piace' al mio racconto che troverete. Vi ci vogliono un paio di secondi scarsi! E' per un concorso, e chi vince riceverà una borsa di studio per un corso di narrativa! Sono seconda in classifica, ma la ragazza che sta vincendo è agguerrita come non mai! (Del tipo: ogni ora che passa riceve almeno uno o due 'mi piace' in più .-.)
Mi aiutate? Vi ringrazio di cuore.
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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


Capitolo Due

 
 

Le ore sembrano passare troppo lentamente. È sempre stato così, e tutti l’hanno sempre ripetuto fino alla nausea: quando stai facendo qualcosa di estremamente interessante, il tempo vola via in uno schiocco di dita; quando invece la noia riempie l’aria fino a farti mancare il respiro e girare la testa, i secondi si trasformano stranamente in minuti, e i minuti in ore.
Perciò neanche ti sorprendi più di tanto, quando, steso in quello che ormai è ufficialmente il tuo letto, ti rendi conto di quanto ogni secondo sembri diventare più pigro ogni istante di più.
C’è un orologio spartano, appeso alla parete accanto alla porta di ingresso alla stanza, e senti le lancette muoversi, scandendo quel tempo che non passa mai. Ogni ticchettio va esattamente allo stesso ritmo del tuo battito cardiaco, e, più il tempo passa, più quel rumore ti sembra metterci di più a verificarsi.
Sia quello dell’orologio, sia quello del tuo cuore.
Suggestione, certo. Non hai nulla da temere. Ti hanno già detto che il tuo cuore non si fermerà. Ti hanno detto che stai benissimo, in fondo.
Benissimo.
Non hai nulla da fare se non guardare in alto verso il soffitto. A volte ti sembra persino che il suo bianco aumenti anche d’intensità, oppure di vedere tante piccole macchiette nere su di esso.
Stai impazzendo.
O forse no. Forse non sei mai stato tanto lucido in vita tua. Te ne rendi conto ascoltando i tuoi… compagni di stanza: il vecchio accanto a te non ha smesso neanche un attimo di parlare, da quando si è svegliato, e sebbene tu all’inizio abbia cercato di ascoltarlo per trovare un diversivo dal contare gli incessanti secondi che ti separano dalla fine di quell’estenuante giornata… alla fine non ce l’hai fatta più, e hai smesso di prestargli attenzione.
“…E le mosche. Hai mai pensato alle mosche, ragazzo? Fanno molta pena. Sono sporche, e portano malattie. Credo.”
Ne stai avendo veramente abbastanza.
“Però non fanno schifo. Lo sapevi che tempo fa c’era chi dava agli altri dei premi a forma di mosca? Secondo te perché? Secondo il parere comune forse per sottolineare che chi li riceveva in realtà è una merda colossale?” Ride, e la sua risata ti raschia le pareti del cervello “E invece no; glieli davano perché è stato operoso. Lo so, io. Tu lo sapevi, ragazzo?”
L’uomo di fronte a te – o meglio: sdraiato sul letto di fronte a te – invece non parla molto. Quasi per niente, in effetti. Ma non è come te: lui può parlare, non è costretto nel mutismo.
Non che tu abbia niente da dire, comunque.
Ma lui l’hai sentito parlare, quando gli hanno portato il pranzo. ‘Ancora minestra?’ Aveva semplicemente detto con una smorfia disgustata. E disgustosa, dato che gli metteva in evidenza la bocca e tutti i suoi denti mancanti.
È silenzioso, e lo reputi un bene. Un vicino che non fa altro che blaterare di discorsi insensati ti basta ed avanza. L’altro si limita a fissare. A fissarti, più che altro.
È irritante, certo, e anche molto; non hai detto che non lo sia, ma almeno non parla.
Se il vecchio non ha smesso di parlare da quando ha aperto gli occhi, l’altro non ha smesso da guardarti da quando si è messo seduto con i cuscini ben sistemati dietro la schiena.
Ti rendi conto che sei stufo di stare sdraiato come un poppante dalla schiena debole, a proposito.
L’altro non ha smesso di osservarti neanche quando è arrivato il tirocinante per… Beh.
Tutto ciò che ti viene somministrato, tanto le medicine quanto le flebo di vitamine e pozioni e di tutto ciò che riesce a mantenerti in vita – o quella che pare tale – o semplicemente l’acqua, in qualche modo prima o poi dovrai pure… espellerlo.
Sei diventato uno spettacolino di bassa lega, uno di quegli esseri raccapriccianti che si incontrano sul ciglio delle strade di periferia poco trafficate. La gente di passaggio vorrebbe evitarli, ma da lontano quasi non riesce a fare a meno di guardarli comunque.
È l’animo sporco di chi ha sempre lucidato la propria vita di finti perbenismi. A volte ha bisogno di nutrirsi; che sia di un suono osceno, di una storia di sangue, o di tali nauseanti visioni, poco importa.
C’è qualcosa di perverso, in tutto questo.
Ti chiedi se te lo meriti veramente.
Qualcuno – un paio, forse – direbbe di no, asserendo che non hai fatto nulla di male – ah, l’utopia. Altri direbbero che te lo meriti ampiamente, invece, perché nella tua vita hai fatto fin troppo.
Il giusto sta nel mezzo, il giudice imparziale affermerebbe. Tu non ne sei tanto sicuro.
“… Ragazzo, potresti dare qualche segno di vita, ogni tanto, eh. Sbatti almeno le palpebre, così non mi sembra di parlare con una mummia.”
Paragone calzante, non c’è che dire.
Ti volti appena verso di lui, tanto per fargli capire che non sei morto. Non ancora, almeno.
“Sei un ascoltatore, mmh? Uno zelante. A questo mondo è difficile trovare dei buoni ascoltatori. La maggior parte delle persone che dice di ascoltare la gente in realtà è la prima a non farlo. Ascoltano, sì, ma poi dimenticano.”
Quel vecchio sta per cominciare un altro dei suoi ragionamenti infiniti, ne sei praticamente certo. Almeno ha smesso di parlare di mosche… E’ un miglioramento?
Bah, smetti direttamente di chiedertelo, mentre torni a guardare verso l’alto.
“Sei veramente uno dei migliori ascoltatori che io abbia incontrato. E ne ho incontrata parecchia, io, di gente.”
No, non è vero, non lo sei. Tu non ascolti mai, non hai mai ascoltato veramente qualcuno, se non quando la cosa non ti avesse riguardato propriamente e da vicino. Ascolti solo quando è essenziale.
Ma, nonostante ciò, tu non dimentichi.
“Sai la cosa strana, però? Non hai la vitalità di un ragazzo. Insomma, sei un ragazzo, no? Con questo non voglio dire che tu non sia… virile o scempiaggini simili, però tu sei così… A proposito, come hai detto che ti chiami?”
Preghi che il tirocinante, in un momento di inconsueto coraggio, entri e ti dia una botta in testa. O che la dia a quel vecchio, almeno.
Ti rendi conto solo allora che continui nella tua testa a chiamarlo semplicemente ‘vecchio’, così come l’altro paziente finisci per chiamarlo ‘l’altro’, appunto.
Loro non sanno il tuo nome – a quanto pare – e tu non sai il loro. E neanche ti interessa, a dirla tutta.
“Oh, beh. Mi tornerà in mente prima o poi. Sempre che torni. La mente, intendo.”
Chiudi gli occhi, appena offuscati per non aver sbattuto le palpebre troppo a lungo.
“Io lo so come ti chiami.”
Riapri gli occhi, alzando leggermente la testa, con fastidio tuo e del tuo stesso collo, per guardare L’altro, che ha appena pronunciato quelle poche parole.
Ti sta guadando, come sempre ha fatto fino a quel momento, ed è serio; talmente serio che gli angoli della sua bocca finiscono per inclinarsi al di sotto della linea centrale delle sue labbra screpolate. Uno sguardo di disprezzo negli occhi.
Ti chiedevi, in effetti, quand’è che un tale atteggiamento nei tuoi confronti si sarebbe ripresentato. Ciò ti consola più di quanto ti saresti aspettato. Una breccia di normalità e di quotidianità nel tuo devastante risveglio.
“Io lo so chi sei.”
La conferma delle conferme.
“Ah, sì?” Dice subito il Vecchio, puntando gli occhi verso L’altro “E tu come lo sai?”
“Io lo so.”
“Su questo non c’era dubbio.” Fu la risposta soddisfatta del primo.
L’altro chiuse la bocca, e il Vecchio non fece altre domande, riprendendo invece a parlare di quello che ha mangiato a pranzo, sebbene tu lo sappia già.
Nessuno indaga ulteriormente; a nessuno sembra interessare più di tanto l’argomento. Tu non sembri interessare più di tanto, come sempre e nonostante la situazione. Non a loro, almeno. È quasi paradossale.
Continuano a passare le ore, e i respiri regolari.
Improvvisamente avverti il tuo stomaco borbottare, ma lo ignori.
E vieni così assalito da due… emozioni contrastanti: da una parte ti senti flebilmente sollevato, dato che, a quanto pare, il tuo corpo non è totalmente da buttare; gli organi paiono preservare la loro recettività. Dall’altro lato però pensi a quanto il tuo corpo sia stupido: non dovresti aver fame, dato che ciò di cui hai bisogno ti viene comunque fornito per vie trasversali, eppure il tuo stomaco sente comunque la mancanza di qualcosa di solido.
Strano, dato che sono anni che hai un masso proprio lì.
Quasi ti senti una pianta, a proposito, curata ed annaffiata abbondantemente dal suo proprietario.
Estremamente svilente.
La porta si apre, poi, proprio in quel momento, e scorgi le cespugliose sopracciglia di Sherman.
“Buongiorno.” Esordisce “Come stanno oggi i miei pazienti?”
“Oh, non c’è male, non c’è male, lei chi è?” Risponde il Vecchio.
Alzi idealmente gli occhi al cielo.
“Sono il dottore.” Spiega allora Sherman con un sorriso bonario “Quello delle solite chiacchierate, si ricorda?”
“Ah, sì, è vero. Però devo davvero confessarle una cosa.”
“Mi dica pure.”
“Lei non ascolta tanto bene. Ascolta molto meglio il ragazzo, questo qui.”
Ti indica, e tu inarchi un sopracciglio.
“Questo qui ti ascolta quanto lo farebbe un muro.” Si intromette improvvisamente L’altro.
“Un mulo?”
“Un muro, sordo che non sei altro! Sei così intento a parlare che neanche ci senti più!” Esclama alzando un po’ la voce. Vedi qualche schizzo di saliva fuoriuscire dalla sua bocca “Sono stufo di stare qui!” Continua poi, riferendosi direttamente a Sherman “Voi… Voi volete rinchiudermi! Volete che impazzisca, volete farmi fuori!”
Continui a guardare la scena senza cambiare espressione.
“Per favore, per favore.” Interviene Sherman avvicinandosi al letto del L’altro “Qui nessuno vuole fare niente, gliel’assicuro.”
“Bugiardi!”
“Per favore.” Ripete allora Sherman con tono decisamente più serio “Devo forse chiamare quell’uomo?”
“Quale uomo?”
“Quello dalla veste nera?”
E, a quel punto, L’altro pare pietrificato tanto quanto te. Ha gli occhi sgranati, e vedi la paura, dentro di essi.
O forse no. Non è paura: è puro e semplice terrore.
Per un momento quasi credi che Sherman stia parlando di te, ma poi scuoti appena la testa, dandoti dell’idiota.
“No.” Risponde allora L’altro, abbassando quello sguardo atterrito sul proprio lenzuolo verde.
“E allora stia calmo.” Quasi intima Sherman “Per cortesia.”
Un’aggiunta necessaria.
L’altro annuisce con sguardo vitreo.
Il Vecchio si mette improvvisamente a ridere, interrompendo il breve momento di silenzio, portandosi poi una mano davanti alle labbra per soffocare il rumore dei suoi sghignazzi.
Sherman sospira, prima di avvicinarsi al tuo letto con passo quasi stanco. Tu non puoi che guardarlo in maniera interrogativa.
“Poi… Poi le spiego, signor Piton.” Ti risponde non appena incrocia i tuoi occhi.
Senti il Vecchio ridere ancora.
“E…” Aggiunge allora Sherman “Mi dispiace debba… sopportare tali scene, ma l’ospedale è pieno, lei mi capirà. Dopo la guerra…”
Lascia la frase in sospeso, e tu annuisci quasi impercettibilmente.
“Ah, sì, sì, la guerra.” Salazar, ma non stava mai in silenzio, quello lì?! Se tu potessi muoverti non ci metteresti che un paio di secondi scarsi per zittirlo “Me la ricordo bene. Era il 1979. O il ’45. Ah, chi se lo ricorda. E insomma, c’era questo Austriaco che…”
Cerchi di concentrarti sul viso di Sherman per non ascoltare ancora. Forse è il male minore.
“Volevo solo dirle, signor Piton, che fra non molto vorremmo procedere con qualche analisi, per verificare se ci sono dei miglioramenti.” Ti parla nonostante il blaterare continuo in sottofondo “Tanto per metterla al corrente.”
Annuisci, come hai fatto poco prima, anche se vorresti tanto dirgli ti smetterla di parlare con quel tono lacrimevole che tanto male sopporti.
Ma te le puoi ancora permettere cose del genere? Certi pensieri? Certe speranze?
E ha veramente importanza, dopotutto?
“Bene. Allora a tra poco, signor Piton.” Conclude Sherman, e, dopo aver indugiato forse un secondo di troppo, se ne va, uscendo dalla stanza.
L’ennesima risata giunge alle tue orecchie, a quel punto.
“Ora lo so come ti chiami.”
Ti limiti a sbattere le palpebre.
L’altro si limita a far dondolare il proprio corpo, la testa ciondolante.
Odi quel posto.
Odi quella gente, e odi il fatto di non poterti sottrarre a loro. Odi la consapevolezza che nulla ti costringe a rimanere lì, se non una parte di te. Una consistente parte di te. Ti odi da solo.
E odi il non poter esprimere il tuo odio.
Le lancette dell’orologio continuano a scorrere, sempre nello stesso verso, monotone. La luce che entra dalla finestra si specchia nel vetro posto a loro protezione, creando figure inesistenti; un quadrato piuttosto sbilenco si trasforma d’improvviso in un cerchio se solo sposti il capo di neanche trenta gradi completi.
Secondo quelle lancette sei rimasto a fissare quei disegni di luce per più di quanto avresti fatto in una situazione… normale.
E poi, proprio allora, la porta si apre nuovamente.
Credi che si tratti di Sherman, del suo tirocinante, e magari anche di quell’altro guaritore di cui non sei riuscito ad imparare il nome.
Merlino. Speri che la tua memoria non abbia subito qualche danno. Non sembrerebbe, ad una veloce ispezione: ti ricordi tutto, anche ciò che preferiresti persino dimenticare.
Tu non dimentichi mai.
Ma non è il professor Sherman l’uomo appena entrato nella stanza, e questo attira la tua attenzione: è un uomo, sì, forse poco più giovane di te, in effetti, vestito di tutto punto, elegante, in un completo blu scuro.
Come se stesse andando ad un matrimonio; o ad un funerale.
Lo guardi mentre non si cura né di te né del L’altro, che, ora, ha ripreso a fissarti, dopo quel suo momento di panico. E continui a guardarlo, discretamente, mentre si avvicina al letto del Vecchio.
“Ciao, papà.” Dice.
Il Vecchio lo guarda con i suoi occhi acquosi, spostando lo sguardo dal vetro della finestra, situata proprio accanto al suo letto.
“Oh, buon pomeriggio.” Risponde lui.
Immagini che quello non sia il tono abituale di un padre che si rivolge a suo figlio.
Non ne sei certo, ovviamente – tuo padre era ben lontano dal parlarti come si fa ad un figlio – ma lo immagini.
Non che il Vecchio abbia urlato, o abbia parlato come se fosse disgustato dalla presenza di suo figlio, ma semplicemente… Ha parlato come se si stesse rivolgendo all’ennesimo infermiere, o al cameriere di un pub.
Stirata e neutrale cortesia.
“Come stai?” Chiede allora il figlio, rimanendo in piedi e guardando il Vecchio con un sorriso che forse vuole dire tante cose, ma che, concretamente, non è che esprima granché.
Stirata e neutrale cortesia, anche la sua. Quella di chi si è adeguato ad una causa ormai persa.
E tu lo sei, invece? Sei anche tu una mera causa persa, come quel Vecchio rimbambito?
“Molto bene, grazie.”
A questo punto giri gli occhi altrove, tornando a fissare il vetro dell’orologio a muro.
Ti prude un orecchio, e tu imprechi tra te e te.
“…Mi diverto molto.”
“Davvero?”
“Sì, certamente. Come hai detto che ti chiami, ragazzo?”
“Sono Johnathan, papà.”
Pausa.
“Sono contento che non ti annoi.”
“Oh, passo un sacco di tempo a chiacchierare con il mio vicino.” Pausa “Non è molto loquace, però.”
Per un momento nessuno parla, e speri che la cosa rimanga così il più a lungo possibile.
Poi, dei passi. Lenti, in principio, poi decisi. Il tacco della scarpa rimbomba, colpendo il pavimento. Infine si fermano, e quando sposti gli occhi dall’orologio vedi il figlio del Vecchio stavolta ai piedi del tuo, di letto. Tiene le mani sulla ringhiera, a pugni chiusi, e ti guarda. Ti disprezza.
Non c’è una stirata e neutrale cortesia, per te.
Ricambi lo sguardo, infondendo nel tuo, anche tu, tutto il fastidio che sei capace di esprimere.
Se poi lui vorrà saltarti al collo, peggiorando – o risolvendo definitivamente, dipende dai punti di vista – il danno, che lo faccia pure. Non ti interessa.
“Vado un attimo… Vado un attimo a parlare con il dottore, papà.” Dice lui, apparentemente senza riuscire a smettere di tenere i suoi occhi su di te.
Il Vecchio fa un vacuo cenno d’assenso, e il figlio si stacco dal tuo letto con un lieve tremore delle mani, per poi uscire.
Lo conosci? L’hai mai conosciuto?
Non ti ricordi.
“E’ un bravo ragazzo, quello lì.” Commenta il Vecchio “Viene sempre a trovarmi, e ogni tanto mi porta dei cioccolatini. Anche se non so perché.”
“Ora non verrà più.” Dice L’altro, interrompendo quello che sarebbe stato l’ennesimo, infinito monologo.
“Perché dici questo?”
“Perché anche lui sa chi sei tu.”
Sta parlando con te, guardandoti fisso, come al solito.
Magari sarà L’altro a saltarti al collo, prima o poi.
Passano dei buoni tre quarti d’ora, prima che il figlio del Vecchio rimetta piede nella stanza. E lo fa in un modo molto… discreto, non c’è che dire. Vedi infatti la porta che si apre, dapprima, e la sua figura farsi avanti, per poi, però, voltarsi indietro, ancora con la mano sulla maniglia della porta semiaperta.
“No, io non sto affatto calmo!” Esclama rivolto a qualcuno che tu non riesci a scorgere.
La porta si richiude, e lui sparisce.
Senti comunque delle voci, al di là della porta: una è di quel Johnathan, le altre non riesci bene ad identificarle.
Sei praticamente sicuro che lì fuori stiano litigando a causa tua.
Almeno adesso qualcuno ti considera veramente. Hai dovuto aspettare che fosse un estraneo colui che prendesse una tale iniziativa.
Non che Sherman, i suoi… colleghi o il Vecchio e L’altro siano persone a te familiari, certo. Finora hai avuto sempre a che fare con estranei, in effetti; nessuna persona che tu già abbia conosciuto è venuta fin lì, da te.
Magari neanche può. O non vuole.
Lo reputi un bene, nonostante tutto. D’altronde tu per loro – per chiunque, o quasi – sei sempre stato praticamente un estraneo, no? Cosa pretendi?
E comunque non vuoi che l’ipotetico qualcuno venga fin lì, da te. Magari nessuno di accettabilmente interessante sa addirittura dove ti trovi.
Per un istante ti chiedi persino se quello sia veramente il San Mungo.
La risposta è che stai impazzendo anche tu, probabilmente.
La porta si apre nuovamente, però, e la cosa ti distrae ancora. Torni a guardare la sena, scorgendo Johnathan rientrare velocemente nella stanza, seguito a ruota nientedimeno che dal professor Sherman.
“Non si può fare altrimenti, signor Evans, cerchi di capire.” Dice Sherman, perfettamente udibile, avvicinandosi all’uomo decisamente alterato.
Avverti il cuore battere in maniera strana ancor prima che tu ti renda conto di quanto hai effettivamente appena sentito.
Signor cosa?
Il tuo sguardo passa dal Vecchio e suo figlio e viceversa per due, tre volte. E poi, nell’istante immediatamente successivo, ti senti stolto come pochi. La sua famiglia era babbana. Tutti quanti, nessuno escluso. A parte lei. E quelli che in quel momento stai guardando sono maghi, non Babbani. Non c’entrano niente, con lei. Evans è uno dei cognomi più comuni che ci siano, dopotutto.
Non fare il patetico, per Salazar. Se già abbastanza pietoso.
Non che tu desideri la pietà di qualcuno, sia ben chiaro. Renderebbe tutto soltanto più demoralizzante, e te più furioso.
“Non accetto che qui accada una cosa del genere!” Continua, nel frattempo, a sbraitare Johnathan Evans “Che razza di politica sta adottando questo reparto?”
“Se solo lei mi lasciasse spiegare!”
No. Non vuoi che Sherman si spieghi. Per niente.
“Non ho intenzione di ascoltare una parola di più! Mio padre non rimarrà in questa stanza con quello!”
E, detto questo, se ne va via, di nuovo, sbattendo la porta con forza, tanto che scorgi l’orologio quasi tremare.
Sherman, allora, si volta verso di te con uno sguardo sul volto carico di scuse, ma non ricambi.
Voleva spiegarsi, lui. Lui che sa.
Lo mandi mentalmente al diavolo.
Anche lui si ritira, a quel punto, ma sei certo che lo rivedrai di lì a molto poco, per quelle analisi che ti ha annunciato diverso tempo prima, ormai.
Minerva McGranitt gli avrebbe dato del babbuino, se lei fosse stata in te.
E non puoi non chiederti lei dove sia, al momento. Magari si trova al San Mungo anche lei, o magari invece si trova semplicemente a casa propria; ti chiedi se sia effettivamente ancora viva.
E all’improvviso desideri che qualcuno arrivi lì e che ti spenga il sole.
Alla fine, per fortuna, Sherman torna, accompagnato dal suo fedele allievo. Parla subito con te, una volta fatta la sua comparsa.
“Deve perdonare il mio ritardo, ma c’è talmente tanto da fare, in momenti come questi…”
Lo capisci; ma allo stesso tempo è come se tu non riesca a renderti veramente conto che ancora esiste un mondo, fuori da quella porta. Tutto il tuo mondo in questo istante si concentra in quelle quattro mura, e presumi che ancora sarà così per diverso tempo; più del limite della tua sopportazione, presumibilmente.
Eppure quella porta stai per oltrepassarla anche tu, invece.
Oh, non sulle tue gambe. Non c’è pericolo, a riguardo.
L’infermiere, difatti, si accuccia a terra, e lo senti trafficare con qualcosa di metallico sotto il tuo materasso.
“Ora andiamo a fare un giro, eh, signor Piton?” Ti dice Sherman, provando a fare il simpatico.
Non gli riesce.
Ti rendi conto che non hai sentito il tirocinante parlare, finora, in un piccolo momento di disinteresse.
Non dovresti essere disinteressato riguardo quel che ti accade, e lo sai, ma ultimamente ti riesce fin troppo facilmente.
“La porteremo in un’altra stanza adesso, in un’altra area del nostro reparto.” Continua allora Sherman “Effettueremo dei semplici prelievi del sangue, le daremo delle altre pozioni guaritrici, le cambieremo le flebo sostituendole con altre… Insomma, questo genere di cose.”
Ti fa una sottospecie di sorriso di incoraggiamento che gli mette in evidenza le rughe attorno agli occhi, leggermente… strizzati in quella sua nuova espressione.
Tu, semplicemente, ti volti dall’altra parte, guardando il Vecchio Evans che ora ha ripreso a sonnecchiare, sebbene sia palese che non sia completamente addormentato. Preferisci non posare il tuo sguardo su L’altro, mentre il tirocinante inizia a far muovere il tuo letto, dirigendolo verso la porta.
E così, qualche istante dopo, sei fuori.
È un fuori caotico, un fuori veloce, un fuori fatto di passi affrettati, di guaritori che chiedono alle infermiere se sono passate dal paziente Tale e se hanno eseguito tutte le istruzioni. È un fuori rumoroso, fatto di persone che urlano per farsi sentire fino alla fine del corridoio, velocizzando così i tempi di comunicazione, di passi scattanti, di suoni metallici. È un fuori fatto di sguardi indagatori e bocche che si storcono non appena qualcuno posa gli occhi su di te. È un fuori di disapprovazione quando il guaritore di passaggio si sofferma su Sherman che cammina accanto al tuo letto.
È un fuori agitato, così diverso dal dentro della tua stanza, fatto di invece delle chiacchiere sul nulla e delle occhiate malate di un povero pazzo.
È un fuori che non ti appartiene più.
“Ehi, ehi! Fermi un secondo! È lui? È Severus Piton?” Qualcuno urla all'improvviso, non capisci bene da dove.
Sherman guarda il suo tirocinante e quest’ultimo aumenta il passo, e il tuo letto con lui.
Senti la voce di qualcun atro rispondere alla prima.
“Fuori di qui. Chi l’ha fatta entrare? È un ospedale, questo qui, ci sono dei malati e dei feriti!”
“Sono Rita Skeeter, inviato speciale della Gazzetta del Profeta, e non mi dica fandonie, ho visto che quello lì è l’ex Presi--”
“Può essere anche suo nonno, non le deve interessare, per quanto io glielo consegnerei più che volentieri. Ora fuori di qui!
“Ma io devo… Voi non potete nascondere…!”
Fuori, ho detto!”
Il resto del dibattito si perde nella confusione, fino a quando nessun vociare riesce più a raggiungerti, una volta arrivati alla sala che è stata preparata apposta per te, e non appena la pesante porta viene richiusa, lasciando tutto nuovamente fuori, lontano da te.
Senti Sherman sospirare, mentre distrattamente posi gli occhi su quel medico che già hai visto una volta, già presente nella stanza, da prima di voi.
Neanche lui l’hai mai sentito parlare.
“E’ il caos.” Commenta il professore “Non vedo l’ora che tutto torni com’era, e che questo reparto torni a fare ciò per cui è stato destinato. Sa, signor Piton,” Ti dice “il San Mungo non è mai stato così pieno. Hanno portato qui persone bisognose di cure che in realtà dovrebbero trovarsi totalmente ad altri livelli. Il tutto perché non c’è più posto.” Sospira ancora “Il caos, davvero.”
Sì, beh… Immagini che in tempo di guerra – o comunque subito dopo la fine di una di esse – ci sia parecchio lavoro da fare. E non solo negli ospedali, ma su qualunque fronte; come, per esempio, per quanto riguarda la ricostruzione degli edifici danneggiati o completamente distrutti che siano.
Come Hogwarts, per esempio.
Ti dispiace particolarmente pensare a quel castello. Non avresti voluto che subisse un tale… scempio. Ma in quell’ultimo anno la distruzione era solo stato l’apice degli orrori che erano avvenuti al suo interno. Hai cercato di mantenere l’ordine e il controllo; hai cercato di fare in modo che nessuno si facesse del male – non più dell’irreparabile, perlomeno – quindi il fatto che sia stata perlopiù ridotta in macerie non dovrebbe sconvolgerti. Tutto ciò che è marcio prima o poi finisce col crollare. E in ogni caso alla distruzione – almeno a quello – si può porre rimedio. Alle Cruciatus subite dagli studenti del primo anno, no.
Ma nonostante tutto continui a chiederti che ne sia rimasto di Hogwarts, dei sotterranei, del tuo ufficio – quello di quando eri insegnante – domandandoti se qualcuna delle sue torri sia effettivamente rimasta in piedi. I tuoi pensieri però vanno quasi da soli, di propria iniziativa, alla torre di Astronomia, ennesimo palcoscenico di una rappresentazione teatrale sofferta fino all’ultimo; e così smetti di pensare, tornando ad interessarti al presente.
Ti guardi intorno, allora: la stanza in cui ti trovi non è affatto un’altra stanza da letto, bensì assomiglia di più ad un laboratorio. O comunque all’anticamera di un laboratorio. Oltre la seconda porta che vedi in quell’ambiente, presumi che, appunto, vi siano tavoli con calderoni, fiale, provette, bottiglie, ingredienti, appunti ordinatamente sistemati qua e là.  Per un momento vorresti quasi che Sherman ti ci portasse, per poi riflettere sul fatto che ti dovresti sforzare anche solo per fargli capire una misera frase e oltre al fatto che stai formulando gli stessi pensieri di un bambino che è stato troppo a lungo lontano dai propri giocattoli. Ti stai rendendo insopportabile a te stesso.
In quella stanza, comunque, lasciando allora perdere l’ipotetico laboratorio, si trovano giusto un paio di tavoli, con sopra diversi fogli e cartelle che da quella distanza non riesci a leggere; alle pareti si trovano  scaffali e scaffali di pozioni sistemate in ordine alfabetico e a scopo prettamente curativo, sistemate lì e non nel laboratorio – deduci – in quanto sono ormai pronte per essere somministrate ai più.
C’è una grande finestra, sopra ad uno dei tavoli, dai vetri leggermente opachi, ma dalla quale non entra molta luce, a causa della tendina color ocra chiusa per metà.
“D’accordo, dunque, uhm… Le spiego la situazione, signor Piton.” Riprende a parlare Sherman, e allora ti volti verso di lui “Le daremo dell’altra Pozione Rimpolpa Sangue, diluita con della Pozione Dorata, che sistemeremo qui.” Indica la sacca per la flebo sospesa in aria alla tua sinistra “e fin qui nulla di complicato. Dopodiché dovrà mandare giù una dose di Pozione Corroborante” Afferra una bottiglietta posata su un tavolo e la alza per fartela vedere “ed una di Pozione Cicatrizzante per le ferite interne.” Alza anche un’altra bottiglietta, a quel punto “Infine le daremo – uhm, questa.” Prende tra le dita una boccetta un po’ più spartana “È nuova, è… diciamo decisamente recente, come pozione, tanto che ancora non ha neanche un nome. Prodotta giusto stamattina.” Sherman fa una pausa, mentre tu continui a guardarlo attentamente negli occhi “E…” E’ leggermente a disagio, lui, e tu già immagini il perché “Nessuno l’ha mai provata, lei sarebbe il primo. È stata creata per contrastare gli ultimi effetti provocati dal veleno, ovvero la sua paralisi, signor Piton. Siamo ottimisti, solo che per poter effettivamente scoprire se tale pozione ha effetto, beh, deve prima berla. Ah, abbiamo pensato di addizionarla ad un Filtro Anti Pietrificante, in ogni caso, tanto per andare un po’ di più sul… sul sicuro.”
Oh, perfetto. Adesso sei diventato una cavia.
Ma non hai paura, figurarsi. Ti facciano pure quello che reputassero opportuno; tu li asseconderai con inerzia. Quanto hai da perdere, alla fine?
Sherman continua a guardarti, ma stavolta in silenzio, e tu fai altrettanto.
“E’ d’accordo, sì o no?” Dice poi un’altra voce.
È quel… Abner Qualcosa, che parla, spazientito e col tono decisamente infastidito.
Annuisci nella sua direzione.
“Procediamo, allora.” Conferma, dunque, Sherman, mentre l’altro guaritore distoglie subito lo sguardo da te, concentrandosi poi sulle pozioni, che nel frattempo il tirocinante gli passa celermente tra le mani.
Witherington. Ecco come si chiama. Witherington.
Prima pensano alla flebo, in ogni caso, e a quel miscuglio di Pozioni che ti iniettano direttamente nel sangue: sai che Witherington scollegherà la vecchia sacca fluttuante, ormai sgonfia perché praticamente vuota, togliendoti anche l’ago che ti hanno infilato chissà quando nel braccio, per poter sostituire entrambi con un nuovo ago e con la sacca piena che il tirocinante si affretterà a consegnargli al momento opportuno; prima, però, Sherman provvede con gesti precisi a scoprirti il braccio designato, quello sinistro, sul quale tu non puoi non più evitare di posare lo sguardo.
È decisamente più… magro, rispetto all’ultima volta che l’hai visto, e presumi che allora avrai persino il volto scavato, a quel punto, se il braccio è ridotto così. Ma in ogni caso non è quella la cosa principale che attira la tua attenzione. Tutto il tuo interesse è concentrato sul tatuaggio scuro ancora presente lì, a deturparti la pelle e la carne. Non è sbiadito neanche un po’. È giusto un po’ più opaco, rispetto a… rispetto a quando il Signore Oscuro era in vita.
Difficilmente immagini il giorno in cui smetterai di doverlo guardare. Forse perché quel giorno non arriverà mai, probabilmente. La morte sarebbe stata una soluzione interessante, un modo per poter distogliere lo sguardo da te stesso per l’eternità. Ma neanche quella ti è stata concessa, alla fine, dato che ti hanno deliberatamente fatto tornare.
Noti lo stesso fastidio di prima sul volto di Witherington, la paura negli occhi del tirocinante, lo sforzo di Sherman di mantenere la sua espressione il più neutrale possibile, mentre tutti e tre fissano il tuo avambraccio scoperto.
Ti senti quasi nudo, in quel momento, con una parte del tuo corpo tanto gelosamente nascosta per tutti quegli anni che ora, invece, viene improvvisamente messa alla mercé di chiunque, tanto da farti addirittura venire la nausea, per un istante.
Speri che quei tre si diano una maledetta mossa a finire il loro lavoro.
Ti infilano un ago nel braccio, e vedi il tuo sangue riempire un paio di provette; poi l’ormai comune flebo viene di nuovo collegata al tuo braccio, prima che poi venga rimesso sotto il lenzuolo.
E mentre il tirocinante e Witherington si occupano del preparare le pozioni, Sherman ti rivolge ancora la parola.
“Mi sono reso conto di non averle raccontato nulla dei suoi due… compagni di stanza.” Comincia “Come avrà notato sono dei soggetti piuttosto particolari. Oh, niente di estremamente preoccupante, sono perlopiù completamente innocui,” Perlopiù?  “ma con delle singolari storie alle loro spalle. Il più anziano è il signor Evans, ma lo è solo di un paio di anni, rispetto all’altro paziente. Ha subito un incidente, in passato, che l’ha reso completamente… distaccato dalla realtà. Sembra non gli interessi molto ciò che succede intorno a lui, rimanendo costantemente… docile. L’incidente che gli è capitato è ovviamente un’informazione riservata, ma tanto pare che lui l’abbia completamente rimosso dalla propria mente.”
Vedi Witherington avvicinarsi a te, a quel punto, e anche Sherman smette di parlare, mentre il primo ti solleva la testa col mano per farti bere la prima e la seconda pozione.
Ti ripeti che il paragone con la pianta è decisamente calzante.
Quando poi la tua testa tocca nuovamente il cuscino, Sherman riprende il filo del discorso.
“L’altro uomo è il signor Kozlov. È stato… imprigionato ad Azkaban tanti anni fa. Per errore, dicono, ma non ne sono mai stati tanto sicuri neanche loro. Fatto sta che hanno tentato di condannarlo al Bacio del Dissennatore per ben tre volte, e al terzo tentativo erano quasi riusciti a completare l’operazione, ma poi qualcosa è andato storto. È stata un’esperienza traumatica, per lui, e alla fine l’hanno portato qui, in preda al delirio; ha una paura viscerale per i Dissennatori, il signor Kozlov.” Sherman sospira “Come biasimarlo.”
Non riesci neanche ad elaborare l’informazione che Witherington ti alza nuovamente la testa.
Tu cerchi di scrollarti la sua mano di dosso e di tenerti sollevato con le tue forze. Il collo tira, e ti pizzica, ma neanche ti interessa.
Sei soddisfatto quando non senti più la mano di quello lì dietro la tua nuca.
La pozione che ti… offrono, quella nuova, quella… sperimentale, la mandi giù senza battere ciglio. È dolce, quasi smielata, e per un momento fai una smorfia, non piacendoti il sapore. Poi però metti di nuovo giù la testa, lentamente, dato che il collo ti pizzica in un modo infernale, e così rimani fermo, aspettando.
Sarà un eterno attendere, d’ora in poi.
Ti irrigidisci appena – o comunque irrigidisci ciò che ancora puoi irrigidire volontariamente – quando percepisci le tue gambe farsi pesanti.
Non che ciò significhi che una parte di te si sia finalmente data una svegliata, anzi: se prima non sentivi nulla adesso senti i tuoi muscoli tutti inequivocabilmente, profondamente addormentati, e gonfi.
Non è una delle migliori sensazioni.
“Ora non ci resta che aspettare.” Dice Witherington.
Ci eri già arrivato da solo, in ogni caso.
Sherman annuisce, e apre la bocca per dire qualcosa, ma un rumore gli fa cambiare idea, spostando altrove anche la tua, di concentrazione: qualcuno sta bussando alla porta, e proprio per questo, allora, il tuo… unilaterale interlocutore si allontana da te, andando proprio alla porta. La apre giusto di uno spiraglio per poi piazzarsi prepotentemente di fronte ad esso, in modo da impedire la visuale dell’interno della stanza.
Solo che impedisce anche a te di capire che cosa stia effettivamente succedendo, dato che, per quanto tu possa voltarti, tutto ciò che vedi è la schiena di Sherman.
Lo senti bisbigliare, ed istintivamente alzi entrambe le sopracciglia, mentre guardi la scena.
Poi il professore richiude delicatamente la porta, e dopo un momento si avvicina nuovamente a te.
“Chi era?” Chiede allora Witherington.
Sherman non sembra molto propenso a rispondere, all’inizio. Forse si trattava di qualcosa di poco piacevole? Di nuovo Rita Skeeter, magari, riuscita nuovamente ad entrare?
Ma in quel caso dubiti che un lieve bisbiglio abbia potuto farla desistere da suoi discutibili intenti di pseudo-giornalista.
Poi, però, Sherman si schiarisce la voce.
“Era Harry Potter.” Risponde.
Non sai neanche come definire lo stato d’animo che ti pervade.
Guardi i volti degli uomini che hai davanti, l’ammirazione nei loro occhi al sol sentire pronunciare il nome di Potter.
Lui è venuto lì. Ed è probabile che sia venuto per cercare te.
Disagio, ecco cosa provi. Disagio nel ricordare ancora una volta cosa è successo tra di voi non molti giorni prima, nella Stamberga Strillante.
Sei sollevato che Sherman non l’abbia fato entrare, e speri che se ne sia andato. Se non dal San Mungo, perlomeno da reparto in cui ti trovi tu.
Speri che non ritorni.
“Cercava lei, signor Piton.” Continua Sherman – appunto, come pensavi “Ma gli ho detto che al momento avevamo da fare.”
Lo guardi freddamente, senza lasciare trasparire nemmeno un grammo d’espressione. Occlumante fino in fondo, come sempre, anche nei momenti in cui potresti farne a meno, forse.
“Sì, beh… Adesso – er – allora procederemo con la sostituzione della seconda sacca della flebo, le medicheremo la ferita, e poi la riporteremo nella sua stanza.”
Una giornata terminata in bellezza, non c’è che dire.
E così, allora, non fai altro che chiudere gli occhi. E ti prepari.







Angolo autrice:

Buon salve! E' arrivato il nuovo capitolo! (Grazie tante, l'avete appena letto, non c'è bisogno che io ve lo dica.)
Niente di particolare da dire, giusto... Se qualcuno/a se lo sta chiedendo, specifico subito una cosa: il susseguirsi degli eventi sarà sempre più o meno così... lento, se vogliamo usare questo termine. D'altronde, dato l'argomento, mi pare che di azione battagliera non ce ne sia molto bisogno xD Ah, e più o meno i capitoli saranno quasi sempre lunghi così (sto migliorando, sotto questo punto di vista! :D).

Visto che ci sono, come ormai sto facendo ultimamente, vi invito tutti quanti ad aprire questo link di Facebook e a mettere un 'mi piace' al mio racconto che troverete. Vi ci vogliono un paio di secondi scarsi! E' per un concorso, e chi vince riceverà una borsa di studio per un corso di narrativa! Sono sempre seconda in classifica XD
Mi aiutate? Vi ringrazio di cuore <3
Ecco il link:
cliccate qui ---> 
In equilibrio

Okay, ora ho ufficialmente finito :)
Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate del capitolo (insomma, recensite, per farla breve xD)!
Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


Capitolo Tre

 
 

Sai di essere nuovamente sveglio, dopo una notte di continuo dormiveglia.
Hai sentito fastidio in tutto il corpo per tutta la durata del buio. Delle fitte, più che altro, che arrivavano improvvise e che ti hanno continuamente svegliato di soprassalto. Non che fossero particolarmente dolorose, difatti, dopo qualche breve momento in cui hai digrignato i denti, esse sparivano semplicemente, e tu, ogni volta, ti sei riaddormentato quasi di colpo, in attesa del sussulto successivo.
Quando poi, allora, apri gli occhi, la prima cosa che vedi è uno strano fulgore, ma poi, mettendo meglio a fuoco, ti rendi conto che si tratta più semplicemente di un bagliore di denti. E, a questo punto, noti anche chi sia il proprietario di quel brillante e dirompente sorriso.
Oh, no, lui no.
“Ci conosciamo, signore?”
C’è un uomo – un fastidioso, fastidiosissimo uomo – chinato sul tuo letto. E’ sorridente – ormai l’hai capito – e ti guarda, sebbene con un interesse piuttosto flebile.
Ti vede, ma non riesce a guardarti davvero.
“Lei di sicuro mi conosce, però.” Continua il momentaneo intruso, che altri non era se non Gilderoy Allock “Qui pare che mi conoscano tutti. E Glady Gudgeon mi scrive sempre, tutte le settimane. Lo vuole, un mio autografo?”
E’ pazzo, completamente andato.
Ti era giunta voce, in effetti, che fosse finito al San Mungo, ma ovviamente non avevi dato alcun peso alla notizia.
Ma chi diamine l’aveva fatto entrare?
“Oh, ciao, Gilderoy!” Esclama poi il Vecchio, e temi proprio che se quei due si mettano a parlare ci sarebbe il rischio che Allock non se ne vada più.
Vedi quest’ultimo, non appena si sente chiamato, mettersi ritto con la schiena e portarsi una mano ad un fianco; tira leggermente indietro la testa, ondeggiando i capelli biondi, ora appena più lunghi di quando li hai visti l’ultima volta.
“Che ci fai qui, Gilderoy?”
“Perlustro, naturalmente.” Risponde Allock rimanendo in posa “E ho fatto bene, perché ho trovato questo nuovo inquilino!”
Ti indica, e tu fai una smorfia, puntando per un attimo lo sguardo verso il muro.
“E sono sicurissimo che io e lui ci conosciamo, per giunta!”
“Beh, non vi siete forse appena presentati?”
“No, no, io intendo da prima.”
Vedi il sorriso di Allock sparire improvvisamente dal suo viso e la sua espressione farsi concentrata, quasi cupa. L’ombra passeggera nei suoi occhi è quella di chi cerca disperatamente di ricordare qualcosa.
Poi, però, il sorriso gli si accende di nuovo.
“Oh, non importa.” Dice, e poi posa una mano sul tuo braccio inerme, guardandoti.
Senti la tua carne formicolare, sotto le sue dita.
“Se ci conosciamo siamo amici, no?”
Non esattamente.
La porta si apre, a quel punto, ed entra una corpulenta infermiera di colore. Guarda nella stanza con aria preoccupata, ma poi, quando scorge Allock, i lineamenti dei suo viso si rasserenano.
“Gilderoy, eccoti qua!” Dice, avvicinandosi “Quante volte ti ho detto che non devi uscire da solo?”
“Ero in perlustrazione.”
“Sì, come sempre.” Cantilena l’infermiera posando una mano sul braccio di lui.
Allock, invece, si volta nuovamente verso di te.
Lo fissi senza espressione.
“La prossima volta ti faccio un autografo.” ‘Ti’ “Adesso scrivo in un perfetto corsivo! Beh, quasi.”
“Sì, sì, ma adesso andiamo.” Fa la donna, e a quel punto ti getta una veloce occhiata.
Vedi chiaramente i suoi lineamenti tendersi di nuovo.
La mano che prima era semplicemente poggiata sul braccio di Allock ora va a finire sulla sua spalla, in un improvviso abbraccio protettivo e materno.
Come se tu lo potessi affatturare da un momento all’altro.
Non che la tentazione non sia forte, comunque.
L’infermiera trascina via Allock praticamente di peso – finalmente – e lui si lascia guidare, quasi sia completamente spaesato. E lo è, in effetti.
“Ciao a tutti!” Fa lui, prima di uscire dalla stanza, salutando i presenti con un movimento del braccio fin troppo teatrale, per i tuoi gusti, prima che la porta si richiuda.
E dire che di teatralità dovresti intendertene fin troppo, se consideri il tuo ampio mantello nero.
“E’ proprio simpatico, quel tipo.” Comincia il Vecchio “Ha fatto un autografo anche a me, tanto tempo fa, ma ancora non riusciva a scrivere tutto attaccato. Sono proprio curioso di vedere quello che porterà a te, ragazzo.”
Alzi gli occhi al cielo.
Oh, ma per favo-
Ti blocchi, prima di finire la frase. Perché non l’hai solo pensato, l’hai detto sul serio.
È stato solo un sussurro, un miscuglio di suoni graffianti, ma non è questo il punto.
Parli di nuovo. Ti è tornata la voce.
Deglutisci, e poi ti schiarisci delicatamente la gola.
Ti giri verso il Vecchio e ti umetti le labbra. Apri la bocca, ma poi la richiudi.
Poi ci ripensi.
“Signor Evans…?” Dici, e il Vecchio si volta verso di te come se nulla fosse, facendoti un sorriso di circostanza, per far capire di essere in ascolto.
Sì, parli; ma quella di sicuro non è la tua voce, non quella solita, almeno: è roca, ma alla stesso tempo… stridente, come il suo del gesso che graffia sulla lavagna.
Ma al momento non ti interessa se il rumore che ti esce dalle labbra ha ormai poco a che fare col suono di velluto con cui prima rimproveravi i tuoi studenti.
Parli; e ti basta, per ora.
“Cosa c’è, ragazzo?” Ti chiede comunque il Vecchio, dato che l’hai appena chiamato.
Non gli deve sembrare vero…
“Nulla.” Rispondi, piano, come a volerla preservare, la tua voce, come se ne avessi una quantità limitata a disposizione.
Torni a guardare il soffitto, a quel punto, chiudendo la bocca senza aggiungere nient’altro.
Hai di nuovo acquistato la voce, sì, ma non è che tu abbia veramente voglia di parlare con qualcuno, in effetti.
E così, semplicemente, aspetti. Alla fine non è che sia cambiato davvero molto. Sei sempre al San Mungo, sempre in quella stanza, sempre con degli aghi infilati nelle braccia e sempre immobile, nel tuo letto.
Certo, è un miglioramento, ma l’esaltazione – sebbene piccola – che hai provato qualche minuto prima si è già dissipata, inglobata dalla più ragionevole logica e dal più comprensibile pessimismo.
E quindi… Aspetti, e i secondi passano lenti come quando la voce ancora non l’avevi. Il Vecchio parla, parla, e L’altro fissa, come sempre.
Poi, però, dopo un tempo che ancora ti sembra indefinito se non ti volti verso l’orologio, entra il tirocinante, per svolgere le sue… quotidiani mansioni. Su di te, peraltro, ma hai smesso di pensarci e svuoti la mente ogni volta che succede: di solito ti volti verso il muro e rimani così per tutto il tempo, senza che neanche il tirocinante dica mai una parola. Credi che suderebbe freddo solo per pensare a cosa dire.
Quel giorno, però, la voce tu l’hai di nuovo acquistata, e potrebbe risultare particolarmente… interessante prendere il ragazzo praticamente alla sprovvista. Se sei fortunato, magari salterà pure per aria. In ogni senso.
Così, stavolta, quando lui si avvicina al tuo letto, tu non scosti lo sguardo da lui; lui ovviamente se ne accorge,  vedi il suo pomo d’Adamo andare su e giù per almeno tre volte consecutive. Ghigni, tra te e te. Quando poi lui inizia a tirare via il lenzuolo da te, ammucchiandolo ai tuoi piedi, lo lasci fare; quando però finisce l’operazione, invece, schiarisci ancora la voce.
Attiri immediatamente la sua attenzione – più immediatamente di così non si sarebbe potuto, dato che si volta come se tu l’abbia appena colpito con un oggetto contundente.
Incurvi un angolo delle labbra, osservando la sua espressione terrorizzata. Strano come la sua, di espressione, a pensarci, non ti dia poi così fastidio. Forse perché ti ricorda uno dei tuoi studenti, trovato a girovagare nel Reparto Proibito della biblioteca.
Forse riesci persino a sopportarlo, quel tirocinante, così inesperto ai tuoi occhi.
“Desidererei parlare con il professor Sherman.” Dici, col tono del ghiaccio che si rompe.
Lui non si può dire che abbia veramente fatto un salto in aria, ma perlomeno sussulta.
“Lei… Lei parla.” Farfuglia.
“Sì, sono stato dotato di tale facoltà quasi quarant’anni fa. Ora, se per lei non è di troppo disturbo…”
“Sì. Sì, immediatamente.”
E fugge via, in pratica. Quando però giunge alla porta torna velocemente indietro per risistemarti alla bell’e meglio il lenzuolo che in teoria ti ha appena tolto, rimandando quella spiacevole operazione a più tardi. Dopodiché fugge davvero.
Ghigni di nuovo, voltandoti verso l’orologio; in fondo è stata la seconda cosa interessante della giornata. Ti sei concesso un paio di secondi di mero diletto, alla fine.
Guardi di fronte a te, allora, e come al solito L’altro ti sta fissando. Fai una smorfia nella sua direzione, e per un attimo lui si volta da un’altra parte. Per poco, certo, un secondo dopo è come se nulla fosse successo. Ma adesso, perlomeno, hai avuto un terzo momento di diletto.
Se è stato Allock, col suo contributo, a portare a quello, allora forse non è poi così inutile come sembra. Anche se lo ha fatto involontariamente.
Pochi minuti dopo, in ogni caso, la porta si riapre di scatto, e compare il ragazzo, apparentemente un briciolo più calmo di prima, assieme al dottor Sherman, che ti raggiunge immediatamente.
“Signor Piton!” Esclama, quasi col fiatone, segno che è arrivato correndo da chissà dove.
Oh, allora sei un paziente importante…
“Signor Piton.” Continua, con una luce nuova negli occhi “Bruce mi ha detto che riesce a parlare.”
Bruce? E ora chi diavolo è Bruce? Oh, sì: il tirocinante. Allora ha un nome anche lui, dopotutto.
Annuisci.
“E’ così, infatti.” Rispondi, gracchiando leggermente.
Ora sembreresti decisamente un corvo, non c’è dubbio.
Sherman unisce le mani producendo un lieve battito sordo.
“Bene. Bene! È un’ottima notizia, un passo alla volta. Mi dica, riesce anche a muovere qualcosa?”
Non ci hai neanche provato, in effetti, dando per scontato che nulla sia cambiato, in quell’ambito.
Chini il capo guardando la tua stessa figura, e tenti di stringere i pugni.
No.” Rispondi laconicamente dopo un paio di secondi.
La luce negli occhi di Sherman assume un nimbo di delusione.
“Oh. Beh… Come ho detto, un passo alla volta, uno alla volta. Ora devo andare, in ogni caso. Bruce, per favore…”
Le sue ultime parole si perdono nell’aria, e non odi neanche il rumore dei suoi passi o la porta che si richiude. Avverti il tirocinante toglierti nuovamente il lenzuolo di dosso, ma come ogni altra volta, adesso, stai guardando verso il muro bianco.
Pensi soltanto al fatto che nel momento in cui hai cercato di stringere le dita a pugno – e non ci sei riuscito – hai percepito la mano sinistra formicolare più di quanto abbia fatto sino a quel momento.
Ci hai sperato, per un istante, e ti stavi sforzando davvero di muoverle, quelle maledette dita, sebbene la tua espressione fosse imperscrutabile.
Lascia il sapore amaro in bocca, il fallimento.
Per non sai neanche tu quanto tempo, all’inizio, non pensi assolutamente a niente. Buffo, quando invece sei un uomo che pensa sempre, che vuole sempre avere tutto sotto controllo – o perlomeno ci prova.
Ma a cosa dovresti pensare? Alla guerra? Al fatto che sia finita, al fatto che il Signore Oscuro sia finalmente stato sconfitto? Al fatto che lì, fuori dal San Mungo, ci saranno orde di persone che vorrebbero la tua testa su un vassoio d’argento? Al fatto che Potter, per calmare le acque, riveli a destra e manca tutto il tuo passato?
Certo, sempre che tu gli stia abbastanza a cuore da prendersi il disturbo, ma ne dubiti.
A che dovresti pensare? Al tuo futuro?
Tu non ne hai. Neanche stavolta.
Due sarebbero le strade alle quali potresti essere destinato: una vita al San Mungo, in quella stanza, a lottare contro la noia, ad ascoltare le chiacchiere del Vecchio e a sopportare le occhiate malevoli del L’altro – e dovresti smetterla, a pensarci, di chiamarli così. Una vita da infermo, una vita da paralitico, confinato in quel letto per chissà quanto tempo, chissà quanti anni, se non fino alla fine dei tuoi giorni.
E l’altra strada quale sarebbe? Tornare a casa – o meglio, quella che dovrebbe esserlo ma che non hai mai reputato tale, guarito, magari, ma per far cosa? Per rimanere chiuso lì, tra le ombre, a sopportare le occhiate non di una sola persona, stavolta, ma di chiunque avresti incontrato ogni volta che avresti messo il naso fuori di casa. E non sai se quelle occhiate possano essere malevole, stavolta. Quelle sono più facili, da sopportare, sebbene estremamente fastidiose. Ti immagini già che tutti quelli che potresti incontrare avranno lo sguardo pietoso di Sherman, come la prima volta che hai incontrato lui. E tu finiresti per chiuderti in casa, per non uscire mai, per vivere tra quattro mura che detesti.
In ogni caso, qualunque sia la strada, finiresti prigioniero comunque.Sarebbe questo, il tuo futuro?
Tu non lo vuoi.
Basta. La tua vita si è conclusa alla Stamberga Strillante. Quello che vivresti d’ora in poi sarebbe solo un… riflesso. Un fantasticare costantemente – e penosamente – su quello che avrebbe potuto essere e che invece non sarà mai.
Immagini quali potrebbero essere le tue future giornate, in entrambi i casi.
Estremamente deprimente.
La tua vita è finita alla Stamberga Strillante, ti ripeti. Non ha senso continuare a svegliarsi tutte le mattine. Hai concluso quello che dovevi fare, Potter è vivo e il Signore Oscuro è morto. Fine.
Non hai più uno scopo. Che cosa esisti a fare? Cosa pensi di fare, adesso? Ti rimane solo aspettare la tua, di fine?
Credi di sì.
Perché la tua vita è davvero finita su quel pavimento alla Stamberga Strillante, con le zanne di Nagini conficcate nella tua carne.
Tu, un futuro, non pensi proprio di volerlo.
Ecco, a questo porta il mettersi a pensare per far passare il tempo, e non ti sorprendi che quelli intorno a te siano dei pazzi, a questo punto. Il piacere provato per essere tornato in possesso della facoltà di comunicare è già sparito da un po’.
Devi trovare qualcosa da fare, qualcosa che ti tenga la mente impegnata, se non vuoi fare la stessa fine loro. Va bene che non vedi vie d’uscita, di fronte a te, ma diventare un… demente non la consideri una delle possibili opzioni.
 
…Mosche Crisopa, da lasciar stufare per ventuno giorni, sanguisughe, erba fondente, da raccogliere durante la luna piena…
Sono ore, presumibilmente, che stai tenendo la mente occupata elencando gli ingredienti di ogni pozione che conosci.
…centinodia, corno di Bicorno…
Ovviamente vai in ordine alfabetico. Sei partito dall’Amortenzia ed ora sei arrivato quasi alla fine della lettera ‘P’.
pelle tritata di Girilacco, ed un pezzetto della persona… utile allo scopo.
Stai pensando alla Pozione Polisucco, naturalmente, e le labbra ti si arricciano in un’espressione soddisfatta quando ti rendi conto di esserti ricordato tutto senza commettere errori. Ti sta venendo piuttosto spontaneo, ultimamente, testare la tua memoria, a dire il vero. Specie da quando hai visto Allock, quella stessa mattina.
Ora è pomeriggio, di già, e non vedi l’ora che si concluda anche quell’ennesima giornata.
Il fatto è che è appena iniziata la fase del giorno destinata alle visite ai pazienti, e sei sicuro che di lì a poco verrà anche il signorino Evans, a far visita a suo padre. Non che tu gli dia tanta importanza, ma speri eviti di sbraitare come un ossesso, dato che non puoi semplicemente prendere ed andartene per evitare che sopraggiunga un mal di testa.
Neanche finisci di formulare questo pensiero che la porta si apre e Johnathan Evans entra nella stanza.
Dovresti raccontarlo a Sibilla, di averci azzeccato in pieno, tanto per vedere la sua smorfia di finta indifferenza e i suoi occhi spostarsi da qualche parte, al di là dei suoi spessi occhiali.
O magari no.
Evans ti guarda subito, ma non appena ricambi sposta gli occhi su suo padre. Ha un pacco tra le mani… Saranno i cioccolatini che ogni tanto gli porta.
“Ciao, papà.”
Come la prima volta che quel giovane uomo è stato lì, ti volti dall’altra parte, e chiudi gli occhi per evitare di costringerti a guardare perennemente un punto fisso.
“Ti ho portato questo.”
“Che cos’è?”
Senti il rumore della carta che si strappa.
“Una radio.”
“Ti piace?”
“Non mi piace la musica.”
Sei dello stesso esatto parere.
“Sì, lo so… Ma puoi sentire qualcos’altro, oltre alla musica. Può tenerti un po’ di compagnia.”
“Sì, questo è vero. Grazie, ragazzo.”
Continuano a parlare, ma tu non li ascolti più già da un po’.
Dunque. Preparazione della Pozione Polisucco.
Raccogli le idee e stili una veloce lista dei procedimenti e dei passaggi, fino a giungere al punto finale: aggiungere un capello, un’unghia, qualsiasi cosa della persona di cui si vuole assumere l’identità, al preparato, ed attendere qualche minuto prima di bere.
Tu non l’hai mai provata, la Pozione Polisucco, e ti chiedi che gusto – o comunque che sapore – abbia. Non l’hai mai presa neanche quando eri Mangiamorte, durante una delle tue… missioni, per celare il tuo vero viso; per quello esistevano le maschere argentate, indossate con fierezza.
Quando uscirai da lì magari potresti provare, una volta, tanto per sperimentare.
O magari potresti pure iniziare a prenderla come un’abitudine, per evitare quegli stupidi sguardi ogni volta che andresti in giro. Perché no? Potresti, semmai uscirai dal San Mungo, assumere l’aspetto di un Babbano qualunque e vivere la tua semplice, tranquilla, monotona vita senza che nessuno ti disturbi più.
…Bah, hai indossato maschere peggiori. La tua stessa faccia è una continua maschera.
Ti rendi conto di quanto sia stata un’idea stupida anche solo pensarlo. Così non solo ti sentiresti prigioniero nella tua stessa ‘casa’, saresti anche dipendente da una pozione il cui effetto è limitato. Prigioniero di un preparato solo per non dover sottostare ai giudizi altrui, come un perfetto codardo – anche se non prettamente dal punto di vista fisico.
Bella prospettiva.
Non sei mai stato un codardo, e non ti è mai importato del giudizio degli altri, quindi ti sorprendi persino di aver pensato ad una soluzione talmente idiota.
Sospiri, e allora passi ad elencare mentalmente gli ingredienti della Pozione Restringente.
Quando sei ormai arrivato alla lettera ‘U’, però, una parola del discorso tra padre e figlio cattura la tua attenzione.
“…con questo Mangiamorte.” Sussurra Johnathan, non sai se perché crede che tu stia dormendo per via dei tuoi occhi chiusi, oppure se per cercare di non farsi sentire da te.
Punti sulla seconda.
Lentamente ti volti, il collo leggermente indolenzito per non essersi mosso per tropo tempo, e guardi la scena: Johnathan Evans seduto sul bordo del letto del Vecchio, più o meno all’altezza dello stomaco di quest’ultimo, proteso in avanti verso di lui, come a volergli rivelare un segreto.
“Non mi dà fastidio.” Senti – e vedi – mormorare dal Vecchio.
Non si sono ancora accorti dei tuoi sguardi, loro.
“Ma lo sai cosa ha fatto? Ha ucciso Albus Silente. Ti ricordi ti Albus Silente?”
“Albus Silente è anziano.”
“Era, papà, era. E l’ha ucciso l’uomo nel letto accanto al tuo. È un manipolatore, un approfittatore, e non voglio che tu stia a contatto con lui.”
Come se la malvagità possa attaccarsi come un comune virus.
“Io invece vorrei” Ti ritrovi a dire tu, invece, raggelando il sentito discorso del giovane Evans “che le cose me le si dicessero in faccia.”
Il ragazzo sussulta, girandosi di scatto verso di te.
Nel notare la sua espressione fai un involontario ghigno.
“Lei invece non dovrebbe origliare.” Ti risponde però lui a tono, dopo un breve istante di esitazione.
“Sono confinato in questo letto. Il minimo che lei può fare, allora, è parlare di cose che non mi riguardano.”
“Cos’è, le dà fastidio?”
“Più che altro a lei dovrebbe dar fastidio nascondersi dietro un sussurro.” Ribatti “Potrebbe andare ad intaccare la sua… virilità.”
Lui arrossisce di furore e di imbarazzo.
Poi lui si alza, facendo un passo in avanti nella tua direzione.
“Lei dovrebbe solo ringraziare di non trovarsi in mezzo alla strada. Noialtri non dobbiamo niente a che vedere con gente come lei. Io non sto zitto solo perché lo vuole lei; se voglio parlare di lei lo faccio, che lei sia o meno bloccato sul suo materasso.”
Non ti scomponi più di tanto. Immagini che Sherman l’abbia informato della tua immobilità, ed è sicuramente per questo che lui fa tanto lo spavaldo.
“E non permetterò che lei divida la stanza con mio padre.”
In realtà sei piuttosto stanco di ascoltare di nuovo una tale tiritera.
“Eppure” Rispondi, sperando di chiudere così il discorso “sono ancora qui. E a suo padre non sembra dare troppo fastidio. Non è vero, signor Evans?”
Ti volti appena, e il Vecchio ti sorride, con gran disappunto di suo figlio.
Ne sei praticamente certo, notando l’espressione di quest’ultimo: prima o poi ti salterà al collo.
Chissà, magari inconsciamente – neanche troppo ‘inconsciamente’, forse – lo stai provocando apposta per questo.
Oh, sei un ingrato. Avresti potuto ritrovarti in mezzo alla strada, a quest’ora.
Johnathan sembra fare un grande sforzo per non risponderti ancora. Lo noti dal modo in cui cerca di mantenere il proprio sguardo sul volto del padre, l’eccessiva forza nel serrare la mascella. Dev’essere frustrante preoccuparsi di dove debba vivere suo padre quando non pare importare neanche al diretto interessato.
A te invece non è mai importato della sorte toccata a tuo padre.
Ti volti nuovamente verso il muro, a quel punto, così magari quell’impavido ragazzino avrebbe ripreso a respirare normalmente. E gli occhi ti si chiudono quasi da soli, la gola ti pizzica perché forse hai parlato troppo, ma non ti addormenti, rimani così, progetto che stavi portando avanti già non molti minuti prima; ma sarebbe più corretto dire ‘non molti giorni prima’. Non lo sai neanche tu per quanto tempo rimani così – forse ti sei perfino addormentato, alla fine, ma quando riapri gli occhi non senti più parlare come prima. L’unico rumore che senti sono i passi di Johnathan Evans che si sta dirigendo verso la porta per andare via.
Getti un’occhiata all’orologio, rendendoti conto che mancano pochi minuti alla fine del tempo dedicato alle visite ai pazienti.
Quando guardi nuovamente verso Johnathan, lui sta aprendo la porta, e come è giusto che sia non ti sta degnando di uno sguardo.
La porta si spalanca, e i suoi occhi si ingrandiscono, la sua bocca si apre in un’espressione di pura e quasi raggiante sorpresa.
La tua è solo perplessa.
Harry Potter?” Dice con un fil di voce, ma tu lo senti benissimo.
Chiudi di nuovo gli occhi, istintivamente.
E ti senti un codardo, considerazione che ti fa infuriare, specie quello che ti sei detto proprio quello stesso giorno, riguardo a quell’argomento. Ma nonostante ciò non ti muovi – non muovi nulla dal collo in su – comunque. Potresti dar l’impressione che tu stia veramente dormendo.
“E’ un piacere incontrarla.” Senti parlare il giovane Evans con voce quasi… adorante “Lei ha fatto tanto, per noi.”
“Sì, beh… Non c’è mica bisogni che lei mi ringrazi, ho fatto quel che era giusto.”
Senti Johnathan ridere.
Non ti interessa, ti senti già abbastanza investito dalla voce di Potter. Speravi che Evans stesse avendo una sorta di allucinazione, e invece, sfortunatamente, no.
“Come mai è qui?” Continua poi Evans.
“Sono venuto a trovare – ehm… il professor Piton. È questa la sua stanza, no?”
“Ah.” Per qualche secondo nessuno parla “Come mai?”
Invadente.
“Questioni personali. Anche lei è venuto per--”
No. È mio padre, che si trova qui. Per ora. Ehi, papà, hai visto? Harry Potter.”
“Oh, un parente di Henry C. Potter?”
Qualcuno sospira.
“E’ così da un po’.”
“Sì, capisco.”
“La lascio ai suoi… affari, allora.”
“Grazie. Magari ci rivediamo qui intorno.”
“Oh, ora è lei che ringrazia me?”
Johnathan ride; poi la porta si richiude, dopo qualche istante, e presumi che l’unico in piedi nella stanza, ora, sia Potter.
All’inizio c’è solo silenzio, prima che il Vecchio – chi altri, dopotutto? – si metta a trafficare con la sua nuova radio.
Senti dei passi, lo strusciare di una sedia che di solito rimane semplicemente addossata al muro. Il rumore di qualcuno che si siede troppo vicino a te.
Tu, ovviamente, non dai segno di volerti ‘svegliare’.
Vuoi che se ne vada. Perché diamine è venuto? Cosa pretende, di poter semplicemente fare quattro chiacchiere come due amici che non si rivedono da tempo?
È patetico. Lui è patetico, tu ti senti patetico, tutta quella maledetta situazione lo è.
Dalla radio escono le voci di quelli che dovrebbero essere gli interpreti di una telenovela di basso livello, e il Vecchio non cambia stazione.
“Sa,” Dice poi Potter, all’improvviso “mi sembra quasi di star parlando con un uomo in coma,” Forse lo sei “ma sotto un certo punto di vista è quasi meglio. Che-Che lei stia dormendo, intendo. Non saprei neanche per bene cosa dirle, se fosse sveglio, in effetti.”
E allora vattene.
“Forse sarà meglio tornare quando lei sarà sveglio, non ha molto senso che io parli a vuoto.” Sublime, non è vero? È la stessa sensazione che hai sempre provato tu ogniqualvolta gli dicevi qualcosa “E poi potrei anche correre il rischio di fare, adesso, uno di quei sentiti e spontanei discorsi totalmente inutili per il fatto che lei non potrebbe ascoltarlo; come in un film.” Pausa “E’ meglio che ritorni un’altra volta.”
Il rumore della sedia che struscia sul pavimento e quello di una persona che si mette in piedi.
“Anche se mi sarebbe piaciuto” Aggiunge però Potter a voce un po’ più bassa “che lei mi avesse parlato almeno una volta di mia madre.”
Stringi i denti quasi involontariamente, ma Potter non dà segno di essersi accorto di qualcosa, fortunatamente.
Con quale faccia tosta, ora, viene da te pretendendo una cosa del genere? Con il rapporto che avevate, poi. Te la immagini, la scena: voi due, seduti su delle poltrone, in silenzio; lui che ti detesta e tu che detesti lui; un clima idilliaco per mettersi a parlare dei ‘bei tempi andati’.
E poi ti vengono a dire che non devi considerare Potter uno stupido.
Albus, in particolare, te lo diceva in continuazione. Ti diceva tante cose, così come te ne ha sempre nascoste tante altre. Diceva che lo faceva per te.
L’ultima cosa che ti ha chiesto, però, non l’ha fatta pensando a te. Lo odi perché ti ha chiesto un favore del genere, e poi odi te stesso per aver pensato di odiarlo. Sei sempre stato piuttosto incline all’odio.
Anche a qualche altro sentimento, certo, ma l’odio si dibatte sempre, cercando di prevalere.
Stai impazzendo.
Senti i passi di Potter allontanarsi, in ogni caso, e poi la porta aprirsi e chiudersi. Se n’è andato, ma aspetti qualche minuto, prima di aprire gli occhi.
È tutto estremamente patetico, sì. E deprimente.
Non possono semplicemente lasciarti al tuo triste destino, senza cure, senza niente? No, ora non possono. Avrebbero potuto, prima, ma non l’hanno fatto, e ancora una volta devi ringraziare Potter, per questo.
“Perché Il Bambino Che E’ Sopravvissuto è venuto a trovare te?” Dice proprio in quel momento L’altro, interrompendo ogni tuo ragionamento.
Ci voleva Potter per convincerlo ad  iniziare una conversazione con te. Non che tu lo voglia così ardentemente.
“Presumo che Potter sia grande abbastanza – più o meno – per fare quello che vuole.”
“Ma perché te?”
“Non ho detto che le sue scelte debbano essere condivisibili.”
“Non ne sei degno, tu.”
Degno? Tu non sei degno di Potter?
Ma non hai voglia di discutere con un pazzo – perché quello è – di argomenti più grandi di lui.
“Ti basti sapere” Rispondi comunque – ti piace avere sempre l’ultima parola “che senza di me Potter a quest’ora non sarebbe qui.”
Davvero? Non eri stato tu a dirgli indirettamente di dover morire? Sono diverse, effettivamente, le cose che non sai.
Lui ti guarda con una smorfia, ma, allo stesso tempo, noti il dubbio insinuarsi nei suo occhi allucinati.
Sì, ti piace decisamente avere l’ultima parola.
Nel frattempo il Vecchio pare star apprezzando le vicissitudini amorose che le due stucchevoli voci narrano alla radio. Ti ci mancava solo quello, ma perlomeno d’ora in poi l’unico rumore ascoltabile non sarebbe stato il vociare perenne e senza un filo logico del tuo vicino e il ticchettio dell’orologio.
«…Oh, Winston, se non ci fossi stato tu sicuramente sarei salita su quel treno!»
«Non l’avrei mai permesso, amore mio.»
Oh, per Salazar.
“Signor Evans.” Gracchi, facendo voltare il Vecchio verso di te “Sarebbe decisamente più utile se lei si sintonizzasse su qualche altra stazione. Qualcosa come un notiziario, per esempio.”
“Un notiziario?”
“Sì. Può smetterle con queste cose da donnicciola ed interessarsi alla realtà, per dieci minuti?”
“A me piace questo…”
Sospiri.
Sapevi già che non avresti cavato un ragno dal buco; aveva persino iniziato il discorso cercando di essere… gentile, ma l’impazienza aveva preso il comando, facendoti comportare di conseguenza nel giro di neanche un minuto.
Se solo tu potessi muoverti allungheresti un braccio verso il mobiletto ed afferreresti quella dannatissima radio, cercando prima di capire come funziona e poi facendone uscire parole decisamente più urgenti da ascoltare.
Che… fastidio.
Ti viene da stringere in un pugno la mano sul lato del letto più vicino a quello stupido comodino, la sinistra, in un moto di rabbia e frustrazione.
E lo fai. I muscoli si tendono, scricchiolano, fanno muovere quelle ossa nel modo in cui desideri tu.
Lo sforzo non è comunque paragonabile al risultato: sebbene tu stia impiegando tutta la concentrazione possibile, in quel singolo atto, presumi che, se ti dessero una bacchetta da afferrare, quella cadrebbe subito a terra per la poca forza della tua presa.
Ma non ti importa: riesci a muovere le dita.
Che caspita di pozione ti hanno rifilato per poter avere un effetto simile?
Provi a fare la medesima cosa con la mano destra, ma il risultato non è quello sperato, non riesci a comandare nulla. Nonostante ciò continui a strusciare le dita sul lenzuolo, a far roteare il polso, che scrocchia appena… Sì, evidentemente quello era il giorno delle ‘sorprese’.
Quando l’hai fatto notare a Sherman, lui che ne è rimasto estasiato. Sembrava un ragazzino a cui i genitori hanno comprato il suo primo zucchero filato.
Tu l’hai guardato con un sopracciglio inarcato.
D’altronde non è che tu possa fare chissà cosa, con solo una mano in movimento; perché è solo la mano, che si muove, il braccio e tutto il resto rimangono ben ancorati sul letto, addormentati ed inutili.
Li reputi quasi di troppo.
In effetti sarebbe molto più stimolante, pensi, essere solo anima e mente.
Anima. Quella che ti è rimasta, ovvio. Buona parte si è sgretolata, sotto il peso troppo insistente delle colpe. Tempo fa avresti pensato che in qualche modo tu fossi riuscito, almeno in parte, a riscattare la tua anima del pegno dell’orgoglio. Ti sei accorto presto che ci sarebbe voluto molto di più – tempo che non ti era stato concesso – per poter rimediare. E comunque quel poco che forse avevi salvato è di sicuro ripiombato nell’oscurità dopo l’omicid-- dopo quel favore fatto ad Albus.
Bah.
Insulsi pensieri. Devi attenerti ai fatti, non alla… metafisica, o quel che è.Giusto perché altrimenti finiresti col sentirti peggio.
Ma muovi una mano, e questo è un fatto; secondo Sherman è un notevole passo avanti, secondo te – razionalmente parlando – è una beffa, un assaggio di quel che avevi, non hai, e non sai se riavrai mai.
Cosa dovevi fare, lasciare accesa la speranza?
Sul momento, quasi a volerti convincere da solo, pensi che la speranza sia per chi non sa agire, per chi rimane a pensare ad un ipotetico futuro credendo che l’oggetto del suo desiderio possa cadere dal cielo dritto nelle sue braccia.
Chi agisce nel vero senso della parola sa già a cosa andrà incontro e cosa invece sarà – od è – costretto a lasciare indietro. Non ha bisogno di sperare.
Tu hai sperato di riuscire ad avere tante cose, in gioventù; non ne hai ottenuta neanche una. Anzi, quel poco che avevi l’hai anche perso.
Nel tuo personale vaso di Pandora la speranza non ha fatto in tempo a volare via, è rimasta nel suo contenitore altrimenti vuoto. Ci hai chiuso anche il cuore, lì dentro.
In ogni caso sei dovuto entrare a patti con l’entusiasmo di Sherman: ha continuato per giorni a prestarti le attenzioni più meticolose, quasi incredulo di fronte agli effetti quasi immediati della nuova pozione appena inventata. Persino Witherington ha sorriso… soddisfatto, e quando si trovava di fronte a te, per giunta, il che è tutto dire.
E beh, il risultato andò oltre le tue nebulose aspettative.
Non molti giorni dopo, infatti, hai riacquistato il possesso del tuo braccio sinistro, del tuo piede sinistro, e della tua gamba sinistra.
Ti hanno tolto una delle flebo per farti ricominciare a mangiare da solo. Poco dopo ti hanno tolto anche l’altra flebo, in quanto le tua analisi erano più che positive, e non c’era più bisogno di Pozioni Rimpolpa Sangue et similia.
Puoi metterti seduto e consumare i tuoi pasti come fanno il Vecchio e L’altro, per esempio, anche se dover fare tutto con la mano sinistra si è rivelato un po’ problematico, all’inizio. Hai infatti rifiutato di mangiare molte volte per via della consapevolezza di avere la manualità di un bambino di cinque anni.
Quando hai imparato, ti sei rifiutato per mancanza di appetito.
In effetti ti ritrovi piuttosto smagrito, rispetto all’ultima volta che ti sei guardato in uno specchio, ma il tuo stomaco, con il risveglio del tuo corpo – di metà di esso, per la precisione – pare essersi chiuso irrimediabilmente. Oh, e hai anche la barba.
Per chiudere in bellezza Potter ha continuato a venirti a trovare; non tutti i giorni, ovviamente, altrimenti la cosa sarebbe risultata nauseante anche per lo stesso Potter, oltre che per te, ma perlomeno abbastanza frequentemente, immaginando di trovarti sveglio, prima o poi, durante una delle sue visite.
Tu hai fatto in modo che ciò non avvenisse nemmeno una volta.
Oh, riprovevole, Severus.
Al diavolo l’onore e l’orgoglio. Non volevi – non vuoi – parlare con lui. Non volevi parlare di ciò di cui lui avrebbe voluto parlare, perciò ti sei comportato di conseguenza. Fine della storia.
Una volta si è portato dietro anche la Granger, chissà per quale suo validissimo motivo. Sarebbe dovuto cambiare qualcosa? No, certo che no.
Il Vecchio ha continuato ad ascoltare i suoi amati romanzetti rosa radiofonici e in certi momenti ti è veramente sembrato di ammattire, ma alla fine ti sei talmente assuefatto a quei toni melensi che hai imparato a come non ascoltarli affatto, nonostante il volume anche piuttosto elevato.
L’altro, ad ogni tuo miglioramento clinico, ha presto a guardarti sempre peggio. Evidentemente provava in segreto un sottile e sadico piacere nel vederti in serie difficoltà. Poi, da un giorno all’altro, si è chetato. Non che abbia smessi di fissarti con astio, ma perlomeno è tornato quello che era all’inizio. Forse ha realizzato che, una volta che guarirai completamente, ci potrebbero essere buone probabilità che ti rinchiudano ad Azkaban. Lui c’è stato per chissà quanto tempo, quindi si sentirà soddisfatto, sicuramente, quando un Mangiamorte – uno vero – che ha tenuto costantemente d’occhio prenderà il suo posto vacante.
Magari alla fine ci finirai, ad Azkaban, chissà.
In ogni caso quei miglioramenti tanto repentini ed entusiasmanti ben presto hanno finito con l’arrestarsi: continui a muovere solo il lato sinistro del tuo corpo, mentre quello destro pare fatto di piombo. Sherman ha aumentato ulteriormente la dose della propria mirabolante pozione, ma non è servito praticamente a nulla.
La beffa prosegue fiera di sé. Ti muovi abbastanza autonomamente da poter pensare di fare tutto quanto da solo, ma sei sufficientemente debilitato da non riuscirci, invece.
Il giullare ride.










Angolo Autrice:

Salve a tutti!
Ebbene sì, non sono morta, infatti eccomi qua!
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento. Come visto, ci sono dei miglioramenti nelle condizioni di Piton. Così è meglio, no? ;D

Oh, nel testo avete trovato, citato lì a caso, un certo Henry C. Potter. Esiste davvero, è un regista cinematografico e teatrale statunitense. Tanto per fare le cose per bene, insomma, invece di inventarmi un altro nome di un tizio sconosciuto a caso!

Oltre a ciò, null'altro di particolare da dire.
Ma, visto che ci sono, anche stavolta vi invito a mettere un 'mi piace' a questo mio racconto, su Facebook, sempre per il solito concorso di narrativa! :D Oramai mancano pochi giorni alla fine, quindi c'è la possibilità di votare ancora per poco! Vi ringrazio infinitamente di tutto questo :*
Ecco il link:
cliccate qui ---->
In equilibrio

Detto anche questo... Alla prossima, ragazzi, e mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo con una recensione! Breve o lunga che sia, per me è sempre importante! :)
Ciao!

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


Capitolo Quattro

 
 

Sei ancora lì, al San Mungo, nella tua stanza bianca, seduto sul tuo letto con la schiena sorretta dai cuscini. Hai ricominciato a passare il tempo fissando le cose, ed ora è la ringhiera di ferro ai piedi del tuo letto ad attirare la tua attenzione, in particolare un piccolo graffio, su di essa, che chissà chi ha causato, e chissà come. Non ti sorprenderesti se il responsabile fosse il solito tirocinante o assistente di Sherman. O quel che è.
Poi la porta si apre, e tu già sai chi ti troverai davanti.
L’orario delle visite è terminato da un po’, perciò non pensi possa trattarsi di Potter; per questo non ti scomponi. È Sherman, come immaginavi, ed insieme a lui c’è, stranamente, Witherington. Non è l’ora della pozione o della medicazione della ferita, e non ti avevano detto che quel giorno avresti dovuto fare altre analisi; e dubiti che vogliano semplicemente fare quattro chiacchiere con te. Per questo ti limiti a studiarli con aria perplessa.
Witherington rimane impassibile come suo solito – per un certo verso, credi che ti somigli – mentre da Sherman, invece, traspare una certa… agitazione.
La noti dal modo in cui arriccia le sue sopracciglia folte verso l’alto, dal modo in cui continua inutilmente a sistemare il cartellino col suo nome attaccato alla perfezione sul suo camice.
No, non è agitazione, invece. È… rassegnazione.
Ma quando è successo a te, tanto tempo prima, sei sicuro di non avere avuto quella faccia.
“Cosa c’è?” Chiedi.
Che qualcuno si degni di parlare, almeno.
Sherman guarda per un momento il suo collega, e gli fa subito segno di prendere la parola.
“Signor Piton.” Dice finalmente “Mi spiace informarla che questo sarà l’ultimo giorno che passerà al San Mungo.”
Inarchi un sopracciglio. “Come, scusi?”
“Disposizioni della Direzione.” Spiega allora lui “Hanno deciso di liberare i posti dei pazienti che si sono ristabiliti in favore di eventuali altri malati gravi. La guerra ha portato con sé anche questo. Arrivano feriti ogni giorno e non sappiamo più--”
“Ristabiliti?” Lo interrompi, però, tu “Io vi sembro ristabilito?”
È una follia.
“No! Ovviamente no.” Si affretta ad aggiungere Sherman “Solo che… La situazione è stabile, per il momento, c’è poco da fare. Non sta dando più quei segni di… cambiamento, perciò, almeno per ora, non c’è bisogno di tenerla… continuamente sotto osservazione. E non c’è neanche il pericolo che lei peggiori improvvisamente, gliel’assicuro.”
Tu continui a guardarlo con sguardo sempre più scettico, sin dall’inizio di quella fastidiosa conversazione.
“E quindi, secondo quella mente suprema che è la vostra Direzione, io dovrei far cosa? Andarmene a basta?”
Una soluzione abilmente studiata. Si vede. Sei quasi commosso.
“Oh, non la lasceremo di certo da solo. Si tratta solo… di un cambio di sede, ecco. Avrà comunque tutta l’assistenza di cui ha bisogno, signor Piton.”
“E quale sarebbe questa… sede in cui dovrei andare, dunque?”
“Beh, casa sua, in effetti.”
La tua espressione, stavolta, si incupisce in maniera decisamente preoccupante.
 
Il tuo trasferimento è stato programmato per la notte inoltrata.
Sherman ha giustificato l’orario da nottambuli dicendo che in questo modo avreste avuto meno problemi, riuscendo, per esempio, ad evitare la massa di giornalisti che, ogni giorno, vengono chiusi fuori dal cancello principale del San Mungo.
Nella notte ne rimane solo qualcuno, perseverante, che fa avanti e indietro, con le mani nelle tasche, ad osservare la nuvola di alito addensato che gli esce fuori dalla bocca per il freddo. Che cosa stia facendo, lì fuori, non se lo spiega neanche Sherman, ma fatto sta che sarà facile – dice – evitare tali individui. Evitati loro, evitati i problemi, dice.
Dopo cena – cena che non hai consumato, ma sono dettagli – ti hanno riportato i tuoi amati vestiti. O meglio, quelli che credevi che fossero i tuoi vestiti, quelli con cui ti hanno portato lì. Quando hai visto il tirocinante entrare con quel mucchio di abiti scuri hai subito pensato che fossero i tuoi, puliti e rimessi più o meno a nuovo. Invece non erano altro che dei comuni vestiti babbani.
Neri, ma sempre e comunque vestiti babbani. Non i tuoi, comunque.
Indossi quindi dei vestiti non tuoi, presumi che neanche siano stati comprati per l’occasione, quindi è più che probabile che li abbiano rimediati prendendoli a qualcun altro, chiunque sia; o fosse.
In ogni caso, li indossi borbottando, ma la tua protesta finisce lì, specie quando noti che avresti ben altro di cui protestare, per esempio riguardo la sedia a rotelle su cui ti sistemano.
Nessuno parla per tutto il tempo che ti serve per prepararti, né Sherman, né il tirocinante Bruce, né Witherington; evidentemente hanno afferrato che potresti sputargli addosso da un momento all’altro, tanto sei scuro in volto.
Sherman ha detto che ti accompagnerà solo Witherington fino a Spinner’s End, a casa tua, e passa qualche minuto prima che lasci quella che fino a quel momento è stata la tua stanza; guardi il Vecchio e L’altro, entrambi a letto a dormire per via della tarda ora. Pensi che probabilmente sarà difficile che rivedrai uno dei due, dato che, anche nel qual caso dovessi tornare al San Mungo per altre analisi o controlli, difficilmente entreresti comunque in quella stanza. E tu non li hai neanche salutati, prima che si addormentassero.
Oh, da quando questi pensieri insulsi?
Non ti stanno neanche simpatici, hai inveito prima mentalmente e poi verbalmente nei loro confronti, non hai mai avuto una conversazione decente con loro, e, quando ci hai provato, te ne sei pentito.
Il giorno prima, infatti, hai guardato il Vecchio, per un momento, e l’hai chiamato.
“Signor Evans.”
Lui si è girato subito verso di te, in attesa.
“Conosceva una certa Lily Evans?”
Domanda stupida, dato che avevi già appurato da tempo che lei non c’entrasse nulla con la famiglia del Vecchio, ma ti era uscita dalle labbra prima che tu potessi fermarla.
Lui, in ogni caso, ti ha guardato senza capire.
“Chi è, una delle tue vittime?” Si era, allora, intromesso L’altro.
Non l’hai mai guardato così male. E, se avessi potuto, lo avresti guardato peggio.
Il bello è che per un momento hai pensato che la sua frase fosse più che giusta.
No, non ti dispiace particolarmente lasciare quella stanza.
Witherington non parla, mentre uscite da una porta secondaria, e tu di certo non intavoli un’improvvisa conversazione sul più e sul meno; passando intorno all’edificio, noti, effettivamente, decisamente in lontananza, un uomo seduto su una panchina, poco distante, ed un altro un po’ più lontano, che cammina in tondo, guardando, di tanto in tanto, verso gli ultimi piani del San Mungo. Non puoi certo dire che quelli siano dei giornalisti, ma da quanto ti hanno raccontato è molto probabile che lo siano; in ogni caso, tu non riesci a vedere i loro visi, a causa della notte, e loro non riescono a scorgere i lineamenti del tuo, così passi indisturbato, guidato dal silenzioso Witherington, senza che nessuno vi infastidisca con le sue inutili chiacchiere. Se pensi a cosa potrebbe chiederti un eventuale intervistatore, allora sì che preferisci la silenziosità del tuo… accompagnatore.
Ti senti improvvisamente vecchio, pensando all’immagine che devi trasmettere in quel preciso momento: un malato spinto in carrozzina da un medico. Effettivamente è così, e il fatto che tu ti renda conto che devi accettarlo e basta è… frustrante. Debilitante.
Vi appartate in un angolo, lontano da quei pochi occhi indiscreti, e Witherington ti poggia una mano sulla spalla, prima di smaterializzarsi.
Spinner’s End è sempre lo stesso squallido quartiere di sempre.
Siete riapparsi sotto un lampione – peccato che sia spento – e, non appena hai messo a fuoco, hai visto un gatto sparire di corsa sotto un’automobile parcheggiata lì a fianco. Non ti preoccupi che qualcuno vi abbia potuti scorgere: è tardi, è buio, e quello è un quartiere nel quale la gente tende a chiudere le tende e le persiane non appena la luce del sole colora di rosso il tramonto, in cui gli abitanti si chiudono nella loro piccola dimora, si fanno gli affari propri, di notte, ed improvvisamente diventano ciechi e sordi nei confronti di tutto ciò che accade loro intorno.
Anche tu, ogni volta che torni a… casa, ti comporti così, è proprio Spinner’s End a fare quest’effetto.
Certo, non fosse per il fatto che, dietro le spalle di chiunque, quegli stessi abitanti che sembrano pensare solo alle proprie faccende poi spettegolino senza pudore su tutti e tutto, tra di loro, di giorno. Dal far parte di una marmaglia simile, perlomeno, ti sei salvato. Anche perché, abbastanza frequentemente, sei proprio tu l’oggetto dei vari discorsi delle casalinghe, che sicuramente non hanno nulla di più utile da fare.
Senza dire nulla, comunque, tu e Witherington iniziate a muovervi.
L’aria è praticamente gelida, c’è poco da fare: sebbene si stia ormai avvicinando l’estate il clima londinese non lascia scampo, specie di notte. Dovresti esserci abituato, ma, nonostante ciò, con la mano sinistra ti sistemi meglio la sciarpa che ti hanno dato e che ti copre le bende che ti fasciano il collo.
Dopo non molto, in ogni caso, Witherington si ferma di fronte alla consunta porta di casa tua; dietro un finto mattone del muro c’è una chiave di riserva, e così entrate. Ovviamente non è cambiato nulla, rispetto a quando ci sei stato l’ultima volta: è più polverosa, e l’odore di chiuso è decisamente più pungente, ma, a parte questo, puoi di per certo dire che l’atmosfera sia sempre la stessa.
Quando attraversi la soglia, senti il gelo, più freddo di quando ti trovavi per strada.
Witherington, comunque, si dà un po’ da fare, rendendosi utile: accende le candele con dei veloci colpi di bacchetta, dopodiché passa anche al camino. Perlomeno, intorno a te, non fa più tanto freddo; per il dentro è un’altra storia.
“Dov’è la sua camera da letto?” Ti chiede, allora, lui, all’improvviso.
“Al piano di sopra.” Rispondi laconicamente.
“Mmh, d’accordo.” Si guarda intorno, per un momento “E le scale dove sono?”
Inarchi appena un sopracciglio.
“Dietro la libreria.”
Witherington si volta in direzione della suddetta libreria con un’espressione tra il perplesso ed il sorpreso.
“Dietro la… Ma come si apre?” Fa lui.
“Oh, ovviamente basta togliere il libro giusto dallo scaffale. Ma attenzione, perché dietro ogni porta che troverà in seguito vi potrebbe essere un trappola mortale, Witherington.”
Lui si volta di nuovo verso di te, l’espressione di prima ancora più marcata, anche se stavolta noti anche un sottile velo di spavento. Ghigni.
“Sta mentendo.”
“Complimenti, è più perspicace di quanto sembra in realtà.”
Stavolta ti guarda completamente neutrale, quando capisce di essere palesemente stato preso in giro.
“Avanti, mi dica dov’è questa camera da letto.”
Incurvi un angolo delle labbra. “Gliel’ho detto: al piano di sopra, passando per le scale che si trovano dietro la parete adibita a parte della libreria.”
Seriamente.” Continua lui, non credendoti “Perché svia? Non voglio mica sedurla, sa?”
Inorridisci.
“Dietro. La. Libreria.” Dici duro, stavolta, sparito ogni briciola di… umorismo “Se… mi porta lì glielo mostro.”
Witherington sembra leggermente esasperato, ma non ti importa granché, e aspetti che esegua quanto gli hai chiesto. Quando ti porta di fronte alla libreria tocchi un punto preciso dello scaffale, a metà altezza, e, in effetti, si apre una porta segreta, oltre la quale si intravedono le famose scale.
Lui quasi si stupisce. “Aveva detto di star mentendo.” Osserva.
“Mi riferivo alle trappole. Evidentemente, allora, non è poi così perspicace.”
Lui riassume la sua espressione neutra. Supponi che, evidentemente, quando si arrabbia o si infastidisce, invece di guardare male le persone, semplicemente fa finta di non badare all’effetto che le loro parole hanno su di lui. Adotta la tecnica dell’indifferenza, il che, a dire il vero, è oltremodo interessante.
Le persone che fanno così potrebbero, proprio per questo, dare la sensazione che nessun commento le tocchi, che si possa dire loro qualsiasi cosa che tanto verrà semplicemente ignorata, e tutto proseguirà nel solito modo. Non viene ignorata affatto, invece. Witherington, almeno, ti dà l’idea che non faccia così: lui immagazzina; difatti, ogni volta che poi ti rivolge la parola, noti un briciolo di freddezza in più, nel suo tono. Piccolo e quasi impercettibile, ma c’è.
A quel punto, in ogni caso, il guaritore si posiziona proprio di fronte al primo gradino, e, con un altro veloce incantesimo, trasforma  le scale in una semplice e liscia salita, non troppo pendente, di modo che possa essere tranquillamente percorsa in entrambi i sensi sia da chi è provvisto di ruote sia da chi no. Sospiri, a quella triste visuale. Sorprendente come una semplice pedana possa risultare così demoralizzante alla sola vista.
“Comunque.” Esordisce, allora, Witherington, interrompendo il silenzio “Veniamo alle cose pratiche, è meglio.”
Si volta verso di te, quindi, e fa in modo che entrambi vi ritroviate al centro del salotto in un attimo; lui fa per sedersi sul divano, ma poi ci ripensa, e semplicemente si appoggia al bracciolo della poltrona.
“Ebbene?” Chiedi.
“Ebbene, non c’è molto da dire: tra non molto…” Si guarda per un momento il suo orologio da polso “…in effetti dovrebbe essere qui tra poco, arriverà – appunto – qualcuno che avrà il compito di assisterla, durante il giorno e la notte, in qualsiasi cosa sia necessaria.”
Aspetti un momento prima di rispondere.
“Non ho bisogno di un badante.”
La tua è più una sentenza che una semplice affermazione.
“Doveva parlare col dottor Sherman, allora, io non posso cambiare le disposizioni, specie se è già stato fatto tutto per metterle in atto.”
“Sherman non mi ha parlato affatto di una cosa del genere, anche volendo non avrei potuto!”
“Evidentemente, allora, voleva proprio fare in modo che lei non avesse la possibilità di discuterne.”
La sua espressione dice palesemente ‘Nessuno potrebbe biasimarlo’, come se la frase gli stia scorrendo a chiare lettere lungo la fronte.
“Chi è questa persona?”
“Non lo so, non me l’hanno riferito. Ma tra poco sarà qui, quindi se ne potrà rendere conto da lei.”
“Spero che costui non sia informato della situazione tanto quanto lo è lei, altrimenti sono sicuro che morirò nel giro di mezza giornata.”
Espressione piatta. Poi, però, un sorrisetto.
“Le piacerebbe.”
La frase in sé non ti spiazza più di tanto, ma ti disorienta lo stesso, soprattutto perché non ti viene automatico rispondere di no, cosa che comunemente dovrebbe accadere.
Ma il caso, stavolta, ti evita l’onore di una risposta – o di una non-risposta – dato che, proprio in quel momento, bussano alla porta.
Non hai mai conosciuto tanta gente nuova come in quegli ultimi tempi, senza contare l’orda di studenti che cresceva sempre più, di anno in anno. Ma tanto sono solo altri volti che tu dimenticherai presto – si spera – e viceversa.
Witherington, dal canto suo, sospira palesemente di sollievo, mentre si stacca dalla poltrona e va ad aprire alla porta.
“Certo che una zona un po’ meno spettrale non si poteva proprio scegliere, eh?” Dice una voce, al di là della soglia, di cui ancora non vedi la proprietaria.
Perché è una voce da donna.
“Oh, ciao, Serena.” E’ la risposta di Witherington.
“Non far finta di essere sorpreso di vedermi, Abner, dai.”
E, mentre pronuncia l’ultima parola, la nuova arrivata entra in casa tua.
La guardi. Non sembra particolarmente anziana – ergo, esperta, secondo i tuoi canoni di giudizio – ed ha sulle labbra un sorriso totalmente inopportuno.
E poi è una donna, per Salazar.
E al diavolo se i medici dicono che quando si tratta di ‘curare i malati’ non c’è alcun bisogno di fare delle distinzioni di sesso. Tu fai delle distinzioni persino se ti ritrovi davanti più uomini, quindi… figurarsi.
Almeno non sembra una di quelle ragazze da copertina, tutte imbellettate e che pensano che la prima impressione, ed in particolare il loro aspetto, sia la cosa più importante: ha i capelli biondi, raccolti in una coda alta, e non ha neanche un minimo di trucco; ha indosso un cappotto che probabilmente è di una taglia più grande del necessario, e, abbassando lo sguardo, vedi un paio di scarpe da ginnastica ai suoi piedi.
In ogni caso, ha una valigia con sé, e la cosa non ti rassicura molto.
“Non pensavo avrebbero mandato te. Sinceramente.” Continua Witherington, dopo aver richiuso a chiave la porta.
“Perché?” Fa invece lei “Abner, sei un esperto guaritore, ma non l’unico, anche io ho i miei…”
“No, ma non intendevo questo, solo…”
Al che Witherington posa lo sguardo su di te, cosa che a quel punto fa anche la nuova arrivata, come se si sia accorta solo ora della tua presenza.
E certo, povera lei, quale ingrato compito le è toccato.
“Buonasera.” Ti dice, allora, un po’ più seria di prima “Anche se forse dovrei dire buongiorno, data l’ora, nonostante sia ancora buio.”
Ti esce una specie di… grugnito.
“Buongiorno, allora.” Dici poi, quasi seccato.
La vedi rimanere un po’ sulle sue, ma alla fine si rilassa. Beh, si rilassa. Più che altro rimane vigile, in quello stato d’animo di chi si trova in un posto nuovo e non sa se ritenerlo ostile o meno se non dopo averlo studiato almeno un po’.
Witherington, nel frattempo, passa lo sguardo da lei a te, e poi posa un braccio sul gomito della sua collega.
“Potrei parlarti un momento?” Dice, e lei si volta interrogativa, distogliendo gli occhi da te.
“Certo.”
Lei posa la valigia a terra, accanto al divano, e tu corrughi le sopracciglia senza neanche accorgertene, prima che lui conduca la ragazza fuori di casa, di nuovo, per poi giusto accostare la porta.
Alla faccia della discrezione; non stanno facendo altro che entrare ed uscire da lì.
Potresti approfittarne e chiudere fuori tutti e due, e magari prendere la valigia della guaritrice e buttargliela fuori dalla finestra, ma dubiti che loro sarebbero così arrendevoli da lasciarti in pace, una volta compiuto un tale gesto. Come minimo entrerebbero proprio dalla finestra.
A proposito di finestre, comunque, voltandoti verso di essa vedi naturalmente che ha le tende chiuse, e tu ti senti in diritto di vedere cosa stiano facendo quei due lì fuori.
Abbassi lo sguardo su quella sedia per malati babbani su cui ti hanno… sistemato, allora, e consecutivamente sulle sue ruote. Li hai visti muoversi, i Babbani, facendo muovere quelle ruote direttamente con le loro mani; se ci riescono loro, ci puoi riuscire anche tu, questo poco ma sicuro.
Sì, anche con una mano sola.
Ci provi, quindi, anche se trovi il tutto un po’… faticoso. Per non parlare, poi, del fatto che in questo modo la sedia pare ruotare su se stessa, mentre dovrebbe andare dritta. Ti aiuti con una gamba, allora, e finalmente raggiungi la finestra.
Ti riposi un attimo, riprendendo fiato. Hai faticato, in effetti, più di quanto ti saresti aspettato, e il fatto di avere un po’ di fiatone di sicuro non ti fa bene alla gola. Non ci badi, e a quel punto scosti la tenda sbiadita quel tanto che basta per guardare fuori. Li vedi lì, sotto il lampione, la cui luce si accende ad intermittenza – potrebbero degnarsi di aggiustarlo, prima o poi – parlare e gesticolare. Ma non riesci a vedere molto di più, da quella posizione. Facendo più attenzione, però, e concentrandoti sulle espressioni dei loro visi, non credi che stiano avendo una conversazione molto tranquilla. Probabilmente non stanno alzando la voce solo per non rischiare di svegliare tutto il vicinato e, consecutivamente, attirare l’attenzione su di loro. E su di te, cosa più importante.
Poi, all’improvviso, tutti e due si girano verso di te, guardandoti, ma tu sei ben lontano dal richiudere le tende e far finta di non aver visto niente. Come se tu avessi visto chissà che: una mera discussione, e immagini anche quale sia stato il fulcro del loro discorso.
Magari Witherington ha paura che tu possa sconvolgere la sua collega procurandole qualche trauma permanente.
Beh, fa bene a preoccuparsi.
Non ti piace, e non la vuoi in casa tua.
Sherman è un idiota, ad avertela mandata.
O chiunque l’abbia deciso, se non è stato lui.
Rientrano in casa, a quel punto, guardandoti con sospetto.
Bah, li hai solo guardati, non hai mica l’udito di un pipistrello.
…Interessante paragone.
“Ebbene?” Dici, allora, ricambiando il loro sguardo con un’occhiata palesemente ostile e rivolgendoti alla guaritrice “Sta valutando l’offerta di Witherington di fuggire via a gambe levate? Perché presumo che il suo collega le abbia suggerito proprio questo.”
Il diretto interessato ti guarda con aria colpevole, stavolta, più che infastidita. Hai fatto centro, senza dubbio, e ghigni apertamente, guardandolo.
“Beh…” Risponde lei, dopo un lieve momento di esitazione “Più che altro mi ha detto che potrei non trovarmi… a mio agio, dovendo svolgere un simile incarico…”
Il ghigno soddisfatto che avevi un istante prima sparisce.
“Nessuno la trattiene.”
Lei sgrana appena gli occhi. “Come, prego?”
“Non è tenuta a rimanere qui. Lei non vuole fare questo lavoro, glielo leggo in faccia, e Witherington non ha poi tutti torti. Io, tra l’altro, non ho bisogno di una badante. Se lei se ne va non se ne risentirà nessuno.”
Witherington alza gli occhi al soffitto. “Oh, solo l’intero San Mungo.”
“Se non dite niente non ci sarà alcun problema.”
“Ma si rende conto di cosa sta dicendo?” Esclama poi, all’improvviso, lei, alzando appena la voce, tanto che sussulti internamente, non aspettandotelo,
E dire che ti era sembrata una persona piuttosto… pacifica.
Prego?”
“Non so se l’ha capito, ma evidentemente pare di no…” Comincia, con tono più che serio. Serissimo “Nessuno è qui per chiacchierare o farsi una partita a scacchi. Siamo qui – in questo caso io – per assisterla, per aiutar--”
“Non ne ho bisogno.”
“Non sono d’accordo.”
“Se proprio ci tiene, nel caso in cui vi sia necessità di medicarmi lo sfregio sul collo, può presentarsi qui ad orari prestabiliti; non può pretendere che questa casa venga adibita ad ostello gratuito.”
“Lei non è sposato ed ha bisogno di qualcuno che le dia una mano, e non solo per quanto riguarda le medicazioni.”
“Le ripeto che posso fare da solo quel che mi occorre.”
“Come fa a stabilirlo?”
“Me la sono cavata in situazioni ben peggiori, quindi parlo con cognizione di causa!”
“Ah, sì? Me lo dimostri, allora.”
La guardi in modo leggermente interrogativo.
“Si metta in piedi.” Precisa poi.
Che colpo basso.
Assottigli lo sguardo, come risposta.
“Appunto.” Dice poi lei, senza però assumere quell’espressione soddisfatta di cui neanche ti saresti dovuto sorprendere più di tanto.
“Non sono qui per farle un dispetto, signor Piton, gliel’assicuro.” Continua allora “Ho comunque la mia vita e una casa tutta mia, oltretutto, che adoro e nella quale vorrei essere, al momento, magari a dormire; quindi se sono qui non è per me, ma per far sì che lei si senta meglio.”
Vorresti dirle che per sentirti meglio basterebbe che lei se ne tornasse nella sua tanto amata e lodata dimora, togliendo il disturbo. Questo che ti farebbe sentire meglio. Ma sai già da te di non poterlo dire: al San Mungo, stranamente, tengono alla tua salute – nonostante ti abbiano cacciato da poche ore, in pratica, ma parrebbe non rilevante, ai più – così come pare che tu non sia effettivamente neanche in grado di stare in piedi sulle tue stesse gambe.
È un po’ un trovare un compromesso: la guaritrice-infermiera di fronte a te avrebbe svolto il suo lavoro – un modo come un altro, seppur sgradevole, di assicurarsi uno stipendio – e tu non saresti finito a pensare disperatamente a come riuscire ad aprire lo sportello in alto della dispensa.
“Se non si può proprio evitare…” Dici, passando lo sguardo da lei a Witherington.
“No, a quanto pare no.” Conferma lui.
Fai una smorfia, dato che pare che la questione si sia irrimediabilmente chiusa da sé.
Bello notare come la gente invada casa tua, il tuo privato, la tua… intimità – non osi neanche immaginare in quale subdola maniera ciò sicuramente avverrà – senza avere alcuna voce in capitolo.
“In ogni caso” Fa allora lei, accennando anche un lieve sorriso, al che sposti nuovamente gli occhi sulla sua figura “Io sono Serena O’Dampand, piacere.”
Ha teso la propria mano verso di te.
Oh, beh, il piacere è tutto suo.
Guardi la sua mano, allora, e poi guardi lei. Non la stringi, né rispondi, e alla fine lei la ritira, facendola ricadere lungo il proprio fianco.
“Ehm… Spero che… La nostra convivenza possa essere piacevole, signor Piton.”
Convivenza.
“Presumo che quindi si insedierà qui stabilmente, allora.”
Lei annuisce. “Così può avere un’assistenza continua. Non dovrà preoccuparsi di nulla, deve stare tranquillo.”
Oh, ma tu non sei mica agitato; sei solo estremamente infastidito.
“Lo spero. Spero vivamente che starò tranquillo, signorina O’Dampand.”
Lei ti guarda perplessa, sul momento. “Certo.”
Lo dice come se si trattasse della cosa più semplice del mondo.
Oh, ma lei non ti conosce, e di sicuro tu non rimarrai inerme come il vegetale che sembri, durante il suo soggiorno. Che si azzardi anche solo un minimo ad intromettersi nei tuoi affari – di qualunque genere possano essere – e non sarai più tanto gentile.
Sì, i tuoi standard di gentilezza non sono molto elevati.
“Bene.” E’ Witherington che parla, stavolta “Il mio, di lavoro, io l’ho fatto. Quindi credo proprio che le nostre strade si separeranno qui.”
Ti sta guardando, ma, effettivamente, non sembra molto dispiaciuto di doversene andare da casa tua.
In effetti anche tu ne andresti da casa tua, se potessi. Di sicuro, se tu possedessi una quantità abbastanza massiccia di denaro – cosa che non hai mai particolarmente avuto o desiderato, ma che di sicuro non otterrai a breve, dato che non hai più neanche un lavoro – ti trasferiresti immediatamente, e di certo il più lontano possibile da Spinner’s End. Forse andresti vicino Hogsmeade; non troppo vicino da essere visto da qualche studente in visita al villaggio, ma abbastanza da poter guardare Hogwarts dalla finestra del salotto, magari.
“Ciao, Abner.” Dice O’Dampand, voltandosi verso il diretto interessato.
Credi che vi sia un po’ di smarrimento, negli occhi di lei, ma da quella posizione non riesci a capirlo. D’altronde tra non più di due o tre minuti rimarrà in compagnia tua, e la cosa, per quanto lei possa essere ligia al dovere, non deve essere molto… allettante. Figuriamoci se lo è per te, allora, che te la sei ritrovata tra capo e collo.
In ogni caso, saluti Witherington con nulla di più di una pigra occhiata.
“Tanto immagino ci rivedremo, signor Piton.” Dice lui, poi “Quindi non si sprechi in discorsi d’addio.”
La prima vera volta in cui lo senti fare il sarcastico. Sì, in un certo verso ti somiglia abbastanza.
Un altro momento e Witherington si ritrova in strada. Poco dopo è sparito da Spinner’s End.
Già il fatto che Witherington se ne sia andato dà il suo contributo a rendere più tesa l’atmosfera. Lo era anche prima, ovviamente, ma sebbene lui sia un soggetto prevalentemente silenzioso, almeno la sua presenza sembrava  attenuare la consapevolezza di quel che sarebbe successo d’ora in poi: siete in due, ora, dentro casa tua, e questa è di sicuro una di quelle cose che non avevi pianificato.
Né che avevi mai avuto intenzione di pianificare.
Ma evidentemente è da quando ti hanno tirato fuori dalla Stamberga Strillante che sono gli altri, a decidere per te.
Guardi la ragazza, e ti accorgi che anche lei ti sta guardando. Nessuno di voi due dice nulla, per un po’.
“Uhm, dov’è la sua camera da letto?” Ti dice, poi.
“Al piano di sopra.”
“E le scale?”
Le indichi la parete spostata della libreria, e lei va a controllare senza fare la petulante come Witherington, almeno.
Quale déjà vù.
Forse i guaritori e le guaritrici hanno una prassi da seguire, domande da pronunciare, ogni volta che uno di loro si intrufola e si impianta a casa di qualcun altro per ‘assisterlo’, per ‘rendergli più agevole la sua convalescenza’.
Ah, curioso notare come per te tutto ciò equivalga a lasciarti totalmente ed incondizionatamente in pace.
Ma, ovviamente, il tuo modo di pensare non è un pensare… comune, perciò presumi che ti ritroverai O’Dampand sempre tra i piedi per chiederti se può fare qualcosa per te o semplicemente per sapere come ti senti.
Già non la sopporti.
E dire che per ora ti sta solamente conducendo al piano superiore.
Ti senti nuovamente quasi decrepito, e forse dentro di te – e anche un po’ all’esterno, in effetti – sei sempre stato vecchio.
Ti fai portare in camera da letto – tu ti fai portare, non è lei, che porta te – e lei si ferma prima che possiate entrare nella stanza. Non dice nulla, lei si è già mossa ed è entrata, lasciandoti lì. La vedi, dalla soglia, tirare fuori la bacchetta dalla tasca posteriore dei pantaloni – posto assai poco consono – e far comparire una candela accesa, dapprima, per poi guardarsi intorno; effettua degli incantesimi non verbali molto velocemente: per esempio, le coperte del letto vengono tirate via, così come le lenzuola, le ante dell’armadio si aprono e ne esce della biancheria pulita che provvede a sistemarsi sul letto adeguatamente. Non ci mette più di qualche secondo, e quando finisce punta un’ultima volta la sua bacchetta sui panni meno puliti, ammucchiati a terra, e li fa Evanescere. Solo a quel punto si volta verso di te.
“Li ho trasferiti al piano di sotto.” Ti spiega.
Evidentemente hai una involontaria espressione interrogativa sul viso. Oppure è semplicemente lei, che vuole parlare.
“Gli darò una sistemata domani mattina.”
“E’ una guaritrice, lei, o almeno dovrebbe esserlo, avevamo appurato; non una cameriera.”
Lei si stringe nelle spalle, prima di spingerti dentro.
“Non è un problema.” Chiude così la questione.
Alla fine, comunque, mentre vi fermate nuovamente, decidi: lei non ti avrebbe messo a letto. Non vuoi, e non vedi perché lei dovrebbe. È lì per darti le pozioni, per medicarti la ferita e, se ti occorre, prenderti e darti qualcosa che chissà quando hai riposto troppo in alto.
Che poi tutto ciò si potrebbe benissimo evitare, se ti avessero ridato la tua bacchetta. Sempre se esiste ancora, perché a questo punto ti viene anche il dubbio che potrebbero avertela persa. Mentecatti.
Dovrai chiedere informazioni, a riguardo, il prima possibile.
Ma nonostante le tue convinzioni lei sembra voler proprio… metterti a letto, come se tu fossi un moccioso troppo cresciuto.
Blocchi ogni sua azione sul nascere, non appena noti che si sta abbassando alla tua altezza, raggelandola – presumi – con un’occhiataccia, ed alzando la mano.
“Faccio da me.” Le dici.
Non è solo un’affermazione, è un modo per ordinarle indirettamente di non toccarti in alcun modo.
Lei, però, non pare recepire appieno il messaggio, specie considerando l’aria di rimprovero del suo sguardo. Sì, ti sta… rimproverando. Non ha ancora detto niente, ma è sicuramento quello, il suo muto intento.
Il mondo è veramente finito sottosopra, in quegli ultimi, ultimissimi tempi.
“Le ho già detto che concordo con lei, non sono la sua balia, ma deve lasciarmi la possibilità di fare ciò che è necessario.”
“Faccio. Da. Me.” Ripeti, ignorando completamente il principio di quello che immagini sarebbe stato un discorso piuttosto sentito.
Lei assottiglia le labbra e si sposta appena, finalmente.
A quel punto, allora, ti sporgi verso il letto e vi poggi sopra la mano sinistra; trasferisci tutto il peso sul braccio, in pratica, e ti alzi in piedi, sorretto dalle tue gambe – o dalla tua gamba – per non più di un paio di secondi; ricadi sul letto ritrovandoti perfettamente seduto.
“Non ci sarebbe stato problema se l’avessi aiutata io.” Osserva lei, quando finisci di sistemarti.
“Non ci sono stati comunque problemi.” Rispondi “E, ora, non c’è più bisogno che lei rimanga qui, signorina O’Dampand.”
“Ma potrei…”
No. Se ne vada e mi lasci in pace.”
“Come vuole.”
Evidentemente, allora, qualcosa la riesce a capire.
Prima di uscire, comunque, si volta ancora verso di te.
“C’è una camera degli ospiti o… qualcosa del genere?”
“Sì, una.” E’ la tua laconica risposta, e lei se ne va, allora, socchiudendo la porta della tua stanza.
Prima che sparisca dalla tua visuale la scorgi alzare gli occhi al cielo, e tu fai una smorfia, tra te e te.
Guardi per un momento la porta, quasi per assicurarti che lei non rientri per disturbarti nel giro di un paio di secondi. E a quel punto ti stendi, allora, sdraiandoti al centro del letto. Merlino, di sicuro il tuo non sarà il letto più confortevole del mondo, ma di sicuro è molto meglio di quell’ammasso di molle del San Mungo.
Rimani supino, con gli occhi fissi al soffitto, aperti; non li chiudi, sperando di dormire, sai già che il sonno non arriverà, per il resto della notte, ma di sicuro per te è una soluzione migliore startene in camera, fermo, e in silenzio, piuttosto che rimanertene in soggiorno, per esempio, in compagnia della tua badante.
Sì, saresti comunque in silenzio, ma sarebbe un silenzio diverso: in soggiorno, con O’Dampand, staresti zitto per mancanza di interesse nel conversare con lei, o, in caso, per esprimere tutto il tuo fastidio per quella situazione. Ora, in camera, invece, sei in silenzio non perché non hai nessuno con cui parlare – non lo faresti comunque in ogni caso – ma perché preferisci così, semplicemente. Preferisci rimanere con gli occhi puntati in alto, a pensare.
Silenzio – o solitudine, le due cose sono spesso correlate – e pensieri sono due concetti che vanno spesso a braccetto, d’altronde.
Peccato che i pensieri non siano mai dei più allegri, nella maggior parte dei casi, ma ci sei abituato, e anche qualora tu immagini la scena più disfattista del mondo, non ti sconvolge più di tanto. Sempre che la scena riguardi te stesso, si intende. In effetti la solitudine viene spesso definita come il teatro dei risentimenti. Peccato che tu i tuoi risentimenti li rivolgi proprio al loro creatore, te.
Ma alla fine, per quanto lo reputavi inutile sino ad un attimo prima, lentamente abbassi le palpebre. Non sai se ti addormenterai o no, ma almeno passerai il resto delle ore che ti separano dal sorgere del sole nel modo in cui la Notte vorrebbe, nel modo in cui tutte le creature racchiuse dentro di te, nel tuo profondo, vorrebbero. Al buio, insieme a loro.
Capisci che in realtà non sei mai completamente solo.








Angolo Autrice:

Salve, ragassuoli!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Cambio di location, ed è subentrato pure un nuovo personaggio! ;D

Ma parliamo proprio di questa Serena O'Dampand, dunque, dunque.

Trovare un nome per lei è stato veramente un parto. E beh... Quando l'ho trovato non ho pensato, alla fine, che fosse poi tutta questa gran bellezza. Avrei potuto fare come mio solito, ovvero prendere un libro, un dvd, o qualsiasi altra cosa, e cercare nomi finché non ne avessi trovato uno che ritenessi adeguato. E invece no!
Per quanto il cognome di questa Serena possa sembrare brutto (io ormai ci sono abituata, ma ammetto che all'inizio mi lasciava parecchio perplessa), dietro "Serena O'Dampand" c'è stato proprio uno studio xD
Adesso sta a voi capire quale!
Forse il modo in cui l'ho trovato è un po'... fantasioso, ma, allo stesso tempo, ha anche una sua logica.
Raga', se riuscite a capire perché ho scelto questo nome, vi faccio una statua, dato che è complicato in maniera indicibile. Se non ci riuscite... Vabbè, pace, lo dirò io a fine storia xD

In ogni caso... Fatemi sapere che ne pensate del capitolo, mi raccomando! Ho bisogno di feedback! XD

A presto, bellezze.
Iurin

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Capitolo 6
*** Capitolo Cinque ***


Capitolo Cinque

 
 
Credevi non avresti dormito affatto, ed invece, quando riapri gli occhi, trovi il sole che filtra tra le fessure degli scuri delle finestre. Non stai pensando a niente, sul momento, d’altronde ti sei appena svegliato, e, perlomeno nei primi secondi, il tuo cervello deve ancora ‘connettere’, come dicono alcuni in un termine gergale che sa molto di cultura babbana. Da quella posizione noti singoli raggi di sole scontrarsi contro il muro o sul pavimento, e il pulviscolo volare lentamente, galleggiare, quasi, come se non vi sia forza di gravità abbastanza potente da poterlo farlo precipitare. Sarebbe interessante poter essere parte integrante di una nube di pulviscolo: staresti tutto il tempo fermo più o meno nello stesso punto, sospinto da un filo d’aria quasi inesistente, saresti inavvertibile ed ignorato, visibile solo da determinate posizioni e solo con una certa luce.
Curioso come in gioventù hai fatto di tutto per smettere di essere invisibile mentre ora quasi aneli quello status quo ante.
Poi ti rendi conto che stai ragionando su delle sciocchezze, e semplicemente la smetti, segno evidentemente che la tua mente ha finalmente deciso di voler funzionare.
Pensi a cosa sia opportuno fare, a quel punto; meglio alzarsi o rimanere a letto? Al San Mungo non ti ponevi mai il problema, ma ora sei a casa tua, e questo cambia tutto, specie per il fatto che c’è una semi-sconosciuta che vaga per casa tua e che tu, ovviamente, vuoi tenere sott’occhio, onde evitare che lei combini qualche disastro.
Non che le effettive condizioni della bettola in cui ti trovi abbiano mai attirato la tua fugace attenzione, ma quella lì è pur sempre casa tua; se non altro ripara dalla pioggia.
In conclusione, dunque, pare che tu debba per forza alzarti, tra l’altro cercando di far venire da te quella O’Dampand, ovunque lei si trovi, per farti… aiutare. Non riesci neanche a pensarla, una cosa così, senza che la linea delle labbra ti si trasformi in una smorfia.
Ma, prima di questo, il bagno. Hai decisamente bisogno del bagno, anche perché, dopo un’intera notte – se non di più – certi… bisogni fisiologici iniziano a… sentirsi prepotentemente. E di sicuro non ti saresti sgolato per chiamare la tua ‘badante’ per quello, nossignore.
Hai perso credibilità e rispetto, non perderai anche la tua dignità – o ciò che ti resta di essa.
L’unica soluzione è arrangiarsi con le proprie forze, ed è proprio questo ciò che ti prepari a fare. Chiudi gli occhi un momento, visualizzi nella tua mente tutti i movimenti che dovrai compiere di lì a qualche secondo, e poi ti metti seduto, allora, tirando fuori entrambe le gambe dal letto con l’ausilio della tua mano. Rimani fermo un istante, con gli occhi prima fissi su quella stupida sedia a due ruote, ancora troppo distante dal letto, e poi, di conseguenza, sul pavimento sotto i tuoi piedi. La sera prima – giusto poche ore prima, a dirla tutta, non hai propriamente… camminato; c’è stato un appoggio e poi una semplice torsione del corpo che usava la tua gamba come perno, ma niente di più.
Oh, per la miseria, fa quando ti fai così tanti problemi?
Hai affrontato pericoli in vita tua molto più seri del semplice camminare, del mettere stupidamente un piede davanti all’altro. Sì, uno dei due è fuori uso, ma non vedi quale sia l’enorme difficoltà nel raggiungere quella sedia a ruote che di sicuro non è che sia distante da te delle miglia, ma solo qualche passo.
Così ti alzi in piedi, anche stavolta sostenendo il tuo peso con ciò che hai a disposizione. Mantieni lo sguardo fisso sul tuo obiettivo e poi ti muovi.
Non credevi che il rumore del tuo corpo che si scontra col pavimento potesse essere così sordo e forte allo stesso tempo.
Sei caduto, quindi, andando contro alle tue stesse previsioni, e come se non bastasse hai sbattuto la spalla che pare avere un minimo di sensibilità.
Ti metti seduto a terra con stizza e digrignando i denti, quasi facendoli stridere tra di loro.
Maledetta ed inutile gamba.
Dai una botta alla gamba, con forza, mettendoci in quel gesto tutta l’avvilimento che provi in quel momento.
Non senti alcun tipo di dolore, forse giusto una lieve rimembranza di quello che può essere un certo fastidio, ma nulla di più. Il braccio corrispondente a quella gamba giace inerme accanto alla tua coscia, il palmo della mano rivolto verso l’alto, e tu lo guardi con odio. Tiri su la manica del maglione e sbottoni velocemente il polsino della camicia per poi arrotolarlo su se stesso e scoprire la pelle bianca. I tuoi occhi scorrono sul tuo avambraccio, e subito fai la stessa cosa con le dita, piuttosto che con un inconsistente sguardo. Ti dai un pizzico, e di nuovo non provi alcunché.
Immagini che anche nella migliore delle ipotesi non potrai comunque più preparare nessun tipo di pozione.
In un moto di rabbia affondi le unghie nella carne.
Hai una parte fondamentale del tuo corpo praticamente inutilizzabile, ed è persino la parte… pulita, in un certo senso. Il Marchio Nero non è lì, ed è una beffa anche questa, secondo te.
Il giullare ride ancora.
E tu sei furioso, per questo, così spingi le unghie ancora più a fondo, sempre di più, anche quando vedi sgorgare fuori le prime gocce di sangue.
Ce l’avresti fatto tu, un marchio, lì sopra.
Hai lo sguardo fisso sulle tue dita, tanto che ti rendi conto di non stare neanche sbattendo le palpebre; probabilmente chi ti vedesse penserebbe che tu abbia lo sguardo folle, che tu sia un folle, ma tu sai da te che non è affatto così.
Alla fine lasci libero il tuo braccio, ed un unico, piccolo rivolo di sangue cola da uno dei tagli più profondi, finendo per macchiare il pavimento. Ora guardi il tutto senza espressione, la rabbia sembra essere fluita via anch’essa, lasciando momentaneo spazio all’indifferenza per quello che stai vedendo ma, allo stesso tempo, facendo posto anche ad una sottile vena di soddisfazione per il tuo operato. Sei in contraddizione con te stesso, molto probabilmente, ma i due sentimenti ti stanno invadendo allo stesso modo e senza sovrapporsi l’uno all’altro.
Tutto ciò però viene improvvisamente e per sfortuna interrotto dal rumore della porta che si apre di scatto. Ti volti di scatto anche tu, sopportando di conseguenza una breve fitta al collo, ma non te ne curi; ora tutta la tua attenzione è concentrata su O’Dampand, colei che ha appena aperto la porta: vedi il terrore – anzi, l’orrore – nei suoi occhi. Immagini quale potrebbe essere la sua futura reazione, e non ne sei di certo estasiato, anche se effettivamente ciò che lei pensa del tuo comportamento potrebbe benissimo tenerselo per sé, volendo.
“Che cosa sta facendo?” Esclama, avvicinandosi di corsa a te.
Proprio come avevi appena previsto.
“Che le è saltato in mente?” Prosegue, accucciandosi accanto a te e prendendoti il braccio tra le mani.
Tu la lasci fare. Tanto ormai il ‘danno’ è fatto.
“A quale delle due domande devo rispondere?” Chiedi invece tu, calmo – o apparentemente calmo – incurvando appena gli angoli della bocca verso l’alto, in un sorriso praticamente di scherno, come se tu reputassi la sua preoccupazione stupida e fuori luogo.
In effetti… è così.
“Non faccia lo spiritoso!” Dice allora lei, rialzandosi in piedi ed andando fuori dalla stanza.
Senti i suoi passi correre veloci giù per le scale, e dopo neanche due minuti te la ritrovi di nuovo davanti. Stavolta ha tra le mani quello che pare disinfettante e delle bende. Se continui così finirai bendato da capo a piedi.
Come prima, la lasci fare, e prima ti passa l’antisettico sui tagli, per poi cominciare a fasciare il tutto.
“Allora, che le è preso?” Ti chiede, ancora intenta nella sua operazione.
“Sono questioni che non la riguardano.”
Alza gli occhi su di te. “Beh, dato che sono io che sono dovuta correre quassù…  Meno male che ho sentito un rumore. E’ caduto dal letto?”
“E’ evidente, mi pare, a meno che io non ami passare le giornate sul pavimento, cosa che – le assicuro – non faccio.”
Fa una pausa di silenzio, forse nel tentativo di non rimanere infastidita dal tuo commento scocciato.
“Un brutto sogno?”
“No.”
“Che stava facendo, allora?”
Troppe domande.
In ogni caso, ti umetti le labbra, prima di rispondere.
“Stavo cercando di raggiungere il bagno.”
Lei si sfrega le mani in un gesto automatico di chi ha appena finito il proprio lavoro con una certa soddisfazione, smettendo solo per un momento di guardarti. È stato solo un abbassare prolungato di palpebre, però, nulla di più.
“Credevo che avessimo chiarito sul fatto che sono qui proprio per questo genere di cose. Poteva chiamarmi, signor Piton.”
Socchiudi gli occhi riducendoli a due fessure, adirati.
Signorina O’Dampand.” Ribatti, scandendo per bene ogni parola “Lei può dire quello che vuole, e può continuare a farlo anche all’infinito, la cosa non mi tange. Ma deciderò io cosa lei potrà fare a me e con me, è chiaro?”
Di nuovo silenzio.
“Quindi si trascinerà come uno straccio sul pavimento, fino a quando non avrà raggiunto il bagno?”
La guardi male, ancora. È una persona dalla lingua lunga, questo non l’avevi considerato. Evidentemente gestirla risulterà più difficile del previsto.
In ogni caso lei non aspetta neanche che tu le risponda, ma si alza in piedi, afferrandoti subito per un braccio e cercando di tirarti su; completamente da sola non ce la fa – si vede – perciò ti impegni anche tu, onde evitare anche che tu venga trattato ulteriormente come un banale sacco di patate, e presto sei di nuovo seduto su quella dannata sedia damalati.
“Lei mi accompagnerà di là.” Dici allora, non trovando effettivamente altre soluzioni plausibili “Mi accompagnerà e basta. Mi porterà accanto al… gabinetto, e poi se ne andrà fuori dai piedi.”
Sai di non essere gentile, ma al momento neanche ti preoccupi di fingere di esserlo.
La vedi storcere appena la bocca, sicuramente per il tono che hai appena utilizzato.
“Io l’avrei detto in maniera un po’ diversa, ma… Se vuole così, a me va bene.”
Perfetto.
“In ogni caso,” Dice poi, una volta che esegue quanto da te stabilito, prima che esca dal bagno e che chiuda finalmente la porta “buongiorno, signor Piton.”
La guardi con un sopracciglio alzato, senza effettivamente rispondere, e lei, alla fine, se ne va.
Fai quello che devi fare, a quel punto, senza ulteriori indugi – hai già aspettato troppo, per i tuoi gusti – e quando hai finito rimani un momento fermo, senza parlare, senza chiamare la O’Dampand che di sicuro starà aspettando una tua chiamata da dietro la porta.
Vagamente inquietante, a proposito.
Ti guardi allo specchio, e studi il tuo viso, notando come tu stesso ti riconosca a stento: hai un’aria stanca – ti senti stanco, in effetti – decisamente più trascurato del solito, con le occhiaie, con la barba e con l’aria smunta. Non sei mai stato bello, ma effettivamente così lasci proprio a desiderare.
Alla fine, comunque, sei tu che arrivi alla porta, dandole una lieve botta per spalancarla.
Ti ritrovi O’Dampand dalla parte opposta alla tua, appoggiata con la schiena al muro e con le gambe tese in avanti, intenta, a testa bassa, a guardarsi le punte dei piedi, che muove a ritmo di una musica udibile solo per lei, probabilmente.
Ah, beh. Almeno sa come passare il tempo durante i momenti di inerzia.
Alza gli occhi quando la porta finisce di aprirsi.
“Finito?”
“Evidentemente…”
Scendete al piano sottostante, a quel punto; ti fa parecchio strano trovarti davanti – di nuovo – le scale trasformate in quella specie di pedana, ma ormai dovrai farci l’abitudine.
Ti ricordano un po’ la faccenda delle scale dei dormitori femminili che si trasformano in scivoli, ad Hogwarts. Silente, allora, sebbene la sua indole a fidarsi di tutto e di tutti – si è fidato persino di te, esempio più lampante non ci può essere – non si fidava dei propri studenti, in realtà.
Oh, ma d’altronde chi è che poteva fare affidamento su quei piccoli mocciosi, sempre pronti ad andare contro le regole, a trovare scappatoie anche nei cavilli più piccoli, a beffarsi dell’autorità e a pensare che tutto sia loro lecito semplicemente per il fatto che esistono? In effetti, se erano pronti a vagare di notte nel castello andando, peraltro, dove era stato espressamente vietato loro andare, come, per esempio, addirittura nella Foresta Proibita, non dovresti sorprenderti che un tempo abbiano quantomeno provato ad intrufolarsi nei dormitori femminili, per chissà quali impellenti motivi. Cosa che quindi ha portato Albus ad agire in determinati modo. Ne sapeva sempre una in più di Merlino, lui.
“Dunque.” Fa poi lei, una volta che arrivate al centro del salotto “Vuole qualcosa di particolare per colazione?”
Le tende sono aperte, e non c’è più bisogno delle candele; alcuni libri che prima erano poggiati per terra li ritrovi riposti in libreria, quando li cerchi con gli occhi, e sul camino non c’è più quel tappeto di polvere grigia.
“Non ho fame.” E’ la  tua risposta “Ma comunque non credo che troverà qualcosa di… commestibile, qui dentro.”
Lei arriccia le labbra, pensierosa.
“Beh, sì, in effetti lei è mancato per parecchio tempo, quindi è comprensibile.”
“Appunto.”
“Possiamo andare a prendere qualcosa fuori. Ci sarà pure uno Starbucks, da queste parti.”
“Un cosa?”
“Oh, intendevo… una caffetteria.”
La guardi per un momento di sbieco, prima di risponderle.
“Non ho mai esplorato la giungla qui intorno, e neanche ne ho mai sentita la necessità, ma suppongo che sia possibile trovare qualcosa di quello che potrebbe cercare lei.”
“Oh, bene, allora.”
A quel punto lei si avvicina nuovamente a te, probabilmente pensando che tu voglia uscire insieme a lei.
Ah, che ingenua.
“Io non vengo, ovviamente; pensavo fosse sottinteso, questo.”
“Perché mai?”
Incurvi un angolo delle labbra quasi autonomamente.
“Presumo che il professor Sherman voglia che io stia a riposo.”
Lei incrocia le braccia al petto.
“Ah, adesso vuole seguire le istruzioni del professor Sherman?”
Non cambi espressione, e dalla sua traspare la comprensione che difficilmente cambierai idea.
Stimolante, però, la sua osservazione. Potresti anche aprire un dibattito, ma come è giusto che sia te ne astieni.
“Vada, se ha fame.” Dici allora “Di sicuro non scapperò né tenterò di amputarmi qualche arto da solo… Non che cambierebbe qualcosa, ma credo proprio che ciò non le interessi.”
Non risponde, sul momento, così continui.
“Esca, o mi faranno un mucchio di domande, se per caso dovessi averla sulla coscienza.”
Lei abbozza un sorriso che di sicuro risulterebbe a chiunque abbastanza di circostanza.
“Va bene,” Decide poi “vado a comprare qualcosa che riempia sia frigorifero che dispensa, visto che ci sono. Il costo della spesa lo divideremo a metà tra di noi.”
Annuisci, pregustando già il momento in cui ti lascerà in pace.
“… Tanto mi sa proprio che non potrei fare o dire nulla che possa convincerla a cambiare i suoi piani. Se c’è qualcosa che ho capito di lei, è che è piuttosto testardo.”
“Sorprendente, O’Dampand…” Commenti, sarcastico.
“Ci conosciamo da poche ore, poi. Non mi sottovaluti, signor Piton.”
Non annuisci né rispondi, semplicemente inarchi un sopracciglio, fissandola senza espressione.
“Okay, uh,… Allora vado.”
Afferra quello che pare un giacchetto ed una borsa, appesi al tuo attaccapanni.
Dopodiché ti guarda nuovamente.
“Mi promette che non farà nulla di… avventato?”
Sbuffi.
“Sono dotato ancora di un po’ di razionalità, grazie.
“Ne è proprio convinto?”
Non sei sicuro se stia parlando dei gesti avventati o del tuo raziocinio.
Vada. Immagini, per un momento, di sapere che la frustrazione, nei suoi picchi più alti, possa far compiere alcuni inconsueti gesti. Ora, però, mi pare di averle detto di non crearsi inutili preoccupazioni, quindi agisca.”
Ti getta un’ultima occhiata, evidentemente provando ancora un po’ di indecisione, ma alla fine si dirige alla porta ed esce. E ovviamente non risponde alla tua provocazione
Ora sei davvero solo, la prima volta dopo giorni.
Non è come di notte, che sei costantemente accompagnato dai tuoi fantasmi; ora sei veramente solo e, come pensavi, la cosa non ti disturba. D’altronde non sei mai stato abituato ad avere altre persone intorno a te – persone di cui non hai specificatamente richiesto tu la compagnia – quindi il silenzio che ora hai intorno non ti infastidisce.
L’abitudine, in effetti, rende sopportabile quasi tutto.
Nel frattempo che O’Dampand ritorni non ti impegni nel compiere chissà quale attività; non hai proprio voglia, in effetti, di renderti ulteriormente ridicolo a te stesso.
Ti allunghi appena per afferrare il primo libro che hai ad altezza d’occhio, e lo apri, poggiandolo sulle tue gambe.
Nel giro di qualche minuto ti rendi conto di come sia fastidioso dover cercare di non far scivolare il libro dalle gambe, mentre nel contempo cerchi di girare pagina. Finisci per gettarlo con noncuranza sulla poltrona, sbuffando.
Non vedevi l’ora che lei se ne andasse e ora, addirittura, ti annoi.
E’ ridicolo.
Poi, improvvisamente, quasi ti sembra di sentire in lontananza l’eco della melensa radio del Vecchio, al San Mungo, e sussulti. Ti guardi appena intorno, ma quel suono sparisce tanto velocemente quanto era arrivato.
La smorfia sul tuo viso si accentua di più.
Poi, proprio in quel momento, bussano alla porta.
Inarchi un sopracciglio sebbene non ci sia nessuno ad infastidirsi per la tua espressione.
Evidentemente O’Dampand non si era ricordata di prendere le chiavi, e di sicuro questo non va a suo favore, dato che in questo modo fa la figura dell’incapace: prima dice che penserà a tutto lei, facendoti quasi saltare i nervi, e adesso ti costringe ad arrivare fino alla porta.
“Oh, questo non è assolutamente professionale.” Dici tra te e te.
Senti nuovamente bussare alla porta, piano.
“Un attimo.” Rispondi, allora, leggermente alterato.
Ciò che ti sorprende, però, è che odi provenire dall’altra parte della porta un distinguibile bisbiglio, cosa che – almeno questo – non puoi di certo imputare ad O’Dampand. Quindi c’è qualcun altro, fuori. E probabilmente sono più di uno.
Inizi ad avvicinarti alla porta, a che punto, piuttosto lentamente. Anzi, forse sarebbe meglio andare prima a sbirciare dalla finestra l’identità dei tuoi inaspettati visitatori, da bravo scorbutico di quartiere.
Arrivi più o meno a metà strada, però, che dall’altra parte della porta stavolta ti arriva il rumore di un concitato, seppur ridotto, scalpiccio.
“Ehi! E voi che fate qui?”
Questa è decisamente la voce di O’Dampand, che, a quanto pare, mette persino in fuga i tuoi visitatori, dato che ti giunge chiaro e forte alle orecchie uno strilletto e poi dei veloci passi che si allontanano.
Un attimo dopo la porta si apre, e la tua badante entra in casa.
“Cosa è successo?” Chiedi immediatamente.
Lei si stringe appena nelle spalle.
Ha in mano una scatola rosa e nulla di più.
“Bambini.” Spiega con semplicemente.
Tu, invece, di tutta risposta, ghigni.
“Avranno visto le tende aperte e ne avranno dedotto che il mostro è tornato; con molta probabilità avranno voluto sincerarsene di persona.”
“E invece hanno incontrato me.”
Il ghigno ti si trasforma in una smorfia.
Immagini già i pettegolezzi.
“Non è molto amato, da queste parti?”
Lei nel frattempo se ne va in cucina, e, prima di soddisfare quella sua tediosa domanda, la raggiungi, in modo da osservarla. Ci metti giusto un po’ di tempo.
“Non sono amato da nessuna parte, signorina O’Dampand.”
La ragazza si sta togliendo delle buste minuscole dalle tasche – la spesa, ovviamente – del suo giacchetto, per poi posarle sul tavolo ed ingrandirle con la propria bacchetta.
Dopo che comunque pronunci quelle parole, lei subito si volta prontamente verso di te.
“Non mi guardi in quel modo. Mai.” Dici, e senza attendere oltre te ne torni al centro del salotto.
Possibile che tutti pensino che per far stare meglio una persona basti guardarla con compassione? Questo serve solo a denigrarti, nel tuo caso, non a farti sentire meglio.
Ma poca gente lo capisce, evidentemente.
Rimani in salotto, allora, con sguardo cupo.
L’improvvisa predisposizione a voler avere una sorta di dialogo con quella guaritrice – tanto per far passare i momenti morti, si intende – è sparito con talmente tanta facilita che ti chiedi se in effetti tu l’abbia mai veramente avuta.
Continui a rimuginare su pensieri ormai fin troppo consuetudinari, quando vedi due gambe fermarsi di fronte a te. Sei a capo chino, e alzi gli occhi per guardare O’Dampand, domandandoti, nel frattempo, cosa diamine voglia, ancora. Le lanci un’occhiata sbieca.
In mano ha di nuovo quella scatola rosa, anche se aperta, stavolta, e la tiene tra le mani come se te ne stia offrendo il contenuto. Esso consiste in ciambelle, in pratica; tutte più o meno della stessa misura, colorate, glassate, ed alcune con sopra anche delle sottospecie di zuccherini a fantasia multipla.
Probabilmente ti verranno delle carie solo se continuerai a fissarle troppo a lungo.
“Ne prenda una.” Ti dice lei “O anche di più, se vuole.”
Ti fa un sorriso.
Oh, è estremamente irritante, questo suo comportamento.
“Le ho già detto che non ho fame.”
“Ne è sicuro?”
“Si sta prendendo gioco di me o cosa?”
“No, le sto semplicemente offrendo la colazione.”
E ti fa un altro sorriso.
Non demorde, lei, e continua ad insistere nei suoi buonismi. La costanza di solito è una caratteristica che finisci con l’apprezzare, ma in mosti casi – come questo, a tuo parere… perseverare diabolicum est.
E tu ne sai parecchio, a riguardo, giusto?
In ogni caso la guardi negli occhi con espressione risoluta, e lei finalmente capisce che è ora di rinunciare.
Chissà quanto ci metterà, prima di capire che potrebbe desistere su tutto, quando si tratta di te.
 
Anche stavolta, sebbene l’ambientazione sia cambiata, l’unico scopo della giornata sembra far passare il tempo il più velocemente possibile.
Sei seduto sul divano, con la testa appoggiata allo schienale, le mani in grembo, e gli occhi che vagano per la stanza senza soffermarsi su nulla in particolare.
A pensarci, quando eri al San Mungo, ti riusciva facile rimanere a fissare anche soltanto il muro, mentre ora non ci riesci un granché. Evidentemente il cambio di sede ha comunque sortito alcuni effetti.
Oh, sì che ne ha avute, di conseguenze, non c’è neanche da chiederlo.
Improvvisamente ti viene la curiosità di sapere chi stia occupando il tuo letto al San Mungo, in questo momento, dato che ti hanno sbattuto fuori proprio per far posto a malati più gravi di te. Una decisione che tutt’ora non condividi per niente, ma nessuno – a parte te stesso – sembra pensarla allo stesso modo.
Al momento stai guardando una macchia di umidità sul soffitto, ma poi sposti gli occhi sulla carta da parati sbiadita. Non sai, esattamente, se sia stato tuo padre o tua madre a scegliere quella carta da parati. Guardandola, è piuttosto semplice: sul marrone chiaro, con delle strisce verticali leggermente più scure abbastanza distanti l’una dall’altra. Forse, data proprio la monotonia di quella fantasia, sarà stato tuo padre, a scegliere; ma neanche tua madre era mai stata una donna da oggettistica a fiori e dai colori sgargianti, dopotutto.
La tua vita è sempre stata priva di colori accesi, perciò, sotto questo punto di vista, è stato più che automatico, per te, adeguarti ad una regola simile. Non è una sorpresa che il tuo guardaroba sia perlopiù tendente al nero, dunque.
Sì, beh... Per qualche tempo, a dire il vero, nella tua vita ha fatto capolino un po' di rosso, e ci aveva pensato lui a portare quella luminosità che mancava alle tue giornate. Ti piaceva, quel rosso.
Alla fine, però, è sbiadito anche lui. Proprio come la carta da parati che hai davanti agli occhi.
Poi un rumore ti distrae, in ogni caso, causato da colei che il tuo trasferimento dal San Mungo ha comportato.
Senti O’Dampand scendere quelle che un tempo erano scale, prima che te la ritrovi davanti. Si siede stancamente sulla tua poltrona, lei.
“Ha concluso l’opera?” Chiedi.
“Sì, non c’è poi voluto molto, no?”
Ti stringi nelle spalle.
O’Dampand si era infatti assentata per circa un’ora – non che tu ti sia disperato per questo, anzi – per svuotare la propria valigia. Ovviamente si è stabilita nella tua vecchia camera, e tutto ciò ha solo contribuito a farti ulteriormente capire che lei davvero ha intenzione di rimanere lì, da te. Per qualche momento hai anche pensato di comportarti in modo talmente pessimo – non che tu sia la compagnia ideale già di tuo, comunque – che lei sarebbe stata praticamente costretta ad andarsene per evitare il sopraggiungere di un attacco isterico o, nella migliore delle ipotesi, di un esaurimento nervoso. Poi hai giustamente pensato che, anche nel qual caso lei fuggisse più o meno letteralmente da casa tua, subito sarebbe subentrato qualcun altro per prendere il suo posto, e tu di sicuro non avresti avuto la pazienza necessaria per imparare a sopportare l’ennesimo guaritore, con annessi e connessi il suo carattere, i suoi modi di fare, la sua costante ed imperitura presenza.
Perciò ti sei detto, tutto sommato, di fare questo sforzo, e che, alla fine, ti sarebbe anche convenuto.
Ma questo di certo non voleva dire che avresti reso vita facile alla tua badante, ovvio.
“Spero non abbia combinato danni.” Le dici, in ogni caso.
Lei apre gli occhi momentaneamente chiusi e volta il capo verso di te.
“Non che ci fosse molto, da mettere in disordine.” Ti fa notare.
“Ho uno stile di vita piuttosto… spartano.”
“Beh, è scapolo.”
Inarchi un sopracciglio.
“E questo che cosa c’entrerebbe?”
Lei risponde solo dopo qualche secondo, forse perché in quella frazione di tempo ha ponderato se tornare o meno sui propri passi. Poi, appunto, invece, risponde.
“Volevo solo dire che si nota il fatto che non vi sia il tocco di una mano femminile, in casa sua.” Dice diplomatica.
“Come se poi ce ne fosse tutto questo gran bisogno…”
Lei si stringe nelle spalle, e la discussione cade. Così come, poi, si conclude brevemente ogni sporadica conversazione che durante quella giornata nasce quasi per caso, come se ci fosse il bisogno – da parte sua, naturalmente – di dire qualcosa, qualsiasi cosa, per forza, anche solo un commento sul tempo.
Ha già collezionato una folta seria di tuoi consecutivi ed auto-concludenti ‘Mmh’.
L’essere umano non riesce veramente a stare zitto. Nemmeno quando non c’è più nessuno ad ascoltarlo. Anche Albus diceva spesso di essere solito parlare da solo. Pare quasi che l’uomo rischi di morire, se non parla, parla, parla. Tu di sicuro non rientri in una tale categoria di… chiacchieroni; forse non sei neanche umano.
Oh, non che O’Dampand ti rintroni costantemente con il proprio blaterare, anzi, è piuttosto silenziosa, ma spesso – appunto – non resiste più al silenzio che si abbatte su di voi, quasi fosse nebbia, e dice quella che pare la prima cosa che le sia venuta in mente.
“Quando ero più piccola, avevo paura delle lucertole.” Se n’era per esempio uscita ad un certo punto, nel bel mezzo del pomeriggio.
Tu non l’hai neanche guardata.
Alla fine è arrivata la sera, hai mandato giù qualcosa di commestibile di cui neanche sapevi l’esistenza – in un quantitativo decisamente minimo – e poi sei voluto andare a letto; O’Dampand ha acconsentito immediatamente.
Come quella stessa mattina ti ha lasciato in bagno; ti sei spogliato e poi ti sei preparato per la notte in completa autonomia, cosa che hai provveduto a ribadire di voler fare sempre e comunque, in ogni occasione, tutti i giorni.
Forse O’Dampand ha capito come poterti prendere, perché stavolta non ha fatto quasi nessuna storia.
Meglio così, un fastidioso ed imbarazzante problema di meno.
Prima di sdraiarti sul letto lei ti dà le tue solite pozioni e, una volta steso, provvede lei stessa a disfarti le bende sul collo per poterti medicare la ferita. Così comincia gentilmente a sciogliere tutta quell’infinita fasciatura, finché non viene via del tutto.
Quello che non ti saresti aspettato, a quel punto, è il suo sguardo.
Non appena posa gli occhi sulla tua pelle quelli le si sgranano, e le labbra le si socchiudono appena. No, non è sorpresa. Conosceva la situazione ancora rima che vi incontraste per la prima volta. Il suo è disgusto.
Non gliene fai una colpa, d’altronde non sei tu che la ripugni – dovrebbe? – ma solo una parte di te, qualcosa che un altro ti ha inferto a tradimento.
Continui a fissarla, e lei, ignara, finalmente smette di guardarti, e si accinge ad indossare un guanto antibatterico alla mano destra, con la quale, quindi, ti avrebbe messo la pomata. Prende il barattolo, allora, e lo apre, svitando con un rumore cigolante il tappo rotondo.
“Me la faccia vedere.”
Lei si ferma con la mano che tiene il tappo ancora a mezz’aria.
“Come?”
“Voglio guardarmi il collo.”
“Ma non penso…”
Si blocca senza che tu né dica niente né che la guardi in maniera particolare. Forse sta semplicemente iniziando a capire che non cambi idea molto facilmente.
“Ho uno specchio, di là. Se aspetta un attimo lo vado a prendere.”
Oh, di tempo, di sicuro, ne hai parecchio.
Comunque lei si alza, chiude nuovamente il barattolo ed esce dalla stanza. Muovendosi crea uno spostamento d’aria che ti va a sfiorare la ferita. Sebbene l’aria sia stata veramente poca, ti senti rabbrividire sin dentro le ossa. La ragazza torna dopo solo un paio di minuti, e, effettivamente, ha uno specchio di piccole dimensioni, in mano. Si riposiziona lì dove si era messa poco prima.
“Ne è sempre sicuro, sì?”
“Ovviamente.”
E allora muove lo specchio in modo che tu possa guardarti. All’inizio però vedi solo il tuo mento, così le dici di spostare lo specchio un po’ più in basso.
Quando lei lo fa, tu rabbrividisci di nuovo, ma stavolta non è a causa di un altro spostamento d’aria.
Ciò che Nagini ti ha procurato ti lascerà il segno finché vivrai, di questo puoi esserne certo; lo sfregio che ti ritrovi non ha una conformazione particolare: ti ricorda la sagoma di un neurone che hai visto una volta su un libro babbano. Peccato che non sia la forma, ciò che più balza all’occhio: è tutta… scura, piena di sangue rappreso, e solo una parte di essa si è rimarginata. Ecco perché ti fa così male, durante la medicazione; c’è ancora la carne viva, lì sotto. In più, per concludere il tutto, la superficie sembra stranamente… lucida, un effetto dato con molta probabilità da del disgustoso e giallognolo pus che ora, alla mera luce della candela, non riesci pienamente a scorgere. Non ne fai un dramma, giustamente.
“Va bene così.” Dici allora, e O’Dampand toglie lo specchio, posandolo sul comodino.
Ciononostante è come se l’immagine dello stato in cui si trova il tuo collo sia ancora davanti ai tuoi occhi, tanto è vivida nella tua mente.
O’Dampand non sta dicendo niente, te ne accorgi solo adesso, e dal suo viso non traspare alcuna voglia né necessità di commentare la faccenda. Semplicemente, a quel punto, riapre il barattolo e, dopo riessersi messa quel guanto di plastica bianca, prende della crema, appena un po’, ed inizia a spalmartela sulla ferita. Lo fa delicatamente, ma tu stringi la mascella lo stesso, irrigidendoti appena. L’espressione di lei è concentrata, i suoi occhi sono fissi su quanto sta facendo, e la piega delle sue labbra è semplicemente piatta. Sorridere non avrebbe portato giovamento a nessuno. Senti le sue dita tamponarti il collo, ed ogni tocco è un bruciore in più.
Dopo non più di qualche minuto, però, l’opera si conclude, e il barattolo viene richiuso e riposto nuovamente nella sua borsa. Il contatto con le  bende non è che sia un vero e proprio sollievo, ma perlomeno, in quel momento, smetti di infilzarti il palmo della mano con le tue stesse le unghie.
“Fatto.” E’ la prima cosa che dice lei, e tu le fai giusto uno stentato cenno d’assenso, tanto per farle sapere di aver capito.
 
Passano alcuni giorni, ma la situazione non è cambiata. Sei ancora – e sempre lo sarai – sull’attenti, nel controllare O’Dampand in modo che non faccia nessuna mossa azzardata e nessun passo falso. Tali categorie di azioni, per te, racchiudono le attività comportamentali più disparate, perciò lei ha molto, su cui stare attenta.
Quella mattina sei riuscito finalmente a farti un bagno caldo, prestando molta attenzione. Non credevi di avere così tante costole, o che fossero così visibili, poi. Quando poi esci dal bagno non trovi lì O’Dampand, pronta ad attenderti, e provi un certo disappunto, a riguardo.
Strano, il disappunto. All’inizio ti era venuto proprio perché consideri la sua presenza troppo asfissiante, e ora è il contrario. Bah.
Poi la senti parlare, ma al piano inferiore, e di sicuro non con te.
“Non mi ha parlato di vecchi amici…” Sta dicendo… a chi?
Nel frattempo, tu ti avvicini lentamente alle ‘scale’.
“Sì, immagino.” Una voce maschile risponde “Avrà notato che è una persona piuttosto scostante.”
“E poi siamo vecchi amici,” Continua un’altra voce, stavolta femminile “per cui è probabile che non siamo tra i suoi primi pensieri.” Un sospiro “Me ne rammarico un po’, in effetti.”
“Certo che non siete tra i suoi primi pensieri.” Ribatte O’Dampand “Il fatto che stia male ha un po’ la priorità, non credete?”
Vi è una pausa, e tu ormai sei giunto alla rampa. La porta camuffata da libreria è accostata, ma da una fessura, seppur piccola, riesci ad intravedere l’interno del tuo salotto, in particolare il divano sul quale, a quanto pare, vi è seduta la donna che dice di essere una tua vecchia amica. Riesci solo ad intravederne i capelli castani che le ricadono sulle spalle.
“Oh, sta tanto male?” Chiede la donna castana, con un tono di voce talmente finto da far quasi ridere. Allo stesso tempo, però, pare… interessata.
A questa sua sentita domanda, comunque, segue una pausa.
“Perché siete venuti proprio adesso, se non lo vedete da così tanto?”
“O’Dampand!” Stavolta sei tu, che parli, interrompendo quel patetico siparietto che è durato fin troppo.
Non appena, però, annunci, così indirettamente, la tua presenza, la luce che filtra dalla fessura che dà sul salotto si oscura, solo perché l’uomo presente nella stanza si è interposto al sole per guardarti. L’unica cosa che pare brillare è il suo stupido sorriso smaltato. Non fai in tempo a dire niente che lui, allora, spalanca la porta con una mano, sempre con quell’espressione sulla faccia e con persino un luccichio negli occhi che già sai provvederai a far scomparire nel giro di qualche secondo.
“Oh, Sever--”
“Fuori da casa mia.”
La donna castana, nel suo tailleur grigio scuro, si è alzata in piedi, ed ora si gira verso O’Dampand.
“Non ci riconosce. Ha subito uno shock, quindi è sinceramente scusa--”
Fuori.”
Ripeti, guardandoli dal basso.
“Sentite, forse fareste meglio ad uscire…” Spiega O’Dampand, ma tu interrompi anche lei.
“Prima soprattutto che io perda la pazienza. Ed io non sono un tipo paziente.”
Assottigli lo sguardo, e vedi i loro sorrisi cominciare a vacillare.
“Vi conviene andare via, signori.” Riprende O’Dampand “Non penso sia… il momento più opportuno.”
“Non ci sarà mai un momento opportuno. E adesso, di grazia…”
“Oh, andiamo, Piton.” L’uomo ora ti guarda praticamente impaziente. E anche seccato “Si tratterebbe soltanto di qualche doman--”
“Ho detto fuori!” Esclami ad un tono decisamente più alto, con la voce che ti si fa addirittura più rauca, e la donna fa istintivamente un passo indietro, dando una botta al divano, peraltro.
“Sì, andiamo.” Fa proprio lei, rivolta al suo compare “Craig, forse dovremmo andare…”
“Sì. Dovreste.”
L’uomo fa una smorfia, prima di voltarsi verso la porta e di lanciarle un’occhiata. Dopodiché entrambi vanno velocemente proprio verso la porta, ed escono senza dire neanche una parola.
Alla fine ci sei riuscito, a togliere quel luccichio dai suoi occhi.
Non appena la porta si richiude, O’Dampand va alla finestra e guarda fuori.
“Si sono appena smaterializzati.” Dice, e poi fa un momento di pausa “Avevano detto di essere suoi amici…”
“Erano giornalisti, O’Dampand, e l’hanno raggirata come fosse una bambina. Non faccia più entrare nessuno se non è stato espressamente invitato, chiaro?”
Si volta. “Sì, va bene. Scusi. In effetti avrei dovuto chiedere.”
“Esatto.”
A quel punto lei ti raggiunge, e ti fa scendere in salotto, posizionandoti – ti verrebbe da dire ‘parcheggiandoti’ –  accanto alla poltrona, di modo che tu possa sederti su di essa, alzandoti appena, in autonomia, mentre lei si dirige in cucina.
“Io mi stavo facendo una tazza di tè. Ne vuole?”
“Mmh. Sì.”
“Biscotti?”
“No, solo tè.”
Per qualche momento ciò che si ode è solo il rumore dell’ondeggiare del pendolo.
“Signor Piton, posso farle una domanda?”
“Questa è già una domanda.”
Il suo busto sbuca fuori dalla cucina, lanciandoti un’occhiata veloce.
“Perché non ha voluto parlare con loro?”
“Prego?”
“Con i giornalisti. Okay, lo so che si sono presentati senza che nessuno li abbia chiamati, però…”
“O’Dampand, la pianti immediatamente con tali discorsi, o farà danni.”
Prima che lei risponda la vedi tornare con due tazze di tè nelle mani, e te ne porge una, che afferri saldamente, prima che lei si sieda sul divano.
“Pensavo solo…”
“Non pensi.” Dici, ma lei pare far finta di non aver sentito affatto.
“…Che domande avrebbero potuto farle, in caso?”
Dai un sorso al tuo tè, prima di dire qualsiasi cosa.
“Non ha mai sentito parlare di me, O’Dampand?”
Impossibile che lei sia così totalmente fuori dal mondo.
“Oh, sì che ho sentito parlare di lei.” Dice, con fin troppa tranquillità.
“E…”
Ti interessa, per caso? Tanto otterrai solo ulteriori parole intrise di veleno.
In ogni caso lei si stringe appena nelle spalle, invece. “Preferisco conoscerla da me, una persona, prima di esprimere un qualsiasi tipo di giudizio.”
“Mmh.”
“Se proprio ci tiene, alla fine glielo riferirò.”
Fa un lieve sorriso che tu non ricambi, mentre, tu assumi un’espressione, invece, piuttosto pensierosa.
“La cosa non rientra propriamente tra i miei interessi.” Dici infine, freddo.
Stavolta è lei che non risponde, così finisci per distogliere tutta l’attenzione dalla tua interlocutrice, concentrandoti piuttosto sul tuo tè.
No, di sicuro non è fuori dal mondo, magari lo conosce persino più di quanto sembri, ma non può sul serio ignorare ciò che ha sentito su di te. Nessuno lo farebbe, nessuno ne sarebbe capace, nessuno sarebbe così… non assennato.
Ti ha praticamente appena detto che vuole conoscerti. Se davvero è interessata ad intraprendere una tale strada, finirà col fuggire via. Ci sono cose che non possono essere ignorate.
Beh, che fugga, allora, l’hanno fatto in tanti, lei sarà solo una tacchetta in più sul bastone delle persone che hai incontrato e che poi hai imparato a dimenticare.
Ma tanto lei è solo una conoscente di passaggio, non ne risentirete né tu e né lei.
Vuole conoscerti? Ci provi. Tu non vuoi conoscere lei, peraltro, ed è difficile confrontarsi ed essere amichevoli, quando si ha davanti un muro di pietra.








Ancolo Autrice:

Buon salve, bella gente! :D Come al solito, spero che il capitolo vi sia piaciuto... Che la convivenza tra quei due abbia inizio! *zan zan zannn!*

Aggiornamento per quanto riguarda il "mistero" (che parolona) che si nasconde dietro la composizione di "Serena O'Dampand": vi do un indizio. C'entrano anche il nome e il cognome dell'altro nostro simpaticone di protagonista xD Vediamo se ora è un po' più facile capire qualcosa di più (ma non credo) XD

Riguardo ciò che avete appena letto, invece, non ho nulla da dire, ad essere sinceri, per cui io, semplicemente, mi rimetto a voi! Fatemi sapere che ne pensate del capitolo, della storia, dell'ambientazione... Insomma, di quel che vi pare XD

Ci sentiamo, come sempre, fra un paio di settimane :)

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Capitolo 7
*** Capitolo Sei ***


Capitolo Sei

 
 

Sono passati giorni, un paio, forse, non hai neanche tenuto tanto bene il conto. Tra l’altro non sai neanche quale giorno della settimana esattamente sia.
Ah, beh, non che tu abbia impegni nell’immediato futuro. Probabilmente non avrai impegni per i successivi cinquant’anni.
Sei seduto sulla tua poltrona, in salotto, e sei fermo lì da… forse un’ora, un’ora e mezza.
A pensarci, è snervante questo non rendersi pienamente conto del tempo che passa. E dire che sei stato ore a fissare un orologio a muro. Probabilmente la tua mente è talmente stanca di scandire in monotoni ticchettii il giorno che passa, che ora quasi si rifiuta di considerare il tempo come qualcosa di importante.
Meglio. Come già detto, avrai anni e anni da passare – presumibilmente… o quasi sicuramente – in quello stato, quindi meglio mettersi l’anima in pace e rassegnarsi ad una lenta, monotona, noiosa, prevedibile, ferma attesa.
Rassegnato. Solo ora ti rendi conto della parola che hai usato, ed ora quella riecheggia nella tua testa più volte. Ti sei rassegnato?
Domanda interessante.
Sei venuto più volte a conoscenza, tramite giornali o futili chiacchiericci, di persone che, tramite la sola forza di volontà, a volte, hanno fatto l’impossibile, riuscendo lì dove professionisti e fior fiore di esperti si erano fermati.
Zuccherosi eventi da cui si potrebbero trarre storie da telenovela che il Vecchio si premunirebbe di seguire assiduamente.
Forse, se anche tu ti impegnassi come quelle persone – Babbani? Maghi? – la tua situazione cambierebbe.
Ah. Ti viene quasi da ridere. Ti ci vedi, a fissare la tua gamba mormorando un continuo ‘Muoviti, muoviti, muoviti’ con tutta la forza di volontà del mondo, come se quella potesse ascoltarti e fare come gli comandi. Probabilmente, invece, finiresti col gettarci sopra il malocchio, altroché.
Le storie lacrimevoli a lieto fine ti nauseano, specie se devono per forza riguardare te, dato che i lieti fini non ti sono congeniali; anche se si potrebbe certo dire che se tu a non essere congeniale a loro.
Varrebbe, allora, combattere con così tanta forza di volontà per una fine che sarebbe meno triste di quella che ti attende, ma di sicuro non lieta?
Non ne sei tanto sicuro. Oh, a dire il vero ne sei sicuro, invece. E la risposta non è affermativa.
Sbuffi, seduto in poltrona, e in quel momento ti chiedi cosa diamine O’Dampand stia facendo al piano superiore.
Scuoti il capo dicendoti che non ti interessa, l’importante è che non combini danni, e nel caso in cui ti sorga li dubbio, guardandola, che qualche danno lei l’abbia causato, potresti sempre entrarle nella mente senza troppi complimenti, qualora le tue forze te lo consentano.
D’altronde effettuare un Legilimens – cosa comunque possibile anche senza bacchetta – sarebbe solo una delle cose meno deplorevoli che hai fatto, e qualora qualcuno voglia rinfacciarti qualche tuo comportamento, di sicuro non userebbe questo determinato atto come esempio. Avrebbe un’altra innumerevole serie di eventi a cui poter attingere, e di sicuro più compromettenti di una banale intrusione mentale.
Scuoti la testa e ti concentri, per almeno provare a pensare ad altro, magari a qualcosa di meno… deprimente, anche se non ti puoi assicurare nulla.
Affascinanti, le promesse fatte a te stesso  e che rischiano comunque di venir infrante.
Abbassi lo sguardo sulle tue gambe, sulle quali è poggiato il libro che stavi leggendo un momento prima. Ti duole un po’ il collo per il fatto che devi stare chinato con la testa in avanti, costantemente, per poter leggere. In realtà, potresti tenere il libro alzato con una mano, per poi poggiarlo sulle gambe quando dovresti voltare pagina.
Quale maledizione, essere in grado di leggere con tale velocità.
In questo modo dovresti alzare e abbassare il libro così tante volte in così poco tempo da farti venire la nausea, quindi hai presupposto che sarebbe stato più conveniente tenere il libro sulle gambe e basta. Eppure non puoi negare che dopo un po’, quando alzi il la testa, ti sembra che qualcuno vi abbia poggiato sopra una montagna.
Mentre volti pagina senti i passi di O’Dampand sulle scale, e alzi appena gli occhi, sempre a capo chino, per guardare la sua espressione, come poco prima ti sei appunto prefissato di fare, per decidere se effettuare o no un Legilimens.
Sembra tranquilla, invece, cosa che dovrebbe andare a suo favore. Ma non fidi mai dell’espressione della gente. Di quelle innocenti, più che altro, perché, se invece avesse un’espressione contrita e preoccupata, non dubiteresti un secondo di più che non sia finzione.
Oh, pazienza.
“Cos’ha fatto al piano di sopra?” Le chiedi, allora, distogliendo l’attenzione dal tuo libro. Tanto è da un po’ che hai comunque smesso di leggerlo.
Lei si volta verso di te senza smettere di camminare verso l’appendiabiti, e ci mette qualche secondo prima di far uscire una risposta dalla sua bocca.
Senso di colpevolezza? Voler prendere tempo per inventare una storiella da propinarti?
Ma più semplicemente, forse, è sorpresa che sia tu ad iniziare una conversazione, per una volta – se conversazione può chiamarsi, certo, invece di ‘accertarsi che casa tua non esploda’.
“Stavo sistemando la camera.” Ti risponde, allora, finalmente.
“Ancora?”
Lei si stringe nelle spalle e arriva all’attaccapanni, al quale, oltre che un suo giacchetto, lei ci ha bellamente attaccato anche la sua borsa. Tu la guardi sospettoso, ma a pensarci lucidamente, forse, non avresti motivo di temere nulla. È una guaritrice, non una piromane con l’hobby degli esperimenti.
Per quanto ne sai al momento, certo.
E non ti piace la sua borsa sul tuo attaccapanni, in ogni caso. Chiunque entri in casa tua vedrebbe quell’attaccapanni come prima cosa, e noterebbe nient’altro che il tuo giacchetto, il suo, e poi anche la sua borsa. Come se davvero doveste condividere lo stesso tetto da eguali. Un’ospite metterebbe la propria borsa accanto alle valigie, senza rischiare di invadere lo spazio personale altrui con i propri oggetti, oltre che già con la propria costante presenza.
Ovvio che sai che voi due state effettivamente condividendo le stesse stanze e lo stesso pavimento, non solo il tetto. Ma lei non è una tua ospite, è un’intrusa. Ti starà pure… aiutando, dal suo punto di vista, ma di sicuro tu non hai fatto una richiesta scritta, non le hai mandato nessun invito. Come al solito sono stati gli altri a decidere per te.
Quindi no, non la vuoi la sua borsa sul tuo attaccapanni, vuoi le sue cose il più lontano possibile dai tuoi occhi.
E gliel’hai detto, un paio di giorni prima. Ma ovviamente lei non ti ha ascoltato. È testarda, ostinata, oh, se lo è. E ti ha rifilato una risposta logica e secondo il ben pensare comune. Tu te ne sei sempre infischiato, ma per lei il discorso sembrava chiuso, così non hai replicato; ovviamente non è detto che non tenterai di nuovo. D’altronde è casa tua, non un albergo.
Anzi, persino in un albergo uno si terrebbe tutte le proprie cose vicine, come se un pazzo potesse sfilargliele via da sotto al naso da un momento all’altro.
Salazar, sembri una vecchia bisbetica.
In ogni caso, lasci perdere O’Dampand, la sua borsa, il tetto, l’attaccapanni, pure la rassegnazione, e torni al tuo libro, finendo di estraniarti – almeno per un lasso di tempo di qualche altro minuto – dal resto del mondo.
Stai leggendo ‘Contro-veleni asiatici’; non che tu abbia intenzione di andartene in Asia – non ne hai mai sentito il bisogno neanche prima – ma è un libro che hai letto tempo prima e parecchio di sfuggita. Ora hai l’occasione di rileggerti tutto quello di cui hai anche solo lontanamente voglia.
Particolarmente interessante, poi, è la storia di quel fungo che sprigiona un vapore velenoso, dato che i funghi in media non  hanno tali capacità. Anzi, sei sicuro che tale particolarità non la abbiano affatto.
Ti accorgi che O’Dampand si è seduta sul divano, con in mano una rivista, ma non alzi gli occhi per guardarla.
Riviste. Beh, scontato, per una donna, e l’ha pure – andando per logica – appena tirata fuori dalla propria borsa, ergo se la porta pure in giro. Oh, dovesse mai rubargliela qualcuno, in camera, o dovesse mai succedere che l’ultima moda in fatto di maniche o colletti diventi di vitale importanza mentre sta camminando per strada.
Sbuffi tra te e te. Ma di che ti sorprendi? Sei circondato da incompetenti – anche da professori e medici, lo sai, ma nella tua testa sono comunque degli incompetenti – quindi avresti dovuto arrivarci da te.
“Qualcosa non va?” Ti senti chiedere proprio in quel momento, e allora sei costretto ad alzarli, gli occhi.
Estraniamento dal mondo terminato, come previsto.
“No, nulla.”
“Che sta leggendo?”
Il fatto che tu l’abbia guardata presuppone la tua inclinazione ad affrontare una nuova, banale, stupida conversazione? Ma quand’è che avrebbe imparato?
“Un saggio su veleni e contro-veleni asiatici.” Rispondi, e potresti tornare a leggere, a quel punto, solo che ti nasce spontaneo un certo sorrisetto sulle labbra “E lei, invece?”
Oh, ti sarebbe piaciuto vedere la sua faccia mentre ti dice di star guardando fotografie di modelle in abiti da sera, mentre tu le hai appena riferito di star praticamente studiando.
Lei, in ogni caso, volta quella sua rivista verso di te in modo da potertene far vedere il contenuto, e come sospettavi, sopra non ci sono altro che disegni. Disegni, fotografie, qual è la differenza?
“Rebus.” Ti risponde, poi, lei.
Mmh. Adesso ti senti preso in contropiede, e il sorrisetto sulle labbra si affievolisce decisamente.
“Ah.” Ti limiti a dire “Beh, buon lavoro.”
Tanto avrai sicuramente altre occasioni per sottolineare un suo errore o un suo comportamento più o meno stupido.
Torni ai tuoi veleni e contro-veleni – sebbene ti interessino molto di più i primi – ma non fai in tempo a voltare un paio di pagine, per riprendere il segno, che il libro di cade per terra sbattendoti pesantemente sul piede. Pazienza, non hai sentito comunque niente. Sbuffi nuovamente, allora, stavolta non molto solo ‘tra te e te’, e ti allunghi per recuperare il libro. Riesci a sfiorarlo con la punta delle dita, quindi ti abbassi giusto un altro po’, quel tanto che basta per afferrare l’angolo della copertina rigida tra la punta dell’indice e del dito medio.
Ce l’hai quasi fatta, però, che il libro ti viene sottratto letteralmente da sotto la mano e da sotto gli occhi, e, un momento dopo, O’Dampand te lo sta porgendo. E sorride, lei.
“Tenga.” Ti dice.
Tu glielo strappi dalle mani e la guardi con uno sguardo che pensi esprima furia. E tu vuoi che la esprima.
“Le ho chiesto per caso di raccoglierlo?” Le sibili, e, probabilmente, se tu avessi urlato saresti sembrato anche meno minaccioso.
Lei di tutta risposta ti guarda smarrita, giusto per un momento. Solo un lampo negli occhi, ma tu lo vedi.
“Mi è sembrato in leggera… difficoltà.” Ti risponde “Mi scusi se ho evitato che le si accartocciasse la spina dorsale.”
“No, non è scusata.”
“Bene.” Fa allora andandosi a risedere sul divano con la sua rivista di rebus in mano “La prossima volta le lascerò rischiare di rotolare sul pavimento.”
“Oh, immagino al San Mungo abbiano qualcosa da ridire, a riguardo, e non sia mai che io voglia fare rapporto, uno di questi giorni.”
“Lei continua a rigirarsi questa storia del San Mungo come e quando le pare.”
“Una delle cose che mi riesce meglio. Grazie, O’Dampand, lo prendo come un complimento.”  Concludi ghignando, mentre lei alza gli occhi al cielo.
Lei torna a leggere, e dalla sua espressione concentrata supponi che la conversazione sia finita lì. Anche stavolta ti seri sbagliato, per quanto ti sia difficile ammetterlo.
“E comunque anch’io potrei minacciarla in quel modo, sa?” Ti dice infatti lei giusto qualche momento dopo.
“A cosa allude?” Le rispondi stancamente.
Ma perché ti eri dovuto mettere a parlare?
“Di riferire tutto al San Mungo, intendevo.”
La guardi nuovamente, a quel punto.
“Tutto? Quei rebus le stanno dando alla testa, evidentemente. Cosa concerne questo ‘tutto’? Il mio lasciarla in pace praticamente in maniera incessante? Il mio più che ammissibile discutere su taluni comportamenti che è meglio che siano adottati per una almeno pacifica convivenza? Mi illumini, O’Dampand. O forse dovrà lamentarsi del mio rispondere pedante? Oh, immagino che ai suoi superiori importi davvero molto di tutto questo.”
Di tutta risposta lei chiude la rivista e… beh, in pratica ti fa un grande sorriso.
“Sa che penso proprio che questa sia la frase più lunga che lei mi abbia mai detto?” Dice “Allora le minacce funzionano!”
Borbotti. “Minacce comunque stupide.”
“Anche le sue a dire il vero non avevano fondamenta molto solide.”
“E per quale motivo?”
Lei si fa giusto un pochino più pensierosa. Vuoi proprio vedere che razza di motivazione possa tirar fuori alle sue affermazioni.
Il suo sorriso non svanisce comunque, dopo che ha, senza alcun dubbio, formulato una qualche sottospecie di ennesima risposta. Immagini che i tuoi contro-veleni si rassegnino al fatto che probabilmente non verranno esaminati nel brevissimo futuro.
“Daranno retta a me piuttosto che ad un paziente brontolone.”
E il suo sorriso addirittura aumenta, contagiando anche gli occhi, verdi, ma decisamente più chiari di quanto altrimenti non sopporteresti che lei abbia. Lei, magari, crede anche di aver fatto la simpatica, ma con te non attacca per niente, un simile stratagemma tanto stolto.
Ovviamente non ricambi il sorriso, bensì riduci gli occhi a due fessure per guardarla male. Anzi, peggio. E così chiudi il libro facendo pressione sul braccio sinistro contro il bracciolo per poterti alzare un po’. O’Dampand scatta in piedi per aiutarti in qualsiasi cosa lei pensi tu voglia fare, ma con un’altra occhiataccia la inchiodi praticamente al suo posto.
“Faccio. Da. Solo.” Le dici, e lei pare veramente incerta sul da farsi.
Ah, allora forse non è così spavalda come sembra, e forse le tue espressioni non si sono tanto affievolite da lasciare gli altri indifferenti. La gente del San Mungo non ne è completamente immune, dunque.
Dato che lei, comunque, ancora non si muove allora provvedi veramente tu a fare tutto da solo, prima che il suo istinto da crocerossina si risvegli.
Non molti minuti dopo – ti sei velocizzato, negli ultimi giorni – sei in camera, seduto sulla sedia imbottita che hai fatto portare da O’Dampand appositamente accanto al letto.
E ricominci a leggere. Finalmente.
O’Dampand non sale al piano di sopra, rimanendo in salotto – od ovunque si sia rintanata – senza venire a vedere se sei sano e salvo. Ah, beh, come se ti debba importare.
Sei da solo, finalmente, e finalmente hai potuto riprendere a leggere in santa pace, senza doverti costantemente sentire addosso lo sguardo di qualcun altro. Non che O’Dampand stia tutto il tempo a fissarti, certo – la cosa risulterebbe inequivocabilmente inquietante – ma almeno… ecco, sei da solo e basta, cosa che preferisci rispetto a tutto il resto. Ti sei abituato a renderlo il tuo atteggiamento preferito e più consueto.
Poi, il campanello, che ti interrompe dalla lettura. Finirai per non capirci più nulla, se vieni continuamente interrotto, costringendoti a ricominciare il paragrafo da capo ogni volta; perché è ovvio che non verrai distratto per giusto qualche secondo, hanno suonato alla porta, è priorità che tu rimanga in ascolto.
Difatti ti accorgi, così, che O’Dampand ha presumibilmente fatto entrare in casa il visitatore, oppure che questi se ne sia andato, dato che il campanello ha smesso di suonare già da un po’. Speri vivamente che si tratti di questa seconda opzione, visto come è finita la prima e unica volta – finora – che O’Dampand si è presa la libertà di aprire la porta a qualcuno.
In ogni caso, senti dei passi proprio in salotto, a quel punto, e poi su per le scale e lungo il corridoio, fino a fermarsi dietro alla tua porta. Ah, perlomeno lei è venuta ad avvisarti di quanto appena successo al piano di sotto. Qualsiasi cosa sia successo. È il minimo.
Eppure non entra, e tu sai che i passi si sono fermati proprio lì, dietro la porta; non te li sei mica immaginati.
“O’Dampand, che starebbe aspettando, che le venga ad aprire?” Alzi appena la voce, nel parlare, dato che lei deve sentirti al di là dello spessore del legno “Sappia che non lo farei neanche in altri frangenti, se almeno non si degna di bussare.”
Al che lei effettivamente bussa, e la cosa ti lascia leggermente allibito. Ma che… Ti sta prendendo in giro, per caso?
“Avanti, per la miseria.” Le intimi a quel punto, irritato, con un tono che già sai manterrai durante tutta la successiva conversazione.
L’ennesima conversazione, tra l’altro, come se quelle affrontate non siano già state abbastanza per tutti, dato come si sono tutte ‘felicemente’ concluse.
La porta si apre, allora, e tu hai già pronto l’ennesimo, spontaneo commento acido, sulle labbra, da lanciarle non appena il suo viso sarà visibile almeno per metà, ma, quando la porta si apre un po’ di più, quello ti muore letteralmente in gola.
Non c’è O’Dampand alla porta, nessuna testa bionda.
Però ci sono lo stesso due occhi verdi, di un verde più intenso, più brillante di quello di lei, che, invece, è così spento.
Il problema è che questi occhi si trovano dietro le lenti di un paio di occhiali tondi.
Harry Potter. Che diamine ci fa Harry Potter in casa tua? No, in camera tua? Perché vedi la sua solita incolta zazzera di capelli neri e i suoi occhi che ti fissano, lì, insieme a tutto il resto del corpo, sulla soglia della. Tua. Camera?
“Potter.” È tutto ciò che ti viene in mente di dire.
Che cosa stupida.
“Professore.” È tutto ciò che dice lui, persino con l’incertezza nella voce.
Che cosa ancora più stupida.
Ah, O’Dampand te l’avrebbe pagata, non c’erano dubbi, a riguardo.
“Non sono più un tuo professore, mi pare, Potter.” Rispondi, allora, stavolta con la tua più consueta verve “In più mi pare che l’ora del tè sia passata, e – ah, tu non sei neanche stato invitato.”
Potter fa proprio per parlare, ma tu lo precedi.
“Ergo te lo dirò solo una volta e in maniera gentile: vattene.”
“Questo è il suo modo gentile?” Fa allora lui, e nel mentre entra nella tua camera e chiude la porta, appoggiandosi poi con le spalle contro di essa.
“Ringrazia allora che non abbia qui con me la mia bacchetta, altrimenti la mia… gentilezza si esprimerebbe in ben altri termini.” Fai una leggera pausa “E, poi, mi pare di averti chiesto qualcosa.”
“Sì, lo so, professore.”
“Sei ancora qui.” Spieghi, sorvolando sul suo averti chiamato nuovamente professore.
Lui, dal canto suo, nonostante abbia appena detto di essere ancora in possesso della facoltà di intendere, fa dei passi in avanti, invece di fare dietrofront il più velocemente possibile.
E, intanto, lui si avvicina.
“Già, sono ancora qui.”
Potresti domandargli che diamine voglia, ma non sei così idiota da chiederlo veramente in maniera così esplicita; perché tanto lo sai cosa vuole, non devi neanche sbilanciarti così tanto.
Parlare, parlare, parlare. Vuole le sue spiegazioni, Potter. Ah, quale stimolante dibattito ne verrebbe fuori.
«Perché non mi ha mai detto niente? Perché sei un ragazzino, Potter, non metto la mia vita nelle mani di un ragazzino.
Silente di me si fidava. Silente non è mica Dio.
Perché non mi ha mai detto che era amico di mia madre? A informazione ricevuta non sarebbe cambiato niente.
Quindi era per questo che odiava mio padre… Io odio tuo padre anche adesso, ma non vedo perché ciò debba avere qualche rilevanza ai fini della guerra.
Sarebbe stato più semplice, se lei me ne  avesse parlato, se mi avesse spiegato tutto sin da prima. Sarebbe stato più semplice per me, ma anche per lei. Ti rimando alla mia prima risposta, Potter. »
Hai sviluppato un facsimile di conversazione nella tua testa, mentre il vero Potter, quello lì di fronte a te, rimane a fissarti senza dire niente. Che scena commovente.
“Ti ho detto di andar via, Potter. Credo tu capisca le mie parole, nonostante non sia mai stato una mente particolarmente brillante, dico bene?”
“Sì… Sì, ho capito che vuole che vada, ma--”
“Io parlavo del fatto che non sei una mente brillante.”
Ghigni. Anche se probabilmente non dovresti mostrare tutto questo entusiasmo, specie se l’unica cosa che vuoi che faccia è che si volti e sparisca. Ecco, magari potrebbe smaterializzarsi, farebbe prima, e per una vola glielo concederesti, anche.
E sì, quello lì era quasi entusiasmo.
Ovviamente lui lo intuisce, cosa vuoi, ma non sia mai che Harry Potter ti soddisfi in qualche modo.
“Io credo… che sia meglio parlare, professore, invece.” Ti dice lui, cocciuto.
È una delle sue caratteristiche principali, sicuramente.
“Non abbiamo niente da dirci.” Rispondi, allora, risoluto, anche più di prima, solo che lui non pare neanche essersene accorto, dato che continua a parlare come se nulla fosse.
Ecco, è diventato pure sordo nel giro di due secondi.
“Al San Mungo non sono neanche riuscito ad averne l’occasione.”
“Mmh. Sì, mi hanno riferito del fatto che sei stato tanto… gentile da venire a trovare il malato.”
“Beh, ecco… Sì, in effetti mi hanno messo un po’ al corrente della sua situazione.”
Avresti dovuto usare altre parole, sì.
“La mancanza di riservatezza di quello che dovrebbe essere uno dei migliori ospedali magici mi nausea. Danno informazioni a chicchessia. Neanche tu fossi un mio parente.”
“Beh, non sono un suo parente, certo, ma…”
“Oh, risparmiami la tua autocelebrazione, Potter, potrebbe accelerare la mia dipartita, e magari anche la tua.”
Per riflesso lui fa una pausa, prima di ribattere. Ancora.
“Oh, lei è prevenuto, non vale. Ma in ogni caso, a proposito di parenti…”
“Non c’è nulla da dire.” Lo interrompi nuovamente, con tono lugubre, stavolta “E sappi che, in ogni caso, la mia irritazione aveva raggiunto l’apice sin dal tuo buongiorno.”
Potter guarda da un’altra parte, fuori dalla finestra, dalla quale si intravede la luce di un lampione, che si è presumibilmente appena accesa.
“Sono venuto fin qua.” Riprende allora lui “A parlare con lei. Quand’è che ad Hogwarts sarei venuto mai a cercarla?”
“Forse è l’unico dei tuoi atteggiamenti che ora rimpiango.”
Lui, ovviamente, da… bravo Potter, rimane ancorato al proprio discorso e va avanti, a lingua sciolta.
Un incantesimo Languelingua avrebbe la sua utilità, in questo momento.
“Io, invece, me ne rammarico, avrei potuto conoscerla di più, conoscerla meglio.”
“A che pro? Nessuno dei due ne ha mai avuta voglia, le cose non cambieranno di certo ora.”
“Si può sempre cambiare, lei l’ha dimostrato.”
“Fuori di qui!”
Urli, adesso. Ne hai decisamente avuto abbastanza.
Solo che stavolta non ti ritrovi davanti Albus e la sua snervante compostezza, il suo rispondere docile – ma affilato – anche agli insulti.
“Ma lei conosceva mia madre! Avrebbe dovuto dirmelo!” Alza la voce anche Potter, come avresti dovuto prevedere.
“Tante persone conoscevano tua madre, un resoconto in più non cambia niente.”
“Lei l’amava.”
Questo è troppo.
“Ti ho già detto troppe volte di uscire da casa mia, Potter! Non ho null’altro da riferirti, se non la mia volontà di non voler rivedere più la tua faccia! E ora fuori!”
E la volontà di non voler rivedere più i suoi occhi.
“Perché mi avrebbe lasciato tutti quei ricordi, allora? Perché? Lei voleva dirmelo, voleva che io sapessi!”
“Se ti avessi mostrato solo quello che Silente mi aveva rivelato, avresti pensato che io fossi stato talmente abile da modificare la mia memoria per mandarti tra le braccia del Signore Oscuro e fargli vincere la guerra!”
“Nessuno può modificare un ricordo talmente bene da farlo passare come autentico!”
Io sì. Anzi, chi ti dice che io non l’abbia proprio fatto, eh?”
Oh, bugia. Palese bugia, enorme bugia. Ma se puoi mettere un dubbio nella mente di Potter per poter farlo desistere, per poterlo convincere che non hai nulla da dirgli – perché non hai effettivamente nulla da dirgli – meglio così.
E in tutto ciò, quasi di colpo, lui pare calmarsi.
Tu hai ancora un Ungaro Spinato che ti si rivolta dentro, invece. Ce l’hai sempre, certo, ma adesso sputa proprio fuoco.
“Ma non è vero.” Dice, come se pronunciando quelle parole tutte le argomentazioni possibili con cui ribattere debbano svanire “Eravate migliori amici. E lei, professore, amava mia madre.”
Come se ci fosse bisogno di ribadirlo.
“Ma tu non sei mio figlio.” Per fortuna, grazie a Salazar “Quindi non ti devo nulla.”
E la sua risposta gliela leggi in faccia, e quasi già senti la sua voce pronunciare quelle ovvie parole: ‘Le ho salvato la vita.’
A quel punto potresti rispondergli con candore che Potter avrebbe potuto risparmiarsi quel superfluo atto di eroismo, nessuno se ne sarebbe risentito, neanche tu.
Ma Potter, invece, non apre bocca, e di nuovo guarda fuori dalla finestra. In pochi minuti il cielo si è fatto più scuro. Quelle parole non le pronuncia; oh, vorrebbe, lo sai, ma per qualche ragione non escono dalle sue labbra. A dire il vero non emette proprio nessun altro suono, per qualche secondo.
E dopodiché si volta; va alla porta, la apre, e capisci che sta proprio per andarsene, adesso.
“Arrivederci.” Ti dice voltandosi giusto il tempo di formulare quell’unica parola, e poi esce, richiudendo la porta dietro di sé.
Senti i suoi passi lungo il corridoio, lenti all’inizio, poi un po’ più svelti, e, giunti alle scale, hanno già assunto decisamente più velocità.
Chi voleva prendere in giro? Neanche lui non vedeva l’ora di andarsene.
… Come poi abbia avuto l’indirizzo di casa tua, questo sarebbe stato interessante da scoprire.
“Addio, insulso di un Potter.” Mormori infine tu, diretto alla porta chiusa, e solo a quel punto sai che la conversazione è davvero conclusa.
In un modo o nell’altro, hai avuto comunque l’ultima parola, seppur taciuta davanti a lui.
Solo dopo un paio di minuti ti rendi conto di star quasi cercando di stritolare la copertina del libro che ancora hai sulle gambe.
Ora il tempo lo avverti di nuovo, ogni tuo respiro o pulsazione è un secondo che passa, lo senti quasi nelle tue stesse vene.
Ed ora sei tu a guardare fuori dalla finestra, sparito dal tuo viso ogni segno di furia. Hai capito che non ti conviene mantenere un’arrabbiatura troppo a lungo, ti fa tendere e irrigidire i muscoli, e al tuo corpo questo non piace; posticipi queste sensazioni all’arrabbiatura successiva, sperando che, nel lasso di tempo intercorrente tra le due, possa giungere almeno un lieve rilassamento.
Anche se, a pensarci, il fatto che ti arrabbi con estrema frequenza è decisamente un punto a tuo sfavore. Fai così passare qualche altro minuto, prima di prepararti a litigare di nuovo.
Nel frattempo, un piccione si posa sul davanzale della finestra. Strano, di sera di solito spariscono praticamente da ogni strada della città. Buffo. Come se avessero lavorato dalla mattina alla sera, invece che girovagare senza sosta muovendo il collo avanti e indietro, beccando briciole, e ogni tanto gonfiando le piume del petto per far colpo su qualche femmina della stessa specie.
Un angolo delle labbra ti si incurva all’insù quasi spontaneamente, per un momento. Allora gli uomini – certi uomini, almeno – non sono così dissimili dai piccioni.
Quello appollaiato sul tuo davanzale si gira quasi a voler esaminare l’interno della stanza, e tu lo guardi di rimando; quello becca sul vetro e poi vola via, sparendo chissà dove; nel suo nido, con molta probabilità, magari sul cornicione di un palazzo o su una grondaia.
Speri non sopra casa tua.
Chissà se i piccioni o gli uccelli in generale rischiano di cadere giù quando camminano sul limite del baratro, o se invece hanno in loro un senso innato dell’equilibrio
Tu cadresti anche se fossi un piccione.
… Oh, ma per favore, ti sei messo a pensare agli uccelli, che stupidaggine.
“O’Dampand!” Tuoni, allora, ad alta voce, per far sì che la diretta interessata ti senta ovunque si trovi in quel momento.
Dai passi affrettati che senti un attimo dopo, capisci che quella chiamata lei la stava proprio aspettando. Forsa ha capito quanto il suo comportamento sia stato idiota.
La porta si apre ed ecco sbucare lei. Che espressione innocente, che ha.
Già ti irrita.
“Mi dica, signor Piton, è successo qualcosa?” Chiede candidamente.
Ecco fatto, la quiete dopo la tempesta è già finita, e il mare si agita di nuovo.
“Lei si reputa una persona intelligente?” Le chiedi invece tu, con finta calma, sebbene la tensione delle tue mascelle potrebbe benissimo tradirti.
Lei sbatte per un paio di volte le palpebre. “Come?”
“Risponda, nessuno la mangerà.”
Per ora.
“Beh, uhm, diciamo che nella media…”
“Oh, per Salazar, mi eviti la finta modestia.”
O’Dampand sbuffa.
“Va bene, sì, secondo me sono una persona piuttosto intelligente.”
“Ha detto bene: secondo lei.” Non le dai però il tempo di rispondere, e continui “E mi dica, è anche dotata di una memoria mediamente decente?”
A questo punto la sua espressione inizia a farsi leggermente sospettosa, osservi.
“Sì…”
“Bene.” Una pausa, prima di assottigliare lo sguardo ed alzare la voce “Che cos’è, allora, che non va nella sua testa, da indurla comportarsi completamente nel modo opposto a quello richiesto? A questo punto non mi stupirei di trovare ben più di una falla, nelle sue precedenti risposte!”
Lei ti guarda nuovamente sbattendo le palpebre un paio di volte, con espressione confusa. Speri abbia capito, perché non ti va di prodigarti in spiegazioni varie, vuoi rimproverarla e basta. Perché se lo merita. Perché ti ha assicurato che avrebbe agito in un determinato modo e invece non l’ha fatto.
“A cosa… A cosa si riferisce, di preciso?” Chiede allora lei.
Non si scompone più di tanto, ma la cosa irrita ancora di più te stesso, dato che ti sta proprio chiedendo quella spiegazione che tu non hai affatto voglia di darle. Evidentemente non ci arriva. Ergo, sì, ci sono delle falle nelle sue precedenti risposte.
“Quando lei ha fatto deliberatamente entrare in casa quei miei cari amici che altresì non erano che giornalisti, dopo averli cacciati cosa le ho chiesto?”
“Di – ehm… non fare entrare più nessuno.”
Precisamente.”
E a quel punto si nota, dalla sua nuova espressione, non più confusa, che ha finalmente capito. Era ora.
“Oh, andiamo, signor Piton.” Dice poi, invece “Non era un giornalista come è successo l’altra volta, era Harry Potter. Capirà che c’è un po’ di differenza tra le due cose.”
“L’unica differenza, per me, è che i primi non li avevo mai visti in vita mia, il secondo invece sì. Punto. Lei, O’Dampand, ha palesemente ignorato una mia richiesta.”
Un mio ordine, più che altro, ma non lo dici.
“Ma era Harry Potter! E’ arrivato, mi ha chiesto di lei, cosa dovevo fare,  chiudergli la porta in faccia!”
“Sì! Può anche presentarsi il Ministro in persona, non mi interessa!”
Lei apre la bocca per ribattere per l’ennesima volta, come fa sempre, e non dovresti più neanche esserne sorpreso, ma poi, invece, la richiude. E la sua espressione si fa prima pensierosa e poi più buia.
“Perché ce l’ha tanto con quel ragazzo?”
“Inutile dire che non sono affari che la riguardano. Lei faccia quello che le viene richiesto e basta.”
“Non sono  la sua cameriera, sono una guaritrice, se vuole che faccia una cosa mi dica perché.”
“Questa è casa mia, decido io che cosa far entrare e cosa no.”
I lineamenti del suo viso cambiano di nuovo. Sembra come se nella sua testa stia vorticando un tornado di pensieri; un ‘Legilimens’ è piuttosto invitante, al momento. Vedi che pensa, vedi che lo fa velocemente, in un secondo; vedi la piega delle sue labbra cambiare, quella tra le sue sopracciglia pronunciarsi. È palese che quel che vuole dire non ti piacerà.
E comunque quello che dice lei non ti piace mai.
E invece, mentre aspetti un altro battibecco inutile e patetico che si risolverà in un’ascendente serie di commenti pungenti, la sua risposta non rispecchia affatto quel che sicuramente sta pensando. Le si legge in viso.
“Come vuole. Ha ragione, non posso far entrare chiunque in casa sua. Evidentemente Harry Potter per lei non è differente da qualsiasi ragazzo che bazzica qua intorno. Ho capito.”
E detto ciò se ne va, chiudendo poi la porta della tua camera con forse un po’ troppa forza.
I suoi passi se ne vanno velocemente così come erano arrivati, ma stavolta non ti senti come con Potter. Con lui hai prevalso tu, l’hai cacciato, lui ha eseguito, e non avete parlato. Con O’Dampand dovresti aver prevalso alla stessa maniera, l’hai rimproverata e lei ha detto che farà quello che vuoi. Però la sensazione di non essere riuscito a prevalere, con lei, non ti abbandona.
Ed è strano.
Apri il tuo libro, allora, sfogliando le pagine per raggiungere il punto fino al quale eri precedentemente arrivato, e, quando lo trovi, torni indietro fino all’inizio del paragrafo corrispondente. Fortunatamente devi tornare indietro solo di una pagina e mezza.
Ti concentri, di nuovo, provando a cancellare dalla tua mente tutto ciò che ti circonda, e concentrandoti solo ed esclusivamente sulle parole che hai davanti agli occhi. Le leggi imprimendo il loro significato nella tua testa, come un timbro. In questo modo, pensando soltanto a quanto leggi e senza lasciarti influenzare da tutto il resto, è molto più semplice e veloce imparare le nozioni fondamentali di un testo. Facendo diversamente, dovresti rileggerti tutto almeno tre volte.
Stai studiando le caratteristiche del Samuj, adesso, un animaletto che si trova in svariate zone dell’Estremo Oriente, ma che è concentrato specialmente nella parte est della Cina. La caratteristica del Samuj è che, essendo simile ad un bruco, o ad un verme, a seconda dell’habitat naturale, viene attaccato spesso e volentieri da animali più grossi; proprio per questo usa come arma di difesa una tossina contenuta nella sua saliva, che sputa contro il nemico di turno. Non è un veleno letale, serve ad irritare l’aggressore con un bruciore momentaneo per poter avere il tempo necessario per scappare. Il problema è che se viene ingerito o se finisce negli occhi, potrebbe causare qualche danno un po’ più grave.
Non hai idea di quale incommensurabile imbecille possa anche solo pensare di ingerire della saliva di Samuj, ma tant’è.
Nel paragrafo successivo l’autore del libro spiega che i Samuj sono una delle cibarie preferite dei Kappa, immuni al loro veleno, difatti anche loro sono originari dell’Oriente, in particolare della Mongolia.
Ecco, non come affermava quel finto modesto di Lupin, che invece diceva che i Kappa sono più diffusi in Giappone. Già, Lupin. Ne è passato di tempo, da quel giorno.
Ti esce un sospiro dalle labbra, e, contemporaneamente, quelle stesse labbra si incrinano in una smorfia, conseguenza più che naturale del pensiero che hai appena formulato.
Chiudi il libro senza premunirti di inserirvi qualcosa che faccia da segnalibro, e lo poggi sul comodino alla tua sinistra. Dopodiché appoggi la testa allo schienale imbottito della tua sedia e chiudi gli occhi. La lettura non rilassa come dovrebbe.








Angolo Autrice:

Salve a tutti! :D
Sono tornata e con un capitolo, stavolta, in cui succede qualcosina di più, per una volta XD
Harry Potter is back, ma di sicuro la conversazione non è stata delle migliori, tra loro due. Piton è brurbero, scostante, antipatico... Insomma, non fosse malato, lo picchierei io stessa.
Ma avete già notato tutto questo da voi, quindi non mi conviene ripetermi :P

Insomma, spero che vi sia piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate! Se trovate qualcosa che non va, sarei comunque felicissima di saperlo! Almeno correggerò i capitoli successivi! XD Insomma, come al solito, qui c'è bisogno di feedback! XD

Alla prossima, bellissimi, ciao!
Iurin

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Capitolo 8
*** Capitolo Sette ***


Capitolo Sette

 
 
Non vi siete parlati per due giorni.
O meglio, vi siete parlati, sì, ma solo per quanto concerneva le argomentazioni abitudinarie: pozioni da assumere, ‘Giri la testa, devo scioglierle le bende’… Richieste di questo genere, e ogni conversazione o semplice sporadica frase che vi siete rivolti non ha mai abbandonato il sentiero del puro rapporto medico-paziente.
Non hai chiesto altro, nella tua mente, fino a quel momento, ergo la cosa dovrebbe arrecarti sollievo, o comunque darti quella sorta di calma interiore che trovi sempre – o quasi sempre – quando finalmente vieni lasciato in pace.
Eppure c’è ancora qualcosa che ti irrita. Hai ancora un peso sullo stomaco che ti fa salire l’amaro in bocca, sei ancora… insoddisfatto. Sicuramente non basta il fatto che lei smetta di fare la ‘carina’, per farti contento, dovrebbe proprio andarsene.
Ecco, è questo il fatto.
Ma sai che non accadrà, quindi, per tutto il tempo che verrà, convivrai comunque con quella sensazione alle viscere.
Dannazione.
Non che poi tu faccia qualcosa di diverso rispetto a quando trascorrevi l’estate a casa, lontano da Hogwarts, alla fine di ogni anno scolastico, quindi la situazione, ritrovato il silenzio, in quella casa, non dovrebbe continuare effettivamente ad infastidirti.
Sì, era la semplice presenza di O’Dampand, non c’era dubbio.
“Il pranzo.” Sono le uniche parole che ti rivolge attirando la tua attenzione, in quel momento.
Sì e no la quinta e la sesta della giornata
Ci metti un po’ ad arrivare in cucina, lei neanche si disturba a chiederti se hai bisogno di una mano, e di nuovo la cosa ti infastidisce, sebbene tu sappia che è questo che vuoi. Finalmente cambi stanza, e sul tavolo trovi due piatti pronti, posti uno di fronte all’altro. Pronti in tutti i sensi, sono quelle specie di zuppe che basta riscaldare in pentola, d’altronde. Oh, ma tu non sei mai stato un buongustaio, ti sei sempre adeguato.
Certo, Hogwarts ti ha abituato a ben altri standard, ma di sicuro non farai lo schizzinoso. O magari sì, solo per la soddisfazione di rimproverarle qualcosa; dopotutto, dopo la strigliata su Harry Potter, non vi siete più parlati, si, e neanche avete più litigato. Forse non sarebbe tanto male farle un commento acido.
O magari no, perché sai che ti risponderebbe a tono seduta stante, e una conversazione con lei non la vuoi, dopo che si è dimostrata ancora più stupida e, per questo, insopportabile.
Ecco, è veramente insopportabile.
Ti sistemi al tuo solito posto e fissi il piatto che hai davanti. Lo stomaco ti si contorce. Non stai mangiando molto, di recente, si vede dal fatto che i tuoi zigomi sono sporgenti persino sotto la barba – non l’hai ancora tagliata, a chi dovrebbe importare? – le dita delle mani ossute, e la vita di sicuro non è stata mai più stretta di così. Sai che, probabilmente, se tu indossassi un sacco di tela sformato non si noterebbe alcuna differenza con i vestiti che hai addosso.
Il giorno prima hai dovuto interrompere il recente silenzio tra te e O’Dampand per chiederle  tra i denti di farti un altro buco alla cintura.
Lei ti ha guardato con disapprovazione, quasi con rimprovero, ma poi ha semplicemente risposto che andava bene ed ha preso tutto l’armamentario occorrente.
È la tua curatrice, non la tua nutrizionista.
“Oggi pomeriggio presto dovremo andare al San Mungo.” Ti dice ad un certo punto lei, ma sei talmente assorto e con lo sguardo perso che sul momento neanche le fai caso, sebbene lei abbia finalmente interrotto il silenzio.
No, non finalmente. Purtroppo.
“Davvero?” Rispondi.
“Deve farsi controllare, ogni tanto, se l’è dimenticato?”
Annuisci. “Ogni due settimane. Lo so.”
Sono passate solo due settimane. Oppure ‘sono passate già due settimane’. Non sai quale versione preferire, di preciso.
“Bene.” Fa lei, e, dopodiché, non dice niente altro.
Presumi che la breve conversazione sia finita.
“Quindi  veda di mangiare quello che le ho messo davanti.”
No, l’hai pensato troppo presto, evidentemente.
“Aveva detto di non essere la mia balia, si attenga a tale dichiarazione.”
“Se muore per mancanza di cibo, questo comporterà una nota rossa sul mio curriculum.” La sua espressione è puro sarcasmo “Sarebbe una scocciatura.”
“Stia tranquilla, se vuole firmerò una dichiarazione in cui la sollevo dalle sue responsabilità, in questo determinato campo.”
A quel punto fa una faccia seria, continuando a rimanere in piedi a fissarti. In questo modo ti guarda dall’alto in basso, e non ti piace.
Hai sempre pensato che tra gli elementi per incutere qualcosa – che sia timore, rispetto o altro – l’altezza fosse qualcosa di piuttosto indispensabile. Certo, a meno che non voglia ricorrere ad altri… metodi.
Ma tu, che tendi a parlare più che a menare le mani, sai che guardare dall’alto una persona, anche continuando a parlarle in maniera più che tranquilla, mette l’altra persona abbastanza in soggezione.
Perché in molti uffici i direttori hanno le proprie poltrone rialzate rispetto a quelle che si trovano dall’altra parte della scrivania? Perché la statura crea così tanti complessi di inferiorità anche a gente alla quale l’estetica importa relativamente?
Per questo vorresti che lei si sedesse. In quel modo le cose ritornerebbe al loro… livello naturale.
E invece no, rimane in piedi e a fissare te con quella faccia.
“Non ne ho voglia. Lo capisce, sì?” Puntualizzi.
“Oh, suvvia, non mi racconti fandonie.”
“Devo metterle anche questo per iscritto?”
Lei alza entrambe le sopracciglia. “Per favore, signor Piton…”
“Non mi sembra così indispensabile.”
“Cosa?” Stavolta sembra genuinamente sorpresa, come se tu abbia detto chissà quale bestialità “E che vorrebbe fare, lasciarsi morire sul serio di fame?”
Magari il tuo inconscio ha già formulato una risposta due settimane fa. Ora la tua parte conscia richiede suggerimenti dalla sua sorella più recondita. È una risposta con cui concorda?
Nel frattempo non rispondi; ma, tanto, anche nel caso in cui tu avessi voluto dire qualsiasi cosa, anche che saresti stato disposto a mangiarti un bue, O’Dampand era già partita a parlare a raffica.
Magari sta recuperando il tempo perso senza parlare di quei giorni.
“Lei mi ha chiesto se la conoscessi già, signor Piton, beh… non è difficile non conoscerla: lei è uno dei sopravvissuti della guerra!” Continua infatti “E… E… Non fa altro che starsene lì con la faccia come se volesse uccidere tutti! Beh, certa gente è morta sul serio.”
“Ma io no.”
“No, lei no, infatti! E quelle persone, se potessero, farebbero subito a cambio di posto con lei!”
“Farei uno scambio del genere immediatamente, signorina O’Dampand.”
… E’ questa la risposta?
Sorpresa, sul suo viso. Beh, anche qualora non fosse la risposta che cerchi, è valsa la pena averla detta solo per la sua faccia.
“E’ serio?”
“Effettivamente ho un senso dell’umorismo tutto mio, ma perlopiù sono una persona non incline alle battute ludiche, no.”
A quel punto lei si siede, probabilmente sconvolta.
Oh, sì, ne è valsa proprio la pena.
“Perché  dovrebbe? Perché anche solo le viene in mente?”
“Quanta preoccupazione, O’Dampand, ha davvero paura di quella nota rossa, allora.”
“Perché è così ingrato alla vita?”
Ingrato alla vita? Se non fossi sicuro del fatto che lei sia più che seria, data la natura del discorso, penseresti che sia una delle migliori battute dell’anno.
Come semplicemente osa pensare una cosa simile? Ingrato alla vita? No, non che tu ogni giorno ringrazi il Cielo di esserti svegliato di nuovo, ma… Chi, al posto tuo, sarebbe così gioioso di svegliarsi? E lei lo dice con così tanto… stupore, e anche con un certo dispiacere. E’ evidente che non ti conosce per niente, né che abbia mai passato un singolo giorno anche solo vagamente somigliante ad uno dei tuoi.
“Ingrato? Alla vita?” Ripeti per la terza volta, ma stavolta ad alta voce “Quale vita? Quella che ho avuto io di sicuro non può considerarsi tale!” Ti viene naturale alzare il tono di voce “Qualsiasi cosa io abbia avuto – perché vita non era – avrei preferito finisse prima che venissi portato al San Mungo!”
Hai il fiatone.
Ecco, è questa la risposta. È venuta fuori da sola, e l’inconscio aveva ragione, quindi. In fin dei conti, eri anche sicuro di saperlo già da prima.
“Prima che Harry Potter la portasse all’ospedale, sì…”
“Sì, proprio Potter. Una cosa giusta non riesce proprio a farla.”
O’Dampand scuote la testa, visibilmente demoralizzata.
“Ecco perché ce l’ha tanto con lui da cacciarlo via di casa.”
“Lo so che lei mi reputa ingrato anche verso di lui, non c’è bisogno che me lo dica apertamente.”
“Io no ho detto nulla.”
“Non mi prenda in giro…”
Potrebbe anche essere questo il motivo che l’ha spinta a smettere di parlarti, per solidarietà verso Potter. Oltre che come conseguenza alla tua sfuriata, certo, ma d’altro canto, per una come lei, in effetti due giorni già stavano cominciando a sembrarti eccessivi.
È sempre per Potter, anche ora.
Oh, che pensiero lodevole.
Guarda verso il basso, lei, sui piatti di minestra ormai freddi, pensierosa. Di certo, probabilmente, non si aspettava una simile dichiarazione. Anche le labbra assumono una posa che fa pensare al suo stato d’animo; sono quasi arricciate.
“A quanto pare, però, una cosa  non l’ha considerata.” Dice poi, rialzando improvvisamente gli occhi su di te.
Sul momento ti limiti ad inarcare un sopracciglio, e lei probabilmente lo interpreta come un invito a proseguire.
“Anche… Anche se ‘in ritardo’, non può pensare che quella di ora sia una vita?” Continua, infatti “Lei dice di non averla mai avuta; ora, però, può cominciare a costruirsene una, immagino. Se non pensa di essere ingrato con il passato o con il presente, almeno non sia stupido e superbo nei confronti del futuro.”
Sei ancora con il sopracciglio alzato.
“Lodevole discorso. Certo.” Rispondi “Peccato che ciò che mi si prospetta davanti non sia un panorama dei più idilliaci.”
“A cosa si riferisce?”
“O’Dampand, per quale diamine di motivo lei è qui?”
Inaspettatamente sul suo viso non compare altro se non un piccolo sorriso.
“Oh, scommetto tutto quello che vuole che entro la fine dell’estate lei non avrà più neanche bisogno di me.”
“Certo, perché sarò morto.”
“No, non per quello.” Lei rotea appena gli occhi, prima di tornare a guardarti “Perché si sentirà meglio, sarà guarito e io tornerò ad occuparmi di qualcun altro.”
Fai uno sbuffo di derisione, a quelle parole.
“Se questo mai accadrà, O’Dampand, mi taglierò i capelli.”
Il suo sorriso aumenta appena.
“Bene, signor Piton. Allora mi premunirò di un paio di forbici adatte.”
Quella conversazione molto sicuramente la considererai rivoltante e stucchevole e inappropriata di lì a qualche secondo; ma sul momento non pensi proprio a niente.
Per quanto riguarda lei, invece, pare che l’aver affrontato un argomento che riguarda il tuo… approccio alla vita, le abbia fatto sciogliere la lingua. Sicuramente più di prima, almeno.
Eppure non sei veramente sicuro che tutto questo ti dispiaccia, in fin dei conti.
Finché O’Dampand continuerà a parlare di cose perlomeno intelligenti, probabilmente riuscirai a sopportarla. Meglio così, in effetti, piuttosto che quel silenzio che ti irritava costantemente, perché – adesso l’hai capito – era un silenzio teso. Teso perché lei aveva quelle sue preziosissime considerazioni che avrebbe voluto lanciarti addosso e che invece teneva esclusivamente per sé.
Non che tutto quel che lei veramente pensa di te ti stia necessariamente a cuore, ma se ascoltarla mitiga l’atmosfera anche di poco… meglio. Mezza cosa in meno a cui pensare, tra le innumerevoli.
Tanto ti limiti ad ascoltarla e – al massimo – a risponderle a tono; mica le dai ragione.
Proprio per questo, alla fine, non pranzi. Non solo non hai fame, al momento, ma almeno per quel giorno si tratta proprio di una questione di principio.
Lei ti guarda comunque con rimprovero, a quella tua decisione.
Che ingiustizia.
Eppure, mentre ti prepari per andare al San Mungo, quel giorno, il discorso affrontato da poco non fa che tornarti in mente.
Oh, no, non perché la tua corrotta anima vi ha visto chissà quali illuminanti principi o sproni a fare chissà cosa. Semplicemente ti ritorna in mene e basta.
Ti vesti, allora, pensando bene di darti una mossa, sebbene quel giorno i tuoi movimenti siano anche un po’ più lenti del solito… del ‘solito’ che è diventato tale nelle ultime settimane, almeno.
Quando sei pronto, uscite. Non è buio come quando hai fatto il medesimo viaggio, solo che al contrario. Era stata scelta la notte come espediente naturale per far sì che tu fossi nascosto ad occhi indiscreti; ora non sei nascosto dall’oscurità, eppure nessuno pare comunque fare caso a te, sebbene gli occhi indiscreti potrebbero esserci comunque: vicini, anche i soliti giornalisti o ficcanaso qualunque. Ti si potrebbe dire che sei talmente egocentrico da dare per scontato che tutti stiano lì, frementi, ad aspettare che tu metta il naso fuori di casa, ma solo Merlino sa quanto passare inosservato in realtà ti stia bene, in quel momento.
“Le dà fastidio la Smaterializzazione?” Ti chiede allora O’Dampand, non appena svoltata in un vicolo ancora più deserto.
“No.” Rispondi seccamente. Solo dopo una manciata di secondi continui la frase “Mi sposto sempre così, ergo non mi crea disturbi di alcun tipo.”
“Bene, meglio così.”
E subito ti lasci guidare da lei in una Smaterializzazione congiunta, al termine della quale senti un incomprensibile senso di nausea. Perfetto, il tuo fisico continua imperterrito ad essere di impaccio, ora si diverte persino a contraddire le tue stesse risposte. Che odio.
Ma, nonostante questo, la sensazione svanisce quasi subito, e il San Mungo ti compare a poca distanza non appena i tuoi occhi rimettono a fuoco l’ambiente; guardi la grande struttura mentre O’Dampand comincia a camminare di nuovo, e tu con lei. Tremi appena per il fatto che incontrate qualche sasso di troppo lungo la strada, e tra te e te inveisci contro chiunque sia stato a ritenere soddisfacente il manto stradate tanto da pensare di poterlo lasciare così. Uno di questi sassi finisce anche per bloccare una delle ruote anteriori di quel trabiccolo su cui ti ritrovi, e O’Dampand deve per forza fermarsi e toglierlo di lì.
“Witherington aveva troppo da fare per potermi venire a prendere lui?” Chiedi a quel punto, e nel frattempo la tua… accompagnatrice ricomincia a spingere la tua sedia con le ruote.
“Qualcosa non va in come la sto portando io?”
Ponderi un momento se rispondere in maniera affermativa o negativa, e poi decidi di evitare l’impaccio direttamente.
“Mi diverte… stuzzicarlo.”
“Lo fa anche con me, sa, signor Piton?”
“Sì, ma lei ha spesso e volentieri una rispostaccia pronta. Non c’è divertimento.”
Rispostacce discutibili, certo, ma immagini che lei lo sappia già da sé.
Quando arrivate oramai in prossimità dell’entrata del Sam Mungo, in ogni caso, non puoi fare a meno di notare che lì non vige la stessa desolazione di Spinner’s End. Ti importa poco che si trattino di giornalisti o meno, sono quantomeno persone, persone che non esiteranno a dirti cose che ti faranno ribollire il sangue per un motivo o per l’altro, e che ti guarderanno con quello sguardo che non hai dovuto più sopportare in quelle ultime settimane.
Perché O’Dampand non ti guarda come Sherman, per esempio, e neanche come Witherington, e men che mai come L’altro.
Non ci hai neanche mai fatto caso.
“Mmh.” Fa poi lei proprio in quell’istante “Lei che ne pensa, signor Piton?”
“Di cosa, della società odierna, dell’universo, o di qualcosa in particolare?”
“In verità avrei voluto chiederle qual è secondo lei il senso della vita, ma temo che la sua risposta potrebbe non piacermi.”
Inarchi un sopracciglio, anche se lei, trovandosi dietro di te, non può affatto vederti.
“Comunque…” Continua allora “Intendevo un’altra cosa, ad essere sinceri, ma credo che anche agendo di testa mia potrei stupirla.”
“Attenzione, O’Dampand, numerosi disastri storici probabilmente sono accaduti proprio dopo che qualcuno ha pronunciato una frase del genere.”
“Così come tanti colpi di genio. Aspetti un attimo.”
Si muove, allora, ed un momento dopo si ferma non molto lontano, in un punto che però vi cela alla vista di tutti. Si mette davanti a te, allora, e vedi che in mano ha anche la sua bacchetta.
Il sopracciglio ti si alza nuovamente, praticamente in automatico.
Disillio.” Dice, puntando prima la bacchetta su di te e poi su se stessa.
In un batter d’occhio la vedi letteralmente scomparire da sotto il tuo naso. Beh, quasi. Un Incantesimo di Disillusione ben fatto, devi ammetterlo – a mente, non a voce – ma non perfetto. Ma d’altronde quasi nessuno è capace di scagliarlo alla perfezione, neanche tu, con molta probabilità. Giusto il Signore Oscuro o Albus erano tanto bravi da riuscirci. Proprio per questo motivo, sebbene O’Dampand, ad un veloce sguardo, potrebbe risultare del tutto invisibile, in realtà, guardando bene, puoi ancora notare i suoi contorni.
Supponi che anche tu e tutta l’attrezzatura mobile che ti porti dietro abbia avuto la stessa sorte.
Incredibile come abbia indovinato i tuoi pensieri di poco prima.
“Come sto?” Fa allora lei.
La vedi muoversi, e intuisci, a rigor di logica, che stia mettendo a posto la sua bacchetta.
“E’ sublime non poterla vedere, O’Dampand.” Rispondi con un ghigno che lei con molta probabilità neanche può scorgere.
“Per una volta concordo pienamente, sa?”
“Grazie per il complimento.”
Detto ciò la senti – e la intravedi appena – tornare dietro di te, e capisci di aver indovinato, dato che un momento dopo riprendete a muovervi; in men che non si dica tornate sui vostri passi, verso l’entrata principale del San Mungo, ma ora sai di poter passare inosservato tra le persone.
Certo, sempre che non andiate a sbattere contro qualcuno, ma questo va a discrezione di O’Dampand. E, in ogni caso tu, potrai sempre darle nuovamente la colpa delle sue mancanze. Però va tutto liscio, invece: ci sono persone, sì, ma non c’è una gran folla, né una calca di gente che si spinge a vicenda per poter entrare all’ospedale. Dopo due settimane, sebbene sia relativamente un tempo neanche troppo lungo, supponi che la situazione si sia più o meno normalizzata e il senso di panico notevolmente affievolito. Grazie a questo, riuscite ad entrare passando per anonimi individui nella più totale tranquillità.
Passando loro accanto ti soffermi a guardare i loro visi, sapendo di non poter essere visto a tua volta. Nessuno si può dire che abbia un’aria propriamente… felice: alcuni sembrano assorti tra i loro pensieri, altri hanno il volto scavato, proprio come te – o quasi. Nel migliore dei casi l’espressione di quelle persone rimane seria, stanca.
Bah, per quanto la situazione non sia idilliaca, di sicuro tu sei messo molto peggio di loro. Se solo a loro fosse capitata anche solo una parte delle cose che sono successe a te, avrebbero espressioni ben più afflitte, sui loro visi.
Puoi anche smettere di guardarli, dato che la loro situazione non ti crea nessun giovamento.
Superate l’ingresso del San Mungo, a questo punto, il grande cartellone con su scritti i vari piani e i vari reparti, sapendo bene che tu sei diretto all’ultimo di essi. Ah, che gioia. Entrate in un ascensore, allora, e, da come la senti muoversi, intuisce che O’Dampand si sta riposizionando di fronte a te.
Ecco, sì, guardando bene adesso puoi vedere la sua sagoma un po’ più opaca contro la parete marroncina dell’ascensore.
“Tutto bene?” Ti chiede lei mentre con un colpo di bacchetta pone fine al suo Incantesimo di Disillusione.
Prima su di sé e poi su di te, come prima.
“Oh, magnificamente, non si vede?”
Lei fa bellamente finta di scrutarti.
“Nah, forse era meglio trasparente.”
Fa un leggero sorriso, lei, mentre tu alzi gli occhi al cielo.
Un paio di minuti dopo siete finalmente giunti a destinazione.
L’ultima volta che hai visto quel corridoio di giorno, era completamente pieno di gente, con tanto di Rita Skeeter in agguato. Ora invece non c’era quasi nessuno. Appena fuori dall’ascensore vedi un paziente solitario, in vestaglia e pantofole, camminare dalla parte opposta alla tua e fermarsi di fronte alla finestra per guardare di fuori. Ti chiedi chi possa essere; ma, in effetti, potrebbe essere chiunque.
Ti viene in mente che, a proposito, a non troppi metri di distanza dovrebbero alloggiare i signori Paciock, addirittura. Strano che tu non ci abbia pensato prima. Hai anche rischiato seriamente di incontrare il giovane Paciock in persona, pericolo che avrebbe dovuto metterti in guardia, ma, evidentemente, il tuo cervello aveva deciso, in autonomia, di averti dato troppe cose, già, a cui pensare.
Quando O’Dampand, comunque, ricomincia a spingerti, da dietro un angolo sbuca un’infermiera, che, quando vi vede, si blocca, semplicemente; poi ricomincia a camminare facendo finta di niente. Potrebbe essersi fermata perché per un momento ha rischiato di finirvi addosso, ma non ne sei completamente sicuro, a dirla tutta.
Percorrete il corridoio, allora. Da dentro le porte che ci sono ai vostri lati senti provenire qualche voce più o meno forte, più o meno giovane o squillante. In una di quelle stanze un guaritore sta litigando con un paziente che non vuole sedersi, ma O’Dampand non si ferma e, a pensarci, tutto quello, in fin dei conti, non interessa neanche te.
Da qualche parte risuona una musichetta, sicuramente proveniente da qualche radio.
Beh, d’altronde la stanza in cui sei stato per un po’ non è molto lontana.
Il pensiero, però, ti abbandona subito, specie perché O’Dampand stavolta si ferma, proprio lì, in mezzo al corridoio.
“Che sta facendo?” Le chiedi immediatamente.
“Credo…” Si stacca da te, facendo qualche passo in avanti “Meglio se vado a cercare il professor Sherman, lo faccio venire qui, così deciderà lui dove dobbiamo dirigerci.”
E certo, troppa fatica scarrozzarti per un corridoio praticamente vuoto; neanche a dire che è in salita.
“Quindi qual è la sua intenzione, lasciarmi qui ad aspettare?”
Ti ci manca solo di essere trattato come un pacco postale.
“Arrivo subito, solo… solo cinque minuti.” Dice guardando davanti a sé – ovvero il nulla – prima di voltarsi nuovamente verso di te “Tanto immagino che non sarà come quei pazienti che… sa, bisogna tenerli sott’occhio costantemente, no?”
“Ah, intende i malati di mente.”
“Beh… Sì.”
“Chissà, O’Dampand, potrei sorprenderla.” Dici “Ma adesso si muova, già stiamo tergiversando fin troppo.”
Lei non se lo fa ripetere due volte e, in men che non si dica, scompare a passi veloci per il corridoio, percorrendolo tutto, e poi girando un altro angolo e scomparendo alla tua vista.
Anche tu avresti camminato così, volendo, a grandi falcate, magari anche facendo gonfiare il tuo mantello. O’Dampand va a passo svelto per sbrigarsi, tu lo avresti fatto per consuetudine.
Beh… Prima, certo.
Adesso è tutto così deprimente.
Ti passi la mano davanti alla fronte, sospirando. Non sai se desiderare veramente che O’Dampand si muova per far passare quella giornata il più velocemente possibile, in modo da tornartene a casa, ma a pensarci… non sarebbe cambiato granché, alla fin fine. Un posto valeva l’altro, in quel momento. Anche se ti fossi ritrovato in un ostello, in un monolocale, in un bar, per te non ci sarebbe stata nessuna differenza.
Forse ad Hogwarts la differenza ci sarebbe stata. In quegli umidi sotterranei, che di sicuro avranno dato una spinta incoraggiatrice a quella che sarà la tua futura cervicale. Forse lì ti sentiresti meglio.
Meglio… Certo. Come no. Specie considerando che Hogwarts, in questo momento, è molto somigliante al rudere che di solito vedono i Babbani al suo posto. Per non parlare che, tra tutta la gente che c’è lì, non è che saresti accolto a braccia aperte. Ah, beh, volendo, Potter può aver raccontato i fatti suoi persino a Mrs. Purr.
No, non ti sentiresti bene neanche ad Hogwarts, in questo momento. Decisamente no. Almeno prima Hogwarts sarebbe bastata.
Una bella prospettiva non potersi sentire appartenente ad un luogo a tal punto da poter considerare che qualsiasi posto – o quasi – andrebbe bene per te. Potresti essere ovunque senza sentirti da nessuna parte in particolare allo stesso tempo.
Un controsenso, certo, ma ultimamente ti sembra talmente tutto un grande controsenso…
… O’Dampand ci sta mettendo troppo tempo.
E poi, nella desolazione momentanea di quel corridoio, percepisci che O’Dampand è tornata, dato che senti qualcuno sistemarsi dietro di te. Immagini che tra un paio di secondi ti dica verso quale stanza dobbiate andare. Che strada abbia fatto per comparirti alle spalle in quel modo, puoi solo supporla.
“Oh, ma allora non ti sei trasferito in Polonia!”
… Prego?
No, quella non è decisamente la voce di O’Dampand, specie considerando che è la voce di un uomo. Uomo che un istante dopo ti ritrovi davanti.
Non riesci a non farti scappare un lamento.
“Allock…” Mormori.
“Sì!” Fa lui sorridendo come suo solito. Ma non gli farà male la mascella prima o poi? “Pensavo che fossi andato via!”
“Io sono andato via, Allock, sono venuto solo per una visita.”
“Una visita a me, giusto? Ah, lo sapevo! Ho immaginato che, dato che non ho fatto in tempo a darti il mio autografo, tu potevi esserci rimasto male! Ecco perché sei tornato qui, dico bene? Eh? Eh?”
Oh, per Salazar.
“Senta. L’ultima cosa che voglio adesso è proprio blaterare con--”
“Ah, ma che hai fatto alla voce? E’ così… gracchiante!”
E fa una risatina, tanto per far squillare la sua, di voce. Non sai neanche fino a che punto lui l’abbia fatto veramente apposta; forse è una reminiscenza involontaria di quando era ancora una persona… normale. Beh… ‘normale’. Non che sia una gran perdita.
“Allock, chi è che l’ha fatta uscire? Non dovrebbe tornare in camera? Ma quanto può essere incapace l’infermiera che deve occuparsi di lei?”
“Giusto, giusto, la mia camera: è lì che tengo i miei autografi; ora ti ci porto subito!”
Oh, Merlino, rapito da un malato di mente con ancora manie di protagonismo.
Neanche fai in tempo a replicare, comunque, che Allock ti si è messo nuovamente dietro. E ha incominciato a spingere il tuo trabiccolo.
“Ehi, è divertente!”
Preferiresti che prendesse velocita e che vi spiaccicaste entrambi contro il muro.
Ti giri appena verso di lui, per quanto i muscoli del collo te lo consentano, allora.
“Allock, stia fermo, sto aspettando una persona.”
“Beh, stavi aspettando me, no? Ma tanto io sono arrivato!”
No, Allock. E stia fermo!” Con la mano provi a staccargli il braccio dalla sedia, ma non ottieni l’effetto sperato “Ed è pregato di darmi del lei, in ogni caso!”
“Ah, quante smancerie!”
… Probabilmente neanche sa che cosa sono, le smancerie.
“Ehi, un momento, che succede?”
Stavolta la voce alle tue spalle è sicuramente di O’Dampand. Finalmente. Devi farle notare che – sì – ci ha messo decisamente troppo.
Ti volti un altro po’, allora, specie quando Allock si ferma sentendosi chiamato, e vedi quindi proprio O’Dampand venire verso te, assieme a Witherington. Ah, che bella rimpatriata.
Anzi, no. Tutto questo tempo per cercare Sherman e lei nemmeno lo trova? Bah.
“Signor Allock, quante volte bisogna dirle di rimanere in camera?” Fa subito Witherington non appena si avvicina a voi assieme ad O’Dampand.
Certo, subito dopo, in realtà, aver fissato te per un momento con un’espressione glaciale poi subito mutata in un sorriso, non appena i suoi occhi si sono spostati su Allock.
“Devo solo dare un mio autografo al mio amico, sa, me l’ha chiesto così insistentemente…”
“Oh, sì… Immagino, l’autografo al suo amico. Come no.” Sarcasmo neanche troppo velato.
Tu alzi gli occhi al cielo prima di guardare male entrambi.
“Potremmo darci una mossa, di grazia?” Intervieni allora tu, riattirando l’attenzione di tutti su di te, anziché su Allock “Sono venuto qui per vedere Sherman – o il contrario, forse – e non per una gita turistica.”
Witherington torna a concentrarsi su di te, mentre O’Dampand si occupa di portare via Allock.
“Ehi, ci vediamo!” Fa lui nella tua direzione, ma tu neanche lo guardi.
E così rimanete tu e Witherington. Ah, che bel tête a tête. Beh, dopotutto lo sapevi che l’avresti incontrato, no? Anzi, per un momento ne hai anche pregustato il… divertimento. Ma adesso non ne sei… propriamente così entusiasta. Specie se continua a fissarti così.
“… Ebbene?” Fai tu “Dov’è Sherman?”
“Il professor Sherman al momento è assente.”
“Cosa? Non sapeva che sarei venuto, oggi?”
“Certo che lo sapeva, solo… aveva da fare. Ovviamente ci sono io, però, nel caso in cui non se n’è accorto, e posso occuparmi anch’io, di lei.”
“Preferirei Sherman, grazie.
“Oh, andiamo, signor Piton, anch’io seguo il suo caso, proprio come il professor Sherman!”
Fai passare qualche secondo di silenzio.
E sospiri, prima di rispondere nuovamente.
“E sia, allora.”
Witherington non aspetta un momento di più, allora, e comincia a condurti lungo il corridoio, senza neanche aspettare che O’Dampand ritorni. Ma lei probabilmente è troppo occupata a convincere Allock che non è conveniente andare a distribuire autografi a gente a caso. Lo speri. A meno che non se lo stia facendo fare anche lei, l’autografo.
Beh, si presuppone che non sia un’adolescente con gli ormoni in subbuglio, almeno. Non ti sembra.
In ogni caso, alla fine, tu e Witherington giungete nella sala in cui tempo prima hai fatto delle analisi, quella in cui Sherman ti aveva spiegato il suo lavoro nel voler produrre una nuova pozione che in qualche modo potesse esserti utile.
“Le spiego subito come stanno le cose.” Immagini che per Witherington dover fare le veci di Sherman debba essere frustrante, dato il quantitativo minimo di parole che esce solitamente dalla sua bocca. Tu lo guardi come per dirgli di continuare, a quel punto “La sua situazione è stabile.”
“Questo lo so già.”
“Proprio per questo io e il professore abbiamo cercato di modificare la sua pozione quotidiana. Vi abbiamo aggiunto un composto che ha la funzione – come dire… di svegliare il suo corpo, e dovrà cominciare a prenderla da stasera stessa.”
“Di svegliarlo…”
“Sì, di farlo reagire di nuovo.”
“E qual è il nome di questo… ‘Innerva in provetta’?”
Prima di rispondere Witherington fa una faccia strana, come di chi si sente colto in fallo.
“Beh… E’ un composto sperimentale.” Risponde infine.
“Capisco, fungo sempre da cavia.”
Stavolta la sua espressione tende al risentito.
“L’ultima volta ha funzionato!”
“Dettagli.”
Witherington assottiglia le labbra, offeso, come suo solito, e tu non puoi fare a meno di guardarlo con un piccolo sorriso soddisfatto.
All’incitazione immediatamente successiva del guaritore – ‘Diamoci una mossa.’ – allora, queste analisi cominciano, finalmente, e, a dirla tutta, durano meno di quanto ti aspettassi. Consistono soltanto in un mero prelievo sanguigno, nulla di più, dopo il quale però ti senti lievemente girare la testa, tanto che sei costretto a chiudere gli occhi per un po’. E dire che, invece, non ti sei mosso praticamente per niente. Quando li riapri, trovi Witherington intento a fissarti.
“Beh?” Ti viene spontaneo dire.
“Si sente bene?” Ti chiede, invece, lui.
“Bene, male… Al momento è tutto piuttosto relativo.”
“Mmh.” E’ pensieroso, lui, ma tu smetti di curartene dopo due secondi netti.
Certo, fino a quando non ricomincia a parlare.
“La vedo dimagrito.”
“Complimenti, è anche più perspicace dell’ultima volta che l’ho vista. E poi, su, non crogioliamoci in questi convenevoli da donne.”
“… Quindi è dimagrito.”
Lo guardi con un sopracciglio alzato.
“Gliel’ho appena detto.” Rispondi.
Possibile che lui lo faccia apposta, ad uscirsene con domande così ovvie, ergo ridicole?
Lo guardi meglio in viso.
No, no, tutta spontaneità pura e semplice.
“Allora, abbiamo già finito o c’è altro?”
“No, no, abbiamo finito. La prossima volta parleremo dei risultati ottenuti.”
“Bene.”
“Vado a chiamare Serena.”
E detto questo prende ed esce dalla stanza, lasciandoti lì come uno stoccafisso. Va a chiamare chi…? Ah, O’Dampand. La chiami così tanto solo per cognome ed ecco che neanche ti viene automatico collegare il nome Serena al suo viso. Eh… Grandi problemi.
Comunque entrambi ritornano dopo un momento soltanto, grazie a Merlino.
“Tutto bene, signor Piton?” Ti chiede subito lei.
“Sprizzo gioia da tutti i pori.” Rispondi ironico.
Anche se lei, in effetti, ti sembra piuttosto… euforica. Beh, la cosa non si spiega facilmente: avete passato due giorni senza praticamente parlarvi o quasi, avete discusso prima di pranzo, e ora… Sorriso e ‘come sta signor Piton?’.
Ecco, appunto, il sorriso si è, tra l’altro, appena ripresentato.
“Fosse così la porterei qui un po’ più spesso, allora.” Continua lei “Torniamo a casa?”
“A casa mia, prego, e non mi tratti come se fossi un poppante. Ha detto che non è la mia balia, giusto?”
Il suo sorriso si incrina. “Beh, sì, ma…”
“Allora non si comporti come tale. E muoviamoci, qui abbiamo finito. Giusto, Witherington?”
“Sì… Giusto.”
Prima, però, Witherington consegna a O’Dampand una valigetta a tracolla nella quale vi sono abbastanza pozioni ‘nuove’ da somministrarti per le successive settimane, e solo a quel punto, allora, non rimane veramente che andarsene via da lì; O’Dampand, difatti, ti conduce subito fuori dalla stanza, e si incammina per il corridoio, lentamente – fin troppo – per avere il tempo di salutare il suo collega con un nuovo sorriso appena ritrovato.
“Allora ciao, Abner, ci vediamo la prossima volta.”
“Certo.” Risponde lui facendole un breve cenno con la mano “A fra due settimane.”
Un’ultima occhiata allegra, e poi O’Dampand si gira per poter guardare dritta di fronte a sé e camminare un po’ più veloce.
E poi… l’illuminazione. Lei aveva iniziato a fare la baldanzosa non appena vi eravate avvicinati al San Mungo, e il tutto aveva raggiunto l’apice proprio cinque minuti prima, quando lei è venuta da te e da Witherington. Sotto quest’ottica tutto pare infinitamente più chiaro. Lampante.
“O’Dampand.” La chiami, allora.
“Sì, signor Piton?”
“Lei e il signor Witherington avete avuto una relazione?”
Per poco lei non ti manda a sbattere contro una colonna per aver momentaneamente perso il controllo del tuo ‘mezzo di trasporto’.
“O’Dampand, è impazzita?!”
“Io… Scusi!” Lei riprende a camminare più o meno tranquillamente “Ma è lei che se ne esce con certe cose!”
“E’ lei che sta… conducendo, la sua sbadataggine non è di certo colpa mia!”
La senti sbuffare, dietro di te.
“Quindi…?” La incalzi.
Come non notare che un simile argomento addirittura la turba? Finalmente viene fuori qualcosa di lei. Di te supponi che lei sappia ben più di quanto voglia ammettere, ora è il tuo turno.
“Come le è venuta in mente una cosa del genere?” Domanda, però, lei.
“Oh, se ne sarebbe accorto anche un cieco. Era tutta sorrisoni e sbattiti di ciglia.”
“Sbattiti di ciglia? Oh, ma andiamo.”
“Vuole che usi il verbo ‘sbattere’ in altri contesti?”
Lei si ferma dato che ormai siete arrivati agli ascensori, ma forse lo fa un po’ troppo bruscamente, tanto che dondoli un po’ in avanti con la schiena, sul momento. O’Dampand preme il pulsante per prenotare l’ascensore e poi si posiziona davanti a te, con lo sguardo duro e le mani all’altezza dei fianchi.
Oh, allora un modo per scalfirla c’è. Un modo così prevedibile, poi… Come hai fatto a non pensarci prima? D’altronde è una donna.
“A parte che non è che sarebbero molto affari suoi.” Dice lei, e tu ghigni “Comunque. Io e Abner non siamo stati insieme e no, non stiamo insieme neanche adesso.”
“Ne è sicura?”
Lei ti guarda con tanto d’occhi. “Crede che non lo sappia?”
“Oh, chiedevo soltanto. Le personalità multiple stanno diventando sempre più comuni.”
L’ascensore arriva, e le porte si aprono con un lieve scampanellio magico. Anzi, no, a dire il vero c’è proprio una campanella attaccata al muro. In ogni caso, entrate, e lei tira fuori la bacchetta.
“E poi non ero tutta moine, io...”
Moine, ecco, sì.” Fai un lieve gesto in aria con la mano “Non mi veniva la parola.”
“… E’ solo che… Insomma, sono una persona competitiva, io, lo ammetto.”
“E si fa strada nella vita lavorativa a suon di sorrisi…”
“Certo che no. Beh, vede…” Lei abbassa appena il tono di voce, come se qualcuno potesse sentirvi, in quell’ascensore “Lui si crede migliore. Probabilmente lo è, d’accordo, d’altronde un motivo per cui è l’assistente del professor Sherman ci sarà, ma ciò non vuol dire che tutti gli altri siano degli incapaci.” Hai dei dubbi, a riguardo “Perciò oggi ho voluto fargli vedere che sono rilassata, tranquilla, allegra e che tutto sta andando alla grande e senza difficoltà. Che so gestire la situazione, insomma.”
Cala il silenzio. Tu la guardi di sottecchi, a quel punto, dal basso verso l’alto, e dopo che lei si rende conto di cosa ha appena detto, si volta per un attimo da un’altra parte. Non arrossisce, però, non è donna fino a quel punto, immagini.
“Scusi.”
“Immagino lei mi trovi un uomo… difficile, quantomeno, sì.”
“No, solo… Ecco…”
“Ah, non menta. L’ha già fatto con Witherington, e ho capito subito che c’era qualcosa di strano. Non si renda ridicola di nuovo, O’Dampand.”
Lei assume un’espressione quasi… contrita. Oh, immaginavi che quella convivenza sarebbe stata problematica, e fino a questo momento non hai fatto altro che avere ragione.
In ogni caso, dato che siete quasi giunti al pianterreno, lei punta la bacchetta contro di te.
Disillio.” Lo dice in una specie di sospiro.
 
Fuoco. Senti fuoco per tutto il corpo, ma non un fuoco che ti brucia la pelle e poi i muscoli, è un fuoco che viene da dentro. Divampa da non sai bene dove, ti scorre nelle vene come lava bollente, sale dalle tue profondità.
Ti senti corrodere. Senti le pareti delle tue vene dilatarsi, rimpicciolirsi, bruciare, sciogliersi.
Ti muovi nel tuo letto in un bagno di sudore, i capelli tutti attaccati alla faccia, la camicia da notte che ti opprime come se ti stesse stritolando. Ti manca il fiato, e non riesci ad inspirarne a sufficienza dell’altro.
Sei sicuro che prima o poi ti scioglierai. Il fuoco ti cresce dentro, ti brucia, e non sai come porvi rimedio.
Apri di scatto gli occhi, e all’inizio vedi solo tutto bianco. È buio, è notte, intorno a te, ma tu invece vedi tutto bianco e non sai perché;  forse il fuoco è arrivato gli occhi, li ha consumati, e ora ti sta invadendo la testa.
Sei sicuro di starti lamentando ad alta voce, ma non ti senti, non senti nessun suono. Sai solo che fa male, tremendamente male, ne morirai, stai bruciando da dentro.
Poi, alla fine, il buio.














Angolo Autrice:

... E bon, la storia finisce e Piton è morto.

...

Sto scherzando, sto scherzando, non siamo neanche a metà della storia XD Ma che sarà successo? Beh, tutto è rimandato al prossimo capitolo.

Spero, come sempre, che questo capitolo, in particolare, vi sia piaciuto; a me, stranamente, ha divertito molto scriverlo, specie la parte del San Mungo. Si vede? Forse un tantino. Beh, sappiate che il mio grado di divertimento è calcolabile in base a quanta sfiga ha il nostro protagonista. Il che spiega molte cose.

Un piccolo appunto: nella saga non si parla di una specifica formula, per quanto riguarda l'Incantesimo di Disillusione, per cui quel 'Disillio' che avete trovato è totalmente inventato. Non da me, lo ammetto, è una formula che ormai vaga per internet, tanto da trovarla addirittura in Wikipedia, e ho voluto usarla anche io, a questo punto; anche perché non suona poi tanto male, giusto?

Detto ciò... Vi chiedo del feedback - tanto feedback! - come mio solito, e beh, a questo punto mi eclisso!

A presto, e grazie ancora a tutti quanti!
Iurin

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Capitolo 9
*** Capitolo Otto ***


Capitolo Otto

 
 
Quando ti svegli, ti senti estremamente rilassato. L’ultimo ricordo che hai è di te che, in pratica, bruci, e, in effetti, non sei neanche sicuro di poterlo considerare veramente un ricordo, tanto è stato improvviso, strano e fuori dal normale. Forse è stato solo tutto un sogno. Una cosa però la sai, e sei costretto a cambiare immediatamente idea: quello che hai visto e provato era reale, a meno che tu non ti trovassi sotto una sorta di sortilegio o maledizione, ma ne dubiti; malefici di quel genere non esistono.
Apri gli occhi, e noti che è mattina; noti anche che però non ti trovi nella tua stanza. Pareti bianche tutte attorno a te… Merlino, sei di nuovo al San Mungo. Fai per metterti seduto, senti la schiena scricchiolare appena, ma poi passa. Sì, sei decisamente al San Mungo, su una blanda branda di fortuna, nel laboratorio in cui ti hanno più volte fatto le analisi del caso.
Peccato, però, che intorno a te non ci sia assolutamente nessuno.
Che diamine è successo? Sei stato male? Beh, pare la risposta più ovvia, guardandoti intorno, e anche la più plausibile, a dirla tutta.
“Oh. È sveglio, signor Piton.”
Ti volti, a quelle parole, e vedi che O’Dampand è appena entrata nella stanza. Si sta giustappunto richiudendo la porta alle spalle. La sua voce ti rimbomba un po’ in testa, tanto che devi far passare qualche secondo prima di poterle rispondere.
“Mi pare… ovvio.”
Lei si avvicina al tuo… ‘letto’, che, essendo appunto non il solito letto ospedaliero, con tanto di rotelle, ringhiere e meccanismi vari, è piuttosto… basso, cosicché sei costretto ad alzare il viso per poterla guardare meglio.
Sì, ti è venuto decisamente mal di testa. Ma, a confronto di quello che hai appena passato, pare una cosa piuttosto insignificante.
“Come si sente?”
“Che cosa è successo?”
“Caffè?” Ribatte, però, lei con l’ennesima domanda, e subito ti offre una tazza di – si presume, a questo punto – caffè “Me l’hanno appena preparato giù, in caffetteria.”
“La caffetteria del San Mungo?” Allunghi una mano, e prendi comunque la tazza che lei ti sta offrendo, anche se per il momento non te la porti ancora alle labbra “Ci credo che me lo sta… regalando, deve essere qualcosa di abominevole.”
“Sì, ma mi dispiaceva buttarlo.”
O’Dampand fa un leggero sorriso, ma tu ovviamente non ricambi. L’idilliaco momento dello scambio di battute –o quello che erano – è finito, e adesso vuoi sapere cosa è successo durante la notte. Lei pare leggertelo praticamente in viso, perché fa un lieve sospiro, e anche lei cambia espressione, assumendone una più seria.
“Si è sentito male.” Spiega alla fine lei, allora “Si agitava, diceva parole senza senso, o comunque troppo farfugliate per poter essere capite, e poi – Merlino – era semplicemente bollente. Sono una guaritrice, insomma, di gente malata ne vedo a bizzeffe, ma le assicuro che una persona con la sua temperatura probabilmente non l’ho mai sentita in vita mia.” Ah, beh, detieni un primato in qualcosa, almeno “E poi stava ad occhi aperti e fissi, insomma… Mi crede se le dico che non era proprio un bello spettacolo?”
“Io mi sentivo anche peggio, quindi sì, posso immaginarlo. Come se n’è accorta, scusi?”
Ti ci manca pure, a discapito di tutto, che adesso venga fuori che lei, durante la notte, sia abituale ad entrare di soppiatto in camera tua per controllarti o… qualsiasi cosa debba fare una guaritrice, o un’infermiera, o quel che è.
Sarebbe estremamente inquietante.
“Stavo andando a letto.” Dice, comunque, O’Dampand “Mi ero appena fatta un tè, ecco perché mi trovavo in corridoio. E poi, nulla… Ho sentito la sua voce, pensavo stesse chiamando me, e, quando sono entrata, le ho già detto come l’ho trovata.” Ah, che cosa avvilente “Il professor Sherman ha supposto subito che fosse la pozione che ha preso prima di andare a letto, quella nuova.”
“Sherman?” Ti sfugge dalle labbra “E’ qui? Quell’inetto? Certo che è stata la sua pozione, una pozione preparata da incapaci!”
“Oh, non è stato un incompetente, è solo capitato un… incidente di percorso.” Fa un leggero sorriso, nel risponderti, invece di – avresti supposto – dirti con professionalità che il professor Sherman sta facendo tutto quello che è in suo potere per aiutarti.
“C’è mancato poco che perdessi la vita, altro che incidente di percorso.” Dici allora, lentamente, guardandola di sottecchi e aspettando la sua nuova risposta, perplesso.
Una frase sulla quale, sul momento, piuttosto significativa, ma sulla quale non ti soffermi, data la discussione abbastanza concitata.
“Già. Ma l’ho portata qui, e tutto si è risolto. Ecco perché mi deve un favore.”
Sollevi entrambe le sopracciglia, a quel punto, continuando a fissarla. Ecco dove vuole andare a parare…
Ma perché, poi?
“Prego?”
“Ma sì…” O’Dampand guarda, per un momento, verso un punto indeterminato della stanza, facendo oscillare appena i capelli biondi un po’ arruffati, per poi intrecciare le braccia al petto e tornare a puntare gli occhi su di te “Se io non fossi accorsa prontamente, e soprattutto non mi fossi decida a portarla qui…”
“Mi pare un po’ superficiale come spiegazione; ha fatto il suo lavoro e nulla di più, O’Dampand.”
“Ma avrei potuto lasciarla lì e concludere il mio lavoro con parecchio anticipo.”
Incurvi un angolo delle labbra verso l’alto, non lasciandoti abbindolare.
“Riceverebbe quella famosa nota di demerito, allora.”
“O forse no. Sa… Era notte fonda, i suoi lamenti non erano poi così forti. E in più la pozione che ha preso non le è stata prescritta da me, ma dal professor Sherman.” Fa un lieve sorriso “Avrei potuto dire di essere arrivata troppo tardi e… beh, non sarebbe stata proprio colpa mia.”
Stavolta sei tu a fare una pausa, prima di parlare.
Quindi che cosa aveva fatto lei, un… atto caritatevole? Oh, che persona premurosa. Peccato che ora voglia qualcosa in cambio!
Altro che guaritrice professionale, esperta, eticamente corretta. Non appena se ne presenta l’occasione, non perde tempo!
È un’approfittatrice, quella O’Dampand, semplicemente un’approfittatrice, e adesso una persona del genere devi averla vicino costantemente, addirittura.
Il destino non fa che beffarsi di te; continua, imperterrito, a darti scacco matto, ridendo forte e orgoglioso di sé. Un giullare maligno, che invece di far gioire i suoi spettatori, è tutto l’opposto.
“Quindi siamo arrivati a questo.” Dici, infine “Adesso devo guardarmi le spalle anche da lei. Immagino, allora, che anche questo caffè nasconda una minaccia mortale.”
“Oh, non succederà nulla, se lei farà qualcosa per me. Per… sdebitarsi, ecco, e poi saremo tutti e due amici come prima.” Spiega “E, comunque, quel caffè è a posto, per la cronaca, non si preoccupi.”
“Tanto di cappello.” Concludi con tono lugubre.
E comunque la tazza di caffè si è ormai raffreddata, tra le tue dita.
È la prima volta, a pensarci bene, che vieni ricattato nel senso stretto del termine, solo che mai avresti immaginato che una tale…  nuova esperienza ti si sarebbe presentata in simili circostanze. Che diamine vuole, poi, O’Dampand, da te? In quel momento, per lei, puoi fare ben poco, d’altronde.
Forse vuole informazioni sul Signore Oscuro, su qualche Mangiamorte… Forse la guerra non l’ha toccata superficialmente come vuole lasciar trasparire, magari la sua famiglia è composta da alcuni… beh, Nati Babbani, e per questo è stata perseguitata.
O forse invece lei è interessata a ben altro, magari proprio direttamente alla Magia Oscura, e vuole che tu gliene insegni i segreti.
Salazar, questa è l’ultima cosa che ti saresti aspettato, e, sinceramente, non ne senti affatto il desiderio.
“Siamo d’accordo, allora?” Fa lei.
Tu, dal canto tuo, la guardi con tutto il disprezzo di cui sei capace.
“La sa una cosa, O’Dampand?” Dici, e il disprezzo stavolta emerge anche dalla tua voce “Faccia come vuole, non mi abbasserò ad una simile, ignominiosa costrizione.”
L’espressione di lei si fa un po’ incerta e – oseresti dire – dispiaciuta.
Facesse pace con la propria mente bacata.
“Signor Piton, la cosa andrebbe solo a suo svantaggio, glielo assicuro.”
Minacce, ancora. Devi veramente temerla, dunque?
Quanto ti stia sui nervi non riesci neanche a quantificarlo.
Non fate in tempo a dirvi nient’altro, però, perché proprio in quell’istante la porta si apre nuovamente, ed entrano velocemente Sherman e Witherington. L’allegro duo.
Tu, nel frattempo, ti allunghi con un braccio verso il tavolo, per posare la tazza di caffè. A dire il vero, potresti utilizzarla in un modo migliore tirandola addosso ad O’Dampand, ma supponi che ormai sia passato il momento perfetto per farlo.
“Buongiorno, signor Piton!” Esordisce Sherman, in ogni caso.
“Direi che di buono questo giorno ne abbia veramente poco.”
Anche meno di tutti gli altri di quello stesso periodo.
Ma immagini che Sherman adduca la tua affermazione al fatto che sei quasi morto, per la seconda volta, per praticamente lo stesso motivo, l’avvelenamento. E, sebbene il tuo malumore sia causato anche da altro, Sherman ci ha di sicuro messo del suo, ergo continui comunque a fissarlo in maniera accusatoria.
“Mi spiace per quanto successo.” Continua, dunque, lui “Sono veramente desolato. Credevamo che la pozione avrebbe avuto degli affetti positivi, tanto miracolosi quanto quelli di neanche troppo tempo fa.”
Beh, ti pare ovvio. Ci sarebbe anche mancato che ti abbia fatto ingurgitare quella roba senza pensare quello che ha appena detto.
“Delle sue scuse non me ne faccio nulla, francamente. Ma ha capito cos’è stato?” Chiedi allora, con tono piatto.
Lui sospira.
“Forse. D’altronde sappiamo cosa vi abbiamo aggiunto di nuovo, per cui non può che essere stato quello.” Tira fuori dalla tasca interna del proprio camice una fialetta piena di pozione e opportunamente sigillata.
Riconosci in essa ciò che ti ha fatto sentire male.
Ironia della sorte, ora ti si è rivoltata contro anche quella branca della magia che tu hai seguito e curato con tanta dedizione.
Che cosa ti rimane?
A quel punto, comunque, Sherman fa semplicemente cadere la fialetta nel secchio della spazzatura presente nella stanza.
“Fortunatamente abbiamo stabilizzato le sue condizioni non appena la signorina O’Dampand l’ha portata qui.” Per poi utilizzare quell’avvenimento per ricattarti, certo “Ed ora… riprenderà la vecchia cura, mentre noi continueremo a cercare un’alternativa.”
“Sì… Magari prima assicuratevi della sua efficacia su qualcos’altro. Io suggerisco i topi, ma immagino lo sappiate già da voi. Si suppone, almeno.”
Ghigni appena, specie quando Witherington assottiglia quasi impercettibilmente le labbra; Sherman invece si limita ad annuire, anche se forse un po’ troppo frettolosamente.
“In ogni caso” Continui, comunque, tu “Avrei una domanda.”
“Certo. Certo, mi dica.” Ti risponde immediatamente Sherman.
“Giusto a titolo informativo… Do per certo che abbiate ritenuto superfluo parlarmene, d’altronde immagino vi interessi poco e che per voi sia indubbiamente qualcosa di poco conto, ma… se non è di troppo disturbo, potrei sapere dove diavolo è finita la mia bacchetta, per Salazar?”
Passa qualche momento di puro silenzio e di immobilità. L’unica cosa che si muove sono le foglie di un albero fuori dalla finestra, e il tuo sopracciglio che si inarca nel constatare quanto tempo ci sta mettendo Sherman per rispondere.
“Deve perdonarmi, signor Piton…”
“Oh, la trovo una cosa troppo al di fuori della mia portata.”
“… ma, tra tutto quello che è successo, mi è passato di mente.”
Fai una smorfia. Avresti voluto vedere lui, senza la sua bacchetta.
“In ogni caso non c’è molto da dire.” Si intromette allora Witherington, parlando così per la prima volta, quel giorno “Quando l’hanno portata qui non l’aveva con sé, e chi l’ha appunto portata qui non ci ha detto nulla a riguardo. Sa, a portarla qui è stato--”
“Sono già a conoscenza della sua identità, grazie.”
“Ma se ne volete una” Si affretta ad aggiungere Sherman “qui ne abbiamo diverse, molte lasciate da pazienti che, ahimé, non ci sono più o a cui sono state requisite per la loro stessa sicurezza.”
Un’altra smorfia ti compare sul viso praticamente da sola.
“Non ci tengo ad entrare in possesso di una bacchetta appartenente ad un’altra persona.” Ci tieni a precisare “Specie se questa persona è morta o mentalmente instabile. È evidente che non siete sufficientemente preparati sull’argomento.”
Al che emetti un suono vagamente simile ad uno ‘tzk’.
Tanto vale, a questo punto, comunque, andare a comprare un’altra bacchetta direttamente da Olivander. Certo, sempre se ha ricominciato a lavorare…
Ma comunque, dettaglio niente affatto trascurabile, stando alle parole di ‘quei due’, o la tua bacchetta è andata indiscutibilmente perduta, oppure – opzione ugualmente poco idilliaca – in quel momento ne è in possesso Potter.
Deve sempre ricondurre tutto a lui, eh?
Nel primo caso, la cosa ti dispiacerebbe; quello sarebbe uno dei pochi casi in cui sul serio proveresti una tale sensazione. Quella bacchetta è la stessa che hai comprato quando avevi solo undici anni, è l’unica bacchetta che tu abbia mai avuto, l’hai sempre curata anche più del dovuto, l’hai custodita come fosse una vera e propria reliquia. È sempre stata, nella tua più acerba giovinezza, ciò che ti contraddistingueva da un comune e noioso Babbano, e mai, mai, avresti voluto che andasse persa.
Nel secondo caso, non c’è neanche bisogno di dilungarsi in commenti di qualsiasi genere. Potter, semplicemente, continua ad essere una palla al piede anche a chissà quante miglia di distanza.
Dovresti vederlo, per fartela restituire; sempre se veramente Potter la tiene con sé. E ovviamente Potter per rendertela ti proporrà di parlare, anzi, lo pretenderà. Altro ricatto, dunque – un ricatto idiota, certo, ma caso strano da Potter una cosa del genere potresti anche aspettartela.
“Capisco.” Dici, allora “Non approvo affatto la vostra condotta, ma capisco quanto mi sta dicendo. Lessicalmente parlando.” Fai una breve pausa “E’ tutto?”
C’è un’altra pausa, dato che il diretto interessato ci mette un po’, a rispondere.
“Sì, può tornare a casa, signor Piton.” Dice, infine, in un sospiro.
Evidentemente è riuscito a notare che non sei particolarmente trattabile, quella mattina.
E, così, ti lasciano andare via, promettendoti che sarebbero riusciti a sbloccare quella spinosa situazione.
Tu, con le promesse fatte al vento, ci fai poco e niente.
E, quindi, rimanete soltanto tu e O’Dampand, che, senza fretta, andata via dal San Mungo. Senza fretta e in silenzio, soprattutto; e non è uno di quei silenzi tranquilli in cui semplicemente non c’è bisogno di dire nulla perché ‘si sta bene così’; e non è neanche simile a quel silenzio maturato quando vi siete parlati per due giorni.
Guardi la sua espressione e la noti tranquilla. Molto… serena.
Ah, pure il gioco di parole.
Ti dici che lei non dovrebbe avere quella faccia, dovrebbe trasparire da lei preoccupazione per quello che vuole fare e farti fare, l’ansia derivata dal fatto che potresti anche opporti a qualunque suo capriccio idiota, e invece no. Ciò vuol dire che lei è abituata ad un simile comportamento, magari ha ricattato tutti i propri pazienti, durante la sua carriera; scova i loro punti deboli e quando può ne ricava un tornaconto personale.
Sicuramente è per questo che tempo prima ti ha detto di volerti conoscere. Beh, più o meno. Tu hai associato una simile volontà ad una sorta di gentilezza cronica, di… malattia femminile di non riuscire a farsi gli affari propri fino in fondo, e invece si trattava semplicemente di quello.
Trovare qualcosa che ti convincesse a farti fare un ‘favore’.
Tu hai fatto più che bene a non darle la confidenza che poi neanche si meritava. Sarebbe stata soltanto l’ennesima delusione.
Perché ora non sei deluso. No. Assolutamente no. Quella cosa che senti è solo una profonda e persistente arrabbiatura.
E quindi il silenzio permane per tutto il tragitto, la successiva Smaterializzazione, e l’arrivo in quella discarica umana che è Spinner’s End.
Tua madre ti avrebbe detto di non disprezzarla, quella zona, dato che, in fondo, è il luogo in cui vivi e in cui hai una casa, un tetto che ti ripara.
Tu non le avresti risposto, e ora preferisci non pensare a tali ipotetiche conversazioni con gente che neanche c’è più. La cancelli semplicemente dalla tua mente.
In ogni caso, stranamente, stavolta per le strade c’è un po’ di movimento in più, persone che non ti vedono da quasi un anno, ed ora tu ti presenti a loro… beh, così.
Non che ti interessi il loro giudizio, ma in questo modo le loro lingue non faranno altro che alimentare i pettegolezzi su di te. Semmai esistano veramente, certo.
Sì, è vero, Spinner’s End non è frequentata come se fosse, per esempio, il centro di Londra, e la gente tende a rimanere a casa, ma ciò non vuole dire che le voci non circolino ugualmente.
Semplicemente perché è da secoli che le persone provano quell’ebbrezza folle nel cercare di capire cosa accada nella vita di un altro, perché si è comportato proprio in quel modo, perché ha sempre quell’aria burbera, perché nessuno va mai a trovarlo?
Come se tutto ciò fosse un crimine, una cosa così strana da indurre chiunque sia abbastanza vicino ad... investigare, neanche siano stati distribuiti diplomi da detective agli angoli delle strade.
Da che mondo è mondo le vedove che si riuniscono per l’ora del tè non fanno altro che parlare, parlare, parlare di fatti che non le riguardano affatto, tanto per il gusto di fare supposizioni. È così che, ne sei certo, cercano sollievo dalla loro povera, squallida, miserabile quotidianità.
Tu non hai mai avuto l’onore di provare l’ebbrezza data dalla scoperta di un nuovo pettegolezzo, l’eccitazione dovuta al diffondere personalmente la diceria, come se fosse qualcosa di importanza vitale, come se un simile, importantissimo segreto debba necessariamente essere di dominio dell’intero quartiere.
Tu di segreti ne hai conservati a bizzeffe, contro o non la tua stessa volontà, per necessità. Il pettegolezzo è un tanto infimo surrogato di ciò che hai vissuto che neanche dopo cinquant’anni proveresti anche un solo briciolo di soddisfazione nel venire a sapere che sì, è vero, il piccolo Michael in realtà è il figlio del lattaio.
Altri si crogiolano nelle disgrazie altrui, perché è ovvio che le dicerie non includano niente di positivo. Oh, no, spargere buone voci non è… divertente.
Quindi immagini la goduria di quelle stesse vedove, che si riuniscono a turno nel salotto di ogni membro del loro ristretto gruppo arteriosclerotico, nel magari affacciarsi dalla finestra e notare te, il lugubre inquilino della casa accanto che torna a casa… così.
Oh, sì, è come se vedessi sul volto di ognuna di loro l’espressione sorpresa, è come se sentissi il rumore degli ingranaggi rattrappiti del loro cervellino cominciare lentamente a muoversi per giungere alla banale, arrugginita deduzione.
E poi, come se non bastasse, non hai più bisogno neanche di immaginare, perché la classica vecchietta con cappellino fucsia e gonna a fiori, pronta subito a parlare con gli stessi esemplari della sua specie, ti si para semplicemente davanti, una volta girato l’angolo. O’Dampand è costretta praticamente a fermarsi.
“Signor Piton!” Quasi esclama quando ti riconosce, dopo averti fissato anche troppo con i suoi occhietti indagatori “Quasi non l’avevo riconosciuta.” Ecco, appunto.
In teoria neanche dovrebbe sapere come ti chiami – e, a pensarci, è probabile che il tuo nome di battesimo sia effettivamente un mistero, per lei – ma i Piton abitano in quella zona da generazioni, è inevitabile che ormai i tuoi vicini sappiano chi sei. Di facciata, certo.
Forse è anche per questo che presumi che tu, in realtà, quella zona della città non riuscirai mai ad abbandonarla; non l’hai fatto finora nonostante tu ne abbia avuta la possibilità, dopotutto; ti ha risucchiato tra i suoi tentacoli, ormai.
“Signora… Jefferson.” Ti pare si chiami così, quando fai un cenno del capo per farle capire che la conversazione è già finita.
Lei non ti corregge, quindi immagini di aver anche… azzeccato il suo cognome.
Effettivamente lei si fa un po’ da parte, dimodoché O’Dampand possa riprendere a muoversi – sei circondato da donne spiacevoli – solo che lei non pare affatto aver demorso: continua comunque a guardarti, lo senti, e senti il rumore delle sue scarpe sul marciapiede rimanere vicino a te, non allontanarsi come sarebbe dovuto succedere. Alzi lo sguardo notando, così, che si è messa a camminare affianco a te, anziché continuare per la propria strada, ovvero nella direzione esattamente opposta alla tua.
“Che le è successo?” Continua dunque lei, evidentemente non intenzionata a lasciarsi sfuggire quella succosa novità sul burbero di quartiere.
O’Dampand si ferma nuovamente, addirittura, come se pensasse che tu voglia veramente cominciare una conversazione con quell’inutile vecchietta Babbana.
“Mi pare evidente.” Rispondi lentamente “Ho avuto un incidente.”
“Oh, Signore, è finito sotto una macchina?”
Fai scocchiare appena le labbra, qualche secondo più tardi.
“Sì, esattamente.”
“Oh, lo sapevo, scommetto che è stato uno di quei giovani che hanno appena preso la patente. Quelli lì fanno sempre gli spericolati, e poi ecco! Ecco qui che cosa succede!” Lei scuote la testa in segno di disapprovazione, come se questo potesse darti conforto.
Ti viene quasi da ridere. O di affatturarla, a seconda dei casi.
Poi si mette a guardare O’Dampand.
“E lei chi è, signorina?” Chiede col sorriso di chi sa che alle cinque del pomeriggio ci sarebbe stata una bella riunione.
O’Dampand fa anche per parlare – è ingenua, quando vuole – ma tu la precedi senza problemi.
“E’ mia sorella.” Dici “Mi darà una mano fino a quando non mi sentirò un po’ meglio.”
“Sua sorella?” La sorpresa è ovunque, nella sua figura “Non sapevo avesse una sorella! E ad osservarla non assomiglia a lei neanche un po’, no, no.”
Scommetti che quella frase sia una sorta di complimento rivolto ad O’Dampand.
“Sì, è mia sorella, signora… Jefferson.” Continui allora tu, con l’intenzione di concludere “Non vedo come lei potrebbe essere più esperta di me sulla mia famiglia. Credo non ci sia il tempo per un esame del DNA, comunque. E, ah, tanto per la cronaca.” Aggiungi, infine, alzando le sopracciglia e allungando appena il collo verso di lei “Il mio… incidente non è stato causato da uno di ‘quei giovani’, anzi: la persona che l’ha causato avrà avuto più o meno la sua età, signora Jefferson. Proprio come lei… .”
Incurvi gli angoli delle labbra verso l’alto, soddisfatto, mentre è palese che la seccatrice stia cercando di formulare qualcosa da dirti. La precedi senza alcun problema anche in questo caso.
“Arrivederci.” Concludi davvero, per poi girare la testa appena appena verso O’Dampand, il tono un po’ più cupo “Andiamo, avanti.”
E O’Dampand finalmente ricomincia a muoversi, tu ti volti di nuovo in avanti, quindi non sai se le due si siano scambiate qualche occhiata, ma poco ti interessa, alla fine.
L’importante è che stai raggiungendo casa tua, e che il rumore delle scarpe della Jefferson stavolta si sta veramente dirigendo dalla parte opposta alla tua.
Possibile che non avvenga mai nulla, nulla, per il quale tu non maledici il momento in cui apri gli occhi ogni singola mattina?
Alla fine riuscite ad arrivare a casa senza ulteriori interruzioni, fortunatamente.
Anche se quella giornata, in sé, di fortunato ha avuto ben poco.
Sì, beh… Ti hanno ‘salvato la vita’ – dopo avertela messa loro, in pericolo – ma sul momento pensi sia un dettaglio non molto rilevante.
“Alla fine quel caffè non l’ha preso.” Ti dice improvvisamente O’Dampand, interrompendo quel silenzio irritante, reso ancora più irritante dalla sua irritante presenza – e stavolta è vero – con la sua voce irritante e con quel sorriso irritante sul viso “Preparo la colazione?”
“Faccia quello che le pare.” Le rispondi in malo modo, muovendoti lentamente da solo, dato che lei ti ha praticamente mollato appena oltrepassata la porta.
E no, il fatto che tu abbia fatto una specie di grugnito infastidito non è stato un buon motivo per farlo.
“Faccia come le pare.” Dici, dunque “Tanto sembra proprio che la cosa le riesca fin troppo bene, no?”
Lei è sulla soglia della tua cucina, e quando la guardi – dato che non stai ricevendo alcun commento per la tua insinuazione – la vedi con un’espressione… incerta. Di nuovo.
“Ah.” Dice infine, con una sorta di sospiro di chi ha capito di cosa si sta mai parlando “Ah, sì, capisco che intende.”
Tu aggrotti le sopracciglia, continuando a fissarla. Poi, però, la lasci… visibilmente perdere e ti concentri sul fatto che ti stai spostando.
“Però… Mi dica, gliela preparo o no, la colazione?”
“No.” La soddisfi laconicamente “Vado di sopra.”
“Aspetti, ce la porto i--”
Non ho bisogno di lei.” Le sibili contro voltandoti di nuovo verso di lei, di scatto, cosa che ti causa anche una sorta di forte pizzicore al collo, ma il passo indietro che fa lei per la repentina sorpresa è quasi un sollievo naturale.
Nei momenti immediatamente successivi devi concentrarti completamente nella coordinazione dei muscoli delle braccia: la rampa che ti porta al piano di sopra non è eccessivamente ripida, ma ritrovarsi a camminare all’indietro a causa della forza di gravità per poi ritrovarsi nuovamente in salotto sarebbe… tremendamente disdicevole.
O’Dampand, comunque, ha preferito farti fare come da te deciso, senza intromettersi più di tanto, dicendoti che, allora, ti avrebbe chiamato per pranzo.
Evidentemente guardarla in maniera estremamente omicida funziona.
Arrivi in camera tua, dunque, e ti sistemi lì senza che fortunatamente ad O’Dampand venga la brillante idea di rompere la promessa appena fatta e di salire fin da te per disturbarti con chissà cosa.
Certo, dopo quello che ti ha detto quella stessa mattina te lo aspetteresti, a pensarci; perché preannunciarti di volerti chiedere un ‘favore’, se poi durante tutta la giornata non ne fa più menzione? Dubiti che lei sia avvezza alle torture psicologiche dell’attesa. Ma la giornata è lunga, e, per quanto tu ne sappia, potrebbe parlartene direttamente a pranzo; sempre che tu scenda davvero nuovamente al piano di sotto e non decida di rimanere costantemente nella tua stanza, il luogo, a quanto pare, che O’Dampand aveva invaso il meno possibile con la sua presenza.
È rimasto… puro, si può dire.
Beh… puro. Meno contaminato, più che altro.
Così, alla fine, l’ora di pranzo arriva veramente. Senti la pendola del salotto, anche da lì dentro, scoccare l’una del pomeriggio, e un secondo dopo i passi di O’Dampand e il suo consecutivo, leggero bussare sulla tua porta.
“Signor Piton, se vuole scendere…” Dice lei, rimanendo, comunque, al di là della porta.
“Sto bene, qui.” Le rispondi tu “Non ho fame.”
Oh, sai che questa frase la irrita terribilmente, e se tu, durante quella giornata, devi essere terribilmente irritato, non sarebbe affatto giusto se un po’ di questo fastidio non ricadesse anche su di lei, no?
Come poi ti stavi proprio immaginando un momento prima, a quelle partole O’Dampand apre direttamente la tua porta ed entra nella stanza. Giusto facendo un paio di passi in avanti. Stranamente, però, sul volto non ha quell’espressione di delusione mista a fastidio o chissà cosa che le hai visto già precedentemente. Stavolta sembra piuttosto tranquilla.
Ma, tanto, quella giornata strana è iniziata e strana prosegue, quindi la cosa neanche dovrebbe sorprenderti più di tanto.
“Preferirei che scendesse comunque. Così, almeno, possiamo parlare.” Fa lei.
“Vedo che non perde tempo, signorina O’Dampand.” Osservi.
“Ho avuto modo di… studiarla un pochino, per modo di dire, e ho capito che con lei è meglio andare dritto al sodo.”
Ti esce uno sbuffo apparentemente divertito.
“Mi ha studiato, O’Dampand? Oh, lo so.” Fai, incurvando un angolo delle labbra verso l’alto “Ma lei, di me, non sa proprio un bel niente.” Fai una pausa “O forse tutto, il che è esattamente la stessa cosa.”
Lei inclina per un momento la testa di lato, guardandoti dubbiosa.
“Scende a parlarne?” Chiede nuovamente, molto probabilmente per avere una conferma che l’avresti davvero seguita.
Tu sospiri.
“Non penso di avere un’alternativa. Mi ha intrappolato in casa mia.”
“Ah, non sia troppo drastico con le parole, dobbiamo solo parlare come due persone civili.”
“Dubito che l’argomento possa concernere un tale aggettivo; e per una volta non sarà neanche a causa mia.”
Lei si avvicina, a questo punto, dato che tu non le hai detto di stare lontana come poco prima, presumibilmente per portarti di sotto, come sempre. A pensarci potresti benissimo attendere una frazione di secondo, aspettare che lei si nella posizione giusta, afferrare la lampada sul comodino e… galantemente fracassargliela addosso. In un modo o nell’altro potresti anche riuscire ad impossessarti della sua stessa bacchetta.
Ma non sei mai stato un tipo… manesco. Ai pugni preferisci i duelli magici, e questi ultimi non danno agli altri neanche l’impressione che chi colpisce accidentalmente o meno una donna sia una sorta di misogino.
Quindi, tanto velocemente quella – sei pronto ad ammetterlo – malata idea ti è entrata in testa, tanto velocemente se ne va, e, quando lei si avvicina, la lampada rimane al suo posto, e tu, quietamente, vieni condotto prima in salotto, e poi in cucina, al tuo solito posto attorno al tavolo, anche stavolta con un piatto fumante pronto lì ad aspettarti.
“Che cosa vuole?” Dici subito, abbandonando il finto tono conviviale di poco prima e assumendone un altro infinitamente più serio e furioso, cosa che effettivamente sei fino in fondo.
“Vorrei che mangiasse il pranzo.”
Riduci gli occhi a due fessure.
“Le ho detto che sarei venuto qui per parlare delle sue idiozie e su cosa dovrei mai fare per non ritrovarmi improvvisamente un coltello da cucina in pieno petto nel cuore della notte. Non per mangiare. Quindi parli, O’Dampand.”
Lei sbatte per un paio di volte le palpebre, assimilando per bene quello che le hai appena sciorinato. Non troppo velocemente, certo, ma sono sempre un mucchio di parole.
La ragazza dei rebus, ah.
Poi, in ogni caso, lei ti fa uno dei suoi sorrisi.
“Le ho appena detto qual è la mia richiesta, signor Piton, non c’è bisogno che lei mi attacchi in questo modo.”
“Quello era solo il mio modo di… conversare. E in ogni caso… Prego?” Inarchi un sopracciglio.
“Le ho appena chiesto di mangiare il suo pranzo; magari assieme a me, ma in caso contrario accetterò il suo voler stare da solo.” Ti spiega lei, sempre sorridendo “Vorrei che mangiasse tutti i pasti che le preparo, invece che costringermi a buttarli nell’immondizia, tutti quanti. È questo il… favore che le chiedo.”
Sta scherzando?
Tutta quella storia, sin da quella mattina, sin da quando ti sei appena svegliato dopo essere stato intossicato, per… quello?
Sta scherzando?
Se la frase che lei ti ha appena esposto non ti avesse lasciato completamente attonito… forse – forse – avresti anche potuto metterti a ridere. Di nuovo. O forse no, ma al momento non è questo che conta.
“O’Dampand.” Riesci a dire, infine “Mi pare avessimo già chiarito a sufficienza il fatto che lei voglia comportarsi come la mia balia. Se ha degli… istinti materni, vada a trovarsi qualcuno con cui riprodursi. Se si apposta di notte in un vicolo buio qui vicino, non dovrebbe avere troppi problemi.”
Sei sicuro di averla insultata, tra le righe, ma lei continua incessantemente a tenere quel sorriso sulle labbra.
“Non voglio farle da balia, certo che no, le sto solo chiedendo il favore di cui abbiamo parlato stamattina.”
“Abbiamo due idee decisamente diverse su come funzionano i ricatti.”
“Ciò non toglie che se non soddisferà la mia richiesta potrebbe veramente rischiare di ritrovarsi improvvisamente un coltello da cucina in pieno petto nel cuore della notte’.”
Stavolta inarchi entrambe le sopracciglia.
Lo sai cosa ha in mente, lo sai benissimo. E non avresti mai pensato che lei sarebbe arrivata a tanto solo per… per…
Tutta quella storia del ricatto…
Ti hanno messo in casa una squilibrata.
“Lei vuole che io… mangi.” Dici, molto lentamente “Per cosa, di grazia, evitare che io rischi di morire di fame?”
“Se vuole, può vederla anche in questo modo, certo.”
“Però, se non lo faccio, lei mi ucciderà.” Fai una breve pausa. “Oh, ha molto senso, certo.” Continui, ironico.
Lei non molla, tiene ancora le labbra incurvate leggermente all’insù.
“Sì, proprio così.”
“Lei è pazza.”
“Forse.” E continua a sorridere. Oh, sai che non sta dicendo sul serio, sa che vuole solo zittirti “Allora, siamo d’accordo, signor Piton?”
O’Dampand ti porge la mano, la sinistra, ricordandosi che l’altra tu non la puoi muovere.
Fai una smorfia chiara, la più visibile che riesci a riprodurre, e poi allunghi la mano verso la sua, afferrandola. È lei a stringerla e a scuoterla un paio di volte dall’altro in basso, comunque.
Tu ti limiti ad enfatizzare il tuo stato d’animo con una sorta di grugnito seccato.
“Perfetto!” Il suo sorriso è diventato più grande, e, se non la smette, immagini che le verrà una paralisi facciale. Almeno avreste qualcosa in comune, così.
“Spero che la carne di manzo le piaccia.” Aggiunge, infine.









Angolo Autrice

Buon salve! :D
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, detto in soldoni. Io lo vedo come un'evoluzione del rapporto (o quello che è, insomma) che si è instaurato tra Piton e Serena.

In più c'è anche tutta quella faccenda sul cibo (ultimamente il cibo è onnipresente, nelle mie storie. Vabbè.): ho ribadito più volte, nei capitoli scorsi, quanto Piton non voglia mangiare, che è dimagrito, che si sente debole e bla bla bla xD Così, in questo capitolo, c'è una svolta anche sotto quel punto di vista!

Oh, un altro piccolo appunto, specialmente per quanto riguarda la questione morte (*musica lugubre di sottofondo*): se notate un'inversione del pensiero di Piton, rispetto a quanto invece detto nello scorso capitolo, sappiate che la cosa è voluta da me proprio in questo modo :) Piton ha subito un (altro) forte trauma, credo sia abbastanza normale che alcuni suoi pensieri siano un po'... sconnessi. E comunque, con una frase apparentemente buttata lì a caso, verrà tutto spiegato meglio in uno dei prossimi capitoli ;)

Beh, che aggiungere, vi invito a recensire e a rendermi partecipe delle vostre impressioni, mi farebbe molto piacere.

Detto ciò... Alla prossima!
Un abbraccio,
Iurin

p.s. risponderò alle recensioni dello scorso capitolo quanto prima, ora sto scappando, perdonatemi :P

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Capitolo 10
*** Capitolo Nove ***


Capitolo Nove

 
 
Sembra che tu e O’Dampand abbiate trovato e raggiunto una sorta di… equilibrio, stavolta.
La cosa, a dir la verità, non è stata proprio immediata.
Dopo la… rappresentazione teatrale in cui sei stato inconsapevolmente co-protagonista, ti sei sentito piuttosto… destabilizzato.
Tutta quella storia del ricatto, del favore, dal lasciarti morire, del suo disinteresse… Una balla.
Per dirla in maniera rozza e gergale e poco fine, O’Dampand ti ha proprio fottuto.
Sul momento non hai ben saputo come comportarti, ti eri aspettato tutt’altro, invece della semplice richiesta di mangiare.
Ma che richiesta è, poi?
E come le era venuto in mente di architettare tutta quella messinscena per… per quello?
All’inizio hai pensato che ti stesse prendendo in giro. Poi hai realizzato che veramente lei voleva che tu la accontentassi.
Non credevi che le importasse a tal punto.
Aveva posto il tutto come un accordo, ma alla fine, quando ha rivelato le proprie vere intenzioni e tutti i castelli di carta sono caduti… non avevi proprio saputo se darle corda o no. Perché in fondo acconsentire e mettere nello stomaco più cose di quelle ingerite nell’ultimo periodo… Per te sarebbe comunque stata una sorta di sconfitta.
E non sapevi bene se tu fossi pronto a concederle un tale vantaggio. Pronto? Vagamente incline, semmai.
Ma poi hai pensato che se, per caso, tu le avessi detto di non permettersi di dettare regole e di architettare simili… piani idioti – non sapevi come definirle, altrimenti… In definitiva avrebbe potuto essere lei a romperti una lampada sulla nuca.
Così hai preferito essere un po’ più… conciliante, per quella volta.
Peccato che poi tu abbia deciso di essere arrendevole anche al pasto successivo, a quello dopo, e a quello dopo ancora. Sempre per le stesse motivazioni, ovviamente.
Qualche giorno dopo, però, quelle medesime motivazioni non ti si sono più presentate accanto ad ogni piatto, e hai iniziato a limitarti a mangiare e basta, in automatico, come avevi sempre fatto prima della dimostrazione d’affetto di Nagini.
Alla fine hai semplicemente smesso di pensarci del tutto, iniziando a considerare ogni forchettata un gesto naturale e quotidiano.
E non c’è stato più bisogno di aggiungere altri buchi alla cintura. Anzi.
Ovviamente sei comunque costretto, ogni volta, a condividere la tavola con lei. Non che effettivamente ci sia qualcosa di strano, ormai; d’altronde adesso vivete insieme – che brutta espressione – e un lato di te ti suggerisce che a questo punto dovresti anche averci fatto l’abitudine.
O il callo.
Un fastidioso, doloroso callo.
E ogni volta, naturalmente, il vostro desinare inizia, prosegue, e termina nel silenzio. Non ci sono chiacchierate, brindisi, bicchieri che vengono riempiti di vino.
Ovviamente O’Dampand, come d’altronde durante tutta l’intera giornata, prova ad intavolare una qualche conversazione, ma tutto ciò che finora le hai concesso è consistito in qualche occhiata, e, al massimo, in alcuni sporadici monosillabi, per la maggior parte.
Dopotutto, dopo la maniera barbara in cui ti ha trattato, ti sembra anche il minimo.
Eppure, nonostante tutto ciò, sì, credi che voi due abbiate trovato una sorta di equilibrio.
Hai anche ricominciato a prendere le vecchie pozioni, in ogni caso, e non si sono più presentate crisi potenzialmente mortali.
Il cambio delle bende e della medicazione al collo, invece, non è mai mutato, segno che ci vorrà ancora molto, prima che la ferita si rimargini completamente.
Se mai si rimarginerà, ovviamente. Non puoi escludere neanche questo.
In effetti, guardando il pacchetto completo, a pensarci, la cosa neanche ti sorprende.
Una sera O’Dampand ti ha persino chiesto se tu avessi voglia che lei ti sistemasse la fasciatura come fosse una… sottospecie di foulard, con tanto di nodo ingombrante ed appariscente, magari a forma di fiocco. Almeno, ha detto lei, non sarebbero sembrate delle banalissime bende mediche.
Tu, dal canto tuo, l’hai semplicemente fulminata; anche quella volta non c’è stato bisogno di proferir parola.
Man mano che i giorni hanno continuato a scorrere, però, inevitabilmente hai cominciato a parlarle un po’ di più, andando contro le tue stesse aspettative di vita completamente solitaria.
L’essere umano, come hai peraltro considerato già tempo prima, è un essere sociale; e, sebbene tu consideri questa definizione come un modo più gentile per intendere l’uomo come un produttore costante di parole, frasi, pensieri espressi a voce alta che, in fin dei conti, non interessano a nessuno… Non puoi che venire a patti col fatto che anche tu sei un essere umano, e, essendo tale, alla fine ti sei ritrovato alche tu a parlare con lei, neanche rendendotene pienamente conto, all’inizio.
Sì, per un momento avevi reputato possibile il che fatto che tu in realtà non fossi umano, ma evidentemente hai dovuto ricrederti.
E no, anche qualora tu e O’Dampand abbiate scambiato qualche parola, non si è tratto di chiacchierate lunghe ore. Brevi e concise, in realtà sono state, senza giri di parole, senza tirar fuori dettagli superflui – qualsiasi fosse l’argomento – che tu o lei avreste finito per dimenticare nel giro di un paio di minuti.
A te è sembrato che una simile soluzione avrebbe potuto anche soddisfarti, in definitiva. Mentre per quanto riguarda lei… Beh, al momento sembra essersi adeguata ad un simile standard. Se poi in realtà lei muore dalla voglia di raccontarti tutta la storia della sua vita… problemi suoi, la cosa non ti tange e di sicuro non sei disposto a modificare ulteriormente le tue già più che radicate abitudini.
In ogni caso, sì, dunque, questo equilibrio sembra esistere, o, quantomeno, le vostre giornate non sono condizionate da discussioni e reciproche recriminazioni.
E sono nuovamente passati circa una decina di giorni, oramai.
Al momento tu sei seduto sulla tua poltrona, ma fondamentalmente non fai nulla che ti occupi opportunamente la mente. Non stai leggendo: leggere ti stanca il collo, e stare chinato in avanti ti fa venire il mal di testa. O’Dampand se n’è sicuramente accorta, ma non ti ha detto né fatto nulla; ha già avuto la sua piccola vittoria per quanto concerne ciò che avviene agli orari dei pasti, non le avresti concesso di… interferire anche nella lettura o in tutto ciò che hai sempre ritenuto mezzo di svago. O comunque per smettere di pensare per un po’.
Certo, anche se al momento ti sei privato anche di ciò, e la cosa ti urta, ti irrita, ti ricorda ancora che tutto quello che ti è capitato è andato ad intaccare tutta la tua vita.
Come se la cosa non sia già abbastanza chiara di per sé.
O’Dampand, invece, al momento è al piano superiore. Dato che tu te ne stavi per conto tuo ad occhi chiusi, senza dar visibilmente cenno di voler considerare chiunque o qualsiasi cosa hai intorno, lei ha finito per lasciarti alle tue apparenti elucubrazioni e si è allontanata.
Oramai non puoi neanche trovare una scusa per chiederle dove sta andando, data la maniera in cui si è ambientata in casa tua.
Un mese. È passato un mese. Beh, quasi, ma non è questo quello che conta.
La prima volta che l’hai vista le hai subito detto che sarebbe potuta tornarsene a casa sua senza problemi, non l’avresti fermata, e lei si sarebbe dovuta prendere un disturbo in meno; e invece si è impuntata ed è rimasta. Poi hai pensato che le avresti reso il suo… soggiorno non molto piacevole: se tu dovevi sorbirti una situazione che non ti allietava – ed allieta – affatto, allora anche per lei sarebbe stato altrettanto; lei ha finito per impuntarsi nuovamente, ha risposto alle tue occhiatacce e ai tuoi rimproveri, ti ha persino rimproverato a sua volta – sì, ha veramente osato fino a tal punto.
Alla fine si è anche impuntata per non farti… beh, morire di fame, in pratica.
O’Dampand si impunta un po’ troppo. Questo ti dà decisamente fastidio, ma, allo stesso tempo, ammetti che lei sa anche stare al suo posto, non è… eccessivamente invadente, se non quando, dal suo punto di vista, non è più che necessario.
Ovviamente sul suo ‘punto di vista’ avresti qualcosa da ridire, ma oggettivamente non puoi non darle atto che, al momento, stai considerando un po’ meno il fatto di volerla mandare via a tutti i costi.
Sia chiaro, lei ti è anche utile, in fin dei conti. Determinate cose sei consapevole di non… non riuscirle a compiere – anche se certamente non lo ammetteresti mai – ma, perlomeno, non hai ancora pensato, fino a questo momento, di farla per esempio sostituire da qualcun altro.
Qualcun altro che, vista la tua costante, immensa fortuna, di sicuro non potrebbe essere migliore di lei.
Sospiri, continuando a stare ad occhi chiusi, con la nuca appoggiata allo schienale della poltrona.
… Avevi pensato che ti saresti sentito meglio. Non… Non così.
Tutto quello che hai fatto durante la guerra, o anche prima, tutti quei rischi affrontati per portare avanti la tua missione da spia, tutto il tempo a portare sul volto quella maledetta maschera…
A che è servito?
Oh, non ti riferisci a quello.
Potter ha vinto la guerra, i cattivi sono stati sconfitti, e il Signore Oscuro non ti chiamerà più al suo cospetto. Non fisicamente, almeno.
E tutti gli altri vissero felici e contenti.
Non hai mai ragionato a fondo su cosa avresti fatto o a come ti saresti sentito dopo la fine della guerra. Certo, non ti sei posto, all’epoca, il problema sul fatto se saresti stato ancora vivo o meno…
Ma, nell’ipotesi, anche mesi prima avevi creduto che, considerato che avresti positivamente portato a termine i tuoi compiti… anche tu ti saresti sentito meglio. Hai vissuto la tua vita in previsione di un unico evento, la vittoria di Potter. Avevi pensato che il tuo debito si sarebbe estinto da sé, una volta raggiunto il tuo scopo, eppure… Allora perché ancora ti senti così?
Ancora così… così… tormentato?
Perché non hai sollievo? Ti senti solo inutile e stanco.
Un altro sospiro silenzioso ti esce dalle labbra.
Ti rendi, allora, conto che con molta probabilità non hai mai creduto veramente di poter sopravvivere. Non l’hai mai dato per scontato, anzi, semmai hai dato per scontato l’evento opposto.
Le tue previsioni si sono rivelate errate, dunque – inutile rimuginarci su – per cui…
Beh, hai già accarezzato l’idea di lasciarti semplicemente andare e di aspettare che la natura faccia il suo corso, spegnendoti quella poca luce che ti rimane. Di certo il fatto che ti si fosse chiuso lo stomaco era stato un involontario avvenimento consecutivo al fatto di voler ‘farla finita’.
Magari se avessi continuato così, debole com’eri, a morire ci saresti anche riuscito.
Sì, a morire.
Strano, a pensarci: poche volte hai pronunciato, a mente o a parole, quelle tre sillabe.
Ma comunque le cose non sono andate secondo i tuoi piani, è evidente.
La gente vuole che tu viva, a quanto pare, come se ancora tu possa fare qualcosa di utile per qualcuno.
Non servi a niente, adesso, questo l’hai appurato da tempo.
E se… se…
No.
Ti suona strano anche solo pensarlo. Hai smesso di vivere per te stesso tanti anni prima, ricominciare ora… Sarebbe una fatica.
E Merlino solo sa cosa ne ricaveresti.
Poi, in ogni caso, i tuoi allegri pensieri vengono interrotti da un rumore al piano superiore, o meglio, dal suono dei passi di O’Dampand – e di chi, altrimenti? – che scende dalla rampa-che-un-tempo-era-una-scala per tornare giù, in salotto. Sta anche camminando piuttosto di fretta.
Tu, dal canto tuo, rimani fermo nella stessa identica posizione, senza scomporti, e, per osservare la scena e, di conseguenza, O’Dampand stessa, apri semplicemente un occhio.
Quando te la ritrovi davanti, ha un’espressione che sul momento non decifri, forse perché hai dato per scontato che il suo correre fosse una conseguenza dell’essere preoccupata per qualcosa. E invece sembra… piacevolmente sorpresa, ecco.
“Non me l’aveva detto di avere un televisore babbano!” Esordisce.
Il sopracciglio dell’occhio che hai aperto ti sale verso l’alto.
“Prego?” E’ la tua semplice risposta. Che, poi, è a sua volta una domanda.
“Sono andata a… vedere in soffitta, e l’ho trovato lì, accantonato in un angolo.” Spiega, allora.
A questo punto alzi anche l’altra palpebra e tiri su la testa.
“O’Dampand, chi le ha detto di poter salire nella mia soffitta.”
Non dai neanche troppa intonazione alla tua domanda; quasi per niente, a dire il vero.
Ci risiamo. Hai appena pensato di non dirle continuamente di non fare danni, dato che ormai è lì con te da quasi un mese, e puntualmente va a ficcare il naso ovunque.
Ironia della sorte, non c’è che dire.
“Beh, nessuno, dato che non è stato lei a dirmelo.” Fa, semplicemente, lei “Ma comunque non è stata una cosa grave, converrà con me.”
Non ti sembra molto convinta sull’ultimo punto, e la cosa ti fa incurvare un angolo delle labbra verso l’alto.
“Per quanto ne sa lei, O’Dampand, in soffitta potrei anche tenerci un grizzly. Quindi sì, avrebbe dovuto chiedermelo, dato che si tratta di casa mia, fino a prova contraria. Se lo ricorda ancora, sì?”
“Sì, lo so, è ovvio.”
“Indi per cui…”
Lei alza appena gli occhi al cielo, ma è un movimento così veloce ed impercettibile che ti chiedi se veramente l’abbia compiuto o se te lo sei immaginato.
“Scusi.” Dice, allora, dopo neanche un minuto di effettivo silenzio “Chiederò, la prossima volta.”
Bene; e si è anche scusata.
Si fanno progressi.
Proprio per questo il sopracciglio torna nella sua posizione naturale, a quel punto.
O’Dampand deve notare la tua espressione più… tranquilla, se così si può definire – evento rarissimo, immagini, dal suo punto di vista – difatti non passa molto prima che ricominci a parlare della questione per lei principale.
“Quindi lei ha una televisione, è inutile che cambia discorso.” Ti rimbecca proprio a quel punto, dopo un piccolo, ulteriore momento di pausa.
“Oh, come se quello di cui stavamo per parlare fosse di un’importanza così disarmante…”
O’Dampand alza addirittura gli occhi al cielo, e stavolta puoi affermare di averla proprio vista compiere l’atto, al che il tuo sopracciglio torna anche lui verso l’alto quasi all’istante.
“No?” Chiedi “Davvero è interessata?”
Non che a te cambi qualcosa. Il fatto che lei sia incuriosita da un qualcosa di babbano trovato per caso – per caso – in casa tua e lo stesso fatto che, quindi, a quanto pare lei sia affetta di uno di quei disturbi della psiche nei confronti dei Babbani come per esempio Arthur Weasley…
Oh, insomma, che t’importa?
“Beh, non sapevo avesse manufatti babbani in casa. Anch’io ne ho, a casa mia; mia nonna è una Babbana, sa?, e mi ha trasmesso la passione per alcune cose, se così si può definire.”
La guardi incerto, appena. Dove voglia andare a parare lo sa solo lei.
“Sì…” Dici lentamente, allora “La cosa è molto… interessante.” Ti schiarisci un pochino la gola “Ora, se non le dispiace, torni di sopra e chiuda la soffitta, di grazia.”
“D’accordo, come vuole.”
E, senza darti ulteriormente tempo di replicare, si volta e torna velocemente sui suoi passi, sparendo all’istante.
Probabilmente è impazzita. Anzi, è certo, ormai, dato il suo comportamento negli ultimi minuti.
Ci sarebbe mancato che si fosse sdraiata per terra o che si fosse messa a… saltellare sul divano.
Provi orrore solo a pensarci.
Forse è stata colpa propria della soffitta: tutta quella polvere, inalata in un periodo di tempo relativamente breve, deve averle annebbiato il cervello.
Cosa poi ci sarà di tanto esaltante in un banale televisore…
L’hai guardato poco, in vita tua, con scarso interesse, e ora sono circa… vent’anni – anno più, anno meno – che l’hai riposto in soffitta assieme a tutti gli oggetti vagamente elettronici che hai trovato dentro casa.
Sì, persino le comuni sveglie, ciò che di più innocente pare esserci al mondo. ‘Innocente’ fino a quando non interrompe un tranquillo sonno ristoratore. Ma in ogni caso ti sei liberato anche di esse, riuscendo nello stesso periodo a regolare persino il tuo sonno per far sì che tu dorma esattamente quanto prestabilito prima di metterti sotto le coperte.
Inconvenienti non aggiunti.
Non che tu in quell’ultimo periodo ti sia premunito più di tanto di svegliarti ad un orario prestabilito… Ma, perlomeno ad Hogwarts, la cosa ti ritornava utile.
Ora che supponi che neanche metterai più piede in quel castello… forse puoi definitivamente fare a meno di una simile metodologia di sveglia mattutina. Ma no, quegli aggeggi babbani li avresti comunque lasciati a marcire in soffitta.
Senti un rumore, a quel punto; e per fortuna riconosci che si tratta indiscutibilmente della porta della soffitta che viene, finalmente, chiusa, come da te appena richiesto.
Solo che poi… odi un qualcosa che no, di sicuro non sono i passi di O’Dampand. Certo, a meno che la donna non stia arrancando a terra e avanzando lentamente come farebbe un soldato sdraiato in trincea.
Perché è indiscutibile, stando alle tue orecchie, che O’Dampand a questo punto stia… trascinando qualcosa sul pavimento. Come faresti a non esserne sicuro? È talmente ovvio. Senti quel fastidioso rumore, proprio in corrispondenza della tua testa, tanto che ti viene quasi spontaneo alzare gli occhi al punto del soffitto esattamente sopra di te.
Merlino.
Che sia impazzita non c’è più alcun dubbio.
Quando poi finalmente si degna di tornare, la scena che hai davanti è formata da lei che cammina a ritroso sulla breve rampa portandosi dietro alla schiena, che scivola giù da solo, quel televisore. Lei, ovviamente, cammina lentamente bloccando col proprio corpo l’avanzata dell’inutile oggetto e cercando, al tempo stesso, di non inciampare in tutti i fili attorcigliati che la macchina si porta dietro.
Un televisore. Oh, per Salazar, già ti immagini tutte le sue prove nel cercare di farlo funzionare.
Per cosa, poi? Mettersi, in seguito, semisdraiata sul divano, con una coperta a coprirla sin sotto il mento, per guardare chissà quale… cosa romantica, stucchevole e che ti farebbe praticamente scappare dal tuo stesso soggiorno?
La prospettiva è quella di ritrovarsi con un Vecchio e le sue telenovelas in versione più evoluta.
Giustamente, allora, osservi il suo avanzare, e quando si ferma – e consecutivamente lo fa anche il televisore, immobile, sul pavimento – lo sguardo con cui la fissi direttamente negli occhi non è molto conciliante, stavolta.
“Che le avevo detto?” Chiedi, e il tono di voce che usi, quasi involontariamente, è piuttosto… sibilante.
“Di richiudere la soffitta.” Risponde prontamente lei “Infatti ho fatto proprio così.” Fai per parlare, ma lei continua la propria frase senza dart modo neanche di aprire la bocca “Lei non mi ha detto ‘Chiuda la soffitta senza portare giù di sotto quello che ha trovato’. Doveva essere più specifico, signor Piton.”
E ti fa un sorriso, il sorriso di chi sa di aver trovato una qualche scappatoia ed è contento per questo.
Oh, gioia vana.
“Siamo sempre tornati al punto di partenza.” Commenti tu, al che lei muta espressione, che diventa, alle tue parole, piuttosto interrogativa.
“Come dice?”
“Tempo fa lei mi ha detto di reputarsi una persona intelligente.” Spieghi “Ergo, una tale affermazione presuppone che anche il suo comportamento lo sia. E perché a me la cosa non sembra quasi per niente?”
“Oh, lei dice così perché, in qualche modo, sto cercando di imbrogliarla, lo so.” E, dal suo tono di voce, sei del tutto sicuro che lei stia pensando di esserci riuscita egregiamente “Solo che, dal mio punto di vista, almeno, riuscire ad aggirare una regola, o comunque una… richiesta” ‘Ordine’ “è segno di furbizia e del volersi applicare a livello mentale. E anche di un’effettiva applicazione, è ovvio! E non mi dica che non la pensa anche lei come me!”
La fissi socchiudendo appena gli occhi.
Certo, il suo ragionamento è logicamente apprezzabile e… Beh, in effetti, l’aggirare regole, compiti, imposizioni e ordini è stato tua attività di pratica degli ultimi anni. Non concordare con lei sarebbe come non reputare te stesso intelligente, a questo punto.
Accidenti.
Sospiri, allora. Quel giorno, per un motivo o per un altro, sembra essere diventato Il Giorno dei Sospiri. Potresti segnarti la data sul calendario e creare una nuova ricorrenza.
Oh, non pensare idiozie, Severus, c’è chi ne compie già a sufficienza.
“Allora mi spieghi, O’Dampand, la prego, cosa diamine ha intenzione di fare?”
Lei rimette su il suo caratteristico sorriso. Non sai più neanche cosa voglia veramente esprimere, con quello. Dopodiché fa qualche passo verso di te, lasciando il televisore – anonimo, vecchio, brutto – lì, fermo ed immobile, ad attenderla alla fine delle ‘scale’.
“Non c’è molto da fare, in questa casa, sa, dico a… livello di comunicazione.” Dice, e le palpebre ti si abbassano un altro pochino praticamente in automatico “Sarebbe interessante passare una serata diversa dal solito, non trova?”
“Io sono un uomo molto fedele alle proprie abitudini, signorina O’Dampand.”
“Capisco…” Lei sembra pensarci su “E allora mi permetta di portare avanti il mio… sì, esperimento nella mia camera. In questo modo lei non potrà dirsi disturbato.”
Sorvoli sul ‘mia’.
E, in ogni caso, sbuffi rumorosamente.
“O’Dampand, faccia quello che le pare, basta che mi lasci in pace. E che non faccia danni.”
“Certamente.”
E dopo quest’unica parola, lei fa dietrofront, e, probabilmente ricordandosi solo allora di possedere una bacchetta, fa levitare il televisore fino al piano di sopra; immagini sia veramente diretta verso la ‘sua’ camera.
Quando poi tutti i rumori svaniscono, di nuovo lei torna in salotto da te, come se debba darti la buona notizia di aver sistemato quell’aggeggio nel posto perfetto, all’interno della tua camera.
Probabilmente – anzi, di sicuro – avresti dovuto dirle di disfarsi di quel televisore, nient’altro.
In ogni caso, sì, lei torna lì in salotto, ed indosso ha la giacca che di solito ha addosso quando deve uscire per qualche commissione.
La tua espressione, nel guardarla, è completamente piatta. Sai già cosa ti chiederà tra qualche secondo, e sai già quale sarà la tua consecutiva risposta.
“Vado a prendere qualcosa di… alternativo per cena.” Ti dice lei. Evidentemente, per lei, invece, quello è ‘Il Giorno Alternativo “O magari” Continua comunque “può venire con me e mangiamo direttamente qualcosa fuori, stavolta.” Stai per aprire bocca, ma anche ora ti precede; dovresti iniziare a trovarlo seccante “Non si preoccupi, in un posto dove nessuno potrà importunarla in nessun modo.”
“No.” Rispondi subito tu, dunque, senza neanche starci a pensare “Vada pure lei e poi torni con la cena.”
Non menzioni neanche una sillaba sulla sua proposta di mangiare fuori. Semplicemente non è degna di nota, ergo il tuo parere non è di utilità alcuna. Anche se presumi che lei possa dedurlo benissimo da sé.
“Non vuole venire con me?” Continua però lei, imperterrita, con quello sguardo negli occhi che la fa sempre così… determinata “Non esce mai di casa, se non per andare al San Mungo; le farebbe bene uscire, ogni tanto.”
“E io le dico che sto… meglio” Non proprio ‘bene’ ma ‘meglio’ può comunque rendere l’idea di ‘in maniera soddisfacente’ “qui. Vada a comprare questa cena alternativa, sperando che non si discosti troppo dagli standard umanamente e comunemente noti.”
“Mmh. Come vuole.” O’Dampand ti parla camminando verso la porta di casa “Allora torno tra poco.”
Tu le fai semplicemente un cenno del capo, allora, e lei va via, richiudendosi la porta alle spalle. Speri che si sia presa quelle benedette chiavi di casa.
Sì, in effetti lei ti chiede anche piuttosto spesso di uscire, per andare assieme a lei ovunque vada solitamente. Per accompagnarla, dice.
Tu le hai sempre risposto di no, pensando, tra te e te, che di sicuro accadrebbe l’inverso, cioè che, in caso, sarebbe lei a dover accompagnare te. E poi non va mai in luoghi – presumi – in cui ci sia bisogno di protezione fisica, ergo la tua… compagnia sarebbe doppiamente superflua.
E poi non ti va e basta.
… Protezione fisica? Ma che ti dice il cervello? Forse un tempo. Sempre che tu fossi stato in vena, ovvio.
Certo, rimanere a casa ti tedia, specie se da solo. Certo, anche qualora lei sia lì, insieme a te, le cose non cambierebbero molto, dato che non avete un rapporto molto stretto.
Ah, beh, come se tu non fossi abituato a stare da solo sempre. Che ci sarebbe di diverso, ora, rispetto ai giorni, ai mesi, agli anni passati?
La prossima volta ti premunirai di avere con te un libro, nell’attesa, per provare per l’ennesima volta, magari, a leggere senza farti venire subito la nausea o il mal di collo. Ecco, il mal di collo dovresti proprio evitarlo, dato che già non si può dire che quella zona sia particolarmente in salute.
Così rimani nella stessa posizione in cui sei stato per tutto il pomeriggio: ad occhi chiusi, con la testa nuovamente appoggiata contro la poltrona. Ormai quel punto dello schienale ha assunto proprio la forma della tua nuca, e l’imbottitura ha creato una sorta di avvallamento, ma stai abbastanza comodo, perlomeno, ed è questo che conta maggiormente.
Hai trovato quel particolare mobile ad una sottospecie di mercato dell’usato, anni prima, quando ormai era ben delineata, di fronte a te, la sicurezza che di lì in poi avresti vissuto in una casa vuota all’infuori di te stesso. Non sei solito cambiare arredamento, in realtà; le uniche cose che non ti sei disturbato ad aggiungere sono quel miracolo che chiamano ‘libri’; le uniche che non hai fatto fatica ad accantonare sono i soliti oggetti babbani.
Ma comunque, quel giorno, passando di fonte ad uno di quei mercati domestici, hai visto questa poltrona; non particolarmente elegante, ma neanche troppo sciatta. Di un colore simile al bordeaux, ma tendente forse un po’ di più al marrone. In ogni caso, ti è piaciuta. E, sebbene tu non ti intenda troppo di arredamento, sul momento hai anche pensato che si sarebbe intonato all’anonima carta da parati. Il fatto che sia comoda, in ogni caso, è la sua caratteristica principale, ed ora l’hai elevata a tuo punto di seduta principale.
Dopo un po’ finisci per perdere la cognizione del tempo – ormai ti capita fin troppo spesso – e ti sembra di risvegliarti da un insolito riposo mentale quando senti la chiave girare nella serratura nella porta.
Inutile esplicitare che O’Dampand è appena tornata.
Quando la porta si apre quasi completamente, e lei compare sulla soglia, è leggermente in ombra a causa del sole calante alle sue spalle. Ma riesci comunque a scorgere un pacco tra le sue braccia.
Ah, no, non è un pacco, capisci quando entra in casa e ha richiuso la porta dietro di sé, è più un cartoccio dall’involucro color ocra.
Come puoi non capire che cosa si trovi lì dentro?
“Vedo che ha optato per la cucina salutista, mmh?” Commenti alla sua figura, che velocemente sparisce in cucina.
“Eh, l’ho detto che avrei scelto qualcosa di diverso.” La voce di O’Dampand proviene dall’altra stanza, ancora, fino a quando lei non torna in salotto, stavolta senza tenere nulla tra le braccia “Certo… ‘Diverso’ è un po’ una parolona, dato che è uno dei cibi classici della cucina inglese.”
“Non è un classico per me, però.”
“Proprio per questo ho deciso di comprarne un po’.” Ridacchia lei “O è un qualcosa di talmente diverso che proprio non le va?”
“Oh, disgraziatamente ha comunque un buon sapore.” Rispondi incurvando appena un angolo delle labbra verso l’alto.
E così, dopo non troppi minuti, dato che sarebbe meglio non lasciar raffreddare la vostra cena, entrambi vi ritrovate attorno al tavolo della cucina, uno di fronte all’altro, ai vostri soliti posti.
Fish and chips. Un classico. Ma sì, ad Hogwarts non viene servito praticamente mai, e tu, durante l’estate, quando sei a Spinner’s End, hai sempre preferito ripiegare su qualcosa di più fresco. Di più genuino, volendo, ma non oseresti fino a questo punto.
In ogni caso, O’Dampand, dal canto suo, è momentaneamente in piedi perché ti sta, in pratica, riempiendo personalmente il piatto di pesce e patatine, tanto che quella che ti ritrovi davanti è una vera e propria piccola montagna di cibo; temi quasi che toccandola appena potresti farla crollare irrimediabilmente. Neanche steste facendo una partita a Shanghai.
“Basta, O’Dampand, sto per cenare, ma non sono di certo all’ingrasso.” E, non appena dici così, lei si blocca di colpo, come se in realtà avesse perso di vista le quantità che sta posando sul tuo piatto solo perché è momentaneamente con la testa altrove.
“Oh, accidenti, scusi.” Ti fa lei, e sì, puoi dedurre che era proprio sovrappensiero, dato che addirittura ti toglie qualche pezzo di pesce dal piatto che hai sotto il naso.
Tu la guardi di sottecchi, studiando il suo viso.
Tutto sommato ha anche un’espressione tranquilla, eppure… non puoi non chiedere, nevvero?
“A che sta pensando?” Domandi, dunque, andando dritto al sodo.
“Uh?” Si ferma un momento con la forchetta, che sta tenendo tra le dita, sospesa a mezz’aria “Ah, a niente, in particolare, una cosa mia.”
“Ovvero?”
Sì, sai che potrebbe risponderti con uno sgarbato ‘Affari miei’. Certamente. Per quanto ne sai, potrebbe star pensando a quanti giorni mancano all’inizio del suo ciclo mensile.
… Disgustoso.
Ma di certo non puoi esimerti dal rimanere zitto.
Stai persino iniziando tu stesso una conversazione. Questo, O’Dampand dovrebbe quantomeno apprezzarlo, un minimo.
“Mentre tornavo qui” Comincia lei, al che puoi escludere l’opzione ‘affari miei’ “sono passata davanti ad un fioraio aperto ventiquattrore al giorno.” E fa una pausa, come se tu dovessi capire chissà cosa da quelle poche parole. Ma ovviamente così non è, quindi lei continua “E niente, per un momento ho pensato di comprare un piccolo mazzo e di portarlo qui, ovviamente per metterlo in un vaso, magari proprio su questo tavolo.”
Ancora non hai afferrato pienamente il perno del discorso, però.
“E perché avrebbe dovuto? Non avrà mica pensato di regalarmeli?” La stuzzichi, ghignando appena.
Lei fa una breve risata, ricominciando, a quel punto, a mettere qualche patata fritta nel proprio piatto.
“Immagino che lei non ne sia particolarmente attratto, dico bene?”
“Sono assolutamente indifferente alla materia.”
“Appunto. Quindi… Oh, insomma, era solo per voler fare un po’ di colore.”
Alzi un sopracciglio. “Colore?”
“Sì. Ma poi ho cambiato idea, possiamo lasciar perdere.”
E detto ciò si mette definitivamente seduta sulla sua sedia. Insomma, quella che usa di solito.
Cominciate a mangiare, dunque, e, dopo cena, non fai passare molto tempo prima di decidere di farti portare in camera da letto.
Ti eri ritrovato nuovamente a fissare un punto a caso del salotto, con sguardo abbastanza apatico, solo che stavolta si era trattato del laccio della coda da cavallo di lei.
“Che c’è?” Ha infatti chiesto lei “Ho qualcosa tra i capelli?”
Ti sei riscosso in neanche mezzo secondo.
“Niente.” Hai risposto “Sono solo stanco.”
E così, un paio di minuti dopo, eri già in camera da letto, sulla poltrona posta accanto al letto, dimodoché tu possa, in seguito, sistemarti sopra praticamente da solo.
Anche se ovviamente non era proprio… vero che tu fossi così stanco da andartene di già in camera tua.
Ma tanto la conversazione languiva, tu eri piuttosto apatico… quale sarebbe stata la differenza tra stare da solo e stare in muta compagnia?
Hai riperso in mano, dal comodino, il libro di veleni asiatici. Sia mai che tu riesca a finirlo di leggere tutto.
E, in effetti, quando cominci a studiarlo, le pagine si susseguono piuttosto velocemente l’una all’altra, e, complice qualche momento di pausa intelligentemente congeniato ed effettuato al momento giusto, per non farti dolere troppo il collo, cominci a ritenerti soddisfatto della piega che ha infine preso la serata.
Poi qualcosa ti interrompe, ma per fortuna stavi riposando per un momento la testa, quindi la cosa non ti ha urtato quanto avresti pensato. Non tanto, insomma. In ogni caso quello che ti interrompe è una sorta di… gridolino.
Funziona!
Lo senti distintamente non perché chi l’ha pronunciato si trova vicino a te, ma, essendo quella casa completamente vuota, a parte te stesso e O’Dampand, sentire rumori non è affatto difficile.
In ogni caso, immagini che una tale esclamazione provenga dalla sua camera. Ed immagini anche che tutta questa euforia possa essere causata dal suo essere riuscita a far funzionare quel televisore.
Non avresti dovuto concedergliene l’utilizzo, no.
Ti verrebbe quasi la curiosità di andare da lei e chiederle dove mai abbia imparato a rapportarsi con meccanismi babbani di quel livello; e magari cosa ha intenzione di guardare per passare la serata, con gli occhi fissi in quella scatola metallica.
Anche adesso, però, fortunatamente, la logica ti riporta sulla via della ragione, e, quando pensi a quanto ti ci vorrebbe per arrivare in quella che un tempo era stata la tua camera, ti passa proprio la voglia. Senza contare, poi, che, una volta giunto a destinazione… insomma, che avresti potuto concretamente fare? Davvero chiederle quelle cose che ti sono appena venute in mente?
Oh, come no, magari vi sareste messi anche seduti assieme sul letto a guardare la ‘tivù’ fino a notte fonda.
Ma per favore.
Così, passato qualche altro blando minuto, torni semplicemente a leggere, decidendo che, per il momento, hai fatto una pausa lunga a sufficienza.
Adesso, in ogni caso, senti anche il vociare di quell’aggeggio, e, ogni tanto, anche una trillante musichetta.
Sospiri – come previsto.
Meglio rituffarsi a capofitto tra le nozioni del capitolo trentasette.










Angolo Autrice:

Salve, bella gente! :D
Finalmente sono riuscita ad aggiornare. *tira sospiro di sollievo*

Non ho praticamente nulla da dire, riguardo quanto avete appena letto: in sostanza non è che accada granché, però ci sono alcune cose sottintese un po' dappertutto che mi sono divertita ad inserire, cose che verranno riprese anche nei prossimi capitoli, ma se non ve le ricordate o non ci avete fatto caso (d'altronde non è che siete nella mia testa... per vostra fortuna XD)... non è un problema, sono miei piccoli sfizi xD

Insomma, dopo questo ragionamento delirante, che aggiungere... Se vi va di recensire, siete liberissimi tutti di farlo, non fate complimenti, qui è tutto ben accetto xD
Ma, comunque, grazie a tutti voi per l'affetto dimostrato per questa storia, la cosa mi inorgoglisce oltre ogni limite! *-*
Prima che io finisca di montarmi la testa, allora... vi saluto!

Alla prossima, cari!
Iurin

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Capitolo 11
*** Capitolo Dieci ***


Capitolo Dieci

 
 
“Deve provare questa, stavolta. Sono sicuro che andrà decisamente meglio della scorsa volta.”
Prova questo, amico, è l’idromele più buono di tutta la contea.
Ti sembra che Sherman stia utilizzando il tono da barista fidato, mentre ti porge l’ampolla contenente la nuova pozione che dovrai assumere da quel momento in poi.
Sì, sono passate altre due settimane relativamente tranquille, e adesso O’Dampand ti ha accompagnato al San Mungo per il solito controllo. Risultato: tutto come sempre, nessun miglioramento, nessun peggioramento; stabile.
Tu non è che ti senta veramente così stabile, in fin dei conti, ma probabilmente la cosa, più che di Sherman, dovrebbe essere di competenza di un qualche membro di un qualche rinomato… centro di psicologia o quel che è. Il perché tu stia pensando una cosa del genere ti è ancora fondamentalmente ignoto, ma, perlomeno, la fugace riflessione se ne va tanto velocemente quanto è arrivata, e tu ricominci a focalizzare il tuo sguardo prettamente su Sherman.
In tutto ciò, comunque, sono due settimane – anzi, per essere precisi, tredici giorni – che non vi incontrare, e tutto quello che ti ha chiesto, lui, prima di cominciare a parlare della nuova cura – neanche avesse avuto un Firebolt sotto il sedere – è stato ‘Come sta?’.
La prossima volta sei quasi sicuro che gli risponderai ‘Ah, beh, stabile.’.
Quindi sono passate due settimane. Due settimane di quel presunto – anche se, comunque, vuoi credere che sia piuttosto concreto, allo stesso tempo – equilibrio tra te e O’Dampand.
È un po’ come essere tornati a quando vi eravate appena conosciuti, senza tutta quella storia di Potter e dell’infimo ricatto. Certo, anche se, allo stesso tempo, c’è qualcosa di diverso.
Per esempio ti sta chiedendo sempre più spesso, ogni volta che si infila il suo giacchetto e prende la sua borsa, se vuoi uscire con lei. Tu hai sempre risposto di no, e lei a volte si… impunta, anche. In una di queste occasioni ti ha persino fatto notare che non ci sarebbe stato nulla di male e che, in fondo, si sarebbe trattato di ‘un’uscita molto veloce e sbrigativa’, e che sareste tornati a casa quasi subito.
“Se bisogna fare un cosa tanto sbrigativa, al punto da neanche godersi l’aria aperta, perché uscire?” Non ti eri trattenuto dal rispondere, specie se la sua proposta ti era stata posta in quei particolari termini “E poi, per renderla – come dice lei – sbrigativa, di sicuro la mia presenza non aiuterebbe. Farebbe prima ad andare da sola, come suo solito.”
Lei non aveva potuto far altro che acconsentire.
Ci sarebbe anche mancato altro.
In ogni caso, alla fine, una volta rimasto da solo non hai potuto non notare che quell’‘uscita’, in realtà, non stava risultando sbrigativa affatto. Ergo, o ti aveva spudoratamente mentito e, una volta fuori con te, si sarebbe rimangiata le proprie parole senza alcuna preoccupazione, oppure, dal momento che tu sei rimasto a casa, può… prendersela più comoda. Senza che tu le sia d’intralcio, in parole povere.
Quando è tornata a casa tua, in ogni caso, sempre in maniera ben poco sbrigativa, con in mano ciò che presumibilmente aveva appena comprato, non l’hai salutata, sul momento.
“Ne è sicuro?” Rispondi, in ogni caso, a Sherman, che è ancora in piedi davanti a te ad attendere una tua risposta.
“Abbiamo fatto diversi accertamenti, non dovrebbero esserci problemi di alcun tipo.”
Prendi l’ampolla che lui ti sta ancora porgendo e la stappi, portandotela appena sotto il naso per sentirne l’odore. Sa vagamente di caffè.
“Dovrebbero?” Dice in quel momento la voce di O’Dampand. È rimasta al lato della stanza, con la schiena appoggiata al muro, ad osservare la scena, senza, però, in quel modo, intromettersi troppo “L’ultima volta ci è andata bene perché avevo avuto voglia di tè… Stavolta non ci sarà bisogno che io accenda il bollitore durante la notte, vero?”
Sogghigni appena, alla sua affermazione, mentre richiudi l’ampolla e la riconsegni nelle mani di Sherman.
“Ve l’ho detto, abbiamo fatto dei test e i dovuti accertamenti.” Risponde il professore, assumendo un’aria seria anche nello sguardo, dietro i suoi occhiali e sotto le sue cespugliose sopracciglia “Quindi… Mi correggo: non ci saranno proprio problemi.”
“Se lo dice lei, Sherman.” Commenti “Per il momento mi impongo di crederle, non gestisca male la fiducia che le sto offrendo.”
A parlare così sembri quasi il suo superiore, chiunque egli sia in realtà.
Witherington – sì, perché è presente anche lui, sebbene sia rimasto in silenzio, come è giusto che sia, per dar spazio a Sherman – consegna ad O’Dampand una specie di valigetta che deve per forza essere piena di ampolle identiche a quella che Sherman ti ha… concesso di esaminare poc'anzi.
Lei la indossa mettendosela a tracolla, appurandosi, ovviamente, di mantenerla ben dritta. Le ampolle sono sicuramente state accuratamente sigillate, ma di certo sballottarle in giro non si può considerare il modo migliore per farle arrivare integre nel tuo salotto.
Difatti è lì che vi dirigete, a casa, e poi, quindi, rimanete in salotto.
Anche stavolta, in ogni caso, prima di arrivare a Spinner’s End, O’Dampand ci ha spudoratamente provato.
A cambiare destinazione, è ovvio:
“Vuole andare da qualche parte, prima di tornare a casa?” Ti ha chiesto, lasciando a te la scelta del luogo da visitare.
Una mossa che può considerarsi saggia, da un certo punto di vista, ma non fino in fondo: così facendo, saresti tu, appunto, a decidere dove andare, il che dovrebbe spronarti ad accogliere il suo suggerimento; dall’altra parte, però, dato che più e più volte hai semplicemente risposto ‘no’ a tutte la domande di O’Dampand vagamente simili a quella appena pronunciata… così sarebbe anche più sbrigativo suggerirle di non pensare ad altro che non sia il suo lavoro e di dirigersi immantinente a Spinner’s End.
Il che, anche per lei, deve essere l’opzione più plausibile, visti i trascorsi suoi tentativi e le trascorse tue risposte a riguardo.
Immagini, dunque, sebbene tu non possa vedere il suo viso, al momento, che mentre pronunci l’ennesimo, stanco, ma deciso ‘no’, non si delinei su di lei una vera e propria espressione di sorpresa. Conoscendola, magari è semplicemente scocciata, ecco.
Il che, anche stavolta, ti… rallegra ed infastidisce allo stesso tempo: ne sei soddisfatto, perché andare contro i balordi piani delle persone che hanno idee balorde è, quantomeno, stimolante, e, in un certo senso, divertente. Per non parlare del fatto che in questo modo si pone sempre più l’accento su chi sia davvero la persona a cui spetta l’ultima parola. Il Decisore Finale, in una pomposa e sfarzosa – quanto anche abbastanza ridicola – versione.
Eppure sì, sei anche infastidito, allo stesso tempo, perché, dopotutto, chi è O’Dampand per ostentare un’espressione infastidita ad un tuo rifiuto? Sempre che tale espressione sia comparsa effettivamente sul suo viso, certo, tu l’hai solamente ipotizzato, ma non ti dai la briga di focalizzarti troppo su questo misero punto. Potresti anche, con tanta buona pazienza, impegno, volontà ed esagerazione… accettare un tale atteggiamento casomai si presentasse un ‘problema’ un po’ più sentito. Tutta quella questione dei pranzi e delle cene, per esempio, che speri di dimenticare presto. Ma per una semplice… passeggiata – nella tua testa il termine viene pronunciato dalla tua voce con un tono a metà tra lo sberleffo e la disperazione – che motivo avrebbe di prendersela? Vorrebbe per caso emulare il comportamento delle ragazzine alle quali viene detto di no? Come fosse viziata, allora? Neanche a dire che a lei cambierebbe qualcosa, in fin dei conti.
O forse è lei ad aver bisogno di aria, in realtà, e non vuole tornarsene al chiuso. Beh, intanto, se ha accettato quel lavoro, che si adegui, e poi, se proprio necessita di respirare aria pura, che la passeggiata se la faccia da sola; a te, di sicuro, non cambia proprio niente.
In ogni caso, ti accorgi solo dopo che O’Dampand esegue la Smaterializzazione – per poi comparire entrambi in un isolato vicolo di Spinner’s End, e, quindi, dopo che per un momento la mente si è liberata da tutti i pensieri, leggermente scossa per il viaggio – che tutte le considerazioni che stai continuamente formulando, tutte le teorie e le congetture che stai portando avanti, sono essenzialmente basate su un’ipotetica espressione della ragazza dietro di te che non sai neanche se, effettivamente, sia mai comparsa o meno sulla sua faccia. Non gliel’hai vista, hai presunto che fosse così.
Forse dovresti girarti più spesso e rendertene conto, prima. Almeno la tua testa potrebbe evitare di appesantirsi inutilmente.
Non che tu stia ammettendo a te stesso di renderti conto di star adottando un metodo di valutazione completamente erroneo. Ci mancherebbe. Ma forse… Confutare l’ipotesi per giungere alla tesi tramite le dovute dimostrazioni è comunque un metodo tutt’ora valido giusto? Dovresti ricordartelo. Tuo malgrado, certo.
Per non parlare poi, del fatto che quel giorno sembra essere diventato il giorno delle ambivalenze.
Anzi, Il Giorno delle Ambivalenze; come tempo prima c’era stato Il Giorno dei Sospiri.
Merlino, hai bisogno di un tè.
E alla fine giungete proprio a casa, allora. Ergo puoi avere il tuo tè.
“O’Dampand.” La chiami, allora, mentre lei sta appendendo la propria borsa e la propria giacca all’appendiabiti.
Lei si palesa di fronte a te nel giro di qualche secondo, anche camminando in maniera leggermente più rumorosa del solito, ma una simile sottigliezza non ti preme di rimarcarla a voce alta. Per il momento.
In ogni caso, evidentemente, ha creduto di essere appena stata chiamata perché desideri che ti… aiuti – ancora ti è difficile persino pensarla, quella parola – a togliere il tuo, di soprabito, per mettere anch’esso sull’appendiabiti.
Beh, certo, anche per questo: non puoi mica rimanere in casa senza neanche toglierti il cappotto.
“Ah, sì.” Commenti, dunque, mentre lei ti muove il busto prima a destra e poi a sinistra, e mentre tu, da solo, sposti, al contempo, le spalle – per quello che ti riesce – per agevolare l’operazione, di modo che, oltretutto, ti resti così… a contatto il meno possibile.
Il contatto umano l’hai sempre un po’ evitato, tu.
A parte alcuni determinati casi, ovvio, e solo quando era estremamente necessario. O estremamente desiderato.
In modo innocente, certo.
… Il fatto che proprio tu parli di innocenza ti sembra leggermente fuori luogo – e vagamente ipocrita – ma comunque.
Alla fine il soprabito ti scivola via dalle spalle e anch’esso finisce sull’attaccapanni.
“O’Dampand.” La chiami nuovamente, a quel punto, dato che vi ritrovate esattamente nella stessa situazione di poco prima.
E, proprio come prima, in pochi secondi lei è di nuovo da te; persino facendo lo stesso rumore con le scarpe, il che è piuttosto singolare, più che fastidioso, in effetti.
“Sì, ha bisogno di qualcosa?” Fa lei, allora.
Tu inarchi appena un sopracciglio, mentre rispondi; ti viene spontaneo.
“Dato che continua a proporsi come fosse una cameriera, sì: vorrei una tazza di tè.”
O’Dampand sbatte un paio di volte le palpebre, leggermente disorientata, prima di rispondere a sua volta. Anzi, prima di rispondere fa una breve risata: non squillante o divertita, è una risata… di chi ha capito di essere stata presa giustamente in giro, più che altro.
Almeno comprende che a volte si comporta nel modo che entrambi avevate concordato che non avrebbe assunto.
“Mi scusi.” E’, allora, la sua risposta, non appena la piccola risata si spegne in una specie di… singhiozzo “Non me ne sono proprio resa conto. Un tè? Sì, certo, così ne approfitto e me ne faccio uno anch’io.”
Sebbene persino l’eco della sua risata se ne sia oramai andato, e, sebbene lei stessa abbia addirittura ammesso l’errore, tu rimani comunque con il sopracciglio leggermente inarcato. Senza dire niente, però. La guardi semplicemente andare verso la cucina con quell’espressione sul tuo viso.
Ah, beh, vorrà dire che prenderete il tè assieme come due membri del circolo del taglio e cucito. Magari vi metterete anche una coperta sulle gambe. Sei sicuro che, nella posizione in cui sei tu, ti starebbe proprio bene.
Ma non è la prima volta che avete preso del tè assieme, e ti chiedi come mai ti stanno venendo in mente tutte queste immagini fuorvianti e anche decisamente ingiustificate. O è tornato il pericolo dell’impazzire da un momento all’altro, oppure… qualcos’altro che ora non capisci bene cosa sia, ma speri che riuscirai a chiarire tra te e te entro la fine della giornata.
A parte ciò, O’Dampand ci mette solo qualche minuto a fare il tè, e quando torna in salotto ha già due tazze fumanti in mano. In quel breve – brevissimo – lasso di tempo che passa da quando lei spunta sulla soglia della cucina a quando ti raggiunge, tu riesci a sederti in poltrona, sistemandoti quanto più comodamente possibile.
“Ecco, tenga.” Ti dice mentre ti porge la tazza, quella verde.
Lei tiene per sé quella blu.
Chissà in base a che cosa ha scelto tali colori. Ti nasce la curiosità. Ti ha dato la tazza verde perché eri il Capo Casa di Serpeverde?
… Ruolo che non ricoprirai mai più, tra l’altro, ma se, quando riaprirà la scuola – sei sicuro che riaprirà – ci sarà di nuovo Horace al tuo posto… Beh, da quanto hai notato ha fatto un buon lavoro. Non ottimo, ma comunque discreto. Beh, sempre se riprenderà il posto che ha avuto durante gli ultimi due anni. Se ce la fa. Se… può.
Come sta il professor Lumacorno?
Non sono molte le informazioni che sei riuscito a reperire, in quell’ultimo periodo, e O’Dampand, in questo è ben poco utile. Hai saputo che Kinsgley Shacklebolt è stato nominato Ministro della Magia Straordinario, in fretta e furia, che sta rimettendo insieme i pezzi del Mondo Magico come fossero componenti di un grande, enorme puzzle. Si sta dando da fare, ed è stato nominato Ministro in attesa, comunque, delle dovute e ufficiali elezioni, ma per il momento il popolo sembra decisamente soddisfatto.
I Mangiamorte vengono catturati sempre più spesso, processati, e imprigionati. Alcuni cercano di scappare, di rifugiarsi chissà dove, magari in un qualche Paese straniero, e chissà come. Dopo quello accaduto nel Regno Unito, dubiti che gli altri Stati Magici rimangano indifferenti e diano asilo politico a tali… criminali.
Tu, ancora una volta – e chissà per quanto tempo si protrarrà questa condizione – devi ringraziare Potter per poter stare a casa tua. In condizioni non ottimali, certo, ma almeno non sei rantolante, o, comunque, fuggitivo tra i boschi della Scozia.
… La stai quasi vedendo in maniera positiva, incredibile.
Anche se poi, effettivamente, pensi che prima o poi gli Auror faranno visita anche a casa tua. Magari aspetteranno solamente che tu ti sia ristabilito un po’, prima – cosa che forse richiederà comunque parecchio tempo, a quando pare.
Non hai avuto ancora notizie dei Malfoy, in ogni caso; dovrai rimediare.
E magari una lista dei sopravvissuti e dei defunti ti farebbe comodo, almeno per sapere il futuro di chi puoi ancora vagamente immaginare.
“Signor Piton…?”
Ti rendi conto solo sul momento di essere rimasto, immobile, a fissare la tua desiderata tazza di tè, senza però prestarle alcuna effettiva attenzione.
Alzi la testa e guardi la tua interlocutrice; non dici niente, ma lei, comunque, prosegue lo stesso.
“Tutto bene?”
“Tutto come sempre.” Rispondi, dando finalmente il primo, lungo sorso al tuo tè.
“E’ che si era incupito tutto assieme.”
Deglutisci un secondo sorso, prima di parlare a tua volta.
“Ho vissuto due guerre, in vita, di cui una conclusasi da non troppo tempo. Sono, brutalmente parlando, mezzo paralizzato, una cura la si sta cercando per tentativi, ho rischiato la morte, sono un relitto societario…” La guardi “Sono motivi abbastanza plausibili per cui anche lei possa reputare normale l’estraniarmi di tanto in tanto con in faccia un’espressione più o meno cupa?”
O’Dampand fa passare un paio di secondi, prima di rispondere anche lei.
“In realtà mi sarebbe anche bastata una delle sue laconiche risposte.” Dice “Del tipo io che affermo ‘Si è incupito’, e lei che risponde ‘Complimenti, ha ancora spirito di osservazione, a quanto pare’.”
Ti esce improvvisamente dalle labbra uno sbuffo divertito, e ringrazi mentalmente Merlino di non aver del tè in bocca, in quell’istante. Ti saresti ritrovato a non fare propriamente una figura molto elegante.
“Sì, in effetti sarebbe stata una risposta degna di me.”
O’Dampand fa un sorrisetto soddisfatto, e finalmente comincia a bere anche lei.
L’equilibrio si è evidentemente consolidato. Sviluppato? Forse no. Ma cosa cambia, dopotutto?
Poi ti torna alla mente la questione dell’appartenenza a quale Casa di Hogwarts; sempre che O’Dampand abbia frequentato Hogwarts, certo. A dir la verità tu non te la ricordi per niente, in giro per il castello. Non che tu, ai tuoi tempi, conoscessi tutti gli studenti presenti, quelli di cui ti ricordavi il nome erano già numerosi a sufficienza, però… No, O’Dampand per te è una pagina bianca, su quel fronte. Sempre dando per scontato, poi, che abbia frequentato Hogwarts quando c’eri anche tu, comunque. Ma anno più, anno meno…
“Dove ha studiato, lei, di preciso?” Dici, quindi, di punto in bianco, interrompendo l’ennesimo silenzio.
Lei ti guarda ‘quasi’ sorpresa, palesemente sottratta ad un ragionamento silenzioso e tutto personale.
“Come, scusi?”
“Allora non sono l’unico che si perde nei propri pensieri. E poi lei me ne fa quasi una colpa.”
Fa una piccola risata, lei.
“Scusi, sì, ero sovrappensiero. E comunque non è vero che gliene faccio una colpa, era solo una piccola considerazione.”
“Dettagli.” Fai una piccola pausa, prima di ricollegarti all’argomento principale – sebbene la conversazione sia cominciata da poco “Allora, dove ha studiato?”
Anche lei fa una pausa, prima di parlare.
“Come mai le interessa?”
È quasi diffidente. Merlino, chissà come mai, sei una persona che ispira così tanta fiducia…
“Curiosità. E poi son-- ero un professore, e forse anche lei lo sa, dico bene?”
O’Dampand, a quel punto, si umetta le labbra, chiaro segno che sta per cominciare a rispondere al nocciolo della questione.
Salazar, ne parli, nella tua testa, come se si trattasse di un evento storico e di portata mondiale. Si percepisce proprio che non hai più molte altre cose – più importanti – di cui occuparti.
“Beh, è ovvio che sono andata ad una scuola, ad un certo punto, ovvio,” Comincia allora lei “altrimenti di sicuro non sarei una guaritrice. Ma non ho frequentato Hogwarts, no.”
“No?”
Si nota della non troppo lieve perplessità, nella tua voce.
“Beh, non è obbligatorio, giusto?” O’Dampand si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima di proseguire “E mia madre era un’ottima insegnante. Non nel senso… Non ha mai insegnato in una vera scuola, certo, perché ha preferito fare altro, ma era veramente dotata.”
“E quindi le ha insegnato tutto lei.”
Annuisce. “Ebbene sì. Ha usato i suoi vecchi libri di scuola. Ecco, lei ha frequentato Hogwarts, infatti.”
“Capisco…”
“Sua madre ha frequentato Hogwarts?”
La guardi un po’ di sottecchi. “Che cosa c’entra, questo?”
“Beh, magari sua e madre e mia madre si conoscevano. Magari erano persino dello stesso anno.” Commenta con un’alzata di spalle. “In che Casa era stata smistata?”
In tutto ciò lei ha dato completamente per scontato che tua madre abbia frequentato Hogwarts. Beh, sì,  è effettivamente così, ma lei l’ha dato per scontato.
“Serpeverde.” Rispondi, alla fine.
“Come lei, signor Piton.”
“E’ evidente.”
“Mia madre era Corvonero, invece…”
“Non faccia quella faccia, nessuno dice che non si conoscessero, all’epoca; mia madre era… non si faceva problemi ad instaurare rapporti con persone la cui provenienza fosse differente dallo stato sociale della sua famiglia o di chi frequentava abitualmente.”
“In che senso…?”
“Era… abbastanza abbiente, diciamo.”
“Ah, ho capito.”
“Mio padre no, comunque.”
Oh, ma che le può interessare? Devi per forza lasciarle intendere il perché non vivi in una grande villa?
Sei patetico, avanti.
“Allora magari chiederò a mia madre, un giorno.” Commentò, allora, lei.
“Sempre che lo ricordi.”
“Chiedere è lecito.”
“Sì, e rispondere è cortesia.” Completi il detto, abbandonando tu stesso, per una frazione di secondo, l’argomento principale del discorso.
“Eh, già.” Confermò lei, guardandoti con due occhi che volevano lasciar intendere qualcosa di ben specifico.
Cosa che tu afferri al volo, comunque.
“Guardi che io sono… cortese quanto basta, O’Dampand.”
“Oh, io non ho detto proprio nulla, in proposito.”
“L’ha lasciato intendere.”
Lei si stringe nelle spalle, facendo comunque uno di quei suoi sorrisi, stavolta – immagini – per confessare la sua ‘colpa’, senza però darle troppo peso.
Tanto per farti contento, insomma.
Il tè, in ogni caso, si sta raffreddando fin troppo in entrambe le tazze, quindi lasciate perdere quelle evitabili chiacchiere e tutti e due vi concentrate nel posare le labbra sul bordo della tazza.
L’interruzione, però – o magari è un bene? – va avanti, e il silenzio comincia la sua solita avanzata. C’è sempre un momento, quando la conversazione è leggermente latente, in cui ci si può comunque permettere di non parlare per un po’; quando però, poi, il silenzio si protrae, diventa sempre più difficile dire qualcosa che riprenda il filo del discorso, senza che chi lo fa si senta momentaneamente… banale. Come quando qualcuno fa una battuta che può essere susseguita da altre battute attinenti alla prima ma ugualmente… divertenti: se passa troppo tempo tra una battuta e l’altra, la seconda finirà per non risultare più spiritosa, ma susciterebbe soltanto un vago sorrisino in qualcuno e indifferenza in altri, sebbene si sarebbe trattata della stessa, identica frase che in altri casi avrebbe fatto ridere.
E così quei secondi di troppo continuano a passare, e va a finire che la conversazione decide da sé di chiudersi lì.
Che poi… Qual è il problema? Avete passato così tante ore, intere serate ognuno completamente immerso nei propri, particolari pensieri, che… In realtà, al momento attuale, non dovresti neanche porti tutte queste questioni che, effettivamente, non ti sei mai posto prima.
Che motivo ci sarebbe per farlo ora?
Così, come passano quei secondi che poi diventano minuti, passa anche il resto del pomeriggio. Certo, non passate tutte quelle ore in silenzio, ma fatto sta che, più presto, addirittura, di quanto tu ti renda conto, arriva la sera.
E così, come è anche e ancora e di nuovo normale che sia, arriva l’ora, per te, di ritirarti sotto le coperte. Dato l’orario – non troppo tardo, in verità, ma ti stai abituando a ritmi diversi dal solito – dovresti aver sonno. Tutte le altre sere, a quest’ora, sentivi quella leggera pesantezza alle palpebre che ti faceva intendere che, sì, saresti stato benissimo in grado di rimanere sveglio persino un altro paio d’ore, volendo, ma, no, la morbidezza di un cuscino non verrebbe disdegnata affatto.
Quella sera questa specie di… intorpidimento non ti coglie, e sul momento non capisci a cosa sia dovuto, dato che quella mattina non ti sei affatto svegliato ad un orario diverso dal solito. Neanche a dire che ti sei addormentato nel bel mezzo del pomeriggio come un qualsiasi vecchio.
Poi, quando O’Dampand entra in camera tua, per cambiarti la fasciatura al collo e medicarti la ferita, mentre tu sei già a letto, ti viene subito in mente. Devi anche prendere la pozione, come ogni sera, solo che stavolta si parla di quel… piccolo cambiamento che consiste nella natura della pozione stessa.
Non ti vergogni di pensarlo, sai che è così e non è neanche un pensiero troppo disonorevole – sempre se formulato tra te e te, certo: hai… paura. Sì, una sottile ansia che ti contrae lo stomaco proprio lì, specialmente nella parte sinistra del busto – come sempre. Hai paura, perché temi che qualcosa possa andare storto.
L’altra volta avevi preso la nuova pozione senza farti domande, l’hai ingurgitata come faresti per un banale bicchiere d’acqua e ti sei messo a dormire. Certo, non è stata colpa tua, quel che ne è seguito, ma adesso… Non puoi non pensare all’eventualità che possa accadere di nuovo.
E dire che, l’altra volta, forse hai mandato giù il contenuto di una di quelle fiale con così tanta leggerezza, con così poche preoccupazioni…
Ti domandi il perché, sempre tra te e te.
Non è da te non ponderare su quali potrebbero essere le conseguenze dell’assumere un medicinale, specie se magico, e specie se sperimentale. Perché avevi fatto così? E perché ora non puoi di nuovo avere quella tranquillità?
“Signor Piton?” Ti senti poi chiamare, e quando smetti di fissare il punto del pavimento sul quale si erano posati i tuoi occhi, metti a fuoco O’Dampand che ti lancia una veloce occhiata, mentre finisce di sistemarti le bende pulite attorno al collo.
I bruciore della pomata da mettere sulla ferita, ormai, è diventato decisamente più sopportabile. Sarà l’abitudine, o, magari, anche la ferita stessa sta migliorando. La prossima volta chiederai a O’Dampand di fartela vedere con quel piccolo specchio, come qualche settimana prima.
“Mmh?” Fai, tanto per farle capire di averla sentita e di starla ascoltando.
“Si è incupito di nuovo, sa?”
Sbuffi.
Deve sempre rimarcare le cose che vuole lei.
“Mmh.” Ti limiti a rispondere, stavolta: la morsa allo stomaco è leggermente aumentata, e, sinceramente, le hai già fatto notare che il tuo comportamento è più che normale e che non è necessario che risvegli la sua curiosità; doverlo ripetere ti sembra un’ammissione di un tuo comportamento che non è stato molto produttivo, e… beh, al momento non ti va semplicemente di fare discorsi, a dirla tutta.
“Lo so perché ha quella faccia, comunque.” Continua lo stesso lei, come se il tuo ‘mmh’ fosse stato un ‘prego, mi dica, mi esponga i suoi pensieri’ “Ma non si deve preoccupare.”
Apprezzi comunque il suo sforzo, se non altro.
“Lei dice?”
Lei finisce di sistemare le bende, mettendo via, nella sua borsa, il barattolo della pomata per la medicazione e tirando fuori una delle ampolle della nuova pozione.
“E’ andata male una volta, è vero.” Continua “Ma il professor Sherman è un professionista: se non lo fosse, intanto, non sarebbe professore, e poi non sarebbe il capo di un reparto tanto delicato quanto Janus Thickey.”
“Un discorso che non fa una piega.”
“E poi, se non si ottengono i risultati sperati, la prima volta, in seguito si fa tutto con ancora più attenzione, no? Quindi, proprio per questo, non penso andrà male, stavolta.”
Fai un momento di pausa, e ti umetti le labbra, prima di parlare.
“Secondo lei.” Dici.
“Beh, certo. Ma… Oh, non si preoccupi comunque.” Fa un sorriso piuttosto… candido “Credo che stanotte mi verrà voglia di parecchio tè, me lo sento. Fiumi di tè.”
Incurvi un angolo delle labbra verso l’alto.
“Le verrà la nausea, alla fine. E andrà persino sempre in bagno.”
“Sopporterò lo sforzo.” Ridacchiò.
Non cambi comunque espressione.
“Beh, veda di non svegliarmi troppe volte col suono dello scarico.”
Il suo ridacchiare si trasforma in una piccola risata, mentre, ormai l’atmosfera meno tesa di prima, toglie il tappo all’ampolla.
E te la porge.
Tu l’afferri con la mano sinistra e la guardi appena contro luce, tenendola ferma davanti alla fiammella della candela sul comodino; la luce di tutta la stanza è così fioca, però, che non riesci a scorgere il colore dei riflessi del liquido; vedi solo un indistinto ammasso scuro, pronto per essere bevuto. Riporti l’ampolla sotto il tuo naso, ed inspiri. L’odore  ricorda vagamente quello del caffè. Un caffè forse non appena tostato, magari lasciato al freddo per un giorno intero, ma sempre di caffè si tratta, in entrambi i casi.
“Alla salute.” Mormori, ironico, e mandi giù tutto in un unico sorso.
Anche il sapore ricorda vagamente quello del caffè un po’ invecchiato, sebbene, però, la consistenza della pozione sia molto più densa. E vischiosa, anche.
La pozione che ti davano da prendere, prima, era talmente dolce che ti faceva quasi venire la nausea, ed era abbastanza densa, sì, ma non così tanto.
Alla faccia delle piccole modifiche.
“Tutto a posto?” Chiede subito O’Dampand, neanche il tempo di farti finire di ingoiare, quasi.
“Un po’ presto, per dirlo.” Rispondi.
Lei non dice niente, ma prende l’ampolla vuota e la rimette al suo posto, dopo averla nuovamente richiusa con il suo tappo.
“Allora… Buonanotte.” Conclude lei, rimettendosi in piedi, già pronta – come è giusto che sia, d’altronde – per tornare nella sua – provvisoria - camera.
“A domani.”
E a quel punto lei va via, accostando appena – non chiudendo – la porta della stanza dietro le proprie spalle.
Si tratta solo di far passare la notte. Si tratta solo di aspettare.
Anche stavolta, come sempre, dovrai rimanere così, inerme, a contare i minuti nella speranza che accada o non accada qualcosa.
Di nuovo non hai voce in capitolo, qualcuno decide per te – persona fisica o destino che sia – e a te tocca soltanto sottometterti, non protestare contro il tempo che scorre troppo lentamente, ma restare così, fermo. Come se anche un piccolo movimento potrebbe portare ad una conseguenza diversa da quella che altrimenti accadrebbe. Come se stando fermo tutto possa andare bene.
Non sei mai stato molto di questa idea, nella vita.
Ma adesso non è che tu possa fare altrimenti.
Il punto è che, sicuramente, il tempo passerebbe più velocemente se tu riuscissi ad addormentarti, su questo non c’è alcun dubbio. Peccato che, come prima di metterti a letto, stavolta il sonno pare non esistere, per il tuo corpo o per la tua mente. Sei tutto in attesa, ogni muscolo ed ogni neurone vuole aspettare lì con te.
E quindi… Attendi.
Attendi.
Attendi.
E non succede niente. Nulla di positivo, ma neanche nulla di negativo, perlomeno.
Non sai quanto tempo possa essere passato, in realtà, col fatto che sei da solo e, soprattutto, col fatto che non stai praticamente facendo nulla.
Dopo un po’ persino ti stanchi di fissare punti della tua stanza che sai a memoria da una vita. È tedioso.
E cominci proprio a sentirti le membra stanche; e non solo quelle, ma anche la mente, finalmente. Senti che il sonno che poco prima aveva deciso di disertare ora sta tornando sui suoi passi e sta timidamente ripresentandosi al tuo cospetto.
Le palpebre ti si abbassano, ma un momento dopo sono di nuovo completamente su, come se all’improvviso tu abbia sentito un rumore che in realtà, però, neanche esiste. Forse ti aspettavi che, casomai sarebbe dovuto succedere qualcosa, quel qualcosa sarebbe avvenuto poco dopo aver preso la pozione. Non avevi considerato che sarebbe dovuto passare tutto quel tempo. E invece… E allora, magari, inconsciamente pensi che, se non è accaduto qualcosa finora, non accadrà più. Sempre né di positivo né di negativo, è chiaro. E forse è per questo che senti la paura svanire appena, proprio per far posto a quel sonno che ora diventa sempre più presente.
D’improvviso senti dei leggeri passi lungo il corridoio: è di sicuro O’Dampand che fa avanti e indietro. Non credi che farà davvero avanti e indietro tutta la notte. Quantomeno… lo credi.
Alla fine le palpebre ti si abbassano nuovamente, e diventano troppo pesanti da potersi rialzare.
Niente e nessuno ti sveglia per tutta la notte.
Quando la mattina apri gli occhi, devi un momento fare mente locale sul perché ti senti lo stomaco in subbuglio in quella maniera particolare. Oltre gli scuri sai, tramite la luce che riesce ad entrare comunque nella stanza, che il sole è già alto e che hai dormito molto più di tutti gli altri giorni. Beh, è anche normale, considerando che, in fin dei conti, sei andato a letto più tardi della solita ora.
Con un leggero sforzo alzi la schiena, mettendoti seduto praticamente al centro del letto.
Non è successo niente. Non è davvero accaduto alcunché. Ti senti… ‘bene’ – più o meno – o comunque non diverso dagli ultimi tempi. Non ti senti ardere dentro, né consumare, né qualsiasi altra cosa. Hai preso quella pozione, ti sei anche riuscito ad addormentare… ed ora ti sei svegliato, il tutto in maniera più che naturale.
Non è successo niente.
“O’Dampand!” Chiami a voce abbastanza alta, una voce ancora un po’ rauca a causa del sonno appena finito.
Un minuto dopo la porta della stanza si apre, e O’Dampand compare di fronte a te, sulla soglia.
“Oh, si è svegliato!” Risponde lei, entrando in camera e facendo qualche passo in avanti “Buongiorno. Allora come si sente?”
La guardi, rimanendo sempre seduto nella medesima posizione.
“Come al solito, nulla di anomalo.”
“Bene! Cioè… Nel senso…”
“Sì, sì, ho capito in quale senso.”
Fa un sorriso, lei, a quel punto, data la tua manifestazione di rara accondiscendenza.
Dopodiché, compiuti i soliti gesti di routine, vi ritrovate entrambi in cucina, per la colazione. Stavolta il caffè quasi ti ricorda la pozione assunta la sera prima, ma dopo già un paio di secondi non ci fai neanche più caso.
“Quindi è andato tutto bene. Nel senso… Non si è sentito male.” Dice lei mentre si versa la sua, di tazza di caffè.
“Avanti, la smetta di dire ‘nel senso…’.” La rimbecchi “Lo so anch’io che, come non c’è stato nessun peggioramento, non c’è neanche stato nessun miglioramento.”
Lei guarda per un momento da un’altra parte, prima di sedersi e di riposare lo sguardo su di te con un lieve movimento della testa.
“Sono sicura che è una pozione che non ha effetto immediato.”
“O’Dampand, non si azzardi a provare a consolarmi.”
“Ma non stavo provando a… consolarla. N--”
“E se mi dice di nuovo ‘nel senso’ con quel tono fastidioso, le rovescio il caffè addosso.”
Lei inarca entrambe le sopracciglia, continuando a fissarti praticamente incredula.
“Siamo passati alle minacce fisiche?” Dice.
“Oh, da che pulpito.”
E, cosa che rende appena appena incredulo te, stavolta, lei scoppia a ridere. Letteralmente. Si mette a ridere tutta assieme, per poi far durare quella risata giusto tre, o, al massimo, quattro secondi scarsi.
“Oh…” Si posa una mano all’altezza del cuore, mentre riprende fiato e la sua espressione torna più… normale. O comunque quella che ha di solito “Che dice, sarà necessario mandare un gufo al San Mungo per mettere al corrente il professor Sherman?”
“La guaritrice è lei, quindi presumo sia compito suo.” Dai un sorso al caffè nella tua tazza – di nuovo quella verde “E poi immagino che, qualsiasi cosa dirò, farà comunque di testa sua.”
“Sì, quello è vero.” Ammette con un leggero sorriso “Ma ero curiosa di sapere se magari volesse farlo penare ancora un po’.”
Di nuovo, per la seconda volta, la guardi incredulo.
“Come mai di così ottimo umore?” Le chiedi, a quel punto.
Lei ci pensa un momento, guardando distrattamente il soffitto, prima di rispondere.
“Beh… Intanto non mi è morto durante la notte…”
“Sì, immagino le noiose pratiche da compilare, nel caso.”
“… E poi dev’essere tutta quella teina che ho mandato giù. È peggio del caffè.”
“Che comunque sta bevendo tutt’ora.”
“Ah, ormai ne sono praticamente assuefatta.”
Incurvi un angolo delle labbra verso l’alto.
“Quindi…” Aggiungi, infine “Scrivere quella lettera fra un’ora o due non cambierebbe poi così tanto. Giusto?”
Lei ricambia il sorriso. Nel senso, lei fa un sorriso, il tuo quel che è, è.
Nel senso.
“Ma sì, la soddisfazione finale, d’altronde, vale l’attesa.”
 
 




 
Angolo Autrice: 
 
Credevo di non riuscire ad aggiornare, e, invece, eccomi qua! ;D
 
Si fanno piccoli passi avanti, piccolini, ma non per questo meno importanti!
… Vi ho già detto che questa fanfiction avrà uno sviluppo lento, vero? Credo che adesso ve ne siate resi conto praticamente tutti. Anche se, a dire il vero, fra non molto le cose si velocizzeranno un pochino, entro i limiti dello stilisticamente possibile, ovvio xD
 
Ma, dato che questo riguarda i capitoli futuri, non mi pare il caso cominciare a parlarne adesso!
 
Ebbene, spero come sempre che il capitolo vi sia piaciuto, e, mi raccomando, fatemi sapere quali sono le vostre impressioni! Fatemi felice e aumentate il mio feedback! ;)
 
Alla prossima, dunque, e, visto che ci siamo, buon 15 Agosto!

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Capitolo 12
*** Capitolo Undici ***


Capitolo Undici

 
 

Con tutto quel tempo libero che hai, la cosa che hai iniziato a fare sin da quando ti eri appena svegliato al San Mungo – e che continui a fare tutt’ora – è contare. Più che altro hai contato i secondi, che passavano lenti, quando ti ci soffermavi; hai contato i leggeri graffi sugli scaffali della tua libreria, hai contato le crepe della carta da parati sul muro accanto alla tua poltrona; hai anche contato quante maniglie dei cassetti della cucina sono rotte e quante no: due sono andati, bisognerà ripararli.
Hai contato quante pagine ti mancavano per finire il capitolo del libro che stai leggendo, quante per finire l’intero libro, quante ne hai effettivamente lette eliminando l’indice e le pagine bianche o quelle con il titolo e la dedica.
Che poi non hai mai veramente capito perché la gente dovrebbe dedicare un libro a qualcuno. Per quanto un familiare, un amico, un conoscente o lo stesso editore siano stati d’aiuto, chi è che scrive il libro? L’autore. Con quale testa? Quali mani? Le proprie. L’autore dovrebbe ringraziare se stesso e basta. Anche se di certo un volume dedicato ‘a me stesso’ risulterebbe strano; forse si fanno delle dediche per non risultare socialmente sciatti.
Ma d’altro canto… Che importava?
Hai contato le pieghe del cuscino che hai sotto la testa e quello accanto a te, hai contato quante volte in un minuto il solito lampione rotto si accende e si spegne, hai contato le frange del tappetto, hai contato le mattonelle del bagno, hai contato quanti battiti al minuto fa il tuo cuore. È da un po’ di tempo che ne fa qualcuno di più, comunque.
Hai contato il numero dei libri in tuo possesso, in tutto ciò: quelli sulla libreria in salotto, quelli in camera tua, quelli accatastati in quasi tutti gli angoli della casa. Hai provato a calcolare quante pagine di libri, in totale, si trovano a casa tua, ma dopo un po’ hai perso il conto, e ricominciare aveva perso la sua attrattiva.
Certe volte hai anche pensato di contare quanti gesti ti occorresse compiere prima di dire ‘ho finito’, qualsiasi cosa tu stia facendo, che sia la colazione, le faccende del bagno, oppure il prepararti per la notte. Hai smesso quando ti sei reso conto che il numero trovato è troppo, troppo basso.
Anche quella sera, dopo che O’Dampand ti ha medicato la ferita al collo e che ti ha dato la nuova pozione, hai contato, a letto, il numero delle automobili che passavano in strada, sotto la tua finestra chiusa. Ti sei addormentato quando ormai non ne passavano più da un bel po’.
Quando ti svegli sai che non è mattina ancora prima di aprire gli occhi.
È solo… una sensazione. Il rumore per strada non c’è, per casa neanche – non che normalmente ce ne sia granché, ma comunque…
È ancora notte, ma ti sei svegliato lo stesso, cosa che ultimamente non ti stava capitando più. Potresti riaddormentarti, certo, ma qualcosa te lo impedisce. La stessa sensazione di prima ora si è fatta più insistente, ti è entrata nelle viscere e vuole tenerti sveglio. C’è silenzio, come è giusto che sia, dato che percepisci che non è ancora giorno, eppure… è un silenzio diverso.
A questo punto apri gli occhi, e solo quanto lo fai senti il primo rumore, quello di un respiro. E anche abbastanza accelerato. L’unica spiegazione logica sarebbe che O’Dampand ti abbia fatto un’improvvisata in camera per chissà quale insano, stupido, e deprecabile motivo, ma tale spiegazione, sul momento, non affiora minimamente alla tua mente. È un respiro pesante, quello, non è di O’Dampand, e di sicuro non è neanche il tuo.
Ti volti piano verso la porta della tua stanza, e lì, in piedi, trovi il tuo visitatore. Apparentemente non cambi espressione, nel guardarlo, e immagini che anche lui se ne sia accorto, sebbene la stanza non sia di certo illuminata a giorno. Ma è illuminata comunque quanto basta.
Dentro di te non sai se essere più sorpreso o chissà che cos’altro.
Quando, allora, anche i tuoi occhi si abituano alla poca luminosità, puoi pronunciare il suo nome.
“Rodolphus.” mormori, semplicemente.
Rodolphus Lestrange fa un passo in avanti, nella stanza, e ora la luce del lampione riesce ad illuminare meglio il suo viso.
Sembra sfigurato. Non che abbia delle cicatrici come ne hai tu, il suo naso è a posto, ha tutti i pezzi collocati proprio lì dove si presume che stiano, eppure la parola ‘sfigurato’ è di sicuro quella che potrebbe descriverlo meglio: i capelli scuri sono tutti appiccicati alla faccia, più lunghi di quanto ti ricordavi fossero, e neanche più raccolti da un piccolo laccio, come lui era solito fare. Di solito completamente glabro, ora la barba gli ricopre totalmente la faccia. Sarebbe anche simile a te, certo, in quel momento, non fosse per lo sguardo completamente stralunato, accecato da qualcosa che proveniva dall’interno della sua stessa testa, pazzo.
“Rodolphus.” ripeti.
Lui fa un altro passo in avanti, e adesso alle narici ti arriva un odore acre, di chi non è neanche abituato più a lavarsi. È d’altronde anche piuttosto comprensibile: è un latitante, ora. Dopo la battaglia ad Hogwarts, gli Auror lo staranno cercando in ogni dove.
“Piton.” sputa lui.
Non che abbia sputato sul serio, ma il tuo nome lo pronuncia come se fosse la definizione di qualcosa di… osceno.
Tu, in ogni caso, non dici niente, specie quando ti accorgi che Rodolphus ha, nella sua mano ciondolante, la propria bacchetta.
“Che carino, che sei.” comincia a parlare lui, alla fine “Nel tuo letto, a riposarti tutto tranquillo.”
Il suo viso è peggio che scolpito nella pietra, la mascella si muove appena, per pronunciare quelle poche parole, tanta è la rabbia che riesci a percepire dalla sua sola presenza
“Piton.” dice soltanto, come se debba bastare.
“Che cosa vuoi?” domandi, osservandolo guardingo.
“Mia moglie è morta.” comincia, dunque “Io sono un ricercato. Vivo come vivono i topi, Piton, lo sai? Anzi, i topi stanno meglio di me: loro non devono scappare. Scappo, te ne rendi conto? La prima volta, dopo la prima guerra, non mi importava; che mi arrestassero pure. Sono andato ad Azkaban insieme a mia moglie senza rinnegare il Signore Oscuro, perché lui sarebbe tornato, ci avrebbe tirati fuori da lì, ci avrebbe ricompensato perché noi gli siamo stati fedeli. Tu quante volte l’hai tradito? Quante? E tu sei in questo bel letto. Mia moglie è morta. Io sono peggio dei topi, adesso i topi li invidio. E il mio Signore non tornerà, stavolta, e non posso finire ad Azkaban di nuovo, perché lui non mi tirerà più fuori di lì, e neanche mia moglie. Mia moglie è morta, Piton, la mia Bellatrix.”
Non ha preso fiato neanche un momento.
E continua a guardarti con quegli occhi fuori dalle orbite e tu…
Immagini che anche solo una singola parola sbagliata potrebbe farlo esplodere. È sull’orlo del baratro, potrebbe scoppiare a piangere tanto quanto potrebbe iniziare a distruggere tutto quello che si trova davanti.
Non c’è spazio per prese in giro, per saccenti e sarcastici commenti, sarebbero soltanto la scintilla giusta per accendere la sua miccia.
“Rodolphus…” continui, sempre prudente.
“Lo sai cosa si dice in giro, su di te? Lo sai? Si dice che hai aiutato, che hai dato qualcosa a Potter e per questo abbiamo perso. Si sentono tutte queste cose, Piton, e la sai un’altra cosa? Io ci credo. Perché tu non vivi coi topi, tu sei qui a casa tua come se non fosse successo niente, tu hai aiutato!
Lestrange alza il tono di voce. E temi che la miccia non abbia neanche bisogno di un fiammifero, per incendiarsi, che possa fare tutto da sé.
“E la mia Bellatrix è morta!”
“Mi dispiace.”
“E’ colpa tua, non puoi dire che ti dispiace!” esclama, mentre fa un altro paio di passi in avanti, verso di te, accostandosi al bordo del tuo letto “Se tu fossi stato leale, avremmo vinto! E Bellatrix ora sarebbe assieme a me!”
“Bellatrix sarebbe morta comunque.”
“No. Saremmo stati noi a fare piazza pulita, chi ha ucciso Bellatrix sarebbe morto. Non lei. È colpa tua, e di quello stupido di Potter.”
“Concordo sulla poca intelligenza di quel ragazzino, ma no…” fai una piccola pausa, continuando a fissare Rodolphus in quei suoi occhi stralunati “Lei sarebbe morta a prescindere.”
“Avrei avuto più tempo, io, allora! Avremmo vinto e avrei evitato che morisse!”
“Perché, Rodolphus, avresti rischiato per una persona che ti ha sempre considerato meno di niente?”
Sta’ zitto.
Oh, hai sbagliato a provocarlo. Ti eri detto di non farlo, e invece hai sbagliato.
E un momento dopo ti ritrovi la sua bacchetta che ti preme al centro della gola. E con la ferita lì, a pochi pollici di distanza, fa male, tanto che devi quasi reprimere un lamento. Non smetti di fissarlo comunque, però.
“Anche nei bassifondi di Nocturne Alley, anche nelle fogne, Piton, si sussurrano altre cose, su di te. E immagino tu sappia anche quali. Io Bellatrix l’ho sposata, e lei mi amava.” no, non era vero, questo; lei per lui non aveva mai avuto occhi “E anche se non mi avesse amato io l’ho sposata ugualmente.” adesso un sorriso, folle come i suoi occhi, si delinea sulle sue labbra “La tua dov’è, Piton? È questo che si sussurra.”
“Smettila.” è tutto quello che dici, con voce ancora più gracchiante del solito, per via della bacchetta di Lestrange.
“Vieni a dire a me che la mia donna mi considerava meno di niente? Tu? Tu lo dici a me?”
Sta’ zitto.” sillabi, proprio come ha fatto lui con te poco prima, e la punta della sua bacchetta, come risposta, preme un po’ di più sul tuo collo.
Lestrange fa un sorriso.
“Oh, Piton.” mormora “Bellatrix non ha mai avuto stima di te, proprio mai. E sai cosa? Io le dicevo che si stava sbagliando, che in fondo tu eri leale tanto quanti noi. Lei all’inizio rideva, pensando che scherzassi, poi si arrabbiava. Oh, era convintissima, lei, che tu avessi qualcosa che non andava. E aveva proprio ragione, avremmo dovuto ascoltarla tutti.” fa una leggera pausa, e tu vedi il suo prominente pomo d’Adamo andare su e giù un paio di volte “Adesso nessuno potrà ascoltarla più.”
“Rodolph--”
“Una morte per una morte, Piton, non è così che si dice?”
A questo punto non puoi più pensare di non star capendo dove lui voglia andare a parare. In fondo l’hai capito sin dal momento in cui lui ha fatto la sua silenziosa entrata in scena.
Che fare?
Alcune settimane prima gli avresti detto di comportarsi come più desiderasse fare, che non ti importava, e magari dentro di te avresti anche pensato che fosse la cosa più giusta. Così, in fondo, tutto sarebbe finito, tutto sarebbe andato come sarebbe dovuto andare sin dall’inizio, come se Potter non fosse mai intervenuto. O chi per lui, se non è stato direttamente Potter.
Forse sarebbe stato, alcune settimane prima, ciò che avresti voluto davvero.
Non che adesso la situazione sia cambiata poi molto. Sei sempre lo stesso uomo inutile di prima, e, per quanto possano ripeterti che hai un futuro, tu ancora non ci credi per niente. E dubiti che più in là lo farai.
Eppure… Eppure.
Eppure, forse, non è così che te ne vuoi andare, non per mano di Rodolphus Lestrange, non per vendicare quella folle di Bellatrix.
O magari, invece, il folle sei tu, che pensi di voler morire. O che pensi di non voler morire.
Ma no, se deve accadere, vuoi che sia in modo diverso, vuoi che non sia così… improvviso. E quando arriverà quel momento non farai nulla per evitarlo.
Solo… non adesso.
Ma anche con questi pensieri, puoi forse opporti? Cosa potresti fare, dargli un debole pugno sulla mascella ossuta? Rischieresti di farti persino male alla mano e nulla di più, ne sei praticamente certo. Non sei mai stato incline alla forza fisica, semplicemente perché non sei mai stato abile nell’adoperarla. Sei sempre stato un tipo di persona… magica. Se volevi ferire, lo facevi con la magia, non con i pugni. Ma avresti dovuto imparare comunque come si fa, specie se la cosa può tornare utile in a casi come questi, in cui puoi servirti solo delle mani. Di una mano, anzi.
“Lei penserà a tormentarti nell’aldilà, stai certo. Adesso questo si comincerà a sussurrare.”
Apri la bocca, stai per dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse almeno provare a fargli togliere la bacchetta dalla tua gola indolenzita, quando è qualcun altro a parlare al posto tuo, proprio in quell’esatto momento.
‘Stupeficium’!” esclama la voce di O’Dampand.
Lestrange non fa in tempo a voltarsi per puntare la sua bacchetta contro la nuova arrivata, che si ritrova scaraventato e svenuto dall’altra parte del letto, proprio sotto la finestra, lontano da te.
Quando guardi O’Dampand la trovi con gli occhi puntati su Lestrange, steso a terra, di cui tu – tra l’altro – puoi scorgere soltanto un braccio. Lei sembra quasi… terrorizzata. Neanche a dire che lui potrebbe attaccarla a sua volta da un momento all’altro; tiene la bacchetta puntata contro il suo petto con praticamente entrambe le mani.
Tu, dal canto tuo, ricominci a respirare più normalmente, e anche il battito cardiaco si fa più tranquillo.
“Non ha mai Schiantato nessuno, sino ad ora?” chiedi, interrompendo quello strano silenzio che si è venuto a creare.
Mentre parli la gola ti fa un tantino male, specialmente nel punto in cui la bacchetta di Rodolphus premeva.
Quanto era potuto essere disperato, lui? Arrivare da Nocturne Alley – a quanto pare era lì che lui si era rifugiato, dopo la guerra – fino a casa tua, solo per, presumibilmente, sincerarsi delle tue condizioni. Non per premura, ovvio, ma solo per constatare con i suoi occhi che a te è andata meglio che a lui, confermando così le varie voci udite in giro, fino ai bassifondi di Nocturne Alley. Sì, le voci. Ti chiedi come diavolo abbiano fatto, quelle voci, ad espandersi un po’ ovunque. Potter? Sul serio?
No, stranamente, ne dubiti. È un idiota, ma non fino a tal punto: di sicuro anche lui capirà che se vuole parlarti – non si è fatto più vivo, sì, ma non credi che ti abbia totalmente dimenticato, purtroppo – sparlare di te alle tue spalle non è di sicuro il modo migliore per riuscirci. E comunque, al massimo, supponi che ci sia la Granger a redarguirlo quanto basta.
La Gazzetta del Profeta, allora? Possibile. Gli articoli sui sopravvissuti e non alla guerra si sprecano, e Rita Skeeter è sempre stata in grado di tirare fuori le storie più coinvolgenti per i suoi accaniti lettori. Non sempre totalmente vere, ma, devi ammetterlo, comunque con un fondo di verità.
Magari quei giornalisti, che, ormai molto tempo prima, sono venuti a casa tua, erano proprio amici della Skeeter. A meno che proprio lei non fosse uno di quei giornalisti, sotto mentite spoglie. Ma questo è di sicuro un altro discorso.
Ciò che al momento attira principalmente la tua attenzione è la figura di O’Dampand, ancora in piedi sulla porta, in pigiama.
“No, non ho mai Schiantato nessuno.” ti risponde, dunque, lei, quasi in un sussurro.
“Beh, c’è sempre una prima volta. E, nonostante ciò, ammetto che ha fatto un buon lavoro.”
Lei smette di fissare Lestrange, a questo punto, e ti guarda. Sembra riscuotersi un po’, difatti la prima cosa che fa è abbassare la propria bacchetta e distendere le braccia lungo i fianchi.
“Io…” comincia, ma prima di continuare si schiarisce appena la voce “Chi è quell’uomo?”
Gli getta un’altra veloce occhiata, e poi torna a guardare te, in attesa di una risposta.
“Immagino di non poter rispondere con un semplice ‘sono affari miei’.”
Il tuo è più un pensare ad alta voce.
“Sicuramente no.” conferma lei “Dato che, se fosse andato male qualcosa, ci troveremmo in ben altra situazione.”
“Ma così non è stato.”
Lo sguardo che ti lancia lei è più che eloquente.
Ti ritrovi a sospirare appena, prima di rispondere davvero.
“Quell’uomo è Rodolphus Lestrange, diciamo… ex-marito di Bellatrix Black in Lestrange.”
“Bellatrix Lestrange? Quella… Quella che ha torturato i Paciock…”
Sembra quasi… tramortita, e le tue sopracciglia assumono una piega che esprime una certa perplessità.
“Ne è al corrente?” chiedi.
“Il coniugi Paciock si trovano al suo stesso Reparto, al San Mungo.”
Annuisci. Allora sì, è comprensibile il suo orrore, dato che, a quanto pare, conosce le vittime almeno di vista. Se non di più. Non indaghi, comunque: non sono i Paciock il fulcro del discorso.
“Che cosa voleva?” chiede, infatti.
La replica, seppur brutale, è comunque semplicissima e pressoché ovvia.
“Uccidermi. Per vendetta, naturalmente.”
Stavolta, come invece ti saresti aspettato, la sua espressione non cambia molto; eppure, anche non cambiando, assume una sfumatura più seria e pensierosa, di chi sta lavorando mentalmente. Non si è messa a sbraitare, e, se per caso era vicina al cadere nel panico – come, in effetti, ti era sembrata – quel momento pare semplicemente passato.
“E’… comprensibile.”
Non aggiunge nient’altro, bensì va verso la finestra, a questo punto, ad ‘esaminare’ un po’ meglio lo svenuto Rodolphus.
“Dobbiamo chiamare degli Auror.” dice, poi.
“Che ore sono?”
Si volta verso di te leggermente perplessa.
“Io… Non so, quando ho sentito delle voci non sono stata molto a guardare l’ora. Le tre o le quattro, credo.”
“Poveri Auror.”
Anche lei fa un lieve sorrisetto. Dopodiché, in ogni caso, con un leggero movimento della bacchetta avvolge l’intero corpo a terra in delle serpentine di sottili corde magiche, e tu ti sposti appena, rimanendo sopra il letto, per guardare meglio la scena. Vedi così che gli ha anche messo un bavaglio alla bocca, sebbene sia già innocuo così. A questo punto, comunque, con un altro movimento Lestrange viene sollevato in aria, e lei, nonostante tutto, fa anche attenzione che non sbatta da nessuna parte.
“Quanta premura.” mormori a mezza bocca, ma lei ti sente comunque.
“Non vorrei si rovinasse qualche mobile.”
Incurvi un angolo delle labbra all’insù.
O’Dampand lascia la stanza, e tu indossi la vestaglia che tieni sempre posata sulla poltrona accanto al letto. Non passa molto tempo, allora, che lei torna da te, e, di nuovo, non ne trascorre molto altro prima che entrambi vi ritroviate in salotto, a guardare silenziosi Rodolphus Lestrange legato con altre corde ad una sedia – momentaneamente presa dalla cucina – con la testa a ciondoloni sul petto.
“Ho già mandato il mio Patronus a chiamare qualcuno.” ti informa.
“Bene.”
Non che ci sia altro da dire. Forse potresti chiedergli che forma ha, il suo Patronus; sarebbe interessante e stimolante discuterne, ma di sicuro non è questo il momento. E neanche pensi ci sarà un vero momento per parlarne, dato che ti viene alla mente, subito dopo, che lei allora ti chiederebbe quale è il tuo, di Patronus, perché, per come, e in base a che cosa. E sinceramente…
Ogni cosa porta sempre a lei, te ne rendi conto sempre più spesso. Quando eri occupato in altre faccende, ad Hogwarts, o in qualsiasi altro luogo, quella parte di te, ogni tanto, si fermava; rimaneva in sospeso, concentrato com’eri su altro.
Ora no, e la cosa ti allieta e ti stanca allo stesso tempo.
Scuoti impercettibilmente la testa, concentrandoti sul ben più urgente quasi omicida. O meglio, sul tuo quasi omicida.
“Entro quanto saranno qui?” Chiedi.
“Immagino presto. D’altronde è un ricerc--”
O’Dampand non riesce neanche a finire la frase che bussano alla porta con un vigore anche un po’ esagerato, e lei, ovviamente, fa uno scatto per andare ad aprire.
“Aspetti.” la fermi, però, e lei si volta verso di te con la mano allungata verso il pomello della porta, che però ancora non sta effettivamente toccando “Vado di là.”
Senza attendere una risposta che non serve, allora, ti sposti all’inizio della rampa – o delle scale – chiudendo poi la porta-libreria; lasci solo che vi sia una piccola fessura che ti permetta di guardare all’interno della stanza. Da lì, con la coda dell’occhio, vedi anche che Lestrange si sta svegliando.
E mentre O’Dampand sta, ormai, concretamente per aprire la porta, il caro ospite pare essere rinvenuto completamente, dato il modo in cui tiene lo sguardo puntato sulla scena.
Gli Auror, che identifichi una volta che entrano nel tuo ridotto campo visivo, sono due. Non li hai mai visti, sino a quel momento, ergo, tempo prima, non avevano preso parte alle protezione di Hogwarts, quando eri diventato professore di Difesa contro le Arti Oscure. Sono entrambi uomini, entrambi abbastanza presentabili, sebbene si noti, però, una certa trascuratezza nella loro figura, nel complesso. O meglio… sembra che si siano vestiti velocemente, e che, comunque, siano stati affaccendati parecchio fino al momento della loro chiamata; un indizio che confermi questa tesi è la giacca di uno dei due leggermente spiegazzata e i capelli dell’altro appena arruffati.
Ma di sicuro queste sono solo sottigliezze.
Ciò che importa è che Lestrange ha capito benissimo chi sono i due uomini – uno biondo e con i capelli medio-lunghi, l’altro castano scuro e con i lineamenti decisamente squadrati, che di sicuro non gli donano nessun tipo di grazia (da che pulpito) – eppure non pare opporre alcuna resistenza: non si dimena. Non cerca di slegarsi, non prova neanche ad aiutarsi con la lingua e con i denti a togliersi il bavaglio, non per pronunciare parole di autodifesa, nel caso, anche perché sarebbero puramente vane, ma piuttosto per inveire contro i nuovi arrivati. O quanto meno potrebbe tentare di scappare, o almeno provare a tentare.
Niente di tutto ciò, invece: rimane seduto lì, con le mani dietro lo schienale della sua sedia, dapprima con lo sguardo fisso sugli Auror che chiedono spiegazioni ad O’Dampand su quanto sia successo, pretendendo che lei, comunque, racconti loro tutti i dettagli. Come è anche giusto che sia, dopotutto. E poi, semplicemente, lo vedi abbassare lo sguardo sui propri pantaloni sporchi e leggermente sbiaditi all’altezza delle ginocchia. E prima che lui abbassasse definitivamente il viso e che celasse gli occhi alla tua vista, qualcosa hai scorto proprio in essi: rassegnazione.
D’altronde, starà pensando, perché combattere? Non ha più la sua bacchetta, è legato, in inferiorità numerica. Come potrebbe prevalere?
Gli Auror, allora, si avvicinano a Lestrange, e gli tolgono il fazzoletto stretto attorno alla bocca. Neanche in quel momento si mette a parlare, semplicemente muove appena le labbra per far riacquistare loro una certa sensibilità, e magari prova anche un po’ di dolore, dato che gli sono state premute contro i denti. Ma, a parte questo, non fa nient’altro. Alza gli occhi, sì, e sebbene stavolta nel suo sguardo noti un non tanto sottile disprezzo, la rassegnazione rimane lo stesso, e le parole – qualunque esse possano essere – non vengono pronunciate.
Per un momento, Rodolphus ti fa quasi pena.
Dopodiché gli Auror lo slegano, ma non per questo senza ammanettarlo comunque, e, dopo qualche altra parola, escono da casa tua. Proprio sulla soglia, in realtà, chiedono anche di te, ma O’Dampand risponde che ti sei rimesso a dormire, e che, dato il trauma, è meglio che così tu rimanga, addormentato.
Bugia.
Non sai con certezza cosa sia passato nella testa di quella ragazza per farla rispondere con tanta sicurezza, pur sapendo benissimo di star pronunciando una totale menzogna.
Poi, nel giro di un minuto, la porta si richiude; e tu, subito dopo, spalanchi nuovamente la porta segreta con un calcio della… gamba funzionante.
“Tutto fatto.” è la prima cosa che dice O’Dampand.
“Sì… Ho notato. La visuale era abbastanza buona.” rispondi, e cominci a fissarla in una maniera che probabilmente a lei starà sembrando anche abbastanza intensa.
Anche lei ti guarda, prima di andare a sedersi sul divano, sicura che tu ti muoverai da solo. E così è, infatti.
“E anche questa è andata.” commenta, appoggiando appena la nuca all’indietro, sul cuscino dello schienale.
“Una situazione di cui avrei fatto volentieri a meno, comunque.”
“Potrebbe… riaccadere?”
Non hai neanche bisogno di pensarci più di tanto.
“Potrebbe, sì.”
Impercettibilmente le labbra di O’Dampand assumono una piega che va verso il basso.
“Bisognerà che chiediamo protezione.” dice.
“Degli Auror?” fai, invece tu, con una smorfia “O magari delle semplici guardie del corpo? Sinceramente, no, grazie.
“Ma ce n’è bisogno! Non può negarlo.”
“Potrebbe mettere una protezione direttamente sulla casa.”
La cosa pare interessarla un tantino di più del semplice ‘no’.
“Dovremo uscire molto poco, in caso.”
“Io non esco mai.”
Lei sospira e non dice più niente. Oh, non credi che comunque la questione sia finita lì; te lo senti proprio nelle viscere. Ma al momento… è il silenzio, ancora, che prevale.
“Mi inventerò qualcosa.” dice, dopo un po’.
Quindi, invece, la questione pare chiusa, e finché, dato che l’ha appena detto, lei non troverà una personalissima soluzione, la situazione rimarrà così come è sempre stata. Con le conseguenze che ciò comporta, ovvio, ma il lato positivo della cosa è che adesso hai qualcosa di diverso a cui pensare, almeno, invece delle solite cose.
“Vuole un caffè?” fa poi lei, alzandosi dal divano “Non credo riuscirei ad andare a dormire di nuovo.”
Come biasimarla.
“Sì… Approvo.”
 
È di nuovo notte.
O’Dampand non ha ancora tirato fuori quel discorso che avete affrontato la mattina, il fatto della protezione e tutto il resto, ma dalla sua espressione pare quasi che se ne sia dimenticata.
Ti sta medicando la ferita al collo, come ogni sera, e quella roba vischiosa brucia, come ogni sera, ma stavolta, invece di tenere lo sguardo puntato sull’intersezione tra il pavimento e il muro dall’altro capo della stanza, guardi lei. Vuoi capire che cosa stia mai pensando.
Perché anche in precedenza aveva… fatto finta di non dare più importanza ad una determinata cosa, quando invece era decisamente tutt’altro.
Eppure non credi che al momento riuscirai a dedurre qualcosa: il dolore che senti ti rende meno… studioso della fisionomia altrui, e poi lei è troppo concentrata nel fare il suo lavoro per bene, si legge solo questo sul suo viso. Ha le sopracciglia leggermente aggrottate, magari neanche se ne rende pienamente conto, come non si rende conto che stai continuando a fissarla.
Poi, quando ha finito, alza il viso, e ti nota.
L’unica cosa che fa è un tenue sorriso, prima di togliersi i guanti e prendere la pozione giornaliera.
“Tenga.”
Prendi l’ampolla e mandi giù il suo contenuto tutto d’un fiato, prima di riconsegnargliela vuota.
Lei rimette tutto a posto, ti dà la buonanotte, anche tu la saluti, e poi va via, accostando appena la porta.
Solo che poi, invece, la riapre.
“E se viene qualcuno? Come stanotte.” dice, andando dritta al punto, come è giusto che sia.
Già. E se venisse qualcuno?
“Mi dovrò arrangiare. E magari parlerò un po’ più forte per farmi sentire da lei.”
O’Dampand si avvicina, però, e tutto quello che fa è tirare fuori la sua bacchetta. All’inizio ti chiedi che incantesimo voglia mai utilizzare, ma poi, invece, la posa semplicemente sul letto, accanto alla tua mano sinistra.
“Non ci penso proprio.” è quello che dici.
“Di sicuro quel qualcuno verrebbe da lei, non da me. Almeno può difendersi.”
“Non la sentirei mia, è inutilizzabile.”
“Oh, non è vero, e lei lo sa, signor Piton. Non sarà la sua, la sua fedeltà non è per lei, certo, ma può almeno farci qualcosa, piuttosto che usarla semplicemente come un bastoncino da tirare in un occhio.”
Sbuffi, ma ammetti che la cosa ha un senso. Non lo ammetti ad alta voce, certo.
Lei prende il tuo sbuffare come una sorta di rassegnazione, probabilmente, perché, a quel punto, torna nuovamente alla porta. Ti dà nuovamente la buonanotte, ma tu stavolta rispondi con un lieve mugugno, e la porta si richiude.
 
È sempre notte.
E anche stavolta ti svegli senza alcun apparente motivo. Cos’è stato? Hai sentito un fruscio? Un movimento? Ormai tendi a svegliarti al minimo rumore…
C’è qualcuno nella stanza?
Lentamente giri la testa, ma non c’è nessuno, nella tua camera.
E allora? Non hai fatto un incubo, non hai dolore da nessuna parte, perché ti sei svegliato?
Istintivamente stringi la bacchetta di O’Dampand, giusto per un paio di secondi, e poi la lasci nuovamente andare sopra la coperta.
Non capisci. Ma magari ti sei semplicemente svegliato e basta, d’altronde può anche essere che il tuo sistema nervoso si sia un po’ suggestionato, dati i recenti eventi.
Rimani in attesa per più di un minuto, immobile e con le orecchie ben tese.
Niente. Per cui puoi anche rimetterti a dormire, a quanto pare.
Ti sposti leggermente, assumendo una posizione un po’ più comoda, ed è proprio in quel momento che capisci perché ti sei svegliato: è perché hai compiuto un gesto che il tuo corpo non era abituato a fare da diverse settimane, e magari… magari l’hai fatto anche durante la notte, ed è stata una cosa talmente improvvisa che neanche le tue membra riuscivano a crederci, tanto che hanno subito deciso di destarsi.
Hai mosso la caviglia del piede destro; da bloccata che era prima, ora riesci a muoverla perfettamente.











Angolo Autrice:

ZAN ZAN ZAAAAAAN!

L'avevo detto che sarebbe successo qualcosa xD

Scusate il capitolo un pochino più corto del solito, ma ho preferito narrare gli eventi più essenziali, piuttosto che "allungare il brodo".

E' la prima volta che faccio comparire Rodolphus Lestrange in una storia. Beh, non che su di lui si sappia ganché, però spero che, riferendoci all'immaginario collettivo, l'abbia reso in maniera quantomeno plausibile.

Non ho molto altro da dire, perciò lascio a voi tutte le deduzioni e gli interrogativi (sempre che ce ne siano), e... beh, ci si becca al prossimo capitolo! Spero di aggiornare in tempi decenti, dato che i capitoli già pronti sono quasi finiti, e ultimamente non trovo molto tempo per scrivere. In ogni caso, anche se magari in tempi più lunghi del previsto, questa storia verrà conclusa sicuramente, non preoccupatevi (sempre che vi stiate preoccupando xD).

Uh, e siamo arrivati a metà storia, gente! :D

Detto ciò, un abbraccio a tutti quanti, e, come al solito, fatemi sapere che ne pensate!

Alla prossima,
Iurin

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Capitolo 13
*** Capitolo Dodici ***


Capitolo Dodici
 
 
Quella mattina è stata di sicuro una delle più movimentate, da quando sei tornato a Spinner’s End. Certo, è stata movimentata anche la mattina precedente, dopo che era stato portato via Rodolphus Lestrange dagli Auror, ma era un ‘movimentato’ diverso.
Quando ti sei svegliato, durante la notte, e ti sei reso conto ti poter roteare in tutta tranquillità il piede destro, quasi non hai respirato per trenta secondi consecutivamente. Non ti sei alzato dal letto, certo, non c’era un motivo preciso per farlo, così sei rimasto lì, e dopo qualche minuto hai pensato che fosse meglio riaddormentarsi e rimandare tutto quanto alla mattina seguente.
Non sei riuscito comunque a riprendere sonno.
Hai passato tutto il tempo a muovere quella nuova parte del tuo corpo, come se non ti sembrasse vero, come se temessi che si potesse trattare tutto quanto di uno scherzo. Come se fosse possibile.
Una nuova parte di te si è svegliata.
Sul momento non hai saputo cosa pensare; quando si era ridestata la parte sinistra di te, ti è sembrata quasi una cosa di dubbio gusto: il tuo stesso corpo ti dava una speranza, ma allo stesso tempo ti lasciava inerme, pronto sin da subito a logorarti mentalmente e a pensare che, magari, in realtà non sarebbe successo nient’altro, che sarebbe stato così per tutta la vita. E non era che una vita, in quelle condizioni, tu la volessi realmente. Il che, poi, ha portato a tutti gli altri eventi.
Adesso sta succedendo la stessa identica cosa, eppure… Oh, sei estremamente tentato di pensare le stesse identiche cose che hai pensato quel giorno al San Mungo: muovere una caviglia – in realtà neanche tutto il piede, ma solo quella particolare giuntura – non è, dopotutto, un granché. Volendoci pensare a mente distaccata, ovviamente. Muovere la caviglia non ti avrebbe comunque portato praticamente a niente di diverso, non sei affatto autonomo, ora; e magari, in futuro, non si sarebbe più svegliata nessun altro arto.
La stessa cosa, però, l’avevi – appunto – pensata al San Mungo. Ti avevano detto che l’unica cosa che bisognava fare era avere pazienza, speranza, e costanza. Tu non avevi creduto a nessuna delle tre, eppure… non era tutto rimasto fermo, invece. Forse, stavolta, ci sarà veramente un miglioramento. Forse non è vero che nessun’altra parte del tuo corpo rimarrà dormiente.
Hai il cinquanta per cento della possibilità.
Sì, la nuova pozione, il cui odore ti ricorda sempre il caffè, pare aver funzionato, e solo Merlino sa se al momento non abbia innescato una qualche miracolosa e mirabolante reazione a catena.
Ma se invece il suo effetto si è già esaurito?
No, non puoi saperlo. E per quella mattina sei costretto a reprimere ogni istinto che ti rende anche solamente un minimo… euforico. Il tuo sentimento di euforia, ovviamente.
Senti il battito del cuore salirti quasi in gola, a volte, e ti ritrovi anche con le labbra incurvate all’insù, senza farlo apposta; al che respiri lentamente per regolarizzare il ritmo cardiaco e riporti la linea della labbra piatta come suo solito, eppure…
Eppure, c’è sempre l’‘eppure’.
Quando ti sei alzato dal letto non hai detto niente, ad O’Dampand.
L’hai vista con delle leggere occhiaie che comunque aveva cercato di coprire, e quando lei ti ha dato il buon giorno tu, di tutta risposta, le hai chiesto se avesse dormito.
“Sì, ho dormito.” ha detto “Ma un po’ male. Neanche lei ha dormito molto, però, noto.”
Beh, evidentemente anche tu, in effetti, ti sei alzato con delle belle occhiaie sotto agli occhi; anche se, con molta probabilità, O’Dampand non ha dormito pensando che sarebbe potuto entrare un Mangiamorte da un momento all’altro, mentre tu perché non sei semplicemente riuscito a riprendere sonno. Due motivi ugualmente validi, in ogni caso.
E adesso sei in bagno, e ti guardi allo specchio.
E solo adesso, per la prima volta da quando Potter ti ha portato al San Mungo, sembra importarti qualcosa del tuo aspetto. Non che tu voglia, debba, o abbia necessita di diventare bello, per carità, quello non ti è mai interessato e neanche ora ti attira, come cosa. Il punto, però, è che un minimo – per i tuoi standard – di decenza l’hai sempre avuta, mentre adesso…
“Adesso fai solo pena.” dici al tuo stesso riflesso.
Hai capelli che ti arrivano quasi sotto le spalle, ormai, per non parlare della barba, piuttosto lunga, ma non curata, quindi ispida e incolta.
Sì, fai pena, non c’è che dire.
Ti fai un bagno, in ogni caso, e, una volta di nuovo seduto, ti riposizioni di fronte allo specchio, e quindi al lavandino.
E decidi di darci un taglio in tutti i sensi: con delle banali forbici ti accorci i capelli alla solita lunghezza – non ti azzardi a fare qualcosa di più elaborato – e poi ti tagli anche alla barba. La spunti, sempre con le forbici, e poi finisci l’opera grazie al rasoio. Il problema è che hai dovuto fare tutto con la mano sinistra, il che, quindi, ti ha portato via decisamente più tempo di quanto ci mettevi di solito, dato che tagliarti sulle guance era l’ultima cosa che volevi fare; e in più dovevi stare attento a non spostare le fasciature sul collo e a non inzupparle; insomma, a non fare niente che andasse a toccare, in qualche modo, la ferita. Sei stato parecchio tempo, in bagno, tanto che, ad un certo punto, O’Dampand ha persino bussato alla porta.
“Tutto bene, signor Piton?”
Aspetti di aver finito di ripulire il rasoio sotto il getto d’acqua del rubinetto, prima di rispondere.
“Magnificamente.”
Sul momento non ti sei reso conto se hai parlato in tono ironico o no, ma, per forza di cose, supponi di sì.
Una volta finito di raderti, metti un po’ di crema sulla parte inferiore del viso, e, successivamente, del disinfettante, e a questo punto ti fermi di nuovo a guardarti: sei comunque più magro di quando eri professore ad Hogwarts, ma non così tanto come prima, mentre per quanto riguarda il resto… Adesso sembri davvero tu, senza ombra di dubbio.
Ne rimani abbastanza soddisfatto, anche.
Pulisci il lavandino dei residui di capelli e di barba, e poi esci dal bagno, aprendo la porta lentamente.
Chissà O’Dampand che faccia avrebbe fatto. Non che tu ti sia trasformato totalmente, d’altronde anche sotto tutta la barba la tua fisionomia si intuisce benissimo, però… Sei quasi curioso di vedere la sua reazione.
E quando lei ti vede, effettivamente, rimane un attimo ferma senza dire niente.
“Si è fatto la barba.” è, però, tutto quello che dice poi.
Fai una lievissima, impercettibile smorfia. Ti aspettavi qualcosa di più.
“Grazie, non me ne sarei mai accorto, altrimenti.” rispondi, allora, forse in maniera anche un po’ più acida di quanto tu avessi voluto fare in realtà.
Solo che lei, alla tua uscita, fa una lieve risata, mentre si avvicina di più a te e chiude la porta del bagno.
“Mi scusi.” dice, mentre la risata si spegne pian piano “E’ evidente che si è fatto la barba. Solo che non me l’ero aspettata. Così sta molto meglio, ad essere sincera.”
Mmh.
“Dice?”
Ma che cosa ti importa, poi?
Lei annuisce.
“Decisamente. Ha il volto più libero, più pulito. È meglio, no?”
Ora sei tu ad annuire, e a quel punto andate in salotto per la colazione.
Per lei quello sarà sicuramente il giorno delle sorprese, non c’era dubbio, dato che degli effetti della nuova pozione ancora non sa nulla.
Ma non ti pare molto corretto tenere una simile notizia nascosta più a lungo di così, per cui, una volta in cucina, ti schiarisci brevemente la voce – per quanto puoi renderla un po’ più limpida – con l’evidente intento di voler cominciare a parlare, e non solo di liberarti la gola da un qualche fastidio; difatti O’Dampand ti lancia un’occhiata interrogativa, mentre continua a preparare, comunque, il caffè.
“Stanotte mi sono accorto di una cosa.” cominci, e lei ti guarda nuovamente, in attesa.
Solo che tu non dici più niente.
“Ovvero?” ti incalza, infatti, lei, a quel punto.
A dire il vero non hai ben pensato a come dirlo. Insomma, una qualsiasi persona emotivamente instabile… o comunque, qualsiasi altra persona che non sia tu, in fin dei conti, avrebbe proclamato la cosa a gran voce, magari anche mettendosi a ridere, alzando la voce di qualche tono tanto da farla addirittura diventare più acuta.
Ad immaginarti così quasi ti viene la nausea.
Se poi consideri che tu non vuoi neanche sbilanciarti troppo, che non vuoi effettivamente dare troppo spazio alla speranza, per non rimanere infinitamente ed irrimediabilmente deluso in seguito… La faccenda è diversa. Un barlume di speranza ce l’hai comunque, è inutile negarlo, per quanto la cosa sia contrastante, ma di sicuro non raggiungerai mai i sopracitati livelli di isteria estrema.
Nel frattempo ti schiarisci nuovamente la voce, tanto per far passare il tempo. Ecco, ora che dovrebbe passare, invece non passa più.
Infame.
“Ecco, vede…” riprendi poi, finalmente, tornando a guardare O’Dampand, che ormai si è fermata e continua a fissarti “Stanotte mi sono svegliato all’improvviso, e sul momento non sapevo dire il perché, solo che poi mi sono accorto di… beh, riesco a fare così.”
Sembra la dichiarazione di un bambino di due anni che ha imparato a compiere una cosa nuova, ma sul momento non ci pensi, per fortuna.
E a quel punto, in ogni caso, rotei proprio il piede destro, muovendo la caviglia, e mantenendo fermo tutto il resto del tuo corpo. Il movimento attira lo sguardo di O’Dampand, che sul momento osserva la scena piuttosto perplessa; espressione, sul suo viso, che dura giusto il tempo di un battito di ciglia, prima che lei capisca davvero che cosa è veramente accaduto.
“Oh, Merlino.” è la prima cosa che dice, poco prima di guardarti nuovamente in viso “Sa che significa questo?”
“Che mi divertirò all’inverosimile nei prossimi giorni?” le rispondi, ironico.
Lei, dal canto suo, fa un piccolo sorriso. Una specie, almeno: incurva soltanto un lato delle labbra all’insù, addirittura come, a volte, lo fai tu stesso. Ma sicuramente è il significato che gli date, ad essere diverso.
“Intanto dobbiamo scrivere al professor Sherman. E subito, stavolta, però.” ci tiene ad aggiungere “Poi non so… Immagino vorranno vederla, date le circostanze.”
“Vedermi? Per me ci vediamo sin troppo spesso.”
“Signor Piton…”
“Sì, lo so, stia tranquilla.” emetti una cosa che è a metà tra un sospiro ed uno sbuffo “Presumo sia inevitabile. Ebbene, mi sottoporrò a queste analisi e mi verrà dato il titolo di ‘rivoluzionario risultato della Medimagia moderna’. Posso anche farlo, signorina O’Dampand, non si preoccupi.”
Di nuovo, anche stavolta, lei fa una piccola risata.
“Non intendevo questo.” Continua a ridere, senza troppa foga – ma sempre e comunque di una risata si tratta, e riprende a parlare solo quando riesce a calmarsi “Se quella pozione ha avuto questi effetti in relativamente così poco tempo, lei potrebbe continuare a migliorare. Questo potrebbe… beh, essere l’inizio del-- ”
“Non lo dica.”
Ti è uscito così, senza neanche pensarci.
“Come, scusi?”
“Non lo dica.” ripeti, e fai una breve pausa di silenzio, mentre cerchi le parole che ti servono; alla fine le trovi “Voglio studiare, vedere cosa succede nel presente. Le supposizioni su quanto ‘potrebbe accadere’ le lascio agli altri. Quindi… Ecco, scriva quella lettera, e finiamola qui.”
“Mmh. Allora possiamo parlarne dopo, quando il professor Sherman ci darà il suo parere. Che ne dice?”
La tua testa fa un lieve, lievissimo scatto indietro, mentre dalle tue labbra esce un piccolo sbuffo. Disapprovazione, forse, al che O’Dampand ti guarda con un sopracciglio alzato, mentre il suo sorriso si attenua visibilmente.
Ora sì che sembra te. Potresti dirglielo, anche se con molta probabilità con questo non gli avresti affatto fatto un complimento.
“Non crede nelle capacità del professor Sherman?” fa lei, allora.
“Vede, il fatto è proprio che…” cominci, ma lei ti interrompe.
“Perché è proprio questo che sembra, dal suo atteggiamento. E non solo ora, ma in generale, ogni volta che vi ho visti insieme, in pratica. Beh, sappia che se c’è un ‘professore’, davanti al suo nome, vuol dire che è perché ha delle qualità in più. Come lei, no? Non è il professor Piton, lei? In più il professor Sherman è il capo del reparto più problematico del San Mungo, quindi questo è un ulteriore punto a suo favore.” fa una pausa per prendere fiato, ma tu non dici nulla – sebbene l’averti interrotto, prima, ti bruci ancora – e ti limiti a fissarla con sguardo piuttosto irritato, forse sempre per l’interruzione “Quindi non vedo il motivo per cui lei debba sminuire quell’uomo in questo modo.”
Rimani ancora a guardarla, completamente immobile per un paio di secondi. Dopodiché poggi il gomito sinistro sul bracciolo sinistro della sedia e vi trasferisci tutto il peso del tuo corpo per poterti sistemare un po’ più indietro sul sedile, già con la bocca aperta per parlare, come se anche tu ti stessi preparando per un gran discorso.
“Io giudico le persone in base a quello che vedo.” rispondi, poi “Se ho una determinata opinione del professor Sherman, un motivo ci sarà.”
Oh, non è vero.
Una vocina, nel tuo cervello, quasi si mette a ridere nell’esatto momento in cui pronunci l’ultima parola della frase.
Tu sei partito per partito preso, lo sai bene, l’hai sempre saputo e non te ne sei mai fatto un problema, perché tu sai di avere ragione, quando tratti qualcuno in un determinato modo. Le persone che non si meritano un giudizio differente da ‘irritante’ o ‘incompetente’ le individui subito, e le tratti di conseguenza sin dal primo momento. Se poi queste persone corrispondono a quasi tutti quelli che hai attorno, tu di sicuro non puoi farci niente.
Albus era un tantino irritante, per esempio, alle volte, ma con lui era diverso, non era come con tutti gli altri.
“Sa cosa?” dice allora O’Dampand, a quel punto “Non ne sono molto sicura.”
“E con ciò?”
“Cosa ha pensato di me non appena mi ha vista? Scommetto che anch’io ero irritante come lo sono adesso.”
Ti sporgi appena in avanti per ribattere, ma poi stai zitto.
Perché dovresti correggerla? Per una volta ha detto proprio ciò che pensi, no? E allora che diavolo ci fai con a schiena quasi protesa in avanti, verso di lei, come se tu dovessi bloccarla anche fisicamente? Anche? Tu non devi bloccarla neanche verbalmente. Per una volta, ha detto bene.
Eppure rispondi comunque in maniera un po’… diplomatica.
“Credo che questi siano prettamente affari miei.”
“Ma riguarderebbero me.”
“O’Dampand, stavamo parlando prima della mia caviglia, poi siamo passati a Sherman, poi a me, e poi a lei. Dobbiamo continuare ancora per molto?”
La frase ti esce dalle labbra quasi tutta assieme.
O’Dampand fa un gesto qualsiasi con la mano, in aria, come a voler scacciare una mosca, un pensiero, o, più probabilmente, il discorso alquanto fuori tema che state portando avanti.
“Va bene,” dice infatti, sorprendentemente “Conviene tornare alle cose serie.”
“Manderà quella lettera, dunque?”
Lei risponde solo dopo un momento.
“Veramente no.”
La guardi girando appena il viso verso sinistra. No? Cosa le ha fatto cambiare idea? Era tutta convinta… D’altronde Sherman è il suo superiore, nonché tuo diretto medimago curante, per cui… Oh, Salazar, stai pensando il contrario di ciò che hai espresso oralmente fino a quel momento; potrebbe starsi preannunciando il Giorno delle Contraddizioni, magari.
Con tuo disappunto.
“Come dice?” chiedi, allora, senza cambiare posizione “Non vuole scrivere a Sherman?”
“No.” fa lei, dirigendosi , però, verso l’attaccapanni, per prendere la propria giacca estiva e la propria borsa. Il caffè rimane preparato soltanto a metà “Conviene andare direttamente al San Mungo. Scrivere una lettera e poi dovermi recare all’ufficio postale magico richiederebbe troppo tempo.”
“O’Dampand, non sono in pericolo di morte.”
“No, è in pericolo di vita.”
Le lanci un’occhiataccia.
“Può mandare un Patronus.” dici, pensando che, in questo modo, potresti anche soddisfare la tua lieve curiosità sull’argomento.
“Sì, in effetti potrei.” conferma lei, ma poi, ancor prima che tu possa concederti un piccolo sorriso di soddisfazione, lei continua la frase “Però immagino che lui voglia vederla praticamente subito.” scuote appena la testa, facendo ondeggiare la bionda coda da cavallo “Quindi ci conviene andare direttamente lì da lui.”
Sbuffi.
In effetti non ha tutti i torti, devi per forza ammetterlo. A mente, ovviamente.
“E sia, allora.”
Lei fa un sorriso conciliante, e, allo stesso tempo, quasi trionfante. Ti ritrovi a pensare che non è che sia così fastidioso come avresti ritenuto; forse perché, più che altro, ti viene in mente che vi è un’altra questione – di ripiego, lo sai – che dovreste affrontare, voi due.
“Non era lei, in ogni caso, che diceva che avremmo avuto bisogno di protezione, dopo gli ultimi accadimenti?”
Chiaro e conciso.
“Beh, sì…”
“Per cui non possiamo di cer--”
“Lei però mi ha risposto di volerne?” ti interrompe.
Tu la guardi male per una frazione di secondo, ma poi preferisci concentrarti prettamente sulla sua domanda.
“No, ho detto di no.”
“E…?”
Inarchi un sopracciglio.
“Che l’unica soluzione sarebbe stata o uscire senza, oppure non uscire affatto.”
“Appunto, e io mi sto soltanto adeguando: usciremo, andremo al San Mungo, e poi potremo dire al professsor Sherman di venire direttamente lui da noi, per le prossime visite.”
“Non mi ascolterà sicuramente, lui.”
“Ma ascolterà me, stia tranquillo.”
“Perché dovrebbe? Ha avuto una relazione anche con lui?”
La vedi alzare gli occhi al cielo, e tu ghigni, leggermente divertito dalla sua ultima reazione.
“No.” risponde, allora, tornando a guardarti “E’ perché sono una brava guaritrice. E vengo anche considerata professionale, per quanto lei possa pensare il contrario.”
No… Non credi di pensare l’opposto. Non sempre, almeno.
“Anch’io sono professionale, O’Dampand. Ero professore. Eppure Sherman si comporta che se fossi chissà quale fantoccio.”
“Oh, non è vero.”
Questo non è di certo opinabile.”
Io non sono di certo cieca. O tonta.”
Ghigni appena. “Lei dice?”
Lei incrocia le braccia al petto, in un gesto di determinazione, immagini.
“Io affermo. E sottoscrivo, anche.”
Tu non smetti di guardarla con la stessa espressione, e, sebbene la piega delle labbra non sia cambiata, stavolta intuisci che non si tratta più del ghigno di prima.
“Il suo nome è Serena, dico bene?”
“A forza di chiamarmi per cognome finirà per dimenticarselo.” risponde lei, e anche lei cambia appena espressione, alla tua domanda “Comunque sì.”
“Beh, allora il suo nome è veramente sbagliato.”
Per un momento tutto ciò che si ode sono alcuni ticchettii delle lancette della pendola.
“Come, scusi?”
“Lei. non rispecchia affatto il suo nome.”
A questo punto O’Dampand emette una delle sue brevi risate. “Oh, ma sì, invece.”
“No, invece.” ribatti tu “Lei è cocciuta, e risponde, e controbatte, e vuole sempre avere ragione. Non è serena per niente.”
Un’altra sua risata, un po’ più limpida della precedente, sebbene altrettanto breve.
“E la cosa non le va bene?”
“In realtà è piuttosto snervante.”
“Lo sa che è così anche lei, sì?”
Touché.
“I suoi genitori dovevano chiamarla Callida.”
Di nuovo il sorrisetto soddisfatto appare sulle sue labbra, ma, per via della quasi surreale conversazione, non ti dà neanche fastidio.
“In ogni caso,” precisa, poi, lei “Ci conviene andare, o non arriveremo più.”
“Ha recuperato la sua bacchetta?”
“Certamente.”
E, dopo quest’ultima parola, uscite davvero di casa.
La prima cosa che noti è che anche Londra, quel giorno, sembra aver deciso di risvegliarsi: nel cielo scorgi solo qualche sporadica nuvola bianca, mentre, per il resto, è il Sole, a dominare, tanto che per un attimo hai dovuto persino socchiudere gli occhi per non rimanerne accecato.
Il breve viaggio inizia, si sviluppa e si conclude proprio come tutti gli altri, nel giro di qualche minuto, grazie alla Smaterializzazione. Stessa cosa per quanto concerne raggiungere l’ascensore e, consecutivamente, il quarto piano del San Mungo. Sherman non è difficile, da trovare, e addirittura, quel giorno, c’è anche quel timido tirocinante – o quel che è – che ultimamente era proprio sparito del tutto. Witherington viene recuperato da chissà dove circa una decina di minuti più tardi.
Stavolta, in ogni caso, Sherman conduce te e O’Dampand direttamente nel suo ufficio, situato in una parte più tranquilla e isolata di quel piano. Non hai ancora avuto occasione di… visitarlo, così, non appena siete tutti dentro la stanza, ti guardi velocemente attorno: le pareti sono bianche, come tutto il resto dell’edificio, d’altronde, solo che non sono affatto spoglie: vedi cornici appese qua e là, con, al loro interno, attestati di varia natura, tutti intestati ad Amadeus Sherman; una parete contiene una libreria di colore grigiastro che arriva sino al soffitto, e ovviamente vi sono stati sistemati libri di Medimagia; anzi, trovi anche alcune copertine con su scritte cose come ‘Psichiatria’ o ‘Malattie mentali’, et similia. Roba babbana, lo sai, ma, in effetti, non è che sia totalmente inutile, in quello specifico reparto del San Mungo. Proprio di fronte alla libreria Sherman ha posizionato la sua scrivania, di un bel legno scuro, elegante – devi ammetterlo – che, però, sembra quasi in contrasto con tutto il resto dell’arrendamento.
Ultimo oggetto che arreda le pareti, un altro quadro, di medie dimensioni, un dipinto – probabilmente una copia di un dipinto, più che altro – che rappresenta il dio Giano, il famoso busto d’uomo con due facce, uguali, una esattamente all’opposto dell’altra, unite tra di loro dalla stessa nuca. Quel dio potrebbe avere svariati significati, ma immagini che Sherman – o chi per lui –  abbia scelto proprio quel dipinto per ricordare, invece, Janus Thickey, colui che dà il nome al Reparto.
Janus, Iano, Giano. Che percorso mentale poco lineare, per decidere semplicemente come abbellire una stanza bianca.
Come se poi quel Janus Thickey debba essere emulato. Anzi, già ‘ricordato’ ti sembra un’esagerazione. Ti chiedi perfino perché caspita gli abbiano intitolato un reparto, dato che per la Medimagia non ti pare abbia fatto granché.
O per il mondo e qualsiasi altro essere vivente o meno.
Probabilmente sua moglie ci aveva guadagnato, a levarselo di torno.
In ogni caso, comunque, ponderazioni sulla scarsa scelta dei nomi da parte dei responsabili del San Mungo a parte, ciò che preme di più è concentrarti su quello che ti sta avvenendo intorno: ovviamente Sherman, che nel frattempo si è seduto dietro la scrivania, e Witherington, che è rimasto in piedi accanto al proprio superiore, stanno aspettando che tu dica ciò per cui ti sei… avventurato fin lì.
O ciò per cui O’Dampand ti ha costretto ad uscire di casa.
Ah, il tirocinante si è dileguato, invece. Bruce. O come si chiama. Strano.
In ogni caso, allora, dato che, francamente, la situazione è risolvibile in giusto un paio di minuti – da parte tua, almeno – esponi i fatti nella loro semplice realtà.
La reazione di Sherman è fin troppo simile a quando avevi cominciato a muovere la mano sinistra. Beh, comprensibile, d’altronde l’effetto è stato praticamente lo stesso, sebbene ne sia stata oggetto un’altra parte del tuo corpo, e non la mano.
Così, sempre in parole povere, dopo che Sherman è praticamente balzato in piedi e ha cominciato a camminare in tondo per il suo ufficio, dopo che persino Witherington si è staccato dal muro contro il quale si era mollemente appoggiato, dopo che quei due hanno praticamente voluto vedere più volte la tua caviglia destra lì per lì, e dopo che O’Dampand, in tutto ciò, è comunque rimasta in disparte…
Alla fine l’incontro ha un suo termine, per fortuna. Non che, poi, porti a chissà quali grandi modifiche nel tuo… piano di assunzione di medicinali magici – che, in effetti, non cambia di una virgola.
Nonostante ciò, però, tu e O’Dampand uscite dal San Mungo non molto presto, e, quando ciò avviene, avverti un fastidioso cerchio alla testa, tanto che l’aria aperta è quasi un sollievo e una liberazione, per te.
Sensazione che hai provato poche volte nella vita, c’è da aggiungere.
“E’ stato tanto brutto?” è la prima cosa che dice O’Dampand, quando vi siete allontanati dal San Mungo un po’ di più.
“Terrificante.” rispondi.
C’è un altro momento di silenzio, tra di voi, mentre percorrete la strada per raggiungere il vicolo buio nel quale vi smaterializzerete congiuntamente. C’è ancora il Sole, ovviamente – non siete stati nell’ufficio di Sherman troppo a lungo, dopotutto – ed esso sbatte proprio contro di voi, procurandoti – per quanto ti riguarda, almeno – dapprima un quasi addirittura piacevole tepore sul viso, specie ora che sei senza barba, e sulle mani; poi diventa tutto più caldo, fin troppo caldo, ma quando raggiungete l’ombra del vicolo ti accorgi di preferire quel caldo rispetto al freddo prodotto dai muri che si innalzano alla tua destra e alla tua sinistra.
E forse O’Dampand sta pensando la stessa cosa, considerando quanto ti avrebbe detto di lì ad un secondo dopo.
“Sa, signor Piton, mi verrebbe quasi da farle una domanda.”
Sul momento rispondi senza guardarla.
“Di solito non fa tutti questi preamboli.” che non sono comunque molti, ma fatto sta che ti sembra insolito ugualmente “Non so se preoccuparmi per quanto potrebbe chiedermi o se considerarlo una piccola evoluzione del suo personale discernimento.”
“Prima non mi sembrava di cattivo umore, anzi, era quasi meglio del solito. Vuole compensare adesso con altre rispostacce di questo tipo? Almeno mi preparo.”
Sbuffi e sospiri un po’ allo stesso tempo.
“Avanti, mi dica, O’Dampand, cosa c’è?”
E posi le mani – più o meno – in grembo, in attesa di questa fatidica domanda.
“E’ una bella giornata,” comincia, dunque, lei “e, come avrà giustamente notato anche lei, nel venire al San Mungo non siamo stata attaccati da nessun malvivente particolare. Di questo devo dargliene atto. E ho anche pensato che quasi sicuramente anche questi… malviventi--”
“Mangiamorte.” la correggi.
“Mangiamorte. Beh, loro penseranno che invece una scorta ce l’abbiamo, e che operi nascosta agli occhi dei più, e quindi eviteranno di attaccarci proprio per questo motivo. Che dice?”
“Sì, ho capito, O’Dampand, cosa vuole lasciare intendere: niente aggressioni. E con ciò?”
“Beh, è una bella giornata.” ripete, al che presumi che una qualche rilevanza questo dato debba pur avercela “Quindi potremmo andare da qualche parte, prima di tornare a casa.”
Ancora?
Strano che non abbia capito prima dove lei sarebbe andata a parare.
Ma tu rimani comunque in silenzio per un po’, come se quella proposta ti abbia veramente preso alla sprovvista, come se ci stessi veramente riflettendo.
Il fatto è che, però, stando in silenzio anche soltanto per un mero senso di sadico diletto, è inevitabile che tu finisca davvero per rifletterci su.
Giusto un po’.
E le parole successive ti escono combinate in quella particolare maniera forse solo perché, secondo te, quel po’ di Sole di poco prima deve averti causato un principio di insolazione.
“E va bene, vada per questa… cosa.” dici, infatti. Con voce greve, sì, ma lo dici comunque “Basta che sia veloce, indolore, e almeno un minimo sopportabile.”
Solo adesso guardi O’Dampand in viso, rimasta in piedi, accanto a te, per tutto il tempo. Ha un’espressione incredula; e non fai in tempo ad aggiungere altro, o a fare anche solamente un semplice movimento con la testa, o con la mano, che lei tira fuori la propria bacchetta.
Evidentemente vi state comunque per smaterializzare.
“Oh, finalmente, signor Piton, non ci speravo più!”
È palese che voglia agire il più in fretta possibile – evitando almeno di apparire goffa ed imbranata, per fortuna – prima che tu possa cambiare improvvisamente idea.
Ma no. Invece non aggiungi proprio alcunché.
Così, senza attendere oltre, sparite.









Angolo Autrice:

Salve a tutti! :D
Capitolo leggermente corto come è stato quello scorso, ma, nonostante questo, spero che vi sia piaciuto.
Ho solo una precisazione da fare, in tutto ciò:

"“Il suo nome è Serena, dico bene?”
“A forza di chiamarmi per cognome finirà per dimenticarselo.” risponde lei, e anche lei cambia appena espressione, alla tua domanda “Comunque sì.”
“Beh, allora il suo nome è veramente sbagliato.”"

Allora, ci ho pensato molto a se inserire o meno questo piccolo scambio di battute. Il fatto è questo: i personaggi, come ben sappiamo, sono tutti Inglesi. Perché, allora, Piton dovrebbe far caso al significato di un nome che è palesemente italiano (o comunque di derivazione latina)? A proposito, perdonate la scelta del nome straniero, ma c'è sempre la "questione del nome" che mi ha un po' obbligata ad usarlo. Comunque! Proprio per il fatto della lingua non sapevo se inserire o no questo passaggio, però poi ho visto che "sereno" in Inglese si può anche dire "serene", per cui un'assonanza c'è comunque... e Wikipedia mi dice che è un nome che in Inghilterra viene comunque piuttosto utilizzato... Ma poi tutti gli Inglesi sapranno cosa vuol dire? Insomma, alla fine ho deciso di pubblicare il tutto in questa maniera. Accetto commenti in merito, magari ho fatto una cavolata e neanche lo so! :)

A proposito, poco più giù Piton dice:
"“I suoi genitori dovevano chiamarla Callida.”"
Callida non è propriamente un nome, ma un aggettivo (un po' come Serena, dopotutto), e vuol dire "astuta, scaltra", per chi non ne fosse a conoscenza. Un po' vecchiotto, come termine, ma mi piaceva :) Anche qui c'è sempre la questione inglese/italiano di cui sopra.

A parte tutto ciò, non ho nient'altro da dire... Fatemi sapere che ne pensate del capitolo (mi farebbe molto piacere) e... Beh, ci becchiamo alla prossima!
Un saluto a tutti,
Iurin

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Capitolo 14
*** Capitolo Tredici ***


Capitolo Tredici
 
 

Ti ricordi di quando, poco tempo prima, avevi pensato che casa tua avesse corso il rischio  di diventare un ufficio postale, ma che poi, fortunatamente, le tue quattro mura avevano scampato il pericolo.
E invece no.
Nei giorni seguenti alla visita al San Mungo, sia tu che O’Dampand vi siete soffermati su quanto era stato detto di sfuggita da uno di voi due. Non ti ricordi neanche esattamente chi sia stato. L’importante era che, ad un certo punto, fosse venuta fuori l’idea che sarebbe stato meglio che fosse Sherman a venire da te, ogni due settimane, piuttosto che tu da lui. Sempre per i motivi di sicurezza, ovviamente. Il viaggio al San Mungo era andato bene una volta, la cosa si sarebbe replicata di nuovo?
Oh… Probabilmente sì. Ma perché ammetterlo e toglierti la possibilità di godere di una tale comodità?
In effetti nessuno ti ha più disturbato, persino quando sei praticamente andato a passeggio con O’Dampand. Non l’avresti considerato possibile, qualche tempo prima.
Certo, sul momento ti sei ritrovato a pentirti di averle detto di sì il momento dopo che vi siete smaterializzati, ma poi… alla fine non è stata un’esperienza eccessivamente traumatica. Certo, anche perché ne hai di sicuro passate di peggiori. Ti ha portato fuori a pranzo. Tu hai preso la cosa così com’era, considerandola anche un tantino ironica, dati tutti i trascorsi che ci sono stati tra te e lei.
E, per tutta la durata del pranzo, non hai visto da nessuna parte alcuna persona molesta che vi fissasse in qualche modo anche solo minimamente sospetto.
Quando l’ennesimo gufo ticchetta sul vetro della finestra che dà sul vicolo, alzi la testa leggermente contrariato. Sei seduto in poltrona, e stai cercando di leggere, in mezzo a quel trambusto, tra tutti i gufi che arrivano e che se ne vanno. Poggi il libro sulle ginocchia, tenendolo fermo con l’unica mano che puoi usare, e alzi lo sguardo, puntandolo su O’Dampand, che cammina avanti e indietro per il salotto per andare a prendere piuma e calamaio.
“Quale sarebbe il problema?” dici, con tono leggermente esasperato, anche se non volevi davvero usarlo. Forse.
Lei si ferma, a quel punto, e ti guarda.
“Come?” dice, come se non capisse.
“Questo è il terzo viaggio che fa quel gufo. Prima che si sfianchi totalmente, posso sapere che cosa non riuscite a dirvi, lei e Sherman?”
“Oh, beh…” fa lei “Ci stiamo solo accordando. Stiamo anche considerando il fatto che potrebbe tornare definitivamente al San Mungo, prima della sua guarigione completa.”
Questo non te l’eri aspettato, quando hai posto la domanda.
E non credi di esserne tanto contento, stranamente.
“Cosa?” chiedi, infatti, alzando leggermente il tono di voce, senza neanche rendertene conto “Prima mi avete sbattuto fuori dal San Mungo, e ora pensate di rimettermi nella mia vecchia stanza? Che è successo, è morto uno dei suoi occupanti?”
O’Dampand ti guarda sbattendo le palpebre un paio di volte, con sguardo attonito e le labbra leggermente dischiuse. Poi si schiarisce la voce e si avvicina a te un po’ di più, fermandosi, sempre e comunque in piedi, proprio di fronte a te. In questo modo sei costretto ad alzare la testa, per guardarla.
“Ma che sta dicendo?” comincia “A parte che io non c’entro nulla nella decisione di trasferirla qui, quindi non vedo perché debba incolpare me di qualcosa, io sto solo seguendo le disposizioni che mi vengono date. Solo questo.”
“Ah, solo questo?”
“Sì, esatto, perché deve prenderla sul personale? Crede che a me cambi qualcosa? È esattamente come quando mi hanno affidato l’incarico di venire qui da lei, niente di più. Lo sto facendo e basta.”
Non sai esattamente perché, ma la sua ultima frase ti fa infuriare.
“Sì, invece.” rispondi, sibilando ed assottigliando lo sguardo “E’ ovvio che a lei cambi, e non solo qualcosa, ma molto di più. Se torno al San Mungo lei potrà liberarsi di questo peso mezzo morto che sono e tornarsene alla vita che ha lasciato. Crede che non lo sappia? Per cui la smetta di dire che si preoccupa per me, visto che quanto ha appena detto la smentisce. Lei non vede l’ora che possa scaricarmi in ospedale.”
La vedi alzare gli occhi al cielo, per una frazione di secondo.
“Per cortesia…” commenta lei, allora “Lo so che lei non è un pacco postale, signor Piton. Nessuno vuole scaricarla da nessuna parte.”
Tu, di tutta risposta, torni al tuo libro, che, sul momento, stava persino lentamente scivolando dalla tua presa; fortuna, almeno, che ciò non era successo. Ricominci a leggere, quindi, abbassando il capo, e non ti curi più di O’Dampand e del suo blaterare. Tanto finireste comunque per cercare di avere ragione entrambi per ore, in caso contrario, e farti saltare ulteriormente i nervi non è un’attività che brami in maniera particolare, al momento.
Sì, perché hai veramente i nervi a fior di pelle. Volendo, potresti prendere quel dannato libro e lanciarlo contro il muro da un momento all’altro, addirittura.
La cosa curiosa ma, allo stesso tempo, irritante e priva di senso è che non sai neanche perché vorresti farlo.
Sicuramente è per via del fatto che ogni venti minuti c’è un gufo che arriva e che poi se ne va, distraendoti la lettura, per non parlare del fatto che si sta parlando di un tuo ipotetico ri-trasferimento. Deve essere per forza per quello, anche perché, in caso contrario, non trovi altre motivazioni altrettanto efficaci. Che poi, dato il tuo momentaneo e alquanto imprevisto stato d’animo, questa lettura neanche riesci a portarla avanti per un tempo che sia decentemente lungo, e il fatto che tu debba tenere il collo piegato – con consecutivo indolenzimento – ti dà ancora più fastidio.
E così, a quel punto, chiudi il libro, alzando di nuovo la testa – forse troppo di fretta, dato il lieve dolore che viene subito dopo – e guardandoti intorno. O’Dampand se n’è andata di nuovo chissà dove a scrivere la lettera di risposta a Sherman. Oh, sicuramente le starà scrivendo qualcosa che nasconde una neanche troppo velata moina, e gli starà sciorinando tutti i pro e i pochi contra sul riportarti di nuovo al San Mungo.
Hai comunque sperato che, sbattendo il libro, avresti attirato la sua attenzione, in qualche modo, mentre, a quanto pare, lei neanche ti ha sentito.
“O’Dampand!” ti ritrovi a chiamarla, per forza di cose.
Fosse per te non l’avresti neanche fatto, ma, data la situazione, non puoi proprio farne a meno, c’è poco da contestare.
Lei, in ogni caso, dopo solamente qualche misero secondo esce dalla cucina, guardandoti in attesa.
Ah, era lì.
E non ti ha neanche sentito, sebbene si trovi praticamente nella stanza adiacente alla tua?
Bah. Ne hai davvero abbastanza, per quella giornata.
“Mi porti in camera mia.” ordini, semplicemente.
Sì, glielo ordini: evidentemente non è il fatto che ci sia un gufo per casa – o il resto – che ti dà fastidio, è proprio la presenza di quella giovane donna.
Per un momento, durante lo scorrere dei giorni, hai pensato che tale giudizio nei suoi confronti si fosse affievolito, tanto da rendere quella stupida convivenza quantomeno… accettabile. Invece, ora, più la guardi più vuoi che se ne vada. E ti senti veramente furioso, tanto che quel libro, piuttosto che addosso al muro, potresti anche lanciarlo contro di lei. Forse ti avrebbe fatto bene, una cosa del genere. Non molto a lei, certo, ma a te forse sì.  
Evidentemente, comunque, vuol dire che sei rinsavito.
Che ti riportino al San Mungo, allora. Che ti ci chiudano dentro a chiave. Sarebbe meglio.
In ogni caso, alla fine, ti ritrovi in camera tua, come da te richiesto; O’Dampand ti h lasciato nello spazio che c’è tra la poltrona ed il letto, sempre come da te richiesto. Posi il libro, che ancora tieni sulle gambe, sul comodino, e poi ti sposti sul letto, mettendoti seduto con la schiena appoggiata alla testiera e la schiena sorretta dai cuscini. Avresti dovuto metterti in poltrona, come fai sempre, in questi casi.
A parte ciò, comunque, prima di accomodarti definitivamente, hai ben pensato di posizionare quella dannata sedia a due ruote il più possibile accanto al letto, di modo da non doverti esibire in altre performance piuttosto umiliante, come era accaduto tanto tempo prima. Perlomeno, ti sembra che sia passato veramente tanto tempo, hai un po’ perso il conto.
Prendi il libro, allora, effettuando anche una seccante torsione con il busto, per riuscirci, ma ormai dovresti esserne abituato.
 Non che tu sia un uomo che si abitua facilmente mai a nulla, a pensarci: tu rimugini, e rinfacci, e digrigni i denti, ma soprattutto rimugini e ripensi alle situazioni che si sono susseguite nel corso della tua esistenza, riflettendo su quanto sarebbe meglio che fosse successa questa o quell’altra cosa. Il fatto che tu poi faccia esattamente ciò che la gente si aspetta da te è un altro discorso. Con Albus è sempre stato così: gliene hai dette di tutti i colori, ma alla fine hai sempre fatto ciò che voleva.
Non volevi davvero abituarti alla condizione in cui ti trovavi, ma, rassegnazione o meno, era quello il tuo posto, qualsiasi fossero state le tue momentanee aspirazioni.
I tuoi comportamenti, il tuo camminare per i sotterranei, anche il tuo togliere punti a Grifondoro erano diventati atteggiamenti d’abitudine, all’apparenza, ma, dentro, di te, invece, avevi sempre una qualche… fermento.
Anche ora ce l’hai, quando, invece, abituarti a tutto questo sarebbe la cosa più semplice.
E ti rendi anche conto di aver pensato una cosa veramente brutta, riguardo Albus. Ma lui avrebbe commentato il tutto con uno dei suoi sguardi azzurri, uno dei suoi mezzi sorrisi, e poi avrebbe bellamente cambiato discorso o glissato con qualche breve parola. Così finisci per fare tu, dirigendo i pensieri altrove. Anche se ammetti che, in quel momento, avresti preferito vedere fare una cosa del genere – tua irritazione annessa – ad un Silente ancora in vita.
Prendi nuovamente il tuo libro, e nuovamente ricominci a leggere. La rabbia che puoi provare per O’Dampand, sebbene indiscutibilmente assillante, non è tale da riempirti la testa oltre ogni dire, tanto da non riuscire più a farti concentrare sulle frasi scritte davanti ai tuoi occhi, per esempio. Era successo con Potter – rimembri – ma per O’Dampand ti dici che, in fondo, non ne vale proprio la pena. Così riprendi ad affascinarti di fronte alle descrizioni di varie vicende storiche che hanno portato alla creazione dei più banali incantesimi, e non pensi a nient’altro.
Riesci, fortunatamente, nell’intento, e ti accorgi che è sopraggiunta la sera solo perché, ad un certo punto, non riesci più a distinguere alla perfezione tutte le lettere del testo, mentre le pagine iniziano a sembrare grigie, piuttosto che bianche.
A questo punto tutto supporrebbe che tu debba, perlomeno, accendere una candela, se non di più, e, per far questo, dovresti sgolarti per chiamare O’Dampand, di nuovo, intenta chissà dove a fare chissà cosa. Sempre che non stia parlando epistolarmente ancora con Sherman. Il che potrebbe essere comunque possibile.
Dovresti procurarti una campanella, in qualche modo, e agitarla quando hai bisogno della ragazza. Sarebbe sadicamente divertente.
Non che tu, ora, sia con l’animo giusto per attuare una simile fantasticheria. Non di certo. Ma magari, più in là…
Stai, allora, necessariamente per gridare il suo nome – già pregusti la tua fantastica voce gracchiante – che, invece, bussano alla porta della tua stanza. Ti ha battuto sul tempo, non c’è dubbio, dato che è palese che si tratti di O’Dampand.
“Avanti.” dici, semplicemente, e la tua voce non è poi così gracchiante, se non alzi il tono.
La porta si apre, e O’Dampand entra nella stanza. Notando anche lei la penombra che è calata sovrana, tira immediatamente fuori la bacchetta, e automaticamente accende la candela presente sul comodino accanto a te, e anche quella posata sul mobiletto all’altro capo del letto. Non hai dovuto neanche chiederglielo, meglio così.
Si avvicina a te, rimanendo comunque in piedi, con le mani congiunte sul davanti.
“Scende a cena?” ti chiede.
Non appena schiudi le labbra, nonostante tu non abbia ancora detto nulla, la vedi spostare il peso in avanti, impercettibilmente, come se già sapesse di volerti appoggiare alla sua spalla per poterti sedere sulla sedia e scendere di sotto, in salotto, e poi in cucina.
“Non ho fame.” rispondi tu, invece, bloccando ogni suo proposito e, al contempo, movimento.
Sul momento lei ti guarda con uno sguardo che non riesci pienamente ad interpretare, forse per via di quella stessa penombra – la luce delle candele, d’altronde, è potente giusto per il minimo necessario – che confonde i suoi lineamenti, quasi fondendoli l’uno con l’altro.
“Non ha fame?” chiede, e la sua voce, a dispetto di quanto ti saresti invece aspettato, è piuttosto… neutra.
“No, non ho fame.” ripeti, dunque, guardandola stavolta un po’ più di sottecchi “Voglio rimanere qui, finire la lettura e poi andarmene a letto.”
Passa qualche altro secondo, prima che lei ti risponda di nuovo.
“Oh, va bene. Si riposi, allora, ci vediamo domani mattina.”
Alzi un sopracciglio, mantenendo gli occhi fissi su di lei.
Sì, non hai veramente fame, e non ti va di scendere dabbasso, né di stare in compagnia di O’Dampand, ma l’hai detto anche per darle, più che altro, fastidio, come lei lo sta dando a te durante tutta quella stessa giornata. Dopo tutto quello che è successo, proprio riguardo il cibo, credevi avrebbe iniziato a sbraitare, a dirti ‘No, no, no, che ci eravamo detti? Non può indebolirsi!’. E invece non ha… fatto una piega – espressione che tende a descriverla meglio, al momento, secondo te.
Non fai neanche in tempo a dire qualsiasi cosa – in effetti, sei stato zitto fin troppo, e forse lei ha interpretato questo momentaneo silenzio come il non voler proprio più parlare – che lei, allora, si volta, dirigendosi nuovamente alla porta.
“O’Dampand.” la fermi però tu, al che lei si volta, in attesa di qualche cosa, magari un cambio di idea da parte tua. Invece no, tutt’altro “A che conclusione è giunta, con Sherman?”
Lei si appoggia con una spalla allo spigolo della porta, mantenendo le mani sempre nella stessa posizione di prima.
“La situazione non è molto diversa da prima: ha detto che si informerà con chi di dovere e, domani pomeriggio al più tardi, ci farà sapere.”
“Quindi… Niente.”
“Esatto, tutto in sospeso, per ora.”
“Fino a domani.”
“Esattamente.”
“Perché è così distante, O’Dampand?”
Non sai neanche perché gliel’hai chiesto, così di getto e senza pensarci, poi. Non avresti dovuto, e neanche ti interessa, in fin dei conti; probabilmente è per metterla a disagio, dev’essere per forza così.
Lei, comunque, assume un’espressione perplessa, stavolta.
“Distante? Distante da cosa?”
Anche tu fai una pausa. Qualsiasi cosa diresti, comincereste una conversazione che non vuoi intraprendere, specie su un argomento così… superfluo. Che utilità ha, d’altronde, quanto lei si senta coinvolta in tutta quella vicenda?
“Nulla. Lasci perdere.” concludi, a quel punto.
Lei si stacca dall’architrave, rimettendosi in posizione eretta, allora.
“Buonanotte, signor Piton.”
Tu rispondi con una specie di incomprensibile grugnito, prima di chinare nuovamente il capo sul tuo libro, e lei richiude la porta.
Dopo qualche minuto vi ricordate entrambi che, invece che salutarvi definitivamente, per quel giorno, c’era ancora una cosa, da fare, ovvero cambiare le bende al collo e medicare la ferita, per cui dopo non molto O’Dampand rientra in camera tua, si scusa, e si avvicina con la sua borsa, nella quale sai già che si trova anche la pozione che devi assumere oralmente.
Tu non dai segno di aver accettato le sue scuse, quasi non la consideri per niente, comportandoti, più che come un uomo arrabbiato, come un uomo apatico.
C’è chi reagisce di più ad una persona che lo – o ‘la’ – ignora, piuttosto che urlandoci contro. Potresti verificare se la cosa funziona anche con O’Dampand.
Ma sai già che sarebbe tutto tempo perso, dato che già qualche tempo prima non vi siete parlati per due giorni interi, e lei non ha dato assolutamente di matto in nessun modo. O, se l’ha fatto, non l’ha poi dato molto a vedere.
Quando lei esce di nuovo, dopo aver finito, per un momento rimani a fissare la porta. È rimasta in silenzio tutto il tempo, ha fatto quasi la sottomessa, come se volesse dartela vinta, mentre tu volevi solo che mostrasse un minimo di rabbia anche lei; o qualcosa del genere. O, magari, non era finta sottomissione, la sua: probabile che sia mancanza di qualsiasi emozione di particolare rilevanza e basta.
Lasci perdere, a quel punto, e sposti lo sguardo altrove. Motivi non ben definiti non valgono un’altra arrabbiatura a fine serata, specie se non puoi riversare la tua rabbia contro la sua destinataria principale.
Fai quanto hai preannunciato poc’anzi, allora: ti prepari per la notte, indossi la tua anonima e monotona – quanto consumata – camicia da notte e poi, una volta pronto, ti rimetti lentamente e prudentemente a letto, senza movimenti improvvisi e poco calcolati. Soprattutto quella sera vuoi limitare al minimo il ‘rischio di disastri domestici’; ti infili direttamente sotto le coperte, rimanendo seduto, però. Con la mano sinistra ti sistemi la gamba destra, inerme, che ha assunto una posa piuttosto strana – lo noti dalla piega delle coperte stesse – senza provare a risparmiarti una smorfia e un digrignare di denti, e solo in quel momento, finalmente, riprendi il tuo libro per continuare la lettura. D’altronde è troppo presto, a tuo parere, per metterti proprio a dormire, e il fatto di trovarti a letto non ti preclude comunque la possibilità di fare altro, o sbagli, per caso? Certo che no.
La casa, al di là della porta della tua stanza, è silenziosa.
Oh, lo è sempre stata, di sicuro la cosa non ti sorprende, ma il fatto che, comunque, tu non viva più da solo ti rende particolarmente sensibile a qualsiasi tipo di rumore, e le tue orecchie si tendono neanche siano dotate di autonomia. Eppure nessun suono ti arriva. Comprensibile, O’Dampand sta sicuramente cenando in silenzio, in cucina, quindi nel punto della casa più lontano da te.
Certo, a meno che, approfittando della tua assenza, non si sia messa a mangiare seduta sul divano come una ragazza irriverente, ma, in quel caso, qualche rumore avresti dovuto percepirlo. Lo presumi, almeno.
Proprio perché non odi alcunché, in ogni caso, ricominci a leggere, conscio del fatto che il tuo udito ti avviserà direttamente di ogni sorta di anomalia, o, più semplicemente, di ogni rumoroso movimento al pianterreno.
Finalmente, nel tempo immediatamente successivo, le parole stampate che hai di fronte fanno il loro dovere: ti estraniano da quella serata che nulla fa se n on renderti insofferente, e per un po’ riesci anche a dimenticare O’Dampand, Sherman, e tutto il San Mungo.
Hai sempre trovato i libri estremamente affascinanti; il tuo naso era sempre immerso nelle polverose pagine della biblioteca di Hogwarts, e non solo perché dovevi adempiere ai tuoi obblighi di studente. Ti piaceva. Ti piaceva e ti piace; tutto, nei libri, lo trovavi spiegato a chiare lettere, a volte tramite frasi impregnate di fronzoli lessicali, ma era tutto : nero su bianco, indelebile, ogni considerazione poteva essere riletta ed appresa in innumerevoli modi differenti l’uno dall’altro. Non c’erano sottintesi, le parole dei libri non mentivano, non potevano compiere gesti che ti avrebbero turbato, erano pure e semplici verità, manifestazione di quello stesso mondo che avevi attorno che, al di fuori delle pagine stampate, era, invece, così difficile da capire.
Sapendo ciò nessuno si sarebbe sorpreso nel constatare che, piuttosto che sdraiarsi sull’erba, sotto quel sole che la tua pelle pallida non vedeva quasi mai, tu preferissi adibire una angolo della biblioteca a tuo personale luogo di estraniazione, un castello nel castello, dalle invisibili fondamenta letterarie che, però, serviva a farti provare un quarto d’ora di tranquillità.
Specie dal quinto anno di scuola in poi, quell’angolo l’hai bramato quasi tutti i giorni.
Solo dopo un po’, a quel punto, senti nuovamente qualcosa: O’Dampand sta distintamente camminando sulle ‘scale’ con passo piuttosto pesante, e anche leggermente… strascicato. La stanchezza, forse. O il senso di colpa, magari.
E sta anche parlando da sola, e non sottovoce, per di più: se il suo fosse, di per sé, un impercettibile bisbiglio, tu, dal tuo letto, con la porta chiusa, non sentiresti proprio niente. Per percepirlo in questo modo, quindi, sta ben più che mormorando, lei. Peccato che tu non riesca comunque a distinguere le sue parole, riuscendoci potresti provare a risalire al motivo primario dalla sua fulminante pazzia.
Una porta si chiude, nel corridoio, e capisci che O’Dampand è appena entrata nella camera che sta momentaneamente occupando. Dopo non molto, comunque, la senti riuscire in corridoio, stavolta con passo più svelto, ed un momento dopo è la porta del bagno che si apre e che, infine, si chiude.
Ormai è diverso tempo che girovaga il casa tua come se fosse in casa propria, andando da una parte all’altra con assoluta naturalezza. Allora forse è veramente meglio che ti inchiodino di nuovo ad un anonimo letto del San Mungo. Questo tipo di implicita confidenza a te non è mai piaciuta a sufficienza.
Sì, l’hai chiamata ‘confidenza’, ma ritieni che non sia proprio il termine più adatto, a pensarci. Quello che sai, però, è che la cosa ti stranisce.
Dopo un tempo indefinibile catturi, sempre… uditivamente parlando, la sua uscita dal bagno, e la sua consecutiva quasi corsa di nuovo in camera da letto, e, infine, il rumore della porta, per la terza volta.
Poi, più nulla. La serata, a quanto pare, per O’Dampand, si è conclusa così.
Ah, no, è vero: ha comunque a sua completa disposizione il vecchio televisore di tuo padre.
Chiudi il libro di scatto, senza neanche premunirti di procurarti un segnalibro o di fare una piccola orecchia all’angolo superiore della pagina. Per la stanza ha anche echeggiato, per un secondo o due, il tonfo che hai causato, ma stavolta non l’hai fatto per attirare l’attenzione di qualcuno. Anche perché, al momento, non ti è di nessuna convenienza.
Posi il libro, quindi, ti corichi con una serie per te illimitata di evitabili movimenti e, alla fine, decidi che è arrivato il momento di dormire. Ti sembra giusto, oltretutto, di far decadere il tuo udito dai suoi consueti doveri, per quella notte.
 
La mattina, quando apri gli occhi, senti che un po’ di quella rabbia del giorno prima se né andata. Addirittura, all’inizio, non ti ricordi proprio nulla di quanto accaduto, tanto che ti chiedi se per caso ti stesse sfuggendo qualcosa di importante. Un attimo dopo, però, sebbene il sentimento sia praticamente lo stesso, lo percepisci meno… asfissiante, meno invadente, meno pesante. C’è sempre, certo, ma quella mattina, dopo ore di sonno, il motivo che lo provoca non ti sembra più così importante. Fondamentale, diciamo.
O meglio – ti ritrovi a correggerti praticamente da solo – stai indirizzando la tua giustificata negatività vero il destinatario sbagliato. Se il San Mungo vorrà… riospitarti ancora, è con la sua organizzazione che dovrai prendertela, perché non sarebbero coerenti e rispettosi della salute psicologica del paziente.
Non che tu ti senta instabile anche mentalmente, ma, secondo te, avresti tutte le carte in regola per far credere di esserlo diventato a causa loro.
Concentrare tutto il tuo livore su O’Dampand, quindi, lo trovi quantomeno egocentrico.
Dal suo punto di vista.
Perché, d’altronde, dovresti darle tutta questa importanza? La colpa è anche sua, ovviamente, dato che questo colpo di genio pare averlo partorito lei stessa – quindi, di sicuro, non farai il simpatico con lei – ma proporre qualcosa ai ‘livelli superiori’ era suo di diritto. Chi approva la proposta è colui che si prende la maggiore responsabilità.
Dal tuo, di punto di vista, parte della colpa continua a cadere comunque su O’Dampand, dato che è lei che ha avuto l’iniziativa, dato che è la sua, di proposta, ad essere stupida.
Quella mattina, almeno, hai due colpevoli contro cui inveire, e puoi non focalizzarti su quella di rango inferiore.
A parte tutto questo, in ogni caso, questa considerazione ti dà, almeno, l’impulso di chiamare O’Dampand, come ogni mattina. Quando arriva le lanci solo un’occhiata fugace; ti sei già messo sulla solita, odiosa sedia metallica – non ha neanche un minimo di estetica o, magari, di eleganza, per Salazar – e tieni i vestiti che dovrai indossare sopra le ginocchia, con le mani poggiate su di essi, quasi a schiacciarli.
“Buongiorno” dice lei, con tono decisamente piatto, non squillante come tutti gli altri giorni.
Così la guardi meglio, prima che si metta in piedi dietro di te. Non le rispondi neanche al saluto, sul momento – non che brami farlo, comunque – perché, più che altro, noti qualcosa di insolito sul suo viso: due profonde occhiaie, proprio sotto i suoi occhi verde chiaro.
Lo si percepisce nell’aria, che è stanca.
“Non ha dormito?” chiedi, allora, tanto per toglierti la curiosità.
Lei ti risponde mentre, come sempre, ti conduce verso il bagno.
“Quasi per niente.”
“Attacco improvviso di insonnia?”
“Oh, no, ho avuto da fare.”
Per quanto puoi, ti volti leggermente all’indietro, cercando di guardarla. Sì, ha proprio lo sguardo stanco, sei sicuro che, se potesse, crollerebbe sul letto nel giro di un paio di minuti, eppure, allo stesso tempo, sei anche sicuro che stia nascondendo qualcosa; e immagini che questo qualcosa non ti faccia piacere neanche un po’. Dato che, tra l’altro, noti anche l’ombra di un quasi impercettibile sorriso sulle sue labbra.
“Ha parlato con Sherman?” chiedi, mentre ti giri nuovamente per guardare di fronte a te con attenzione.
Ci manca solo che, per il sonno, ti faccia andare a sbattere contro il muro.
“No.” è la risposta di lei “a proposito, dovrà farci sapere qualcosa entro oggi, stando a quando ha scritto nella sua ultima lettera.”
“Mmh.”
Non ti va di commentare la cosa, stranamente.
Ti lascia in bagno e chiude la porta, aspettandoti fuori. Come sempre.
Potresti cominciare a soprannominarla ‘Cane da guardia’; sarebbe… divertente notare il mutamento delle sue espressioni; ma, di sicuro, la cosa non sarebbe accaduta quel giorno.
 
La giornata va avanti rimanendo completamente avvolta in quell’atmosfera. Tu che non le parli, e lei che, stanca, compie i gesti a cui ormai è abituata in maniera totalmente meccanica. E neanche lei parla, in ogni caso. Non puoi dire se il suo mutismo sia causato dal fatto che tu non voglia intavolare nessuna conversazione e, per questo, lei si sia offesa, oppure perché muovere la bocca, al momento le risulterebbe troppo faticoso.
“O’Dampand.” la chiami, ad un certo punto, dopo pranzo, guardandola sufficiente e con un pizzico di rimprovero “Sta dormendo in piedi.”
Non è proprio vero, solo che se ne sta impalata così, a fissare il nulla, in piedi – appunto – accanto al camino.
Lei scuote velocemente la testa, in ogni caso, come a volersi svegliare, facendo così.
È proprio andata.
“Mi scusi.” è tutto quello che dice, prima di andarsi a sedere sul divano.
Potresti dirle semplicemente di andarsene a dormire, lo sai. D’altronde non avrai bisogno di nulla, nelle successive ore: potresti comportarti come tutti gli altri giorni, durante i quali rimani per ore a leggere, mentre lei potrebbe andarsene per circa un’ora sul letto e chiudere gli occhi. E magari attenuare un po’ il gonfiore di quelle orribili occhiaie che si ritrova.
Ma tu sei Severus Piton, per cui, invece, rimani semplicemente in silenzio. E basta.
Alla fine, arriva la sera, tra i silenzi. Gli unici rumori che si percepiscono, adesso, sono quelli fuori da casa. È come se tra quelle mura sia stato risucchiato tutto, non fai neanche caso al rumore delle lancette dell’orologio. Il silenzio che intercorre tra di voi è talmente pesante e pressante che sembra nascondere tutto il resto. Te lo immagini, sul momento, come un’enorme macchia grigiastra, il silenzio, che si attacca alle pareti, si espande inglobando al suo interno tutti gli oggetti, i mobili, i libri, voi due stessi, ricoprendovi di una sorta di patina gelatinosa che vi impedisce di udire e di pronunciare alcun suono.
… Forse sei stanco anche tu, supponi, dato il pensiero.
Ma comunque, in ogni caso, quel viscido velo che vi avvolge rimane attorno a voi – e attorno a tutto il resto – per tutto il pomeriggio, e poi per tutta la serata, fin quando non ti prepari nuovamente per la notte.
E non è che tu ti stia lamentando della situazione, d’altronde sei tu che l’hai voluta, ergo… a te sta bene così. È quello che volevi, non ti stai lamentando.
Ma in quel momento devi per forza porre fine a quel silenzio, specie perché urge precisare determinate questioni che ancora sono rimaste decisamente irrisolte.
Tu sei sul letto, in ogni caso, e O’Dampand sta preparando le cose necessarie per medicarti la ferita. Ringrazi Merlino che il suo compito sia solo quello: dovesse usare un bisturi, al momento, non saresti così… docile.
“Sherman non ha mandato nessun messaggio.” dici, allora.
Ed è vero, quell’idiota di Sherman non vi – ti, le, poco importa – mandato una stupida lettera per tutto il giorno, quando, invece, aveva annunciato il contrario, quando, invece, avrebbe dovuto far chiarezza su tutta quella questione per la quale il tuo malumore è salito alle stelle.
“Sì, è vero…” mormora semplicemente lei, concentrandosi il più possibile su quanto sta facendo “Gli scriverò fra qualche minuto, allora, sperando che mi risponda.”
“Sperando?” sbotti nuovamente con tono irritato.
“Potrebbe aver avuto un problema.” risponde O’Dampand, mentre ti sciogli le bende attorno al collo.
“Lo vedremo non appena risponderà, allora.” concludi – discutere anche su quello sarebbe stato inutile. E poi immagini che di questo dovresti parlarne direttamente con Sherman e basta.
La conversazione si chiude davvero in quel modo, e O’Dampand si impegna solamente nel portare a termine il proprio lavoro. La medicazione ti fa bruciare tutto, come sempre; forse leggermente di meno, ma potrebbe anche darsi che è perché ti stai abituando al dolore. Ma fa male comunque, e sei costretto a chiudere gli occhi e a digrignare i denti ogni volta.
Poi tutto finisce, O’Dampand ti sistema le nuove fasciature attorno al collo e poi mette tutto a posto.
“Buonanotte, signor Piton.” dice, mentre sta per uscire dalla tua stanza.
Ma quale ‘Buonanotte’, tu devi sapere ancora qualcosa, durante quella serata.
“Mi informi non appena riceverà la risposta da Sherman.” rispondi tu, invece.
“Va bene.”
E, detto ciò, a quel punto esce davvero dalla tua stanza, mentre tu ti sistemi meglio, sotto le coperte, consapevole che, comunque, dopo non troppo tempo – almeno così immagini – O’Dampand rientrerà per eseguire quello che le hai appena chiesto.
E speri che dopo anche lei se ne vada a dormire. Non per altro, ma è quantomeno irritante trovarsi qualcuno vagamente simile ad un Infero che vaga per casa con passo strascicato. Ti dà un senso di inutilità meramente inappropriato.
 
Dopo quel momento, però, la volta successiva in cui vedi O’Dampand è direttamente la mattina dopo.
Tu l’hai aspettata per un tempo che hai ritenuto fin troppo considerevole, ma poi, alla fine, il tuo corpo ha deciso di addormentarsi. E O’Dampand ti ha forse fatto sapere qualcosa? No, ovvio che no.
Ormai non riesci proprio a capire che cosa gli stia passando per il cervello.
E questo ti urta terribilmente, perché si sta comportando in un modo che stai facendo fatica ad interpretare.
Non che tu sia… preoccupato. O meglio, lo sei, ma per te, dato che ti trovi praticamente nelle sue mani.
“O’Dampand!” la chiami, allora.
Comportamento strano o meno, ti ha deliberatamente ignorato in maniera alquanto poco professionale.
Tu sei esattamente come la mattina precedente – e come tutte le altre, di nuovo – ovvero seduto sulla sedia, i tuoi vestiti poggiati sopra di te.
Stranamente il fatto che tu, ormai, riesca a muovere la caviglia destra sembra rendere tutto un po’ più facile da compiere. Sai che potrebbe essere tutto frutto semplicemente della tua immaginazione. Magari non è cambiato niente e basta, però…
Non finisci di formulare il pensiero, però, che O’Dampand entra nella stanza. E tu non puoi che guardarla sentitamente… perplesso. Estremamente perplesso, tanto che, nell’osservarla, inclini anche un po’ la testa da un lato.
È in vestaglia, lei. Cos’è, non ha fatto in tempo a vestirsi? Si è appena svegliata, per caso? Magari l’hai persino svegliata tu, chiamandola. E, considerando il modo in cui sono sistemati i suoi capelli – ovvero alla bell’e meglio – lo consideri anche abbastanza plausibile.
“Mi scusi, signor Piton.” è la prima cosa che dice lei, mentre si sistema meglio il nodo della propria vestaglia rosa pallido “Ho fatto tardi.”
“Questo l’avevo già notato da me.”
Sì, si deve proprio essere svegliata da poco, anche se, sul suo viso, le occhiaie non è che siano meno profonde o meno scure del giorno prima. Anzi.
“Mi sono addormentata solo un paio d’ore fa.”
“Oh, mi fa piacere saperlo, specie considerando che, stando a questo, ciò vuol dire che lei ha avuto praticamente tutta la notte per darmi una qualche indicazione su cosa mai Sherman e colleghi abbiamo dannatamente deciso di fare.”
Lei sbatte le palpebre un paio di volte, prima di parlare nuovamente. Sembra confusa, addirittura, quando tu, invece, non saresti potuto essere più chiaro di così. E poi, secondo te, non potrebbe proprio permetterselo, di essere confusa.
“Sì, io…” fa, allora. Con aria solo lievemente colpevole “Ho parlato, tramite gufo, con il professor Sherman, e si è trovata una soluzione. Sì. Sono anche venuta a riferirgliela, ma lei dormiva già.”
“E con questo?” sbotti, inarcando un sopracciglio “Svegliarmi avrebbe infranto una clausola di un qualche inesistente regolamento etico-comportamentale?”
“No.” controbatte, guardandoti leggermente assonnata.
“Quindi avrebbe potuto svegliarmi.”
“Sì, signor Piton, lo so. Ma quanto è emerso dallo scambio di lettere tra me e il professor Sherman avrebbe potuto benissimo aspettare questa mattina, dato che non dovrà preoccuparsi di preparare bagagli di nessuna sorta, né lasciare questa casa.”
Il tuo sopracciglio torna ad inarcarsi verso l’alto.
“Ah, no?”
“Sarà il professor Sherman a venire direttamente qui, per visitarla. Se, poi, si converrà che ci sia bisogno di un’altra sistemazione, per lei, allora… beh, se ne parlerà.”
“Quindi resterò qui.”
“Esatto.”
“E anche lei.”
“A quanto pare.”
Che peccato.” sibili, e le labbra ti si arricciano in un ghigno.
Dopo non molto scendete per la colazione, e lei ne approfitta, invece che per mangiare, per andarsi a vestire. Quando torna in cucina, almeno, è un po’ più presentabile.
“In ogni caso.” dici, allora, non appena mandi giù l’ultimo sorso di caffè “Perché Sherman non si è fatto sentire, se non dopo che è stata lei, a contattarlo?”
O’Dampand si siede con un’enorme tazza di caffè nero tra le mani, caldo, ed è speranzosa – glielo leggi in faccia – che questo possa darle una svegliata.
Tu opteresti per un ‘Aguamenti’ gelido in pieno viso, piuttosto, ma tant’è.
Comunque risponde solo dopo essersi leggermente strofinata l’occhio destro.
“Mi ha detto che è stato molto impegnato, ieri.” risponde, poi “Era ancora in ospedale, quando mi ha risposto, e mi ha detto che sarebbe stata sua intenzione scrivermi non appena fosse arrivato a casa.”
“Certamente. E magari anche dopo aver cenato ad aver giocato a scacchi con suo figlio, se ne ha uno.”
“Suvvia, signor Piton, la questione si è risolta.” tenta di tagliare corto lei “In tempi un po’ più lunghi, sì, è vero, ma adesso sa che, per lei, non cambierà proprio niente, quindi può tranquillizzarsi.”
Lei può tranquillizzarsi, forse, dato che, da quanto posso notare, addirittura ha perso il sonno per questi ultimi avvenimenti. Io, invece, non smetto di sentirmi come chi non ha avuto e non ha assolutamente voce in capitolo.”
O’Dampand sospira.
Forse lei avrebbe sul serio preferito che ti venisse trovato un altro letto al San Mungo; così lei se ne sarebbe tornata alla sua, di vita.
Oh, povera, povera O’Dampand.
In ogni caso, poi, lei punta lo sguardo su di te; nei tuoi occhi, per essere più precisi.
“Lei conosce il giuramento di Ippocrate, signor Piton?” chiede, allora, con voce fin troppo calma per i tuoi gusti.
Tu ricambi lo sguardo in modo vagamente sospettoso.
“Sì, lo conosco.”
“E beh, quello stesso giuramento viene pronunciato anche da noi medimaghi, sa? Non solo da alcuni medici babbani. E quando diciamo ‘In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario’, beh, ci crediamo. Io ci credo. E anche Sherman. Quindi non dica che di lei non ci importa nulla.”
“Potrei controbattere dicendo che vi sono notevoli differenze tra ciò che fanno i maghi e ciò che fanno i Babbani, specie in campo medico.”
“Oh, lo so, infatti la frase che le ho citato è un estratto dell’antico giuramento di Ippocrate, non di quello successivamente modificato dai Babbani. I medimaghi si rifanno al primo – leggermente modificato anch’esso certo – piuttosto che al secondo.”
“Cosa cambia? Ippocrate era comunque un Babbano.”
O’Dampand fa un piccolo sorriso, prima di rispondere per l’ennesima volta.
“Sbagliato, Ippocrate era un mago. Anche se, ovviamente, i Babbani non lo sanno.”
Tu non dici più nulla, sul momento. Anzi, non dici più nulla neanche dopo. Sai che per O’Dampand la discussione si è risolta con la sua ultima considerazione, e a te, per una volta, stranamente, va persino bene così. Solo perché non ti va più di discutere, solo perché ne hai abbastanza del fatto che voglia per forza avere ragione. Ti sfianca e ti irrita.
 
Durante il pomeriggio O’Dampand si è ritirata in camera propria.
Non ti ha detto perché ti ha lasciato lì, seduto in poltrona, per andarsene al piano di sopra, ma immagini che sia per riposare un po’. Almeno, adesso, non deve struggersi nell’attesa di scoprire in cosa consisterà il suo immediato futuro; ora può mettersi l’anima in pace, lei.
Così ti ha lasciato lì da solo, ma tu non te ne lamenti, non hai bisogno di essere osservato costantemente, dopotutto.
Neanche un paio d’ore dopo, però, senti nuovamente i suoi passi sopra la tua testa, ergo non sta dormendo affatto. Un minuto dopo te la trovi proprio davanti, addirittura. Solo che, rispetto a poco prima, noti qualcosa di diverso sia nei suoi occhi che nella sua espressione: non è cambiata molto, nel suo complesso – è ovvio – ma la stanchezza sembra aver lasciato posto ad una qualche sorta di soddisfazione, e il sorriso che le increspa le labbra tende a confermarti tale supposizione.
“Che ci fa già qui?” chiedi, quindi, per te più che legittimamente.
“Oh, so che vuole liberarsi di me, ma ho semplicemente concluso un piccolo progetto che vorrei mostrarle.”
Inarchi le sopracciglia, continuando a guardarla, rimanendo in silenzio. Solo in quel momento noti che ha un libro tra le mani, però. Che sia qualcosa di accademicamente rilevante? O’Dampand, però, dato il tuo silenzio, riprende a parlare.
“E’ una cosa a cui stavo lavorando già da diverso tempo, ma ho pensato di potermici dedicare un po’ di più in questo periodo.”
“Per fare questa cosa, a quanto pare, ci ha perso il sonno, perché ha pensato che fosse il momento più adatto, di grazia?”
Altro che preoccuparsi di Sherman…
“Beh… Ho pensato che la cosa l’avrebbe interessata.”
Non rispondi, e lei, allora, ti porge il libro che sta tenendo in mano, accompagnandolo con un ‘Per lei’ solo lievemente sottotono. Tu lo afferri con una mano e lo poggi sulle tue gambe, prima di aprirlo, e la prima cosa di cui ti accorgi è che quel libro l’hai già visto diverse volte; perché, semplicemente, è tuo.
“Che significa?” chiedi, perplesso.
“Stavo pensando all’incantesimo della penna prendi-appunti. Non so perché ci stessi riflettendo su, ma il fatto è che ho pensato che sarebbe potuto tornarmi utile il suo stesso principio, ovvero far muovere un oggetto magico, semplicemente parlandogli. Quindi… Beh, provi a dire ‘avanti’.”
“Spero” pronunci, invece, tu “che qualsiasi cosa lei abbia fatto non andrà a compromettere l’integrità dei miei libri. Altrimenti potrei sul serio non rispondere più di me”
“Oh, no, no, prima ho perfezionato l’incantesimo su alcuni miei oggetti, ci mancherebbe.”
“Quindi ha incantato il mio libro…”
Lei annuisce, e tu la guardi con una nota di rimprovero negli occhi, solo che ti senti anche… curioso, così sposti lo sguardo da lei e lo dirigi su quanto tieni sulle ginocchia.
“Avanti.” mormori, infine, proprio come ti ha detto di fare lei.
Quasi immediatamente l’angolo inferiore della pagina destra comincia a tremare; dapprima in una maniera che definiresti addirittura timida, ma poi prende a farlo con maggiore intensità, come se fosse appena arrivata una forte e improvvisa folata di vento; un momento dopo la pagina si solleva totalmente, per poi posarsi dal lato opposto. Niente si muove più, adesso.
“In questo modo…” riprende lei “Può continuare a tenere il libro con una mano sola e sfogliarlo senza doverlo poggiare in continuazione da qualche parte. Immagino sia fastidioso.”
“Sì, lo so.” mormori di nuovo, alzando gli occhi su di lei.
“Appunto.” fa un altro piccolo sorriso lei “Ed è un incantesimo applicabile su tutti i libri che vuole, ovviamente; e funziona solo se questi sono effettivamente aperti, altrimenti ogni volta neanche immagino cosa possa accadere.”
“Mmh.” è tutto questo quello che dici, prima di tornare a fissare il libro.
Dovresti ringraziarla per questo? Forse. Eppure…
“Non le ho mai chiesto di fare una cosa del genere, O’Dampand.”
Sembra quasi, da come lo dici, un voler giustificare il tuo poco… entusiasmo. È solo che non te lo aspettavi neanche un po’.
“Si figuri.” risponde lei, come se tu le abbia appena detto un ‘grazie’ che, invece, dalle tue labbra non è uscito “E poi…” stavolta la sua espressione si fa un po’ più… contrita “Ammetto di non essere stata la coinquilina ideale, in questi due ultimi giorni. Lo so che l’ho fatta arrabbiare più volte e… E’ un modo anche per scusarmi. Mi scusi, quindi, signor Piton, le prometto che  sarò meno nervosa.”
Tu non dici niente, di nuovo.
Lei allora si siede su divano, e tu, a quel punto, non puoi esimerti dal cominciare a leggere. Oh, non importa, adesso, che un altro libro stia aspettando di essere concluso quello non è stato incantato appositamente per te.
Forse anche tu, dopotutto, per qualche minuto puoi metterti l’anima in pace.









Angolo Autrice:

Salve a tutti!
Come vedete, sono tornata. Sono mancata per un po', ma le cose da fare sono TROPPE, e trovo un po' meno tempo per scrivere. I tempi di aggiornamento, per un po', saranno un po' più lunghi, quindi, ma continuerò ad aggiornare, questo lo prometto :)

A proposito di aggiornamenti, che dire di questo che avete appena letto...
Oh, io ve lo dico: a me non soddisfa come mi hanno soddisfatto gli altri. Sarà l'aver scritto dopo diverso tempo di non-scrittura, ma boh... questo è quanto xD Per cui accetterò ogni tipo di critica, non preoccupatevi.

Insomma, sperando di riuscire a combattere lo stress, ci si becca alla prossima!
Ciao, ciao,
Iurin

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Capitolo 15
*** Capitolo Quattordici ***


Capitolo Quattordici
 
 

Mentre ti guardi intorno cerchi di ricordare il motivo per cui, poco prima, hai dato una risposta affermativa.
Devi aver pensato a qualcosa di preciso, magari anche a qualcosa di particolare, altrimenti, come hai fatto sempre, avresti risposto semplicemente di no.
Beh… sempre. È già successa una cosa del genere; una volta sola, certo, ma è comunque già successa.
Il punto, almeno, era che la scorsa volta già sapevi cosa avresti fatto, per quanto tempo, e, più o meno, anche dove. Ora, invece, è tutto in balia del caso, O’Dampand non vuole dirti niente, e, ad essere sinceri, stai cominciando a credere che neanche lei abbia veramente idea di cosa stia mai facendo.
Eppure, mentre ‘camminate’ sul marciapiede, la ragione per cui hai risposto di sì alla sua domanda ancora non ti affiora alla mente.
Forse hai passato un momento di totale debolezza, forse addirittura non eri in te, forse quella pazzia a cui, ogni tanto, rivolgi il pensiero si è finalmente mostrata in tutta la sua concretezza.
“Questo pomeriggio le va di uscire?” era stata la domanda di O’Dampand, infatti.
“Di uscire?” hai ripetuto tu.
Non che non avessi capito e volessi ricevere la conferma che almeno le tue orecchie ancora funzionassero bene. Eri solo… sorpreso.
Perché non era possibile che te lo stesse chiedendo per l’ennesima volta.
“Sì, di uscire. Potrebbe fare una passeggiata.” ha risposto.
Potrebbe’, non ‘potremmo’. Così si ottiene un effetto più distaccato, cosa che O’Dampand deve aver capito che preferisci di gran lunga. Forse, nel profondo, anche questa poteva essere l’acerbo frutto di una qualche astuzia da donna.
E tu hai detto di sì.
In realtà, mentre camminate sul marciapiede, passando di fronte ad un palazzetto d’epoca, potresti anche averla trovata, una sorta di plausibile motivazione al tuo comportamento: estenuazione. O’Dampand ti ha fatto quella domanda così tante volte che forse il tuo cervello si è rifiutato di far uscire dalle tue labbra la medesimo risposta di sempre. Forse voleva… variare.
Sì, la prossima volta che vedrai Sherman - la prossima volta che lui verrà da te - dovresti chiedergli qualche parere riguardo i primi sintomi della malattia mentale.
L’aria è fresca, però, non pungente da darti fastidio, e c’è anche il sole, anche se leggermente nascosto da qualche nuvola di passaggio. Quindi c’è il fresco - ma non troppo - e c’è il sole - ma non troppo - e O’Dampand sembra apprezzare questa particolare combinazione climatica.
Non che tu riesca davvero a vederla in viso, dato che cammina dietro di te. Per farlo, dovresti piegare all’indietro la testa - osservandola con una visuale inversa, oltretutto - ma, per Salazar, non ci tieni affatto, a farlo. Quando, però, passate di fronte alla vetrina di un negozio, di un ristorante, di una cartoleria - insomma, passate di fronte ad una qualsiasi vetrina - puoi osservare il suo riflesso. E sì, puoi confermare che ad O’Dampand quel clima piaccia. Sempre che stia pensando al clima, ovvio, ma non vedi altre cose anche solo lievemente piacevoli a cui possa pensare, sul momento.
Sul tuo riflesso, invece, cerchi di non soffermarti affatto.
Ma alla fine è piuttosto inutile - riesci ad ammetterlo a te stesso - rimuginare sul perché e sul percome O’Dampand sia riuscita nel suo intento, dato che hai addosso il tuo soprabito e che state camminando sotto alcuni alberi di passaggio.
Magari ha utilizzato una lieve Maledizione Imperius. Ma no, è impossibile, sei debole - non debole come all’inizio, ma sei comunque debole, sei malato - ma te ne saresti comunque accorto subito. E poi ti sei detto di smettere di pensarci, ormai il danno è fatto.
Così sollevi la testa, distogliendo gli occhi dalle tue ginocchia, e ti guardi seriamente attorno, stavolta. Credi che abbia contribuito ad attirare la tua attenzione il fatto che O’Dampand abbia rallentato fino a fermare se stessa e, di conseguenza, anche te, in realtà.
Siete fermi di fronte ad una caffetteria, e tu alzi leggermente la testa per poterla osservare meglio. È fatta completamente a vetri, tanto che riesci a vedere chiaramente quei pochi clienti che sono già al suo interno. A parte i larghi e altri vetri, a predominare è il colore bianco. Inarchi un sopracciglio, mentre la tua attenzione si sposta all’interno del locale: non corrisponde affatto all’esterno, è più… buio, scuro, non perché cupo, ma perché non è il bianco o qualche altro colore neutro, quello principale. Data la presenza dei grandi vetri, non ti è difficile studiare l’ambiente, la metà delle pareti di finta pietra - presumi sia finta, almeno - mentre le altre di legno, così come il pavimento, e i vari tavoli. E anche le sedie, sebbene i cuscini della seduta e dello schienale siano neri, invece.
A questo punto, però, giri leggermente la testa verso O’Dampand, dato che non ha neanche detto una parola. Non che il tuo esaminare abbia richiesto più di qualche secondo.
“Perché ci siamo fermati qui?” chiedi, infatti, attirando finalmente la sua, di attenzione.
Lei posa gli occhi su di te.
“Pensavo che sarebbe stata una buona idea fermarci un momento e prendere qualcosa. Un caffè, un tè, quello che vuole.” risponde, e tu la guardi incerto “Stia tranquillo, signor Piton, glielo offro io.”
Ignori l’ultima frase, dato che la tua espressione non è causata da un qualche pensiero sui soldi.
“Non credevo che a Spinner’s End potesse esserci un posto del genere.” è il tuo commento, non sai bene se rivolto più che altro a se stesso o pronunciato per continuare la conversazione con O’Dampand.
“Beh… Non siamo più a Spinner’s End, abbiamo cambiato quartiere.”
La tua espressione perplessa si accentua.
“Per quanto abbiamo camminato?”
Oh, non che tu non abbia fatto altro se non startene seduto, ma la frase, detta così, ti suona almeno dieci volte meglio. E ti appunti mentalmente che dovresti estraniarti dal mondo un pochino di meno, certe volte, e concentrarti su dove state andando, che la tua - o vostra - destinazione sia conosciuta o meno, o desiderata o meno.
“Abbastanza.” fa O’Dampand, in ogni caso “In realtà, pensavo anche di riposare un po’ i piedi.” conclude, prima di emettere una piccola, quasi impercettibile risata.
“Mmh.” è tutto quello che dici.
Guardi nuovamente l’entrata di quella caffetteria che non hai mai visto prima, facendo caso al fatto che non ci sia neanche nessuna insegna. Un luogo senza nome. È interessante.
E alla fine, sebbene dopo un altro paio di minuti, decidete di entrare. Non completamente all’unanimità, forse, ma alla fine vi ritrovate comunque dentro.
L’interno è esattamente come hai visto all’esterno, ma adesso hai anche la visuale del bancone, di legno anch’esso, ma più chiaro e visibilmente più recente rispetto - se non al pavimento e alle pareti - perlomeno ai tavoli e alle sedie. I tavoli, a proposito, sono delle dimensioni più disparate. In altri posti sarebbero stati tutti della stessa misura e, nel qual caso si fossero presentate più persone di quante ne potessero accogliere, sarebbe bastato unirne assieme un paio o, all’estremo dei casi, addirittura tre.
Ma sono solo sottigliezze, queste, e quando O’Dampand si ferma, assieme a te, ad un tavolo da due in disparte, tu getti un’ultima occhiata al lampadario moderno - e quindi ulteriormente in contrasto con il resto - e poi all’uomo che si avvicina a voi con uno dei soliti sorrisi di circostanza che tanto detesti. Non è come quei sorrisi della gente del San Mungo, ovviamente; è meno… irritante, certo, ma non ti evita di provare un certo fastidio.
Sembra che se non si riesca a sorridere le cose potrebbero addirittura andare male, o peggio di quanto altrimenti ci si aspetterebbe. Il volto dell’uomo ha quella definita fisionomia, la piega delle labbra umane è piatta per natura. È fatto così. Il sorriso è un qualcosa di costruito. Il volto umano neutro, così come dovrebbe essere, non presuppone nessun sorriso. Perché allora nascondercisi dietro?
“Buon pomeriggio, signori, cosa prendete?” fa, in ogni caso, il giovane uomo appena arrivato.
Giovane uomo che se ne va in neanche un minuto portando con sé l’ordinazione di un cappuccino e un tè. Tu hai scelto il tè.
“Quel cameriere non avrà neanche bisogno di radersi, per quanto è pivello.” commenti, subito dopo.
“Ed è un male?” ti chiede O’Dampand.
Ti rendi conto solo in quel momento di aver espresso il pensiero a voce alta.
“No.” rispondi, un po’ più cupo “Nulla di cui preoccuparsi.”
O’Dampand fa un leggero sorriso - non è di circostanza, il suo, però - e tu sposti lo sguardo verso la sedia che lei ha tolto per far spazio alla tua, personalissima e meccanica.
Ti chiedi quand’è che smetterai di usarla. Ti chiedi se smetterai di usarla.
Non ci sono stati miglioramenti fisici, negli ultimi tempi, per quanto riguarda la tua… malattia. Miglioramenti a seguire il ‘risveglio’ della tua caviglia destra, si intende.
All’inizio avevi pensato che non potevi sapere con certezza se quello fosse l’ennesimo scherzo del destino oppure se davvero fosse l’incipit di qualcosa di più grande, ma ancora non è successo nulla di nuovo, per cui…
Ti incupisci un altro po’, e rotei istintivamente il piede destro, quasi senza neanche accorgertene.
Fosse almeno successo, quel risveglio, al tuo braccio, o a tutta la gamba. Avresti di sicuro preferito poter camminare totalmente da te, magari anche privandoti dell’utilizzo di un intero braccio, piuttosto che stare così.
“Beh, preferirei poter muovere tutto, a dire il vero.” pensi, sul momento “Perché limitarsi, nei sogni ad occhi aperti?”
Ma si tratta veramente di… sogni? Tu non hai mai avuto tempo, per quelli. I sogni sono per chi ha la possibilità di scegliere, per chi, quando si trova davanti ad un bivio, non deve per forza seguire la freccia che indica una della due vie, può decidere. Può provare ad arrivare dove vuole.
Oh, anche tu hai sognato, in passato. E quel passato ti sembra così lontano che temi che siano passati secoli, piuttosto che poco più di un paio di decenni. Hai sognato, certo, e anche tu hai avuto la facoltà di poter scegliere cosa fare della tua vita, quale via scegliere, quale sentiero imboccare.
E, l’unica volta che hai scelto davvero, hai fatto un errore madornale.
Da quel momento in poi ha ritenuto più opportuno smettere di sognare, hai capito che i sogni non fanno per te, che, se solo ci avresti provato, avresti sbagliato altre mille volte. È stato molto più facile, più logico, più giusto che tu percorresti un sentiero già tracciato da qualcuno, che tu compissi gesti già preordinati da qualcun altro, che tu portassi a termine compiti che servissero a rimediare.
Oh, non che le cose sarebbero cambiate - beh, sarebbero cambiate eccome, certo, ma non per te - ma almeno avresti potuto sperare di sentirti meno in colpa. Poteva comunque essere una sorta di sogno anche questo? Beh, anche ora ti sei sbagliato, perché forse sarà anche vero che il senso di colpa si sia attenuato - magari un pochino - ma è anche vero che tu, in compenso, non senti assolutamente nient’altro.
Ma, a parte i sogni, il ‘bello’, in tutto ciò, è che non puoi neanche dare per certo che quel giullare che è il destino ti abbia beffato di nuovo. Sì, l’hai pensato, sì, ne sei praticamente convinto, ma a volte succede qualcosa che, anche se sono per un briciolo di secondo, ti fai ricredere.
Oh, nulla a che vedere con membra funzionanti e che magari, subito dopo, ricadono nel torpore lasciandoti in bocca l’amaro più amaro che ci sia.
È più una sorta di formicolio: nei momenti più disparati della giornata, mentre leggi, o sei a letto, o mangi, o fissi semplicemente il muro od il soffitto, o addirittura quando sei al bagno ed O’Dampand, imperterrita, ti aspetta fuori dalla porta, senti qualcosa formicolare, pizzicare. Come quando si addormenta un braccio: prima lo si sente addormentato, quasi gonfio - sebbene in realtà non lo sia, quasi una parte estranea al nostro - o il tuo, in questo caso - stesso corpo; poi comincia a formicolare - appunto - e anche solo toccarlo dà una sensazione a metà tra il solletico ed il dolore.
Ebbene, tu provi spesso, negli ultimi giorni, questa sensazione, sebbene poi, dopo, il braccio non è che torni a funzionare, ma rimane nuovamente addormentato, simil-gonfio, estraneo.
E così si viene a creare un andirivieni di emozioni, senza che nessuna di esse possa ben radicarsi definitivamente dentro di te, senza che tu riesca a capire cosa stia davvero succedendo, e non riesci a pensare davvero, non riesci a decidere se aggrapparti solamente ad un ‘è finita’ o, invece, ad un ‘è finita?’. A volte un punto interrogativo fa la differenza, ma non per questo rende la tua mente più tranquilla. E tu detesti non avere il controllo anche delle più piccole azioni altrui, figuriamoci quelle riguardanti il tuo stesso corpo.
In quel momento ti distrai, perché il cameriere sbarbatello di prima è appena tornato con uno di quei vassoi tondi di plastica, e sta posando il tè e il cappuccino sul vostro tavolo; peccato per il fatto che abbia dato il tè ad O’Dampand ed il cappuccino a te.
Anche se dovresti pensare che il ragazzo non abbia tanto causato una distrazione, quanto che ti abbia riportato alla realtà dai tuoi pensieri - probabili che siano stati quelli, la tua momentanea distrazione.
Stai proprio per dire al cameriere di essersi sbagliato e che avrebbe dovuto dare una svegliata alla sua memoria, che, però, guardi O’Dampand, e lei pare quasi averti letto nel pensiero, data la faccia che fa. Ha le sopracciglia aggrottate e lo sguardo… penetrante, i suoi occhi verdi, sebbene così chiari, sembrano addirittura leggermente più luminosi.
Tu distogli lo sguardo per puntarlo nuovamente sul ragazzo in piedi accanto a te, ma quando ti volti noti che in realtà lui se n’è già andato. Ti chiedi perché non te ne sei accorto sul momento.
Dopodiché, in ogni caso, O’Dampand si prende il proprio cappuccino e avvicina a te la tua tazza fumante, facendola leggermente strusciare sul legno del tavolino. Rumore del quale, però, tu non ti curi quasi per nulla. E non ti sei curato per niente neanche del fatto che, per quei minuti, tu ed O’Dampand non vi siete scambiati neanche un parola; e ti chiedi perché la cosa dovrebbe anche solo… disturbarti minimamente, dato che un comportamento simile è quasi sempre nella prassi.
Bevi un sorso di tè, allora, rimanendo in silenzio senza farti troppi problemi.
“Mmh.” ti scappa dalle labbra.
“A proposito di cosa?” ti chiede O’Dampand, allora, ma è come se si fosse collegata ad un’affermazione appena pronunciata da te.
E tu hai detto semplicemente ‘mmh’. Ultimamente starai anche pensando a molte cose, e magari staranno succedendo anche dei fatti che a volte potrebbero anche mandarti leggermente in confusione, ma a te, perlomeno, la memoria funziona ancora bene.
“Io non ho detto niente.” dici, infatti.
O’Dampand risponde solo dopo aver dato un sorso alla sua grande tazza.
“Oh, ma io gliel’ho letto negli occhi che stava pensando a qualcosa.”
Tu, dal canto tuo, ti ritrovi ad incurvare leggermente verso l’alto un angolo delle labbra.
“Signorina, si sorprenderebbe nel sapere a quante cose penso durante la giornata.”
“E lei si sorprenderebbe nel sapere che lo immagino già.” puntualizza lei, sorridendo appena “Certo, ancora mi sfugge l’oggetto dei suoi ragionamenti, ma insomma… ho due occhi per osservare.”
“Sì, e due orecchie per ascoltare. Ed io non ho detto un bel niente, signorina O’Dampand.”
Lei annuisce.
Lo so, infatti ancora ci sento. Ma lei ha espresso un… un verso che lasciava intendere una qualche soddisfazione.”
“Un… verso.”
“Già.”
Evidentemente devi proprio temere che quella ragazza ti legga nel pensiero. Forse dovresti ricominciare ad esercitarti con l’Occlumanzia.
Eppure, nonostante queste considerazioni, ti ritrovi a rispondere anche abbastanza presto. Non che solitamente tu faccia passare troppo tempo, ma… non fai nessun altro commento alle sue affermazioni, per il momento.
“E’ accaduto solamente che questo tè ha superato le mie aspettative.”
“Quindi è buono.”
“Non ho detto ‘le mie migliori aspettative’. In realtà intendevo l’esatto opposto.”
Tu ghigni, mentre O’Dampand inarca entrambe le sopracciglia.
“Quindi, allora, in realtà è pessimo. Si può dire che faccia… schifo, praticamente.”
Tu continui a ghignare.
“Sto scherzando, O’Dampand.”
Lei prima mantiene la stessa espressione di prima, poi scuote leggermente la testa mentre dà un altro sorso al suo cappuccino, ma riesci comunque ad intravedere un lieve sorriso che increspa le sue labbra, prima che la tazza gliele copra.
“Se questo posto la fa addirittura scherzare” commenta lei, poi “dobbiamo venire qui più spesso.”
“Tzk. Non si tratta di questo anonimo posto.”
“E allora di cosa?”
Inarchi un po’ il sopracciglio e poi fai un movimento come a voler dire che la cosa non rientra tra i tuoi interessi, non la sai spiegare, e, francamente, neanche ti va di preoccuparti nel cercare una risposta plausibile.
“Quel moccioso avrà messo qualcosa nel mio tè.”
O’Dampand dà un altro sorso alla sua tazza facendo esattamente gli stessi movimenti di un attimo prima. O, almeno, così ti sembra.
Ti guardi nuovamente attorno, mentre state nuovamente in silenzio. Non  perché non avete nulla da dire, ma, più che altro, perché adesso state bevendo. Certo, non puoi mettere la mano sul fuoco nel pensare che, in caso contrario, vi sareste fatti una grande conversazione, ma… Beh, ma di cosa ti lamenti, poi? Una qualche conversazione l’avete appena avuta, non c’è bisogno che tu ti soffermi ancora sull’argomento.
Perché poi tu ti ci stia, appunto, soffermando così a lungo, è una questione che ti premunirai di sondare quella sera stessa, magari.
Ti stai guardando intorno, dunque. La caffetteria non è molto piena, e, volendo concentrarti su cosa invece sta accadendo all’esterno, ti rendi conto che, con quella prospettiva, non riesci a scorgere granché. Evidentemente ciò che era valso per quando ti trovavi ancora sul marciapiede non vale adesso; tutto quello che riesci a guardare è una sottospecie di cespuglio tondo che è stato posizionato poco più il là della porta d’entrata, a cui prima non avevi affatto fatto caso. Ti soffermi, allora, su quelle poche persone presenti all’interno della caffetteria: il giovane cameriere sta parlando con la ragazza che lavora dietro al bancone, e si alliscia con tre dita il pizzetto leggermente lungo, sorridendo, come a volersi dare un’aria più vissuta. Fosse sufficiente un po’ di barba spelacchiata, a diventare più grandi, sarebbe tutto molto più semplice. La ragazza, dal canto suo, sembra invece leggermente annoiata, ma è evidente che lui, invece, non se ne sia accorto per niente. Sarebbe divertente - pensi, sogghignando leggermente tra te e te - andare al bancone per pagare il conto e fare un breve ma pungente commento che avrebbe causato in quei due sia imbarazzo che una lieve confusione. Qualche mese prima la cosa sarebbe stata anche realizzabile.
Muovi ancora gli occhi, dunque, cambiando l’oggetto di osservazione. Una ragazza, seduta da sola in un angolo, ha una grande tazza di fronte a sé, sul proprio tavolo, ed un libro tra le mani. Da quella distanza riesci comunque a distinguere i marshmallows bianco-rosati nella sua tazza, per cui non può che trattarsi di cioccolata calda. In estate? Beh, è una stranezza. Ma, data la ragazza in questione, la cosa non sembra sorprenderti: è vestita di colori tra il nero ed il viola, con un trucco leggermente pesante - ci mancherebbe poco che quel nero le accentui le occhiaie, invece che farle risaltare gli occhi stessi - e per quanto riguarda i capelli… corti, sì, ma senza una forma definita, sono completamente ‘sparati’ in tutte le direzioni. Scuri, sì, ma con qualche striatura rosa qua e là. Non puoi evitare di inarcare il sopracciglio; la palla verde fuori dalla porta è più ordinata di quella capigliatura. In qualche modo ti ricorda un po’ Ninfadora Tonks.
Salazar. Non hai pensato mai a certe persone, quando le incontravi con la frequenza di una, due volte a settimana, mentre ora nomi su nomi compaiono nella tua mente, a volte, sovrapponendosi l’uno all’altro.
In ogni caso, lei sembra fin troppo assorta nella lettura, visto che la cioccolata, per quanto inusuale sia in quella stagione, ha smesso già da un po’ di spandere attorno a sé una sottile scia di vapore caldo.
Chiudi gli occhi, ed provi ad applicare uno dei pilastri dell’Occlumanzia: svuotare la mente.
Quando riapri gli occhi, li posi su O’Dampand. In fondo potresti osservare anche lei, come hai iniziato a fare con tutto il resto della misera clientela. Però c’è una cosa, proprio in quel momento, che ti distrae - di nuovo - anche se per un tempo relativamente breve, data la natura prettamente comune dell’evento.
Sono semplicemente entrate dalla porta di vetro due persone, due nuovi clienti, ovviamente, che si sono andati a sedere ad un tavolo poco distante dalle grandi pareti trasparenti. Non due ragazzetti come poteva esserlo il cameriere, due adulti, un uomo ed una donna, presumibilmente appena usciti dallo studio o dal negozio in cui lavorano e che ora si gustano un momento di pausa prima di tornare a casa. Certo, sono tutte tue supposizioni, ma ti danno quest’impressione.
“Ma si può sapere che cosa sta guardando?” ti dice, improvvisamente, O’Dampand, così la guardi subito, per l’ennesima volta.
Non fai neanche in tempo a risponderle che lei si gira verso quelle due persone appena entrate. E tu inarchi un sopracciglio, per questo. È ovvio che lei non si sia resa conto che non è che tu stia osservando proprio quei due da così tanto tempo, ma che hai scandagliato con gli occhi un po’ tutti quanti, per mero interesse personale, ma evidentemente O’Dampand sul momento non ci ha pensato, e la sua curiosità ha precluso ogni tuo tentativo di spiegazione.
Potresti anche lanciarle una frecciatina su questo suo bisogni di… impicciarsi, tutto così tipicamente femminile, quando la sua espressione ti blocca con la bocca già semichiusa.
Sembra… sorpresa, mentre osserva i nuovi arrivati; davvero, è come se non si sarebbe mai aspettata di vedere quei due. Che poi, a dirla tutta, ti sembrano così banalmente anonimi…
La sua, di spiegazione, quantomeno, non tarda ad arrivare, quando lei si volta nuovamente verso di te con un gran sorriso, un sorriso diverso da tutti quelli che le hai visto sul viso fino a quel momento.
“Io li conosco, quei due!” quasi esclama, ma, fortunatamente, il suo tono di voce non attira l’attenzione di nessuno.
“Sul serio?” rispondi - con una domanda - tu, sempre con un sopracciglio inarcato.
Il tuo, di tono di voce, è piuttosto annoiato.
“Sì, lei è una mia amica.” continua, però, lei, come se nulla fosse “E’… Mi sembra veramente un secolo, che non la vedo.”
E si gira nuovamente verso questa amica, però non nella stessa maniera spudorata di poco prima.
“Mmh. Sì, mi sono accorto che, ultimamente, nella sua vita è stata occupata a fare altro.”
Lei ti guarda ancora.
“Non era un rimprovero nei suoi confronti, signor Piton. Era solo… Beh, è un dato di fatto, una mia osservazione innocente.”
Tu, di tutta risposta, non… rispondi, e, sul momento, ti sembra molto più interessante guardare il cameriere andare a prendere l’ordinazione dell’amica di O’Dampand e del suo misterioso accompagnatore.
“Quante cose ha smesso di fare, O’Dampand, a causa del suo… ultimo lavoro?” ti esce dalle labbra, prima che tu possa fermare le parole.
“Non troppe.” risponde lei praticamente in maniera immediata, senza neanche pensarci due volte, pare “Non ho una vita così interessante, e non ho dei figli a cui badare o un marito da dover tenere d’occhio per evitare che mi tradisca.” fa un piccolo sorriso, di nuovo differente da tutti gli altri “Più che altro ho una casa che ormai sarà invasa dalla polvere. E gli amici che non vedo spesso, ovvio, ma sia io che loro, dopo tutti questi anni, ci siamo abbastanza abituati.”
Tu aspetti un po’, prima di rispondere.
“Mmh.” dici, e sei sicuro che lei stia pensando che avresti potuto risparmiarti di aspettare a rispondere, dato che ciò che produci non si può classificare neanche come mero monosillabo.
“A proposito, però,” continua comunque O’Dampand “vorrei andare a salutarla, la mia amica. Mi concede qualche minuto?”
Fai una smorfia, prima di rispondere.
“Chi siamo, noi, carceriere e carcerato o viceversa? Faccia un po’ quelle che ritiene opportuno, O’Dampand, specie se la cosa non mi tocca personalmente.”
“Oh, beh, meglio così.” sembra concludere lei, difatti, un momento dopo, si alza, evitando da far strusciare le zampe della sedia sul pavimento.
Non passa praticamente alcunché che lei è già arrivata al tavolo a cui è seduta la sua amica.
Oh, sono subito baci, abbracci, e O’Dampand pare conoscere anche l’accompagnatore della ragazza. E poi va a finire che proprio quest’ultima dice qualcosa - in effetti, pare parlare in continuazione - facendo segno con la mano alla terza sedia presente al loro tavolo. Un chiaro invito a sedersi, ovviamente, e O’Dampand si gira un momento verso di te, non appena l’amica finisce di formulare la sua domanda. Tu ricambi lo sguardo con espressione più che neutra, piatta, e O’Dampand finisce per sedersi, per l’appunto.
Tu riprendi in mano il tuo tè e ricominci a bere.
O’Dampand non si è neanche portata dietro il suo cappuccino, la cui tazza è ancora piena per almeno metà - valuti, dandole un’occhiata all’interno - e quindi finirà per raffreddarsi. Poco male, la questione non rientra tra i tuoi problemi di importanza vitale.
E poi peggio per lei, che ti ha lasciato lì come uno stoccafisso.
L’avevi detto che, in simili condizioni, saresti stato l’equivalente di una palla al piede. O meglio, l’avevi pensato, più che altro. Ma gliel’avevi fatto comunque capire, ai suoi tempi, e lei non ti ha voluto ascoltare comunque…
Devi smetterla di pensarci.
Poi, però, torni comunque a guardare il tavolo col terzetto. Stanno parlando tutti quanti, tra sorrisi vari, ammiccamenti e brevi risate nascoste dal palmo di una mano; per quanto riguarda le donne, certo.
Poi le risate varie smettono, al che ti chiedi di cosa abbiano mai cominciato a parlare. Te ne fai una certa idea quando sia l’amica di O’Dampand che l’uomo guardano nella tua direzione, apparentemente cercando di non dare nell’occhio. Col fatto che, tu, invece, li stai proprio tenendo d’occhio, la cosa non ti sfugge assolutamente.
Beh, di bene in meglio, non c’è che dire.
Dai per scontato che quei due siano anche loro dei maghi; è più probabile, in questo modo, che siano amici di O’Dampand. Per questo motivo, allora, presumi anche che loro ti conoscano. Se non di viso, quantomeno di nome.
A dei comuni Babbani, invece - e, ancora, sei tu che immagini che non lo siano - avresti sicuramente dato l’impressione che tu ed O’Dampand siate addirittura una coppia: la santa moglie che si occupa del povero marito menomato.
A questo punto, quasi-quasi, preferisci lo sguardo che ti lanciano i maghi - anche se la linea che separa le tue emozioni alle due immagini è alquanto sottile.
In ogni caso, un tempo avresti fatto di tutto per poter essere sulla bocca di tutti, ma adesso… Beh, di sicuro non sei sulla bocca di tanta gente, in quel periodo, per le stesse cause che ti eri immaginato da giovane.
Dopo che comunque ti hanno guardato per bene, e che tu hai ricambiato lo sguardo riducendo gli occhi a due fessure, il loro chiacchierare si fa molto più serio di quanto fosse prima, come se non bastasse; e le loro espressioni non sono molto… soddisfatte. Di sicuro non sono molto contenti del lavoro che sta svolgendo O’Dampand, potresti metterci la mano sul fuoco.
La mano che non funziona, tanto per andare sul sicuro.
Da quella posizione, però, non puoi vedere quella di O’Dampand, di espressione, dato che ti sta dando la schiena. Non devi, però, aspettare molto per scoprirlo, dato che, subito dopo - o quasi - proprio O’Dampand si alza, con l’evidente - o, almeno, così ti sembra - intenzione di congedarsi.
Altri sorrisi, baci, abbracci, strette di mano, pacche sulle spalle… Ti aspetteresti addirittura che scoppiassero tutti in lacrime.
Oh, povera, piccola, indifesa O’Dampand.” pensi, dando l’ultimo sorso al tuo tè, e poi posi nuovamente la tazza sul tavolo.
Il rumore della ceramica che sbatte leggermente contro il legno sbiadisce nel momento stesso in cui O’Dampand si risiede di fronte a te.
“Ci ho messo tanto?” fa lei.
Ti umetti leggermente le labbra, prima di rispondere, e posi lo sguardo involontariamente sul suo cappuccino.
“Per me poteva anche rimanere a parlare lì, con i suoi compari.” dici, semplicemente.
Lei assume un’espressione perplessa e non commenta. Forse si sta chiedendo perché sembri ‘avercela’ con lei. E lei potrebbe benissimo chiedertelo direttamente, al che cosa le risponderesti? Beh, la verità. Che lei si è alzata, si è allontanata… e che poi chissà cosa avrà mai detto a quei due laggiù, dato che continuano a parlottare tra di loro anche adesso, mentre di tanto in tanto ti lanciano qualche veloce occhiata.
Di conseguenza anche tu li guardi; certo, è un po’ che li stai guardando, però adesso li fissi sul serio, e non tanto benevolmente. E loro cominciano a guardare fuori da quella specie di vetrata. In ogni caso, O’Dampand non dice proprio niente, per cui ti spieghi direttamente tu, in poche parole, e magari utilizzando più o meno le stesse parole che hai pensato poco prima.
“Posso immaginare benissimo l’entità della sua appena passata conversazione, O’Dampand, e, magari, prima di farlo di nuovo dovrebbe anche…” chiederti il permesso? “… farmelo sapere, prima. In modo da redarguirla.”
“Dica direttamente sgridarmi, signor Piton. È più diretto.”
Inarchi un sopracciglio.
“Bene.” ti attieni a quanto di ha appena detto lei, dunque “Allora la prossima volta eviti chiaramente di sparlare di me alle mie stesse spalle, così non dovremo portare avanti un’altra volta una conversazione di questo genere.”
O’Dampand posa gli avambracci sul bordo del tavolo, avvicinandosi così un po’ più in avanti con il busto.
“Posso essere diretta anch’io, a questo punto?”
“Da quando, per cose come questa, mi chiede il permesso?” ribatti, e lei si stringe nelle spalle, poco prima di spostare di lato la sua ormai imbevibile ed inutilizzabile bevanda.
“Io non sparlo di lei alle sue spalle, signor Piton. non sparlo e non parlo neanche, direttamente. Non deve continuare a vedermi come una nemica per qualsiasi cosa leggermente diversa dalla routine che faccio. È ovvio che i miei amici l’abbiano guardata, ma è perché la conoscono per conto loro, io non ho fatto niente.”
Mmh. Sì, in effetti l’avevi ponderata, una cosa del genere; la seconda parte, quantomeno.
“Come se non avesse mai detto loro che sarebbe venuta a… lavorare proprio da me.” rispondi comunque.
E  lei fa dei cenni di diniego con la testa.
“Mi sembra molto improbabile.” continui tu.
Ancora non dice niente, lei, e intreccia le proprie dita, congiungendo le mani sul tavolo. In realtà c’è mancato poco che non desse una botta a quella maledetta tazza. Sarebbe proprio… esilarante, in quella situazione, frantumarla in mille pezzi.
“Al San Mungo mi hanno chiaramente detto di non andare a spifferare ai quattro venti in cosa sarebbe consistito il mio nuovo incarico. E così io ho fatto. Quando sono venuta per la prima volta a casa sua, signor Piton, non l’avevo proprio detto a nessuno. Il che mi ha causato pure un po’ di fastidio, lo ammetto, sa.”
“Viene a parlare a me, O’Dampand, di mantenere i segreti?”
Per un momento riesci a zittirla.
Per un momento, certo.
“Ma… Ma no, non l’ho detto, non ho sparlato, non ho fatto proprio niente, e neanche in seguito. Se poi, in una banale caffetteria, due miei amici l’hanno riconosciuta, io che colpa ne ho?”
Lei fa un leggero sorriso, e stavolta sei tu che rimani zitto.
Non sai cosa ti è esattamente preso, sai solo che adesso ti senti leggermente… stupido. L’avevi anche considerato, che i maghi è possibile che ti riconoscano per una mera foto pubblicata su La Gazzetta del Profeta. Evidentemente quell’uscita un po’ improvvisa e senza un vero e proprio scopo ti ha stancato più del previsto.
“Non ha finito di bere.” dici solamente.
Forse O’Dampand si aspetta persino che tu le faccia le tue scuse, ma tu ti limiti prima a distogliere leggermente lo sguardo e poi a cambiare argomento, tirando in ballo quel dannato cappuccino di cui ti eri prefissato addirittura di non curarti più per niente.
Lei, però, non ribatte. Non ti fa pesare il fatto che non ti sei comportato come magari lei si sarebbe aspettata - sei praticamente sicuro, di questo. Si limita a rispondere a quella tua ennesima osservazione.
“Oh, è vero. Poco male.” dice, infatti, e poi si stringe nuovamente nelle spalle, piegandosi - di nuovo - un po’ in avanti, proprio come prima “Le rivelo anche una cosa: in realtà non mi è piaciuto quasi per niente.”
Fai uno sbuffo, a metà tra il divertito e l’infastidito. Anzi, tra il divertito e il sentirti preso alla sprovvista.
“E ha avuto pure da ridire quando ho detto io, che non era un granché.”
“Ma lei poi ha detto di stare scherzando. E chi sono, io, per contraddirla?”
“Sì, peccato che lo fa in continuazione, O’Dampand.”
Non c’è bisogno che nessuno di voi due aggiunga nient’altro. Così rimanete in silenzio entrambi, stavolta. Però è un silenzio diverso, rispetto a quello di poco prima. Questo non ti dà fastidio, è… più sereno.
“Che dice, signor Piton, andiamo via o rimaniamo un atro po’?”
“Io il mio tè l’ho finito da un pezzo. Non c’è motivo per cui io rimanga.”
“O che rimaniamo.” prova a correggerti lei.
Fai uno di quei soliti gesti della mano, a mezz’aria, più o meno all’altezza del tuo stesso viso, per mostrare un po’ di indifferenza a quello che lei ha appena detto.
“Sono solo sottigliezze.” dici, difatti.
Lei, però, pare persino piuttosto… divertita.
“E questo a che cosa lo dovrei?” chiedi, infatti.
“Per la faccia che ha fatto.”
Inarchi per l’ennesima volta il sopracciglio. Non è veramente la più pallida idea di che diamine di espressione tu possa aver appena fatto. Una faccia indifferente, sarà stata, dato il tuo intento, quindi non arrivi comune a capire il perché del comportamento di O’Dampand.
“Donne.” mormori tra te e te, mentre lei sta saldando il conto - ha insistito lei “Donne psicopatiche.”
Pochi minuti dopo siete finalmente fuori dalla caffetteria. Appena fuori dai un’ultima veloce occhiata all’insegna che non c’è, subito prima di concentrarti sulla strada che state per percorrere. Stavolta sei sicuro che ti concentrerai sulla via del ritorno piuttosto che perderti nei tuoi soliti pensieri.
In ogni caso, proprio poco prima di uscire, O’Dampand ha salutato quei due suoi famosi amici, che, col fatto che stavolta ci sei anche tu, vicino a lei, non sono stati più tanto espansivi. In realtà, poi, hanno guardato anche te, e per un momento hai creduto che fossero addirittura in procinto di darti il buon pomeriggio. Poi però li hai visti entrambi indecisi, entrambi titubanti, con quella faccia che dice ‘lo faccio o non lo faccio? Cosa faccio?’. E alla fine non hanno fatto - o detto - proprio alcunché.
Poco male, la cosa non ti tocca. L’unica cosa negativa è che, ad una loro prima parola, avresti potuto fare un commento sulle loro ebeti espressioni facciali e, magari, anche linguistiche.
In realtà avresti potuto fare questo commento anche senza che loro pronunciassero nulla, ma, dopo neanche un paio di secondi, ti ritrovi - appunto - fuori dall’edificio, sul marciapiede, per cui puoi dire di aver sprecato l’occasione.
Ti appunti a mente che, la prossima volta, non te la lascerai sfuggire. Semmai ci sarà dolorosamente una prossima occasione, ovvio.
In ogni caso sia tu che O’Dampand - ed è anche inutile sottolinearlo, che siete sempre voi due - vi appropinquate sulla via del ritorno.
Sempre. Costantemente. Insieme.
Già.
Detta così sembra una delle peggiori torture esistenti. Ma almeno puoi contare sul fatto che sembra che tu ci abbia fatto un minimo di abitudine, e la tortura è semplicemente una tortura di medio livello. Forse a volte non è neanche una tortura vera e propria. Certe volte soltanto.
Adesso, comunque, così come ti eri prefissato di fare giusto un minuto prima, fai più attenzione al percorso che dovete compiere. Andate anche abbastanza lentamente, il che ti fa chiedere come mai, all’andata, il tempo ti sembra essere passato tanto velocemente da non farti neanche accorgere che avete addirittura cambiato quartiere, per raggiungere la caffetteria senza nome.
Già, avete cambiato quartiere. E siete capitati proprio in quel quartiere, proprio di fronte a quella caffetteria. Che sia veramente tutto un caso?
Ti volti leggermente all’indietro, senza farti notare troppo - senza farti notare per niente, in realtà, complice il fatto che il collo, adesso, ti fa meno male - per guardare verso O’Dampand. Certo, la vedi dal basso - che frustrazione - ma riesci comunque a constatare che sembra quantomeno rilassata. Normale, più che normale, a dirla tutta.
Poi ti giri e guardi nuovamente di fronte a te. Sì, siete capitati proprio in quella caffetteria, e, sempre molto casualmente, avete incontrato anche gli amici di O’Dampand. Qualcosa ti suggerisce che in realtà non sia stato un caso proprio per nulla.
Però la sua reazione sorpresa ti era sembrata sincera, altrimenti questo dubbio ti sarebbe venuto sul momento, invece che adesso. No, dev’essere stato solamente un caso, O’Dampand non dovrebbe essersi stufata a tal punto della situazione da programmare incontri clandestini tanto per riuscire ad evadere da quella che ormai è la sua nuova ennesima quotidianità.
“O’Dampand.” la chiami, per l’appunto.
“Sì?”
E a questo punto ti chiedi proprio perché tu l’abbia chiamata, anche perché non è che tu debba chiederle proprio una cosa in particolare; o meglio, una cosa da chiederle l’hai appena pensata, ma di certo non era tua intenzione fargliela presente in maniera così… esplicita.
“È stata felice di incontrare nuovamente i suoi amici?”
Che domanda idiota. Sei un idiota. È ovvio che lo sia stata.
“Beh, sì… È parecchio tempo che non li vedevo.”
Appunto. Idiota.
Non rispondi, dato che non c’è proprio nulla da rispondere. Hai fatto una domanda inutile, quindi eviti di portare avanti un’inutile conversazione.
“Comunque,” è però lei, a parlare, e la cosa ti sorprende e non ti sorprende al tempo stesso - sentimento strano “mi spiace se in quel momento l’ho lasciata da solo. Avrei dovuto pensarci.”
Si sta… scusando? Beh, ha detto ‘mi spiace’, non è proprio come ‘scusi’, ma è una cosa abbastanza simile.
“Non si preoccupi.” senti dire da te stesso “Non è stata la fine del mondo, su questo non c’è dubbio.”
Prima ti eri offeso, per questo motivo, e poi le dici una cosa simile. Cos’avevi pensato, una o due ore prima? Pazzia? Beh, ecco che si ripresenta, puntuale. Si era solo presa una pausa, a quanto pare.
È come se tu stia vivendo la scena... dall’esterno, come se non sia veramente tu a dire quelle parole, eppure invece è proprio così. È la stessa sensazione strana che si era presentata giusto un attimo prima.
“E comunque” continua O’Dampand, attirando nuovamente la tua attenzione, svanita solo per la frazione di un istante “Sarei stata bene lo stesso, anche senza i miei amici spuntati fuori all’improvviso. E sono stata bene praticamente in ogni momento.”
E questo cosa c’entrerebbe? Perché te lo sta dicendo? È per farti contento? Ti sta per caso trattando come un bambino troppo cresciuto?
Tutte queste domande, però, sembrano svanire subito, e tu ti senti rispondere immediatamente altre poche parole.
“Sì, ma… sono stato bene anche io.”















Angolo Autrice:

Ehilà!
Sì, lo so: mi avevate data per morta.
E invece no, dovrete sopportarmi ancora.

Che dire, ne sono successe, di cose, da quando mi ero presa una "piccola" pausa dal pubblicare. Ho fatto corsi, mi sono laureata, ho scritto tante cose (no, non è vero, ma qualcosa sì, bisogna sempre tenersi in allenamento), ho cominciato a lavorare.
Sono stanchissima.
Ma da poco ho ripreso anche la scrittura di "Convalescenza", e devo ammetterlo: non mi stancherò mai di scrivere questa storia. Certo, descrivere gli avvenimenti risulta sempre più complicato, data la loro complessità, ma piano-piano conto di potercela fare.

Dunque. Vi ricordate, sì?, dove eravamo rimasti?
Piton è paralizzato per metà, riesce a muovere solo il lato sinistro del proprio corpo (a parte la testa e il collo, ovviamente). Eppure la sua caviglia destra ha appena ricominciato a funzionare, evviva!
Nel frattempo ha ricevuto la gradita visita di Rodolphus Lestrange, che ha tentato allegramente di farlo fuori, ma, grazie all'intervento di Serena ("O'Dampand." mi correggerebbe il professore), nessuno si è fatto male. A parte Rodolphus, che è stato arrestato. Questo ha fatto sì che il nostro simpatico due cominciasse a pensare che casa Piton non è poi così sconosciuta e ignorata come possa sembrare.

Caso ha voluto che il capitolo appena pubblicato sia comunque piuttosto di transizione - oh, il prossimo non lo sarà per niente - per cui, perlomeno, questo vi aiuterà a tornare più o meno familiari con questa storia.
Sempre che vogliate continuare a seguirla, certo.
... Ohibò.

Ebbene, cosa aggiungere: non so quando pubblicherò il prossimo capitolo (metto le mani avanti), ma non sparirò, e, se proprio non dovessi riuscire a pubblicare, di sicuro non vi farò aspettare mesi. Promesso.

Alla prossima, bellezze (o bellezzi?),
Iurin

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Capitolo 16
*** Capitolo Quindici ***


Capitolo Quindici
 
 
La strada che vi riporta a Spinner’s End ti ritorna vagamente più familiare quando i minuti trascorsi cominciano ad aumentare sempre più di numero. Sei sicuro, adesso, che, voltandoti completamente indietro, neanche la vedresti, la caffetteria. Se davvero tu lo facessi, oltre a non vedere nulla se non palazzi anonimi o negozi e vetrine di altro tipo, ti ritroveresti davanti la figura di O’Dampand, o, meglio, le sue mani posate su quelle specie di manubri attaccati proprio dietro la tua nuca. Sulla sedia metallica, ovviamente, ma proprio a quell’altezza, uno a destra e uno a sinistra.
Salazar, nonostante tu effettivamente lo sappia non riesci a non provare un non troppo vago senso di nausea ogni qual volta ti soffermi a pensare al tuo stare costantemente seduto . Sì, è vero, stai seduto anche in poltrona, sul divano - anche se più raramente - sulla sedia della cucina, a letto, ma… quelle sedute la tua attenzione non la attirano, sono routinarie, quotidiane, riguardano mobili che hai sempre utilizzato. Quella sedia no. La sua particolarità la rende affascinate a qualcuno, ma completamente insopportabile a te.
Affascinante, già.
Immagini un bambino, a casa di suo nonno, osservare con la testa inclinata da un lato la sua sedia a rotelle. Poi lo vedi, come fosse davanti a te, sedersi su di essa, accomodarsi, e provare nell’attimo esattamente successivo a farla muovere girando le ruote con le mani. Riesci a vederlo mentre sbuffa per il fatto di non avere abbastanza forza nella braccia, riesci a vederlo impegnarsi, riuscirci, magari, e poi correre per il salotto strusciando addosso alla mobilia con quella cosa. E poi vedi suo nonno, invece, seduto su una vecchia sedia dalla fodera di paglia, accanto alla finestra, il bastone piantato a terra e le mani giunte sulla sua sommità, guardare suo nipote girovagare per casa sua. Nella tua mente il vecchio non ha quel sorriso che a volte compare a chi sta osservando il futile e inopportuno comportamento di un moccioso.
Ciò che per lo stupido bambino è solo un gioco - e magari anche piuttosto divertente - per il vecchio non è che il costante ricordo delle sue inabilità.
Per il bambino quell’oggetto potrebbe essere affascinante, ma a te - come ad un vecchio, sì, interessante paragone - risulta completamente insopportabile.
In un libro babbano, una volta - non ricordi neanche quando, esattamente - avevi letto qualcosa riguardo agli antichi e moderni metodi di tortura e di esecuzione.
Sì, le solite letture serali per conciliare il sonno.
Chiunque - chiunque, e chi non lo ammette è solo un bugiardo - ne rimane affascinato. Magari anche inorridito, è naturale - non te, ma a qualcuno dall’anima sensibile potrebbe succedere - ma non per questo non-affascinato. Chiunque cercherebbe di capire quale sia il funzionamento di una macchina da tortura o di esecuzione, e scommetti che quel chiunque si fermerebbe anche ad osservare qualcun altro smontarla e poi rimontarla.
Piuttosto ironico che, all’epoca, tu abbia letto anche della sedia elettrica.
Scampando però per un momento da tali lugubri pensieri, ti riconcentri sulla strada di fronte a te. Ti eri detto che lo avresti fatto, quindi focalizzi il cemento sopra il quale state camminando.
C’è comunque quiete, nell’aria, e la cosa, per te, è anche abbastanza insolita.
Circa dieci minuti dopo, però, quel vago senso di nuovo equilibrio pare frantumarsi in pezzi quando due mocciosi, superandovi a passo svelto, si sono messi a borbottare tra di loro. Su cosa? Beh, su di te, altrimenti la cosa non avrebbe attirato la tua attenzione. Anzi, hanno espresso commenti sui tuoi capelli, più che altro, ma la sfacciataggine ti ha ugualmente dato ai nervi.
Che, poi, il fulcro del commento è consistito in una parola che hai già sentito, rivolta a te, innumerevoli ed innumerevoli volte.
Unti.
Beh, lo sa da te, ma è per principio che senti la bile aumentare.
Tale parola l’ha sicuramente sentita anche O’Dampand, dato che, per un momento, ha modificato leggermente la propria andatura, segno impercettibile che, però, tu hai colto lo stesso.
Sì, c’entra leggermente il fatto che la tua orribile sedia meccanica abbia fatto un sussulto.
Tu, in ogni caso, non hai detto alcunché, semplicemente perché non ne hai sentito il bisogno. Come sempre, l’improvviso nervosismo te lo saresti fatto passare in silenzio e totalmente per conto tuo.
A quanto pare, però, O’Dampand non è dello stesso avviso, dato che mormora un non tanto a mezza bocca ‘Stupidi’.
E questo ti ha anche sorpreso un po’.
“O’Dampand, da quando insulta qualcuno?”
“Beh, sono stati… maleducati. Ma perché dice così?”
Tu alzi semplicemente le spalle.
“In questo caso quelli lì se lo sono meritato. Non sono stati carini per niente.”
Non sai perché lei stia facendo così. Cercando di essere solidale con i tuoi ipotetici pensieri - che lei pare aver istintivamente interpretato e compreso addirittura correttamente. Per farti sentire meglio? Lo fa adesso? Quando, francamente, quel commento era, per quanto irrispettoso e idiota, sostanzialmente veritiero?
Il suo comportamento, però, non riesce nel suo intento. E lei lo capisce, e sa che c’è ben poco da dire, perché, quando tu smetti di parlare, anche lei ti imita all’istante.
Ma non le avresti detto che - sì, è vero - non ti lavi i capelli tutti i giorni ma, bensì, due volte a settimana, che ci sono persone che sembrano avere i capelli puliti anche dopo giorni e giorni che non vedono una goccia d’acqua, che tu non sei tra queste persone, ma che, invece sei tra coloro che dovrebbero usare lo shampoo un giorno sì ed il successivo anche, e tu, di sicuro, non trovi né il tempo né la voglia per farlo. Il fatto che Madre Natura ti abbia dotato di una tale caratteristica va al di là delle tue responsabilità, nella tua ottica.
Ciò, però, non toglie che commenti come quello di quel giorno non si sono mai sprecati, e tu, di riflesso, specialmente quando eri molto più giovane, ti sei impuntato ancora di più, perché no, non farai qualcosa di cui gli altri non si preoccupano minimamente, solo perché non sei ‘ganzo’ come loro.
Il lessico degli anni Settanta lasciava molto a desiderare, mh.
Con il tempo l’ostinazione adolescenziale si è tramutata in convinzione comportamentale, in ‘modo di vedere le cose’, e i commenti ti hanno dato sempre meno fastidio, in realtà, perché a te è sempre andato bene così, dopotutto. E poi, sinceramente, perché preoccuparsi, dato che non hai mai dovuto impressionare positivamente nessuno?
Quindi, in realtà, neanche capisci perfettamente come mai, quel giorno, il tuo solito livello di sopportazione si sia così pericolosamente abbassato. Pericolosamente, sì, perché in quell'esatto momento sei quasi stato tentato di dire tutto ad O’Dampand, tutte le tue motivazioni, da quando avevi tredici anni in poi. Come a volerti giustificare, quasi.
Beh, ti sei trattenuto dal parlare, stavolta, anche se il logorroico istinto non avrebbe, in realtà, dovuto manifestarsi affatto.
E così continuate a camminare, diretti nuovamente verso casa. Verso casa tua.
E ti trattieni anche dal dirle che, nonostante quanto appena successo, ti sei reso conto che, dopo il  manifestarsi del parere di O’Dampand, il tuo malumore sembra essere svanito. O quasi, ma comunque… Non importa.
 
“O’Dampand! O’Dampand!” quasi urli.
Anzi, in realtà stai proprio urlando, dato che tu ti trovi in camera tua e lei chissà dove.
Dal giorno della… passeggiata, o quel che diavolo era, è passato diverso tempo. Non troppo, non eccessivamente, ma altri giorni si sono susseguiti, mattine e sere che andavano ormai avanti nell’abitudine.
Ti è anche venuto a trovare Sherman per il primo controllo fatto direttamente a casa tua.
“Quale onore, professore.” è stata la prima cosa che gli hai detto non appena lui ha varcato la soglia della tua stanza.
E proprio nella tua stanza sei ora, sì, seduto sul letto, con i cuscini sistemati alla bell’e meglio dietro la tua schiena, in modo da sostenerti in una posizione quantomeno plausibile per poter leggere. E non farsi venire il torcicollo, dato che, in una situazione come la tua, anche un male tanto piccolo potrebbe trasformarsi in qualcosa di molto peggio.
Stavi leggendo, quindi.
Quando te ne sei accorto.
È stato come per la volta precedente: all’improvviso e senza preavviso, senza degnarsi di dare un segnale, un doloretto, un formicolio, un senso di gelo o di bruciore che sia. Niente. Ci sei semplicemente riuscito e… Beh, non hai idea di come sia successo, ma è successo, e questo è sufficiente a farti alzare la tua voce ormai molto tendente al gracchiante per chiamare la guaritrice.
Proprio lei arriva poco dopo, e la prima cosa che fa è bussare alla tua porta semplicemente accostata.
“Avanti.” dici senza indugio.
Solo che pronunciando questa parola il tuo libro volta pagina, al che abbassi lo sguardo verso di esso con un sopracciglio inarcato.
O’Dampand apre la porta, nel frattempo, ed entra di corsa.
“Mi ha chiamata, signor Piton? È successo qualcosa?” è quello che lei chiede subito, come è anche giusto che sia.
D’altronde non sei solito chiamarla quando lei ti ha già dato la pozione e tutto il resto, di sera, dopo cena.
Sei anche in camicia da notte, infatti, ma al momento la cosa non ti interessa per niente.
Tu, però, stai ancora fissando il libro.
“C’è la… marcia indietro, per questo affare?” dici, però, più tra te e te che direttamente a O’Dampand “Indietro.” e la pagina del libro viene voltata nel verso opposto a poco prima “Oh, funziona.”
“E’… E’ questo che voleva chiedermi?”
Alzi gli occhi, a questo punto.
“Certo che no, O’Dampand. Il fatto è un altro.” fai una leggera pausa, durante la quale ti umetti le labbra, per poi proseguire “Ha presene la mia caviglia destra? Ebbene, adesso consideri il piede che vi è attaccato: si muove anche quello.”
Davvero, dovrai studiarla, prima o poi, questa pozione che Sherman ti sta somministrando.
Vedi lei sgranare gli occhi e aprire leggermene la bocca, in un moto di grande sorpresa.
“Davvero? Dice sul serio?”
“Secondo lei sto scherzando?”
“Io… No, effettivamente no, non credo. Direi di avvertire il professor Sherman, allora.” e poi, da calma e tranquilla che era, sbatte improvvisamente le mani, facendoti addirittura sobbalzare; anche se in maniera comunque piuttosto impercettibile “E’ una notizia meravigliosa, potremmo avere la conferma che le cose si stanno finalmente smuovendo! E in tutti i sensi!”
E, detto questo, si volta e corre via. Letteralmente. Senti i suoi passi veloci addirittura su quelle che erano le scale.
Tu, dal canto tuo, rimani, senza neanche avere avuto la possibilità di replicare, a fissare il punto in lei era in piedi fino ad un momento prima, con un sopracciglio alzato.
Neanche sbatti le palpebre, per un po’.
Donne.
E sì, non stavi scherzando, un’altra parte del tuo corpo si è svegliata.
E, come l’ultima volta, ti si presentano le due sensazioni contrastanti: scetticismo e… speranza. Sì, perché non pensarlo? Ma fai finta di nulla, non puoi e non devi crogiolarti nelle emozioni; piuttosto, torni a leggere.
L’unico tuo effettivo disappunto è che non puoi ancora sbarazzarti di quella maledetta cosa. E, pensando ciò, lanci un’occhiata malevola - come se possa essere percepita dalla destinataria, poi  alla tua personale e personalizzata sedia accanto al letto, sedia che ormai si è sicuramente molto affezionata al tuo - personale anche quello - fondoschiena.
Sherman viene avvisato, dunque, anche lui subito entusiasta di tutta la faccenda, pronto ad esprimersi in mille ipotesi e in altrettante elucubrazioni.
Ma non è questa la cosa più… importante accaduta in tale lasso di tempo.
O meglio, sì, ha di sicuro la sua enorme rilevanza, ma, di sicuro, tutto questo passa in secondo piano in confronto a quello che sarebbe accaduto di lì ad un momento dopo.
Tu e O’Dampand siete in salotto, qualche giorno dopo il… lieto annuncio della ripresa attività del tuo piede, e… beh, bussano alla porta. È questo, il punto.
Non che questo sia un evento di portata eccezionale, certo. Bussare è uno di quei gesti che, in sé, significa ben poco. Forse potrebbe essere importante solo in abito musicale, con… i tamburi e tutto il resto, ma tu non ti interessi granché di musica; oltre a ciò, bussare è importante per ciò che preannuncia, per ciò che viene dopo: la porta viene aperta, e, nel tuo caso, viene mostrata l’identità del momentaneo visitatore. Bussare, in sé, non dovrebbe creare alcuna sensazione o emozione. È quel che viene dopo che fa sempre venire il patema d’animo a chicchessia: ‘Chi sarà? La posta, un amico, un creditore, l’amante? Dovrò aprire? Dovrò guardare dall’occhiolino? Dovrò muovermi silenziosamente per non far sapere di essere in casa? Devo cambiarmi d’abito in pochi secondi?’.
Salazar.
In ogni caso, tu non sei chicchessia. E il tuo visitatore sarà momentaneo, sì, così momentaneo che non varcherà nemmeno la soglia di casa, ne sei certo. Sempre che O’Dampand si attenga alle tue già trascorse disposizioni, ma stavolta pensi che userà un po’ più di accorgimento. In realtà, a pensarci, secondo le tue disposizioni dovrebbe infischiarsene e continuare a risolvere i suoi rebus, però immagini che un tale comportamento non sia, purtroppo, realmente fattibile.
“Chi può essere?” è quello che, infatti, ti chiede O’Dampand, non appena il suono di quel bussare si espande per il tuo ingresso-soggiorno.
“O’Dampand, non sono un veggente.” rispondi “E comunque non vedo neanche attraverso i muri.”
Lei, a quel punto, si alza e va proprio alla porta. Tu, uno spioncino, non ce l’hai, quindi lei è costretta ad aprire la porta quel tanto che basta per sincerarsi di chi ci sia dall’altra parte. Prima di far questo, però, dice un leggero ‘Chi è?’. Forse teme che il visitatore possa aggredirla, una volta che lei fosse entrata nel suo campo visivo.
“Il signor Piton è in casa?” la voce risponde, ed è una voce maschile.
E non è di sicuro la risposta alla domanda di O’Dampand, consideri tra te e te, mentre alzi istintivamente un sopracciglio.
“Lei chi è?” ripete, con una leggera variante, O’Dampand.
“Veniamo dal Ministero della Magia.” risponde la voce, solo che stavolta appartiene ad una donna “Dal Quartier Generale degli Auror, più precisamente.”
Parità numerica, come minimo. Mh.
“Siete Auror, quindi?”
“Sì, esatto.”
O’Dampand si volta verso di te, a quelle ultime due parole. Con gli occhi ti sta dicendo che non sarebbe affatto una buona idea sbattere la porta in faccia a due - o più - Auror; o non aprirla affatto, la porta.
Tu ti ritrovi a stringere le dita attorno al bracciolo sinistro della poltrona su cui sei seduto.
Beh, non puoi dire che questo momento non ti aspettavi che sarebbe arrivato; l’unica cosa che finora non hai saputo è stata quando.
Che poi, a dire il vero, ti aspettavi che sarebbero arrivati già molto tempo prima, non così tardi. Forse, quando gli Auror hanno contattato il San Mungo chiedendo di te, è stato detto loro di lasciarti in pace per un po’. Non sai bene come possa essere andato avanti il discorso, ovviamente, né come la Direzione del San Mungo sia riuscita a convincere il Quartier Generale, ma forse ‘malattia’ è un motivo sufficiente. D’altronde non è che saresti potuto fuggire da qualche parte.
Assurdo.
I due Auror, in ogni caso, varcano la soglia, e la prima cosa che fanno è porgere a O’Dampand delle specie di cartellini identificativi che già hanno pronti nelle loro mani. O’Dampand li legge, prima di riconsegnarglieli e di farli infine entrare definitivamente in casa tua. O’Dampand chiude la porta dietro di loro non appena loro muovono un passo in avanti, tanto che forse, deve avere addirittura sfiorato con il legno la spalla destra dell’uomo.
Problemi su problemi. Come se non bastasse. Puoi solo immaginare l’affanno - tuo, ovvio - che seguirà quella visita, e la cosa non ti piace per niente.
Già ti senti stanco, tanto che affondi un altro po’ nella tua poltrona.
I due arrivati li stai guardando, e non sono assolutamente gli stessi che sono venuti a prendere Rodolphus Lestrange diversi giorni addietro; un uomo e una donna, come già hai appurato ancora prima di vederli, e sì, sono solo in due. L’uomo non è più alto di te, ne sei quasi certo, e scommetti che, se tu fossi in grado di metterti in piedi, lo supereresti sicuramente di più di qualche misero centimetro; in ogni caso, l’uomo è biondo, con i capelli corti, la mascella squadrata e le spalle larghe; forse i suoi genitori sono stranieri, perché, a occhio, diresti che provenga da un Paese nordico, la Svezia o la Finlandia o qualcosa del genere.
La donna, invece, non ha nulla di particolare, è piuttosto formale, piuttosto ordinaria, piuttosto classica nel suo completo elegante nero, ed anche piuttosto alta, praticamente tanto quanto il suo collega, ma forse è a causa dei tacchi vertiginosi che ha ai piedi.
Ti domandi come diamine faccia a camminare con quegli affari, e supponi che sia stato addirittura incredibile che lei non sia caduta sull’asfalto nel momento della post-Smaterializzazione. Perché presumi che si siano smaterializzati da qualche parte, per giungere fino a Spinner’s End.
Ad un’altra veloce occhiata noti come, in quel singolare quadretto, O’Dampand sembri assolutamente fuori posto, con i suoi pantaloni ocra, le scarpe da ginnastica e la sua banale felpa blu. Dovresti chiederle, più in là, perché non indossa una divisa lavorativa; o, magari, perché non indossa indumenti i cui colori non procurino un danno all’osservatore simile ad un pugno in un occhio.
Mentre tu li osservi, comunque, O’Dampand si fa lievemente da parte, e l’uomo si schiarisce la voce, prima di cominciare a parlare.
“Signor Piton,” dice, per l’appunto “noto che sta bene.”
Tu sollevi nuovamente un sopracciglio.
“E’ una visita di cortesia?”
“No, non proprio, a dirla tutta.”
“E allora andiamo dritti al punto. Per cortesia.”
L’uomo e la donna si scambiano una veloce occhiata, e subito dopo la conversazione ricomincia, e anche con un tono un po’ più… sostenuto.
“Come avrà di certo capito, siamo due Auror, signor Piton.” è la donna che prende la parola, stavolta “Io sono l’Auror di primo grado Abigail Dover, e lui è il mio partner, Aloysius Bergman.”
“Il suo partner?” chiedi, leggermente perplesso.
È lo stesso Bergman a spiegarsi:
“Partner, collaboratore, collega. Un Auror dello stesso livello.”
La signorina - o signora - Dover fa un movimento con le spalle che denota una certa impazienza, e tu lo noti semplicemente con la coda dell’occhio. Cogliendo quel movimento ti rendi conto che quello è il primo segno di una qualche emozione che i due riescono a trasmettere; non fosse per quello, fosse solamente per il loro visi, si direbbe che non stiano pensando assolutamente a… nulla. Né lui né lei. Il che è strano, perché se due Auror sono giunti fin da te, un uomo dalla storia così particolare, qualcosa devono star pur provando, sia anche soltanto un blando nervosismo.
Invece è come se si stiano trattenendo, in una costretta etichetta professionale.
Stai per dir loro di muoversi a concludere il loro discorso quando Dover infila una mano all’interno della sua giacca e ne estrae un foglio di pergamena piegato a metà; lei lo porge a Bergman, e lui, di rimando, lo porge a te. Tu lo afferri con la mano sinistra.
“E’ un mandato di fermo del Quartier Generale degli Auror,” enuncia Bergman “firmato dal Ministro Straordinario Shacklebolt.”
Capisci quel che stanno per dire nel momento in cui leggi la prima riga del documento.
Dover, però, lo dice comunque a voce alta.
“Deve venire con noi, signor Piton. Dobbiamo farle qualche domanda.”
 
Ricordi benissimo l’ultima volta che sei stato lì. Era il 1981. Sono passati diciassette anni, eppure, nella tua mente, le immagini sono vive e vivide. Così come le sensazioni. Ricordi il cuore martellarti nel petto, la bocca secca e le mani sudate. Ricordi come cercassi di non mostrare tutto questo agli occhi degli spettatori; sì, spettatori: oltre agli Auror che erano lì appositamente per svolgere il loro lavoro, gli altri loro colleghi erano comunque presenti, nonostante tu, il Caso, non fossi stato affidato alle loro competenze. Te lo ricordi. Eri in quella stanza asettica, con le pareti bianche, il pavimento bianco, il tavolo nero. Sembrava anche quella una delle stanze del San Mungo. Oh, ma era molto di più. La stanza degli interrogatori del Quartier Generale degli Auror del Ministero della Magia, d’altronde, non è affatto cosa  da poco. Nel 1981 eri seduto su quella sedia di legno ma dalle manette metalliche, chiuse attorno ai tuoi polsi e attorno alle tue caviglie, con lo sguardo gelido e la mascella serrata.
Ma il cuore ti martellava nel petto e le mani, chiuse a pugno, erano sudate.
Nella stanza era presente un Auror anziano, neanche ricordi più quale fosse il suo nome, ricordi solo la sua veste blu e i suoi capelli corti e grigi, il pizzetto lungo e nero. Quale accozzaglia di colori. Lui camminava al di là del tavolo al quale eri costretto a stare seduto, ammanettato, neanche fossi stato tanto stupido da alzarti e uccidere tutti quanti. Specie per il fatto che ti avessero anche sottratto la bacchetta.
“Lei è Severus Piton?” ti aveva chiesto, continuando a camminare.
Tu, con il volto fermo, lo osservavi muovendo solamente gli occhi a destra e a sinistra.
“Sì.” hai risposto tu.
Il cuore martellava nel tuo petto, sebbene solo tu potessi udirlo, e non solo per un’umana e comprensibile paura.
“Lei ricopre il ruolo di insegnante di Pozioni nella Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts?”
“Non sono solo un insegnate, sono il Mastro Pozionista.”
“Risponda alla domanda.”
“Sì. Sì, lavoro alla Scuola di Hogwarts.”
Le mani erano sudate, e non sono per un’umana e comprensibile ansia per cosa sarebbe potuto succedere nel breve periodo. Le hai aperte, distanziando e tendendo le dita le une dalle altre.
“Ci è stato fatto il suo nome come importante membro del gruppo criminale denominato ‘I Mangiamorte’, nel quale ricopriva un’alta carica. Conferma?”
Tu hai fatto silenzio.
Nelle orecchie ti rimbombava il tuo cuore, e non solo per paura.
Era per dispiacere.
“Conferma, signor Piton? Risponda.”
“Vorrei far venire qui Albus Silente, se possibile. Poi risponderò a tutto quello che volete.”
Così è stato. Spiegazioni famose sono state date, quel giorno. Piani di spionaggio sono stati menzionati, bugie sono state dette - sì, è vero - e verità sono state omesse. Ma dopo gli interrogatori, dopo che è arrivato Albus Silente,  dopo che lui è riuscito a sorridere dopo ogni tua smorfia, nessun processo è stato messo in atto, e le ombre delle torri di Azkaban non si sono mai mescolate con la tua, di oscurità.
Ora sei di nuovo lì, e quel luogo non è cambiato di una virgola.
Ovviamente prima sei stato condotto al Ministero da Dover e da Bergman; anzi, a dire il vero ti è sembrato di esserci stato scortato, e non come se lo fossero state delle guardie del corpo, ma già dei carcerieri, anticipazione di quello che sarebbe potuto succedere in un prossimo futuro.
Quella paura potrebbe rappresentarsi, e già cominci a sentire vecchie sensazioni ripresentarsi, dirti ‘Buonasera, siamo tornate per te’.
Percorrere l’ingresso del Ministero con i due Auror e con O’Dampand dietro di te è stata un’esperienza alla quale avresti preferito non prendere parte. Un luogo così affollato, pieno di maghi, pieno di orecchie, pieno di occhi.
Hai cercato di non guardarti intorno, hai cercato di non accorgerti delle espressioni presenti sui volti di tutti quegli uomini e di tutte quelle donne. Eppure hai comunque visto sia sorpresa, sia rabbia, sia pietà, sia disgusto.
Poi, hai sentito una mano sulla spalla, proveniente da dietro di te. Era O’Dampand, ovviamente.
“Signor Piton.” ti ha chiamato, nonostante fosse implicito che si stesse per rivolgere specificatamente a te.
“O’Dampand.” dici solamente, in modo che prosegua.
“Andrà tutto bene.”
Tre parole che ti fanno salire i nervi già tesi.
Quand’è che è mai andato tutto bene? E quante volte ti è stata ripetuta questa insulsa frase? Quante volte ci hai creduto, specie nella tua più acerba giovinezza? E quante volte ne sei rimasto deluso?
Questo è un conto impossibile da sostenere.
“O’Dampand, stiamo per salire al secondo livello del Ministero della Magia. Sa cosa si trova al secondo livello? Non andrà tutto bene, come minimo tutto questo non farà che farmi innervosire. Non mi menta.”
La senti trattenere il fiato. Prima che lei ribatta, ovvio.
“Sto solo cercando di farle capire che ha il mio appoggio.”
“E cosa me ne faccio, di grazia?”
Oh, non avresti dovuto. Lo sai, una voce nella tua testa te lo suggerisce nel momento stesso in cui pronunci ‘-zia’.
“Alcune persone lo avrebbero apprezzato, piuttosto.” O’Dampand pronuncia queste parole con un tono abbastanza piccato. O meglio, il tono era tale a inizio frase, mentre più avanti, invece, torna normale.
Tu, dal canto tuo, torni a fare silenzio. Non sai se, in un’altra occasione, avresti risposto in maniera differente. Forse no. O forse la tensione e tutte le incognite a cui non sai dare risposta ti fanno quest’effetto.
“E’ una situazione difficile.” ti ritrovi comunque a dire.
O’Dampand sembra capire. Non puoi saperlo osservando la sua espressione, dato che lei, come sempre, cammina dietro di te - ti spinge come al solito - ma il fatto che lei dia seguito a quella breve conversazione sembra in qualche modo confermarlo.
“Per questo gliel’ho detto. Ma posso capirlo. Dica la verità e andrà tutto bene.” risponde, per poi aggiungere immediatamente “Sì, lo so, l’ho detto di nuovo, non riesco a farne a meno.”
Nel frattempo avete raggiungo l’ascensore, che, una volta chiamato, si apre di fronte a voi con il suono comunque a quasi tutti gli ascensori, magici e non. Quando questo si apre, altre persone sono al suo interno.
Quanta gente può contenere il Ministero?
Fortunatamente ce ne sono solo due, due donne, che sussultano, quando si rendono conto di cosa stia succedendo realmente.
Severus Piton sta per essere interrogato.
Le due donne escono di lì quasi strusciandosi di schiena contro le pareti dell’ascensore, e, subito dopo, entrate voi quattro.
In realtà, all’inizio, avreste dovuto essere in tre; Dover e Bergman, infatti, avevano supposto che O’Dampand sarebbe rimasta a casa. D’altronde quello non è posto per lei, e la situazione, in sé, non ha nulla a che fare con lei. La ragazza ha però insistito, dicendo che… beh, asserendo che lei non può venire meno ai suoi doveri, e al momento il suo dovere è occuparsi di te.
Sì, così ha detto.
Come se tu fossi un… gatto, una civetta o qualcosa di simile.
Ma non l’hai pensato, mentre lei ha esternato questo volere; ti è venuto in mente solo a posteriori.
E alla fine anche lei è riuscita ad aggregarsi… all’allegro gruppetto. Da tre siete passati ad essere quattro. Due ‘contro’ due. La cosa ti ha fatto un po’ piacere - hai ammesso solamente tra te e te.
E poi avete raggiunto il Ministero.
L’ascensore si richiude davanti a voi e parte, andando prima a destra, con uno scossone, e poi sfrecciando verso l’alto. Hai sentito O’Dampand tenerti saldamente.
Dopodiché, la voce femminile dell’ascensore stesso: ‘Livello Due: Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia’.
Dlin E dlon.
Quella che si apre davanti a voi tutti è una grande stanza circolare dalle pareti di pietra liscia e grigia. O, almeno, presupponi che sia liscia solo guardandola. Il pavimento è della stessa fattura dei muri, ma più lucido, evidentemente coperto da una qualche sostanza protettiva. I tuoi accompagnatori, camminandovi sopra, producono un costante battito di tacchi. Vi sono delle panche bianche, addossate ai muri, pesanti e squadrate, curve, in modo che possano seguire l’andamento della stanza.
Da quell’ingresso, poi, si apre una porta, una di quelle grandi, alte, massicce, a doppia anta. Le porte sono spalancate, e dall’altra parte tu intravedi già un lungo corridoio, nel quale vi addentrate subito dopo. Lì le pareti non sono di pietra, o meglio, non sono come quelle della stanza che avete appena abbandonato: sono sempre grigie, ma di un grigio più brillante ed uniforme, senza le crepe tipiche della pietra.
Mentre voi entrate in corridoio, un uomo viene verso di voi, ma non vi guarda, vi passa semplicemente a fianco e poi vi supera, di sicuro diretto all’ascensore.
Non è l’unico uomo presente, oltre a voi: lungo il corridoio sono state poste numerose porte, molte con targhette recanti nomi, altre con targhe leggermente più grandi ad indicare il nome direttamente di un determinato Ufficio. E da lì uomini e donne escono, per poi entrare in altre porte. E nessuno presta a voi più attenzione di quanta non sia necessaria solamente per non inciampare.
Uno di questi uomini, invece, con la targhetta attaccata alla giacca, in alto a sinistra, cammina più lentamente degli altri, apparentemente senza una meta precisa, apparentemente con lo sguardo rivolto al vuoto. Deve essere un Auror anche lui, dopotutto, e, guardandolo, ti viene alla mente l’immagine di un vecchio ed annoiato professore che effettua una qualche ronda notturna ad Hogwarts.
Anche se, ora, notte non è.
Anche qui ci si può sedere, in ogni caso, e, se non delle panche, sono comunque state poste diverse sedie lungo tutto il corridoio, a gruppi di quattro o cinque l’uno. Ed è proprio accanto ad uno di questi, più o meno giunti a metà corridoio, che vi fermate.
“Ci vorrà solo un momento.” preannuncia Bergman, interrompendo quel silenzio di cui, francamente, ti sei anche accorto molto poco.
“Per cosa?” senti uscire dalle labbra di O’Dampand.
“Dobbiamo solo… annunciare la vostra - la sua, signor Piton - presenza. Questione di pochi minuti.”
Dover annuisce alle parole del suo tarchiato partner.
Tu non dici e fai nulla, invece. Ti limiti a fissarli.
Ma loro non stanno guardando te, e, un momento dopo, spariscono dietro alla porta che avete praticamente di fronte.
Ti lasciano, così, aspettare proprio lì, davanti a quella porta. In alto, quasi a toccare il soffitto, proprio sopra di essa, vi è una piccola teca di vetro - questo ti sembra - con dentro una luce rossa, segno che la stanza al di là della soglia è occupata. Immagini che anche i Babbani utilizzino uno stesso sistema, ma con le lampadine elettriche. O qualsiasi cosa utilizzino. Qui, invece, noti bene che oltre il vetro ci sono semplicemente delle scintille rosse che si muovono di qua e di là, sbattono contro le pareti e si scontrano le une contro le altre.
Sembrano tanti piccoli insetti rossi e luccicanti in una gabbia.
Eppure, nonostante, quindi, nella stanza vi sia già qualcun altro, Dover e Bergman sono comunque entrati. Magari per capire quanto avrebbero dovuto aspettare, magari per dire a chiunque sia lì dentro di sbrigarsi, magari per salutare un collega. Non lo sai. Ti hanno solo messo lì, ad attendere assieme ad O’Dampand, come fossi uno stupido pacco.
Come se foste due stupidi pacchi.
Neanche si preoccupano di mettere qualcuno a sorvegliarti. Certo, c’è sempre l’Auror che fa avanti e indietro per il lungo corridoio, e prima o poi qualcuno uscirà da qualche porta per entrare in qualche altra, quindi qualcuno ti vedrà comunque, anche se solo di sfuggita. E poi… suvvia: dove credi di andare nelle tue condizioni? Come se tu possa veramente alzarti e correre via. Senza bacchetta.
Salazar, devi sul serio fare qualcosa per la tua bacchetta.
Senza contare che non credi proprio che, in caso, O’Dampand ti permetterebbe di fuggire così, senza dire assolutamente nulla. Pensando alla donna che è al tuo fianco sin da quando siete usciti di casa, ti volti proprio verso di lei. La trovi seduta su una delle sedie attaccate alla parete, la schiena posata indietro, il bacino leggermente spostato in avanti. Non propriamente una posa elegante.
“O’Dampand, le verrà il mal di schiena se continua a stare seduta in quel modo.”
Stavolta è lei a voltarsi nella tua direzione. Prima di parlare si porta una ciocca di capelli biondi, sfuggita all’intreccio della sua coda da cavallo, dietro un orecchio.
“Davvero si preoccupa per il mio mal di schiena? Adesso?” è la sua risposta piuttosto sorpresa.
In effetti la questione sembra decisamente fuori luogo anche a te stesso, a pensarci. Ma cosa sarebbe meglio, in fondo, rimuginare in maniera ansiosa e ansiogena su cosa potrebbe capitarti non appena gli Auror Dover e Bergman usciranno finalmente da quella stanza ‘occupata’?
Oh, non c’è pericolo, tanto lo farai di lì a neanche un paio di minuti.
“Stavo solo pensando che…” cominci, ticchettando appena l’indice e il medio della mano sinistra contro il bracciolo della tua sedia, emettendo così un suono abbastanza metallico “… Se avrà dolori alla schiena non sarà solo lei a rimetterci, ma anche io.”
“Ah, ecco. Mi pareva strano.”
“Mh.”
Silenzio, per una manciata di secondi.
“Sa come i Babbani lo chiamano, a volte, il mal di schiena?” chiedi, però, subito dopo.
“No, come?”
“Colpo della strega.” spieghi “Ed è una particolare scelta di parole, non trova? Come se le streghe c’entrassero veramente qualcosa. Forse, chissà quanti secoli fa, una strega ha praticato un ‘Pietrificus’ alla schiena di qualcun altro. Solo che ora ogni blocco dorsale per i Babbani è opera di una ipotetica quanto inesistente strega.”
O’Dampand ti sta fissando senza dire nulla e con una strana espressione sul viso. Eppure risponde lo stesso, sebbene con un tono di voce un po’ titubante, all’inizio.
Per un momento ti saresti aspettato che non aprisse proprio bocca, invece.
“Sì, beh… E’ una cosa interessante, sì. I Babbani a volte sono piuttosto strani nello scegliere i nomi delle cose.” tu annuisci “Le ha studiate… Com’è che si chiama quella materia, ad Hogwarts? Babbanologia, se non erro.”
Stavolta muori appena la testa a destra e poi a sinistra.
“No, sapevo quasi tutto ancora prima di andare a scuola, dato che mio padre era un comune quanto disgustoso Babbano.”
“Se ha voglia di parlarne, signor Piton…”
Tu, però, la interrompi ancora prima che possa cercare di concludere il suo invito.
“E a cosa mi servirebbe? In questo momento ho ben altro a cui pensare, O’Dampand, dovrebbe essersene accorta d a sé. O sbaglio?”
Un cambio di atteggiamento a dir poco radicale.
E incoerente. D’altronde non hai parlato di futilità sino a questo esatto momento? Adesso ti tiri indietro?
Forse è perché, in fin dei conti, non vuoi pensare a fatto a quello che accadrà da qui a qualche altro minuto. Forse non vuoi pensare al fatto che il cuore stia cominciando a martellarti nel petto e che le mani ti stiano diventando sudate.
Ma qualsiasi probabile risposta della signorina O’Dampand non trova concretezza al di fuori della sua mente, perché, proprio in quell’esatto istante, le scintille sopra la porta diventano verdi. La stanza è libera. Tutta per te, adesso, non ne sei contento, Severus?
E la porta si apre, facendo uscire da lì quattro persone. Gli ormai conosciuti Dover e Bergman sono i primi. Dietro di loro, quello che con tutta probabilità è un terzo Auror, un uomo molto alto e dai capelli grigi - come allora. Quest’ultimo ha una cartellina in mano, dei fogli che sbucano fuori da essa anche per metà. Senti dentro di te che è lui, l’uomo delle domande, quel giorno. È la quarta persona, però, che attira completamente la tua attenzione, non appena la metti a fuoco: una donna, alta anche lei, e non perché abbia i tacchi ai piedi; bionda, con i capelli lisci e lunghi, che le ricoprono anche parte delle spalle; non è truccata, rughe di stanchezza solcano il suo volto, occhiaie riesci ad intravedere sotto i suoi occhi azzurri.
Quando la riconosci ti ritrovi inconsapevolmente a sgranare i tuoi, di occhi.
“Narcissa.” mormori, con le labbra semi-aperte.
Quando lei alza il viso e ti guarda, anche i suoi occhi sembrano ingrandirsi.
“Severus.”
Anche lei dice il tuo nome. Nessuno di voi due si sarebbe aspettato di incontrare l’altro. Non lì, quantomeno.
Lei si avvicina comunque a te, non curante dei tre Auror che stanno semplicemente ad osservarvi senza dire niente, ma non per questo dandovi la giusta privacy.
Narcissa, dal canto suo, continua ad osservarti, si sofferma sulla tua figura, guarda per un attimo O’Dampand e poi torna a te; la vedi guardare la tua personalissima sedia da ospedale.
“Diciamo che ho passato periodi migliori.” è quello che le dici, e lei torna a guardare il tuo viso.
“Mi dispiace, Severus, se non siamo venuti a trovarti. Io, Lucius, Draco…” dice lei, e tu li vedi, vedi quei suoi occhi inumidirsi “Anche noi abbiamo passato momenti migliori.”
Ti rendi conto che quella donna ha perso un bel po’ del suo atteggiamento nobile, rispetto all’ultima volta che l’hai vista.
“Lucius è qui? E anche Draco?”
“Sì.” lei annuisce “Sono da qualche parte, in qualche altra stanza.”
“Mi piacerebbe vederli.”
“Posso salutarteli quando torneremo a casa insieme, in attesa.”
“In attesa?”
Narcissa tira su con il naso. Ti sembra una bambina, addirittura, e lei non sembra voler distogliere lo sguardo dai tuoi occhi. Prima che le sue labbra tremassero, così come tutta la sua figura.
“Io… Io…” quasi balbetta “Certo, n-non c’è stato un processo, ancora. Ci sarà, prima o poi - presto, dicono - certo, ma… Severus, me lo sento così tanto.”
“Narcissa…”
A quel punto lei tira indietro le spalle, mettendosi dritta con la schiena, la testa di nuovo alta. Ma sembra comunque solo lo spettro della Narcissa Malfoy che conoscevi. In realtà non hai neanche idea del perché ti stia parlando, il rapporto tra te e i Malfoy, dopo la guerra, dovrebbe essere tutto un’enorme incognita.
“… Finirò ad Azkaban, me lo sento, Severus, io… E ne sono terrorizzata.”
Tu non riesci a dire niente.
A stento riesci finalmente a deglutire.
Poi lei si muove, e ti posa una mano sulla spalla.
“Buona fortuna.” ti dice, prima di allontanarsi, senza aspettare una tua risposta che comunque non arriverà.
La vedi camminare verso il corridoio, e vedi Dover e Bergman andare con lei.
“Noi ci vediamo dopo, signor Piton.” ti dice proprio l’uomo che ti è appena passato davanti camminando.
“Conterò i minuti…” mormori, ma non sei sicuro che lui ti abbia sentito.
 
Non sai, però, effettivamente, quanto tempo sia passato, in realtà.
Sai solo che, quando esci di lì, hai un gran mal di testa, come se dentro la tua scatola cranica vi sia un Bolide che va a cozzare contro le tue stesse ossa. Ogni colpo è una fitta in più che ti fa irrigidire la mascella.
Non ti hanno neanche dato il tempo di essere… spinto fuori - e anche sgarbatamente. O’Dampand è più delicata - che ti ritrovi davanti proprio la guaritrice. Probabile che tu abbia chiuso per un momento gli occhi proprio mentre lei si alzava dalla sua sedia, per cui per te è come se ti si sia improvvisamente materializzata di fronte al naso.
E, non sai come mai, la cosa ti crea sì un’altra fitta alla testa, ma non così forte come le precedenti.
“O’Dampand.” dici solamente, come a volerla rassicurare sul fatto che tu l’abbia vista.
Come se non fosse possibile.
“Come è andata?”
“O’Dampand, non mi stavano trattenendo per farmi domande riguardo un esame scolastico, mi stavano interrogando.”
Curioso come, in effetti, in entrambi i casi si possa usare lo stesso verbo. Ma questo è un pensiero che avresti espresso poi. Magari a casa. O magari no, al momento non ti sembra né così importante né così curioso da dovercisi soffermare troppo.
“E…?” prosegue lei.
È come se non trovasse le parole per fare una domanda decente.
Quando tu non rispondi, lei continua:
“Vuole prima tornare a casa, o…? Non lo so, mi dica lei.”
“A casa - a casa mia - non le dirò comunque niente; non cambia.” le soffi contro infine - quel mal di testa è veramente una seccatura “Diciamo solamente che… Si ricorda quello che ha detto Narcissa Malfoy prima di andare via?” O’Dampand annuisce, e tu prosegui “Io credo… Credo che possa valere anche per me.”
















Angolo Autrice:

Salve, bella gente! :D
Sono tornata prima che possiate darmi di nuovo per dispersa, come vedete, yeah!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, come avrete notato succede qualcosa di più di un comune 'blablabla'.
E non è che ci sia molto da aggiungere, i fatti si spiegano (almeno credo) bene così da sé.

Lasciate un commentino, se vi va, da quest'altra parte è sempre ben accetto e fonte di giuoia :3

A presto e un saluto!

Iurin

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Capitolo 17
*** Capitolo Sedici ***


Capitolo Sedici
 
 
 
“Allora? Che le hanno detto?”
Questa domanda ti fa quasi sussultare. Non per la domanda o per le domande in sé, a dire il vero non credi neanche di averla ascoltata bene, ma semplicemente perché non ti eri aspettato di udire una voce.
Ti sei estraniato, dal momento in cui siete tornati a casa sino ad ora, ti sei perso nei tuoi pensieri e sei tornato indietro a tanti anni prima. Ti è sembrato di avere diciassette anni di meno. Ti sei ritrovato a rivivere le sensazioni di un tempo, a considerare la tua casa quella che era di un tempo; cioè vuota. Per questo quando O’Dampand ha parlato quasi hai pensato che si trattasse del fantasma di una donna.
Ma il fantasma di una donna ti perseguita ormai da sempre, ci mancherebbe anche che O’Dampand si unisse a lei.
Scuoti la testa, quando formuli questo ultimo pensiero. E comunque, in ogni caso, non hai ancora aperto bocca. Certo, non sei più con lo sguardo nel vuoto a fissare il muro in un punto imprecisato e assai poco attraente… ma ancora non hai neanche guardato la tua unilaterale interlocutrice, no.
Persona che comunque pare non demordere. Sia mai che decida di farlo.
“Signor Piton? Si sente bene? Che cosa le hanno detto?”
“Detto?” rispondi infine “Non mi hanno detto nulla, casomai mi hanno chiesto qualcosa. E no, non mi sento bene.”
Oh, l’hai ammesso, e a dire il vero l’hai fatto con una semplicità che ti ha quasi sorpreso. Ma d’altronde il tutto è spiegabile con il fatto che chiunque, malato o no che sia, che venga sottoposto ad un interrogatorio, è ovvio che non stia bene. È normale. Sarebbe anormale se la cosa non lo toccasse per nulla. Potrebbe anche sembrare che tu sia lo stesso arcigno Severus Piton di sempre, inespressivo e di pietra, ma chiunque può immaginare, se ha occhio attento, che non è così.
E sì, il fatto che tu non abbia pronunciato mezza sillaba sin da quando siete tornati e che, piuttosto, sia rimasto seduto in poltrona tutto il tempo a fissare il nulla… lo suggerisce, quantomeno.
Ma evidentemente il fatto che tu abbia detto di sentirti poco bene contribuisce a rendere O’Dampand una guaritrice pazza.
“Non si sente bene?” lei subito si alza dal suo solito posto sul divano “Posso fare qualcosa? Un cuscino dietro la testa? Ha fame? Se vuole le preparo una tazza di tè. O le fa male la ferita? Posso controllare.”
“O’Dampand, non sto morendo.” strano a dirsi, ma sembra che sia così, al momento “O meglio, non ancora, almeno. E non mi fa male nulla.”
“E’ per… l’interrogatorio?” quest’ultima parola sembra quasi uscire a fatica dalla sua bocca.
“Lei è mai stata interrogata?”
“No…”
“Meglio per lei. Ma provi a lavorare di immaginazione e giungerà alla sua brillante deduzione. Scommetto che in fondo ci riesce.”
O’Dampand fa silenzio, a questo punto. E sì, nonostante tu le abbia risposto in maniera piccata. Forse la sua immaginazione ha già lavorato a dovere, è l’unica spiegazione, dato che non ritieni opportuno tirare in ballo un’improvvisa paura nei tuoi confronti. Visto che non l’ha mai posseduta.
Anche se effettivamente sarebbe anche comprensibile. Tu sei Severus Piton, il Mangiamorte, il braccio destro del Signore Oscuro, il plateale assassino di Albus Silente. Oh, O’Dampand tutte queste cose le sapeva sin da prima che le dicessero di venire a lavorare da te. Ma forse le scioccanti rivelazioni sul tuo conto messe in giro prima da Potter e poi… beh, da tutti, presumi, le hanno fatto pensare che forse non sei così pericoloso come sembri.
E ora che degli Auror, invece, sono praticamente venuti a prelevarti, forse la sua sicurezza ha preso a vacillare. Forse ha pensato che, se le autorità hanno deciso di interrogarti, di processarti - perché ci sarà un processo, è ovvio - e di sbatterti ad Azkaban - perché potrebbe accadere anche questo, è possibile… Allora forse non sei così innocuo come sembra.
Anche se sei ancora mezzo paralizzato - o quasi. Già.
Forse adesso O’Dampand ha davvero paura di te.
La guardi, per un attimo, dato che ancora non proferisce parola. Perché dovrebbe, poi?
… Magari la prossima volta che avrebbe incontrato Sherman si sarebbe dimessa. Sottostare alle conseguenze della vita criminale del suo paziente, d’altronde, non rientrano nelle sue mansioni contrattuali, ne sei certo. Forse se ne sarebbe andata, è possibile.
Continui a guardarla. Stavolta è lei che sta fissando il muro. Merlino, vorresti davvero usare un Legilimens per capire a cosa mai stia pensando con tanta intensità. Avere una smentita o meno alle tue supposizioni sarebbe già sufficiente.
“O’Dampand.” la chiami, a questo punto, e lei si gira verso di te.
Non ti viene da dirle null’altro, però.
Poi lei si alza.
“Magari la faccio lo stesso una tazza di tè. Anzi, due. Con un clima… freddo, è l’ideale, no?”
Ti ritrovi ad annuire. E poi, guardando fuori dalla finestra, ti rendi conto di come invece fuori ci sia il sole. Il freddo di cui parla lei è un altro.
Tu per un momento ti ritrovi a fissare nuovamente un angolo strappato della carta da parati.
“Allora.” la voce di O’Dampand proviene dalla cucina “Che le hanno chiesto?”
“Perché continua a domandarmelo imperterrita?”
“Beh, chiedere è lecito.”
“E rispondere è cortesia, e io le ho già detto che non ne avremmo parlato.”
“Infatti lei non è cortese per niente.”
Giri appena la testa verso la porta della cucina, e te la ritrovi sulla soglia che ti sta guardando.
“Oh, l’abbiamo sempre saputo entrambi.” osservi con un angolo delle labbra incurvato all’insù.
Si sente il suono di un bollitore che fischia e O’Dampand sparisce momentaneamente alla tua vista per poterlo andare a spegnere. Nonostante il mancato contatto visivo, però, lei continua a parlare, anche se la sua voce sembra più lontana. Di poco, però.
“Non capisco perché non voglia.” dice “A parte che penso le farebbe bene, ma tanto lei non sarà d’accordo su questo punto…”
“Infatti.”
“…  Penso che almeno potremo discutere di cosa la accusano, di cosa ha risposto, se ha risposto bene o no, se ci sono cavilli che… non so… si possono aggirare. Insomma, come ha detto la… Signora Malfoy ci sarà un processo?”
“Oh, sì, che ci sarà. E anche fra non molto, credo, anche se non ne ho la certezza.”
“E non vuole confrontarsi? O… So che potrei risultare anche strana, a dirlo, ma… Farsi consigliare? … Ma ce l’ha un Magiavvocato, lei?”
“O’Dampand, sta facendo troppe domande, non mi pareva di dover subire un altro interrogatorio nel breve periodo.”
Di nuovo la rivedi spuntare dalla porta della cucina; ha due tazze fumanti in mano, entrambe bianche.
“Scusi.”
Tu fai un cenno del capo e lei si addentra nel salotto. Ti porge una delle tazze, che tu afferri - a dire il vero non le hai per niente detto di volerlo, il tè - e a quel punto lei si siede al suo solito posto sul divano.
I tuoi occhi si soffermano, pensierosi, sul liquido scuro che ora ha davanti. Se potessi, ti rigireresti la tazza tra le mani, altro indice che la tua mente è in fermento. Peccato che non puoi.
E poi uno di questi pensieri ti si concretizza più degli altri e, nell’attimo successivo, trova da solo la via che lo conduce alle tue labbra.
“Non capisco perché perde così tanto tempo a farmi domande quando tutti sanno cosa ho fatto. Quel che è stato è successo sotto gli occhi di tutti, cosa vorrebbe sapere esattamente? Se è vero quello che dicono? Lo è.” guardi la ragazza, ti aspetti una sua reazione, ma lei ti sta solo guardando, per cui tu continui a parlare “Così come è vero che anche io ho le mie cose, da dire, cose che vanno contro i motivi del comune astio che vige nei miei confronti. Non che mi tocchi, ma così è. Quindi, a questo futuro processo, mi difenderò. Nessun Magiavvocato, lo farò da me.”
“Nessun Magiavvocato?”
“Non ne ho.”
“Possono dargliene uno di ufficio.”
Ti viene da ghignare. “Immagino quanto costui o costei sarà simpatizzante nei miei confronti. E comunque io non vedo l’ora che arrivi, questo processo, se devo proprio essere sincero.”
Vedi l’espressione di O’Dampand farsi tra il sorpreso ed il perplesso. Tu continui nuovamente con il tuo improvviso discorso, facendo fuoriuscire quel pensiero dalle tue labbra totalmente. Potresti vedere la sua coda vischiosa e nebbiosa agitarsi di fronte ai tuoi occhi.
“Dopo tutta questa… immobilità, sembra essere il primo vero evento che possa occuparmi le giornate, no?”
Per quanto comunque tu continui ad asserire che verrai convocato in tempi brevi di nuovo al Ministero, questo non avviene. Supponi che organizzare certe cose per un numero comunque piuttosto alto di criminali - di cui alcuni ancora in circolazione - non sia cosa da poco. Per questo passano diversi giorni da quando si sono tenuti quei famosi interrogatori e da quando hai incontrato Narcissa Malfoy.
Forse saresti dovuto rimanere lì, piuttosto che tornartene a casa, forse Lucius non era ancora uscito dalla sua stanza dalla luce rossa accesa, forse avresti potuto cercare di parlare con lui.
Non hai neanche idea di che razza di rapporto intercorra ancora tra di voi, dato il tuo… tradimento alla vostra causa comune. Sì, anche lui ha disertato, hai saputo in seguito, ma solo all’ultimo secondo, tu circa… beh, quasi vent’anni prima, ormai.
Non sai se vi rivedrete mai in circostanze meno stressanti, questo lo sai. Magari vi rivedrete al processo, anche se ne dubiti. Magari direttamente ad Azkaban, non lo sai.
Interessante come tu dia per scontato che sia lui che te ci finirete nel breve periodo. Lucius per essere stato un Mangiamorte. Tu per non solo essere stato un Mangiamorte, ma per aver permesso che atrocità avvenissero ad Hogwarts mentre ne eri il Preside. E per aver ucciso Albus, naturalmente. E su quest’ultimo punto hai ben più di una sola cosa da ridire.
Ancora più interessante è che non hai il terrore che ti scorre nelle vene nel pensare che potresti ritrovarti in cella, sorvegliato da un Dissennatore perenne. Sempre che il Ministero decida di utilizzarli nuovamente, i Dissennatori, dopo quanto successo. Ma tanto non è questo, il punto, Azkaban faceva impazzire le persone a prescindere dalla presenza o meno di quelle creature. I Dissennatori contribuivano solamente a velocizzare l’inesorabile arrampicarsi della pazzia.
Sì, arrampicarsi. Ti viene alla mente l’immagine della pazzia come fosse un’edera velenosa che si attacca dapprima ad un singolo mattone di una casa, ma che piano-piano cresce, allungandosi sia ai lati che in altezza, finendo per inglobare la casa in tutta la sua interezza tra le sue foglie. E i suoi abitanti? Magari non possono neanche più uscire per non rischiare di venire avvelenati. È suggestivo, e, per un certo verso, tale immagine ti affascina. E ti immagini la tua mente un po’ come la tua stessa casa a Spinner’s End.
E nonostante il pericolo della pazzia, nonostante il pericolo della negata libertà, no, il dover andare ad Azkaban non ti terrorizza. D’altronde, ti dici, per te sarebbe semplicemente un… cambio di residenza, nulla di più. Cosa mai rimpiangeresti di dover abbandonare? Chi lasceresti indietro, se non solo fin troppi fantasmi?
“Sa, stavo pensando una cosa.” è la voce di O’Dampand che ti riporta con i piedi per terra.
Per modo di dire. In effetti siete entrambi sul tuo letto. Innocentemente, tu sdraiato come ogni sera e lei seduta accanto a te che ti applica la solita pomata sulla ferita al collo. La senti leggermente migliorata, da qualche tempo, ma, sin da quella prima volta, non hai più chiesto alla guaritrice di poterla osservare in uno specchio.
“Perché, lei pensa?” ti ritrovi a rispondere, malignamente.
Come previsto lei ti scocca un’occhiataccia, e tu perdi il tuo ghigno tutto assieme.
“Abitudine.” ti ritrovi a dire, quasi giustificandoti, non sai neanche tu bene il perché.
Lo stress, senza alcun dubbio.
“Sarà.” riprende allora lei, ricominciando a muovere anche la mano che aveva improvvisamente bloccato “Comunque, sì, stavo… pensando che Spinner’s End sarà anche un quartiere periferico, ma ormai pare che lo conosca parecchia gente.”
“Turismo di tipo macabro.”
“Ma non solo curiosi. Anche gli Auror, per esempio.”
“Suppongo che loro abbiano gli indirizzi di mezzo mondo, piuttosto.”
“O i giornalisti. O anche… beh… persone come il signor Lestrange.”
“Cioè persone simili a me. E Mangiamorte. Lo può dire, O’Dampand, è la verità, non ne uscirà uno improvvisamente da sotto il letto.” non lo credi, almeno “E neanche io la assalirò, promesso.”
Stai continuando a guardarla, e vedi la sua espressione farsi un po’ più cupa, sul momento.
“Lei non è come il signor Lestrange.” dice poi.
Così, con semplicità, tanto che per un attimo sei dubbioso che lei l’abbia detto davvero.
“Si vede che ci sono tante cose che lei non sa.” è la tua risposta.
O’Dampand si stringe nelle spalle. È un movimento quasi impercettibile, il suo,  ma tu riesci comunque a notarlo.
“Tanto le avevo promesso che quando me ne sarei andata le avrei detto che cosa ne penso di lei. Questo può definirsi… solo un piccolo assaggio.”
“Guardi che non è tenuta a farlo, non gliel’ho chiesto io. Ciò che pensa di me non… insomma, saperlo non mi cambia di certo la giornata.”
O’Dampand si stringe di nuovo nelle spalle, per poi guardarti semplicemente con i suoi occhi verdi. Ringrazi mentalmente Merlino per l’ennesima volta che siano più tendenti al verde acqua che al verde smeraldo.
“Ah, beh, io penso lo farò comunque. D’altronde è un buon momento per parlare.”
“Quello della sua partenza?”
“Esatto.”
“Così potrà sputarmi addosso tutto il veleno che vuole e poi fuggire a gambe levate. Ottima strategia.” rispondi alzando gli occhi al cielo.
Lei, dal canto suo, si mette a ridacchiare, al che tu la guardi leggermente perplesso. Speri che non si stia prendendo gioco di te.
“Non si preoccupi, credo che di veleno in corpo lei ne abbia già a sufficienza per le prossime venti vite.”
Ti ritrovi ad incurvare gli angoli delle labbra all’insù. “Almeno, se qualcuno mai tenterà di uccidermi col veleno, il mio corpo ne sarà talmente abituato da non subire nessun danno.”
“Le Maledizioni Senza Perdono dice che sono passate di moda?”
O’Dampand ha su un sorriso, mentre pronuncia quest’ultima frase, e quando la dice sta chiudendo il barattolo della pomata che ha appena finito di applicarti sulla ferita. Tu, invece, non hai nessuna espressione allegra sul viso, alla sua uscita. Oh, non che tu abbia mai avuto un’espressione allegra, ma ora anche quel vago sorrisetto sembra essere sparito del tutto. E lei se ne accorge solo quando torna a guardarti. Credevi che parlare di Maledizioni non ti facesse più effetto. Insomma… Ne hai effettivamente parlato e riparlato, dopo la morte di Albus, e non capisci perché ora ti creino tanta… Beh, ti creino quello. Forse è il pensiero del processo. Forse è quello.
Non capisci, ma così è, e O’Dampand se ne accorge. Chiunque se ne sarebbe accorto, a dirla tutta.
“Scusi.” ti dice subito, e poi si toglie i guanti trasparenti che aveva precedentemente indossato, per poi appallottolarli e metterseli momentaneamente in tasca per buttarli nella spazzatura di lì a qualche minuto.
“Non fa nulla.” dici comunque.
D’altronde - almeno per questa volta - non è colpa sua se il tuo cervello sta già sperimentando quella pazzia di cui andrai ad inebriarti più avanti, giusto?
“E in ogni caso,” sei tu a continuare il discorso, stavolta, mentre la guardi mettere via fazzoletti e batuffoli di cotone nella sua borsa “mi aveva annunciato di essere riuscita a pensare qualcosa. Me ne vuole rendere partecipe o posso dire di aver scampato il pericolo?”
Anche se ricordarglielo effettivamente dovrebbe essere controproducente.
“Oh, sì, quasi dimenticavo.” fa lei, per poi aprire la seconda borsa, quella con dentro le fialette della tua mirabolante pozione serale “Stavo pensando che la prossima volta che Sherman verrà qui - ovvero domani - vorrei affrontare una certa questione con lui. Come abbiamo appurato la sua casa sta diventando piuttosto nota a tutti quanti, e se lei ha bisogno di riposo allora conviene che lei stia in un luogo che la maggior parte delle persone non conosce affatto.”
Tu rimani in silenzio per diverso tempo a fissare lei. Tanto che ad un certo punto lei si sente fin troppo osservata e ti guarda a sua volta. Supponi che la tua espressione stia assolutamente indecifrabile. O comunque tendente al negativo.
Che novità.
“Mi vorrebbe allontanare da casa mia?” sibili, allora.
“No!” fa subito lei “Cioè… In verità sì. Lo so che ognuno a casa sua si sente più a suo agio che in altri luoghi, ma converrà con me - ehm - che qui lei è fin troppo rintracciabile.”
La cosa ha senso, in effetti. Come ti hanno trovato tutti gli altri - Auror, giornalisti o Lestrange che sia - potrebbe trovarti anche qualcun altro. Greyback, per esempio. Ecco, alla sua, di visita di cortesia, non tieni veramente per niente.
Che in effetti non sai neanche se sia ancora vivo o no.
“Il San Mungo mi ha… sfrattato facendomi venire qui. Ergo presumo sia ancora totalmente pieno, dove vuole che vada? Che andiamo, anzi? Sotto un ponte? È estate, ma non credo che il clima sia proprio l’ideale per dormire all’aperto.”
 “A dire il vero…” comincia lei, ma poi si blocca. Armeggia con le fialette della pozione, quindi supponi sia per quello che non stia continuando la sua frase. Prende una fiala, per l’appunto, ma ancora non ti sta guardando “Io pensavo ad un altro posto, ma devo chiedere al professore se va bene, richiedere anche le dovute autorizzazioni… Però potrebbe essere un’idea.”
“O’Dampand, devo leggerle la mente, per sapere a cosa caspita sta pensando?”
Ora torna a guardarti, anche perché ti sta porgendo la fiala. Che tu afferri.
“Casa mia. Pensavo a casa mia, signor Piton.”
Il silenzio piomba nella stanza come fosse notte che cala all’improvviso.
Beh, in realtà è già notte, puoi vederlo da te semplicemente spostando gli occhi in direzione della finestra. Ma non lo fai. Lo sai che è notte, non… non è questo il punto.
“E’ seria, signorina O’Dampand?”
“Cos’è, l’ho sconvolta a tal punto da farmi chiamare ‘signorina’?”
“Io la chiamo ‘signorina’ spesso e volentieri, se lei non se ne accorge dovrebbe farsi visitare. Tanto il San Mungo per lei è una seconda casa, di bene? … E ‘spesso e volentieri’ è solo un modo di dire.”
Lei fa uno sbuffo.
Ti rendi conto di essere ancora con la mano a mezz’aria intento a stringere la fiala di pozione tra le dita, in maniera ancora più salda del solito.
“Ma a proposito di seconde o di prime case…” continua poi lei, allora.
Alzi gli occhi al cielo. “Non mi dica che era seriamente… seria, quando ha detto quella cosa.”
“Lei è ricco, signor Piton?”
“Cosa? E questo cosa c’entra?”
“Può permettersi di prendere in affitto una o più camere di albergo per un periodo di tempo indeterminato?”
Non rispondi, sul momento, al che lei capisce quale potrebbe essere la tua palese risposta. D’altronde, se tu fossi ricco per caso abiteresti ancora a Spinner’s End? Certo che no. Di certo non sei ancora in quella casa per… voler rimanere ancorato ai ricordi.
O, almeno, non a quei ricordi.
“No.”
“Allora, se non ha altre seconde o terze case…”
Lei ti guarda aspettando una tua risposta, che non arriva. O meglio, più che una risposta verbale, arriva uno sguardo fulminante, e allora lei prosegue:
“… Non vedo perché non prendere il considerazione la mia idea. Non abito al centro di Londra, ma neanche troppo fuori, a suo modo può essere anche definita una zona centrale… Vabbè, a Paddington, non so se ha presente, ma suppongo di sì.”
“Vada al punto, O’Dampand… Anche se già ho capito.”
“Quindi… Non è un’idea malvagia, no? Ci pensi oggettivamente.”
Sbuffi, e stavolta scosti lo sguardo proprio verso la finestra, oltre la quale il solito lampione continua a spegnersi e a riaccendersi a snervanti intervalli regolari. Approfitti di quel breve momento di pausa per mandare giù la pozione che ancora tieni in mano. Poi riconsegni ad O’Dampand la fialetta stessa, in modo che la rimetta al suo posto.
No, non era un’idea malvagia. Il punto è che non vuoi. Sì, lo sai, casa tua sta ormai diventando tristemente nota, spostarsi sarebbe una soluzione accettabile, confonderesti i tuoi ‘nemici’ e potresti dormire sonni tranquilli.
Sei sicuro che O’Dampand ti direbbe che in questi giorni, anzi, in tutto questo periodo hai proprio bisogno di sonni tranquilli, che devi essere rilassato e tutte sciocchezze di questo tipo. Come se la tua mente fosse mai vuota. Ma comunque.
“Non è che ha assunto qualcosa che le ha fatto un po’ scombinare la sua materia cerebrale?”
Stavolta è lei ad alzare gli occhi al cielo. “E io che credevo che stesse seriamente pensando alla mia proposta, durante tutto questo silenzio.”
“Oh, sì che ci stavo pensando. E quella di prima è stata la mia conclusione.”
“Signor Piton, avanti! Avrà una stanza tutta per lei, glielo assicuro, non dovrà sopportare nulla che le arrechi fastidio, sarà esattamente come le giornate più serene che ha passato qui!”
“Perché, secondo lei qui non c’è nulla che mi arreca fastidio?”
Anche O’Dampand ha tenuto la fialetta in mano per tutto questo tempo, e, quando tu fai quest’ultima domanda retorica, lei abbassa gli occhi, concentrandosi, piuttosto, sul chiudere le borse e sul posarle ad un angolo del letto, più vicino a sé e lontano da te.
“Non intendevo… O’Dampand, non… Suvvia, faccia la persona intelligente quale lei è, non stavo parlando di…”
“Lasci perdere.” dice poi, muovendo la mano in aria come a voler sminuire la faccenda.
Tu ti limiti a guardarla.
Senti la tua nuca affondare in automatico sempre di più nel cucino dietro la tua testa.
“Allora mi correggo:” riprende dunque lei, a questo punto, con lo stesso tono di voce di prima, sì, ma allo stesso tempo lo percepisci… diverso “a casa mia avrà gli stessi fastidi che avrà qui, tolti quelli esterni a queste mura. D’accordo?”
Non lo sai, perché. Non riesci a spiegartelo, sul momento, ma forse credi di esserti mentalmente lanciato un ‘Muffliato’ da solo, dato che non rispondi più nulla. Sì, non hai la bacchetta, ma sul momento non sai proprio a che altro pensare.
“Domani ne parleremo con il professor Sherman. Tanto deve venire qui.”
 
La prima volta che Sherman ha bussato a casa tua hai atteso il suo arrivo come si attende il canto del gallo il giorno dell’esecuzione per impiccagione in pubblica piazza.
O quasi.
In realtà saresti dovuto essere piuttosto abituato a Sherman, alla sua esuberanza, ai suoi sguardi che mostrano esattamente cosa stia pensando. Il fatto che però tutto ciò entri dentro casa tua non ti entusiasma per nulla. Speravi solo che la sua irrefrenabile voglia di commentare – con gli occhi o con la bocca, è indifferente – si sarebbe placata, almeno nelle sue visite a domicilio.
Che poi non sapevi neanche se sarebbe arrivato, insieme a lui, l’inseparabile Witherington. O come si chiama. O l’infermiere Bruce, che però pare essere scomparso dalla faccia del mondo magico e non. Certo, non che tu tema i commenti di Witherington, dato che, essenzialmente, il ragazzo è poco solito ad emettere suoni vocali. Se ne sarebbe rimasto in disparte, a fissare te e Sherman, scrutando tutto con occhio attento. Peccato che anche dai suoi, di occhi, si riescano ad intuire i suoi pensieri. E tu hai già capito fin troppo bene di non stargli molto… simpatico.
E così è stato, comunque, per tutte le volte in cui Sherman e Witherington sono venuti a casa tua, una mattina ogni due settimane.
Per un certo verso ne saresti anche dovuto essere sollevato, dato che in questo modo eviti di dover uscire per raggiungere il San Mungo. In questo modo, tutto in una volta, non rischi più di essere importunato da quel decerebrato – ora lo è definitivamente, e la cosa non ti dispiace – di Allock; o, chissà, anche dal Vecchio o da L’altro. Ti rendi conto di non riuscire a ricordare i loro nomi. Quanto ci sarebbe voluto per dimenticare anche i loro lineamenti? Supponi che non li avresti davvero incontrati più. Non che ti dispiaccia, figurarsi, solo che percepisci una leggera sensazione di… stranezza.
Certo, è anche vero che un paio di volte sei anche uscito, poi, sebbene per altri motivi non inerenti con le visite mediche…
Bah, irrilevante.
Fatto sta che, la mattina seguente alla chiacchierata tua e di O’Dampand, bussano alla porta proprio suddetti due individui. Sherman e Witherington, ovviamente.
È la prima volta che li incontri da quando hai subito il tuo interrogatorio, e tu sei sicuro che l’opinione pubblica non è che abbia preso sottogamba la preparazione dei processi a carico di ex o non ex Mangiamorte. Sei curioso di leggere nei loro occhi cosa stiano pensando di tutta la faccenda. Anche se di certo non saresti stato tu a tirare per primo in ballo l’argomento, questo è poco ma assolutamente certo.
“Buongiorno, professore. Ciao, Abner.” li accoglie così O’Dampand, facendoli subito entrare e chiudendo immediatamente la porta alle loro spalle.
“Buongiorno.” è il saluto, di rimando, di Sherman, che subito va a posare la propria valigetta sul divano, come ha preso a fare sin dal primissimo istante.
Ormai, perlomeno, neanche perde più tempo a guardarsi curiosamente intorno. Non che ci sia molto da vedere. E Witherington, come da prassi, rimane in piedi lievemente lontano da te, neanche fosse uno stoccafisso.
Tu, in ogni caso, saluti entrambi – o così pare – con un piccolo cenno del capo.
Seguono i prelevamenti del sangue di rito, nonché la lettura dei valori degli esami effettuati la volta precedente. Sembra che tu stia effettivamente meglio.
“Dice?” è la tua domanda spontanea.
“Così dicono i risultati.” risponde Sherman “E… A dire il vero è emerso qualcosa di… curioso, se così si può definire.”
Il tuo sopracciglio scatta quasi automaticamente verso l’alto, cosa che sembra fungere da sola a richiesta di spiegazioni. Difatti Sherman prosegue:
“Fin da quando è stato ricoverato al San Mungo le abbiamo prelevato del sangue per esaminarlo, e ciò lo sa già di per sé. Il fatto era che, osservando il suo sangue più da vicino, era evidente come ci fosse una lotta costante tra i suoi globuli rossi e la sostanza tossica presente nel suo corpo.”
“Veleno.” ti viene da puntualizzare.
Vedi Witherington roteare gli occhi.
“Veleno, sì.” continua Sherman “Piccole particelle che viaggiano nelle sue vene, che attaccano i globuli rossi, le pareti delle vene, gli organi… Tutto ciò con cui vengono in contatto. Tra esse e i suoi anticorpi vi era una guerra continua. Le nostre pozioni era come se… confondessero tali particelle, come se facessero loro dimenticare quale fosse il loro scopo.”
Le guerre non finiscono mai.
“Ne parla come se fossero esseri pensanti.” commenti.
Sherman si stringe nelle spalle. “Tanto per rendere le cose più semplici. Ebbene, nonostante le pozioni tali particelle ogni tanto si ‘risvegliavano’ riprendendo ad attaccare il mondo circostante, ecco perché ci sono stati dei problemi, all’inizio. Mentre ora… Beh, ora sembrano… in dormiveglia. Seguono gli altri globuli rossi, ma non fanno nulla, viaggiano e basta.”
Ti umetti le labbra, prima di fare quella domanda.
“Sono… morte?”
Sherman, però, fa un sorriso. Un sorriso che non ti rassicura affatto.
“Non possiamo dirlo con certezza. Forse è per questo che ora riesce a muovere la caviglia e anche il piede. Dobbiamo solo…” Oh, non dirlo, per Salazar “… aspettare.”
“Questa parola sta diventando pericolosamente insopportabile.”
“Ma a proposito!” interviene a questo punto O’Dampand, facendo addirittura un passo avanti, come se il suo quasi-urlare fosse stato poco notato già di per sé “Il signor Piton ed io, dato che qui si parla di rimanere in casa ancora per un po’, proprio in attesa…”
Il signor Piton e io?” la interrompi, però, tu “Di che diavolo sta parlando, ha fatto tutto da sola.”
“Ma lei poi ha convenuto con me che sarebbe una soluzione accettabile.”
“No, io ho dovuto scontrarmi contro il muro della sua cocciutaggine, e ho desistito solamente perché altrimenti saremmo andati avanti tutta la notte.”
“Tutta la notte o meno, alla fine ha accettato la cosa, però.”
“Lo sa che vuol dire ‘desistere’, O’Dampand? Forse ‘essere costretto’ è un’espressione a lei più congeniale?”
“Oh, suvvia, questa è un’esagerazione.”
“E la sua è una menzogna.”
“E il mio è puro mal di testa!” sbotta, proprio in quel momento, Witherington, staccandosi addirittura dal muro, quale eccezionale avvenimento.
Il fatto che Sherman e Witherington abbiano dovuto assistere a tale siparietto – sul momento non te ne sei proprio reso conto – quasi ti farebbe avvampare di rabbia e frustrazione.
Quasi. Il tuo incarnato funereo senti che ha comunque la meglio.
“Oh, ehm… scusate, non era previsto tutto questo.” fa O’Dampand, il cui viso, però, si colora un po’.
Tu borbotti qualcosa di assolutamente incomprensibile. E lanci un’occhiataccia a Sherman, che si sta coprendo la bocca con la mano, la risata negli occhi.
“Oh, Godric.” mormora invece Witherington, più tra sé e sé che direttamente a voi.
L’hai sentito, sì: ha invocato Godric Grifondoro. Questo spiega molte cose.
“Ci mancherebbe anche che fosse previsto.” continui a borbottare tra te e te, ma non sei sicuro che ti abbiano sentito, dato che Sherman parla subito dopo, un sorrisetto ancora ben piantato sulle labbra e le sopracciglia cespugliose inarcate, come a voler sottolineare la sua espressione.
Poi si sistema gli occhiali rettangolari.
“Per cui… Quale sarebbe la questione? Di cosa stiamo parlando?”
Mentre fa questa domanda Sherman sta guardando te, ma tu ti limiti a lanciare un’occhiataccia a O’Dampand che, come già supponevi, prende la parola. Si lancia così in molteplici spiegazioni su quanto già vi siete detti, e, proprio perché tu sei già a conoscenza delle sue folli idee, smetti semplicemente di ascoltarla. Merlino, come già hai valutato in precedenza, non che non siano del tutto razionali, ma… La sola idea ti fa alzare gli occhi al cielo.
Riconcentri la tua attenzione sulla conversazione in corso solo quando percepisci che O’Dampand ha finito di parlare e che pare che Sherman stia per dare il suo… responso.
“Beh, io credo… Dovrei chiedere alla Direzione, non c’è dubbio, ma quando si tratta di casi particolari come questo…” sei un ‘caso particolare’, che onore “Non credo che obietteranno a una proposta di questo tipo.”
Vedi O’Dampand fare un sorriso soddisfatto. Tu alzi gli occhi al cielo per l’ennesima volta.









 
 
 
Angolo Autrice:

Salve, bella gente! :D
No, non sono sparita di nuovo, ero solo partita per le vacanze. Sono tornata ieri, il capitolo era già pronto, per cui... perché non aggiornare?

A tal proposito, spero che questo nuovo capitolo sia di vostro gradimento. Cambio di location in programmazione, yeah! ... E spero di non essere incorsa in uno dei cliché delle fanfiction, programmando quanto programmato.
A dire il vero avrei potuto far continuare a stare tutti quanti a casa di Piton, ma... a lungo andare, proprio per le motivazioni espresse da Serena, sarebbe risultato strano, no? In fondo un po' sono stata "costretta" (come il professore, oh-oh) a comportarmi così. Spero di non aver accidentalmente fatto qualcosa di poco... "Convalescentesco".
... Che termini. Che termini.

Oh, beh, detto ciò non ho molto altro da aggiungere. Nulla, a dire il vero, per cui... Se volete lasciare un commentino, una piccola recensione, io ne sono più che contenta, un confronto è sempre ben gradito, anche per capire se stia andando per la strada giusta o no! :)

Un abbraccio a tutte/i quante/i e alla prossima,
Iurin

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Capitolo 18
*** Capitolo Diciassette ***


Capitolo Diciassette
 
 

L’unica cosa positiva di tutta quella faccenda - l’unica - è che non hai dovuto portare le valigie. Come avresti fatto, dopotutto, anche se tu avessi voluto? Anche se. Magari prendendone una e posandotela sulle ginocchia? Tanto, in fin dei conti, data la tua… condizione, neanche lo avresti sentito, un eventuale troppo peso.
… Ma ovviamente non l’hai fatto, ci sarebbe mancato altro.
Ci ha pensato O’Dampand, a portare le valigie. Idea sua, ci avrebbe pensato lei, come era giusto che fosse. Anche se forse, del tutto casualmente, ad un certo punto, una volta arrivati nel suo quartiere, dopo che vi siete smaterializzati in un vicolo deserto, hai pensato che avrebbe potuto almeno farle lievitare, quelle valigie. Anche se in realtà si parlava solo della sua, di valigia. Lei ha infilato tutte le tue, di cose, in uno zaino piuttosto capiente.
“Dove l’avrebbe trovato, quello?” hai detto quando hai posato gli occhi, con un sopracciglio alzato, sul suddetto zaino.
“Si ricorda quando sono salita in soffitta, tempo fa, e ho trovato un televisore?” ha risposto lei - con un’altra domanda.
“Rigirando le mie regole e facendo quel che voleva e andando a curiosare in giro senza il mio permesso? Sì, me lo ricordo vagamente.”
Lei ha sorriso. “Ebbene, mi ricordavo di aver visto questo zaino, posato in un angolo, in solitudine, per cui sono andata a prenderlo.”
“Quindi è salita di nuovo in soffitta.”
“Beh, sì.”
“Imparerà mai, O’Dampand?”
“Oh, le prometto che, per tornare in una situazione di parità, in casa mia potrà fare quello che vuole. Non metterò regole.”
“Magra consolazione, lo sa anche lei.”
E quindi siete davvero giunti fino a casa sua.
Paddington, questo era il quartiere. Non centralissimo, no, ma di sicuro non era periferia. Ma proprio per niente.
E, una volta che vi fermate momentaneamente di fronte al portone di ingresso del palazzo in cui è situato il suo appartamento, mentre lei cerca le chiavi di ingresso nella sua borsa - producendo anche un certo qual rumore di oggetti mossi più e più volte - tu alzi gli occhi ad osservare l’edificio. Ciò che attira la tua attenzione non sono tanto i balconcini tondi che spuntano fuori dall’alto muro di tanto in tanto, non sono quelle decorazioni con tanto di testa umana poste sotto tutte le finestre del primo piano, non sono neanche i fiori spropositatamente enormi di una delle finestre al quarto livello, no.
“E’ rosa.” commenti.
O’Dampand alza la testa da quasi dentro la propria borsa, osservandoti subito.
“Come dice?”
“Sono rosa. I muri, intendo.”
“Oh.” anche O’Dampand alza la testa per guardare, come fosse la prima volta che posa lo sguardo su casa sua “Sì, beh… Non le piace il rosa?”
La guardi con un’occhiataccia più che eloquente.
“Lo supponevo.” è il commento di lei.
Hai già visto una tonalità simile di rosa. Forse era leggermente più scuro. Ma d’altronde in quella stanza erano presenti sfumature e sfumature di rosa in quantità incalcolabile.
Stai parlando dell’ufficio del professore di Difesa contro le Arti Oscure, ovviamente. Anzi, della professoressa, considerando l’anno in questione in cui la stanza è stata tramutata in un confetto. Pieno di gatti, poi.
L’orrore.
Fortuna che l’anno dopo quell’ufficio è toccato a te, e ne hai giustamente fatto tornare le mura di un colore più umano.
… Chissà che fine ha fatto quella donna. Dopo che ha ricoperto il ruolo di professoressa lo sai cosa ha fatto; oh, lo sai benissimo. Intendi dopo la fine della guerra.
Ma ti interessa, poi?
Solo a pensare a questa domanda ti viene da scuotere il capo in un cenno di diniego.
Alla fine O’Dampand riesce a trovare le chiavi, così apre il portone, alto, grande e apparentemente di legno - ma forse neanche è veramente di legno, in realtà - ed entrate. La vostra andatura non è delle più spedite, dato che lei, oltre allo zaino sulle sue spalle, sta portando la propria borsa a tracolla e la sua valigia praticamente con il polso.
Forse ti senti leggermente in… colpa, se così si può dire. Ma solo leggermente.
“Non può farla lievitare?” dici, dunque, e la tua voce rimbomba un po’ nel piccolo corridoio che vi sta portando o alle scale o all’ascensore, a discrezione del visitatore.
“E’ un condominio babbano.” risponde O’Dampand a bassa voce “Credo sia meglio di no, dovesse comparire qualcuno all’improvviso.”
“Sì, certi Babbani hanno la capacità di comparire pur non usando e non conoscendo la Smaterializzazione.”
“Mi sono sempre chiesta come facciano. Passo leggero?”
“Soprattutto, sì. Respiro fino e movimenti pacati.”
“Sembra un esperto, lei.”
“Lo sa che una volta camminavo, sì, O’Dampand, e che lavoravo in una scuola? Diciamo che mi dilettavo a comparire senza Smaterializzazione.”
Salazar. Cosa stai dicendo? ‘Una volta camminavo’. Da quanto hai iniziato a parlarne così? E da quanto le stai dando tale confidenza?
Non appena queste domande ti affiorano alla mente, senti un opprimente peso sul petto.
Stai impazzendo. Stai dando aria alla bocca come facevano quei ragazzini decerebrati dei tuoi studenti. Stai regredendo. Non puoi permettertelo, non puoi. Non puoi ad arrivare ad Azkaban già in queste condizioni.
Merlino.
“Felice di non essere stata una sua studentessa solo per questo. Età a parte. Ho evitato tanti piccoli infarti, credo.”
“Mh.” è tutto ciò che dici.
Basta parlare a sproposito.
Salite in ascensore, comunque - la valigia l’hai lasciata a lei, ormai - e questo cigola leggermente, mentre salite al secondo piano dell’edificio. E, quando vi ritrovate sul pianerottolo, di nuovo si ripete la trafila della ricerca delle chiavi di casa.
Tu osservi prima O’Dampand e poi la porta del suo appartamento: è marrone, quasi nera, ma non di legno. Si vede che è di un qualche metallo rinforzato.
Ti chiedi, per un attimo, come faccia O’Dampand a sapere alcune cose dei Babbani mentre altre no. Ti viene in mente che lei ti abbia detto, qualche tempo prima, se ricordi bene, che la madre di lei è una strega. Forse anche suo padre era Babbano? Però non si spiegherebbe il perché lei alcune cose le sappia mentre alcune altre le ignori. Forse lui se n’è andato, una bella mattina, e sua madre ha ricominciato a vivere come una vera strega? O forse è la nonna di O’Dampand ad essere una Babbana e ad averle inculcato quindi certe conoscenze nella mente?
Ma, cosa ancora più importante: perché hai fatto tutti questi ragionamenti? Che cosa ti interessa?
Continui a farti da solo delle domande senza senso. Forse è il cambio di ambiente. Anzi, lo è sicuramente: questo trasferimento ti ha scombussolato più di quanto avevi previsto, e andare direttamente a casa di O’Dampand è stato più incisivo sulla tua riacquistata - più o meno - quotidianità più di quanto ti aspettavi prima di uscire dalla tua, di casa.
Anche quelle chiavi vengono recuperate, infine, e la porta di casa viene spalancata. Entrate. È tutto buio, per cui non riesci a vedere ancora nulla, ma senti distintamente O’Dampand prima praticamente gettare tutti i bagagli che ha tra le mani rumorosamente a terra e poi chiudere la porta - altrettanto rumorosamente.
“Non so quanto lei tenga effettivamente alle sue cose, ma almeno le mie non le lanci in un angolo come un sacco della spazzatura.”
Se non fosse buio sei sicuro che la vedresti sobbalzare, data la leggera interruzione del suo respiro che senti subito dopo.
“Ma cos’è, ci vede al buio?”
“No, ma le mie orecchie ancora funzionano, loro.”
Stavolta la sua bacchetta viene usata, grazie al cielo, e finalmente tutte le finestre vengono aperte. Sia gli scuri che direttamente i vetri, per far entrare l’aria pulita; in effetti si sente parecchio l’odore di chiuso. Per quanto l’aria di Londra sia pulita, comunque.
Ma almeno adesso puoi guardarti intorno. A quanto pare questa giornata sarà dedicata soprattutto all’osservazione.
Vedi, appunto, che giusto qualche piede più in là, sempre in corrispondenza della porta di ingresso, vi è uno dei due divani, girato di spalle; l’altro è posto accanto al primo, in modo da formare una ‘L’. Davanti ad essi, proprio al centro dello spazio creatasi, riesci giusto ad intravedere un tavolino con sopra giusto un paio di cornici. A sinistra della porta, invece - te ne accorgi quando ti volti leggermente verso O’Dampand - una libreria, e poi l’apertura di un corridoio che porta ad altre stanze. In ogni caso, dietro il secondo divano, più verso le finestra, vi è un tavolo con sei sedie. A terra, mattonelle grigie.
“Quanta gente ci vive qui, solitamente?” chiedi.
“Solo io.”
Non commenti, ma cambi lievemente argomento.
“E il colore ocra dei divani l’ha scelto apposta o ha detto un colore a caso?”
Stavolta lei compare nella tua visuale, andando verso il corridoio.
“Ehi, sono belli quei divani, si abbinano con le pareti color…?”
Sul momento non riesci a capire cosa voglia, così continui tu la sua frase.
“… Avana?”
Lei sparisce in una stanza, e subito dopo senti il rumore e vedi la luce di altre finestre che vengono aperte. Lei però continua a parlare.
“Di solito i miei amici maschi dicono semplicemente ‘giallo chiaro’ e ‘giallo scuro’.”
Tu alzi gli occhi al cielo tra te e te.
“Sono un pozionista,” eri, sei, non lo sai. Amici, poi? “io devo sapere necessariamente distinguere i colori, mi pare elementare, ne va dell’esatta preparazione di un composto.”
In ogni caso, la vedi aprire tutte le altre finestre della casa, mano a mano che si addentra in essa. Ogni volta che la luce compare, illuminando la stanza, si riflette nel corridoio, che è la sola parte della casa, oltre il salotto, che al momento ti è concesso osservare. E ogni volta che la luce compare vedi tanti piccoli pulviscoli muoversi frenetici. Evidentemente non si aspettavano di venir svegliati così presto. Come fossero animali, credevano che la casa sarebbe stata loro ancora per un po’, qualche altra settimana, magari, qualche altro… mese, non lo sai, ma così non è stato.
Sì, ce n’è di polvere, tra quelle poche pareti.
Poi O’Dampand torna da te, allora, e riprende da terra i bagagli. O meglio, hai pensato, osservando i suoi improvvisamente lenti movimenti, che avrebbe afferrato ogni borsa, esattamente come poco prima, e invece prende solo lo zaino.
Merlino, uno stupido zaino, per le tue cose, nemmeno una quantomeno misera valigia; la cosa non ti va giù.
E a quel punto ti conduce lungo il corridoio; e in questo modo passi di fronte a tutte le stanze: la cucina è semplicemente una cucina, il bagno è semplicemente un bagno. Poi entrate nella camera da letto. E anch’essa è semplicemente una camera da letto.
Beh, tutto questo è ovvio.
È solo che ti eri aspettato che quella casa fosse un minimo… personalizzata. Insomma, è l’abitazione di una donna, ti immaginavi mobili bianchi, fiocchi attaccati ai pomelli, cuscini a pois, fiori ovunque, quadri e più o meno un miliardo di fotografie.
Di fotografie ce n’erano, in effetti, ma più ‘un po’’ che ‘un miliardo’.
Ma per il resto sembra un appartamento che potrebbe appartenere a chiunque.
Ecco, forse si salvava il divano di quell’orribile colore.
La camera da letto è dunque molto semplice: due armadi a doppia anta, alti fino al soffitto - o quasi - addossati al muro opposto a quello provvisto di finestra, comodino e letto matrimoniale.
“Qui ci vive qualcuno?” ti viene da chiedere, quando vi fermate accanto al letto - tu gli sei praticamente attaccato.
O’Dampand, mentre risponde, posa il tuo zaino proprio sopra la coperta.
“Me l’ha già chiesto, sa? Perché questa domanda?”
“Vedo un letto matrimoniale, non un letto singolo.”
“Oh, beh,” O’Dampand parla e si siede sul letto, vicino al tuo zaino “semplicemente preferisco stare più comoda. E poi non si può mai sapere cosa può riservare la vita, no?”
Lei fa un lieve sorrisetto. Tu una specie di smorfia.
“La lascio sistemare le proprie cose, dunque.” continua poi lei.
Tu annuisci, sul momento, ma poi la trattieni. “O’Dampand.” e poi non dici più niente, ti limiti a guardarla.
“Mi dica, signor Piton.” ti incalza.
“Se può… Ma lei effettivamente può, comunque… uhm, lasciarmi la sua bacchetta? Solo… momentaneamente.”
Lei ti guarda solo un istante, prima di togliere, allora, la propria bacchetta dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Sorvoli sulla suddetta posizione.
“E’ per… sistemare questo mio ingombrantissimo bagaglio.”
“Sì, sì, lo immaginavo. Non pensavo che la volesse per uccidermi all’improvviso.”
Inarchi giusto un angolo delle labbra.
“Ne è sicura?”
“La vittima che consegna al carnefice l’arma del delitto. Sarebbe alquanto stupido.”
“Per lei. Per me sarebbe alquanto divertente.”
O’Dampand fa un leggero sorriso e, senza aggiungere altro, sta di nuovo per uscire dalla stanza. Tu, però, in un gesto che credi lei finirà per segnarsi sul calendario, la blocchi nuovamente.
“Ha quindi un’altra camera da letto? Nonostante, da quanto sembra, lei non utilizza questo appartamento quasi mai?”
“Che non lo uso quasi mai non c’entra molto, il desiderio di poter invitare altre persone può esserci lo stesso, no?”
“Quindi ha una camera degli ospiti.”
“In realtà no. No.”
Tu alzi semplicemente gli occhi al cielo.
Salazar.
“Quindi siamo tornati al punto di partenza.”
“No, non è vero, alla fine ho risposto, ma in maniera un po’ più divertente.”
“Non c’è nulla di divertente, in tutto ciò.”
“Vedere la sua espressione, signor Piton.”
Ti ritrovi ad inarcare un sopracciglio, mentre continui a fissarla.
“E dire che per l’intera popolazione a me conosciuta io sono sempre stato l’uomo senza espressione. Quello imperscrutabile.”
“Avere un’espressione dura o seria, come lei può spesso assumere, è… beh, è comunque avere un’espressione.” è la risposta semplice di lei, ma poi il suo discorso prosegue “E, se nel resto del tempo, lei dice di non avere nessuna espressione - o meglio, di averne una neutra - è ancora meglio: così ogni movimento sul suo viso è quasi un evento.”
“Ora non esageri.”
“Beh, ma di sicuro su di lei si nota molto di più un’alzata di sopracciglio, o quando rivolge gli occhi al cielo, o qualche sorriso, seppur raro, rispetto a quando tutto ciò avviene sulla mia faccia.”
“Ah, ma io lo noto, sul suo viso.”
Ed ecco. Silenzio.
Ti rendi conto di quanto sei imbecille solo a frase ormai completamente pronunciata.
Ti chiedi se questo pensiero si sia tramutato a sua volta in una qualche sorta di espressione.
Subito dopo smetti di pensarci.
Anche perché O’Dampand fa un sorriso, dondolando appena, e solo per un piccolo momento, sulla punta dei piedi.
“La lascio sistemare, allora.” dice lei, e non sai se ringraziarla o no di aver cambiato discorso; immagini sia stata la cosa più opportuna da fare e basta “E - ah - io dormo sul divano, non si preoccupi. A dopo.”
Vorresti precisare che non te ne stavi affatto preoccupando, ma lei è già sparita, ed ha persino già accostato la porta. Non l’ha chiusa, l’ha solo… sì, accostata, come fa sempre.
Allora posi la bacchetta di O’Dampand sul letto, proprio accanto a te, e sempre con la mano sinistra apri lo zaino per far prendere aria al tuo vestiario.
Che poi… non è il tuo solito abbigliamento quello che ormai ti stai abituando ad indossare negli ultimi tempi. Negli ultimi mesi, quindi.
Ti rendi conto che l’ultima volta che hai chiuso tutti i bottoni della tua solita casacca è stato il due Maggio passato. La stessa casacca che ti hanno tolto più tardi quelli del San Mungo, piena di sangue e oramai inutilizzabile.
Magari l’hanno direttamente bruciata.
Un’altra cosa di cui sono piene le tue casacche sono i bottoni, poi. Forse sono stati quelli una delle cose che ti hanno attirato, tanti anni prima, in gioventù, di un tale indumento. Ve ne erano sul petto, ovviamente, e poi sui polsi, e i pantaloni con cui la indossavi li avevano sulle caviglie. Ma è stato sempre piuttosto facile prepararsi, la mattina.
Erano’, pensi. Perché, come hai già precisato, sono mesi che una casacca neanche la vedi. E pensi passeranno altrettanti mesi, prima che ne sentirai nuovamente la morbidezza del tessuto sotto le dita.
Il collo, sì. Rinchiuderlo in una morsa, seppur di stoffa, non sarebbe affatto una bella esperienza.
Non ora, almeno.
Per non parlare del mantello.
Sistemi quelli che, quindi, sono i componenti del tuo guardaroba ormai babbano e, lentamente come hai imparato a fare, riesci ad uscire dalla camera da letto di O’Dampand e ad attraversare il corridoio. Getti un’occhiata alla cucina, che trovi vuota, ma prima sei passato di fronte alla porta chiusa del bagno, quindi O’Dampand potrebbe essersi rintanata momentaneamente lì dentro. E saresti anche quasi giunto direttamente in salotto, se prima tu non ti fossi fermato, lievemente incuriosito; ma anche perplesso: dal lato opposto del corridoio a quello su cui si aprono le altre varie stanze, c’è un’altra porta. Un po’ più stretta, in verità. Non aspetti che O’Dampand esca dal bagno, qualunque cosa stia facendo, e allunghi una mano, giusto a sfiorare il pomello tondeggiante.
La porta si apre, dunque, ma tu ne rimani deluso: hai capito subito che non poteva trattarsi di una vera e propria stanza, ma poi, quando la luce ne ha illuminato l’interno, hai fatto una smorfia.
Mensole. A partire da circa due piedi di altezza fino ad arrivare praticamente al soffitto. Ma non è una semplice serie di mensole ad essere… strana. È che è pieno di scarpe, lì dentro, di tutti i tipi. Tu le guardi tutte mantenendo le sopracciglia inarcate per tutto il tempo.
E l’hai pensato parecchie volte, ma quella parola ti torna alla mente anche adesso: donne.
E poi O’Dampand non ce la facevi, sinceramente, come collezionatrice seriale di scarpe, ecco perché come cosa ti è sembrata strana.
Stai proprio per chiudere la porta di quella sottospecie di sgabuzzino che senti, invece, aprirsi quella del bagno, di porta.
“Che sta facendo?” è la voce di lei che consecutivamente arriva subito dopo.
In un certo qual senso ti viene di rispondere con estrema sincerità, sebbene la tua preannunciata risposta sarà ben poco loquace:
“Sto… curiosando.”
“Ah, ed è soddisfatto di quello che ha trovato?”
Tu ti stringi nelle spalle. O meglio, nella spalla.
“Forse anche lei ha un lato femminile. Ben nascosto, di certo non visibile ad occhio nudo, ma evidentemente lo ha.”
“Ah, grazie tante.”
Tu fai un ghigno, uno dei tuoi. “Prego.”
Non passa molto tempo, da quel ‘prego’, a questo punto, che vi ritrovate in salotto. Tu sei seduto su uno degli orribili divani ocra; quando ti ci sei… accomodato hai guardato il cuscino di seduta prima accanto alla tua coscia destra e poi accanto a quella sinistra. Il tutto mantenendo sempre un’espressione meramente perplessa sul viso.
Che gusti.
D’accordo, tu non sei affatto l’uomo adatto a poter esprimere un giudizio riguardo un tale argomento cromatico, fosse per te tutto il mondo sarebbe nero e, magari, grigio. Anche se, nell’esatto momento in cui ti sovviene questo pensiero, davanti ai tuoi occhi compaiono schizzi di rosso e di verde.
Scuoti la testa chiudendo forte gli occhi, quando questo accade, ma solo per un breve e misero attimo. Non appena li riapri, vedi O’Dampand; perlomeno presumi che, concentrandoti su altro, certi pensieri possano volare via.
Oh, torneranno e già lo sai, proprio quando meno te li aspetti, come avvenuto giusto poco prima. Come un rapace che vuole la sua preda, quando quest’ultima riesce a nascondersi, il falco si appollaia sui rami più alti degli alberi, dietro le foglie, in attesa che la sua cena torni all’aria aperta, mossa dalla troppa incoscienza.
Non che i ricordi per te siano crudeli, ma fanno male come gli artigli delle aquile. O dei corvi. Ti hanno anche paragonato spesso ad uno di loro.
O’Dampand è china sul tavolino, e sta accendendo delle candele che prima non avevi notato: tre candele, di quelle grosse e inutili che vengono accese così, tanto per. E sono verdi.
I colori ritornano.
Ma è un verde diverso, noti, un verde più chiaro, quasi più… acquoso, un po’ come è diverso il verde degli occhi di O’Dampand, per esempio. Guardi prima le candele, le cui fiammelle vibrano appena, e poi proprio O’Dampand, che si è appena rimessa dritta, la bacchetta di nuovo nella sua tasca.
Ed è l’altro verde che torna, ora, già di nuovo in picchiata, che ti osserva e ti giudica con rimprovero.
Distogli lo sguardo, tu, sperando che sparisca all’istante qualsiasi sensazione che adesso ti sta attraversando.
Non sai se O’Dampand noterebbe qualche cambiamento tra i tuoi lineamenti. Ti servirebbe uno specchio.
A proposito di specchi, è già da tempo che non chiedi a O’Dampand di farti vedere come sta messo il tuo collo. E ti rendi comunque conto di averlo giù pensato non molto prima.
Nel frattempo ringrazi i voli pindarici.
Ma sì, devi chiederlo ad O’Dampand prima che ti passi di mente, sicuramente lo farai quella sera stessa, al momento di prendere l’ormai solita pozione dall’odore di caffè.
E, in fondo, non ci vuole poi molto che la sera finalmente sopraggiunga.
“Io di solito mangio sul divano.” ha esordito ad un certo punto lei, proprio verso l’ora di cena.
“Io no.” rispondi laconicamente.
E non solo perché non è tua abitudine. Già O’Dampand si è… ingegnata con quell’incantesimo per far girare pagina ai libri. Figuriamoci cosa dovreste fare per farti cenare sprovvisto di tavolo.
Stringi il bracciolo della sedia, quando ci pensi. Ti chiedi perché non sia venuto in mente anche ad O’Dampand.
“A che sta pensando?” le chiedi, così, nell’istante successivo.
Lei, mentre tu sei seduto sul divano - sempre seduto, ormai non sai fare altro - sta dando quella che sembra una sistemata a quella casa disabitata da mesi. Almeno la polvere smetterà di solleticarti il naso.
“Come, scusi?”
“A che sta pensando.” ripeti, ormai senza più l’intonazione della comune domanda.
Odi ripetere le cose. Ti fa sentire… non ascoltato davvero. E non sei stato ascoltato per così tanto tempo…
Ma è diverso, in altri casi sei stato tu a non farti sentire.
Smetti di pensarci.
Anche perché non pensi varrebbe la pena cercare di farsi sentire, di farsi ascoltare, di parlare, specie ora, specie così.
Non ne avresti motivo. E nessuno con cui farlo.
“Come mai me lo chiede?” è O’Dampand che ti fa tornare nel polveroso salone, reale “Mi ha vista strana?”
“Sì. Sovrappensiero.”
Lei si volta verso di te, dunque, la bacchetta stretta in pugno, reduce dal lancio dell’ennesimo ‘Gratta e Netta’.
“Quindi è vero che mi osserva.”
Silenzio, per la seconda volta in quella strana giornata. Non credi che riusciresti a sopportare questi silenzi molte altre volte.
Nessuna, credi, in realtà.
Tu, di tutta risposta, continui a guardarla assottigliando visibilmente lo sguardo, abbassando appena le palpebre.
“Sa, O’Dampand, se ci fosse un gatto mi metterei ad osservare quello. Spero sia a conoscenza del fatto che l’occhio umano è attirato da ogni movimento che riesce a percepire. Non ricerchi… attenzioni.”
Lei inarca entrambe le sopracciglia, con la bacchetta ancora alzata a mezz’aria.
“Quindi mi sta paragonando ad un semplice gatto.”
“O a una mosca. Anche le mosche si muovono.”
Lei alza gli occhi al cielo, e, quando lei fa così, ti ritrovi ad aggiungere qualche altra parola:
“Qualche tempo fa mi hanno detto che in realtà essere paragonata ad una mosca non è… dispregiativo.”
Non sai neanche perché tu glielo stia dicendo.
“E chi gliel’ha fatto presente?”
Tu ti umetti le labbra solo con la punta della lingua, ricordando. “Un pazzo.”
O’Dampand alza nuovamente gli occhi al cielo, andandosi poi a rintanare in cucina senza aggiungere niente.
Non sai se il pazzo in questione lo sia, ma può succedere che certi pazzi siano comunque molto intelligenti.
Meno di te, ma questo è un altro conto.
E pensi anche che, sebbene non molto intelligente, a tuo parere, nel tuo caso quello specifico pazzo poterebbe in qualche modo avere avuto ragione.
Dopodiché, senza neanche il tempo di una ulteriore aggiunta di parole, cenate. Forse in realtà non c’era neanche troppa voglia di approfondire l’argomento. E sì, cenate al tavolo della cucina.
Se appena entrato in casa avevi supposto che quella stanza fosse semplicemente funzionale al suo scopo e basta - così come tutti gli altri ambienti, d’altronde - ora devi ricrederti.
Oh, ma solo leggermente. Non è successo che, appena entrato, siano comparsi soprammobili a forma di cane e gatto o fiocchi o cuori o chissà quale altra disgustosa chincaglieria priva di senso.
No.
Solo che noti dettagli che, ad una certa distanza, non salterebbero affatto all’occhio, invece.
Così, quando prendi posto al tavolo, osservi dei minuscoli - o quasi - puntini rossi dipinti sugli angoli di alcune mattonelle bianche del muro; o due vasi colmi di quella che sicuramente è lavanda secca.
Non hai idea se sia stata essiccata di proposito o per negligenza della proprietaria - il che sarebbe anche possibile - ma tant’è.
La cosa più interessante, però, è il tavolo stesso. Quando ci fai caso smetti anche di considerare la zuppa verdognola che O’Dampand ti ha appena messo davanti.
Il legno del tavolo - perché di legno è - è pieno di tanti piccole linee verticale od orizzontali od oblique sparpagliate ovunque, come se quel mobile fosse stato in passato utilizzato per l’allenamento di un lanciatore di coltelli poco preciso.
Passi l’indice sopra uno di questi solchi, percependo il dislivello del legno sotto il polpastrello. Lo accarezzi lentamente, prima di allargare le dita e di posare il medio sul taglio immediatamente successivo, comportandoti con esso come hai appena fatto con il suo gemello.
Quanti tagli.
In un lampo di pura e semplice immaginazione ti passa davanti agli occhi la scena: un torturatore dal sorriso crudele e dagli occhi spiritati che seziona il tavolo, che però non è fatto di legno, ma di carne. Il tavolo si agita, ma non possedendo faccia non si può osservare il terrore della sua espressione, non avendo occhi non ci si può accorgere del suo sguardo pieno di dolore, non possedendo bocca non può urlare; può solo far stridere le proprie gambe contro il pavimento, ancora e ancora. Quasi riesci a vedere delle gocce di sangue fuoriuscire da quelle piccole ferite, poche, sì, ma gli affondi sono stati talmente numerosi che il sangue finisce per creare rivoli rossi che si uniscono tra loro e che scivolano sino al pavimento. Fiumi rossi che cadono nel vuoto circondante la Terra piatta su cui si trovano. E il corpo che il realtà è tavolo supponi continui a lamentarsi, senza però riuscire mai a manifestarlo, e l’intagliatore continua la sua crudele opera, mentre il pavimento è ormai quasi completamente allagato…
“Signor Piton?” la voce di O’Dampand ti chiama.
Il sangue viene magicamente risucchiato via, il tavolo-uomo smette di agitarsi e torna di legno e il torturatore svanisce nel nulla.
Ti volti lentamente verso la guaritrice, molto lentamente, mentre togli le dita dal legno e poggi la mano sulla tua coscia.
“Mh?” è tutto ciò che dici, sul momento.
“Le si fredda.”
Dicendo ciò O’Dampand sta indicando il tuo piatto, e, dunque, quella pseudo-brodaglia verde.
Tu fissi proprio quest’ultima, dunque, con occhio attento e scrupoloso. Ti porti il piatto al naso con attenzione, in modo da non sporcarti la mano. Senti lo sguardo di O’Dampand su ogni tuo piccolo movimento.
“Suvvia, da quando si comporta in maniera così sospettosa?”
“Da sempre, giorno più o giorno meno.”
Posi il piatto.
“Ma non nei confronti della cena.”
“Errore mio, avrei dovuto pensarci settimane e settimane fa.” dici, tanto per farla innervosire; e poi aggiungi, prima che possa replicare: “E comunque ho ragione ad essere sospettoso, come dice lei: questa zuppa ha un odore strano. Pungente, quasi.”
Ti volti verso di lei, e la vedi osservare prima te e poi il tuo piatto e viceversa.
“Certo… Pungente direi che potrebbe essere l’aggettivo adatto, dato che si tratta di zuppa d’ortica. E deduco, quindi, che non l’abbia mai assaggiata.”
“Ma cosa… Ortica? Vuole avvelenarmi, per caso?”
“Allora sarei proprio una pessima avvelenatrice, dato che le ho detto che cos’è nel momento in cui gliel’ho posata davanti. Non mi stava ascoltando?”
Fai solo passare un momento di pausa.
“No.”
Anche O’Dampand fa passare un secondo di pausa, ma ti sembra un secondo più lungo del tuo.
“Ho capito.”
“Si è offesa?”
Ti rendo conto di averglielo chiesto quando ormai hai finito di pronunciare l’intera frase, per quanto breve.
O’Dampand, in ogni caso, scuote la testa. Anche se forse ce ne mette un po’ troppa, di convinzione, nel farlo, perché la sua solita coda bionda si scuote talmente tanto da sfiorarle entrambe le spalle, e da davanti. Potresti dirle che non le credi, a questo punto, ma… a che pro? Prenderla in giro? Oh, possibile, d’altronde è praticamente il tuo passatempo preferito, ma… non lo fai. In quel momento non ne senti semplicemente la necessità, a dire il vero.
… E poi non fai in tempo a parlare che lei ti precede. Per quanto questo valga.
“Allora mi dica a che cosa stava pensando, su.”
Tu inarchi il sopracciglio come tuo solito.
“Non credevo si prendesse la briga di darmi ordini. Anche se in effetti non sarebbe neanche la prima volta…”
“Ma non era un ordine, ho aggiunto ‘su’, alla fine. Era un… invito.”
Tu rimani con il sopracciglio alzato per più di qualche breve attimo, di nuovo.
Poi sospiri appena, e le tue sopracciglia tornano entrambe ad essere al medesimo livello.
“Stavo constatando il grado di negligenza che ha nel prendersi cura della sua mobilia.”
“… Eh?”
“O’Dampand, se prima mi chiede delucidazione e poi dorme in piedi mentre parlo, dovrebbe provare a farsi visitare da uno dei suoi colleghi.”
“Ma la smetta di dirlo. E di fare l’antipatico, lei non ha puntualizzato abbastanza.”
“O’Dampand, io sono antipatico.”
“Questo non l’ho detto.”
“Ma quasi. E poi è una verità universale, come quali sono i sei usi del sangue di drago.”
“Non mi importa se continua a ripeterlo, io non desisto. Anche perché lo so perché lo sta dicendo in continuazione.”
“Ah, sì?”
“Perché in realtà lei non vuole parlare, ma io sono più cocciuta di lei, dovrebbe averlo imparato, ormai.”
“Ad essere precisi, noi stiamo parlando…”
Ghigni.
“Signor Piton!”
Tu continui a ghignare, e questo pare mettere fine alla conversazione. Anche perché O’Dampand non è che piò continuare a parlare da sola. A quanto pare il tutto mette fine anche alla curiosità di O’Dampand stessa.
E, sebbene ancora non ti attiri per i giusti e già esplicati motivi, cominci a mangiare la zuppa verdognola.
Anche perché, in caso contrario, sei sicurissimo che O’Dampand comincerebbe di nuovo a parlare, e a raffica e con ben altri toni. E non ci tieni, ad essere sincero con te stesso.
Ortiche. Bah.
Supponi che il primo uomo - o la prima donna - che abbia tentato di produrre questo… infuso fosse perché stava cercando di suicidarsi.
Beh, tentativo palesemente fallito. Ti spiace.
Ti spiace di meno, però, quando la cena riesce a definirsi finalmente conclusa. Nessuno è morto, poi, quindi in realtà potresti anche non lamentarti.
Forse.
È strano quello che hai appena pensato.
Nell’ultimo periodo, d’altronde, qualsiasi riferimento - verbale o non - al… trapasso ti ha fatto più effetto rispetto agli ultimi anni.
… Ma ora che ci hai fatto caso, ti percepisci più accigliato senza neanche che ci sia il bisogno che tu ti guardi allo specchio.
Evidentemente non ci hai fatto caso, prima. Sei stato molto stupido.
Lapsus, credi si possa definire; una volta hai sentito Albus utilizzare questo specifico termine.
Ti accigli di più.
Ora sei sul letto, in ogni caso, e la solita pomata sul collo sta bruciando, per cui smetti momentaneamente di pensare.
A dire il vero mano a mano che sono passati i giorni il suddetto dolore è andato diminuendo, segno che la situazione sta… migliorando, sì, si può dire così. Ma se ci si brucia un dito con il fuoco del camino o con una candela accesa, sempre bruciore si prova, ed è un po’ quello che percepisci tu, al momento, sia per quanto riguarda il dolore in sé sia per fatto che, alla fine, bruciore è proprio quello che senti.
Ti viene in mente un’altra occasione durante la quale hai provato un bruciore intenso, quasi insopportabile; ti ricordi di come hai stretto la mascella e hai sfregato i denti tra loro sino a farli scricchiolare, di come hai cercato di tenere gli occhi aperti ad ogni costo. D’altronde… essere Marchiati a fuoco capita una volta, nella vita.
Marchiato a fuoco, già. Come le vacche. Sul momento, anni e anni prima, una tale similitudine non ti sarebbe mai saltata alla mente; nel caso in cui, pensandola, tu l’avessi espressa ad alta voce, sei sicuro che avresti volentieri offerto la lingua per fartela tagliare.
Ma non vuoi pensarci, non ora, non adesso che provi altri bruciori, non adesso che sai che verrai processato proprio per questo, non adesso che O’Dampand dice che il passato può essere gettato alle spalle quando il passato, invece, in realtà non ti abbandona mai.
Così dici la prima cosa che viene in mente.
“O’Dampand, me la faccia vedere.”
Lei ha appena richiuso il barattolo della pomata e si è anche tolta i guanti.
“Come?” ti chiede, ritornando da chissà quali meandri della sua mente.
“La ferita. O… quello che è adesso. Prenda uno specchio, me la mostri.”
A questo punto O’Dampand annuisce. Appallottola i guanti e li bette nella borsa, poi si alza ed esce dalla camera. Senza dire nulla. D’altronde a cosa servirebbe commentare ogni singola frase e avvenimento?
Dopo poco, comunque, torna, non hai dovuto attendere a lungo, e in mano lei ha lo stesso specchietto avete già usato in una situazione analoga, mesi prima.
“Cosa mi devo aspettare?” ti viene istintivo chiedere.
Lei si sede nuovamente sul letto - ha la coperta blu, a proposito - e posiziona lo specchio quasi nella maniera giusta.
“L’inizio della formazione di una bella cicatrice.” risponde.
Tu alzi la mano e le afferri il polso, facendole velocemente spostare le specchio in modo che tu possa vedere bene.
Ha la pelle fredda.
E così è, in ogni caso: Nagini ti sta lasciando un bel souvenir, non c’è che dire.










Angolo Autrice:

Salve, bella gente!
Notate anche voi, nel capitolo che avete appena letto, qualche... cambiamento di pensiero? Sì? No? Piccolo-piccolo, suvvia, e mi è piaciuto tanto inserirli :P
Sul capitolo non ho nulla di particolare da dire, credo si spieghi tutto praticamente da sé (ma se avete domande, non esitate a chiedermi qualsiasi cosa).
Per cui vi lascio, salutandovi, e dicendovi che qui c'è bisogno di feedback, per cui commentate, su, su! XD
Alla prossima!
Iurin

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Capitolo 19
*** Capitolo Diciotto ***


Capitolo Diciotto
 
 
Un. Passo. Alla. Volta.
Non ci tieni a finire come durante la prima mattina che ti sei svegliato a Spinner’s End, dopo che il San Mungo ti ha… ‘dimesso’. In quel momento assomigliavi molto ad un poppante che non sapeva neanche gattonare.
Non che ora sia molto diverso.
Ecco, forse adesso potresti considerarti come un moccioso che ha imparato a gattonare e che ora è allo stadio successivo.
Appoggi la mano sinistra al muro, rimanendo immobile. Non ti eri reso conto di avere già il fiatone.
Preferisci non voltarti indietro per capire quanto tu ti sia spostato dalla camera da letto, onde evitare qualche improvviso movimento e, quindi, un consecutivo incidente.
La casa è buia e silenziosa, si sente il rumore solamente del tuo stesso respiro.
È già qualche giorno che sei stazionato lì, da O’Dampand - no, dire che ‘ci vivi’ non sarebbe un’espressione… naturale. Anche se forse, molto lentamente, ti stai abituando - anzi, assuenfacendo - a quel particolare tipo di arredamento.
Non senti neanche il respiro di O’Dampand, in tutto quel silenzio, ma è comprensibile: il salotto, nel quale lei dorme, ti sembra ancora lontano miglia e miglia.
Ti senti stanco. Vorresti sederti.
Ma ti dici che sei stato seduto fin troppo tempo.
Però sì… Ti senti piuttosto stanco.
Puoi capire perché Malocchio utilizzasse un bastone tanto grande per sorreggersi, qualsiasi fosse il suo ennesimo problema di deambulazione.
… Ti torna in mente quella notte. Tu a cavallo di una scopa e sette Potter nel cielo tutti attorno a te, Alastor Moody che era proprio nell’esatta traiettoria della bacchetta del Signore Oscuro.
Preferisci concentrarti sul dolore che ti sta attraversando le gambe e il palmo della mano, che ancora tieni esageratamente premuta sul muro accanto a te.
E ricominci.
Un passo alla volta. Un pollice dopo l’altro. Merlino, sei così lento. Ed ogni movimento è una fitta ed un lieve digrignare di denti.
Ti fermi di nuovo, capendo di essere arrivato a metà corridoio.
Poi riprendi ancora.
La volta successiva in cui ti fermi per riprendere fiato è appoggiandoti con la spalla allo stipite della porta del suddetto soggiorno. Ti tocchi appena la fronte, per quanto puoi, e trovi un paio di piccole gocce di sudore scorrerti lungo la pelle.
Comprendibile, certo, ma non per questo meno frustrante. Cerchi di non fare rumore quando cominci ad addentrarti nella stanza, proprio come solo tu sai fare. O meglio, sapevi. Ma ti imponi di non avere comunque perso il tuo ‘tocco’. Il buio non è così pesto, riesci a distinguere i contorni della mobilia, fortunatamente, e questo grazie al fatto che l’alba è ormai sorta. Riesci a scorgere piccoli fasci luminosi di sole filtrare dagli scuri chiusi delle finestre. E in questo modo riesci a raggiungere il divano senza problemi. Senza troppi, almeno, dato che credi passino almeno dieci minuti per percorrere la distanza che normalmente avresti superato con tre o quattro veloci e lunghi passi.
Pensarlo ti rende più frustrato di quanto tu già profondamente sia.
L’unica piccola soddisfazione è il raggiungimento della tua meta: i divani.
Riesci miracolosamente a rimanere dritto, appoggiato di fianco allo schienale di uno di essi, sorreggendoti con l’aiuto della mano. Da lì hai una perfetto visuale di O’Dampand che, ovviamente, sta ancora dormendo.
Lei non è scossa, d’altronde, da eccezionali fremiti, durante quella notte.
Quindi… dorme. E in una posizione molto composta, noti: niente gambe all’aria, niente coperta attorcigliata chissà dove. Dorme in maniera ordinata, e ti lascia solo lievemente perplesso il non averla comunque svegliata. Allora sei ancora bravo a mantenere un certo… passo felpato.
Felpato, mh.
Con una smorfia cancelli il pensiero velocemente così come è arrivato e torni a guardare lei, ancora ad occhi chiusi, nonostante tutto.
E a questo punto speri che lei davvero non si svegli, dato che tu passeresti come un uomo piuttosto depravato, se lei ti sorprendesse a fissarla in questa posizione. In silenzio e al buio.
Fai un’altra smorfia, quando realizzi ciò, considerando che le tue intenzioni sono ovviamente altre.
Meglio sedersi, almeno. E lo fai accomodandoti sul divano libero, piegandoti con cautela, ma poi cadendo sul cuscino producendo un piccolo tonfo attutito dai vari strati di stoffa e imbottiture. Fai un sospiro di sollievo, subito dopo. Piccolo. Sei seduto, dunque, e, come hai notato in precedenza, i segni del già avvenuto arrivo dell’alba sono ormai visibili.
E anche O’Dampand, sebbene addormentata, deve essersene inconsciamente accorta; la vedi agitarsi nel sonno - poco, ma più di poco prima - e aggrottare le sopracciglia - l’esserti abituato al buio aiuta i tuoi occhi già stanchi di per sé a vedere meglio. Si sta svegliando, lei.
Tu rimano immobile, ma con lo sguardo comunque rivolto a lei.
Sì, un esterno ti riterrebbe un uomo dalla dubbia moralità, probabilmente, ma tu hai le tue buone motivazioni, per fare ciò.
O’Dampand allunga le braccia in alto, tendendole, per poi piegarle, ma mantenendole comunque al di sopra del suo capo. Poi apre gli occhi. Sbatte le palpebre tre o quattro volte fissando il soffitto.
“Buongiorno.” sei tu il primo a parlare, e la tua voce, ormai tendente al gracchiate dopo l’incidente di Nagini, è ancora più roca, essendo quella la prima parola che pronunci dopo una notte intera - più o meno - di sonno.
O’Dampand, allora, rivolge lo sguardo a te nell’immediato, notandoti, finalmente. E di conseguenza si alza di scatto, mettendosi seduta tutta d’un colpo. Sei certo che per qualche istante abbia anche visto tutto nero per via del repentino movimento.
“Ma… Cosa…. Perché…” farfuglia, mettendo giù i piedi dal divano.
Non l’hai mai sentita veramente farfugliare, dovevi sorprenderla così, per farglielo fare.
“Cosa diamine ci fa lei qui?!” esclama poi.
Tu fai quello che potrebbe essere un lieve ghigno.
“Non le piacciono i pigiama-party improvvisati?” rispondi.
Di nuovo ti viene alla mente l’immagine di Moody e a quando l’hai incontrato in camicia da notte tu - come sei ora, d’altronde - e in vestaglia lui, ad Hogwarts, circa tre anni prima.
Ma quell’uomo non era Alastor Moody, in fondo, ma Barthemius Crouch jr., per cui il pensiero se ne va subito, neanche il tempo di attecchire.
“I pigiama-party sì, forse persino quelli improvvisati, ma non se sono inquietanti come ora. Mi ha fatto prendere un colpo.”
“Questi sono dettagli.”
“E ho i capelli tutti per aria, grazie tante.”
“Se per me è un dettaglio il suo ipotetico quasi-infarto, figuriamoci lo stato dei suoi capelli. È tutto un enorme e insignificante dettaglio di fronte a quello che - lo sappia, glielo rinfaccerò a vita - ancora lei non ha notato.”
L’espressione di O’Dampand, a questo punto, da sconvolta diventa perplessa.
“Un momento…”
“Dunque ci è arrivata. Il suo cervellino è stato nuovamente ossigenato a dovere e le rotelline hanno ripreso a girare. Cigolando, certo, ma…”
“Oh, la smetta di fare lo scontroso e si sbrighi, signor Piton.”
“Mi sbrighi a fare cosa?”
“A farmi vedere come ha fatto a venire qui.”
A quel punto occorre la dimostrazione pratica, è ovvio. Anche se, in realtà, non vi è stata una precedente vera e propria esplicazione teorica, le migliori lezioni avvengono così: prima la teoria, poi la pratica. Anche tu, quando eri professore, adottavi un tale sistema. La maggior parte delle volte.
Eri professore. Lo sei?
Già da tempo hai affermato tu stesso di non esserlo più, ti sei definito ‘ex’ tu stesso, senza neanche soffermartici troppo.
Andiamo. Quando mai potresti tornare ad insegnare? E, anche potendo, come? Non tieni alla compassione dei tuoi colleghi, non tieni ai risolini che gli studenti nasconderebbero dietro le dita osservando il tuo incedere caracollante.
No.
Saresti rimasto un ‘ex’. Ex. Non più utile. Vecchio. Da buttare.
“… Signor Piton?”
Ti sei fermato a fissare il vuoto per l’ennesima volta, forse il lembo della coperta che O’Dampand tiene ancora sulle gambe.
“Sì. Dimostrazione pratica.” borbotti.
Sebbene tu, a dirla tutta, quella teorica non l’abbia per nulla esplicata. Ne avete parlato per sottintesi, per allusioni, e solo alla fine della vostra appena conclusasi conversazione.
Un tuo commento acido, una sua risposta piccata. Frasi spezzate. È stata questa la tua ‘teoria’.
Speri che durante l’altra non sia tu a spezzarti.
E così inizia.
Tu che fatichi per metterti nuovamente in piedi; la smorfia sulla bocca che cerchi di nascondere ma che lotta per rimanere impressa sulla tua faccia; le vertigini, per un istante che ti è sembrato molto più lungo di quanto fosse in realtà.
Sei penoso e tu stesso ti fai pena da solo, all’inizio. Questo è ciò che ti fa infuriare più di tutto il resto e di conseguenza metti più forza sul braccio che spinge sul bracciolo del divano per farti rimettere dritto sulle gambe.
Gambe maledette. Forse meno di quanto lo fossero un mese addietro, ma di sicuro non le vai ringraziando.
È un problema quando l’anca decide di collaborare di nuovo, finalmente, ma il ginocchio decide di rimanere una stupida articolazione insensibile agli impulsi di chi dovrebbe governarlo. Comunque così, con la gamba ancora mezza rigida, sei uno spettacolo grottesco che avrebbe fatto ridere i crudeli e far distogliere lo sguardo ai compassionevoli.
L’odio.
Sì, per entrambi. Per i primi non c’è neanche bisogno di spiegazioni; per i secondi perché credono di fare un favore, non guardando, mentre invece ti farebbero sentire ancora più miserabile.
Il tutto sta nel guardare in un certo modo.
Quando finalmente sembra che tu sia riuscito a metterti in posizione eretta - anche se la schiena rimane forse troppo in avanti, per un po’ - O’Dampand ti offre la spalla ancor prima che tu possa muovere un passo.
L’accetti.
Un conto è barcamenarsi da solo al buio, quando nessuno ti osserva, un altro è farlo di fronte ad altri. È inutile non ferire il proprio orgoglio ma fare la figura del primate sgraziato.
Così posi la mano sulla spalla di O’Dampand, mentre quest’ultima posiziona la sua sul lato del tuo tronco, appena sotto il tuo braccio.
Per te dovrebbe essere come utilizzare l’ingombrante bastone di Moody.
Solo che il bastone di Malocchio non parlava.
“Signor Piton?”
Fai un passo con la gamba ‘stupida’, nulla di strano.
“Mh.”
Ne fai un altro con quella ‘buona’, di gamba, e forse ti appoggi un po’ troppo alla guaritrice. Non importa, lei è lì per quello, dopotutto.
“Cosa c’è?” la incalzi, dato che ha smesso di parlare.
Altri passi vengono aggiunti ai primi.
“Lei è alto, sa?”
Ti rendo conto che prima di oggi lei neanche avrebbe potuto saperlo. Non ti ha mai visto davvero in piedi. È strano.
“Sono anni che non misuro la mia altezza, ma credo di saperlo, sì. Grazie per l’informazione.”
Raggiungete il corridoio.
“Così devo ammettere che mi mette un po’ in soggezione.”
“Salazar sia lodato, credevo che per me sarebbe stato impossibile riuscirci, nei secoli a venire. Mai stato così contento di potermi ricredere.”
“Ehi, ho detto solo ‘un po’’.”
Un altro passo.
“Mi basta.” rispondi in un sussurro “Per il momento.”
Qualche altro minuto trascorre e, più velocemente di quanto sia stato il tuo solitario viaggio di andata, sebbene comunque con una qual certa snervante lentezza, tornate in camera da letto. E sul letto vi sistemate, di conseguenza: tu mezzo sdraiato, con due cuscini dietro la schiena per tenerti sollevato come al solito, e O’Dampand semplicemente seduta.
Sì, aveva ragione: ha i capelli da pazza.
“Ho notato che muove quasi tutta la gamba destra, ormai.” è la prima cosa che dice lei, allora, dopo una breve pausa di silenzio.
“Io ho notato che arranco comunque…”
“Farò in modo che le vangano subito date delle stampelle.”
“Una. Che potrò usare con il braccio sinistro, dato che l’altro pare morto. Per cui sarà solo parzialmente d’aiuto.”
O’Dampand inarca entrambe le sopracciglia. Lo vedi nonostante la luce fioca, la stessa che era presente nel salotto, forse solo un po’ più intensa.
“Non riesco a capire, lo ammetto.” fa lei “Un attimo sembra contento… Beh, contento, diciamo ‘sollevato’, mentre l’attimo dopo pare che se non gliene stia importando niente.”
“In realtà è tutto un astuto piano per confonderla, O’Dampand. Sono senza bacchetta, per cui devo ricorrere ad altre… tecniche. ‘Confundus Verbale’.”
“‘Confundus Verbale’.”
Famosissimo.”

“Non mi dica che sta scherzando, perché potrei seriamente mettermi ad urlare.”
“Non troppo forte; sveglierebbe i vicini e sarebbe la causa del mio mal di testa di prima mattina.”
… Forse non è vero, certe volte, che non te ne importa proprio niente.
 
Ora sei di nuovo seduto sul divano, ma la situazione è cambiata: sei vestito (dei tuoi abiti babbani, ci mancherebbe altro) e gli scuri alle finestre sono stati aperti da qualche ora.
Stai leggendo, o, almeno, è quello che sembra che tu stia facendo. In realtà stai fissando da qualche secondo l’agglomerarsi delle parole nere sulla pagina giallognola. Le guardi ma non le vedi.
O’Dampand è appena rientrata dall’essere andata a comprare qualcosa per il frigorifero che si era svuotato di nuovo. La senti armeggiare con una busta di carta spessa. Anzi, è probabile che la busta stia armeggiando se stessa da sola per magia.
A quel punto senti l’impulso, però, di andartene semplicemente in bagno, ma ti dici che è anche arrivata l’ora che tu lo raggiunga da solo.
Sei un uomo, non un poppante.
Ora che puoi farlo, devi.
Un piccolo giro di parole che conduce comunque alla tua messa in piedi finale. Non senza sforzi. Non senza imprecazioni mentali, ma, come quella mattina, in piedi riesci a rimettertici. E raggiungi il bagno, passando di fronte anche alla cucina, ma di O’Dampand hai solo una fugace visione: sta guardando alla finestra e non si accorge di te, così tu tiri lentamente dritto. Chiudi a chiave la porta del bagno dietro di te.
Il respiro affannoso ed affaticato ti segue come una seconda ombra. O forse come terza o quarta. Di ombre tu ne hai parecchie.
Qualche minuto dopo - diversi minuti dopo - riesci ad uscire dal bagno. Apri la porta rimanendo con la spalla appoggiata al muro proprio accanto all’uscio.
Da un certo punto di vista… ti senti un pupazzo di pezza. Di quelli che devono venire appoggiati da qualche parte per farli stare dritti e dar loro una certa parvenza da essere umano.
Forse anche tu, ormai, sei un ex-uomo?
Forse no. Ma fatto sta che i pupazzi di pezza ti hanno sempre messo tristezza, con i loro occhi a bottoni e i loro sorrisi dai denti aguzzi. E le loro membra morte.
Apri la porta.
E immediatamente il viso dagli occhi sgranati di O’Dampand ti compare davanti veloce come il vento.
“E’ qui dentro!”
“No, ora sono fuori. E comunque non faccia più così, o mi procurerà un infarto. E avevamo già appurato che la cosa non andrebbe neanche a suo vantaggio.”
“Non colpa mia se non l’ho più trovata sul divano. Poteva essere sparito chissà dove.”
“Ma cosa pretende, O’Dampand?”
“Non lo so…”
Silenzio.
“Comprerò un guinzaglio.” afferma poi lei.
“Lei ci provi e userò la poca forza che ho per scaraventarla giù dalla finestra.”
Lei si mette a ridere, nella maniera tanto breve che ormai conosci, e si allontana da te per tornare in cucina.
“E io la porterei giù con me.” dice sorridendo, mentre cammina.
Tu rimani appoggiato al muro.
“Mi salverei. Lo sa che so… beh, quanto meno sapevo… volare senza scopa?”
A questo punto lei si volta nuovamente verso di te, un ‘Davvero?’ che prende forma sulle sue labbra ma che non viene pronunciato, seguito da un ‘Come?’.
Tu, dal canto tuo, incurvi un angolo delle labbra in alto, senza rispondere.
Forse lei starà pensando che tu la stia di nuovo prendendo in giro. La lascerai con il dubbio negli occhi.
Invece di tornare in salotto, allora, con O’Dampand che ancora ti sta guardando, te ne vai in camera da letto.
Ti senti stanco.
 
Dopo cena, di nuovo divano.
Letto, divano, sedia, divano, letto, divano.
Non si può dire che i ‘luoghi’ che frequenti siano molti. Per un secondo hai fissato con vibrante soddisfazione la sedia metallica con le ruote, nella tua testa esplodeva il grido di ‘mai più’. Poi l’hai dovuto modificare in ‘meno’: a volte le ginocchia tremano e i passi diventano sempre più difficili da compiere.
Reputi singolare, a questo punto, provare della stanchezza puramente fisica. Ultimamente hai sperimentato molto quella mentale, dato il pensare troppo e a troppe cose, o quella di spirito, su cui neanche ti soffermi. La stanchezza fisica è singolare, quindi, sì, e speri che essa possa risucchiare un po’ di energia vitale alle sue più estenuanti sorelle.
… Perlomeno pare che tu ti addormenti più in fretta, adesso.
Quindi… Sì. Divano. Come al solito.
E stai ancora leggendo quel dannato libro che ti ha incantato O’Dampand. Non solo sarà almeno la quarta volta che lo riprendi in mano, lungo l’arco della tua vita, ma stia pure proseguendo lento. Come se non capissi le parole, neanche tu fossi un bambino di prima elementare che ha appena imparato a leggere.
… No - valuti - stai esagerando, il tuo cervello non si è rattrappito a tal punto. Vai più lento, è vero, ma non perché non sai leggere; per Salazar, ti ci mancherebbe solo quello. Evidentemente, allora, la tua mente ha deciso che, dato che hai ancora un’infinità di tempo, davanti a te, per stare seduto con un libro tra le mani, sarebbe inutile affrettarsi, divorare parole già lette per giungere alla fine della pagina in una breve manciata di secondi. Può essere questo. Non lo sai, è una supposizione bella e buona. Ma intanto sei ancora lì, su quel divano ocra, a mormorare lentamente quell’‘Avanti’ che fa voltare pagina.
Poi, il rumore.
All’inizio senti solo una sorta di tintinnare lontano, ovattato, sfocato. Dopodiché percepisci distintamente che delle chiavi vengono infilate nella toppa della porta di casa. Dall’esterno, ovviamente, altrimenti non vi sarebbe nulla di particolare ed insolito.
Almeno - pensi - se chi vuole fare irruzione ha le chiavi, non deve trattarsi di un ladro.
Provi a voltarti con la schiena, per capire cosa mai stia per succedere, per quanto puoi, dato che nella tua posizione stai dando le spalle alla porta, ma quando lo fai inizi a sentire la pelle del collo pizzicare, così lasci perdere e torni a guardare dritto di fronte a te. Il libro viene chiuso e posato sul bracciolo piatto del divano; non riuscirai mai a finirlo, già lo sai.
Nello stesso momento in cui la porta si apre, in ogni caso…
Eee--” senti provenire da dietro di te.
… inizi a parlare. “O’Dampand,” è lei ad essere in bagno, ora; tu la chiami ad alta voce “c’è qui qualcuno che non si premura neanche di bussare quando entra in casa d’altri.” e dire che non stai neanche guardando in faccio l’intruso “Gliele ha date lei, le chiavi, o si tratta di un fabbro piuttosto intraprendente?”
O’Dampand accorre ancora con l’asciugamano in mano.
“--eehi.” conclude quel qualcuno; e dalla voce ora sai che si tratta di una donna.
 “Oh, Merlino, Lois!” esclama proprio O’Dampand, lanciando praticamente il suo asciugamano sul divano - non accanto a te, almeno - e correndo verso la nuova arrivata.
Perlomeno è assodato che no, non si tratta di un fabbro con troppa intraprendenza.
“Oh, ciao, Serena... Ah!”
A questo punto, con molta più calma, lentezza e attenzione - che trio - riesci finalmente a voltarti nella direzione delle due donne: O’Dampand sta sciogliendo quello che era un evidente abbraccio che però si è già concluso, mentre l'altra donna... Sei sicuro di averla già vista da qualche parte.
Ha i capelli corti fino alle spalle, ricci e castani chiaro, occhiali sul naso, occhi più grandi di quelli che comunemente è la misura comune.
Al San Mungo sei sicuro di non averne mai incrociate, di donne: oltre ad O’Dampand stessa, hai incontrato solo l'infermiera a cui è stata affidata quella palla al piede di Gilderoy Allock, mentre per il resto, nulla. Eppure sì, sei sicuro di averla già vista da qualche parte. Ed è amica di O’Dampand, per cui, se non è successo in ospedale... E poi ti viene in mente: la caffetteria. È stato in quella strana caffetteria senza nome, solo che quel giorno lei era in compagnia di qualcun altro. Sì, è stato proprio lì. Quella donna era in compagnia di un uomo, te lo ricordi, sebbene di quest’ultimo tu ora non abbia affatto presente i lineamenti. Ma sei sicuro di esserti ricordato bene.
Ovviamente questo tuo ragionamento si è svolto nel giro di un paio di secondi, difatti nessuna frase è stata ancora espressa ad alta voce.
Ma si rimedia subito.
“Io, ehm...” è proprio la nuova arriva a prendere timidamente la parola “Scusate, comunque, ho visto da sotto che le finestre sono aperte, per cui ho pensato...”
Il suo sguardo passa più volte da te a O’Dampand e viceversa.
“Che la signorina O’Dampand fosse tornata a casa.” sei tu a completare la sua frase “Ma presumo da sola.”
La donna si ritrova ad annuire in maniera fin troppo celere. Ha lo sguardo fisso su di te, quasi ti sembra che non stia neanche sbattendo le palpebre.
Puoi supporre ciò che stia passando per la sua mente; d’altronde anche alla famosa caffetteria ti ha guardato in maniera non troppo... entusiasta. Sei sicuro che vederti qui, seduto sul divano della sua amica, sia l'ultima cosa che si sarebbe immaginata di trovare e anche l'ultima che avrebbe voluto vedere. 
Tu fai una smorfia alimentata solo da questo pensiero, senza che l'interessata abbia effettivamente detto di nuovo qualcosa.
“Beh...” è la prima pseudo-parola che dice, ma O’Dampand la interrompe, intromettendosi:
“Signor Piton, lei è la mia amica Lois Chadwick. Le ho lasciato le chiavi per farle annaffiare le piante, ma mi sono scordata di avvertirla di essere tornata.”
“Quali piante?” ti ritrovi a chiedere. 
“Quelle fuori dalle finestre, non le ha notate?”
“No.”
Nel frattempo O’Dampand ha posato una mano sulla schiena della signorina Chadwick, sospingendola delicatamente verso di te. Tu osservi il tutto con le sopracciglia entrambe inarcate. È palese come la nuova arrivata faccia volutamente solo dei piccoli passi per accostarsi al divano. E, oltretutto, il suo sguardo rimane fisso in maniera lievemente inquietante. 
Ed irritante, ovvio.
Alla fine lei ti tende la mano.
“Sì, er... Salve.” dice, ormai forzata.
Nessun ‘Piacere’. Avresti dovuto supporlo.
Tu, dal canto tuo, non dici nulla, ti limiti a stringere le sue dita per giusto un secondo con la mano sinistra.
“È mancino?”
“No.”
Attimi di silenzio. Un silenzio teso e imbarazzato. Per lei, per la signorina Chadwick, non di certo per te. Tu sei… relativamente tranquillo, credi. Ma la sensazione passa, ed è durata così poco che subito dopo non sei più così sicuro di averla davvero posseduta. Il fatto è la suddetta signorina, alla tua risposta sgarbata - che poi… sgarbata, è consistita in un unico monosillabo; la gente si fossilizza veramente sulle virgole e sui punti. O sui toni di voce. Ma i tuoi toni non è che siano di una così vasta varietà, dopotutto - ti guarda male, e per più di una mezza frazione di secondo. Fino ad ora ha sempre mantenuto uno sguardo sorpreso e allarmato, certo, come se tu potessi saltarle alla gola da un momento all’altro.
Alla gola. Ironico.
Ma evidentemente adesso ha capito che non lo farai, specie quando le hai stretto la punta delle dita. Forse ha capito che la violenza che potresti riservarle sarebbe quella di una parola o di un tono di voce, e allora lei ha assunto il coraggio per poterti guardare duramente.
Di coraggio, prima, non ne ha avuto neanche troppo, dato che O’Dampand ha dovuto spingerla verso di te. Quello di ora può veramente considerarsi coraggio? Di sicuro, in questo caso, lei ne ha molto poco e solo per le situazioni in cui è sicura di cavarsela, se fosse possibile misurarlo. Allora non con molta probabilità il suo dovrebbe essere considerato coraggio.
Ma non è poi questo il punto.
Il punto è che ti ha guardato come sei sicuro ti guarderebbe abitualmente.
Arrabbiata. Disgustata, forse. Nessuna ammirazione. Nessuna compassione. Per lei tu sei il Mangiamorte, l’assassino di Albus Silente e basta.
Oh, la cosa non ti è affatto simpatica. La cosa ti dà un pugno sul petto all’altezza del cuore, e non in maniera delicata.
Ma forse è meglio così che con un sorriso di pena sul viso.
Forse non è così male. D’altronde sono anni che non sei… simpatico alle persone. Forse devi solo abituarti ad una reazione un po’… maggiore rispetto a quella che di solito la gente ti riservava.
… Forse in realtà non lo sai neanche tu come vuoi essere guardato.
O forse lo sai, ma non riesci a decodificare i tuoi pensieri, in questo esatto momento.
La stanchezza mentale e di spirito non vengono poi così indebolite dalla stanchezza fisica, le tue speranze sono state decisamente vane.
A questo punto è O’Dampand ad intervenire. Dapprima fa un passo in avanti, posando delicatamente la mano sulla spalla della sua amica; noti, però, che il suo sguardo rimane fisso su di te. E’ uno sguardo che ti sta studiando, ma che ben presto diventa uno sguardo che viene rivolto all’altra donna, dato che O’Dampand fa ancora un passo avanti, in modo da potersi affiancare a lei.
“Ti va una tazza di caffè? Stavo per metterlo su.” dice lei, e finalmente anche la signorina Chadwick smette di concentrare tutta la sua attenzione solamente su di te.
“Sì… Sì, grazie, certo che mi va.” è la risposta.
Oh, niente caffè, per te.
Non sai se per evitarti l’imbarazzo di una conversazione o se, semplicemente, per evitare che tu sia d’intralcio allo scorrere delle parole tra le due donne.
E così O’Dampand e la Chadwick escono da lì, rifugiandosi in cucina, chiudendo anche la porta dietro di loro.
Puoi solo supporre quale sarebbe la natura della loro conversazione, di cui riesci a cogliere solo poche parole, prima che tu venga lasciato fuori. ‘Giornale’, ‘ancora?’, ben poco altro. Poi rimani da solo.
In realtà, date le tue nuove… condizioni, potresti anche alzarti - faticosamente e lentamente, ma almeno potresti farlo, più o meno - e andare proprio accanto alla porta della cucina. Potresti rimanere lì, potresti attaccarti con l’orecchio proprio sul muro sottile, potresti ascoltare senza essere visto.
Non ti arrischieresti a spiare dal buco della serratura, ancora, sarebbe troppo rischioso.
Ma poi scuoti la testa; l’ultima volta che hai spiato qualcuno in una maniera simile hai ascoltato parole dettate dalla Divinazione. Ti sei sentito un codardo e un debole, dopo; farlo adesso non sarebbe diverso.
Anzi, sei sicuro che tali sensazioni verrebbero percepite persino in maniera amplificata.
Così tu rimani sul divano, in compagnia solo di te stesso, il libro ancora chiuso di nuovo sulle gambe, il palmo di una mano posato lungo la lunghezza della copertina.
Respiri a pieni polmoni.
Hai altro a cui pensare.
Altro che si materializza esattamente nell’attimo successivo, come se ti stesse aspettando, o come se tu l’abbia appena chiamato.
Inizi a sentire una sorta di ticchettio, da qualche parte. Forse quella è la giornata dei rumori improvvisi. Ma insomma, c’è questo… ticchettio, sì. Un ticchettio provocato da qualcosa di duro contro un vetro, per cui capisci subito di cosa si tratta e non ti sorprendi quando, voltandoti verso la finestra, vedi un gufo appollaiato sul davanzale esterno.
Lo fissi, per un attimo, ed è come se lui stia fissando proprio te.
E così, sebbene per una motivazione assai differente, sei costretto ad alzarti comunque, dato che O’Dampand non si fa viva e dato che tu non l’avresti di sicuro chiamata ad alta voce interrompendo la sua conversazione e apparendo come un vecchio bisbetico dispettoso.
… Immagine a cui tu vai pericolosamente vicino, ma non ti saresti dimostrato tale in questo esatto momento.
Ti alzi, dunque. Piano, come hai ormai già imparato a fare, ma non per questo con meno accortezza e attenzione.
Caracolli verso la finestra, e, quando vi arrivi, ti appoggi di peso con tutta la mano sul davanzale e con la spalla contro il muro lì accanto.
Il gufo non ha smesso di guardarti con i suoi occhi gialli per tutto il tempo. E proprio il gufo, una volta che riesci ad aprire la finestra per quel minimo indispensabile, entra senza fare assolutamente alcun rumore, lascia cadere il rotolo di pergamena che ha tra le zampe sul divano e, sempre volando, riesce dalla finestra.
Tu chiudi quest’ultima e guardi l’animale nel cielo, ormai già solo un piccolo puntino.
Singolare.
Di solito gli ingordi gufi aspettano almeno di ricevere qualche misera briciola di pane. Che tu non sai se gli avresti offerto, ma questo è un altro discorso.
Torni al divano. Sempre lentamente, sempre con attenzione, anche se i tuoi movimenti vorrebbero accelerarsi per la curiosità che ora senti vorticare nella tua testa. Perché quella lettera - o quel che è - è per te, non per O’Dampand, altrimenti il gufo avrebbe ticchettato contro la finestra della cucina - ti dici.
Quando sei nuovamente seduto, allora, prendi il rotolo: è tenuto fermo da un nastro nero; senza fiocco, il nastro termina in un comune nodo. Fortuna è un nodo semplice, non doppio, altrimenti scioglierlo con una mano sola sarebbe stato più complicato. Avresti dovuto usare i denti e la sensazione di un pezzo di stoffa in bocca non ti è mai andata particolarmente a genio.
Non puoi fare altro che leggere, allora, non appena spieghi il foglio di pergamena sulle ginocchia.
È una lettera di comparizione da parte del Ministero della Magia. C’è anche un timbro, alla fine del foglio, sopra la firma scarabocchiata di quello che dovrebbe essere – a detta della lettera stessa – il Rappresentate dei Servizi Amministrativi Wizengamot, tale Tiberius Ogden – ti sa di nome già sentito, ma non ricordi dove. Ti spiega come sei invitato – invitato – a presentarti al Ministero, in Aula Dieci, di lì a due giorni. Il motivo è inutile specificarlo, ma la parola ‘processo’ si ripete costantemente nella tua testa.
Fai tornare a rotolo quella pergamena. Anche se in realtà si può dire che vi sia tornata in maniera più che naturale, dato che, dopo aver finito di leggere, la tua mano sembra essere diventata troppo debole per poter mantenere una presa salda.
Una presa su un banale foglio di carta, già.
Ma, no, non banale; non è l’aggettivo esatto. Di aggettivi ve ne sarebbero a decine, a centinaia, ma no, banale non è tra questi.
Quando riprendi il controllo delle tue dita ti ritrovi a stringere il rotolo accanto alla tua gamba. Non ti viene naturale lasciarlo neanche per un momento. Il tuo sguardo rimane fisso, dapprima sul muro di fronte a te, poi sulle candele verdi sul tavolino, ormai spente.
Aspetti che la signorina Chadwick se ne vada, prima di dire qualsiasi cosa riguardo a quello che hai appena letto, e, quando lei lo fa, ti senti la bocca talmente asciutta che non riesci neanche ad articolare un vero e proprio saluto. Sgarbato o no che sia, non dici nulla che non sia somigliante ad un vago borbottio.
E quando rimani da solo con O’Dampand, allora, puoi spiegarti. Prepararla al disagio che sarebbe arrivato di lì a poco, come se ormai non fosse già abbastanza.
Per lei, ovvio, ma per te?
È abbastanza anche per te?
 
Sei seduto su una sedia di marmo. Anzi, più che una sedia sembra addirittura un vero e proprio trono: i braccioli ambi e rigidi, lo schienale alto e a punta, la base composta da un unico blocco di pietra grigio-bianca.
Strana sedia, per un imputato. Lo si vuole far sentire al sicuro, avvolto da una apparente regalità anche nel momento della condanna?
Tu sei seduto su questa sedia, e sì, sei l’imputato. Tutto attorno facce di uomini e donne che osservano in silenzio ciò che sta accadendo. Ma tu non hai occhi, per loro; per te sono solo vacue forme e vari colori, facce senza occhi e lineamenti, senza bocca, senza identità. Tu sei concentrato ad osservare l’uomo seduto più in alto, quello seduto più al centro degli altri, esattamente di fronte a te. Non lo conosci, ma è lui che decide, ora, è lui che ha tra le mani il tuo destino.
E il tuo destino ha preso forma materiale nella pergamena che l’uomo ha proprio nella sue mani. Si alza in piedi, lui, spiega il foglio, pronto a leggere ciò che la giuria vi ha impresso con inchiostro indelebile. Una condanna? Un’assoluzione?
Senti il sudore scenderti lungo la schiena.
Poi l’uomo fa un cenno con il braccio, rivolto a te. Un gesto annoiato. Anzi, no, non è rivolto a te, ma a qualcuno che si trova esattamente alle tue spalle. Stai per voltarti per osservare chi sia mai il destinatario delle mute parole del giudice, ma prima che tu possa girare la testa senti qualcosa premerti sul collo.
Un corda tesa. Ti preme ti schiaccia contro lo schienale, ti fa bruciare la carne. Alzi la testa, cerchi di guardare chi mai stia facendo questo, ma i tuoi occhi vedono solo facce scure e senza volto. Nere come quelle dei Dissennatori. Ma sono uomini, due, che ti stanno facendo mancare il fiato, lacerando la sottile carne del tuo collo.
Un grido ti rimane imprigionato in gola per via di quella corda.
“La sentenza.” dice poi il giudice “ L’imputato è colpevole.”
Nessuno fa niente, nessuno ferma quegli uomini che ti stanno lentamente uccidendo. Per gli altri sembra tutto normale.
È così… Così doloroso.
Ti porti le mani al collo, nel tentativo di allargare la morsa della corda, ma non riesci. E puoi anche muovere entrambe le braccia, ti rendi conto. Come è possibile? Ma ha poco importanza, perché neanche questo basta, non c’è lo spazio per infilare neanche la punta delle dita, le tue unghie graffiano la fune e la tua pelle stessa, le senti rompersi una dopo l’altra con un sonoro ‘crack’.
Solitamente si muore per strangolamento in pochi secondi, e non perché manchi il fiato, no, ma perché viene impedito al sangue di raggiungere il cervello.
A te però non succede così. Sono bravi, quegli uomini. Vogliono farti morire soffocato, più lentamente, in modo che tu possa continuare a vivere per il tempo necessario per ascoltare le ultime parole del giudice.
Perché nessuno fa nulla?
Dov’è O’Dampand?
La cerchi, ma non la vedi, scorgi solo volti senza faccia.
E il giudice riprende a parlare con voce metallica:
“Azkaban è un luogo di prigionia, ma non è ancora abbastanza per l’imputato Severus Piton. La punizione da infliggere deve essere più forte, da esempio. Azkaban non basta. La sentenza è morte.”
Una risata si leva da un punto che non riesci ad identificare. Il giudice ha lo sguardo che sorride, ma ben presto anche lui diventa un uomo senza occhi.
E poi la corda scompare. Non sai perché, ma capisci che la sedia sotto di te, la sedia regale di marmo, è improvvisamente scomparsa anche lei. Il pavimento si apre e tu vieni inghiottito; cadi, ma immediatamente vieni inglobato da una poltiglia grigiastra, un lago di fango che ti avvolge e non ti lascia andare, se allunghi le mani verso l’alto, verso il buco del pavimento da cui ti guardano gli uomini dalla faccia completamente nera, un braccio melmoso ti tira giù, spire di serpente ti stringono all’altezza dello stomaco, il tuo volto e tutto il resto del tuo corpo ben presto ne vengono ricoperti.
Apri la bocca per gridare, ma quando lo fai la gola ti viene riempita di fango.
Non vedi più nulla. Non senti più nulla. Non respiri più. Stai morendo.
 
… Quando ti svegli ti rendi conto che un tuo urlo riecheggia ancora nella camera da letto.
Riprendi fiato come se tu non abbia mai respirato in vita tua. Hai proprio il fiatone, a dirla tutta, il tuo petto si alza e si abbassa il continuazione, sembra non essere mai sazio di ossigeno. Gli occhi sono così aperti che iniziano a pizzicarti.
L’hai capito.
Non vuoi morire, no.
E non vuoi neanche finire ad Azkaban.










Angolo Autrice:

Ehilà, bella gente! Come andiamo?
Che dire riguardo a questo nuovo capitolo... Spero vi sia piaciuto, è un capitolo un po' di lancio (ma non di passaggio!) per il prossimo capitolo, che sarà decisamente più... succulento.
E complicato.
lungo.
Per questo vi annuncio che sto avendo problemi nella sua stesura xD Aggiornerò il prima possibile, è ovvio, ma forse c'è da attendere un tantinino. Non tanto - e non è neanche sicuro, ma... Diciamo che sto un po' mettendo le mani avanti.

Unica piccola nota che faccio su quanto avete appena letto, tanto per rispolverare la memoria:

"Non ci tieni a finire come durante la prima mattina che ti sei svegliato a Spinner’s End, dopo che il San Mungo ti ha… ‘dimesso’. In quel momento assomigliavi molto ad un poppante che non sapeva neanche gattonare."
Questa frase a inizio capitolo si riferisce a quando Piton, appena tornato a Spinner's End, era caduto a terra nella sua camera, non riuscendo a camminare, e, preso dalla frustrazione, si era pure ferito il braccio di sua spontanea volontà.

A parte questo, se avete altre domande o richieste non esitate a porgermele e... beh, qui il feedback è sempre ben visto, non siate timidi xD
Vi auguro una serena giornata, ci vediamo tra qualche tempo con il diciannovesimo capitolo!
Un saluto,
Iurin

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Capitolo 20
*** Capitolo Diciannove (parte I) ***


Capitolo Diciannove
(parte I)
 
 
“Care lettrici e cari lettori, notizie succulente, quest’oggi. Ma se notate un’enfasi particolare tra queste poche parole, non crediate che sia dovuta ad un evento particolarmente felice. Siamo in un periodo di dopoguerra, la felicità ancora sembra lontana o, se vicina, è ben nascosta; ma non è detto che per questo una notizia non possa essere interessante, nonché soddisfacente.
Sì, care lettrici e cari lettori, è proprio come state immaginando. Quest’oggi, nel primo pomeriggio, non andate a riposarvi, ma pensate che al nostro risorto Ministero della Magia si terrà un processo a carico di un noto Mangiamorte. Chi, chiederete voi? Si tratta del (ex?) Mangiamorte, ex-professore ed ex-Preside di Hogwarts Severus Piton.
Sì, care lettrici e cari lettori, proprio lui, l’assassino del controverso Albus Silente – ‘Controverso?’, vi chiederete voi. È tutto spiegato nel mio ultimo libro, pubblicato poco meno di un anno fa.
Non si tratta, dunque, del solito semplice criminuncolo dei bassifondi, le orecchie della vostra amata Rita Skeeter hanno già captato quali saranno ufficialmente i capi d’accusa. Li metto in ordine così come mi sono arrivati dalla mia fonte – anonima, questa volta, non vorrei passasse dei guai per l’aiuto che mi sta dando e che di sicuro mi darà anche in futuro:
1) Severus Piton faceva parte di una comprovata organizzazione criminale, i Mangiamorte (il che non ha bisogno di spiegazioni), fatto che ha portato all’ascesa di Voi-sapete-chi e alla caduta del Ministero retto dal compianto ex-Ministro Scrimgeour. Possiamo banalmente chiamarlo colpo di Stato;
2) Severus Piton ha ucciso il vecchio mago Albus Silente (avrà ucciso anche altre persone? La vostra amica Rita Skeeter ha una sua teoria, in proposito, ma ne parleremo nei miei prossimi articoli);
3) Severus Piton, nel periodo da Settembre del 1997 fino all’ormai noto Maggio di questo stesso anno ha ricoperto il ruolo di Preside di Hogwarts. Dov’era quando ormai note e diverse atrocità venivano consumate nella sua scuola? Degli innocenti ragazzini dovevano pagare per le attività criminali dei loro superiori?
Siete curiosi anche voi, cari lettori, di sapere quale sarà la sentenza finale? La vostra Rita Skeeter ve lo annuncerà senz’altro, ma ovviamente dovrete aspettare il mio articolo di domani mattina sulla nuova edizione de La Gazzetta del Profeta.
State svegli durante questa non-felice ma interessante giornata.
Un saluto dalla vostra Rita Skeeter.”
 
È leggendo ciò che ti sei svegliato, quella mattina. O’Dampand è uscita mentre tu ti stavi preparando e in qualche modo si è procurata una copia giornaliera de La Gazzetta del Profeta. In effetti ci ha messo parecchio tempo, tanto che hai supposto che magari sia dovuta arrivare sino a Diagon Alley.
Hai fatto una smorfia, in tutto ciò, ad ogni riga di quello stupido articolo dell’altrettanta stupida Rita Skeeter. O meglio, di quell’approfittatrice di Rita Skeeter. Non la sopporti, come donna; quando hai dovuto incontrarla, ad Hogwarts, durante il Torneo Tremaghi, non hai neanche più idea di quante volte alzavi gli occhi al cielo nel giro di un unico minuto.
Anche se era piuttosto divertente, però, leggere i suoi articoli sulla vita sentimentale di Potter durante la lezione di Pozioni.
Ma ora non c’è più nulla di divertente, c’è ben altro.
Perché Rita Skeeter sarà pure un’insopportabile donna dalla lingua lunga, ma non si può dire che abbia tutti i torti. Ciò di cui lei stessa ti accusa è, alla fin fine, ciò di cui verrai veramente accusato quello stesso primo pomeriggio.
In tutto ciò, comunque, sia mentre pensi sia mentre leggevi il giornale, stai – e stavi – camminando. O’Dampand, infatti, quella stessa mattina, ha sì comprato il giornale, ma solo approfittando del fatto che sarebbe andata a recuperarti una… stampella da qualche parte. Una, sì, due sarebbero totalmente inutili. E con l’occasione ha anche incontrato Sherman.
Lui è stato entusiasta di tutto come suo solito, neanche te ne sei sorpreso quando lei te l’ha raccontato.
Così hai passato le ultime ore a fare avanti e indietro, nel suo salotto, dietro uno dei divani color ocra. Lo percorrevi tutto, in lunghezza, e, una volta giunto alla sua fine, tornavi mestamente indietro.
All’inizio andavi lento. Molto lento. La tua andatura è una delle più bislacche in cui ti sia mai imbattuto. Un po’ proprio come quella di Moody, in effetti. Ma lui camminava in quel modo perché la gamba non l’aveva, dal ginocchio in giù. Tu ce l’hai. Ma in fondo non sembra vi sia poi così tanta differenza. Anzi, almeno Alastor dal ginocchio in su aveva tutto sotto controllo.
Adesso tutto di lui è rigido, invece.
E a quel punto hai cominciato a contare i passi e a tenere sotto controllo il tempo. Come hai già notato da te, all’inizio ci mettevi molto a compiere quel breve percorso: più di un minuto. Così hai deciso di continuare a camminare fin quando tu non ti fossi velocizzato quanto basta. D’altronde non è che puoi andartene in giro appoggiato ad O’Dampand, devi avere una tua autonomia, specie durante quella giornata, specie quando sai già che percorrerai il lungo e tortuoso corridoio dell’Ufficio Misteri del Ministero per giungere all’Aula Dieci, l’aula utilizzata proprio per i processi.
… Che si trova in fondo a delle scale.
Scuoti il capo. Ci penserai a tempo debito, ti dici, mentre guardi l’orologio e noti che stavolta hai impiegato poco meno di trenta secondi per percorrere i soliti pochi passi.
“Si ricorda cosa avevamo detto un po’ di tempo fa?” è la voce di O’Dampand ad inserirsi nella scena, ora.
Tu continui a camminare senza guardarla, voltandoti di spalle per l’ennesima volta, ma sai già che lei è in piedi sulla soglia del corridoio; l’hai intravista con la coda dell’occhio.
“Ci siamo detti un mucchio di cose, sciocchezze o meno. Non ho idea a cosa si stia riferendo, ancora non sono un indovino.”
“Allora dovrebbe prendere una specializzazione, le farebbe comodo.”
Dalla tua gola, stavolta, esce una specie di gracchiante grugnito.
“Comunque.” riprende dunque lei “Stavo pensando a quando io le avevo detto che secondo me lei sarebbe guarito totalmente alla fine dell’estate. Si ricorda cosa mi ha risposto?”
“No.”
“Che se ciò sarebbe successo si sarebbe tagliato i capelli.”
Tu ti fermi, ritrovandoti esattamente al centro del divano, sempre dietro la spalliera giallognola. Ti volti verso O’Dampand, ancora ferma con la spalla posata contro lo spigolo della parete, molle.
“Ma l’estate è finita. Siamo a Settembre.”
“Non faccia il pignolo.”
“Accetti la sconfitta. E comunque, se non se n’è accorta, ancora non sono--”
Tu però non finisci la frase, bloccandoti, piuttosto.
“Beh,” fa allora lei “allora propongo un altro termine: Natale. Che ne dice?”
“Come le pare. Io però non scommetto proprio nulla.”
“Non fa niente. Va bene comunque.”
Fa un lieve sorriso, allora, lei, per poi voltarsi e sparire laddove era stata fino ad un momento prima, cioè in camera. A metterla a posto, presumi.
In effetti, dopo quella notte, credi di aver praticamente messo sottosopra sia coperte che lenzuola.
Salazar, quando ti sei svegliato, nel cuore della notte, eri in un bagno di sudore.
Non ti ricordi esattamente cosa sia successo dopo, hai solo vaghe immagini che, offuscate, arrivano nella tua mente per poi scomparire nel momento esattamente successivo. Evidentemente non eri ancora del tutto sveglio e, essendoti riaddormentato quasi subito, il tuo cervello non ha fatto in tempo a catturare nitidamente quello che avevi intorno.
Hai solo in testa la vaga immagine di O’Dampand, in vestaglia, seduta sul bordo del letto.
Forse la sensazione di una mano sulla fronte che passa delicatamente.
O forse hai sognato anche quella, non ne puoi avere la certezza, ormai.
Fatto sta che la notte è stata piuttosto… agitata. Molto agitata, te ne sei sorpreso tu stesso: il tuo inconscio era più spaventato del tuo Io. Ma tutto è passato, la mattina, sebbene le sensazioni di inquietudine abbiano impiegato un po’, a sparire, mentre le occhiaie profonde sotto gli occhi… beh, quelle sono rimaste, invece, e credi se ne andranno tra un paio di giorni se non di più.
Ti fanno apparire ancora più debilitato, quando invece oggi vorresti mostrarti al massimo disponibile delle tue forze.
… Con una stampella, sì, e camminando male.
Ma chi vuoi prendere il giro? O chi vuoi sorprendere? Di sicuro qualcuno lo sorprenderesti anche, ma in maniera prettamente negativa, questo è certo.
“Allora, è pronto?” è la voce di O’Dampand, che ritorna.
Stavolta ti volti subito verso di lei.
Ti fanno male le gambe per il troppo camminare.
“Sì. Suppongo di sì.”
Tu ti infili la giacca – da solo, ovviamente, anche se momentaneamente da seduto – mentre O’Dampand ha la sua già su di sé. Borsa compresa sotto al braccio.
Qualche secondo e siete fuori dall’appartamento. Qualche altro secondo ancora e siete anche dentro l’ascensore. Durante il breve tragitto che vi deve far scendere di due piani, tu rimani con la schiena posata contro lo specchio dell’ascensore stesso. Osservi la luce babbana illuminare i pulsanti con su scritti i vari numeri fino a quando non rimane fissa sopra lo zero.
Nessuno di voi due dice nulla.
Prima ancora che le porte si aprano nuovamente, però, siete già spariti in una Smaterializzazione congiunta.
Vi ritrovate in una via isolata e O’Dampand lascia la stoffa della tua giacca non appena individua ciò che è di vostro interesse: una cabina telefonica rossa. Nell’avviso di comparizione che ti è stato gentilmente inviato via gufo avevano scritto, ovviamente, come raggiungere il Ministero, per cui state seguendo attentamente le istruzioni: O’Dampand inserisce un nichelino nel telefono della cabina e compone un numero, alzando la cornetta. Siete entrambi lì dentro. Tu non fai neanche caso a quale sia il numero e, subito dopo, la cabina traballa leggermente e il pavimento comincia ad abbassarsi.
Ingegnoso.
È ormai assodato che il Ministero si trovi totalmente sotto terra. Chissà se i Babbani, costruendo le loro linee metropolitane, abbiano mai rischiato di imbattervisi.
Ma il pensiero scivola via veloce e rimani, anche in questo caso, con la schiena poggiata alla parete. Te la senti grattare, ma la piattaforma scende molto lentamente, dopotutto, per cui non provi dolore o fastidio.
“Va tutto bene?” ti chiede O’Dampand in quell’esatto momento, interrompendo così quel silenzio che stava diventando sempre più pesante.
Tu alzi gli occhi su di lei e quando la guardi ti rendi conto di come lei si stia praticamente mordendo l’interno della guancia.
“Ho sbagliato. Domanda stupida.” continua, poi, nell’istante successivo.
“Ci voleva una giornata come questa, O’Dampand, per fale ammettere di aver sbagliato a fare qualcosa.” rispondi “Dovrei prendere accordi con il Ministero e far inscenare questo teatrino almeno tre volte al mese. O procurarmi una giratempo per rivivere la situazione.”
“Le giratempo sono state tutte distrutte… un paio di anni fa, se non erro. E comunque mi sta descrivendo male, io sono piuttosto umile.”
“Ma per favore.”
“Se voglio.”
“Cioè quasi mai?”
“Non sapevo che soffrisse anche di amnesia.”
“Oh, stia zitta.”
“Altrimenti?”
“Altrimenti fra pochi minuti mi processeranno anche per il suo, di omicidio.”
“E come ha intenzione di uccidermi, a stampellate?”
Non fai in tempo a rispondere, ma solo perché la cabina telefonica – o quello che è – arriva a destinazione.
Vi ritrovate, tu e O’Dampand, in una zona semi-deserta di quello che riconosci subito essere l’Atrium. Evidentemente l’utilizzo di cabine telefoniche collegate al Ministero non è molto in voga, la maggior parte dei maghi e delle streghe preferisce arrivare tramite i grossi camini posti all’ingresso principale.
Bene: così, almeno, nessuno si è accorto del tuo arrivo.
Male, perché lungo l’Atrium, per raggiungere l’ascensore pricipale, dovrai passarci lo stesso.
“O’Dampand.”
“Mh?”
“Grazie per la breve chiacchierata.” ti ritrovi a dire ancor prima che tu possa controllare le parole.
Lei fa un sorriso, di rimando. “Non c’è di che.”
E, a questo punto, non c’è bisogno di un ‘Andiamo’ per farti capire che – sì – è ora di andare.
È ora di fare delle belle chiacchierate.
È ora di venire giudicati.
È ora di dire la verità.
Fai una smorfia al solo pensiero e O’Dampand non sembra solo averla notata, ma anche averti letto nel pensiero, dato quello che dice subito dopo:
“Lei dica la verità, signor Piton e – anche se già so che mi odierà di nuovo per starglielo dicendo – vedrà che andrà tutto bene.” un’altra smorfia ti compare sulle labbra, per l’appunto, ma lei continua a parlare “Non menta più a se stesso, né agli altri. Può essere d’aiuto.”
“O’Dampand, io non mento. Non a tutti. Non a me, per Salazar. E neanche a lei, per esempio, non ne avrei motivo. Motivi ne avrei, ora?”
“Quindi adesso racconterà le cose come stanno?”
Annuisci, come risposta.
No, non mentirai.
Ma ciò non vuol dire che tu debba rendere i presenti partecipi di tutto. L’omissione di verità non è come la menzogna.
O sì?
No, no che non lo è.
E così, dopo qualche altro passo più o meno incerto, svoltate un angolo e, davanti a te, si apre l’Atrium.
Non menti – espressione utilizzata a pennello – sostenendo che camminare tra le persone non ti sia indifferente, in questo momento. Tu hai lo sguardo fisso al pavimento, guardi la punta delle tue scarpe e concentri tutta la tua attenzione sul camminare in modo da non sembrare più derelitto di quanto già ti senti.
Percepisci occhi che ti fissano, però, e i commenti che giungono alle tue orecchie non vengono pronunciati sussurrando.
Stringi l’impugnatura della stampella in maniera talmente forte da farti quasi scricchiolare le nocche.
“Piton, Severus Piton!” grida una donna lievemente in disparte, mentre tenta di farsi avanti tra le persone. Tu alzi gli occhi solo per una frazione di secondo, scorgendo un tailleur verde acido e dei ricci biondi.
Poi più nulla, perché i commenti degli altri diventano esclamazioni, la massa dei presenti si trasforma in calca e, improvvisamente, si fanno tutti fin troppo vicini.
“Ehi!” esclama anche O’Dampand “Che cosa volete, tornate a pensare ai vostri affari!”
“Mio figlio è morto tre settimane fa, sono questi i miei affari!”
Le persone avanzano ed un braccio, spuntando dal nulla, ti afferra per il gomito.
“Con me!” afferma quel qualcuno, l’ennesimo uomo.
Ti rendi conto solo ora di non aver detto neanche una parola.
Ti rendi conto solo ora di essere completamente inerme.
“O’Dampand!” esclami a tua volta, ma l’uomo ti ha già trascinato via, ha aperto l’ascensore e ti ha praticamente buttato dentro di esso.
Grazie.
Grazie.
Questo è il trattamento che il Ministero ti offre. Questo è il trattamento che tutti ritengono che tu ti meriti. Ma te lo meriti? Probabilmente finirai ad Azkaban, cos’è questa umiliazione se non un nonnulla, dopotutto?
Ti senti vuoto. Non ti sembri tu.
Sei con la spalla appoggiata all’angolo dell’ascensore, la fronte contro una parete, senti le ossa sensibili che ti fanno male, la gamba mezza-immobile così stanca che potrebbe cederti.
Stai sfregando i denti gli uni contro gli altri, la mascella rigida, e te ne accorgi solo dopo un po’.
Vedi con la coda dell’occhio O’Dampand entrare in ascensore poco prima che la porta si richiuda, le braccia della calca rimanere fuori. L’ascensore parte con un sussulto.
“Tu chi diavolo sei?” dice l’uomo, rivolto alla ragazza che si è posta, confusa, accanto a te.
Forse sta cercando di capire se tu stia bene, forse no. Non te ne curi, ora.
Con uno sforzo… micidiale quasi ti scaraventi dall’altra parte dell’ascensore, che di nuovo sussulta, contro l’uomo.
Tu chi diavolo sei!” sbraiti, eppure dalle tue labbra sembra più che altro uscire un roco sibilo.
Sei poggiato contro il suo busto praticamente con tutto il peso, schiacciando l’uomo contro la parete; la tua mano è andata alla sua gola e al momento non ti interessa dove sia finita la stampella, l’importante è che tu non cada.
No, ancora non sei stanco. Ancora non sei vuoto.
L’uomo però non si è fatto trovare impreparato: ha subito tirato fuori la propria bacchetta, puntandola laddove lo spazio glielo ha consentito; ora la senti fastidiosamente premere tra le tue costole.
“Mi chiamo Artorius Mann. Auror. Mi tolga le mani di dosso.” dice lui.
“Io sono solito almeno presentarmi o far capire chi diamine sono, prima di agire, signor Mann.” continui a sibilare con la mano sempre sul suo collo.
Ma la mano poi cade e tu fai una specie di passo indietro. Ti ritrovi O’Dampand vicino – lo spazio è quello che è – che ti porge la tua stupida stampella.
Per. Salazar.
Che razza di protocollo usano, da quelle parti?
Incapaci.
Guardi in maniera malevola l’Auror senza mai staccargli gli occhi di dosso. Non è molto alto, lo definiresti… mingherlino; ha una leggera barba castana, dello stesso colore dei capelli lievemente arruffati, ma le sopracciglia sono più scure. Ha il viso a punta.
“Siete un po’ troppi, voi Auror, per i miei gusti.” ti ritrovi a dire.
“Intanto se non ci fossi stato io chissà come sarebbe finita.” ribatte lui, sistemandosi la giacca ora un po’ stropicciata.
Intanto se si fosse fatto vedere prima le cose sarebbero andate meglio!” è O’Dampand che alza la voce, ora.
“Niente va mai meglio. È assodato.” commenti.
Solo ora Mann si rivolge a O’Dampand. La guarda, confuso, e poi riformula la domanda che le ha rivolto poco prima, ma con altri toni:
“Lei chi sarebbe?”
O’Dampand non si fa attendere.
“Serena O’Dampand, guaritrice del San Mungo. Assisto il signor Piton, è il mio compito.”
“Ah, sì. Mi avevano detto che sarebbe arrivato con qualcuno. Pensavo ad un Magiavvocato, però.”
“Non parli di me in terza persona, sono ancora qui; parli con me, piuttosto.”
“Oh, io non ho molto da dire, lei avrà parecchio a cui rispondere, piuttosto.” è la conclusione di Mann.
L’ascensore sussulta, ma poi si ferma. Una voce, nell’aria, annuncia: ‘Nono livello: Ufficio Misteri’. E poi la porta si apre.
Ciò che ti colpisce è il nero, un nero lucido, un nero luminoso, un nero su cui sembra di poter scivolare. Credi che potresti confonderti, passare quasi inosservato in tutto quel nero. Le pareti, il pavimento, il soffitto, le porte. Tutto è buio, scuro, ma le lanterne appese ai muri riflettono la loro luce sulle mattonelle e l’effetto che si manifesta è… spettrale.
Ti ritrovi subito in un lungo corridoio, passi di fronte a porte di stanze il cui interno ti hanno, una volta, spiegato in cosa consista. Cimeli oscuri vengono racchiusi lì dentro.
Arthur Weasley aveva anche rischiato di porre fine alla sua vita, dietro una di quelle porte, sempre per via di Nagini. Che serpente… affettuoso.
Sirius Black da qualche parte, intorno a te, è direttamente morto.
Anche a distanza di anni… Non ti dispiace, no.
Finito il corridoio girate l’angolo. Durante il tragitto nessuno ha parlato, si sente solo il rimbombo dei tacchi delle vostre scarpe contro il pavimento di marmo – presumi sia marmo – nero.
E poi le scale. Stavolta occorre più tempo.
Osservando Mann, sentinella sempre noiosamente presente accanto a te, l’hai anche visto sbuffare, tu l’hai guardato male – malissimo – lui se n’è accorto e ha distolto lo sguardo. O’Dampand è rimasta semplicemente vicino a te, in caso di bisogno.
Il suo aiuto non hai dovuto chiederglielo, sebbene, dopo essere sceso dall’ultimo gradino, senti una goccia di sudore colarti dietro la nuca, tra i capelli.
Decimo livello: Aula Dieci.
Non si può dire che abbiano molta fantasia, con i nomi. Però, inventiva o no che sia, ciò che importa è lo scopo per cui quell’aula è stata costruita, l’aula la cui entrata vedi già in lontananza. Non c’è nessuno neanche in quel corridoio, e nessuno di voi tre emette un solo suono quando ricominciate a camminare.
Sembra tutto… surreale.
Ma è la realtà ed essa ti si spalanca davanti nel momento esatto in cui si aprono le porte dell’aula stessa. Grandi, alte, grigie. Si aprono con un boato non appena voi tre vi fermate di fronte ad esse.
In base al vociare che senti nell’istante immediatamente successivo, presupponi che l’aula sia già gremita di persone, nonostante tu ancora non possa scorgere uno ad uno i suoi occupanti.
Ancora prima che voi muoviate anche un solo passo, in ogni caso, Mann si rivolge ad O’Dampand senza neanche voltarsi verso di lei:
“Continui lungo il corridoio, incrocerà un’altra porta, più piccola. Entri da lì, così si ritroverà direttamente in… platea.”
Termine consono, supponi. Platea. Come ad uno spettacolo teatrale i posti migliori sono collocati proprio lì, in platea, e costano a volte anche un occhio della testa. Il palcoscenico sarà il centro dell’aula, dove già sai verrai collocato tu come un soprammobile. Il protagonista? Sempre tu.
Peccato che, al tempo stesso, tu ricopra anche il ruolo di antagonista, nella vicenda.
O’Dampand ti guarda, per un momento, e annuisce in risposta alla considerazione dell’Auror. Non dice niente. Non ti augura buona fortuna come ha fatto poco prima dell’interrogatorio. Non ti dice di nuovo che andrà tutto bene.
Non importa. Il fatto che lo dica o meno non potrà di certo influenzare il futuro.
Forse sono le persone stesse ad essere influenzati da un tale augurio, cambiano atteggiamento, si sentono… ottimisti.
Uno stato d’animo che raramente ti ha mai invaso appieno.
Per cui non capisci perché stessi quasi aspettando che O’Dampand parlasse e, mentre va via, ti rimanga un po’ l’amaro in bocca.
Ma stai per essere processato, stai per essere studiato, stai per essere giudicato per la condotta che hai adottato in tutti gli ultimi quasi venti anni. Non sono pochi. L’unico che ti ha sempre giudicato, in questo lasso di tempo, sei stato tu stesso. Forse Albus, ma spesso e volentieri teneva per sé i suoi pensieri – più spesso di quanto avresti desiderato.
Sì, in realtà le persone non hanno fatto altro che giudicarti, ma ora è diverso. Ora si scaverà a fondo. Ora ti guarderanno dentro.
… Lo presumi, almeno, e tu non vuoi che accada. Non vuoi che si scavi la superficie, se si può evitare.
I tuoi veloci pensieri vengono interrotti da un movimento di Mann, ovvero quello di prenderti un braccio. Lo fissi, quando lo fa.
“Sono un Auror, dovrò pure scortarla, no?” spiega lui.
“Ancora non mi hanno condannato, posso entrare senza sembrare un criminale.”
“Lei è un criminale. Se comincia così i suoi discorsi, la vedo male.”
La sua mano rimane lì quando entrate.
Il vociare e i bisbigli si azzittiscono improvvisamente per qualche secondo. Poi riprendono, ma più flebili di quanto lo fossero all’inizio.
Sul momento neanche ti guardi intorno, a dire la verità. Ti senti osservato – oh, è naturale – ma il tuo sguardo è rivolto alla sedia che si trova al centro della stanza esagonale. È una sedia di ferro, vedi catene penzolare dai braccioli fino a terra, le vedi strisciare sul pavimento.
Mann ancora ti tiene per il braccio, mentre ti conduce lì – in realtà stai camminando per conto tuo, più che altro. E ti tiene il braccio anche mentre lasci semplicemente cadere la stampella a terra, accanto alla sedia, e ti siedi su quest’ultima cercando di non far sembrare che più che altro tu ci stia cadendo sopra.
E ti aspettavi che sarebbe successo, che non appena tu ti fossi… accomodato le catene prima inermi si sarebbero svegliate e le manette si sarebbero chiuse attorno ai tuoi polsi e alle tue caviglie, ma non pensavi sarebbero state così fredde.
Provi anche a muovere il braccio e la gamba sinistri, nel caso la magia non sia abbastanza potente e le manette si aprano di nuovo. Tanto… dove credono che tu possa andartene? Come, poi? Ma no, la magia è ovviamente potente a sufficienza e polsi e caviglie rimangono imprigionati.
In tutto ciò, a questo punto, ti guardi intono. Sarebbe inutile e stupido non farlo. Anche se poi, in base a quello che vedi, ti dici che forse sarebbe valsa la pena passare per l’uomo di pietra che sei sempre sembrato – e diciamolo, un bel po’ lo sei davvero – e continuare a fissare con occhi attenti il pavimento.
La stanza è grigia, non nera, innanzitutto; poco tempo prima avevi supposto che, se fossi stato tu a dover decidere i colori del mondo, quasi tutto sarebbe probabilmente stato nero e grigio. Ma quei colori, associati ad un tribunale, ad un’aula, al Wizengamot e all’Aula Dieci, all’Ufficio Misteri… L’idea non ti allieta più così tanto.
La stanza è grigia, dunque, ed esagonale e la tua sedia di ferro è posta al centro di essa, in uno spazio esagonale allo stesso modo. Attorno a te vi sono spalti, tribune di cinque, sei, sette, otto file, divise in quattro quarti di diversa ampiezza da altrettanti corridoi che conducono ad altrettante porte. Da una ci sei entrato tu, ti chiedi le altre, sempre così in vista, dove conducano. E supponi che l’entrata che ha utilizzato O’Dampand sia stata una di queste.
Ti sembra di trovarti in un teatro greco dall’aria più moderna. È tutto un grande spettacolo, te lo ripeti per l’ennesima volta.
Il quarto più piccolo delle tribune si trova esattamente di fronte a te, ma è ancora vuoto, segno che lì, entro poco, si sarebbero seduti i membri del Wizengamot.
Oh, ma il resto dell’aula, invece, non è affatto vuoto. Supponi che le persone mancanti avrebbero fatto la loro comparsa nel giro di neanche un minuto, ma nel frattempo, a questo punto, non puoi fare altro che dare un’occhiata veloce al resto.
E, come hai supposto nella tua testa, come ti sei detto che il tuo mondo non sarebbe solo grigio e nero, ma anche di altri due colori, ecco che nei tuoi occhi si riflette una marea di rosso. Ma è un rosso diverso.
In prima fila, silenziosi ma attenti, con sguardi negli occhi su cui non ti vuoi soffermare, ci sono i Weasley al gran completo.
O meglio… quasi. Credi… Credi che ne manchi uno, sì, uno dei due ragazzi gemelli. È presente solo quello a cui – oh, ti salta subito all’occhio – manca un orecchio.
E sei stato tu a farglielo saltare in aria.
Hai solo una vaga di idea di perché l’altro non sia presente… ma non puoi averne conferma, ora.
E poi i padroni di casa Weasley, che ad una veloce occhiata ti sembrano davvero stanchi; accanto, i due figli più grandi, bionda moglie di uno dei due annessa; vicino ancora, i due più piccoli, il maschio e la femmina, Ronald e Ginevra Weasley.
Ti guardano in maniera strana.
Subito dopo, vedi Paciock e la Lovegood. Tra tutti questi ultimi sono seduti la Granger, che al momento ha lo sguardo rivolto alle proprie ginocchia, la solita massa informe di capelli che le ricadono dappertutto, e Potter. Potter, come evitarlo? Il verde si aggiunge al rosso, di nuovo.
Potter invece sì che ti sta guardando, e tu indurisci il tuo, di sguardo, socchiudendo appena le palpebre.
Poi cambi oggetto di osservazione, passando velocemente alle persone sedute dietro di loro. Queste le conosci – riconosci – tutte.
La Magonò che era vicina di casa di Potter; Hestia Jones; Dedalus Lux. Hagrid – lo fissi un secondo di più, ha l’espressione spaurita e allo stesso tempo indagatrice, è seduto esattamente dietro Potter, ma un po’ più in alto, verso le ultime file. E poi vedi Sturgis Podmore, ormai sono due anni e mezzo che ha scontato la sua condanna ad Azkaban…
Dopodiché Minerva McGranitt, in seconda fila. Ancora non riesci a scorgere nessuna precisa emozione, nei suoi occhi, e guardi altrove, capendo che forse non vuoi neanche rischiare di trovarla.
Ti rendi conto che mancano diverse persone: alcune lo sai che sono morte, il Signore Oscuro te ne informava di persona, ma, tra coloro che sono ancora vivi, non trovi il fratello di Albus e neanche la Preside dell’Accademia di Beauxbatons.
Tre parole hanno in comune tutti questi uomini e donne: Ordine della Fenice. Ti rimbombano nella testa.
In compenso, però, poco lontana c’è Rita Skeeter. Magari ha già cominciato a scrivere un bel libro su di te. Deve essere arrivata da poco.
E poi vedi Filius, Pomona, il professor Lumacorno. Solo questi, dei docenti di Hogwarts, sono presenti.
Gli altri –  la maggior parte, dunque – non sai chi siano, in tutto ciò, ma poco più in là, in un angoletto, a metà altezza, c’è O’Dampand.
La fissi un attimo in più degli altri, non sai neanche perché, e lei ovviamente se ne accorge.
Ti fa un piccolo occhiolino.
Non hai neanche il tempo di sorprendertene, però, che una delle quattro porte si apre e i membri del Wizengamot fanno il loro – pomposo – ingresso. Con le loro tuniche e i cappelli color prugna almeno hanno ravvivato l’ambiente; anche se quando queste decine di Giurati del Wizengamot si siedono ai loro posti… danno l’impressione di star formando un grosso livido violaceo.
Il Ministro, in veste di Giudice, ancora non c’è. Ma tra i presenti, ora, noti Elphias Doge. Già, è vero, d’altronde lui è Consigliere Speciale o qualcosa del genere. Non puoi ovviamente saperlo, ma magari è stato addirittura investito della carica di Presidente del Wizengamot.
Dopo che lo era stato Albus. Suo grande e vecchio amico, lo sai.
Che tu hai ucciso.
… Ti esce una sorta di lamento dalle labbra, che presumi, però, nessuno sia stato in grado di udire.
L’aula è ancora avvolta nel silenzio, per cui, quando Doge si alza in piedi e comincia a parlare, la sua voce altrimenti sottile sembra rimbombare.
O forse è anche per via della struttura architettonica dell’aula stessa, più semplicemente.
“Tutti in piedi per l’ingresso del Ministro della Magia Shacklebolt, in veste di Gran Giudice del Wizengamot.”
E, se prima c’era solo silenzio, ora è tutto un pestare e battere i piedi.
Ma non i tuoi.
Scorgi la stessa porta di prima aprirsi mentre tu rimani seduto.
Il fatto è che non puoi metterti in piedi anche tu. La stampella è a terra accanto alla sedia, ma sei ammanettato; e, per quanto le catene siano lunghe, ora ti sono piuttosto di intralcio, nella tua particolare… situazione motoria.
Ma non avresti fatto propriamente una bella figura di fronte ai Giurati, così richiami le forze.
L’hai imparato solo da qualche mese, ti sarebbe anche quotidianamente utile, nella tua condizione, ma ancora il tuo corpo non ha le forze necessarie per farlo davvero.
… Senza considerare che non ci tieni neanche, a farlo spesso, dati i ricordi che ti affiorano alla mente su chi te l’abbia insegnato e come.
Volare, sì, è questo: volare senza scopa.
Forse puoi raccogliere le energie sufficienti, però, per staccare il fondoschiena da quella dannata sedia. Allora, non appena scorgi Shacklebolt, lo fai. Ti metti in piedi.
Kingsley arriva al suo posto nella sua veste blu scura, mentre tu stringi il pugno per la concentrazione, lo sforzo e la fatica.
“Seduti, prego.” dice il nuovo sopraggiunto con la sua voce profonda.
Tempo prima anche tu avevi una voce simile, ora no.
Tutti si siedono. Tu quasi cadi all’indietro per tornare nella tua posizione originaria.
Le catene tintinnano.
Shacklebolt, però, rimane momentaneamente in piedi. Fissa l’aula, i presenti, fissa te, uno sguardo che non riesci a decifrare alla perfezione.
“Ministero della Magia contro Severus Tobias Piton.” dice “Primo e unico grado di giudizio. Cominciamo.”
Niente martelletti di sorta che vengono battuti producendo il loro tradizionale rumore sordo e… legnoso. Quella è roba da Babbani.
Anche il nuovo Ministro si siede, dunque, sistemandosi la veste.
Si comincia davvero.
Non passa neanche un momento da quando Kingsley finalmente si siede che un altro uomo si alza. Supponevi sarebbe stato lui, Elphias Doge.
Lo vedi mettersi in piedi facendo pressione con le mani sulle ginocchia, forse potresti anche udirlo sospirare, se tu fossi più vicino; ma subito lo senti parlare:
“La Corte del Wizengamot, composta dal Ministro della Magia nostro Gran Giudice, dai Giurati e dal Presidente nella figura del sottoscritto, Ephias Doge, accusa l’imputato Severus Piton per crimini contro la comunità magica, con consecutive ripercussioni anche sulla comunità babbana. Il Primo Ministro babbano è informato di quello che sta accadendo qui oggi.”
Elphias Doge prende visibilmente fiato. Mette una mano in un’apertura delle sua veste e ne tira fuori una pergamena che viene subito spiegata. La legge lui stesso:
“Severus Tobias Piton, nato il nove di Gennaio del 1960 a Londra, residente a Londra, è accusato dei seguenti crimini, dei quali è tenuto a rispondere di fronte alla Corte del Wizengamot nella sua interezza e nella sua integrità: omicidio.” lui fa una pausa, mentre tu ti ritrovi a stringere il bracciolo della sedia – e non per un breve istante “Pluri-lesioni fisiche, sia temporanee che permanenti. Partecipazione e favoreggiamento a e di società e attività criminale. Non-tutela di minori posti sotto la sua diretta custodia e la sua diretta responsabilità.” altra pausa “La Corte del Wizengamot ha chiamato testimoni a sostegno delle proprie accuse, i quali risponderanno alle domande del Presidente del Wizengamot.” Elphias Doge ti guarda, alzando gli occhi dalla pergamena per un momento “L’accusato ha il diritto di difendersi usufruendo dei servizi del suo Magiavvocato. Qualora quest’ultimo non sia presente, l’accusato può difendersi in prima persona o rinunciare ad ogni difesa. Che la Giustizia Magica prevalga.”
Tutto il Wizengamot ripete. “Che la Giustizia Magica prevalga.”
Che la Giustizia Magica prevalga.
Digrigni i denti, facendoli scontrare in un rumore che solo tu puoi ascoltare dentro la tua testa.
Sei pronto.
Via.
 
- Primo testimone: Stanley Picchetto
 
Quando Doge chiama Stan Picchetto a salire sul banco dei testimoni – di un gradino più basso rispetto alla tribuna della Giuria – ti viene automatico inarcare un sopracciglio.
Di tutte le possibili persone che potrebbero tranquillamente denunciare ciò che facevi nel gruppo dei Mangiamorte… scelgono Picchetto?
No, beh… In effetti poteva avere un certo qual senso: Moody avrebbe potuto dire qualcosa, anche se riferendosi ai tuoi trascorsi durante la Prima Guerra Magica. Ma Alastor non può più parlare. Allora Karkaroff, per esempio, ma è disperso chissà dove, probabilmente è stato addirittura catturato e giustiziato senza che abbiano voluto informartene… Per andare un po’ più sul concreto potrebbero fare domande ad Avery, a Tiger, Goyle, a Malfoy, a Rookwood, a chiunque. Perché Picchetto? Quell’inutile giovinastro?
In realtà, ora che lo guardi, sembra più vecchio di quello che realmente è.
Indossa la divisa di Azkaban, a strisce bianco sporco e grigio chiaro, ha delle manette alle mani e ai piedi, viene scortato da quelli che sono sicuramente due Auror. Ha sempre avuto i capelli piuttosto lunghi, lui, ma ora lo sono di più. E la schiena non è più dritta, è incurvata in avanti, proprio nella posizione che assumerebbe un vecchio con troppi anni pesanti – di vita o di futura condanna che siano – da portare sulle spalle.
Il processo nei confronti di Stan Picchetto si è già concluso, ed è evidente come sia andata a finire. Poche settimane – perché al massimo si tratterebbe di settimane – ad Azkaban e già quell’impiastro di ragazzo è ridotto in quello stato? Non vorresti vederlo passati anni, allora.
O magari sarete compagni di cella e sarai costretto a vederlo tutte le ore del tuo nero futuro. Non puoi ancora dirlo o fare supposizioni di sorta.
Si siede al banco, lui, allora, e i due Auror si allontanano. Picchetto si guarda intorno spaurito, e lo sembra ancora di più a causa delle sua preponderante magrezza. Credi che per un momento lui abbia guardato Potter, dato che noti, con la coda dell’occhio, un’espressione piuttosto angosciosa sul volto di quest’ultimo.
Doge, però, interrompe le tue considerazioni sull’aspetto del nuovo arrivato, perché riprende a parlare, e stavolta non sembra abbia intenzione di tirare fuori un qualche pergamena arrotolata. E Picchetto quasi sussulta quando sente la sua voce.
“Lei conferma di essere Stanley Picchetto, condannato di recente per essere stato un Mangiamorte ed essersi così macchiato di favoreggiamento e partecipazione ad attività criminale?”
“Io… Io… Sì, sono io, Stanley Picchetto.”
“Ci sono domande per lei, e…”
Ma Elphias Doge viene interrotto improvvisamente proprio dal ragazzo:
“Avrò un premio o… qualcosa del genere se vi aiuto con le mie risposte?”
Il Presidente si volta per un momento verso il Ministro, che lo guarda di rimando. Doge sembra perplesso e lievemente confuso. Il Ministro si volta nuovamente verso Picchetto e il Presidente riprende il suo discorso.
“Lei è stato condannato a dieci anni ad Azkaban da questa stessa Corte il tredici Agosto scorso. È presto per chiedere una riduzione alla sua pena.”
“Ma io… Io…”
Interviene direttamente Shacklebolt “Risponda alle domande, signor Picchetto, senza divagare, decideremo di queste questioni in seguito alla sua testimonianza.”
Picchetto comincia ad annuire più volte, i capelli gli ricadono davanti al viso quasi ricoprendogli gli occhi.
Che immagine – che situazione – rivoltante.
“Va bene.” dà conferma, almeno, di aver capito.
Il Presidente riprende per la seconda volta il suo discorso originario, a questo punto.
Speri non ci siano ulteriori interruzioni. Speri che tutta questa faccenda si risolva presto, dovervi partecipare per così tanto tempo è già una tortura di per sé. E, se almeno non si potrà risolvere, che almeno si concluda, in ogni caso.
“E’ stato appurato e da lei confermato che da Aprile dello scorso anno lei è entrato a far parte del gruppo dei Mangiamorte. Gruppo di cui la Corte sostiene facesse parte Severus Piton. Lei conferma anche questo?”
“Io… Sì, confermo.”
“Lo ha visto con i suoi occhi partecipare a… riunioni, parlare con gli altri membri, prendere parte ad attività che lo classificano a sua volta come Mangiamorte?”
“Sì… Oh, sì, lui era un pezzo grosso.”
“Si spieghi, signor Picchetto.”
“Beh, ecco… Lei-sa-chi teneva molto in considerazione il… signor Piton.” Picchetto ti lancia una veloce occhiata, ma distoglie subito lo sguardo “Quasi tutte le volte gli chiedeva cosa ne pensasse del… del piano, per esempio, e, a prescindere di cosa gli dicessero tutti, gli chiedeva sempre conferma o comunque un parere. E… beh, magari è pure una cosa stupida, ma Lei-sa-chi non iniziava mai le riunioni senza di lui.”
“Come definirebbe quindi il ruolo di Severus Piton?”
“Diciamo… Diciamo una specie di braccio destro.”
“Una specie?”
“Un-Un braccio destro, sì.”
“Ha compiuto atti pratici a parte partecipare a riunioni di vario genere?”
“Sì-sì, veniva con noi quando dovevamo uscire per delle missioni. Non sempre, solo poche volte, perché comunque lui aveva già molto da fare per capire quando sarebbe stato traferito Harry Potter da casa sua, e ce l’ha detto lui, infatti, che Harry Potter sarebbe partito il giorno del suo compleanno, e anche che ci sarebbero stati sette di lui.”
Doge assunse un’aria perplessa. “In che senso ‘sette di lui’?”
“Sì, ecco… gli amici di Harry Potter avrebbero preso le sue sembianze per poterci sviare e non… poterlo prendere. Però il signor Piton lo sapeva.”
“E il signor Piton ha partecipato al tentativo di cattura di Harry Potter, quel giorno?”
“Sì, certo, c’eravamo tutti. Lui compreso.”
“E mi ha pure tagliato un orecchio, gente!” esclama improvvisamente una voce, che riconosci come quella dell’unico gemello Weasley presente. Tu lo ignori. Elphias Doge gli rivolge un cenno del capo ed un breve sorriso, come a dire ‘Ci penseremo dopo’.
Quest’ultimo, a questo punto, si rivolge a tutta la Corte, quindi ai Giurati, più che altro, smettendo solo per un attimo di parlare con Picchetto.
“Giurati, è confermata, perciò, la partecipazione di Severus Piton alle attività perpetuate dai Mangiamorte, essendo Mangiamorte lui stesso.”
“… C’è comunque il tatuaggio sul suo braccio, signore, il Marchio Nero.” lo interrompe Picchetto, sottolineando l’ovvio.
“Sì, signor Picchetto, questo era già a conoscenza della Corte.”
“E… E ha addestrato me, comunque, quando sono diventato un Mangiamorte.”
“Davvero?”
Tu ti ritrovi a sbuffare, mentre Picchetto riprende in maniera così titubante la parola:
“Sì. In realtà si è trattata di poca cosa, ma quando sono diventato Mangiamorte Lei-sa-chi ha detto a Piton di spiegarmi come funzionavano le cose. Specie durante le vacanze di Natale, quando lui avrebbe potuto allontanarsi meglio da Hogwarts.”
“Bene.” Doge si rivolge di nuovo ai Giurati “E’ confermato anche il ruolo di importanza di Severus Piton all’interno dei Mangiamorte.” guarda il giovane condannato, ora “Signor Picchetto, non ho altre domande da porle.”
Si nota da ogni muscolo della sua faccia che Picchetto vorrebbe rimanere seduto lì per ore, per giorni, piuttosto che venir mandato via. Ma ancora non è comunque tempo che lui torni ad Azkaban, lo sai. Non ora.
Adesso è il tuo turno.
Shacklebolt, infatti, dopo che il Presidente si è seduto, guarda direttamente te, dall’alto del suo scranno, e ti rivolge direttamente qualche parola. Poche, ma sono quelle che ti permettono di aprire bocca:
“Lei ha qualcosa da precisare su quanto è stato detto dal nostro primo testimone?”
“Sì.” rispondi, e sai che è per forza la risposta giusta.
Cala il silenzio.
Non ti metti in piedi, già hai appurato che spenderesti inutilmente troppe preziose energie, perciò rimani seduto… e cominci.
“Quanto detto da Picchetto corrisponde a verità. Ho fatto tutto quello che ha così… grossolanamente elencato. È giusto.”
“Non smentisce, dunque!” sbotta Doge, e Shacklebolt gli fa cenno con una mano di rimandare a dopo queste considerazione, al che il Presidente torna cheto. O, comunque, più cheto.
Tu l’hai guardato con un sopracciglio alzato. Non ti piace essere interrotto già mentre parli normalmente, figuriamoci durante un processo. Il tuo processo.
“No. Ho appena detto che concordo. E sottoscrivo, se vuole. Ma delle precisazioni urgono essere poste. Così come è emerso… diciassette anni fa, la mia attività all’interno dei Mangiamorte sembrava autentica, ma non lo era. Ogni mia azione era posta in essere solo allo scopo di rendere credibile il mio ruolo di spia.”
Senti un leggero vociare, attorno a te.
Kingsley continua a guardarti. E a parlarti. Non ti dà del tu come ha fatto negli ultimi anni:
“E per rendere credibile il suo ruolo ha comunque partecipato alla cosiddetta ‘Cattura dei Nati Babbani’, iniziata lo scorso autunno?”
Ti umetti appena le labbra, prima di rispondere. “No. Non ho partecipato.”
“Ma ne veniva messo al corrente?”
“Sì.”
“E ha fatto qualcosa per evitare che questo accadesse?”
“… No. Non nell’ultimo anno. Ciò avrebbe compromesso il mio ruolo.”
“Ruolo affidatole da chi, esattamente?”
“Albus Silente.” il vociare attorno a te diventa più forte “Albus Silente mi ha chiesto di essere una spia a favore di questo stesso Ministero e contro l’operato del Signore Oscuro. Fatti come l’addestrare – blandamente, specifico – il qui presente Picchetto erano necessari per far sì che…” … non andasse tutto al diavolo? “… il Signore Oscuro non si insospettisse, non dopo aver riconquistato – sempre e solo in quanto spia – la sua fiducia.”
Kingsley fa una pausa, e, come prima aveva fatto Doge, si volta proprio verso quest’ultimo.
“Ha altre domande da porre, signor Doge?”
“Ci sarebbe molto da chiedere su quest’ultimo punto. Su Albus Silente.”
“Ci arriveremo tra poco. Se è tutto qui… Possiamo proseguire.”
Il Ministro fa un cenno ai due Auror rimasti in disparte e questi si avvicinano subito con passo leggero ma veloce per portare nuovamente via Stan Picchetto. Lui non dice niente, non fiata, non sbraita dicendo che potrebbe avere informazioni aggiuntive.
La situazione non è così disperata. Di informazioni nei tuoi riguardi ce ne sono a bizzeffe. E chissà se lui ci crede davvero, che quanto raccontato oggi possa tramutarsi in uno sconto di pena. Se ne va mesto, con la schiena curva e il passo stanco. Sparisce dalla porta laterale, sparisce dalla scena.
“Andiamo avanti.”










Angolo Autrice:

Salve a tutti! :)
Come già avevo detto nelle note dello scorso capitolo, sono arrivata con un pochino di ritardo, data la lunghezza e le tante idee per descrivere questo processo (avete notato, sì?, il "parte I"? Ecco, saranno TRE). E infatti questo pare essere il capitolo più lungo di tutta la storia, fin'ora.

Detto ciò... Spero che l'attesa sia comunque valsa a qualcosa e che questa prima parte del processo "Ministero vs. Piton" vi abbia soddisfatti.
Ovviamente attendo le vostre impressioni in merito, dato che avevo molta paura a scrivere questo capitolo (e anche i prossimi due), visto che... processi? E chi ha mai scritto, a riguardo? XD
Insomma, fatemi sapere, il feedback fa sempre piacere, come al solito :)

Spero non mi ucciderete, ma anche per il prossimo capitolo c'è da attendere un tantino, sempre per gli stessi motivi di prima.

Un abbraccio grande e alla prossima,
Iurin

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Capitolo 21
*** Capitolo Diciannove (parte II) ***


Capitolo Diciannove
(parte II)
 
 
- Secondo testimone: Minerva McGranitt
 
“Lei conferma di essere la signora Minerva McGranitt?”
“Confermo.”
“Da quanti anni conosce l’accusato, Severus Piton?”
“Quanti anni? Saranno perlomeno ventisette.”
“E, secondo lei, da quanti anni l’accusato fa parte del gruppo dei Mangiamorte?”
“In base a ciò di cui sono a conoscenza… circa diciannove anni.”
“Seconda guerra magica e prima compresa?”
“Sì, esatto.”
“Per quanto riguarda la seconda, crede che la sua attività criminale sia stata solamente di… facciata?”
Minerva ti guarda. Tu ricambi.
Non hai smesso di guardarla sin da quando si è alzata dal proprio posto per poter andare al banco dei testimoni.
Merlino.
Ti rivengono in mente i momenti in cui la prendevi in giro. O meglio, i momenti in cui vi lanciavate frecciatine a vicenda.
Vi siete guardati male per anni, dicendovi malignità su Grifondoro e Serpeverde. Ma mai con una vera cattiveria. No, neanche da parte tua – solo un paio di volte, forse.
Per non parlare delle giornate in cui venivano organizzate le partite di Quidditch. Se poi capitavate seduti accanto, in tribuna… Erano sguardi duri quelli che lei ti lanciava, ma poi controbatteva e una luce di soddisfazione – e forse di divertimento? – si accendeva nei suoi occhi.
Adesso Minerva invece è lì, seduta dietro quel tavolo, e nei suoi occhi non c’è nessun divertimento, nessuna sottospecie di complicità o simpatia. Non c’è più niente, per te, che non sia semplice durezza e rabbia repressa.
È lo stesso sguardo che ti ha riservato durante tutto l’anno in cui sei stato preside di Hogwarts.
Come darle torto, in fondo? Ti diresti di essertelo meritato, per quello che hai fatto ad Albus. Ma lei non poteva sapere la verità e tu non potevi rivelargliela.
Non hai sofferto per niente quando hai dato il consenso ad eliminare il Quidditch, almeno non saresti dovuto andare a sederti in tribuna in mezzo a tanto odio.
L’odio prevaleva, intorno a te. Ovunque. Per questo hai anche cominciato a rimanere sempre più chiuso nel tuo ufficio, più di quando vivevi nei sotterranei.
E ora che la stai nuovamente guardando, ora che lei è seduta lì, di fronte a te, sebbene ad una certa distanza, vedi gli stessi occhi che ha puntato su di te negli ultimi dodici mesi; ma stavolta vedi anche dolore, vedi delusione.
Ad Hogwarts non ci avevi fatto caso. Come hai fatto? Forse è perché hai finito con il volerle sfuggire.
Ti viene anche in mente l’inizio dell’ultima battaglia, l’inizio della stessa notte in cui Nagini si è avventata su di te, quando Potter si è introdotto nel castello e tu e Minerva vi siete puntati reciprocamente contro le bacchette.
È stato un momento che non vuoi rivivere. Anche se quel suo sguardo è un po’ come un’altra bacchetta puntata proprio sul tuo viso, in questo esatto momento.
Poi torni con la mente alle domande che le vengono poste lì, nell’Aula Dieci.
“Signora McGranitt.”
“Sì…?”
“Risponda alla domanda, prego.”
“Io… Non credo fosse una spia. Non ora, forse all’inizio.” Tu fai una smorfia “Sì, forse all’inizio, ma era evidente che stesse facendo il doppio gioco, in seguito, e a nostro sfavore; non si può continuare a dire che sia stato una spia dopo ciò che hai fatto ad Albus.”
‘Hai’, non ‘ha’. Un lapsus nel momento in cui lei ti guarda, ma quando se ne accorge si volta nuovamente verso Doge.
“Albus Silente, sì.” Proprio Doge fa una breve pausa “Lei era presente quando Severus Piton lo ha… ucciso?”
“E’ avvenuto sulla Torre di Astronomia. Io non mi trovavo nel luogo esatto in cui si è consumato quel… quell’orribile crimine, ma ero comunque ad Hogwarts. Ancora l’anno scolastico non era giunto al termine, e i Mangiamorte erano riusciti a penetrare nel castello. Tutti i docenti erano in piedi e fuori dalle proprie stanze, me compresa.”
“Può spiegare alla Corte del Wizengamot, nel dettaglio, cosa è accaduto durante quella notte?”
Minerva, per giusto un paio di secondi, guarda la superficie di legno nero del banco dietro il quale è seduta.
Puoi quasi sentire il rumore che fanno i ricordi quando vengono rivissuti.
Dopodiché comincia a raccontare. Tu sai già che non piangerà, nonostante Albus sia ancora così presente. D’altronde, se la sua bianca figura è ancora così maledettamente nitida e viva, nella tua testa, perché così non dovrebbe essere anche per gli altri? Oh, no, gli altri non hanno ucciso Albus, non sono stati raccattati da lui in cima ad una collina, in una ventosa notte di tanti anni prima. Non hanno tutti litigato con lui come hai fatto tu, non l’hanno contraddetto, non hanno cercato di farlo sentire in colpa, non tutti si sono confidati con lui… Ma tutti si sono fidati di Silente, tutti i presenti in quella stanza, tutti hanno provato rispetto per lui.
Albus è vivido anche nella loro, di testa. E tu hai strappato via tutto questo, e questo è ciò che loro vogliono esclusivamente vedere di te.
“Naturalmente,” risponde, dunque, Minerva “Mi sembra il minimo.” Si umetta appena le labbra e poi riprende “Durante quella notte sembrava tutto come sempre… Sarò sintetica, sì. Improvvisamente alcuni Mangiamorte sono riusciti a fare irruzione nel castello. Il Marchio Nero è apparso subito nel cielo, sopra di noi… Ho poi saputo che tutto è stato reso possibile da Draco Malfoy, comunque. C’è stata una vera e propria battaglia, quella sera, anche alcuni studenti hanno partecipato nonostante io abbia detto loro più volte di rimanersene a letto. Il professor Vitious” Minerva ha guardato Filius per un breve attimo “è andato a chiamare Sever-- Piton per farlo venire ad aiutarci, dato che pensavamo non si fosse ancora accorto di nulla.”
“E Severus Piton cosa ha fatto?”
“Ha Schiantato Filius.”
“Lo ha Schiantato? Signor Vitious, lei conferma?” Doge parla al piccolo mago, ma tu neanche ti volti verso di lui.
Lo senti solo rispondere di sì.
“E dopo cosa è accaduto?” Elphias Doge chiede a Minerva.
“In seguito Severus non è venuto in nostro soccorso. È andato sulla Torre di Astronomia e… non riuscivo – non volevo neanche crederci… lì ha ucciso Albus Silente.”
Silenzio. Lugubre silenzio.
“Lei però non l’ha visto.”
“No. Io l’ho visto far ritirare gli altri Mangiamorte e andare via assieme a loro. Non si è voltato indietro.”
Come avresti potuto, per Salazar? Ma avresti voluto. Eccome.
“E da chi ha saputo cosa è successo in cima alla Torre?”
“Beh… Da Harry Potter, naturalmente.”
I bisbigli tornano, più forti di prima. Doge guarda nuovamente in mezzo agli spettatori, prima di porre la sua ennesima domanda.
“Signor Potter, mi perdoni, risponda solamente in modo breve. Lei era presente, quella notte di giugno del ’97, sulla Torre di Astronomia?”
“Io… Sì, c’ero.” È la voce di Potter.
“Ha visto Severus Piton assassinare a sangue freddo e senza indugio Albus Silente?”
“Io…”
Silenzio.
“Prego, signor Potter.”
“Sì. Sì, l’ho visto, ma--”
“Questo può bastare, per ora. Ci torneremo in seguito.”
Doge si schiarisce la voce, prima di rivolgersi di nuovo a Minerva.
Tu hai stretto il bracciolo della sedia in una morsa ferrea per tutto il tempo senza neanche rendertene conto.
“Così Severus Piton ha ucciso Albus Silente, ne abbiamo conferma,” dice lui. “Ma ora mi dica, invece, signora McGranitt, cosa è successo durante il successivo anno scolastico?”
“Cosa vuole sapere, esattamente?”
“Il signor Piton non era più un banale professore, dico bene?”
Vedi Minerva fare una smorfia. Noti rughe, sul suo viso, che non avevi notato prima.
“No, è stato nominato Preside, sicuramente per intercessione di Lord Voldemort.” Alcuni trasaliscono. “Ormai lo sanno tutti che è andata così.”
“E mi dica… Com’era Severus Piton in qualità di Preside?”
“Perlopiù rimaneva nel suo ufficio. Nell’ufficio di Albus.”
“Ed aveva nominato alcuni nuovi insegnanti, tali fratelli Carrow. Siamo venuti a conoscenza del fatto che questi… signori erano noti per le crudeli punizioni a cui sottoponevano gli studenti; ci è stato addirittura detto che, durante le loro lezioni, bambini di undici anni venivano sottoposti alla Maledizione Cruciatus dai loro compagni più grandi, su loro ordine.”
“Sì… Sì, accadeva anche questo,” la voce di Minerva trema appena. “Era inaccettabile. Io stessa ho dovuto… mi sono costretta ad andare a parlare con Piton di tali atrocità, ovviamente per lamentarmene.”
“E cosa ha fatto Severus Piton?”
“… Nulla.”
“Non ha preso provvedimenti?”
“… No.”
Signori.” Elphias Doge gira su se stesso, in modo da poter osservare tutti i volti dei Giurati, uno ad uno. “Signori Giurati, Severus Piton, Preside di Hogwarts in quel periodo, l’unico che avrebbe potuto porre freno all’inumana… crudele e bestiale disciplina che erano soliti adottare Alecto e Amycus Carrow, non ha fatto nulla.”
Il vociare, che da qualche minuto è presente nell’aula, aumenta di intensità. A te sembra di sprofondare con la schiena nella sedia sempre di più, mentre continui a guardare fisso di fronte a te, apparentemente nel vuoto.
“Silenzio in aula,” è costretto a dire Shacklebolt, al che tutto il rumore cessa di colpo.
Certo, prima che Shacklebolt si rivolga direttamente a te.
“Signor Piton, ha ascoltato le risposte della nostra seconda testimone, ha qualcosa da dire, a riguardo?”
Ti senti la bocca secca. “Sì.”
“La ascoltiamo.”
Elphias Doge finalmente si siede.
Tu non parli subito, però. Fissi Doge, fissi Shacklebolt, fissi Minerva. Vorresti dirle di stare attenta, ché Potter tra qualche tempo non frequenterà più Hogwarts e la sua fortuna sfacciata non farà più vincere ai Grifondoro la Coppa del Quidditch.
Ma non è ovviamente questo quello che dici, non ci sarà più il momento di esternare simili goliardiche stupidaggini. Il tuo discorso è di tutt’altro livello.
“Quanto detto dalla professoressa McGranitt è pressoché corretto. Come prima, non smentirò, ma puntualizzerò. E, sempre come prima, dico che tutto ciò che è successo è stato una conseguenza del fatto che io fossi una spia.”
“Ha ucciso l’uomo a cui lei dice era dovuta la sua lealtà,” fa Shacklebolt.
“Su questo punto… preferirei ritornare in seguito.” è la tua richiesta, al che puoi vedere molti sbuffare, ma non Kingsley.
“Allora vada avanti.”
“Ho Schiantato Filius Vitious, anche questo è vero, ma chi di voi, se avete partecipato alle battaglie che si sono susseguite, non ha Schiantato nessuno, se non fatto addirittura di peggio? Anche lei, Ministro, ha combattuto contro vari maghi e streghe, ma lei non è sotto accusa per questo.”
“Come si permette?” esclama Doge, ma Kingsley lo fa calmare subito con un delicato gesto della mano.
“A me però ha staccato un orecchio, eh!” si intromette qualcun altro, di lato a dove ti trovi tu. “Che è ben più di uno stupido Schiantesimo!”
“Fred-- Signor Weasley, per favore.”
“Il signor Weasley” intervieni tu, “sarà lieto di sapere che ciò che gli è successo è stato il frutto di un tragico incidente: io avevo la bacchetta puntata contro la mano di Rookwood, che stava per scagliare contro di lui un Anatema che Uccide, avendolo scambiato per Potter. Una folata di vento improvvisa, però, ha smosso la mia scopa, quella notte, e deviato il mio Sectumsempra.”
“Beh, si lasci dire che rimane un uomo dalla pessima mira,” continua Weasley, e a te viene istantaneo sorridere amaramente.
“E l’Anatema di Rookwood, invece?” chiede dunque Shacklebolt.
“Non è stata solo la mia, di scopa, a subire un brusco cambio di rotta, ma anche la sua. La sua maledizione è andata a vuoto.”
Per qualche secondo non parla nessuno. Gli animi si placano – o, perlomeno, questo sembra – e, quando finalmente riesci a riprendere fiato, puoi continuare il tuo discorso originario.
“Tornando a noi… Vorrei spendere solo qualche parola su quanto accaduto mentre ero Preside di Hogwarts.” Ti schiarisci brevemente la voce. “Sembrerò ripetitivo, ma è sembrato che non mi interessasse nulla, perché un eccessivo tentativo di fermare certe… attività sarebbe risultato sconveniente al mio ruolo di spia. Ciò non vuol dire, Minerva,” guardi lei, ora, “che io non abbia fatto nulla…”
“Non è quello che ci risulta. Nessuno si ricorda di un suo diretto intervento con i fratelli Carrow,” dice Doge.
“Perché diretto non poteva essere! Non troppo, almeno.” Rotei gli occhi, e ti viene da sbuffare, ma non lo fai. “Quando, per fare un esempio, Ginevra Weasley, Neville Paciock e Luna Lovegood si sono introdotti nel mio ufficio con l’intento di trafugare la spada di Grifondoro e io li ho colti in flagrante… li ho forse spediti dai Carrow, sebbene la gravità del loro gesto fosse tanto palese?” Ti volti di lato, guardi i tre diretti interessati, per un istante, ma poi ti rivolgi a qualcuno seduto un po’ più in alto. “Hagrid! Non li ho forse mandati da te?” Vedi Hagrid boccheggiare appena. “Secondo voi,” torni a guardare la Corte, “non sapevo che una punizione da Rubeus Hagrid avrebbe consistito in una mera passeggiata nella Foresta Proibita e, magari, persino in una tazza di tè della buonanotte?” Fai una piccola pausa, giusto il tempo per poter riprendere fiato .“Ho agito, per quanto ho potuto. Indirettamente, ma l’ho fatto.”
“Altrimenti avrebbe messo a rischio il suo compito di spia,” precisa Shacklebolt.
“Sì, esatto.”
“Ma spia per chi, in fondo? Ci ha detto che il suo mandante era stato Albus Silente. Lei lo ha ucciso. I presenti scusino la mia brutalità, ma lei continuava a fare la spia per un cadavere?”
Ti mordi l’interno della guancia.
La sensazione di tensione non è mai stata palpabile come ora, in quella fredda aula.
“Avevo… dei compiti da svolgere, compiti che mi ha affidato quel cadavere, quando era ancora in vita.”
“Uomo che tu stesso hai ucciso, Severus.” La voce di Minerva ti coglie all’improvviso, ed è come un schiaffo in piena faccia. “Tutto questo non lo trovi anche tu dannatamente incoerente?”
“Come… Come ho detto poco fa, vorrei parlarne successivamente.”
Minerva fa un’altra smorfia e Shacklebolt riprende nuovamente la parola:
“Grazie, signora McGranitt, per averci portato la sua testimonianza. Può accomodarsi di nuovo al suo posto, ora.”
Minerva ricambia il ringraziamento di circostanza con un cenno del capo altrettanto di circostanza; poi si alza, e tu la osservi mettersi ben dritta con la schiena e tornare al suo posto.
“Direi che è arrivato il momento di far entrare la nostra terza ed ultima testimone,” annuncia Shacklebolt, prima di appoggiarsi con le spalle allo schienale del suo scranno.
 
- Terzo testimone: Narcissa Malfoy
 
Quando Narcissa Malfoy viene chiamata a testimoniare, lei entra dalla stessa porta dalle quale ha fatto la sua comparsa Picchetto, al che tu stacchi le schiena dalla sedia e ti pieghi leggermente più avanti, come se questo possa farti vedere meglio.
Narcissa?
E, proprio come Picchetto prima di lei, anche la donna è in manette. Non hai saputo nulla del suo, di processo? C’è stato, dunque. Ed è stata condannata. Quella donna vestita sempre in maniera impeccabile ora indossa la divisa di Azkaban.
Non le è andata molto bene.
E Lucius? Non è stato chiamato a testimoniare, lui, ma supponi che a questo punto anche lui sia in cella. Draco, poi? Non ne hai la più pallida idea…
Non sai nulla di nulla, nessuno te l’ha fatto sapere, e negli ultimi giorni sei stato concentrato su altro – sul tuo, di processo – e non ti sei addolorato per le situazioni altrui. Forse però avresti… dovuto informarti.
Anche se incontrare Lucius, adesso, sarebbe… insolito. Dopo la guerra non vi siete più parlati; Potter ha sbandierato la tua posizione ai quattro venti (e al Signore Oscuro in persona), sebbene tu non abbia mai avuto occasione di pronunciarti a tua volta, e Lucius… lui ti ha sempre visto come un fedelissimo alla causa. Sarebbe il primo a vederti come un traditore. Cosa mai potreste dirvi?
Lucius potrebbe dire di conoscerti ancora? Avrebbe voglia di farlo di nuovo?
Forse è una fortuna che ci sia Narcissa, seduta lì. Forse il rancore è minore, la delusione più gestibile. Forse il risentimento non la riempirà a tal punto da far diventare i suoi occhi colmi d’odio. D’altronde l’hai già incontrata il giorno dell’interrogatorio e lei ti ha dato il suo appoggio. Forse no, non sarà peggio di come sarebbe con Lucius.
Sai che dovrai comunque parlare con lui – anche con Draco? – ma non è questo il momento di prendere appunti sulla tua agenda mentale.
Sempre se non andrai ad Azkaban, certo, anche se rimani ancora piuttosto convinto del contrario.
Ora ti concentri su Narcissa, piuttosto. E, proprio come l’hai vista l’ultima volta, sembra solo lo spettro della donna che era un tempo. Ha i capelli sistemati non troppo bene e lo sguardo triste. La divisa di Azkaban a strisce e le manette ai polsi. Tiene gli occhi bassi, sul momento, e li alza solo quando si è finalmente seduta.
“Lei conferma di essere la signora Narcissa Black in Malfoy?” Doge pone la sua domanda di rito.
“Io… Confermo,” risponde lei.
Dopodiché si mette più dritta con la schiena, la testa un po’ più alta.
“Vorrei chiedere una cosa, prima di cominciare,” dice.
Ti viene automatico inarcare appena un sopracciglio, in un piccolo moto di sorpresa. Anche Doge è sorpreso, difatti per un istante non dice nulla, cosa che dà a Narcissa la possibilità di proseguire nel parlare.
“Mio marito, mio figlio ed io siamo stati condannati. Mi è stato detto che il mio aiuto potrebbe in qualche modo… darci una mano, se così si può dire.”
Più che Doge, vedi muoversi Kingsley. Non ti eri accorto che avesse delle pergamene stese di fronte a sé, sul suo banco, ma dalla tua posizione è piuttosto normale. Lo vedi spostare alcuni fogli e leggere velocemente muovendo gli occhi più volte da destra a sinistra e viceversa.
“Lei e suo figlio dovete scontare una pena rispettivamente di dieci e otto mesi; suo marito di diciotto. Come abbiamo precedentemente detto al signor Picchetto, vedremo in seguito.”
“Lo spero vivamente, signor Ministro.”
“Allora direi che possiamo ufficialmente cominciare, a questo punto.” Doge riprende la parola e tu ti riappoggi solo ora con le spalle allo schienale della tua sedia – le manette tintinnano appena di nuovo. “In base a quanto ci ha anticipato, poco più di due anni fa lei ha avuto una conversazione con il signor Piton a cui ha presenziato anche sua sorella, Bellatrix Lestrange.”
Narcissa annuisce. Finora non ti ha mai guardato, ti rendi conto.
“Sì, eravamo andate a casa di Severus, giù in periferia, perché volevo chiedergli un favore.”
“Quale favore? E di cosa avete parlato, esattamente?”
Narcissa prende un respiro. “Mio figlio,” piccola pausa in cui lei guarda per qualche secondo da un’altra parte, “era appena… sì, beh, aveva ricevuto la sua iniziazione e anche il suo primo compito. Doveva… uccidere Albus Silente. Il mio Draco doveva fare una… cosa talmente orribile, così giovane, ancora così innocente…”
“Signora Malfoy…”
“… E quindi ho detto a mia sorella che sarei andata da Severus, e lei decise di accompagnarmi. Volevo che lui vegliasse su Draco, che lo aiutasse e, se non fosse riuscito a compiere quanto doveva, che Severus lo facesse al posto suo.”
“E il signor Piton cosa le ha risposto?”
“Ha detto che… andava bene.”
“Quindi aveva addirittura promesso a lei, signora Malfoy, che avrebbe ucciso Albus Silente.”
“Solo se Draco non ne fosse stato capace!” esclama, quasi, e per un momento ti guarda, prima di abbassare di nuovo gli occhi.
“Capisco. Da quanto ci ha detto, in ogni caso, Severus Piton ha anche sostenuto una conversazione particolare con sua sorella, la signora Lestrange. Di preciso che cosa si sono detti?”
“Ebbene… Mia sorella Bellatrix…” Narcissa fa un’ennesima piccola pausa – supponi che la sua mente sia invasa dai più vari e cupi pensieri “… non credeva nella lealtà di Severus nei confronti del Signore Oscuro. Credeva che il fatto che Albus Silente avesse precedentemente testimoniato in suo favore, convincendo tutti che fosse stato una spia… Beh, pensava che veramente Severus avesse tradito il Signore Oscuro. Di conseguenza faceva molta fatica a fidarsi di lui, ora che era tornato. Allora Bellatrix gli ha posto alcune domande, in modo da potersi liberare dei propri dubbi o, in caso, in modo da mettere Severus in difficoltà; e Severus le ha dato le sue risposte.”
“Risposte soddisfacenti?”
Narcissa annuisce. “Bellatrix ne è rimasta abbastanza soddisfatta. Potrei dire che Severus fosse riuscito a convincerla. Ha parlato del fatto che… non cercò il Signore Oscuro, quando è scomparso la prima volta, perché lo credette finito, come hanno fatto tutti gli altri… Come tutti noialtri. Ha detto che il lavoro di insegnante che gli offrì Silente… e che ha mantenuto per tutti questi anni… gli è servito per ottenere informazioni proprio su Silente, in modo da poterle offrire al Signore Oscuro quando quest’ultimo sarebbe tornato. Il Signore Oscuro l’ha apprezzato. Ha detto che è diventato la spia di Silente ancora una volta quando in realtà non lo è mai stato. O meglio, ci ha riferito di esserlo diventato per il Signore Oscuro.”
“Bellatrix Lestrange dunque ne rimasta soddisfatta, vorrei sottolineare.”
“Possiamo dire che Severus fosse riuscito a placare la sua diffidenza.”
“E’ tornata, successivamente, ad esprimere i propri dubbi?”
“No.”
“Quindi le risposte di Severus Piton sono state talmente veritiere da far tacere la sua più fervente contestatrice. Spero che questo alla Corte del Wizengamot sia ben chiaro.”
“No. Non veritiere!” La tua voce rimbomba nell’aula.
Non sei riuscito a trattenerti, ti sei anche portato in avanti con la schiena, proprio come quando è entrata Narcissa.
“Signor Piton,” Doge si rivolge a te, ora, “Come abbiamo fatto sino a questo momento, la procedura vuole che prima la signora Malfoy finisca di parlare. Solo allora potrà porre le sue eventuali obiezioni.”
“Io… Io ho finito. Non ho altro da aggiungere,” interviene Narcissa.
“Allora a quanto pare posso parlare,” commenti.
“Sì… A quanto pare può,” conferma Doge, così tu prosegui:
“Come ho appena detto, le risposte che ho dato a Bellatrix Lestrange non sono state veritiere. Come avrei potuto dirle la verità? A Bellatrix? Mi spiace, Narcissa, ma non potevo espormi. Così come ho convinto il Signore Oscuro di essere dalla sua parte, così ho ovviamente convinto anche Bellatrix.”
“Lei continua, fondamentalmente, sebbene le situazioni siano via via differenti, a darci sempre la stessa risposta.”
“Perché è quella la verità.”
“Sarà da stabilire.”
“Narcissa,” ti rivolgi alla donna, ora, “in base a quanto ci siamo detti quella sera – e anche in base a come ho agito nei mesi successivi, tra l’altro – non ho forse deciso di voler aiutare Draco, tuo figlio, per far sì che non gli capitasse nulla di male, nonostante il Signore Oscuro non volesse? Questo punto non è stato sottolineato. Il Signore Oscuro non voleva. Era un compito di Draco, lui doveva portarlo a termine, non io. Io forse sarei stato designato come consecutivo fautore, se Draco non fosse riuscito nell’intento, ma ancora non mi era stato dato nessun ordine, in proposito. Eppure ho accettato di aiutare il ragazzo. Ho disobbedito. Concordi con me, Narcissa?” Lei annuisce, ma ancora non ti guarda. “Non ho mancato di andare contro i piani del Signore Oscuro. Così come è stato in questo caso, è stato anche per il resto.”
Una nuova pausa di silenzio, ora. Ormai non hai idea di quanto tempo  sia trascorso dall’inizio di quel processo; ti sembra che siano passati giorni interi.
“Terremo in considerazione anche questa sua ultima precisazione, la valuteremo assieme alle altre alla fine di questo primo ed unico giudizio. Dopo il suo ultimo discorso, a cui ha comunque diritto,” fa Shacklebolt, a questo punto. “Signora Malfoy, verrà accompagnata fuori, ora; la ringraziamo per la sua collaborazione.”
E, proprio come è stato per Picchetto, anche Narcissa viene accompagnata fuori da due Auror, gli stessi che hanno precedentemente fatto la loro comparsa. Ed è solo dopo che lei si è alzata, solo poco prima che stia per scomparire dietro la porta da cui era precedentemente entrata, solo ora ti guarda, finalmente. E ti sembra che le sue occhiaie diventino più profonde.
Poi va via.
Ringrazi Salazar che non ci siano altri testimoni, a quanto pare, dato che li hai trovati ognuno più emotivamente terribile dell’altro. Prima Picchetto, poi Minerva, poi Narcissa. Sei sicuro che abbiano deciso chi far entrare dopo chi proprio ad hoc.
Ma nessuno entra più, ora, e lo stesso Doge si risiede al suo posto, con una smorfia sul viso che denota anche un affaticamento della propria schiena. O della propria mente. O di entrambe, magari.
È Shacklebolt che parla, ora, ma lui non si alza in piedi.
“A prescindere da quanto è stato detto prima dai testimoni e poi da lei medesimo, signor Piton, è uso del Wizengamot permettere al Magiavvocato della difesa l’effettuazione di un’ultima arringa. Non avendo lei un Magiavvocato ed avendo sempre parlato in prima persona per sé e per esprimere i suoi dissensi, questo diritto adesso tocca a lei. Ha lasciato delle questioni in sospeso, in fondo, di cui anche lei ha detto di voler parlare ‘più tardi’… Il ‘più tardi’ è adesso, dunque. Vuole usufruire di questa occasione?”
Annuisci. “Per quanto sembrerà strano quello che dirò… Sì, signor Ministro.”
“Prego, allora. La ascoltiamo.”
Prassi – ed educazione, forse – vorrebbe che tu ti alzassi nuovamente in piedi. Magari che ti mettessi anche a camminare in tondo, che tu ti avvicini agli spettatori, poi ai membri della Giuria stessa. Si suppone che tu gesticoli, che faccia un accorato discorso pieno di buoni sentimenti che convinca la Giuria del Wizengamot della tua innocenza. Magari un tuo eventuale Magiavvocato ti avrebbe anche suggerito di piangere amare lacrime di sentito pentimento.
Non ci sarà niente di tutto questo. Non girerai in tondo, non avrai la voce rotta dai singhiozzi – veri o finti che possano essere – e non ti avvicinerai a nessuno in particolar modo. Rimarrai seduto come hai fatto finora.
Molti lo interpreterebbero come mancanza di rispetto o convinzione; magari pigrizia, ma può il mettersi in piedi o parlare in un modo piuttosto che in un altro rivoltare in modo tanto definitivo il giudizio che gli altri hanno di te? Se qualcuno avesse il dubbio… Forse. Ma sul tuo conto ormai quasi nessuno esprime dubbi di sorta.
Sì, rimani seduto.
“Ho già risposto alle accuse che mi sono state rivolte finora, suppongo che la Giuria possa credermi tanto quanto possa anche non credermi, ma sono stato sincero, e quanto ho detto sino a questo momento corrisponde alla mera verità,” dici tu, “Una questione, però, è rimasta in sospeso, e… Sono sicuro che potrebbe mettere le considerazioni che ho portato avanti… nonché le contestazioni di taluni… sotto un’altra luce, che saranno i Giurati a dover interpretare – spero – nella maniera corretta. Parlo, ovviamente, dell’omicidio di Albus Silente.” Non senti alcun rumore, attorno a te, tutti fanno silenzio, e tu ti schiarisci la voce: “Albus Silente mi aveva proposto di tornare ad essere una spia per conto dell’Ordine della Fenice, io ho accettato. Tutto ciò che ho fatto è stato per portare a termine tale compito… sì, anche dopo la morte dello stesso Preside. Mi si chiede perché, perché dopo quello è stato un palese tradimento io abbia mai dovuto continuare ad essere una spia e non un effettivo Mangiamorte. Dovrei essere pazzo per continuare ad affermarlo. Non fosse che… Ebbene, si è sempre parlato di omicidio, anche io continuo a riferirmi a quel gesto apostrofandolo come tale, ma si è trattato veramente di un omicidio?” Una pausa. “Ho continuato ad essere una spia dopo la morte di Albus Silente perché è stato lo stesso Albus Silente a chiedermi di ucciderlo.”
Non c’è più lo stesso silenzio, nell’Aula Dieci. Il brusio comincia tutto assieme, come se fossero improvvisamente entrate decine di api da una delle quattro porte presenti. Vedi Doge spalancare la bocca, Shacklebolt sgranare gli occhi. A te verrebbe quasi da inclinare un angolo delle labbra all’insù, nel notare le reazioni generali, ma non lo fai. Ti chiedi che faccia abbiano fatto i presenti tutt’attorno a te. Potter, Weasley e Granger presumi già lo sapessero – presumi che loro sappiano tutto – per cui, almeno loro, sorpresi non dovrebbero essere. Ti chiedi che espressione abbia ora O’Dampand.
“Albus Silente era… un mio amico. L’unico uomo che mi conoscesse per quello che sono e, nonostante questo, l’uomo che si è fidato di me per quasi vent’anni. Era una sera di fine estate del 1996. Io ero già ad Hogwarts, quando Silente mi ha fatto chiamare nel suo ufficio. La conversazione che ne è seguita ha compreso la sua macabra richiesta, il mio rifiuto e il suo tentativo di convincermi. Alla fine ho accettato. Non volevo, non ho mai voluto, ma poi, sulla Torre di Astronomia, Silente stesso mi ha pregato non di non ucciderlo… ma di tener fede alla mia parola.”
Perché?” una domanda, proveniente da Elphias Doge. Alzi gli occhi e lo vedi, piegato in avanti, con le mani sul suo banco per sorreggersi, l’espressione sconvolta di chi non capisce e non accetta. “Perché avrebbe dovuto chiedertelo?
Ti senti la gola secca, così ti schiarisci nuovamente la voce. “Perché sarebbe morto comunque di lì ad un anno. Aveva contratto una maledizione. Non so come, non so da parte di chi, non me l’ha voluto dire, ma suppongo che molti di voi, nell’ultimo periodo, abbiano notato la mano nera, morta, che Albus ormai possedeva. Io ne ho ritardato gli effetti, ma oltre un anno non sarebbe stato possibile andare. E,” ti affretti ad aggiungere, “Albus sapeva che il Signore Oscuro aveva ordinato a Draco Malfoy di ucciderlo. Ero una spia, dopotutto, l’ho informato. Perché glielo avrei riferito, se fossi davvero stato un Mangiamorte? E Albus,” da grande uomo dalla dubbia magnanimità, “non voleva che Draco commettesse il delitto. Non per non morire – la maledizione lo avrebbe consumato comunque – ma per non… corrompere il ragazzo.” Anche se ciò avrebbe corrotto te ulteriormente. “In più, come terzo elemento, ciò avrebbe anche contribuito a far sì che il Signore Oscuro nutrisse una piena e duratura fiducia nei miei confronti. È così che è morto Albus Silente. Per mano mia, è vero. Ma non l’ho davvero ucciso io.”
Come conclusione… ammetti tra te e te che ti è piaciuta, in qualche modo.
Quello che non puoi ancora sapere è se sia piaciuta a loro.
Dillo.” Elphias Doge ti guarda e ti parla interrompendo quel breve momento di irreale calma. “Se davvero non eri suo, allora dillo.”
“Cosa--”
“Di’ il nome di Lord… Voldemort, se davvero non eri suo.” È la prima volta che glielo senti pronunciare.
Ti senti, però, preso alla sprovvista. Più che alla sprovvista.
Supponi che a Doge il tuo discorso non sia piaciuto, no.
“Doge, questo non è rilevante ai fini di quanto stiamo facendo,” è quello che dici, piuttosto.
“Ogni cosa è rilevante, ora. Ancora non riesci a sputare fuori quel nome, se non è il tuo ‘Signore Oscuro’?”
… Ti sembra di star parlando con Potter, per un istante.
Il fatto è che non ti… viene. Non lo trovi fondamentale, non l’hai mai fatto e non vedi perché tu debba dirlo proprio adesso, improvvisamente, per un Presidente del Wizengamot che sembra essere impazzito di punto in bianco.
“Io non--”
“Non lo pronunci, Piton?”
“Quanti in questa stanza lo farebbero?!” dici, alzando leggermente la voce, esasperato dalla richiesta di costringerti a fare qualcosa che non vuoi compiere, e a questo punto Shacklebolt interviene.
Ti chiedi perché non l’abbia fatto prima.
“Elphias, per favore, basta così. Il signor Piton aveva diritto al suo discorso ed è quello che ha fatto, nulla di più.”
Doge sembra calmarsi: si rimette seduto più compostamente, anche se tiene lo sguardo basso. Sembra che sul suo volto siano comparse un’infinità di nuove rughe.
Tu ti ritrovi con il respiro più affannoso, il braccio destro ti sembra più addormentato di prima, te lo senti pesante e pulsante.
“Abbiamo finito,” continua Shacklebolt, e quelle due parole sono come due martelli dentro la tua testa, “anche se solo per il momento. Ora la Corte del Wizengamot, me compreso, si ritirerà nelle proprie stanze e discuterà.” Guarda solo per un attimo la platea. “Al nostro ritorno verrà… comunicata la sentenza.”
Mentre lui stava pronunciando le ultime parole, tu quasi non hai respirato.
La fine. Di lì a poco ci sarebbe stata la fine del processo, ma ciò avrebbe significato anche la fine della tua libertà? Della tua sanità mentale, della tua ora pseudo-esistenza? Sarebbe stato l’inizio del tuo soggiorno ad Azkaban, l’abbandono dei tuoi abiti scuri, delle tue abitudini, della tua casa, della tua vita o di quello che ti rimane?
Sei stato abbastanza convincente?
Odi non sapere con certezza queste ed altre cose. Detesti il rimanere con il dubbio. Non sopporti questa sottile e fisicamente dolorosa ansia.
Il Wizengamot tutto, dunque, proprio come è stato appena annunciato, si alza in piedi. E tu sei pronto a vederlo scivolare via, i suoi membri che camminano tutti insieme al medesimo passo, e poi scomparire dietro una porta… quando qualcuno li ferma.
“Io vorrei dire qualcosa.”
Quattro parole, quattro spilli nelle tempie.
Stavolta non riesci a non voltarti e, come te, anche decine di altre teste si voltano verso un’unica direzione.
Potter.
Si è alzato in piedi, dal suo posto in prima fila, spalle dritte e petto in fuori, e ora… Quello.
“Prego, signor Potter?” chiede dunque il Ministro.
“Vorrei… aggiungere qualcosa. Vorrei essere il quarto testimone. … Posso?”
Doge si intromette. “Ma è consentito?”
Shacklebolt risponde continuando a guardare Potter – e poi te, e poi di nuovo Potter – piuttosto che il Presidente.
“Suppongo di sì, non si può imporre ad un uomo di tacere, se ha qualcosa da dire.” E poi stiamo parlando di Harry Potter. “Prego, venga pure qui.”
Il Ministro torna al suo posto. I membri della Corte, confusi, non possono fare altro che imitarlo. Doge borbotta qualcosa che non riesci a capire. Tu ti stai mordendo la lingua.
Potter rimane in piedi. E ti guarda per qualche secondo, prima di avviarsi al banco dei testimoni.









Angolo Autrice:

Buon salve!
E' il caso di dire "Chi non muore si rivede!", giusto?
Ma non vi avevo abbandonati, avevo detto che ci avrei messo un po' di più a pubblicare... e così è stato... ma come vedete sono tornata.
No, non vi libererete mai di me, proprio no!

Ebbene, cosa dire riguardo questo nuovo capitolo... Il processo a Piton sta andando avanti ma non è ancora concluso (certo che no!). Ditelo: nessuno si aspettava il colpo di scena finale!
... Non è vero, ve lo aspettavate tutti, ma - ehi! - ciò vuol dire che comunque tutto ciò sta avendo una sua qualche logica. Credo.
Spero.

Beh, fatemi sapere che ne pensate, aspetto le vostre recensioni sul nuovo capitolo, mi raccomando, ché mi rendete una bimba felice *^* Grazie!

E, ultima cosa ma non per questo meno importante, ringrazio di cuore
dierrevi che è appena diventato il mio beta-reader! *applausi a drv* Grazie per i numerosi e precisi consigli e soprattutto per la pazienza che dimostri :P

Vi saluto, cari, e a presto (spero),
Iurin

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Capitolo 22
*** Capitolo Diciannove (parte III) ***


Capitolo Diciannove
(parte III)
 
 
- Quarto testimone: Harry Potter
 
L’ha fatto.
O meglio… L’ha detto. Detto cosa? Tutto.
Tutto quello che ha visto, tutto quello che gli hai consegnato tramite i tuoi ricordi, ogni dettaglio, a volte persino qualche sua personale e poco condivisibile sensazione lacrimevole.
Non sapevi più dove guardare.
Anche se, a pensarci, quello che Potter ha detto di fronte alla Giuria e al Wizengamot intero era già di dominio pubblico da ben più di qualche giorno. Tutti già sapevano tutto, chi più chi meno, chi per sentito dire, chi per un passaparola, chi per esperienza diretta. Lo sapevi. Magari molti pensavano che fosse tutta una menzogna, magari altri avranno pensato sin da subito che tu sia stato la grande rivelazione della guerra…
Ma ora è diverso. Ora Potter ne ha parlato esplicitamente di fronte a tutti. Senza chiederti il permesso. Senza neanche guardarti una volta negli occhi.
Si vergogna? E, se la risposta è affermativa, allora perché lo sta facendo? Per aiutarti?
Perché parlare dell’amore e del dolore che hai provato deve influire così tanto sulle tue azioni? Hai già spiegato il perché di quello che hai fatto. Hai detto di essere stato una spia, di aver ricevuto degli ordini direttamente da Albus Silente. Perché questo non basta?
Non ti piace che scavino. Non ti piace, dato che reputi che non ce ne sia bisogno. Non ti piace, dato che sai che viene fatto solamente per sfamare quelle bocche che vogliono saziarsi delle emozioni che, alla stessa maniera, potrebbe trasmettere loro un comune romanzetto da quattro soldi.
Non ti piace, perché ti senti a disagio.
L’amore ti fa sentire a disagio. Perché non è… normale. Non è stato un amore da ‘c’eravamo tanto amati’, no: a parlarne non verrebbero fuori storie normali. Tu hai amato, ma nessuno ha amato te.
Non lei, quantomeno.
E no, non ti piace passare per… per…
Salazar.
Persino tu, se un uomo ti raccontasse una storia vagamente simile alla tua, sul momento penseresti ‘Che pena’, ‘Patetico’, ‘Quanta sfortuna!’. Perché le decine di persone intorno a te non dovrebbero pensare la stessa cosa di Severus Piton?
Ed è questo che ti dà fastidio, sì: tu sei Severus Piton, l’uomo inflessibile, l’uomo dal cuore di ghiaccio, l’uomo che si veste di nero, l’uomo che assomiglia a un brutto pipistrello, l’uomo i cui occhi sono semplicemente due tunnel bui e senza fine. Adesso sarai spogliato della tua identità.
E Potter continua a parlare, nel frattempo.
Posi momentaneamente lo sguardo su Kingsley, e lo trovi assorto nell’ascoltare cose che già sa. In realtà lui sa più di quanto sembri, ma la Giuria ha bisogno di ascoltare nuovamente ogni cosa per poter dare, alla fine, un giudizio più completo. Altrimenti, se non fosse stato ripetuto ciò che già si sapeva di te – suvvia, lo sanno tutti con certezza che eri un Mangiamorte, perché doverne avere conferma? – non si sarebbe potuto avere un quadro chiaro dell’insieme della questione.
Perciò ora Potter parla anche di quello.
Sì, sicuramente nella sua ottica il suo è un tentativo di aiuto; e magari lo è davvero. Ma non lo perdonerai per questo, la tua identità è diventata un’altra anche ai suoi stessi occhi, ormai. Occhi che ora ti guardano in quella dannata maniera, in un misto di compassione e ammirazione – finché non lo insulterai, certo.
Pensi che tutti, da adesso in avanti, ti guarderanno in quel modo. Non vuoi. Non vuoi perché tu Lily l’hai amata, sì, ma alla fine l’hai anche uccisa. Non meriti attenzione. Meriti l’ombra e l’indifferenza. Gli altri questo non vogliono capirlo.
Forse è anche per questo che ti vesti costantemente di nero, a lutto: per confonderti nell’oscurità.
Ma è un’oscurità diversa, non è quella dei Mangiamorte e del Signore Oscuro, è quella che tu stesso ti sei creato, un’oscurità non così fredda e non così ruvida – forse no – ma che ti trattiene con le sue lunghe braccia. Un po’ come ha fatto il fango del sogno di quella stessa notte.
“… Ha incontrato Silente su una collina, dopo che Voldemort ha deciso che la Profezia si stava riferendo a me,” sta intanto continuando Potter, “e gli ha chiesto di aiutare la mia famiglia, gli ha chiesto di proteggere mia madre… di proteggerci tutti.” C’è un silenzio irreale tutt’attorno a te. “Così il professor Silente ha suggerito loro di nascondersi sotto la protezione dell’Incanto Fidelio…”
Potter continua a parlare di cose che non vuoi rivivere. Sai già che non mentirà – perché dovrebbe farlo, arrivati ormai a quel punto? – sai che non dovrai inserirti nel discorso all’improvviso per smentire qualcosa, per cui smetti momentaneamente di ascoltare.
Non come sta facendo qualcun altro, invece – noti spostando gli occhi leggermente di lato e notando come la signorina Granger stia ascoltando Potter attentamente, come a voler essere sicura che ogni cosa venga raccontata come si deve.
Oh, sei a conoscenza del fatto che Potter ha portato anche lei nel Pensatoio, ai tempi.
Te l’ha detto lei stessa l’unica volta che è venuta al San Mungo assieme a Potter, quando ancora non riuscivi a muoverti quasi per nulla e facevi finta di dormire per non dover instaurare una conversazione con i tuoi invadenti visitatori.
Quindi anche lei ha visto, che è ben più di sapere e basta. Le persone sanno talmente tante cose… ma viverle è un altro discorso. E osservare i ricordi altrui in un Pensatoio è ciò che di più vicino esiste all’essere il vero e proprio protagonista di un determinato fatto.
Un uomo è stato accerchiato da una banda di malviventi che gli hanno strappato la bacchetta e l’hanno Schiantato e poi svegliato e poi Schiantato di nuovo per più e più volte? Qualcuno dirà sicuramente che, nei panni della vittima, sarebbe stato in grado di reagire.
Ascoltare non è come capire qualcosa. E addirittura capirlo non è come viverlo davvero. Potter ci è andato vicino, la Granger anche; Il Wizengamot ascolta e forse capirà, e se ti assolverà sarà solo grazie al buon cuore di ognuno dei suoi membri e alla loro capacità di – appunto – comprensione.
Ma solo tu sai cosa vuol dire quando Potter parla di te come una spia che ha rischiato la vita. Solo tu sai cosa ha significato vivere con un peso nel petto e nello stomaco che allo stesso tempo è sia paura che ansia che coraggio che dispiacere che senso di colpa.
Strano che un tale macigno non ti abbia schiacciato fino a farti morire davvero.
E se hai sopportato – e agito di conseguenza, nel bene e nel male – durante gli ultimi lunghi anni… puoi farlo ancora? Ora che il peso è diminuito? Oh, non se n’è andato davvero, questo no: non ci sono più la paura e l’ansia dei momenti in cui dovevi mentire al Signore Oscuro guardandolo fisso nei suoi occhi rossi; il coraggio non dovrà più essere così dirompente, ma il senso di colpa… quello resta. Sei sicuro che non se ne andrà mai. Ti senti in colpa per Albus; ti senti in colpa per tutte quelle persone che avresti voluto salvare, senza poterlo fare per non far saltare la tua copertura – Charity Bourbage ti ha chiamato ‘amico’, ma tu non hai potuto fare altro che guardarla morire; ti senti ancora in colpa per Lily. Come non potresti? Aver portato a termine la lunga missione di cui hai fatto parte ha onorato la sua memoria, questo è vero. Ma di sicuro non l’ha riportata in vita.
Lei non potrà mai tornare in vita.
… Questo porterebbe a una sensata e ragionevole – nonché assai razionale – conclusione: dovresti lasciarla andare.
Dovresti.
Quante volte te l’ha ripetuto Albus, specie nei primi tempi, per poi arrivare a pensare che tu l’avessi fatto davvero? Ricordi la sua sorpresa al vedere che il tuo Patronus, invece, non era cambiato.
“Quando Neville, Ginny e Luna hanno tentato di sottrarre al… professor Piton la spada di Grifondoro, in realtà quella spada era falsa…” sta continuando a dire Potter, nel frattempo, “Quella vera era nascosta dietro il quadro del professor Silente. Il professor Piton l’ha posta in un piccolo stagno della Foresta di Dean in modo che io potessi recuperarla senza che Voldemort lo sapesse…”
Ti senti leggermente scivolare lungo la seduta della tua sedia di metallo, le catene tintinnano appena, ma i presenti sono talmente concentrati sulle parole di Potter che non vi fanno alcun caso.
E dire che sei tu il protagonista della sua… storia. Tu e sua madre, naturalmente, fantasma invisibile ma onnipresente. Ma sempre fantasma rimane.
Ti passi la mano sinistra sulla fronte, ritrovandotela umida di sudore; non te ne eri accorto.
Lily c’è. Sempre. Ma è evanescente, uno spirito.
No. È peggio. I fantasmi esistono, a Hogwarts ce ne sono diversi, e Lily non è una di loro. Non c’è, non la puoi vedere, non puoi parlarle, non puoi trovartela di fronte con la sua figura perlacea e trasparente.
I fantasmi sono trasparenti. Stupida frase, risalente a tempi neanche troppo lontani – ma di sicuro migliori – che ti viene in mente all’improvviso, ma la cancelli immediatamente dalla tua testa.
Lei non è un fantasma. È un ricordo. Ed è peggio.
… È peggio?
Non fai in tempo a rispondere a questa domanda che vedi il Ministro muoversi. Ti metti un po’ più dritto.
Kingsley si volta verso di te, e così fanno gli altri membri della Giuria, Doge compreso, e così fa anche Potter.
“Signor Piton,” dice dunque Shacklebolt, “abbiamo ascoltato anche la testimonianza del signor Potter. Ha qualcosa da dirci a riguardo, così come è stato anche con gli altri tre testimoni?”
“No.” La parola ti esce tanto velocemente che non riesci a trattenerla.
“Vuole smentire qualcosa di quanto è stato appena detto?”
“No. Io… Va bene così. Non ho nulla da aggiungere.”
“Quindi… conferma?”
È come se ti fosse andata via la voce. “Sì.”
“Allora a questo punto è giunto il momento di prendere una decisione.” Mentre il Ministro pronuncia queste poche parole, il fiato ti si mozza in gola. “Presidente Doge, a lei l’onore.”
Doge ha uno sguardo che reputi… strano. Colpito. Dal discorso di Potter, questo è innegabile, forse anche dal fatto che ci fossero delle cose su Albus Silente di cui non era a conoscenza. Così come non le sapevi tu. Così come neanche Potter. Chi poteva dire di conoscere davvero Albus Silente?
Ma questo è un discorso che ora non ha più importanza. La cosa fondamentale è che Elphias si sta davvero alzando in piedi, nonostante il suo sguardo perplesso e… strano.
“Il Wizengamot, nelle figure della Giuria, del Gran Giurato e del Presidente, ora si ritirerà per discutere di quanto appreso quest’oggi. Preghiamo voi qui presenti di attendere al di fuori dall’Aula Dieci fino a ulteriore comunicazione. L’imputato, Severus Piton, dovrà rimanere qui.”
Fine. Doge rimane in piedi e tutti gli altri si alzano: i Giurati e il Ministro per uscire dall’Aula ed entrare in chissà quale altra stanza per parlare, mentre tutti gli altri – supponi – in segno di saluto e rispetto. Tu rimani seduto, preferisci non appellarti alle tue ultime forze. Le ore appena trascorse sono state… faticose.
Nessun’altra frase di rito, nessun’altra formula; come hai previsto i membri del Wizengamot vanno via tutti insieme, come un grosso branco di pesci colorati di scuro, sparendo dietro la porta dalla quale erano entrati, mentre tutti gli altri escono da quella dalla quale eri invece entrato tu.
Non ti guardi intorno, senti solo uno scalpiccio continuo di piedi. E, se qualcuno volesse parlare con te, sai che neanche potrebbe, perché un gruppo di tre Auror si è disposto simmetricamente attorno alla tua sedia per non far avvicinare nessuno – si tratta dei due che si sono occupati di scortare Picchetto e Narcissa e di Artorius Mann, l’Auror che ti ha accompagnato fin lì quel primo pomeriggio. Le manette ai tuoi polsi e alle tue caviglie non vengono sciolte.
Supponi che si apriranno solo alla fine dell’intero processo, solo dopo la sentenza che stabilirà se sei innocente o no; se verrai considerato colpevole… supponi dovrai abituarti a esse per i prossimi… cento anni? Dipende da quanto a lungo vivrai.
Avresti dovuto goderti di più l’ultimo momento in cui le tue giunture si sono sentite libere.
“Mi dispiace, sarebbe meglio che andaste tutti fuori, per il momento.” Dice uno degli Auror proprio in quel momento.
“Sono la guaritrice del signor Piton, mi dia solo un momento.” Risponde la voce di O’Dampand.
Tu rimani fermo nella stessa posizione, con lo sguardo fisso di fronte a te. Non senti altre voci così nitide e vicine, non senti l’Auror che risponde – forse non ha proprio più parlato – fatto sta che ti ritrovi accanto O’Dampand.
“Salve, signor Piton.”
A questo punto ti volti di lato. Sei seduto, quindi alzi appena la testa per poterla guardare.
“O’Dampand. È ancora qui.”
“E dove vuole che vada?” Sta sorridendo.
Tu non le rispondi, sul momento, così lei continua a parlare: “Posso esprimere un parere su quanto è appena avvenuto?”
Rabbrividisci. “No.”
“D’accordo. Posso però dire una cosa che non c’entra strettamente con quando ha detto Harry Potter?”
“Sta già parlando a vanvera, chi sono io per fermarla?”
Lei continua a sorridere. Non ti piace quel sorriso. Non adesso, perlomeno. Adesso non vorresti vedere nessuno sorriderti.
“Secondo me non finirà ad Azkaban, alla fine,” dice, in ogni caso.
“Ah, beh, se ne è convinta lei, sarà di sicuro così.”
Fai in modo che da ogni tua parola trasudi sarcasmo. Ci provi, quantomeno.
“Oh, avanti,” prosegue, “solo i ciechi… o i sordi, in questo caso… potrebbero rimanere indifferenti…”
“O’Dampand…” provi ad interromperla, ma forse pronunci il suo nome – o cognome, fa poca differenza – troppo piano o con poca convinzione, perché lei non pare ascoltarti.
“… E insomma, prima lei ha spiegato tutto per filo e per segno, poi dopo quello che ha detto Harry Potter…”
“O’Dampand.” Alzi la voce di un tono; forse di un tono e mezzo, così lei tace.
Il suo sorriso si incrina leggermente e ti guarda con due occhi che esprimono perplessità. Quasi la senti dire ‘Cosa c’è?’, sebbene le sue labbra ora siano serrate.
“Smetta di parlare. Non voglio… ascoltarla. Gliel’ho già detto.”
La piega della sua bocca cambia appena e così anche la luce nei suoi occhi. Il tono con cui lei parla nell’attimo immediatamente successivo è molto più serio di quello precedente.
“Signor Piton, vuole saperla una cosa? Quello che ha detto Harry Potter poco fa non è una novità, per me. Ancor prima che noi due ci incontrassimo per la prima volta, il signor Sherman mi aveva già spiegato tutto. Per tranquillizzarmi, sì, perché pensavo che lei fosse solo un pazzo furioso, diciamo, per rimanere sul gentile. Ah, già, anche il professor Sherman sa tutto, dato che è stato proprio Harry Potter ad informarlo, quando lei è stato portato al San Mungo.”
“Io... Lo supponevo. Immaginavo tutto questo,” ti ritrovi a dire.
“Allora perché non dovrebbe volerne parlare neanche un po’? Non abbiamo mai affrontato l’argomento, ma…”
“Perché non è importante!” sibili a bassa voce.
Non vuoi che quei tre Auror ti sentano.
“Non è importante? Scherza? Ma se è stato ciò che ha condizionato tutta la--”
“Crede che io non lo sappia? Crede che io non mi conosca? Lo so cosa quello ha comportato, cosa ha condizionato la mia vita e cosa no, ma non deve essere importante per nessun altro. Non per Potter, non per Shacklebolt, non per chicchessia. Non per lei, O’Dampand.”
Dovresti dirle che non vuoi che gli altri mettano al primo posto Lily, quando ti guardano, perché non vuoi essere considerato l’eroe dalla corazza d’argento che vive sospinto dalla forza dell’amore. Non sei un eroe. E la tua corazza è opaca e arrugginita.
Tu sei il bastardo professor Piton e – te lo ripeti per la milionesima volta – questo vuoi rimanere. Lo vuoi disperatamente.
O’Dampand ancora non parla, in tutto ciò, così tu prosegui.
“Lei non deve… Non so che idea abbia di me, ma qualsiasi essa sia non la cambi. Non voglio che… già sarebbe abbastanza difficile con tutti gli altri…”
Merlino, sei patetico. Proprio ciò che volevi evitare di sembrare.
O’Dampand emette un lieve sbuffo; lo definiresti divertito… Addirittura derisorio. “Le ricordo che io già sapevo tutto, quando ci siamo presentati. Ora ho solo avuto… conferma, diciamo. Secondo lei non la considero ancora quasi un pazzo furioso? Lei mi sottovaluta.” Sorride. “Forse più che ‘pazzo furioso’ ora la vedo come un rompiscatole cronico, ma solo perché altrimenti sarebbe poco professionale. Non trova anche lei, signor Piton?”
Senti dentro di te qualcosa che si liquefà. Un piccolo pezzo di ansia che se ne va. Forse sarebbe ritornato di lì a qualche manciata di minuti, ma per il momento, almeno, la sensazione sembra… piacevole.
“Bene.” Rispondi, dunque. “È ovvio che questa sua affermazione gliela farò comunque pagare, prima o poi.”
“… Lei è assurdamente insoddisfacibile.”
“Diciamo che mi piace che le cose vadano a mio favore.”
“Oh, non si era notato per nulla.”
Non puoi più rispondere a questa sua affermazione, però, perché qualcuno vi interrompe: Mann.
“Basta così, signorina.” Dice, entrando nella tua visuale con il suo viso a punta e la sua barbetta. “Si è sincerata delle condizioni dell’imputato, ora è pregata di uscire.”
“Eccomi, eccomi.” Prima di andarsene, O’Dampand si rivolge nuovamente a te. “Ci vediamo più tardi, eh, signor Piton.”
Tu rispondi solamente con un cenno del capo e la guardi, mentre cammina verso l’uscita; la vedi superare le porte e queste ultime, subito dopo, si chiudono dietro di lei. Tutti rimangono fuori. L’Aula ti sembra insolitamente vuota.
Ma vuota non è, difatti proprio l’Auror Mann si premura di fartelo presente subito, cominciando a blaterare.
“Mi permetta di dire una cosa, signor Piton,” se ne esce lui. “Non la facevo così.” Maledici il fatto di avere le manette ai polsi, dato che cominci subito a capire dove voglia andare a parare il suo discorso. Dovrai cominciare a fare l’abitudine a queste frasi, purtroppo. “Insomma, finché diceva di essere una spia… Come cosa poteva starci, lei ha proprio l’aria da spia, se posso dirlo, del voltagabbana e cose del genere.” Il bello è che lui neanche ti guarda, rimane fermo al suo posto, accanto ai suoi altri due colleghi che, almeno al momento, non sembrano volersi inserire nella conversazione. “Ma tutta la storia della madre di Harry Potter… Ha mai pensato di scriverci un libro? Alla gente piacerebbe veramente molto, scommetto che diventerebbe ricco. Sa, tutte quelle casalinghe disperate con dei pezzi di bacon davanti agli occhi che non appena leggono di un uomo oscuro, magari pure un po’ sadico, ma che ha conosciuto l’amore… Andrebbero in sollucchero tutte quante.”
“Artorius, piantala…” fa, a questo punto, uno dei suoi due colleghi – il più grosso dei due – mentre tu ti rendi conto solo adesso di star stringendo troppo il bracciolo della sedia.
“Che c’è? Non lo sto mica insultando,” risponde prontamente Mann. “Lo insulterei se dicessi che chi malvagio è, fondamentalmente, malvagio rimane. Ma forse neanche in questo caso, dato che sto solo dicendo la verità.”
“La verità?” Dici tu, cercando di fare in modo che il tuo tono di voce appaia il più calmo possibile. “Lei mi conosce solo da qualche ora ed è talmente arrogante da poter stabilire quale sia la verità e quale no? Il posto di Giudice sarebbe dovuto spettare a lei.”
“Non ci vuole una gran mente per poterla inquadrare per quello che è. A quanto pare lei ha amato la madre di Harry Potter. E con ciò? Ha amato una donna, cosa che compie la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Io amo mia moglie, ma non mi reputo uno che da ora in poi debba essere osannato.”
“E cosa le fa pensare che io mi reputi tale?”
“Artorius…”
Lui, però, fa praticamente finta di non ascoltare né te né il suo collega. “Peccato che, da quanto ho sentito, tutta questa storia dell’amore è servita solo ad una cosa. Di certo non l’ha cambiata davvero. Altrimenti avrebbe… che so… trattato meglio il suo prossimo? Avrà anche amato, ma ciò non potrà salvarla dal venire preso a schiaffi da qualcuno.”
“Peccato che quella cosa a cui è servita sia solamente la vittoria della Guerra!” Sbotti.
Mann fa per parlare di nuovo, ma stavolta è l’altro suo collega che lo ferma, avvicinandosi e posandogli una mano sulla spalla, come a volerlo spingere via da vicino la tua sedia, neanche aveste davvero cominciato a prendervi a schiaffi.
“Mann, adesso basta, non vieni pagato per questo,” dice l’uomo. “Le tue opinioni personali raccontale a tua moglie quando la vedi a cena.”
Il diretto interessato scocca all’altro un’occhiata non troppo conciliante. Però, perlomeno, non parla più; si volta di spalle, come a voler scrutare gli spalti su cui fino a pochi minuti prima erano sedute una miriade di persone.
Dal canto tuo, tu di sicuro non hai voglia di parlare, anche se ciò contribuirebbe ad aumentare il fastidio dell’Auror, cosa che probabilmente non ti dispiacerebbe. Anche tu ti limiti a osservare quello che hai intorno, mentre, dentro di te, ti senti come… sollevato.
Il che è strano.
Anche un po’ irritato, però… sollevato, sì, è proprio la parola più consona per descrivere quel momentaneo stato d’animo.
In questo momento ci sono così tante cose a cui potresti pensare e che, irrimediabilmente, vorticano senza sosta nella tua testa… E sono così tante che non riesci quasi a soffermarti su nessuna di esse. A che pro, comunque? Sono sempre le stesse.
Neanche le stessi enunciando una per una a tutto il pubblico presente, ti senti... ripetitivo. Nei tuoi stessi confronti, sì.
Ora cammini nella tua testa avanti e indietro, vedi facce e sedie di fronte a te e ti immagini Azkaban e le sue pareti scure, senti il tuo stesso cuore batterti nelle orecchie e il respiro tremante che ti esce dalla gola. Senti freddo, solo per un istante, e ciò contribuisce a farti venire in mente i corpi scheletrici dei Dissennatori. Saranno ancora loro le guardie di Azkaban? O li avranno mandati chissà dove in quanto traditori? 
Lo saranno stati davvero? Oh, che abbiano tradito è innegabile. Ma non credi che verranno giudicati al pari degli uomini. Non credi che i Dissennatori posseggano una vera e propria volontà.
Non come te.
Continui a fissare quello che hai davanti, percepisci sempre la presenza degli Auror, ti rendi conto di Mann che sta borbottando qualcosa, ma solo tra sé e sé, quindi talmente piano che non riusciresti a capire cosa neanche tendendo le orecchie. Il punto è che tanto non tenti neanche di ascoltarlo. Rimani così per un tempo indefinito ma che no, non sembra infinito, stavolta. È sempre troppo breve il tempo che ti separa da quello che sarà il Giudizio Finale.
Ha un che di apocalittico detto così, ti rendi conto.
Ma d’altronde, se Azkaban sarà veramente il tuo destino, sarebbe l’inizio della tua personalissima Apocalisse, la fine di quella vita che in qualche modo ti è stata ridata. Non hai fatto in tempo a sfruttarla. Hai capito solo da poco che sì, andrebbe effettivamente sfruttata. E non per forza girando il mondo o… beh, fare magari tutto ciò che non hai fatto fino a questo momento. Non cerchi di realizzare nella realtà la finzione di una trama da romanzi.
Avresti potuto limitarti a studiare, a cercarti un lavoro da poter fare da casa, magari. Avresti potuto cambiare abitazione andandotene fuori Londra, forse.
Dopotutto, Londra senti che ti ha un po’ stancato, come casa.
In effetti quella città non è mai veramente stata casa tua, non come Hogwarts.
Avresti potuto anche tentare di chiedere a Minerva – o a chi verrà nominato Preside – di riammetterti nel corpo docenti.
Tutto ciò sempre nel caso in cui tu riesca a scampare al possibile oblio; ed è interessante e, allo stesso tempo, piuttosto sconfortante che i precedenti pensieri tu li abbia elaborati pensando che saranno tutti egualmente irrealizzabili. Come se fossi sicuro che l’oblio di una cella sarà effettivamente il tuo destino. La condanna. La tua piccola Apocalisse personale.
E il tempo trascorso non è mai abbastanza, no: ti sembra che sia passato solo un misero paio di minuti quando le porte dell’Aula vengono aperte e la gente ricomincia a fluire al suo interno. Il momento si avvicina, qualcuno ha detto di fare entrare tutti i calorosi ospiti perché il Wizengamot è pronto per tornare.
E così è: una volta che tutti si sono nuovamente seduti ai propri posti, l’altra porta si apre e Giuria, Ministro e Presidente entrano in fila. Shacklebolt in testa a tutti quanti e, sempre fin troppo presto, anche loro prendono nuovamente posto.
Dovresti chiedere a O’Dampand, se e quando potrai parlarle di nuovo, quanto tempo è durata effettivamente la Consultazione.
“Il Wizengamot ha un verdetto,” è la prima cosa che dice Kingsley – non si può dire che non vada dritto al punto. “Dopo attenta analisi di quanto è stato detto dai testimoni e dal signor Piton stesso, la Corte ha discusso animatamente sul come dichiarare l’imputato. Alla fine è stato deciso.”
Stai per scoppiare, ne sei sicuro.
Kingsley ti guarda, prima di riprendere il suo discorso, ma solo per un breve istante.
“Severus Tobias Piton, nato a Londra il 9 gennaio 1960, accusato dei reati di omicidio, partecipazione ad attività criminale, favoreggiamento dell’attività criminale stessa, lesioni fisiche e mancata tutela di minori posti sotto la sua diretta responsabilità… Viene dichiarato innocente dei reati di favoreggiamento di attività criminale e di lesioni fisiche.” Una pausa, e tu ti senti accasciare impercettibilmente lungo la tua sedia. “E viene dichiarato colpevole dei reati di omicidio, partecipazione ad attività criminale e mancata tutela di minori.”
Ti ritrovi con il fiato sospeso.
Non ce l’hai fatta. Alla fine neanche Potter è servito a niente, sei stato dichiarato colpevole – il fatto che per due reati minori tu sia stato considerato innocente non ha assolutamente alcuna rilevanza.
Finirai ad Azkaban come avevi predetto. E all’inizio neanche ti importava. Adesso cerchi di ricominciare a respirare, ma non ti riesce molto bene.
Ti senti sprofondare. Vedi le pareti intorno a te sgretolarsi come vecchio intonaco e cadere a terra, senti la sedia di metallo cominciare a fondersi…
“Rilevante è tuttavia il ruolo che è stato occupato in tutta questa vicenda dalla vittima stessa del reato di omicidio; dopo attenta riflessione il Wizengamot è giunto alla conclusione che Albus Silente è sia vittima… che complice dell’imputato, e per questo la Corte ha reputato tale gesto un reato di omicidio solo in parte. Inoltre abbiamo tenuto in considerazione il fatto che la partecipazione al noto gruppo dei Mangiamorte è stato solo un pretesto per lo svolgimento del lavoro di spionaggio, per quanto il Ministero ne fosse all’oscuro a partire da giugno del 1997 in poi. Le considerazioni sulla mancata tutela di minori, nello specifico degli studenti della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, rimangono invariate.” Shacklebolt fa una breve pausa e continua a guardarti, mentre tu senti una goccia di sudore scenderti lungo la tempia destra. “Per questo condanno il signor Severus Piton a un periodo di quattordici mesi di reclusione da scontare presso il suo domicilio per evidenti problemi di salute, come ci ha informato l’Ospedale Magico San Mungo.”
La tua sedia torna a essere di duro metallo.
Le pareti attorno a te sono di nuovo di pietra solida.
Ricominci a respirare. E il sollievo è potente e improvviso tanto quanto un pugno nello stomaco. È un sollievo che fa quasi male.
“La Giustizia Magica ha prevalso,” conclude il Ministro.
“La Giustizia Magica ha prevalso,” ripete il resto della Corte del Wizengamot.







Angolo Autrice:

Salve a tutti! :D
Ultimamente, all'inizio di questi 'Angoli autrice', mi viene sempre da scusarmi per il ritardo.
Mi scuso anche questa volta, ma le cose da fare sono sempre tantissime, in più in questo periodo ne ho passate di cotte e di crude... mettiamoci pure che questo capitolo non era così facile da scrivere... Mi perdonate? :D

Ma veniamo proprio al capitolo!
Il processo è finito (e fin qui ci siamo arrivati tutti): che ne pensate? Siete d'accordo con il Wizengamot? Avete apprezzato come si sono susseguiti gli eventi all'interno dell'Aula Dieci? C'è qualcosa che via ha colpito di più? O qualcosa che vi ha fatto particolarmente storcere il naso?
Sono molto curiosa di sapere quale siano i vostri pareri, per cui aspetto una vostra recensione :)

Detto ciò, nonostante il processo si sia ormai concluso, anche il prossimo aggiornamento farà parte del gigantinormico "capitolo diciannove". Sarà la sua quarta parte, sbucata fuori all'improvviso, ma - per Salazar - sarà l'ultima, e poi questo benedetto capitolo venti vedrà la luce. Lo spero. xD
A proposito di capitoli che devono vedere la luce... Io ve la butto lì, sperando di non causare disagi di sorta: senza considerare il capitolo che è stato appena pubblicato... mancano tre aggiornamenti alla fine di "Convalescenza".
Ma farò la lacrimevole solo quando ce ne sarà bisogno.

Ringrazio di nuovo
dierrevi, il mio beta-reader, che ogni volta mi aiuta e mi dà tanti consigli utili su questa storia: thank you! :D

Alla prossima!
Iurin

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Capitolo 23
*** Capitolo Diciannove (parte IV) ***


Capitolo Diciannove
(parte IV)
 
 
Il tempo è fermo. E silenzioso.
Tutto, attorno a te, è rimasto bloccato, mentre tu sei libero di muoverti.
Puoi vedere un rotolo di pergamena ancora aperto, prima che si richiuda su se stesso; uno schizzo di saliva che esce, quasi invisibile, dalle labbra di qualcuno che sta parlando velocemente; le dita intrecciate nei capelli intente a sistemarli; la stoffa mossa da qualcuno che sta stirando la propria toga con una mano.
Tutto è fermo e silenzioso.
E tu riesci ad osservare ogni cosa. Sembra un surreale museo delle cere senza gravità. Ti sembra di trovarti nel fermo-immagine di un televisore babbano.
Quale stranezza.
E quale insolita calma adesso ti pervade: anche il tuo animo ora è fermo. E silenzioso.
Poi tutto comincia a muoversi di nuovo, piano. Anche le voci giungono di nuovo alle tue orecchie, ma più profonde di quanto in realtà dovrebbero essere, distorte dal tempo che sta ricominciando solo ora a svegliarsi.
Un secondo. Due. Forse tre.
Alla fine torna tutto come prima e i bisbigli riprendono. I soliti Auror sono di nuovo disposti attorno a te mentre un insistente chiacchiericcio sta di già cominciando a riempire l’Aula, ora che è stata emessa una sentenza.
Una condanna.
Una condanna che… beh, sì, una condanna che, in fin dei conti, ti piace.
Senti di averla accolta con il calore di un fiume che accoglie una piccola barca che viene spinta per la prima volta sull’acqua.
La avvolgi.
È tua.
Oh, ti compare da dietro O’Dampand, improvvisamente.
“Ah, è ancora qui?” ti viene da dire.
“Non è una novità,” ti risponde, sorridendo appena.
Ma tu non ricambi quel sorriso neanche con una smorfia. La scruti, più che altro. La sentenza l’ha turbata, in qualche modo? O l’ha resa contenta, invece? Supponi che ti dirà la sua – se te la dirà – quando sarete soli. Non ora. E, in fondo, ti sembra anche giusto.
“Signori,” dice Shacklebolt, proprio in quel momento, rivolgendosi agli Auror attorno a te, “potete uscire per controllare che fuori non si crei disordine. A parte il signor Mann, che accompagnerà il signor Piton nel mio ufficio fra cinque minuti.”
“Certo, Signore,” risponde Mann.
Nel medesimo istante il Wizengamot si alza, allora, e così fanno i presenti nell’Aula. Solo quando tutti i membri del Wizengamot sono usciti, allora, anche il ‘pubblico’ fa altrettanto, dirigendosi lentamente in corridoio, controllato dai due Auror. Più di una persona, da entrambe le parti, ti ha lanciato un’occhiata, mentre se ne andava. Credi che non incontrerai più nessuno di loro per un bel pezzo, se non mai più.
Due porte si aprono da un lato e due dall’altro, quattro porte si chiudono con un tonfo, due potenti e profondi echi si espandono per l’Aula Dieci poco prima di sparire improvvisamente come se non fossero mai esistiti.
Rimanete in tre.
Ti torna alla mente l’allucinante discussione che c’è stata giusto poco prima tra te e Mann. In realtà è stato più che altro Mann, a parlare, ma poco importa.
“È soddisfatto, adesso?” ti viene da dire, e non ti trattieni.
Con la coda dell’occhio vedi O’Dampand che si volta verso di te, mentre Mann non muove neanche un muscolo della propria faccia.
“Condanna troppo mite, a mio parere,” dice, infine, “ma perlomeno è una condanna.”
Sembra fin troppo calmo, rispetto a come supponi si senta in realtà, ma credi che questo sia dovuto alla presenza di O’Dampand. Ci fossero stati, invece, i suoi colleghi, sei sicuro che non si sarebbe fatto tanti scrupoli.
In ogni caso, a questo punto, è proprio O’Dampand a intervenire, ma non sulla stessa questione.
“Scusi, signor Auror, ehm— signor Mann, adesso potrebbe togliere le manette del signor Piton? Non servono più, giusto?”
Mann si volta verso di lei.
“Uhm, sì,” risponde. “Direi che si può, ormai.”
Secondo il tuo parere si sarebbe potuto fare da ore, ma supponi che in questo momento la tua opinione non sarebbe tenuta molto in conto. Non da Mann.
Quest’ultimo, comunque, tira fuori la propria bacchetta – chiara, ocra – da una tasca interna della sua giacca e, in un secondo, le manette ai tuoi polsi e alle tue caviglie si aprono cadendo sul pavimento di marmo, catene comprese. Il tonfo produce altri echi, simili a quelli delle porte di poco prima.
Il rumore vibra ancora nelle tue orecchie che già ti ritrovi O’Dampand davanti.
“Come sta?” ti chiede a bruciapelo.
“Stanco,” ti viene naturale rispondere.
“I polsi? Le caviglie? Le fanno male?”
“Non… particolarmente. Quelli di cui potrei sentire un eventuale dolore, perlomeno.”
“Le dita della mano destra sono rosse.”
“Ah.”
“Sulla punta.”
“Non ho idea del perché.”
Mann si intromette nella vostra asettica conversazione fatta di botta e risposta.
“Direi che possiamo andare. I cinque minuti di cui parlava il Ministro stanno scadendo.”
Tu non dici niente, ma il fatto che O’Dampand mormori un ‘Andiamo’ e tu pieghi la schiena in avanti per provare rimetterti in piedi… è un po’ come acconsentire, no?
O’Dampand vuole aiutarti, e tu la lasci fare. È vero quello che le hai detto: sei stanco. E poi ci siete solo tu, lei e Mann, per quanto sia fastidioso quell’uomo… Un po’ di aiuto non ti ucciderà.
Lei allora mette la propria mano sotto il tuo braccio e ti fa mettere in piedi, e, mentre tu continui ad appoggiarti a lei, ti porge la tua stampella, appena recuperata dal pavimento. Tu l’afferri con la mano sinistra e, un attimo dopo, cominciate a camminare.
Non dici nulla del fatto che O’Dampand continui a sorreggerti anche dopo.
Mann vi segue a pochi passi di distanza – due o tre al massimo.
“Prima non gliel’ho chiesto,” dice lui, proprio in quel momento, “sono ferite di guerra?”
Tu lasci passare qualche secondo, prima di rispondere. “Secondo lei? Sì. Un tentato omicidio riuscito male.”
“Da parte di chi?”
“Il Signore Oscuro. Mi era sembrato che lei fosse stato attento al racconto di Potter, sta sottolineando l’ovvio?”
Mann non risponde; si limita a superare te e O’Dampand e ad aprirvi la porta oltre la quale sono da poco spariti i membri del Wizengamot. La oltrepassate tutti e tre, e poi la porta si chiude di nuovo.
Davanti a voi si apre un lungo corridoio con qualche porta di tanto in tanto, a denotare che gli ambienti nei quali esse introducono non sono poi tanto piccoli. Ogni due o tre porte, in ogni caso, sia sulla destra che sulla sinistra, il corridoio si ramifica in altre corsie. Dopo poco, svoltate a destra e, poi, proseguite dritti.
I vostri passi non sono veloci, forse Mann lo vorrebbe, ma, per forza di cose, sei tu a costringerlo a rallentare.
Prima del processo ti eri sentito stanco, ma era più che altro apprensione e ti eri fatto forza per difenderti e lottare. Adesso ti senti veramente stanco e basta: non importa, al tuo corpo, che tu sia stato condannato o meno, o quanto duramente, gli importa solo che il processo sia finito e che  possa ‘rilassarsi’. I muscoli che prima percepivi costantemente in tensione ora non lo sono più, la mascella non è più indurita e non hai neanche voglia di digrignare i denti. Il tuo piede destro strascica sul pavimento già di per sé, ma ora neanche la gamba sinistra ha tanta voglia di collaborare. Oh, nessun ritorno di fiamma del veleno di quella dannata Nagini, è pura e semplice stanchezza, per l’appunto. La tensione ti ha prosciugato le energie come una zanzara in cerca di sangue e, ora che ha svolto il suo compito, si è limitata a volare via, sazia.
Noti che Mann scalpita: prima ti supera, ma poi deve rallentare per non distanziarti. Vorrebbe andare più veloce; forse vorrebbe farti sentire come una palla al piede.
Pazienza.
Di certo non vuoi sforzarti di fare una bella impressione proprio a lui. Perché ormai non è questione di ‘voler dimostrare di essere forte’. Hai una stampella e degli arti bloccati, sei più forte giusto di un gatto. Ormai è questione di ‘voler sembrare meno debole’ o ‘cercare di fare una bella figura’, e tu sei stanco e l’amicizia o la stima di Mann non ti interessano. Per cui lo fai rallentare.
Finché, in ogni caso, non vi fermate di fronte ad una nuova porta, la porta di un ufficio, una porta di legno lucida e ben oliata, alta, larga e spessa, la porta che qualsiasi ufficio vorrebbe. La targhetta su di essa recita: ‘Certificazione di Atti Magici Giuridici e Penali – Ministro della Magia’.
Tu inarchi appena un sopracciglio, mentre Mann bussa. Poco dopo odi distintamente un ‘Avanti’ proveniente dall’interno della stanza. L’Auror apre la porta.
“Oh, eccovi,” è la prima cosa che dice Shacklebolt non appena entrate, ma né tu né O’Dampand né Mann fate in tempo a dire nulla che Kingsley continua: “Prego, signor Piton, si sieda, c’è da firmare alcune pergamene.”
“Mh,” ti limiti a commentare, e così ti vai a sedere su una delle due sedie presenti davanti alla scrivania dietro la quale si trova Kingsley, ancora in piedi.
“Voi potete aspettare qui fuori, non ci vorrà molto,” soggiunge poi quest’ultimo.
“Ne è sicuro, signor Ministro?” chiede Mann; tu non lo stai guardando, stai osservando la stanza. È un ufficio molto grande. Il pavimento è quasi tutto ricoperto di tappeti rossicci e bordeaux.
“Sicurissimo,” risponde Shacklebolt, prima di rivolgersi a O’Dampand: “Lei invece è la guaritrice che accompagna il signor Piton. Mi è stato detto così, non vorrei si fossero sbagliati.”
“Io… S-Sì, mi chiamo Serena O’Dampand.”
Kingsley fa un sorriso. “Signora o signorina?”
“Ehm, signorina.”
“Signorina O’Dampand, invito anche lei ad aspettare fuori e – glielo assicuro – non è mia intenzione fare del male al signor Piton.”
“Oh! Ma… Ma non lo pensavo minimamente, si figuri!”
“Giusto per precisare.”
Mann rimane in silenzio, mentre esce dall’ufficio, e lo stesso O’Dampand, anche se, prima di uscire, lancia sia a te che a Kingsley qualche fugace occhiata.
E così tu e Shacklebolt rimanete soli, ma lui ancora non si siede. Noti che la sua, più che una sedia, è una poltrona.
“Credevo che il tuo ufficio, Kingsley, fosse al primo piano,” esordisci tu, dopo aver fatto passare appena un paio di secondi di silenzio, “non in queste catacombe.”
“C’è troppa luce per definirle delle catacombe, Severus,” risponde lui, prima di spostarsi, raggiungendo un tavolino che prima non avevi notato. “Vuoi una tazza di tè?”
E, detto questo, torna alla scrivania posando su di essa una teiera fumante e due tazze.
Tu inarchi un sopracciglio. “Cosa…?”
“Tè. Una tazza. Ne vuoi?”
Ci pensi solo un secondo e, prima di rispondere, ti umetti le labbra. “Sì, grazie.”
Kingsley fa gli onori di casa. Anzi, d’ufficio. Poi posa una tazza di tè caldo di fronte a te, ma tu non la prendi subito. Lui si siede.
“Comunque sì, hai ragione: il mio ufficio è al primo piano,” dice lui, posata la teiera e appoggiandosi con le spalle allo schienale della sua poltrona, “qui vengo quando bisogna far firmare alcuni documenti a chi è appena stato l’imputato di un processo. Solitamente se ne occupa il giudice di turno che fa le mie veci, ma per molte questioni – le più importanti – presiedo direttamente io, come hai potuto notare. Quando sono io a dover far firmare tutto, vengo qui.”
“Già. Troppa fatica salire fino al primo livello.”
“Oh, decisamente.”
“E ti ringrazio di avermi inserito tra le questioni più importanti.”
“Ci mancherebbe. Dopo Harry e me sei tu l’uomo più discusso del mondo magico. Sarei potuto mancare?” Una pausa di silenzio, durante la quale vi guardate. Sai che il tuo non è uno sguardo ostile. Il suo non lo è di sicuro. “Seriamente, Severus. Ti voglio dire che sono rimasto contento di come sono andate le cose, alla fine. Del fatto che tu non fossi veramente un traditore, intendo. Silente si è sempre fidato di te, e io mi sono sempre fidato di Silente. Ho fatto bene.”
Tu fai un attimo di silenzio, e poi ti schiarisci la voce. “Durante il processo non mi è sembrato di percepire questa gran fiducia nei miei confronti, da parte tua.”
Kingsley fa un accenno di sorriso. “Infatti ho detto di essermi fidato del giudizio di Silente, non direttamente di te.”
“Mh. È dialetticamente corretto.”
“E poi al momento sono il Ministro della Magia Straordinario. È mio dovere rimanere imparziale e far parlare, piuttosto, i fatti nudi e crudi.”
“Io invece sono… sollevato del fatto che Azkaban non stia incombendo su di me. Lo devo ammettere.”
“Lo immaginavo,” Kingsley fa un altrobreve sorriso, “Elphias spingeva per fartela visitare, in realtà.”
“Sto cominciando a nutrire il sospetto che mi odi.”
“Puoi averne la certezza. Albus era suo amico. Nonostante come sono andate le cose… diceva che comunque potevi sottrarti, lì, sulla Torre. Ma ormai non è più una questione che ci riguardi. Sono anche sollevato che tutta questa questione si sia risolta in una giornata: i privilegi dell’essere Ministro comprendono anche darmi una più elastica gestione delle… tempistiche.”
Tu ti limiti ad annuire, rimanendo in silenzio. D’altronde non c’è bisogno di nessun altro tuo commento su quanto avvenuto poco prima, ne sei certo.
E anche Kingsley sembra pensarla così, perché, quando da te non giunge risposta, è lui stesso a cambiare argomento. E, mentre parla, comincia finalmente a sorseggiare il suo tè.
“Sai, si comincia già a vociferare che verrò addirittura confermato come Ministro in via definitiva.”
“Il tuo mandato quando si conclude?”
“Dura sei mesi, per cui fra poco più di trenta giorni. Se il tuo processo fosse capitato oltre quella data, magari avrei fatto in modo che la Giuria fosse più clemente, con te.”
Tu ti stringi nelle spalle – anzi, nella spalla.
“Poco più di un anno da passare in casa non è così tragico.” Considerando che, già di tua spontanea volontà, sei molto poco incline a passeggiate mondane, ti è andata bene. “E poi cos’è, se diventi effettivamente Ministro della Magia puoi rigirarti tutti come ti piace di più?” Incurvi lievemente un angolo delle labbra. “Sai che non si tratta propriamente di una dittatura, Shacklebolt?”
“Ci sto lavorando. Anche se forse una è bastata e avanzata.”
Lui prende un altro sorso di tè e, adesso, anche tu prendi in mano la tua tazza: è tiepida, ormai.
“Mi hanno riferito che non sei stato troppo bene, in quest’ultimo periodo.”
“Prova un po’ ad essere morso e avvelenato da un serpente.”
“Difatti di vedo un po’ debilitato.”
“Sto bene. Più o meno. Qualche mese fa lo spettacolo era totalmente diverso.”
“Mi spiace.”
Inarchi un sopracciglio. “Non è di certo colpa tua.”
“No, questo è vero. Ma cercare di provare empatia… o qualcosa che le si avvicini… ancora non è un crimine. È sempre stato difficile trattare con te.”
Dai il primo sorso al tuo tè.
“Lo so. È uno dei miei più grandi pregi.”
Invece di replicare, Kingsley tira fuori la propria bacchetta: la agita lievemente e un cassetto della sua scrivania si apre: ne vengono fuori alcune pergamene, che si srotolano a mezz’aria, e poi piuma e calamaio. Il tutto viene a posarsi direttamente di fronte a te, nel punto in cui prima c’era la tazza di tè.
“Cosa sono?” ti viene spontaneo chiedere.
“Atti ufficiali che devi firmare. Per farla breve, firmando il condannato si impegna a rispettare quanto è stato stabilito dalla Giuria.”
“Mh,” ti pieghi leggermente in avanti per poter guardare meglio quei fogli, “però il condannato potrebbe rifiutarsi di firmare.”
“A quel punto sulla sua fedina penale si aggiungerebbe il reato di ‘Intralcio ai Magici Pubblici Uffici’ e la firma verrebbe ritenuta non necessaria.”
“Capita spesso?”
“A volte sì.”
“Allora sembrerebbe solo un’inutile perdita di tempo…”
Shacklebolt si stringe nelle spalle.
“La burocrazia magica è un po’ complicata, certe volte.”
“Capisco… Vada comunque per la firma, sì.”
Così puoi andartene e cominciare sin da subito i tuoi arresti domiciliari.
Kingsley fa un gesto come a dire ‘Prego’ e tu posi la tazza di tè – praticamente ancora intatta – sulla scrivania.
Guardi la piuma d’oca, afferrandola solo dopo qualche secondo. La senti strana, tra le tue dita.
Ti rendi conto che, da quando hai subito l’‘incidente’ alla Stamberga Strillante… Sì, hai compiuto diverse azioni utilizzando la mano sinistra, quando, invece, tu mancino non sei affatto. Ma scrivere non è mai stata una di quelle, e adesso non puoi che pentirtene. Che cosa dovresti fare? Chiedere a Shacklebolt un pezzo di pergamena qualsiasi e ‘allenarti’ a scrivere il tuo stesso nome qualche decina di volte? Oppure finire con l’apporre la tua firma con la lentezza di un bambino, producendo, poi, lettere tremanti e una più o meno grande dell’altra?
Avresti dovuto pensarci. Sei stato un idiota.
Alla fine opti per l’apporre una banale sigla.
S.P.
Tutto qua.
Lo fai su tre pergamene diverse, e no: anche se si tratta di due sole lettere, la tua mano non possiede la stessa fluidità che aveva la sua simmetrica gemella.
Per quanto la tua grafia fosse piccola e spigolosa, perlomeno era fluida, quello sì.
Sospiri, quando, una volta completata l’opera, posi la piuma sulla scrivania.
“Tutto a posto, Severus?” ti chiede Kingsley, il capo chino lievemente in avanti, guardandoti così, dal basso.
“Magnificamente,” rispondi tirandoti di nuovo indietro con la schiena, ma non riprendi in mano la tazza di tè. L’avevi accettata per cortesia, ma di sicuro non è che tu abbia veramente sete.
“Allora abbiamo finito,” dice lui.
Dopodiché prende in mano le pergamene, arrotolandole. Un colpo di bacchetta e piuma e calamaio tornano al loro posto. A questo punto lui si alza in piedi; tu stai faticosamente per fare altrettanto, ma la sua voce ti ferma. O meglio, quello che dice.
“Un momento, Severus, rimani pure seduto. C’è una persona che vuole parlarti e le ho dato il permesso di usare questo ufficio per non farvi disturbare da nessuno.”
Tu ti ritrovi, istintivamente, a inarcare entrambe le sopracciglia.
“Una persona? Non sarà mica Potter?”
Il suo nome ti è saltato subito alla mente, com’è naturale che sia.
“Non ti angustiare, lo vedrai tra poco da te.” Mentre parla, Kingsley aggira la scrivania, venendoti vicino. “Vorrei dirti una cosa su quello che proprio Harry ha detto su di te durante il processo.”
Tu assottigli le labbra, prima di parlare. “Sarebbe?”
Kingsley risponde a voce più bassa, come se temesse di farsi sentire da qualcuno. “Un po’ lo sospettavo.”
Tutto qua. Il suo grande parere sull’intera questione.
Riprende a camminare, ma tu non lo guardi; ti limiti a tenere gli occhi fissi sulla poltrona che occupava poco prima.
Non vi dite ‘Arrivederci’. In fondo non sapete se vi rivedrete di nuovo.
Senti la porta dell’ufficio che si apre e si richiude. Adesso sei rimasto da solo.
Ma l’attesa non è lunga, perché odi il rumore della porta che si apre e si richiude di nuovo.
C’è ancora silenzio, ma non è lo stesso silenzio di prima.
Sebbene nessuno parli, percepisci di non essere solo. Non hai sentito rumore di passi o il suono di un respiro. Semplicemente lo sai. È una sensazione che vola leggera sulle braccia.
Eppure, sebbene tu lo sappia, non ti volti. O forse non ti volti proprio perché lo sai.
“Credevo che prendermi così alla sprovvista, chiudendomi praticamente in un ufficio, fosse una tecnica troppo banale persino per te,” dici, sempre con gli occhi puntati sulla poltrona di Shacklebolt.
Perché sai con chi stai parlando. Non hai neanche bisogno di nominarlo.
Shacklebolt non ha detto che non era lui la persona che vuole parlare con te, dopotutto.
Adesso un suono di passi c’è, sebbene attutito dai numerosi tappeti che ricoprono il pavimento, ed effettivamente, poco dopo, una figura si ferma accanto a te. Per te è solo un’ombra scura, vista con la coda dell’occhio.
“Sa, qualche giorno fa ho provato a tornare a casa sua, ma lei non c’era.”
A questo punto non puoi davvero fare altro che voltarti verso di lui.
Potter. Chi altri? È una scelta così scontata.
“Hai provato a tornare a casa mia o ci sei realmente tornato?”
“Ci sono tornato.”
“Sei sempre il solito ottuso ragazzino,” fai tu. “Sì, l’eroe di guerra, il Prescelto, il Salvatore. Ma un ottuso ragazzino rimani.”
“Se non fossi andato contro alcune regole che mi erano state imposte, a quest’ora non sarei qui. E neanche lei, professore. Ma tanto so che neanche le interessa.”
“Questi sono affari miei.”
“Ma se le interessa, allora perché fa così? Perché mi manda sempre via?”
Ti stringi la radice del naso tra medio e indice, chiudendo gli occhi per un momento.
“Potter…”
“Non posso neanche ringraziarla?”
… Non te lo aspettavi.
Sì, a rigor di logica un ringraziamento da parte sua potrebbe anche essere dovuto, è vero… Ma, forse, proprio perché ciò avrebbe implicato dover parlare con Potter, l’hai tolto dalla tua lista dei desideri.
Per quanto essa sia già corta di per sé.
Ma poi, perché mai dovresti desiderarlo, in fin dei conti? Sii sincero. Hai avuto sicuramente un attimo di défaillance. Difatti è con questa ritrovata consapevolezza che rispondi a Potter. Le tue labbra sono un’unica linea sottile, ormai.
“Non devi ringraziarmi. Non l’ho fatto per te.”
“Lo so.” Potter si appoggia alla scrivania di Kingsley. Per un momento incrocia anche le braccia. “Ma non mi importa. So per chi l’ha fatto, e…” stai per ribattere, ma lui è più veloce di te e continua la frase, “… non fa niente. Il modo in cui si è comportato ha fatto sì che Voldemort” – ti mordi la lingua, nel sentire il suo nome, ma solo per un attimo – “sia stato sconfitto. Questa è la cosa importante. So che non l’ha fatto per me, ma mi sento di ringraziarla: grazie, professor Piton. Grazie – e mi conceda di dirlo, solo per questa volta – per aver amato mia madre, perché, nel bene e nel male che si sono susseguiti, questo ha fatto sì che adesso sia tornata la pace.”
Non parli. Non dici niente. Sei lì, con gli occhi fissi su Potter. Lo guardi così, dal basso verso l’alto; e rimani in silenzio.
Cosa dovresti dire o fare, ora? Dovresti cacciarlo da lì? Quello non è neanche il tuo, di ufficio. Dovresti alzarti e andare via? Dovresti rispondergli con un candido ‘Prego’?
È frustrante non sapere cosa dire, specie quando, mano a mano che il silenzio si propaga, esso diventa sempre più patetico e imbarazzante.
Probabilmente anche Potter la pensa così. Probabilmente starà pensando di aver parlato troppo.
Ed è così.
Eppure, a differenza delle altre volte, non hai né voglia di cacciarlo né voglia di andartene e lasciarlo lì senza dire niente.
O magari, più che la voglia, non ne hai le forze.
“Ho una cosa per lei,” fa allora lui, rompendo il silenzio.
Si stacca dalla scrivania e porta una mano dietro la schiena, per prendere qualcosa nella tasca posteriore dei suoi pantaloni. Te lo mostra: la sua bacchetta.
E quindi?
… No, un momento.
Non è sua, per Salazar e per Merlino.
Quella è…
“La mia bacchetta,” il tuo è poco più di un sorpreso sospiro, mentre guardi incantato ciò che pensavi, fino ad un attimo prima, di aver irrimediabilmente perso da tempo.
Poi, però, torni a guardare Potter, e il tuo tono di voce si alza, risultato più gracchiante del solito:
Perché diavolo tu hai la mia bacchetta, Potter?
Vedi l’insinuarsi di una sottile incertezza nei suoi dannati occhi verdi, ma non lo fai parlare, sei tu che riprendi la parola:
“L’hai avuta tu per tutto questo tempo?! Sei un emerito idiota!”
“Pensavo… di dargliela quando avremmo finalmente parlato… Dato che non è più successo, allora, ho pensato che adesso fosse il momento più opportuno per—”
“È evidente che l’Eroe del Mondo Magico non è capace di pensare alle cose più elementari!” Vorresti metterti in piedi, ma rinunci, preferendo, piuttosto, continuare ad urlare: “Dove l’hai trovata?!”
“Ehm – nella Stamberga Strillante. Lei era svenuto, per cui…”
“A maggio! Almeno quattro mesi fa!” L’ultima esclamazione la emetti, forse, con troppa energia, perché senti un’improvvisa fitta alla gola; ti porti una mano al collo e senti la stoffa delle solite bende sotto i polpastrelli. “Quattro mesi fa,” ripeti, e la tua voce ora risulta alle orecchie notevolmente strozzata, oltre che gracchiante come un maledetto corvo. “Ho vissuto come uno stupido Babbano per tutta l’estate.”
Potter fa una piccola pausa, prima di rispondere.
“Mi dispiace. Pensavo che… Se fossi stato io a riconsegnargliela, questo gesto avrebbe contribuito a darle-- a darci un attimo di tregua dal… discutere, lo ammetto.”
“Potevi ridarmela subito, stupido.”
“Era troppo arrabbiato con me, se la sarebbe ripresa e la cosa sarebbe finita lì senza cambiare.”
“Perché adesso, invece, nutro una profonda simpatia nei tuoi confronti,” gli fai ironicamente notare, “e poi cosa ti fa pensare – se, almeno per un istante, ne sei capace – che vorrei mai che le cose cambino?”
“È una speranza. Di solito la speranza non se ne va, se a una cosa ci si tiene davvero.”
Quella conversazione sta prendendo una piega strana.
Come fin troppo strano reputi il tuo modo di comportarti subito dopo.
“Stai parlando seriamente?”
“… Certo. Ovvio.”
“E ti rendi conto che, in ogni caso, non potrò comunque rientrare in possesso della mia bacchetta se non tra quattordici mesi?”
È … strano – sembra l’aggettivo più pertinente, ancora – dirlo ad alta voce.
“Ho preferito non rimandare ulteriormente proprio per questo, almeno adesso può ancora…”
Lui lascia la frase in sospeso, preferendo piuttosto porgerti la tua bacchetta.
La guardi per un momento.
Sai che una bacchetta non è come una persona. Sai che non è che tu debba dirle arrivederci, per quanto quell’oggetto sia importante per te.
Però allunghi un braccio e, quando afferri l’impugnatura della tua bacchetta, senti un certo… calore irradiarsi da essa e avvolgerti la mano. La stessa sensazione che hai provato a undici anni nel negozio di Olivander. Sarà anche solo un oggetto, seppur personale, seppur magico… Ma è come se lei, invece, ti stesse proprio salutando.
“Vuoi renderti utile per me, una volta nella vita, Potter?”
Alzi gli occhi e lo trovi in attesa, così prosegui:
“Non mi pare che tu, stranamente, l’abbia rovinata, scheggiata o rotta in qualche modo.”
“In quel caso non gliel’avrei proprio restituita, altrimenti mi avrebbe Schiantato senza troppi complimenti.”
Ghigni appena. “Cosa ti dice che non potrei comunque Schiantarti lo stesso, ora?”
“Attaccare Harry Potter qui? Dopo il suo stesso processo?”
“Probabilmente è solo questo che mi frena dall’agire. Comunque. Dicevo. Reputo che sia necessario, a questo punto, che tu conservi la mia bacchetta ancora per un po’.”
Glielo dici così. Di punto in bianco e tutto assieme. Gli occhi di Potter si spalancano.
“Cosa…?”
“Sei diventato anche sordo?”
“No!”
“Allora ti pregherei di darmi una risposta.”
Potter balbetta un ‘Va bene’ nella confusione più sbigottita.
Non gli spieghi il perché. Ti chiedi se sia un modo per ringraziarlo a tua volta, per quanto ha fatto nella Stamberga Strillante, per averti – lui o chi per lui – salvato la vita.
Salazar, certo che no.
“Se poi, quando me restituirai, la troverò rovinata…”
“Non accadrà. Ci tengo alla pelle. Ma… Questo vuol dire che parleremo un po’ meglio, quando verrò da lei per restituirgliela?”
“Non dire stupidaggini.”
Potter si stringe nelle spalle e, stranamente, nemmeno protesta. Evidentemente ha capito che fare i capricci non porterebbe poi a molto.
“Ah, beh. Ci ho provato,” commenta, mentre tu gli ridai in custodia la tua bacchetta, che lui si sistema, delicatamente, di nuovo in tasca.
Sebbene sia diventato l’eroe del momento, tre parole riescono a tramutarlo nel ragazzo che semplicemente è.
Non che a te serva qualcosa che te lo ricordi. È solo una constatazione.
In ogni caso c’è ben poco altro da dire, a questo punto, così Potter va ad aprire la porta, mentre tu, finalmente, ti metti in piedi, stampella alla mano. Al di là della soglia vedi O’Dampand e Mann, ovviamente in piedi.
“Avete fatto conoscenza, voi due?” fai allora nella loro direzione.
“Come no,” risponde O’Dampand, “altri dieci minuti e gli avrei chiesto di sposarmi.”
“Le va male, signorina,” osserva, invece, Mann, “sono già sposato.”
“Povera donna.”
Tu ghigni, dal canto tuo.
Ma Potter è ancora lì presente, difatti saluta prima te con un ‘Arrivederci, professore’, ma tu ti limiti a guardarlo, al che Potter saluta anche O’Dampand e Mann, per poi andare per la sua strada.
Sparisce dietro l’angolo un momento dopo.
“Andiamo anche noi?” dice Mann. “La signorina qui presente mi ha detto dove vive, signor Piton. Anzi, dove vivete. Devo scortarvi fin lì. Prima arriviamo, prima torno ai miei affari.”
Che è, in sostanza, la stessa cosa che mesi prima aveva detto Witherington quando, dal San Mungo, sei stato bellamente spostato a Spinner’s End. È singolare, quantomeno. Nonché abbastanza banale l’uso delle parole.
Fatto sta che andate via veramente. Mann vi fa lasciare il Ministero da un’uscita secondaria. O terziaria o giù di lì, il Ministero avrà almeno cinque o sei uscite, secondo te. Ma così, perlomeno, non sei costretto a sfilare davanti alle persone che – ne sei sicuro – ti stanno aspettando dopo il processo. Molti sconosciuti, magari, ma anche molti volti noti, che, forse, vorrebbero parlare con te. Che sia per poco o per tanto non fa differenza. Non ti senti di voler parlare con loro e, anche se fossi stato incline, di sicuro l’occasione non ti concilia i nervi.
È meglio così.
 
Mann ha detto che sarebbe andato via, ma non che sarebbe stata l’ultima volta che vi sareste visti. Ha spiegato a te e a O’Dampand, sul pianerottolo di casa di quest’ultima, che ogni tanto sarebbe passato per… controllare la situazione. D’altronde ora sei ufficialmente agli arresti domiciliari, è anche normale.
Ma non per questo meno irritante.
Quando Mann, finalmente, si degna di lasciarti in pace, rimanere solo con O’Dampand è quasi una benedizione.
Quasi – sottolinei subito mentalmente.
“Vuole una tazza di tè?” è la prima cosa che dice lei.
No. Basta tè per quel giorno.
“No,” rispondi tu, per l’appunto, “penso andrò in camera.”
“Si stende un po’?”
“Cos’altro potrei fare, secondo lei?”
Hai usato un tono sarcastico, lo sai.
Se tu avessi la mano libera, la useresti per massaggiarti una tempia.
“Scusi,” aggiungi subito.
“Sta bene?”
Sei stato appena condannato, quindi la domanda di O’Dampand sembrerebbe piuttosto inopportuna. Ma tu non la consideri tale, nel tuo caso.
“Sono… affaticato. Solo questo,” rispondi.
“La chiamo per cena, allora.”
Tu ti limiti ad annuire, prima di camminare – o di arrancare lentamente – verso la camera da letto. E verso il letto, più specificamente. Hai i muscoli indolenziti, ormai, le gambe e la schiena invocano pietà.
Hai sempre sopportato il dolore piuttosto bene – quello fisico, perlomeno – ma rifiutare del riposo quando nulla te lo impedisce sarebbe mera stupidità.
E, mentre sei disteso, vestito, sopra le coperte, sai di poter mentalmente catalogare quella giornata appena trascorsa come una delle più lunghe della tua vita.
















Angolo Autrice:

Sì, sì, sono viva, e no, vi ripeto che non vi libererete di me tanto facilmente :P

Come state? Spero bene.
Ma, lasciando da perdere i convenevoli, spero veramente che questo capitolo vi sia piaciuto! Il processo è ufficialmente concluso, abbiamo una sentenza e Piton comincia i suoi arresti domiciliari. La giornata, che è durata ben quattro capitoli di questa storia, volge al termine.

Non ho note da riportare che vadano ad aggiungere qualcosa in più a quanto è già stato detto, per cui attendo le vostre impressioni: su, su, non siate timidi, una recensione qui fa sempre piacere! Non mordo XD

Ringrazio, ovviamente, come sempre, il mio caro beta-reader, 
dierrevi, che con questo capitolo ha dovuto avere più pazienza del solito. Si vede che ero ubriaca, quando ho scritto certi scempi XD

Purtroppo non so quando aggiornerò di nuovo, ho mille altre cose da scrivere e il tempo sembra essere sempre meno. Ma non sparirò, suppongo che... un mesetto e potrei essere di nuovo qui, se tutto va bene.

Allora a risentirci!
Non dimenticatemi, eh! XD

Un abbraccio,
Iurin

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Capitolo 24
*** Capitolo Venti ***


Capitolo Venti
 
 
Sono passati giorni. Anzi, intere settimane. Quattro, cinque, sei… alla fine hai totalmente perso il conto. Settimane durante le quali, ovviamente, non hai potuto mettere neanche un piede fuori dalla porta di casa.
Eppure, ad essere preciso, in realtà sei uscito, qualche volta. È stata un’idea di O’Dampand.
“Sa cosa?” ti ha detto, guardandoti e rimanendo in piedi, mentre tu eri seduto sul divano a… far nulla, fondamentalmente. “Ho proposto al professor Sherman di richiedere al Ministero un permesso per delle visite in ospedale.”
“Come, prego? Quando gliel’avrebbe chiesto?”
“L’ultima volta che è stato qui per visitarla, prima che uscisse di casa. Lei era ancora in camera.”
“E mettermene a conoscenza lo reputava un gesto troppo insensato, per una mente brillante come la sua? Deve sempre fare così, lei.”
“Volevo fosse… una sorta di sorpresa, se così si può chiamare. È appena arrivato il modulo, e…”
“No, così non si può chiamare. Lei ha semplicemente voluto agire di testa sua, come sempre.”
“Invece lei, da quando deve stare per forza in casa, non fa che diventare sempre più scontroso!”
“Io sono scontroso. E poi non uscivo neanche prima. Perché adesso dovrebbe essere diverso, mh?”
“Perché prima era lei che decideva di rimanersene chiuso qui, adesso gliel’hanno imposto. E la cosa la sta facendo uscire di testa.”
“O’Dampand, non si permetta di—”
Lei ti ha interrotto, ma non con le parole: semplicemente si è messa una mano in tasca e ne ha tirato fuori un foglio di pergamena piegato in quattro, piuttosto spiegazzato. Te l’ha bruscamente tirato addosso, ed è stato questo a farti smettere di parlare.
E anche il fatto che lei se ne sia andata nell’istante immediatamente successivo, devi ammetterlo.
All’inizio non è stato difficile abituarti agli arresti domiciliari: come ti eri già detto, sei una persona piuttosto sedentaria, piuttosto… casalinga, se così ti puoi definire senza troppo strane accezioni.
Non sai cosa è scattato nella tua testa, però. Da un giorno all’altro, dal momento in cui ti sei svegliato, una mattina, hai sentito le pareti della casa farsi… più strette. Più ingombranti. Come se ti risucchiassero l’aria. Scempiaggini - ti sei detto - le pareti di certo non respirano e nulla era cambiato dalla sera precedente.
Eppure quella fastidiosa sensazione continuava ad essere presente, tanto che una volta ti sei sentito costretto ad allargare il colletto del tuo maglione con un dito. E no, non ce n’era bisogno, non indossavi la veste da mago e sicuramente, se fosse stato troppo stretto, lo avresti percepito per il fastidio che avrebbe causato alle tue ferite.
Quindi no. Era una sensazione tanto spiacevole quanto puramente… irrazionale. Te ne sei reso conto da solo.
Ma non hai subito attribuito tutto ciò al dover rimanere in casa. Stare al chiuso non ti dà fastidio. Mai te ne ha dato e mai te ne darà, ne sei certo: a Hogwarts passavi la maggior parte del tempo nel tuo ufficio o nelle tue stanze; a Spinner’s End prediligevi il salotto, ma il concetto rimane praticamente il medesimo; perché a casa di O’Dampand dovrebbe essere diverso?
Perché ora?
Forse in realtà la risposta la conoscevi, e forse era la stessa che anche O’Dampand ti ha sciorinato con tanta semplicità, come se tutto fosse così ovvio.
Beh, non è ovvio per nulla.
Come conseguenza sei sì diventato scontroso - o meglio: più scontroso. Come se il processo non ci fosse mai stato, come se ancora tu fossi oppresso da quell’ansia tanto lieve quanto subdola. Ecco: oppresso, è questa la parola. Schiacciato.
E O’Dampand è stata la naturale destinataria del tuo improvviso mutamento. E se lei, all’inizio, avrebbe anche potuto spiegare i tuoi commenti troppo pungenti come un ‘essersi alzato dal letto con il piede sbagliato’ - che battuta triste, tra l’altro - dopo una settimana non ha potuto più darsi una simile… giustificazione.
Che poi… Non devi nulla a nessuno, men che meno giustificazioni. È stata solo una mera scelta lessicale.
Il traballante equilibrio della vostra… convivenza è venuto meno più e più volte, in quel periodo.
Nonostante tutto lì eri comunque, a discutere sulla discutibile quanto spontanea iniziativa di O’Dampand.
Il triste gioco di parole serve proprio a rimarcare la tristezza di tutta la questione.
Anche se, in effetti, ben poco c’era da aggiungere al tutto, dato che O’Dampand se n’era appena andata, stizzita.
Quella ragazza cerca sempre di fare la superiore, quella che non se la prende mai, quella che risponde sempre a tono, e poi, invece, è permalosa come tutte le donne.
I geni femminili saranno anche caratterizzati da una maggiore sensibilità - perlomeno nella maggior parte dei casi - ma con loro portano l’impossibilità per gli uomini di poter essere completamente schietti e privi di freno, pena l’eterno femmineo rancore.
Comunque.
Discussione chiusa per cause di forza maggiore - ovvero il fatto che O’Dampand si muovesse ancora più velocemente di te; ma poco importava, perché O’Dampand il modulo appositamente richiesto, compilato e firmato da Sherman, nonché approvato con tanto di timbro dal Ministero… lei l’aveva ricevuto lo stesso.
Per questo, qualche giorno dopo, invece di attendere l’arrivo di Sherman comodamente seduto sul divano, ti sei dovuto preparare - sia fisicamente che psicologicamente - per uscire e dirigervi al San Mungo. Mann, ovviamente, è stato costretto a venire con voi.
“Tutto ciò è un enorme controsenso e basta,” hai commentato, in ogni caso, prima dell’arrivo dell’Auror.
“Che lei esca nonostante si sia impuntato di non farlo? Forse,” ha risposto O’Dampand, seduta sull’altro divano.
No. A quello sono semplicemente costretto,” hai ribattuto, “mi riferisco a io che esco, sì, quando non dovrei. E soprattutto mi riferisco al fatto che ci stiamo dirigendo al San Mungo quando, tempo fa, avevamo appurato che non fosse abbastanza sicuro farlo.”
“E’ perché lei non vuole leggere i giornali.” È vero, non vuoi. Le continue notizie sul dopoguerra ti hanno stancato presto - non perché poco importanti, ma perché di guerra hai sentito parlare a sufficienza. “I… Mangiamorte che ancora si nascondevano sono stati catturati. Quasi tutti, perlomeno. I rimanenti non la attaccheranno, paura come hanno di uscire allo scoperto e… beh, il signor Mann ci accompagna, no?”
“Ah, se ci-- mi affido al signor Mann in qualità di guardia del corpo, sono molto più tranquillo. Crede che mi spingerà tra le braccia dell’eventuale aggressore di peso o che, semplicemente, farà finta di difendermi - senza riuscirci?”
“Oh, la smetta, signor Piton. Lo sa anche lei che il signor Mann è abile nel suo lavoro. Altrimenti non gli avrebbero assegnato quest’incarico, no?”
“Secondo lei chiunque ha a che fare con me deve essere un esperto nel proprio campo. Prima lei stessa, poi Mann. Deve considerarmi proprio l’apoteosi della sfida professionale, O’Dampand. Non so se considerarlo un insulto o un complimento.”
O’Dampand ti ha guardato, rimanendo in silenzio e sbattendo le palpebre un numero di volte più elevato di quello che - supponi - sarebbe stato umanamente necessario.
“E’ solo…” risponde, allora, “E’ solo... beh, non volevo di certo insultarla!”
“Ne è fermamente convinta?”
“Ma perché, qualsiasi cosa io faccia o dica, secondo lei deve sempre essere a suo discapito?”
“Forza della consuetudine, O’Dampand. L’ho sempre detto, io, di essere un uomo piuttosto abitudinario.”
O’Dampand ha fatto per ribattere, e sei sicuro che la vostra conversazione sarebbe potuta durare anche all’infinito, ma, proprio in quel momento, è arrivato Mann.
Il caro signor Mann, l’Auror esperto e sprezzante del pericolo.
Certo.
No, ‘approfondire’ la conoscenza con Mann non te l’ha reso più gradito, sei sicuro che anche un imbecille se ne accorgerebbe.
O’Dampand, invece, non sembra della stessa opinione: dopo il processo neanche lei nutriva una gran simpatia nei confronti di Mann, l’atteggiamento freddo e distaccato che assumeva quando c’era lui assomigliava spesso e volentieri proprio al tuo. Poi, però, lui ha cominciato a portavi la colazione, dato che doveva passare tutte le mattine.
Chi è che ha detto che sono gli uomini quelli che è facile prendere per la gola? Di sicuro non conosceva O’Dampand.
Poi sua moglie è rimasta incinta e solo Salazar sa a quali discorsi tra lui e O’Dampand hai dovuto assistere. O ascoltare da lontano.
Prendervi parte? Neanche per sogno. Più volte hai avuto l’istinto di strozzarti con le tue stesse mani, ma hai preferito, pensandoci più razionalmente, posticipare la tua data di morte. Specie dopo tutto quello che hai passato.
Alla fine O’Dampand ha cominciato a chiamare Mann semplicemente ‘Artorius’, anche mentre parlava con te. Non sai esattamente che faccia hai fatto tu, a sentirlo chiamare per nome come se fosse diventato qualcuno degno di nota, ma, da quel momento in poi, O’Dampand ha ricominciato a chiamarlo ‘signor Mann’. Davanti a te, perlomeno.
No, decisamente non ti è ancora simpatico.
Ma tornando al punto.
Modulo-Sherman-Ministero-Mann-Fuori di casa.
Ti sei ritrovato fuori casa, di mattina, sotto un cielo che ormai possiede tutte le sfumature dell’inverno.
Il sentire un leggero venticello che ti pizzica le guance e il naso ti è quasi sembrato… strano, all’inizio. Ti ha dato fastidio, ma ti sei coperto meglio con la sciarpa, senza dire nulla.
 
Il fatto che siate stati accompagnati da Mann, perlomeno, ha fatto sì che abbiate potuto usare un’entrata secondaria del San Mungo. Nessun incantesimo di Disillusione è stato necessario. Siete passati attraverso corridoi praticamente deserti, avete salito una rampa di scale - lentamente, come il tuo corpo ti ha imposto - e vi siete ritrovati direttamente al primo piano del San Mungo, proprio vicino all’ascensore, che, fortunatamente, in quel momento era anche vuoto. Così siete arrivati al Reparto Janus Thickey praticamente senza che nessuno si accorgesse della vostra presenza.
“Ora che si fa, solitamente?” ha chiesto, dunque, Mann.
“Adesso andiamo a cercare il professor Sherman,” ha risposto O’Dampand.
“Sperando che sia semplicemente nel suo ufficio,” hai commentato tu, “Farei decisamente a meno di un’improvvisata caccia al tesoro.”
“Volete che vada a cercarlo io, mentre voi aspettate qui?”
No,” tu e Mann avete risposto in sincrono.
Così vi siete incamminati tutti e tre assieme. Avete imboccato il corridoio che conduce all’insolito ufficio di Sherman, quando, però, qualcosa ve lo ha impedito: una voce, proveniente proprio da dietro le vostre spalle:
“Ehi, ehi, voi.” Vi siete girati e hai visto Witherington camminare verso di voi e raggiungervi con lunghe falcate - un po’ come, un tempo, avresti fatto tu. “Siete arrivati in anticipo, stavo scendendo per venirvi a prendere.”
“Forse un pochino in anticipo, sì,” ha confermato Mann.
“Ma come vede, Witherington, siamo riusciti a trovare comunque la strada,” hai aggiunto tu, “Lo so che in realtà sperava che ci perdessimo e che rimanessimo intrappolati in qualche reparto abbandonato.”
“E rischiare che lei muoia e che cominci a perseguitarmi sottoforma di fantasma? No, grazie. Comunque salve anche a lei, signor Piton.”
“Witherington, ha quasi fatto una battuta degna di nota, per quanto semplicistica. Potrei commuovermi.”
“Oh, no, non credo che lei ne sia semplicemente capace.”
Ara assodato: Witherington si stava allenando per avere la risposta pronta. L’hai immaginato fare le prove di fronte a uno specchio. Disarmante.
“Grazie della considerazione…” aggiunge allora O’Dampand, al che l’assistente di Sherman si rivolge direttamente a lei, come se davvero si fosse accorto di lei solo in quel momento.
“Oh, sì, giusto… Ciao, Serena. Allora,” ha aggiunto quasi subito, “il professor Sherman è in laboratorio, ci starà aspettando, per cui conviene andare.”
Detto fatto: vi muovete tutti quanti, seguendo Witherington.
Naturalmente con ‘laboratorio’ si stava riferendo alla stanza in cui sei stato visitato più di una volta.
Così vi siete diretti lì, lungo il corridoio. Camminando sei passato di fronte alla camera che hai occupato per qualche tempo; una volta davanti alla porta, hai sentito un vociare, che sicuramente proveniva da una radio, e anche due altre voci, più vicine, più vive e vere: quella del Vecchio e quella dell’Altro. Ma non ti fermi, non entri nella camera, continui a camminare.
Così come questa, da quel momento in poi ogni visita medica l’hai potuta effettuare direttamente al San Mungo. Ma la tua ‘ora d’aria’ non ti era concessa ogni due settimane, come nei mesi passati, ma ogni quattro. D’altronde la tua situazione era… migliorata.
Dovevi ammetterlo.
Durante una di queste visite hai anche incontrato il solito esuberante e pazzo Allock, che è riuscito finalmente a rifilarti una sua foto autografata.
Salazar.
Ma almeno, una volta fuori dal San Mungo, l’hai gettata nel primo bidone della spazzatura disponibile.
“Perché l’ha fatto?” ti ha chiesto Mann.
“Perché non mi interessa e non sono un accumulatore,” hai risposto.
 
Sono passati giorni, durante i quali, stranamente, le cose sono andate… meglio. O, comunque, non sembrava che fossi infuriato con il mondo come nei giorni addietro.
Infuriato con il mondo. Espressione un po’ troppo enfatizzata, probabilmente, ma funziona bene per esprimere il concetto.
Così i tuoi commenti - piano, non tutti assieme, naturalmente - sono diventati via via meno acidi; tu stesso sei diventato meno acido. Se non altro, lo sembri.
Perché sì, tu lo sai di avere un caratteraccio. A volte le persone si comportano in una determinata maniera senza rendersene conto, pensando che il loro atteggiamento sia normale e ‘buono’. O qualsiasi altro aggettivo che potrebbe essere usato per esprimere incoscienza e finte buone intenzioni.
Non che il tuo atteggiamento non sia normale, in realtà: sarebbe anormale se tu ti mettessi a spargere petali di rosa, ma questo ancora non accade, per cui - sì - sei normale.
Eppure ti rendi conto che i tuoi commenti hanno sempre - o, comunque, la maggior parte delle volte - fatto imbestialire il prossimo, e - devi ammetterlo - la cosa ti ha sempre divertito enormemente. Persino quando tali commenti erano rivolti ai tuoi stessi studenti. Oh, lì il divertimento era infinito. La tua soddisfazione era - è ancora, forse - direttamente proporzionale all’arrabbiatura e al dispiacere altrui. Ed era anche meglio, con i tuoi studenti, perché, essendo tu un superiore, non potevano ribattere come avrebbe fatto un tuo pari. E se ci provavano: punizioni e punti in meno.
Pensandoci a mente lucida e anche solo appena distaccata, dovresti considerarti un sadico. Godi nello sminuire gli altri.
Mh.
Potrebbe anche darsi e, se non come sadico, chi era intorno a te ti ha appellato con altri pseudo-sinonimi non troppo amichevoli, ma, d’altronde, non ribattevi mai. Al massimo contrattaccavi, ma non ti preoccupavi di smentire. Sai che chi ti definisce un ‘bastardo’ ha ragione nell’ottanta per cento dei casi.
Perché non cambiare, dunque, si chiederebbe qualcuno?
E perché farlo, invece, ribatti tu?
Dal tuo punto di vista, in fin dei conti, anche il tuo è un comportamento prettamente normale. Te la prendi con chi non è degno della tua stima. Perché fingere di apprezzare una persona assumendo atteggiamenti gentili e finti quando invece non è assolutamente così? Se stimi una persona, se le sei… affezionato, riservarle appellativi poco lusinghieri può capitare quando sei arrabbiato - cosa che fanno tutti, che nessuno venga a dire il contrario - ma per il resto… tratti quella persona in maniera del tutto rispettabile. Al massimo la prendi ‘bonariamente’ in giro. Sempre secondo il tuo personale senso dell’umorismo, ma le intenzioni non sono nocive o sadiche, no di certo.
Quindi, in realtà, si può dire che tu sia più sincero di tante altre persone.
Già, sincero. Non parli alle spalle della gente come fanno tanti; se hai qualcosa da dire, la dici semplicemente.
… Non sempre, non quando la cosa da dire è… troppo positiva, ma questo lo sai solo tu.
Dovrebbero apprezzarti, in fin dei conti, invece che darti costantemente del bastardo.
Ebbene… tutto ciò per dire che, nei giorni seguenti, le cose sono parse andare un po’ meglio. Quando parlavi, dalla tua bocca non uscivano soltanto cattiverie: neanche tanti complimenti, questo sia chiaro, ma perlomeno riuscivi di nuovo a portare avanti una normale - a modo tuo - conversazione.
Più precisamente, durante una di queste giornate, vi trovavate, tu e O’Dampand, nella sua cucina, seduti attorno al suo tavolo; a mangiare - a fare cos’altro, altrimenti?
Sì, era lo stesso tavolo su cui ti sei ritrovato a meditare settimane prima, quando ti sei trasferito in quell’appartamento - sono passate settimane, per Salazar. Quello stesso tavolo pieno di tagli e taglietti, dei quali ancora non avevi chiesto spiegazione. Non che ti fosse dovuta, questo è ovvio, ma, come si dice anche tra i Babbani, ‘domandare è lecito’.
“E rispondere è cortesia,” ti sei detto a mente, facendoti presente che, appellandoti a questo detto, a molte domande non avevi risposto tu stesso.
“O’Dampand,” hai cominciato, dunque, interrompendo il breve, momentaneo silenzio.
Lei ha alzato la testa dal suo piatto di carne, guardandoti con la sua solita espressione di attesa.
“Mi dica.”
Non ti sei potuto esimere dal fare uno dei tuoi commenti, ma stavolta non avevi l’intento sadico che ti contraddistingue. Probabilmente è la forza dell’abitudine.
“Ci sono delle strane specie di tarli, in casa sua, o lei tende a lasciare la sua mobilia succube del deterioramento del tempo, solitamente?”
Lei ha sbattuto un paio di volte le palpebre, evidentemente senza capire. Così tu hai puntato un dito sul tavolo, in particolare su uno dei tanti tagli presenti sulla superficie.
“Cosa è successo a questo povero tavolo?” hai chiesto direttamente.
“Oh, è vero,” ha risposto, allora, “Strano che lei non me l’abbia chiesto prima, in effetti.”
“Ho avuto… altro a cui pensare.”
“Giustissimo,” ha annuito, “Beh, c’è poco da dire, in realtà. Il mio ex era un fanatico dei coltelli.”
“Il suo ex…?” ti è venuto da dire, ma poi un’altra parola ha attirato  la tua attenzione: “Coltelli?”
O’Dampand ha annuito come fosse la cosa più naturale del mondo.
“Un suo hobby, diciamo. E il tavolo era suo, così, fondamentalmente, lo usava per farci un po’ quello che voleva.”
“Le piaceva proprio questo tavolo, eh…” hai osservato, ironicamente, ma O’Dampand ha preferito continuare la propria frase:
“Quando lui poi se n’è andato, il tavolo mi è rimasto.”
“E non ha pensato a… disfarsene? Se lo tiene per ricordo o cosa?”
“Me lo tengo perché è un bel tavolo di legno massiccio. Mi sono abituata a tutti questi sfregi. Sono imperfezioni che non lo rendono brutto, in fin dei conti.”
Quando lei ti ha parlato del tavolo, dei graffi e del suo ex fidanzato barbaramente appassionato nel lancio dei coltelli – o quasi – sei rimasto perplesso. In primo luogo per il fatto che O’Dampand avesse avuto una relazione con una persona, che, anche solo per quel poco che ne sai, deve per forza essere stata molto diversa da lei. E poi perché, a pensarci, ti sei reso conto che di lei sai veramente poco.
Hai saputo del fatto che lei avesse qualche amico solo quando ci hai sbattuto il naso contro – quasi letteralmente parlando; e ora il fatto che lei fosse fidanzata, che addirittura convivesse… ne sei venuto a conoscenza praticamente per caso.
Quando poco sai di quella giovane donna?
Oh, ti ricordi che ti ha detto che sua madre è stata Corvonero, a Hogwarts, e che lei, invece, non ha frequentato nessuna scuola magica. Ma ha fratelli o sorelle? E suo padre? Perché i suoi genitori non sono mai venuti a trovarla? È per il fatto che sarebbero costretti a incrociarsi con te? Perché non si sono mai scritti? Perché O’Dampand non scrive mai nulla a nessuno?
Perché vive costantemente nel suo bozzolo?
In questo ti assomiglia, te ne sei reso conto con un lieve moto di sorpresa.
Sì, sai molto poco di lei, non conosci il suo passato, il suo futuro, quali sono i suoi dubbi, se ha passato esperienze traumatizzanti, se ha ancora dei sogni o se li ha mai avuti, se lavorare per il San Mungo era la sua massima aspirazione o se invece no. Non sai nulla neanche del suo presente, a parte ciò che concerne te stesso. Pare quasi che il suo presente sia tu e basta, in questo preciso momento della sua vita.
Forse fa così con tutti i pazienti. Forse, ogni volta, si dedica completamente a loro per non trascurarli. Oh, la dedizione è encomiabile, nel lavoro, fin quando non diventa un’ossessione. Ma ancora per O’Dampand non lo è, sebbene, sì… sembra non fare altro, nella vita.
Dovresti porle qualche domanda? Dovresti smettere di essere l’uomo burbero – o troppo burbero – di sempre e iniziare una civile conversazione che non duri più di un minuto e mezzo scarso e farle qualche domanda su di lei?
Ma perché dovresti farlo, invece? Sei davvero così curioso? Non puoi vivere, per caso, senza sapere che diamine di vita abbia O’Dampand?
No, ovvio che puoi vivere anche senza. Così come sai che la tua curiosità in merito non sia neanche così enorme. Forse è la noia. Forse è il voler cercare una nuova materia di studio, ora che le pozioni sembrano così lontane.
Sì, di lei sai molto poco. Eppure… Eppure l’essertene reso conto, stranamente, non ha intaccato quella fiducia che sei riuscito a costruirti nei suoi confronti.
Sì, ti fidi di O’Dampand, lo sai da tempo, è inutile rimarcarlo o dirlo addirittura a lei in maniera anche solo vagamente esplicita, perché sai che anche lei, ormai, l’ha capito. Anche perché, altrimenti, di sicuro non l’avresti tenuta accanto a te, per assisterti, tutto questo tempo. L’avresti mandata via quando avresti potuto, quando l’avevi ritenuto opportuno, quando ti aveva fatto saltare prepotentemente i nervi, cosa che è accaduta in più di un’occasione.
Sul momento ti eri detto che acconsentivi a non fare alcun reclamo al San Mungo solo perché ti avrebbero, poi, mandato qualcun altro. E non eri sicuro che questo qualcun altro sarebbe stato meglio di O’Dampand.
Adesso ti rendi conto che anche se battibeccate, in fondo hai fatto bene a non lamentarti con il professor Sherman o con Witherington – che, di sicuro, sarebbe stato assai felice di ascoltare tale lamentela, anche se questo avrebbe voluto dire darti retta.
No, di O’Dampand non sai molto, sai poco e niente.
Ma capisci di saperne quanto basta.
E anche lei, in fin dei conti, sembra… fidarsi di te. Non sai se ‘fiducia’ possa essere la parola giusta, se usata nei tuoi confronti, ma…  Perlomeno, a quanto sembra, non ha mai temuto che tu potessi ucciderla nel sonno, neanche ora che hai riacquisito la facoltà di camminare, in un modo o nell’altro.
Non ha messo barriere, non noti timore nel suo sguardo verde chiaro.
A dire il vero, non ti ha neanche chiesto nulla. Dopo il processo, intendi.
Non ti ha fatto domande su Lily – supponeva che le saresti saltato al collo, in caso? – né su tutto il resto. Neanche sul fatto che non sei mai stato un Mangiamorte…
Ah, ma perché ti fai queste domande, in fondo? Lei già sapeva. Sherman – a cui, a sua volta, aveva bene o male detto tutto Potter – gliel’aveva raccontato, ai tempi. Lei stessa te l’ha confermato proprio nell’Aula Dieci. Se avesse dovuto o voluto chiederti qualcosa, l’avrebbe già fatto mesi e mesi prima. Se non l’ha fatto allora, non lo farà di certo adesso.
Difatti così è stato, nessuna domanda, nessun commento. Il processo è servito solo a darle conferma di quanto già conosceva, quale parere avrebbe mai dovuto esprimere? L’esito dello stesso avrebbe potuto farle dire, al massimo: ‘Signor Piton, accidenti, e io che pensavo di liberarmi prima di lei, invece adesso devo addirittura averla obbligatoriamente in casa.’.
Sì, avrebbe potuto, ma non l’ha fatto, e a te va bene così.
… Il che è anche strano – che non abbia espresso tale pensiero, non che a te stia bene così – dato il modo in cui hai preso a trattarla un paio di settimane dopo la tua ‘visita’ al Ministero.
Ah, beh. Dettagli. Non stai ammettendo niente.
Forse ciò che le ha dato quel motivo in più – o quell’unico motivo, non puoi saperlo – per non mandarti al diavolo è che… ebbene, forse è il fatto che, fisicamente parlando, l’ansia sia andata via, forse è il fatto che hai cominciato a fare più ‘attività motoria’ – per quanto il semplice camminare possa essere considerato tale – ma comunque… E’ un fatto che la pozione quotidiana sembra continuare a sortire i suoi effetti.
Beh, non ‘sembra’, a dirla tutta, perché i suoi effetti li ha concretamente sortiti. Non cammini più come un fenomeno da baraccone, adesso. Sì, perché tutta la parte della gamba destra che era rimasta bloccata – dal ginocchio fino all’anca – ha finalmente deciso di darsi una svegliata. E non solo per modo di dire.
“Può smettere di usare la stampella, allora, che ne dice?” ha proposto O’Dampand, suggerimento che tu hai accolto con piacere.
Per cui hai cominciato a camminare con le tue sole gambe, e… Salazar. Ti sei sentito uno stupido a provare una tale sensazione. L’attorcigliamento di budella, il formicolio allo stomaco e tutte quelle altre stupidaggini che di solito si provano quando… Ah, non riesci neanche a dirlo tra te e te. Tutte cose che hai cominciato a sentire non appena ti sei reso conto che – sì – le tue gambe funzionano, e forse anche il braccio si sveglierà, prima o poi, ma – per Merlino – riesci a camminare come prima, e...
All’inizio i tuoi passi erano incerti, come se dovessi imparare nuovamente come si fa, ma è stata solo questione di pochi trascurabili minuti.
Sei stato… contento. Puoi dirlo. O puoi limitarti a pensarlo, ma sì, lo sei stato.
Il problema si è presentato dopo qualche ora.
Eri, infatti, in piedi, nel salotto, a guardare fuori dalla finestra, giù in strada, ed era come se non ti fossi mai sentito più alto di così, a guardarti in giro. Schiena dritta, mani intrecciate dietro di essa – non hai fatto naturalmente vedere a O’Dampand come hai fatto per portare anche il braccio paralitico in quella posizione, ovvio.
Ti senti tu.
O’Dampand era da qualche altra parte a fare chissà cosa, ma non ci stavi neanche pensando, sul momento.
Poi ti sei mosso, di poco, senza fare un salto o chissà cosa, non ce n’era bisogno e non sei una ragazzina che saltella in giro, hai semplicemente fatto un passo. Ecco, forse due. Hai compiuto due passi girandoti verso destra, hai solamente messo un piede davanti all’altro. E poi il ginocchio ti ha ceduto.
Ritrovarsi di colpo a terra quando non si erano avuti sentori di doverci finire è leggermente scioccante, all’inizio. Quando si inciampa, perlomeno, si intuisce, nella frazione di secondo successiva, che si finirà a terra. Se non si è inciampati, se non si è presa una storta, se non si è scivolati o qualsiasi altra cosa, quando poi si vede il pavimento di fronte al proprio naso si rimane quantomeno perplessi, tanto che all’inizio neanche si sente il dolore provocato dalla caduta stessa.
O’Dampand è arrivata, chiedendo ad alta voce cosa fosse successo, proprio mentre tu ti stavi rialzando da terra aggrappandoti con la mano sinistra al davanzale della finestra.
“E’ abbastanza evidente, O’Dampand,” hai risposto, rimettendoti in piedi ma senza poggiare sulla gamba incriminata, “sono caduto.”
“Come ha fatto?”
“Bella domanda.”
“Ehm… Signor Piton.”
“Sì.”
“Le sta uscendo del sangue dal naso.”
Ti sei portato la mano al naso, allora, toccandoti appena la parte sottostante le narici e sì, hai sentito qualcosa di bagnato. Quando ti sei guardato il dito, l’hai trovato cosparso di rosso. E dire che neanche senti tanto male.
“Beh, lei è una guaritrice o cosa?” hai detto tu, ma senza cattiveria.
Siete subito giunti a una conclusione plausibile: la gamba è guarita, questo è palese, anche seduto sul divano riesci a muoverla perfettamente. Ma non devi affaticarti, tutto lì. Non puoi stare troppo tempo in piedi.
Temevi di peggio, ma non hai potuto evitare di fare una smorfia. È sempre, costantemente, questione di tempo. E di una buona dose di fortuna, supponi – e dire che non ti sei mai reputato una persona fortunata. Forse la Dea Bendata ha deciso che è tempo di rimediare alle proprie mancanze.
O forse sono solo gli eventi.
Eventi che si susseguono, sempre più ordinari, e fanno sì che giorni si sommino a giorni, e che diventino settimane, e poi mesi.
Arriva il nuovo anno, il 1999. Il freddo è pungente, la neve ricopre ogni cosa; per un paio di giorni ha anche imperversato una violenta tempesta di neve, tanto che O’Dampand ti ha detto che il governo babbano ha persino chiuso le sue scuole fino alla fine di quella settimana.
Il privilegio dei collegi come Hogwarts è che rinchiudersi nella propria casa corrisponde esattamente a rinchiudersi a scuola. Che disdetta.
La cosa ti ha toccato ben poco, dato che devi comunque rimanere in casa, che ci sia neve, vento, pioggia o un sole da fare invidia ai Paesi sull’equatore. Comunque. È arrivato il nuovo anno, non puoi ignorare il calendario. E con il passare dei giorni la situazione alla gamba si è stabilizzata. Non puoi stare in piedi troppo a lungo, ma quanto ti è sufficiente per non sembrare comunque un invalido. Stai meglio, sotto quel punto di vista.
Hai anche chiesto a O’Dampand di farti nuovamente vedere come sta la ferita al collo, dato che continui comunque a portare le bende - e stai cominciando a chiederti seriamente se mai potrai togliertele. E lei ti ha assecondato. Ha preso uno specchio, come sempre, e una sera, prima di cospargerti il collo di quella specie di crema vischiosa, ti ha mostrato la situazione. Prima hai guardato nello specchio, poi hai alzato gli occhi su di lei, senza dire nulla. O’Dampand stava sorridendo.
“Non c’è la carne viva,” hai commentato, con semplicità.
Ed era vero: la forma della ferita, le sue nervature, la linea delle lacerazioni provocate dalle zanne di Nagini… Tutto era ben visibile. Ma non c’era pus - non ce n’era più da un bel po’ - e, al posto del rosso della carne viva del tuo collo, c’era il marrone delle croste. Una visione, secondo te, altrettanto sgradevole, ma il medicinale che ti veniva applicato faceva meno male, e la stessa carne del collo tirava meno, durante i tuoi movimenti.
“Allora, che ne dice?” ti ha chiesto O’Dampand, ancora con lo specchio in mano.
“Sembra la classica domanda che si fa in un museo.”
Dalla sua bocca è uscita una piccola risata, brevissima come sempre.
“Beh, per un certo periodo di tempo lei ha assomigliato parecchio a una mummia, no?” ha commentato, continuando a ridacchiare.
Tu l’hai guardata male, all’inizio, poi malissimo quando lei ha ripreso a ridere. Ma hai lasciato perdere quando hai capito di non averla intimorita, e lei è andata avanti con il proprio lavoro. Beh, dato che effettivamente ha smesso di ridere… Forse le tue occhiate hanno comunque sortito il loro effetto, anche se in modo non così palese come avveniva con gli studenti di Hogwarts.
Tutto considerato era ora di fare il punto della situazione. Ancora non si sa, effettivamente, se guarirai mai del tutto oppure no, ma, al momento, puoi muovere il braccio sinistro ed entrambe le gambe, nonché quasi tutta la schiena e il bacino. Solo la spalla e il braccio destri hanno ancora dei problemi.
E Sherman non ha potuto non pronunciarsi, in proposito: nonostante l’ancora presente paralisi parziale, la situazione - ha detto - è ‘fantastica’, a detta sua. Molte persone, così nel Regno Unito come nel resto del mondo - ha continuato - subiscono menomazioni; lui stesso conosce un uomo che ha perso interamente il proprio braccio, eppure sta continuando ad andare avanti con la propria vita.
Per te non è la stessa cosa?
“Io il braccio l’ho ancora,” ci hai tenuto a precisare, ma tu stesso sapevi che non cambiava poi molto.
Se un uomo senza un braccio e con - magari - una protesi, può comportarsi più o meno normalmente, allora puoi farlo anche tu. Non hai bisogno che qualcuno ti assista per compiere i gesti più elementari. Cammini e riesci a compiere quasi tutto quello che vuoi. Considerando, poi, che neanche puoi uscire di casa, le cose da fare sono anche più limitate, così come i problemi che ne deriverebbero.
“Per cui ritengo possibile annunciare,” ha dunque detto il professore, durante la stessa visita al San Mungo in cui avete parlato di braccia mancanti, “che la signorina O’Dampand può considerare concluso il suo lavoro. Può ricominciare a gestire la sua vita come meglio crede, signor Piton, senza interferenze.”
Vi trovavate nello studio di Sherman, e oltre a voi due c’erano anche, ovviamente, O’Dampand e il silenzioso Witherington. Per qualche istante nessuno ha parlato, nemmeno tu, al che Sherman ha preso a guardarsi intorno perplesso, da sotto le sue sopracciglia cespugliose.
… Non ti danno fastidio le interferenze. Non sempre, almeno. O, comunque, non adesso.
Bah, hai sempre saputo che questo momento sarebbe arrivato, e di certo l’hai atteso con una certa impazienza, durante tutto quel lungo periodo di forzata convivenza. Dovresti esserne contento. O, se non contento, dovresti esserne quantomeno sollevato.
E lo sei, certo che lo sei. … Lo sei? Ma ovvio che sì.
“Quindi…” hai chiesto, allora, “Suppongo di dover tornare a Spinner’s End.”
“Sì, esatto,” ha confermato Sherman. “D’altronde il pericolo di un ipotetico attacco è caduto, ormai. Potrà tornare a casa sua quanto prima.”
L’avevi capito, non c’era bisogno che te lo ripetesse.
“Ha già programmato il mio… trasferimento o posso almeno avere facoltà di decisione sui tempi?”
Sherman ha fatto una breve pausa, prima di rispondere, ma non ha mai distolto gli occhi dai tuoi; sei sicuro che, dietro le tue spalle, Witherington abbia alzato gli occhi al cielo.
“No, non c’è una data precisa,” ha risposto, poi, “Può prendersi il tempo che le occorre per sistemare i suoi bagagli. Ovviamente che sia questione di pochi giorni, insomma.”
“Per chi mi ha preso? È ovvio che sarà questione di un paio di giorni.”
In realtà avresti potuto fare tutto già il giorno stesso. Ma almeno hai potuto prendertela con calma. Abituarti al fatto che, fondamentalmente, tornerai a passare le tue giornate nella totale solitudine. Sì, è vero, vedrai Mann, ogni tanto, ma la cosa non è che sia di qualche sollievo, anzi. Preferisci non pensarci affatto.
E tutto ciò non può fare altro che stupirti, in realtà: sei sempre stato solo, in vita tua. Ti sentivi solo persino nei momenti in cui eri circondato da persone. Hai sempre preferito stare solo, e sai benissimo di preferirlo anche ora. Perché dunque percepisci quasi… malinconia? O una cosa che vagamente le somiglia?
Supponi sia la consapevolezza di dover cambiare nuovamente le tue abitudini, non può essere altrimenti. Con O’Dampand in giro per casa, alla fine, non puoi non ammettere che, per quanto tu abbia sempre detto di non averne bisogno, oltre che guaritrice è stata anche un po’ la tua… cameriera. Abituarti di nuovo a fare tutto per conto tuo… deve essere questa la cosa che ti destabilizza un po’.
E così ora sei di nuovo a Spinner’s End, in piedi sulla porta di casa. O poco più in là: in realtà sei praticamente in casa, in piedi, con il tuo bagaglio posato sul pavimento, accanto a te. Di fronte a te c’è O’Dampand, invece. Ti ha accompagnato e ora, una volta che sarà uscita da casa tua, tornerà alla sua vita di prima, o forse verrà assegnata ad un altro paziente critico.
“Vuole che le porti la borsa di sopra?” ti chiede lei.
“No, O’Dampand. Adesso sono autosufficiente, no?”
Proprio in questo momento ti rendi improvvisamente conto di non essere granché capace a salutare definitivamente una persona.
In realtà più di qualcuno ti ha fatto spesso notare che non sei capace di dialogare e basta.
“Beh…” cominci dunque a dire, “Arrivederci, allora. Addio, anzi, con molta più probabilità. Stranamente è riuscita a non provocare la mia dipartita, in fin dei conti; dovrebbe esserne soddisfatta.”
“A dire il vero ci sono stati un paio di momenti in cui l’ho desiderato ardentemente.”
Ti ritrovi a incurvare appena un angolo delle labbra verso l’alto, prima di tenderle la mano sinistra. Lei, però, ancora non la stringe, limitandosi a guardarla. Allora tu abbassi il braccio.
“Si ricorda cosa le ho detto uno dei primi giorni, quando sono venuta qui?”
“Vuole dire quando si è piantata a forza in casa mia? No, non ricordo, a dire il vero.”
Lei ti lancia un’occhiataccia, ma questo rimane l’unico tentativo di… rimprovero nei tuoi confronti. Piuttosto, continua il suo discorso:
“Beh, le ho detto che quando sarei andata via le avrei detto cosa ne penso di lei.”
Sì… Questo ti dice qualcosa, anche se non ricordi esattamente il momento in cui ti ha fatto una tale promessa.
Pensandoci bene, ti ritrovi a provare un misto di curiosità e preoccupazione.
“Ah, O’Dampand, se lo risparmi, non credo che ce ne sia bisogno, ormai.”
“Quindi presume di sapere cosa io penso di lei.”
“Posso immaginare.”
“Spero che quanto immagina corrisponda a verità.”
“Lei pensa a ciò che io penso che lei pensi di me… Vogliamo aggiungere qualche altro tassello a questo discorso? Già sembra un’astratta matrioska.”
“No, no. Direi di no,” conclude, sorridendo appena.
A questo punto è lei a tenderti la mano. Avete fatto un discorso inutile, ma forse neanche lei, nonostante l’esperienza, è tanto brava a salutare le persone. Anche se sono solo pazienti.
Tu stringi la sua mano, ed entrambi scuotete l’uno quella dell’altra, per un breve istante.
“Stia bene,” è la sua frase di congedo.
Tu ti limiti a fare un cenno con il capo.
Dopodiché lei esce, chiudendosi la porta alle spalle. La casa diventa silenziosa.













Angolo Autrice:

Salve a tutti, eccomi qua! Finalmente il capitolo venti è giunto!

Come avete appena letto da voi, la nostra Serena O'Dampand ha finito il suo compito, per cui la sua strada e quella di Piton prendono adesso direzioni differenti. Detta così semplicemente, mi sembra una sorta di Tata Matilda xD Ma Piton non è un ragazzino, e, se lo definissi tale, si arrabbierebbe senz'altro, quindi mi fermo qui.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, in ogni caso, e, dato che comunque accadono un paio di cose importanti (... giusto? XD) aspetto le vostre impressioni! E poi sapere che ne pensate di tutto... questo non può che farmi piacere, sia nel bene che nel male! :)

Ringrazio come sempre
dierrevi per aver betato il capitolo con la sua solita, fantastica precisione :D

E... beh, il prossimo sarà il penultimo capitolo, spero di poter aggiornare presto, considerati gli impegni.

Un saluto grande grande grande,
Iurin

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Capitolo 25
*** Capitolo Ventuno ***


Capitolo Ventuno
 
 
Spinner’s End è sempre la solita Spinner’s End. L’avere, per qualche tempo, cambiato quartiere ti aveva dato la sensazione di aver dimenticato il profondo squallore del luogo in cui hai sempre vissuto, invece, non è stato affatto così.
Sin dal giorno seguente al tuo ritorno, la comune e solita sensazione di disgusto e indifferenza è tornata a ripresentarsi come una vecchia amica.
Un’amica che solitamente si evita come la peste e che, vedendola, si fa comparire sulle proprie labbra un’espressione che è la falsità fatta sorriso. Una di quelle amiche, sì.
Ma questa è anche la cosa più banale, di tutta quella faccenda.
La cosa principale è che hai dovuto riabituarti non solo a Spinner’s End, che ti ha… inglobato nuovamente, ma al fatto che ora ti ritrovi a vivere un’altra volta da solo. Non che sia un male, questo sia ben chiaro, solo… Era piacevole avere O’Dampand intorno.
‘In mezzo ai piedi’, hai subito aggiunto tra te e te mentalmente, tanto per dare una connotazione negativa a quella frase che, altrimenti, sarebbe stata fin troppo carina per i tuoi stessi gusti.
E, ti sei corretto un momento dopo, più che ‘piacevole’ la parola giusta da utilizzare sarebbe ‘comodo’. Sì, comodo: O’Dampand ti preparava tutti i pasti, ti sistemava la stanza, ti lavava i vestiti… Tutte cose che ora sei stato di nuovo costretto a fare da solo, nel silenzio di casa tua, con la solo compagnia di stesso.
E con l’ausilio di un solo braccio, ovviamente.
Ecco, quella è la scocciatura più grande di tutte: dover girare per casa con un qualcosa di inutile attaccato al corpo. Perché questo è. Un qualcosa. Le gambe, a forza di camminare, stanno riprendendo anche loro la loro solita attività, e avere un braccio ciondolante che, ad ogni passo, dondola avanti e indietro… è snervante oltre ogni immaginazione.
E sì, le tue lunghe e rinvigorenti passeggiate puoi effettuarle solo all’interno del suo stesso salotto. Prima o poi procurerai un solco a quel già fin troppo consumato pavimento. Perché sì, gli arresti domiciliari continuano, ovviamente, e a volte senti la voglia di metterti a grattare la porta come un animale che cerca inutilmente di uscire dalla stanza.
Se già stai impazzendo così, cosa diamine avresti fatto, se tu fossi finito direttamente ad Azkaban?!
Oh, ma in realtà qualcuno con cui parlare c’è, e addirittura tutte le mattine, come a volerti dare la sveglia per farti cominciare l’ennesima giornata piena di nulla: Mann. E chi, altrimenti?
Un ipotetico spettatore esterno avrebbe potuto supporre che, magari, per il fatto che Mann sembra essere la tua unica costante umana… il vostro rapporto dovrebbe essere migliorato. Almeno da parte tua. Perché, d’altronde, inimicarti colui che è l’unico essere umano mediamente intelligente che può farti uscire dall’eterno mutismo?
Certo, a parte Sherman e compagnia, che comunque incontri ogni mese – e non più ogni due settimane.
Pensavi a Mann, insomma. Ebbene: no. Avresti ben più che qualcosa da ridire sul ‘mediamente intelligente’, quindi no: anche inimicandotelo, non ne fai un dramma.
E poi sei Severus Piton. Questo puoi mai dimenticartelo? – “Magari,” pensi a volte, ma questo è un altro conto. – Quindi rimani coerente con te stesso, e – no, per l’ennesima volta – non hai fatto e non fai ‘buon viso a cattivo gioco’. Farai la faccia torva a buono o cattivo gioco che sia.
… E non è neanche vero, a pensarci, che, se non fosse per Mann, non parleresti ad anima viva. A volte ti ritrovi a parlare da solo, infatti; devi tenerlo in considerazione. E questo non vuol dire che stai diventando pazzo, ci mancherebbe pure; se c’è stato un momento della tua vita in cui veramente hai rischiato di diventarlo, certamente non è questo. Quel momento è piuttosto lontano, ormai.
O’Dampand ti direbbe che parlare da soli è normale, dopotutto. Aiuta meglio a ricordare quello che si ha intenzione di fare di lì a qualche momento, aiuta a sistemare i pensieri, aiuta persino a tenersi occupati, o a farsi venire nuove idee. Dopodiché lei aggiungerebbe che ti ci vede molto a parlare con te stesso, perché sicuramente ti consideri il tuo più piacevole ed interessante interlocutore.
Il che è vero.
Tuttavia è anche vero che, dopo un po’, ascoltare la tua voce da corvo ti stanca alquanto.
Con O’Dampand, a proposito, non hai più avuto alcun tipo di rapporto. Sono passati mesi, ormai. Non vi siete scambiati una lettera, una cartolina.
Bah. Che razza di pensieri. È ovvio che non ci sia stato più niente da dirvi. A che sarebbe servito? Quale sarebbe stato il fine ultimo di un’ulteriore conversazione?
E sì, sono passati mesi. Sei. Natale è passato da molto, e O’Dampand aveva scommesso – unilateralmente, certo – che entro il 25 dicembre saresti guarito totalmente. Ma no, il tuo braccio rimane inerte, e ormai ti sei talmente abituato a fare tutto con la sinistra che ti chiedi se dovresti cominciare a definirti ‘mancino’. Anche per quanto riguarda lo scrivere, esatto.
Di certo, però, non ti abituerai mai ad avere un arto inutile attaccato al corpo. Ti sembrano giorni lontanissimi quelli in cui eri costretto a spostarti utilizzando quell’odiosa sedia con le ruote – più che ‘utilizzando’, in realtà sarebbe ‘facendoti spingere su’, ma il tuo stesso cervello si rifiuta di metterti davanti agli occhi quello specifico ricordo.
E non porti neanche più le bende, oh, no. Ecco, questo è un piccolo fatto degno di una qualche nota.
Non le hai tolte da molto, più o meno a metà del mese di febbraio. Per far sì che questo fosse possibile, giustamente, si è dovuto aspettare che le croste che ricoprivano la ferita cadessero, cosa che è effettivamente accaduta. Dopodiché, alcuni giorni di unguenti nutrienti a parte, hai potuto cominciare a fare sfoggio di una bella e niente affatto appariscente cicatrice.
Pensavi, poi, che avresti potuto ricominciare a indossare le tue solite vesti a collo alto, invece che i soliti maglioni babbani che hanno preso possesso del tuo armadio. E ci hai provato, non puoi certamente dire di no.
Peccato che quasi subito il collo abbia cominciato a pizzicare e a prudere – dannazione a Godric – e quindi sei dovuto salire in camera per cambiarti d’abito.
Ma questo non è stata – e non è – la cosa più snervante.
La reazione – o, comunque, il comportamento – di Mann lo è stato un po’ di più.
Come ogni mattina, infatti, era passato per la sua solita… visita di cortesia, e tu, proprio appena un’ora prima, avevi finalmente tolte quelle bende, come suggerito da Sherman stesso.
Mann non riusciva a smettere di fissarti il collo, neanche fosse stato un vampiro.
Che nervi.
… Avevi espresso, tanto tempo prima, addirittura un pensiero piuttosto esaustivo su come la pensi riguardo la gente che fissa. Specie se ciò che guarda è malato. Come te. Ovvero che sono molto… inopportune, per usare un eufemismo.
“Ha notato qualcosa di interessante?” gli hai detto, inarcando un sopracciglio.
 
Sicuramente è stata la noia e l’opprimente sensazione che questa ti causava alla bocca dello stomaco. Sì, è sicuramente stato questo ciò che ti ha spinto, in un momento di poca lucidità mentale, a scrivere una lettera a Minerva McGranitt.
Oh, nessun poema. Nessuna richiesta strappalacrime di posare l’ascia di guerra. No, le hai solo… scritto. Poche righe e nulla di elaborato.
Le hai solo fatto notare che lei ora sa la verità, e che sicuramente capirà il motivo per il quale non hai potuto dirle nulla. E le hai detto che speravi che ti perdonasse per avere ucciso – sebbene con tutti i non poco importanti retroscena – un uomo che stimava, apprezzava e rispettava.
Ovviamente, con tuo grande disappunto, hai dovuto consegnare la lettera a Mann, per fartela spedire.
Hai aspettato che lui fosse sulla soglia della porta di casa tua, per farlo, data l’indecisione e, allo stesso tempo, l’impazienza e la riluttanza.
“Sa che,” ha detto lui, non appena ha preso la pergamena – anche se tu continuavi comunque a tenerne un piccolo angolo tra le dita. “Sa che il protocollo prevede che io prenda visione di ogni missiva entrante e uscente da questa casa?”
Sì, hai supposto da te che la prassi avrebbe previsto più o meno una cosa del genere. Certo è, però, che sentirlo dire ad alta voce… fa un altro effetto. Difatti, nonostante Mann abbia ormai preso la pergamena, anche tu, dal tuo lato, continui a trattenerla. Non vuoi lasciarla andare, no.
… Avresti potuto cambiare alcune parole, rendere la lettera più neutra, meno… personale.
Ma sapevi che, in quel caso, sarebbe stato inutile mandare a Minerva McGranitt una missiva vuota e asettica.
Così hai lasciato la presa. Mann ha piegato ulteriormente il foglio di pergamena e l’ha sistemato in una delle sue tasche.
Poi gli hai chiuso la porta in faccia.
A dirla tutta non ti aspettavi che Minerva ti rispondesse. Eppure l’ha fatto. Sempre Mann ti ha consegnato la sua lettera– già aperta, ovviamente, segno più che evidente dell’intromissione dell’uomo nella tua corrispondenza personale.
E al momento non hai nemmeno pensato, comunque, che quella lettera potesse appartenere alla tua ex collega. Non credevi che ti avrebbe risposto affatto, dopotutto.
“Si è divertito a farsi gli affari miei?” hai chiesto all’Auror.
“I suoi affari mi interessano fino ad un certo punto,” ti ha risposto, “si tratta solamente di lavoro.”
“Lavoro o no, si fa comunque gli affari miei.”
A questo punto hai finalmente preso la lettera dalle sue mani.
“Dovrebbe sporgere un reclamo ai miei superiori, se mai la ascolteranno, Piton.”
“Credo lo farò, Mann, grazie per il suggerimento.”
E gli hai sbattuto la porta in faccia.
A pensarci, credi che non vi siate mai detto un vero e proprio ‘Arrivederci’ o un ‘A domani’.
Quando sei rimasto da solo, in ogni caso, hai spiegato la pergamena. E sì, si trattava effettivamente della risposta di Minerva. Sebbene sia una donna – e su questo non ci piove – non ha scritto nulla di sentimentale o di… beh, tipicamente femminile. In questo siete stati sempre piuttosto simili. Ma non è stata breve e concisa come te, questo no: ha riempito tutta la pagina della sua fitta, minuta e tondeggiante grafia, spiegandoti cosa abbia passato durante tutto quel famoso anno scolastico, come tu, in quel periodo, comparivi ai suoi occhi, come ti abbia odiato, come in qualche occasione abbia desiderato che tu morissi.
Tutte cose molto negative, per farla breve.
Ma poi è andata avanti, spiegandoti la sorpresa provata dopo aver appreso quale fosse la verità, e il fatto che all’inizio non riuscisse ad accettarla comunque, perché, a prescindere da quale fosse stato il motivo del tuo gesto, nessuna spiegazione e riabilitazione avrebbero riportato Albus indietro.
No. Neanche altre persone sono mai tornate indietro, qualsiasi siano state le tue azioni successive.
Eppure, subito dopo, Minerva ha aggiunto che avrebbe preso in considerazione la tua… richiesta di perdono. Non era in grado di accettarlo, ancora, ma sì… l’avrebbe tenuta in considerazione.
Al momento, dopo quanto passato, a te andava benissimo anche così.
Tu non le hai risposto a tua volta. Inviare un altro gufo sarebbe stato superfluo, un mero rimarcare le medesime questioni senza giungere a nessun evolversi della situazione in sé.
Non hai scritto nulla neanche agli altri tuoi ex colleghi. Di specifico non hai nulla da dir loro e poi – supponi – Minerva avrà fatto presente le tue parole, almeno sommariamente, anche agli altri.
Certo, se li ha incontrati. Hogwarts non è ancora stata riaperta, è ancora in ricostruzione…
Non hai dunque più scritto altre lettere, non dando più così motivo a Mann di intromettersi nei tuoi affari personali.
Per cui non hai potuto che definirti estremamente… sorpreso, quando un gufo è arrivato di punto in bianco.
Te l’ha comunicato Mann, porgendoti la pergamena incriminata una mattina d’estate.
… Sì, altri mesi si sono aggiunti a quelli già trascorsi.
Che fosse nuovamente Minerva, magari? Oppure O’Dampand? A giudicare dalla faccia di Mann, visto che lui è già a conoscenza di tutto, non credi che si tratti né dell’una né dell’altra opzione.
Ti ha porto la lettera non appena è entrato in casa, poco prima di andarsi a sedere sul tuo divano. E lui non si è mai seduto sul tuo divano.
“Beh?” gli dici, “lo sa che non è mia abitudine offrirle la colazione.”
Lui apre addirittura le braccia, posandole sulla spalliera del divano stesso.
“Voglio solo vedere la sua faccia,” risponde, “la mia è stata piuttosto… sconcertata. Lo so perché casualmente mi sono specchiato nel vetro della finestra del mio ufficio.”
E, detto ciò, ha fatto un sorrisetto.
“Non credevo lei avesse addirittura un ufficio.”
“Quante scoperte, oggi.”
Salazar, come non lo sopporti.
Solo che quello che ti ha appena detto ti lascia… perplesso. E curioso. Abbassi gli occhi sulla pergamena che tieni tra le mani. Noti il sigillo di ceralacca con il simbolo del Ministero della Magia, rotto.
Che cosa volevano da te, adesso? Avevano cambiato la loro opinione su di te? Erano saltati fuori inutilmente altri testimoni? Avevano saputo che sei migliorato, dal punto di vista medico, e allora avevano deciso di farti scontare ad Azkaban il resto della pena? Volevano quindi inasprirla? E se invece avessero voluto ridurla, non si sapeva per quali altrettanto misteriosi motivi?
Diamine!
L’unico modo per risolvere i tuoi dubbi era semplicemente leggere. E questo hai fatto. Mano a mano che i tuoi occhi scorrevano da sinistra verso destra, la sorpresa si impossessava dei lineamenti del tuo viso. Credi che, a fine lettura, le tue sopracciglia avessero praticamente raggiunto l’attaccatura dei capelli.
“Allora?” ti ha incalzato Mann, ma tu l’hai sentito a malapena.
No, non stavano informando che presto saresti finito in una cella umida, fredda e buia. E nemmeno che ti avrebbero ridotto la durata della pena. No, non c’entrava niente, questo.
“Mi vogliono dare l’Ordine di Merlino,” hai mormorato.
“Noto, almeno, che lei è sorpreso quasi tanto quanto me.”
“Non per i motivi che lei crede. L’Ordine dovrebbero assegnarmelo di prima classe!”
Mentre parlavi hai leggermente agitato la pergamena.
“E invece è di seconda,” Mann si è alzato dal divano, finalmente, e si è diretto verso la porta, che tu sei andato ad aprire prontamente - stropicciando ulteriormente la lettera del Ministero.
“Certo che non le sta mai bene niente!” ha continuato.
“Esatto. Solo i deboli lasciano perdere.”
… E gli hai sbattuto la porta in faccia. Già.
Una volta rimasto solo, ti sei andato a sedere tu, sul divano, e hai tentato di stirare il più possibile la pergamena con una mano. L’hai riletta almeno cinque volte. Non che fosse complicata, non che fosse tanto lunga da richiedere estreme attenzioni per non dimenticare nulla, ma insomma… così era stato.
 
Egregio Sig. Severus Piton,
 
Egregio’, sì…
 
Egregio Sig. Severus Piton,
 
il Ministero della Magia è lieto di informarla che, nella data del 27 di giugno corrente anno, è stata deliberata, previa riunione assembleare del Comitato preposto, l’assegnazione alla sua persona dell’Illustre Onorificenza dell’“Ordine di Merlino - Seconda Classe”.
Tale onorificenza viene conferita a Maghi e a Streghe che si sono distinti per “imprese e rischi fuori dal comune”, e, tra i possibili candidati proposti e giunti all’attenzione del Ministero della Magia e, nello specifico, del Comitato per l’Assegnazione dell’Ordine di Merlino, lei è stato riconosciuto meritevole.
Di conseguenza la invitiamo a presentarsi il prossimo 10 di luglio corrente anno, alle ore 12.00, nella “Sala Merlino e Artù” (Ministero della Magia - quinto livello) per la cerimonia ufficiale di cui lei è ospite.
La aspettiamo e le porgiamo anticipatamente le nostre congratulazioni e felicitazioni, nell’attesa di poterle stringere la mano di persona.
Gradito abito scuro.
 
Cordiali saluti,
 
               Comitato per l’Assegnazione                                          Ministero della Magia
                    
dell’Ordine di Merlino                              (Superl.mo Ministro della Magia Kingsley Shacklebolt)
                     
(Il Presidente Albert J. Alfieston)
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Quanto si nota che certe lettere - o inviti che siano - sono precompilati. Beh, perlomeno, riguardo l’abito scuro, non hai mai avuto alcun problema.
E così, più i giorni passavano, monotoni come sempre, più, però, non riuscivi a smettere di pensare all’evento che avevi in programma. Perché, avevi intenzione di andarci. Potevi? Mann aveva detto che, in simili circostanze, sarebbe stato possibile ottenere un permesso straordinario.
Anche se, a dirla tutta, per un po’ hai anche ponderato l’idea di rimanertene a casa. In fondo - almeno hai supposto - non saresti stato l’unico a ricevere l’Ordine di Merlino, durante la cerimonia, no? Anche altri verranno insigniti di questo titolo. Altri… eroi di guerra, sicuramente.
Appunto.
Ma poi ti sei anche detto che, no, non avresti rinunciato, invece.
Ti ricordi quando, dopo aver consegnato Black - Sirius Black - a Caramell, nel 1994, quest’ultimo ti avesse annunciato che forse sarebbe stato in grado di procurarti un Ordine di Merlino. Certo, prima che Black fuggisse cavalcando l’Ippogrifo di Hagrid.
Il punto era, però, che la sensazione di orgoglio che avevi provato all’idea… ti era piaciuta. Non sarebbe stato male provare qualcosa di simile tutt’ora.
… E poi anche quell’idiota di Allock ne ha uno, santa pace…!
Con un Ordine di Merlino a decorare il tuo nome, sarebbe stato come se la tua persona venisse, in qualche modo… socialmente riabilitata in via ufficiale. Non ci avevi pensato, sul momento. Il che ti ha posto tutto sotto una nuova luce.
Con il processo tutti hanno avuto conferma di quale fosse il tuo ruolo durante l’ascesa del Signore Oscuro. E con la sentenza, irrisoria per uno che doveva essere il braccio destro del mago più crudele degli ultimi cinquant’anni, ti hanno fatto capire che ti hanno creduto. Dovevano punirti perché dei crimini li hai commessi comunque, ma, in fondo, hanno capito chi sei veramente. Più o meno. Con i pro e, soprattutto, con tutti i contro del caso.
Ma, nonostante tutto ciò, non ti hanno espressamente detto: ‘Signor Piton, anche lei ha contribuito alla fine dell’oscuro regime e del periodo di paura in cui abbiamo vissuto. Lei ha operato per il bene. Lei è una brava persona’.
Lasciando perdere il ‘brava’, che stona persino nella tua stessa immaginazione… No, non l’hanno detto. Ma consegnarti un Ordine di Merlino… è come se avessero intenzione di farlo, davanti a tutti, inserendoti nel ‘gruppo’ di chi ‘buono’ lo è sempre stato.
Sì, più o meno, più o meno.
E’… singolare, in ogni caso.
Al che hai pensato nuovamente che fosse meglio rifiutare. O farti spedire l’Ordine di Merlino direttamente a casa.
Ma no, invece. Ti piacciono le celebrazioni alla tua persona, se, ovviamente, non vanno a scavare nel personale e sono fini a se stesse. Quindi ci saresti andato. Fine. Per Merlino - per l’appunto.
 I giorni che hanno definito il passaggio da giugno ai primi di luglio sono stati piuttosto… normali. Hai riferito a Mann la tua intenzione di voler partecipare all’evento, così lui si è prodigato a richiedere il permesso per la tua… trasferta. Trasferta suggeritati dal Ministero della Magia stesso, per cui è stato piuttosto semplice, per Mann, ottenere quanto richiesto.
“Il giudice che me l’ha firmato non sa quante storie ha fatto,” ti ha poi detto lui, “Comprensibile. Ma non poteva non firmare, per cui eccolo qua.”
Sì, beh… ‘semplice’ con particolari a parte.
E così è arrivato il 10 di luglio. 1999, per piacere di precisione. Il clima era afoso anche in Inghilterra, e, nonostante fosse mattina, già cominciavi a sentire caldo. Eri in camera quando hai realizzato che, proprio per via della temperatura, i tuoi soliti abiti non erano proprio così indicati. E no, non il maglione babbano, ma i tuoi vestiti da mago, a collo alto. Ma non ti interessava se la stoffa ti avrebbe pizzicato e dato fastidio sul collo; ora che non porti più le bende, non avresti lasciato la cicatrice alla mercé della pubblica curiosità.
Anche se una parte di essa ti risale fin appena sotto la mascella, quindi in parte è comunque visibile.
Forse più in là l’avresti fatto. Forse dopo qualche mese. Non in quel 10 luglio in cui, come hai sentito dire spesso ai Babbani, saresti stato ‘sotto i riflettori’.
Tu e Mann avete raggiunto il Ministero come decine e decine di persone fanno ogni giorno. Essendo lui molto più pratico di te, di quel posto, ti ha condotto lontano dalla gente. Tanto per evitare che, magari, si realizzasse quella piccola percentuale di possibilità che accadesse come quando hai messo piede nell’Atrium il giorno del tuo processo. L’assalto alla tua persona, per farla breve. Siete passati lungo un corridoio laterale, allora, frequentato quasi per nulla. Avete incontrato solo poche, sporadiche persone, ma ti sei accorto benissimo che ti hanno lanciato diverse occhiate, sebbene tentando di nasconderlo – senza successo.
Non hai detto niente. Hai ricambiato quegli sguardi tentando di rendere il tuo il più tagliente possibile.
Poi siete giunti all’ascensore.
Quando le porte si sono aperte, c’era già un uomo, al suo interno, che non è sceso.
Mann ha premuto il pulsante con il numero cinque. Giusto tre livelli di distanza, dunque.
L’ascensore è partito, e il silenzio ha continuato a farla da padrone, sia tra te e Mann che, ovviamente, tra voi stessi e il vostro… terzo incomodo. Sebbene, pensata così, suonasse immensamente male. Costui era un uomo piuttosto robusto e piuttosto anonimo, con molto collo, gli occhiali, e valigetta da lavoro marrone.
Tutto ciò è durato finché non è stato proprio Mann a rompere quello pseudo-idilliaco silenzio.
“Allora…” ha cominciato, prolungando ben più del necessario, a tuo avviso, la durate del suono della lettera ‘o’, come se stesse cominciando una qualsiasi conversazione da pub tra sconosciuti. Anche se non eravate al pub, perlomeno.
“Allora…” ha dunque detto, “… nervoso?”
Tu sei rimasto con lo sguardo sulle porte di ferro a nido d’ape dritte davanti a te. Si vedeva il muro scorrere al di là di esse.
“No,” ti sei limitato a rispondere, sebbene fosse vero fino ad un certo punto.
Ma questo, ovviamente, non l’hai espresso a voce alta.
“Beh, io al posto suo lo sarei,” ha proseguito Mann, grattandosi appena il mento ricoperto di peluria – l’hai notato con la coda dell’occhio.
“Questo perché lei ha un’indole completamente diversa dalla mia,” hai risposto tu.
“E per fortuna.”
Lo sconosciuto-terzo-incomodo si è schiarito appena la gola. Le pareti, oltre le porte di ferro dell’ascensore – che, a dirla tutta, sembrava molto una gabbia – hanno cominciato a rallentare.
Ti sei voltato verso Mann, allora.
“Lei ha l’indole di coloro che io reputo boriosi e presuntuosi,” gli hai detto con tutta calma, cercando di parlare nel modo più mellifluo possibile, “di coloro che si arrabbiano facilmente e che credono di essere nella ragione ogni singola volta. Non che ci sia nulla di… deprecabile, in realtà. Ma lei ha l’indole di chi questa rabbia non riesce a tenerla nascosta, che esplode subito come un qualsiasi fuoco d’artificio tenuto in cantina per fin troppo tempo. Interessante all’inizio, ma, dopo i primi trenta o quaranta secondi, qualsiasi fuoco d’artificio viene a noia.”
L’ascensore si è fermato.
“Sì, abbiamo un’indole diversa,” hai proseguito, ancora, “io sono più serio, più calcolatore, più freddo, più…” le porte dell’ascensore si sono aperte, la voce di donna ha annunciato il raggiungimento del settimo livello. Tu hai ghignato, guardando Mann, ma, con la coda dell’occhio, anche l’altro uomo. “… più vendicativo.”
Il terzo incomodo è uscito fuori dall’ascensore con passo svelto, neanche ce l’avesse avuto sotto le suole delle scarpe, il fuoco d’artificio.
Poi le porte si sono richiuse e l’ascensore è ripartito in tutta tranquillità.
“Lei, Piton, è crudele, lasci che glielo dica.”
“Avevo intuito quale fosse la sua opinione senza che me la dicesse. E concordo. Divertirsi, in questo momento, risulta quanto mai complicato.”
“Cosa devono sentire le mie orecchie… Avrei preferito essere altrove.”
“Peccato che non possa.”
“Invece sì. C’è stato il… rischio che io non fossi qui, oggi.”
“Ha scampato la morte in qualche modo, ieri sera?”
“Cosa… No, non c’entra. È mia moglie, ha raggiunto il tempo limite, per cui…”
“Ah,” hai semplicemente commentato.
“E sarà una femmina, sa?”
“Se non me lo dice lei, io come faccio a saperlo?”
“Beh, avrebbe anche potuto chiedere, invece di sbattermi la porta in faccia in continuazione.”
“Solitamente faccio domande solamente riguardo fatti o avvenimenti a cui sono interessato.”
E’ calato di nuovo il silenzio, a quel punto; ma chi l’avrebbe mai detto. Sì, beh… Anche se non per molto. Di nuovo.
“Comunque sarebbe stato più divertente, per me, rimanendo in argomento, che mia moglie mi avesse chiamato perché in travaglio e che io avessi dovuto correre al San Mungo.”
Tu hai sbuffato, appena incredulo.
“Divertente un travaglio, come no. Ce la vedo proprio, Mann. È solo perché non vuole stare qui.”
Anche il sesto livello viene superato, nel frattempo, senza che l’ascensore si fermi.
“Oh, quanto è perspicace…”
“E’ solo invidioso, lei.”
“Ah! Ma per favore! Figuriamoci!”
Una breve pausa di silenzio, poi Mann ha ripreso a parlare, per l’ennesima volta.
“Ci sarà anche Serena?”
“Chi?” ti è venuto naturale domandare.
Serena. Come ‘chi’?”
“Ah, O’Dampand.”
“Lei fa schifo, con i nomi.”
“… Come faccio a saperlo? Ancora non ho il dono dell’ubiquità, né quello della chiaroveggenza.”
“Ma le scrive mai?”
Lo hai guardato malevolo.
“Non dovrebbe saperlo meglio lei di me?”
“Ah. Giusto.”
L’ascensore ha raggiunto il quinto livello, e, nell’esatto momento in cui avete messo piede fuori di esso, hai subito cominciato a sentire un vociare proveniente da chissà dove. Quanta gente ci sarebbe stata?
“Io farò anche… schifo con i nomi,” hai, allora, detto per concludere quella conversazione, mentre cominciavate a camminare. Ti sei sentito la bocca stranamente secca, “ma le fa schifo con tutto il resto, eh.”
“Ah-ha, bella battuta, questa mi ha fatto ridere.”
 
Quando hai riaperto la porta di casa, entrando assieme a Mann, avevi ancora al collo la medaglia dell’Ordine di Merlino, con tanto di nastro color viola, che indicava la seconda classe.
“Avrebbe potuto anche rimanere per il rinfresco, sa, Piton?”
“E’ la terza volta che me lo ripete, Mann. Sente la disperazione per aver perso un pasto gratuito?”
“Sì! Sì, è tanto strana come cosa?”
Tu hai sbuffato, alzando gli occhi al cielo e sei andato a sederti in poltrona.
“Se ne torni a casa da sua moglie. Potrebbe entrare in travaglio da un momento all’altro, no?”
“Decisamente. A domani, Piton, non scappi durante la notte.”
“Sarebbe una gran tentazione…”
Non hai detto nient’altro, così Mann se n’è andato, chiudendosi la porta di casa alle spalle, mentre tu, dal canto tuo, sei rimasto in poltrona.
Ti sei tolto la medaglia, allora, e l’hai guardata per l’ennesima volta. Era talmente lucida - e lo sarebbe rimasta sempre, grazie alla magia - che ti sembrava di rifletterti in uno specchio dorato.
Alla fine pensavi che sarebbe andata peggio, la cerimonia; fortunatamente non c’era molta gente, quindi il tutto è stato più… indolore… Hai perlopiù ignorato la presenza delle persone che già conoscevi, le uniche interazioni tra voi sono avvenute semplicemente perché erano gli altri ad avvicinarsi a te per salutarti. Saluti e strette di mano imbarazzati; domande sulla tua salute - “Ti trovo bene rispetto al… all’ultima volta che ti ho visto.” - e tuoi consecutivi borbottii.
Ma almeno ora sei di nuovo a casa.
O’Dampand non c’era. Avrà giustamente avuto da fare con il suo nuovo paziente - supponi l’abbiano assegnata altrove. Sempre che sapesse della cerimonia, certo.
Hai smesso di guardare la medaglia, appoggiando la nuca contro lo schienale della poltrona; hai chiuso gli occhi.
È stata l’ennesima, lunga giornata. Adesso vuoi solo scivolare nell’oblio nero e ristoratore.










Angolo Autrice:

Penultimo capitolo, già.

Beh, che dire, rimandiamo la tristezza al prossimo aggiornamento, altrimenti qui ci si deprime troppo!
Innanzitutto mi scuso per il ritardo mostruoso: come se non bastassero il lavoro e gli impegni vari, ci si è messa anche un piccola dose di blocco dello scrittore. Capita, ma spero di essere riuscita a venirne fuori.
Che dire... Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Come avete notato, Ordine di Merlino, oh yeah! :D Beh, mi è parsa una decisione giusta e ragionevole, se Piton fosse rimasto in vita, che gli venisse conferita una simile onoreficienza.

A tal proposito, nel capitolo, avrete notato il logo del "Comitato per l'Assegnazione dell'Ordine di Merlino": ebbene, l'ho fatto io. Nel canon sapete tutti che non esiste nessun Comitato né nessun logo, per cui, che lo rappresenti, quindi... me lo sono inventato di sana pianta. Spero vi piaccia, non sono una grafica e non so niente di disegno o di modificare le immagini, ma mi sento soddisfatta! (Ah, se l'allineamento dei loghi e delle firme e di tutta quella parte della lettera sono sballati... credo purtroppo che dipenda dalla larghezza del video di ogni dispositivo con cui state visualizzando efp. Io ho fatto del mio meglio, ve l'assicuro!)

Altra cosa: tempo fa vi avevo detto che il nome "Serena O'Dampand" esiste per un motivo ben preciso, che dietro il suo nome e cognome vi è uno studio, non sono semplicemente un nome e un cognome scelti a caso.
Finora nessuno ha indovinato perché la cara guaritrice si chiami in quella maniera specifica e non in un'altra... ma so che sarebbe troppo complicato arrivarci, per cui... Lo svelerò nel prossimo - ultimo - capitolo! Tanto per farvi un'idea, c'entrano gli anagrammi e la mitologia greca. Semplice, no? XD

Che altro aggiungere... Vi ringrazio per le belle recensioni che mi avete scritto, io sono sempre qui ad attendere un vostro giudizio. Sapere che ne pensate di tutto questo mi rende veramente contenta! ... Anche perché avrete notato che non mordo.

Come al solito ringrazio il caro dierrevi, che tanto gentilmente mi ha fatto da beta-reader anche per questo capitolo.

Beh, un bacione a tutti quanti e... alla prossima!
A presto (spero),
Iurin

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Capitolo 26
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 
Il rumore dei fuochi d’artificio invadeva l’aria.
Non li guardavi, non ti interessavano; d’altronde ti eri sistemato in un punto del salotto dal quale, anche guardando per sbaglio fuori dalla finestra, non avresti rischiato di catturare con lo sguardo luci luminose che esplodevano in cielo.
Al massimo, se proprio gli occhi, in un momento di disubbidienza, avessero seguito il rumore e i rombi lontani, avrebbero incontrato solo il riverbero colorato contro le tende alla finestra del salotto. E così hanno fatto. Si sono imbattuti nel rosso scarlatto, nel verde brillante, nel luminoso giallo, nel blu elettrico, addirittura.
Ti sono sembrati i colori delle Case di Hogwarts.
Ma poi altre sfumature si sono aggiunte a quelle, e il pensiero è volato via, lontano, raggiungendo gli ultimi secondi di quell’anno appena finito, spariti anch’essi tra la trama di quella cosa chiamata ‘Passato’.
Il duemila, il nuovo millennio. Un evento storico, e tu di eventi storici ne hai vissuti a sufficienza, diversi anche in prima persona.
E tutto, in quel momento, è come se ti avesse detto – sì – che non era solo un semplice nuovo anno, quello che, in quel momento, gli inizi del primo gennaio portava sulla propria scia; era il primo anno del nuovo millennio. Il duemila, un bel due con tre zeri in fila, così candidi, così tondi, senza spigoli e interruzioni. Un anno che finisce con zero ha al suo interno le promesse dell’infinito, uno che ne aveva tre ne portava con sé l’imposizione.
Era come… Era come un sogno. Come una piccola e fastidiosa visione che era venuta a visitarti, entrando dalla tua finestra sulla scia di quelle luci colorate. Come un piccolo e altrettanto seccante Pix, ma immaginario.
Il Tempo. Un ometto con gli occhiali e la tuba, il panciotto e le ghette; i baffi che parevano due lancette per le ore e i minuti; snello, perché il Tempo non riesce a star fermo nello stesso posto per più di un fuggevole secondo, così piccolo e incalcolabile. Difatti saltava, il Tempo. Saltava come un matto, di mattonella in mattonella, si appendeva per un breve istante al lampadario, dondolava. Hai sferrato uno schiaffo alle sue gambe quando è saltato sul bracciolo della tua poltrona, ma sei riuscito a colpire solo l’orlo dei suoi pantaloni.
“Che cosa vuoi?” gli hai chiesto.
“Son più vecchio, son più vecchio!”
“Chiunque è sempre più vecchio, ogni secondo di più. Tu più di chiunque altro.”
“Ho ventun’anni, sono appena diventato maggiorenne negli Stati Uniti d’America. Oh, non è estremamente divertente questa faccenda?”
“Anni?”
Il Tempo si è messo a ridere.
“Un mio anno è un millennio, mi sentirei troppo vecchio davvero, a contarli tutti uno per uno. E non ho neanche i capelli bianchi, non è un po’ un controsenso?”
E’ saltato sul divano, e tu ti sei limitato ad osservarlo, perplesso. Stranamente, i cuscini non si sono scomposti affatto.
“Che cosa vuoi?” hai chiesto.
“Darti il benvenuto,” ti ha risposto l’ometto saltellante, “tu cominci come comincio io, come questo anno nuovo.”
A forza di seguirlo nei suoi continui movimenti, hanno cominciato a farti male gli occhi.
“Io non comincio. Ho quarant’anni, sai? Fra poco più di una settimana. Vado verso il declino. A quanto pare, sono più vecchio di te.”
“Ma il mio tempo non è uguale al tuo, io sono il mio stesso tempo!”
Un salto a destra, uno a sinistra.
“Non posso stare fermo,” ha continuato, “prima sono in un punto, poi in un altro, ed ogni secondo è anche un nuovo inizio. Tutto è sempre nuovo. Tutto sempre ricomincia!”
“Nuovo? Vai così veloce che sarai stato negli stessi luoghi milioni di volte. Nulla di nuovo, per te.”
“Persino questa tua casa ogni momento è sempre nuova, ogni mattonella diversa da quando l’ho visitata giusto dieci secondi fa. Tutto scorre – Panta rei!
“Non è più tempo per gli inizi,” hai sentenziato.
“A me vieni a dire per cosa è tempo e cosa no? Sono io che decido, in queste faccende.”
Tu decidi?” hai ridacchiato, non potendone fare a meno. “Ognuno è padrone delle proprie azioni.”
“Ma il tempo! Se non c’è tempo per mettere in atto le tue azioni, l’importanza stessa delle tue azioni non può che svanire nell’aria.”
“Il mio tempo è già stato tempo fa.”
“‘Tempo fa’ è passato, e il passato neanche io lo colgo più. Passato è Passato, ed è un ombra che mi segue e mai mi raggiunge. Fastidiosa. Con il fiato sul collo. Anche se a volte ci piace giocare al gioco dei mimi. Passato è dietro le spalle. ‘Tempo fa’ non va bene, io direi ‘Tempo ora’,” ha fatto una piccola pausa, a questo punto, e ti si è fermato, con le gambe piegate e sulle punte dei piedi, direttamente sulle tue ginocchia. “Il tuo ‘Tempo fa’ continua con il tuo ‘Tempo ora’, perché, se, dopotutto, Passato ti piace, puoi riprenderlo e continuare da lì, proprio dove ti sta aspettando.”
“E dove? Dov’è che mi aspetta?”
“In Scozia.”
 
La tua dispensa è sempre la solita dispensa di sempre, il solito angusto sgabuzzino, la solita… stanzetta claustrofobica.
Ti piace.
Te ne avevano offerta una più grande, ma tu hai rifiutato, sebbene potesse rappresentare un piccolo dono che il corpo docenti aveva deciso all’unanimità di assegnarti.
Non fa nulla, tu, sul momento, hai di gran lunga preferito il buco che avevi sempre avuto. Se al Passato devi riagganciarti, allora il Passato deve essere così come l’avevi lasciato.
O quasi.
Forse è anche per questo stesso motivo che hai rifiutato la cattedra di Difesa contro le Arti Oscure, rispondendo con un:
“Vorrei tornare a insegnare Pozioni. Se per te va bene, Minerva.”
Perché il Passato a cui vuoi riagganciarti non è quello in cui eri apparentemente servo del Signore Oscuro, no; vuoi tornare a qualche mese prima, a quando i tuoi studenti ti odiavano solo perché eri un professore fin troppo severo, a quando Albus era ancora vivo.
Sali la solita scaletta nella tua solita dispensa. Poggiati a terra, sotto di te, ci sono barattoli, scatole e boccette che hai appena acquistato o preparato, pozioni, antidoti di precauzione, gli ingredienti più vari, miscele ancora calde del fuoco del calderone.
Ti tieni alla scaletta con una mano, mentre con l’altra, agitando piano la bacchetta, con delicatezza, lanci alcuni ‘Wingardium Leviosa’ non verbali per far salire verso l’alto tutti quegli oggetti in modo da poterli sistemare sulle mensole più lontane. Senza rompere niente, senza far danno.
Metti al suo posto una piccola scatola di Pelle di Girilacco – troppi ricordi nefasti, quell’ingrediente – e ti gratti la stoffa nera della veste, all’altezza del collo. La cicatrice ti prude sempre un po’, supponi che, così come rimarrà per sempre visibile sul tuo collo e su parte della mascella e del petto, così non smetterà di farsi sentire anche tramite dello stupido e fastidioso prurito.
Ma sai che sarebbe potuta andare peggio, per cui ti gratti e basta, senza fare troppe storie. Non ne vale la pena.
Poi continui a mettere a posto. Potresti startene rintanato lì per giorni, appeso alla scaletta lunga e stretta, e non sentiresti la fatica, ne sei certo. Hogwarts è come un flusso di adrenalina continua, che non fa sentire il dolore.
Ti sei davvero sorpreso, quando, nella tarda mattinata di un giorno di fine luglio del 2000, hai ricevuto una lettera da parte della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. La scuola aveva aperto già da un anno – l’avevi saputo sia da Mann che dai giornali, letti ogni tanto e di sfuggita – con una grande e maestosa festa ad annunciare la fine dei lavori di ricostruzione. I docenti scelti per riprendere gli insegnamenti erano gli stessi di quando occupavi il posto di Preside. Cattedre dei Carrow a parte: la nuova docente di Babbanologia non la conoscevi, e alla cattedra di Difesa hanno messo, stranamente, Aberforth Silente.
Ma forse è stato anche giusto così.
Per cui… Ah, la sorpresa, già. La sorpresa di quella lettera proveniente dalla Scuola, firmata non solo da Minerva – nuova Preside di Hogwarts – ma da tutti i tuoi ex colleghi.
Ti offrivano la cattedra a cui avevi sempre ambito e dietro la quale ti sei seduto solo per un annetto scarso.
Che avessero saputo che, giusto tre mesi prima, i tuoi arresti domiciliari si erano conclusi e che tu potevi considerarti di nuovo un uomo libero? Possibile, certo. Due conti li sanno fare tutti.
Ti convocavano per una riunione da tenersi di lì ad una settimana, in modo da fare il punto, ed è stato lì che hai rifiutato. Però, sei tornato ad essere il Maestro di Pozioni di Hogwarts.
Il fatto che Lumacorno abbia voluto tornarsene alla sua riposante pensione deve aver aiutato… in qualche maniera.
Non puoi descrivere la sensazione. Dovresti usare una quantità troppo elevata di parole, esprimere troppi concetti tutti così simili che poi finirebbero per risultare noiosi. In poche parole: ti sei sentito bene.
… Oh, sì, la reclusione forzata era finita. Hai potuto salutare Mann lo stesso giorno in cui ti ha portato al Ministero della Magia per farti firmare una serie di pergamene – tanto per attestare che sì, è vero, hai scontato per intero la tua giusta punizione.
Prima di stringerti la mano, forse per la prima  e ultima volta, ti ha per forza voluto mostrare una fotografia di sua figlia, cosa che gli avevi sempre impedito di fare, un po’ per principio, un po’ per disinteresse, un po’ per pura e semplice antipatia.
Sulla fotografia che hai preso in mano sorrideva una sdentata bambina bionda con i capelli ancora troppo corti per poterli acconciare come si deve.
“Si chiama Lena,” ci ha tenuto a dirti Mann.
“Lena Mann, quale orribile condanna,” gli hai risposto, mentre gli riconsegnavi la fotografia, “Non sembra neanche troppo orrenda.”
Forse detta sorridendo sarebbe sembrata una battuta, ma tu non hai sorriso. Mann, ovviamente, non si è lasciato abbattere. Supponi che ormai ci avesse… fatto il callo, come dicono alcuni.
“Quando Lena sarà abbastanza grande da capire, le dirò che le ha fatto un complimento.”
“Non le ho fatto un complimento.”
“Ha detto che esistono bambini più orrendi di lei. Detto da lei, potrebbe sul serio essere quasi un complimento.”
“Il ‘quasi’ rende tutto più sopportabile.”
Per cui vi siete stretti la mano destra. Hai chiuso la porta, per una volta senza sbattergliela in faccia.
La mano destra, già. Dettaglio di non poco rilievo. Come il fatto che tu, ora, ad Hogwarts, nella tua dispensa, stia sistemando i tuoi effetti utilizzando entrambe le mani.
Come sembrano naturali, certi gesti…
Come sembrano scontati…
Come sembrano innocenti, innocui, privi di significato…
Come passano inosservati ai più…
Come nascondano, invece, mesi e mesi di travaglio.
Non hai smesso di prendere la pozione giornaliera, quella che – come aveva scoperto il professor Sherman – riusciva a tenere ‘addormentate’ le… particelle – o qualsiasi cosa fossero – del veleno di Nagini, sempre in circolo all’interno del tuo corpo, a braccetto con i tuoi stessi globuli rossi. Non se ne andranno mai. Per cui non dovrai mai smettere di prendere la pozione ‘miracolosa’, così come ogni quattro mesi dovrai andare al San Mungo per delle visite di controllo.
Gli inconvenienti di essere un sopravvissuto di una guerra. Magica, per di più.
Tutto ciò te l’ha detto lo stesso Sherman in uno dei vostri ultimi incontri, sempre spalleggiato dal suo fedelissimo Witherington.
“Forse lei non è il pessimo Medimago che credevo,” ti sei sbilanciato a dirgli.
Sherman si è messo a ridere, facendo vibrare i capelli e alzando verso l’alto le sopracciglia cespugliose.
“Un professionista è sempre contento di sentire parole come queste.”
Tu hai annuito.
“E per me non ha nulla?” Si è intromesso Witherington, a questo punto, neanche il tempo di farti smettere di muovere la testa.
“… Un lecca-lecca, se vuole,” è stata la tua risposta, e, quando hai ghignato, il ragazzotto ti ha guardato male.
Ah, i cari bei vecchi tempi.
Nel frattempo scendi dalla scaletta, dopo aver messo tutto al suo posto. Tuo nonno ti aveva detto, una volta, quando ancora non avevi neanche manifestato nessun potere magico, che ‘c’è un posto per ogni cosa e ogni cosa ha il suo posto’. Inconsapevolmente hai adottato tale regola, anche se poi tuo nonno non l’hai più visto in vita tua, per via del suo disgusto per te.
Ma questi sono altri discorsi, e ora, mentre richiudi la porta della dispensa, ritrovandoti nel familiare corridoio di Hogwarts, non è affatto il momento di far andare la mente così lontano.
È ora di pranzo, dopotutto: meglio concentrarsi sul tuo stomaco che, sicuramente, da qui a dieci minuti prenderà a brontolare.
È la fine di agosto, quindi. Hai già portato le tue valigie già nei sotterranei, prima di sera saresti partito nuovamente alla volta di Spinner’s End, per poi tornare al castello direttamente il primo di settembre, nel pomeriggio, per prepararti al banchetto di inizio anno.
Entrare nei sotterranei e in quelli che erano stati per quasi vent’anni il tuo ufficio, la tua aula e le tue stanze private… è stato un toccasana. Magari saranno comunque assegnate a te per altri vent’anni. Speri di più. Se proprio devi morire – e prima o poi morirai, probabilmente anche prima di un mago qualunque, vista la situazione – speri accadrà lì dentro.
Sarebbe anche un bel saluto nei confronti dei tuoi studenti: scioccandoli per un’ultima volta.
Fatto sta che l’odore di stantio e di chiuso, persino l’odore di polvere, l’odore di buio, l’odore del legno dei tavoli e del metallo dei calderoni… Hai voluto respirarlo a pieni polmoni, prima di andartene nella tua stanza e disfare le valigie. Almeno, una volta tornato il primo settembre, sarebbe stato già tutto al suo posto.
‘C’è un posto per ogni cosa e ogni cosa ha il suo posto’. Già. Un chiodo fisso, quel giorno.
Comunque, mentre ti dirigi verso la Sala Grande per il pranzo, ti rendi conto che prima dovresti passare nell’ufficio di Minerva – la Presidenza – per consegnarle le chiavi della dispensa, come è giusto che sia. Non puoi di certo portartele a Spinner’s End. Hai appena finito di scontare la tua condanna, non ci tieni ad essere accusato di furto o appropriazione indebita. O come diavolo si dica nel gergo più indicato.
Ti fermi di fronte al Gargoyle di pietra che conduce alle scale per la Presidenza. Sempre quello stesso Gargoyle, sempre lì di sentinella. Neanche la guerra ha potuto toglierlo dal suo posto.
“Silente,” dici, e la statua si sposta immediatamente.
La stessa parola d’ordine che hai usato durante l’anno in cui sei stato tu a ricoprire il ruolo di Preside. È… divertente. Ti fa quasi sorridere.
Quasi.
Stai proprio per salire quando, invece, è qualcun altro a scendere. Anzi, qualcun’altra, ma non si tratta di Minerva McGranitt. Una donna più o meno di mezza età, supponi, con gli occhi azzurri e i capelli castani, raccolti in quella che sembra essere una lunga treccia. È vestita addirittura con un tailleur. Quando ti scorge, rimane per un momento impietrita, tanto che potrebbe essere scambiata per una… collega del Gargoyle lì accanto.
Poi però è costretta a muoversi, quantomeno per farti passare. Infatti questo fa: si muove; però è per tenderti la mano.
“Non pensavo di incontrarla,” ti dice con una voce che vorrebbe sembrare il più sicura possibile, “sono… Amanda Little, l’insegnante di Trasfigurazione.”
“Ah,” rispondi, stringendole la mano – dovrebbe avere una presa più salda di quella che attualmente ha, “Severus Piton, Pozioni.”
Anche se forse lo sa già, chi sei. Pazienza.
“Piacere,” aggiunge lei.
Vedremo.
Questo è tutto. La signora Little se ne va e tu puoi finalmente andare a consegnare quelle benedette chiavi a Minerva. Bussi e la distinguibile voce di Minerva non può che dire ‘Avanti’.
Non appena apri la porta, però, ti accorgi che c’è un’altra donna nell’ufficio. Si erano per caso date tutte appuntamento lì? Che diamine era, una festa? Comunque. Un’altra donna, e di sicuro la conosci di più della Little appena incontrata.
“Ciao, Poppy,” la saluti.
Madama Chips si trova in piedi ad un lato della scrivania, Minerva in piedi accanto a lei. Supponi si stessero dirigendo anche loro in Sala Grande, dopo l’uscita dalla stanza della Little – qualsiasi fosse il motivo per cui si trovasse lì – prima che tu bussassi.
“Ciao, Severus,” è la sua risposta. “Come stai? Tutto bene?”
‘Bene’ è una parola fin troppo sottovalutata. E usata in maniera fin troppo superficiale.
“Bene,” dici, però. Di certo non ti va di metterti a fare… discorsi filosofici o altro, “sono stato al San Mungo la settimana scorsa.”
“E per il resto?”
“Bene anche lì.”
Fin troppo sottovalutata, già.
“Hai bisogno di qualcosa di particolare?” ti chiede, invece, la Preside McGranitt, giustamente intromettendosi nel discorso.
Ti infili la mano nella tasca destra ed estrai le famose chiavi.
“Ti devo lasciare queste, sono della dispensa.”
“Ah, giusto. Me ne stavo quasi dimenticando.”
“Ahi. La Preside già dimentica qualcosa? Non oso pensare cosa accadrà durante l’anno scolastico.”
“Taci, Severus, o ti licenzio. Adesso ho questo potere, sai?” Minerva ha incurvato le sue labbra rugose verso l’alto.
“Questo è un colpo basso.”
“Ce ne saranno molti, suppongo, quest’anno; facci l’abitudine.”
È Madama Chips ad inserirsi nel discorso, ora:
“Peccato non poter più assistere. Sarebbe divertente, immagino!”
L’hai guardata, inarcando appena un sopracciglio. Non hai bisogno di chiedere, la diretta interessata afferra… ‘al volo’ la tua domanda.
“Oh, sì. Vado in pensione,” ti spiega lei. “Avevo fatto domanda e Minerva mi ha appena detto che le è possibile accoglierla.” Poppy ha guardato la Preside ed entrambe hanno sorriso l’un l’altra. “Largo ai giovani, come si dice.”
“Largo ai primati, dico io,” commenti.
“Chi l’avrebbe mai detto, mh?” Minerva commenta il tuo commento.
Poppy, dal canto suo, si fa semplicemente una piccola risata, prima di parlare nuovamente:
“Sono sicura che non troverai problemi con chi mi sostituirà.”
“Lo spero. Ti auguro buon riposo, ma non vorrei grattacapi anche per quanto riguarda preparare le pozioni di cui necessita l’infermeria.”
“Oh, Hogwarts mantiene i suoi alti standard, per quanto riguarda il corpo docenti e non. Dico bene, Minerva?”
Minerva annuisce, andando poi ad aprire la porta.
“Ti abbiamo richiamato, no, Severus?” dice. “Se non è una prova di quanto dice Poppy, ne è perlomeno un indizio.”
Andate tutti e tre a pranzo, continuando a parlare del più e del meno lungo la strada. Dalla tua bocca escono meno commenti negativi del solito.
 
È il primo settembre, verso sera, ti trovi nella tua camera da letto, a Hogwarts, nei sotterranei. Sei davanti allo specchio, e stai giusto finendo di sistemarti il mantello sulle spalle. Alzi il braccio destro con una lieve smorfia, cercando di far scorrere meglio la stoffa nera su di te, in modo da calzare l’indumento come si deve. Una piccola sistemata ancora e sei pronto.
Incontri alcuni dei tuoi colleghi lungo le scale, tra cui Sibilla – è ancora qui, già – nonché Silente, e con loro raggiungi la Sala Grande per il banchetto di inizio anno. Sai che gli studenti sono già arrivati – tutti a parte quelli del primo anno – e che sono già seduti tutti alle loro tavolate.
Tu cammini, senza fare rumore.
Dietro la porta laterale che si apre direttamente sulla tavolata destinata ai docenti sono già ammassate altre persone, tutti insegnanti o, comunque, del personale scolastico. Ancora però nessuno apre la porta, rimanete tutti lì dietro, e siete parecchi. Riesci a scorgere giusto qualche testa castana, bianca, bionda o calva, ma non a chi appartengono.
Sembrate pecore dentro un recinto, in attesa del pastore.
Cominci a sbuffare.
Però il pastore arriva nella figura di Minerva McGranitt.
“Ci siamo tutti?”
Sì, sei tu che sei la ritardataria,’ avresti voluto rispondere. Minerva si è posta a capo della fila e ha aperto la porta, entrando in Sala Grande. Voi l’avete seguita camminando più o meno in fila indiana.
Gli studenti, che prima avresti potuto udire parlottare, ora fanno silenzio. Sei sollevato di entrare in gruppo, e non da solo. Ma, in tutto ciò, mantieni perlopiù lo sguardo basso, o dritto di fronte a te, sulla nuca di Pomona, che ti cammina davanti. Non ci tieni a guardarti intorno, neanche fossi un bambino di undici anni che non ha mai visto la sala in cui ti trovi. Durante la cena avrai tutto il tempo del mondo per osservare la massa degli studenti che hai di fronte. Nonché avrai la possibilità di sentirti osservato più di quanto preferiresti.
Vi sedete tutti, sistemandovi, e, prima che abbiate il tempo anche solo di pensare alcunché, le porte principali della Sala Grande si spalancano, introducendo la solita massa di bambini capeggiati da un sempre minuto Filius Vitious, mentre un sempre mastodontico Hagrid è appena entrato dalla porta laterale per sistemarsi anche lui al tavolo dei docenti.
Sì, Vitious. Essendo Minerva diventata Preside, la carica di vicepreside è andata a lui, per cui sarà l’insegnante di Incantesimi ad occuparsi dello Smistamento.
Interessante e divertente come, di fronte a te, non vi sia solamente il consunto sgabello con sopra l’altrettanto consunto e sempiterno Cappello Parlante, ma anche un altro sgabello, lievemente più basso, destinato sicuramente allo stesso Vitious.
… Oh, ti viene giusto adesso in mente: Minerva ora non può più ricoprire la carica di Capo Casa Grifondoro. Devi assolutamente informarti su chi sia il suo successore. Non puoi rinunciare ai tuoi soliti commenti durante le future partite di Quidditch, e quale bersaglio più… perfetto potresti trovare, se non quel Capo Casa?
“Benvenuti ufficialmente ad Hogwarts,” è la prima cosa che dice Filius, una volta raggiunta la sua postazione.
Sì, la sua postazione consiste in quel secondo sgabello. Sì, è divertente.
“Prima di lasciare la parola alla nostra Preside,” continua lui, voltandosi appena proprio verso Minerva, “procederemo con la cerimonia dello Smistamento. Io poserò il Cappello Parlante sopra la vostra testa e voi verrete Smistati in una delle quattro Case di Hogwarts, che già, immagino, conosciate di fama: Grifondoro, Corvonero, Tassorosso, Serpeverde.” Una piccola pausa, tanto per riprendere fiato. “Bene, mi sembra di aver detto tutto. Ah, ovviamente, una volta Smistati, andate a sedervi alla tavolata giusta! Vediamo chi è il primo… Abbing Alice, prego, tocca a te!”
Lo Smistamento dura una buona mezz’ora. Il tuo stomaco non ne è propriamente contento.
Quando tutti i ragazzini, finalmente, si sono uniti alla tavolata che spetta loro, rimpolpando i ranghi di ciascuna delle quattro Case, i due sgabelli e il Cappello Parlante vengono messi via e Filius si siede al suo posto. Minerva, invece, si alza in piedi, andando al leggio riservato al – o alla, come in questo caso – Preside, quello stesso posto occupato da Albus per almeno cinquant’anni (tiri a indovinare) e da te solo per uno, pronta a pronunciare le parole di benvenuto, come di consueto. Speri durerà poco.
“Ragazzi e ragazze,” comincia, allora, “buonasera. Benvenuti ad un nuovo anno scolastico alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Se lo scorso anno eravamo… entusiasti di poter annunciare la riapertura della scuola, quest’anno siamo tutti più che contenti di constatare che il castello sia ancora tutto qui. Evidentemente i nostri… carpentieri hanno davvero saputo portare a termine il loro compito.”
Dalla massa di primati si alza qualche risatina. Da quando Minerva fa battute?
“Ma veniamo a noi,” riprende lei, “c’è stata qualche piccola variante, nel nostro corpo docenti. Nulla di grave o di stupefacente, al contrario: voglio che da questo momento in poi, per i mesi che verranno, il vostro comportamento sia esemplare, qualsiasi sia l’insegnante che vi si pari di fronte. Patti chiari, amicizia lunga, signorine e signori.”
Non ha fatto nomi. Ma sai di averci a che fare. La ringrazi mentalmente.
“Sono solo due le questioni di cui rendervi partecipi. Prima cosa: il professor Lumacorno è andato in pensione questa estate. La sua cattedra è stata affidata al professor Severus Piton, di ritorno dopo essersi preso un paio di… anni sabbatici. I più grandi di voi lo conosceranno sicuramente di già.”
Ti aspettavi qualche mormorio, quelli a cui sei sempre stato abituato, i bisbigli, le frasi sussurrate all’orecchio. Invece, sul momento, c’è un vero e proprio silenzio tombale. I fantasmi di Hogwarts, agli angoli della Sala Grande, sembrano più vivi di quei ragazzini seduti a fissarti.
Poi, però, comincia l’applauso. Quello di circostanza, quello che viene fatto a tutti i… nuovi arrivati, quello che dura tre secondi scarsi.
Eppure, raggiunti i quindici secondi, stanno ancora applaudendo, e tu guardi la schiena di Minerva con cipiglio interrogativo. Lei è costretta ad alzare la mano per far tacere tutti.
“Bene. Il secondo punto riguarda un altro nostro neo-pensionato. Madama Chips è andata anche lei a godersi il meritato riposo,” si ode qualche piccolo e incontenibile, evidentemente, ‘oooh’, “al suo posto vi presento la nostra nuova infermiera: ha lavorato al San Mungo fino a poco tempo fa, ed è molto qualificata. La signorina Serena O’Dampand si occuperà di tutti voi, doveste mai cacciarvi nei guai. Cosa che mi auguro per voi non accada.”
Perfetto. I due punti sono stati esposti, ora il saluto, Minerva avrebbe dato il via al banchetto e quindi sareb— Un momento.
Cosa?
Mentre il piccolo applauso di benvenuto è ancora in corso tu non puoi fare altro che agire di istinto: ti pieghi in avanti, quasi a toccare il tavolo con il petto, in una posizione del tutto scomposta e poco professionale e sicuramente non molto autoritaria, ma… O’Dampand?
Nel marasma generale, non l’avevi vista. Ma è veramente lei o si tratta di un caso di omonimia?
No, è lei: la scorgi, da quella posizione, con un piccolo sorriso imbarazzato, gli occhi rivolti alla Sala Grande.
Ti rimetti dritto.
Perché non ti ha detto che sarebbe venuta a lavorare ad Hogwarts? Lei lo sapeva che ci saresti stato anche tu? Perché non ti ha scritto? E quando Minerva ha fatto il tuo nome, anche lei si è chinata in avanti per provare a guardarti? Come diavolo ha fatto a non sapere che avresti lavorato lì? I tuoi stessi colleghi supponi ne abbiano parlato per giorni! Che sia arrivata a Hogwarts il giorno stesso?
Salazar. Il mal di testa.
Ti è passato l’appetito, e neanche ascolti le ultime parole di Minerva, la vedi semplicemente sedersi al suo posto, accorgendoti in ritardo che i vassoi vuoti si sono già riempiti di cibo, come sempre.
Non puoi risolvere la questione ora, non puoi alzarti e andare a scambiare quattro chiacchiere con O’Dampand come se nulla fosse, e neanche lei può. Cioè… Credi, almeno, che non possa. Ma d’altronde è ora di cena, non sta bene gironzolare ovunque con il cibo già nei piatti.
… Che diavolo stai dicendo, si può sapere?
No. Dopo cena. Dopo cena la situazione sarà più tranquilla.
 
Quando il banchetto si conclude, dunque, aspetti che tutti gli studenti escano dalla Sala Grande per dirigersi nei loro dormitori. Attendi che anche voialtri vi ritroviate in corridoio, vi diate la buonanotte e che vi dirigiate ognuno verso la propria stanza. Beh, non tutti. Più o meno.
Oh, e O’Dampand, a questo punto, non può non accorgersi di te; ti guarda fissa finché non incroci il suo sguardo. Tu inarchi un sopracciglio, pensando a tutte le domande che ti sei già posto da solo durante la cena; lei, invece, ti fa un piccolo sorriso.
Ed è naturale, allora, che, una volta che tutti se ne sono andati per la loro strada, tu e lei rimaniate soli, in mezzo al corridoio, uno di fronte all’altra.
C’è un momento di silenzio.
Lei è vestita in maniera più elegante, rispetto a come la ricordavi. Sempre con dei pantaloni, ovviamente, ma più ricercati, potresti dire. E i capelli biondi sono sciolti, ora. Supponi sia per fare una più bella impressione a tutti gli altri.
“O’Dampand.”
“Signor Piton.”
Dite insieme, e le vostre voci si sovrappongono. Lei rimane in silenzio, facendoti segno di proseguire.
“Non mi aspettavo di trovarla qui,” dici.
“Se è per questo, neanche io mi aspettavo di trovare lei, qui.”
“Perché non me l’ha detto? Dal momento che ha saputo che avrebbe lavorato qui, avrebbe potuto scrivermi.”
“Perché?”
Inarchi nuovamente il sopracciglio.
“Come ‘perché’, O’Dampand? Che domanda è?”
“Beh, gliel’ho appena detto, no? Non lo sapevo che sarebbe tornato a insegnare. Perché avrei dovuto dirglielo?”
Perché… Perché Hogwarts è casa tua, sei più legato a questo luogo che a qualunque altro. È per questo.
Ma lei come può arrivarci, d’altronde?
“Lasci perdere, non fa niente,” finisci per rispondere.
“E’ stata una vera sorpresa, per me, essere assunta. Sa, avevo fatto domanda così… giusto per provare. Sapevo che sarebbe stato difficile. All’inizio la Preside aveva rifiutato la mia candidatura, infatti, ma poi la precedente infermiera della scuola…”
“Madama Chips,” puntualizzi.
“… Sì, Madama Chips… è andata in pensione. E allora la Preside McGranitt mi ha mandato un gufo.”
La guardi e, prima di parlare, ti umetti appena le labbra:
“Quindi ha lasciato il San Mungo.”
“Già. Avevo voglia di… cambiare aria,” dopodiché fa una breve pausa, prima di riprendere a parlare, “Ma lei, invece? Perché non mi dice niente?”
“… Prego?”
“Sì! Ho notato che ci sono stati… positivi cambiamenti.”
Ah, già… quelli. Hai ricominciato a muovere il braccio destro. Ma non tutto: le ultime due dita della mano rimangono rigide, e lo stesso braccio non puoi più alzarlo come prima: la spalla riesce a muoversi solo in parte. Sherman ti ha detto che quasi sicuramente la situazione, oramai, rimarrà così per sempre.
Ed è proprio questo che spieghi a O’Dampand.
“… Ma va bene così. Sto imparando ad… adattarmi, diciamo,” concludi.
“E per la preparazione delle pozioni? Lì…”
“No. I movimenti da compiere non sono esagerati. È fattibile.”
O’Dampand si lascia andare ad un piccolo sorriso.
“Bene. Sono contenta per lei. E comunque, allora, adesso posso cominciare a chiamarla ‘professor Piton’.”
Incurvi a tua volta un angolo delle labbra.
“Esatto. Non se lo dimentichi. O mi arrabbierò.”
“Ehi, non sono mica una sua studentessa.”
“Dettagli.”
La guardi negli occhi, in quegli occhi che, seppur verdi, sono così diversi da quelli di Lily. Sono meno belli, l’hai sempre pensato. Ma ora vedi che sono comunque belli, anche se a modo loro, dissimili dalla perfezione, ma veri anche loro.
“Allora le auguro la buonanotte, O’Dampand,” le dici, tendendole poi la mano destra.
Lei ti stringe la mano con la sua, scuotendola appena.
“Magari prima o poi potrebbe chiamarmi Serena…?”
“Prima o poi. Forse,” ribatti, “Ci vediamo sicuramente domani.”
“E dopodomani,” risponde, “e il giorno dopo, quello dopo ancora, e quello dopo quello--”
O’Dampand. Ho capito.”
Lei si mette a ridere nel suo modo più caratteristico.
Le risate di scherno che, per tutto l’ultimo periodo, il giullare della vita ti ha riservato ci sono ancora, ma ora sembrano quasi un’eco.
E Hogwarts, tutta ad un tratto, è diventata ancora più accogliente.







 
Fine








 
Angolo Autrice:

Barrare la casella accanto all'opzione "Completa?", prima di aggiornare, è stato un misto tra una sorta di soddisfazione e un colpo al cuore.
Siamo giunti alla fine, "Convalescenza" ha visto la sua conclusione, così come si è conclusa la vera e propria convalescenza di Piton.
E' stato un percorso, in fondo: l'arrivo e la stabilizzazione della malattia di Piton di pari passo all'evoluzione psicologica del professore, all'accettamento della nuova vita che, in questa what-if?, ha di fronte. Una vita non troppo diversa da quella che ha sempre avuto, ma più leggera, più sua.
Spero di aver fatto un buon lavoro.
E spero che vi siate emozionati e divertiti a leggere queste pagine, così come mi sono emozionata e divertita io nello scriverle. Ehi, sapete che avete praticamente letto una storia lunga quanto un vero e proprio romanzo? Sebbene in tempi molto più lunghi. "Convalescenza" ha visto il suo prologo nel 2013 e... sono sul serio passati due anni? Davvero? Mi sembra ieri. E' proprio vero che, per i genitori, i propri bimbi rimangono sempre uguali.

Ringrazio dal profondo delle mie viscere (:P),
dierrevi, beta-reader attento e puntuale, bacchettone al punto giusto, che mi ha insegnato tante cose, come a non complicare troppo i periodi, a usare punteggiatura giusta nei discorsi diretti... GRAZIE. A quest'ora sarei ancora a caro amico, grazie per avermi sopportata.

Veniamo al capitolo in sé, invece: nel testo avrete trovato il piccolo motto "C'è un posto per ogni cosa e ogni cosa ha il suo posto". Lo diceva il mio bisnonno, difatti mio nonno e il mio prozio sono diventati i più precisi del mondo, nel mettere a posto le cose. Inserirlo mi è sembrata una cosa carina.

E ora mi preme apporondire un altro piccolo punto, di cui non vedevo l'ora di parlare: il nome! Serena O'Dampand!
Mi prenderete per pazza, lo so, ma tant'è.
Avete presente che "Severus Snape" è l'anagramma di "Perseus Evans", un po' a sottolineare il legame con Lily?
Allora io cosa ho fatto? Sebbene tra Serena e Piton non ci sia OVVIAMENTE lo stesso rapporto che esiste tra Piton e Lily, ho considerato il fatto che, in qualche modo, la "controparte" femminile di Perseo, nella mitologia greca, è Andromeda.
Andromeda.
Le ho dato un cognome in base al ragionamento di cui prima:
Andromeda Snape.
Ho fatto l'anagramma:
Andromeda Snape --> Serena O'Dampand.
... Bello e pazzo allo stesso tempo, vero? :)

E ora, anche se è brutto dirlo, non ho altro da aggiungere.
Vi ringrazio di cuore per tutto quanto, spero mi facciate sapere cosa ne pensate dell'epilogo e, se vi scappa tempo, della storia in sé; mi farebbe veramente tanto piacere :) Da autrice, le impressioni di chi si ha intorno sono sempre utili e piacevoli, nella buona e nella cattiva sorte!

Ci si becca in giro!
Un abbraccio,
Iurin

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