“I soldati hanno più da temere il loro capo che il nemico.”, Michel de Montaigne

Il Tenente Riza Hawkeye dell’esercito di Amestris era stato ben addestrato. Una dei primi tra gli allievi dell’Accademia, senza alcun dubbio uno dei dieci migliori cecchini dello Stato. Discreta ed efficiente. Con un’ottima capacità di mantenere la calma nelle situazioni più critiche.

In sintesi un ottimo soldato, sempre ligio ai doveri e ben disposta nei confronti degli ordini dei superiori.

Inoltre Riza Hawkeye non temeva il dolore fisico o la morte. Quando aveva deciso di indossare la divisa aveva messo in previsione che potesse accadere di rimanere ferita oppure cadere sotto il fuoco nemico. Si era quasi rassegnata all’idea che sarebbe morta sul campo di battaglia, anziché quasi centenaria, nel suo letto, circondata da nipoti e bisnipoti piangenti. Anzi, dopo l’esperienza di Ishval, era praticamente diventata una certezza.

Per questi e molti altri motivi il Tenente era ritenuto uno degli individui più appetibili a diventare assistente personale dei pezzi grossi dell’esercito. Certo, mai si sarebbe aspettata che il primo ad allungare la mano per assicurarsela al suo fianco sarebbe stato il Colonnello Roy Mustang, ma tale decisione non le era affatto dispiaciuta.

Lui aveva bisogno di una persona con sangue freddo, che sapeva gli avrebbe dato la sua più cieca lealtà nella sua ardua scalata al potere. Una persona che, apparentemente, era senza paura.

In realtà la sua subordinata possedeva un’unica importante paura, che ben celava (nella maggior parte delle situazioni) ed il Colonnello non sapeva di esserne il fautore. Aveva fatto tutto lui, in quel giorno in cui l’aveva convocata nel suo ufficio per assegnarle il nuovo incarico. Le aveva dato l’autorizzazione a compiere un gesto che mai lei avrebbe potuto anche solo immaginare. Ucciderlo.

Essendo appunto stata ben addestrata, non aveva esitato un solo secondo a rispondere affermativamente all’ordine appena ricevuto. E sebbene l’espressione del suo volto fosse rimasta neutrale, quasi glaciale, il cuore, invece, aveva fatto un salto, probabilmente si era addirittura fermato per alcuni battiti.

Lei comunque si era attenuta al suo ruolo per molto tempo, mascherando con un atteggiamento freddo e distaccato la paura di perdere quell’uomo così importante. Qualche volta, però, in tutti quegli anni aveva vacillato, questo perché per alcuni attimi infinitesimali la donna aveva preso il posto del soldato. Era successo, per esempio, quando si erano trovati davanti a quell’homunculus, Lust. Allora avevano rischiato grosso, entrambi. Aveva versato qualche lacrima, ma aveva (quasi) subito riacquistato la lucidità e l’autocontrollo.

Ma era stato nel fatidico Giorno della Promessa che il panico e il terrore aveva preso il sopravvento. Si era ritrovata a dover seguire un ordine impartitole anni prima: puntare la pistola alla nuca di Roy Mustang. Allora aveva avuto paura, molta paura, tanto che la mano, quella mano sempre immobile e rigida sul grilletto, aveva cominciato a tremare, e con lei anche la voce non poteva certo dirsi ferma, come era consuetudine.

La verità era che Riza Hawkeye non temeva i nemici che ti corrono incontro armati di fucile e di una furia distruttrice. Ciò che veramente la faceva tremare di paura era la possibilità di veder morire per mano sua (era certa che solo così Roy Mustang avrebbe lasciato il mondo dei vivi) il proprio capo, perché la fine del Colonnello sarebbe stata anche la sua.

Note finali:
Ebbene sì! Anche io ho ceduto al fascino dei 100 themes. In realtà è da un po' che penso di cimentarmi in questa impresa ciclopica, come amo definirla, ma prima volevo finire un'altra raccolta che mi impegnava da gennaio (e qui mi metterei a piangere perché per scrivere 15 drabble ci ho messo nove mesi!).
Non so quando aggiornerò e quanto tempo ci metterò a concludere la raccolta, anche perché sono alla continua ricerca dell'elemento originale. Questo primo theme non è che sia poi così originale o nuovo, ma quando ho letto quella citazione di Montaigne mi è balenato in testa questo flash e dovevo buttarlo giù a tutti i costi.

“You never know what's hit you. A gunshot is the perfect way.”, John Fitzgerald Kennedy.

Era un’afosa serata estiva. Il sole basso all’orizzonte rendeva il paesaggio circostante come ricoperto da una patina di lucido rame.

Riza e Roy, dopo la cena, alla ricerca di un po’ di refrigerio, si erano recati presso il piccolo corso d’acqua, dietro giuste poche centinaia di metri da casa Hawkeye.

Già solo lo scroscio dell’acqua riusciva a dare un po’ di sollievo a Riza dal calore, che l’aveva oppressa tutto il giorno.

Appena arrivati Riza si andò a sedere sotto un salice, dall’ombra distesa fino ad immergersi nel fiumiciattolo, mentre Roy, abbandonate le scarpe e tirati su i pantaloni alla bene e meglio, si sedette sull’argine ed infilò i piedi nell’acqua fredda.

«Ah, Riza. Non immagini che sollievo!».

Il giovane apprendista, nel dire queste parole, reclinò il capo all’indietro, giusto per notare sul volto di Riza, la dolce, silenziosa, discreta Riza, il formarsi di un sorriso appena increspato.

Trascorsero alcuni minuti in silenzio, ognuno impegnato a godersi un po’ quella pace e serenità (oltre al relativo refrigerio) che il luogo trasmetteva; Roy con i piedi che sguazzavano e di tanto in tanto gli schizzavano i pantaloni, mentre Riza appoggiata con la schiena al tronco dell’albero e le mani tra i fili d’erba.

«Perché non vieni anche tu a mettere i piedi in acqua?» la invitò Roy.

«Sto bene qui…».

«Andiamo! Non sai cosa ti perdi».

«Preferisco di no, grazie. Poi mi rimangono i piedi bagnati e non posso mettere le scarpe». Ecco venire fuori il suo lato pratico, dalla logica inattaccabile.

«Torniamo a casa scalzi, che problema c’è? Non farti pregare, Riza».

«No, grazie» cominciava a spazientirsi.

«Non costringermi a venirti a prendere di peso…» la minacciò Roy sfoggiando il suo miglior sorriso malandrino, a cui nessuna ragazza sapeva resistere, e purtroppo, neanche la giovane Riza, ancora troppo inesperta della vita.

«Che persona insistente e prepotente!» sibilò tra i denti la ragazzina, mentre di malavoglia si alzava con grazia dal suo cantuccio all’ombra per raggiungere il compagno di scampagnata.

Si sedette accanto a lui sull’argine, senza però togliere le scarpe, assolutamente intenzionata a non sfiorare nemmeno il pelo dell’acqua per nessuna ragione al mondo. Raccolse una manciata di sassolini, piatti e levigati, che cominciò a tirare in acqua, scegliendo come bersaglio un gruppo di sparuti giunchi a un paio di metri alla sua destra.

«Pensi mai al futuro?» le domandò Roy, interrompendo momentaneamente quel suo giocherellare nervoso.

«In che senso?».

«Nel senso di cosa succederà domani».

«Beh, domani devo fare il bucato e andare all’ufficio postale per spedire delle lettere a nome di mio padre…». Fu interrotta nel suo elenco di mansioni da svolgere.

«Io non intendevo questo».

«Avevo capito perfettamente il senso» replicò quasi lapidaria.

«Allora?» la incalzò, veramente curioso di sapere quali fossero le aspettative di quella ragazzina, con cui conviveva da quasi due anni.

«Sinceramente? Non lo so. Non ci ho mai pensato veramente. Mi piace sentire le mie amiche che per esempio dicono: “Da grande diventerò una ballerina di successo”, oppure “Voglio diventare la moglie di un ricco dottore di Central”, ma lo trovo anche piuttosto inutile. Abbiamo quattordici anni. Quante possibilità ci sono che tra cinque o dieci anni i nostri sogni e le nostre aspettative si siano realizzati. La vita è imprevedibile e fare progetti troppo pretenziosi per il domani è da illusi. Meglio concentrarsi sul presente, almeno adesso».

Roy aveva ascoltato attentamente quel lungo discorso, provando anche un lieve senso di vergogna di fronte a pensieri così profondi e decisi.

Era vero. Riza aveva quattordici anni, ma in quel momento sembrava tutto tranne che un’adolescente.

Un sorriso amaro si dipinse sul volto del giovane. Aveva colto il lato pratico, ma anche triste in tutto quel discorso. Sicuramente lei pensava quello che gli aveva appena detto, ma era anche certo che avesse i suoi sogni, i suoi desideri, ma era talmente spaventata dall’idea che non potessero realizzarsi, che probabilmente faceva fatica lei stessa ad ammetterne l’esistenza.

Intanto lei aveva ricominciato il suo gioco, cambiando però bersaglio: un bastoncino che galleggiava proprio davanti a Roy.

«Lei, invece? Pensa mai al futuro?» domandò concentrata sul legnetto.

Nonostante le avesse ripetuto più e più volte che non serviva dargli del lei, Riza non aveva mai dato ascolto alla sua richiesta, continuando secondo ciò che per lei era segno di buona educazione e rispetto.

«Io? Ogni giorno sempre più» ammise.

Per un attimo Riza distolse lo sguardo dal corso d’acqua per fissare interrogativa il suo interlocutore.

«Ho quasi finito l’apprendistato con il maestro. Tuttavia non ho intenzione di ritornare a casa dalla mia matrigna. Non voglio essere un peso per lei. Voglio essere indipendente. Quindi sto prendendo in considerazione l’idea di entrare all’accademia militare» spiegò lui, con lo sguardo puntato sulle lievi increspature dell’acqua.

«Entrare nell’esercito? Ma si tratta di una possibilità, vero?». Era rimasta stupita. L’idea la terrorizzava. Sapevano tutti che fine fanno i soldati.

Angosciata distolse lo sguardo da Roy, rivolgendosi anche lei all’acqua. Una libellula, dal corpo azzurro metallizzato, svolazzava davanti a lei, pochi metri più avanti.

«Non proprio». Il giovane fece una pausa per prendere un respiro profondo. «Ho fatto domanda all’accademia e mi hanno accettato. La settimana prossima, quando finirò definitivamente l’apprendistato, partirò per entrarci». Aveva confessato ogni cosa. Lo doveva a Riza, che era sempre stata così gentile con lui.

Pluff.

Aveva lanciato l’ultimo sasso che le era rimasto in mano.

La libellula stava affondando rapidamente sotto il peso improvviso della pietra.

«Accidenti che mira strepitosa, Riza!».

***

Più di dieci anni dopo, Riza Hawkeye aveva fatto un’”accettabile” esperienza della vita. Era entrata nell’esercito, a dispetto di tutti i suoi sogni e le sue aspirazioni, ed era diventata un tiratore scelto. Un ottimo tiratore scelto, tanto che, ancora giovanissima,aveva partecipato ad una guerra.

Ora, Tenente e donna sempre in competizione con se stessa, si recava una volta alla settimana al poligono di tiro per allenarsi, per migliorarsi.

Quella mattina il sole splendeva ad East City e lei, poco dopo esser arrivata in ufficio ed essersi assicurata che il suo superiore avesse tutti i documenti da firmare impilati ordinatamente sulla scrivania, raggiunse la sua postazione al poligono ed imbracciò il fucile.

Bang.

Un colpo in pieno petto.

Con movimento meccanico, rapido e perfetto ricaricò il fucile, mentre una persona si avvicinava alle sue spalle.

«Come va, Riza?» domandò cordiale. «Vedo che te la cavi sempre, eh?» continuò osservando il bersaglio su cui il cecchino era concentrata.

«No, devo fare ancora più pratica» ripose ferma, senza battere ciglio, mentre prendeva la mira.

«Il Colonnello vuole vederti. Sarà trasferito a Central City».

Un flash improvviso. Una libellula.

Bang.

Un colpo al capo. In mezzo agli occhi.

«Ho capito».

Note finali:

Ero piuttosto spaventata da questo theme, perché sembra abbastanza scontato cosa verrà fuori.
Pensa e ripensa, alla fine è venuto fuori questo. Avevo praticamente deciso subito di prendere come riferimento la scena quando viene comunicato a Riza del trasferimento di Roy, che, appunto ho inserito alla fine, ma ci voleva qualcosa di più. Così mi è venuto in mente di descrivere il primo momento in cui il tenete ha dimostrato di avere ottime potenzialità come cecchino. Il momento in questione si svolge durante l'apprendistato di Roy, proprio poco prima della sua partenza e del suo arruolarsi nell'esercito. Volevo creare un parallelo tra questi due momenti. Spero di esserci riuscita. Inoltre la scelta della libellula non è casuale. In Giappone è simbolo di forza e coraggio, due caratteristiche tipiche di Riza; ma anche di felicità. Risulta ovvio che sia Roy la sua fonte di felicità, che viene meno nel momento della sua partenza.

“When you're in the battlefield, survival is all there is. Death is the only great emotion.”, Samuel Fuller

Roy non riusciva a spiegarsene il motivo.

Era stato come ascoltare il canto di una sirena, che con costanza e voce suadente l’aveva irretito.

Lui non voleva tornarci. Aveva perfino fatto murare l’entrata. Troppo dolore, troppa sofferenza, troppa vergogna per ciò che era stato.

Eppure non era riuscito a resistere al quel richiamo maledetto, così aveva raggiunto il laboratorio numero 3 e, sfruttando le nuove capacità acquisite in seguito alla visione della Verità, aveva aperto un varco sul muro bianco e si era incamminato lungo quel corridoio buio, percorso già un paio di volte.

Strano a dirsi, ma l’oscurità lo metteva molto più a suo agio di quanto la luce avrebbe mai potuto fare.

Era passato poco più di un anno. Il trauma era stato superato, o almeno, di questo aveva cercato di convincersene.

Aveva deciso di sfruttare una delle poche giornate libere per recarsi in quel luogo e, soprattutto, si era assicurato di essere da solo. Ne sentiva il bisogno.

Entrò in quell’enorme stanza bianca, così spoglia, al momento, da risultare accecante. Chiuse gli occhi, fermandosi a pochi metri dall’alto portale. Nell’aria aleggiava ancora della cenere. Impossibile dire se derivasse dai manichi immortali o dal mostruoso Envy.

Varcò il portale, sempre ad occhi chiusi, introducendosi in quel dedalo di corridoi tutti uguali che avevano assistito alla furia della sua ira, cieca e distruttiva.

“Tutta colpa di quel maledetto homunculus”, pensò. “È stato lui ad uccidere Hughes”. Poi però ritrattò i suoi pensieri. “No, è solo colpa mia. Sono stato io che mi sono fatto sopraffare dall’odio e sono stato incapace di controllarmi”.

Era convinto che si sarebbe perso in quel labirinto e, con tutta sincerità, l’idea non gli dispiaceva affatto, in fondo ci sperava, forse perché non era ancora pronto ad affrontare tutto.

Certo, più e più volte aveva rivissuto in sogno, quasi al rallentatore, quei momenti di quella giornata così lunga, la più lunga di tutta la sua vita, oppure ne aveva parlato con i suoi sottoposti, con il neo Comandante Supremo Grumman, con i fratelli Elric, ma ogni volta, più consciamente che inconsciamente, aveva appurato un’opportuna censura. Si limitava a raccontare i fatti, mai le sensazioni, la paura, la rabbia che l’aveva fatto muovere.

Con sua somma sorpresa in poco tempo arrivò in quel luogo, senza perdersi, guidato chissà da cosa.

Rimase sull’uscio alcuni momenti ad osservare, a cogliere l’ambiente circostante senza soffermarsi sui particolari.

Era tutto esattamente come lo ricordava la prima volta che l’aveva visto: il buio, l’aria stagnante e il senso di oppressione.

Una cosa però era diversa: il pavimento. Sembrava il manto di un leopardo con tutte quelle chiazze di sangue.

Ce ne erano moltissime, alcune molto grandi, altre sovrapposte a cerchi alchemici ormai sbiaditi.

Identificò senza difficoltà quella su cui King Bradley aveva esalato il suo ultimo respiro; quelle due piccole in corrispondenza delle sue mani arpionate al pavimento; poi la sua attenzione fu catturata da una chiazza in particolare, seconda per grandezza. Vi si avvicinò lentamente, quasi in punta di piedi.

Solo un anno prima, il sangue che sgorgava dalla ferita come un fiume in piena, sembrava, per via del rosso intenso e degli inquietanti bagliori che emanava, rubino liquefatto, ora invece, era più simile alla fuliggine e al terriccio che si deposita sul volto e gli abiti dei minatori.

Si chinò in prossimità del sangue rappreso e secco.

Non aveva mai permesso a nessuno di mettere mano a quel luogo per dargli una pulita, di violare quel tempio, che sarebbe rimasto lì come monito.

Roy carezzò con devozione quel punto del pavimento, macchiato irrimediabilmente.

Non poteva dire di essersi innamorato di Riza proprio quel giorno. Ormai erano anni che si era accorto di provare qualcosa di più della semplice ammirazione per il suo caro Tenente, ma era stato grazie alla visione di Riza boccheggiante, sofferente sul pavimento, trascinata con brutalità e senza alcun riguardo in modo tale che lui la vedesse meglio mentre moriva lentamente, se lui si era domandato “Posso vivere senza di lei?”. Allora aveva realizzato, “No, non posso. Mi farò uccidere dal nemico, una fine eroica, appropriata per il Colonnello Roy Mustang”.

Si sedette a gambe incrociate affianco alla chiazza, lo sguardo lontano e una mano stretta a pugno.

Dietro all’angolo, il sorriso mesto di Riza Hawkeye, che vegliava silenziosa e attenta come un angelo il suo superiore.

Note finali:

Con mio sommo stupore riesco a scrivere un theme alla settimana, ma non abituatevi, quando inizierò l'università non sarà più così.
Sono abbastanza soddisfatta di questo theme, se escludiamo il fatto che risulta un po' sconclusionato e non proprio organico, però ci sono delle immagini che mi piacciono molto (viva la modestia!). Parto dal presupposto che Roy faccia sempr buon viso a cattivo gioco, quindi non ammetterà mai di aver provato una paura indicibile nelle circostanze del giorno della promessa. Penso non ci sia molto altro da aggiungere, perché mi sembra tutto abbastanza chiaro: Roy torna nei luoghi della battaglia contro il Padre, torna, appunto, sul campo di battaglia un anno dopo.

“Di queste case/ Non è rimasto/ Che qualche/ Brandello di muro

Di tanti/ che mi corrispondevano/ non è rimasto/ neppure tanto

ma nel cuore/ nessuna croce manca

è il mio cuore/ il paese più straziato”,San Martino del Carso, L’allegria, Giuseppe Ungheretti

Riza cerca di compattare quella terra arida e argillosa, ocra, sfumata irrimediabilmente di rosso, con le mani piccole, arse, che avrebbero dovuto dedicarsi ad altre attività più confacenti ad una signorina di appena vent’anni, come il ricamo oppure il disegno.

Ma ormai lei non è più una signorina.

In realtà non sa nemmeno lei cosa sia veramente.

Un soldato? Sì, forse questa definizione può andare bene.

Tutto, intorno a Riza, è secco: l’aria, la terra, persino le lacrime, che non scivolano sul volto affaticato ed addolorato, ma rimangono come incastrate, quasi ci fosse un’insormontabile diga posizionata lì apposta per frenarle definitivamente.

Qualcuno le si avvicina da dietro, ma lei non se ne cura e continua a livellare con quelle piccole mani il terreno.

«Non vai?» domanda la voce alle sue spalle. «Se non ti sbrighi, ti lasceranno qui» constata sempre la stessa voce in tono neutro.

L’ha subito riconosciuta. Impossibile non riconoscerla, nemmeno se un tornado soffiasse in sua direzione. Non si gira, perché sa che lui capirà, che la lascerà terminare.

«Era un tuo commilitone?» domanda di nuovo, questa volta con un velo di curiosità, alludendo al piccolo tumolo improvvisato.

«No». Anche.

«Un bambino di Ishval» afferma voltandosi con un sorriso amaro.

E mia madre.

Si rivede bambina, infilata senza un motivo apparente in un vestitino nero. È per dire addio alla mamma, le hanno spiegato.

E mio padre.

Quanti anni sono passati? Si chiede. Cinque? Sei? Ma che importanza ha? Ormai non c’è più. Anche il suo corpo giace sotto la nuda terra, madre comune del genere umano.

Ma è anche lei, Maggiore Mustang. E con lei ci sono anch’io.

Sono tutti morti un po’, lentamente, in quel deserto, con l’unica differenza che continuano a respirare. Ma quanto costano quei respiri? Quanti ne avrebbe dovuti esalare ancora quel bambino? I commilitoni deceduti? Sua madre? Suo padre? Loro due?

Milioni.

Anzi no. Miliardi. Forse anche di più.

«Gli avevano sparato e poi lo avevano lasciato in mezzo alla strada» spiega, rimanendo ancora seduta presso il cumolo di terra con un bastone piantato il più dritto possibile.

Si è resa conto di una cosa la giovane Riza: quella guerra inutile, combattuta per sterminare il diverso, non si è accorta di aver reso tutti uguali. Quando giungerà la fine, riposeremo tutti in una tomba, più o meno sontuosa, ma comunque tutti sotto la stessa terra che con generosità ci ospita.

«Andiamocene. La guerra è finita».

Note finali:
Che emerita... non ho parole per definirla correttamente. Volevo qualcosa di originale ed è uscito questa roba indefinita...
Siamo messi bene! Sono solo al quarto theme e già mi lamento come se ne avessi scritto almeno la metà.
Ma la mamma (ebbene sì, lei è una delle mie consulenti favorite, sebbene non conosca niente riguardo a Roy e Riza, ma lentamente e con infinita pazienza la sto indottrinando) ha approvato. Ora lascio la parola a voi, per sapere sinceramente cosa ne pensate.
Se non si fosse capito, il che è molto molto possibile, è ambientata alla fine della guerra di Ishval. I dialoghi sono presi dal volume 15, copiati ed incollati. Volutamente non sono andata avanti, perché sappiamo tutti cosa viene dopo (modalità sguardo sognante: ON!) e non mi sembrava opportuno stravolgere fino a questo punto uno dei momenti più importanti di Riza e Roy.
ps. mi sono accorta che fino a questo momento non ho scritto niente di dolce e romantico! Tutte cose tristi/drammatiche/seriose... Orrore! Con il prossimo theme vedrò di rimediare. Parola di lupetto!

“Strali d’oro in umil petto,/ Stral di ferro in nobil core”, Spesso vibra per suo gioco, Alessandro Scarlatti

Roy non riusciva proprio a togliersi quel sorrisino soddisfatto dal viso. Era riuscito con molta fatica, ma anche molto orgoglio, nella sua impresa eroica. Perché convincere il Tenente più irreprensibile sulla faccia della terra ad uscire con ben tre ore di anticipo dall’ufficio per andare ad imbellettarsi per la serata annuale al Circolo Ufficiali era realmente da considerarsi una vera e propria impresa. Non c’erano altre parole per definirla.

Lui stesso era uscito un paio d’ore prima per vestirsi e sistemarsi, in modo tale da abbacinare con il suo irresistibile fascino tutti gli ufficiali donna presenti all’evento; anche se in realtà solo una era quella che gli interessava veramente, per quanto non l’avrebbe ammesso, nemmeno sotto tortura. Oddio, forse in quel caso sì.

Già s’immaginava la scena: lui ferito, un’espressione di dolore a deformargli il volto, che combatteva con indomito coraggio un nemico molto più grosso di lui; in angolo lei, accucciata che assisteva alla scena, il volto rigato di lacrime e i singhiozzi mal celati, accompagnati dalle suppliche di smettere di fargli del male, mentre lui, allo stremo delle forze confessava il suo amore per lei.

Fantasie, Roy! Fantasie! E piuttosto malate, tra l’altro.

Da sempre il ruolo del cavaliere in armatura scintillante era stato prerogativa di Riza. A lui toccava la parte dell’indifesa principessa piagnucolante. Ma in fondo non gli dispiaceva.

Ecco, questo non l’avrebbe mai ammesso. Nemmeno sotto tortura.

Si era preparato con cura. Doveva essere più perfetto del solito. Aveva messo il completo nero più bello, il gilet viola pallido in coordinato con la cravatta, (tra parentesi, aveva rifatto il nodo qualcosa come sette volte, perché doveva essere impeccabile!), e si era pettinato i capelli all’indietro. Si rimirò allo specchio, pago del risultato finale. Quale donna avrebbe potuto resistergli?

Per completare l’opera infilò un fazzoletto di seta purissima, sempre della stessa tonalità di gilet e cravatta, nel taschino della giacca.

Arrivò in anticipo, perché non voleva perdersi l’arrivo di Riza, che, era sicuro, avrebbe fatto il suo ingresso più che puntuale.

Ma si sbagliava.

Il Tenente arrivò con ben dieci minuti di ritardo, (al che Roy cominciò a pensare che non si sarebbe proprio presentata) e fece il suo ingresso in punta di piedi.

Ma il bel Colonnello la notò ugualmente ed, anzi, non poté fare a meno di spalancare la bocca per alcuni istanti come un baccalà per la sorpresa.

Definire Riza bella sarebbe stato un insulto alla bellezza. Era semplicemente bellissima, stupenda. Sì, aveva fatto proprio bene a costringerla ad uscire prima dall’ufficio ed anche i minuti di ritardo che gli avevano dato il batticuore erano ampiamente perdonati.

Indossava un abito nero, nulla di sgargiante od eccessivo, molto elegante ed appropriato, come lei, d’altra parte. Notò che la schiena, per ovvi motivi, era coperta, ma apprezzò molto la scollatura, che le faceva risaltare il decolté, e lo spacco della gonna lunga sulla gamba sinistra. I capelli, come al solito, erano raccolti ed un filo di perle completava il tutto.

Aveva sentito, ancora ragazzino, una storiella ridicola riguardo un bambino, dotato di un paio di alette, che se ne andava in giro svolazzando completamente nudo ed armato di arco e frecce. Con i suoi dardi incantati colpiva gli esseri umani che cadevano vittime dell’amore per la prima persona che si presentava davanti ai loro occhi.

In quel momento Roy provò la sensazione di esser appena stato colpito, forse da uno degli strali di quell’assurdo piccoletto privo di pudore, ma più probabilmente dallo charme di Miss Riza Hawkeye.

Quando si rese conto che l’oggetto dei suoi sogni segreti gli si stava avvicinando, il Colonnello chiuse la bocca, stampandosi sul volto un sorriso leggermente inebetito.

«Buonasera, Colonnello Mustang» lo salutò cortese.

Dopo un attimo di smarrimento, rispose, forse con un po’ troppa partecipazione. «Buonasera Tenente. Siamo sicuri che sia veramente tu e non angelo sceso dal paradiso?» domandò completando il tutto con un elegante baciamano.

«Da che mi risulti gli angeli non vestono di nero» gli fece notare in tono composto.

Ed ecco tutto il romanticismo sgonfiarsi come un sufflè tirato fuori troppo presto dal forno. Non c’era che dire: quella donna non aveva soltanto un talento eccezionale con le armi da fuoco, ma anche come demolitrice aveva la strada spianata per una carriera brillante! Un’accoppiata vincente, insomma.

«Credo che il Generale Hakuro voglia parlare con lei» aggiunse, accennando col capo all’uomo che li stava osservando.

Molto malvolentieri Roy si allontanò dalla sua dama, subito avvicinata dal Maggiore Armstrong.

“Almeno lui è innocuo” si ritrovò a pensare.

Durante tutta la durata della cena gli occhi del Colonnello rimasero puntati, con alcune sporadiche eccezioni dovute all’educazione e all’etichetta, sul tavolo a cui erano seduti Riza e gli altri membri della squadra. Come avrebbe voluto essere con loro, che si stavano anche divertendo, invece che rimanere seduto in mezzo a quelle cariatidi ambulanti che sapevano parlare solo di politica!

Il dessert fu una benedizione, dato che metteva fine a quell’insopportabile strazio. La cena, per quanto ottima, stava cominciando a diventargli indigesta.

Quando finalmente poté alzarsi da tavola, raggiunse la sua squadra.

Poco dopo l’orchestra cominciò a suonare e Roy, dimostrandosi uno sprovveduto fino al midollo osseo, invitò il suo Tenente a ballare.

Con un sorriso malcelato Riza rispose, «Colonnello, me lo chiede ogni anno. La prego, non mi faccia ripetere per l’ennesima volta sempre la stessa risposta».

«E come ogni anno tu fai crollare miseramente tutte le mie speranze».

«Sopravvivrà. Ne sono più che certa».

«Dunque è un no?».

«Sono spiacente, ma sì. È un no».

«Sei un bugiarda fedifraga! Non ti spiace affatto».

«Era giusto per essere cortese» replicò per nulla toccata da quelle offese, che sapeva, non erano veramente state pensate dal suo superiore.

La serata trascorse senza nessun altro evento eclatante che la stravolgesse, almeno, fino al momento di tornarsene a casa.

Erano rimaste poche persone, in fin dei conti erano anche quasi le tre di mattina e molti dovevano andare al lavoro presto, tra queste anche il Colonnello Mustang e il Tenente Hawkeye, che però continuavano a gironzolare per il vasto salone, scambiando quattro parole con ex-commilitoni o vecchi compagni di accademia.

Stanco e leggermente deluso, Roy si accomiatò e prima di andarsene andò a salutare il suo Tenente. «È stata una bella serata. Ci vediamo tra poche ore, Tenente».

«Certo, signore».

Ma subito dopo essersi girato, Roy perse il fazzoletto di seta, che cadde ai piedi di Riza, la quale si chinò subito per raccoglierlo e restituirlo al suo proprietario.

Tuttavia il Colonnello era già parecchi metri più avanti. La gonna lunga e i tacchi alti non le permettevano di correre liberamente, perciò cominciò a chiamarlo a voce alta, mentre con piccoli e rapidi passettini cercava di raggiungerlo.

«Signore!».

Ma lui non la sentì.

«Colonnello!».

Alcuni uomini si girarono, ma non il diretto interessato.

«Colonnello Mustang!»

Ancora niente. Non si girò.

Non le rimaneva molto altro da fare. Poteva sempre darglielo in ufficio. No. Troppo sconveniente. Si appellò alla sua ultima risorsa. Si guardò in giro, ma, per fortuna, attorno a loro non era rimasto praticamente nessuno.

«Roy!» lo chiamò a gran voce, leggermente esasperata.

Questa volta lui non poteva certo fingere di non aver sentito. Mettendo in gioco tutto il suo talento da attore, si voltò verso la sua sottoposta.

«Ah, sei tu. Dimmi Riza, c’è qualche problema?».

«Le è caduto il fazzoletto» spiegò recuperando il solito contegno, mentre porgeva il pezzettino di stoffa violetta.

«Molto gentile da parte tua» la ringraziò afferrando il fazzolettino con una mano e sciogliendo la pettinatura di Riza con l’altra.

«Molto meglio così» affermò in tono dolce, afferrandole con delicatezza una ciocca di capelli dorati e facendola arrossire leggermente.

Per un lungo attimo si guardarono negli occhi e Roy fu più che sicuro di aver intravisto uno scintillio. Allora quel putto con le ali non aveva colpito solo lui quella notte. Le carezzò il viso con delicatezza, fermando la sua mano in prossimità della guancia calda ed arrossata.

«Colonnello!» lo riprese molto poco convinta. «Non è conveniente!».

«Prima mi hai chiamato Roy. Come mai adesso sei tornata al “Colonnello”? E comunque ti lascio andare solo se prometti di concedermi un ballo l’anno prossimo».

Riza sorrise e si scansò con dolcezza. «Può darsi».

«Come sarebbe a dire può darsi?» replicò in tono scandalizzato.

«È tardi, Colonnello. Vada a casa, si riposi qualche ora. Io l’aspetto alle otto e mezza puntuale. Nessuna scusa». Detto questo si girò e a passo spedito, abito e scarpe permettendo, si diresse verso casa, lasciando lì il povero Colonnello, con la bocca spalancata per lo stupore.

Note finali:
Che vaneggi! Ma andiamo per ordine.
Innanzitutto la citazione iniziale è una piccola chicca: sono due versi di un aria lirica antica della fine del XVI secolo. Come la conosco? Semplice è una delle prime arie che ho studiato quando ho iniziato canto lirico; e qui chiudiamo questa parentesi, che è meglio...
L'ispirazione viene dall'immagine del mese di agosto del calendario di FMA di "non mi ricordo che anno", in cui c'è Riza in abito da sera e Roy seduto, elegantissimo nel suo completo scuro, su una sedia. (Nell'immagine c'è anche il resto della squadra, ma questi sono inutili dettagli!).
Per scrivere questo theme ho dovuto superare il mio trauma personale che ha come oggetto Cenerentola, per cui- consiglio d'amica- non leggete mai "Storia Notturna, una decifrazione del sabba" di Gizburg, altrimenti questa splendida fiaba si trasformerà in un racconto horror, e non sto scherzando. Rimanete nell'ignoranza finché potete! Ma non dilunghiamoci troppo. La mia vuole essere una visione di Cenerentola al contrario, con Roy che perde il fazzoletto. Non la scarpetta, il fazzoletto, credetemi è meglio così. L'arma, giusto per chiarire, è la freccia di Cupido. Spero di aver mantenuto la promessa e di aver fatto qualcosa di abbastanza allegro, anche se proprio poco romantico... Io mi sono divertita a sbrega (termine tecnico, direttamente dal dialetto veneziano) a scriverla, spero voi vi siate divertiate anche solo la metà a leggerla e spero che il colonnello possa mai perdonarmi per avergli fatto fare la figura dello stoccafisso.

“Forse per amare bisogna anche morire”, Tango dei cantici, Il Fuoco e la Parola

È stata una giornata lunga, cominciata male e finita ancora peggio.

Eri partito con delle speranze, con l’aspettativa che buona parte dei problemi si sarebbero risolti. Finalmente eri riuscito a venire a capo dell’enigma: avevi smascherato molto abilmente il nemico, carpito i suoi segreti più scabrosi e credevi di tenerlo in pugno. Ma ti sbagliavi. Era lui a tenere in pugno te.

Con una mossa inaspettata aveva fatto crollare quella sicurezza, quell’arroganza che ti aveva fatto varcare i cancelli del Quartier Generale con le spalle dritte e lo sguardo fiero.

Gli è bastato allungare la mano ed afferrare Lei per farti sentire incredibilmente solo e terribilmente smarrito.

Il freddo e distaccato saluto militare che voi due, complici di intrighi da anni, vi siete scambiati alla fine di questa giornata è stato l’equivalente di una pugnalata al cuore. Il gelo si è impadronito del tuo corpo, mentre la testa, rimasta vuota per ore, si è come riempita improvvisamente di pensieri poco definiti ed assordanti.

Hai dovuto fermarti alla prima farmacia sulla strada ed acquistare un analgesico che mettesse fine a quel martellante mal di testa, che ti ha anche provocato un leggero senso di nausea. O forse è il tuo stesso comportamento, il tuo aver agito in modo così irresponsabile ed irruento ad averti nauseato.

Getti la giacca della divisa ai piedi del divano, su cui ti sei steso, immerso nel buio totale, alla disperata ricerca di mettere a tacere anche per un solo secondo i tuoi pensieri così caotici.

Ti copri gli occhi con un braccio. Per una volta nella vita vorresti che il tuo cervello la smettesse di continuare a produrre pensieri; vorresti solo cadere in un sonno profondo, senza sogni e svegliarti un giorno indietro. Ma sai che questo è impossibile. Allora, forse, sarebbe meglio non svegliarsi affatto. Ma che razza di pensieri fai? È così che ci si comporta? Ti arrendi alla prima difficoltà? Non continui a lottare?

Lotta. Lotta per Lei, per la sua (e di conseguenza anche la tua) libertà.

E per un secondo è il mutismo completo della tua mente.

Ma in quel silenzio si materializza un immagine davanti ai tuoi occhi.

Immagina Lei.

Con il pensiero vai oltre a quell’assenza immotivata.

Dov’è mentre la stai cercando?

Come può essere così vicina al tuo cuore e così distante da non riuscire a vederla?

Perché quella nostalgia che ti assale al pensiero di Lei?

Cos’è quel desiderio nascosto, quel bisogno di abbracciare, stringere, o più semplicemente parlare, incrociare il suo sguardo in un’intesa non ancora decisa?

È forse Amore?

E poi, cos’è l’Amore?

Ti levi improvvisamente a sedere, perché c’è Lei al tuo fianco, lì nel tuo salotto, con un sorriso dolce e consolatorio sulle labbra, chinata su di te.

La testa ti gira per la rapidità del movimento e ti rendi conto che è stato tutto un crudele gioco della tua mente. I nervi hanno sicuramente risentito di tutto il trambusto di questa infausta giornata.

Ti stringi la testa con le mani, chiudi gli occhi e ti ristendi sul divano, deluso, perché quell’illusione era talmente vivida… Eppure hai sentito perfettamente il profumo di fiori della sua pelle ed hai avvertito il lieve solleticare delle ciocche dei suoi capelli così raramente lasciati sciolti sulla tua fronte.

La mia diletta è per me ed io per lei, ha rapito il mio cuor con un solo sguardo.

Come dimenticare quegli occhi così attenti, sempre puntati sulla tua figura. Anche se le davi le spalle li sentivi sempre presenti, vigili, protettivi, simili a quelli di una mamma che osserva i propri bambini giocare al parco. Anzi no. Come quelli di un’amante premurosa, che mette la salute dell’uomo amato davanti alla propria.

Daresti via tutti i tuoi averi per uno solo di quegli sguardi, ora come ora.

La mia diletta è per me. Lungo la notte ho cercato. L’ho cercata in me, ma non l’ho trovata.

Lei si è semplicemente allontanata, continui a ripeterti, come un mantra. Ma è bastato quel poco perché tu la perdessi di vista. Eri così abituato, assuefatto alla sua presenza che è come se ti avessero di colpo tolto un farmaco da cui eri diventato dipendente, che ti impediva di sentire dolore.

Ma la ritroverai, lo sai, o meglio, lo speri, con ogni fibra del tuo corpo.

Forte come la morte è l’Amore, un gioco, un effusione.

Hai il coraggio tu di amarla più del tuo orgoglio e di te stesso?

Perché?

Perché’ non ti sei fatto prima questa semplice domanda?

Di cosa avevi paura? Che ammettendo la realtà, i tuoi sentimenti, l’avresti persa?

Beh, questo è appena accaduto, ma non perché sei andato sotto la finestra di casa sua ad urlare un “Ti amo” trattenuto tra i denti troppo a lungo. Se solo avessi provato, se solo avessi tirato fuori quel coraggio che ti vanti spesso di possedere, magari le cose sarebbero andate in modo differente. Ma questo non lo potrai mai sapere e non vale la pena di spendere il tuo tempo in rimpianti.

Forte come la morte è l’Amore che muore nel timore dell’incontro quando Lei è solamente smania di possesso.

Vorresti che Lei fosse con te, vorresti stringerla e non lasciarla più andare, perché sai che tra le tue braccia è al sicuro, protetta da qualunque disgrazia e timore.

Non sono più pensieri casti quelli che la tua mente sta formulando. Ma il desiderio, la brama ardente che hai di Lei ti stanno condizionando.

Fermati finché sei in tempo, controlla l’ira, la frustrazione. Pensa al suo sorriso speciale, quello che dedica solo a te, con l’angolo destro della bocca più sollevato rispetto al sinistro.

Poi d’improvviso spalanchi gli occhi.

È giorno. Un nuovo giorno. Un altro giorno senza Lei.

Ed ogni notte è lo stesso tormento, le stesse immagini ingannatrici, gli stessi sogni dolorosi, le stesse speranze infrante.

Non ti resta che alzarti e preparati ad affrontare questa nuova giornata, che sebbene sia soleggiata a te appare scura ed uggiosa, come se stesse per mettersi a piovere da un momento all’altro.

Non è passata solo una notte da quando l’hai salutata, ma molte e contarle non ha senso. Sarebbe masochistico oltreché inutile.

Sei perfettamente consapevole che una parte di te è morta, ma credi, devi credere, che ci sia ancora speranza per la resurrezione.

Note finali:
Ho voluto fare questa cosa un po' alternativa ed anche un po' metafisica con questo Theme, non proprio facilissima da capire, nemmeno per la sottoscritta.
Per prima cosa vorrei puntualizzare che le frasi in corsivo non sono mie (magari...) ma compongono il testo completo del Tango dei Cantici, dai cui è tratta la citazione iniziale. Sono particolarmente affezionata a questa canzone perché è il mio tango. Mi spiego: partecipo ad un musical e a metà, circa, il protagonista sogna di Lei. Io e il mio compagno balliamo appunto il  tango accompagnati da queste splendide parole, che trovo perfette per Roy riguardo a Riza, soprattutto dopo King Bradley sceglie il tenente come sua assistente personale. Davvero da brivido.
Mi sono ispirata ad una vignetta del volume 15 del manga, quando Riza inizia a raccontare di Ishval ed è inquadrato Roy.
Ovviamente la morte a cui si fa riferimento non è fisica, ma spirituale, psicologica.

“Il crimine è una cosa comune. La logica è rara. Tuttavia è sulla logica che dovresti insistere.” Sir Arthur Conan Doyle

Quella mattina il Colonnello Roy Mustang era arrivato provvidenzialmente presto in ufficio, prima dei suoi sottoposti, addirittura prima del Tenente Hawkeye. Un evento del genere non accadeva da circa tre anni, ma quella mattina una vocina gli aveva sussurrato all’alba di alzarsi e prepararsi in fretta.

Così era praticamente rotolato giù dal letto, ritrovandosi avvolto tra le lenzuola in stile mummia, ed imprecando, mentre cercava di districarsi in quel groviglio, si era diretto in bagno.

Non aveva nemmeno preso il caffè tanto era impaziente di arrivare al Quartier Generale.

Lungo il tragitto si era domandato se per caso un demone avesse preso possesso del suo corpo durante la notte, ma no, non era possibile.

La stessa vocina che con così poco riguardo l’aveva svegliato gli consigliò di andare a ritirare la posta, prima che uno dei ragazzi lo facesse al posto suo.

Prese il plico di lettere e cominciò a curiosare i nomi di mittenti e destinatari delle buste mentre saliva le scale per arrivare in ufficio.

Una lettera in particolare attirò la sua attenzione. Era destinata al Tenente Riza Hawkeye, da parte del Sottotenente Andrea S.

Chi era questo tizio? Cosa voleva dal suo Tenente? Ma soprattutto, perché Riza se la filava con un insulso Sottotenente? Lei poteva avere di meglio. Un Colonnello, tanto per fare un esempio.

Entrò nell’ufficio fissando la busta con uno sguardo talmente intenso che poteva sembrare che riuscisse a leggere il foglio contenuto all’interno.

Si sedette sulla sua poltrona, sempre con gli occhi puntati su quel misero pezzo di carta, passando in rassegna tutti i nomi di Sottotenente che conosceva, ma non ricordava nessuno di nome Andrea S. Magari quello lì e Riza si erano conosciuti all’Accademia. Ma allora, in quel caso era da molto che si frequentavano e lui non ne sapeva nulla. Oltraggioso!

Era talmente concentrato nelle sue elucubrazioni che non si accorse minimamente dell’arrivo dei membri della sua squadra, in primis il Tenente Hawkeye.

«Buongiorno Colonnello» lo salutò la donna. «È già andato lei a ritirare la posta questa mattina?» domandò leggermente sorpresa.

Roy ritornò alla realtà. «In effetti. Ti è anche arrivata questa lettera, Tenente» disse porgendole la busta. Ma quando lei cercò di prenderla lui la trattenne per qualche secondo prima di mollarla, sotto lo sguardo contrariato della donna, che non appena lesse il mittente si allargò in un sorriso radioso. Anche fin troppo radioso.

Già era raro vederla sorridere, figurarsi poi quando anche gli occhi, gli zigomi e non solo le labbra si piegavano in quell’espressione di gioia. Quel giorno sarebbe piovuto, poco, ma sicuro.

Il Tenente si andò a sedere al suo posto e con il tagliacarte aprì con cura la busta, tirando fuori due fogli scritti fitti ed un cartoncino più piccolo. Lesse rapidamente quelle due pagine e il Colonnello notò che più andava avanti con la lettura più sembrava di buon’umore.

Maledetto Sottotenente S., qual era il suo segreto per rendere così felice una donna della pasta di Riza Hawkeye? Quali trucchi aveva usato per ammaliarla, per corteggiarla e farla cadere nella sua trappola?

La curiosità era troppa, uscì di fretta, senza dare spiegazioni, dalla stanza, dirigendosi al centralino della base. La signorina che lavorava lì conosceva tutti i militari che lavoravano in quel luogo, sicuramente l’avrebbe aiutato a risolvere il mistero riguardo l’identità del corteggiatore misterioso.

Una volta arrivato si appoggiò con fare seducente al bancone e cominciò a fissare insistentemente la povera signorina, che non poté resistere a lungo allo sguardo magnetico di Roy Mustang, il noto Alchimista di Fuoco.

«Posso fare qualcosa per aiutarla, Colonnello?» domandò timida.

«Spero proprio di sì…».

Lei lo guardò invitandolo a proseguire.

«Tu per caso conosci un certo Sottotenente, amico del tenente Hawkeye, il cui cognome inizia per S?».

«Temo proprio di no».

«E il nome Andrea ti dice qualcosa?».

«No, signore. Perché?»

Cavoli. Un buco nell’acqua.

«Niente, niente. So solo che questa persona deve vedersi con il Tenente per discutere alcune cose. Se magari riuscivo a trovarlo adesso il Tenente sarebbe uscita prima dall’ufficio…» buttò lì, sicuro che quella scusa, banale a campata in aria avrebbe retto.

«Colonnello, a volte penso che dovrebbe prendere più seriamente il suo lavoro» lo riprese bonariamente.

«Suvvia! Solo una piccola pausa. In fondo lavoro molto».

E dopo un sorriso ammiccante pieno di sottintesi se ne andò, lasciando lì la signorina con lo sguardo sognante.

Ritornò mogio nell’ufficio, poiché non era riuscito a scoprire niente, e per tutta la mattina firmò svogliato pratiche e rapporti. Non che ci fosse molta differenza rispetto al solito, però, questa volta, la sua scarsa voglia di compiere il suo dovere era data da qualcosa di diverso dall’usuale pigrizia.

Quando arrivò il momento della pausa pranzo, tutti i suoi sottoposti, compresa Riza, scesero in mensa per mangiare. Il Colonnello affermò che li avrebbe raggiunti poco dopo, prima doveva fare una telefonata.

Non appena la porta si chiuse, dietro a Fury, Roy mise in atto il piano che aveva cominciato a macchinare nel momento in cui si era riseduto sulla sua poltrona: cercare quella lettera e scoprire qualcosa di più su quell’odioso Andrea S.

Peccato che, quando aveva deciso di scendere al centralino per informarsi, Riza stesse ancora leggendo la lettera, ed una volta ritornato, invece lei era in piedi, vicino alla sua scrivania, intenta a sistemare delle noiose cartacce da firmare.

Tese l’orecchio per sentire i suoni provenienti dal corridoio. Niente. Evidentemente tutti erano a pranzo.

Dunque si alzò e si avvicinò con circospezione al tavolo di lavoro della sua sottoposta. Sul piano c’erano parecchi fogli, impilati ordinatamente. Li sfogliò uno ad uno, ma nulla.

Decise dunque di passare ai cassetti. Nel primo c’erano solo pratiche e documenti, che risistemò alla rinfusa. Il secondo, invece, conteneva le pistole; lo richiuse subito. Spazientito rovesciò il contenuto del terzo sul pavimento ed, una volta sedutosi, cominciò a cercare disperatamente tra tutte quelle carte il corpo del reato.

Finalmente lo trovò e iniziò a leggere.

Mia cara Riza,

Bleah! Che smielato sto tizio! Come se a Riza facesse piacere una cosa del genere…

È moltissimo tempo che non ci sentiamo, ma nonostante tutto ti penso spesso.

Di male in peggio.

Quelle poche parole significavano un sacco di cose: primo, loro due si conoscevano da parecchio tempo; secondo, anche se non erano propriamente in contatto, il loro legame doveva essere forte; terzo, ma non meno importante, dovevano esser stati, e quasi sicuramente continuavano ad essere, molto intimi.

Un gentile colpetto di tosse alle sue spalle lo distrasse dai suoi pensieri.

Acc…

«Le serve una mano, Colonnello?»

Dannazione! Era stato preso con le mani nel sacco. Colto in flagrante reato. Non gli rimaneva che rivolgere le sue ultime preghiere, perché questa volta Riza l’avrebbe impallinato a dovere.

Si girò, molto lentamente, con l’arma del delitto ancora in mano e un sorrisino imbarazzato.

«Veramente no, Tenente. Grazie».

«Molto bene. Perché lei, adesso, risistemerà tutto e prima che la pausa pranzo finisca, senza il mio aiuto. Dopodiché si siederà alla sua scrivania e passerà tutto il pomeriggio a firmare i suoi documenti, senza alcuna lamentela. E già che c’è, sta sera farà un paio d’ore di straordinario. Da solo». Aveva detto tutto con voce tranquilla, ma lo sguardo era fiammeggiante, in parte anche divertito, di fronte alla reazione del suo superiore.

«Certo!». Roy deglutì rumorosamente e si mise subito all’opera, mentre Riza recuperava la sua lettera e se la infilava nella tasca dei pantaloni.

«Un’altra cosa, Colonnello. La prossima volta, se vuole sapere qualcosa, chieda. Non lo sa che domandare è lecito e rispondere è cortesia?».

Il pomeriggio passò liscio come non capitava da anni. Il Colonnello non fiatò e non osò alzare lo sguardo sul suo Tenente per tutto il tempo.

Alle sei, finalmente, il turno terminò e tutti se ne tornarono a casa. L’ultima ad uscire fu il Tenente Hawkeye.

«Signore. Per la cronaca, il Sottotenente Andrea S. è una mia cara amica. Ha partorito pochi giorni fa e mi ha scritto chiedendomi di andarla a trovare. Mi ha anche mandato una foto del suo bambino». Detto questo, senza aspettare risposta, uscì chiudendosi la porta alle spalle, lasciando il Colonnello sulla sua sedia a maledirsi.

Dannata vocina! La prossima volta che provi anche solo a sussurrarmi qualcosa sta certa che non ti ascolterò! E si è anche messo a piovere…

Note finali:

“I regali fatti agli amici non sono preda del fato:/ avrai soltanto le ricchezze che hai donato” Marco Valerio Marziale

Sabato mattina, giorno di mercato.

La giovane Riza aspettava sempre con impazienza il sabato, perché le piaceva tantissimo camminare tra le vie ingombre di bancarelle ricolme di merci di tutti i colori ed odori, circondata da sconosciuti che chiacchieravano allegri dei fatti propri. La faceva sentire come un uccellino a cui, dopo tanto tempo, viene aperta la gabbia e può finalmente dispiegare le ali e muoversi in libertà sotto i tiepidi raggi del sole.

Amava casa sua, ma erano più le volte che la considerava una prigione, piuttosto che un rifugio confortevole. Questo soprattutto a causa del carattere del padre, chiuso in se stesso, rintanato in quello studio polveroso. Gli unici momenti, pur abitando sotto lo stesso tetto, in cui riuscivano a vedersi corrispondevano a quelli dei pasti, ed anche in quelle occasioni, le parole che il signor Hawkeye rivolgeva alla figlia erano poche e fredde. La situazione era leggermente migliorata dopo l’arrivo del nuovo apprendista, ma il cambiamento non era stato così drastico da farle mutare idea rispetto al tanto atteso sabato mattina.

Quel giorno Riza doveva fare la spesa, ma questo non le avrebbe di certo impedito di curiosare tra gli altri banchetti.

All’ultimo minuto, però, Roy aveva deciso di accompagnarla, quasi sicuramente, anche lui per evadere da quella casa. Questo scombinava i piani della ragazzina, ma pazientemente e con un sorriso accennato acconsentì alla richiesta di quel giovane dai capelli neri sempre spettinati.

Camminarono in silenzio fino al centro della città, senza imbarazzo. Lui era arrivato da giusto un paio di mesi, ma aveva subito compreso l’indole della figlia del suo maestro, taciturna e discreta.

Appena il vociare della folla, impegnata in compere, o più semplicemente alla ricerca di un po’ di svago, dalla monotona vita di campagna, fu ben udibile, Roy domandò «Cosa dobbiamo prendere?».

«Un po’ di frutta e verdura fresca, le uova e il pane».

«Preferisci che ci dividiamo, per fare prima?»

«Non è costretto ad aiutarmi. Posso anche fare da sola».

«Ma a me fa piacere».

Riza non rispose perché non era abituata a certe gentilezze. Abbassò lo sguardo sul cestino ancora vuoto.

«Allora è deciso. Ti accompagno».

«Grazie».

Cominciarono a girare tra i banchetti, Riza sicura, con occhio attento sulla merce, mentre Roy allegro e lieto di passare un po’ di tempo sotto il tiepido sole primaverile, in mezzo alla gente. Per un carattere socievole e solare come il suo era un sacrificio dover rimanere chiuso tra quelle quattro mura sopra polverosi volumi scritti in un linguaggio pressoché incomprensibile. Ma se il prezzo, in cambio di questo sacrificio, era la conoscenza dell’alchimia, allora ne valeva la pena. Anzi, aveva imparato che aspettare a lungo una cosa, gliela faceva assaporare meglio una volta giunto il momento.

Per prima cosa presero il pane, ancora caldo e fragrante. Si fecero dare una pagnotta in più, da sbocconcellare mentre passeggiavano.

Una volta di fronte al banchetto di frutta e verdura, Roy si lasciò sfuggire, «Torta di mele… sarà una vita che non ne mangio una fetta». Allora Riza, dopo avergli sorriso, si fece aggiungere alla merce già comprata una mezza dozzina di quei pomi, belli rossi e lucidi, esposti proprio davanti a loro. Così, non solo avrebbe fatto qualcosa per far sentire più a suo agio l’allievo di suo padre, ma anche lei avrebbe potuto passare un paio d’orette in maniera alternativa.

Continuarono il loro giro, fermandosi di tanto in tanto ad osservare le mercanzie più strampalate. Ad un certo punto Roy molto gentilmente si era offerto di portare lui il cestino ora ricolmo di tutta la spesa, visto che doveva pesare.

Riza, non abituata a questo genere di attenzioni, accettò con imbarazzo.

Stavano girovagando per ultimare gli acquisti, quando l’attenzione di lei fu catturata da un banchetto in particolare, in cui erano esposte tutti oggetti per la cura personale: spazzole, saponette profumate, limette per le unghie. In realtà quello su cui si era focalizzata era un fermaglio, piuttosto semplice, quasi anonimo.

«Ti piace?» le domandò Roy con mezzo sorriso.

«Cosa me ne faccio. Io tengo i capelli corti…». E così mise fine a quella discussione appena iniziata.

Quando anche le uova furono pagate, l’ora di pranzo era ormai vicina, pertanto i due si misero sulla strada del ritorno. Ne avevano percorso una buona metà, quando Roy posò il cestino a terra. «Ho dimenticato una cosa. Tu intanto vai pure a casa». E senza fornire ulteriori spiegazioni si diresse di corsa verso il centro della cittadina.

***

Erano passati alcuni anni ed il destino aveva fatto in modo che Riza e Roy si rincontrassero e diventassero collaboratori.

Nonostante il tempo passato il loro legame, per quanto bizzarro e privo di una vera e propria identità precisa, non si era deteriorato.

Il Colonnello Mustang aveva sempre saputo che un giorno si sarebbero rivisti e aveva in tutti quegli anni conservato gelosamente un oggettino di poco valore, se ovviamente non si considerava quello affettivo.

Il Tenente Hawkeye, nel frattempo, aveva deciso di farsi crescere i capelli. Oramai erano di una discreta lunghezza, oltre le spalle, e le davano fastidio mentre lavorava. Doveva proprio decidersi ad andare ad acquistare un fermaglio per tenerli su, almeno finché si trovava sul posto di lavoro.

Tuttavia qualcuno l’aveva anticipata, e di parecchio.

Un pomeriggio era arrivata in ufficio, (la mattina, infatti, l’aveva passata al poligono), ed aveva trovato nel primo cassetto, quello in cui teneva le pratiche più urgenti da sistemare, una scatolina rettangolare. Curiosa, perché il giorno prima non c’era, ma soprattutto perché non era stata lei a mettercela, l’aprì.

Il contenuto la lasciò parecchio sorpresa: un fermaglio, piuttosto semplice, quasi anonimo, ma famigliare.

Alzò lo sguardo, incontrando gli occhi del Colonnello, e mimò un grazie con le labbra prima di tirare su la lunga chioma dorata.

Note finali:
Sembra proprio che il raccontare un evento della loro adolescenza per poi legarlo con un'immagine al presente stia diventando il mio must! Credo non ci sia molto da dire, a parte il fatto che mi ha messo seriamente in crisi questo theme, perché sono andata avanti giorni a chiedermi cosa scrivere. Non sono completamente convinta perché mi vedo giocato il theme 052 fermaglio per capelli, ma pace! Mi inventerò qualcosa... spero... Il riferimento, questa volta, è ad un episodio OAV, in cui si spiega il motivo per cui Winry abbia così tanti buchi alle orecchie e Riza decida di farsi crescere i capelli. Io l'ho trovato piuttosto carino...Voglio ringraziare davvero di cuore Castiel per il suo supporto, che sempre puntualmente mi lascia dei commenti belli belli... Thanks! A lot!

“Tu non ricordi; altro tempo frastorna/ la tua memoria; un filo s'addipana.”, La casa dei doganieri, Le Occasioni, Eugenio Montale

Prima d’incontrarti avevo disimparato a ridere.

Di tanto in tanto un sorriso appena accennato, molto più raramente una risatina dal gusto falso e lievemente isterico, ma è solo dopo averti visto ricoperto di farina con ai tuoi piedi due, o forse tre uova rotte, con un’espressione che voleva essere dignitosa e che cercava allo stesso tempo di nascondere la voglia di sotterrarsi che ho riso. Talmente forte da assordarmi con la mia stessa voce, irriconoscibile da tanto non ridevo. Poi tu hai detto «Cosa c’è da guardare? Può capitare!» ed allora io mi sono accasciata a terra per il troppo ridere, con il mal di pancia e il respiro corto.

Prima d’incontrarti avevo smesso di sognare.

Non avevo obbiettivi, vivevo alla giornata, lasciandomi scivolare addosso cose belle e brutte, senza nemmeno cercare di distinguerle. Poi sei arrivato con i tuoi sciocchi ideali, le tue stupide illusioni e i tuoi meravigliosi sogni. Ho cominciato a provare dolore e a gioire delle piccole vittorie di ogni giorno. Inizialmente ho deciso di condividere anch’io tutti quei tuoi sogni, ma poi ne ho creati di miei, ho iniziato a camminare con le mie gambe.

Prima d’incontrarti il mondo era bianco, nero e grigio.

La mamma era morta che ero una bambina. L’immagine dei suoi capelli color del grano, delle sue guance rosa e del suo grembiule a fiori colorati è stata sostituita dal ricordo del suo viso bianco bianco e l’abito nero nero. La bara mogano calata nella fossa del cimitero, mentre eravamo immersi dalla nebbia e nel grigiore di quella giornata d’inverno. Pian piano, giorno dopo giorno ho ricominciato a vedere i colori: il rosso del tuo maglione preferito, il verde del prato dove ti sdraiavi a studiare mentre io stendevo la biancheria, il blu dei tuoi occhi spesso sorridenti.

Prima d’incontrarti non ci avrei mai creduto, se mi avessero detto che sarei diventata un militare.

Ma ho intrapreso quella strada. Me ne sono pentita? Sì, parecchie volte, ma non tante come quelle in cui invece ho riconosciuto che fosse la più giusta decisione della mia vita. Forse la carriera del soldato mi ha indurita, forse agli occhi degli estranei appaio algida e incapace di provare compassione, ma sicuramente tutta quella esperienza indotta mi ha arricchita e mi ha fatto crescere.

Prima d’incontrarti non avevo capito cosa significasse veramente amare.

Nemmeno tu l’avevi capito, uomo di scienza con le risposte ai grandi quesiti sulla vita. Ma insieme l’abbiamo imparato, sbagliando, vivendo, sbagliando ancora. Ogni errore era una conquista. Ce ne abbiamo messo di tempo, ma adesso sappiamo di essere più forti insieme; sappiamo che la vera felicità si gusta in due, non da soli; sappiamo di poter contare l’uno sull’altra, basta… uno sguardo.

Prima d’incontrarti ritenevo le fiabe mera fantasia.

Ero convinta che fuori, nel mondo, ci fosse qualcuno che aspettava solo me, la mia anima gemella, che avrei sposato, con cui avrei creato una famiglia e con cui sarei invecchiata. Di certo non sapevo fossi tu. Ma ogni volta che i nostri sguardi si sono incrociati, in tutti questi anni, c’era come una sensazione dentro di me che mi avvertiva che ero di fronte al mio principe azzurro.

Prima d’incontrarti…

Insomma. Basta rimuginare sul passato. Come dice quel filosofo? Carpe diem! Viviamo il presente… e baciamo il futuro.

Tu ti chini e baci nostro figlio, che scalcia nella mia pancia e non vede l’ora di conoscere il suo papà.

Note finali:
Oh mio Dio, che faticaccia... questa è la seconda, o forse più probabilmente la terza versione che scrivo di questo theme. Tutte ovviamente diverse, non solo stilisticamente, ma proprio come soggetto trattato. Ho mandato fuori di testa Elisa, la mia somma ed unica Beta, a cui sono capace di inviare mail anche in piena notte! Poi alla fine, esasperata lei, esasperata io mi sono fermata con questa versione. Non sono pienamente soddisfatta, perché praticamente ho centrato solo la seconda parte del theme, cioè, "prima che ci conoscessimo"; per quanto riguarda "passato sconosciuto", portate pazienza e lavorate (tanto!) di fantasia. E' possibile che le altre versioni le modifichi un pochino e ve le propini comunque...
Una precisazione, c'è una licenza poetica perché Carpe Diem l'ha detto Orazio, che era un poeta, non un filosofo, ma chiudete un occhio anche su questo, vero?
Ultima cosa, poi vi lascio in pace. La citazione iniziale sono i due versi centrali della poesia "La casa dei doganieri", che vi consiglio di andare a leggere. Io la trovo bellissima, il che è tutto dire visto che me l'ha spiegata le Vecchia...
Un grazie speciale alle mie due splendidi fan che recensiscono sempre:
Avis: Spero non ti dispiaccia se rispondo ad entrambe le recensioni qui. Non sei affatto una commentatrice disgraziata, tutt'altro. Sei davvero tanto cara ed io adoro le tue recensioni, anche se arrivassero un mese in ritardo. Ti capisco benissimo riguardo all'università. Io riesco a scrivere proprio nei momenti morti tra una lezione e l'altra, e purtroppo, o per fortuna, sono tanti... Sono contenta che Crime and Punishmente ti abbia divertita e ti abbia strappato qualche risata, vuol dire che sono riuscita nel mio intento. Grazie soprattutto per i complimenti relativi a Store-lined streets. Io adoro tergiverasare sul loro passato, che è piuttosto fumoso, il che se da un lato è un grosso svantaggio perché non ci consente di avere la panoramica completa, dall'altro invece ci permette di sbizzarrirci creando situazioni di ogni genere. Grazie ancora. Un bacio!

“Potrei prometterti di amarti ed onorarti, potrei prometterti di esserti vicino in salute e in malattia, potrei dirti ‘finché morte non ci separi’, ma non lo dirò. […] Ti prometto di mettere il mio cuore nelle tue mani. Io ti prometto me stesso.” Preston Burke, Grey’s Anatomy, Nuove scelte, episodio 25, season 3.

Roy Mustang chiuse la porta alle sue spalle e raggiunse la sua dolce metà indaffarata a lavare i piatti della cena. Tirò fuori i bicchieri dall’acquaio e li asciugò con cura, prima di depositarli nella credenza sopra la sua testa. Il marito l’aveva osservata appoggiato allo stipite della porta della cucina, incantato. Non poteva essere vero: Riza Hawkeye, da troppo poco in Mustang per esserci già abituato, che con una traversina bianca e i guanti di gomma si muoveva tranquilla per la stanza, intenta in quei gesti quotidiani, tipici della casalinga.

Finalmente lei si voltò, per rivolgersi al marito. «Cosa voleva Edward?» domandò curiosa.

L’ex Alchimista d’Acciaio si era infatti presentato alla loro porta di casa, senza nessun avviso, al che, inizialmente, entrambi avevano pensato ad una nuova minaccia per lo Stato.

Niente di tutto ciò, fortunatamente. Ed doveva semplicemente scambiare due paroline con il Comandante Supremo, e non solo quelle. Tra Roy ed Edward c’era stato uno sguardo d’intesa e i due si erano spostati in salotto, mentre Riza aveva deciso di darsi ai piatti, parecchio perplessa, per il semplice fatto che non c’erano state urla, battutine sarcastiche o espliciti insulti tra i due.

Roy si rigirò la fede lucente, come per comprovare la sua esistenza.

«Niente. Mi doveva dei soldi».

«Ti doveva dei soldi?». Quella risposta non era stata per niente esaustiva, anzi, aveva dato vita a nuove domande, che quasi quasi aveva paura di fare.

«Una lunga storia» replicò con un mezzo sorriso, ma subito, allo sguardo preoccupato della compagna, aggiunse «Gli avevo semplicemente prestato dei soldi, che mi ha restituito».

«Mi auguro tu non gli abbia chiesto gli interessi». Perché quel tono faceva sembrare quelle poche parole come una minaccia?

«Certo che mi ha pagato gli interessi!».

Riza sbarrò gli occhi e tirò uno scappellotto sul braccio del marito, riprendendolo come un bambino che ha appena confessato la sua ultima marachella.

«Sto aspettando le tue più che giustificate spiegazioni» affermò portandosi le mani sui fianchi.

Roy non poté fare a meno di scoppiare a ridere. «Era un gioco».

Se possibile la sua mogliettina, che di dolce in quel momento aveva ben poco, assunse un’espressione ancora più severa. Cominciò a battere un piede con impazienza. In realtà una piccola parte di lei si stava molto divertendo.

«È iniziato alcuni anni fa, con 520 cens. Mi aveva chiesto delle monete per fare una telefonata e poi mi aveva detto che me le avrebbe restituite solo quando sarei diventato Comandante Supremo».

«Non può essere venuto qui per restituirti solo 520 cens» constatò lei, che aveva intravisto una bella busta bianca, tutta rigonfia, sotto il cappotto del più grande degli Elric.

«Infatti me ne ha dati 10.000».

«10.000? Ma sei uno strozzino della peggior specie!».

Il tono ora si era fatto indignato e sicuramente, se solo avessero avuto dei vicini, quei poveretti avrebbero cominciato a battere con la scopa sul soffitto. Questo era uno di quei momenti in cui entrambi benedivano il fatto che Roy avesse fatto carriera ed ora loro due potevano abitare in una graziosa casetta singola.

«Aspetta. La storia non è finita qui». Sul fatto che lui si stesse divertendo come un matto non c’erano dubbi.

«Ti ascolto».

Lui riprese «Il giorno in cui sono stato ordinato Comandante Supremo, lui mi ha subito restituito i miei famosi 520 cens. Ma nella stessa occasione me ne ha chiesti altri 4.000, con la promessa che me li avrebbe restituiti una volta che fossi riuscito a ristabilire la democrazia. Riaperto il Parlamento lui si è presentato puntuale nel mio ufficio con i miei 4.000 cens».

S’interruppe un secondo per ridere.

«Non c’è che dire. Lui ha proprio naso. Mi aveva pronosticato una vita molto lunga e c’ha preso in pieno».

«Non parlare troppo presto. Sto ancora aspettando la fine di questa assurdità. Solo allora deciderò cosa fare di te».

Teatralmente deglutì prima di riprendere il suo resoconto. «Ma di nuovo mi ha chiesto altri soldi- i 10.000 cens- che mi avrebbe restituito solo dopo che avessi mantenuto una promessa…». Lasciò volutamente la frase in sospeso.

«Spero per te fosse qualcosa di lecito».

«Mi ha fatto promettere che… ti avrei sposato».

«Cosa, scusa?».

«Mi avrebbe ridato i soldi solo dopo che ti avessi sposato. Quindi, visto che ora siamo a tutti gli effetti marito e moglie…».

Ma lei lo interruppe «Ancora per poco, se il nostro matrimonio vale solo 10.000 cens».

Roy scoppiò a ridere e andò ad abbracciare stretta la moglie, cosicché non si potesse liberare dalle sue braccia tanto facilmente. «Riza, è solo un gioco! Credi davvero che potrei mai dare un valore monetario alla vita con la persona per me più importante al mio fianco? E tanto per chiarire. Non ti ho chiesto di sposarmi solo perché Edward mi ha fatto promettere e chiesto dei soldi. L’avrei fatto comunque».

Rassicurata si abbandonò all’abbraccio.

«Allora questo gioco è finito?» domandò, dopo che Roy le ebbe posato un bacio sulla testa.

«Non proprio. Mi ha strappato una nuova promessa e un assegno da 25.000 cens». Improvvisamente lui si era aperto in un sorrisino particolarmente malizioso.

«Di cosa si tratta?» domandò con una punta di sospetto, sempre stretta nell’abbraccio del marito.

«Diciamo che bisognerà aspettare almeno nove mesi per riavere indietro quei soldi, e puoi giurarci che li avremo fino all’ultimo centesimo».

Detto questo prese in braccio la moglie diretto in camera da letto.

Note finali:
Orbene, da dove iniziare con questo theme? Probabilmente dal fatto che quasi sicuramente ho reso i personaggi OOC, ma spero che solo ed esclusivamente per questa volta voi chiudiate un occhietto. Le mie due beta erano così entusiaste quando hanno letto che non me la sono proprio sentita di cambiare niente. Ovviamente il riferimento è al capitolo "La promessa da 520 cens" del volume 16 del manga. Devo dire che sono più che convinta che tutti, tranne le due persone in causa, si siano accorti di una... certa simpatia. La vogliamo chiamare così? Compreso Ed, che, dopo esser stato toccato anche lui dall'amore comincia a vedere tutto rosa e a forma di cuoricino, quindi si mette in mezzo, prendendo, in un certo senso il ruolo di cupido. Penso di non dover specificare quale sia l'ultima promessa che Roy ed Ed si sono fatti. Un'ultimissimissima cosa, poi me ne vado, perché questo spazio sta assumendo dimensioni pantagrueliche. La citazione iniziale è presa da Grey's Anatomy, che io adoro. Se pur molto, molto velati, nel theme ci sono anche alcuni riferimenti nascosti alla promessa matrimoniale di Roy. Bien. Je vais...
Prima però un grazie grande grande a
Avis: Mi hai fatto commuovere. Che commento bellissimo. Ed io che ero stra scettica riguardo a quel theme... Sono stra felice di esser riuscita a centrare la psicologia di Riza e mi fa piacere che il collegamento con Montale ti sia piaciuto. Per quanto invece riguarda il maestro Hawkeye, penso sia opinione comune che in quanto ad alchimista non gli si possa contestare nulla, in quanto a padre, invece, qualche piccolo appunto non gli avrebbe di certo nuociuto. Veramente mi hai quasi fatto piangere per la commozione con la tua ultima recensione e sono soprattutto contenta che tu consideri il mio un lavoro ben fatto, perché cerco di metterci tutta me stessa... grazie! Un bacio
Castiel: ed ecco qui anche l'altra che mi ha quasi strappato una lacrimuccia di commozione. Anche la tua recensione era bellissima. Mi hai proprio fatto sentire importante. Sono ultra felice che ti sia piaciuto il theme e che anzi sia diventato il tuo preferito. Sappi che da questo momento ho iniziato con lo studio serio, quindi dubito che riuscirò a raggiungerti con i Themes, compagna di avventure! Non ho molto altro da aggiungere, se non un enorme grazie!

“Si commette un crimine contro Dio quando ci si nega l’amore. Dovrebbe essere l’undicesimo comandamento”, Jane Eyre, telefilm 2006

Sono un peccatore. Su questo non c’è alcun dubbio.

Ho infranto qualunque legge morale e sacrosanta esistente. Scritta e non.

Non desiderare la roba d’altri.

La mia vita si è basata sulla ricerca dissennata di ottenere ciò che non era mio. Mi nascondevo dietro un’ideale, che, mi ero convinto, fosse giusto e giustificabile. Ma forse non è stato proprio così.

Non desiderare la donna d’altri.

Non solo l’ho desiderata, ma me la sono anche presa, senza chiedere il permesso e senza ringraziare. In fondo anche loro volevano essere rapite, occupare un posto nel mio letto, sotto le mie coperte, in mia compagnia, anche per una sola notte.

Non dire falsa testimonianza.

Perché non modificare appena la verità, se alla base c’è un fine nobile? Alla fin fine non si tratta di testimoniare il falso, ma di tralasciare particolari, oppure enfatizzare sulla soggettività.

Non rubare.

Anche i bambini sbagliano. E poi, due caramelle, cosa saranno mai?

Non commettere atti impuri.

La purezza… virtù rara da trovare ai giorni nostri. Sarebbe più facile trovare un quadrifoglio nel deserto.

Non uccidere.

Sciocco idealista colui che per primo pronunciò queste parole! Non uccidere… Sarebbe dovuto venire a ricordarmelo ai tempi della guerra di Ishval. Ma forse gli avrei riso in faccia, più per la disperazione che per altro. Quante vite umane ho strappato? Non ne ho idea. All’inizio ho provato a contarle, però, ad un certo punto, non ricordo nemmeno più quando, ho smesso. Troppe. Innumerabili. Non riuscirò mai a lavare via completamente il sangue dalle mani. Ma va bene così. Almeno sono sicuro di non dimenticare mai.

Non nominare il nome di Dio invano. Non avrai altro Dio al di fuori di me.

Il problema più di tanto non si pone visto e considerato che sono un uomo senza Dio. La scienza è la mia divinità. A lei mi rivolgo e lei mi risponde. Almeno è stato così per molto tempo.

Comunque sia, credo di non credere in Dio, sempre se è uno solo. Però, sono preoccupato dall’idea dell’Inferno, forse perché in parte si è concretizzato proprio davanti ai miei occhi, proprio qui, sulla terra, in mezzo alla folla.

Si dice che esistano tanti gironi e che, una volta trapassato, la tua anima venga spedita nel girone che corrisponde al tuo peccato più grande. Per quanto mi riguarda, non so proprio dove potrei capitare.

Lussuriosi? Possibile, ma non certo. Ho avuto tante donne, ma non sono mai stato schiavo del sesso.

Golosi? No. Sono più le volte in cui mi sono negato il cibo, di quelle in cui mi sono abbuffato.

Avari e prodighi? Forse un po’ spilorcio lo sono, ma si tratta pur sempre di economia.

Iracondi? Questo è parecchio plausibile. In fondo sono proprio come il fuoco che governo: basta anche una sola scintilla per farmi divampare.

Accidiosi? La pigrizia sul lavoro è solo una maschera. Non sono un lavativo. Se lo fossi stato ora non mi troverei dove sono.

Eretici? Ripeto. Non sono una persona spirituale. Mi sono sempre solo affidato alla scienza. Se anche questo è commettere peccato…

Violenti? Contro chi? Il prossimo? Me stesso? Dio? L’essere umano è violento per natura, ed è quindi naturale che si abbandoni, di tanto in tanto, ai suoi istinti primordiali. Forse, nel mio caso, è capitato un po’ più spesso rispetto ai canoni tipici, ma, il più delle volte non era intenzionale. Mi era stato ordinato.

Traditori? Mi sono macchiato di tradimento, sempre in nome di quell’ideale più grande. Ho tradito la patria e gli amici, cercando come giustificazione il fatto che tutto fosse a fin di bene. Ma non voglio finire tra i ghiacci, molto meglio le fiamme.

Fraudolenti? Ecco, questo è il girone che si confà a me. Ho adulato, ingannato, ma soprattutto ho mentito. A chiunque. Ai miei superiori, ai miei sottoposti, ai miei nemici, ai miei amici, ai miei cari. Gli ho illusi. Ma ho anche illuso me stesso, perché il primo a cui racconto menzogne costruite ad arte è me stesso.

Sono un bugiardo e la più grande bugia che mai io mi sia raccontato e a cui mi costringo a credere ogni singolo momento della mia vita è che non sogno degno di amare né di essere amato. Me lo sono sempre impedito. Questo perché sono un peccatore.

Note finali:
In ritardo rispetto al solito e di questo mi scuso, ma proprio ero a corto di idee. Poi, illuminazione. (Vorrei solo specificare che erano tipo le quattro di mattina...).
Posso capire che questo sia stato più pesante degli altri theme da leggere e veramente vi faccio i miei complimenti se siete riusciti ad arrivare fin a qui! I riferimenti sono in primis ai dieci comandamenti della Bibbia, tra cui ho escluso quello riguardo le festività e quello che dice "Onora il padre e la madre", perché a livello di contenuto erano poco utili. Inoltre ci sono riassunti i gironi infernali danteschi. Solo in un secondo momento mi sono resa conto che avrei potuto impiegare i peccati degli homunculus, ma ormai il theme si era scritto (questa volta non voglio prendermi responsabilità!).
Sono inoltre dispiaciuta che il RoyAi sia praticamente assente. Un rapidissimo e velatissimo accenno finale.
Mi rendo anche conto di aver reso Roy particolarmente cinico, però ci sta nel suo carattere il prendersi tutte le responsabilità sulle sue spalle... non so se sono riuscita a spiegarmi a dovere. Pazienza, cercherò di rifarmi con il prossimo theme.
Un ultimo appunto, prima di lasciarvi. Io adoro Jane Eyre! La frase si trova solo nel telefilm del 2006, che consiglio vivamente di vedere, ma soprattutto consiglio di leggere il libro. Non so per quale ragione ma sotto alcuni punti di vista trovo una grande rassomiglianza tra Mr. Rochester e Roy, come tra Jane e Riza. Mettiamoci anche il finale, che qui non svelo... Concludo i miei sproloqui con i ringraziamenti a chi legge, a chi mi ha inserito tra preferiti, seguiti e da ricordare.bMa soprattutto la mia gratitudine ed il mio affetto vanno a Castiel ed Avis! Ragazze grazie veramente di cuore per il vostro continuo sostegno! Credetemi. Non ho parole per esprimere quello che provo ogni volta che leggo le vostre recensioni così entusiaste! Per le recensioni ho utilizzato il nuovo metodo di risposta, quindi non trovate qui le rispote. E' giusto comunque anche menzionare ChiuEs, che ha commentato lo scorso capitolo!

“Se è vero che infedeli si nasce, fedeli si diventa”, Giacomo Daquino

Il Generale Roy Mustang quel lunedì mattina era parecchio distratto e la colpa non era certo imputabile del tutto al caldo soffocante del deserto di Ishval.

Meccanicamente ogni due minuti il suo sguardo si spostava da documenti, resoconti, rapporti verso la finestra. Una rapida occhiata, quasi colpevole- gli sembrava infatti di spiare- e di nuovo provava, invano, a concentrarsi su quei noiosi incartamenti.

Jean Havoc, il cui compito sarebbe dovuto consistere nell’aiutare il suo superiore, l’aveva già richiamato un paio di volte, primo perché voleva finire il prima possibile per andare nella sua camera a riposarsi, secondo perché quell’atteggiamento lo stava seriamente innervosendo. Tuttavia era bastato poco per far capire al povero militare che i suoi richiami non servivano a nulla, perciò aveva deciso di mettersi ad osservare l’Alchimista.

Ed eccolo impegnato a leggere probabilmente sempre la stessa riga di un documento che stava sotto il suo naso da quasi un’ora. Trenta secondi soltanto, prima che alzasse la testa e si girasse in direzione della vasta finestra. Così un paio di volte.

Incuriosito, ma anche molto seccato, si avvicinò, nemmeno con tanta discrezione, alla suddetta finestra per osservare anche lui quale fosse la ragione che rendeva il suo superiore più indisciplinato e lavativo del solito.

La prima cosa che vide fu una chioma bionda su una divisa blu. E tutto fu chiaro.

«Il Capitano sta dando istruzioni» constatò, con lo sguardo puntato sempre sull’esterno.

Silenzio, mentre il Generale fingeva improvvisamente d’interessarsi ai suoi dannati documenti.

«Secondo me stava meglio con i capelli lunghi. Non trova?» domandò poi Havoc con falsa ingenuità.

«Le donne tagliano i capelli quando hanno bisogno di un cambiamento» replicò l’altro con una noncuranza talmente mal celata, che subito prese la penna in mano e cominciò a scarabocchiare su un foglio, sicuramente importante, per coprire il suo strano comportamento.

«Cambiamento, dice? Sarà… Comunque secondo me i capelli lunghi le donavano di più. Non che ora stia male, però non so… ».

Pausa. Pochi secondi in cui il Sottotenente Havoc decise di provare se le sue intuizioni erano esatte.

«Nonostante tutto, capelli corti o lunghi, divisa o non, Riza rimane comunque una bellissima donna». Roy rabbrividì, impalandosi sulla sedia, mentre il suo sottoposto gli dava le spalle. Aveva sentito bene? Havoc aveva fatto degli apprezzamenti su… su… O santi tutti del paradiso! La aveva chiamata addirittura Riza! E il rispetto per i superiori, dove era andato a finire?

«Lei non trova, Generale?» domandò a tradimento, mentre un ghigno malizioso si disegnava sul suo volto.

Mustang s’impietrì ancora di più e quasi cadde dalla sedia sulla quale era seduto, per non parlare del fatto che si era praticamente soffocato con la sua stessa saliva. Cercò di recuperare un minimo di contegno, prima di rispondere. «No…». Calcò su quel no, non capendo che così facendo si stava praticamente auto affossando.

«No? Intende dire che non è una bella donna?».

«No». Di nuovo.

«Non capisco, Signore. Lei pensa che Riza sia o non sia una bella donna?». E continua ad infilare il ditino nella piaga.

«Non dovresti fare certi discorsi, Havoc. Potresti anche finire davanti alla Corte Marziale» tentò, con scarsissimo risultato, di minacciarlo il Generale.

«Andiamo Signore. Avessi offeso il Capitano, capirei, ma visto che le ho fatto un complimento non serve che faccia la voce grossa. Poi io le ho solo chiesto un parere. Da uomo a uomo. Si sa, inoltre, che lei è un grand’intenditore in materia». L’adulazione finale avrebbe fatto certo crollare il suo interlocutore, che non si stava dimostrando un osso poi così duro, come aveva immaginato.

Ed infatti il Sottotenente non dovette attendere ancora a lungo.

«Devo darti ragione. Il Capitano», sottolineò la parola Capitano, «è un gran bella donna. Fisico asciutto, belle gambe, un bel taglio di occhi…» si interruppe quasi subito, essendosi accorto che stava per cadere in una gaffe colossale.

«Quindi devo dedurre che Riza, pardon, il Capitano Hawkeye, le piace, Signore?».

«Non dire assurdità, Havoc!». Ma, purtroppo per lui, aveva risposto troppo in fretta e con un tono troppo indignato anche solo per sembrare vero.

Resosi conto di aver compiuto un mastodontico passo falso, cercò di assumere un tono autoritario per ordinare al suo sottoposto «Sottotenente Havoc, vogliamo tornare al lavoro?».

«Ma certo Signore» replicò mettendosi addirittura sull’attenti.

Così i due ritornarono alle noiose carte. Havoc, però, continuava a tenere sott’occhio il Generale.

Passarono sì e no due minuti che il suo superiore alzò lo sguardo e si girò in direzione della finestra.

Havoc sospirò, sorridendo. Roy Mustang poteva pure negare all’infinito che Riza Hawkeye non gli piacesse, ma era proprio il suo comportamento a tradirlo, costantemente.

Note finali:
Allora, ho speso un sacco di energie per questo theme, perché... beh, perché è proprio difficile, secondo il mio parere. (E sai che novità, lo dico per ogni theme...).
Il cadere nello scontato, banale, tragico, catastrofico è facilissimo con un titolo come tradimento. Mi spiego: Roy è un farfallone e su questo non ci piove, ma dopo che si è reso conto di amare Riza, lui ha occhi solo ed esclusivamente per lei. Quindi il tradimento tra i due è assolutamente intollerabile!
Perciò ho svicolato su questa alternativa: Roy che tradisce se stesso con il suo comportamento e che cerca di celare, ovviamente non riuscendoci,  i suoi sentimenti per la bella Riza.

“Se sapessi che oggi è l’ultima volta che sento la tua voce, registrerei ogni tua parola per poterla riascoltare una e più volte ancora”, Gabriel Garcia Marquez

«Ehi, Elizabeth! Come stai?».

«Oh, signor Roy. Grazie per avermi chiamata. Sta ancora lavorando?».

«Sì, ma volevo sentire la tua voce».

«Oh, ma signor Roy! Stia attento, perché se fa troppo il lavativo potrebbe prendersi una bella sgridata dalla sua assistente!».

«No problem! Adesso non è qui. Ultimamente abbiamo portato a termine un grosso lavoro. Per questo le ho concesso un giorno di riposo».

«Oh, sono felice per lei, signor Roy. Io, invece, sono molto occupata al mio locale e non penso di poter tornare a casa presto».

Alla fin fine tutta quella situazione si stava rivelando interessante per più di un motivo e lui doveva anche ammettere che un pochino si stava divertendo. Era dal giorno del funerale di Maes Hughes che il Colonnello Roy Mustang non si concedeva un po’ di svago. Non che quello potesse proprio essere definito con il termine svago, ma per qualche strana ragione lui avvertiva un lieve moto di divertimento all’altezza del petto.

Subito nell’ufficio quella sua conversazione aveva scatenato l’indignazione di molti, che cominciavano a maledire l’assenza del Tenente Hawkeye.

Ma al Colonnello non interessavano le cattiverie delle malelingue nel suo ufficio, (tra l’altro tutti uomini. Scandaloso come fossero più pettegoli di un’allegra combriccola di vecchie zitelle comari!). continuava a conversare tranquillamente al telefono con la signorina che aveva completamente catturato la sua attenzione. «Non ho avuto un momento di pace da quando sono qui a Central City, quindi pensavo di prendere qualche giorno di riposo».

«Oh! Pensa di andare da qualche parte?»

«Di recente sono andato in fissa con la pesca. Ti andrebbe di venire a pescare con me?».

Nel frattempo il Tenente Riza Hawkeye stava passando il suo giorno libero appollaiata in cima ad una vecchia torre abbandonata e di certo non si stava godendo il panorama. Anche lei stava parlando al telefono, proprio con un certo signor Roy.

Altro che giorno di riposo! Si trovava in missione. Una missione della massima segretezza, di cui erano a conoscenza solamente pochi uomini scelti da Mustang. Per il momento lei si limitava ad osservare e a riferire ciò che i suoi instancabili occhi di falco vedevano, tuttavia la prudenza non era mai troppa e lei avvertiva chiaramente nell’aria odore di scontro prossimo, perciò rimaneva il più ferma possibile, con il fucile imbracciato e i riflessi all’erta, pronta a far fuoco se necessario.

Il Tenente ed il Colonnello si erano messi d’accordo sul codice da impiegare, grazie al quale sarebbero riusciti a scambiarsi le informazioni. Così continuavano tranquillamente la loro conversazione, assumendo entrambi un tono frivolo e civettuolo, nel tentativo inoltre di stemperare un po’ la tensione.

«Okay, allora domani farò un salto in negozio. Che regalo vuoi che ti porti?». Il tono sdolcinato del Colonnello stava anche ottenendo il risultato di allontanare tutti i sottoposti ficcanaso nell’ufficio.

«Oh! Ma che gentile! <3 Porterebbe qualcosa anche per Kate? Quella ragazza recentemente lavora proprio sodo… Mi scusi solo un momento, signor Roy… Kate! C’è un cliente! Puoi chiamarmi Jacqueline, per favore?».

Il cliente in questione era un individuo non ben identificato, con una maschera sul volto. Però le sue intenzioni erano ben più che chiare. Sia Colonnello che Tenente, al momento, non potevano che lasciare tutto nelle mani del Sottotenente Havoc, appostato proprio nella stanza attigua a quella in cui Barry lo Squartatore ed il Maresciallo Falman erano segregati da alcuni giorni.

Lo scontro con il nemico appena arrivato si era poi spostato all’esterno, ed ora anche Riza poteva ben osservare la scena ed in caso intervenire. I muscoli erano tesi, gli occhi incollati sull’obiettivo e il dito fermo sul grilletto, pronto a premerlo. Le ci volle meno di una frazione di secondo per rendersi conto che i suoi compagni erano in pericolo. Sparò, colpendo,ovviamente, il bersaglio.

Il rumore dello sparo aveva fatto leggermente irrigidire Roy sulla poltrona del suo ufficio. «Ho sentito un sacco di rumore, che cos’è successo?». Doveva ad ogni costo cancellare l’apprensione dalla voce.

«Niente di cui preoccuparsi. Un cliente ha fatto qualcosa che non doveva a Jacqueline, così ho dovuto dargli uno schiaffetto».

Un grosso sospiro di sollievo trattenuto tra i denti, prima di riprendere il tono leggero e scherzoso. «Severa come sempre, eh? Elizabeth. Sembri molto occupata. Vuoi che metta giù?».

In cuor suo il Colonnello sperava proprio che la sua cara sottoposta gli rispondesse di no. Si sentiva molto più sicuro se continuava a sentirla parlare. E pensandoci bene, era dai tempi del suo apprendistato in casa Hawkeye che non sentiva Riza parlare così tanto, rivolgendosi a lui “semplicemente” chiamandolo per nome. C’era sempre quel reverenziale “Signore” in mezzo, che lo faceva sentire parecchio vecchio, ma la verità era che sentirsi chiamare per nome, lo faceva sentire più vicino a quella donna, che stimava, rispettava ed… amava? moltissimo.

«No, va tutto bene». Rispose lei senza esitazione, facendo trattenere un altro grosso sospiro di sollievo tra i denti a Mustang.

«Che succede?» domandò, impaziente di scoprire cosa stesse accadendo all’esterno.

«Niente… stanno litigando». Lei non si era mossa di un centimetro, sempre il fucile di precisione imbracciato e l’occhio sinistro chiuso, per prendere la mira. «Un problema con un altro cliente». Ora anche Barry lo Squartatore si metteva a fare i capricci, per un motivo a lei ignoto.

«Ci sono clienti che non sanno apprezzare il buon servizio, eh?».

Un verso di stizza da parte di Riza, prima di rispondere al suo superiore. «Già, questo mi fa andare su tutte le f…». Ma non finì la frase, dato che tutta la sua attenzione ora era rivolta ad un nuovo “cliente” inaspettato. «Pardon… Sono costretta a richiamarla più tardi. È appena arrivato un cliente speciale». Lapidaria, fredda. Era la voce del soldato in guerra, quello che nasconde tutte le emozioni in un microscopico cassetto della mente, che a sua volta viene abbandonato in un angolo oscuro. Era la voce di chi è pronto ad uccidere, senza pensarci due volte.

Il Tenente Hawkeye si voltò, trovandosi faccia a faccia con il nuovo ospite, che di umano non aveva neppure l’aspetto. Era ridicolo, sembrava quasi uno di quei pupazzetti utilizzati per pubblicizzare dei biscotti per la colazione. Ma l’alone di morte e distruzione che lo circondava non poteva essere assolutamente confuso con nient’altro.

Un colpo, dritto in mezzo agli occhi. Una creatura mortale sarebbe morta sul colpo, ma non l’individuo che le stava di fronte, che aveva appena appena indietreggiato.

Nella foga il microfono e la cuffia, grazie ai quali era rimasta in contatto con il Colonnello, erano caduti in terra, ma la comunicazione non era stata interrotta, cosicché Roy aveva sentito perfettamente lo sparo e i versi di quella aberrazione che adesso il suo Tenente stava fronteggiando. Senza che se ne fosse accorto l’Alchimista di Fuoco era balzato in piedi, ed ora stava urlando, lasciando sgomenti i pochi ufficiali che ancora si trovavano in quell’ufficio.

«Che succede? Elizabeth! Pronto? Ehi!».

Chiamò il suo Tenente con quel nome fittizio ancora ed ancora, ma alle sue orecchie arrivava solo una risata sguaiata, quasi sovrannaturale.

Fu un flash. Rapidissimo ma altrettanto nitido. Il corpo di Maes Hughes in una cabina telefonica su un lago di sangue.

No. Riza non avrebbe fatto la stessa fine. Lei era una guerriera, più forte di Hughes, più esperta, più attenta.

Ma perché non possedeva un super udito che gli permettesse di sentire i respiri di Riza, il battito del cuore di Riza? Solo quella assordante risata.

Lui avrebbe dovuto raggiungerla, trovarsi al suo fianco di fronte al nemico. E invece l’unica cosa che poteva raggiungerla in quel momento era la sua voce, che rimbombava chiaramente attraverso il microfono in quella postazione scelta con tanto cura, perché ritenuta praticamente inattaccabile.

Ma avrebbe anche voluto che la voce di lei gli desse la certezza che era ancora viva, che stava lottando. Ma niente, nemmeno un ansito.

Il Colonnello sbatté con forza una mano sulla scrivania, che traballò leggermente, imprecando per la frustrazione, la preoccupazione, la rabbia, ma soprattutto per la paura. Non poteva permettersi di perdere due persone care in un così breve lasso di tempo.

Sotto lo sguardo sconvolto delle persone che si trovavano nelle sue vicinanze, prese e se ne andò via di corsa. Salì in macchina e partì a tutto gas, mentre le imprecazioni continuavano ad uscire dalla sua bocca a cascata. «Merda… Ti prego, fa’ che sia ancora in tempo!». E mentre sfrecciava tra le vie della città, infrangendo tutte le regole del codice stradale, si ripromise che la prossima volta che avrebbe chiacchierato con Riza non ci sarebbe stato un telefono tra loro due.

Note finali:
E ci riuscì in un giorno solo! non so se ritenermi soddisfatta o schifata…
lascio a voi l’ardua sentenza.
Dopo averci pensato per circa un mese, perché sto c***o, volevo dire cavolicchio- sono una ragazza fine, io!- di theme non ha assolutamente senso!, sono riuscita a mettere insieme 1400 parole... La situazione è ripresa dal manga, come i dialoghi, of course- mamma mucca Arkawa quando ti ci metti sei geniale! I pensieri, molto poco coerenti, di Roy sono l'unica mia personale aggiunta, perciò anche in quanto ad originalità questo giro sono carente. Non so se sono riuscita ad esprimere bene il concetto, perciò adesso vi cuccate la spiegazione: quando Riza è attaccata in diretta telefonica- che fa molto romanzo thriller di Faletti...- ovviamente Roy sente tutto il trambusto, perciò vorrebbe che non solo le sue soavi urla raggiungessero la sua adorata sottoposta, ma anche il suo corpo, e qui si spiega il raggiungere la voce, più o meno... Per quanto riguarda, invece, l'irraggiungibile con la voce, si gioca il tutto sul fatto che Roy non riesce più a sentire Riza, ma solo i rumori della colluttazione, e dunque lui non sente la voce di lei, che è leggermente impegnata con l'homunculus, ed allo stesso tempo lei, sempre per lo stesso motivo, non sente le sopracitate urla soavi. La parte iniziale, anzi i primi due terzi sono assolutamente inutili. Ma dovevo pur riempire la pagina in qualche modo, no? Ed anche la fine è piuttosto deboluccia, insomma, uno schifo. Sono brava ad autodemolirmi, non trovate?
ok, direi che ho sclerato a sufficienza.
See you! Ringrazio sempre chi mi segue, ed in particolare le persone che molto gentilmente mi fanno sempre conoscere il loro parere. Serve citare? Direi proprio di sì: Avis, Silvery Lugia, Castiel,  Kiri Dellenger II

“Non fu però il padre ad accorgersi per primo che la bambina si era trasformata in donna. […] E la fanciulla stessa lo ignora più di chiunque altro, fino a quando un'intonazione di voce o il tocco di una mano le fanno balzare il cuore in petto e capisce, con un misto di orgoglio e di timore, che una nuova, più ampia natura si è risvegliata in lei.”, Sir Arthur Conan Doyle

C’è un uomo, sempre chiuso nel suo studio, chino su volumi scritti fitti fitti e polverosi. Più passa il tempo, più sembra che anche lui si ricopra di polvere, proprio come i suoi amati, preziosi libri.

Di tanto in tanto, però, l’uomo, che di nome fa Berthold Hawkeye, alza lo sguardo da quei caratteri minuti ed osserva il mondo fuori, la realtà esterna. Tuttavia, tutto ciò che vede è sfocato, poco nitido; questo perché i vetri dell’unica finestra sono sporchi, la luce della stanza è debole e la polvere che aleggia nell’aria costituisce un velo opaco davanti ai suo occhi. Oppure, forse perché sono anni che lui ha rinunciato a vivere la realtà. La sua vita consiste in cerchi alchemici e scambio equivalente. Nulla di più, nulla di meno.

Ma nonostante questo, lui osserva, prestando ben poca attenzione, il più delle volte per riposare la vista affaticata, ma osserva.

Ora quello che vede è un giovanotto dalla zazzera nera spettinata dal lieve venticello di fine estate, seduto con la schiena contro il tronco di un albero ed un libro aperto sulle ginocchia; ma più che alla lettura sembra interessato alla pesca sugosa che sta addentando con gusto.

Più in là una figurina bionda. Sa che è una ragazza solo per il fatto che indossa un abitino in lino di un rosa pallidissimo, quasi come la sua carnagione. I capelli infatti sono corti. Lei è impegnata a stendere il bucato.

Roy, è questo il nome del ragazzino, del suo allievo, finisce di mangiare la pesca e getta il nocciolo alle sue spalle, mentre Riza, quella fanciulla ancora bambina, ma appena donna, sua figlia, sta lisciando le pieghe di un lenzuolo appena steso. Lei si abbassa per raccogliere le mollette con cui fissarlo al filo, ma un alito di vento dispettoso solleva il lenzuolo e lo fa volare proprio ai piedi di Roy, che intanto ha ripreso la lettura da dove era stata interrotta prima dello spuntino.

Con passi piccoli e veloci Riza rincorre il lenzuolo volato via e si china per raccoglierlo. Ma anche Roy si è chinato proprio nello stesso momento. Così, complice un solleticante zeffiro estivo, i due si ritrovano con le punte dei rispettivi nasi che si sfiorano e si guardano. Il libro è scivolato in terra ed ora mostra la copertina rigida al cielo, mentre il lenzuolo è ben stretto sia nel pungo di lei, che nel pungo di lui.

Rapidissimi, come se fossero appena stati colpiti da una scossa elettrica, si alzano entrambi e Roy scioglie il pugno intorno al tessuto ruvido. Riza invece tira su, aggomitolandolo intorno al braccio, quello che pochi attimi prima era un lenzuolo fresco di bucato. Volta le spalle al ragazzo per andare a finire di stendere la biancheria. Ci mette meno di un minuto. Così, finita la sua mansione, raccoglie il catino in cui è finito il lenzuolo non più candido, e si dirige verso casa. Sul suo volto un sorriso colpevole, che tenta di nascondere, ed un lieve rossore che le imporpora le gote.

Roy ha raccattato il libro, ma il suo sguardo non è concentrato sulle formule alchemiche. Osserva la ragazzina, il suo salire sulle punte per fissare le ultime mollette, l’orlo della sua gonna che svolazza. Sul suo volto lo stesso sorriso colpevole, ma meno imbarazzato.

Berthold Hawkeye ha visto tutto questo: il volo del lenzuolo, il suo recupero, la scintilla nello sguardo di entrambi durata meno di un battito di ciglia, il suo allievo che osserva sua figlia, i loro sorrisi. Ma ormai è giunto il tempo di rimettersi a lavorare. Quello che è successo fuori non significa niente, se non che Riza dovrà rilavare quel lenzuolo, mentre Roy si troverà indietro con il programma da studiare e rimarrà sveglio fino a tardi per rimettersi in pari. Nulla di più, nulla di meno.

Ma la realtà, da cui lui si è isolato con tanto impegno, è ben diversa. Roy non è solo un moccioso dotato di una notevole intelligenza e Riza non è più solo una bambina. Loro due sono cresciuti, i loro sguardi, le loro emozioni sono cresciute. E Berthold Hawkeye non se ne è nemmeno accorto, perché non ha fatto altro che osservare il mondo attraverso quella finestra sporca, senza mai curarsi di provare anche solo per un momento ad aprirla e respirare un po’ di aria nuova.

L’uomo solo nel suo studio riabbassa lo sguardo sulle pagine ingiallite. Chiude per un secondo gli occhi, prima di riprendere con la lettura. La verità, lo avverte una vocina lontana dentro di sé, è che io non voglio accorgermene.

Note finali:
Special Guest di questo capitolo è il maestro Hawkeye. Cercare di descrivere il mondo attraverso i suoi occhi è stato piuttosto complicato, essenzialmente perché il personaggio è complicato. Ma in ogni caso volevo fargli fare questa apparizione, non solo perché così il theme risulta originale, ma soprattutto perché, per quanto odiosa, la sua figura è molto importante sia per Roy che per Riza.
Il mio spirito da studentessa di lingue è stato risvegliato dal titolo di questo theme, perché in inglese il verbo to realize possiede molti significati. Io ho scelto quello di “rendersi conto di…”, “accorgersi di…”. Ora, non conoscendo il giapponese, non so se ho dato l’interpretazione giusta. L’inglese, infatti, è solo il passaggio intermedio tra italiano e giapponese e si sa, proprio come quando si gioca al telefono senza fili, i fraintendimenti nel passaggio da una lingua all’altra sono facili. Ci sarebbero tante cose da dire, ma per questa volta preferisco non dilungarmi oltre. In ogni caso spero vi sia piaciuto! 
Voglio ringraziare davvero di cuore chi ha recensito lo scorso theme, che è stato accolto con tanto entusiasmo inaspettato. Grazie a Avis, Silvery Lugia, Kiri Dellenger II

“Non bisogna mai cercare di capire una donna. Le donne sono delle immagini; gli uomini sono del problemi. Se vuoi sapere che cosa una donna veramente intenda (Il che comunque è sempre pericoloso) guardala, non ascoltarla.”, Oscar Wilde

Maes Mustang, otto anni appena compiuti, monello per vocazione, si muoveva furtivo lungo il corridoio di casa. Proprio a causa di quella sua etichetta, anche se effettivamente non aveva fatto nulla di male, (a suo dire), in quel momento stava fuggendo dall’ira materna che di lì a poco si sarebbe scatenata. L’unica salvezza era raggiungere il suo porto sicuro, la schiena di papà, il prima possibile.

La causa del suo guaio era imputabile alla sua dolce sorellina: Beth Mustang, cinque anni, la principessa di casa.

Il piccolo Maes, che poi tanto piccolo non era, perché «Io ho già otto anni!», sapeva di rischiare andando a supplicare asilo presso il papà, visto e considerato che Roy proprio non riusciva a resistere agli occhioni blu della sua bambina, così simili ai suoi; tuttavia doveva tentare, altrimenti sapeva che l’avrebbe aspettato una bella punizione. La protezione del suo “papi” era l’ultima speranza.

«Maes Mustang!» lo raggiunse l’urlo soave di sua madre. Riza non era una donna che alzava la voce, fatta eccezione per due persone: rispettivamente Mustang Senior e Mustang Junior.

Il bimbo svoltò quindi l’angolo a tutta velocità, andando proprio a sbattere contro le gambe del suo salvatore, che lo afferrò sotto le ascelle prima che cadesse. Squadrò il figlio. «Cosa hai combinato sta volta?».

«Niente!» esclamò mentre assumeva il suo sguardo da cucciolo.

«Maes…». Ma il tono di Roy non era di rimprovero.

«Quasi niente…».

Roy mascherò un sorrisino di chi la sapeva lunga. «Va bene. La mamma sta arrivando. Fai una faccia dispiaciuta, mi raccomando!» gli fece l’occhiolino prima di spostarsi alle sue spalle.

Riza Hawkeye in Mustang arrivò con tutta la grazia consentita ad una donna al settimo mese di gravidanza, tenendo per mano la figlioletta che, dal canto suo, tirava su con il nasino. «Maes» cominciò stancamente, poiché al momento voleva solo stendersi sul divano con le gambe in alto e la compagnia di un bel libro. «Cosa hai fatto a tua sorella?».

«Niente! E comunque è tutta colpa sua!».

Questa volta sua madre non lo chiamò, si limitò a fulminarlo, cosicché Maes si fece piccolo piccolo contro le ginocchia del padre, che gli strinse le mani sulle spalle, come a ricordargli di sembrare il più avvilito possibile.

«Stavamo giocando ai parrucchieri» si giustificò, come se quello bastasse a spiegare la sua ennesima marachella.

«E questo è un buon motivo per tagliare tutti i capelli di Mary?» domandò retorica al figlio, mostrando la bambola preferita della piccola Beth, prima con dei bei boccoli castani, ora rapata quasi a zero. Maes abbassò lo sguardo sui piedi, seriamente dispiaciuto.

«Non dovresti dire qualcosa a Beth?» lo invitò Riza a parlare, con tono più morbido.

«Scusami Beth. Non lo rifarò più. Mi dispiace per Mary».

Nell’ingenuità ed innocenza dei suoi cinque anni, Beth smise subito di piagnucolare, rivolgendo un sorrisino al fratello che significava “Tutto perdonato”. Nel giro di dieci minuti avrebbe comunque trovato un nuovo giocattolo da eleggere a suo preferito.

«Vieni, amore. Andiamo a fare merenda» disse Riza mentre si dirigeva verso la cucina con la piccolina.

«Nessuna punizione?» domandò un incredulo Maes. Non poteva di certo essersela cavato con così poco.

«Sono troppo stanca per punirti. Ci penserà papà» affermò rivolgendo uno sguardo carico di sottointesi al marito.

«Papà…» supplicò con lo sguardo più carino e coccoloso che era in grado di fare.

«Vieni. Andiamo in giardino».

Appena furono fuori, lontani da orecchi indiscreti, il piccolo Mustang cominciò la sua accorata apologia «Papà, devi credermi. Non è colpa mia! Io non volevo nemmeno giocare ai parrucchieri. Io volevo giocare con le biglie in soggiorno». Roy sorvolò sul dettaglio che riguardava la distruzione del suo salotto e lasciò continuare il bambino. «Però volevo fare anche il fratello più grande. Devo allenarmi per quando arriverà il fratellino. Allora ho detto a Beth che giocavo con lei. Ma mi annoiavo e ho chiesto a Beth se potevo tagliare i capelli a Mary. E lei mi ha detto sì, come quelli della mamma nella foto di quando era piccola. Quella sulla libreria. Però poi lei si è messa a piangere perché Mary era brutta con i capelli corti ed è andata dalla mamma a dire che è solo colpa mia. Ma non è colpa mia. Non tutta».

«Maes, ok. Lo so». Si era trovato a sorridere sempre di più mano a mano che il figlio raccontava sempre più agitato la sua disavventura. Il suo comportamento l’aveva in un certo senso intenerito.

A Maes, invece, non sembrava quasi vero: aveva commesso una delle sue peggiori bricconate –ne era consapevole lui stesso –e nessuno gli diceva niente?

«Quindi… nessuna punizione?».

«Nessuna punizione» gli confermò il padre.

«Davvero?».

«Davvero».

Per la gioia il bimbo si mise a saltellare sul posto, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. Tutto ad un tratto, però, s’interruppe. «Papà, però se la mamma scopre che non mi hai punito, poi sgrida anche te». Il ragionamento non faceva una piega.

«Basta che la mamma non lo scopra, no?».

«Cioè, dobbiamo dire una bugia? Voi mi dite sempre che le bugie non si dicono, perché hanno le gambe corte e così resto piccolo come Ed» gli fece notare molto argutamente.

«Maes, non è una bugia. È… Beh, è un segreto. Il nostro segreto. E i segreti non si rivelano».

Maes ci ragionò qualche secondo, valutando se fosse davvero la cosa giusta da fare. Poi, alla fine annuì convinto.

Stavano rientrando in casa quando Maes si aggrappò ai pantaloni del padre. «Senti papi, io non capisco una cosa, però. La mamma prima è superarrabbiata con me, mentre dopo quasi mi sorride e fa finta di niente. Perché fa così?».

«È proprio questo il punto, Maes. Nessuno di noi può capire una donna. Anzi, non provarci nemmeno. Te lo dice uno che è un esperto!».

«Per questo io non avrò mai una fidanzata! Le femmine sono strane» replicò con convinzione il bambino.

«Sì. Anche io dicevo così. Invece alla fine ne ho avute anche fin troppe» disse Roy mentre si perdeva tra i ricordi della sua scapestrata gioventù.

«Hai davvero avute così tante fidanzate, papà?» domandò con innocenza.

«Certo!» rispose con orgoglio, gonfiando il petto, convinto che quel particolare sulla sua vita amorosa lo rendesse particolarmente fico agli occhi del figlio.

«E la mamma, allora?».

Il sorriso sfacciato sul volto dell’uomo si addolcì molto di fronte a quella domanda. «Beh, io sono sempre stato innamorato della mamma».

«Ma allora perché hai avuto tante fidanzate? Non potevi sposarla subito?».

«Vedi Maes, non è stato proprio così facile come sembra».

«Perché? Io non capisco». Era davvero confuso. Anche nei film, quando due si amavano non si dicevano subito «Ti amo» e poi si baciavano? Che schifo, però, i baci. Lui tollerava solo quello che la mamma gli dava, prima di spegnere le luci nella cameretta ed augurargli la buona notte. Ma i baci in bocca… quelli, bleah!

«Non sempre puoi stare con la persona che ami, Meas. E a volte accorgersi che ne sei innamorato è ancora più difficile» gli spiegò il padre spettinandolo affettuosamente, mentre lo spingeva dentro casa.

«Ancora non capisco…» insistette, perché voleva davvero capire. Ai suoi occhi tutto questo era davvero complicato. Ma l’amore non avrebbe dovuto essere facile? Non bastava regalare un fiore o prendere per mano la bambina, o la donna che ti piaceva?

«Quando sarai grande capirai. Te lo posso assicurare».

Maes aggrottò le sopracciglia insoddisfatto da quella risposta, che poi non era una risposta. Lui voleva davvero capire!

«Vieni. Andiamo a fare merenda» lo chiamò il padre intenerito da quel broncetto. «Credo che la mamma abbia fatto il budino al cioccolato!».

Le parole budino e cioccolato nella stessa frase fecero scattare il piccolo monello, che si fiondò in casa, andando subito ad abbracciare le gambe della sua mamma.

Note finali
Non so come scusarmi! E' già passato un mese, ed io avevo detto che avrei aggiornato entro una decina di giorni... Purtroppo però mi sono impantanata con una tesina di letteratura inglese, (of course, in English) di almeno diecimila caratteri. Solo venerdì sono riuscita a consegnarla. Inoltre ho preso parte ad un contest e mi sono completamente concentrata su quello per far venire fuori qualcosa di almeno decente.
Riguardo al theme non ho molto da dire, se non che era da tre settimane che me lo trascinavo dietro. Per questo non sono in grado di giudicarlo correttamente. La situazione mi sembra chiara. Volevo a tutti i costi fare interpretare a Roy e Riza il ruolo di mamma e papà. L'ispirazione viene dalla mia infanzia e dai miei traumi con mio fratello, tra l'altro più piccolo!, che mi faceva da carnefice ed ha attentato più e più volte alle mie bambole. (Salvo ti voglio bene! <3). In ogni caso il non capire del testo si riferisce non solo alla questione donne, che Roy cerca di spiegare al suo cucciolo, ma anche al fatto che Maes non capisca il motivo per cui l’amore tra due adulti a volte possa essere complicato. Spero di avervi strappato almeno un sorrisino e prometto che aggiornerò molto più celermente!
Ovviamente ringrazio  chi legge, chi ha inserito nei preferiti, seguiti, da ricordare, ma soprattutto chi ha recensito facendomi conoscere il suo parere. Ed anzi, invito chiunque ad esprimersi a riguardo!
Fuggo via!

“Uccidere è proibito, quindi tutti gli assassini vengono puniti, a meno che non uccidano su larga scala e al suono delle trombe.”, Voltaire

L’ospedale di East City non contava più nemmeno un letto libero. I corridoi, ingombri di barelle e di gemiti dei reduci (civili e militari, senza distinzione), erano percorsi febbrilmente da infermiere infaticabili, dottori con le barbe da notte insonne e volontari dallo sguardo disorientato, ma con un’incredibile forza di volontà a muovere le gambe.

Roy Mustang, insistendo e facendo leva sul suo grado di ufficiale,ma soprattutto sul suo ruolo di Alchimista di Stato, era però riuscito ad ottenere una stanzetta singola, con una buona illuminazione, per la giovane Riza Hawkeye, in modo tale da concederle un po’ di privacy e tranquillità dopo l’esperienza del campo di battaglia. Anche medico ed infermiere erano stati scelti con cura scrupolosa, non solo per la loro professionalità, ma soprattutto per il loro silenzio e la ben ricercata scarsa curiosità.

Ogni giorno Roy trovava almeno mezz’ora di tempo per andare a trovare quella ragazza, a cui faticava ad attaccare l’etichetta di commilitone.

Non le aveva mai portato fiori, perché al momento l’omaggio floreale, nella sua testa, andava offerto solo a coloro che se ne erano andati per sempre.

Si sedeva accanto al lettino e cominciava a ciarlare dei bei tempi nella sgangherata casa Hawkeye, interrompendosi per raccontare qualche aneddoto riguardo le sue prodezze infantili; tutto pur di farle dimenticare anche solo per un minuto il dolore alla schiena, di cui lui era responsabile.

Uno dei primi giorni del ricovero di Riza, aveva sfidato il primo caldo estivo, non asfissiante come quello del deserto, ma comunque fastidioso, e si era presentato in divisa con un sorriso appena accennato.

«Ehi, ciao. Come va oggi?» domandò fermo sulla porta, cogliendo di sorpresa Riza, che si era imbambolata a guardare fuori dalla finestra.

Lei si girò. Il volto era ancora molto pallido e solcato da due profonde occhiaie, sintomo di mancanza di sonno, tuttavia lo sguardo sembrava essersi riacceso e i tratti del viso erano meno tirati dalla sofferenza.

«Meglio, grazie» rispose mentre cercava di tirarsi a sedere meglio. Stava facendo perno sul braccio quando una fitta di dolore la colpì all’improvviso. Soffocò con poco successo un rantolo e strizzò gli occhi.

Quando li riaprì le mani di Roy, con delicatezza, l’avevano già riaccompagnata verso i cuscini.

Con respiri lenti e profondi riacquistò la calma e mantenne sotto controllo le onde di dolore che si erano propagate lungo le braccia ed erano scese fino al fondo della schiena. Pochi minuti dopo era in grado di parlare nuovamente e di stiracchiare anche un sorriso di gratitudine.

«Non dovrebbe venire qui così tanto spesso» disse la giovane mettendo fine al silenzio.

«E perché mai? A me fa piacere venirti a trovare. Inoltre è colpa mia se ora ti trovi qui».

«La colpa non è di nessuno. E se proprio vogliamo attribuirla a qualcuno, allora quel qualcuno è mio padre». Abbassò lo sguardo solo un attimo, per poi rialzarlo. «Penseranno che tra me e lei c’è qualcosa. Che io sono la sua amante, o qualcosa del genere».

Quest’ultima frase fece rispuntare il sorriso sulle labbra di Roy che replicò composto «Allora è di questo che ti preoccupi! Che infanghi il buon nome di Riza Hawkeye!».

La sua battuta non ebbe l’effetto sperato, infatti Riza si rabbuiò, anziché mettersi a ridere come lui aveva pronosticato.

«Non mi interessa molto della mia reputazione. Piuttosto della sua. Se maldicenze di questo tipo si spargessero e raggiungessero certe orecchie lei rischierebbe la corta marziale e, nella migliore delle ipotesi, la degradazione…».

«Entrambi, Riza. Entrambi rischieremmo corte marziale e degradazione. Ma voglio essere onesto: al momento preferisco girare per i corridoi del Quartier Generale e sentire storie assurde riguardo noi due imbucati in qualche squallido angolo, piuttosto che resoconti trionfali riguardo alle mie fiamme portentose. Preferisco sentirmi chiamare l’amante di Riza Hawkeye, piuttosto che l’eroe di Ishval».

Riza lo guardava con lo sguardo sbarrato, immobile, congelata da quelle parole. «Lo trovi un pensiero tanto egoista?» le domandò allora.

«Perché?».

«Perché, cosa?».

«Perché preferire un’etichetta di uomo superficiale a quella di eroe di guerra?».

«Perché il titolo di eroe è estremamente pesante da sopportare. Mi ritrovo con un nome tanto altisonante solo per aver strappato più vite umane rispetto ad altri. In realtà sono solo un assassino, anche se si ostinano a volermi chiamare eroe». Aveva finalmente vomitato tutta la sua amarezza. Ma ormai il fiume era straripato e la sua violenza non si poteva di certo arrestare ora che aveva solamente oltrepassato gli argini.

«Quei soldati… nemmeno conoscevo i loro nomi, ed erano tutti sotto il mio comando. Ridicolo. Tutto questo è ridicolo. Mi hanno definito “degno di fiducia”. Ma tu affideresti mai la tua vita a qualcuno che ne ha strappate tante da perderne il conto, qualcuno che ha le mani e la coscienza irrimediabilmente sporche? Eppure, sono stati proprio quei soldati ad affibbiarmi questo inutile ed immeritato titolo. Eroe. Certe parole dovrebbero bandirle!».

Aveva sfogato tutta la sua rabbia e frustrazione, forse con anche troppa foga, ma almeno ora un po’ di quel peso che tanto lo opprimeva lo aveva abbandonato. Tuttavia rimaneva ancora rigido, seduto sulla sedia con la schiena dritta e i pugni serrati sulle ginocchia.

Solo allora, dopo tutte quelle parole, lei capì e si diede della stupida. «Chiedo scusa». L’unica cosa un po’ sensata che le veniva in mente. In fondo anche lei aveva ricevuto un nomignolo sul campo, “Occhio di Falco”, e provava, probabilmente con meno ardore, gli stessi sentimenti dell’Alchimista.

«Anche se non ce n’è bisogno, scuse accettate». La tensione lo stava abbandonando e la schiena ricadde contro lo schienale, mentre le dita scioglievano la stretta. «Vorrei solo che qualcuno mi punisse, anziché celebrarmi. Non mi sembra di chiedere troppo!» concluse.

«Io credo che sia proprio lei stesso al momento a punirsi. Non ha bisogno di qualchedun’altro che lo faccia al posto suo. Siamo sempre giudici molto severi con noi stessi» osservò la giovane mentre cercava di allungarsi verso il comodino al suo fianco. Le era venuta sete a parlare di Ishval. Era come se per un attimo fosse ritornata nel deserto arido.

Roy intuì subito le sue intenzioni e, dopo averle fatto un cenno, si allungò per versare l’acqua nel bicchiere e porgerglielo.

Riza ringraziò e cominciò a bere a piccoli sorsi, mentre Roy si abbandonava sulla sedia con le mani in tasca. «Riesci sempre a rispondermi in maniera tanto intelligente, che a tutte le mie giustificazioni non resta che crollare miseramente» disse mentre la osservava di sottecchi. «Stavo pensando che non sarebbe male farci un pensierino riguardo a noi due. Potrebbe essere divertente dare uno sfondo di verità a tutte quelle voci» buttò lì Roy improvvisamente un po’ per gioco, un po’ perché veramente quel pensiero gli aveva attraversato la mente, e più di una volta.

Per fortuna Riza aveva già inghiottito l’acqua, perché con ogni probabilità si sarebbe soffocata. Riuscì solo ad articolare un «Signore!» neanche più di tanto indignato.

«Ah sì. Scusa, hai ragione. La tua… volevo dire, la mia reputazione» disse alzando le mani in segno di resa.

Gli era bastato poco per riacquistare un minimo di serenità, ma soprattutto per vedere spuntare un lieve sorriso sulle labbra di Riza. Ed anche quel pomeriggio era riuscito nel compito che si era prefissato.

NOTE FINALI:
Poche note e pure di corsa, ma farvi apsettare oltre mi pareva piuttosto vergognoso da parte mia. Purtroppo questo semestre l'università si sta prendendo tutto il mio tempo, e soprattutto il venerabile prof di letteratura inglese... Ma eccomi qui, con il nuovo theme. Non uno dei mei migliori, ma ho anche scritto peggio! Sapevo fin dall'inizio che con questo titolo avrei dovuto affrontare di nuovo il discorso Ishval, solo che non riuscivo a capire da che parte prenderlo. Poi finalmente l'illuminazione ha deciso di avere pietà di me ed è scesa dandomi l'idea di partenza, cioè la visita in ospedale. A questo riguardo, io non lo so come la vediate, ma io credo che con delle ustioni di quell'entità un ricovero in ospedale fosse d'obbligo. Comunque, smettendo di sproloquiare, il finale mi pare un po' fiacco, ma è il massimo che sono riuscita a tirare fuori, visto che al momento arranco sulla tastiera. E temo che anche i prossimi theme non saranno poi dei capolavori, ma non temete, ho una sorpresa bella e pronta per il RoyAi day, che solleverà il tono a tutti!
Prima di fuggire a fare le millemila cose che mi aspettano con un ghigno malevolo, ringrazio chi ha recensito la scorssa volta: Silvery Lugia e Castiel.
PS: mi sono appena accorta che sono ad un quinto dei theme! Devo gioire o disperarmi?

“Sposarsi o non sposarsi non è importante. In ogni caso ti pentirai.”, Socrate

Circa due mesi prima Roy Mustang era entrato in una delle più famose gioiellerie di Central City ed aveva acquistato un solitario dal valore da capogiro. Se gli avessero chiesto il motivo di tale gesto, con estrema sincerità lui avrebbe risposto che non ne aveva la più pallida idea. Stava semplicemente camminando senza meta per la città, aveva visto la vetrina, era entrato nel negozio e dieci minuti dopo ne era uscito con il portafogli considerevolmente alleggerito. Nulla di più, nulla di meno. Cosa l’avesse spinto a compiere un gesto del genere solo Dio, (ma forse nemmeno lui), poteva saperlo.

Fatto stava che nessuno sapeva che nella tasca dei pantaloni conservava da parecchio tempo quel piccolo tesoro; perciò nessuno avrebbe nemmeno mai potuto fare domande le cui risposte non sarebbe state esaustive.

E se inizialmente non si era praticamente reso conto del fatto che andava in giro con un gioiello valutato almeno sei zeri, (per di più, lo ricordiamo, tenendolo in tasca!), con il tempo aveva cominciato ad avvertire il peso di quel brillante, ma non a causa del valore monetario, piuttosto per il valore simbolico.

In realtà, il giorno in cui aveva indicato alla commessa della gioielleria, (una signorina dal fisico longilineo, una cascata di boccoli ramati ed il decolté ben esposto, in linea di massima una bella ragazza), l’anello incriminato, aveva bene impresso nella mente il volto di una persona in particolare. Una certa donna bionda, dallo sguardo penetrante.

La signorina con sguardo trasognato e un tono volutamente molle aveva infine sospirato «È proprio fortunata la sua ragazza! Un così bell’anello, ma soprattutto un così bell’uomo!». E si era poi abbandonata ad una risatina frivola e civettuola mentre consegnava la scatolina in velluto e satin nero a Roy.

Riza non avrebbe mai riso in quel modo, ne si sarebbe mai vestita con abiti così sgargianti. Riza era il tipo di donna che si confondeva tra la folla, che non amava le luci della ribalta, perché preferiva starsene dietro le quinte, a controllare con i suoi occhi infallibili che sul palco tutto procedesse come stabilito.

Ed ogni volta che pensava a Riza, il peso nella sua tasca aumentava, tanto da fargli ingenuamente credere che si sarebbe aperta una voragine ai suoi piedi che l’avrebbe inghiottito.

La cosa più ridicola in tutta la situazione, che già definirla assurda sarebbe stato un piacevole eufemismo, era che Roy non aveva mai nemmeno chiesto a Riza di uscire.

Non erano mai andati ad un vero appuntamento. Non c’era stata nessuna cena romantica, contornata da candele, musica d’archi, parole e frasi romantiche, fiori… Non le aveva mai nemmeno detto «Ti amo». Certo, lo aveva pensato. Molte volte. Ma mai aveva espresso questo pensiero ad alta voce. Ed era sicuro che tale sentimento fosse completamente ricambiato. Erano i fugaci quanto radi baci scambiati a dimostrarglielo, e le indimenticabili notti passate insieme, ma così rare da contarsi sulle dita di una mano.

Tuttavia non aveva avuto alcuna esitazione ad entrare nella gioielleria e compiere la pazzia di comprare un brillante, che con grandissime probabilità Riza non avrebbe mai indossato.

Ovviamente il primo passo sarebbe stato darle l’anello. Ma anche questo presentava non poche difficoltà; e non perché mancassero i momenti in cui erano soli.

Così una sera, quando erano rimasti solo loro due nell’ufficio con gli ultimi documenti della settimana, il peso del diamante era diventato insostenibile ed aveva finalmente deciso di metterle sotto il naso quella strabenedetta scatolina e disfarsi una volta per tutte del fardello.

Mentre la sua collaboratrice girava per la stanza spostando un pacco di documenti qua ed un altro là, lui rigirava quel cofanetto nervosamente dentro la tasca. Poteva sentirlo, il frusciare del velluto morbido sul tessuto lisco dell’interno tasca, e faceva un rumore assordante. Sentiva persino scintillare il brillante.

Ma nonostante questo continuava a rigirarsi l’oggetto in tasca.

Basta! Ora lo metto sul tavolo e lo lascio lì, continuava a ripetersi, senza però agire. E intanto la mano rigirava la scatola nella tasca.

«Hawkeye!», finalmente si decise.

«Sì, signore».

«Abbiamo finito?» domandò stupendo più se stesso che la sua subordinata.

«Praticamente sì. Giusto un paio di firme ancora e poi possiamo tornarcene a casa» gli sorrise, celando la stanchezza della giornata.

Non c’era riuscito. Nemmeno questa volta.

Ogni volta che era lì lì per… una nuova scusa si affacciava alla sua mente e sadicamente insinuava il dubbio. E se fosse stato un marito mediocre? E se avesse tradito la sua compagna per una donna più facile? E se… ?

Ma soprattutto, e se lei avesse detto di no?

Si alzò, ancora con la mano in tasca che rigirava l’anello, prese il cappotto che Riza gli allungava gentilmente ed uscì, con lei alle sue spalle che richiudeva la porta.

In fondo, avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per pentirsi di non essersi spinto oltre, di non aver chiesto «Mi vuoi sposare?». Come poteva dirsi il contrario. Magari il coraggio di fare quella domanda l’avrebbe anche potuto trovare, lei avrebbe forse accettato, si sarebbero sposati e poi si sarebbero pentiti, entrambi, perché quella decisione avrebbe intaccato il loro rapporto superiore-subordinata, avrebbe intralciato il raggiungimento del loro sogno.

Ora, di sicuro, comunque, si stava pentendo di essere entrato in quella dannata gioielleria.

E intanto continuava a rigirarsi la scatolina in tasca.

“Ti vorrei sollevare

Ti vorrei consolare

Ti vorrei sollevare

Ti vorrei ritrovare

Vorrei viaggiare su ali di carta con te

Saper inventare

Sentire il vento che soffia

E non nasconderci se ci fa spostare

Quando persi sotto tante stelle

Ci chiediamo cosa siamo venuti a fare

Cos’è l’amore

Stringiamoci più forte ancora

Teniamoci vicino al cuore”, Ti vorrei sollevare, Elisa feat Giuliano Sangiorgi

Quando Riza aveva cominciato a spogliarsi davanti ai miei occhi, avevo subito pensato ad uno scherzo di pessimo gusto. Ma mi ero ravveduto: Riza non era una persona avvezza agli scherzi, e meno che meno a quelli di cattivo gusto.

Mi dava la schiena, ma potevo benissimo capire che ormai mancavano solo un paio di bottoni per slacciare completamente la camicetta, che già cominciava a ricadere sulle spalle.

Le misi una mano sul braccio per fermarla. Sembrò quasi che il mio tocco avesse avuto un effetto ustionante sulla sua pelle.

Si girò per guardarmi negli occhi, ma io distolsi lo sguardo per il pudore che provavo di fronte al suo busto seminudo. Non era di certo la prima volta che vedevo una donna svestita, ma lei… sembrava risvegliare un Roy che facevo quasi fatica a riconoscere, a volte. Mi facevo sempre un’infinità di scrupoli, che non mi ero mai fatto prima per nessuno.

«Mi lasci fare. Abbia fiducia» mi disse con un sorriso che voleva essere rassicurante, ma che faceva davvero fatica a celare una profonda amarezza.

E dopo queste ultime parole anche l’ultimo bottone sfuggì all’asola in cui prima si trovava intrappolato.

«Riza» presi un bel respiro «capisco che tu ti possa sentire triste e sola… ma… io non credo che questa sia la cosa giusta da fare». Stavo davvero travisando tutto, ma lei era troppo intelligente per offendersi.

Infatti aggiunse «Non mi fraintenda». Nel frattempo io cercavo un particolare nella stanza su cui concentrarmi. Andava bene qualunque cosa, a patto che non fosse il ventre piatto e il seno non ancora completamente maturo della bellissima ragazza, anzi, ormai praticamente una donna, davanti a me.

«Pensavo volessi mostrarmi gli scritti di tuo padre».

«Infatti» e la camicia scivolò lungo le braccia accarezzando la pelle nuda, per poi cadere a terra in un fruscio assordante.

Dopodiché si girò per mostrarmi la schiena.

In quel momento avrei voluto avere una sedia su cui cadere.

Avevo trattenuto il fiato per alcuni secondi, quando finalmente riuscii a riacquistare un po’ di lucidità e contegno. Allora mi chinai a terra per raccogliere la camicetta e posargliela sulle spalle, strette e irrigidite.

Il tatuaggio che ricopriva la sua schiena per intero aveva dato un bello scossone al Roy alchimista, che voleva assolutamente tornare a rimirare quel capolavoro alchemico, quasi fosse un’opera d’arte di inestimabile pregio. Per fortuna, però, il Roy uomo ebbe la meglio. Con il senno del poi so di aver agito bene. Se avessi seguito quell’istinto che mi diceva di mettermi a studiare le formule lasciatemi dal maestro, di per certo in futuro me ne sarei pentito.

Intanto, incrociando le braccia al petto, Riza aveva afferrato l’indumento sulle spalle e ci si stava praticamente raggomitolando dentro. Finalmente l’imbarazzo le imporporò le gote.

Non sapevo davvero cosa dire. Sapevo solo che toccava a me parlare per primo. «Io… non credevo che… Mi dispiace. Se solo avessi saputo… Ma quando?». Avevo biascicato monconi di frasi, ma lei aveva comunque capito esattamente cosa avrei voluto dirle. Come sempre, del resto.

«Alcuni mesi dopo la sua partenza».

«Mi dispiace così tanto» seppi solo dire. E avrei voluto ripeterlo almeno un centinaio di volte, visto che mi sentivo responsabile di ciò che le era stato fatto da chi avrebbe dovuto proteggerla.

Era come se il sommo sacerdote avesse dissacrato il tempio in cui prestato servizio devotamente per tanto tempo.

Per un secondo sperai che, per la legge dello scambio equivalente, quell’uomo che avevo chiamato immeritatamente con tanto rispetto maestro, si trovasse in quel momento immerso in quel fuoco che l’aveva ossessionato fino al punto di spingerlo ad utilizzare la figlia come un foglio di carta. All’inferno, per sempre. Questa fu la mia sentenza.

Dopo anni e notti insonni passate a cercare una giustificazione a quel gesto dissennato, il mio giudizio è cambiato. Non provo più odio e rabbia cieca. Solo un grande senso di compassione e pena e sono consapevole che i suoi errori sono stati molto più utili a me che a lui. Almeno ora so che non devo spingermi oltre certi limiti e che le persone, quelle che ci stanno accanto ogni giorno, che respirano la nostra stessa aria, valgono più di qualunque formula o trasmutazione.

Questo non significa che l’abbia completamente perdonato. Ma se Riza l’ha fatto, allora va bene così.

Non ricordo molto altro di quella sera di autunno. Alcune immagini sfocate, pezzi di frasi.

So di per certo che Riza si rivestì completamente e andò a preparare la cena, mentre io mi diressi di fronte alla porta dello studio del maestro. Rimasi lì immobile, congelato fino a quando una voce proveniente dalla cucina, ancora turbata e scossa, non mi chiamò.

Dopo cena –una cena piuttosto silenziosa per i miei standard –lei se ne andò a dormire.

Io quella notte non toccai il letto. Girovagai al buio per la casa in cui ero stato ospitato per tanto tempo e, quando mi accorsi che finivo sempre per ritrovarmi davanti alla porta della stanza in cui avevo studiato, in cui il maestro Hawkeye si era recluso fino al momento della sua morte, decisi di andare altrove, di tenermi lontano da quel luogo che un tempo avevo venerato ed ora invece volevo solo distruggere. Mi diressi verso la camera di Riza e più silenziosamente possibile aprii la porta. Era sotto le lenzuola e mi dava la schiena. Quella stessa schiena marchiata.

Fu in quel momento che decisi che l’avrei protetta, avrei adempito al compito che suo padre aveva rifiutato senza tanti scrupoli. Sarei stato per lei la spalla a cui appoggiarsi nel momento del bisogno ma anche colui con il quale avrebbe condiviso i momenti felici e quelli più difficili. Perché è questo che si fa con le persone che ami. Ed io amavo, amo Riza.

Perciò mi feci quella sacrosanta promessa quella notte di autunno inoltrato, mentre il vento fuori ululava, non consapevole del fatto che poi sarebbe diventata proprio lei il mio angelo guardiano.

“La povertà dei beni può essere curata facilmente; quella di spirito è incurabile”, Michel De Montaigne

La prima volta che Riza sentì suo padre tossire violentemente aveva appena tredici anni. Nell’ultimo periodo l’alchimista se ne stava tutto il giorno rintanato nel suo studio e non ne usciva nemmeno per i pasti.

Inizialmente la piccola Riza pensò che fosse caduto in una sorta di depressione dopo la partenza del suo giovane apprendista, ma poi, grazie al fatto che era una ragazzina piuttosto sveglia e con incredibile spirito d’osservazione, aveva capito che se il padre non si faceva vedere e a malapena sentire era perché era impegnato nelle sue ricerche. La curiosità, mai sopita in lui, si era ora riaccesa più fiammeggiante che mai.

Certamente il fatto che Berthold mangiasse solo l’indispensabile preoccupava la sua unica figlia, che era anche quasi certa che il genitore non dormisse decentemente da giorni, se non settimane.

Quelle ricerche lo stavano consumando, fino a disumanizzarlo.

La conferma arrivò il giorno in cui Berthold Hawkeye chiese alla sua bambina di raggiungerlo nello studio. Quello stesso studio che era zona interdetta per Riza. Una qualunque persona si sarebbe rallegrata del fatto che finalmente il proprio caro, fonte continua di preoccupazioni, fosse uscito dal suo isolamento forzato. Ma Riza avvertì fin da subito che la situazione stava precipitando dalla padella nella brace.

Quando entrò in quella stanza era ancora una bambina che tendeva a guardare il mondo con sguardo vagamente disincantato. Ne uscì metamorfizzata in donna, con in più uno tra i più terribile fardelli che una persona normale potesse portare.

Suo padre aveva terminato le ricerche di una vita e le aveva impresse a fuoco in modo tale che non andassero perdute, ma allo stesso tempo si era assicurato che nessuno potesse scoprirle. Le aveva nascoste bene.

L’alchimia di fuoco è tanto potente quanto pericolosa; aveva esordito così l’alchimista non appena sua figlia aveva mosso i primi timidi passi nello suo studio.

Pochi giorni dopo la tosse del signore Hawkeye era peggiorata, diventata più stizzosa e frequente e Riza, nonostante il suo dolore, cercava comunque, come poteva, di essere utile al padre. Non voleva limitarsi a diventare il suo manoscritto.

Passarono i mesi, tra alti e bassi, con alcune crisi violenti di quella tosse che ormai, era evidente, si era cronicizzata. A fatica Riza era riuscita a convincere il padre a farsi visitare da un medico, che aveva alla fine sentenziato che non c’era nessuna causa di natura virale o batterica che spiegasse la malattia. Piuttosto pensava che quella brutta tosse fosse di origine psicosomatica.

In ogni caso né la malattia né la fine delle ricerche impedirono a quel signore ostinato di continuare a passare le sue giornate in quello studio polveroso ed insalubre. Probabilmente passare un po’ di tempo fuori, all’aria aperta avrebbe giovato alla sua salute ormai compromessa, ma Berthold era inflessibile a riguardo. Avrebbe continuato a trascorrere le giornate come più gli faceva comodo e le suppliche della figlia sarebbero state inutili, oltre che fuori luogo.

I mesi divennero anni, ma l’alchimista Berthold Hawkeye era talmente impegnato a morire che lo scorrere del tempo era diventato per lui cosa di poco conto. Non si accorse perciò della figlia che era diventata più alta; non si accorse che i tratti del suo volto si erano assottigliati e raffinati, diventando sempre più simili a quelli della madre; come non si accorse che Riza aveva smesso di sorridere. La stava contagiando con il suo mal di vivere; ma non si accorse nemmeno di questo.

Poi, un giorno accadde qualcosa di diverso, di nuovo. L’alchimista si svegliò e seppe che quello sarebbe stato il giorno ideale, perché c’era qualcosa di nuovo nell’aria, ma allo stesso tempo di usuale. Sì, quello era il giorno perfetto per morire. Finalmente.

Dopo l’ora di pranzo, infatti, qualcuno suonò al campanello di casa. Erano anni che quelle mura non udivano lo squillare del campanello, da quando il giovane apprendista Roy Mustang frequentava quella casa.

La sorpresa fu immensa quando, una volta aperto, Riza si trovò di fronte proprio Roy. Anche lui era cambiato. Era più uomo. Era un soldato. Bello ed maestoso nella sua divisa blu.

«Riza?» domandò sorpreso, cercando conferma.

«Pare proprio di sì, signor Mustang. Ma prego, venga avanti». Disse cortese mentre lo invitava ad entrare.

I loro saluti cordiali furono interrotti da un eccesso di tosse proveniente dallo studio.

«Il maestro?» domandò allora il giovane uomo.

«È nel suo studio, ma non sta molto bene. Perché non lo raggiunge, tanto conosce la strada. Io intanto vado a preparare del tè, se lo gradisce».

«Mi farebbe molto piacere, grazie». E si separarono.

Quella visita a sorpresa fece molto piacere alla giovane Riza che si diresse verso la cucina con un sorrisino ad incresparle le labbra.

Preparò il tè, lo servì nel servizio buono di sua madre e preparò dei dolcetti comprati quella mattina dal fornaio. Una volta di fronte alla porta dello studio si fermò a causa delle voci concitate del padre e del signor Mustang. Stavano discutendo animatamente riguardo alla decisone di Roy di entrare nell’esercito e poi di alchimia. Proprio non era il caso di entrare ed interrompere. Meglio aspettare fuori, anche se questo significava che intanto il tè era destinato a freddarsi.

La discussione stava assumendo toni sempre più accesi, tanto che Riza pensò fosse meglio appoggiare il vassoio sul pavimento ed ascoltare; per quanto la sua natura ed educazione continuassero a ripeterle che non era giusto, che non erano affari suoi, ma soprattutto che era molto maleducato.

Suo padre stava parlando dell’alchimia di fuoco, stava raccontando delle sue ricerche, di come le avesse concluse molto tempo prima. Il tono di voce si abbassava di frase in frase, ma nonostante questo le ultime sue parole sembrarono alla giovane come urlate, «Ed è proprio per questo che io mi considero già morto da molti anni, ormai».

Lei smise di ascoltare e si accasciò sul pavimento. Per fortuna il vassoio era già posato in terra, altrimenti sarebbe caduto frantumandosi, mandando in pezzi le tazze della mamma.

Riza l’aveva sempre saputo, ma non ne aveva mai avuto conferma. Ora, invece, tutto cambiava. Quel farabutto di suo padre… suo padre…

«Aiuto! Qualcuno chiami un dottore! C’è nessuno?».

Riza si ritrovò in piedi senza saperlo. Aprì la porta. Davanti a lei c’era suo padre, o quello che ne rimaneva, sorretto dal signor Mustang. Del sangue intorno alla bocca del padre, che aveva smesso di respirare. Gli occhi erano vuoti, semiaperti.

E così Berthold Hawkeye aveva smesso di vivere. Egoista fino alla fine. Lasciarla orfana ad appena quindici anni! Quella incurabile malattia, l’indifferenza, se l’era portato via. Berthold Hawkeye era morto. Finalmente.

“Una parola ci libera di tutto il peso e il dolore della vita: quella parola è amore”, Sofocle

Tutto quello che era accaduto dal momento in cui Riza era stata affidata alle cure di un medico fino a quando si era ritrovata ricoverata in un vero ospedale era stato caratterizzato da una tale frenesia che Riza stessa non avrebbe saputo dire se fosse passata una manciata di minuti o una serie di anni. Fu pertanto naturale imputare proprio a questa frenesia, che aveva indistintamente colpito tutti, la colpa del fatto che lei ora si trovasse a condividere la stanza d’ospedale con il Colonnello Mustang.

Forse qualcuno, nell’urgenza di soccorrere i tanti feriti, non si era reso conto di aver messo insieme, nella stessa stanza, un uomo e una donna. Oppure era stata una scelta, più o meno ponderata, dettata dalla consapevolezza che Roy Mustang ora fosse diventato cieco e dunque non in grado di osservare il mondo che lo circondava, graziosa signorina bionda convalescente inclusa. O magari l’infermiera che aveva fatto le carte della degenza si era fermata a leggere il grado di Tenente e tanto le era bastato.

In ogni caso a Riza non creava nessun problema stare nella stessa stanza del suo superiore. La presenza di Roy era naturale (e indispensabile) come l’aria. Semplicemente tutta la situazione le sembrava strana.

Solo a distanza di tempo avrebbe scoperto che era stato Roy Mustang in persona a chiedere che entrambi venissero ricoverati insieme. E la motivazione, mai esplicitata, di questa bizzarra richiesta era che la paura di perderla era stata tanto grande da indurlo a volerla sempre al suo fianco, a non perderla mai di vista, metaforicamente parlando, ovviamente.

Trovare l’equilibrio in quella convivenza sui generis era stato relativamente immediato, grazie anche al continuo via vai di gente che toglieva qualunque occasione di privacy.

Non erano ancora riusciti a rimanere veramente soli, per quanto il loro respiro fosse già sincrono. Solo in tarda serata, quando ormai un campanile in lontananza aveva suonato dieci rintocchi, finalmente scese il silenzio sulla stanzetta, illuminata da una lucetta fioca.

Riza era particolarmente provata. Le avevano fatto alcune trasfusioni e riempita di antidolorifici. Ma nonostante questo continuava a lottare contro gli effetti soporiferi dei farmaci. Doveva scambiare due parole in privato con il suo Colonnello. Ne sentiva la necessità.

Tuttavia, il primo a parlare fu proprio lui.

«Stai bene?».

«Lei?».

«Non sono io quello a cui hanno tagliato la gola e che è praticamente morto dissanguato» replicò con sarcasmo tagliente.

«Ma io non sono morta».

«Ancora non hai risposto: come stai?».

Per quanto fosse ovvio che lei non stesse bene, la sua risposta fu vaga e diplomatica, come sempre, del resto. «Mi ci vorrà un po’. Ma starò bene».

Ripiombò il silenzio. Durante tutta quella breve conversazione gli occhi vuoti di Roy erano rimasti puntati su Riza, come se riuscisse a vederla nitidamente.

«Bene, perché io resto qui. Accanto a te. Non ho intenzione di andarmene. Non ti lascia finché non ti dimettono. E anche dopo…».

Ma Riza non sentì queste parole. I farmaci avevano vinto la loro battaglia.

***

Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, passò Rebecca a portare informazioni fresche di giornata ed alcuni effetti personali di Riza, presi da casa.

Ormai l’odore del disinfettante era entrato nel narici fino a sparire ed anche l’effetto degli antidolorifici stava lentamente diminuendo, mentre il dolore si acuiva. Ma Riza, silenziosamente, sopportava. Sapeva infatti che ciò che le era accaduto pesava come un macigno sulla coscienza del Colonnello, perciò lamentarsi ad alta voce non avrebbe fatto altro che aumentare il peso di quel pietrone, che in realtà aveva la stessa consistenza di una montagna.

Tra le tante notizie portate dal giovane Sottotenente Catalina, l’ultima fu «Jean Havoc arriverà all’inizio della settimana prossima. Io e Breda ci siamo già messi d’accordo per andarlo a prendere in stazione».

Per tutto il resto della giornata fu un andare e venire di infermiere, (di cui il Colonnello non poteva godere la vista), medici, ufficiali dell’esercito, gli uomini di Mustang e simpatizzanti.

E finalmente giunse la sera. Il sole tramontato era il segnale che indicava l’interdizione per qualunque membro esterno all’ospedale a girare per i corridoi illuminati al neon.

Con l’avanzare del buoi, si fece avanti anche il silenzio nella piccola stanza dell’ospedale militare.

Sia Riza che Roy rimasero immersi nei loro pensieri per un po’, finché il Tenente non si mosse facendo quasi sobbalzare il suo superiore dalla sorpresa, tanto era concentrato in un resoconto mentale di tutte le informazioni ricevute in giornata.

«Tutto bene?» domandò voltandosi dalla parte della donna.

«Sì. Chiedo scusa se l’ho spaventata. Ho preso solo un libro dal comodino».

«Ti metti a leggere?».

«Aiuta a rilassarmi. Non ho mai amato particolarmente l’ambiente ospedaliero».

«E cosa racconta questo libro?».

Per un attimo Riza non seppe cosa rispondere. Non voleva che i suoi gusti in fatto di narrativa fossero giudicati troppo frivoli. Ma poi si ricordò con chi si trovava: Roy Mustang, uno degli uomini (apparentemente) più frivoli che avesse mai conosciuto, ma soprattutto l’unico uomo al mondo che non l’avrebbe mai giudicata.

«È la storia di un uomo che s’innamora di una donna di rango inferiore al suo. L’amore per questa donna lo rende completamente cieco. Ma ad un certo punto comincia a sospettare che lei abbia un amante, o forse più di uno».

«Trama interessante! Ti andrebbe di leggere un po’ ad alta voce? Nemmeno a me piacciono così tanto gli ospedali!».

Nuovamente, per alcuni secondi, Riza rimase senza parola. Le sembrava una richiesta così stramba. Ma poi si ricordò che Roy non poteva leggere. Era cieco. Non lo sarebbe stato a lungo, ma questo non cambiava i fatti.

Così aprì il libro dove l’aveva lasciato più di una settimana prima, ormai, e iniziò a leggere.

Aveva già girato cinque pagine, quando il Colonnello si alzò e protese le braccia davanti a sé. Di fronte a quel gesto Riza chiuse il libro, pronta ad alzarsi per aiutarlo in qualunque cosa avesse avuto bisogno.

«Non alzarti dal letto. Voglio solo avvicinarmi un po’. Ti dispiace se mi siedo ai piedi del tuo letto?» domandò.

«No».

«Allora allungami la mano, così non vado addosso al letto».

Il Tenente subito tese la mano al suo superiore, stringendola con forza, finché questi non si fu accoccolato ai piedi del letto. Tuttavia non lasciò la mano di Riza. Continuò a tenerla, anche se ormai non ce n’era più la necessità.

«Dove eravamo rimasti? Ah, sì. All’appostamento notturno. Vai pure avanti». La invitò Roy, che aveva iniziato a disegnare ghirigori immaginari con il polpastrello sulla mano di Riza.

Allora lei riprese la lettura, mentre una piacevole sensazione di calore cominciava a irradiarsi lungo tutto il corpo. E man mano che leggeva, di riga in riga, il dolore delle ferite diminuiva, fino a sparire, risucchiato da quel calore, che sapeva fin dall’inizio che si trattava di amore.

“Il nostro compito quali esseri umani consiste nel compiere, all’interno della nostra propria, unica, personale esistenza, un passo in avanti sulla strada che dalla bestia porta all’uomo”, Hermann Hesse

L’aveva sentito: partire dai piedi, risalire le gambe, percorrere la spina dorsale, vertebra dopo vertebra, ed infine incunearsi nel cervelletto, come se gli fosse appena stato inferto un colpo di martello e scalpello. Un brivido.

In realtà negli ultimi giorni più di una volta aveva avvertito quest’adrenalinica sensazione, come se uno scultore invisibile gli stesse dando forma, colpo dopo colpo, e con esso le sue idee, i suo ideali, le sue convinzioni.

Nemmeno sul campo di battaglia a Ishbar la sua esistenza gli era stata così evidente, quasi invadente; ma trovarsi di fronte ad un nemico inarrestabile e immortale era stato come se fosse stato ricoperto di benzina per poi essere avvicinato ad un fiammifero acceso. Si era sentito impotente e invincibile allo stesso tempo ed il tergiversare sui confini tra vita e morte, costretto a stare in equilibrio sulla lama di un affilatissimo rasoio, l’aveva fatto sentire fragile ma vivo più che mai. Mortale.

Quella donna così avvenente, crudele come una mantide religiosa, ma soprattutto inumana aveva fatto riaffiorare l’orgoglio di appartenere al genere umano, così debole, ma incredibilmente caparbio.

E non era stato solo il fatto che si trovasse a dover fronteggiare un nemico potente a dargli la forza di alzarsi sulle proprie gambe e arrancare fino a raggiungerlo. C’era anche, soprattutto, la consapevolezza che quel nemico stava oltrepassando confini di non sua competenza, come l’affetto, la devozione, la lealtà. Roy sapeva che l’homunculus era intenzionato a far del male al suo Tenente e questo non poteva permetterglielo.

Quella era stata la prima volta in cui la vita era fluita nelle sue vene alla stessa velocità della luce, bollente come lava, tanto da fargli rizzare i capelli sulla nuca. E con suo sommo stupore aveva persino vinto, salvando la vita a Riza e Alphonse e… Havoc.

Si era comportato da mostro. Un autentico mostruoso essere umano, che si aggrappa con le unghie e con i denti a quanto di più miracoloso e meraviglioso gli sia stato donato: la vita.

E nuovamente quel brivido era tornato a fargli visita poco dopo, mentre fuggiva dall’altro homunculus, quello grasso e goffo, Gluttony; oppure mentre gli veniva riferito che King Bradley, il capo della sua Nazione, il suo capo a cui aveva prestato giuramento di fedeltà, apparteneva alla stessa razza di uomini sintetici di quella donna, tanto bella e pericolosa, che lui aveva ridotto a un cumulo di cenere.

In entrambe le situazioni non solo la sua, ma la vita di Riza era stata messa in serio pericolo. La mortalità, così sbattuta in faccia, l’aveva illuminato, facendogli capire che la sua esistenza era secondaria, vacua rispetto a quella dei suoi cari. Non che fossero molte le persone che rientravano in quella categoria; a dirla tutta si contavano sulle dita delle mani e non perché Roy fosse un cinico, un misantropo. Semplicemente lui aveva imparato che più sono le persone a cui sei legato, più sono le cose che puoi perdere; e poiché si era ripromesso di proteggere chiunque gli stesse a cuore, tanto meglio se queste persone non superavano la decina.

Chissà poi perché ogni volta che ragionava sul significato della vita il volto di Riza si materializzava davanti ai suoi occhi e la sua voce sussurrava bonari rimproveri nelle orecchie. Forse perché la sua esistenza era intrecciata a quella della donna, fissata saldamente con un nodo inestricabile. Ma andava benissimo così.

Era stata Riza, ogni giorno trascorso insieme, ad insegnarli cosa significasse essere un semplice uomo, con pregi e difetti, punti di forza e debolezze. E solo con Riza Roy riusciva a sentirsi veramente  vivo. Lei lo spronava, incoraggiava, lodava e rimproverava. In una sola parola: lei lo amava e dava un senso a alla sua esistenza.

“La conversazione è un'arte in cui tutta l'umanità è nostra rivale”, Ralph Waldo Emerson

Sul fatto che Roy Mustang da East-City fosse un incallito Don Giovanni non ci pioveva. Più complesso, invece, era capire i motivi grazie ai quali fosse riuscito a costruirsi tale reputazione.

Per alcuni era quel suo bel aspetto esotico: magnetici occhi blu dal taglio orientale e il viso giovane e sbarbato. Il fisico ben allenato, poi, sarebbe stato un vero spreco buttarlo via!

Per altri, invece, era la divisa. Nessuna donna poteva resistere a una bella divisa blu, tanto che l’aspetto di chi c’era infilato dentro il più delle volte finiva per contare ben poco.

C’erano poi quelli che affermavano che il vero motivo del suo successo con il gentil sesso fosse il suo atteggiarsi a gentiluomo: un artificioso ed elegante essere cortese e galante sia con le più belle fanciulle in fiore che con le vecchine curve sui loro bastoni.

Infine, era opinione comune che l’insieme di tutti questi elementi, farciti dal possesso del mitico orologio d’argento, lo rendesse uno degli uomini più desiderati presenti sul mercato.

Ma la realtà dei fatti era diversa e Roy stesso ne era ben consapevole. Uno e uno solo era il motivo per cui quando passeggiava per strada le ragazze scoppiavano in risolini soffocati con ben poco successo: e cioè la sua incredibile capacità nel conversare.

Poteva parlare di qualsiasi argomento, anche non conoscendolo. Con gli anni aveva imparato a modulare il tono della voce, a controllare i gesti, ad ammiccare e sorridere sempre. Conversare era un’arte e come tale andava trattata.

Quando apriva bocca faceva fluire tutto il suo carisma, che immancabilmente affascinava chiunque.

Più o meno.

Sempre con le dovute eccezioni.

Eccezione. Una sola, ad essere precisi.

Una giovane donna bionda su cui la divisa faceva ben poco effetto, visto e considerato che lei per prima ne indossava quotidianamente una. Occhi e bicipiti, ancora meno.

Roy parlava e lei, Riza, annuiva, replicava, raramente interrompeva, spesso rimproverava (con educazione), ma mai rimaneva abbagliata. Semmai avveniva il contrario.

Riza non era una di quelle persone che si possono definire loquaci, ma quando parlava… il mondo taceva per ascoltarla. E così Roy.

Molti la prendevano in giro perché lei parlava poco, ma bastava una sola parola, pronunciata in un preciso momento a farli stare zitti, tutti quanti.

E Roy adorava questo lato del suo carattere, come adorava il suono della sua voce, dal timbro così tanto rassicurante.

Ogni occasione era buona per scambiare due parole: la mattina, appena arrivati in ufficio, o in mensa, durante il pranzo, o in qualunque altro momento. In ogni caso, Roy sapeva di essere un privilegiato, poiché erano molte poche le persone a cui Riza si rivolgeva spontaneamente per parlare, giusto per il piacere di farlo. E lui, con molto orgoglio, era tra queste.

Di fronte a lei tutti i suoi artifici, la sua tecnica, il suo carisma, come un pesante cappotto invernale alla fine di una lunga giornata, venivano appesi ad un alto piolo, per lasciare il posto al semplice se stesso, con indosso una leggera camicia fresca di bucato.

Ogni tanto osava addirittura telefonarle, la sera, dopo cena, per parlare con lei, senza l’impiccio di qualcuno dalle orecchie tese all’ascolto. E allora chiacchieravano, anche per ore, dei massimi sistemi del mondo come della più inutile sciocchezza. Tanto bastava ad alleggerire il suo cuore, a fargli ritrovare il vero Roy Mustang, che odiava la pagina sportiva del giornale, che buttava un occhio incuriosito ai ricettari nelle librerie, senza mai avere il coraggio di comprarne uno, e che si deprimeva durante le giornate di pioggia. E lo stesso valeva anche per lei, che si ricordava che il suo colore preferito era il blu, ma non il blu delle divise, piuttosto il blu degli occhi di lui, che improvvisamente aveva voglia di gelato alla stracciatella, il suo gusto preferito, e che amava la musica classica.

Chiacchierando si trovavano, si perdevano con il solo scopo di ritrovarsi. Nessuno dei due avrebbe potuto fare a meno del proprio compagno preferito di conversazione.

“L'alta cucina non è una cosa per i pavidi. […] Quello che dico sempre è vero: chiunque può cucinare, ma solo gli intrepidi possono diventare dei grandi.”, Gusteau, Ratatouille

Riza Hawkeye avrebbe presto compiuto dodici anni. Ed è noto a tutti: compiere dodici anni non è cosa da poco, non capita di certo tutti i giorni! Roy Mustang lo sapeva bene, per questo da un paio di giorni aveva abbandonato i libri di alchimia per concentrarsi su quelli di cucina, e più precisamente di pasticceria. Ne aveva trovati alcuni davvero interessanti, aprendo la sportina in basso a destra del lavandino; abbandonati lì chissà da quanto tempo, probabilmente dalla morte della signora Hawkeye.

Inizialmente si era sentito smarrito tra “La guida dei dolci al cucchiaio”, “Mille ricette con il cioccolato”, “Muffins e dolcetti”, “Il gelato perfetto”, ecc… Un tempo, in quella casa, quando ancora il tocco femminile di una donna e di una mamma aleggiava sopra ogni cosa, la cucina doveva essere stata venerata quasi come l’alchimia. Forse di più.

Alla fine il giovane aveva deciso di procedere a una drastica quanto necessaria scrematura dei testi; aveva selezionato un solo libro: “Il ricettario della nonna”.

Il motivo per cui aveva scelto quel libro erano le pagine consunte, alcune addirittura macchiate di pastella o glassa. Quel ricettario era stato veramente vissuto e questo gli conferiva un senso di affidabilità. Ora bisognava solo scegliere quale dolce preparare, poiché il piano di Roy consisteva nel fare una sorpresa a Riza per il suo compleanno: cucinarle una torta! Facile, no?

Più a dirsi che a farsi, in realtà. Ma questo Roy l’avrebbe scoperto solo quando le mani ormai erano già in pasta.

Aveva imparato la ricetta a memoria: dosi, fasi di preparazione, temperatura del forno e tempi di cottura erano stati tutti assimilati come una formula alchemica. E come per compiere una trasmutazione si era procurato tutto con cura: uova, farina, zucchero, burro, latte, lievito.

Era persino riuscito a trovare una scusa plausibile per togliersi Riza dai piedi mentre era impegnato a preparare la sua sorpresa.

Già se la immaginava con il suo bel maglioncino bianco con i bottoni in legno e la gonnellina a scacchi neri e rossi mentre si portava le mani alla bocca, spalancata per la sorpresa, ed arrossiva imbarazzata ma grata. Magari l’avrebbe ringraziato regalandogli un bacio. Sulla guancia, certo. Ma pur sempre un bacio. Poi ovviamente avrebbero mangiato la torta insieme e lei gli avrebbe detto che non aveva mai assaggiato niente di così delizioso. E allora sarebbe stato lui a darle un bacio, sempre sulla guancia.

Trascinato da questa piacevole fantasia, Roy si mise al lavoro. Per prima cosa bisognava pesare gli ingredienti. Facile. Nessun problema. Quasi divertente.

Come seconda cosa bisognava setacciare la farina. Anche questo risultò un compito piuttosto elementare, che si svolse senza intoppo alcuno, ad eccezione di un bello sbaffo bianco di farina sulla guancia e parte del naso.

Il vero problema sorse quando Roy dovette rompere le uova per montare gli albumi a neve. Se aveva capito bene la procedura, avrebbe dovuto sbattere con forza il bianco dell’uovo finché non avesse acquistato una consistenza spumosa. I primi quattro albumi non ebbero buon esito e finirono dritti dritti nel lavandino. Per i successivi quattro l’apprendista alchimista mise troppa forza nel braccio, facendoli schizzare su qualunque superficie della cucina, compresi i suoi vestiti, i suoi capelli, ma soprattutto i suoi occhi.

Accecato e indiavolato cominciò a sbraitare a destra e a manca, cercando di afferrare ad occhi chiusi il canovaccio sul tavolo per togliersi l’uovo e tornare a vedere.

Ma la sua ricerca fu interrotta bruscamente da una risata. Una di quelle risate di gusto che ti alleggeriscono il cuore e ti lasciano di buon umore per tutto l’arco della giornata. Solo che proprio non sapeva chi stava ridendo di lui in quel momento. Il maestro non di certo. Allora chi?

Riza? No. L’aveva spedita in capo al mondo. Non poteva già essere di ritorno…

Rinunciò al canovaccio, accontentandosi della manica, tra l’altro già sporca, della camicia. Si strofinò gli occhi con forza e quando li riaprì Riza era davanti al lui, che si sosteneva con un braccio allo stipite della porta, mentre con l’altro si teneva la pancia dal ridere. Doveva davvero essere ridicolo.

Imbarazzatissimo la guardò, cercando di assumere un atteggiamento dignitoso, da grande chef professionista; ma nulla; anzi, questo suo cercare di salvaguardare un minimo la reputazione indusse la ragazza a ridere ancora più forte, fino alle lacrime.

«Cosa c’è da guardare? Può capitare» disse in tono saccente.

Nel minuto successivo la ragazzina riuscì a riprendere il controllo, si asciugò i lacrimoni con il dorso della mano e si avvicinò a Roy per portargli via dal volto quanto meno la sbaffo di farina sulla guancia. Troppo in preda all’euforia non si rese conto che quel suo gesto così affettuoso ed innocente aveva fatto arrossire il giovanotto, che un secondo dopo si ritrovò con lo strofinaccio in mano. «Ci conviene pulire tutto prima che mio padre entri qui dentro e cominci a pensare che ci siamo dati al lancio delle uova» disse Riza, già intenta a ripulire il ripiano della cucina.

Per fortuna lei non aveva chiesto niente, si era semplicemente limitata a deriderlo.

Ma queste furono, come si suol dire, le ultime parole famose.

«Se non sono indiscreta, posso sapere per quale motivo la mia cucina si è trasformata in un campo di battaglia?».

Sempre più a disagio, il giovane Roy optò per una risposta il più neutrale possibile. «Cucinavo».

«Questo l’avevo capito. Ma cosa, precisamente?».

«Niente di speciale. Una…» si schiarì la voce per poi abbassare il tono «torta».

«Una torta?».

«Per il tuo compleanno. Doveva essere una sorpresa, ma è evidente che sono un incapace».

Riza lo guardò per un lunghissimo istante, come se lo vedesse per la prima volta, sorpresa, quasi intimorita, dopodiché il suo sguardo si addolcì. «Grazie. È davvero gentile da parte tua ricordarti del mio compleanno».

«Certo. Ma è stato un fiasco su tutta la linea».

«Non è importante. È il pensiero a contare». Allora si avvicinò e gli stampò un bacetto frettoloso sulla guancia (praticamente sull’orecchio a dirla tutta, ma come aveva appena detto lei “è il pensiero a contare”).

Così Roy aveva avuto il suo bacio, prima ancora di infornare l’impasto.

032 Shirt

Camicia

“Benedetta la luce così ti posso guardare / Coprirla con la camicia quando facciamo l'amore”, Punto, Safari, Jovanotti

Il momento migliore della giornata di un militare era la sera, subito dopo il tramonto del sole, quando ognuno tornava al proprio alloggio e poteva finalmente sfilarsi la giacca della divisa, che finiva, il più delle volte, abbandonata sullo schienale del divano.

Roy Mustang non faceva eccezione; anche se il momento migliore della sua giornata era un altro.

Tornato a casa, infatti, dismessa la divisa, l’alto ufficiale indossava abiti civili per uscire nuovamente. Sapeva bene che non avrebbe passato la notte nel suo appartamento.

Alcune sere preferiva camminare lungo le strade illuminate della città, altre invece prendeva l’automobile poiché l’urgenza di raggiungere il luogo in cui amava rifugiarsi era impellente.

Di solito saliva le scale della palazzina tenendo le mani nelle tasche del cappotto e, arrivato di fronte all’interno n°6, tirava fuori il mazzo di chiavi per aprire la porta.

Appena la serratura scattava, un gioioso scodinzolare lo accoglieva. Roy regalava due coccole e una grattatina dietro le orecchie al cane e poi si sfilava il cappotto per appenderlo all’ingresso, allora, il più delle volte, arrivava la sua amante, con un bel sorriso caldo di bentornato sulle labbra.

Alcune volte gli era capitato di dimenticarsi le chiavi e dunque aveva dovuto suonare, innescando l’abbaiare del cane, che aveva rischiato di farli scoprire.

C’erano state poi le occasioni in cui lui arrivava quando lei era ancora sotto la doccia. In quei casi si sedeva sul divano e l’aspettava, nonostante la tentazione di raggiungerla sotto lo scroscio d’acqua fosse grande.

I due, sebbene avessero passato l’intera giornata insieme, si mettevano a parlare; ogni tanto, poiché nessuno dei due aveva ancora mangiato, cenavano insieme. E se già questi insignificanti gesti di quotidianità erano sufficienti a rendere Roy felice, in realtà non erano che il preludio del momento migliore della giornata, atteso così tanto a lungo.

Questo si concretizzava quando dal soggiorno loro due si spostavano in camera da letto, (anche se non erano mancate le occasioni in cui tutta la magia si era consumata sul divano o direttamente sul pavimento). Allora finalmente lui poteva liberarsi della camicia, che finiva lanciata il più delle volte sulla lampada del comodino o in qualche altro angolo della stanza. Ma ancora meglio era quando lei, Riza, gliela toglieva, sbottonandola asola per asola, in un gioco di seduzione di cui non si sarebbe mai stancato.

A dirla tutta, però, il vero momento migliore della giornata, e già questo era a dir poco meraviglioso, era quando era lei ad indossare quella camicia, dopo i loro momenti d’intimità, che le stampava su tutto il corpo il suo profumo maschile, lasciandogli la convinzione che questo la rendesse sua e di nessun altro.

“I walk this empty street / On the Boulevard of Broken Dreams / Where the city sleeps / and I'm the only one and I walk alone”, Boulevard of Broken Dreams, Green Day

Maes era morto e lui era stato trasferito a Central City. Non che i due eventi fossero collegati, ma, semplicemente, erano avvenuti pressoché in contemporanea.

Così alle preoccupazioni del nuovo incarico si errano aggiunti il dolore e il cordoglio per la perdita.

Roy aveva trovato una soluzione che anestetizzasse ogni emozione, senza distinguere la rabbia dallo sconforto: concentrarsi solo ed esclusivamente sul suo obiettivo, in modo tale che niente e nessuno potesse intromettersi. Perciò cercava di dare il massimo sul posto di lavoro, dove trascorreva praticamente tutto il suo tempo.

Il fatto che finita una pila di documenti ne spuntassero almeno altre due era davvero comodo. Almeno non avrebbe perso tempo ad auto commiserarsi o a crucciarsi troppo. Era grato del fatto che il lavoro avesse come conseguenza un’alienazione quasi totale.

Ogni giorno Riza lo osservava con sospetto e preoccupazioni crescenti, ma in ogni caso taceva. Roy aveva il suo personale e autodistruttivo modo di affrontare le situazioni e questi particolari stato d’animo. Pertanto l’unica cosa che poteva fare era limitarsi a osservare con occhio attento e incurante della stanchezza, in attesa di un possibile crollo fisico o emotivo, pronta ad allungare un mano per aiutare quell’uomo così importante a rialzarsi.

Purtroppo il suo ruolo di angelo guardiano aveva termine nell’esatto momento in cui, finito il turno (spesso straordinario compreso), entrambi s’infilavano il cappotto, si salutavano e tornavano alle rispettive case.

Una volta arrivato a casa, Roy, meccanicamente, si buttava sotto la doccia per tentare di rilassarsi (tentativo che durava esattamente il tempo passato sotto lo scroscio d’acqua), si cambiava, si sforzava di mangiare qualcosa nonostante il costante senso di nausea, infine provava a leggere qualche riga giusto per svagarsi, spegnere il cervello, allontanarlo dalle preoccupazioni.

Prima dello scoccare della mezzanotte non riusciva a coricarsi e, in ogni caso, anche quando riusciva ad appisolarsi, poco dopo le quattro la sua mente tornava a martellarlo, svegliandolo, sebbene il corpo non fosse per nulla consenziente e invece, reclamava a gran voce un minimo di riposo.

Aveva perso peso nell’ultimo periodo, parecchio peso; e non c’era giorno in cui le occhiaie macchiassero il suo volto.

Sfortunatamente quei pensieri avevano un effetto deleterio su di lui, come un’invasione di locuste nel periodo subito precedente alla mietitura. Perciò, nonostante la stanchezza accumulata, aveva bisogno di mettere in moto il corpo. Allora, lanciato il lenzuolo stropicciato per il sonno agitato, si rivestiva e scendeva in strada. Camminava lungo le vie della città completamente immersa nel suo stato di sonnolenza.

Tanto non era la compagnia degli uomini che cercava; quella dei sogni e degli ideali infranti nell’istante esatto in cui la vita di Maes era stata spezzata era sufficiente.

Passeggiava, senza cognizione del tempo che passava, fregandosene del freddo, dell’umidità e dell’eventuale pioggia.

Così ogni notte, finché un giorno scoprì di non essere il solo a precorrere le vie male illuminate di Central.

L’alba era vicina quando sentì l’abbaiare di un cane, interrotto da un secco rimprovero del padrone. Tanto bastò a fargli alzare lo sguardo. Davanti a lui una figura nota acquisì concretezza: Riza aveva portato fuori Hayate.

Lo salutò con un sorriso e le stesse occhiaie profonde. Ma come aveva fatto a non accorgersi che anche lei passava le notti insonni?

Un centinaio di metri più avanti un uomo uscì di casa. Doveva trattarsi di un fornaio, visto il grembiule già indosso, che andava a preparare il pane per la giornata, e forse anche qualche brioche.

Invitare Riza a fare colazione fu una reazione naturale, come anche addormentarsi la sera dopo cena e risvegliarsi finalmente riposato il mattino seguente. Gli era bastato capire di non essere il solo passeggiatore notturno.

“Come sarebbe stata diversa la storia di Romeo e Giulietta se avessero avuto un telefono!”, Isabel Allende

Dedicata con tanto affetto a Silvery Lugia, per il suo incontenibile entusiasmo che mi riempie sempre di carica!

«Pronto?».

«Buonasera signorina; qui è il suo fioraio preferito!».

Riza, senza curarsi del fatto che il suo interlocutore potesse sentirla, sbuffò rumorosamente per esprimere la sua irritazione, velata da un briciolo di divertimento.

«Se è di nuovo ubriaco e vuole riempirmi la casa di fiori, la risposta è la stessa dell’ultima volta».

Dall’altra parte del telefono Roy rise. Lei stava bene: solo quando non era turbata si permetteva il lusso di rimproverarlo e commentare i suoi atteggiamenti causticamente.

«No, niente fiori…».

«È ubriaco e devo venirla a prendere? Ha bisogno di qualcosa?».

Per quanto il tono fosse aspro e accusatorio, Roy non riuscì proprio a togliersi il sorriso dalle labbra.

«No, no. Tutto a posto. E per la cronaca, sono perfettamente sobrio».

Riza analizzò in meno di un battito di ciglia tono e contenuto della frase, per infine convincersi che, sì, Roy Mustang non si era sbronzato.

«Allora mi dica, Colonnello, cosa posso fare per lei alle undici e mezza di sera passate?» l’irritazione non l’aveva di certo abbandonata.

«Nulla». Riza avrebbe tanto voluto sbattergli la cornetta in faccia, ma la buona educazione ebbe la meglio; rimase in silenzio in ascolto. «Ti ho vista stanca i giorni precedenti e volevo sentire come stai. Non starai lavorando troppo, vero?».

«Lei, invece, che trova tutto questo tempo per telefonarmi non starà lavorando troppo poco?». Il Colonnello non replicò alla frecciata. Le lasciò il tempo di far stemperare la tensione e far scivolare via l’apprensione, che sembrava essere diventata la sua nuova fedele compagna, soprattutto dopo le recenti scoperte. «In ogni caso, sto bene. Grazie».

«Ottimo! Sarebbe stato quanto meno inopportuno presentarsi dal Comandante Supremo e sgridarlo perché ti fa lavorare troppo».

La donna s’immaginò la scena, non poi così inverosimile, e si abbandonò a una debole risata.

«Seriamente, Tenente, come stai?». Il tono della conversazione era improvvisamente cambiato: non più scherzoso e sarcastico, ma denso e preoccupato.

Prima di rispondere Riza si prese due secondi per pensare. «Sono stata meglio, come sono stata peggio. Ma Colonnello, la prego, pensi prima a se stesso, per una buona volta».

«Certo, certo. Ma non puoi vietarmi di pensare a te, di tanto in tanto. E di telefonarti…».

«Non faccia sciocchezze» ribatté lei, come se Roy non avesse detto nulla.

«Chiamami, se ne avessi bisogno».

Entrambi erano troppo presi dalle raccomandazioni per l’altro da non ascoltare ciò che veniva detto.

«E sii prudente» conclusero all’unisono.

Dopo gli ultimi saluti, misero giù, con il cuore più leggero, poiché, nonostante la lontananza, sapevano bene che sarebbero rimasti sempre uniti.

“Per scrivere una buona lettera d’amore bisogna iniziare senza sapere cosa si vuole dire e finire senza sapere cosa si è scritto”, Jean-Jaques Rousseau

Roy aveva ricevuto una lettera. Ma era martedì e il postino passava sempre il giovedì, da quando Riza aveva memoria. Era stata la figlia del panettiere a portargliela. Si era presentata con indosso il vestitino più grazioso e con dei fiorellini di campo infilati nelle trecce castane.

Roy l’aveva ringraziata, facendola arrossire, ed era rientrato in casa con un sorriso appagato. Aveva poi raggiunto Riza in cucina, che era impegnata a mondare i fagiolini per il pranzo. Sempre con il sorriso sulle labbra, il ragazzo si era infine andato a sedere al suo posto.

La lettera misteriosa era finita tra le pagine di “Compendio elementare di Alchimia”, con la funzione di segnalibro.

«Non la aprì?» chiese Riza alzando lo sguardo dai suoi fagiolini giusto un attimo per osservarlo.

«Può aspettare» le rispose, mentre andava a prendere un coltello da cassetto delle posate con cui aiutarla a pulire le verdure.

Il discorso sembrava essersi concluso così. Riza aveva lasciato i fagiolini a Roy per dedicarsi alle patate.

Ne aveva già sbucciate quattro quando tornò sull’argomento. «Magari sono notizie importanti…».

«Per la figlia del panettiere non sono solo importanti, sono vitali» replicò sibillino con un’espressione da ceffoni.

Lei lo guardò con gli occhi che dicevano “Forza, allora! Aprila”. Ma lui sorrise ancora più compiaciuto e tornò a decapitare i fagiolini.

Riza quindi alzò le spalle, chiudendo definitivamente la discussione.

Nel giro di un mese le lettere recapitate non il giovedì e indirizzate a Roy erano diventate cinque, tutte quante finite tra le pagine del “Compendio elementare di Alchimia”.  Un paio dovevano ancora essere aperte.

E, come c’era d’aspettarsi, una sesta non tardò ad arrivare: questa volta fu il turno della figlia del sarto, che già intimidita e con le guance incandescenti si ritrovò davanti a Riza, che con inverosimile nonchalance rispose al sussurro timoroso della ragazzina sua coetanea «Mi dispiace, ma al momento non è in casa». Subito dopo queste parole si ritrovò in mano l’ennesima busta. Con un sorriso incoraggiante rassicurò la ragazzina che senza dubbio Roy avrebbe avuto quella lettera.

Infatti, quando Roy spuntò poco prima di cena, la trovò appoggiata sulla copertina del libro che stava studiando. Sbirciò il mittente, sorrise e mise la busta ancora chiusa tra le pagine.

Chiudendo il libro, però, uno dei fogli di una delle lettere volò via, finendo sotto il tavolo all’insaputa del destinatario, già fuggito dalla cucina per andare a darsi una rinfrescata prima di mangiare.

Nemmeno Riza se n’era accorta subito. Fu solo mentre apparecchiava tavola che notò il foglio per terra. Lo raccolse e cominciò a leggere, completamente inconsapevole del fatto che fosse una delle tanto famose lettere di Roy.

Dopo giusto appena un paio di righe aveva gli occhi sgranati e un’espressione incomprensibile sul volto. Fu proprio in quel momento che il giovane apprendista rientrò, interrompendo la lettura della ragazza.

«Scusa, non volevo» si scusò sventolando il foglio e porgendoglielo. «Era caduto e l’ho raccolto».

Cadde un silenzio imbarazzante, scandito dal tintinnare di forchette e coltelli che venivano sistemati ai loro posti sul tavolo. Anche la cena fu piuttosto silenziosa.  Solo mentre sparecchiavano e lavavano le stoviglie Riza trovò il coraggio di rivolgere la parola a Roy «Quella… cosa» in riferimento alla lettera «non aveva molto senso».  Quasi sicuramente anche tutte le altre le somigliavano.

«Molto spesso l’amore non ha senso» fu la replica del giovane, sollevato che fosse proprio stata Riza a spezzare quella tensione che si era creata.

«Le hai risposto?».

Con sincerità Roy affermò «No».

«Ad almeno una hai risposto?».

Nuovamente «No».

«Che maleducato» commentò lei guardandolo male.

«L’amore è complicato!».

***

Quando Riza compì quindici anni Roy non era più apprendista di suo padre. Da circa un anno lei frequentava una nuova scuola, per la prima volta a classi miste. Era stato piacevole trovare dei ragazzi in classe, visto che le sue coetanee sembravano essersi tutte rimbecillite nel giro di un’estate e spesso parlare con loro era l’equivalente di un suicidio intellettuale.

Una sera, era un lunedì, bussarono alla porta di casa. Tyler, il ragazzo seduto due banchi dietro a quello di Riza, sorrideva lievemente imbarazzato e molto teso.

«Ciao».

«Ciao. Vuoi entrare?» gli chiese gentile.

«No grazie. Sono semplicemente passato per lasciarti questa» e le allungò una busta un po’ stropicciata. «Vorrei che tu la leggessi».

Lei fece per aprirla, ma fu interrotta da Tyler. «Non adesso. Dopo».

«Ok!» rispose lisciando la busta e guardandolo titubante.

«Ok! Allora… io vado. Ci vediamo domani. Ciao!» e sparì in un paio di lunghe falcate.

Riza rientrò e aprì la busta. Cominciò a leggere il contenuto della lettera. Di riga in riga il suo stupore aumentava: aveva appena ricevuto una lettera d’amore!

E chissà per quale strano motivo le tornarono in mente il “Compendio elementare di Alchimia” e Roy che sorrideva compiaciuto.

“È proprio vero che l’amore è complicato. Ma soprattutto non ha senso!” pensò mentre rileggeva per la quarta volta quei fogli, cercando di capire il senso di alcune frasi.

"C'è una sola cosa che tutto il denaro del mondo non potrà mai comprare: lo scodinzolio di un cane", Lilli e il vagabondo

Ci aveva pensato a lungo, senza mai trovare una soluzione al suo dilemma. Poi, finalmente, il colpo di genio. Aveva trovato il regalo perfetto per la sua persona perfetta.

Riza avrebbe compiuto ventisette anni e loro avrebbero festeggiato quindici anni che si conoscevano, due anni che stavano insieme. Ci voleva proprio un regalo speciale!

Così Roy era entrato in un negozio di animali e aveva scelto una graziosa cagnetta bianca di un paio di mesi. Chissà se a Riza sarebbe piaciuta. Di sicuro Black Hayate avrebbe apprezzato.

Aveva chiesto alla commessa di mettere un vaporoso fiocco rosso intorno al collo della cucciola: ci erano volute due persone e mezz’ora di opera di convincimento per portare a compimento quella che si era rilevata una vera e propria impresa. L’idea di mettere la cagnetta in una bella scatola cilindrica con un altro fiocco rosso in cima era stata scartata in seguito all’evidente scarsa collaborazione del regalo.

Ma tutto questo non aveva scoraggiato Roy, che continuava a pensare di aver avuto l’idea del secolo a regalare un cane alla sua fidanzata.

Si presentò alla porta di casa di Riza con il regalo tra le braccia e un sorriso radioso. Inizialmente il fioccone rosso catalizzò completamente l’attenzione della donna, che ci mise qualche secondo a realizzare attorno al collo di quale creaturina fosse stato annodato. E quando la consapevolezza la raggiunse sgranò gli occhi, ordinandosi di assumere un atteggiamento festoso.

Un cane? Ma da dove gli era venuta fuori un’idea del genere?

Black Hayate nel frattempo aveva notato la nuova compagna e subito aveva cominciato a scodinzolare felice, abbaiando forte.

«Ssh!» lo rimproverò Riza, che però aveva notato subito come il suo cane fosse allegro. Allora prese la cucciola tra le braccia per osservarla meglio. In un istante ne fu conquistata.

Alla fine non era poi stata una così cattiva idea.

«Ti piace?» domandò Roy leggermente titubante.

Riza semplicemente annuì mentre deponeva l’animale a terra, in modo tale che facesse amicizia con il festoso Balck Hayate.

«Questa volta, però, il nome lo scelgo io!» affermò Roy prima di baciare la sua fidanzata, mettendo a tacere qualunque protesta.

***

Erano passati un paio di anni. La cagnetta era cresciuta e insieme a Black Hayate avevano allargato ulteriormente la famiglia Mustang: verso la fine della primavera erano nati tre cucciolotti.

Ma non erano l’unico nuovo arrivo previsto nella famiglia. Di lì a poche settimane anche Roy e Riza si sarebbero potuti godere il loro cucciolo.

“Quando si gioca al gioco del trono, o si vince o si muore. Non esistono terre di nessuno”, Il Trono di Spade, George R.R. Martin

Roy si trovava in uno di quei momenti di indecisione critica: aveva detto quello che gli passava per la testa, esponendo completamente il fianco al nemico, giusto per tastare il terreno. Un terreno scosceso e franante, molto più di quanto avesse messo in previsione.

Pentirsi o meno di aver parlato, di essersene uscito con una battuta di cattivo gusto come “Qualche diceria… Roba da barzellette… Tipo che il Comandante Supremo sarebbe un homunculus e roba del genere”?

Ma soprattutto, ora, come avrebbe dovuto agire? Come avrebbe fatto a risalire la scarpata in cui era scivolato tanto rapidamente da non rendersene conto?

Il tempo si era congelato, come la maggior parte dei pensieri nella sua testa. Per non parlare della lingua. Tuttavia non poteva certo dirsi completamente pentito di quella decisione così impulsiva che l’aveva fatto arrivare al Quartier Generale a sera inoltrata: era certamente caduto in fondo al dirupo, ma ci aveva trovato un bello scheletro. Anzi, parecchi scheletri, più o meno vecchi.

E poi, la partita non poteva di certo dirsi ancora conclusa; non finché tutti i partecipanti non avessero mostrato le carte. Il turno di Roy si era appena concluso, ora spettava a Bradley fare la giocata.

Il Comandante Supremo aveva deciso di cambiare il terreno di gioco e allo stesso tempo di escludere gli altri partecipanti. Così Colonnello e Capo di Stato si era ritrovati nello studio di quest’ultimo, davanti a tazze fumanti di tè, a parlare, confrontarsi.

A poco a poco, ma sempre più rapidamente, Mustang stava riconquistando la sua freschezza mentale: pensieri, ragionamenti e strategie si stavano organizzando in maniera sempre più ordinata di momento in momento. Tutto per colpire il nemico in quella sfida in cui le lingue risultavano più affilate di spade.

La verità stava finalmente venendo a galla, incendiando il cuore di Roy ad ogni frase, mano a mano che si faceva strada la consapevolezza del vero motivo per cui il suo migliore amico fosse morto, dei piani degli alti ufficiali che si dilettavano in acrobazie da esperti funamboli in uno squallido doppio gioco, in cui migliaia di innocenti si sarebbero trovati inconsapevolmente invischiati.

Il fuoco nel suo petto si acuì quando Bradley nominò la figlia di Meas, una bimba che aveva visto il proprio papà essere calato in una fossa, ricoperta di terra. Solo qualcuno di inumano poteva aver provato rabbia nei confronti di una povera orfana. Pertanto reagì di conseguenza, nuovamente l’istinto prese il sopravvento sulla ragione: minacciò il suo capo, l’uomo che guidava la Nazione, a cui aveva prestato fedeltà quando ancora era un giovane che viveva di pane e ideali.

«Anche lei ha un figlio. Con che coraggio riesce a dire queste cose!»

«Un figlio… Parli di Selim? Eh, già… Selim è proprio un bravo bambino» replicò Bradley alla provocazione con tono da teatrante mediocre, che ha imparato a memoria la propria parte e si limita a ripeterla.

«Cosa pensa che farebbe se venisse a scoprire che il padre che tanto ammira è un humunculs?».

Il Comandante Supremo non si degnò nemmeno di girarsi per rispondergli. Continuò a dargli le spalle e con tono assolutamente rilassato disse: «Stai cercando di ricattarmi? Non ti servirà a nulla. Selim non potrà mai essere un mio punto debole. Credo che faresti meglio a preoccuparti per te stesso. Colonnello Roy Mustang».

La fiamma che alimentava il risentimento di Roy si spense. Come poteva il fuoco di un fiammifero rivaleggiare con l’incendio di chi personificava l’Ira nella sua essenza più pura?

Allora capì. Capì che Bradley aveva compreso chi fosse il suo punto debole. Capì che il suo più fidato compagno non sarebbe più stato al suo fianco. Capì che lui sarebbe stato allontanato dalla sua persona, la sua metà complementare. Non più una coppia di complici che tramava e si spalleggiava nella buona e nella cattiva sorte, ma due individui separati e messi all’angolo contro un avversario che barava in maniera spregiudicata alla luce del sole.

Riza gli sarebbe stata tolta, sottratta con l’astuzia e con la forza. Sarebbe diventata un ostaggio, portato nel campo nemico…

Allora, forse, il Colonnello non aveva scartato tutte le carte in mano.

Nuovamente la fiammella si riaccese, per scongelare il tempo che nuovamente si era bloccato. “Mai sottovalutare un fiammifero, Bradley, perché può dar vita a un incendio!”, fu il pensiero di Roy.

“La gonna è la malizia e la malizia, si sa, è donna”, Massimo Fini

Le barbosissime riunioni con i vegliardi dell’esercito, che chissà per quale arcano mistero finivano sempre a parlare dei loro reumatismi, sarebbero dovute essere bandite; o perlomeno vietate prima delle undici. Questo era il pensiero di un povero Roy Mustang, che si era subito ben tre ore di fila, a partire dalle otto e mezza di mattina, di lamentele di quelle mummie.

E per giunta, ora era troppo presto per scendere in mensa per il pranzo. Pertanto, strascicando i piedi e con la voglia di fare sotto le suole delle scarpe, il nostro Colonnello si trascinò nel suo ufficio. Aprì la porta, già pronto a trovarsi di fronte a Breda con un plico di fogli in mano e la maglia macchiata di maionese, affiancato da una nuvola di fumo in cui si trovava avvolto il Sottotenente Havoc.

Tuttavia, una volta aperta la porta, poté constatare che né Breda né Havoc si trovavano nella stanza; non c’era nessun altro dei ragazzi –tutti  a battere la fiacca, insomma!

Roy allora attraversò il locale per entrare nella stanzetta che fungeva da suo ufficio personale. Dovette scavalcare una giacca di una divisa, abbandonata proprio sotto lo stipite della porta, e quando alzò lo sguardo… Boom!

(http://www.youtube.com/watch?v=Oopo9GnIous)

Probabilmente se fosse stato colpito da un fulmine si sarebbe sentito meglio… o forse peggio.

Senza essersene reso conto aveva spalancato la bocca per lo sconcerto: Riza Hawkeye, il Tenente Riza Hawkeye, il rigido e serissimo Tenente Riza Hawkeye era seduta sulla sua scrivania. Ma non era questo a turbare il Colonnello di Fuoco. No! Piuttosto erano i tacchi a spillo indossati come pantofole, le lunghe gambe nude accavallate in maniera davvero sexy, ma soprattutto la minigonna aderente che ben disegnava la curva del sedere.

Roy chiuse la bocca e deglutì, attirando l’attenzione della sua subordinata super-hot.

«Colonnello,» disse mentre riordinava dei fogli e per pareggiarli li batteva sulle cosce semi scoperte, «va tutto bene?».

«Sì?» replicò poco convinto Roy, schiarendosi subito dopo la voce mentre realizzava che la giacca della divisa sul pavimento doveva essere di Riza, visto che lei indossava solo la camicetta. Una camicetta molto aderente, a dirla tutta. «I… I ragazzi? Dove sono?».

«Ragazzi? Quali ragazzi? Non vede che siamo solo io e lei?» disse in tono lascivo facendogli un occhiolino malizioso.

A quel punto la donna posò i fogli perfettamente ordinati e smontò dalla scrivania con un movimento da gatta.

Lentamente (ma quasi sicuramente era il cervello di Roy, andato in game over, che vedeva tutto rallentato) si avvicinò al suo superiore, sganciando il fermaglio che teneva i capelli legati, che si riversarono come una cascata in un movimento seducente del capo.

«Non pensa che qui faccia molto caldo, Colonnello?» e si slacciò il primo bottone della camicetta, lasciando intravedere il reggiseno di pizzo.

Pizzo… Roy credeva che sarebbe morto d’infarto nel giro di pochi secondi. Non bastavano i tacchi alti, la minigonna, la camicetta aderente, il tono da gatta morta e le pose sexy? No? Certo che no! Ora si doveva anche aggiungere il pizzo!

Riza, a un soffio da lui, gli slacciò la giacca della divisa per fargliela scivolare lungo le braccia, provocando un lungo brivido lungo la schiena. Il tutto fissandolo negli occhi con la bocca leggermente dischiusa.

«Allora, Colonnello, cosa vogliamo fare?» domandò con tanta malizia da mandare in tilt completo Roy, mentre con un dito indugiava sul primo bottone della camicia di quest’ultimo.

«Non so, Tenente… Tu… Tu hai qualche… idea?».

«Beh, qualcosa mi farò venire in mente» disse ammiccando, mentre il primo bottone veniva slacciato.

Bye bye Roy’s brain!

Driiiinnnnn!

Roy, che aveva chiuso gli occhi, li aprì di scatto.

Riza era sparita e con lei la sua minigonna e tutto il resto.

“Cavoli! Era solo un sogno… ma quando sarò Fuhrer tutte le donna dovranno indossare la minigonna!”.

“L’ingenuità è una forza che gli astuti hanno torto di disprezzare”, Arturo Graf

Roy e Maes stavano giocando una partita da cui sembrava dipendesse il destino dell’intera umanità. Entrambi erano concentrati sulle proprie carte: lo sguardo guizzava negli occhi dell’avversario per poi posarsi di nuovo sulle carte come se ne fosse spuntata una nuova, vincente, che avrebbe strappato la vittoria e umiliato l’altro.

Non volava una mosca e i giocatori se ne stavano rigidi, ma apparentemente rilassati, sulle sedie. Accanto al mazzo della pescata c’erano due bicchieri pieni a metà di un liquido ambrato.

Maes chiuse il ventaglio delle carte che aveva in mano per appoggiarle sul tavolo. Mentre si allungava per afferrare il bicchiere, teneva una mano sulle sue carte. Quando si parlava di Roy Mustang non si poteva mai sapere. Magari con un movimento da serpente a sonagli si sarebbe lanciato per spiare quelle carte che Maes proteggeva, quasi fossero una reliquia o una famigliola appena evacuata dalla casa che andava a fuoco. Bevve lentamente, mai spostando lo sguardo dall’Alchimista di fuoco che ricambiava le occhiate ostili con espressione strafottente e di sufficienza. Mandato giù anche l’ultimo sorso si leccò le labbra per catturar le ultime gocce dolciastre.

Riprese in mano le carte dopo quella pausa che poteva essere durata trenta secondi, ma anche un inverno intero, tanto era tesa e fredda l’atmosfera della stanza. Toccava a lui, ma tergiversava nella scelta della carta da scartare.

«Il soldato onora la rapidità” lo canzonò Roy.

Pressato Maes scartò, gettando la carta come se avesse lanciato un dito della mano in pasto ai cani.

Roy schioccò la lingua e mentre pescava commentò «Pivello!».

Il suo avversario innervosito lo fulminò e si agitò sulla sedia. In mano non aveva belle carte e questo era un problema; ma nemmeno brutte carte. E questo era un doppio problema.

Quando l’altro giocatore scartò, dicendo «Irrita il tuo avversario e disorientalo» Maes capì che dalla prossima pescata sarebbe dipesa la vittoria. Oppure la sconfitta. Ma era molto meglio la prima.

Inavvertitamente Roy mostrò due delle sue quattro carte. Perfetto! Ora che sapeva in parte cosa aveva in mano il nemico poteva giocare d’astuzia e vincere.

Pescò con la tensione di chi sente di avere la vittoria in pugno. Negli occhi il lampo di trionfo. Grazie alla carta appena presa sarebbe rimasto con solo un cinque di quadri in mano.

Con immensa soddisfazione scartò. Roy lo guardò con accondiscendenza. «Fondamentale in guerra è lo stratagemma». Prese la carta appena finita tra gli scarti e in due due quattro chiuse la partita.

Maes guardò le carte appena deposte sul tavolo, poi Roy, poi le carte, poi Roy di nuovo prima con gli occhi sgranati, poi con il suo miglior broncio.

Lui era stato ingannato. Quel… antipatico gli aveva mostrato apposta le carte, così lui gli aveva inconsapevolmente servito la vittoria su un vassoio d’argento.

Ma subito il broncio fu sostituito da uno sguardo furbetto da marmocchio combina birichinate.

«Mamma!» gridò a gran voce «Mamma, papà bara!».

Riza spuntò dalla cucina, sospirando. Roy già con le mani in alto affermò «Non è vero».

«Invece è verissimo! Hai imbrogliato!» gli rispose il figlio salendo sul tavolo, facendo così sospirare ancora più forte Riza.

«Sei tu che sei cascato nel mio tranello, Maes. Se sei un pesce lesso non te la puoi prendere con me».

«Mamma!» piagnucolò.

Riza prese i bicchieri, prima di rischiare che si rompessero e il tè macchiasse il suo tappeto nuovo. «Roy, per piacere!» disse solo mentre tornava in cucina. E mentre sciacquava i bicchieri non poteva fare a meno di pensare di vivere in mezzo a bambini. Marito compreso.

“Chissà se in qualche posto tu esisti, /  da qualche parte mi cerchi, /  se come me t’inventi l’altra metà di te.”, L’altra metà di me, Alessandra Amoroso

Quando la mamma era ancora viva, Riza ogni sera aveva la sua dose di fiaba della buona notte; giusto un cucchiaino da caffè di cavalieri, draghi e principesse.

E poi, com’era bella la sua mamma. Bella come una fata, con i lunghi capelli incantati, d’oro filato dalla paglia, proprio come nella fiaba del nano bisbetico. Ma perché non li lasciava mai sciolti, i capelli? Li teneva sempre castigati in una treccia stretta. Una treccia alla francese.

Piuttosto che tenerli così legati, Riza preferiva tagliarli corti. Ma diventata donna e cresciuti i capelli anche lei li avrebbe castigati, tenendoli raccolti sulla nuca con un fermaglio. O meglio, avrebbe fatto ordine. Perché di questo si trattava, di ordine. Ma questa è un’altra storia. Anzi, a essere precisi, è l’epilogo di questa.

Una sera, la Riza bambina che si allontanava dai mostri sotto il letto e le damigelle rinchiuse nelle torri, aveva fatto una richiesta specifica: voleva la storia di mamma e papà, del loro amore. Anche perché, a ben pensarci era pure la sua storia.

«Non sta sera, pulcina mia» disse mamma falco mentre scioglieva la treccia e un dolce sorriso. «Magari un’altra volta».

«Promesso?» le aveva chiesto mentre le mani profumate di violetta di campo della mamma le rimboccavano le coperte.

«Promesso».

Quella fu l’unica promessa che sua madre non mantenne e Riza, un po’ per rispetto, un po’ per timore, non chiese mai a suo padre di raccontarle la storia di come aveva conosciuto e si era innamorato della compianta moglie.

Questa aveva permesso alla fantasia della bimba di galoppare insieme ai cavalli e alle aquile delle sue favole. Si era immaginata tragici incontri, immersi in oceani di romanticismo; situazioni quasi al limite della realtà. Tanto, sognare non le costava nulla.

Sapeva, in ogni caso, di essere ben lontana dalla realtà; altrimenti avrebbe conosciuto i parenti di mamma. L’avrebbero accolta nelle loro grandi e calde braccia per consolarla il giorno del funerale.

Il tempo passava e la fantasia si consumava, come lo stoppino di una candela; ma l’idea dell’incanto e la magia che lei collegava a qualunque situazione romantica perdurava, come la cera che cola e si raffredda in gocce disomogenee sulla bugia.

Si era immaginata l’incontro con la sua metà mille e una volta. Un principe su un cavallo bianco. Un cavaliere temerario e incurante del pericolo. Un mascalzone fuorilegge gentiluomo. Era talmente tanto concentrata su queste figure così nitide nella sua fantasia di ragazzina da non accorgersi che la sua metà si era presentata a casa sua: i capelli scompigliati dal vento e le maniche della camicia arrotolate ai gomiti.

E anche dopo il primo incontro era passato del tempo prima che un accenno di dubbio si insinuasse in lei. Anni passati a raffrontare il ragazzino, cui suo padre dedicava tanto tempo, con gli eroi delle fiabe della mamma. Ma nulla coincideva, eccetto il bell’aspetto.

No. Assolutamente no. Roy Mustang non era il suo principe. Non era certamente il tipo con cui puoi vivere “per sempre felice e contenta”, non con quell’inclinazione a “in che guaio mi voglio cacciare oggi?”.

Poi lui se ne era andato, papà si era ammalato, lui era tornato, papà era morto, e nuovamente Roy se ne era andato.

Eppure, forse per le parole che si erano scambiati, forse perché il tempo aveva plasmato entrambi affinché combaciassero, Riza sentiva dentro di lei avanzare la consapevolezza di aver trovato la sua metà, anche se completamente diversa da quella che per anni aveva impegnato la sua immaginazione.

La certezza era arrivata alcuni anni più tardi, quando la principessa era scesa dalla torre per imbracciare la spada. Aveva combattuto in una guerra. Si era trovata in mezzo al deserto in compagnia dello stesso uomo con cui aveva cenato tante volte nella quiete della sua casa. Tutti e due erano riusciti a tornare a casa e a quel punto era chiaro che il destino avesse intrecciato le loro vite come faceva la mamma con i suoi capelli: in modo saldo e inestricabile.

Era pomeriggio tardi e il Tenente Colonnello Mustang aveva fatto chiamare il Sottotenente Riza Hawkeye nel suo ufficio. «Penso che proporrò di farti diventare mia assistente» le aveva detto. Lei rivide in quell’uomo in divisa dai lineamenti del volto marcati lo stesso ragazzino con la camicia e i capelli spettinati che tanti anni prima aveva suonato alla sua porta. «Mi seguirai?».

Eccola la sua metà perfetta, più simile a un re, ora che il tempo era passato. «Ho capito. Se questo è ciò che desidera, sono pronta a seguirla sino all’inferno».

NOTE FINALI:
Forse la prima metà c'azzecca poco, ma volevo mettere almeno un accenno alla mamma di Riza. Inoltre penso che finché si è bambini sia proprio uno dei due genitori -più la mamma che il papà- quella metà su cui si concentra la maggior parte del proprio amore. Poi si cresce e ci si cerca un compagno. Il destino ha mandato tanti segnali a Riza e Roy: è ovvio che siano l'uno la metà dell'altro. Ho voluto anche soffermarmi sullo spirito così dedito all'incanto di una Riza poco più che bambina e devo dire di essere particolarmente soddisfatta di questo theme. Spero perciò che lo gradiate.
Ringrazio chi legge, chi ha messo questa raccolta tra le seguite, preferite, ricordate e ovviamente chi mi lascia i propri pensierini (hummingbird royaifan, One Day, Una Certa Ragazza, Silvery Lugia)

"Non serve discutere con l'inevitabile. Il solo argomento contro il vento dell'est è infilarsi il cappotto.", James Russell Lowell

La vecchia casa Hawkeye cadeva a pezzi. L’intonaco sul muro era tutto crepato, dove ancora non era caduto, e c’erano molte tegole del tetto sparse tra l’erba alta di quello che un tempo era stato il giardino.

Per puro caso Riza si era trovata a dover accompagnare il suo superiore Roy Mustang in un’ispezione nelle zone della sua vecchia casa. Erano anni che non tornava in quei luoghi.

Terminato il lavoro, dunque, aveva deciso di andare a far visita alle tombe dei genitori e a vedere in che stato versava la casa, che proprio non aveva trovato il coraggio di vendere, anche se sapeva che non c’avrebbe più messo piede dopo essersi arruolata.

Le foglie gialle e marroni coprivano il suolo del cimitero come un tappeto su un pavimento scricchiolante, mentre l’inverno avanzava a passi sempre più decisi, spinto da un vento dispettoso che veniva da est.

Faceva più freddo rispetto a East City. Lì faceva sempre più freddo, ma Riza non sapeva decidersi se fosse perché si trovavano in collina o perché il passato, come i cadaveri, è sempre freddo al tatto.

Di fronte alle due lapidi, scalfite da quel ventaccio, Riza s’inginocchiò, incurante di sporcarsi i pantaloni della divisa di terra. Con le mani rosse, sferzate dall’aria gelida, tolse la polvere, il terriccio e le foglie secche che si erano incuneate nelle lettere e nelle date incise sul marmo. Spolverò con decisione le due lapidi, lasciando una carezza affettuosa su quella della madre.

Roy era rimasto qualche passo dietro di lei in rispettoso silenzio.

Solo all’inizio il suo sguardo si era concentrato sulla tomba del suo maestro, poi si era spostato sulla schiena della sua assistente. Quella schiena che custodiva segreti pericolosissimi. Quella schiena che aveva studiato e deturpato. In realtà non era mai stata solamente una schiena per lui. Lei, invece, aveva sempre davanti ai suoi occhi la schiena di Mustang. Guardargli le spalle era il suo lavoro. Non era mai avvenuto il contrario; almeno fino a quel momento.

Riza indugiava con una mano sul nome della madre mentre il vento s’incattiviva, diventava più freddo e tagliente. E dire che lei, scioccamente, si era dimenticata il cappotto nell’auto di servizio. Si era fatta cogliere impreparata, a causa dei pensieri e dei ricordi nostalgici.

Un brivido di freddo le risalì lungo la schiena e le spalle si chiusero per proteggersi da quel nemico così molesto e insistente.

Il gesto non sfuggì allo sguardo attento di Roy, che senza nemmeno pensare, come se fosse il gesto più naturale del mondo, si sfilò il suo cappotto per adagiarlo sulle spalle di Riza. Immediatamente il calore la pervase, e non solo perché l’indumento era già stato indossato da qualcuno e quindi aveva racimolato il calore corporeo. Era stato il gesto nella sua genuinità, così pieno di affetto, a riscaldarla.

«Vieni. Andiamo. Sta venendo freddo» le disse Roy Mustang, già camminando verso l’uscita del cimitero.

Riza si sistemò meglio il cappotto sulle spalle. Come erano più esili e sottili le sue spalle rispetto a quelle di Roy. Chiuse un attimo gli occhi mentre recitava il suo silenzioso “Arrivederci” ai genitori e proprio in quell’istante il vento si alzò. Per difendersi dalla raffica improvvisa incrociò le braccia al seno tenendosi stretta al panno nero della giacca, quasi aggrappandocisi. Le arrivò al naso il profumo di Roy, stampato sul bavero come un’impronta di rossetto. Il suo profumo era cambiato negli anni, ma aveva sempre avuto una nota familiare, calda come le fiamme che l’avevano reso tanto famoso, calda come quel semplice gesto in uno degli ultimi giorni dell’autunno nell’est.

Solo dopo aver inspirato quell’essenza per catturarla raggiunse il suo superiore che si era già rifugiato nell’auto.

Una volta seduta in fianco all’uomo fece il gesto di sfilarsi il cappotto per restituirlo, ma lui le posò una mano sul braccio, sussurrandole «Tienilo pure. Me lo dai dopo».

"Se il riposo non è un po' ancora lavoro, è subito noia.", Jules Renard

Il primo giorno libero da quando si era trasferita a Central City.

Riza sarebbe potuta andare al parco, stendersi sull’erba appena tagliata e leggere sotto il timido sole autunnale il romanzo che vegetava sul suo comodino da settimane. Oppure sarebbe potuta andare a fare shopping, spendere un terzo del suo ultimo stipendio per puro capriccio; ma questo era un comportamento più tipico della sua amica Rebecca, non certo suo. Magari avrebbe potuto pranzare in uno dei ristoranti del centro, concedendosi anche un bel vino rosso corposo e il dessert (sicuramente cioccolato. Era tanto tempo che non mangiava del cioccolato!).

E perché non tutte e tre le cose? Parco la mattina, pranzo a mezzogiorno e shopping nel pomeriggio.

Purtroppo, però, la giornata del Tenente Riza Hawkeye trascorse tra le corsie di un alimentari, uno spaccio di prodotti per la casa, una ferramenta e un negozietto di arredamento. Shopping d’alta classe, senza dubbio!

Prima di pranzo era passata per casa, aveva lasciato le buste della mattina metà sul tavolo metà sul pavimento, aveva tolto il guinzaglio al cane ed era uscita di nuovo, senza fidato cucciolo alle calcagna. Il suo pranzo si era limitato a un panino veloce e un sorso d’acqua. Altro che pranzo al ristorante, servita e riverita da un giovane cameriere!

E il parco, appena intravisto. Lei e Hayate lo avevano attraversato la mattina senza fermarsi e solo perché era la via più breve, a piedi, per arrivare dall’altra parte della città.

Così, senza che se ne fosse accorta (anzi, avrebbe maledetto volentieri quell’inopportuno accorciarsi progressivo delle giornate, man mano che l’inverno incalzava) era giunta la sera. I lampioni era stati accesi e i negozi cominciavano a chiudere. Per fortuna che Riza era riuscita a fare tutto quello che aveva programmato. Così finalmente, stanca per il continuo correre, aveva rallentato il passo mentre tornava verso casa con l’ultima busta di carta della giornata.

Passò davanti a un vicolo buio. Non la preoccupava il fatto di trovarsi da sola in un quartiere non proprio tranquillo, di sera. Con una mano teneva la busta della spesa mentre con l’altra  si aggrappava alla borsetta.

Improvvisamente alle sue spalle spuntò una figura losca.

«Dolcezza… è pericoloso camminare da sola a quest’ora. Se vuoi posso accompagnarti a casa io».

Ecco il classico marpione, magari anche bello ubriaco. Con tono freddo e distaccato, senza nemmeno guardare bene la persona che le stava davanti, rispose «Grazie per il consiglio… ma non c’è bisogno».

«Non fare complimenti… ci sono un sacco di tipi strani in giro da queste parti».

Solo allora notò il coltellaccio da macellaio che la figura teneva in mano.

«Per esmpio Barry lo Squartatore!» le urlò l’individuo spuntato dal nulla.

Ma Riza non era solita farsi prendere impreparata. Dalla busta di carta tirò fuori una delle sue pistole e scaricò tutti i colpi del tamburo su quel pazzo scatenato, che aveva cominciato a strepitare, vedendo davanti ai suoi occhi invertirsi i ruoli carnefice-vittima. Finiti i colpi della prima pistola, sganciò la seconda che teneva alla giarrettiera e cominciò a far fumare l’arma.

Preso da un possibile attacco di isteria, il suo assalitore si avventò verbalmente contro di lei «Un mostro come me ti assale, e tu non dici niente? Vediamo se anche adesso non avrai nessuna reazione!». E con le mani si afferrò la testa, o meglio l’elmo, staccandolo dall’armatura.

Riza sparò l’ultimo colpo, assolutamente non colpita dal gesto dello squilibrato che aveva trasformato il suo brutto giorno libero nel peggiore di sempre. L’elmo rotolò poco più di un metro alle spalle dell’energumeno.

«M… m… ma non ti faccio paura neanche un pochino?» evidentemente il cecchino non aveva scalfito solo l’armatura del criminale.

«Conosco qualcuno di simile a te, quindi…». Non valeva nemmeno la pena di sprecarsi in spiegazioni.

«Simile a me? Parli di quell’Alphonse?». Ora sì che le cose si facevano interessante, ma anche piuttosto preoccupanti. Com’era possibile che il più piccolo degli Elric conoscesse quel tizio così poco raccomandabile?

«Geh eh eh! Sei una sua amica? Comunque… sei forte signorina! ♥». Quella conversazione stava assumendo toni raccapriccianti. Meglio far tornare il discorso sui binari.

«Chi diavolo sei tu? E come mai conosci Alphonse?».

«Ho un debole per le donne forti come te! ♥».

«Ehi! Non cambiare discorso!».

«Penso di essere cotto di te, signorina… ♥».

Decisamente il peggior giorno libero di sempre. E pensare che ancora doveva finire.

Riza pensò subito di chiamare il suo superiore, che senza dubbio sarebbe riuscito a fare chiarezza su tutta la situazione e, soprattutto, l’avrebbe liberata da quello stalker scocciatore.

Compose il numero dell’ufficio del Colonnello a memoria, senza nemmeno guardare la tastiera del telefono pubblico.

«Ah, Tenente Hawkeye. Sei tu» la accolse la voce di Mustang dall’altra parte del telefono. «Che succede? Oggi non è il tuo giorno libero?».

In tutta sincerità Riza avrebbe voluto rispondere che sì, era il suo giorno libero, e proprio perché passava le sue giornate a lavorare sodo, si meritava di passare il suo giorno libero al parco, a ristorante o nei negozi del centro. Diamine! Per quale motivo esistono i giorni liberi, altrimenti?

Nonostante questo, respirò profondamente con il naso prima di rispondere «Sì, ma ho catturato un tipo molto strano…».

«Un tipo strano?».

La sua richiesta d’aiuto era stata accolta, ora bisognava solo aspettare che il Colonnello la raggiungesse (e sapeva che non avrebbe atteso a lungo. Roy si era agitato nel sentirle pronunciare le parole “tipo molto strano”), mentre la sua spesa giaceva abbandonata in mezzo alla strada e Riza si riprometteva che ci avrebbe pensato a lungo prima di prendersi di nuovo un giorno libero.