And that's how I realize... He has me hypnotized. di RubyChubb (/viewuser.php?uid=11150)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** You've Got Mail! ***
Capitolo 2: *** Love You, Love You Not ***
Capitolo 3: *** The Big Black Horse and the Cherry Tree ***
Capitolo 4: *** Blues In The Night ***
Capitolo 5: *** A Girl Disappearing ***
Capitolo 6: *** Censored Tears ***
Capitolo 7: *** Buried Myself Alive ***
Capitolo 8: *** Tear In Your Hand ***
Capitolo 9: *** Lies ***
Capitolo 10: *** Fingers On My Face ***
Capitolo 11: *** Love And Psyche ***
Capitolo 12: *** Voices In My Head ***
Capitolo 13: *** My Last Request ***
Capitolo 14: *** The Closest Thing To Crazy - Part One ***
Capitolo 15: *** The Closest Thing To Crazy - Part Two ***
Capitolo 16: *** Hard To Say ***
Capitolo 17: *** My Perfect Distraction ***
Capitolo 1 *** You've Got Mail! ***
Allora,
mie care lettrici, ci siete ancora? Mmmmh... Ho qualche serio dubbio
sulla risposta XD No, dai, scherzo :) Chiunque leggerà
questa storia mi farà felice.
Silvia si smentisce e, come aveva detto nell'ultimo capitolo della
storia precedente a questa "Ma non credo che la
pubblicherò dopo la stessa storia madre,
sarebbe un controsenso, vorrei almeno postarne un'altra"...
Beh, sono passati tre mesi da quando ho finito 'Four Guys' e, come
avevo sempre detto nel suo ultimo capitolo, avrei voluto pubblicare la
storia intitolata 'Would you be my super Hero?'...
Bene, quella storia è ferma da tre mesi XD
Nel frattempo ho scritto questa, che è già
completa nel mio pc, e un altro paio... Beh, quindi, complimenti per la
coerenza, RubyChubb! XD
Questa decisione è stata maturata anche dal fatto che, dopo
tre mesi, chi di voi si ricorda anche solo l'ultima scena di 'Four
Guys'? .....
Forse un paio, ma chi ha intenzione di arrabbiarsi? Io no, non potrei,
perchè se qualcuna delle ragazze che leggo fosse nella mia
situazione, personalmente sarei nella vostra. Un discorso complicato
per dirvi: me ne dimenticherei anche io.
Quindi,
eccovi il seguito di 'Four Guys ih Her Hair', spero che la leggerete e
la commenterete come sempre. Ringrazio anche tutte quelle che hanno
commentato l'ultimo precedente capitolo: CowgirlSara, _Princess_,
Kit2007, Tsumika83, Picchia, Giuly Weasley... Avrei un paio di scuse da
porgere a qualcuna, ma lo farò in separata sede, qua non mi
sembra il caso.
Per
facilitarvi la lettura, vi faccio una breve sinapsi: nell'ultima scena,
Danny e Joanna si fanno una promessa, quella di scriversi delle mail,
oppure telefonarsi... Alla faccia della sintesi! XD Ecco, questo primo
capitolo è composto principalmente da alcune delle email che
i due si sono spediti (non tutte, badate alle date). Si parte subito in
tromba, saltando anche cose su cui avrei potuto spendere
qualche parola in più ma, credetemi, lo farò
successivamente... Una cosa per volta eh! :P
Spero davvero che questa storia vi piaccia, significa molto per me.
Un piccolo
ringraziamento a due persone speciali: Silvia & Silvia. Una mi
ha aiutato passo passo nella realizzazione di questa storia,
leggendola in anteprima e sostenendomi sempre. Te l'ho già
detto una volta, senza di te questa storia sarebbe morta a
metà. Una, invece, mi pose un giorno un problema
fondamentale sul personaggio di Joanna. Beh, mi ha fatto riflettere,
molto, sebbene fossi già sulla strada della soluzione di
quel problema.
Questo trio ne ha di cose da combinare, eh! XD
Per chi
non si ricordasse la faccia di Joanna, la ripropongo subito
qui: Joanna
Credo di
avervi detto tutto, per qualsiasi altro dubbio potete tranquillamente
chiedermi spiegazioni.
Vi lascio
alla lettura, spero che qualcuna di voi commenti, altrimenti grazie lo
stesso, anche per aver solamente aperto la pagina. EDIT: Aggiungo che i McFly non sono di mia proprietà, né questa storia ha la pretesa di essere una rappresentazione della loro vita reale. E' solo frutto della mia fantasia, e non utilizzo nessuno dei personaggi reali sotto citati con scopo di lucro.
Silvia aka RubyChubb
*******************
AND THAT’S HOW I
REALIZE... HE HAS ME HYPNOTIZED
1. You’ve Got Mail!
Mittente: DDAJ
Data: 25 Febbraio
“Scusa il ritardo!
Certo che voi italiani volete farvi proprio una brutta fama nel mondo!
Prima la vostra
compagnia aerea nazionale si mette a fare i picchetti
all’aeroporto, poi ci si
mette la nebbia... E infine un guasto al motore! Non volevano farci
partire! Ma alla fine siamo
arrivati a
casa... Tutti sani e salvi!
Scusami per questa
prima mail, fa schifo, ma non ho veramente un attimo di tempo... E poi
non mi
piacciono molto i computer, ma questa è un'altra storia.
Prometto che sarò più
prolisso in futuro!
Rispondi presto
Little!
Ps: in allegato ho
messo le foto che abbiamo scattato!”
Mittente:
Little Joanna
Data:
26 Febbraio
“Hey! Come
stai? Qua va tutto piuttosto bene.
Non
ti preoccupare, non sei l'unico a non amare molto i computer.
Il
mio pc dà problemi, non l’ho mai saputo
usare
più di tanto!
Se
per giorni non mi sentirai è perché sono venuti
gli assistenti sociali a
ritirarlo!
Ciao!
Ps:
Ma che faccia che ho in quelle fotografie...”
***
Mittente: DDAJ
Data: 01 Marzo
“Eccomi qua di
nuovo, Little! Siamo sempre di fretta, dopo la settimana passata a
Firenze non
ci danno neanche un briciolo di tempo per respirare!
Ho qui vicino Gi,
ti saluta e vorrebbe conoscerti davvero, prima o poi la
accontenterò.
E’ molto simpatica
e carina, di sicuro vi piacerete a vicenda.
Le altre tappe sono
andate più che bene, c’erano molte persone a
vederci e, a parte un piccolo
guasto ad una delle mie chitarre durante uno dei concerti, tutto
è filato liscio.
A te come va? Spero
tutto bene! E il tuo pc? Posso chiamarlo Bob?
”
Mittente:
Little Joanna
Data:
02 Marzo
“Ciao!
Vuoi chiamare il mio computer Bob? Fai pure, io lo chiamo CosoPerchéNonFaiComeTiDico,
ma
penso che Bob sia un buon diminuitivo.
Che
cosa è successo alla tua chitarra?
E’
andata in sciopero come il personale degli aerei italiani?
Ho
letto di
Gi in
giro su internet e ho visto qualche foto... E' molto
carina!!!
Fortunato
Tom, salutalo da parte mia!”
***
Mittente: DDAJ
Data: 27 Maggio
“Cavolo, Little!
Non ti sento per una settimana e tu cosa fai? Ti rompi un braccio?
Dimmi tutto
quello che è successo! Ora!
Ps: Appena mi
leggi, ovviamente ;)”
Mittente:
Little Joanna
Data:
27 Maggio
“Ci
metterò tre ore per scrivere questa e-mail... Ho una mano
sola e, per giunta, è
la sinistra...
E’ successo al lavoro, sono scivolata e sono caduta con la
schiena sul braccio.
Si
è rotto vicino al polso, fa un male cane. Forse
guarirà per la fine del mese...
A
te come va? Qua tutto tranquillo, non succede mai niente...
Sai
che un po’ mi mancate?
Almeno
avete fatto accadere qualcosa in questa patetica vita di Joanna ...
Scusa,
ma sto sempre a casa, davanti alla tv... mi sono depressa! XD”
***
Mittente
Little Joanna
Data:
30 Giugno
“Ho
chiesto a Miki di poter mettere un telefono di quelli che hai detto tu,
quelli
per fare le chiamate tramite internet, ma ha detto di no. Lo sai che lo
odio?”
Mittente:
DDAJ
Data: 03 Luglio
“Scusa per il
ritardo Little, il mio portatile era stato infestato da un sacco di
virus...
Tranquilla, non ti preoccupare. L’idea del telefono
è stata stupida, lo so, ma
sempre meglio di usare queste mail. In fin dei conti, però,
data la mia
impegnatissima vita da star del jet set (oh, come sono famoooooso!)
forse è
meglio continuare così...
Se mai un giorno
cambiassi idea, fammi sapere!”
***
Mittente: DDAJ.
Data: 23 Luglio
“Non ce la faccio
più...”
Mittente:
Little Joanna
Data:
24 Luglio
“Danny...
ma cosa è successo?
Mittente:
Little Joanna
Data:
27 Luglio
“Ci
sei ancora? Mi devo preoccupare? Fatti sentire, non so più
cosa pensare.”
Mittente: DDAJ
Data: 30 Luglio
“Little, mia mamma
è in ospedale... non sta tanto bene, i dottori non ci stanno
capendo un cazzo,
forse dicono di un tumore... VAFFANCULO!”
Mittente:
Little Joanna
Data:
30 Luglio
“Danny,
mi dispiace tantissimo... da quanto tempo sta in ospedale?”
***
Mittente:
DDAJ
Data: 10 Agosto
“Tu sei pazza,
Little, sei completamente pazza! Ho dovuto presentare la tua foto a mia
madre,
che ha preteso spiegazioni! Ti rendi conto? Mia madre che pretende da
me, suo
figlio, spiegazioni! Non dovevi mandarle quei fiori, ti sarà
cosato un occhio
della testa spedirli con il corriere internazionale! E a me, invece,
sono
costate milioni di spiegazioni!
Tranquilla, sto già
pensando a come vendicarmi di te!
Ps: lei sta bene,
era solo un falso allarme. Vuole sapere come si chiama il tuo
fidanzato, vuole
dirgli che è proprio fortunato ad averti. E lo penso anche
io!
Lo voglio conoscere
quando ne avrai uno, voglio essere il primo!”
***
Mittente:
Little Joanna
Data:
22 Agosto
“Ti
odio.”
Mittente: DDAJ
Data: 23 Agosto
“Lo sapevo che lo
avresti detto... Lo sapevo!!! Che ci sarà di male a
vendicarsi di un mazzo di
fiori, spedendo a tuo fratello una scatola con dentro un bellissimo
completino
intimo rosso?”
Mittente: DDAJ
Data: 27 Agosto
“Little? Sei sempre
arrabbiata...”
Mittente: DDAJ
Data: 02 Settembre
“Scusami... So che
non mi rispondi perché sei arrabbiata con me. Ho fatto una
cazzata, ho
esagerato nel mandarti quella cosa, ma nelle precedenti mail mi avevi
detto che
tuo fratello era cambiato, che non si comportava più con te
come era solito
fare quando ti ho conosciuta e...
Lo so, non ci sono
scusanti, quindi smetto di trovare delle giustificazioni.
Fatti sentire
quando ti va, io ti aspetto.”
Mittente: DDAJ
Data: 04 Settembre.
“Non posso
continuare ad accendere il computer in ogni mio minuto libero per
vedere se mi
hai risposto. Ti prego, fallo...
Sto quasi iniziando
a pensare che ti sia successo qualcosa di grave.
Siamo tutti
preoccupati per te, Little, fatti sentire.
Ti prego.”
Mittente:
Little Joanna
Data:
06 Settembre
“Lasciami
in pace.”
***
Mittente: DAAJ
Data: 22 Settembre
“Ti ho contattato
solo per dirti che io e gli altri siamo tornati dalla vacanza che
abbiamo
fatto. Anche se so che non te ne importerà niente, abbiamo
passato due belle
settimane in California.
Volevo mandarti una
cartolina, ma sapevo che avrei combinato solo altro casino.
Spero che leggerai
questa mail e che non la cestinerai come sicuramente hai fatto con le
altre che
ti ho mandato dopo il tuo ultimo ‘Lasciami in
pace’.”
***
Mittente:
Little Joanna
Data:
30 Settembre
“Non
so con quali parole cominciare.
Non
ci sono scuse per quello che ho fatto e so che forse non mi capirai.
Mi
sono trasferita, non vivo più con Miki.
Ho
avuto diverse cose in sospeso da chiudere,
e
non me la sentivo di piangerti addosso con tutti i miei problemi.
Adesso
sto meglio, si è sistemato tutto.
Mi
dispiace davvero tanto, anche se so che non basterà.
Little.”
Mittente:
DDAJ
Data: 02 Ottobre
“Non posso fare a
meno di sentirmi in colpa per tutto quello che ti ho causato.
Non riesco nemmeno
ad immaginarmi che cosa tu possa aver passato, tutto per causa mia.
Non sei tu quella
che si deve scusare con me, sono io.
Adesso va tutto
bene?
Se ti va, io sono
sempre qua pronto a leggere le tue parole, come un migliore amico sa
fare.
Mi sei mancata,
Little.”
Mittente:
Little Joanna
Data:
03 Ottobre
“Non
sentirti in colpa, il tuo ‘regalo’ è
stata solo la ciliegina sulla torta.
Questa
decisione l’avevo presa da tempo, addirittura già
da quando partisti.
Mi hai solo dato una
mano, tutto qui, non
avevo il coraggio di farlo da sola.
Adesso
sto da Arianna, ti ricordi di lei?
Non
lavoro più al locale, purtroppo i rapporti tra me e Miki non
sono più molto
buoni.
Sto
cercando un nuovo lavoro, non so cosa farò...
Stringo
i denti e vedrò cosa la vita ha in serbo per me.
Ci
sentiamo!
Ps:
scusa se non parlo molto... e grazie per esserci stato, le tue e-mail
sono
tutte
nella memoria di questo computer ma non avevo la forza di risponderti.
Ad
averne mille di migliori amici come te... saremmo tutti più
felici!”
***
Mittente:
DDAJ
Data: 06 Dicembre
Ore: 23.58
“Non possono
sottopagarti, Little! Fai sentire la tua voce, grida il valore del tuo
lavoro!”
Mittente:
Little Joanna
Data:
O6 Dicembre
Ore:
00.06
“Dan,
qua in Italia non è come da voi in Inghilterra...
Ci
sottopagano sempre!
E
comunque prendo già cinquanta centesimi di euro in
più rispetto ai miei
colleghi,
solo
perché Arianna ha messo una buona parola per me...”
Mittente:
DDAJ
Data: 06 Dicembre
Ore: 00.25
“Adesso prendo il
primo aereo per Firenze, vengo al cinema dove lavori e parlo con il tuo
capo.
Non può trattarti così, farti lavorare ogni
giorno, ogni fine settimana e
pagarti una miseria.
Io sono Danny Jones
dei McFly, io posso tutto!”
Mittente:
Little Joanna
Data:
06 Dicembre
Ore:
00.27
“Delirante
di onnipotenza.”
Mittente:
DDAJ
Data: 06 Dicembre
Ore: 00.35
“Indiana Danny
Jones, pronto a servirla signorina.”
Mittente:
Little Joanna
Data:
06 Dicembre
Ore:
00.40
“Il
tuo quarto film è stato una cagata. Ritirati dal
sistema.”
Mittente:
DDAJ
Data: 06 Dicembre
Ore: 00.45
“Se dici così vuol
dire che lo hai visto e che hai pagato per vedermi.”
Mittente:
Little Joanna
Data:
06 Dicembre
Ore:
00.50
“I
sette euro peggio spesi nella mia
vita... Ma è stato tanto
tempo fa, ora non mi
ricordo più niente.
Comunque
adesso devo staccare, la mia collega mi ha già coperto per
troppo tempo.
Ci
sentiamo, notte notte!”
***
Mittente: Mr. Drummer McHOT
Data: 22 Dicembre.
“Apri l’allegato!
Ps: con questa mail
non voglio rimanerti simpatico.
Pps: speriamo che
Babbo Natale non ti porti nemmeno un regalino.”
Mittente:
Little Joanna
Data:
25 Dicembre
“Harry,
sei un coglione!
Ps:
Ok, la cartolina di natale in allegato è stata carina, ma
non cambierò idea su
di te.
Pps:
e complimenti per lo squallore del tuo nickname.
Ppps:
salutami gli altri!
Pppps:
speriamo che Babbo Natale si faccia la tua fidanzata (se mai ne hai
una).”
***
Mittente: Tom
FletchFly
Data: 24 Dicembre
“Ciao Jo! Come va?
Spero tutto bene, qua fa un freddo cane e sta iniziando a nevicare...
che tempo
fa i Italia? Nevica?
Sappiamo tutto di
te grazie a quello scemo di Jones e se non mi sono fatto mai sentire
più che
altro è stato per...
Pigrizia! Non mi invento scuse
perché c’è Gi alle mie
spalle che mi sta puntando un coltello alla gola! Quindi ti chiedo
perdono!
Comunque, spero che
davvero tu stia bene e che passerai un bellissimo Natale!
Ps: Sono Gi, quando
vieni in Inghilterra??? Non vedo l’ora di conoscerti!
Pps: stiamo tutti
bene, anche Dougie ti fa gli auguri.
***
Mittente:
DDAJ
Data: 24 gennaio
“Odio la neve e il
ghiaccio, hanno fatto andare in tilt il sistema elettrico della mia
macchina e
sono rimasto a piedi in mezzo a Londra, durante un temporale che faceva
paura.
Qua siamo in alto
mare con il nuovo album, abbiamo iniziato a buttare giù
qualcosa ma... niente
di che. Abbiamo anche messo mano agli spartiti già corretti
ma non vanno più
così tanto bene.
Come ti va al
lavoro? Salutami Arianna! Come sta?
Ps: in estate, se
avrò tempo, verrò a trovarti!”
Mittente:
Little Joanna
Data:
26 gennaio
“Ma
povera la tua auto, secondo me ha fatto un harakiri e si è
suicidata, piuttosto
che continuare a farsi guidare da te!
Altro che neve e ghiaccio e fili
elettrici!
Al
lavoro va sempre così così, quel multisala mi
farà morire di noia.
Adesso
non mi occupo più della biglietteria, mi hanno elevato al
livello dello
strappabiglietti.
Arianna
sta bene, vivo da favola insieme a lei e mi diverto tantissimo.
In questi mesi
mi sembra di essere diventata un’altra persona. Non sono
più stressata, non ho
più pensieri...
Non
ci diamo fastidio, ma troviamo comunque tempo per noi due.
Gli
altri come stanno?
Ps:
Ti aspetto!”
***
Mittente: DDAJ
Data: 25 Febbraio
“Scusa se non ho
mai risposto alla tua ultima mail di gennaio ma il nostro manager ci ha
riempito di impegni che ci hanno tolto il fiato e, accanto a tutto
ciò, siamo
anche stati capaci di incidere qualche pezzo...
Insomma, un mese
intensissimo... e non ho nemmeno la forza di andare oltre.
Ci sentiamo presto,
Little.
Ti voglio bene.”
***
A quella mail
seguirono poche altre. Lei gli scriveva, ma da due mesi lui non
rispondeva più. Seduta sul grande letto della sua stanza, a
tre porte da quella
di Arianna, rimuginava ininterrottamente, con il portatile davanti alle
gambe
incrociate. Il mento sostava sulle mani giunte e i gomiti erano
appoggiati
sulle ginocchia, si mordeva il labbro inferiore con costanza, in cerca
di
coraggio.
La mail era già
pronta per essere spedita, il cursore del mouse già
posizionato sulla casella ‘invia’.
Bastava solo cliccare ma...
Erano ben ventitre
minuti che cercava di farlo, senza esito.
C’erano mille
motivi per cui non trovava la volontà di spedirla e non
stette per l’ennesima
volta a contarli tutti, li conosceva già a memoria.
Mittente: Little
Joanna
Destinatario:
Mr. Drummer McHOT
Data: 15 maggio
“Preciso che ti sto
scrivendo solo perché ho perso il contatto di Tom.
Sarò diretta: cosa
è successo a Danny? Perché sono due mesi che non
lo sento più?
Rispondimi con
tatto, non con il tuo solito modo di fare, so già cosa
aspettarmi.
Stammi bene Harry,
Joanna.”
Spediscila,
deficiente.
Avevano stabilito
chiaramente la natura della loro reciproca posizione: era stato
cristallino il
fatto che non era propriamente possibile lasciare che tra
loro due nascesse
qualcosa di più, ma avevano deciso comunque di mantenersi in
contatto, anche di
scriversi. A dire il vero era stata tutta idea di Danny, non sua, che
invece
era stata sicura del doversi rassegnare al fatto che tutti e quattro,
una volta
tornati al loro paese e al loro lavoro, sarebbero spariti dalla
circolazione.
Al tempo nessuno glielo avrebbe potuto togliere dalla testa, tranne il
comparire di una
strana mail nella sua magra casella di posta elettronica, che aveva
sempre
ricevuto solo pubblicità e newsletter varie,
nonché spam. Si stupì nel ricevere
la sua prima lettera, un paio di giorni dopo la partenza. Non ci aveva
sperato,
aveva subito pensato che le avesse chiesto il suo indirizzo solo per
cortesia,
ma invece...
Si era sbagliata,
ecco, lui l’aveva smentita, e si era sentita un po’
come San Tommaso.
Danny l’aveva
tenuta informata su se stesso, sul gruppo, sugli altri e sui i loro
impegni,
così come lei gli aveva raccontato della propria vita, dei
problemi con Miki,
del trasferimento da Arianna e del nuovo lavoro. Spesso era stato
difficile
racchiudere tutti quei fatti dentro ad una mail, sarebbe stato molto
più
semplice comporre un numero e parlare, le mancava la sua voce calda e
bassa. Ma
non aveva chiesto di più, sapeva che sarebbe stato
impossibile: prima che lei
lasciasse il suo impiego al locale avevano avuto la
possibilità di chiamarsi,
anche abbastanza frequentemente, ma adesso sia gli impegni di Danny che
il suo
lavoro prettamente serale in uno dei tanti cinema della
città non avevano più
fatto coincidere le già poche occasioni di comunicare
oralmente.
Secondo Arianna era
stato tutto un errore: quale amicizia poteva nascere dopo
l’essersi baciati?
Le rispondeva
sempre: era quella costruitasi tra lei e Danny. Semplice no?
“Tu sei innamorata
di lui.”, ribatteva allora Arianna.
“Non è vero!”, le
rispondeva.
“Sì che è vero.”,
faceva l’altra, sospirando, “Altrimenti non
continueresti a scrivergli e ad
aspettare le sue risposte.”
Al che la
conversazione moriva automaticamente: smettega di risponderle, stanca
di
ripetere la medesima storia.
Non era innamorata di lui, non
era così stupida da
cadere in questa trappola vischiosa da cui sarebbe stato impossibile
uscirne
indenne. Ci teneva a Danny: nonostante la distanza e la scarsa
comunicazione
era la persona che sentiva più vicina al mondo, insieme ad
Arianna, il che lo
rendeva molto speciale.
“Non puoi contare
su di lui... Che amico è? Non ha nemmeno il tempo di
telefonarti
per tre secondi!”,
le diceva ogni volta Arianna, la voce della sua coscienza personificata.
Era un amico
lontano ma presente; con pochissime sue parole era stato capace di
sollevarla
dal fondo che aveva più volte rischiato di toccare, e le
mandava le foto più
stupide che scattava con gli altri. Era proprio uno scemo... uno scemo adorabile.
Sapeva che, prima o
poi, tutte quelle mail si sarebbero diradate col tempo, per finire con
lo
scomparire del tutto. Non era mai stata una sognatrice e si era sempre
accontentata di quello che aveva vissuto. Ogni tanto le era capitato di
rileggere quello che si erano spediti: la casella della sua posta
elettronica
era quasi completamente piena delle loro lettere.
E due mesi e mezzo
senza una sola mail erano troppi. Non voleva
farsene una ragione.
Danny non
rispondeva, non dava notizia di sé. Cosa gli era successo?
Si
è annoiato di
te, Jo.
Con una nuova
mail si stava per rivolgere ad Harry, quel gran simpaticone. Di Tom
aveva
perso il contatto, forse per errore aveva cancellato al sua mail con
gli auguri
di Natale. Dalla partenza non aveva più parlato con Dougie,
né lui si era mai
presentato con una lettera, e le aveva mandato gli auguri di Natale per
bocca
di Tom. Lei, dal suo canto, non chiedeva altro.
Presa da un
indelebile coraggio, cliccò sulla casella ‘invia’
e la mail partì.
***
Mittente:
Mr. Drummer McHOT
Data: 25 Maggio
“Mi sono fatto
attendere abbastanza, ora posso anche scriverti. Danny sta bene, non si
fa
sentire perché siamo pieni di lavoro.
Il povero Jones a
ferito i tuoi sentimenti? Spero di no.
Ed io invece? Spero di
sì.”
Joanna guardò
interrogativamente la proprietaria di casa, seduta davanti a lei.
“Che ha detto?”, le
chiese Arianna con tono rassegnato, scostando la rivista di moda che
sfogliava
senza interesse.
“Lavorano troppo.”,
disse, stronfiando annoiata.
“Ti ha scaricato.”,
disse Arianna.
“Lo so.”, le fece.
“E non si è nemmeno
preso la briga spiegarti il perché.”, insistette
Arianna, sempre scettica sul
loro rapporto-non-rapporto, come lo definiva lei.
“So anche questo.”
“Forse non ha le
palle.”
“Certo che ce le
ha... E’ un uomo!”,
sottolineò Joanna.
“Il fatto di
possedere il lungo filamento genetico del cromosoma XY non comporta
automaticamente il ritenersi uomini a tutti gli effetti.”
Joanna sbuffò con
animosità, segno che la conversazione poteva chiudersi in
quel momento. Arianna
lo comprese e, difatti, non andò oltre, tornando alla
lettura della sua rivista
di moda.
***
Quando aveva visto
il nome del mittente della nuova mail in arrivo le era preso un
coccolone. Era
stata come una deficiente a fissare lo schermo per almeno cinque
minuti, con il
cuore che le batteva all’impazzata nella gola e il cervello
in sciopero
generale, i neuroni che sbandieravano striscioni d’inno alla
gioia.
Con mano tremante
aveva aperto la lettera ed aveva letto quelle semplici tre parole.
Mittente: DDAJ
Data: 01 Giugno
“Little… Mi odi
vero?”
Sì
che ti odio.
Sei peggio di Poynter...
Tacque ogni
rispostaccia che la stronzetta in lei gridava a furor di corde vocali
mentali e
preparò una nuova mail.
Mittente:
Little Joanna
Data:
02 Giugno
“Non
ti chiedo giustificazioni per quello che hai fatto, so che
arriverebbero a
vagonate e non ho voglia di starle a sentire.
Sì,
ce l’ho con te per non avermi degnato di una sola parola in
due mesi.
Ma decido comunque di lasciar stare questa
storia.”
La rilesse un paio
di volte e la inviò. Un po’ di freddezza iniziale
non poteva altro che far
bene.
“Tu sei innamorata
di lui.”, spuntò alle sue spalle Arianna,
cogliendola del tutto di sorpresa e
facendola sussultare sulla sedia della cucina.
“Arianna!”, esclamò
lei, chiudendo prontamente il portatile, “Non
ficcanasare!”
“E tu non
innamorarti della persona sbagliata.”, le disse, prima di
sgattaiolare via, con
il suo caffè in tazza.
***
Mittente: DDAJ
Data: 03 Giugno
“Ce l’hai una
settimana per me? Rispondi appena puoi.”
Rifletté a lungo
sul significato di quella domanda. Cosa voleva dirle? Lo chiese ad
Arianna.
“Secondo me vuole
che tu vada su in Inghilterra, da lui.”, le disse la donna,
schiettamente,
mentre si truccava gli occhi davanti allo specchio del bagno.
Erano state
invitate a cena da un amico di lei e, dato che il livello medio di
età delle
sue conoscenze si aggirava intorno ai quarant'anni, Joanna aveva deciso
di
declinare l’invito per rimanersene a casa, con notevole
dispiacere di Arianna.
“Da lui?!?”,
esclamò Joanna, “Ma non posso, ho il
lavoro!”
“Non è quello il
motivo per cui non devi partire, Jo.”, le fece Arianna, "Non
devi andare da
lui perché ti farai solo del male.”
“Non capisco tutto
questo tuo risentimento nei confronti di Danny.”, disse
Joanna, infastidita al
massimo, “Perché dovrebbe farmi del
male?”
La donna lasciò il
mascara, riponendolo nella sua boccetta, e si voltò verso di
lei.
“Innanzitutto, è
cretino da parte sua chiamarti ‘la mia migliore
amica’, potrebbe
benissimo aprire gli occhi e capire che non potrete mai essere amici
per i
soliti due motivi: vi siete ripetutamente baciati e ti sei innamorata
di lui.”
Joanna roteò gli
occhi e fece per andarsene, ma rapidamente la mano di Ariannala
bloccò, forte
sul suo braccio.
“E poi”, riprese la
donna, con sguardo serio, “è stato tre mesi senza
mandarti una sola
stupidissima mail.”
“Due mesi.”,
precisò Joanna.
“Fa’ lo stesso.”,
la seccò la donna, “Se avesse veramente tenuto a
te, si sarebbe sforzato al
massimo per costruire qualcosa di buono ma, siccome è un
uomo, ha preferito
ammansirti con quelle letterine dolci. Magari ti sta serbando nella
credenza,
così quando tornerà in Italia avrà
qualcuno con cui divertirsi.”
Joanna non rispose
dell’azione della sua mano, che si scontrò sulla
bocca rossa di
Arianna. La donna rimase sbalordita dalla reazione della ragazza e non
ebbe il
coraggio di fare niente.
“Non osare mai più
parlare così di lui.”, le sibilò, prima
di lasciarla sulla soglia del bagno a
boccheggiare, stupefatta.
Non si parlava male
di Danny, del suo unico amico sulla faccia della Terra.
Sei lessa,
cotta
come una pera, completamente fusa per lui.
No, non lo
sei,
piantala!
Lei non era
innamorata di Danny Jones, era solo una sua amica speciale, e si era
preoccupata per lui. Ora che si era rifatto vivo, tutto sarebbe tornato
come
prima, o addirittura meglio.
Aprì il portatile e
lo accese.
Mittente:
Little Joanna
Data:
02 Giugno
“Certo
che ce l’ho una settimana per te, Dan.”
La risposta arrivò
il giorno successivo.
Mittente: DDAJ
Data: 04 Giugno
“Benissimo! Voglio
farti conoscere tutta la mia famiglia!
Quando puoi partire?”
E
questo è il primo capitolo.... A voi!
Ah, il titolo è preso dal famoso film con Tom Hanks , quindi
niente scopo di lucro.
|
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Capitolo 2 *** Love You, Love You Not ***
Mi sono dimenticata di una
cosa importantissima. Il titolo della storia è
preso, manco a dirlo, ad una canzone dei McFly. Esattamente
Hypnotized,
cliccate per avere un ascolto. Specifico, non
c'è scopo di lucro, ma solo quello di
trovare un titolo stupido XD
Il titolo di questo capitolo
è, invece, di mia invenzione... Cioè, non lo
è, ma fa lo stesso! E' il solito "M'ama non m'ama",
non so chi l'abbia inventato, ma io l'ho usato in maniera
lievemente diversa...
Metto
anche un po' di fotuzze di quei quattro, dai, che così vi
spacco
definitivamente le scatole e non mi leggere più! Ecco Danny,
Dougie,
Tom
e Harry.
Metto anche Giovanna,
la vera ragazza di Tom, che comparirà
più volte. Infine, il personaggio che molte di voi stimano
profondamente... Arianna.
Non è proprio
come la vorrei, ma si avvicina molto. Per chi la conoscesse,
è la Penny Widmore del telefilm "Lost". Non uso la sua
persona per
scopo di lucro, è ovvio, ma solo perchè la sua
immagine si avvicina molto a quella che ho nella mia testa...
Vi lascio al capitolo, spero
che il "colpo di scena" non vi dispiaccia...
2. Love
You, Love You Not
Aspettava da
un’ora, seduta sulla sua valigia grigia e rigida, tutta
graffiata. Dentro a
Heathrow, il grandissimo aeroporto internazionale londinese, si stava
sentendo
piccola come una formica; aveva faticato a ritagliarsi un piccolo
quadrato di
pavimento dove sostare con la sua valigia, in attesa che qualcuno la
venisse a
prendere. Intorno a lei migliaia di viaggiatori di ogni
nazionalità, persone
che esibivano cartelli con strani nomi neri di pennarello e famiglie
che si
ricongiungevano, tra baci ed abbracci.
Ma ancora nessuno
per Joanna…
Si sistemò
nervosamente i capelli dietro alle orecchie. Si era addirittura decisa
a fare
qualcosa per quella pettinatura un po’ smorta: su consiglio
di Arianna, che
aveva perdonato quasi subito il gesto convulso dello schiaffo sulla
bocca
imputandolo ad una reazione causata dalle sue parole troppo
provocatorie, aveva
dato un bel taglio alle lunghe ciocche bionde. Adesso i suoi capelli
erano
fermi sulle spalle, lievemente mossi, con una frangetta liscia e dritta
che le
copriva la fronte. Il fidato parrucchiere di Arianna le aveva anche
ravvivato
il colore con qualche colpo di sole, stava decisamente meglio.
Al lavoro aveva
avuto dei problemi nell’annunciare di voler usufruire delle
giornate di ferie
accumulate. Non aveva compreso tutta la ritrosia del direttore del
cinema nel
darle ciò che le spettava: si stavano avvicinando
all’estate ed il numero dei
clienti era visibilmente diminuito, virtualmente non ci sarebbero stati
problemi con una persona in meno nello staff. Ad ogni modo, lui aveva
acconsentito ponendo una pesante spada di Damocle sulla sua testa: al
ritorno
dall’Inghilterra molto probabilmente non avrebbero
più avuto bisogno di lei.
Meglio, si era detta, non
sono molto brava nel
togliere chewing gum da sotto i sedili…
Ed adesso era lì,
con il cuore che batteva forte e la smania di uscire da quel posto
brulicante
di persone. Era nervosa, gingillava ritmicamente il suo piede, si
mordicchiava
le labbra. Si chiese se sarebbe piaciuta ai suoi: Danny non gliene
aveva
parlato molto, sapeva solo che aveva una sorella, Vicky,
nient’altro. Anche
lei, dal suo canto, non aveva fatto di meglio... Ma era pronta a
recuperare. Si
era promessa che gli avrebbe parlato di tutto.
Di tutto.
Sì, era pronta per
farlo, lui l’avrebbe capita e non le avrebbe voltato le
spalle. Se n’era
convinta dopo lunghissimi sforzi, aveva anche provato a recitare la
parte di se
stessa in confessione, davanti allo specchio, inutilmente, ma era
sicura che ce
l’avrebbe fatta.
Non ci devono
essere segreti.
Non la spaventava
molto la possibilità di incontrare di nuovo Dougie, anzi, si
sentiva abbastanza
certa che sarebbe tutto filato nel migliore dei modi: lui non le
avrebbe
rivolto la parola, lei neppure, fine della questione. Per quanto
riguardava
Harry, lo avrebbero zittito un paio di secche risposte. Era anche
eccitata dal
fatto di incontrare Gi, la cosiddetta ragazza di Tom:
dall’impressione avuta
nel vedere le foto di lei pubblicate su internet doveva essere proprio
una
simpatica ragazza, oltre che tremendamente carina.
La valigia sotto di
lei ebbe un sussulto, qualcuno aveva scontrato il suo piede su di essa
e la
stava sonoramente maledicendo, traballando in equilibrio su un solo
piede. Lei
non poté non sbuffare in una risata, mascherata dalla mano
mentre il tizio
recuperava la sua dignità risistemando il suo cardigan
giallino.
Per una volta
che non sono io ad inciampare contro qualcosa…
Si accomodò
sul
bagaglio e tornò in attesa, incrociando le braccia e notando
che la grande
mattonella a fantasia sale e pepe su cui si trovava sembrava contenere
il
disegno di un diavoletto con la forca in mano.
Sospirò.
Aveva razionalizzato
ogni singolo aspetto della questione e, in un conflitto interno al suo
cuore,
stavano combattendo due contrarie consapevolezze. In quei giorni,
infatti,
aveva sentito nascere dentro di sé una lei diversa, ancora
sconosciuta, che
aveva sorpassato il suo lato iperrealista e l’aveva spinta a
trovare la giusta
settimana da dedicare a quel viaggio, accompagnandola a comprare i
biglietti
dell’aereo. Dall’altro
lato, invece, si
trovava la classica Joanna, quella troppo attaccata alla
realtà vista con i
suoi stessi occhi, quella a cui non piaceva sognare e che, in mezzo a
quella
folla multi etnica, era tornata a reclamare la superficie, il suo
trono, prima
spodestata dall’altro bizzarro ed appena nato alter ego.
Era la parte di sé
che concordava maggiormente con la scetticismo di Arianna, quella che
la
costringeva a realizzare il fatto che, molto probabilmente, sarebbe
tornata da
quella settimana inglese con la coda tra le gambe.
Perché
ti ostini
a vedere quello che tra due amici non ci può essere?
Quello era il loro
rapporto: amici. Tra le variabili presenti, non si
doveva dar per
scontato quel fattore. La sua efficiente razionalizzazione non doveva
commettere quel solito grandissimo errore, non dovevano esserci pesanti
falle
nel sistema del suo perfetto calcolatore. Tutto quello che stava per
accadere
non avrebbe voluto dire molto: Danny l’aveva voluta ospitare
a casa sua come
gesto di amicizia, di cordialità. Le voleva presentare la
sua famiglia perché
ci teneva a lei, non perché... Volesse dimostrarle
qualcos’altro.
La sua
famiglia…
Le sue guance
diventarono di un paonazzo strabiliante e non poté fare
altro che cercare di
nasconderle guardando a terra, mentre i capelli le scendevano in
avanti.
Improvvisamente ebbe voglia di fuggire, di scappare via, di tornare a
casa dove
tutto quello sarebbe diventato solo un ricordo, un errore, una
confusione
lontana e dimenticata.
Pentiti di
aver
accettato il suo invito.
Ma non doveva
farlo, assolutamente no. Prima o poi l’innamoramento sarebbe
passato, ne era ovviamente
certa: quel sentimento era stupidamente nato a causa della lunga
assenza di
Danny. Si era preoccupata, era stata male per lui... E si era fatta
prendere la
mano, ora sarebbe stato sufficiente mettere il piede sul freno.
Nel momento in cui
si fosse trovata faccia a faccia con Danny, si sarebbe data della
cretina per
tutto quel pensare. Era il migliore amico che avesse mai avuto in tutta
la sua
vita, e lo sarebbe stato per sempre. O per lo meno finché
non si fossero
stancati l'uno dell'altra.
Un paio di piedi in
avvicinamento la distrassero.
“Sei tu Joanna?”,
le domandò una ragazza dai capelli scurissimi,
innaturalmente neri. Il trucco
era pesante sui suoi occhi e la sua maglietta rossa piena di scritte
era
alquanto bizzarra.
La squadrò. Chi
era?
“Sì…”, le disse,
titubante.
“Oh finalmente!
Sono dieci minuti che ti cerco tra tutte le ragazze che stanno qua agli
arrivi
internazionali!”, esclamò l'altra, annettendo una
sonora risata, “Io sono
Vicky, la sorella di Danny.”
Le porse la mano,
stringendogliela con un sorriso.
Avrebbe dovuto
capirlo subito.
“Come stai?”, le
chiese la ragazza, “Com’è andato il
viaggio?”
“Tutto a posto, è
stato abbastanza tranquillo.”, le rispose.
Sporse gli occhi
oltre il suo corpo per cercare Danny, ma non vide nessuno.
Lei comprese
subito.
“Mio fratello non è
venuto perché… Sai…”, le
disse l’altra, ridacchiando, “Preferiva non
trovarsi
a... Dare spiegazioni...”
“Sì, lo capisco.”,
le rispose.
Cercò i tratti
somiglianti tra i due fratelli Jones: di sicuro, primi tra tutti i
grandi occhi
–quelli dei lei però erano scuri- e il sorriso
pieno in volto. E l’accento.
“Andiamo. Ho la
macchina in divieto di sosta!”, disse la ragazza,
afferrandole la valigia e
cominciando a trascinarla, “Dio! Com’è
leggera! La mia peserebbe un quintale!”
Joanna non poté non
ridere alla spontanea simpatia di quella ragazza. Era proprio sua
sorella, non
c’erano dubbi.
Durante il viaggio,
la parlantina veloce e acuta di Vicky la stordì
completamente. Era un treno in
corsa, sparava frasi ad una velocità tale che dovette
fermarla più volte e
chiederle di ripetere tutto, dato che non aveva ben colto il
significato di
alcune parole ed il suo accento, tipico del nord
dell’Inghilterra, era talvolta
piuttosto criptico. Nonostante ciò la lunga conversazione le
rimase impossibile
da comprendere per un bel sessanta percento.
Le riferì che Danny
aveva parlato molto spesso di lei, che sapevano un mucchio di cose
sulla sua
vita e che erano tutti molto ansiosi di conoscerla. Quando Kathy, la
loro
madre, aveva visto la sua foto aveva pensato subito che fosse stata la
ragazza
di Danny, e lui aveva prontamente riparato spacciandola come una sua
amica
speciale.
“Guarda che dice
bene.”, disse Joanna, “Siamo solo amici!”
“Oh sì, su questo
non ci sono dubbi!”, esclamò la ragazza, con un
gesto secco della mano ad
enfatizzare la sua risposta.
Visto? Che ti
dicevo? Pure la sorella ne è certa!
“A casa sua
ci sono
già gli altri.”, le disse Vicky, prima che potesse
mentalmente zittire la
vocetta della petulanza.
“Oh bene.”,
rispose, con tono assente.
Il termine ‘gli
altri’ doveva comprendere i tre quarti dei McFly,
ma non ebbe però tempo di
accertarsene. Vicky tornò di nuovo a parlare, dicendole che
anche lei aveva un
gruppo tutto suo, gli Yes Sensei, con i quali
suonavano rock alternativo,
hardcore. Speravano anche loro in un contratto ed erano già
in trattative con
un’etichetta che promuoveva gruppi del loro stesso genere
musicale.
“Allora è una cosa
di famiglia.”, disse Joanna, in un attimo libero dalle parole
dell’altra.
“Beh sì, la musica
è parte di tutti noi!”, esclamò felice
l’altra.
Il viaggio fu più
lungo del previsto, il traffico londinese le teneva bloccate in vie
strette e
ostruite da auto in doppia fila, cosa che a Vicky fece scappare un paio
di
sorde parolacce per le quali prontamente si scusò.
In circa
quarantacinque minuti furono a Watford, zona periferica di Londra, dove
Danny
viveva. L’auto si fermò nei pressi di una precisa
casa davanti alla quale
sostavano anche altri veicoli. Era fin troppo tipicamente inglese,
esattamente
come se l’era immaginata: sistemata su due piani, con una
piccola mansarda che
spuntava sul tetto, aveva un giardino tutto intorno contornato da una
siepe
abbastanza alta; la facciata era scura e pressoché simile a
tutte le altre, di
legno e mattoni, con gli infissi chiari ed una piccola veranda che
sovrastava
l’entrata principale.
Poco prima di
entrare, Vicky la informò che anche gli altri abitavano
lì vicino.
“Quella laggiù è
casa di Harry. Quella là è di Dougie,
lassù ci stanno Tom e la sua ragazza.”,
le fece, indicandole con gesti talmente rapidi che Joanna non fu in
grado di
capire.
“Vivono tutti sulla
stessa strada?”, le domandò, perplessa.
“Sì, da sempre!”,
fece lei, sorridendo, “Non lo sapevi?”
Scosse la testa.
“Tutte le loro fans
lo sanno!”, le disse la ragazza, con un’occhiata
strana, “Non sei una di quelle
che spulciano i siti in cerca di ogni più piccola
informazione su di loro?”
“Beh… Perché dovrei
farlo?”, scrollò le spalle Joanna,
“Potrei chiederle a Danny, se volessi
saperle.”
Vicky continuava ad
essere perplessa.
“Ecco, ora riesco
ad inquadrare un paio di cose!”, fece poi, sorridendo ancora.
Lo stesso
sorriso.
“E
quali?”, le
domandò, ma lei non rispose.
Vicky afferrò con
forza la valigia dal bagagliaio e, strizzandole un occhio, la
tirò fuori in un
solo balzo. Poi, tenendo la maniglia con entrambe le mani, si fece
strada nel
corto vialetto di casa di suo fratello. Joanna si offrì di
darle una mano,
inutilmente; lei rifiutò e, con il fiatone,
parcheggiò il bagaglio davanti alla
porta, mettendosi le mani davanti alla bocca.
“Siamo arrivate!”,
gridò così forte da far volar via un paio di
uccellini, posatisi sui rami della
siepe.
Gli occhi
sorridenti di Danny spuntarono fuori dalla porta.
“Little!”, esclamò
lui, passando oltre alla sorella, che scacciava via il caldo e lo
sforzo con
una mano sventolante vicino al viso.
Joanna sentì un
tuffo al cuore e la pancia serrarsi in una stretta felice.
Danny le venne
incontro, la abbracciò e, afferrandola con forza, la
sollevò più in alto della
sua testa.
Aspettiamo
altri
cinque minuti, questo sfarfallio allo stomaco è solo un
effetto momentaneo.
“Com’è
il tempo lassù, Little?”, le chiese,
scoppiando poi in una risata che coinvolse anche lei.
“Soffro di
vertigini, mettimi giù!”, gli fece.
La fece tornare con
i piedi per terra, anche se ormai era praticamente impossibile
riuscirci.
“Com’è andato il
viaggio?”, le domandò, passandole un braccio sulle
spalle e accompagnandola
dentro casa.
Il volo, come
sempre per lei traumatico, ed il sorriso di Danny erano un buon
cocktail di
stordimento.
Facciamo
dieci minuti...
anzi, un quarto d’ora, e lo sfarfallio passerà.
“Bene,
non ero in prima classe ma mi sono
adattata.”, scherzò lei.
“Sei stanca? Vuoi
riposare un po’?”, le chiese, con fare premuroso.
“No, sto
bene, davvero.”, ripeté.
“Meglio! Perché
sono già arrivati tutti!”, fece lui, con
entusiasmo.
“Oh... bene!”,
disse, senza troppo entusiasmo, “Ho almeno il tempo di
aggiustami un po’?”
“Eh no, adesso non
più!”, disse lui ridendo, “E poi si
perfetta così... Il nuovo taglio ti sta
molto bene!”
Arrossì.
Mezzora.
Ancora
mezzora.
“Davvero?”,
gli
chiese, per sentirselo dire ancora.
“Sì, adesso sembri
più grande!”, esclamò Danny,
precedendola nel breve corridoio.
Non era proprio il
tipo di complimento che si aspettava, ma lo accettò lo
stesso.
Come non
detto... Sei patetica.
Non ebbe nemmeno il
tempo di guardarsi intorno e si trovò subito in un salotto
accogliente, dove i
due sofà ospitavano diverse facce. Riconobbe subito quella
di Tom, inconfondibile,
ed anche quella di Giovanna che le sorrideva impaziente, seduta accanto
a lui,
mentre vicino si era accomodata Vicky. Un altro divano se ne stava
incrociato
con quello, formando un angolo occupato da un tavolino rotondo di legno
con
fatture orientali; sul sofà sostava una signora sulla sua
cinquantina, bionda.
Se quella non
è
la mamma di Danny, io sono Maria Luisa Ciccone.
Ad entrambi i figli
aveva dato i suoi splendidi occhi e la solarità del sorriso,
erano
inconfondibili. Vicino a lei Harry, sempre beffardo nel suo aspetto.
Non trovò
Dougie: forse si era assentato, molto probabilmente non era nemmeno
venuto.
“Allora, passiamo
subito alle presentazioni.”, disse Danny, strusciandosi le
mani indaffarato,
“Uhm... Mamma, questa è Joanna.”
La donna si alzò e,
sempre con il solito sorriso luminoso, le prose la mano cordiale. Si
sentì
visibilmente imbarazzata e questo la fece sentire ancora più
atterrita.
“E’ un vero piacere
conoscerti, Joanna.”, le disse la donna.
“Il piacere è tutto
mio... Signora Jones.”, rispose, stringendole la mano.
“Kathy, chiamami
Kathy.”, le fece, “O mi farai sentire troppo
vecchia.”
Ridacchiò e Joanna
non trovò di meglio da fare che, come al suo solito,
arrossire.
“Accomodati,
Little.”, la esortò Danny.
“Non mi presenti?”,
protestò Giovanna, scattata sugli attenti.
E finalmente
conobbe anche lei: la stretta di mano di Giovanna fu così
forte e calorosa che
Joanna fu costretta a nascondere con un sorriso una lieve smorfia di
dolore.
Era mora, così come aveva visto nelle fotografie sul web, ed
i capelli le
cadevano lunghi sulle spalle; era sicuramente una bella ragazza, sia
nell’aspetto che nella presenza.
Approfittando della
situazione salutò con un abbraccio anche Tom, e con una
fredda stretta di mano
Harry.
“Adesso puoi
finalmente accomodarti, Little.”, la esortò Danny,
già sedutosi su una comoda e
larga poltrona di fronte a lei.
Le indicò il posto
libero accanto al batterista che, ironicamente, prese a picchiettare la
mano
sulla stoffa del sofà per invogliarla.
“Hai fatto buon
viaggio, Jojo?”, le chiese, in tono scherzoso.
“Oh sì, non mi sono
lamentata.”, rispose lei, che non ebbe la forza di
controbattere con qualcosa
di altrettanto divertente.
Si sentiva gli
occhi concentrati su di sé, la mettevano abbastanza in
soggezione. Era nervosa
e sicura che gli altri se ne stessero accorgendo, notava tra di loro un
certo
disagio: gli sguardi che si lanciavano erano eloquenti.
“Vuoi qualcosa da
bere?”, le fece la signora Kathy, indicandole con un gesto
educato le bottiglie
presenti sul tavolino tondo alla sua sinistra, “Un
po’ d’acqua?”
“Beh... Sì,
grazie.”, rispose.
Mi ci
affogherò,
grazie mille.
La donna le porse
il suo bicchiere e, nel silenzio, prese il primo sorso. In quel
momento, si
chiese come mai non ci fosse alcun uomo al suo fianco, e quindi dove
fosse il
padre di Danny.
“Ormai sappiamo
tutto di te.”, continuò la donna, “Non
so nemmeno cosa chiederti di preciso,
Danny ha sempre fatto la spia!”
“Già, come se
fossero stati fatti nostri.”, aggiunse Harry.
“E dai, Judd!”,
esclamò Danny, “Dillo che è mancata
anche a te!”
“Tantissimo!”,
disse il batterista con sarcasmo, “Jojo, mi sei mancata da
morire.”
“Anche tu.”, gli
rispose, trovando un po’ di coraggio, “Mister
Drummer McHot.”
Harry parve non
scomporsi alla citazione della sua identità online; gli
altri, invece, erano
del tutto sorpresi, pronti a scoppiare a ridere da un momento
all’altro.
Beccati
questa!
“Certo che
sei
proprio il solito narciso.”, disse Giovanna, sogghignando.
“Drummer McHot!”,
ripeté Danny, “Hai anche una bella fantasia del
cazzo!”
“Daniel!”, lo
riprese d’improvviso sua madre.
Quella volta fu lui
ad avvampare, dalla punta dei capelli ricci fino all’ultimo
centimetro dei
piedi.
Ok, datemi
almeno un’ora, poi questo falso innamoramento
passerà.
Sì, sarebbe
sicuramente passato. Con il bicchiere tra le mani, attese che le prese
in giro
rivolte a Danny si concludessero ma, data
l’ilarità generale, non sembravano
essere destinate a finire presto.
“Cosa c’è da
ridere?”
In un attimo, tutti
si zittirono. I loro sguardi si fissarono in un punto alle sue spalle,
dal
quale era arrivata quella voce femminile. Con la coda
dell’occhio, Joanna notò
una statuaria presenza. Si voltò per osservarla e la ragazza
le sorrise.
“Sei tu Joanna,
vero?”, le domandò l’altra.
Occhi di un verde
brillante. Era abbastanza alta, o forse era lei ad
essere solo seduta.
Aveva un piccolo brillante sul naso, lievemente sproporzionato rispetto
al
resto della faccia, che comunque era molto armoniosa.
Hey, Jo,
indovina chi viene a cena?
“Finalmente!”,
esclamò Danny, avvicinandosi a colei, “Little, ti
presento Tamara, la mia
fidanzata.”
“Molto piacere.”,
disse la ragazza, porgendole la mano con educazione, “Spero
che ti troverai
bene a casa nostra.”
Joanna,
completamente statica nella sua espressione muta, venne svegliata dal
bicchiere
che aveva tra le mani, che sentì sguisciare via. Harry,
provvidenzialmente,
glielo aveva tolto dalle dita pericolanti e, con fare indifferente, se
lo era
portato alle labbra, mettendosi a bere l’acqua rimasta.
“Oh… Sì, mi troverò
sicuramente benissimo!”, esclamò Joanna con troppo
entusiasmo, alzandosi e
stringendole la mano come un automa a cui avevano fatto
un’overdose di felicità
assoluta.
“Ecco perché non mi
sono fatto più sentire per due mesi.”, le
spiegò Danny, “Tra il lavoro, gli
impegni vari e il trasloco di Tamara in casa mia, non avevo
più tempo per
niente e per nessuno, nemmeno per me. Mi dispiace davvero tanto,
Little.”
“Ma figurati!”,
disse Joanna, “Adesso capisco tutto…. Sono proprio
felice per voi!”
Visto il suo
atteggiamento, l’automa doveva avere sniffato anche una lunga
striscia di
malsana ipocrisia. In quel momento si sentì tanto simile a
sua madre, che aveva
finto per trent’anni di essere felicemente sposata con
l’uomo della sua vita.
Si disgustò di se stessa.
Ebbe davanti a sé
una preveggenza su come sarebbe stata quella settimana inglese: piena
di
finzioni e di falsità, di frasi costruite appositamente per
mascherare ciò che
aveva dentro.
“Ma che
bel quadretto!”, irruppe poi Harry,
“Ora che ho visto tutto, addirittura senza essere colpito
dalla sindrome di
Stendhal, me ne vado a casa.”
Si alzò.
“Di già?”, lo fermò
Tamara, “Non vuoi rimanere a cena?”
“Oh no, grazie
mille comunque.”, declinò l’invito.
“E poi domattina ci
dobbiamo alzare presto…”, continuò
Danny, con entusiasmo, “Ho organizzato per
tutti noi qualcosa di molto divertente.”
“E cosa?”, domandò
Tom, evidentemente interessato.
“Una bella gita
nella campagna inglese, che non ha niente da invidiare a quella
italiana.”, si
spiegò patriotticamente, “Partiremo sul presto,
verso le otto, e andremo in un
maneggio. Prenderemo dei cavalli e ci faremo in giro. Che ne dici,
Little?”
Era perplessa.
L’ultima volta che era andata a cavallo, l’animale
si era imbizzarrito e ci
mancò poco che non la schiacciasse sotto il suo peso.
“Che bella idea…”,
disse, senza troppo vigore.
“Non ti va?”, le
domandò subito Danny, cogliendo qualcosa di nascosto nelle
sue parole.
“Oh sì, certo che
mi va!”, si affrettò a negare tutto.
“Domani non
posso.”, disse Giovanna, “Ho le prove con la
compagnia. A fine mese siamo di
scena e non posso mancare.”
Giovane, attrice in
erba, non poteva mancare ad una delle prove per quella giornata, la
capiva
perfettamente.
“Peccato…”, disse
Danny, visibilmente dispiaciuto, “Tom, verrai vero?”
“Vedremo, non lo
so.”, rispose lui, “Non è che mi senta
tanto bene.”
La sua voce
fortemente nasale, infatti, non era di buon auspicio.
“Cavolo…”, fece
Danny.
Anche se con
estrema ripugnanza, Joanna si voltò verso il batterista.
Se mi
costringi
a passare del tempo insieme
a loro due,
da sola, mi fucilo. Poi resusciterò, e fucilerò
anche te.
“Ok, ci
sarò. Ma
non sarò puntuale!”, disse Harry, comprendendo il
pensiero che aveva cercato di
trasmettergli con uno sguardo implorante, “Ora vado, prima
che mi arruoliate
per un pic-nic sull’erba umida.”
“E’ quello che
faremo domani!”, gli disse Danny.
“Allora spera che
non porti la mia mazza da cricket per dartela in testa!”
E dette quelle
parole, Harry sparì dietro la porta di ingresso. Poco dopo
anche Tom e Giovanna
se ne andarono, preoccupati soprattutto per il precario stato di salute
di lui.
“Bene, vado a
preparare la cena!”, disse la signora Kathy .
Si chiuse da sola
in cucina, ed ordinò loro di rimanere buoni in salotto in
attesa della sua
chiamata.
Aveva
solo una
manciata di anni in più di suo fratello e, anche se le
occasioni per stare
insieme a lui erano da tempo esigue, lo conosceva anche meglio di se
stessa.
Avevano vissuto tante di quelle cose insieme, dalla più
divertente alla più
drammatica, si sentiva molto legata a lui ma, a volte, il suo
comportamento le
risultava del tutto incomprensibile, infantile, irrazionale
e…
Stupido.
Altamente stupido.
In sintesi, da
quando era tornato dall’Italia la parola che più
veniva pronunciata dalle
labbra di suo fratello, in territorio di argomentazione femminile, era
‘Little
Joanna’. Ben presto ne aveva avuto le scatole piene
ed aveva reputato
un'idiozia che suo fratello perdesse tempo dietro ad
un’italiana lontana e mai
vista prima, alla quale mandava delle e-mail come se fossero stati dei
deficienti senza vita sociale.
“Basta!”, gli aveva
detto la sera di Natale, “Quando te la sposi questa
Joanna?”
“Mai!”, aveva
risposto lui, “Perché dovrei farlo? E’
una mia amica!”
“Ne parli così
spesso che non sembrate affatto amici.”, aveva ovviamente
ribattuto.
Lui non le aveva
risposto, cosicché lei era tornata presto
all’attacco.
“Dimmi, Dan”, gli
fece, “non sono una stupida, cosa c’è
stato tra di voi?”
“Niente!”, aveva
risposto lui.
Uno sguardo
eloquente era bastato per farlo confessare. Non era mai stato molto
propenso al
raccontarle delle sue vicende sentimentali ma, quando lei aveva voluto
sapere
particolari al riguardo, era sempre stato sufficiente puntarlo con un
paio di occhi
indagatori.
“Ok… Ci siamo
baciati.”, aveva detto, “Ma è finita
subito lì.”
“Ovviamente! Non
sei stato capace di tenerti stretto nessuna ragazza della tua stessa
nazionalità, figuriamoci una che abita a duemila chilometri
da casa tua!”
“Vick, non tornare
su questi argomenti, per favore.”, aveva detto Danny.
“Ho ragione!”
Certo che aveva
avuto ragione, nelle loro discussioni era sempre lui dalla parte del
torto, era
fuori discussione.
“E basta!”, si era
stizzito Danny, “Convincitene, siamo amici.”
“Sai quel famoso
detto?”, gli aveva domandato.
“Quale?”
“Anche la bugia più
grossa del mondo, se detta fino allo stremo delle forze, diventa
un’assoluta
verità.”
Danny l’aveva
piantata in asso, evitando di ribattere e lasciando la stanza.
“Ho ragione!”, gli
aveva ripetuto, prima che lui sbattesse la porta.
Due settimane dopo,
la classifica delle parole più pronunciate da Danny venne
totalmente stravolta:
Little Joanna era stata scalzata via dalla prima posizione, battuta da
una
nuova ragazza, Tamara, con cui aveva deciso di convivere un mese dopo
averla
conosciuta, sotto gli occhi e le orecchie incredule di tutti. Come se
avesse
dovuto dimostrare qualcosa al mondo, ma soprattutto a lei, alla sorella
scettica... Era stata quella l’impressione che aveva avuto
quando Danny
gliel’aveva presentata con un sorriso dei suoi, uno di quelli
che era capace di
svegliare anche un morto.
Ma si era dovuta
però ricredere, suo fratello sembrava aver trovato davvero
–finalmente-
qualcuno di vero e genuino con cui passare i suoi giorni. E poi Tamara
era
veramente una ragazza simpatica, gentile, acqua e sapone, che aveva
trovato
anche la piena approvazione di mamma. Little Joanna sembrava quindi
essere
destinata a tramontare.
Ma…
“Mi ha chiamato
Daniel.”, le disse una sera sua madre, per telefono,
“Dice che ci vuole un paio
di giorni da lui, tra due fine settimana.”
“E perché?”, le aveva
domandato.
“Ti ricordi quella
ragazza che mandò i fiori quando stavo in
ospedale… Quella ragazza italiana?
Danny vuole farle conoscere Tamara e, visto che salirà in
Inghilterra, ha
voluto che cogliessimo l’occasione.”
Così quel coglione si
era giustificato con una faccia cristallina, senza malizia di sorta.
Che
idiota.
Non gli aveva detto
niente e non aveva cercato di farlo ragionare: dopo la discussione di
Natale
non aveva più specificato il suo punto di vista sulla
questione, si era sempre
astenuta da commenti. In fondo, la vita era di suo fratello, a lei
doveva
interessare poco. Aveva quindi accettato di andare a casa sua con mamma
ed
anche di prelevare a Heathrow questa Joanna, che aveva visto in
fotografia ma
di cui non si ricordava molto né faccia né
aspetto fisico generale. Non era mai
stata una buona fisionomista: una volta all'aeroporto aveva dovuto
chiamare
Danny per farsela descrivere altrimenti sarebbe tornata a casa a mani
vuote,
con suo grande disappunto.
Come le persone
normali facevano da millenni, durante il viaggio aveva provato a
conversare con
lei ma, a dispetto di quello che le aveva detto Danny, non doveva
parlare molto
bene l’inglese; continuava sempre a chiederle di ripetere,
cosa che l’aveva
infastidita parecchio, e non era una tipa granché loquace. A
lei piacevano le
persone spigliate ed alla mano, i suoi gusti erano molto affini a
quelli di suo
fratello.
Proprio per quello
si chiese come quei due potessero essere amici.
Volle osservare
anche il suo rapporto con gli altri, Tom ed Harry, per riuscire a
carpire cosa
pensassero di lei. Non aveva mai ascoltato tutta la storia della
vacanza
italiana, e si doveva essere persa qualche passaggio fondamentale.
Aveva notato
che la ragazza sembrava essere rimasta in buoni rapporti con Tom, ma
non con
Harry.
Non era con
Dougie che era successo quel casino, in cui si era trovato nel mezzo
anche
Danny?, si
chiese. Peccato che
Poynter non si fosse presentato.
Ma tutto quello non
era stato niente in confronto a quello che aveva vissuto dal momento
dell’ingresso di Tamara, assentatasi per andare in bagno al
momento dell’arrivo
dell’italiana. In un baleno, si era resa conto che quella
povera ragazza aveva
preso una cantonata pazzesca per quell’idiota di suo
fratello. E si era trovata
a provare compassione per lei...
Per quel motivo
volle provare a fare del suo meglio per togliere quella poveretta dal
casino in
cui quell’incosciente di Danny l’aveva tirata in
mezzo. Non appena sua mamma si
assentò per chiudersi in cucina a preparare qualcuno dei
suoi manicaretti da
paradiso, ne approfittò per prenderla in disparte e
chiacchierare un po’ con
lei.
“Ti aiuto a portare
su la valigia.”, le disse, alzandosi dal divano,
“Così ti dai una rinfrescata e
sei pronta per cena.”
“Faccio io.”, si
intromise prontamente Danny.
“No, faccio io!”,
gli impose con uno sguardo secco.
“E dai!”, ripeté
Danny.
Che fratello
idiota.
“Mettiti a
sedere.”, lo afferrò per un braccio, “Ti
ho detto che ci penso io, mi vuoi dare
l’occasione di conoscere privatamente questa tua amica oppure
no?”
Poteva anche essere
dieci centimetri più alto di lei, ma era comunque Vicky
Jones a portare i
pantaloni in casa.
“Ok, come vuoi.”,
si era arreso lui.
“Vieni.”, disse a
Joanna, con un sorriso.
Le prese la valigia
e, con un certo sforzo, la accompagnò nella stanza degli
ospiti dove lei
avrebbe alloggiato.
Com’era possibile
che Danny non avesse capito che quella povera ragazza era innamorata di
lui?
Nonostante lei avesse reagito con calore alla notizia, dopo la sorpresa
iniziale era stata palese davanti ai loro occhi. Aveva mascherato
abilmente il
suo stato d’animo con un bel sorriso e parole felici, ma non
la fregava.
“Allora”,
le fece, una volta posata la valigia
per terra e sistematasi sul letto, “cosa mi racconti di te
che io non sappia già?”
“Beh… Non lo so.”,
rispose l’altra, iniziando ad armeggiare con il bagaglio,
“Cosa vuoi sapere?”
“Vediamo…”, fece.
Accavallò la gamba, appoggiò le mani sul
materasso e iniziò a dondolare il
piede, sui cui ciondolava la ballerina che indossava. “Cosa
ne pensi di
Tamara?”, le domandò con fare diretto.
L’avrebbe
sicuramente spaventata facendosi passare per impicciona, ma non aveva
voglia di
giocare con lei a guardia e ladri ed aveva deciso di puntarle
direttamente la
lampada indagatrice sugli occhi.
“E’ una bella
ragazza, lei e Danny formano una bellissima coppia, sono contenta per
loro.”, rispose
Joanna, sicura e indelebile, come se avesse recitato un copione a
memoria.
“Sì, questo lo
penso anche io.”, le rispose, “Si sono conosciuti
poco dopo Natale, ad una
festa.”
“Ah sì?”, fece lei,
mentre apriva la valigia, appoggiandola contro il muro.
“Hanno deciso di
convivere un mese dopo.”
“Si vede che si
vogliono bene.”, rispose l’altra di nuovo, mentre
caricava sul suo braccio dei
beauty case da viaggio.
I casi erano due:
Joanna poteva essere una bravissima attrice, oppure lei aveva preso
lucciole
per lanterne. La sicurezza che questa ragazza fosse cotta di Danny
iniziò a
vacillare, doveva coglierla in fallo.
“Dove posso mettere
queste cose?”, le domandò Joanna.
“Hai un bagno tutto
per te.”, la informò, indicandole la porta bianca
vicino alla finestra di
fronte al letto, sulla stessa parete sui cui si appoggiava
l’armadio.
La ragazza si
avvicinò alla toilette.
“Forse si
sposeranno.”, insinuò Vicky.
In un attimo, le
varie cose che teneva in braccio caddero a terra, mancando
improvvisamente il
sostegno delle sue mani sotto di esse.
L’aveva
fregata.
Senza scomporsi di
una virgola, Joanna si chinò per raccoglierle.
“Non
è vero.”, le fece prontamente, “Volevo
solo vedere come reagivi.”
“Sono solo
tremendamente goffa, forse Danny non te lo ha mai detto.”, si
corresse lei.
“Certo che lo so.”,
le disse, “E so anche che non ti aspettavi di trovare mio
fratello fidanzato
così seriamente con qualcun’altra.”
Joanna le sorrise
con fare sincero.
“Hai ragione, mi ha
colto davvero di sorpresa.”, esclamò poi,
“Perché dovrei preoccuparmi?”
Era irriducibile e
lei aveva troppa fame per insistere ancora. Gliela volle dare vinta.
“Già… non c’è da
preoccuparsi.”, le disse, desistendo, “Adesso ti
lascio, torno giù. Per
qualsiasi cosa, chiama pure!”
Ormai non era più
affar suo.
Vi è piaciuto?
Spero di sì. Non è facile trovare il volto di
questa Tamara, ma penso che ricorrerò ad un tipo di ragazza
come Evangeline
Lilly, sempre di "Lost" [nessun scopo di lucro]. Non
è lei, affatto, ma pensate a una ragazza che le somigli...
Alta, longilinea, viso liscio e allungato, bel sorriso e occhi
chiari... Tanto per darvi un volto a cui pensare e rendere il
personaggio ancora più reale... Anche perchè è pure troppo bella per Danny XD
Poi immaginateli tutti come
volete XD
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Capitolo 3 *** The Big Black Horse and the Cherry Tree ***
3.
The Big Black Horse and the Cherry Tree
La
cena stava andando perfettamente. La conversazione si era fatta lineare e
piacevole ed aveva coinvolto anche Joanna, talvolta forzatamente, per evitare
di farla stare nel classico angolino personale che si ritagliava quando si
sentiva a disagio. Sua madre era stata come sempre bravissima ai fornelli e lei
stessa lo aveva confermato con calore, facendole un piacere immenso.
“Sentirsi
dire da un italiana che sono stata brava in cucina”, disse sua mamma, mentre
toglieva gli ultimi piatti dal tavolo aiutata da Vicky, “è proprio una bella
soddisfazione!”
“Beh...
Glielo ripeto, è stata bravissima.”, le
fece ancora Joanna, facendola inorgoglire.
In
brodo di giuggiole, sua madre lasciò la cucina pregando ancora di non voler
essere aiutata da nessuno tranne che da sua figlia, che la seguì con una pila
di stoviglie sporche tra le braccia.
Anche
il dolce era andato, potevano quindi lasciare la sala da pranzo.
“Andiamo
di là.”, disse Danny ad entrambe le due donna, Tamara e Little, che lo
seguirono.
Era
il caso di fare un po’ di sana conversazione e poi, al momento giusto, prendere
Little in disparte e chiederle quello che più gli premeva. Voleva sapere cosa
pensasse della sua fidanzata, il suo parere era tra i più importanti. Era
comunque certo che le sarebbe piaciuta, così come era piaciuta a lui fin dal
primo momento in cui l’aveva conosciuta, ad una festa per la premiere
dell’ultimo film di Spielberg.
Si
sedettero sui divani: Little vicino al bracciolo, loro due nell’altro sofà.
“Allora,
Little, come mi trovi?”, le domandò scherzosamente, cercando lo sguardo
divertito di Tamara, vicino a lui.
“Beh...
Bene.”, disse lei, “Ti trovo... Bene!”
“Perfetto!”,
esclamò, battendo le mani, “Adesso possiamo anche andare a letto.”
Risero
tutti insieme.
“Come
va in Italia, Joanna?”, le domandò Tamara, cordiale.
“Più
o meno tutto a posto. Ci lamentiamo sempre, ma andiamo avanti.”, rispose
Joanna.
La
vedeva cambiata, anche se l’aspetto era più o meno il solito di Little Joanna.
Sembrava più sicura di sé, meno timida del solito. L’essersi trasferita da
Arianna, togliendosi quindi dalla campana di vetro in cui l’aveva rinchiusa il
fratello, la stava facendo sbocciare. Era contento per lei, si vedeva che stava
bene. O almeno così lo notava chi, come lui, la conosceva bene.
Si
sentiva ancora in colpa per quello scherzo stupido, quel pacco regalo che le
aveva spedito. A causa sua Joanna aveva rotto i rapporti con l’unico membro
della sua famiglia a cui era ancora legata: così aveva letto in una delle mail
che susseguirono il suo trasferimento, e non era andata oltre nel fornire nuovi
dettagli sulla sua vita familiare. Era logico che non potesse scrivere tutto in
una lettera virtuale, per lo stesso motivo lui non aveva approfondito la
propria storia personale.
Avrebbero
avuto il tempo di parlare apertamente di quelle cose, in fondo l’aveva voluta
lì anche per quello: le doveva parlare di troppe cose, e di lei si poteva
fidare ciecamente.
“Mi
ha detto Danny che prima lavoravi nel locale dove ti hanno conosciuto.”,
continuò Tamara.
“Sì,
è vero.”, affermò Joanna.
Non
era stato molto prolisso nel parlare di lei con Tamara, benché lei avesse
sempre fatto tantissime domande al riguardo. Le aveva sempre detto: ‘La
conoscerai e ti piacerà’.
“E
adesso cosa fai?”, le chiese la sua ragazza.
“Lavoro
in un cinema multisala.”, disse Joanna, “Non è molto appagante ma mi basta. Tu
cosa fai?”
Era
sicuro, le piaceva. Non era contento, era felicissimo.
“Io
sono un’agente immobiliare.”, disse Tamara, che poi esitò nel continuare a
parlare.
“Ci
siamo conosciuti ad una festa.”, ne approfittò lui per dire la sua, “E’ stato
Harry a presentarci.”
“Sì,
è vero.”, confermò Tamara.
“Mi
ci è voluto un po’ per convincerla a trasferirsi da me.”, continuò lui.
“Ero
troppo attaccata alla mia casetta.”, sorrise Tamara.
“Però
alla fine ce l’ho fatta!”, esclamò, “E siamo qui.”
“Già...”,
disse Joanna, sorridendo ad entrambi.
La
conversazione ebbe un momento di stasi, di imbarazzo. Lo notò soprattutto dagli
occhi sfuggenti di Little, che sembravano non volersi stancare di volare
altrove.
“Tamara!”,
la chiamò Vicky dalla sala da pranzo, “Il tuo telefono sta squillando!”
Lei
roteò gli occhi annoiata, si doveva essere dimenticata di spengerlo. Benedisse
comunque quella chiamata, involontariamente gli aveva offerto l’occasione per
parlare apertamente con Little. Infatti, non appena si allontanò le porse
subito la prima domanda.
“Allora...
cosa ne pensi di lei?”, le chiese, repentino, sedendosi accanto a lei per non
essere costretto ad alzare troppo il tono della voce.
Deglutì
con forza.
“E’...
Molto bella.”, gli rispose, cercando di essere convincente, “State proprio bene
insieme.”
“Dici
sul serio?”, le domandò Danny, “Scusa se te lo chiedo, so che non mi mentiresti
mai!”
Mai!
“Non
lo farei.”, gli disse.
“Bene!”,
esclamò Danny contento, “Non sai quanto il tuo parere sia importante per me.”
Ma
quale film patetico stava vivendo? Era per caso ‘Il matrimonio del mio
migliore amico’? Sperò di no, le commediole di quel tipo non le erano mai
piaciute, e comunque loro due non si dovevano sposare. Lo sperò con tutto il cuore.
Certo
che sei proprio masochista!
“Sei
stanca, Little, vero?”, le domandò Danny, cogliendola in quel momento di
sconforto.
Aveva
cercato di mascherare i suoi pensieri il più possibile ma lui, nonostante
quell’anno lontani, era sempre capace di coglierli sulla sua faccia.
Addirittura era stato in grado di leggerlo nelle parole scritte sullo schermo
del pc.
“Beh...
Un po’ lo sono davvero.”, gli disse.
Non
mentiva, stava iniziando a sentire il torpore salire lungo le gambe.
“E’
proprio ora di andare a letto, altrimenti domattina non ti sveglierai!”, disse
lui, scattando in piedi con entusiasmo.
“Buonanotte.”,
gli fece, con un sorriso.
“Buonanotte
cosa?”, sbuffò lui, “Fatti accompagnare.”
Assolutamente
no, rimani qua che è meglio.
“Va
bene.”, rispose, con esitazione.
Cretina!
Lui
le indicò di precederlo e, un passo dopo l’altro, arrivarono davanti alla porta
della sua camera.
“Ecco,
qui posso darti davvero la buonanotte!”, le fece.
Si
avvicinò e le dette un bacio sulla fronte.
Chiese
a chi di dovere, lassù un cielo, di far durare quel momento per l’eternità, ma
nessuno la accontentò, ed ebbe l’ennesima dimostrazione pratica che non
esisteva alcun Dio caritatevole, nell’alto dell’universo.
“Notte
Little!”, disse Danny.
Rispondi,
idiota.
“…
Notte...”
Lui
le sorrise e, velocemente, tornò al piano di sotto. Esalò un profondo respiro,
trattenuto dall’attimo in cui aveva compreso che lui stava per darle il bacio
della buonanotte. Chiuse la porta, e si buttò sul letto.
Poteva
andare peggio di così? Si.
Il
giorno seguente lo avrebbe passato con i due piccioncini ed Harry, ne era così
entusiasta che avrebbe voluto prendersi a coltellate con un inutile lama di
plastica. Per di più sarebbe stata su un cavallo, cosa che non le andava per
niente a genio; non aveva paura di quegli animali, ma di certo non ci andava
d’accordo.
Si
alzò da quella tomba morbida ed andò in bagno a prepararsi per la notte. Era
l’ora di dormire il più a lungo possibile, magari non sentire nemmeno la
sveglia. Ma che ora si sarebbe dovuta svegliare?
Lo
avrebbe chiesto a Danny, ma solo dopo essersi lavata i...
Tre
battiti alla sua porta la colsero con lo spazzolino tra i denti.
“Little,
sono io!”, disse Danny, al di là di essa, “Volevo dirti che domattina la
sveglia è alle sette e quindici, va bene?”
Come la volete chiamare? Coincidenza, telepatia,
tempismo perfetto? Oppure semplicemente
fottuta fortuna.
“Perfetto!”,
gli rispose, con la bocca impastata dal dentifricio.
“Ti
stai lavando i denti vero?”, le chiese lui, mettendosi poi a ridere.
Si
sciacquò la bocca.
“Esattamente!”
“Buonanotte
ancora!”, ripeté lui.
“Notte...”
Tra
uno sbadiglio e l’altro si infilò il pigiama e si pettinò i capelli, togliendo
un po’ del ricciolo che la spuma aveva dato loro. Tra lei e Tamara ci correva
un abisso stratosferico, una distanza tale da renderle impossibili da
comparare. Adesso capiva perché non c’era stato niente tra di loro, perché se
quelle come Tamara erano ‘il suo tipo’, lei era tutt’altro.
Si
stese sul letto, sospirando di rassegnazione.
Una
settimana ancora davanti...
Da
spararsi.
Era
la seconda volta che le bussava. Sapendo del suo sonno pesante prevedeva quasi
di svegliarla di persona, scuotendola bene, ma preferiva evitare per non
disturbare la sua intimità.
“Little!
Svegliati!”, la chiamava, “Little!”
La
sentì bofonchiare qualcosa.
“Little
Joanna? Ci sei?”, insistette.
“Sì...”,
gli rispose stancamente, “Scendo subito.”
“Fai
con calma, siamo in anticipo!”, la informò.
Personalmente
era già pronto, sveglio e scattante, ma le due donne presenti in quella casa
sembravano su una diversa frequenza d’onda. Tamara stava addirittura ancora
dormendo.
“Vado
a preparare la colazione!”, le disse e la lasciò a prepararsi.
Nella
sua cucina, sulle note di una musichetta simpatica che suonava nella sua testa
da quando si era svegliato, con mano esperta aprì i giusti cassetti, afferrò i
giusti contenitori e, in pochi minuti, la tavola fu imbandita. Si sedette e,
con una fetta di pane tostato che sgranocchiava tra i denti, si mise in attesa.
Sperò
che Little avesse dormito bene, quel letto non era stato usato molte volte e
doveva essere duro come un sasso. Lui non ci avrebbe mai passato una sola
notte, ma vista la capacità di Joanna di
addormentarsi ovunque senza problemi non si fece troppi pensieri.
Guardò
l’orologio al polso, segnava le sette e ventitre.
Quando
lo guardò di nuovo erano le sette e quaranta, nessuna si era ancora presentata.
Lui aveva finito tutte i biscotti ripieni di confettura di mele, il suo indice
era tutto impiastricciato di marmellata di albicocche e il burro si era
totalmente sciolto.
Stava
per tornare a chiamarle, quando il rumore di passi lo fece desistere. Tamara si
affacciò alla cucina assonnata, ancora in pigiama. Qualche secondo dopo di lei
spuntò Little, già vestita, pronta per uscire.
“Buongiorno.”,
disse lei sorridendo. Poi guardò la tavola apparecchiata. “Dove posso sedermi?”
“Dove
vuoi!”, le rispose.
Scelse
il lato opposto della tavola.
“Dormito
bene?”, le domandò. Se non fosse stato così, l’avrebbe fatta spostare
nell’altra camera, più vicina alla sua.
“Sì...
anche se il risveglio è stato abbastanza traumatico...”, scherzò sorridendo.
“A
chi lo dici...”, aggiunse Tamara, sempre stravolta alla mattina. Non sembrava
nemmeno lei, di solito sempre perfettamente a posto. Ma l’amava così com’era,
non ci poteva fare niente. Si sedette accanto a lui e si versò del caffè.
“Mi
dispiace, ho visto l’ora e siamo in ritardo.”, disse Joanna, spalmando sulla
sua fetta tostata un po’ di burro.
“Figurati!”,
le rivelò, “Sapevo che non avremmo mai rispettato la tabella di marcia e, per
questo, ho anticipato tutto di mezzora.”
“Ah!”,
esclamò Tamara, “Lo sapevo!”
Non
sembrava tanto contenta.
“Abbiamo
preso un appuntamento con quelli del maneggio per le dieci, ci vuole almeno
un’ora e mezza per arrivarci e non volevo passare per ritardatario.”, le spiegò
con calma.
Era
sempre un po’ scorbutica di prima mattina ma ormai ci aveva fatto l’abitudine.
Bastava solo prenderla con le pinzette, sarebbe presto tornata ad essere la
solita Tamara.
Terminarono
la loro colazione in silenzio e notò con piacere la notevole quantità di cibo
che Little si era mangiata. Come poteva un corpicino così esile contenere tutte
quelle fette biscottate con la marmellata?
“Che
c’è?”, chiese lei, sentendosi osservata sia da lui che da Tamara.
Lei
non faceva mai una colazione abbondante, lui aveva già mangiato: Joanna era
rimasta quindi l’unica intorno a quella tavola a continuare a riempirsi il
piatto.
“Ma
quanto mangi!”, le fece, ridendo, “Fai concorrenza a Poynter!”
Quella
battuta gli sfuggì di bocca e se ne pentì. Infatti Little, forse per quel nome
o forse per la scherzosa esclamazione, arrossì e lasciò la sua fetta
mangiucchiata sul piatto.
“Dougie
fa impressione quando mangia!”, continuò Tamara, “Mi domando se abbia
l’intestino che si rigenera dopo ogni pasto...”
Non
le aveva parlato di quello che era successo tra Little e Dougie e cercò, con
gesto della testa, di farle capire che era meglio lasciar cadere la questione.
Il
campanello si intromise e pose fine all’imbarazzo.
“E’
Harry.”, disse, alzandosi per andare ad accoglierlo.
Seduta
sul sedile posteriore della macchina di Danny, una comoda utilitaria d’alta
classe grigia metallizzata, guardava fuori dal finestrino. Dall’altra parte
Tamara, parallela a lei e nella sua solita posizione. Davanti a loro i due
uomini, che chiacchieravano sommessamente delle previsioni sportive di quella
domenica di inizio estate. Tipiche discussioni maschili e lei, che non ne
capiva una mazza, preferiva rinchiudersi in una bolla di silenzio, dalla quale
osservava con occhi rapiti il paesaggio intorno a lei.
Era
come aveva detto Danny, la campagna inglese non aveva niente da invidiare a
quella italiana... E le tornò il
paragone fatto tra se stessa e Tamara, prima di addormentarsi su quel letto un
po’ scomodo. Sia loro due che i paesaggi erano così differenti che risultava
perfettamente inutile mettersi lì ad elencarne i pro ed i contro. Ovviamente
Joanna amava troppo la sua patria per farsi piacere l’english country, ma
quello che vedeva comunque era delizioso e caratteristico.
“Hey,
Jojo, tu sai andare a cavallo?”, le chiese Harry, voltandosi verso di lei, e
rompendo la bolla in cui si era rinchiusa.
“A
dire il vero no...”, rispose, “Ci sono salita una volta sola.”
“Non
preoccuparti.”, le fece Danny, con tono rassicurante, “Non dovremo cavalcare,
solo seguire lentamente la guida.”
“Ah
bene.”, rispose.
“Ti
piacciono i cavalli?”, le domandò Tamara.
Ancora
non era riuscita a comprendere quale fosse l’atteggiamento della ragazza nei
suoi confronti. Era un po’ fredda, questo l’aveva capito fin dal primo momento,
ma non c’era stato nessun segno di ostilità nei suoi confronti. Meglio così, si
disse, non voleva creare confusione. Non voleva essere di nuovo responsabile di
situazioni critiche in cui era stata trascinata contro la sua volontà.
“Sì...
Abbastanza.”, le disse, “Sono... Molto belli.”
“Non
sembri convincente.”, la colse lei in fallo.
“E’
che non so cosa aspettarmi, tutto qui.”, disse Joanna, tacendo la brutta caduta
che aveva fatto, molti anni addietro.
“Te
l’ho detto”, le ripeté Danny, “basterà solo seguire il capofila, che ci
condurrà per sentieri. Non ci saranno problemi.”
Lo
spero... Non voglio morire!
“E
torneremo a casa per le cinque del pomeriggio. Stasera ho da fare con Tom.”, disse
ancora lui
“Cos’hai
in programma?”, gli domandò, tacendo la preoccupazione di rimanere sola con
Tamara.
“Devo andare ad una noiosa trasmissione
serale... Fare la solita comparsata, suonare due pezzi in acustica con lui e
tornare a casa.”, le spiegò Danny.
La
macchina svoltò a sinistra e, dopo qualche centinaio di metri, la strada
divenne sterrata. La percorsero dritta verso ovest finché non raggiunsero il
suo termine. Il maneggio era lì davanti a loro, in pietra e legno. Doveva
essere una costruzione molto vecchia, forse apparteneva alla grande casa che
vedeva in lontananza alla sua destra. L’aspetto era infatti antico, tutte
quelle pietre regolari della facciata le facevano pensare ai vecchi castelli
medievali che popolavano i libri di storia: Lancillotto e Re Artù, entrambi
innamorati di Ginevra, sembravano aver vissuto lì i loro giorni di gloria.
Seguirono
Danny, che sembrava conoscere tutto come le sue tasche, e continuava ad
osservare il posto. Era popolato da stallieri che spazzolavano bellissimi cavalli
dal pelo lucido, persone che ridevano aristocraticamente nei loro pantaloni
bianchi attillati e giardinieri che si occupavano di fare barba e capelli alle
siepi geometriche.
“Siamo
di poco in anticipo”, li informò Danny, con soddisfazione, “possiamo cambiarci
con calma.”
“Cambiarci?
E per quale motivo?”, sbuffò Harry.
Tra
tutti loro era quello meno entusiasta della gita, sicuramente anche meno di
lei. Nascosto dietro ad un paio di occhiali da sole, raramente sorrideva e si
lasciava andare solo a conversazioni tenui, condotte a voce bassa e roca.
Dormiva ancora in piedi.
Nuda.
Si sentiva come nuda. Quei pantaloni stretti e bianchi sembravano una
calzamaglia fastidiosa che invitava i suoi slip ad infilarsi nei posti più
reconditi del suo corpo. I piedi ciottolavano negli stivali larghi: nonostante
fossero esattamente del suo numero la circonferenza del cuoio intorno al suo
polpaccio era esageratamente grande. Inoltre, le suole facevano un casino
tremendo quando camminava. La giacca nera copriva un lupetto del medesimo
colore ed era l’unica cosa che sembrava starle bene indosso, senza darle troppi
problemi. Con i guanti ed il casco in mano, i capelli legati in una coda, uscì
dagli spogliatoi lievemente imbarazzata.
“Guarda
che gambe che hai!”, esclamò subito Harry, già pronto per partire, seduto su
una panca a qualche passo da lei.
“Sempre
troppo gentile.”, gli sibilò.
“Mi
sembravi più grassa.”, insistette lui.
“Oh
grazie, sono commossa.”
“Vieni
qua!”, le fece, “Siediti accanto allo Zio McHot!”
“Nemmeno
se mi paghi.”, lo zittì, uscendo fuori all’aria aperta.
Era
già nervosa, si stava avvicinando il momento in cui sarebbe stata costretta a
salire di nuovo su un cavallo, con la paura di cadere di nuovo. Se ci si
metteva anche Harry, con le sue prese di culo, avrebbe finito per nascondersi a
piangere in uno dei bagni.
Il
sole era alto nel cielo, stranamente nessuna nuvola in vista. Faceva abbastanza
caldo e quella giacca di stoffa pesante la stava asfissiando. In processione
davanti a lei passò una lunga di fila di persone, in sella ai loro animali, che
ridevano e scherzavano. Forse stavano tornando da un gita come quella che
stavano per fare.
“Little!”,
la chiamò Danny, “Dobbiamo andare da questa parte!”
Insieme
a Tamara li attendeva vicino all’entrata degli spogliatoi, alle sue spalle. Lo
raggiunsero e si incamminarono insieme verso le stalle dove un ragazzo biondo
li aspettava sorridente.
Dopo
aver salutato con una stretta di mano ognuno di loro, li introdusse ai loro
cavalli. Atterrita dalla stazza di quel maschio nero, Joanna ebbe un lungo
momento di esitazione. Gli altri erano già saliti, aspettavano solo lei e
sembravano entrati perfettamente in intimità con i loro animali. Il suo invece
la squadrava continuamente, di sbieco, e scuoteva la testa nervosamente.
“Vuoi
una mano a salire?”, le domandò il biondo, Jack, che li avrebbe condotti nella
passeggiata campestre.
“No!
No!”, esclamò ritraendosi, “Faccio da sola!”
“Va
bene.”, disse il ragazzo, “Allora metti il piede sinistro sulla staffa, afferra
la sella e tirati su.”
E’
facile, lo ha fatto quella grassona laggiù, puoi farcela anche tu.
Fece
come le aveva detto Jack e, al primo tentativo, il cavallo sbuffò e nitrì,
azzerando le sue capacità motorie. Tornò con i piedi per terra e Jack fu pronto
per calmare il cavallo.
“Sente
che hai paura.”, le disse lo stalliere, “E si innervosisce.”
Ti
hanno anche dato il cavallo empatico, che fortunata che sei!
“Little,
se avevi paura dei cavalli potevi dirlo.”, le disse Danny, “Avremmo potuto fare
altro.”
“Dormire.”,
concluse Harry, facendo ridere Tamara.
“Non
ho paura!”, esclamò con sicurezza.
Infilò
il piede sulla staffa e, rinnovata la sua forza, salì con un balzo sul cavallo.
Se
osi farmi un brutto scherzo, giuro che ti castro!
Jack
prese il cavallo per le briglie e lo fece avvicinare agli altri tre; poi
impartì loro brevi istruzioni per non far innervosire la bestia e condurla
senza troppi intoppi. Una volta montato sul suo cavallo si pose alla testa del
gruppetto e, lentamente, partirono per la scampagnata.
Aveva
perso di vista il confine del bosco dove si stavano addentando e, all’ombra di
quei vecchi alberi ricoperti di muschio, un brivido corse lungo la sua schiena.
L’aria era fredda, in certi punti quasi gelida: il sole, infatti, era sempre
troppo giovane per riuscire a riscaldarla fino in fondo e, mentre alla luce si
moriva di caldo, lì all’ombra si rabbrividiva.
Inizialmente
sulle loro spalle, poi appesi ad alcuni ganci metallici delle selle, stavano le
sacche con dentro il pranzo. Sembrava filare tutto liscio: Spencer, il suo
cavallo nero, si era rivelato essere un animale abbastanza docile e quieto,
nonostante la diffidenza iniziale e qualche episodio sbuffo. L’unica cosa che
la preoccupava era la sella sotto di lei: sembrava si muovesse troppo.
L’animale
borbottò qualcosa e sembrò annuire con la testa
“Calmo,
va tutto bene, va tutto bene…”, gli sussurrò, pregando che il terrore che le
stava stringendo lo stomaco non venisse percepito.
“Come
dici, scusa?”, le domandò Harry, dietro di lei, che la seguiva a pochi metri di
distanza. Era lui che chiudeva il gruppo ed aveva il compito di tenerla
d’occhio.
“Niente.”,
gli disse, con un sorriso conciliante.
Sistemò
la fibbia del casco sotto il mento e tornò a cavalcare, immersa nei suoi
pensieri. Davanti a lei viaggiava Tamara con il suo cavallo marrone, preceduta
da Danny che chiacchierava di gusto con Jack. Sempre di calcio, ovviamente, in
quella giornata non l’aveva mai sentito dire una parola al di là di
quell’argomento.
“Hey Jack!”, sentì Harry esclamare alle sue
spalle.
La
comitiva si fermò.
“E’
normale che dalla sella di Jojo penzoli quella cosa?”, domandò Harry,
indicandola con una mano.
Lo
stalliere osservò la situazione delle parti basse del suo cavallo.
“Oh
cavolo!”, esclamò poi, avvicinandosi a passo svelto, “Le hanno montato una
sella rotta!”
Ti
pareva che mi non dessero, oltre al cavallo sensitivo, anche la sella rotta… E
il frustino moscio?
“Sei
fortunata a non essere ancora caduta.”, le disse Jack, esaminando lo stato della
sella sotto la pancia dell’animale, “Si è rotto proprio uno del lacci portanti,
saresti potuta finire a terra da un momento all’altro.”
Solo
il pensiero di aver corso un rischio del genere la stava spaventando fino
all’osso.
“E…
Cosa devo fare?”, domandò, tremante.
“Beh, dobbiamo riportare il cavallo alla
stalla e cambiare la sella...”, disse Jack, non trovando altra soluzione, “Ti
aiuto a scendere.”, e lasciò il suo cavallo, “Ma non mettere i piedi nelle
staffe o cadrai.”
Era
l’ultima cosa che voleva far accadere. Lo stalliere le si avvicinò e le disse
di appoggiarsi con le mani alle sue spalle. La prese per i fianchi e, nello
stesso momento in cui i suoi piedi toccarono terra, la sella scivolò via dalla
schiena di Spencer e cadde a terra.
“Adesso
sali dietro di me e torniamo alla stalla.”, le disse Jack.
“Non
posso portarcela io?”, si propose Danny, “Così voi continuate la gita e noi
risolviamo la questione della sella. Se Jack se ne va, non saprete dove
andare.”
Al
solo pensiero di quello, il cuore le balzò in gola.
“Meglio
se vado io.”, si intromise prontamente Harry, “La accompagnerò e troveremo il
modo di tornare da voi.”
“Potrebbe
essere una buona idea.”, disse Jack, “Così non sarete costretti a concludere
qua il programma. Basta solo che chiediate di Steven, troverà lui una sella in
sostituzione per Spencer.”
Ed
io di chi devo chiedere per imporvi di farvi i cazzi vostri?
“Ma
poi come faremo a ritrovare la strada?”, domandò lei, “Ci perderemo di sicuro!”
“E’
facile, dovete solo seguire i cartelli rossi.”, disse Jack, “Tutti i sentieri
sono segnalati. Ricordatevi però che al dodicesimo segnale dovete svoltare per
il sentiero di sinistra…”, lei ed Harry annuirono, “Quindi tenete a mente,
dodicesimo cartello rosso a sinistra!”, ripeté Jack ancora, “Ci dovremmo
incontrare in una radura, sotto una grande quercia, a un centinaio di metri
dalla fine del bosco.”
“Memorizzato!”,
esclamò Harry, “Adesso sali dietro di me, Jojo, portiamo questo centauro a
riparare la sua gomma!”
Sospirò,
accettando il gesto cavalleresco di Jack di aiutarla nel montare in groppa al
cavallo biancastro del batterista, che le sorrideva beffardo come sempre.
“Reggiti
forte, bellezza!”, scherzò lui ancora, prendendole le mani e costringendole a
cingergli l’addome.
Lanciò
uno sguardo a Danny.
E
poi partirono.
Occasione
perfetta, una manna dal cielo che aveva concluso i suoi vari e machiavellici
piani mentali destinati ad isolarla da Danny. Non perché volesse rimanere solo
con lei, anzi, l’idea non lo interessava minimamente.
Tempo
addietro, appena aveva realizzato il vero motivo per cui era stata chiamata lì,
tenutole debitamente nascosto da Danny che, stupido ed ingenuo, aveva voluto
farle una sorpresa, se n’era accorto subito che cosa era passato per la mente
di quella povera ragazza. Non solo il suo amico Jones non si era minimamente
reso conto dell’inutilità del mantenere vivo il contatto con lei, vivendo
un’assurda farsa in cui loro due erano diventati amici per la pelle. In
aggiunta a questo, i suoi occhi erano del tutto ciechi nel realizzare che la
sua deliziosa Little era completamente innamorata di lui.
La
situazione era complicata, estremamente delicata.
Non
biasimava Jojo, al cuore non si comandava mai. Anzi, gli dispiaceva per quello
che lei stava vivendo: una settimana a casa di Danny, dove lui conviveva
felicemente con Tamara. Se doveva avercela con qualcuno, era con Jones quello
con cui arrabbiarsi.
Stessa
situazione dell’anno precedente, solo che il cubo di Rubik aveva cambiato le
sue facce: prima il baricentro della questione era Jojo, a metà tra Dougie e
Danny. Adesso si era spostato su Danny, e Poynter era uscito di scena per fare
posto a Tamara. Conoscendola, Jojo non avrebbe mai fatto né detto una sola
parola per intaccare la relazione del suo amico più stupido del mondo. Il
problema era far capire a Jones cosa lei provasse per lui.
Inoltre,
si sentiva troppo intelligente per non sentire puzza di bruciato anche sul
fronte di Danny.
“Allora, Jojo… Sei contenta di essere così
vicino a me?”, le disse, scherzando.
Lei
se ne stava rigida alle sue spalle, con un braccio che gli cingeva addome,
mentre con l’altra mano teneva le briglie di Spencer; l’animale passeggiava
tranquillo al loro fianco, libero della sua cavallerizza. La sella era stata
risistemata malamente sulla sua schiena.
“Sono
felice come non mai.”, rispose lei.
“Non
essere così entusiasta.”
“Vediamo
di sbrigarci.”, concluse la ragazza.
“Come
vuole, sua Maestà.”
Furono
presto al maneggio, non erano molto distanti. Arrivati alle stalle chiesero di
Steven, il quale cambiò in poco tempo la sella a Spencer. Dopo nemmeno un
quarto d’ora erano di nuovo dentro la macchia, con il solito passo lento.
“Non
vorrai mica startene zitta finché non ci ricongiungiamo agli altri!”, le disse.
Lei
non rispose.
Ce
l’aveva ancora con lui per l’essere sempre stato schietto e sincero, sebbene tra
tutti, insieme Tom, fosse stato quello che le aveva causato meno dolori.
“Va
bene, Jojo.”, le fece, dando dei colpetti al cavallo che, in risposta, aumentò
la velocità, iniziando a distanziarla sensibilmente.
“Cosa
stai facendo?”, domandò lei prontamente, vedendolo in rapido allontanamento.
“Visto
che non mi vuoi parlare, io vado per fatti miei.”, le rispose.
“Fermati!
Non puoi farmi questo, ho paura del cavallo!”, urlò Jojo in preda al terrore.
Si
fermò, voltandosi verso di lei.
“Mi
parli o non mi parli?”, le disse, come un ultimatum.
“E
va bene!”, sbuffò lei, recuperando il distacco, “Cosa vuoi che ti dica?”
“Beh…
Innanzitutto troviamo un buon punto di partenza per una conversazione civile ed
ordinata.”, le fece, sorridendole.
Presero
a cavalcare a passo più veloce. Teneva d’occhio i segnali rossi: erano sulla
buona strada, forse nel giro di venti minuti avrebbero raggiunto gli altri.
“Parliamo
della mezza stagione...”, disse lei, visibilmente scocciata.
“Ok…”,
acconsentì con ironia, “Ma non è il mio argomento preferito.”
“E
allora proponilo tu!”, gli passò la palla.
Perfetto,
proprio quello che voleva lui.
“Dimmi,
cara Jojo”, esordì, “come ti trovi quassù?”
Lei
si fece attendere.
“Bene.”
“E’
bella la casa di Danny, non è vero?”
“Sì.”
“Sai
che ha anche una piscina sul retro?”, le fece, “E’ l’unico di noi ad averla,
per questo siamo sempre a tallonare la sua porta, soprattutto d’estate.”
“Molto
interessante.”, rispose lei, sarcastica, “Cos’altro dovrebbe stupirmi?”
“Ah,
questo non lo so. Anche se non credo che la piscina di casa Jones sia la cosa
più sbalorditiva che tu abbia visto…”
“Lo
so dove vuoi andare a parare!”, esclamò subito Jojo.
Mica
scema la ragazzina, pensava, rinnovando la stima che aveva sempre avuto nei
suoi confronti, ma che era stata celata.
“E
stai tranquillo, sono contenta che quei due stiano insieme!”, continuò lei,
automatica, “Credimi, è la cosa più bella di questo mondo che due innamorati
vadano a vivere sotto lo stesso tetto. E’ fantastico e non ci vedo niente di
male!”
“Senza
dubbio.”, le fece.
“Quindi
qual è il punto?”, lo esortò Jojo, “Dove vuoi arrivare? Vuoi insinuare qualcosa
anche tu come ha già fatto sua sorella Vicky, oppure vuoi essere sincero e
leale con me, come sei sempre stato, e dirmi le cose come stanno?”
E
dire che tutta quella forza d’animo e di voce sembravano del tutto estranei
alla piccola ed indifesa Jojo.
“Beh…
Io non insinuo un bel niente.”
“Eh
no, Harry, tu vuoi arrivare a farmi dire qualcosa che sai che non è vera!”,
disse lei, sistemandosi sulla sella.
“E
qual è questa cosa che io vorrei farti dire anche se già so che non è vera?”
“Non
te la dico!”, concluse Jojo, “Perché se lo facessi sarebbe come dare una prova
di quello che vuoi farmi confessare.”
Era
più difficile di quanto aveva pensato. Era sicuro che sarebbe bastato un
qualche giro di parole criptiche per farla crollare, invece lei si stava
dimostrando un buon avversario.
“Scusa,
Jojo, ti ricordi quanti cartelli rossi dovevamo passare prima di svoltare?”, le
domandò, deviando.
Aveva
avuto l’improvviso dubbio. Lei parve addirittura rincuorarsi per quel cambio di
conversazione.
“Non
lo so, me lo hai fatto passare di mente!”, esclamò lei, “Tu quanti ne hai contati?”
“Tredici.”,
fece con sicurezza, “Dobbiamo svoltare a destra al prossimo cartello.”
“Ecco,
allora vediamo se riusciamo a raggiungere gli altri in silenzio.”
Detto
quello, ormai sicura della sua cavalcatura, Jojo aumentò il passo.
La
accontentò, non avrebbe saputo più niente da lei. Non la conosceva bene, ma si
era fatto una precisa idea di Jojo: se non voleva parlare, non lo avrebbe mai
fatto.
Il
quattordicesimo segnale rosso arrivò di lì a poco. Innervosita, dolorante per
le scosse del cavallo e con lo stomaco in subbuglio per la fame, appena vide il
sentiero a destra lo imboccò. A qualche passo da lei Harry, rispettoso del
silenzio che aveva richiesto.
Poco
dopo la svolta, però, le venne da riflettere. Fermò il cavallo.
“Harry…
Siamo sicuri di aver preso la strada giusta?”, gli chiese.
“Beh…
Quattordicesimo segnale rosso a destra.”, disse lui con calma, “Quindi sì,
siamo sulla strada giusta.”
“E
perché non abbiamo trovato gli altri?”, domandò.
“Magari
non abbiamo recuperato abbastanza terreno per incontrarli.”, le disse.
Già,
poteva essere vero, eppure in cuor suo sentiva di aver sbagliato qualcosa.
“Potremmo
anche chiamarli, ma non credo ci sia linea per il cellulare.”, disse lui, che
si frugò nella tasca del giubbino nero, simile al suo, e trovò conferma per la
sua ipotesi, “Nemmeno una sola tacca.”
“Cosa
facciamo?”
La
paura stava salendo. Fin da piccola uno dei suoi peggiori incubi era stato il perdersi,
rimanere da sola, non ritrovare la sua compagnia. Non doveva provare alcuno
spavento, era con Harry, non completamente sola… Ma non era sufficiente. Voleva
essere con Danny e lui sembrava ancora troppo lontano.
“Continuiamo,
la via è questa.”, disse Harry, “Prima o poi saremo alla radura di cui ci ha
parlato Jack e li troveremo. Sicuramente staranno già mangiando.”
“Non
dirmelo”, gli fece, “ho una fame!”
“Anche
io!”, esclamò lui, passandosi una mano sullo stomaco.
Le
venne da ridere.
Si
rimisero in cammino, l’uno di fianco all’altro.
“E
tu, Harry, cosa trovi di interessante nella casa di Jones, oltre alla
piscina?”, gli fece, con ironia.
Ancora
non gli perdonava il suo atteggiamento ostile, figuriamoci se chiudeva un
occhio per la discussione di prima. Ma visto che la paura stava salendo sempre
di più, era meglio trovare un diversivo chiacchierando con lui.
“Solo
quello!”, disse lui, quasi subito, “Per il resto è tutto da buttare!”
La
fece ridere e rilassare, anche se solo per una briciola di tempo.
Le
venne in mente di poter chiedere a lui informazioni su Tamara…
“A
me piace molto Tamara.”, gli disse, “E a te?”
Lui
tardò nella risposta, lanciandole un’occhiata d’indagine. Non avrebbe trovato
segno di cedimento: si odiava per quello, ma aveva scoperto quel lato ipocrita
di sé, ereditato da sua madre, e si era decisa a vestirlo finché non fosse
salita sull’aereo diretto a casa.
“Solo
per il fatto che non pretende cose impossibili da Danny, quella ragazza mi
piace.”, disse lui, passandosi tra le mani le briglie del cavallo.
“Perché
dici così?”, gli fece.
Danny
non le aveva mai parlato di cose del genere, né aveva mai rammentato il nome di
una sua ex, tanto da farle pensare che non ci fossero state persone così
importanti nella sua vita. Il coraggio di spulciare su internet alla ricerca di
informazioni sul suo conto non lo aveva mai avuto, ed oltretutto gli sembrava
una grossa presa di culo nei confronti di Danny.
“Beh…
So che non te ne ha mai parlato, lo capisco da questa tua domanda”, disse
Harry, con intelligenza, “quindi non vedo perché dovrei farlo io.”
“Hai
ragione, scusa.”, gli fece.
Era
corretto.
“Comunque
sappi che non è mai stato granché fortunato con le donne.”, aggiunse lui, con
tono malizioso.
“La
fortuna sembra aver girato a suo favore.”
“Sì…
Direi di sì.”, rispose Harry, “Ma chi lo sa…”
Poi
lo vide distrarsi, guardare dritto davanti a sé.
“Siamo
arrivati.”, le disse.
La
sua faccia si distese: anche lui doveva aver avuto paura di perdersi come lei.
Di fatti, non appena uscirono dal bosco si trovarono davanti ad una piatta
pianura, colorata di ogni tonalità di verde, dalla più scura alla più intensa.
Subito,
però, la preoccupazione piombò di nuovo.
“Ma
dove sono gli altri?”, fece Harry, mirando il paesaggio piatto davanti a loro
con una mano sugli occhi.
“E
dov’è la quercia?”, disse a quel punto lei.
L’unico
albero che si presentava ai loro occhi, ad una discreta distanza da loro, non
aveva proprio le sembianze di una quercia.
Si
guardarono intorno spaesati.
“Io
tornerei indietro.”, disse lei, sempre più spaventata.
Harry
se ne accorse subito.
“Tranquilla,
Jojo, non ci siamo persi, sappiamo benissimo tornare indietro.”, la
tranquillizzò, “Il sentiero dopo la svolta è praticamente privo di intersezioni
con altre strade, non ci perderemo ancora. La cosa più saggia da fare ora è
riposarci, mangiare, e tornare indietro.”
Sembrava
abbastanza convincente, ma la paura era sempre lì.
“Fidati
di me, Jojo.”, insistette Harry.
Al
posto della quercia, quella radura pianeggiante ospitava un solitario albero di
ciliegie, carico di piccoli frutti rossi.
“Adoro
le ciliegie”, disse, legando il cavallo ad uno dei rami più bassi della pianta,
“mi sa che farò indigestione.”
Gli
erano sempre piaciuti quei frutti ed aveva scordato il numero delle volte in
cui ne aveva mangiate così tante da rischiare di finire in ospedale.
“A
chi lo dici, piacciono molto anche a me!”, si aggiunse Jojo, imitandolo nella
legatura delle briglie.
Presero
i loro sacchi e, seduti all’ombra macchiata qua e là di sole, scartarono i
sandwich. Ormai si erano persi, o meglio, non erano riusciti a prendere il
giusto sentiero e si erano trovati da tutt’altra parte, forse molto lontani
dagli altri. L’unica cosa che potevano fare era accomodarsi, riposarsi e
riprendere la strada del maneggio appena possibile.
Sperò
che non si stessero preoccupando tanto per loro... In fin dei conti stavano
bene.
“Ma
che schifo!”, esclamò Harry, osservando il contenuto dei panini, “Io odio i cetriolini!”
Jojo
osservò il ripieno dei suoi panini.
“Io
ho solo prosciutto e formaggio, vuoi i miei?”, gli propose.
“Se
non ti dispiace…”, le disse, felice.
“Figurati,
a me i cetriolini piacciono.”
E si
scambiarono i panini.
Il
silenzio regnò per tutto il pranzo, entrambi erano troppo affamati per
impegnare la loro bocca in discussioni. Brindarono alla salute dell’altro,
facendo schioccare il collo delle bottigliette d’acqua e bevvero. Sebbene i
loro stomaci non si fossero ancora saziati del tutto, il pranzo finì in pochi
minuti.
Prima
di alzarsi per prendere una manciata di ciliegie, Harry attese educatamente che
Joanna finisse il suo sandwich. Era anche abbastanza impaziente, lei se ne
accorse e, ridendo, gli disse che poteva mangiare tranquillamente la frutta
sopra le loro teste, avrebbe finito con calma.
“E
via con l’indigestione!”, esclamò, alzandosi ed allungandosi per prenderne un
po’.
Ne
colse più che poté, sistemandoli nel lembo della maglietta come aveva fatto
migliaia di volte da piccolo. Quando anche Jojo volle fare altrettanto,
sembrava che ormai i frutti più maturi e più bassi fossero già stati colti da
lui.
“Ti
do una mano.”, le disse Harry, vedendola in difficoltà.
Non
che fosse così piccola, si aggirava ad occhio e croce attorno al metro e
sessantacinque, ma comunque non arrivava a prendere una ciliegia nemmeno
saltando. La afferrò per le gambe e, con estrema facilità, la sollevò da terra.
Le ciliegie divennero finalmente alla sua portata e, velocemente, ne prese una
buona manciata.
Una
ventata più fredda li colse, ma non vi fece caso. Aveva sopportato un caldo
infame chiuso dentro a quella giacca nera da equitazione e ora, che stava
beatamente in maglietta, un venticello fresco come quello non era altro che una
benedizione divina.
Seduti
di nuovo, mangiarono il loro raccolto.
“Stavamo
dicendo”, disse a Jojo, recuperando le fila dell’interessante conversazione
interrotta dall’arrivo nella radura e dal pranzo, “il tuo amico Danny sembra
aver trovato la persona che faccia per lui.”
“Sì,
si vede.”, disse lei, “Mi hanno detto che si sono conosciuti ad una festa, poco
dopo Natale.”
Sembrava
perfettamente neutrale, anzi, mascherava completamente la verità con un’abilità
straordinaria. Era sicuro di quello che provava per Danny, più sicuro dello
stesso fatto di trovarsi lì con lei, seduta a gambe incrociate, che non si era
nemmeno tolta il casco. Forse aveva capito che non c’era niente da fare e,
quindi, reagiva di conseguenza in quel modo.
“Proprio
così”, le rispose, “Tamara è una brava ragazza.”
Lo
pensava davvero. Non che fosse la dea dell’amore scesa in Terra, sicuramente
aveva i suoi difetti belli e buoni, ma non aveva mai passato abbastanza tempo
in sua compagnia per coglierli. Per adesso quello che aveva visto era
semplicemente il fatto che era una ragazza a posto, senza pretese, non la
classica arrampicatrice in cerca di fama.
“Ne
ha proprio l’aspetto.”, confermò anche lei, “E sembra anche una persona a
posto, sono contenta per lui.”
“Già…”,
disse.
Non
andavano avanti, né indietro. E le ciliegie stavano finendo, martoriate ad una
velocità supersonica da entrambi. Di nuovo il vento freddo lo investì, stavolta
con più forza di prima. Alzò gli occhi al cielo: velocemente, il sereno era
stato sostituito da una marea di nuvole grigie.
“Sembra
che stia per arrivare un temporale.”, disse Jojo.
“Non
credo.”, la tranquillizzò, “Il vento sta spostando le nuvole più pesanti
laggiù, non ci sfiorerà nemmeno.”
Ma
stava iniziando a fargli freddo e, velocemente, indossò di nuovo la giacca
nera.
“Ti
stai divertendo?”, le domandò sorridendole.
“Guarda,
ti dirò la verità.”, rispose lei, mangiando la sua ultima ciliegia e liberandosi
del nocciolo, “Stai iniziando a starmi simpatico, Harry.”
“Oddio,
sono lusingato!”, le fece con ironia, “Davvero, non mi sarei mai aspettato un
onore del genere!”
“Smettila!”,
lo rimproverò lei, “Lo sto dicendo seriamente!”
Le
sorrise, era imbarazzata.
Un
tuono in lontananza li interruppe.
“Tranquilla,
non si metterà a piovere.”, le ripeté.
“Se
lo dici tu...”, disse Jojo, alzando gli occhi al cielo.
“Tutto
fumo e niente arrosto!”, esclamò di nuovo lui, stendendosi sull’erba, con le
mani dietro la testa, “Can che abbaia, non morde!”
Non
si ricordava un temporale più furioso di quello, da diverso tempo a quella
parte. Era iniziato quando ormai loro - Tamara, Jack e lui - erano alle porte del maneggio e non si erano
bagnati molto.
Avevano
sperato che Little e Harry si fossero trattenuti nella struttura: Jack aveva
detto che per quel giorno c’erano state molte prenotazioni e che,
probabilmente, erano rimasti sprovvisti di selle di ricambio. Erano arrivati al
maneggio e loro non c’erano.
Si
era detto che forse si potevano trovare nei paraggi e li avevano cercati, fatti
chiamare più volte dagli altoparlanti. Niente.
Ebbe
una certezza quando lo stalliere Steven, che aveva cambiato la sella del
cavallo di Little, disse loro che erano ripartiti per il bosco. Quindi dovevano
essere là fuori, da qualche parte.
Tra
i due non correva buon sangue da sempre, lo sapeva, però non gli sarebbe
dispiaciuto affatto che le cose fossero cambiate, che fossero diventati amici.
Forse per quel po’ di tempo passato insieme, da soli, avrebbero anche potuto
conoscersi meglio e le incomprensioni iniziali sarebbero state superate.
Ebbe
un prurito allo stomaco, un formicolio al naso.
Li
stava attendendo con impazienza, mentre Tamara cercava di calmarlo con dolci e
rassicuranti parole. Si chiedeva cosa fosse successo: il cellulare di Harry
sembrava spento e quello di Little suonava a vuoto: lo avevano poi scoperto
rinchiuso nell’armadietto a lei destinato.
E se
fosse successo qualcosa? Se si stessero trovando in pericolo e non sapessero
come fare a tornare indietro? Gli avevano sconsigliato di tornare nel bosco
finché l’acqua non avesse smesso di cadere così copiosa. E se fosse stato
troppo tardi?
Dietro
ad un vetro ormai opaco per il suo respiro caldo e pesante, e lucido per le
gocce d’acqua all’esterno, si poneva quelle domande a raffica, senza un attimo
di sosta. Tamara aveva provato più volte a distoglierlo da quella posizione,
braccia incrociate sul petto, il peso del corpo sulla sua gamba sinistra, occhi
statici verso il bosco, ma non era stata capace di raggiungere efficacemente il
suo scopo. Al che si era rassegnata, sedendosi nelle sue vicinanze con un
giornale tra le mani.
Si
trovavano nel bar del maneggio, intorno
a loro solo persone in attesa della fine del temporale che aveva guastato la
loro domenica a cavallo.
“Stanno
bene, se la caveranno.”, disse ancora Tamara, “Magari hanno trovato un rifugio
di fortuna ed attendono la fine del temporale.”
“Lo
spero...”, le rispose.
Stava
iniziando a dargli sui nervi.
Due
dei suoi migliori amici si trovavano là fuori, tra lampi e fulmini, in un bosco
sconosciuto e forse in pericolo, e lui non doveva preoccuparsi? Doveva starsene
tranquillo come lei con Vanity Fair tra le dita a leggere del nuovo
figlio di Heidi Klum?
Cambiò
finestra e si allontanò da Tamara, che sbuffò infastidita. Da quella aveva solo
una visuale parziale del bosco ma gli sembrò comunque sufficiente.
Una
macchia scura sbiadita, lontana, colse il suo sguardo. Appoggiò le mani al
vetro.
Erano
loro.
Si
avvicinò alla porta che, premuta dal vento che soffiava pesante all’esterno,
ebbe difficoltà ad aprirsi. Uscì all’aperto e si bagnò all’istante mentre le altre
persone, incuriosite, si affacciarono per osservarlo.
Uomini
coperti da pesanti incerate impermeabili si preoccuparono di andare incontro al
cavallo, che galoppava veloce lungo la lieve collina alla cui cima si trovava
il boschetto. Corse verso la tettoia della stalla, lì vicino, ed attese che i
suoi due incoscienti amici si avvicinassero. Li vide scendere dal cavallo
tremanti, zuppi d’acqua, e venire verso di lui accompagnati da due degli
stallieri con le casacche impermeabili.
Si
stupì di ciò che vide, o meglio, di ciò che sentì.
Little
ed Harry stavano ridendo, indicandosi a vicenda, come se in tutta quella storia
ci fosse stato qualcosa di divertente.
“Ma
dove cazzo siete stati!”, li accolse Danny, infuriato.
“Tranquillo,
Dan!”, gli fece prontamente Little, completamente fradicia, i suoi abiti
gocciolavano copiosamente, “Siamo a posto, andiamo subito a cambiarci prima di
prenderci una polmonite.”
“Sì!”,
fece Harry, “Direi che sia proprio il caso! L’altro cavallo è...”
“Ma
cosa cazzo state ridendo!”, protestò lui, sempre più fuori di sé, “Ho pensato
che vi fossero capitate le peggio cose... E voi state ridendo!”
“E
dai, Jones.”, provò a calmarlo Harry, “Guarda che ce la siamo fatta veramente
sotto e stavamo ridendo solo perché non volevamo piangere dalla paura.”
“Siete
due cretini!”, gli gridò contro, perso ormai il controllo, “Sono stato male per
voi!”
“Ma
adesso siamo tornati... Stiamo bene.”, gli disse Little. Il suo tono era
rammaricato, stette quasi per sciogliersi ma non doveva, la situazione era
gravissima.
“Andate
a cambiarvi, poi torniamo subito a casa.”, tuonò la sua voce, in coppia con
quella di una saetta che cadde in lontananza.
E li
lasciò a guardarsi, colpevoli.
Il
ritorno in macchina fu tremendo. Non volle sentire una sola mosca volare dalle
bocche di quei due, per i quali aveva perso la pazienza e le unghie,
completamente rosicchiate dai denti e dall’ansia.
Se
ne stettero zitti per un’ora e mezza. Alle sue spalle, ogni tanto Tamara sbuffava
annoiata. Little, dall’altra parte del sedile, se ne stava a testa bassa.
Harry, vicino a lui, appoggiava il braccio sul rivestimento della portiera e
tamburellava ritmicamente le dita.
Si
fermò prima a casa sua, dove venne salutato da un freddo ciao di gruppo, a cui
lui non partecipò. Poi posteggiò la macchina davanti alla propria abitazione e
scesero, sempre muti. Appena entrato in casa si chiuse nella doccia, si preparò
per la comparsata televisiva e lasciò le due donne da sole.
Quella
maledetta doccia l’aveva freddata per tre volte con getti improvvisi di acqua
gelata e i brividi non terminarono, almeno finché l’aria calda del suo asciugacapelli
da viaggio non ebbe completamente disidratato le sue ciocche.
Si
vestì con qualcosa di comodo e, davanti allo stesso specchio si dette la giusta
carica per affrontare la serata.
“Ce
la puoi fare.”, si diceva, “Ce la puoi fare.”
Ce
la posso fare.
“Adesso
vai al piano di sotto e ti comporti come sempre.”, continuò.
La
voce tremò. Si dette una scossa, recuperò le forze e riprese a infondersi
coraggio.
“Non
rompere bicchieri, non far volare forchette, non pulirti la bocca alla
tovaglia, non balbettare, non sputacchiare, non arrossire quando parlerete di
Danny... Anzi, evitare assolutamente ogni discorso che lo riguarda.”, elencò
uno dopo l’altro tutte le accortezze che avrebbe dovuto seguire per passare una
piacevole serata insieme alla donna con la quale la persona di cui era
innamorata conviveva felicemente.
“E
ricordati anche di non mangiare niente di vegetale... Niente insalata, niente foglie
verdi... Non vogliamo nessun baobab tra i denti. Non dare a quella un pretesto
per ridere di te!”
Era
pronta per scendere.
La
cena sarebbe andata benissimo, avrebbero parlato del più e del meno, si
sarebbero conosciute e lei avrebbe avuto l’ennesima conferma che non avrebbe
mai potuto vincere su di lei.
Anche
perché hai già perso in partenza, quindi... Rassegnati.
Si
affacciò alla cucina dove una tranquilla Tamara si gingillava, seduta su una sedia
con gli occhi fissi alla tv che trasmetteva un telegiornale qualsiasi. Erano le
sei e mezza e, dato l’esiguo pranzo, aveva una discreta fame.
Tamara
si accorse di lei e le sorrise.
“Siediti
pure, fa’ come se fossi a casa tua.”, la rassicurò lei, “Per cena ho ordinato
una pizza, spero non ti dispiaccia, ma non ho molta voglia di cucinare dopo la
giornataccia di oggi. Non sapendo i tuoi gusti ti ho preso una semplice.”
“Sì,
ti capisco. La tua scelta va benissimo.”, le disse.
“Tra
l’altro dovrebbe arrivare tra poco.”, continuò Tamara, “Mi daresti una mano a
tirare fuori dalla cucina due bicchieri e quattro forchette?”
“Certo,
molto volentieri!”, le rispose.
Seguì
le indicazioni di Tamara e, casualmente, dopo aver sistemato l’ultima stoviglia
sulla tavola il campanello suonò. Ritirarono le pizze e, accompagnate dalla
nenia della tv a basso volume, cenarono.
“Dimmi,
cosa avete fatto oggi tu ed Harry, prima del temporale?”, le domandò.
Bell’inizio
di conversazione.
“Ci
siamo persi.”, le disse, mentre cercava di non far colare tutta quella strana
mozzarella dalla fetta appena tagliata. Quella pizza era orrida solo a vedersi.
“Lo
avevo immaginato.”, rispose l’altra, “E dove siete andati a finire?”
“Sotto
ad un albero di ciliege.”
Tamara
strabuzzò gli occhi.
“Come
scusa?”, le chiese.
Lasciò
perdere lo spicchio, del quale ormai era rimasto solo l’impasto: tutto il
condimento era scivolato via sul piatto. Le spiegò che avevano passato il
quattordicesimo segnale rosso per poi svoltare a destra e che, quindi, dovevano
aver sbagliato strada.
“Decisamente!”,
rispose l’altra, ridendo, “Dovevate svoltare a sinistra dopo il dodicesimo
segnale!”
Ah
ecco...
“Comunque”,
riprese il suo racconto, dopo che lei ebbe terminato di rompersi la mascella
dalle risate, “ci siamo poi fermati a mangiare, pensando di ritornare dopo
pranzo con calma. Ed abbiamo trovato questo albero di ciliegie.”
“Ne
avete mangiate?”, le fece.
“Sì,
abbastanza.”, rispose.
Aveva
una fame cane, il suo stomaco borbottava come una locomotiva che necessitava
carbone, doveva assolutamente mangiare quella cavolo di pizza viscida. Bastava
solo chiudere gli occhi, tappare il naso e infilarsela in bocca. Si munì di
coltello e forchetta e, un triangolo per volta, iniziò ad intaccare quella
specie di frittata gigantesca. Era da film dell’horror, come potevano chiamarla
pizza...
Ma
soprattutto, perché Tamara non era in difficoltà come lei? Si mangiava i suoi
spicchi senza che una minima goccia di olio, di pomodoro o di formaggio cadesse
via.
“A
me non piacciono le ciliegie... Ne sono allergica.”, disse Tamara, dopo essersi
pulita gli angoli della bocca, con educazione.
“Peccato,
quelle erano proprio buone.”, le fece.
“Ed
avete parlato, tu ed Harry?”
Ci
siamo amorevolmente spulciati come le
due scimmie che vivono nella testa di Homer Simpson.
Il
solo pensiero di quell’immagine la fece sogghignare.
“Certamente.”,
le rispose con naturalezza.
“Harry
è molto simpatico.”, affermò Tamara, “Ma non mi va molto a genio.”
“Beh...
Devo dirti che anche io, prima di oggi, pensavo esattamente la stessa cosa.”,
la informò.
“Ah
sì?”, le fece lei, con interesse, “Cos’è che ti ha fatto cambiare idea?”
Ci
rifletté.
“Non è lo stronzo che ho conosciuto.”, le
disse.
Tamara
ridacchiò.
“Era
questa l’impressione che avevi di lui?”, continuò l’altra ad approfondire il
discorso, “Perché è la solita che ho tuttora.”
“Fidati.”,
la consigliò, “La sua è solo apparenza, è un agnello travestito da lupo.”
“Secondo
me vuole dominare gli altri, con il suo modo di fare e di comportarsi.”, si
riprese Tamara con ancora più vigore, “Si sente il maschio del gruppo. Impone
le sue decisioni.”
“Non
è così.”, le spiegò, “Penso che si comporti un po’ da... Papà del gruppo solo
perché tiene a loro e non vuole che facciano cazzate... Tutto qua.”
Era
meglio terminare lì quella discussione, non voleva che Tamara aggiungesse altra
carne al fuoco. Si sentiva terribilmente a disagio di fronte alla sincerità di
lei, non sapeva come prenderla, come gestire quelle cose che le stava dicendo.
Ma soprattutto, non sapeva a che pro Tamara gliele stesse riferendo.
“Che pensi alle sue di cazzate!”, esclamò
prontamente Tamara, “Ed ha fatto star male Danny... oggi.”
“Mi
dispiace davvero tanto.”, le disse, veramente risentita per l’accaduto, “Ma il
temporale ci ha colti di sorpresa.”
Annotare
da qualche parte che Drummer McHot come meteorologo fa schifo.
“Lo
capisco... Ma potevate avvertirci!”, si sfogò la ragazza, “Ha passato un’ora a
preoccuparsi per voi!”
E
tu non ti preoccupavi?
“Il
cellulare... Non funzionava.”, accampò la prima scusa che le venne in mente,
anche se era la pura verità, “E non è stato facile orientarsi per il bosco...
Con tutta quella pioggia.”
Spaventata
a morte per i fulmini che avevano illuminato il cielo nero sopra di loro si era
letteralmente avvinghiata ad Harry: era salita sul suo cavallo, Spencer era
fuggito via al secondo tuono. Una volta nel bosco, avevano dovuto tentare più
volte la fortuna nel ritrovare la giusta strada, senza una luce. Anche lui si
era sentito totalmente atterrito dalla situazione, Joanna lo aveva percepito a
fior di pelle, ma Harry aveva cercato comunque di sdrammatizzare raccontandole
di tutte le volte in cui aveva stupidamente rischiato la vita, solo per emulare
quei pazzi di Jackass su Mtv. Si erano ritrovati a tremare per il rombo assordante
di un fulmine e, due secondi dopo, a ridere come pazzi senza la minima
coerenza. Ma ne erano usciti indenni, se non per un lieve raffreddore che stava
nascendo.
Aveva
compreso perfettamente la preoccupazione di Danny, anche lei al suo posto
avrebbe avuto la stessa identica reazione, ma non giustificava affatto
l’essersi arrabbiato con loro in quel modo. Glielo avevano detto: erano
arrivati ridendo perché, se non avessero sdrammatizzato il fatto, si sarebbero
spaventati a tal punto da non ritrovare la via del maneggio.
Non
gli era bastato. Affari suoi.
“Va
bene.”, concluse Tamara, accontentandosi ben poco della sua giustificazione.
Terminarono
la cena in silenzio.
Cara
mia, quella che ti trovi davanti è all’opposto di Harry. Un lupo travestito da
agnello.
Una
volta riposte le stoviglie dentro al lavandino, lasciate immerse in un po’
d’acqua, si spostarono nel salotto. Per la prima vera volta ebbe il tempo di
osservarlo: era abbastanza semplice, in stile classico, le ricordava qualche
stanza casa sua –di Arianna- e si sentì subito a suo agio. I mobili erano di
una fattura molto semplice, niente di forzatamente troppo antico o moderno, un
giusto equilibrio tra presente e passato.
“Ti
piace com’è arredato il salotto?”, le domandò prontamente Tamara, vedendola con
lo sguardo iperattivo sui particolari che componevano il soggiorno.
“Sì,
abbastanza.”, le rispose.
Unica
pecca: la moquette verdastra. Sebbene fosse uno tra i suoi colori preferiti,
non le piaceva in quella tonalità. Oltretutto stonava con il divano rosso
scuro, di pelle. “L’ho arredato io.”, fece lei, con un sorriso soddisfatto,
“Nella mia agenzia immobiliare abbiamo anche uno studio di design per interni.”
Ecco,
come non detto.
“Molto
carino... Delizioso.”, le rispose.
Si
sedette sul divano, sperando che Tamara volesse dedicarsi all’ascolto passivo
di qualche palinsesto televisivo serale. Magari, che sintonizzasse proprio lo
schermo sul programma a cui partecipava Danny.
Non
dovevi parlare di lui, né tanto meno pensarlo!
Subito
arrossì e si voltò, per non farsi vedere in quello stato pietoso.
“Dimmi,
spiegami come li hai conosciuti veramente...”, le domandò Tamara, ignorando il
tubo catodico davanti a loro, “Danny non me ne ha mai parlato veramente.”
Ma
me lo hai già chiesto...
“Beh...
Al locale dove lavoravo.”, le rispose.
“Sì,
questo lo so.”, insistette Tamara, “Ma cosa è successo davvero?”
Da
quale storia doveva partire? C’erano moltissimi punti che si ponevano ottimali
a quello scopo: l’essere rotolata per terra davanti ai McFly al completo dopo
averli riconosciuti; la giornata passata a fare la spesa con Danny; il suo
invito ad uscire di nuovo con loro; la partita di pallone... il bacio.
Il
bacio...
I
baci.
I
baci...
“Loro
sono entrati e io li ho salutati.”, disse, tutto d’un fiato, come se fosse
stata la risposta giusta ad un quiz milionario.
“Ah...
Interessante.”, fece Tamara, approfondendo la sua seduta sul divano, “Quindi
eri già una loro fan.”
“Sì,
li conoscevo già da diverso tempo.”, le rispose, con naturalezza, “Pensa che
pochi giorni prima del loro arrivo avevo acquistato un loro poster su internet
per appenderlo in camera.”
“Che
coincidenza!”, esclamò Tamara, “E’ sbalorditivo!”
“Abbastanza.”,
le fece.
Non
comprendeva quanta ironia ci fosse nella parole dell’altra.
“E
chi di loro è il tuo preferito?”, infiascò subito una domanda a tranello.
Beh,
per lei non lo era affatto e la risposta fu cristallina.
“Nessuno
di loro.”
Tamara
non la bevve affatto.
“Non
ci credo!”, esclamò infatti.
“A
dire la verità non mi sono mai posta il problema di scegliere tra nessuno dei
due...”, disse.
Che
cazzo, Joanna!
“Tra
nessuno di loro.”, si corresse all’istante, “Li ho... Sempre considerati in
generale, come gruppo... Non come singoli.”
“E
come mai Harry ti stava antipatico?”, chiese di rimando, “Che cosa è successo
tra di voi?”
Ha
cercato di mettersi in mezzo come un vigile e dirigere il traffico nella mia
direzione.
“Mi
prendeva sempre in giro.”
Buona
scusa.
“E
con Tom, invece, sembra che i rapporti siano tranquilli.”
“Sì”,
le disse, “è un bravissimo ragazzo e mi dispiace non aver avuto modo di
approfondire l’amicizia con lui.”
Era
vero, si era sempre rammaricata per quello, ma non aveva potuto farci molto.
C’erano stati gli altri tre a renderle la vita praticamente impossibile, in un
modo o nell’altro.
“Dougie?
Cosa mi dici di lui?”, pose il nuovo quesito.
Si
concentrò su quella risposta.
Bella
magagna.
“Con
Dougie tutto ok.”, disse, senza inflessioni alcune nel suo tono di voce.
“Non
è stato carino da parte sua non presentarsi, ieri.”, disse Tamara.
“Beh...
Magari aveva degli impegni improrogabili.”
“Starsene
davanti alla tv? Questo è un impegno improrogabile per te?”, insinuò l’altra,
concludendo con una risata ed uno sguardo ammiccante.
Si
unì al suo personale momento di ilarità, sfoderando un sorriso a quarantamila
denti che pensava di aver dimenticato in qualche cassetto della memoria.
Tamara
stava per porle la fatidica domanda, quella a cui lei non avrebbe dovuto
rispondere con alcuna incertezza, né nella sua espressione facciale, né nelle
parole che avrebbe usato.
“E Danny? Cosa pensi di lui?”
Le
soluzioni erano possibilmente due: rispondere con semplicità, mentendo
profondamente, e raccontarle la balla del secolo oppure...
“Tamara,
vuoi dirmi qualcosa?”, le fece.
Ormai
non sopportava più quel giocare a nascondino, quel guardie e ladri,
quell’inseguirsi. Si era infastidita: troppe volte, ormai, si era sentita presa
in giro, adesso pretendeva che le venisse parlato con onestà e sincerità. Aveva
capito tutto e voleva cacciarla via? Che lo facesse! Avrebbe apprezzato di più
una presa di posizione del genere piuttosto che un tacito lasciapassare per una
settimana d’inferno fatta di mezze frasi, mezze intenzioni e mezze cazzate che
le andavano di traverso.
“Oh
no, non voglio dirti niente.”, rispose Tamara, senza alcuno shock, “Volevo solo
capire un paio di cose.”
“Ah...”,
disse Joanna, annuendo.
“Adesso
devo andare a letto”, interruppe tutto Tamara, con un lungo sospiro ed uno
sbadiglio finto, “domani ho una lunghissima giornata di lavoro.”
Oh
no...
“Mentre
Danny se ne starà tutto il giorno a casa.”, spiegò l’altra, “A meno che i suoi
programmi non cambino da un momento all’altro.”
Oh
cavolo no...
“Abbi
rispetto per me.”, disse Tamara, con una decisione ed una serietà che la
pietrificarono.
La
donna si alzò e salì al piano superiore, lasciandola lì con un palmo di naso.
Fissò la sua immagine riflessa sullo schermo piatto e lucido del televisore al
plasma, ammutolita. Aveva voluto la verità? Eccola servita su un piatto
d’argento, con una bella mela rossa tra i denti.
Andò
in camera cercando di non fare il minimo rumore.
Prepariamo
la valigia e andiamocene col primo aereo per l’Italia.
Prima
di radunare le sue cose avrebbe chiamato Arianna per riferirle di tutto. Per
quello afferrò il cellulare in borsa e compose il suo numero, distesa sul
letto.
“Pensavo
che fosti stata rapita da degli alieni festaioli.”, sbottò Arianna, “Adorano
facili prede come te.”
Joanna
sospirò.
“Addirittura
peggio.”, le disse, mentre affondava la mano nella faccia, togliendo via un po’
di stanchezza.
“Gli
alieni hanno messo un palo per la lap
dance accanto a te e non hanno visto alcuna
differenza tra di voi?”, ipotizzò con ironia la donna.
“Molto
peggio.”, le ripeté.
“Ti
hanno usato come palo per la lap dance.”
“Arianna,
non fai assolutamente ridere.”, le disse Joanna, infastidita.
“Allora
parla pure, figlia mia prodiga.”, la invitò, lasciandole il timone della
barca.
Si
fece coraggio.
“Sai
chi abita in questa casa, oltre a Danny?”, le domandò, retoricamente.
“Tu?”,
azzardò a rispondere l’altra.
“E
poi?”
“Sua
madre!”, esclamò prontamente Arianna.
Joanna
si lasciò cadere all’indietro e rimbalzò sul materasso, sconfitta
dall’impossibilità di poter parlare seriamente con la sua amica.
“Allora,
chi è quest’altra donna? Sua sorella lesbica?”, tornò all’attacco la donna.
“No...
E per quello che ne so Vicky è completamente etero.”
Ormai
era senza speranza.
“Parlavo
della sua fidanzata.”, le rivelò, “Quella con cui convive da almeno tre mesi a
questa parte... o giù di lì.”
Ci
fu qualche secondo di silenzio, interrotto solo da una fragorosa quanto
caustica risata di Arianna.
“Ma
senti un po’!”, esclamò lei, “Sperando di vincere una bella
dichiarazione d’amore, hai giocato ben 150 euro sulla ruota di Londra... E ti
ritrovi con un ambo secco non richiesto...”
“Arianna, per favore...”
“Quanto
dista la tua camera da letto dalla loro?”, domandò di botto l’altra.
“Perché?”
“Era
per sapere se li sentivi anche fare sesso alla notte.”
Ormai
Arianna era completamente persa.
“Ok,
ho capito... Ti richiamo domani, va bene?”, le fece, completamente stizzita.
“Lo
farai per dirmi che sei atterrata in un qualche aeroporto toscano vero?”,
le chiese Arianna, che non era quindi totalmente fuori di sè.
“Penso
proprio di sì.”, fece, annegando la risposta in un sospiro rassegnato.
“Come
hai fatto a sopportare tutto questo finora?”
“Sono
portatrice sana del gene dell’ipocrisia e me la sto cavando bene, nonostante
Tamara non ci sia cascata e mi abbia fatto capire, appena cinque minuti fa, che
non gradisce la mia presenza in casa.”
“E
chi ha capito tutto, oltre a lei?”
Bella
domanda.
“Vicky,
Harry... forse anche Tom e la sua fidanzata.”
Non
mancava nessuno, uno escluso.
“Tranne
il diretto interessato, ovviamente.”, sottolineò automaticamente Arianna, “Stai
vivendo una pessima sceneggiatura holliwoodiana. Sparisci in fretta o mi vedrò
costretta a venderne i diritti a qualche regista affamato.”
“Sì...”,
le rispose, affranta.
“E
Dougie?”
“Mai
visto.”
“Almeno
lui ha un po’ di buon senso.”
“Già...”
“Ti
lascio.”, le disse.
“Ciao, Jo.”
Ed eccomi quaaaaa!!!! Capitolo bello lungo e denso, eh???? Abituatevici, ve lo dico subito.
Mi è mancato lo spazio
ringraziamenti, quello in cui non so mai come mostrarvi la mia
riconoscenza e vi riempio di frasi fatte e idiote... Non so se questa
volta farò del mio meglio, ma diciamo che mi ci impegnerò
di più.
Dico a tutte che Dougie entrerà in gioco tra qualche capitolo,
esattamente al quinto... Si fa attendere, ed entrerà in
silenzio...
E Danny.... Mamma Saura, vorrei soffocarlo con le mie stesse mani.
Ringrazio quindi tutte voi che mi avete commentato, o anche solo letto.
Ringrazio la Pazza Ciribiricoccola,
e le chiedo gentilmente di non essere troppo drastica con Tamara.
La mia Vicky è la grilla parlante, insieme a Harry, ma non
sarà molto presente, sebbene quello che dice al fratello
avrà una certa rilevanza... Più avanti nella storia.
Ringrazio Picchia. La mafia esiste ancora, ed è più forte di prima. Altro che la Piovra.... Qua si fa la Seppia.
Ringrazio x_blossom_x,
promettendole che le dirò con largo anticipo il momento in cui
pubblicherò i prossimi capitoli. XD La pregherei anche di
tenersi cucita la bocca... So dove abita.
Ringrazio saracanfly. La
citazione sta bene accoppiata ad una bella risata, spero l'abbia fatta
ridere tanto quanto ho riso io quando l'ho scritta io. A volte quella
scema di Little sa essere davvero comica.
Ringrazio _Princess_. Il fatto
che abbia trovato il tempo per tre parole, quando io ho messo quasi un
mese per lasciargliene quattro, mi ha veramente toccato il cuore
*sigh*... Spero di sentirla presto... E le mano un bacione.
Ringrazio kit2007. Mi dispiace
che la mia Vicky non le piaccia, ma purtroppo è una persona
talmente tanto drastica che a volte la sopporto poco anche io!
Danny non è furbo, è cretino come solo un uomo sa
esserlo...
Ringrazio CowgirlSara. Anche io spero che affoghi nella cacca di cavallo... Sebbene quelle di mucca siano più capienti! XD
Non sono stata molto brava con i commenti, vero?
Ok, faccio schifo XD I apologize.
Il titolo è preso direttamente dalla canzone di KT Tunstall, che ci sta a pennello. No scopo di lucro.
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Capitolo 4 *** Blues In The Night ***
I
piedi trafficavano con le coperte, cercando di scansarle nella maniera
più
efficace possibile. Per tutta la notte aveva sofferto un caldo atroce,
il suo
stomaco aveva dato più volte i segni di volersi disfare del
contenuto nella
maniera più traumatica possibile. L’aveva passata
quasi totalmente insonne,
catturata da pensieri che morbosamente ricadevano sullo stesso punto
fisso.
Danny
e Tamara.
Tamara,
soprattutto. Il suo sguardo si era incattivito e non aveva fatto niente
per
causarlo. Non si era messa a fare occhi dolci a Danny, aveva
addirittura
evitato di guardarlo, se non quando era stato strettamente necessario.
Insomma,
si era comportata impeccabilmente, tranne nel momento in cui lui
gliel’aveva
presentata, quando tutti i castelli di carte che aveva costruito erano
stati
spazzati via da una folata di vento, entrata con prepotenza dentro di
lei.
‘Abbi
rispetto per me.’
E
lei lo aveva sempre avuto.
La
sua valigia era già stata sistemata, tutto riposto al suo
interno, solamente il
necessario per la partenza era ancora fuori. Si era addormentata che
era
mattina inoltrata, l’aveva sentita partire per il lavoro e
salutare Danny con
uno schioccante bacio.
Lo
so che lo hai fatto davanti alla porta di camera mia per farti
sentire...
“A
stasera.”, gli aveva detto Tamara, “Ti
amo.”
“Ti
amo anche io.”
E
una pugnalata al cuore l’aveva colta, non del tutto
inaspettata.
Era
stato poco dopo quella tremenda frase che si era addormentata,
disgustata per
quello che stava affrontando. L’iperrealista Joanna era
tornata ad imperare
dentro di lei, fiera di tutti quei te l’avevo detto
che sviolinava nella
sua testa, con la sua vocetta stridula e soddisfatta. L’altra
Joanna, quella
innamorata, se ne stava invece rintanata in un angolo, le gambe strette
al
petto tra le braccia, e la testa rannicchiata sulle ginocchia,
frignando in
silenzio.
Si
svegliò tardi, l’orologio ticchettava le undici e
mezza passate ed un mal di
testa atroce le stava togliendo la forza di stare in piedi. Le dolevano
gli
occhi, tenuti stretti tra le palpebre in quel sonno agitato e
disturbato da
sogni, che non ricordava ormai più. Se li bagnò
più volte, rinfrescandoli con
l’acqua del rubinetto, e si guardò allo specchio.
Quelle
che aveva in viso non erano occhiaie, ma borse della spesa stracolme.
Il bianco
degli occhi scompariva sotto le piccole vene rossastre in rilievo,
sembrava
avesse pianto per tutta la notte... Infatti era quello che aveva fatto
per gran
parte di essa, interrompendosi soltanto dopo una saggia decisione
suggeritale
dall’iperrealista Joanna.
‘Smetti
di piangere per qualcuno che non ha mai avuto le palle per stare con
te,
inventandosi una balla di scuse cretine, tra cui la distanza e il
lavoro...
Fottitene.’
Tentò
di sorridere a quel pensiero, mentre si sciacquava la bocca per
togliere via un
po’ del tipico brutto sapore mattutino. Si
pettinò, indossò qualcosa di
decente.
‘Danny
se ne starà tutto il giorno a casa. A meno che i suoi
programmi non cambino da
un momento all’altro.’, suonò
ancora la voce di Tamara nelle sue orecchie.
Dialetticamente,
al momento la sua occupazione era diventata un impossibile tentativo di
fuga
dal giro di ceffoni in cui si era ficcata da sola.
Se non c’era Tamara,
c’era Danny, altrimenti c’erano tutti e due
insieme.
Appena
aprì la porta di camera, sentì il suono della sua
chitarra.
Annotò
gli ultimi accordi e, con la matita tra le labbra,
canticchiò le parole che
erano venute alla luce insieme alle note.
‘Can’t believe
we’re still strangers...’
Ma
in un attimo dei rumori al piano di sopra lo distrassero, facendo
scappare via
la perfetta conclusione di quel verso, costruitosi nella sua mente in
una rima
baciata molto dolce. Lo riportarono alla realtà, quella in
cui era tuttora
arrabbiato con Little e con Harry, per la loro stupidità del
giorno precedente.
Era
ancora infastidito dalle risate, uscite beatamente dalle loro bocche
davanti a
lui, preoccupato come poche altre volte nella sua vita.
‘You’ve
put her life in danger’, si formulò
nella sua mente, concordandosi in rima
con il verso pensato. Entrambi erano stati in serio pericolo e non
sembravano
essersene accorti, trastullandosi con stupide sghignazzate. Non era
accettabile, benché sapesse perfettamente che la stava
facendo troppo lunga,
come aveva cercato di fargli capire Tom dopo che gli aveva raccontato
cosa era
successo durante la giornata a cavallo, ma era una questione di
principio.
Seduto
sul divano, con la chitarra tra le mani e la matita che ancora sostava
sulle
labbra, decise di perseverare nella sua attività, come se
non l’avesse mai
sentita scendere le scale, sostare con esitazione sull’ultimo
gradino ed andare
silenziosamente in cucina, chiudendo la porta della stanza per non
disturbarlo
nel suo lavoro.
E si
sentì in colpa.
Ok,
quei due avevano sbagliato, ma lui stava veramente continuando a menare
inutilmente
il can per l’aia. Quando era tornato dallo show televisivo,
prima di
addormentarsi, aveva parlato con Tamara: gli aveva riferito della
chiacchierata
avuta con Little. Lei stessa l’aveva trovata abbastanza
dispiaciuta per quello
che era capitato: il temporale li aveva colti di sorpresa, mentre
pranzavano
sotto ad un albero di ciliegie, e i cellulari non funzionavano.
Che
buone, le ciliege gli piacevano molto. Sarebbe stato più
volentieri lì sotto
assieme a loro che nei pressi della quercia, con Steven e Tamara, che
cercavano
inutilmente di trascinarlo in conversazioni noiose mentre lui si
lambiccava il
cervello su quello che stava succedendo ai suoi amici.
Non
voleva farla stare male per il suo stupido orgoglio.
Magari,
si era anche davvero divertita con Harry.
Accantonò
il pensiero, posò la chitarra, si tolse la matita dalla
bocca ed andò in
cucina, sperando di potere attaccare parola offrendole il suo aiuto per
preparare la colazione. Quello che vide gli fece comprendere di esserle
del
tutto inutile: l’angolo sinistro della tavola, nella sala da
pranzo, era stato
occupato da tutto il necessario per placarle la fame mattiniera. E lui
si trovò
con un palmo di naso.
“Ah...
Pensavo avessi bisogno di una mano.”, le disse, sentendosi
stupido, “Avevo
sentito dei rumori strani... Di là.”
Little
abbassò lo sguardo e si mise i capelli un po’
spettinati dietro le orecchie.
“Mi
era caduta la forchetta.”, spiegò lei, mettendosi
poi a trafficare con il latte
caldo e il pane tostato. Aveva fatto tutto da sola, si era
perfettamente
ambientata...
O
forse non aveva voluto il suo aiuto?
Si
avvicinò a lei e le si sedette di fronte, appoggiando la
mano sul mento, mentre
il braccio sostava piegato sul bordo del tavolo.
“Dormito
bene stanotte?”, le domandò.
In
quella stessa frazione di secondo, vide il suo viso stanco, segnato da
piccole
occhiaie.
“Sì,
abbastanza bene.”, mentì lei, senza lasciare che
il suo sguardo salisse oltre
le sue mani, indaffarate nella preparazione di una fetta imburrata.
“Fatto
brutti sogni?”, le chiese, sorridendole.
Ma
lei non lo avrebbe mai visto.
“Non
li ricordo mai, li dimentico appena mi sveglio.”, rispose con
calma.
Era
risentita, ce l’aveva con lui.
“Senti,
Little, mi dispiace per ieri...”, le fece, “E anche
per prima.”
“Lascia
stare.”, disse lei, abbozzando un sorriso, “Non
è successo niente.”
L’arrendevolezza
di lei di fronte alle sue scuse non gli rendeva le cose più
facili. Anzi, le
complicava. Sembrava quasi che non ne volesse parlare, scacciandolo via
con un
frettoloso ‘passiamoci sopra’.
No, le cose andavano risolte, mai
lasciate in sospeso.
“Davvero,
Little, mi sono arrabbiato ingiustamente.”, le
ripeté, con fermezza.
“Ma
lo hai fatto perché sei stato a lungo in pensiero per noi.
Ti capisco.”,
continuò lei, “Non ti preoccupare.”
Alzò
gli occhi, li strinse in un sorriso e tornò alla sua
colazione.
Fu
allora che le tolse la colazione dalla mano e, cogliendola di sorpresa,
lasciò
che la sua fetta imburrata cadesse rotta in due pezzi sul piatto e
sulla
tovaglietta sotto di esso. Le prese le mani e la fissò
dritta dentro i suoi
occhi sfuggenti.
“Little,
dimmi cosa c’è che non va.”, le disse.
Voleva
saperlo, doveva saperlo.
Lei
si imbarazzò.
“Niente...
E’ tutto a posto, davvero.”, si
giustificò.
“Non
ci crederei nemmeno se lo ripetessi un milione di volte.”, le
fece.
La
conosceva abbastanza bene, stava mentendo spudoratamente, ma
sembrò comunque
acquisire una sicurezza che poche volte aveva percepito in lei.
“Danny,
sto bene.”, disse, con decisione ed occhi fermi,
“Ho capito perché ti sei arrabbiato.
Ti chiedo scusa per essere stata frivola con Harry quando potevamo
essere
davvero in pericolo. Va bene adesso?”
Rimase
lievemente spiazzato.
“Sì...”,
le fece.
Fu
lui a sentirsi a disagio, in quel momento. Come gli era capitato
più volte
quando l’aveva conosciuta, Little aveva reagito in modo del
tutto inaspettato.
Non gli era più capitato, tutto perché i contatti
tra loro si erano limitati a
stupide mail e rare quanto rapide telefonate.
“Tutto
a posto, Dan?”, chiese allora lei, vedendolo fuori fase.
“Oh
sì, alla grande!”, le rispose, sogghignando.
“Cosa
stavi facendo di bello?”, gli domandò Little,
mordicchiando la sua fetta
scomposta.
“Mi
sono alzato con un motivetto in testa e lo stavo scrivendo sullo
spartito.”, le
spiegò.
“E
come va con l’album nuovo?”, rinnovò lei
il suo interesse.
Fino
a quel momento non avevano mai avuto un momento tutto per loro sul
quale
chiacchierare. Adesso che avevano tutto il giorno libero davanti,
avrebbero
recuperato il tempo perso.
“Siamo
statici su alcuni pezzi, dobbiamo ancora approvare i provini della
grafica... bla bla
bla...”, le fece,
gesticolando annoiato, “Siamo in alto mare e ce la siamo
voluta prendere con
calma, tanto per non fare cazzate.”
“Non avete
più la casa discografica che vi
corre dietro come un mastino affamato?” chiese lei.
“Assolutamente
no!”, esclamò lui, “Facciamo tutto da
soli anche stavolta, e con i nostri soldi
e la nostra etichetta”
Era
il secondo album interamente prodotto da loro, senza alcuna etichetta
che li
sponsorizzasse tranne quella che avevano loro stessi fondato. Un traguardo anni addietro
impensabile.
“Bene,
sono contenta per voi.”, disse Joanna, con la bocca
sgranocchiante.
“Cosa
vuoi fare oggi?”, le chiese, accomodandosi contro lo
schienale della sedia.
“Non
disturbarti.”, rispose Little, ridendo.
“E
perché dovresti farlo? Tu devi disturbarmi, hai
l’obbligo di farlo!”
E
rise con lei.
“Davvero,
vuoi che ti porti un po’ in giro?”, le
rinnovò la domanda.
“No,
tranquillo, non ho dormito bene.”, disse lei, rivelando la
sua bugia di prima,
“Molto probabilmente farò lo zombie tutto il
pomeriggio. E poi tu hai da
lavorare al tuo motivetto, non voglio toglierti tempo, magari
diventerà una hit
di grande successo.”
“Su
questo non ci conto.”, le fece, “Non mi ricordo
nemmeno più come faceva.”
Little
sbuffò in una risata.
“Sei
sicura di non voler fare niente tranne che una bella
siesta?”, le domandò.
“Sicurissima!”,
affermò lei.
“Bene...
Vorrà dire che oggi farò il bagno in piscina da
solo.. E’ una bella giornata
afosa e calda, con ben 28 gradi al sole. E qua dentro stiamo al fresco
perché
l’aria condizionata è al massimo...”
Si
era chiusa nell’accappatoio che aveva trovato in bagno.
Profumava di vaniglia,
un’intensa vaniglia che la faceva sentire un
bignè, una torta millefoglie che
attendeva solo di essere tagliata dai due sposini.
Se
il giorno precedente si era sentita nuda, con quei pantaloncini
attillati,
adesso che era in costume le pareva di essere una radiografia sul
pannello
luminoso del medico radiologo, come quando si era rotta il braccio,
molto tempo
fa.
Si
era fatta coraggio davanti allo specchio del bagno, ormai era diventato
il suo
confessore più intimo. Non aveva mai avuto molti costumi e,
poco prima della
partenza, dato che Danny le aveva già parlato della sua
piscina, ne aveva
comprato uno. Non aveva chiesto consigli ad Arianna durante
l’acquisto, era
andata da sola in un negozio di articoli sportivi qualunque, troppo
restia a
doverle dare spiegazioni sulle cicatrici che le segnavano il petto e la
schiena.
Era
una delle tante cose da fare sulla sua lista personale e, sotto quello
stesso
punto, c’era anche il nome di Danny. Doveva parlargli di
quelle cicatrici, lui
doveva sapere, ma non ne era più
così tanto certa.
Aveva
optato per un pudico costume intero, comunque inefficace nel coprirla
totalmente. Quando Arianna l’aveva visto, aveva detto subito:
‘Era meglio un
burqua.’. L’aveva subito sgridata per
aver mancato di rispetto alle povere
donne arabe costrette sotto quel vestito-prigione. Ma costume o non
costume, il
problema delle sue cicatrici era sempre lì. Aveva ripiegato
su una t-shirt nera
e sulla scusa ‘ho la pelle delicata’.
Ma aveva sempre paura di uscire da
quello stramaledetto bagno, lasciando la sua immagine incerta riflessa
sullo
specchio.
Danny
in costume, al piano di sotto... E tu stai qui a riempirti di seghe
mentali?
Zittì
la vocetta stridula con un rimprovero mentale e la
accontentò, uscendo dalla
sua stanza. Prima, però, abbandonò
l’accappatoio sul letto e dette un’occhiata
alla valigia. Era ancora lì, come se non fosse mai stata
aperta, l’aveva
disturbata solo per prendere quello che indossava. Era indecisa, non
sapeva
cosa fare: dirgli chiaramente ‘la tua ragazza mi
vuole fuori di casa e
l’accontento’, oppure lasciar perdere
tutto, ingoiare il rospo e far finta
di niente?
Si
buttò la serata precedente alle spalle, prese un profondo
respiro e scese le
scale.
La
porta che dava sul retro si trovava in sala da pranzo: i vetri lavorati
e
colorati facevano trasparire una strana ma calda luce solare, che
illuminava la
stanza di verde e di giallo, i due colori che fondamentalmente
componevano la
decorazione. La aprì e si trovò, suo malgrado,
direttamente su un giardino dal
prato molto basso, tipicamente british.
“Hey!”,
attirò subito la sua attenzione Danny, sdraiato su uno dei
tanti lettini che
contornavano la sua piscina, “Vieni che ci facciamo il
bagno!”
Bagno?
Quale bagno? Io non mi bagno!
Si
irrigidì, ferma come un palo, a braccia conserte.
“Ma
l’acqua è fredda!”, accampò
la prima scusa che le era balenata in testa.
“Tutte
scuse.”, disse lui, alzandosi ed avvicinandosi a lei,
“Sono le due del
pomeriggio, l’acqua è calda
abbastanza.”, e incrociò le braccia sul petto.
“Preferisco…
Sdraiarmi un po’.”, si oppose ancora Joanna,
prendendo la sua via verso i
lettini.
“Ho
preso anche un asciugamano per te.”, la acciuffò
di nuovo Danny.
Le
passò oltre e si avvicinò alla sdraio accanto
alla sua. Prese il telo e lo
aprì, accomodandolo sul comodo materassino di gommapiuma
rivestita, sistemato
sulla sdraio per ammorbidirne la durezza.
“Ta-dah!”,
esclamò, con un sorriso sulla faccia.
“Grazie.”,
disse Joanna, sistemandosi i capelli dietro alle orecchie. Ora che
erano più
corti, non perdevano mai tempo per caderle sul viso e darle fastidio.
Spostò di
qualche centimetro il suo lettino e lo sistemò sotto
l’ombra dell’albero, lì
vicino e pieno di foglie di un intenso verde.
Era
troppo caldo, stranamente afoso per il posto in cui si trovava: si era
immaginata l’Inghilterra sempre piovosa e triste,
così come l’aveva trovata
quando vi era stata diversi anni prima, nei giorni in cui conobbe per
la prima
volta i McFly, alla tv, non aspettandosi mai e poi mai che in futuro si
sarebbe
trovata nelle strette vicinanze della piscina di uno di loro, con i
quali aveva
instaurato una bella amicizia… Finita per lei in un
innamoramento sbagliato.
In
quel momento suonarono nella sua testa le parole di una loro vecchia
canzone.
Goodbye
to
you, been wasting all my time,
You’re no
longer mine
And now
you’ve left me
I can’t seem
to get you off my mind…
And that’s
when I realized
You had me
hypnotized…
Eh
sì, Danny l’aveva proprio ipnotizzata e non se
n’era nemmeno reso conto.
E’
un uomo, non capirà mai niente di te.
Sospirò
e si appoggiò alla sdraio, raccogliendo le mani in grembo e
flettendo
leggermente le gambe, con lo sguardo catturato dal luccichio
dell’acqua.
“Cosa
c’è, Little?”, le fece lui, che si era
silenziosamente avvicinato con il suo
lettino a lei.
“Niente.”,
rispose Joanna con un sorriso.
“Un
sospiro porta sempre un pensiero con sé.”, disse
lui, manifestando apertamente
la sua curiosità.
“Com’è
che non sei con gli altri?”, deviò prontamente il
discorso.
“Beh…
Mi sembra il minimo, tu sei qua, abbiamo tagliato qualche impegno meno
importante.”, rispose lui.
“Oh...”,
si lasciò sfuggire, “E quindi… Oggi
niente lavoro.”
“No.”,
fece lui, sdraiandosi sul suo lettino, anch’esso ammorbidito
da un materassino
di gommapiuma rivestita, “E questa giornata è
veramente incantevole.”
Puoi
dirlo forte, peccato per un piccolo particolare: la tua fidanzata.
“Allora,
Little, che cosa ne pensi della mia tana?”, le
domandò lui.
“Molto
carina, non c’è nient’altro da
dire.”, gli rispose con sincerità.
Era
la verità più assoluta. Non era esageratamente
grande, non come quelle case da
celebrità hollywoodiane, in cui si poteva scegliere tra tre
cucine, quaranta
bagni e settanta camere da letto; non era un albergo.
Era
comoda, spaziosa al punto giusto e arredata tutto sommato bene, a parte
qualche
accostamento da film dell’horror, come quello tra la moquette
e il divano del
soggiorno. Semplicemente da urlo, ma non pensava di saperne abbastanza
sull’arredamento degli interni e non avrebbe mai espresso
quel suo punto di
vista. Ulteriori stanze non ne aveva viste, oltre alla cucina, alla
sala da
pranzo, alla sua camera ed al soggiorno, quindi non aveva la
più pallida idea
di come avrebbe trovato le altre.
“Quando
Tamara si è trasferita da me, ha pensato bene di darle il
suo tocco.”, si
spiegò Danny, “Ora tutto è molto
più femminile…”, disse ridendo,
“Voi donne non
perdete mai l’occasione di ricordarci che siamo
uomini.”
Meno
male che te ne rendi conto da solo.
“Beh…
Fino a prova contraria lo sei.”, rispose lei.
“Oh
sì, lo sono eccome.”, annuì lui
ridendo, “E per questo Tamara si è sentita in
dovere di capovolgere tutto. L’unica stanza che non ha
toccato è la sala
giochi, gliel’ho proibito. Uno di questi giorni ti ci
porterò, ma non ti
spaventare!”
Joanna
rise, pensando che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa
del
genere, in casa d’altri. Quando si era trasferita da Arianna,
le aveva chiesto
il permesso di poter appendere le fotografie scattate con loro, nella
sua
stanza, finendo poi col ricoprirla di tutti i poster che aveva staccato
dalle
pareti della sua vecchia camera…
Non
poté fare a meno di ripensare ai terribili giorni in cui
aveva deciso, suo
malgrado, di lasciare Miki da solo. Un involontario flashback la
trascinò
indietro nel tempo di qualche mese, quando ricevette quello stupido
pacco da Danny,
che aveva fatto infuriare Michele come pochissime altre volte. Quello
che le
aveva gridato contro, parole pesanti che erano toccate a lei ed a Danny
stesso,
rimbombarono con forza nella testa, come un eco involontario dentro ad
una
stanza piena di persone infastidite.
All’inizio,
quando Miki le aveva mostrato il contenuto della scatola appena
ricevuta,
Joanna aveva ironizzato: negli ultimi tempi suo fratello era cambiato
lentamente, lasciandosi alle spalle la sua gelosia morbosa e la sua
iperprotettività nei suo confronti. Aveva scherzato,
ridendo, e gli aveva
spiegato che quella era stata la piccola vendetta personale di Danny
per avere
mandato a sua madre quel mazzo di fiori, mentre se ne stava
all’ospedale. Lui
se n’era stato in silenzio tutto il tempo, ascoltando le sue
spiegazioni con
calma e lasciandosi sfuggire addirittura un sorriso. Joanna era stata
sicura
che avrebbe capito l’ironia, sebbene un po’
pesante, di quello scherzetto.
Ma
aveva nettamente sopravvalutato il cambiamento di Miki.
Poco
dopo, infatti, era andato su tutte le furie e, per giorni, aveva
continuato ad
accusarla di ogni più piccolo problema che aveva affrontato
nella sua vita,
come se lei fosse stata la causa di ogni suo errore o
casualità che incrociava
nel cammino.
E si
era trovata di nuovo sola, senza il punto di riferimento che, dal
giorno in cui
aveva lasciato la casa natale, aveva trovato in Miki. Aveva trovato in
Arianna
una buona amica, una persona su cui poter fare affidamento, ma
l’esperienza le
aveva insegnato a non fidarsi più ciecamente di chi si
trovava davanti.
Inutile
dire per colpa di chi.
Non
era mai riuscita ad andare oltre quello scalino nel rapporto con lei,
nonostante Arianna avesse dimostrato fin troppe volte di volerle bene
al tal
punto di presentarla ad alcuni suoi amici come sua nipote. La donna,
dal canto
suo, non aveva genitori in vita, solo una sorella che viveva a Milano,
con la
sua famiglia. Aveva però una foltissima schiera di amici e
pretendenti, più o
meno desiderati, e diceva di non sentirsi mai sola. Era sicura,
però, che la
sua presenza dentro le quattro mura della sua villetta di periferia
aveva
allietato un po’ della solitudine che Arianna diceva di non
provare.
L’unica
costante erano le mail di Danny, sebbene l’iperrealista
Joanna, prima che cadesse
in amore con lui, avesse continuato a ripeterle fino allo
sfinimento che
non avrebbe dovuto contare su di lui e sulla sua presenza. E non si era
affatto
sbagliata.
“Little,
ci sei?”, le fece Danny, posandole una mano sulla sua.
Speditamente, Joanna
tornò con la mente sulle spalle e, sentendo il calore di
Danny su di sé ebbe un
sussulto.
“Sì,
scusami.”, rispose, imbarazzata.
“A
cosa stavi pensando?”, le domandò.
“A
troppe cose ed a nessuna.”
Danny
sospirò.
“Lo
so che non ti è mai stato facile parlarne…
Però, ora che siamo qua, potresti
anche farlo.”, le disse, “Io sono pronto ad
ascoltarti senza dire una sola
parola. Lo sai.”
“Certo
che lo so.”, disse Joanna, scocciata con se stessa. Prese un
profondo respiro,
ma Danny la anticipò.
“Perché
non mi dici cosa è successo con tuo fratello?”, le
disse, “Avevi promesso che
me ne avresti parlato, prima o poi.”
Argomento
di riserva? Ho appena finito di pensare a quanto lo odio.
“E
lo farò… ma non ora.”, disse Joanna,
“Non voglio rovinarti il pomeriggio.”
“Allora
di cosa vuoi parlare?”, le ampliò le
possibilità di scelta.
“Beh…
Come va il vostro nuovo album?”, deviò ancora una
volta lei.
Danny
scosse la testa, ma non avrebbe abbandonato la speranza, prima o poi
sarebbe
riuscito a tirar fuori dalla bocca della sua Little tutto quello che
teneva
dentro, ogni minima cosa. Sapeva che l’avrebbe potuta
aiutare, che avrebbe
potuto consigliarla.
E
sapeva che sarebbe stata un’impresa titanica, lei si ostinava
a tenersi tutto
dentro, senza trovare una valvola di sfogo. Lui l’aveva nella
musica, nel
suonare, ed ogni volta che prendeva la sua chitarra le riversava
addosso tutti
i problemi, le insicurezze e le tensioni, sentendosi poi leggero e
rilassato.
Little non aveva questo privilegio, ne era certo, e si chiedeva come
potesse
sopportare ogni giorno tutta la pressione che le gravava sulle spalle.
Doveva
farle capire che era lì per lei, che ci sarebbe sempre stato
nonostante la
grande distanza tra di loro e tutti i suoi impegni. Era più
forte di lui, si
era sempre comportato in quel modo con gli amici e non avrebbe cambiato
il suo
modo di essere per lei. Sperò che tutto quello non la
infastidisse, che non
pensasse che si stesse comportando da impiccione insolente.
No,
voleva semplicemente aiutarla. Farle capire che era lì per
lei. Con lei.
Si
rammaricava del fatto che non avessero potuto parlarsi molto, tranne
che per
e-mail, dove non si erano potuti dire tutto quello che avrebbero
voluto. Lui
stesso non le aveva parlato di tante cose... Volendo, quelle stesse
erano
pubblicate ovunque, magari Joanna le conosceva già ma non si
era mai espressa a
riguardo per discrezione.
“Com’è
che quando sei venuta via da Miki non sei tornata dai tuoi?”,
le chiese.
Voleva
battere quel chiodo e lo avrebbe fatto finché lei non si
fosse rivoltata, a
costo di farla arrabbiare. Non sapeva se nei prossimi giorni avrebbero
avuto
tempo per starsene con tranquillità a normalizzare il loro
rapporto, quindi ne
doveva approfittare.
Joanna
fu colta alla sprovvista, forse era stato un po’ troppo rude.
Ma doveva
continuare.
“Beh...
Sai, ormai non vivevo con loro già da tempo...”,
disse lei, “E non volevo
tornare alle loro dipendenze.”
Scusa
accettabile, poteva anche essere la verità.
“Anche
io avrei fatto come te.”, le rispose, “E’
la cosa più giusta. Spero che tuo
fratello non ce l’abbia troppo con me.”
Era
pura ironia.
“Oh...
Per niente!”, disse lei infatti, con tono sarcastico.
“E
come stanno i tuoi? Non me ne hai mai parlato.”, le fece.
Era
vero, non sapeva niente dei suoi genitori. Né come si
chiamassero, né che
lavoro facessero, niente.
“Bene.”,
tagliò corto lei, “Tua madre ha fatto un buon
ritorno a casa?”
Eccola
che di nuovo deviava la palla. Fossero stati in mezzo ad una partita di
calcio,
lei sarebbe stata una punta di diamante nella difesa.
“Sì,
anche se mia sorella ha le capacità di guida di Mister
Magoo.”, le rispose,
sorridendo.
Adesso
volle però provocarla.
“Non
mi chiedi come mai non c’era anche mio padre?”, le
fece.
Lei
aggrottò la fronte, guardandolo con espressione
interrogativa.
“Beh,
quella domanda me la sono posta, eccome.”, disse Little,
“Ma non te l’ho fatta
perché non sapevo se tu volessi parlarmene o no. Tutto
qui.”
Se
diceva così, il motivo era solo uno: lei non sapeva
veramente niente di lui, a
parte le poche cose che lui stesso le aveva detto. Non andava in giro
per siti
in cerca di informazioni sul suo conto?
“Cosa
gli è successo?”, domandò quindi Joanna.
Ogni
volta che tornava col pensiero in quella direzione, era sempre un nuovo
buco
nel cuore.
“Se
n’è andato di casa con
un’altra.”, disse, “Pubblicizzandolo sui
giornali.”
Lei
rimase in silenzio.
“E’
successo mentre ero in America a girare il film Just My Luck.”,
le
spiegò, “E non è stata una bella mossa,
da parte sua. O meglio, da parte della
sua amante.”
Con
la frequenza di una parola sì ed una no le lanciava
occhiate, per leggere cosa
le passasse per la testa. Forse aveva perso la capacità di
vedere i pensieri
affiorare nei suoi occhi verdi, forse lei aveva imparato a nascondersi
bene...
Non
vide niente, solo un po’ di smarrimento e di disagio.
“Io
e Vicky abbiamo anche scritto una canzone sull’argomento...
Lo sapevi?”, le
chiese. Quella era la prova del nove: mentiva, oppure ne era totalmente
all’oscuro. E si fidava troppo di lei per pensare che Joanna
stesse facendo il
doppio gioco.
“No...
Dovrei conoscerla quella canzone?”, fece lei, arrossendo.
“Beh
sì, è Don’t know why.”,
le rivelò, con un sorriso.
Joanna
parve mettersi a riflettere.
Canticchiò
silenziosamente le parole più significative, impresse nella
sua memoria.
I don’t want
to know your game, let alone her name.
No matter what you say to me, we are not the
same.
Why do you make me cry? Try to
justify…
Don't right your wrong with my mistakes
’cause my head's held high...
“Già...”,
disse poi, “Se ci avessi riflettuto bene, avrei potuto
capirlo da sola.”
“Ecco
quindi perché mio padre non c’era.”, le
fece sorridendole, e chiudendo la sua
questione personale.
“Mi
dispiace, Dan.”, fece lei, mettendosi una mano sul petto,
“Non ti meriti una
cosa del genere.”
“Ma
è successa.”, scrollò le spalle,
“Così come è successo che una ragazza
mi abbia
venduto ai giornali dopo essere venuta a letto con me.”
Joanna
diventò paonazza.
“Davvero,
non sto mentendo!”, le fece, “Questa è
andata a dire che lo faccio tenendomi i
calzini!”
Lei
scoppiò in una risata, coprendosi gli occhi con una mano, in
imbarazzo. Si
ricordava dell’ultima volta in cui si erano stati insieme,
nella sua camera
d’albergo, e quell’argomento aveva avuto su di lei
lo stesso identico effetto
di tanto tempo fa.
“Ma
lasciamo perdere.”, disse, ripristinando la situazione,
“Adesso ti va di stare
un po’ in acqua?”
“Tra
un po’... Forse.”, rispose lei, cercando di
sembrare convincente.
“Eh
no!”, si oppose lui.
L’avrebbe
buttata in acqua addirittura vestita. La prese in braccio.
Era
sempre più leggera.
“Mettimi
giù!”, protestò lei.
Si
avvicinò al bordo della piscina e, nonostante lei si fosse
stretta al suo
collo, supplicandolo di lasciarla tornare a terra e guardando
l’acqua con
timore, se ne liberò.
Gli
schizzi freddi lo bagnarono, mentre rideva dello scherzetto.
L’acqua
fredda la gelò in un istante ed immediatamente un brivido la
scosse dalla testa
ai piedi, bloccandole i muscoli. Il respiro si fermò in
petto, inghiottito
insieme all’acqua della piscina. Affondò dentro il
liquido trasparente,
riusciva ad aprire gli occhi a fatica, sentendoli bruciare dal cloro.
C’era
solo un piccolo problema.
Si
chiese dove fosse il pavimento della piscina, non riusciva a toccarlo
con la
punta delle dita, annaspava con forza in cerca d’aria.
L’acqua le entrava con
prepotenza nella bocca, non riusciva a sputarla via, i polmoni erano
secchi
dentro di lei.
Muoveva
le gambe ma ogni volta le sembrava di andare sempre più a
fondo, sempre più
giù. Vedeva solo le ultime bolle d’aria passarle
davanti, le sentiva uscire via
dal naso e dalla bocca, incapace di trattenerle per salvarsi la vita.
Sentì
come un’onda d’urto, uno spostamento della massa
liquida intorno a lei. Un
braccio la afferrò con decisione intorno ai fianchi e la
superficie dell’acqua
arrivò in un baleno. L’aria, e non
l’acqua, si fece spazio dentro alle sue
narici, dentro alla gola, e prese a tossire con una violenza che non
aveva mai
trovato dentro di sé.
Danny
l’appoggiò contro al bordo della piscina,
continuando a sostenerla mentre
riversava fuori l’anima a colpi di tosse, respirando come se
fosse stata
affetta dall’asma più virulenta.
“Little...
Calmati, Little...”, le diceva.
Calmati
un cazzo, mi stavi ammazzando!
Ci
volle un po’ prima che Joanna si sentisse in grado di alzare
gli occhi dalla
grata di plastica che contornava tutta la piscina e li posasse su
quelli di
Danny, con rabbia.
“Non
so nuotare!”, gli disse, con voce roca per lo sforzo,
“Ecco perché non volevo
fare il bagno!”
“Beh...
Scusami.”, rispose lui, con aria colpevole.
In
quel momento ebbe la voglia di dargli uno schiaffo, non seppe per quale
motivo
si trattenne dal farlo.
Forse
perché è a trenta centimetri dalla tua faccia?
“Esagero
sempre con gli scherzi che ti faccio.”, disse,
“Perdonami ancora.”
“Lascia
stare.”, gli disse, con tono scocciato.
Non
gli resisteva, era ufficiale. E prese subito a rammaricarsene.
Avrebbe
fatto meglio a dirgli che era il caso di lasciare tutto e tornare a
casa, non
doveva continuare a starsene lì sapendo che ne avrebbe
sofferto e basta. Si
fece coraggio e, dopo un nuovo colpo di tosse, prese un bel respiro.
Sperò che
l’aria intorno a lei contenesse un po’ di
spavalderia, cosa che a Danny non
mancava mai e che lei invece non aveva nemmeno per un solo briciolo.
“Senti,
Danny...”, gli fece, attirando la sua attenzione.
“Togliti
questa maglietta, altrimenti ti bloccherà ogni
movimento.”, disse lui, senza
ascoltarla.
No,
la maglietta non si tocca.
“Aspetta
un attimo.”, lo bloccò.
“E
prenderai il sole a chiazze!”, perseverò lui,
ridendo, “Sembrerai un muratore.”
“Danny!”,
esclamò Joanna, “Mi vuoi ascoltare?”
“Dimmi
tutto, Little.”, fece lui.
Era
così vicino che non poteva fare a meno di guardarlo negli
occhi. Se ne stava
col braccio appoggiato sul bordo, piegato, la mano che penzolava
nell’acqua.
L’altro, invece, ancora sostava intorno ai suoi fianchi, con
una presa decisa
ma comunque delicata.
Forse
era il caso che lo togliesse, che si allontanasse da lei, liberandola
dalla sua
presenza... Che posasse altrove i suoi occhi troppo blu, che non le
sorridesse
più, che non continuasse a starsene lì,
bagnato... Che la buttasse fuori di
casa, che la odiasse e che non le volesse più parlare.
Così almeno se ne
sarebbe fatta una ragione, si sarebbe definitivamente rassegnata ed
avrebbe
concentrato la sua attenzione altrove, non su di lui.
Sospirò,
incrociando le braccia sulla grata di plastica e appoggiandosi su di
essa.
“Allora?”,
le fece lui.
“Niente,
solo una stupidata.”, si limitò a dire.
“Dai,
parlamene pure.”, insistette lui, “Lo sai che non
aspetto altro che tu mi
parli.”
“Ti
volevo... dire che...”, farfugliò Joanna,
lasciando perdere le lentiggini sul
suo viso, “Ho la pelle delicata, non posso togliermi la
maglietta.”
Inghiottì
il magone in gola.
“Sì,
la tua pelle è talmente chiara che si scotterebbe
subito.”, annuì lui,
“Comunque se vuoi ho un po’ di crema
solare.”
“Ne
sono allergica.”, assestò definitivamente
l’ultimo colpo.
“Allora
come vuoi, Little!”, si accontentò lui,
“Adesso ti porto dove puoi toccare il
fondo, qua l’acqua è profonda quasi due metri e
mezzo.”
Joanna
impallidì.
“Sali in
spalla.”, le fece Danny, mostrandole
la schiena.
Chiuse
le braccia intorno al collo e le gambe intorno alla vita di Danny che,
senza un
briciolo di fatica, iniziò a scorrere lungo il bordo della
piscina. Una volta
che anche i suoi piedi toccarono il fondo piastrellato di celeste, si
fermò,
lasciandola libera di riprendere fiato e di calmare le palpitazioni da
infarto.
“Com’è
che non sai nuotare?”, le chiese.
“Preferisco
la montagna.”, spiegò.
Non
aveva mai avuto il coraggio di imparare a nuotare, eppure non odiava
l’acqua e
non ne aveva paura. Semplicemente era sempre stata troppo pigra per
andare in
piscina e mettersi in costume... O forse aveva sempre avuto qualche
livido
addosso che non voleva mostrare ad occhio insolente.
“Dici?
Io adoro il mare.”
“Non
che mi dispiaccia, anzi.”, approfondì Joanna,
“E’ che sono sempre stata in
vacanza sulle montagne... Qua, in Francia, in Svizzera.”
“Beh,
le montagne sono belle, ma preferisco nettamente il mare.”,
ripeté lui.
Allungò
una mano sul pelo dell’acqua e ne alzò un
po’, schizzandola.
Scherzi
idioti: dieci e lode, Danny Jones promosso all’anno
successivo.
“Perché
non rifarsi del principio di annegamento con una gara di
schizzi?”, ironizzò
Joanna, controbattendo.
“Non
mi batterai mai...”, sibilò Danny.
I
muri d’acqua che alzarono l’uno contro
l’altra erano troppo alti ed
impenetrabili. Si voltarono di spalle ridendo, cercando di mirare nel
punto
giusto, con le mani frenetiche che cercavano di sollevare
più schizzi
possibili.
“Te
l’avevo detto!”, gridava Danny, cercando di passare
oltre al loro rumore, “Non
mi batterai mai!”
“Certo
che ti batto!”, rispose lei, sebbene le braccia fossero
già indolenzite.
Premeva
contro l’acqua più che poteva, finché
non si sentì prendere per i fianchi e
sollevare di nuovo, ferma nella presa forte di Danny.
“E’
troppo facile farti volare!”, le disse lui, ridendo, e
facendola tornare a
terra, o meglio, nell’acqua, “Sei una piuma,
dovresti mangiare di più.”
Joanna
ne approfittò per guardare le sue braccia. In confronto a
quelle di Danny,
sembravano quasi degli stuzzicadenti di scarsa qualità.
“Eppure
ti ho vista mangiare...”, continuò Danny,
“Se Tamara mangiasse tanto quanto te,
sarebbe una mongolfiera.”
Joanna
scoppiò in una risata, placata all’istante per non
passare da maleducata.
“Oh,
grazie mille.”, qualcuno tuonò.
Si
voltarono entrambi, trovando una Tamara abbastanza infastidita sul
bordo della
piscina.
“Hey!”,
esclamò Danny, cercando di muoversi velocemente
nell’acqua, abbastanza goffo.
Zittì
la vocetta in piena ribellione dentro di lei e la salutò,
cercando di non
sentirsi colpevole per aver passato degli ottimi momenti con il suo
fidanzato,
nonché convivente.
“Ciao
Tamara!”, le fece, aggiungendo anche un sorriso ed un cenno
della mano.
Sì,
sembrò amichevole perfino a se stessa.
“Salve!”,
rispose lei.
Inaspettatamente,
sembrava quasi contenta di vederla.
“Com’è
che sei tornata così presto?”, le
domandò Danny, uscendo dalla piscina.
“Avevo
voglia di stare un po’ a casa.”, rispose lei, con
tranquillità, “Magari
potremmo portare Joanna un po’ in giro per Londra. Che ne
dici?”
“Buona
idea!”, esclamò Danny, posando lo sguardo su di
Joanna, “Cosa ne dici?”
Joanna
non sapeva cosa rispondere. La sera precedente Tamara le aveva fatto
chiaramente capire di non essere gradita, ora faceva tutta la gentile
con lei.
Già,
c’era Danny.
E
allora perché darle soddisfazione?
“Beh...
Non so, forse è meglio un altro giorno.”, rispose,
“Mi devo fare la doccia, poi
ho da fare diverse chiamate...”
L’immagine
di quei due, mano nella mano, le fece venire una certa nausea.
“Ne
sei sicura?”, le domandò Danny, “Guarda
che potremmo anche rimanercene fuori a
cena, in città.”
“Per
la miseria, no!”, esclamò, incontrollabile.
Che
cazzo dici!
“Cioè...
Ehm, volevo dire”, si ripristinò Joanna,
“Per la miseria no... Nel senso che...
Insomma, magari Tamara è stanca... E io poi non ho dormito
bene stanotte...”
“Come
vuoi tu.”, le disse Danny, con un sorriso,
“Comunque dobbiamo prepararci bene
per domani!”
“Perché?”,
domandò Tamara, seguita a ruota dallo sguardo interrogativo
di Joanna.
“Siamo
tutti invitati a casa di Tom per un pranzo.”,
spiegò lui, contento, “Cucinerà
Gi, non sai quanto sia brava, ci sarà da star male per tutto
il pomeriggio.”
All’istante,
Joanna si sentì angustiata. Era felice per
l’invito, molto felice...
Finché
non si metteva a pensare a chi altri fosse stato esteso
quell’invito. Pregò con
tutta l’anima che Dougie fosse stato escluso, ma era sicura
che non era
successo.
“Ti
vuoi unire a noi? Vuoi fare un bagno?”, domandò
Danny a Tamara.
Joanna
si voltò per dare la loro privacy, mettendosi a
giocherellare con l’acqua, ma
comunque con l’orecchio teso verso i due.
“Oh
no, grazie, ho un paio di cose da sbrigare.”, rispose lei,
“E ti devo anche
parlare di un problema.”
“Mi
riguarda?”, le chiese, con tono preoccupato.
“Sì.”
“Allora
parliamone subito.”, le disse, “Rimani qua,
Little?”
Si
girò.
“Pensavo
di uscire, mi fa un po’ male la pancia.”,
mentì, non sarebbe mai e poi mai
rimasta nella piscina da sola.
“Quanto
male?”, le chiese lui.
“Non
tanto.”, lo rassicurò.
“Se
tra un po’ dovesse farti ancora male, dimmelo. Ti do qualcosa
per fartelo
passare.”
“Ok.”,
annuì con la testa.
“Non
farlo peggiorare, mi raccomando, non essere timida.”
“E
dai!”, protestò Tamara, “E’
grande e vaccinata!”
Una
serie di insulti cifrati tempestarono la punta della lingua di Joanna,
ma lì
rimasero.
Seguì
Tamara fin dentro la loro camera, chiedendosi come mai avesse lasciato
il suo
amato lavoro per tornarsene a casa prima del solito. Lo aveva fatto
rare volte
ed ognuna di queste non aveva un
buon
posto nei suoi ricordi. Incrociò le dita nella speranza che
anche quella non
fosse da annoverare nella sezione ‘brutte litigate
senza apparente motivo’,
ma sapeva di non potervi fare tanto affidamento.
Quando
lei chiuse la porta Danny attese che si mettesse a parlare, che gli
esponesse
quale problema aveva avuto. Era certo che fosse stata solo una scusa ma
lei,
con tranquillità, si sedette sul letto.
Lui,
che aveva indosso solo un accappatoio preso dal bagno del pianterreno,
non fece
altrettanto per paura di bagnare la coperta, così si
limitò ad appoggiarsi al
muro. Vedendola restia nell’iniziare a parlare, la
esortò.
“Cosa
ti è successo?”, le domandò.
Lei
sospirò. Appoggiò i gomiti alle ginocchia e
immerse il viso tra le mani, segno
di una litigata imminente. Cercò di salvare il salvabile,
avvicinandosi e
inginocchiandosi davanti a lei.
“Va
tutto bene, Tam?”, le fece, chiamandola con quel nomignolo
che usava solo in
sua presenza, davanti a nessun altro.
“Non
lo so.”, rispose lei, “Dimmelo tu se va tutto
bene.”
Classica
domanda retorica.
Se
avesse risposto sì, lei lo avrebbe accusato di essere uno
stronzo. Se avesse
risposto di no, lei avrebbe rivoltato la frittata, rimproverandolo di
non aver
fatto niente per cambiare le cose. Ormai conosceva abbastanza le
dinamiche di
una discussione con una donna.
Preferì
non rispondere, in ogni caso sarebbe stato uno sbaglio.
“Lasciamo
perdere.”, sentenziò quindi Tamara, “Non
ti interessa capire.”
“Non
è che non mi interessi... E’ che semplicemente non
ci riesco se non mi parli.”,
le disse con sincerità.
“Basterebbe
che aprissi un po’ di più gli occhi per
capire!”, lo fulminò lei.
“Io
li apro e vedo solo te.”, le disse, “Se
semplicemente mi spiegassi cosa c’è che
non va, potremmo parlarne civilmente.”
“Tu
non ne vuoi parlare, lo so!”, protestò lei,
alzando il tono della voce.
Odiava
quando lei lo trattava in quel modo, non lo sopportava.
“No,
sei tu che non ne vuoi parlare!”, le rispose, “Io voglio
sapere che
cos’hai!”
Tamara
si alzò in piedi, sbuffando con forza.
“Vuoi
che te lo dica?”, lo provocò, incrociando le
braccia.
“Ovvio
che lo voglio!”
Lei
scosse la testa.
“Se
lo facessi davvero, non ci crederesti.”, disse Tamara.
“Parla.”,
la invitò Danny, sospirando di rassegnazione.
“Joanna
non mi piace.”, gli disse, secca, “Non riesco a
capire che cosa voglia da te.”
E
Danny davvero non credette alle sue parole.
“Ma
cosa stai dicendo!” , le fece.
“Sto
dicendo che Joanna è venuta in casa nostra con qualche scopo
particolare... E
sicuramente la mia presenza l’ha distratta!”
La cosa
che lo faceva più incazzare era che Tamara, fino a quel
momento, non aveva mai
parlato di Joanna in quel modo. Non l’aveva invitata dentro
casa loro, anzi,
casa sua, senza che lei sapesse niente. Gliene
aveva parlato per un
mese, lei non si era mai opposta e, oltretutto, aveva anche mentito.
Avrebbe
dovuto essere sincera con lui.
“Tam,
stai dicendo un mucchio di fesserie...”, le disse, col tono
più calmo che
poteva trovare.
“Apri
gli occhi!”, sentenziò, prima di chiudersi in
bagno.
La
discussione era finita, ora poteva anche andarsene.
Danny
si portò una mano sulla fronte, aveva improvvisamente
bisogno di qualcosa per
il mal di testa: un aspirina, un antidolorifico per tori... Qualsiasi
cosa. Era
inutile rimanere lì dentro, ed uscì dalla camera.
Fece
due passi a testa china, gli occhi che bruciavano per le pulsazioni del
sangue
nelle tempie e quando li alzò trovò Joanna, ferma
sulla porta della sua stanza.
“Hey...”,
le fece, “E’ tutto a posto?”
Se
ne stava lì, a reggere il pomello, con aria preoccupata.
“Beh...
Sinceramente no.”, rispose, ed esalò un lungo
respiro, “Danny, forse è
veramente il caso che io torni a casa, mi sento di troppo qua
dentro.”
Strabuzzò
gli occhi, era incredibile quante cose assurde avesse sentito nel giro
di pochi
secondi.
“E
perché dovresti sentirti di troppo?”, le disse,
avvicinandosi a lei, che
prontamente si ritirò.
Sperò
che non avesse sentito nessuna delle parole di Tamara.
“Perché...
Insomma, tu... Tamara...”, disse, chiudendosi nelle spalle,
“Avete litigato...”
Indicò
con lo sguardo la porta di camera sua, alle sue spalle. Ecco, aveva
sentito
tutto. Danny sospirò ancora, chiedendosi che cosa avesse
fatto di male per
causare tutto quello.
“Little,
non ti preoccupare, tu non sei mai di troppo.”, le disse, ma
sapeva che sarebbe
stato inutile, “E’ che Tamara ha avuto una pessima
giornata... E se la rifà
sempre con gli altri, tu non c’entri niente.”
“No,
Danny, c’entro eccome.”, disse lei, premendo la
mano sulla maniglia ed aprendo
la camera.
La
seguì dentro.
“No,
Little, lascia perdere...”, le fece.
Aveva
già messo mano alla sua valigia, prendendola e mettendola
sul letto. Doveva
fermarla. Le prese le mani, bloccandola.
“Little,
lascia perdere Tamara, ha avuto solo una delusione sul
lavoro.”, le ripeté,
anche se non era la verità, “Se
l’è presa con te perché è
arrabbiata... E
quando lo è, spesso non si rende conto di quello che
dice.”
“No,
Danny, lei sa perfettamente di cosa sta parlando.”, gli
rispose, liberandosi
delle sue mani. I suoi occhi erano più arrabbiati di quanto
volesse far vedere.
Si
ribellò, le tolse le mani dal bagaglio, che trafficavano per
fare spazio tra i
suoi vestiti, e le bloccò di nuovo.
“Rimani.”,
le disse, guardandola dritta negli occhi, “Ti giuro che
andrà meglio.”
Fino
a quel momento aveva resistito alle sue parole, alle sue mani sulle
proprie. Ma
la coltellata finale, arrivata dritta sulla schiena,
gliel’aveva data
guardandola in quel modo. No, non poteva essere così
meschino, non poteva
volerle così male da supplicarla con quegli occhi.
Diventasse
improvvisamente privo di quelle due armi di distruzione di massa!
Non
era possibile dirgli di no.
“Va...
Bene.”, disse, controvoglia.
Abbassò
lo sguardo sui suoi piedi, almeno quelli non erano attraenti, ed
incrociò le
braccia, stufata e incazzata con se stessa. Aveva trovato la forza
giusta per
fare le valige ed andarsene, pescandola nelle parole dette ad alta voce
da
Tamara. Lui non poteva permettersi di far crollare quella fortezza con
un
semplice sguardo.
“Grazie.”,
le disse, abbracciandola, “Perdonala, se puoi, posso
assicurarti che non è
sempre così.”
Contaci.
“Ok.”,
gli disse, asetticamente.
Ignorò
il bacio che le dette sulla testa, ignorò la sua mano che
passò lungo la
schiena, per tranquillizzarla. Ignorò il fatto di essere
praticamente ancora in
costume, con solo l’asciugamano legato sul petto, e la
maglietta nera zuppa
d’acqua indosso.
Lasciò
perdere tutto, era immersa in quell’abbraccio.
And that’s when I realized, you had
me hypnotized…
La
strofa di quella canzone rimbombò ancora nelle sue orecchie,
concludendosi con
i gorgheggi finali del coro e con gli ultimi battiti della musica.
“Andiamo,
facciamoci una doccia e vediamo come risolvere la serata.”,
disse Danny, con
tono stanco.
“Io
me ne rimango qua in camera.”, rispose Joanna,
“Devo chiamare Arianna... Con
calma.”
Era
un modo per dirgli che si voleva tirare fuori dalla questione, che non
sarebbe
scesa fin quando i suoi problemi con Tamara non fossero conclusi. Non
era
venuta lì con l’intenzione di riprendersi
ciò che era suo, perché niente le era
mai appartenuto. Fino a prova contraria in quella casa non
c’era niente di sua
proprietà, tranne il contenuto della sua valigia... Danny era di Tamara, fine
della questione, e
lei aveva sempre rispettato i confini degli altri. Che cosa ne avrebbe
guadagnato altrimenti? Niente, solo ulteriori seccature e problemi, ed
aveva
già le sue complicazioni personali da sopportare, non ne
voleva altre.
“Come
vuoi, Little, come vuoi.”, le disse Danny, sorridendole,
“Io vedo di darmi una
sistemata, ti chiamo per cena.”
“Perfetto.”
Aveva
capito.
Attese
che lui lasciasse la stanza, sorridendole ancora prima di chiudere la
porta, e
si sedette sul bordo del letto, sconfitta. Si alzò solo per
prendere il
telefono e comporre il numero di Arianna.
“A
che ora arrivi?”, squillò subito la
donna, saltando il rituale pronto.
“Alla
fine di questa vacanza.”, le rispose.
“No,
intendevo a che ora arrivi all’aeroporto oggi.”,
ripeté Arianna, non
comprendendola.
“Non
lo farò... a meno che non riesca a liberarmi di quel
mostro.”, si specificò
meglio Joanna.
“Dio,
Jo, togliti da quella casa!”, sbottò
subito Arianna, “Ne uscirai a
pezzi!”
“Lo
so...”, sospirò Joanna, “Ma cosa devo
fare!”
“Prendere
il primo aereo e tornare a casa, stupida!”, la
rimproverò sonoramente
Arianna, “Adesso!”
“Volevo
dire: cosa devo fare per togliermelo dalla testa...”
“Smettere
di pensarci.”, la liquidò Arianna,
“Ora fai la valigia e torna a casa.”
“Ci
sentiamo domani.”, chiuse subito la chiamata.
Sbuffò,
rassegnata, e ripose il cellulare sul comodino, spegnendolo. Si era
cacciata in
un vicolo cieco, un dead end inaspettato.
Entrò in bagno e, dopo essersi
liberata del costume e della maglietta bagnata, si infilò
sotto la doccia.
Sotto
lo scorrere fluido e caldo dell’acqua, rifletté.
Non
aveva avuto molto tempo di meditare su come mai la madre di Danny si
fosse
presentata da sola, senza nessuno al suo fianco, aveva avuto altre
questioni da
valutare e sintetizzare, molto più pressanti di quella, ma
aveva catalogato
un’eventuale riflessione in argomento nella sua lista di cose
tra fare, tra cui
si trovava anche il già citato ‘Parlare
ad Arianna e a Danny di mio padre’,
ed anche l’inedito ‘Visto che domani
vedrai sicuramente Dougie, dagli un
secondo calcio nelle palle, più forte del primo e rompergli
un altro basso’.
Sbuffò,
rimuovendo quel personaggio dai sui pensieri.
E
quindi, anche con Danny aveva in comune il condividere particolari
genetici con
persone da dimenticare.
Così
come con Dougie.
Premette
un immaginario tasto canc che fece volatilizzare di
nuovo la sua faccia,
incuneatasi senza permesso tra le sue riflessioni. Eppure non fu in
grado di
evitare che quella immagine si ripresentasse, portando con
sé una domanda.
Perché
era stato così facile parlare di suo padre con Dougie,
mentre non trovava la
forza per fare altrettanto con Danny?
Seguendo
un percorso logico che aveva ritenuto infallibile, giustificava
l’aver
confessato la sua vita a Dougie non solo perché si era
fidata di lui, ma anche
perché avevano avuto quell’aspetto paterno in
comune. Per cui, dato che gli
stessi due elementi si era ripresentati con Danny... Come mai ancora
non gliene
aveva parlato?
Eh
beh, eri sicura di farlo finché non si è
presentata la variabile Tamara.
Sì,
poteva essere possibile. Quando l’aveva vista comparire, con
il suo bel sorriso
smagliante e gli occhi verdissimi, erano cadute tante certezze, tra cui
anche
quella. Se ne convinse e terminò la doccia, interrompendo il
getto caldo
dell’acqua. Si asciugò i capelli, si
vestì e si sdraiò sul letto. Chiuse gli
occhi quasi subito, cadendo in un leggero torpore.
La
risvegliarono i colpi alla sua porta. Era arrivata l’ora di
cena.
L’ora
del supplizio.
La
fame che aveva le passò all’istante.
Non
aveva risolto la litigata con Tamara, né la scocciatura di
Little. Non aveva
risolto niente e non riusciva a capire per quale motivo dovesse
preoccuparsi di
qualcosa che era nato dentro la testa della sua fidanzata, senza motivo.
Non
le piaceva Joanna, perfetto.
Non
se lo sarebbe aspettato, ma doveva prenderne atto. Non comprendeva
però per
quale motivo lei gli avesse detto che Little volesse qualcosa da lui;
il
problema esisteva solo nella testa di Tamara e lei non aveva la
benché minima
intenzione di parlargliene.
Per
tutta la cena, infatti, se n’era stata in silenzio a guardare
la televisione.
Non era riuscito a trascinarla in alcuna conversazione, né
sarebbe stato
sensato innervosirsi ancora con lei, soprattutto davanti a Joanna.
Anche lei,
oltretutto, non aveva trovato mai la forza per andare oltre ai
monosillabi ed
ai sorrisi, ed alla fine Danny aveva lasciato ogni intento di
ristabilire una
situazione persa.
Si
era stancato talmente tanto che si congedò con una scusa
qualsiasi, lasciando
la sala da pranzo per stendersi sul letto. Sebbene avesse preso
qualcosa il mal
di testa tornato a ripresentarsi, anche più forte di prima,
ed aveva bisogno di
dormire.
Riuscì
a chiudere occhio ed a disconnettere il cervello.
Si
risvegliò di lì a poco, non appena il letto si
mosse, accogliendo anche il peso
di Tamara.
“Che
ore sono?”, le domandò, stropicciandosi gli occhi.
“Le
undici.”, rispose lei, in tono asettico.
“Sei
ancora incazzata?”
“Sì.”
“Perfetto.”,
rispose, alzandosi e lasciando la stanza.
Prima
però prese la sua chitarra, appoggiata alla costola
dell’armadio, e scese in
soggiorno. Ormai il mal di testa se n’era andato, ma non i
nervi a fior di
pelle: sicuramente qualche nota notturna lo avrebbe rilassato, avrebbe
voluto
aggiungerci volentieri anche una birra. Appoggiò la
bottiglia sul tavolino e si
mise a suonare qualcosa.
Improvvisamente,
il motivetto che aveva composto quella mattina stessa gli
tornò in mente. Era
l’ora di ampliarlo, magari ne sarebbe venuto fuori qualcosa
di buono. Come le
ciliegie, una nota tirò l’altra e ben presto il
motivetto era diventata una
canzone assodata dei McFly, poi un’altra sentita qualche
giorno prima alla
radio, una del Boss, una di Eva Cassidy ed infine una degli Aerosmith,
di cui
non ricordava né il titolo né le parole.
Si
era rilassato così tanto che, per comodità, si
era steso completamente sul
divano, lasciando a penzolare fuori una gamba, e teneva la chitarra
sulla
pancia.
“Dan...”,
si sentì chiamare.
Appoggiò
il suo strumento a terra e si alzò, passando oltre alla
spalliera del divano.
“Little...”,
le fece, stranito, “Che ci fai in piedi a
quest’ora?”
“Beh...
Facevi troppo rumore e non riuscivo a prendere sonno.”, disse
lei, “Non è che
si potrebbe abbassare il volume della tua chitarra?”
Rimase
qualche attimo perplesso, poi sbuffò in una piccola risata.
“Sì,
tranquilla.”, le rispose, “Mi stavo quasi per
addormentare, avrei smesso di
suonare comunque.”
“Ok...
Grazie.”, disse lei.
Gli
fece un cenno della mano e riprese la via della sua stanza.
“Little?”,
la richiamò.
“Sì?”,
fece lei, fermandosi.
“Possiamo
scambiare quattro chiacchiere?”, le domandò,
“Se non hai troppo sonno...”
“Me
lo hai tolto suonando Walk This Way.”,
rispose lei sorridendo, e
ricordandogli così il titolo della canzone che aveva
esplorato fino a qualche
attimo prima.
“Conosci
questa canzone?”, le fece, incuriosito.
“Certo,
ed anche bene, mi piacciono molto gli Aerosmith.”, disse lei,
venendosi a
sedere accanto a lui.
“Non
ho mai capito quale tipo di musica tu sia capace di
ascoltare!”, esclamò,
riflettendo brevemente sulla veridicità di quella
affermazione.
“Hai
presente quella che passano alla radio?”, disse lei, con tono
scherzoso.
“Oh...
Sì.”
“Ecco,
niente del genere.”, rispose lei, aggiungendo una risata
simpatica.
“Perfetto,
allora andremo d’accordo.”, concluse con quello il
breve excursus sui suoi
gusti musicali.
Cercò
di fare mente locale: anche se non aveva previsto quella conversazione,
sapeva
benissimo cosa chiederle.
“Ti
posso fare una domanda schietta?”, le chiese.
“Fai
pure.”
Sembrava
calma, addirittura si era accomodata sul divano.
“Che
cosa pensi di me, Little?”
Lei
aggrottò la fronte, sicuramente si stava chiedendo quale
fosse il significato
di quella domanda.
“Beh...
Penso che tu sia un buon amico. Un ottimo amico.”, rispose,
con incertezza, “Ma
perché me lo chiedi?”
Le
sorrise. Quella risposta era più che sufficiente per zittire
ogni possibile
ritorno di Tamara in argomento.
“Perché
per un attimo ho pensato che non mi sopportassi.”, le disse.
“Oh,
se ci penso bene, farei meglio a trovarmi qualche altro amico, oltre
che a
te.”, rispose lei, ridendo.
Fece
una finta faccia scandalizzata, roteò gli occhi e
spalancò la bocca.
“Buonanotte
Dan.”, gli disse Joanna, alzandosi e lasciandolo ad
arrabbiarsi da solo,
scherzosamente.
My
mamma
don’t told me,
when I was in pigtails...
My mama don’t told me, oh...
Si
buttò sul letto, braccia aperte, faccia in giù.
‘Che
cosa pensi di me, Little?’
‘Beh...
penso che tu sia un buon amico. Un ottimo amico.’
Era
la semplice verità, una constatazione di fatto. Danny sapeva
essere un ottimo
amico: l’aveva sostenuta quando era triste, l’aveva
fatta ridere quando aveva
voluto piangere. Tutto questo solo grazie alle parole scritte nelle sue
mail.
A
man is a
two-face, he'll
give you the big eye...
Quando
le aveva lette, nella sua testa era sempre echeggiata la sua voce calda
e
profonda. Aveva sentito la sua risata, le sue esclamazioni proverbiali.
Tutto,
come se accanto a lei ci fosse sempre stato lui.
And
when the
sweet talking's done.
E poi...
A
man is a
two-face,
a worrisome thing who'll leave you to sing
the blues in the night...
Eccomi
arrivata, ho aggiornato! Una volta a settimana, il
lunedì
è il mio giorno, ho deciso così. Vi riposate nel
fine
settimana, poi arrivo io con il mio nuovo capitolo XD e i sette giorni
saranno migloio! Faccio pena.
Il titolo di questo capitolo è una canzone originariamente
di
Eva Cassidy, forse molte di voi non la conosce né ne ha mai
sentito parlare. Fino a sei mesi fa ero nella vostra situazione, ma la
sentii nominare da Danny, che ne parlava molto bene come artista blues.
Personalmente, adoro il blues e mi aiuta a scrivere, quindi ho
approfittato del suo consiglio ^^
Comunque, questa versione di "Blues in the Night" è di Katie
Melua, altra cantante blues, ed è anche la canzone che cito
in
fondo al capitolo.
Ovviamente tutto senza scopo di lucro, così come per "Walk
This
Way" degli Aerosmith e "Don't Know Why" dei soliti vecchi e cari McFly.
Nel caso in cui mi fossi scordata di qualche credit, dico: qualsiasi
fatto/canzone/vip citato in questo capitolo non è nominato
per
scopo di lucro.
Ringrazio tutte voi, mie care lettrici *.* stavolta siete state
più numerose del solito :) e grazie anche alle totali
inaspettate!
Vi bacerei tutte, ma per il momento mi limito a darvi un abbraccio.
A chi ha avanzato l'ipotesi Jo-Harry... Avete presente cane e gatto?
Beh, ogni tanto anche quei due fanno pace... Ma se ne dimenticano
presto!
E poi la mente di Joanna è troppo impegnata da
quell'operaio, come l'ha definito Ciribiricoccola...
Spero di non deludervi, anche se è molto presto per dirlo.
Finora la storia è piuttosto statica, nel senso che deve
succedere quello che deve succedere... Tutto nel prossimo capitolo XD
Ci leggiamo!
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Capitolo 5 *** A Girl Disappearing ***
Specchio,
specchio delle mie brame, dimmi chi è la più
deficiente di tutto il reame.
Si
stava dando gli ultimi ritocchi davanti al fidato specchio, appena
interrogato
con quel facile quesito, e poi sarebbe stata pronta per partire.
“Little?”,
si sentì chiamare da Danny, che si era pudicamente
affacciato alla porta di
camera sua, lasciata da lei appositamente semi aperta.
“Un
attimo solo.”, disse.
Prese
un profondo respiro ed uscì dal bagno, prendendo la piccola
borsa che sostava
in attesa sul letto.
“Bene,
siamo pronti per partire.”, disse lui, sfregandosi le mani
contento.
Un
paio di sottili linee scure contornavano i suoi occhi blu, non doveva
aver
dormito bene quella notte, si notava bene.
“Nottataccia,
Dan?”, gli fece, non trattenendo quella domanda.
“Si
vede, vero?”, disse lui, sbuffando.
“Dai,
tranquillo, stai bene lo stesso.”
Maledetta
fu quella semplice frase e il momento in cui la disse. Tamara, sbucata
alle sue
spalle, non la prese bene. Anzi, non la prese affatto, era sfrecciata
accanto a
loro senza fiatare.
“Siamo
in ritardo.”, disse poi.
Danny
le lanciò uno sguardo paziente ed alle spalle fece un cenno
sconsolato, prima
che entrambi scendessero le scale. Approfittarono per fare quattro
passi
nell’aria già calda, la casa di Tom distava pochi
metri da lì, il pranzo li
aspettava.
E
non solo il pranzo...
Le
venne da affrettare il passo. Avrebbe voluto mettere le ali ai piedi e
volare
oltre la manica, ma non era Mercurio e non aveva approfittato dei saldi
per
farsi un bel paio di scarpe pennute.
“Di
qua.”, le fece Danny.
Talmente
era di fretta che non si soffermò nemmeno sulla facciata
della casa, che
comunque le sembrò nettamente più rossastra di
quella di Danny. Suonarono il
campanello, bussarono anche alla porta. Il loro terzetto sembrava il
più
indaffarato del mondo, tutti e tre avevano qualcosa di fastidioso
dentro le
scarpe.
Li
accolse una sorridete Giovanna, in una canottiera bianca e pantaloncini
corti,
il tutto nascosto sotto un lungo grembiule colorato, macchiato in
più punti.
“Ecco
gli ultimi arrivati!”, esclamò, volgendo
lievemente la testa verso l’interno
della casa.
“Siamo
davvero gli ultimi?!”, domandò Tamara, incredula.
“Sì,
proprio gli ultimi!”, le confermò di nuovo la
ragazza, scostandosi
dall’entrata, “E scusate se non vi saluto come si
dovrebbe, ma sono abbastanza
impresentabile!”
“Figurati!”,
disse Danny, con tono amichevole.
Lei
per ultima, i due per primi, entrarono dentro casa Fletcher: molto
bianca,
chiara e solare, così come chi vi abitava dentro. Prima d
tutto, Joanna notò la
luminosità del soggiorno, la prima grande stanza in cui
entrò. Dalle ampie
vetrate alla parete si vedeva tutto il retro della casa, contornato da
una
siepe simile a quella di casa Jones. Non ebbe tempo per soffermarsi
molto che
un braccio le passò sulla spalla.
“Per
caso il tuo amico è ancora incazzato con noi due per la
storia del temporale?”,
fece Harry, sorridendole scherzoso.
“Non
più con me...”, rispose Joanna, ridendo.
Non
si erano più visti dall’altro ieri e si erano
lasciati che erano tutti molto
sulle furie.
Danny,
che l’aveva preceduta, si voltò per osservarli.
Rimase qualche breve istante in
silenzio, la bocca si chiuse il sorriso con un espressione piatta.
Passò una
mano sulla fronte, sistemando il ciuffo che la copriva, e si
avvicinò.
Harry
fece cadere il braccio dalla sua spalla, attenendo una parola da lui.
Dal canto
proprio, Joanna non aveva avuto niente da ridire ad Harry stesso, e la
propria
questione con Danny era già stata risolta.
“Scusa.”,
disse Danny, mormorando la parola in un sospiro,
“L’ho fatta troppo lunga per
un temporale.”
Harry
sbuffò.
"E'
andata bene.”, borbottò il batterista,
“L’ultima volta che ti sei incazzato
con me mi hai portato il muso per una settimana!”
“Ti
ricordo che in quella famosa ultima volta hai preso in prestito la mia
macchina
e l’hai riconsegnata con un faro rotto!”,
specificò prontamente Danny.
“Non
è stata colpa mia! L’ho trovato
così!”, si difese Harry.
“E
perché quale motivo ti sei fatto prestare la macchina da
Danny?”, gli domandò
allora Joanna, incuriosita dal rinnovarsi di un vecchio battibecco dei
due,
subito dopo la conclusione dell’altro, “Non ne hai
una tua?”
Harry
si guardò intorno, come se fosse stato messo in un vicolo
cieco da quella sua
innocente domanda.
“La
sua cara auto era rimasta senza benzina.”,
specificò Danny, ridacchiando.
“Perché
il serbatoio era rotto!”, ripiegò subito il
batterista, “E non volevo saltare
in aria!”
“Ok,
la finite?”, irruppe Tom, troncando in due la discussione,
“Ci avete fatto
venire il mal di testa.”
Le
si avvicinò con un sorriso accogliente dei suoi, adornato di
un paio di
fossette sulle guance e la fece accomodare, togliendola dalle mani dei
due
contendenti.
“Come
va, Jo?”, le domandò.
“Tutto
a posto.”, gli rispose.
“Oh
bene, da come Jones l’aveva fatta lunga pensavo che Harry ti
avesse
riconsegnata piena di lividi ed escoriazioni.”, le disse
ridendo, e strizzando
un occhiolino, “Ma vedo che stai piuttosto bene.”
“Grazie,
sempre gentile.”, gli fece, “Per caso Gi vuole una
mano in cucina? Non sono
molto utile, non so fare praticamente niente se non rompere bicchieri,
però
magari posso starmene in un angolo e non toccare niente!”
Era
nervosa. Terribilmente nervosa. Si sentiva così tesa che non
trovava niente di
meglio da fare che ironizzare su se stessa, trovandosi ridicola e di
cattivo
gusto.
Si
era guardata velocemente intorno, mentre le due J
-Jones e Judd- si
stavano rinfacciando screzi passati, e non aveva visto
nient’altro che Tamara
infilarsi in una delle porte che si affacciavano sul soggiorno, dopo
aver
salutato Tom con un abbraccio ed un paio di baci sulle guance.
Non
c’era.
Aveva
deciso di snobbarla un’altra volta? Pregò il cielo
di aver ipotizzato
giustamente.
Ma
perché sei così stupida da farti prendere dal
nervosismo?
Perché
odiava i ritorni di persone crocifisse. Non che lei avesse piantato tre
chiodi
alle estremità di Dougie ed avesse poi eretto la sua croce
sulla cima del monte
Golgota; aveva solo operato su di lui con un gigantesco pennarello,
depennandolo dalla lista delle persone desiderate. Lo aveva marchiato
con la stupenda ics
rossa.
Ce
l’aveva
con lui, e allora? Era da biasimare? No.
Si
fece carico di quella secca negazione, prese un profondo respiro e si
disse che
la migliore soluzione era l’indifferenza.
Sarebbe
stata impassibile ed indifferente.
“Oh,
no”, le rispose Tom, indicandole verso la porta in cui aveva
visto infilarsi
Tamara, “c’è già qualcuno che
l’aiuta, e poi è troppo paranoica, ha sempre
paura che qualcosa vada storto... Che prenda fuoco il forno, oppure
salti in
aria il microonde. Ma grazie lo stesso.”
Non
si sentì affatto meglio.
“Adesso ci
prendiamo tutti insieme un
aperitivo all’aperto.”, disse, voltandosi verso i
due, alle loro spalle, che
stavano continuando a borbottare in toni infastiditi, ma comunque molto
più
tranquilli.
Tom
posò una mano sulla maniglia di una delle tante grandi
finestre del soggiorno
e, premendo su di essa, la fece scorrere alla sua sinistra, aprendo un varco verso il giardino.
Il
giardinetto era molto più grande di quello di Danny, o forse
era solo un
effetto dovuto all’assenza della piscina. Stesso prato basso,
un’altalena sulla
sinistra ed un piccolo scivolo, come un buon augurio. Davanti a loro un
gazebo
bianco, il cui tessuto era scosso dalla lieve brezza calda, e sotto di
esso un
tavolo con bottiglie, brocche ripiene di liquidi colorati e tartine.
Il
suo radar visivo non segnalò la presenza di alcun individuo
sospetto e,
camminando accanto a Tom, si trovò sotto all’ombra
fresca del gazebo, con in
mano un bicchiere di quello che il ragazzo stesso le aveva versato.
“Che
buone!”, esclamò Danny, riempitosi la bocca di
tartine verdi, “Gi è la
migliore!”
Tom
alzò gli occhi al cielo, guardando Joanna con viso
rassegnato. Harry,
accomodatosi su una sedia bianca, mangiava con educazione le piccole
fette di
pane spalmato di buone salse che aveva selezionato, forse in base al
colore
sfavillante, forse per via del suo gusto personale.
Tutti
sembravano tacere ogni parola su di lui,
sicuramente per discrezione.
Perché non parlavano? Perché non le dicevano che
non era venuto perché non la
voleva vedere?
“Ti
piace?”, le fece Tom, togliendola dalle sue domande
esistenzialiste.
“Cosa?”
“Quello
che stai bevendo.”, si spiegò il ragazzo.
“Oh
sì, è molto buono.”, si
complimentò, “Con cosa è
fatto?”
“Non
ne ho la più pallida idea.”, fece lui, scrollando
le spalle con tranquillità.
Le
venne da ridere.
“A
Giovanna piace fare gli esperimenti con i cocktail?”, gli
domandò.
“No,
non a lei.”, rispose lui, prendendo una tartina e
intaccandola con un morso, “A
Dougie.”
Se
avesse avuto un po’ di succo in bocca sarebbe affogata.
C’era,
eccome, e si nascondeva da qualche parte.
“Ah...
Beh, è buono lo stesso.”, fu capace di dire,
strabiliata dal suo stesso
autocontrollo.
“Dov’è
Dougie?”, domandò allora Harry, dato che il
ghiaccio in merito a quella
questione spinosa era già stato rotto con un bicchiere di
delizioso cocktail.
“E’
un cucina, sta aiutando.”, li informò Tom.
Dalla
faccia stranita di Danny e di Harry, Joanna capì che lo
slancio culinario del
bassista da lei più odiato doveva essere cosa più
unica che rara. Infatti, lei
stessa non era capace di immaginarlo ai fornelli, con il cappello da
cuoco in
testa e la divisa bianca, come quella che aveva sempre visto indossare
a Miki,
al lavoro.
“Oddio!”,
esclamò Tom.
Stava
arrivando sorridente, con un vassoio ricolmo di altri stuzzichini, e
quella
proverbiale manifestazione di stupore non arrivò proprio a
caso. Infatti,
qualche secondo dopo fu seguita da qualcosa che la stimolò
per la seconda
volta, ma in modo molto meno educato.
“Oh
cazzo!”, esclamò infatti Harry.
La
sua espressione sottolineò perfettamente quello che videro:
partendo dalle mani
incerte di Dougie, incartato sui suoi stessi piedi, il vassoio
compì un volo
magistrale, forse un triplo salto carpiato con avvitamento a destra, e
sparse
il suo ottimo contenuto sul prato, per la sublime gioia delle formiche
che lo
abitavano.
“Doug!”
“Poynter!”
“Ma
sei cerebroleso?”
Quelle
furono altre tra le frasi a lui indirizzate dai suoi tre compagni,
corsi a
soccorrerlo. Lei, invece, se n’era rimasta al tavolo,
impalata col suo
bicchiere, ormai vuoto.
“Merda!”,
accentò Dougie, alzandosi da terra, “Ho fatto
cadere tutto!”
Aiutato
da Tom e da Danny recuperò tutti gli antipasti dal giardino,
mentre Harry
decise di testarne un paio, dopo averli ripuliti dall’erbetta.
“Riporto
tutto dentro.”, gli disse Tom prendendo il vassoio e le
tartine.
“Bel
lavoro, Dougster.”, lo consolò Harry, con una
sonora pacca sulle spalle.
Dopo
essersi ripreso dagli scossoni, Dougie ne approfittò per
darsi una sistemata.
Qualche ciuffo d’erba era rimasto sui suoi pantaloni a mezza
gamba, la maglia
invece sembrava sufficientemente pulita.
Non
doveva fissarlo, né guardarlo con insistenza, né
fargli una radiografia da
testa a piedi. Anzi, non doveva proprio posare gli occhi su di lui.
Impostasi
quei sacrali divieti, si voltò verso il tavolo, occupandosi
del riempimento del
suo bicchiere.
Sentì
i passi avvicinarsi a lei e, come un countdown, prese a contarli. Fu
un’impresa
ardua, l’erba attutiva ogni piede, rendendoli
indistinguibili, ma fu comunque
capace di capire quando furono abbastanza vicini a lei per...
“Ciao,
Jonny.”
“Attento!”,
gli aveva gridato Gi nel suo orecchio sinistro,
“Così farai bruciare tutto!”
Aveva
preso il cucchiaio di legno ed era tornato a girare quella brodaglia
bianca che
lei gli aveva affidato. Non sapeva cos’era, però
lei diceva che le serviva,
quindi lo faceva volentieri.
“Com’è
che oggi ti senti così tanto casalingo?”, gli
aveva domandato scherzosamente
Tamara.
Stava
anche preparando le tartine, ormai quasi pronte per essere portate
fuori.
“Beh…
Sto aspettando un bambino!”, le aveva rivelato lui, ancora
più ironico, “E
sento il bisogno di preparare il mio nido.”
Gi
era scoppiata in una risata, Tamara aveva scosso la testa rassegnata.
Ormai
lo conoscevano abbastanza bene da non prenderlo più di tanto
sul serio, sarebbe
stata una battaglia inutile e, soprattutto, una sconfitta
già in partenza.
Erano sufficienti gli altri tre a lottare con la sua sindrome acuta da
Peter
Pan.
Sarebbe
stato per sempre un eterno adolescente, comunque capace di afferrare la
sua
testa tra le nuvole e piantarla sulle spalle per il tempo necessario a
prendere
decisioni giuste e ponderate, da adulto qual era. Per la restante parte
della
sua vita, invece, non avrebbe fatto altro che giocare con se stesso e
con gli
altri, come era sua natura.
Quel
giorno, però, stranamente quelle sue due essenze si erano
fuse insieme. In
superficie il Dougie giullare, che si divertiva in cucina a tagliare le
verdure
a stelle solo per far infuriare Giovanna. Per aumentare il suo
divertimento
aveva anche preparato dei cocktail, inventando qualche strana miscela a
base di
cannella e di menta fresca, della quale aveva prontamente scordato la
ricetta,
pentendosene.
Subito
sotto, stava anche il Dougie coscienzioso: quello che lo aveva
riportato alla
realtà pochi giorni dopo il ritorno da quella strana
vacanza, facendogli capire
che si era comportato con meschinità nei confronti di una
persona che,
innocentemente, aveva trovato in lui un appoggio per le sue
difficoltà. Aveva
voltato le spalle a qualcuno che aveva avuto bisogno di lui, e questo
sbaglio
era inammissibile.
Futile
ogni parola in più, ogni tentativo di giustificazione e
legittimazione da parte
sua. Si era cullato per troppo tempo col pensiero che lo aveva fatto
per lei,
per non farla star male dopo la sua partenza, per non farla illudere.
Riflettendoci, aveva infatti capito che l’aveva fatto
soprattutto per se
stesso. Ed era stato lui quello che, in primis, non aveva voluto
soffrire.
Nonostante
avesse voluto celarlo, non sempre in maniera efficace agli occhi dei
suoi
migliori amici, altre volte era rimasto pesantemente fregato nei
rapporti con
le ragazze… E non voleva passare di nuovo per quella stessa
strada. Un anno fa
diceva di non conoscersi abbastanza bene da poter affermare con
assoluta di
essere in grado di mantenere una relazione a distanza e, dato che al
tempo
Jonny gli era piaciuta abbastanza da voler provare a costruire qualcosa
con
lei, preso da quella paura aveva ripiegato sulla questione amicizia,
per poi
abbandonarla con cattiveria.
Doveva
scusarsi, doveva farsi perdonare, soprattutto ora che quei giorni erano
passati
e che quello che aveva provato per lei era evaporato.
Non
c’erano storie, non c’erano parole efficaci,
niente. Era sicuro che lei non
avesse cambiato idea e non la biasimava affatto, anzi, Jonny aveva a
disposizione tutte le giustificazioni plausibili per continuare a
pensare che
fosse un emerito stronzo.
Eppure
si sentiva come un ragazzino, confuso e anche un po’ stupido.
Anzi, molto
stupido, ma doveva dimostrare di non essere infantile e immaturo, anche
se ad
ogni minuto passato il Dougie in superficie aveva preso a strepitare
con più
forza. Era colpa sua se non era andato a salutarla quando era arrivata,
se aveva
saltato la gita a cavallo… Erano queste le infantili
decisioni prese dal Dougie
adolescente, quello che scansava i problemi piuttosto che affrontarli.
Si
sentiva sempre più agitato, teso ed irrequieto, sebbene
cercasse di non
dimostrarlo, e non trovava una spiegazione a tutto questo nervosismo.
Forse era
perché tuttora non si reputava abbastanza bravo con le
parole, forse perché
aveva paura che Jonny interpretasse male il suo tentativo di
riconciliazione.
Infatti, lo spaventava abbastanza l’idea che lei gli negasse
anche la
possibilità di parlarle. In quel caso, però, la
soluzione era una sola:
accettare la sua volontà ed finirla lì.
Era
stato il primo ad arrivare, con notevole sorpresa di Tom, almeno un
paio d’ore
prima dell’ora prefissata. Aveva aiutato ad apparecchiare la
tavola, a
sistemare il giardino fuori e, infine, si era chiuso in cucina con Gi,
mentre
Fletcher si preparava per accogliere Harry e, dopo qualche altro tempo,
anche
l’ultima carovana.
E
ora, che era uscito dalla cucina inciampando involontariamente sui suoi
stessi
piedi, si sentiva infinitamente anche coglione. Camminava insieme a
Danny ed a
Harry, Jonny era voltata di spalle, si stava versando un po’
di succo nel suo
bicchiere. Non la vedeva molto diversa, se non per i capelli corti alle
spalle,
non più lunghi sulla schiena. Era certo che, comunque,
dovesse stare abbastanza
bene: Danny sapeva essere un amico più che ottimo, aveva
sicuramente trovato in
lui tutti i consigli e il conforto che avrebbe voluto darle in prima
persona,
ed andava bene così, ne era contento.
Si
avvicinarono a lei.
“Ciao
Jonny.”, le disse.
Si
voltò e notò subito la frangetta che le
nascondeva la fronte. Le dava un’aria
insolita, sebbene sotto di essa ci fosse sempre il solito viso gentile
e
luminoso.
“Ciao.”,
rispose lei.
E
gli sorrise.
“Come
stai, Dougie?”, gli fece, “Tutto bene?”
Rimase
un attimo stordito. Dov’era la Joanna che si aspettava,
quella che avrebbe
dovuto imbarazzarsi per la sua presenza?
“Sì…
Alla grande.”, le rispose, senza troppo entusiasmo.
“Buono
il cocktail che hai fatto.”, si complimentò lei.
“Oh,
grazie.”, le disse.
Non
sembrava cambiata, eppure qualcosa di diverso in lei c’era.
C’era eccome.
“E
tu come stai?”, le chiese, di rimando.
“Bene,
grazie.”
Era
comunque molto breve nei suoi atteggiamenti, accennava sguardi e gesti.
Forse
era meglio togliere temporaneamente le tende, interrompendo
così il silenzio
che aleggiava su di loro da qualche secondo a quella parte.
“Jones,
sai che Gi sta preparando vere lasagne italiane?”, disse
volgendosi verso di
lui, “Almeno per un esercito intero!”
Studiò
il volto di Danny.
Non
trasmetteva niente di particolare… Chissà cosa si
era aspettato lui da
quell’incontro.
Era
nervoso, terribilmente nervoso, ed era sicuro di non essere
l’unico nel raggio
di pochi metri dalla sua persona. Aveva tenuto costantemente
sott’occhio
Little, decifrandone ogni piccola espressione: si stava sentendo a
disagio,
impacciata a modo suo, e tutto questo non faceva altro che far salire
la sua
agitazione, doveva fare qualcosa per evitare che quel pranzo si
trasformasse in
incubo per Little.
Sapeva
come avrebbe reagito nel rivedere Dougie di nuovo. Non avevano mai
parlato di
lui nelle loro mail, era stato semplicemente citato qua e
là, segno che era per
lei un argomento abbastanza tabù. Di questo se ne stava
già rammaricando, così
come di tutte le altre cose che lei continuava a tacergli, ma sperava
che nei
prossimi giorni quel velo di silenzio sarebbe caduto, era fiducioso.
“Jones,
sai che Gi sta preparando vere lasagne italiane?”, gli disse
lo stesso Poynter,
“Almeno per un esercito intero!”
Aveva
capito anche lui, ovviamente.
“Fantastico!”,
esclamò, con il suo solito entusiasmo.
“Penso
che, dopo questo pranzo, potrò morire.”, si
affrettò ad aggiungere Harry, anche
lui immischiato in quella situazione statica.
“Già…
La nostra Gi è veramente una buona cuoca.”, disse
Danny, toccandosi la pancia,
“Sarà meglio evitare di mangiare altre di queste
tartine, altrimenti non ci
sarà posto per tutto quello che ha preparato.”
“Decisamente.”,
disse Dougie, “Non ti dico quante buone cose ci stanno
aspettando.”
Guardava
i suoi due amici, ma contemporaneamente la scrutava con la coda
dell’occhio. Li
ascoltava, rideva con loro, sembrava tranquilla, ma tutto quello era
solo una
finzione.
“Dan,
hai presente quel mio amico?”, attirò la sua
attenzione Harry, “Quello che sta
prendendo lezioni di volo?”
Eccolo
lì, davanti a lei, Dougie. Aveva provato ad vederlo in carne
ed ossa con sopra
una gigantesca ics rossa, ma non aveva mai avuto
tutta quella fantasia.
Era semplicemente lì, davanti a lei, con le sue solite mani
in tasca, e le
parlava.
Lo
trovava bene: i suoi occhi erano sempre vispi, l’espressione
ancora giocosa e
tutto sommato non lo vedeva molto diverso dall’anno
precedente. Aveva solo i
capelli un po’ più lunghi, abbastanza ribelli, i
ciuffi mossi stavano
addomesticati dietro alle orecchie. Sembrava spassarsela, la pelle
lievemente
scura dimostrava che doveva aver passato parte del suo tempo sotto il
sole, in
una qualsiasi attività. Magari nella stessa piscina di
Danny, cosa ne poteva
sapere lei…
Stupendosi
di se stessa, riuscì a mantenere un buon controllo.
Accantonò il rancore che
ancora provata per lui, zittì ogni voce gli urlava contro
brutte parole e si
impose calma e sangue freddo, come recitava una martellante canzone di
qualche
estate passata, rispondendo con educazione a tutte le sue domande.
Tremò
al silenzio caduto al termine delle parole di rito: lei non sapeva
più cosa
dirgli e, intelligentemente, fu lui stesso a spostare
l’attenzione su Danny,
liberandola dal peso che i suoi occhi chiari avevano aggiunto sulle
proprie
spalle. Li ascoltò aprire una conversazione, chiacchierare
delle lasagne di Gi,
della grande mangiata che stavano per fare tutti insieme,
dell’amico di Harry
che stava per prendere il brevetto da pilota e della voglia che avevano
di
andarsene in vacanza, nonostante l’album fosse prossimo
all’uscita.
Con
educazione, si allontanò passo dopo passo dai tre,
interessandosi prima agli
altri succhi presenti sulla tavola, poi alle patatine ed infine
all’altalena,
sospinta dalla leggera brezza calda. Erano ormai troppo concentrati su
loro
stessi per accorgersi di lei che, con il suo bicchiere, si era seduta
sul
gioco, e dondolava.
Le
erano sempre piaciute le altalene: da piccola aveva passato ore ed ore
seduta
su quella che suo nonno, prima di morire, aveva costruito nel giardino
della
vecchia casa colonica di famiglia, fermando semplicemente due catene ad
un
solido e orizzontale ramo di quercia, per poi unirle con una tavoletta
di
legno. Lei, con un cuscino sotto le gambe, aveva cercato di battere
ogni record
nel continuo dondolare, provando ogni volta ad andare sempre
più in alto,
finché un giorno non rischiò di cadere a terra e,
da quella volta, si
accontentò di muoversi con modestia.
Quella
giornata si prospettava sempre più calda, sentiva i raggi
del sole batterle
sulla pelle con prepotenza, e l’aria che si muoveva intorno a
lei non le dava
sollievo. Un’ombra le passò vicino alle punte
delle scarpe, attirando la sua
attenzione.
Guardò
il giardino davanti a lei: nessuno, il trio era scomparso.
L’altra
altalena si mosse.
Si
voltò alla sua destra.
Dougie
le sorrideva, seduto a cavalcioni sul gioco accanto al suo. Chi aveva
decretato
che dovesse rimanere da sola con lui?
“Avete
finito tutte le parole?”, gli disse, volendo provare ad
essere scherzosa, ma
risultando solamente acida.
Dougie
sbuffò in una risata.
“Lasciamo
stare.”, disse, “Allora, come va la tua vacanza
qua?”
Ma
cosa te ne frega?,
prese a sbraitare con petulanza la voce nella sua testa.
“Bene.
Sta andando bene.”, gli rispose.
“Come
ti sembra Tamara?”, continuò lui, incrociando le
braccia.
“E’
una brava ragazza. E’ carina e simpatica, secondo me
è perfetta per Danny.”
Non
gli interessava essere convincente nelle sue risposte, bastava solo
passare
alla prossima domanda. Le sembrava di trovarsi
dall’estetista, in attesa della
prossima striscia di cera calda.
“Lo
penso anche io.”, disse lui, esponendo il suo punto di vista,
“Sono stato io
stesso a presentarli.”
La
voce nella sua testa ammutolì. Un sovraccarico istantaneo di
insulti l’aveva
mandata in tilt.
“Oh…
Beh, allora grazie a te per aver fatto felice Danny.”, gli
disse, voltando un
sorriso nella sua direzione, “Ma non era stato
Harry?”
Lui
se ne rimase in silenzio. Si sentì sprofondare
nell’imbarazzo.
“Sembri
sarcastica.”, disse poi, dopo averla esaminata.
“Io?
E perché dovrei esserlo!”, disse, mettendosi a
ridere, “Dicevo sul serio,
credimi. Sta bene con lei, si vede lontano un miglio.”
“Puoi
dirlo forte.”, rispose lui, con contentezza.
Si
prese altri secondi di silenzio, mettendola ancora di più
nell’agitazione.
Joanna afferrò le catene dell’altalena,
stringendole.
“Dove
sono andati gli altri due?”, gli chiese.
“Harry
è andato dentro, diceva di morire dal caldo.”,
spiegò Dougie.
“E
Danny?”
“E’
andato con lui.”
E
perché non ti sei unito alla carovana?
“Perché
non sei andato con loro?”, gli domandò, in modo
più gentile.
“Perché
ti volevo parlare, Jonny.”, fece lui, diretto.
Joanna
sospirò. Sapeva che, prima o poi, quella chiacchierata
sarebbe arrivata, e
avrebbe voluto posticiparla il più possibile, magari
addirittura non prendervi
mai parte. Non voleva rovinarsi la giornata, né la vacanza.
“Non
abbiamo molto da dirci, Dougie.”, cercò di
convincerlo, “Ormai è passato più di
un anno, la questione è finita. Basta.”
“Ne
sei sicura?”, le fece lui.
Esitò.
“Sì.”
Esitò
anche Dougie.
“Ti
volevo semplicemente chiedere scusa.”, disse poi lui,
“Pensavo di agire per il
tuo bene, poi mi sono reso conto che sono stato egoista, più
che altruista.”
Continua
pure, continua!
“Jonny,
alla fine lo avevi capito anche tu… Ti ho voltato le spalle
perché non volevo
che la… Cosa si complicasse. Soprattutto per me.”,
si prolungò Dougie, “Sono
stato egoista e mi dispiace.”
Posò
gli occhi su di lui, scrutandolo con attenzione. Incrociò il
suo sguardo per
qualche secondo, voleva vedere quante menzogne c’erano nelle
sue parole.
“Ti
voglio chiedere quindi scusa.”, attaccò ancora
Dougie.
Non
le veniva niente da dire. Se ne stava solo lì ad ascoltare
le sue parole,
quelle che avrebbe voluto sentire un anno prima e che finalmente erano
arrivate.
“Non
merito nemmeno che tu mi parli!”, esclamò il
bassista, alzando le mani al
cielo, “Fossi in te, mi darei un altro calcio nelle palle,
adesso! E un altro
basso fracassato!”
La
fece sorridere, ma solo per qualche breve istante.
Non
voleva perdonarlo, non doveva farlo; come aveva detto lui stesso non si
meritava niente del genere, non dopo quello che le aveva fatto.
“Jonny,
non sei in obbligo di fare niente.”, aggiunse poi,
“Non pretendo assolutamente
niente da te. Se vuoi mandarmi a quel paese, fallo pure. E’
una tua decisione,
io la rispetto...”, si alzò
dall’altalena, “E anche se non mi dirai niente, a
me andrà bene lo stesso.”
“Aspetta
un attimo.”, gli disse, riprendendolo prima che se ne andasse.
Si
alzò e, impacciata, cercò di spiegarsi.
“Mi hai
veramente
deluso.”, gli disse.
Dougie
abbassò il viso.
“Ho
sbagliato a fidarmi troppo di te senza conoscerti bene.”,
continuò.
Voleva
che si sentisse una merda, voleva farlo strisciare per terra, lontano
da lei,
con la coda tra le gambe.
"Anche
per colpa tua trovo sempre più difficile fidarmi delle
persone che mi
stanno accanto.”, aggiunse, decisa ormai ad arrivare fino in
fondo, “E devo
affrontarne le conseguenze da sola, non ho molte persone accanto a me
ad
aiutarmi, lo sai.”
“Lo
so.”, disse lui.
I
suoi occhi non risalivano su di lei.
“Pensavi
che avrei preteso cose impossibili da te? Chi sono io per farti una
cosa del
genere?”
Non
lo diceva con rabbia ma con un tono stanco, quasi strascicato. Non era
necessario che si infervorasse, e non era comunque il caso farlo.
Bastavano
quelle parole dette piano, con risentita calma.
“Dougie…”,
ed incrociò le braccia.
Lui
alzò lo sguardo.
“Non
voglio
odiarti ancora, ormai non ha più
senso.”, gli disse, “Ma non riesco a lasciar
perdere.”
Dougie
annuì, si mise le mani nelle tasche dei pantaloni.
Dopo
essersi sistemata i capelli dietro alle orecchie, gesto del suo tipico
disagio,
Joanna lo guardò. Se ne stava lì, mortificato,
pentito.
Era
fuori discussione, non esistevano seconde opportunità. Non
per lui.
Dougie
non poteva semplicemente tirare fuori il suo tono più dolce
e, con un sorriso
dei suoi, cercare di rimettere in sesto il casino che aveva lasciato.
Non
doveva dare seconde opportunità a persone che non se le
meritavano, nemmeno a
chi come lui dimostrava di essersi davvero pentito. Ormai, dalla vita
aveva
imparato che le persone non cambiavano. Mai, neanche grazie alle
più nobili e
gentili intenzioni.
Quindi,
perché uccidersi con le sue stesse mani?
“Vuoi
comunque qualcos’altro da bere?”, le
domandò lui.
Alzò
gli occhi sui suoi. Il suo tentativo di conciliazione non sembrava
essersi
affatto concluso. Oppure voleva essere semplicemente gentile con lei,
andare
oltre al muro che aveva eretto per proteggersi e cercare di stabilire
un’altro
tipo di connessione, seppur debole ed instabile?
“Solo
un po’ d’acqua.”, gli rispose, non molto
convinta.
A
braccia incrociate, dietro al vetro, esaminava la situazione: li aveva
osservati quasi per tutto il tempo. Non proprio dall’inizio,
dato che Harry lo
aveva trascinato dentro con una scusa cretina, e lui sapeva essere
convincente
anche con le cazzate. Dopo avergli fatto capire che non era interessato
a
nessuno dei suoi discorsi, mancando la risposta a due domande di fila
perché
troppo occupato ad allungare il collo per vedere al di là
del vetro, si era
avvicinato alla porta finestra, come lo spettatore di un incidente
lontano.
Harry si era allora rassegnato, posizionandosi al televisore con uno
dei tanti
videogiochi di Tom. Dalle esclamazioni che provenivano
all’orecchio distratto
di Danny, sembrava parecchio interessato alla sorte della gara
automobilistica
a cui stava partecipando.
Little
odiava Dougie per quello che le aveva fatto; ne era certo, o meglio, lo
era
stato fino a quel momento, quindi si doveva essere perso qualche
passaggio
fondamentale. Cosa gli era sfuggito?
Si
era aspettato di vedere una litigata, una Joanna furiosa, che tornava a
grandi
passi da lui chiedendogli di portarla via da lì, di tenerla
lontano da Dougie.
Era
questo quello che si aspettava di affrontare, in quella giornata.
Perché
stavano andando al tavolo degli aperitivi e parlare?
Comunque,
ciò che stava analizzando non sembrava una conversazione
felice, piuttosto un
tentativo fallito di cercare di passare sopra a fatti più
grandi di loro.
“Sembra
che Dougie ne sappia sempre una più del diavolo.”,
spuntò Harry alle sue
spalle, facendolo sobbalzare.
Danny
si voltò, guardandolo di striscio.
“Cosa
stavi facendo fino a tre secondi fa?”, sbuffò,
tornando a guardare fuori.
“Giocavo
alla Play...”
“Tornaci.”,
sentenziò.
Harry
si rassegnò.
“Come
siamo acidi, stamattina…”, borbottò,
abbandonandolo per tornandosene al suo
videogioco.
“Chi
è acido?”, domandò Tamara, entrata
qualche attimo prima nel soggiorno.
“Là…
Coso… Finestra.”, balbettò Harry, ormai
già concentratissimo sulla sua
automobilina virtuale.
Danny
sentì le mani calde della sua ragazza cingergli la vita, e
il mento di lei
appoggiarsi sulla sua spalla.
“Scusa
per ieri sera… E anche per stamattina.”, gli
disse, sussurrandolo in un
orecchio. Un brivido scosse i suoi nervi, Danny si voltò
verso di lei. Non
riusciva ad avercela con la sua Tam per più di qualche ora,
mai, nemmeno nelle
poche e furiose litigate avute in passato. Era più forte di
lui, non le
resisteva.
“Lascia
stare.”, le disse, dandole un bacio a fior di labbra,
“Eri stressata col
lavoro, non importa.”
“Me
la dai vinta troppo facilmente.”, rispose lei sorridendogli e
ricambiando il
bacio.
“Ragazzi,
sono diabetico e single, per cortesia.”, li
rimproverò Harry, lievemente
infastidito dalle loro effusioni.
Videro
spuntare la faccia sorridente di Giovanna.
“Venite,
è pronto!”, fece loro, “Ma dove sono
Dougie e Joanna?”, chiese poi, non
vedendoli.
“Si
stanno incredibilmente parlando.”, disse il batterista,
bruciando Danny sul
tempo.
“Dici?!?”,
esclamò Gi, “E dove?”
“Là
fuori.”, la informò ancora Harry.
Si
avvicinò a loro due abbracciati ed allungò lo
sguardo al di là del vetro della
porta finestra, parando con una mano gli occhi dal sole. Danny
notò lo sguardo
interrogativo di Tamara.
“E’
successo qualcosa che io non so?”, gli domandò,
con affare interessato.
Con
la scusa del dirle ‘Vedrai che quando la conoscerai,
ti piacerà’, non le
aveva raccontato niente di tutto quello che era successo in Italia.
Forse
Tamara aveva il diritto di sapere che, tra lui e Joanna,
c’era stata più di una
semplice amicizia nata per caso. E avrebbe anche dovuto essere a
conoscenza del
fatto che, dato quello accaduto, i rapporti tra lei e Dougie si erano
guastati.
Eppure,
alla luce della scenata di gelosia a cui aveva assistito la sera prima,
si
disse che era stato meglio non dirle niente, anche se non lo aveva
fatto di
proposito, ma semplicemente senza rifletterci troppo. In fondo, tutto
quello
che era nato con Joanna si era trasformato in una bella amicizia,
quindi perché
andare a complicare le cose?
“Beh…
Sì.”, le disse, “Ma è troppo
lunga da spiegare. In poche parole, hanno litigato
a morte, nient’altro.”
“E
perchè?”, incalzò Tamara,
“C’è stato qualcosa?”
“No...
Non che io sappia...”
Lanciò
un’occhiata ad Harry. Lui, che in quello stesso attimo lo
stava a sua volta
guardando, sembrò comprendere ed annuì. Allora si
rivolse con gli occhi anche a
Gi. Stessa cosa, anche lei lo capì.
“Vado
a chiamarli.”, disse poi Giovanna, “Anche se un
po’ mi dispiace…”
Uscì
fuori e, un passo dopo l’altro, li raggiunse. Joanna sembrava
lievemente
imbarazzata mentre Dougie, come al suo solito, si diresse pronto verso
la sala
da pranzo, lasciandola indietro con indifferenza.
Forse,
l’unico modo per comprendere quei due era spiarli, mettere
una cimice nelle
loro tasche, oppure essere una mosca e posarsi sulle rispettive spalle,
per
ascoltarli indisturbati.
“Little,
non è che ora non avrai più fame?”, le
fece, scherzoso, “Con tutto quello che
hai bevuto!”
“Tranquillo.”,
rispose lei, taciturna.
“Avanti
che si fredda tutto!”, li richiamò Tom a gran
voce, “E Dougie mangerà anche dal
vostro piatto!”
Con
calma e senza troppa fretta, ognuno prese il suo posto intorno
all’ampio tavolo
della sala da pranzo. Per evitare che qualsiasi cosa accadesse
–qualsiasi-
fece sedere Little il più lontano possibile da Dougie, nella
volontà di
preservare quel pranzo da scene di disagio collettivo.
Ottimo
pranzo, in assoluto uno dei migliori che si era aspettata di mangiare
una volta
messo piede in una terra dove i gusti culinari andavano a braccetto con
quelli
della moda. Non sapeva come Giovanna e Tom si fossero conosciuti, ma
poteva
quasi azzardare a dire che lei dovesse averlo preso per la gola:
nonostante gli
ingredienti non fossero proprio di derivazione originale, le lasagne
erano
ottime ed anche la carne e tutte le verdure che
l’accompagnavano erano
decisamente buone. Le bocche di tutti quanti erano rimaste deliziate,
la sua
più di tutte, e per lunghi momenti erano rimasti in
silenzio, occupandosi con
il cibo nei loro piatti. Per il resto del tempo avevano riso, scherzato
e
chiacchierato.
La
parte più divertente, ovviamente, l’aveva
riguardata personalmente. Come un
genitore apprensivo, ma soprattutto oppressivo,
Danny non aveva fatto altro che chiederle se tutto stesse andando bene,
se
avesse voluto più lasagne, meno carne, più
verdure, altra acqua… Aveva risposto
con pazienza a tutte le sue preoccupazioni ed aveva provato
più volte a
tranquillizzarlo, facendogli capire gentilmente che era in grado di
mangiare
senza farsi imboccare da lui.
Ci
aveva pensato Harry a toglierle quel fastidio di dosso.
“Danny!”,
lo aveva ripreso, “Meno male che non è tua
figlia!”
“E
pensare che ieri ha cercato di uccidermi!”, non aveva
resistito Joanna.
“Non
è vero!”, si difese Danny, “Io non ti
volevo fare del male!”
“Cosa
ti ha fatto Jones?”, le chiese Tom,
“Sentiamo!”
“Mi
ha buttato in piscina… E io non so nuotare!”
Da
lì aveva iniziato a raccontare tutta la storia, facendoli
involontariamente
esplodere in risate rumorose mentre Danny cercava di riparare ai suoi
danni con
scuse inascoltate.
Dopo
tutto –e tutti- il pranzo era andato
piuttosto bene. Non c’erano state
tensioni, né momenti di stasi, tutto era filato liscio come
l’olio, come se
niente fosse mai successo. Se n’era stata seduta composta
mangiando, ridendo e
parlando senza alcun timore. Alla sua sinistra, a capotavola, Tom. Alla
sua
destra, invece, se ne stavano Danny, con tutte le sue apprensioni, e
Tamara.
La
fedele Tamara.
Vicino
al suo fidanzato Giovanna, che da quella postazione raggiungeva
facilmente la
cucina alle sue spalle, ed accanto a lei
Harry, seduto scompostamente.
Infine,
Dougie, l’ultimo della lista, il più lontano.
Sapendolo lì, il problema ‘Danny
ama Tamara, rassegnati’ non era più
grande di come le era sembrato, fino a
qualche ora prima. Ma non si volle lasciar prendere da niente e da
nessuno, era
lì per divertirsi con loro, per stare insieme a degli amici
–gli unici amici
che aveva, seppur lontani- senza fare troppo la
melodrammatica.
Ed
ora che anche il dolce era finito, un semplice ma delicato
tiramisù, era
arrivato il momento di dare una mano alla padrona di casa, come le era
stato
insegnato.
“Giovanna,
vuoi un aiuto?”, le chiese, mentre la ragazza toglieva i
piatti da dolce ormai
vuoti.
“No,
tranquilla, ci pensa Tom.”, disse lei.
“Eh
no!”, insistette, “Voglio proprio darti una
mano.”
Intorno
a lei, infatti, nessuno sembrava intenzionato a farlo, nemmeno Tamara.
Non
conosceva le tradizioni inglesi, ma a casa sua si dava sempre una mano
alla
padrona di casa. Almeno erano le donne a farlo, mentre gli uomini se ne
stavano
misogini a parlare di calcio, con la pancia piena.
Nonostante
le ripetute negazioni di Giovanna lei si alzò dal suo posto
e, con educazione,
tolse i piatti a tutti gli invitati. Attenta a non inciampare li
portò in
cucina e, uno dopo l’altro, furono messi dentro alla
prostituta preferita di
Gi, che altro non era che la sua lavastoviglie.
“Grazie...”,
le fece la ragazza, una volta chiusa la fauce
dell’elettrodomestico, “Quelli là
non hanno proprio il senso dell’educazione.”
“Figurati!”,
le rispose, con sincerità, “Era il minimo che
potessi fare, dopo uno splendido
pranzo...”
La
ragazza arrossì, stringendosi in un sorriso.
“Beh...
Grazie mille...”, le fece, “Detto da te che sei
più italiana di me... Non può
essere altro che un complimento dei migliori!”
“Pensa
che io sono capace di far annerire anche il latte.”, disse
Joanna, del tutto
incompetente in cucina.
“Piuttosto...”,
la ammaliò Giovanna con un sorrisetto, “Tu e
Dougie...”
Si
sentì prendere da una forte sensazione di gelo al collo,
come se uno spiffero
malefico l’avesse investita in pieno sulla nuca.
“Io
e... Cosa?”, balbettò, insicura.
“Vi
ho visti fuori, al tavolo degli aperitivi.”, disse lei,
“Vi siete
riappacificati?”
Il
modo di fare di Giovanna,
innocentemente
diretto, la stava mettendo in totale difficoltà.
“Tom
mi ha raccontato tutto.”, insistette lei, annuendo,
“E mi avete abbastanza
stupito.”
Si
sentì ammutolire.
“Soprattutto
perché quel coglione di Dougie non è per niente
capace di rimediare ai casini
che combina...”, sospirò rassegnata Gi, ed
indicò con un gesto della testa il
tavolo alle spalle di Joanna, “Guarda
lì...”
Era
un tripudio di macchie, incrostazioni e bottiglie vuote, cucchiai nei
bicchieri
e salviette di carta appallottolate. Una catastrofe.
“Ha
preparato gli aperitivi e non si è nemmeno preoccupato di
pulire.”, disse Gi,
mettendosi le mani sui fianchi come una mamma arrabbiata con suo
figlio, “Ma
glielo faccio vedere io... Dougie!”
Lo
chiamò ancora tre volte prima che lui si affacciasse alla
cucina, con aria
interrogativa.
“Che
c’è?”, domandò.
Come
aveva fatto con lei qualche secondo prima, Giovanna puntò il
tavolo con un
cenno del capo. Dougie voltò gli occhi su di esso.
“E
quindi?”, chiese.
“E
quindi puliscilo tu!”, sbuffò Gi, “Non
voglio stare tutto il pomeriggio con i
guanti e la spugna a scrostare le tue macchie!”
“Cosa
sarà mai!”, disse lui, con noncuranza.
Gi
non la prese molto bene. Infatti, andò verso il lavello,
aprì lo scompartimento
sotto di esso e tirò fuori alcuni flaconi di prodotti. Li
appoggiò in un angolo
libero del tavolo e, rifilando i guanti e la spugna a Dougie, gli
intimò di
riassettare tutto nel minor tempo possibile.
Dopo
di che, se ne andò.
La
prospettiva di passare altro tempo da sola con lui, cercando di
rappezzare
quattro parole per non fare scena muta, la spaventò
così tanto che rimase per
qualche attimo in silenzio, con la mano appoggiata al ripiano di legno
della
cucina, così come lui l’aveva trovata quando era
entrato.
Gli
lanciò un sorriso stretto, poi si avvicinò alla
porta.
“Me
la dai una mano?”, le domandò Dougie, prima che
potesse svignarsela, indicando
i flaconi sul tavolo, “Non è che abbia tutta
questa dimestichezza con quella
roba.”
Certo
che te la do una mano… Sul viso!
“Ok…”,
rispose Joanna, “Ti aiuto a togliere le
bottiglie.”
In
silenzio, una per una il ripiano di legno venne sgomberato; rimanevano
solo le
macchie incrostate ed appiccicose ed erano compito suo, lei non aveva
la benché
minima intenzione di aiutarlo ancora.
Mentre
posava dentro al lavello le ultime due bottiglie vuote
guardò con la coda dell’occhio
un comico Dougie che cercava di infilarsi i guanti di plastica.
Ovviamente,
quelli erano della giusta misura di Giovanna e lui, che era un uomo e
che
quindi aveva mani molto più grandi di quelle di una donna,
si stava trovando
nettamente in difficoltà. La plastica, infatti, continuava a
schioccare sulla
sua pelle, tirata al massimo delle sue possibilità
elastiche, mentre le dita
non riuscivano a farsi strada dentro al guanto.
“Puoi
anche fare senza.”, gli disse, trattenendo una risata.
Al
che Dougie, con aria volutamente perplessa, prese uno dei flaconi e ne
osservò
l’etichetta con interesse.
“Magari
tutte queste cose chimiche scritte qua dentro corrodono la
pelle.”, disse lui,
con faccia preoccupata, “Io non so cosa sia il... metil...
diobenza... metiltonolo.”,
fece, balbettando il nome di uno dei componenti del prodotto.
“Dougie.”,
gli disse, mostrandogli le sue mani, “Le vedi? Non hanno
niente, eppure quei
prodotti li uso tutti i giorni. Puoi farlo anche tu, le tue mani non
sono in
pericolo.”
Lui
sbuffò, appallottolò i guanti di plastica e
centrò al primo tiro il lavello
libero. Prese con riluttanza una spugna e si mise a strofinare sul
ripiano.
“Se
la bagni, dai un passaggio veloce sul legno per inumidire le macchie e
poi usi
un po’ di sgrassatore…”, lo
consigliò.
Dio,
non sapeva nemmeno come pulire un tavolo.
“Così
va bene?”, sbuffò Dougie, con tono ancora
più scocciato ed irritato, dopo aver
passato velocemente la spugna sotto il getto dell’acqua.
“Beh…
Come pulitore di tavoli fai schifo anche a Ronald McDonald, ma
può andare
bene.”, gli rispose, avendolo preso con ironia.
Volle
rimanere a guardarlo mentre terminava la sua opera. Con quella poca
pressione
sulla superficie e senza lo sgrassatore non ce l’avrebbe mai
fatta, ma non
glielo avrebbe detto, voleva godersi lo spettacolo ridacchiando in
silenzio.
“E
così…”, esordì ad un certo
punto lui, sentendosi sotto l’occhio di bue, “Hai
usufruito anche tu della piscina di Danny.”
“Sì.”,
gli rispose, “Sono stata piuttosto bene.”
“Com’è
che non sai nuotare?”, le domandò.
“Beh…
Non mi piace molto come sport.”, spiegò Joanna.
“Ma
tutti sanno nuotare.”, ribadì lui, con
ovvietà, “Anche mia nonna.”
“Beati
voi, allora.”, lo seccò lei.
“E…
Come hai fatto con la…”, disse lui, concentrato
con il corpo sulla sua opera,
ma con la sua mente altrove, “Con la…”
“Ho
fatto il bagno in maglietta perché ho la pelle
sensibile.”, rispose
frettolosamente lei.
Ora
era lei ad essere quella scocciata, a ribollire dentro. Non era
più affare di
Poynter come lei avesse gestito la situazione, quella domanda era stata
del
tutto inopportuna e fuori luogo.
“Eh
già… Sei piuttosto bianchiccia, Jonny. Sembri
malata.”, la irritò lui ancora di
più.
“E
tu ti sei fatto le lampade!”, ribatté, con il tono
di un’adolescente
inviperita.
“A
dire il vero sono stato due settimane in Spagna.”, rispose
lui con sorriso
beffardo, “E sono tornato quattro giorni fa... E’
tutto naturale.”
Ma
brutto bastardo!
Stava
quasi per imbestialirsi aizzata dal suo tono superiore, quando la porta
della
cucina si aprì e Danny spuntò dentro la stanza,
interrompendoli bruscamente.
Tra le dita della sua mano sinistra il suo cellulare.
“Little,
qualcuno ti ha chiamato.”, le disse, “Credo sia
stata Arianna, penso di aver
visto il suo nome sullo schermo prima che la chiamata
cadesse.”
“Ah…
Grazie.”, gli disse, sorridendogli.
Un
attimo prima di consegnarglielo, però, lo vide lanciare
un’occhiata enigmatica
a Dougie.
Sì,
fulminalo con lo sguardo, inceneriscilo prima che possa farlo io!
Joanna
prese il telefonino e, velocemente, controllò chi
l’aveva desiderata. Sì, era
stata davvero Arianna a chiamarla. Sicuramente era rimasta in attesa di
una sua
telefonata, di un aggiornamento sulla situazione che stava vivendo
lassù, in
terra straniera e ostile. Ma conoscendola, Arianna non si era
preoccupata più
di tanto, non era un tipo ansioso e apprensivo, a differenza di qualche
inglese
di sua conoscenza...
Avviò
la chiamata e si allontanò dai due, appoggiandosi alla
finestra. Nessuno le
avrebbe dato fastidio, a meno che in quell’anno non avessero
preso lezioni di
italiano, ma ne dubitò fortemente.
“Torno
di là.”, sentì dire a Danny.
Si
voltò verso di lui e gli annuì con la testa,
sorridendo ancora mentre lui
lasciava la cucina. Poi posò gli occhi su Dougie.
“Io
rimango.”, sbottò lui, con tutto il suo sarcasmo.
Scosse
la testa e tornò a guardare fuori dalla finestra,
ignorandolo.
“Pronto?
Jo?”, rispose quasi immediatamente Arianna.
“Hey!
Ciao Arianna!”, la salutò con finto entusiasmo,
“Come stai?”
“Beh…
Bene, sì.”
“Anche
io!”, gli fece, ridendo, “Ho mangiato quanto una
mucca, sto per scoppiare!”
“Oh
bene…”, rispose l’altra.
“Non
posso raccontarti molto.”, le spiegò,
“Non sono sola nella stanza e, anche se
non capisce una mazza di tutto quello che sto dicendo, non voglio
comunque insospettirlo.”
“Sì,
tranquilla, fai come vuoi.”, rispose lei,
sbrigativamente, “Ascoltami,
Jo, ho bisogno di te per qualche minuto.”
“Certo,
dimmi pure tutto!”, le fece, appoggiandosi al muro, il
braccio destro chiuso
sul petto, l’altro che sosteneva la mano ed il telefono
all’orecchio.
“Puoi
starmi a sentire con calma?”, le domandò
lei.
“Ovvio,
parla pure.”
“Ti
puoi anche sedere?”
Joanna
ebbe un momento di smarrimento. Tutto il falso entusiasmo che aveva
inscenato
evaporò in un attimo, lasciando solo una traccia debole e
inconsistente. Si
aggrappò comunque a quella, non poteva farsi vedere
preoccupata. Non davanti a
Dougie, né davanti a nessun altro. Non poteva essere
successo niente di
importante, magari Arianna aveva una notizia delle sue ed aveva bisogno
di lei.
Individuò una sedia nelle sue vicinanze, la prese, e si
sedette.
“Sono
seduta.”, le disse.
Nella
breve attesa in cui Arianna si schiarì la gola,
lanciò uno sguardo a Dougie,
che continuava a pulire con sufficienza il tavolo. Era proprio un
cretino, sì,
quello ne era la piena dimostrazione.
“Jo…
ci sei?”
“Sì,
ci sono, parla pure.”
La
sentì sospirare.
Joanna
sentì un brivido gelido scorrere lungo la spina, ma mantenne
comunque il
controllo.
“Cosa
c’è, Arianna?”, la esortò a
parlare.
Silenzio.
Troppo
silenzio nelle parole di Arianna.
Gli
era piaciuto battibeccare con lei, sempre meglio della quasi totale
assenza di
parole. Faceva finta di essere impegnato con le macchie viscide e
appiccicose
sul legno scuro del tavolo, ma con l’orecchio e la coda
dell’occhio era da
tutt’altra parte. Non capiva nessuna delle parole dette da
Joanna, nemmeno una,
ma a volte fare l’impiccione era proprio una bella
occupazione, nonostante
fosse all’ultimo posto nella lista delle cose da lui amate.
Se
ne stava impegnato con una crosta di zucchero e si era addirittura
piegato sul
tavolo, premendo con forza per farla staccare via, o per lo meno
sciogliere.
Per diversi secondi non aveva sentito alcuna parola uscire dalle belle
labbra
di Jonny, nessuna esclamazione contenta, niente. Alzò un
sopracciglio, giusto
quel poco per vedere cosa stesse facendo. Era seduta, lo sguardo fisso
per
terra, straniato. Nessuna espressione in faccia, niente, solo i suoi
occhi
verdi, vuoti.
Lasciò
perdere la spugna.
“Jonny?”,
la chiamò, con tono basso, “Va tutto
bene?”
Con
una lentezza immane, lei alzò gli occhi. Ed annuì.
Era
impossibile crederle: se Jonny fosse stata davvero bene, sicuramente lo
avrebbe
guardato stizzita per poi voltarsi ed ignorarlo ancora.
Doveva
fare qualcosa. Anzi, una sola ed unica cosa: chiamare Danny. Si
pulì le mani
bagnate sui pantaloni e, senza troppa fretta, uscì dalla
stanza, non la voleva
allarmare. Andò in salotto, lo trovò vuoto: erano
tutti fuori, sotto il gazebo,
a finire le ultime gocce di aperitivo. Con una leggera corsa li
raggiunse,
Danny stava conversando animatamente, ridendo con gli altri.
Gli
mise una mano sulla spalla, lui si voltò.
“Jonny
ti sta cercando.”, gli disse.
“E’
tutto a posto?”, chiese lui, che ormai non sapeva dire altro
quando si riferiva
a lei.
“Sì,
è in cucina.”, lo informò.
“Ok.”,
disse lui, congedandosi con un sorriso dagli altri.
Dougie
si sentì gli occhi puntati su di sé, come se
volessero chiedergli che cosa
avesse combinato. Avrebbe voluto rispondere che Joanna aveva
sicuramente
ricevuto una brutta notizia ma non lo fece, la curiosità lo
spinse a tornare
indietro.
“Devo
finire… Di là.”, si
giustificò, “Così vuole Gi.”
Arrivò
davanti alla porta della cucina, si era appena chiusa. Si chiese se
stesse
facendo la cosa giusta, ma entrò comunque.
“Cosa
è successo, Little?”, le chiedeva Danny, in quel
preciso momento. Lei era
ancora seduta, immobile, con il telefono tra le mani. Lui, in
ginocchio, la
guardava dritta negli occhi. Doveva aver capito che c’era
qualcosa che non
andava, era evidente.
Il
rumore della porta, uno scricchiolio inopportuno, fece voltare il suo
amico
verso di lui, che lo guardò infastidito.
“Scusate…
Pensavo foste andati da un’altra parte.”, disse
Dougie.
Danny
lo lasciò perdere, certamente sperava che li lasciasse in
pace ma non era
quella la sua volontà.
“Little…”,
le disse, prendendo le sue mani, “Parlami… Cosa
è successo?”
Niente,
non un solo suono usciva dalla bocca di Jonny, chiuse, serrate.
Per
la seconda volta, Danny tornò a fissarlo. Glielo leggeva in
viso: stava
pensando che fosse tutta colpa sua.
“Tu
ne sai niente?”, gli domandò nervosamente.
Dougie
alzò le mani, con innocenza.
“No…
Stava parlando con Arianna… Poi mi sono accorto che
c’era qualcosa che non
andava.”
E lo
ignorò ancora.
“Little…
Per favore, dimmi cosa ti è successo.”
Lei
lo guardava, senza fare altro. Era scioccata.
Poi,
con enorme sollievo di entrambi, si morse le labbra e le
aprì, in uno
spiraglio. Pregò il cielo che dicesse una parola, una sola
parola, una piccola
frase che potesse rassicurarli entrambi, che li potesse liberare. Ma
non
accadde.
I
suoi occhi presero a ballare ripetutamente, spostandosi da Danny,
davanti a lei
e visibilmente terrorizzato, e lui, Dougie, lontano ma comunque
preoccupato.
Ti
prego, parla...
Si
fermarono poi su di lui, distante e estraneo, scavalcando Danny.
“Mio
padre è morto.”, gli disse.
La
sua voce era piccola, quasi impercettibile, ma suonò come
l’esplosione di mille
bombe atomiche, che radevano al suolo l’indifesa
città, portando via con sé
tutti i suoi innocenti abitanti.
Spazzando
via tutto.
E si
sentì annullare.
Si
sentì crollare, trascinare a terra. Sentì mille
vetri infrangersi, mille
volontà rompersi. Non poteva essere successo mentre Little
era lassù, lontana
da casa e dalla sua famiglia.
“Oh
mio Dio!”, esclamò, abbracciandola istintivamente,
“Quando… Quando
è successo?”, le fece.
“Non
lo so.”, rispose lei, sospirando quelle parole.
“Non
lo sai?”, le fece.
Sentiva
il suo corpo tra le braccia e gli sembrò ancora
più fragile, di cristallo e
pronto a frantumarsi sotto il pericolo costante che ogni tocco, ogni
suono,
potesse farlo implodere, dissolvere.
“Dio,
Little…”, le fece, dandole un bacio sulla testa,
“Non sai quanto mi
dispiaccia…”
Le
sue braccia la avvolgevano completamente, cercando di trasmetterle
tutto il
dolore che stava provando con lei che se ne stava lì,
immobile, scioccata e
vulnerabile. Sentì un paio di lacrime bagnargli gli occhi,
ma non doveva
lasciarle cadere. No, voleva essere pronto a consolarla, a sostenerla
ed a
dimostrarle che era lì per lei, per confortarla nel suo
momento più nero.
Doveva essere forte, era quello che contava per Little, per la sua
amica più
cara, una tra le persone che sentiva più vicino.
La
strinse più che poté, cercò di trovare
le giuste parole, ma tutto gli sembrò
inutile. Cosa poteva dirle? Forse il silenzio e
quell’abbraccio erano molto più
potenti di cento parole, di mille ‘mi
dispiace’, di milioni di
inopportune e gelide condoglianze.
Lei
si mosse, scostandosi con delicatezza. La stava forse stringendo troppo
forte,
le stava facendo male? La guardò, in cerca di una risposta.
I suoi occhi erano
pieni di una tristezza desolante, attanagliavano lo stomaco e
lasciavano senza
fiato chiunque li incrociasse. Era insopportabile, quel sentimento lo
stava
sfiancando e, per un attimo, Danny spostò il viso altrove,
non essendo capace
di farsi carico di tutte le emozioni che Little gli stava
involontariamente
trasmettendo.
Ma
quando tornò a guardarla, vide che di tutte le lacrime che
pensava avesse
pianto non ce n’era nemmeno una sul volto di Little. Non una
sola, niente.
“Little
Joanna…”, le disse.
Le
accarezzò una guancia, voleva essere certo che fosse almeno
un po’ umida, ma la
trovò perfettamente asciutta. La abbracciò di
nuovo, come se quel gesto avesse
potuto tirare fuori tutto quello che nascondeva nel cuore. Voleva che
piangesse
sulla sua spalla, che chiedesse il suo aiuto...
Forse
era ancora troppo scioccata. Sì, si disse, doveva essere
proprio così.
“Little.”,
le fece comunque, sussurrandolo nell’orecchio, “Io
sono qui per te… Sfogati se
vuoi.”
“Sto
bene così.”, disse lei, “Dan, devo
prendere il primo volo.”
La
lucidità che percepì nelle sue parole lo
spiazzò totalmente. La voce di Little
era chiara e cristallina, forse solo un po’ più
infantile del suo solito, ma
comunque ferma, decisa. Lei
lo stava
spaventando fino alle ossa, fin dentro al cuore.
Si
impose di calmarsi, di non farsi prendere dal panico. Doveva rimanere
concentrato su di lei, sulla Little che aveva davanti. Doveva essere
pronto,
perché prima o poi lei avrebbe veramente realizzato il
dolore di quella perdita
così grande, così profonda. E lui sarebbe stato
lì, a braccia aperte, pronto a
raccogliere tutte le sue lacrime.
Non
voleva che accadesse davanti a tutti gli altri.
“Andiamo
a casa.”, le disse, alzandosi.
Si
voltò, e si accorse che Dougie era sempre lì. Se
ne stava appoggiato alla
cucina, braccia
conserte e sguardo
rammaricato. Aveva sempre saputo che lui fosse lì, ma se
n’era completamente
dimenticato.
Imbarazzato,
Poynter li precedette nell’uscire dalla cucina, tenendo
aperta la porta e
camminando poi dietro di loro, ad una certa distanza.
“Vuoi
dirlo agli altri?”, le domandò, a bassa voce.
Little
non voleva mai essere al centro dell’attenzione, neanche in
momenti come
quello.
“Non
lo so...”, rispose lei, “Fallo tu... Magari dopo
che sono partita...”
Aveva
previsto bene, ormai la conosceva, sapeva quali fossero i suoi punti
deboli.
“Certo,
Little.”, le disse, “Tutto quello che
vuoi.”
Prima
di essere troppo vicino agli altri, Danny la guardò di
nuovo.
Niente,
ancora nessuna lacrima, nemmeno una. Solo una grandissima angoscia,
dipinta sul
suo volto come un disegno indelebile, impossibile da lavare via...
“Ehm...
Tamara.”, chiamò la sua ragazza, intenta in uno
scambio di parole fitte con Gi,
“Ti dispiace se facciamo un salto a casa? Joanna deve
prendere una cosa.”
“Devo
venire anche io?”, domandò lei, perplessa.
“Beh...
Sì.”, le fece.
Non
poteva spiegarle tutto, non davanti a loro. Soprattutto, non sapeva
come
avrebbe preso la sua decisione, adottata in quello stesso istante, di
accompagnare Little in Italia. Non se la sentiva proprio di lasciarla
andare da
sola, non sapeva quando sarebbe esaurito questo suo stato di shock... E
non
voleva che succedesse senza che fosse accanto a lei.
L’avrebbe semplicemente
portata dalla sua famiglia e sarebbe tornato a casa: non si tratteneva
oltre,
non poteva farlo, anche se sentiva la volontà di rimanere
con lei finché tutto
non fosse finito.
“Se
deve prendere solo una cosa, potete anche andare da soli.”,
ribatté Tamara,
evidentemente annoiata di interrompere la sua vivace conversazione.
“Faremo
presto.”, insistette, “Solo cinque
minuti.”
“Perché?”,
continuò ancora lei, “Perché avete
bisogno anche di me?”
Danny
si toccò stancamente gli occhi, cercando la forza per
resistere alla
cocciutaggine di Tamara. Perché semplicemente non lo
accontentava? Non stava
forse capendo, come invece sicuramente avevano già
realizzato gli altri, che
c’era qualcosa che non andava? Notava le occhiate strane di
Tom e di Harry
spostarsi da lui a Joanna, per poi cadere su Dougie, ancora alle loro
spalle,
distaccato.
“Andiamo,
Tamara, per cortesia.”, le fece, sospirando.
“Spiegami
cosa è successo!”, si incaponì lei.
Cercò
la forza per non irritarsi ancora di più.
“Devo
tornare a casa.”, rivelò Joanna, accanto a lui,
“Oggi.”
“E
perché?”, chiese subito Tom.
“Niente
di che.”, la sostenne Danny, “Solo un piccolo
problema. Vero, Little?”
“Speriamo
non sia niente di grave.”, disse Harry.
Gli
occhi puntavano fissi quelli di Little, in cerca di una risposta
più
esauriente. Danny volle proteggerla, sapeva che quello sguardo le stava
facendo
male, e Harry
doveva smettere di essere
così fastidioso.
“Beh...”,
balbettò Little, “Devo... Proprio tornare a
casa.”
“Ma
come mai?”, tornò alla carica Tamara,
“Cosa è successo?”
Per
un momento Danny ebbe voglia di prenderla per un braccio e portarla
via, farle
capire che era...
“Mio
padre è morto.”
Volevate Dougie?
Eccovelo servito.
Volevate il perno
intorno al quale gira tutta la storia? Eccovi pure quello.
Quando ho iniziato a scrivere questa storia, non avevo la
più
pallida idea di cosa far capitare ai miei personaggi. Non so per quale
motivo mi è balzata in mente questa idea, spero che non
tocchi
la sensibilità di nessuno. In altro modo, spero di poter
rendere
in futuro i sentimenti di Joanna realistici rispetto alla situazione
che sta vivendo. Avrà una reazione del tutto particolare, a
cui
il titolo di questo capitolo fa un certo riferimento.
La ragazza che
scompare.
Spero che capirete perchè, anche se non ve lo chiedo adesso,
ma
nei prossimi capitoli. Non sarà una cosa che
risalterà
subito agli occhi, ma con un buono spirito di osservazione ed una buona
capacità di lettura si potrà capire... Almeno
spero, o
vorrà dire che ho fallato in qualcosa XD
Comunque, il titolo del capitolo è una canzone di Tori Amos,
artista che mi ha dato una mano più che fondamentale nella
stesura di questa storia. Difatti, i suoi lavori saranno citati
più volte. Vi consiglio vivamente di ascoltarla un po', ne
vale
la pena. Ad ogni modo, non ho sfruttato "A Girl Disappearing" per alcun
scopo di lucro.
Passiamo ai ringraziamenti!
K94: eccoti
servito Dougie XD contenta? Spero di sì!
GodFather:
ma eccoti! Una per
una state tornando tutte! Sono sinceramente commossa, quando ho
pubblicato il primo capitolo mi chiedevo se avrei avuto il solito
seguito di lettrici... Non so come ringraziarti! Per quanto riguarda la
musica blues... Norah Jones penso di non sopportarla più,
dal
tanto che l'ascolto! Cat Power non la conosco... Ma penso di rifarmi
molto presto. Grazie mille per il consiglio! Dougie era impegnato con
te? Maremma santa, ecco dov'era finito! Ridammelo eh!!!!
Picchia:
baciamo le mani...
Sadismo? Masochismo? Chiamalo come vuoi, ma si tratta di Joanna...
Credo che sul dizionario dei sinonimi, come Homer Simpson per stupido,
ci sia lei sotto quelle parole. Purtroppo
è fatta
così, non la capisco nemmeno io a volte. Ma è
nata in
questo modo, ci posso fare poco, tranne che portarla sulla via della
normalità. Credo di esserci riuscita, chi lo sa?
kit2007:
diciamo che hai colto
un po' l'essenza dello spirito di Danny, come di Tamara e di Joanna.
Non è facile sbrogliare queste persone,
soprattutto
Danny e il suo rapporto con Joanna. Ci sarà tutta
una
storia per capirne qualcosa e spero che non ti deluderò
affatto.
Sono contenta che, in fondo, tu possa capire Tamara.
Semplicemente perchè hai elencato il buon motivo per cui
tutte
dovrebbero farlo: è innamorata. E non è l'unica!
XD
Purtroppo...
CowgirlSara:
XD Si parla
sempre di chi non c'è! Magari appena appare Dougie
farà
una figuretta così misera ai tuoi occhi che non lo filerai
di
striscio! Chi lo sa? Ma grazie comunque per tutto quello che hai
scritto nella tua recensione, mi ha fatto molto piacere leggerla!
I capitoli saranno tutti più o meno lunghi, sai
perchè, e spero di soddisfare ogni tua... Ehm... Particolare
esigenza XD via, detta così l'è proprio
pornografica! XDD
Comunque apprezzo molto il fatto che sia riuscita a capire gran parte
di come funzionano i cervelli di quei due cretini! Spero di non
deludere nemmeno te, farò del mio meglio, prometto!
Saracanfly:
ma povera Tamara, basta! La trattate tutti male!!!! XDDDDD
Ciribiricoccola:
Spero
che in questo capitolo l'operaio sia diventato, che ne so, un quadro
dirigente XDDD anche se poi nei prossimi credo che lo degraderai di
nuovo... Ho questa stupenda sensazione! Via, da te mi aspetto di capire
il perchè del titolo di questo capitolo , non adesso ma nei
prossimi capitoli... Che poi è una cacchiata, basta leggere
per
bene. Danny che si accorge che Joanna è un po'
strana????
XDDDD Ma anche no, purtroppo per lei! Danny non capisce
proprio
niente di lei, e se ne accorgerà... In ritardo! Ci
sbatterà la testa come contro ad un muro di cemento armato,
e si
farà mooooolto male. Via, ti ho già detto troppo!
_Princess_ : purtroppo quel termine lo odio dal profondo
del cuore,
perchè ormai non lo vedo più come un'ironia, ma
come una
critica spesso ingiustificata. Ma vabbè, sono cose
mie
personali :) Danny... Povero imbecille, meno male che ci
sarà qualcuno che cercherà di aprirgli gli occhi!
E mi
dispiace, ma Drummer McHot verrà tagliato un po' fuori dalla
scena... E' così... Fattene una ragione! XDDDD
x_blossom_x:
ultima, ma non per
importanza, ovviamente :) per i particolari dimenticati, credimi, non
ti metto in croce :P E Danny bagnato credo che sia il top del capitolo!
Insomma, fossi stata in Little... Le difficoltà
che lei
trova nel parlargli, lo sai, sono piuttosto banali, ma quello non le
capisce nemmeno quando gliele mettono davanti al naso.
Purtroppo
è fatto così, è volontariamente cieco
di fronte a
lei... E perchè? Cos'è che lo rende cieco? Di
certo non
Tamara, povera ragazza... Little non ha mai fatto niente di male, ma
Tamara ha una paura matta che Danny capisca... Soprattutto che capisca
se stesso... Basta XD tu sai, ma le altre no!
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Capitolo 6 *** Censored Tears ***
6.
Censored Tears
Sometimes I'm a selfish fake
and you're always a true friend
I
don't deserve you 'cause I'm not there for you
Please
forgive me again
Tutti
la fissavano immobili, bloccati, sbarrati.
Il
primo a muoversi fu Harry: le si avvicinò e
l'abbracciò, le disse che le
dispiaceva, che non sapeva che cosa stesse provando ma che, comunque,
le era
vicino. Poi lo segurono Tom e a Giovanna, altrettanto scossi.
Dougie non si mosse: non era stato capace di
guardarla in viso da quando Jonny gli aveva dato la notizia, con gli
occhi verdi
fissi dentro ai propri... Non
sapeva cosa fare. Avrebbe voluto consolarla ma non trovava le parole
giuste, non sapeva se abbracciarla... Non ne aveva la più
pallida idea. Comunque, lei non avrebbe gradito il suo conforto e
decise di rimanersene
semplicemente in disparte, dove non avrebbe potuto farle del male,
né darle
fastidio. Ci avrebbe pensato Danny a sostenerla, non lui, che non ne
aveva
alcun diritto.
“Beh...
Mi dispiace, Joanna.”, disse Tamara, colpevole del tono che
aveva usato.
Non
era difficile intuire quanto fosse gelosa di Jonny e quanto si
sbagliasse sul
suo conto, soprattutto sul non dare a Danny la fiducia che gli
spettava. Non c’erano dubbi su quali fossero i reciproci
rapporti, non
avrebbe dovuto essere così ostile nei suoi confronti: se
gliene avesse dato
la possibilità, lo avrebbe capito, ma sembrava troppo
impegnata nel diffidare di lei.
“Non
ti preoccupare.”, le rispose Jonny, “Non
è colpa tua... Ma adesso vorrei davvero andare a casa."
“Aspetta.”, le disse Tom, “Chiamo
l’aeroporto per cercarti un volo
disponibile, così non dovrai perdere altro tempo.”
“Buona
idea.”, disse Danny sospirando.
C’era
qualcosa che lo turbava, Dougie glielo leggeva
nell’espressione contratta del suo
viso.
“Tamara,
posso parlarti un attimo?”, chiese il chitarrista alla sua
fidanzata.
La
prese in disparte, lontano da orecchie ed occhi indiscreti che
subito tornarono
a concentrarsi su Jonny. Si preoccuparono per lei, le chiesero
se
volese dell’acqua, oppure se volesse sedersi: Jonny
accontentò tutte le loro premure, e si sedette con
un
bicchiere di acqua tra le mani mentre Tom, Giovanna ed Harry la
attorniavano,
senza sapere di preciso cos'altro fare. Avrebbe voluto esserne
partecipe ma sapeva
che le avrebbe solo causato altra sofferenza.
Se ne restò lì, con le mani in
tasca, in piedi vicino ad una delle quattro gambe del gazebo,
quella più lontana da lei.
La osservava.
Jonny
non piangeva.
Jonny
non versava una lacrima per suo padre morto.
Jonny
non diceva niente.
Jonny
era strana.
Ed
erano tutti preoccupati per lei.
Sapeva
che cosa le aveva fatto suo padre... E forse anche cosa le stava
passando per la
testa, cosa stava pensando. Oppure
no?
Cosa
poteva saperne lui? Per quanto lo riguardava, anche suo padre era
morto, o
quasi, perchè non era la stessa cosa; sapeva che
era ancora là fuori, da
qualche parte, magari con una nuova famiglia, con altri figli. Lasciò perdere
ogni pensiero che lo
riguardasse personalmente, quello non era il momento di
riflettere su di sé.
D'improvviso, la
voce di Tamara si alzò esponenzialmente.
“Cosa?!?”,
esclamò, “No, te lo proibisco!”
Tutti si voltarono verso di due in disparte, con aria interrogativa.
“Tam...
Basta, ne parliamo a casa, va bene?", Danny cercò di
calmarla e le fece cenno di abbassare il tono.
Dougie
notò subito il nervosismo di Harry, che guardava verso i
due, a pugni strett, mentre Gi
se ne stava china su Joanna e la implorava di non starli a sentire,
avrebbero presto smesso di discutere.
"Ha bisogno di qualcuno che le stia accanto!”, disse ancora
Danny, “E io devo farlo,
non può tornare a casa da sola. E' sconvolta!”
“Non
esiste! Lei torna a casa, tu rimani qua!”, insistette
Tamara.
Giovanna alzò gli occhi verso Tom e gli chiese di farli
smettere, per il bene di Jonny.
“Ci
penso io.”, disse Harry, camminando velocemente verso i due.
Dougie si preparò a quello che avrebbe assistito: una bella
dimostrazione di quanto l'insensibilità delle persone
potesse
ferire l'innocenza di un'altra.
“Jo, andiamo dentro, qua fa troppo
caldo.”, le fece Gi, con tono allarmato, e si
allontanò con lei.
Harry
ebbe il buon senso di aspettare che le due ragazze sparissero dal
raggio della sua voce.
“Smettetela!”, esclamò infuriato verso
di due, "Non vi rendete conto di quanto stia male?”
“Lo
so benissimo, Judd!”, protestò Danny,
“Adesso fatti gli affari tuoi!”
“Oh
sì, certo, adesso me ne torno sotto al gazebo e
farò
finta di niente!”, rispose l'altro,
“Farò finta che
non ci siano due deficienti a litigare mentre qualcuno, in
salotto, non aspetta altro di essere portata all’aeroporto
per
tornarsene a
casa e starsene con la sua famiglia!”
“Harry,
lasciaci in pace!”, tuonò Tamara.
“Subito,
signorina!”, disse lui, con sarcasmo, alzando le mani al
cielo, “Finite di
scannarvi, fate con calma, ci pensiamo noi a portare Joanna
all’aeroporto.”
“Lo faccio io!”, lo fermò Danny,
prendendolo per un braccio.
“No,
tu non andrai affatto!”, si sfogò ancora Tamara,
“Non ti azzardare a lasciare
questa casa con lei!”
“Chiudi
quella bocca!”, le si rivolse con foga Harry, che ormai ne
aveva avuto
abbastanza di quella sceneggiata.
Mai
frase fu più appropriata di quella per farla zittire.
“Tamara, non
vuoi che Danny vada? Perfetto!”, le fece Harry,
“Allora non ci andrà!”
“Questa
è proprio bella!”, esclamò Danny,
stupito.
“Certo
che è bella, cretino!”, gli si rivolse Harry,
ancora più infuriato, “Non
capisci che sei davanti a due alternative?”
“E
quali sarebbero?”, domandò lui, retoricamente.
“La
prima è quella in cui tu prenderai l’aereo con
Joanna, la accompagnerai a casa,
e tornerai trovando la tua vuota, senza Tamara.”, gli fece.
La
ragazza annuì, contenta di aver trovato sostegno in Harry,
ma c’era ben poco da
festeggiare.
“L’altra,
invece, è quella in cui tu sceglierai di rimanere qua,
lasciando
che qualcuno
di noi la accompagni al posto tuo. Jojo starà comunque bene
e
tu, invece, avrai ancora la tua fidanzata.”, concluse Harry.
Danny
lo fissò, poi si spostò su Tamara.
“Perché
mi stai mettendo di fronte a questa scelta?”, le fece,
“Lo sai che è del tutto
inutile! Perché dubiti di me?”
Dougie
scosse la testa, disgustato da quello a cui stava partecipando. Anche
Tom, avvicinatosi a lui, era sulla sua solita lunghezza
d’onda.
Volse lo sguardo alla
casa: le porte a vetro rifrangevano la luce del sole alto nel cielo,
non gli
permettevano di scorgere né Giovanna né Jonny. Li
stavano
sentendo?
Pregò di no, altrimenti non avrebbe risposto delle sue
azioni.
Tornò
sulle frequenze dei tre litiganti.
“Danny, non puoi andarci, è fuori
discussione.”, ripeté ancora Harry.
Il
chitarrista sbuffò, alzando le braccia al cielo.
“Jojo
non tornerà a casa da sola, te lo prometto.”,
insistette Harry, posando con
sicurezza una mano sulla sua spalla, “Qualcuno di noi
sarà con lei.”
“E
chi?”, ringhiò Danny, “Vuoi andarci tu,
per caso?”
Harry
scosse la testa.
Dougie
non era d’accordo, assolutamente. Quel compito toccava solo
ed
esclusivamente a Danny, era fuori discussione, e se a Tamara non stava
bene
allora quella era la porta, poteva andarsene. Tutto ciò era
la palese
dimostrazione che anche quella ragazza, così come tutte le
altre che lui aveva
avuto, non era capace di fidarsi di lui.
Così
come ognuno di loro, Danny aveva la sua personale scala di
priorità: musica, amici, e poi il resto. Chiunque
fosse stato abbastanza intelligente da capire in quale categoria
rientrare
avrebbe subito saputo quando mettersi da parte per dare la precedenza
alle cose
più importanti.
Tamara
doveva aver ritenuto di essere più fondamentale dei suoi
amici ed apparentemente aveva sbagliato
di grosso, Danny non sembrava averle ancora
concesso di travalicare la posizione che le
aveva affidato.
Ne rimase alquanto stupito.
“Mandiamoci
Tom!”, esclamò Danny, “Mandiamoci lui,
che non la conosce affatto!”
Dougie
guardò verso Fletcher, che ricambiò scuotendo la
testa.
“Aspetta!”, continuò Danny, mettendosi a
ridere, “Mandiamo Dougie! Lui sì
che sa come farla star bene!”
“Sì!”,
disse Harry.
Si
sentì gelare.
Danny
rimase stupefatto.
“Sì
cosa?”, gli fece, “Sì, un bel cazzo!
Judd, stai scherzando, vero?”
“Dougie è più adatto di me e di
Fletcher
messi insieme... Se non badiamo a ciò che è
successo.”
“Non
se ne parla!”, si incaponì Danny, “Lui
non andrà con Little!”
“E
allora vuoi andarci tu?”, tornò a farsi sentire la
voce squillante di Tamara, “Harry
ha ragione, se adesso parti, me ne vado.”
"Tu non sai cosa è successo tra Dougie e Joanna!”,
cercò di farla ragionare
Danny, “Lei lo odia!”
No,
lei non lo odiava.
Lo ripugnava,
lo schifava, lo negava, lo aborriva,
lo disprezzava,
lo spregiava, lo detestava con
tutta se stessa.
Ma
non lo odiava affatto.
“E
quindi?”, sbuffò Harry, “Dougie deve
semplicemente prendere l’aereo con lei,
lasciarla alla sua famiglia e tornare qua. Fine! Cosa
c’è di complicato in
tutto questo?”
Perché
stavano parlando come se lui non li stesse sentendo? Pensavano che
fosse sordo?
Oppure non avevano visto che lui era lì, perfettamente
dotato di occhi ed
orecchie? Magari, se avesse fatto sentire la sua voce avrebbero smesso
di
caricarlo di una responsabilità che non voleva assolutamente
accollarsi.
“Hey!”,
fece loro, “Guardate che io sono qua!”
“Lo
sappiamo che ci sei, Poynter.”, gli fece Harry, “Ma
non hai voce in
capitolo.”
“Oh
sì, certo, io accetterò le vostre decisioni senza
oppormi!”
“Dougie.”,
sentì la mano di Tom posarsi sulla sua spalla, anche lui
sembrava favorevole a quella soluzione.
“Tom,
per cortesia, non metterti in mezzo.”, gli disse, liberandosi
del suo
tocco, “Non ti rendi conto che non posso farlo? E comunque
Jonny non vorrebbe.”
“Potrei
farlo io, ma ha detto bene Danny, non la conosco.”, disse
lui, con il suo
solito tono calmo e rilassato, “E lo stesso vale per Harry.
Si sentirebbe più che sola in nostra compagnia.”
“Perché
non pensate un po’ anche a lei?”, disse Dougie,
“Magari Jonny vuole
semplicemente tornare a casa senza scocciatori!”
“Lo
hai visto anche tu in che stato è.”, insistette
Tom, “A me... Fa paura.”
Anche
a lui...
Jonny stava spaventando tutti. Non si reagiva in
quel modo alla perdita di un genitore,
non si poteva rimanere così calmi, senza versare una sola
lacrima di
disperazione, neanche quando a morire era stato uno come suo padre.
“E
so che sei preoccupato più di me e di Harry messi
insieme...”, premette ancora
Tom, “Fallo per il suo bene.”
“Ma
lei non vorrà!”, gli ripeté, con
maggiore forza.
“Le
faremo capire che non può andare da sola.”, disse
Tom.
No,
non poteva accettare quella decisione. Guardò verso i tre
scuotendo la testa,
ancora immersi nella discussione ad una decina di metri da loro. Danny
si accorse dei suoi occhi e si incamminò nella sua
direzione,
fermandosi proprio davanti a lui. Dougie fu pronto ad una sua reazione
drastica.
"Apri bene le orecchie,
Poynter.”, gli disse, il suo tono era tutt’altro
che amichevole. “Ti chiedo una
sola cosa.”
“Danny,
io non voglio andare con Jonny, è fuori
discussione.”, lo interruppe, cercando
di essere convincente.
“Non
mi interessa quello che voi.”, riprese lui, “Quello
che è importante è che
Little torni a casa, che sia sotto lo sguardo vigile di
qualcuno.”
“Fallo
tu, fregatene di Tamara!”, gli disse.
“Non
posso.”, affermò Danny, stringendolo in uno
sguardo sicuro
e fermo, “Devi farmi questo immenso favore, da amico quale
sei.
Smettila di fare il bambino, comportati da adulto e prenditi
questa mia
responsabilità.”
Così
come aveva accettato di sedersi, di bere e di entrare in casa, al
sicuro dalle
parole taglienti che erano uscite dalle loro bocche, Little
accettò di farsi
accompagnare da Dougie. Aveva ascoltato, annuito, detto semplicemente
‘grazie’,
ed alla fine aveva accettato tutto senza
dire una parola, senza scomporsi, senza irritarsi, senza opporsi.
Danny
non sapeva più cosa fare, non voleva ancora credere che
Little avesse detto di
sì.
La Little che conosceva, la sua Little, non si
sarebbe mai
sottoposta a tutto quello. Dire che era preoccupato per lei era il
più grosso
eufemismo che la mente umana potesse produrre.
Era
terrorizzato, completamente spaventato.
Erano
tutti lì, nel soggiorno, con le mani in mano, in attesa che
Tom sbrigasse la
sua telefonata e prenotasse un volo per Little e per Dougie. Erano
seduti,
tranne lui che passeggiava nervosamente alle spalle del divano dove si
era
accomodata Little, immersa nei suoi pensieri, lo
sguardo perso sulle
pieghe del tappeto sotto i suoi piedi.
Tom
spuntò dalla cucina, il telefono in una mano e un blocchetto
nell’altra.
“Allora...”, esordì, non appena
l’attenzione si fu concentrata su di lui, “Il primo
volo disponibile parte stasera alle otto e mezza da Gatewick ed atterra
a...”,
rilesse gli appunti, “A Firenze... Mentre quello di ritorno
per Dougie ci
sarà...”, tornò a controllare quello
che aveva scritto nella sua sempre bella
ed elegante calligrafia, “Beh... Ci sarà domani
mattina alle quattro, niente
disponibilità in altri aerei. Gli aeroporti rimangono gli
stessi.”
“Ok.”,
disse Danny, “Grazie, Tom.”
“Figurati.”,
disse lui, stringendosi nelle spalle e in un sorriso rassicurante.
“E’
meglio che mi sbrighi a preparare le mie cose.”, disse
Little, alzandosi.
“Sì,
ti porto subito a casa.”, le fece, “Dougie, ti
passo a prendere tra un’ora.”
“Va
bene.”, disse lui, annuendo.
Fece
per muovere un passo, poi si bloccò. Guardò verso
Tamara, seduta sulla
poltrona, da sola, vicino a lei Giovanna.
“Rimani
qui?”, le chiese.
“Sì.”,
rispose lei, seccamente.
Le
si avvicinò e le dette un bacio sulla testa, percependo
sulle labbra tutta la
rabbia che provava per lui.
Si
sarebbe fatto perdonare, ma ora doveva pensare a Little, a farla
tornare a
casa senza problemi e provare a starle accanto in quella lontananza
impossibile. Una lontananza in cui Tamara stessa l’aveva
costretto contro
la sua volontà, ma che aveva accettato di vivere. Non la
voleva
perdere.
Vide
gli altri alzarsi ed abbracciare Little, sussurrarle di nuovo il loro
dispiacere e ricevere in cambio nient’altro che le
espressioni assenti, nascoste
da piccoli sorrisi, segno della gratitudine che voleva dimostrare loro.
Uscirono
dalla casa in silenzio, camminando lungo il marciapiede. Lei se ne
stava a
testa alta, gli occhi davanti a sé. Lui non poteva fare
altro che chiedersi
cosa le stesse passando nella testa e nel cuore. Avrebbe voluto avere
la chiave
per accedervi, ma si doveva accontentare solo della
possibilità di leggerle
tutto negli occhi. E quello che vedeva non era nient’altro
che un’infinita
tristezza.
Finirono
di preparare la valigia ed ancora nessuna parola era stata detta. Si
sedettero
davanti alla tv, cercando di distrarsi, non un filo di voce.
Little
era lì, accanto a lui, ma
dove si
trovasse a lui non era dato sapere.
Quel
tempo in attesa fu uno dei più lunghi della sua vita: i
secondi erano
interminabili, ogni ticchettio dell’orologio che portava al
polso sembrava
segnare la fine di un’eternità.
Aveva caldo, si sentiva soffocare, l’aria era
irrespirabile. Sì alzò, bevve, fece quattro passi
in giardino, immerse una mano
nell’acqua refrigerante della piscina.
Tutto,
pur di far aumentare lo scorrere mastodontico del tempo.
Tornò
dentro casa e trovò Little ancora al suo posto, seduta come
l’aveva lasciata,
con le mani distese lungo le gambe e lo sguardo fisso sullo schermo del
televisore,
straniata dal mondo. Si sedette ancora accanto a lei e le
passò un braccio
sulle spalle, stringendola. Rimase così per qualche tempo,
non seppe dire
quanto.
“Perché
non piangi?”, le domandò, le parole uscite
incontrollabili dalla bocca.
“Non
lo so.”, rispose.
La risposta lo ammutolì.
“Dobbiamo
andare.", disse lei.
Caricò
la valigia nell’auto e fece salire Little al posto
dell’accompagnatore. Si spostarono davanti
all’abitazione
di Dougie, a cento metri dalla sua, e suonò
tre volte il clacson. Un paio di minuti ed anche lui fu in macchina.
Il
silenzio durò ininterrotto per tutto il viaggio, una
sostanza vischiosa aveva
censurato le loro bocche, bloccato i loro pensieri, immobilizzato i
loro corpi.
Solo la voce di Alanis Morissette usciva bassa dalle casse dello stereo.
What's the
matter Mary Jane, you had a hard day, as you place
the don't disturb sign on the door..
Quella
canzone era sempre stata tra le sue favorite. Ad ogni parola, sembrava
quasi
voler parlare a tutti loro.
A Little.
Please be
honest Mary Jane, don't censor your tears..
Tell me, tell me, what's the
matter Mary Jane...
Arrivarono
all’aeroporto, il volo era già segnalato dalle
spie rosse sul grande tabellone.
Sarebbero partiti tra un’ora e mezza, era il momento di fare
il check in e
sbrigarono subito quella formalità.
Li
guardava entrambi: davanti a lui, Little con il suo trolley e Dougie
con uno
zaino.
“Vado
a prendermi qualcosa da bere.”, disse Joanna, “Ho
sete.”
“Lascia
andare me.”, le disse prontamente, “Rimani qui con
Dougie.”
“No.”,
fece lei, “Faccio da sola. Non ti preoccupare, non mi
perderò.”
Gli
affidò la sua valigia e se ne andò in cerca di un
bar.
Era
passata dall’accettare tutto quelle che le veniva detto al
negare un semplice
favore. Non era in grado di capirla.
Quando
tutto quello fosse passato, sarebbe tornata la Little di sempre.
Ora,
però, doveva sistemare una cosa.
“Dougie.”,
lo chiamò, costringendolo a spostare la sua attenzione dal
suo biglietto a lui.
“Sì...”,
fece l’altro.
Non
era facile, ma doveva farlo.
“Non
fare cazzate.”, gli disse, e lo ripeté, “Non
fare cazzate. O te la vedrai direttamente con me.
Chiaro?”
Lui
rimase in silenzio, statico.
“Sì,
è chiaro.”, rispose poi.
“Controllala,
portala dai suoi e torna a casa.”
“Sì,
lo farò.”
“Promettilo.”,
gli disse, con sicurezza.
Dougie
sospirò, ma glielo promise. Aveva dovuto farlo, non voleva
che lui facesse
qualche stronzata che l’avrebbe fatta stare peggio. Doveva
assolvere un compito
difficile che sarebbe spettato a lui di diritto, ma volle provare a
fidarsi di
lui.
Prima
del previsto, Little tornò da loro.
“Tutto
a posto?”, le domandò subito.
“Sì.”,
fece lei, agitando la bottiglia di Coca Cola che teneva in una mano.
“Bene...”,
era arrivato il momento di farli accedere alla zona delle partenze,
“Little, mi
raccomando, se hai bisogno di qualsiasi cosa, chiamami.”
“Certo.”,
rispose lei, con un piccolo sorriso.
Gli
scaldò il cuore, ma non fu sufficiente. Doveva abbracciarla.
“Fallo
anche appena atterri... Ed ogni volta che vorrai.”
La
sentì annuire e la baciò sulla fronte.
“E non
ti preoccupare per Dougie, farà il
bravo.”, le disse, con un po’ di ironia.
“Non
c’era bisogno che venisse...”, disse
Little, “Né lui, né tu.”
“Little,
credimi, è per il tuo bene.”
“Ok.”
“Mi
chiamerai, vero?”, le chiese ancora.
“Stai
tranquillo, Jones.”, rispose lei, allontanandosi dalle sue
braccia.
Non
trovò nessun conforto nell’atterrare di nuovo in
Italia. Non si sentì meglio
nel posare il suo piede sinistro sul suolo mediterraneo. Non ebbe alcun
sollievo nel respirare un’aria diversa, ancora più
calda ed afosa di quella
inglese.
Davanti
a lui Jonny, con il suo trolley, cercava di comprendere da che parte
fosse
l’uscita. Bastava semplicemente seguire la folla intorno a
loro, ma lei
sembrava persa. Si guardava intorno, con aria interrogativa, quasi
spaventata.
“Vieni.”,
le disse, prendendo il comando della situazione.
Camminò
al suo fianco, silenziosa da quando Danny li aveva lasciati
all’aeroporto. Dougie
voleva essere da tutta altra parte, lontano da lì. Lui non
le era utile, non
sapeva come comportarsi, soprattutto in quella situazione. Aveva
pianificato e
voluto solo quello che c’era già stato:
nient’altro che il fallito tentativo di
chiederle scusa. Si sentiva totalmente inadeguato per quella
responsabilità,
incapace di fare come gli era stato detto.
‘Controllala,
portala dai suoi e torna a casa.’
Doveva
esserci Danny al suo posto, anche se non sapeva un bel niente di Jonny,
della
sua storia, del suo passato. Danny non aveva visto quella cicatrice,
non aveva
conosciuto quella Jonny, non sapeva che per lei non
esistevano i suoi
genitori, soprattutto suo padre. Per gli stessi
motivi non era lui, Dougie, quello che doveva portarla a casa.
Quella sarebbe stata una buona occasione per Danny di sapere tutto, di
venire a
conoscenza di quello che le era successo. Era sbagliato, era tutto
sbagliato.
Cosa
poteva fare? E se Jonny avesse avuto bisogno di una spalla su cui
piangere? Con
quale coraggio lui le avrebbe offerto la sua, dopo quello che le aveva
fatto?
Solo per
scrupolo nel suo zaino aveva messo qualcosa di pulito, ma non aveva la
minima
intenzione di passare la notte al di fuori degli imbarchi
internazionali. Aveva
sempre odiato sentirsi inutile, incapace come un bambino delle
elementari e
sapeva che, se avesse lasciato l’aeroporto, quello stato
d’animo che già
provava si sarebbe ingigantito all’ennesima potenza. Era
quello a tentarlo, a
mettergli in testa la frenesia di andarsene.
Voleva
tornare a casa.
Rimaneva
solo perché lo spaventava l’idea che Jonny potesse
voltarsi e non trovare
nessuno accanto, mentre il mondo intorno la ignorava.
Solo
per non deluderla ancora
“Doug.”,
lo chiamò Jonny, “Di qua. Ho visto
Arianna.”
“Ok.”,
le fece.
Accelerò
il passo per restarle dietro e riconobbe davanti a loro la bella donna
bionda e
alta con la quale lei viveva. Si guardava intorno, li stava cercando
con gli
occhi e, quando li posò su Jonny, alzò le braccia
per farsi notare. Poi vide
anche lui, e la sua espressione si perse. Non lo aspettava, Jonny
doveva non averle anticipato il suo arrivo. Il
gruppo di persone intorno alla donna si dissolse e rivelò la
persona accanto ad Arianna. Jonny si fermò di colpo,
così
come lui.
Miki, suo
fratello, se ne stava con le mani in tasca, in attesa che si
avvicinassero
entrambi.
Lo
aveva riconosciuto? A vedere dall’espressione del suo viso,
tutt’altro che
amichevole e rilassata, non poteva dire altro che sì.
Poteva non sapere il suo
nome, ma sicuramente lo aveva localizzato come uno di quei quattro
inglesi.
Arianna
si avvicinò a loro ed annullò la distanza che
ancora li
separava,sbrigandosi ad abbracciare Jonny. Dougie prese il manico del
suo trolley, mettendolo al
sicuro da qualche malintenzionato, ed affrontò malamente
l’occhiataccia di Arianna. Si tenne alla larga da posare i
propri
occhi sulla figura di Miki, ormai
anch’essa vicino a loro, a braccia conserte in attesa del suo
turno, ma appena
Arianna sciolse la sua presa affettuosa sul corpo di Jonny, lei non gli
prestò
la minima attenzione.
Come
se non esistesse.
Danny
aveva raccontato a grandi linee cosa era successo: non sapeva i
particolari, ma
Dougie poteva benissimo riempire gli spazi mancanti.
Le due donne parlavano tra di loro ma non le
capiva, e lui se ne stava semplicemente lì, in attesa che
Jonny lo congedasse.
Con la coda dell’occhio teneva sotto controllo suo fratello:
si aspettava che
facesse qualcosa di plateale, una mossa stupida che avrebbe fatto
innervosire
Jonny.
Quando
lo vide avvicinarsi e metterle una mano sulla spalla per attirare la
sua
attenzione, Dougie si drizzò sugli attenti, ma se ne rimase
comunque calmo, a
farsi gli affari suoi.
Li
sentiva parlare ed i toni non erano per niente rassicuranti.
“Jo,
devi tornare a casa con me.”, le diceva lui.
“Non
ci penso neanche.”, rispose Jonny, liberandosi della sua
mano, “Vado a casa
mia, con Arianna.”
“Tua
madre ha bisogno di te, vuole vederti.”
“Ed
io non ho bisogno di lei, né voglio vederla.”
Si
stava innervosendo.
“Chi
è quello là? E’ quello che ti ha
mandato quel bel regalo?”
Non
comprese cosa quell’energumeno stesse dicendo ma lo vide
puntare un dito verso
di sé. Alzò gli occhi e lo sfidò con
lo sguardo, per poi spostarlo velocemente
altrove.
Non
fare cazzate,
rimbombò la voce di Danny nelle sue orecchie, ed
inghiottì il magone.
“Non
sono affari tuoi!”, gli rispose Jonny.
Sperò
che lo stesse difendendo a parole. Aveva un po’ di muscoli,
ma niente in
confronto a quelli di Miki.
“C’era
proprio il bisogno di farlo venire?”, tornò lui
all’attacco, “Ti rendi conto di
quanto sei stata stupida?”
“Io
non sono stupida!”, gridò Jonny.
Dougie
sentì i peli del suo corpo drizzarsi impauriti dal tono di
voce ostile della
ragazza, che aveva attirato l’attenzione di tutti i
passeggeri vicino a loro.
“E
non trattarmi come se lo fossi!”, urlò ancora in
faccia al fratello, “Tu non
sai un cazzo di me e di quello che sono!”
“Jo!
Non parlarmi così!”, ripose lui,
aumentando il volume per contrastarla, “Stai
zitta!”
Vedeva
Arianna, impotente di fronte ai due.
Come
lei, Dougie voleva sparire, volatilizzarsi. Non avrebbe dovuto essere
causa di
altro dolore per Jonny, lo aveva promesso a Danny. Ed invece...
“Jonny...”,
la chiamò, avvicinandosi con discrezione,
“Dì a tuo fratello che me ne vado.
Fallo calmare.”
Lei
si voltò e lo guardò, per poi scambiare quattro
chiacchiere veloci e
sommesse con Arianna.
“Il
tuo volo è alle quattro, stanotte.”, disse
Arianna, "Potresti..."
“No.”, le disse, "Ti ringrazio, ma non voglio
essere d’impiccio, non
voglio causare problemi.”
“Ma
no, Dougie... Stai tranquillo.”, disse Jonny, sospirando.
Non poteva essere stata idea sua, ne era certo.
“Jonny,
rimango qua in aeroporto.”, le disse cercando di essere il
più convincente
possibile.
Lei
lo guardò dritto negli occhi. Stava forse cercando sostegno,
coraggio? E come
poteva darglielo?
Jonny
si voltò, tornando a dare udienza al fratello.
“Perché
è venuto con te?”, le domandò lui,
prima che lei potesse parlare, “Era proprio
necessario?”
“Miki,
per piacere, non sono affari tuoi.”, gli rispose lei, con
tono apparentemente
più calmo.
Quanto
avrebbe voluto imparare quella lingua, si diceva Dougie, che non
riusciva ad
andare oltre la comprensione dei toni agitati della discussione.
“Lo sono prima
di tutto, sei mia sorella e sono responsabile del tuo bene.”,
la
interruppe ancora Miki, "Andiamo a casa e lasciamolo tornare da dove
è venuto."
Dal
dito puntato, Dougie comprese che quella frase era destinata a lui. Gli
venne
voglia di sputare in faccia a quello stupido bestione, ma teneva ancora
alla sua
incolumità fisica.
"Non metterò piede né a casa tua, né
in una qualsiasi altro posto in cui non
voglia farlo!”, Jonny sembrò ribellarsi.
“Stai
zitta e vieni con me!”, gli disse Miki, prendendola per un
gomito e spingendola
a seguirla.
“No!”,
urlò lei, liberandosi.
Quello
che vide lo fece inorridire, fu velocissimo, ma sembrò come
se accadesse al
rallentatore. La mano di Miki si alzò, esitò per
un solo istante e si fermò
sulla guancia di lei, schiaffeggiandola.
Dougie
sentì il respiro morirgli in gola.
Dopo
lo shock iniziale Jonny si toccò il viso infiammato,
guardando il fratello con
occhi sbarrati, spaventata.
“Ma che
cazzo fai!”, irruppe Arianna,
spintonando Miki, “Metti le mani addosso a tua
sorella?”
Miki
non le rispose. Era impietrito, la sua mano ancora
aperta, e guardava Jonny senza la capacità di reagire.
“Andiamo,
Jo.”, disse Arianna, prendendo dalla mano di Dougie il manico
della sua
valigia, “Andiamo a casa. E vieni anche tu, Dougie.”
“No,
davvero, posso rimanere qua.”, le ripeté,
“Non voglio incasinare tutto ancora.”
La
donna scosse la testa, sorridendogli con aria stanca.
“Vieni
e basta.”, gli disse.
Si
ricordava ancora tutto quanto, soprattutto il salotto, che intravide
passandovi
velocemente dal corridoio.
“Vieni,
ti faccio vedere dove puoi lasciare le tue cose e riposare un
po’.”, gli disse
Arianna.
Vedendola
stanca, Dougie la seguì senza obiettare. Jonny, dietro di
lui, sembrava un
fantasma: muta e pallida, l’ombra di se stessa. Non aveva il
coraggio di
guardala, né di dirle niente. Salirono al piano di sopra e
passarono davanti ad
altre porte, arrivando dritti all’ultima. Jonny, invece, si
fermò davanti alla
seconda sulla sinistra, ed entrò senza dire niente.
“Di
qua.”, fece Arianna, sorridendogli mentre abbassava la
maniglia, “Il bagno è la
porta di fronte a questa.”
“Perfetto.”,
le fece, “E grazie di tutto.”
La
donna sospirò, preoccupandosi che Jonny fosse già
entrata nella sua stanza.
“Grazie
Dougie.”, gli disse, “Grazie per averla portata a
casa, senza averla
abbandonata a se stessa.”
“Avrebbe
dovuto esserci Danny al mio posto. Io non so come aiutarla.”,
le fece, con
sincerità.
“Sarebbe
stato meglio.”, rispose la donna.
“Lo
so.”, le disse, “Lo so.”
“Suppongo
che Danny non sia venuto per via della sua fidanzata.”, disse
lei, ipotizzando
correttamente.
“Proprio
così.”
“C’era
da aspettarselo.”, e scosse la testa, “Prenditi
tutto il tempo che vuoi, mi sa
che stasera nessuno di noi avrà particolarmente fame. Se
avessi bisogno di me,
sono in giro, urla il mio nome ed arriverò.”
“Ok.”
La
donna gli sorrise ancora e scomparve, chiudendo la porta. Dougie si
sedette sul
letto, lasciando lo zaino a terra senza nemmeno toccarlo. Si
strusciò con forza
la faccia, improvvisamente un sonno tremendo era piombato su di lui e
si
sentiva completamente privo di forze, svuotato.
Si
distese sul materasso morbido, lasciò le gambe penzolare dal
bordo e chiuse gli
occhi per qualche secondo, nella mente ancora impressa la faccia
terrorizzata
di Jonny. Fu difficile cancellarla, rimpiazzarla con un pensiero
diverso.
Solo
il trillo del cellulare ci riuscì.
Tastò
i pantaloni, lo individuò nella tasca laterale sinistra e
rispose senza
guardare chi lo stesse chiamando.
“Pronto...”,
domandò, con aria stanca.
“Doug!
Finalmente!”, sentì la voce allarmata di
Danny, “Pensavo fosse successo
qualcosa!”
“No,
tranquillo. Tutto a posto.”, gli fece.
“Dov’è
Little? Perché non mi risponde?”, chiese
l’altro, sempre più apprensivo.
“E’
in camera sua...”, lo informò, “Magari
non ha voglia di parlare.”
“Ma le
è successo qualcosa?”
“Tutto
a posto, Dan!”, esclamò Dougie, irritato,
“Sta bene, è solo in camera sua,
magari si è addormentata!”
L’altro
rimase in silenzio.
“Sì,
hai ragione.”, rispose poi, “E
tu dove sei?”
“Sono....
Qua con lei, a casa di Arianna.”, gli disse, sospirando,
“Faccio un riposino e
poi torno in aeroporto.”
“Ok...
Ricordati di dire a Little di chiamarmi, quando si sveglia.”
“Va
bene, Jones, ma calmati.”, lo consigliò.
Lo
salutò e chiuse la chiamata. Si buttò di nuovo
sul letto, si tolse le scarpe
ed si accomodò sul materasso, in cerca di ristoro.
Si
svegliò di soprassalto rimbalzando sul letto.
Guardò fuori e dalla finestra
aperta vide un buio stellato che lo allarmò, facendolo
drizzare sugli attenti.
Spaventato, cercò un orologio, un paio di lancette che gli
indicassero l’ora,
che gli dicessero che era ancora in tempo per prendere il volo di
ritorno ed essere...
“Merda!”,
esclamò, vedendo i numeri impressi sulla sveglia elettronica.
Erano
le tre e quattro minuti, il suo volo sarebbe partito esattamente
un’ora dopo.
Non aveva previsto di dormire così tanto, avrebbe voluto
solo assopirsi
leggermente per poi svegliarsi un paio di ore dopo, senza compromettere
il suo
ritorno in patria.
Saltò
giù dal letto e si infilò velocemente le scarpe.
Si prese solo un attimo per
andare in bagno a sciacquarsi gli occhi stanchi ed uscì
dalla stanza
chiedendosi come mai né Jonny né Arianna si
fossero preoccupate di svegliarlo.
Erano
impazzite?
Sentì
il silenzio che invadeva tutto il piano e, con discrezione, si
avvicinò alla
porta della camera di Jonny. Vi accostò l’orecchio
cercando di capire se fosse
dentro, se stesse davvero dormendo... Non sentì niente,
certamente era crollata
appena si era sdraiata sul letto.
Poi,
uno strano rumore attirò la sua attenzione. Si diresse verso
le scale, ad
ogni passo quel rumore diventava ancora più definito.
C’era una televisione
accesa, da qualche parte, sentiva voci italiane attutite e lontane.
Cercò di
seguire quel suono, quelle parole sconosciute che gli sembravano
provenire da
una delle porte del corridoio. Aprì
una di quelle e trovò quello che cercava: la televisione
sintonizzata su un programma qualunque
ed un tavolo, quattro sedie intorno ad esso, di cui una occupata da
Joanna che
lo guardava in attesa. Davanti a lei un piatto macchiato di qualche
briciola e,
tra le sue dita, una fetta di pane spalmata di cioccolata, proveniente
da un
barattolo rotondeggiante.
“Jonny”,
le fece, “sono le tre, avrei dovuto già essere
all’aeroporto!”
Lei
si fece perplessa. Posò il suo spuntino ed alzò
gli occhi sopra la testa di
Dougie.
“Le
tre?”, domandò, retoricamente, "E'
mezzanotte adesso...”
Mezzanotte?
Dougie
si girò e guardo sopra di sé, dove un orologio a
muro contava esattamente
mezzanotte meno tre minuti. Sospirò di sollievo, la sveglia
della sua stanza
aveva palesemente mentito, facendogli prendere un infarto.
“Ah!
Bene!”, esclamò, “Mi ero addormentato e
l’orologio sul comodino mi ha
ingannato.”
“Segna
l’ora giusta solo due volte al giorno.”, disse
Jonny, sorridendogli vagamente, “Hai
fame?”
Buona
domanda, il suo stomaco si era messo a gorgogliare
nell’esatto momento in cui
aveva visto quel barattolo di cioccolata.
“Beh...
Sì.”, le disse.
“Vuoi
un po’ di pane e cioccolata?”, domandò
lei.
“Volentieri!”,
fece Dougie, con un po’ troppo entusiasmo.
“Siediti
pure.”, disse Jonny, alzandosi per preparare qualche fetta di
pane in più sul
tagliere che riposava sul ripiano della cucina, “Dormito
bene?”
“Sì,
grazie.”, le rispose, “Com’è
che tu, invece, non sei a letto?”
“Non
ho sonno.”, disse Jonny, “E non riesco a placare la
fame.”
“Sul
serio?”, ed alzò le sopracciglia.
Jonny
annuì e portò quattro fette di pane appena
tagliato. Riprese la sua tra le
dita e vi affondò i denti, gustandosi la cioccolata mentre
lui aveva appena
iniziato a spalmare la sua parte.
“Domani
pomeriggio ci sarà il funerale.”, disse Jonny, con
tranquillità.
“Così
presto?”, le chiese.
“Sì,
ha avuto solo un infarto.”, rispose lei.
Quella
frase lo fece rabbrividire.
“Scusami...”,
disse lei, vedendolo lievemente scosso.
“Oh
no...”, cercò di farla calmare con un sorriso
tranquillizzante, “Non ti
preoccupare.”
Ma
Jonny non sembrò affatto seguire il suo consiglio.
Posò la sua cioccolata e si
chiuse nei suoi pensieri.
“Lo
so che non vorresti essere qui.”, gli disse poi, dopo qualche
attimo di
smarrimento, “Lo so che vuoi tornare a casa.”
Si
pietrificò, e cercò subito di scusarsi.
“Ma
no, Jonny...”
“Dougie,
è evidente che vorresti essere da tutt’altra parte
piuttosto che con me, con i
miei problemi e con la mia vita schifosa.”, disse lei, i suoi
occhi che
volavano intorno a lui, e non su di lui.
“Lo
so che non vuoi avere più niente a che fare con tutto
questo...
“Che volevi rimanere in aeroporto perché
così non avresti dovuto affrontare ancora qualcosa che non
ti appartiene.”
“Jonny,
lascia stare.”, cercò di fermarla, ma non ci
riuscì.
Lei
sospirò. Dougie, invece, non poté evitare di
sentirsi in colpa: Jonny aveva capito
perfettamente le sue
vere intenzioni.
Le
stava voltando le spalle, per la seconda volta. Per
la seconda volta stava diventando egoista verso una persona che era in
bisogno,
giustificandosi con un muro di paure e di insicurezze che non avrebbero
dovuto
appartenere ad uno come lui, che pensava di essere forte abbastanza da
affrontare situazioni difficili come quella.
Jonny
stava vivendo un momento critico. Suo padre era morto,
all’improvviso. Si
chiese il motivo per cui non avesse ancora pianto una sola lacrima per
lui...
Poteva sembrare palese, ma la risposta non doveva essere
così scontata.
Si
stava trattenendo, si vergognava a piangere davanti a qualcuno? Oppure
si era
imposta di non versare nemmeno una goccia del suo dolore? Suo padre non
meritava neanche un briciolo della sua compassione?
Dougie
si pose un milione di domande e solo alcune di queste riuscirono a
trovare una
risposta logica.
“A
che ora... Insomma, ci sarà il funerale?”, le
domandò, per evitare di
prolungare il silenzio.
“Non
lo so.”, rispose lei, sospirando, “Dovrei chiederlo
ad Arianna.”
Osservò
il suo viso triste.
Quello
che vide era una ragazza piena di pensieri, di parole che vorticavano
nella sua
mente, di domande svuotate. Jonny non piangeva perché non
aveva
ancora trovato il tempo per farlo, la sua mente troppo impegnata in
qualcosa.
Gli occhi si erano spesso fermati, imbambolati, fissi nel vuoto; li
aveva visti
bloccarsi nel nulla, apparentemente senza motivo.
Rabbrividì
al pensiero del momento in cui tutta quella confusione di voci si
sarebbe
azzerata, affievolita in un colpo solo. Cosa avrebbe fatto Jonny,
allora? Ci
sarebbe stato qualcuno accanto a lei in grado di non farla precipitare
nel
vuoto? Chi sarebbe stato capace di prenderla per una mano e tirarla
fuori dal
dolore?
Arianna?
Danny?
O
lui, Dougie Poynter, che non si sentiva all’altezza di niente?
“Se
vuoi, domani posso rimanere a farti compagnia.”, le propose.
Quella
frase nacque spontanea sulle sue labbra. Nonostante pensasse di essere
più
inutile di una pacca sulla spalla e di un ‘sentite
condoglianze’, le
volle comunque tendere una mano a cui aggrapparsi, se lei avesse voluto.
Non
poteva aiutarla granché ma lo avrebbe fatto col cuore in
mano. Lei
lo squadrò per qualche attimo.
“Non farlo perché ti senti in colpa con
me.”, sibilò lei e percepì subito il
velo di rabbia nella sua voce.
“Lo
faccio per te.”, le disse, “Perché
voglio farlo.”
“Non
è vero.”, si ritrasse lei.
“Credimi,
Jonny.”
“Non
mi fido di te.”
Come
poteva darle torto? Non aveva mai fatto niente per farle cambiare idea,
ma aveva
solo cercato di farsi perdonare, ovviamente senza risultato.
Sospirò,
non aveva la forza per risponderle, e terminò la sua fetta
di cioccolata in
silenzio, lei fece altrettanto. Spostò gli occhi sulla
televisione, cercando di
capire chi fosse quell’attore, familiare ai suoi occhi ma
senza nome.
Si
preparò un’altra fetta di pane.
“Posso
mangiarla su in camera oppure Arianna non vuole?”, le
domandò, per educazione.
“Sì,
ma non lasciare briciole sul letto.”, gli disse Jonny.
“Grazie.”,
ed uscì dalla cucina.
Passò
davanti alla camera di Arianna, la sua fetta giaceva sulla mano,
protetta dal
tovagliolo. Bussò alla porta e la chiamò, la
donna si affacciò con gli occhi
assonnati. Le disse che sarebbe rimasto per il funerale, che sarebbe
ripartito
subito dopo. Lei si accontentò di quelle semplici parole,
annuì e se ne tornò a letto.
Lui
volle fare altrettanto, ma prima aveva da avvertire un’altra
persona.
“Pronto...”,
biascicò un Danny assonnato.
“Danny,
sono io.”, gli disse, senza troppi convenevoli.
“Doug...”,
borbottò l’altro, “C’è
qualcosa che non va?”
Se
lo stava immaginando: Danny doveva aver guardato l’ora sulla
sveglia elettronica
chiedendosi perché lo stesse chiamando a quell'ora, sebbene
fosse stato un po’ presto per andare
a letto, conoscendo le abitudini reali di Danny.
“No,
tutto a posto.”, gli rispose.
“Little
sta bene?”, chiese Danny, “Sta
dormendo adesso?”
“Cavolo,
Danny! Nemmeno fossi suo padre!”, sbottò subito
Dougie, pentendosi all’istante
per quella frase uscita involontariamente dalla sua bocca.
“Ti
sembra questo il momento di scherzare su cose del genere?”,
lo rimproverò subito
Danny.
“Hai
ragione, scusa.”, era veramente risentito e tagliò
corto, “Devo dirti una
cosa.”
Qualche
rumore di sottofondo, una Tamara scocciata per il disturbo.
“E
cosa?”
“Qua
la situazione è abbastanza... Complicata... Jonny si
comporta in modo molto strano.”, lo informò in
maniera abbastanza diretta, evitando giri
di parole inutili, “Forse è meglio che rimanga,
posso
tornare dopo domani.”
Dall’altra
parte ci fu uno strano silenzio prolungato.
“Dan?”,
provò a chiamarlo.
“Poynter,
hai un volo alle quattro di stanotte.”, gli
ricordò Danny, “E’ quello
che devi prendere per tornare a casa.”
“Lo
so ma...”, venne prontamente interrotto.
“Fammi
capire una sola cosa. Lo stai facendo per farmi incazzare?
Perché ci sei
riuscito.”
“No,
lo sto facendo perché Jonny mi sta spaventando. E tu non
c’entri niente.”
“Perfetto.”,
disse l’altro, con poca convinzione nel suo tono di voce.
“Ti
va bene?”, gli chiese, quasi retoricamente.
“Affatto.”,
lo seccò lui, “Ma visto che hai
già preso la tua decisione, non posso fare
altro che accettarla.”
“Ho
capito.”, sospirò Dougie rassegnato.
“Assicurati
che stia bene, che non si trovi sola... E non fare cazzate, Doug, o te
la
vedrai con me. Te l’ho già detto.”
“Va
bene.”, e lo salutò stancamente.
Swirling shades of blue slow dancing in your eyes
The
sun kisses the earth and I hush my urge to cry
Eccomi qua!
Correntemente sarei al lavoro, o meglio, in ufficio ma non
in servizio, e faccio tutto dal mio portatile, grazie alla connessione
wireless di qua XD Direte, ma cosa me ne frega? Beh, perchè
data l'ora di pubblicazione e dato il mio contratto di lavoro, non
dovrei farlo adesso! Ma lo faccio comunque, perchè
è la mia pausa pranzo e questo è il mio
portatile. Ok, bando alle ciance, andiamo direttamente al capitolo.
Il titolo si riferisce
alla canzone citata all'interno del capitolo. E'
Mary Jane
di Alanis Morissette, ascoltatela cliccando qui, mentre i due versi che
aprono e chiudono il capitolo appartengono ai Flyleaf, gruppo che sto
ascoltando tantissimo negli ultimi tempi, e la canzone è
There For You, cliccate qui.
No scopo di lucro in entrambi
i casi.
Sbrigate le
formalità da regolamento, passo ai ringraziamenti :)
kit2007: Spero che le canzoni che ho
messo in questo capitolo siano di tuo gradimento... Lo spero solo
perchè la speranza è l'ultima a morire, so che
saranno doppiamente tristi! XD Via, sei proprio incontentabile!
Le tue supposizioni sono risultate errate, mi dispiace, ma ne
sono comunque contenta perchè vuol dire che ti ho colto di
sorpresa! Bene, spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto!
vero15star: La coppia Dougie-Joanna...
Mmmh... Beh sarebbe forte, chi lo sa? XD Spero che la reazione di
Joanna sia più chiara adesso, anche se lei avrà
modo di spiegarsi meglio in futuro. E' piuttosto complessa, spero che
capirai :) alla prossima!
Picchia:
Tifa pure per Dougie, dipende però per quale motivo lo fai!
XD E per il francesismo... Lasciati andare la prossima volta! XD
Baciamo le mani...
Ciribiricoccola:
Per le tue ipotesi ne abbiamo già parlato, hai indovinato ma
sei anche andata un po' fuoristrada... La "sparizione" di Joanna ha a
che vedere con quello che hai detto... Ma quello a cui mi riferisco io
è più una cosa... Formale. Di scrittura. Di come
espongo le cose... Sono sicura che ora capirai, stai attenta a quello
che leggi. Danny che non ha una grinza in questa storia? Ne
avrà eccome, vedi già come
è la sua reazione a fine capitolo...
Continuerà così per molto, purtroppo... Via, per
il resto non ho niente da aggiungere, hai fatto tutto te!
CowgirlSara:
Come ti ho già detto, hai colto perfettamente in pieno la
reazione di Joanna. Lo fa per orgoglio, perchè in fin dei
conti è quello che ancora le fa male...
Continuerà a perseverare per un po', sbattendoci la testa
più volte. Da persona orgogliosa, per certi versi la capisco
anche... L'orgoglio è duro a morire, ma una volta che si
accetta quello che ci capita...
Lady Vibeke:
Non ti preoccupare se non commenti con regolarità :) Non ci
sono problemi, non sono una che si può permettere la
puntualità e la precisione dai suoi lettori, se poi non
è capace di fare altrettanto. Comunque, tornando alla tua
recensione... Quando entri qua, la cosa più lontana del
mondo sono i Tokio XD E Tom Fletcher è tutt'altra persona
rispetto al suo Omonimo Kaulitz... Fortunatamente! Joanna è
tornata a casa e... Lascio a te!
x_blossom_x:
Non so cos'altro aggiungere... Rispondere ai tuoi ringraziamenti vuol
dire anticipare metà della storia! Sarò
breve e concisa... Fine XD Grazie Sil *sigh* Ma non posso andarmene
cosìììììì....
Cosa posso dire? Boh... *sigh* A stasera...
Giuly Weasley:
Quello che mi manca di più dalle mie lettrici
è... Tu! Mancavi tu, mancavano le tue recensioni lunghe, i
tuoi svisceramenti, i tuoi pensieri, le tue psicanalizzazioni...
Mancava una delle mie lettrici preferite! Non so cosa dire nemmeno a
te. Beh, la reazione di Joanna a Dougie ha sollevato molti dubbi nelle
persone, soprattutto per l'intransigenza di lei... Poteva essere
più flessibile? In fondo lui le ha chiesto scusa, non sa per
caso perdonare? Sì, Joanna sa perdonare e lo leggerai, ma ha
detto bene CowgirlSara, è maledettamente orgogliosa. Ed ha
paura di soffrire di nuovo... E' quello il punto.
GodFather:
Tutti in questa storia ce l'hanno con Dougie! Maria santuzza! Facciamo
una seduta per perdonarlo! Però mi sa che sei obbligata a
darmelo per più di qualche comparsata... Che ne dici??? XDDDD
_Princess_:
Eccoti finalmente! Giusto in tempo per il nuovo capitolo! Spero di
averti pagato con moneta di tuo gradimento, perchè d'ora in
poi la storia si complicherà all'ennesima potenza.
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Capitolo 7 *** Buried Myself Alive ***
I buried myself
alive on the inside,
so I could shut you out and let you go away for a long time.
And
with my foot on your neck I finally have
you right where I want
you...
La
chiesa era
gremita di gente, di facce giovani. Dougie si ricordò che
suo padre, di cui non
aveva mai saputo il nome, era stato professore di lingua inglese, molto
probabilmente tutti quei ragazzi erano i suoi alunni. Ma a vedere dalla
generale folta presenza, doveva essere stato un uomo molto conosciuto;
ognuno
era arrivato per dargli un ultimo saluto, chi per cortesia e chi per
vera
riconoscenza. Nella navata centrale, ne due lunghe file di panche di
legno
scuro erano tutte occupate e molti attendevano l’inizio della
funzione in
piedi.
Si
fecero
strada tra la gente e gli occhi si spostarono su di loro, soprattutto
su di
lei, che camminava al fianco di Arianna. Qualcuno le si
avvicinò per darle
conforto, per cercare di trasmetterle il suo cordoglio e lei, con
educazione,
ringraziava e tornava a camminare.
Dougie
si
sentì terribilmente a disagio, immobilizzato
dall’imbarazzo e dalla paura, ma
inghiottì quel grosso magone e si impose coraggio. Jonny non si fidava di
lui, doveva
dimostrarle che si sbagliava. Le
seguiva
a distanza di un paio di passi: qualche sguardo accompagnato da parole
soffuse
riguardò anche lui, ma fece finta di niente.
Le
due donne
percorsero la navata laterale della chiesa ed andarono dritte verso la
cima
della fila. Dougie si fermò: aveva riconosciuto le grandi
spalle di Miki e
preferiva mimetizzarsi tra la folla piuttosto che farsi vedere. Non
voleva
creare problemi, ma sarebbe comunque stato presente per Jonny, anche se
in
distanza. Si appoggiò ad una delle tante colonne,
osservandola mentre si sedeva
sulla seconda panca e non nella prima, insieme al fratello e la madre.
Entrambi
si voltarono, le parlarono, certamente le stavano chiedendo
perché non si fosse
avvicinata a loro, ma lei riservò solo poche parole alla sua
famiglia, preferendo
rimanere in silenzio accanto ad Arianna.
Sua
madre le
somigliava tantissimo, tranne per i capelli, che erano più
scuri e non biondo
cenere come quelli di Jonny. Gli occhi erano invece gli stessi; la
bocca era un
po’ più sottile, un tempo indubbiamente carnosa
come quella della figlia, la
forma era pressoché identica.
Notò
Arianna
guardare nella sua direzione con sguardo perplesso. Non appena
spostò gli occhi
su di lei, la donna gli fece segno di avvicinarsi. Scosse la testa, non
era una
buona idea, ma Arianna insistette. Si negò ancora, lei gli
lanciò una brutta
occhiata.
E
la
accontentò.
Notandolo,
Miki non ebbe niente da dire; anche sua madre lo squadrò,
niente di promettente
sul suo volto di entrambi. Sicuramente stavano confondendo tutto, lui
non era
il fidanzato di Jonny, solo un conoscente lontano e fastidioso, per di
più
inglese. Lei poteva
–doveva-
permettersi di più, non qualcuno con i capelli spettinati e
un po’ lunghi, con
magliette colorate e pantaloni a tre quarti. Per lei ci voleva qualche
bravo
ragazzo con la faccia pulita... Uno come Danny. Li aveva sempre visti
perfettamente bene insieme, ma la vita aveva voluto diversamente, e lui
stesso
l’aveva involontariamente aiutata, presentando Tamara a
Danny.
La
funzione
era già iniziata da un pezzo quando Arianna, che sedeva
accanto a lui , vicino
al bordo della panca, fece un movimento inconsulto.
“Devo
fumare.”, disse nervosamente, alzandosi e liberando il suo
posto in un attimo .
Dougie
si
voltò verso Jonny. Si stava torturando, mordendosi il labbro
inferiore con
spasmodica continuità e lasciando che si infiammasse e
diventasse sempre più
rosso ad ogni passaggio dei suoi incisivi. Le mani continuavano ad
asfissiare
il lembo inferiore della sua camicetta scura, che a fine giornata
sarebbe stata
da buttare, prigioniera
com'era tra i
pollici e gli indici. Mosso da un impulso a cui non seppe resistere,
Dougie le
passò un braccio intorno alla spalla. Lei non si mosse,
bloccata tra i gesti
nervosi ed il fissare costantemente la bara, dentro alla quale giaceva
il corpo
del padre.
Intanto,
il
sacerdote si era avvicinato ad un piccolo podio: su di esso si trovava
un
leggio, decorato con un drappo di velluto rosso che lo copriva fino ai
piedi.
L’uomo parlò per qualche minuto, la sua voce bassa
e lenta era amplificata dal
microfono e dalle casse poste in tutte le navate della chiesa. Ma cosa
aveva da
dire di tanto importante su un uomo come lui? Le sue parole non
potevano certo
riabilitarlo.
Poi,
finita la
sua breve omelia, dette voce ad un gruppetto esiguo di persone, qualche
ragazzo
e dei signori distinti, che uno dopo l’altro lessero i propri
pensieri,
annotati su foglietti.
“Cosa
fanno?”,
domandò a Joanna, a tono basso, come se non avesse saputo
già la risposta.
“Sparano
cazzate.”, sibilò lei, facendogli percepire tutto
l’odio che ribolliva in lei.
Immediatamente
sua madre si voltò e le ringhiò con gli occhi.
Anche lei insegnava inglese, si
ricordò Dougie, ed aveva compreso perfettamente la parole
astiose della figlia.
Jonny, dal canto suo, non la degnò di una sola attenzione,
ma fu costretta a
farlo suo malgrado quando Miki, sottovoce, la chiamò. Le
disse qualcosa e lei
rispose con un solo cenno netto della testa. Dougie non poté
non sentire il
lieve fremito che l’aveva scossa.
“Cosa
ti ha
detto?”, le domandò, adesso con un filo
impercettibile di voce, perfino a se
stesso.
“Niente.”,
rispose lei.
“Jonny,
dimmelo…”
Il
nuovo
richiamo del fratello la costrinse ad alzarsi e lui, nonostante avesse
voluto
fermarla, bloccarla piuttosto che sottoporla a ciò che aveva
capito solo in
quel momento, non poté fare altro che lasciarla passare. A
passi lenti, sotto
gli occhi dei molti seduti ed in piedi, Jonny raggiunse il piccolo
podio,
prendendo il suo posto dietro al microfono.
“Ehm…”,
disse.
La
gente tese
l’orecchio in ascolto della sua piccola voce che non era
sufficientemente
ingrandita dall’impianto. Lui, che Jonny avesse o fosse
rimasta muta, non
avrebbe comunque compreso.
“Beh,
è già
stato detto tutto da queste… Care persone.”, disse
lei, “Grazie per essere
venuti.”, e si mosse per tornare al suo posto.
Il
prete le si
avvicinò, fasciato nel suo vestito adatto alla cerimonia, e
la esortò a
continuare ancora. Se avesse potuto, Dougie avrebbe evitato tutto
quello. Come
potevano chiedere a Jonny di vendere a buone parole l’anima
del padre, che
altri non era che la grande croce che pesava sulla sua? Come avevano
potuto suo
fratello e sua madre, la sua famiglia, spingerla a
quello? Loro
sapevano, loro avevano vissuto quell’inferno con
lei… Allora perché? Volevano
punirla per aver scelto semplicemente di vivere la sua vita, piuttosto
che
rimanere sotto il loro giogo?
Jonny
cercò di
obiettare, di liberarsi con gentilezza della mano del parroco, salda
sul suo
gomito, ma l’uomo le indicò la bara del padre e,
certamente, le disse di farlo
per lui, per quel povero uomo morto così improvvisamente.
Jonny
lo
accontentò. Non le era facile dire di no, soprattutto quando
era confusa.
Dougie
affondò
la testa tra le mani.
Cosa
avrebbe
detto, a quel microfono… E lui sarebbe stato pronto a
tenerla in piedi, dopo?
Sì
che lo
sarebbe stato, indubbiamente. Era rimasto per dimostrarle che si
sbagliava, che
ancora poteva fidarsi di Dougie Poynter, di lui che non aveva fatto
altro che
comportarsi come un cretino, pretendendo poi di venire perdonato dopo
poche
parole di pentimento. Era rimasto per lei, per aiutarla come avrebbe
dovuto
fare dal primo istante in cui le aveva promesso la sua amicizia, un
anno fa.
Era quella la sua vera occasione per riscattarsi. Doveva dimostrare la
stessa
cosa a Danny, fargli capire che lui non si divertiva nel far del male
alla sua
Little, come invece continuava a pensare. Si era incaricato di quella
responsabilità,
prima involontariamente, poi con presa di coscienza, ed ora sopportava
le
conseguenze delle sue decisioni, fronteggiandole senza farsi piegare.
“Non
so cosa
altro aggiungere.”, sentì dire da Jonny, ancora
riluttante ad avvicinarsi al
microfono ma comunque nelle sue vicinanze per farsi sentire da tutti.
“Parlaci
di
lui… Di quello che facevate quando eri bambina.”,
riconobbe la voce del prete.
Ancora
altro
silenzio, interrotto da un lontano schiarirsi di gola. Dougie
alzò gli occhi
per darle coraggio, sperando di incontrare quelli di Jonny, che erano
invece
tornati a fissare il mogano del feretro.
“Qualcosa
da
dire ce l’ho…”
E
il prete la
invitò ancora.
“Mio
padre è
sempre stato una persona leale ed onesta. Con tutti.”,
sentì la lieve
inflessione interrogativa nella sua voce.
Un
borbottio
basso si levò nella chiesa, qualcuno annuiva con cenni della
testa. Jonny posò
le mani sul leggio, stringendone le aste laterali ed affondando le dita
nel
morbido velluto scuro.
“Anche
con me
lo è stato.”, si riprese.
La
chiesa
tornò in silenzio, ascoltando con attenzione le sue parole.
Dougie guardò i
familiari più stretti. Quello che leggeva nelle loro facce
era nervosismo?
“Ha
sempre
detto di volermi bene, che tutto quello che diceva e che faceva era per
me… Per
il mio futuro. Faceva qualsiasi cosa per
me.”
Benchè
le
parole fossero all'apparenza buone e dolci, Dougie si sentì
trafiggere dal suo
odio, dalla rabbia
nascosta.
"Gran
bel
futuro che mi hai dato, papà...", disse ancora Jonny, la sua
voce si
ruppe, ma il tono pieno di rancore rimase intatto ed udibile per tutti,
"Ti ringrazio davvero con tutto il cuore."
Dai
presenti
si levò un brusio tagliente e Jonny lasciò il
leggio, le mani rosse per lo
sforzo. Lentamente, poi in una corsa disperata, uscì dalla
chiesa ed il tonfo
del grande portone di legno echeggiò
nell’edificio, zittendo tutti coloro al
suo interno.
Ecco
l’esplosione
di Jonny, ecco come lei aveva deciso di disfarsi della maschera che
aveva
indossato, della finta ed apparente calma che mostrava agli altri. Ecco
come
aveva rifiutato di distruggere se stessa per far rivivere nelle menti
degli
altri il ricordo buono di un padre che l’aveva picchiata, che
l’aveva costretta
a vivere una vita che non era la propria, imponendole decisioni che non
aveva
preso, costringendola a comportarsi secondo le sue regole ed a
sorridere quando
invece voleva solo piangere e fuggire via.
Tutti
i
presenti bisbigliavano, riempiendo le navate di uno fitto ed incessante
parlare
che saturò presto le orecchie di Dougie. Si alzò
e, a passo svelto, raccolse
tutti gli occhi interessati della folla funebre, ignorandoli per poi
abbandonarli, una volta uscito dalla chiesa. Sentì subito i
singhiozzi di
Jonny, seduta a terra contro al muro di pietra dell’edificio
religioso. La
fronte stava ferma sulle ginocchia, unite al petto, mentre le braccia
le
stringevano a sé e le spalle erano scosse dal tremito dei
suoi singhiozzi. Era
un pianto, un lamento che Dougie non poté sopportare per
più di qualche misero
secondo, non poteva farsi lacerare il cuore in quel modo
così doloroso.
Si
sedette
accanto a lei e la abbracciò, ma Jonny rimase chiusa in se
stessa, nel suo
guscio, e rifiutò il suo sostegno. Lui non glielo
negò, continuando a tenerla
stretta mentre con una mano le accarezzava i capelli biondi, e con la
voce le
diceva che presto tutto sarebbe finito. Cercava
Arianna con gli occhi,
non l’aveva vista più tornare in chiesa da quando
era uscita, ma non la trovò.
“Non
appena
Arianna arriverà ce ne andremo, ti porterò a
casa.”, le disse, ma nessuna
parola poteva andare oltre quello scudo che si era fatta col suo corpo.
I
secondi
passarono, Arianna comparve finalmente dal portone della chiesa. Era
tornata
dentro e non se ne erano accorti? Aveva visto tutto?
La
donna si
accucciò davanti a lei e le parlò.
“Jo,
sono io…
Torniamo a casa.”, le disse.
Jonny
alzò gli
occhi, già gonfi e rossi di lacrime.
“Ce
la fai a
camminare?”, le chiese.
Jonny
interruppe il suo pianto, ma non i singhiozzi. Tra una scossa ed
un’altra disse
di sì e riuscì a mettersi in piedi ma, vedendola
barcollante, Arianna decise di
fare un veloce salto alla macchina, per avvicinarla e farla salire. Per
tutto
il tragitto le orecchie di entrambi vennero riempite continuamente dal
suo
pianto. Sembrava inarrestabile, un flusso continuo di lacrime e di
singhiozzi
che continuava a scuoterla, lasciandola spesso senza fiato. Era
terribile
starla a sentire ma niente era capace di calmarla, né
volevano far scomparire
la sua voce strozzata coprendola con altri suoni più felici.
Arianna
guidava, le mani torcevano il volante e si sfogavano sul cambio. Lui si
voltava
spesso per accertarsi che si stesse riprendendo, ma ogni volta era una
sconfitta, una battaglia persa in partenza. Lei se ne stava distesa sul
sedile
posteriore, la faccia nascosta tra le braccia.
E
piangeva.
Arrivarono
a
casa e l’aiutarono a scendere dall’auto.
Arianna si preoccupò di accompagnarla in camera
sua, e disse a Dougie
che poteva sistemarsi dove voleva, di fare come se fosse stato a casa
propria.
Comunque imbarazzato, decise di sedersi nel soggiorno, sul solito
divano dove
un anno prima Jonny gli aveva confidato il segreto più
grande. Se ne stette lì
diverso tempo a tamburellare le dita sulle ginocchia, lo sguardo perso
nel
vuoto, la mente troppo stanca e scossa per impegnarla in qualsiasi
pensiero. Aveva la
sola forza di
respirare, di sentire l’aria entrare ed uscire dalle sue
narici, cullandosi nel
ritmico pulsare del suo cuore. Gli parve quasi di sentire ancora il
calore del
caminetto acceso, lo strepitio del legno, sgretolato dalle fiamme
gialle e
rosse...
“Dougie!”,
si
sentì chiamare dalla voce di Arianna, lontana,
“Sento il tuo telefono suonare!”
Già,
il
cellulare. Non si chiese chi fosse, non ce n’era bisogno. Raggiunse lentamentel
piano superiore,
trovando Arianna sulla soglia della camera di Jonny, ne stava uscendo.
“Come
sta?”,
le domandò.
“Le
ho dato un
sonnifero.”, gli disse, “Non ce la facevo
più a sentirla piangere, almeno così
dormirà un po’.”
“Sì…”,
le
fece, annuendo, a sguardo basso.
“Il
tuo
cellulare.”, gli ricordò la donna.
Le
sorrise e
proseguì lungo il corridoio, entrando nella camera che lei
gli aveva destinato.
Vide una numerosa quantità di chiamate perse, non lesse
nemmeno a chi
appartenevano.
“Dougie!”,
si allarmò la voce di Danny, “Dove siete
stati tutto il giorno!”
Sospirò,
toccò
gli occhi gonfi dallo stress.
“A
divertirci
al luna park...”, gli rispose, causticamente, ma il tono
della sua voce era
tutt’altro che sarcastico, “Ero al funerale,
Danny!”
“E
non ti
sei ricordato di prenderti il telefono?”,
tuonò lui, sempre più arrabbiato.
“Che
senso
aveva risponderti mentre seppellivano suo padre!”,
protestò, lasciandosi
prendere dalla rabbia per l’irragionevolezza del suo amico.
“Quello
di
Little non è mai raggiungibile, pensavo che avessi avuto il
buon senso di
portarlo dietro!”, si difese Danny, “Posso
parlarle adesso?”
“Jonny
è
troppo scossa, non è una buona idea.”, gli
rispose, “E credo che stia già
dormendo.”
Danny
si vide
allora costretto a parlare con lui.
“E
come
sta… Come… Come sta reagendo?”,
gli chiese.
“Beh…
Vuoi
sapere se ha pianto? Sì, anche troppo.”,
rivelò, sapendo che era proprio ciò
che lui voleva sapere.
“Bene…”,
disse Danny, sospirando.
“Bene?”,
esclamò lui, “Se solo avessi sentito come
piangeva...”
“Se
solo ci
fossi io al tuo posto!”, Danny ravvivò
la discussione.
“La
vuoi
smettere di rinfacciarmi questo?”, se la prese con lui,
sfogandosi, “Pensi che
sia ancora utile continuare a dirmi quanto sei meglio tu di me? Lo so
che lo
sei, non c’è bisogno si sputarmelo addosso ogni
minuto!”
“Dougie,
tu
non la conosci come la conosco io!”, si
giustificò Danny.
Oh
sì, certo.
Danny
Jones
sapeva come farla divertire, ridere e stare bene. Sapeva come
consolarla, come
abbracciarla, come stare accanto a lei. Dougie Poynter, invece, aveva
saputo
solo voltarle le spalle, trattarla come se fosse stata
l’ultima persona che
avesse voluto vedere sulla faccia della Terra. Per cui, a rigor di
logica, era
sempre e comunque Danny ad avere delle prerogative su Jonny, sia che
lei fosse
felice, oppure no.
Era
un peccato
però che Danny Jones non sapesse che Jonny non aveva mai
avuto il coraggio di
parlagli di suo padre, nonostante tutto quello.
“Hai
ragione.”, gli disse, dandogliela vinta.
“Appena
si
sveglia, dille di chiamarmi, altrimenti…”
Non
si
interessò alla nuova minaccia di Danny. Premette il pulsante
rosso e lasciò il
telefono sul comodino. In quel preciso istante, sentì un
lieve bussare alla
porta.
“Sono
Arianna.
Ti posso parlare?”, domandò lei.
“Certo.”
Si
alzò ed
andò ad aprirle. La bionda donna gli sorrise timidamente ed
entrò nella sua
stanza, non senza essersi accertata un paio di volte che non lo stesse
disturbando. Era casa sua, come poteva la sua presenza disturbarlo?
Arianna si
sedette sul letto, le mani giunte sulle gambe, certamente voleva
parlargli.
“Dougie…”,
esordì lei, giocherellando nervosamente con le dita,
“Ti posso fare una domanda
diretta?”
Le
annuì,
sentendosi terribilmente a disagio.
“Tu…
Cosa sai
del padre di Jo?”, gli domandò.
Domanda
anche
troppo diretta.
“Voglio
dire…”, si specificò Arianna,
“Non so come si chiami, non l’ho mai visto. E lei
non me ne ha mai parlato.”
“Beh…
Non so
il suo nome.”, le rispose.
Nemmeno
Arianna sapeva. Non lei, con cui Jonny viveva da un anno.
Né
Danny, il
suo migliore amico.
Sono
l’unico.
Dougie
realizzò di non sentirsi affatto speciale, ma solo
dannatamente colpevole per
quello che le aveva fatto. Tradendo la sua fiducia in quel modo le
aveva negato
la possibilità di parlare del suo problema anche alle
persone più importanti di
lui. Gli venne voglia di affondare la testa nel cuscino e darsi del
testa di
cazzo all’infinito, ma non lo fece. Almeno, non lo avrebbe
fatto finché Arianna
fosse stata lì.
“Già…
Scusa,
la mia domanda è stupida, come poi sapere queste
cose...”, disse la donna,
scuotendo la testa e ridendo lievemente di se stessa.
Eh
già… Non
erano cose di suo dominio.
“Perdonami
ancora.”, disse lei, accorgendosi del suo sguardo basso,
“Non volevo
offenderti.”
“Oh
no, hai
perfettamente ragione.”, le disse.
“Magari
Danny
lo sa.”, propose lei, cercando un sostegno nei suoi occhi.
Dougie
alzò le
spalle. Non le rispose, sapeva che lei gli avrebbe domandato di
conseguenza ‘E
tu come fai ad essere
certo che Danny non ne sia a conoscenza? E’ suo amico!’
“Lo
chiamerò.”, disse Arianna, “Potrei avere
il suo numero?”
“Certo.”,
le
fece, e glielo dette.
La
donna aveva
una penna ed un foglietto già pronti nelle tasche dei suoi
pantaloni di lino
scuri. Era venuta per quello, per avere il numero di Danny, non per
parlare con
lui. Dougie si sentì peggio di uno straccio per pavimenti,
vecchio e strappato,
da buttare. Veniva sempre preso per l’incosciente e
l’immaturo, per lo scemo
del villaggio McFly. Ma non poteva farci niente, quello era il
personaggio che
cucito addosso a lui, volente o nolente, e anche se si era divertito ad
indossare quei panni, certe volte –quelle volte-
non poteva fare altro
che odiarsi.
“Quando
partirai?”, domandò lei, una volta annotato tutto.
“Beh…
Domattina farò un paio di chiamate, te lo farò
sapere.”, le disse.
“Certo.”,
fece
lei, con un sorriso, e si alzò, “Sei hai fame,
puoi prendere ciò che vuoi dal
frigorifero. E’ tutto lì dentro, e mi sa che sarai
l’unico a cenare, anche
stasera.”
Le
annuì e lei
lasciò la sua stanza.
Dougie
si
tolse le scarpe, lasciandole rimbalzare sulle mattonelle del pavimento.
Si
distese sul letto ed incrociò le mani dietro alla testa,
fissando il soffitto
liscio e lindo della stanza.
Un
rumore
dall’esterno, forse le ruote stridenti di una macchina, lo
costrinse a tornare
alla realtà. Sbuffò annoiato, aprì gli
occhi e si trovò nella medesima
posizione in cui si era addormentato. Tolse la mani doloranti da sotto
la testa
e una smorfia di dolore comparve sulla sua faccia, non appena
percepì il
formicolio dei muscoli delle braccia, atrofizzati in quella posizione.
Si voltò
verso il comodino, dove la sveglia suonava sempre le tre e quattro
minuti, come
se non avesse mai conosciuto altre ore che quelle. Cercò con
le mani il suo
telefono e lo trovò nei pressi della sveglia.
Mezzanotte
e
mezza…
Il
sonno tornò
ad impadronirsi di lui ma il gorgogliare inesorabile del suo stomaco lo
scacciò
via. Non aveva quasi pranzato, mangiando solo un po’ della
pasta che Arianna
aveva cucinato. Adesso, il suo stomaco reclamava cibo urlando e
borbottando
come il pentolone dell’inferno. Uscì dalla camera,
facendo attenzione a non
fare troppo rumore, e si trovò presto in cucina.
Seguì il consiglio di Arianna
ed aprì il frigorifero: all’interno
trovò tantissimi contenitori di plastica di
forma ed altezza diversi, tutti con tappi colorati, segno che Arianna
era una
persona che preferiva cucinare alla grande un solo giorno della
settimana,
lasciando poi che il suo operato scomparisse lentamente, riscaldato sul
fuoco o
nel microonde.
Tra
tutti
quelli, individuò una sagoma rettangolare bassa, di cartone,
con un disegno
simpatico e riconoscibilissimo.
“Pizza…”,
sussurrò, leccandosi i baffi.
Prese
la
scatola e la tirò fuori, aprendola per accertarsi che il
contenuto fosse
proprio quello. Sì, era una grande pizza a cui mancava solo
uno spicchio, e non
doveva avere più di un giorno di permanenza al fresco: lui
era un esperto nel
riconoscere l’anzianità del cibo, il suo
frigorifero era pieno di cartoni del
cibo da take-away, ed aveva accumulato abbastanza esperienza.
Individuò un
microonde dalla parte opposta della cucina e, un po’ di
spicchi per volta,
riscaldò tutta la pizza. Solo dopo si chiese se quella fosse
destinata a
qualcuno in particolare… Ma ormai il suo stomaco era in
ribellione.
Si
accorse di
una lavagnetta appesa al muro, una di quelle bianche con tanto di
pennarello
nero che non resisteva al minimo passaggio di una spugnetta, e si
faceva
cancellare via con un nonnulla. ‘Scusate, ma avevo
fame e non resisto alla
pizza. Doug.’, vi scrisse, in un angolo libero,
evidenziandolo con una
freccia che lo indicava.
Tornò
al piano
di sopra con il primo boccone già tra i denti. Non
poté non sostare davanti
alla porta di Jonny: vedeva una flebile luce che non aveva notato prima
uscire
sospettosa dalla bassa fessura. Chiuse
il cartone della pizza, riponendovi lo spicchio che aveva tra le mani.
Bussò
con leggerezza e, non sentendo risposta, si impose di lasciar perdere.
Ma
non lo
fece.
Abbassò
la
maniglia ed entrò, permettendo solo di far sgusciare dentro
la testa, per
controllare che tutto fosse a posto. Jonny dormiva tranquillamente nel
suo
ampio letto, le lenzuola fresche tenute ferme dal suo braccio destro
che
sostava sul petto, mentre l’altra mano si riposava sul
cuscino vicino alla sua
faccia, timidamente chiusa. La flebile luce che aveva visto era la tv,
accesa
ma senza volume. Si doveva essere svegliata qualche tempo prima e,
sentendosi
sola, l’aveva accesa, riaddormentandosi poco dopo. Magari,
prima o poi avrebbe
di nuovo aperto gli occhi ed avrebbe avuto fame…
Perché non farle trovare
subito qualcosa pronto per essere mangiato? Forse la pizza che aveva
tra le
mani non era proprio adatta, avrebbe sicuramente preferito qualche
biscotto e
del latte.
Appoggiò
il
cartone per terra, lasciò la porta aperta solo per un
spiraglio e tornò in
cucina, preparando un piattino con alcuni biscotti, un bicchiere di
latte ed
uno di acqua, e stupendosi di come riuscì a portarli di
sopra senza versarne
una goccia, né far cadere una briciola. Lasciò il
tutto sul comodino e,
riprendendosi la pizza, le dette un ultimo sguardo: era pacifica come
sempre,
anche nel dormire. Stava per andarsene quando la televisione, forse per
colpa
di una pubblicità, illuminò la stanza in un
flash. La luce improvvisa gli fece
notare qualcosa, appeso al muro.
Qualcosa
di familiare.
Si
avvicinò al
poster che ritraeva il suo gruppo, diversi anni fa ormai: se ne stavano
tutti
in piedi sui sedili di una vecchia Mini rossa decappottabile e
guardavano
l’obiettivo con facce strane. C’erano tutte le
smorfie, tranne la sua. Un
sorriso spuntò sulla sua bocca, notando i due pezzi di
nastro adesivo rosso che
coprivano il suo viso, come a volerlo cancellare dai McFly. Scosse la
testa,
sempre con quel riso sulla bocca, e guardò ancora Jonny
dormiente. Stessa cosa
notò sulle foto, appese nei pressi di quel poster: erano
quelle scattate un
anno prima, nella hall dell’albergo. Lui, ritratto sempre
lontano da lei, era
comunque nascosto dallo stesso nastro adesivo rosso. Ce
l’aveva a morte
con Dougie Poynter, non c’era bisogno di altre dimostrazioni,
ma quella cosa
non riusciva a non farlo ridere. Era così comica!
Fu
quella
stessa stranezza a trattenerlo in camera sua. Vide una poltrona nelle
vicinanze
dell’armadio di legno chiaro e la scostò dal suo
posto, girandola per
posizionarla davanti alla tv. Prese accortezza di avvicinarla al letto,
al suo
angolo destro, mettendola in modo tale che potesse tenere Jonny
sott’occhio,
nel caso lei si fosse svegliata ad avesse avuto bisogno di qualcosa.
Prese
la sua
pizza, il telecomando inutilizzato sul comodino e si mise a mangiare,
facendo
zapping.
Ripensò
alla
chiamata ricevuta da Arianna, qualche ora prima. Gli aveva raccontato
del
funerale, dicendo di non sopportare fatti del genere e di essersi
assentata
da Little solo per un sigaretta, lasciandola con Dougie. Era tornata
giusto in
tempo per vederla parlare di suo padre sul podio... Non aveva spiegato
con
precisione cosa Little avesse detto, ma subito dopo Arianna gli aveva
chiesto
se lui, il suo migliore amico, avesse saputo che cosa fosse successo
tra Little
e suo padre e, pieno di stupore, aveva dovuto dire di no.
Non
ho saputo
darle una risposta.
Lui,
Danny
Jones, non aveva la più pallida idea di cosa potesse essere
successo tra Little
e suo padre. Lei non gliene aveva mai parlato...
Ma qualcosa doveva
averle fatto quell’uomo, perché solo
così poteva giustificare l’essere restia a
parlare di se stessa e della sua famiglia, senza escludere lo stato di
shock
con cui l’aveva vista partire, l’assenza di lacrime
sul suo volto per il padre
morto. Lei avrebbe dovuto raccontarglielo, avrebbe dovuto
dirglielo…
E
per quello
si era arrabbiato con Little, notevolmente arrabbiato, per quello
avrebbe
voluto parlarle, ma Dougie glielo aveva impedito. Era così
arrabbiato che se
l’era rifatta con Tamara, che aveva preferito andarsene per
stare da una sua
amica, lasciandogli tutto il tempo per rimuginare sul suo stato ed
evitare di
litigare ancora. Da
quando Little aveva
messo piede in quella casa, i motivi di discussione con Tamara
vertevano sempre
su di lei, ma per cause diverse. Non doveva avere niente di cui
preoccuparsi,
eppure continuava a dimostrarsi gelosa di Little, sebbene fosse lontana
da casa
e, come aveva voluto lei, non l’avesse seguita per starle
accanto. Le aveva
detto in mille modi che si stava sbagliando, illudendo, ma Tamara non
gli
perdonava il fatto di averla fatta entrare in casa loro.
E
per quale
motivo?
Alla
fine era
stato capace di farglielo dire schiettamente: pensava che Little fosse
innamorata di lui. Follemente innamorata, ed avrebbe fatto di tutto per
farli
lasciare. Era rimasto scettico, stupito, imbambolato alla notizia.
Little non
era innamorata di lui, né lo sarebbe mai stata, la conosceva
bene,
sapeva che lei non cadeva in queste assurdità. Era una
ragazza con i piedi per
terra, solida anche se pareva più fragile del cristallo, ma
non era una scema,
e tra di loro c’era quella forte amicizia, anche se nata in
clima di lontananza
e dopo una serie di vicende abbastanza complicate che Tamara non aveva
voluto
stare a sentire. Quindi perché preoccuparsi? Lui sapeva cosa
provava per la sua
fidanzata, lo sapeva benissimo, perché comunque non si
fidava di lui?
Si
chiese
dove, quando, come e in cosa avesse sbagliato, ma non seppe darsi una
risposta,
e, a dire la verità, non sapeva nemmeno quale fosse la vera
domanda, l’errore
che aveva involontariamente compiuto.
Guardò
ancora
il telefono, chiedendosi se fosse stato il caso di chiamarla di nuovo,
oppure
se provare con Dougie. Avrebbe preferito rivolgersi direttamente a
Little,
senza dover usare Poynter come intermediario, dato che ogni volta
avevano
finito per litigare. Tra le altre seccature, c’era anche
quella di non
accettare il fatto che fosse stato lui, proprio lui,
a prendere il suo
posto. Se fosse andato Harry, o anche Tom, sarebbe stato tutto diverso.
Sicuramente non sarebbe stato così in pensiero e non avrebbe
avuto tutta quella
tensione addosso, che lo costringeva a scaricarsi contro chiunque e
qualsiasi
cosa gli ronzasse intorno. Era maggiormente apprensivo
perché c’era lui
con Little. Lui che lei odiava, non sopportava, e che non aveva
perdonato.
Avrebbe quasi preferito lasciarla andare da sola, piuttosto che
costringerla a
passare altro tempo con Dougie.
Quando
lui
l’aveva chiamato per dirgli che si tratteneva,
giustificandosi col fatto che
Little stesse davvero male, non aveva reagito in
quel modo per
gelosia, affatto.
Si era arrabbiato
perché sapeva che Little non avrebbe approvato, che non
voleva altro che
toglierselo dai piedi come uno scomodo sassolino in una scarpa.
Avrebbe
dovuto
essere in Italia, starle accanto, ora o mai più, come se
quel fatto così
tragico fosse un momento da non perdere per la loro amicizia. E lo era
davvero,
perché sicuramente Little avrebbe trovato la forza di
raccontargli tutto.
Tutto.
Perché
lui
voleva sapere tutto di lei, per poterle stare più vicino, ma
Tamara si era
comportata da egoista e da presuntuosa, costringendolo a rimanere a
casa, e non
ci sarebbe passato sopra tanto facilmente. Pregò che Little
non stesse pensando
che non gli importasse di lei, pregò che non avesse brutti
pensieri… Non
sarebbero stati la verità. Era lui che avrebbe dovuto
raccogliere tutte le sue
lacrime, placare tutti i suoi singhiozzi, dirle tutte le parole di
conforto.
Doveva farlo perché era suo amico. Perché le
voleva bene.
Ed
invece, era
segregato lì, costretto da una stupida minaccia: prendere o
lasciare? Prendere
il primo volo per l’Italia e lasciare Tamara, oppure prendere
la sua relazione e
lasciare l’amicizia? Aveva sempre odiato fare delle scelte,
soprattutto quando
involvevano persone in carne ed ossa, con dei sentimenti.
Ed
adesso si
stava pentendo amaramente della sua scelta.
Compose
di
nuovo il numero di Little, ma pochi attimi dopo la solita voce
registrata lo
informò dell’irraggiungibilità del suo
telefono.
Sentì
un
rumore così impercettibile che si stupì di
essersi svegliato per colpa di quel
piccolo crack. Aprì piano gli occhi, sbattendoli con
insistenza per la
secchezza che sentiva sotto le palpebre, e realizzò di
trovarsi seduto, con la
schiena e le gambe appoggiate ad i braccioli di una poltrona, le mani
incrociate sul petto.
Si
mosse,
spaventato.
Si
era addormentato
in camera di Little, mentre guardava la tv e mangiava la pizza. La
pizza… Dov’era
finito il cartone che la conteneva? Perché non era
più sulle sue gambe, dove si
ricordava di averlo visto per l’ultima volta?
“Buonanotte.”,
sentì dire piano.
Si
voltò verso
il letto. Jonny se ne stava seduta a gambe incrociate con il cartone
rettangolare aperto su di esse, occupata a dare un morso ad una fetta
della
pizza che anche lui aveva mangiato lasciandone la metà, si
era sentito sazio
già prima della fine.
“Buonanotte.”,
le rispose, sorridendole ma con preoccupazione.
“Che
ci fai
qua?”, domandò lei.
“Beh…
Pensavo
di esserti di maggior compagnia della televisione accesa.”,
le disse.
Lo
schermo
ancora era illuminato ma il canale era diverso da quello da lui scelto.
Jonny
si era svegliata, era sgattaiolata verso di lui ed aveva preso la pizza
ed il
telecomando.
“Deve
averla
accesa Arianna. Non mi ricordo.”, lo informò lei.
Dougie
si
sentì meno accettato di un ragno sul muro, ma non volle
desistere.
“Dovresti
chiamare
Danny.”, la consigliò, “E’
molto preoccupato per te.”
Lei
continuò a
masticare la sua pizza, guardandola.
“Ma
è tardi.”,
disse poi, “E poi c’è Tamara con
lui.”
“Non
lo
disturberai affatto.”, la tranquillizzò, sebbene
fossero le quattro di mattina,
come recitava l’orologio sul suo comodino.
“Se
lo dici
tu.”, fece lei.
Lasciò
la sua
cena notturna per raggiungere il comodino e prendere il suo telefono.
Cercò il
numero in rubrica e se lo mise all’orecchio. Non si
comportava nel suo modo
usuale, era anche troppo fredda per essere la Jonny di sempre.
Era
la sua
presenza in camera a darle fastidio.
Si
è permesso
troppe cose.
Accettare
di
venire in Italia senza controbattere fino allo stremo delle forze.
Metterle
il
braccio intorno alla spalla in chiesa, abbracciarla mentre lei
piangeva.
Entrare
lì
senza che lei glielo avesse chiesto e, sicuramente, vedere le
fotografie ed il
poster che esibivano la sua faccia coperta di nastro adesivo rosso, la
grande
croce rossa che aveva messo -non solo mentalmente-
sulla sua persona.
Trovarlo
a
dormire nella sua stanza, sulla sua
poltrona, con la sua
pizza mezza mangiata, la pizza che del lunedì, quella che
comprava sempre con
Arianna.
Si
era
permesso troppe cose.
Troppe.
Lo
lasciò
perdere per sintonizzarsi sulla voce assonnata di Danny.
“Little…”,
le fece, saltando il convenevole.
“Scusa
Danny.”, disse lei, senza smentire il suo tono freddo,
“Dougie mi ha costretto
a chiamarti.”
Mentì,
non era
vero, lui le aveva detto solo che avrebbe dovuto farlo, non che avesse
dovuto
ad ogni costo, ma doveva farlo sentire una merda, quindi…
“Ha
fatto
bene.”, rispose Danny, dopo essersi schiarito la
gola, “Ho provato mille
volte ma non riuscivo mai a prendere la linea.”
“Avevo
il
telefono spento.”, gli disse, “E comunque non avevo
molta voglia di parlare.”
“Come
ti
senti?”, le chiese.
Di
tutte le
domande di tutto il mondo quella era la più difficile da
accontentare. Sarebbe
stato molto più facile se le avesse chiesto di provare
l’esistenza di Dio.
“Beh…
Adesso
un po’ meglio.”, mentì per la seconda
volta consecutiva.
“Ne
vuoi
parlare?”, le domandò lui, con dolcezza,
“Non ti preoccupare per la mia
nottata, sono qui per te.”
“Beh…”
Non
aveva
assolutamente voglia di accontentare Danny,
di starsene lì a cercare di tradurre in parole
qualcosa che era più
intricato di un gomitolo di lana vecchia. Ma avrebbe accettato di
ascoltare per
ore ed ore la sua
voce che le raccontava
di qualsiasi argomento, anche il più stupido. L'avrebbe
confortata come un
balsamo refrigerante su una scottatura dolorosa.
“C’erano
molte persone al funerale?”, le chiese lui, non
sentendola parlare.
“Sì,
anche
troppe.”, gli disse, sospirando.
“Lo
so.”
Joanna
rimase
interdetta.
“Lo
sai?”
“Sì,
mi ha
telefonato Arianna.”, rivelò lui,
“E mi ha raccontato del funerale.”
Joanna
sentì
la sua testa cadere senza peso ed appoggiarsi sulla mano in un gesto di
sconforto. Vide anche Dougie scattare sugli attenti, ancora seduto
sulla
poltrona.
“Lascia
stare.”, gli disse.
“Hai
detto
che ti ha fatto delle... Cose...”, le chiese.
No,
non voleva
parlargliene, no. E no.
“Ero
solo
scioccata, fai finta che non sia successo niente.”
“Beh,
Arianna sembrava molto preoccupata quando me ne ha parlato.”,
insistette
lui, “Ma non ho saputo come tranquillizzarla, non so
nemmeno come si chiami
tuo padre, né che faccia abbia.”
“Dan,
non ti
preoccupare.”, continuò a ripetergli,
“Non è successo niente tra me e mio
padre.”
Lui
esitò,
forse se ne stava convincendo.
“Ok.”,
disse, “Va bene, magari eri solo davvero scioccata.”
“Ecco.”
“Scusa
per
l’insistenza, ma sono davvero preoccupato.”
“Non
farlo
troppo.”, gli disse, ridendo un po’,
“Presto starò bene.”
“Lo
spero
anche io.”, rispose Danny, con tono dolce,
“Dov’è Dougie?”
“In
camera
sua.”, rispose prontamente.
“Ok…
Dagli
il buongiorno appena lo vedi. Ti chiamo domani, va bene?”
“Va
bene.”,
gli disse.
“Allora
a
domani, Little… Ti voglio bene.”
Quelle
tre
parole la fecero sentire più in colpa di un'accusa.
“Ciao.”,
gli
disse e chiuse la chiamata, rimanendo a fissare il telefono nelle sue
mani.
Come
poteva
lei fargli tutto quello? Come poteva non volergli parlare della sua
vita, di
ciò che aveva vissuto? Lui era in diritto di sapere, e lei
in dovere di
parlare… Alzò lo sguardo, movendolo con aria
persa per tutta la sua stanza finché
non incrociò quello di Dougie, e si ricordò che
suo malgrado lui era lì.
“Buongiorno…”,
gli fece, con aria stanca, lasciando il telefono.
“Buongiorno
cosa?”, domandò lui, con una lieve risata.
“Buongiorno
e
basta, Danny mi ha chiesto di dirtelo non appena ti avessi
visto… E l’ho
fatto.”, gli spiegò, tornando sulla sua pizza.
Lo
sentì
ridere, coprì l’unico rumore nella stanza fosse il
fruscio del cartone della
pizza sulle sue gambe. Joanna rese un altro morso e lo
ignorò.
“Ti
ha chiesto
di tuo padre… Non è così?”,
domandò lui, rompendo il silenzio.
Gli
annuì
senza guardarlo.
“Perché
non
gli hai ancora detto niente?”, le fece, “Se posso
saperlo, ovviamente.”,
aggiunse subito.
“No,
non puoi
saperlo.”, lo seccò con la sua risposta.
“Allora
me lo
immaginerò.”, disse lui.
Joanna
sbuffò,
infastidita dalla sua presenza poco ben voluta.
“E
così”,
riprese Dougie, “a quanto pare Arianna lo ha chiamato e gli
ha detto del
funerale…”
“Poynter,
per
cortesia, non si parla mentre si mangia.”, gli disse,
provando a farlo zittire.
“Ma
io non sto
mangiando.”, le fece, con sorriso beffardo.
Lei
si
spazientì ancora, prese lo scatolone e scese dal letto,
avvicinandosi a lui.
Glielo mise sotto il naso.
“Tappati
la
bocca.”, gli disse, forzandolo a mangiare.
Lui
non se lo
fece dire una seconda volta, prese uno spicchio e lo
addentò. Joanna tornò sul
suo letto, chiedendosi perché diavolo il destino avesse
voluto mandarle lui al
posto di Danny. E si ricordò che quel destino si chiamava
Tamara.
“E
Arianna gli
ha detto del tuo discorso al…”
“Fatti
i cazzi
tuoi!”, si arrabbiò con lui,
“Perché devi insistere? Non ne voglio parlare,
basta!”
“Ok!”,
fece
lui, alzandole mani con aria innocente, “Pensavo solo
che…”
“Non
pensare,
non parlare, non guardare… Mangia e basta!”, gli
vomitò addosso quella serie di
divieti.
Lui
se ne
stava sulla sua poltrona, con i piedi che penzolavano dal bracciolo e
toccavano
il letto, le braccia incrociate e sguardo vispo e malizioso.
“Cosa
c’è,
Poynter!”, sbuffò, veramente annoiata dal suo
atteggiamento.
“E’
più bello
vederti arrabbiata che in lacrime.”, le disse, facendosi
serio.
Lei
si sentì
improvvisamente in imbarazzo. Le guance avvamparono, erano fuori
controllo, e
si dedicò alla masticazione frenetica del suo boccone, lo
sguardo tenuto basso
piuttosto che vedere lui e tutta la sua presuntuosaggine.
“Secondo
te il
rosso mi dona davvero?”, le chiese di lì a poco,
costringendola ad alzare il
viso per prestargli attenzione.
“Cosa?”,
gli
fece.
Dougie
si mise
le mani dietro alla testa, allungò le gambe per stirarsi i
muscoli e, con il
viso contratto in una smorfia di sbadiglio, gli indicò il
muro.
Il
poster e le
fotografie.
“Certo
che ti
dona!”, gli disse subito, “Perché?
Preferivi un altro colore? Magari il nero?”
Lui
alzò le
spalle senza rispondere, come se non gliene fosse importato niente.
“Perché
continui a fissarmi in quel modo?”, gli domandò
Joanna, ormai al limite della
sopportazione, “C’è qualcosa che mi esce
dal naso?”
“Oh
no,
affatto.”, le rispose, “E’ che non sono
mai stato in camera tua, tutto qui.”
“Tutto
qui?”,
esclamò Joanna, sentendosi presa in giro, “Tutto
qui?”
“Sì.”
Non
ci poteva
credere.
Per
caso si
ricordava che il pomeriggio precedente avevano seppellito suo padre,
dopo che
lei aveva trattato male la sua anima in pubblico? Perché
continuava a prendersi
gioco di lei, a scherzare ed a fare l’idiota? Ah, ecco, la
risposta giusta era
nella sua stessa domanda: lui è un idiota.
“Ti
stai
prendendo gioco di me?”, lo accusò con quella
domanda, “E’ morto mio padre e tu
ti prendi gioco di me?”
Dougie
tolse
dalla faccia il sorrisetto buffo che indossava e si fece serio.
“No,
non mi
sto affatto prendendo gioco di te.”, le fece, con tono calmo
ma lievemente
risentito, “Sto solo cercando di farti stare meglio, di non
farti pensare a
quello che stai vivendo. Ti voglio far sorridere, anche solo per tre
secondi,
perché so che stai morendo dentro. E non voglio.”
“Non
ti sto
chiedendo aiuto.”, gli sibilò.
“E’
vero, sono
perfettamente d’accordo con te.”,
continuò lui, “Ma a chi lo chiederai quando
ne avrai bisogno? Ad Arianna o a Danny, a cui non hai mai parlato di
tuo padre?
Almeno io so qualcosa di lui, so qualcosa di te. Forse ti capisco
meglio degli
altri.”
Rimase
stupefatta dalla presunzione delle sue parole. Era senza fiato.
“Esci
da
questa stanza.”, gli disse, puntando il dito verso la porta,
“Esci.”
Lui
non si
oppose, né disse qualcosa per discolparsi. Semplicemente si
alzò, e la lasciò
sola, a piangere ancora.
Cretino,
cretino, cretino. E ancora una volta cretino.
Ma
che cazzo
gli era passato per la mente? Cosa cazzo aveva pensato? Che mettersi
lì a
stuzzicarla sarebbe servito a qualcosa? Che stare a fare lo scemo fosse
una
buona idea? No, non lo aveva pensato affatto. Si era semplicemente
spaventato,
fatto prendere dal panico come un demente perché si era
addormentato nella
camera di Jonny, in un posto a lui proibito, ora e sempre. Si era
intrufolato
di nascosto lì, contro tutte le leggi del comune buon senso
e lei, ovviamente,
non aveva minimamente gradito la sua presenza.
Sospirò,
chiedendosi se mai una volta nella sua vita sarebbe stato in grado di
prendere
decisioni giuste, quando c’era Jonny in ballo. Ogni mossa che
faceva, ogni
parola detta, ogni pensiero sembravano errati, fuori luogo, offensivi.
Quando
c’era lei di mezzo, sembrava perdere completamente la
capacità di comportarsi
correttamente.
Guardò
il
soffitto bianco, perfetto, nemmeno una sbavatura nella tinta linda.
Accantonò
quei pensieri per trovare il suo cellulare e chiamare Fletcher detto
Fletch, il
loro fidato manager, che con il biondo chitarrista Tom Fletcher aveva
in comune
solo il cognome, per chiedergli se in mattinata avrebbe arrangiato per
lui un
volo di ritorno. Sicuramentedoveva averlo colto in un momento poco
opportuno, a
sentire dalla voce affannata e nervosa,
e ne ebbe la conferma quando lui gli proibì
severamente di disturbarlo
di notte, per qualsiasi motivo, a meno che non si fosse trattato della
sua
imminente morte violenta. Flethc riattaccò dicendogli che si
sarebbe fatto
sentire appena avesse trovato qualcosa.
Infatti,
la
mattina seguente, il primo suono che le sue orecchie percepirono fu
proprio il
trillare del suo telefono.
“Pronto…”,
biascicò.
La
voce era
quasi del tutto assente, si strapazzò un po’ gli
occhi stanchi, che bruciavano
ed erano gonfi.
“Dougs,
sono io.”, disse qualcuno, di là, senza
specificarsi.
“Io
chi?”, gli
chiese, ancora intonito.
“Fletch.”,
si presentò.
Un
barlume di
memoria si fece spazio nella sua mente.
“Il
caro
manager Fletch.”, continuò poi il
manager, aiutandolo nel ricordarsi.
“Ah…
Trovato
il mio volo?”, gli chiese subito.
“Sì,
l’ho
trovato… Domani alle dieci e mezza.”
“Cosa?”,
esclamò subito Dougie, “Domani mattina alle
dieci?”
“Sbagliato,
domani sera alle dieci e mezza.”, lo corresse
Fletch, calcando la voce su quelle
parole.
“Cristo,
Fletch!”, protestò Dougie, “Ti avevo
chiesto di prenotarmi il primo volo di
oggi!”
“Ma
è
quello che ho fatto!”, si difese l’altro,
“E non è colpa mia se ti trovi
nella repubblica delle banane, Dio solo sa cosa ci sei andato a fare, e
tutto
il personale di volo degli aeroporti ha deciso di scioperare in massa
proprio
oggi!”
“Cazzo,
ma
qualche volo partirà pure!”, si
arrabbiò maggiormente Dougie.
“Oh
sì,
partono eccome, peccato che i controllori di volo nelle torrette, il
personale
a terra e gli sbandieratori nelle piste siano a picchettare le entrate
degli
aeroporti!”
“Io
devo
tornare a casa! Io VOGLIO tornare a casa, trovami un volo!”,
gli urlò.
“Trovatelo
da solo!”, lo ghiacciò Fletch,
“E’ dalle otto di stamattina che ti cerco
un posto su un fottuto 747, e il primo che ho trovato è
stato il primo che ho
comprato!”, e chiuse la chiamata.
Con
un
grugnito Dougie batté i pugni sul letto, nervoso. Che cavolo
avrebbe fatto
tutto quel tempo lì? Si buttò di nuovo a peso
morto sul materasso.
Prese
la sua
tazza preferita, quella con il grande girasole dipinto sul fondo, e la
riempì
con il latte tiepido. La tavola alle sue spalle era già
pronta per la
colazione, apparecchiata con biscotti, aranciata e marmellata. Il
profumo del
caffè appena fatto usciva insieme al rigo di fumo tremolante
e riempiva la
cucina di un aroma forte ma dolce, che non poteva fare altro che
mettere il
buonumore. Doveva solo aggiungerne la giusta quantità dentro
al suo latte, in
modo che i due liquidi si amalgamassero perfettamente e nessuno dei due
prevaricasse sull’altro. Non le piaceva quando la sua
colazione sapeva troppo
di caffè, era troppo amaro per il suo palato, ma non era di
suo gradimento
nemmeno la stucchevolezza del latte.
Nelle
cose ci
voleva sempre il giusto equilibrio.
Prese
il
manico caldo e nero della moka e, con attenzione, iniziò a
macchiare il suo
latte. Aggiunta la quantità corretta, prese la tazza con
entrambe le mani e si
sedette sul tavolo, ben attenta a non versarne nemmeno una sola goccia.
Solo da
quel momento il suo
rituale mattutino
poteva dirsi iniziato. Accese un po’ di tv, sintonizzandola
sull’ennesima
replica estiva di ‘Happy Days’
ed iniziò a immergere uno per volta i
grandi biscotti rotondi col buco nel mezzo che le piacevano tanto.
“Giorno,
Jonny.”
Quello
che gli
vide indosso non erano altro che i vestiti del giorno prima, non aveva
avuto
neanche l’accortezza di toglierseli, una volta tornato in
camera sua. Non
sarebbe stata una buona mattinata, né un giorno felice,
né l’aroma del caffè le
aveva messo il buonumore sperato, indipendentemente dalla fastidiosa
presenza
di Dougie in casa sua.
“Buongiorno.”,
gli disse, senza dargli il benvenuto con lo sguardo,
“Fame?”
“Molta.”
“Prendi
quello
che vuoi.”
Alzò
il volume
della televisione, facendo sì che le vecchie battute tra
Fonzie e Ricky
Cunningam tacessero i rumori di Dougie. Dopo qualche minuto di intensa
e
rumorosa attività lo vide sedersi al tavolo, opposto a lei,
con una tazza di
latte freddo.
“Tutto
questo
casino solo per quello?”, sbottò subito Joanna,
incredula.
“Tieni
la tv
così alta solo per quello?”, rispose lui a tono,
indicando la televisione.
Sbuffando,
Joanna abbassò il volume e tornò ad ignorarlo per
riempirsi lo stomaco.
“Dormito
bene
dopo che me ne sono andato?”, le fece Dougie, evidentemente
interessato a
parlare, al contrario di lei.
“Sì.”,
gli
rispose, sbrigativamente.
“Anche
io.”
“Non
te l’ho
chiesto.”
“Ma
io te lo
dico lo stesso perché voglio che tu lo sappia…
Anche se non ti interessa… E sì,
mi piace sprecare il mio fiato perché la vita è
la mia.”, disse lui,
anticipando intelligentemente tutte le possibili parole che lei avrebbe
voluto
usare per zittirlo e tornare ad passare sopra la sua presenza.
Joanna
alzò le
spalle, lasciandolo ad accontentarsi dell’obiettivo
raggiunto, il non farla più
controbattere.
“Ti
devo dire
una cosa.”, le fece Dougie, dopo aver preso un sorso del suo
latte.
“Prima
però
devo dirtene una anche io.”, gli disse, “Non
provare mai più ad entrare in
camera mia, ci siamo intesi?”
Dougie,
spiazzato, le annuì ed abbassò la testa con
colpevolezza.
“Non
l’ho
fatto per farti arrabbiare... Avevo solo pensato che tu potessi avere
fame.”,
le disse, “Per quello ti avevo portato i biscotti ed il latte
che hai trovato
sul tuo comodino.”
Non
volle
sentirsi in colpa per l’eccessiva reazione che aveva avuto
nei suoi confronti.
Non le interessavano i moti di compassione , poteva risparmiarli e
tenerli per
altre disgrazie. Joanna tornò alla sua colazione.
“Dov’è
Arianna?”, le domandò, cambiando totalmente
discorso.
“Al
locale,
aveva da fare.”, gli disse, con parole veloci e annoiate di
essere parlate.
Per
qualche
attimo un silenzio soffocante scese su di loro.
“Starà
via
tutto il giorno?”, tornò a chiederle Dougie.
“Purtroppo
sì!”, esclamò Joanna, che fino a quel
momento aveva tenuto lontano da se stessa
la possibilità di passare altro tempo con lui, “E
tu quando hai il tuo volo?”
Pretese
una
risposta nel giro di pochissimi attimi.
“Proprio
di
quello volevo parlarti.”, disse lui, “Proprio del
mio volo...”
Se
non fosse stato
un volo d’aereo, sarebbe stato un volo dalla finestra e ce lo
avrebbe buttato
lei, di persona.
“A
che ora ce
l’hai?”, gli domandò.
“Alle
dieci e
mezza.”
“Bene.”
“Di
domani
sera.”
No,
doveva
essere uno scherzo.
“Come,
scusa?”, gli chiese di ripetere.
“Hai
capito,
Jonny, prima di domani sera alle dieci e mezza non lascerò
il tuo paese per il
mio, va bene?”, disse Dougie, il suo tono infastidito tanto
quanto il suo.
“Non
è
possibile che tu non sia stato in grado di trovare un solo aereo che
parta
prima di domani sera!”, si difese lei.
“Credici
pure,
vivi in una prigione, non in una nazione civile!”,
sbuffò lui, alzando la voce,
veramente innervosito, “Era questo quello che volevo dirti,
che purtroppo non
riesco liberati da me!”
“Non
ci sono
soltato gli aerei per tornartene a casa!”, gli disse,
saltando in piedi,
risentita dal suo tono arrabbiato.
“Se
fossi
rimasto in aeroporto, sarei ripartito senza dovermi trattenere
qui!”, riprese
lui, “E così non avrei dovuto preoccuparmi di te,
del tuo stato e dei tuoi
sentimenti! Non avrei dovuto tapparmi le orecchie per non sentirti
piangere!”
Joanna
sentì
le lacrime salirle agli occhi ma si impose di non versarne nemmeno una,
non una
sola. Strinse i pugni e, senza battere ciglio, si alzò per
liberare il tavolo
dalle rimanenze della sua colazione.
Eccomi, sono tornata con la solita puntualità. Non ho molto
da
dire su questo capitolo, tranne che mentre scrivevo non riuscivo ad
evitare di odiare Danny... E pure Joanna. Dio, non riuscivo a
sbloccarla da quella situazione, mi ce n'è voluto di tempo.
Come
spero che avrete capito (e sono sicura che sarete in molte), ognuno ha
il suo 'motivo'
per 'odiare'
Dougie, giustificabile o ingiustificabile che sia, dipende dai punti di
vista che assumiamo. E questi motivi, purtroppo, vengono nascosti
dietro ad un sacco di bugie... Dietro all'orgoglio, all'amicizia.
Lo capirete meglio nei prossimi capitoli. Soprattutto, capirete che se
la situazione si smuove da un lato, regredisce dall'altro, in un tira e
molla che ha esasperato perfino chi questa storia l'ha scritta e chi
l'ha betata (sì, perchè ho assunto una betareader
XD
aggratisse, come direi in perfetto fiorentino)! Di certo, comprenderete
che se nella realtà le persone non cambiano da un giorno
all'altro... Perchè devono farlo nelle fanfiction?
La canzone che apre il capitolo è 'Buried
Myself Alive'
dei The Used e i versi in corsivo sono un estratto del suo testo. Credo
che sia molto appropriata per Joanna, non credete? No scopo di lucro.
Non ho molto tempo per ringraziarvi... Spero che mi perdonetere ^^"
Mando comunque un bacio a tutte le mie lettrici, a chi recensisce e a chi passa anche solo per un'occhiata :)
Al prossimo lunedì!
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Capitolo 8 *** Tear In Your Hand ***
All the world
is all I am, the black of the blackest ocean, and the tear
in your hand...
You don't know the power that you have with that tear in your hand...
Dougie teneva gli occhi
fissi sul suo bicchiere
di latte, le dita intorno al vetro freddo. Si era pentito subito di
quello
sfogo accidentale, di quel flusso irresistibile di parole uscito senza
permesso
dalla sua bocca. Non cercava di giustificarsi con il dire che era stata
lei a
spingerlo, a farlo arrabbiare. Si alzò ed andò da
lei, che gli dava le spalle,
china sul lavello.
“Jonny, non
volevo... Davvero.”, piagnucolò,
mentre lei era intenta a sciacquare la sua tazza, “Non lo
penso davvero, ero
solo arrabbiato per tutto.”
“Lascia
stare.”, gli disse lei, insaponando con
furia.
“E invece
no.”, protestò lui, chiudendo il
rubinetto dell’acqua e costringendola a fermarsi, ma non a
guardarlo, “So che
vorresti che me ne andassi adesso, che lasciassi questa casa senza dire
una sola
parola...”
“Perché
non lo fai?”
Forse non aveva davvero
più senso provare ad
aiutarla, quando era palesemente chiaro che Jonny non avesse affatto
bisogno di
lui.
“Non
l’ho ancora fatto perché pensavo che avessi
voluto qualcuno con cui parlare a ruota libera, senza dover partire per
forza
dall’inizio.”, le fece, le sue parole perse in un
sospiro.
“Che senso ha
parlarne ancora con te”, gli disse
Jonny, “quando so che te ne andrai di nuovo e mi volteraile
spalle?”
“Chi ti assicura
che succederà ancora!”, esclamò
lui, ormai stufo di essere ancora preso per un coglione immaturo,
“Chi te lo ha
detto!”
“Lo so e
basta.”, disse Jonny, tornando sulle sue
stoviglie, “Non ho bisogno di parlare e tutto quello che
avevo da dire, l’ho
detto.”
“E ti senti
meglio per questo?”, le domandò,
sfidandola.
Lei non gli rispose.
Aprì il rubinetto e tornò a
lavare.
“Prenderò
questo silenzio per un no, altrimenti
ti saresti voltata e mi avr-...”
“No che non sto
bene, cretino!”, gli ringhiò
contro Jonny, togliendo le mani dall’acqua insaponata e
voltandosi verso di
lui, “Come vuoi che mi senta, eh? Pensi che in questo momento
stia godendo
della morte di mio padre, o dell'aver scandalizzato i benpensanti che
stavano
in chiesa? Lo pensi davvero?”, continuò ancora,
“Pensi che sia contenta nel
capire di aver speso tutta la mia vita nel correre via da un incubo,
spaventata
a morte nel trovarmi di nuovo di fronte qualcuno che potesse essere
come mio
padre?Pensi che non provi un briciolo di odio verso me
stessa?”
Dougie si era sciolto in
polvere.
“Sono stata
troppo impegnata a scappare da lui
per crearmi una vita mia, di cui lui non ne facesse parte di cui lui
fosse
estraneo. Pensavo di averla trovata ma era solo una finzione, una bugia
che
raccontavo a me stessa. Ogni piccolo istante della mia vita lui era
lì, a
demonizzarmi...”, gli diceva, le sue mani che sottolineavano
ogni sua parola.
Vide la prima lacrima
scendere dai suoi occhi e
segnarle con un rivolo lucido le guance rosse. Dougie non aveva il
coraggio di
chiudere gli occhi, pensando che un solo suo cenno potesse
interromperla.
“Ed anche ora che
non c’è più... Lui
continuerà
ad esserci. E’ un paradosso, ma so che accadrà
proprio questo, so che non lo
lascerò mai alle spalle perché sono io ad essere
sbagliata, sono io quella che
sbaglia.”, diceva, accusandosi con un dito rivolto verso di
sé, che puntava sul
suo petto, sulla sua cicatrice, “Io non cambierò
mai, lui sarà sempre con me e
io non lo voglio questo, non lo voglio!”
Si fermò, gli
occhi si persero.
“Sei contento
adesso?”, gli disse, scoppiando a
piangere, “Ho parlato senza dover partire
dall’inizio, proprio come volevi
tu... E non sto affatto meglio!”
Da quando l’aveva
conosciuta, Dougie si era
pentito di tante cose dette e fatte, ma non avrebbe mai messo in dubbio
quella:
averla fatta gridare, sfogare e piangere era l’unica cosa su
cui non sarebbe
mai tornato a pensare.
“E adesso cosa
fai?”, tornò all’attacco Joanna,
“Te ne stai impalato come uno spaventapasseri, senza dire
niente! Come al tuo
solito, non sai altro che fare cazzate e non sei capace di mettere le
cose a
posto!”
No, non se lo sarebbe fatto
dire un’altra volta.
Le si avvicinò e la abbracciò, appoggiando il
mento sulla sua testolina bionda
e arrabbiata. Jonny non si oppose, scoppiò in singhiozzi e
pianse contro il suo
petto. Dougie afferrava sempre di più tutto il silenzio in
cui lei era caduta.
Si era chiusa in se stessa perché in un solo attimo aveva
capito tutte quelle
cose, tutti quegli errori che aveva commesso, e non aveva la
più pallida idea
di come raccogliere i pezzi della sua vita e rimetterli insieme.
Senza che se lo aspettasse,
le braccia di Jonny
si chiusero intorno a lui. Non aveva voluto che lo ricambiasse, quello
di cui
aveva avuto bisogno era che lei si convincesse di lui, che tornasse a
fidarsi
di lui. Perché lui era lì.
“Vuoi che ti
accompagni in camera tua?”, le
chiese, con un filo di voce, così da non disturbarla.
“No... Lascia
stare.”, disse lei, allontanandosi
ed asciugandosi le lacrime, “Vado da sola.”
“Beh... Devo
andare nella mia stanza, è vicino
alla tua, non pensare che ti stia seguendo.”, le disse, non
resistendo alla
voglia di sdrammatizzare, quella maledetta voglia.
Lei rimase qualche secondo
a fissarlo, incerta.
Poi scosse la testa e si voltò, ma Dougie fu sicuro che per
una frazione di secondo,
un brevissimo attimo, sulla faccia di Jonny fosse apparso un
piccolissimo
sorriso.
Si sedette sul davanzale
della finestra di camera
sua, dove spesso si era trovata a passare ore intere immersa nei suoi
pensieri.
Si portò le gambe al petto e le abbracciò,
trovando conforto nel suo stesso
calore. Guardò fuori.
Il cielo era macchiato di
grandi nuvole di un
grigio intenso, solo qualche sprazzo di celeste spuntava qua e
là. Nonostante
tutto poteva vedere la città stendersi davanti a lei, nella
pianura più in
basso, riscaldata da timidi raggi di sole, i pochi che riuscivano a
filtrare
attraverso quella spessa coperta plumbea. Era in arrivo un temporale
estivo, lo
si poteva capire anche dalla freschezza dell’aria e dal
costante odore di acqua
che si portava con sé. Gli alberi stavano già
muovendosi sotto le onde del
primo vento, prima o poi sarebbe scappato un tuono, o forse solo un
lampo
lontano, e la pioggia battente sarebbe arrivata.
Una giornata perfetta per
piovere, si disse.
Sentiva una grande stanchezza, una pesantezza dell’anima che
non aveva provato
così frequentemente. Avrebbe voluto chiudere gli occhi,
battere tre volte i
tacchi delle sue scarpe di rubino e trovarsi in un qualsiasi posto dove
la
vita, i problemi ed i fantasmi non esistevano, dove c’era
solo lei, se stessa e
qualche buffa conchiglia rotta, che avrebbe indossato come una collana,
ma era
impossibile. Lei non era Dorothy e non viveva nel Kansas, e sebbene il
tempo là
fuori stesse peggiorando con costanza, non c’era nessuna
tromba d’aria in
arrivo, la sua casa non stava per essere inghiottita dal ciclone per
essere
depositata nel paese dei Mastichini, una regione del lontano regno di
Oz. Lei era
semplicemente Joanna Bellini.
Ed aveva versato di nuovo
la sua vita nelle mani
di Dougie.
Non contenta di essere
stata ingannata già una
volta, aveva affidato il suo tormento a lui, come se potesse capirla o
farle
del bene, mentre
chi si meritava davvero
di sapere tutto –tutto- non conosceva
nemmeno una minima parte della
storia. Si sentiva una caricatura di se stessa, una stupida, una
masochista.
Con una rabbia crescente, prese il telefono e compose il numero di
Danny,
sperando che lui le rispondesse.
“Little!”,
esclamò lui, dopo qualche
squillo, “Sei già sveglia?”
“Sì...”,
gli disse, sentendo la sua stessa voce
tremendamente nasale e rotta.
Anche lui se ne accorse.
“Little,
stai piangendo?”, le chiese, con
aria preoccupata.
“No, ho solo un
terribile raffreddore.”, cercò di
mascherarsi, ma senza alcun effetto.
“Lo
sento che stai piangendo...”, le disse
lui, “E mi dispiace non essere lì con te.”
“Ma no, stai
tranquillo... Non è colpa tua.”
“Sì
che lo è... Ma Dougie? Cosa sta facendo?”,
le domandò.
“Penso sia nella
sua stanza. Non so.”
“Ok...”,
disse Danny, sospirando, “Cosa
ti passa per la testa, Little?”
Ecco, l’aveva
chiamato apposta perché Danny
doveva sapere.
Doveva sapere.
“Niente, volevo
solo sentirti.”, gli disse,
mordendosi il labbro inferiore.
“Non hai
niente da dirmi?”
“Beh...”
Certo che ne aveva di cose
da dirgli. Ne aveva un
mucchio, tantissime, una valanga intera di confessioni... Ma sentiva il
respiro
bloccarsi in bocca, le parole svanire nel nulla, risucchiare da un buco
nero
che si faceva sempre più grande nel suo cuore.
“No, niente in
particolare.”, gli disse.
Sentì
un’altra lacrima scendere. Danny, al di là,
sospirò.
“Little...
Io voglio che tu sappia, che tu
capisca che puoi dirmi tutto. Qualsiasi cosa, anche la più
stupida, la più
idiota.”, le disse Danny, “Anche
quella che pensi che non abbia la minima
importanza...”
“Lo so,
Dan...”
La sua voce sembrava quasi
un lamento.
“Little,
io non so niente di te.”, le
fece, “Io non so cosa hai dentro. Non me ne hai mai
parlato.”
Come aveva potuto
riassumere la sua vita... In
una mail, in una telefonata?
“Non ti
ho fatta venire quassù solo perché
volevo vederti... Ma anche perché volevo parlarti, volevo
conoscere anche la
Little Joanna che nessuno ha mai visto... E che non ho mai letto nelle
mail che
ci siamo scritti.”
Avrebbe voluto urlare,
gridare, riversare fuori
tutta la rabbia che aveva dentro, tutto il rancore, il risentimento...
Voleva
che tutti i sentimenti che lui doveva –che lui voleva-
tanto conoscere
uscissero fuori come l’acqua alla sorgente di un fiume,
limpidi e cristallini,
pronti per essere raccolti.
Non ci riusciva.
Aveva costruito intorno a
sé una fortezza, fatta
di mura spesse e solide, dentro la quale aveva vissuto tranquillamente
senza
sentire il bisogno di uscire fuori, dove il mondo era crudele con lei.
Adesso,
invece, si sentiva imprigionata, soffocava dalle barriere che lei
stessa aveva
eretto a sua protezione. Voleva valicare quelle mura ma non ne era
più capace.
Aveva perso di vista la fune che le permetteva di far abbassare
quell’immenso
ponte levatoio che bloccava l’accesso alla sua vita.
“Ho
sempre sperato che un giorno lo avresti
fatto, che ti saresti confidata con me. Forse ancora non è
successo perché...
Forse perché sono un ragazzo, e tu vorresti avere
un’amica, non un amico...”,
disse lui, “O forse semplicemente perché
siamo lontani...”
Da qualche parte in lei
c’era la forza che le
serviva per sfogarsi. C’era, lo sapeva! Lo aveva fatto
già con Dougie, perché
non con lui? Perché non con Danny, con il suo migliore
amico... Con l’unico
ragazzo per cui provava qualcosa?
Perché Dougie
aveva assistito per ben due volte
alla rivelazione di quello che aveva nel cuore, mentre Danny non aveva
avuto
niente di tutto questo?
“Little...
Non lo so, però se continuiamo
così....”
Non se la sentì
di rispondergli. Chiuse la
chiamata e spense il telefono, pregando che lui la lasciasse in pace.
Rimase sul davanzale a
guardare le prime gocce di
pioggia macchiare il vetro della finestra. In lontananza, verso le
montagne, il
cielo veniva illuminato da qualche lampo improvviso.
Quando sentì il
primo rumore erano le sei e mezza
passate di un pomeriggio vuoto, privo di tutto, di suoni, di
sensazioni, di
pensieri. Per la maggior parte della giornata se n’era stato
con i nervi a fior
di pelle, teso, pronto a scattare nel caso in cui Jonny avesse avuto
bisogno di
lui.
Più volte si era
avvicinato alla porta di camera
sua, vi aveva accostato l’orecchio per sentire cosa facesse,
ed aveva solo
sentito musica a basso volume. Aveva quasi pensato di chiamare Arianna,
di
farla tornare a casa perché la preoccupazione crescente gli
stava facendo
pensare le cose più assurde, ma si era imposto di calmarsi,
di respirare e di
ragionare. Jonny stava bene, o meglio, non stava facendo niente di
allarmante.
Se ne stava certamente sul suo letto, magari a leggere, a guardare un
po’ di
tv...
Così, era sempre
tornato a chiudersi nella
propria stanza. Aveva dormito un po’, ascoltato qualche
canzone con l’i-pod,
guardato fuori dalla finestra. Insomma, aveva passato una giornata
interamente
vuota, bianca come una pagina di un blocco note ancora da scrivere.
Quando
aveva sentito quel rumore, che tanto somigliava allo scricchiolio di
una porta,
era uscito fuori dalla stanza, sperando di trovare Jonny in piedi.
Invece c’era solo
Arianna.
“Ciao,
Dougie.”, gli disse lei, sottovoce, “Jo sta
dormendo, sono uscita dalla camera un attimo fa.”
“Ah
bene...”, le fece, sorridendole.
“Vuoi un
caffè?”, gli domandò lei.
E scesero insieme in
cucina. Mentre la donna
aspettava che quella strana macchinetta producesse caffè
ebbero modo di
scambiare qualche parola.
“Scusami per
oggi”, disse lei, “ma dovevo
assolutamente incontrarmi con delle persone per il locale e non potevo
rimandare.”
“Figurati.”,
le disse, sedendosi dove quella
stessa mattina aveva discusso con Jonny.
“Pensavo di
risolvere in poco tempo, invece mi
hanno costretto fuori tutto il giorno.... Allora, cosa avete fatto
oggi?”
Dougie alzò le
spalle.
“Non
l’ho vista molto, solo stamattina.”, le
spiegò, lasciando nascosto ogni riferimento a quello che era
veramente
successo.
“Prevedibile.”,
fece lei, sospirando, “Se n’è
stata da sola in camera, vero?”
Le annuì con un
cenno della testa.
“Ieri sera ho
chiamato Danny.”, continuò Arianna,
“Pensavo di trovare qualche risposta in lui.”
La guardò.
“Riguardo a suo
padre.”, si specificò lei, che
forse aveva travisato la sua curiosità velata con il non
comprendere a cosa si
riferisse.
Quella donna non doveva
avere molta buona
considerazione di lui, pensò con ironia.
“Non sapeva
niente...”, disse, poi venne attirata
dal borbottare della macchinetta per il caffè.
Si alzò e la
tolse dalla fiamma, versandone il
contenuto in due tazzine.
“Sai, questo
fatto mi ha stupito abbastanza.”,
riprese Arianna, evidentemente volenterosa di parlarne,
“Pensavo che fossero
molto amici, lui e Jo.”
“Beh, lo sono
davvero.”, le fece.
La donna annuì,
sorseggiando il suo caffè
caldissimo. Sembrava riflettere.
“Tra due persone
così tanto amiche si presuppone
che esista un po’ di confidenza.”, disse lei,
“Ed avevo spontaneamente pensato
che Joanna avesse parlato con lui dei problemi che aveva avuto con suo
padre.
Di certo non ho mai preteso che lo facesse con me... Sospettavo che le
cose non
fossero molto facili in famiglia, lei non ne parlava mai ed io, per
rispetto,
non mi permettevo di ficcanasare.”
Poi si voltò
verso di lui.
“Tu ne sapevi
qualcosa?”, gli chiese, guardandolo
dritto negli occhi.
Dougie sentì un
brivido sul collo ed ebbe
l’immediata sensazione che Arianna avesse già
capito la verità.
“Sì,
lo sapevo.”, gli disse, “Jonny mi ha
raccontato gran parte della storia... Un anno fa.”
“E
perché lo ha detto a te... E non a Danny?”,
domandò la donna.
Come poteva saperlo lui?
Dougie si strinse nelle
spalle, non aveva quel genere di risposta. Arianna sorseggiò
altro caffè e posò
la tazzina vuota sul tavolo. Lui non lo aveva ancora toccato, solo
adesso portò
la sua tazza alle labbra, assaggiandone solo un po’. La
donna, comunque,
continuava nella sua riflessione silenziosa.
“Beh... Diciamo
che qualche cerchio inizia a
quadrare.”, disse poi.
“Quale?”,
domandò lui, prontamente.
La donna lo
guardò con malizia.
“Vuoi sapere
troppo, Dougie, e conosceresti comunque
molte più cose di quante ne sappia io, dopo un anno di
convivenza con lei.”,
gli disse.
Arianna si alzò
sbadigliando, e lo lasciò con la
curiosità che saliva esponenzialmente. Un trillo
sconosciuto, forse il telefono
di casa, interruppe la sua sessione di stiracchiamento e la donna
andò a
rispondere, lasciandolo lì con mille domande.
Quelle cose che aveva
inquadrato riguardavano
lui? E in che modo? Perché comunque non gliene voleva
parlare?
La curiosità
crescente si tramutò in
frustrazione.
I
know I've been mistaken,
but just give me a break and see
the changes that I've made.
Why can't you just forgive me?
I don't want to relive all the mistakes I've made along the way.
Tutto sembrava girare
intorno a Danny e Joanna,
Little e Dan, Jones e Jonny.
Loro due che erano
così amici, così uniti. Si
divertivano insieme, si volevano bene ed erano così complici
che Tamara aveva
apertamente dimostrato la sua gelosia, proibendogli di seguirla.
E lui,
invece, non poteva fare parte
di tutto quello. Lui era Dougie Poynter, lo stupido, il deficiente, il
cretino
che l’aveva trattata male. Era quello che si era fatto
prendere dal panico; quello
che, giustificandosi con il fatto di non volerla farla soffrire, aveva
agito
solo per pararsi il culo da una possibile delusione.
Quello che
adesso cercava di dare
un’altra immagine di sé, ma che ogni volta veniva
respinto come se fosse stato
un pacco indesiderato, un regalo riciclato, qualcosa da rinnegare
perché
ingombrante e di troppo peso.
Aveva capito
i suoi errori, se n’era
pentito davvero. Aveva provato a fare di tutto, anche se ogni tentativo
cadeva
in un fallimento, in un buco nell’acqua, oppure veniva
completamente frainteso,
o non capito e basta. Tutti rimanevano ancora aggrappati al passato, vi
avevano
affondato le radici e non riuscivano a guardare avanti, non facendo
altro che
rinfacciargli che Jonny aveva sofferto per causa sua.
Come sempre,
era rimasto vittima di
uno stereotipo. Era un cretino senza cervello, senza sentimenti, e da
lui non
poteva venire fuori niente di buono, soprattutto per Jonny. Forse era
proprio
il caso di lasciar perdere tutto, dato che niente girava per il verso
giusto…
Ma aveva
fatto una promessa, si era
assunto l’impegno di starle accanto, sia davanti a Danny che
a se stesso. Gli
ostacoli che si stava trovando davanti erano estremamente complicati e
difficili da scavalcare e, se avesse rinunciato, non avrebbe fatto
altro che
dare ragione a tutti quelli che cercavano di scoraggiarlo.
Doveva farlo
soprattutto per lei.
Ed anche per
se stesso.
You always find
a way to keep me right here waiting
You always find the
words to say to keep
me right here waiting
And if you chose to walk away I'd still be right here waiting
Searching for the things to say to keep you right here waiting
Why am I
fighting, what’s it for, must let my
mask drop to the floor.
Rolling up my sleeves to
fight against all the things I locked up and all the things I fenced.
But nobody quite got it right... Nobody knew
just how it feels to be me.
Era ancora a ripetersi le solite
cose, le solite
frasi fatte e conosciute, e quei versi esprimevano con una tale
naturalezza
tutto quello che le vorticava in testa che non sentiva il bisogno di
spiegarsi
meglio.
Stava perdendo
Danny, così come avrebbe perso
Arianna, anche lei vittima della sua stupidità e del suo
stupido egoismo.
Sì, era una
egoista perché teneva tutto dentro.
Sì, era una
egoista perché non lasciava agli
altri nessuno spazio nella sua vita.
Sì, era una
egoista perché avrebbe fatto soffrire
Danny ed Arianna, le uniche due persone che le erano rimaste.
Era inutile continuare a
giustificarsi, a
pretendere di rimanere dietro a quella maschera, a quella scusa grazie
alla
quale aveva finto di proteggere se stessa dalla malignità
del mondo esterno. La
sua lotta più grande, la sua fuga, era conclusa; suo padre
era morto e non le
era rimasto più niente. Ma forse ancora non aveva realizzato
che la sua
battaglia di vita non era mai stata quella combattuta contro di lui.
Ma quella contro se stessa.
Contro una Joanna che aveva
bisogno di qualcuno,
di un aiuto, di un’ancora a cui aggrapparsi per non annegare,
per non essere
trasportata via dalla marea.
Contro una Joanna che
però rifiutava di essere
salvata.
Proprio adesso che cercava
un amico, una mano
tesa verso di lei… Non c’era più
nessuno. E l’unica persona che si sporgeva nel
vuoto, per raccoglierla dal precipizio in cui era caduta, era quella
sbagliata…
Quella che, meno di tutto il resto del mondo, si meritava di sapere.
Eppure era lì.
E quelle giuste le aveva
allontanate tutte. Aveva
finto di voler loro bene, di esserne innamorata. Ma erano state bugie,
tutte
falsità che si era raccontata solo per trovare una scusa al
non aprirsi, al non
rivelarsi, per continuare a vivere nel suo mondo fatto di bugie e di
paure.
My scars I
shouldn’t hide from the people who
are on my side.
But sometimes when I'm dreaming, and I dream a lot these days,
I meet someone who understands, who leads me through the haze.
But
I wake up screaming…
Erano passare le otto
già da dieci minuti. Il
vassoio davanti a lui attendeva di essere preso tra due mani e portato
al piano
di sopra, ma Dougie non aveva il coraggio per farlo e continuava
semplicemente
a rimanersene appoggiato alla cucina a guardarlo, braccia conserte sul
petto,
come se quel pezzo di metallo lucido avesse potuto dargli tutte le
risposte giuste
a tutte le domande più o meno importanti che assillavano la
sua vita.
Arianna aveva
lasciato di nuovo a lui
l’incombenza di stare con Jonny: se n’era andata
già da due ore, chiamata da un
familiare che aveva avuto bisogno del suo aiuto per dei problemi
particolari,
che lei non era stata ovviamente a spiegargli.
Sospirò, si fece
coraggio e bussò alla porta di
camera sua, con il vassoio tra le mani. Attese una risposta che non
arrivò e,
sebbene le ginocchia non lo sostenessero con molta
tranquillità, bussò di
nuovo.
“Che
vuoi...”, sentenziò Jonny.
“Ti ho preparato
qualcosa per cena. Pensavo
avessi fame.”, le disse.
Non si aspettava di entrare
in camera sua, gliene
aveva proibito l’ingresso, e bastava solo che le consegnasse
il vassoio, poi se
ne sarebbe tornato nella sua stanza o
al piano di sotto, a guardare un po’ di televisione. Non era
importante che su
quello stesso vassoio le porzioni di pasta e di verdure al forno
fossero per
due persone… La porta si aprì e al di
là della soglia si presentò Jonny: il suo
viso era stanco, segnato.
In quello stesso istante,
un rombo all’esterno
interruppe il loro reciproco guardarsi, nell’attesa della
prima mossa
dell’altro o dell’altra.
“Tieni.”,
le disse, avvicinandole il vassoio.
Lei scrutò il
contenuto e sicuramente notò il
doppio bicchiere, le doppie posate, il doppio piatto di plastica, i
doppi
contenitori sigillati.
“Dov’è
Arianna?”, chiese poi, tornando con gli
occhi su di lui.
“Mi ha detto che
è andata da… Una sua zia, forse,
non mi ricordo il nome.”, la informò,
“L’ha chiamata verso le sei e mezza e se
n’è ndata poco dopo.”
“Ok.”,
disse Jonny e, senza troppo sforzo, prese
il vassoio tra le sue mani e chiuse l'uscio con un colpo del piede.
Rimase con un palmo di naso.
“Ehm…
Jonny?”, le fece. “Potremmo mangiare
insieme.”
“No.”,
rispose lei, secca.
“Non
necessariamente nella tua stanza.”, si
affrettò a specificare.
“Per caso nella
tua?”, domandò lei, con ironia.
“In quella che
preferisci.”
Niente, nessuna risposta.
Lasciò perdere
l’ulteriore fallimento,
allontanandosi per cenare da solo nella sua camera, quando la porta di
Jonny si
aprì ancora.
“Dai,
vieni.”, disse lei.
L’esplosione di
un altro tuono quasi oscurò le
sue parole.
Aveva terminato la sua
pasta al ragù ed ancora
non aveva avuto il coraggio di alzare gli occhi dal suo piatto bianco,
né di
dire una sola parola. Fuori, invece, il temporale sembrava aver molta
confidenza
con la Terra, la stava bagnando e ricoprendo di nebbia fitta e fulmini
in
caduta libera.
“Cosa hai fatto
oggi?”, gli domandò Jonny,
tagliando la coda della partenza.
“Beh…
Niente di che... Dormicchiavo ed ascoltavo
un po’ di musica.”, le disse, alzando le spalle e
impegnandosi con le verdure,
“Tu?”
“Anch'io.”,
rispose lei.
Lanciò
un’occhiata fuori, un altro flash luminoso
era entrato con prepotenza nella stanza. La pioggia batteva forte sui
vetri
velati da una tenda semi trasparente e riempiva le loro orecchie con i
piccoli
tonfi sordi che ogni grossa goccia produceva nell’impatto,
insieme al fischiare
del vento ed al fracasso apparentemente incessante delle piante intorno
alla
casa.
“Sembra che
questo temporale non voglia proprio
smettere di torturarci.”, le disse.
“Già.”,
fece lei, ancora preoccupata di finire le
sue paste, “Erano diverse settimane che non
pioveva.”
“Davvero?”
“Sì…
Ogni estate che passa, piove sempre meno.”,
disse lei, guardando fuori e tornando poi alla sua cena.
Dougie non sapeva
più cosa dirle. Ogni argomento
sembrava destinato a cadere nel vuoto, inascoltato, senza interesse al
riguardo. Si limitò allora a darsi un’occhiata
intorno.
Le pareti della stanza,
colorate di un lilla
molto chiaro, quasi impercettibile, erano decorate di poster. Tra le
facce
esposte riconobbe per prima quella di Bruce Springsteen: gli fece
tornare
subito in mente il giorno in cui Danny disse di averle spedito un
poster che lo
raffigurava, tanto per abituarla all’idea di quanto lui
potesse essere monotono
in fatto di musica. Accanto a quello invece sostavano appesi i Queen,
Alanis
Morissette, i Blues Brothers, i Beatles e tanti altri nomi noti,
principalmente
musicisti rock o blues, niente di troppo punk o esageratamente pesante.
Si soffermò
involontariamente sulla sua faccia
coperta di nastro adesivo rosso, e si lasciò scappare un
lievissimo sorriso.
“Cosa
c’è di divertente?”, lo colse subito
Jonny.
“Niente.”,
le rispose, e cercò subito un nuovo
spunto per parlare, “Danny ha chiamato?”
Lei annuì con un
cenno.
“Che notizie
porta dalla mia terra natale?”, le
chiese, con tono scherzoso.
“Beh…
Non lo so.”
“E…
Cosa avete fatto al telefono?”, sbottò lui,
involontariamente.
Joanna sospirò.
Cosa avevano fatto al
telefono? Innanzitutto, la
domanda esatta era cosa avesse fatto lei al
telefono. La risposta era:
un bel niente.
“Niente.”,
disse, infatti.
Dougie la guardò
strano, poi tornò a dedicarsi
alle sue verdure, sicuramente molto più interessanti di lei.
“Cosa vuoi
sapere, Dougster?”, lo volle.
“Assolutamente
nulla.”, rispose lui, con
tranquillità, “Perché dovrei volerti
spingere a parlare, se non sei tu a
volerlo fare?”
Rimase qualche attimo
spiazzata, senza parole.
Nella sua immensa
immaturità, Dougie le aveva
servito sul piatto d’argento la chiave dell’enigma
che lei stava vivendo, ma
non volle dargli ragione, non voleva dargli la soddisfazione che stava
cercando. Non sopportava quella situazione, così come non
sopportava lui ed i
suoi pantaloni troppo larghi, lui e la
sua maglietta verde con i graffiti, lui e i suoi capelli spettinati,
lui e quel
suo maledetto sorriso abbozzato e malizioso, lui e le sue battute
stupide e
sempre fuori luogo…
Lui che riusciva sempre ed
inspiegabilmente a
spillarle le parole dalla bocca con la medesima semplicità
con cui un barista
di professione riempiva i boccali di birra con la giusta
quantità di schiuma,
senza dover dire né fare qualcosa, senza domande o
pressioni, senza compromessi
né ultimatum.
Lui che se ne stava
lì a mangiare, a testa bassa,
come a dirle ‘non mi interessa, io non voglio
sapere, non me ne importa un
fico secco’.
E lei, invece, che se ne stava con la voglia
di parlare proprio
perché lui non glielo aveva chiesto,
così come era sempre stato.
Lui non l'aveva mai pregata
di raccontargli di
suo padre, lui non le aveva chiesto di sfogarsi quella stessa
mattina…
Lui non le stava chiedendo
che cosa era successo
tra lei e Danny.
Tutto quello era irritante,
fastidioso come una
zanzara nelle notti d’estate, come la puntura che si
ritrovava puntualmente nei
posti impossibili da raggiungere con la punta delle dita. Stava
provando
esattamente lo stesso magone, lo stesso groppo alla gola che le era
preso un
attimo di prima di afferrare il telefono e comporre il numero di Danny
piena di
ottime intenzioni, ma che era miserabilmente scomparso non appena lui
l’aveva
chiamata Little, il nomignolo particolare che solo lui usava.
Si maledisse
perché, adesso, quell’impulso che le
martellava la gola non accennava assolutamente di andarsene. Se ne
rimaneva lì,
a spingere, a premere contro le sue corde vocali e Joanna non gli
resisteva,
era tutto più forte di lei, impossibile da controllare, come
tutte le cose che
accadevano quando Dougie le stava tra i piedi.
“Dougie…”,
gli fece.
“No, Jonny, parlo
sul serio.”, insistette lui,
“So che tu non vuoi parlare, quindi non farlo, ti
prego.”
Maledetto Poynter!
“Ma io
voglio…”, cercò di convincerlo.
Non credeva alle sue
orecchie e le domandò
infatti di ripetere.
“Doug, io voglio
parlarne”, disse infatti Jonny,
“perché se non lo faccio, scoppio.”
Totalmente muto, senza
parole, encefalogramma
piatto. Si impose di stare calmo, di non agitarsi e di mantenere la
presa. Per
tre giorni aveva atteso quel momento, aveva preso più
schiaffi in faccia di un
venditore di enciclopedie porta a porta e, ora che c’era, non
sapeva da che
parte iniziare.
“Vuoi…
Vuoi davvero?”, le fece, tanto per esserne
sicuro.
Lei si spazientì.
“Lasciamo
fare!”, esclamò, scendendo dal letto e
riponendo la sua parte di cena nel vassoio, “E’
stata un’idea cretina.”
“No,
no!”, la bloccò, alzandosi di scatto dalla
poltrona su cui stava seduto, con la vaschetta delle verdure in mano,
“Jonny,
siediti e parliamone.”
Lei lo guardò
scettico.
“Sei tu che non
hai voglia di starmi a sentire!”,
lo accusò.
“Non è
vero!”, protestò subito lui, “Cavolo,
credimi!”
Jonny posò il
vassoio sul cassettone, vicino al
davanzale della finestra, e tornò a sedersi sul suo letto, in attesa che le porgesse
l’attenzione. Al
che Dougie lasciò perdere le sue verdure, ormai
c’era rimasto solo qualche rimasuglio
di fondo, e si dedicò a lei.
“Avanti…
Cosa vuoi dirmi?”, le domandò, sempre
insicuro che quello di Jonny fosse solo un falso allarme.
Un altro flash di luce
comparve prima che lei
iniziasse a parlare.
Le ci volle un
po’ prima di farlo, non le era per
niente facile. La comprendeva ed ancora non si spiegava cosa avesse
fatto lui
per trovarsi lì, nella sua stanza, pronto per ascoltarla.
Erano giorni che
provava ad entrare in contatto con lei e quella volta, così
come lo sfogo della
mattina e di un anno prima, era arrivata come sempre totalmente
inaspettata. In
altre parole, anche se aveva tentato in mille modi di arrivare a quel
preciso
traguardo, alla fine non si giustificava il come potesse esserci
riuscito.
Forse doveva avere un
grande culo.
“Oggi, dopo che
abbiamo… Insomma, in cucina,
stamattina.”, balbettò lei, “Dopo di
quello.”
“Sì.”,
le fece.
“Ecco…
Ho chiamato Danny.”
Cosa normale e scontata.
“L’ho
chiamato perché volevo raccontargli…
Tutto.”, continuò lei,
“Perché lui... Deve sapere.”
Quelle parole non erano per
niente convincenti.
“Danny avrebbe
dovuto sapere tutto già da
tempo.”, si permise di correggerla, senza volerla accusare di
niente.
“Sì,
lo so…”, disse Jonny, scuotendo la testa.
“E
perché non lo hai mai fatto?”, le chiese, con
innocenza.
Potevano esserci milioni di
spiegazioni: tra
tutte queste, l’unica che gli saltò in mente fu il
fatto che lei avesse voluto
farlo faccia a faccia, non tramite telefono o lettere virtuali... Ed
infatti,
fu la spiegazione che lei gli dette.
“Ma oggi non
l’ho fatto.”, continuò Jonny,
“Quando ero con lui ho avuto milioni di occasioni…
Ma non l’ho mai fatto.”
“E
perché?”, le domandò.
Quello non se lo spiegava.
Se fossero stati
veramente amici avrebbe
dovuto essere
uno tra i primi argomenti a saltare fuori.
“Perché…”,
esitò lei, “Perché io...
Io…”
Gli sembrò di
essere tornato indietro di un anno,
giù nel salotto di quella casa, davanti al caminetto che
scoppiettava.
“A dire il vero
non… Insomma, non ne sono molto
più sicura.”, si spiegò lei.
“Sicura di
cosa?”, le fece.
Joanna prese coraggio con
un sospiro lungo.
“Di essere
innamorata di lui.”, disse, mentre gli
occhi viaggiavano imbarazzati ovunque nella sua stanza.
Dougie mise un piede sul
freno.
Jonny era, o pensava, di
essere innamorata
di Danny…
“L’ho
detto e mi sento stupida.”, riprese lei,
accasciandosi sul letto, “Non avrei dovuto farlo.”
Lui era ancora stupito, ma
non al massimo: adesso
che gli aveva rivelato quello che davvero provava
per Danny, tantissime
tessere del puzzle avevano iniziato a combaciare. Si chiese come avesse
potuto
non capirlo prima, da solo, e gli venne anche da domandarsi se Jonny
fosse
stata innamorata di lui da sempre, fin dal primo giorno in cui si erano
conosciuti, oppure se quel sentimento fosse nato nel tempo, giorno dopo
giorno.
In contemporanea ebbe
l'enneisma conferma che il
rapporto con Jonny non sarebbe mai potuto cambiare, anche se in passato
avrebbe
realmente voluto. Si sarebbe fermato al passo dell’amicizia
mentre Danny, se
avesse voluto, avrebbe anche potuto andare oltre. Se ne dispiacque,
ovvio, ma
quel pensiero era già stato da tempo ampiamente impresso
nella sua mente ed i
suoi sentimenti per Jonny erano stati ampiamente ridimensionati.
Comunque, anche se
all’improvviso il quadro si
era fatto completo davanti ai suoi occhi, Dougie non riusciva a trovare
l’ultimo pezzo, quello più importante.
“E
allora?”, le fece, “Non è comunque una
buona
giustificazione al tuo comportamento.”
“Lo
so…”, disse lei.
“Per caso non ti
fidi di lui?”, le fece,
ingenuamente.
“Ma certo che mi
fido di Danny!”, protestò Jonny,
“E’ che…”
Dougie incrociò
le braccia, la sua espressione si
fece pensierosa.
“Io gliene voglio
parlare, davvero, credimi
Dougie.”, disse lei, la sua voce quasi rotta dal pianto,
“Oggi ho cercato di
farlo, avevo trovato la forza giusta… Ma poi non ci sono
riuscita… E Danny mi
ha detto che…”
Si bloccò.
“L’ho
deluso, Dougie.”, disse, asciugandosi la
prima lacrima.
“No, non
è vero”, cercò di consolarla,
“è solo un
po’ scocciato...”
“Mi ha fatto
capire che, se non gliene parlo,
prima o poi…”, continuò lei, prima di
mettersi a piangere.
Non voleva credere a quello
che la mezza frase di
Jonny gli aveva lasciato capire.
“Prima o poi
cosa?”, le fece, per sicurezza.
“Prima o poi...
Basta, Dougster!”, esclamò lei,
“Cos’altro c’è da aggiungere!
Hai capito cosa intendo!”
Certo che aveva capito.
Aveva capito che Danny era
un coglione, un
cretino di prima categoria, un imbecille, ed anche egoista,
sì, un egoista del
cazzo. Piuttosto che pensare a Jonny, ai problemi ed a tutti i pensieri
che la
sconvolgevano, Danny si metteva a disquisire sulla loro amicizia, sul
fatto che
lei gli avesse tenuto nascoste delle cose importanti eccetera eccetera.
Poteva Jones essere
così egocentrico da non
comprendere che tutte quelle cazzate sull’amicizia potevano
essere rimandare ad
un altro momento? Oppure si stava comportando in quel modo solo per
gelosia,
per ripicca… Gli venne la frenesia di chiamarlo e di
mandarlo a fanculo, così,
prendere il telefono ed attendere che rispondesse solo per urlargli che
era un
invertebrato.
Sospirò e scosse
la testa.
“Mi dispiace,
Jonny.”, le disse.
“E di
cosa…”, fece lei, alzando il viso dalle
mani ed asciugandosi le guance con un fazzoletto che avea tenuto in
tasca.
“Beh…
Danny è un egoista… A volte.”, le
disse, “E
magari è ancora arrabbiato per il fatto di essere rimasto a
casa… Insomma, deve
ancora capire.”
“Ma la colpa
è la mia!”, si additò Jonny,
“Sono
stata io che ho sbagliato, fin dall’inizio, sono io che
l’ho preso per il
culo!”
Dougie non ci vide
più. Tra tutti, lei era quella
che aveva solo peccato di essere se stessa, con i suoi pregi ed i suoi
difetti,
e non aveva mai chiesto niente a nessuno. Mai.
“No, è
di Danny la colpa, è lui che deve capire
che sta sbagliando nel metterti di fronte ad una scelta. Proprio lui,
che per
colpa di un ultimatum adesso se ne sta a casa e non con te! Proprio
lui, che ha
sempre odiato i compromessi scomodi!”, si lasciò
prendere dalla rabbia, “Se non
fosse così occupato a mangiarsi le unghie perché
il caro vecchio Dougster ha
preso il suo posto, capirebbe che non gliene hai mai parlato per un
semplice
motivo… Non ti andava perché non è
ancora arrivato il momento giusto! E’
totalmente inutile costringerti a parlare, imbucheresti solo un vicolo
cieco,
rimarresti in silenzio e ne soffriresti… Proprio come sta
succedendo adesso. In
questo momento l’ultima cosa di cui hai bisogno è
star male per una qualsiasi
causa che non ti riguardi te… E io non lo sopporto,
perché mi dispiace vederti
ancora trattata così da uno di noi. Non bastavo
io?”
Uno schianto terribile, un
boato elettrico
interruppe ogni parola, pensiero e movimento. La luce sparì,
la stanza si fece
più buia del buio stesso.
Aprì il terzo
cassetto dello sgabuzzino, un
piccolo rifugio tra la stanza di Arianna ed il bagno comune delle
piano, e si
mise a frugare in cerca di qualcosa che al tatto potesse somigliare ad
una
torcia elettrica. Dougie aspettava con impazienza fuori dalla porta.
“Eppure erano
qui…”, borbottò, non riconoscendo
nessuna forma cilindrica sotto le sue dita.
“Come
scusa?”, le fece Dougie.
“Niente…
Non riesco a trovare le torce…”, gli
disse, schioccando la lingua con disapprovazione.
Una serie prolungata di
tonfi ed un ‘cazzo’
attutito la fecero ridere.
“Dougster?”,
gli fece, “Vaso di fiori o
vetrinetta delle cose inutili?”
“Vetrinetta delle
cose inutili.”, disse lui,
storpiando la voce per il dolore.
“Se la smettessi
di aggirarti come un leone in
gabbia”, disse Joanna, rinunciando a cercare le torce in quel
cassetto ed
facendo capolino dallo sgabuzzino, “forse non andresti a
inciampare ed a farti
male.”
“Non mi piace
stare al buio.”, si giustificò lui,
illuminato solo da una tiepidissima luce che entrava dalla finestra, in
fondo
al corridoio.
“Non fare il
bambino!”, lo rimproverò lei,
“Aiutami a cercare un paio di candele!”
L’ultima volta
che le aveva viste erano in uno
dei cassetti della cucina.
“Dovrebbero
essere al piano di sotto.”, gli
disse.
“Io rimango
qua.”, impose Dougie, scuotendo la
testa, “Non voglio rotolare per le scale!”
“Vado avanti
io.”, gli disse, andandogli incontro
e sospirando rassegnata, ma ridendo.
L’aver liberato
quello che aveva dentro, la
rabbia, il dolore, la frustrazione, ed averlo riposto nelle mani di
Dougie...
La stava facendo sentire meglio. Le veniva da ridere, sebbene la voglia
di
piangere fosse sempre in agguato, pronta a colmarle gli occhi, ei
sentiva il
cuore più leggero, anche se solo di poco, forse di qualche
grammo. Poteva
essere assurdo, ma Dougie aveva quel
particolare potere su di lei: era la valvola di sfogo, la valle vuota
in cui
gridare, il confessionale, il dentista che riusciva a tirarle fuori
ogni cosa
da quella bocca da troppo tempo chiusa, e doveva accettarlo
così com’era,
farsene una ragione, mettersi l’anima in pace anche se era
frustrante, anche se
non doveva essere quello il suo ruolo.
“Vuoi scendere le
scale... Al buio?!?”, fece lui,
“Vuoi fare come la mela di Newton?”
“Preferirei di
no”, gli rispose, “sarebbe
superfluo come la tua presenza qua.”
“Oh, grazie per
l’ironia!”, rispose lui, ridendo,
“Perché tutti non fanno altro che rinfacciare la
mia apparente inutilità al
mondo?”
“Perché
tu sei Poynter, e sei sempre inutile.”,
gli disse, passandogli oltre, “Andiamo... E vedi di stare
attento a non fare tu
la fine della mela...”
Ormai conosceva quella casa
così bene da poter
camminare ad occhi chiusi, senza mettere le mani in avanti
né avere bisogno di
altri punti di riferimento. Infatti, riconobbe con precisione il punto
in cui
il pavimento scompariva sotto di lei, per fare spazio alle scale. Il
piede
toccò il primo gradino, dietro sentiva i passi incerti di
Dougie e il suo
borbottare infastidito.
Le venne da sorridere, ma
una sensazione di gelo
polare le bloccò ogni movimento, ogni pensiero, ogni
intenzione. La
percezione del calore del suo corpo venne
annullata, azzerata da un freddo innaturale, da una morsa di paura
intensa.
Sentì il suo respiro bloccarsi in gola, pietrificato come
una delle tante
statue della Medusa, ma lei non aveva visto nessun mostro, nessuna
fantasia,
bensì solo un buio spento, privo di vita, ma che esalava un
vento duro, gelido.
Era un buio
più nero dell’oscurità stessa,
una massa densa di nulla, e così concentrato da essere
vischioso, pesante come
una montagna; lo percepiva sulle sua pelle: quel gigantesco cubo di
ghiaccio
dentro al quale lei sembrava essersi involontariamente imprigionata
assorbiva
ogni più piccola forma di calore, mentre ogni rumore
rimbalzava contro le sue
pareti, isolandola dal resto del mondo.
Voleva muoversi, ma non ci
riusciva.
Voleva fuggire, ma le sue
gambe non rispondevano.
Voleva gridare, ma era
muta.
Voleva voltarsi, chiamare
Dougie, chiedergli
aiuto...
Si sentiva morire.
“Jonny...”
Era solo una voce ovattata,
lontana migliaia e
migliaia di chilometri. La poteva sentire, quel suono aveva sconfitto
quella
gabbia, era riuscito a penetrare, ma non era capace di rispondergli. Un
calore
improvviso sulla sua spalla la svegliò, la sua prigione
esplose in mille pezzi
esaurendosi in un grido improvviso che si liberò nella sua
bocca, e che riempì
la casa improvvisamente, svuotandola da quel buio.
“Jonny!”,
urlò a sua volta Dougie.
Joanna gridava, riprendeva
fiato e gridava
ancora. Non era capace di fare altro, solo strillare, e strillare di
nuovo.
“Mio Dio,
Joanna!”, fece Dougie, prendendola tra
le braccia e stringendola forte.
Il contatto improvviso col
suo corpo, con il suo
calore, col suo respiro, fece sciogliere le urla, che lasciarono posto
ad un
fiume di lacrime.
Chiuse il telefono. Lo
appoggiò sul tavolo.
Sospirò, allungò le gambe e stiracchiò
le braccia. Le mise poi dietro la testa,
fermandosi in quella posizione.
Aveva fatto la cosa giusta,
aveva preso la scelta
giusta. Troppe cose idiote erano state veicolate da
quell’oggetto,
all’apparenza così innocuo e innocente. Tante,
tranne quella. Si era pentito,
gli ci era voluto tutto il pomeriggio per capirlo. Si era stupito di se
stesso,
di quello che aveva avuto il coraggio di far uscire dalla sua bocca.
Aveva
pensato che, forzando la mano, le cose sarebbero andate per il verso
giusto.
Per il suo
verso.
Voleva sapere, voleva
conoscere, ed aveva imposto
a Little un ultimatum, così come Tamara aveva imposto a lui
di non partire. Si
era odiato, si era dato del cretino e si era chiesto cosa potesse
pensare
adesso di lui, della sua stupidità, del suo egoismo. Si era
sentito in diritto
di sapere tutto di lei solo per il fatto che fossero amici... Perché voleva
sapere, perché doveva
sapere.
La strada
dell’Inferno è sempre lastricata di
buone intenzioni.
Perché il suo
egoismo aveva vinto, mascherato di
buoni motivi e di affetti fasulli. Little non voleva parlargliene,
punto e
basta, e anche se avesse voluto adesso non sarebbe accaduto. Si era
negato la
possibilità con le sue stesse mani, preso dal suo orgoglio e
dalla sua vanità,
e gli stava bene, se lo meritava.
Se avesse voluto, in quel
momento sarebbe stato
con lei, in Italia, ma si era lasciato prendere dalla paura. Tamara
minacciava
costantemente di lasciarlo, lo aveva fatto anche quella stessa mattina,
al
telefono. Lo accusava di non pensare a loro due, a quello che stavano
costruendo insieme, al futuro che avevano progettato... Ma certo che ci
pensava! Eccome se lo faceva, ogni giorno, ogni momento... Ma ora non
poteva
fare a meno di dare la precedenza a Little. Voleva solo un
po’ di tempo da
dedicarle perché stava male, perché aveva bisogno
di lui.
Non stava chiedendo la
luna, non era in cerca di
qualche formula alchemica: quello che voleva era prendere un aereo e
raggiungerla. Stare con lei, sostenerla e farsi perdonare. Amava
Tamara, con
tutto il cuore, e se lei avesse provato lo stesso sentimento, come gli
rinfacciava ad ogni occasione, avrebbe anche capitom, ma non lo stava
facendo
ed evidentemente c’era qualcosa che non andava.
Adesso, però,
non era il tempo di pensarci.
Avrebbe risolto al momento opportuno.
Si alzò,
salì al piano superiore. Andò in camera,
aprì l’armadio e sistemò sul letto la
sua valigia. Aveva un volo da prendere,
la mattina successiva.
“Jonny, ma che ti
succede!”, le chiese Dougie,
sollevandola e portandola subito in camera sua.
Tremava, la sentiva
scuotere da continui spasmi.
Si aggrappava al suo collo, macchiando la sua maglietta delle lacrime
che
versava, e non riusciva a calmarsi. Non riusciva a
calmarla. Era
disarmato, inutile come lei gli aveva detto prima, anche se solo
scherzando.
Non sapeva cosa le fosse preso, né perché si
fosse pietrificata ed avesse
gridato così tanto, facendolo impaurire come pochissime
altre volte nella sua
vita. E ora piangeva, tremava tra le sue braccia, e lui non sapeva cosa
fare,
cosa dirle...
“Jonny, ti prego,
calmati.”, provò,
accarezzandole la testa.
Avrebbe voluto stenderla
sul letto ma lei si era
stretta a lui, al suo collo, e non voleva lasciarlo. Come il giorno del
funerale, il pianto di Jonny era uno strazio per il suo cuore, era
insopportabile,
era come una lama che continuava a pugnalarlo alle spalle.
“Calmati.”,
le fece ancora.
Ma lei pianse ancora
più forte, e il magone di
Dougie aumentava, insieme al suo senso di totale inettitudine.
“Jonny... Ti
prego...”, la scongiurò.
I suoi singhiozzi, duri e
marcati... E le sue
lacrime, così salate.
“Ti
prego...”
Non resistette, pianse
anche lui, affondò il viso
nei suoi capelli biondi. Ne sentiva il profumo delicato, ma non fu di
assoluto
conforto.
Odiava piangere, odiava
farlo.
Piangeva per
Jonny perché non meritava
niente di quello che la vita l’aveva costretta a vivere.
Piangeva con
Jonny perché non riusciva più
a rimanere indifferente, distaccato.
Piangeva per
colpa di Jonny perché si
sentiva miserabile, perché non era capace di colmare il
vuoto che c’era dentro
di lei.
“Joanna, per
favore, smettila!”, le gridò, “Non
lo sopporto! Basta!"
Pregò Dio che
lei lo ascoltasse, che si fermasse,
ma entrambi sembravano sordi alle sue preghiere.
Poco dopo, però,
la presa al suo collo si
allentò. Jonny lo guardò negli occhi -gonfi,
rossi e pieni di tristezza- e
Doigie la posò a terra, fino a quel momento sospesa tra le
sue braccia.
In quel momento la luce
tornò ad illuminare tutto
all’improvviso, così come se n’era
andata.
Dougie sbuffò tutta l’aria che aveva
nei polmoni, sentendosi afflosciare
su se stesso. Si vergognava, era scoppiato a piangere come un bambino.
Non
aveva mantenuto la promessa fatta a Danny ed a sé stesso,
non era stato capace
di farla stare meglio, nel momento più drammatico aveva
ceduto.
Le voltò le
spalle e uscì dalla sua stanza.
“Dougie...”,
lo fermò la voce rotta di Jonny,
bloccandolo nel corridoio con una mano sul suo braccio.
Dougie non le rispose e si
divincolò dalla sua
presa. Era tutto così dannatamente difficile da gestire,
impossibile da
controllare. Forse era meglio calmarsi, dormirci sopra, lasciare che il
tempo
guarisse tutto, che la notte portasse con sé qualche buon
consiglio da seguire.
Asciugò via le ultime lacrime scese, cancellando il segno
della sua debolezza con
il palmo della mano, con rabbia.
Jonny se ne stava a testa
bassa, gli occhi che
seguivano le dita intrecciarsi. Alzò il viso.
“Grazie.”,
gli disse poi.
Inspiegabilmente,
così come la paura che si era
impossessata di lei senza alcuna ragione, Dougie fu debole per la
seconda
volta.
Si chinò su di
lei e la baciò, tenendole il viso
arrossato tra le mani.
Non avrebbe mai dovuto
farlo e la liberò
all’istante, allontanandosi da lei e scomparendo, per
chiudersi nella sua
camera.
Rimase lì, in
piedi, davanti alla porta della
stanza, aperta sul corridoio vuoto. Gli occhi spalancati, la bocca
socchiusa.
Le labbra si asciugarono e divennero appiccicose. Sbatté gli
occhi più volte,
chiedendosi cosa fosse successo. Si erano baciati.
Lui l’aveva
baciata.
Le tornarono in mente le
ormai lontane parole di
Tom.
A
Doug piaci... Piaci molto.
No, non
ancora. Mosse un piede dopo
l’altro e raggiunse la porta della sua stanza. Non le
interessò bussare, né
entrare senza il suo permesso. In fondo, lui l’aveva baciata
senza che gli
avesse concesso alcuna autorizzazione, senza che volesse essere
baciata.
Da lui.
Lui che, per
qualche attimo, aveva
ritenuto fosse la persona giusta su cui fare riferimento. Lui che
riusciva a
stanarla, che riusciva sempre a scovarla e farla uscire fuori dal buio
in cui
viveva. Non le importò di trovarlo seduto sul letto, con il
viso tra le mani, e
non le importò nemmeno che lui alzasse il viso e le
mostrasse le sue lacrime.
“Spiegamelo.”,
pretese Joanna.
“Non
lo so, Jonny... Non lo so.”,
disse, pulendosi veloce le guance ed alzandosi, cercando rifugio
lontano da
lei, “Non lo dovevo fare, lo so, non era il momento
per...”
“Tra
noi non è il momento per
niente!”, gli urlò in faccia, "Perché
lo hai fatto!”
“Perché
tutto quello che sta
succedendo mi toglie il fiato, perché questa situazione
è claustrofobica...”,
disse lui, portandosi le mani alla testa, "Perché non riesco
a farti stare
meglio! Perché in quell’attimo ho quasi sperato
che un gesto del genere
potesse… E perché hai ragione tu, io sono
inutile! ”
“Diventi
inutile quando non pensi a
quello che fai.”, gli disse, “Avevo capito che tra
tutti i McFly mi sono ero
fatta l’amico sbagliato... Che Danny era sbagliato,
perchè dovevi essere tu il
mio amico, ", prese altro fiato, "Dougie, con te perdo le mie
barriere e riesco a dirti tutto... E non è perché
mi piaci. E’ perché sei tu,
Dougie, perché sei tu.”
Le venne da
piangere, ancora una
volta.
“Perché
riesco naturalmente a fidarmi
di te. Perché nonostante tutto quello che mi hai fatto...
Sei sempre tu,
Dougie.”, si asciugò una lacrima.
“Mi
dispiace...”, disse lui.
“Perché
vi divertite a giocare con i
miei sentimenti?”, domandò, sapendo che non
avrebbe avuto risposta.
“Io
non voglio ferirti.”
“Oh
sì, Dougie, tiriamo in ballo le
solite frasi fatte!”, gli fece, con sarcasmo,
“Nessuno ha mai voluto far
soffrire Joanna! Non è così? Tutti vogliono
essere miei amici!”
“Jonny,
te lo ripeto, non so perché
l’ho fatto!”
“Lo
hai fatto perché sei un
bastardo.”
Avrebbe voluto dargli uno
schiaffo, ma lo
aveva già fatto con quella parola sibilata, rimasta quasi
chiusa tra le labbra.
Era la seconda volta che glielo diceva.
“No,
Jonny, per favore...”, la
implorò lui, “Tengo a te, non lo
capisci?”
“Tutti
tengono a me! Tutti!”, disse
lei, tornando sarcastica, “Mio padre teneva a me, e mi
picchiava. Mio fratello
teneva a me, e mi ha picchiato. Danny teneva a me, e mi ha messo con le
spalle
al muro... E tu non sei meglio di tutti gli altri!”
“Ma
non riesci a capire che è stato
uno sbaglio?”, fece lui, “Ti voglio bene, Jonny, ed
ho cercato di fare il
possibile per starti accanto, per farti stare meglio... Ho sempre
saputo che
non ero in grado di farlo, ma almeno ci ho provato!”
“Nessuno
ti ha chiesto di prendere
l’aereo con me!”
“Non
ci sono salito con te... Ci sono
salito per te!”, disse Dougie, il suo
viso contratto dalla rabbia, “E mi
sono stancato di cercare di giustificarmi per ogni cosa, per ogni
decisione che
prendo! Prima di conoscerti tutto quello che facevo non necessitava mai
dell’approvazione degli altri; poi sei spuntata tu ed ogni
cosa che dicevo o
pensavo ha iniziato ad essere messa sotto i raggi X. Tutti si sono
sentiti in
dovere di giudicare me e quello che provavo per te.”, le
riversò in faccia,
“Ebbene sì, Jonny, mi ero innamorato di te, va
bene? Ti fa piacere saperlo
così? Ti senti meglio?”
Joanna non
sapeva cosa fare.
“Ma,
appunto, ero innamorato
di te, poi tu hai scelto Danny, mi sono messo da parte e ti ho
dimenticata.”,
continuò lui, “Sì, mettitelo bene nelle
orecchie, Jonny, ti ho dimenticata,
ma non ho mai smesso di volerti bene.
E
nonostante mi accusi ancora di essere un bastardo, di fregarmene di te
e di
giocare con i tuoi sentimenti... Te ne voglio comunque.
Perché la mia vita è
piena di persone false e ipocrite, di gente insulsa e stupida. E tu
sei
una di quelle che con un sorriso riesce a farmi stare bene,
perché sei una
persona vera. Potrai trattarmi male, offendermi, odiarmi, ma
farò finta di non
sentire niente, perché non voglio perderti.”
Avrebbe
voluto che si zittisse, che
non le dicesse la verità che sembrava
avere in serbo per lei..
“Non
lo so perché ti ho baciata,
credimi quando te lo dico, non lo so! Solo uno
stupido, uno che non si è
mai meritato la tua fiducia ma che l’ha avuta comunque,
nonostante tutto.”,
riprese fiato, “Non lo so perché l’ho
fatto, forse per disperazione, perché non
sopporto più il vederti piangere… Non sempre le
nostre azioni hanno una
giustificazione... Va bene? Vuoi altre spiegazioni? Vuoi che mi lanci
dalla
finestra?”
“Io...”,
farfugliò Joanna, confusa
per quell’ammasso di parole rabbiose con le quali Dougie si
era sfogato.
“E
mi dispiace trattarti in questo
modo”, riprese lui, “ma a volte sei troppo
vittimista, Jonny.”
Quello che
sentì la costrinse ad
alzare gli occhi da terra e fissarli nei suoi.
“La
tua vita non è più quella di
prima.”, le disse, con tutt’altro tono,
“Ma se continui a vedere tutto come una
minaccia, come un ostacolo... Allora tuo padre non sarà
l’unico fantasma con
cui vivrai.”
“Ma
non è della mia vita che stavamo
parlando, Dougie!”, disse lei, “E’ del
tuo bacio...”
“Il
bacio è solo le mie labbra
che incontrano le tue, nient'altro. ”, continuò
Dougie, “Jonny, continui a
pensare che tutto il mondo sia pronto a farti del male, ma non
è così... Ci
sono persone che ti vogliono bene, che vogliono proteggerti e che
farebbero di
tutto per vederti felice... Come Arianna, come Danny, e come anche il
sottoscritto. Talvolta commettiamo degli errori stupidi nei tuoi
confronti, ma
non puoi crocefiggerci per questo. Tu non puoi demonizzarmi
per un bacio
sbagliato. Non provo assolutamente niente per te, puoi starne
certa, e sono
pronto a giurarlo su tutto quello che vuoi. Ti ho chiesto scusa,
cos’altro devo
fare?”
“Non
puoi chiedermi di far finta che
non sia successo!”, protestò Jonny, e non
poté certo darle torto.
“Jonny,
continui a non capire…”,
sentiva in lui il tono della sconfitta.
Dougie stava
per arrendersi.
Dougie stava
per lasciar perdere.
Dougie stava
per allontanarsi da lei,
così come tutto il resto del mondo.
Sì
che aveva capito le sue parole ma,
no, non riusciva ad ammettere che lui avesse pienamente ragione.
“Non
puoi condannare chi ti sta
intorno ad ogni minimo passo falso. Se continui in questo modo, se
perseveri ad
essere così prevenuta, anche nei nostri confronti... Se non
imparerai a
perdonarci… Ci perderai. Non te lo sto dicendo per
spaventarti, o per cercare
di redimere me stesso dopo questo fottuto bacio senza senso che ti ho
dato…”
Si
sentì gli occhi pieni di lacrime.
Di nuovo.
“Non
è facile metterti di fronte ai
tuoi errori, Jonny.”, aggiunse infine Dougie, e
sospirò.
“Ho
capito. Se vuoi dirmi che rimarrò
sola, grazie tante Dougie, lo avevo già
afferrato...”, disse Joanna, sentendo
la sua stessa voce scomparire.
“No,
non sarai sola.”, le fece,
“Sarai piena di amici, di persone affettuose e gentili con
te. Ma ti sentirai
sola... Perché non appena il mondo si renderà
conto di non essere il benvenuto
in casa tua, se ne rimarrà fuori per sempre e non riuscirai
più a farlo
entrare. Mai più.”
Joanna si
nascose il viso tra le
mani, si sentiva colpevole. Dougie le aveva sbattuto in faccia la
verità:
voleva cambiare vita, ma si negava da sola ogni possibilità.
Voleva fuggire dai
suoi fantasmi, ma poi correva loro dietro. Voleva essere coraggiosa, ma
era
solo la persona più stupida del mondo.
Voleva
farcela da sola, ed era quello
l’errore più grande.
Le braccia di
Dougie si chiusero
intorno a lei per l’ennesima volta. Non era lei che doveva
perdonare lui, ma
l’esatto contrario. Era stata presuntuosa, egoista e
supponente, nascosta
dietro alla sua aria della sempreverde vittima della vita.
Eccomiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii, sono arrivata :)
Ho tribolato un po' ma ce l'ho fatta. Bene, passo subito a parlarvi
delle canzoni contenute in questo capitolo. Si parte subito con il
titolo, Tear InYour Hand,
scritta e cantata da Tori Amos e contenuta
nell'album Little
Earthquakes, per chi fosse interessato. Tori Amos mi
è stata di notevole ispirazione mentre scrivevo tutta questa
storia. Difatti, ci sarà qualche altro capitolo in cui
farò riferimento a lei, ma se ne parlerà
più avanti...
Poi, chi non poteva mancare??? Dico, quale gruppo non poteva
mancare???? Chi mi conosce bene sa già la risposta! Uno,
due, tre... Gli Staind! Infatti, i versi che introduco al punto di
vista di Dougie sono parte della loro canzone Right Here,
contenuta
nell'album Chapter
V. La canzone che invece ho
inserito poco dopo, quando tocca a Little, è
Perfect
Circle
di Katie Melua (ve l'avevo detto che ritornava
XD), contenuta nell'album Pictures.
Tutte queste
citazioni, ovviamente, non a scopo di lucro.
Bene, ora passiamo al capitolo vero e proprio.... Ecco, alla fine
Little si è presa due schiaffi da Dougie (e da
tutte voi)
ed ha capito il suo errore. Sì, l'ha capito... Ma siete
proprio
sicure che cambierà? Ve lo dico, no.
Come ho detto
l'altra volta: si cambia da un giorno all'altro?
Ogni recensione che mi lasciate, mi fa un piacere immenso leggerla. E
sapere perchè? Ci sono due motivi: o siete delle bravi
lettrici
(e lo siete davvero, credetemi) oppure vuol dire che sono riuscita a
trasmettere bene la mia intenzione... Chi lo sa? XD
Ed ecco che arriva anche la risposta ad un quesito che posi alla fine
del capitolo 5. A Girl
Disappearing,
perchè vi chiesi a cosa mi riferivo con quel titolo? Era una
cosa piuttosto semplice, ma anche piuttosto complicata. Beh, qualcuna
di voi l'ha notato, e la cosa mi fa piuttosto piacere. In sintesi, vi
siete accorte che da quando Little ha ricevuto la chiamata di Arianna,
non c'è stato alcun momento (almeno fino a questo capitolo)
in
cui la scena descritta viene presentata dal suo punto di vista? Ecco
perchè A
Girl Disappearing.
E' stata una scelta che mi è venuta spontanea e per un
motivo
abbastanza semplice: sebbene ci sia passata sopra per altri motivi, non
so cosa vuol dire avere a che fare con un lutto come quello di Joanna.
Posso solo immaginare, ma non voglio entrare nei particolari,
rischierei di equivocarmi e non voglio. :)
E vai con i ringraziamenti **
vero15star:
sei proprio partita in tromba, eh, mamma mia!!!! XDDDDD
allora vedremo se ti accontenterò. Ci stai? :)
Kit2007: eh
beh, che ne dici
delle canzoni di questo capitolo? Aggiungerò sempre una
canzone,
anche nei prossimi, perchè c'è stata proprio una
colonna
sonora che mi ha accompagnato nella stesura di questa storia.
Sarai il mio occhio critico! XD Mi dirai se secondo te ci
stanno
bene o no, anche se sappi che le ho scelte soprattutto per il contenuto
del testo, non tanto per la melodia. Danny e Little deludono tutti e la
cosa mi fa piuttosto felice, perchè era proprio quello che
volevo. Le tue giustificazioni, cioè quelle che apporti nel
sostenere la tua delusione, sono perfettamente corrette *.* mi fa
piacere sapere che hai capito perfettamente tutto... Sigh... Grazieeeeee
CowgirlSara:
credo che ti
lascerò spesso senza sapere cosa dire del capitolo.
Il
motivo per cui ho fatto raccontare tutto dal punto di vista di Dougie
te l'ho scritto sopra... Se è venuto fuori qualcosa di
caotico e
spaventoso è perchè lui lo vede in quel modo...
Caotico
perchè succede tutto troppo in fretta e non ha il tempo di
capire, spaventoso perchè, per sue stesse parole, non ha mai
affrontato una cosa del genere... Povero cucciolo XD mi sono divertita
a farlo prendere a schiaffi anche dal prete, c'è mancato
poco !
XD E... Per quanto riguarda Danny e TamaRRa (Made in Princess)... Non
la meno per il naso a nessuno... Almeno non io :))))))
Ciribiricoccola:
dici
bene, è solo ORGOGLIO... E tu sa beeeeeeene di cosa parlo,
nevvero Pazza? Non mi viene nient'altro da aggiungere, credo
che
tu sia stata molto esplicita nel parlare di questa storia. Hai centrato
perfettamente l'intruglio che c'è. Da un lato, trovi una
persona
orgogliosa e testarda, che quando si è convinta di una cosa
è più facile spezzarla in due che farla
piegare...
Dall'altra c'è chi cerca, appunto, di farla ragionare,
prendendosi tutte le bastonare che si merita, sempre secondo
quell'altra persona, ma che poi alla fine si ribella. Eccome se si
ribella. Poi c'è al terza persona, quella supponente, quella
che
pensa di sapere come fare a migliorare le cose... E ogni volta che
entra in scena fa un danno dopo l'altro... Lo leggerai. Io non so come
ringraziarti per quello che mi hai detto... Sai quanto questa storia
conti per me...
_Princess_:
oh, eccoti
finalmente! Arrivi in tempo per il nuovo capitolo! Dougie è
essenzialmente adorabile perchè è il cane
bastonato della
situazione. E' impossibile non volergli bene, perchè lui
è mosso dall'affetto che prova per Little, e non da uno
stupido
orgoglio o dalla voglia di rifarsi su qualcun altro... Ma si
farà capire, te lo prometto. E per quanto riguarda
TamaRRa...
Hai proprio ragione, anche io odio queste persone... Ma Danny?
GodFather:
Hai ragione
anche tu... Little deve crescere ed anche molto. Da una parte
è
adulta, dall'altra è un po' come Peter Pan, si rifiuta di
crescere. Chi credi che l'aiuterà di più? Danny o
Dougie?
XDDD E grazie per la canzone, i The Used mi piaccono tantissimo **
Un saluto speciale anche a Giuly
Weasley e a x_blossom_x,
che hanno avuto la fortuna sfacciatissima di vedersi quei quattro in
concerto... In prima fila... Motherfucker!!!!
XDDD e voi sapete perchè! iu:
|
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Capitolo 9 *** Lies ***
Un rumore
improvviso lo fece
svegliare ed aprì gli occhi. Si guardò intorno, o
meglio, guardò il soffitto
sopra di lui e lo vide illuminato da colori alterni. Mosse la testa: la
tv era
rimasta accesa, per tutta la notte. Si trovò addirittura con
il telecomando in
mano, doveva essersi proprio addormentato nel bel mezzo di un film, non
ricordava affatto. Sbadigliò con molta poca educazione e la
spense,
abbandonando il controllo remoto sul comodino. Si stropicciò
gli occhi, fece
per richiuderli ancora ma un lieve respiro lo distrasse.
Accanto a
lui, Jonny dormiva
tranquilla, supina, le mani unite sul petto che si muoveva con costante
regolarità. Perfettamente pacifica, non sembrava nemmeno la
tigre con cui aveva
lottato, quella ragazza aveva gli artigli e li sapeva usare bene. Le
sue parole
gli avevano fatto abbastanza male, così come era certo che
le proprie ne
avessero fatto a lei, ma se non se le fossero mai dette tante cose
sarebbero
rimaste nascoste. Sperò di averle davvero aperto gli occhi.
Lo avrebbe
sostenuto finché fosse
vissuto: Jonny si meritava il meglio dalla vita e nemmeno lei aveva il
diritto
di negarlo a se stessa. Sicuramente avrebbe sofferto per molti altri
motivi,
compreso uno in carne ed ossa che lui conosceva molto bene e che non
aveva la
più pallida idea dei sentimenti che la sua provasse per lui.
Danny era proprio
un cretino, uno di quelli con tutte le lettere maiuscole, anche
più cretino di
quanto lui poteva mai essere, perfino impegnandosi fino al limite delle
sue
possibilità. Si era sempre chiesto come mai si fosse
convinto di quella bella
amicizia, perché non l’avesse trasformata in
qualcosa di più, innamorandosi di
un’altra ragazza. Ma non era nessun altro che Danny Jones...
E di donne ne
aveva sempre capito meno di quanto gli altri pensassero.
Controllò
l’ora, erano le otto di
mattina.
La serata
precedente era stata
abbastanza movimentata, potevano dedicarsi ad altro sonno: Joanna non
sembrava
affatto volenterosa di svegliarsi e lui sentiva di avere ancora molte
altre riserve
di stanchezza da svuotare. Si voltò, dandole le spalle ed
anche un po’ di
privacy, sicuramente le aveva russato in un orecchio per tutta la
notte. Si
sistemò il cuscino sotto la testa e sbadigliò
ancora, pronto a crollare nel
mondo dei sogni.
Un suono
particolare, uno che
riconobbe subito, interruppe il suo tentativo di addormentarsi ancora.
Allungò
la mano ed afferrò il cellulare.
“Pronto...”,
disse, con voce roca.
“Dormivi?”
Spalancò
gli occhi.
“Sì...”,
rispose a Danny.
“Scusami.”
“Niente,
lascia stare.”, borbottò,
stringendo le palpebre per trovare la forza di rimanere sveglio.
“Perché
parli così piano?”,
trillò la voce dell’altro.
“Sei
pregato di farlo anche tu, ho
mal di testa.”, gli sussurrò, “Cosa vuoi
alle otto di mattina, non potevi
aspettare un altro po’?”
“Sono
all’aeroporto... A Firenze.”,
disse l’altro.
Dougie rimase
di stucco. Strabuzzò
gli occhi e si sedette sul bordo del letto, assicurandosi che Jonny
stesse
ancora dormendo.
“Ho
preso il primo volo
disponibile.”
“Cosa?!?”,
esclamò, senza alzare di
un solo decibel il tono della sua voce, “Ma sei pazzo? Ma...
Come hai fatto ad
atterrare se io stesso sono bloccato qui per via di uno sciopero!"
“E
che ne so! Ho comprato un
biglietto e sono partito!”, disse
l’altro, assordandolo con tutto il suo
entusiasmo.
“Cristo,
abbassa la voce!”, gli
disse.
“Dougster...”,
lo chiamò Jonny.
Si
affrettò a coprire il telefono
sperando che Danny non l’avesse sentita.
“E’
Dan.”, le disse.
“Ah...”,
rispose lei, voltandosi
dall’altra parte, "Fai come se non esistessi."
“Ehm... Jones, sei
ancora lì?”, tornando a
prestare attenzione al suo interlocutore.
“Ah
sì, pensavo
stesse cadendo la linea.”, disse
Danny, “Allora, come faccio a raggiungervi?”
“Non
sarebbe meglio che prima lo
dicessi a Jonny?”, gli domandò a sua volta.
“Cosa
devo sapere?”, chiese lei, a
tono spento.
Poteva
passarle la chiamata, poteva
lasciare che fosse Danny stesso a dirle che era arrivato lì,
per lei. Ma come
l’avrebbe presa? E soprattutto, come avrebbe preso il fatto
di scoprire che
avevano, seppur con tutta l’innocenza del mondo, dormito
insieme? Conoscendolo,
Danny avrebbe allestito una delle sue scenate di gelosia. Dio, ogni
volta c'era
una complicazione diversa.
“Jones,
glielo dico e ti faccio
risapere. Ok?”, gli disse.
“Va
bene...”, fece lui, solo
in parte convinto, “Ma non ci mettere molto.”
Dougie
alzò gli occhi al cielo.
“A
dopo, Dan.”
Chiuse il
telefono, e si toccò
stancamente gli occhi.
“Cosa
sta succedendo?”, chiese Jonny,
non nel suo tono migliore.
“Vuoi
proprio saperlo?”, le fece,
cercando di essere almeno un po’ ironico, “Vuoi
sapere davvero cosa ha
fatto Danny?”
“Mi
riguarda direttamente?”
“Beh...
Sì.”, le disse.
Lei era
sempre rannicchiata sul
letto, di spalle, e gli volgeva la testa.
“Ha
lasciato Tamara?”, avanzò
ridacchiando.
“No.”,
fu costretto ad informarla,
“Peggio.”
Jonny
aggrottò la fronte.
“E’
qua, all’aeroporto. Sta
aspettando che qualcuno lo vada a prendere.”
Lei non
rispose.
“Jonny...”,
le fece, posandole una
mano sulla spalla, “E’ venuto per te, forse
dovremmo...”
“No,
doveva starsene a casa.”, disse
lei, seccamente, “A ricattare chi gli pare.”
Si risolveva
una complicazione e
subito ne spuntava un’altra.
"Jonny...”,
le disse ancora,
“Dovresti dargli una possibilità.”
“Dovrei
mandarlo a quel paese,
ecco!”, protestò lei.
A Dougie
venne da ridere ma si
trattenne, sapendo che avrebbe potuto in qualche modo offenderla,
nonostante la
situazione fosse abbastanza comica già di suo.
“E
se vuoi ridere di me, fallo pure!
Lo so che sono ridicola!”, sbuffò lei, stringendo
il cuscino tra le braccia.
“No
che non lo sei, Jonny”, le fece,
“sei solo innamorata di qualcuno che è troppo
stupido per capirlo.”
“Hai
detto bene, Dougs.”, borbottò
lei, “Adesso posso tornare a dormire?”
“Ma
c’è Danny all’aeroporto.”
“Che
prenda un taxi!”
“Non
ne è capace.”, ironizzò Dougie.
“Che
si compri un libretto di
istruzioni!”
“Ok...
Vado a prenderlo io.”, disse,
alzandosi dal letto e dirigendosi in bagno, “Ma tu, nel
frattempo, non fuggire
alle Cayman.”
“No,
starò ad aspettarlo a braccia
aperte!”, sbuffò lei, nascondendo la testa sotto
al cuscino.
Non appena
Dougie si chiuse dentro al
bagno, Joanna ne approfittò per maledire tutto quello che le
stava
intorno. Ci aveva
pensato dopo la
discussione con Dougie: una volta calmati, si erano distesi sul letto a
guardarsi un film. Di lì a poco lei si era addormentata,
caduta come un masso,
ma aveva avuto il tempo di riflettere.
Glielo aveva
detto, era lui l’amico
che cercava, non uno di cui era anche innamorata. Per lui non provava
niente,
tranne uno strano affetto che non aveva mai veramente conosciuto: era
l’affetto
della fiducia che si prova per un amico. Per un amico vero.
E dato che
Danny, per lei, era solo un innamoramento sbagliato... Allora sarebbe
stato
meglio finirla lì. Smettere di pensare a lui, di vederlo, di
sentire la sua
voce.
No, non le
era più possibile farlo!
Danny era tornato a bussare alla sua porta, impaziente e precipitoso
come
sempre! Non le aveva dato nemmeno la possibilità di mettere
in azione la sua
volontà, preso dalla bella bella idea di salure un aereo e
venire lì, da
lei. E allora, dato
che Danny era nella
sua città, Joanna ne avrebbe solo approfittato per parlargli
a quattro occhi e
dirgli che non voleva più vederlo, né sentirlo.
Prima lo avesse fatto, meglio
sarebbe stato.
Scese dal
letto, colma di un’energia
che non sapeva dove aveva scovato, ed andò nella propria
stanza. Si preparò e
scese a fare colazione. Dougie era già lì e
parlava con Arianna.
“Buongiorno.”,
le disse la donna,
“Scusami se non ci sono mai stata per te in questi due
giorni, ma sapevo che
Dougie poteva fare molto di più di quello che era nelle mie
possibilità. Spero
di non aver preso una decisione sbagliata. ", le vene incontro e la
abbracciò , "Dougie mi ha spiegato... Alcune cose che non
sapevo."
“Arianna...”,
le fece, sospirando,
“Scusami per averti tenuto all’oscuro di
tutto.”
“Scusarti
di cosa?”, disse la donna,
scuotendo la testa, “Avevo capito da sola che le cose tra i
Bellini non
giravano per il verso giusto. Posso darti il mio tetto, un lavoro... Ma
comunque
non sono nessuno per importi di parlarmi di queste cose. Sono tue e sta
a te
ritarle fuori quando ne senti il bisogno. Credimi se ti dico che so
cosa
stai provando.”
Sante parole,
pensò Joanna, che la
vide mentre lanciava un’occhiata a Dougie. Quello scemo le
sorrise, avevano
fatto tutto alle sue spalle.
“Non
so perché quell’essere alle mie
spalle abbia saputo tutto”, si riprese Arianna,
“ancor prima di me e del tuo
principe azzurro... Ma penso che abbia anche un cervello dentro a
quella testa
tonda da Charlie Brown.”, aggiunse poi, voltandosi e
strizzando un occhiolino
in sua direzione.
“A
volte mi sento tanto come lo
spaventapasseri del mago di Oz.”, fece Dougie, alzando le
spalle, “Con la testa
piena di paglia pensante.”
“Ti
ci vedo su un palo a scacciare i
corvi!”, esclamò Arianna, ridendo, “Ma
piantiamola con le storielle ed andiamo
a prendere Danny.”
“E
il locale?”, domandò Joanna,
“Perché non sei ancora al lavoro?”
“Beh...
Sai, ho licenziato tuo
fratello.”, disse Arianna.
Joanna
strabuzzò gli occhi.
“Jo,
ha alzato le mani su di te.”, si
giustificò Arianna, “E tu questo non lo sai,
anch'io non sono mai stata
totalmente sincera con te, ma ho avuto la sfortuna di avere qualcuno al
mio
fianco... Che non aveva la mano molto leggera.”
Istintivamente,
Joanna si portò una
mano alla bocca.
Ecco quello
che intendeva Dougie,
adesso lo capiva fino in fondo. Lei non aveva mai permesso al mondo di
poterla
conoscere, di poter entrare in contatto con lei. Aveva escluso tutti
dalla sua
vita, facendosi schiava dei suoi ricordi e delle sue cicatrici, ed allo
stesso
tempo anche gli altri l’avevano tenuta lontana dalle loro
esistenze.
Che cosa
sapeva, in fondo, di
Arianna? Poteva dire tutto il presente vissuto con lei, ma quello che
c’era
stato prima?
“L’ho
licenziato perché vederti dare
quello schiaffo da lui...”, si spiegò Arianna,
“Mi ha fatto sentire ancora una
volta come tantissimi anni fa. E l’ho odiato.”
“Beh...
Mi dispiace.”, riuscì a dire
Joanna.
“E
di cosa?”, sbottò subito lei,
“Sono io a dispiacermi di essermi trattenuta dal fare
altrettanto, mi ha
atterrita dalla paura! Non voglio avere a che fare con i tipi violenti,
né
dividere con loro i miei guadagni!”
A Joanna
venne da ridere amaramente.
Intorno a lei
tutti avevano avuto i
loro problemi, le loro difficoltà, i loro fantasmi con cui
combattere. Lei non
era mai stata sola, l’unica ad aver
sofferto, a cui la vita non aveva
quasi mai sorriso. Le
venne quasi
nuovamente da piangere dalla felicità.
Non era una
contentezza classica, di
quelle che si provava dopo una bella notizia, o dopo aver vissuto
qualcosa di
bello.
Era una
felicità strana, tutta sua.
Arianna
rimase in auto, lasciò che
andassero da soli in aeroporto. Camminavano tra la gente, vicini, come
se
rischiassero di perdersi in mezzo alla folla. Era spaventata, Dougie lo
vedeva
e lo sentiva, si dispiacque di non poter fare molto per aiutarla.
Ora, tutto
stava nelle sue mani.
Nelle loro mani.
Quello che
poteva fare era
semplicemente parlare con Danny, fargli capire, a
meno che Jonny non lo
anticipasse, ma non era completamente certo... Era coraggiosa e, quando
voleva,
poteva anche abbattere mille barriere davanti a sé, come
aveva fatto poco tempo
prima con Arianna.
Ma con Danny
era diverso.
Alzò
gli occhi sopra la gente e
riconobbe quel cappellino tra mille. Seduto, su una delle tante
poltroncine,
dava loro le spalle e leggeva un comunissimo quotidiano del loro paese
di
origine.
“L’ho
visto.”, le disse, fermandola,
“Vuoi che... Insomma, vada avanti io?”
La risposta
arrivò con estrema
incertezza.
“No...
Andiamo insieme.”, disse
Jonny.
“Ce
la puoi fare.”, le fece,
sorridendole, "Non è il mostro che pensi..."
“Stai
zitto, Dougs!”, sbuffò lei,
dandogli una pacca sulla spalla.
Un passo dopo
l’altro furono davanti
a Danny. Dougie dette un ultimo sguardo verso Jonny: gli occhi si
posavano
ovunque, tranne che sul giornale al di là del quale lui si
nascondeva.
“Signor
Jones?”, fece Dougie,
scherzosamente.
Il Times
si abbassò.
“Hey,
ce l’avete fatta!”, esclamò
lui, guardandoli entrambi e ripiegando il quotidiano velocemente, prima
di
alzarsi ed abbracciare il suo amico bassista.
“Com’è
andato il viaggio?”, gli
domandò Dougie.
“Bene...
Improvviso, ma bene.”,
rispose Danny, prima di lasciarlo, poi si rivolse a
lei,“Ciao. Come... Come
va?”
Jonny non lo
guardava. O meglio,
guardava la sua t-shirt, l’individuo seduto nelle loro
vicinanze, l’isterico
bambino che piangeva a qualche metro da loro. Avesse potuto evitarle
tutto
quello, Dougie lo avrebbe fatto, ma per sua grande e divina fortuna non
era
Harry Potter e non poteva influire sull’andare placido ed
inesorabile delle
cose.
“Bene.
E tu?”, rispose, con tono
piatto.
“Beh...
Sì, bene anche per me.”
Doveva
lasciarli soli? Dare a Danny
il tempo di scusarsi per il suo patetico errore?
“Andiamo?”,
domandò Joanna, “Arianna
è in divieto di sosta!”
E furono in
auto. Era schizzata via
dall’aeroporto, veloce come la pallina di un flipper. Loro
due si erano
semplicemente accodati, seguendo la sua scia, senza dire niente.
“Purtroppo
non ho un’altra camera da
darti.”, gli spiegava Arianna, mentre salivano le scale,
“Ma se non vuoi
dividere il letto con Dougie, potremmo anche...”
“Oh
no, va benissimo!”, la
tranquillizzò, “E poi stasera comunque stasera
Dougie tornerà a casa. Vero,
Poynter?”
Si
voltò per cercarlo ma dietro di
lui non c’era nessuno. Il corridoio era vuoto, né
Dougie né Little li avevano
seguiti, dovevano essere rimasti al piano inferiore.
“Come
dici, scusa?”, gli chiese
Arianna, vedendolo perplesso.
“Lascia
stare.”, le disse,
sorridendole, “Solo una cavolata.”
La donna lo
accompagnò fino alla
porta della stanza e lo lasciò solo.
Danny si
sedette sul letto, stanco
per il viaggio. Aveva dormito malissimo per tutta la notte e la sveglia
aveva
suonato proprio nel momento in cui gli era sembrato di stare quasi per
addormentarsi. Si sentiva da buttare, avrebbe voluto chiudere un
po’ gli occhi
e riposarsi, ma non era il caso. Sentì tre lievi colpi alla
porta e sperò che
fosse Little, ma era soltanto Dougie.
“Riposati
un po’.”, gli disse il suo
amico, “Ti aspettiamo per pranzo.”
“No,
sto bene.”, si oppose lui.
“E
dai! Hai due occhiaie che
spaventi!”, rise l’altro, “Non ti
preoccupare, non abbiamo niente di importante
da fare.”
“Little?”,
gli domandò.
Dougie rimase
in silenzio per qualche
attimo, in cerca di una risposta buona da dargli.
“Le
posso parlare?”, insistette
Danny.
“Prima
riposati.”, disse l’altro,
“Poi le parlerai quanto vuoi.”
Non
gradì affatto quella risposta.
Lui non era affatto la persona più
indicata per dirgli quelle parole.
“Vorrei
parlarle adesso, è un crimine
per caso?”, sbuffò, infastidito.
“Dan,
per cortesia, riposati almeno
un paio di ore.”, gli ripeté Dougie,
“Avrai tutto il pomeriggio per parlarle.”
“Voglio
farlo adesso.”, gli intimò.
“No.”,
negò ancora Dougie, la sua
espressione tra le più dure che avesse mai visto dipingersi
sulla sua faccia,
“E’ meglio così, Danny,
credimi.”
E chiuse la
porta.
Era
sbalordito, totalmente
impressionato, pienamente stupefatto. Dougie gli imponeva di non
parlare con
Little perché prima avrebbe fatto meglio a riposarsi. Ma da
quando Poynter si
sentiva in grado di intromettersi tra loro due? Sentì la
rabbia ribollire
dentro di lui, ma una voce da un anfratto abbastanza nascosto della sua
mente
gli disse che avrebbe davvero fatto meglio a
riposarsi. Era troppo
nervoso, troppo agitato per poter essere pienamente razionale. Si tolse
le
scarpe e si sdraiò sul letto. Un’oretta di sonno
avrebbe portato un umore
migliore, ed avrebbe così potuto affrontare chiunque, senza
alzare troppo la
voce.
Un ultimo
pensiero, prima di
addormentarsi, andò a Tamara.
Non avrebbe
affatto accettato la sua
decisione di partire, non senza gridargli contro qualcosa, non senza
tornare a
rinfacciargli le solite cose. Ma avrebbe capito, ne era certo, avrebbe
compreso. Se l’amava veramente, così come
l’amava lui, allora se ne sarebbe
fatta una ragione.
Altrimenti,
voleva dire che aveva
sbagliato tutto.
Un’altra
volta.
Si
svegliò insieme ad un poderoso
buco nello stomaco, una fame epica che borbottava incessante, urlava
dentro di
lui. Sbadigliò, stirò gambe e braccia, e si rese
conto che quella dormita aveva
compiuto per lui quasi un miracolo. Scese dal letto e, dopo un
passaggio in
bagno ed cambio di abiti, guardò l’ora.
L’una
e mezza, aveva dormito anche
più del previsto, e la fame aumentava esponenzialmente,
insieme ai numeri
scanditi dalla lancetta dei secondi del suo orologio. Scese le scale
ascoltando
i rumori che provenivano dalle diverse stanze. In una di esse Arianna
sembrava
chiacchierare animatamente con qualcuno, al telefono, ridendo e
scherzando.
Poi, al di
sotto della risata grossa
della donna, ne sentì anche una, più gentile e
minuta.
La
seguì e
si trovò ad origliare, nascosto dallo
stipite della cucina.
“Sei
troppo stupido, Dougster!”,
sentì dire da Little.
“Guarda!”,
sembrò sfidarla lui, “Ci
riesco! L’ho fatto una volta in un programma
televisivo!”
Qualche
rumore strano.
“Ma
no! Cretino! Hai sporcato
tutto!”, lo rimproverò Little.
Gli venne da
sorridere, ma non lo
fece che per un brevissimo secondo. Non ebbe piacere nel realizzare che
tra i
due sembrava essere stata fatta pace.
E
no, la sua non era gelosia.
“Cosa
vuoi che sia!”, disse Dougie,
con il suo solito modo di fare troppo menefreghista.
“Era
il nostro pranzo!”, sbuffò
Little, “Ora dobbiamo rifarlo da capo.”
“Dovremmo
chiamare Danny.”, ricordò
il suo amico bassista a lei, "E' più importante della
frittata caduta a
terra."
“Fallo
tu.”, rimandò la palla Little.
“E’
compito tuo Jonny.”
“Non
mi va.”, disse lei, secca.
“Avrai
modo di parlargli.”,
insistette Dougie, “E dirgli quello che devi.”
“No,
scordatelo, non lo farò.”, disse
lei, “A cosa servirebbe? Solamente a starci male.”
“Beh,
se la pensi così…”
“Certo
che la penso così!”, esclamò
Little, “Dougster, non ho voglia di litigare con
te.”
“Nemmeno
io.”, rispose lui, “Vado a
chiamare Danny.”
Lo schiocco
di un bacio entrò nelle
sue orecchie come l’evento più inaspettato di
tutto il mondo. Prima di poterlo
realizzare ed ancora prima che Dougie potesse trovarlo lì,
attonito come un
cretino, Danny si mosse.
“Buongiorno!”,
disse, con entusiasmo,
facendo finta di stiracchiarsi le braccia.
“Ah,
stavo appunto per venire a
chiamarti.”, fece Dougie, trovandoselo davanti.
“Mi
sono alzato esattamente adesso,
ho una fame!”, disse, cercando di farsi passare per
tranquillo.
“Riposato?”,
domandò Dougie,
sedendosi intorno al tavolo, con lui.
“Sì,
abbastanza, mi ha fatto proprio
bene recuperare un po’ di sonno.”, gli disse.
"Te l'avevo
detto...",
insinuò scherzosamente Dougie, "Vieni, è quasi
pronto."
Entrarono in
cucina: Danny vide
subito Little indaffarata tra le pentole, gli rivolse un frettoloso
buongiorno
a cui lui rispose con leggerezza. Volle provare ad entrare in contatto
con lei
per vie traverse, accantonando le parole sentite e quel bacio, che
ancora
percepiva come rumore di fondo, nella sua testa.
“Cosa
prepari di buono, Little?”, le
chiese, ma lei sembrava troppo indaffarata per potergli rispondere.
“Pasta.”,
ripose Dougie, al posto
suo.
“Ah…
Ok, posso prendermi qualcosa da
bere?”, chiese ancora, indirizzando quella domanda a lei.
“Acqua?
The?”, gli fece di nuovo
Dougie.
Sei
diventato di casa?
“Acqua.”,
gli disse, con un sorriso
stretto.
Dougie si
alzò e senza sbagliare
cassetto né sportello trovò un bicchiere con
acqua fresca per lui; una volta
accontentata la sua sete, sistemò anche i piatti e le posate
per il pranzo.
Notevole fastidio, ma volle scherzarci sopra.
“Sei
diventato familiare, qua…”, gli
fece, ridendo.
“Beh…
Sì, diciamo di sì.”, ripose
lui.
“Anche
più familiare che a casa
tua!”, esclamò Danny, ridendo ancora
più forte.
Dougie lo
seguì e alzò le spalle in
maniera comica. Sapeva che lo stava punzecchiando, che quello che
faceva dava
fastidio a lui, al suo amico Danny Jones.
“Buongiorno,
Danny!”, sentì dire alle sue spalle
da una tonica Arianna, “Hai fame?”
“Abbastanza!”,
le rispose, toccandosi
la pancia.
“Bene,
perché questi due”, fece,
riferendosi a Dougie ed a Little, che si lanciarono
un’occhiata complice,
“hanno già rovesciato due litri di acqua sul
pavimento, rotto tre uova e una
confezione di yogurt.”
“Ah!”,
fece lui, meravigliandosi di
quando potessero essere distruttivi insieme,
“C’è una vaga speranza allora di
poter mettere qualcosa sotto i denti?”
“Sì,
ovvio.”, rispose Arianna,
“Perché adesso darò loro il cambio.
Avanti, toglietevi di lì prima che salti
tutto in aria.”
Si sedettero:
Poynter davanti a lui e
Little, invece, accanto a Dougie, braccia conserte, e sguardo fugace.
“Come
stai, Little?”, le chiese.
Ormai non
sapeva più come fare per
parlarle, lei sembrava avergli voltato totalmente le spalle.
“Bene,
sto bene.”, rispose lei.
“Intendevo
dire, come stai veramente.”,
puntualizzò lui.
Lei
scansò gli occhi lontano.
“Te
l’ho detto. Sto bene.”, ripeté.
“Ok.”,
si lasciò convincere, “Posso
parlarti allora?”
“Dopo.”,
disse lei, “Ora dobbiamo
mangiare.”
“E’
pronto!”, esclamò infatti
Arianna, tagliando ogni possibilità di ulteriori tentativi.
Non doveva
guardarlo, per niente al
mondo. Non doveva farlo. Più teneva lontani gli occhi da
lui, meglio era.
Severamente
proibito guardare Danny
Jones.
Per tutto il
pranzo la sua attenzione
era stata puntata su Arianna, su Dougie, sul proprio piatto e
bicchiere, sulla
punta della forchetta carica di cibo, ma mai –mai-
su di lui. Fece finta
che non ci fosse, che si trovasse altrove, in Inghilterra, in
Thailandia,
ovunque tranne che lì, in Italia. Quasi
davanti a lei.
Ignorò
la sua voce, i suoi occhi, il
suo viso, le sue mani. Lo ignorò tutto,
nell’interezza della sua persona e
personalità. E lui sembrò fare altrettanto. O
meglio, si convinse che lui si
stesse comportando come lei, che si stesse pentendo di essere venuto,
che
stesse rifiutando di parlarle perché lei, in prima persona,
non voleva
rivolgergli parola, nonostante le cose da dire sarebbero state compose
da valanghe
e tonnellate di parole rabbiose e cattive. Ma soprattutto
perché se l’avesse
fatto davanti a tutti si sarebbe limitata, avrebbe cercato di
addolcirgli la
pillola amara.
E si stava
comportando così perché…
Se avesse
fatto diversamente, avrebbe
perso ogni coraggio.
Avrebbe perso
tutta la volontà, tutti
i buoni propositi, tutte le frasi già pronte per lui.
Perché se avesse
incrociato i suoi occhi profondamente blu, anche se per un solo
istante, si
sarebbe persa.
Odiava essere
innamorata di lui. Si
odiava nel provare qualcosa di così profondo e sconosciuto
per qualcuno che
amava un’altra ma che, ancora prima di quello,
l’aveva messa meschinamente alle
strette.
Il pranzo si
concluse, scandito dalle
loro risate: quella riunione quotidiana aveva avuto una parvenza di
normalità,
al di là di tutto. Arianna declinò ogni tentativo
di essere aiutata, sia da
parte sua che di Dougie, o di Danny stesso, chiedendo loro di lasciarla
in pace
e di andarsene a rompere le scatole a qualcun altro.
“Cosa
facciamo?”, domandò Joanna a
Dougie.
Implicitamente,
aveva voluto dirgli: cosa
vuoi fare tu, assistere alla rovina del tuo amico?
“Beh,
vorrei riposarmi.”, disse,
sbadigliando.
Stava
fingendo.
“Non
ho dormito stanotte.”, aggiunse,
per essere più convincente, “Vado a stendermi un
po’.”
“Ok.”,
gli disse, annuendo ed
abbassando la testa.
“E
io volevo scambiare quattro parole
con te, Little.”, le disse Danny.
Annuì
anche a lui, senza però alzare
gli occhi da terra.
“A
dopo.”, disse Dougie.
Le
lanciò un sorriso, poi prese la
via del piano superiore.
“Dove…
Dove vogliamo andare?”, chiese
Danny.
In un posto
tranquillo, senza troppa
gente.
Senza
testimoni.
“Nel
retro dalla casa c’è
un piccolo giardino.”, disse lei,
“Andiamo
là.”
Di nuovo
seduti su due comode sedie
di vimini, intorno ad un tavolinetto nero. Little si era allontanata un
attimo
per prendere del caffè appena fatto e, dopo averlo bevuto,
venne il momento di
fronteggiarsi.
E per lui, di
scusarsi.
“Little…”,
esordì Danny, “Insomma ...
Volevo parlarti… Della telefonata di ieri.”
“Anche
io.”, disse lei.
Ritrasse le
gambe al petto e le
abbracciò.
“Ecco…”,
cercò di dire.
“Posso
parlare prima io?”, lo
interruppe lei.
“Sì…
Certo.”, le fece, lievemente
spiazzato dalla sua sicurezza.
“Bene.”,
disse Little, che si schiarì
poi la voce, “Danny...”
Forse per la
prima volta in tutta la
mattinata, lei alzò gli occhi e li fissò nei
suoi. Aspettava quel momento come
se fosse stata la cosa più bramata da sempre. Gli occhi di
Little erano così
trasparenti che bastava guardarci dentro per capire cosa avesse avuto
per la
testa.
Lei si
bloccò, non disse nient’altro.
“Little...”,
le fece, volendo
esortarla.
Lei
sospirò ed abbassò il viso.
Voleva per
caso dirgli quello che si
aspettava di sapere? E allora perché non ci riusciva, cosa
c’era che la bloccava?
Anche quello era da capire, e lui non ci riusciva.
Lei si morse
le labbra.
Afferrò
la sedia su cui si era
accomodato e le si avvicinò il più possibile, di
fronte a lei. Le prese le
piccole mani, che prima stringevano nervosamente le gambe, e
cercò di farla
calmare.
“Little,
ascoltami...”, le disse, “Ho
sbagliato, lo so. Non dovevo.”
Lei non tolse
gli occhi da terra.
“Guardami,
Little.”
Ancora niente.
La costrinse
a farlo, prendendole con
delicatezza il mento ed alzandole il viso.
“Non
dovevo metterti davanti ad una
scelta.”, le disse, una volta che i loro occhi si furono
sintonizzati sulla
stessa frequenza, “E tu hai tutto il diritto di odiarmi, di
non volermi parlare
e di mandarmi a quel paese. Non ti biasimo.”
Era vero, se
lei gli avesse detto di
non farsi più vedere, né sentire, lo avrebbe
accettato, seppure non senza
lottare. In fondo, era stato uno stronzo.
O anche
qualcosa di peggio.
“Sono
venuto qua perché voglio
chiederti scusa di persona, e non tramite uno stupido telefono... O una
stupida
mail, come abbiamo fatto per tutto questo tempo.”,
continuò a dirle, “Perché mi
sono rotto le scatole. Perché non posso vedere che faccia
fai quando ti parlo,
non posso vedere quando ridi mentre leggi una mia battuta.”
Non poteva
esserne certo, ma per un piccolissimo
istante le labbra di Little si erano lievemente increspate
all’insù.
“Perché
voglio capire se mi perdoni davvero.”,
le fece, “Perché so che guardandoti negli occhi lo
capirò. Little, non sempre
mi hai detto la verità.”
E vide,
infatti, tanta colpevolezza.
Se ne dispiacque, era lui quello che doveva sentirsi in colpa per
qualcosa, non
lei.
“Mi
dispiace.”, disse lei, infatti.
“No,
non farlo, per favore.”, le
disse, sperando che lo ascoltasse, “Qui l’unico che
deve dispiacersi di
qualcosa sono io, che ti ho messo da parte.”
“Ma
Tamara...”
“Tamara
capirà.”, le fece, cercando
di essere convinto.
Almeno lui lo
era.
Quasi...
“Lei
lo sa che sei qui?”, domandò
Little.
“No,
non lo sa, ma non è di lei che
voglio parlare.”, disse Danny, riprendendo le redini della
conversazione,
“Little, voglio ripetertelo finché avrò
voce per farlo.”
La
guardò ancora più intensamente.
“Ti
devi fidare di me.”
Lei scosse la
testa.
“Non
è questo il punto, Danny.”,
disse, con un filo di voce.
“E
allora qual è?”, le chiese, in parte
contento per quelle parole, ma dall’altra parte in bilico
nella voglia o no di
sapere cosa lei avrebbe detto.
Little
sospirò, si mise i ciuffi
ribelli dietro alle orecchie.
“Non
lo so, Dan.”, disse.
Lo sapeva, ma
non glielo voleva dire.
“Ok,
aspetterò.”, le fece comunque,
“Quando vuoi parlare, io sarò pronto ad
ascoltarti. Io non ho fretta.”
“Però
sembravi averla, ieri.”,
incalzò lei, contro ogni sua previsione, “E cosa
è cambiato oggi?”
Danny rimase
lievemente spiazzato.
“Perché
ieri volevi sapere tutto di
me, ad ogni costo, ed oggi non hai più tutta questa
premura?”, domandò lei.
Il suo tono
era calmo, ma si sentiva
la vena di rabbia che scorreva nascosta tra le sue parole.
“Danny,
lo sapevi che non devi
forzarmi a fare una cosa del genere.”, insisteva Little,
“Ma comunque lo hai
fatto. E ti sei giustificato tirando in ballo
l’amicizia.”
“Per
un attimo ho pensato che,
magari, parlandone ti saresti sentita meglio.”
“Danny, lo dicono
tutti i dottori.”, disse
Little, sempre più animata, “Sfogarsi fa bene,
migliora la salute eccetera
eccetera... Ma non lo voglio fare, perché non me la sento.
Tu non sai quanto mi
costi farlo.”
Non
resistette al porle la domanda
che da tantissimo tempo frullava in testa, ed a periodi alterni si era
presentata con maggiore o minore intensità.
“E
allora perché con Dougie lo hai
fatto?”, uscì dalla sua bocca con una naturalezza
che quasi lo spaventò, “Ti è
costato di meno farlo con lui?”
L’espressione
di Little si fece dura.
“Perché
tu continui a mettermi di
fronte a delle scelte”, esclamò lei, furiosa,
“mentre lui ha avuto l’umiltà di
non farlo, né di pensarlo. Tu hai sempre vantato delle
esclusive con me,
facendoti scudo con tante caritatevoli attenzioni. E io non sono una
bambina
dell’orfanotrofio, non ho bisogno della pietà di
nessuno… Sei peggio di
mio fratello.”, gli disse, liberandosi delle sue mani ed
alzandosi. Si chiuse
la porta alle spalle, lasciandolo lì, da solo.
Non aveva mai
visto, né addirittura
era stato in grado di immaginarsi quell’aspetto di Little. Ne
aveva avuto un
assaggio, una volta ogni tanto, ma erano stati comunque degli sprazzi
episodici
di rancore e ira repressa.
Non aveva
potuto fare a meno di
ascoltare quello che si erano detti. Innanzitutto, perché
una delle due
finestre che illuminavano la sua stanza si affacciava casualmente
proprio sopra
di loro, e poi perché era stato doppiamente curioso.
La
sentì sbattere la porta di camera
sua, poi nient’altro.
Ormai
conosceva così bene Danny da
sapere che se non lo si metteva con le spalle al muro, cioè
finché lui non
comprendeva veramente di essersi comportato come un figlio di puttana
di prima
categoria, non avrebbe mai afferrato pienamente il senso delle sue
stupide
azioni. Era successo esattamente così anche un anno prima,
quando avevano
conosciuto Jonny. Si stava comportando nel medesimo modo: sapeva di
aver
sbagliato, ma non era in grado di ammetterlo fino in fondo e trovava
sempre un
modo per condividere la sua colpa con gli altri.
Maledetto il
suo orgoglio.
E di nuovo si
era lì a chiedersi: che
cosa avrebbe dovuto fare Dougie Poynter? Intromettersi tra i due,
cercare di
far ragionare Danny e calmare Jonny? Oppure lasciare che la cosa si
risolvesse
–o non si risolvesse- senza il suo aiuto?
Quella
telenovela non avrebbe mai
avuto fine. Si sentiva come il burattinaio, vittima delle sue stesse
marionette
anarchiche, che cercava inutilmente di farle tornare sulla retta via
del
copione, scritto da lui o da qualcun altro.
Si mosse,
togliendosi dalla finestra
per andarsene verso la stanza di Jonny. Origliò di nuovo,
ascoltando i suoi
singhiozzi. Bussò, ma non ricevette risposta. Sentirla
ancora piangere gli
stava lacerando il cuore.
Ogni volta
che quella ragazza faceva
un passo avanti verso lo stare meglio, con se stessa e con gli altri,
ne faceva
quattro -per colpa di Danny- indietro.
Abbassò
la maniglia ed entrò. Stesa
sul letto, la faccia tra i cuscini.
“Joanna...”,
le sussurrò.
“Vattene!”,
gridò lei, “Lasciami in
pace!”
“Sono
io.”, cercò di rassicurarla.
Doveva averlo
scambiato per Danny.
“E’
uguale, sparisci!”, ripeté lei.
“Calmati,
Jonny, capirà che ha
sbagliato...”
“Capirà
che avrebbe fatto meglio ad
essersene rimasto a casa!”, continuò lei,
piangendo.
Ignorò
i suoi ripetuti consigli di
lasciarla sola e si sedette sul bordo del letto, aspettando che lei
lasciasse
perdere le sue nuove lacrime.
“Ti
avevo detto di andartene!”, fece
lei.
“Lo
so.”, le rispose.
“Sei
uguale a lui!”
“Sì,
suoniamo insieme da... Quanto?
Sei anni?”, la sfidò, “Ormai finiamo per
somigliarci tutti e quattro.”
“Sei
uno stronzo esattamente come
lui!”, ribatté Jonny, la sua voce sempre attutita
dal cuscino in cui affondava
il viso.
“Che
bel complimento.”
“Vai
a farti fottere, Poynter!”,
gridò Jonny, lasciando il suo nascondiglio per rifarsela
direttamente con lui.
Le
fermò le mani, serrate a pungo,
che volevano provare a colpirlo dove potevano: sul petto, sulle spalle.
La sua
forza fu del tutto sorprendente, ma riuscì comunque a
bloccarla, chiudendo strettamente
le dita intorno ai suoi polsi.
“Jonny!”,
le fece, “Mi hai fatto un
male cane! Ti senti meglio adesso?”
La
guardò con la rabbia che si
meritava, e che l’avrebbe fatta calmare. Jonny
tornò a piangere e lui rimase
lì, a vederla disperarsi ancora. Non si aspettò
nemmeno quella volta il
ritrovarsela stretta al collo. Ormai, la sua spalla doveva essere molto
più
comoda di qualsiasi altra.
“Passerà
anche questa.”, le disse.
Non sapeva
più cos’altro aggiungere.
Sospirò, gli fece male pensarlo:
non vedeva l’ora di
tornare a casa e staccare da tutta quella situazione, così
cupa. Non lo pensava
con malignità, voleva bene a Jonny e glielo aveva dimostrato
in mille modi. Ma
tutto quello stava diventando una claustrofobia, un vicolo cieco e lui
non
voleva imboccarlo, o per lo meno voleva uscirne prima di trovarvisi
imbottigliato dentro, senza via di scampo.
Ed era sicuro
che fosse anche quello
che Jonny volesse di più, con tutto il cuore.
Vide qualcosa
muoversi, con la coda
dell’occhio, vicino alla porta.
Sapeva
cos’era, chi era.
E cosa aveva
visto e sentito.
Danny
comprese.
Comprese
tutto: quello che aveva
visto era stato più eloquente di mille parole, mille
aggettivi e verbi e nomi,
mille frasi, mille romanzi. Se lo sarebbe dovuto immaginare, aspettare,
era
quello che aveva temuto più di tutto. Il pensiero era
vissuto in un angolo
dimenticato della sua testa, era stato lui stesso a cacciarcelo.
Stava
provando le stesse sensazioni
che aveva sentito qualche tempo prima, quando aveva visto Harry e
Little
tornare dal bosco, ridenti, come se lui e le sue preoccupazioni non
esistessero.
Ma quella volta non le aveva considerate, le aveva denigrate e
accantonate,
senza nemmeno stare ad analizzarle. Quanto tempo era passato? Due
settimane?
No, solo una decina di giorni, addirittura meno, sette giorni e poco
più, ma
sembravano dieci anni fa.
Di quali
sensazioni parlava?
Mancanza, perdita, allontanamento, odiava essere messo da parte. Ed era
stato
messo davvero da parte, non come un anno prima,
quando Little aveva
rifiutato il suo aiuto contro il fratello prepotente. Sostituito,
cambiato. Il
posto che aveva conquistato, guadagnato gli era stato tolto
così, come se
niente fosse stato, e con un solo abbraccio.
Non
poté fare a meno di scansare un
altro pensiero.
Nel rapporto
con Joanna c’era sempre
stata un’ombra, un fantasma, un qualcosa di celato,
invisibile ma tangibile,
percepibile. Non si riferiva direttamente a Dougie, nonostante lui ne
facesse
parte: riguardava proprio quello a cui aveva appena assistito.
Joanna lo
avrebbe allontanato per
qualcun altro.
E cosa poteva
fare lui? Accettarlo.
Quella
sarebbe stata comunque la fine
della loro amicizia: indipendentemente da fatti, cose o persone, lei
avrebbe
trovato qualcuno meglio di lui, come amico.
Si
appoggiò contro il muro
Faceva male,
cazzo se faceva male.
Prese un
forte respiro, buttò fuori
tutta l’aria che aveva nei polmoni, ma la pressione sul cuore
non fece altro
che aumentare.
“Jones?”,
gli fece Dougie.
“Oh…
Hey.”, disse Danny, colto alla
sprovvista.
Non lo aveva
sentito uscire.
“Come
sta Joanna?”, gli domandò.
Dougie
alzò le spalle.
“Ti
posso parlare un attimo, Jones?”,
gli domandò Dougie.
Non ne aveva
assolutamente voglia, ma
non riuscì a dirgli di no. Negli occhi del suo amico,
infatti, non stava una
domanda, bensì la richiesta imperativa di scambiare quattro
parole, benché fosse
stata camuffata dal suo tono di voce interrogativo.
“Ok.”,
gli fece.
Dougie
passò oltre, andando verso la
camera che avrebbero condiviso per qualche altra ora e, una volta
dentro,
parlarono.
“Senti...”,
esordì Dougie, “Come
avrai capito la situazione è abbastanza…
Difficile da gestire.”
“Sì,
l’ho capito benissimo.”, rispose
Danny, “E ho anche capito che tu la stai affrontando molto
meglio di me.”
“Danny,
non voglio litigare con te,
non mi sembra il caso.”, disse Dougie, scuotendo la testa e
fraintendendo il
suo tono, più passivo che innervosito.
“Non
lo voglio nemmeno io.”, lo
tranquillizzò Danny, “Ma è la semplice
verità: Joanna ha bisogno di te, non di
me.”
“Ed
è qui che ti sbagli, Dan.”, disse
Dougie, “Perché se solo…”
“No,
non mi sbaglio affatto.”, lo interruppe,
“Quello che Joanna sta facendo con te, non lo ha mai fatto
con me.”
“Non
gliene hai mai dato il tempo!”,
esclamò Dougie, “Hai preteso tutto e
subito!”
Vide il suo
amico pentirsi di quella
esplosione di sincerità, ma Danny lo apprezzò
molto più della verità addolcita
da buone e calme parole. Almeno, avrebbe capito come la pensava su
tutta quella
situazione.
“Non
è vero, e lo sai, io non
pretendo niente da nessuno.”, gli rispose, animandosi
lievemente, “Quello che
voglio è solo che mi si dicano le cose come stanno.
Così come hai fatto adesso!
Io voglio la verità, soprattutto da Joanna… Cosa
c’è di sbagliato in questo?”
“Tutto,
Danny, tutto.”, rispose
Dougie, con aria affranta, “Tu non sai quanto a Jonny costi
parlare di
determinate cose… Cose che nemmeno ti
aspetteresti.”
A Danny
tornò in mente la solita
domanda fatta a Joanna, e non riuscì a trattenersi, per la
seconda volta.
“E
perché invece a te ne ha
parlato?”, gli domandò.
Dougie scosse
la testa.
“E’
semplice da capire, Danny.”,
rispose lui.
“Allora
spiegamelo! Visto che io non
capisco!”
“Perché
io non le ho mai chiesto di
dirmi niente e Jonny mi ha parlato di tutto, di sua spontanea
volontà. Tu,
invece, ti sei sempre aspettato che lei lo facesse in automatico, per
via della
vostra amicizia. E lei, come hai visto, non lo ha fatto.”
Danny rimase
interdetto.
“Ti
è chiaro?”, disse Dougie, “Vuoi
che te lo spieghi meglio?”
La
rassegnazione del suo tono era più
fastidiosa della rabbia che Danny stava provando.
“E
allora cosa avrei dovuto fare?”,
gli domandò, “Fare finta che non me ne fregasse
nulla?”
“No.”,
disse lui, “Neanche quello.”
“Visto
che hai tutte le risposte
giuste”, insistette Danny, incrociando le braccia,
“ora dovrei andarmene, vero?
Così vi posso lasciare in pace!”
“Non
farne una questione di gelosia,
Danny.”
“Non
è gelosia, Poynter!”, ribatté
prontamente Danny, “Io mi sento preso in giro! Sono venuto
qua per scusarmi,
per farle capire che ci sono e che la sto aspettando. E tu mi dici che
lei
continua a comportarsi così solo perché, appunto,
io sono qua a braccia aperte
per lei?”
Dougie
annuì.
“E’
assurdo!”, esclamò Danny, “Ti
stai prendendo gioco di me perché vuoi che me ne vada,
dillo!”
“Danny,
per piacere.”, il tono di
Dougie smise di essere tollerante e divenne estremamente intransigente,
duro,
“Piantala, finiscila.”
“La
finisco, ok!”, esclamò Danny, “Ma
allora dimmi che cosa devo fare!”
“Devi
smetterla di essere presuntuoso
ed arrogante, sia con me che con lei. Prenditi le tue
responsabilità, capisci i
tuoi errori, e chiedile scusa.”
“L’ho
fatto!”
“Danny,
tu non hai fatto proprio un
bel cazzo.”, sibilò Dougie, “Sei solo
venuto qua perché avevi paura che qualcun
altro… Che io potessi fare quello che
volevi tu, cioè farla stare un po’
meglio. Sei venuto qua perché avevi paura che lei ti
accantonasse, che ti
mandasse a quel paese, non perché ti interessasse davvero il
suo stato di
salute, non è così?”
Il taglio
fine della lingua di Dougie
si fece sentire, fin dal profondo.
“Sei
sempre il solito egoista.”,
disse ancora Dougie, “Il mondo deve girare sempre intorno a
te e, appena
qualcosa ti sfugge, diventi infantile e stupido.”
“Ah,
e così sono io l’arrogante tra i
due!”, sbuffò Danny.
Dougie scosse
la testa e lo lasciò
perdere, prima che potesse con sufficiente forza. Danny avrebbe voluto
andargli
dietro, terminare quella discussione in una bella litigata snervante,
ma sapeva
che non era il caso. I toni avevano rischiato più volte di
esplodere,
incontrollati, e si erano trattenuti a stento.
Prima che
potesse fare il punto della
situazione, il suo cellulare squillò. Controllò
lo schermo –Tamara- e
rapidamente afferrò la scusa che, in quello stesso istante,
nacque
appositamente per lei.
“Hey,
Tam.”, rispose, sedendosi sul
letto e toccandosi stancamente la fronte.
“Dove
sei?”, gli chiese lei, “A
casa non rispondevi, ho fatto anche fatica a raggiungerti al cellulare.”
“Sono
da mia madre, sai che qua non
c’è molto campo.”, le disse, prontamente
e con calma.
“Ah…
Ho capito.”, rispose la
sua ragazza, “Pensavo di tornare a casa, stasera.”
“Mi
trattengo qua per qualche giorno,
ne ho approfittato, data la mancanza di impegni con gli
altri.”, le spiegò.
“Hai
fatto bene.”, disse lei,
con tono dolce, “Ci sentiamo domani?”
“Sì,
a domani.”
E chiuse la
chiamata.
Almeno in
quel caso le complicazioni
non erano sorte.
Ce
l’aveva fatta, glielo aveva detto,
anche se lo aveva guardato dritto negli occhi. Vi si era persa per un
attimo,
ma aveva trovato il coraggio per trattarlo come si meritava. Si
sentì
pienamente orgogliosa di lei, come pochissime altre volte nella sua
vita.
Allora
qualcosa stava davvero
cambiando, dentro lei.
Allora non
era veramente innamorata
di lui, come credeva.
Nonostante
tutto il nero che vedeva
intorno a lei, c’era davvero una luce in fondo al
tunnel…
Era diverso
tempo che non sentiva più
alcun rumore, tranne la voce squillante di Arianna che canticchiava
sistemando
le sue piante in giardino. Volle scambiare quattro parole con lei: era
la
giornata dei chiarimenti, perché non approfittarne per darle
un piccolo
assaggio di quella che era stata la sua vita passata?
A passi
furtivi, sperando che nessuno
dei due ospiti la vedesse né la sentisse, andò al
piano inferiore. Arianna
aveva appena abbandonato il suo annaffiatoio, comprendendo che il sole
di
quella giornata pienamente estiva non era ancora stato capace di far
asciugare
il terreno bagnato dal temporale della sera precedente, e stava
riponendo
l’attrezzo nel suo sgabuzzino apposito.
“Arianna…”,
la chiamò.
Lei si tolse
il foulard colorato che
le fasciava la testa, a protezione dal sole.
“Dimmi,
Jo.”, disse la donna, “Andato
tutto bene con Danny?”
“Affatto.”,
le fece, scuotendo la
testa.
“L’avevo
capito.”, disse lei,
sorridendole con comprensione, “Andiamo in salotto.”
“Sai
dove sono lui e Dougie?”
“Il
tuo amico sta facendo un giro
fuori casa. L’altro non lo so.”, spiegò.
“E
chi intendi con l’espressione mio
amico?”, le chiese Joanna, ridendo.
“Beh…
Ormai posso intendere solo
Dougie.”, rispose Arianna, con tono di finta saccente,
“Non ècoerente chiamare
in quello stesso modo anche Danny, e tu sai benissimo
perché.”
“Ok…”,
rispose Joanna, lievemente
confusa da tutte quelle parole.
Sedute e
comode, si parlarono.
“Arianna,
te l’ho già detto, mi
dispiace per averti tenuto nascoste cose che mi
riguardavano”, le anticipò, “e
che avrebbero spiegato tantissimi fatti.”
“Oh
no, ti ho detto di non
preoccuparti.”, fece lei, “Ti capisco benissimo,
anche io ho preferito tenerti
segrete determinati fatti che ho vissuto. Ma non l’ho fatto
con cattiveria,
credimi, è che mi riesce molto difficile parlarne.”
Quanto la
capiva.
“Beh,
vedi…”, le disse, “Hai avuto
ampie dimostrazioni di quanto la mia famiglia non sia quella della
marca dei
biscotti che mangiamo per colazione.”
“In
quel caso, la odierei.”,
sdrammatizzò Arianna.
Non seppe
come fece, né perché fu
così facile, ma le disse tutto. Di suo padre, delle mani
alzate, delle
cicatrici visibili ed invisibili. Tutto. E lei se
ne stette lì, ad
annuire, senza commentare, né fare altro.
“Avevo
fatto due più due, ed ero
arrivata alla quella stessa conclusione.”, disse Arianna,
sospirando.
“Che
vuoi dire?”, le chiese.
“Jo…
Te l’ho detto stamattina, anche
io ho avuto problemi con uomini dalle mani troppo pesanti.”,
le ripeté Arianna,
“E in tutto questo tempo ho visto riprodotti in te
atteggiamenti che furono
miei.”
“Non
ti capisco.”
“Hai
paura di tutto e di tutti. Ti
nascondi, non esci mai allo scoperto, non ti fidi di nessuno, tranne
che di
qualche sporadico caso, più unico che raro.”,
disse Arianna, con una nota
ironica nel finale, “Esattamente come me. Dopo aver lasciato
Giovanni, e Dio sa
quanto mi ci è voluto per farlo, mi comportavo esattamente
come te. Fuggivo
dalla vita, dalle persone…”
“Arianna,
credimi quando ti dico che
non avrei mai pensato che ti fosse capitata una cosa del
genere.”, le disse,
con la mano sul cuore.
“E’
successo venti anni fa!”, esclamò
la donna, “E in venti anni si guarisce, o si è da
ricoverare subito, con la
camicia di forza!”
E
scoppiò a ridere.
Se
c’era una cosa che aveva sempre
amato di quella donna, era la sua risata.
Era calda,
era grassa, era
avvolgente. Ti entrava nelle orecchie come un’esplosione di
mortaretti:
fastidiosa per un solo attimo, ma poi contagiosa come la febbre alta,
solo che
faceva stare bene. Arianna aveva il grande pregio di sapere quando
scherzare,
quando essere seria, quando stare zitta, quando parlare… La
adorava, era
ufficiale, e le voleva più bene che mai.
“Vieni
qua, ranocchia!”, la chiamò
Arianna, porgendole le braccia.
Joanna vi si
nascose con voglia,
riscaldandosi in quella stretta amichevole, fraterna, e pure un
po’ materna che
la donna le stava offrendo con gusto e affetto. Parlare con lei, che
cercava di
sdrammatizzare per farla ridere un po’, era stata come la
manna dal cielo, era
quello che aspettava.
Suo padre era
morto da pochi giorni,
aveva sputato fango sulla sua bara e non lo aveva nemmeno visto
seppellire.
Aveva chiuso totalmente ogni rapporto con la sua famiglia, litigato con
chi
aveva creduto suo migliore amico... Che cosa aveva da ridere? Solo da
piangere,
finché l’ultima lacrima versata avrebbe
significato la sua stessa morte. Ma
aveva passato troppo tempo nella paura di vivere e, anche se faceva
male, anche
se non le era rimasto molto per cui continuare a sorridere, doveva
provare a
tirarsi fuori da quel buco nero che l’aveva risucchiata.
“E
ora, come la mettiamo con quei
due?”, domandò Arianna, tornando poi a ridere.
“Non
lo so.”, le rispose, sospirando.
“Dougie
si è rivelato qualcosa di
inaspettato, vero?”, domandò Arianna, quasi
retoricamente.
“Sì,
puoi dirlo forte...”
“Penso
di aver capito una cosa.”,
disse Arianna, annuendo in riflessione.
“E
cosa?”, le fece, veramente
curiosa.
Fino a quel
momento, si era
dimostrata una vera e sapiente lettrice tra le righe. Magari poteva
aver
afferrato qualcosa di quel guazzabuglio chiamato Danny Jones.
“Beh...
Danny è’ venuto qua,
nonostante la sua fidanzata.”, disse, alzando le spalle,
“E questo è lodevole
da parte sua, vuol dire che se tiene ad una persona, niente lo
ferma.”
“Su
questo non ho avuto dubbi...”,
disse Joanna, con amarezza.
“E
tu glielo hai detto?”
“Detto
cosa?”
“Del
tiro mancino di Cupido.”
“Ma
stai scherzando?!?”, esclamò
Joanna, capendo subito a cosa si stesse riferendo.
“Se
lo sapesse, cambierebbero tante
cose.”, affermò l’altra, con sicurezza.
“Oh sì,
certamente.”, rispose Joanna, con
sarcasmo, “Non gli ho mai parlato di mio padre, e gli
confesserò che ho preso
una cotta per lui.”
“Solo
una cotta?”, insinuò Arianna,
“Fino a ieri eri innamorata di lui.”
“Ero
innamorata dell’essere
innamorata di lui.”, si specificò.
“Dici?”,
fece l’altra, scettica.
“Sì...”,
disse Joanna, cercando di
dimostrarsi convinta, “Mi sono innamorata di quello che lui
rappresentava per
me, cioè una figura su cui fare riferimento. Mi ero creata
un’idea di Danny: il
ragazzo perfetto, quello dolce e gentile, quello che comprendeva ogni
mio
singolo stato d’animo, quello che ci sarebbe stato sempre per
me… E non si è
rivelato essere in quel modo.”
“Il
tuo Danny e quello reale sono poi
la stessa persona.”, aggiunse Arianna
“No,
non lo sono, credimi.”,
puntualizzò Joanna.
“Jo,
ascoltami.”, le fece la donna,
prendendole le mani esattamente come aveva fatto Danny, “In
questi giorni è
successo di tutto, ti senti depressa, confusa. E oltre tutto sei di
fronte ad
una svolta nella tua vita.”
Si era fatta
improvvisamente seria,
ma comprensiva.
“Stai
mettendo tutto in discussione:
gli altri, le amicizie, gli affetti… Ma soprattutto, te
stessa.”, continuò
Arianna, “Ti stai rendendo conto di quanti errori hai fatto,
quante strade
giuste hai imboccato.”
Era
perfettamente vero.
“Ma
permettimi di dire questo, Jo.”,
le fece, “Lui potrà essere la persona sbagliata
per te, uno stronzo, un cieco,
tutto quello che vuoi. Ma tu ne sei innamorata, punto e basta. E
finché non
farai fronte ai tuoi sentimenti, questi ti rincorreranno. Non ti dico
per
sempre, ma per moltissimo tempo, a meno che tu non ti sieda intorno ad
un
tavolo con loro, per la resa dei conti.”
“Ma
io tutto questo l’ho già fatto!”,
esclamò Joanna, “Io ho già capito
quello che provo per lui!”
“E
allora alzati, va’ da lui e diglielo.
Metti le cose in chiaro.”, la sfidò Arianna,
“A cosa tieni di più? Alla tua
faccia, a lui, o alla vostra amicizia?”
Joanna
spostò gli occhi altrove,
cercando una risposta.
“A
nessuna delle tre cose.” , disse
poi.
“Risposta
errata.”, le fece Arianna,
“Avresti dovuto dire che tieni di più alla vostra
amicizia… Anche se, dopo la
comunicazione di servizio da parte tua, è destinata comunque
a finire.”
“Arianna…”,
disse lei, con tono di
supplica, “Cerca di dirmi chiaramente
cosa devo fare! Io non ti capisco!”
Sbuffarono a
ridere insieme.
“Jo”,
si riprese poi Arianna, “puoi
anche gridarlo con un megafono, appendere striscioni ovunque,
distribuire
volantini… Tu sei innamorata di Danny.”
Per
l’ennesima volta, si trovò a
dirle che non era vero, o meglio, che non era più vero.
“E
se lui lo sapesse scommetto che…”,
disse Arianna, interrotta poi dal suono del campanello.
Joanna si
alzò ed andò a ricevere
l’ospite.
Eccomiiiiiiiiiiiiiiiiii! Sebbene con un giorno di ritardo, ma ieri era festa anche per me :)
Il titolo del capitolo è appunto una nuovissima (si fa per dire)
canzone dei McFly, tratta dal loro ultimo album, Radio:ACTIVE... Che
deficienti -____- No scopo di lucro, quando mai con questi scemi...
Anyway... Stasera vi ringrazio al volo perchè sono piuttosto stanca...
Al volo, un bacio a tutte quelle che mi hanno recensito: Kit2007,
picchia, vero15star, Ciribiricoccola, x_blossom_x, CowgirlSara, Giuly
Weasley, tsumika83 e _Princess_
Siete magnifiche :) vi adoro!
Colgo l'occasione per ringraziare anche chi ha messo questa storia nei
preferiti: Anna94_17, GodFather, CowgirlSara, k94, kit2007, lalinus81,
leleo 91, ludothebest, picchia, saracanfly, tsimika83, vero15star e
x_blossom_x.
Ultimissime ma non per importanza, chi mi fa in complimenti su msn!
Grazie a tutte voi *RC si inchina*
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Capitolo 10 *** Fingers On My Face ***
10.
Fingers On My Face
Dougie apparve al di là della soglia,
mani in tasca, era stato lui a suonare il campanello e ad interromperle.
“Bello qua intorno, non è vero?”, gli
fece Joanna, ridendo.
“Oh… Sì, abbastanza carino.”, rispose
lui.
C’era qualcosa che non andava. Glielo
vedeva in faccia, sembrava nervoso.
“Dougs, che cos’hai?”, gli domandò,
invece di spostarsi per farlo entrare.
Lui si morse le labbra.
“Jo.”
Si sentì pietrificare.
Con gli occhi, andò oltre alla figura
del suo amico. Al di là di Dougie, c’era Miki.
E sua madre.
Se ne stavano insieme, qualche passo
indietro, ed attendevano di poter entrare.
Di poter parlare con lei? Non aveva
niente di particolare da riferire.
“Jo, per favore.”, disse Miki, “Non siamo venuti per litigare, ma solo
per vedere se stavi bene.”
“Io sto bene.”, disse, con calma e
pace.
“Chi è questo ragazzo?”, domandò
allora sua madre, “Non era venuto con te anche al funerale?”
“E’ un amico.”, fece, brevemente.
“Un inglese che abita da queste
parti?”
“Vedila come ti pare.”
“Jo.”, disse Miki, “Non risponderle
così.”
“Volevate sapere come stavo, ve l’ho
detto. Adesso volete andarvene?”, disse, colma di nuovo di rabbia e di rancore.
“Jonny…”, si intromise Dougie, con un
filo di voce, “Da’ loro una possibilità…”
Lo fulminò con lo sguardo, ma lui non
si lasciò impaurire. Anzi, senza dirle altro, la stava comunque pregando di
seguire il suo consiglio.
“Venite.”, disse, lasciando loro il
passo.
Si scusò velocemente e li lasciò alle
loro parole. Andò nella sua stanza e vi trovò Danny ancora dormiente, davanti
ad una tv accesa ed a volume basso. Era pomeriggio inoltrato, l’orologio
segnava quasi le sei, doveva mettersi a preparare le sue cose, aveva un aereo
da prendere. Mentre aveva fatto quella passeggiata calmante aveva chiamato
Fletch, il loro manager, e chiesto a lui tutti i dettagli del suo biglietto
aereo. Non gli rimaneva altro che andare in aeroporto, mostrare la sua carta di
credito, il suo documento e ritirarlo.
Cercò di fare meno rumore possibile
e, conoscendo il sonno di Danny, non lo avrebbe disturbato nemmeno con
un’intera orchestra musicale di sessanta componenti. Tranquillo, lo zaino che
aveva frettolosamente preparato per quei giorni fu di nuovo pronto per essere
messo in spalla. Ma la sua mente era distratta.
Distratta da quello che stava
avvenendo al piano inferiore.
Lasciò la camera e si sedette
sull’ultimo scalino, con l’orecchio teso. Non si sentiva molto, ma con il
giusto silenzio poteva almeno percepire quali toni stessero usando. Le voci
erano sommesse, sembravano calme.
Qualche attimo dopo, vide Arianna
spuntare dalla cucina, con una bottiglietta di coca in mano.
“Ne vuoi un po’?”, gli domandò lei,
facendo uno strano cenno della testa.
“Beh…. Perché no?”, le fece,
sorridendole, “Ho abbastanza sete.”
“Era un modo velato per chiederti se
volessi un po’ di quello che sta avvenendo là dentro.”, si spiegò lei, “La coca
è per me.”
“Se fosse possibile”, le rispose,
“gradirei sia un po’ di coca, che un po’ di traduzioni istantanee.”
Arianna non aveva mai visto sua madre
e gliela presentò, prima di farla sedere e di chiedere a lei ed a Miki se
avessero voluto qualcosa da bere. Portò loro un po’ d’acqua, almeno lei ne
avrebbe avuto bisogno, e tornò in salotto.
“Arianna, potresti lasciarci soli?”,
le domandò poi lui.
“Oh sì, certo, scusatemi.”, Arianna
si affrettò ad alzarsi.
Avrebbe voluto farla rimanere, farla
assistere a quella patetica scena, metterle davanti la sua famiglia per farle
vedere con quali persone condivideva il sangue, ma aveva capito che Arianna non
avrebbe voluto partecipare allo spettacolo, e la lasciò andare.
“Joanna...”, le fece sua madre, dopo
aver bevuto, “Non voglio perdermi in tanti discorsi inutili.”
“Nemmeno io.”
“Ecco”, continuò la donna, “Io voglio
dirti solo che mi dispiace.”
La volle lasciar parlare.
“Mi dispiace aver assistito a tutto
quello che tuo padre ti ha fatto, senza dire niente, impotente.”, disse sua
madre, “Mi dispiace non aver mosso un dito per fermarlo, né per difenderti. E
ora che lui non c’è più, credimi, è tutto diverso.”
“Sì, è vero.”, le disse, “E’ davvero
tutto diverso.”
“Sì, Joanna.”, attaccò ancora lei,
non capendola, “E’ diverso perché anche io sono stata vittima di tuo padre, dei
suoi soprusi, delle sue gogne.”
“Ma non quanto me.”, disse Joanna, incrociando
le braccia, “Tu non sei stata spinta
contro ai muri di casa, contro alle porte, contro al vetro! Tu ti beccavi solo
qualche grido, qualche insulto, qualche minaccia… Ma io mi prendevo gli
schiaffi!”
La donna scosse la testa,
asciugandosi le lacrime che stavano iniziando a uscire dalle palpebre, chiuse
dal dolore.
“Tuo padre ci ha tenuto entrambe
prigioniere, non lo hai mai capito?”, disse poi la donna, con la voce rotta.
“Certo che l’ho capito! L’ho sempre
saputo!”
“Ed è colpa mia di tutto, Joanna.”
“Anche questo lo so!”, protestò lei,
“C’è qualcos’altro da accertare che sia di mia conoscenza oppure no?”
Qualunque sarebbe stata la risposta,
volle tagliare corto e farle una domanda diretta. Sapeva che suo padre la
picchiava per il suo bene, che lo faceva perché lei gli disubbidiva,
oppure perché aveva un po’ di forza per andare contro alla sua volontà. Ora
voleva sapere perché sua madre non avesse mosso un dito per fermarlo.
“Perché te ne sei sempre rimasta a in
disparte? Perché non ti sei opposta?”
Miki, fino a quel momento
apparentemente innocuo, passò un braccio intorno alle spalle della donna, per
farle conforto.
“Perché avevo paura, Joanna!”, disse
la donna, scoppiando in lacrime, “Perché ogni volta che provavo a difenderti,
lui non faceva altro che essere più violento di prima!”
Joanna si spazientì.
“Ma tu eri mia madre!”, esclamò,
“Avresti dovuto fare tutto quello che era in tuo potere per fermarlo, per
liberarti di lui!”
“Avevo paura che picchiasse anche
me!”, pianse la donna.
“Meglio la figlia che la madre, ecco
la verità!”
“No, Joanna, non mi fraintendere!”,
si oppose sua madre, “Non era quello che intendevo!”
“E cosa volevi dire, allora?”, si
infuriò Joanna, “Che non volevi cicatrici addosso? Che non volevi dare
continuamente spiegazioni per i tuoi lividi? Che non volevi rimanere a casa dal
lavoro perché ti aveva picchiato proprio in viso, ed i segni erano
inequivocabili?”
Se fosse mai esistita una flebile
speranza di poter, in un lontano giorno, perdonare la sua famiglia, venne
completamente cancellata. Rasa al suolo.
“Joanna, ti prego, torna a casa.”, le
disse sua madre, giungendo addirittura le mani al petto, credendo di
impietosirla.
“Per favore.”, si accodò anche Miki,
“Adesso potremmo tornare di nuovo a...”
“A cosa?”, esclamò lei, “Tornare a
cosa? Ad essere una famiglia?!”
“Voglio che tu torni a stare da me,
Joanna.”, disse sua madre, “Perché voglio provare a ricostruire una nuova vita,
insieme a te.”
“Scordatelo!”, gli versò addosso
quella parola con la facilità stessa del sollevare una piuma, “Io sto bene qua,
lontano da voi, lontano da quello che mi avete fatto.”
“Noi non siamo nostro padre!”, sbuffò
allora Miki, alzandosi in piedi, con il suo bel dito indice puntato contro di
lei, “Ed entrambi, adesso, pensiamo che...”
“Adesso non dovreste pensare a me.”,
disse Joanna, “Perché ormai è troppo tardi. Vuoi recuperare la nostra famiglia?
Ecco, allora farai meglio a pensarti come un figlio unico.”
“No, perché ho te come sorella!”,
esclamò l’altro, infuriandosi.
“E’ incredibile.”, sussurrò Dougie,
“Non possono farle questo… Al posto suo, non tornerei mai a casa..”
“Lo so, anche io.”, rispose Arianna,
anche lei a tono molto basso, ma percepibile, “Ma tu non conosci veramente suo
fratello. E’ uno che non demorde.”
“Posso intuirlo.”
“Non sai quanto mi abbia rotto le
scatole quando Jo è venuta a stare qua.”, gli spiegava, “Per un mese non
abbiamo fatto altro che litigare, io e lui, perché voleva che la facessi
tornare.”
“E come hai fatto a fargli cambiare
idea?”, chiese Dougie, evidentemente interessato.
“Beh…”, fece la donna, con sorriso
malizioso, “Ho i miei artigli belli ed affilati.”
“Non voglio mai conoscerli....”,
disse Dougie, sorridendo.
“Non so chi tra i due, se sua madre o
Miki, abbia avuto l’idea di presentarsi qui.”, disse Arianna, tornando seria,
“E comunque, è stata veramente una mossa meschina. Mi chiedo che cosa si
aspettassero da lei... In questi casi non è che morto il papa si possa
ricostruire una famiglia distrutta da anni. Non ha senso...”
“E cosa le stanno dicendo adesso?”
Arianna tese l’orecchio.
“Credo che Joanna si stia opponendo
ad ogni supplica.”, riferì, “E ha detto a Miki di ritenersi figlio unico.”
Dougie ridacchiò con amarezza.
“Certo che, quando si arrabbia, fa
paura.”, disse poi, “Molta paura!”
“Gridalo, perché è la pura verità.”,
fece la donna.
Certo che era la verità.
“Miki continua ad insistere.”, tornò
poi a dire Arianna, scuotendo la testa con aria sconsolata, “Perché non capisce
che Jo non vuole più avere niente a che fare con loro?”
“Credi che dovremmo intrometterci?”,
propose Dougie, “Perché io non ho assolutamente voglia di farlo. Chiamami
codardo e fifone, ma quella bestia non la voglio affrontare a mani nude.”
Arianna rise, con un retrogusto molto
amaro.
“In quel caso, ci sarò io a darti
manforte. Tu mi coprirai le spalle.”, gli fece, dandogli una pacca amichevole,
“Ma per il momento rimaniamo qua, Jo può farcela da sola.”
“Speriamo bene…”
Anche lui cercava di sperare bene, di
incrociare le dita e di pregare che, nei successivi cinque minuti, la famiglia
di Joanna se ne andasse.
Joanna…
Ormai non aveva più senso chiamarla
Little. Era cresciuta e quel nomignolo che le aveva dato non solo per la
canzone, ma soprattutto per il suo essere sempre minuta e dolce, ed ormai era
diventato del tutto inappropriato. Joanna la disegnava meglio, nell’interezza
della sua personalità: sotto quell’aura
di eterna timidezza c’era qualcosa di molto forte, deciso e determinato.
Qualcosa di un sapore abbastanza amaro, se si fosse avuta l’occasione di
assaggiarlo, e che riusciva a fare male. Eppure, era contento di averla
scoperta anche in quel modo.
Per la seconda volta in quel giorno
stava origliando una conversazione altrui, ma non era l’unico. Stava spiando
Dougie ed Arianna, che a loro volta ascoltavano nascosti. Non aveva perso molti
particolari prima di unirsi a loro, che gli davano le spalle e non si stavano
accorgendo della sua presenza, ma che
sicuramente presto lo avrebbero notato, seduto a qualche passo da loro.
Ed era in quel modo che aveva
scoperto tutto.
Dougie aveva avuto ragione.
Tu non sai quanto costi a Jonny parlare di determinate cose… Cose che
nemmeno ti aspetteresti.
Cercando di dare una spiegazione a
tutta la timidezza e alla riservatezza di Joanna, era arrivato a pensare che,
nel peggiore dei casi, poteva aver avuto una brutta delusione di cuore, con un
qualche ragazzo che l’aveva trattata male e che aveva fatto –come lui-
lo stronzo.
Era caduto completamente dalle
nuvole, e si stava pentendo amaramente delle sue azioni.
Ora che sapeva, avrebbe tanto
voluto tornare indietro nel tempo ed essere più ragionevole, più comprensivo,
più bravo nel capire le cose non dette, le parole in sottofondo, i doppi
significati.
Ora che sapeva, capiva una
svariata marea di fatti, di cose accadute nel passato più lontano ed in quello
più recente, e che ancora non avevano avuto una spiegazione razionale.
Ora che sapeva, avrebbe dovuto
scusarsi con Dougie, che aveva cercato di aprirgli gli occhi ed indicargli la
strada giusta.
Ora che sapeva, avrebbe dovuto
semplicemente chiudere tutto perché non si concedevano seconde possibilità dopo
errori del genere. Non si davano altre opportunità ad una persona che obbligava
l'altra a confessare qualcosa di così profondo, quando non se ne voleva
parlare. Avrebbe dovuto aspettare il momento giusto, ma era stato impaziente.
“Poynter.”, lo chiamò, il tono della
sua voce molto basso.
Li vide entrambi bloccarsi, Arianna e
lui, e poi voltarsi.
“Danny?”, fece Dougie, “Che ci fai
lì?”
“Hai sentito…”, dedusse Arianna.
Annuì, lei scosse la testa, e Dougie
sospirò.
Al piano di sotto i toni si fecero
più concitati, tanto che Arianna trasalì.
“Che sta succedendo!”, disse Dougie,
guardandola dritta negli occhi per sapere.
Lui si avvicinò: era inutile
continuare a rimanere lì contro al muro, lontano dal loro campo visivo.
“Si stanno rinfacciando tante di
quelle cose…”, disse la donna, “Joanna parla di una certa Rita, la ex moglie di
Miki…”
“La conoscevi?”, le domandò Dougie.
“No… Almeno, non di persona, ma so
che si sono separati per colpa di suo fratello.”
“Strano…”, borbottò Danny, ignorato
da entrambi.
Le voci in salotto erano una più
forte dell’altra, si stavano gridando contro, era uno strazio starli a sentire
senza poter fare niente, senza poter difendere Joanna.
“Se continuano così, finiranno per
uccidersi.”, mugolò Arianna, sempre più preoccupata.
“Fermiamoli.”, disse Danny, “Credo
che sia abbastanza.”
“Facciamoci i cazzi nostri, Jones.”,
gli disse Dougie, prendendolo per un braccio e bloccando così ogni suo
tentativo di iniziativa, “Non ci riguarda, è la vita di Jonny.”
Non si oppose, aveva ragione. Lui
aveva sempre avuto ragione su Joanna.
“Non dovremmo nemmeno stare a sentire
quello che si dicono.”, si permise però di aggiungere Danny.
“Tu ancora meno di noi due.”, Dougie
tagliò ulteriori parole da parte sua.
E, di nuovo, aveva avuto ragione.
La porta del salotto si aprì,
lasciando che il coro delle voci dei due fratelli uscisse. Era stata Joanna
stessa ad uscirne fuori imbestialita.
“Andatevene.”, la sentirono dire.
“Bene!”, le rispose Miki, “Questa è l’ultima
volta che ci vedi.”
“Oh, sia lodato il Signore!”, c’era
del odio nelle sue parole, molto odio, “L’uscita la conoscete. E’ la solita da
cui siete entrati.”
Si mise le mani sui fianchi e, con un
cenno della testa, impose a sua madre e a suo fratello di lasciare la casa. E
la sua vita.
Miki era visibilmente infuriato:
prima di uscire si accorsero di loro tre, in cima alla rampa delle scale. Sua
madre lanciò un’occhiata strana, un misto tra perplessità e risentimento, poi
prese la sua via. Miki, invece, si rivolse loro con parole acide.
“E’ colpa vostra se Joanna è
diventata così!”, disse, “Prima era una brava ragazza!”
“Prima ero un burattino.”, sbuffò
lei, ridacchiando, “Ora vattene, hai già fatto la tua sceneggiata.”
Ma lui non lo fece.
Le andò incontro e le dette un sonoro
schiaffo, in pieno viso. Il rumore dell’impatto tra la loro pelle fu come lo
sparo di un cannone, assordante.
Danny sentì affievolirsi la presa
della mano di Dougie sul suo braccio. Non stette a chiedersi se fosse
intenzionale o meno, ma Dougie lo lasciò andare. I suoi piedi si mossero,
scesero velocemente i gradini davanti a lui. Quando arrivò da lei non dovette
dire niente, né alzare alcuna mano a difenderla, perché Miki se n’era già
andato lasciandola lì, completamente frastornata.
“Oh Cristo, Joanna, stai bene?”, le
fece, togliendole i capelli dal viso, spostati dalla forza della cattiveria di
suo fratello.
Lei non gli rispose. Se ne rimase lì,
a guardare fissa nel vuoto, come se davanti a lei non ci fosse nessuno, non ci
fosse lui che cercava di farla tornare sveglia.
“Joanna!”, le fece, spaventato.
Lei sbatté gli occhi e lo guardò,
stranita, e si toccò la guancia rossa.
“Fammi vedere se ti ha…”, le disse.
“No!”, esclamò lei, sottraendosi alle
sue mani, ferme sulle spalle.
“Non ti voglio fare del male, Joanna,
voglio solo controllare se stai bene.”, cercò di tranquillizzarla.
“Lasciala andare e basta.”, sentì la
voce di Dougie, nelle sue vicinanze.
Un passo dopo l’altro, Joanna salì al
piano di sopra e si chiuse nella sua stanza.
Lo zaino era pronto, vicino alla
porta. Lui sedeva in attesa, il piede che picchiettava un tempo sincopato sul
tappeto sotto di esso, in salotto. Era ora di andare, l’aereo non lo aspettava
, ma non aveva il coraggio di alzarsi, salire in auto ed andare a prenderlo.
“Ehm… Io sarei pronta.”, disse
Arianna, comparendo nella stanza.
“Ok.”, le rispose, “Danny rimane qua,
vero?”
“Sì.”
“Ho cinque minuti per salutarlo?”
“Oh sì, certamente, siamo in
anticipo.”, rispose la donna, sorridendo ed uscendo.
Presuppose che fosse nella stanza
degli ospiti, quella che era stata anche sua. Da dopo che Jonny si era chiusa
nella propria, ognuno di loro aveva preferito fare altrettanto e starsene soli,
con i propri pensieri.
Lui, dal canto suo, aveva preferito
tornare fuori ed aveva passato quel tempo in solitario nel giardino, sul retro,
dal quale c’era una bella vista della campagna italiana. Era stato più
rilassante che spendere il tempo con le orecchie martellate dalla musica.
Bussò alla porta della stanza.
Qualche secondo dopo spuntò fuori Danny, con un asciugamano tra le mani,
intento a tamponarsi la testa.
“Ehm... Io vado.”, gli disse, mani in
tasca e tanto imbarazzo in volto.
I fatti di quei giorni, le parole
dette, gli sguardi e le intenzioni avevano fatto accumulare tanto di quello
stress e di quella voglia di mettere tutto da parte che ogni movimento, ogni
approccio diventava difficile.
“Già, sì.”, fece l’altro. Si scansò e
gli fece cenno di entrare.
Danny gli porse poi la mano, in attesa
che lui gliela stringesse. Come aveva sempre fatto, la afferrò e la strinse con
calore, prima di avvicinarsi a lui ed abbracciarlo.
“Non farla arrabbiare troppo.”, gli
disse, scherzoso.
“Non ci tengo affatto.”, rispose
Danny, con tranquillità.
“E non farle capire che... Insomma,
che tu sai.”, aggiunse, in tono più serio.
“Certo.”
“Trattala bene.”
“Da quando in qua sono io a prendere
raccomandazioni da te, Poynter?”, scherzò Danny, ridendo.
Già, si erano proprio ribaltate le
reciproche posizioni, in ogni possibile senso, che a loro stesse piacendo o no.
Quando Dougie era partito era stato Danny a fargli una testa piena di ‘non
fare questo e non fare quello, che poi te ne pentirai’, in toni anche
abbastanza minacciosi. Ora, invece, era lui a farlo, il che era di per sé già
abbastanza surreale, indipendentemente dal contesto in cui le preoccupazioni
erano state inserite.
“Jones, ti devi rassegnare. Lo so che
è dura, ma ti ci abituerai.”, gli fece, picchiettando sulla sua spalla con un
sorriso che riempiva il volto.
“Sei già stato da Joanna?”, gli
domandò Danny, deviando il discorso.
“No, non ancora.”, rispose, e poi
notò quella strana parola, “Joanna... Dov’è finita Little?”
“E’ grande abbastanza per non essere
più chiamata in quel modo.”, tagliò corto Danny, scuotendo la testa, “Insomma,
Dougster, buon ritorno a casa.”
“Sì... Grazie.”
Le stranezze si sommavano una
sull’altra: lui e l’essere diventato il responsabile del benessere di Jonny;
Danny e il suo chiamarla Joanna, e non più Little...
Cosa poteva succedere ancora?
“Hai qualche messaggio per gli
abitanti del pianeta Regno Unito?”, gli domandò.
Danny rise.
“Nessuno, dì solo che sto bene e che
torno presto.”, disse poi, “Ah, se vedi Tamara, io sono a Bolton, da mia
madre.”
Dougie gli lanciò un sorriso comprensivo.
Quella partenza improvvisa doveva essergli costata molto, ma aveva voluto
comunque pagare quel prezzo. Era ammirabile da parte sua rischiare una
relazione più che stabile per stare accanto ad un’amica.
Un’amica?
Non aveva più tempo per rispondere a
quel quesito. Quella poteva essere la cosa strana che sarebbe potuta
accadere.
“Va bene.”, gli rispose.
Un ultimo abbraccio da uomini, una
pacca sulle spalle, un sorriso, e fu fuori dalla stanza. Bussò alla porta di Jonny. Lei non rispose,
ma Dougie decise comunque di entrare.
Notò subito la penombra che regnava
sovrana e capì che stava dormendo. Infatti, la trovò distesa sul letto, stretta
ad un cuscino, la bocca lievemente aperta nel sonno.
A volte, sapeva essere proprio buffa.
Si sedette sul bordo del letto e, con
delicatezza, decise di svegliarla. Non voleva di certo andarsene senza
salutarla.
Jonny borbottò qualcosa e stancamente
si voltò, gli occhi ancora semi sigillati.
“Ah, sei tu.”, disse, ridacchiando.
“Sì, sono proprio io.”, le fece,
“Devo andare.”
“E’ già ora?”, chiese lei intontita,
e guardò fuori dalla finestra, trovando il sole già sulla via del tramonto, “Pensavo fosse ancora
pomeriggio...”
“M dispiace dirtelo ma hai perso
totalmente la cognizione del tempo!”, le fece, ridendo.
“Decisamente...”, bofonchiò lei,
sbadigliando.
“Ho segnato il mio numero su questo
foglietto.”, le disse, estraendolo dalla tasca, “Lascia i tuoi messaggi dopo il
bip, se avrò tempo ti farò richiamare dalla mia segretaria.”
“Grazie signor Poynter.”, rispose Jonny,
prendendo il foglietto e dandogli un’occhiata, “Lei è sempre così carino con
noi comuni mortali.”
Ridacchiò, poi abbassò la testa.
“Va meglio adesso?”, le chiese.
“Insomma.”, disse lei, alzando le
spalle, “Fa sempre molto male.”
Si stava riferendo ad un mucchio di
cose, non solo allo schiaffo, ma c’era qualcosa nei suoi occhi, una piccola e
flebile luce a cui Dougie si aggrappò. Prima o poi tutto sarebbe finito, e lei
sarebbe stata meglio, molto meglio. Le avrebbe dato tutto l’aiuto che poteva,
in qualunque modo gli fosse possibile.
“Passerà, prima o poi.”, le disse.
“Lo so.”, e lei sorrise un po’.
“Di più.”, fece Dougie, premendole
due dita contro gli angoli della bocca e storpiando la sua espressione.
“Fai male, scemo di un Dougster!”,
esclamò lei, allontanandosi dalla sua mano, “Adesso puoi anche lasciare questo
paese, e non farti vedere mai più!”
“Pregherai in ginocchio per un mio
ritorno!”, scherzò lui.
“Contaci.”, fece Jonny.
“Dai, adesso devo proprio andare.”,
disse, alzandosi, “So che non ti farà piacere, ma Danny rimarrà a casa. Io ed
Arianna non volevamo lasciarti sola.”
“Qua in Italia si dice: meglio soli
che male accompagnati.”, bofonchiò lei, poco contenta.
“Si dice anche in Inghilterra,
stupida.”, e si voltò, dopo averle fatto la linguaccia.
Con lo zaino sulle spalle iniziò a
sculettare, come il naturale deficiente che era, e canticchiò un ritornello a
lei molto conosciuto.
‘And this is how I realize, he has you hypnotized...’
Appena comprese, Jonny prese il
cuscino con cui aveva dormito e lo colpì ripetutamente, insultandolo in modo
abbastanza colorito, e maledicendolo per l’idiozia che era innata in lui.
Stava iniziando a sentire fame,
abbastanza fame. Come un leone in gabbia, nervoso e indeciso, si chiese se
sarebbe stato giusto andare da lei e chiederle di poter mangiare qualcosa
insieme. La risposta era più scontata del colore dei suoi capelli e, nonostante
la possibilità di provarci lo stesso, l’andare sempre più a fondo della barca
che portava il suo nome era sintomo del bisogno di togliere le tende da lì al
più presto, preferendo accettare il fatto che non avrebbe potuto rimediare ai
suoi ripetuti errori.
E tutto quello, come aveva già avuto
modo di constatare, faceva un male cane.
Molto male.
Le voleva bene, aveva pensato di poter essere in grado di aiutarla in
ogni modo possibile, e invece non aveva fatto altro che allontanarla, sempre di
più.
Era stato egoista, stupido ed
arrogante.
Ora che rifletteva, e guardava bene
indietro, si chiese quanto fosse stata vera quella loro amicizia. Se non
fosse stato tutto un binario unico, dove lui correva instancabile supponendo
che Joanna si trovasse dietro a lui, che stesse al suo passo, ma invece non era
che nient’altro lontana mille miglia, e lui vedeva solo un’illusione. Non era
colpa di lei, di Joanna, il rimanere indietro mentre lui correva spedito per la
sua via. Era semmai lui a doversene sentire responsabile...
E ancora una volta era stato egoista,
perché non si era mai posto la seguente domanda: che cosa pensa Joanna?
Non era una semplice richiesta
riguardante il suo punto di vista su determinate cose, era piuttosto una
domanda che andava a toccare direttamente l’essenza di quello che, fino a quel
giorno, aveva creduto una solida amicizia. Non era facile per lui spiegare
quello che aveva dentro, non era nemmeno capace di dargli una forma nel
pensiero. Aveva preteso, dato per scontato che tutto filasse liscio, che tutto
fosse perfetto, come lo voleva lui. Che viaggiassero sullo stesso binario.
Invece no.
Lui era andato avanti, dritto verso
la sua destinazione. Joanna, però, doveva essersi persa per strada: aveva solo
seguito la sua scia, cercando di essere veloce tanto quanto lui, ma non ce
l’aveva fatta.
Scese al piano di sotto, cercando di
quietare almeno il borbottio della sua pancia, visto che sembrava impossibile
mettere in silenzio la tua testa. La sua fame non poteva resisteva a lungo,
prima di farsi avanti e digerire il suo stesso stomaco.
Dei rumori lo distrassero dal suo
ennesimo ponderare, qualcuno stava armeggiando con la porta di casa. Sentì il
tintinnio metallico di un mazzo di chiavi, poi la serratura si aprì, facendo
entrare il rumore di tacchi femminili sul pavimento.
Arianna si presentò di lì a poco e,
appena lo vide, sussultò per lo spavento.
“Oh Cristo, Danny!”, fece, “Potevi
almeno avvertirmi!”
Lui rise.
“E di cosa?”
“Di elevarti qui, in cucina, nei tuoi
centottanta e più centimetri di altezza, piuttosto che segregato in camera
tua!”, sbuffò la donna, posando il sacchetto di plastica sul tavolo della
cucina. Doveva avere approfittato della partenza di Dougie per fare un po’ di
spesa, a vedere il contenuto.
“Ero sceso solo a prendermi qualcosa
da mangiare.”, le spiegò, incrociando le braccia ed appoggiandosi comodamente
al ripiano della cucina, “Non avevo preventivato di farti paura.”
“Eh! Ma lo hai fatto!”, esclamò la
donna, mettendo a posto gli acquisti, “Ho fame anche io, preparo subito
qualcosa. Jo?”
Danny alzò le spalle, non sapeva che
cosa risponderle. Da dopo che suo fratello se n’era andato, lasciandole i segni
delle sue dita sul viso, non l’aveva più vista né sentita. E lui non aveva
fatto niente per difenderla.
Arianna annuì e, con un cartone di
latte in mano, si affacciò fuori dalla cucina.
“Ho riconsegnato il tuo amico a chi di dovere!”, alzò la voce, esprimendo
quelle parole in
italiano.
Qualche secondo.
“Al manicomio criminale???”
Eccola, la risposta di Joanna. Un
segno che era sempre lì, in quella casa.
Arianna si voltò verso di lui e gli
lanciò un’occhiata allusiva.
“Sta bene.”, disse, tornando al suo
latte ed al frigorifero aperto.
“Te lo ha detto lei?”, le chiese, con
apprensione.
Arianna scosse la testa.
“E come fai a saperlo?”, le domandò,
allora.
“Se fosse stata male, o almeno in fin
di vita, non avrebbe proprio risposto. Non credi?”, fece lei, con ironia.
Gli venne da ridere.
“E’ vero, non ci avevo proprio
pensato.”, rispose Danny.
“Questo è il tuo problema, ragazzo.”,
disse Arianna, “Pensi a troppe poche cose, oppure lo fai così tanto da lasciare
indietro quelle più importanti… E più ovvie.”
Danny non comprese il significato
delle sue parole e spese qualche tempo nella riflessione, cadendo in pieno
nella trappola tesagli da Arianna, che lo guardò come per dirgli ‘capito
cosa intendo?’.
“E come posso fare per rimediare a
questo mio difetto?”, le chiese, accettando ciò che gli era stato detto come
una critica gentile.
“Ferma il cervello, stoppa il tuo
calcolatore.”, disse lei, “Mandalo a puttane. Abbandonalo. E guardati intorno.”
Danny rimase in attesa di qualche
ulteriore illuminazione, dato che il voltaggio di quella appena fornitagli da
Arianna sembrava troppo basso per essergli utile.
“Dovrei… Guardare qualcosa in
particolare?”, domandò, perplesso.
“Non propriamente.”, disse la donna,
socchiudendo gli occhi.
“Qualcuno.”, si corresse Danny.
“Hai colto nel segno.”
Non gli vennero in mente persone in
particolare, tranne una.
“Joanna?”, le chiese.
“Ma come siamo intelligenti!”,
esclamò la donna, scherzosamente, e lo fece ridere.
“E cosa dovrei vedere di lei?”
“Sbagliato.”, sottolineò Arianna,
“Dovresti dire in lei.”
Ulteriori dubbi gli annebbiarono al
mente.
“Non ti sto parlando di guardarla e
di darmi un giudizio estetico.”, si spiegò allora Arianna, “Vorrei che tu
guardassi in lei, e vedessi cosa c’è dentro.”
Il tutto era solo lievemente più
chiaro.
“E se scoprissi qualcosa che lei non
vorrebbe che io sapessi?”, le domandò Danny.
“Sbagliato ancora.”, fece la donna, “Dovresti ribaltare la frase.”, e gesticolò
con le mani.
“Non ti capisco, credimi.”, le disse, esasperato.
“Il tuo cervello funziona a
intermittenza, per caso?”, sbuffò lei.
“E’ molto probabile!”, rise Danny.
“Allora spero che adesso sia sulla
modalità accesa.”, fece Arianna, “Tu sai già una
che lei non vuole farti sapere, ma
comunque non è quella a cui mi sto riferendo adesso.”
“Suo padre, intendi.”
“Ecco, era spenta.”, esclamò la
donna, toccandosi la fronte. Ormai aveva lasciato perdere la spesa, si era
totalmente dedicata a lui, ed al suo cervello in corto circuito. “Io intendevo
tutt’altro. E’ una cosa che sai, o a cui hai pensato almeno un po’, ed hai
sicuramente scartato perché l’hai ritenuta un’idiozia.”
In quei giorni di continui
ripensamenti era impossibile comprendere a cosa si riferisse specificatamente,
ed Arianna non sembrava nemmeno voler parlare in termini più chiari di quelli.
“Ma comunque, non è quello il punto,
non mi interessa che tu capisca. Non ti sto parlando di Jo, ma di te stesso.”,
si riprese Arianna, “Dovresti ribaltare la domanda che mi hai fatto, e
chiedermi che cosa succederebbe nel caso fossi tu a capire qualcosa che non
vorresti sapere.”
Gli sembrava di essere il bambino ritardato della classe.
“E questa cosa”, le fece, “dovrei,
virtualmente e sempre secondo te, saperla già… Ma non la voglio ammettere, e
verrà fuori guardando dentro di lei.”
“Oh Danny boy!”,esclamò la donna,
“Allora c’è vita dentro al tuo cervello!”
E si mise a sferragliare in cucina,
tirando fuori pentole e padelle. Il suo sermone era finito per caso? Perché lui
ancora non aveva afferrato un emerito cazzo.
“Allora!”, lo colse in fallo Arianna,
facendolo sussultare, “Che cosa ti ho detto prima? Tu pensi troppo! Devi
smetterla! Fai qualcosa!”
Danny scoppiò a ridere, lasciandola
perdere.
“Vuoi che ti dia una mano?”, le
chiese.
“No, grazie, faccio da sola. Vai a
chiamare Jo.”, disse lei, mentre riempiva una pentola d’acqua fresca, “So che è
là fuori ad ascoltarci.”
Un rumore di passi veloci tradì
ulteriormente la presenza di Joanna, che lui non aveva proprio percepito, e
guardò Arianna con occhi stupiti.
“Vai!”, gli fece lei, chiudendo il
rubinetto.
Cercò di seguirla, ma non fu capace
di trovarla, si era volatilizzata.
“E’ in camera sua!”, lo informò
Arianna.
“Ma tu sai sempre tutto?”, scherzò
Danny.
“Ho sentito i suoi passi, al piano di
sopra.”, si spiegò, “La sua stanza è proprio sulle nostre teste.”
“Allora non è solo intuito femminile,
il tuo!”, le disse.
“E’ anche una buona dose di buon
senso.”, gli sorrise la donna.
“E che ovviamente io non ho.”, disse
Danny.
“Certo che ne hai, ma ci deve essere un’otturazione
dentro ai tubi della tua materia grigia.”, disse la donna, “E deve essere anche
bella grossa, perché ha combinato diversi casini.”
“Ovviamente, tu sai di che
otturazione stai parlando.”
“Ovviamente!”, disse Arianna.
“E non me lo dirai.”
Lei scosse la testa, ridendo
sorniona.
“Vado da Joanna.”, le fece.
Quella donna era un’enigma. Fossero
state parenti, avrebbe potuto dire ecco da chi ha preso Joanna.
Se n'era convinta fin da quando aveva visto come Danny l’aveva guardata. Prima
di quel momento aveva cercato di far comprendere a Jo quanto si sarebbe pentita
di quel viaggio in Inghilterra: Arianna era certa del fatto che Danny l’aveva
presa in giro con troppa ingenuità. Jo
non l'aveva ascoltata ed era partita, aveva scoperto che Danny si era
felicemente fidanzato e aveva comunque voluto rimanere lassù, a terminare
quella vacanza/incubo in casa del suo amico/innamorato/cretino. Era morto suo
padre, era tornata sconvolta insieme a Dougie, che si era scoperto molto –molto-
più intelligente di quanto si era aspettata anche la stessa Jo. Si era rivelato
essere lui l’amico che cercava veramente, niente a che vedere con quella stanga
riccioluta. Non che lei fosse stata molto presente in casa, suo malgrado,
proprio nei giorni in cui Jo aveva avuto bisogno di aiuto più che sempre, ma si
era sentita in pace ogni volta che aveva lasciato le mura della sua villetta
per andare altrove, perché con lei ci sarebbe stato Dougie, quello che l’aveva
fatta star male più di tutti ma che era sembrato essere quello più perspicace,
quello che aveva saputo come prenderla per il verso giusto.
Poteva sembrare incredibile, ma la
situazione era stata proprio quella, sicuramente anche Jo aveva fatto fatica ad
accettarlo, ma era di Dougie la spalla su cui aveva –ed avrebbe avuto in
futuro- bisogno di piangere, e non quella di Danny. Lui poteva anche essere
stato il suo amico di e-mail e di telefonate, ma non era stato comunque capace
di fare nient’altro che quello, a suo avviso. Soprattutto, non aveva afferrato
niente della personalità così complessa e contraddittoria di Joanna.
Quando Jo aveva bisogno di aiuto non
lo chiedeva mai, maledetto il suo orgoglio, e se aveva bisogno di sfogarsi
teneva tutto dentro a fermentare, come le botti di vino durante l’inverno. Non
domandava mai niente a nessuno, era sempre stata capace di fare tutto da sola,
e ne era convinta. Per quello odiava chi si offriva di darle una mano ed
accettava bensì quella di chi nemmeno sembrava porgergliela. Più o meno per le
stesse motivazioni, non si confidava con chi stava ad attendere che la sua voce
fluida uscisse dalla bocca.
E quindi, Danny sembrava essere
uscito di scena, rimpiazzato dal più insospettabile Dougie, quello sulla cui
faccia campeggiava il nastro adesivo rosso, come nelle fotografie di Jo con il
gruppo.
Ma…
Anche Danny aveva fatto la sua mossa. Aveva abbandonato tutto ed ora era lì,
benché non avesse fatto nient’altro che peggiorare il casino, imbestialire Jo e
confermare di nuovo il cambiamento delle loro reciproche posizioni nei
confronti di lei.
Eppure…
Lei non era scema. Quella grande otturazione cerebrale di cui Danny soffriva si
poteva chiamare con un nome, un maledetto nome, che era ricorso fino allo
sfinimento, fino allo sbriciolamento delle scatole altrui: amicizia. Non
aveva voluto parlargliene chiaramente, ma solo metterlo sulla strada del
dubbio. Era sicura che provasse qualcosa per lei, nascosto nel profondo sotto
montagne di bugie e false convinzioni.
Altrimenti, non avrebbe messo in
discussione la sua relazione con la fidanzata, di cui lei non ricordava il
nome.
Altrimenti, non se ne sarebbe rimasto
lì, in Italia, dopo la carica bersagliera di Jo che lo accusava di essere un
infantile e presuntuoso ragazzino straniero.
Altrimenti, non avrebbe continuato a
cercare di rammendare un rapporto finito, concluso.
Si ritrovò a cenare con lui, Jo non
ne volle sapere di unirsi a loro. Parlarono, senza entrare mai in argomenti che
riguardassero i fatti di quei giorni, dopo di ché preferirono salutarsi presto,
entrambi troppo stanchi per rimanere in piedi a lungo.
Scusatemi per la brevità -si fa per dire- del capitolo...
Transizione, sebbene qualcosa si grosso sia successo. Insomma,
Dougie è partito,
Danny è rimasto... Siamo a metà della storia, che si
concluderà tra otto capitoli... Dal prossimo in poi vi
spappolerò la pazienza, credetemi. E' colpa di Danny, mica mia.
Il titolo è di mia
invenzione, non è ripreso da nessuna canzone.
Non ho molto da aggiungere, credo che sia stato detto tutto sopra la
linea di demarcazione tra il capitolo e lo spazio autrice. Passo
allora ai ringraziamenti.
Ciribiricoccola: questo
capitolo aggiunge al precedente quello che ancora non era stato reso
del tutto esplicito. Credo che Danny impiegherà gran parte del
suo tempo in Italia per capire tante cose... Le capirà per il
verso giusto? Chi lo sa... Sarà ancora presuntuoso ed arrogante,
in un modo piuttosto subdolo, perchè lo hai capito anche te: con
la scusa di proteggerla, si comporta peggio di chiunque altro. Sono
tutti evoluti in questa storia, tutti. Diciamo che Four Guys in Her
Hair è stato una specie di grande introduzione a questa
storia... Ogni tanto la rileggo e la trovo piuttosto... Non da me XD E
sai quali sono le storie da Silvia... Eeeeh??? XDDDDD
vero15star: la tua presa di
posizione mi stupisce un po'. Soprattutto perchè purtroppo
hai travisato i sentimenti di Dougie... In pieno XD Dougie
è stato sincero quando le ha detto che non è più
innamorato di lei, ma che le vuole bene come un amico... E Joanna sa
bene quali sono i suoi sentimenti... Arianna sta dalla parte di Joanna
e basta, non parteggia per nessuno dei due ^^ Ecco, ora spero che la
situazione ti sia un po' più chiara. Se poi affermi queste cose
perchè sei una fan di Dougie e non di Danny... Beh, allora
è un'altra storia! Grazie comunque! Alla prossima!
picchia:
mannòòòòò, efp maledetto!!!! eeeh,
Arianna! Hai suoi 40 anni, se si mette a fare le bizze come Joanna la
accooperei! Grazie per i complimenti sui personaggi... Credo che
renderli il più realistici possibile sia il mio obiettivo
primario... A volte anche a discapito della storia stessa! Sosteniamo
Joanna, fondiamo un'associazione pro-little.
CowgirlSara: Tutti hanno sempre
fatto il tifo per Dougie in questa storia XDDDD Danny me lo hanno
bistrattato, povera bestiolina... Io lo prenderei a badilate e dal
prossimo capitolo in poi capirai cosa intendo... Purtroppo dice bene
Arianna qua sopra... Ha una bella otturazione nel cervello. Ce la
farà a stasarla? Perchè sennò gli mando Nico, con
du' pappagallate lo resuscita (e vorrebbe ammazzarlo). Mi scuso per il
ritardo che sto accusando nella recensione, anche se ogni mia
giustificazione sta diventando quasi retorica. Mi dispiace davvero
*sigh* spero di arrivare, prima o poi...
_Princess_: Liebe! Stavolta
sono io in ritardo e sinceramente non so quando arriverò...
Purtroppo... Grazie comunque per la recensione che mi hai
lasciato, quella frase piace molto anche a me, così come tante
altre in tutta la storia. Grazie e alla prossima!!!
tsumika83: Credo di non aver
niente da aggiungere a quello che hai detto. Assolutamente niente, hai
colto in pieno la situazione e fai bene ad avere quei dubbi... Via, ti
ho indirizzato ulteriormente verso le sensazioni giuste!!!!
kit2007: Hai colto proprio il
senso... Danny è un cretino. Oggi mi sento ermetica e racchiudo
tutti i miei thanks in questa frase. Olè!
Giuly Weasley: Ma ciao cara!
Tra tutti quell che mentono... Credimi, Dougie è l'unico
sincero! Insieme a lui Arianna, sono gli unici due che si salvano da
questo supplizio della bugia! XD Devo confessarti -e Silvia può
confermartelo- che arrivata a qualche capitolo precedente il dubbio era
venuto anche a me. Mi spiego meglio: quando ho iniziato questo sequel
non avevo la più pallida idea di chi fosse innamorato di
chi/cosa. Mi rispiego meglio: arrivata a due capitoli prima di questo
mi sono detta... E se Dougie e Joanna...? Non ti dico chi (vedi rigo
sopra) mi ha fatto cambiare idea. In questa storia, Dougie ha la
meglio... Sempre. Credo che di errori ne abbia commessi tanti, anche
nel sequel, ma alla fine ha sempre agito con una buona dose di cuore e
di testa... Chi invece non fa altrettanto è Danny. L'anima de li
mortacci sua!
x_blossom_x: Arrivo anche a te
** Mi ricordo più o meno tutti i tuoi commenti legati a questa
storia e ad ogni recensione li ripeschi tutti XD No, non è per
dirti che non sei originale, è che sei coerente. Le bugie, il
divieto di sguardo e la frase di Joanna... Beh, non so cosa altro
aggiungere. Vorrei davvero che in questa storia nessuno stia
antipatico a nessun altro. Tamara potrà aver detto e fatto cose
poco carine nei confronti di Joanna, ma ne aveva più o meno il
diritto... E come hai detto tu, non si può gioire della partenza
di Danny fino in fondo. Qualcuno ci starà molto male, lo
sappiamo entrambe. Per me esistono, come le hai citate tu, le
bugie bianche e le bugie nere... E anche quelle grige. Questa è
nera, nera profonda. Se mi capitasse una cosa del genere e fossi nei
panni di Tamara, credo che i provvedimenti sarebbero piuttosto
severi... Tu cosa ne dici?
Bene, ho finito :) Non mi rimane altro che ringraziarvi tutte
ancora, dalla prima all'ultima, da quella visibile a quella invisibile!
Un bacio e al prossimo lunedì! Ciao!!!
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Capitolo 11 *** Love And Psyche ***
11.
Love and Psyche
“Oh! Buongiorno!”, esclamò Arianna,
“Il caffè è sempre caldo!”
Biascicò qualcosa e si sedette
intorno al tavolo. Davanti a lei biscotti e latte fresco: ne versò un po’ su
una tazza vuota, la sua tazza, e si mise a sgranocchiare.
“Caffè?”, le chiese ancora Arianna,
infilandole la moka sotto il naso.
Le annuì e lei, con un sorriso, le
versò del caffè. Arianna era strana: non era mai molto di buonumore alla
mattina, si limitava ad essere un uragano in piena corsa. Non ci fece molto caso,
e si limitò a fare colazione. La donna si sedette poi davanti a lei, con la
faccia tra le mani, gomiti appoggiati alla tavola, e si mise a guardarla. Per
qualche secondo, Joanna sopportò i suoi occhi, poi si ribellò.
“Che c’è?”, le chiese, mogia.
“Dormito bene?”, domandò Arianna.
“Non tanto.”, rispose, breve.
“Mi dispiace.”, disse l’altra.
Joanna la scrutò per qualche attimo,
studiandola.
“Cosa vuoi dirmi, Arianna?”, le
chiese.
“Che oggi devo sbattermi in giro per
Firenze a cercare un buon cuoco che sostituisca tuo fratello.”, rispose lei,
passandosi le mani dalle guance al collo, massaggiandolo perché forse
indolenzito.
Joanna annuì.
“E che quindi starò via tutto il
giorno.”, aggiunse Arianna.
Ma che bella prospettiva. Joanna
tornò sulla tazza di latte e caffè, trovandola molto più interessante di una
nuova giornata passata chiusa in camera , con Danny che girava per casa.
La sua casa.
“Giorno.”
Ecco, pensava al diavolo e lui spuntava.
“Buongiorno!”, esclamò Arianna, con
il solito bizzarro buonumore.
“Giorno.”, gli disse lei, senza
troppi fiocchi di abbellimento.
“Prego, Danny, siediti e fai pure
colazione.”, fece Arianna, con molta più cortesia di lei, “C’è del latte, del
caffè… Biscotti… Niente colazione all’inglese, solo italiana!”
Danny sorrise, ma lei non lo vide. Lo
sentì sulla pelle.
“Va più che bene.”, disse lui e si
sedette accanto ad Arianna.
La stava ignorando per caso? Sì? Oh,
di bene in meglio.
“Dormito bene?”, chiese Arianna anche
a lui, come se fosse stato un rituale.
“Non molto.”, rispose Danny.
“Oh, mi dispiace.”, fece Arianna,
“Spero che stanotte sarà meglio, allora.”
“Lo spero anche io.”, disse lui,
grattandosi la testa mentre si versava del latte.
Arianna gli porse il caffè ma lui lo rifiutò, si prese un paio di biscotti dal
barattolo di vetro. Lo stesso in cui Joanna aveva preso i suoi biscotti.
Com’era che ogni mossa di Danny le
pareva un’invasione della sua privacy?
“Oggi devo dedicarmi al locale.”,
annunciò Arianna, “Devo fare giri immensi in città per trovarmi un nuovo
cuoco.”
“Davvero?”, chiese Danny.
“Sì, sono merce rara.”, disse la
donna, “Cosa farete oggi?”
Attimo di silenzio, Danny stava
sicuramente aspettando che lei dicesse o facesse qualcosa. Joanna tuffò una
mano nel barattolo dei biscotti e ne prese un altro, marcando di nuovo il suo
territorio. Lo morse.
“Beh… Non so.”, disse allora Danny,
“Devo chiamare per trovare un volo.”
“Ma dai!”, esclamò Arianna, “Rimani
qualche altro giorno.”
Il biscotto che Joanna aveva in mano,
sotto l’improvvisa e convulsa pressione delle sue dita, si spezzò in due. Una
parte cadde sul tavolo, frantumandosi ancora. Fece seguire una serie di
imprecazioni mentali e con noncuranza raccolse le briciole, gettandole dentro
alla tazza di latte.
“Vedremo, non credo che mi tratterrò,
ho un mucchio di cose arretrate da svolgere, con il gruppo.”, disse subito
Danny, “Ma grazie comunque, ci penserò.”
“Danny!”, lo riprese Arianna.
“Oh sì, hai ragione!”, fece lui,
ridendo, “Volevo dire che farò qualcosa… E che guarderò.”
Joanna non ne comprese il perché. Dovevano riferirsi a quello che si erano
detti la sera prima. Si era dispiaciuta di essere arrivata tardi, nello stesso
momento in cui Arianna aveva smascherato la sua presenza in ascolto.
“Perfetto.”, gli disse Arianna,
alzandosi e mettendogli amichevolmente una mano sulla spalla, “Perché non
andate un po’ in giro per Firenze?”
Altro silenzio. Quello di Joanna, di
certo, non era un silenzio assenso.
“Perché no?”, chiese Danny.
“Perché no.”, rispose Joanna,
decidendosi a parlare , “Perché ho delle cose da fare.”
“Andiamo, Jo!”, sbottò Arianna,
“Fatti una doccia, esci di casa e cerca di non pensare più a niente.”
“Non ne ho voglia.”, disse, facendo
una smorfia.
“Jo, se non lo fai, ti giuro che ti
caccio di casa.”, la minacciò Arianna.
“Non insistere.”, disse Joanna,
alzandosi e riponendo la tazza nel lavandino, le aveva fatto passare
l’appetito.
“Joanna ha ragione.”, fece Danny,
“Vado trovarmi un posto su un aereo.”
Joanna, così lui l’aveva chiamata, sentì
la sedia su cui Danny era seduto stridere contro il pavimento, poi percepì
anche i suoi passi.
Se n’era andato, finalmente.
“Jo, per piacere, smettila di fare la
bambina viziata.”, le disse Arianna, quando Danny fu lontano, “Dovresti davvero
uscire di casa... Respirare aria fresca, prendere un po’ di sole... Per il tuo
bene. Vai in camera, togliti il pigiama e lascia questa
casa. E dai un’altra possibilità a Danny.”
“L’ultima volta che mi è stata chiesto di dare
una seconda possibilità a qualcuno”, fece Joanna, “ho trovato un regalo a
cinque dita sul viso.”
E si indicò la guancia, a promemoria del gesto di
Miki.
“Danny e tuo fratello non sono la stessa
persona.”, disse Arianna, scuotendo la testa.
“Lo so benissimo.”, sbuffò Joanna.
“E allora perché non mi accontenti ed esci di
casa...”, le disse, con tono di supplica, “Per favore, Jo. Vedrai che dopo
starai meglio.”
“Certamente, starò veramente meglio in
compagnia di Danny.”
La donna si
spazientì e la lasciò al suo riassettare nervosamente la cucina. Non appena la
porta di casa si chiuse, Joanna sprofondò su una delle sedie intorno al tavolo.
Arianna avrebbe dovuto aiutarla a dimenticarlo, a passargli sopra, sia in senso
figurativo che reale, ed invece, la spingeva a stare insieme a lui, per una
giornata intera.
Intera.
Con lui...
“Un momento
solo, prendo la mia carta di credito.”, disse, posando il cellulare sul
materasso su cui era seduto.
Si alzò, prese
il portafogli dal comodino e lo aprì, scegliendo una delle tre carte magnetiche.
“Allora…”,
fece, riavviando la conversazione, “Il numero è otto, sette, quattro...”
Tre colpi
lievi alla porta, fece quasi fatica a sentirli. Rimase in attesa, in silenzio.
“Signore? E’
sempre in...”
Chiuse la
telefonata alla compagnia aerea, interrompendo bruscamente la conversazione con
la gentile quanto annoiata operatrice del call-center. Si alzò di nuovo, afferrò
la maniglia ed aprì la porta trovandola lì, a torturarsi le mani.
“Vuoi ancora
uscire?”, chiese lei, lo sguardo era sfuggente.
Le sorrise.
“Certo.”, le
fece, incrociando le braccia, “E tu?”
Joanna annuì.
“Mi preparo,
allora.”, gli disse, abbozzando un sorriso per mascherare il disagio, “Ci
troviamo giù?”
“Ok.”
“Bene.”
Dopo un attimo
di esitazione Joanna si allontanò. Anny non sapeva se avesse cambiato idea
sotto le pressioni di Arianna, oppure se lo avesse fatto da sola. Non gli ci
volle molto per farsi trovare pronto e di lì a poco anche Joanna si presentò in
salotto, dove la stava aspettando.
“Andiamo?”, le
chiese.
“Sì...”,
rispose lei, “Ti va bene se prendiamo un bus per scendere in centro?”
“Non hai una
macchina tutta per te?”, le chiese.
“No.”, fece
Joanna, alzando le spalle, “Purtroppo no.”
“E come fai
per andare al lavoro ogni giorno?”, domandò Danny, perplesso.
“Vado con una
collega che sta qua vicino.”, si spiegò, “O mi accompagna Arianna… Ma se non
vuoi salire su un bus, non ti preoccupare, chiamiamo un taxi.”
“Oh no, non è
per quello.”, si affrettò a dire Danny, “Andiamo in bus.”
“Ok.”, disse
Joanna, “La fermata è qua vicino.”
“Perfetto.”,
le disse, precedendola.
Si stava
sentendo stranamente fuori posto, disadattato… Insicuro, superfluo, a disagio. L’atteggiamento
di Joanna sembrava indifferente e schivo, gli entrava dentro come la lama di un
coltello.
“Aspetta.”, lo
fermò lei, “Ho pensato che potremmo... Che ne so, mangiare all’aperto.”
“Come vuoi,
Joanna.”, le disse, “Mi va bene tutto quello che vuoi.”
Lei annuì.
“C’è un grande
parco in città.”, spiegò lei, accennando un sorriso, “Potremmo portare qualcosa
da casa e mangiare lì, piuttosto che stare all’aria condizionata di qualche
locale.”
Gli erano
sempre piaciuti i pic-nic, perché dire di no?
“Va
benissimo.”, le ripeté, “Hai già preparato qualcosa?”
“Sì.”, disse
lei, passandogli oltre per andare in cucina.
Con uno zaino
sulle spalle, Danny la seguì alla fermata del bus. Biglietti alla mano, appena
il mezzo arancione si fermò davanti a loro vi salirono sopra, sedendosi
sull’unico paio dei pochi sedili rimasti vuoti, l’uno di fronte all’altro.
“Ti ricordi
quando ti accompagnai a fare la spesa?”, le chiese, rompendo il silenzio e
distogliendola dal paesaggio in movimento, fuori dal finestrino.
“Sì, me lo
ricordo.”, disse lei, ridendo, “E mi ricordo anche quanto sei stato capace di
farmi mettere in imbarazzo.”
“Al tempo ci
voleva molto poco.”
“Già...”,
disse lei, abbassando lo sguardo, con tristezza, “Sembrano secoli fa.”
Concordava
perfettamente.
“Ed è passato
solo poco più di un anno.”, disse Danny, appoggiandosi allo schienale ed
incrociando le braccia, lo zaino fermo tra le sue gambe.
Joanna tornò
con gli occhi sul paesaggio, anche lui la seguì. Le colline su cui si trovavano
diventarono pianura, le case sempre più fitte, il traffico sempre più caotico.
“Hai in mente
qualcosa in particolare, per oggi?”, le domandò, dopo qualche minuto di
silenzio.
“Beh...
Pensavo che potremmo visitare qualche museo.”
Un museo,
ottima scelta, ci sarebbero state poche occasioni per affrontarsi, se affrontava
la situazione dal punto di vista di Joanna.
“C’è una
mostra di sculture, pensavo potesse essere interessante.”, continuò lei.
A dire il vero
no, non era molto interessante ma andava bene tutto, piuttosto che passare la
giornata insieme nella stessa casa, ad ignorarsi.
“La nostra è
la prossima.”, disse Joanna, alzandosi e andando verso l’uscita.
Indossò lo
zaino sulle spalle, e quando il bus si fermò, scesero.
Dopo una mezzora
di fila passata in silenzio comprarono il biglietto. Seguirono il gruppo che
era entrato insieme a loro e, con in mano le brochure prese all’ingresso, si
misero in osservazione dei quadri esposti in quel museo di fama internazionale.
Lui non ne aveva mai sentito il nome, eppure doveva essere estremamente
rinomato, a sentire dalla babele di voci intorno a lui.
Lesse il
titolo del primo depliant: ‘Canova, Scultura vivente’ stava scritto in
grandi lettere bianche, sotto di esse era stata rappresentata una piramide, con
delle figure accanto all’entrata, anch’esse scolpite. Bizzarra immagine, gli
sembrava quasi un monumento funebre, chissà cosa poteva essere poi in realtà.
“Era questa la
mostra a cui ti riferivi?”, le domandò, fermandola davanti al ritratto di un
uomo con un grosso naso, morto indubbiamente centinaia di anni prima della loro
nascita..
“Sì.”, disse
lei breve, come tutte le altre sue risposte.
Seguendola,
visitò tutte le sale del museo e vide quadri di ogni grandezza, sculture non
attribuite a quel Canova e per lui sempre poco interessanti, così come il resto
delle opere, di cui lesse vagamente informazioni sui loro autori. Joanna si
soffermava di tanto in tanto in contemplazione. Lui, indifferente, notava solo
i particolari più spettacolari. I musei non erano mai stati di suo pieno
gradimento, a meno che non trattassero argomenti a lui affini o, comunque,
molto più divertenti di dipinti noiosi raffiguranti figure sacre e
crocifissioni. Per carità, alcuni erano belli e grandi il triplo della sua
altezza, ma erano sempre quadri morti.
Davanti
all’ennesima rappresentazione di un soggetto religioso, una Madonna seduta che
porgeva la mano ad un Arcangelo Gabriele, uno dei tanti turisti che popolavano
quelle sale ebbe un tentennamento. Danny non se ne accorse e, quando l’uomo si
appoggiò alle sue spalle per ritrovare l’equilibrio, lui perse il suo e la
spinta lo fece spostare. Joanna, davanti a lui, sentì il peso del suo corpo
sulle spalle, e si voltò di scatto.
“Scusami.”, le
fece, imbarazzato, “Mi hanno spinto...”
“Ah, non ti
preoccupare.”, disse, scrollando via quel ravvicinato contatto e muovendosi
veloce verso la prossima sala.
“Joanna…”
Ma lei aveva
già svoltato l’angolo ed era sparita. Le andò dietro e, come prima, si trovò in
una stanza simile, con altri dipinti, altre sculture ed altre decine di turisti
in ammirazione.
La catturò di
lì a poco.
“Ma la mostra
di questo artista… Questo qua…”, le fece, indicandole il nome sul depliant, “L’abbiamo
già passata?”
Joanna si fece
scappare un sorriso, cosa che gli scaldò un po’ il cuore.
“No, ancora
no.”, rispose, come se fosse stata cosa ovvia, “Ma ci siamo quasi.”
Ed infatti di
lì a poco incontrarono enormi stanze occupate da sculture marmoree, così
bianche che sembravano fatte di latte. La luce naturale, mescolata a quella
elettrica in un sapiente riverbero, rifletteva su alcuni di quei marmi
colorandoli di una tenue tonalità, a metà tra il giallo e il rosa della pelle,
che aumentava il piacere della vista.
Morbide,
sinuose: ogni drappo intorno ai fianchi delle statue era vero, ogni vena
sporgente dalle braccia degli atleti reale, ogni ciuffo di capelli sulle fronti
autentico. Si stupì di se stesso: per qualche secondo era rimasto senza fiato,
così come tutti quelli intorno a lui, prima abituato a quadri bidimensionali e
sculture di tutt’altro genere.
“Dan?”, lo
chiamò Joanna, sorridendogli, “Stai bloccando l’entrata.”
“Oh, sì,
scusatemi.”, fece ai turisti sbuffanti alle sue spalle.
In quella
lunga stanza, illuminata dalle grandi finestre laterali, fu felice di spendere
un po’ del suo tempo per ogni opera. Dentro di lui sentiva la voglia di
allungare la mano e toccare la candida pietra levigata, così lucida e liscia da
essere quasi aliena, sapendo che certamente l’avrebbe trovata calda e che la
persona si sarebbe mossa, vibrando al suo tocco. Voleva capire se fossero
veramente sculture e non corpi umani dipinti di bianco.
Le linee
femminili erano così tenere e soffici che avrebbe voluto abbracciarle e sentire
la morbidezza delle loro curve. La durezza dei muscoli maschili, invece, gli
trasmetteva un senso di potenza, di sicurezza e fermezza che si sentiva quasi
intimorito, ma comunque affascinato. Quella ventina di figure umane intorno a
lui, prima o poi, sarebbero scese dai piedistalli su cui il loro creatore le
aveva posizionate…
Davanti ad un
trittico di donne, l’una che abbraccia l’altra, perse la percezione della
vicinanza di Joanna. Si guardò intorno, cercandola tra la folla.
“Joanna?”, le
chiamò, ma si voltarono solo facce sconosciute.
Si mosse tra
la gente, cercando la sua testolina bionda. Non era più in quella stanza,
altrimenti l’avrebbe trovata davanti a qualche rappresentazione. Cercò di
guardare meglio, di essere più attento, ma niente. Non poteva essere andata
molto lontana, non senza di lui, ma l’apprensione salì comunque. Non poteva
averla persa in un museo, sarebbe stato praticamente impossibile. Uscì per
cercarla nella prossima camera d’arte. Quella in cui entrò era dedicata ad una
sola scultura e le mura erano strette intorno ad essa, era abbastanza piccola.
La trovò lì,
insieme ad altri ammiratori, con le mani giunte dietro la schiena, gli occhi
fissi e ipnotizzati. Ebbe quasi timore di spaventarla, ma volle posarle lo
stesso una mano sulla spalla. Lei, infatti, trasalì.
“Scusami...”,
le fece, “Ma ti avevo perso.”
“No, perdona
me, che mi sono allontanata.”, disse lei.
Danny si
guardò intorno.
“Cosa c’è di
bello da vedere qua?”, chiese, retoricamente.
Posò gli occhi
sulla coppia marmorea, l’unica in quella piccola stanza, che sembrava già
satura di persone.
Una donna semi
distesa era in procinto di stringere le braccia attorno al collo di un angelo
alato, alle sue spalle, che la guardava dall’alto e stava per baciarla. La luce
proveniva da un lucernario circolare sul soffitto che illuminava la coppia di
statue come se fossero stati gli attori sotto al riflettore di un palcoscenico,
mentre loro erano il pubblico nella platea in osservazione dello spettacolo sulla
scena. Se quella che vedevano non era la realtà, erano loro ad essere le
statue.
Ed infatti,
erano tutti più immobili di quella coppia, fermi in contemplazione.
“Adesso te lo
posso anche dire.”, fece Joanna, distraendolo, “Questa è la quinta volta che vengo
a vedere questa mostra.”
Danny
strabuzzò gli occhi.
“La quinta
volta?!?”, esclamò.
“Sì...”, fece
lei, sorridendo imbarazzata, “Per vedere solo quella.”
“E tornerai
anche una sesta?”, le fece, prendendola un po’ in giro.
“Forse sì.”,
disse lei, sorridendo, “Sicuramente prima che la mostra chiuda, a settembre.”
Era più che
plausibile, se pensava a sua sorella Vicky che era stata sette volte al cinema
per vedersi quel’abominio cinematografico del Titanic.
“Beh, posso
dirtelo anche io, allora...”, disse Danny, “Non avevo nessuna voglia di venire
in questo museo ma mi devo smentire.”
“Lo sapevo che
avresti cambiato idea.”, disse Joanna, ridacchiando.
“Lo sapevi che
non ero molto entusiasta di entrare qui dentro.”, presuppose lui, colto in
fallo, spostando lo sguardo su di lei.
“Sì, te lo
leggevo in faccia.”, scherzò ancora lei.
Una volta
terminato quel piccolo momento allegro, Danny ritornò gli occhi sull’opera e,
per un attimo, ebbe la certezza che i due amanti si fossero mossi. Gli
sembrarono sempre più vicini, le bocche sempre più pronte a baciarsi. Si impose
di fissarli per vedere il preciso istante in cui si sarebbero avvicinati ancora
di più, perché quello che osservava era più surreale di un sogno ad occhi
aperti.
“Non ti
sembravano più distanti qualche attimo fa?”, le chiese.
Si voltò verso
di lei, che abbassò subito il viso.
Danny tornò a
guardare quella statua. Ancora una volta, quei due sembravano sempre più
vicini.
E loro due
sempre più lontani.
Uscirono dal
museo e un colpo improvviso di calore li investì.
“Dio mio che
caldo...”, disse Joanna, prendendo a sventolarsi con una delle brochure, ormai
scadute.
“Già...”, le
rispose, “Cosa facciamo ora?”
Guardarono gli
orologi.
“E’ un’ora
accettabile per pranzare, non credi?”, le fece.
Era infatti
poco più di mezzogiorno.
“Sì, lo è.”,
disse lei, “Da questa parte.”
Si misero a
camminare sotto il sole cuocente di quell’estate. Sperò che la canicola
riuscisse a sciogliere il ghiaccio formatosi tra loro, che pareva subire
l’influsso di una strana marea: a volte era così spesso da bloccare il respiro,
altre invece sembrava assottigliarsi fino a scomparire.
“Mi ricordo
quel ponte!”, disse, vicinissimo alla costruzione che univa le due sponde del
fiume, pieno di costruzioni, dall’aspetto pesante ma comunque fiero.
“Esattamente.”,
disse Joanna, annuendo con un cenno della testa.
“Cavolo...”,
disse Danny, guardandolo, appoggiato alla lunga balaustra che proteggeva
l’argine del fiume.
I ricordi
erano così tanti, piacevoli e spiacevoli, che sembravano impossibili da
selezionare e rivivere con calma.
“Ti ricordi?”,
le chiese, indicandolo con un gesto della testa e sorridendole.
“Certamente,
il gelato era buono.”, rispose Joanna, che gli aveva letto nella mente e lo
aveva sbuffare in una risata, “Vogliamo proseguire?”
Era una
sensazione strana camminare su quel ponte e ricordarsi quello che era successo
dopo quel gelato. Sembravano davvero millenni fa, erano successe così tante
cose in mezzo… In quel momento passato nel gusto agrodolce dei ricordi e del
presente, Danny trovò la forza di ammetterlo: per qualche tempo aveva creduto
in tutt’altro sentimento che nel semplice affetto che provava per Joanna, ma si
era reso conto che la vita non aveva voluto mettere sulla stessa strada. Aveva
conosciuto Tamara e le cose erano cambiate drasticamente, ma non aveva mai
smesso di volerle bene, di preoccuparsi per lei, per Joanna.
Passarono
oltre al ponte, non prima che lui avesse indossato un cappello sulla testa per
riparare i pensieri dal caldo infernale, ed un paio di occhiali da sole. Intorno
a loro c’era tanta gente, specialmente
turisti, ed ogni poco dovevano dare la precedenza a qualche fotografo
improvvisato, per la colpa di essersi trovati senza volerlo nel campo visivo
della sua fotocamera.
“Siamo quasi
arrivati.”, gli disse Joanna.
Camminarono
lungo una lunga e dritta strada finché un grande arco di pietra non segnalò
loro l'uscita medievale del centro storico. Lo oltrepassarono e si fermarono
davanti ad un cancello in ferro battuto, sulla loro sinistra.
“Ecco il
giardino che ti dicevo.”, gli fece Joanna.
Pagarono un
altro biglietto, di pochi euro e si trovarono di fronte ad una lunga salita,
una scarpinata che sembrava non finire, ai lati alte siepi che venivano
spezzati da stretti viottoli. Ogni tanto qualche statua strana, uomini e donne
con visi deformi e posizioni del tutto bizzarre. Erano in un giardino degli
orrori?
“Dobbiamo
arrivare lassù?”, le fece, svogliato.
“Sì.”, disse
Joanna, “Ma staremo bene.”
“Speriamo...”
“Vedrai che
cambierai idea un’altra volta.”
Un sorriso e
il gelo sembrò scomparire, ma riapparse di lì a qualche secondo. Il sole non
era riuscito a rompere il ghiaccio, anzi, sembrava averlo paradossalmente
rafforzato. Cento metri di salita, lei tre metri avanti a lui, che cercava di
non ansimare per lo sforzo. Ogni passo era difficile, il caldo era asfissiante,
ma già a metà percorso un venticello fresco sembrò volerlo incoraggiare
nell’impresa.
Accelerò il
passo.
“Come sei
lenta!”, le disse, ridendo.
“Sì, sono una
tartaruga, ma arriverò lassù senza il fiatone.”, disse lei, scuotendo la testa
divertita.
Una volta
approdati in cima, davanti a loro trovarono una strada di sassolini bianchi,
come quella appena conclusa, che divideva in due un basso prato verde, cosparso
di fiorellini.
“Ci siamo.”,
disse lei, sorridendo ancora, “A destra o a sinistra?”
Danny
rifletté, guardandosi intorno.
Non erano
stati gli unici a scegliere quello spiazzo verde per pranzare, molte altre
persone sembravano aver scelto quel posto. Il vento fresco aumentò gradualmente
la sua potenza, tanto che in un batter d’occhio ogni goccia di acqua sul suo
naso scomparve.
“A sinistra.”,
disse Danny, decidendosi per la parte più vicina al panorama.
Una volta
scelto una porzione di erba abbastanza libera si sedettero, incrociando le
gambe sul prato fresco. Si tolse lo zaino dalle spalle e lo aprì: spuntò fuori
un lembo di una tipica tovaglia quadrettata, bianca e rossa, da pic nic.
“Ti aiuto ad
aprirla.”, gli fece Joanna.
Ne presero i
lembi e la sistemarono. Presto, i primi sandwich furono tra i loro denti.
“Avevi ragione
un’altra volta.”, le disse e lei comprese, dimostrandolo con un riso, “Si sta
proprio bene.”
“Lo so.”,
rispose Joanna.
“Sai, la tua
città mi è sembrata diversa da quando siamo venuti, l’anno scorso.”
“Dici sul
serio?”
Le disse di sì
con un cenno della testa.
“In meglio o
in peggio?”, domandò Joanna.
“Non lo so.”,
rispose.
Non voleva
dire in peggio. Se nelle ultime due settimane non fosse successo niente,
avrebbe anche potuto non notare alcuna differenza. Guardò brevemente Joanna,
sembrava aver capito cosa avesse in testa.
“E’ sempre una
stupenda città, credimi.”, volle correggersi, “Sono i ricordi che mi porterò a
casa a renderla meno bella.”
Lei non disse
niente, e lui non sapeva cosa altro aggiungere. Non c’era una via di uscita,
ormai si era formata una coltre di gelo così spessa che niente sembrava
riuscire a scalfirla. Era stata colpa sua, del suo egoismo e della sua
presunzione.
Era vero
quello che ogni tanto gli era stato detto, in passato: non era capace di
rendersi conto di sbagliare finché il danno commesso dai suoi errori non era
più riparabile. Faceva male, faceva davvero male.
Come se i suoi
amici più cari, Harry, Dougie o Tom, gli avessero voltato le spalle per sempre.
Come se Tamara
avesse scoperto che lui era lì, in Italia, e non da sua madre, ed avesse deciso
di lasciarlo.
Come se
Joanna, davanti a lui, si alzasse e lo accusassee di essere la peggiore persona
sulla faccia della terra.
Come aveva già
fatto.
Danny odiava
sentirsi respinto, abbandonato, solo. Posò il sandwich, sospirando, e si tolse
gli occhiali da sole.
“Che c’è?”,
gli fece Joanna, “Non hai più fame?”
“No.”, disse,
riponendo il panino nella carta stagnola.
Alzò gli occhi
su di lei.
“Avevi
ragione, ieri.”, le disse, “Sono davvero peggio di tuo fratello.”
Joanna avvampò
e scansò il suo sguardo, posandolo a terra.
“E mi chiedo
con che coraggio possa rimanere ancora qui.”, fece, sistemando il suo misero
pranzo nello zaino, “Dovrei essere a casa mia, in Inghilterra, dove non posso
combinare tutti questi casini, Sono venuto con la pretesa di farti stare meglio
ed ho solo peggiorato la tua situazione. Ti ho fatto piangere, ti ho trattato
male, mi sono permesso di dirti cose che, se ci penso ancora...”
Scosse la
testa, non poteva crederci.
“Mi chiedo
come tu possa stare lì, seduta davanti a me.”
Joanna non
disse niente, ripose il sandwich. Le aveva fatto passare la fame, complimenti a
lui ancora una volta.
“Dovresti
odiarmi, Joanna.”, le disse, “Più di quanto tu possa aver odiato Dougie, che
nonostante tutto è riuscito a capirti molto meglio di quanto abbia fatto io in un intero anno.”
Ed invece Joanna
se ne stava lì, i capelli dietro alle orecchie, il viso basso, le gambe
incrociate e quella maglietta senza maniche, bianca, che le stava proprio bene.
Avrebbe dovuto essere da tutt’altra parte, meglio da sola che insieme a lui, ma
invece lo aveva portato ad una mostra che lo aveva incantato, per fargli
ammirare una statua che lei aveva visto per ben cinque volte, che adorava, ed
aveva voluto che anche lui rimanesse a bocca aperta insieme a lei.
Come se fosse
stata una cosa speciale per Joanna.
“Sono davvero
peggio di tuo fratello.”
“No... Non lo
sei...”, disse lei, così piano che parve solo un sussurro.
“Certo che lo
sono!”, la contraddisse, “E cosa hai fatto con lui? Lo hai cacciato via. Perché
non lo fai anche con me?”
Joanna sospirò
mestamente.
“Ci sono
milioni di persone meglio di me.”
“Non è vero.”,
fu questa volta Joanna a contraddirlo.
“Dimostramelo!”
Ma non
sembrava facile per lei accontentarlo.
“Joanna,
perché non...”
“Little.”, lo
interruppe lei.
“Come?”, le
domandò di ripetere.
“Io sono
Little.”
Non riusciva a
guardarlo negli occhi, né in faccia.
“Ma è solo un
soprannome stupido!”, le fece, “E non vale più niente.”
“Perché?”,
domandò lei.
“Perché hai
una forza che mi spaventa.”, le rivelò, “Perché non sei la persona indifesa che
mi ero convinto tu fossi. Me ne sono reso conto solo ora, ti chiamavo Little
perché inconsciamente ti credevo incapace di essere adulta.”
Le prese le
mani.
“Ma sei anche
più adulta di me, Joanna.”, continuò Danny, “E non hai bisogno di Danny
Jones... Forse non ne hai mai avuto bisogno.”
Joanna si
morse le labbra, che divennero ancora più rosse. Conosceva quel gesto, sapeva
che cosa significava.
“Non piangere,
per favore.”, le disse, “Non voglio che tu lo faccia ancora a causa mia.”
Non poté
fermare la prima lacrima che scese sulla sua guancia.
“No, Joanna...”,
le disse, abbracciandola, “Dimmi qualcosa, ma non piangere.”
Si avvicinò a
lei, cercò di starle più vicino che poteva.
“Per
piacere.”, disse lei, con la voce rotta, “Fa’ quello che vuoi, ma chiamami
Little.”
“E perché
dovrei farlo, Joanna?”, la
contraddisse di nuovo.
“Perché mi fa
stare meglio.”, disse lei, “Molto meglio.”
Non seppe cosa
dire, né pensare. Se ne stava lì, come un fesso, a stringerla. Più passava
tempo con lei, più si rendeva conto di quanto avesse sbagliato. Aveva pensato
che tante cose -farla sfogare, starle accanto, porgerle una spalla- fossero
convenzionali ma comunque utili per farle passare la tristezza ed il dolore. Ed
invece, un semplice soprannome sembrava essere molto più efficace di tutti gli
inutili e dannosi sforzi fatti.
Ebbe paura nel
pensare a cos’altro avrebbe realizzato, nelle prossime ore.
“Little.”, le
disse, passandole una mano tra i capelli, “Se serve a farti stare meglio.”
Forse Little
sorrise, o almeno fu quello che gli sembrò di percepire sulla pelle. Allentò
quell’abbraccio, volle vedere se la sua sensazione fosse stata vera. Ma si
sbagliava.
Danny sentì
qualcosa piombargli sulla spalla ad una certa velocità e si voltò velocemente,
notando con la coda dell’occhio un pallone che rotolava via. Allentò
l'abbraccio, Little asciugò velocemente le lacrime dal viso. Decise di rompere
quella situazione e di alzarsi, fare qualche passo e recuperare la palla.
Un ragazzo si
presentò per reclamarla e gliela porse con un sorriso.
“Grazie.”,
disse, rigirandoselo tra le mani.
“Ehm...
Prego.”, gli rispose in un italiano stentato.
Il ragazzo
fece un cenno divertito con la testa, poi si allontanò di qualche passo. Lo
stava quasi per ignorare, quando quello si voltò ancora.
“Hey, ma tu
sei Joanna!”, lo sentì esclamare.
Comprese solo
il nome di Little, e si voltò per vedere la reazione di lei. Lo conosceva? Lei
si ripristinò in fretta e scacciò ogni espressione cupa dalla faccia.
“Marco, non ti
avevo riconosciuto!”, disse, alzandosi ed andandogli incontro, “Cavolo, sono
anni che non ti vedo!”
“Come stai?”,
le fece lui, mettendosi il pallone sotto il braccio.
Le porse la
mano e, in sequenza, si scambiarono baci sulle rispettive guance.
“Oh, come
sempre.”, e alzò le spalle, “E tu?”
“Tutto ok.
Sono qua con gli altri.”
“I tuoi
amici?”
“Sì, ci sono
anche Stefania e Marta, della nostra vecchia classe.”
“Oh, cavolo,
non le vedo da una vita!”
Necessitava
urgentemente di sottotitoli, fece un colpo di tosse. Danny Jones era stato
completamente eclissato, e con quel gesto finalmente Little tornò ad accorgersi
di lui.
“Scusami Dan”,
gli disse, facendosi comprendere, “questo è Marco, un mio vecchio compagno di
scuola.”
E poi si
rivolse ancora al proprietario del pallone, nella loro lingua.
“E’ un mio
amico inglese, non capisce una mazza di italiano.”, disse Little.
“Si vede dalla
faccia.”, e la fece ridere.
Anche lui
seguì quella risata, scatenando a sua volta quella del ragazzo. Insomma,
stavano tutti ridendo. Di lui o con lui?
“Vieni a
salutare le altre?”, attaccò ancora quello, “Così ci scambiamo i numeri di
telefono e vediamo di uscire, qualche volta.”
“Oh... Va
bene!”
Little si
voltò verso di lui.
“Dan, vado un
attimo a salutare i miei vecchi compagni di classe.”, gli domandò.
“Oh sì,
certamente, vai pure.”, le fece.
“Perfetto.”
Li guardò
allontanarsi, poi decise di sedersi e di tornare al suo sandwich. Sdraiò le
gambe sulla tovaglia quadrettata, i piedi uscivano fuori e riposavano sull’erba
macchiata di fiori. Appoggiò le mani dietro di sé, per stare più comodo.
Venne quasi
automatico spostare l’attenzione verso il gruppetto al quale si era unita
Little. Stava chiacchierando con tutta tranquillità, rideva e scherzava con un
paio ragazze ed il tizio del pallone: dovevano conoscersi e non essersi più
visti da tempo, sembravano contenti di essersi ritrovati.
La vide
voltarsi, guardare verso di lui, e sventolare timida una mano per salutarlo.
Lui ricambiò,
aprendo la propria e portandosela alla fronte, in un gesto militare stilizzato.
Le sorrise, e lei tornò dai suoi amici.
Se c’era un
enigma che non era mai stato capace di risolvere, si chiamava Little Joanna.
Non sembrava essere ancora la ragazza che aveva conosciuto: la cameriera goffa,
quella che era rovinata a terra riconoscendoli, che si era offerta per portarli
al mare e che li aveva sopportati in quartetto senza dare troppo in
escandescenza. Non si era nemmeno accorto di tutti i suoi cambiamenti e
pretendeva di essere considerato come suo amico.
Il migliore,
in aggiunta.
Se tre mesi
prima gli avessero detto ‘Jones, sai che presto Poynter e Joanna
diventeranno amici più di quanto tu e lei siate mai stati?’, lui avrebbe
riso così tanto che sarebbe morto per i crampi allo stomaco, e non era
importante andare troppo indietro nel tempo perché quella frase risultasse
ancora così assurda ai suoi occhi.
Little non era
mai rimasta uguale a se stessa, ne aveva sempre avuto dimostrazione. Ogni
presupposto che aveva avuto su di lei, da quello più stupido a quello più
serio, era stato immediatamente smentito. Lo aveva stupito ogni volta e,
nonostante quello, era rimasto fedelmente aggrappato al vecchio stereotipo di lei,
nato nella sua mente. Non l’aveva mai capita, ed era sicuro che non sarebbe mai
stato in grado di farlo. Pretendeva ancora di avere a che fare con la Little
Joanna che arrossiva ad ogni più piccolo sorriso, ad ogni avvicinamento, ad
ogni parola detta per lei, che se ne rimaneva in disparte, lasciando che gli
altri parlassero, senza mai far sentire la sua voce.
Forse non
voleva abbandonare quella vecchia immagine perché, in fondo, si era affezionato
a quel suo modo di essere. Era tenero vederla intimidirsi, farsi piccola ed
abbassare gli occhi a terra, sorridendo imbarazzata, mentre si torturava le
mani e gli occhi fuggivano qua e là.
Little era
tuttora così, ma molte altre cose di lei erano diverse.
Era lui che
non aveva voluto che lei crescesse, ed ora che era cresciuta, che lei si era
fatta forte e che aveva lasciato indietro tutte le persone che l’avevano fatta
soffrire... Anche lui avrebbe fatto quella fine. Poteva averlo perdonato,
ma lui continuava a credere di non essere più quello di cui lei aveva bisogno.
Ne era così certo che niente avrebbe potuto fargli cambiare idea. Si era fatta
amica il McFly sbagliato, lui era solo uno stupido che si era fatto tante
illusioni. Si stava sentendo disarmato, come un soldato tornato dalla guerra,
disfatto e senza motivo per continuare ad andare avanti.
She's a girl, running to spring.
It is her time, so just watch her run with
ribbons undone.
Per la seconda
volta, Little guardò verso nella sua direzione, attirando su di lui anche gli
occhi delle sue due conoscenti. Little non sembrava aver niente in comune con
loro, lo sentiva e lo poteva vedere.
Little era
unica. O forse la stava idealizzando di nuovo… Doveva smetterla con la
presunzione di sapere chi avesse davanti. Alzò una mano nella loro direzione, poi
decise di dedicarsi ad altre attività. Si alzò, si stiracchiò e se ne andò
verso il parapetto che costeggiava quel giardino, su una collina più alta
rispetto al resto della città: i tetti delle case, dei monumenti, sembravano
molto più vicini di quanto in realtà non fossero e, come aveva provato davanti
alle statue, volle allungare una mano per toccarli.
Lo fece
davvero, ma quelli si allontanarono via, spaventati.
Come avrebbe
fatto Little.
“Ti
infastidiva una mosca?”
Lei gli
sorrideva flebilmente, i gomiti appoggiati sui mattoni un po’ smussati della
balaustra e il mento sulle mani unite.
“Sì.”,
le
mentì, “Ma è stata più veloce della mia
mano.”, le sorrise, “Com’è andata con i
tuoi amici?”
“Non sai
quanto mi sia costato stare con loro.”, disse poi lei, voltando le spalle al
panorama ed incrociando le braccia.
“Perché?
Sembravate in buoni rapporti.”
“Può essere
vero, ma non andavamo molto d’accordo, ai tempi del liceo.”, rispose Little,
alzando le spalle, “Poi hanno saputo di mio padre”, sospirò, “ed hanno iniziato
a fare un sacco di domande, a chiedermi del funerale... E insistevano nel
volerti conoscere.”
Danny si mise
a ridere, scuotendo la testa.
“Beh, non mi
sarei tirato indietro.”, le disse, “Riesco a fare amicizia anche con i sassi.”
“Lo so.”,
borbottò lei, ridacchiando.
“E allora
perché non me li hai presentati? Credi che se avessero saputo chi sono
veramente ti avrebbero scaricato per me?”
“Non essere
così vanitoso, Dan.”, protestò lei, guardandolo di sottecchi con aria divertita.
“Dai,
rispondi!”, insistette, “Perché non me li hai presentati?”
Little si fece
attendere e dondolò gli occhi, evitando di posarli sui suoi.
“Perché... Non
ti voglio dividere... Con nessuno.”, disse così piano che quasi non la sentì.
Stranamente,
rimase spiazzato.
“Beh... Allora
nemmeno con Tamara?”, le fece, arrabattando le prime parole che affiorarono
nella sua mente.
“Ah,
certo...”, rispose lei, “Tranne che con lei.”
E gli sorrise,
prima di fuggire via verso le loro cose. Di lì a qualche secondo la seguì, aiutandola a
ripore tutto dentro allo zaino. Lo indossò sulle sue spalle e, senza una meta
precisa, uscirono fuori dal giardino.
Little non era
più l’unica a non aver forza di parlare.
Lui non era da
meno.
OOOOOOOOOOOOOOOOOH! Eccomi.
Tutto questo casino per nulla! XD Bene bene bene, sono arrivata.
Un po' di delucidazioni su questo capitolo: non ho fatto nomi, o
meglio, non mi sono messa a dire dove vanno quei due con precisione...
Ma i luoghi qua descritti esistono davvero, dal primo all'ultimo :) Chi
è toscana come me forse li riconoscerà, chi non lo
è non si preoccupi. Anzi, si preoccupi di venire a visitare
questa città! XD
Chi di voi conosce Canova? Quasi tutte, lo spero... Personalmente, adoro questo scultore. Una breve biografia: Antonio Canova (Possagno, 1º novembre 1757 – Venezia, 13 ottobre 1822) è stato uno scultore italiano, ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo e soprannominato per questo il nuovo Fidia. Viene considerato anche come l'ultimo grande artista della scultura italiana. [Wikipedia, Antonio Canova]. Le opere qua citate sono: il monumento funebre
in cui riposa lo scultore stesso, situato a Santa Maria Gloriosa dei
Frari a Venezia, ed è ciò che Danny vede stampato sul
volantino della mostra; le Tre Grazie, quando perde di vista Little e, infine, Amore e Psiche, la scultura che dà anche il titolo al capitolo. Ah, quasi dimenticavo, ho citato anche il quadro Annunciazione
di Leonardo da Vinci. Tutte questi capolavori, compreso il nome
degli autori, non sono state usate da me con scopi di lucro.
Stessa sorte per il piccolo verso citato a fine capitolo: l'ho tratto dalla canzone Ribbons Undone di Tori Amos. Quindi, anche in questo caso, no scopo di lucro.
Vorrei mettere alla vostra attenzione anche questa piccola opera d'arte... Don't Call Me Joanna. Lo ha fatto per me x_blossom_x,
il cui ruolo durante tutta la stesura di questa storia è
stato più che fondamentale. L'ho sottoposta alla tortura del
betaggio, mi ha odiato talmente tante di quelle volte... Ha pure dovuto
sopportare almeno un mese di attesa prima della stesura degli ultimi
capitoli, tutta colpa mia [scusa ancora Sil... ti ho preso un po' in
giro...], e alla fine mi ha comunque dedicato un po' del suo tempo.
Grazie davvero, Sil, e se ti dico che questa storia non sarebbe nata senza di te, devi credermi.
I ringraziamenti.
CowgirlSara: Secondo te,
Gioannina, con l'ultima frase, gliel'avrà stasato i' cervello a
quell'ambulante? La risposta è alquanto ovvia.
Ciribiricoccola: Hai detto
bene, Joanna è abituata a queste schifezze e ci passa sopra
senza problemi... Ma spero che questa facilità nel superare
determinate cose non sia presa come mia colpa nel non saper gestire
determinate problematiche familiari... Danny avrebbe bisogno di un
trasformatore per il cervello, che gli posizioni la trasmissione
elettrica dall'alternato al continuo... Chiedi a McAmen come si
chiamano st'aggeggi qua, che io un lo so!
kit2007: Non ti preoccupare per
il ritardo! Non ho nient'altro da aggiungere a quello che hai
detto, hai delineato perfettamente tutti i punti in cui si snoda
il capitolo :) brava e grazieeeee!!!
tsumika83: Oh ma indovinare era
facile daiiiii! XDDDD Dougie doveva andarsene *sigh* doveva lasciare lo
spazio a chi di dovere... E ti assicuro, quello che ha fatto
Dougie... Danny non avrebbe mai e poi mai potuto farlo. Credo che tu lo
sappia bene, anche se non fossi mai stata fan di Dougie. Grazie **
Giuly Weasley: Danny sta
all'orticaria come... Come... Come l'orticaria sta a Danny. Aspetta,
perchè ti pruderà così tanto che lo scorticherai a
morsi. Fidati. Little non è nemmeno un pochinoinoinoinoino
confusa dal bacio di Dougie XD E' talmente tanto incantata che
potrebbero anche investirla contemporaneamente due eurostar, 4 tav e
sei o sette rimorchi. Lei non se n'accorge... -____- Poveretta...
Godfather: Maledette
queste connessioni!!! Le odiamo in gruppo. Ormai è ufficiale XD
Non ti preoccupare, recensisci quando vuoi, non ghigliottino nessuno
[vi inforco].
x_blossom_x:
graziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegrazie
graziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegrazie
graziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegrazie
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Capitolo 12 *** Voices In My Head ***
12. Voices In
My Head
Presero
un
gelato e, nonostante la sua temperatura ghiacciata, era molto
più caldo del freddo intenso che era salito di nuovo tra loro.
Lo mangiarono, camminando con
tranquillità tra le vie affollate e fermandosi di tanto in tanto
ad osservare
qualche vetrina per il solo gusto di avere qualcosa da dire,
riferendosi ai
capi in esposizione.
Passarono due
ore o forse tremila. Tante erano sembrate, tutte passate a camminare
passivamente. Solo una cosa era attiva e produttrice, la mente di Danny. Arianna
glielo aveva detto, doveva smettere di pensare ma lui non ci riusciva,
soprattutto dopo momenti del genere. E gli aveva anche detto un’altra cosa:
doveva guardare dentro di lei, dentro Little, e capire quello che aveva tenuto
nascosto dentro se stesso, ma ancora non c'era arrivato. Chissà, magari
avrebbe avuto un’illuminazione improvvisa nel momento meno opportuno, o meno
aspettato.
“Little,
quando torni al lavoro?”, le domandò la prima cosa che gli era venuta in testa.
"Lunedì prossimo ormai.”, gli spiegò, “C'eravamo accordati così, imprevisti o meno.
E tu quando parti?”
Bella domanda.
“Devo
prenotare ancora un biglietto.”, le disse, “Non ho avuto tempo per farlo.”
“Se vuoi puoi
farlo anche ora.”, rispose lei.
Attese qualche
attimo, doveva ingoiare quella risposta nel modo giusto, interpretarla
correttamente.
“Meglio
stasera.”, disse poi.
Si sentì
afferrare il braccio e si voltò. Aveva forse perso qualcosa per strada?
“Danny!”,
esclamò una voce sconosciuta e squillante, femminile come la persona a cui
apparteneva.
La guardò un
attimo.
“Tu sei Danny
dei McFly!”, si ripropose l’altra.
“Sì… Sono
proprio io.”, le fece, sorridendole.
Una fan
conterranea.
“Wow! Cosa ci
fai qua!”, esclamò lei, “Posso fare una foto con te e con una mia amica?”
Lanciò un’occhiata a Little: si era allontanata di qualche passo, con
indifferenza.
“Oh sì, va
bene.”, disse, alzando le spalle.
“Non avrei mai
pensato di incontrarti in Italia!”, parlò ancora lei, mentre si frugava in
borsa, “Sei qua in vacanza?”
“Diciamo di…
Sì…”
Complicazioni
in vista.
C’era una
probabilità su un miliardo che quelle fotografie non venissero
pubblicate su internet nel giro di pochi giorni. Con la fortuna che aveva
sempre avuto, Tamara le avrebbe viste ancora prima che lui fosse tornato a casa,
ma ormai il dado era stato tratto e a lui non rimaneva altro che pregare per
un buon tiro della sorte.
La ragazza
chiamò l’amica con cui voleva farsi fotografare e la sua fuga in Italia venne
documentata.
“Un
autografo?”, gli venne chiesto.
E fece anche
quello. Salutò le due ragazze, dopo un breve scambio di parole ed un sorriso
amichevole. Trovò Little con lo sguardo: stava davanti ad una vetrina ad
osservare un bel vestito azzurro, estivo, che le sarebbe andato a pennello.
“Ti piace,
vero?”, le fece, una volta avvicinatosi a lei.
“Sì.”,
rispose, ermetica come sempre, “Erano tue fan?”
“Presuppongo
di sì.”, disse Danny, alzando le spalle, “Spero che Tamara non si arrabbi
troppo. Non sai che tipo di parole siano capaci di uscire dalla sua bocca
quando è arrabbiata, anche se….”
“Sono quello
che ogni donna è capace di dire al suo fidanzato”, disse lei, “quando questo
parte per un paese straniero anche se gli è stato severamente proibito, e
raccontando una bugia alquanto stupida per coprirsi le spalle.”
“Sei
l’avvocato del diavolo, Little.”, le disse.
“Sono
semplicemente il terzo incomodo.”, rispose lei, nervosamente, “E ho sempre
odiato esserlo.”
“Non è vero,
non lo sei affatto.”, le disse, seguendola, “E’ Tamara che non riesce a
capire.”
“Sei tu quello che non ci arriva, Danny.”, lo contraddisse Little, “Lei è più
importante di me, avresti dovuto rispettare la sua volontà e lasciarmi perdere,
sarei stata bene comunque.”
Danny sospirò.
“Io sono fatto
così, Little, ho la tendenza a non avere una lista di priorità simile a quella
di ogni altro essere umano.”
“Non voglio
essere di nuovo la causa di contrasti tra te e chi ti è caro.”, affermò lei,
preferendo fermarsi piuttosto che discutere camminando, “E’ già successo una
volta, tu e Dougie litigavate per colpa mia. Ora, al posto di Poynter c’è
Tamara… Il che è anche peggio.”
“E’ con Tamara
che mi arrabbio, non con te.”
“Sì, ma il
centro della questione sono io!”, ribatté ancora Little, “E non voglio
esserlo!”
“No! Piantala di dire assurdità!”
Aveva alzato
un po’ troppo la voce, non tanto da far voltare turisti chi intorno a loro, ma
Little si era spaventata.
“Scusami.”, le
disse, allarmato, “Non volevo prendermela con te.”
“Lascia
stare.”, rispose lei, voltandosi e tornando a camminare, “Torniamo a casa.”
“Little, per
favore, non dire così…”
“E’ caldo, non
abbiamo più niente da fare.”, borbottò lei, “Andiamo a casa.”
La fermata era sovraffollata ed ogni bus che arrivava non sembrava riuscire a
sfoltire quella massa di gente in attesa. Qualcuno partiva, la maggioranza
arriva e si fermava lì, in piedi. Chi con le cuffie nelle orecchie, chi con il
giornale, chi parlava con dei conoscenti incontrati.
“E’ il
nostro.”, disse Little, indicando con un cenno di testa la macchina arancione
in arrivo.
Come se
qualcuno avesse mosso la sua bacchetta magica per ammaestrare il mondo, la
carovana in paziente aspettare salì sul mezzo insieme a loro. Si trovarono
tamponati tra un gruppo di studenti, con i loro zaini pieni di libri, ed uno di
turisti giapponesi, con le loro macchine fotografiche professionali al collo.
Faticarono per timbrare i biglietti, facendoli passare tra gli altri occupanti
del bus, e con un
sussulto la macchina partì. Lo spostamento li fece accostare: più i movimenti
del mezzo li avvicinavano, più Little cercava di distanziarsi, con discrezione.
Erano premuti l’uno contro l’altro, come un bizzarro giorno di un anno prima,
di ritorno da un supermercato.
Se non
ricordava male, quel giorno aveva indossato un cappotto verde.
“Ce l’hai
ancora quel cappotto verde?”, le domandò.
“Come scusa?”
“Quando ti
accompagnai al supermercato, avevi un cappotto verde.”, le spiegò, la bocca
vicino al suo orecchio, “Ce l’hai ancora?”
“Sì… Perché?”,
chiese lei, perplessa.
“Ti stava
bene.”, le disse, “Il verde ti dona molto.”
Lei annuì, poi
tornò ai suoi tentativi di allontanamento. Danny non lo sopportava, non era
proprio capace di digerirlo. Le passò un braccio intorno alle spalle e annullò
ogni centimetro di lontananza tra loro. Little alzò lo sguardo e lo fronteggiò,
arrabbiata, ma non si sarebbe dato per vinto così facilmente. Per qualche
attimo sostenne il peso dei suoi occhi verdi, chiedendosi se quell’abbraccio li
avrebbe addolciti, sebbene fosse stato poco gradito. Quando non riuscì più a
sopportarli, chinò il viso sulla sua fronte e vi dette un bacio.
In
quell’attimo sentì come un tonfo sordo, nelle sue orecchie.
E poi un altro
ancora.
Ed uno di
nuovo, nel bel mezzo del petto.
Si concentrò.
Avvicinò
ancora la bocca al suo orecchio e le disse quello di cui lei si doveva
convincere.
“Non osare mai
più, ti dico, mai più pensare di non
essere importante per me.”
Little avrebbe
dovuto imparare quelle parole a memoria e tirarle fuori quando la certezza
vacillava.
“Va bene.”, disse lei.
Danny aprì gli
occhi e drizzò la schiena; le sorrise, prima di voltare lo sguardo altrove e
togliere il braccio dalle sue spalle. No, non era imbarazzato, affatto. Si
sentiva solo terribilmente, semplicemente ed indescrivibilmente a disagio. Da
quando in qua toccava a lui, e non a lei?
Little se ne
accorse.
“Che c’è?”, le
fece.
“Niente.”,
disse lei, ridendo sotto i baffi.
Se prima era
arrossito, adesso era su una certa tonalità violacea. Era imbarazzato
dell’essere imbarazzato, di fronte a lei che sembrava farsi beffa della sua
carnagione paonazza.
“Prima che ti esploda
la vena giugulare e ti venga un embolo”, lo prese in giro Little, “sappi che
sono contenta di averti visto arrossire, almeno una volta in tutta la mia vita.
Non ne conosco la ragione, magari qualcuno alle tue spalle ti ha palpeggiato
come si deve, ma è stato un piacere vederti nel mio stesso stato.”
Si voltò,
premendo il dito contro un bottone sporgente dal palo verticale a cui era
aggrappata.
“Siamo
arrivati.”, disse.
Il bus si
fermò, entrarono in casa ridendo: Danny era
inciampato sul marciapiede, facendo aumentare a dismisura il suo già alto tasso
di disagio.
“Fate troppo
casino!”, rimbombò la voce di Arianna, proveniente dal piano superiore.
“Già qua?”, domandò Little, salendo le scale.
“E presto di
nuovo in partenza!”, fece la donna.
Danny non
ascoltò il prolungamento della conversazione, il cellulare aveva preso a
squillare nella sua tasca. Si allontanò da ogni possibile eco di voce femminile
e preferì spostarsi in cucina.
“Pronto?”,
fece, incrociando contemporaneamente le dita di mani e piedi.
“Dan…
Quando torni?”, domandò Tamara.
Conosceva
benissimo quel tono di voce: Tamara voleva chiudere la questione. Si appoggiò
al frigorifero e si toccò gli occhi in cerca di conforto.
“Torno presto,
non ti preoccupare”, le disse, sospirando.
“Domani?”
“Penso di sì.”
“Ok…”,
disse Tamara, delusa ma rassegnata, “Se vuoi posso venire io da te.”
“No, lascia
stare.”, le rispose, cercando di non essere troppo nervoso, né di
insospettirla, “Ho diverse cose da fare qua e non so di preciso quando posso
partire. Ma ti prometto che tornerò domani.”
“Prima di
cena?”
“Forse… Non lo
so.”, e chiuse gli occhi
“Mi manchi.”
Certo che
mancava anche a lui.
“Anche a me,
Tam.”, le fece.
“Ti amo.”
Esitò.
“Anche… Ti amo
anche io.”, le fece, “Ciao.”
E chiuse la
chiamata.
La
amava, era
sicuro di quel sentimento per lei, ma non era comunque quello il suo
problema.
Non volle prendersi la totalità della colpa, si sentiva sempre
un po’ meglio
quando le sue spalle non erano le uniche a sopportare il peso della
responsabilità ed era vero quello che aveva detto a Little. Se
Tamara fosse
stata più comprensiva, Danny sarebbe partito per l’Italia
con tranquillità e tutto sarebbe tornato alla normalità.
Invece, lei glielo aveva proibito.
Appoggiò la
testa al frigorifero.
“Hey.”
Aprì gli occhi.
“Vuoi qualcosa
da bere?”, gli domandò Little, con un sorriso rassicurante.
“Oh sì,
grazie.”, le fece, spostandosi dall’elettrodomestico.
Lei si
avvicinò e prese una bottiglia di the freddo, ne riempì due bicchieri e gliene
porse uno. La ringraziò.
“Tutto o
posto?”, gli domandò Little.
“Sì.”, le
disse, trovando il tono migliore per essere convincente.
“Non è vero.”,
fece lei.
Non era
l’unico che poteva vantare la dote di leggere negli occhi altrui, anche Little
la possedeva e sapeva usarla nei momenti migliori, ma Danny non voleva
vederla di nuovo arrabbiata con lui.
“Certo che è
vero, Little, sono solo un po’ stanco.”, insistette.
Lei lo scrutò
un po’, bevendo il suo the e studiandolo con un paio di occhi vispi e tranquilli.
Non sembravano nemmeno appartenere alla persona complicata che era, né potevano
far pensare alla brutta discussione avuta in pieno centro, o ai momenti passati
in quel giardino.
“Ok. Mi
fido.”, disse poi Little, senza insistere, e ripose il bicchiere dentro al
lavandino.
Si incamminò
verso l’uscita.
“Che facciamo
ora, Little?”, le domandò.
“Sei stanco.”,
rispose Little, “Dormi un paio d’ore, ci vediamo per cena.”
“Forse è
meglio.”, le disse.
Little gli
sorrise, poi si voltò ed uscì dalla stanza con tranquillità. Poco prima di
scomparire dalla sua vista Little ripose le mani in tasca e camminò in quel
tipico modo che gli ricordò…
Dougie, disse Danny prima di sorridere.
Un’ipotetica
versione femminile di Poynter, o forse solo una forzatura della sua mente. Non
terminò nemmeno il pensiero che il telefono tornò a vibrare.
“Sì?”,
rispose.
“Coglione,
va tutto bene?”, borbottò Dougie, al di là della linea.
“Come siamo
gentili…”, gli fece ridendo, “Sì, va tutto più o meno bene.”
“Perfetto.
Ci sentiamo allora.”
“Hey, la
finisci qui?”, lo riprese un attimo prima che chiudesse.
“Sì, mi
bastava sapere che entrambi stavate bene. E' tutto.”, rispose Dougie.
Se lo immaginò
scrollare le spalle e ciondolare. Se le posizioni reciproche fossero state invertite,
Danny avrebbe posto al suo amico milioni di domande, dal semplice come stai al
perché non gli aveva risposto subito, che cosa avrebbe fatto nel dopo cena...
Tutto perché quando c’era di mezzo Little, gran parte della sua razionalità
andava a puttane.
“Ho visto
Tamara, oggi.”, aggiunse poi Dougie.
Rimase
sbalordito.
“E non me lo
dici? Sei cretino per caso?”, esclamò Danny, in preda al panico, “E cosa le hai
detto?”
“Niente.”, e sospirò rassegnato, “Danny, dille che sei da Jonny.”
“Lo verrà a
sapere comunque, credimi.”, gli disse, “Mi hanno trovato un paio di fan ed
hanno voluto fare delle fotografie.”
“Cazzate.”,
minimizzò Dougie, “Tamara non è un’idiota, lo sa che non sei a casa di tua
madre.”
“No, non lo
sa.”, si allarmò Danny.
“Certe cose
le può capire anche da sola.”
Danny si
appoggiò alla cucina e si passò una mano sulla fronte. Con le dita afferrò la
visiera del cappello, se lo tolse dalla testa, dette una scrollata ai riccioli
e lo indossò di nuovo.
“Mi ha appena
chiamato e le ho detto di nuovo che ero da mia madre, con che coraggio dovrei…”
“Smetti di
prenderle in giro entrambe.”
Rimase
stupefatto per la seconda volta.
“Entrambe? Non metterci di mezzo Little, lei non c’entra
niente adesso.”, volle chiarificare il punto focale della loro conversazione.
“Metti in chiaro
quello che hai in testa, Danny, e poi ne riparliamo, ok?”, fece Dougie.
“Cosa...
Dougie?”
E la linea
cadde.
Prima di
abbandonarsi sul letto e ripensare ad ogni istante, ad ogni attimo registratosi
perfettamente nella sua testa già iperattiva ed analizzarlo nel profondo come
era suo solito fare, prese il telefono. Ovvio, doveva chiamare qualcuno a cui
raccontarlo, ma decise comunque di spendere un po’ di tempo distesa,
pancia in giù, a guardare fissa nel vuoto, con il mento appoggiato sulle braccia
conserte.
Non osare mai
più, ti dico, mai più pensare di non essere importante per me.
Si alzò di
scatto, prese il telefono e lo chiamò.
“Parlavo
del diavolo...”, esordì Dougie, mettendosi a ridere.
“Grazie.”, gli
fece, “Chiudo la chiamata.”
“E dai...
Che vuoi?”, le fece.
“Voglio dirti
che sono stata tutto il giorno con lui…”, gli fece, uscendo dalla propria
stanza per andare in quella di Arianna, da dove poteva avere uno scorcio del
giardino sul retro e della campagna a nord della città, mentre dalla sua godeva
solo della strada.
“Uhm...
Interessante.”
“Ok, fottiti
Dougster.”, sbuffò indignata, “Non posso mai parlare con te!”
“Non è vero
e lo sai.”, borbottò lui, “Ho appena chiamato Danny.”
“E quindi?
Stavamo parlando di me, non di lui.”
“Anche noi.”
“Ti odio.”
“Io no.”
“Perché mi
lascio illudere così, Dougs?”, gli domandò, sedendosi sul davanzale della
finestra, largo tanto quanto quello della propria stanza.
Joanna appoggiò la
testa al muro dietro di sé, raccolse le gambe al petto per accomodarsi e poter
guardare fuori in cerca di pace interiore. Vide Danny, seduto con tranquillità
vicino alla piccola siepe che costeggiava il giardinetto. Una mano
all’orecchio, stava parlando al telefono. L’altra, invece, reggeva una
sigaretta. E dire che non l’aveva mai visto fumare, sebbene sapesse che anche
lui, come Dougie, fosse affetto da quel vizio a lei poco gradito.
Sembrava
abbastanza nervoso.
“Dov’è
Jones?”
“In giardino,
al telefono, e io sono alla finestra della stanza di Arianna. Lo vedo
benissimo.”, disse, sospirando.
“Interessante.”
“Dougster, per
favore…”, lo implorò, “Mi vuoi ascoltare?”
“Ma Jonny,
cosa devo stare a sentire? So già cosa aspettarmi. Siete stati tutto il giorno
insieme, lui sicuramente si è inginocchiato per chiedere il tuo perdono, tu
glielo hai dato senza troppi ripensamenti… E fine della questione.”
“Perché sei
sempre così dannatamente schietto e stronzo?”, mugolò Joanna, colta
perfettamente in fallo, “Cosa devo fare per farmelo passare dalla testa…”
“Non lo so.
Con te ha funzionato stare insieme ad altre ragazze.”
“Dougster…”,
lo intimò Joanna, “Dacci un taglio.”
“Ma è la
pura verità.”
“Aspetta, vado
a dipingere un cartello con scritto ‘mi vendo per dimenticare uno dei
McFly’…”, disse lei, con sarcasmo.
“Potrebbe
essere una buona idea.”
Una nuova
occhiata alla situazione là in basso le fece capire che qualcosa non stava
andando per il verso giusto. Danny si era alzato, camminava nervosamente lungo
due metri di cortile, su e giù, e gesticolava animatamente con la mano libera,
che teneva una sigaretta ormai giunta al limite delle sue possibilità.
“Jonny, sei
sempre lì?”, la chiamò Dougie.
Si decise ad
aprire la finestra di uno spiraglio, ma fu troppo tardi. In quello stesso
istante Danny chiuse la sua chiamata e gettò via la sua sigaretta con un cenno
rabbioso della mano, che la fece volare via al di là della siepe.
“Jonny?”,
la contattò ancora Dougie.
“Uhm… Sì, ti
chiamo dopo.”, e premette il pulsante rosso, mettendo fine alla telefonata.
Ripose il
cellulare.
Se si guardava
indietro capiva di aver commesso molti errori, ma non era il tipo di persona
che rimpiangeva il passato. Era troppo facile farlo e non le erano mai
piaciute le cose troppo facili. Quello era il suo modo di essere, così
l’avevano educata i suoi genitori. Come si era già detta, non rimpiangeva il passato ma biasimava se
stessa per aver preso scelte che sapeva sarebbero state errate. Era stata
una stupida, si era illusa e ne stava pagando le conseguenze.
Aveva creduto
in quello che la vita le aveva inaspettatamente messo davanti: Danny Jones.
Si erano
conosciuti, frequentati per due settimane, poi si erano messi ‘ufficialmente’
insieme. Inebriata da quello che lui era e da come la faceva sentire, si era
sentita innamorata di lui.
Si era innamorata di lui, e lo era tuttora.
Forse lo sarebbe stata per sempre, una piccola parte di lei le avrebbe ripetuto
fino alla fine dei suoi giorni: te lo sei
fatto scappare. Aveva sentito parlare di quella ragazza italiana, quella
che avevano conosciuto prima di un loro concerto, ma non vi aveva mai porto troppo
l’attenzione. Con il famoso senno di poi, ne comprendeva il motivo: le volte in
cui era venuto fuori il suo nome era calato sul gruppo una sorta di silenzio
omertoso, imbarazzato, che al tempo aveva ignorato perché troppo concentrata su
di lui. Su Danny.
Quando le
aveva detto che questa Joanna sarebbe arrivata –Little, l’ha sempre chiamata Little- era stata contenta: gli ospiti
erano sempre graditi a casa sua. Anzi, a casa loro, dato che non aveva aspettato un secondo a dirgli di sì quando
lui le aveva chiesto di trasferirsi, altro fondamentale errore che era
stata cosciente di commettere, ma di cui se n’era fregata.
L’aveva
apprezzata, le era sembrata una ragazza simpatica e carina, ma
l’aveva studiata bene. Le era sempre piaciuto osservare gli
altri, studiarli, capirli:
era parte del suo lavoro di arredatrice d'interni, doveva comprendere
il cliente con un solo sguardo per
poter realizzare da subito una buona opera.
Quella Little
non era un’amica di Danny. Poteva essere entrata in casa sua con tutte le buone
intenzioni di quel mondo, ma non era una sua amica. C’era stato qualcosa tra di
loro, ne era stata certa fin da subito, e Little era ancora attaccata a quel
qualcosa, mentre Danny non lo era più.
O almeno lo
aveva sperato.
Sapeva di aver
sbagliato anche nel dimostrarsi quasi
apertamente ostile nei confronti di quella ragazza, molto probabilmente avrebbe
ottenuto di più con un approccio calmo e tranquillo, ma si aveva sentito il suo
territorio violato dalla sua presenza, e non era stata in grado di
controllarsi.
Quella Little
doveva sapere che Danny ama Tamara, e
non lei.
Quando si era
tranquillizzata, appena Danny stesso le aveva confermato quella ‘legge’, lei
glielo aveva portato via. Di sotto il naso, sfilato dalle sue mani come una
caramella invidiata.
Per carità, le
dispiaceva per suo padre, ma Danny sarebbe dovuto rimanere a casa. Eppure non era servito a
niente costringerlo all’interno dei confini inglesi, non era stato sufficiente
spedire Dougie al suo posto. Danny era partito comunque, era andato da lei,
glielo aveva appena detto.
In
fondo
Tamara lo aveva sempre saputo. Non era un’idiota: lo aveva
chiamato più volte
trovando il suo cellulare irraggiungibile, come le aveva detto una voce
in una
lingua straniera, mentre negli altri casi il classico suono dell'attesa
sentito dalle sue orecchie non era quello a cui tutti gli inglesi erano
abituati. Aveva atteso, aspettato che lui confessasse la verità,
non avrebbe
avuto senso andarsene senza che confessasse. Ora che lo aveva fatto
poteva
iniziare a raccogliere le sue cose ed andarsene.
Quei mesi
insieme a lui erano stati i migliori tra quelli passati in compagnia di un
uomo, o forse lo pensava solo perché sapeva di amarlo ancora… Le venne da
chiedersi un’ultima cosa.
Danny l’aveva
mai amata davvero?
Scese dal
davanzale e, in punta di piedi, Joanna raggiunse il piano inferiore; sentire
dai rumori nell’aria, Danny doveva trovarsi in salotto. Si affacciò nella
stanza e lo trovò sul divano: le dava le spalle, non la stava vedendo né
notando, ma lei poteva benissimo sentire sulla pelle quanto fosse agitato.
“Dan…”, gli
fece, cercando di attirare la sua attenzione, “E’ tutto a posto?”
Lu si voltò,
quasi di scatto, come se lo avesse colto in fallo.
“Oh… Sì, sì,
tutto a posto.”, le mentì, con un sorriso stretto.
Si alzò e le
andò incontro, cercando di nascondere il nervosismo.
“Che
facciamo?”, le chiese, “Ci guardiamo un po’ di tv… Andiamo fuori, in giardino…
Si sta bene, anche se fa caldo, e poi c’è un bel panorama.”
Joanna studiò
il suo sguardo, cercò di capire che cosa fosse successo, chi avesse chiamato.
Notò anche il lieve fremere delle sue mani ed aggrottò la fronte: lui,
accortosi, si affrettò a nasconderle in tasca.
“Va tutto
bene, Danny?”, gli chiese ancora.
“Sì, ho detto
di sì, puoi stare tranquilla.”, cercò di convincerla.
“Ti ho visto
al telefono, in giardino.”, gli rivelò, provando ad incastrarlo, “Ti hanno
detto qualcosa di poco piacevole?”
“No, Little,
lascia perdere.”, disse lui, passandole oltre per uscire dal salotto, “Andiamo
fuori a prendere una boccata d’aria? Un caffè?”
Joanna
incrociò le braccia e rimase in attesa di una spiegazione al suo stato d’animo.
“Per piacere,
non insistere.”, disse Danny, “Non ci voglio pensare.”
“Pensare a
cosa…”, gli fece.
Lo vide
spazientirsi.
“Little, per
un anno sono stato ad aspettare che tu mi parlassi.”, le disse, “Ora che mi
trovo al tuo posto, posso avere del tempo per riflettere
senza dovertene parlare?”
"Come
vuoi.”, gli riferì.
Joanna ingoiò
la risposta, lo superò e tornò nella sua stanza, senza voltarsi.
Danny tornò
sul divano, appoggiò i gomiti sulle gambe e se ne stette in silenzio. Ancora
doveva capire cosa era successo, era accaduto tanto di fretta che doveva
essersi perso i passaggi fondamentali.
Era sicuro di
aver chiuso la chiamata con Poynter, di averne avviata un’altra verso Tamara ed
averle riferito che non era da sua madre, come le aveva detto mentendo, ma
bensì in Italia, da Little. Il resto era abbastanza confuso e contorto. Con
calma, però, le parole tornarono in superficie.
Bussò alla
porta di Little, impaziente che lei gli aprisse, e si torturava il labbro
inferiore.
“Potresti
aprirmi?”, le chiese.
“No.”, fu la
risposta secca.
“Per favore.”
“Ti ho detto
di no.”
“Allora
potresti almeno uscire?”, insistette, “Devo dirti una cosa.”
Lei non
rispose.
“Little…”
“Ti ho detto
di no, per piacere.”
Doveva
parlarle da buon amico, e basta, perché ne aveva bisogno… Perché altrimenti
sarebbe scoppiato. Abbassò la maniglia della porta.
“Danny!”, gli
gridò contro lei.
Si voltò su se
stesso e sparì dalla sua vita, ignorando il colorito rosaceo della pelle del
suo seno, prontamente coperto con una maglietta trovatasi a portata di mano. Ancora
incredulo, si appoggiò al muro accanto alla porta e fece scorrere la schiena
sulla parete liscia per poi fermarsi a terra, seduto. Scosse via quell’immagine
dalla testa, dimenticandosi presto della semi nudità di Little. Maledisse anche
il ritorno delle sue pulsazioni aritmiche che avevano ripreso a torturargli di
nuovo il petto e le orecchie.
Una volta
calmato, uno strano particolare pizzicò la sua mente. Non fu in grado di
inquadrarlo ma aveva visto qualcosa di strano su di lei. Per un attimo, lasciò
perdere se stesso per concentrarsi su quel particolare.
Dopo qualche
istante sentì la maniglia scricchiolare ed abbassarsi, un paio di piedi uscire
dalla stanza e Little si sedette davanti a lui, le gambe strette al petto come
era suo solito stare.
“Cosa vuoi…”,
gli fece, rossa in viso.
Prese un
profondo respiro, e glielo disse.
“Ho detto
tutto a Tamara.”
Little, prima
fugace per la violazione dell’intimità a cui l’aveva involontariamente
sottoposta, lasciò perdere ogni strascico del suo impaccio. Puntò gli occhi
verdi dentro ai suoi, cercando di leggere.
“Lo sapevo che sarebbe successo proprio
così.”, disse poi, “Finisce sempre tutto così.”
Appoggiò la
testa dietro di sé, contro al muro.
“Se mi
innamoro di qualcuno, finisce sempre così.”, fece ancora.
“Così come…”
“Così.”,
ripeté lui.
La guardò e
vide che non capiva.
“Purtroppo
negli anni ho imparato che certe cose per gli altri importanti, per me non sono
al primo posto. E viceversa.”
“Sì, ma spiega
solo parte della questione.”, disse Little, improvvisamente seria ed attenta.
Danny scosse
la testa.
“Spiegami
allora quali sono queste priorità.”, gli fece Little.
“Musica, amici
e famiglia, il resto.”, disse, elencandole nelle quattro dita della sua mano
sinistra.
“E dov’è che
tu, esattamente, collochi Tamara?”, domandò lei.
Scrollò le
spalle. Non sapeva cosa rispondere.
O forse non
aveva mai cercato una risposta a quella domanda, che molto probabilmente non si
era nemmeno mai posto.
“Tra la famiglia
e il resto.”, disse, incerto.
“Tamara non si merita questo.”. lo corresse
lei.
“Non è colpa
mia se il mondo in cui vivo mi ha fatto crescere in questo modo.”, si difese
lui.
Era vero,
totalmente vero. Le esperienze che aveva vissuto, i drammi e i divertimenti,
gli avevano fatto capire che quella doveva essere la sua scala personale di
importanza. Solo in quel modo era riuscito a tirare fuori la testa dalla merda
in cui era stato spinto più volte, contro la sua stessa volontà.
“Stai
continuando a colpevolizzare il prossimo senza prenderti le tue
responsabilità.”, asserì Little, “Se Tamara non voleva che tu venissi qua in
Italia… Non saresti dovuto venire e basta.”
“Stavi male,
Little, e io volevo starti accanto!”, si giustificò ancora, per l’ennesima
volta.
Non capiva
dove aveva sbagliato, non c’era nessun errore in quello che aveva fatto.
“Lei ti voleva
accanto a sé, non accanto a me. Non hai portato rispetto verso la persona che
ami.”
“Non è vero.”
“Sì che lo è.”
“E perché?”
Little parve
esitare.
“Perché se
fossi stata al posto di Tamara, sarei stata gelosa esattamente come lei.”,
spiegò lei, “Avrei avuto paura.”
“E’ lì che vi
sbagliate, dovete fidarvi di me.” , le disse, scuotendo la testa, poco
sorpreso.
“Sarei stata
gelosa anche in quel caso, credimi.”, disse lei, con una mano sul cuore, “Perché
posso fidarmi di te, ma non della persona con cui ti vai a trovare.”
“Mi parli come
se fossi Tamara.”, le fece.
Joanna si
rassegnò e preferì tornare in camera.
Le andò
dietro, non stanco di quella conversazione.
“Spiegami”, la
esortò, “perché Tamara dovrebbe essere gelosa di te.”
Si aspettava
di sentire la stessa assurdità che la sua ragazza gli aveva urlato nelle
orecchie a non finire, ma Little non gli rispose, ignorandolo per occuparsi dei
vestiti sparsi sul suo letto.
“Parlami, per
piacere.”, insistette.
“Non ne
guadagnerei niente.”, sbuffò lei, irritata.
“Non siamo ad
un concorso a premi, cazzo!”, esclamò, eccedendo nel tono di voce e nella
rabbia, “Ed è l’ora che tutti mi trattiate per la persona che sono! Sono
costretto ad interpretare ogni volta le vostre parole come se fossero degli
stupidi enigmi su degli stupidi giornaletti da spiaggia e, francamente, non lo
sopporto!”
E non aveva
finito, no, voleva sfogarsi fino in fondo.
“Quando
riguardano te, Little, tutti i discorsi diventano come delle sciarade. Nessuno
dice mai le cose come stanno per paura di farti del male, per paura di farti
piangere… E non è giusto, perché se ognuno avesse cercato di essere chiaro, di
servire le cose su un piatto d’argento, tantissimi sbagli non sarebbero mai
stati commessi! A partire da Dougie e da quello che è successo tra di voi… Per
arrivare fino a me e te.”
“Non abbiamo
niente da mettere in chiaro, Danny.”
Si trattenne.
“E invece
sì.”, disse.
Si grattò la
testa.
“Little, cosa
siamo noi due?”, le domandò.
Era una provocazione,
un incitamento bello e buono, eppure sembrava essere quello il punto focale
della questione. Tutto ruotava intorno a quello, come se fosse stato il centro
di un ipotetico sistema solare dove le sfere dei pianeti rappresentavano loro e
tutte le altre persone a cui erano legati, o che vi si trovavano immischiate.
Little si
voltò, lasciando perdere quel nervoso riassettare l’ordine della sua stanza.
“Conosco
benissimo la risposta alla tua domanda.”, disse poi, “E tu la sai?”
Incrociò le
braccia, certo che la sapeva.
Dovresti
ribaltare la domanda che mi hai fatto, e chiedermi che cosa succederebbe nel
caso fossi tu a capire qualcosa che non vorresti sapere.
Le parole di
Arianna si fecero spazio nella sua testa con un’irruenza tipica di una
battaglia greca. Aprì la bocca, fece per parlare, ma non uscì niente. Solo il
boccheggiare delle sue labbra, vuote di parole. Non seppe rispondere.
Metti in
chiaro quello che hai in testa, Danny, e poi ne riparliamo, ok?
Ci mancava
solo lui, Dougie. Qquali altre persone dovevano comparire con le loro vocette
petulanti, a mettere confusione in un posto dove mai c’ero stati ordine e
quiete?
“Siamo amici,
Danny.”, gli ricordò Little, “Io e te
siamo buoni amici.”
Ebbe
un’aritmia cardiaca al contrario: per almeno un paio di secondi non sentì più
alcun battito nel petto. Poi un tonfo sordo, e il cuore tornò a pulsare.
“Capito?”,
disse lei sorridendogli, mentre un dito si era alzato per puntare sulla pelle
della sua fronte, “E adesso dovresti fare pace con Tamara. Si vede che la ami,
altrimenti non staresti così male.”
Si strinse in
un sorriso forzato, alquanto doloroso.
“Vai a
riposarti un po’, Jones, mi sembri abbastanza scosso.”, fece lei, tornando ai
suoi vestiti, “Poi, se ti va, posso darti una mano a mettere a posto le cose
con lei.”
Non seppe cosa
dire, né cosa fare.
“Grazie…”, le
fece, ma quel ringraziamento suonò più come una domanda.
“E di cosa?”,
rispose lei, sorridendo ancora, “E’ il minimo che possa fare per restituirti il
favore di essere venuto qua da me, nonostante tutto.”
“Ok.”
Uscì dalla sua
stanza, lasciandola al suo lavoretto. Non seppe dirsi come mai, ma tutto quello
che aveva sentito suonava terribilmente estraneo alle sue orecchie.
Soprattutto,
faceva male.
Il primo passo
per la guarigione era convincersi del proprio torto e prenderne atto. Lo aveva
fatto egregiamente, parlandone a voce alta con il diretto interessato. Aveva
stabilito a chiare lettere la natura della loro situazione reciproca, era stato
Danny stesso a porgergli una domanda in quel senso, ed aveva risposto con una
sicurezza che non era stata mai certa di avere.
Aveva preso la
situazione di petto e l’aveva gestita nel migliore dei modi. Era fiera di se
stessa, si sentiva sulla buona via, pronta per uscire dal vicolo cieco che
aveva imboccato senza nemmeno accorgersene.
Però... Perché
le veniva voglia di piangere?
Cercò di
distrarsi e guardò l’ora, impressa sulla sveglia. Sarebbe stato una lunga fine
di giornata e doveva impegnarla il più possibile.
Eccomi che arrivo con un giorno di anticipo!!!
Spero che tutte le feste siano andate bene e che non abbiate mangiato
troppo, almeno non quanto me, altrimenti sarete messe piuttosto male...
Io sono tornata piuttosto distrutta da sessioni di slittino montanaro,
tanto che mi hanno soprannominata Silvia Slittino XDDDD Della serie:
come dare spettacolo gratuitamente.
Non ho particolari specificazioni relative al capitolo di cui sopra... Mi sembra che la transizione sia finita, non credete? XD
Ringrazio vivamente tutte quelle che hanno letto l'ultimo capitolo e vi
abbraccio forte forte :) Un salutino speciale a CowgirlSara: buon compleanno!!!!! Anche se caratterizzato dal medesimo mio innato ritardo!
Ah! Dimenticavo! Dedico questo capitolo ad una certa persona che mi legge di nascosto... Luvi, questo è tuo!
Scusate la brevità dei ringraziamenti, ma dolori vari e il
Notredame su RaiUno sono un cocktail piuttosto devastante *sigh*
Alla prossima ragazze!!!! Auguri di Buon Anno a tutte voi!!!
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Capitolo 13 *** My Last Request ***
Grant my last request and just let me hold you,
don't shrug your shoulders, lay down beside me...
Sure I can accept that we're going nowhere,
But one last time let's go there.
Lay down beside me...
Aveva fatto
davvero come lei gli aveva consigliato. Si era disteso sul letto ed aveva
staccato la mente, si era riposato ed adesso tutto sembrava molto
più chiaro. Così chiaro che avrebbe voluto dormire ancora, così la mente non lo
avrebbe disturbato. Si rigirò sul letto, avvolgendosi nelle lenzuola ormai
calde ed abituate al suo corpo, per poi alzarsi e infilarsi sotto la doccia,
per evitare di presentarsi con la pesantezza di giornata faticosa.
Mentre l’acqua
scorreva limpida su di lui, fu inevitabile sentire l’eco delle parole di
Tamara.
‘Pensavo che
tu mi amassi.’
‘Sei uno stronzo.’
‘Lo sapevo che avresti fatto come cazzo di
pare.’
‘Io non conto
niente per te.’
‘Stattene
dalla tua amichetta e non farti più vedere.’
‘Sono contenta
che sia finita, mi ero stancata di essere sempre al secondo posto’.
No, non si
sarebbe arreso così facilmente. Non esistevano relazioni importanti che
finivano con una telefonata dall’estero. No, non l’avrebbe accettato, se voleva
lasciarlo doveva dirglielo in viso, e non tramite un cellulare. Con quello
poteva arrabbiarsi, gridare, urlargli contro tutte le offese del mondo, ma tra
lui e Tamara non era finita, come lei aveva detto. Si innervosì
all’inverosimile quando sentì trillare ancora quell’aggeggio infernale, mentre Danny
si stava asciugando i capelli, guardandosi allo specchio alla ricerca delle
parole giuste con le quali recuperare la sua relazione.
Prese il
telefono, fece per rifiutare la chiamata ma lesse il nome di sua sorella e,
dato che non la sentiva da diversi giorni, decise comunque di accettare.
“Perché ho
provato a chiamarti tre volte e mi ha sempre risposto una strana voce
registrata?”, gli chiese lei.
“Perché non
sono a Watford, Vicky, sono in Italia.”
Percepì la sua
perplessità sulla pelle.
“E cosa ci
fai da Joanna?”, sbottò Vicky, fintamente sorpresa.
“Smetti di
fare la finta tonta, lo so che lo sai.”
Lei rise,
l’aveva presa contropiede ma la conosceva troppo bene. Non si sarebbe fatta
sconfiggere nemmeno da un carro armato puntato contro.
“Allora
suppongo che tu sappia anche che io so quello che tu non sai di sapere.”
Tipico
discorso totalmente incomprensibile di sua sorella.
“Ok, Vicky, è
stato un piacere sentirti.”, le fece, con l’intenzione di attaccarle il
telefono in faccia.
“E dai, non
vuoi proprio sapere quello che la sorellina sa?”, lo stuzzicò lei,
inutilmente.
Danny sospirò,
arrendendosi. Perché le donne, di qualsiasi corporatura, bellezza e relazione
di sangue, avevano sempre quell’effetto su di lui?
“Dai, spara.”,
le fece, senza interesse.
“Non ti
farò il solito discorso, né la solita predica.”, anticipò Vicky, “Perché
sono sicura che non mi ascolterai, pensando che io stia parlando di sane
cavolate.”
“Vai avanti.”
“L’ho
sempre saputo!”
Danny rimase
allibito, ma non si lasciò stupire. Era solo un altro guazzabuglio made in Vicky
Jones, prima o poi avrebbe capito a cosa si riferiva.
“Saputo cosa…”
“Che stavi
insieme a Tamara solo per dimostrare che mi sbagliavo su Joanna!”,
ridacchiò l’altra, “Lo sapevo, lo sapevo e lo sapevo!”
Sicuramente
stava saltellando di gioia, felice nell’aver ancora sorpassato il fratellino
scemo.
“Vic, ma di
cosa stai parlando?”, le fece.
“Ascoltami,
demente, so benissimo di cosa sto parlando.”
“E allora
spiegati meglio.”
“Sicuramente
la tua mente bacata non si ricorda… Ma il giorno di Natale, o giù di lì,
abbiamo avuto una delle nostre incazzature reciproche.”
“Certo che me
la ricordo, mi chiamasti ‘rantolo strozzato che non vale la pena di essere
tenuto in gola’…”
“Non quella volta, quello è stato il Natale
di due anni fa… Mi riferivo all’ultimo.”, lo contraddisse lei.
Ci pensò.
“Sputacchiera
bucata.”
“Esatto, ti
chiamai proprio così.”, disse lei, con tono conciliante, “Insomma,
l'argomento centrale della questione… Inutile dire altro. E chi mi presentasti,
nemmeno due settimane dopo?”
“Aspetta,
fammi riflettere… Tamara per caso?”, le fece con sarcasmo.
“Bravo
Daniel Alan David.”, ripose la saccente Vicky, “Proprio così. Ora, dato
che siamo famosi per i nostri tentativi di cercare di avere ragione sull’altro, ammetti che sono
sempre stata dalla parte del giusto e che ho visto lontano.”
“Tra noi due
sei tu quella miope, io ci vedo benissimo.”
“Eh, allora
devi essere presbite, perché non riesci a vedere un bel cazzo ad un palmo dal
tuo naso.”
“Vic, senti,
ho da fare.”
“No, non
hai un bel niente da fare. E se provi a chiudere la chiamata chiamo il Daily
Mirror e vendo l’esclusiva sulla fine della storia con Tamara.”, lo intimò
lei.
“Non lo
faresti mai.”
“Scommettiamo?”,
lo sfidò lei, e lo costrinse ad immaginarsela con le braccia conserte, a
dondolarsi, in attesa della risposta alla sua sfida.
Meglio non
scherzare con Vicky, l’aveva imparato a sue spese più volte.
“Vicky, lo sai
che non mi sono messo con Tamara per dimostrarti che non provavo niente per
Little… Sarebbe un’assurdità!”
“Infatti,
lo è.”, e si mise ad esultare ancora.
“Amo Tamara.”
“E chi lo
mette in dubbio? Puoi volerle il bene di tutto mondo, ma di una cosa sono
sempre stata certa. Quella Little è stata troppo spesso sulle tue labbra per
essere semplicemente un’amica. Ti ricordi Max?”
Max chi?
Ah, quel
Max: era il ragazzo che Vicky aveva odiato fin dal primo giorno d’asilo, quello
che non aveva mai smesso mai di nominare quando tornava da scuola,
rivoltandogli contro tutto l’astio che provava per lui, e con cui poi era stata
per ben tre anni, alle superiori.
“Ma non è la
stessa cosa!”, protestò Danny.
“Lombrico,
siamo uguali. Per anni ho parlato male di lui, poi ci ho perso la verginità. Tu
hai spezzato un intero esercito di lance a favore di Joanna, e scommetto che
prima o poi ci sbatterai la testa come me.”
“Il mio tempo
è proprio scaduto, Vicky.”
“Gira la
clessidra, non ho mica finito!”, esclamò lei, “Devi dirmi che ho ragione.”
“Ciao Vic,
salutami la mamma!”
“Ma che caz…”
E chiuse la
chiamata, censurando la parolaccia che sua sorella stava per pronunciare.
Lui non si era
innamorato di Tamara per dimostrarle che si era sbagliata, e durante quella
lunga discussione di Natale, una volta tra le tante, era stato lui ad avere
avuto ragione e lei torto. Tamara gli era piaciuta per il suo sorriso, perché
lo aveva fatto stare bene e perché con lei si era sentito diverso da sempre,
come quando provava qualcosa di più per una ragazza.
No, non poteva
essere assolutamente vero.
Smetti di
prenderle in giro entrambe…
Nuovamente, la
voce di Dougie si ripresentò nelle sue orecchie.
Buttò il
telefono sul comodino. Gli venne voglia di lasciare andare tutto e prendere a
pugni qualcosa. Ma a che pro? A cosa poteva servire fare il bambino viziato,
quello che fugge davanti ai suoi problemi?
“Signor Jones,
è sveglio?”, squillò la voce di Arianna, nel corridoio.
Non l’aveva
sentita rincasare e la ringraziò per averlo tolto da una possibile e poco jonesiana
crisi isterica.
“Sì, entra
pure.”, le fece.
“No, esci
tu!”, disse lei, ridendo.
E la
accontentò.
“Santissimo
Dio, copriti!”, sbuffò la donna, ridendo “E’ già la seconda volta che attenti
alla vita del mio vecchio cuore!”
“E perché?”,
fece lui, guardandosi addosso e trovandosi solo in pantaloni, “Ti da fastidio?”
“Oh, no,
figurati! E’ sempre un piacere!”, e si mise a ridere, “Senti, convinci la tua
amica ad uscire di casa?” , borbottò Arianna,
La guardò
curioso.
“Veramente
oggi siamo già stati fuori.”, le disse, “Anche se non per molto, ma siamo
comunque usciti insieme.”
“Oh, buono a
sapersi.”, esclamò lei.
Sembrava avesse
fretta di fare qualcosa: Danny
notò la borsa già in spalla, il trucco sistemato, i capelli a posto. Doveva
essere tornata mentre lui dormiva e sicuramente stava per ripartire.
La trovò tutto
sommato strana. Doveva essere sua abitudine lasciare Little completamente sola
in casa, oppure la sua continua assenza era consapevole e voluta.
“Vai da
qualche parte?”, le domandò direttamente, indicando velocemente la sua borsa.
“Sì, un tizio
mi ha invitato a cena.”
“Un tizio…”,
disse lui, sorridendo.
“Maschio
ottuso.”, bofonchiò la donna, con complicità.
“Dov’è
Little?”, le chiese.
“Sta cercando
di trovare il pelo nell’uovo.”
“Come scusa?”
“E’ in
salotto, ho voluto impiegare il suo tempo nella pulizia della casa.”, gli
spiegò lei, sempre più volenterosa di liberarsi di lui, “Lo avevo già fatto
personalmente, ma sembra così volenterosa che ho deciso di non disturbarla.”
“Ah, ok.”, le
rispose, “Comunque mi dispiace che te ne vada un’altra volta, sarebbe stato
bello cenare tutti insieme, con normalità.”
“Figliolo, in
questa casa la normalità non esiste.”, rise lei di gran gusto.
Gli rifilò poi
un sorriso ampio e caldo, strinse la sua guancia tra il pollice e l’indice e se
ne andò via, brontolandolo per avergli fatto fare tardi alla cena con il suo
tizio. La sentì salutare Little e, quando percepì anche il rumore della porta
d’ingresso che si chiudeva, scese il piano. Si appoggiò allo stipite del
soggiorno, incrociando le braccia. In piedi
sull’ultimo gradino di una piccola scala, Little si stava occupando del ripiano
più alto della libreria. Se l’avesse chiamata l’avrebbe sicuramente spaventata,
rischiando di farla cadere per terra. Decise così di aspettare che terminasse
il suo compito: una volta con i piedi per terra, sarebbe stato meno pericoloso
disturbarla.
Se al mondo c'erano due persone totalmente
diverse, erano proprio Tamara e Little. Talmente all’opposto che anche un cieco
avrebbe notato la minima differenza tra loro. Di entrambe conosceva aspetti che
amava ed altri che odiava, come era giusto che fosse, e come normalmente
capitava ad ogni essere umano.
La vide scendere dalla scala, con movimenti
traballanti ed incerti, ma alla fine atterrò con tranquillità.
“Little.”, la chiamò e, come aveva previsto, lei
sussultò, “Scusami, non volevo spaventarti.”
“Non ti immaginavo proprio lì.”, fece lei, una
volta ripresasi, “Da quanto è che stai come un fesso sulla porta?”
“Pochi secondi.”, le mentì, sottraendo una bella
manciata di minuti al tempo speso ad osservarla.
Little richiuse la scala e gli andò incontro.
“Fame?”, chiese lei, sorridendogli.
“No, non ancora.”
“Oh…”, borbottò lei, aspettandosi forse una sua
risposta positiva, “Sete?”
“Nemmeno.”
“Uhm… Qualcos’altro?”, chiese, ridendo.
“Niente in particolare.”, le disse.
“Ok.”, rispose lei, stringendosi nelle spalle ed
uscendo dal salotto.
La seguì, accompagnandola in cucina, dove ripose
la scala in una fessura tra gli scompartimenti della dispensa; gettò via lo
straccio penzolante dalla sua tasca posteriore dei pantaloncini.
“E’ tutto ok, Danny?”, fece lei, sentendosi solo
lievemente esaminata.
“Certo.”
“E allora perché mi segui?”, gli chiese,
visibilmente a disagio.
“Non so cosa fare.”, le rivelò con semplicità.
“Vuoi dirmi qualcosa, per caso?”
“Non saprei… Prima ha telefonato Dougie. Voleva
sapere come stavamo.”
“Sì, l’ho chiamato anche io.”, disse lei, in un
sorriso stretto.
“Ah… Davvero?”
Si stupì dell’essere stupito di quel suo gesto. Little annuì.
“E perché?”, le chiese, di rimando.
“Beh… Avevo voglia di sentirlo, di sapere se
aveva fatto buon viaggio di ritorno. Tutto qui.”, rispose, “C’è qualche
problema?”
“Oh no, figurati!”, disse lui, prontamente, “E’
che ancora mi suona strano che voi due siate… Insomma, che siate tornati
amici.”
Lei lo scrutò per qualche secondo.
“Non è stato facile da accettare neanche per me,
ma ci siamo buttati tutto alle spalle.”, disse, appoggiandosi alla cucina,
braccia conserte.
“E… Cosa avete fatto di bello… Quando non
c’ero?”, le domandò.
Little si imbronciò.
“Scusami, non volevo essere invadente.”, le
disse, “Volevo solo chiacchierare un po’ e, come sempre, ho scelto il punto di
partenza sbagliato.”
Parve indecisa sul da farsi. Prese un profondo
respiro ed intrecciò le dita, mentre gli occhi fuggivano velocemente.
“Mi ha baciato.”
Un’altra di quelle fottute aritmie al contrario.
“Come
scusa?”, le chiese di ripetere. Non aveva capito.
“Ci siamo
baciati. O meglio, lui ha baciato me.”, ripeté Little.
Si erano baciati, lui l’aveva baciata, non c’era
alcuna differenza.
“Beh, sono contento per
voi.”, disse a stento.
In fondo, a lui cosa doveva importare di quello
che succedeva tra Little e gli altri ragazzi? Lei aveva tutto il diritto di
trovare qualcuno con cui stare, da amare, così come lui aveva trovato Tamara, e
le altre prima di lei.
“E poi... Cosa è successo?”, insistette, “Perché non me lo hai detto?”, le fece.
"Sinceramente
non ci ho nemmeno pensato.”, rispose lei, “Non ne ho avuto tempo…”
Danny scosse la testa, cercando in un attimo di
dare un senso a tutto quello, tanto che i suoi poveri neuroni fecero corto
circuito di lì a poco. Più che altro, più di tutto, si stava sentendo in giro
da entrambi. Perché non glielo avevano detto?
“Ma come fai a non pensare ad un bacio, Little!”,
sbuffò, “Insomma... E’ un bacio, significa tutto!”
Lei aggrottò la fronte, perplessa.
“Dan... Calmati.”, gli fece, con bizzarra
tranquillità, “E’ stato un errore, ci siamo chiariti subito e la cosa è morta
lì...”
“Ma questo vuol dire che Dougie…”, asserì,
animandosi ancora di più, “Che Dougie ti sta prendendo in giro di nuovo!”
“No, non è vero, è capitato per sbaglio, perché
era un momento...”
La interruppe.
“E’ uguale!”, esclamò, “Un bacio è sempre un
bacio!”
Little roteò gli occhi ed alzò le spalle, segno
che si stava arrendendo.
“Ora basta, non voglio continuare oltre.”, fece
lei, scrollando le spalle, “Dimmi, hai più sentito Tamara? Hai cercato di
sistemare le cose con lei?”
Tamara? Sintonizzò la mente su di lei ma sembrò
non trovare campo, né frequenza. C’era solo quella fastidiosissima questione
del bacio che voleva risolvere. Little comprese cosa gli stesse passando per la
testa e sbuffò rassegnata, come se ormai non ci fosse stato più niente da
recuperare, ed anche la voglia di impegnarsi nel rimettere in sesto i cocci era
evaporata come acqua al sole. Se lo era detto più volte: ogni volta che
facevano un passo avanti, li aspettavano almeno dieci indietro.
“Cos’altro
vuoi sapere?”, lo provocò Little, “Se
abbiamo dormito insieme? Sì, lo abbiamo fatto, e non
perché sia successo
qualcosa tra di noi, non perché lui abbia cercato di farmi del
male come pensi. Vuoi sapere se mi ha abbracciato? Sì, e lo sa
fare anche meglio di te,
perché non mi chiede niente in cambio. Vuoi sapere se mi ha mai
detto di
volermi bene?”
Esitò, ritrovando la forza che le era mancata.
“Sì, certo che me lo ha detto.”
Si sentì così in colpa che avrebbe voluto morire.
“Spiegami una cosa.”, fece poi, “Perché continui
a prendere sul personale ogni cosa che mi riguarda? Ti ho detto del bacio
perché volevo che ne fossi a conoscenza, che capissi che era stato un errore.
Fine della questione. Avrei potuto tenertelo nascosto, così come tante altre
cose, ma ho voluto dirtelo. Sto cercando di migliorarmi, di cambiare perché so
che il mio brutto carattere ci crea dei problemi, ma così non mi stai aiutando
affatto.”
E poi scosse la testa.
“Te lo dico con sincerità, Danny.”, continuò
Little, “Forse è solo per colpa di questo brutto momento, la morte di mio padre
ha complicato così tante cose che nemmeno io riesco a farmene un’idea. Però...
Ti ripeto quello che mi dicesti qualche giorno fa per telefono.”
Ebbe paura a chiederglielo.
“Cosa?”
Lei sospirò.
“Se continuiamo così, io non voglio andare
avanti.”, disse, così piano che parve solo un sussurro lontano, “Danny, in
questo momento non voglio altra pressione sulle spalle, e tu non fai altro che aggiungerne sempre di
più. Dovresti aiutarmi ad alleggerirla ma non lo stai facendo, stai solo
peggiorando la situazione.”
Si passò una mano tra i capelli.
“Scusami.”, riuscì a dirle, “Non volevo farti
arrabbiare ancora...”
Il suo pentimento non la convinse affatto.
“Ti prometto che cercherò di aiutarti nel
migliore dei modi possibili.”
“Da quando sei arrivato, non ci sei mai
riuscito.”, disse lei lasciandolo solo, in cucina, in silenzio.
Nonostante le parole, i litigi, gli scontri e gli
incontri, nonostante i buoni propositi e le intenzioni mancate, nonostante
tutto, Little cercava ancora di venirgli incontro, di accontentarlo, di
assecondarlo. Continuava a piegarsi alla sua volontà, alle sue pretese, alle
sue stupide convinzioni. E nonostante tutto quello, nonostante anche la
continua paura che aveva di perderla, lui non cambiava mai. Non avrebbe mai
imparato niente.
Forse lo stava davvero meritando, forse
qualcuno voleva punirlo, farlo stare male solo per impartirgli la più sonora lezione della
sua vita.
La sentì salire le scale e, prima che fosse sparita per l’ennesima volta, decise di seguirla.
“Little.”, la chiamò, facendola voltare,
“Scusami, davvero. Scusami.”
“Beh, non mi ci vuole niente perdonarti, lo
sai.”, disse lei, “Ma poi tutto torna come prima.”
Danny allungò una mano verso di lei.
“Ti
prego.”, le disse.
Aveva avuto milioni di seconde occasioni, di
nuove possibilità, di ulteriori chance. Finite tutte dritte nel cesso, una dopo
l’altra.
“Te lo giuro, Little, ho davvero imparato la
lezione.”
“Non si cambia in cinque minuti, Danny.”, disse
lei, “Forse dovresti davvero tornare a casa e sistemare la tua vita. Qua tutto è
troppo incasinato per te.”
No, non ci stava, quello non lo avrebbe davvero
accettato. Non si sarebbe fatto sbattere la porta in faccia per la seconda
volta, nello stesso giorno. Tamara poteva aspettare, ma non Little. Salì in
coppia gli scalini che li separavano, fermandosi su quello immediatamente
precedente al suo. Quel dislivello gli dava la possibilità di poterla guardare
dritta negli occhi, senza alcuna differenza di altezza. Voleva essere al suo
stesso piano.
“Anche io voglio essere sincero con te, Little.”,
le disse, prendendo un profondo respiro.
Lei si mise in attesa delle sue parole, che
sembravano non arrivare. Riusciva solo a spostare freneticamente gli occhi ovunque,
tranne che su di lei. Doveva essere un comportamento che aveva assorbito a
forza di starle accanto, oppure era semplicemente troppo difficile trasformare
in parole certi pensieri difficili da sopportare.
Tutto quello che aveva temuto, tutto quello che
aveva cercato di esorcizzare per tenerla al sicuro non era stato la possibilità
di una pace tra i due, di una nuova amicizia.
Era invece quel bacio, quella evenienza.
Quel bacio lo infastidiva, così come lo aveva
infastidito quel sonoro schiocco che aveva sentito, l’altro bacio che si erano
dati in cucina, il giorno dopo il suo arrivo. Se stavano insieme potevano anche
dirglielo apertamente, non dovevano continuare a mascherarsi con questa farsa
dell’amicizia... Sarebbe stato felice per loro.
“Non essere geloso di Dougie.”, lo anticipò
Little, “Il rapporto che ho con entrambi è così diverso che non ne vale la
pena.”
Era geloso di Dougie, lo ammetteva pienamente in
quel momento come non mai, e se ne dispiaceva, perché odiava quel sentimento
ma lo stava inevitabilmente provando.
Che cosa succederebbe nel caso fossi
tu a capire qualcosa che non vorresti sapere?
“Non so perché ma il pensiero che tu e Dougie vi
siate baciati mi resta veramente... Difficile da digerire.”, le disse.
"Perché? Qual è il problema?”, chiese lei,
animandosi, “E’ stata una cazzata, un’idiozia! Non è successo nient’altro!”
“Lo so! Ti credo! Ma mi da comunque fastidio!”,
voleva arrivare fino in fondo, “Così come mi ha dato anche fastidio vederti
tornare con Harry, dalla gita a cavallo... Voi due che ridevate, io che mi
preoccupavo....”
“Non so come fartelo capire, Danny.”, disse lei,
scuotendo la testa ed allargando le braccia, “E’ un problema che io mi
faccia altri amici? Ti lamenti tanto della gelosia di Tamara e sei addirittura
peggio di lei.”
Che cosa succederebbe nel caso fossi
tu a capire qualcosa che non vorresti sapere?
“Perché dobbiamo costantemente litigare, Dan...”,
si riprese Little, “Non ne ho più voglia... Non ha senso
continuare così.”, e si voltò, percorrendo gli ultimi scalini.
Aveva voluto rovinare tutto, fino alla fine.
Che cosa succederebbe nel caso fossi
tu a capire qualcosa che non vorresti sapere?
Che cosa sarebbe successo nel caso in cui avesse
capito qualcosa che non avrebbe voluto sapere? Avrebbe preso gli ultimi pezzi
di quel rapporto, raccogliendoli da terra per stracciarli e renderli polvere.
“Little.”, la chiamò, prima che lei chiudesse la
porta della sua stanza, escludendolo una volta per tutte dalla sua vita.
Che cosa succederebbe nel caso fossi
tu a capire qualcosa che non vorresti sapere?
Quella domanda continuava a trafiggergli le
orecchie e faceva così tanto male che preferì lasciare le scale, diretto verso
qualcosa che avrebbe lo sicuramente distratto, come era sempre stata capace di
fare.
La musica.
Si erano lasciati, per colpa sua. La relazione
tra Danny e Tamara era finita e lei ne era responsabile, ma avevano già
discusso su quel punto, lei gli aveva già detto di non voler essere colpevole
per aver involontariamente causato la sofferenza di qualcuno, e quando lo aveva
visto sconvolto, nervoso, e bisognoso di parlare era stata pronta ad
assisterlo.
Come qualsiasi amico avrebbe fatto.
Anche se le costatava una fatica immensa ed una
dose di autocontrollo che era sicura di non possedere né adesso né mai, voleva
farsi in due per aiutarlo a farsi perdonare da Tamara, perché sapeva quanto lui
le voleva bene.
Come qualsiasi amico avrebbe fatto.
Perché loro due erano quello, erano amici, e gli
amici si aiutavano quando erano nel momento del bisogno. Ma ogni volta, ogni
sacrosanta volta che Danny si comportava in quel modo, lei iniziava a sentirsi
come dentro ad una prigione. Tutto quello che faceva, che diceva, che pensava,
doveva renderne di conto a lui.
Aveva pianto una vita dentro ad una cella, e non
voleva mai più tornarci dentro.
Forse era l’ora che Danny sapesse davvero.
Tutto.
Carica di rabbia e rancore, qualcosa di cui forse
non si sarebbe mai liberata del tutto, uscì fuori dal posto più sicuro del
mondo, la sua camera, e scese le scale. Sentiva della musica, piano, quasi
sussurrata dalle casse dell’impianto del salotto. Danny doveva aver messo su
qualcosa, tanto per ingannare il tempo e non sentirsi troppo in colpa, come era
suo solito fare. Riconobbe le note dolci della chitarra di Eva Cassidy, una
delle artiste preferite di Arianna e a cui lei si era abituata. Niente di
meglio per rilassarsi e, se non ricordava male, anche a lui piaceva molto.
Si era seduto sul divano, il gomito ben saldo sul
bracciolo mentre la mano aperta sosteneva la testa, lievemente inclinata, e le
dita tenevano il tempo di una lenta ballata blues.
Prese un profondo respiro.
“Dan?”, lo chiamò.
Non rispose, né si mosse, e le dita si fermarono
sui braccioli.
Inconsapevolmente, le stava rendendo le cose più
facili, molto più facili.
“Puoi anche rimanere lì dove sei, non mi importa.
Basta solo che tu mi ascolti. Che tu mi ascolti bene.”, gli disse.
Inspirò ancora, acquistando forza.
“Ti odio. Ti odio davvero tanto.”
Glielo aveva detto.
“Ti odio perché mi fai stare male. Da quando sono
nata ad oggi, tutti quelli che mi hanno fatto sentire così li ho buttati fuori
dalla porta di casa, oppure sono morti. E non avrei mai pensato che avrei
odiato anche con te.”
Strinse i pugni.
“Ma prima di chiederti di lasciare questa casa e
tornartene da dove sei venuto, ti voglio dire quello che hai preteso di sapere
da sempre.”
Sì, glielo avrebbe detto, si meritava di
andarsene con quel peso sulle spalle.
“Sai come si chiamava mio padre?”, gli fece, “Si
chiamava Stefano. E sai da quanto tempo non pronunciavo più il suo nome? Da
almeno tre anni. Hai un’esclusiva, Danny, e nemmeno te ne rendi conto, perché odio talmente quel
nome che mi fa schifo solo pensarlo. Dougie non lo sa, ora potrai sentirti
realizzato nell’essere un passo avanti a lui.”
Aveva una valanga di particolari come quello che
non aveva mai rivleato a nessuno, avrebbe potuto spendere tutte le ore della
notte nel raccontarglieli, per la sua contentezza.
Ma non era assolutamente necessario.
“Ti chiederai perché non abbia tutta questa buona
stima di mio padre, perché non lo abbia mai nominato, perché sia sempre stata
reticente nel parlare della mia famiglia in generale. Danny, se tu avessi avuto
qualcuno che ti picchiava continuamente, senza un valido motivo, credo che
saresti stato esattamente come me. Con i miei stessi problemi, le mie stesse
paure, e la mia stessa voglia di tenere tutto dentro.”
Odiava sentire riaprirsi quella ferita
inguaribile e le venne da piangere, ma si trattenne.
“Ogni momento poteva essere quello giusto per
alzare le mani su di me, per farmi del male. Ti chiederai perché nessuno abbia
mai fatto niente per fermarlo. La risposta è alquanto scontata: tutti avevano
paura di lui e l’unica soluzione era stargli lontano ma, questo lo sai anche tu,
sono andata a finire nella rete di Miki, che non era peggiore dell’altra, però
si somigliavano molto.”
Stava provando gusto nel trattarlo in quel modo.
“Vuoi sapere dove a lui piaceva picchiarmi
particolarmente? Sulla schiena, perché lì non si vedeva, perché lì gli altri
non avrebbero visto. Però qualche volta andava pesante anche sulle braccia,
costringendomi a giustificare i lividi con la mia goffa presenza fisica.
Evitava con cura di toccarmi il viso perché i segni sarebbero stati
inequivocabili ma a volte, quando era veramente incazzato, non disdegnava darmi
qualche schiaffo.”
Avrebbe smesso solo se lui si fosse voltato.
“Ora sai più o meno le stesse cose di cui anche
Dougie è a conoscenza. Sei contento? Sei ancora geloso di lui? Oppure vuoi che
mi tolga la maglietta e ti faccia vedere il più bel ricordo che ho di mio
padre?”, gli chiedeva, “Ah no, è vero, come ho fatto a scordarmi che oggi sei
entrato in camera e mi hai visto praticamente nuda! Tu l’hai già notata, sai di
cosa sto parlando, e se fossi solo un attimo più intelligente capiresti anche
un’altra cosa. Cioè che in piscina, a casa tua, indossavo la t-shirt non per
paura di scottarmi, ma perché non volevo che tu la vedessi.”
La sentiva quasi bruciare, come se fosse ancora
viva.
“E’ cambiato qualcosa tra di noi, ora che lo
sai?”
E lui se ne rimaneva lì, con la testa appoggiata
sulla mano, seduto, tranquillo. Sembrava addormentato. Non dava alcun cenno di
aver ascoltato, né lo sentiva emettere qualsiasi rumore, neanche un solo e
semplice respiro. Che cosa gli sarebbe costato voltarsi e parlarle? Ora che
aveva finito poteva farlo tranquillamente, non aveva niente da aggiungere,
aveva detto tutto il possibile e l’immaginabile.
“Dì qualcosa, almeno!”, lo provocò per l’ennesima
volta, “Sembra che tu non abbia capito assolutamente un tubo.”
Qualche attimo di silenzio.
“Ho capito.”, disse, con voce terribilmente
bassa.
Non le bastava, assolutamente no. Una risposta
semplice come quella non era sufficiente. Aggirò il divano, bracca incrociate,
e gli si pose davanti. Era bello, una volta ogni tanto, guardarlo dall’alto in
basso, fargli provare un po’ di quel senso di inferiorità che i tipi della sua
altezza inducevano da sempre nelle ragazzine come lei.
Testa bassa, nessuna volontà di darle
l’attenzione che si meritava. Danny l’aveva tartassata, lui e le sue richieste
di spiegazioni, e ora che gli aveva fornito i dettagli più importanti sembrava fregarsene.
Dal canto suo non fece niente, aspettò solo che lui alzasse gli occhi per
degnarla di un po’ di rispetto. Dovette attendere una manciata di tempo prima
che lui la accontentasse, facendole gelare il sangue. Le si bloccò il respiro
in gola.
Danny si passò una mano sulla guancia,
cancellando via il segno trasparente che la imbruttiva.
“Potresti farmi gentilmente passare?”, le chiese,
ancora seduto, “Vorrei andarmene.”
Non seppe rispondergli.
Si alzò, annullando ogni senso di stupida
superiorità.
“Ti ho chiesto di spostarti.”, si spiegò meglio,
“Dovrei andare a cercare di rimettere a posto le cose con Tamara.”, e si
asciugò anche l’altra lacrima.
Un borbottare simile ad un ‘va bene’ precedette
il suo spostarsi di lato, per permettergli di uscire dal salotto a passi
veloci. Il rumore delle scarpe sugli scalini la svegliò.
“Dan!”, lo chiamò, correndogli dietro.
Più o meno nello stesso punto in cui lui le aveva
teso la mano, nel tentativo di farsi ascoltare e perdonare, Joanna si trovò a
fare la stessa medesima cosa. Prese il suo polso e lo costrinse a fermarsi.
“Danny, per piacere, stammi a sentire…”, cercò di
trattenerlo.
“No, ho sentito abbastanza.”, si oppose lui,
“Adesso lasciami, devo telefonare a Tamara.”
Le sue dita si erano strettamente saldate al suo
polso, stringendolo più che poteva, e comunque non fu sufficiente, perché non
riuscì a resistere alla mano libera di Danny, che un dito dopo l’altro si
sbarazzò della sua presa.
Aveva avuto ragione Dougie.
Se sbagliava, se continuava a sbagliare e se
avrebbe sbagliato per sempre in futuro, era sempre e comunque colpa del suo
dannato vittimismo. Lei e il suo vedere tutti, compreso Danny stesso, come un
nemico sempre pronto ad attaccarla. Se fosse stata più calma, se non si fosse
fatta prendere dal panico, la questione del bacio si sarebbe potuta risolvere
con tranquillità, facendo capire a Danny che era stato un errore e che non
doveva preoccuparsene, perché tra lei e Dougie si era chiarito tutto e subito.
Quello sfogo crudele era stato completamente gratuito.
Danny poteva essersi preoccupato per lei, pure un
pochino troppo, ma di certo quello non giustificava la cattiveria con
cui gli si era rivolta.
Prigioni. Prigioni…
Ma quali prigioni, era lei che si strozzava con
le sue stesse mani.
Una decina di chiamate perse. Aveva un unico modo
di contattare il mondo d’oltremanica e lui lo dimenticava, come se fosse stato
inutile. Controllò ed ebbe la netta sensazione che Tom lo stesse cercando con
urgenza, era stato lui a telefonargli con così tanta urgenza. Accantonò per un
attimo Tamara per dedicarsi a lui, che rispose dopo qualche squillo.
“Dan, mi stavo decisamente preoccupando.”,
gli fece, “E’ tutto a posto?”
“Hai una domanda di riserva?”, ridacchiò,
piuttosto che piangere ancora, “Perché non è che abbia molta voglia di
rispondere.”
“Ok, ho capito…”, disse Tom, con il suo
solito tono conciliante.
“Cosa volevi, Fletchy?”, gli domandò.
“Uhm… Beh, niente di importante…”, rimase
sul vago, “Solo sapere come stavi.”
“Meno male che non sai dire le bugie così come
scrivi le canzoni, altrimenti saresti da rinchiudere.”, lo colse in
contropiede, “Dimmi cosa c’è, Tom.”
“Ma no… Non è poi così… Importante.”
“Fletcher, per cortesia.”
Ci mancava solo quello, che si mettesse a fare il
prezioso. Quella era una giornata di merda, perché cercare di renderla
migliore, di alleggerire la pillola? Sentì dei rumori di fondo, gli parve quasi
di riconoscere la voce di Harry.
“C’è Drummer McHot lì con te?”, gli fece.
“Sì, è qua a casa mia.”, rispose Tom.
“Potrei parlare con quel coglione?”, distinse
nettamente le parole di Harry.
Tom si preoccupò di tappare la cornetta, cosicché
non potesse sentirlo, ma l’orecchio fine del musicista serviva anche a quello,
cioè ad ascoltare conversazioni a lui estranee.
“No, lascia fare a me.”, rispose Tom a
loro batterista, “Glielo dico io.”
“Tu sei sempre troppo buono, fammici parlare.”,
ripeté Harry.
“Ti dico di no, ci penso io, credi che sia
deficiente?”
“Sei totalmente incapace di dare notizie del
genere, dammi quel telefono.”
“No!”
“Fletcher!”
Danny sbuffò in una risata. Come rimedio
anti-tutto, i McFly erano meglio di qualsiasi altro conforto.
“Ti ho detto di no, torna a giocare con la
X-Box!”
“E dammi ‘sto cazzo di telefono…”
La breve litigata, seguita da una piccola
colluttazione sul possesso del cellulare di Tom, lo distrasse dall’idea di
dover ricevere una notizia dai duellanti.
“Jones, ci sei sempre?”, prevalse la voce
di Harry su un definito vaffanculo da parte di Tom.
“Sì, sono qua. Cosa c’è?”, gli disse.
Judd si schiarì la gola.
“Tamara se n’è andata di casa. L’abbiamo vista
uscire con le sue cose e salire in macchina di una sua amica, quella con i capelli
rossi e ricci.”, sciorinò con semplicità.
“Ma ti sembra questo il modo di dirglielo!”,
protestò Tom in sottofondo, prontamente zittito da Harry.
“Ah… Ok, grazie per avermelo detto, Harry.”, gli
disse, “Hai nient’altro da farmi sapere?”
“Oh, sì, visto che ci sono un paio di cose
devo proprio dirtele, Jones.”, fece l’altro.
“La pianti?”, lo sgridò ancora Tom.
“Dimmi pure.”, lo esortò Danny.
“Senti, sono sicuro che appena capirai quello
che voglio dirti inizierai subito col darmi del demente e del visionario”, anticipò
Harry, “ma voglio comunque continuare.”
“Vai pure, tratterrò ogni commento fino alla fine
del tuo discorso.”
“Perfetto…”
“Non è che siete incazzati con me perché sono
partito senza dirvi niente?”, lo interruppe subito, fulminato da quell’idea
improvvisa.
“Ma no, figurati.”, rispose l’altro, e
notò subito la lieve inflessione sarcastica della sua voce, “Mica siamo
incazzati per quello.”
“Però siete arrabbiati.”
“Sì, abbastanza.”
Era stanco di continuare a giustificare il motivo
della sua partenza. Non era già chiaro e lampante?
“Potevi rendertene conto anche prima.”
Rimase spiazzato.
“Di cosa? Scusami Judd, ma non ti seguo.”
L’altro stronfiò pesantemente.
“All’inizio mi sono voluto cullare su una
nuvola, pensando che avessi messo la testa a posto. Ma mi sono sbagliato, di
grosso.”
“Harry, per cortesia…”
“Ti ci voleva proprio la morte di suo padre
per capire che ne sei innamorato?”
“Judd! Chiudi quella cazzo di bocca!”
L’urlo di Tom sovrastò completamente la voce di
Harry, ma Danny aveva capito benissimo.
“Dovevi proprio partire per l’Italia, litigare
con Dougie, mentire a Tamara e tenerci all’oscuro di tutto per capire che sei
innamorato di Little come un…”
“Dammi questo coso!”
E la chiamata si chiuse, tacendo una pesante
imprecazioni di Harry.
Si sedette sul bordo del letto, così come aveva
fatto tante volte, in quei giorni confusi. Cancellò un’altra lacrima e poi
un’altra ancora, vergognandosi del crollo che stava avendo. Le aveva mostrate a
Little solo per farle vedere il male che la cattiveria nelle sue parole gli
aveva fatto provare, ma si era sempre vergognato di piangere in presenza di
altre persone.
Innamorato di Little? Si pose quella domanda a
raffica, come se la prima risposta data a caso avesse potuto rivelarsi quella
giusta, ma non ne arrivò comunque nessuna.
Quando era con lei si sentiva bene, sé stesso,
rilassato e tranquillo, come se tutto stesse tremendamente andando per il verso
giusto. Gli veniva voglia di scherzare, di prenderla in giro, di farla
arrossire… Di farla stare bene, così come quando lui era con lei. Gli piaceva
vederla sorridere, e pensava di avere in comune con lei la caratteristica
peculiare di veder contenti prima gli occhi e poi le labbra. Ma gli piaceva
anche quando si innervosiva, quando stringeva i pugni ed alzava la voce, per
farsi sentire da chi non la ascoltava, nonostante le sue parole potessero
essere letali come le lame della sega di un falegname.
Che si fosse ingannato? Non gli sembrava
plausibile, soprattutto perché quei mesi con Tamara erano stati speciali e
sapere che se n’era andata di casa, che Harry e Tom l’avevano vista salire con
le valige in un’auto e lasciare tutto... Era impossibile da sopportare.
Aveva sempre saputo di avere le spalle abbastanza
forti da sorreggere pressioni impensabili per un individuo comune, per il
cosiddetto uomo della strada. Ma era comunque fatto di pelle e di ossa, e prima
o poi anche quelli come lui cedevano.
Se ne fregò di tutto, dei dubbi e delle
incertezze, di chi non era lì con lui, e uscì dalla stanza. Con sicurezza, posò
le dita sulla maniglia dorata e la abbassò. La luce del sole, ormai tramontato,
era tiepida ed illuminava solo parte della stanza.
“Che vuoi!”, protestò subito Little, che gli dava
le spalle distesa sul letto, su un fianco, senza nemmeno voltarsi.
Si avvicinò al letto e vi salì sopra, stendendosi
accanto a lei. La sentì irrigidirsi ma la ignorò, passandole un braccio sopra i
suoi, rannicchiati al petto. Lei cercò di allontanarlo, ma con caparbia
insistenza tornò ad abbracciarla.
Non cercava assolutamente niente da lei,
solamente sentirla vicina.
“Little Joanna, per favore.”
Per l’ultima volta lei cercò di liberarsi del suo
abbraccio, che prontamente la avvolgeva di nuovo. Non vedeva oltre i capelli
biondi e lievemente mossi, né al di là del suo collo, delle sue spalle piccole e coperte da quella
maglietta nera, un po’ larga. Però sapeva che stava piangendo, e che stava
trattenendo a stento le lacrime.
Con difficoltà, l’altro braccio riuscì a passare
sotto al suo collo, per chiudersi poi davanti a lei, insieme al destro. Danny
chiuse gli occhi, ascoltando il rumore del respiro di Little che sussultava ad
ogni singhiozzo.
“Stai tranquilla, ci sono io.”, le disse,
sentendo la sua voce rompersi.
Il magone alla gola diventò un dolore
insostenibile ed affondò i denti nelle labbra, incapace di resistere ancora.
Little non era l’unica a cercare di mangiarsi le lacrime, piuttosto che
piangerle.
Prese un profondo respiro, deglutì, ma niente.
Si lasciò andare solo quando sentì la propria
mano aprirsi e le dita di Little incrociarsi con le sue.
Eccomi, in ritardo... Sono breve: la canzone che dà il titolo al
capitolo ed anche il brano estratto sotto di esso è di Paolo
Nutini. My Last Request non è stata usata da me con scopo di
lucro. Direi che ci siamo, non credete? ^^ Vi chiedo scusa se ci
saranno errori in questo capitolo, ortografia e varie, ma non l'ho
riletto -_-
Bene, passo ai ringraziamenti!
ludothebest: ti ho stanato!!!
Ma c'è qualcuno che ha fatto la spia... Ed entrambi sappiamo chi
è! Tana per Silvia XD Ti ringrazio, davvero tanto ** La
sfuriata di Dougie è piaciuta a molti (tutti) ed anche a
me. Anch'io avevo iniziato a sopportare poco questa ragazza, ho deciso
quindi di farle aprire gli occhi :) Alan, oooooh Alan... Ci sei o
ci fai, Alan? XD Credo che sia la frase che lo caratterizza meglio in
questo sequel :) Beh, cosa mi rimane da dire, se non GRAZIE.... Quindi,
grazie :) Davvero, con il cuore.
Ciribiricoccola: Se si
incontrano, credo che passerebbero la serata a consolarsi a vicenda,
pensando che sarebbe meglio dimenticare tutti i DAD di questo mondo XD
La Fiat Duna per quella famiglia? Mmh... Non c'è una
Pandora familiare? XD Grazie, scema che non sei altro **
Picchia: oh eccoti! Ti stavo
dando per dispersa! Ma tanto ti trovo su feisbuc! XD Baciamo le mani e
grazie del pensierino... Mi ha fatto piacere ** Grazie ancora!
CowgirlSara: e gliel'ho detto
anch'io a quei due, ma non mi ascoltano mai! Fanno sempre come cavolo
gli pare, ma sarà possibile???? La penso esattamente come te...
Che si diano una mossa, per Diana!
Giuly Weasley: certo che l'ho
vista XD Haroldo, anche se mi sta antipatico, stavolta ha detto il
giusto, non credi? Forse ha stasato un po' il cervello otturato di
Danny, che poveretto sta impazzendo... Per una volta, fa qualcosa di
buono quel ragazzo! Grazie anche a te, Emily XD **
kit2007: ieri sera mi hai
ricordato involontariamente che non avevo aggiornato, ma comunque non
ce l'ho fatta a postare... Beh, sono pienamente d'accordo con tutto
quello che hai detto, non ho da aggiungere niente. Credo che Tamara
abbia bisogno di essere capita, e non solo criticata. Mi dispiace solo
di non averle dato lo spazio che si meritava... Grazie anche a te XD
Sono esaurita!
_Princess_: il ritardo è
diventato patologico, affligge anche la mia pubblicazione. Non è
voluto da parte mia, che torno ogni sera alle otto dal lavoro e trovo a
fatica il tempo e la volontà di mettermi qua. Non ho manco la
voglia di mettermi a correggere il capitolo, figurati un po'... Se poi
penso che dovrei mettermi sulla tesi anche la sera dopo cena, mi sparo.
Se non ti leggo, è per questo, così come non leggo la
Sara, Ciribiricoccola e tutti gli altri aggiornamenti che seguivo da
tempo. Ti dico queste parole in risposta alle tue: so che non avevano
alcun tono accusatorio nei miei confronti, ma purtroppo ho provato un
po' di fastidio nel leggerle. Mi dispiace, non ho potuto farne a
meno, ho troppa pressione sulle spalle e non sempre risco a scaricarla
nel modo più corretto :) Ti ringrazio comunque con il cuore,
perchè i pensieri che mi lasci, così come tutti gli
altri, non possono non farmi piacere. E' fuori discussione.
Bene, ho finito :) scusatemi ancora. Ruby.
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Capitolo 14 *** The Closest Thing To Crazy - Part One ***
Fu così difficile aprire gli occhi e resistere
alla prepotenza della chiara luce del sole che avrebbe preferito un pugno in
pieno stomaco. Sarebbe stata una tortura più umana.
“Giorno…”
Quella frase fu una sorpresa.
“Buongiorno.”
“Hai russato… Stanotte.”, disse, con un piccolo
riso.
“Beh… Però anche tu...”
“Anch'io cosa?”
“Anche tu hai russato!”
Sbuffò in una risata.
“Io non russo!”, disse Joanna, sentitasi toccata
nel profondo della sua trachea.
“Ok, va bene.”, rispose Danny, con voce nasale,
mentre si allontanava da lei per occupare la restante parte del letto, ancora
quasi inutilizzata, “Comunque, buongiorno Little.”
“Giorno Dan.”
“Vado... In bagno, di là.”, borbottò.
Si
stropicciò gli occhi e si grattò la testa, si
stirò, sbadigliò e poi uscì, starnutendo. Joanna
constatò che appena sveglio, Danny non era molto loquace e fu
una cosa che stimò profondamente, lei che era abituata a
non avere nessuno intorno prima di poter essere in grado di mettere insieme anche i più semplici
pensieri.
Occupò la parte centrale del letto, quella in cui
di solito dormiva, ed osservò a mani unite sul petto la solita crepa sul
soffitto, una spaccatura sulla vernice bianca. Dire che non aveva mai dormito
così tranquillamente in vita sua era un’esagerazione bella e buona, ma si
contentava di pensarlo almeno un po’, sebbene si sentisse la schiena dolorante,
il collo bloccato e le spalle tese... Doveva ammetterlo, aveva dormito da
schifo: Danny e il suo respiro pesante in un orecchio, tutta la notte in quella
medesima posizione.
Nascosta tra le sue braccia, Joanna lo aveva
sentito piangere, senza aver avuto il coraggio di dire o fare qualsiasi cosa. Non
ce l’aveva fatta, non avrebbe mai voluto assistere al suo crollo, non si
sarebbe mai immaginata un Danny così debole e fragile.
Un Danny che aveva avuto bisogno di lei.
L’unico momento in cui era stata ‘costretta’ a
vedere i suoi occhi rossi e gonfi, molto più dei suoi che pure avevano pianto
con lui, era stato quando si era dovuta alzare per prendere dei
fazzoletti, uno per entrambi. Mentre glielo passava erano sbuffati in una
risata, imbarazzati.
“Non lo raccontare a nessuno, mi raccomando.”, le
aveva detto lui, “O sarò costretto ad eliminarti.”
Senza troppa voglia di parlare, erano tornati a stendersi. Qualche sbadiglio e lei
si era addormentata, distesa su un fianco come sempre. Poco dopo era stata
svegliata da un lieve muoversi del materasso, aveva sentito Danny
avvicinarsi ed abbracciarla ancora, ma
era troppo addormentata per poter essere in grado di rispondere in qualche
modo. Era stata quasi sicura che fosse stato uno dei suoi tanti sogni, ma si
era svegliata con il suo ronfare nelle orecchie e lo aveva trovato ancora
lì, dietro di lei.
Un lieve bussare alla porta interruppe il suo
lento risveglio.
“Jo?”, la chiamò Arianna.
“Entra pure.”, le fece.
Ne approfittò per alzarsi e darsi una sistemata,
mentre la donna prendeva posto nella stanza e le apriva la finestra, con un
sorriso in faccia.
“Nottataccia?”, domandò la donna, notando
certamente la sua faccia stanca.
“Abbastanza.”, le rispose.
“Brutti sogni?”, Arianna si sedette sul davanzale
della finestra, le braccia incrociate sul petto.
“No... Brutte compagnie.”
La donna la guardò lievemente perplessa, poi
strabuzzò gli occhi. Joanna anticipò ogni sua possibile domanda imbarazzante
mettendo subito in chiaro l’innocenza di quello che era successo.
“Abbiamo solamente dormito insieme, dopo aver litigato
come dei dementi.”, le fece, ad un passo dalla soglia del bagno.
“E’ sempre qualcosa!”, esclamò l’altra, contenta,
“Perché avete litigato?”
“Beh... Un mucchio di cose e nessuna in
particolare.”, le fece, aprendo l'acqua del rubinetto, “Abbiamo discusso in giro per Firenze, anche quando
siamo tornati, poi ancora un’altro paio di volte... Ed altre ancora.”
“Riguardo a cosa, spiegati.”, insistette la
curiosità di Arianna.
Joanna alzò le spalle, la faccia appena asciugata
dalla fresca acqua del rubinetto.
“Me, Dougie e lui.”, le disse.
“Ancora con queste cazzo di geometrie!”, protestò
Arianna, “Che cosa c’è tra di voi adesso? Un triangolo, un poliedro a sette
facce o un trapezio isoscele?”
“Un quadrato.”, disse Joanna, togliendosi la
t-shirt senza troppi problemi.
Ignorò il riflesso della sua cicatrice sullo
specchio. Poteva anche essere arrivato il tempo di dimenticarla e ricordarsene
solo una volta ogni tanto, quando era strettamente necessario.
“Questa geometria dei rapporti mi suona nuova, ma
deduco che il quarto angolo sia occupato da Tamara.”
Le annuì.
“Però mi spieghi che cosa c’entra ancora Dougie?”,
disse ancora Arianna.
E gli disse della storia di quel bacio sbagliato,
a lei ancora inedita, della reazione di Danny e della sua.
“Siete come due arieti.”, disse Arianna, “Vi
incornate per il semplice gusto di farlo.”
“E non sai che lui e Tamara si sono lasciati.”,
le rivelò.
Arianna esplose in una risata.
“Ha scoperto che non è da sua madre, vero?”
“Non essere così cinica!”, la sgridò, “Danny ci
sta male.”
“Vedi che troverà presto qualcuno con cui
consolarsi, fidati di me.”, le disse Arianna, con tono complice.
“Certamente, la prima che passa!”, le rispose con
sarcasmo, “Arianna, per piacere, dacci un taglio.”
“Vedremo chi ha ragione tra me e te.”, la sfidò
la donna, e si avviò verso la porta.
Prima di uscire, però tornò a parlarle.
“Prima che tu possa dire di no, vedi di farti
trovare giù tra mezzora, pronta per uscire.”
“Dove vorresti che io venissi?”, le chiese,
spuntando fuori dal bagno, perplessa.
“Dove voglio io.”, rispose lei, strizzando un
occhiolino, per poi sparire.
Joanna cercò conforto nella sua immagine allo
specchio. Due dita premute sulle occhiaie, Joanna costrinse la pelle verso il
basso, mostrando a se stessa il gonfiore dei suoi occhi. Si vide stanca e
depressa, ma soprattutto di un pallore cadaverico che quasi la spaventò. Guardò
indietro nel tempo e ripensò a quella settimana tremenda, al non aver quasi mai
messo fuori la testa dalla porta di casa, se non per qualche ora del giorno
precedente. Forse una giornata spensierata con Arianna le avrebbe fatto bene,
lei che era sempre stata capace di distrarla anche da quello che necessitava
più attenzione di qualsiasi altra cosa.
Magari, Danny si sarebbe sentito solo in casa… Ma
una giornata da donne era comunque una giornata da donne, off limits per
l’altro sesso. Sentì bussare ancora alla porta.
“Sì?”, fece, alzando la voce.
“Viene anche il tuo amico!”, la informò Arianna.
Come non detto.
“Sapete qual è il migliore antidepressivo del
mondo?”, esclamò Arianna.
Camminava dritta e a passo svelto davanti a loro,
che la seguivano senza dirsi molto.
“Eh? Lo sapete?”
“Mi vengono a mente un paio di risposte….”, le
rispose scherzosamente, incrociando le braccia e guardando complice verso Littl.
Danny aveva un braccio indolenzito, un leggero
cerchio alla testa e la gola non dava segno di stare piuttosto bene. Però lui
sì, lui si sentiva bene, lievemente imbarazzato, ma bene. Aveva già dormito con
lei, un anno fa, nella stanza d’albergo prima della partenza, ma non era stata
proprio la stessa cosa.
“Sicuramente non c’entra niente con quello che
intendo io.”, fece la donna, voltandosi per guardarlo al di là dei suoi
occhiali da sole alla moda, “Tu, Jo, hai qualche idea in proposito?”
“Purtroppo sì.”, rispose lei, sospirando,
“Arianna, per lui sarà una specie di supplizio cinese.”
“E dai, sono certa che si divertirà da morire!”,
disse Arianna.
Doveva iniziare a preoccuparsi? Forse sì.
“Che cos'ha in testa?”, Danny domandò a Little,
sottovoce.
Lei lo guardò come se fosse stato veramente il
caso di scomparire dalla faccia della terra.
“Dio, che male!”, borbottava Arianna, in piedi
davanti allo specchio, “E poi, guardate, non vanno bene!”
“Proviamo con un altro modello?”, le chiese il
ragazzo.
Un altro ancora? C’erano ben venti paia di scarpe
intorno a loro, forse trenta, e quel santo del commesso stava sudando camicie
su camicie per accontentare quel diavolo di Arianna. Decine di scatole aperte,
carta velina appallottolata ovunque, stanghette di plastica, coperchi… E loro
due seduti annoiati, nell’attesa che Arianna scegliesse almeno uno tra tutto
quel ben di Dio sciolto per terra. Adesso capiva qual era la tortura a cui si
era riferita Little.
“Sì, forse è il caso di provarne un altro… E poi
il colore non si intona con la mia pelle.”, Arianna giustificò così l’ennesimo
rifiuto.
Il ragazzo, che doveva avere poco più della sua
età, si asciugò la fronte e si alzò, diretto verso il magazzino. Ebbe il vago
sospetto di quello che Arianna aveva davvero in mente.
“Ne comprerai qualcuna?”, le domandò Danny.
Non aveva capiva l’italiano parlato tra lei e il
commesso, ma aveva saputo leggere tra le righe ed Arianna non sembrava per
niente interessata all’acquisto di nessuna di quelle scarpe, ma sembrava
provarci gusto nel torturare quel povero ragazzo.
“Nemmeno per idea, non saprei dove metterle.”,
disse Arianna, sedendosi tra lui e Little, “Ne ho talmente tante!”
“E allora perché fai impazzire quel commesso?”,
le fece, ridendo, “Ti odierà a morte!”
“Beh, caro Danny, devi sapere che il proprietario
di questo negozio è un mio ex e che ogni tanto vengo qua a ricordargli quanto è
stato stronzo.”, spiegò la donna, sistemandosi comoda, braccia allungate sugli
schienali dietro di loro e gambe accavallate, con il piede nudo che dondolava
aritmicamente.
“Ma i suoi impiegati non c’entrano niente in
quello che è successo tra te e Marco!”, esclamò Little.
“Sì ma dopo che me ne andrò insoddisfatta quel
cristo si licenzierà e quel caro vecchio bastardo dovrà trovarsi un altro
commesso!”
Ecco spiegato il suo diabolico piano. Certo che
le donne sapevano essere davvero perfide.
Arianna si provò un altro paio di sandali e, come
aveva detto loro, se ne andò senza comprare niente, lasciando il negozio
completamente distrutto dal suo passaggio.
“Oh! Adesso la nostra giornata può davvero
iniziare!”, li stupì di nuovo la donna, una volta fuori dal negozio.
Arianna si mise alla testa del gruppo e, come un
Cicerone, li guidò per il centro della città. Davanti a loro si sarebbe
spiegata una giornata passata davanti alle vetrine dei negozi a commentare
prezzi, abiti, scarpe, borse e quant’altro i commercianti del posto avevano da
offrire ai clienti, sia turisti che normali cittadini. L’esuberanza della donna
metteva a tacere sia lui che Little, che camminava sempre silenziosa davanti a
lui e parlava solo se il suo parere veniva richiesto.
“Sei sicura di sentirti a posto?”, le domandò,
approfittando della temporanea assenza di Arianna, corsa dentro ad una
tabaccheria per acquistare un pacchetto di sigarette.
Lui, che fumava abitualmente ma non troppo, si
accorse di non aver toccato il suo pacchetto da giorni, se non in qualche
sporadica occasione di cui nemmeno si ricordava.
“Sì, te l’ho detto, sono solo un po’ stanca.”,
gli ripeté lei, “E questa giornata sarà snervante.”
“Non hai dormito bene stanotte, vero?”, le chiese
ancora.
“No…”, rispose lei, sorridendogli, a disagio.
“Beh, per quello nemmeno io.”, le disse,
rispondendo con lo stesso sorriso, “Però… Ora sto meglio e volevo dirti che…”
“Ragazzi!!!”,
li chiamò Arianna, a gran voce, a qualche metro da loro, “E’ ora di pranzo!”
La guardò, promettendole così che glielo avrebbe
detto più tardi.
Non aveva niente di speciale da farle sapere,
solo che non capiva più niente di quello che provava.
Era piacevole stare ad ascoltare la parlantina
veloce e fluida di Arianna e il suo perfetto accento londinese, quasi un
po’ troppo sofisticato e altrettanto quasi inspiegabile per un’italiana
purosangue come lei, soprattutto perché era quasi impossibile sentire
qualche altra voce, tranne la sua. Un vulcano in eruzione aveva molte meno da
dire di lei. Per tutto il pranzo fu la protagonista, così come per la prima
parte della giornata, passata in quel negozio di scarpe e poi in un frenetico e
veloce giro per i vicoli del centro.
Seppe così che aveva vissuto gran parte della sua
adolescenza e dei suoi venti anni nel quartiere
bene di Soho, a Londra: suo padre era stato direttore della filiale inglese di
una qualche importante azienda italiana, almeno finché un infarto non lo
stroncò in due, citando le esatte parole da lei utilizzate. Da quel momento in
poi aveva fatto la spola tra l’Italia, dove era tornata ad abitare sua madre, e
il Regno Unito, dove continuava a lavorare; infine era tornata a stabilirsi
nella città dove era nata, Firenze appunto, dopo che anche sua madre l’aveva
lasciata. Aveva aperto quel locale, lo ‘Strictly
English’, ed il resto della storia si perse di lì a poco. Aveva quarantadue anni portati più che
perfettamente ed aveva avuto una vita abbastanza movimentata, si disse Danny.
“Vado a pagare.”, fece poi Arianna, alzandosi e
prendendo la sua borsa.
“No, vorrei offrire il pranzo ad entrambe.”, si
oppose lui, “Ci terrei davvero.”
“Non ci pensare! Siediti e non controbattere!”, Arianna
si impose su di lui, lasciandolo alquanto di stucco.
Quella donna sapeva davvero come togliere le
parole dalle bocche altrui, nel senso che non dava chance di risposta. Non poté
fare altro che accontentarla e, anche se la sua buona educazione gli stava
imponendo di alzarsi e pagare il conto, lasciò perdere.
“E’ sempre così?”, domandò a Little, riferendosi
ad Arianna.
“E’ una femminista.”, rispose lei, sorridendo
stancamente, “Non è mai contenta di farsi precedere dagli uomini.”
“Ah... E’ che a volte mi spaventa.”, disse Danny,
“E’ sempre un passo avanti a me.”
“Appunto, sei un uomo.”, scherzò lei.
Poi sospirò e prese l’ultimo sorso della sua
acqua.
“Perché sei così silenziosa?”, le volle chiedere,
ora che l’intimità di quel posto affollato era migliore della calma di una stanza
vuota.
“Non sono affatto silenziosa.”, si difese lei,
ridacchiando, “E’ solo che non ho molte cose da dire.”
“Ma se c’è qualcosa che ti disturba, dimmelo
pure, non ti vergognare.”
“Non essere così in apprensione per me, Danny,
sto davvero bene.”, ripeté lei, provando a rassicurarlo, “Credimi.”
Fu spontaneo prenderle la mano.
“Ti credo.”, le fece, “Sarai pure silenziosa, ma
sei sempre...”
“Jo!”, la chiamò Arianna, “Non hanno da farmi il
resto, hai mica qualche spicciolo con te?”
Chiuse la bocca, trattenendo quello che voleva
dire per la seconda volta.
A metà giornata gli venne quasi da
inginocchiarsi, unire le mani e pregare tutte le divinità ancora sopravvissute
allo sterminio religioso moderno, e non doveva essere l’unico ad avere quella
particolare voglia, anche Little si stava spazientendo.
“Mi fanno male i piedi...”, si lamentò lei,
uscendo dall’ennesimo negozio, Arianna sempre al capo della fila.
“A chi lo dici.”, le disse Danny, “Prenderei
quasi un taxi e...”
“Quanto è carino questo vestito!”, sentirono
esclamare da Arianna.
“Gesù, ti prego...”, piagnucolò Little,
mettendosi sconsolata le mani sui fianchi, “Abbi pietà di noi...”
Sbuffò in una risata, quella specie di tour
nell’inferno dei mancati acquisti li stava veramente ammazzando dalla fatica.
Ogni negozio era loro, ogni vetrina attirava l’attenzione di Arianna, che li
costringeva a seguirla come se fossero stati i suoi cagnolini.
“Arianna, per favore.”, le fece Little, “Andiamo
a casa, sono le cinque del pomeriggio, siamo stanchi...”
“Questo è l’ultimo negozio.”, disse la donna, con
sicurezza, “Lo prometto.”
“E’ dalle tre che lo dici.”, borbottò ancora
Little, “Possiamo andare a casa?”
“No, assolutamente no.”, si oppose fermamente la
donna, “Entriamo qui, ti provi questo vestito e poi ce ne andiamo.”
La punta del dito della donna indicò una vetrina
familiare: mostrava quel vestito azzurro che aveva visto il giorno precedente,
poco prima che un animato diverbio li costringesse a litigare.
“Non ne ho voglia...”, disse Little, “E poi non
ho molti soldi da spendere.”
“Te lo regalo io.”, Danny colse subito
l’occasione.
Lei scosse prontamente la testa.
“No, e poi sta meglio al manichino.”, si
imbronciò lei.
Danny incrociò le braccia e alzò le spalle.
“Ma sì, quel manichino è così attraente...”
“Usciamo di qua.”
“No.”
“Andiamo...”
“No.... E’ troppo scollato.”
“Jo, fuori dal camerino.”
“Arianna!”
Rise ancora e scossela testa. Seduto sul
divanetto circolare del negozio, Danny aspettava che le due donne uscissero
dall’angusto camerino.
“Ma Arianna...”, frignò ancora Little, “Per
favore, mi sento mezza nuda.... E poi si vede... Troppo!”
“Ma se lo sistemi così...”
“E’ lo stesso!”, disse ancora Little, “Mi
cambio.”
Decise di intervenire.
“Andiamo, Little, fammi giudicare.”, le fece,
cercando di invogliarla ad uscire.
La prima a spuntare fu Arianna, che sgattaiolò
senza aprire troppo la tenda scura, poi fu la sua testolina bionda ad apparire.
“Mi vergogno.”, disse Little, “Non ho mai avuto
un vestito così.”
Le sorrise.
“Vengo a tirarti fuori?”, la avvertì scherzosamente.
Lei roteò gli occhi, poi ritrasse la testa dentro
al camerino, come se fosse stato il suo carapace personale. Dovette attendere
ancora diversi secondi prima che lo accontentasse.
Per prima cosa vide la mano destra, che teneva
fermo il lembo destro della parte superiore del vestito, e le labbra arrossate,
torturate dai continui morsi che si infieriva. Poi notò l’azzurro tenue, le
spalline che scendevano e si univano alla stoffa dritta, sopra il petto,
fasciandolo. Il lino continuava liscio e
leggero, qualche centimetro sopra le ginocchia, ricordandogli la moda degli
anni cinquanta.
Si voltò verso Arianna, seduta accanto a lui. La
donna alzò le spalle, sorridendo.
“E quella chi è?”, le chiese, scherzando, “Tu la
conosci?”
“Mai vista prima.”, rispose Arianna, “Non so
proprio chi sia.”
“Smettetela!”, li rimproverò Little, coprendosi
il petto con le braccia, “Mi fate sentire come una scema!”
“Eppure sembra che ci conosca!”, continuò a
prenderla in giro Arianna, “Ci parla!”
“Basta!”, esclamò Little.
Anche Little se stava ridendo, quello che aveva
detto lo pensava veramente. Non sembrava affatto lei, quel vestito le stava
così bene che Little non era più Little, ma una donna di ventuno anni, uno solo
in meno di lui. Glielo avrebbe sicuramente regalato, non c’era ombra di dubbio.
Era semplicemente fatto per starle indosso.
“E’ perfetto, Little.”, le fece.
“Non raccontare balle!”, sbottò lei, “Faccio
schifo, lo so.”
“Giravolta, per favore.”, disse Arianna, facendo
volteggiare un dito, “Mostra il panorama.”
Sbuffò, ma la accontentò. Nervosa, continuava a
reggere la spallina destra del vestito, come se ci fosse stato un difetto di
fabbricazione.
“E’ rotto per caso?”, le chiese, indicandola.
“Beh…”, borbottò lei, insicura.
“Lasciala pure.”, le disse Arianna, con un
sorriso ed una voce rassicurante.
Little si morse il labbro, poi abbassò la mano, e
la spallina si sistemò da sola su di lei. L’aveva
già vista, non solo il giorno
prima, quando era entrato in camera sua cogliendola alla sprovvista. Si ricordò
del ristorante greco, di quella cena surreale, di lei che si era alzata dalla
sedia e la maglietta che si era spostata, rivelando quel segno indelebile che
lei prontamente aveva ricoperto.
Si accorse di stare a fissarla come un cretino.
“Scusa.”, le fece, “Mi ero scordato...”
“Fa niente.”, rispose lei, “E’ ormai un
ricordo... Come tante altre cose.”
Le sorrise, ricevendo la stessa espressione in
cambio.
“Aggiudicato!”, esclamò poi Danny.
“Ma no, lascia stare.”, si oppose ancora lei,
“Sta davvero meglio al manichino.”
“Andiamo, non ti ho mai regalato niente, nemmeno
per il tuo compleanno… Voglio recuperare.”
Il vestito se ne stava riposto nella busta di
carta, rigida e plastificata, tenuta tra le mani di Joanna.
“Possiamo andare adesso?”, domandò, “Non ne posso
veramente più.”
“Ah, non sei l’unica.”, le rispose Arianna,
“Torniamo a casa, è meglio.”
Quella busta era leggera, ma pesante allo stesso
tempo. Non conteneva solo un abito, ma l’abito, uno in particolare,
quello che Danny le aveva regalato. Era stupido, era adolescenziale, era da
ragazzine di quattordici anni, ma Joanna non aveva mai avuto quell’età e, anche
se sarebbe stata comunque un’illusione, quel regalo significava molto di più di
una qualsiasi parola detta.
“Andiamo di qua?”, chiese Arianna, indicando
verso Ponte Vecchio.
Non ebbe nemmeno tempo di risponderle che aveva
già voltato verso destra e, mischiandosi tra i turisti, si trovarono nel bel
mezzo della calca che affollava il ponte.
“Non mi sembrava di essere passato dal ponte,
prima.”, disse Danny, perplesso, “Me ne ricorderei.”
“Sì, ma tutte le strade portano alla nostra auto…
Più o meno.”, gli spiegò.
“E questa più o meno delle altre?”, chiese lui,
con ironia.
“Meno…”, sospirò Joanna, che aveva trovato del
tutto irrazionale quella scelta di Arianna.
A dire il vero era tutta la giornata che Joanna
la vedeva strana, troppo iperattiva, troppo incomprensibile, troppo enigmatica.
Era da un bel pezzo che sentiva la sensazione che Arianna avesse in mente
qualcosa di preciso.
Come era logico che accadesse, fu difficile
districarsi nella marea di persone intorno a loro, ma la mano ferma di Arianna
sul suo polso fece da guida.
“Non vedo più Danny.”, le disse Joanna.
Si fermarono e lo attesero, bloccato da un gruppo
di lenti e anziani signori.
“Assicurati che non si perda.”, disse Arianna,
“Anche se è alto quanto un palo della luce, c’è sempre un buon motivo per
smarrirlo da qualche parte.”
“E come faccio, gli metto un guinzaglio?”,
scherzò Joanna, che rise alla sola immagine.
Nel frattempo Danny le aveva già raggiunte e tornarono
a camminare a stento, rallentati dal flusso di persone, finché non si trovarono
fermi a metà ponte.
“Visto che sembriamo in processione”, fece ancora
Arianna, “sediamoci qualche minuto sulla balaustra del ponte.”
“Arianna, andiamo a casa.”, insistette lei,
lievemente stufata, seguendola insieme a Danny, “Non ne posso più di stare in
giro per la città.”
“Ma che bel panorama!”, la ignorò totalmente
Arianna, “Ci facciamo fare una foto tutti insieme?”
“Oh Gesù…”, borbottò Joanna, “Ti giuro che,
appena siamo sole, cercherò di sopprimerti. Te lo prometto.”
“Avanti, cosa vuoi che sia una foto.”, le disse Danny,
incoraggiandola.
“Ma non ha nemmeno la macchina fotografica con
sé!”, si arrabbiò lei.
“E invece ce l’ho!”, esclamò Arianna tutta
contenta.
Quella era la pura dimostrazione del fatto che
aveva sempre avuto un’idea in mente, e non poteva essere il voler farsi
ritrarre in una foto, per di più in un posto affollato come quello. Si frugò in
borsa e tirò fuori la custodia marroncina che anche Joanna conosceva e che
conteneva la sua fotocamera. Fermò il primo turista, gli spiegò velocemente
come fare e, dopo qualche secondo, Arianna teneva abbracciati entrambi, lei e
Danny, e sorrideva insieme al loro all’obiettivo. Disturbò ancora quel signore
chiedendo di scattarne un’altra perché pensava di essere stata ripresa ad occhi
chiusi, e poi li liberò.
“Possiamo andare?”, le domandò Joanna,
ufficialmente scocciata.
“No, ora ne faccio una a voi due.”, disse lei,
sorniona.
“Un’altra volta… Stasera! In giardino!”, le
propose, “C’è un bellissimo panorama da
lì!”
“Taci.”, la chetò con fare aulico la donna, e le
impose di posare per un’altra foto.
“E va bene…”, sbuffò, tornando verso la balaustra
dove Danny se ne stava in attesa, a braccia incrociate.
Solo due passi, ma notò subito che qualcosa lo
stava preoccupando. Sembrava con la testa da tutt’altra parte.
“Qualcosa che non va, Dan?”, gli domandò.
“Beh… Dopo, ok?”, tagliò corto lui, accortosi.
Si accontentò di quella semplice risposta, sapeva
che non era quello il posto per chiedere ulteriori spiegazioni.
“Avvicinatevi, stoccafissi!”, disse Arianna.
Appoggiati alla balaustra, braccia incrociate o
mani in tasca, sorridevano freddamente alla macchina. Lui per i suoi motivi,
lei per lui.
“Non è una foto segnaletica, avanti!”, li esortò
la donna a migliorarsi, “Metteteci un po’ di pathos!”
“Ma sono venuta con gli occhi chiusi!”, si
lamentò Little, una volta tornati a casa, con la macchina digitale tra le dita
che le mostrava la foto scattate su quel ponte.
Oltretutto, la luce dell'immagine era pessima ed
anche lui non esibiva la sua migliore espressione. Aveva avuto il suo momento
di personale smarrimento quando, poco prima di salire sul ponte, il suo
cellulare aveva vibrato, in tasca. Lo aveva recuperato, ma non aveva risposto.
Non gli era sembrato il caso di parlare con
Tamara, che sicuramente non aveva avuto nient’altro da dirgli tranne che aveva
lasciato casa. Era ancora convinto che non potevano chiudere la loro storia con
una telefonata, anche se per il momento non c’era nulla da aggiungere, ma tutto
da ingoiare. Non aveva tempo per pensarci, non era quella la sua unica preoccupazione.
“Dai, rifacciamola.”, le fece, cercando di
consolarla, “Potremmo scattarla fuori, nel giardino come avevi detto tu, il
panorama è anche migliore che sul ponte.”
Lei annuì, comunque incerta, ed insieme andarono
fuori.
“Chiamiamo Arianna, non so come si faccia a
mettere l’autoscatto.”, disse lei, esaminando la fotocamera.
Provò a chiamare il suo nome più volte finché la
donna si affacciò alla finestra della camera, con un asciugamano in testa e
l’accappatoio indosso, segno che si era voluta donare una doccia rilassante, di
cui anche lui sentiva di averne il bisogno.
“Volevo soltanto chiederti se potevi farci
un’altra fotografia.”, le disse Little.
“Tra cinque minuti?”, chiese clemenza Arianna.
“Ok!”
E Little tornò ad esaminare la macchina
fotografica, che sembrava un oggetto del tutto estraneo per lei.
“Perché non metti il vestito che ti ho
comprato?”, le chiese.
Venne naturale, da sé.
Lei scosse la testa.
“Lo sporcherò di sicuro.”, disse, “E poi non mi
va.”
“Perché?”, le chiese.
Lei alzò le spalle, come se non ci fosse un
motivo apparente alla sua decisione.
“Mi sento a disagio.”, si spiegò poi.
“Credimi, Little, quando ti dico che ti sta bene.
Davvero…”, le fece ancora, “Non essere così insicura, fidati di me.”
Lo scrutò, come se cercasse di capire se le
stesse mentendo.
“Va bene.”
Gli lasciò la macchina fotografica e, un passo
dopo l’altro, si allontanò.
“Che ci fai con il vestito addosso?”, le chiese
Arianna cogliendola alle spalle, alla sprovvista, lungo il corridoio.
Si voltò, come se fosse stata colta con le mani
dentro ad un barattolo gigantesco di marmellata.
“Mi ha chiesto Danny … Di metterlo.”, le spiegò.
Arianna si espresse con un paio di occhi furbi,
appartenenti alla lei che ne sapeva sempre una più del diavolo, e sorrise con
malizia.
“Chiamo Luigi, è meglio.”, disse, tornando verso
la sua stanza.
“Eh? Cosa hai detto? Chi è Luigi?”, le domandò,
allarmata.
“Un tizio insulso con cui sono stata ieri sera, a
cena fuori.”, le spiegò, scrollando annoiata le spalle.
“Ah…”, fece lei, che nemmeno si era accorta della
sua assenza la sera precedente.
Era incredibile quanto fosse capace di
estraniarsi dal resto del mondo quando si trattava di lei e di Danny. Tutto
quello non era molto salutare…
“E perché lo devi chiamare?”, insistette Joanna.
“Perché ho improvvisamente voglia di starlo ad
ascoltare mentre racconta barbose storielle patetiche.”, borbottò, con tono
decadente, “E poi perché non sono scema.”
“Non ho mai detto che tu lo sia.”, disse Joanna,
non comprendendola.
“Allora buona serata!”, trillò la voce di
Arianna.
E comprese.
Comprese tutto il piano di Arianna, tutti gli
episodi apparentemente casuali. La foto, il vestito, la giornata insieme appena
trascorsa, inclusa quella precedente. Comprese tutto, le sue improvvise uscite,
sparizioni, le riapparizioni… Per cosa? Per niente. Potevano essere gesti da
amica, per invogliare il far accadere qualcosa che mai sarebbe successo.
Nella mente di Danny c’era una persona, ma non
era lei.
“Ti direi grazie per tutto quello che hai fatto ma…”
“Prego!”, la interruppe subito Arianna.
“Ma…”, riprese prontamente Joanna, “Cosa credi di
fare?”
“Ti ricambio favore.”, si spiegò Arianna, con
semplicità.
“Un favore? Ricambiare un favore?”, le fece,
incredula.
Arianna si appoggiò allo stipite della porta di
camera sua e le sorrise.
“Il favore di avermi fatto compagnia in questa
grande casa vuota.”, disse poi.
Rimase senza parole, cosa abbastanza frequente.
“Sì, lo so che lo sai che mi sento sempre un po’
sola.”, balbettò Arianna, lievemente imbarazzata, “E quindi non vedo perché non
aiutarti con quello scemo.”
“Ma lui ha Tamara, e io sono solo Little.”, le
rispose, allargando le braccia, rassegnata.
“Sono sicura che sia già qualcosa.”, annuì
l’altra, “Anzi, che sia sempre stato qualcosa.”
La capiva? Ovviamente no, era troppo chiederle di
essere più esplicita.
Nel frattempo Arianna si era nuovamente chiusa in
camera.
“E la fotografia?”, le chiese, senza ricevere
risposta.
Si era appoggiato alla staccionata di legno, in
attesa, macchina fotografica in mano. Non appena aveva iniziato a sentire il
telefono vibrare ancora nella tasca sinistra dei suoi pantaloni si era voltato
verso il panorama, concentrandosi sulle colline.
Ma non aveva saputo resistere.
Aveva allungato le dita e l’aveva preso, sebbene
sapesse già chi fosse.
Ripose il telefono in tasca e lo ignorò, come
aveva già fatto.
“Dan?”, lo chiamò Little, dietro di lui, arrivata
silenziosa.
Si voltò di scatto, cancellando l’espressione
dipintasi su di lui. La vibrazione tornò a torturarlo.
“Hey, già pronta?”, le chiese.
Lei annuì ed abbassò la testa per guardarsi;
prese due lembi del vestito.
“Ma sei veramente sicuro che mi stia bene?”,
chiese.
Maledetta lei e la sua incertezza.
“Ok, sarò sincero, sta meglio a me.”, scherzò,
contento nel vederla ridere, “Dov’è Arianna?”
“In preparazione.”, rispose lei, alzando le
spalle.
“Per cosa?”
“Se ne va di nuovo. Dice che vuole uscire con un
tale...”, borbottò lei, giocherellando con le dita.
“Ah...”
La mondanità di quella donna era spaventevole.
“Allora... La facciamo questa foto o no?”, le
fece, agitando la macchina tra le mani.
“Hai capito come funziona l’autoscatto?”, chiese
lei, tornando ad osservarla come se fosse stata una navicella da Marte.
“Funziona così.”, le fece, “Vieni qua.”
La prese delicatamente per una mano e la fece
voltare, per dare le spalle al paesaggio dietro di loro, ormai sulla via delle
tinte calde e rosse della sera. Si avvicinò a lei, appoggiò il mento sulla sua
spalla e, puntando la fotocamera davanti a loro, allungò le braccia più che
poté.
I capelli di Little gli solleticavano la guancia
e, con un lieve gesto, li scostò.
“Sorridi.”, le disse.
E premette il bottone.
“Fatto.”
Abbassò le braccia.
“Speriamo sia venuta bene, almeno stavolta.”,
disse Little, voltandosi lievemente verso di lui.
“Ne possiamo scattare anche un’altra, se non ci
piace.”, le rispose.
Verde, tanto verde, troppo vicino. Troppo, troppo
vicino.
Sentì le orecchie tapparsi, otturarsi
completamente, la pressione dentro di esse farsi insopportabile. Avrebbe potuto
distogliere gli occhi dai suoi, spostarsi, respirare. Avrebbe potuto fare
tantissime cose, ma semplicemente non ci riusciva. Le soluzioni per sottrarsi a
quel verde intenso erano migliaia, tutte efficaci… Tutte impossibili da mettere
in atto.
Provò a sbattere le palpebre, ma niente, non
riusciva a sottrarsene.
Il telefono prese a vibrare ancora, nella tasca,
facendolo sussultare. Drizzò la schiena, balbettò qualcosa e lo prese.
“Rispondo... Un attimo.”, disse, allontanandosi
di qualche metro.
Little annuì, stringendosi in un sorriso, ed
avviandosi verso la casa.
Sospirò.
Guardò lo schermo, era sempre lei.
Rifiutò la chiamata e spense il cellulare.
Dentro ad un paio di comodi pantaloncini e ad una
t-shirt stava molto più comoda che in quel vestito, tornato nel suo armadio su
una stampella. L’avrebbe indossato per occasioni più adatte, non quella, la
pizza che stava mangiando avrebbe potuto sporcarlo. Avevano deciso di cenare
all’aperto, all’aria fresca del giardino.
Seduti davanti alla staccionata, uno accanto
all’altro, il cartone della cena sulle gambe.
“Credi che un giorno riusciremo a parlare senza
litigare?”, domandò scherzosamente Danny, dopo aver mangiato il suo spicchio di
pizza.
“Sarà impossibile.”, gli rispose, “Sei urticante,
Jones.”
“Anche tu non scherzi, Little.”, le fece lui,
“Quando ti arrabbi ti si vedono le vene, qua…”
Danny le passò un dito velocemente sul collo e Joanna
tacque il brivido che sentì stuzzicarle la nuca. Non fu però in grado di
resistere al guardarlo dritto negli occhi, come era successo dopo lo scatto
della fotografia. Se prima non era quasi mai stata capace di farlo senza
arrossire e voltarsi altrove, ora le riusciva perfettamente.
Più unica che rara, quella volta fu Danny ad
abbassarli per primo.
Tornarono entrambi sulle loro pizze.
“Hai sentito Tamara?”, gli domandò.
“No… Non l’ho chiamata, né lei lo ha fatto.”, le
disse, “Mi ha detto Harry che se n’è andata di casa.”
Joanna non seppe cosa dire.
“Non provare nemmeno a sentirti in colpa.”, fece
lui, sorridendole, “Tu non c’entri niente, hai solo fatto accadere la cosa
prima del previsto.”
Non lo comprese ed attese con perplessità una sua
spiegazione.
“Quello che ti è successo mi ha fatto capire il
mio errore è stato il voler velocizzare le cose. Se avessi dato più tempo alla
mia relazione con Tamara, l'avrei conosciuta meglio ed avrei capito che non fa
per me.”
“Ma tu lei vuoi bene.”, aggiunse lei, “E lei ne
vuole a te.”
“Sì, ma non basta. Ci vuole anche la fiducia.”
“E la scala delle priorità...”, borbottò lei,
scuotendo la testa, “Danny, ti ho già detto come la penso su questa cosa.”
“Puoi rimanere del tuo parere, io manterrò il
mio.”, le rispose.
Morsero un po' delle loro pizze.
“Gli amici ci saranno per sempre.”, riprese
Danny, “E' questo quello che ho imparato negli ultimi anni. Tamara non è
un'amica.”
“Beh, ma se dici così, allora tutte le tue future
ragazze ti lasceranno per questo motivo.”
La guardò.
“Chi lo sa?”, le disse.
Lei alzò le spalle.
Tornarono a guardare il paesaggio intorno a loro.
Il sole era già calato da un pezzo, il giardino veniva illuminato da alcune
luci nascoste nell’erba bassa, e anche da un lampione affisso alla facciata del
retro della villetta. Stavano abbastanza bene, nonostante il fastidio di
qualche zanzara affamata come loro.
“Mi farai avere la fotografia per e-mail?”, le
chiese Danny.
“Sì, ovviamente.”
“Quelle che scattammo l’altra volta… Dove le hai
messe?”
“Non le hai viste?”, gli fece, “Sono in camera,
sulla parete vicino al letto, insieme al vostro poster.”
“Non ci ho fatto proprio caso…”
Non se ne rammaricò, non le interessava più di
tanto. Dal canto suo, non si era nemmeno accorta che Danny aveva già terminato
la propria pizza. Lei, invece, doveva ancora intaccare la seconda metà. Esitò e
sospirò, guardandola.
“Dammi qua.”, le disse Danny, “La finisco io.”
“Grazie. Ho sempre odiato lasciare il cibo a
metà.”
“E io ho sempre odiato chi è incapace di finire
una pizza buona come questa!”
Non se lo fece dire due volte: prese uno spicchio
e se lo mise in bocca.
“Non ti do del maiale solo perché tutto sommato
sei molto educato.”, gli fece, ridacchiando, “Ma se ti avessi conosciuto così,
credo che non saremmo qui adesso.”
“Puoi dirlo forte.”, si limitò a dire, tra un
boccone e l’altro.
Cinque minuti e anche la sua pizza venne
spazzolata via.
“E adesso cosa facciamo?”, le domando Danny.
“Dai tempo al tuo stomaco di assestarsi!”, gli
fece, ridendo ancora.
L’altro si mise in attesa, a braccia incrociate.
“Fatto, cosa facciamo?”, sbottò poi, “Usciamo?”
“Per andare dove?”, gli fece, “Lo sai che non ho
un auto.”
“Prendiamo un taxi!”, propose lui subito.
Non le andava molto di uscire. Erano stati tutto
il giorno là fuori, non aveva certo voglia di tornare in città a camminare su e
giù.
“Danny, non prendermi per una piagnona...”, gli
disse, “Ma ho i piedi che chiedono pietà in cinese...”
“Hai ragione.”
Non sembrava però convinto.
Joanna volle entrare in un argomento che avrebbe
preferito non affrontare mai, ma che non avrebbe potuto evitare per sempre.
Danny doveva tornarsene a casa, non poteva rimanere lì finché lei voleva.
Almeno per il momento la questione sul cosa avrebbero fatto nelle prossime ore
sarebbe stata accantonata.
“Dan, partirai domani?”, gli chiese.
“Pensavo dopo domani.”, le rispose, “Così ho il
tempo di prenotare un volo con calma.”
Egoisticamente, l’averlo ancora ‘tra i piedi’ per
un altro giorno la fece star bene. Si sentiva stupidamente innamorata, si volle
quasi chiedere se la sua non fosse semplicemente una cotta adolescenziale per
il bello della scuola.
“E quindi cosa facciamo ora?”, tornò a chiederle
Danny.
“E' possibile rilassarsi guardando un film?”
Tornati in soggiorno, Little stava scegliendo
qualcosa da poter proporre, lui si occupava con lo spulciare attentamente il
mobiletto che conteneva numerosi cd.
“Sono tuoi o di Arianna?”, le domandò Danny,
distraendola.
“Arianna.”, rispose, “I miei li tengo nella mia
stanza.”
“Forse è lei la donna della mia vita.”, scherzò.
Davanti a lui l'intera discografia completa del
suo mito di sempre, il Boss, più altre opere appartenenti a gran parte dei suoi
gusti musicali preferiti.
“Lo ha detto anche lei quando mi hai spedito il
poster di Springsteen.”, rispose Little, “Ho dovuto lottare per appenderlo
nella mia stanza, lo voleva per sé.”
“Fortuna che hai vinto tu, allora!”, ridacchiò.
Le dita scorsero sulla lunga lista musicale di
Arianna, fermandosi su un'artista che conosceva benissimo. La reputava una
delle cantautrici più dolci del pianetta. Estrasse il cofanetto e ne prese il
cd: sotto l'occhio poco vigile di Little lo inserì nello stereo.
“Conosci questa canzone?”, le chiese,
selezionandola.
Lei si voltò, abbandonando la scelta del film.
L'orecchio si mise ad ascoltare quelle note.
How can I think I'm standing strong, yet feel the air beneath my feet?
“Certo che la conosco.”, disse lei, “E' Katie
Melua, mi piace molto.”
“Sul serio?”
Lei annuì con un cenno di testa ed un sorriso.
“Allora? Cosa
ci vogliamo guardare?”, gli domandò, “Ho pensato di scartare alcuni
titoli.”
How can happiness feel so wrong? How
can misery feel so sweet?
Non si sentiva molto d'umore giusto per sedersi e
guardarsi un film. Anzi, non ne aveva proprio voglia, ma la accontentò
comunque. Lasciarono che la musica continuasse il suo corso, come sottofondo.
“Scegli tu, questi ancora non li ho visti.”,
disse Little, porgendogli le sue scelte.
Qualche commedia, un supereroe pipistrello, un
thriller del maestro scrittore dell'horror, un titolo a lui sconosciuto.
“Non saprei.”, le rispose, “E questi li ho già
visti.”
Eliminarono alcune di quelle custodie.
How can you let me watch you sleep, then break my dreams the way you do?
Era indeciso, nessuna delle rimanenze lo
attirava.
“A te cosa piace, Little?”, le domandò, “Quale
guarderesti tra questi?”
Si fece pensierosa e si riprese i dvd,
spulciandoli attentamente. Neanche lei sembrava decidersi, osservando le
copertine dei film e leggendo nomi dei protagonisti, dei registi e talvolta
anche un piccolo brano della trama sul retro. Mordicchiandosi le labbra,
studiava la sua scelta.
“Mannaggia, questo non ha l'opzione della lingua
inglese.”, borbottò infastidita, scansando via una delle commedie.
“Potremmo anche sederci ed ascoltare la musica.”,
le propose, “E chiacchierare.”
“Finiremo per litigare, lo sai.”, disse lei
ridacchiando, ancora intenta a leggere.
Lui si appoggiò al mobiletto, braccia incrociate.
Gli era balzata una stupida idea in testa.
How can you make me fall apart then break my fall with loving lies?
“Madame Little, vorrebbe concedermi questo
ballo?”, le fece.
“Lo sai che sono goffa come un asino.”, si negò
subito lei.
“Andiamo.”, cercò di esortarla, “Ci divertiremo!”
“Danny, per piacere...”, ribatté lei.
I dvd sembravano così interessanti che non aveva
distolto gli occhi per un solo istante. Né gli aveva prestato attenzione, né
gli aveva dato la minima importanza.
“Che ne dici di Shining di Kubrick?”,
propose poi.
“Naaah!”, esclamò, “Troppo pauroso per te. Ti
verranno gli incubi.”, la prese in giro.
Lei tirò fuori un sorriso sornione.
“Da piccola Miki mi ha vaccinato sottoponendomi
alla visione forzata di centinaia di film horror.”, disse, arieggiandosi, “Non
credo che sarò io ad avere gli incubi, stanotte...”
How can you treat me like a child, yet like a child I yearn for you?
“Come vuoi. E Shining sia.”, le disse,
prendendo il dvd dalle sue mani, “Ci penso io a sistemarlo nel lettore, siediti
pure.”
Little lo accontentò, sedendosi sul divano con
pazienza. Inserì il dischetto nella 'lingua' dell'impianto, poi si avvicinò
allo stereo per spengerlo e godersi così il film senza essere disturbati dalla
musica.
How can anyone feel so wild? How can anyone feel so blue?
Le sue dita esitarono nel premere il pulsante di
spegnimento.
Era musica quella che ascoltavano ed era sempre
un peccato interrompere una canzone a metà, soprattutto quando ne veniva
riprodotta una tra le sue preferite. Decise di lasciar correre le strofe fino
all'ultima, piuttosto che sentirsi in colpa per aver troncato in due la voce
vellutata della Melua.
Little lo colse alle spalle, picchiettandogli sul
braccio.
“Il film è iniziato, l'ho messo in pausa.”, gli
disse, “Spegni la musica.”
“No, aspettiamo che finisca.”, rispose Danny,
“Questa canzone mi piace troppo.”
“Come vuoi.”, disse lei, sorridendo, “Forse
Arianna è davvero la donna della tua vita, anche lei odia interrompere la
musica a metà.”
“Scelgo sempre quelle sbagliate.”, ironizzò lui,
“Mi conviene farmi frate.”
“Ti ci vedo bene con il vestito marrone, la corda
bianca...”, continuò lei.
“Sì, la corda bianca al collo...”, borbottò, con
aria fintamente sconsolata.
“Andiamo, non ti deprimere!”, gli fece, “Magari
tutti questi fallimenti stanno a significare che hai un'omosessualità latente!”
“Omosessuale? Io?!?”, ne rimase stupito, “Lo sai
anche tu che non è vero!”
“Non devi mica dimostrarmi niente.”, disse
Little, “Se lo sei, sono fatti tuoi. Alcuni amici di Arianna sono gay: tipi
bizzarri, ma simpatici e dolci. Secondo me finiremo di becchettarci quando
scoprirai di esserlo anche tu.”
“Ma io non lo sono!”, le fece, “E mi piace quello
che c'è tra noi così com'è, anche se il cinquanta percento del tempo lo
passiamo a litigare.”
“Cinquanta percento?”, disse lei, perplessa,
“Novanta percento!”, lo corresse, “Diventerò lesbica per salvare la nostra
amicizia.”
Volle giocarle un tiro mancino e vederla
arrossire un po', per sfizio personale.
“Sarebbe una brutta notizia.”, le fece.
Lei si fece sempre più perplessa.
“Cosa?”
“Il fatto che ti piacessero le ragazze al posto
dei ragazzi.”, si specificò.
“Non sarai mica omofobo!”, esclamò lei, “Ma
guarda dove siamo andati a parare con questa conversazione...”
“Già, siamo arrivati ai confini della
stupidità...”, disse, “E comunque non lo sono.”
“Neanche io.”
“Oh, bene.”
“E allora perché dovrebbe essere una brutta
notizia il fatto che lo sia?”, sbottò lei.
Non era ancora arrivato a farla imbarazzare,
quella volta lei non ne voleva sapere di colorare le sue guance di un bel rosso
scarlatto, ma sapeva di esserci molto vicino.
“Sarebbe un peccato.”, disse, guardando con
noncuranza le sue unghie, “Intendo un peccato per l'universo maschile.”
“Oh sì, perché l'universo maschile si interessa a
Joanna Bellini!”, sbottò lei ridendo, “Penso che nessuno si sia mai voltato
indietro quando gli sono passato accanto.”
“Meglio così.”
“Ma una volta ogni tanto farebbe anche piacere!”,
continuò lei.
“Voi donne siete tutte uguali.”
Lei aggrottò la fronte ed incrociò le braccia,
tipica posizione che significava 'attento a quello che dici’. Conosceva la
forza dei suoi artigli verbali ma il suo scopo non era farla innervosire,
sebbene lei si stesse comunque spazientendo.
It's so easy to break a heart, it's so easy to close your eyes.
Perse il filo mentale delle parole che le aveva
preparato, si sentì pronunciare qualcosa di non valutato.
“E poi mi darebbe fastidio che gli altri si
voltino quando gli cammini accanto.”, si spiegò.
L’espressione sul suo viso era un mescolarsi di
confusione e fastidio.
“Perché anch’io non ti voglio dividere con
nessuno, Little Joanna.”
This is the closest thing to crazy I have ever been...
Feeling twenty-two, acting seventeen.
Entrambi rimasero spiazzati da quelle parole.
Lui si sentiva stordito, fuori fase, tanto che
sorrise imbarazzato. Si grattò la fronte, passandosi le dita per i capelli in
cerca di un attimo di pace. Little lo fissava, gli occhi sbarrati, come se
avesse detto una pazzia. Fece per dirle qualcosa ma non ebbe la forza per altro
tranne che boccheggiare. Era rimasto senza lettere da pronunciare, senza frasi
di senso compiuto da farle sentire.
Abbassò lo sguardo, non sapeva come uscire da
quella situazione.
Non aveva previsto quello che era successo,
neanche si ricordava quello che avrebbe voluto dirle esattamente. L’ultima
frase non era stata inserita nel copione mentale che aveva velocemente scritto
e che avrebbe dovuto farla diventare paonazza. Lo scopo era stato pienamente
raggiunto, ma completamente fuori dallo schema preparato.
How can I have got in so deep? Why did I fall in love with you?
“Guardiamo il film?”, esordì poi Little, rompendo
il silenzio
“Sì.”, le rispose, cercando di cancellare quello
che era accidentalmente uscito dalle sue labbra.
Velocemente, lei si sedette. La riproduzione dei
titoli iniziò. Spense lo stereo e la raggiunse, lasciando un evidente spazio
vuoto sul divano.
And there's a link between the two,
Being close to craziness and being close to you.
“Qualcosa da mettere sotto i denti?”, propose
Little.
Ci rifletté.
“No... Grazie.”
“Da bere?”
“Sono a posto così.”
“Ok, prendo comunque qualcosa.”, non si volle
arrendere.
Little si alzò, lasciandolo solo a godersi i
silenziosi nomi che scorrevano sullo schermo della televisione, alle prima
immagini del film.
Danny ebbe un deja-vu. Possibile che quella
settimana insieme gli ricordasse sempre di più quella di un anno prima? I fatti
si riproponevano, in chiavi e significati diversi.
Loro erano diversi.
Lui si sentiva diverso, sotto tanti punti
di vista.
Quello che aveva dentro era confusamente diverso.
I passi leggeri di Little lo riportarono con la
testa sulle spalle. Teneva tra le mani una bottiglia di quello che, al colore,
poteva sembrare del the, insieme ad un pacchetto di patatine. Li sistemò sul
basso tavolino davanti a loro e tornarono a guardare il film.
Kubrick, forse quello era il secondo film che vedeva
di quel regista. L’altro era stato Eyes Wide Shut, visionato tanti anni
fa con gli altri tre, solo per vedere le scene di nudo e di sesso ed erano
tutti rimasti profondamente delusi. Non ne ricordava neanche la fine.
“Di cosa parla?”, le domandò.
Lei stava già sgranocchiando un paio di chips.
“Beh... Di una famiglia che si chiude in questo
hotel, il padre è stato assunto come manutentore della struttura per tutto
l’inverno... E poi succede del casino.”, fece lei.
“Quanto casino?”, cercò di tornare ad essere
ironico.
“Tanto casino.”, rispose Little, “O almeno così
c’è scritto.”
“Bene.”
Jack Nicholson e la sua famiglia erano appena
arrivati al grande hotel di montagna.
“Ti piace lui come attore?”, le chiese ancora.
“Abbastanza. Ma preferisco Antony Hopkins.”
“Sì, sono entrambi molto bravi. Come si chiama
l’altra attrice?”
“Non lo
so.”, rispose Little, “Non la conosco affatto.”
“E il bambino è abbastanza terrificante di suo!”,
disse, ridacchiando.
Perché non riusciva a stare zitto? Perché si
sentiva gli spilli premergli ovunque, facendogli venire la voglia di lasciare
la stanza e rifugiarsi altrove?
“Hai visto? Parla con il suo dito!”, esclamò di
nuovo, ridendo anche più forte.
“Vuoi una patatina?”, gli chiese lei.
Little gli porse il sacchetto e vi infilò la
mano. Le dita non riuscivano a imprigionare nessuna delle patatine, che
continuavano a sgusciare via. Istintivamente gli venne da sorreggerlo con
l’altra mano, al di sotto di esso. Non percepì immediatamente il calore della
pelle di Little. Ci volle qualche secondo prima chi si accorgesse che la mano
di lei riposava nella sua, e teneva il pacchetto degli snack da ben prima che
anche lui fermasse la propria intorno
alla plastica del bordo inferiore.
Rapidamente, la mano di Little sgusciò via.
“Prendile pure.”, fece.
Avvicinò il sacchetto e sgranocchiò quello che
riuscì a prendere. Little si versò un bicchiere di the e ben presto l’aroma di
limone arrivò anche alle sue narici. Posò le patatine e ne prese un po’ anche
per sé.
Ne bevve un sorso.
“Chi morirà per primo in questo film?”, le chiese
stupidamente, “Facciamo una scommessa?”
“La moglie di Nicholson.”, rispose lei, con una
risata soffusa, “Ha la faccia di una che viene uccisa a cinque minuti
dall’inizio del film.”
Perché anch’io non ti voglio dividere con
nessuno, Little Joanna.
Stava ridendo ma quelle parole lo fecero
abbuiare.
“E il bambino rimarrà l’unico sopravvissuto, alla
fine.”, continuò lei, “Non c’è cosa più noiosa di quando comprendi la fine di
una storia vedendone solo l’inizio.”
“Già...”
Si accorse che quel suo monosillabo le fece
saltare la mosca al naso. Little si voltò verso di lui, per scrutarne
l’espressione.
“C’è qualcosa che non va, Dan?”, gli domandò.
C’era una valanga di cose che non andavano.
Le sorrise.
“No, tutto tranquillo, Little.”, le fece.
“Ne sei sicuro?”, insistette lei, “Ha a che
vedere con il film, vero?”
Non era alla televisione che continuava a
pensare, non erano gli stravolgimenti dell’evoluzione della trama che aveva in
mente.
Sospirò.
Con più forza, gli spilli presero a conficcarsi
ovunque, soprattutto sulle sue mani, e posò il bicchiere sul tavolino, accanto
al pacchetto di patatine. Poi gli spilli si concentrarono sulle sue gambe, e fu
costretto a muoverle, a spostarsi lungo la seduta del divano.
Quei 'cosi' infernali tornarono poi a dolergli
sulle mani.
Le posò sulle sue guance.
Sentì un fastidio sulle labbra.
E le posò su quelle di Little, baciandole.
Credo che non ci sia bisogno di commenti da parte mia. Ormai sono un caso perso :)
La canzone citata è The Closest Thing To Crazy, che dà
anche il titolo al capitolo, ed è cantata da Katie Melua. Non
c'è scopo di lucro.
Alla fine ci siamo arrivati, volenti o nolenti. Prometto che la prossima storia sarà diversa.... Migliore :)
Ringrazio comunque ludothebest, picchia, ciribiricoccola, kit2007, blossom e giuly ** spero di trovarvi anche nel prossimo... Siamo quasi alla fine :) Resistete!
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Capitolo 15 *** The Closest Thing To Crazy - Part Two ***
15. The Closest Thing To Crazy – Part Two
Little scostò la faccia di lato.
“Danny, smettila.”
Riaprì gli occhi, sbattendo le palpebre più
volte. Ecco, l’aveva fatto, l’aveva baciata.
L’aveva baciata. Aveva baciato Little, ed era
ancora così vicina... Lasciò un altro piccolo bacio sulla sua guancia
calda, ed un altro ancora.
“No, Danny, basta.”, ripeté lei, “Per favore, non
farlo.”
“Perché?”, gli venne spontaneo chiederle.
“Perché io sono tua amica.”, rispose Little, “E
Tamara è la tua fidanzata.”
Non seppe cosa dirle.
“Sei confuso perché ti ha lasciato e se n’è
andata di casa.", continuò lei, "Hai sentito l’impulso di farlo perché ero la persona più vicina
a te. Se ci fosse stato qualcun altro sarebbe accaduto comunque!”
“No, ho baciato te... Perché volevo farlo.”, le
disse.
“Danny, per piacere, piantala.”, insistette lei, allontanandosi.
“Little, smettila. Non è così”, le fece.
“Certo che è così!”, esclamò lei, sempre più
arrabbiata, “Non può essere altrimenti! Lo so che la ami, l’ho visto in tutte
le cose, l’ho capito appena vi ho visto insieme.”
“Su questo non ci sono dubbi.”, rispose Danny,
“Hai perfettamente ragione.”
Little ebbe un attimo di tentennamento ed esitò.
“Ecco, visto?”, fece poi, riprendendo tutto il
suo vigore, “Allora perché lo hai fatto?”
Danny sospirò.
Dougie aveva avuto ragione. Arianna aveva avuto ragione.
Tutti avevano avuto ragione, ma lui non li aveva
mai ascoltati. Aveva sentito le loro parole, ma non le aveva comprese davvero.
Ognuno di loro aveva cercato, a suo modo, di metterlo davanti a qualcosa, ma
nessuno di loro ci era riuscito. Era stato Harry a dargli un bello schiaffo in
piena faccia. Le sue parole avevano percorso migliaia di chilometri in un baleno e lo
avevano colpito in pieno. Nessuna delle persone intorno a lui era stato capace
di fargli afferrare quello che lui gli aveva detto, con tutta la sua sincera
schiettezza ed una telefonata.
Ti ci voleva proprio la morte di suo padre per
capire che ne sei innamorato?
Sì.
“Danny, non hai la minima idea di quello che ho
tenuto nascosto per tutto questo tempo, e Tamara lo aveva capito.”, disse ancora Little, "Non voleva che mi seguissi proprio perchè aveva paura che succedesse proprio
questo.”
Anche Tamara aveva avuto ragione. Little si era davvero innamorata di lui, solo che
non se ne era accorto. L’otturazione di cui gli aveva parlato Arianna, una
grossa palla di convinzioni chiamate amicizia, lo aveva reso completamente cieco e sordo.
“Comunque, non avresti dovuto baciarmi perché non è me che vuoi, lo so benissimo.
Tamara ti manca, ecco perché mi hai baciato.”
“L’ho fatto perché sei tu, Little.”, le disse,
con naturalezza.
Lei esitò ancora, scosse la testa. L’avrebbe
accettato.
Prese un bel respiro.
“Sono innamorato di te, Little Joanna.”
“Non è vero.”, disse lei.
"Sì che lo è."
“Basta!”, gridò Little, tanto da non permettergli di contraddirla ancora.
Si portò le mani alle orecchie, come se non avesse voluto sentire altro.
“Non è vero! Non è vero!”, disse di nuovo, “Tra
cinque minuti Tamara ti chiamerà e mi dirai che ti sei sbagliato, lo so!”
Danny incrociò le braccia.
“Little, mi stai facendo male, lo sai?”
"Così siamo pari!”, ribatté lei.
Danny non era più capace di sopportarla. Si avvicinò e la afferrò con decisione per le spalle, deciso a
zittirla nel modo più efficace che conosceva.
Un altro bacio.
Non gli sembrò di sentire alcuna opposizione,
nonostante una piccola e soffocata resistenza nei primi attimi in cui assaggiò
le sue labbra. Lasciò la presa ferma sulle sue spalle, ma Little non si mosse di uno
solo millimetro. La liberò del tutto, guardandola dritto negli
occhi verdi.
“Mi credi ora?”, le fece, quasi ironico.
Vedeva ancora la sua perplessità. Non voleva
lasciarsi convincere, ma la capiva.
Era stato un emerito idiota, un cretino di
dimensioni colossali, un imbecille, un deficiente ed avrebbe potuto continuare
ad offendersi finché non avesse finito tutti gli epiteti del mondo. Aveva
agito nella più totale ingenuità, senza saper leggere tra le righe delle e-mail
che si scrivevano; non c’era stata cattiveria nelle sue azioni ma era comunque
stato perfido nei suoi confronti. Se fosse stato sincero, se avesse avuto
le palle per provarci, Tamara non ci sarebbe mai stata. Sarebbe stato difficile,
avrebbero sofferto per la lontananza e gli impegni, ma avrebbero potuto farcela
da subito. Oppure era stato meglio così, perché al tempo non erano stati
pronti... Chi poteva saperlo? Quello era
l’universo in cui vivevano, quella era stata la loro esperienza.
Di una cosa era certo. Ora voleva provarci.
Sempre che Little fosse stata d’accordo.
“Little, credimi, per favore.”, le fece.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa, l’unica soluzione
efficace era distrarla dai suoi pensieri con altri baci, ma lei lo precedette.
Prima solo una timida
pressione sulle sue labbra, poi Little gli dette un altro bacio, più deciso e
profondo, chiudendo le mani intorno alle sue guance.
Strabuzzò gli occhi alla sua presa d’iniziativa,
che lo riempì di felicità, oltre che di stupore.
Gli venne da ridere, Little se ne accorse.
“Cosa c’è di divertente?”, domandò,
sorridendogli.
“Tu.”, le disse Danny, “Tu sei divertente.”
“Ah si?”, se ne risentì scherzosamente.
“Sì. Decisamente sì.”
Strinse le braccia intorno alla vita e la sollevò
da terra.
“Com’è il tempo lassù, Little?”, le fece,
scherzando.
Se quello era un sogno, il suo corpo doveva avere
il buon gusto di svegliarsi e deluderla, come più volte era successo. Eppure
non ne aveva mai fatti di così reali, veri.
Sono innamorato di te, Little Joanna.
Impossibile, anche nella più bella delle
fantasie. Non poteva essere accaduto, non ci voleva credere fino in fondo, prima
o poi avrebbe aperto gli occhi e lui si sarebbe volatilizzato. Si sarebbe così
trovata nel suo letto, a notte fonda, e avrebbe perso ogni speranza di
riprendere sonno.
Era inutile, era più forte di se
stessa.
Nonostante le braccia si fossero chiuse intorno al suo collo e le
labbra stessero assaporando il gusto agrodolce che il the gli aveva
lasciato in bocca, Joanna
non riusciva a crederci. Si lasciava baciare, permetteva alla sua mente
di
illuderla per l’ennesima volta.
Perché era bello.
Perché raramente aveva desiderato qualcosa con
tutta quella intensità.
Aprì gli occhi di un piccolissimo spiraglio,
temendo davvero che tutto finisse, ma non accadde. Li spalancò ed incontrò
quelli di Danny.
“Non ci credi ancora, eh?”
Quella volta annuì con sicurezza.
Sì, ci credeva davvero e non si sarebbe fatta
ripetere quella domanda mai più.
“Ci sediamo?”, gli chiese, e lui gli rispose
nello stesso modo.
Il divano li accolse ancora. Seduta sulle sue
gambe, non riusciva a trattenere qualche piccola risata quando le dita le
stuzzicavano la pancia, procurandole intenzionalmente del solletico. Le sue
preferivano annodarsi con i capelli riccioluti, accarezzandogli la pelle del
collo.
Un piacere strano iniziò a solleticarla ogni volta che il tocco di Danny si faceva più deciso sulla
pelle. Ogni sorso d’aria era più difficile da respirare, ogni pensiero si
faceva più difficile da sviluppare, annientato dalle scosse piacevoli che la
torturavano sotto il suo totale consenso.
Si sentiva la mente offuscata, quello che voleva
era continuare ancora, averne di più, sebbene una microscopica parte di sé non
si stesse stancando di metterla in guardia da quello che stava per fare. Al diavolo tutte le paure, era stanca di
vivere una vita di rimorsi e ripensamenti, dove ogni occasione veniva sprecata
dal timore di poterne soffrire.
Ora, o niente. Tutto, o niente.
Ed era stanca di accontentarsi sempre di niente.
Non sapeva cosa fare.
Sinceramente lo sapeva, ma poteva farlo? Se
avessero continuato così, avrebbe preferito fermarsi prima di valicare il punto
di non ritorno. La mente non ragionava più, il corpo non reagiva ai suoi
impulsi cerebrali. Tutto si era completamente scollegato, ogni parte di sé era
comandata dalle sensazioni che mani e bocca gli procuravano.
Sapeva che si sarebbe dovuto fermare, che prima o
poi Little gli avrebbe detto di smettere, ma non ne avrebbe mai avuto
abbastanza. Lei era lì, seduta su di lui, la punta delle dita continuava
a torturargli i capelli. Lasciò le sue labbra per dedicarsi alla pelle bianca
del collo, sperando che non si tirasse indietro.
Si aspettò che si irrigidisse e che si
imbarazzasse ma, quando la piccola scia arrivò a concludersi sul bordo della
maglietta, che terminava a punta poco sopra l’inizio del suo seno, quello che
ricevette in cambio non fu niente del genere, ma un piccolo gemito
soffocato che rischiò di fargli perdere la testa. Danny si chiese davvero cosa fosse proibito fare e cosa
fosse ancora concesso. Forse non era giusto, forse stavano velocizzando troppo
le cose... Forse avrebbero dovuto aspettare.
“Little...”, le fece, e sbuffò una risata
imbarazzata, “Io... Non lo so...”
Le dita fini scorsero lungo il profilo delle
orecchie e gli fecero il solletico,
giocherellarono con il colletto della camicia e si fermarono sul primo
bottone, liberandolo dall’asola. Poi proseguirono col secondo, che subì la
stessa fine, insieme al terzo.
E al quarto.
Al quinto.
Poi la fermò.
“Non si torna indietro, lo sai?”
Lei gli sorrise.
“Io sì. Tu?”
Inghiottì con estrema difficoltà.
Realizzare pienamente che la ragazza seduta sulle
sue gambe non era un’adolescente confusa ma una donna nata una manciata di mesi
dopo di lui, con impulsi e sentimenti forti tanto quanto i suoi, sicura e
decisa, tutt’altro che imbarazzata, causò un potente corto circuito nella sua
materia cerebrale.
Qualche tempo dopo si rese conto di trovarsi
disteso su quello che sembrava il letto della stanza che Arianna gli aveva dato,
senza essere in grado di ricordarsi come aveva fatto ad arrivarci. Little era
accanto a lui e si lasciava tranquillamente accarezzare dalle sue mani. La sua camicia giaceva già per terra,
non si ricordava se fosse stato lui a toglierla oppure se lo avesse fatto lei.
Aveva vissuto quei pochi attimi come in apnea.
Ormai stanco di non poter sentire a pieno il
calore che gli trasmetteva afferrò l’orlo basso della sua t-shirt e gliela
tolse. Non poté fare a meno di osservare il lungo segno che la tagliava in due
dalla spalla destra fino al seno sinistro, ma prima che qualsiasi cosa potesse
accadere, che qualsiasi pensiero la distraesse, posò una bacio dopo l’altro
sulla sua cicatrice.
“E’ brutta, non credi?”, disse Little.
Alzò gli occhi sui suoi e le sorrise.
“E’ un ricordo, me lo hai detto tu.”, le rispose,
prima di tornare su di lei.
Le tolse i pantaloncini, e poco dopo fece fare la
stessa fine anche ai suoi.
Su e giù, faceva scorrere le dita lungo il
profilo della schiena di Danny. Si sentiva impacciata, non sapeva cosa fare, ma
si lasciava muovere dalle sensazioni. Aveva paura, ma le importava meno che del
resto. Se si fosse messa a pensare, forse le sarebbe venuto da piangere per la
gioia.
Danny era su di lei e non sembrava meno
imbarazzato. Spesso sbuffavano una risata, come per dirsi ‘guarda cosa
stiamo facendo, e pensa a come eravamo prima’. Si era allontanato da lei
solo qualche attimo, per tornare poi a baciarla ancora.
La nudità di entrambi non era
molto confortevole,
doveva ammetterlo, ma si sarebbe abituata, ne era certa. Non sapeva
come
avrebbero fatto, né quanto avrebbero potuto durare, ma ora che
erano lì avrebberoprovato fino in fondo. A costo di
lottare con un coltello tra i denti,
al modo dei pirati che tanto le erano piaciuti al cinema.
“Little...”, le fece Danny, distogliendola dai
pensieri.
“Uhm?”
“Lo sai che... Insomma...”
Cosa doveva sapere? Che faceva male? Vivevano
sullo stesso pianeta, lei era umana ed aveva un’intelligenza sulla linea della
media nazionale, non era mica scema.
Era vero che non sapeva come
gestire alcune cos , come le mani di lui che si muovevano ovunque, ma il proprio corpo lo conosceva
benissimo. Poteva aver vissuto la sua adolescenza nei complessi che si era
trascinata dietro fino a quel momento, ma era sempre una ragazza comune, non
una schizofrenica, e Danny era sempre stato troppo apprensivo.
Forse, dopo quella prima volta avrebbe capito che non erano molto diversi, che
nonostante le difficoltà personali anche la sua Little Joanna era una ragazza
come tutte le altre. Le poche volte che avevano affrontato quell’argomento si
era imbarazzata, era vero, ma c’era differenza tra il parlarne e il metterlo in
pratica, soprattutto con la persona di cui si era innamorata.
Non era mica una bambina, sebbene potesse spesso
comportarsi infantilmente.
“Dan...”, gli fece, con tono ovvio
.
Gli sorrise, ricevendo un’altro sorriso in
cambio, ed un bacio a fior di labbra.
Si sdraiò ancora accanto a lei, passandole un
braccio sotto la testa mentre l’altro la circondò poco sotto il petto. Le dette
un piccolo bacio sulla guancia. Lo tormentavano tanti pensieri, ma li mise
tutti a tacere per godersi quel momento con lei. Quando le aveva dato il primo
bacio non si sarebbe aspettato di arrivare lì, eppure era successo.
“Tutto a posto?”, le domandò.
Era maledettamente incerto che qualcosa fosse
andato storto. Aveva paura che lei si voltasse e lo accusasse di averle fatto
troppo male, e che lo rifiutasse.
“Certo.”, rispose Little, sorridendogli.
“Ne sei sicura?”, le fece ancora.
Lei roteò gli occhi, scherzosamente annoiata.
"Dan, non sei il ragazzo dei miei sogni ma va
bene lo stesso.”, disse con ironia.
Le sorrise, nascondendo la faccia tra il cuscino
ed i suoi capelli.
“Cosa c’è che ti tormenta?”, chiese poi Little.
“Niente.”, le rispose, poco convincente.
“Non mentire.”
Sospirò. Non ne voleva parlare in quel momento.
“Lascia stare.”, disse Danny, “Non voglio
rovinare tutto.”
Prese il lenzuolo stropicciato e si infilò sotto
di esso, raggiungendo il corpo caldo di Little, di cui aveva bisogno. Era l’unica
certezza che riusciva a trovare, oltre a quello che provava per lei.
“Sì, hai ragione.”
Tornò a nascondere la faccia tra i suoi capelli,
chiudendo gli occhi ed aspettando che il sonno si prendesse entrambi. Pochi
minuti dopo Little lo lasciò, addormentandosi profondamente.
Si svegliarono sulla nota di sonore imprecazioni.
"Porca puttana!”, echeggiò nel corridoio,
“Cazzo!”
Aprì gli occhi disturbata dalla voce stridula di
Arianna.
“Cosa è stato...”, borbottò Danny.
“Arianna...”, gli fece capire Joanna, con un filo
di voce.
Doveva aver combinato qualcosa per imprecare in
quel modo ma non se ne curò, preferendo accoccolarsi vicino a Danny e tornare a
dormicchiare.
“Vaffanculo!”
Si chiese se le fosse passato per la testa il
fatto che potesse essere mattina e che qualcuno avesse voluto dormire ancora. Odiava
essere svegliata in quel modo, soprattutto dopo una notte del genere. Prese
velocemente i suoi vestiti e li indossò ancora.
“Cosa fai?”, le domandò Danny, un occhio aperto e
l’altro ancora chiuso.
“Vado a vedere cosa è successo...”, disse, scocciata,
“Torno subito.”
Chiuse la porta e percorse il corridoio.
“Arianna?”, la chiamò.
Le rispose qualche secondo dopo, la voce
proveniva dal pianterreno.
“Buongiorno Jo!”, esclamò la donna vedendola
arrivare, “Dormito bene?”
Era in cucina, stava sferragliando con alcuni
cacciaviti, distesi sul tavolo insieme ad altri strumenti da fai da te.
“Sì...”, le rispose, “Cosa hai combinato? Le tue espressioni mi hanno svegliato.”
“Personalmente non ho fatto niente.”, rispose
lei, “Ma si è rotta la lavatrice ed ha invaso lo sgabuzzino di acqua.”
Joanna allungò gli occhi e li puntò verso la
piccola porta che si affacciava sulla cucina, dove l’elettrodomestico era stato
sistemato a suo tempo. Una piccola pozzanghera d’acqua usciva da lì.
“Stavo cercando di aggiustarla.”, continuò
Arianna.
“Faresti meglio a chiamare un tecnico.”, le
disse, poco convinta che lei riuscisse nel suo intento.
“Già fatto.”, le sorrise.
Un’espressione sorniona apparve sulla sua bocca.
“Mi dispiace che le mie parole siano state una
sveglia.”, disse, rigirando con un cacciavite tra le dita, “Una sveglia per
entrambi.”
Non le si teneva nascosto niente.
“Non ti ho trovato nella tua stanza quando sono
tornata, ieri.”, riprese Arianna, “Ho subito immaginato che fossi stata con
Danny. Ero venuta a darti una notizia.”
“Dimmi pure.”, le fece.
Arianna prese un profondo respiro. Si era fatta
totalmente seria, la cosa la preoccupò.
“Ho venduto il locale.”, sviolinò poi,
velocemente, come se avesse avuto paura di non riuscire a dirlo ed avesse cercato di farlo
nel minor tempo possibile.
Joanna rimase spiazzata. Non ci poteva credere,
era assurdo. Arianna teneva a quel locale più che a sé stessa, passava più ore
lì dentro che a casa. C’erano tutti i cimeli della sua gioventù: il juke
box, i suo vecchi dischi, i ricordi. Anche i suoi ricordi, quelli di Joanna: Tom
che si sedeva tranquillamente ed ordinava fish and chips con the alla
pesca, lei che rovinava per terra, i McFly che la riempivano di domande...
Non poteva venderlo.
“L’ho fatto, Jo.”, disse la donna, quasi con un
velo di pentimento, “L’ho venduto davvero, era da un po’ che ci pensavo. Ho licenziato Miki, le cameriere lo hanno autonomamente
seguito... Cosa mi rimane?”
“Tutto!”, esclamò Joanna, “Ti rimane tutto!”
Non voleva perdere quel locale, significava
troppo per lei.
“Potresti assumermi ancora!”, le propose, “E
potremmo anche...”
“Joanna...”, la fermò la donna, “Lo so che
da quel piccolo locale è iniziato tutto per te, che lì dentro sono successe
cose che ti hanno cambiato, ma non essere egoista.”
“Perché lo hai venduto?”
Arianna scosse la testa.
“Andava male, Jo. Era da un anno che non riuscivo
a togliere un ragno dal buco.”, le spiegò, “L’ho venduto prima di farmi i
debiti.”
“Perché non me ne hai parlato prima?”, le chiese.
“Avevo messo in giro la voce qualche tempo fa,
così, quasi senza pensarci. Poco dopo si presentò un compratore disponibile, ma
ero sempre indecisa sul da farsi e l’avevo lasciato in attesa. Mi ero convinta,
poi è successo di tuo padre ed ho deciso di aspettare che la
situazione si stabilizzasse. Ora ho trovato la forza di firmare quei fogli e
venderlo.”
Era tristemente scioccata.
“In questi giorni ero sempre fuori per questo
motivo, non tanto perché volevo lasciarti del tempo da sola, con te stessa.”
E ora cos’altro sarebbe successo? Non sapeva
rispondersi.
“Vuoi dirmi qualcosa, Jo?”, le domandò Arianna,
cercando di nascondere le lacrime che gli salivano agli occhi.
Danny era stato momentaneamente eclissato da
quella notizia, non riusciva a pensare ad altro. Se ne pentiva, era egoistico
pensare che Arianna non avrebbe dovuto vendere lo Strictly English perché le
sarebbe dispiaciuto dare via i suoi ricordi, ma non poteva non starci male.
Quel locale era stata una casa per lei.
“Beh... Lo sai, se ci pensi bene lo capisci anche
da sola.”, le fece, un po’ acidamente.
Arianna nascose la sua tristezza con una buffa
espressione pensierosa.
“E’ successo quello che penso io, vero?”, disse
poi.
Le annuì.
“Sì, quello.”
In pochi attimi Arianna l’abbracciò, dicendole
che non sapeva quanto quello la stesse risollevando da terra. Le diceva che era
contenta, ma non riusciva a gioire
pienamente con lei.
“Torno su da lui.”, le fece poi, sciogliendo
l’abbraccio.
Danny era rientrato da una manciata di secondi,
approfittandone per fare un salto in bagno e rinfrescarsi il viso. Sentì la
porta aprirsi mentre indossava ancora solo i pantaloni.
“Hey...”, le disse, andandole incontro ed
accogliendola con un bacio, “Cosa ha combinato Arianna?”
Little non gli rispose. Si sedette sul letto e la
seguì, preoccupato.
“Arianna ha venduto il locale.”, disse poi, lo
sguardo basso.
“Lo Strictly English?”, le chiese.
“Sì... Me lo ha detto prima, era per quello che
stava sempre fuori casa.”
Comprese la sua tristezza. Lì era
iniziato tutto, venderlo sarebbe stato come dar via un oggetto che aveva il potere a far riemergere tutti
i ricordi ad esso legati.
“Mi dispiace.”, le disse,
passandole un braccio attorno alle spalle, “Ma se lo ha venduto
è stato certamente per un buon
motivo.”
“Lo ha fatto per non fallire.”
“Già...”, le disse, “Comunque credo che potrai tornarci
comunque quando vuoi.”
“Non credo che lo troverò uguale a come l’ho
lasciato.”
“Una fine è sempre l’inizio per qualcos’altro.”
Lei lo guardò perplessa.
“Ecco una delle perle di saggezza del Signor
Jones.”, le disse Danny, sperando che l’ironia la risollevasse un po’, “Pronta
per lei, mia signora.”
Little scosse la testa sorridendo.
Si era avvicinato per baciarla, quando il
telefono li interruppe. Si voltò, seguendo il rumore della suoneria con gli
occhi, non si ricordava dove lo aveva lasciato per l’ultima volta.
“Un attimo solo.”, le fece, gattonando sul letto.
Si sporse dal bordo opposto, scovandolo per terra
a faccia in giù, doveva essere caduto.
Era Dougie.
“Hey!”, esclamò rispondendogli, “Ciao!”
“Hey! Che entusiasmo!”, fece l’altro, “Abbassa
la voce che mi fori un timpano.”
“Come stai Doug?”, gli chiese.
“Bene, non c’è male. Voi due?”
“Tutto ok.”
Con un
gesto Little gli fece capire che avrebbe lasciato la stanza e, infatti, qualche
attimo dopo se ne andò.
“So che è una domanda stronza, ma quando pensi
di tornare a casa?”, chiese Poynter, “Perché c’è da rimettersi a
lavorare... Sul serio.”
“Pensavo nella giornata di domani, è un
problema?”
“No, va benissimo.”, rispose l'altro.
“Non è successo niente in mia attesa?”, domandò.
“Quello che dovevi sapere te lo ha detto Harry.”,
rispose, “Non saprei cos'altro aggiungere.”
Ogni parola che Poynter pronunciava lo riportava
sempre di più giù, nelle difficoltà che la vita reale stava per mettergli
davanti.
“E tu?”, chiese l'altro, “Come l'hai
presa?”
“Beh... Uhm...”, esitò nel rispondere.
“Danny?”, lo esortò a parlare, “Cosa è
successo?”
“Niente, Doug. E' tutto a posto.”
“E' qualcosa che ha a che vedere con Jonny?”, si
preoccupò l'altro.
“Beh...”
, temporeggiò Danny.
“Ok, ho capito.”, rispose Dougie, “Complimenti
per le tempistiche...”
Gli venne una piccola risata sulle labbra.
“Posso parlarle?”
“E' andata via, penso sia nella sua stanza, te la
cerco subito.”
“Ok, Jones, attenderò. Buona giornata!”
Uscì dalla camera e la raggiunse, trovandola nel
suo piccolo bagno personale, si pettinava i capelli davanti allo specchio.
“Dougie ti vuole parlare.”, le disse.
Con tranquillità Little allungò la mano e prese
il telefono, portandoselo poi all'orecchio e mettendosi a parlare con lui.
Lasciò ad entrambi il momento personale, non voleva disturbarli facendo
l'impiccione, sapeva che Little non l'avrebbe presa bene ed avrebbe scommesso
che anche Dougie si sarebbe infastidito. Preferì tornare in camera, indossare una
t-shirt e scendere a fare colazione, dove trovò un'Arianna indaffaratissima con
chiavi inglesi e cacciaviti.
“Ti dai all'idraulica?”, le chiese, facendola
sobbalzare.
Accucciata davanti all'oblò aperto della
lavatrice, la donna cercava forse di aggiustarla.
“Ci sto provando, ma mi consiglio di
provare con l'ippica!”, rispose, gettando via uno strano utensile che non aveva
mai visto prima, “Non è che puoi aiutarmi?”
“Vediamo se combino un guaio maggiore del tuo.”,
le fece.
Arianna gli cedette il posto e, una volta presa
visione della marea di tubi, viti e bulloni, rinunciò all'impresa.
“Fosse stato il motore di un'auto, ti avrei
aiutato molto volentieri.”, le fece, “Ma non ne capisco niente.”
“E' già qualcosa in più di me. Lascia stare, tra
un'oretta dovrebbe arrivare il tecnico, la faccio sventrare a lui. Hai fame?”
“Non molto, ma prendo volentieri un caffè, se è
possibile.”, disse.
“Perfetto, ne faccio subito un vagone!”
Arianna abbandonò tutti i suoi attrezzi e si
occupò della macchinetta per il caffè.
“Dove le hai trovate tutte quelle chiavi
inglesi?”, le domandò con aria divertita.
Poteva essere un luogo comune e maschilista, ma
non pensava che fossero molto appropriati per una donna.
“Erano di mio padre.”, rispose lei, “Non credo
che avesse mai saputo come piantare un chiodo al muro, aveva sempre qualcuno che faceva
queste cose per lui, ma li possedeva comunque. Erano tutta roba sua, l’ho
ereditata insieme alla casa. Alcuni strumenti sono più vecchi di noi due messi
insieme, non so come si usano. “
Nel frattempo Arianna aveva preparato la moka e
l'aveva messa sul fuoco. Si sedette davanti a lui.
“Little mi ha detto del locale, che vuoi
venderlo.”, le rivelò.
“Sì, ho dovuto.”, gli fece, “Non sai quanto mi
sia costato farlo, non riesci nemmeno ad immaginarlo.”
“Lo capisco perfettamente e sono sicuro che anche
Little la pensi così.”, cercò di rassicurarla, “E' solo un po' confusa, non è
l'unica cosa che ha perso in questi giorni.”
“Certamente... Ho dovuto dirglielo, se lo
avessi fatto tra dieci giorni avrebbe avuto la medesima reazione.”
“Che cosa farai ora?”
Arianna era giù di corda, più di quanto lasciasse
ammettere.
“Non lo so.”, rispose, con un sospiro, “Ho un
paio di idee, ma non so se posso attuarle.”
“Ad esempio?”
“Trovare un altro lavoro in città.”, disse lei,
“O muovermi altrove.”
Muoversi altrove? E dove?
“Stai tranquillo, Danny.”, lo anticipò lei, “Non
credo che la tua Little avrà molto per cui opporsi.”
Nel sentire quel 'la tua Little', sottolineato
anche da uno sguardo dolce, Danny non poté trattenere un sorriso imbarazzato.
Il rumore della moka attirò l'attenzione di entrambi e pochi attimi dopo la sua
tazzina di caffè fu pronta per essere bevuta. Lo zuccherò e con il cucchiaino
prese a girarlo.
“Quando torni a casa?”, gli domandò la donna,
dopo che ne ebbe preso un sorso.
“Pensavo di mettermi alla ricerca di un modo per
farlo.”, le fece, “Comunque nella giornata di domani.”
“Va bene... Ne avete parlato?”
Cercò di evitare di abbuiarsi, ma non ci riuscì.
“No, ancora no.”, le rispose, “Pensavo di farlo
appena possibile... Però...”
Ci aveva pensato per ore.
La domanda era banale e scontata:
avrebbero
potuto continuare o almeno iniziare a vivere qualcosa tra di loro con
tutta
quella distanza in mezzo? Ieri sera era sembrata la cosa più
facile del
mondo, ma una volta finito tutto, una volta tornati ad essere Danny e
Joanna,
l'uno accanto all'altra, era diventata sempre più complicata. La
risposta era:
provarci, anche se sarebbe costato uno sforzo immane, ma non se la
sentiva di
soffrire. Era codardo perché non voleva starci male: avrebbe
voluto che tutto venisse vissuto nel migliore dei modi, mentre l'unica
cosa che era andata per il
verso giusto era stata la notte precedente.
“Non lasciarti prendere dallo sconforto.”, disse
Arianna, “Vedrai che tutto si sistemerà per il meglio.”
“Non ci credo, mi dispiace.”
“E io credo che, se Jo ti sentisse, non ne
sarebbe contenta.”
“Ok, ora se n'è andato.”, disse a Dougie, appena
sentì la porta della sua stanza chiudersi.
“Perché non volevi parlare mentre c'era Danny?”,
chiese l'altro, perplesso.
“Perché l'ultima volta che è saltato fuori il tuo
nome abbiamo fatto le scintille.”
“Quindi è stato ieri sera?”, ne approfittò
subito Dougie per scoccarle una frecciatina.
“Ma no, scemo... L'altro ieri.”
“Anche l'altro ieri?!?”
E scoppiò a ridere.
“Poynter, per cortesia, anche se ti è
impossibile, sii serio.”
“Ok, Jonny, lo faccio solo per te.”, si
ripristinò, anche se lei non ci credette molto, “Allora, com'è stato?”
“Certo che te lo dico!”, ironizzò Joanna,
“Proprio a te!”
“Ma dai... E io che sono così curioso...”,
si finse deluso Dougie, “Comunque, sono contento per te... In fondo era
quello che volevi, no?”
“Beh... Sì, ma non a discapito di un'altra
persona.”
“Non credo che sia successo quello che pensi.”,
le fece Dougie.
Il suo tono voleva essere convincente, ma lei non
era capace di crederci. Era quello che aveva voluto, forse dal primo giorno in
cui Danny era partito per tornarsene a casa, un anno fa, ma non in quel modo.
Non aveva mai voluto mettersi tra due persone.
“Forse non sai quanto siamo stati scettici,
tutti noi, quando ci ha presentato Tamara.”, le disse Dougie.
“Ma non gliel'avevi presentata tu? O Harry...”,
disse Joanna, perplessa.
“Intendevo nel senso 'Hey, ciao a tutti, sono
Jones dei McFly e questa è la ragazza con cui andrò a vivere'. Non so se mi
spiego, Little...”, ironizzò Dougie, chiamandola con il nomignolo tipico di
Danny da sempre.
“E questo cosa c'entra con me?”, borbottò
stancamente Joanna.
“Dio, quando ti metti in testa una cosa,
niente la toglie!”, la rimproverò Dougie, “Volevo dirti che quando ci
ha detto che si era ufficialmente fidanzato con lei, abbiamo strabuzzato gli
occhi perché stavamo facendo conto alla rovescia per capire quando sarebbe
successo con te!”
“Ma comunque è arrivata lei! Non significa niente
quello che c'era prima!”, ribatté prontamente.
Sentì Dougie sospirare profondamente, per
riprendere la calma.
“Little, posso dirti una cosa?”, le
chiese, “Una cosa dal profondo del cuore...”
Titubante, acconsentì.
“Vaffanculo. Ci sentiamo!”
E chiuse la chiamata.
Sbigottita, non seppe cosa fare. Dougie l'aveva
appena mandata a fanculo.
Forse ha detto bene....
Ad ogni modo non le piaceva fare dei torti agli
altri. Odiava sentirsi in colpa con qualcuno, forse solo Danny avrebbe potuto
toglierle quel dubbio dalla testa. Non sapeva con quali parole ma glielo
avrebbe chiesto, ed oltretutto non era l’unico argomento spinoso da affrontare.
Che bell’inizio, Joanna...
Lo cercò nella sua stanza e la trovò vuota, lui
non c’era. Il bagno era troppo silenzioso perché fosse lì dentro, doveva essere
sceso al piano inferiore. La voce bassa di Danny la invitò verso la cucina,
dove doveva trovarsi insieme ad Arianna.
“Che cosa farai ora?”, lo sentì chiedere ad
Arianna.
Si fermò poco dietro lo stipite della porta.
Odiava origliare le conversazioni altrui, ma quelle quattro parole le
catturarono l’attenzione con uno schiocco di dita.
“Non lo so.”, rispose lei, “Ho un paio di idee,
ma non so se posso attuarle.”
“Ad esempio?”
“Tornare a fare il mio vecchio lavoro. Muovermi
altrove.”
Ogni preoccupazione su Danny venne cancellata con
quella frase, Joanna si rimproverò ancora di essere egoista. Se muoversi significava spostarsi in un’altra
città, in un’altra casa, in un altro mondo, allora si sarebbe opposta fino allo
stremo delle forze. Lì stava più che bene, non voleva trasferirsi ancora, ogni
spostamento del genere non portava altro che un lungo periodo di crisi davanti
a sé. Eppure Arianna aveva la sua
vita, non poteva legarla a quel posto solo perché non voleva seguirla.
Se decideva di andarsene, allora lei avrebbe dovuto accettarlo e comportarsi di
conseguenza: cercarsi un’altra casa, magari qualche affitto a poco per
studenti. Iniziare tutto di nuovo da capo.
Una fine è sempre l’inizio per qualcos’altro.
Quella perla di saggezza del signor
Jones non
poteva essere valida. Joanna non ce la faceva a troncare ancora con la
vita a cui
si era abituata per iniziarne una tutta nuova. Non poteva essere sempre
così:
aveva bisogno di stabilità, di qualcosa a cui aggrapparsi
finché non avesse trovato la tranquillità interiore
a cui aspirava da sempre, e che non era
mai stata capace di raggiungere perché qualcosa
gliel’aveva sempre tolta dalle dita.
“Quando torni a casa?”, domandò Arianna.
“Pensavo di mettermi alla ricerca di un modo per
farlo. Comunque nella giornata di domani.”
“Va bene... Ne avete parlato?”
No, non ne avevano affatto parlato. Aveva provato
prima di addormentarsi con lui, sapendo benissimo che non era il caso di
entrare in quell’argomento.
L’indomani Danny sarebbe partito e... E?
Prima che avesse deciso di fare l’amore con lui, di
farlo per la prima volta, riuscendo ad abbattere moltissime delle stupide
barriere di cui si era per anni circondata, le era sembrato uno scherzo. Si era
detta di volerlo fare, che sarebbe stato bello e tutto quello che sarebbe
venuto dopo lo sarebbe stato ancora di più.
Pochi attimi dopo la fine, però, quello scherzo
si era trasformato in un pensiero fisso. Non era possibile stare insieme.
“No, ancora no.”, le rispose Danny, “Pensavo di
farlo appena possibile... Però...”
“Non lasciarti prendere dallo sconforto.”, disse
Arianna, “Vedrai che tutto si sistemerà per il meglio.”
Quel fondo di naturale ottimismo di Arianna la
irritò un po’.
“Non ci credo, mi dispiace.”
Sospirò.
Nemmeno Danny ci credeva, e se erano in due a non credere, allora che senso
aveva continuare a prendersi in giro?
Ma che bella coppia che siete...
“E io credo che, se Jo ti sentisse, non ne
sarebbe contenta.”
Così come era arrivata lì, Joanna se ne tornò nella sua
stanza in silenzio, a far finta di non aver sentito niente, di non aver
realizzato che non era l’unica ad avere il grosso difetto di essere troppo
iperrealista. Aveva sperato che Danny potesse aiutarla a vedere il lato buono
di quello che avrebbero dovuto affrontare, ma non era così.
“Little?”, si sentì chiamare.
Cercò di cancellare ogni pensiero.
“Mi aiuteresti a trovare un volo per domani?”, le
domandò Danny, con un piccolo sorriso.
Inghiottì il magone.
“Certo.”, gli fece, “Accendo il computer e
facciamo un giro in internet.”
“Ok, buona idea.”
Con il portatile che giaceva sulle
gambe, Little
stava inserendo i dati nel sito della compagnia aerea di bandiera
inglese, alla ricerca di un posto disponibile per lui. Uno di qualsiasi
tipo, non
era molto schizzinoso in fatto di prezzo, classe e visuale panoramica.
Era
sempre un volo d’aereo, mica una vacanza.
Danny le sedeva accanto, sul letto, e guardava
quello schermo, mentre i numeri ed i nomi degli aeroporti venivano
visualizzati. Doveva trovare il coraggio di affrontare la questione, era molto
più che evidente il fatto di non poterla rimandare. Spostò gli occhi sul suo
piccolo naso all’insù.
Little si voltò per un solo attimo e gli sorrise,
riempiendolo di una sola briciola di felicità, poi tornò al suo computer.
“Guarda, ci sono alcune disponibilità.”, disse
poi, una volta che la pagina virtuale si fu caricata, “Dalle tre di domani
pomeriggio i voli hanno posti liberi.”
Danny allungò una mano e chiuse lentamente lo schermo
del portatile.
Sospirò, doveva parlarle ad ogni costo.
“Little...”, le disse., “Ce la faremo?”
Lei abbassò gli occhi.
“La domanda corretta sarebbe: vogliamo davvero
provarci?”, disse lei.
Avvertì subito la piccola vena di rabbia nelle
sue parole.
“Vorrei tanto, Little... Credimi, vorrei davvero
tanto provarci.”, le disse, “Ma...”
“Era facile pensarlo prima.”, continuò
lei, “Ma dopo...”
Non seppe cosa dirle.
“E non tirare fuori la scusa del non volermi fare
soffrire.”, riprese Little, “Perché preferisco sapere che ci abbiamo almeno
provato, che star male e non aver fatto niente per cercare di costruire
qualcosa.”
Aveva perso tutte le parole. Ogni volta che era
arrivato ad un traguardo con Little, non aveva fatto altro che tirarsi indietro
facendosi scudo di tanti se e tanti ma.
“Lo sai, mi conosci... Faccio
fatica a credere in
tutto quello che mi riguarda.”, disse ancora lei, “Avevo
almeno sperato di poter fare qualcosa per avere fede in... In noi
due.”
Scosse la testa, non era lì che voleva arrivare.
No, non voleva ritrovarsi al medesimo punto di un
anno fa. Non voleva tornare a casa sapendo di stare bene così com’era, senza
Little. Aveva speso tempo e lacrime, sue e di altre persone, prima di capire
che le voleva più del bene che pensava di provare per un’amica comune. Lei non gli dette tempo di parlare.
“Lo sapevo che stava succedendo utto per il semplice
fatto che avevi rotto con Tamara. Lo sapevo.”, gli disse.
Scostò il computer dalle gambe e si allontanò da
lui.
“Ti piace prenderti gioco di me, Danny?”, gli
chiese, ormai in piedi, “Ti diverti?”
No, affatto.
“Sei soddisfatto?”, fece ancora, “Mi stai facendo
sentire come una stupida... Come una cretina, perché sono una cretina. Una
cretina che si lascia facilmente abbindolare da quelli come te!”
Non aveva la minima forza per risponderle. Niente,
non aveva voce in gola. Si stava sentendo esattamente come il giorno
precedente, quando Little era venuta a riversargli addosso la storia di suo
padre. Completamente svuotato da tutto.
“Sei stata un’illusione bella e buona, Danny.”,
sentenziò Little, “Un’illusione fallita.”
Stava quasi per parlare ancora, quando la voce
trillante di Arianna si fece spazio tra di loro.
“Hey, avete trovato un volo?”, chiese, ancora nel
corridoio, “Perché una mia amica ha un’agenzia
di viaggi, potrebbe aiutarvi meglio del computer.”
Forse fu istinto, forse fu la voglia di non
volersi sentire accusare delle proprie colpe: Danny le rispose.
“Molto gentile da parte tua, Arianna.”, le fece,
“Internet non è poi così male, ho già trovato qualcosa.”
La donna parve deludersi.
“Ah... Come volete, allora.”, disse lei, “Jo è lì
con te?”
La guardò.
Stringeva i pungi così forte che avrebbero potuto
sanguinare, teneva gli occhi fissi sulle piastrelle del pavimento. Poi, come
una saetta uscì dalla camera, aprendo la porta e spaventando Arianna,
che si trovava tranquillamente al di là.
La prima cosa che vide dopo la fuga di Little fu
lo sguardo perplesso della donna, che
presto si tramutò in vera preoccupazione. Infine, la donna seguì Little,
lasciandolo solo.
Arianna la teneva tra le braccia, le diceva che
sarebbe finito, che sarebbe andato tutto per il verso giusto, ma Jo non
l’ascoltava. Era troppo impegnata a piangere e a nascondersi. Chiuse
nell’intimità della propria camera da letto, Arianna cercava di calmarla.
“Jo, stammi a sentire.”, le disse per l’ennesima
volta, “Forse non è come pensi...”
“E come sarebbe allora?”, gridò, tra un
singhiozzo e l’altro.
Maledetti uomini e le loro capacità comunicative
del cazzo...
C’era passata anche lei per quella stessa strada,
sapeva come si risolvevano i rapporti del genere. Ora che ci pensava, era
passata per molte altre strade nei rapporti con l'altro malaugurato sesso,
forse sarebbe stato anche il caso di darci un taglio e mettere la testa a
posto, ma non era quello il suo momento.
“Se ti calmi te lo dico... Ci stai?”, le fece.
Ci volle del tempo prima che Jo alzasse la faccia dall’incavo tra la
sua spalla ed il collo. Annuì con un debole cenno della testa, mentre
con le mani asciugava timidamente le lacrime dalle guance e dagli occhi
arrossati.
“Danny ti ha detto che non se la sente di
continuare... Vero?”
Era una domanda brusca e di poco tatto, ma non
voleva stare a menare il can per l’aia. Doveva arrivare dritta al punto, prima
che lei scoppiasse di nuovo a piangere.
“Sì...”, rispose lei, con un filo di voce, per
giunta rotta, “Speravo che... Almeno lui...”
Ecco, lo sapeva.
Se era Jo stessa a non crederci, come poteva
farlo anche Danny? Come poteva lei non sforzarsi e biasimare lui per
comportarsi esattamente nello stesso modo?
“Jo, dovete impegnarvi entrambi. Non solo
Danny...”, le fece, provando a farla ragionare.
“Ma lo sai come sono fatta, Arianna! Lo sai che
non riesco a vivere sulle nuvole!”
“Non è questa una buona giustificazione per il
tuo atteggiamento.”, la corresse con gentilezza, “Vuoi Danny? Allora prendilo e
mettici tutto il tuo impegno.”
“Abitiamo a un’ora e mezza di volo l’una
dall’altro!”, ribatté lei prontamente.
“Allora vuol dire che non lo vuoi veramente.”
“Non è vero!”
La cocciutaggine di Jo era spesso più
impenetrabile di un muro di cemento armato spesso dieci metri. Avrebbe dovuto
usare le maniere forti per farle capire quale fosse la soluzione adatta per
loro.
“Se fosse vero, avresti in mente qualcosa per
migliorare la vostra situazione.”, volle provocarla.
“Scusami, ma non riesco a pensare a niente!”
“Magari Danny ci ha già pensato, però non gli hai
dato il tempo di parlartene.”
Quella frase sembrò mettere in discussione le sue
pessimistiche incertezze. Jo esitò nel risponderle a tono, soffermandosi a
pensare alle sue parole.
“Non fraintendermi, Jo, a volte non so davvero
cosa passi per la mente di quel ragazzo.”, le fece, “Però sono abbastanza certa
che questa possibilità lo abbia sfiorato, anche da lontano.”
Jo on capiva dove volesse andare a parare, la guardava come se le stesse parlando in una
lingua totalmente sconosciuta.
“Jo...”, le fece, guardandola dritta negli occhi,
“Il tuo lavoro fa schifo, il mio l’ho venduto ad un tizio che ho visto solo due
volte in tutta la mia vita. La tua famiglia non è delle migliori, mentre io
sono l’unica sopravvissuta della mia, insieme a mia sorella che abita tutta
felice a Milano, insieme al suo marito perfetto.”
Forse stava realizzando, lo vide dal microscopico
guizzo incontrollato del suo sopracciglio destro.
“Non c’è niente che ci trattiene qui... O
comunque molto poco.”, continuò.
Jo strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca.
“Ho un piccolo appartamento su, a Londra. E’
molto piccolo... Però non ci daremo fastidio, lo so.”, cercò di invogliarla, "E per il lavoro, beh, ho tanti amici lassù, maagari qualcuno ci può aiutare....”
Jo si fece perplessa.
“No, Arianna, non voglio
trasferirmi lassù.”, disse, con una certezza nel tono di
voce che la spaventò.
Non l'avrebbe mai convinta.
“Guarda che non lo fai per lui. Ma per te
stessa.”, le fece.
C'era un solo modo per farsi dire di sì: far
passare quel cambiamento radicale per un bisogno personale. Si trasferivano
lassù perché la loro città non aveva più niente da offrire ad entrambe ed
avevano bisogno di aria fresca, di amici nuovi e di un lavoro migliore, mentre
Danny era solo una piccola parte della questione. In fondo, era anche la
verità: personalmente non si sentiva più soddisfatta di quello che
Firenze le proponeva, e Londra era la città in cui aveva vissuto per anni e di
cui aveva i più bei ricordi di tutta la sua esistenza. Per Jo sarebbe stato un
doppio cambiamento: oltre a trasferirsi in un posto totalmente diverso da
quello in cui era abituata a vivere, Arianna era sicura che Londra avrebbe
potuto davvero farla uscire da quel bozzolo protettivo in cui si era nascosta
per anni, e da cui lentamente aveva imparato a tirarsene fuori. Le serviva solo
il calcio finale.
Danny l'avrebbe sicuramente aiutata, lei le
avrebbe dato tutto il suo sostegno. Sarebbe stato difficile, non solo per Jo,
ma per lei stessa. Dovevano iniziare tutto da capo, rimboccarsi le maniche e
tirare fuori i denti, ma con un po' di impegno ce l'avrebbero fatta. Se le
avessero dato un giorno di tempo, la sua mente, unita alla potenza delle linee
telefoniche, sarebbe riuscita a inventarsi qualcosa.
“Arianna, non voglio seguirlo.”,
disse Jo.
“E non lo farai.”, le fece, “Vivrai con me, così
come adesso. Avrai un lavoro, uno qualsiasi, oppure tornerai a studiare, chi lo
sa? Avrai la tua vita, ti farai nuovi amici e nuove esperienze. Danny farà solo
parte di tutto questo.”
Sembrò vacillare.
Arianna sapeva di essere molto persuasiva, se
si incaponiva nell'ottenere qualcosa.
“Sono affezionata a questo posto, non lo voglio
lasciare.”, ribatté nuovamente.
“E che cosa ti ha dato?”, le domandò, "Elencami quello che sarai costretta a metterti
alle spalle. Fammi una lista, così potrò capire
anch'io.”
La colse pienamente in contropiede. Jo non la
sapeva accontentare, era logico.
Purtroppo avevano quella particolare
caratteristica in comune: non avevano niente che le tratteneva lì e non era un
eufemismo. Entrambe non riuscivano a trovare facilmente legami affettivi con il
prossimo, sebbene lei potesse sembrare molto più estroversa e spigliata della
piccola Jo. Arianna poteva dire di avere un mucchio di amici, un centinaio di
nomi in rubrica, decine di persone con cui poter passare una lieta serata in
compagnia, ma solo una manciata di queste potevano mancarle veramente, una
volta tornata in Inghilterra. Per il resto, non aveva niente da aggiungere.
“Non ti chiedo una risposta adesso.”, le disse,
“Ma solo di pensarci. Ti ho dato mille motivi per dirmi un sì, ma se me ne
darai in cambio milleuno per un no, allora non ti forzerò in questa mia
decisione.”
“Ma se decido di rimanere, tu non devi fare
altrettanto.”
Scosse la testa.
“Jo, ti voglio troppo bene.”, le fece,
abbracciandola ancora, “Ormai sei parte della mia famiglia.”
Cacciò indietro le lacrime, ma una di queste
scese furtivamente.
“Ci penserò.”, disse Jo, stringendosi
nell'abbraccio.
Era già qualcosa.
Quel maledetto telefono prese a squillare,
troncandolo in due. Che cazzo, la batteria non si scaricava mai? La gente non
si stancava di rompergli le scatole nei momenti meno opportuni? Si alzò dal
bordo del letto su cui era seduto e rispose.
“Pronto?”
Qualche secondo di totale assenza di suoni.
“Danny?”, esordì una voce piccola e
lontana.
Era Tamara.
“Danny? Mi senti?”
Adesso era lui a non avere voce in gola. Gli
capitava troppo spesso, ultimamente.
“Sì, forte e chiaro.”, le rispose, con tono
piatto.
Non voleva esser scortese con lei, ma non ce la
faceva proprio a trattenersi. Si era svegliato da poco, ma era più stanco che
dopo mille concerti suonati di fila.
“Beh... Volevo dirti che ho preso gran parte
delle mie cose.”, fece Tamara, “E che me ne sono andata.”
“Lo so.”, le rispose subito, “Me lo hanno detto
ieri.”
“Non ne avevo dubbi.”
Anche lei non era meno infastidita di lui, lo
poteva sentire benissimo. Ad ogni modo, doveva assolutamente farle capire che
dovevano chiarire quella situazione faccia a faccia. Che le fosse piaciuto o
no, dovevano parlarne.
“Senti, Tamara.”, esordì, “Non credi che dovremmo
sederci faccia a faccia e discuterne?”
Cercò di essere comunque conciliante.
“Non voglio tornare insieme a te, Danny.”,
si negò subito lei.
“Non era questo quello che intendevo, lasciami
parlare.”
“Non ho niente da dirti.”
“Ma io sì.”, le fece, “E vorrei davvero che mi
ascoltassi.”
“Parlamene ora!”, lo esortò lei, “Perché
non credo che avrò tempo per te, domani me ne vado."
Quella notizia lo spiazzò.
“E... Dove?”
“In giro con delle amiche.”, replicò lei,
“A te non deve interessare, te l'ho detto solo perché nel mio vecchio
appartamento ho trovato delle cose tue.”
“Forse domani potrei riuscire a passare da te a
riprenderle.”
“Quando tornerò.”, disse lei, statica.
“Ok, come vuoi.”, le rispose.
Niente, Tamara aveva già chiuso la telefonata.
Fissò il cellulare.
Le aveva voluto molto più che bene, non c'erano
dubbi, ma si odiava.
Lo aveva trattenuto perché non voleva perderlo,
ma lui non lo aveva afferrato, interpretando la sua mossa come pura gelosia
ingiustificata nei confronti di Little. Se fosse rimasto a casa, forse Tamara
avrebbe continuato ad essere la sua fidanzata per molti altri anni. Forse
sarebbe finita comunque, anche per altri motivi oltre a
Little.
Una fine è sempre l’inizio per qualcos’altro.
Lo aveva detto lui stesso. Si chiese se fosse
contento di come si erano risolte le cose, ed era così insicuro che non seppe
scegliere tra il sì ed il no. Era felice, aveva trovato in Little ciò che
cercava, ma al contempo non lo era, perché se lei fosse rimasta in Italia niente
avrebbe potuto funzionare. La voleva accanto a sé, vederla quando ne
aveva voglia, quando aveva tempo, quando non c'era nessun motivo per farlo, e
se fosse rimasta lì niente di questo sarebbe potuto succedere, ma non poteva
chiederle di trasferirsi, né lui
poteva assolutamente lasciare il proprio paese.
Sbuffò, riprese il pc e
controllò ancora le
disponibilità dei voli, volle anticipare il ritorno. Il primo
aereo libero partiva alle sei di quella stessa sera, dall'aeroporto
cittadino. Carta di credito alla mano, lo comprò.
Seduta sul divano, la tv riproduceva un vecchio
cartone animato che guardava sempre da piccola, ma non la sfiorava nemmeno.
Guardava lo schermo, ma era come cieca e non vedeva niente.
La scelta era nelle sue mani, Arianna aspettava
solo lei. Prendere o lasciare? La sua irrazionalità gridava a pieni polmoni di
prendere il primo volo insieme a lui. La sua razionalità urlava di rimanere lì,
non seguire nessuno, tranne che se stessa. Doveva trovare un compromesso tra le
due parti, cosa alquanto difficile. La sua intransigenza era nota, tutti
avevano imparato a conoscerla e sapevano quanto fosse testarda. Una volta
imboccata una via era difficile lasciarla e quella legge valeva per tutto, che
fossero stati modi di pensare, punti di vista, opinioni su persone...
Sentimenti.
Vattene via di qua.
Rimani.
Lascia questo posto.
Non partire.
Non poteva giustificare il trasferimento in
Inghilterra come qualcosa di cui aveva bisogno, come aveva detto Arianna, e
non aveva senso mascherarsi. Se ci andava, lo faceva per stare con lui, mentre
il resto veniva dopo. E se qualcosa fosse andato storto? E se avessero capito
che non erano fatti per stare insieme? Cosa avrebbe fatto? Sarebbe tornata a
casa come un cane bastonato ed avrebbe dovuto affrontare di
nuovo tutto dal principio.
Quando si sentì toccare la spalla, Joanna sussultò.
“Sono io.”, le disse Danny, sedendosi accanto a
lei.
Si strinse in un piccolo sorriso un po’ falso,
poi tornò a guardare la tv.
“Ho comprato il biglietto.”, continuò a parlarle,
“Il volo è stasera alle sei.”
Sentì il sangue nelle vene ghiacciarsi, ma si
impose di restare calma.
“Ok, va bene.”, gli disse.
Voltò la faccia verso la tv, ignorando la sua
presenza accanto a lei. Dimenticò tutto il calore che sentiva sulla
pelle, l’immagine del suo sorriso, il suono della sua voce. Spazzò tutto dalla mente.
“Mi
dispiace.”, tornò a dirle Danny, “Non so cosa
fare...”
Era davvero deciso ad andarsene. Bene, era
contenta di saperlo. Si morse le labbra e si trattenne
“Mi sono fatto fraintendere.”, Danny scosse la testa schioccando la lingua, contrariato, “Io voglio provarci, Little. Voglio
provarci davvero, ma non credo di avere la forza per sopportare
tutta questa distanza. Prima di tutto questo era stato difficile tenersi in contatto
scrivendosi una sola mail a settimana... E quanto tempo ci vuole a buttare giù
tre parole? Cinque minuti?”, si chiese Danny retoricamente, “Sai bene che spesso non ero
capace di trovare un solo secondo per te. Adesso sarebbe un’idiozia tornare a
come eravamo prima, non mi accontento più di leggerti o di sentirti per
telefono... Io voglio saperti sempre vicina.”
Le ci volle tutta la sua capacità d’animo per
resistere ancora.
“Era ciò quello che volevo dirti.”
Un’altra sola parola e sarebbe ancora miseramente
crollata come un castello di carte in equilibrio sulla capocchia di uno spillo.
“Mi piacerebbe tanto che uno di noi due potesse
avvicinarsi all’altro, ma non ti posso chiedere di trasferirti. Sarebbe
stupido, sarebbe come ripetere lo stesso errore che ho fatto con Tamara,
sarebbe velocizzare le cose e non voglio... E’ questo il nostro problema,
Little.”
Lo sentì sospirare, rinunciare.
“E poi hai ragione.”, continuò, “Prima era
sembrato un problema da niente. Ma dopo...”
“E’ una cosa che si fa in due.”, Joanna ebbe il coraggio
di rispondergli, “Se è successo, è stato perché lo abbiamo voluto entrambi.”
“Mi dispiace, Little.”, le fece.
Si sentì illusoriamente protetta da ogni fastidio
quando Danny l’abbracciò. Appunto, illusoriamente, ma era un’illusione
che avrebbe voluto vivere.
“E’ stato un errore.”, disse Joanna, “Ho sempre
saputo che sarebbe stato così.”
“Sappi che lo commetterei ancora.”
Le dette un bacio sulla fronte, poi sciolse
l’abbraccio. Joanna non resistette un altro secondo. Era patetico ma non voleva
che la lasciasse sola, almeno finché non se ne sarebbe davvero andato. Si
strinse al collo, Danny le sorrise. Le passò un braccio intorno alle spalle,
l’altro la convinse a stendere le sue gambe a cavallo delle sue. Rimasero così
per molto altro tempo, Joanna pensò quasi di essersi addormentata.
Danny non si fece accompagnare all’aeroporto, ma decise
di farsi venire a prendere da un taxi. Era tutto stramaledettamente uguale ad un
anno prima, con l'unica grande differenza che non avrebbero potuto più essere come allora. Il tassista suonò il campanello: Danny salutò
Arianna con un abbraccio ed un bacio sulla guancia, ringraziandola per tutto
quello che aveva fatto per lui, per averlo sopportato e messo sulla buona
strada, anche se non era poi servito a molto.
“Vado a dire al tassista che deve aspettare cinque
minuti.”, gli fece Arianna, con un sorriso e un pizzicotto sulle guance, che
non aveva più ricevuto da quando era bambino.
“Grazie ancora.”, le disse, “Dov’è andata Little?”
“E’ in giardino.”, gli suggerì la donna, prima di
aprire la porta.
Percorse il corridoio fino alla parte opposta
della casa ed uscì. Se ne stava seduta vicino alla staccionata, come la sera
precedente. Le si avvicinò.
“E’ arrivato il taxi.”, disse a Little, “Devo
andare.”
Lei annuì e sussurrò un flebile buon viaggio, non
gli bastarono affatto. La costrinse a guardarlo negli occhi in un modo molto
semplice: si sedette davanti a lei e la scosse.
“Tutto qui quello che hai da dirmi?”
Le sorrise con sincerità.
“Ti prometto che mi farò sentire, lo giuro.”, le
disse, “In qualsiasi modo.”
“Non avrebbe senso.”, lo zittì lei.
Si sentì amareggiato.
“Little, non mi stai rendendo le cose facili...
Per favore.”
“E cosa dovrei fare, allora?”, sbottò lei,
infastidita, “Sorriderti quando non ho voglia di farlo? Dirti che mi farebbe
piacere sentirti quando non è vero? Perché vuoi che sia ipocrita con te?”
“Quando sono partito speravo di tornare a casa
vedendoti sorridere.”, le disse con semplicità.
“Non ci riesco, mi dispiace.”
In fondo, le voleva bene anche quando faceva
così.
Si avvicinò per darle un bacio, ma
quando le labbra la toccarono le sentì stranamente fredde. Poi, d’improvviso si
infiammarono e diventarono calde e dolci, così come le aveva sempre conosciute.
La morbidezza del tocco, il sapore soffice di lei
rese più evanescente ogni problema e si sentì esattamente forte e deciso come
aveva pensato di essere, prima di fare l’amore con lei. La baciò ancora, con
più intensità, sottolineando i lineamenti del suo collo con le dita.
Little si scostò, segnando la fine. Danny si sentì profondamente imbarazzato ed a disagio.
“Adesso devo proprio andare.”, balbettò.
Annuì.
“Fai buon viaggio.”, rispose lei.
“Grazie.”
Si sentiva la gola arida e vuota. Sistemò il
cappellino sulla testa e si alzò.
Fu difficile compiere il primo passo, i piedi si
erano aggrappati saldamente alla terra, affondandovi radici stabili e forti.
Una volta compiuto, però, gli altri vennero da sé e lo portarono fuori di lì.
Poi sul taxi, fino all’aeroporto.
This is the closest thing to crazy I have ever been.
Ed eccomi ancora qua :) Oggi
niente lavoro, così ho trovato qualche minuto per aggiornare e
appiopparvi questo polpettone melodrammatico chiamato Little e Danny.
Chissà poi quando tornerò con una nuova storia,
quindi se ci tenete un pochino alle mie storie, sappiate che siamo agli
sgoccioli. Altri due capitoletto, poi un epilogo e spero che digerirete
tutto a Pasqua dell'anno prossimo XDSuvvia, un pochino di bicarbonato, acqua calda e zucchero, che si digerisce tutto!
Quindi, prima di passare ai ringraziamenti, voglio mettere qualcosa che
qualcuno ha fatto per me... E di cui non mi sono dimenticataaaaaa!!!
The Closest Thing To Crazy © x_blossom_x
Te lo avevo detto che lo avrei
postato in questo capitolo ** ogni tanto la mia mente lavora bene,
sisi. Quindi grazieeeeeeeeeeeeeeeeee.
Ah, il titolo e l'ultima frase del capitolo, compreso il nome del
blend, sono sempre derivati dall'omonima canzone di Katie Melua. Senza
scopo di lucro.
Ringraziamenti!
Ciribiricoccola: Scema
cosmica, hai fatto bene a non sapere cosa pensare. Ma ti pare che quei
due facciamo le cose a modino, come tutte le persone di buona
volontà? No, perchè quando scrivevo non volevano saperne
di comportarsi per bene. Ci vorranno altre parole prima che succeda
qualcosa di positovo.
ludothebest: Oh, se mi
commenti qui e poi non ti fai sentire di là... Ti strozzo eh!!!
XDDDD Ma dai, non ti preoccupare. Mi basta sapere che leggi e che
apprezzi/schifi. E' questo l'importante, non la presenza delle
recensioni. Ammetto tranquillamente che quando
l'uccellino-fiorellino mi ha detto che mi leggevi, sono rimasta
alquanto sbalordita (sai... visti il luogo che... insomma, si
frequentava... eggià, ti spiegherò meglio!) ma saperti
tra mie lettrici mi fa un immenso piacere ** alla prossima :)
kit2007: Leggendo questa
storia con la cioccolata in mano è molto kamikazistico XD Ne
mangerei a quintali dal nervoso che mi fanno venire quei due, quindi ti
apprezzo per la pazienza e mi scuso per eventuali escrescenze facciali,
sperando che non ce ne saranno. Hai detto che ti aspetti di tutto
e fai bene,con questa storia di va da tutte le parti e non si arriva
mai... Purtroppo. Beh, ma tra poco c'è la fine. Chissà
cosa succede.
Cowgirlsara: Non ti preoccupare
per il ritardo, nessuno si deve scusare con me per questo genere di
cose, non me lo merito. Ma veniamo al dunque. Hai detto bene, non
si arriva a nessuna conclusione.... Uffi, e dire che ero partita bene
XD Mi rifarò con la prossima storia!
saracanfly: Hey, era da un po' che non ti sentivo! Bentornata! Spero ti sia piaciuto :) alla prossima!
Bene, al prossimo ritardo! Ruby
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Capitolo 16 *** Hard To Say ***
The
singer finished singing and she's walking out.
The singer sheds a
tear, her fear of falling out...
And it's hard to say how I feel
today
for years gone by and I cried...
Tutto era iniziato
ancora.
Tutto, ogni più
piccola cosa era ripartita per il suo solito corso di vita.
Si era licenziata dal
multisala, dove non si era mai sentita soddisfatta né del lavoro che
le facevano fare, né della paga che le davano. Poteva essersi
trovata bene con i suo colleghi, ma pulire i pavimenti dalle
incrostazioni dei popcorn non era proprio la sua massima aspirazione. Per il momento faceva un sacco di colloqui, avrebbe voluto
comunque continuare a lavorare al pubblico e non le sarebbe
dispiaciuto stare dietro ad un bancone di un negozio, di qualsiasi
genere. Aveva anche pensato
seriamente di riprendere gli studi, era stata Arianna a proporle
quell'idea. Ci aveva pensato per una settimana, ma non si sentiva
ancora sicura del passo che stava per fare: iscriversi all'università
e tornare sui libri le avrebbero tolto il tempo per poter guadagnare
un buono stipendio e mantenersi da sola, e non voleva gravare sulle
spalle di nessuno, era fuori discussione. Arianna era stata
entusiasta quando gliene aveva parlato e le aveva dato tutto il suo
appoggio, di ogni genere, anche finanziario, ma aveva prontamente
rifiutato. Si sarebbe inventata qualcosa, per il momento aveva ancora
un po' di tempo per rifletterci in maniera più approfondita, le
iscrizioni sarebbero scadute a fine mese. Le sarebbe piaciuto
comunque tornare a studiare lingue straniere, cosa che le era sempre
piaciuta ma che suo padre le aveva negato, obbligandola ad iscriversi
alla facoltà di medicina, come era ancora impresso nei suoi ricordi.
Appunto, ricordi.
Arianna era tornata a
fare quello in cui era capace più di ogni altra cosa: affari.
Era troppo intelligente
e furba per mettersi dietro ad una scrivania e digitare lettere
commerciali, o ricevere chiamate e prendere appuntamenti per il capo.
Quando si trattava di impegnare la mente in un idea e realizzarla,
non la batteva nessuno. Possedeva materia grigia discretamente
funzionante ed un po' di denaro da impiegare: si era sempre detta che
se non avesse avuto il padre dirigente, si sarebbe sentita frustrata
per la mancanza di risorse economiche da investire nei suoi progetti,
ma Joanna era sicura che sarebbe stata capace di guadagnare milioni
con un solo centesimo nel borsello. Arianna ossedeva un paio di
vecchi appartamenti: li stava facendo ristrutturare, piuttosto che
decadere inutilizzati, ed aveva intenzione di affittarli. Nello stesso
stabile, inoltre, c'era un grande salone vuoto, a piano terra:
inutile dire che voleva convertirlo in un qualche locale, aveva già
valutato un paio di fantasiose ipotesi, accanto ad una di tipo
tradizionale su cui Joanna puntava più del resto.
Quell'idea era aprire
un ristorante di tipiche produzioni italiane.
Arianna era scettica,
ma non se la sentiva di rischiare fino in fondo con il pub in stile
horror ed il locale zen. Era più vincente un progetto assodato ed
aveva un buon fiuto per capire che la gente dei quartieri limitrofi
avrebbe accolto la sua idea con entusiasmo. Bastava avere l'occhio
per scegliere le materie prime giuste, poi tutto poteva essere
passato per italiano... Non al cento per cento, ma le bocche che
avrebbero assaggiato i suoi piatti non avrebbero sentito la
differenza. Semplicemente perché
non sarebbero state bocche italiane e importare la
mozzarella di bufala dalla Campania costava un braccio e quattro
dita.
Questo stava a
significare una sola cosa: Joanna si era decisa.
Ma l'aveva fatto solo
per se stessa, non per altri motivi. Con Arianna, erano arrivate nel
suo piccolo appartamento in piena Londra, nel quartiere di Mayfair,
vicinissimo ad Hyde Park. Come le aveva detto tempo fa, era un po'
piccolo: per le unità di misura mentali di Arianna poteva esserlo,
abituata alla sua villetta a due piani con giardino, ma per quelle di
Joanna era molto più che sufficiente.
Quando entrarono lo
trovarono sommerso dalla polvere, era da più di un anno che Arianna
non vi metteva piede e ci vollero due giorni per ripulirlo tutto,
sterilizzarlo, liberarlo dai ragni e dai gechi. Il terzo giorno
decisero di sostituire le tende ed i tappeti, comprare dei nuovi
piatti e spendere il resto in nuovi abiti. Il quarto giorno salirono
su un bus turistico e si fecero un giro per tutta la città,
visitando qualche museo e scattandosi foto in compagnia delle cere
dei divi famosi, esposte al Madame Tussauds. Il quinto decisero di
dedicarsi a cose più serie: andarono in una beauty farm. Durante il
sesto Arianna fece un giro per le case di tutti i suoi vecchi amici e
glieli fece conoscere: erano persone molto più che simpatiche, anche
se un po' altezzose, ma Joanna fu comunque contenta di prendere parte
alle pubbliche relazioni di Arianna.
Ed il settimo giorno,
ovviamente, si riposarono. Lo diceva anche la Bibbia che la domenica
era festività per tutti.
La seconda settimana
passò come un lampo in ciel sereno: ognuna si preoccupò di se
stessa e dei propri progetti, non ebbero tempo nemmeno per fermarsi,
erano troppo prese da quello che passava loro per la testa e, ora che
erano giunte al sabato, stremate sul divano, decisero di godersi il
secondo fine settimana in città.
Non aveva detto a
nessuno che si trovavano lì, ed era altrettanto sicura che nel caos
di Londra nessuno l'aveva vista. Sarebbe stato praticamente
impossibile, e se ne accertò quando chiamò Dougie.
“ Pronto?”,
rispose lui, ignaro.
“ Hey, Dougster.”,
gli fece.
Rimase un attimo
perplesso, lo stava chiamando dal suo nuovo cellulare, con una nuova
scheda, con un nuovo numero tutto inglese.
“ Jonny?”
“ Sì, sono proprio
io.”
Era alquanto scioccato,
stupito, dubbioso, contento, incerto, sbalordito... Provava tutto un
insieme di emozioni contrastanti che lo facevano riflettere. L'aveva
sentita sporadicamente in quel mese da poco concluso e la
chiamata più recente, oltre a quella che l'aveva colto pienamente
spiazzato poche ore prima, risaliva a poco dopo il rimpatrio di
Danny. Adesso capiva: a quanto
gli aveva spiegato, era arrivata da due settimane ed erano state
completamente sommerse dal trasferimento. Non sapeva dire se fosse
contento di trovarsela davanti, seduta nel salotto dell'appartamento
londinese di Arianna, mentre la donna stava preparando loro qualcosa
da bere. Era ancora troppo confuso: non se lo sarebbe mai aspettato
anche se, ad essere sincero, aveva pensato alla possibilità di avere la sua Jonny tra i piedi, ma
l'aveva vista come una cosa remota.
E Danny non sa
niente.
“ Quando pensi di
dirglielo?”, le chiese, “Prima o poi lo verrà a sapere, lo sai?”
Jonny sembrò
rifletterci.
“ Non lo so... Ma non
per il momento.”, gli rispose, “Adesso ho ancora delle cose da
sistemare.”
“ Devi farlo al più
presto, Jonny.”
Danny non se la cavava
tanto bene. Faceva finta di niente, si comportava come sempre, come
se non fosse successo niente. Niente.
Lo conoscevano abbastanza bene per sapere che lo faceva solo per
evitare di affrontare la situazione: la casa era vuota, e Jonny era
rimasta in Italia. Lei non lo aveva mai cercato, lui non provava
nemmeno a farlo. Un paio di volte Danny
gli aveva chiesto se avesse saputo qualcosa di lei, ma aveva dovuto
negare. All’inizio non gli aveva creduto, accusandolo di non
volergliene parlare: solo dopo un bel faccia a faccia si era convinto
che gli stava dicendo la verità.
Inoltre, la notizia
della fine della storia con Tamara non era passata molto in sordina:
se da una parte le fans si dividevano tra l’essere contente e
l’essere dispiaciute, la stampa aveva un po’ speculato sopra i
motivi per cui si erano lasciati, ma ormai i media si erano abituati
alla totale riservatezza con cui tutti loro trattavano i loro affari
personali, e presto non ebbero più niente su cui lucrare, dato che
nessuno rilasciava dichiarazioni, né i rumori che circolavano
sembravano essere uno più vero dell’altro.
“ Lo farò, Doug, lo
farò.”, gli disse Jonny, con tono quasi infastidito.
Non ne voleva parlare,
era ovvio. Non credeva alla giustificazione che aveva dato al suo
trasferimento, o meglio, aveva capito che si era aggrappata alla
voglia di cambiamento per non voler ammettere che lo aveva fatto per
lui. Ma forse si sbagliava... Forse.
“ Beh, lo sai, mi fa
molto più che contento saperti qua vicino, a mezzora di distanza da
casa mia.”, le fece con sincerità, “Solo che non mi va di
mentire a Danny.”
“ Non ti ho chiesto di
farlo.”, rispose Jonny, “Vorrei solo che non gli dicessi niente.”
“ Per me è come
mentire.”
“ Non ti facevo così
moralista, Dougster.”, ribatté lei, “E’ solo un piacere che mi
fai, potrai chiedermi di sdebitarmi quando vuoi.”
“ Non è quello il
punto. Danny è mio amico, mi conosce, non sono bravo a tenere un
segreto con lui e con gli altri.”
Lo sguardo di Jonny si
approfondì e si fece più deciso che mai.
“ Non devi dirglielo.
Per niente al mondo, Douglas Lee Poynter, non devi farlo.”
Per un brevissimo
istante, sentì un piccolo brivido percorrergli la schiena. Non gli
piaceva quella Jonny, né condivideva la sua scelta, ma la doveva
accettare.
Tolse la matita
dall’orecchio e cancellò il segno sullo spartito, modificando il
la
in un si.
“ Non credo che una
nota su ottomila possa cambiare qualcosa.”, borbottò Danny.
“ Hai ragione.”, gli
rispose Tom, con pazienza, “Però cambia la melodia del ritornello,
Jones.”
Danny sbuffò, si
sentiva annoiato e non aveva voglia di starsene nel suo studio con
loro, a provare. Harry se n’era appena andato, non trovando
migliore occupazione che dormicchiare sul divano. Tom era tutto
concentrato in mille strofe e ritornelli, il resto era solo un
optional per la sua presenza lì dentro. Dougie se ne stava
chino sul suo basso e faceva vibrare le corde con poco rumore: la
testa era circondata da un paio di grosse cuffie, le note che suonava
erano percepite solo da lui.
Danny lo stava osservando da un bel pezzo a quella parte.
“ Doug, cos’hai?”,
gli fece, ignorando il fatto che non potesse sentirlo.
Prese il cuscino
accanto a sé e glielo tirò, facendolo sobbalzare per lo spavento.
“ Ma che cazzo!”,
protestò Poynter, togliendosi le cuffie con fastidio.
“ Hey, calmati
amico!”, lo fermò prontamente, “Volevo solo sapere che cosa
avevi!”
“ Niente, va tutto
bene.”, lo seccò, tornando sul suo basso e isolandosi di nuovo.
Tom gli lanciò
un’occhiata di assenso, segno che era meglio lasciar perdere. Erano
diversi giorni che Dougie si comportava in modo strano, ancora più
assurdamente che lui. Nel novanta per cento delle situazioni era se
stesso, nient’altro che Poynter, con tutte le bizzarre
sfaccettature della sua personalità adolescenziale., ma capitavano
dei momenti in cui non era lui. Momenti come quello.
Danny aveva iniziato a
prestarci attenzione, non tanto alla frequenza con la quale
potevano capitare, ma al come
succedevano. Un’infinità di piccoli particolari erano quadrati
nella sua testa, e non volle elencarli tutti perché si sarebbe fatto
prendere dalla rabbia, bastava semplicemente convogliarli verso
un’unica direzione.
Dougie era strano
quando si trovava nei suoi paraggi, e se rimanevano soli trovava una
scusa banale per andarsene.
Non voleva essere
paranoico, ma ne aveva la piena certezza. C’era qualcosa che gli
nascondeva, oppure ce l’aveva con lui, non lo sapeva. Quando Danny
Jones arrivava, Dougie Poynter si zittiva, oppure abbassava il tono,
come per non attirare l’attenzione. La sua
attenzione.
E dire che pensava che
ne bastasse uno su quattro -lui-
a fare l’idiota del villaggio, e non nel senso comune del termine. Si rivolse a Tom.
“ Hey... Mi spieghi
che cos’ha?”, gli chiese, con un lieve cenno di testa verso
Dougie.
“ Non lo so.”,
rispose brevemente Tom, senza prestargli troppa attenzione, “Ti sta
sentendo, non è scemo.”
Danny si alzò,
preferendo non assistere un minuto di più a quella sceneggiata. Andò
verso Dougie e gli tolse le cuffie dalla testa, sotto la faccia
attonita di Tom e nel pieno stupore del bassista.
“ Hai qualche problema
con me?”, gli chiese.
Dougie era ancora
troppo frastornato per rispondergli e Danny ne approfittò per avvicinare una
sedia e sedersi di fronte a lui.
“ Danny, ma cosa
dici...”, gli fece, con un sorriso imbarazzato sulla faccia.
Gli occhi si muovevano
dai suoi a quelli di Tom e cercavano sostegno, ma Fletcher era
altrettanto fuori fase.
“ Ascoltami, non sono
uno scemo. Ho notato i tuoi comportamenti, e mi stanno seccando. Mi
stanno molto
seccando.”
“ Scusami, non so di
cosa parli.”, disse Dougie.
“ Non prendermi in
giro.”, era perentorio, “Dimmi se hai qualche problema con me.”
“ Non c’è niente,
Danny!”, ribatté l’altro, “Ho il diritto di farmi girare le
palle per i cazzi miei oppure no? E’ solo una tua prerogativa?”
“ Almeno io ho un
motivo. Tu ne hai uno?”
Dougie non resistette.
Lo guardava con rabbia, mentre si toglieva il basso di dosso. Lo
ripose nella sua custodia. Tom non sembrava avere il coraggio per
interporsi tra di loro.
“ Dacci un taglio,
Danny.”, gli disse, “Non ho niente a che vedere con i tuoi
problemi.”
“ Allora spiegami
perché, quando ci sono io, tu diventi un’altra persona.”
“ E’ una cazzata.”
“ No, non lo è, lo
abbiamo notato tutti!”, Danny cercò gli occhi di Tom, “Non è vero?
L’altro alzò le
spalle, scosse la testa.
“ Sei paranoico,
Jones.”, sibilò Dougie, “E te lo ripeto, non accusarmi dei tuoi
problemi.”
Il suo problema era
chiaro a tutti, sebbene cercasse di tenerlo nascosto il più
possibile e di sorridere anche quando tutto quello che avrebbe voluto
fare era starsene muto ed inespressivo.
“ Non lo sto facendo,
credimi, ti sto solo chiedendo di parlarmi del tuo!”
“ Non ne ho!”,
esclamò l’altro, agitandosi fino a scoppiare, “Io non ho nessun
problema, io sto benissimo! Sei tu che continui a vivere
come se non ne avessi!”
“ Non è di me che
stiamo parlando, Poynter!”
“ Ah no? E di chi,
allora?”, sbuffò l’altro, sarcastico.
“ Di te e del fatto
che mi tieni nascosto qualcosa!”
In un istante gli
sembrò di vederlo turbato, come se avesse colto nel bel mezzo della
questione.
“ Certo, Danny, ti sto
tenendo nascosto qualcosa.”, disse Dougie, “E vuoi sapere che
cos’è?”
Fu lui ad esitare.
“ Dimmelo.”
“ E’ un coniglio nel
cappello, idiota.”
Prese il suo basso e
uscì dalla stanza. Danny se ne rimase a fissare la portacome un
imbecille, ed il pugno di mosche che aveva tra le
dita volò via.
“ Contento adesso?”,
gli chiese Tom.
“ Lo sai anche tu che
è strano.”, rispose al suo amico, tornando a sedersi sul divano,
“Non negarlo.”
“ Ti dico le stesse
cose che hai sentito da Dougie.”, fece l’altro, “Mi dispiace.”
“ Grazie, bel sostegno
da parte tua.”, borbottò, scuotendo la testa.
Tom posò la chitarra,
passandosi una mano sugli occhi stanchi e stropicciandoli.
“ Danny, ti prego,
chiamala.”, gli disse.
“ No.”, rispose
prontamente, “E’ fuori discussione.”
Il biondo chitarrista
si frugò nelle tasche e gli porse il suo telefono.
“ Per l’amor del
cielo, Danny, fai quel cazzo di numero e parlale!”, gli impose,
cercando di essere autoritario.
“ No, non mi
risponderebbe.”
“ Ma cosa ne sai!”,
contrattaccò subito, “Chiamala e basta!”
“ No.”
“ Spiegami almeno
perché!”
Tom era visibilmente
adirato e, essendo sempre stato la calma fatta persona, faceva
abbastanza paura in quello stato. Danny non voleva parlarne, non lo aveva
mai fatto ed era sempre stato bene in quel modo. Sfogarsi non sarebbe
servito a niente, solo a stare peggio, ed era sicuro che l’avrebbe
superata con calma e pazienza.
“ Danny, non è Dougie
quello che ci sta preoccupando, sei tu.”, gli disse Tom, “Non è
lui quello strano, sei tu. Tutto perché sei così testardo e
cocciuto da fare sempre come ti pare, senza chiederci aiuto.”
“ Non ne ho bisogno.
Sto bene così.”
Tom non si arrese e
continuò a pregarlo di chiamarla, di provare a parlarle. A cosa sarebbe servito?
A niente, Little non gli avrebbe risposto, era stata chiara,
preferiva non sentirlo più. Non avrebbe avuto senso farlo: non gli
interessava sentire la sua voce vicina, amplificata dalla cornetta
del telefono, mentre lei gli parlava a chilometri e chilometri di
distanza. Se non poteva guardarla negli occhi, allora non valeva la
pena nemmeno provarci.
“ Fletcher, non
insistere, ti prego.”, gli disse, “Se mi comporto così ho le mie
ragioni per farlo.”
“ Non ti capisco,
Danny.”, rispose l'altro, “Ti ci è voluto più di un anno per
capire che ne eri innamorato, e poi molli tutto. Se ti fosse stata
veramente a cuore, avresti lottato fino in fondo.”
“ Non posso chiederle
di trasferirsi qui!”, esclamò, “Sarebbe assurdo!”
“ Potevamo parlarne,
Jones.”, disse Tom, sconsolato e stanco, “Sarebbe bastato
riuscire ad organizzare bene il nostro lavoro.”
“ Non sarebbe comunque
abbastanza!”, ribattè.
“ Vuoi sempre tutto e
subito, Jones, non sai aspettare.”, borbottò Tom e lasciò l'osso,
riprendendo la chitarra e tornando a correggere lo spartito davanti a
sé.
Infastidito ed
arrabbiato, Danny lo mollò da solo nello studio, preferendo
spostarsi in un'altra stanza della casa, dove avrebbe cercato in
qualche modo di allentare la tensione.
***
Jonny aveva due
opzioni: scegliere di studiare o di lavorare. Non era capace di
decidersi.
Dougie era lì con lei,
seduto intorno al tavolo della propria cucina. Arianna l'aveva
accompagnata lì pochi minuti prima e, nonostante la discreta
vicinanza all'appartamento di Danny, Jonny non sembrava curarsene.
Era bastato solo non farsi riconoscere, con un cappuccio sulla testa:
come era già successo altre volte, avrebbe voluto presentarsi da lei,
sarebbe stato più sicuro, ma era stata Jonny ad insistere. Aveva
voluto vedere dove viveva, come fosse fatta casa sua, e l'aveva
accontentata. Non le aveva detto della litigata avuta con Danny durante la
settimana appena scorsa, non le voleva rinfacciare il peso di quella
drastica ed insensata imposizione.
Lei sospirò,
chiedendosi se mai sarebbe riuscita nella scelta. Un negozio di
oggetti da regalo l'aveva chiamata, dopo il centesimo colloquio di
lavoro, e le aveva detto che voleva tenerla un paio di settimane in
prova. Inoltre, si era informata su come poter essere ammessa alle
università inglesi: la pratica era abbastanza lunga, c'erano
centinaia di moduli da compilare, oltretutto doveva essere esaminata
sulla sua conoscenza dell'inglese e avrebbe anche dovuto fare un test
d'ammissione, se aveva capito bene. Aveva quasi abbandonato l'idea di
approfondire la conoscenza delle lingue, preferendo altri corsi
di tipo umanistico e storico-letterario.
Stava cercando di
aiutarla e, anche se non sapeva esattamente cosa dirle e come
consigliarla, era felice per lei, non sapeva dire quanto. Quella che
aveva accanto non era neanche lontanamente la Jonny che aveva
conosciuto, né quella di cui era diventato amico. Sebbene fosse
ancora l'essenza naturale dell'incertezza, il saperla impegnata in
quella decisione così difficile, ma soprattutto vedere la sua
presenza materiale e stabile lì in Inghilterra, era la dimostrazione
che aveva avuto il coraggio di fare fronte alla sua vita. Forse erano state le
parole dure e taglienti che le aveva detto nei momenti di rabbia
qualche tempo fa, ma credeva più nella brutta scossa che le aveva
dato Danny. Jonny aveva voglia di prendersi una rivincita contro
tutte quelle persone che le avevano fatto male, in un modo o
nell'altro, e provava a dimostrare al mondo ed a se stessa che era in
grado di farcela.
Poco prima aveva
ricevuto una chiamata dall'Italia, da parte di sua madre, che le
aveva chiesto come si trovasse lassù. Sbrigativamente Jonny l'aveva
aggiornata, senza mancare di dirle quanto era felice lontano da loro.
Gli spiegò che la chiamava regolarmente, almeno una volta alla
settimana.
“ Dougster, perché è
così difficile!”, si lamentò, la fronte appoggiata sul freddo
tavolo di vetro.
“ Perché se fosse
facile, tutti sarebbero in grado di farlo.”, le rispose, unendo le
mani dietro alla testa e stiracchiando la schiena.
“ Vorrei tornare a
studiare, ma poi mancherebbero i soldi per mantenermi.”, ripeté
lei, per l'ennesima volta
“ Allora dovresti dire
di sì al negozio.”, le fece, tirando fuori il solito consiglio che
le aveva già dato.
“ Ma mi piacerebbe
anche studiare!”
“ Puoi fare le due
cose contemporaneamente.”
“ Non so se ci
riuscirei.”, continuò lei a lamentarsi.
“ Non hai nessuno che
possa aiutarti?”, le chiese.
“ Non voglio
nessuno
che possa aiutarmi.”, rispose Jonny, con tono perentorio, “Ce la
devo fare da sola.”
Erano sempre più
uguali. Lei e Danny si somigliavano sempre di più, gli venne da
sorridere a quel pensiero, ma allo stesso tempo c'era ben poco da
gioire. Per lui era sempre più difficile gestire la situazione tra i
due e ogni occasione di incontro con Jones diventava uno scontro,
tanto che sia Tom che Harry avevano fiutato qualcosa. Aveva promesso
ai due che gliene avrebbe parlato, ma che non avrebbero dovuto
assolutamente riferire a Danny. Era chiaro che non
poteva durare a lungo e che prima o poi tutto sarebbe degenerato.
Jonny non lo voleva capire. Voleva dimostrare che non si era
trasferita in Inghilterra per stare con lui ma per vivere la sua
vita? Beh, per quanto lo riguardava quello scopo era già stato
raggiunto da un bel pezzo, poteva anche uscire allo scoperto.
“ Sappi che io sono
dalla tua parte.”, le disse, “E che non mi tirerei mai indietro
se avessi bisogno di una mano.”
“ Ti ringrazio, Doug,
ma per il momento i soldi non mi mancano.”
“ Appunto, per il
momento, ma poi?”, le fece, “Le rette sono care, la vita qua è
ancora più costosa...”
“ Grazie per
l'incoraggiamento...”, borbottò lei, “Ma se devo mendicare,
preferisco allora rinunciare e mettermi a lavorare.”
Non la capiva, certe
volte non ci riusciva proprio.
“ Allora preferisci
continuare a vivere insoddisfatta piuttosto che impegnarti in
qualcosa a cui tieni.”, esclamò Dougie, cercando di farle capire
che non si stava riferendo solo a quella scelta, ma bensì anche a
qualcos'altro.
“ Non ci arrivi,
Doug!”, rispose lei, adirandosi, “Non voglio avere nessun debito
sulle spalle!”
“ Non ne avresti, non
ti chiederei niente indietro, nemmeno un penny!”
“ Ma mi sentirei
comunque in dovere di restituirti tutto!”
“ E allora, se ti fa
tanto piacere, mettiamola così.”, le volle proporre, “Ti aiuto,
e quando sarai in grado di saldare il tuo debito, lo farai.”
Se quel giorno
fosse arrivato,Dougie non avrebbe mai accettato. Le stava offrendo il suo
appoggio perché poteva tranquillamente permetterselo, e niente lo
avrebbe mai convito a riprendersi indietro i suoi soldi, anche a
costo di litigare a morte con Jonny.
Lei, comunque, era
sempre incerta.
“ Dougie, non pensare
che sia venuta qui per chiederti del denaro...”, disse poi,
abbassando lo sguardo imbarazzato.
“ Beh, se credi che lo
abbia pensato anche per un solo secondo, allora possiamo anche non
parlarci mai più.”, le fece, con falsa serietà.
“ Volevo solo che mi
aiutassi a scegliere...”, piagnucolò lei.
Le si avvicinò, le
sostenne il viso tra le dita della mano destra.
“ La tua scelta l'hai
già presa, Jonny.”, le disse, “Ed io ho preso la mia. Ti
iscriverai all'università, cercherai un lavoretto poco stressante e,
quando avrai bisogno di me, basta chiamare. Non posso darti
ripetizioni, a meno che tu non sia interessata allo skate o al basso,
ma ho abbastanza centesimi sotto il cuscino per poterti sollevare
dalla retta che dovrai pagare... E anche dalle altre spese, se ti va.
Sono più che felice di farlo, lo sai, non ti immagini quanto sia
contento per te.”
“ Ma Dougie, io...”
“ Zitta, non
obiettare.”, le fece, chiudendole la bocca con l'altra mano, “Ho
già emesso la mia sentenza, ora non devi fare altro che metterti
sotto nello studio e farmi contento. Voglio vedere dei risultati!”
Lei sbuffò in una
risata e nello stesso attimo lui la seguì. Per ringraziamento si
accontentava anche di un abbraccio e, come se gli leggesse nella
mente, Jonny si strinse al suo collo, facendolo quasi cadere dalla
sedia.
“ Piano!”, la sgridò
scherzosamente, “Non vedi che c'è scritto 'alto
e fragile'?
Mi stai strozzando!”
Gli dette un sonoro
bacio sulla guancia.
“ Ti voglio bene,
scemo di un Poynter.”
Adesso non voleva
davvero nient'altro in cambio, si sentiva pienamente soddisfatto e
felice. Il sapere di poterle essere realmente d'aiuto lo faceva stare
bene, era quello che aveva aspettato..
Un rumore strano alle
sue spalle gli solleticò l'orecchio.
“ Little?”
“ Non ha detto di che
cosa si tratti, ma ha promesso che ce ne parlerà, a patto di non
riferirti niente.”, gli disse Harry, seduto davanti a lui, insieme
a Tom, “Questo è tutto.”
“ Tutto?”, domandò
Danny, scettico di quello che aveva appena sentito.
“ Sì.”, intervenne
Tom, “Dougie sta nascondendo qualcosa. Soprattutto qualcosa a te.”
“ Lo sapevo...”,
borbottò.
Realizzare di avere
pienamente ragione non lo stava facendo affatto stare meglio, anzi,
la sua rabbia aumentava. Dougie stava tacendo qualcosa di importante,
qualcosa che lo riguardava, ma ne aveva fatto parola con Tom ed
Harry, che adesso glielo stavano riferendo. Doveva tenersi a mente di
fargli i complimenti, oltre che ad incazzarsi con lui come pochissime
altre volte in tutti quegli anni insieme.
“ Calmati, Danny.”,
gli disse Harry, “Non fare niente di stupido, se Dougie ce l'ha
detto vuol dire che prevede di farlo presto anche con te.”
“ Capite che non
parlavo a sproposito quando dicevo che era strano?”, sbuffò, senza
ascoltarlo, “Perché non mi credevate?”
“ Lo avevamo intuito
anche noi.”, rispose Tom, “Ma volevamo solo aspettare che lui si
facesse avanti. Lo sai com'è fatto, se non vuol parlare, non lo
farà.”
Esattamente come lei...
“ E tu sai benissimo
cosa significa quando una persona ha quel carattere, Jones.”,
sottolineò Harry, cogliendo il suo pensiero, “Non lo si può
forzare a parlare, ma il fatto che ci abbia anticipato questa
cosa...”
“ Non me ne frega un
cazzo, Judd!”, esplose Danny, “E non ci passerò sopra!”
“ Nessuno chiuderà un
occhio, puoi starne certo.”, riprese Tom, con tono conciliante, “Ma
se continui così, ci farai pentire di avertelo detto.”
“ Tom ed io abbiamo
discusso molto sul fatto di fartelo sapere o no.”, disse Harry,
“Pensavamo che avresti reagito con razionalità e non agitandoti
così.”
Se si era incazzato a
quel modo, c'era un motivo ben preciso. Dougie non aveva mai avuto
motivo di tener segreto qualcosa, aveva sempre parlato di tutto,
perché loro erano amici.
Erano una famiglia
e si
davano una mano a lavare i panni sporchi. Se Dougie aveva
violato quella regola implicita, allora si sentiva giustificato per
una qualche ragione.
Ma di tutte le cause del mondo, però, gliene veniva in mente solo
una.
“ Vado a parlargli.”,
disse, con decisione.
“ No, Danny,
siediti.”, gli impose Harry, “Non lo farai adesso, né mai,
aspetta di esserti calmato.”
“ Ma soprattutto
aspettiamo che si faccia avanti Dougie.”
No, non era sua minima
intenzione attenderlo, però Harry aveva ragione, doveva calmarsi,
altrimenti non lo avrebbero mai lasciato andare. Fece passare un paio
di ore e, non appena la guardia dei due si fu abbassata, tirò fuori
una scusa banalissima ma molto efficace per togliersi da casa di Tom,
luogo in cui quella specie di riunione segreta si era svolta. Doveva tornarsene a
casa, fu quello che disse, e li convinse entrambi, ma fece una
piccola sosta fuori percorso.
Si fermò a diversi
portoni da quello di casa sua, svoltando a sinistra ed entrando nel
cortiletto di casa Poynter. Percorse tutto il tratto verde che
circondava l'appartamento e, una volta sul retro, bussò alla porta
di legno bianco. Attese, nessuno sembrava in casa. Bussò di nuovo e,
nonostante quello, Dougie non gli aprì. Decise allora di entrare,
molto probabilmente si stava dedicando alla pennichella quotidiana,
data l'ora che segnava il suo orologio.
Il corridoio lo portò
per primo verso il salotto, dove la televisione era illuminata da un
film in bianco e nero, a cui era stato tolto l'audio. C'era un po' di
confusione: cd sparsi, la consolle per i videogiochi per terra, i
joystick che riposavano sul divano. La seconda porta si affacciava
sul bagno e la lasciò perdere.
Sentì poi una risata,
era Dougie.
“ Piano!”, disse il
suo amico bassista, “Non vedi che c'è scritto 'alto
e fragile'?
Mi stai strozzando!”
Se non fosse stato per
la ragione che l'aveva spinto lì, si sarebbe pentito di essere
entrato furtivamente. Dougie era in compagnia e lo avrebbe colto in
una situazione abbastanza compromettente ed imbarazzante. Sentì lo schiocco di
un bacio.
“ Ti voglio bene,
scemo di un Poynter.”
Si sentì pietrificare,
dalla testa ai piedi, al suono di quella voce femminile così ben
conosciuta. Non poteva essere, no,
si era sicuramente sbagliato. Era un'altra persona, due voci potevano
somigliarsi al tal punto da confonderle, gli capitava spesso quando
sua zia gli telefonava, la scambiava sempre per sua madre. Ma quelle
due stesse voci potevano anche avere lo stesso particolare accento?
Ebbe paura di muovere
un passo e scoprirla lì, con Dougie, e di realizzare che fosse lei
il segreto che il suo amico gli nascondeva. Quello non glielo avrebbe
davvero mai perdonato. Mai.
Si fece coraggio.
Piuttosto che vederla
abbracciata a lui, con un viso dall'aspetto felice, avrebbe preferito
una tortura qualsiasi, di ogni tipo.
“ Little?”
Lei aprì gli occhi e
lo vide. Nello stesso istante, le sue braccia si sciolsero dal collo
di Dougie, che si voltò immediatamente.
Non sapeva quale
sentimento provare: delusione, amarezza, rabbia. Era confuso, non
sapeva dove guardare, i suoi occhi non facevano altro che spostarsi
da Little a Dougie, dai quali traspariva tutta la colpevolezza della
loro azione.
“ Danny... Ciao...”,
balbettò Poynter, “Che ci fai qua?”
Prese un profondo
respiro e gli rispose.
“ Ero venuto per farti
una visita. Ma vedo che qualcuno mi ha preceduto.”
Little se ne stava
accanto a lui, mani giunte che nervosamente si contorcevano, mentre
lo sguardo era incerto.
“ Come stai?”, le
chiese Danny, “Hai fatto un buon viaggio?”
Dougie gli aveva
nascosto che sarebbe venuta a trovarlo, ecco qual era stato il suo
problema in quei giorni. Non voleva che lui ne venisse a conoscenza,
ma Tom ed Harry erano stati in parte informati: ciò stava a dire che
almeno loro due l'avrebbero vista, ma non lui. Lui non era stato
invitato. Era stato lei a
chiederglielo?
“ E' arrivata poche
ore fa...”, cercò di recuperare Dougie, “Sono... Andato a
prenderla all'aeroporto, avevamo in programma di passare a
trovarti...”
“ Sì?”, fece, poco
convinto, “Peccato che non sapessi che stesse per arrivare.”
“ Volevamo farti una
sorpresa.”, continuò Dougie a mentirgli, “Pensavo ti sarebbe
piaciuto.”
“ In genere sì, ma
questo tipo di sorprese mi vanno abbastanza di traverso.”
“ Mi... Mi dispiace,
però ero certo che...”
“ Finiamola, Dougie.”,
disse Little, il suo tono era inequivocabilmente sicuro, “Lo vedi
che non la sta bevendo?”
Quella frase fu peggio
di uno schiaffo in pancia, di un pugno sullo stomaco, di un coltello
affondato nella carne. Uno scorcio di quello che era successo iniziò
a formarsi nella sua mente. Non ci sarebbero state sorprese per lui,
solo quello che aveva già intuito. Lei era venuta a trovare Dougie,
Tom ed Harry, non Danny.
“ Jonny, possiamo
scambiare due parole?”, le domandò Dougie.
“ Non mi dispiacerebbe
ascoltarle.”, disse Danny ai due, incrociando le braccia ed appoggiandosi
allo stipite della porta, “Soprattutto se mi aiutano a capire che
cosa diavolo stia succedendo.”
“ Niente, Danny.”,
gli rispose ancora Poynter.
“ Dougie, basta.”,
lo zittì Little, “Tagliamola qui, non ha più senso continuare.”
Il terribile sospetto
che non si trattasse solo di una semplice visita di cortesia tra
amici lo atterrì dalla paura, ma cercò di non far trasparire alcun
pensiero. La parte di lui che sentiva tuttora la sua mancanza, che
voleva stringerla e averla ancora una volta per sé, si era
ammutolita nello stesso attimo in cui l'aveva sentita baciare Dougie
e dirgli che gli voleva bene. Se quella possibilità era il futuro
che si sarebbe trovato a vivere, non era certo di avere il coraggio
di affrontarlo.
Preferiva mollare.
Little si sistemò i
capelli dietro alle orecchie e si schiarì la voce. Danny non voleva farla
parlare, non sapeva che cosa avrebbe potuto sentire.
“ Mi sono trasferita
qui, con Arianna.”, disse.
Sentì un esplosione in
petto.
“ Da un mese.”
Il cuore tornò a
fermarsi per l'ennesima volta.
“ Nei prossimi giorni
mi iscriverò all'università, ho deciso di tornare a studiare.
Arianna ha già avviato tutte le pratiche per aprire un nuovo locale.
Abbiamo la nostra vita, e ce la caviamo piuttosto bene. Dougie ha
saputo tutto solo due settimane fa, sono stata io ad imporgli di non
dirti assolutamente niente.”
Fece una breve pausa.
“ L'ho fatto per me, e
quello di cui mi importa è stare bene.”
Un'altra pausa.
“ Da sola.”
Danny vide Dougie voltarsi e
parlarle, ma fu solo un rumore lontanissimo. Little si voltò verso
di lui, gli disse qualcosa, ma non riuscì a capirla. Danny si
sentiva dentro ad una campana di vetro che lo isolava dal mondo
esterno: i due si animavano, alzavano i toni della discussione ma non
percepiva le loro voci. Era tremendo, era così surreale che le
orecchie si erano sigillate, forse per paura di sentire parole in più
rispetto a quelle che già gli avevano fatto male. Doveva trovare il modo
di uscire da quella prigione, il respiro iniziava a mancargli.
Soffocava.
“ Ok.”, disse, tutto
d'un botto.
I due si interruppero.
“ Ok.”, ripeté, “Se
è quello che vuoi...”
Little sembrò
titubante, ma fu solo per una piccolissima frazione di tempo.
“ Sì.”, rispose,
“E' quello che voglio.”
La rabbia per Dougie e
le sue bugie svanirono. Si estinse anche la paura che potesse essere
successo qualcosa tra lui e Little. Tutto si volatilizzò e diventò
vapore acqueo, che gli bagnò la fronte. Lo stipite a cui era
appoggiato era diventato improvvisamente il posto più scomodo su cui
avesse mai sostato.
“ Va bene.”, disse
Danny, “In bocca al lupo per lo studio...”
Divincolò le braccia,
nervosamente incrociate sul petto, e se ne andò senza attendere il
saluto di nessuno dei due.
***
China sui libri di
storia, Joanna stava dando un ripasso ai fatti storici del medioevo, tanto
per non farsi trovare impreparata al test di ammissione che avrebbe
avuto tra due settimane. Si volle prendere un quarto d'ora di pausa
ed accese la macchinetta del caffè. Non avendo la mente occupata
dalle vicende di Carlo V, il quasi ultimo imperatore del Sacro Romano
Impero, l'unica cosa a cui riuscì a pensare fu il solito e classico
sorriso. Ci sarebbe voluto
tempo, ma prima o poi anche quello sarebbe finito. Si sentiva
stranamente fiduciosa, forse per il fatto di aver passato con
facilità il primo scalino verso la sua nuova carriera universitaria,
essendo stata promossa a pieni voti all'esame di lingua inglese, e
credeva che si sarebbe presto tolta quel pensiero fisso dalla testa.
La porta principale si
aprì e si chiuse con un tonfo, Arianna era tornata.
“ Jo?”, la chiamò
subito, come era solita fare.
“ Sono qua!”, le
rispose, “Vuoi un caffè?”
“ Per carità, no! Ne
ho già presi dieci, potrei avere un infarto!”, sbottò ridendo.
La sentì camminare sui
suoi tacchi e un passo dopo l'altro fu in cucina.
“ Stavi studiando?”,
le chiese, sedendosi.
Era stanca, lo si
vedeva dalle grandi occhiaie sul suo volto. Da diversi giorni era in
frenesia: doveva dirigere i lavori di ristrutturazione ed era in
piena crisi. Tutti gli operai sembravano fregarsene delle sue
decisioni e doveva spesso imporre i suoi progetti e la sua autorità.
Aveva accolto con felicità la decisione di Dougie di darle una mano
con lo studio: resasi conto che l'inflazione aveva fatto salire
vertiginosamente i prezzi di tutti i beni venduti in terra inglese,
Arianna si stava rendendo conto di quanto le sue casse si stessero
prosciugando in fretta e di come non poteva aiutarla fino in fondo.
Aveva ricambiato il bel gesto di Dougie promettendogli che lo avrebbe
sempre fatto mangiare gratis, se fosse mai riuscita ad aprire il suo
ristorante. Oltre alla ristrutturazione, infatti, la difficoltà più
grossa era nel riuscire a trovare del personale qualificato ed adatto
al suo scopo: non poteva mettere un cuoco inesperto a cucinare un
ragù, o ne sarebbe uscito un disgustoso pappone al ketchup e carne
trita. Joanna le aveva anche
parlato di Danny. Arianna non si era stupita della sua reazione,
anzi, era esplosa con un amaro 'te
l'avevo detto',
ma Joanna si aggrappava all'ottimismo che sentiva, oltre che al
motivo primario che l'aveva spinta lì: il bisogno di stare bene.
“ Stavo facendo una
breve pausa.”, le rispose.
“ Sono quasi le otto,
è l'ora di darci un taglio con questo barbone a cavallo!”,
borbottò Arianna, dando un'occhiata al libro aperto.
“ E' Carlo V,
ignorante.”, le rispose ridacchiando.
“ Per me poteva anche
essere l'antenato di Brad Pitt, ma per il momento è giusto mandarlo
nel dimenticatoio.”
Chiuse il libro con un
tonfo.
“ Hai già mangiato?”,
le domandò la donna.
“ Sì, mi sono fatta
uno spuntino. Tu?”
Le annuì con un cenno
ed uno sbadiglio trascurato.
“ Uh! Ma quanto sonno
che abbiamo!”, esclamò Joanna, ridendo, “Forse è meglio andare
a letto!”
“ Sì, credo che
seguirò il tuo consiglio, ma solo in parte.”, rispose l'altra,
“Devo cercare di far quadrare i conti e credo che la calcolatrice
mi farà compagnia per tutta la notte.”
“ Non chiedermi di
aiutarti.”, le fece, “Per me la matematica è una sgradevole
opinione non richiesta.”
“ Ok...”, Arianna
sbadigliò ancora, “Quando decidi di andare a letto, vienimi a
togliere quell'aggeggio infernale dalle dita.”
“ Va bene. Notte,
Arianna!”
“ Buonanotte...”
Con il passo agile di
uno zombie morente, Arianna se ne andò nella sua stanza. Il caffè
era quasi pronto e, dopo essersene versata una tazza, prese il libro
di storia e andò ad accomodarsi sul divano del salotto. Per quella
casa Arianna aveva scelto tonalità estremamente chiare e tutto
intorno a lei era luminoso e confortevole. Certamente l’aiutava a
tenere gli occhi aperti, anche lei era abbastanza stanca, ma si era
imposta di terminare almeno quel capitolo, così sarebbe rimasta
fedele al programma che doveva seguire. Sintonizzò la tv su un
qualsiasi canale, togliendo il volume e bevve il suo caffè, tornando
poco dopo alle tragiche ed alquanto noiose vicende dell’imperatore
asburgico al trono dell’ultimo brandello del defunto impero romano
d’occidente.
Stava quasi per leggere
di come cedette il suo vastissimo regno diviso in due grandi parti,
quando il campanello la distrasse. Chiuse il libro, si stirò e
sbadigliò durante il tragitto. Afferrò la cornetta del citofono e
chiese chi fosse.
“ Sono io!”
Era Dougie, come sempre
breve nel presentarsi. Aprì a distanza il portone principale del
piccolo condominio, lasciò lievemente socchiusa quella
dell’appartamento e lo aspettò seduta sul divano. Piegò un
angolo del libro di storia e lo chiuse, riponendolo nella libreria
vicino alla finestra del soggiorno. Mentre cercava qualcosa di
interessante alla tv, sentì tre colpi alla
porta.
“ Vieni pure
Dougster!”, gli disse, alzando un po’ la voce.
Il soggiorno non era
proprio vicino all’ingresso, in mezzo vi si trovava infatti la
cucina, mentre dall’altro lato del corridoio non vi si affacciava
nessuna stanza, ma un balconcino che dava sul cortile interno del
palazzo.
Ascoltò i passi che si
avvicinavano, incavolandosi con la televisione inglese che non
proponeva niente di suo gradimento. Quando la faccia di Ben Stiller
apparve sullo schermo, decise di abbandonare il telecomando e
dedicarsi a Dougie, che ancora non era riuscito a percorrere quei
quattro metri scarsi di corridoio.
“ Attento che ti
perdi!”, gli disse scherzando.
Si voltò, allungando
lo sguardo oltre la spalliera del divano. Non c’era nessun Dougie
sulla soglia del soggiorno. Era vuota.
“ Dougie?”, lo
chiamò.
Le stava facendo uno
scherzo idiota, lo aveva capito, ma il bel gioco durava sempre poco.
“ Poynter, smettila,
non è divertente!”, disse, “Fatti vedere!”
Il viso che apparve
sulla sua soglia non era quello che si aspettava. Non era Dougie.
Era Danny.
Joanna sbatté gli
occhi, ancora doveva capire come aveva fatto a scambiare la sua voce
per quella di Dougie. Le ci volle qualche attimo prima di rendersene
conto: Poynter aveva risposto per lui.
“ Scusa.”, fece lui,
“E’ stato meschino, ma non avevo altre idee.”
Joanna incrociò le
braccia, in posizione difensiva, e pregò che Danny capisse che
cosa le stesse passando per la testa. Voleva che se ne andasse, il suo
gesto non era
stato solamente meschino, ma anche profondamente ingiusto nei suoi
confronti. Per la seconda volta si presentava così,
all’improvviso,
cogliendola in momenti privati di cui lui non doveva farne parte.
Glielo aveva detto, non voleva saperne, aveva se stessa a cui
pensare. Per troppo tempo aveva vissuto all’ombra di qualcuno o
di
qualcosa.
“ Cosa vuoi?”, gli
chiese, tutt’altro che amichevole ma comunque con tono basso e
calmo.
“ Niente. Solo
parlare.”, le rispose, “Con tranquillità, come due amici.”
“ Gli amici non si
intrufolano nelle case degli altri come hai fatto tu.”, non riuscì
a trattenersi.
“ Hai ragione.”, le
disse, “Ma se avessi fatto altrimenti, avresti rifiutato.”
“ Invece così, con le
spalle al muro, sono obbligata ad ascoltarti.”, borbottò,
toccandosi la fronte con aria stanca ma stizzita.
“ Per piacere, non
sono venuto per litigare con te... Ma solo per parlare, te l’ho
detto.”
Joanna sospirò. Danny la aspettava
sulla soglia del soggiorno, una mano in tasca e l’altra fuori, la
usava sempre per gesticolare. Poteva lasciarlo sedersi sul divano e
parlare, poteva mandarlo via. Stavolta non c’era Dougie ad aiutarla
nella scelta, doveva prenderla da sola.
“ Ok.”, gli rispose,
“Andiamo in cucina.”
Ignorò il flebile
sorriso che vide spuntare sulle sue labbra e tenne lo sguardo basso
quando gli passò accanto. Le sedie intorno al tavolo non erano così
comode come il divano, avrebbero evitato che nascessero molti
equivoci. Gli offrì qualcosa da bere, ma lui rifiutò con
gentilezza. Joanna si sedette di fronte a
lui, nonostante il confronto la stesse mettendo in lieve soggezione.
“ Avanti, cosa vuoi
dirmi...”, gli disse, tornando ad incrociare le braccia.
“ Beh... Come stai?”,
le domandò.
“ Bene. Tu?”
“ Sì, va tutto
piuttosto bene.”, rispose Danny, arricciando le labbra con
indifferenza.
Joanna attese la sua
prossima domanda.
“ E così... Ti sei
davvero iscritta all’università.”, fece lui.
“ Sì, esattamente tra
due settimane ho il test di ammissione.”, gli disse, senza mai
lasciare il suo tono freddo e distaccato, “Per la East London.”
“ E Arianna?”,
domandò ancora, “Mi ha detto Dougie che presto aprirà un nuovo locale, qua vicino.”
“ Sì.”
Lui annuì.
“ Uhm...”, fece poi,
“Non so cos’altro chiederti...”
Joanna si fece
perplessa, non capiva a che gioco stesse giocando. Danny era a disagio, non
la guardava in viso, e non sembrava fosse venuto totalmente
impreparato. Le braccia erano appoggiate sul legno del tavolo, le
dita si muovevano nervosamente.
“ Una cosa ci
sarebbe.”, disse Danny.
Lo aspettò.
“ Perché?”
Rimase spiazzata.
“ Lo sai già il
perché.”, gli rispose.
“ Esprimiti meglio.”, disse lui, scuotendo la testa.
“ Perché voglio
pensare a me stessa.”, gli ripeté, come aveva già fatto in
precedenza.
“ Non ti facevo così
egoista.”
“ No, non lo sono
affatto.”, si difese Joanna, “Voglio solo vivere tranquillamente
senza problemi.”
“ Non esiste una vita
senza problemi.”, la provocò lui.
“ Allora devo solo
ridurli al minimo.”
“ Credi che non sappia
di essere il tuo problema?” , sbottò lui.
“ Se lo sai, cosa ci
fai seduto nella mia cucina!”, esclamò Joanna.
Danny scosse ancora la
testa, con una smorfia amara sul viso.
“ Volevo cercare di
parlare civilmente con te.”, le rispose, “Ma vedo che non è
possibile.”
“ Perché non vai
dritto al punto, Danny?”, gli fece, “Così potrei capire
civilmente dove tu voglia andare a parare.”
“ Non ha più senso.”
“ Non ha mai avuto
senso!”
“ Ecco, hai capito ora
cosa intendo con parlare civilmente?”, si riprese lui, “Questo
non lo è. Tu non puoi trattarmi come se fossi l’ultima persona che
vuoi vedere sulla Terra!”
“ Lo sei.”
“ Stai mentendo.”
“ No.”
“ Basta!”, esclamò
Danny.
Joanna era esasperata. Quella
conversazione era del tutto inutile e non erano capaci di sostenerla
senza alzare il tono della voce.
“ Danny, per piacere,
vuoi dirmi che cosa vuoi da me?”, gli fece, cercando di riprendere
la calma.
Lui prese un profondo
respiro.
“ Ero venuto a dirti
tante cose.”, disse, con aria disinteressata, “Cose che prima mi
importavano, ora non più...”
“ Parla.”, gli
impose.
“ Ti volevo chiedere
scusa, perché se avessi saputo essere paziente, molto probabilmente
tutto questo non sarebbe mai successo. E’ colpa mia, non pensavo di
potercela fare, la distanza mi spaventava, ma se mi fossi
impegnato, tutto sarebbe stato possibile. Ce l’ho con me stesso
perché tu aspettavi solo che mi facessi avanti, che ti dicessi che
ci credevo. Non ce la faccio ad
essere arrabbiato con te per quello che hai fatto... Perché ti
capisco.”, le fece.
Joanna cacciò indietro tutte
le emozioni che stava provando, comprese le lacrime, e tenne gli
occhi fissi sul tavolo.
“ L’ho capito da
subito che ti eri trasferita qua per vivere la tua
vita, non la mia.
Potevo essere infuriato sul momento, soprattutto per il fatto che
Dougie ti aveva tenuta nascosta... Ma ho capito anche lui. Lo ha
fatto per proteggerti, tiene a te come ad una sorella, farebbe di
tutto per farti felice e tenerti al sicuro.”
Joanna ribadì a se
stessa tutte le convinzioni che l'avevano portata in Inghilterra,
ignorando le potenti scosse causate dalle parole di Danny, e
sentì le sue fondamenta tornare a rinforzarsi. Doveva
stabilire le sue priorità, come aveva fatto Danny.
Me stessa, amici e
famiglia... Lui.
Veniva solo al terzo
posto.
Danny tornò a
parlarle.
“ Ti voglio bene e
voglio stare con te.”, riprese Danny, con ancora più decisione,
“E' per questo che sono venuto.”
Non c’era
nascondiglio efficace che la schermasse dalle sue parole.
“ Danny, per
favore!”, esclamò Joanna, “Basta!”
Incrociò le braccia
sul tavolo e vi appoggiò la fronte, singhiozzando. Le
fondamenta erano crollate con una facilità impressionante, come
se la malta composta dalle idee e dalle convinzioni non fosse stata
buona a niente, tranne che ad illuderla senza pietà. Fanculo i libri,
fanculo la storia e fanculo tutto, compresa la scala delle priorità.
Era con lui che voleva stare, con Danny: lo aveva voluto da sempre,
da così tanto tempo che quando aveva potuto averlo per sé aveva
stentato a crederci. Danny non aveva mai fatto altro che prendere le
proprie decisioni pensando a lei, a discapito delle persone a cui
teneva di più, mentre lei si era trasferita in Inghilterra
tenendoglielo nascosto.
Sentì una mano sui
capelli, una mano che l’accarezzava, come a consolarla.
Alzò gli occhi,
incrociando quelli preoccupati di Arianna, seduta davanti a lei. Si
guardò intorno, Danny non c’era.
“ Dov’è Danny?”,
le chiese, non avendolo sentito muoversi.
“ E’ andato via.”,
le rispose lei, sospirando, “Hai combinato un bel casino, Little
Joanna.”
Dougie lo vide uscire di corsa
dalla porta del condominio dove Jonny abitava. Lo aveva atteso in
macchina, sapendo che non si sarebbe trattenuto per più di una
decina di minuti, né che sarebbe uscito con un bel sorriso stampato
in faccia. Lo osservò percorrere la strada, attraversarla e salire
in auto.
“ Com’è andata?”,
gli chiese, con retorica.
“ Portami a casa.”,
disse Danny, senza aggiungere altro.
“ Ok...”
Fece girare le chiavi
ed il motore si avviò. Uscì dal parcheggio di lì a poco, nel
totale silenzio.
“ Uhm... Come sta Jonny?”, gli chiese, dopo qualche minuto, sperando che si fosse
calmato.
“ Dougie, sarà lei
stessa a dirtelo, non domandarlo a me.”, gli disse Danny.
Per la restante parte
del viaggio, Dougie non ebbe il coraggio di rivolgergli parola. Gli
disse solo una timida buonanotte quando lo lasciò davanti a casa
sua.
It's
hard to say that I was wrong,
it's hard to say I miss you.
Since you've been gone, it's not the
same.
Ci siamo quasi :) Meno due! Il
titolo e i brani inclusi nel capitolo appartengono ai The Used e sono
estratti dalla canzone Hard To Say. Senza scopo di lucro.
Ringrazio Bitter/Ludo/Luvi per avermi ricordato (imposto?) di
aggiornare XDDDD E ringrazio anche tutte coloro che ancora mi
seguono :)
A presto, Ruby
|
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Capitolo 17 *** My Perfect Distraction ***
17. My Perfect
Distraction
Prese la cornetta del
telefono e compose il suo numero, attendendo che Jonny rispondesse.
Lo fece Arianna che, dopo averla chiamata, gliela passò dopo un
saluto. Un paio di giorni non potevano esserle stati sufficienti per
passare oltre la litigata con Danny, o quello che era stato. Non
aveva conosciuto i particolari: Danny non glieli aveva voluti
raccontare, preferendo fare l’irascibile con tutti quelli intorno a
lui; Jonny aveva fatto altrettanto, isolandosi e concentrandosi sullo
studio. Si chiedeva quanto a lungo potesse durare quella nuova
situazione. Sperò poco, altrimenti ci avrebbe pensato lui stesso a
farla affrontare ad entrambi.
“Come ti senti?”,
le domandò.
“Stanca.”,
rispose lei, con uno sbadiglio, “Il
mio cervello si sta liquefacendo.”
“Uhm... E’ una cosa
alquanto fastidiosa.”, cercò di ironizzare con una piccola battuta
ed una risata.
“Abbastanza... A
te come va?”
“Così così.”, le
fece, “Potrà anche essere piena estate, ma non mi sento tanto
bene.”
“Hai la voce
nasale, vedi di prendere meno freddo quando esci alla sera, per fare
baldoria...”,
lo prese in giro lei.
“Lo terrò a mente.”,
tagliò corto la disquisizione sul suo stato di salute, non l’aveva
certo chiamata per farsi dare consigli in quel campo, “Senti,
Jonny, ormai tutti noi sappiamo che sei qua... Tom ed Harry
vorrebbero salutarti.”
“Sono lì con te,
adesso?”
“Non salutarti ora,
per telefono.”, le fece, “Ma una di queste sere, vorrebbero
sapere se possono invitarti a cena.”
“Uhm...”,
rifletteva, “Beh,
mi piacerebbe...”
“No, Danny non ci
sarà, te lo prometto.”, disse, roteando gli occhi con
rassegnazione.
“Ma non intendevo
quello...”,
lo corresse lei, con tono stizzito, “Va
bene, ci sto. Posso dirlo anche ad Arianna?”
“Perché no?”, le
disse, con entusiasmo, “Sarebbe un’idea magnifica!”
Guardò verso il suo
soffitto, notando un ragno abbastanza gigantesco che gli camminava
sopra la testa. Lo ignorò, passando oltre il suo copro ad otto
zampe, e ringraziò anche il cielo per averla convinta con pochissime
parole. Si era preparato ad una serie infinita di preghiere in tutte
le lingue.
“Quando siete
libere?”, le domandò, “Per noi una serata vale l’altra, non
abbiamo così tanti impegni mondani ultimante...”
“Bella domanda...
Ne parlo con Arianna e ti faccio sapere, va bene?”
“Perfetto... Aspetto
una tua chiamata, non farmi crescere la barba troppo lunga!”
***
Attendevano che la
porta di casa Judd si aprisse ad entrambe, che se ne stavano con un
paio di bottiglie di buon vino importato tra le mani. Arianna ne
approfittò per darsi una sistemata, guardandosi nel riflesso
storpiato del vetro scuro e cilindrico.
“Si ricorderanno di
me?”, le chiese incerta, “Non è che passo per l’imbucata alla
festa?”
“Ci hanno invitate
entrambe...”, le rammentò Joanna, “Non è una cena per pochi
eletti.”
In quello stesso
attimo, un Harry vistosamente sorridente le accolse.
“Buonasera signore!”,
esclamò, con fare elegante, “E benvenute nella mia umile dimora.”
Fece uno svolazzo con
la mano, si scostò dall’entrata e lasciò libero il passo.
“Judd?”, gli fece
Joanna, “Tutta questa gentilezza dove l’hai trovata?”
“Frugando nella borsa
di Mary Poppins.”, rispose lui, imperturbabile, “Ora, vi prego,
datemi le vostre cose, così le riporrò...”
“Harry!”, squillò
lontana ma stridula la voce di Giovanna, “Sta andando a fuoco
tutto!”
“Oh, cazzo!”
Fuggì verso la cucina,
lasciando le due donne sulla soglia di casa, sbalordite.
“Che dici,
entriamo?”, disse poi Arianna.
“Direi di sì...”,
le rispose.
Un passo dopo l’altro,
si fecero strada nel corridoio. Sentirono la risata di Dougie, poi
un’esclamazione di Tom: li scovarono nel salotto, seduti sul
pavimento come bimbi, intenti nello sfidarsi ad un qualche gioco di
lotta all’ultimo sangue, con gli occhi fissi sullo schermo della tv
e le mani impegnate con i joystick.
“In cucina c’è un
incendio e ve ne state a giocare alla playstation?”, li sgridò
Joanna scherzosamente.
“Ma quale incendio!”,
rispose Dougie, “Gi voleva solo farsi dare una mano!”
“Non poteva
chiederglielo normalmente?”, domandò Arianna.
“In questo modo si è
assicurata che arrivasse.”, rispose Tom, “Harry fa di tutto per
schivare gli affari di cucina.”
“Non dirmelo...”,
ironizzò Joanna.
Infatti, di lì a poco
il batterista apparve con un grembiule rosa confetto legato in vita.
“Non osate ridere!”,
disse, vedendo le facce sorprese e pronte all'esplosione, ed
indicandole con tono accusatorio, “Non osate ridere!”
“No, non lo
faremo...”, balbettò Joanna, cercando di trattenersi.
“Bene!”, Harry
strinse i pugni, verde dalla rabbia.
“Non puoi lasciare
tutto nelle mani di Giovanna!”, lo rimbeccò Tom, “Sei tu il
padrone di casa!”
“Fino a prova
contraria, non lo nego.”, rispose Judd, “Ma non sono stato io a
farle venire qua a cena!”
“Beh, non ci siamo
auto-invitate!”, si difese Joanna.
“Sì, ma è stato
Dougie a impormi di farvi venire qui!”, ringhiò lui, “E io odio
cucinare!”
“Suvvia...”, disse
Arianna, finora stranamente a disagio, “Bevi che ti passa!”
Prese entrambe le
bottiglie e gliele mise sotto il naso, con un sorriso sornione.
“Con gli omaggi delle
tue ospiti indesiderate!”, gli disse, invitandolo a prenderle.
“Grazie del
pensiero...”, borbottò l'altro, sempre scocciato.
“Comunque molto
piacere, io sono Arianna, ti ricordi di me?”, gli disse.
“Sì, mi ricordo
eccome.”, rispose Harry, “Ti trovai davanti del mio camerino che
provavi ad appiccicare la stella con il mio nome sulla porta.”
Arianna rimase
lievemente spiazzata, ma non tradì il suo sorriso; Harry, invece,
prese le bottiglie e se ne tornò in cucina, a fare il suo dovere.
Nell'attimo che seguì la sua nervosa dipartita, ci fu un breve
silenzio che Tom ruppe con un abbraccio ed un 'come
stai?'
che scaldarono il cuore di Joanna. Poi passò ad Arianna, alla quale
strinse cordialmente la mano, e Joanna fu sicura che sarebbe andata
d'accordo con tutti loro; la conosceva bene e sapeva che non era
difficile entrare nelle sue simpatie, ed al contempo era altrettanto
semplice rimanerle antipatici.
Le due donne si
sedettero poi alle spalle dei due sfidanti, che tornarono
indisturbati a giocare, divertendosi.
“Scusatemi!”,
sentirono esclamare.
Si voltarono, trovando
una Giovanna mortificata. Si scusò per non essere venuta a
salutarle, incolpando Harry per la sua ben poca buona educazione, e
si presentò con il suo solito entusiasmo, che colpì anche Arianna.
La abbracciò e, con lo stesso calore che le aveva infuso Tom, le
chiese come si trovasse.
“Abbastanza bene.”,
le rispose, “E tu?”
“Starei meglio se
venissi trattata come ospite, e non come sguattera, ma va bene lo
stesso.”, borbottò Gi, “Tra poco è tutto pronto.”
L'ultimo piatto, che
aveva ospitato il dolce portato da Tom e da Giovanna, giaceva davanti
a tutti loro, ospitava ormai solo briciole e rimasugli vari. Buono
come sempre, non c'erano dubbi, tanto che Arianna aveva proposto a Gi
di farle da cuoca, ma lei aveva gentilmente rifiutato, sentendosi
lusingata ma comunque più portata per la recitazione.
“Tra pochi giorni ho
il test di ammissione.”, spiegò Joanna, rispondendo alla domanda
di Tom in argomento, “Sono abbastanza tesa.”
“Sicuramente andrà
bene.”, la incoraggiò Fletcher, sorridendole.
“Si vede lontano un
miglio che sei una secchiona...”, disse Harry, sempre educatamente
bastardo nei suoi confronti.
“Santa Maria!”,
esclamò Arianna, “Sei un concentrato di acidità!”
Era la terza volta che
glielo diceva.
“Comunque non lo
sono, Judd.”, lo corresse Joanna, “Me la cavo, non sempre bene ma
ce la faccio.”
“Sei una secchiona.”,
ribatté l'altro.
“Ok, una flebo di
dolcezza per Harry!”, disse Dougie, scherzando.
Risero tutti insieme e
fu molto piacevole. Amava stare con loro, non c'era alcun dubbio, li
adorava davvero. Quasi
come una fan,
pensò sorridendo, ma le ammiratrici non venivano di certo invitate a
cena come lei ed Arianna. Di certo, ora che si trovava così vicino a
loro non avrebbe perso l'occasione di approfondire il rapporto. Lo
avrebbe fatto indipendentemente da tutto.
E da tutti.
“E come mai hai
scelto quel particolare indirizzo?”, le domandò Giovanna.
“All'inizio avevo
pensato di tornare dalle lingue straniere, come ho fatto al liceo.”,
le spiegò, “Poi ho valutato anche altri corsi di studio e, alla
fine, ho eliminato tutto tranne quello.”
“Sicuramente è molto
interessante.”, disse Dougie, “E vedi di non farmi pentire!”
Joanna imbronciò le
labbra, facendoli tornare a ridere.
“Ok, papà.”, lo
prese in giro, mettendosi una mano sul petto ed alzando la destra, a
mo’ di giuramento, “Prometto che mi impegnerò per prendere dei
buoni voti.”
“Dio, Dougie!”,
esclamò Harry, “L'unica cosa che sei capace di mantenere è il tuo
rettilario, e ti sei preso la briga di pagarle gli studi? Sei pazzo!”
“Volevi farlo tu, per
caso?”, gli rispose Arianna, al posto del bassista.
Quel continuo ribattere
alle frasi acide di Harry era stata la parte più comica della
serata. Arianna si divertiva a zittirlo, lui sembrava provarci gusto
nel giocare altre carte.
“No, lo farò solo
con i miei figli.”, disse, incrociando le braccia dietro alla testa
e sbadigliando, “Se mai ne avrò uno.”
“Se mai troverai
qualcuno favorevole a partorire per te.”, assestò un bel colpo
Arianna.
“Credimi, ce ne sono
migliaia.”, fece, lievemente risentito.
“Escluse le fan?”,
continuò lei.
“Ovviamente!”,
disse Harry, gonfiandosi.
“Escluse tutte le
cugine dal secondo grado di parentela in poi?”, aggiunse un altro
filtro alla schiera di pretendenti del batterista.
Gli occhi dei quattro
rimbalzavano tra i due, come se fossero stati i giocatori di una
partita di tennis, e loro i giudici arbitri.
“Harry, arrenditi.”,
gli consigliò Joanna, “E' una che non molla...”
Era la verità, Arianna
non lasciava l'osso finché non era il suo sfidante a farlo, e anche
in quei casi preferiva tenerlo sopra la testa e sventolarlo in alto
come una coppa di trionfo. Harry avrebbe trovato pane per i suoi
denti, se avesse avuto la forza per affrontarla, oppure se non li
avessero fermati, ma loro erano troppo impegnati ad ascoltare come si
passassero la palla avvelenata e si divertivano a vedere Judd
sbraitare come una donna con il ciclo.
“Escludo le mie
cugine, le amiche delle cugine e anche quelle di mia sorella, di mia
madre, di mia zia e di mia nonna.”, disse, conteggiando sulla punta
delle dita.
“Chi altro ti
rimane?”, gli domandò Arianna.
“Il resto del genere
femminile!”
“Frequentano almeno
l'asilo nido?”
“Oh, mi arrendo!”,
disse Harry, alzando le braccia e segnando così la fine del
contenzioso, “Te la do vinta.”
“Potresti pensare ad
un'adozione!”, rincarò la dose Arianna.
“Ok, vado a lavare i
piatti!”, si inviperì il ragazzo.
In un batter d'occhio
la tavola fu sparecchiata ed Harry, piuttosto che sottoporsi ancora
alle angherie di Arianna, infilò le mani nude nell'acqua calda ed
insaponata, strofinando via con forza tutti i residui di cibo.
Nessuno ebbe il coraggio né la voglia di dargli una mano, sembrava
più che autosufficiente. Presero i loro bicchieri, le bottiglie di
vino e di acqua, e si spostarono dove potevano stare più comodi e
non essere disturbati dal gorgogliare infastidito di Judd.
“Ti trovi bene qua?”,
le chiese Giovanna, una volta seduti al fresco del verde sul retro.
Quelle case inglesi
erano tutte stramaledette uguali e prevedibili, pensò Joanna, che
avrebbe potuto camminare ad occhi chiusi senza sbattere sugli spigoli
dei mobili.
“Molto.”, le
rispose, “Anche se non ho ancora avuto modo di ambientarmi
perfettamente, forse perché sono sempre chiusa in casa a studiare.”
“Londra è caotica
quanto Firenze?”, fece Tom, “Oppure molto di più?”
“Per quello che ho
visto, posso dirti che è come la mia città... Ma all'ennesima
potenza!”, gli rispose, con occhi sbarrati al ricordo di essere
stata imprigionata per un'ora in un imbottigliamento, con Arianna che
imprecava come una pazza, “Ci sono milioni e milioni di auto,
persone...”
“Beh, quando
inizierai i corsi, inizierai a farti miliardi di amici.”, le disse
Dougie, “E vedi di non dimenticarti di me!”
“Dougie, sei peggio
di uno strozzino...”, gli fece, con una pacca sul braccio, “Metti
gli interessi sui sentimenti!”
“Scusami, Jo.”, la
riprese Tom, “Non sono ancora riuscito a capire da quanto tempo ti
sei trasferita.”
Quella domanda la
spiazzò. Poteva rispondere con la verità, ma non sapeva quale
effetto avrebbe sortito su di loro. Non voleva che pensassero male di
lei o che fraintendessero la sua decisione. Titubò, guardando Dougie
per chiedere aiuto. Lui alzò le spalle.
Cosa doveva dire
allora?
“Da diverso tempo,
ormai...”, disse, con un sospiro e gli occhi bassi, “Da poco più
di un mese...”
Al che seguì un corto
silenzio, in cui si pentì di aver smascherato la sua bugia.
“Me lo ha detto poco
dopo, a cosa fatte.”, intervenne allora Poynter, togliendola
dall'imbarazzo, “Ha avuto i suoi buoni e intuibili motivi per
farlo.”
“Sì, certamente,
niente da obiettare in proposito.”
Tom le sorrise, ed
anche Giovanna. Harry, se fosse stato presente, avrebbe borbottato
una risposta delle sue; Joanna fu grata ai piatti da lavare, che lo
impegnavano in cucina e lo tenevano lontano.
“Vi chiedo scusa.”,
disse ai due fidanzati, “Avreste dovuto saperlo.”
“Non ti
preoccupare!”, la rassicurò Giovanna con un sorriso, “Non è
stata una decisione facile da prendere e la rispettiamo.”
“E poi non siamo in
diritto di dirti cosa è giusto o sbagliato.”, aggiunse Tom, “Se
non volevi che Danny lo sapesse...”
Sentire il suo nome,
per quei giorni taciuto totalmente, le fece fare uno sbalzo al cuore.
“Grazie...”, disse
loro, “Grazie di cuore.”
Le sorrisero ancora.
Dougie, seduto accanto a lei, ne approfittò per strizzarle un
occhiolino. Ultimamente si sentiva molto figlia di tutti, adottata
da
persone che si potevano classificare in ogni modo, tranne che nei
limiti della normalità. Non aveva mai avuto una vera famiglia, e
quella che pensava fosse diventata sua a tutti gli effetti non era
composta dalle classiche figure genitoriali. Si sarebbe mai
lamentata? Mai, appunto. Joanna sorseggiò un po' di acqua, si
sentiva la gola terribilmente arida e secca.
“Che ne dici, Tom,
finiamo la partita?”, gli propose Dougie.
“Ci sto!”, esclamò
l’altro entusiasta.
In meno di mezzo
secondo si volatilizzarono, lasciando le tre donne libere.
“Mi chiedo che cosa
trovino in quella Playstation.”, disse Gi, alzando le spalle con
rassegnazione.
“Non dice mai di
no...”, fece Arianna, “Per questo rimarranno sempre fedeli a
quella scatola. E non a noi.”
“Già...”, si
accodò Joanna, “Fortunatamente non sono macchine pensanti.”
“Chi? La Playstation
o quei due?”, sbuffò Arianna, ridendo, “Senza offesa...”, si
rivolse a Giovanna.
“Non sono mai stata
d’accordo su qualcosa come questa volta!”, rispose l’altra,
ridendo, “Odio quella consolle...”
Si godettero il fresco
della serata inglese, guardandosi intorno.
“Devo dire che sono
contenta che tu sia qui, Jo.”, disse poi Gi, “Almeno porti
qualcosa di diverso in questo pazzo mondo!”
“Mi sa che non mi
vedrai molto se continuerò a chiudermi in casa!”, le rispose.
“Potresti vedermi
apparire con un piede di porco alla tua porta.”, le fece l’altra,
con tono fintamente saccente, “E costringerti ad uscire minacciando
di scassinare la serratura!”
“Sei una ragazza che
non ha mezze misure. Mi piaci!”, si complimentò Arianna, anche lei
sempre estremamente diretta nei modi di fare.
“E’ che ho imparato
ad essere abbastanza drastica, talvolta...”, continuò la ragazza,
indicando con un cenno della testa la casa alle sue spalle e facendo
intendere a chi si stesse riferendo, e non era Tom. Harry sembrava
ancora impegnato nella pulizia della sua cucina, a sentire dalle
imprecazioni arabe, che percepivano di tanto in tanto.
“Ed è per questo che
voglio essere ancora diretta.”, disse, con sicurezza nel tono della
voce, “Cosa è successo con Danny?”
Peggio di una striscia
di ceretta, pensò Joanna.
“Beh... E’ successo
che non succederà più niente.”, la informò, “Tutto qui.”
Giovanna sembrava
abbastanza curiosa, come se avesse aspettato tutta la sera per
conoscere i particolari. Ovviamente non si sentiva di parlargliene,
avrebbe cercato di riferire il meno possibile sperando che non
insistesse più del dovuto.
“Mi dispiace...”
“No, lascia
perdere.”, la tranquillizzò, “Credo che sia destino che non
accada niente.”
“Non sono dello
stesso parere.”, obiettò Giovanna, “A me piacevate insieme.”
Che cosa poteva dirle,
se non anche
a me?
“Gli ha chiuso la
porta in faccia.”, la tradì in pieno Arianna.
All’altra spuntarono
due occhi avidi, come davanti ad un tesoro di monete e pietre
preziose, mentre sulla faccia di Joanna c’era soltanto
un’espressione stupita e quasi infastidita.
“Sul serio?!”,
esclamò Gi.
“Sì.”, continuò
Arianna, “Quel ragazzo era venuto per chiederle di dargli un’altra
possibilità, e lei cosa fa?”
“Arianna...”,
borbottò lei, sentendosi le guance avvampare dall’imbarazzo.
Giovanna sembrava
sempre più sbalordita.
“Quel poveraccio ha
incassato tutti i colpi, ribattendo fino allo stremo delle forze, poi
se n’è andato.”, tornò imperterrita a sviolinare quello che era
accaduto.
“Si è presentato a
casa mia ingannandomi!”, cercò di difendersi Joanna “Ha usato
Poynter!”
“Perché? Cosa
c’entra Poynter?”, domandò Gi.
“Sapendo che non le
avrebbe mai aperto la porta di casa”, la anticipò Arianna, “Dougie
ha prestato la sua voce al citofono.”
Giovanna alzò un
sopracciglio, sintomo di una risata imminente, ma si trattenne.
Poteva sembrare divertente al pensiero, ma non lo era affatto. Lei
che l’aveva vissuta, non avrebbe augurato quella comparsata nemmeno
al suo peggior nemico. Arianna non fu in grado di mangiarsi l’ilarità
che aveva scatenato lei stessa, e le scappò una piccola risata.
“Ok, prendimi pure in
giro...”, le fece, innervosita, “Al mio posto non saresti stata
molto contenta.”
“Lo sappiamo, Jo.”,
disse Arianna, “Solo che, a pensarci bene... E’ un po’...
Insomma, fa un po’ ridere.”
Cercò di trovare un
ipotetico lato comico, ma proprio non ci riusciva. Forse si stava
prendendo troppo sul serio, o forse Arianna non era capace di capire
quando lo scherzo non era appropriato.
“Comunque”, Gi
cercò di ristabilire la situazione, “a quanto ho capito, Danny non
l’ha presa bene.”
Scosse la testa.
“Potresti almeno
ricambiargli il brutto scherzo!”, avanzò Arianna, “Se lo
meriterebbe!”
Non aveva trovato
niente di meglio da fare che appisolarsi sul divano. La televisione
era accesa, riproduceva un film con Jack Nicholson che Danny aveva
già visto, almeno fino a metà o poco più. Braccia incrociate sul
petto, sentiva solo un lievissimo rumore di fondo, la voce
gracchiante del pazzo criminale che cercava di sterminare la sua
famiglia. La visione non conciliava il sonno, ma lui ne aveva tanto.
Alla stanchezza, Danny poteva anche aggiungere il fatto che le serate
solitarie erano noiose, non abituato. Non si era certo illuso di
potersi unire al gruppo:
non c’era stato bisogno di dirglielo esplicitamente, aveva capito
da solo quello che era stato giusto fare. Volevano salutare una loro
amica, e per questo l’avevano invitato a cena. Appunto, una loro
amica, non sua. Non erano più amici, quindi non era educato
che lui si presentasse. Oltretutto, non gli andava assolutamente di
vederla.
Si avvicinò di un
altro po’ alla spalliera, come se fosse stata l’unica cosa in
grado di fargli una calda e confortevole compagnia. In un primo
momento, non fu in grado di distinguere il rumore dalle urla basse
del film che risuonavano nel suo soggiorno; poi riconobbe il
campanello, e Danny si costrinse ad alzarsi dal comodo divano ed
accogliere lo scocciatore.
Il viso sorridente di
Giovanna poteva essere l’ultimo occupante della lista mentale delle
facce attese, che aveva scorso rapidamente prima di girare il pomello
della porta.
“Hey...”, le fece
stranito, “Che ci fai qui?”
L’altra alzò le
spalle.
“Facevo una
passeggiata digestiva, mi sono chiesta cosa facevi e ti ho suonato il
campanello.”, disse lei.
Gradì quella
gentilezza, ma non la comprese. Non era usuale per lei suonargli il
campanello con tutta quella spontaneità, ma non ci fece molto caso.
Era stanco.
“Stavi dormendo?”,
gli chiese.
“Beh... Sì.”,
disse, ridendo, “Ma non ti preoccupare, mi ero solo appisolato
davanti alla tv.”
“Cosa guardavi di
bello?”, domandò ancora.
Non poteva lasciarla
ancora sulla soglia.
“Entra pure, Gi.”,
le fece, scostandosi dall’entrata.
“Oh no, torno subito
a camminare.”, rispose la ragazza, scuotendo la testa.
“Non ti fermi nemmeno
per qualcosa? Ti posso offrire da bere.”
“Ti prego, no!”,
esclamò, toccandosi la pancia, “Comunque grazie, Dan, è stato un
piacere romperti le scatole mentre dormivi!”
“Figurati!”, le
disse, sorridendole, “Buona passeggiata!”
E chiuse la porta, più
perplesso di prima. Si grattò la testa, in cerca di una
giustificazione a quel gesto. Scrollò le spalle e se ne tornò sul
divano; cercò di riprendere il filo del film ma fu del tutto
inutile, per due motivi: il primo era dovuto al fatto che stavano
scorrendo i titoli di coda. Il secondo, invece, si spiegava da solo:
il campanello aveva suonato ancora. Si alzò e sbuffò annoiato. Non
aveva voglia di avere delle visite, ok? C’era del male in quello?
Trascinando i piedi sul pavimento, tornò alla porta.
“Chi è?”, chiese,
ancora prima di aprire la porta, ma non ebbe risposta.
Aggrottò la fronte.
Attese qualche attimo prima di posare le dita sulla maniglia della
porta ed abbassarla. Aveva quasi paura.
Stupido, hai
guardato un film dove il marito cerca di uccidere il figlio con
un’accetta...
Buttò indietro quella
sceneggiatura, si faceva pena da solo. Non si era mai fatto
impressionare dai film, e non era il caso di iniziare proprio quella
sera. Aprì la porta. Gli aveva fatto molto piacere vedere la faccia
di Giovanna, sorridente e contenta, ma affrontare gli occhi verdi di
Joanna, che si muovevano veloci ed impauriti, come se avessero voluto
essere da qualsiasi altra parte che lì, lo trapassarono da parte a
parte.
Danny incrociò le
braccia e abbassò lo sguardo.
“Cosa fai qua?”, le
chiese, come aveva fatto con Gi, ma in tutt’altro tono.
Joanna nascose una
ciocca di capelli biondi dietro all’orecchio sinistro, e deglutì
con forza.
“Niente... Io...”,
balbettò.
“Niente?”, le fece,
“Non si disturbano gli altri per niente.”
Si morse la lingua. Era
cattiveria, ma non intendeva ritirarla.
“Beh... Come stai?”,
chiese ancora lei.
“Molto bene. Tu?”
Joanna si strinse in un
sorriso flebile, quasi forzato. Capiva che cosa c’era sotto:
solamente uno stupido tentativo di rivalsa. Lui era entrato nel suo
appartamento di soppiatto, sfruttando la voce di Dougie; lei, invece,
aveva chiesto di farsi aiutare da Gi. Molto bene, lo riempiva di
felicità.
“Senti, ho delle cose
da fare in studio.”, le fece, mentendole penosamente, “Degli
accordi da sistemare... Cose così.”
“Ok, va bene.”,
rispose lei, “Scusa se ti ho disturbato.”
Cercò di non sentirsi
in colpa e ne fu capace. Non era capace di trattare così freddamente
una persona, ma ci stava riuscendo perfettamente.
Pensa di me ciò che
vuoi, ma chiamami Little. Perché mi fa stare meglio. Molto meglio.
“Ciao Joanna.”, le
fece.
Si accorse subito
dell’effetto che quel semplice cambiamento di nome causò in lei:
Joanna rimase spiazzata e non controbattè. Danny non provò alcun
piacere in quello, anzi, fece del male a se stesso, più di quanto si
fosse aspettato.
“Ciao...”, rispose
lei.
“Stammi bene.”
E chiuse la porta.
Danny lasciò la
maniglia e fissò il legno davanti a sé. Ebbe un momento di
smarrimento: gli parve quasi di vivere in un film, dentro ad uno dei
loro video, e si trovò ad aspettare il ‘cut’
da parte del regista. Solo che quella stramaledetta parola non
arrivava mai. Non c’erano ciak, non c’erano addetti al trucco, né
assistenti ai cameraman. C’era solo la realtà, nessuno poteva
dirgli che era stato bravo e che la scena appena girata era buona,
nessuno gli chiedeva di rifarla perché aveva accidentalmente
guardato dentro la telecamera.
“Mi dispiace.”
Al di là della porta,
Danny sentì la voce di Joanna alzarsi. Rimase in silenzio, quasi
trattenne il fiato.
“Danny, mi dispiace.”
Sbatté gli occhi più
volte.
“Danny?”, lo
chiamò.
Stava per riprendere
possesso della maniglia, ma non riuscì a toccarla. Se lo avesse
fatto, non avrebbe risolto niente. Ci sarebbe stato solo un altro ‘mi
dispiace’,
e non gli bastava. Si dicevano troppo spesso parole come quelle, che
perdevano così il loro significato.
Sentì Gi bisbigliarle
qualcosa.
“Dai... Provaci
ancora.”.
“No, mi sento una
stupida a parlare con una porta...”, le rispose.
“Sono sicura che sia
lì dietro...”
Joanna sospirò.
“Dan... Rispondimi,
per piacere...”, la sua voce tremava, “Non so più come dirti che
mi dispiace...”
E lui non sapeva più
come dirle che non gli bastava. Forse era il momento giusto di
farglielo capire.
“Gi, andiamo.”, le
fece, “Non c’è.”
“Tenta ancora.”,
insistette l’altra.
“No, basta.”
Era il momento di farla
finita.
“Vi sento... Forte e
chiaro.”, disse alle due ragazze, cogliendole di sorpresa.
Aprì la porta, ma non
vide Giovanna. Danny dovette sporgere la testa fuori dal suo
appartamento: la ragazza lo salutò lievemente imbarazzata, nascosta
dal muro della facciata.
“Potresti lasciarci
da soli?”, le chiese.
Non marcò il tono
infastidito, non ce n’era bisogno, Giovanna si allontanò
salutandoli con un cenno di testa, e con un sorriso rivolto alla sua
amica. Danny attese che attraversasse la strada e tornasse a casa.
“Che cosa hai detto
prima?”, fece a Joanna, “Non ho capito bene.”
Forse era meglio farla
entrare, eppure lasciarla sulla soglia di casa creava quella specie
di rapporto psicologico in cui Danny si sentiva uno scalino sopra di
lei, e ne aveva bisogno. Se fossero stati allo stesso pari, molto
probabilmente avrebbe finito per commettere qualche errore.
“Beh... Ti ho detto
che mi dispiace.”, ripeté lei.
“Oh.”, fece, quasi
con noncuranza, “Non mi sembri molto originale.”
“Danny, per favore.”,
si ribellò Joanna, “Non è facile parlare così…”
Era quello che
aspettava.
“Come pensi che mi
sia sentito, quando sono venuto da te?”
Joanna non ebbe da
controbattere, ma solo da rimanere in silenzio. Bene, si disse Danny,
adesso poteva anche farla entrare ed annullare quella sorta di
superiorità, si sentiva soddisfatto.
Soddisfatto un
cazzo.
Sì, soddisfatto!
Si scostò e la osservò
entrare: le sue braccia erano conserte sul petto, come a volersi
difendere. Danny la accompagnò in soggiorno, e si sedette con lei
sullo stesso sofà su cui avevano già passato alcuni momenti
insieme: quando le aveva presentato Tamara, e chiesto poi cosa avesse
pensato di lei; quando Joanna l'aveva sgridato perché il suono della
sua chitarra, suonata piano durante la notte, l’aveva tenuta
sveglia.
La fece sedere, mentre
lui si accomodò dall'altro lato, il più lontano possibile; attese
che dicesse qualcosa, ma niente.
“Non hai... Alcunché
da aggiungere?”, la esortò.
Joanna si morse le
labbra, in cerca di coraggio, poi scosse la testa. Teneva gli occhi
bassi, le mani unite sul grembo.
“Bene.”, disse
Danny, toccandosi gli occhi con aria stanca, “Mi fa molta rabbia
realizzare ancora che, quando sono io ad invadere la tua vita, sei
sempre pronta a tirare fuori gli artigli e combattere. Mentre quando
sei tu a presentarti alla mia
porta, non fai altro che rimanere in silenzio sul mio
divano, in casa mia.”
Joanna prese a
torturare il lembo della maglietta.
“Ti comporti come una
bambina.”, rincarò la dose di cattiveria nelle sue parole, “Quando
gli altri toccano i tuoi giochi, strilli con tutto il fiato che hai
in gola. Ma quando vuoi giocare, non hai il coraggio di sostenere il
peso della partita.”
La osservava
attentamente. Danny capì che tutto stava accadendo ancora, in un
copione già scritto, letto e recitato. Sapeva cosa sarebbe successo,
quale sarebbe stata la sua reazione, e la cosa lo fece arrabbiare di
più di quanto non lo fosse stato già.
“E poi ti metti
piangere.”
Come non detto, Joanna
asciugò subito una lacrima che era scesa silenziosa.
“Questo è
insopportabile.”, le disse, “Perché farmi sentire in colpa per
quello che faccio è la tua tattica.”
“Non è una
tattica...”, rispose finalmente lei, “Credi che lo faccia
apposta?”
“Sì.”
“Ti sbagli.”
“No, non mi sbaglio
affatto.”, ribatté prontamente, “E’ quello che ti vedo fare
ogni volta!”
“Non lo faccio di
proposito!”, esclamò lei, serrando i pugni con rabbia, “Sono
fatta così!”
“E allora cresci!”,
le disse, “Prendi la vita di petto e smettila di comportarti come
una vittima del mondo! Non sei l’unica che subisce torti ogni
giorno!”
Non voleva scuoterla in
quel modo, non avrebbe mai provato soddisfazione nel trattarla così,
ma doveva farle capire quali erano i suoi errori. Non poteva
chiudersi su se stessa ed escludere il mondo, come aveva fatto per
tutta la vita, per poi pretendere di essere compresa da tutti,
incondizionatamente. Non era così semplice, non era così facile.
Le persone ne
soffrivano e le chiudevano la porta in faccia.
Le persone come
lui ne
soffrivano...
“Ok, ho capito.”,
gli dissemJoanna, “Basta, siamo pari.”
“Pari in cosa?”, le
fece.
“Io ho cacciato te,
ora tu cacci me.”, disse Joanna, “Lo sapevo che non sarei mai
dovuta venire, ma mi sono lasciata convincere lo stesso.”
Si chiese chi tra
Arianna e Giovanna l’avesse spinta a quello.
“Prima di trasferirmi
qua, anch’io ho stabilito la mia scala delle priorità.”, si
riprese lei, “Devo pensare a me. Poi ci sono gli amici e la
famiglia.... E poi tutto il resto.”
La lasciò continuare.
“Tu
sei classificato nel resto.”, fece ancora Joanna, “Non ci si
sente molto bene a scoprire di non essere speciali come si pensava,
vero?”
Lo stava facendo per
stupida rivalsa, ne era sicuro.
“E vuoi sapere il
vero motivo per cui mi sto comportando così?”
Era proprio curioso.
“Avanti, dimmelo.”,
le fece, incrociando le braccia.
“Perché non sono mai
stata davvero indipendente.”, gli disse, “Prima c’era mio
padre, poi c’era mio fratello... E quando loro se ne sono andati,
sei arrivato tu. Sono stufa di essere sempre legata a qualcosa, a
qualcuno... E a un sentimento.”
Le chiese di spiegarsi
meglio, sinceramente non la capiva.
“Danny, voglio con
tutto il cuore realizzare qualcosa nella mia vita. Voglio cercare di
uscire fuori da quello stesso guscio in cui tu mi accusi di rimanere
imprigionata.”
“E allora perché non
lo fai!”, esclamò.
Ormai la rabbia che
provava si era trasformata quasi in calma piatta. Rassegnazione. Era
stanco di combattere.
“Perché sei ci sei
tu, non penso ad altro.”, disse Joanna.
I suoi occhi verdi lo
stavano trapassando da parte a parte, sbucavano al di là di lui
stesso.
“Perché mi riempi la
giornata, perché mi distrai.”, continuò lei, “Perché se ci sei
tu, non c’è tutto il resto. E tu non puoi essere il centro del mio
mondo. Io
sono il centro del mio
mondo.”
Di certo quelle parole
non lo fecero stare meglio, sebbene potessero illuderlo per un solo
istante.
“Io vorrei stare con
te, Dan.”
Vorrei.
“Ma devo pensare a me
stessa.”
Danny appoggiò i
gomiti alle ginocchia e si passò le dita nei capelli.
“Non capisco il
motivo per cui hai paura di me.”, le fece, “Io non ti voglio fare
del male.”
“Saresti una
distrazione.”, ripeté lei ancora.
“E’ una bugia
grossa e ripetuta così tante volte che alla fine niente può
togliertela dalla testa.”, borbottò Danny.
Sospirò, ormai non
aveva più la forza di combattere. Aveva già perso in partenza,
ancora prima di capire di essere innamorato di lei. Era inutile
continuare a sbattere contro un muro che non voleva essere abbattuto,
lui non era un ariete invincibile che poteva sfondare qualsiasi porta
davanti a sé. Alcune di queste erano blindate all’inverosimile e
la tua testa dura non poteva fare altro che scalfirle lievemente.
Poteva abbandonarle, dimenticarle, fare finta che non fossero
esistite.
Ma poteva anche non
arrendersi. Anche le pietre potevano rompersi, anche l’acciaio
poteva essere forgiato, e qualsiasi materiale aveva sempre un
antagonista che poteva modellarlo a suo piacimento.
E credi di avere la
forza per poterlo fare?
“Ok...”, le fece,
non avendo ricevuto alcuna parola in cambio delle sue ultime, “Allora
credo che possiamo anche voltarci le spalle e far finta che niente
sia successo.”
Per qualche attimo lei
esitò.
“Sì...”, disse
poi, “Va bene così.”
“Perfetto...”, le
si avvicinò, “Posso darti un abbraccio, oppure preferisci una
stretta di mano... Che so... Un cenno della testa?”
Si sentiva cattivo e si
odiava. La voleva, non c’era dubbio, ma non era ricambiato. Era
evidente e allora preferiva fare lo stronzo, trattarla come se fosse
stato niente, perché era più facile. Timidamente, fu Joanna a fare
un ultimo passo in avanti ed a stringere le braccia al suo petto.
Danny non voleva
piangere, ma faceva male, cazzo se faceva male. Chiudeva gli occhi e
la sentiva ancora più vicina di quanto non fosse già. Un suo
braccio andò a fermarsi sulle sue spalle, ma ci rinunciò. Non ci
riusciva.
“Non ci riesco.”,
le disse.
Quell’abbraccio era
come un filo sospeso nell’aria. Lei teneva saldamente le forbici
strette su di esso, prima o poi lo avrebbe tagliato e i due capi
morti sarebbero caduti lontani.
E non voglio.
“Per favore.”, le
disse ancora.
Doveva lasciarlo.
Odiava sentire il battito del suo cuore attraverso la pelle, non lo
sopportava. Odiava anche sapere che le sue lacrime gli stavano
bagnando la t-shirt. Odiava sapere che l’abbraccio stava facendo
pesantemente vacillare le sue convinzioni.
Odiava sapere che
dentro di sé voleva ancora provarci.
Odiava sapere che lei
lo avrebbe sempre respinto di nuovo.
Non c’è niente di
più fragile del vetro.
Puoi vederci
attraverso, puoi ammirarlo
ma se lo tocchi nel
suo punto più debole, va in mille pezzi.
E allora fatichi a
rimetterlo in piedi, spesso nessun collante al mondo è sufficiente
per unire
tutte le tessere
taglienti, e qualche piccolo buco rimane sempre vuoto.
Ma se cerchi di
inciderlo, di imprimere qualcosa su di esso, il vetro non te lo
permetterà.
Ci vuole tempo,
pazienza.
E una punta di
diamante.
Con poca gentilezza si
liberò dalle sue braccia, sotto gli occhi scioccati e spalancati di
Joanna. Era stato travalicato un limite, una linea rossa ben precisa.
Al di là di essa c’erano due scelte ben precise: una era quella
voluta da Joanna, quella di cui si era convinta; l’altra era la
sua. Dato che non aveva alcun potere di manomettere in nessun modo
quella di lei, poteva benissimo affrontare la propria.
Le prese le guance e le
avvicinò alle sue, baciandola.
Quella era la sua
decisione, la sua scelta. Voleva provarci ancora ed andava avanti
perché voleva dimostrarle che si sbagliava. Lui non le avrebbe fatto
del male, non era una distrazione; Danny non voleva dimenticare tutto
e trattarla come l’ultima di una lunga lista di ‘cose
da fare’,
ma
non poteva imporlo a Joanna: ci aveva provato, e quale era stata la
sua reazione? Lo aveva completamente escluso. Piuttosto, Danny se ne
sarebbe rimasto ad aspettare, avrebbe affrontato il tempo e cercato
tutta la pazienza che sapeva di possedere. Le sarebbe stato accanto,
convincendola lentamente che poteva tornare a fidarsi di lui.
A fidarsi di loro due.
Forse sbagliava, forse
la decisione giusta non era quella. Forse lei aveva davvero bisogno
di rompere completamente i rapporti con quelli come lui, quelli da
cui dipendeva.
Ma anche lui dipendeva
da
lei, e non voleva che tutto quello cambiasse. Già una volta si era
arreso davanti agli ostacoli e la sua decisione li aveva portati lì.
Non era possibile che
una persona potesse essere in grado di farlo stare così male, ed al
contempo così bene. Neanche Tamara c'era riuscita, Danny dubitava
delle altre prima di lei. Molto probabilmente perché tutto era stato
tutto più facile, dal primo momento fino all'ultimo.
Continuò a baciarla
finché si sentì soddisfatto.
“Sei ancora convinta
che io sia una distrazione?”, le fece.
Lei lo guardò dritta
negli occhi, cercando di capire il senso delle sue parole.
“Sì.”, gli
rispose.
Tornò a baciarla,
anche più di prima. Le passò un braccio attorno alla vita e la
sollevò da terra. Dal giorno successivo Danny avrebbe imparare ad
aspettare, a premere il piede sul freno e lasciarle il tempo che le
serviva per realizzare i suoi progetti. Non avrebbe preteso niente,
tranne il pensarla sua.
“E adesso?”, le
domandò ancora, “Convinta del contrario?”
“No.”
La posò a terra,
tenendola saldamente per i fianchi, come se avesse potuto scappare
sotto ai suoi occhi. Non le liberò neanche le labbra, che continuava
a baciare avidamente, quasi senza respirare. Con delicatezza la
costrinse ad indietreggiare, finché le sue gambe non toccarono il
bordo del divano e furono costrette a piegarsi. La lasciò sedere e
prese posto accanto a lei. Con la punta dell'indice le solleticò il
collo, per poi marcare quella stessa linea con altri baci. La mano
non l'abbandonò, ma scorse con una carezza sulla guancia, sul mento,
fino a sentire il battito del suo cuore, incessante in mezzo al
petto.
“Vuoi che continui a
distrarti?”, insistette ancora.
Voleva che gli
rispondesse di sì, ma lei esitava. Era incerta, ma poteva aiutarla
ad accontentarlo.
“Little?”
Gli occhi giuzzarono
dentro ai suoi.
“Speriamo non si
facciano troppo male.”, borbottò Harry, “Non ho voglia di andare
a raccoglierli con la ramazza.”
Arianna gli dette una
pacca sulla nuca, così forte che la testa del batterista sbalzò in
avanti.
“Dillo che sei geloso
di quei due!”, esclamò poi la donna.
“Dio... E' stato
doloroso!”, protestò lui, toccandosi il collo dolorante, mentre
gli altri ridevano in sottofondo.
Arianna sembrava
tranquilla, sebbene avesse notato in lui una certa aria pensierosa,
mentre Giovanna era anche troppo ottimista. Tom era neutrale, Harry
continuava ad essere acido con tutti. Dougie pensò al futuro e a
quello che avrebbero avuto davanti ai loro occhi.
Forse il suo caro
batterista avrebbe davvero avuto bisogno di una ragazza, e gli
dispiacque quasi che Arianna avesse avuto quasi il doppio della sua
età. Il loro continuo becchettarsi sembrava provocare scintille, ma
era sicuro che lei non si sarebbe mai persa dietro a qualcuno come
lui. Fossero stati coetanei, sicuramente non li avrebbero visti
separati per molto. Ad ogni modo, Harry sembrava felice, anche se
aveva quei picchi di astio verso il mondo, erano una sua
caratteristica peculiare.
Tom, seduto accanto
alla sua Giovanna, le passava un braccio sulla spalla e giocherellava
con una ciocca dei suoi capelli. Si chiese quando quell'imbecille di
Fletcher le avrebbe chiesto di sposarlo... Forse mai, era troppo
imbranato per decidersi. Gli venne da pensare a cosa avrebbe
organizzato per il suo addio al celibato. Di sicuro, qualcosa con
tante, tante, tante donne nude.
Arianna e il suo locale
avrebbero spopolato, lei era una brava intrattenitrice di relazioni
pubbliche e gli inglesi erano troppo affamati di cucina
internazionale, soprattutto buona come quella italiana. Era già
stato al ristorante, aveva visto come procedevano i lavori e con
Arianna avevano stimato che in un mese sarebbe stato tutto pronto per
l'inaugurazione.
Molto probabilmente,
Jonny si sarebbe laureata con il massimo dei voti, aveva proprio
l'aspetto e la maturità di una secchiona con i contro fiocchi.
Poteva diventare una ricercatrice, continuando a varcare i gradini
dell'università, oppure... Boh, non aveva ancora capito cosa andava
a studiare, doveva chiederglielo al più presto. Era importante che
scegliesse un indirizzo con un buono sbocco lavorativo, altrimenti si
sarebbe trovata con un...
Si scosse, dandosi due
schiaffi invisibili. Stava parlando come un adulto! Era
inconcepibile!
Gli scappò un sorriso.
Si chiese davvero che
cosa stesse succedendo là fuori, dall'altra parte della strada, in
casa Jones. Era un po' teso, non sapeva se sperare in bene o in
male... Certo, se l'avesse vista apparire sorridente avrebbe tirato
un sospiro di sollievo lungo un anno intero. Ma se fosse tornata
imbronciata, o in qualche modo triste, si sarebbe innervosito come
poche altre volte.
E lui? Beh, lui stava
bene così. Aveva avuto le sue storie, i suoi flirt, i suoi dolori, e
per il momento cercava solo la pace e la tranquillità dell'essere
single mentre tutti intorno a lui sembravano stare bene, da soli o in
coppia. La sua famiglia si era allargata, ne era entrata a far parte
anche quella piccola testarda e orgogliosa di Jonny, presto ne
avrebbe dato notizia anche a sua mamma, era sicuro che le sarebbe
piaciuta. Non poteva esserne altrettanto certo con sua sorella...
Gran brutto carattere, ma sapeva essere affettuosa, se solo si aveva
la pazienza di far uscire quel suo lato ben nascosto.
Incrociò le dita
dietro alla testa.
Qualsiasi cosa il
destino avesse deciso di mettergli davanti, ormai aveva intorno a sé
tutto ciò di cui sentiva di aver bisogno.
Chiuse il quaderno
degli appunti. Tutti i ragazzi si alzarono, come automi, e presero a
stiracchiarsi. C'era chi sbadigliava, chi faceva fatica a
camminare... Era lunedì per tutti loro e la baldoria della domenica
era sempre difficile da smaltire, anche per lei. Sentiva gli occhi
bruciare, aveva bisogno di dormire ventimila ore per riprendere tutto
il sonno che aveva perso.
Kris le dette una
piccolo colpo sulla spalla.
“Fatto tardi ieri
sera?”, le domandò.
“Sì... E' stato
tremendo...”
Lavorare al locale di
Arianna e servire ai tavoli come una volta era molto stancante.
Soprattutto quando erano assediati da loro connazionali chiassosi e
mezzi ubriachi. Si ricordò perché aveva amato tanto lavorare allo
Strictly
English:
la clientela straniera era sempre molto più educata e composta di
quella italiana. Arianna aveva deciso di chiamare il ristorante con
un nome alquanto bizzarro.
Mina.
Quando le aveva chiesto
perché dedicarlo alla celebre cantante italiana, Arianna le aveva
risposto che la cantante era venuta in sogno, dicendole che le
avrebbe donato fortuna e clienti se avesse dato il suo nome d'arte al
locale. Joanna aveva obiettato dicendole che la signora Mina non era
ancora morta e che doveva aver avuto un'allucinazione da cibo
avariato, ma Arianna si era fermamente convinta di aver ragione e,
forse per dono del cielo, forse per abilità negli affari, il Mina
era
sempre pieno di gente.
Meglio così, si era
detta, era già tanto che non avesse avuto una squallida insegna con
scritto Little
Italy...
Lavorare fino a tardi e
poi seguire le lezioni era uno stress spesso insopportabile, ma era
il suo dovere e doveva rimboccarsi le maniche per andare avanti.
“Odio il mio paese!”,
esclamò Joanna, “Siamo troppo irruenti!”
Kris scoppiò a ridere.
“E io invece mi
trasferirei in Italia anche adesso!”
Era una delle tante
ragazze che aveva conosciuto frequentando i corsi universitari.
Incredibile ma vero, lei che aveva sempre avuto problemi a trovarsi
degli amici, lì dentro non aveva avuto molte difficoltà
nell'attaccare bottone con gli altri. Giorno dopo giorno, mese dopo
mese, appunti dopo appunti, si era costruito un piccolo gruppo di
amiche un po' più fidate, in cui Kris spiccava nel mezzo alle altre.
Lavorava anche lei al
Mina, di solito nel suo stesso turno, ma non la sera precedente.
Aveva chiesto di non lavorare, era il suo compleanno, e Arianna le
aveva ovviamente accordato la giornata libera, da poter spendere con
il suo ragazzo, Adam. Joanna la conosceva da sei mesi ormai, più o
meno dal primo giorno di lezione, era stata Kris stessa a
presentarsi, dopo che le aveva prestato una gomma per cancellare
alcuni appunti. Fisicamente si somigliavano, solo che Kris era
qualche dita più alta di lei, ed era molto più chiacchierona.
Si trovava bene anche
con le altre -Mary, Karol, Brianna e Sam- ma Kris era stata la prima,
e oltretutto aveva in comune con lei qualcosa di particolare.
“Avanti, raccontami
di ieri sera!”, le fece, esortandola a raccontarle della serata
passata con Adam.
L'altra andò in brodo
di giuggiole.
“E' stato fantastico,
Jo, non puoi immaginarlo!”, disse con voce stridula, “Non sai
cosa mi ha regalato!”
“Dio! Cosa?”, le
chiese, curiosissima.
“Te lo mostro per
strada!”
Kris aveva la fortuna
di avere un'auto tutta per sé. Ah, altro particolare che le aveva
legate ancora di più: abitava nel palazzo davanti al suo, lo avevano
scoperto per caso, dopo un mese di lezioni insieme. Così, da quel
giorno Joanna aveva smesso di salire sulla metro e, d'accordo con
Kris, dividevano i costi della benzina. Spesso gliel'aveva anche
prestata, si fidava molto l’una dell’altra.
Camminarono,
raggiungendo il parcheggio del campus e salendo in auto. Faceva
freddo, era gennaio inoltrato, e non tolsero le sciarpe e i guanti
che indossavano, almeno non per il momento. Kris accese il motore,
permettendo così al radiatore di scaldarsi e di far funzionare tutto
l'impianto dell'aria calda. Sarebbero congelate se non avessero fatto
altrimenti.
“Allora! Fammi vedere
il regalo!”, le disse ancora.
“Apri il cassetto
davanti a te!”, le rispose Kris.
Allungò le dita e lo
fece.
Spalancò gli occhi,
poi scoppiò in una risata.
“Ma così non vale!”,
esclamò Joanna, “Con un regalo del genere si va sul sicuro!”
Prese la custodia del
cd, scuotendo la testa. Conosceva la copertina a memoria, così come
tutte le canzoni che conteneva, ed era uscito solamente il giorno
precedente. Aveva avuto il privilegio
di
stringere tra le mani la bozza finale del nuovo lavoro dei McFly con
più di un mese di anticipo su tutto il resto del mondo, fatta
esclusione per gli addetti ai lavori.
Sentì di nuovo quella
punta di dispiacere. Kris si fidava quasi completamente di lei, ma
non riusciva a fare altrettanto... Era una vera
fan
del gruppo, una di quelle con tutte le lettere maiuscole che riempiva
la camera dei loro poster, tanto che quando vi entrava non poteva
fare a meno di sentirsi in soggezione, come se tutti quegli occhi
potessero controllarla. Quando era Kris ad andare in casa sua,
invece, doveva prendere la piccola precauzione di far sparire qualche
fotografia, tanto che ormai neanche le riappendeva.
“E' stato carino
Adam, non credi?”, le domandò, tutta gongolante.
“Per forza!”,
esclamò, “Non parli altro che di loro!”
“Non è vero!”,
protestò l'altra.
“Sì che è vero, me
li hai fatti venire a noia!”, le fece ridendo.
“Infatti tu non sei
normale, sei aliena. I McFly piacciono a tutti, o almeno a quelli
sani di mente!”
Ogni volta che diceva
qualcosa del genere, le veniva la voglia di dirle tutto.
Ma come avrebbe
reagito?
“Lo hai già
ascoltato?”, domandò all'amica.
“Volevo farlo con te,
ho dovuto resistere fino all'ultimo!”, disse, battendo le mani come
una foca per la gioia, “Credo proprio che stavolta te li farò
piacere.”
“Dici?”
Con una rapidità
impressionante, le sfilò il cd dalle dita e lo inserì nello stereo.
Data l'età dell'auto, lo avrebbero ascoltato fino alla fine prima
che il riscaldamento sputasse aria sufficientemente calda. Partì la
prima canzone, Still
Stranger,
una ballata che parlava di due amanti che si incontravano dopo anni
ed anni di lontananza.
“Guardiamo il
booklet! Voglio vedere che cosa hanno scritto nei ringraziamenti!”,
disse Kris.
Conosceva benissimo chi
tra i quattro era la sua fissazione. Saltò a piè pari Harry, che le
stava antipatico, e dette una lettura veloce a Dougie.
“Questo scarafaggio
non crescerà mai...Sempre a scrivere le solite due o tre
cazzate...”, sbuffò.
Le venne da ridere.
“Oh, Tom ringrazia
ancora la sua Gi... Ma che tenero!”, imbronciò le labbra in segno
di commozione.
Tralasciò il resto, e
si dedicò all'ultimo rimasto. Indicò una sua immagine
Joanna aggrottò la
fronte, aspettandosi sempre un commento dei suoi.
“Questo me lo devo
sposare...”, disse, intristendosi, “Vediamo cosa ha scritto...
Poi ti faccio vedere, ma prima tocca a me!”
Kris tornò ai
ringraziamenti e lesse. Erano stati l'unica parte di tutto l’album
a cui Joanna non aveva potuto dare un'occhiata, non erano stati
inclusi nella bozza che aveva visto. Le avevano detto che portava
sfiga.
“Cosa?!?!”, esclamò
con forza Kris.
Si preoccupò.
“Che c'è?”, le
fece, avvicinandosi a lei.
“Ma che... Ma che
cazzo! Non si da' proprio pace quel cristo!”
Si preoccupò ancora di
più.
“Cio... Cioè?”
“Leggi con i tuoi
stessi occhi!”
Un dito puntato sulle
parole.
“Vorrei sapere chi è
questa qua, le tiro il collo! Ti giuro che stavolta lo faccio
davvero!”
“Cosa avrà scritto
mai...”, le fece, con voce tremante.
“Guarda! Guarda!”
Prese sbraitare come
una pazza mentre lei cercava di leggere, sentendosi il cuore in gola.
“Le torco i peli del
culo!”, sentì dire, “E poi perché la chiama Little? Io voglio
sapere il suo vero nome, così la vado a cercare!”
Era frastornata.
Grazie anche a te,
Little. A volte vale davvero la pena aspettare il tuo sorriso.
Joanna sorrise,
sentendosi leggera come una piuma. Se Kris avesse acceso il
riscaldamento sarebbe volata via, sospinta dall'aria che usciva fuori
dalle bocchette. Avrebbe volteggiato per un po', finché il vento
avesse avuto voglia di portarla con sé, poi sarebbe atterrata da
qualche parte. Per partire di nuovo.
“Ma non lo ha capito
che le donne vogliono solo sfruttarlo?”, continuò la sua amica,
“Dio, dovrebbe diventare gay… Anzi, dovrebbe sposarmi!”
Balbettò qualcosa che
cercava di essere sensato ma Kirs non l'ascoltava, era tutta presa ad
inveire contro la nuova disgrazia che si era abbattuta sul suo
doveroso matrimonio con Danny.
“Credo che... Che il
motore sia pronto...”, ripeté Joanna, alzando il tono della voce.
“Sì, sarà meglio
che andiamo!”, fece Kris, “Da te?”
“Da me.”
Arrivò a casa che si
sentiva ancora trasparente come l'aria, mentre quell'altra non la
smetteva di ribollire come una pentola a pressione. Non le dava
udienza, sebbene la stesse offendendo, talvolta anche pesantemente.
Se avesse saputo...
Il destino sapeva
giocare proprio dei brutti scherzi.
“Dai, basta.”, le
disse, mentre infilava le chiavi di casa nella serratura della porta
condominiale, “A quella povera ragazza fischieranno le orecchie
così tanto che...”
“Spero che le esploda
la testa!”, rispose Kris, incrociando le braccia, “Non vedo l'ora
di dedicarmi alla storia medievale, così non penso a quella... E poi
spiegami perché la chiama Little!”
Alzò le spalle,
cercando di non avvampare, ma non ne fu capace.
“Beh... Come faccio a
saperlo io...”
Salirono le scale.
“Potrei capire Tom,
ha scritto Little
Joanna per
la sua Gi...”, riprese Kris, “Ma Danny! Che motivo ha di chiamare
qualcuno in quel modo?”
Non le rispose.
“Avanti, dimmelo tu
che sei l'avvocato del diavolo!”, la esortò.
Joanna sospirò,
chiedendosi se mai quella tortura avesse trovato una fine nei
prossimi secondi.
“Forse... Gli piace
quel soprannome.”
“Non ha comunque
senso!”, ribatté Kris, “Lui deve piantarla con le donne, o
almeno che scelga me, non lo farei soffrire affatto!”
Fortunatamente erano
arrivati all'ingresso di casa.
“Adesso basta.”, le
fece, salendo gli ultimi gradini.
“Ok... Non dico più
niente.”
E fu di parola. Si
chiuse la bocca.
Aprì anche l'ultima
porta.
“Arianna, sono a
casa!”, esclamò entrando e sperando che ci fosse, ma venne presto
smentita.
Non ricevette nessuna
risposta.
“Vado in cucina, ho
bisogno di un po' di acqua.”, disse Kris.
“Ok, ti aspetto in
salotto.”
Si divisero: Kris entrò
nella prima porta alla sua sinistra, Joanna proseguì per la
successiva.
Non appena scorse la
figura seduta sul divano, si sentì gelare il sangue.
“Che cazzo ci fai
qui!”, disse piano, per non farsi sentire.
“Sono arrivato poco
fa, mi ha aperto Arianna.”, rispose Dougie, senza preoccuparsi di
abbassare il tono della voce.
Se ne stava tranquillo
a guardarsi una rivista. Anzi, era uno dei suoi quaderni per gli
appunti.
E lei era nella merda
più totale.
“C'è Kris! Devi
sparire!”, gli fece, liberandosi della borsa e dei libri.
“E allora? Prima o
poi deve saperlo, non credi?”, disse Dougie, scuotendo la testa e
tornando all'esame del suo andamento universitario, “Siamo sempre
alle solite, Jonny...”
Prese un cuscino e lo
colpì in testa.
“Sparisci, verme!
Nasconditi!”
Cercò di colpirlo una
terza volta, ma un grido agghiacciante le fece drizzare i peli del
collo e delle braccia.
“Troppo tardi.”
Ci furono dei passi
veloci.
“Credo di averla
uccisa...”, disse Danny, con aria preoccupata.
Presero la povera Kris,
ancora svenuta, e la portarono nella sua stanza, facendola distendere
sul letto. Dougie si preoccupò di prepararle un po' di acqua
zuccherata, mentre loro due rimasero fuori dalla camera, in attesa
che si riprendesse.
“Le ho solo detto
ciao...”, disse Danny, sottovoce, “Non pensavo di farle questo
effetto.”
“Già…”, disse
Joanna, “Ti vorrebbe sposare…”
Sospirò e incrociò le
braccia.
“Quando eravamo in
auto, ha letto i ringraziamenti sul disco.”, gli spiegò, facendo
volare gli occhi altrove.
Ci fu qualche attimo di
silenzio.
“Tu li hai letti?”,
le chiese Danny.
Annuì con un cenno di
testa.
“E... Cosa hai
pensato?”
Sentì una forte
insicurezza nelle sue parole, e notò con la coda dell'occhio che si
stava torturando le dita, cercando di nasconderlo.
Joanna sospirò, poi
alzò il viso.
E gli sorrise.
Danny ebbe un altro
momento di incertezza, ma presto liberò con lei un sorriso
liberatorio, e si avvicinò per darle un bacio.
Non era facile, non era
assolutamente
facile,
né bello come si poteva credere. Ognuno aveva la propria vita, uno
scopo da seguire, ed era complicato far coincidere il loro tempo
libero. A volte passavano due settimane senza che si fossero visti,
in altri casi passavano tutte le sere insieme. Potevano farci pocoe
le occasioni di scontro erano frequenti, ma era stata la loro scelta,
nessuno dei due si sarebbe mai lamentato.
Avevano passato il
Natale insieme, in compagnia di tutti i McFly al completo, incluse le
loro famiglie. Una lunga tavolata di persone che ridevano e
scherzavano, bevevano e si prendevano in giro, mangiavano e si
complimentavano con le cuoche. Giovanna, Arianna e Joanna, l'unione
faceva la forza, non solo una simpatica rima nell'accostare i loro
nomi. Non era mai stata felice come in quel momento. Aveva tutto: una
famiglia, gli amici, Danny, in più anche la sua carriera
universitaria, appena iniziata, ma che la appassionava come poche
altre cose. C'era pure qualcuno che, da lontano, ogni tanto chiamava
per ricordarle che erano lì, ed aspettava un piccolo gesto che
perdonasse tutto. Non aveva fiducia in quello, ma ogni telefonata la
coglieva sempre meno scocciata, forse era un buon segno.
Era riuscita a passare
quasi del tutto inosservata all'occhio tipicamente curioso degli
inglesi, e non sempre le rare fotografie che li ritraevano insieme
riuscivano a coglierla in volto, ma già da tempo Kris sapeva che il
suo Danny aveva trovato qualcun'altra, dopo Tamara. Quella frase nei
ringraziamenti aveva fatto traboccare l'acqua dal vaso, colmo fino al
bordo già da un pezzo.
Si sentiva felice, ed
era quello che aveva pensato non sarebbe mai successo. Mai.
“Andate in un
albergo! Dio, fate schifo!”, li apostrofò Dougie mentre si
baciavano, comparso con una smorfia ed il bicchiere di acqua
zuccherata in mano.
Risero, guardandosi
negli occhi.
Ce n'è voluto di
tempo...
“Cinque sterline!”,
disse ancora Poynter.
Si voltarono verso di
lui.
“Cosa?”, gli chiese
Joanna.
“Cinque sterline.”,
ripeté, con un sorriso sornione, “E' il prezzo che si paga per
questo spettacolo.”
Non lo capirono.
Guardò perplessa
Danny, che fece spallucce. Un sospetto si annidò nella sua mente.
Si voltò verso la
camera, alla sua destra.
La bocca spalancata di
Kris fu l'ultima cosa che vide, prima che questa crollasse di nuovo a
terra, svenuta per l'ennesima sorpresa.
Joanna sospirò.
“Credo che l'abbiamo
uccisa...”, disse poi.
Danny le sorrise e le
dette un altro bacio.
Little
Joanna's got big green eyes
I could die lying in her arms
where castles are made of sand and we start to dance
but only
the music is bleating when crickets replace the band
She will
always be my sunkissed trampoline.
THE END
E sono arrivata alla
fine :) Chi di voi ha pensato 'se Dio vuole'? XD
E' sempre un dispiacere
arrivare all'ultimo capitolo della storia, attendere gli ultimi
commenti, ma ci si ritrova presto su questi stessi schermi,
tranquille. Non so di preciso quando, né con quale storia (ne ho una
già finita, un'altra in via di termine... si vedrà!), ma tornerò.
Non sentite troppo la mia mancanza, mi raccomando!
Ringrazio tutte le
recensitrici, chi ha letto e chi si è perso per la
strada, ma un abbraccio speciale va a: Ciribiricoccola,
x_blossom_x, Giuly Weasley e ludothebest, tutte
mcflyane convinte come me, ed anche di più! Altrettanti baci anche a
picchia, Cowgirlsara e kit2007, che sono apparse
nei commenti dell'ultimo capitolo, così come in tutti gli altri. Non
dimentico chi mi ha messo tra i preferiti, quindi un grazie va anche
a tutte voi!
Che dire, spero di
ritrovarvi presto :)
RubyChubb
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