Cry Benihime

di TimeKeeper
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** The Scarlet Princess ***
Capitolo 3: *** A Real Secret ***
Capitolo 4: *** Waiting for a Chance ***
Capitolo 5: *** Foolish, weak, fragile ***
Capitolo 6: *** My Little Phoenix ***
Capitolo 7: *** Thank You ***
Capitolo 8: *** Funeral of Hearts ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

“La tua ombra furtiva
Come un ago avvelenato senza destinazione
Cuce il mio cammino.
La tua luce flessuosa
Come un fulmine che colpisce una torre piezometrica
Tronca la fonte della mia vita.”
[Tite Kubo, Beach]
 
Freddo.
Fu la prima sensazione che lei percepì: l’ostile gelo di una notte d’inverno, senza luna né stelle.
Era distesa nella neve, sul ciglio di una strada, con i lunghi capelli rossi sparsi nel fango; catturava l’aria a fatica, con la piccola bocca semiaperta, e lacrime ghiacciate coprivano il suo volto latteo. Stringeva la neve nei pugni, in una lotta disperata, anche ora che il suo hakudo si stava lentamente spegnendo. Coperta di soli stracci sarebbe morta congelata.
Fu lui a trovarla: non per caso, sia chiaro. Aveva percepito l’intensità del suo reiatsu a chilometri di distanza e si era messo in cerca di lei; ma mai avrebbe pensato che un essere così malridotto ed indifeso avesse potuto emanare un’energia spirituale così potente.
Da sotto il suo inseparabile cappello a righe la osservava in silenzio: illuminata dal lampione elettrico, sembrava un’enorme goccia di sangue sulla neve candida. Si sfilò la giacca e l’adagiò dolcemente sul corpo di lei, poi la sollevò da terra e la strinse al suo petto come un gatto randagio.
Era così gracile e bella.
S’incamminò verso l’emporio, scricchiolando sulla neve ormai gelata.
«Chi sei, solitaria sconosciuta?»

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Capitolo 2
*** The Scarlet Princess ***


1.
The Scarlet Princess


«Direttore, la ragazza si sveglia!»
Una bambina dai lunghi capelli neri raccolti in due singolari codini, saltellava allegra per la stanza. L’uomo con il cappello a righe la salutò cordialmente e le accarezzò la testa in un segno affettuoso; poi sedette accanto al fouton dove riposava la sconosciuta. Pochi istanti dopo, gli occhi della ragazza si aprirono lentamente.
«Buongiorno, signorina! Come si sente?» chiese l’uomo.
La sconosciuta fuggì con uno scatto dal giaciglio, per rifugiarsi in un angolo della stanza; si rannicchiò istintivamente contro la parete in cerca di protezione. Il suo sguardo era terrorizzato ed inquieto: con le braccia si stringeva il petto come se avesse avuto paura che il cuore le sfuggisse dal seno.
L’uomo gattonò lentamente verso di lei, cercando di non spaventarla: «Non devi avere paura, non ti farò del male. Mi chiamo Kisuke Urahara – le disse, porgendole una mano – Ti ho trovata per la strada. Che cose ti è successo?»
La ragazza si strinse ancora più forte a se stessa, serrando gli occhi e trattenendo i singhiozzi.
«Non voglio farti del male, davvero! E questo che ti fa paura? – le chiese, appoggiando una mano sul cappello – Se ti fa paura lo tolgo» continuò, sfilandoselo dalla testa.
In quell’istante la ragazza aprì gli occhi ed osservò l’uomo che le stava accanto: i lunghi capelli biondi gli cadevano morbidi sulla fronte in un vaporoso disordine, e tra quelli spruzzi dorati spuntavano spudoratamente due piccoli occhi azzurri. Erano così caldi ed accoglienti! E le sue mani erano così gradevoli ed invitanti! La sconosciuta allentò i muscoli e si voltò lentamente verso di lui.
«Così va meglio. Come ti chiami?» chiese Urahara, sempre tendendole la mano.
«Io… non ricordo» sussurrò appena, la sconosciuta.
La sua voce era roca e mesta: si era calmata, ma stringeva ancora il petto tra le braccia esili. I lunghi capelli rossi, ancora umidi, cadevano morbidamente fino a terra, coprendole la schiena e le gambe raccolte; aveva gli occhi verdi e grandi come due smeraldi grezzi, screziati d’oro e di bronzo.
«Posso scegliere io un nome per te, se lo vuoi. Ti darò il nome della persona che mi è più cara al mondo».
La ragazza spostò una mano dal seno e l’avvicinò a quella dell’uomo: «Lo faresti davvero?» chiese, esitando.
«Certo! - disse lui - Posso farlo anche subito, ma tu devi fidarti di me»
La sconosciuta strinse forte la mano di Urahara, sentendo per la prima volta il suo calore.
«Ti chiamerò Benihime, Principessa Scarlatta»
Quel calore, non l’avrebbe mai dimenticato.

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Capitolo 3
*** A Real Secret ***


2.
A Real Secret


La dimora di Kisuke Urahara era stata ricavata in un piccolo edificio adiacente il suo emporio; per questo motivo, spesso, le stanze traboccavano di strani oggetti che provenivano dai magazzini del negozio. Era un bizzarro parco giochi, dotato di ogni comodità, dove Benihime aveva trovato presto il suo posto, come commessa e corriere per le consegne più stravaganti. Le piaceva curiosare negli scatoloni prima di uscire a consegnare la merce: ogni oggetto suscitava in lei una curiosità morbosa. Forse il fatto di non ricordare nulla del suo passato, la spingeva a cercare sempre più risposte nel suo presente, o almeno così pensava Urahara, sempre intento ad osservarla.
Era stato uno scienziato, un tempo, e anche ora, in esilio lontano dalla Soul Society, quel bisogno di scrutare l’ignoto non lo abbandonava mai. Celato nell’animo della sconosciuta c’era un mistero inestimabile, lui lo sapeva; la potenza del suo reiatsu, anche ora che giocava silenziosamente in un angolo della stanza, era sconcertante. L’avrebbe tenuta con sé fino a che non avesse scoperto il suo segreto, il solo pensiero lo emozionava.
«Attenta – disse Urahara, quando riuscì a scorgere, tra le mani di Benihime, l’oggetto con cui lei stava giocando – Quello è un reishukaku, un nucleo spirituale»
La ragazza, rivolse verso di lui i grandi occhi verdi: «E’ pericoloso, direttore Urahara?» chiese ingenuamente.
Lui sorrise: «No, non lo è, ma è molto fragile. Vuoi che t’insegni come si usa?» chiese, chinandosi all’altezza della ragazza seduta.
«Mi piacerebbe molto, direttore» rispose Benihime, porgendo la sfera vitrea ad Urahara.
L’uomo s’inginocchiò e strinse tra i palmi la sfera; in pochi istanti, intorno a lui si creò un campo d’energia così intenso da sembrare palpabile. Quando lo sciolse, sorrise a Benihime da sotto il cappello a righe: «Divertente, vero?»
«Posso provare, direttore?» chiese la ragazza, allungando le mani in cerca della sfera.
Urahara gliela porse ed attese.
Benihime sembrò studiarla per un lungo istante, poi premette con decisione i palmi contro le pareti dell’oggetto e serrò gli occhi. In quello stesso momento, un enorme campo d’energia riempì la stanza, scaraventando Urahara contro la parete; era denso, compatto, di dimensioni ineccepibili. La ragazza lasciò cadere la sfera dallo sgomento e il campo si smaterializzò all’istante; corse verso Urahara che stava disteso a terra a qualche metro da lei.
«State bene, direttore? – chiese, aiutandolo a sedersi – Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto»
«Non ti preoccupare Benihime, sto bene» le rispose lui, poggiandole una mano sulla testa, in una tenera carezza.
Istintivamente, lei si strinse al petto dell’uomo, cercando il suo calore rassicurante; era come una bambina che non aveva pudore né senso di ciò che era opportuno, seguiva i suoi sentimenti ed il suo impulso naturale, come un piccolo animale impaurito. Dopo un primo istante di stupore, Urahara l’abbracciò a sua volta, cercando di tranquillizzarla.
Era giusto spaventarla a quel modo, solo per conoscere la vera potenza della sua energia spirituale? Per un attimo esitò; qualcosa in lei stava incrinando la sua perfetta maschera di freddezza. Per fortuna fu solo un istante: la sua determinazione ritornò presto, accompagnata da una consapevolezza.
Un giorno l’avrebbe trovato, un vero segreto, uno di quelli che fanno sussultare e tremare dall’emozione; sapeva che era nascosto appena dietro l’angolo e non riusciva a smettere di cercarlo.

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Capitolo 4
*** Waiting for a Chance ***


3.
Waiting for a Chance

 
«Posso pettinarti i capelli, Benihime?» chiese titubante la piccola Ururu, giocherellando con l’orlo del suo vestito.
«Sarebbe un onore, Ururu, accomodati» rispose gentilmente la ragazza, sedendosi a terra davanti alla porta scorrevole che dava sul giardino interno.
«Userò una spazzola di corallo, così i tuoi splendidi capelli brilleranno ancora di più!» continuò la bambina, mostrando entusiasta l’oggetto che aveva nascosto nella tasca.
Benihime sciolse i lunghi capelli e si voltò verso il magnifico giardino in fiore: la luna era sorta da poco ad illuminare il piccolo stagno di riflessi argentati e, solo allora, la chioma dell’albero di ciliegio cominciava la sua danza nella brezza primaverile.
Da quanto tempo stava all’emporio Urahara? Mesi ormai. Eppure non era riuscita a riacquistare nemmeno un briciolo della sua memoria. Il suo nome, la sua vita: tutto era scomparso in una voragine nera e senza fine. Non ricordava nulla prima del momento in cui Kisuke Urahara la trovò; solo il freddo. Quella sensazione spiacevole, però, stava lentamente svanendo: presto l’avrebbe dimenticata, perché da quando viveva all’emporio non aveva conosciuto altro che affetto.
«Avete davvero dei capelli stupendi, Benihime. Posso intrecciarli, dopo averli pettinati?» chiese la bambina, interrompendo i suoi pensieri.
«Certo che puoi, piccola Ururu» rispose semplicemente la ragazza, regalandole un caloroso sorriso.
Tessai, Jinta, Ururu: l’avevano accolta come se l’avessero conosciuta da sempre. Le avevano insegnato il lavoro all’emporio, l’avevano aiutata ad ambientarsi in un mondo che non conosceva, l’avevano coinvolta nei passatempi più assurdi e le avevano regalato tutto il loro affetto, senza volere mai nulla in cambio. E poi Urahara…
«Il direttore sta dormendo?» chiese Benihime, con lo sguardo perso nella bellezza del ciliegio in fiore.
«Credo di sì – sussurrò Ururu, parlando piano come se lui avesse potuto sentire - Dorme sempre come un ghiro» aggiunse.
Benihime sorrise. Non era mai entrata nella stanza del direttore, ma a volte lo immaginava disteso nel suo fouton, con il cappello ed il ventaglio adagiati accanto a lui, come se non avesse potuto separarsene mai. Chissà se il suo viso sempre così controllato, anche nei momenti di ilarità, si rilassava durante il sonno. Erano i suoi capelli o la sua pelle ad odorare di limone e cedro? Chissà se nascondeva le mani sottili sotto il cuscino…
Benihime arrossì lievemente al pensiero delle mani di Urahara, ed abbassò il viso verso lo stagno, per paura che Ururu potesse vederla.
Che cosa le aveva fatto, Kisuke Urahara? La sua presenza, il suo pensiero, la riempivano di sensazioni che non sapeva spiegarsi. Lui l’aveva salvata, le aveva dato una casa, una famiglia, dei vestiti, da mangiare, le aveva dato un lavoro per riempire le sue giornate vuote. Lei aveva il diritto di provare qualcosa per lui? Gli avrebbe causato soltanto fastidi con i suoi inutili sentimenti. Sciocca, debole, fragile: cosa poteva dare una ragazza come lei ad un uomo del genere? Non meritava neppure il nome che lui le aveva dato: non aveva nulla di una principessa…
«Che cos’hai, Benihime? Sei triste?» chiese inaspettatamente Ururu, abbandonando la ciocca di capelli che stava diligentemente intrecciando.
«Ururu – sussurrò la ragazza, voltandosi verso la piccola – Come potrò ripagare il direttore per tutto quello che ha fatto per me?»
La bambina osservò seria Benihime, le prese una mano e la strinse dolcemente: «C’è un destino racchiuso nel tuo nome: verrà un giorno in cui lui avrà bisogno di te. In quel momento non dovrai esitare, non dovrai avere paura; solo tu potrai salvarlo»
Benihime rimase immobile ad osservare il viso della bambina: come poteva sapere ciò che sarebbe successo?
«Ora finisco di intrecciarti i capelli! – continuò poi Ururu, come se nulla fosse successo – Non essere triste, il direttore ti vuole bene, anche io te ne voglio»
La ragazza ritornò ad osservare il ciliegio, cercando nell’aria il suo odore dolce.
Sì, anche lei un giorno sarebbe stata utile, ma ora non poteva far altro che aspettare. E nell’attesa, che male c’era ad immaginare ancora una volta, di essere avvolta da quell’acre odore di limone e cedro?

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Capitolo 5
*** Foolish, weak, fragile ***


4.
Foolish, weak, fragile

 
 
«Silenzio, Jinta! Arriva!» sussurrò Ururu da dietro la porta scorrevole, strattonando l’amico.
«Stai zitta tu, antipatica – ribatté subito lui – E non mi toccare!»
Benihime aprì la porta e rivolse loro un sorriso divertito: «Litigate di nuovo voi due?» chiese, non riuscendo a provare per loro il benché minimo sentimento di rimprovero.
«Vedi, è colpa tua, hai rovinato tutto!» strillò Jinta all’amica, serrando i pugni lungo i fianchi.
«No, non’è vero, sei tu che parli sempre!» rispose Ururu, crucciata.
Entrambi si guardarono in silenzio per un lungo istante, aggrottando le piccole fronti in segno di sfida, davanti all’espressione perplessa di Benihime.
«Ehi, Benihime, non è che puoi uscire un attimo e rientrare di nuovo?» chiese Jinta risoluto: aveva lo sguardo di chi sa di essere l’unico a poter risolvere la situazione.
«Cosa?» chiese la ragazza incredula.
«Dai su, su, esci!» continuò il bambino, spingendola fuori dalla stanza e sbattendo la porta scorrevole.
Benihime rimase in silenzio davanti alla porta, in attesa di chissà quale scherzo da parte delle due piccole pesti.
«Ora puoi entrare!» urlò Ururu, dopo qualche istante.
La ragazza fece scorrere lentamente la porta, pronta a reagire ad un qualsiasi evento inatteso. Appoggiò il piede nudo sul pavimento di legno, cercando di non farlo scricchiolare: la stanza era buia e priva di qualsiasi rumore. Nel momento stesso in cui richiuse la porta dietro di sé, tutte le luci si accesero contemporaneamente.
«Buon compleanno, Behinime!» urlarono una serie di voci, tutte insieme.
La ragazza rimase immobile sulla soglia, bloccata dall’emozione. Jinta, Ururu e Tessai avevano indossato dei buffi cappellini conici dei colori più strani e saltellavano allegramente canticchiando una canzone d’auguri; al centro della stanza stava la tavola apparecchiata a festa, con i cibi più rari e prelibati. Al muro avevano appeso uno striscione con evidenti errori d’ortografia, scritto probabilmente dai bambini in segno di amicizia. Al fondo della stanza, a dirigere ironicamente gli amici intenti a cantare con il ventaglio usato come una bacchetta, stava il direttore, vestito di tutto punto, con abiti eleganti all’occidentale.
«Vieni, forza, devi aprire i regali!» disse Ururu alla ragazza, trascinandola per la manica.
«Io… - riuscì solo a sussurrare lei, stupita ed emozionata allo stesso tempo – Grazie»
«Devi ringraziare il direttore – le rispose Jinta, addentando una fetta di dolce – E lui che ha pensato a tutto»
Benihime cercò lentamente lo sguardo di Urahara; non riuscì a trattenere il rossore quando i loro occhi si incontrarono. Lui la stava osservando silenziosamente dall’altro capo del tavolo: i piccoli occhi azzurri fissi e decisi, le labbra sottili distese in un lieve sorriso. Allungò la mano per picchettare debolmente, con il suo ventaglio, su uno dei bicchieri appena riempiti da Tessai e si rivolse agli amici con un inchino esagerato.
«Un attimo di silenzio, prego! – esordì l’uomo, invitando tutti ad avvicinarsi al tavolo – Siamo qui riuniti, oggi, per festeggiare la nostra cara Benihime. Dato che non ti ricordi la data della tua nascita, abbiamo deciso noi per te. Che gesto carino, vero? Il signor Tessai ha collocato la tua nascita utilizzando le qualità del tuo carattere, per determinare segno ed ascendente»
«Che lavoraccio!» esclamò Tessai, asciugandosi il sudore dalla fronte.
Benihime sentì nascere dal petto una sensazione estremamente piacevole, un calore improvviso, come un fuoco di felicità. Osservò il viso di coloro che le stavano intorno e regalò ad ognuno il suo più affettuoso sorriso.
«Grazie – disse, con la voce che tremava – Grazie infinite a tutti quanti»
«Allora, Benihime, li apri questi regali?» chiese impaziente Jinta, pulendosi la bocca sporca di cioccolato, con la manica della maglia.
La ragazza scartò lentamente i regali, gustando ogni istante. Ogni cosa era così magica, che spesso durante la serata dubitò che potesse essere reale. Indossò la pinza per capelli a forma di fiore che le aveva regalato Ururu e ripose tutti gli altri doni accuratamente, in attesa di poterli portare nella sua stanza. I bambini staccarono lo striscione e cominciarono le pulizie, mentre il signor Tessai spazzava a terra con un’esile scopa di saggina.
«Benihime – la chiamò dolcemente il direttore – Anche io ho un dono per te» disse, porgendole una busta di carta argentata.
«La ringrazio, direttore, non era necessario» rispose prontamente la ragazza, con un inchino delicato.
Urahara si limitò a sorriderle, porgendole il pacco.
Benihme esitò. Allungò le mani verso quelle del direttore, tremando lievemente, ed afferrò la busta; la scartò, facendo attenzione a non sciupare la carta ed il fiocco. Quando anche l’ultima barriera fu rimossa, il respiro le si mozzò in gola per l’emozione: tra le sue mani giaceva un lungo vestito elegante, di seta blu oltremare, con ricami argentati e file di brillanti.
«Direttore, io non posso accettarlo» disse lei, accennando a restituirgli il dono.
«Oh, la la! Vuoi offendermi?» chiese lui, aggrottando le sopracciglia.
«No, signore, assolutamente. E’ che io non merito un regalo del genere! Dovete aver speso molto denaro e io… »
Urahara appoggiò la sua mano sulla guancia di lei: «Sei o no la mia principessa, Benihime?»
La ragazza trattenne il respiro: si sentì avvolta dall’odore acre di lui, così intenso e pungente.
«Stai diventando indipendente, ormai, presto qualche bel giovanotto si farà avanti e ti chiederà un appuntamento – continuò il direttore, senza allontanare la mano dal viso di lei – Vorrai mica uscire con l’uniforme dell’emporio?»
Sciocca, debole, fragile. Per un attimo aveva sperato che quel dono significasse qualcosa di più, per un istante aveva immaginato di poterlo indossare per lui. Ma perché continuava ad illudersi? Non aveva diritto di chiedere nulla, dopo tutto ciò che aveva ricevuto.
«La ringrazio infinitamente, direttore – disse lei, abbozzando un lieve sorriso – Lo terrò sicuramente in gran conto perché è stato lei a donarmelo»
Urahara la guardò allontanarsi verso la sua stanza e sparire nella penombra della casa notturna.
C’era qualcosa di poetico nel suo corpo, nei suoi movimenti: fin dal giorno in cui l’aveva trovata, riversa a terra e coperta solo di stracci, qualcosa in lei l’aveva attratto come una calamita. Il giorno in cui avesse scoperto il suo segreto, quel morboso interesse per lei sarebbe svanito? Preferiva non chiederselo, ora che il suo enigma era ancora incompleto.
Sarebbe stata bellissima con quel vestito.

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Capitolo 6
*** My Little Phoenix ***


5.
My little Phoenix

 
 
«Direttore! – chiamò a gran voce Benihime, percorrendo l’ingresso a lunghi passi – Direttore!» ripeté poi, sempre in cerca dell’uomo.
La testa di Urahara spuntò da una porta al fondo del corridoio, coperta fino ad oscurargli la vista dall’inseparabile cappello a righe bianche e verdi.
«Eccomi, mia dolce Benihime!» esordì ironicamente, sistemandosi il berretto. Quando fu in grado di vederla, il sarcasmo gli si spense in gola.
La ragazza portava i lunghi capelli rossi sciolti sulla schiena, in sinuose onde amaranto. Il vestito blu oltremare le fasciava il fisico snello e flessuoso, per terminare in un ampio strascico ricamato con decori d’argento; alcuni brillanti impreziosivano lo scollo e i polsi, illuminandole il viso di riflessi iridescenti.
«Mi ero dimenticato che stasera avessi un appuntamento» riuscì a dire Urahara, riprendendosi da una piacevole sensazione di stupore.
Benihime sorrise: «E’ il vestito che mi ha regalato lei, direttore. Ho pensato che potesse farle piacere vedermelo indosso» sussurrò lei lievemente imbarazzata, aggrappandosi alla borsetta.
«Mi fa piacere, infatti» rispose prontamente l’uomo, avvicinandosi a Benihime.
Dio, era davvero bellissima: così dolce, semplice, ingenua. Eppure, se riuscivi ad annegare nei suoi occhi per qualche istante, potevi quasi toccarlo, il suo segreto; era lì, nascosto tra le screziature d’oro e le ciglia scure. Stava aspettando qualcuno in grado di svelarlo.
Benihime abbassò lo sguardo: «Desidera che l’avverta quando rincaso…»
Uno strano boato li avvolse. Entrambi si guardarono angosciosamente intorno, cercando l’origine di quell’esplosione silenziosa; poi una forte corrente d’aria riempì la stanza. Prima che Benihime potesse rendersene conto, Urahara balzò verso di lei e le fece scudo con il suo stesso corpo; in quel medesimo istante un’esplosione frantumò parte della parete di legno. Prima che il polverone potesse diradarsi, l’uomo obbligò Benihime a seguirlo, correndo a perdifiato verso il retro della bottega.
«Direttore, cosa succede?» chiese lei, colta dal panico.
Urahara la fece nascondere tra due alte pile di casse: «Non ti devi muovere di qui, qualsiasi cosa succeda. Hai capito?»
Lo sguardo di lui era serio e preoccupato come non l’aveva mai visto. Tirò fuori il bastone da passeggio e lo impugnò saldamente; abbassò il cappello sul viso, prendendo un profondo respiro.
«No, direttore, non vada – disse Benihime, soffocando le grida – Cosa vuole fare con quel bastone?»
«Non devi preoccuparti» continuò lui, dirigendosi nuovamente verso il corridoio.
La ragazza afferrò l’orlo della vestaglia sgualcita di lui: «Non la lascerò andare, lei non deve andare! Si ferirà!»
Urahara osservò per un istante il viso di lei, coperto di lacrime: nonostante avesse tentato di proteggerla facendole da scudo, una scheggia di legno l’aveva comunque ferita alla guancia destra, e ora sanguinava copiosamente. Lo stava supplicando di non andare, desiderava proteggerlo, ma lui non poteva permetterlo. Era lei che doveva essere protetta e se lui non le avesse mentito a riguardo, forse ora lei avrebbe capito; ma non era il momento per scuse o pentimenti.
«Mi dispiace, Benihime – sussurrò lui, puntando la mano verso il viso della ragazza – Incantesimo di immobilizzazione 99: kin, proibizione»
Benihime non si mosse più. Ogni suo muscolo era immobile ed atrofizzato, come se non rispondesse più agli stimoli; la bocca era chiusa e muta, anche se dal suo petto proveniva un urlo straziante. Crollò inesorabilmente sul pavimento di legno, senza essere più in grado di reagire, ma i suoi occhi vedevano, le sue orecchie sentivano. Cosa le aveva fatto il direttore? E ora dove stava andando? Avrebbe voluto fermarlo, ma non era in grado. Sentì di aver perso la sua unica occasione: sciocca, debole, fragile.
La luna stava sorgendo spietata, portando con sé i cambiamenti del mondo. I colori stavano lentamente scurendo e il legno sotto il suo corpo sembrava trasformarsi in marmo. Tutto girava, cambiava. C’era una cosa, pero, che non sarebbe mai cambiata: la sua impotenza.
Kisuke Urahara la guardò riversarsi a terra in una macchia blu oltremare: ora era venuto il momento di pagare per la sua stessa stoltezza. Avrebbe dovuto allontanarla tanto tempo prima e ora era in pericolo per colpa sua. La salutò silenziosamente nella penombra dell’emporio e corse via, verso il corridoio, pronto a combattere.
«Ti stavo aspettando – esclamò una figura, rannicchiata nell’ombra – Consegnami la ragazza» intimò ad Urahara, alzandosi in piedi.
«Quella che hai sfondato era una parete di casa mia: sei proprio un maleducato» rispose semplicemente il direttore, azzardando qualche passo verso lo sconosciuto.
«Non mi stavi ascoltando? Il mio unico interesse è la ragazza: consegnamela e forse ti risparmierò la vita» ribatté ancora lo sconosciuto, senza accennare ad uscire dall’ombra.
Urahara sorrise, sotto il cappello a righe: «Ti prometto che sarai tu a dover pregare di avere risparmiata la vita!»
Lo sconosciuto scattò in avanti pronto a colpirlo, ma il direttore usò il suo stesso corpo come leva per balzare al di fuori della struttura, attraverso l’apertura lasciata dall’esplosione. Sarebbe stato più libero di usare attacchi di potenza maggiore, ora che era al di fuori dell’edificio, lontano da Benihime. Sfilò la parte superiore del suo bastone, rivelando una katana nascosta nel legno; con un’agile mossa, liberò dalla copertura l’elsa e la guardia e parò il primo violento colpo dello sconosciuto. L’uomo esitò un istante, poi balzò indietro, frenando con i sandali sul manto stradale.
«Io conosco quella zampakuto! – urlò lo sconosciuto – Tu sei Kisuke Urahara» concluse poi, scoppiando in una fragorosa risata.
Il direttore alzò la guardia: «Il mio nome è così divertente?»
«Certo, Urahara! – proseguì l’uomo, continuando a ridacchiare – Chi altri poteva aver percepito il reiatsu della ragazza… sono decenni che non ci vediamo! Mi hai dimenticato?»
Urahara osservò lo sconosciuto alla luce della luna da poco sorta: il suo viso era deforme e colmo di cicatrici; indossava una shihakusho, la veste dei dominatori della morte, e la sua spada luccicava nel chiaro di luna di una luce macabra.
«Mayuri Kurotsuki – sussurrò tra i denti il direttore – Cosa ci fai qui?»
Lo shinigami si finse sorpreso: «Non lo sai? Ora sono capitano, Urahara! Capitano della dodicesima compagnia e, grazie a te, anche capo della sezione Ricerca e Sviluppo. Non è entusiasmante?»
«La Soul Society è caduta così in basso, da nominare capitano un individuo senza scrupoli come te?» urlò Urahara, senza riuscire a trattenere la rabbia.
«Se tu non fossi fuggito, non sarei mai diventato né capitano né capo della Sezione, quindi è solo te stesso che devi rimproverare – lo biasimò falsamente Kurotsuki – Dato che sei tu, te lo chiederò ancora una volta: consegnami la ragazza o morirai»
Urahara alzò la zampakuto, risoluto: «Mai» disse, a voce bassa ma sicura.
«Allora morirai!» rispose lo shinigami, balzando in avanti.
Con uno shumpo fu subito di fronte al direttore e lo attaccò con impeto direttamente al petto; Urahara schivò e parò un paio di colpi, poi lo perse improvvisamente di vista. Percepì il suo reiatsu proprio alle sue spalle ed ebbe giusto il tempo di evocare la zampakuto per proteggersi.
«Piangi, Benihime!» urlò, creando un enorme scudo rettangolare di colore rosso scarlatto.
La risata di Kurotsuki risuonò nell’aria: «Avevo dimenticato che la tua è l’unica zampakuto con un nome femminile: patetico! Il massimo che riesci ad evocare è uno scudo di nebbia?»
Con un passo lampo Urahara apparve alle spalle dello shinigami e lo colpì senza esitare: alcune gocce di sangue schizzarono nell’aria, accompagnate dal grido di Kurotsuki. Dalla tunica squarciata s’intravedeva la profondità della ferita.
«Hai abbassato la guardia, non ho potuto resistere» sogghignò Urahara.
Lo shinigami rispose con un calcio brutale, scaraventando il direttore a parecchi metri di distanza. Urahara tossì sangue, cercando di rimettersi in piedi: «Perché vuoi la ragazza? A cosa ti serve?»
«Mi stupisci – rispose prontamente Kirotsuki – La tieni nascosta in un gigai da quasi un anno e ancora non hai scoperto da dove viene la potenza del suo reishi? Ti sei forse arrugginito, Urahara?»
«Non amo torturare i miei soggetti, a differenza di te» ribatté il direttore, asciugandosi il sangue dal mento, con il polso.
«Sempre più patetico! Scommetto che magari le hai dato anche un nome… che sentimentale – lo schernì lo shinigami – Il tuo talento non serve a nulla se non sai sfruttarlo: lei è solo un oggetto da spremere per ottenere quello che desideri»
Urahara compose lentamente nell’aria con la punta della zampakuto, un cerchio regolare, che si tinse di amaranto: «Sei un bastardo! Danza, Benihime!»
Dal cerchio partì un raggio luminoso d’energia pura, che esplose nell’impatto con lo shinigami avversario, alzando una nuvola di polvere. Purtroppo Kurotsuki parò il colpo, usando la sua stessa zampakuto.
«Stolto! – urlò lo shinigami – Ora tocca a me: estirpa, Ashisogi Jizu!»
All’improvviso la sua zampakuto mutò forma: dalla guardia spuntò la testa deforme di un neonato, dalla quale nascevano tre lame affusolate. Attaccò immediatamente, lanciando colpi ripetuti e secchi; Urahara riuscì a pararli, scattando velocemente e contrattaccando. All’improvviso uno schizzo di sangue tagliò l’aria: sulla guancia sinistra del direttore si aprì un lieve taglio superficiale.
Kurotsuki riprese a ridere forsennatamente.
«Sei contento per avermi graffiato?» chiese ironicamente Urahara.
«Lo sai qual è il potere di Ashisogi Jizu, il Jizo mozzapiedi? - ribatté lo shinigami, con il sorriso stampato in volto – Quando ferisce rilascia un potentissimo veleno immobilizzante, che blocca i segnali che il cervello invia agli arti. Tra pochi secondi non sarai più in grado di muoverti»
Urahara tentò di contrattaccare, ma la mano che teneva la zampakuto non rispondeva ai suoi comandi.
«E sai qual è la cosa più divertente? Che a differenza di un paralizzante normale, che blocca qualsiasi messaggio celebrale, Ashisigi Jizu permette di sentire… il dolore!» terminò, colpendo energicamente il petto di Urahara. Ancora e ancora.
Il grido di dolore del direttore riecheggiò nell’aria: era straziante, penoso, insopportabile.
«Muori, Kisuke Urahara!» gridò Kurotsuki, levando la zampakuto per il colpo finale.
Una violentissima esplosione rase al suolo parte dell’emporio, provocando un’onda d’urto schiacciante: e non era stata la zampakuto di Kurotsuki a provocarla. Il cappello di Urahara rotolò per diversi metri ed una luce accecante s’interpose tra il direttore e lo shinigami avversario; nel chiarore, s’intravedeva un’esile figura femminile, avvolta dalle fiamme. Con uno spostamento d’aria, catapultò Kurotsuki lontano dal corpo leso dell’uomo e si volse verso di lui, come per proteggerlo.
«Kisuke» sussurrò soltanto, chinandosi sul suo viso ferito.
Nella nebbia dello stordimento, Urahara vide il suo volto: avvolta da fiamme vive, la sua pelle non bruciava, anzi sembrava parte elementale del fuoco che l’avvolgeva. Nella marea rosso sangue che la fasciava, riconobbe i suoi occhi verdi, screziati d’oro e di bronzo.
«Benihime…» cercò di chiamarla.
«Tu, le hai dato il nome della tua zampakuto! – urlò Kirotsuki, riprendendosi dal colpo – Questo è davvero, davvero commovente!»
Benihime si erse in tutta la sua imponenza: le fiamme l’avvolgevano, creando nell’aria circostante piccoli fulmini elettrici. Nei suoi occhi non c’era compassione, solo rabbia. Aveva desiderato il potere di proteggere Kisuke, ora aveva la forza per annientare chi l’aveva ferito.
«Ora sei mia, maledetta! Io ti ho liberato dal sokyoku, tu mi appartieni!»
Sentì scorrere dentro di lei tutta l’ira: la condensò nel petto dove poteva controllarla. Chiuse gli occhi e la sua forma cambiò. Le fiamme divennero ali e il suo corpo divenne quello di un uccello: era enorme, era potente, era pronta. Scese in picchiata con la violenza di un uragano: voleva ucciderlo, l’avrebbe ucciso.
Un urlo risuonò straziante, poi il buio. E lo sentì ancora una volta.
Il freddo.

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Capitolo 7
*** Thank You ***


6.
Thank You

 
Quando Ururu e Jinta accompagnati da Tessai, tornarono dallo spettacolo di fuochi d’artificio, trovarono il kompaku di Benihime aggrappato al corpo di Urahara, in un lago di sangue; fortunatamente, riuscirono a soccorrerli entrambi. Il direttore rispose prontamente alle cure, rimettendosi in poche ore; la ragazza invece, una volta riposta nel suo gigai, non accennava a dare segni di vita. Il suo hakudo era debole ed irregolare, tanto da non rispondere a nessuna medicina.
Da giorni, ormai, Urahara vegliava accanto al fouton di lei, accompagnato da un persistente senso d’impotenza e di colpa. Aveva meritato di essere salvato, lui che le aveva mentito sul perché l’avesse accolta a casa sua, lui che non aveva fatto nulla per aiutarla a capire chi fosse? Maledetto ipocrita: non era per nulla diverso da Kurotsuki. Dal primo momento aveva solo desiderato di conoscere il suo segreto: ora lo aveva scoperto, ma a che prezzo! Perderla per sempre era un conto troppo salato da pagare, non era pronto per farlo. Avrebbe dato qualsiasi cosa per riaverla indietro, qualsiasi.
Strinse forte la mano sinistra della ragazza nella sua, sperando che lei potesse sentirlo: «Svegliati, Benihime – sussurrò nel silenzio nella stanza vuota – Ci sono tante cose che dovrei dirti»
Un respiro flebile riempì l’aria: «Direttore – mormorò Benihime, senza riuscire ad aprire gli occhi – Riconosco il suo calore»
Il peso che gravava sulla nuca di Urahara di colpo scomparve, lasciando spazio ad un piacevole calore che gli invase il petto. Con la destra, strinse ancora più forte la mano della ragazza e con l’altra le carezzò dolcemente la fronte: «Come ti senti?»
Benihime aprì lentamente gli occhi, chinando la testa nella direzione del direttore: «Bene, davvero. Lei sta bene, direttore? Dovrebbe riposare con tutte quelle ferite! – Lo ammonì, guardando le bende che gli circondavano il petto e le braccia – Non si deve preoccupare per me, io starò bene»
«Sciocca e testarda. Ti avevo detto di restare nel magazzino. Come hai spezzato il mio incantesimo?» la rimproverò lui, continuando ad accarezzarle dolcemente la fronte.
«Io l’ho sentita urlare e ho avuto paura… – rispose Benihime, portando anche l’altra mano a cingere quella del direttore, che le teneva stretta la sinistra – Paura di perderla»
La ragazza si mise a sedere, incurante dei dolori che le percuotevano tutto il corpo; Urahara tentò di fermarla, ma lei gli afferrò entrambe le braccia: «Il mondo è così freddo e crudele senza di lei! E’ stato l’unico a provare compassione per me. Così con tutte le forze ho voluto salvarla. E allora ho sentito il fuoco dentro di me, nel mio petto, nelle mani… e quel fuoco è esploso, mi ha circondato, mi ha liberato»
Mentre parlava il suo respiro si faceva sempre più affannoso; Urahara la circondò con un braccio per sostenerla, avvicinando il petto al suo viso di lei. Benihime vi affondò dolcemente la testa.
«Che cosa sono io, direttore? Un mostro?»
Urahara, la strinse dolcemente a sé, cercando le parole giuste: «Sei l’anima del sokyoku, il patibolo doppio utilizzato per uccidere gli dei della morte traditori. La tua potenza è pari a mille zampakuto – rispose semplicemente, senza riuscire a trovare spiegazione migliore – Quell’uomo che hai visto ti liberò dal corpo di ferro per sfruttare la tua forza in battaglia. Probabilmente quando rimosse il sigillo, qualcosa andò storto e tu fosti catapultata nel mondo terreno, dove io ti trovai»
Benihime trattenne un gemito di sofferenza: «Quindi io non sono una persona… sono uno strumento per uccidere»
Urahara l’afferrò per le spalle e l’obbligò a guardarlo negli occhi: «Tu provi dei sentimenti: rabbia, affetto, dolore, amore. Hai messo in pericolo la tua stessa vita per salvare la mia! Sei una persona molto migliore di altre che conosco. Sei umile, gentile, altruista…»
«Non è vero! – rispose Benihime, senza poter trattenere le lacrime – Sono egoista ed ingrata perché non riesco ad apprezzare tutto quello che ho; e al posto di ringraziare riesco solo a desiderare qualcosa che non potrò avere mai»
Urahara allargò i piccoli occhi azzurri, incapace di capire a cosa la ragazza si stesse riferendo: «Ma cosa dici, Benihime? Tu puoi avere tutto quello che desideri»
Benihime abbassò gli occhi, imbarazzata per ciò che stava per dire: «Anche il tuo amore, Kisuke?»
Il respiro gli si mozzò in gola. Fu il suono del suo stesso nome a scuoterlo ed immobilizzarlo, rendendo il suo raziocinio denso e instabile. La sua maschera di fredda indifferenza si frantumò davanti al furore di un sentimento così puro e brutale.
Con la punta delle dita alzò il mento di lei, osservando i grandi occhi verdi colmi di lacrime. Ora lo poteva vedere chiaramente, il segreto nascosto tra le screziature delle sue iridi, il motivo per cui, in tutti questi mesi, non aveva potuto scacciarla dai suoi pensieri neanche un istante. L’aveva svelato, il vero segreto. Ed era così ovvio, adesso che poteva guardare il suo volto, libero da ogni inganno, da ogni falsa pretesa.
Lentamente si avvicinò al viso di lei, trattenendo il respiro. La luce del tramonto illuminava i suoi zigomi di riflessi violacei, rendendola simile ad una statua d’alabastro: così bella ed immutabile. La desiderava, voleva stringerla a sé e dimenticare ogni cosa del mondo, lei che le aveva donato tutta se stessa in una sola frase. Le chiuse le labbra in un bacio struggente e dolce, gustando fino all’ultima goccia il suo ardore, così puro e sincero.
Benihime non aveva mai provato l’emozione di un bacio: superata la confusione iniziale, si rese conto che ogni movimento le riusciva naturale. Affondò istintivamente le mani nei lunghi capelli biondi di Urahara, stringendo la sua nuca tra le dita; era come se avesse avuto paura che lui scomparisse in una nube scarlatta, come un sogno alle prime luci del mattino. No, non l’avrebbe permesso; non ora che finalmente poteva annegare tra le sue braccia.
L’uomo copriva di baci leggeri, il corpo di lei che liberava pian piano. La sua pelle era serica e lattea, della consistenza di una nuvola; e proprio come una nube sospinta dal vento, gli veniva incontro, cercando il suo contatto, come se il fatto stesso di stargli lontano potesse ferirla. La intrappolò a terra con il suo stesso corpo, insinuando delicatamente la testa nell’incavo del collo di lei, alla ricerca del suo calore.
In quell’istante, lei cominciò a tremare: «Va tutto bene?» chiese lui, teneramente.
«Sì – rispose Benihime, imbarazzata – Io credo… credo sia l’emozione»
Un’ammissione tanto limpida e dolce, lo colpì direttamente al cuore. La baciò con tutto l’amore e la tenerezza che era in grado di esprimere: «Io ti proteggerò da ogni male, te lo giuro» le sussurrò, a pochi centimetri dal viso.
Benihime pianse.
Il suo sogno più grande si stava realizzando: sprofondava delicatamente in un’ebbrezza silenziosa, avvolta dall’acre profumo di limone e cedro. Il freddo? Non ricordava neanche più cosa fosse, ora che affrontava la notte, riscaldata dal corpo di lui. Quelle mani che tanto aveva desiderato, accarezzavano dolcemente i suoi lunghi capelli rossi; il petto asciutto, fasciato dalle bende, era adagiato sul suo seno, come se non avesse potuto staccarsene mai.
«Kisuke… – lo chiamò lei, in un sospiro mozzato – Grazie»
L’uomo appoggiò la fronte a quella di lei: «Grazie a te, Benihime»

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Capitolo 8
*** Funeral of Hearts ***


7.
Funeral of Hearts

 
Benihime osservava il corpo di Urahara, avvolto parzialmente dalle coperte. La sua schiena flessuosa, incurvata in avanti, disegnava un arco sensuale; le braccia piegate in un vacuo abbraccio, la chiamavano a colmare il posto lasciato vuoto accanto a lui. Lei, però, non sarebbe tornata.
Era già pronta a partire: nello zaino aveva infilato tutto ciò che sarebbe potuto tornarle utile. Più nulla avrebbe dovuto trattenerla, eppure restava immobile, incapace di lasciare quella stanza. Era come se una forza incorporea la trattenesse, come se una catena di ferro la legasse indissolubilmente a lui.
Eppure lei lo sapeva, doveva andarsene.
Per tutta la notte le parole di Urahara l’avevano tormentata. Se era vero, che il potere che lei celava nel suo reishi era così immane, allora presto molti altri avrebbero cercato di impossessarsene. Shinigami, umani, hollow, sarebbero giunti all’emporio per rapirla, torturarla, rinchiuderla nuovamente nella sua gabbia di ferro; e Urahara avrebbe rischiato la sua vita per proteggerla.
Io ti proteggerò da ogni male, te lo giuro…
No, non poteva permetterlo. Non voleva che Urahara rischiasse la sua vita a causa sua: lui era diventato troppo importante, più importante della sua stessa sopravvivenza. Sarebbe partita, sarebbe andata più lontano che poteva, avrebbe trovato un modo per cavarsela. Ciò che importava era che il direttore fosse al sicuro, alla larga da lei a da tutti pericoli che portava con sé.
Una lacrima scese a rigarle il viso. Il solo pensiero di perderlo la rendeva malinconica e vuota, come un albero solitario nel mezzo della campagna deserta. Lo amava profondamente, più di quanto qualsiasi altro essere vivente potesse concepire, poiché lei era fatta di sola anima. Eppure di fronte ad un sentimento così accecante, lei era lucida e decisa a proteggerlo, al di là di ogni egoismo, di ogni sentimento fuorviante.
Si avvicinò lentamente al fouton e carezzò il viso dell’uomo, esitante. Non lo biasimava per averle nascosto la sua natura di shinigami, non era in grado di provare un sentimento ostile nei suoi confronti; pensava che se gli avesse rivelato tutto di lui, forse lei non avrebbe provato ciò che provava ora.
Lo salutò in silenzio, scivolando fuori dalla finestra nella notte scura ed inespressiva. Nessuna stella avrebbe potuto alleviare la sua sofferenza, ora; anche la luna sembrava prendere parte al suo dolore, nascondendosi, luttuosa, dietro le nubi cineree. Il sole sarebbe sorto presto e lei sarebbe stata già lontana, nascosta sotto una tunica verde bottiglia. Desiderò che la pioggia accompagnasse il suo cammino, così da poter piangere in pace tutto il suo tormento, nascosta dalle lacrime del cielo stesso.
Il sole sorse, facendosi largo tra le nubi notturne, ma neppure allora Benihime si voltò indietro. L’unico pensiero che le dava forza, era che un giorno sarebbe potuta tornare. Avrebbe varcato la soglia dell’emporio di mattina presto, quando il signor Tessai preparava la colazione e il suo profumo si diffondeva per tutta la casa; avrebbe abbracciato Ururu e Jinta, già pronti per fare le pulizie, e poi – che emozione al solo pensiero – avrebbe sentito ancora, quell’acre odore di limone e cedro, avvolgerla fino a soffocarla.
Quest’immagine l’avrebbe sostenuta per tutto il suo viaggio, ma fino al suo ritorno non aveva scelta: il suo destino era stato scritto, quando aveva ricevuto il suo nome.
Fino ad allora.
Piangi, Benihime.

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