Indole.

di Vas Happening_Mary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I don't like them. ***
Capitolo 2: *** Night. ***
Capitolo 3: *** Just a bad dream. ***
Capitolo 4: *** Nothing. ***



Capitolo 1
*** I don't like them. ***


Salve!
Comincio con il dirvi che la roba sottolineata non ce l'ho messa io... non so perchè sia così, non ne ho la minima idea!
Spero che vi piaccia comunque il testo e che riusciate a leggere...il problema parte da microsoft office word da quanto ho capito.
Grazie a chi è qui e a chi sceglierà di restare nel corso della storia, davvero, posso garantirvi che vi innamorerete dei personaggi come me ne sono innamorata io. Cercherò di essere puntuale nell'aggiornamento almeno ogni due settimane, ma chi mi segue sa che a volte -spesso- sgarro. 
A presto e buona lettura,
May.




 

"I don't like them".




… altro attacco durante la nottata a Nashville, Tennessee. Si contano due feriti e tre dispersi, le vittime raccontano:- E’ successo all’improvviso, non abbiamo neanche avuto modo di capire cosa ci abbia colpiti-. In atto le indagini dalle otto di questa mattina alla ricerca dei dispersi, a seguire la spedizione a caccia dei soggetti”.
Presi un’altra cucchiaiata di cereali.
“Visto, Malcom? Lo hanno rifatto. Si avvicinano, la scorsa volta erano molto più lontani”.
“Ma se neanche ricordi quando c’è stato l’ultimo annuncio!”.
Lei lo guardò con aria impaurita, “No che non lo ricordo! Sono passati due mesi ed il nome di quel posto deserto era impossibile da pronunciare!”.
“Cedartown, mamma”.
Mi guardò e prese ad annuire convulsivamente. “Sì! Proprio quello! Era in Georgia, no? Hanno cambiato stato in soli due mesi! E chissà quanti altri fattacci sono avvenuti intanto che non hanno voluto segnalare!”.
Afferrò la tazzina di caffè con entrambe le mani ed attese una nostra risposta per qualche istante; se ne andò, ancora con le sue mille preoccupazioni in testa, verso il salotto.
Mia madre era una donna molto ansiosa. Sempre in allerta, attenta alle esigenze di tutti; non per niente lavorava in un centro di cura per anziani. Era l’esatto opposto di mio padre, abbastanza impassibile vivo finché posso, e ancora non avevo capito come facevano ad andare d’accordo tutti i giorni. Lui la assecondava, la lasciava parlare, poi il più delle volte mi faceva l’occhiolino e rideva; non credo che per lei fosse mai stato un problema però.
“Starà bene?”.
“Come sempre, lucciolina”.
Venne a darmi un bacio sulla fronte e sorrisi, ingoiando altro latte e cereali.
“Vado a fare un servizio, credo che ci vedremo direttamente stasera. Dì alla mamma che vorrei qualcosa di fresco, fa caldo oggi, non mi va di nuovo il pollo”.
Annuii distrattamente e mi appuntai di riferire più tardi.
“Ma oggi niente scuola? E’ giovedì, no?”.
“Entriamo alle 10, manca filosofia”.
Lui mi lanciò uno sguardo degno di chi la sa lunga e sorrise, “A stasera, non fare guai”.
Appena la porta d’ingresso si chiuse, la mamma tornò in cucina di nuovo apparentemente tranquilla. “E adesso che gli cucino?”.
Scossi la testa e andai a posare la ciotola vuota nel lavello già colmo di stoviglie.
La mamma era una persona attenta, sì… ma forse non molto alla pulizia.
Mi urlò dietro un “Non mi sei d’aiuto” mentre salivo le scale, ma sapevo che risponderle avrebbe solo dato foga ai suoi pensieri.
12 febbraio, 9:03 Am.
Troppo freddo per una maglia a maniche corte ma troppo caldo per una felpa e le alternative erano due: andare a scuola in pigiama, o mettere la divisa.
I tipi dell’istituto sembravano averlo fatto apposta: creare una divisa comoda e adattabile a qualsiasi stagione. Ma forse era solo il loro incarico, o forse la gonna morbida blu e rosa con maglia bianca e giacchetto blu con logo rosa della scuola aveva davvero fatto colpo.
Su me no di certo, erano colori alquanto detestabili per una quasi diciassettenne.
La misi comunque e legai i capelli in una coda alta cercando di non tralasciare nessun ciuffo ribelle; il dilemma era quello, al mattino: trovare un modo per far funzionare tutto.
Amavo i miei capelli, erano mossi e castani, forse banali, ma tanto folti e belli sia da vedere che da toccare; amavo anche il mio corpo, quasi del tutto, e di certo non me ne lamentavo come molte altre facevano. Ma mettere tutto insieme era un dilemma.
Vedevo un contrasto, sembrava che corpo e capelli non andassero d’accordo.
Papà diceva per questo che ero identica a mia madre.
Anche il mio viso mi piaceva, con occhi blu e lineamenti proporzionati tra loro; magari avrei fatto a meno delle lentiggini, ma la genetica non sbaglia mai.
Usavo di solito poco trucco, al massimo un correttore con mascara, ma quella mattina osai e misi anche la matita interna bianca. Olè!
E per la pulizia… lavare i denti fu più che sufficiente.
Anche in questo somigliavo alla mamma.
Scesi con lo zaino in spalla, sicura di aver dimenticato qualcosa ma comunque incurante, presi il telefono da sopra il tavolo della cucina, salutai mia madre ed uscii.
Il viaggio casa-scuola comprendeva di solito un bus e un buon chilometro da fare a piedi; si passava per il negozio di dolciumi, per quello di scarpe, a destra della chiesa e dritti fino alla fermata avanti la piscina –di proprietà del comune, ma usata dalla nostra scuola per fare attività fisica.
Quella mattina, santa la prof di filosofia, mi toccò camminare a piedi per buoni sei chilometri e venti minuti.
Camminare non era esattamente il mio forte; nessuna attività che prevedesse una parte attiva lo era.
Tirai un sospiro di sollievo arrivata alla piscina e mi strinsi nel giacchetto della divisa.
“Alek!”.
Urlato così, il mio nome pareva tutt’altro che femminile.
“Liz, ti ho chiesto il favore di chiamarmi Rose come tutti gli altri”.
“Ma io non faccio parte della massa” rispose e mi fece il solito sorrisetto vittorioso.
Evitai di lasciarle il bacio di saluto sulla guancia e mi avviai alle porte principali della piccola struttura; ospitava al massimo quaranta aule, compresi laboratori e uffici dei lavoratori, ma tutto sommato era carina.
“E dài, non dirmi che adesso ti offendi anche se ti chiamo con il tuo primo nome!”.
“Preferirei usassi il terzo, Bottle”.
Lei si fermò e piegò la testa di lato, “Che fai, ricorri al cognome?”.
“Il mio almeno è decente”.
“Certo, Gomez!”.
“Come se avessi scelto io in che famiglia nascere”.
Elizabeth, meglio conosciuta tra noi come Liz, non era certo nota per essere timida; al contrario della gemella, Samantha, era una di quelle che ti dice in faccia anche se hai l’alito pesante. Letteralmente, lo aveva fatto più di una volta, anche con il professore di fisica.
Ci somigliavamo molto caratterialmente, di meno d’estetica: sia lei che la sorella erano bionde, alte, secche come stecche e con occhi scuri. Non che mi sarebbe dispiaciuto avere il loro corpo, ma di certo avrei fatto qualcosa per renderlo più guardabile.
Questo non glielo avrei mai detto.
“Almeno sono americana al 100% io”.
“Credi che il Messico sia in Germania?”.
Lei mi guardò sorridente e saltellò sulle scale del cortile. Aprì un’anta della grande porta in legno e aspettò che passassi anche io.
“Chi abbiamo ora?” chiese, incamminandosi verso le scale.
“Credo Latino”.
“No,” sentii da dietro. “ora c’è letteratura. Poi latino, e dopo chimica”.
Girai la testa e sorrisi ad Angelica, la persona più bella che avessi mai conosciuto.
Non bella d’estetica… bella dentro. Era dolce, premurosa, buona; diceva che dopo scuola avrebbe lavorato con i bambini. In classe tutti la adoravano, era l’unica capace di ottenere qualcosa dai professori senza far scattare una nota disciplinare. Era sempre disponibile per tutti nel momento del bisogno, anche per me, specialmente nel periodo in cui persi mio fratello Nick; la conoscevo dalle elementari… e non era cambiata di una virgola.
“Come faremmo senza di te?”.
“Proprio non so.” rispose ironica lasciando un bacio sulla guancia ad entrambe. “Magari perdereste tutte le lezioni”.
Ridemmo fino ad arrivare alla porta dell’aula 47, quando ci fermammo di colpo.
Dal vetro rigato della porta si intravedevano all’interno due figure sospette –si fa per dire.
Erano con la professoressa Newman, di spalle, e parlavano di chissà che cosa con aria abbastanza presa.
“Entriamo o no?”.
“Tu sai chi sono?” chiesi a Liz.
Lei scosse la testa. “E tu?”.
“Scema”.
Angy aprì la porta e salutò cordialmente la donna ed i nuovi ragazzi, seguita da Liz e poi da me. La classe era ancora vuota, per qualche assurdo motivo, e sedermi all’ultimo banco della fila centrale mi parve un’impresa impossibile.
“…quindi sì, facciamo in questo modo: voi cominciate a vedere come vi trovate e se state bene con noi, in caso contrario chiederemo il trasferimento. Vi ripeto, purtroppo la scuola è piccola ed ospita solo due corsi paralleli per anno. Questo è il secondo… magari con gli orari del primo potreste trovarvi di più, non saprei”.
Non sentii la risposta né li vidi accennare ad un qualsiasi segno, troppo impegnata a cercare di raggiungere la mia postazione.
La mia era una classe di cavalli.
A fine giornata, quando era il momento di uscire, ogni spostava il proprio banco come più riteneva comodo. La mattina seguente poi, con l’arrivo degli stessi, le cose tornavano al proprio posto per poi ricominciare. Dato che quella mattina, sempre santa la prof di filosofia, i ragazzi ancora non c’erano e forse non sarebbero venuti… la classe era nel caos più totale.
“Razza di animali” sentii borbottare a Liz.
Risi e le lanciai un’occhiata d’approvazione. “La prossima volta vado dal preside, qui prima o poi ci scappa il morto”.
Anche Angelica rise, già seduta al secondo banco accanto la finestra.
Liz, che era seduta alla fila parallela alla mia, lanciò un’imprecazione a denti stretti nel sollevare una sedia incastrata con la sua.
“Qualche problema, Bottle?”.
“Ma si figuri, se per lei fare una gara di agility ogni volta che mettiamo piede qua dentro non lo è, perché dovrebbe esserlo per me?”.
La donna la guardò con aria di sufficienza e tornò a guardare i ragazzi; scoppiammo a ridere.
“Buon Dio, si può sapere che avete stamattina?”.
Sembrò arrabbiata e Liz si decise a chiudere la bocca.
“Come stavo dicendo prima dell’interruzione,” calcò bene “siete assolutamente liberi di fare quello che volete qui. Il preside ci ha informati dei particolari… dettagli, chiamiamoli così, e ci teniamo quindi a darvi la miglior accoglienza possibile”.
“Visto? Loro si beccano anche il trattamento speciale” bisbigliò Elizabeth.
“Saranno i figli di Obama”.
Ridemmo di nuovo, poi però i ragazzi si girarono e mi trovai personalmente a trattenere il fiato.
Erano belli, cavolo se lo erano.
Entrambi, gemelli, due gocce d’acqua; neanche Liz e Sam si somigliavano così tanto.
 “Non siamo i figli di Obama, signorina Gomez, anzi siamo praticamente figli di nessuno. Veniamo da Dalton, Georgia; i nostri genitori sono stati segnalati tra i dispersi del mese scorso” disse uno dei due, quello di destra. “Presumo però non ne sappiate niente; il Presidente ha preferito non divulgare la notizia, ha solamente chiesto il trasferimento per noi e nostra sorella per motivi ovvi di sicurezza”.
Lo guardai, mi persi a mirare i pozzi ambrati che aveva come occhi, e lo confusi con la figura omologa accanto. Un dio, forse; o forse un gran bastardo lecchino.
“Mi spiace per la perdita, ma capirete che i trattamenti di lusso ad altri non ci vadano molto a genio”.
Quello di sinistra sorrise a labbra chiuse e accennò un inchino. “Avete ragione anche voi”.
Per qualche strano motivo a me ancora sconosciuto, i due sembravano tutt’altro che turbati. Possibile avessero già elaborato la perdita? O forse non si erano rassegnati del tutto? Guardai Angelica che, come ad avermi letto nel pensiero, alzò le spalle.
Quello di destra abbassò la testa e fece oscillare leggermente i capelli neri. “Come no”.
Guardò me, poi la professoressa: “Non credo riusciremo a stare per molto in questo corso”.
“Lasciatemi almeno provare ad addomesticare queste due indisciplinate. Prometto che saranno l’ultimo dei vostri problemi”.
E quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Afferrai la cartella, Liz con me, e lanciai i banchi a destra e sinistra per raggiungere l’uscita. Sapevo che Elizabeth fosse dietro di me, come sapevo che la professoressa sarebbe scoppiata da un momento all’altro e che i gemelli continuassero a guardarmi, ma lasciai comunque che la porta sbattesse alle mie spalle.
“E’ malata, sta sul serio impazzendo. Chissà quando andrà in pensione” sentii dire dopo qualche istante da Liz, qualche metro più dietro. “Ha anche avuto il coraggio di chiedermi perché stessimo uscendo senza il suo permesso”.
“Ma che si fotta”.
“Chi deve fottersi?”.
Alzai lo sguardo dal pavimento bluastro e lo feci risalire sui jeans scuri e la maglietta senape di Kyle. “La Newman, ha occhi solo per i nuovi arrivati”.
Lui scrollò le spalle e si aggiustò con la mano libera i capelli liscissimi e biondissimi che solo lui aveva: una moderna versione di Ken.
“Non vi è mai interessato nulla in quattro anni dei nuovi arrivi, come mai questa gelosia improvvisa?” chiese, poggiandosi al muro vicino la fontanella.
“Gelosia? Ci ha trattate come bestie!” sbottò Elizabeth, lanciandogli lo zaino contro.
Lo schivò con gran classe e le sorrise malizioso. “Perché, non lo siete?”. Ma quando la vide alzare il pugno in aria con fare minaccioso, ci tenne a continuare: “Credo che la cosa fosse importante, altrimenti non vi avrebbe liquidate così facilmente. Non rinuncia mai alle sue lezioni”.
Annuii e lasciai andare la cartella contro una delle porte del laboratorio di biologia.
“Sapete chi sono?”.
“Figli dei dispersi in Georgia; a quanto pare li spostano”.
Lui aggrottò le sopracciglia ma non chiese altro.
Aspettammo lì una decina di minuti ancora circa, io seduta a terra, Liz massaggiando con il suo luccicoso - letteralmente, era tutto addobbato con brillantini Iphone, e Kyle appoggiato al muro con una mano tra i capelli.
Neanche alzai lo sguardo quando sentii dei passi avvicinarsi calmi e decisi, sicura che fossero dei gemelli; me ne accertai quando, una volta allontanatisi, scrutai il loro abbigliamento insolitamente uguale: maglia verde, jeans chiari, converse nere. Quali gemelli, a quell’età, si vestono ancora allo stesso modo? Quelli che non vogliono farsi riconoscere, poco ma sicuro.
Una volta andati via, fu questione di pochi attimi; la professoressa venne fuori dall’aula come un treno impazzito e minacciò di metterci una nota se non fossimo rientrati immediatamente in classe. Ma, poverina, il preside ci diede il permesso di tornare a casa neanche cinque minuti dopo.
Salutai i miei compagni, che avrei rivisto nel pomeriggio al centro commerciale come ogni giovedì, e ripercorsi la strada per tornare a casa al contrario.
Entrai con le chiavi dopo essermi fermata a prendere un gelato fragola e nocciola, pronta a sentire mia madre urlare che avessi saltato scuola.
Ma quella giornata si stava rivelando ricca di sorprese.
Mia madre mi guardò, ferma come uno dei tanti quadri appesi all’ingresso, e alzò un sopracciglio. “Esci alle nove e mezza e rientri neanche un’ora dopo. Figlia mia, tu hai qualcosa che non va!”.
E non aveva poi tutti i torti.
Le sorrisi e salii in camera mia, chiudendo la porta e sdraiandomi subito dopo a stella sul letto ad una piazza e mezza gentilmente donatomi per il mio sedicesimo compleanno.
Non sapevo che fare, e avevo ancora tutta la giornata davanti. A saperlo, di sicuro mi sarei svegliata con calma ed avrei evitato quello spiacevole incontro, ma almeno così avevo evitato di fare un’assenza inutile.
Forse avrei portato Micia a fare un giro, più tardi. Avrei potuto accendere il computer e girare su facebook, o cercare qualche nuovo social su cui perdere tempo.
Ma il campanello bussò, ed un leone –per modo di dire, che tra l’altro neanche sapevo fosse in camera- sbucò da sotto al letto e cominciò ad abbaiare.
Mi schiacciai il cuscino sulla faccia, “Perché tutte a me oggi?”.
E neanche a dirlo, mia madre aprì la porta di camera con un sorriso degno della Enel.
“Tesoro! Di sotto c’è Adam, dice che oggi non è venuto a scuola e vuole sapere che avete fatto di bello”.
“E tu che gli hai detto?” chiesi mettendomi a sedere.
“Che ovviamente adesso scendi!”.
Guardai la sua aria da ebete felice e mi chiesi quale fosse il suo problema; “Mamma,” cominciai, una mano schiacciata sulla faccia. “siamo stati a scuola sì e no un’ora. Che avremmo dovuto fare?”.
Ma lei non perse il sorriso e si preparò ad uscire, “Non lo so, diglielo tu!”.
A volte davvero credevo fosse ritardata. Quale madre non avrebbe capito che la mia voglia di vederlo era inferiore alla stima che avevo per Hitler? Argomento da me più volte discusso, oltretutto.
Neanche persi tempo ad aggiustarmi capelli o quant’altro, mi limitai a mettere le ciabatte da casa –rosa con una zampetta marrone sopra- e a scendere dall’ospite tanto atteso.
Attraversai il corridoio sempre buio e pieno di foto, scesi le scale, e “Sempre in splendida forma, vero?”.
Non lo guardai, girai verso lo studio inutilizzato di mia madre –al tempo era un’ottima pittrice- e gli feci segno di seguirmi.
Lui sorrise, lo seppi per certo, e lanciò uno sguardo rapido a mia madre che mi guardava disperata; anche questo sapevo.
Lo studio era più o meno posizionato sotto le scale, stile camera di Harry Potter, ma discretamente più grande. Ci entravano comodamente otto tele, una scrivania arrangiata, uno di quei cosi su cui si poggiano le tele da pitturare, ed una miriade di oggetti vari come lampade, sedie, attrezzi da lavoro diventati colorati ed una poltrona; la più comoda della casa, sulla quale mi andai a sedere pronta ad ascoltare cosa aveva da dirmi.
“Senti,” e già si cominciava male. “ho un colpo da proporti”.
Gli occhi verdi scintillarono a quelle parole e le labbra si schiusero in un’espressione tra l’ansioso ed il nervoso. “E’ importante”.
“Ti ho già detto che con queste cose non voglio averci più niente a che fare, Adam. Davvero, basta, non voglio mettermi nei guai”.
“Ma lo hai fatto talmente tante volte!” quasi urlò sbuffando. “Non puoi tirarti indietro senza neanche sapere di che si tratta”.
Aveva le mani spinte in avanti ed era leggermente piegato su di me, i capelli rossi a coprirgli gli occhi totalmente in contrasto. Dalla maglia larga, bianca come solo lui sapeva portarla, si intravedeva il petto liscio e straordinariamente privo di peluria.
“Sentiamo, che vuoi?”.
La cosa che venisse da me a proporre certe proposte mi faceva ridere; aveva davvero tanta gente con cui operare, ma si ostinava a ricorrere a me ogni volta. Forse perché sapeva che non chiedevo parte del profitto.
“Ha aperto un nuovo negozio sulla dodicesima.” cominciò, ed alzai gli occhi al cielo. “No eddai, ascolta!”.
“Un negozio? Adam ma hai idea di quante precauzioni usi un negozio di gioielleria?”.
“Ed è questo il bello! Nessuna, per il momento; hanno aperto solo ieri e la struttura è discretamente vecchia. A sentire mia madre, vengono dalla Georgia, sono stati spostati qui dopo la serie di colpi che rischiavano di subire dove stavano prima. Non hanno avuto il tempo neanche di aprire tutti gli scatoloni! Rompiamo il lucchetto, entriamo, ne prendiamo uno o due e filiamo via, che ne dici?”.
Lo guardai, la sua faccia sorridente e fiduciosa, e mi venne da ridere.
Era il mio migliore amico da sempre, da quando eravamo all’asilo, forse da prima ancora di nascere. Ci capivamo, ci completavamo, era la parte di me che sentivo mancare costantemente in sua assenza. Ma era cambiato, e non di certo in meglio.
“Ci penserò” risposi, indicandogli la porta.
Lui sorrise di nuovo, si avvicinò per lasciarmi un leggero bacio sulla fronte, ed uscì.
Quando lo sentii salutare mia madre, poco prima che la porta principale sbattesse, tirai un lungo sospiro.
Mi mancavano i giorni in cui veniva a trovarmi solo per passare un po’ di tempo insieme. Mi mancavano anche i suoi capelli biondi, a dire il vero, quelli che gli davano l’aspetto da bravo ragazzo che lui diceva non sopportare. Li aveva lasciati crescere, abbastanza lunghi da legarli in un mini codino, ed ora erano sempre scompigliati e sempre più rossi.
Ma restava Adam, e a lui la porta in faccia non l’avrei mai chiusa.
“Allora? Tutto bene?” chiese mia madre, mettendosi a riordinare le sue cose.
Non mi ero accorta fosse entrata; “Sì, lui… vuole vedermi in settimana, magari usciamo”.
“Come ai vecchi tempi?” chiese lei euforica, voltandosi a guardarmi.
“Come ai vecchi tempi” mentii.
 
Nel pomeriggio, dopo aver pranzato con un pezzo secco di carne del giorno prima, presi le chiavi di casa ed uscii di nuovo per raggiungere gli altri al Diamond.
Non era un vero e proprio negozio… ma neanche un bar. Era dentro al centro commerciale, questo sì, ma meglio dire al di sotto; per arrivarci, come in un parcheggio, bisognava premere il -1 dell’ascensore. La cosa strana era che, sebbene sotterraneo, non mancasse di illuminazione; per questo era bello, era vivo, aveva l’aria di un posto accogliente. E potevamo fare di tutto. C’erano tavoli per mangiare, un bancone per il bar, un piccolo palco su cui esibirsi, e due sale separate da quella principale: la prima con un biliardo e le freccette, la seconda per i fumatori. Tutto era arredato con moquette rossa e pareti verde scuro con fili azzurri: un posto che sembrava vecchio stile con in sottofondo sempre musica di radio HW3.
Entrata nel centro, dopo neanche dieci minuti a piedi, mi diressi direttamente all’ascensore. Per fortuna, perché di solito non era così, di gente ce n’era davvero poca.
Riconobbi l’odore tipico di cialde appena sfornate e la mia pancia brontolò.
Vidi Liz seduta al solito tavolo, quello di un gradino più in alto rispetto agl’altri e circondato da una ringhiera in legno, che rideva con Sam, Kyle e Angelica.
C’era anche un’altra figura, una ragazza, che però non conoscevo ancora.
Salutai Carl, il proprietario che ormai ci sopportava da quattro costanti anni, e li raggiunsi.
Una volta avvicinatami, notata grazie ad una luce gialla la ragazza seduta tra Sam e Liz, per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva.
“Alek, tutto bene?”.
“Temevo non le sarebbe andata a genio la cosa” bofonchiò Angy.
“Mi chiamo Rose. Rose, e basta” ringhiai a Liz, ignorando i suoi colpetti dietro la schiena.
Si erano tutti alzati per venirmi incontro, quasi stessi morendo.
“Lei è Mia, credo tu l’abbia riconosciuta per…”.
“…la somiglianza a quei due trogloditi che oggi si sono presentati in classe e che per poco non mi facevano beccare una nota dalla rincoglionita di turno? Perspicace, Angelica”.
Kyle ridacchiò e la ragazza abbassò la testa.
Angy prese un lungo sospiro e mi afferrò una mano per tirarmi al tavolo con loro, seguita da Liz dall’altra parte.
“Nulla da togliere a te, ovviamente, ma i tuoi fratellini non mi stanno molto a genio” dissi sedendomi.
“Si era capito” commentò Sam, bevendo un sorso di non seppi bene cosa.
Mi raddrizzai sul posto, tra Angelica e Kyle, ed allungai una mano. “Ad ogni modo, io sono Rose. Alekia Margaret Rose, per intero, ma solo Rose”.
Lei allungò la mano e la strinse alla mia sorridendo debolmente; qualcosa non andava.
C’era una strana ombra negl’occhi ambrati che la rendeva incerta ai miei occhi. I capelli, davvero identici a quelli dei gemelli, erano però lunghi e raccolti in una coda laterale; una bella ragazza, ma le occhiaie violacee e le fosse sulle guance lasciavano intuire che non stesse tanto bene.
“E’ solo stress.” rispose, accortasi probabilmente dei miei dubbi. “Il trasferimento, la casa, i miei genitori… è tutto molto confuso per me”.
Tra noi calò il silenzio. “Non credo che i tuoi fratelli ne risentano allo stesso modo”.
Lei scosse la testa e puntò lo sguardo nel mio. “Fanno solo quello che mia madre aveva chiesto loro di fare: proteggere me”.
E stavolta fui io ad abbassare la testa. Quadrava, insomma… due fratelli che si fingono forti per il bene della loro sorellina.
Sorellina poi… “Quanti anni hai?”.
“Sedici, sono una classe dietro voi”.
Un anno di differenza, ma sembrava davvero più piccola.
“Ian e Dennis dovrebbero essere nel vostro corso, se non sbaglio”.
Ian e Dennis. “No, non sbagli”.
Lei sorrise e guardò Angelica, quella che sembrava esserle più vicina. “Che si mangia qui?”.
Da dietro il bancone, Carl urlò un “Quello che vuoi”, facendoci ridere.
Ordinammo tutti waffles, bene o male. Chi con la cioccolata, chi con lo sciroppo di fragole, chi con il gelato, chi con la panna; ma sempre waffles. Tranne Kyle, che prese un toast al formaggio.
“Ma non hai mangiato a casa?” gli chiesi, lui mi fece una linguaccia giallastra.
Tra una parola ed un’altra, tra cibo ingoiato senza un domani, variammo tantissimi argomenti. Passammo dal corso di biologia a come tagliare una mela nel modo giusto senza rendermene conto e senza trovare dopo il nesso logico tra i vari punti. Parlammo anche del tempo, dei ragazzi più carini del quinto anno, e Kyle diede il suo parere riguardo ad un tipo che neanche conoscevo. Parlammo anche di Adam, di quanto fosse cambiato, e di quanto alle ragazze mancasse la sua compagnia.
“A me non manca per niente” disse Kyle, bevendo un sorso di coca.
“E’ venuto a trovarmi, stamattina”.
Angelica lasciò cadere la forchetta nel piatto e tossì; la ignorarono quasi del tutto.
“Che voleva? Non vi sentivate da un po’”.
“Infatti… mi ha chiesto di uscire una di queste sere, per passare un po’ di tempo insieme”.
Liz e Sam storsero il naso in sincronia, una perché non amava particolarmente il nostro rapporto, l’altra per gelosia.
“Non vorrà mica uscire come più di un amico?”.
“No, Bottle, vuole solo parlare. Credo”.
Angelica sbuffò e si alzò all’improvviso. “Porto queste cose al banco e vado via”.
La sua reazione non mi stupì, non molto almeno. Sapeva che quando Adam si presentava alla mia porta era solo per un qualche torna conto personale, negl’ultimi tempi, ed era l’unica a conoscenza delle cose che mi chiedeva di fare.
Dopo gli avvenimenti, finiti i lavoretti che mi proponeva, avevo bisogno di qualcuno da cui andare; Liz mi spaventava a volte, aveva reazioni esagerate, e sapevo sia che mi avrebbe imposto di non parlargli più, sia che avrebbe cercato di mandarlo in prigione. Angelica era perfetta, manteneva i segreti come fossero preziosi anche per lei.
“Vengo con te” disse Mia, seguendola a ruota.
Sam guardò me e poi loro, “Oggi non è proprio aria, a quanto pare”.
Ci alzammo tutti ed andammo a saldare il conto di sei dollari a testa per poi andare verso l’ascensore. Essendo uno solo, ed entrandoci non più di quattro persone per volta, io ed Angelica aspettammo di sotto.
“Dimmi solo dove” sussurrò, lo sguardo fermo sulla porta d’acciaio e le mani strette a pugno.
Mi ascoltava, ma non approvava quello che facevamo. Neanche un po’.
“Gioielleria sulla dodicesima”.
E non parlammo più fino all’uscita dal centro commerciale, quando ci salutammo per tornare ognuno nelle rispettive strade.
A casa mi attendevano i compiti, una camera da sistemare ed un cane da pulire.
Ma appena svoltato l’angolo, a pochi metri da casa mia, due figure contro un lampione appena acceso attirarono la mia attenzione.
La luce fioca del tramonto mi impediva di vedere chiaramente chi fossero.
Uno dei due, quello più grosso, sembrava sul punto di staccargli la faccia a morsi.
Parlavano, si ringhiavano contro parole che non riuscivo a decifrare, poi accadde.
Quello più grande gli sferrò un pugno dritto nello stomaco.
L’altro, che di robusto aveva ben poco, gli rivolse uno sguardo carico di odio per poi arrampicarsi sul muretto dietro di lui e sparire tra gli alberi della montagna che circondava il paese ad ovest.
Il ragazzo si voltò, un’espressione soddisfatta stampata in viso, e ci mise poco ad accorgersi della mia presenza.
Si avvicinò quasi correndo e temetti l’impossibile.
D’istinto mi portai le braccia a coprire il volto, temendo l’impatto che però non arrivò.
Sentii un corpo rotolare a terra ed un vero e proprio ringhio, simile a quello di un cane ma più profondo.
Aprii gli occhi e la figura di uno dei gemelli mi fu subito chiara.
Gli era sopra, stava parlando a denti stretti dicendo qualcosa a proposito del non dimenticare il suo posto; questione di pochi istanti, poi lo lasciò andare.
Il ragazzo, che di fisico era leggermente più forte del gemello all’apparenza, mi superò senza neanche degnarmi di uno sguardo.
“Ma che cazzo è appena successo?!” urlai come impazzita.
Lui si avvicinò e sorrise, “Non raccontare a nessuno quello che hai appena visto, o mio fratello ti verrà a cercare”. E anche lui, come quello di prima, mi superò e sparì nella penombra.
Era davvero una minaccia quella che avevo appena sentito?
Quella sera non cenai e rimasi sveglia a pensare quasi tutta la notte.
Che motivo aveva di prendersela con me così tanto?
Sapevo che quei tre sconosciuti dalla Georgia non avrebbero portato nulla di buono.

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Capitolo 2
*** Night. ***


E rieccomi qui dopo una settimana precisa! o quasi. 
Vi avviso che il capitolo sarà composto in buona parte da sms, ma chissene, sono parte della storia. 
Il prossimo aggiornamento sarà in ritardo perchè domani mattina parto per la calabria e ci si rivede dopo il 12! 
Ringrazio le cinque anime che hanno recensito, Lollo e Nuna in particolare che mi seguono praticamente ovunque, a quelle 45 che hanno letto il primo capitolo, a chi ha scelto di continuare e a chi lo farà in futuro. Auguro a tutti una buona lettura!
May.

Ps: troverete in corviso i suddetti messaggi e qualche frase, se non sbaglio, più particolare.



 

Night.


La chiamata di Adam arrivò il giorno dopo, poco prima delle tre del pomeriggio; aveva saltato scuola, di nuovo, ma nessuno in classe sembrò sentire la sua mancanza.
Erano rare le volte in cui si presentava, di solito per gite o corsi speciali che davano punti di credito - non che lui ne avesse bisogno, visto che quell’anno sarebbe stato bocciato a prescindere.
Mi disse di farmi trovare all’angolo della strada la sera dopo alle 10:20, e avrei dovuto portare il solito equipaggiamento: borsa da viaggio, maschere da sub, cacciavite ed un coltello. Lui avrebbe portato la sega, la torcia, e probabilmente anche un sacco di plastica.
Non mi disse nulla sul vestiario, forse perché ormai entrambi avevamo imparato ad usare abiti che mai più avremmo rivisto in vita nostra.
E, credo per questo, quello stesso venerdì chiamai Liz per andare a fare compere al mercato sul confine della città.
Saremmo potute andare ovunque, anche al centro commerciale, ma rischiare di trovarmi registrata su qualche filmato di sorveglianza o trovarmi con uno scontrino in tasca non mi era sembrata una buona idea.
Ci incontrammo direttamente sul posto, dopo quaranta minuti di autobus da parte mia.
“Tutto bene? Ti vedo un po’ giù”.                                       
“No, tranquilla. Pensavo a quanto sia strana la nostra città; come formazione, intendo”.
Lei mi guardò stranita e sorrise, “Dici? Io non ci trovo nulla di male”.
“Una strada grande al centro piena di stradine secondarie ai suoi lati dici che è normale?”.
“Questo è un posto di collegamento, Alek, dovresti saperlo bene”. Si mise meglio la borsa in spalla e prese a camminare verso le bancarelle. “I viaggiatori devono poter scegliere anche di non passare per le stradine, come le chiami tu. Per questo la città è formata attorno alla zerodue, no? E su quella ci sono tutti i negozi più importanti e gli edifici essenziali, come il municipio e la banca”.
La seguii in silenzio, attenta a non pestare residui non identificati sull’asfalto. “Lo so, ma non capisco perché si ostinino a spacciare questo posto per quello che non è”.
Si voltò, “Che intendi dire?”.
“Pensaci,” e la superai. “come volti l’angolo della nona subito ti trovi in una sorta di Bronx, quando poco prima eri immerso nel lusso più sfrenato. Cercano di convincere la gente da fuori che siamo belle persone con una bella cittadina in cui vivere, ma sappiamo tutti che non è così. Sono stata fortunata io a nascere sulla ventiseiesima, mica la città mi ha offerto la possibilità di scegliere”.
“Perché questi ragionamenti all’improvviso? Non hai, non abbiamo nulla di che lamentarci.  La bella casa ce l’abbiamo, diciamo che anche i nostri quartieri sono vivibili. Mi dispiace per quelli come Kyle, ad esempio, che vivono dalla terza alla decima, non per quelli come me e te. La fai sembrare tragica quando non lo è”.
Decisi di far cadere la questione, solo per evitare che alzasse i toni davanti a tutti.
Io credevo sul serio che la mia città fosse strana, collegata da sottovicoli stretti e percorribili solo a piedi, con vie principali tenute essenzialmente bene. Troppi segreti, troppe cose non visibili dalla zerodue.
Entrate tra la folla, fui subito invasa da un forte odore di vecchio e muffa.
Avevo usato la scusa del giardinaggio per portarla lì a comprare vestiti a meno di cinque che poi avrei buttato, e lei mi aveva creduta con un certo entusiasmo anche.
“Guarda lì! Quello rosa!” disse, indicandomi un vestitino che di elegante aveva ben poco.
Scossi la testa e lei mi tirò una gomitata, “Lo dicevo per me, non per te!”.
Guardai qualche passo più avanti, verso uno stand con capelli di lana e maglie a collo alto nere. Sarebbe stata perfetta per sabato; chi in casa non ha almeno una maglia del genere per il freddo?
“Oh, Liz, credo che questa andrà bene” le dissi mostrandole il capo di sottomarca.
Lei arricciò il naso ed alzò le spalle. “Non mi piace molto, ma se è per il giardinaggio …”.
“Lo è”.
“… allora va bene, credo. Non deve essere carina, basta che sia comoda e calda”.
Annuii e presi due dollari dalla tasca. “Si tratta di terreno e possibile fango, dopotutto.  Non posso mica rischiare di rovinare una maglia di marca”.
Pagata quella, decidemmo di completare il giro nella speranza di trovare articoli realmente interessanti, magari da usare tutti i giorni. Lei finì col prendersi una maglia rosa e gialla e delle fasce per capelli, io un paio di scarponi (sempre per il giardinaggio), un pantalone largo marroncino ed una maglia semplice di lana turchese.
Tornai a casa che erano quasi le 8 e, fuori dal mio giardino, vidi qualcosa nella buca delle lettere.
Presi il pacchetto e lo scartai, ritrovandomi con una sfera grigia e imballata tra le mani. Era piccola, dura, ed al tatto sembrava vetro. Allegato c’era un foglietto rosa con una scritta in penna blu, Non mi sembrava il caso di aspettare domani per dartela, considerala come un anticipo e fanne quello che vuoi.  Adam, per forza sua doveva essere, ma l’anonimato per lui valeva anche più di quella sfera.
Me la girai avanti agl’occhi per qualche istante, fino a quando non sentii il motore di una macchina avvicinarsi.
Misi la perla in tasca e mi voltai a salutare mio padre mentre scendeva dalla punto nera.
“Sei tornata adesso? Mi sorprendi, ragazzina; non è che ne stai combinando una delle tue?”.
Mi rincuorava sentirgli dire quella frase, anche se sempre con sfumature diverse. Sapevo che quello era il suo modo di farmi capire che a me ci teneva ancora, anche se era meno presente, come quando ero bambina. La mamma me lo aveva detto.
Gli sorrisi e scossi la testa. Aprì il cofano per prendere alcune buste, probabilmente della spesa, e mi fece segno di entrare in casa con lui.
“Andata bene a scuola? Oggi faceva un freddo in ufficio” disse, e mimò un brivido.
“Da noi si stava bene. Sai, la classe è piccola… un termosifone da un metro è sufficiente, anche se sono rimasta con la felpa tutto il tempo”.
Lui trafficò con le chiavi qualche secondo e poi aprì la porta, “Questa scuola… come dobbiamo fare? Non solo è l’unica in città, quanto è anche mal equipaggiata”.
Le luci all’ingresso erano spente e per poco non inciampai in un giocattolo di Micia.
La mamma, dalla cucina, ci disse di stare attenti al pavimento bagnato e di togliere le scarpe per non sporcare tutto.
“Ma si mangia, almeno?” chiese mio padre, scalzo e contrariato.
“Se ti lavi le mani e se Rose apparecchia la tavola, sì”.
Obbedimmo ed anche quel punto della giornata passò in silenzio tra un pezzo di pollo e l’altro.
Dopo cena, mentre mia madre ripuliva i piatti, io e mio padre andammo a sederci sul divano; lui con il solito giornale, io con il cellulare.
“Prima o poi quei cosi conquisteranno il mondo” disse, senza alzare lo sguardo dalla carta.
“Eppure non ti lamenti quando leggi le news da qui”.
“Touchè”.
Sbloccai lo schermo ed una foto mia e di Adam comparì a grande immagine; aprii la casella dei messaggi, scocciata dal trovarmi ancora senza internet. Ce ne erano tre, rispettivamente da Kyle, Angelica ed un numero sconosciuto.
Kyle mi chiedeva se avessi programmi per sabato, Angelica mi diceva di fare attenzione ed il terzo messaggio… semplicemente con un punto.
La gente è matta, scrissi a Liz.
Perché? :’)
Ho ricevuto un messaggio vuoto da un numero sconosciuto
Quando?
Una ventina di minuti fa
Figo! Un ammiratore segreto!
Sorrisi, E’ vuoto!
Forse non sapeva che dirti! ;)
O forse ti fai troppe seghe mentali
Può essere
Aprii il messaggio di Kyle e gli dissi che il giorno dopo sarei andata con mia madre dall’estetista, cosa del tutto vera, ma evitai di rispondere ad Angelica.
Che si dice a casa? , tornò a chiedere Liz.
Nulla di che, le solite cose. E da te?
Sam rompe, vuole vedere Gray’s anatomy
E lasciaglielo vedere, no?
Pazzissima, stasera fa Once Upon a Time
Digitai una risata ma mia madre mi tolse il cellulare da mano.
“Ti sto chiamando!”.
“Ed io non ti ho sentita”.
“Me ne sono accorta, presa com’eri da questo aggeggio! Và alla porta, ti vogliono, e che sia l’ultima volta che debba riprenderti per una cosa simile!”.
Sbuffai alzandomi e vidi mio padre ammonirmi con lo sguardo.
“Chi è?” chiesi a mia madre, ma lei alzò le spalle.
Attraversai il salone e varcai l’arco che lo collegava all’ingresso principale. “Chi è?” chiesi, stavolta un po’ più forte, in modo che potessero sentirmi.
Nessuno rispose.
Mi avvicinai alla fessura nascosta per vedere fuori, ma era tutto totalmente buio.
“Mamma!” urlai tornandomene in salotto. “Ridammi il telefono!”.
Lei si affacciò dalla cucina e lo lanciò sulla poltrona verde accanto al cammino. “Chi era?”.
“E che ne so, non c’era nessuno fuori”.
“Se ne sarà andato… peccato, sembrava così carino”.
Alzai gli occhi al cielo e mi allungai ad afferrare il telefono. Lo sbloccai ed inviai il messaggio a Liz, notando poco dopo l’icona messaggi ancora illuminata.
Sei troppo lenta.
Ancora il numero sconosciuto.
Chi sei?
Nessuno.
Anche Nessuno aveva un nome.
Ammirevole.
Cambiai rapidamente mittente e tornai sulla chat con Liz.
Oh, mi ha riscritto il tipo. Dice che sono troppo lenta.
Lenta? E per fare che?
Credo si riferisse alla porta, hanno bussato e ci ho messo un po’ ad aprire
Non sarà mica la stessa persona?
Mi morsi un labbro e guardai mio padre rilassato sul divano ancora a leggere.
“Tutto bene?”.
“No.” Risposi. “Mamma!”.
Mi alzai di nuovo e misi il telefono in tasca. “Dimmi com’era fatto il tipo fuori la porta”.
Lei chiuse il cassetto delle posate e si voltò a guardarmi con lo strofinaccio posato sulla spalla sinistra. Era stanca, lo si capiva, eppure tutti quei lavori la tenevano in qualche modo distratta da quello che aveva passato.
“Il ragazzo? Ho visto poco…”.
“Dimmi quello che hai visto”.
“Era alto, abbastanza anche”.
“E poi?”.
Si appoggiò con una mano al tavolo e assunse un’aria pensierosa. “Aveva i capelli neri… e gli occhi luminosi, di questo ne sono certa, erano come giallastri. Aveva addosso una semplice tuta grigia e…”.
“Era da solo?”.
“Beh, sì, certo!” disse annuendo, poi però parve spegnersi. Mi guardò con occhi confusi e schiuse le labbra. “O ne erano due?”.
Sbuffai e spostai con i piedi il tappeto rosso sotto di me. “Hai aperto tu, non io”.
Lei sembrò pensarci su qualche istante, poi però riprese lo straccio e si voltò verso il lavello. “Non mi importa, e non dovrebbe neanche a te”.
Odiavo quando fingeva indifferenza di fronte alla sua sbadataggine. Perché lei faceva così ogni volta che non ricordava le cose; scuoteva la testa, cominciava a fare altro, e diceva che non era importante.
Mi mantenni dal tirarle dietro la padella appoggiata sul tavolo e me ne scappai in camera mia.
Micia abbaiò un paio di volte al sentire i passi pesanti, poi aprii la porta e lasciai che scendesse al piano di sotto.
Mi fiondai sul mio letto e per qualche istante rimasi con la faccia premuta sul cuscino, quasi senza respirare.
Se fossero stati in due, dalla descrizione di mia madre e dall’episodio del giorno prima, sarebbero stati senza dubbio i gemelli.
Mi girai verso il soffitto ed accesi la lampada accanto al comodino.
Mamma non si ricorda , scrissi a Liz.
Cosa?
Se fossero due o uno solo
Perché sarebbero dovuti essere in due?

Aaaaah! No dài, non li vedo così sfacciati!
Ma Elizabeth non sapeva della sera prima, non aveva idea di quello a cui avevo assistito.
Cambiai chat e tornai dall’anonimo, Perché eri fuori casa mia?
Lo ero?
Dimmelo tu.
Lo ero.
Trattenni il fiato e per un attimo pensai di poter urlare da un momento all’altro.
Allora rispondi.
Trovala da sola la risposta, lucciolina.  
Mi alzai di scatto dal letto e lasciai cadere per terra il cellulare. Corsi fuori dalla stanza e scesi le scale due gradini alla volta, entrando nel soggiorno con il fiato accelerato e lo sguardo fisso su mio padre.
“Dove sta il tuo cellulare?”.
Lui si girò lentamente e si aggiustò gli occhiali rossi sul naso da mister patato.
“Credo nel mio giaccone, perché?”.
Mi venne da piangere.
“Rose, stai bene?”.
Si alzò, posò il giornale con attenzione sul tavolino basso e venne ad abbracciarmi. Mi strinse forte e la sua maglia blu catturò una lacrima sfuggita al mio controllo.
Chi diavolo poteva essere così mio intimo da sapere di quel soprannome?
“Mi dici che succede?”. Prese il viso tra le mani sorrise con quell’aria giovane che tanto mi piaceva di lui.
“Nulla… niente di importante”.
Cercai di sorridere anche io, ma l’unica cosa che ne uscì fu una smorfia che mi fece ridacchiare.
“Nick aveva la tua stessa espressione di adesso l’ultima volta che lo vidi”.
Ed il rumore dell’acqua dalla cucina si interruppe.
Alzai un angolo della bocca, nostalgica, e lui sorrise di nuovo.
Erano già passati tre anni dalla scomparsa di mio fratello Nicholas, a quel tempo diciannovenne. Era il suo primo anno in marina, era partito per una nobile causa, ma era stato dato per disperso dopo neanche sei mesi. La notizia fu tragica, distrusse mia madre e mise notevole distanza tra noi ed il resto della famiglia. Mio cugino Matteo, in Messico, non riuscì a partire perché la madre cominciò ad avere paura che capitasse la stessa cosa anche a lui; mia madre ne soffrì molto, si sentì responsabile anche dei sogni dirottati di quel ragazzo.
“Era così felice di partire… ricordo che mi disse qualcosa riguardo una cartolina dall’Egitto. Ma fece la tua stessa faccia perché, nonostante la felicità, non voleva lasciarci”.
Lo ricordavo un ragazzo attivo, con i miei stessi occhi e capelli rasati quasi a zero. Diceva sempre di voler scappare dalla vita che faceva perché non era cosa per lui, lo ripeteva a chiunque gli chiedesse cosa volesse fare da grande. E a diciotto anni, mentre ancora faceva il quinto anno di superiori, si era iscritto alla marina della California.
“Ci chiamò, quando la nave partì dal porto… chiese di te ma dormivi, parlò con la mamma e poi attaccò. Fu l’ultima volta che lo sentimmo”.
Avevo quattordici anni.
“Non dirle così, Malcom. Non era questo l’ultimo ricordo che lui avrebbe voluto di sé”.
Mio padre guardò la mamma, appoggiata contro l’arco in legno, ed annuì. “Hai pienamente ragione, Teresa, ma non sempre le cose vanno come vorremmo”.
Lei abbassò la testa e non rispose, chiudendosi a riccio probabilmente avvolta da una coperta di vecchi ricordi di momenti passati con il suo primogenito.
“Quanto a te,” continuò guardandomi di nuovo. “và a fare quello che stavi facendo, e ricorda che ogni problema può essere risolto a modo suo”.
Era il suo modo di dirmi che voleva restare solo con la mamma.
Salii le scale per la terza volta e sperai di non doverle ripercorrere di nuovo.
Tra mia madre, l’anonimo e la storia di mio fratello, quella serata si rivelò andare di male in peggio.
Trovai il telefono per terra con lo schermo illuminato e due avvisi di chiamate perse.
Angelica.
Non avrei risposto a prescindere, ma un nodo allo stomaco quasi mi impedì di respirare.
Aprii i messaggi e ne trovai alcuni suoi che mi pregavano di richiamarla, altri di Liz che chiedeva di sapere che stesse succedendo.
E poi ce ne era uno suo.
Credevi davvero che fossi tuo padre?
Aveva assistito anche a quella scena.
Dimmi chi sei e facciamola finita.
Buonanotte principessa.
Sospirai e scrissi a Liz che da lì a poco sarei andata a dormire.
Misi il cellulare sotto carica e tirai fuori il pigiama dal cassetto sotto al mobile.
Provai a rilassarmi con della musica che Sam mi faceva sentire in continuazione, qualcosa di simile al classico, un motivo continuo suonato con l’arpa. Era bello, tranquillo… ma dava solo più nervoso in situazioni simili, così spensi dopo neanche mezzo minuto.
Mi misi a letto alle 00:47 precise.
L’ultimo messaggio che lessi fu di Adam.
Spero tu abbia ricevuto il mio regalino, ci tengo davvero tanto a vedertelo addosso in qualche modo. Domani attieniti al piano e andrà tutto bene, come sempre. Ricorda che ti voglio bene Rose, e te ne vorrò qualsiasi cosa succeda tra noi. Promesso.
Non risposi, non lo ritenni necessario; spensi il telefono e mi addormentai con la luce della lampada da un lato e mille pensieri per la testa.
 
 
Sabato mattina, come detto a Kyle, andai dall’estetista con mia madre per fare ‘cose tra donne’.
Il pomeriggio, tornata a casa, scoprii con grande sorpresa del ritorno della linea grazie a mio padre ed un tecnico andato via da poco.
Aprii WhatsApp e sfogliai le conversazioni lasciate in sospeso una settimana prima per poi soffermarmi sul gruppo Diamond, quello con tutti noi soliti clienti.
Notai una questione aperta sul cosa fare quella sera.
Kyle: O Diamond o cinema
Liz: scordatelo, sono due sabati che andiamo al cinema e al diamond ci andiamo tutti i giovedì
Sam: Elizabeth ha fatto la faccia dei waffles xD
Liz: simpatica -.-
Ange: io dico che dovremmo andare tutti al parco
Kyle: così cominciamo a prendere confidenza con i senza tetto
Sam: ?
Kyle: prima o poi lì finiremo a vivere tanto
Liz: Spiritoso come un cocomero d’inverno
Kyle: Parla lei!!
Sam: e se andassimo a mangiare una bella pizza?
Sorrisi e mi decisi ad intervenire, E se invece ve ne restaste ognuno a casa propria?
Liz: AHAHAHAH
Kyle: Ben tornata chica!
Ange: credevo fossi impegnata stasera
Storsi il naso, Lo sono infatti, volevo solo mettere fine alla guerra
Ange: che pensiero carino J
Mi dispiaceva sapere che una delle mie migliori amiche provava a rivoltarsi contro di me ogni volta che ne avesse occasione, ma di certo non la biasimavo.
Ange: ricordate che stasera ci sarà anche Mia
Sam: che paaaallleeeeee
Kyle: bellina lei
Ange: gliel’ho promesso raga, non posso lasciarla sola, non conosce nessun altro
Liz: Ha ragione, magari è simpatica
Lo è
Sam: Rose ma se l’avrai vista si e no una volta! Comunque, che hai da fare stasera?
Vedo Adam, stiamo a casa mia
Liz: sta cosa non mi convince
Kyle: quoto elly
Tranquilli, poi vi racconto tutto. Ora stacco, vado a scaricare un film da guardare.
E anche mentire mi dispiaceva, specialmente a loro, ma che altro avrei potuto fare? Non avrebbero capito, mi avrebbero condannata a prescindere ed era l’ultima cosa che volevo accadesse.
Lasciai il telefono sul comodino e presi a guardare una delle tante puntate dei Simpson.
Quando finì anche la quarta, circa un’ora e mezza dopo, mi decisi a chiamare mia madre per chiedere a che ora tornassero a casa.
Come ogni sabato, lei e mio padre se ne erano andati in giro per la città a fare compere, mangiare, e fare roba da fidanzatini innamorati che –a detta loro- non avrei potuto capire.
“Pronto?”.
“Oh, a che ora tornate?”.
“Tardi” disse, e scoppiò a ridere.
“Stai bene?”.
“Benissimo!”.
“Vabbè. Ma tardi che ora?”.
Esitò prima di rispondere, “Diciamo le due o le tre di domani”.
Alzai gli occhi al cielo e controllai l’ora.
“Sono le 8 e mezza, che avete da fare fino a domani di così tanto importante?”.
“Buona serata tesoro!”.
Ed il suono di una linea che cade mi invase l’orecchio sinistro.
Mi aveva davvero attaccato il telefono in faccia come una ragazzina?
Strinsi i denti e salii al piano di sopra per radunare le mie cose prima di fare una lunga e rilassante doccia.
Tirai fuori dall’armadio il borsone con le cose che sarebbero servite quella sera e preparai sul letto la maglia a collo alto, il pantalone marroncino e gli scarponi contro il fango.
Legai i capelli in una coda alta che avrei trasformato dopo in una sorta di chignon per farci passare la cuffia nera e la maschera da immersioni, mi spogliai ed entrai in doccia.
A primo impatto l’acqua uscì fredda ma non feci nulla per regolarla; una volta uscita, avrei sicuro avuto meno freddo in caso di basse temperature.
Finii tutto nel giro di una buona mezz’oretta, mi vestii e ultimai i dettagli mancanti quali trucco e capelli. Presi dal cassettone sotto la scrivania dei guanti ed un capello da mettere sopra la cuffia; io e Adam lo facevamo per non far capire ad eventuali telecamere di che sesso fossimo.
Prima di uscire, ancora vestita da persona normale, portai Micia a fare un giro del quartiere.
L’aria era fresca, si respirava il sabato sera in ogni angolo e la cosa mi elettrizzava non poco. Adam aveva scelto la serata perfetta perché noi due, almeno, non avremmo potuto correre il rischio di essere sospettati. La mia unica paura era di incontrare dopo qualcuna delle mie amiche… avevo detto che sarei rimasta a casa, ci avrei fatto una figura assurda in quel caso.
Il cellulare dalla tasca vibrò, Manca poco bimba, e tieniti pronta a scavalcare dopo il colpo.
Scavalcare? Scrissi, e aggrottai le sopracciglia.
Non conoscevo la zona in cui era collocato il negozio, ma mai prima d’allora mi aveva detto che avremmo dovuto scavalcare un qualcosa.
Si va nel bosco, piccola. Lasciamo lì la roba, ci cambiamo, e torniamo a prenderla domani pomeriggio.
Adam, ho il borsone con me
E quindi? Lo lanci e poi scavalchiamo, ti aiuto io ;)
Riposi il cellulare in tasca e tornai in casa per prendere il cambio di cui Adam parlava.
Maglia azzurra e Jeans, semplice e per nulla appariscente.
Chiusi Micia in camera mia per evitare che scappasse al rientro dei miei genitori, che quasi sicuramente sarebbero stati ubriachi.
Lanciai il telefono nel borsone, misi la cuffia, il cappello, e chiusi tutto.
Lasciai la maschera attaccata al pantalone ed i guanti nelle tasche, poi presi le chiavi di casa ed uscii.
L’idea di andare a piedi andò a farsi benedire dopo il primo chilometro e mi costrinsi a prendere l’ultimo giro dell’autobus, praticamente deserto per l’orario.
Cominciai a sudare freddo e le mani presero a tremare come in preda a convulsioni.
Dopo 15 minuti circa, quando Adam mi vide scendere e salutare in conducente, venne ad abbracciarmi come era solito fare in qualsiasi situazione.
“Grazie per essere venuta”.
“Ma figurati” risposi, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Mi aiutò a mettere la maschera ed io aiutai lui con la cuffia, poi sbirciò rapidamente nel mio borsone.
“Come ti ho già detto, la sicurezza è inesistente. Hanno cominciato a sistemare però, le scatole ancora piene dovrebbero essere poche. Due ci bastano, altrimenti dovremmo lasciare completamente la città” disse ironico, concedendosi addirittura una risata.
“Sei tesa, vero?” disse e sollevò il martello. “Ora andiamo laggiù, dove sta la macchina verde, e rompiamo il vetro. Dobbiamo agire in meno di dieci minuti Rose, chiaro?”.
Ma “Ti serve solo il martello?” fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Lui mi venne vicino, avvolto in vestiti simili se non uguali ai miei, e mi lasciò un bacio sulla fronte. “Brava la mia ragazza”.
Mi prese per mano e cominciammo a correre verso le indicazioni fornite poco prima.
Adam fece esattamente quello che aveva detto; ruppe il vetro, aprì la porta dall’interno e mi lasciò passare per prima.
All’interno, tutto era disposto come in una classica gioielleria. Vetrine ovunque, teche mezze piene e mezze vuote, poster pubblicitari affissi dietro al bancone. Mi sorpresi di non trovare la solita doppia entrata che caratterizza quei tipi di negozi, ma capii che non fosse il momento più adatto per parlarne.
Mi fece cenno con la testa di seguirlo e scavalcò il bancone per arrivare dietro al magazzino. Aprì la porta con un calcio ed una fila immensa di scatoloni ci piombò addosso. Erano tutti piedi di gioielli, secondo lui, perché lo vidi afferrare più cose ed infilarsele tra le tasche. Presi il primo scatolo che mi capitò a tiro e corsi fuori, verso il muro da scavalcare. Il borsone era pesante, lo scatolo altrettanto, e la testa mi diede la folle idea di fermarmi per trasferire il contenuto del secondo nel primo.
Adam mi corse avanti nel buio e forse neanche si accorse della mia sosta.
Lanciò la scatola ancora chiusa e superò il muro con un salto degno di un atleta professionista.
Io, che di agilità ne avevo davvero poca, trafficai ancora qualche istante con il borsone e poi lo seguii.
O, almeno, ci provai.
Perché, nel buio di quella fredda sera di febbraio, sentii chiari e distinti dei cani abbaiare. Non dei cani qualunque però, facile così; cani della polizia, grossi pastori tedeschi addestrati per questo.
Lanciai il borsone oltre il muro di pietra e mi arrampicai goffamente anche io.
Mi lanciai, letteralmente, dall’altra parte e presi a correre il più velocemente possibile con il borsone in spalla. Non sapevo bene dove stessi andando o dove sarei dovuta arrivare, sentivo solo i cani farsi sempre più vicini ed il mio respiro accorciarsi. 
Arrivò poi il punto che avevo temuto fin dal principio, quello di non ritorno. Quello in cui i piedi smettono di correre, il corpo cade a terra stremato tra ramoscelli secchi, muschio e foglie, e la fine si fa vicina.
Dalla salita su cui mi trovavo riuscivo a vedere i cani correre a fauci spalancate in mia direzione.
Maledetto Adam, lui e la sicurezza che non sarebbe dovuta esserci.
Cercai di rialzarmi tra un affanno e l’altro ma inutilmente: i miei polmoni si rifiutavano di collaborare.
Quando poi vidi i cani a qualche metro da me, quando sentii le voci di alcuni uomini arrivarmi dal punto in cui avevamo scavalcato, accadde qualcosa che non seppi spiegarmi.
Un lupo, perché di un lupo si trattava, sbucò da sopra di me dritto nella loro direzione.
Ma non un lupo qualsiasi; era grande, bruno, quasi tre volte quei cani che a confronto sembravano dei cuccioli. Li lanciò per aria tutti, nessuno escluso, facendoli atterrare in vari punti attorno a noi. Solo allora si voltò a guardarmi ed il mio cuore perse un battito.
Aveva gli occhi blu come l’oceano, proprio come i miei.
In un primo momento mi squadrò, mi venne vicino dalla destra ed emise un ringhio profondo, di gola. Arretrai rapidamente con l’aiuto delle mani e quello abbassò la testa ancora di più alla mia altezza.
“Eccolo! E’ laggiù!” sentii urlare da dove poco prima c’erano i cani, solo che stavolta nessuno si sarebbe avvicinato.
I poliziotti, tre uomini robusti e visibilmente armati, si fermarono di colpo davanti a tanta possenza. Quello di mezzo, che mi sembrò il più giovane, arretrò di almeno una decina di passi.
Io ero ancora coperta, il fiato sempre corto, e l’ansia mi crebbe in petto.
Se quel coso se ne fosse andato all’improvviso, cinque anni minimi di galera non me li avrebbe tolti nessuno.
Eppure quello non sembrò intenzionato a lasciar perdere.
Si voltò verso di loro, spalancò le fauci e si mise in quella che sembrò essere la sua posizione più minacciosa. Io stessa, pur sapendo di essere momentaneamente salva, mi trovai ad urlare talmente forte che come minimo anche Adam arrivò a sentirmi.
“Và via di lì!”.
Ma, quando quello di sinistra cercò di tirar fuori la pistola, un secondo lupo uscì dall’oscurità del bosco. Era nero, fatta eccezione per le zampe di un grigio perla mozzafiato, con occhi gialli come l’ambra, quasi tendenti all’arancione. Afferrò il braccio di quello che gli stava più vicino ed il resto accadde in un attimo.
Il lupo moro mi corse dietro e mi afferrò per il maglione, trascinandomi nel buio più totale alle mie spalle. Continuai a stringere con forza il borsone, più per paura che per altro, fino a quando –non senza un secondo urlo da parte mia- mi trovai sospesa nell’aria.
Stavamo saltando un dirupo profondo almeno diciotto metri e largo quattro come se per lui non fosse assolutamente nulla.
Il borsone mi cadde in avanti ma non ebbi tempo di cercarlo con lo sguardo che atterrammo dall’altra parte.
Il vento mi passava attorno al corpo ancora coperto e l’oscurità si faceva sempre più possente per i miei occhi. Ebbi paura di morire.
Poi, in un secondo salto, di molto più piccolo del primo, la mia testa andò a sbattere contro una roccia.
L’ultima cosa che sentii prima di svenire fu un dolore lancinante ed il fiotto caldo del sangue che scorreva. 

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Capitolo 3
*** Just a bad dream. ***



Heilà! Sono in big ritardo, come sempre, e vi chiedo perdono. Ringrazio per le recensioni, per le visualizzazioni, per la pazienza e per la fiducia che molti di voi mi hanno dato. Il capitolo potrebbe sembrare corto, in parte lo è, ma è ricco di avvenimenti. Ho già una breve parte del seguente pronta e spero di riuscire a postare presto, ma imprevisti like CICLODIMERDA possono succedere a tutti e.e 
Buona lettura, grazie ancora!


Just a bad dream.



Un odore di morto e terra mi investì in pieno appena cominciai a risvegliarmi.
Era buio, totalmente buio.
Sapevo che intorno a me ci fosse terreno, eppure ero avvolta con una coperta morbida e calda, probabilmente di un bambino.
Cercai di alzarmi ma il soffitto era troppo basso anche solo per stare con la testa piegata; che razza di posto poteva mai essere quello?
Sbuffai e mi divincolai dalla stretta della coperta, cominciando a tastare con le mani il terreno in cerca di un’uscita. Era umido, freddo, appiccicoso… mi venne da vomitare ed un forte senso di claustrofobia mi attanagliò i polmoni.
“Tiratemi fuori di qui!”; lo urlai con tutto il fiato rimastomi in corpo e sperai vivamente che mi avessero sentita.
Provai a sdraiarmi a pancia all’aria nel disperato tentativo di recuperare le forze, solo che sapere di essere chiusa in una buca non aiutava affatto.
Chiusi gli occhi ed immaginai di essere a casa, stesa sul mio letto spazioso ed in pigiama; ma avevo i vestiti impregnati di sudore ed emanavano un tanfo troppo forte per essere ignorato.
“Aprite!” urlai di nuovo, stavolta con voce più controllata, e tirai un calcio alla terra sopra di me.
Pessima mossa.
Una zolla di terreno si staccò dal pavimento improvvisato e mi finì dritta in faccia.
“Ma porco…”.
“Non si bestemmia qui dentro”.
Alzai la testa in direzione della voce ma avevo gli occhi ricoperti di quella roba e mi fu impossibile aprirli.
“Non lo farei se non ne avessi motivo, non credi?”.
“Pungente; mi piaci”.
“Ah, ah, ah, che ridere. Mi tiri fuori da qui o no?”.
Lui non rispose, ma il rumore di passi sempre più vicini mi lasciò capire le sue intenzioni.
Lo sentii spostare un po’ di terra e mi accorsi di quanto sottile fosse lo strato che mi separava dal resto del mondo.
“Ma dico, siete impazziti? Chi di voi mi ha chiusa qui sotto?”.
Il ragazzo mi poggiò le mani sulle spalle e mi tirò su con fin troppa facilità. “Calma tigre, è stata solo una precauzione”. Mi passò qualcosa di bagnato sul viso e sentii finalmente le palpebre libere dal fango. “Ti sei conciata come una bambina, assurdo”.
“Senti coso,” dissi aprendo gli occhi. “nessuno vi ha chiesto di portarmi qui e nessuno ti autorizza a parlarmi, intesi?”.
Lui sorrise, i denti bianchissimi e le labbra piene erano proprio all’altezza del mio sguardo.
Inclinai la testa all’indietro e vidi i suoi occhi verdi squadrarmi dall’alto, coperti appena da un ciuffo cenere solitario, considerato che il resto dei capelli fossero quasi completamente rasati a zero.
“In realtà sono stato incaricato dal mio capo di tenerti sotto controllo e di spararti la verità in faccia il prima possibile, ma lo farò più tardi e con modi gentili”.
“Come no” sbuffai scocciata.
Guardai oltre le sue spalle larghe e capii di essere in una casa, sebbene più simile ad una baita di montagna che ad una vera e propria villa.
Alzai un sopracciglio e passai in rassegna il vario arredamento, completo di caminetto, divani, tavolo da pranzo e poltroncine sparse ovunque. Non era decorato con alcun quadro, segno che fosse un ritrovo abbastanza arrangiato, ma la cosa non mi stupì. Mi stupì di più ritrovarmi con altra terra sotto i piedi e sapere che, fino a poco prima, fossi lì sotto.
“Ma scusa…” cominciai, attirando la sua attenzione. “mi tenevate davvero chiusa lì sotto?”.
Lui annuì e si avvicinò ad una finestra per aprirne le tendine rosa, nettamente in contrasto con i mobili scuri ed i rivestimenti in legno.
La luce di quella che riconobbi come alba entrò delicatamente nell’area, illuminandola tutta con colori caldi ed accoglienti. Quel posto non sarebbe stato male, arredato in modo più decente.
“Non ci credi, eh? E sei solo all’inizio”.
Lo ignorai e feci qualche passo avanti, sentendo improvvisamente un brivido di freddo lungo la schiena.
Abbassai lo sguardo e per poco non urlai dalla rabbia. “Ma che diavolo vi è saltato in mente, razza di depravati!”.
Ero nuda. O meglio, lo ero quasi completamente.
Sghignazzò e fece gesto con la mano di guardarlo e solo allora vidi che anche lui, come me, era dotato solo di biancheria intima. E fisico di un dio greco, che però io non avevo.
“Altre precauzioni, così siamo sicuri che nessuno entri armato. Abbiamo delle vite da proteggere, sai?”.
“Ad esempio?” lo sfidai.
Lui mi guardò e sorrise, portò due dita alla bocca e fece un fischio leggerissimo, appena udibile.
Due teste rosse sbucarono da dietro una colonna in pietra e sorriso debolmente.
Erano due bambini, gemelli, un maschio ed una femmina. Avevano lineamenti dolci e grandi occhi azzurri, dotati di una straordinaria bellezza.
“Da qualche parte dovevo pur cominciare, quindi ti presento Rudie e Ruby, i piccoli del gruppo. Hanno sette anni, sono con noi da quando ne avevano due, ma non abbiamo mai ritrovato i genitori”.
Rimasi incantata a vagare con lo sguardo sui corpicini piccoli e ben vestiti dei bambini, domandandomi come ci fossero finiti in quel posto da matti.
“Sono bellissimi, davvero”.
Lui sorrise di nuovo ed annuì. “Sono gli unici bambini che abbiamo, dobbiamo proteggerli anche a costo della nostra stessa vita”.
Ammisi a me stessa di non capire di cosa stesse parlando, considerato il modo serio e solenne con cui cercava di spiegare la situazione.
Mi mise un braccio intorno alle spalle in un gesto di confidenza che fui certa non avessimo; “Ti porto fuori, così conoscerai i tuoi salvatori. Vuoi?”.
Nell’incertezza della confusione mi ritrovai ad annuire, quasi dimenticandomi del fatto che gli stessi fossero dei grossi lupi con zanne affilate come rasoi.
Si mosse in avanti lentamente, io con lui, e mi guidò verso una porta in legno con un buco sulla parte alta che permetteva probabilmente di guardare all’esterno. La aprì con la mano libera e vidi i bambini passargli sotto al braccio per correre verso lo spazio aperto ed immenso che si apriva di fronte a noi.
Tutto era verde, ben curato, senza la minima presenza di rocce o altro che potesse ricordare una foresta. Un diametro di minimo novanta metri che circondava la casa in un perfetto cerchio, delineato da alti alberi dietro i quali sparirono i gemelli.
Mi voltai.
La casa aveva due piani, sebbene non fossi riuscita a vederne le scale, ed immaginai che al piano di sopra ci fossero le camere da letto. Non aveva balconi, solo tante finestre, ed era interamente fatta in legno. Era bella, certo che lo era, ed in armonia con il paesaggio circostante.
“Perché qui è tutto così bello?”.
“Perché per quelli come noi esiste o il tutto o il niente”.
“Quelli come voi?” chiesi, e lui annuì.
Mi allungò una mano e la afferrai istintivamente, seguendolo verso il centro della zona verde.
Indicò con la sinistra un punto di fianco alla casa, sulla nostra destra, e mi sussurrò di guardare attentamente.
Aguzzai lo sguardo, inutilmente, e sbuffai. “Vedo solo tanta legna”.
“Questo perché non sai usare bene i tuoi occhi. Riprova, noterai qualcosa che ti farà ricredere”.
Piegai leggermente le gambe e mi sporsi in avanti: dietro la legna accumulata per l’inverno, vidi muoversi lentamente una folta coda grigiastra.
Spalancai la bocca e guardai il ragazzo senza fiato, indicando anche io il punto in cui la vedevo. “Ma che è? Uno di quei lupi giganti?”.
Lui scosse la testa. “Quella è una semplice lupa, si chiama Arabi, è la compagna di un Halfwolf del branco”.
Alzai un sopracciglio, “Halfwolf? Che cos’è?”.
“Si chiamano così le persone trasformate fuori dalla luna rossa, quelli che rimangono in forma canina senza poter mutare”.
Non poteva essere serio.
“Tu scherzi, ti burli di me solo perché sono scossa”.
Scosse la testa di nuovo, “No, giuro, dico il vero”.
“Come puoi pensare che io ti creda? I licantropi… quegl’esseri orrendi di cui i libri parlano, no? Non possono essere veri, la scienza li avrebbe già trovati e la loro esistenza sarebbe già stata rivelata al mondo”.
Lui mi guardò a metà tra il divertito ed il serio. “Vuoi davvero costringermi ad usare le maniere forti? Guarda che se non apprenderai tutto entro stasera, con ogni probabilità, ti lasceranno di nuovo nel bosco”.
“E quindi? A casa ci so tornare”.
“Non hai idea di dove siamo, credimi. Tornare giù è impossibile se non conosci il territorio come le tue tasche”.
Non aveva tutti i torti, a conti fatti: durante il tragitto ero miseramente svenuta e già il ricordare di aver saltato un burrone mi fece venire un vuoto allo stomaco.
Sbuffai. “Per la precisione… cosa dovrei apprendere? Giusto per intenderci”.
“Almeno le cose basilari, accettare la realtà verrà da sé dopo”.
Annuii e tornai con lo sguardo alla lupa.
“Come dicevo… non esistono solo gli Halfwolf, ma anche gli Halfman, quelli trasformati durante la luna rossa e che quindi possono cambiare forma, anche se non in modo controllato”.
“Che significa?”.
“Che deve esserci un forte sentimento per mutare, come la rabbia o la tristezza. Quelli che invece sono in grado di scegliere si suddividono in Origin e Standard, che non hanno un nome preciso. Gli Origin sono i discendenti diretti di una lupa ed un umano, nascono lupi e diventano umani col tempo, imparando poi a gestire le mutazioni; possono anche nascere da un’umana però, e qui il procedimento è invertito”.
“Mi fa strano pensare ad un uomo ed un animale che… si accoppiano” lo interruppi.
“Sì, anche per me fu così all’inizio, ma quando ne conosci uno poi fidati che cambi idea. In ogni caso, i figli degli Origin sono Standard puri, ma quando vengono incrociati diventano semplici Standard, i più comuni”.
“Tu cosa sei?”.
“Standard, figlio di Standard figli di altri Standard. E mi chiamo Sean, se te lo stessi chiedendo”.
“Piacere, Sean, mi chiamo Rose”.
Lui allungò una mano, “So chi sei, ti seguiamo da un po’ ormai”.
“Sono una semplice studentessa, non mi pare di aver fatto nulla per attirare la vostra attenzione”.
Sean riabbassò il braccio e nascose la leggera delusione dietro un sorriso tirato. “In realtà hai ragione, ti spiegherò il perché un altro giorno magari”.
Un soffio di vento mi ricordò della mia nudità e strinsi forte le braccia al petto.
“Potrei…ehm… riavere i miei abiti?”.
Lui mi sorrise ed annuì, “Certo, appena entri sulla destra. Volevo presentarti almeno il Rosso, ma se proprio non resisti ci pensiamo dopo”.
Non che l’idea mi allettasse particolarmente, ma capii di non avere altra scelta.
Camminai verso la porta, entrai, e svoltai a destra; appesi alla parete, con un’attenzione impossibile da non notare, c’erano un jeans ed una canotta rossa. Erano miei, li riconobbi, ma non ero tanto certa di averli messi nel borsone. Li presi ugualmente e me li infilai in silenzio, maledicendo chiunque avesse progettato l’arredamento per non aver messo neanche uno specchio.
Prima di tornare fuori, neanche dieci minuti dopo, mi fermai a prendere un lungo respiro.
Non è reale, mi dissi, domani sarò a casa. E ci sperai davvero.
Sean era ancora lì dove lo avevo lasciato, immobile. I suoi muscoli erano tesi, i pochi capelli scompigliati dal vento, ed i suoi occhi… sembravano sorridere.
“Dove avete preso questi vestiti?”.
Mi fece l’occhiolino, “Piccoli segreti del mestiere”.
Lo raggiunsi e portai le braccia sotto al seno per scaldarmi il più possibile. “Non avete recuperato niente di mio?”.
Lui mi guardò ed alzò un sopracciglio. “Roba mia… vestiti, telefono, o…”.
“Oggetti rubati? No, nulla di quello che avevi con te è stato toccato, ma forse ci avranno pensato le autorità”.
Ingoiai a vuoto e feci un passo indietro.
L’erba sotto i piedi era fresca e umidiccia, ma in modo molto piacevole. Non provavo quella sensazione da tempo e -quando anche il sole arrivò a toccare la mia pelle- tornai a pensare a quando ero piccola e giocavo con mio fratello nel giardino della vecchia casa.
Da piccoli è tutto più facile, anche credere nei licantropi mi sarebbe riuscito senza il minimo sforzo.
“Tranquilla, qui non ti troveranno”.
Alzai lo sguardo. “Chi?”.
“Le autorità, polizia e cose varie. Qui non ci arrivano. O meglio, sanno dove siamo ma non hanno interesse per noi”.
“E questo come fai a dirlo? Potrebbero presentarsi alla vostra porta da un momento all’altro”.
Sean si voltò alla sua destra ed indicò l’inizio di un piccolo sentiero nella foresta battuto a mano. “Quello è l’unico modo che ogni essere a due zampe ha per arrivare qui. Il resto del bosco e percorribile solo da animali agili e svelti, o rischierebbero la morte”.
“Appunto, qui possono arrivarci attraverso quello”.
Lui rise e mi portò di nuovo un braccio attorno alle spalle. “Cosa credi che intenda io per animali agili e svelti, Rose? Non parlo di lepri o scoiattoli, ma di puma e giaguari. Lupi, volpi, sciacalli in alcuni punti rocciosi, e persino gatti selvatici”. Prese un respiro e mi strinse più forte. “Salire qui sarebbe come tentare il suicidio”.
 
Verso l’ora di pranzo, dopo vari giri della proprietà e tante parole a favore della sua fantomatica specie, Sean mi condusse al piano di sopra della casa attraverso una rampa esterna di scale.
L’interno del secondo piano era strutturalmente simile al primo, ma arredato più come casa che come rifugio di fortuna. Aveva un tavolo bello grande e apparecchiato con otto sedie attorno, quadri appesi alle pareti, credenze, una cucina, e tutto quello che poteva ricordare un comune appartamento.
Carino, semplice, e alquanto affollato.
I gemelli, quelli della stessa mattina, giocavano con il viso incollato allo schermo di un vecchio videogioco sul divano in stoffa verde; un altro ragazzo, scuro in tutto e a petto nudo come Sean, stava dietro di loro e rideva; una donna, bionda e sulla trentina, si dava da fare vicino ai fornelli insieme ad una ragazza probabilmente poco più grande di me, anche lei bionda e con occhi scuri.
“Loro sono parte del branco, Rose.” mi sussurrò Sean all’orecchio. Indicò il ragazzo per primo, “Lui è Cody, ha diciannove anni e viene dal Kentucky. E’ con noi da quando ne aveva più o meno dieci, ci fidiamo ciecamente delle sue abilità da guardiano. E’ simpatico il più delle volte, ma sa essere un gran pezzo di bastardo, quindi attenta a come gli parli”. Mi spinse per le spalle leggermente in avanti e mi indirizzò verso la cucina. “Queste splendide fanciulle sono Paige e Margaret, sorelle. Paige è nel gruppo anche da prima di me, il vecchio capo la trovò in preda agli spasmi nel bosco mentre cercava di capire cosa le stesse succedendo. Era alle prese con la prima mutazione, una standard, ma sia lei che la sorella erano state date in affidamento molto piccole e non avevano idea di cosa stesse accadendo. Aveva dieci anni, Margaret solo tredici mesi. Adesso lei ne ha ventotto, Maggie diciassette, ed entrambe sono eccellenti cacciatrici, anche se Paige preferisce restare qui con i gemelli”.
Lo guardai e scossi la testa, togliendomi le sue mani da sopra le spalle. “Perché mi dici queste cose?”.
“Perché quando arriveranno i pezzi grossi dovrai avere qualcuno su cui contare”.
Indietreggiai ed aprii la bocca, cercai di dire qualcosa, di chiedere spiegazioni, ma altre due mani si appoggiarono su di me e mi costrinsero a voltarmi.
“Tu devi essere Alekia! E’ un vero piacere incontrarti, ho sentito tanto parlare di te!”.
Sorrisi, “A quanto pare solo io non ho mai sentito parlare di voi”.
Lei rise, sebbene la mia fosse un’affermazione tutt’altro che amichevole, e mi porse la mano. “Sono Paige, piacere, e lei è mia sorella Maggie”.
Ricambiai la stretta e vidi più dietro la sorella salutarmi con un piccolo cenno del capo ed un sorriso.
Perché erano tutti così socievoli?
“Immagino sarai stanca e confusa, ma capirai tutto a tempo debito, vedrai”.
“Lo spero”.
Lei rise di nuovo e mi indicò con la mano la tavola apparecchiata. “Abbiamo cucinato della pasta al pesto, se ti va, in alternativa abbiamo le cotolette; sai… i bambini le amano”.
Le sorrisi ed annuii, “Andrà bene qualsiasi cosa, grazie”.
Si allontanò allegra e tornò ai suoi fornelli mormorando qualcosa alla sorella riguardo il mio probabilmente grande appetito.
Feci per voltarmi verso Sean quando un petto largo e muscoloso mi si parò avanti.
Alzai lo sguardo ed incontrai quello di Cody, serio e sospettoso, e feci automaticamente due passi indietro.
“So che sai chi sono, e so che sai che so chi sei tu, saltiamo i convenevoli. In cosa potresti tornarmi utile?”.
Lo guardai con un sopracciglio alzato e per poco non gli scoppiai a ridere in faccia.
Era bello, molto bello, decisamente quanto Sean; aveva i capelli raccolti in un piccolo codino dietro la testa, neri e folti, occhi neri come la pece e pelle olivastra. Mi ricordò un indiano.
“Ti faccio ridere?”.
Scossi la testa.
“E allora quale sarebbe il problema?”.
Misi una mano sul fianco destro. “Il problema, caro Cody, è che io non ho la più pallida idea di come ci sia finita qui e perché. Al momento, tornarti utile è l’ultima delle mie preoccupazioni”.
I gemelli smisero di giocare al videogioco e si voltarono verso di noi, così come le sorelle dalla cucina. Persino Sean, dietro di lui, mi fece segno di stare zitta.
Ma Cody rise e mi tirò in un abbraccio partito da non seppi dove e mi strinse forte; “Finalmente qualcuno capace di tenermi testa, era ora!”.
Non  poteva essere serio, non dopo quello che aveva fatto pochi istanti prima.
Allontanai il suo corpo dal mio e mi aggiustai la maglietta lievemente stropicciata.
“Hai perfettamente ragione, sai? Solo che da domani i ritmi riprenderanno regolari, vedrai come si sopravvive tra noi e, beh… dovrai scegliere che ruolo assumere, oltre quello che hai già”.
“Un ruolo che ho già? Ma di che parli?”.
Sean gli tirò una botta dietro la testa, “Idiota col caschetto, non riesci mai a tenere la bocca chiusa”.
“Disse il pelatone con il ciuffo alla Elvis!”.
“Almeno i miei capelli possono essere definiti tali!”.
“Ma se sono più inguardabili di quelli di Justin Bieber!”.
“Smettetela, tutti e due, e spiegatemi di cosa stavate parlando” mi intromisi, forse rischiando di beccarmi uno spintone.
Sean mi guardò e sospirò a metà tra il combattuto ed il dispiaciuto. “Vedi, Rose… Sebbene gli Standard siano licantropi a tutti gli effetti, non possono procreare quando vogliono loro, devono sempre aspettare la luna rossa”.
Annuii, “Quindi?”.
I due si lanciarono un’occhiata veloce, poi Cody prese parola:  ”Quindi, quando arrivano quei tre giorni particolari, è bene che ogni branco abbia un certo numero di femmine per garantirne la sopravvivenza. Capitano una volta di seguito ogni tre anni, e questa è la prima volta che ogni nostro membro può realmente usufruirne, visto che tre anni fa eravamo tutti ancora poco più che adolescenti”.
“Quello che stiamo cercando di dirti ma che avrei voluto aspettare a riferire, è che tu sei essenziale per questo compito. Siamo quattro ragazzi, ognuno di noi deve provarci, e non è garantito che le ragazze restino gravide perché c’è tutta una serie di complicanze dietro riguardanti la compatibilità degl’individui”.
“Mi state dicendo che sono qui per essere usata come una puttana?”.
“No! Assolutamente no!”.
“Sei libera di scegliere chi vuoi tra noi, nessuno ti costringerà a fare nulla”.
Mi passai le mani sul viso e mi tirai uno schiaffo. “Sto sognando, per forza. Sono in un brutto incubo”.
“Ci dispiace, Rose, ma il tuo nome era scritto e…”.
Tirai un pugno al muro. “Ma scritto dove? Cosa? Chi siete voi per decidere se io debba o meno restare incinta? Di uno sconosciuto oltretutto! Avevo una vita io –ho una vita a cui tornare! Con quale coraggio mi presenterei a casa incinta, eh? E Paige e Margaret? Ci sono anche loro, no? Due cuccioletti per ora basteranno, siete giovani!”.
“Quando ci sono quei giorni dobbiamo fare appello a tutte le nostre forze per non… accoppiarci con il primo essere che capita. Sarebbe un vero disastro se un’altra umana restasse incinta al posto di una delle nostre, non reggerebbe lo stress, ne morirebbe, capisci?”.
“E che mi importa! Usate una lupa allora!”.
“Per buttare all’aria quattro generazioni di licantropi? Ne nascerebbero solo dei lupi, no, grazie”.
Mi voltai verso Cody e per poco non arrivai a tirargli un pugno in pieno viso. Fu la mano di Sean a trattenermi, forse anche più forte del necessario. “Rose, calmati. Paige è sterile, ci ha provato già il vecchio capobranco tre anni fa, poco prima della sua morte. Sperava  di dare un ultimo membro al branco, sebbene non Puro come i suoi primi figli, ma il medico ci ha chiaramente detto che Paige non sarà mai in grado di concepire, e nessuno ha intenzione di usarla solamente per sfogo. Maggie… lei è del nuovo capo, se riuscirà a restare incinta sarà la madre del capobranco che verrà, nessun altro al di fuori di lui può toccarla. Io, Cody ed il Puro fratello dell’alfa non abbiamo nessuno, e le probabilità di trovare un’altra come te sono praticamente ridotte al minimo. Mancano due settimane alla luna”.
Risi sonoramente, una risata isterica e nervosa che non riuscii in alcun modo a controllare.“Voi siete tutti matti”.
Aprii la porta di legno e mi precipitai fuori, poi giù per le scale. Ogni cellula del mio corpo mi urlava di provare a percorrere il sentiero mostratomi da Sean, anche a costo di restarne uccisa.
Attraversai il giardino a grandi falcate e solo passandomi una mano tra i capelli mi accorsi delle lacrime.
Tutto un brutto sogno.
Arrivai al confine boccheggiando e con il fiato corto.
Il lupo rosso che la notte prima mi aveva salvata comparì all’improvviso avanti a me con le fauci spalancate.
“Togliti!”, ma lui non mosse un passo, si limitò ad abbassare le orecchie.
Provai a spostarlo di lato e a raggirarlo, sicura che non mi avrebbe fatto del male, ma mi prese per il colletto della maglia e mi sollevò in aria.
“Mollami subito! Mettimi giù!”.
Lanciai dei calci in aria a vuoto e lui ne sembrò alquanto infastidito, tanto che scosse la testa e mi mosse tutta.
Urlai.
“Rose, ti prego, lascia che ti spieghi”.
Sean ci comparve avanti con le braccia aperte rivolte nella mia direzione.
“Spiegare cosa? Che mi avete strappata alla mia vita per usarmi come puttana in questa gabbia di matti?!”.
Cody, Paige e Margaret gli furono presto accanto.
Tirai un altro calcio a vuoto.
“Dannazione Rose, smettila di agitarti!”.
“Lasciatemi andare, voglio tornare a casa mia, devo tornare dai miei genitori! Hanno bisogno di me!”.
Il Rosso abbassò la testa e lasciò che i miei piedi toccassero la terra.
“Il tuo nome era segnato tra le persone che potrebbero aggiungersi presto o tardi al branco, non potevamo ignorarti”.
“Chi? Chi ha scritto il mio nome?”.
I quattro si guardarono rapidamente, “Tuo fratello”.
Guardai Cody come se fosse la più brutta carogna al mondo e gli urlai contro.
“Bugiardi! Mio fratello è morto su una fottutissima nave, con voi non aveva niente a che fare!”.
Il Rosso mi ritirò su con uno scatto.
“Rose!” mi chiamò Paige, e decisi finalmente di smetterla. “E’ lui. Nick, tuo fratello, è lui”.
E mi sentii cadere a terra.

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Capitolo 4
*** Nothing. ***


Perdonatemi, ma credo che se non si ha ispirazione, non si debba scrivere. Avevo scritto il capitolo in un altro modo e ho cancellato tutto per l'insoddisfazione, per questo ci ho messo di più.
Ringrazie tutti i lettori che mi aiutano a continuare e vi chiedo di fare molta attenzione alle cose dette di seguente.
Buona lettura!


 

Nothing.

Quando ero piccola, quando ancora potevo dire di vivere una vita normale, mia madre mi diceva che ogni animale tenuto in gabbia è un animale tolto alla propria natura, come per un uomo vivere in una camera senza porta e finistre.
 Fu quello a distogliere la mia mente dal pensiero di avere un cucciolo in casa: la tristezza.
Eppure, guardando mio fratello, fui più che certa che il posto in cui viveva avesse ben poco a che fare con una grande gabbia.
Allora perché nei suoi occhi non leggevo altro che tristezza?
“Rose, non voleva farvi del male”.
“Ma lo ha fatto”. Indietreggiai con le braccia e mi rimisi in piedi. “Siamo stati tutto questo tempo a credere che fosse morto, e invece… era solo diventato uno di voi, una sorta di mostro delle fiabe”.
Tolsi dai jeans dei fili d’erba ed incrociai le braccia al petto.
Secondo mia madre, quello sarebbe dovuto essere un animale felice.
“Stava morendo. Lo abbiamo trovato agonizzante in una camera d’albergo, aveva le ossa già rotte, ma non sarebbe mai riuscito a mutare senza il nostro aiuto”.
“E credete di avergli fatto un favore così? Ma per favore, guardate come lo avete ridotto!”.
Paige posò una mano dietro la mia schiena e la carezzò lentamente. “Avresti davvero preferito sapere che fosse morto?”.
Scossi la testa, “No, ma avrei preferito fosse vivo e vegeto per il rientro a casa”.
Guardai Nick, lo vidi abbassare le orecchie, e mi sentii quasi in colpa. Quasi.
“Non è stata una sua scelta, ce lo aveva nel sangue. E anche tu”.
“Eddai Sean!”. Allontanai la mano di Paige e mi spostai verso destra. “Come puoi minimamente pensare che io possa credere alle tue parole? Prima mi dici che mio fratello è una creatura mitologica, poi mi dici che era destino che lo diventasse, e ora? Ora dici che anche io dovrei diventare come lui? Come tutti voi dite di essere?” urlai. “Bene, datemi un solo buon motivo per credere a questo mucchio di stronzate”.
Cody guardò prima Sean e poi me, prendendo un lungo respiro.
Un senso d’ansia mi attanagliò lo stomaco e per un istante pregai restasse in silenzio.
“Tuo padre” disse, e la bocca si richiuse.
Lo guardai con le sopracciglia aggrottate e piegai la testa leggermente di lato.
“Perché tuo padre era come noi”.
Fu allora che scoppiai a ridere. Non una risata qualunque, allegra e spensierata; una risata nervosa, forse isterica, che tutto sembrava furchè naturale.
“Hai voglia di scherzare, eh?”.
Paige provò a toccarmi ma di nuovo la scansai e vidi Nick accucciarsi al suolo.
“Dico la verità, tuo padre è come noi. Credeva che accoppiandosi con un’umana avrebbe avuto dei figli normali; voleva per te e per tuo fratello una vita diversa, che però non è stato in grado di darvi” sussurrò, e si avvicinò a me. Chiusi gli occhi. “Ascoltami bene, scricciolo. Nessuno voleva farvi del male, intesi? E nessuno ve ne farà mai, finchè resterete con noi. Aveva buone intenzioni, non sapeva cosa sarebbe successo, e noi siamo qui per aiutarti prima che la situazione degeneri da sola”.
“E’ degenerata nel momento in cui mio fratello ha scelto di andare via di casa”.
“Ma non è stata scelta sua, Rose, lui…”.
“Lui poteva non partire! Se quello che dici è vero, mio padre avrebbe potuto aiutarlo!”.
“Ti prego,” disse, e portò le braccia avanti a sé. “cerca di calmarti”.
Urlai.
Sentii qualcuno bisbigliare alle mie spalle e mi voltai di scatto con occhi spalancati.
Una vecchia, dal ventre innaturalmente gonfio, stringeva per mano un bambino.
“Ma cosa…”.
“Zitta, non parlare” disse lei, portandosi un dito alle labbra. “Loro sentiranno te, ma non me”.
Aveva i capelli lunghi quasi fino a terra, grigi impastati di bianco, e ogni angolo della sua pelle dimostrava l’età che aveva. Indossava una tunica di uno strano viola, a metà tra lo spento ed acceso, con una fascia trasversale marroncina dalla spalla alla vita.
“Sono Ianka, la Fondatrice”.
“La che?” chiesi confusa.
“Sei stolta? Muta!” urlò, poi sorrise. “La Fondatrice, quella che ha messo su il branco, compagna del lupo grigio Talasse”.
Spinse avanti il bambino e gli carezzò i capelli folti e neri, non doveva avere più di quattro anni.
“Io vedo quello che verrà, vedo il futuro, ma non tutti vedono me. Quelle zucche vuote non hanno neanche idea di chi sia, tutte tradizioni buttate”. Prese fiato e alzò rapidamente lo sguardo al cielo. “Ma non temere, se hai paura; non tornerò presto a farti visita”.
“Ma cosa vuoi da me? Perché io ti vedo?”.
“Vuoi essere presa per pazza, ragazzina? Taci! Sono qui per aiutarti appena ne avrai bisogno, tu meriti, ma lo faccio per lui”.
Lo sguardo del bambino, mantenuto basso fino a quell’istante, si alzò di colpo su di me.
Due occhi di un azzurro cristallino mi trapassarono da parte a parte.
E sparirono nel nulla, come se non fossero mai esistiti.
Mi buttai in ginocchio e mi strinsi la testa fra le mani, “Vi prego, vi scongiuro, basta”.
“Stiamo solo perdendo tempo con lei” sentii chiamente mormorare da Margaret, ed un singhiozzò sfuggì al mio controllo.
Prima che potessi rendermene conto, e prima che Sean si avvicinasse a me di nuovo, Nick mi fu accanto a fauci spalancate in loro direzione.
“Calmo, non vogliamo farle nulla”.
Ma lui ringhiò, e poi ancora, ancora e ancora, fino a quando Sean non si decise a tornare in casa.
Piansi, lasciai che le lacrime irrigassero quel prato verde vivo, e sperai con tutta me stessa di potermi risvegliare a casa nel mio letto.
“Io non capisco, Nicolas, non capisco affatto tutto questo” sussurrai. “Perché io? Che ho fatto di male?”.
Invocai quella donna con la mente e ringraziai che Nick non potesse parlarmi.
“Mi portano qui senza motivo, mi dicono che devo diventare una puttana, mi mostrano una realtà talmente cruda da digerire che neanche loro credo abbiano accettato, e poi questo. Una donna, Nicolas, una vecchia che mi parla e mi mostra un bambino. Capisci? Il prossimo passo è portarmi in manicomio”.
Una mano, piccola e gentile, mi scostò i capelli dal viso.
Rudie mi sorrise dolcemente e si accovacciò di fronte a me. “Hai visto Ianka, vero?”.
Cercai di trattenere i singhiozzi ed annuii, non pensando in quel momento di parlare ad un bambino di sette anni.
“E’ normale, lei si mostra a tutte le persone importanti”.
“Ma io non sono importante, Rudie. Io non sono nessuno”.
“Tu sei molto più di quello che pensi e di quello che ti hanno detto di dover essere. Basta capirlo”.
Tirai su col naso e mi voltai lentamente a guardare Nick, nuovamente accucciato dietro di me.
“Cosa dovrei capire?”.
“Non posso dirtelo io, ma spero presto troverai le tue risposte da sola” disse, e sorrise di nuovo. “Per ora, fa finta che sia un gioco di ruolo, okay? Fingi di essere quello che loro vogliono tu sia, immedesimati nel ruolo, lascia scorrere le informazioni come se non facessero realmente parte di te: è l’unico modo che hai per restare lucida, fidati”.
Piegai la testa di lato e mi asciugai le lacrime restanti dalle guance con il braccio. “E tu che ne sai?”.
“Io so molte cose, sono un Origin, nessuno può sapere più di me”.
“Ma anche il capo e suo fratello lo sono, io non…”.
Mi coprì la bocca con una mano e scosse la testa. “I loro antenati lo erano, loro sono solo figli di figli di Origin. Io e mia sorella siamo nati da una lupa, da Anari”.
Drizzai la schiena e tolsi i capelli dal viso. Sotto di me, l’erba sembrò ad un tratto farsi più calda.
“E tutti loro lo sanno? Sanno quello che siete?”.
Lui scosse la testa. “No, ma credo lo abbiano ipotizzato. Ci hanno trovati in un bosco, Alek; quanti bambini vengono abbandonati nei boschi da licantropi a due anni?”.
“E vostra madre? Non le mancate? Non vi ha mai cercati?”.
Cercai di restare calma il più possibile e portai le braccia dietro di me a reggere il peso.
“Ci ha cercati, ma sapeva che vivere con dei lupi per noi non sarebbe stata la soluzione migliore. La vediamo, di tanto in tanto, sai? Possiamo trasformarci a nostro piacimento, leggerle la mente, prevedere le sue mosse ed i suoi spostamenti. Noi possiamo tutto”.
“Ma non ha senso, Rudie… tu sei più forte del capobranco, ma allora perché è lui in comando?”.
“Perché è una dinastia di cui io e Ruby non facciamo parte, ed è per questo che hanno bisogno di eredi puri, ma non li hanno, e le cose cambieranno presto”.
“Che intendi?” chiesi, e lanciai uno sguardo alla casa alle sue spalle.
Vidi Sean, al piano di sopra, sbucare da dietro le tende di una finestra chiusa.
“Capirai tutto” disse, e si alzò.
Aveva visto Sean anche lui?
“Sì, lo vedo, e sta cercando inutilmente di leggerti le labbra”.
Allungò una mano per aiutarmi a rimettermi in piedi e mi stupii della forza che tirò fuori.
“Io posso tutto” scandì serio, poi sorrise. “Rientra in casa come se niente fosse, e ricorda: siamo in un gioco di ruolo”.
Annuii distrattamente e mi voltai verso Nicolas, indicandolo. “E lui? Ha sentito”.
Ma Rudie sorrise con fare ingenuo. “Sentito cosa?”.
Alle sue spalle, quasi sbucato dal nulla, Cody si portò le braccia al petto. “Vorrei saperlo anche io, ragazzino”.
Lui mi fece l’occhiolino e si voltò verso il maggiore alzando le spalle. “Le ho detto che è normale essere spaventati, ma presto capirà ogni cosa”.
Cody ghignò e gli scombinò i capelli.“Bravo” disse, ma guardò me. “Ora torna dentro, Ruby ti sta cercando”.
Il bambino, che forse bambino era solo all’apparenza, si avviò verso casa correndo.
“Tu stai bene?”.
“Non dovrei?” chiesi di rimando, alzando un sopracciglio.
“Beh, prima eri una fontana e credevo che…”.
Lo interruppi e scossi la testa. “Sto bene, grazie. Troppe informazioni insieme, devo solo abituarmici”.
Lui strinse le labbra ed annuì distrattamente. “Possiamo rientrare anche noi, quindi”.
“Certo” e sorrisi.
Lanciai uno sguardo rapido a Nicolas, supino dove lo avevo lasciato, e precedetti Cody nel rientro.
Se le mie amiche mi avessero vista, Liz in primis, probabilmente non mi avrebbero riconosciuta.
Da quando sapevo recitare così bene?
Nel tornare in casa, ancora a piedi scalzi e ancora con il viso di certo arrossato, vidi chiaramente l’ombra di un lupo muoversi tra gl’alberi accanto al giardino.
Mi fermai e provai a guardare meglio, magari a seguire i suoi spostamenti, ma lo persi in pochi secondi.
“Tranquilla, starà andando da Nicolas” e mi spinse verso le scale.
Dentro tutti erano tornati alle loro postazioni, con il pranzo ancora in tavola e pronto per essere mangiato.
Nonostante all’apparenza dovessi sembrare tranquilla, in alcun modo sarei riuscita ad ingoiare qualcosa.
Cercai con lo sguardo Rudie e, quando lo ringraziai mentalmente, lui si girò a sorridermi.
Anche Paige mi sorrise, mentre Margaret fece finta di niente.
Non vidi Sean, ma seppi con certezza che fosse da qualche parte nascosto.
“Allora, si mangia?”.
Cody mi sorpassò ed andò a sedersi attorno al tavolo con Ruby.
Sorrisi e pensai che, tutto sommato, quel gioco non sarebbe stato tanto difficile.
 
“Andiamo a fare un giro? Ti prego Paige, dai! Non usciamo mai!”.
Il pomeriggio era ormai inoltrato e la casa era quasi completamente vuota.
Cody e Sean, riapparso poco dopo pranzo, erano tornati in città a raccogliere provviste.
“No bambini, già ve l’ho detto, dobbiamo restare con Rose”.
Anche Margaret era sparita nel nulla.
“Ma lei viene con noi! Ci viene, giuro!”.
Rudie prese a saltellare per la cucina accompagnato dalle risate della sorella.
La povera Paige, che se ne stava seduta con un giornale sulla poltrona a dondolo, sbuffò e si alzò di scatto.
“Okay, va bene!” urlò, poi si voltò verso di me. “Ti dispiacerebbe fare un giro? Se non vuoi, troverò un altro modo per tenere questi due demoni fermi, davvero”.
Accetta, ti mostro una cosa.
Guardai Rudie e sorrisi, “Certo, va bene”.
I gemelli si diedero il cinque e corsero fuori in giardino.
“Vieni Alek! Andiamo alla cascata!”.
Paige, impegnata a raccogliere i cappotti dei minori, brontolò qualcosa in segno di disaccordo.
“Mi sa che dovrò portare le asciugamani”.
Posò sul divano quello che aveva tra le mani e la seguii lungo un corridoio fino al bagno. Prese due asciugamani da doccia e due di quelle per asciugare le mani, uno strano pacchetto con delle pillole e mi posò tra le mani una borsa plastificata rossa con uno strano odore.
“Si divertono a raccogliere quelle dannate perline, nonostante continui a dirgli di non farlo”.
Non chiesi spiegazioni e la seguii di nuovo fino a raggiungere il giardino.
Li fulminò entrambi con lo sguardo, ma non ebbe l’effetto desiderato, anzi Rudie corse verso un angolo del prato e prese la rincorsa.
“No! Rudie, no!”.
Ma le parole neanche gli arrivarono e, meno di due secondi dopo, un lupo adulto a chiazze grigio arancioni prese il suo posto sulle quattro zampe.
Paige sembrò diventare una locomotiva, con tanto di fumo dalle orecchie e voce fischiante.
“Rudie! Rientra immediatamente in casa!”.
Ma il lupo se ne infischiò altamente, anzi corse verso il sentiero e sparì tra gl’alberi.
Segui Ruby.
La sorella ci lanciò una rapida occhiata dispiaciuta prima di rincorrere il fratellino scomparso.
Paige li seguì a ruota, cercando in tutti i modi di mantenere la forma umana e di non andare in escandescenza, ed io dietro di lei.
Arrivate al sentiero rallentò e si passò una mano tra i capelli, incerta. “Non sono sicura di poterti far entrare”.
“Come?” chiesi, guardandola confusa. “Dovevamo andare alla cascata…”.
“Sì, è vero, ma non era previsto che Rudie si trasformasse. Non posso tenerti d’occhio, devo cercare loro”.
Incrociai le braccia sotto al seno e mi guardai intorno. “Potrei restare qui, se per te è un problema portarmi”.
Convincila.
“No, non dire sciocchezze” rise istericamente. “Non sei affatto un problema, solo che devo trovare i bambini perché è il mio compito questo”.
“Posso aiutarti”.
Si girò a guardarmi e si morse un labbro. “Non so, io…”.
Insisti.
“Non creerò danni, giuro”.
Attesi qualche istante prima di vederla annuire convulsivamente. “Okay, seguimi, vediamo alla cascata”.
Siamo alla tana.
“Non credo siano lì, sarebbe troppo scontato. Ai bambini piace giocare”.
Annuì ancora e, camminando, si spostò verso un minuscolo sentiero battuto a mano sulla sinistra.
“Saranno andati dalla lupa allora”.
Il paesaggio attorno scorse lento e uguale per un paio di minuti, fino a quando Paige imboccò un altro sentiero sulla destra che si apriva in lontananza su un piccolo piazzale roccioso.
“Non avvicinarti troppo, lei non conosce il tuo odore”.
Mi fermai di fatto poco prima che gli alberi finissero, accostata dietro un ramo.
Paige si avvicinò a passò deciso e fiutò l’aria un paio di volte. Andò verso una grossa roccia e grattò come i cani erano soliti fare vicino alle porte, poi tese l’orecchio.
“E’ qui, ora escono”.
Le sorrisi e spostai un paio di foglie con le mani per vedere meglio.
Una lupa grigia con le mammelle decisamente piene di latte uscì quasi scodinzolando e leccò le mani a Paige.
“Non so perché, la i gemelli le ronzano spesso attorno, forse per i cuccioli”.
Poco più dietro, con aria colpevole, Ruby si stringeva le mani dietro la schiena.
Paige cercò di ignorarla, ma non riuscì a fare altrettanto con Rudie.
Lo vide in forma umana e gli corse incontro, colpendolo con una leggera botta dietro al capo.
La lupa le ringhiò brevemente e saltellò verso l’entrata della tana.
“Mai più senza Sean, mi hai capita? Mai più!”.
Lui rise e si lasciò cadere sul terreno tra le foglie secche e marroncine.
In un lampo, come attratto dal rumore, un tenero cucciolo di pochi mesi raggiunse il bambino e si stese accanto a lui a pancia in su.
E’ nostro fratello, si chiama Isaac.
Spalancai gli occhi ed il cuore mi si riempì di gioia di fronte a quella scena così strana e così naturale al tempo stesso.
Pensai a quante volte, da piccola, mio fratello mi avesse stretta tra le sue braccia per confortarmi o anche solo per portarmi a giocare e sospirai.
Ma soprattutto, capii le parole di Rudie quella mattina.
“Forza, ridate il piccolo alla madre ed andiamo”.
Ruby abbracciò la lupa, lasciò una carezza sulla pancia del piccolo e mi superò per tornare indietro senza neanche voltarsi.
Ma Rudie non sembrò essere della stessa idea.
“Non posso restare qui con loro? Sono sempre soli”.
“Sono lupi, scelgono loro cosa fare” disse, e gli prese un braccio. “Ora andiamo, ci torni con Sean la prossima volta”.
E non ebbe neanche il tempo di salutare che fu bruscamente tirato via.
Serpe.
Risi cercando di non farmi sentire e fui muta durante tutto il tragitto di ritorno, dove mi resi conto che quel sentiero fosse stato in realtà tracciato da Rudie.
“E stasera farai i conti con loro, signorino!” quasi urlò, spingendolo all’interno del giardino. “Non ne posso più delle tue scorribande e di questi scherzetti assurdi!”.
Da parte sua, Rudie non alzò neanche la testa.
“Fila dritto in casa e non uscire più, è già tanto se stasera ti faccia cenare”.
Lo fece, ascoltò Paige e tornò al piano di sopra senza alcun intoppo.
“Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere anche a questo” disse, guardando poi me. “E’ un bambino molto iperattivo, lo fa spesso, ma di solito c’è sempre qualcuno ad aiutarmi”.
Cominciammo lentamente a camminare e cercai di restituirla un minimo di conforto.
“Non ti preoccupare, sono cose che succedono con i bambini”.
“Ma lui è un licantropo, non un bambino”. Sospirò, senza smettere di tenere lo sguardo sul prato. “Margaret mi aiuta a tenerlo, lei ha più polso, solo che è dovuta andare alla Casa Madre per una faccenda personale”.
“Casa madre?”.
Lei annuì e mise un piede sulla scalinata. “La casa principale, quella più grande, è lì che dormono tutti. Io, Margaret, i bambini e da oggi anche tu staremo invece qui”.
“Come mai?”.
“Siamo donne, meglio tenerci a distanza. Credo che tra poco anche Rudie andrà via”.
“Ah, giusto”.
Avevano davvero paura che qualcuno non sarebbe riuscito a controllarsi?
Si bloccò di colpo avanti alla porta e si voltò a guardarmi. “Abbiamo visite”. La aprì come se niente fosse e la prima cosa che fece fu lasciar cadere le cose che aveva tra le braccia sul divano sospirando.
“Finalmente ho il piacere di rivederti, Rose”.
Una voce profonda appartenente ad un ragazzo seduto di spalle al tavolo mi colpì in pieno facendomi fermare.
Si alzò, vidi il suo volto fin troppo familiare ed indietreggiai istintivamente.
“No…”.
“Cosa? Non ti fa piacere rivedermi qui? Mi dispiace, forse avrei dovuto mandare mio fratello”.
Gli occhi ambrati  incontrarono i miei e non riuscii a non rabbrividire.
“Tutto bene?” chiese fintamente benevolo. “Sembra proprio di no. Paige, ti prego, prepara una camomilla alla nostra amica, la vedo un pochino stordita”.
La ragazza gli sorrise sorniona e tirò fuori una un pentolino dal lavello, “Certo, Dennis”.
Ed il mondo mi crollò addosso, di nuovo.

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