Superstite

di Reaper_Hel
(/viewuser.php?uid=222390)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Notte buia, niente stelle ***
Capitolo 2: *** Realizzazione ***
Capitolo 3: *** Speranza ***
Capitolo 4: *** Pericolo ***
Capitolo 5: *** Esploratore ***



Capitolo 1
*** Notte buia, niente stelle ***


SUPERSTITE
Notte buia, niente stelle

 

Quando suonò la sveglia, Miriam era nel mondo dei sogni da circa dodici ore.
Non avrebbe saputo dire che giorno fosse, né per quale ragione il suo sonno era stato così profondo. I suoi occhi marroni si aprirono, però, su un mondo nuovo.
La bocca impastata si aprì a formulare una pigra parola, mentre i pensieri, rarefatti, ricominciavano a emergere nella sua mente «Mamma?»
La serata precedente l’aveva trascorsa in compagnia di un mal di testa insopportabile. Le capitava spesso di doversi mettere a letto col tramonto, per poi svegliarsi il giorno successivo nelle prime ore del pomeriggio.
La sveglia che l’aveva destata non era la sua. Non l’aveva nemmeno puntata, lei. Era un suono quasi impercettibile che veniva da qualche parte nella casa.
Si stiracchiò e si tirò a sedere. La stanza era immersa nell’oscurità. A tentoni, indovinò la luce del suo seminterrato e lasciò che illuminasse le fredde pareti di cemento vivo, un vecchio armadio e una rampa di scale che portava al piano terra. Il seminterrato era stato una “gentile” concessione dei suoi genitori, che avevano minacciato di sbatterla fuori di casa se non avesse smesso di suonare il suo maledetto sassofono. Siccome effettivamente il rischio c’era, si erano limitati a insonorizzare l’interno della stanza e lasciargliela pro bono, almeno finché non avesse trovato un lavoro vero. Un lavoro vero a Fontanelle: una cosa che non si era mai vista. Un paesino di montagna che contava 250 abitanti non era un posto dove potevi aspirare a un lavoro vero: il medico c’era già, così come il farmacista avrebbe ceduto la sua licenza ai figli ora e per sempre nei secoli dei secoli, amen; c’era anche il veterinario, lo studio associato in legge e quello del commercialista.
A Fontanelle si poteva al massimo aspirare a diventare cameriere. Per carità, lavoro rispettabilissimo: ma di sicuro non garantiva lo sguardo ammirante dai tuoi genitori.
Per il momento, dunque, Miriam si limitava a fare finta studiare medicina al college di Helton e nel frattempo inseguire il sogno che le capitava in quel periodo: un po’ di pittura, un po’ di scrittura, un po’ di musica.
 «Mamma?» chiamò di nuovo. Caracollò giù dal letto e salì le scale stiracchiandosi ripetutamente. «Mamma?»
La porta della sua stanza era aperta. Si bloccò sull’uscio notando con disappunto che fuori era scuro. La cucina era semibuia ma in ordine perfetto, e c’era un vago odore di biscotti nell’aria che lentamente veniva portato via dall’ingresso di servizio, che era spalancato sul cortile. Scalza, oltrepassò la veranda e lanciò un’occhiata al giardino. La fortuna di vivere in un posto come Fontanelle era proprio quella: c’era la possibilità di vivere all’aria aperta, cenare circondati dalla verzura e dalla bellezza delle colline. La sera era scura, ricoperta da un denso strato di nuvole poco promettenti.
La mamma, però, non c’era. L’auto era parcheggiata sul vialetto e tutto taceva anche nelle case circostanti. Trovandosi in cima a una salita, la casa di Miriam poteva considerarsi privilegiata sul paesaggio montano e su quello cittadino. Quello che però riusciva a vedere quel giorno, in qualche modo, le gettò addosso uno strano disagio, quasi da interrogazione scolastica.
Fatta eccezione per le luci lungo le strade, nessuna delle case aveva un solo lume acceso. Le finestre apparivano buie e fredde, come bocche aperte su un’oscurità che non avrebbe mai voluto conoscere.
Miriam accese la luce e chiamò più forte.
 «Mamma? Papà?»
Di nuovo niente. Un’idea le balenò nella mente, talmente terribile da farla sussultare. Cercò dappertutto: in cucina, in salotto, tra le pieghe del divano. Controllò la spazzatura. Forse non lo avevano ritirato? Si precipitò in giardino e cominciò a guardarsi attorno, facendosi luce col cellulare. Doveva essere da qualche parte lì fuori. L’erba fredda la solleticava fino alle caviglie, mentre la terra umida le sporcava i piedi. Quel giorno avrebbe dovuto tagliare l’erba e non l’aveva fatto.
Trovò il giornale quotidiano nel solito posto, accanto alla veranda, inzuppato di rugiada e forse un po’ di pipì di gatto. Ma non aveva alcuna importanza.
Non appena lesse i titoli in prima pagina, l’ansia da interrogazione divenne angoscia da attacco di panico. Una timida presa di coscienza che non si vorrebbe mai avere. Dovette sedersi sullo sgabello in cucina. Respirare, espirare.
La prima pagina era ormai sempre quella da quasi un anno, ma quel giorno era più vera che mai:
 
“NUOVE SCOMPARSE SU TUTTO
IL TERRITORIO NAZIONALE

HELTON, oggi – Non è chiaro se il paese si trovi sotto un grave attacco da parte di eserciti e organizzazioni terroristiche anti-democratiche o ci sia sotto qualcosa di più misterioso. Da quando il nostro Presidente è scomparso misteriosamente nel suo letto, assieme alla moglie e i due figli, sempre più cittadini americani scompaiono ogni giorno senza lasciare traccia.
[…]
Il centro di assistenza per i sopravvissuti si trova a Helton, cinquatasettesima strada. Per qualsiasi emergenza rivolgersi al numero 1-212-645-5550.”

Appoggiò delicatamente il giornale al tavolo e, tremando come una foglia, chiuse gli occhi. Alla fine, era successo anche a Fontanelle. E proprio a lei, ai suoi genitori.
Un rumore ovattato ruppe il silenzio della cucina. Miriam si voltò di scatto e vide il grosso gatto dei vicini che saliva sul banco e si incamminava verso di lei, miagolando. Quel gesto le impedì di farsi cogliere dalla disperazione: non poteva essere finita lì. Si piegò in avanti a grattò il grosso orecchio rovinato di Bombalurina, feroce gatta guerriera che riusciva a mettere in fuga anche gli opossum. Dopo averle aperto una scatoletta di tonno, Miriam prese in mano il cellulare e compose il numero dei suoi genitori.
Il telefono della madre suonò lontano, ma chiaramente udibile, nella loro camera da letto. Il telefono di suo padre era a terra, nella stessa stanza.
Un moto di rassegnazione: ma c’era di più. Qualcosa di meno limpido, di preoccupante. Miriam si scoprì, in qualche modo, sollevata.
Se il mondo continuava a sparire a questa velocità, forse non avrebbe dovuto trovarsi un lavoro vero. Forse avrebbe potuto abbandonare gli studi. Avrebbe potuto non essere più giudicata da nessuno, o magari sparire a sua volta per morire, o finire in un mondo più semplice, dove gli altri ti dicevano quello che dovevi fare e tutto diveniva così spontaneo. In quel mondo, i giudizi personali sulla vita di qualcun altro non avrebbero contato, perché tutti erano uguali.
Si infilò un paio di anfibi e una vestaglia troppo larga, quindi, dopo aver recuperato le chiavi di casa, ripercorse correndo tutto il giardino fino ad arrivare al cancello. La strada era deserta, ma non era difficile vederla in quello stato: non molte persone arrivavano fino a lì, nel bel mezzo del nulla, salvo chi ci abitava e qualche pazzo escursionista. Attraversò la strada e proseguì verso il centro della città, fermandosi di casa in casa a suonare campanelli. Il fresco della sera e il silenzio del paese erano quasi un tutt’uno, e Miriam si trovò a chiudere gli occhi, ferma in mezzo alla strada, nella speranza di poter udire qualche rumore. Un rumore qualsiasi. Un’auto. Un frullatore. Una televisione accesa.
 «C’è nessuno?» domandò, scoprendo un tremito nella sua voce. Poi lo chiese di nuovo, più forte: «C’È NESSUNO?»
Il silenzio di risposta non aveva precedenti. Si lasciò cadere a terra, in ginocchio, e cominciò a sfregarsi gli occhi nervosamente. Non lei. Non proprio lei. Miriam non era fatta per sopravvivere da sola: non era come quei tizi nei film che pensavano di non farcela e poi ce l’avrebbero fatta: persone non comuni, rimaste sole al mondo per opera di un piano divino che si sarebbe sicuramente risolto per il meglio – o comunque li avrebbe visti sopravvivere. Questa non era una storia destinata alla leggenda. Era solo Miriam. E Miriam, di eroico, non aveva niente.
Si sdraiò a terra, lunga distesa, e iniziò a respirare affannosamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Realizzazione ***


Quando si risvegliò era notte fonda. Aveva dormito con la bocca aperta e a terra. Faceva un freddo tremendo. La schiena e le gambe le facevano un male cane, ma quando la sua mente tornò sul pezzo si rese conto che la situazione era molto meno disperata di così. C’erano molte cose da fare. Molte cose da provare.
 «Non sono mica sola!» disse ad alta voce, per poi scoppiare a ridere accorgendosi di avere paura. Era presto per lasciarsi scoraggiare. Era presto per lasciarsi andare. C’erano tante motivazioni, tante possibilità: andavano esplorate tutte.
Si alzò in piedi e non fece che pochi passi sulla via di casa quando capì di non essere sola per davvero. Da qualche parte tra i cespugli, lungo la strada piena di siepi e piante da fiore, c’era qualcosa. Lo poteva sentire dall’odore di pesce marcio. Lo poteva percepire dalla strana sensazione che aveva addosso. Come una lieve scossa elettrica. Decise di sentirsi troppo sola e troppo spaventata per rimanere ad indagare su quella strana sensazione, e prima ancora di pensarlo si accorse di stare correndo come una forsennata verso casa.
Richiuse la porta dietro di sé, a chiave, e afferrò il giornale, per poi lanciarsi sul divano raggomitolandosi sotto una coperta di lana. Doveva per forza esserselo immaginata: sin da bambina aveva sempre avuto un’immaginazione fervida e anche un po’ fetente. Le bastava leggere un libro per percepire la nitida sensazione di trovarvisi dentro, di doverci vivere senza mai volerne uscire, e non c’era momento in cui non avrebbe scambiato la sua vita per quella di qualcuno di cui aveva visto un film o giocato un videogame. Anche se alla fine morivano.
Soprattutto, se alla fine morivano. Che morti gloriose, piene di senso! E lei invece era lì, a vegetare e aspettare che le cose piovessero sulla sua testa...
Prese in mano il telefono e non poté fare a meno di sentirsi, nonostante quella situazione drammatica, in difficoltà. Detestava telefonare. Specialmente a persone che non conosceva, e specialmente per fare una richiesta.
Compose il numero d’emergenza e si sfregò la faccia.
Doveva solo aspettare un po’…
Qualcuno tirò su il telefono dall’altra parte.
 «Pronto? Potete aiutarmi?»
Silenzio dall’altra parte dell’apparecchio.
 «Vivo a Fontanelle, e questa sera quando mi sono svegliata non c’era nessuno. I miei genitori sono spariti, e forse anche il resto del paese. Pronto?»
Nessuna risposta. Solo un rumore sottile, quasi impercettibile. Come un respiro trattenuto.
 «Potete venirmi a prendere? Abito al-»
Dall’altra parte riattaccarono. Nessuna parola. Nessun segno.
Se prima la paura di Miriam era strana e senza forma, ora si mescolava alla confusione e diventava un attacco di panico in piena regola. Si lasciò scivolare contro il bracciolo del divano e accese la televisione, cercando di ignorare quella crescente sensazione di paralisi.
Il segnale era disturbato, come sempre, ma funzionava. Scorrendo la lista dei canali, non impiegò molto a capire che non c’erano programmi in diretta. Sembrava tutto registrato.
Si lasciò scappare una risatina. Che cos’era quello? Il Truman Show? Presto qualcuno che avrebbe fatto trovare sul tetto di casa lo striscione di un prodotto per lavare i pavimenti? Un esperimento sociale di cattivo gusto? Di certo, i suoi genitori avevano trovato il modo per impiegare la sua vita in modo produttivo!
 «Hai visto, Bombalurina? A quanto pare siamo in un film,» distese le gambe sul divano, raggiungendo con le dita dei piedi l’enorme gattone nero e bianco che aveva deciso di dormire lì. Anche lei, adesso, era sola al mondo.
 «Dove hai messo i tuoi padroni? Li hai fatti scomparire apposta, secondo me.»



Il mattino successivo non arrivò mai.
Quando l’orologio del salotto scandì le sette e mezza, Miriam era ancora sveglia e stava cercando di guardare una trasmissione sui salmoni che risalivano i torrenti al contrario, sentendosi esausta al loro posto.
Azzardò il naso oltre lo schienale del divano e guardò fuori dalla finestra: buio. Sentì lo stomaco che si rivoltava, e ricontrollò l’orologio per sicurezza.
Il buio era ancora lì, ed erano le sette e quarantacinque del mattino. Quando si affacciò per controllare, si accorse che il cielo non era solo buio, ma era coperto da un fitto strato di nubi dense e scure come velluto, le quali impedivano alla luce di filtrare. Sembrava che il cielo fosse oggi protetto da un umido palato, e la terra si trovasse nella bocca di un gigante. Ma c’era qualcosa di ancora peggiore, là fuori: nessun lampione era più acceso. Tutto il sistema aveva un timer settato per spegnersi con le prime luci dell’alba, al più tardi alle 6 del mattino.
E ora, era come se una coperta nera fosse stata gettata davanti alla finestra del salotto. Un sudario di oscurità che le impediva di vedere nitidamente a più di un paio di metri fuori dalla finestra. Proprio come nel suo seminterrato.
Se prima si era proposta di non urlare, ora le fu impossibile. Un grido acutissimo fece tremare i vetri della casa, e l’incertezza abulica di Miriam lasciò spazio a una sconfortante disperazione. Trattenendo a stento la forza per parlare tra le lacrime e il muco, Miriam ricompose il numero di assistenza.
 «Tipregotipregotiprego!»
La voce dall’altra parte dell’apparecchio era registrata. Proprio come il televisore.
 «Il servizio di assistenza ai parenti delle persone scomparse è sospeso fino a data da stabilirsi. Nel frattempo, invitiamo i Superstiti a non perdere la calma e cercare di riunirsi in gruppi numerosi, in modo da formare piccoli gruppi auto-sussistenti.»
 «E il buio? Che faccio con il buio, brutta troia? è tutto buio!» strepitò Miriam stringendo la cornetta del telefono con entrambe le mani. «Aiutatemi! Vi prego, ci deve essere qualcuno!»
Ricadde sulle ginocchia e afferrò l’apparecchio per strapparlo dalle prese a muro. Non vi riuscì. Piangendo a pieni polmoni, lo scaraventò fuori dalla finestra mandando il vetro in frantumi. Quando anche l’ultimo tassello di vetro si staccò, il suo grido isterico esplose di nuovo.

Dieci minuti e due shot di whisky dopo, era nuovamente stabile. Nonostante gli occhi rossi e gonfi si era data una ripulita, aveva messi un po’ di crackers e formaggio sotto ai denti e aveva riorganizzare le idee. Doveva andarsene da quella casa: doveva raggiungere la città di Helton e cercare aiuto. O meglio: cercare qualcuno. Anche che non fosse d’aiuto. L’importante era trovare persone vive, vere e soprattutto non registrate.
Senza curarsi della televisione, Miriam corse di sotto a cambiarsi: jeans e maglietta sarebbero stati più che sufficienti. Raccattò un po’ di indumenti, il sassofono e scarpe da infilare in un borsone sportivo. Trovò infine le chiavi della macchina e tirò fuori una birra ghiacciata dal frigo.
 «Forza Miriam. Puoi farcela. Sei da sola, sei già ubriaca ma sei anche capace di sopravvivere per un paio di giorni senza avere persone attorno. La mamma…»
La voce si ruppe. Rimase lì, il capo chino, a pensare ai suoi genitori per un paio di minuti. Tirò su forte con il naso, se lo asciugò con lo straccio da cucina (esattamente come sua mamma non avrebbe voluto) e si avviò verso l’auto di famiglia.
 «Bombalurina, che fai, vieni in città?»
L’enorme gatto seduto sul divano si limitò a girare la testa e sbadigliare.
 «D’accordo, fai la guardia alla casa. L’apriscatole è nel terzo cassetto, e il tonno nella dispensa. Cerca di non mangiarlo tutto prima che io torni.»
Spalancò la porta sull’oscurità esterna, e un vento maleodorante si introdusse, non richiesto, nel corridoio di casa. Si rese conto di non voler uscire. Quell’odore immondo e quella strana sensazione che qualcosa stesse aspettando proprio che lei mettesse il naso fuori di casa erano forse il frutto della sua immaginazione, come la maggior parte dei problemi della sua vita.
Le cose la spaventavano in anticipo sulla tabella di marcia, impedendole di intraprendere una qual si voglia attività senza avere la ferma certezza che qualcosa, prima o poi, sarebbe andato storto. Ora aveva paura ad uscire di casa: aveva paura di quello che sarebbe successo, e la paura forse si stava tramutando in quel tanto fetido. Poteva già vedersi sola in città, davanti a un mucchio di strade vuote e perfettamente ordinate. Poteva già immaginarsi a piangere in un vicolo, in assoluto silenzio, nella speranza che i singhiozzi non coprissero il suono di un’auto in avvicinamento.
 «Sai cosa c’è, maledetto schifoso? Se sei là fuori, e secondo me non ci sei, io verrò la fuori. Hai capito?»
Come minaccia, era veramente pessima.
 «Bombalurina, ti autorizzo a prendere a calci in culo qualunque cosa si avvicini a più di due metri dal perimetro della casa.»
Ma questa cosa era già dentro il perimetro della casa.
 «Non ho paura di nessuno e di niente. Ora prenderò quella maledetta auto e andrò in città a vedere di trovare qualcuno. Insomma, non sarò mica l’unica superstite del mondo.»
Così, con passo poco convinto, Miriam varcò la soglia. Un attimo di silenzio, e poi la corsa rocambolesca verso l’auto. Vi si rifugiò dentro mentre l’odore di marcio le riempiva i polmoni, nauseandola. Lanciando lo sguardo sullo specchietto retrovisore, si rese conto di aver lasciato la porta di casa spalancata.
Non aveva importanza, però. Ormai a Fontanelle non c’era più nessuno.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Speranza ***


Le strade erano completamente deserte. C’era solo qualche macchina con le portiere aperte, vuota, ferma sul ciglio della strada. Ce n’era per fino una col motore in folle, a un certo punto, lungo la statale.
Il bosco che circondava la strada proseguiva a perdita d’occhio, affiancando quasi tutto il suo percorso, e di tanto in tanto riusciva a vedere qualche cane in prossimità di una proprietà abbandonata.
Accese la radio. La frequenza in memoria sull’auto stava dando Once upon a time in the West dei Dire Straits mentre i fanali illuminavano una strada d’asfalto scuro. Il cielo sembrava coperto in modo uniforme, quasi meticoloso, da uno strato di nuvole che arrivavano fino all’orizzonte. Sapeva che la città si trovava oltre l’oscurità. Quando vide delle luci accese che perforavano l’oscurità e arrivavano fino a lei, il suo cuore si gonfiò di speranza. Era fatta: l’incubo era finito. Presto avrebbe semplicemente chiuso gli occhi sapendo di potersi concentrare sui suoi genitori e sulla loro scomparsa. Avrebbe potuto fare programmi, progettare la sua vita da Superstite.
Per la prima volta nella sua vita, Miriam era contenta di doversi ritagliare il tempo per fare dei programmi concreti. Per la prima volta aspettava quel momento con ansia, avendo fretta di darsi una svolta e cambiare pagina.
 
La città aveva un aspetto inquietante. Le luci che aveva intravisto da lontano, ora che era giunta a destinazione, erano molte meno di quelle che si aspettava di vedere. Anche l’atmosfera era carica di quell’oscurità tagliata solo dai fanali della macchina. Non vi erano segni di vita, neanche della peggior specie: ogni palazzo era un guscio vuoto e spento, e ogni negozio una finestra per l’oscurità. Nessun segno di effrazioni, vetrine sfondate o atti di vandalismo di Superstiti. Sembrava di trovarsi in un posto bello, ordinato e gradevole, ma buio e privo di vita. Come se la città fosse diventata una grossa casa per le bambole.
Parcheggiò sul bordo di una delle strade principale e decise di proseguire a piedi per poter ascoltare meglio i rumori e, magari, inseguirli. In quel silenzio rotto solo dalle suole delle sue scarpe, proseguendo con la torcia del cellulare a illuminare il cammino, Miriam si sentiva come una specie di alieno sulla terra, come un essere umano su un pianeta diverso.
Se la sera prima, camminando per una Fontanelle illuminata dai lampioni, aveva avuto paura, la città completamente buia, alle dieci di mattina, era ancora più spaventosa. Attraversando la via centrale, il fascio di luce illuminò un autobus fermo, con le porte aperte, in corrispondenza di una pensilina. Vi salì.
Nessun rumore oltre a quello dei suoi passi e del suo respiro. Sui sedili imbottiti c’erano soprabiti abbandonati e qualche borsa. In particolare, in una tracolla di serpente trovò cinquanta dollari. Pensò di prenderli in prestito per, chessò, fare colazione. E poi, se quello che dicevano i giornali era vero, le persone scomparse non facevano ritorno. Era quasi sul punto di prenderli, quando decise di lasciar perdere. Il tempo per diventare ladri non era ancora maturo.
Si incamminò verso una delle luci che aveva visto da lontano, e presto si rese conto che proveniva da un centro di emergenza per i Superstiti. La luce all’interno era stata lasciata accesa, e le porte di vetro dell’accesso erano aperte. Trattenendo il respiro, Miriam si avviò verso il bancone. Sparsi dappertutto c’erano dei leaflet informativi sulla vita da Superstite: le prime cose da fare nel caso in cui la tua famiglia dovesse “scomparire” e come razionalizzare la perdita senza precipitare nella disperazione. Il mondo è di chi rimane, e tu non devi avere paura. Non sei solo.
Quel genere di divulgazione era ormai un po’ su tutti i media dalla prima scomparsa in assoluto: quella del Presidente. E poi un altro Presidente, dall’altra parte del mondo. Poi erano spariti dei funzionari, dei governatori e infine aveva cominciato a sparire la gente comune, ricca e povera allo stesso modo. Da quel momento non si era solo trattato di dispiegare l’esercito per proteggere i pochi (anche perché, quando scompariva un titolato con la scorta, generalmente spariva anche quella), ma di organizzare un’autentica contromisura per impedire che, chi rimaneva solo, non diventasse pazzo o si suicidasse. Erano stati predisposti dei centri come quello in cui si trovava adesso, dei punti d’ascolto d’emergenza per chi, da un momento all’altro, si ritrovava senza nessuno al mondo.
 «Senza nessuno al mondo,» mormorò piano, cercando tra la carta stampata uno di quei prontuari che ogni tanto leggevano per tv.
I motivi dietro all’effettiva sparizione non erano ancora chiari a nessuno. Certo, c’erano delle ipotesi. Ipotesi molto varie e variopinte. Ad alcune persone (come i genitori di Miriam) piaceva l’ipotesi della giusta piaga: quella inflitta da un Dio vendicativo sul suo popolo irrispettoso. I complottisti, invece, ne avevano approfittato per tirare in ballo gli alieni. Gli uomini di scienza non sapevano dove sbattere la testa, ma alcuni di loro avevano timidamente suggerito una anomalia del sistema solare in cui un certo tipo di radiazioni portava a gravi ustioni e morte dei soggetti.
 
In realtà, quel cielo fitto di nuvole e nero non sembrava voler dire nessuna delle tre cose, o tutte e tre messe assieme. Che il sole stesse per morire, Dio avesse voglia di un divertissement o gli alieni stessero giocando a mah-jong con le vite dell’umanità – a Miriam non importava molto.
Prese il volantino della Guida alla Sopravvivenza per Superstiti e cominciò a leggerlo ad alta voce per scacciare quel silenzio soffocante.
 «Chiama il numero di emergenza che puoi trovare su tutti i giornali. Fatto. Chiedi aiuto: spiega la situazione, specifica dove abiti e, se puoi, spostati verso un centro d’emergenza per superstiti. Non rimanere dove sono scomparsi i tuoi cari: non è salutare e non è nemmeno sicuro. Beh, l’ho fatto»
Andò a sedersi ad una poltroncina nella sala d’attesa e agguantò una caramella sul tavolino pieno di riviste sui superstiti e su come si erano ricostruiti una vita dopo aver perso madri, figli o coniugi. Facce sorridenti sulla carta patinata.
 «Ora: rivolgiti al personale esperto e ricordati che non sei solo. Piangi, se devi, sfogati e lascia che la tristezza faccia il suo corso. Poi, fatti forza e guarda dritto in avanti verso il futuro. La tua vita è appena cambiata inesorabilmente, ma non deve per forza essere un cambiamento peggiorativo. Wow, che spazzatura
 «Ricordati che non è ancora detta l’ultima parola e che un giorno, i tuoi cari, potrebbero fare ritorno. Nel frattempo, cerca distare sempre dove altre persone possono vederti, cerca di uscire almeno due o tre ore al giorno e parlare con le persone. Un po’ di contatto sociale non può che farti bene. Il governo americano ha stabilito per il momento, che tenere un funerale per una persona scomparsa è illegale: siccome le speranze che queste tornino sono alte, secondo alcune teorie scientifiche europee, è opportuno non dare niente per scontato. Ricordati che lo Stato pensa a te. Hai diritto a un esonero dal lavoro fino a 40 giorni e…»
Miriam abbassò il volantino e si guardò attorno.
 «C’è nessuno, qui? Ho bisogno delle mie due ore di conversazione,»
A risponderle, solo il ronzio del neon.
Qualcuno ci doveva pur essere. Non potevano essere scomparsi tutti nel giro di una mattinata d’ozio. Non poteva essere sola al mondo.
 «Il mondo è di chi rimane, e tu non devi avere paura. Non sei solo,» ma lei sola ci si sentiva eccome, e avrebbe volentieri dato tutto quello che aveva per scomparire in quel preciso momento.
Tirò fuori dalla tasca il cellulare e si collegò a Facebook. La sua lista contatti era praticamente morta: a parte i soliti “finti online”, sembrava che nessuno fosse connesso. Con stupore che, più realizzava, più diventava orrore, si accorse che il suo newsfeed non registrava nuovi messaggi da almeno 20 ore. Provò a contattare Derrick, un ragazzo europeo conosciuto su un FPS.
“Ci sei?”
Non avrebbe saputo dire che ore fossero in Europa, ma non le sembrava il momento di farsi scrupoli. Ripose il cellulare e uscì dal centro d’emergenza per i Superstiti.
 
 
 
Era davvero possibile che di una città di oltre 50.000 abitanti fosse davvero l’unica superstite? Avrebbe voluto essere in grado di godersi quel momento: l’idea insalubre che tutto fosse ora a sua completa disposizione: dalla piscina della sua ex compagna di classe ricca sfondata al negozio di make-up e abbigliamento che non avrebbe mai potuto permettersi, nemmeno tra dieci milioni di anni.
Sebbene nel leaflet della guida al Superstite Responsabile ci fosse scritto che “I Superstiti, qualora dovessero identificare una casa in cui apparentemente non abita più nessuno, non devono arrogarsi il diritto di prendere o rompere cose che non hanno personalmente comprato o per cui non hanno mai chiesto il permesso”, Miriam sentì l’impulso di non andare per il sottile. Per prima cosa, aveva bisogno di una torcia decente, se quel buio proprio non voleva andarsene di lì. Secondo, aveva decisamente bisogno di quel vestito che aveva visto sulla terza strada qualche giorno prima. Terzo e forse più importante, doveva trovare il modo di raggiungere quante più persone possibile al più presto. Se qualcuno era vivo, probabilmente era smarrito almeno quanto lei. A meno che non si trattasse di un adulto, ovviamente. Miriam, dall’alto dei suoi diciannove anni, era praticamente certa che un trentenne potesse avere la situazione perfettamente in pugno. Doveva solo avere fiducia e, come le aveva spiegato sua madre da bambina nel caso in cui si fosse persa, cercare una persona grande e di cui fidarsi.
Per prima cosa, lasciò un messaggio sulla sua bacheca Facebook e sulla bacheca Facebook dei suoi amici:
“Non so se anche voi siete rimasti soli. Sono una Superstite della zona di Fontanelle: sono scomparsi tutti. Per favore, venite a prendermi! Xxx Miriam”
No, lei non era una leader: non avrebbe mai e poi mai scritto: “Dobbiamo formare un gruppo e riorganizzarci”. Miriam sperava con tutte le sue forze di potersi accodare ad un gruppo già formato, con regole ferree di cui lamentarsi e proseguire la sua vita di ribellione al tramonto dell’adolescenza.
Rimase una decina di minuti abbondanti avvolta nell’oscurità rischiarata solo dal monitor del telefono continuando ad aggiornare la pagina in attesa di una notifica. Non che fosse la prima volta nella sua vita. Attese pazientemente, ma non ebbe risposta. Si sfregò la faccia e rifletté qualche secondo: forse poteva fare di più. Forse la radio poteva aiutarla. Doveva solo arrivare allo studio della radio locale e intromettersi nella programmazione con un messaggio.
 
 
Individuare la torre di trasmissione non fu difficile: ci aveva lavorato per qualche settimana come porta-caffè e addetta alle fotocopie. Un lavoro rispettabile che le aveva fruttato pochi dollari e l’estate meno divertente di cui avesse ricordo.
La porta era chiusa, ma non a chiave. Probabilmente il disc-jockey del turno di notte era scomparso proprio mentre si trovava dentro. Si avventurò lungo la scala di ferro e raggiunse lo studio di trasmissione.
«Hank? Patty?» domandò a voce alta senza farsi grosse speranze.
Mise gli occhi sul pannello di registrazione e si accorse che la trasmissione era attiva. Indossò le cuffie e batté il dito sul microfono, rendendosi conto che poteva registrare.
«Salve. C’è nessuno a Fontanelle e ditorni? Sono Miriam, una Superstite. Ho bisogno del vostro aiuto, sono rimasta completamente sola. Potete aiutarmi? Nelle prossime due o tre ore sarò al MacDonald’s sulla cinquantaquattresima. Per favore…»
Per favore.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Pericolo ***


Il MacDonald’s era aperto e semi-operativo. La luce dell’interno illuminava la strada diversamente scura, e l’insegna del franchising brillava come un faro di speranza che guidava gli affamati. L’idea di fare colazione lì, solitamente, la allettava. Ma quando si ritrovò in cucina a esplorare l’interno dei congelatori giganti, si rese conto che realtà era molto più deludente di quello che solitamente le veniva presentato sul vassoio. Si scongelò un hambuger e lo lanciò sulla piastra, per poi cercare di capire come si accendeva.
Non trascorse molto tempo dalla sua tristissima colazione a base di hamburger carbonizzato, formaggio e insalata (non era riuscita a trovare il pane) che le porte scorrevoli del fast-food si spalancarono. Miriam si stava versando il secondo bicchiere di Dr. Pepper quando lo vide.
Era un uomo con un forte odore di alcool addosso. Il tanfo le arrivò dritto in faccia, come un pugno, complice il vento esterno e lo scorrere delle porte. Aveva l’aspetto trasandato tipico del nerd scapolo che si è dimenticato di avere più di trent’anni e di doversi costruire una vita: l’archetipo di quello che probabilmente sarebbe diventata lei con un po’ di impegno. Indossava una t-shirt degli Oingo Boingo lavata qualche volta di troppo e un paio di jeans strappati. Il suo viso, barbuto e rotondo, era coronato da una criniera di capelli spettinati e un paio di occhiali bisunti. Aveva almeno quindici chili di troppo addosso, nascosti dall’abbigliamento oversize per la sua taglia.
 «Gh… Sei tu la ragazza dell’annuncio? Ho sentito l’annuncio sulla radio, l’ho sentito pochi minuti fa. Sono in ritardo?»
Miriam lo fissò cercando di non sembrare maleducata. Se avesse incontrato questo tizio in un’altra situazione, probabilmente l’avrebbe etichettato come innocuo e potenzialmente “irrilevante”, passando oltre. Il fatto che però questo fosse, almeno per il momento, l’ultimo essere umano sulla terra, la indusse a dover trattenere una forte crisi di lacrime.
 «No che non sei in ritardo, altrimenti non mi avresti mica trovata qui,» replicò un po’ seccata. «Sei di Fontanelle?»
 «No, abito a due isolati.»
Un silenzio imbarazzante ripiombò nel ristorante. Lui rimase sull’uscio con aria ansiosa, mentre i suoi occhi esploravano febbrili non solo ogni aspetto di Miriam, ma anche ogni piccolo dettagli del ristorante. Ciondolando da un piede all’altro e tirando i lembi della t-shirt, si schiarì la voce.
 «Hai, er, già mangiato?»
 «Sì. Vuoi mangiare anche tu?»
 «Magari.»
Miriam ci pensò un attimo, quindi gli indicò la griglia. «Guarda che io non ti cucino un bel niente.»
 «Oh… ah!» mormorò l’uomo, facendo un timido passo in avanti. «Non ti preoccupare, mi arrangio.»
 
Dieci minuti più tardi, il ragazzo si trovò davanti a un vassoio di pancakes e un hamburger di tutto rispetto, completo di pane, salse e bacon affumicato.
 «Vuoi dei pancakes?»
 «Grazie, ho già mangiato,» mormorò Miriam, un po’ piccata.
 «Bé, immagino che ti aspettassi qualcosa di meglio. Dico bene?»
 «Per cosa?»
 «Per salvarti.»
 «Ah. No no!»
Silenzio. Per qualche motivo, non vedeva l’ora di tornarsene a casa.
 «Comunque, mi chiamo Lasher. Piacere di conoscerti… Miriam. Dico bene?»
 «Dici bene. Sono spariti tutti?»
 «Tutti quanti. Non ne sono ancora certo, ma credo non ci siano molti Superstiti in città.»
Il dubbio inespresso di Miriam divenne più concreto. La sua mano cominciò a tremare appena.
 «Ci sono delle altre persone? Le hai viste?»
Lasher scosse il capo. «Sei la prima persona che vedo da quando il cielo… Bé, ha smesso di funzionare, ecco.»
 «Ma anche su Internet? Non c’è nessuno su Internet? Ce li hai gli amici che non vivono qui?»
 «Forse un paio, ma non sono sicuro. E comunque, abitano in Korea. I punti di raccolta sono deserti. In realtà, non so bene cosa fare.»
Miriam non aveva nessun dubbio a riguardo. Fece una smorfia disgustata e lanciò un’occhiata nervosa all’oscurità di fuori. «Suppongo di no.»
 «L’importante è non rimanere fuori a lungo e continuare a stare dove ci si trovava quando le persone accanto a te sono scomparse.»
 «Ma le guide per i Superstiti dicono tutto l’opposto! Bisogna andare via dai posti dove la gente scompare, vuol dire che non sono sicuri.»
Lasher sembrò vagamente seccato dal tono isterico di Miriam, che dovette accorgersene perché si irrigidì. «Vuoi dare retta a me, o a una persona che probabilmente è sparita? Ora rispondi a una domanda: dove ti trovavi quando gli altri sono scomparsi?»
 «D-dormivo nella mia camera.»
 «Capisco. La sta stanza si trova in un rifugio, una casa molto vecchia e ben protetta oppure il tuo letto è particolare?»
 «Dormo nel seminterrato.»
 «Bingo. Farai meglio a dormire sempre lì, allora, se ci tieni a non sparire.»
 «Non lo so se ci tengo tanto, a non sparire,» replicò Miriam.
 «Come siamo infantili. Non volevi essere salvata, mezzora fa?»
Le guance della ragazza si gonfiarono. «Hai la lingua fin troppo lunga per i miei gusti»
 «Non volevo offenderti, mi dispiace. Dico solo che dovremmo essere più costruttivi, fintanto che non sappiamo effettivamente quante persone sono rimaste in questa regione.»
O nel mondo. Miriam si afflosciò sulla sedia appiccicosa del MacDonald’s e si sfregò la faccia con le mani. «Pensi esista un modo per capirlo?»
 «Ci sto pensando. Nel frattempo, l’idea della radio era buona. Penso che dovremmo ripetere l’annuncio ogni giorno. Magari potremmo registrarlo.»
 «Ogni giorno per quanto? Sono sicura che se ci facciamo notare abbastanza, ci verranno a prendere e ci porteranno in un centro d’emergenza per i Superstiti.»
Lasher fece una smorfia e si aggiustò gli occhiali. «Quelli sono i posti peggiori.»
«Come fai a saperlo?»
«Ci ho vissuto negli ultimi cinque mesi, prima di tornarmene a casa mia.»
 
Il pranzo del ragazzo proseguì spedito sotto l’occhio intransigente di Miriam. La sua mente non riusciva ad accettare che un tizio del genere fosse stato in grado di sopravvivere, quando in giro c’era gente piena di muscoli e arguzie da far invidia ai supereroi Marvel.
 «Quindi, se torno a casa, devo dormire nel seminterrato?»
 «Bè, suppongo di sì. Ma penso che sarebbe meglio, ecco, trovare un posto per rimanere uniti e organizzare le forze,» Lasher cominciò a tamburellare nervosamente le dita sul bordo del vassoio.
 «Dici… Vivere insieme?» Miriam dovette lasciar trapelare qualcosa sul viso, perché immediatamente il ragazzo arrossì.
 «Non è come pensi, al diavolo. Non intendevo niente di male. Volevo solo trovare un posto dove, ecco, potremmo organizzare un punto di ritrovo per i Superstiti. Deve esserci ancora qualcuno, no?»
 «Che genere di posto dobbiamo trovare?»
 «Non ne ho la minima idea, ma deve essere ben protetto. Come una specie di guscio anti-sparizione.»
 «Una cantina?»
 «Speravo in qualcosa di meglio, ma credo che la cantina andrà più che bene. Potremmo cercare nel quartiere di Holloway. Di solito i ricconi hanno sempre qualche tipo di bunker per le guerre…»
Miriam fece spallucce. «Vuoi trasferirti subito?»
«Preferisci aspettare le calende greche?»
Miriam sospirò snervata. «Ma no. È che voglio recuperare le mie cose, prima. E il mio gatto, se non è un problema. Cioè, non è proprio il mio gatto, ma non ha nessuno che si occupi di lui e…»
 «Anche io devo recuperare le mie cose. Ehm, spero non ti diano troppo fastidio le Action Figures, ma non me la sento proprio di lasciarle al primo arraffone.»
Miriam sorrise. «Io il gatto, tu le figures. Mi sembra che abbiamo un patto.»
Lasher apparve sollevato. Sorrise senza scoprire i denti e gli tese la mano per stringere l’accordo. Miriam esitò un po’, ma poi accettò guardandolo dritto negli occhi «Bevi per dimenticare?»
 «Ah! Sì, ho bevuto un po’, la notte scorsa. Ma non è una cosa che faccio di solito.»
 «Sarà meglio per te, cowboy.»
 «Ti lascio il mio numero di cellulare e ci vediamo qui tra due ore con tutto quello che ci serve, d’accordo?»
 «Ricevuto. Va da sé che se uno di noi sparisce nel frattempo, è un bel problema.»
Lasher annuì. «Niente che si possa risolvere, però.»
 
 
 
Il viaggio di ritorno per Fontanelle fu breve, circondato da oscurità quasi impenetrabile e pieno di pensieri ancora meno chiari. Non era del tutto sicura di potersi fidare di Lasher. In realtà, quando aveva sentito le porte scorrevoli che si aprivano aveva capito che non era più del tutto sicura di voler trovare effettivamente qualcuno. E se si fosse trattato di un debosciato, un pervertito o un malato di mente? Chi l’avrebbe protetta allora? Bombalurina?
L’unica cosa peggiore di “nessuna persona” era “una persona, sbagliata”. Il messaggio che aveva lasciato in radio e sui social network era una lama a doppio taglio: se da una parte poteva usarli per contattare qualcuno, dall’altra aveva praticamente messo sul piatto che lei era una ragazzina sola e con una paura che non la faceva reggere in piedi.
Una potente vampata di calore le arrossò il viso, e Miriam si odiò profondamente per la sua debolezza. Pigiò il piede sull’acceleratore, lasciando che i fari abbaglianti tagliassero il buio come meglio potevano, ma non ci riuscivano davvero. Più che buio, sembrava nebbia scura: come se qualcuno l’avesse disegnata col pennarello.
 
Raggiunse il vialetto di casa e spense la macchina, lasciando i fari accesi, per osservare la graziosa villetta a due piani con la veranda in legno, le palme in giardino e la porta principale spalancata. Per la prima volta in vita sua, osservò quella sagoma con una punta di disagio. I suoi genitori non c’erano più: forse non ci sarebbero mai più stati. Non fosse stata per la loro decisione punitiva di farla dormire nel seminterrato, a quest’ora…
Spense l’auto e i fanali: non poteva permettere che la batteria si scaricasse: non ci sarebbe stato nessuno per sistemarla. Quindi, accesa la torcia del telefono decise di aprire lo sportello.
La stessa puzza di quando se n’era andata, e questa volta era ancora più forte.
 «Sono tornata! Ti sono mancata almeno un po’? Chi hai spaventato, mentre non c’ero?»
Scandagliando il giardino fino alla siepe, Miriam si incamminò a passo svelto verso l’uscio di casa. Quando fu sulla soglia, ben desiderosa di richiudere la porta dietro di sé, Miriam impallidì.
L’odore, all’interno, era ancora più intenso. Accese la luce del salotto il più velocemente possibile. Era tutto come lo aveva lasciato. La finestra rotta con il filo del telefono a penzoloni, la televisione accesa, le pantofole vicino alla porta.
Il frusciare dei cuscini del divano la fece sussultare.
 «Bombalurina? Sei tu?»
In quel momento, Miriam capì che non aveva tutto il fiato che avrebbe voluto avere per urlare tanto forte da frantumare la realtà. Seduto sul divano che dall’uscio non riusciva a vedere bene, c’era un ragazzo. Quando la sentì urlare, si voltò di scatto e balzò in piedi come se avesse preso la scossa.
 «S-s-sei un ladro? Sono armata. Ho una pistola. E un coltello,» borbottò afferrando il pomello della porta per prepararsi ad una ritirata strategica.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Esploratore ***


Il ragazzo andò a sbattere contro al tavolino e protese le mani in direzione di Miriam. «No no, non mi sparare, aspetta! Non sono qui per farti del male, stavo solo...»
 «Questa è casa mia. È la mia proprietà. Se voglio posso spararti e penso che se non te ne andrai subito lo farò,» guaì Miriam con un filo di voce e gli occhi lucidi.
Il ragazzo aveva un aspetto trasandato, ma nel complesso gradevole. I capelli biondi spettinati ricadevano su un viso asciutto, dai lineamenti marcati e dal naso piccolo. Le labbra sottili esitavano su dei bei denti bianchi, mentre il fisico tonico era coperto da una t-shirt e un paio di bermuda color kaki. Dalle macchie violacee che aveva addosso, sembrava aver lottato all’ultimo sangue con una torta ai mirtilli.
 «Non te lo ripeterò un'altra volta. Adesso prendo la pistola e…»
 «Per favore, non cacciarmi! Non so dove altro andare, non sono di queste parti e non ho un posto dove andare.»
Miriam parve quasi esplodere. «Non sei delle mie parti, eh? La capisci la mia lingua o no? Ti ho detto che te ne devi andare! Non so chi sei, non so cosa vuoi ma bivaccavi nella mia proprietà senza permesso. Fuori, fuori!»
 «Aspetta, aspetta. Ti faccio vedere un documento, vuoi? Ti fidi di un documento? Dice che sono uno studente di economia. Posso prenderlo dalla mia tasca?»
Miriam fece una smorfia di terrore. «No che non puoi, e tieni le mani puntate verso di me. Non fare scherzi!»
«D’accordo, d’accordo
Si sentì tremare e svenire, ma resistette all’impulso di piangere e cercò disperatamente di aggrapparsi al bluff che in tasca avesse effettivamente una pistola. «Come ti chiami?»
«Lazarus,» mormorò il ragazzo, lanciando ripetute, preoccupate occhiate alle tasche di Miriam. «E tu?»
«Le domande le faccio io, se permetti. Cosa ci fai qui? Perché proprio qui?»
«Non lo so! Vivo a quattro isolati da qui e stamattina mi sono risvegliato completamente solo.»
Miriam tacque un secondo. «Aspetta un attimo. Non hai appena detto di non essere di queste parti?»
Lazarus sorrise. «E tu non avevi detto di avere una pistola?»
Un rapido scatto e Lazarus le fu addosso. Una scintilla di dolore le esplose nella  testa e la accecò per un attimo. Poi tutto cominciò a girare, e l’odore putrido di morte che diventava sempre, sempre più forte le diede il colpo di grazia.
 
Si risvegliò sdraiata a terra, scalza e con un mal di testa da primato. La sua bocca era impastata e incrostata, come se avesse sbavato per tutto il tempo. Quando tentò di alzarsi a sedere, si rese conto che mani e piedi erano saldamente legati tra loro, e non poteva farlo.
Davanti a lei, seduto sul divano, Lazarus stava controllando il suo cellulare. Quando si accorse che lo stava guardando, sorrise mostrando un paio di graziose fossette. «Bentornata. Stamattina hai registrato un numero. Chi è?»
 «Vai al diavolo.»
 «Risposta sbagliata. Prova di nuovo e, questa volta, metticela tutta. Non vorrei succedesse qualcosa di spiacevole ai tuoi genitori.»
Quando la vista di Miriam fu meno offuscata, realizzò che quello che aveva davanti non era ciò che sembrava. La sua pelle non era solo sporca, era incrostata di una sostanza organica simile al sangue, ma più violacea e dall’aspetto purulento. Il suo naso, sopraffatto da un odore nauseabondo, le inviò un conato di vomito. Sollevò gli occhi e capì che quell’odore era prodotto da lui.
 «I miei genitori sono spariti, minaccia quanto vuoi ma sono l’unica rimasta.»
 «Chi è, allora, che hai registrato stamattina?»
 «Un numero a caso che ho trovato in giro.»
 «Portami da quella persona.»
Miriam scalciò e ruotò i polsi nella speranza di potersi liberare. «Lasciami! Lasciami! Noi Superstiti dovremmo...»
 «Collaborare? Ma non vedi che è già cominciato?»
 «Cominciato cosa?»
Lazarus indicò fuori dalla finestra. «La colonizzazione. La tua cooperazione risparmierà molta sofferenza a te e tutti coloro che ti conoscono.»
 «Alieni? Che stronzate! Sei solo un pazzo criminale. Prenditi quello che vuoi, in questa casa, basta che te ne vai e mi lasci in pace.»
 «Non ho bisogno di queste cose.»
 «Allora slegami e vattene via.»
 «Credi che sia così semplice? Ti sto solo facendo un favore finché riesco ancora a parlare la tua lingua. Devi ascoltarmi. Sarà solo peggio, dopo.»
Miriam fece una smorfia di disgusto mentre i pensieri le turbinavano nella testa come un urgano. Avrebbe dovuto rimanersene a Helton. Mentre i suoi occhi vagavano terrorizzati per la stanza, la ragazza notò i cocci del vetro che aveva spaccato qualche ora prima. O forse dieci anni prima? «Tu eri fuori qui attorno anche ieri sera, mi stavi spiando.»
 «Non ero io. Sono arrivato solo dopo che l’altro Esploratore mi ha informato della tua presenza.»
 Miriam si irrigidì. «L’altro… cosa?»
 «Non ha importanza. Ho bisogno di conoscere tutti i Superstiti e la loro posizione. E ora hai due possibilità: aiutarmi a trovarli, oppure lasciarti assimilare.»
La tristezza aveva ormai lasciato spazio a una paura che le inviava costanti scariche di adrenalina. Quando riuscì ad allungare la mano per afferrare un coccio di vetro, percepì un flusso di energia calda simile al dolore che la fece quasi svenire. «I miei genitori sono vivi?»
 «Sono vivi, ma non sono più i tuoi genitori. Sono stati assimilati dalla mente-alveare di Nashevania.»
La mano di Miriam afferrò saldamente il vetro e, con un movimento brusco, recise il filo del telefono che legava insieme mani e piedi. Con la mano grondante di sangue, la ragazza si appiattì contro al muro e, urlando, puntò l’arma contro Lazarus prima di caricarlo come una furia. Il ragazzo scattò istintivamente indietro, balzando in modo anatomicamente impossibile. La sua schiena fece una rotazione di 180° e i piedi toccarono terra dietro al divano. Miriam capitombolò sui cuscini a denti stretti, per poi darsi la spinta e raggiungere il bordo della finestra. Si aggrappò al davanzale con un gemito e cominciò a scavalcare aggrappandosi al muro con i piedi nudi.
Lazarus le si avventò addosso, prendendola per la vita e tirandola verso l’interno della casa. Miriam urlò, ma la puzza che le entrava nei polmoni sin dalla gola la fece tossire e quasi vomitare. Perse la forza per un attimo, e ricadde a peso morto su quell’essere che l’aveva tirata con sé sul divano.
Quando si accorse che la sua vescica stava cedendo e un getto caldo cominciò a bagnarle i pantaloni, Miriam gridò di nuovo per il terrore, l’umiliazione e la rabbia. Con il vetro conficcato nella mano, ormai sporca di sangue fino al gomito, lacerò il braccio di Lazarus che gridò a sua volta, imprecando in una lingua che non sembrava nemmeno poter provenire dalla bocca di un essere umano.
Approfittando si quell’attimo di dolore, Miriam di divincolò e riuscì a fuggire dalla finestra senza un singolo fiato.
I piedi nudi toccarono l’erba umida, e il freddo di quel buio la avvolse come un mantello mentre correva disperatamente verso l’auto. Andò praticamente a sbattervi, quando si rese conto di non avere con sé le chiavi.
Un pianto isterico si impossessò di lei facendola quasi impazzire, mentre il rumore di un ramoscello spezzato le fece capire che il suo tempo, lì, era finito.
A piedi nudi e grondante sangue, Miriam attraversò il cancello della sua casa sperando di essere capace di correre veloce abbastanza.
 
 
La notte non era mai stata buia come quando il giorno aveva smesso di esistere. Senza luce e con le lacrime che continuavano ad offuscarle la vista, l’unica cosa che poteva percepire chiaramente era il dolore della sua mano. Continuò a correre finché i polmoni le dettero fiato sufficiente per trascinarsi sulle gambe, e poi si lasciò cadere a terra e si trascinò sul bordo della enorme fontana della piazza centrale del suo paese.
 
Non aveva mai fatto sport: fatta eccezione per le lezioni di educazione fisica, aveva sempre dribblato con successo tutti i tentativi di un coinvolgimento in qualche squadra o attività che la mostrasse in canotta e yoga pants. Fino ad ora: e di certo non immaginava niente del genere per il suo grande ingresso nel mondo del fitness. Anche sforzandosi di trovare un motivo per non lasciarsi andare, non riusciva davvero a darsi un obiettivo o una scossa. L’unica possibilità che aveva era un vecchio nerd che stava più o meno a 20 km da Fontanelle, e che probabilmente aveva dato per scontato che lei non sarebbe più tornata. Probabilmente aveva pensato (non troppo a caso) che lei provasse disgusto solo a guardarlo, e che preferiva rimanere sola piuttosto che con un individuo del genere.
Si sentì avvampare per la vergogna di aver pesato così male di Lasher, anche se ormai, comunque, non aveva più nessuna importanza. Seduta a terra, la schiena appoggiata alla fontana, si mise a scrutare nell’oscurità circostante nella vaga speranza di poter percepire un movimento, una zaffata di quel tanfo infernale oppure il suono di persone che vivevano. Se quello era tutto un brutto sogno, era il caso di svegliarsi adesso.
Rimase immobile nell’oscurità che non rivelava nessuna forma o presenza. Quindi, stringendosi le ginocchia al petto, ricominciò a piangere.
Solo il quel momento, mentre le forze lentamente la abbandonavano e l’adrenalina cessava di pompare nelle sue vene, osservò le condizioni della sua mano: il vetro era entrato in profondità nella sua mano, e ora che il momento scemava il dolore aveva iniziato a conficcare delle punte arroventate lungo tutto il suo braccio. Si tirò a sedere sul bordo della fontana e sentì esplodere un crampo alla gamba destra. Rimase ad ascoltare quel dolore pulsante e affondò la mano sana nell’acqua fredda della fontana.
Quando aveva quattordici anni, una notte, ci aveva fatto il bagno con il suo primo ragazzo. Era appena finita la scuola e, dopo la cena di classe, avevano trovato una mezza bottiglia di birra appoggiata sul muretto del ristorante. Dopo averla adeguatamente annusata ed essersi sfidati ad assaggiarla, avevano raggiunto la conclusione che era buona. Non avendo mai bevuto prima, ritennero di comune accordo di essere “sfasciati dall’alcool”, e decisero di festeggiare con un bagno che gli sarebbe costato duecentocinquanta dollari e una denuncia per atti osceni e vandalismo. E pensare che erano vestiti.
Passò le mani fra i capelli rossi e mossi, raccolti da una coda di cavallo, e sempre meno convinta tastò la ferita sulla sua mano, poiché la luce non era sufficiente per vederla. Il solo sfiorare quel vetro la fece tremare dall’orrore. Quanto tempo le ci sarebbe voluto per guarire, senza dottori? Aveva bisogno di una farmacia e, prima ancora, di un posto sicuro.
Dopo aver bevuto lunghe sorsate d’acqua ed essersi sciacquata la faccia, Miriam non volle rimanere in un posto dov’era così vulnerabile un istante di più. Poteva andare a Helton: ma doveva trovare una macchina che fosse aperta e avesse le chiavi nel cruscotto. Ricordò di averne vista una con le portiere aperte sulla statale, ma non aveva davvero la certezza che funzionasse ancora. E poi, quanti chilometri distava? Si sforzò di ricordare, ma il silenzio attorno a lei divenne quasi assordante. Scacciò un ennesimo attacco di panico inspirando ed espirando.
All’improvviso, l’odore di pesce marciò le zaffò addosso. Non c’era più tempo. Zoppicando a causa del crampo, Miriam attraversò la piazza e raggiunse quella che, secondo i suoi calcoli, doveva essere la farmacia. La saracinesca era abbassata e le finestre avevano le sbarre. La porta secondaria era di ferro. Rimase davanti ad essa per qualche istante, riflettendo su come fare per entrare.
La guida per il Superstite Responsabile non prevedeva un caso di completa solitudine in cui il S.R. era ferito gravemente e, in generale, scoraggiava severamente ogni tentativo di effrazione. Tuttavia, non c’era altro modo.
O così, o presto avrebbe perso i sensi.
 
Si guardò intorno con aria afflitta e bussò disperatamente alla porta. Forse al drugstore vedevano un po’ di aspirina e dell’acqua ossigenata. Ma quante speranze c’erano di trovarlo aperto?
 «Cerchi qualcosa?» la voce di Lazarus le fece serrare i denti come un maglio. Si voltò di scatto e, senza vedere o capire più niente, andò a sbattergli addosso. Lazarus l’afferrò saldamente per i polsi, e quando Miriam fu costretta a guardarlo in faccia si rese conto che i suoi occhi luccicavano come quelli di un gatto. Ebbe la netta sensazione che lui, nell’oscurità, ci vedesse più che bene.
Tentò di divincolarsi, ma le sue mani erano agganciate saldamente. Flettendo le ginocchia sperò ardentemente di ritrovarsi in grado di sbilanciarlo in qualche modo, ma fu inutile.
Lazarus la trascinò per qualche metro verso la strada e mormorò un’altra volta qualcosa in quella lingua che non poteva provenire dalla sua bocca. Simile ad un ronzio gutturale, era come se in quel suono si potessero distinguere varie intonazioni simili a parole.
Miriam piagnucolò, valutando le sue possibilità con gli ultimi rimasugli di pensiero logico che le erano rimasti. La forza non sembrava avere successo: lui era infinitamente più alto, più forte e in condizioni fisiche migliori. Doveva trovare un altro modo. «Cosa devo fare perché tu mi lasci stare? Vuoi che ti dica dov’è l’altro?»
 «Quindi c’è effettivamente un’altra persona, in questa zona.»
 «Magari non c’è più. Potrebbe già essere sparito.»
 «Impossibile.»
Miriam strattonò forte le mani di Lazarus, che questa volta sembravano fatte di acciaio. Quando si abbassò per guardarle, notò che il braccio che aveva ferito era incrostato. «Come fai a saperlo, sei rimasto qui tutto il tempo a rompermi le scatole!»
 «Non ho bisogno di spostarmi per sapere. Ho bisogno della tua cooperazione.»
 «Vuoi uccidermi, vero? Vuoi uccidermi e poi uccidere anche qualcun altro!»
Lazarus scosse il capo. «Io non sono autorizzato ad uccidere o usare la forza, se non per difendermi. Sono solo un Esploratore.»
 «Un che?»
 «Non sono autorizzato a parlare con gli Ospiti di informazioni riservate.»
 «Ospiti? E se non puoi uccidermi, significa che se faccio quello che dici potrò andarmene? Vuoi che ti consegni l’altra persona?»
 «Non è consigliabile andarsene da soli. Presto gli Esploratori lasceranno il posto ai Guerrieri, e a quel punto non potrai più essere assimilata, ma sarai considerata un pericolo. Finché ho questa forma, posso aiutarti e aiutare chi ancora non è stato assimilato.»
 Miriam fu sconvolta, ma per la prima volta riuscì a non mettersi a piangere. Dentro di lei si diffuse una tiepida sensazione di rassegnazione. Qualunque cosa stesse dicendo Lazarus, forse aveva ragione: lottare era inutile. «Cosa sei? Un alieno?»
 «Penso che Nashevania possa essere chiamato così. Ma non credo ci sia una parola in questa vostra lingua che dia un-»
Dall’angolo sul municipio giunse il rumore di un motore. Le luci di una coppia di fanali attraversarono tutta la piazza, illuminandola per un momento, per poi rivolgersi direttamente ai due in mezzo al marciapiede.
La luce che li investì fu forte al punto che Miriam non vide più niente per un attimo. Anche Lazarus sembrò vacillare, e la sua presa allentò.
Il suono squillante del clacson riecheggiò fortissimo lungo le pareti inerti del centro città. Lazarus sussultò e Miriam sentì che era la sua ultima occasione. Lo strattone che diede facendo peso con tutto il corpo le liberò le braccia, mentre senza pensarci più del necessario la mano in cui era ancora conficcato il vetro affondò nella carotide. Un rumore soffocato, gorgogliante, attraversò la bocca di Lazarus mentre con le mani la afferrava di nuovo per buttarla per terra. Mentre la luce e le lacrime trasformavano quella scena in un caleidoscopio delirante, portò istintivamente la mano sana al polso e capì che il vetro era ancora conficcato nella sua mano, e quel movimento aveva peggiorato la situazione in maniera forse critica. Ora il coccio di vetro la passava da parte a parte, e quando vide quello spettacolo atroce Miriam non trattenne un urlo isterico prima che il mondo attorno a lei lentamente si sfaldasse, e i suoi pensieri diventassero rarefatti e privi di importanza.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3241676