How does the sun look like?

di liberty_dream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fine di un esperimento ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno. ***



Capitolo 1
*** La fine di un esperimento ***







La chiave stava di nuovo girando nella toppa.

Lyam alzò gli occhi contemplando quell’unico spiraglio di luce che filtrava attraverso la serratura. In attesa.
Un ultimo sferragliare segnò l’apertura della porta blindata; suoni di voci concitate parlavano all’esterno e ovattate giungevano alle orecchie del biondo.
La stanza avvolta nel buio più assoluto fu rischiarata da una luce che per il ragazzo sembrava avere la luminosità del sole. Le pupille si restrinsero con troppa velocità incapaci di mettere a fuoco quello che avveniva, le iridi luccicarono per una piccola lacrima che stava per essere rilasciata dai dotti.

Nel candore più accecante scorse delle figure; probabilmente erano di quegli stessi esseri eterei che lo tenevano rinchiuso lì dentro da quando egli aveva memoria. Erano pallidi, con dei volti imperturbabili. Entravano nella cella tenuta all’oscuro per buona parte del giorno, certe volte portavano dentro qualcuno… altre lo trascinavano fuori.
Lyam si raccolse in se stesso, strinse le gambe al petto cercando di nascondere il viso, tentando inutilmente di evitare la visione di quella macchia rossa. Qual era il suo nome? Chi gli aveva tenuto compagnia nelle ultime tre settimane? Era un ragazzo o una ragazza? Non lo sapeva nemmeno lui, erano passati decine di volti davanti ai suoi occhi, decine di voci erano giunte alle suo orecchie, decine di nomi erano stati memorizzati dalla sua memoria.
Perché lui?

Entrarono all’interno di quello spazio angusto, erano in quattro questa volta. I loro camici lasciavano visibile solo i loro volti e i loro capelli: uno di loro era pelato, con dei lineamenti dritti e severi, gli occhi erano due fessure che guardavano con rigore il mondo; il secondo era coperto da lentiggini; la terza era pesantemente truccata, con dosi eccessive di rossetto scuro sulle labbra e ciglia finte, i capelli non erano raccolti, ma erano sciolti nella piega riccioluta; l’ultima era la più bassa dei tre, tra i ricci bruni si scorgevano due occhi inespressivi dove non vi era distinzione tra pupilla e iride.
I due uomini non fecero caso a Lyam, ignorando come al loro solito quello che gli accadeva e quello che faceva: si affaccendarono per ripulire la stanza, restituendole il candore che l’oscurità avrebbe celato; si diffuse senza preavviso un odore di ammoniaca nell’aria. Intanto la donna truccata gli si rivolse:

- Soggetto 14. Come sta?- le lunghe ciglia acuirono lo sguardo mentre le labbra si contraevano in una chiusura a forma di cuore, attese una risposta che il biondo non era in grado di darle.- Non si preoccupi, me lo dirà più tardi.

La ragazza gli si era seduta vicino e gli accarezzava le orecchie prendendo mentalmente nota della loro misura e delle reazioni del giovane. Le guardava incantata mentre studiava il loro profilo, la loro forma così dolcemente delicata, la loro morbidezza al tatto, i brividi che il ragazzo trasmetteva loro con il suo leggero tremore. Il loro colore rosa pallido sfumava verso un rosato sulla punta, il lobo si fondeva con il padiglione auricolare quasi all’attaccatura, e questo si allungava verso l’esterno per sei centimetri. Ma non erano orecchie a sventola normali: il padiglione era schiacciato e l’estremità esterna terminava in una punta.

Una smorfia di fastidio si dipinse sul volto di lui, com’era possibile che ogni volta quelle figure entrassero in quelle quattro mura claustrofobiche dovevano toccarlo o esaminarlo? Si strinse ancora in sé, chiudendosi nel suo guscio e aspettando “pazientemente” che finisse quella quotidiana tortura mordendosi il labbro. A conti fatti, quel piccolo gioco capriccioso non era altri che un assillo frustrante a cui non poteva sottrarsi.

Sentì un fruscio, poi dei passi. I due uomini avevano raccolto il corpo che era stato il suo compagno di cella per due giorni e lo stavano portando fuori. Un tonfo, uno sferragliare di catene. I due rientrarono, pulirono il sangue colato dal cadavere e uscirono accompagnati dalle due donne.

La porta si richiuse, il buio ritornò confortevole. Per quanto altro tempo avrebbe dovuto vivere così? Si sciolse da quella posa, allungò le gambe e sospirò affranto. 






 

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Capitolo 2
*** Capitolo uno. ***


Il processo era appena iniziato.


Il Sistema aveva trovato i testimoni e identificato il colpevole dell’omicidio; era impossibile non essere a conoscenza della morte di Barrett Callaway, il Presidente della comunità: nei cieli, sulle tela dei dirigibili veniva trasmesso in continuazione il notiziario che ritraeva la sua salma; sulle pareti dei grattacieli, le pubblicità erano state sostituite da programmi televisivi che intervistavano i parenti e gli amici più vicini, i più danneggiati dalla perdita in termini affettivi e di immagine: erano loro i maggiori indiziati per la prematura scomparsa dell’uomo.
All’interno del cargo volante, l’aula di tribunale stava ascoltando i testimoni dando una parvenza di legalità al processo mentre davanti al banco, con occhi spaesati, la figlia del morto non aveva nemmeno gli occhi lucidi; tutti sapevano chi sarebbe stato condannata. Il Sistema presenziava in veste di giudice penale.
 






Si dice che trecentocinquanta anni prima ci fu una guerra, una delle più grandi e temibili manifestazioni di crudeltà e aberrazioni che l’uomo fosse mai stato in grado di compiere. Non ci furono vincitori, solo sconfitti. L’uso del nucleare e di bombe batteriologiche aveva decimato la popolazione, reso sterili le donne, modificato i genomi degli esseri umani. Non c’erano case a cui tornare, né famiglie da riabbracciare.

I capi di stato delle nazioni si riunirono e discussero a lungo su come procedere per ottenere un mondo che non scontentasse nessuno e che riuscisse a lungo termine a rendere ciascuno soddisfatto della propria condizione. Radunarono i migliori scienziati del paese, sociologi, psicologi, antropologi per creare qualcosa che servisse a tale scopo.
Idearono una macchina e la chiamarono “Sistema”. La sua precisione era assoluta, lavorava con processori ad altissima potenza ed era in grado di eseguire correttamente il lavoro di tre-quattro team di lavoratori. Le impiantarono i database di tutti i servizi segreti, lei rielaborò le informazioni e iniziò ad agire.

Divenne il principale punto di riferimento per la politica, i casi giudiziari e l’economia, legiferava con giustizia e puniva i crimini in modo equilibrato. Aveva fondato due prigioni: l’una per i crimini di minore importanza e la cui colpa ricadeva sul Sistema stesso, per i sacrifici che le sue scelte avevano portato, come il furto o la rapina, si chimava Prigione; l’altra era per le aberrazioni: coloro che divergevano dall’orientamento comune, ostacolando il corretto svolgimento delle operazioni, era il Carcere. Vi vivevamo mutati, assassini  di consanguinei ma anche mercenari e terroristi. Una volta entrati in questo secondo luogo di detenzione, si  usciva solo da morti; ma non v’erano alternative alle sue scelte. Il suo giudizio era certo e assoluto.
 





Ed ora era lì, si stringeva le spalle tremando per la paura mentre con voce veemente la donna, un tempo la sua insegnante privata, parlava dei suoi rapporti turbolenti con il padre. Le mani che erano tenute salde a delle manette si strinsero convulsamente; non lontano da lei due poliziotti la guardavano con in mano i loro dissuasori elettrici con un voltaggio che poteva far svenire o paralizzare. Le loro braccia con i nervi a vista erano tese, mentre con gli occhi fissavano lo schermo da dove il Sistema raccoglieva i dati trasmessili.

La donna terminò l’orazione e fu brevemente congedata. Fu la volta di Sophie, una ragazza della sua età con cui era cresciuta. Aprì la bocca e le orecchie dei presenti ascoltarono un elogio magistralmente compiuto della devozione affettiva paterna, di come risultava maniacale talvolta e oppressiva, ma comprensibile essendo stata lasciata ben presto orfana di madre. Chiuse gli occhi cercando distrarsi e di non ascoltare; tanto meno avesse udito, tanto inferiore sarebbe stato il numero di ricordi che quei racconti le avrebbero riportato alla memoria.

Le tornò alla mente una canzoncina e iniziò a canticchiarla. Parlava di un regno lontano dove una principessa era scappata al marito crudele facendosi credere morta e di come, dalle fondamenta, aveva scatenato una rivolta contro il tiranno. Era dolce, con una nenia che ricordava terre antiche e esotiche, con un ritmo cadenzato che portava da sé le parole. Gli argomenti erano dozzinali, come tutte le ballate, eppure un vago senso di sollievo le invase l’anima. Le fu intimato bruscamente di tacere.

Roteò gli occhi ricordandosi ciò che era realmente successo quella sera, non le bugie che le erano state additate. Il padre si era suicidato di fronte ai suoi occhi; l’aveva visto afferrare la lama, aveva scorto il riflesso del pugnale, ma quando aveva provato a intervenire, era troppo tardi. Le sue impronte digitali erano fisse sull’arma del delitto, il corpo del padre giaceva scomposto in una pozza di sangue, la giugulare recisa. Era stato scosso da dei tremiti, ma l’agonia era terminata subito senza che lei, dottoressa, avesse modo di fare qualcosa.

Strinse i pugni, c’erano decine di persone davanti a lei e non una che l’avrebbe ascoltata; la difesa non aveva potuto controbattere punto su punto l’istruttoria del “giudice”. Guardò lo schermo, l’udienza stava per terminare poi la sentenza sarebbe piombata sul suo capo, impietosa. Le nocche dei pugni sbiancarono, era ansiosa e aveva paura, ma già sapeva il suo destino, sapeva che sarebbe stata condannata, ma non sapeva dove sarebbe stata rinchiusa. Ed era questo che la spaventava.

Il segnale che il Sistema era in ascolto si spense, stava deliberando. Un uomo, vestito in giacca e cravatta neri con le punte delle scarpe laccate si avvicinò al computer, nel frattempo che il Sistema, quella grande macchina pensante, decideva il suo destino, osservò i bottoni lucidi e le spine e i cavi che vi sporgevano. Era immenso, eppure era solo una piccola parte del corpo elettronico del loro “maestro”.
La luce rossa, prima spenta si riaccese, si ascoltò un rumore di carta che scorreva, poi con uno sbuffo sonoro venne stampata la sentenza. L’uomo si avvicinò alla foglio che si era delicatamente appoggiato al suolo e lo raccolse.
Il Sistema non si era mai espresso con lunghe parole artificiose, ma mai era stato così lapidario.
 
"Nemesi Callaway, per aver ucciso suo padre, il signor Barrett Callaway, è condannata all’ergastolo all’interno del Carcere."
 
Sgranò gli occhi. Non era possibile. Il Carcere? Lei?
Si aspettava di essere mandata nella Prigione, non nel Carcere. Lì erano rinchiusi le aberrazioni, gli errori non voluti dal Sistema, i criminali più temibili; lì vi accadevano cose che avrebbero contaminato l’opinione pubblica se solo si fossero sapute e lei sapeva esattamente di cosa si trattasse, lavorava in quella struttura. No, doveva essere uno scherzo, un terribile e mostruoso scherzo.

Il suo volto mulatto era sbiancato visibilmente quando le due guardie che l’avevano tenuta in custodia si avvicinarono a lei con i manganelli in mano, ma lei non oppose resistenza e si lasciò guidare fino alla capsula che l’avrebbe condotta nella sua nuova dimora. In silenzio, Nemesi piangeva le lacrime che non aveva potuto versare per il padre e per il suo miserabile destino: sarebbe diventata una cavia da laboratorio. 









 

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