La meccanica del cuore

di papavero radioattivo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prima notte ♦ Il simbolo degli Akuma ***
Capitolo 2: *** terza notte ♦ Una copia dell'Innocenza di Dio ***
Capitolo 3: *** tredicesima notte ♦ Donare la vita ***
Capitolo 4: *** quattordicesima notte ♦ La pietà non è un valore degli esorcisti ***



Capitolo 1
*** prima notte ♦ Il simbolo degli Akuma ***


Le cadute di cuore non sono cadute di superficie, sono di un'altra razza. Le ferite sulla pelle

si rimarginano in fretta, l'epidermide si rinnova di continuo, contiene molte cellule, sono cellule pronte

a rimpiazzare quelle morte, sono le seconde schiere di un battaglione. Il guaio è che nel cuore di

queste cellule miracolose non ce ne stanno. Hai una sola fila di soldati. E amen.

 

| Io sono di legno ♦ G. Carcasi |

 

 

 

 


 

 

Í IL SIMBOLO DEGLI AKUMA Í

prima notte

 

 

 

 

 

 

C’era un freddo da spaccare le ossa.

Hellionor immaginò le proprie costole coprirsi di brina, congelarsi e fare crack dentro di lei. Di certo, guardarsi allo specchio in quel modo la aiutava a stare meglio. Si tastò lo stomaco e poi mise le mani sui fianchi, sbuffando. Sembrava stesse facendo una gara a chi rideva per prima con il suo riflesso, di certo molto più sciupato di lei, a causa della sporcizia sul vetro e della crepa che  lo attraversava da parte a parte. Era come osservare un dipinto di se stessi su una cartolina gigante, letta e poi strappata a metà.

Per un momento i suoi pensieri furono attraversati da un’idea che aggiunse brividi ai brividi. Fu tentata di portarsi una mano sul viso per controllare che quella crepa non ci fosse davvero – anche guardarsi sotto la maglietta e assicurarsi che il petto non fosse diviso a metà le sembrò un’idea geniale. Trattenne il respiro e lo lasciò andare quando i polmoni iniziarono a farle male. Non lo avrebbe mai fatto, non avrebbe mai dato ascolto ad un pensiero così stupido. Lei stava benissimo.

Si sfiorò il collo, spostandosi i capelli dietro le spalle.

«Maddai!» si disse, senza una ragione precisa. Sentire la propria voce le fu di conforto: quasi si fosse dimenticata il suono che produceva. Si sforzò di sorridere, ma la crepa divideva anche quella smorfia a metà, dandole un aspetto sinistro. «Sarà meglio che vada» borbottò fra se e se, rompendo quel contatto visivo con il proprio riflesso – non era abituata a fissarsi così a lungo, tantomeno fare le smorfie allo specchio o pensare cavolate come l’essere rotta.

Svariati colpi alla porta ed una voce da donna, rozza e arrabbiata le tartassarono le orecchie. Non era ancora calato il sole che la padrona della locanda aveva già perso la pazienza. «Dobbiamo pulire la stanza, ragazzina!».

«Pulire…» mormorò, soffocando una risata mentre si appoggiava il mantello sulle spalle, «E io sono la regina d’Inghilterra», raccolse la propria borsa e aprì di scatto la porta, osservando la signora corpulenta e sudaticcia scattare in avanti, come se fosse appoggiata all’uscio per origliare e avesse perso l’equilibrio.

Trattenne il respiro mentre scivolata fuori dalla stanza, passando tra lo stipite della porta e la vecchiaccia che la guardava in cagnesco, tentando di farle paura.

Perché avrebbe dovuto minacciare con lo sguardo una come lei? Era una così brava ragazza!

«Arrivederci e grazie per l’ospitalità!» disse per cortesia, usando un tono di voce più alto e allegro del dovuto, guadagnandosi solamente un’altra occhiata omicida e una promessa di odio eterno.

Diede la schiena alla donna e si caricò meglio la borsa sulle spalle, sentendo la colonna vertebrale lamentarsi. Era stufa di camminare e di sperperare i suoi risparmi faticosamente guadagnati per le bettole di ultima categoria come quella. Non si sarebbe sorpresa di vedere il Jack lo Squartatore tedesco spuntarle dall’armadio, considerando la razza di quartiere in cui era finita.

Di una qualche morte si deve pur morire divagò, immaginando lei in piedi sul letto che teneva la sedia tra le mani e colpiva ripetutamente il serial killer in testa, consegnando alla Scotland Yard tedesca il delinquente.

 

* * *

 

Il vento la colpì come una frusta, scompigliandole i capelli e seccandole le labbra all’istante. Faceva freddissimo! Molto più di quello che sentiva dentro la camera… come avrebbe fatto a sopravvivere? Quello era decisamente il giorno più freddo del mondo.

Si strinse la pancia sotto il mantello, camminando sul ciglio della strada mentre osservava i lampioni accendersi lentamente, colorando il paese di un arancione liquido, a vederlo così sembrava immerso nel miele. Il sole scendeva velocemente dal suo piedistallo, e ora era alla sua altezza e sembrava la guardasse negli occhi. Lo vedeva lì, uno spicchio d’arancia tra due palazzi grigi che sembravano d’oro, con la luce del tramonto e la nebbiolina invernale che era scesa.

Il sole sembrava rendere tutto migliore.

Chissà se anche lei sembrava più bella durante il tramonto.

Sospirò, ignorando la nuvoletta bianca che si levava dalle sue labbra screpolate. Il tessuto del vestito sfregava contro la sua pelle d’oca e le faceva male. Definitivamente, era stata una pessima idea spostarsi al tramonto e non aver aspettato il giorno dopo per muoversi. Brava, brava davvero, si complimentò, cercando con gli occhi un altro ostello in cui chiedere asilo, immaginando nuovamente i suoi soldi volare via dalla finestra.

Considerata la sua fortuna, probabilmente erano tutti pieni per quella maledetta fiera di paese. Che c’era di divertente nell’andare a guardare le bancarelle di un altro posto? Tanto vendevano le stesse cose che tutta l’Europa aveva. Non c’era niente di speciale, nessun festival che potesse catturare davvero l’attenzione di una persona. Perché ovunque andasse metà popolazione mondiale era nello stesso posto?

Fu cacciata per la quarta volta da una taverna, a momenti non la prendevano pure a calci nel culo per la sua insistenza – insistenza dove, poi? Aveva solamente chiesto se affittavano il ripostiglio o la soffitta, perché lei aveva davvero un gran bisogno di dormire… certo, aveva pure detto che avrebbe pagato profumatamente. Ma i pochi spiccioli che aveva messo sul bancone la tradirono e non sono serviti a convincere l’ennesima donna vecchia e massiccia che gestiva la catapecchia. L’aveva apostrofata con i peggiori aggettivi e le aveva detto pure qualcosa nel dialetto del posto che non riuscì a capire, ma non sembrava essere un complimento.

Ormai era buio, e quello che sembrava bello e prezioso si era trasformato in un unico organismo dormiente, e i lampioni servivano solo a mettere in luce la solitudine di Hellionor che, osservando le persone rincasare sotto i primi fiocchi di neve, si sentì improvvisamente più barbona del solito, nonché sfortunata e sull’orlo della disperazione.

Meglio andare in stazione si disse, cercando di non perdersi d’animo, «Magari partirà un qualche treno…» pensò a voce alta, rallentando ad un incrocio per fermarsi e capire dove andare.

«Hai sentito cosa è successo oggi in piazza?» era una signora a parlare, stretta al braccio del marito mentre chiacchierava con un’altra donna.

«Sì, sì!» si sbrigò a rispondere l’altra, agitando una mano in segno d’assenso, «Quei due delinquenti hanno pure distrutto un palazzo!» continuò, guardandosi attorno come se avesse paura che qualcuno la sentisse, «Sono pure scappati nella foresta, quei vigliacchi!» e concluse sbuffando.

«Nessuno è riuscito a vederli in faccia…?» chiese l’uomo. Mentre parlava i suoi baffi si muovevano come un piccolo spolverino, facendola sorridere.

«No…» scosse la testa l’altra, «Erano troppo occupati a guardare il mostro» concluse, lisciandosi i vestiti.

«Tesoro!» rimproverò la prima, stringendo ulteriormente la giacca al marito, «Te l’ho già detto, erano esorcisti!».

Esorcisti?

L’uomo e l’altra donna ridacchiarono appena. L’amica appoggiò affettuosamente la mano sul ventre della terza,  sorridendole amorevole, «Mi sa che questa gravidanza ti sta facendo delirare…». Come diavolo faceva una persona a non credere ad una storia come quella degli esorcisti? Era ovvio che esistessero! Chi era quel deficiente che pensava fossero solo una leggenda metropolitana?

Il gruppo si allontanò, parlottando della scelta di un nome per quella piccola vita protetta nel corpo della donna.  C’erano stati degli esorcisti, in quel paese… forse non se n’erano ancora andati. Allora quella sosta non era stata del tutto inutile!

Hellionor respirò a pieni polmoni, sentendo dentro di se un piccolo fuoco nascere e scaldarle le ossa. Se sarebbe servito a trovarli, era disposta passare la notte in bianco.

Si fece coraggio, avvicinandosi alle poche persone ancora in strada chiedendo informazioni su strani tipi vestiti di nero, ottenendo poche indicazioni, per giunta inutili se non addirittura sbagliate. Probabilmente avrebbe fatto prima a camminare a vuoto, cercando qualcuno con la faccia sospetta, o con la spilla, oppure dei finder. Ricordava bene le loro uniformi. Non sarebbe stato difficile trovarli…

«Signorina?» era una bambina. Si era materializzata dietro di lei e le tirava il mantello. Le spalle tenute affettuosamente dai genitori, «Forse lei sta cercando quei due strani ragazzi che sono volati in cielo!» disse, alzando poi le braccia, indicandole il punto in cui riteneva fossero andati, la bambina si coprì l’occhio dentro con la piccola manina paffuta, rivolgendosi ai genitori, «Uno aveva una benda sull’occhio, vero mamma?».

Hellionor alzò lo sguardo verso il cielo ornato dalle prime stelle, poi guardò i genitori, cercando di capire la vera natura di quella conversazione. La donna le sorrise rassicurante, «Nostra figlia ha sentito che cercava gli uomini in nero che hanno distrutto il palazzo. Sono volati davvero via, Signorina, glielo assicuriamo» le disse, e l’uomo annuì.

«Alcune persone sono andati a cercarli con la polizia!» aggiunse la più piccola, guardando i genitori, cercando in qualche modo il loro consenso.

Non sapeva se credere a quella famiglia. In realtà, quella discussione aveva tutta l’aria di essere una frottola. Era quasi sicura che, girando le spalle alla famigliola, sarebbe successo qualcosa di terribile. «Grazie mille» rispose cortese, facendo un passo indietro, «Mi siete stati di grande aiuto, buonanotte!» e iniziò a camminare all’indietro, prendendo la distanza necessaria per potersi accorgere e combattere un eventuale pericolo.

E invece non successe nulla, la bambina le augurò la buonanotte e,  prima che lei potesse rendersene conto, la neve aveva già coperto la strada con un sottile strato di bianco.

 

* * *

 

Lavi inciampò nei suoi piedi, finendo con la faccia sul terreno bagnato dalla prima neve che incominciava a tingere tutto di bianco. Sentì Allen ridere mentre Timcanpy volava a qualche centimetro dal suo naso, battendo lentamente le ali dorate.

«Non dovresti ridere delle disgrazie altrui!» affermò poggiandosi sui gomiti, fissando il golem che si ostinava muoversi a destra e a sinistra, come se lo stesse invitando a rialzarsi e a rincorrerlo nuovamente. Ma prima che il suo compagno potesse dire qualsiasi cosa, una voce arrivò dal suo fianco destro.

Una voce di donna con un pessimo accento inglese.

«Finalmente vi ho trovati!», parlava come se fosse felice di vederli, «Non ce la facevo più a rincorrervi ovunque», e starnutì subito dopo.

Lavi si alzò, pulendosi la divisa con le mani, osservando la ragazza che si era fatta strada fra gli alberi e che ora li guardava come se avesse appena trovato una pentola d’oro sotto l’arcobaleno o dei vecchi amici.

«Non è un Akuma» lo rassicurò Allen, facendo affidamento al suo occhio appena guarito. Forse lei li aveva semplicemente scambiati per qualcun altro, altrimenti non si spiegava il perché di tutta quella euforia.
Sorrise poggiando la mano sul fianco. Non era molto alta – era carina, certo, ma non aveva molto seno. Cosa che non giocava a suo favore. Ad occhio e croce avrebbe detto una seconda scarsa, ma non si può avere tutto dalla vita. «STRIKE ♡» affermò avanzando verso la sconosciuta, poggiandosi al tronco di un albero con il braccio, «Perché ci stavi cercando, signorina?» le chiese con il sorriso sulle labbra, cercando di essere affascinante mentre Allen sospirava. Non era un Akuma, quindi se parlava un po’ con una rappresentante del gentil sesso non succedeva nulla, no? Prima che Lavi potesse avvicinarsi troppo la ragazza fece un passo indietro, raccogliendosi i capelli esageratamente lunghi su una spalla.

«Fai sul serio?» domandò, inarcando un sopracciglio, «Io giro mezza Europa cercando un esorcista e mi ritrovo voi due?».

Allen si avvicinò a Lavi mentre Timcanpy svolazzava attorno alla ragazza, «Voi due?» domandò retorico.

«Sai, credo che fosse un insulto, Allen» gli suggerì Lavi, rivolgendosi poi nuovamente alla ragazza «Perché cercavi un esorcista?» le chiese nuovamente, questa volta più serio, osservando il piccolo pentacolo nero che le sporcava la guancia sinistra. Beh, anche quella volta gli era andata male.

Il simbolo degli Akuma…, eppure Allen aveva detto che non era un giocattolo del Conte.

La osservò sospirare e scrollarsi un peso invisibile dalle spalle, «Non ho intenzione di dirvi perché cerco gli esorcisti» iniziò, calciando un mucchietto di neve, «Non c’è qualcuno di più serio con cui posso parlare?».

«Lo ha fatto di nuovo…» mormorò Lavi – giusto perché fosse chiaro anche ad Allen che anche quello era un inisulto – e il più piccolo si allungò a recuperare il golem prima che potesse iniziare a mangiare i capelli della ragazza.

«Il Supervisore è in città, possiamo accompagnarti da lui, anche se è tardi» suggerì il più piccolo, spostando poi lo sguardo su Lavi, che sembrava ripetergli che non sempre era il caso di fidarsi ciecamente di tutti quanti.

«Fantastico!» esultò lei, unendo le mani, sembrava essere ritornata quella straniera apparentemente solare di prima, «Mi fate strada?» domandò, come se si fosse dimenticata di averli insultati per tutto quel tempo, ed Allen non esitò a sorriderle e ad incamminarsi, mentre Lavi li affiancava ancora dubbioso.

Non era una cosa tanto furba portarsela dietro, non quando lei non voleva dire perché stava cercando degli esorcisti.

Forse era un Noah, e loro erano stati così stupidi da assecondarla.

«Non ci hai nemmeno detto come ti chiami» suggerì, mentre gli altri due camminavano a qualche metro da lui.

La sconosciuta girò appena lo sguardo, fissandolo nel suo unico occhio prima di rallentare il passo per affiancarlo, «So cosa stai pensando» disse, annuendo, «Pensi che sia un’impostora e che voglia uccidervi tutti» continuò, parlando con la stessa semplicità con cui si racconta una favola, «Ti giuro che non voglio farlo, davvero» e si mise una mano sul cuore, «Ho solo bisogno di parlare con il vostro Supervisore, poi vi dirò il mio nome» concluse regalandogli un sorriso.

Lavi la guardò attentamente, e per una frazione di secondo gli sembrò di vedere la sua unica iride riflessa in quella di lei, come davanti ad uno specchio.

«Io sono Allen Walker, piacere» si presentò comunque Allen, risvegliandolo da quella visione solipsistica.

Possibile che lui non avesse notato la stella sul suo viso? Era pure in evidenza, scura sulla pelle chiarissima, solo un cieco non l’avrebbe vista! O forse la stava semplicemente assecondando, pronto ad intervenire se qualcosa fosse andato storto. Rimase a guardare mentre lei sorrideva al più piccolo, allungando l’esile mano dal cappotto per stringere quella di lui, senza rispondere con il proprio nome. Accidenti! Nel profondo, Lavi sperava che se lo facesse scappare. Magari non aveva un nome e si vergognava, oppure non se lo ricordava. Di solito le persone che si rivolgono all’Ordine hanno tutti una brutta storia. Prima che potesse formulare una domanda concreta cercando di incastrarla e di farle sputare il rospo, sentì una leggera pressione colpirgli il bicipite, data dal gomito della ragazza che premeva contro il suo braccio.

«Tu non hai un nome?» gli domandò, «O ti chiami “Strike”?» evidentemente credeva di essere divertente.

Lavi accennò ad una leggera risata guardandola dall’alto, «Mi chiamo Lavi» le rispose sforzandosi di sorridere come sempre, «È un piacere conoscerti, carota» aggiunse, riferendosi al colore dei capelli della ragazza, di un arancione pallido tipico degli irlandesi.

«Non sono una carota…» borbottò lei come se fosse offesa, prendendosi i capelli tra le mani, pettinandoli con le dita, «Non mi piacciono nemmeno, le carote» commentò prima di alzare il viso verso di lui e riprendere a parlare, «E poi se io sono una carota tu sei un pomodoro. Ti sei visto allo specchio?» domandò retorica , indicando poi Allen, «E lui è un ravanello bianco, o un cavolfiore».

«Ehy!» Allen si toccò i capelli mentre Lavi rideva.

«Io avrei detto più un fagiolo, ma anche un cavolfiore va bene» replicò portando le mani dietro la nuca, uscendo finalmente dal bosco e rientrando in città.

Era simpatica, in fondo. Ma poteva benissimo mentire, poteva essere tutta una bella farsa. Il suo pentacolo lo affascinava, doveva ammetterlo. Poteva essere un semplice tatuaggio di pessimo gusto, o l’indizio di qualcosa di più complicato.

Dopotutto, anche Allen ne aveva uno.

 

* * *

 

La porta della camera in cui dormiva Lenalee si chiuse con un cigolio, lasciando Allen e Lavi fuori.

Hellionor sospirò, come se potesse finalmente rilassarsi. Senza fretta, si tolse da dosso la borsa e poi il mantello, lasciando cadere tutto a terra, si lisciò la gonna del vestito malconcio e poi si sedette su l’unica sedia libera, mentre il Supervisore Komui Lee ed il vecchio Bookman aspettavano che parlasse.

«È morta?» domandò, indicando con il mento la ragazza sul letto – sembrava non respirasse.

«Ovvio che no!» si sbrigò a rispondere il Supervisore, agitandosi. Che aveva detto di male?

Annuì, mordicchiandosi il labbro, cercando di scorgere il titolo sulle copertine di tutti quei libri. Non si vedeva nemmeno il pavimento della stanza! Certo che erano dei tipi strani, questi esorcisti.

«Allora?» la voce roca del vecchio la fece rabbrividire. Va bene, le dispiaceva essere piombata nel loro quartier generale improvvisato con infermeria, ma non le sembrava il caso di parlarle con quel tono. Certo, non era stato carino nemmeno pensare che quella ragazza fosse morta ma… «Chi sei?» continuò Bookman.

Inspirò l’odore di carta e chiuso, battendosi le mani sulle cosce, «Giusto, giusto» disse a bassa voce, chinandosi a prendere il borsone con cui viaggiava. Lo aprì, togliendo dal suo interno un paio di asciugamani e dei barattoli contenenti della carne secca, e infine afferrò soddisfatta un blocchetto di documenti stropicciati ed ingialliti, i bordi erano rovinati dall’umidità o strappati. «Ho dei documenti che vi potrebbero interessare…» iniziò a dire, appoggiandosi i fogli sulle gambe a testa in giù, in modo che nessuno dei due potessero leggere la prima pagina.

«Il tuo nome?» fu Komui Lee a parlare, con una serietà che non aveva dimostrato mezz’ora prima, quando Allen lo aveva svegliato dicendo di avere una persona (lei, nella fattispecie) che aveva assolutamente bisogno di parlargli. Nonostante l’identità del Supervisore dovesse rimanere più o meno segreta, e il vecchiaccio avesse cercato di convincerlo a rifiutare un colloquio preso in modo così poco ortodosso, Komui aveva accettato.

Se lui si fidava di lei, allora lei non vedeva il motivo per cui non doveva fare altrettanto.

Inspirò profondamente, giocando con il bordo di una pagina, «Hellionor» disse, e sentì un peso liberarle il cuore. Prima che potessero chiederle qualcos’altro, allungò i documenti verso il Supervisore che, dopo aver scambiato un breve sguardo con il Bookman, si allungò a prenderli.

Hellionor aveva sempre immaginato quel momento: l’incontro con l’Ordine Oscuro, la grande rivelazione. Stava consegnando nelle mani del Vaticano un documento che loro credevano scomparso, dal contenuto assolutamente folle. Komui si soffermò un paio di secondi sui fogli, prima di passargli al Bookman. Erano quattro occhi che la fissavano, spogliandola di tutto. Non si era mai mostrata così a qualcun altro.

«Non è possibile» affermò Komui, scuotendo la testa, riafferrando i fogli dalle mani di Bookman, «Questo tipo di esperimenti sono stati esplicitamente vietati dall’Ordine. Sono stato io a vietarli» continuò, spostandosi i fogli dal grembo per lasciarli su una pila di libri, come se non volesse toccarli, «È sicuramente un falso, ci stai prendendo in giro».

Hellionor scosse la testa, spostandosi i capelli dietro alle orecchie. «Non vi sto prendendo in giro, Supervisore Lee, quello che c’è scritto in quei fogli è la pura verità» ribatté, alzando gli occhi per incontrare quelli dell’altro, attraversando il vetro degli occhiali, «E lo sa che è vero. Ha riconosciuto le firme, sa che sono autentiche».

«No» s’imputò Komui, raddrizzando la schiena.

«Supervisore» lo chiamò Bookman, «Non menta  a se stesso» gli suggerì, e i ditali che indossava si sfiorarono, tintinnando, «Si tratta di un esperimento importante».

«Fallimentare» lo corresse, «Come lo sono stati tutti gli altri di questo genere. Non potremmo trarre nessun vantaggio da uno di questi esemplari».

«Non sono un esemplare fallimentare!» disse lei, a voce fin troppo alta. Quando si accorse di quello che disse, Hellionor si sentì gelare il sangue nel corpo, mentre il volto diventava improvvisamente caldo e le guance – ne era sicura – assumevano quella buffa sfumatura rossastra.

Komui non rispose, limitandosi ad assottigliare lo sguardo,  «Abbiamo distrutto tutti i documenti di Takahashi, perché tu hai questo progetto?».

Hellionor si allungò a prendere i fogli, sfogliandoli delicatamente, come se avesse paura di romperli, come se stesse toccando la sua stessa vita. Sospirò appena, estraendo dalle pagine una piccola fotografia, allungandola agli altri due, di quelle che vengono messe in una cornice e usate come soprammobile. Madre, padre, e figlia. Anche se era in bianco e nero, rovinata e bruciacchiata agli angoli, anche se Komui non aveva conosciuto di persona l’uomo di quel quadretto familiare, sapeva perfettamente di chi si trattasse.

«Dopo la fuga lo avevano dato per morto» disse.

«Disperso» lo corresse Bookman.

«Evidentemente voi dell’Ordine non siete stati così bravi a distruggere i vostri errori» continuò lei. Aveva una tristezza nella voce che presto diventò rabbia, amara alle orecchie di Hellionor stessa, «Ha portato questo progetto con se ed è andato avanti» accennò ad un sorriso, un piccolo spasmo all’angolo delle labbra. «E la cosa più divertente è che ha funzionato… più o meno» si guardò le mani, la linea della vita di entrambi i palmi era ricalcata da una più spessa, rossa, una cicatrice appena richiusa.

«Questo non è un gioco, ragazzina» la ammonì il vecchio, e lei alzò lo sguardo, allargando il sorriso.

«So benissimo che non è un gioco» gli rispose, piano, come se si fosse improvvisamente ricordata della ragazza che dormiva nel letto lì vicino e non volesse svegliarla, «Non è mai stato un gioco, per me».

Abbassò gli occhi sul fascicolo, leggendo alcune parole che ormai erano impresse nella sua mente con il fuoco: innocence artificiale, vittoria, compatibilità, esorcisti… le sembravano solo parti di una favola, una storiella impossibile.

«Per favore» li pregò, «Non so più cosa fare…» pigolò piano, rimettendo i documenti nella borsa, «Non vi sto chiedendo di perdonare mio padre…».

«Nessuno ha intenzione di perdonare Takahashi. È stato condannato, il suo nome, per l’Ordine, non esiste più».

«Allora prendetemi con voi» continuò lei, «Posso non portare il suo nome, posso dimenticarlo, se volete. So cosa fanno gli esorcisti, e so farlo anche io. Se darò problemi potrete cacciarmi dall’Ordine o uccidermi. Mi metto completamente nelle vostre mani».

Non era il genere di cose che a Komui piaceva sentire. Uccidere le persone… non faceva per lui. Con un groppo in gola, il Supervisore si alzò, tendendo la mano verso la ragazza. «Domani mattina parleremo meglio sul da farsi» le disse, stupendosi della stretta poderosa con cui aveva ricambiato, «Ora vai a chiedere al locandiere una stanza, dì di metterla sul conto dell’Ordine»

Quando Hellionor uscì, Lavi era appoggiato al muro di fianco alla porta. Non le disse niente, e lei non aprì bocca, sembrava quasi non lo avesse visto.

Non importava, lui aveva sentito tutto.

 

 

 

 


 

Note d’Autrici; do you wanna see my Mugen?

 

Salve a tutti i coraggiosi che sono giunti fino a qui.

È la prima volta che approdiamo in questo fandom assieme, quindi ci sembra quanto meno il caso di presentarci. Siamo radioactive ed yingsu, siamo in questo fandom da così tanto tempo che nel frattempo siamo diventate vecchie (letteralmente), ma ci siamo decise solo ora – dopo lustri – a scrivere questa storia.

La fan fiction ripercorrerà parte del manga, e sarà concentrata in particolare sui nostri piccoli OC (anche loro vecchi ere, ma questi sono dettagli). Li vedrete fare la loro comparsa nel corso della storia, ma sono fondamentalmente solo tre, e chi prima, chi dopo, arriveranno tutti. A loro ovviamente si affiancano i personaggi dell’opera originale, ma vedrete tutto quanto a tempo debito.

Speriamo solo che il duro e faticoso lavoro di stesura e integrazione con la trama originale possa essere apprezzato da voi come da noi.

La meccanica del cuore, inoltre, è una sorta di remake di una vecchia storia datata 2011 che raccontava la storia di una certa Hellionor, quindi se ricordate di aver letto qualcosa di simile: non preoccupatevi, non è plagio. La OC è stata riveduta e corretta nelle sue incoerenze del vecchio 2011, e speriamo che sia più credibile e che la si possa apprezzare di più. Proprio perché è un remake di una vecchia storia, abbiamo deciso di mantenere la sua vecchia struttura – forse un po’ infantile? – partendo quindi dall’inizio, proseguendo in ordine cronologico. Non dedicheremo molti capitoli alla parte «burocratica» della faccenda (solo i primi due), quindi speriamo che non vi annoi particolarmente!

Preghiamo di mantenere l’IC per quanto riguarda i personaggi dell’opera e di riuscire a mostrare la parte più vera dei tre OC presenti.

Inoltre, abbiamo voluto riprendere le notti dell’opera originale – tuttavia non saranno in ordine (prima, seconda, terza e così via), ma saranno le notti del giorno in cui si svolge la vicenda del capitolo (grossomodo), questo per dare a noi e a voi la cognizione del tempo che passa!

Ci teniamo a informare che questa storia potrà essere un po’… atipica per quanto riguarda la trama. Dato che noi siamo due romanticone e molto amanti del genere introspettivo, la storia cercherà di analizzare soprattutto gli aspetti psicologici delle persone e le dinamiche tra di loro. Insomma, non aspettatevi grandi battaglie o particolari colpi di scena (anche se, precisiamo, ci saranno!) – cerchiamo di far emozionare i lettori per i dialoghi e per i sentimenti che proviamo a far trasmettere E per questo, vorremmo anche dire che il titolo, «La meccanica del cuore» non si riferisce in alcun modo al cuore dell’Innocence, ma anche questo verrà compreso poi!

Per il resto, ringraziamo chiunque si sia fermato a leggere questo capitolo lunghissimo (purtroppo sì, i capitoli verranno piuttosto lunghi ;__;)  e vi informiamo che la storia dovrebbe essere aggiornata ogni due settimane circa, a meno di imprevisti.

Grazie per l’attenzione, e alla prossima!

 

  papavero radioattivo

 




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Capitolo 2
*** terza notte ♦ Una copia dell'Innocenza di Dio ***



 

 

Í una copia dell’innocenza di dio Í

terza notte

 

 

 

 

 

 

L’Ordine Oscuro sembrava una chiesa.

Non ne aveva viste molte, a dir la verità. Ma da bambina immaginava la loro struttura imponente e buia – senza saperlo, stava immaginando anche la Sede dell’Ordine Oscuro. Trattenne il respiro, ascoltando il rumore dei propri passi che si allontanavano da quelli del resto del gruppo. Lentamente, il silenzio avvolgeva lei e il Supervisore come una coperta fredda. Non era un posto accogliente. Guardandosi intorno, non riusciva davvero a capire come facessero tutti a chiamarla «Home».

La luce fioca e arancione delle candele illuminavano i mattoni grigi dei muri e le porte di metallo.

Si fermò, indicando una crepa che si estendeva a raggiera poco più avanti, tutta l’area era recintata da striscioni gialli che esortavano a stare lontani. Sembrava ci fosse stato un combattimento e qualcosa di veramente pesante si fosse schiantato contro quel muro. «Cos’è successo a questa parete?» domandò, curiosa. Nonostante volesse sapere quale fosse stato l’incidente procurato a quel povero muro, non riusciva a sentire quel posto come suo e, in tutta sincerità, non pensava si sarebbe ambientata in fretta.

«Oh! L’incidente di Komurin II… sarà Enea Fowler a rispondere a tutto, più tardi» le rispose Komui, accennando un sorriso, «Di solito la mia adorata Lenalee fa fare il giro di visita ai nuovi membri dell’Ordine, ma considerando le sue condizioni e…» sembrò bloccarsi per un momento, «L’importanza del caso, è meglio attuare la procedura di identificazione dell’Innocence».

Sentì la mano del Supervisore sfiorarle la schiena in un gesto rassicurante, anche se il suo modo di parlare era evidentemente teso. Da quello che aveva potuto sapere da Allen e Lavi, Komui Lee era una persona tutt’altro che seria e responsabile – allora perché si comportava in modo così professionale con lei?

«Per proteggere la tua identità ti abbiamo registrato come Hellionor Paarick» continuò poi, «Ci sono persone che ancora si ricordano di Takahashi e».

«Ho capito, Supervisore» sentenziò lei, aumentando il passo nonostante non sapesse esattamente dove andare, «Non c’è bisogno che mi spieghi cose che so già».

«Grazie per la comprensione» disse, sospirando di sollievo. Si guardò attorno, assicurandosi che non ci fosse nessuno nei paraggi, «Di solito è una procedura veloce. Hebraska è molto brava in questo. Ma considerando la situazione…» strinse le labbra in una smorfia, «Spero che non ti succeda niente» confessò poi.

Hellionor aveva notato come il Supervisore cercava di non usare la parola «esperimento» – come se l’idea che comportava quella parola gli facesse ribrezzo o, peggio ancora, paura.  Gli occhi di Komui, dietro alla montatura sottile degli occhiali, erano tristi – in qualche modo Hellionor si sentì colpevole. «Ho la pellaccia, io» gli sorrise, battendosi sul petto, all’altezza del cuore. Non era andata a bussare alla porta dell’Ordine Oscuro per vedere altre persone giù di morale per colpa sua.

«Non ne dubito» sorrise lui, indicandole le scale che dovevano scendere.

 

* * *

 

La pedana piramidale iniziò a scendere, mentre Hellionor si lasciava alle spalle la sezione scientifica, sprofondando nel buio.

«Devi stare tranquilla» la rassicurò, «Da Hebraska ci sono passati tutti gli esorcisti, è molto gentile» continuò, tenendo gli occhi fissi sui cinque uomini che sembravano sospesi nel nulla, seduti sulle loro poltrone rosse – non diedero un minimo cenno di benvenuto o qualcos’altro. Sembravano davvero scortesi, oltre che apatici.

«Non guardali così» la riproverò Komui, mentre la pedana rallentava fino a fermarsi, «sono i Comandanti Supremi».

Hellionor sospirò, coprendosi gli occhi con una mano. Aveva appena fatto la sua prima figuraccia. Scosse la testa, massaggiandosi le tempie, cercando nel suo ridotto vocabolario qualcosa che potesse vagamente essere simile a delle scuse, ma prima che potesse solamente schiudere le labbra per scusarsi per la sua insubordinazione, sentì la mancanza di qualcosa di solido sotto i propri piedi. Riaprì gli occhi e la luce l’accecò per un momento. Quando mise a fuoco, vide Komui sotto di lei e qualcosa simile a dei tentacoli avvolgerla, tenendola sospesa.

«Innocence…» era una voce soffusa, come quella di un ricordo.

Mani minuscole si avvicinarono a lei, sfiorandole le braccia, risalendo lungo le spalle. Hellionor si pietrificò. Che doveva fare? Trattenne il respiro, tenendo gli occhi puntati su Komui, fermo sulla pedana. Sembrava preoccupato e la cosa non l’aiutava.

«Innocence…» ripeté. Si guardò attorno e notò l’essere a cui appartenevano quelle braccia. Il volto di donna era privo di ogni emozione e le sue labbra non facevano altro che sillabare la stessa parola. Innocence.

Chiuse gli occhi, cercando di darsi una calmata. Appoggiò le mani sulle braccia che la reggevano, contando i propri respiri. Nel buio, riusciva ad immaginare quella voce come una ninna-nanna. Qualcosa all’altezza del petto le scaldò la pelle, prima di attraversarle i vestiti ed intrufolarsi dentro di lei. Fu un attimo, come se avesse ricevuto un forte pugno all’altezza del petto che le impedisse di respirare.

«Hebraska?» la voce di Komui, nonostante non fosse diretta a lei, le provocò sollievo, «Allora?» continuò.

«È molto debole, ma riesco a sentirla…» iniziò. C’era qualcosa, nel modo in cui parlava, che faceva sentire a disagio Hellionor. Un’altra fitta al petto la costrinse a chiudere gli occhi e concentrarsi sul dolore, cercando di domarlo, «Nel suo corpo c’è… qualcosa che assomiglia all’Innocence, oltre al frammento in sé, Komui» continuò poi. La stretta di Hebraska stava cominciando a sembrare debole e affettuosa, come l’abbraccio di una madre. «Che cos’è?» domandò poi al Supervisore.

Komui rimase qualche secondo in silenzio – non c’era alcun rumore nella stanza. Era la prima volta che Hellionor sentiva tutta quella quiete. Avvertiva, dentro di sé, il battito del proprio cuore: quel tu-tum che aveva sentito molte volte sul petto di altre persone. Se si concentrava, riusciva ad avvertire anche quell’altro suono che gli faceva da eco, una sorta di punta metallica che picchiava contro un cristallo. Lo aveva sempre ignorato. Cercava di non pensarci, di fare finta che dentro di lei non ci fosse niente di sbagliato o fuori posto. Ma nel silenzio di un posto come quello, ignorarlo era impossibile. Ad ogni battito Hellionor aveva l’impressione che quella punta metallica crepasse il proprio cuore che, ora come ora, le sembrava fatto di vetro. Non si sarebbe stupita se fosse stato davvero così.

«È un falso» il verdetto di Hebraska arrivò come una pugnalata, e il dolore divenne più forte, «Qualcosa che cerca di copiare le caratteristiche dell’Innocence, ma non potrà mai».

«Non si può fare una copia dell’Innocenza di Dio», era una voce nuova ad intromettersi. Veniva dall’alto, come una sentenza divina, «È blasfemia».

La sensazione di torpore lasciò lentamente Hellionor, mentre lei rientrava in pieno possesso delle sue capacità e il dolore scompariva piano, dissolvendosi lungo i propri arti, fino alle punte delle dita.

Il volto di Hebraska, offuscato dalle lacrime sospese sulle ciglia di Hellionor, si avvicinò a lei, appoggiando la fronte sulla sua. La ragazza chiuse gli occhi, sentendo le ciglia liberarsi dal peso di quelle gocce d’acqua e l’umido segnarle le guancie, cadendo poi nel vuoto. Schiuse le labbra screpolate, muovendo le dita delle mani per capire se avesse ripreso consapevolezza di quel corpo che le sembrava così lontano.

«Cinquantadue per cento…» disse, rimanendo poi in silenzio, accompagnando il suo corpo sulla pedana.

Hellionor barcollò, afferrando la ringhiera in ferro. Non sapeva più cos’aspettarsi e, francamente, non aveva compreso il perché di questa ispezione da parte di Hebraska: non aveva detto più di quello che lei aveva raccontato a Komui o di quello che c’era scritto nei fascicoli che aveva consegnato alla scientifica.

«È una percentuale bassa» continuò Hebraska.

Komui si avvicinò a Hellionor, sfiorandole nuovamente la schiena con una carezza, «Tutto il supporto della finta Innocence aiuta il suo corpo a reggere il peso di quella vera, suppongo» disse, guardando la ragazza, «Tu sai come funziona il tuo corpo?».

Hellionor si schiarì al voce, cercando di raddrizzare la schiena, «So solo che c’è qualcosa dentro me che fa funzionare l’Innocence» borbottò.

«Komui» lo chiamò Hebraska, «Non è un’Apostola di Dio» continuò. Quelle parole la ferirono molto più di quanto immaginasse, «La quantità di Innocence all’interno del suo corpo è veramente minima, non credo che sia saggio…».

Il volto di Komui si contrasse in una smorfia. I suoi occhi si soffermarono ancora su di lei poi si rivolsero ai Comandanti Supremi, «Voi che dite?».

«Siamo in presenza di un’Innocence artificiale, costruita con dei frammenti rubati all’Ordine vent’anni fa». Hellionor si appoggiò al parapetto mettendo una mano sul proprio cuore, come se questo potesse aiutarlo a calmarsi, «Nonostante il progetto per creare Apostoli di Dio fosse stato cancellato tempo fa, alla porta dell’Ordine Oscuro si presenta un esperimento riuscito».

Fallimentare si corresse mentalmente Hellionor, ricordando le parole di Komui qualche giorno prima.

«Considerando che la ragazza è sopravissuta fino ad ora, si potrebbe supporre che riesca a convivere con l’Innocence senza che si danneggino a vicenda».

«Questo non è sicuro…» continuo Komui a bassa voce, nessuno sembrò dargli ascolto.

«Avviseremo l’Ufficio Centrale della questione, nel frattempo, come già deciso da lei stesso, Supervisore, la ragazza farà parte del corpo degli Esorcisti in favore della volontà divina».

Komui sospirò. Da quello che Hellionor era riuscita a capire, l’avevano accettata all’interno dell’Ordine anche se lei non era esattamente… in regola. Tuttavia, l’atteggiamento di Komui non era quello di una persona soddisfatta. Si avvicinò a lei, tendendole la mano, «Benvenuta all’Ordine Oscuro, Hellionor» disse, sforzando un sorriso.

Quella titubanza le dava l’impressione di essersi cacciata in un grosso guaio. Ricambiò la stretta, tentando anche lei un sorriso, «La ringrazio infinitamente, Supervisore» mormorò, sincera. Nonostante sembrava che fosse finita in una faccenda più grossa di lei, si sentiva comunque felice di essere entrata all’Ordine.

Non importava se la falsa Innocence l’avrebbe distrutta dall’interno. Non aveva niente da perdere, e non aveva intenzione di legarsi a qualcosa o qualcuno. Sapeva che le rimaneva poco da vivere e non aveva intenzione di trascorrere la sua vita con le mani in mano.

Se poteva ricavare qualcosa di buono dagli errori di suo padre, tanto valeva provarci.

La pedana risalì, mentre la luce che circondava Hebraska si affievoliva lentamente. Hellionor provò a lasciare le brutte esperienze lì, con i cinque tipi strambi e quella specie di lumaca gigante. Ma non ci riuscì. Si guardò le mani e quella linea della vita decorata da tagli chiusi da poco. Sospirò, sentendo l’aria scompigliarle i capelli, proprio come il sangue si infiltrava nelle pieghe delle sue mani. I cattivi pensieri erano sempre con lei, cuciti sulla sua pelle.

 

* * *

 

Enea sospirò con le braccia incrociate al petto, poggiato ad una delle pareti. Avrebbe preferito fare altro piuttosto che da guida turistica alla nuova arrivata, ma il modo in cui Komui l’aveva letteralmente pregato, ribandendo circa un miliardo di volte che la sua Lenalee non avrebbe potuto farlo, lo aveva convinto ad accettare solo per il mero desiderio di farlo stare zitto.

Il suono dei passi sulle scale lo costrinse a staccarsi dal muro, giusto in tempo per vedere la nuova esorcista fare gli ultimi tre gradini, «Tu devi essere Hellionor» le disse, più per cortesia che per altro, e poi le tese la mano, invitandola a stringerla – prima avrebbero iniziato, prima avrebbero finito, non era tanto difficile.

Hellionor si sforzò di sorridere prima di ricambiare la stretta, si sentiva ancora un po’ in subbuglio per quello che era successo qualche attimo prima, «Tu invece devi essere Enea Fiore».

«Fowler» la corresse lui, e lei si sentì una completa imbecille. Era diventata un membro ufficiale dell’Ordine e aveva già fatto due figuracce, probabilmente entro sera sarebbe arrivata ad una quota esorbitante.

«Ah, è Fowler!» affermò cercando di sdrammatizzare, «Mi sembrava che “Fiore” fosse un cognome un po’… imbarazzante» ammise, e poi sorrise di nuovo alzando la testa per guardarlo negli occhi. Probabilmente era più grande di lei, o forse era solo troppo alto e fuori misura.

Il ragazzo evitò di rispondere alla sua affermazione, si limitò a darle le spalle e a invitarla a seguirlo. Non dava l’idea di essere di buon umore, ma almeno non sembrava un imbecille come Allen e Lavi. Era quello che più si avvicinava alla sua immagine di esorcista: una persona seria che fa il suo lavoro con  dedizione, senza correre in mezzo alla neve e inciampare nei suoi stessi piedi.

Lo affiancò tenendo il passo, guardandosi attorno mentre attraversavano il grande ingresso e si accingevano a prendere le scale, domandandosi perché non avessero costruito un ascensore anche lì.

«Qui c’è la caffetteria» parlò stancamente Enea, l’aria gli scompigliava i capelli biondo cenere, tenuti in ordine da una piccola coda dietro la nuca, «Il capo chef si chiama Jerry, cucina qualsiasi cosa tu possa immaginare» le spiegò, girandosi a guardarla per controllare che lei lo stesse seguendo.

Hellionor sbirciò dentro la porta, esaminando i finder seduti ai tavoli, intenti a chiacchierare e mangiare. Lo stomaco le brontolava terribilmente, risvegliato dall’aroma di spezie che riempiva tutta la sala.

Cibo e alloggio gratis! esultò interiormente, non poteva andarle meglio.

«Quando abbiamo finito il giro puoi tornarci» le comunicò, come se fosse riuscito a sentire il borbottio della sua pancia vuota. Era la prima cosa amichevole che diceva da quando si erano presentati, segno che forse avrebbe potuto instaurare una misera conversazione senza che lui la ignorasse o le rispondesse con quel tono decisamente seccato.

Provò di nuovo a sorridergli salendo un'altra rampa di scale, sistemandosi i lunghi capelli sciolti sulla spalla, «Da quanto tempo sei nell’Ordine?» gli chiese spezzando il silenzio, interrotto soltanto dal suono dei loro passi sui vecchi scalini in pietra. Ricordava che durante il viaggio Lavi le aveva detto che la Sede Centrale aveva quasi cent’anni, e questo significava che un sacco di esorcisti erano passati di lì prima di lei, per quei gradini. Un mucchio di scienziati, di uomini pronti a sacrificare la loro vita in nome di un Dio che non si faceva nemmeno vedere, e suo padre. Anche lui era stato lì.

Enea infilò una mano in tasca, estraendo una piccola tabacchiera decorata con motivi floreali, «Undici anni» le rispose, infilandosi fra le labbra una sigaretta. Nel momento in cui il fiammifero ne accese la punta, un odore pungente le impregnò le narici, riportandola indietro nel tempo per una manciata di secondi. Ricordava quel profumo, si spandeva nei corridoi dell’Orfanotrofio, impregnando la tappezzeria.

«Sono qui da quando ho dodici anni» le spiegò, riportandola con i piedi per terra, «Questa è la Sala Allenamento» cambiò bruscamente argomento, mostrandole un ampio spazio colonnato, «È divisa su tre piani, puoi venirci quando ti pare» continuò a parlare, ed Hellionor pensò che quello era il discorso più lungo che avesse fatto. Stava facendo progressi, ora della fine del giro probabilmente sarebbe riuscito a fare un discorso!

«E se per caso dovessi venire qui e trovare un ragazzo dai capelli lunghi e scuri che sembra una ragazza, stagli lontana di almeno sei metri» suggerì senza particolari pretese, accompagnandola di nuovo fuori, «Oppure tiragli un peso in testa, se ci riesci» le sembrò di vederlo sorridere, ma forse era solo una smorfia.

«Chiunque sia non ti sta simpatico, ho capito» gli disse mentre continuavano a salire, ed Enea aspirò una boccata, lasciando poi che il fumo gli uscisse dalle narici. Il fatto che le avesse detto che era lì da undici anni, da quando ne aveva dodici, significava che ora ne aveva ventitré. Non riusciva ad immaginare che cosa volesse dire passare così tanto tempo nello stesso posto, che cosa si potesse provare ad avere un posto dove poter sempre tornare.

Forse era per questo che la chiamavano “Home”, Lavi le aveva detto che – come lei – molti esorcisti non avevano una casa, prima di entrare all’Ordine, e di certo dopo undici anni di permanenza nello stesso luogo si inizia un po’ a mettere radici.

Casa… magari un giorno lo sarebbe diventata anche per lei.

«Qui ci sono i bagni» le indicò con un cenno della mano, senza sprecarsi più di tanto a spiegarle i dettagli, «Ma hai un bagno personale anche nella tua stanza» aggiunse, senza nemmeno fermarsi per farglieli vedere.

Stava quasi diventando seccante, se era irritato perché era stato costretto ad accompagnarla, di certo non era colpa sua.

«E perché ci sono dei bagni comuni se ognuno ha un bagno personale?» domandò confusa, le sembrava poco logico.

Enea sospirò, «Prima non c’erano, li ha fatti costruire il Supervisore» le rispose, entrando in un corridoio pieno di porte con un enorme lampadario al centro, «Per socializzare, così ha detto» le spiegò, e all’improvviso le venne in mente che voleva chiedere che cosa fosse successo al muro distrutto che aveva visto durante la sua discesa con Komui, ma Enea le impedì anche solo di aprire bocca.

«Questo è il piano dell’infermeria» disse, abbassando subito dopo il tono della voce in maniera quasi drastica, come se stesse cercando di non farsi sentire, «La Capo Infermiera è una donna terribile» mormorò continuando a fumare, «Ti auguro di non conoscerla» sembrava quasi divertito, ma Hellionor non riusciva a capire da cosa.

Stava insinuando che secondo lui l’avrebbe conosciuta presto?

Che pezzo di stronzo!

«Non può essere così male» replicò, sistemandosi il maglione logoro che aveva indosso, ed Enea scoppiò a ridere, accompagnandola ai piani superiori. «Ne riparleremo fra qualche tempo» si limitò a dirle, e poi rimase in silenzio fino a quando non entrarono nell’ennesimo corridoio. Le sembrava tutto dannatamente uguale, non aveva idea di come facesse ad orientarsi lì dentro.

«Questi sono i piani con le stanze, molte sono vuote, oppure i proprietari sono lontani per delle missioni e non tornano a casa da anni, quindi sono comunque vuote» disse, accostandosi ad una porta, «E questa è la tua stanza, il giro è finito, e noi ci vediamo» aggiunse sbrigativo, aprendole la porta. «Ah! Komui ha detto che passeranno a prenderti le misure per l’uniforme» le comunicò infine facendole l’occhiolino, lasciandola sola nella sua nuova stanza.

 

 

 

 


 

Note d’Autrici; do you wanna see my Mugen?

 

Lo so, abbiamo detto che saremmo tornate dopo due settimana dal primo capitolo ma (ahi noi!) eccoci qua. Dovete sapere che oggi è il compleanno di Hellionor, e per festeggiarlo abbiamo deciso di pubblicare questo capitolo.

Vorremo fare alcuni chiarimenti:

Nel manga, ci troviamo più o meno alla 30esima notte, quando Komui, Bookman e Lenalee sono tornati all’Ordine (con Hellionor, in MDC) e Allen e Lavi sono a fare la missione di Crowley. Cercheremo di seguire il più possibile gli eventi dell’anime (non del manga, dato che l’anime ci dà molto più spazio temporale) e inseriremo dove necessario degli archi temporali più lunghi di quelli che la Hoshino ci fa intuire. In questo modo dovremmo riuscire a sviluppare meglio le  interazioni tra i personaggi, rendendole più credibili.

La storia di Hellionor è stata creata durante l’arco dell’Arca, e per certi versi può ricordare molto alcune cose che vengono descritte/scoperte in seguito al livello 4. Non si tratta di una “scopiazzatura” del materiale canon della mangaka, semplicemente qualcosa che è stato creato prima di sapere altre informazioni. In tutti i casi, abbiamo cercato di adattare tutto in modo che fosse credibile e coerente con tutto il mondo di D.Gray-man.

È arrivato Enea! / Bisogna fare una festa, perché noi lo amiamo tanto e quindi dovrete farlo anche voi. Non possiamo dire più di tanto, ma speriamo che la sua presenza (anche futura) sia piacevole – insomma, speriamo che riusciate a capirlo. Il motivo per cui Enea non fa molte (nessuna) considerazione sulla stella di Hellionor è, semplicemente, perché il POV del paragrafo era della ragazza, e abbiamo pensato che fosse più utile tenere il suo punto di vista durante il giro dell’Ordine, altrimenti si sarebbe ridotto ad un elenco di posti che lui conosce già da una vita. Sappiamo che la scelta di fare il giro dell’Ordine è stata rischiosa, dato che il lettore la conosce già, ma sono in questi dialoghi e momenti (che si potrebbero definire «inutili») in cui si conosce meglio un personaggio. Inoltre, dopo la prima parte del capitolo più “pesante”, ci voleva un po’ di leggerezza ;)

La storia dei bagni in comune costruiti da Komui per «socializzare» è un’informazione rilasciata dalla Hoshino nel fan book Gray Ark, dove ha pubblicato anche la piantina dell’Ordine a cui abbiamo fatto riferimento.

 

Stavolta torneremo davvero tra due settimane (quindi verso il 31 luglio).

Grazie per aver letto, per aver recensito e per aver messo tra le preferite/seguite/ricordate Risponderemo alle recensioni appena possibile! ;)

     papavero radioattivo




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Capitolo 3
*** tredicesima notte ♦ Donare la vita ***



 

 

Í donare la vita Í

tredicesima notte

 

 

 

 

 

 

«Cazzo», Enea strinse il parapetto fra le dita mentre gli ultimi resti del pranzo abbandonava per sempre il suo stomaco.

Il battello era in viaggio da otto ore, e lui non aveva fatto altro se non vomitare da quando era partito.

Sospirò inspirando profondamente, scostandosi indietro i pochi ciuffi che gli ricadevano scomposti sul viso mentre Hellionor si stiracchiava con la valigia in mano, preparandosi ad attraccare.

«Sai, non è poi così male viaggiare per mare» commentò mentre lui chiudeva gli occhi, lasciando che l’aria gli accarezzasse il viso. Non capiva come fosse passata da “Non ho mai preso una nave in vita mia” a “Secondo te è possibile che questa nave affondi?” per poi ormeggiare a Liverpool e prendere il battello per Balbriggan, scoprendo la bellezza, a dire di Enea inesistente, dello stare in mezzo al mare, ondeggiando avanti e indietro.

«Parla per te, ti prego» brontolò qualche attimo prima che un altro conato gli schiudesse le labbra, domandandosi perché quell’imbecille di Komui avesse scelto proprio lui per accompagnare Hellionor nella sua prima missione.

La ragazza sorrise, poggiandosi al parapetto accanto a lui, di schiena, «Ti hanno mandato qui per dimagrire, suppongo» scherzò, riferendosi al fatto che era dalla Francia che vomitava, facendo eccezione della notte che avevano trascorso in Inghilterra, prima di partire nuovamente.

«Fanculo» fu l’unica cosa che riuscì a mormorarle mentre un fischio coprì le sue parole, annunciando che stavano per attraccare.

Rimase fermò lì, immobile, lo sguardo rivolto all’acqua mentre il battello si fermava, e quando Hellionor lo chiamò gridando un «Muoviti!» inspirò profondamente, preparandosi a fare i sette metri che lo separavano dalla passerella.

Gli girava la testa, e sapeva che la nausea ci avrebbe messo un po’ a passare, ma doveva assolutamente poggiare i piedi su qualcosa di stabile, quindi strisciò fino al molo con la valigia in mano, in mezzo al via vai di marinai e barche.

Si guardò attorno cercando il Finder che avrebbe dovuto accompagnarli a Slane, dove era stata evidenziata un’attività soprannaturale che Komui non si era degnato di spiegargli nei dettagli. «Il bestiame del posto sparisce misteriosamente» si era limitato a dirgli, «I contadini pensano che sia opera del diavolo» e poi Reever era passato a portagli una serie di documenti, il Supervisore aveva iniziato a fingere di parlare al telefono, e il tutto si era trasformato in un teatrino tragicomico a cui Enea aveva preferito non assistere.

«Dobbiamo cercare Rebecca» si impegnò a parlare senza vomitare, poggiandosi ad un traliccio il legno, «Così magari ci dicono che cosa sta succedendo in questo posto», non era sicuro di riuscire a camminare, non ancora almeno, aveva delle vertigini terribili.

Hellionor faceva dondolare la valigia avanti indietro, «Chi è Rebecca?» chiese alzando lo sguardo verso di lui – ogni volta che la guardava non riusciva a non fissare il pentacolo che le sporcava la guancia. Gli succedeva anche con la Mammoletta, era una cosa che non riusciva a controllare.

«Lei è Rebecca» spiegò Enea, mentre una donna dai capelli neri gli veniva incontro nell’uniforme da Finder.

«Signori Esorcisti» li salutò con un sorriso, ed Enea recuperò la valigia, mentre Hellionor si domandava che cosa avesse spinto una donna tanto giovane a unirsi all’Ordine Oscuro. A morire. Era una cosa che non riusciva a concepire, i Finder non erano esorcisti, non erano stati scelti, nessuno li aveva appositamente creati o plasmati per combattere in quella guerra, eppure ce n’erano tantissimi.

«Ciao Rebecca» il tono di Enea le fece intuire che probabilmente già si conoscevano, «Lei è Hellionor» aggiunse poi, indicandola con un cenno del capo, «È appena arrivata» il modo in cui doveva sempre sottolinearlo la infastidiva.

Nuova arrivata. Suonava come “Fai schifo, ma non è colpa tua, è perché sei nuova”.

«Sì, sono nuova» gli fece il verso guardandolo male, «Piacere di conoscerti, Rebecca».

La donna le sorrise chinando il capo, «Anche per me è un piacere, Il Supervisore mi ha già spiegato tutto» disse, come a volerla rassicurare, e poi si  guardò attorno, «Ma adesso venite, se non partiamo subito arriveremo a notte fonda!» affermò incominciando a incamminarsi, assicurandosi che loro la stessero seguendo.

Le piccole stradine attraversavano i prati e i campi di un verde brillante che lei non aveva mai visto, era come camminare in mezzo ad un mare di fondi di bottiglia, rilucevano al sole, scintillanti, mentre Enea accanto a lei sembrava mantenere l’equilibrio a stento.

Forse era per colpa del viaggio, probabilmente vomitare così tanto non gli aveva fatto tanto bene.

«Entro sei ore saremo al villaggio» Rebecca aveva la voce di una madre, Hellionor riusciva a pensare solo a questo ogni volta che lei apriva bocca. Era così che se la ricordava: affettuosa e dolce. «Le pecore stanno sparendo ad una velocità impressionante, e i cani da pastore pure» spiegò continuando a camminare, «Gli allevatori sono disperati, pensano che sia opera del diavolo» aggiunse, ed Enea finalmente si decise a dire qualcosa.

«Forse non hanno tutti i torti» commentò, e Rebecca ricambiò il suo sguardo, tornando poi a parlare.

«Pensano che il demonio sia racchiuso in una pecora nera, un pover’uomo l’ha trovata vicino al fiume e l’ha accolta nel suo gregge, da quella notte sono iniziate le misteriose sparizioni. Il suo branco è stato il primo a scomparire, e la pecora nera continua ad aggirarsi in quel villagio», era quasi inquietante sentirla raccontare quelle cose, ma almeno era stata più esaustiva del Supervisore.

 

* * *

 

Camminavano da più di quattro ore, ormai. Hellionor sospirò, sciogliendosi i capelli mentre faceva dondolare la valigia nella mancina, iniziando poi a canticchiare.

«Perché l’Innocence dovrebbe uccidere delle pecore?» domandò, cercando di instaurare una conversazione con qualcuno, dato che erano caduti nel silenzio più totale. Enea non sembrava ancora disposto a parlarle, forse stava ancora male per il mal di mare… o forse se l’era presa per le battute e le frecciatine che gli aveva lanciato durante il tragitto. Senza contare le domande che gli aveva fatto con una frequenza piuttosto assillante. Aumentò il passo, affiancando Rebecca.

«Tu cosa dici?» le chiese, allungandosi verso di lei, come per palesarsi.

Osservò la donna guardare verso il cielo, macchiato qua e là da soffici nuvole grigiastre, presagio di pioggia, «Beh, non saprei» iniziò, raccogliendo i capelli neri all’interno del cappuccio, «L’Innocence si manifesta in un sacco di forme» continuò, girandosi verso Hellionor, «Dovrebbero averti dato un fascicolo sulle missioni precedentemente svolte, no? Qualcosa per farti prendere confidenza con questi fenomeni e l’Innocence…».

Hellionor annuì, sentendosi rossa in viso, «Certo, certo! Ma ero così stanca ultimamente che non l’ho proprio aperto…», ridacchiò, grattandosi la nuca. Non ricordava nemmeno dove li avesse lanciati, quei fascicoli. Rallentò, fino ad andare in coda al gruppo, vergognandosi della propria ignoranza in materia, e della propria ignoranza in generale. Non era il momento di lamentarsi, però. Si schiarì la gola, raddrizzando la schiena per cercare  di riprendere un certo contegno. Non voleva pensare a Rebecca che tornava all’Ordine e raccontava di quella «povera sbadata nuova esorcista» che non faceva altro che fare domande stupide.

«Enea» disse, chiamando il compagno. Enea, solo ora si rendeva conto di quanto fosse musicale il suo nome. Aveva qualcosa nella cadenza delle lettere che le ricordava il portoghese – era felice di poterlo sentire uscire dalle proprie labbra. Non aspettò nemmeno un segno d’assenso da parte del ragazzo che decise di proseguire con la sua domanda, «Quante missioni hai fatto da quanto sei all’Ordine?».

Le sembrava di aver chiesto qualcosa di vagamente intelligente. Era sicura di non aver ricevuto nessun documento riguardo agli esorcisti dell’Ordine Oscuro e, nonostante fossero in viaggio da una vita, Enea non aveva parlato più di tanto di se stesso. Aumentò il passo per affiancarlo e lo osservò mentre la squadrava come se fosse un gattino randagio sporco di resina e terra. Prima che lui potesse risponderle, una goccia di pioggia le finì sul naso, facendola storcere le labbra.

«Più avanti c’è Drogheda» informò Rebecca, riparandosi ulteriormente sotto il cappuccio, «È a qualche chilometro da Slane, ma l’Ordine ha prenotato tre stanze in una locanda nel caso ci dovessimo fermare» informò.

«Aumentiamo il passo, allora» sentenziò Enea, lasciando la domanda di Hellionor senza risposta.

 

* * *

 

Hellionor si sfregò i capelli nell’asciugamano, pettinandoli poi con le dita. Non aveva molta voglia di sciogliere tutti i nodi, anche se sapeva che lasciarli là era la cosa più sbagliata da fare in quel momento. Si fece forza, sedendosi sul letto, afferrando le ciocche una per una e facendole passare tra i denti larghi del legno intagliato.

Era la sua prima missione e aveva preso un acquazzone da paura. Se non si raffreddava era un miracolo. Ricordava gli insulti di Enea in un inglese esageratamente stretto che lei non riuscì a capire – quei suoni sembravano messi in un ordine casuale e la facevano sorridere anche in quel momento.

Doveva abituarsi a tutto quel lusso. Di certo non si aspettava di entrare in una città sconosciuta e trovare una stanza tutta sua munita anche di vasca che, in meno di mezz’ora, era già piena di acqua calda e sapone.

Finì di pettinarsi, stendendosi poi sul letto morbido e caldo, giocando con le punte rovinate dei suoi capelli. Da quando era lì, aveva già visto un po’ di persone con il suo stesso colore dei capelli e le stesse lentiggini sul collo, naso e spalle. Tuttavia non riusciva a sentirsi a casa, e la cosa la frustrava un po’. Sua madre era irlandese, certo, ma lei di irlandese non aveva nulla se non la pelle inclina alle scottature e quei capelli color carota.

Si girò a pancia in giù, abbracciando uno dei due cuscini, affondando la testa su quello che non aveva arpionato. C’era una sensazione strana che le stringeva il petto, un dolore come di mancanza. Un vuoto che non riusciva né a colmare né a spiegarsi.

Aveva avuto quello che voleva: entrare nell’Ordine Oscuro, con il più nobile dei titoli… era un’esorcista! Ma non poteva non pensare al volto di Komui quando parlava con lei, così lontano dai racconti che Lavi aveva condiviso con lei, o da quello che aveva sentito dal telefono con Enea durante tutto il tragitto. Non era pentita della sua scelta, ma iniziava a pensare che, forse, avrebbe dovuto rifletterci di più.

«Beh, ormai è fatta» si consolò, mettendosi a sedere. Infilò le scarpe comode e si pettinò i capelli umidi all’indietro, aprendo poi la porta. Rebecca l’aveva avvisata di scendere per un pasto caldo davanti al fuoco appena era pronta, e lei di certo non se lo sarebbe fatto scappare.

Inoltre, aveva assolutamente voglia di scoprire qualcosa in più su Enea. All’orfanotrofio, i pranzi e le cene erano i momenti della condivisione: ognuno raccontava qualcosa sulla propria giornata e se c’era un problema, insieme si cercava una soluzione.

Scese le scale senza fare rumore, arrivando ad una piccola saletta composta da divanetti scuri e un grande camino acceso. Enea stava seduto su una poltrona e mangiava qualcosa da una ciotola fumante.

Non sapeva perché, ma aveva l’impressione che lui avesse molto da dire.

Hellionor si sedette davanti ad Enea, sistemandosi la maglia, «Che cosa hai preso?» gli chiese mentre lui immergeva il cucchiaio nel liquido di un tenue arancio, alzando poi lo sguardo verso di lei.

«Zuppa di carote» le rispose semplicemente, riprendendo poi a mangiare mentre l’uomo della Locanda che li aveva accolti si avvicinava a lei, portandole la sua zuppa di rapa e maiale. Lo ringraziò con un sorriso prendendo il piatto fra le mani, ancora disorientata da tutte queste premure che le riservavano. Incominciò a mangiare, osservando con la coda dell’occhio l’uomo che attizzava il fuoco nel camino.

Era la cena più buona che avesse mangiato fuori dalle mura dell’Ordine, di questo ne era certa. Non apprezzava particolarmente il silenzio che la stava accompagnando, però,  motivo per cui si schiarì la voce e poi decise di intavolare una conversazione.

«Non mi hai detto quante missioni hai fatto» disse, tenendo il cucchiaio sospeso a mezz’aria. Questa volta non poteva ignorarla, c’erano solo loro due in quella stanza.

Enea la guardò per una manciata di secondi, «Non ne ho idea» era sincero, oramai era passato così tanto tempo che aveva perso il conto, c’erano missioni che nemmeno si ricordava, e altre che per un motivo o per un altro gli erano rimaste impresse nella mente.

Guardò la ragazza annuire piano e portarsi la zuppa alle labbra, cercò di immaginarsi perché fosse lì, se aveva abbandonato la sua famiglia, o se l’Innocence le aveva appena dato un tetto sulla testa e una vita nuova, esattamente come aveva fatto con lui.

Ci fu un attimo di silenzio, Hellionor si sistemò meglio sul tessuto scuro della poltrona, e poi gli sorrise «E come ci sei arrivato all’Ordine?», era una domanda che non sopportava, ogni volta ripensava a quella notte, a quei corpi che diventano polvere, e a quell’uomo arrivato all’improvviso che gli aveva offerto di seguirlo, di dare un senso alla sua vita. Inspirò profondamente, poggiando il piatto sul tavolino in legno che li separava, «Sono stato trovato dal Generale Winters» non c’era molto da spiegare, l’Innocence aveva reagito alla sua presenza, si era semplicemente trovato al momento giusto nel posto giusto, «Tu?» domandò poi, convinto che non gli importasse davvero, «Ti hanno trovata la Mammoletta e il Bookman, no?».

La domanda la fece esitare, lo vide dal modo in cui il cucchiaio tremò appena fra le sue dita, bloccandosi a qualche centimetro dalle sue labbra, «Veramente sono stata io a trovare loro» gli rispose, bevendo poi la zuppa. «Alla fine sapevo di avere l’Innocence, sapevo dell’esistenza degli esorcisti, e sapevo che avrei dovuto cercarli» continuò, e la posata tintinnò contro la ceramica, «Ci ho messo degli anni, ma ce l’ho fatta!» e sorrise.

Non aveva una famiglia. Nessuno si sarebbe mai volontariamente unito all’Ordine se ne avesse avuta una. Nessuno avrebbe mai parlato in quel modo se avesse avuto una casa da rimpiangere, una madre e un padre.

«Congratulazioni» borbottò infilandosi una mano in tasca, estraendo la tabacchiera per accendersi una sigaretta, sfiorare le iniziali incise sul bordo della scatoletta  riuscivano sempre a farlo tornare bambino per una manciata di secondi, inginocchiato sul tappeto della grande biblioteca.

Hellionor gli fece il verso, esattamente come aveva fatto per la maggior parte del viaggio, e poi si infilò il cucchiaio in bocca, osservandolo mentre avvicinava il fiammifero alla cicca.

«Non mi hai nemmeno chiesto se mi dà fastidio il fatto che mi fumassi vicino» gli disse, e lui aspirò una boccata, soffiando il fumo lontano.

«Nemmeno tu mi hai chiesto se mi dava fastidio che mangiassi carne davanti al mio naso» ribatté lui, spostando lo sguardo verso le fiamme del camino. L’aveva quasi rivalutata, si stava quasi dicendo che non era poi una persona così cattiva. Certo, vagamente insopportabile dato il suo pessimo senso dell’umorismo, ma non si poteva avere tutto dalla vita e lui lo sapeva bene.

«E poi non ti sei lamentato quando sono arrivata con la mia buonissima zuppa di maiale» borbottò lei, finendo la sua ciotola, appoggiandola poi sul tavolino, liberandosi le braccia e incrociandole al petto, «E comunque, anche se non ti importa, non mi dà fastidio che fumi davanti a me, grazie per l’interessamento, Fiore» gli disse, più acida del solito.

Enea sospirò, un po’ troppo melodrammaticamente per i gusti di Hellionor. In ogni caso, anche lei avrebbe fatto in quel modo. «È Fowler» chiarì.

«Lo so, Fiore» continuo l’altra. Respirando a fondo prima di alzarsi, «Vado a dormire, prima di rovinare la giornata a Vostra Eccellenza il Conte Fiore» disse plateare, prima di fare un profondo inchino.

«Si può sapere che problemi hai tu?», evidentemente, Enea era sull’orlo di un esaurimento nervoso. Forse lavorava troppo… aveva bisogno di una vacanza!

«Sei tu quello che non riesce a socializzare, Enea» disse lei, sorridendogli, prima di fare dietrofront e ritornare verso camera propria, ringraziando i locandieri per la cena.   

 

* * *

 

Considerato i giorni che aveva passato a camminare, le due ore e mezza che la separavano da Slane non le sembravano così drammatiche. D’accordo: Enea sembrava ancora essere arrabbiato con lei per aver urtato la sua sensibilità con la sua zuppa di rape e maiale.

«Non gli piace la carne» le spiegò Rebecca, «Credo che gli dia fastidio anche il suo odore. Ma il pesce lo mangia…» informò, osservando le spalle dell’esorcista, dritte e larghe, come se fosse sempre all’erta e pronto all’azione.

«A tutti piace il pesce!» rispose l’altra, sorridendo. «Ma secondo te mi odia?» domandò poi, a voce più bassa. Più lo guardava, più si rendeva conto di non averlo visto durante la sua festa di benvenuto. Un po’  le dispiaceva, a dire il vero – le avevano raccontato che «Mammoletta» era il soprannome che un certo Yu Kanda aveva dato ad Allen… se lo usava anche lui, forse era amico di Kanda. E se Kanda era così scontroso come lo descrivevano, allora davvero non riusciva a spiegarsi il perché lei non andasse bene per entrare nella sfera privatissima del Conte Fiore. Un po’ cinica lo era anche lei, no?

Rebecca sorrise, spostandosi i capelli su una spalla, «No, no» la rassicurò con un mezzo sorriso, «È molto serio e concentrato durante il lavoro, tutto qui».

«Capito…» borbottò, ritornando in silenzio. Non riusciva a capire come Enea potesse essere sempre così teso, come potesse dedicare tutta la sua vita e tutta la sua persona per una causa che, forse, era già persa in partenza. Tuttavia, anche lei era lì – e come lui aveva donato la sua esistenza all’Ordine Oscuro.

Non è un gioco. La voce del vecchio Bookman le ritornava in testa come una preghiera, un’avvertenza. Forse stava dimenticando qualcosa di estremamente importante di tutto quel puzzle di cui lei faceva parte. Alzò gli occhi al cielo, sotto allo strato di nuvole, la distesa azzurra era ancora uguale a quella che vedeva in Portogallo. Rimaneva immutato negli anni mentre loro crescevano e morivano, esattamente come i fiori.

Pensò a Dio. A come restava sempre uguale mentre loro – le sue creature – continuavano a morire, afflosciandosi a terra senza più vita. Tutti quei soldati di Dio sarebbero spariti senza lasciare traccia del loro cammino e la pioggia avrebbe lavato via il loro sangue. Forse era per questo che Enea era così serio: sapeva che sarebbe morto, un giorno, e che in nome di quella morte gloriosa aveva rinunciato ad una famiglia, alle feste, alla bella vita e all’amore. Sorrise, spostandosi un ciuffo di capelli dal viso, osservando ancora quelle spalle dritte avanzare verso l’ennesimo campo di battaglia.

Lei non era come lui. Non era pronta a morire per qualcosa che, forse, nemmeno esisteva. Eppure sapeva che la sua vita sarebbe stata assorbita dalla terra, il suo corpo bruciato e la sua persona dimenticata. Si era imposta di andare avanti verso quella strada con un mezzo sorriso e quel dolore nel suo cuore di vetro che si mangiava ogni cosa, lentamente.

 

* * *

 

«Allora ci vediamo all’alba» Hellionor provò ad alzare gli angoli delle labbra, tentando una smorfia amichevole. Enea, dal canto suo, le aveva risposto con un mezzo sorriso stanco e un «buonanotte» biascicato con la sigaretta in bocca.

Le cose sembravano migliorate. Hellionor entrò in stanza, chiudendosi la porta alle spalle con un sospiro. Fare il giro del villaggio e chiedere ai suoi abitanti della sparizione delle pecore era stato più difficile del previsto. Solo un pastore aveva avuto il buon cuore di parlare con loro e spiegare la situazione… in tutti i casi non avevano scoperto niente di più di quello che sapevano già, e la cosa li aveva demoralizzati.

In quel caso, non rimaneva che andare per i pascoli e cercare l’Innocence. Si tolse la casacca della divisa, tirandosi le maniche della maglia fino ai gomiti. Seduta vicino al camino, riusciva a vedere le cicatrici che le decoravano le braccia e le mani tingersi di un dorato prezioso, in contrasto con il pallido della sua pelle.

Era la parte della sua vita che odiava di più. Sospirò, afferrando dal piccolo borsello attaccato alla cintura la versione ridotta di un pugnale, grande quando una lama da barbiere. Non avrebbe mai voluto fare una cosa del genere davanti ad Enea o Rebecca – in realtà, non avrebbe voluto fare una cosa del genere davanti a nessuno.

La mano le tremava ancora, oscillava di qualche millimetro a destra e a sinistra fino a quando la punta del ferro non le sfiorava la linea della vita, incidendola e colorandola di rosso. Il sangue caldo si infiltrava in tutte le pieghe della sua mano e le sfiorava la pelle come la carezza premurosa di un fantasma.

Si concentrò, ascoltando il suo cuore battere più velocemente e quella punta di ferro martellare. Era un brivido freddo che le attraversava il braccio e raggiungeva la punta delle due dita. Il cremisi si cristallizzò lentamente in piccoli diamanti rossi che, sotto gli occhi stanchi e le palpebre socchiuse di lei, si fondevano. Si sentiva stanca per il viaggio e per la ricerche, desiderò il letto con tutta sé stessa mentre il suo sangue prendeva vita tra le sue dita.

Si fasciò la mano mentre la ferita iniziava a bruciare e farle male. Con la destra, appoggiò la lancia vicino al muro, osservandone il bastone liscio e levigato, quasi lucido, fatto con il proprio sangue.

Si stese sul letto e chiuse gli occhi.

Bisognava donare la vita all’Ordine Oscuro.

Lei donava il suo stesso sangue.

 

* * *

 

Enea si tolse la casacca dell’uniforme sedendosi sul letto, osservando la sua Innocence abbandonata sul comodino. I due occhi gialli, incastonati poco sopra il manico delle due sciabole gemelle, sembravano fissarlo, chiedendo di essere liberati.

Sospirò, stendendosi, cercando di capire che diavolo stesse succedendo in quel posto carico di superstizioni stupide, dove il loro arrivo era bastato per far sì che la gente si richiudesse nelle loro case. Chiuse gli occhi, gli spifferi d’aria s’infiltravano da qualche parte, accarezzandogli il viso e le braccia scoperte dalla maglia nera che indossava.

Aveva bisogno di dormire, lui come Hellionor, e ripartire da capo il mattino dopo, con calma, cercando di estrapolare gentilmente altre informazioni utili.

D’un tratto un guaito squarciò il silenzio che lo avvolgeva: i cani abbaiavano e ringhiavano mentre i belati del gregge gli facevano da sottofondo, attenuandosi velocemente.

Si vestì in fretta, recuperò le sue armi e spalancò la finestra, deciso ad uscire da lì il più in fretta possibile.

Ma quando atterrò nel fango, davanti all’entrata della locanda, non c’era più niente. Solo il silenzio.

 

 

 

 


 

Note d’Autrici; do you wanna see my Mugen?

 

Insomma, a Hellionor tocca la sua prima missione.

Abbiamo deciso di portarla in Irlanda con Enea, facendole attraversare tre città (il porto, Drogheda e poi Slane) in compagnia del Conte Fiore, in modo da poter parlare abbastanza di entrambi, dato che sono due dei tre OC di questa storia. E… beh, non abbiamo molto altro da dire.

Già nel capitolo precedente abbiamo chiarito alcune cose su questa storia, ovvero che è stata scritta e ideata prima che si venissero a conoscenza di “cose” come, in questo caso particolare, l’Innocence Cristallo. In tutti i casi, ci sono delle peculiarità che rendono l’Innocence di Hellionor diversa dalla forma cristallo che si percepiranno nel corso della storia.

Ricordiamo che tredicesima notte fa riferimento al tempo che Hellionor sta passando all’Ordine e non è la numerazione del capitolo, non siamo impazzite.

Ci risentiamo per il 14 agosto e ringraziamo chiunque stia seguendo la storia in segreto

E buon compleanno Marian~

     papavero radioattivo




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Capitolo 4
*** quattordicesima notte ♦ La pietà non è un valore degli esorcisti ***



La meccanica del cuore

 

 

Í LA PIETÀ NON È UN VALORE DEGLI ESORCISTI Í

quattordicesima notte

 

 

 

 

 

 

Hellionor mugolò, stringendosi i cuscini alle orecchie mentre soffocava contro il materasso. C’era un deficiente che continuava a bussare alla sua porta, le urla le arrivavano ovattate per i guanciali che impedivano a quei fastidiosi tonfi di fracassarle il cervello.

«Ho capito!» urlò poi, mettendosi a sedere mentre una botta più forte colpì l’uscio, facendo tremare anche i vetri. Chiunque fosse, era intenzionato a spaccare quella porta se lei non fosse uscita entro trenta secondi dalle coperte. «Ho capito, ho detto!» disse, alzando ancora la voce, attraversando con tre falcate la stanza per spalancare quella maledettissima porta.

«Finalmente la principessa si è degnata di mostrarsi al cospetto di noi poveri stronzi!», Enea sembrava davvero furioso. Che aveva fatto ora, lei? Hellionor si sforzò di non sbattergli la porta in faccia, coprendosi la bocca prima di sbadigliare, «E hai pure il coraggio di essere stanca!» continuò lui, agitando le braccia in aria.

Rebecca, alle sue spalle, sembrava mortificata ed imbarazzata. Qualcuno sarebbe di sicuro andato a vedere che diavolo stava succedendo.

La ragazza respirò profondamente, come se quella sull’orlo di una crisi isterica fosse lei. Si passò entrambe le mani tra i capelli scombinati e si aggiustò la maglia della divisa, tirando giù le maniche.

«Mi dispiace, ok?» disse, cercando di mantenere la calma. Litigare (di nuovo) con Enea non rientrava nei suoi piani. «Cos’è successo?» chiese, osservando la sua espressione corrucciata che, in realtà, lo rendeva più vecchio di quello che era. Avrebbe voluto dirgli «su con il morale!», ma dato che qualsiasi cosa lei facesse sembrava fargli perdere le staffe, assecondarlo le sembrava la cosa migliore.

Dopotutto, era lei la «novellina».

«Vestiti» si limitò a dirle. Non era più paonazzo dalla rabbia, e il colorito abbronzato della sua pelle gli donava molto di più rispetto alla carnagione pomodoro che aveva pochi attimi prima. «C’è stato un attacco» spiegò brevemente, appoggiando una mano sulle due spade gemelle che teneva legate in vita alla cintura – non si era accorda che nell’impugnatura ci fossero due pietre simili a degli… occhi? Che cosa strana. «A quanto pare sono sparite delle pecore mentre tu te ne stavi tra le braccia di Morfeo».

Lei non conosceva nessun Morfeo.

Hellionor schiuse le labbra per chiedere informazioni sull’accaduto, ma un uomo arrivò quasi in scivolata dietro ad Enea, aggrappandosi all’esorcista, spingendolo a lato come per entrare nella conversazione.

«Nobili esorcisti!» ansimava per lo sforzo e, sebbene le guance fossero rosse per la corsa, il resto del volto era pallido e sudato, «Dovete venire subito!».

Rebecca sbucò afferrandolo gentilmente per le spalle, «Venga con me… è scosso. Se non si calma non potrà aiutare gli esorcisti e loro non potranno aiutare lei» aveva una voce tranquilla, che ispirava fiducia. L’uomo annuì, girandosi mentre scompariva assieme alla finder, lungo il corridoio e poi giù per le scale.

Hellionor sbirciò oltre la porta le due figure allontanarsi lentamente. Quando anche le loro ombre scomparvero, Enea sospirò, come per riacquistare l’attenzione dell’altra, «Tra dieci minuti ti voglio di sotto» disse severo, passando in rassegna tutta la stanza della ragazza.

Hellionor si sentì improvvisamente in imbarazzo: aveva lasciato la divisa a terra come il peggiore degli stracci e la sua valigia era stata capovolta sul tappeto, anche se non era affatto necessario. Le venne quasi da ridere quando si ricordò delle due mele mangiate sul davanzale della finestra e la bottiglia di sidro mezza vuota. Si fece forza, alzando lo sguardo verso Enea che, proprio come un padre, scuoteva la testa.

Si aspettava che le dicesse qualcosa tipo «Metti immediatamente in ordine la stanza, signorina, altrimenti niente cena!».

E invece non le disse nulla. I suoi occhi si soffermarono un attimo su qualcosa che Hellionor non riuscì a capire e poi si abbassarono, osservandola ancora un attimo. Poi, senza aggiungere nulla di più di quello che aveva detto, fece dietrofront e sparì nella stessa direzione di Rebecca e dell’uomo.

 

* * *

 

Scese le scale, stringendo la lancia nella mancina mentre con la destra si teneva al corrimano, prima di entrare nell’unica sala illuminata dal camino e dalle lampade ad olio. Appoggiò la lancia fuori dalla stanza – non voleva che quel poveraccio si spaventasse ulteriormente.

Aprì piano la porta, cercando di essere invisibile, ma i cardini la tradirono stridendo, accompagnando la sua entrata in scena con un lugubre lamento. Hellionor provò a sorridere, stringendosi nelle spalle, e si avvicinò alla poltrona su cui era seduta Rebecca che, sempre gentile, stava chinata verso l’uomo seduto accanto a lei.

«Come si chiama?» gli domandò.

L’uomo alzò il volto dalla ciotola fumante, «Senan» biascicò, «Stavo facendo rientrare le mie pecore dal loro giro vicino al Brú na Bóinne, la mia fattoria è al confine del villaggio, stavo guidando le pecore nel recinto quando la terra ha iniziato a tremare…».

Senan si bloccò, affondando il viso nel brodo caldo, singhiozzando. Hellionor non riusciva a capire se stesse piangendo per aver perso le pecore o per lo spavento. In qualche modo, si sentì davvero dispiaciuta. Avrebbe voluto avvicinarsi e poggiare una mano sulla spalla del vecchio, ma lo sguardo serio ed impassibile di Enea la congelò sul posto. Lui, a differenza di lei, non sembrava empatizzare per niente. In qualche modo, si sentì improvvisamente fuori posto.

Forse non era tagliata per fare l’esorcista. Da quanto era arrivata a Slane, non aveva fatto altro che guai e, di certo, non aveva dimostrato di essere «pronta ad agire».

Se voleva diventare una brava esorcista, se voleva diventare come Enea, allora era il caso di iniziare a muoversi. Si schiarì la gola, raddrizzando le spalle, sforzandosi di prestare attenzione al discorso.

«Il cane è scappato e le pecore sono andate in panico» disse, la voce era rotta dai singhiozzi mentre la scodella ballava tra le sue dita. Hellionor trattenne il respiro, era quasi sicura che sarebbe caduta da quella presa che le sembrava debolissima. «Si stavano spargendo per tutta la fattoria, c’è stato un enorme trambusto e si è alzata della polvere…» si fermò, respirando a fondo, «mi sono coperto gli occhi, ho sentito le pecore belare e poi il silenzio. Il mio Lucky è scomparso. C’era solo quella stupida pecora nera sbucata da non so dove. Neanche l’avevo vista!», uno spasmo lo colse di sorpresa e il brodo gli finì sulle mani, ma il caldo non sembrò fargli male.

Enea mosse le spalle accanto a lei, prima di avvicinarsi a Senan e chinarsi davanti a lui. Gli prese la ciotola dalle mani, appoggiandola sul tavolino davanti alle poltrone. «Aggiusteremo tutto» lo rassicurò, accennando ad un sorriso.

Allora anche Enea sapeva sorridere.

Senan sgranò gli occhi, alzandosi di scatto. La poltrona strisciò all’indietro sul parquet malconcio.

«È stato il demonio, nobili esorcisti» disse, «Quella pecora nera è stata mandata da Lucifero! Dove c’è lei le pecore scompaiono…». Alla luce del camino, il suo volto sembrava ancora più pallido. Gli occhi, chiarissimi, assomigliavano a due biglie di vetro, contornati da rughe rese più profonde dalle ombre sul suo viso. Il fuoco che ballava vicino a loro, sembrava le fiamme dell’inferno, «Il demonio si è mangiato le mie pecore e il mio cane!» continuò, prima di coprirsi gli occhi con entrambe le mani, tentando di soffocare il pianto.

Hellionor fissò Enea, ancora chinato a terra. Si aspettava che lo calmasse, che lo rassicurasse come aveva fatto poco prima. Invece il ragazzo si limitò ad alzarsi, controllando che la cintura fosse ben salda sulla vita. Fece il giro della stanza e, arrivato alla porta, si girò a guardarla, «Non vieni, Hellionor?» le disse retorico.

Non l’aveva chiamata spesso per nome.

Si girò a guardare un’ultima volta Senan, piegato in due dal dolore e dal terrore, mentre Rebecca cercava di tranquillizzarlo e i padroni della locanda comparivano dalla porta che collegava il salotto alla cucina. «Arrivo» annuì, avvicinandosi a lui, portandosi le mani alla nuca per controllare che i capelli fossero ben stretti nell’elastico.

La pietà non era un valore che gli esorcisti coltivavano.

 

* * *

 

Il villaggio era caduto nel silenzio più totale. Le poche persone uscite all’alba dalle loro case stavano facendo immediatamente ritorno, mormorando preghiere e facendo ripetuti segni della croce. Chiudevano le finestre, lanciando loro occhiate che Hellionor non riusciva a capire.

Quando il vento si alzava, riusciva a sentire l’odore della cenere provenire da ovest. Era un profumo stranamente dolce per essere assimilato alla morte. Si girò verso Enea quando l’apertura metallica della sua tabacchiera scattò, lo osservò mentre si accendeva la sigaretta e poi ritornò a guardarsi attorno, in silenzio.

«Prima perlustreremo la zona di Brú na Bóinne, a cinque chilometri da qui» la informò lui, «Poi passeremo in rassegna tutte le fattorie e cerchiamo qualcuno che possa dirci di più su questa dannatissima pecora nera».

Sembrava stressato. Forse pensava che la missione sarebbe stata molto meno complicate di come si presentava.

«Credi che sia l’Akuma?» gli domandò senza interesse, calciando le pietrine dalla propria strada.

«Da quello che ha detto Senan, la pecora nera era presenta in tutti gli attacchi» commentò, «Nel fascicolo della missione, inoltre, è stato scritto che queste scomparse sono iniziate quando un uomo ha ceduto il suo gregge ad un vecchio amico, dato che doveva partire per l’America».

Enea si girò a guardarla. Non l’aveva mai fissata in quel modo così diretto – era uno sguardo molto diverso da quelli che aveva ricevuto nelle sue prime due settimane di permanenza all’Ordine. C’era qualcosa, in quegli occhi verdi, che la faceva sentire fuori posto. Si sentiva giudicata.

Spostò lo sguardo, osservando la fila di finestre chiuse.

«Se l’Akuma è la pecora, ucciderlo non sarà difficile» commentò, «Anche se dubito che quella sia la sua vera forma».

«Suppongo che bisogna essere sempre pronti a tutto…» borbottò lei.

«Vedo che inizi ad entrare nella logica dell’esorcista».

Evidentemente, nella testa di Enea, quello doveva essere un complimento.

«Non ho altra scelta» scherzò lei, spostandosi la lancia da una mano all’altra, prima di aumentare il passo ed uscire dai confini del villaggio.  

 

* * *

 

Hellionor si lasciò cadere a terra, appoggiando le spalle al recinto vuoto. Sospirò, passandosi le mani sulla fronte imperlata di sudore, nonostante le temperature iniziassero a calare. Il freddo le stava congelando le orecchi e il naso e respirare sembrava diventare sempre più difficile.

Stupida lei che aveva acconsentito a badare tutta la notte all’ultimo gregge di Slane! Sospirò, osservando Enea mentre buttava a terra la cicca e la spegneva con il tacco degli stivali. Contro ogni sua previsione, lo osservò mentre estraeva le sue due sciabole, puntando le pietre verso il basso, mentre i polsi erano rivolti verso il cielo del tramonto, tinto di arancione e viola. Sentì un fischio leggero, osservando le labbra increspate di Enea, era ovvio che fosse lui ad intonare quelle due note – risuonavano nella landa infinita di quella contea. Un brivido le attraversò la schiena, aveva l’impressione di essere la spettatrice di un rito celtico e assolutamente personale, come se Enea stesse offrendo la sua vita al cielo e alla terra. Avrebbe voluto alzarsi ed avvicinarsi, cercare di capire meglio che cosa stesse facendo.

Le due sciabole iniziarono a deformarsi, allungandosi all’indietro, prendendo velocemente la forma di un quadrupede. Erano più grandi di qualsiasi animale lei avesse mai visto e, doveva ammetterlo, di una bellezza che non apparteneva a quel mondo. Osservò mentre acquistavano forma e colore, uno bianco e l’altro nero, diversi nei dettagli ma, in qualche modo, simili. Li guardò mentre mugolavano come fossero dei cani, chinando il capo per appoggiare il muso sui polsi di Enea. Le sembrò che il ragazzo ridesse, mentre alzava le mani per lasciare delle carezze al capo dei due animali.

Poi, d’improvviso, quello nero si alzò su due zampe, appoggiandosi sulle spalle di Enea che dovette piantare bene i piedi a terra per non cadere all’indietro. L’animale strusciò ripetutamente il volto a quello del padrone, e la risata di Enea si diffuse per tutta la pianura.

Hellionor sorrise. C’era qualcosa di magnifico in quella scena, e il contatto delicato con cui i due animali avevano sfiorato i polsi di Enea la fece di nuovo rabbrividire. Era come se lui avesse lasciato la propria vita in mano a quella che, ormai era chiaro, fosse la sua Innocence. Non poteva nemmeno immaginare che legame ci potesse essere con l’Innocence –  quella vera – e si sentì improvvisamente una ladra ad aver assistito a tutto quello.

I due animali si sedettero davanti ad Enea, le code lunghissime si agitavano, sfiorando l’erba come una carezza. L’esorcista mormorò qualcosa a bassa voce, continuando ad accarezzare i musi dei due animali, prima di fischiare nuovamente ed osservarli girarsi e correre, sparendo dietro la fattoria.

Enea si girò verso di lei, raggiungendola poi a terra, liberando una nuvoletta bianca dalle labbra.

«Era la tua Innocence?» domandò Hellionor, stringendosi le ginocchia al petto, cercando di scaldarsi.

«Sorrow e Severance» rispose, infilando le mani sotto la giacca, «Sono degli spiriti animati dall’Innocence, diciamo» in qualche modo, le sembrava che Enea stesse cercando di spiegarle le cose nel modo più semplice possibile, «Le mie sciabole sono state forgiate nella sede Asiatica tantissimi anni fa, e sono un po’ combinate con la magia… non è una cosa così inusuale, alla fine».

Prima che lei potesse fargli altre domande, Enea si alzo, stiracchiandosi con le mani a sorreggersi la base della schiena, «Cerchiamo un posto dove poter sorvegliare le pecore senza morire di freddo» le suggerì, indicandole il fienile. Hellionor si alzò, pulendosi il sedere dalla terra e dall’erba umida mentre lo seguiva, cercando di formulare una domanda sensata, «Quindi l’Innocence può dare un corpo a degli spiriti?».

«Può anche dare vita a delle bambole» ribatté lui, «Far muovere o scomparire gli oggetti, dominare gli elementi naturali, il tempo» fece una pausa, come se dovesse preparasi a rivelarle qualcosa di veramente importante, «Si dice anche che possa far ritornare in vita le persone» sul suo viso c’era un sorriso triste.

«Davvero?».

Enea alzò le spalle, prima di spalancare la porta del fienile, tenendola aperta per farla entrare, «Il Signore opera per vie misteriose» le disse, accendendo le lampade ad olio appese vicino all’entrata, prima di chiudere la porta.

L’idea di passare la notte a guardare delle pecore recintate dalla finestra di un fienile non le piaceva. Ma di certo non si sarebbe lamentata. Le era già capitato di dormire in una fattoria, in Francia, e il fieno, nonostante pungesse, rimaneva comunque abbastanza comodo e caldo.

«La tua, invece?» la domanda le arrivò di sorpresa. Hellionor si pietrificò sul posto e il fieno quasi le cadde dalle mani.

«La mia Innocence, dici?» appoggiò a terra le balle di fieno, ritornando indietro a riprendersi la lancia, abbandonata contro il muro «È parassita» si limitò a spiegare, sedendosi poi sul cumulo di fieno, piantando gli occhi verso la finestra. Se si dimostrava attenta a fare il suo lavoro da esorcista, forse avrebbe smesso di farle domande.

Enea si avvicinò, l’odore di sigaretta ed erba che si era depositato sulla sua divisa le impregnava le narici. La sua presenza, in qualche modo, ora sembrava soffocarla. «Capisco…» le disse, facendo morire lì in discorso.

Il pastore stava rientrando, mettendo le sue pecore nel recinto. Non era successo niente, a differenza di quanto Senan avesse raccontato, e anche per le due ore successive non c’erano state anomalie. Hellionor sospirò, alzandosi e sbadigliando. La moglie del contadino era entrata nel fienile, offrendo loro del sidro per scaldarsi durante la loro permanenza. Li ringraziò per quello che stavano facendo anche se, mentre usciva, borbottava preghiere e divagava su come il diavolo fosse impossibile da scacciare senza il diretto intervento divino.

«Vado in bagno» sentenziò Hellionor, sciogliendosi i capelli per rilegarli nuovamente, stringendo il laccio.

«Non c’è un bagno nel fienile».

«Lo so, avevo intenzione di andare dietro al cespuglio qui fuori, in realtà» sorrise lei, incamminandosi verso la porta, «Vuoi controllare?».

Enea si girò nuovamente verso la finestra ed Hellionor sorrise, aprendo la porta quel che bastava per sgusciare via. Non aveva visto molte donne nell’Ordine e, in realtà, aveva iniziato ad avere seri dubbi che Enea conoscesse qualcuno del sesso femminile al di fuori di Rebecca e la certa Lenalee Lee con cui aveva fatto il viaggio verso la Sede Centrale. Lei era cresciuta in un Orfanotrofio fatiscente e poi per strada – se aveva avuto buone maniere da sua madre, di certo le aveva dimenticate. Avrebbe dovuto seguire anche tutte quelle imposizioni che la società dava per le donne? Essere sempre educate e gentili? Sospirò, facendo ritorno al fienile: non ce l’avrebbe mai fatta. Piuttosto che imparare tutto quello che non aveva imparato in diciotto anni di vita, avrebbe di certo preferito cambiare sesso.

«Come mai indossi quella cosa?» chiese Enea, osservandola mentre si stringeva la fascia in vita.

«Mi aiuta a tenere dritta la schiena» disse lei, stringendo il nodo di quella specie di cintura arrangiata. Era sincera – ma a quanto pare Enea non l’aveva presa sul serio e rideva sotto i baffi, «Guarda che dico sul serio!» ribatté lei, allungandosi verso di lui, «Ogni tanto ho mal di schiena e mi hanno sempre detto di provare almeno a tenere la schiena dritta, dato che ho i piedi che vanno in dentro e le spalle un po’ chiuse» borbottò, incrociando le braccia.

Le pecore iniziarono a belare, agitandosi nel recinto mentre la terra sembrava davvero tremare. I cardini dell’entrata della staccionata saltarono giù e le pecore si sparsero per la pianura, mentre le scosse diventavano sempre più forti. Hellionor afferrò la propria arma mentre Enea correva verso l’entrata, uscendo dalla fattoria.

Sembrava uno scherzo del destino. Le pecore sparivano una ad una, come ingoiate dalla terra, e di loro non rimaneva altro se non cenere e polvere. Dalla casa, i due contadini uscirono in vesti da notte mentre la donna iniziava ad urlare, disperandosi nel vedere la loro fonte di sostentamento sfuggire davanti ai loro occhi. Immediatamente Sorrow e Severance fecero la loro comparsa, correndo verso le poche pecore rimaste.

Il silenzio accompagnò la polvere mentre si depositava a terra, e i due spiriti mugolavano grattando a terra, con il muso nella cenere.

In lontananza, la pecora nera brucava in solitudine, scuotendo il campanello che teneva attaccato al collo.

Enea guardò la sua innocence correre nel prato, sembrava confusa, continuava a scavare con le zampe e ad uggiolare mentre lui ed Hellionor se ne stavano lì, cercando di capire che diavolo stessero facendo.

«Grattano la cenere» gli disse Hellionor, e la frase lo infastidì quanto il non riuscire a richiamare e ad acquietare i suoi animali.

«Non è quello che dovrebbero fare, dato che sanno fiutare gli akuma» le rispose tendendo il braccio con il palmo verso l’alto, fischiando una melodia diversa per ordinare a una sola delle due armi di disattivarsi.

Hellionor avrebbe voluto dirgli che forse funzionavano un po’ male, e che invece dell’akuma stessero fiutando il suo veleno, ma mentre la voce del pastore urlava che la pecora era una creatura di satana, una grossa voragine si aprì sotto di questa, trascinandoli in un turbinio di terra e polvere che li separò dalla fattoria.

Sentì la voce di Enea chiamarla, l’ululato di Sorrow riecheggiare attorno a loro mentre la terra sotto i loro piedi vibrava e si crepava in grosse zolle d’erba, e poi una figura grande e scura comparve dal sottosuolo, seguita da un’altra identica a questa. Il grosso naso a trivella spazzava via tutto quanto, lasciando intatta solo la parte che circondava la pecora nera, avvolta da un alone pallido e fluorescente.

«La pecora è l’innocence!» l’affermazione di Enea le arrivò lontana sebbene avesse urlato per farsi sentire, coperta dal suono metallico della trivella che picchiava contro la corazza che proteggeva quell’ammasso di lana nera deforme. Ci mise un attimo per ingranare, il tempo di guardare Enea sul dorso di Sorrow con la lama sguainata, e poi si lanciò nella mischia, stringendo la lancia fra le dita. La scagliò con tutta la forza che aveva in corpo, colpendo senza nemmeno scalfire  il primo akuma, riuscendo però a distogliere la sua attenzione dal frammento di innocence.

Riusciva chiaramente a vedere quel grosso mostro metallico venire verso di lei: gli mancavano gli occhi, e dal momento che il suo naso non poteva essere utilizzato per sentire gli odori non aveva idea di come facesse ad orientarsi.

Corse veloce verso uno degli alberi che costeggiavano il prato, cercando un momentaneo riparo per riuscire a formare una nuova arma, magari più efficace, quando qualcosa le afferrò l’uniforme con i denti, scaraventandola su un letto di soffice pelo bianco e morbido. Strinse la presa attorno alla criniera folta che arrivava fino alla schiena dell’animale, e poi si girò cercando Enea con lo sguardo, trovandolo alle sue spalle, a cavallo di Sorrow con la pecora che belava e scalciava fra le braccia.

Le aveva appena salvato la vita.

«Seguono le vibrazioni del terreno e l’innocence» le comunicò affiancandola, mostrandole poi la sua lancia spezzata a metà, «E penso che la tua arma si sia rotta» le comunicò tendendo una mano per passargliela, ma Hellionor l’afferrò lanciandola a terra, afferrando svelta il pugnale che teneva nella cintura.

Si tagliò il palmo della mano, prestando attenzione a non cadere dal dorso di Severance, e poi pensò intensamente a un arco, lasciando che il sangue le scorresse sul palmo e prendesse la forma dell’arma che aveva immaginato.

Sorrise soddisfatta mentre Enea la guardava basito, cercando di capire come fosse possibile quello che aveva appena fatto.

«Crei armi con il tuo sangue?» le chiese, e lei si limitò ad annuire. Per lui non era difficile immaginare che una cosa del genere fosse possibile, aveva visto così tanti esperimenti fallimentari prima dell’arrivo di Komui, alcuni peggiori di quello che probabilmente aveva davanti.

Avrebbe dovuto capirlo subito che lei non era un normale esorcista, dopotutto aveva affermato che la sua innocence fosse parassita, eppure aveva visto la lancia nella sua stanza. L’unica cosa che non quadrava era che quel genere di esperimenti non erano più legali da anni, e che Hellionor  era comunque lì al suo fianco.

Inspirò profondamente girandosi a guardare i due grossi akuma che li seguivano, ripetevano in modo inquietante le stesse tre frasi.

«Vi bucherò il cervello» sbraitò quello di destra, fermandosi di colpo e puntando la trivella sul terreno, sparendo sottoterra assieme al secondo.

Enea fischiò ordinando alla sua innocence di andare più veloce, rivolgendo poi lo sguardo verso Hellionor «Io vado avanti, tu attaccali alle spalle, se  non ti  muovi non ti sentiranno» le disse, breve e coinciso, e poi con altre due note Severance la posò sopra un grosso masso, lasciandola lì da sola.

Li osservò allontanarsi mentre con un altro comando le due innocence cambiavano forma, avvolti da piante rampicanti e fiori colorati. L’erba sotto le loro zampe si allungava e intricava in un’immensa rete che copriva il terreno mentre lei tendeva l’arco e una freccia nera si materializzava sulle sue dita, pronta ad essere scoccata.

Vide Enea fermarsi di colpo mentre l’ennesimo fischio le arriva alle orecchie, distante nel silenzio della notte, e poi la bestia sulla quale aveva galoppato fino a poco prima fu invasa da un turbinio di fiamme rosse e gialle che ondeggiavano nel vento come una criniera.

Ci fu un attimo di calma sconcertante, e poi la terra tremò di nuovo e gli akuma uscirono allo scoperto, riemergendo dal sottosuolo con un boato. Il primo rimase incastrato nella rete, si dimenava cercando di liberarsi da quella prigione di rami e foglie, ed Hellionor chiuse un occhio prendo la mira, cercando di essere precisa e di non sbagliarsi. Inspirò profondamente e poi scagliò la freccia che trapassò in fretta il petto di quella grossa talpa, senza però farla esplodere.

«Cazzo!» sibilò fra i denti tendendo di nuovo l’arco, mentre l’altro akuma forava il terreno con il suo naso, provando a colpire Enea e i suoi due grossi animali.

Hellionor scagliò un’altra freccia, e poi un’altra ancora, ma sebbene ad ogni colpo il mostro urlasse, non voleva comunque saperne di esplodere come faceva di solito. Vide il livello due afferrare con una delle sue zampe Sorrow, e poi scaraventare lontano lui ed Enea, ancora sulla sua schiena.

Doveva fare qualcosa.

Tese di nuovo l’arco mentre l’ennesima freccia si materializzava, e quanto le sue dita scoccarono il colpo, un vortice di liane e piante avvolsero entrambi gli akuma, stringendoli e strozzandoli. Il primo esplose dopo qualche secondo, come un palloncino gonfiato troppo stritolato dalle mani di un bambino, e il secondo venne trapassato dalla sua freccia all’altezza del naso, sparendo in uno scoppio secco.

Hellionor abbassò l’arco saltando giù dalla roccia sulla quale l’avevano abbandonata, osservando Enea venire verso di lei con la pecora in braccio, seguito da Sorrow e Severance, tornanti nuovamente uno bianco e uno nero. Scodinzolavano felici, come dei cani che avevano appena ricevuto un biscotto, smuovendo appena l’erba sotto i loro piedi.

Sorrise osservandolo mentre zoppicava appena, probabilmente per colpa del volo che l’akuma gli aveva fatto fare, e quando le fu vicino lasciò la pecora sull’erba, estraendo la tabacchiera dalla tasca.

«Sei stata brava» le disse accendendosi la sigaretta, posandole una mano sulla spalla prima di fischiare, richiamando gli animali che poggiarono i musi sui suoi polsi, dissolvendosi e prendendo nuovamente la forma di due sciabole fra le sue dita.

 

* * *

 

Enea si stiracchiò infilandosi la maglia scura, uscendo dalla stanza della locanda per raggiungere Hellionor al piano di sotto.

Si passò una mano fra i capelli ancora umidi, e poi scese le scale, osservando la ragazza seduta sul tappeto, avvolta nel maglione. Accarezzava il pelo della pecora che belava e ruminava il fieno che Hellionor le dava.

«Dobbiamo ucciderla per recuperare l’innocence» le disse, cercando di non darle false speranze. Così com’era non sarebbe servita a nulla, e Hebraska non avrebbe di certo potuto custodirla assieme alle altre. «Io non ho intenzione di farlo, quindi…».

«Mi stai dicendo che vuoi che uccida Dolly?» la sua espressione era sconvolta, ma non tanto quella di Enea.

«Dolly? Hai dato un nome alla pecora?» le domandò incredulo, ridacchiando istericamente mentre si passava le dita fra i capelli, «Non si danno i nomi alle cose, poi ci si affeziona e noi dobbiamo ammazzarla!» continuò a rimproverarla, lasciandosi poi cadere con un sospiro su una delle poltrone.

Silenzio.

Hellionor continuava ad accarezzare la pecora, mentre lui pensava ad un modo per recuperare l’innocence senza che fosse lui a doversi sporcare le mani con il sangue di un animale innocente.

«Potremmo darla al macellaio del posto» suggerì, ma Hellionor lo guardò come se avesse appena dichiarato di essere un assassino seriale.

«No! Ci dev’essere un altro modo» brontolò come una bambina, affondando le dita nella lana scura dell’animale, ed Enea sospirò, arrendendosi al fatto che sarebbe toccato a lui l’infausto compito di sventrare quella povera pecora nera.

 

 

 

 

 

                    

 

 

 

 

Note d’Autrici; do you wanna see my Mugen?

 

Prima di tutto, ci scusiamo immensamente per il ritardo con chiunque stia leggendo la storia! È stato un periodo molto… “intenso” per entrambe e, diciamo, che abbiamo cercato di fare un po’ di vacanze anche dalle fanfiction (tutti ne hanno bisogno, eh!). Ora, però, è il momento di riprendere il giro, e quindi la pubblicazione e la scrittura.

Il capitolo in questione è stato scritto ancora a luglio, ma almeno ci siamo “portate avanti”… cosa dire? In realtà, niente di speciale, la missione in Irlanda ha fatto il suo corso, Hellionor ed Enea si sono “conosciuti” un po’ di più e i lettori hanno conosciuto un po’ meglio Hellionor… a questo proposito, ribadiamo che il suo personaggio è stato ideato prima ancora di venire a conoscenza dell’Innocence di tipo cristallo, e che la somiglianza tra le due cose è totalmente non voluta! ;; In tutti i casi ci saranno degli sviluppi riguardo il suo personaggio e la sua Innocence, e speriamo che la piega che prenderà la storia (assieme a tutti i personaggi presenti e futuri) sia comunque di vostro gradimento.

 

Al prossimo aggiornamento!

papavero radioattivo

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