L'Ombra della Luce

di Manto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Dea del Lago ***
Capitolo 2: *** Cuore Cangiante ***
Capitolo 3: *** Un Uomo Diverso ***
Capitolo 4: *** Luci Solitarie ***
Capitolo 5: *** L'avvento di un Amore ***



Capitolo 1
*** La Dea del Lago ***




L'Ombra della Luce




I - La Dea del Lago




Ricordo la prima volta che vidi il lago. Era il crepuscolo e ogni cosa riluceva degli ultimi raggi del Sole: scorsi lo scintillare delle sue acque dal fiume in cui mi stavo bagnando, e tramutandomi in acqua penetrai nella terra e lo raggiunsi.
Quando infine riemersi compresi di trovarmi nel liquido, cristallino cuore dell'area sacra alla Cacciatrice, nei pressi del sussurrante bosco di Nemi. Mentre l'astro dorato moriva lontano e la grande Luna saliva, pensai che una parte dell'immenso cielo fosse caduta e si fosse tramutata in quello splendore; quindi sentii il freddo ferro mordermi la schiena, e voltandomi incontrai gli occhi infuocati di un giovane cacciatore.
Questi mi afferrò per un braccio, mi trascinò fuori e io urlai spaventata, temendo che mi facesse del male, che mi volesse violare.
“Conducila da me, Virbio [1]. La voglio vedere”, sentii allora dire una voce, potente e come sprigionata dal suolo stesso, mentre venivo trascinata all'ombra del bosco e gli alberi si chiudevano su di me, come fossi un uccello preso al laccio.
Il giovane mi portò in una radura luminosa, e mi lasciò andare. Caddi a terra e feci per trasformarmi e fuggire, ma i fiori si strinsero intorno al mio collo, quasi mi soffocarono.
La luce sembrò aumentare, quando la Luna passò sopra di noi e comparve lei, la Regina del Bosco, che in una terra al di là del mare chiamavano Signora delle Fiere. [2] Essa mi guardò attentamente e posò una mano su di me. “Una Camena, una divinità delle fonti. Sei una Ninfa antica e potente, ma non così tanto da penetrare in questo bosco senza il mio permesso.”
Deglutii e per la prima volta nella mia vita ebbi paura, mentre la Dea corrugava la fronte e sentiva i miei pensieri. Sorrise, quando comprese il motivo che mi aveva portato a violare la sacralità di quel luogo. “Il tuo cuore è puro come l'acqua di cui sei figlia, Egeria, e per questo non ti farò del male; ma in cambio tu mi servirai.”
Fu da allora che iniziai a vivere sotto Diana, all'ombra delle profumate querce; fu grazie a lei, seguendola e servendola, che conobbi loro, quegli umani da cui ero sempre fuggita per paura e ribrezzo.

Ricordo la prima volta che vidi gli occhi di una donna.
Era prossima al parto, e bastava un solo sguardo al corpo troppo magro, agli occhi incavati e resi lucidi dalla malattia, per comprendere che non ce l'avrebbero fatta né lei, né il piccolo che portava in grembo. La vidi fermarsi nei pressi del bosco e gettarsi al suolo, implorando la protezione di Diana.
La Dea, mossa a pietà, stava per alzare la mano, ma io la precedetti. Una forza estranea a me mi spinse ad abbandonare l'ombra della Dea e ad avvicinarmi alla donna.
Mi inginocchiai davanti a lei e le presi delicatamente il viso. La fissai negli occhi, vidi in essi scorrere tutta la sua vita. Per la prima volta, seppi cosa voleva dire essere un Mortale: essere felici con pienezza, perché ogni istante per lei poteva essere l'ultimo, e quindi ringraziava quell'attimo di vita concessa con tutta sé stessa.
Fui io, e non Diana, a benedire il suo bambino; e quando lei se ne andò, guarita, la Dea venne da me, che ancora ero inginocchiata. “Ho visto nei suoi occhi”, le sussurrai, lo sguardo perso all'orizzonte, “non so quello che ho fatto. Ho solo pensato che non era giusto che morissero, lei e il bambino. E la malattia l'ha abbandonata.”
La Dea sorrise, mi accarezzò i capelli. “Imparerai ad amare gli uomini, se lo vorrai.”
Alzai lo sguardo verso la mia Signora. “Lo voglio.”
Di nuovo, lei sorrise. “Veglieremo su di loro fin dal concepimento. Sarai, come me, protettrice del parto, e grandi gioie verranno a te... ma anche sofferenze, quando la Morte vincerà, e tu non potrai niente contro le sue nere mani.
Ricordati: il dolore non risparmia nemmeno noi Immortali. E questo potrebbe ucciderti.”
Tacqui, per qualche istante. “Sono pronta a soffrire con loro. Non li abbandonerò.”

Ricordo quando tutto ebbe inizio, quando scelsi di condividere la mia vita con gli uomini.
Noi Immortali non siamo capaci di rallegrarci in certi momenti più che in altri, noi non comprendiamo la fine; eppure anche per me quel giorno fu diverso.
Come ogni anno tutta la Sabina si riunì presso il bosco; la primavera stava per schiudersi, e il popolo ci pregò a lungo di concedere i fiori e i frutti, di lasciar risvegliare la Natura.
Rimasi accoccolata tra le acque del placido lago per tutta la cerimonia, a guardarli danzare e cantare, gli Umani, a levare inni e preghiere in nostro onore; rimasi ferma, sorridente, nella mia azzurra dimora, anche se il desiderio di unirmi a loro era feroce.
Ecco che poi si avvicinarono le giovani madri e le future spose, e il loro canto riempì l'aria. Unii il battito del mio cuore al loro, come spesso faccio, perché mi piace sentire la musica che ne scaturisce, l'unione insolita ed emozionante dell'eternità e della mutevolezza; e allora, udii il suo.
Molto più forte degli altri batteva, superava anche il mio; e per questo io mi fermai, rimasi in ascolto. Quello strano cuore rallentò e una voce mi raggiunse attraverso la terra: “Egeria.”
Qualcuno mi chiamava, la sua voce era piena di tempo, di cambiamento: era umana... un Mortale mi sentiva e, lo sapevo, mi vedeva.
Emersi in superficie prendendo la forma di un'onda, gettai il mio sguardo lontano. I miei occhi incontrarono quelli di un bimbo, che con lo sguardo pieno di trepidazione fissava il lago, e me.
Percepiva la mia presenza... e nessuno lo aveva mai fatto.
Ebbi un tremito, quando vidi il bambino sfuggire all'attenzione degli adulti e dirigersi alle mie rive. Mi ritrassi, mentre lui continuava ad avanzare; poi con orrore compresi che la sua sorte sarebbe stata segnata, se avesse varcato la soglia di Nemi, violando i limiti sacri. Penetrai nel sottosuolo, e vi rimasi fino a sentire i passi del bimbo sopra di me.
Questi gridò, quando mi sollevai dalla terra in tutto il mio splendore e bloccai l'entrata del bosco; poi ci guardammo, e...
Mai il mio cuore creò una musica così intensa. Lo guardavo, e intanto gli alberi intorno si caricavano di fiori, ninfee dai mille colori scaturivano dalle acque, e gli uccelli cantavano la musica degli Dèi. La folla si fermò, sbigottita, mentre l'inverno retrocedeva e la vita si risvegliava, potente e incontenibile. Ma le loro voci stupite, allarmate e infine gioiose mi giungevano fioche; io continuavo a fissare gli occhi del piccolo.
Cercai di indietreggiare, quando lo vidi alzare una mano verso di me; ma non riuscii, e anzi mi ritrovai a terra, in ginocchio, a poca distanza dal suo volto. Non tremai mentre le sue piccola dita si stringevano intorno ai miei capelli e scendevano seguendo la curva dei riccioli.
Poi mi riscossi, balzai indietro. Il bimbo si spaventò e corse via da me, dalla propria madre; io rimasi a fissarlo per qualche istante, quindi rientrai nel lago, tremante, e da lì non mi mossi.

E ora sono qui con me stessa, e ancora non riesco a calmarmi, a togliermi il pensiero di quegli occhi infantili, innocenti, pieni di una luce che vedo solo nelle immobili stelle.
Alla Luna chiedo se quegli occhi non siano stati creati per me e fosse sempre stato nel mio Destino... innamorarmene.


*************


Chino il capo, mentre la Ninfa parla. Sono più potente, sono la Signora di Nemi, ma davanti alle sue lacrime furiose non posso che retrocedere.
Camenia osserva l'orizzonte, inquieta e tremante, e scuote il capo.
Sospiro. “Non sei l'unica a soffrire.”
La Ninfa si volta, gli occhi che luccicano per l'ira. “Il suo posto è accanto a Virbio. Non può... deve stare lontano dagli umani.”
“Lo sai che non è così. Tu hai visto.”
“Io posso sbagliare!”
L'urlo scuote il bosco e io alzo il capo e contraccambio lo sguardo infuocato. “Basta così, Camenia.”
Il mio tono duro non concede repliche; gli alberi tremano, sento le loro grida di sofferenza mentre la mia ira si sprigiona e la Ninfa china il capo, mordendosi le labbra. Getta uno sguardo al lago, chiude gli occhi. “Non voglio perderla. Non potrei sopportarlo.”
Corrugo la fronte, e il mio furore si attenua. “Le tue parole sono vane. Rassegnati: il Fato ha mosso i suoi fili, ed è giunto il momento che tua sorella diventi quello che è nata per essere.”
“Egeria è la protettrice della Fertilità. Questo è destinata ad essere, per sempre.”
Volgo lo sguardo altrove per non rispondere, e il pianto di Camenia diventa senza freni. “Ti prego... grande Dea... tutti noi soffriremo.”
Singhiozzo con lei. “Sì, soffriremo... anche se niente sarà, il nostro dolore, in confronto al suo.”
Camenia smette di piangere e digrigna i denti. “Lo vedremo, se questo accadrà.”
Mi volto di scatto. “Non osare...”
La Ninfa non c'è più.
“Mia Signora.”
Mi volto, e Virbio avanza, silenzioso e triste. Non ho il coraggio di guardarlo, di mostrargli quanto sia debole, io, la Signora della Vita. “L'avresti amata, Virbio?”
Il cacciatore annuisce, e io accenno un sorriso. “Accada quello che il Fato ha deciso e che noi non possiamo mutare... ma non lasceremo sola la nostra bambina. Vero, che non la abbandoneremo?”
Lui annuisce di nuovo. Non parla, il dolore è troppo grande.
Io mi accascio tra le sue braccia, e fiori bianchi come neve scaturiscono dalla terra nel punto in cui le mie lacrime cadono.



NOTE

[1] Virbio: Altro nome di Ippolito, datole da Diana dopo averlo riportato in vita e condotto a Nemi (significa infatti “uomo due volte”, rinato).

[2] Signora delle Fiere: in greco, Potnia Theron, epiteto omerico di Artemide.


ANGOLO DELL'AUTRICE


Salve a tutti!
Chi mi segue già da un po' sa che sono assidua frequentatrice del fandom mitologico e che sono “specializzata” nelle storie tristi, o con buona parte di tragedia.
La storia di Egeria e Numa la conobbi nel mio primo anno di liceo e in tutto questo tempo ha continuato a rimbalzarmi in giro per la mente l'idea di scriverla per farla conoscere a più persone possibili; ho deciso di personalizzarla anche un po', cambiando qualche cosa del mito, approfittando del fatto che si sa molto poco della vita di Egeria prima di conoscere il futuro Re di Roma e quindi della possibilità di avere ampi spazi di manovra... tuttavia, senza mutare la parte centrale e più importante.
Spero che vi abbia interessato... e a presto!


Manto

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Capitolo 2
*** Cuore Cangiante ***




II - Cuore Cangiante




Corre come un Immortale, al pari mio quando mi getto nelle più profonde fonti. Corre e il Sole gioca con i suoi capelli, parte della sua infinita luce si tramuta in essi.
Corre e io veglio su di lui da anni, che per me sono solo un istante.
“Numa, fermati! Non ce la facciamo più!”, gridano i suoi compagni, e il giovane scoppia in una risata, frena i suoi piedi.
“Muovetevi, avanti! Che cosa siete, tartarughe, forse?”, dice, e ancora la risata gli toglie il fiato, gli occhi brillano come stelle.
Gli amici lo raggiungono. “No, sei tu che discendi dai cerbiatti”, sbuffano questi, e lui scuote la testa. Io sorrido, guardandolo, e il mio cuore trilla di gioia.
Lui mi sente – lo fa sempre – e si irrigidisce; allora mi allontano, perché questo momento deve essere solo per lui e per i compagni. Mi ritiro nel grembo della terra e ascolto per un'ultima volta i suoi passi su di me, le risate, le grida; quindi corro a Nemi, dove qualcuno implora il mio aiuto.
“Egeria”, dice Diana, comparendo tra gli alberi silenziosi, mentre mi sto per immergere nel lago. Il suo sguardo è pieno di ansia e di una specie di rimprovero – come se temesse per me.
Io, come sempre, le chiedo perdono per aver dimenticato il mio ruolo e consolo e proteggo le madri, le spose, le figlie, chiunque chieda la mia mano caritatevole. Eppure il mio pensiero è sempre a lui; e così spesso trovo la mia Signora accanto a me, e guardandola mi accorgo di non aver ascoltato nessuna preghiera, di non aver accolto nessun canto, di non aver sollevato dal dolore nessuno di quei postulanti... perché io non sono qui, con loro. Perché nel mio cuore c'è spazio solo per un umano, ora.
“Egeria, fermati”, dice ora la Cacciatrice, e mi prende per un braccio, “smetti di fingere.”
Io boccheggio, la guardo senza comprendere... non la comprendo più da anni, ormai.
La sua bocca assume una piega piena di amarezza, mentre distoglie i suoi occhi dai miei. “Vattene da qui. Non mi puoi servire, così.”
Io indietreggio, impaurita dal suo tono. “Mia Signora...”
Ella trema per qualche istante, quindi il suo volto si illumina, quando compare un tenue sorriso. “Non posso trattenerti, mia cara. Perché tu vuoi andartene da qui, vero?
Vuoi correre da lui, sempre. E allora fallo, dolce Egeria.”
“Ma... tutta questa gente...”
“Riprenderò su di me il potere che ti ho concesso. Ma tu dovrai lasciare questo luogo.
Questo è un rifugio per gli uomini, Egeria; e tu li stai facendo solo soffrire di più, perché la prima a farlo sei tu.”
Mentre lei parla le grida delle partorienti, il suono delle loro lacrime diventa sempre più flebile, scivola via, mi abbandona. “Veglia su di lui... come io veglierò, comunque, su di te”, sussurra la Dea, e il bosco di Nemi le si chiude intorno, la allontana da me. Mi giro, guardo il lago: le sue acque mi paiono non più così belle... ora che non appartengo più ad esse.
Un fruscio, lontano: lo sguardo di Virbio è pieno di rabbia e inutile furore, perché non mi può seguire, perché non riesce a comprendere cosa provi di così forte per un umano, da spingermi a dimenticare chi io sia. E anche se il mio cuore grida forte la tristezza di lasciare questa casa, io non ascolterò.
Corro, corro nel vento come nebbia per raggiungere il giovane dai capelli dorati; e ora lo vedo, solo, gareggiare con i cavalli per le selve, lasciarsi alle spalle il giorno senza alcuna fatica, procedere nella mesta notte. Mi affianco a lui, e quando sente il mio richiamo si ferma.
Ci sediamo al suolo, sotto un albero, e io lo prendo tra le mie braccia, anche se ora ha superato venticinque inverni; lo faccio sempre quando il Sole muore, perché non abbia paura, perché niente incomba su di lui. Come tutte le notti lui affonda il viso nell'incavo tra il mio collo e la spalla, con abbandono.
Inizia sempre i nostri incontri con quella frase: “Raccontami della prima volta che ci incontrammo.”
Io sorrido e obbedisco, e lui mi accarezza i capelli. “La seconda”, implora.
Narro anche questa, seppure lui la ricordi. “Erano anni che ti cercavo, che volevo rivederti, ma Diana e mia sorella Camenia mi impedivano di lasciare Nemi.
Io disperdevo il mio corpo ovunque, sotto la terra, sopra di essa, in cielo, per sentirti; ma non ti trovavo mai. Poi, una notte, ti ho udito. Ti ho riconosciuto per il battito del cuore, che si era fermato mentre io ti chiamavo; quindi la tua risposta mi ha raggiunto.
Sono venuta da te, nella casa dove dimoravi solo, e tu mi hai aperto le braccia. Allora non eri un sogno, hai detto con dolcezza mentre affondavi il volto nel mio ventre e io cercavo di sfuggire alla tua presa, perché ero spaventata dai tuoi gesti, dalla tua audacia.
Mi sono sciolta in acqua, quindi sono fuggita fuori. Tu mi hai inseguito seguendo le tracce sul terreno, fino a che non ho ripreso forma umana per fronteggiarti.
Mi hai afferrato le gambe, mi hai guardato. Pensi forse che potrei farti del male? Non ho mai scordato la tua voce, e mi rammaricavo perché non la sentivo più.
Io non ti ho ascoltato, mi sono trasformata in un lago pieno di oscurità perché tu te ne andassi. Ma non lo hai fatto: hai teso la mano e hai accarezzato l'acqua.
Brividi di piacere mi hanno scossa a lungo mentre passavi senza indugio le tue dita su di me, e la paura cedeva mentre percepivo il rispetto che mi portavi.”
In questo punto Numa sorride sempre e mi morde con desiderio il collo. Allora chiudo gli occhi e lascio – imploro, agogno – che mi getti al suolo, che mi spogli, che sia lui a tenermi fra le braccia.
Eppure non riesce mai a possedermi: un timore potente, la paura che stia valicando i confini di ciò che gli è concesso, lo frena e io, per quanto lo baci a lungo e lo rassicuri, non riesco a fargli svanire questo nero sentimento. Allora parlo, parlo a lungo, stretta a lui, fino a farlo addormentare, fino a quando l'alba non ci coglie e io devo andarmene.
Ma questa volta accadrà diversamente.
Quando sento il suo respiro farsi regolare e profondo lo prendo tra le braccia e lo porto nella sua casa. Appena lo appoggio sul giaciglio si sveglia, mi afferra una mano. Sorride, mi accarezza il braccio. “Quanto vorrei svegliarmi e addormentarmi con te al mio fianco. Mi sposeresti mai?”
Io sorrido, mi siedo accanto a lui. “Voglio farlo.”
I suoi occhi si spalancano e balza a sedere nel letto; poi il suo corpo è scosso da tremiti e volge il capo altrove. “Ma tu non puoi. Tu sei una Dea... e io sono solo un uomo.
Non dovrei neanche amarti... neppure osare di sognarti.”
Io lascio cadere la mia veste, e gli salgo in grembo. “Rifiuteresti il desiderio di una Dea?”
Si imporpora mentre guido la sua mano tra le mie cosce, verso il mio piacere. Mi chino su di lui, la nuvola dei miei capelli color dell'ibisco lambisce il suo volto, mentre le mie labbra lo sfiorano con un bacio che non ha nulla di casto.
Lui geme, e trema. Sorrido e gli accarezzo il volto. “Io ti amo, Numa. Ho visto così tante albe, ma nessuna sarà bella come quella che sorgerà tra poco, quella in cui diventerò tua moglie.”
Lui chiude gli occhi, mi accarezza il ventre. “Non ho nemmeno il coraggio di immaginare la mia gioia... mia adorata...”
I nostri cuori ora battono all'unisono, e la melodia mi fa salire le lacrime agli occhi, per la bellezza che esprime. In quell'istante ogni paura cade; c'è spazio solo per la luce del nuovo giorno, un giorno che nasce solo per noi... in cui scoprirò, finalmente, la felicità.

***************

La purezza di mia sorella è svanita per mano di quell'uomo, come nei miei peggiori incubi. Ora che lui l'ha fatta sua e l'ha rapita al nostro mondo, ora non mi resta altro che disperarmi?
Ho tentato ogni cosa per salvarla, per non farla cadere nelle trame del mio stesso Destino.
Io non ho mai dimenticato il giovane Irio, i suoi occhi disperati mentre la terra del Toro [1] scompariva alle sue spalle.
Povero, dolce fanciullo. Era bello e tenero, indifeso. I suoi compagni lo odiavano, e io ho fallito. Neanche averlo vendicato è servito a qualcosa. Il sapore di quel sangue crudele è svanito dalla mia bocca, ma il dolore è rimasto, è rimasta l'eco della sua risata e la sensazione dei suoi timidi baci.
Ancora, ancora e ancora io lo piango.

Forse è per questo che li odio tutti, gli umani? Perché con Irio se ne è andato anche il mio cuore?
Perché loro sono stati creati solo per portare dolore e rovina?
Perché negli occhi di Numa mi sembra di rivedere quelli del mio sfortunato amore, quindi l'invidia mi porta a dimenticare l'affetto per Egeria?
No, io non potrei mai volerle del male. Lei mi fa ricordare quanto il mondo sia bello, quanto questa vita sia degna di essere vissuta; lei illumina la mia oscurità... e io devo, posso ancora proteggerla.
Ora i due amanti dormono: entro nella casa, piena dell'intimo odore della passione, e risalgo il tetto. Mi tramuto in pioggia e mi lascio cadere sulla testa di Egeria.
Perdonami, sorella, perdonami tanto per quello che ti farò.
Ma lui non è l'unico ad amarti; io te lo dimostrerò.



NOTE

[1] Il Toro simboleggiava i Sanniti.
Presso di questa e in altre popolazioni italiche vi era il rito del “Ver Sacrum”: i bambini nati in primavera crescevano come “sacrati”, e al raggiungimento dell'età adulta erano costretti a lasciare la loro terra per creare colonie altrove. Il rito era praticato per porre rimedio all'elevata pressione demografica che gravava su questi popoli.

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Capitolo 3
*** Un Uomo Diverso ***




III - Un Uomo Diverso




Quindici anni.
Se tu mi chiedessi cosa ho provato, in tutti questi istanti passati al tuo fianco, ti direi che inizialmente ho sofferto: abituata alla mia libertà, l'ho dovuta cedere per non perderti, per darti quello che ti meritavi e aspettavi. Ma alla fine ho imparato ad essere felice, così come tu lo sei.
Ho guardato volare i giorni come fai tu, e anche se solo in parte ci sono riuscita, anche se saremo sempre diversi, abbiamo imparato a esserlo sempre meno.

Numa, accanto a me, continua a dormire, e neanche può immaginare i pensieri che attraversano la mia mente. Io lo osservo attentamente: così addormentato, l'espressione piena di serenità, sembra ancora l'innocente ragazzo che ho sposato un giorno lontano; eppure, le mie dita corrono su un corpo adulto, tonico e forte, scolpito dal lavoro e dal sacrificio.
Il volto si è affilato, è lontana da esso l'acerba dolcezza della gioventù; e la lunga barba, che gli cresce solo sul mento ma risparmia le guance, lo rende ancora più sfuggente, quasi enigmatico.
Spunta vistosa, ma solo a me, la piccola cicatrice sotto l'occhio sinistro, il regalo che gli fece, in giovinezza, un lupo. Lo sfioro, quel piccolo segno che mi ricorda sempre quanto il mio amato sia fragile e bisognoso di protezione; poi mi dedico ai suoi capelli, che scendono fino alla base del collo: onde d'oro dentro cui iniziano ad intrecciarsi candidi fili, figli del Tempo impietoso.
Lui apre gli occhi, mentre io gli bacio le possenti braccia e nei suoi occhi azzurri vedo le prime nubi di stanchezza, accompagnate dalla cangiante luce che compare ogni volta che mi guarda. Lo bacio sulle labbra, prima di strofinare il mio naso contro il suo, teneramente, come ogni mattino.
“Non te ne sei andata”, sussurra. Non passa giorno che me lo dica.
A volte, quando dopo averlo amato vado a purificarmi nel fiume vicino, al mio riemergere lo trovo intento ad osservarmi da lontano, senza il coraggio di avvicinarsi.
Allora esco e lo raggiungo, lo prendo per mano e lo conduco in acqua con me. Gli insegno, giorno dopo giorno, come ama un Dio, e alla fine lui si addormenta spossato tra le mie braccia e respira piano contro il mio seno. In quegli istanti provo ancora più piacere di quando mi possiede.

Ma oggi non lasceremo questa umile casa che amo come le mie fonti: l'aria è colma dell'odore di una tempesta che rapida cavalca nel cielo, e Numa, come tutti gli uomini, teme le tempeste.
Anche lui percepisce il sentore della pioggia, e mi avvolge il corpo nudo con un abbraccio, capovolgendomi e salendo sopra di me. “Finalmente ti posso avere per tutto il giorno”, mi sussurra solleticandomi la nuca con la barba. Sorrido mentre inizia a coprirmi la schiena di baci, e io devo mordermi le labbra per non gemere dal piacere.
Un fulmine squarcia il cielo e illumina ogni cosa, il rombo del tuono scuote la terra; dalla stanza accanto alla nostra si alza un urlo e nelle stalle vicine si sentono forti nitriti. Il nostro idillio ha fine con un sospiro.


“Mamma... mamma, dove sei?”, piange Mamerco, stretto a me. Fuori la tempesta infuria violenta e lui cerca il grembo di Tazia per rifugiarvisi contro.
“La tua mamma non c'è, ora”, sussurro, “ma ci sono io.”
Il bimbo mi guarda, mi sfiora il petto con una mano. “Lei è calda... invece tu sei sempre fredda, come l'acqua.”
La tua mamma di calore non te ne darà più, penso, mentre lo bacio sui capelli e canto una nenia.
Tazia era bella, era gentile. E per quanto provassi ad odiarla, non ci riuscivo.
Suo padre, il cupo Tito Tazio, Re di Roma insieme al figlio di Marte, Romolo, l'aveva data in sposa a Numa, in cambio della supervisione di questi sulla Sabina. Lui avrebbe voluto replicare; ma io gli avevo fatto promettere che non avrebbe fatto parola con nessuno della nostra relazione, e quindi, per non destare sospetti, era stato costretto ad accettare.
Per tredici anni avevo condiviso Numa con quella giovane dagli occhi neri e dall'animo riservato.
“Per quanto io lo ami, è per te che i suoi occhi si illuminano... e io non voglio che soffra per causa mia. Giace con me per generare un figlio, per pietà, perché io non debba sottostare alle crudeli punizioni di mio padre, se dovesse sapere che io non riesco nel mio compito di moglie... ma lui è tuo, e io non ho alcun diritto di portartelo via”, mi diceva spesso, e io sapevo che era la verità. Alla fine avevo imparato ad amarla anche io, e la sua morte mi aveva fatto piangere lacrime che mai pensavo avrei versato.

Mamerco si lamenta, nel sonno. Smetto di pensare a Tazia e faccio vagare la mia mente altrove, in ricordi e sensazioni più serene; allora, sento che il bambino si calma.
Così piccolo... e né io né suo padre abbiamo ancora trovato il coraggio di dirgli che la sua mamma non verrà mai a cantare per lui... anche se, essendo incredibilmente precoce, forse lo ha già capito.
“Non fa altro che dormire. Lo odio.”
Mi giro e Pompone, il maggiore, entra nella camera, lo sguardo torvo. Ha preso tutta la bellezza del padre, ma essa è rovinata da un animo roso dall'invidia, triste e aggressivo. Ha tredici anni, sta diventando un giovane uomo, inizia a fissare le donne con uno sguardo nuovo. E io non faccio eccezione.
“Furor ha rotto il recinto e tuo padre sta tentanto di riprenderlo. Sicuramente sta implorando gli Dèi per un tuo aiuto”, dico gelida, stringendo di più Mamerco al seno.
Pompone mi guarda a lungo, senza muoversi. “Abbracci Mamerco, ma a me non hai mai dato neanche una carezza. Non mi hai mai baciato come baci mio padre.”
Non è vero: l'ho vezzeggiato e coccolato a lungo, fin da quando era uno scricciolo indifeso. Ma ora la voglia di un corpo da possedere gli fa dimenticare qualsiasi cosa. “Quando avrai una moglie...”, inizio.
“Non cominciare con queste sciocchezze. Perché non posso avere te?”, mi interrompe con asprezza.
“Perché io sono la moglie di tuo padre.”
“No. Tu sei solo la sua sgualdrina.”
Appoggio Mamerco sul letto accanto a me e fisso l'irrispettoso fanciullo, per costringerlo ad abbassare il capo. Ma non lo fa; anzi, con uno scatto è accanto a me e mi afferra l'orlo della veste, per strapparmela. Gli assesto un sonoro schiaffo e lui in cambio mi morde un piede. Mi lacera la carne ma io, come Dea, non provo dolore, né sanguino. Lui rimane ad osservare l'acqua che esce dalla ferita, poi guarda me.
Io lo afferro per i capelli, talmente forte da farlo gemere dal dolore. “Lui lo verrà a sapere!”, urla istericamente, e le lacrime iniziano a rigargli le guance.
“Sì, perché sarò io stessa a dirglielo”, sibilo; quindi lo lascio andare, e lui corre via.
Mi giro verso Mamerco, vedo che mi sta fissando. “Si è innamorato di te.”
“Ma io amo il tuo papà. E lui deve capirlo.”
Il bimbo annuisce e poi chiude gli occhi. “L'ha già capito. Eppure non può fare a meno di amarti", sussurra prima di ripiombare nel sonno.
Pompone riappare, gli occhi ancora arrossati. “Perché hai scelto lui? Perché non hai scelto un Dio? Tu sei così bella, così perfetta. Noi, invece... siamo tutti destinati a morire.”
Sospiro. Davanti alla sua espressione affranta, che esige una risposta, non riesco a rimanere fredda. “Se prometti di non tentare di farmi del male, ti do il permesso di sederti accanto a me”, dico, e lui obbedisce.
Prendo Mamerco tra le braccia, e Pompone si appoggia al mio fianco. Mi cinge la vita con le braccia e appoggia la testa sul mio grembo, lasciando da parte ogni malizia, mostrando quel che resta del suo lato infantile; io lo lascio fare e gli accarezzo i capelli mentre ascolto il suo respiro farsi sempre più regolare.
Poco dopo sento rientrare Numa, e lo vedo apparire sulla soglia. Sorrido mentre si libera dei panni fradici e si avvolge in un mantello, per poi venire a sedersi sul fianco libero del letto.
Mi sfiora la fronte con un bacio e io mi immergo nei suoi occhi. Un altro rombo e la terra trema di nuovo, ma noi non ce ne accorgiamo. Il silenzio si prende la casa, i nostri respiri sono appena udibili mentre cadiamo nell'incoscienza.

Passano alcuni istanti, oppure delle ore. E improvvisamente, dal nulla, mi accorgo di sognare. Non ho mai sognato, gli Dèi non lo fanno mai. Eppure so cosa significa, perché Numa mi racconta spesso quello che vede nel sonno.
Mi sveglio immediatamente e non ho alcun ricordo di quello che ho visto, ma so che riguarda Numa. Mi volto verso il suo lato... e non c'è.
Dove sei?, gli chiedo. Nessuna risposta.
Provo a sentire il battito del suo cuore: lo percepisco distante, come se avesse lasciato la casa. Mi precipito alla porta, la apro.
Una nuova tempesta è in arrivo. Perché si è allontanato così dalla sua dimora?
Non ho il tempo di pensare; e per la prima volta dopo anni torno a rituffarmi nel sottosuolo, impetuosa come l'acqua di cui sono fatta.

****************


Ho sognato Tarpea.
L'ultimo sprazzo di lucidità che il sonno non aveva annientato mi ha spinto a volgere il capo altrove, riconosciuta la sua figura, ma lei mi ha richiamato. Ho trovato il coraggio di voltarmi di nuovo, e l'ho guardata.
Era bellissima, e ho provato dolore mentre ricordavo la sua candida figura che, folle d'amore per Tito Tazio, lo implora di prenderla in moglie in cambio della città di Romolo. Non avevo saputo difenderla, allora: né da questo suo desiderio smisurato, né dalla crudeltà di Tazio.
Avrei voluto risvegliarmi perché il dolore che le avevamo fatto patire era stato malvagio, ma lei mi ha trattenuto, ancora: mi ha preso il volto e ha cercato di dirmi qualcosa, che io non sono riuscito a comprendere. Infine il suo sorriso e il suo casto bacio sulla fronte, come una benedizione, seguito dal risveglio... lontano dalla mia casa, nel Bosco Sacro. Solo.
E ancora sto vagando in esso senza riuscire a trovare la via del ritorno, mentre l'aria mi porta il rumore e l'odore della pioggia. Alla fine non riesco più a camminare, scalzo e infreddolito quale sono, e mi siedo al suolo.
C'è una luce così intensa, tra questi alberi. Una luce che vedo solo nei sogni, nei ricordi... ed è a loro che penso: a Tarpea, a Tazia... e ad Egeria. A tutte loro avrei voluto dire e vorrei ancora dire tutti i miei sentimenti, i miei pensieri su di loro e per loro.
E se a Tarpea ho spesso dedicato le mie lacrime, per Tazia l'assenza di esse mi crea ancora una vergogna innominabile. Avevo imparato a volerle bene, lei che era così simile a me; ammutolivamo entrambi, in silenzio, davanti ad Egeria, sentendoci così inferiori, così limitati. Forse, in un'altra vita, avrei potuto renderla felice, realizzare i sogni che aveva intrecciato nella sua mente, essere l'uomo che desiderava, amarla come lei amava me.
La mia colpa ritorna nello sguardo dei nostri figli: i primi due frutto della pietà, per paura di quello che Tazio le avrebbe fatto se non gli avesse dato un nipote... mentre gli ultimi sono il risultato di una passione selvaggia, animale, scatenatesi in notti solitarie e fredde, quando sentivo la mancanza di Egeria e il suo corpo poteva farmi dimenticare questo vuoto. Ma il mio animo impuro avrebbe potuto amare quel dolce cuore... se Lei non ci fosse mai stata.
Egeria è arrivata, intensa e profonda come un'onda, e mi ha incatenato ai suoi occhi. E anche se non riuscirò mai a comprenderla pienamente, cercherò di renderla sempre felice, di redimere le mie colpe con il suo sorriso, di ripagare la fatica che Lei deve sopportare per stare al fianco di un semplice uomo come me.
“Pensavo di trovare un cervo: ma tu sei anche meglio.”
Mi volto, e la punta di una freccia mi sfiora la fronte. Alzo lo sguardo e vedo un essere minuto, che può sembrare un uomo ma non lo è – stando con Egeria, ho imparato la quasi impercettibile differenza che corre tra l'umano e il divino –, e sorride crudelmente, mentre sposta il tiro e punta verso il mio collo. “Sei bello, per essere un umano. Dimmi il tuo nome.”
Non rispondo, perché se dovessi parlare tradirei la mia paura.
Lui tende l'arco, mentre al suo fianco compare un altro demone [1], con il corpo sformato da due orribili gambe caprine. Lo riconosco, perché su di lui corrono tante leggende: Fauno. “Solo torturandolo ti risponderà, Pico”, sogghigna questi.
“Stavo sognando, e mi sono ritrovato qui”, dico infine, alzandomi in piedi e fronteggiandoli, cercando nel mio animo il coraggio, “da umano, conosco e rispetto i limiti che sono imposti alla mia razza: mai avrei valicato una zona sacra a voi.
Ma se ritenete che io vi abbia comunque offeso, allora fate di me ciò che volete: ma sappiate che quello che ho detto è la verità.”
I due demoni mi fissano per qualche istante, e Pico abbassa l'arco. Si avvicina e non permette che io sposti lo sguardo. “Ti sbagli: già una volta hai oltraggiato una zona consacrata. O stavi per farlo.”
Deglutisco, riporto alla mente un giorno lontanissimo... la prima volta che vidi Egeria. “Ero solo un bambino, allora. Non sapevo cosa stessi facendo”, rispondo, ma la mia voce vacilla e loro se ne accorgono.
“Davvero?”, risponde Fauno, e si avvicina anche lui. Mi prende una mano, e il suo sguardo si illumina. “Vedo che una Dea ti ama”, sussurra.
“Il mio nome è Numa”, replico, “e non sono nessuno che possiate temere. Conduco la mia vita qui, a Cures, in tranquillità, e non ho motivo di provare pena, dato che una Ninfa vive al mio fianco come moglie.”
Entrambe le divinità sorridono, si scambiano un'occhiata. “Sei onesto”, dice Pico, “e parli bene; inoltre, devi avere qualcosa di speciale se una Dea ti ha scelto come suo sposo. Per questo ti lasceremo andare senza punirti e ti faremo un dono, oltre a quello di ritrovare la strada di casa.”
Fauno annuisce e mi fa segno di chinarmi. Obbedisco, e lui si avvicina di più per sussurrarmi qualcosa all'orecchio.

Appena fuori dal Bosco sento la presenza di Egeria, e dopo qualche istante essa sorge dal terreno. Il suo sguardo è folle, e mi afferra il volto in una morsa ghiacciata.
Mi fissa per qualche istante, quindi mi stringe in un abbraccio. “Non riuscivo a raggiungerti. Sentivo che c'era qualcuno con te, e una forza che mi bloccava, frenava ogni mio potere. Oh, Numa... perché sei andato nel Bosco Sacro da solo? Avrebbero potuto ucciderti!”
Le sue lacrime colano lungo il mio petto. “Guarda tu stessa”, le sussurro.
Lei appoggia la testa al mio cuore, ascolta, viene a sapere quello che è successo; quindi rialza il capo, e mi accarezza il volto. “Numa... tu sei stato benedetto.”
Il rombo di un tuono ci scuote e io le stringo le mani. “Parleremo quando saremo al sicuro, in casa”, mormoro inquieto.
Lei osserva il cielo, le nubi che da nere stanno virando il colore in rosso sangue. “Numa... stai vicino a me”, dice, e in quell'istante un fulmine cade a poca distanza da lei. Spaventata mi prende tra le braccia, e io sento la sua forza avvolgermi.
“E-Egeria...”, balbetto, e nel punto dov'è caduta la saetta si alza un'imponente figura scura.
La mia sposa nasconde il viso nei miei capelli. “Obbedisci a qualunque cosa ti chieda di fare. Solo così ci potremo salvare”, sussurra, e io annuisco.
La figura avvolta di tenebre rimane immobile per qualche istante, quindi si volta verso di noi e comprendo che è fatta di nubi.
Giove è sceso sulla nostra terra. Per me.


Gli occhi neri come la notte del Dio mi scrutano con malignità per innumerevoli istanti, poi si spostano verso Egeria. “Ninfa, allontanati”, dice, la voce spaventosa e ancestrale, e avanzando velocemente afferra la mia Dea per la vita e la fa rotolare via.
Lei geme, io serro le mani a pugno. “Grande Giove, ti prego, abbi pietà di lui! Non è sua la colpa...”, tenta di replicare lei mentre cerca di rialzarsi.
“Silenzio!”
La voce rimbomba attorno al pari di un tuono, mi immobilizza e azzittisce la mia povera sposa, che nasconde il viso tra le mani.
Quindi Giove si rivolge a me, ghignando. “Non pensare di poter vincere. Due insignificanti demoni si sono presi gioco di me insegnandoti il modo per sfuggire ai miei fulmini, illudendosi di passare inosservati. Tu li hai ascoltati, quindi sei colpevole quanto loro.
Ma tu sei umano, per questo ti punirò per primo.
Ecco quello che farò: ti proporrò una prova, e se la supererai ti lascerò in pace per sempre; se invece fallirai ti ucciderò, e con te tutta la tua famiglia.”
Si volta per un istante verso Egeria e io sento la rabbia macchiare la mia lucidità, mentre già gode guardando il corpo della mia amata.
“Accetto”, dico, perché non posso sopportare il pensiero di vederla tra le braccia del Dio del Cielo, devo almeno tentare.
Giove ritorna a me; il suo è uno sguardo sorpreso, anche se solo per un istante. Sorride e annuisce, e io chiudo gli occhi.
“Prestami attenzione, Numa: dimentica quello che hanno detto Fauno e Pico; per sfuggire ai miei fulmini, uomo empio, devi costruire dei pali con delle teste.”
Si sta prendendo gioco di me. Come potrò mai farcela contro di lui?
Pensa, Numa, pensa.

Per qualche istante resto immobile; quindi mi dirigo verso il piccolo campo dietro la nostra dimora, seguito da Giove ed Egeria, che a malapena si regge in piedi. Non pensare il peggio, amore mio, le sussurro e lei comprende, annuisce. Percepisco il suo sconforto, ma devo tentare. Lo faccio per te.
Mi chino, prendo dei rami e li pianto a terra; quindi afferro delle cipolle e faccio per infilarle sopra di essi.
La risata del Dio del Cielo fa tremare il bosco, la terra e atterrisce gli uccelli, che volano via gridando. “Devono essere teste umane!”, tuona Giove.
Boccheggio, senza sapere cosa fare. La terra ti aiuterà, sento Egeria sussurrare nel mio cuore. Guardo il suolo e vedo ciuffi di erba spuntare ovunque: ne prendo alcuni e li metto sulle cipolle, in modo che assomiglino a dei capelli.
Di nuovo Zeus ride, e il peso della disperazione inizia ad incombere, tremendo, su di me. “Potrebbe andare... ma io voglio teste vive.”
Guardo Egeria e sto per chiederle perdono per quello che accadrà... il sapore delle lacrime inizia a bruciarmi la gola... e poi sorrido, e mi metto a correre.
“Non sfuggirai alla tua condanna, Numa! Ti torturerò senza pietà per la tua blasfemia, fino a farti implorare la Morte! E neanche quello mi fermerà!”, rimbomba la voce di Giove, ma io continuo a sorridere.
Raggiungo il fiume che scorre poco lontano dalla nostra dimora, quello dove Egeria mi ama ogni giorno; entro nell'acqua. Non posso fallire più.
Cosa vuoi fare?, urla la mia Dea, sconfortata. Lascio che i miei pensieri scorrano verso di lei, mi volto e la guardo; lei accenna un sorriso. Funzionerà, forse. Voltati.
Lo faccio e vedo che un grosso pesce si sta per avvicinando con una lentezza insolita. Lo afferro, corro al luogo dove avevo piantato i rami e con violenza lo infilzo su uno di essi, coprendolo con una cipolla e fili d'erba.
Giove sta per dire qualcosa, ma si blocca. Io cado in ginocchio, tremante, e fisso quell'orribile simulacro che sembra una grottesca testa umana agonizzante. E respiro, in attesa.
Giove china il capo; nel cielo le nubi si sfaldano, e il tramonto appare, dolce come una promessa. “Davvero non sei un mortale come gli altri, Numa. Ma ricordati: sei pur sempre un umano. I limiti imposti alla vostra razza valgono anche per te, anche se sei protetto da una Dea.
Anche se sei una luce nel buio, sei destinato a spegnerti. Ma non oggi.
Diffondi la notizia, uomo di Cures: che gli uomini non temano più la tempesta, grazie al tuo coraggio”, sussurra il Dio. Pone una mano sul mio capo, prima di voltarsi e andarsene.
Io mi lascio cadere al suolo, ansimante, e accarezzare dal vento della sera. Sento i passi di Egeria avvicinarsi, respiro forte. “Non avrei mai accettato di perderti”, le sussurro; lei strofina il naso contro il mio, mentre lascia scorrere le sue lacrime.
“Grazie per il tuo aiuto, Egeria. Grazie per amarmi”, sussurro infine, prima di cadere nell'oblio del sonno.





NOTE DELL'AUTRICE
[1] Anche se Fauno e Pico qua descritti non sono del tutto positivi, anticamente il demone indicava una divinità minore al pari delle ninfe, che poteva essere benevola (un genio tutelare) o malevola.
Con l'avvento del Cristianesimo essi diventano creature del Male.


ANGOLO DELL'AUTRICE Buongiorno a tutti!
Un paio di precisazioni: questa particolare versione del mito di Tarpea, la vergine Vestale che nella guerra tra Romani e Sabini (a seguito del rapimento delle Sabine) tradì la sua città, è ispirata ad un elegia del poeta Properzio (la IV,4), il quale tenta di rivalutare l'operato della giovane mostrando che fu l'amore, e non la cupidigia di ricchezze, come voleva la tradizione, a muovere le sue azioni.
Per quanto riguarda l'episodio di Pico e Fauno e delle teste, invece, l'ho ripreso da un libro, “I Sette Re di Roma” di Zullino, e ne parla anche Plutarco in “Vita di Numa”.
Infine un grazie in generale a tutti quelli che leggeranno, e in particolare alle mie care Sherazade e Sawadee.
A presto!

Manto

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Capitolo 4
*** Luci Solitarie ***




IV - Luci Solitarie




Questa notte non è fatta per il riposo, mi ritrovo a pensare mentre accarezzo i capelli di Numa, che nella luce della Luna sembrano ancora più chiari.
La prova di oggi lo ha privato di ogni energia, e ora dorme di un sonno profondo e nero come un'ombra. Sembra ancora più fragile di quanto già non sia... e così vecchio. Ma c'è dell'altro.
Lui non può vedere quello che ha scatenato, ma io riesco a intuire il futuro. E qualcosa di grande sta per accadere.

Mi alzo e lascio la casa, perché tra quelle mura non c'è pace per me, e mi dirigo al fiume cercando riparo dal freddo sospiro del vento. Una fitta di dolore mi prende quando lascio sciogliere le mie membra tra i flutti e intravedo le mie antiche compagne evitare la mia presenza, persino il mio sguardo.
“Sorella. Pensavo ci avessi dimenticato”, sento sussurrare accanto a me. Mi volto e tra le correnti spuntano gli occhi neri, notturni, della mia adorata sorella.
“Camenia”, dico con emozione. Lei sorride e si avvicina e io noto che il suo sguardo, nonostante lasci trasparire la felicità, mi rivolge anche un duro rimprovero.
“Pur in mezzo agli umani, continui a mantenere parte del tuo splendore”, dice dolcemente mentre i miei capelli, sotto il tocco delle sue mani, sembrano diventare ancora più rossi, fiamme indomabili.
“Non ho mai perso la mia natura”, rispondo, e lei abbassa lo sguardo. “Davvero?”
Fingo di non aver sentito, perché il suo tono mi ferisce a fondo.
Lei sospira. “Comunque sia, sono qui per volere Suo. Diana ti chiede di raggiungere Nemi.”
Boccheggio. Nemi, adorata dimora. “Non è possibile, io non ho il permesso di varcare la zona sacra.”
Camenia scuote la testa, non riesce a contenere un sorriso. “Ti prego, seguimi.”
Io la blocco afferrandola per un braccio, e lei si immobilizza. “Aspetta”, sussurro, “prima vorrei da te un favore.”
“Un favore?”
Chiudo gli occhi. Non vale la pena mentire. “Devo vedere il suo futuro.”
Lo sguardo di Camenia si fa duro. “Perché?”
“Perché voglio essere pronta.”
Lei ride. “Credi forse di poter cambiare il suo fato?”
Chino il capo. “A volte vorrei cambiare il mio. Cedere la mia immortalità ed essere una donna.”
La sua bocca assume un ghigno orribile.
“Non posso mutare il destino di nessuno, come non posso in alcun modo mutare il mio. Ma ti prego, voglio vedere quello che gli accadrà”, rispondo alla domanda in un soffio.
Camenia attende qualche istante, quindi sospira. “Diana risponderà anche a questo. Ora seguimi; non possiamo tardare, è quasi l'alba.”
“Ma... Numa si starà per svegliare...”
Lui. Sempre lui.
Corrugo la fronte. “Sì. Sempre lui. Smetti di condannare la mia scelta; io non l'ho fatto quando ti sei innamorata di Irio.”
Camenia si volta, fulminea, e mi afferra la gola. “Non dire quel nome. Mai!”, sibila e io annuisco, presa dalla paura. Senza aggiungere altro lei mi prende per la vita, mi trascina nelle profondità della terra. Attraversiamo la regione, e quando sento l'aria di Nemi penetrare fino a me e il richiamo del lago, il mio lago mai dimenticato, il mio cuore accelera.
Dove sei?”, sento Numa chiamarmi mentre sento il suo battito farsi più lieve e Cures è sempre più lontana.
Non temere; presto sarò di ritorno”, lo rassicuro. Il tempo di pensarlo e affioro dal lago, popolato come sempre da ninfee di ogni colore.
Diana, la Signora del Bosco, avanza verso di me. Quando mi abbraccia sento il suo calore e la sua forza penetrarmi nell'animo, e riempirmi di pace. Dietro di lei Virbio, che mi guarda senza alcuna espressione. “Mia cara... ci sei mancata così tanto.”
Io mi stacco da lei, confusa. “Mia Signora... perché sono qui?”
Diana corruga la fronte e si gira verso Camenia, al suo fianco. “Non sa ancora?”
Mia sorella scuote il capo. “Voglio che lo sappia da te.”
La Cacciatrice annuisce. Si rivolge di nuovo a me, e sorride. Il Bosco Sacro si apre davanti a noi mentre la Dea mi conduce verso la radura illuminata.
Perché non sei qui?
La voce di Numa arriva lieve, smorzata, e io faccio per voltarmi. “Non temere. Non avere paura.
Diana mi trattiene per un polso, quindi si blocca. “Che ti succede, Egeria?”
Chino il capo, non riuscendo a reggere il suo sguardo. Non riesco a dirle di quanto sia diventata egoista e chiusa verso il mondo.
Diana sorride, mi accarezza il capo. “Il tuo amore per un umano è fonte di vergogna per molti di noi”, sussurra la Dea, “ma io non la penso così. Mi commuove il vostro sentimento, mi fa comprendere quanto il tuo animo sia ricco di bellezza.
Ma c'è un'ombra, nella tua luce: i tuoi voleri stanno avendo la meglio sulla realtà: tu consideri Numa al pari di un Immortale.”
Avvampo, mi libero dalla presa di Diana. Nei suoi occhi vedo il riflesso dei miei, pieni di follia. Improvvisamente il bosco mi sembra colmo di oscurità.
“Perché sono qui?”, sussurro di nuovo. Diana esita per qualche istante, quindi capitola. “Noi tutti continuiamo a vegliare su di te, anche se ti sembriamo ostili; alcuni, come me, anche su Numa. Abbiamo visto quello che è accaduto... e anche oltre.”
“Ho avuto anche io una percezione, come se un'ombra fosse calata su di noi”, ribatto, “ma non riesco a vedere nulla di più.”
“Hai imparato a vivere con lui, come lui. Non sei più una Dea”, dice Virbio facendosi avanti.
Diana non parla. Mi sfiora il viso, e io vedo... due cavalli bianchi, veloci come nuvole nel cielo, che attraversano Cures e si dirigono verso la nostra casa.
Pompone li scorge dal sentiero e corre ad avvertire il padre.
Nessun rumore. La Natura è in attesa, come me.
Infine i cavalli raggiungono la dimora, si impennano. I loro cavalieri saltano al suolo e si inchinano davanti a Numa, che li guarda senza comprendere.
Uno di loro afferra la bisaccia che porta a tracolla, ed estrae... una corona. “Numa di Cures, il Senato ti chiama... re di Roma.”

La visione ha fine perché io scatto indietro. Re. Il mio Numa diventerà re.
Avrà bisogno di me, ora. Io lo saprò consigliare, lo saprò proteggere.
Lo renderò la Luce che tutti si aspettano che sia.

Il bosco si chiude intorno a me, i fiori si attorcigliano intorno alle mie caviglie e impediscono che io me ne vada. Diana si avvicina e mi mette una mano sulla spalla.
“Devo andare da lui”, sussurro, ma la Dea scuote la testa.
“In tutti questi anni lo hai istruito su ogni cosa, lo hai reso migliore; ma ora deve farcela da solo. Egeria... tu devi separarti da lui.”
Le lacrime mi riempiono gli occhi. “Io... non ce la faccio. Io devo essere al suo fianco.”
“No!”
La voce della Dea mi fa tremare e io cado in ginocchio. “Mia Signora... come farò, senza di lui?”
Camenia mi corre al fianco, mi afferra i polsi. “Basta, basta! Tu sei una Dea! Perché te lo sei dimenticato? Non puoi rimanere con lui!”
Diana mi prende tra le sue braccia, cerca di calmare il mio pianto incontenibile. “Camenia ha ragione. Dovete stare divisi. Lui deve imparare a usufruire dei tuoi insegnamenti, solo, e tu devi ritornare ad essere quella che eri.”
Un'esitazione. “Ma non sarà per sempre. Verrà il momento, tra molti anni, che tu ritornerai al suo fianco. Fino a quell'istante, tu vivrai qui a Nemi.”
Annuisco, e Diana addolcisce il suo volto con un sorriso. “E ora vai: tra qualche istante i messi del Senato giungeranno da Numa, per offrirgli la corona.
Lui rifiuterà, per te e perché la sua umiltà gli impedisce di comprendere a cosa è destinato, e tre giorni passeranno; allo scadere di questi lui dovrà accettare la sua sorte, e anche tu.
In questi ultimi attimi nessuno vi disturberà, e niente lacrime: lasciatevi con la speranza nel cuore, non con il dolore.”
Annuisco; fuggo via, mi lascio alle spalle la selva di Nemi, ignorando le proteste di Camenia e Virbio. Le lacrime mi accecano, ma io so comunque come tornare. Saprò sempre la via che riconduce a casa.


C'è silenzio, nella grande dimora. Pompone e Mamerco hanno raggiunto i fratelli a Capua perché la situazione a Roma è instabile, e Numa non vuole rischiare di perderli.
Siamo rimasti solo noi. E siamo già soli, chiusi nella nostra tristezza.
Il mio sposo, sulla soglia, guarda i suoi boschi, la sua terra, e io osservo lui. Nessuno dei due ha il coraggio, la forza di parlare.
Infine lui si gira, mi guarda piangere. Sorride tristemente. “Mi hai detto che non sarà per sempre. Un giorno mi rivedrai.”
Distolgo lo sguardo da lui. Mi sento così mortale, ora. E quanto lo vorrei essere.
Invecchiare, mutare nel Tempo come lui e con lui, e una notte addormentarci, le mani intrecciate per non perderci, e insieme spegnerci.

Mi si avvicina, mi prende il viso e me lo alza, baciandomi con gentilezza. “Ti amo.
Non avere paura di essere dimenticata; io ti sentirò sempre, dovunque andrò. Tu sei il mio cuore.”
Annuisco, tremante, e gli accarezzo il petto. “Chiuderò gli occhi, smetterò di vivere fino al momento in cui le nostre strade si incroceranno nuovamente. E se mi parlerai, io ti sentirò”, gli sussurro, quindi lo bacio avidamente.
Lui mi prende tra le braccia, mi porta nel nostro letto; e quando si stacca da me io so che non sono sola.
Nella notte lo conduco con me per i boschi, mi siedo con lui nelle grotte. Rimango a contemplare i suoi occhi mentre il cielo si riempie di lacrime e fiamme, e sospira con noi.
Infine la terza alba sorge.
Insieme, fianco a fianco, lasciamo la nostra casa. Sulle soglie del bosco lo prendo per l'ultima volta per mano, lo trattengo ancora per qualche istante. “Non parlare”, sussurro, e lo guardo a lungo. Quando ti rivedrò, i tuoi capelli saranno colore della neve, la tua pelle fragile, i tuoi occhi forse non vedranno più... e tu sarai stanco, così stanco.
Ma per me non avrà importanza. Sarai tu, e io sarò di nuovo felice.

Lui mi accarezza il ventre, e io sorrido. “La conoscerai. Crescerà con te, così avrai sempre un'immagine di me.”
Numa mi abbraccia, affonda il viso nei miei capelli. “Ti amo, Egeria. Tu mi hai dato la certezza che la Bellezza e la Gioia non sono un dono solo per gli Dèi.”
Sorrido, mi stacco da lui. “Tu sei la mia luce, come io sono la tua ombra. Splendi per me, splendi per sempre”, dico, e lui si volta, si mette in cammino verso la sua nuova vita.
Rimango a guardarti, mentre ogni istante che passa sei sempre più distante. E mentre raggiungo Nemi io ti penso.
Le acque del lago mi abbracciano, e io mi lascio portare a galla.
Qui dormirò finché non verrai a svegliarmi, e una nuova Primavera verrà con te.

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Capitolo 5
*** L'avvento di un Amore ***




IV - Epilogo: l'Avvento di un Amore




Gli istanti scorrono lentamente, nel grembo sacro di Nemi; ma il Tempo, infine, riesce a penetrare fino a qui, anche tra queste querce.
Io sono ritornata ad essere la Protettrice delle Partorienti, distaccata dai mortali eppure sempre con loro, e solo adesso che sto riaprendo il cuore mi accorgo di che luce ho privato questa umanità, mentre ero al tuo fianco e la mia divinità era solo un nome. Nemi è rinata, con me, e ha ripreso la forza che aveva perso.
Ma io non mi pentirò mai di aver condiviso la vita con te, di essere uscita da me e aver preso un'altra forma, di aver sentito e compreso cosa volesse dire essere vivi, essere amati ed amare al limite delle proprie forze. Ho dimenticato la solitudine, insieme a te; e nonostante Virbio mi abbia più volte implorato di dimenticarti e di diventare la sua eterna sposa, ho sempre rifiutato.
Al suo fianco non conoscerei dolore o fatica, niente turberebbe la mia infinita beatitudine; ma sei stato tu ad insegnarmi a vedere il mondo e a comprenderlo. Tu mi hai insegnato la meraviglia dell'arcobaleno, il timore del fulmine, la sacralità di ogni vita, la bellezza commovente del canto estremo prima che il respiro diventi silenzio. Tu mi hai insegnato che in ogni istante c'è eternità, c'è infinito.
Piango ogni notte ripensando a quanto tu sia vicino, e tuttavia irraggiungibile, e quando si avvicina la stagione della Rinascita il cuore si fa più pesante di quanto già non sia, mentre ricordo il nostro primo incontro, i tuoi occhi che mi cercano, i nostri Destini che si intrecciano per la prima volta e per sempre. Osservo la folla che si raduna per invocarmi e pregarmi, in cerca di te; ma tu non ci sei, non ci sei mai, rifuggi questa festa dolorosa.
So ogni cosa di te: come hai portato la pace a Roma, come la Guerra sia solo un fantasma lontano, come guidi il popolo con saggezza; come, nel silenzio del tuo palazzo, accarezzi i capelli di nostra figlia, la nostra bambina, e piangi silenzioso. “Perché piangi, padre mio? Mia madre la rivedrai, un giorno”, sussurra quel piccolo usignolo, e la sento prenderti per mano, consolarti con i suoi baci candidi.
Chiudo gli occhi, ora. Due, sei e infine venti anni sono passati, e ogni giorno che passa tu sei più stanco, Numa, non riesci più a reggere il peso del dovere, di tutte le vite che hai tra le mani, quelle mani tremanti che a lungo stringevo tra le mie.
Trent'anni, e ti sento cadere in ginocchio senza forze. E in quel momento io capisco che Nemi dovrà vivere senza di me, ancora, questa volta per sempre. Alzo gli occhi, perché un canto nuovo ha riempito l'aria; incontro lo sguardo di Diana, ora so che è il momento.
Mentre corro da te, verso la città dai sette colli, ho scelto il Tempo.



Mi blocco. Una tenebra avvolgente e densa è calata intorno a me, improvvisamente.
“Dove sono?”, vorrei gridare, ma non ci riesco. Qualcosa mi intima il silenzio.
Provo a calmarmi, lascio che le sensazioni che provengono dall'esterno si incrocino nel mio corpo; ma non percepisco niente.
Chiudo gli occhi, e quando li riapro tutto è mutato nuovamente.



Il profumo intenso delle rose riempie l'aria intorno a noi, danza sull'acqua, si posa sui nostri capelli. Nei campi crescono miriadi di papaveri, messaggeri della feconda estate.
Sorrido e accarezzo il capo del re, appoggiato al mio. Ogni tanto il suo vecchio corpo ha un tremito, un singulto, e io inizio a cantare, perché questo gli dona forza. È debole, fragile, ma ancora ha la forza di raggiungere la grotta e ogni notte mi incontra, da quindici anni. Lui chiude gli occhi, e io percepisco tutta la sua stanchezza. Mi alzo per prenderlo tra le mia braccia e riportarlo al suo palazzo, ma lui mi ferma con un gesto. “No, ti prego. Non voglio ancora andarmene.”
Sorrido di nuovo, ravvivo il fuoco che risplende al centro del nostro rifugio e riscalda le sue membra. Alla luce delle fiamme i suoi occhi cambiano colore e si coprono di lacrime.
Io gli prendo il viso, asciugo il suo pianto, lo cullo e lo bacio a lungo come fa una madre con il suo adorato bambino.
“Egeria”, dice in un soffio. Attendo che prosegua, ma non lo fa. Guarda il fuoco come se cercasse in esso una risposta, come se lo pregasse, e poi tossisce violentemente.
Io lo faccio stendere, gli appoggio la testa sul mio grembo e cedo parte delle mie energie, le lascio assorbire dal suo corpo.
Lui sorride, mi accarezza una guancia; poi la sua mano scende sul mio cuore. “Lo sai, Egeria?
Avevo perso ogni speranza, quando mi hai lasciato. Non riuscivo ad accettare la tua lontananza, non ti sentivo più. E quando ti ho rivisto quella sera, vicino a questa grotta, io così vecchio e tu sempre così bella, ho compreso: cosa poteva averti spinto da me, se non l'amore?
Perdonami, perdonami tanto, mia Dea, se ho dubitato di te.”
Di nuovo le lacrime lasciano i suoi occhi, e io di nuovo le asciugo. “Non pensare più al passato. Ormai è lontano; ora siamo di nuovo insieme.”
Lui annuisce, mi bacia una mano. “Una volta il maestro a me più caro mi ha detto che quando moriamo le nostre anime passano ad un altro corpo.[1]
Io vorrei... io vorrei che la mia entrasse in te, come quelle di Tazia e Tarpea vivono ancora in me. Così potrei continuare a vederti, ad essere con te.”
Lo bacio e non tengo in considerazione queste parole. “La tua anima l'ho già dentro di me, mio adorato”, sussurro.
Lui accenna un sorriso. “Egeria... mi porteresti una rosa, una di quelle che crescono nel bosco?”
Annuisco, con delicatezza lo appoggio al suolo. Lo lascio solo e mi immergo nelle selve, tra gli uccelli notturni. Cerco a lungo la rosa più bella che abbia visto la luce, e quando la trovo la stringo a me, la bacio, perpetuando per molto tempo la sua bellezza.
Faccio ritorno velocemente, e la prima cosa che sento è il sospiro gelido del vento che ha preso possesso della grotta. Rientro e scopro che il fuoco si è estinto.
Accorro al fianco di Numa coprendolo con il suo mantello perché non abbia freddo, e vedo che sta fissando la Luna. “Per te”, sussurro, porgendogli la rosa. Lui non risponde, né si gira a guardarmi.
Mi siedo al suo fianco, gli accarezzo il volto. Lo scopro duro, freddo, e ritraggo la mano. “Numa”, lo chiamo, prendendolo tra le braccia. Guardo i suoi occhi... vitrei, spenti. Morti.
Balzo in piedi, lo lascio cadere al suolo. Lui non si muove, né si lamenta.
Indietreggio, mi copro la bocca con le mani. No. Non è vero. Non può essere... essere...
“Numa!”, singhiozzo e la mia voce è strozzata, mentre lo scuoto e lo graffio per fargli riprendere conoscenza. Perché lui è solamente svenuto, il freddo lo ha irrigidito, lui è ancora con me, lui non è... morto. Amore mio... svegliati, ti prego. Ma non si sveglia.
No, vi prego Immortali, lasciatemelo, lasciatemelo... lasciatemelo!
Grido il mio dolore e gli uccelli delle selve prendono il volo, strillando lasciano questi luoghi dove la pace non esiste più.
Lo amavi troppo, Egeria! Questo è il prezzo da pagare per amare un uomo, morire di dolore! Lo sapevi, lo sapevi, ma tu non hai voluto obbedire! E adesso soffri, misera creatura!, dice una voce nella mia mente, e io urlo, mi accascio sul corpo del mio sposo e piango, piango, piango.
Mentre il mio dolore diventa inarrestabile, Lei arriva. Diana entra nella grotta, le pareti rifrangono la sua luce. “Bambina mia”, singhiozza, “non c'è niente che possiamo fare. Ora lui è lontano.”
Io scuoto la testa gridando come una fiera, stringo a me il corpo di Numa. Folle, folle Egeria. Questo è il prezzo da pagare per amare un uomo. Impazzire dalla sofferenza.
“Lui è qui con me, lo vedi? Lo tengo stretto, non andrà via, se io non lo vorrò... lui è mio!”
Diana mi appoggia una mano sulla testa, gentilmente mi toglie il corpo dal re dalle braccia. Singhiozzo, mi aggrappo alla veste che lo ricopre. “Io avrei dovuto sentire l'arrivo della Morte. Io la sento sempre.”
“No, tu non l'hai vista arrivare. Non avresti mai potuto vederla, l'Amore ti ha accecato da tempo.” Un sospiro. “Deve essere sepolto come conviene ad un sovrano. Il suo popolo lo deve onorare.”
Ringhio. Folle, folle Egeria. Paga il prezzo del tuo amore, infelice Dea. “Non lo lascerò mai.”
Diana non ascolta e vola verso Roma con il corpo di Numa, e io la inseguo. Io lo devo raggiungere, devo vegliare il sonno del mio re. Verrò sepolta con lui, e finché il suo corpo non diventerà polvere e io potrò prenderla tra le mie mani e ingoiarla per continuare a farlo vivere dentro me, non mi separerò dal nostro estremo talamo.
Provo a penetrare nella terra, ma essa mi rifiuta. Ma io sono troppo potente, la Natura è al mio comando: infierisco sul terreno come un leone sulla sua preda, faccio scempio di fiori. Nel grembo del suolo i semi muoiono, nulla nascerà in questi campi, e i boccioli avvizziscono e cadono a terra; intorno a me risuona il lamento della Natura che sto torturando senza pietà e io rido oscenamente, ebbra della mia pazzia. Rifugiati nella tua follia, Egeria. Rifugiati nei ricordi, dove lui è ancora vivo.
L'attonito cielo ascolta la mia furia e io non mi fermo finché Lei non ritorna. Allora, le unghie spezzate, le mani sanguinanti e a brandelli, il viso graffiato e coperto di pioggia e lacrime, mi fermo e fisso la mia Signora.
“Non smetterai mai di piangerlo”, sussurra.
“No.” Tutto il mondo conoscerà il mio eterno pianto.
Una nuova lacrima scaturisce dai suoi occhi. “Ritorna a Nemi, bambina mia. Ritorna da me.”
“Mai.” Non posso più portare la Vita, io che ne sono stata privata. Numa... io voglio morire con te. Morire con te!
Silenzio. Diana ascolta i miei pensieri, china il capo. “Egeria, io non posso darti la pace, né richiamare il tuo sposo alla vita; ma... ma qualcosa posso fare.”
Appoggia le sue mani sulla mia fronte, e la mia vista trema, il buio cala sugli occhi.
Sento che il mio corpo si incurva sempre di più, le mie membra cedere e infine sciogliersi.
Grido, ma non per il dolore; qualche istante dopo il mio ultimo urlo è andato perduto, dissolto nel vento, e un canto cristallino lo sostituisce.
“Che il tuo amore e il tuo dolore non vengano mai dimenticati. Questo è il mio dono, Egeria... fonte di lacrime.”



Apro gli occhi con timore. Nelle orecchie ho ancora il suono delle mie lacrime, ma io sento il vento che spira sulla mia pelle, scompiglia i capelli e porta lontano i miei sospiri.
Comprendo di aver avuto una visione, ma solo questo riesco a capire. Mi guardo intorno, non riconosco il luogo che mi circonda. Dove sono?
“Al sicuro.”
Mi volto e Camenia, funerea e ondeggiante, avanza tristemente. Guardo nei suoi occhi e comprendo che ho vissuto, per tutti questi anni, in un sogno.
“Finalmente hai compreso.”
Corrugo la fronte. “Perché, sorella? Perchè mi hai fatto questo?”
Il suo sguardo si incendia. “Mi sbagliavo, allora. Non è cambiato niente.”
La fisso confusa, e scuoto la testa. Lei si inginocchia davanti a me, mi prende il volto tra le mani. “Quello che hai visto è il futuro, Egeria. Il tuo futuro.”
Boccheggio. No... no. “Non è vero. Lui non... lui...”
Camenia scuote la testa, e fa un sorriso pieno di dolcezza. “Numa è un uomo, appartiene alla Morte. E tu invece, mia Dea, appartieni alla Vita. Tutti noi, noi Immortali, sappiamo cosa significa, quanto dolore comporta per uno di noi passare la vita con uno di loro; tutti lo sanno, tranne te.”
Mi alzo in piedi, barcollando. “Voi non potete capire. Nessuno di voi può farlo. Ne ho abbastanza delle nostre falsità, del nostro sdegno, Camenia; ora che ho conosciuto il cuore degli uomini, la loro anima e il loro mondo, non posso tornare indietro.
Gli uomini mi hanno fatto conoscere l'Amore; e come loro hanno bisogno di me, io desidero loro.”
Mia sorella avvampa, digrigna i denti. Mi afferra per la vita, mi stringe in una morsa che non lascia respiro. “Ti sbagli, quanto ti sbagli", sussurra al mio orecchio, e passa una mano sul mio seno, penetra sotto la mia veste, nel mio piacere. “Sappi che non ti lascerò andare, rimarrai qui con me per sempre; sarò io la tua amante, la tua sposa, e tu ritornerai ad essere felice.
Non lasciarmi sola, Egeria. Io ti merito più di lui.”
Delicatamente mi libero della sua presa. Mi volto, chiudo gli occhi. L'odore del mare riempie le mie narici e la mia mente.
Non conosco l'isola dove sono stata portata, ma potrei chiamarla casa.
Siamo molto lontane da Cures, da Nemi, da Roma. Qui potremmo anche essere felici.
Lontane dal Tempo e dal dolore, dimenticate. Insieme, solo noi due, dove c'è Vita per sempre.
Ma lontano da Numa non è vivere. E io voglio vivere ogni tremito, ogni ferita, ogni sorriso. Voglio vivere i colori, le sensazioni, le emozioni, le paure e le lacrime. Voglio vivere tutto questo con lui.
E non ho esitazioni quando parlo. “Ricordati che ti vorrò sempre bene, sorella; ora è giunto il momento che Egeria nasca, che il Destino appartenga solo a lei”, sussurro, prima di fuggire.
La mia Sorte mi chiama, e io vedo. Vedo una piccola casa abbracciata dalla Natura, e tu sei sulla porta, in mia attesa, e sorridi. E mentre mi baci la fronte, io piango di gioia e ti sussurro: “Sono ritornata per restare.”
Non temere, mio dolce re: ogni volta che guarderai il cielo della sera e ti chiederai quale sia il tuo compito, io sarò al tuo fianco. Ogni volta che le parole ti mancheranno, io parlerò per te.
Mi senti, amore mio? Senti questa attesa morente, questo canto che muove il mondo?
Ritorno, e la mia Luce risplenderà ancora al riparo della tua Ombra per tutti gli anni che ci saranno concessi.
E quando il nostro ultimo giorno arriverà, io ti lascerò andare.
Quando la tua fiamma si estinguerà una parte di te entrerà in me per continuare a palpitare, mentre l'altra come un cigno si alzerà in volo e si tramuterà in un astro, per proteggere e guidare chi smarrisce la via.
Illuminato da te il mio corpo cambierà forma e si tramuterà in sorgente, e tra le rose e i papaveri che muoiono e sempre rinascono in eterno canterò il nome di Numa Pompilio, re di Roma, e della ninfa che imparò ad amarlo.




Here we are
Riding the sky
Painting the night with sun
You and I, Mirrors of light
Twin flames of fire
Lit in another time and place

I knew your name
I knew your face
Your love and grace
Past and present now embrace
Worlds collide in inner space
Unstoppable, the song we play


“Star Sky”, Two Steps From Hell


NOTE

[1] Secondo la leggenda Numa fu allievo di Pitagora; quindi da lui avrebbe imparato la dottrina della metempsicosi, o trasmigrazione delle anime.


ANGOLO AUTRICE

Ed eccoci qui all'epilogo.
Lo dico subito: il capitolo finale è un gran dramma per me, perché vorrei dire tante cose ma non riesco mai a farlo, e alla fine mi sembra di banalizzare tutto quanto.
Il mito ci dice che, dopo la morte del re, Egeria abbia pianto così tanto che Diana, mossa a pietà, l'abbia tramutata in fonte (che alcuni identificano con la sorgente di Porta Capena), o che la ninfa stessa lo sia diventata a forza di piangere lo sposo; questo è il cuore del mito, e da questo sono partita per scrivere la mia personale versione.
Camenia è un personaggio realmente presente nel mito, come anche Virbio, insieme al quale Egeria era associata al culto di Diana; inventato è il fatto che Camenia abbia cercato di frenare la sorella nel suo amore.
A chi è interessato ad approfondire la figura di Numa e della sua ninfa, consiglio la lettura di Ovidio, Metamorfosi, e Plutarco, Vita di Numa.
Detto questo, ringrazio tutti coloro che avranno la pazienza di seguirmi fino a qui, a chi ha recensito, ai lettori silenziosi.
Grazie davvero, per aver condiviso con me questa storia, queste parole, questo ennesimo sogno.


Manto

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