Lo strano caso di Duncan Dunn e Jeffrey Denver di CheshireClown (/viewuser.php?uid=29387)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
lo strano caso di dd e jd capitolo 1
Lo strano caso di Duncan Dunn e Jeffrey Denver
Capitolo 1
La nebbia avvolgeva i palazzi, nascondendone le forme.
Fitta, si spandeva fin oltre le rive del Tamigi. Solo la cima del Big Ben spuntava da quella grigia coltre.
Questo era lo spettacolo che l’investigatore privato Duncan Dunn vedeva dalla finestra del suo studio.
Comodamente seduto sulla
sua poltrona di pelle nera, in mano la fedele pipa, l’uomo
attendeva oziando la fine della giornata.
La porta del suo ufficio si aprì, attirando la sua attenzione.
Nella stanza entrò
una signora sulla cinquantina con in mano alcuni fogli, gli occhiali
posati sulla punta del naso davano l’impressione di dover cadere
da un momento all’altro.
- Sì, signorina McFinn? – chiese Duncan, rivolgendosi alla donna.
- Ha appena chiamato il capo della polizia, il signor Oakins, dicendo che ha un caso da sottoporle. – spiegò lei.
L’uomo parve riflettere su ciò che gli era appena stato detto.
Come al solito,
quell’incapace di Oakins aveva bisogno di lui. Aveva a
disposizione abbastanza poliziotti, eppure non era raro che pregasse il
signor Dunn di aiutarlo.
E, come al solito, Duncan
si ritrovava costretto ad accettare, visto che quei casi erano la sua
unica fonte di guadagno ultimamente.
- Richiami il signor Oakins e gli dica che domani mattina alle nove passerò in centrale per ulteriori informazioni. -
La signora McFinn annuì, per poi uscire dall’ufficio.
Sospirò frustrato, Duncan, nel trovarsi nuovamente costretto ad accettare un lavoro da parte della polizia.
E pensare che solo pochi
anni prima, davanti alla porta del suo ufficio, una lunga fila di
persone aspettava impaziente di vederlo per implorarlo di risolvere i
casi che gli proponevano.
Ora, davanti a quella
stessa porta che aveva visto praticamente ogni esemplare della specie
umana, da giovani eredi pieni di debiti a ricche signore con tanto di
amanti al seguito, si trovava solo la scrivania della signora McFinn,
l’unica donna al mondo capace di riordinare fascicoli in modo
impeccabile, nonché ottenere qualsiasi tipo di informazione e
confezionare dei deliziosi maglioncini di lana.
Il motivo del graduale dileguarsi dei suoi clienti aveva un nome: Jeffrey Denver.
Laureato da pochi anni,
intelligente e portato per la carriera di detective, il ragazzino aveva
sfondato con una facilità sorprendente, rubando in pochi anni i
clienti agli investigatori più anziani.
Il suo nome appariva
quotidianamente sul Times, che lo lodava come solo il peggiore dei
lecchini è capace. O almeno questo era il parere di Duncan, un
giudizio del tutto soggettivo, visto che lui sopportava a stento il
moccioso.
Lo aveva incontrato solo una volta per puro caso alla fermata della metropolitana.
La sua prima impressione
era stata quella di un ragazzino borioso e altezzoso, quei tipici
giovani estremamente maleducati e con la puzza sotto il naso.
Così Duncan aveva ipotizzato essere la personalità del
rivale e, poiché lui ormai se ne intendeva di intuizioni dopo
tutti quegli anni passati a risolvere casi, era certo di avere ragione.
Pian piano aveva cominciato ad odiare il ragazzino, addossandogli la colpa del suo lento decadere.
Ogni tanto una voce nella
sua testa gli suggeriva, timida, l’eventualità che lui
avesse ormai superato l’apice della sua carriera ben prima
dell’entrata in scena di Jeffrey, e quindi era naturale lasciare
spazio ai giovani.
Per fortuna il suo orgoglio zittiva tale fastidiosa voce ogni qualvolta tentasse di ricordarglielo.
La porta si aprì una seconda volta, distogliendo l’uomo dai suoi pensieri.
- Signore, io torno a casa. Chiude lei l'ufficio?- chiese la signora McFinn, il cappotto marrone appoggiato al braccio.
- Certo, tanto fra poco me ne vado anch’io. – rispose Duncan, rivolgendole un sorriso.
La vecchia signora McFinn lo aveva sempre intenerito, forse per i suoi modi di fare, forse per il suo senso del dovere.
- Bene. Allora la saluto e le auguro una buona serata, signor Dunn. – disse lei, richiudendosi la porta alle spalle.
- Buona serata anche a lei.
– sussurrò, lo sguardo fisso sulla porta, o meglio, sul
quadrato di vetro giallognolo con su scritto il suo nome.
Quando Duncan girò le chiavi nella toppa della porta di casa, la sera era già calata da un pezzo.
Si sentiva terribilmente
stanco, nonostante la giornata passata a guardare fuori dalla finestra.
Non avrebbe mai ammesso che stava invecchiando, continuava a
definirsi forte e robusto come vent’anni prima.
Peccato che a quel tempo,
quando tornava a casa, non provava il forte desiderio di rintanarsi
immediatamente sotto le calde coperte del suo comodo letto.
Entrò nella piccola stanza d’ingresso del suo appartamento, notando subito la luce accesa in salotto.
Richiuse la porta di casa
alle sue spalle, appese il lungo cappotto nero all’appendiabiti
alla sua sinistra e si diresse verso la stanza illuminata.
Il salotto non era molto
grande, aveva le pareti color panna e le grandi finestre erano coperte
da rossi tendaggi. Al centro, attorno ad un tappeto rossiccio, vi erano
due poltrone in pelle.
Vicino ad una vi era un tavolino in legno con sopra poggiata una copia del Times.
Sull’altra stava seduto, o meglio, stravaccato un uomo con in mano un bicchiere di whisky.
Questi fissava con aria quasi di sfida Duncan, rivolgendogli un ghigno beffardo.
- Buonasera, signor investigatore. – lo salutò, burlandosi quasi del suo lavoro.
Duncan lo osservò
per qualche minuto, per poi distogliere lo sguardo e dedicarsi alla
sostituzione della copia del Times sul tavolino con quella del giorno
corrente.
- Gradirei che chiedessi a
me il permesso prima di prendere del whisky, Joe. – disse, quasi
tremando in quel tentativo di mostrare il proprio potere
all’altro uomo.
Joe, per tutta risposta, scoppiò in una fragorosa risata.
- Non mi far ridere, Dunny! Mi stai dicendo che dovrei chiedere il permesso a te, per prendere un goccio di dannato whisky? Bel tentativo, ma non prendo certo ordini dal mio fratellino. -
Duncan quasi rabbrividì nell’udire l’ultima parola.
Ancora lo trattava come un
moccioso, nonostante fossero entrambi abbastanza vecchi da ambire alla
pensione. E, come se umiliarlo non fosse abbastanza, pretendeva di
essere lui il padrone di quella casa, di proprietà di Duncan.
Lui lo ospitava, lui lo difendeva di fronte a tutti coloro che sospettavano fosse un assassino.
E in cambio cosa riceveva? Derisione.
Non riusciva neanche a controbattere, né ad imporsi.
Era sempre stato
così, dopotutto. Joe aveva sempre avuto l’abitudine di
tiranneggiare sul fratellino, osservandolo beffardo mentre si
affaticava per aiutarlo.
Buttarlo fuori di casa era
praticamente impossibile: Duncan era troppo legato a Joe per poterlo
allontanare da sé. Il fratello maggiore era il suo idolo,
l’uomo che avrebbe voluto essere.
Per questo motivo l’avrebbe protetto a tutti i costi, nonostante tutto.
- Hanno più chiesto niente di me? – chiese Joe, ghignando.
- No, li ho zittiti due giorni fa dicendo che non ti vedo da mesi. -
Una risata riecheggiò nuovamente nel salotto.
- E bravo il mio
fratellino! Sei arrivato a mentire spudoratamente pur di aiutarmi.
Potrei anche ricordarmi di questo in futuro. -
Duncan percepì
chiaramente il tono ironico dell’ultima frase. Suo fratello non
si sarebbe mai ricordato dei favori che gli faceva, lo sapeva bene.
- Cerca di non fare troppo
rumore, non devi destare sospetti. Nessuno sa che ti nascondi qui, se
lo scoprissero saremmo nei guai entrambi. -
- Quanto la fai lunga,
fratellino, so bene come mi devo comportare, non serve che tu me lo
ripeta tutte le sante volte. – rispose Joe, intento a fissare il
liquido dorato che lento oscillava qua e là nel bicchiere.
Duncan sospirò.
Rischiava il suo posto di lavoro pur di proteggere il fratello e questi
preferiva concentrarsi sullo studio del colore del whisky.
In verità era anche felice di rischiare tutto per lui.
Tutti lo credevano il colpevole dell’assassinio di George Richardson, risalente a più di cinque anni prima.
Da quel momento poliziotti su poliziotti erano alla ricerca di Joe
Dunn, e spesso capitava che chiedessero a Duncan informazioni. L’uomo mentiva di continuo, rafforzando la copertura di suo fratello, nascosto nel suo appartamento.
Faceva tutto questo perché era certo che quella gentaglia avesse torto, loro non conoscevano Joe quanto lui.
Duncan aveva praticamente
passato la sua vita con il fratello, sapeva tutto di lui, per questo
era sicuro che non fosse un assassino.
Non era nelle sue capacità, né si addiceva alla sua personalità, questo era ciò che pensava.
- Vado a dormire. Ti
consiglio di seguire il mio esempio. – dichiarò Duncan,
dirigendosi verso la porta della sua stanza, oltre la poltrona su cui
era seduto Joe.
- Che nonnetto che sei,
fratellino. Io non sono per niente stanco, non credo che
“seguirò il tuo esempio”. - gli rispose,
deridendolo ancora una volta riguardo il suo modo di parlare.
Un’espressione triste
apparve per pochi secondi sul volto di Duncan, che cercò di
sorridere nonostante la presa in giro.
- Fa’ come vuoi. Buonanotte. – disse, prima di scomparire nella sua camera.
Per un attimo, prima di
lasciare il salotto, gli era parso di notare uno sguardo strano sul
volto di Joe, che raramente mostrava.
Era uno sguardo colmo di pazzia, di perversione. Lo stesso che Duncan aveva visto in molti assassini precedentemente catturati.
L’uomo scosse la testa, ridendo della sua fantasia.
Joe non era un assassino, questa era una certezza.
Il fatto che ogni tanto
Duncan notasse quello sguardo strano non era altro che un evento
influenzato dalla sua immaginazione e da ciò che i poliziotti
gli ripetevano tutte le volte riguardo Joe.
Già, il suo caro
fratello non avrebbe mai potuto commettere un atto così
malvagio, il suo idolo non poteva abbassarsi allo stesso livello di un
misero assassino.
Oramai si era auto-convinto che fosse innocente, aveva addirittura recuperato tutte le prove necessarie per dimostrarlo.
Era impossibile che stesse sbagliando.
Duncan Dunn aveva sempre ragione.
*****
Note dell'autrice: questa storia partecipa al concorso "Detective's Insight" indetto da Harriet.
Per il titolo mi sono ispirata a "Lo strano caso del dottor Jekyll e
del signor Hyde" di R.L. Stevenson, riferendomi alle due
personalità dei detective presentati.
Il prossimo capitolo tratterà invece del rivale Jeffrey Denver.
Per ora è tutto, passo e chiudo.
kiara_chan
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
lo strano caso di dd e jd capitolo 2
Lo strano caso di Duncan Dunn e Jeffrey Denver
Capitolo 2
La scrivania era ricoperta
di fogli. Erano dappertutto: nei cassetti, sugli scaffali, addirittura
sotto la sedia. Non c’era neanche un fermacarte che potesse
domarli.
Freneticamente, Jeffrey Denver spostava plichi su plichi alla ricerca di chissà quale foglio.
Non era mai stato ordinato
e sua madre lo rimproverava sempre per questo, peccato che solo ora il
giovane comprendeva perché lo riprendesse riguardo quel suo
difetto.
Stava impazzendo solamente
nella ricerca di un misero pezzo di carta con su scritte sicuramente
delle sciocchezze. Naturalmente, però, quelle frivolezze erano
di una certa rilevanza per la signorina Mayer, colei che aveva chiesto
a Jeffrey di aiutarla con un problema di cui lui non ricordava nulla.
Il bello era che la signorina non si era nemmeno sforzata di recarsi di
persona nel suo ufficio, bensì aveva inviato per posta la sua
richiesta.
Molto probabilmente non
sapeva che dare un qualsiasi foglio a Jeffrey era come buttarlo in un
cumulo di altri pezzi di carta tutti uguali.
Il poveretto si era
così ritrovato a dover trovare, nel minor tempo possibile,
quella dannatissima richiesta, in seguito ad una sollecitazione
telefonica da parte della signorina.
Jeffrey si pulì la
fronte sudata con la manica della camicia, sbuffando. Stava frugando in
quella montagna di fogli già da una buona mezz’ora ormai e
ancora non aveva trovato niente.
Il telefono squillò, sorprendendolo.
Si guardò attorno, fino a notare alcuni fogli vibrare sulla scrivania.
Li scostò con noncuranza, rivelando il telefono nero.
Alzò la cornetta, sperando non fosse il maggiordomo della signorina Mayer intenzionato a sollecitarlo una seconda volta.
- Studio investigativo Denver, desidera? -
- Jeffrey caro! -
Il giovane
rabbrividì, irrigidendosi. Forse sarebbe stato meglio se al
telefono vi fosse stato il maggiordomo di casa Mayer.
- Jeffy, amoruccio, tutto bene? -
Decisamente meglio.
- Sì, mamma. – sibilò in risposta.
- Stai male, piccolino mio? Cos’è quel tono? -
- Niente mamma. Vorrei solo ricordarti che sono al lavoro. -
Non sopportava che sua
madre lo chiamasse durante l’orario lavorativo, lo trovava fuori
luogo e, in tutta sincerità, anche piuttosto imbarazzante.
- Davvero amoruccio? A proposito, come va? Hai mangiato? -
Jeffrey roteò gli occhi.
- Certo. – rispose secco, deciso a concludere la conversazione al più presto.
- Il Times ti ha citato
anche oggi, Jeffy! Sono così contenta! Sei così bravo!
Oh, devi tornare qui al più presto, così festeggeremo
tutti insieme! -
Il giovane investigatore si
vide costretto ad allontanare di poco il ricevitore dall’orecchio
per colpa della voce stridula della madre.
- Certo, mamma, un giorno o l’altro vengo a farvi visita. -
- Oh, caro! Ora devo
andare, non sai quanto mi dispiace, ma rischio di bruciare il pasticcio
di carne per tuo padre. Stammi bene, Jeffy! Ricordati che siamo tanto
orgogliosi di te! -
Un sorriso triste si dipinse sul volto del giovane all’udire l’ultima frase.
- Certo mamma, ci sentiamo. Ciao. -
Riagganciò, lo sguardo rimase fisso sul telefono.
Erano orgogliosi di lui…O dell’immagine costruita dal Times?
Sospirò, abbandonandosi sulla scomoda sedia in legno.
Non ce la faceva più, nonostante fosse solamente all’inizio della sua carriera.
E dire che il suo lavoro gli piaceva, e pure tanto!
Ma non riusciva a sopportare il clima che si era venuto a creare.
Erano bastati due casi,
neanche troppo importanti, risolti con successo grazie anche
all’aiuto di un pizzico di fortuna. Ed ecco che il Times ne aveva
subito approfittato per parlare di lui e descriverlo come un ragazzo
prodigio dalle incredibili abilità.
Non era passata neanche una
settimana dalla pubblicazione sul giornale di un articolo riguardo al
suo secondo successo che già una fila di persone attendeva
impaziente davanti alla sua porta.
Per non parlare della buca delle lettere, piena zeppa di richieste scritte da parte di riccastri o clienti anonimi.
E Jeffrey non ne poteva più.
Doveva risolvere troppi
casi sotto gli occhi vigili dei giornalisti, pronti a riportare nero su
bianco un suo successo o un suo errore.
Pareva quasi gli mancasse addirittura il respiro.
Era tutto… troppo.
Non riusciva più a gestire i casi, ad indagare con calma.
Aveva la continua paura di
sbagliare, di deludere tutti coloro che credevano in lui, o in colui
che credevano fosse Jeffrey Denver.
Con un sospiro, si passò una mano fra i capelli, arrendendosi.
Avrebbe detto alla
signorina Mayer che aveva casi urgenti da risolvere, con conseguente
rinvio della ricerca di quel maledetto foglio.
Guardò l’orologio, gioendo nel notare che fossero già le sette e mezza, ora di chiusura.
Saltò in piedi, pronto a lasciarsi alle spalle quella dannatissima marea di fogli.
Nel minuscolo appartamento buio, sdraiato sul divano, Jeffrey fissava con sguardo vuoto il soffitto.
Tornando a casa aveva
evitato di acquistare una copia del Times: per quanto fosse curioso di
leggere qualche notizia del giorno, non voleva ritrovarsi davanti un
bell’articolo su di sé.
Alla fermata della
metropolitana si era guardato bene attorno. Pochi giorni prima un
signore lo aveva guardato torvo per tutto il tempo.
Quello sguardo carico d’odio aveva spaventato il giovane Jeffrey, oltre a farlo sentire estremamente a disagio.
Da quel momento, ogni volta
che prendeva la metropolitana si guardava attorno per vedere se nella
bolgia vi era anche quel signore che pareva detestarlo.
Erano dettagli irrilevanti
in fin dei conti, ma Jeffrey era irritato dal pensiero di dover stare
attento agli articoli di giornale che leggeva e alle persone vicino a
lui alla fermata della metropolitana.
Se solo non fosse stato così famoso… Di sicuro la sua vita sarebbe stata più tranquilla.
Si girò su un fianco, lasciando vagare lo sguardo per la stanza spoglia.
Meritava davvero tutti quegli onori? Molto probabilmente no.
Di sicuro il Times stava
sfruttando la sua immagine, idealizzata a dovere, per chissà
quale scopo. Forse per rassicurare la gente presentando Jeffrey Denver
come un eroe senza macchia e senza paura.
Peccato che in
realtà il giovane investigatore non era altro che un ragazzino
impacciato e disordinato, spaventato da quell’atmosfera
opprimente che pian piano pareva schiacciarlo.
All’inizio ricevere dei complimenti era stato gratificante, doveva ammetterlo, ma il Times aveva cominciato ad esagerare.
Jeffrey portò le ginocchia al petto, raggomitolandosi sul divano.
Rivoleva la sua tanto amata vita tranquilla, voleva tornare ad essere il ragazzo che nessuno conosceva.
Gli sarebbe bastato
lavorare in santa pace ai suoi casi, indagando con calma e passione,
ragionando su ogni indizio. Aveva sempre immaginato così la vita
di un investigatore privato.
Si sbagliava?
In caso contrario per quale
motivo la sua carriera si era trasformata in un carosello di persone
egoiste e fatti che si succedevano troppo velocemente?
Forse perché il
Times, Londra, e chissà chi altro volevano un eroe, un uomo
capace di risolvere tutto dimostrandosi un miracolo umano.
Ma Jeffrey Denver non voleva essere l' eroe.
*****
Note dell'autrice: ultimo capitolo della storia. Spero di aver reso entrambi i detective al meglio.
Jeffy è l' "affettuoso soprannome" con cui la madre di Jeffrey
si rivolge al figlio, devo ammettere io stessa che è alquanto
inquietante.
L'uomo della metropolitana altri non è che Duncan Dunn, ma
Jeffrey, non conoscendolo, pensa sia solamente uno sconosciuto che per
qualche oscuro motivo (a suo parere legato alla sua fama) lo detesta.
That's all folks.
kiara_chan
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