Noi tre

di fioredaparete
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Per un paio d'occhi verdi ***
Capitolo 3: *** Famiglia ***
Capitolo 4: *** Tradimento ***
Capitolo 5: *** Cavalleria ***
Capitolo 6: *** Una visita inattesa ***
Capitolo 7: *** Ricordi ***
Capitolo 8: *** Perdono ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
TATE

In quel momento, sentivo di avere più alcol che sangue in corpo.
Non sono uno che eccede nel bere, non lo sono mai stato, ma quella era Brattleboro (Vermont) e, quando si organizza una festa a Brattleboro, l’unico modo per costringersi a divertirsi è bere, e bere molto.
Erano ormai trascorsi all’incirca tre mesi da quando avevo rotto con la mia ragazza, un trauma che non ero ancora pronto a lasciarmi alle spalle, e il mio migliore amico, Adam, mi aveva praticamente spinto a pedate fuori di casa e mi aveva trascinato all’imboccatura del bosco, dove ogni ultimo Sabato del mese gli studenti dell’ultimo anno del Brattleboro High School organizzavano un ritrovo, e indovinate cosa si faceva… esatto, si beveva.
La gente si sbronzava alla luce della luna, tra lanterne e teloni da picnic stesi per terra tra gli alberi, su cui i romantici si sdraiavano a guardare le stelle… o a fare altro.
Adam si stava attualmente dando da fare con la sua ultima fiamma, Kate, sembravano decisi a fare sul serio. Io me ne stavo appoggiato al tronco di un pino, intento a trangugiare il mio ottavo bicchiere di birra, sarei potuto cadere a terra da un momento all’altro.
L’idea di venire calpestato da una decina di giocatori di football ubriachi però non mi allettava, perciò barcollai in cerca della mia amica Beth, lei avrebbe saputo cosa fare, lo sapeva sempre.
- Bronson, bello mio! Ehi, ragazzi, Bronson è uscito dal letargo! - Aidan Ross mi buttò un braccio al collo e mi versò un po’ di birra sulla camicia, il che non mi fece né caldo né freddo, quello che mi colpì come uno schiaffo in piena faccia fu il suo alito, sembrava avesse ingoiato un’intera enoteca.
- Lascialo stare, Aidan, non lo vedi che è sbronzo? - Adam staccò bruscamente la sua bocca da quella di Kate e ci raggiunse, lasciando la ragazza evidentemente infastidita.
- Stai bene, amico?
- S-sto bene, Adam. - risposi incerto. Stavo bene?
Adam mi diede due lievi schiaffetti su entrambe le guance, in modo che mi riprendessi, funzionò a mala pena.
- Hai visto Beth? - gli chiesi.
- Beth? No, sarà andata a casa.
 Di bene in meglio.
Allontanai Aidan con una debole spinta, lui barcollò leggermente, poi trascinai i piedi in direzione di un vecchio capanno degli attrezzi, covo di fattoni e asociali, dovevo sedermi.
- Tate, sei sicuro di star bene? – mi gridò dietro Adam. Gli risposi con un cenno della mano, come per dire “lascia stare”.
Ogni tanto mi appoggiavo ad un albero, per evitare di inciampare. Mi sembrava che non fosse tutta colpa dell’alcol, in fondo lo sai quando sei ubriaco, no? E io non mi sentivo ubriaco, mi sentivo … solo distrutto.
Intravidi le luci del capanno. Come se non bastasse, avevo dimenticato di indossare le lenti a contatto, e di mettere gli occhiali neanche a parlarne, quindi, per farla breve, ero cieco.
Salire i tre gradini d’ingresso alla piccola struttura di legno fu decisamente più complicato. Mi ressi a fatica al corrimano e mi issai fino all’ultimo scalino, poi crollai sulla prima panchina che trovai.
C’era poca gente, me l’ero immaginato più affollato.
- Hai da accendere?
Che?
Era una voce femminile. Mi voltai a destra, aguzzando la vista, niente. Allora mi voltai a sinistra, niente.
- Davanti a te, Bello Addormentato.
Mi trovai di fronte una ragazza, bella, dai capelli color miele, raccolti alla rinfusa in una lunga treccia spettinata. Portava poco trucco, ormai sbiadito, il che accentuava le occhiaie pronunciate che aveva sotto gli occhi, immensi e verdi.
Mi sorpresi a fissare intensamente quegli occhi, occhi tristi, spenti…
- Allora?
- C-come, scusa? – scossi la testa, cercando di darmi una svegliata.
- Ti ho chiesto se hai da accendere.
- N-no, mi dispiace.
Lei scrollò le spalle, poi si voltò e fece la stessa domanda ad un’altra ragazza, che le porse un accendino fucsia fluorescente.
La ragazza con gli occhi verdi si mise la sigaretta in bocca e la accese. Era abbastanza vicina da permettermi di notare che aveva le labbra dipinte di un rosso molto scuro, leggermente sbavato all’angolo sinistro del labbro inferiore, e le mani… le sue mani erano così piccole, e pallide, dava l’impressione di essere incredibilmente fragile.
- Che fai, mi fissi? – mi guardò storto, inarcando un sopracciglio folto e scuro.
Fui colto di sorpresa. Non la stavo fissando. O sì?
- EH? No! Insomma… NO.
Lei sogghignò divertita, poi si riavvicinò la sigaretta alle labbra e aspirò intensamente.
- Ora posso dire di averle viste tutte. – disse espirando.
- Che intendi?
- Non sei proprio il tipo che farebbe una visita al capanno durante una festa, o sbaglio?
- Ehm…
Facevo fatica a seguirla.
- Tate Bronson, alto, bruno, di bell’aspetto, gettonatissimo, probabilmente uno studente modello…
- Ci conosciamo noi due? – la interruppi.
- Non direttamente. – rispose con noncuranza.
E allora che aveva contro di me? Insomma, non le avevo neanche mai parlato e già pareva che le stessi antipatico. Si comportava come se sapesse già tutto di me. Ero uno stereotipo, per caso?
Mi girava la testa.
- Tate? – mi sentii chiamare, la voce era fin troppo familiare. Mi girai di scatto e cercai di mettere a fuoco la figura slanciata alla mia destra. Riconobbi immediatamente i capelli arruffati e il maglione grigio dal bordo scucito.
- Theo?
- Tate, che cazz… ma sei ubriaco?
- NON SONO UBRIACO, OKAY? PERCHE’ NON LA PIANTATE TUTTI DI CHIEDERMELO?! – strillai contro la mia volontà.
Allora la ragazza con gli occhi verdi fece una cosa che mi portò su un altro pianeta, uno stato di ebbrezza che nessun alcolico prima di allora mi aveva mai fatto raggiungere, scoppiò a ridere. Buttò la testolina spettinata all’indietro e si sbracò per lungo sulla panca, sussultando senza sosta per le risa.
Ero talmente imbambolato che solo lo scappellotto che ricevetti da Theo riuscì a distrarmi.
- MA SEI PAZZO?! – sbottai.
- Ssshh! Piantala di gridare, fratello! – pose le mani di fronte a sé, con cautela. - Su, alzati, andiamo a casa.
Non mi mossi.
- ADESSO. – il tono del mio fratellino era fermo e deciso.
Esitai prima di riuscire finalmente a stabilizzami su entrambi i piedi, Theo mi afferrò le spalle e mi indirizzò verso gli scalini.
Sentii una mano posarsi sul mio fianco e trattenermi, mi voltai sotto lo sguardo impaziente di Theo.
La ragazza mi guardava con quei suoi enormi occhi color giada, le labbra atteggiate ad un lieve broncio.
- Prendi un caffè appena arrivi a casa, forte, non diluirlo.
- Uhm.. okay?
- Ah e bevi parecchia acqua, ti aiuterà a smaltire la sbornia.
- Grazie, Abby, ora però dobbiamo proprio andare, ciao. – tagliò corto mio fratello, ma io non lo assecondai.
- Abby, eh? Io sono Tate.
- Lo so. – rispose. Poi venni violentemente trascinato via, lontano dai suoi occhi verdi.

 
 

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Capitolo 2
*** Per un paio d'occhi verdi ***


TATE
 
- Io Adam lo ammazzo, avrebbe dovuto tenerti d’occhio. – sbottò Theo, tenendo gli occhi fissi sulla strada e le mani serrate sul volante.
- Mmmh. – mugolai. Mi scoppiava la testa ed ero probabilmente sul punto di vomitare sul sedile della mia auto nuova.
- Sei tu quello responsabile tra i due, se mi crolla anche questa certezza che vivo a fare? L’umanità mi aveva già deluso quando ho scoperto che Babbo Natale non esisteva e che mamma era la Fatina dei denti, ma tu non puoi buttarmi giù in questo modo.
- Ma che cazzo stai dicendo?
- Non lo so, sono un po’ fatto.
- E guidi?! – alzai il tono.
- Rilassati, sono lucidissimo.
- Hai diciassette anni!
- E tu diciotto. Chi è dei due quello che non riesce a fare lo spelling di “cane”, fratellone?
- C… O… - tentai inutilmente a fare lo spelling di “cane” mentre Theo scoppiava in una fragorosa risata.
- Farai meglio a non farti sentire da mamma quando torniamo, si incazzerebbe parecchio se sapesse che ti sei “lasciato andare”.
- Senti chi parla, tu non saresti neanche dovuto essere a quella festa. – dissi.
- Ma io sono un professionista.
Theo parcheggiò nel vialetto di casa con la massima precisione, scese dall’auto, assicurandosi di non sbattere la portiera in modo da non far rumore, poi aiutò me, ripetendo la stessa procedura. Mi sentivo una femminuccia, ubriaco fradicio e per di più incapace di sgattaiolare dentro e fuori casa senza l’aiuto del mio fratellino, patetico.
Facemmo il giro dell’abitazione, fino a raggiungere la finestra bassa della cucina, che dava sul giardino sul retro, Theo l’aveva lasciata semiaperta, così da poterla aprire facilmente anche dall’esterno. Entrò prima lui, poi mi porse una mano per aiutarmi a scavalcarla, data la mia attuale instabilità.
Si accertò che i nostri genitori dormissero, il russare di papà si sarebbe sentito fino in Missouri, mentre mamma giaceva a pancia in su, gli occhi chiusi e il respiro regolare, ma chiunque la conoscesse avrebbe saputo che sarebbe bastato uno schiocco di dita perché balzasse sull’attenti.
- Si sveglierà da un momento all’altro. –bisbigliai.
Theo scosse tranquillamente la testa.
- Nah, le ho diluito un sonnifero nel te’ poco prima di uscire.
- Che hai fatto?! – scattai.
- Ssshh! Vuoi svegliare papà? Rilassati, non è niente di pericoloso, ma non dovrebbe svegliarsi almeno fino a domattina, sempre che qualcuno non la svegli con le sue urla.
- Sei un demonio. – dissi a denti stretti, lui sogghignò soddisfatto.
Ad un tratto sentii una fitta acuta all’altezza della nuca.
- Non sei proprio abituato a bere, eh? – disse mio fratello notando la mia smorfia di dolore. – Vieni, ti faccio un caffè.
Tornammo in cucina, dove mi sedetti comodo di fronte ad una tazza fumante di caffè nero. Tutto girava attorno a me e, all’improvviso, mi trovai davanti quegli occhi.
- Chi era la ragazza con cui stavo parlando? – chiesi a Theo. Lui scosse il capo, evidentemente la domanda non gli diceva nulla. – Abby. – aggiunsi ricordandomi il nome che aveva pronunciato.
Sorrise.
- Ooh certo, Abby. – annuì comprensivo. – E’ nella mia classe di Letteratura Straniera. Carina, eh?
Non dissi nulla. Non mi sarei tradito, non con quella lingua biforcuta di Theo.
- Un po’ troppo incasinata per i miei gusti. – aggiunse.
- Che intendi?
Lui ci pensò su un attimo, poi assunse un’espressione che non riuscii a decifrare, qualcosa di vagamente simile al dispiacere.
- Beve troppo, fuma troppo, e Dio solo sa che altro. All’inizio faceva tutto per attirare l’attenzione dei genitori, poi è diventato abituale.
- Sembrava… triste. – bofonchiai.
- Ti ha detto qualcosa? – ora Theo era all’erta, come un segugio pronto ad ululare in vista di un pericolo imminente.
- Mi ha solo chiesto un accendino. – risposi indifferente. – E mi ha fatto intendere che mi conosceva. – aggiunsi dopo una breve pausa.
- Conosce me, e di conseguenza conosce te. Vederti al capanno le avrà fatto strano… approposito, che diavolo ci facevi là?
- Cercavo Beth.
- Ah.
- Cosa?
- No, niente… niente. – scosse la testa, ma non mi convinse del tutto.
Nel frattempo avevo finito il caffè e la nausea si era accentuata, decisi di darmi una ripulita in fretta e furia e cercare di dormire il più possibile.
 
L’immagine riflessa nello specchio non era la mia.
Un tipo mingherlino, sudaticcio e dal colorito verdastro ricambiava il mio sguardo, il suo aspetto mi era familiare, ma i suoi occhi, verdi, opachi, quelli appartenevano a qualcun altro.
Mi schizzai un po’  d’acqua gelata sulla faccia e  scossi il capo violentemente, in modo da togliermi dalla testa quell’immagine. Non funzionò.
Mi gettai sotto la doccia. L’acqua fredda mi aiutò a mettere a fuoco i mille pensieri che mi affollavano la mente. Chi era quella ragazza? E perchè mi importava così tanto? Mi vedeva davvero come un perfettino qualsiasi? Ero un perfettino qualsiasi? Da quando il mio fratellino era diventato più in gamba di me? Perché diavolo avevo bevuto in quel modo? Dove si era cacciata Beth?
Quella notte feci fatica a prendere sonno, continuavo a pormi le stesse domande, a voltarmi e rivoltarmi e… niente, il tempo pareva essersi congelato.
Guardai l’orologio, curioso di sapere quanto tempo avevo passato a tormentarmi, e rimasi incredibilmente sorpreso nello scoprire che era passata appena un’ora e mezza da quando eravamo tornati a casa.
Mi buttai giù dal letto, ancora un po’ instabile, e mi diressi verso la stanza di Theo, la porta di fronte alla mia.
Se ne stava sdraiato a pancia in su sul letto sfatto, del lenzuolo non c’era traccia nonostante facessero più o meno 10°, dormiva sul materasso, senza coperte. Teneva le mani incrociate dietro la testa, le cuffie gli foderavano le orecchie e il volume era talmente alto che potevo sentirlo anche dalla distanza a cui mi trovavo. Un vecchio poster dei Green Day aveva cominciato a staccarsi dal muro e si stava arrotolando verso il basso, non penso che Theo se ne fosse mai preoccupato.
In quel momento, invidiai mio fratello come non avevo mai invidiato nessuno prima di allora. Sembrava che non gli importasse nulla di nulla, che le difficoltà gli scivolassero di dosso come gocce di pioggia su un impermeabile, era sempre rilassato, sempre disinvolto, non mostrava mai il minimo segno di turbamento. Era di ghiaccio, il riflesso dei suoi occhi.
Quando mi rimisi a letto erano le 04:36. Tenni gli occhi fissi sulle crepe del soffitto per quella che mi parve un’eternità, finchè le palpebre non cominciarono a pesarmi, poi venni inghiottito dall’oscurità.

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Capitolo 3
*** Famiglia ***


TATE

Venni svegliato da dei colpetti rumorosi sul vetro della finestra.
All’inizio pensai che fosse mia madre, pronta a rimproverarmi per essere in ritardo per la scuola e il ritmo del mio respiro accelerò leggermente al ricordo della notte precedente. Poi mi ricordai che era domenica e che non ero tenuto a svegliarmi presto, così rivolsi lo sguardo verso la finestra, e non rimasi affatto sorpreso quando vidi la testolina bruna di Beth sbucare da dietro il muro.
Ormai ero abituato a quel rumore. La mia stanza e quella di Theo si trovavano al piano di sopra, uscendo dalla finestra si atterrava direttamente sul tetto, il quale a sua volta era collegato col piano terra attraverso una scala anti-incendio, entrambi avevamo la nostra parte di tetto, era come avere una casa nostra, il nostro piccolo frammento di indipendenza.
Da quando eravamo piccoli, Beth era solita arrampicarsi sulla scala e salire in camera mia, come una spia in incognito, il che faceva incavolare da matti mio fratello, che trascorreva le sue giornate a discutere con la mia amica riguardo al fatto che invadeva il nostro “spazio personale”, lei gli rispondeva che se a me stava bene che lei restasse sarebbe restata quanto voleva, che a lui piacesse o no, e lui puntualmente se la prendeva con me, che preferivo una ragazza al mio “compare di sangue”, così soleva chiamarmi.
Beth era sempre stata la mia migliore amica, non mi ricordo neanche un giorno che avessi trascorso senza parlare con lei, era come se fosse sempre stata una parte della mia vita, era mia sorella, e sapevo che anche Theo la vedeva come tale, anche se tentava palesemente di nasconderlo.
Così, quando sua madre aveva cominciato a fare avanti e indietro da un luogo sconosciuto, lasciando una bambina di sei anni sola a casa, lei aveva iniziato a percorrere la breve distanza che separava le nostre case correndo in lacrime su quei suoi piedini microscopici e a passare sempre più tempo con noi. Col passare del tempo era diventata un membro della famiglia, e non aveva mai smesso di esserlo.
L’avevo vista trasformarsi da maschiaccio coi capelli a caschetto sempre in disordine in una vera e propria ragazza, minuta e delicata, bella nella sua semplicità, sia vestita di tutto punto che con jeans e maglietta, capelli lisci tagliati all’altezza delle spalle e sempre spettinati, l’unica prova del fatto che quella era sempre la vecchia Beth, quello e i suoi enormi occhioni scuri.
Mi stava guardando con quei suoi strani occhi marroni, l’iride circondata da un particolare contorno bluastro molto, molto scuro, non avevo mai visto occhi del genere, parevano scogli isolati in mare aperto, e mi stavano implorando.
Rimase con metà del corpo fuori dalla finestra, in attesa di un mio cenno che la invitasse ad entrare, mi accorsi solo allora che erano le 11:00 passate.
- Entra, Lizzie. – le dissi con un gesto della mano. Mi alzai a sedere e fui colpito da una fortissima fitta alla testa. Non avrei più bevuto, col cavolo che l’avrei fatto.
Beth scivolò dentro con la sua solita grazia, inciampando come una tartaruga zoppa nel tappeto e imprecando usando decisamente troppe parole, poi mi guardò e sorrise imbarazzata mentre si sedeva a gambe incrociate sul pavimento. Piccola, dolce Beth.
- Come stai?
- Sto… bene. – risposi, ignorando il mal di testa.
Lei scosse violentemente il capo e guardò a terra.
- Non raccontarmi stronzate, Bronson. Adam mi ha chiamato ieri sera e mi ha detto che eri completamente sbronzo.
Cristo, Adam!
Mi passai nervosamente una mano sul retro del collo e distolsi lo sguardo dai suoi occhi, troppo penetranti per potergli nascondere un segreto.
- Ha detto che mi cercavi, ho provato a chiamarti ma non ho avuto alcuna risposta. – aggiunse.
Avevo spento il telefono prima di andare alla festa, non volevo rotture.
Non sapevo che dire, quello che era successo non era stata colpa sua, non avrebbe mai potuto esserlo, ma se l’avessi assecondata si sarebbe sentita responsabile, o probabilmente avrebbe ucciso Adam.
- Non ti vedevo, ero preoccupato. – non era proprio una bugia…
- E così ti sei messo a bere?
- No… insomma… non l’ho fatto per questo, io… io ero un po’ giù per… per  Brooke e…
- E Adam dov’era? Non dovrebbe essere il tuo “migliore amico”?! – aveva pronunciato le ultime due parole svirgolettando in aria con le dita e alzando pericolosamente il tono di voce, era furiosa.
- Era con Kate, non me la sentivo di ammorbarlo, era pur sempre una festa.
- E metti una sgualdrina bionda slavata prima del tuo migliore amico? Adam si ritroverà appeso all’asta della bandiera domattina.
- E tu dov’eri, Beth?
Avevo parlato prima di poter frenare la lingua. Lei alzò lo sguardo su di me e parve colta alla sprovvista, le mie parole erano suonate come un’accusa. L’ultima cosa che volevo era apparire come un bimbo viziato che ha bisogno di supervisione in modo che non si cacci nei guai, quello era il ruolo di Theo.
- E-ero tornata a casa. – balbettò. – Avevo litigato con Sam e…
Oddio.
Sam, il suo ragazzo, troppo preso da se stesso per far entrare chiunque nella piccola sfera che racchiudeva a fatica il suo immenso ego, egocentrico e infantile. Non avevo ancora capito cosa ci facesse una come Beth con uno come quello.
- Non me la sentivo di restare, non se lui se ne stava lì ad ignorarmi.
- Scusa, B., non sapevo… che stronzo.
- Già.
All’improvviso avvertii una strana sensazione, avrei voluto afferrare Sam per il colletto perfettamente stirato della sua camicia da 200 dollari e buttarlo giù da una scarpata.
- Ma perché non lo lasci? – le chiesi, sapendo già la risposta.
- Non ci riesco, T.. Tu quanto ci hai messo per lasciare Brooke?
- Brooke mi ha tradito. – ammisi. La gola mi bruciava, come se ogni singola lettera che componeva quella frase fosse un carbone ardente che lottavo da mesi per sputare.
- E ti ha fatto male lo stesso.
Aveva ragione. Mi aveva fatto male, anzi, mi aveva fatto più che male, era stato come ingoiare una spada. Avevo provato in tutti i modi a convincermi che Brooke non era quella giusta per me, che la sofferenza che mi aveva provocato non poteva essere perdonata, che non ne valeva la pena, ma ogni volta che me la trovavo davanti cedevo, mi scioglievo come neve al sole, e mi sentivo così stupido. Finchè un giorno non decisi che io valevo più di una stronza che si divertiva a cambiare ragazzo come cambiava pettinatura la mattina, e la mandai a ‘fanculo senza mezzi termini, nonostante quell’azione mi provocasse il dolore più intenso che avessi mai sperimentato. Ero libero, e mi sentivo in catene.
Decisi di accantonare l’argomento, continuare a discuterne non avrebbe cambiato nulla.
- Come sei tornato a casa? – mi chiese Beth dopo una pausa un po’ troppo lunga.
- Ha guidato Theo.
- Lui ha… ha guidato?! Ma se l’ho visto, era strafatto!
- Che altra scelta avevo?
Lei lottò per trattenere una risata, ma non ci riuscì.
- Mi dispiace, Tate.
Le arruffai i capelli.
- STATEVI ZITTI, E’ TROPPO PRESTO PER SENTIRE LE VOSTRE CHIACCHIERE! – strillò Theo dalla stanza di fronte.
Il sorriso di Beth si fece tagliente, si posò un dito sulle labbra, intimandomi di fare silenzio, poi si avviò verso il bagno, dove riempì un bicchiere d’acqua, e via verso la stanza di mio fratello. La seguii.
Entrò in punta di piedi, stando attenta a non fare il ben che minimo rumore.
Lui dormiva a pancia in giù, al contrario, coi piedi sul cuscino, braccia aperte e gambe divaricate.
Beth si morse il labbro inferiore per frenare una risata, alzò il braccio con cui teneva il bicchiere proprio sulla testa di Theo e…
Splash
- AAAAAHHH! MA CHE CAZZO!  - Theo saltò in piedi strillando come un ossesso e scrollando i capelli fradici, io e Beth trattenevamo a stento le risate. – PICCOLA PESTE BUBBONICA. FLAGELLO DI SATANA. DEMONIO IN GONNELLA. TI ODIO!
Avevo le lacrime agli occhi.
Beth non sembrava minimamente ferita dagli insulti di Theo, anzi, credo che la divertissero ancora di più dello scherzo in sé.
- Calma, Theo, ti fa male al cuore arrabbiarti in quel modo.
- CHE TU POSSA MORIRE DI UNA MORTE LENTA E DOLOROSA, PICCOLA STREGA!
- Sì, sì… - fece lei con un gesto indifferente della mano. – Porta rispetto a chi è più vecchio di te.
Lui si voltò ad incontrare il suo sguardo.
- E tu porta rispetto a chi è più alto di te!
Le andò incontro a grandi passi e si fermò a un paio di centimetri da lei, la sovrastava. Una goccia scivolò dai suoi capelli sul nasino di lei, che se lo asciugò in fretta con la manica del suo maglioncino celeste. Diciotto anni e sembrava ancora una bimba, una bimba incredibilmente tosta.
Ero talmente abituato a quelle scene che mi pareva di star assistendo per la centesima volta alla mia puntata preferita di uno show televisivo.
- Vieni qui, - fece lui, la voce roca carica di divertimento. – fatti abbracciare.
Gli occhi di Beth schizzarono fuori dalle orbite quando Theo allargò le braccia e si gettò su di lei, inzuppandole vestiti e capelli.
- NO. THEO. STACCATI. E DAIIIII!
Ma lui non voleva saperne, vivevano l’uno della disperazione dell’altra, e viceversa.
In quei momenti venivo inondato da un profondo senso di gratitudine, per tutto quello che avevo, il resto poteva anche andare a farsi friggere. Quei due squilibrati erano la mia famiglia, e non sarei stato nessuno senza di loro. Senza di loro sarei stato… solo Tate, e “solo Tate” era parecchio triste.
- Abbracciami anche tu, complice! – strillò mio fratello correndo nella mia direzione.
Non feci in tempo a scansarmi che me lo ritrovai appiccicato addosso a mo’ di koala, odorava ancora di birra.
Birra…
Lo spinsi via delicatamente, il sorriso ancora stampato in faccia.
- Ora, se volete scusarmi, devo andare a vomitare.
Mi avviai verso il bagno, lasciandomi alla spalle l’eco delle loro risate.
 

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Capitolo 4
*** Tradimento ***


BETH

Mi erano sempre piaciuti i lunedì mattina.
Già da quest’affermazione posso supporre che la vostra opinione su di me sia che sono completamente fuori di testa.
E invece è proprio così. Il lunedì simboleggiava l’inizio di una nuova settimana e, routine o non routine, scuola o non scuola, si ricominciava tutto da 0.
Sentivo il costante bisogno di essere immersa nella folla, di distrarmi, di non sentirmi sola. Perché, se fossi rimasta a casa, come di solito accadeva nei giorni festivi, la solitudine avrebbe finito per divorarmi.
Fortunatamente c’erano Tate e la sua famiglia, sempre disposti ad accogliermi. Non c’era mai stato un giorno in cui non mi avessero fatta sentire la benvenuta (vabbè, apparte Theo), non mi ero mai sentita di troppo, non come in casa mia.
Certo, c’era anche Sam, il mio ragazzo, ma ultimamente mi sentivo, per citare Oscar Wilde, come se avessi dato tutta la mia anima a qualcuno che la usava come un fiore all’occhiello in un giorno d’estate, una scintilla in più per ingigantire la fiamma del suo ego. Era perennemente distratto, sempre scontroso, sempre disinteressato, mi dava l’importanza che avrebbe dato ad una formica che intralciava la sua passeggiata serale, talmente piccola e insignificante da poter essere tolta di mezzo con un soffio.
Ma io non mi sentivo una formica.
Camminavo a braccetto con Tate, come ogni mattina da quando avevamo circa quattro anni. La gente si era ormai abituata al nostro rituale, non giravano pettegolezzi, non si sentivano battutine, la nostra amicizia era di dominio pubblico, come il fatto che non avevamo mai visto il nostro rapporto come qualcosa che andava al di là della pura e semplice amicizia.
Eravamo Tate e Beth, sempre e per sempre.
Mi fermai a guardarlo un secondo di troppo: lo sguardo allegro fisso di fronte a sé, il colorito ancora un po’ pallido, in contrasto con gli occhi brillanti e pieni d’entusiasmo.
Era così diverso da suo fratello.
Tate era genuino, tutto in lui emanava purezza e semplicità, l’educazione, il tono gentile della voce, i suoi dolcissimi occhioni marroni, i capelli arricciati in morbidi boccoli scuri che gli ricadevano sulla fronte. Non era mai esageratamente agghindato, optava spesso per un pullover e un paio di jeans, ma era elegante e aggraziato. Per non parlare di quando indossava gli occhiali, gli conferivano quel tocco di dolcezza in più che avrebbe fatto innamorare chiunque. Era il tipo di ragazzo che ogni madre vorrebbe vedere accanto alla propria figlia, e che ogni padre vorrebbe come compagno per giocare a golf nei weekend.
E poi c’era Theo, più piccolo di Tate di appena un anno.
Se Tate era un giorno di sole, Theo era una tempesta in piena regola. I vestiti, che variava raramente, erano sempre stracciati, e i capelli lisci, scuri come quelli del fratello, sembravano dotati di vita propria. Quello che lo differenziava più di ogni altra cosa da Tate erano gli occhi, freddi, inespressivi, di un azzurro talmente chiaro da sembrare grigio perla, gli stessi del padre.
Theo era espansivo, aveva sempre la battuta pronta, non si lasciava intimorire da niente e da nessuno, non conosceva né regole né tantomeno restrizioni, il che gli procurava spesso un bel po’ di guai. Era affascinante nella sua disinvoltura, e aveva la grazia del fratello. Ogni ragazza dentro e fuori dai confini di Brattleboro avrebbe dato tutto per cinque minuti con quel ragazzo, ma lui non sembrava volerle accontentare.
I fratelli Bronson erano il sogno proibito della Brattleboro High, e uno dei due era il mio migliore amico.
- Vuoi passare stasera? – mi chiese Tate.
- Grazie, ma stasera sto con Sam.
Lui parve irrigidirsi.
- Proveremo a sistemare le cose. – cercai di tranquillizzarlo.
- Spero che vada tutto bene. – disse dandomi un bacio veloce sulla fronte.
- Ci vediamo dopo. – lo salutai mentre andavo verso il mio armadietto, ma qualcosa attirò la mia attenzione.
Ero a qualcosa come 20 m dal mio armadietto quando scorsi dei movimenti dietro una colonna. Non so cosa mi spinse a fermarmi, non ero solita sbirciare le “attività extracurricolari” dei miei compagni, fatto sta che mi appostai dietro il muro e diedi un’occhiata.
Riconobbi una del penultimo anno, Abby Foster, famosa per essere un po’ troppo amichevole con ogni essere vivente di sesso maschile, tanto bella quanto stronza. Era (ovviamente) avvinghiata ad un ragazzo, all’inizio non mi parve di averlo mai visto, era troppo buio per distinguere i dettagli del suo viso e feci per tornare sui miei passi, ma bastò un suo leggerissimo movimento perché mi sentissi mancare la terra sotto i piedi.
La prima cosa che mi saltò agli occhi furono i capelli biondi, pettinati con cura all’indietro, “oro soffice” ero solita dire. La giacca dal taglio elegante gli pendeva da una spalla e il colletto della camicia veniva energicamente sgualcito dalla mano di Abby, che tirava, e prendeva… quello che avrebbe dovuto essere mio.
Ci sarebbe voluto un po’ per raccogliere la mia mascella dal pavimento.
- Non è possibile.
Dovevo aver parlato ad alta voce, perché il ragazzo aveva l’aria di essere stato colpito in testa da un pianoforte. Il suo corpo parve congelarsi, mentre la sua gentile compare era talmente a suo agio che mi salutò con la mano, la mano che un minuto prima afferrava la camicia del mio ragazzo, nell’altra reggeva quel che restava di uno spinello.
Mantenni lo sguardo fisso sul ragazzo. Si girò molto lentamente, passarono diversi secondi prima che riuscissi a vedere il suo viso per intero, secondi che a me parvero minuti, minuti che parvero ore, ore che parvero giorni, giorni che parvero anni, anni che parvero secoli.
- B-Beth. – balbettò Sam.
Abby se ne stava appoggiata al muro, non mostrava il minimo interesse per quello che stava accadendo, avrei voluto spezzarle quel suo collo ossuto con le mie stesse mani.
Mi voltai in preda alla rabbia, alla frustrazione e all’umiliazione, e feci per andarmene. Dentro di me un numero infinito di emozioni facevano a gara per quale avrebbe dovuto avere la meglio, io ero solo il terreno sul quale combattevano, e che veniva calpestato.
Prima che potessi allontanarmi a sufficienza, venni afferrata per il polso.
- Beth, io…
Ritrassi il braccio di scatto, ma non riuscii a trattenermi dal guardare il viso di Sam, familiare e ignoto allo stesso tempo.
Aveva gli occhi sbarrati, la bocca socchiusa e le sopracciglia aggrottate, si vergognava, ma non per quello che aveva fatto a me, lo conoscevo troppo bene per illudermi, stava così per quello che sarebbe accaduto a lui.
- NON. TOCCARMI. – rimasi sorpresa dalla potenza della mia voce, tanto che avrei voluto che qualcuno la registrasse, per poterla riascoltare e avere la prova che quella ero davvero io. – Non toccarmi, non guardarmi, non osare neanche pensare a me. – continuai. E poi lo dissi, pronunciai le parole che per così tanto tempo avevo cercato di reprimere, le parole della mia coscienza, che fino ad allora non avevo avuto il coraggio di ascoltare. – E’ finita, Sam.
Gli avevo appena tirato un metaforico calcio nel di dietro. Non credeva che ne sarei stata capace, aveva dimenticato che anche la piccola Beth aveva una dignità.
- E’ finita. – ripetei, più per me stessa che per lui. – E’… è finita. – l’ultimo fu un sussurro.
Ero esausta, e volevo andare a piangere in un angolo del bagno delle ragazze.
Mi voltai, decisa a non guardarmi più indietro, mi asciugai freneticamente una lacrima, ma dopo pochi passi venni nuovamente bloccata.
- Beth?
Mi fermai, sempre tenendo la testa bassa.
- Beth… ehi, che c’è che non va?
Scossi la testa e alzai lo sguardo.
- Niente, Adam, solo … troppo stress. – mentii.
Il suo sguardo si fece preoccupato.
- Sei sicura? – mi mise una mano sulla spalla in segno di conforto. – Sembri sconvolta, posso aiutare in qualche m… - s’interruppe all’improvviso e spostò lo sguardo, attonito, alle mie spalle.
Mi voltai contro la mia volontà, sicura di quello che avrei visto.
Sam ed Abby uscirono contemporaneamente dallo stesso cantuccio, pessima mossa.
- Figlio di puttana. – bisbigliò Adam a denti stretti, gli occhi ridotti a due fessure.
- Adam, lascia perdere. – gli dissi, ma lui non volle ascoltarmi, e si gettò su Sam.
- Che le hai fatto, Sam? CHE CAZZO LE HAI FATTO?! – gli afferrò il colletto della camicia, l’altro era terrorizzato.
- Adam! – gridai. – Ti prego.
Lui mollò la presa, poi avvicinò le labbra all’orecchio dell’altro e bisbigliò abbastanza forte che potei sentire anche io. – Marcisci all’Inferno. – dopo di che, mi raggiunse.
Sam pareva floscio, come una pianta appassita, speravo che sarebbe appassito allo stesso modo.
Adam mi prese delicatamente per le spalle e mi spinse a camminare. Percorremmo l’intero corridoio sotto gli occhi di tutti, mi sforzai di non scoppiare a piangere per l’intero tragitto.
Ci bloccammo all’imboccatura delle scale.
- Stai bene? – mi chiese il mio amico.
Voglio salire fino all’ultimo piano di quest’edificio, chiudere gli occhi e buttarmi di sotto, ma non prima di aver strangolato il bastardo che mi ha appena spezzato il cuore e la sgualdrina che l’ha invogliato a farlo.
Ma tutto quello che dissi fu – Non proprio.
- Vieni qui. – Adam mi cinse in un abbraccio affettuoso, non mi lasciò andare finchè non smisi di tremare, ma non smisi di piangere.
- Puoi coprirmi? – gli chiesi in fretta.
Lui parve comprendere, i suoi occhi verdi erano scuri e seri, annuiva.
- Vai a casa?
Annuii in risposta.
- Non voglio che mi vedano piangere.
- Vuoi che chiami Tate?
- NO. No, per favore, non dirglielo. Esploderebbe, e non sono pronta ad affrontare anche quello adesso.
 Adam sorrise debolmente, poi mi posò una mano sulla guancia e mi asciugò una lacrima.
- Sei forte, sì?
Continuai ad annuire.
Non sapevo di preciso se ero forte, ma sapevo che lo sarei stata, dovevo esserlo, per me.
- Va bene allora. – disse. – Vado a informare il Preside che hai la febbre.
- Grazie. Ah e… Adam?
- Sì?
- Sono ancora furiosa con te per non aver tenuto d’occhi Tate l’altra sera. Era completamente fuso!
Adam rise imbarazzato e mi fece l’occhiolino.
- Ti voglio bene, B.
Sorrisi di rimando.
Quando finalmente si fu girato, mi guardai attorno, poi mi misi una mano sulla bocca e ripresi a singhiozzare.
 

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Capitolo 5
*** Cavalleria ***


TATE

Non vedevo Beth da ore e avevamo l’ora di Storia in comune, ma di lei nessuna traccia.
Non era una che saltava le lezioni, almeno non senza un motivo.
Avevo chiesto a tutti se l’avessero vista, ma tutto quello che ottenni furono una dozzina di occhiate ambigue e nessuna risposta.
Mi avviai in classe, Beth si sarebbe fatta viva.
 
 
Beth non si fece viva.
Non sapevo più che pensare, non rispondeva neanche al cellulare, doveva essere successo qualcosa.
Rincorsi Adam in preda all’esasperazione.
- Adam!
- Ehi, amico.
- Per caso hai visto Beth? Non riesco a trovarla da nessuna parte e a Storia non c’era.
Lui si grattò nervosamente il retro del collo. Bugia in arrivo.
- Ehm.. n-no. – cercai di incontrare il suo sguardo, quando ci riuscii lui rimase disarmato. – Forse… cioè… sì. – sospirò sconfitto. – E’ uscita prima.
- Come? Perché, stava male?
Adam parve spiazzato.
- Ma come, non lo sai?
Che cavolo stava succedendo?
- N-no… è successo qualcosa?
Il mio amico era incerto, e io non avevo intenzione di lasciar correre, non ne si trattava di Beth.
- Mi ha fatto promettere di non dirti nulla, è meglio se parli direttamente con lei.
- Cos’è successo, Adam?!    
- Tate, non credo che…
- Dimmelo.
Ci fu una lunga pausa, ma alla fine Adam cedette.
- Sam l’ha tradita. Beth l’ha visto stamattina, non se la sentiva di restare a scuola, era a pezzi.
- C- cosa?
Stentavo a crederci, insomma, avevo sempre saputo che Sam era un coglione, ma… no.
- Non voleva che ti dicessi nulla perché temeva che saresti esploso e… Tate?
Ero fuori di me, avevo la vista annebbiata, e riuscivo a pensare solo ad una cosa.
- Tate, dove stai andando? – mi gridò dietro Adam mentre mi allontanavo a grandi passi.
- A fare due chiacchiere con Sam! – gridai in risposta.
Girai la scuola in lungo e in largo, finchè non vidi la sua testa bionda sbucare da dietro gli armadietti.
- Montgomery! – gridai a pieni polmoni.
Lui si voltò di scatto, sorpreso nel notare che ero rivolto proprio a lui.
Continuai ad avanzare.
- Bronson, cosa…?
Ma prima che potessi frenarmi, le mie nocche erano sulla sua mascella.
Un gran boato si alzò tra la folla e un gremito gruppo di studenti si radunò attorno a noi.
Sam era faccia a terra, si reggeva la mandibola guardandosi attorno con aria stordita.
- Questo era per mia sorella. – e girai i tacchi.
- Bel colpo.
Rimasi paralizzato. Conoscevo quella voce.
Abby era in piedi accanto a me, le gambe incrociate all’altezza delle caviglie. Indossava un maglione verde petrolio di circa tre taglie più grande e lo portava a mo’ di vestito, le calze nere erano scucite, i suoi occhi più verdi che mai, sorrideva.
Aprii la bocca, ma non uscì alcun suono.
Lei abbassò lo sguardo.
- Ti sarai rovinato le tue mani da pianista, è un peccato.
Mi guardai d’istinto le mani, la destra era gonfia e sanguinava all’altezza delle nocche, ma non sentivo dolore.
Abby si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi parlò con una voce talmente flebile che mi fece venire voglia e avvicinarmi a lei e… ehm… okay, allarme pensieri inappropriati.
- Sei così bello.
Arrossii violentemente e mi sistemai nervosamente gli occhiali sul naso.
- C- come, scusa? – feci finta di non aver sentito. Se avessi potuto, le avrei chiesto di ripetere quelle parole fino a farmi sanguinare le orecchie.
- Ho detto che sei bello, Tate Bronson, dovresti rendertene conto. – detto questo, scomparve tra la folla, lasciando la mia carcassa lì, inerme sul pavimento.
 
 
Quando rientrai a casa, quel pomeriggio, Theo era già sbracato sul divano, leggeva, per quella che pensai fosse la tredicesima volta, la sua copia ormai consunta di Fight Club.
- Sei almeno andato a scuola? – chiesi.
- Ci andrò domani. – rispose scrollando le spalle.
- Mamma e papà?
- Papà è ad un convegno, mamma aveva gli straordinari in ospedale.
- E tu hai ovviamente colto l’occasione per prenderti un giorno di vacanza.
Mio fratello si dipinse in faccia una fintissima espressione offesa e si portò una mano sul cuore.
- Ma per chi mi hai preso?
Alzai le mani in segno di resa. Theo posò immediatamente il libro e scattò sull’attenti.
- Che diavolo è successo alla tua mano?!
La guardai di sfuggita, era peggiorata, più gonfia e più viola, il dolore aveva cominciato a farsi sentire.
Feci spallucce.
- Sam ha pensato che sarebbe stato divertente tradire Beth.
- Che cos’ha fatto?! – Theo strinse i pugni all’altezza dei fianchi, tanto forte che le nocche sbiancarono. Anche Mr. Iceberg aveva un cuore.
- Hai sentito bene. Beth è andata a casa prima, non mi ha detto nulla per paura che facessi qualcosa di stupido, l’ho saputo da Adam.
Lui fischiò rumorosamente.
- Il mio fratellone che fa a pugni per l’onore di una donna, ora sì che ti ammiro.
- Grazie. – bofonchiai alzando gli occhi al cielo.
- Ma perché per una volta che decidi di lasciarti andare al tuo lato selvaggio io non sono presente? Magari qualcuno ha fatto un video!
- La pianti?! – strillai.
- Così… - disse mio fratello. Nel frattempo aveva ripreso posto sul divano. – Non vai a trovarla?
- Non credo che voglia vedermi in questo stato. – alzai la mano, una fitta mi spinse a sospirare a denti stretti. – Le parlerò domani.

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Capitolo 6
*** Una visita inattesa ***


BETH

In quel momento eravamo solo io ed un barattolo maxi di gelato al pistacchio, e non avrei potuto stare peggio.
Era una di quelle situazioni che si vedono solo nei film: ragazza tragicamente piantata dal fidanzato affoga il suo immenso dolore e le sue lacrime  in una scodella di gelato. Ed è divertente, finchè non lo vivi in prima persona.
Continuavo a vedere quella scena, ancora, e ancora, e ancora all’infinito.
Quello che mi aveva fatto più male non era stato perdere Sam (siamo sinceri, non era stata una gran perdita), bensì l’umiliazione che il fatto aveva portato con sé. Da allora in poi sarei stata “la ragazza tradita”, l’etichetta avrebbe pesato sulla mia testa fino alla fine del liceo… davvero un bel modo di trascorrere l’ultimo anno.
Mi chiedevo ancora perché avessi permesso a quel verme di trattarmi come aveva fatto, di usarmi come un diversivo nei momenti di noia, di fare di me una qualunque.
Non ero una qualunque, anche se, a quel punto, non ne ero più così sicura.
Avevo il morale a terra, mi sentivo come se avessi potuto rompermi in mille pezzi al minimo contatto.
Sam mi aveva resa fragile e vulnerabile. Avevo lavorato anni alla mia corazza, l’avevo costruita pezzo per pezzo, e non l’avrei mai perdonato per averla scalfita, era una cosa che non potevo dimenticare.
La parte peggiore dell’odiare qualcuno è proprio l’incapacità di essere indifferenti. L’odio, come l’amore, non si dimentica, e non si ignora, ti logora dentro, ti cambia.
Non sarei stata più la stessa, era la cosa che mi rendeva più triste.
Suonò il campanello.
Ero sicura che fosse Tate. Non ero pronta ad affrontarlo, non ero pronta a sentirmi dire “te l’avevo detto”, ma non potevo ignorarlo all’infinito, infondo aveva a cuore solo il mio bene.
Cercai di ricompormi, mi asciugai le lacrime, mi pettinai i capelli e mi misi una felpa per coprire il pigiama sporco di gelato. Sprimacciai i cuscini del divano e andai ad aprire.
Mi trovai di fronte un paio d’occhi di cristallo.
Theo era in piedi sul mio portico.
Teneva le mani affondate nelle tasche dei jeans, logori come al solito, e una sigaretta gli pendeva dalle labbra, era avvolto da una nube di fumo. Aveva le guance arrossate per il freddo e teneva le spalle alte per ripararsi, la giacca di renna che indossava non era abbastanza per il gelo del Nord.
- Theo, che fai qui?
Non so perché non lo invitai ad entrare, non mi sembrava giusto.
Prese la sigaretta tra due dita e mi fece un cenno di saluto con la testa.
- Oh ciao, Theo, che piacere vederti, devo ammettere che la tua presenza illumina di una luce celestiale questa macabra serata uggiosa…
- Theo. – frenai il suo monologo.
- Okay, come vuoi, ma non sai che ti perdi, sono un vero artista.
- Theo!
- Va bene! Ho saputo quello è successo.
- E sei venuto a ridermi in faccia?
Sbattè le palpebre ripetutamente, come se fosse entrato all’improvviso in una stanza particolarmente buia.
- Mi credi così stronzo? – aveva un tono strano, non proprio offeso, ma quasi.
- Beh, non mi hai mai dimostrato il contrario.
Non volevo essere acida. Mi ero sempre divertita a bisticciare con Theo, ma era venuto a trovarmi in un momento critico, tutto in me mi intimava di non trattarlo male, non era giusto, ma ero arrabbiata e ferita, avevo bisogno di sfogarmi.
Aprì la bocca per replicare, poi evidentemente cambiò idea. Puntò la sigaretta contro di me, la mano gli tremava per il freddo, e di nuovo pensai di invitarlo ad entrare, ma non lo feci.
- Tu vuoi prendertela con qualcuno, lo capisco. – con chi pensavo di avere a che fare? – Ma con me non hai pane per i tuoi denti, Beth, ti conosco troppo bene.
Era vero, non eravamo mai stati uniti come me e Tate, ma lui era suo fratello, eravamo cresciuti insieme, e per quanto non mi piacesse ammetterlo, mi conosceva come nessun altro.
- Sarà… sei venuto a dirmi solo questo?
Volevo che se ne andasse.
- Sono venuto a dirti che Sam è un coglione. – stava usando un tono basso, stranamente intenso. – Tu non ti meriti niente del genere.
Sentivo che una lacrima era sul punto di rigarmi la guancia, lottai per trattenerla, e vinsi.
- Perché sei così carino con me? – dissi con la voce rotta. - Non lo sei mai stato.
Lui fece un micro-sorriso.
- Ehi, - disse puntando i suoi occhi nei miei. – nessuno si merita di essere tradito da Sam Montgomery… tranne forse Sam Montgomery.
A quella battuta ridemmo entrambi, fu una risata triste.
- Solo io posso trattarti di merda, chiaro? Solo ed esclusivamente io. – aggiunse, senza distogliere lo sguardo dai miei occhi. I suoi i davano il mal di testa.
- Chiaro. – dissi. – E… grazie.
- Dovresti ringraziarmi ogni giorno per la mia presenza nella tua vita, non una volta ogni morte di papa perché faccio una capatina a casa tua quando sei depressa.
- Ora ricominci?!
Rise di nuovo.
- Oh, quasi dimenticavo. Tate non è venuto perché non voleva che vedessi la sua mano gonfia.
Dovevo aver sentito male.
- Mano gonfia?! Perché Tate ha una mano gonfia?
Theo si grattò il retro del collo e si dipinse in faccia un leggero ghign .
- Diciamo che l’ego di Sam ha subito un duro colpo stamattina. – sottolineò la parola “colpo” con un po’ troppa enfasi.
Oh, Tate.
- Non è vero.
- E invece è verissimo!  Che uomo, eh? E chi se lo aspettava?
Era su di giri, aveva sempre ammirato suo fratello.
- Tua madre è in casa? – chiese guardandosi attorno. Era un bastardo, ma non era di certo maleducato.
- Secondo te?
Non disse altro.
- Veni da noi. – aggiunse dopo un po’.
- Grazie, Theo, ma vorrei rimanere sola per oggi.
- Non è vero. – disse scuotendo la testa. – Tu vuoi qualcuno con cui gridare… in senso buono.
Gli tirai una pacca sul braccio.
- Ahia! Ho detto “in senso buono”!
Gliene tirai un’altra.
- Basta così, rimetti il gelato in frigorifero e vieni con me.
- Che cosa? – arrossii.
Lui lanciò uno sguardo al barattolo poggiato sul divano.
- Oh…
- E anche… - avvicinò una mano al mio viso, il che mi diede i brividi, aveva le dita congelate. Mi strofinò delicatamente un angolo della bocca. – Pistacchio? Non hai mai imparato a mangiare come si deve, Sbrodolina.
Ora la mia faccia era un enorme peperone flambè.
- Sei davvero un idiota.
- Grazie, grazie infinite. – si inchinò. – Ora andiamo o no?
Ci pensai su un attimo, ma non mi ci volle molto per capire che Theo aveva ragione, non volevo stare sola.
- Beh… - dissi. – non posso perdermi la mano gonfia di Tate.
Lui parve illuminarsi, e quando Theo si illuminava era come aggiungere altre lampadine ad un albero di Natale.
- Alleluia! Ma devo farti presente che sei una padrona di casa parecchio scortese, sono diventato un ghiacciolo qui fuori.
- Muoviti, cretino! – lo spinsi fuori mentre raccattavo la giacca.
 

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Capitolo 7
*** Ricordi ***


THEO

Non avevo mai visto Beth in quello stato. Era fragile, debole, gli occhi gonfi e il rossore sul naso e sulle guance la facevano somigliare ad una bambola di porcellana.
Quando pensavo a Beth, mi veniva subito in mente la ragazzina coi capelli arruffati che aveva bussato alla nostra porta quella notte di dodici anni prima. Pioveva a dirotto, e lei se ne stava lì, il visino fradicio, non sapevo se per le lacrime o per la pioggia. Col tempo appresi che le lacrime non c’entravano nulla, perché lei non piangeva mai.
Avevo cinque anni, eppure mi ricordo quel giorno come se fosse stato ieri.
Le aprì mia madre e la riconobbe subito perché era solita giocare con mio fratello dall’asilo, e da quando avevano iniziato le elementari non si erano separati un attimo, erano un paghi uno prendi due.
Lei non si mosse di un millimetro. Guardava mia madre con uno sguardo che avrebbe potuto sostituire le urla più strazianti.
 Io spiavo dalla porta della cucina, non dimenticherò mai quegli occhi. Avevo cinque anni e quegli occhi avevano scavato una voragine nella mia anima.
- Tate, tesoro, hai una visita. –disse mamma dolcemente, mio fratello spuntò da dietro le sue spalle.
Non appena Beth lo vide parve sciogliersi, scosse la testolina energicamente, come per dire che qualcosa non andava, ma non parlò, si limitò a gettargli le braccia al collo.
E divenni geloso.
Ero geloso perché quello era mio fratello, il mio compare di sangue, perché volevo che fossimo solo Tate e Theo, perché volevo un’amicizia come la loro, e perché quella ragazzina aveva gli occhi più strani e magnetici che avessi mai visto, ed era di Tate, e Tate era suo.
Restò da noi per un tempo che mi parve infinito, e non pianse neanche una volta. Venni a sapere che sua madre se n’era andata di casa tre giorni prima che lei bussasse alla nostra porta, e non era più tornata. Beth era decisamente troppo piccola per sopravvivere da sola, aveva paura del buio e quella sera, con il temporale, non era riuscita a vincere il terrore, ed era corsa fuori  non sapendo dove altro andare.
- Tornerà. – continuava a ripetere con un’espressione risoluta stampata in faccia.- Lo fa sempre.
Ma non mi ricordo neanche un giorno in cui si fosse permessa di crollare.
E ora era lì, seduta accanto a me, con i piedi sul sedile e le ginocchia sotto il mento, il viso rigato dalle lacrime, lacrime che vedevo per la prima volta.
Non era più lei.
Odiavo Sam per quello che le aveva fatto.
Parcheggiai sul vialetto e restammo in aiuto finchè non si fu calmata.
- Non voglio che i tuoi mi vedano così. – disse.
- Mio padre è fuori città, mamma tornerà tardi, non preoccuparti.
Lei si passò le mani sul viso, tremava.
- Dio, Tate impazzirà.
- Ha già sfogato la sua rabbia stamattina sulla faccia del tuo ragazzo.  - le posai una mano sulla spalla. – Ripeto, non preoccuparti.
Mi guardò e sorrise tristemente, e per un attimo rividi la bambina di quella notte.
- Sei un bravo ragazzo, Theo.
-Ssshh, - bisbigliai. -  non dirlo a nessuno.
 

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Capitolo 8
*** Perdono ***


BETH

Theo era stranamente gentile, ma devo ammettere che non mi dispiaceva.
Probabilmente era stato Tate a chiedergli di passare, si sarà sentito imbarazzato all’idea che notassi la sua mano. Stentavo ancora a credere che avesse picchiato Sam, molte ragazze saltellerebbero di gioia all’idea che un ragazzo faccia a pugni per il loro onore, ma quello era Tate, lui non concepiva la violenza neanche come concetto astratto.
Theo mi aiutò a scendere dall’auto non appena smisi di piangere, dopo di che mi scortò alla porta. Quello non era il Theo che conoscevo, quasi quasi preferivo il solito Theo a quel damerino, quello che apprezzavo di più in lui era il fatto che non aveva mai mostrato di provare pietà nei miei confronti, non volevo la sua compassione.
- Theo, per favore. – mi voltai per affrontarlo.
- Che c’è? – sembrava sorpreso.
- Non devi essere gentile per forza.
- N-non lo faccio per obbligo. – rispose scrollando la testa.
- Non mi serve la tua pietà. – forse ero troppo aggressiva.
Lui aggrottò le sopracciglia, incredulo.
- Credevo fosse chiaro. – disse serio.
- Di che parli?
- Tu non avrai mai la mia pietà. – aprì la porta ed entrò, lasciandomi indietro. Non mi degnò di uno sguardo.
Ma non mi serviva un altro sguardo, mi era bastato il cambiamento repentino che avevo notato nei suoi occhi.
L’avevo offeso, ero andata troppo in là, lui mi aveva fatto una gentilezza e io l’avevo pugnalato. Brava, Beth, davvero brava.
Entrai in casa senza dire una parola.
Theo si gettò sul divano accanto a quello su cui era sdraiato Tate.
- BETH! – strillò quest’ultimo scattando in piedi. Teneva la mano destra avvolta in una fasciatura imbottita, probabilmente di ghiaccio. – Che cosa… Theo, che cavolo hai fatto?!
Il fratello scrollò le spalle, continuava a non guardarmi.
- Non potevo perdermi la tua mano gonfia. – dissi indicando il suo braccio, che al momento teneva nascosto dietro la schiena.
Lui sgranò gli occhi e aprì la bocca per dire qualcosa, poi ci ripensò, poi la aprì di nuovo.
- Io… questa… mi sono solo… cazzo. – e gettò il capo in avanti, affranto e imbarazzato, due emozioni che non era mai riuscito a mascherare, a differenza di suo fratello. Ero convinta che Theo avesse un mare in tempesta dentro, una tempesta che non era mai riuscito a domare, se non raccontando balle su balle a sé stesso.
Scoppiai a ridere.
- So quanto ti pesa questa cosa, B., non avrei dovuto farlo, ho perso il controllo e…
Ma non riuscì a finire la frase perché, prima che potesse riprendere fiato, gli gettai le braccia al collo e lo abbracciai come da molto ormai non facevo.
Aveva il solito profumo vagamente simile alla cannella che gli avevo sempre associato da quando ci eravamo conosciuti, sapeva di casa, di famiglia.
- Grazie. – gli sussurrai all’orecchio.
Tate si irrigidì, evidentemente sorpreso dalla mia reazione, poi si lasciò andare e ricambiò l’abbraccio.
- Non c’è di che.
Tentammo entrambi di soffocare una risata, ma fu impossibile.
- No, davvero, perdonami. – continuò mentre si allontanava abbastanza per potermi guardare negli occhi. – Quando Adam mi ha raccontato quello che era successo, non ho saputo trattenermi, non posso lasciar correre quando si tratta di te.
‘Fanculo le parentele, Tate era il fratello che non avevo mai avuto.
- Aspetta. – lo interruppi. – Adam te lo ha detto?!
Lui parve preso alla sprovvista.
- Io lo ammazzo.
- Aspetta prima di aggiungere anche questo alla lista di motivi per cui uccideresti Adam. – mi posò entrambe le mani sulle spalle. – Ma… sei in pigiama?
Aveva sempre avuto un talento per deviare le conversazioni.
- Posso restare stanotte?
Proprio in quel momento, intravidi con la coda dell’occhio la sagoma di Theo che si allontanava in direzione della cucina. Dovevo scusarmi per come l’avevo trattato, dopo che lui era stato impossibilmente premuroso con me.
- Scusami un attimo. – dissi a Tate mentre seguivo le orme di suo fratello.

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