Inverni dello stesso sangue

di Kiki S
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Qui con te ***
Capitolo 2: *** Troppo tardi ***
Capitolo 3: *** La chiave di pezza ***
Capitolo 4: *** Scheletro ***
Capitolo 5: *** Caduta ***



Capitolo 1
*** Qui con te ***


Questa raccolta di racconti è stata pubblicata in e-book tramite il sito/editore Narcissus.me.
“Opera tutelata e depositata su www.patamu.com con numero licenza 13809”.
 
 
QUI CON TE
 
Dormi, dormi, piccolina
Che domani si avvicina
Nella notte l’aria è fresca
E le stelle san di pesca
Chiudi gli occhi e vedi il mare
Che ti aiuterà a sognare
Gioca, gioca, coi delfini
Che diventan brillantini
Buonanotte, lo sarà
E domani si vedrà …
 
L’ho cominciata a cantare quando ti ho vista in quel letto. Avevi gli occhi chiusi, ma so che non dormi bene senza la ninnananna della mamma, però lei non poteva cantartela; lei piangeva.
Non capivo perché. Dormivi, e se non senti la ninnananna non puoi fare sogni belli, io lo sapevo.
Lo sapevo perché me l’hai detto tu.
Ti ho preso la mano e ho cantato forte, perché mi dovevi sentire anche se dormivi già.
La tua mano era fredda e mi ha fatto venire da piangere, non so come mai, ma sono andata avanti a cantare lo stesso, per te, perché ne avevi bisogno, ed è questo che fa una sorella grande.
Ho detto così, quando la mamma è arrivata e mi ha preso la mano per portarmi via: no, lei deve sentire la ninnananna, se no non dorme bene. Gliela devo cantare, perché sono la sua sorella grande.
Ma lei non è stata a sentirmi; piangeva forte e mi ha preso in braccio.
Anche se gliela canti, non ti sente più, mi ha detto nell’orecchio e io le ho chiesto perché.
Non mi ha risposto subito. Mi ha stretta più forte e siamo andate fuori.
Io ti ho guardata mentre uscivamo dalla stanza e, a bassa voce, ti ho detto che sarei tornata presto, per finire di cantarti la ninnananna. Non ti sei mossa, ma non importava, perché io sarei tornata come ti avevo promesso.
Ero preoccupata solo che stessi facendo brutti sogni.
Quando io e la mamma siamo arrivate fuori, c’era papà seduto su una sedia, e piangeva anche lui; non capivo perché.
Tu dormivi.
La mamma mi ha messa giù, papà mi ha presa sulle ginocchia e mi ha stretta forte.
Io li guardavo tutti e due e non capivo i loro sguardi, non capivo perché dicevano che dovevano dirmelo insieme. Dirmi che cosa?
Tu dormivi.
La mamma si è accovacciata, e mi ha tenuto la mano forte forte. La sua era calda, non come la tua.
Ho capito quello che mi hanno detto, so cosa vuol dire quella parola; più o meno.
Significa che non torni più, che non ti posso più vedere, ma non ho idea di dove tu sia andata, non lo so davvero.
Mamma e papà dicono in Cielo, ma io non ci credo, perché se fossi lì, ti vedrei quando guardo su.
Dove sei andata? Mi piacerebbe saperlo, perché qualche volta vorrei venire lì a giocare con te, come facevamo fino all’altro giorno.
Tu perdevi sempre a nascondino e ti arrabbiavi, ti mettevi a piangere: ora posso dirti che è perché baravo sempre e sbirciavo mentre contavo.
Ma se mi dici dove sei adesso, giuro che non lo farò più; ti lascerò nascondere senza guardare.
Tu però non mi rispondi: sono due notti che sto seduta sul letto, stringo forte Blue Dog, e ti chiedo a bassa voce dove sei. C’è sempre silenzio nella mia stanza.
Ma da fuori dalla porta, sento la mamma che piange ancora. Lei crede che dorma, ma non posso senza di te.
So che non puoi tornare, ma spero di sentire la tua voce.
Blue Dog è tuo, e so che lo volevi tutto per te, per questo, se lo stringo io, penso che verrai perché vuoi riprendertelo.
Allora ti chiederò dove sei e non ti lascerò andare via finché non me l’avrai detto.
Sono la tua sorella grande, anche se ho solo cinque anni, e me lo devi dire.
Anche oggi c’è silenzio e qui fuori fa freddo, ci sono le nuvole nere; papà dice che pioverà di sicuro, la mamma non lo ascolta neanche.
La mamma tiene la mia mano e non la lascia mai. E piange. Piange ancora.
Anch’io voglio piangere, ma non ci riesco, perché sono arrabbiata con te.
Non puoi continuare a non ascoltarmi, devi venire a dirmi dove sei andata, se no come faccio a venire a trovarti? Non voglio non vederti più, noi siamo sorelle, dobbiamo stare sempre insieme.
L’avevi promesso, io me lo ricordo.
Eravamo all’asilo quando l’hai detto, nel cortile: io e te giocavamo insieme, da sole, anche se siamo di due classi diverse, anche se tu sei più piccola.
C’era vento come oggi, e c’erano anche le nuvole nere, come oggi.
Ci eravamo arrampicate sull’albero di nascosto, senza farci vedere da nessuno, e lì siamo state a guardare le foglie gialle che cadevano; e poi, su, c’era il cielo tutto grigio, che però era bellissimo quel giorno, perché lo guardavo insieme a te.
Oggi non lo è. Quello di oggi è uguale a quel giorno, ma io lo odio, non lo voglio vedere, perché sono da sola e ho paura.
E sono arrabbiata, tanto.
Non torni nemmeno per riprenderti Blue Dog, che è il tuo pupazzo, non so più cosa fare per convincerti.
Io voglio che torni, anche solo per un minuto, per dirmi come posso fare per venire da te.
Ho paura che se non torni è perché, lì dove sei, hai trovato una nuova sorella.
Siamo stati in chiesa stamattina, lì tutti piangevano, mentre tu eri nel mezzo, dentro quella cosa che si chiama … bara, ha detto la mamma.
Sembrava ancora che dormissi, come quando ti ho visto su quel letto dell’ospedale, e mi è venuta voglia di cantarti di nuovo la ninnananna, per essere sicura che non facessi incubi, o forse perché, se sentivi la mia voce, ti saresti svegliata.
Ma lo so che non puoi; ho detto che so cosa vuol dire quella parola.
Volevo portare Blue Dog in chiesa, ma la mamma mi ha detto di lasciarlo a casa. Avrei fatto finta che lui fosse te, e lo avrei abbracciato più forte di come faccio di notte, quando spero di vederti arrivare.
So cosa vuol dire quella parola e so anche cosa vuol dire quell’altra: malata.
La mamma la diceva spesso, quando giocavamo, e lei mi sgridava perché ti facevo stancare troppo: Non farla correre, il suo cuoricino è malato. È malata.
Mi faceva un effetto strano sentirlo, così una volta le ho chiesto cosa significava: Il cuoricino di Jenny non funziona bene, mi ha risposto lei, non batte come dovrebbe, non può stancarsi.
Allora cercavo di non farti più correre, così il tuo cuoricino poteva stare bene di nuovo, e ti rimproveravo quando lo facevi per conto tuo: sono la tua sorella grande, ed era compito mio.
Quel giorno poi eravamo all’asilo, tu nella tua classe e io nella mia; c’è stato un gran trambusto, poi è arrivata l’ambulanza, che ti ha portava via subito.
Io ti ho vista mentre eri sdraiata per terra, con gli occhi chiusi, come poi eri anche in ospedale, e credevo che stessi dormendo.
Mi sono chiesta perché. Di solito non si dorme all’asilo, e non di certo sul pavimento.
Non capivo perché ti portassero via e perché tutti fossero agitati.
Non l’avevo capito neanche quando ti ho vista e ti ho cantato la ninnananna per farti dormire bene.
Solo quando mamma e papà me l’hanno detto, ho smesso di non capire.
Dopo la chiesa siamo venuti tutti al cimitero; ci sono tanti bambini con le loro mamme, ci sono i nonni e anche le tue maestre.  
Tutti piangono tranne me.
Io stringo la mano della mamma e guardo la … bara, che parola brutta. L’hanno chiusa e tu sei lì dentro, da sola, e non puoi vedere niente.
Ma tanto hai gli occhi chiusi.
Alzo i miei, e guardo il cielo: coperto di nuvoloni neri come quel giorno; pioverà, dice ancora papà.
Pioverà, sì, ma non capisco come può piovere ancora se tu non sei qui.
Non voglio vedere la pioggia senza di te. Non voglio fare niente senza di te.
Voglio che il mondo si fermi in quest’istante, perché senza di te non dovrebbe andare avanti niente.
Non posso lasciarti indietro, non posso diventare grande se non lo fai anche tu insieme a me.
Voglio restare sempre piccola, per sempre. Voglio avere per sempre cinque anni, e stare ad aspettarti.
Mi rifugio nella mia mente, dove si sta formando un bel sogno: non sono più al cimitero, e non c’è più la tua … bara; non c’è più nemmeno la mamma che mi stringe la mano, né tutti gli altri.
Sono al parco, quello con le altalene.
È autunno come lo è davvero oggi, ma il cielo grigio è tornato ad essere bello.
Io sono seduta sulla panchina, gioco a dondolare le gambe, mentre guardo in su.
Le foglie cadono piano dagli alberi, ma ce n’è ancora qualcuna sui rami.
Sono bellissimi, perché sembrano intrecciati come grossi fili magici.
Il cielo è più su. Pioverà, ma non ho paura di questa pioggia.
Ho in braccio Blue Dog, lo tengo stretto perché so che stai per arrivare e devo ridartelo. È tuo.
Il vento muove piano le altalene, come se fosse pronto per giocarci da solo.
Anche il vento è un bambino come noi, lo sai? Nel parco giochi soffia un vento bambino, che vuole andare sullo scivolo, sul girello e sull’altalena.
E questo vento bambino mi fa compagnia mentre ti aspetto. Cantiamo insieme una canzone, mentre io guardo ancora il cielo.
 
È bello essere piccoli, e giocare a rincorrersi,
e bello essere piccoli, perché non è colpa nostra.
 
L’ha inventata lui, e me la sta insegnando. È divertente.
Improvvisamente cominciano anche a cantare le nuvole grigie in cielo e le foglie sugli alberi e quelle che cadono: anche loro sono tutte bambine; bambine felici che vogliono giocare.
 
È bello essere piccoli, e giocare a rincorrersi
È bello essere piccoli, perché non è colpa nostra.
 
Spero che arriverai presto, Jenny, ti divertiresti anche tu qui con noi.
Una delle foglie gialle che si è staccata dal ramo mi è caduta sulle gambe, l’ho presa in mano, e mi è sembrato che mi abbia sorriso per un attimo, poi il vento bambino l’ha portata via con sé.
Giocano insieme adesso.
Io guardo ancora in alto, mentre canticchio più piano.
Voglio che arrivi, perché questo cielo non è abbastanza bello se non lo guardo con te.
Le foglie ancora sugli alberi si muovono piano piano, e sembrano sussurrare la nostra ninnananna.
Penso che quando sarà notte e si vedranno le stelle io e te saremo qui insieme. Penso che ci stenderemo per terra e le guarderemo anche se qualcuna sarà nascosta dalle foglie e dai rami degli alberi.
Intanto ti aspetto. Anche Blue Dog, che è tuo, ti sta aspettando.
Poi all’improvviso sei qui. Ciao Jenny, quando sei arrivata? Da dove?
Ma tu mi guardi senza rispondermi. Sorridi e basta.
Giochiamo. Mi dici cominciando a ridere, poi corri e mi fai capire che devo seguirti.
Al primo momento ho un po’ paura, mi ricordo della mamma che dice che non devi correre perché il tuo cuoricino è malato, ma poi improvvisamente capisco che non succederà niente, che potrai correre per sempre, perché il tuo cuoricino è guarito, e starai bene ogni giorno, da qui in avanti.
Sono così felice che corro velocissima, ti raggiungo, e ti abbraccio forte.
Ho fatto cadere per terra Blue Dog, ma tu non ti arrabbi.
Ci abbracciamo e cominciamo a girare in tondo. Giriamo e giriamo finché non cadiamo per terra, sfinite.
Stiamo ridendo così forte che non si sente più il sussurro del vento.
Il suolo è pieno di foglie rosse e gialle, e sembra un bellissimo tappeto dove si può giocare a piedi nudi. Infatti ci togliamo subito le scarpe, e cominciamo a correrci sopra.
È così bello: queste foglie sono fresche sotto i piedi e fanno un po’ di solletico; ma solo un po’.
Blue Dog è rimasto per terra, e penso che ci guarderà giocare.
Questo parco è bellissimo, voglio restare qui per sempre, insieme a te, mentre io ho cinque e tu quattro anni.
Ti prego, Jenny, restiamo qui per sempre, non voglio andare via.
Lo penso solo per un secondo, poi riprendo a ridere e a giocare.
Ti inseguo mentre corri verso l’altalena: ti metti seduta su una delle due, e poi cominci a spingerti.
Ti ricordi quando la mamma l’ha insegnato a tutte e due, l’estate scorsa? Abbiamo imparato insieme.
Mi siedo sull’altra e mi spingo anch’io.
Possiamo andare forte quando vogliamo, Jenny, non possiamo cadere, lo sento.
Possiamo arrivare quasi a toccare il cielo coperto dalle nuvole bambine, e non ci faremo male comunque, perché questo parco non è vero, anche se somiglia a quello dove andiamo qualche volta dopo l’asilo.
Questo posto l’ho creato io per noi due, così possiamo stare ancora insieme, e possiamo restarci per sempre.
Sì, è qui che voglio restare. Per sempre. Con te.
Perché quel che c’è fuori dal parco non mi interessa più, non se non ci sei.
Vedo gli alberi e il cielo che si allontanano e si avvicinano. Si allontanano e si avvicinano.
Sto andando fortissimo, Jenny, fallo anche tu, spingiti più forte. È divertente.
Ti sento ridere, mentre il vento bambino viene a giocare tra i nostri capelli e li spinge avanti e indietro, tante volte.
Poi comincia a piovere. Anche le gocce di pioggia sono bambine che vogliono giocare con noi e, mentre ci bagnano, noi ridiamo, ridiamo, ridiamo forte e non abbiamo freddo, neanche un po’.
*
Siamo andate sulle altalene per ore e ore, ma poi ha cominciato a venire buio, e ci siamo fermate.
La pioggia ha smesso di cadere, e anche le nuvole bambine sono andate via: a nanna, credo.
È proprio come avevo pensato: siamo sdraiate per terra, sulle foglie, che ora sono tutte bagnate.
Tu hai preso in braccio il tuo Blue Dog, ma lo tieni solo con una mano, perché con l’altra stai stringendo la mia.
Io stringo forte ed è splendido sentire le tue dita così calde.
Ci sono tante stelle, e il vento bambino muove ancora le foglie sui rami, ma lo fa molto piano, come per cullarle, come se così si potesse addormentare anche lui.
È ora di dormire, per tutti. Domani si avvicina. Domani si vedrà.
Ma domani noi saremo ancora qui, Jenny. Noi saremo qui per sempre.
Non voglio andarmene mai, se è solo qui che posso stare con te.
Il vento ci sta facendo tante carezze, perché vuole che dormiamo insieme a lui.
Tu all’improvviso ti giri sul fianco e ti appoggi con la testa sulla mia spalla.
Non ti vedo in faccia, ma so che hai gli occhi chiusi, so che vuoi dormire.
I tuoi capelli bagnati hanno un buon profumo e si muovono piano piano, sempre con il vento. Li sento sul viso, mi fanno un po’ di solletico alle labbra e sotto il naso, ma non mi dà fastidio.
No, è bellissimo. È tutto bellissimo in questo parco.
Voglio stare qui. Per sempre. Per sempre con te, Jenny.
Sei la mia sorellina, non ti lascerò mai. Là fuori è tutto troppo triste, non voglio restare da sola.
Rimango qui con te, questo è il sogno più bello del mondo, e non lo lascerò mai finire.
Ti abbraccio forte e tu fai lo stesso con me.
So che vuoi che ti canti la ninnananna.
Il vento bambino è pronto a farlo con me, ma più piano, perché tu è la mia voce che vuoi sentire.
 
Dormi, dormi, piccolina
Che domani si avvicina
Nella notte l’aria e fresca
E le stelle san di pesca
Chiudi gli occhi e vedi il mare
Che ti aiuterà a sognare
Gioca, gioca, coi delfini
Che diventan brillantini
Buonanotte, lo sarà
E domani si vedrà …
 
Spero che tu faccia dei sogni bellissimi questa notte e se per caso dovessi svegliarti e avere paura, basta che mi chiami ed io te la canterò di nuovo.
Perché ti proteggerò sempre e sarò sempre qui con te, sul nostro letto fatto di foglie gialle e rosse.
Qui potremo giocare per sempre, senza lasciarci mai.
E domani si vedrà …
Non so cosa succederà domani, ma non voglio risvegliarmi fuori da questo sogno.
Tienimi con te, io ti starò vicina per sempre.
Mi piace troppo sentire la tua mano calda, per poterla lasciare.
Tienimi con te, Jenny.
Qui è tutto così bello.
Guardo il cielo stellato e sorrido. Sono così felice.
Ti abbraccio ancora più forte, anche se so che stai dormendo.
 
Dormi, dormi, piccolina …
 
Ti dico di nuovo a voce bassissima, poi chiudo gli occhi.
È tutto così bello qui.
Qui con te.
 
 
Non me ne sono accorta, ma mentre la tua … bara scende sottoterra, ho cominciato a piangere.

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Capitolo 2
*** Troppo tardi ***


TROPPO TARDI
 
Non dirai niente, Liz, non è vero?
No, non l’avrebbe fatto; sapeva che era una cosa sbagliata, ma con i suoi genitori sarebbe stata muta come un pesce. Avrebbe fatto qualunque cosa per Keira, non si sarebbe mai permessa di perdere la sua approvazione.
Per Liz, sua sorella era tutto: tanto per cominciare, per lei Keira era bellissima, e poi aveva un modo tutto suo di ridere, che la rendeva splendida.
Era vero che a volte faceva delle cose stupide (come quando la sera tornava troppo tardi, oppure come quando fumava di nascosto), ma lei era troppo presa dall’adorazione che nutriva nei suoi confronti per potergliene fare una colpa.
Se non fosse stata troppo piccola, motivo per il quale i suoi non la prendevano in considerazione quando facevano la ramanzina a Keira, avrebbe sicuramente preso le sue difese; e se per caso qualcosa fosse andato storto, l’avrebbe fatto anche quella sera.
Aveva nevicato fino a quella mattina, poi le temperature si erano abbassate e la neve si era tramutata in ghiaccio, ma mamma e papà erano dovuti uscire ugualmente: non avevano potuto mancare alla cena natalizia organizzata dall’azienda per la quale lavoravano entrambi.
Paul, suo padre, era giornalista e Lauren, sua madre, faceva la fotografa; tutti e due erano impiegati presso il Chicago Sun Time: qualche volta capitava che lavorassero allo stesso articolo, ma non sempre e, a volte, uno dei due era obbligato a spostarsi per far fronte alle esigenze professionali.
Evitavano però sempre di dover viaggiare nello stesso momento, per non allontanare Keira e Liz da scuola, dicevano. E poi, a Keira (sebbene sarebbe stata ben felice di poter saltare le lezioni), non sarebbe piaciuto viaggiare con i genitori; partendo da questo presupposto, avrebbe preferito evitarlo anche Liz. Se una cosa non andava a genio a sua sorella, allora doveva valere lo stesso anche per la più piccola. A lei andava bene così; la sua felicità era quella di Keira.
E quella sera Keira avrebbe dovuto badare a sua sorella, durante l’assenza dei suoi.
Probabilmente sarebbero tornati tardi, aveva anticipato la madre, quindi Keira aveva la responsabilità di preparare la cena e di mettere Liz a letto, ma la ragazza non sembrava volersi accontentare di trascorrere la serata seduta sul divano a guardare la televisione.
E dire che per un po’ Liz l’aveva sperato. L’idea di poter stare da sola con Keira l’aveva riempita di gioia, sperava che questa si dedicasse a lei come non faceva da tanto tempo, ma non appena sua madre e suo padre si erano chiusi la porta alle spalle, le vere intenzioni della ragazza erano venute a galla. Subito aveva sollevato la cornetta del telefono e aveva preso a chiamare tutte le sue amiche, invitandole a casa per un voi sapete cosa, così aveva detto.
Aveva anche aggiunto che lei di roba non ne aveva, e che quindi avrebbero dovuto portarla loro.
Era tutta felice ed esaltata dopo aver concluso l’ultima telefonata, e infine si era inginocchiata di fronte a Liz, le aveva sorriso come solo lei sapeva fare, e le aveva spiegato che quella sera sarebbero venute a casa delle sue amiche, che avrebbero fatto una piccola festa approfittando dell’assenza di mamma e papà, e che questi non dovevano venirlo a sapere.
Non dirai niente, Liz, non è vero? L’aveva pregata infine, con quei suoi adorabili occhioni azzurri.
Liz venerava gli occhi di Keira, avrebbe tanto voluto averli come lei, ma la più piccola li aveva scuri.
La bambina le aveva subito risposto di sì, perché non avrebbe mai rifiutato niente alla sua amata sorella maggiore, ma per una volta aveva provato stizza per la richiesta formulata da Keira; e in seguito se ne era quasi vergognata.
Aveva pensato di essere stata un’egoista; si era sentita infastidita, dall’idea che le amiche di Keira sarebbero state presto da loro, perché avrebbe preferito averla tutta per sé.
Si era detta che doveva pensare alla felicità della sorella, non alla propria, e se lei era più felice con le amiche che non lei, allora era con loro che doveva stare. E poi, aveva aggiunto una vocina nella sua testa, assecondandola, avrebbe fatto in modo che Keira le volesse più bene.
Il bacio che era venuto in seguito alla sua risposta affermativa era stato impagabile; e lo stesso valeva per quel sorriso radioso che le aveva donato.
Liz avrebbe dato la vita per uno solo di quei sorrisi.
A quel punto Keira si era allontanata cantando; era davvero felice quella sera, e Liz si era detta che avrebbe dovuto esserlo per lei.
Però aveva fame, e sembrava che sua sorella, per l’euforia del momento, si fosse dimenticata di essere stata incaricata di prepararle la cena.
Sua sorella cantava e si stava dirigendo al piano di sopra, verso la sua camera da letto.
Liz non si sarebbe posta grandi problemi a digiunare per far piacere a Keira, ma se per caso i suoi genitori fossero venuti a saperlo (e Liz dubitava di riuscire a nascondere il fatto di non aver mangiato per tutta la notte), per la maggiore sarebbero stati guai seri; e allora Keira l’avrebbe odiata. Quello non l’avrebbe permesso mai, il solo pensiero che potesse accadere le dava i brividi.
Così, alla fine, aveva deciso di seguirla nella sua stanza, e di provare a dirle qualcosa al riguardo; non avrebbe preteso sul serio che Keira le preparasse la cena, non voleva guastare i suoi piani, ma desiderava soltanto rendersi conto che sua sorella le voleva bene, e si preoccupava per lei.
In fondo era tutto ciò a cui anelasse.
Così Liz salì le scale, e sostò per qualche istante sulla porta della camera di Keira: quella stanza in cui tutto era disordinato e lasciato alla rinfusa, dove gli unici oggetti tenuti da conto erano i poster dei cantanti e attori preferiti della ragazza. Soprattutto quello di Brad Pitt; a Keira piaceva tantissimo.
Ma Liz non faceva caso né ai poster né al disordine. Lei restò subito incantata a guardare sua sorella, mentre questa, seduta su di uno sgabello davanti allo specchio, si pettinava i capelli.
Quei meravigliosi capelli biondi scuri, lisci e morbidi come seta; perfetti: la bambina li trovava semplicemente perfetti. Come d’altra parte era certa che fosse tutta la figura di Keira.
A volte si domandava se, quando anche lei avesse avuto diciassette anni, sarebbe stata come sua sorella; ma si diceva sempre di no, che non sarebbe mai diventata tanto bella.
Keira era unica e non l’avrebbe mai e poi mai eguagliata.
E poi i suoi capelli, come erano belli!
Liz li osservava mentre dalle setole della spazzola le ricadevano sulle spalle.
Poteva esistere una creatura più celestiale? Più meravigliosa? Liz si diceva di no; era sicura che, sua sorella, fosse la ragazza più bella del mondo.
Che qualche volta facesse qualcosa di stupido era di poco conto.
 
*
Certo che aveva proprio dei capelli splendidi, pensava Keira mentre se li spazzolava con cura, non avevano niente a che vedere con quel cespuglio che aveva in testa sua sorella.
Keira sapeva bene di essere molto più bella di Liz, ma in fondo dava questo aspetto per scontato: la sua sorellina minore era abbastanza insignificante; lei ricordava che, a otto anni, era già molto più graziosa e spigliata.
Oltre a non essere particolarmente carina, Liz non avrebbe nemmeno mai fatto strada in niente: era troppo silenziosa, troppo buona. Ci sarebbe voluto che qualcuno svegliasse quella bambina, ma non ne aveva certamente voglia lei.
No, Keira preferiva darsi al voi sapete cosa, nome in codice delle feste con musica a palla, dove girano bevande alcoliche di ogni genere, e qualche sostanza stupefacente, giusto per sballarsi un po’. Fino ad allora Keira aveva provato solo gli spinelli e l’ecstasi, ma sperava di potersi anche dare a qualcosa di più forte.
Sperava anche che Tina, la sua migliore amica, quella sera portasse qualche chicca speciale, come magari la cocaina. Era tempo che voleva provarla.
Alla fine, che senso doveva avere la vita senza il divertimento estremo?
Lei non sarebbe mai stata come Liz, sapeva che in quel caso si sarebbe annoiata a morte. A volte le sembrava di vedere il futuro di sua sorella, e immaginava come sarebbe stata quando fosse diventata adolescente: Liz sarebbe stata una ragazza sempre obbediente con mamma e papà, brava a scuola, rispettosa, diligente e responsabile.
In altre parole, una creatura esageratamente noiosa.
Già lo era abbastanza essendo ancora bambina; tutta colpa di quella puttana di sua madre, si diceva Keira, era lei a mettere in testa quelle idiozie a Liz, a farle credere che dovesse comportarsi da brava bimba.
E Liz era una stupida perché le dava retta.
Keira preferiva comportarsi come preferiva, facendo tutto ciò che le andasse di fare; qualche volta le toccava sorbirsi la predica dei suoi, ma per il resto era tanto di guadagnato.
In conclusione, la ragazza credeva che Liz fosse proprio sfigata.
Le faceva quasi venire i nervi mentre se ne stava lì, sull’uscio, a guardarla fissa con quegli occhi da cane bastonato; le veniva voglia di mandarla via, e forse l’avrebbe fatto senza troppi problemi, se non fosse stato che aveva davvero bisogno del suo silenzio riguardo a quella sera.
Probabilmente quella fessa di bambina si era convinta che il bacio che le aveva dato prima fosse stato un segno d’affetto, e che lo stesso valesse per il sorriso.
A dire il vero l’aveva fatto solo per tenersela buona, perché Keira sapeva bene che bastava poco per convincere Liz di ogni cosa; quella bambina la adorava, e pendeva sempre e letteralmente dalle sue labbra.
In fondo un po’ per questo le dispiaceva, soprattutto quando faceva quella faccia per troppo tempo; Keira finiva per provare pena per lei, perché era davvero triste che Liz pensasse di dover trascorrere la vita a venerare sua sorella. Keira, una cosa del genere, non l’avrebbe mai fatta.
Meglio pensare a se stessi prima che agli altri, questo era il suo modo di pensare.
Lei voleva un po’ di bene a Liz, solo che non aveva intenzione di dedicarsi a lei; per il suo bene avrebbe voluto che fosse un po’ più sveglia. In quel caso, forse, sarebbero andate anche un po’ più d’accordo; forse, in quella circostanza, Keira l’avrebbe anche considerata di più, ma sua sorella le faceva proprio venire il latte alle ginocchia.
Però era vero: le faceva pena. Soprattutto perché era ancora sulla porta e non si arrischiava a entrare. In fondo doveva riconoscere che, con lei, stava facendo la brava.
Non avrebbe detto niente ai genitori di quella festa, ne era più che sicura; almeno per questo motivo, si disse, avrebbe potuto dimostrarle un po’ di attenzione.
Affetto no. Quello sarebbe stato troppo.
-Vieni Liz, ti va di aiutarmi a scegliere cosa mettermi?- fece sorridendo e posando la spazzola sul ripiano di fronte allo specchio.
Gli occhi della bambina, in quel momento, si illuminarono come due scintille, e subito si fece avanti.
Certo che ce ne doveva volere di idiozia, per reagire con tanta gioia a una richiesta simile; e pensare che Keira non aveva certo bisogno dell’aiuto della piccola per decidere che cosa indossare. Sicuramente, in fatto di vestiti, se ne intendeva molto di più lei.
Continuando a sfoggiare il suo sorriso-farsa, la bionda si alzò e prese la sorellina per mano, poi la condusse con sé verso l’armadio; lo aprì. Straripava.
-Cosa mi consigli? Una gonna o un vestito intero?- Liz stette un attimo a pensarci. –Vestito- si espresse infine, anche se un po’ titubante.
Keira avrebbe preferito la gonna, ma si impose di farla contenta; si trattava di un dare e avere: lei si sforzava di dare attenzione a Liz, e questo era ciò che la bambina voleva, e Liz sarebbe stata in silenzio, oltre a fare tutto ciò che le avrebbe detto.
In fondo ci guadagnavano un po’ entrambe, non importava per chi questo valesse di più.
-Bene, vestito sia!- riprese la ragazza ancora sorridendo, suscitando ancora una volta la felicità totale della sorellina, poi estrasse dall’armadio due capi di vestiario diversi: erano entrambi abiti, ma uno era nero, con la gonna corta, le spalline sottili e una generosa scollatura, l’altro era azzurro, un po’ trasparente e senza spalline.
-Quale di questi, secondo te?-
-Quello azzurro- rispose la bambina dopo qualche altro istante di riflessione.
Se non altro, pensò Keira, per una volta Liz stava dimostrando di avere un pizzico di buon gusto: in effetti, quello era l’abito migliore, ricordava di aver indossato proprio quello, l’anno precedente, la sera della sua prima volta. Era stato facile da sollevare fino ai fianchi.
Improvvisamente si domandò che fine avesse fatto Jeremy … o come diavolo si chiamava.
L’aveva visto quella sera, a casa di Tina (lui aveva già vent’anni), e l’avevano fatto sul letto dei genitori della sua amica. In seguito si erano visti ancora per qualche mese, saltuariamente, poi era sparito. Non che le importasse granché: con la bella mercanzia che metteva in mostra, non aveva mai faticato a trovare qualcuno a cui offrirsi.
Anche quello era divertente; in fondo era un peccato che, quella sera, a casa, non ci fosse anche qualche maschietto.
Ad aprire le gambe non rinunciava mai, anche perché, quando lo faceva sotto l’effetto delle droghe, era ancora più eccitante.
Keira si disse che, probabilmente, Liz sarebbe stata una di quelle che restavano vergini per tutta la vita, oppure che l’avrebbe fatto solo dopo il matrimonio, con un unico uomo per tutta la sua esistenza.
Un’idea da panico; si sarebbe suicidata piuttosto che essere costretta a una vita simile.
-Brava, Liz! Anch’io avrei scelto questo, sai? È davvero il migliore- si complimentò, lasciando perdere le proprie considerazioni mentali.
-Veramente?- domandò la bambina incredula, felice come non mai per essere stata lodata da Keira. -Certo!- rispose l’altra, intensificando il proprio sorriso.
A quel punto, Liz andò a sedersi sul letto, mentre la sorella maggiore si cambiava.
Alla bionda quasi veniva da ridere mentre, attraverso lo specchio, vedeva gli occhi adoranti di Liz che la fissavano: in fondo, quel modo di fare di sua sorella era comico.
Una volta indossato l’abito e infilato le scarpe (quelle con il tacco alto, le stesse che quella puttana di sua madre le impediva sempre di mettere), si sedette di nuovo allo sgabello e iniziò ad occuparsi del trucco, poi si legò i bei capelli in una coda alta, dalla quale lasciò volutamente fuoriuscire qualche ciuffo, per darsi un aria un po’ sbarazzina e ribelle. Tina le aveva detto che così era più sexy e, in effetti, aveva notato che, con quell’acconciatura, acchiappava più ragazzi di prima.
Alla festa della settimana precedente (a casa di chi era? Forse di Kim. Era talmente fatta che non lo ricordava neanche), l’avevano addirittura voluta in due, e lei li aveva accontentati entrambi.
Quella sera era troppo fatta anche per ricordarsi quali fossero i loro nomi.
Ripensò al fatto che l’assenza di maschi quella sera fosse proprio un vero peccato; ma, in effetti, convincere i ragazzi a sloggiare era sempre difficile, soprattutto quando si stavano dedicando ai loro affari, e la sola idea dei suoi genitori che tornavano dalla cena di lavoro, e trovavano lei e le sue amiche a gambe spalancate era davvero allarmante.
Almeno, le ragazze, si potevano mandare via in qualunque momento e, nel caso una o qualcuna di loro fosse rimasta per qualche motivo, avrebbe sempre potuto inventare la scusa che questa, dopo una festa a casa di un’altra, fosse andata da lei per smaltire la sbornia, onde evitarsi la predica dei suoi. Giustificazione più che credibile.
-Keira, tu cosa vuoi fare da grande?- le chiese all’improvviso Liz, mentre dondolava le gambe avanti e indietro oltre il bordo del letto.
La ragazza non poté contenere un’espressione di compatimento, ma forse sua sorella non la notò, impegnata com’era nel guardarla ammirata. Quella era la classica domanda stupida e scontata propria delle bambine piccole; e soprattutto di quelle noiose.
-Non lo so, forse l’estetista- rispose, ancora per farla contenta. A dire il vero non ci aveva mai pensato: non le interessava affatto del suo futuro professionale; lei voleva solo divertirsi.
-Ah- riprese la più piccola -allora anch’io-.
Quell’ultima frase Keira la considerò davvero penosa: sua sorella voleva imitarla in tutto e per tutto, era davvero una cosa deprimente.
Si ripeté che a quella bambina sarebbe servita una bella svegliata, ma lei non aveva voglia di addossarsi quella responsabilità.
-Keira, a che ora arrivano le tue amiche?- tornò a chiedere Liz -tra mezzora sono qui- le comunicò l’altra, -e viene anche Tina?-.
-Ovviamente!- contrattaccò subito Keira, quasi con stizza. Sembrava sempre che Liz ce l’avesse con Tina, forse perché era gelosa di lei, ma se pensava, per caso, di poter essere considerata da lei più importante della sua migliore amica, si sbagliava di grosso, e avrebbe fatto meglio a disilludersi fin da subito.
Liz, alla sua risposta, sembrò delusa.
-Lei è la prima che ho avvisato. Sai che è la mia migliore amica- spiegò come a volerle far capire che, in quella competizione, non avrebbe avuto futuro.
Liz allora alzò le spalle e abbozzò un sorriso.
-Keira, posso mangiare qualcosa prima che vengono?- chiese con timore, quasi facendosi più piccola. In quel momento, alla maggiore, Liz fece di nuovo pena. Si alzò e andò a sedersi vicino a lei -Liz, non ho tempo per prepararti la cena, ti va di mangiare latte e biscotti per stasera?-.
Liz le sorrise a annuì.
-Brava la mia sorellina. Ora vai in cucina e tira fuori tutto, io arrivo tra due minuti che ti verso il latte nel bicchiere, così non lo rovesci- fece dolcemente, sempre sorridendole.
Liz annuì di nuovo, poi si sporse per darle un bacio sulla guancia.
-Avanti, fila! Io arrivo subito-.
Quando la bambina uscì dalla stanza, Keira si pulì con la mano la guancia che lei aveva baciato.
 
*
 
Latte e biscotti. Sì, poteva andare. Era ovvio che non avrebbe avuto tempo di prepararle le cena, non si aspettava che lo facesse, ma che le avesse proposto quel pasto serale insolito, era già più di quanto desiderasse. Comunque sua sorella le voleva bene, perché non le imponeva di morire di fame. Keira era buona in fondo, solo che i suoi genitori non se ne accorgevano.
E le cose stupide che faceva importavano davvero poco; lei era troppo bella, era normale che si comportasse di conseguenza. E poi, Liz ne era convinta, se sua sorella arrivava a fare certe cose, era soltanto colpa di Tina. Quella ragazza era davvero stupida; e anche brutta.
Liz non capiva perché Keira perdesse tempo con lei e come facesse a volerle tanto bene.
Diverse volte Tina veniva a casa loro, il pomeriggio e anche qualche sera, e se Liz era educata con lei e la salutava, era soltanto per non incorrere nel disprezzo di sua sorella.
Non fosse stato per Keira, l’avrebbe certamente mandata al diavolo.
Questo era strano per lei, la bambina brava e tanto diligente, ma non avrebbe potuto resistere davanti a quella faccia da scema. Liz pensava che non potesse esistere al mondo una creatura più irritante di lei. Keira era sprecata ad averla come migliore amica.
E anche quella sera ci sarebbe stata: era sempre in mezzo quell’antipatica e, a dirla tutta, Liz non aveva alcuna intenzione di sentire la sua risata da oca e le idiozie che uscivano dalla sua bocca.
Tina non faceva altro che parlare di ragazzi, di trucco e capelli, e questo influenzava Keira. Senza quella cretina tra i piedi, sua sorella sarebbe stata diversa, non avrebbe fatto stupidaggini e, probabilmente, le avrebbe voluto più bene.
Ma Liz sapeva bene di non poter competere con l’affetto che sua sorella provava per la sua migliore amica; non sarebbe mai stata abbastanza importante per lei. Eppure la bambina si accontentava del più misero gesto d’attenzione da parte di Keira. Come poco prima in camera sua: Keira le aveva addirittura chiesto di aiutarla a scegliere il vestito, e poi aveva affermato che avesse optato per il migliore. La sensazione provata era stata indescrivibile: quella era pura gioia.
Aveva pensato che sarebbe stato bello davvero, se le cose fossero andate così un po’ più spesso, se Keira le avesse permesso di starle accanto come era avvenuto pochi minuti prima.
Anche perché, mentre si rivolgeva a lei, sua sorella le era sembrata ancora più bella.
Ma in fondo, la cosa importante era che Keira le volesse bene e, una volta che la piccola riceveva affetto da sua sorella, non avrebbe chiesto niente di più; ed era sicura che quell’affetto esistesse: Keira era grande, bella, popolare, spigliata e intraprendente, eppure trovava comunque qualche momento da dedicarle, come poco prima. Sì, non poteva che volerle bene a propria volta; forse non quanto ne voleva Liz a lei, ma comunque abbastanza per renderla felice.
Quando Keira la raggiunse in cucina, stava ancora cantando. La bimba trovava splendida anche la sua voce. Secondo lei sua sorella avrebbe dovuto fare la cantante: la sua foto sarebbe stata benissimo sulla copertina di un disco, e Liz pensava che se ne sarebbe fatta fare una copia gigante da appendere alla parete.
Se non avesse provato timore all’idea che sua sorella potesse ridere di lei, glielo avrebbe sicuramente consigliato.
Ma Keira era intelligente (perché non importavano le cose stupide che faceva, lei stupida non lo era), e probabilmente ci sarebbe arrivata da sola, senza bisogno dei suoi consigli.
La ragazza versò il latte nel bicchiere per la più piccola, e le aprì la confezione di biscotti.
-Domani, a mamma e papà, dico che i biscotti li abbiamo mangiati insieme dopo cena, va bene? Così non ti chiedono perché sono aperti- iniziò Liz, preoccupata per l’eventualità che un’inezia tradisse il segreto della maggiore.
Non se lo sarebbe mai perdonata, se quell’inezia avesse avuto a che fare con lei; anche perché, ancora una volta, in quel caso Keira l’avrebbe odiata, e questo non doveva accadere.
-Brava. Fai così.- rispose l’altra, atona e disinteressata; Liz si sentì delusa: non sperava certo in particolari lodi per la sua idea, ma si sarebbe aspettata perlomeno un sorriso.
E invece niente. Ma Keira le aveva già sorriso più volte quella sera, e lei avrebbe dovuto accontentarsi.
-Quando ci sono le tue amiche posso venire di là, o devo stare nella mia camera?-
-Fai come preferisci. Vieni se vuoi.-.
Le parole le erano piaciute, ma ancora era mancata l’attenzione. Però avrebbe dovuto capirla: Keira era in fermento, perché non vedeva l’ora che le sue amiche fossero lì.
 
E le amiche di Keira arrivarono prima del previsto, a pochi minuti di distanza l’una dall’altra: c’erano quell’odiosa di Tina, Kim (quella con i capelli rossi), Terry, Francine e Sandra. Più o meno erano sempre loro quelle che venivano a casa.
Tutte quante si dimostravano sempre ben poco simpatiche con Liz; la guardavano dall’alto dei loro tacchi, attraverso i loro occhi impiastricciati dal trucco, e le riservavano un’espressione di sufficienza, quasi si trovassero di fronte a una povera scema.
In fondo, Keira, anche se faceva delle cose stupide, non era come loro; sua sorella non assumeva mai quell’aria superiore e beffarda, eppure Keira era la più bella tra tutte loro. E lo era di gran lunga; forse sarebbe stata l’unica a poterselo permettere, anche perché, ammettendo che la ragazza l’avesse mai guardata in quel modo, Liz l’avrebbe amata comunque.
Non appena suonò il campanello la prima volta, Keira si era fiondata fuori dalla cucina, tutta eccitata, senza più rivolgere nemmeno uno sguardo a sua sorella, ed era corsa ad aprire. La prima ad arrivare, ovviamente, era stata Tina.
Liz l’aveva capito subito, non appena al suo udito era giunto quell’urletto stupido e stridulo.
Reprimendo il fastidio e il disgusto si era alzata dal tavolo per dirigersi verso l’ingresso; a dire la verità avrebbe preferito rifugiarsi nella sua cameretta, e magari andarsene subito a letto, per non essere costretta ad assistere alla performance di cinque adolescenti idiote e fuori di testa, (e tra queste Keira non era inclusa, perché lei era diversa; lei era migliore), ma voleva che Keira la apprezzasse e, magari (ma no, quello sarebbe stato anche troppo), fosse fiera di lei.
Quando raggiunse l’ingresso, Keira e Tina si stavano abbracciando e saltellavano felici; la seconda stava bofonchiando qualcosa che la bambina non capì. Per terra, accanto alla porta, c’erano tre scatole di …probabilmente qualcosa da bere.
Liz attese pazientemente che le due finissero di dimostrarsi la loro contentezza, poi si sforzò di salutare la povera demente; in fondo, per lei, Tina non era altro.
-Ciao Tina- si rivolse a lei addirittura con un sorriso, ed era stato un grande sforzo.
Quella si chinò e guardò negli occhi la bambina; in viso aveva disegnato un risolino idiota, di quelli che si fanno quando si è consapevoli di essere superiori a qualcuno.
Ma Liz era ben lungi dal credere che Tina potesse esserle superiore; Keira sicuramente sì, ma quella faccia da ebete proprio no.
-Ciao Elizabeth, stasera se vuoi ti imparo a truccarti-.
Sì, aveva detto proprio ti imparo. La faccenda era preoccupante, se si pensava che quell’oca aveva diciassette anni, come Keira. E persino la ragazza bionda stava evidentemente tentando di trattenere una risata.
Anche Liz, nonostante i suoi otto anni, sapeva che si diceva ti insegno.
Quella ragazzaccia, oltre che brutta e stupida, era anche ignorante.
Liz si limitò a sorriderle, ma non le disse niente; avrebbe voluto correggerla ma, molto probabilmente, facendole subire un’umiliazione simile, Keira l’avrebbe disprezzata. Alla fine, nemmeno la stessa ragazza aveva osato farle notare l’errore.
Fortunatamente per Liz, l’idiota smise subito di prestare attenzione a lei.
-Allora, hai portato un po’ di roba?- le stava domandando Keira tutta contenta; Tina si batté sulla borsa con la mano -è qui- annunciò trionfante -ho portato anche quella roba- precisò, facendo scappare all’altra un gridolino festante. -Devo spararmela assolutamente!- esclamò, poi entrambe scoppiarono a ridere in modo sguaiato.
Liz, dal canto suo, non capiva proprio cosa ci fosse di tanto divertente in quelle parole.
A breve arrivarono anche le altre quattro e, in men che non si dicesse, Liz si era trovata seduta a un angolo del divano, con la musica assordante (e orribile) a rimbombarle nei timpani, a subire le urla e gli schiamazzi delle ragazze.
A terra c’erano svariate bottiglie di birra vuote, e una di queste lo era perché il suo contenuto si era rovesciato quasi per intero sul tappeto della sala; e quel liquido mandava un odore insopportabile.
Keira teneva in mano una della bottiglie, mentre era in piedi e ballava accanto a Tina, e ogni tanto prendeva da questa una lunga sorsata.
Liz trovava che il vestito azzurro le stesse davvero bene, la rendeva molto slanciata. E poi era incredibile come riuscisse a stare in piedi con tanta grazia sui tacchi alti; per Keira mai niente era impossibile, era così perfetta.
Prima di scendere in pista e aprire le danze, Tina aveva tirato fuori dalla borsa la sua roba, che consisteva in un sacchettino di plastica, contenente una strana polverina bianca che da lontano sembrava quasi zucchero.
Ne avevano presa tutte un po’, ma Keira si era dimostrata la più entusiasta; l’aveva tirata su aspirando con una narice, e Liz non aveva compreso tanto bene la dinamica della faccenda.
Solo una cosa le era apparsa molto chiara: quello era un altro aspetto del quale i suoi dovevano restare all’oscuro.
In quel momento Tina si era accesa una sigaretta, ma Keira le diede una spinta.
-Ehi, vai vicino alla finestra se devi fumare- sbottò, e Liz, in cuor suo, si sentì soddisfatta. Sperò addirittura che sua sorella e l’amica litigassero, finché Keira l’avrebbe sbattuta fuori di casa.
La bambina non si sarebbe persa una scena del genere per nulla al mondo.
-Ma non mi rompere- esclamò Tina, restituendole la spinta -guarda che i miei tornano stanotte- le fece presente l’altra -e se sentono odore di fumo il culo lo fanno a me, non di certo a te- proseguì alterata.
Liz si disse che Keira non doveva aver notato la bottiglia di birra rovesciata sul tappeto; perché anche quell’odore si sentiva, e per di più si vedeva bene anche la macchia. Mamma e papà non sarebbero stati contenti nemmeno di quello, e di certo le avrebbero chiesto spiegazioni.
-Oh- oh, qualcuna qui è diventata un po’ scontrosa!- enfatizzò Tina, prima aspirando dalla sigaretta, e poi espellendo il fumo direttamente in faccia all’amica -so io cosa ti ci vuole, bella mia- proseguì.
-Cosa?- domandò Keira cadendo dalle nuvole, e a quel punto l’altra rise di gusto -cosa vuoi che sia, tesoro?! Una bella scopata, no?- fece come se si trattasse della cosa più naturale del mondo.
-E con chi me la devo fare? Con la tua sigaretta? Sono abituata a cose un po’ più grandi, sai?-.
Nel frattempo, anche le altre ragazze si erano avvicinate alle due, e dimostravano di essere molto interessate alla conversazione.
-Andiamo al Lithium. Lì ci si sballa di brutto e c’è sempre qualche bonazzo da appalacchiare-; tutte le ragazze risero in coro. Kim abbracciò Tina alla vita e le rise direttamente nell’orecchio -si dice accalappiare, cretina!-. L’altra mise subito il broncio.
A quel punto fu Sandra a smuovere la situazione, avvicinandosi a Keira da dietro.
-Ma sì, andiamo al Lithium, non hai voglia di farti toccare un po’ le tette?- e dicendo così, le strinse i seni nella mani; Keira sobbalzò, poi rise.
-E la fica- si intromise Kim, dandole una toccatina in mezzo alle gambe.
Keira rise di nuovo.
-Allora, tesorino, che ne dici? Andiamo?- la punzecchiò Tina, tornata a sorridere, già dimentica della figuraccia di poco prima. -A dire il vero abbiamo tutte bisogno di una scopata-; a quelle parole, la altre si espressero con esclamazioni piene d’enfasi. Due di loro, Sandra e Francine, si abbracciavano saltellando, e ripetevano -Scopata! Scopata! Scopata!- con tono cantilenante.
-Bella idea, ma mia sorella dove la lascio?- rispose Keira tentando di essere seria, ma senza potersi impedire di continuare a ridere.
-La mocciosa puoi anche portartela dietro, tanto ci stiamo tutte nella mia macchina, e poi all’entrata del Lithium c’è sempre tanto casino che nemmeno controllano chi entra!- fece sempre Tina.
Kim le ripropose il gesto di poco prima, della toccatina in mezzo alle gambe.
-E falla divertire un po’ questa fichetta!- esclamò, poi sfilò di mano la bottiglia di birra all’amica, e ne terminò il contenuto.
Oramai stavano insistendo tutte e cinque, e alla fine Keira accettò di buon grado.
In breve tempo si erano ritrovate tutte nella macchina di Tina, Liz era seduta sulle gambe di Keira, che prendeva posto sul sedile posteriore insieme a Kim e Francine.
A dire la verità, quella di uscire (per andare oltretutto in un luogo che non conosceva), non le era sembrata affatto una buona idea, ma quando Keira si era accovacciata di fronte a lei per parlarle, e le aveva detto che sarebbero andate in discoteca, e se lei era disposta ad andare con loro e a fare la brava, Liz non aveva potuto far altro che acconsentire.
Perché a Keira non avrebbe mai detto di no, per nessun motivo al mondo, anche se sua sorella aveva le pupille dilatate e l’alito che sapeva di birra.
Liz, mentre era in macchina con le ragazze eccitate e urlanti, mentre la vettura a tratti slittava sul ghiaccio, intimorita da quell’imprevisto fuori programma, si diceva che, se avesse fatto tutto ciò che le diceva sua sorella, l’indomani lei le avrebbe voluto ancora più bene.
E questo era ciò che contava.
 
*
 
Cavolo, era proprio strafatta. Sentiva che intorno a lei tutto stava girando e, non appena entrata al Lithium, una discoteca da sballo che avevano aperto da poco, le luci stroboscopiche le erano apparse fari giganteschi, che quasi facevano rumore, oltre ad accecarla.
Però tutto quello era una vera figata, si sentiva euforica come non mai.
Le sei amiche si erano gettate subito nella mischia, tra quell’odore di sudore misto a bevande alcoliche, e fin da subito avevano iniziato a darci dentro alla grande: stavano ballando come pazze e ridendo come sceme; per di più, qualcuno aveva fatto immediatamente girare qualcosa. Erano pasticche, Keira non aveva idea di che cosa si trattasse, ma non ci pensò due volte prima di cacciarsene una in bocca.
Lei voleva lo sballo assoluto, il divertimento estremo, solo in quel modo valeva la pena vivere la vita e, se a causa dello stesso si rischiava di lasciarci le penne, lei pensava ben venga. Meglio una vita breve ma intensa, che una lunga e noiosa, tante volte si era ritrovata a pensarlo; chiaramente facendo riferimento a quelle poche occasioni in cui si fermava a riflettere. Keira di solito non pensava, lei agiva e basta, e più le sue azioni erano sconsiderate, più era soddisfatta.
In quel momento si era persino dimenticata che, presto o tardi, i suoi genitori sarebbero rientrati a casa e, se questo fosse avvenuto prima del suo rientro, sarebbe stata senza dubbio fatta a pezzetti.
Ma lei non voleva passare la vita a preoccuparsi, quella sarebbe stata una cosa da Liz.
A proposito, dov’era Liz? La sua mano era scappata dalla sua proprio quando era stata trascinata in mezzo alla ressa e da quel momento non ci aveva nemmeno più pensato.
Non che se ne crucciasse più di tanto: Liz era una brava bambina, nel caso si fosse persa, l’avrebbe aspettata davanti all’ingresso del locale. Poi nessuno le avrebbe dato noia: i ragazzi che frequentavano il Lithium erano interessati solo a puntare quelle come lei.
Ne aveva già visti un paio che la guardavano con un certo interesse, e lei se n’era compiaciuta; quella era una delle cose importanti della vita: quella di essere notata, di essere considerata eccitante.
Passare inosservata non avrebbe fatto per lei. Keira voleva essere sempre al centro dell’attenzione, in particolar modo dei maschi.
E poi, una bella scopata non le sarebbe dispiaciuta sul serio; tutto pur di divertirsi.
Intanto stava bevendo: era alla sua quinta birra, considerando anche quelle scolate a casa e sentiva che ormai era davvero andata. Non sapeva perché, ma non riusciva a smettere di ridere.
Tina e Kim ballavano accanto a lei, mentre le altre erano un po’ più in là.
Sandra stava già baciando un tipo biondo.
Tina aveva avuto ragione, andare in quella discoteca era stata proprio una buona idea: in fondo, una festa a casa solo tra ragazze, alla lunga si faceva noiosa, anche se c’era di mezzo la cocaina.
L’odore di sudore si faceva sempre più intenso: oramai le ragazze ballavano muovendosi appena, schiacchiate dalla folla in delirio.
Nel frattempo Keira continuava a ridere, non poteva proprio farne a meno.
E rise ancora più forte quando uno che a stento riusciva a distinguere da tutti gli altri, le si avvicinò da dietro e iniziò a ballare con lei. Le luci colorate le pulsavano sugli occhi, ma andava bene così, si sentiva in estasi. Solo così poteva considerarsi felice; solo vivendo alla grande.
E Liz? Le sussurrò una voce in testa, ma lei non aveva intenzione di farci molto caso.
Al diavolo quella bambina, al diavolo i suoi genitori. Keira voleva pensare soltanto a se stessa, e se qualcuno avesse scelto di portarsi via la mocciosa, che succedesse, a lei non sarebbe importato più di tanto. Forse erano le sostanze stupefacenti che parlavano per lei, ma in quel momento, di sua sorella, non le importava davvero nulla. Che imparasse un po’ ad arrangiarsi, lei aveva da dedicarsi al suo nuovo amico.
Buttò giù un nuovo sorso di birra, poi si voltò verso di lui, cominciando a ballargli di fronte. Il ragazzo sembrò apprezzare, e la prese per la vita, stringendola a sé.
Quella sì che era vita!
Erano i ciuffi che le uscivano dalla coda di cavallo e la rendevano più sexy, come diceva Tina; grazie a questi poteva attrarre chi voleva.
Intanto continuava a ridere.
Di Liz non le importava un bel niente.
Si guardò intorno: Kim e Tina si erano allontanate, o più semplicemente erano state sospinte più in là dall’accumulo di gente.
-Come ti chiami?- le stava chiedendo il tipo, urlando. Lei non riuscì a capire. Sentiva le sue parole, ma non ne afferrava il significato. Era proprio strafatta.
Non ricevendo risposta, il ragazzo si ripeté: -come ti chiami?- e questa volta parlò ancora più forte.
Niente. Non capì di nuovo. Doveva essersi messa a guardarlo con espressione stralunata, perché questo era scoppiato a ridere; poi, improvvisamente, si era sentita trascinare per un polso.
Il ragazzo aveva parlato di nuovo, ma Keira non aveva nemmeno fatto caso alle sue parole.
La bottiglia di birra le era caduta a terra; il suono del vetro infranto le arrivò amplificato alle orecchie.
Le luci quasi la accecavano. Non aveva idea di dove fossero le sue amiche. Ci vedeva doppio.
Il cuore le batteva all’impazzata nel petto.
E Liz? Le ripeté quella voce, ma Keira di nuovo la zittì.
In pochi minuti si ritrovò all’interno del bagno degli uomini, chiusa dentro a una delle toilette, sbattuta contro la parete, mentre il tizio appena conosciuto la baciava e le si strusciava contro.
Keira lo lasciò fare volentieri; in fondo era quello che voleva anche lei.
Voleva andare avanti così, solo quella poteva essere chiamata vita.
Fu soltanto quando lui le fece scivolare via di dosso il vestito azzurro scelto da Liz (e Liz? Dov’è Liz?), togliendole anche la biancheria intima, e abbassandosi i pantaloni, che capì che c’era qualcosa che non andava.
Ma che cos’era? Andava tutto come al solito: si erano baciati, strusciati, e in quel momento era giunta l’ora di andare al sodo, perché perdere tempo? Quindi cosa non andava?
Abbassò lo sguardo sul sesso del ragazzo, e in un lampo capì: lui non aveva il preservativo.
Questo la allarmò: per quanto non si fosse mai preoccupata di andare con ragazzi diversi a ogni festa, non aveva mai avuto rapporti a rischio. Quello non era previsto e non voleva correre il pericolo né di malattie né di una gravidanza: in fondo, entrambe le cose avrebbero compromesso il suo divertimento.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma la voce non le uscì; e non fu nemmeno in grado di fermarlo.
Durante il rapporto provò piacere, ma non riuscì a togliersi dalla testa l’idea che una cosa del genere non sarebbe dovuta accadere; non era quello che voleva: Keira desiderava godersi la vita, non correre rischi inutili. Non di quel genere, almeno.
Per la prima volta nella sua vita, pensò di aver fatto qualcosa di stupido, ma ormai era troppo tardi per rimediare.
E Liz? Ripeté ancora quella voce nella sua testa, subito dopo che il tale appena conosciuto le era venuto dentro. Sentì di nuovo quella voce, anche mentre lui si riallacciava i pantaloni, la baciava di nuovo sulle labbra, e le diceva, senza che lei riuscisse a capirlo, che sperava di beccarla un’altra volta.
Ci ripensò anche quando Tina entrò nel bagno (forse era andata a cercarla), la trovò nuda e inebetita, e la aiutò a rivestirsi.
 
*
 
Luci lampeggianti, musica assordante, una massa di ragazzi scatenati; Liz aveva visto solo questo arrivando in quel posto. Fin da subito non aveva capito più niente.
E per di più si era persa: un attimo prima stava stringendo la mano si Keira e l’attimo dopo, non sapeva come, questa era scivolata via dalla sua. Tra quel mare di teste molto più alte di lei non era più riuscita a trovarla.
Quel che era peggio, era il fatto che non riuscisse a vedere più nemmeno la porta da cui era entrata; le sembrava di trovarsi in mezzo alla fine del mondo, schiacciata e sballottata, senza nemmeno avere il tempo di comprendere che cosa stesse accadendo.
Per di più nessuno faceva caso a lei; nemmeno uno, tra quegli adolescenti in estasi, notava quella bambina spaventata che non sapeva dove voltarsi.
E le mancava l’aria. Erano in troppi all’interno di quel posto e Liz era troppo piccola; sentiva solo una gran puzza: un po’ era quell’odore nauseante che aveva sentito anche a casa, proveniente dal liquido uscito dalla bottiglia e rovesciato sul tappeto, ma per il resto si trattava di un tanfo orribile. Si trattava di sudore, era inconfondibile, ma era talmente intenso da risultare insopportabile.
Proveniva da tutti in quel locale.
Liz fin da subito si era spaventata a morte: perché Keira aveva lasciato la sua mano? Perché, una volta accortasi di averla persa, non era tornata indietro a cercarla?
E poi per quale motivo l’aveva trascinata lì? Dovevano restare a casa.
Che sua sorella volesse divertirsi poteva anche capirlo, finché si trattava della festa organizzata a casa con le amiche la questione era passabile, ma lì … quello proprio no.
Liz lo pensò, e avrebbe voluto vergognarsene in seguito, ma non ne fu in grado: quella era la cosa più stupida che Keira avesse fatto, non avrebbe mai dovuto comportarsi così.
Perché Keira doveva pensare a lei. Sì, ma lei è bella, molto bella, vuole divertirsi come è giusto che sia, le suggerì una voce. Però mamma e papà erano stati molto chiari: -Devi badare a Liz, Keira. Stai molto attenta. È una prova di grande responsabilità, lo sai.-.
Ma Keira, di responsabilità, aveva dimostrato di non averne per nulla.
Che dici, Liz? Vuoi forse paragonarla alle sue sciocche amiche? Keira non è come loro, Keira è diversa, è migliore! Eppure, mentre pensava ciò, sentiva qualcosa stonare dentro di sé.
Keira è meravigliosa, punto. Devi fare tutto per lei. Tutto.
E l’aveva fatto; aveva anche accettato di uscire, cosa vietatissima, pur di farla felice. Perché la felicità della sua adorata sorella era sempre contata più di qualunque altra cosa.
Liz, al termine di questa serata, Keira ti vorrà più bene che mai, non sei contenta? No, non lo era.
Liz, in quel momento, aveva soltanto paura; la musica la stava rendendo sorda, e si sentiva soffocare. Dov’era sua sorella? Perché non tornava a cercarla? Oramai doveva essersi accorta della sua assenza. Possibile che con un simile atteggiamento potesse volerle bene?
Certo che ti vuole bene, cosa vai a pensare? È solo troppo bella per starti dietro, ma Keira ti vuole bene, lei non è come le altre.
Intorno a lei c’erano solo le luci intermittenti e un mucchio di adolescenti che la schiacciavano.
Era persa; forse non sarebbe più riuscita a trovare Keira, forse non sarebbe più uscita di lì.
Brancolando nell’oscurità spezzata a tratti dalle luci psichedeliche, aveva cominciato a piangere e singhiozzare; le lacrime le annebbiavano la vista, e Liz pensò che, se stava piangendo, se si era persa e aveva paura, era colpa di Keira.
No. No. Dai la colpa a Tina. È lei che ha proposto l’idea di venire qui. Prenditela con Tina, come sempre.
Keira era stupida. Perché non si era occupata di lei come avrebbe dovuto?
Improvvisamente fu spinta a terra da dietro, non seppe da chi; una volta caduta, qualcuno le pestò una mano con la scarpa.
Liz cominciò a camminare carponi, tentando di farsi strada tra le gambe in movimento, cercando di capire dove stesse andando. Voleva raggiungere l’uscita di quel postaccio, trovarsi finalmente fuori, all’aria aperta; lì avrebbe atteso sua sorella.
Intanto piangeva ancora; paragonò il suono delle sue lacrime al canto spensierato che Keira aveva intonato dopo aver telefonato alle amiche per invitarle a casa.
Keira aveva cantato quella sera, era stata felice, perché avrebbe fatto quel che voleva, ma sarebbe stata Liz a pagarne le conseguenze: di questo non le era importato neanche per un momento.
Era vero che non sarebbe mai stata bella quanto Keira, né l’avrebbe eguagliata in quanto a spigliatezza, ma Liz era certa che mai e poi mai si sarebbe comportata così nei confronti di qualcuno che amasse; e nemmeno verso chi le fosse indifferente. Non avrebbe fatto la stessa cosa nemmeno a Tina, anche se la detestava.
Liz capì in quel momento che non era questione di affetto, ma di testa; e Keira aveva dimostrato di non averne.
Keira è diversa, ricordalo. Se fa così è solo per colpa di Tina, ma lei è intelligente.
In quegli istanti, più che aver vicino Keira, sentiva di volere la mamma; e c’era di più: quando fosse stata a casa, avrebbe detto a quest’ultima che non voleva più essere lasciata sola con sua sorella. Non voleva spiegarle il perché, dato che, nonostante tutto, l’amore che provava per Keira non si sarebbe mai spento, ma qualcosa si sarebbe inventata. Non voleva mai più trovarsi in una situazione del genere, non era giusto.
Lei voleva tanto bene a Keira, ma avrebbe voluto che fosse diversa.
Sei pazza, Liz? Keira non potrebbe mai essere diversa, non la ameresti tanto se non fosse così.
Sì, avrebbe davvero voluto che fosse diversa: tanto per cominciare, sarebbe stato meglio avere una sorella maggiore in grado da atteggiarsi da tale.
Liz voleva una sorella responsabile, che le volesse bene, e glielo dimostrasse.
Era vero che, forse, non avrebbe adorato come Keira una sorella di quel tipo, ma valeva davvero la pena amare tanto in quelle condizioni? Il problema non era che non ricevesse nulla in cambio, quello l’avrebbe accettato volentieri; ma c’era differenza tra quello e la maniera in cui sua sorella si comportava con lei.
Piangeva sempre più forte, non sapeva dove fosse.
Una ragazza le cadde addosso, schiacciandola a terra. Quando questa si rialzò, non la degnò nemmeno di uno sguardo.
Liz, tra le lacrime, si disse che era contenta, e fiera di se stessa, per il fatto che non sarebbe diventata come quei ragazzi; come Keira.
No, Keira è diversa! Keira è diver …
Liz impose alla voce nella sua testa di fare silenzio: non voleva sentire nulla, voleva soltanto trovare l’uscita. Se avesse saputo dove si trovava, pensava che sarebbe anche tornata a casa da sola, ma non dovevano essere tanto vicine, se avevano preso la macchina.
Non avrebbe mai dovuto lasciarsi trascinare in quel posto da sua sorella, non avrebbe mai dovuto darle retta e fare di tutto pur di accontentarla; ma ormai era troppo tardi per rimediare.
Voleva andare a casa.
Speriamo che Keira stia bene! Non avrebbe voluto pensarlo, ma fu più forte di lei. Forse, sua sorella, non era tornata indietro perché si era persa come lei, o perché si era sentita male per via di quella gran calca. Povera Keira, aveva pensato cattiverie sul suo conto. Keira non le meritava.
Liz pianse più forte mentre si sentiva in colpa. La sua adorata Keira, sicuramente sarebbe tornata indietro a cercarla se avesse potuto, ne era certa.
Keira era diversa da tutte le sue amiche, Keira era migliore, e su questo non c’era alcun dubbio.
Improvvisamente si sentì toccare una spalla e istintivamente si mise a urlare; riconobbe quasi subito, però, la ragazza che le si accovacciò di fronte: era Kim, quella con i capelli rossi.
-Lizzy, perché non sei con Keira?- le domandò la ragazza alzando forte la voce. Liz voleva rispondere che l’aveva persa, che la mano di sua sorella era scappata dalla sua, ma riuscì soltanto ad aggrapparsi all’unica figura conosciuta che vedesse intorno, e a cominciare a piangere appoggiata al suo petto.
Kim la prese in braccio.
-Ma come ha fatto a perderti, quant’è scema Keira!- esclamò Kim mentre cominciava ad allontanarsi con la bambina tra le braccia.
-Tu sei scema! Keira è brava, sono io che mi sono persa!- protestò Liz, tirando da dietro i capelli della rossa.
Non si capacitava del motivo di questa sua reazione; in fin dei conti, fino a qualche istante prima, lei stessa pensava le medesime cose nei confronti di sua sorella, ma non aveva potuto tollerare quella parole. In sé aveva sentito rinascere quell’amore profondo, insensato e viscerale.
Keira era meravigliosa, diversa, speciale e, soprattutto, troppo bella.
Kim non poteva permettersi di dire di lei certe cose, e nemmeno lei avrebbe dovuto osare pensarle, poco prima, ma ormai, era troppo tardi per tornare indietro.
Kim non si sprecò a risponderle, e in un baleno la condusse fuori dal locale; lì c’erano anche Sandra, Francine e Terry. Mancavano soltanto Tina e Keira.
Nel giro di pochi istanti, però, dall’uscita, arrivarono anche loro: Tina stava aiutando l’amica a camminare, dato che questa a stento si reggeva in piedi da sola.
Liz, nel vedere la sorella, si divincolò dalle braccia di Kim e fece di tutto per raggiungere Keira.
-Keira, voglio andare a casa. Andiamo a casa, ti prego!- la implorò, ma la sorella maggiore sembrò quasi non vederla.
Liz allora prese a intensificare la sua disperazione: piangendo di più, si scaraventò contro Tina, e iniziò a colpirla con i piccoli pugni sull’addome.
-È per colpa tua. È perché tu sei stupida. Ti odio, Tina! Ti odio! Ridammi mia sorella!-, urlò a squarciagola. Ed era davvero certa che la colpa fosse sua.
Quello che aveva pensato di Keira poco prima non contava, era certa di quel che aveva detto: non poteva essere colpa di sua sorella, no! Era Tina la responsabile. Quella stupida.
La ragazza chiese a qualcuna delle altre di toglierle di dosso la mocciosa, poi, in fretta e furia, salirono in macchina e ripartirono alla volta di casa.
Questa volta Liz si era ritrovata nell’angolo, vicina a sua sorella, ed il capo di quest’ultima pendeva quasi inanimato nella sua direzione. Keira teneva gli occhi chiusi, ma stava respirando.
La bambina si inginocchiò sul sedile, prese la testa di sua sorella tra le mani, e cominciò a parlarle all’orecchio.
-Keira, mi senti? Prima ho pensato delle cose brutte, ma era solo perché avevo paura, te lo giuro. Io ti voglio tanto bene, e anche tu mi vuoi tanto bene, vero? Senti, io non dico niente a mamma e papà di questa sera, non ti preoccupare, però la prossima volta non andiamo da nessuna parte, ti prego! Stiamo da sole io e te. So che non sono tanto divertente come sorella, mi dispiace, però voglio provare a essere lo stesso la sorella che vuoi tu, almeno un po’.
Farò tutto quello che vuoi, te lo prometto. Basta che non facciamo più come stasera.-.
A quel punto, la baciò sulla fronte.
Certo che andavano un po’ troppo forte. Pensò Liz, un attimo prima di sentire le urla.
Poi ci fu lo schianto; poi il rosso, e infine il nero.
 
*
 
Le sembrava quasi di fluttuare, eppure si rendeva conto di trovarsi su di un letto.
Era ancora viva, di questo era certa, ma non era invece molto sicura di quel che era accaduto.
Aveva solo vaghi ricordi di quella serata, tra una pasticca buttata giù senza pensare, non ricordava dove, e un tale appena conosciuto senza preservativo.
Gli occhi le si aprivano e si chiudevano; si aprivano e si chiudevano.
Qualche punto del corpo le faceva male, ma non capiva da dove provenisse il dolore.
So che non sono tanto divertente come sorella, mi dispiace, però voglio provare a essere lo stesso la sorella che vuoi tu, almeno un po’.
Improvvisamente le venne in mente questa frase, ma non seppe assolutamente dove collocarla.
Nell’aprire gli occhi, si trovò di fronte sua madre: la guardava con occhi arrossati e gonfi e si stringeva le braccia al petto.
Perché aveva quella faccia cupa? Si era risvegliata, era viva. Capiva che fosse in collera con lei, ma non sembrava che nei suoi occhi ci fosse solo quello.
Tese la mano in sua direzione, ma la donna non fece nulla per stringergliela.
Keira restò così per diversi istanti: la mano tesa nel vuoto, in attesa di un contatto che non veniva; infine la riabbassò.
-Mamma- si sforzò di dire -mi dispiace-.
Ancora non capiva bene cosa fosse successo, ma aveva ben chiaro che quelle erano le uniche due parole che avrebbe potuto dire.
-Ti dispiace, Keira? Davvero? E di cosa?- fece la madre, gelida, eppure chiaramente in procinto di riprendere a piangere. Perché che avesse pianto in precedenza era palese.
Keira cercò di ricordare; cos’era accaduto quella sera? Aveva disobbedito, come sempre. Doveva pensare a Liz, ma aveva deciso di approfittare dell’assenza dei suoi per invitare le sue amiche a un voi sapete cosa.
Già, il problema doveva essere proprio quello. Forse si erano sballate troppo, lei era svenuta e una delle sue amiche aveva chiamato un’ambulanza e i soccorsi avevano provveduto ad avvertire i genitori. D’altro canto, lei era minorenne.
Ma questo non spiegava l’espressione di sua madre; né il ricordo del ragazzo che non indossava il preservativo.
Keira osservò la madre senza capire.
-Dovevi badare a Liz, Keira, e invece tu sei uscita con le tue amiche, e Dio solo sa che cosa avete preso.- riprese la donna, rinfrescandole la memoria.
-Andiamo al Lithium-. Nella testa rivide Tina mentre lo diceva.
Doveva aver visto lì, in discoteca, il tizio che non indossava il preservativo. All’idea avvertì un moto di schifo; non per ciò che aveva fatto, ma perché era rischioso e disgustoso.
Forse era stata male lì; ricordava vagamente di non essere stata in grado di parlare a un certo punto. Ma no, quello non era abbastanza, qualsiasi cosa fosse avvenuta, doveva essere successa dopo.
E cosa poteva accadere a delle ragazze ubriache e strafatte che tornano dalla discoteca, guidando sulla strada ghiacciata?
-Ho avuto un incidente, mamma?- domandò nonostante l’avesse già intuito -sì- rispose sua madre, sempre gelida -ma sto bene?- si ritrovò a chiedere la ragazza senza pensare.
Fu in quell’istante che la donna si mosse e le andò più vicina.
-Sì, Keira, stai bene. Ti hanno asportato la milza, ma stai bene- disse questa; e lo disse duramente.
-Ma tua sorella …- aggiunse subito dopo, non potendosi evitare i singhiozzi -tua sorella … oddio, Keira, ma come hai potuto?-.
Solo allora la ragazza sembrò ricordarsi di Liz.
Liz. Dov’era Liz? Si era persa in discoteca? Era rimasta uccisa nell’incidente?
-Cos’è successo a Liz, mamma? Come sta?- domandò, improvvisamente apprensiva.
Aveva anche tentato di tirarsi a sedere sul letto, ma non ci riuscì.
-Tua sorella, Keira. Dovevi pensare a tua sorella! Come hai fatto a essere così stupida? Oddio, Liz!-.
-Lo so che sono stata stupida, mamma, ma ti prego, dimmi come sta Liz. Cosa le è successo?- la ragazza, con gli occhi spalancati, ormai stava urlando.
La madre, di fronte a lei, ormai piangeva senza più risponderle.
-È morta, mamma? Liz è morta? Dimmelo, ti prego!-.
 
-Dimmi di Liz-.
 
-È morta?-.
 
-Come sta Liz?-.
 
Liz.
 
Dov’è Liz?
 
*
 
Quando riaprì gli occhi, non le sembrava più di fluttuare. Era giorno, lo capiva dalla luce che entrava dalla finestra.
Per un attimo volle illudersi di aver sognato ogni cosa, ma fu facile rendersi conto che non era così: si trovava in una camera di ospedale, e quello certamente non poteva essere un sogno.
Però doveva esserlo stato quell’altro, quello dove aveva parlato con sua madre, e lei piangeva nominando Liz, senza spiegarle cosa fosse successo, perché la sua sorellina si trovava nel letto accanto al suo.
Aveva il visino escoriato, però teneva gli occhi aperti, la guardava e sorrideva.
Tese la mano verso di lei.
 
So che non sono tanto divertente come sorella, mi dispiace, però voglio provare a essere lo stesso la sorella che vuoi tu, almeno un po’.
 
-Ehi Liz, stai bene?- le domandò sorridendole a propria volta. La bimba mosse la mano e andò a stringere la sua -sì- le rispose con un filo di voce.
Keira sospirò di sollievo.
Solo credendo di averla persa per sempre, si era resa conto di quanto tenesse a lei.
E pensare che era stata così stupida da rischiare di perderla davvero e, in quel caso, la colpa sarebbe stata soltanto sua. Fortunatamente le veniva data una seconda occasione: forse non era troppo tardi.
-Anche Tina e le altre stanno bene, sai? Non si sono fatte niente- la informò, e Keira sentì nascere dentro di sé un gran moto di affetto nei suoi confronti.
-Meno male; ma sai, Liz: sono più contenta che stia bene tu- fece la ragazza in un sorriso.
Gli occhi della bimba divennero lucidi.
-Davvero?- le domandò commossa e felice.
Sì, lo pensava realmente. Povera piccola Liz, come aveva potuto comportarsi in quel modo? Farle correre tutti quei pericoli? Non sarebbe accaduto mai più. Forse era davvero il caso di cambiare.
Anche perché, si disse, non voleva mai più ritrovarsi a fare sesso con un ragazzo che non indossasse il preservativo, né voleva più essere tanto fatta da non riuscire a fermarlo.
-Tu ti sei fatta male, Keira?-
-No, piccola, niente di grave. Sto bene-.
Liz sorrise. -Meno male- asserì -ero preoccupata che ti eri fatta male. Per questo mi sono fatta mettere nella stanza con te: volevo essere sicura che stavi bene- terminò.
In quel momento, Keira avrebbe voluto sprofondare: nonostante tutto, Liz si era preoccupata tanto per lei, sicuramente più che di se stessa. E pensare che era stata così sconsiderata.
Meritava una sorella simile?
-Sei un amore, Liz- le disse dolcemente, e quelle parole sembrarono consentire alla bambina di toccare il cielo con un dito. Forse avrebbe sempre voluto sentirgliele dire, ma Keira era sempre stata troppo occupata a pensare a se stessa, per rendersi conto del tesoro che aveva accanto.
Capitava sempre così: di queste cose ci si accorgeva solo quando si rischiava di farsele scappare di mano. Ma, per fortuna, la mano di Liz era ancora stretta nella sua.
-Vedrai che torneremo a casa presto-; Liz annuì.
-E la sai una cosa? Quando saremo di nuovo a casa, ce ne stiamo un po’ di tempo insieme, solo io e te, e ci divertiamo un po’ per conto nostro-. Keira quasi non riuscì a credere alle proprie parole e, soprattutto, faticò a rendersi conto che le pensava davvero, che sarebbe stata felice di passare del tempo con sua sorella.
In fondo Liz lo meritava e lei voleva essere, per quella bambina, una sorella maggiore come si doveva.
-Solo noi?- le chiese Liz sorpresa, stupita e sinceramente felice -solo noi, te lo prometto- e, detto questo, la bionda sorrise di nuovo alla sua sorellina.
 
-Buongiorno!- esclamò una voce proveniente dall’ingresso; Keira si voltò: nella stanza stava entrando un’infermiera, che portava con sé un carrello stracarico di occorrente medico.
-Ciao Liz, come stai adesso?- domandò la nuova arrivata rivolgendosi alla bimba –bene- fece quest’ultima -Keira si è svegliata- aggiunse.
L’infermiera guardò la ragazza, e abbozzò un timido sorriso -oh, meno male! Così sei contenta finalmente, vero?-. Liz rispose subito di sì.
A quel punto, la donna vestita di blu si avvicinò al letto di Liz, poi le infilò il termometro nell’orecchio, per prenderle la temperatura.
-Eh, Keira! Sei proprio fortunata ad avere una sorellina come Liz. Non ha fatto altro che chiedere di te, fin dal primo momento, e non è stata tranquilla finché non l’abbiamo messa in stanza con te- affermò convinta, parlando con la ragazza.
Questa sorrise -lo so, sono davvero fortunata ad averla- esclamò sfoggiando addirittura una punta d’orgoglio. Come non essere orgogliosi di Liz?
Nel frattempo, le aveva stretto la mano più forte. Gesto che Liz ricambiò.
Il termometro suonò, e l’infermiera ne osservò il quadrante: -trentasei e sei, benissimo! Niente febbre, campionessa!- fece sorridendo alla bambina.
Anche Keira sorrise di nuovo, perché in quel momento si sentiva davvero felice.
-Va bene, ora cambiamo la medicazione- aggiunse infine l’infermiera.
A quelle parole, l’espressione di Liz cambiò radicalmente.
-No! Non voglio! Non voglio!- piagnucolò -su, fai la brava. Sai che dobbiamo farlo- le intimò l’altra dolcemente, andando ad accarezzarle anche la fronte.
Keira, in quel momento, provò pena per la sua sorellina; non quella pena quasi schifata che tante volte aveva avvertito pensando a quanto fosse noiosa. Il sentimento di quel giorno era diverso, autentico, profondo e, soprattutto, non egoista.
A Keira, Liz faceva pena perché era una bimba che cercava di essere sempre coraggiosa, ma che alla fine aveva paura di farsi toccare dai dottori o chi per loro; e questo avveniva perché, comunque, era ancora piccola.
Toccava a lei starle accanto in un momento simile.
-Dai, Liz. Tranquilla, ci sono io qui con te. Ti tengo la mano, va bene?- le disse dolcemente.
Liz si voltò a guardarla in viso -me la tieni tutto il tempo?- le domandò, tremando lievemente -non te la lascio neanche per un attimo, te lo giuro-.
La bambina le sorrise e sembrò trarre forza da quelle parole; respirando a fondo tornò a guardare l’infermiera e assentì con la testa.
-Brava, Liz. Sei una bambina coraggiosa- esclamò quest’ultima.
A quel punto tirò indietro la coperta e Keira non riuscì a mantenere fede alla sua promessa: lasciò la mano di Liz, e si portò le sue al viso.
Per poco non gridò, quando vide i moncherini fasciati al posto delle gambe.
 
Liz. Dov’è Liz? Liz è qui. E le sue gambe? Quelle no.
 
Keira osservò con orrore l’infermiera che toglieva le bende a Liz; con orrore guardò l’espressione assente e persa di sua sorella, mentre questa rivolgeva gli occhi verso quel quasi nulla che le pendeva dal bacino. Capì in quel momento di non aver sognato le parole di sua madre.
Liz aveva perso le gambe nell’incidente, non sarebbe mai più stata la stessa di prima, e la colpa era stata solamente sua, della sua irresponsabilità, del suo egoismo, della sua sconsideratezza e della sua stupidità.
E ormai, era troppo tardi per rimediare.
 

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Capitolo 3
*** La chiave di pezza ***


LA CHIAVE DI PEZZA
 
I
 
LAURIE
 
Ciò che a Laurie più sembrava incredibile della neve, era il silenzio che produceva; un silenzio attrattivo e cullante. Ipnotico, si potrebbe dire.
Quella della neve che cadeva era la visione più rilassante che potesse esistere, e anche la più magica.
Sua madre le aveva detto di non allontanarsi dal cortile, ma si sa, i bambini sono fatti per disobbedire e Laurie, dall’innocenza dei suoi cinque anni, non faceva eccezione.
E poi quella neve era così soffice, così bianca e cristallina, che era stato impossibile per lei non lasciarsi travolgere dal suo richiamo insistente.
Sì, perché in quel silenzio esisteva un richiamo che spinge ad andare avanti, a voler scoprire se, lì dove non si arriva con gli occhi, la distesa bianca sia sempre la stessa, sempre uguale, oppure abbia un punto di fine; ma vista dalla sua posizione, la neve per Laurie sembrava coprire il mondo intero, non poteva esistere un luogo che non fosse baciato da quella coltre di ghiaccio.
La neve però era anche proibita: non poteva essere toccata con la mano nuda, e nello stesso modo sembrava custodire un segreto, quasi la risata trasparente dei giochi d’inverno di bambini ormai troppo cresciuti. La neve ricopre il passato, ma non lo cancella.
Così Laurie si era allontanata quasi senza pensare, seguendo quella melodia inudibile e quel senso di magico mistero che la attraeva come una calamita.
Era splendida la neve; era un sogno.
Indossava il suo cappottino rosso; anche cappello e guanti di lana erano rossi. Il rosso è il colore perfetto per il giorno di Natale.
Ma quel rosso si stava tingendo di bianco, perché i fiocchi cadenti dal cielo non sembravano intenzionati a demordere; pareva davvero che volessero scendere in eterno.
Cadevano e danzavano sulle note silenti di una risata appena accennata; e sul fruscio prodotto da quelle scarpette che avanzavano ormai completamente sepolte.
Laurie aveva freddo ai piedi: le si stavano congelando, perché la neve era penetrata nelle calze e si era fatta acqua gelida. Stava quasi pensando di tornare indietro; forse la mamma si era accorta della sua assenza, forse si stava preoccupando e, peggio ancora, arrabbiando parecchio.
Laurie non ci teneva proprio a prendersi una bella sculacciata il giorno di Natale e, poco ma sicuro, una bella pacca sonora sul didietro non gliel’avrebbe tolta nessuno se sua madre avesse perso le staffe, nemmeno Babbo Natale in persona con tutte le renne.
Sua madre Samantha era molto severa riguardo a questo genere di cose.
Generalmente era solo Leyla a prendere le sue difese, ma quel giorno sua sorella aveva preferito restare a casa con papà; lei non voleva mai andare a casa della zia, Laurie non sapeva bene perché. Anzi, non ne aveva proprio idea; non glielo aveva nemmeno mai chiesto.
Comunque stessero le cose, e nonostante ciò che la sua mente tentava invano di dirle, Laurie seguitò per la sua strada, dimenticandosi persino del pericolo – sculacciata.
Diventava sempre più difficile muoversi tra la neve: i fiocchi continuavano a cadere sempre più fitti, sempre più insistenti, e poi ora ci si era messo anche il vento, che ululando e agitandosi la respingeva indietro, come un guardiano posto dinanzi a una porta che non debba essere aperta.
Una porta che custodisca un segreto.
Ma quella curiosità interiore che non era vera curiosità, quell’attrazione indefinibile, le imponeva di sfidare quel guardiano immaginario perché si convincesse a lasciarla passare, anche con le cattive.
Un passo, due, tre. I piedi ghiacciati le facevano male e poi era così difficile andare avanti.
Lasciò che le ginocchia le si piegassero, e stancamente si sedette sulla coltre fredda e immacolata.
Si guardò intorno mentre si stringeva nelle braccia per via del gelo. Quanto si era allontanata? Ricordava ancora come raggiungere la casa della zia? Le sembrava di sì ed era quasi sicura che quel puntino in fondo in fondo, quello piccolo e marroncino, fosse proprio la sua dimora.
Sorrise tra sé e sé sentendosi rassicurata poi alzò lo sguardo al cielo, mentre con la manina ricoperta dal guanto sfiorava la neve in una soffice e inconsapevole carezza.
Socchiuse gli occhi quando la fitta tempesta bianca le si abbatté in viso; il vento che soffiava tutto attorno a lei sembrava quasi una melodia, una musica nostalgica propria dei tempi andati e a Laurie piaceva immaginare che l’inverno potesse durare per sempre.
Perché la stagione più fredda è la culla del cuore e delle sensazioni inafferrabili, e la neve è il loro lenzuolo.
Fu quasi senza accorgersene che aprì le labbra come per accogliere quei fiocchi cadenti, come se volesse sentirne il sapore, ma appena questi le si posavano sulla lingua subito si scioglievano, senza soddisfare la sua curiosità. Perché no? Si domandò allora. Non può far male. E con il guantino rosso sollevò un pugno di neve e se lo avvicinò alla bocca.
Lo addentò quasi fosse una mela o qualunque altro frutto gustoso e lasciò che il suo succo immaginario le colasse fin sotto il mento.
Quando inghiottì si rese conto che non era stato un granché: la neve era insapore e finiva con il far dolere qualche dente sensibile, però l’idea di assaggiarla era stata irresistibile.
Fu per questo motivo che la morse di nuovo, poi ancora, e un’altra volta.
Le veniva da ridere di se stessa, perché nonostante quel gioco fosse privo di senso non riusciva proprio a dissuadersi dal farlo.
La neve era un paradiso; sì, se davvero esisteva quel luogo, doveva essere ricoperto di neve, più che pieno di nuvole.
Anche perché non serviva avere sei anni, e quindi andare alle elementari, per capirlo: camminare sulla neve era possibile (anche se a volte un po’ difficile), ma sulle nuvole … diciamo che non era probabile.
Con la manina infreddolita afferrò un’altra manciata di neve, ma quasi subito la lasciò ricadere e rimase per qualche istante a osservare quella zampa di pezza che fuoriusciva dalla coltre bianca.
Era sorpresa, affascinata, ammaliata. Ma aveva anche un po’ di paura.
Le sembrò d’un tratto che il canto del vento si facesse più forte e più lugubre e avvertì un brivido.
Dopo qualche istante di stordimento mosse di nuovo la mano e, anche se un po’ titubante, afferrò quel piede di finto pelo e lo tirò verso di sé.
La neve che ricopriva il pupazzo corse via come se avesse ricevuto l’ordine di dileguarsi.
Laurie lo prese con entrambe le mani e lo guardò: era bianco, anche se forse un tempo lo era stato di più, e a forma di topolino. Le sue orecchie erano grandi e rotonde e dalla bocca sorridente (i topi sorridono? Non l’avrebbe mai detto) spuntavano due dentoni. Laurie li toccò: erano morbidi, di pezza anch’essi.
Il topolino portava un gilet marrone che lo rendeva davvero buffo; Laurie infatti si ritrovò a sorridere. Ma nel fondo del suo sorriso si nascondeva uno strano brivido. Che cosa ci faceva un topolino di pezza sepolto sotto la neve? Che un altro bambino l’avesse perso prima che iniziasse a nevicare? Laurie si guardò intorno, forse sperando che il proprietario del pupazzo si facesse vivo di gran corsa, forse sperando proprio il contrario.
Sorrise di nuovo al topolino di pezza, poi rivolse ancora lo sguardo in direzione del cielo e della neve che da esso continuava a cadere.
Improvvisamente si accorse di avere davvero freddo e, non seppe perché, sentì l’impulso di muoversi verso la casa della zia.
Prima di cominciare a tornare indietro, si infilò il topolino di peluche nella tasca interna del cappotto rosso ormai ricoperto di bianco.
Poi tentò di correre sulla neve candida, mentre il vento sembrava quasi contento di sospingerla lontano da lì.
 
*
 
Arrivata a casa della zia le era toccato fare i conti con la madre disperata. Doveva essere mancata per un bel po’, perché lei si era accorta della sua scomparsa e, in lacrime, era in procinto di chiamare la polizia. La zia cercava di tranquillizzarla, ma pareva non ci fosse verso.
Quando poi Laurie entrò in casa, ormai imbiancata da capo a piedi, Samantha le era corsa incontro visibilmente sconvolta e, dopo i primi baci e abbracci dettati dalla gioia, immancabile era arrivata la sculacciata, più qualche parola detta ad alta voce. Qualcosa tipo: ma si può sapere come ti è venuto in mente? Non devi allontanarti da sola, Laurie. Mai più. Dio, che spavento!
Ma per fortuna la zia si era dimostrata clemente (forse perché era il giorno di Natale) e aveva tranquillizzato la sorella, facendole notare che era tutto a posto, non era successo nulla.
In effetti era così, Laurie non comprendeva molto quella reazione esagerata della mamma, ma immaginò di averla fatta davvero spaventare.
Forse il richiamo della neve attirava a sé soltanto i bambini, solo loro potevano capire.
Comunque fosse, Laurie sistemò meglio il topolino di pezza nella sua tasca, poi si tolse giacca, guanti e cappello.
Non voleva che nessuno vedesse il suo piccolo tesoro; non sapeva perché, eppure le sembrava quasi di aver fatto qualcosa di sbagliato. Il pupazzo era sommerso di neve, ma lei aveva quasi l’idea di averlo rubato, di averlo sottratto a un bambino che in quel momento doveva essere in lacrime.
Era come se se lo fosse preso con la forza, ma sapeva che quella sensazione non aveva senso.
Indirizzò un ultimo sguardo fuori dalla finestra, alla distesa di neve che pareva infinita e mentalmente domandò scusa al legittimo proprietario del topolino, ovunque questo si trovasse, poi si impose di non pensarci più. Dopo essersi scusata con la mamma, questa volta a voce, per la sua marachella, si dedicò al progredire del giorno di Natale.
Aiutò la zia a preparare i biscotti al burro, mise lo zucchero a velo sugli altri dolci (e ne mangiò un po’ di nascosto) e si riempì la pancia a sazietà con le prelibatezze cucinate da zia Sarah.
Ricevette anche i regali da parte della zia (quelli di mamma, papà e Leyla li aveva aperti quella mattina a casa): scartò una bambola vestita di azzurro, un cavallo di pezza e una gonnellina scozzese con i quadri rossi. In Scozia, un po’ d’orgoglio nazionale non mancava mai, specialmente nei giorni di festa.
Per il resto della giornata si era giocato, cantato e ogni malessere sembrava essere stato cancellato. Solo ogni tanto a Laurie pareva che il sorriso della madre si incupisse, e che d’improvviso fosse scossa da un brivido. Forse ripensava alla paura che aveva provato quando non l’aveva più vista nel cortile. A ogni modo, quando Laurie vedeva quello sguardo che si faceva d’un tratto assente, le veniva istintivo rivolgere il proprio fuori dalla finestra, in direzione della neve che non aveva ancora smesso di cadere. E anche lei sperimentava un brivido a quel punto; si trattava solo di una scossa veloce, appena percepibile e svaniva subito. La sentì tre o quattro volte, ma se ne dimenticò, perché non sembrava per nulla importante.
Fuori però la neve continuava a cadere. Soffice, silenziosa, morbida e pacata. Forse anche un po’ insensibile. Laurie si ritrovò a sperare che il topolino di pezza, nella sua tasca interna del cappotto, non cominciasse improvvisamente a squittire.
Perché la bimba aveva l’impressione che questo volesse, dovesse farlo, come se fosse naturale per lui attirare su di sé l’attenzione.
Se la neve doveva essere davvero una porta chiusa e inaccessibile, sembrava che quel pupazzo sorridente e con gli incisivi sporgenti ne fosse la chiave.
Ma no, è solo un topolino di pezza. La tranquillizzò una voce nella sua testa. Solo un topolino di pezza.
Trascorse tutto il pomeriggio a casa della zia; ogni tanto pensava a Leyla e a che cosa questa stesse facendo da sola a casa con papà. Si augurò che anche loro stessero passando un bel Natale, anche se forse la neve non doveva essere così bella, vista dalla finestra del loro appartamento.
Niente a che vedere con un letto bianco tanto grande da sembrare infinito.
Ma forse erano abbastanza felici anche loro. Leyla lo era quella mattina: prima che uscisse con la mamma l’aveva abbracciata e, sorridendole, le aveva detto di comportarsi bene.
Era vero che si era allontanata disobbedendo alla mamma, ma a parte quel piccolo particolare era stata un angioletto.
E poi quella camminata improvvisata sulla neve non era stata una sua idea; le gambe si erano mosse da sole, era stato davvero come essere attratta da una calamita.
Quando finalmente, in serata, salutò la zia e salì in macchina con la mamma per tornare a casa, stava nevicando un po’ di meno, ma a madre e figlia ci volle comunque un po’ per tornare a Edimburgo. Normalmente, a percorrere quei tredici chilometri da Bonnyrigg non si impiegava più di una ventina di minuti, ma quella sera, per via della neve, ci vollero più di due ore.
Sul sedile posteriore, mentre osservava il manto bianco velato dal mistero attraverso il suo finestrino, e tenendo una mano appoggiata sul topolino di pezza nascosto nella sua tasca, Laurie si addormentò.
E fece un sogno.
 
Si trovava sulla neve, così come era avvenuto realmente quel giorno, ma era molto più lontana dalla casa della zia. Non c’era nessun punto marrone nelle vicinanze.
Camminava rendendosi conto di essere lì da ore, senza però ricordare nient’altro che precedesse quel momento.
Il vento soffiava forte e sembrava quasi che parlasse; la sua però era una lingua incomprensibile.
Senza perdersi d’animo e senza piangere (Laurie era una bambina coraggiosa: non piangeva quasi mai) si era fatta coraggio e aveva ripreso a camminare per trovare la via.
Forse quella volta la mamma si sarebbe arrabbiata sul serio se non l’avesse vista arrivare a breve; altro che sculacciata, si diceva la bimba, quella volta ne avrebbe beccate parecchie.
E la prospettiva non era delle migliori.
Eppure era certa di non essersi allontanata da casa di zia Sarah, non quella volta. Era stato qualcos’altro a condurla lì, e l’aveva fatto senza che lei se ne fosse accorta.
Non ricordava niente, ma il pensiero di star dormendo non le sfiorò mai la mente.
Camminava e sentiva la neve che leggiadra le si posava addosso, percepiva chiaramente il freddo gelido penetrarle nelle calze. Stava anche diventando più difficile camminare.
Fu d’improvviso che le sembrò che la neve iniziasse a parlarle. Dapprima si trattò solo di un sussurro, poi la voce cominciò ad alzarsi.
La invitava ad avvicinarsi.
Laurie tese l’udito, anche se era difficile ascoltare con il vento che faceva tutto quel baccano, per assicurarsi che non ci fosse nessun altro lì, ma no, quelle parole provenivano proprio dalla neve che ricopriva il suolo.
-Vieni qui. Vieni Laurie, ti manca poco-. La bambina avrebbe voluto scappare e lasciarsi quella voce alle spalle, ma fu con orrore che si accorse di non poter più indietreggiare.
Era come trovarsi all’interno di una palla di vetro, di quelle ornamentali, con la neve dentro. Esisteva una parete trasparente che non le permetteva di allontanarsi.
Qualcuno da fuori l’avrebbe vista?
-No, Laurie, non scappare, non devi avere paura. Vieni da me- riprendeva intanto la voce -ho bisogno di te, avanti vieni!-.
Così Laurie si ritrovò a muoversi di nuovo in avanti, tutta tremante, e non per il freddo.
Sentiva il vento che le tagliava le labbra, lo sentiva arrossarle le guance.
Sentiva anche la neve farsi più molle, come se fosse in procinto di aprirsi sotto i suoi piedi. Cosa sarebbe esistito là sotto? Il vuoto? Le fiamme? Dei mostri con le fauci spalancate? Nessuna tra queste idee le pareva entusiasmante.
Non sapeva se fidarsi di quella voce: non sembrava cattiva, ma tutto era così strano.
Persino la neve si stava facendo strana: anziché cadere dall’alto verso il basso, aveva iniziato a girare in tondo, disegnando circoli grandi e piccoli sopra e davanti a lei.
E il vento urlava sempre più forte.
-Ci sei quasi, Laurie, avanti, avanti! Sono qui!- proseguiva la voce, e si stava facendo concitata. Ma era dolce; forse anche un po’ impaurita.
Intanto Laurie si muoveva con cautela, a piccoli passi, sempre spaventata all’idea che quella neve, all’improvviso fragilissima, decidesse di cedere inghiottendola in un lampo.
-Brava Laurie, ci sei! Ora scava, scava più che puoi- così la bambina obbedì. Si inginocchiò sulla neve, come aveva fatto quel giorno da sveglia, senza che in quel momento ne serbasse memoria, e cominciò a scavare con frenesia.
Non indossava i guanti e la neve le gelava le dita, ma non le importava. Quella voce veniva proprio da lì sotto e la incitava, le stava dicendo di liberarla.
Ed era la voce di una bambina.
Laurie scavò e scavò, anche se le mani ormai le facevano male, fino a quando non le apparve dinanzi, distesa nella neve, quella bambina bionda vestita di verde. Aveva le gambe scoperte dal ginocchio in giù, ma non sembrava che il freddo le desse fastidio.
La stava guardando e intanto sorrideva.
Al petto stringeva il topolino di pezza, quello bianco con il gilet marrone che Laurie ricordava di avere, non sapeva perché, nella tasca interna del suo giaccone.
D’istinto vi mise dentro la mano per cercarlo, ma non lo trovò.
Stranita ricambiò lo sguardo della bimba stesa nella neve; doveva avere la sua età.
-Mi hai trovata, Laurie, grazie, ora guarda la neve- le diceva dolcemente.
Laurie eseguì senza pensare e guardò in su per un tempo interminabile; la neve non vacillava più sotto i suoi piedi e quella che cadeva dall’alto era così fitta e soffice che, come doveva esserle già capitato non ricordava quando, le venne voglia di assaggiarla.
-Come ti chiami?- domandò tornando ad abbassare lo sguardo sulla bimba che aveva trovato sepolta nella neve, ma questa era sparita.
All’improvviso, vide che dal cielo cominciavano a cadere fiocchi di neve rossi.
 
Quando Laurie spalancò gli occhi di scatto, la mamma stava parcheggiando l’auto sotto casa.
Ricordava il sogno, anche se non più il volto della bambina che aveva trovato tra la neve e istintivamente toccò il topolino di pezza nella sua tasca. Era ancora lì.
Forse era stata la sua paura a formulare quel sogno: quella di aver sottratto quel pupazzo con la forza, l’idea pulsante che non le appartenesse, motivo per il quale aveva scelto di non parlarne con nessuno.
Le vennero improvvisamente in mente una porta e una chiave e subito si rese conto che non voleva più pensarci.
Aveva trovato un pupazzo, d’accordo; l’aveva raccolto anche se non era suo, fin là tutto era chiaro. Ma non l’aveva rubato a nessuno, in fin dei conti non era di certo colpa sua se qualche altro bambino (o bambina) sbadato non aveva prestato attenzione e se l’era fatto scivolare di mano.
Ma forse quel bambino (o bambina) sarebbe presto andato a cercarlo, scavando tra la neve, immaginando che il suo topolino di pezza lo stesse chiamando per farsi trovare.
Un po’ come aveva fatto quella bimba bionda nel sogno.
Ma poi quel bambino (o bambina) non avrebbe trovato niente tra la neve.
A Laurie dispiaceva, ma ormai che cosa poteva farci? Lei aveva fatto soltanto ciò che qualsiasi altro bambino avrebbe fatto al suo posto, e non c’era niente di male.
Per il momento però, voleva che il topolino di pezza restasse un suo segreto.
Scese dall’auto, si lasciò prendere per mano dalla mamma e con lei entrò nel portone del loro condominio; presero l’ascensore, e raggiunsero il quinto piano.
Leyla aprì loro con un sorriso e subito prese in braccio la sorellina, baciandole la guancia.
Leyla e Laurie si volevano molto bene, erano molto legate, sebbene si passassero ben undici anni di differenza: la maggiore ne aveva compiuti sedici in ottobre.
Laurie salutò anche suo padre, che subito chiese alla mamma come si era comportata la leprotta, come la chiamava lui. La mamma non alluse al fatto che si fosse allontanata senza permesso (e quindi nemmeno alla sculacciata, pensò Laurie con soddisfazione), e la bimba lo prese come un buon segno.
Questo significava che sia la rabbia che la paura dovevano esserle passate.
Andò fino alla sua cameretta per togliersi il cappotto, così poté estrarre dalla tasca il topolino di pezza senza farsi notare. In silenzio lo adagiò in mezzo a tutti gli altri suoi pupazzi posti sul letto, lì dove non sarebbe stato così facile fare caso a uno solo e, convinta che nessuno l’avrebbe notato, almeno per un po’, decise di tornare da sua sorella. Pensò che voleva farsi raccontare da lei la favola della buonanotte.
 
 
 
 
II
 
HILLARY
 
La sera di Capodanno Leyla era andata a una festa a casa di una delle sue compagne di classe, ma quando si era resa conto che gli altri non pensavano ad altro che a ubriacarsi e a fare gli idioti se n’era tornata felicemente a casa, e questo ben prima che scoccasse la mezzanotte.
Leyla aveva sedici anni, ma se c’era qualcosa che non poteva proprio soffrire era la sconsideratezza dei ragazzi. No, comportarsi come una demente, rischiando magari di farsi del male (o di farne a qualcun altro) non faceva proprio per lei.
Così aveva preferito restare in compagnia dei suoi e di Laurie; Leyla non avrebbe cambiato nessuno di loro, nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Quella sera, tutti insieme in salotto, si erano raccontati barzellette, storielle e aneddoti divertenti riguardanti l’anno che si preparava a dare a tutti l’addio definitivo.
Tutto sommato era stato un Capodanno divertente, e la ragazza compativa quei poveretti che non avevano niente di meglio da fare che riempirsi il fegato d’alcool.
Lei stava meglio così.
Erano stati svegli fino a tardi; lo era stata anche Laurie, anche se non quanto gli adulti, e così, di conseguenza, si erano svegliati tardi il giorno seguente.
Il primo di gennaio era sempre una giornata strana, tutti gli anni; forse era perché si doveva fare l’abitudine all’anno nuovo, forse perché invece ci si aspettava sempre un cambiamento significativo che però non si faceva vedere. Stava di fatto che si percepiva sempre qualcosa di strano quel dato giorno dell’anno.
Dopo aver pranzato (sempre tardi), si erano ritirati tutti quanti a fare gli affari loro: papà a leggere un libro, la mamma a lavorare, Laurie a disegnare e Leyla a finire i compiti delle vacanze.
Solo in serata la maggiore si trasferì in camera della sua sorellina per farle un po’ di compagnia.
Laurie aveva tirato fuori i suoi animaletti giocattolo: quelli piccoli piccoli e che trovava come regalo nei giornaletti. Ormai si poteva dire che avesse un intero zoo a disposizione.
Insieme alla sorella, la bimba aveva scelto di catalogarli: da una parte i carnivori, dall’altra gli erbivori.
Leyla si occupava della prima sezione: davanti a sé aveva sistemato un lupo, un leone, una tigre e una pantera; Laurie aveva messo da parte un elefante, una zebra, una gazzella e un rinoceronte.
Poi fu la volta del maialino. Laurie era convinta di doverlo inserire nella categoria degli erbivori, ma la sorella le spiegò che si trattava di un animale onnivoro, ossia capace di mangiare sia carne che vegetali; come l’uomo, le precisò, così la bambina decise subito di creare una suddivisione diversa che comprendesse queste specie.
E fu anche contenta di aver appreso qualcosa di nuovo.
Il maialino fu così posizionato nel mezzo, a parte, separato sia dai carnivori che dagli erbivori.
Avvenne la stessa cosa quando fu trovato lo scimpanzé, e poi si ripeté di nuovo quando giunsero al topolino.
Laurie era rimasta per svariati secondi a fissare l’animaletto giocattolo dal momento in cui se lo ritrovò tra le mani; la sorella aveva creduto che stesse rimuginando sulla categoria in cui fosse giusto inserirlo. Eppure anche lei si perse per un po’ in quella strana atmosfera silenziosa e si ritrovò a osservare inebetita prima il topolino, poi sua sorella, infine fuori dalla finestra, dove cadeva ancora qualche leggero fiocco di neve. Non che nevicasse ininterrottamente dal giorno di Natale: dopo il venticinque dicembre aveva smesso, per poi riprendere l’ultimo dell’anno.
Quel primo gennaio non restavano che i rimasugli di quella perturbazione bianca.
-Va tra gli onnivori- riuscì a dire infine, quando finalmente si scosse. Laurie alzò lentamente lo sguardo su di lei e le sorrise lievemente, ma dall’espressione degli occhi sembrava frastornata.
-Ah … okay- rispose distrattamente, e andò a porre la nuova riproduzione della bestiolina insieme al maiale e allo scimpanzé.
Mentre faceva ciò il suo sguardo era corso alla montagnola di peluche che si trovava sul suo letto; uno sguardo fugace, quasi colpevole e impaurito.
Uno sguardo che sembrava una supplica a non farsi vedere. Fu così che Leyla si stranì: -Tutto a posto?- domandò alla piccola. Questa rispose subito di sì, ma la sorella maggiore non tardò a rendersi conto della nuova occhiata indirizzata al mucchio di pupazzi.
-Che cosa c’è qui in mezzo?- domandò, e incuriosita allungò la mano verso di esso.
-No, Leyla. Aspetta!- fece la bambina scattando subito in piedi e tentando in un lampo di fermare la sorella maggiore.
La prese per il polso.
-Aspetta un secondo, Leyla, aspetta. Ti devo dire una cosa- esclamò piagnucolante, ma l’altra si era facilmente liberata della sua stretta e aveva affondato la mano tra gli animali di pezza.
Le sembrava che fossero tutti quelli che aveva sempre visto: il cavallo, il leone del Re Leone, il coniglio, la volpe, la scimmietta e tutti gli altri che Laurie aveva collezionato durante i suoi cinque anni, ma poi le saltò agli occhi quello che prima d’allora non c’era mai stato.
Forse non l’avrebbe mai notato con la vista, se al tatto non avesse avvertito quella sorta di scossa elettrica accompagnata dalla sensazione di star toccando qualcosa di liquido e caldo.
Sollevò dal mucchio il topolino bianco con il gilet marroncino ed ebbe l’impressione che di dosso gli scivolasse via della neve.
Neve. Neve rossa.
Laurie intanto la guardava con aria colpevole.
La mano di Leyla che stringeva il topolino di pezza stava tremando.
Sentì un urlo nella testa, poi rivide la neve rossa. Neve rossa che cadeva fitta e silenziosa dal cielo e si posava tutta ai suoi piedi, assumendo la forma di una porta sbarrata sulla coltre bianca.
-Io non l’ho rubato, Leyla, te lo giuro. L’ho trovato per terra, sotto la neve, non so di chi è- spiegò la bambina; stava quasi piangendo.
Leyla si volse d’improvviso verso di lei con un brivido intenso, poi la guardò negli occhi, mentre si sentiva sbiancare in viso: per un momento non aveva visto Laurie di fronte a sé, ma la bimba bionda.
Quella bimba bionda.
-Laurie. Laurie, dove l’hai trovato?- le domandò con un filo di voce. E quel filo di voce le stava tremando.
-Sotto la neve, vicino a casa di zia Sarah, a Natale- rispose la piccola mentre piangeva -mi sono allontanata un po’ senza il permesso della mamma, ma non tanto, e poi l’ho trovato- fece una pausa per asciugarsi gli occhi.
-Lo so che non è mio, Leyla, ma non c’erano altri bambini così ho pensato che lo potevo tenere-.
Leyla guardò di nuovo il topolino di pezza, poi serrò gli occhi con forza, come lottando contro un ricordo; o come tentando di ricondurlo a sé.
-L’hai detto alla mamma, Laurie? Gliene hai parlato?-
-No, io avevo paura che si arrabbiava, perché avevo preso una cosa che non è mia-.
Leyla tornò a guardare fissamente la bambina negli occhi. -Non devi dirle niente, d’accordo? Questa è una cosa che sappiamo solo tu ed io, per adesso, va bene?- fece concitatamente.
Laurie la osservava stranita; la sorella maggiore allora le prese la mano nella sua.
-Laurie, devi ascoltarmi bene. Tu non hai fatto niente di male a prendere questo pupazzo, ma mi devi promettere che non dirai niente a nessuno, capisci? Non deve saperlo nessun altro. Me lo prometti?- e negli occhi di Leyla era viva la supplica; Laurie capì solo che doveva trattarsi di qualcosa di molto importante, così si affrettò a rispondere di sì.
Leyla strinse forte il topolino di pezza e disse alla sorellina che l’avrebbe tenuto lei, perché l’avrebbe nascosto meglio.
Fu proprio mentre si apprestava ad andarsene per raggiungere la sua stanza che Laurie la chiamò:
-Leyla, se non ho fatto niente di male a prenderlo, allora perché lo dobbiamo tenere nascosto?- le domandò -perché forse so a chi appartiene- furono le parole spente che la sorella maggiore le rivolse uscendo dalla stanza.
 
Leyla aveva chiuso a chiave la porta della sua camera ed era piombata nelle tenebre più assolute.
Se ne stava al buio, seduta sul pavimento freddo, stringendo in mano quel topolino di pezza con il gilet e ascoltava il suono inudibile che produceva la neve che cadeva nella sua testa.
Neve fitta, che sembrava non dover smettere di scendere mai più; neve bianca, ma che a tratti si colorava di rosso.
E poi, in sottofondo, sentiva delle risate.
Respirava a fondo cercando di catturare le immagini sfocate che la mente le proponeva. Lei sapeva a chi apparteneva quel pupazzo; ma lo sapeva davvero? O meglio, lo ricordava?
La neve cade, ricopre, ma non cancella. Però nasconde, alla vista come alla memoria, e lei voleva che quella neve prendesse a sciogliersi. Ne era caduta parecchia durante tutti quegli anni, quanto avrebbe dovuto scavare per richiamare a sé i ricordi? Eppure sentiva che era pronta a farlo.
Aveva visto il suo viso per un attimo al posto di quello di Laurie.
Già, ma per quello non ci voleva poi molto, bastava che rivedesse se stessa all’età della sua sorellina più piccola. Loro erano identiche; gemelle identiche.
Strinse più forte il topolino di pezza e si sforzò di ricordare: il suo volto lo rammentava, fino a quel punto non c’erano problemi, ma quand’era successo? Avevano entrambe cinque anni, come Laurie in quel momento, però non era Natale; era febbraio.
Chi si era allontanata per prima dalla casa di zia Sarah, lei o Hillary? Una delle due bimbe nella sua testa correva davanti all’altra, ma non riusciva a distinguersi. Sapeva solo che ridevano entrambe.
Fuori dalla sua finestra esplose un primo tuono sommesso che sanciva la fine della neve e l’arrivo imminente della pioggia.
Lei e Hillary erano anche vestite uguali quel giorno: indossavano entrambe il vestitino verde, quello che avevano voluto avere per forza identico, e sopra avevano il cappotto a quadri. E poi la sciarpa, anche quella era verde.
Guardò ancora il topolino di pezza, sperando di trovare nei suoi occhietti neri di filo una risposta ai suoi interrogativi, oppure una strada da seguire.
Subito ricordò: la bimba che stringeva il pupazzo era quella che correva davanti; lei seguiva Hillary, era stata sua sorella a volersi allontanare, e Leyla le stava dietro di buon grado, perché era divertente correre sulla neve. E poi sentivano quell’attrattiva speciale, quel richiamo silenzioso.
Perché Leyla ricordava di averlo sentito, ed era sicura che fosse valso lo stesso per la sua gemella.
Loro ridevano. Questo Leyla lo ricordava bene. Ridevano, e le zampe posteriori del topolino di pezza pendevano dalla mano della bimba che correva per prima.
Come si chiamava quel topolino di pezza? Qualcosa con White. Sì, White perché era bianco (come la neve), ma al colore era stato abbinato qualcos’altro.
Non ricordava, poi le tornò in mente la porta rossa disegnata sulla neve.
White Key. Perché nel taschino del suo gilet era stata nascosta una chiave, quella del diario segreto che la mamma le aveva regalato. Un diario che Hillary non era mai arrivata a usare, perché era scomparsa prima che imparasse a scrivere.
La chiave bianca. Pensò Leyla. La chiave bianca di pezza per aprire la porta rossa. E allora tutto fu molto più chiaro; si mise in piedi mentre fuori il vento si alzava e i tuoni si facevano via via più vividi, e si intervallavano ai primi lampi.
Stava per piovere, invece quel giorno nevicava. Neve bianca. La neve rossa era venuta solo dopo.
Camminò fino a raggiungere il proprio letto, poi si chinò, e tirò fuori da sotto il bauletto impolverato: quasi non ricordava più che si trovasse lì e, soprattutto, aveva dimenticato quel che c’era dentro; o per lo meno non ricordava una parte di ciò che c’era dentro. Perché sapeva che lì erano contenute le fotografie di quando era bambina, ma ormai aveva cancellato Hillary dalla sua memoria, come se non fosse mai esistita. Come se non avesse mai avuto una sorella gemella.
Eppure da quel giorno non era mai più voluta andare a casa della zia; ricordò in quell’istante di essersene chiesta il motivo a un certo punto, quando a Natale era rimasta a casa con papà, anziché andare a Bonnyrigg con sua madre e Laurie. Si rese conto che non era stata in grado di rispondersi.
Ma come aveva potuto dimenticare?
Aprì lo scomparto, raccolse e accese la piccola torcia che teneva sempre a lato del letto e cominciò a guardare le fotografie. Ce n’erano alcune in cui erano piccolissime; in una erano sedute sul passeggino e portavano entrambe un cappellino ridicolo con i campanelli.
Erano sempre identiche, in ogni foto, tanto che Leyla fu certa che nessuno, forse a parte lei stessa e sua madre, avrebbe saputo distinguerle. Ma poi tutto cambiava nell’arrivare alle istantanee dell’ultimo anno di Hillary; lì lei aveva sempre con sé il topolino di pezza. Leyla ricordò che non se ne separava mai, non lo lasciava prendere nemmeno a lei, anche se facevano sempre tutto insieme ed erano tanto unite.
Guardò la bimba con i capelli biondi nella fotografia, quella che stringeva la mano all’altra bambina bionda identica a lei, e non poté trattenere le lacrime.
Leyla pianse non perché Hillary era scomparsa undici anni prima senza mai più essere ritrovata, ma perché si era dimenticata di lei. Aveva dimenticato di aver stretto la sua mano nella propria.
All’improvviso percepì una scossa e, chiudendo gli occhi e continuando a stringere il topolino di pezza, cominciò a vedere quelle immagini. Anzi, a rivedere.
Perché ricordava di aver già fatto quel sogno, tante volte, quando Hillary era appena scomparsa. Non ne aveva mai parlato con nessuno, perché non aveva mai capito ciò che vedeva e poi ne aveva sempre avuto paura.
 
C’era una bimba che vagava nell’oscurità: era lei. Sapeva di essere alla ricerca della sua sorellina, ma non aveva idea di come fosse arrivata lì né come avesse scelto di percorrere quella strada buia. Aveva paura, di questo era certa.
Sentiva il rumore dell’acqua sotto i suoi piedi; non acqua che scorre, ma acqua immobile che viene calpestata.
Le sembrava di sentire una voce in lontananza, ma non ne era sicura; era un suono lieve, impercettibile. Lei lo seguiva lo stesso, ma non era certa di sentirlo veramente. Forse voleva soltanto che quella voce ci fosse, perché questa sarebbe stata la sua speranza; la speranza di ritrovare Hillary.
Così camminava, non sapeva da dove venisse, né dove fosse diretta, ma procedeva passo dopo passo, un po’ lentamente e un po’ affrettandosi, sempre alla ricerca di quella voce.
Poi d’improvviso scoppiava l’urlo; era talmente forte che doveva coprirsi le orecchie con le mani per non diventare sorda. E quel grido durava tanto, sembrava infinito, per questo alla fine si lasciava cadere, sprofondando con le ginocchia nell’acqua.
Ma no, non era acqua. Se ne accorgeva in quel momento: era sangue.
Spaventata cercava di rialzarsi, invece vi cadeva dentro con tutto il corpo. Intanto l’urlo continuava, ma sembrava stesse volgendo al termine. La bimba piangeva, e si era macchiata i capelli biondi di sangue. Non riusciva ad alzarsi, così vi camminava dentro carponi, affondandovi le mani, ricevendone gli schizzi in viso.
Tratteneva il respiro perché quel sangue era orribile.
Leyla camminava nel sangue e seguiva l’urlo di sua sorella persa nel buio; ma poi l’urlo cessava e davanti a sé trovava solo un muro. A galleggiare nel sangue vedeva il topolino di pezza; ed era bianco, non si era sporcato. Il topolino di pezza di Hillary, la chiave bianca. Lo prendeva in mano e se lo stringeva al petto; non sapeva perché, ma ripeteva “Voglio venire da te. Sarò presto da te. Voglio venire da te. Sarò presto da te.”e mentre lo faceva teneva gli occhi chiusi.
Quando finalmente li riaprì si trovava tra la neve, non lontano da casa della zia, dove aveva visto Hillary per l’ultima volta.
Stava nevicando come il giorno della sua scomparsa. C’era tanta neve al suolo e altrettanta ne cadeva dal cielo.
Era in quel momento che cominciava a scendere la neve rossa: era fitta fitta, copiosa, quasi impediva che si vedesse nient’altro. Cadeva tutta ai suoi piedi.
Leyla la guardava impotente, senza sapere cosa fare o cosa stesse accadendo.
La neve rossa scendeva senza sosta, fino a quando formò l’immagine di una porta chiusa sul manto bianco che ricopriva il terreno.
La bimba bionda non seppe perché, ma le venne in mente subito il topolino di pezza. Si guardò le mani, ma il pupazzo di sua sorella non c’era più.
 
Era in quel momento che si svegliava sempre; ora lo ricordava bene. Era andata avanti a fare quel sogno per mesi, poi si era dissolto quand’era arrivata l’estate. Infine l’aveva completamente dimenticato.
Ma in quel momento la sua memoria si era risvegliata e rammentava ogni cosa, anche ciò che era successo quel giorno innevato, vicino a casa della zia: lei e Hillary si erano allontanate senza permesso, un po’ come doveva aver fatto Laurie in giorno di Natale. Entrambe avevano cinque anni. Si erano messe a correre, non sapevano nemmeno loro perché, ed erano felici di seguire il canto silenzioso della neve bianca.
La casa di zia Sarah ormai non era altro che un puntino marrone in fondo alla loro visuale, però erano tranquille, perché ricordavano la via del ritorno.
Hillary le aveva proposto di fare una gara: avrebbero corso e chi delle due fosse arrivata prima all’albero in fondo sarebbe stata la vincitrice; aveva vinto Hillary, perché Leyla era caduta sulla neve e quindi rimasta indietro.
Così Leyla aveva dovuto fare penitenza: sarebbe stato il suo turno della conta a nascondino. A Hillary toccava solo nascondersi.
Così aveva cominciato a contare. Fino a cinquanta, aveva insistito Hillary, altrimenti non avrebbe avuto tempo.
Si era appoggiata a un albero con il braccio destro e su di esso aveva nascosto gli occhi: lei era leale, e non sbirciava mai. Non accelerava nemmeno la conta per cercare di vincere.
Leyla preferiva perdere che giocare sporco.
Infine era arrivata a cinquanta; aveva cominciato a cercare sua sorella, ma non la trovava da nessuna parte. All’inizio l’aveva trovato divertente, ma poi aveva cominciato a spaventarsi, perché Hillary non uscì nemmeno quando lei si mise a piangere pregandola di farsi vedere.
Era stato quando la paura aveva preso totale possesso di lei che le era parso che il vento volesse sospingerla via di lì; così era scappata correndo a perdifiato.
Corse veloce fino a casa di zia Sarah, ad avvertire la mamma che non aveva idea di dove fosse finita Hillary. Da quel giorno non l’aveva mai più rivista.
Tra le lacrime lasciò cadere a terra la fotografia delle due bambine bionde e strinse a sé più forte il topolino di pezza. White key. La chiave bianca. La chiave di pezza.
Pensò che avrebbe dovuto chiamare Jamie.
 
III
 
JAMIE
 
Avendo ricordato tutto le era anche venuto in mente che lei aveva lavorato al caso undici anni prima; perché prima di trasferirsi a Edimburgo aveva vissuto a Bonnyrigg e aveva fatto parte della polizia locale. Era ancora una poliziotta, ma la capitale le offriva maggiori opportunità per la sua carriera.
In quel momento sedevano insieme a un tavolino del Beetlejuice (come il film di Tim Burton), piccolo caffè in Saint Nicolson Street, a sud della città, situato nella zona universitaria.
Leyla sorseggiava un frullato che senza dubbio non avrebbe finito, mentre l’altra aveva davanti a sé una tazza di caffè fumante.
Jamie Fullmoon era sempre stata una grande amica di sua madre, per quel motivo si era interessata tanto al caso di Hillary quando questa scomparve.
Leyla la conosceva bene: le era sempre stata molto vicina, e aveva anche vestito i panni di madrina alla sua cresima.
Per questo aveva scelto di parlarne con lei. L’idea di dire tutto a sua madre non le era nemmeno passata per la testa: lei non parlava mai di Hillary, probabilmente sarebbe stato troppo doloroso.
Aveva finito per accettare la sua scomparsa e la sua ormai più che probabile morte, e forse rientrare in argomento sarebbe stato devastante per lei; Leyla non voleva sconvolgerla e non voleva nemmeno spaventare Laurie.
Quella questione riguardava soltanto lei, e lei l’avrebbe portata fino in fondo, e nel caso non fosse poi giunta a niente, non avrebbe dovuto dare spiegazioni o delusioni a nessuno.
Hillary era affar suo. Era certa però che qualcosa avrebbe trovato, perché qualcosa, dopo tutto quel tempo, si era finalmente risvegliato.
E poi aveva la chiave, finalmente. Mancava solo da trovare la porta rossa.
-Come mai non l’hai mai raccontato a nessuno?- domandò la donna castana che guardava in viso la ragazza seduta di fronte a lei attraverso il fumo proveniente dal suo caffè.
Leyla teneva tra entrambe le mani il topolino di pezza.
-Ero piccola, e ciò che sognavo mi faceva paura; e poi non credevo avesse realmente un significato- fece una pausa e sospirò -credevo fosse solo … un sogno. Un semplice sogno-.
-E lo credi ancora?-
-No, ora sono certa che ci sia qualcosa di più-.
Leyla strinse forte le dita attorno al topolino di pezza fino a farsi sbiancare le nocche; lei e Jamie si trovavano lì da circa venti minuti e la ragazza, dopo aver mostrato alla sua confidente di quel pomeriggio il piccolo tesoro ritrovato da Laurie, le aveva raccontato fin nei minimi dettagli il sogno che faceva sempre da bambina e che associava senza dubbio alla scomparsa di Hillary.
Jamie l’aveva ascoltata senza battere ciglio. Mentre parlava, Leyla si chiedeva se l’amica più grande (ben più grande, ma sempre amica) avrebbe creduto che esistesse un collegamento reale tra il sogno e quel che era successo veramente. Dal suo sguardo e dalle poche parole che aveva appena pronunciato, pareva di sì.
-Ne sono sicura anch’io- la conferma della propria ipotesi risollevò l’animo e il morale di Leyla: se Jamie non avesse saputo vedere lontano non ci sarebbe stata speranza di giungere a capo di quella storia ancora sepolta sotto la neve. Perché la neve non cancella, ma ricopre e nasconde, e può celare a fondo.
-Penso che attraverso quel sogno sempre uguale Hillary cercasse di richiamarmi, di condurmi a lei, ma io ho preferito ignorare i suoi richiami. Allora ero troppo piccola, e anche se avessi provato a fare qualcosa non sarebbe servito a niente, ma ora devo fare qualcosa, Jamie. Devo, anche se Hillary è morta. Perché non sta riposando in pace, lo sento. E ne avrebbe bisogno. Tu mi aiuterai?-. Nonostante la forte emozione causatale dalle sue stesse parole, Leyla guardò serafica negli occhi dell’altra. Era decisa più che mai a spingersi fino in fondo, doveva dare a Hillary la pace che le spettava e sapeva di volerla regalare anche a se stessa.
Anche se lei aveva dimenticato sua sorella per tanti anni.
-Io sono disposta a fare qualunque cosa per te, Leyla, lo sai, e anche per Hillary e per tua madre- riprese l’altra in un sorriso incoraggiante -ti aiuterò, ma tieni presente che non lavorando più a Bonnyrigg non mi sarà possibile accedere all’archivio del caso. Potrei richiederlo da qui, ma inizierebbero fin da subito le domande a raffica e non posso certo dire che la sorella gemella di una bambina scomparsa più di dieci anni fa ha trovato un pupazzo che crede le appartenga, e all’improvviso si è anche ricordata di un sogno che faceva da piccola e che crede la aiuterà a scoprire cos’è successo all’altra bambina. Capisci, non è vero?- concluse.
-Sì, lo so. Ma non ti preoccupare, non volevo che mettessi in mezzo la polizia, sono sicura che loro non troverebbero niente. Anzi, forse ci intralcerebbero-.
-Vuoi che ce ne occupiamo solo noi due?-
-Sì. Tu ricordi qualche dettaglio del caso?-.
Jamie aggrottò la fronte e strinse le labbra mentre si sforzava di ricordare: -Allora, tua sorella è scomparsa il tredici febbraio del 2001, giusto? Stavate giocando insieme non lontano dalla casa di vostra zia a Bonnyrigg e all’improvviso tu non l’hai vista più-. Leyla annuì.
-Mi ricordo che abbiamo interrogato tutti nella zona, ma nessuno aveva visto una bambina che corrispondesse alla descrizione di Hillary aggirarsi da quelle parti, d’altra parte non doveva esserci nessuno nelle vicinanze- Jamie fece una pausa e deglutì a fondo, conscia lei stessa della probabilità che le cose fossero andate diversamente.
-Nemmeno tu hai visto nessun altro nei dintorni, no?-.
-Io non ricordo di aver visto nessuno, Jamie, ma se mi fossi sbagliata? Se qualcuno ci fosse stato? Magari questo qualcuno si era appostato da qualche parte, nascosto, pronto a fare la sua mossa quando fosse stato il momento-; Leyla si sentiva certa di quel che aveva appena detto. Non aveva visto nessuno quel giorno, ma non aveva dubbi sul fatto che lì sulla neve, oltre a lei e a Hillary, ci fosse stato qualcun altro. Ne era sicura per via del sangue nel sogno.
-Può darsi- sospirò Jamie -in ogni caso non abbiamo mai trovato alcun sospettato- e detto questo la donna concentrò il suo sguardo sul topolino di pezza che Leyla stringeva tra le mani.
-Quello lo aveva con sé quel giorno, ovviamente- costatò sebbene lo sapesse già; ma la sua voleva essere più l’inizio di una riflessione che una vera e propria affermazione.
Leyla si limitò ad annuire.
-Tu al tempo dicesti di averla cercata per un po’, non hai visto in giro il pupazzo?-
-No, da nessuna parte-
-Forse, quando Laurie l’ha trovato si è spinta più avanti; forse anche Hillary si era allontanata un po’ di più ed è lì che l’ipotetico lui potrebbe averla presa-.
La ragazza abbassò a propria volta lo sguardo sul vecchio pupazzo della sorella perduta. La chiave bianca. La chiave di pezza.
-Sì, credo che possa essere andata così- rispose più bianca in volto -noi stavamo giocando a nascondino, e dato che i posti per nascondersi non erano molti è facile che Hillary si fosse allontanata. Senza volere deve essere finita in una zona più isolata, così se è stata presa e la chiave le è caduta di mano, questa ha avuto tutto il tempo di ricoprirsi di neve. Quando poi la neve si è sciolta le ricerche si erano già interrotte. E nessun altro deve averla notata prima di Laurie-.
Leyla iniziava a sentire più freddo di quanto non ne facesse all’interno del locale. Era ancora così strano aver ripescato dopo tanto tempo quell’argomento; ma ciò che c’era di più sconvolgente non era il fatto di averlo ricordato, bensì di averlo dimenticato per così a lungo.
-La chiave?- domandò subito Jamie stranita.
-Come?-
-Hai detto che Hillary ha perso la chiave-. Leyla si accorse solo in quel momento di ciò che aveva detto poco prima.
-Intendevo il pupazzo- guardò di nuovo il topolino di pezza -credo davvero che la chiave sia lui- fece indirizzando un sorriso malinconico all’amichetto inanimato di Hillary; Jamie parve capire senza troppe difficoltà.
Le due si scrutarono per qualche istante negli occhi; Leyla vedeva la costernazione in quelli di Jamie, e forse anche un po’ di timore, questa vedeva solo la determinazione in quelli della ragazza. Eppure aveva paura anche lei. Una paura dannata.
-Leyla, sei sicura di voler venire con me a Bonnyrigg?-
-Sì. Lo devo proprio fare-
-Va bene. Ti faccio sapere domani quando possiamo andare-.
Leyla assentì con il capo -fai in modo che sia al più presto possibile- asserì -vedrai che sarà questione al massimo di due o tre giorni, non di più- la tranquillizzò l’altra.
Poi calò il silenzio per qualche istante; un silenzio in cui si udiva soltanto il brusio di sottofondo provocato dagli studenti, avventori del locale.
Fu Jamie a spezzarlo: -Non vuoi davvero che tua madre sappia nulla?- domandò sottovoce, quasi l’amica Samantha fosse nei paraggi e rischiasse di sentire.
Leyla scosse la testa.
-Assolutamente no! Mia madre non deve saperne niente, la angoscerebbe soltanto. Le diremo che mi porti a fare una gita di qualche giorno prima che finiscano le vacanze della scuola; non le diciamo neanche che andiamo a Bonnyrigg, altrimenti capirebbe qualcosa, perché io, dopo la scomparsa di Hillary, non sono più voluta tornarci-.
Jamie le sorrise e sorseggiò il suo caffè.
-Se è quello che vuoi. Anche se ti confesso che ho un po’ paura: tu sei minorenne e così dovrò prendermi tutta la responsabilità …-.
-Non preoccuparti- la interruppe la ragazza -non mi allontanerò mai da sola e faremo tutto insieme. Sarò prudente al massimo: voglio scoprire la verità su mia sorella, non mettermi nei guai-.
Jamie sembrò subito più sollevata da queste parole e dalla cauta valutazione che Leyla si proponeva per le sue azioni.
-Allora siamo d’accordo, domani ti chiamo per dirti tutto. Tu comincia ad accennare a tua mamma della nostra gita- affermò simulando le virgolette con le dita nel pronunciare l’ultima parola.
Jamie terminò il suo caffè; Leyla aveva ancora davanti a sé quasi tutto il frullato.
-C’è altro inerente a questa storia?- chiese improvvisamente la donna. Fu una domanda che non seppe spiegare nemmeno a se stessa perché le venne in mente; forse era stato per via dell’espressione velata negli occhi di Leyla: Jamie aveva idea che le premesse dire ancora qualcosa, ma che non trovasse il coraggio di farne parola. Fu in quel momento che il brillio della paura si notò chiaro immerso nella coltre illimitata della determinazione. Un po’ come la coltre di neve che nasconde ma non cancella.
Subito dopo Leyla abbassò lo sguardo e fu con voce tremante che riprese a parlare: -Ho fatto un nuovo sogno stanotte, erano così tanti anni che non succedeva più. Io ho ricordato le immagini di quello che facevo da bambina, ma non ricordavo che fosse così spaventoso-.
Jamie allungò la mano fino a quella della ragazza (che ancora si stringeva attorno al topolino di pezza), e intrecciò le dita con le sue.
-Che cosa hai sognato?- le domandò pacatamente e visibilmente interessata.
-Credi sul serio che questi sogni, - quello che facevo da piccola e questo di ieri notte - abbiano a che fare con la vera sorte di Hillary? Lo credi davvero?-.
-Non potrebbe essere altrimenti, Leyla. Ci credo perché è chiaro che non è solo il dolore per aver perso tua sorella a spingerti a fare quei sogni; ci credo perché sono certa che non sia stato un caso che proprio Laurie abbia trovato quel pupazzo; e non in ultimo, ci credo perché tra i gemelli esiste sempre una sorta di empatia e telepatia un po’ speciale. Come hai detto anche tu: Hillary tentava di chiamarti allora, ed è quello che ha ripreso a fare ora-.
Leyla allora si fece coraggio e iniziò a raccontare il suo sogno di quella notte. Non seppe per quale motivo, ma per sentirsi più tranquilla, mentre ne rivangava le immagini, volle pensare intensamente a Laurie.
-In questo sogno non ero più una bambina, ma sono come adesso. Mi trovo dove ho visto Hillary per l’ultima volta; o almeno, credo che sia così, non sono sicura: alla fine è un posto completamente innevato dove non esiste nient’altro. Comunque so che la sto cercando.
Questa volta ho già in mano il topolino di pezza ed è come se fosse questo a condurmi da qualche parte. Sento che mi sospinge, ma mi sembra di non far altro che girare in tondo.
Non ho visto sangue, almeno non come le altre volte, né ho sentito urla, ma è stato un sogno spaventoso lo stesso, perché avvertivo un’angoscia terribile, forse perché ero certa che non avrei trovato niente; e poi perché sapevo che c’era qualcuno che mi spiava, solo che io non lo vedevo.
Ma qualcuno c’era, te lo assicuro.
-Continuavo a camminare, intanto nevicava sempre più fitto. Poi c’era quell’oggetto che appariva all’improvviso, dal nulla, e se ne stava fermo a mezz’aria, come se fosse appeso a una parete invisibile-.
Jamie lasciò la mano di Leyla e intrecciò le dita della destra con quelle della sinistra e le pose pesantemente sul tavolo, di fronte a sé.
-Che oggetto?-
-Era uno di quei … cosi. Hai presente quei sole-luna da parete, fatti di legno, di terracotta, o che so io?- Jamie annuì -ecco, era uno di quelli: era completamente blu, e pendeva nel nulla, ma era immobile, per questo dico che sembrava fosse appeso a un muro invisibile-.
Leyla si fermò un istante per bere un sorso del suo frullato, ma fu più per riprendere fiato un attimo che per reale voglia di farlo. Jamie le fece allora cenno di continuare.
-Io l’ho guardato. Sembrava che il topolino volesse condurmi proprio lì, da quel sole-luna, ma quando ho tentato di toccarlo questo ha cominciato a gocciolare e a dissolversi. Ora: so che ho detto che era blu, ma non so perché, mentre si scioglieva, si disfaceva in gocce rosse, sembrava sangue, e forse lo era- la ragazza rabbrividì al suono delle proprie parole e anche Jamie sembrò farsi più bianca in viso. Entrambe temevano di sapere che quello fosse il sangue di Hillary, versato chissà come.
-Alla fine si è sciolto completamente e indovina cos’è andato a formare a terra?-
-L’immagine di una porta rossa?-
-Esatto. E quando ho alzato lo sguardo al cielo ho visto che anche la neve che cadeva si era fatta rossa. A quel punto sono tornata a guardare a terra, verso la porta rossa fatta di sangue; mi sono piegata sulle ginocchia e, guardandoci dentro, non so perché ho visto il mio riflesso, ma l’immagine che vedevo era quella di me bambina-.
Le dita di Leyla in quel momento si strinsero con tutta la loro forza intorno al topolino di pezza; e tremarono.
-E in quel riflesso ho visto anche qualcun altro: un’ombra indistinta, ma l’ho vista chiaramente, e so che era dell’uomo nascosto che sentivo che mi osservava- deglutì rumorosamente -mi sono spaventata ed è stato allora che mi sono risvegliata-.
Leyla alzò quindi lo sguardo su Jamie che la osservava sinceramente scossa.
-Leyla, io non so se riusciremo a trovare qualcosa andando a Bonnyrigg, ma sono sicura che hai ragione: c’era qualcun altro lì con voi quel giorno, qualcuno che ha portato via Hillary mentre tu non guardavi, o forse quando lei si è allontanata quel tanto che bastava perché tu non la sentissi più. Spero che questo viaggio ci porti a qualcosa- affermò in un sospiro; ma fu un sospiro risoluto.
-Lo spero tanto anch’io- rispose Leyla nello stesso modo.
Infine le due si salutarono. Jamie offrì alla ragazza il suo frullato, anche se questa l’aveva lasciato quasi intero.
Leyla tornò a casa sotto la pioggia scrosciante. Si infradiciò da capo a piedi, perché non aveva con sé un ombrello. Non che a Jamie fosse toccata una sorte migliore: quel pomeriggio si era diretta a piedi al Beetlejuice, e anche lei aveva un bel pezzo di strada da percorrere prima di raggiungere casa sua. Avrebbe avuto modo a sua volta di farsi una bella doccia naturale.
In quanto a Leyla, nonostante il notevole scroscio d’acqua, avanzò lentamente, stringendo forte tra le mani il topolino di pezza di Hillary. White key. La chiave bianca. La chiave di pezza.
Era più risoluta che mai ad accogliere e ascoltare il richiamo di sua sorella che finalmente tornava a farsi sentire. Leyla aveva bisogno di sapere; che Hillary fosse morta ne era ormai quasi sicura (e quel “quasi” era dato solo dalla speranza propria di una sorella), ma doveva sapere ugualmente, perché ne avevano bisogno tutti.
Anche sua madre, in fin dei conti; forse lei non voleva riaprire vecchie ferite e preferiva dimenticare, così come aveva fatto anche la figlia fino a quel momento, ma poi, sapere la verità, forse l’avrebbe aiutata a rassegnarsi e a potersi così concedere il beneficio di pensare a Hillary senza timore.
Perché Leyla ne era certa: erano undici anni che sua madre faceva di tutto per non rammentare la figlia scomparsa. Voleva cancellarla dalla memoria e dal cuore, non solo perché così sarebbe stato più semplice andare avanti, ma anche perché faceva meno paura.
Leyla aveva avuto paura nei suoi sogni e sapeva perfettamente che era sempre preferibile rifuggire quel sentimento.
Sotto la pioggia Edimburgo si fa ancora più fredda e misteriosa; in quell’istante pareva che la città sussurrasse qualcosa, ma doveva essere solo il vento.
Eppure le grandi strade intrecciate a quelle più piccole, le sue costruzioni antiche mescolate a un tocco improvviso di modernità, sembravano tutte possedere una voce.
Ma forse la voce esisteva solo nella sua testa e le diceva di farsi forza, di affrontare l’ostacolo più difficile della sua vita, perché dopo, e di questo la voce era sicura, sarebbe stato tutto migliore.
 
Arrivata a casa, Leyla andò in camera sua a togliersi di dosso i vestiti bagnati, che cambiò con una tuta rossa, poi si asciugò i capelli.
Più tardi accennò a sua madre della gita che si apprestava a fare con Jamie e quando la donna le domandò dove si sarebbero dirette, lei rispose che l’altra le aveva detto che sarebbe stata una sorpresa. Samantha non si era stupita di quelle parole della figlia: Jamie era sempre stata presente nella vita di Leyla e non era nemmeno la prima volta che la portava con sé da qualche parte durante le vacanze. C’era sempre stata affinità tra le due, fin da quando Leyla era bambina.
Fu soltanto dopo aver cenato e prima di andare a letto che la ragazza si decise a entrare nella cameretta della sua sorellina; non voleva che sua madre sapesse nulla, ma sentiva di dover dare qualche spiegazione a Laurie. In fondo era stata lei a trovare il topolino di pezza. La chiave di pezza.
-Ehi, piccola. Dormi di già?- iniziò a bassa voce quando, entrando, trovò tutte le luci spente.
-No. Vieni un po’ qui con me?- rispose la piccola. Leyla si mosse e si infilò sotto le coperte con Laurie; la abbracciò forte.
-Laurie, ti devo dire una cosa- riprese a bassa voce, -ma è una cosa che non devi dire a nessuno, d’accordo. La sapremo solo noi due in questa casa-.
-C’entra con il topolino?-
-Sì-
-Sai di chi è, vero Leyla?-
-Sì, lo so-.
Seguì qualche istante di oscuro silenzio. Ma a Leyla, in quel silenzio, sembrava di sentire qualcosa che gocciolava. Qualcosa di rosso, sangue o neve che fosse.
-Di chi è?- le chiese allora la bambina, non avendo ricevuto nessuna spiegazione esauriente.
Leyla la strinse più forte tra le braccia.
-Laurie, tu non lo sai, ma prima che tu nascessi, quando io ero piccola, avevo un’altra sorellina. Si chiamava Hillary, eravamo gemelle. Il topolino è suo, lo portava sempre con sé.
-Un giorno, mentre eravamo da zia Sarah a Bonnyrigg, eravamo fuori a giocare e lei è sparita. Non è mai più stata ritrovata- Leyla baciò la fronte della sorellina -ora che tu hai trovato quel pupazzo so di poter scoprire quello che è successo, per questo andrò a Bonnyrigg con Jamie-.
-Nevicava quel giorno?- domandò Laurie dal nulla; Leyla si stranì e sobbalzò a quelle parole.
Come faceva la bambina a saperlo?
-Sì, ma tu come lo sai?- le chiese con voce tremante.
-Perché io ho visto una bambina-
-Una bambina? Dove?-
-Nella neve, mentre sognavo. È stato dopo che ho trovato il topolino e stavo tornando a casa con la mamma: ho sognato che ero sulla neve e sentivo una bambina che mi chiamava, mi diceva che dovevo cercarla, scavare. Così ho scavato nella neve e alla fine l’ho trovata: era bionda, vestita di verde, ma non mi ricordo la faccia. Poi è sparita e ha cominciato a scendere la neve rossa-.
La neve rossa.
-La neve rossa ha formato una porta?- riprese Leyla sconvolta -no, quando ho visto la neve rossa mi sono svegliata-.
-E il topolino? Lui c’era?-
-Sì, ce l’aveva la bimba bionda-.
Laurie si pose supina, poi prese nella sua la mano più grande della sorella.
-Leyla, spero che la trovi quella bimba- esclamò sottovoce -ma posso chiederti una cosa?-; la sorella diede il suo assenso.
-Se quell’altra sorellina non si perdeva, tu adesso mi volevi bene lo stesso, come ora?-.
Leyla sorrise nell’oscurità -Non sarebbe cambiato niente, mai. Sei la mia sorellina e ti avrei voluto tantissimo bene in ogni caso, proprio come ora- e detto questo le baciò di nuovo la testa.
 
Jamie chiamò quella sera stessa: erano già le undici e mezzo quando il cellulare di Leyla squillò.
Le disse che sarebbero potute partire già l’indomani pomeriggio.
 
IV
 
LEYLA
 
Alle ore sedici di martedì tre gennaio, Jamie e Leyla si trovavano già a Bonnyrigg. Quella partenza inaspettatamente anticipata era avvenuta perché la prima si era messa in contatto con un suo vecchio collega residente nella cittadina, un certo Josh Scott, che aveva offerto loro ospitalità.
Sembrava che lui e Jamie fossero stati molto amici, insomma, se la fossero intesa a meraviglia quando lei aveva lavorato con lui al distretto.
Pareva anche che Josh vi lavorasse ancora. E questo avrebbe permesso loro di mettere anche mano all’archivio senza incorrere in scomode intromissioni.
Appena arrivarono, Leyla fu subito colpita dall’uomo che aprì loro la porta: era alto, dall’aria schiva e misteriosa anche quando mostrava il suo più largo sorriso. Aveva occhi e capelli neri, un perfetto ovale del viso e grandi mani che sembravano molto forti.
Josh e Jamie si salutarono con un abbraccio di sincera gioia di rivedersi, e Leyla si sentì arrossire fino alla punta dei capelli quando lui le porse la mano e le propose uno dei suoi misteriosi sorrisi.
Avvertì un tremito e una scossa che le percorse tutto il braccio, fino alla spalla, quando Josh le strinse le dita nelle sue. Quell’uomo aveva fatto colpo su di lei fin dal primo istante: si sentiva persa e al contempo al sicuro accanto a lui, vulnerabile e turbata.
Il cuore le batteva all’impazzata quando gli posava gli occhi addosso, o quando era lui a farlo con lei, e sentiva che avrebbe voluto restare in quella casa in eterno.
Josh era fantastico.
Si sentiva avvolgere completamente dalla sua aura tenebrosa, dalla sua fragranza decisa. Era irrimediabilmente attratta da lui, anche se questo aveva già passato i trentacinque anni, mentre lei ne aveva soltanto sedici.
Leyla sapeva che avrebbe dovuto toglierselo dalla testa, anche perché lui non avrebbe mai considerato una ragazzina come lei; e dentro di sé sapeva che sarebbe stato meglio così.
Ma ciò che provò in quei momenti non volle dare ascolto alla parte più razionale di lei; le sue gote avrebbero continuato ad arrossire in sua presenza, i tremiti l’avrebbero invasa fino alle caviglie quando lui l’avesse sfiorata, anche involontariamente.
Dopo soli cinque minuti dal suo arrivo in casa Scott, Leyla quasi non ricordava più il motivo della sua visita. Si era lasciata catturare dall’ebano dei suoi occhi, e arrivò quasi a pensare che avrebbe voluto restare lì per sempre; con lui. Una piccola parte di lei, quella più impudente e folle, l’avrebbe desiderato sul serio.
Perché a Leyla sarebbe piaciuto davvero lasciarsi cullare tra le sue braccia; era certa che avrebbe incontrato una pace e una serenità infinite.
Ma sapeva anche che non era lì per quello: Leyla costrinse quelle sensazioni spiazzanti e quelle emozioni fortissime a relegarsi in un angolo, conscia di dover portare a termine il suo proposito di scoprire qualcosa riguardo a Hillary. Lo doveva a tutti, anche a Laurie, perché tutto quel mistero sarebbe rimasto sepolto sotto metri e metri di neve, probabilmente per sempre, se non fosse stato per lei. Finalmente esisteva l’opportunità, per l’intera famiglia, di saperne di più, di far luce su ciò che ormai era stato confinato nell’oblio e quella era una chance che Leyla non poteva assolutamente lasciarsi sfuggire.
Avrebbe fatto di tutto per Hillary, anche solo per darle pace.
Il cuore le aveva martellato prepotentemente nel petto quando Josh le aveva mostrato la sua camera: casa sua era piuttosto grande, le aveva raccontato Jamie mentre ancora si trovavano in viaggio e Leyla non aveva idea del tipo d’uomo da cui si stavano dirigendo, pareva che l’avesse ereditata dal nonno morto ormai da anni e, grazie al considerevole numero di stanze (non più di sei o sette a dire il vero, ma erano parecchie per un uomo che viveva solo), aveva deciso di ospitare a buon prezzo la gente di passaggio. Non che il suo fosse un vero e proprio albergo, ma ogni tanto riusciva a racimolare qualche utile monetina in più. Loro due, in ogni caso, le avrebbe lasciate alloggiare gratuitamente.
Doveva essersela intesa davvero bene con Jamie, pensò Leyla, e quando si trovò di fronte all’uomo che la turbava tanto sperò che tra lui e l’amica non ci fosse mai stato niente.
Mentre ancora erano in viaggio l’idea le era sembrata divertente, ma poi l’aveva trovata orrendamente fastidiosa. La solita parte di lei particolarmente impudente desiderava che Josh non dovesse mai frequentare nessuna donna. Anche se per Leyla fu subito difficile credere che una cosa del genere potesse accadere.
Mentre lo seguiva per il grande salone centrale, il corridoio che conduceva al vano-scala e in fondo al quale si scorgeva la porticina marrone dello scantinato, su per i gradini e infine al piano superiore, dove appunto si trovavano le camere (tutte vuote in quei giorni), Leyla si era ritrovata a domandarsi (e a immaginare), come sarebbe stato percorrere quei passi con un suo braccio intorno alle spalle, oppure stringendogli la mano. O direttamente tra le sue braccia.
Sapeva che tutto quello poteva essere soltanto un sogno, ma trovava che si trattasse del sogno più bello e affascinante del mondo.
Non riuscì ad alzare lo sguardo su di lui quando Josh le disse che era contento che lei e Jamie fossero sue ospiti e che in quella casa non avrebbe permesso loro di alzare nemmeno un dito per riassettare: loro dovevano solo mettersi a loro agio.
Quando infine Leyla si ritrovò da sola nella stanza si sentiva formicolare il corpo da capo a piedi; non sapeva se quella notte sarebbe riuscita a dormire sapendolo a poche pareti di distanza.
Ancora scossa e agitata, posò distrattamente la sua borsa contenente i vestiti per i giorni a venire su di una sedia posta vicino alla porta e andò a sedersi sul bordo del letto; subito la attrasse la statuetta che si trovava sul comodino: doveva essere in ceramica e raffigurava una donna e una tigre unite e avvinghiate nell’eleganza dei loro corpi. Sorrise pensando che avrebbe svolto volentieri il ruolo di quella donna, se Josh fosse stato la sua tigre.
Più tardi Jamie e Leyla furono accompagnate dall’uomo alla stazione di polizia di Bonnyrigg: Jamie gli aveva spiegato che stavano cercando informazioni su un vecchio caso, ma non aveva specificato di che cosa si trattasse, e gli aveva domandato il favore di condurle all’archivio. Era pur vero che Jamie stessa aveva lavorato, anni addietro, in quella centrale, ma era sempre meglio farsi precedere da qualcuno che fosse attualmente impiegato presso di essa per permettersi si scartabellare i documenti in santa pace.
Leyla si era sentita emozionatissima al pensiero di poter coinvolgere, seppur in maniera minima, anche l’uomo di cui si stava infatuando a gran velocità e, sebbene il pensiero costante di Hillary non l’abbandonasse e tenesse sempre con sé il topolino di pezza, non riusciva a non sentirsi felice ed estasiata per il solo fatto di averlo vicino. Lui era così misterioso, ma Leyla sperava di penetrare all’interno di quella tenebra e di scoprire qualcosa in più di lui. Qualcosa di certamente affascinante.
Non si era mai sentita così prima d’allora; a dire la verità, fino a quel momento, non si era mai innamorata di nessuno. Forse perché non era mai stata interessata ai ragazzi della sua età; Leyla cercava qualcosa di più: lei non voleva solo una storia come tutte le altre, ma anelava a ricevere protezione, sicurezza e a essere guardata con occhi che sapessero realmente leggerle dentro. Ma nonostante questo non avrebbe parlato a Josh di Hillary e non si aspettava nemmeno che durante quei pochi giorni di visita sarebbe nato qualcosa tra di loro.
Sperava solo di riuscire a conoscerlo, almeno un po’.
Per il resto si sarebbe sforzata di mettere da parte il batticuore (per quanto fosse possibile), e di concentrarsi sul vero motivo per cui si trovava lì.
Josh le aveva introdotte in caserma, dove tutti gli agenti presenti (tranne forse un paio, probabilmente entrati in servizio dopo il suo trasferimento) si ricordavano di Jamie e la salutarono calorosamente con baci, abbracci e battutine sulla sua promettente carriera nella capitale.
Leyla passò praticamente inosservata, ma a lei non importò più di tanto. Aveva in tasca il topolino di pezza e, stringendolo, aveva sperato che fosse realmente in grado di condurla da qualche parte. Perché la chiave doveva aprire la porta.
La porta rossa.
Lei e Jamie si erano poi dedicate allo sfoglio dell’archivio, questo senza Josh, che le aveva lasciate sole con la loro riservatezza. A dire la verità era stata Jamie a mettere le mani tra i vecchi fogli e tirare fuori senza difficoltà quelli inerenti al caso irrisolto di Hillary.
Leyla si concesse brevemente di aprire la cartelletta e di sbirciare le prime pagine: il nome Hillary Moores era scritto in alto, tra le generalità della bambina scomparsa. Sotto era stata allegata una sua foto. Di nuovo Leyla fu colpita dal disarmante senso di colpa per averla dimenticata per così tanto tempo. Forse, se avesse visto quella fotografia prima che Laurie avesse trovato il topolino di pezza che aveva sbloccato i suoi ricordi, avrebbe creduto di starne vedendo una di quando lei stessa era bambina. D’altro canto erano identiche, e in certi casi è più facile lasciare che la neve scenda e ricopra tutto. Non importa che non cancelli: a volte basta semplicemente fingere di non vedere perché qualcosa sparisca definitivamente. O almeno finché i vecchi scheletri non riemergono burlanti e pronti a rispedire indietro il malcapitato, convinto fino ad allora di aver superato tutto, di aver dimenticato.
Solo che Leyla non poteva realmente dimenticare, non più.
Aveva poi richiuso la cartelletta, decisa a leggerne il contenuto con attenzione più tardi, quando fosse tornata a casa di Josh (il suo adorato Josh), quando Jamie richiamò la sua attenzione.
Le mostrò dei fascicoli che aveva appena trovato, qualcosa di decisamente più recente rispetto al caso di Hillary: il primo recava le informazioni su una bambina scomparsa da circa un mese e mezzo, Mary Johnson, anche questa di cinque anni, di cui ancora non era stata rinvenuta alcuna traccia. Il secondo si riferiva a un caso chiusosi da poco: un uomo di nome Paul Gallant era stato arrestato il giorno sedici del mese precedente dopo essere stato sorpreso con, ancora tra le braccia, il corpo senza vita di Holly Fisher, una bambina di quattro anni scomparsa da casa da qualche giorno. Indagando sul conto dell’uomo si era appurato che questi aveva messo in atto diversi rapimenti di bambini, sia maschi che femmine, nell’arco di più di vent’anni e su tutto il suolo nazionale. Sembrava ormai certo che i minori in questione fossero destinati al commercio delle adozioni illegali.
Con Holly qualcosa doveva essere andato storto, fu il pensiero di Leyla mentre leggeva le deposizioni dell’agente incaricato al caso, forse la piccola si era ribellata e aveva tentato di scappare, per questo motivo il suo sequestratore si era sentito costretto a stringerle le dita intorno al collo fino a soffocarla. Doveva essere andata così.
Alla descrizione delle indagini facevano seguito le fotografie a esso correlate: quelle segnaletiche dell’assassino, della bimba strangolata, del furgone dell’uomo e della sua casa transennata dai nastri della polizia.
Fu l’ultima tra queste ad attrarre l’attenzione di Leyla: l’istantanea ritraeva la porta sul retro dell’abitazione. Era dipinta di rosso.
Leyla sussultò e istintivamente tirò fuori dalla tasca il topolino di pezza, che si strinse con forza al petto; in un attimo era sbiancata in volto.
La porta rossa. Era possibile che quella fosse la porta rossa che prendeva sempre forma nei suoi sogni? Deglutì rumorosamente e si impose di non iniziare a tremare.
-C’è la porta … la porta rossa- fece sconvolta, senza staccare gli occhi dalla fotografia -hai letto? Quest’uomo rapiva bambini da più di vent’anni e in tutto il paese, potrebbe essere stato qui quando è scomparsa Hillary- affermò decisa Jamie.
-E poi commerciava bambini per le adozioni illegali- riprese dopo qualche istante di silenzio. Leyla si sentì costretta ad alzare gli occhi su di lei.
-Quello della povera…- Jamie tirò verso di sé la cartellina e scorse velocemente il contenuto della prima pagina -Holly Fisher deve essere stato un incidente imprevisto, sai che cosa significa questo?-.
Leyla respirò a fondo prima di rispondere -che se per caso c’entrasse con la scomparsa di Hillary, lei potrebbe essere ancora viva, forse con un’altra famiglia- dedusse con il cuore in gola.
In quel momento spostò lo sguardo sulla vetrata che divideva la stanza dell’archivio dal resto della stazione di polizia e vide che Josh rivolgeva lo sguardo verso di lei. Quello sguardo tenebroso e affascinante. Si sentì scaldare il cuore nonostante l’idea sconvolgente che aveva appena formulato.
 
Dall’archivio riuscirono a sottrarre la cartelletta contenente i documenti relativi alla scomparsa di Hillary, e quella dov’erano riportate le indagini sul caso Paul Gallant, l’assassino della piccola Holly Fisher. Erano potute entrare in possesso del primo perché si trattava di un vecchio caso irrisolto e ormai gettato nel dimenticatoio (e perché Jamie era conosciuta al distretto, e le indagini le aveva eseguite lei a suo tempo, forse insieme a qualche altro collega), e del secondo perché ci stava lavorando lo stesso Josh.
Quando Jamie si era accorta del suo nome tra quelli degli agenti coinvolti nelle indagini gli aveva subito domandato la cortesia di portarsi via il fascicolo.
Leyla e Jamie avevano poi trascorso quasi tutto il pomeriggio a rileggerli entrambi e a discutere sulle loro impressioni: tutte e due si erano convinte che c’era una possibilità che Gallant, che aveva operato con i suoi rapimenti su tutto il suolo nazionale per più di vent’anni, fosse implicato anche nella scomparsa di Hillary. Ad animare Leyla e la sua convinzione c’era sempre quella foto: quella della porta sul retro dipinta di rosso. Forse quella era la stessa del sogno che appariva sulla neve.
Non trovarono particolari rilevanti riguardando le informazioni sul caso di Hillary; per lo meno niente che entrambe non sapessero già, nulla di significativo.
Dalla lettura approfondita del fascicolo su Gallant appresero che i bambini rapiti da quest’ultimo oscillavano da un’età compresa tra gli zero e i sei anni; Hillary c’era dentro.
Verso le sei Jamie andò a parlare con Josh, e quando tornò disse a Leyla che c’era qualche possibilità  che un paio di giorni dopo fosse consentito loro di incontrare il rapitore dei piccoli.
Mostrandogli la foto di Hillary, se davvero questa era stata presa da lui, forse avrebbero potuto saperne qualcosa di più; forse esisteva una possibilità di ritrovarla, e di ritrovarla viva.
A questo Leyla non aveva pensato, non l’aveva messo in conto. Questo era più spaventoso dell’idea di doverle solo concedere la pace. E poi, se Hillary era ancora viva, perché mai nei suoi sogni aveva sempre visto il sangue? E poi quell’urlo? Ma valeva comunque la pena provare, anche se, di certo, nel caso in cui Hillary fosse stata viva e avesse fatto parte di un’altra famiglia, non l’avrebbe più riconosciuta; o meglio, si sarebbe chiesta per quale motivo quella ragazza era totalmente identica a lei. Forse invece non avrebbe tardato a ricordare tutto; perché d’altra parte quei richiami nascevano da qualche parte e non di certo dalla totale inconsapevolezza.
Leyla si chiedeva cosa avrebbe significato per tutti sapere che Hillary era ancora viva: sarebbe stata un’emozione, sì, ma sconvolgente. In fondo l’intera famiglia si era ormai abituata alla sua assenza, e poi c’era Laurie, che non l’aveva mai conosciuta.
Come avrebbe reagito la bambina vedendosi piombare d’improvviso in casa quella nuova sorella mai vista prima, esteriormente uguale a quella che stava sempre con lei, ma che in fin dei conti era una perfetta estranea? Forse Hillary, dopo tutti quegli anni, sarebbe stata una sconosciuta anche per la stessa Leyla. Era stato più facile accettare l’idea che fosse morta da tanto tempo, in fondo era ciò che aveva sempre creduto, non la atterriva più di tanto.
Ma Leyla voleva sapere a ogni costo, per questo accettò di buon grado l’idea di incontrare Gallant per mostrargli la foto della sorellina scomparsa, nella speranza che questo la riconoscesse e svelasse loro qualcosa. Perché se era giunta fin lì dopo tutti quegli anni, a qualcosa doveva pur arrivare.
 
Quella sera lei e Jamie cenarono con Josh al grande tavolo della sala, accanto al camino scoppiettante; lui aveva preparato dell’haggis, dimostrando di essere anche un ottimo cuoco. Leyla mangiò con gusto e avidità, più perché il piatto tradizionale era stato preparato dalle grandi mani del suo adorato che per vero e proprio amore per la pietanza, ma la trovò comunque squisita.
Era emozionante per la ragazza permettersi di osservare Josh di sottecchi, quando questo si voltava per parlare con Jamie; quando invece posava lo sguardo su di lei o le rivolgeva qualche parola, abbassava gli occhi e fingeva di concentrarsi sul proprio piatto.
Ancora una volta, quella dispettosa parte di lei particolarmente impudente le urlava nella testa che sarebbe stato davvero magnifico poter restare lì per sempre. Avrebbe voluto provare in eterno quella sensazione di avvampo che dal petto le saliva in viso fino alla fronte.
Il formicolio che la invadeva al suo contatto visivo era quasi doloroso, ma al tempo stesso era assuefacente come una droga: Leyla non voleva rinunciarvi, voleva continuare a sperimentarlo ancora e ancora, finché avesse avuto vita.
Si sarebbe accontentata di annegare nei suoi occhi scuri in eterno, senza mai avere niente di più, le bastava poterlo avere accanto.
La sua priorità in quel momento era Hillary, e di scoprire qualunque cosa le fosse accaduta undici anni prima, ma voleva concedersi quella piccola illusione dolorosa e irrinunciabile, voleva goderne fino all’ultima goccia, perché sapeva che presto sarebbe svanita: in fin dei conti aveva a disposizione soltanto quattro giorni per restare a Bonnyrigg, perché sarebbe dovuta rientrare a Edimburgo in tempo per quando fossero riprese le lezioni.
Quattro giorni per scoprire qualcosa sul conto della sorella scomparsa.
Quattro giorni per drogarsi con il pensiero di un uomo che, razionalmente, non avrebbe mai dovuto infestarle la mente.
Quando si coricò nella sua stanza strinse forte a sé il topolino di pezza; sognò di nuovo Hillary.
Questa volta si vide da bambina, stesa insieme a lei in un letto ghiacciato ricoperto di neve. In mezzo a loro stava il topolino e i suoi occhietti neri si erano fatti scintillanti, come se non fossero più fatti soltanto di filo per cucire.
Le due bambine tremavano e si guardavano in viso. Nevicava su di loro; prima neve bianca, poi fu di nuovo la volta della neve rossa, e quest’ultima finì per ricoprire interamente Hillary fino, in qualche modo, ad assorbirla completamente in sé.
Quando la sorella non le fu più visibile, Leyla si alzò a sedere sul letto di neve e, guardando nel punto in cui Hillary si era trovata fino a pochi istanti prima, vide che si era venuta a formare la solita porta rossa. Alzò lo sguardo e, sopra di lei, aveva preso forma ancora il sole-luna blu; sempre fermo come se fosse affisso a una parete invisibile.
Tornò poi a guardare sul materasso gelido e scoprì che il topolino si era trasformato in una chiave. White Key. Quando la sollevò si accorse che non aveva cambiato la sua consistenza: era sempre fatta di pezza. L’avvicinò in quell’istante alla porta rossa scolpita dalla neve accanto a lei e la portò all’altezza della serratura. Entrò e girò due volte senza forzature.
Quando la porta rossa si aprì vide solo alcuni dei suoi capelli biondi.
 
V
 
PAUL GALLANT
 
 
Leyla si stava convincendo che il sangue che aveva visto più volte nei suoi sogni su Hillary fosse in realtà la trasposizione in immagini della sua paura che le fosse stato fatto del male. O si trattava di quello, oppure quel sangue doveva essere stato solo un simbolo, forse stava a significare soltanto che la bimba, con quell’uomo, aveva avuto paura.
Ci aveva pensato dopo aver nuovamente sognato di lei, e continuò a rifletterci per tutto il resto della giornata: forse Hillary era ancora viva da qualche parte, piano piano si stava abituando all’idea, per quanto ne fosse atterrita, e fremeva per l’impazienza di incontrare finalmente Paul Gallant faccia a faccia. Perché forse lui avrebbe saputo rivelare qualcosa, avrebbe saputo di più.
Esisteva davvero qualche possibilità che Hillary fosse finita tra le sue grinfie; ma i suoi erano artigli arrotondati, che facevano paura, ma che non potevano ferire a fondo, anche se questo non era valso per la piccola Holly Fisher.
Forse però con Hillary era andato tutto bene; forse lei non si era ribellata e il suo sequestratore non le aveva fatto del male.
In questo modo poteva essere finita tra le mani di una nuova famiglia, che forse le aveva anche voluto bene, rendendola un’estranea ai suoi occhi. Ma questo non le importava, non più di tanto, anche se il solo pensiero era spaventoso. Perché forse avrebbe lasciato Hillary tranquilla a vivere la sua vita, qualunque essa fosse, anche lontana da lei, ma sarebbe stata comunque felice di averla ritrovata, di sapere che, anche se non la riconosceva, la sua gemella stava continuando a vivere.
Forse in quel caso si sarebbe accontentata soltanto di vederla da lontano, anche se nemmeno lei stessa credeva a una fandonia simile: perché Leyla si era convinta che i sogni relativi a Hillary altro non fossero che richiami e quindi, in qualche modo, se sua sorella era ancora viva, doveva sapere della sua esistenza.
Eppure Leyla aveva già un’altra sorella; una sorella che la stava aspettando a casa.
In ogni caso non voleva andarsene da Bonnyrigg finché non avesse fatto luce su quella faccenda; e poi c’era Josh e, inutile negarlo, lui infestava di continuo i suoi pensieri, anche quando Leyla cercava di scacciare la sua immagine dalla mente.
E sentì un improvviso impulso di abbracciarlo quando, la sera del quattro gennaio, l’uomo informò lei e Jamie di avere ottenuto il permesso di far prendere parte a entrambe a un interrogatorio di Paul Gallant. Ovviamente si raccomandò con Leyla affinché questa si limitasse soltanto ad ascoltare e lasciasse che fosse Jamie a rivolgersi all’uomo.
Ancora una volta Josh avrebbe aspettato fuori perché, sostenne, non voleva intromettersi in questioni che non lo riguardavano. Affermò con calma e delicatezza che desiderava soltanto aiutarle rispettando la loro privacy; e Leyla lo amò ancora di più per quelle sue parole. Ovviamente la ragazza dovette trattenersi dal suo desiderio di stringerlo forte.
E l’incontro in centrale con Paul Gallant avvenne il giorno cinque, nel tardo pomeriggio.
Quella notte Leyla non era riuscita a dormire per l’agitazione, impedendosi così di tornare a sognare di Hillary. Eppure l’avrebbe voluto, perché forse avrebbe potuto conoscere qualche particolare in più; in quel modo non le restava che accontentarsi di ciò che già conosceva: la porta rossa, la chiave di pezza, il sole-luna blu di legno o terracotta, il sangue.
Già, quel sangue. Quello che forse era soltanto un simbolo o una sua suggestione negativa.
Comunque fosse, stava di fatto che aveva bisogno di saperne di più.
L’ansia si era accresciuta con il progredire della giornata, tanto che sia a colazione che a pranzo aveva fatto una tremenda fatica a ingurgitare il suo cibo; si era sforzata di inghiottire soltanto perché non voleva rischiare di essere vittima di un mancamento proprio nel momento decisivo.
Certo, un imprevisto del genere sarebbe stato quasi grottesco nella sua assurdità, però l’avrebbe irritata a morte. Così qualcosa aveva mangiato nonostante la mancanza d’appetito.
Infine, finalmente, l’ora prestabilita giunse.
Josh aveva fatto strada con la sua macchina alle altre due che lo seguivano con quella di Jamie a poca distanza. Era stata la donna (provocando una punta di stizza e fastidio in Leyla), a preferire che si avviassero separati al luogo dell’incontro: in auto voleva poter godere della riservatezza necessaria per parlare con la ragazza in santa pace, sia all’andata che al ritorno.
Soprattutto per quest’ultimo a dire il vero; perché forse, se qualche segreto fosse stato svelato, avrebbero avuto molto su cui discutere, come per esempio quale sarebbe stata la mossa successiva.
Anche perché, Leyla lo ricordava bene, dopo quel giorno ne aveva a disposizione soltanto altri due prima di essere costretta a tornare a casa per via della ripresa delle lezioni.
Lo ricordava perfettamente, ma non ci voleva pensare.
Aveva lo stomaco in subbuglio e il cuore a mille nel petto quando varcò la porta che poi le sarebbe stata richiusa a chiave alle spalle, che introduceva nello stanzino dell’interrogatorio.
C’era solo una piccola lampada da tavolo a illuminare l’ambiente e quell’artificiale fuoco arancione si rifletteva sul volto cupo dell’uomo ammanettato seduto a un lato della superficie di legno, e su di esso faceva nascere un’ombra spaventosa.
Tutto sembrava più oscuro di quanto fosse in quella stanza; in particolare l’espressione persa ma truce di Paul Gallant.
Come promesso, Josh era rimasto fuori dalla sala; sapeva che era meglio mantenere il silenzio sulla faccenda finché non fosse venuto a galla qualcosa di significativo, ma Leyla, o meglio la consueta e impertinente parte di lei più impudente, l’avrebbe voluto disperatamente accanto a sé. Perché permettersi di osservarlo e ricercare sicurezza nei suoi occhi l’avrebbe fatta sentire più a suo agio, più sollevata, meno terrorizzata.
Ma Josh era fuori, e Leyla doveva accontentarsi di Jamie. E doveva ricordare che a lei non era permesso rivolgere domande al carcerato.
Avrebbe soltanto osservato; e ascoltato.
Si sedette con Jamie di fronte all’uomo: barba incolta, capelli scarmigliati e sporchi, occhiaie, faccia scura. Le aveva fatto subito venire i brividi. Si era immaginata per un momento la sua sorellina, a cinque anni, in balia di quell’individuo orrendo e in quello stesso istante sperimentò la sua ipotetica paura. Si chiese anche perché aveva preso proprio Hillary e non lei.
-Paul Gallant, sono l’agente Jamie Fullmoon di Edimburgo, sono qui per rivolgerle alcune domande riguardo a un vecchio caso irrisolto svoltosi proprio  qui a Bonnyrigg, undici anni fa, nel quale, ho ragione di credere, sia implicato proprio lei- iniziò la donna decisa, lanciando alla ragazza un’occhiata rassicurante.
Leyla la incassò e apprezzò, ma avrebbe preferito riceverla da Josh; le avrebbe fatto certamente più effetto.
L’uomo che indossava la divisa carceraria alzò gli occhi vitrei ma cattivi su Jamie e la guardò intensamente per alcuni secondi. Anche se a Leyla diede più l’idea che non la osservasse realmente, ma le vedesse attraverso, come a una lastra di vetro.
-E mandano qui la polizia di Edimburgo per un caso così vecchio?-
-Sono qui in vesti non ufficiali, e comunque questi sono affari che non la riguardano- Jamie sosteneva fiera il suo sguardo; Leyla era certa che non avrebbe mai saputo fare altrettanto.
Leyla teneva gli occhi bassi e li alzava solo fugacemente, con timore; improvvisamente le era parso di essere tornata ad avere cinque anni. Era come se avesse preso il posto di Hillary quel giorno lontano. Le arrivava alle narici il suo odore sgradevole, quell’olezzo che sapeva di paura.
Paul Gallant ripose alla tenacia di Jamie con un grugnito, forse di disapprovazione.
-Lei veda soltanto di collaborare- aggiunse pacata mentre estraeva dal fascicolo che aveva con sé la fotografia di Hillary. Quell’immagine che subito causò un tuffo al cuore a Leyla; soprattutto perché, non appena l’uomo osservò i lineamenti della bimba della foto, posò subito lo sguardo su di lei.
-È lei?- domandò con voce gutturale facendo cenno a Leyla con il capo; la ragazza sussultò e per poco non si ritrovò a sobbalzare sulla sedia, o peggio ancora, ad alzarsi di scatto e a chiedere a uno degli agenti di sicurezza di aprirle la porta per lasciare la stanza. Non lo fece soltanto perché voleva sapere e perché Jamie fu subito pronta ad attrarre nuovamente l’attenzione dell’uomo.
Quanto avrebbe voluto però poter uscire e gettarsi tra le braccia di Josh. Quelle braccia forti che dovevano essere come il paradiso.
-Punto primo: qui le domande le faccio io, signor Gallant. Punto secondo: le ho già fatto notare che si tratta di un caso di sparizione irrisolto, quindi se quella foto raffigurasse la mia accompagnatrice non sarei certamente qui- esclamò la donna con freddezza.
Leyla sentiva il battito del suo cuore fin nelle orecchie e credeva che da un momento all’altro avrebbe smesso di respirare. Però voleva sapere; doveva sapere.
-La guardi bene- riprese quindi Jamie; l’uomo le obbedì e tornò a osservare la foto -ha mai visto quella bambina? Stiamo parlando di undici anni fa, quindi del 2001, si sprema bene le meningi-.
Paul Gallant mantenne gli occhi fissi sulla foto per più di un minuto, poi tornò a spostarli su Jamie. Dal suo angolo mentale che le fungeva da nascondiglio, Leyla notò che lo sguardo di lui sembrava più rilassato.
-Mai vista, no-
-Sicuro? Ci pensi bene-
-Una bimba così bella me la ricorderei- affermò e, detto questo, lanciò uno sguardo allusivo nei confronti di Leyla; il cuore della giovane saltò un battito.
Mentiva, si disse. Mentiva. L’aveva vista, l’aveva tenuta con sé e la ricordava benissimo.
Però forse il sangue c’era stato davvero; perché Hillary era una bella bambina e forse il mostro non aveva resistito. Forse lo faceva con le vittime dalle quali era attratto.
Forse era avvenuto lo stesso con Holly Fisher, per questo poi aveva dovuto ammazzarla. Non ricordava di aver letto informazioni inerenti alla violenza carnale nel fascicolo del caso, ma pensava che forse non ricordava bene. Avrebbe ricontrollato quando fosse tornata a casa di Josh. Il suo adorato Josh che si trovava fuori da quella porta.
-D’accordo. Allora mi sa dire dove si trovava il tredici febbraio di quell’anno? Visto che è in possesso di una così eccellente memoria da ricordare con tanta sicurezza chi ha visto o chi no, si concentri e risponda a questa domanda- Jamie non opponeva resistenza alle parole dell’uomo, ma aveva intenzione di andare fino in fondo.
-Il tredici febbraio del 2001?-
-Esatto-
-Allora vediamo … il tredici … il tredici febbraio … 2001-.
Leyla ebbe l’impressione che stesse cercando di prendere tempo.
-Risponda sinceramente. Con tutti i dati che sono stati raccolti sul suo conto non ci vorrà molto per venirlo a sapere di nostro- lo incitò Jamie.
-Sì … sì, mi pare che fossi qui a Bonnyrigg, anche se non sono sicuro che fosse proprio il tredici e non il quattordici. Vi consiglierei di andare a controllare- e detto questo Paul Gallant sfoggiò un disgustoso sorrisino ironico e sprezzante.
-C’è poco da fare dello spirito- riprese l’agente -se si trovava qui a Bonnyrigg, è un motivo in più per crederla coinvolto in questa scomparsa-. Lo sguardo di lui si fece torvo -ho detto che non ricordo se era il tredici o il quattordici- sbottò e la sua voce suonò talmente inquietante che gli agenti di sicurezza alla porta scattarono in avanti.
Jamie fece loro segno di desistere e lasciarla proseguire.
-Va bene, allora mi sa dire che cosa ha fatto questo famoso giorno tredici o quattordici?- domandò risoluta e per nulla intimorita. Al contrario Leyla si era presa un grosso spavento. Dentro di lei però cominciava a serpeggiare anche un altro sentimento oltre alla paura: la convinzione sempre più radicata che quell’uomo avesse a che fare con la sparizione di Hillary, che ricordasse tutto e stesse fingendo. Da qui scaturiva anche l’odio verso quest’ultimo.
Furtivamente aveva iniziato a farsi coraggio e ad alzare lo sguardo su di lui e stava cercando di leggergli dentro.
-Ero in affari con un tizio: un inglese, che mi pare si chiamasse Potter. Mi ricordo che avevo preso con me un marmocchio di due anni da quattro o cinque giorni e dovevamo incontrarci perché dovevo consegnarglielo- affermò sicuro.
Mente. Pensò Leyla con furore. Mente quel bastardo.
-E com’è che doveva incontrare un inglese proprio a Bonnyrigg?-
-Perché questo è un posto tranquillo e facile in cui operare, cara signora agente. Non si passano tanti anni in questo campo senza imparare quali sono i luoghi più sicuri per fare lo scambio tra merce e dindini- Paul Gallant sembrava ormai aver intrapreso la piacevole strada della canzonatura.
-A quanto pare però è stato proprio questo posto tranquillo a tradirla, o mi sbaglio?-
-Purtroppo gli imprevisti capitano-
-Già, vada a parlare di imprevisti ai genitori di quella bambina-.
L’uomo tacque e fermò le pupille su Jamie per diversi istanti. Leyla fu certa che la guardasse divertito, ma anche con un po’ di desiderio celato negli occhi. Probabilmente non avrebbe esitato ad approfittare di lei se ne avesse avuto l’opportunità.
-Sono qui per pagare per quello che ho fatto- riprese infine -ma non ho preso quella bambina, né l’ho mai vista in vita mia, ho solo notato che somiglia alla biondina qua, per questo chiedevo se fosse lei-.
Leyla a quel punto non ci vide più e si alzò in piedi di scatto, mandando al diavolo la sua parola di non fare niente e non aprire bocca. Il suo sguardo era furente e stringeva i pugni per la collera.
-Sì che l’hai presa tu, bastardo e te la ricordi anche bene- strillò.
Nel frattempo anche Jamie si era alzata dalla sedia e l’aveva presa per le spalle, cercando di calmarla e invitarla a ricomporsi.
-Te la sei anche fatta, vero? Anche se aveva solo cinque anni. E poi l’hai uccisa? Sì, forse sì, maledetto- e subito si fiondò in avanti, verso il tavolo.
-Cosa hai fatto alla mia sorellina, bastardo? Dimmi cosa le hai fatto!- urlò mentre le salivano le lacrime agli occhi.
Paul Gallant ebbe giusto il tempo di esclamare -è agitata la biondina!- che Jamie, spronandola a tacere, la stava conducendo fuori dalla stanza dell’interrogatorio.
 
Durante il viaggio di ritorno lei e Jamie avevano litigato. L’auto di Josh le precedeva di poco e la ragazza avrebbe preferito trovarsi sul sedile del passeggero accanto a lui, piuttosto che all’amica che in quel momento considerava una traditrice.
L’aveva accusata tra le lacrime di non aver fatto abbastanza, di aver dato troppo credito alle parole di Gallant. Perché lei sapeva che era colpevole, che mentiva, ma non aveva potuto provarlo; Jamie non era stata in grado di portare alla luce tutto ciò.
Dal canto suo, Jamie l’aveva rimproverata per non essere stata buona e in silenzio come aveva promesso di fare; le aveva anche dato della stupida, perché a causa del suo comportamento non le avrebbero certamente più fatte avvicinare al detenuto.
Leyla aveva contrattaccato dicendo che non le interessava vedere di nuovo quel delinquente bastardo, ma che voleva andare a casa sua, quella con la porta rossa sul retro (c’era la porta rossa, esisteva forse una prova più lampante?) perché voleva vedere se alla parete era affisso il sole-luna del suo sogno. Se l’avesse trovato avrebbe avuto la certezza di avere ragione riguardo al sequestratore di bambini.
Jamie però l’aveva disillusa subito, facendole notare che non poteva certamente immettersi in un luogo in cui si stavano svolgendo delle indagini; non le sarebbe mai stato premesso di entrare in una casa transennata, come le saltava in mente?
Leyla aveva risposto che per essere un’amica, Jamie non la stava aiutando affatto, anzi, non faceva altro che intralciare i suoi piani. Ripeté un’altra volta di voler accedere a ogni costo all’abitazione di Gallant, e di nuovo l’altra le aveva risposto con un no secco, rinfacciandole anche il fatto che forse avrebbero potuto fare di più se si fosse risparmiata la scenata di poco prima in centrale.
Da quel momento in avanti Leyla non le parlò più e non appena giunsero a casa di Josh non fece altro che correre nella stanza che le era stata assegnata e gettarsi a piangere sul letto.
Si rendeva conto che quel viaggio non l’aveva e non l’avrebbe portata a niente, lasciandola più disperata di prima. Perché se le cose dovevano andare così, se doveva convivere con la certezza di quello che era accaduto a Hillary, senza però avere la possibilità di dimostrarlo, allora avrebbe preferito continuare a non ricordare niente, a credere che Hillary non fosse mai esistita.
Sarebbe stato molto meglio.
Mentre sfogava nel pianto tutta la sua frustrazione aveva stretto a sé il topolino di pezza della sua sorellina scomparsa, quasi invocasse un nuovo segno, una svolta che imponesse a quel vicolo cieco una nuova prospettiva. Perché non riusciva ad accettare di essere andata fino lì per niente.
Le sarebbe bastato poter entrare a casa di Paul Gallant. Al diavolo le indagini in atto, lei non avrebbe toccato nemmeno un soprammobile; voleva soltanto guardare le pareti, vedere se c’era il sole-luna blu. Possibile che Jamie non capisse quanto per lei fosse importante?
Le sarebbe bastato trovare quel dettaglio e il quadro sarebbe stato completo; avrebbe avuto così la certezza che Hillary fosse stata tenuta prigioniera in quella casa e di sicuro, in quel modo, avrebbe trovato una soluzione che spingesse quell’uomo a confessare.
Se invece non l’avesse trovato (e Leyla dubitava che sarebbe accaduto), si sarebbe messa il cuore in pace, riconoscendo l’innocenza di Paul Gallant, e rendendosi conto che non c’era speranza di scoprire la sorte di sua sorella dopo tutti quegli anni e in così breve tempo.
Eppure doveva trovare qualcosa, perché lei finalmente aveva la chiave. La chiave bianca. La chiave di pezza. Le restava soltanto da aprire la porta rossa.
Fu più tardi, oltre un’ora dopo che non volle scendere per consumare la cena, che sentì bussare alla porta. Credendo che fosse Jamie si voltò su un fianco infastidita e non rispose.
L’uscio si aprì ugualmente.
-Si può?- fece dolcemente quella voce che subito la fece sussultare. Si mise a sedere frastornata mentre il cuore le batteva nel petto come una furia impazzita.
Josh, con stampato in viso il suo sorriso tenebroso, si stava avvicinando al letto.
Il cuore le saltò in gola quando si sedette sul materasso e la guardò negli occhi; quegli occhi arrossati per il pianto che la ragazza avrebbe preferito che lui non vedesse.
-Leyla, non voglio vederti soffrire- le disse accennando sul suo viso una delicata carezza. Leyla si sentì completamente invasa dai brividi. Era ancora abbattuta, ma avendolo così vicino si stava già sentendo meglio. Se solo avesse potuto restargli accanto anziché tornare a casa.
Non poteva pensare che mancassero solo due giorni.
Gli sorrise debolmente -non ti preoccupare- rispose poi con un filo di voce.
-So che è successo un mezzo pasticcio in centrale prima, anche se non ho capito bene cosa sia accaduto, visto che non so a quale caso tu sia legata- fece una breve pausa -non ti va di parlarmene?-.
Le sarebbe andato eccome, perché avrebbe voluto condividere tutto con lui, però sapeva che non era il caso, così si limitò a scuotere la testa.
-Voglio solo poter andare a casa di quell’uomo- iniziò, di nuovo sul punto di piangere -dovrei soltanto vedere una cosa, devo solo guardare le pareti- e detto questo strinse forte il pupazzo di Hillary.
-È  importante per te? Molto?-
-Sì, più di qualunque altra cosa- e Leyla lo guardò intensamente negli occhi, perdendosi nelle sue iridi nere come la notte. Una notte splendida.
-Hai detto che devi solo guardare una cosa? Non toccheresti niente?-
-No, devo solo guardare le pareti- ripeté. Lui la guardava stranito.
-Penso ci sia appeso un oggetto, voglio vedere se ho ragione- spiegò. Josh non sembrò capire, ma le sorrise lo stesso. Quel sorriso che riusciva a farla sentire bene.
Avrebbe soltanto voluto che restasse con lei in quella stanza per tutta la notte, o meglio ancora per sempre. Sì, perché no? Disse di nuovo la vocina impudente. Farlo quella notte con lui non sarebbe stato male, anche perché lei non voleva nessun altro.
-Io sto seguendo questo caso, lo sai, e domani devo trovarmi in casa di Gallant per proseguire le indagini- iniziò con calma -se vuoi puoi venire con me e guardare le pareti come desideri. Però devi promettermi che non toccherai assolutamente niente, nemmeno l’oggetto più insignificante-.
Leyla non poté credere alle sue orecchie. In un impulso dettato dalla gioia si lanciò verso di lui e lo abbracciò forte.
-Non toccherò niente di niente, te lo giuro, te lo giuro! Portami lì, ti prego!- esclamò tra le lacrime. L’uomo la rassicurò.
Lei lo ringraziò una, dieci, cento, mille volte e probabilmente l’avrebbe fatto in eterno se Josh non l’avesse allontanata da sé e, dopo averle sorriso di nuovo, non le avesse augurato la buonanotte.
A Leyla si strinse il cuore nel vederlo uscire dalla stanza, ma la gioia che provava all’idea dell’iniziativa di Josh era tanto enorme da renderla comunque felice.
Era certa che l’indomani avrebbe trovato il sole-luna del suo sogno appeso alla parete. Era certa che avrebbe fatto luce su tutta quella faccenda.
Sapeva, per altro, che da quella sera amava Josh ancora di più.
 
VI
 
LA PORTA ROSSA
 
Quella notte aveva fatto di nuovo il sogno del letto ghiacciato su cui lei si trovava insieme a Hillary; sopra di loro pendeva il sole-luna blu, poi scendeva la neve rossa che ricopriva la bambina scomparsa fino a inghiottirla. Il topolino di pezza che si era trovato in mezzo a loro per tutto il tempo si era tramutato in una chiave di pezza; con questa Leyla aveva aperto la porta rossa e, dentro, non aveva trovato altro che alcuni capelli di Hillary.
Il pomeriggio successivo era andata con Josh a casa di Paul Gallant, sicura che avrebbe trovato il sole-luna appeso a una delle pareti dell’abitazione, ma così non fu.
Cercò e osservò con attenzione, guardò più o più volte per essere sicura di non lasciarsi scappare nemmeno un frammento di muro, ma non scorse ugualmente l’oggetto che andava cercando e che avrebbe consolidato la sua tesi.
Era tornata a casa avvilita, distrutta e sentendosi tradita da se stessa, perché si rendeva conto che quel viaggio era stato totalmente inutile, che ormai Hillary era persa per sempre.
Si chiedeva anche come avesse potuto credere di risolvere il caso basandosi sulla forza dei suoi sogni, e per di più in così pochi giorni. Era stata una follia, un’inutile e tremenda follia, che le imponeva di doversi separare anche da Josh. Avrebbe perso per sempre anche lui.
Era vero che Bonnyrigg distava da Edimburgo non più di una ventina di minuti in auto, ma a quale scusa avrebbe potuto addurre per tornarci? Avrebbe dovuto dire qualcosa tipo mamma, la prossima volta che vai da zia Sarah vengo anch’io, ma prima vorrei passare a salutare un amico. Beh sì, un amico un po’ speciale che mi piace molto. Quanti anni ha? Mi sembra trentasette. No, non avrebbe sicuramente funzionato.
Le restavano soltanto quella notte e il giorno successivo per restare lì, non avrebbe mai concluso o scoperto niente. Era stata stupida a credere di poter trovare qualcosa, a pensare che bastassero i richiami di sua sorella per condurla alla verità.
Eppure Hillary la stava chiamando da qualche parte e per questo Leyla si sentiva una traditrice anche nei suoi confronti. Non era stata in grado di seguirla, di porre tutte le sue attenzioni sulla chiave di pezza. Aveva voluto fare d’istinto, di fretta, mossa dall’ansia di arrivare a qualcosa al più presto, convinta che la soluzione fosse a portata di mano.
Ma si era solo impuntata a seguire la via più semplice, quella che pareva risolvere tutto e subito, ma che non si era rivelata altro che una falsa pista.
Non era stato Paul Gallant a prendere sua sorella. Non l’avrebbe trovata mai più, forse Hillary non sarebbe nemmeno più tornata nei suoi sogni.
Quella sera era scesa per la cena, ma aveva mangiato poco; dopo era rimasta un po’ da sola con Jamie affinché potessero chiarirsi e ristabilire la pace tra loro. Si era scusata e l’amica l’aveva rassicurata con un abbraccio. Leyla, stretta in quell’abbraccio, si era lasciata andare a singhiozzi arrendevoli e rassegnati. Perché oramai aveva soltanto da aspettare che arrivasse l’ora di tornare indietro; avrebbe detto definitivamente addio a Hillary e anche a Josh.
Non le restava altro che cominciare ad abituarsi all’idea, anche se era inaccettabile.
Quella notte, prima di addormentarsi, aveva deciso di lasciare accesa la luce sul comodino e lo era ancora quando si svegliò di soprassalto, sentendo la porta aprirsi.
Si tirò a sedere spaventata e non riuscì a capire per quale motivo Josh stesse entrando, chiudesse a chiave, e le facesse segno di fare silenzio portandosi l’indice alle labbra.
Lo osservò avvicinarsi al letto con il cuore che le martellava come un tamburo nel petto.
-Leyla- la chiamò a bassa voce sedendosi sul materasso, un po’ come aveva fatto la sera precedente; Leyla lo ricordava. Deglutì rumorosamente quando lui le prese il viso tra le mani.
-Leyla, come posso pensare di lasciarti andare?- le sussurrò dolcemente. La ragazza era così stranita e stregata da quelle parole che non fu in grado di rispondere.
-So che non avrei dovuto- riprese dunque l’uomo, ora accarezzandole il viso -ma in questi giorni, da quando ti ho vista, non ho fatto altro che pensare a te, giorno e notte-.
-A-anch’io. Anch’io ti ho pensato sempre- rispose Leyla al colmo dell’emozione.
E dentro di lei, il solito lato impudente cominciava a eccitarsi.
Nel frattempo Josh si era posto in ginocchio sul letto; Leyla aveva fatto lo stesso di fronte a lui e in quel momento l’uomo la stava stringendo in vita.
-Tu sei una ragazza fantastica, non ho fatto altro che sognarti. So che sei troppo giovane per me, ma ho bisogno di averti prima che tu te ne vada per sempre-.
Leyla si sentì arrossire e cominciare a tremare.
-Ma non farò niente che tu non voglia- e detto questo avvicinò le sue labbra a quelle della ragazza, attendendo un cenno di questa per andare oltre.
Leyla sentì il suo respiro mischiarsi con quello di Josh e senza poter resistere oltre lo baciò con trasporto. Era il suo primo bacio, ma se la cavò bene. La passione che provava nei suoi confronti liberava con vigore il suo istinto femminile.
Josh a quel punto discese a baciarla sul collo, poi riprese a parlare.
-Te lo voglio chiedere, perché voglio essere in grado di fermarmi- ansimava -vorresti essere mia per questa notte, Leyla? Vuoi concederti a me?- e dicendolo le aveva stretto più forte i fianchi.
Lei si stese supina sul materasso -io sono già tua, Josh. Lo sono dal primo istante-.
Lui allora le sorrise e subito le fu addosso. Leyla percepì lo spessore del suo desiderio che, intrappolato nei pantaloni, ormai premeva su di lei.
Lo baciò di nuovo con foga e affondò le dita tra i suoi capelli, beandosi del suo profumo che sapeva di notte, così come simili alla notte erano i suoi occhi.
Passarono pochi istanti prima che entrambi si ritrovassero senza vestiti; lui le aveva allargato le gambe e, prima di prenderla, le aveva dato un nuovo bacio e le aveva sorriso.
-Ti amo, Josh- aveva sussurrato lei, poi l’uomo era entrato.
 
Quando si svegliò, quelle ultime parole pronunciate in sogno le risuonavano ancora nella testa: -Ti amo, Josh. Ti amo, Josh-. Al primo momento le era sembrato di sentire ancora addosso e tra le gambe il suo calore, ma poi si era resa conto che si trattava soltanto del suo stesso sudore.
La luce era ancora accesa sul comodino, così come l’aveva lasciata prima di addormentarsi e sognare Josh che entrava nella sua stanza per fare l’amore con lei.
Un sogno assurdo, folle, improponibile. Così come era stata assurda e folle l’idea di giungere a Bonnyrigg per trovava la verità su Hillary, quella sorella perduta che forse non sarebbe davvero più apparsa nei suoi sogni. Forse era stata lei stessa a volervi insinuare dentro Josh, perché non poteva accettare di lasciarlo; lei sentiva di amarlo davvero e con tutta se stessa.
Se lui si fosse davvero presentato sul suo letto, chiedendole di fare l’amore con lui, lei non ci avrebbe pensato due volte, anche se aveva soltanto sedici anni contro i trentasette di lui; anche se lei non si era ancora mai donata a nessuno.
Perché Leyla sentiva che non avrebbe potuto amare nessun altro per tutta la vita che non fosse Josh; lui era l’uomo per lei, l’unico che potesse farle provare quei brividi, l’unico che potesse svegliare in lei quel sentimento.
Ma la crudeltà del destino le imponeva di dimenticarlo per forza, di rinunciare a lui, così come sentiva di dover rinunciare a sua sorella Hillary.
Si voltò sul fianco con le lacrime agli occhi, stringendo in una mano il topolino di pezza.
Allungò l’altra verso il comodino e afferrò la statuetta in ceramica della donna e della tigre avvinghiate insieme. Leyla non era ancora una donna, ma si sentiva come una tigre in gabbia.
*
 
La mattina successiva era rimasta a letto fino a tardi, sebbene non avesse dormito quasi per niente in seguito al sogno su Josh. Se n’era stata lì distesa con lo sguardo rivolto verso il soffitto, a respirare profondamente, stringendo con forza al petto il topolino di pezza; la chiave di pezza che non aveva la sua porta da aprire.
Non aveva pensato in quei momenti, piuttosto si era sforzata di liberare la mente e di perdere il contatto con la realtà. Non voleva sentire più niente, non voleva più rendersi conto di niente.
Di lì a ventiquattro ore sarebbe dovuta tornare a casa con Jamie e, anche se non voleva che accadesse, non poteva farci niente. Ma forse era comunque meglio così: perché dopo il sogno di quella notte dubitava che sarebbe stata più in grado di guardare Josh in volto; già aveva sempre fatto fatica a farlo di suo, le sarebbe diventato totalmente impossibile dopo quell’incontro amoroso ma onirico con lui.
Si era sforzata di scendere all’ora di pranzo, ma quasi subito era tornata in camera; aveva trascorso lì il resto della giornata, un po’ stesa sul letto, un po’ guardando fuori dalla finestra chiusa.
Attendeva rassegnata che giungesse la morte del giorno, quel tramonto che segnava la fine di tutto; perché la volta successiva in cui avesse visto quel sole d’inverno sarebbe stato troppo vicino il momento dell’addio. Sapeva che doveva arrivare, ne era consapevole, ma faticava comunque a realizzarlo. Perché la mattina seguente avrebbe perso tutto.
Il mistero di Hillary sarebbe per sempre rimasto sepolto sotto la neve lucente di quel giorno lontano; una neve che non cancellava, ma avrebbe coperto ancora e ancora, finché non si fosse notato più nulla. Forse sarebbe tornata a dimenticarla e il pensiero era sconvolgente.
Leyla voleva portare Hillary dentro di sé, ma non sarebbe stato così facile, per quanto ancora la amasse, se non era stata in grado di scavare a dovere.
Avrebbe dovuto scavare nella neve rossa, ma non l’aveva trovata.
Addio Hillary. Addio per sempre. Si era ritrovata a pensare mentre già le sembrava che l’oblio le calasse addosso come un’agghiacciante sipario nero. Fine dello spettacolo. Fine dei giochi. Fine delle speranze. Quel che era perduto sarebbe rimasto tale.
Aveva proseguito il pomeriggio ascoltando la musica con il suo lettore mp3, e più volte era tornata indietro alla stessa canzone, quella che srotolava dolci parole relative a una fuga d’amore. E quella parte di lei, quella impudente, quella che si faceva sempre più forte e autoritaria, avrebbe davvero voluto poter scappare con lui. Se non poteva riavere indietro sua sorella, desiderava ricavare comunque qualcosa da quel viaggio. Sarebbe fuggita volentieri con Josh, se soltanto lui l’avesse mai considerata (e avesse avuto voglia di infrangere la legge portando con sé una minorenne), e a Leyla sarebbe dispiaciuto soltanto doversi lasciare indietro una persona: Laurie.
Soltanto quell’ultimo giorno si domandò come stesse; la povera piccola Laurie che aveva trovato la chiave che lei non aveva saputo usare e che senza dubbio la stava aspettando impaziente. La sua sorellina. Si rammaricava di aver perso una sorella, ma nel caso fosse mai scappata con Josh ne avrebbe persa un’altra. Avrebbe forse avuto il coraggio di farlo davvero? Non lo sapeva; era certa soltanto del fatto che stava perdendo tutto, persino il controllo di se stessa.
Arrivò a sera senza uscire dalla sua stanza se non per andare al bagno, poi si sforzò nuovamente di farsi vedere al piano di sotto per la cena. Ancora una volta si limitò a spizzicare dal suo piatto più che mangiare, ma pensò che forse, una volta tornata a casa e lasciatasi alle spalle tutta quella faccenda (e Josh. Poteva lasciarsi alle spalle lui, come se niente fosse?) le sarebbe tornato l’appetito.
Appena aveva potuto se n’era tornata in camera e svogliatamente e con rammarico aveva iniziato a preparare la sua borsa dei vestiti.
Cosa avrebbe pensato sua madre se avesse saputo il motivo del suo viaggio? Se avesse saputo che si era recata proprio a Bonnyrigg avrebbe avuto dei sospetti, forse. Leyla pensò che se aveva fatto una cosa giusta nei giorni precedenti, questa era stata proprio il fatto di non aver aperto bocca con sua madre al riguardo. Parlarle nuovamente di Hillary l’avrebbe sconvolta e averlo fatto per niente sarebbe stato inaccettabile e crudele.
Era meglio lasciare che tutto restasse sepolto dalla neve così com’era stato prima che la manina di Laurie scavasse per trovare il topolino di pezza.
Leyla lo teneva in mano, seduta sul bordo del letto, e lo osservava malinconica. Ancora una volta, come la notte prima, prese anche la statuetta sul suo comodino; la mise a confronto con il pupazzo: quelli erano i due simboli di ciò che più aveva amato e a cui era stata costretta a rinunciare.
Erano soltanto due semplici oggetti, ma le stavano facendo del male. Strinse forte il topolino al petto mentre, senza guardare, tornava ad appoggiare sul comodino la statuina della donna con la tigre. Ma senza accorgersene la appoggiò sul bordo; cadde e si ruppe in due, proprio all’altezza della testa del felino.
Le scappò un’imprecazione; una di quelle che i suoi non volevano assolutamente sentirle dire e che lei si guardava bene dal pronunciare in casa.
Nervosamente risollevò la statuetta da terra. E adesso? Le tremava la mano mentre lo pensava.
Quello sì che era un vero colpo di fortuna: era obbligata a lasciare Josh, questo lo sapeva, ma voleva che all’uomo restasse almeno un ricordo positivo di lei; e invece no, era andata a rompere una bel soprammobile che lui aveva accuratamente riposto nella sua stanza. Brava Leyla, davvero complimenti! E quasi le venne voglia di schiaffeggiarsi da sola per non essere stata attenta a quel che faceva. Non che si sarebbe proprio massacrata le guance: uno schiaffetto giusto per tornare in sé non le avrebbe fatto male; ma lasciò perdere, in fondo lasciarsi l’impronta delle sue stesse dita sulla gota non avrebbe rimesso insieme i due pezzi separati.
Ma la colla sì. Quella avrebbe potuto benissimo rimediare al danno, se non perfettamente, almeno un po’. E magari, in quel modo, Josh non si sarebbe accorto subito della statuetta rotta, e forse non avrebbe sospettato di lei.
Bella idea, restava il fatto che non sapeva dove trovare l’occorrente.
Ripeté un’altra volta l’imprecazione di poco prima e poi, in punta di piedi, uscì dalla stanza cercando di non far scricchiolare la porta.
Non si era nemmeno resa conto di aver portato con sé il topolino di pezza.
Mentre camminava si mordeva il labbro inferiore. Temeva che lui si svegliasse, percorresse i suoi stessi passi, e la scoprisse nell’intento di frugare tra le sue cose; a quel punto la scusa ti ho rotto una statuetta, sto cercando la colla, non sarebbe stata né utile né lusinghiera.
Il corridoio era buio, ma non così tanto da non poter scorgere nemmeno i propri piedi, così Leyla riuscì a raggiungere le scale e iniziò a discenderle. Piano. Un gradino alla volta. Certo, sarebbe stato antipatico farli tutti insieme e magari scendendo di faccia.
Ma fortunatamente arrivò di sotto sana e salva.
Soltanto a quel punto si concesse di accendere una prima luce. Muovendosi sempre con passo felpato pensò a quale poteva essere il posto migliore per cominciare a cercare: l’armadio della sala, i cassetti sulla scrivania, la cucina? Cominciò dal primo: aprì le ante, ma non trovò altro che libri, dischi e qualche vecchia videocassetta dei tempi che furono. Trovò anche qualche scatolina, ma erano tutte vuote o contenenti cose di poco conto.
I cassetti della scrivania le apparvero subito più probabili; aprendoli trovò una grossa confezione di graffette (di quelle che durano tutta la vita e si possono anche tramandare ai posteri), una pinzatrice, forbici, scotch e … la colla; ma era quella a bastoncino, e non avrebbe riattaccato un granché.
L’imprecazione le salì di nuovo alle labbra, ma in questo caso si sforzò di trattenerla.
Dove le restava da guardare? In cucina? Era meno possibile ma non di certo da escludere, anche perché in cucina si potevano trovare, a volte, le cose più disparate: una volta suo padre, in uno dei cassetti, ci aveva lasciato un calzino e questo era tutto dire.
Anche in questo caso, però, non ebbe fortuna: trovò solo gli attrezzi strettamente correlati alla stessa cucina come mestoli, spatole, forchette, coltelli e affini. Ma niente colla ultraresistente.
Uscendo dalla cucina spense la luce e cominciò a tornare verso le scale; stava quasi per risalire quando le tornò in mente la cassettiera vicina all’ingresso.
Un’ultima occasione: forse sarebbe stata quella buona.
Accese la luce del corridoio, spegnendo quelle accese in precedenza.
Aprì il primo cassetto: c’erano solo cavi che non si azzardò nemmeno a toccare per paura di combinare un disastro. Fece lo stesso con il secondo e lì poté concedersi di frugarvi dentro: trovò un vecchio telefono ormai inutilizzabile, vari documenti che non si scomodò a leggere, una pinza e dei dizionari tascabili (uno di questi era inglese – gaelico scozzese).
Il terzo cassetto era vuoto.
Se ne stava per tornare in camera quando le venne in mente che forse non aveva inserito bene la mano nell’angolo a destra del secondo cassetto. E con la fortuna che stava avendo nel trovare le cose, probabilmente la colla che cercava si sarebbe trovata proprio in quel punto.
Comunque stessero le cose, si disse che valeva la pena dare una seconda occhiata, così tornò indietro. Riaprì il cassetto, andò ad analizzare l’angolo che era rimasto oscuro, ma non trovò nulla. Dandosi della stupida spostò da un lato i documenti a cui poco prima non aveva prestato molta attenzione; le era sorto il dubbio di aver cambiato loro posizione inavvertitamente; e se Josh era un poliziotto ci avrebbe messo davvero ben poco per rendersene conto. E nemmeno quella sarebbe stata una gran bella cosa: aveva già fatto abbastanza, non voleva combinare altri disastri.
Ma fu proprio in quel momento che se lo trovò tra le mani.
Nella destra stringeva ancora il topolino di pezza, così vi venne a contatto; era rimasto proprio sotto a quei fogli, tra il terzo e il quarto, e poco prima non ci aveva fatto caso.
Era di terracotta, non di legno, se ne accorse toccandolo; ed era blu. Un sole e una luna sorridenti erano intrecciati nell’abbraccio della loro eclissi. Leyla notò che la cordicella in alto, quella che avrebbe dovuto essere posta sul chiodo affisso alla parete, era rotta da un lato, rendendo impossibile l’esposizione dell’oggetto.
Fin da subito le tremarono le mani. Un indizio da solo non è abbastanza, devono essere tutti uniti. Si disse nelle mente cercando di convincersi, ma le sue gambe iniziarono ugualmente a muoversi verso quella porticina che aveva notato di sfuggita il giorno del suo arrivo; quella dello scantinato che si trovava proprio accanto al vano-scala.
Quella porticina che però era marrone.
La porta rossa da sola non era bastata, lo stesso doveva valere per il sole-luna blu.
Quando vi fu di fronte si ritrovò a osservare la parete bianca proprio al di sopra dello stipite superiore: lì c’era un segno circolare nero, ma era poco calcato e si distingueva appena se non si guardava con attenzione. O meglio, se non si sapeva dove guardare.
Lo strinse forte tra le mani e, nello stesso tempo, strinse forte anche il topolino di pezza: la chiave bianca. La chiave di pezza. Aveva davanti una porta in quel momento e, anche se non era rossa, doveva comunque azzardarsi ad aprirla. Quando provò, constatò che era chiusa a chiave.
No. Non Josh. Non Josh. Tutti ma non lui. Io lo amo. Pensava tremando.
In quel momento le restava una sola cosa da fare: andare a chiamare Jamie e lasciare che fosse lei a prendere in mano le redini della situazione.
 
Quando le mostrò il sole-luna blu, Jamie si preoccupò che Leyla fosse sul punto di svenire: tremava vistosamente ed era pericolosamente bianca in viso. Anche lei si era quasi sentita mancare in quel momento, ma prendendo il controllo di sé si era diretta al piano di sotto con la sua giovane amica.
Con sé aveva portato una forcina per capelli: aveva detto che non si passano tanti anni in polizia senza imparare qualche trucchetto dai fetenti a cui si corre dietro; così, appena fu davanti alla porta, si adoperò per allineare con la forcina tutti i pistoncini della serratura. La sua mano, a differenza di quelle di Leyla, non tremava. Ma lei sapeva bene che Jamie era in grado di essere una donna di polso e mantenere il sangue freddo, per questo se l’era sentita, undici anni prima, di cimentarsi nelle ricerche di Hillary sebbene conoscesse sua madre, e questo rendesse il compito più arduo e sgradevole.
Non le ci vollero più di un paio di minuti. Per tutto quel tempo Leyla aveva continuato a pensare che dovesse per forza trattarsi di un sogno, perché quel che stava accadendo era assurdo; non certo meno dell’amore tra lei e Josh sul letto della sua stanza.
Quando la porta finalmente si aprì, Jamie tastò la parete adiacente per cercare l’interruttore; in breve lo scantinato fu illuminato da una debole e intermittente illuminazione arancione.
Non era un granché, ma fu più che sufficiente: ai piedi della scala che discendeva verso il sotterraneo, nell’angolo in fondo a sinistra, c’era una bambina legata e con il capo reclinato su una spalla. Sia Jamie che Leyla, dopo un primo istante di stordimento, si fiondarono verso di lei; la donna le sollevò la testa e cominciò a esaminarla. Per prima cosa le sentì il polso ponendole due dita sulla carotide: era viva, ma il battito era molto debole, per di più era priva di sensi.
Guardandola in viso Leyla riconobbe subito Mary Johnson, la bambina di cinque anni scomparsa da un mese e mezzo di cui aveva notato il fascicolo il primo giorno in centrale.
Quella centrale dove Josh lavorava. Dove lavorava anche undici anni prima.
-È quella bambina scomparsa, Jamie, ti ricordi? È Mary!- esclamò facendo attenzione a non alzare la voce, ma Jamie parve non ascoltarla: stava continuando a esaminare la bambina. Leyla seguì con gli occhi il percorso delle sue mani. Vide le vene del braccio bucate e si accorse solo in quel momento che la piccola non indossava la biancheria intima; e lungo le cosce le scendeva del sangue. Non Josh. Non Josh. Tra le dita dei piedi, invece, le stava camminando una cimice.
Jamie sciolse le corde che stringevano i polsi della bambina e la prese in braccio, poi sia lei che Leyla si alzarono in piedi. Fu proprio in quell’istante che, guardandosi per la prima volta intorno, notarono le ossa: c’era un teschio proprio a poca distanza, ma ce n’erano di tutti i tipi nell’angolo opposto dello scantinato; a Leyla salì in gola un conato. Non vomitò soltanto perché la porta sbatté chiudendosi e la distrasse. Entrambe sobbalzarono. Lo pensarono, anzi, ne furono certe: Josh si era svegliato, le aveva scoperte e le stava chiudendo dentro. Più tardi avrebbe fatto di loro ciò che preferiva, così come aveva fatto con la piccola Mary.
Jamie però si impose di ritrovare il suo sangue freddo e, sempre tenendo la piccola tra le braccia, avanzò lungo la scalinata. Portò la mano ora tremante verso la maniglia, la abbassò e tirò un sospiro di sollievo quando l’uscio si aprì.
-Presto, Leyla andiamo fuori di qui. Dobbiamo chiamare subito gli altri agenti- le intimò decisa, ma la ragazza non dava segno di volersi muovere o di averla anche solo sentita.
-Leyla, che ti prende, muoviti!- la incalzò di nuovo, questa volta con più impeto.
-La porta- rispose la ragazza con voce assente -cosa?- fece Jamie senza capire.
-La porta- ripeté l’altra, sempre con lo stesso tono. La donna più grande allora voltò lo sguardo verso il lato interno della stessa. Sgranò gli occhi quando se ne rese conto.
-È rossa- concluse Leyla in un sussurro gelido. E lo era, anche se solo internamente.
Il quadro si era completato: c’era la porta rossa, la chiave di pezza, il sole-luna blu. C’era anche il sangue, anche se in quel momento vedeva solo quello di Mary Johnson.
Era certa che tra quelle ossa nell’angolo ci fossero anche quelle di Hillary, ma non solo le sue.
Il suo amore per Josh si sgretolò tutto in un solo istante; insieme a questo però crebbe in lei, improvvisa e prepotente, la necessità di andarsene.
Corse sulle scale e raggiunse Jamie. Insieme a lei, e alla bimba svenuta tra le sue braccia, lasciò l’abitazione del mostro che aveva amato e al quale aveva sognato di unirsi.
Appena furono fuori chiamarono le forze dell’ordine.
 
EPILOGO
 
Josh Scott era stato arrestato e sottoposto, già quella notte, a un lungo interrogatorio. Verso le quattro del mattino aveva confessato il rapimento, lo stupro e l’assassinio di Hillary Moores, avvenuti undici anni prima, e con questi le sevizie inflitte ad altre sedici bambine nell’arco di quindici anni, compresa la piccola Mary Johnson, trovata ancora viva nel suo scantinato.
L’uomo rapiva le sue vittime, le teneva legate in cantina, drogandole affinché non si accorgessero di nulla e non fossero in grado di reagire o di farsi sentire, e così, non appena i suoi appetiti si risvegliavano, scendeva a violentarle senza che queste potessero nemmeno tentare di difendersi. Nel momento in cui si stufava di una di loro, o semplicemente ne trovava un'altra che lo attraeva di più, si sbarazzava della precedente sgozzandola come un maiale al mattatoio.
Aveva sempre lasciato le sue vittime nello scantinato a decomporsi, usufruendo di un depuratore d’aria perché ai piani superiori non giungesse l’odore dei cadaveri. Quel che Josh Scott amava di più, oltre a infliggere la violenza carnale alle piccole, era conservare le loro ossa come trofei; aveva sostenuto di amarle particolarmente.
Tra queste erano state rinvenute delle piccole costole recanti ancora addosso qualche brandello di stoffa verde; Leyla era stata certa fin dal primo istante che quelle fossero le ossa di Hillary, per questo non si sorprese quando il test del DNA lo confermò.
Non aveva sofferto per la sua scoperta, non aveva pianto né si era disperata: in lei non esisteva più la minima traccia del suo amore per Josh, come se questo non fosse mai esistito.
Il suo era rimasto un amore fantasma, destinato a dissolversi completamente nel nero di una notte simile agli occhi dell’uomo. Per lei non solo Josh non esisteva più, ma non era proprio mai esistito.
Quel che contava, ormai, era solo aver trovato Hillary, averle restituito la pace di cui aveva bisogno e che cercava disperatamente da quando era stata uccisa, e averle anche assegnato quel posto legittimo e insostituibile nel suo cuore, che le avrebbe permesso di portarla sempre con sé, andando avanti, ma senza dimenticarla.
Perché Leyla voleva che Hillary restasse per sempre una parte di lei, come era giusto che fosse.
Ma Leyla aveva anche scoperto che esisteva qualcosa di ancora più importante del ricordo di Hillary, anche se non se ne sarebbe separata mai più: era Laurie.
La sua sorellina, come immaginava, l’aveva attesa con trepidazione durante tutti i sei giorni d’assenza ma, nonostante questo, non aveva fatto parola ai genitori del loro segreto. Perché Laurie non si sarebbe mai permessa di perdere la sua fiducia.
Al suo ritorno, Leyla le aveva raccontato tutto, ovviamente all’interno dei canoni di quel che si può dire a una bambina di cinque anni: qualcosa come ho scoperto che c’era un uomo cattivo che ha fatto del male alla mia sorellina e l’ha uccisa, ma adesso è in galera e ci resterà per tutta la vita.
Laurie era stata felice per lei, perché aveva ritrovato quella parte mancante di sé che la rendeva incompleta. Anche a sua madre aveva fatto bene conoscere la verità: dopo lo shock iniziale si era rilassata, riuscendo ad accettare la conferma della fine di sua figlia.
Che fosse morta, Samantha se lo aspettava, quindi si sentì sollevata all’idea di poterle finalmente concedere una sepoltura decente. Questo almeno era ciò che aveva detto lei, ma Leyla credeva che fosse più serena perché finalmente sapeva dove trovarla, a ogni modo l’aveva vicina, e poteva pensare a lei senza farsi troppo male, perché il tempo aveva già lenito le vecchie ferite.
La cosa più dura da accettare per tutti non fu tanto la certezza della morte di Hillary, quanto l’idea delle violenze che aveva subito prima che il mostro la finisse.
Ma quel che più importava, dopo undici anni, era conservare il pensiero di lei come qualcosa di concreto, di esistente, e non più come uno spiffero d’aria gelido che porti a irrigidirsi. Hillary non sarebbe mai più stata relegata nell’oblio pur di sfuggire alla paura del suo ricordo.
Finalmente tutti potevano concedersi di pensare a lei.
E anche Laurie volle fare la sua parte, anche se non l’aveva mai conosciuta; era trascorso più di un anno quando Leyla si sentì pronta per affrontare concretamente il pensiero di Hillary. Fino a quel momento non aveva avuto più problemi a ricordarla, ma far visita alla sua tomba era tutta un’altra cosa. Si era finalmente decisa ad avvicinarsi al suo monumento proprio il tredici di febbraio, dodicesimo anniversario della sua scomparsa. Era stata Laurie a domandarle se poteva andare con lei, e Leyla ne era stata segretamente sollevata, anche se le sembrava assurdo pensare di attingere coraggio dalla sua sorellina di sei anni. Chissà come sarebbe stata Hillary a sei anni?  
E quel giorno, come quello lontano, c’era la neve.
Le due sorelle camminavano mano nella mano e si dirigevano in silenzio verso il luogo di eterno riposo di Hillary. L’unico suono era quello del vento, anche se, ascoltando attentamente, pareva di sentire anche qualcos’altro: era la melodia silente e incantatrice delle neve, quella che conduce a sé ed evoca la più immensa calma e allegria che si possano sperimentare.
Non che Leyla e Laurie fossero particolarmente felici in quel momento, ma serene lo erano di sicuro, ed era facile lasciarsi cullare dall’armonia percepibile solo nella totale assenza di suoni.
Leyla teneva in mano il topolino di pezza. Fino a quel momento aveva desiderato tenerlo con sé, non aveva permesso a nessuno di toccarlo, ma ormai aveva capito quale fosse il suo posto.
Perché quello era meglio di un mazzo di fiori: il topolino era di Hillary e spettava a lei. Era la sua chiave: la chiave bianca. La chiave di pezza.
La bambina e la ragazza si tenevano ancora per mano mentre osservavano la lapide che riportava il nome della loro sorella scomparsa; una sorella ritrovata per Leyla, una da scoprire per Laurie, ma in fondo la bimba sapeva di averla conosciuta. Lei l’aveva vista in sogno e l’aveva trovata: ormai ricordava i tratti del suo viso e le voleva bene già così, non le serviva altro.
Leyla chiuse gli occhi e volle assaporare quel momento come se si trattasse di un ultimo incontro; o forse era il primo: perché dopo tutto quel tempo trascorso prima a non ricordarla, poi a rievocare la sua immagine, essere lì era come averla accanto per la prima volta. Era come darle il permesso definitivo di insediarsi in lei.
Leyla e Hillary erano come un sole-luna di terracotta rottosi a metà tanto tempo prima, e finalmente rimesso insieme indissolubilmente.
Leyla amava l’idea di poter avere sempre con sé entrambe le sue sorelle; la sua Hillary, che non avrebbe mai più lasciato andare via dai suoi ricordi, e la sua Laurie, che non si sarebbe mai permessa di perdere.
Ed era stata proprio la piccola a rendere possibile tutto ciò: Laurie che aveva trovato la chiave e, inconsapevolmente, l’aveva spinta a cercare la porta.
Aveva avuto ragione Jamie: non era stato un caso se il topolino di pezza era stato trovato proprio da lei. Ma forse anche Hillary aveva la sua parte di merito: se Laurie non avesse trovato il topolino di pezza sepolto nella neve sarebbe andata avanti, si sarebbe allontanata di più.
Forse a Josh sarebbe piaciuta più di Mary Johnson, e l’avrebbe presa come aveva fatto con Hillary.
Leyla si chinò, posò un braccio attorno alle spalle della sorellina e le sussurrò qualcosa all’orecchio; la piccola annuì. Leyla le consegnò il topolino di pezza e Laurie si mosse piano, un passo alla volta, e andò ad adagiarlo accanto alla tomba.
Hillary aveva di nuovo quel che era suo; finalmente avrebbe dormito serena.
Quando Laurie si voltò verso la sorella, questa fu certa, per un istante, di vedere al posto del suo il volto di Hillary. Fu questione di un solo attimo, ma la visione fu nitida.
La neve nasconde, ma non cancella; se si scava a fondo la vita può tornare alla luce, anche attraverso la morte. Perché Hillary, Leyla non aveva dubbi, ormai stava vivendo in Laurie.
E dalla neve saliva ancora la melodia silenziosa.

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Capitolo 4
*** Scheletro ***


rSCHELETRO
 
I
 
QUEL SOGNO
 
Sinceramente, Helen lo trovava ridicolo.
Non era altro che uno stupido sogno, eppure, mentre la sua mente dormiente formulava quelle immagini, ne era spaventata a morte.
Però non ne aveva più paura al risveglio. Che cosa c'era da temere? Solo un bambino o una donnicciola avrebbero potuto tremare di fronte a una tale assurdità. Si trattava solo di un sogno, punto.
A dirla tutta, Helen credeva che fosse addirittura divertente. Le erano sempre piaciuti i film horror e tutto ciò che comportavano. Ovviamente, riferendosi a ciò che comportavano per gli altri (incubi, paura a restare al buio), perché lei non aveva mai sperimentato dati fenomeni.
E l'avvenimento del suo sogno poteva facilmente catalogarsi come una scena di quel genere di pellicole.
Era così forte il terrore mentre si avvicinava.
In poche parole, Helen sognava uno scheletro. Era uno scheletro orribile, questo doveva ammetterlo anche da sveglia, perché alle ossa aveva attaccati dei disgustosi brandelli di pelle cascante, ma fino a questo punto non poteva dire che ci fosse niente di atroce.
Era appena iniziato il mese di settembre, quando l'aveva visto per la prima volta. Non ricordava esattamente il giorno (o meglio, la notte) in cui era apparso, ma non credeva facesse poi troppa differenza.
Ricordava di aver riso come una matta dopo essersi svegliata, in quella prima occasione.
Non poteva credere di aver fatto un sogno tanto strano e, soprattutto, tanto stupido. Ma la sua ilarità del risveglio non coincideva affatto con ciò che provava mentre non era cosciente. Orrore. Terrore. Raccapriccio. Disgusto. Pazzia. Era questo che sentiva, quando lo scheletro si avvicinava a lei.
Ma non era per lo scheletro.
Non era nemmeno perché le andava incontro.
Era per come si muoveva.
 
Il luogo non è definito, non sembra altro che un lungo corridoio semi-buio. Helen ne è al centro, anche se, considerando che non ne vede né l'inizio né la fine, non può dirlo con certezza. Si trova a metà del tratto che appare alla sua vista, che di sicuro però non è l'unico.
Lo sente. Avverte che lo spazio è molto più ampio.
Lo scheletro arriva quasi subito, senza darle il tempo di domandarsi dove si trovi.
Le appare di fronte, da quel punto che per lei è l'inizio del corridoio.
E si muove.
Si muove.
Helen trova incredibile la velocità a cui l'orrore può svilupparsi in un animo fino a quel momento apatico.
Lo scheletro non sembra avere molta forza, ciondola. Un braccio d'ossa appoggiato contro la parete, come per sospingersi, l'altro pendente verso il suolo. Trascina i piedi privi di carne sul pavimento, quasi senza sollevarli. A tratti, il teschio gli ricade sullo sterno di colpo, per poi rialzarsi un attimo dopo. E quelle orbite vuote la guardano e la cercano.
Helen urla e inizia a correre. Non è da lei scappare; trova un millesimo di secondo per rendersene conto anche se dorme, ma in questo caso non può proprio farne a  meno.
Corre velocemente, e non si stupisce del fatto che il corridoio sembri infinito.
È invece stupita dalla distanza tra lei e lo scheletro, che continua a diminuire. Non è rapido, la sua andatura è traballante e incerta, come può esserle così vicino? Eppure lo è sempre di più.
Helen, di tanto in tanto, mentre continua a correre, si volta a guardarlo. Lo scheletro prosegue nella sua tetra camminata e nei suoi movimenti agghiaccianti come in un rituale: un braccio contro il muro, l'altro rivolto al pavimento. Trascina i piedi. Il cranio continua a ricadergli in avanti.
Oddio. Oddio. Oddio. È questo  che Helen pensa in quel momento. Ma perché si muove in quel modo? Non potrebbe semplicemente correrle dietro?
Il corridoio continua a estendersi all'infinito, lo scheletro accorcia sempre più le distanze.
Poi all'improvviso le è addosso. Ha sentito le sua dita afferrarla (prova un brivido tremendo nel venirvi a contatto, per via di quei brandelli di pelle attaccati alle ossa). Helen si ritrova a terra, lo scheletro a ricoprire il suo corpo.
Ma non sarebbe corretto dire che questo l'abbia buttata a terra. Sembra le sia caduto addosso.
E ora è lì che giace.
Immobile.
E Helen grida sotto il suo peso
.
*
 
Helen rise a crepapelle anche dopo il secondo risveglio, persino a seguito del terzo e del quarto, ma al quinto smise di farlo. Perché quello stupido scheletro tornava tutte le notti? Cominciava a provare una strana sensazione: una sorta di inquietudine, anche se non ancora così definita. Era strano, tutto qui, ma la sua mente cominciava a ribellarsi e a domandarsi che cosa ci fosse sotto.
Sicuramente doveva esserci una spiegazione logica, e Helen decise che l'avrebbe trovata.
Non era il tipo da lasciarsi intimidire nemmeno nella vita reale, figurarsi per un sogno. Helen non sarebbe mai rimasta con le mani in mano nella speranza che arrivasse il principino a salvarla, anche perché, di sicuro, non c'era nulla da cui dover scappare davvero.
Non rideva più quando raggiungeva lo stato di veglia, ma quello scheletro che le faceva visita con ricorrenza la intrigava e incuriosiva.
Se doveva esserci un significato recondito, o forse inconscio, lei l'avrebbe portato alla luce.
Poteva essere anche un'ottima occasione per conoscere meglio se stessa. Le verità esplodono nei sogni.
Iniziò a informarsi verso l'ultima settimana del mese.
Oramai non pensava ad altro.
 
II
 
 OSSESSIONE
 
Helen ne era certa, fare lo stesso sogno ricorrente per due mesi interi, tutte le sante notti, non era indice di qualcosa di buono. Non andava bene per niente. Per quanto al risveglio smettesse di avere paura, quell'apparizione onirica doveva avere un significato, e doveva trattarsi di qualcosa di importante.
Non credeva a niente di sovrannaturale, quelle erano solo idiozie; non pensava certo che la morte le fosse alle calcagna, ma forse quello scheletro stava tentando di dirle qualcosa. Qualcosa su di lei, poco ma sicuro.
Aveva iniziato spulciando sul web le interpretazioni dei sogni. Benissimo, si era detta leggendo certe frasi fantasiose, non si sentiva smarrita, angosciata, né aveva bisogno di meditare.
Meditare era uno di quei termini che, nel suo vocabolario personale, restavano più che altro a prendere polvere. Solitamente Helen preferiva agire, per questo intendeva specializzarsi in medicina d'emergenza.
Non poteva dire di aver concluso alcun ciclo di vita, di aver esaurito un sentimento (piuttosto tendeva a non lasciarsi mai coinvolgere da essi), niente diminuzione di energia psichica o fisica, ancor meno avrebbe potuto ammettere come motivazione il crollo delle proprie speranze e ambizioni. Le ambizioni seguitavano a crescere in lei, e con molta forza. Non era una sprovveduta e non aveva intenzione di lasciarsi abbattere dalle difficoltà. Non l'aveva mai fatto.
Se poi si arrivava a parlare di inconsce paure di malattie o di morte, proprio si era fuori strada. D'accordo che studiava malattie dalla mattina alla sera, ma l'ipocondria non rientrava proprio nei suoi piani.
Era anche vero, però, che utilizzare la parola studiare, in quel periodo, forse non era appropriato. Fino a due mesi prima (ebbene sì, si era dedicata allo studio anche durante le vacanze estive) era sempre sui libri, spinta dalla necessità di soddisfare le proprie ambizioni, ora invece le cose erano cambiate.
Aveva sempre la testa altrove, e non si concentrava più così tanto sull'università come prima. Aveva anche saltato diverse lezioni, cosa che non era mai avvenuta prima. E che non era affatto edificante all'inizio del nuovo anno accademico.
Aveva anche iniziato a distaccarsi dagli amici. Dalla famiglia l'aveva fatto da un po', dato che non aveva mai sopportato di vivere con i propri genitori. Si era fatta forza fino a quando anche Sarah era rimasta a casa, ma dopo il suo trasferimento a New York avvenuto due anni prima, non aveva più retto. Preferiva il dormitorio dell'università, sebbene non la entusiasmasse l'idea di una compagna di stanza. Ma era sempre meglio delle continue lagne e inutili preoccupazioni di sua madre della serie a che ora torni?
A Helen piaceva la libertà, anche perché non aveva bisogno della balia ventiquattro ore su ventiquattro. Lei era responsabile, e sapeva badare a se stessa.
Solitamente si sforzava di chiamare mammina e papino giusto una volta ogni settimana; da quando era iniziata la sua ossessione per lo scheletro del sogno, invece, era sempre stata la madre a mettersi in contatto con lei. Forse però non avevano notato troppo la differenza: Helen era distaccata con i genitori, ma in fondo lo era sempre stata.
Non valeva lo stesso per Sarah, ma in quel momento non le importava più di tanto. Quando avesse risolto quella faccenda avrebbe senz'altro avuto tempo per la sorella maggiore, che era tornata in città verso metà settembre. Era quasi novembre, eppure non l'aveva ancora incontrata. Si erano sentite qualche volta, ma Helen era stata rapida a concludere ogni telefonata. Persino a quel suo messaggio le aveva risposto con la prima frase che le era venuta in mente; a dire il vero non ricordava nemmeno di che cosa sua sorella stesse parlando, ma in quel frangente non se l'era nemmeno domandato. Anche se, dal tono che si captava dalla parole scritte da Sarah, doveva trattarsi di qualcosa di molto importante per lei. Qualcosa di cui Helen avrebbe dovuto essere al corrente, qualcosa di cui Sarah le aveva certamente parlato, ma lei era così presa dalla sua ossessione che l'aveva dimenticato. E non era da lei dimenticarsi di Sarah. Le voleva bene, anzi, la adorava, ma non poteva assolutamente distrarsi dall'immagine nel suo incubo. Non è cosa da tutti sognare la stessa cosa (scheletro o meno) per due mesi consecutivi, ogni notte. Helen continuava a ripetersi che non andava bene per niente.
Non era mai stata coinvolta tanto da qualcosa in vita sua, lei che da sempre era così controllata.
Ma il suo controllo ormai stava svanendo, e forse era questo a intimorirla di più. In fondo non si poteva avere paura di uno stupido scheletro.
Era la piovosa mattina del ventinove ottobre, e Helen si trovava in biblioteca; ma non a quella dell'università. Lì non voleva farsi vedere in quello stato, né aveva voglia di ritrovarsi tra quelle mura. Aveva bisogno di stare in un luogo che non la condizionasse  e, soprattutto, dove nessuno la conoscesse.
Era seduta al tavolo da sola. A dire il vero c'era ben poca affluenza al centro quella mattina, eppure Helen si sentiva come se mille sguardi fossero puntati su di lei, accompagnati da altrettante mani bramose tese in sua direzione. Era come sentirsi in trappola, braccata. Si spaventò realizzando che doveva essere quello l'effetto che provoca l'ossessione, di qualunque natura essa sia.
Deglutì per calmarsi, ma il tentativo sembrò non sortire un grande effetto. Era agitata, detestava ammetterlo, eppure lo era davvero.
Davanti a lei, appoggiato sul tavolo, un volume aperto con una grande immagine disegnata: ovviamente, si trattava dell'immagine di uno scheletro. Helen aveva già letto i paragrafi a esso relativi almeno una cinquantina di volte (parlavano della figura dello scheletro nella cultura gotica) senza riuscire a raccapezzarsi, e ormai ci aveva rinunciato. Piuttosto le faceva impressione il foglio che teneva a lato del libro aperto. Quel foglio su cui lei stessa stava piegata, tracciandovi a matita una copia del disegno che aveva guardato tanto a lungo.
Che cosa avrebbe fatto con quella riproduzione di uno stupido scheletro? Si ritrovò a domandarsi se alla fine ne avrebbe fatte copie a non finire, per poi appenderle al muro della sua stanza, come una brava malata mentale. Era terrorizzata da quel che stava diventando, perché lentamente andava tramutandosi in ciò che aveva sempre odiato. Ma aveva anche una terribile paura di addormentarsi, e di continuare a rivivere il proprio incubo.
Improvvisamente il cellulare trillò nella sua tasca, riportandola alla realtà. Da questo si accorse di essere sulla buona strada per dire addio alla propria stabilità mentale. Non era più presente: aveva lasciato attiva la suoneria del telefono, benché fosse espressamente vietato farlo in biblioteca.
Helen era sempre stata molto ligia al rispetto di questo genere di regole, ma probabilmente era troppo immersa nei suoi pensieri infestati dallo scheletro, per fare caso all'avviso posto in lettere maiuscole e cubitali all'ingresso della struttura.
Sospirando nel tentativo di non pensarci estrasse il cellulare dalla tasca. Il messaggio era di Sarah: Quando ci vediamo? Le domandava. Helen sbuffò più per il senso di colpa che per la stizza. Presto. Ora sono troppo impegnata con lo studio. Ti chiamo io appena posso. Le rispose. Lo fece il più velocemente possibile per non soffermarsi a pensare su quello che stava facendo. Si rese conto che quello era il primo periodo della sua vita in cui avesse mentito a sua sorella, e questo era un altro inequivocabile segno della sua ansia crescente. Le cose non andavano bene per niente. Neanche un po'.
Come fu svelta a scrivere il messaggio, lo fu altrettanto nel ricacciarsi il cellulare in tasca. Con espressione stanca e spossata fissò ora l'immagine dello scheletro riportata sul libro di fronte a sé, ora quella che lei stessa aveva tracciato sul foglio di carta, totalmente identica. Helen era sempre stata molto dotata nel disegno. Lo scheletro come simbolo di morte. Sussurrò una flebile voce nella sua testa. Helen sorrise tra sé e sé per l'assurdità della cosa: fino a due giorni prima aveva trovato ridicola quell'idea, né l'aveva presa in considerazione. Ma quella mattina, per la prima volta, quella possibilità la spaventò. E per una come lei, in fondo, spaventarsi era una cosa che faceva sorridere.
Improvvisamente si domandò se avrebbe avuto il tempo di incontrare Sarah prima che le capitasse qualcosa. La morte che l'afferrava nel sogno avrebbe potuto ben presto fare lo stesso nella realtà, in qualsiasi circostanza, in qualsiasi momento. Da sua sorella, il suo pensiero corse subito a cose più irreali e inquietanti: un condannato a morte provava quel che sentiva lei? Forse faceva sogni simili? L'idea le provocò un brivido. Improvvisamente si rese conto di sentirsi soffocare all'interno della biblioteca. Poteva accadere ovunque. Si disse. Anche lì dentro. Bastava che l'enorme libreria dai mille scaffali pieni di testi cedesse e le rovinasse addosso, ed era fatta. Concepì in quell'istante che non si sarebbe sentita al sicuro in nessun luogo e fu per questo che non sopportò più l'angoscia delle quattro mura.
Recuperando in tutta fretta la copia dello scheletro che aveva disegnato, e chiudendo di colpo il volume dov'era raffigurato l'originale, si alzò e corse fuori. Poco le importò della pioggia copiosa e del freddo non indifferente. Come possono interessare certe inezie a una persona ormai prossima alla dipartita? Tremando sia per il freddo che per la paura, Helen si mise a correre. Tra le sue mani, il foglio contenente il disegno si inzuppò a propria volta e ben presto divenne molle, come se fosse sul punto di sciogliersi. Helen lo teneva stretto, anche se ormai si stava disfacendo.
Si guardava intorno con sospetto, pensando che il suo scheletro potesse nascondersi ovunque, pronto a sferrare il suo attacco mortale e a portarla con sé. Sto per morire, mio Dio, sto per morire. Continuava a ripetersi senza riuscire a capire per quale motivo a tale pensiero le venisse da ridere.
Ma in fondo, Helen rideva di questa frase propostale dalla mente perché era certa che fosse vera, e realizzare un simile avvenimento tanto prossimo può portare soltanto alla risata o alle lacrime.
O alla risata tra le lacrime.
In effetti, Helen piangeva mentre rideva, come se improvvisamente le due parti di lei (quella dura e scettica e quella spaventata e ossessionata) fossero venute a contatto causando un'esplosione. Oppure un'enorme confusione. Le componenti di una e dell'altra si erano disfatte e mischiate tra loro, dando luogo a un bel disastro incomprensibile.
Helen attraversò la strada senza guardare. Il semaforo per i pedoni era verde, ma lei aveva sempre creduto che fosse una saggia idea controllare sempre, onde evitare spiacevoli conseguenze a causa di qualche pazzo. Quella volta non lo fece. Solo quando raggiunse il marciapiede opposto si accorse che evitare certi atti di prudenza era un'idea molto, ma molto stupida. Era come scrivere un bell'invito al suo scheletro e inviarglielo su di una preziosa carta da lettere, pregandolo di fare in fretta. Helen si disse che doveva recuperare un po' di lucidità, tentare di tornare in sé. Se davvero era condannata a morire presto, per lo meno non voleva essere lei l'artefice della propria fine, sarebbe stato controproducente. Helen doveva lottare contro la morte, non correre tra le sue braccia.
Scrollandosi di dosso l'acqua piovana e l'inquietudine (almeno con quest'ultima ci provò), riprese a muoversi con maggiore attenzione.
Era mattina, ma il cielo era così grigio di nuvole da rendere particolarmente oscuro l'ambiente circostante. Helen, con la mente sempre più avviata alla distruzione, iniziò a vedere minacce in ogni singolo essere vivente che le passava accanto.
Quando un cane randagio, zuppo a sua volta di pioggia, le fu vicino, lei si accostò al muro impaurita. Non aveva mai avuto paura dei cani prima d'allora, ma aveva creduto che potesse trattarsi di un animale idrofobo e che avrebbe potuto attaccarla. Il cane, invece, passò oltre senza nemmeno guardarla.
E quell'uomo dall'aria cupa che camminava con le mani in tasca? Perché quel cappello nero a coprirgli il viso? Perché quello strano mezzo sorriso disegnato in volto? Poteva essere pericoloso. Magari un serial killer alla ricerca della sua nuova vittima.
E quella donna dall'espressione arrabbiata? Era mora, e forse odiava le bionde come lei. Avrebbe anche potuto farle del male. Di cose inconcepibili per la loro violenza e insensatezza non se ne sentivano forse ogni giorno? Helen, se voleva salvarsi la vita, doveva diffidare di chiunque.
 
*
 
-Oddio, Helen, ma sei fradicia! Che ti è successo?- le domandò Gloria, la sua compagna di stanza, quando la vide varcare la soglia ed entrare in camera. Gloria era seduta al tavolo della zona condivisibile della stanza, i libri aperti davanti.
-Non ho ... non ho l'ombrello- balbettò Helen smarrita. Il mondo intorno a lei aveva assunto da qualche ora un aspetto ampiamente irreale; questo forse era a causa della sua ossessione, oppure della possibile febbre che la stava invadendo. D'altro canto, aveva camminato sotto la pioggia fino al tardo pomeriggio.
-Questo lo vedo- riprese Gloria perplessa e preoccupata. Si era alzata in piedi, aveva afferrato una coperta dal piccolo divano e si stava avvicinando a Helen per porgliela sulle spalle. Quando l'amica le fu vicina, Helen si ritrasse d'istinto, intimorita. Non poteva fidarsi di nessuno. Non doveva.
Anche Gloria si spaventò, ma solo per la reazione incomprensibile dell'altra.
-Helen, devi ...- tentò di cominciare, ma l'altra corse via, diretta verso la propria stanza privata, dove c'era il suo letto.
-No, lasciami! Lasciami!- urlò -Io devo...io vado a dormire- continuò sconvolta. Tentò di aprire la porta che divideva la zona comune dall'altra, ma le tremava la mano tanto che non riuscì ad afferrare il pomello. Gloria l'afferrò allora per le spalle, e Helen gridò. L'altra sobbalzò, ma non lasciò la presa.
-Helen devi toglierti questi vestiti bagnati, asciugarti, prendere un farmaco, e solo dopo andare a letto. Ma non puoi fare niente di tutto ciò, da sola- Gloria era tesa e visibilmente preoccupata. E perplessa.
-No ... io ... no- biascicò Helen, e sentì di morire di paura quando vide la compagna di stanza aprire la porta della sua stanza, sfilare la chiave dall'interno (Helen non chiudeva mai a chiave la camera, tranne quando dormiva e non voleva essere disturbata), richiudere la porta e bloccare la serratura da fuori.
-Ora penso io a te- fece Gloria decisa. Helen tremò a quelle parole. Forse la sua compagna di stanza era invidiosa dei suoi voti, della sua intraprendenza e dei suoi successi sia universitari che non (a Helen andava sempre tutto bene, era sempre brava in tutto). Forse aveva strane idee.
Non la sentì nemmeno quando sussurrò -Che cosa diavolo ti è preso in questo periodo? Stai andando fuori di testa-.
Helen pensava soltanto a quello che Gloria avrebbe potuto farle, e non erano pensieri piacevoli. Ma stava male e, alla fine, benché spaventata a morte, si lasciò condurre dall'amica verso la sua zona privata di stanza, sicura che lo scheletro l'avrebbe raggiunta a breve. Tremava come una foglia quando Gloria iniziò ad aiutarla a spogliarsi.
 
III
 
 INCONTRO CON L'OCCULTO
 
Ovviamente, Gloria non le fece alcunché. Si limitò ad aiutarla a svestirsi, le prestò degli indumenti caldi e puliti, le mise addosso una coperta, le diede del paracetamolo e le preparò una camomilla. Infine la fece stendere sul proprio letto e lasciò che si addormentasse.
Come sempre, Helen sognò nuovamente lo scheletro.
Passò tre giorni con la febbre, al termine dei quali ringraziò la sua compagna di stanza e si scusò con lei per il comportamento assurdo che aveva adottato quella prima sera. Le disse che aveva ricevuto una brutta notizia a proposito della famiglia, che per questo motivo era sconvolta ed era rimasta tutto il giorno sotto la pioggia, prendendosi l'influenza. Gloria sembrò capire e non le pose troppe domande. Le chiese soltanto se la questione in famiglia si fosse risolta o se fosse tanto grave. Helen aveva risposto che andava meglio, anche se al primo momento aveva temuto fosse qualcosa di peggio. Gloria si rassicurò alle sue parole. Helen era certa di averle dato un bello spavento con la sua scenetta da pazza, ma ora aveva soltanto fretta di togliersi di torno la sua apprensione. Doveva cavarsela da sola in quella situazione, e nessuno doveva essere coinvolto.
Solo dopo quei tre giorni aveva visto la risposta di Sarah al suo messaggio. Va bene. Le diceva concisa. Forse c'era rimasta male, anzi, sicuramente. E aveva tutte le sue buone ragioni perché così fosse, ma Helen aveva altre priorità al momento.
Si era resa conto di quanto fosse stata stupida e impulsiva nel credere che chiunque potesse star tramando per farle del male; in quel modo avrebbe soltanto finito per procurarsene da sola. E poi non era un pensiero plausibile.
Non che lo fosse quello che le era saltato in mente a seguito del suo primo risveglio senza febbre. Lo scheletro le si presentava ogni notte, senza tregua, e se l'interpretazione dei sogni non l'aveva aiutata, e lo stesso era valso per tutte le altre ricerche, forse doveva affidarsi a qualcuno.
Qualcuno esperto a proposito dell'occulto.
Helen aveva sempre riso di certe cose, trovandole patetiche oltre che assurde e comiche, ma aveva deciso di tentare il tutto per tutto per scoprire che cosa l'affliggesse nel profondo.
Non poteva credere di avere davvero la morte alle calcagna, sarebbe stata una soluzione troppo semplice. E inaccettabile.
Helen voleva continuare a vivere, e anche liberarsi della sua ossessione. Voleva tornare a essere la persona audace e forte di sempre.
Aveva trovato quel contatto su internet. Sogni ricorrenti? Ossessioni? Paura di perdere il controllo? E' arrivato il momento di incontrare Madame Luna Calante. Tutto troverà senso tra i misteri dell'occulto. Helen non aveva potuto crederci quando si era vista prendere un blocco di carta e segnarvi sopra numero di telefono e indirizzo. Sulla sua scrivania, c'era anche il foglio compromesso dalla pioggia sul quale aveva tracciato una riproduzione dello scheletro. Gloria l'aveva riposto nella sua stanza dopo averla messa a letto, tre giorni prima e, a giudicare da com'era piegato, non l'aveva aperto. Helen l'aveva fatto in quel momento: la carta si era bucata in più punti per via del bagnato e un angolo era andato perduto, ma per il resto il foglio era integro. Soprattutto, lo era il disegno. Lo scheletro era ancora perfetto, i tratti della grafite erano rimasti come appena fatti. Helen si era domandata se non potesse trattarsi di un segno.
Subito il giorno seguente aveva telefonato al numero di Madame Luna Calante e aveva preso un appuntamento con lei per la settimana successiva. La voce che le aveva risposto al telefono era calma e pacata, vellutata e soave, eppure le aveva dato i brividi. Quando quell'incubo fosse finito, probabilmente ci avrebbe riso su, come era solita fare normalmente.
Per tutta la settimana, lo scheletro aveva continuato a infestare le sue notti. Di giorno, invece, non faceva altro che pensare al suo prossimo incontro con la chiromante. Immaginava una figura vestita di nero, oppure di rosso, dalle lunghe unghie smaltate (anch'esse degli stessi colori del probabile abito) e dagli occhi penetranti. Si domandava che cosa avrebbe provato in sua presenza, se finalmente qualcosa sarebbe venuto alla luce. Nel contempo, però, si malediceva anche, perché non poteva credere di essere giunta a prendere in considerazione il sovrannaturale; lei che non ci aveva mai creduto. Eppure, la vita può riservare infinite sorprese, a seconda dei casi.
Si ripromise di non giudicare più nessuno a prescindere dalle sue idee formulate a mente fredda, perché quando si è sotto pressione, tutto assume diverse forme. E uno scheletro che tornava tutte le notti, non era una forma rassicurante.
Comunque fosse, durante quell'ultima settimana, si era sforzata di riprendere a frequentare le lezioni. Non che vi prestasse troppa attenzione; generalmente fingeva di prendere appunti e di seguire la spiegazione, ma almeno la sua presenza non avrebbe fatto sorgere strani sospetti tra i compagni di corso o i professori. Quando fosse arrivato il momento di sostenere un esame, ci avrebbe pensato.
In quei giorni aveva ricevuto un paio di telefonate da parte di sua madre, preoccupata ma rassegnata per il fatto di non sentirla mai. Helen si era sforzata di rassicurarla perché non le desse noia. Non voleva assolutamente che sua madre si accorgesse che c'era qualcosa che non andava, altrimenti sarebbe stata finita. Le aveva promesso che appena avesse potuto sarebbe tornata a casa. Al contrario non aveva più avuto notizie di Sarah e, per questo, era stata segretamente grata a sua sorella. Quando fosse stato tutto passato sarebbe tornata da lei; ma quello non era il momento.
Infine, il giorno prestabilito per l'incontro con la cartomante giunse. Helen si armò di coraggio e di fede e raggiunse il suo covo; o il suo ufficio, come lo chiamava Madame Luna Calante, dandosi così un'aria più professionale. Helen dovette attraversare buona parte della città per raggiungerlo; sui mezzi pubblici era arrivata a provare un tale stato d'angoscia che non riusciva assolutamente a restare ferma e seduta. Aveva addirittura notato qualcuno che la guardava basito, mentre lei continuava a sospirare e a spostare il peso nervosamente da una gamba all'altra, passandosi anche continuamente una mano tra i capelli. A tratti si mordeva anche le unghie e le pellicine.
Doveva ammettere con se stessa di aver definitivamente dato l'addio al suo autocontrollo, e la sensazione non era piacevole. Si diceva soltanto che voleva che quell'incubo finisse, comunque dovesse andare. Era stufa di provare quell'ansia.
Infine, nonostante il viaggio fino a destinazione le fosse sembrato infinito, raggiunse l'ufficio di Madame Luna Calante.
Aveva immaginato un luogo dall'aspetto molto più esoterico e sinistro, e invece si stupì dell'aria quasi naturale che si respirava in quella stanza. Il luogo si trovava al secondo piano di un palazzo vecchio, ma non fatiscente, e la sala d'attesa poteva addirittura dirsi accogliente. Le luci soffuse erano rilassanti, l'odore d'incenso piacevole e non soffocante. Non erano presenti strani simboli dal dubbio significato, ma soltanto delle poltrone in simil velluto viola e un basso tavolino con degli opuscoli sul tema dell'occulto sparsi su di esso. Le pesanti tende rosse erano chiuse, ma questo non era un particolare che infastidisse Helen. Anche perché, al contrario, la luce del sole avrebbe compromesso l'atmosfera creata da quella artificiale, flebile e avvolgente.
Per ingannare il tempo, Helen sollevò dalla superficie del tavolo uno degli opuscoli. Il suo titolo era Il potere segreto della mente. Una frase del genere non solo un tempo non l'avrebbe mai impressionata, ma l'avrebbe anche spinta ad accartocciare l'opuscolo e a lanciarselo alle spalle. Invece quella volta lesse tutto dall'inizio alla fine, e con molto interesse. Fu proprio quando raggiunse l'ultima frase che, come se fosse stata spinta da un tempismo che andasse oltre la semplice casualità, Madame Luna Calante la chiamò. Helen cacciò nella borsa l'opuscolo e si alzò in piedi.
Madame Luna Calante aprì la porta del suo studio e la invitò a entrare. L'odore d'incenso si fece più forte quando Helen oltrepassò la porta. Eppure se ne sentiva avvolta.
Su invito della chiromante, Helen si sedette al tavolo rotondo coperto da una lunga tovaglia verde, che recava su di sé tre candele accese e un mazzo di carte per i tarocchi voltate al contrario. Sul retro delle carte era raffigurato un rovo che formava dei circoli intorno a un sole e a una luna.
Helen si impose di ritrovare la compostezza (e con essa la dignità) e restò immobile a osservare Madame Luna Calante mentre questa prendeva posto di fronte a lei, sedendosi con grazia. Al contrario di ciò che aveva pensato, la chiromante non era vestita né di nero né di rosso, ma di azzurro, e le sue unghie erano candide. I capelli erano di un biondo leggermente più scuro di quello di Helen. Gli occhi scuri erano sicuramente penetranti, ma non suggestivi. 
La chiromante sorrise a Helen come per incoraggiarla. Helen si sentiva fuori posto in quel luogo che non aveva mai fatto per lei, ma si disse che, una volta per tutte, doveva trovare un senso a quel che stava succedendo per non uscire pazza.
Con un sospiro, rispose al sorriso di Madame Luna Calante.
-Eccoci, cara- cominciò questa dando riprova della sua voce soave e carezzevole -parlami del problema che ti affligge, vedrai che insieme troveremo un significato e niente sarà più così buio- proseguì sporgendosi sul tavolo e prendendo tra le sue una delle mani che Helen aveva appoggiato al bordo del tavolo. Così Helen si fece forza, e le raccontò del suo sogno che ricorreva da due mesi. Era la prima volta che ne parlava con qualcuno ad alta voce e, se da un lato l'affare la faceva sentire a disagio, dall'altro le diede un certo senso di serenità, perché era come liberarsi poco a poco di un enorme peso.
La chiromante ascoltò attentamente senza scomporsi e ogni tanto annuiva. Si espresse soltanto quando Helen terminò il suo racconto: -Non preoccuparti, cara- le disse in tono amichevole -la situazione è difficile e misteriosa, ma noi saremo in grado di districarla e farvi sopra luce. Ora consultiamo le carte- e, mentre lo affermava, prese in mano i tarocchi e iniziò a mischiarli tra di loro.
Helen si domandò per quale motivo Madame Luna Calante parlasse sempre al plurale, quasi lavorasse con qualcun altro, oppure come se anche lei fosse implicata nelle arti occulte tanto da dover avere la sua parte nella scoperta dell'arcano.
Helen voleva soltanto che le fosse detto da dove venisse quello scheletro e che cosa volesse, non diventare un'esperta di stregoneria o di qualunque altra cosa fosse.
Convincendosi a non pensarci osservò Madame Luna Calante estrarre la prima carta dal mazzo.
Il Carro. Lesse Helen. E la scritta era rivolta verso di lei, questo significava che la carta era al rovescio. Non conosceva granché di tarocchi, per l'appunto aveva sempre trovato stupide e patetiche certe cose, ma per sentito dire sapeva che alcune carte, se pescate al contrario, potevano assumere significati negativi. Helen osservò la cartomante con sguardo interrogativo. Il volto di quest'ultima non tradiva la minima emozione.
-Che significa?- domandò la ragazza tentando di apparire tranquilla. A dire la verità, però, non lo era affatto.
-Il Carro rovesciato non deve preoccuparti, cara- iniziò serena Madame Luna Calante -il suo significato è negativo, ma non c'è motivo di temere-. Helen la guardò senza capire. Da un lato provò l'impulso di andarsene e lasciare a metà quella seduta, che tanto le era estranea, ma non riusciva per niente ad alzarsi dalla sedia, né a staccare gli occhi dalla carta raffigurante il Carro.
-Questa carta mostra semplicemente la difficoltà di superare una situazione complessa, unita alla perdita del controllo- spiegò la chiromante -il tuo sogno ricorrente ti ha fatto perdere i tuoi punti fermi, ti ha messo in difficoltà, portandoti in un modo troppo oscuro per te- continuò. Helen annuì, sicura di aver compreso dove volesse arrivare.
-Ma il Carro ci sta anche dicendo che questa situazione va affrontata, anche se non sarà facile- e, detto questo, la donna in abito azzurro estrasse un'altra carta dal mazzo.
Ancora una volta questa era rovesciata, infatti Helen ne lesse il nome sul fondo che le si mostrava proprio sotto il naso. Rappresentava un vecchio che reggeva con una mano una lanterna e con l'altra un lungo bastone. Si chiamava L'Eremita.
-Anche questa è negativa?- chiese Helen, che cominciava a divenire insofferente e apprensiva. Le sembrava che quella seduta si stesse svolgendo troppo lentamente e, soprattutto, che non avrebbe portato a niente.
-Può darsi, cara-.
Quel cara stava cominciando a darle sui nervi.
-Questa carta è una chiara continuazione di quella che ci si è mostrata in precedenza. Il loro significato è ancora vago, ma tutto indica che dovrai affrontare delle prove, e che non sarà facile trovare una soluzione, potrebbe volerci del tempo, e tu dovrai avere pazienza e perseveranza- ancora una volta, il tono di Madame Luna Calante era molto pacato e leggero, quasi apatico.
Helen stava cominciando a perdere la pazienza, ma sopportò. Uscirono altre tre carte dopo il Carro e l'Eremita, il cui significato le era sempre oscuro, ma tentò di star dietro alle spiegazioni dell'esperta. Si trattò di quella del Matto, che si mostrò per il verso giusto, e che, stando all'interpretazione di Madame Luna Calante, stava a significare che avrebbe dovuto affrontare gli avvenimenti per quello che erano, con più leggerezza e serenità. La carta indicava chiaramente che tutto si sarebbe potuto risolvere, stava soltanto a Helen scegliere la via giusta per far fronte alle difficoltà.
Seguì L'appeso, che indicava il prossimo arrivo di avvenimenti importanti, e poi la Luna. Anche questa carta fu estratta dal verso giusto, ma pareva che, in questo caso, la sua positività subisse dei danni anziché esserne esente. La Luna diritta indicava una realtà falsa, sotto la quale scavare per raggiungere la verità, che avrebbe potuto non essere rosea, e crearle delle difficoltà. Inoltre, la Luna indicava palesemente anche l'illusione e la notte, luoghi onirici e irreali dove probabilmente questa verità risiedeva.
La chiromante disse a Helen che si accingeva quindi a estrasse l'ultima carta dal mazzo. Helen non si sorprese, ma sobbalzò comunque, quando le fu mostrata la carta della Morte. Non tanto per quella parola, che però lesse sottosopra (indice che la carta era uscita dritta), ma per la figura. Gli scheletri avevano iniziato a starle veramente odiosi, e non ne sopportava più la visione. Le sembrava che la perseguitassero.
-La carta della Morte?- domandò fingendosi sorpresa. -Significa mutamento. Qualcosa di nuovo sta sorgendo all'orizzonte, cara. E dovrai impegnarti per analizzarlo e affrontarlo- fu la vaga risposta di Madame Luna Calante.
A Helen la cosa proprio non andava giù. No, non funzionava.
-Non mi sembra che le carte siano molto precise, io vorrei capire l'origine del mio sogno ricorrente, non perdermi in un mucchio di frasi assurde sui cambiamenti e sui carri capovolti. Insomma, sto cercando di venirne a capo, non di finire più confusa di prima- esclamò con stizza, e quasi si alzò in piedi.
Madame Luna Calante le intimò tranquillamente di tornare a sedersi, di rilassarsi, promettendole che le avrebbe spiegato ogni cosa. Helen fece un profondo respiro e si impose si riprendere il controllo. Solo per cinque minuti, se non fosse saltato fuori nulla di utile se ne sarebbe andata e, perché no, avrebbe potuto fare un po' di casino nello studio della chiromante per lasciare un segno del suo infuriato passaggio.
-Quindi?- sbottò impaziente.
-Le carte sono misteriose, è vero, ma analizzandole la situazione si fa molto più cristallina, cara-.
Chiunque, da quel momento in avanti, l'avesse chiamata cara sarebbe certamente incorso nella sua ira.
Helen sollevò le sopracciglia come a voler incitare la chiromante a proseguire.
-Dovrai lottare. C'è qualcosa che ti insegue. Non per farti del male, ma per rivelarti un segreto, o per mostrarti una via che, da sola, non riesci a prendere in considerazione- Helen si rilassò a quelle parole, e cominciò anche a ritrovare l'interesse per la questione.
-È  il potere della tua mente che agisce e, si sa, la mente è molto più forte quando dormiamo- proseguì Madame Luna Calante. Helen ricordò l'opuscolo che aveva infilato nella borsa, intitolato appunto Il potere segreto della mente.
-E dove posso incontrare questo qualcosa che mi insegue? Come faccio a trovarlo?-
-Si nasconde nella notte. Devi andargli incontro da sveglia, e sarà lui a guidarti. Segui gli indizi del tuo sogno e lo troverai. Purtroppo non vedo altro-.
Helen immagazzinò quelle parole.
Cinque minuti dopo stava già lasciando lo studio di Madame Luna Calante, lanciando un'ultima occhiata alla carta della Morte ancora posata sul tavolo. Lo scheletro del suo sogno, lo scheletro che, forse, la cercava per rivelarle qualcosa.
Aveva già preso la sua decisione quando salutò la chiromante, e non si pentiva di avervi fatto visita.
 
IV
 
 NOTTI FREDDE, BUIE, SOLITARIE ... E INSANE
 
Helen quella sera andò a dormire tranquilla.
Sapeva che avrebbe sognato ancora lo scheletro, ma non voleva darsi pensiero. Non quella notte. Aveva preso la sua decisione, e da donna sicura qual era, era certa che l'avrebbe portata fino in fondo, affrontando le sue paure e i suoi demoni pur di venire a conoscenza della verità, ma voleva concedersi un ultima notte di riposo e di pace. Nel sonno avrebbe visto sempre la stessa immagine, ma avrebbe comunque dormito, e questo, prima di cominciare, era l'importante.
La mattina seguente si sentiva pronta, ma non era certamente quello il momento di agire. Perché qualunque cosa rappresentasse quello scheletro, lui viveva nella notte, ed era lì che l'avrebbe incontrato, bastava lasciarsi condurre.
La chiromante a cui si era affidata il giorno precedente le aveva detto di seguire gli indizi che il potere della sua mente le proponeva. Ma a quali segnali poteva affidarsi? Se l'era domandato solo per un secondo, nella stanza dedicata all'occulto. Si era risposta subito.
Tutto ciò che vedesse durante il sonno era un corridoio infinito e uno scheletro che le andava incontro. Lo scheletro. Un simbolo di morte? Era possibile, ma forse non era necessariamente pericoloso. Le carte avevano parlato chiaro, ci sarebbero stati dei cambiamenti. Forse si trattava, per l'appunto, solo di un indizio. Un indizio che le suggerisse dove cercare, dove dirigersi. Perché doveva incontrarlo, di questo ormai era sicura. Lui la stava chiamando, anche se Helen non sapeva per dirle che cosa.
Ed era uno soltanto il luogo che le era venuto in mente per trovarlo; l'unico che, con gli scheletri, potesse avere qualcosa a che fare.
Vi si avventurò la sera appena successiva al suo incontro con Madame Luna Calante
Quel giorno si era sforzata di presentarsi in facoltà e di seguire le lezioni, ma in realtà aveva continuamente pensato a tutt'altro. E aveva riletto più volte quell'opuscolo. Il potere segreto della mente. Helen era sorpresa e attratta dalla vastità di questo potere, e dalle sue capacità.
Sperava soltanto di essere in grado di liberarlo a dovere. Lui era lì con lei, la chiamava, e voleva mostrarle qualcosa.
Aveva portato con sé soltanto una torcia, che aveva nascosto dentro un marsupio che si era legata in vita, per il resto voleva affidarsi soltanto alle forze che la circondavano.
Entrò in quel luogo di morte che era pomeriggio e c’era ancora un po’ di luce. Camminò fingendosi tranquilla e noncurante, con il capo chino e le mani in tasca, e simulò di star cercando il ricordo di una persona a lei cara.
In realtà pensava soltanto a quel che sarebbe capitato quella notte. Lui sarebbe apparso subito? Forse avrebbe dovuto pazientare, così come suggerivano le carte di Madame Luna Calante.
In ogni caso, Helen si ripromise che non si sarebbe data per vinta, non finché il suo scheletro non avesse deciso di uscire finalmente allo scoperto.
E quale luogo migliore per auspicare l’arrivo di un simbolo tanto oscuro, se non il cimitero? Helen si domandò se lo scheletro la stesse già osservando, magari nascosto dietro una delle lapidi.
Trascorse quel pomeriggio come in una sorta d’irrealtà, muovendosi come un’ombra tra le pietre erette per i morti, allontanandosi sempre più dall’uscita. Osservò tanta gente raggiungere le tombe dei propri cari, porvi accanto dei fiori, recitare una preghiera, e poi andarsene.
Helen realizzò che in quel cimitero erano sepolti i suoi nonni, ma non volle andare a far loro visita.
Il suo scopo, quella volta, era un altro, e non c’era niente che importasse di più.
Fu per questo che si accovacciò nelle vicinanze di un mausoleo sperando di non essere vista, quando ormai cominciava a fare buio e i cancelli stavano per essere chiusi. Stava iniziando a fare anche davvero freddo, ma Helen non volle curarsene.
Osservò di soppiatto, raggomitolata su se stessa, il custode che perlustrava la zona per scovare eventuali intrusi, ma lei si era nascosta sufficientemente bene e non fu notata. Quando la luce della torcia dell'addetto si fu allontanata del tutto, Helen accese la sua.
Aveva il respiro accelerato, le mani gelide e il cuore a mille, ma si sentiva abbastanza forte da affrontare le proprie paure. Nel silenzio irreale dei morti, iniziò a puntare la sua unica fonte di luce intorno a sé, in nessun luogo definito.
Davanti, a destra e a sinistra, poi si voltò e illuminò la porzione di cimitero alle sue spalle. Di nuovo a destra e a sinistra.
Niente.
Decisa, scelse di muoversi. Doveva perlustrare ogni angolo: di certo lui l'aspettava, ma non le sarebbe apparso da un momento all'altro come per magia, come faceva nel sogno. Non poteva essere tutto così semplice.
Per quanto si dicesse sicura, il suo passo era leggermente incerto mentre si muoveva. Teneva la torcia bassa, e la spostava da un lato e dall'altro, cercando di far penetrare la sua luce anche negli angoli, senza lasciarsene scappare neanche uno.
Ancora niente.
Helen non si perse d'animo, e proseguì.
Giunse infine improvviso il rumore che la fece sussultare (e quasi gridare). Si riscoprì tremante dopo aver realizzato che si trattava soltanto del gracchiare di un corvo. Non poteva permettersi di spaventarsi per un nonnulla. Si disse cercando di essere severa con se stessa, doveva mantenere il suo sangue freddo. Non che le ci sarebbe voluto poi molto per conseguirlo, pensò con una punta di doloroso sarcasmo, date le basse temperature. D'altro canto, ormai era novembre.
In effetti, le dita che stringevano la torcia iniziavano a dolerle non poco.
Ma Helen sopportò, più perché volesse fu perché doveva farlo. Non si sarebbe data pace fino a quando non avesse trovato la figura che la chiamava.
Ma quella notte non trovò nulla; aveva vagato fino all'alba tra le lapidi, sicura di aver controllato più e più volte tutti gli angoli, ma non aveva avuto successo. Poco male, aveva pensato per incoraggiarsi, sapeva di dover avere pazienza. Fu per questo che tornò la notte seguente.
Ancora una volta portò la sua fedele torcia con sé.
Di nuovo fu certa di aver ispezionato ogni spazio, perfino il più recondito ma, ancora una volta, l'alba giunse senza che dello scheletro avesse trovato traccia.
La terza notte si domandò se stesse cercando la figura giusta; forse l'immagine nel suo sogno era soltanto un simbolo che le indicava dove cercare, ma non doveva aspettarsi davvero un'apparizione del genere. In effetti, per quanto stesse perdendo la propria lucidità, riuscì a comprendere che non sembrava affatto facile che uno scheletro saltasse fuori dal nulla ciondolando sulle proprie ossa. Come invece faceva nel sogno.
Ma sogno e realtà, per quanto correlati, restavano due mondi distinti. Il potere segreto della mente non era semplice da interpretare, per questo doveva sforzarsi di vedere oltre l'immagine fisica che mentre dormiva era tanto nitida.
Eppure era certa di trovarsi nel posto giusto.
Fu per questo che, tremando vistosamente per il freddo (oramai erano tre notti che trascorreva ore all'aperto), iniziò a leggere uno per uno i nomi riportati sulle lapidi. Era alla disperata ricerca di un altro indizio, e da qualche parte doveva saltar fuori.
Anche perché ormai stava impazzendo.
Sussurrava decise imprecazioni tra i denti mentre la sua mano tremante scandagliava i monumenti mortuari che incontrava sulla via.
Tutti nomi vuoti, sconosciuti, freddi e distanti. Incappò nelle tombe dei nonni, ma non vi fece più di tanto caso. Non cercava un membro della sua famiglia, ma qualcosa di oscuro e nascosto. Non sapeva esattamente che cosa stesse cercando, ma era certa che non avrebbe avuto dubbi, qualora la soluzione le si fosse parata davanti agli occhi.
Eppure di questa soluzione, non vi fu nemmeno l'ombra né quella notte, né le tre successive.
Oramai Helen non dormiva da quasi una settimana. Una settimana senza che vedesse lo scheletro. Una settimana senza trovarlo.
Eppure doveva; doveva assolutamente. Lui doveva parlarle.
Stava cominciando a vedere tutto nero anche di giorno. Dopo quella settimana di follia, decise che l'università poteva aspettare per un po', ed essere tralasciata. Non solo non ci pensava, ma non le interessava affatto. Non considerava più lo studio o le sue ambizioni, solo la presenza che la chiamava a sé. Eppure non sapeva più che cosa stesse cercando.
La notte che seguì fu più fredda delle precedenti: non aveva piovuto, ma quel giorno il cielo era rimasto sempre coperto, e una pesante foschia si era abbattuta sulla città rendendo flebile la visibilità. Helen aveva cominciato a vedere storpiati i volti delle persone normali, che sembravano aver assunto le sembianze di spettri inquietanti. Tentò di convincersi che la causa di questo strano fenomeno era la nebbia, e le sue notti insonni sicuramente avevano contribuito, ma dentro di sé cominciava ad avvertire che c'era qualcosa in più.
Forse lo scheletro, quella presenza sinistra che l'aveva guidata fino al cimitero, era entrato in lei senza che Helen avesse avuto modo di accorgersene. Forse, quei cambiamenti di cui avevano parlato i tarocchi, riguardavano proprio questo.
La verità era che Helen non sapeva più che cosa aspettarsi, né che cosa cercare.
Pensava soltanto alla notte, luogo selvaggio e onirico dove lui continuava a nascondersi.
Non aveva più considerato nessuno di quelli che le stavano intorno: né i suoi genitori, né sua sorella, né la compagna di stanza o gli altri amici. Per lei esisteva soltanto il regno dei morti; i vivi sembravano far parte di un altro pianeta.
Quella sera, Helen tremava di freddo già prima di varcare il cancello del cimitero. Tossiva frequentemente e si sentiva stordita, ma non le importava affatto. Dove sei? Continuava a pensare soltanto. Dove sei?
Con la sua fedele torcia stretta nel pugno si avventurò ancora una volta tra i meandri dell'oscurità, nuovamente alla ricerca di ciò che si occultava ai suoi occhi. Si faceva luce da ogni lato, ma allo stesso tempo si addentrava sempre più tra le ombre e ne veniva risucchiata.
-Ho atteso abbastanza, ormai. Fatti vedere!- esclamò stizzita parlando piano e con la voce tremante. Eppure non aveva più paura, perché la follia può portare anche a questo.
Le prime ore di quella notte, però, com'era avvenuto fino ad allora, non portarono a niente.
Il suo respiro accelerato si condensava in spesse nuvole di vapore, le dita si ghiacciavano. A dire la verità, non si sentiva più i piedi.
Fu per questo che a un certo punto, stanca, sconvolta, spossata e dolorante, si sedette ai piedi di una lapide. Si strinse le ginocchia al petto nel tentativo di scaldarsi ma, dopo tutto il freddo che le era entrato nelle ossa, procurarsi calore sembrava impossibile.
Piagnucolava tra sé e sé, come non aveva mai fatto prima d'allora. Si dondolava avanti e indietro e la torcia, ancora stretta nella sua mano, faceva correre la sua luce avanti e indietro, come a simulare il movimento di un'altalena.
Un'altalena che oscilli tra la sanità mentale e la follia.
-Fatti vedere, dannazione! Dove sei?- continuava a ripetere Helen sull'orlo delle lacrime. Si sentiva come una bambina piccola molto vicina a sperimentare un attacco di panico. Avrebbe voluto avere con sé qualcosa di morbido da stringere, qualcosa che la facesse sentire più al sicuro e non in trappola, non così sola. Ma c'erano soltanto le sue ginocchia da tenere strette a sé. E improvvisamente Helen si rese conto che queste si erano fatte più magre. Sapeva che avrebbe dovuto provare un senso d'orrore, ma non fu così. Respirando affannosamente, tentando di uscire dal suo stato di irrealtà, si passò la punta delle dita sulle rotule sporgenti. Aveva mangiato pochissimo in quei giorni, giusto il necessario per mantenersi in vita, per il resto, l'appetito le era sempre mancato.
-Sei in me? Mio Dio, sei in me?- si ritrovò a domandare al nulla, in tono lamentoso. Intanto continuava a dondolarsi; la sua torcia continuava il suo gioco di luce a metà tra la vita e il mondo dei pazzi.
-Perché non mi rispondi? Rispondi!- proruppe Helen alzando finalmente la voce. Perché quel mostro l'aveva chiamata tanto insistentemente, se poi non aveva intenzione di uscire allo scoperto? Fu così che crollò. Senza poterne più fare a meno, iniziò a piangere. I suoi erano i singhiozzi spaventati di una bambina che si sia svegliata al buio e voglia la mamma. Ma ormai, Helen viveva soltanto circondata dal buio, compreso quello che le albergava nella mente.
Senza rendersene conto si portò il pollice alle labbra e iniziò a succhiarselo. Una ciocca di capelli biondi le cadde davanti al viso, mostrandosi crespa e appiccicaticcia. Era una settimana che non si lavava i capelli, e il tempo umido di quei giorni glieli stava rovinando.
Ma Helen non se ne curò, come ormai non si curava più di niente. Come ormai non si curava più nemmeno di se stessa.
Continuando a singhiozzare, e sentendosi avvolgere sempre più da una crudele oscurità che, prima d'allora, non le aveva mai fatto paura, Helen continuò a ripetere frasi sconnesse fino all'alba, quando alla fine se ne andò, eludendo ancora una volta i controlli.
Voleva soltanto che lui si mostrasse. Voleva soltanto questo. Perciò non avrebbe demorso.
Infatti tornò la sera successiva, e anche quelle che seguirono. Non trovò mai niente, ma non si diede per vinta. Ricordava che le carte avevano predetto che, scoprire la verità, non sarebbe stato facile.
Oramai erano passate tre settimane dalla sua prima visita al cimitero.
Aveva tentato di rimettersi in sesto, anche se soltanto per piccole cose: mangiava un po' meglio, si faceva regolarmente la doccia, e di giorno cercava di dormire qualche ora (sempre facendo lo stesso sogno), ma non era tornata a frequentare l'università, per quella ci sarebbe stato tempo quando quell'incubo fosse finito. Si premurava anche di evitare scrupolosamente la sua compagna di stanza; infatti, Helen entrava in camera soltanto quando Gloria non c'era e si chiudeva subito dentro. Di solito approfittava dei momenti in cui l'amica si trovava a lezione per tornare a dormire o a rifocillarsi. Aveva trovato dei suoi biglietti sulla scrivania della zona comune. Gloria era preoccupata per lei, ma Helen non si era premurata di risponderle. Non le lasciò nemmeno due righe, tanto per tranquillizzarla.
La sua mente ormai viveva altrove.
E quella notte, dopo tre settimane di follia, aveva deciso che sarebbe riuscita ad abbattere i muri che la separavano da quell'altrove. Sapeva che non avrebbe retto ancora per molto, per questo doveva finire tutto.
Comunque dovesse finire.
Questa volta, si preparò per combattere il freddo. Per fortuna non le era ancora venuta la febbre, ma continuava ad avere quella brutta tosse, e Helen voleva evitare di essere costretta a letto. Dunque indossò i guanti, la sciarpa e un cappello di lana, oltre a un pesante cappotto. Questa volta lasciò in stanza il marsupio e preparò uno zaino, dove inserì la solita torcia (e delle batterie di riserva, prima che la luce l'avesse abbandonata nel bel mezzo della notte), un termos con del caffè caldo e una coperta di plaid.
Helen si sentiva pronta, e più sicura che mai.
Ormai non entrava più al cimitero dall'ingresso principale. Era sicura che, così facendo, avrebbe attirato l'attenzione di uno dei custodi, perché nessuno va a visitare la tomba dei propri cari tutti i santi giorni.
Aveva trovato una sorta di passaggio segreto che consentiva di introdurvisi all'interno trovandosi in uno degli angoli più remoti del vasto spazio, e quello era perfetto per lei.
Così facendo, non fu costretta a recarsi nel solito luogo che custodiva le sue notti già nel tardo pomeriggio. Fu lì solo verso mezzanotte.  
Quella notte non avrebbe ammesso un altro buco nell'acqua; avrebbe dovuto trovarlo.
Non si mise però a cercarlo forsennatamente, come aveva fatto nelle settimane precedenti. Voleva conservare le energie e la serenità; voleva che fosse lui ad andare da lei. Era così che doveva essere.
Perciò si limitò a sedersi ai piedi di una vecchia lapide (era davvero vecchia, la data di morte del malcapitato risaliva al 1916) e, dopo aver estratto il plaid dallo zaino, se lo pose sulle spalle. Tirò fuori anche la torcia, ma per il momento non l'accese.
-Sono qui, mi hai sentito? Sono qui!- fece ad alta voce, ma senza urlare. Voleva che lui, e soltanto lui, la sentisse. -Questa notte non mi sfuggirai- aggiunse poi rivolgendosi più a se stessa, questa volta.
Trascorsero così la prima ora, la seconda e la terza. Finalmente Helen si era decisa a portarsi dietro un orologio dal display luminoso, di modo da non dover essere costretta a riprendere la cognizione del tempo soltanto grazie al sorgere del sole.
Le venne nuovamente voglia di piangere (l'aveva fatto parecchie volte durante le notti già trascorse) quando notò l'ora, e la totale assenza di segnali che ancora le si mostrava alla vista, ma si impose di mantenere la calma. Lui non si sarebbe mai fatto vedere, se lei non fosse stata presente e lucida con la testa.
Fu dopo circa mezzora che sentì quel rumore. Sembrava un suono di passi, ma era attutito da qualcosa. Passi sulle foglie cadute dagli alberi.
In silenzio si alzò e seguì la chiamata. Era certa che fosse giunto il momento, ne era pienamente sicura.
Ovviamente, portò la torcia con sé. Si era tanto abituata all'oscurità di quella notte che, quando l'accese, la luce le fece dolere gli occhi come se d'improvviso le forse apparso davanti il sole di mezzogiorno.
Con passo deciso, proseguì.
A propria volta stava calpestando le foglie cadute dagli alberi, ma questo non la distolse da quel suono che udiva tanto chiaramente e che non sembrava né avvicinarsi né allontanarsi. Era come se fosse lì. Era lì.
Di colpo si fermò sui suoi passi. Girò su se stessa, puntando la torcia in ogni direzione. Niente.
Eppure sentiva calpestare le foglie.
Tentò di calmare il respiro che via via si faceva più veloce, intanto seguitava a girare in tondo, sempre facendo attenzione alla porzione di spazio che illuminava di volta in volta.
Quel suono era così nitido.
Dove sei? Dove sei? Dove sei? Continuava a ripeterlo nella mente, sicura che lui potesse sentirla. E la sua voce mentale a tratti sovrastava, e a tratti veniva sovrastata, da quel rumore di foglie.
Stava ancora girando su se stessa, quando si accorse che stava immaginando tutto, che quel suono era solo nella sua testa.
Oh no. No. No. No. Pensò disperata. Non voleva impazzire. Non voleva finire i suoi giorni alla ricerca di uno spettro che non si mostrava.
E forse, il suo scopo era solo quello.
-Se non vuoi farti vedere, allora lasciami in pace, hai capito? Lasciami in pace!- urlò con quanto fiato avesse in corpo. Lo scheletro continuava a infestare i suoi sogni, anche se questi ormai si manifestavano solo di giorno; ma perché le appariva costantemente, se poi non si faceva vedere?
Helen era stanca. Anzi, era esausta.
-Esci subito, maledetto! Oppure vattene dalla mia testa, vattene! Non ho paura di te se è questo che credi. Non ho paura- gridò ancora, e lo fece talmente forte da sentir male alla gola quando lasciò andare l'ultima parola.
Improvvisamente, poi, vide quell'ombra. Si muoveva tra le lapidi di fronte a lei e le andava incontro. E sentì chiaramente che non era lui, non avrebbe potuto esserne più sicura. Puntò la torcia in quella direzione, ma l'ombra scivolò via, sparendo alla sua vista. Poi tornò ancora.
Così Helen fece ciò che faceva sempre nel suo sogno con lo scheletro: scappò.
Non era lui. Non era colui che voleva parlarle. Forse era stata una trappola, lo era stata fin dall'inizio. Che cosa mai le era entrato nella testa?
Questi erano i suoi pensieri mentre correva a perdifiato. Il cuore sembrava esploderle nel petto, ma Helen non smise di correre.
Non stava piangendo, ma in questo caso avrebbe voluto sentirsi stimolata a farlo.
Detestava quell'aridità che giungeva sempre nei momenti sbagliati.
Eppure, nonostante l'assenza di lacrime, Helen stava morendo di paura. Correva al buio più totale, perché nell'istante in cui era stata presa dal panico aveva lasciato cadere a terra la torcia, senza rendersene conto.
L'ombra che la seguiva era dietro di lei, Helen ne sentiva i passi e la presenza. E il respiro.
Un'altra ombra però le apparve all'improvviso davanti, e la ghermì. Helen urlò con quanto fiato avesse in gola.
Anche l'ombra urlava, mentre la scuoteva.
-Helen!- stava dicendo.
 
V
 
SCHELETRO
 
Corre velocemente, e non si stupisce del fatto che il corridoio sembri infinito.
È invece stupita dalla distanza tra lei e lo scheletro, che continua a diminuire. Non è rapido, la sua andatura è traballante e incerta, come può esserle così vicino? Eppure lo è sempre di più.
Helen, di tanto in tanto, mentre continua a correre, si volta a guardarlo. Lo scheletro prosegue nella sua tetra camminata e nei suoi movimenti agghiaccianti come in un rituale: un braccio contro il muro, l'altro rivolto al pavimento. Trascina i piedi. Il cranio continua a ricadergli in avanti.
Oddio. Oddio. Oddio. E' questo che Helen pensa in quel momento. Ma perché si muove in quel modo? Non potrebbe semplicemente correrle dietro?
Il corridoio continua a estendersi all'infinito, lo scheletro accorcia sempre più le distanze.
Poi all'improvviso le è addosso. Ha sentito le sua dita afferrarla (prova un brivido tremendo nel venirvi a contatto, per via di quei brandelli di pelle attaccati alle ossa). Helen si ritrova a terra, lo scheletro a ricoprire il suo corpo.
Ma non sarebbe corretto dire che questo l'abbia buttata a terra. Sembra le sia caduto addosso.
E ora è lì che giace.
Immobile.
E Helen grida sotto il suo peso.
 
*
Helen quella volta faticò a svegliarsi. Sforzava gli occhi affinché si aprissero, ma questi non volevano saperne. Intanto, continuava a vedere nella mente la stessa immagine, ripetuta senza sosta. E in più sentiva quello strano rumore.
Nel sonno, Helen non riusciva a capire da dove provenisse, né quale fosse la sua natura. Era un suono strano, gutturale, e sembrava mostrare sofferenza. Eppure non lo riconosceva. Era forse lo scheletro a emetterlo? A dirla tutta, le sembrava di no. Ma in fondo Helen era così occupata a sfuggirgli da non volerci fare troppo caso.
Infine, dopo che lo scheletro le fu caduto addosso per l'ennesima volta, Helen riuscì a raggiungere la veglia. Fu come aver appena ripreso a respirare e, mentre lo faceva, le dolse il petto.
Tossì con forza, e il dolore si intensificò.
Si tirò a sedere emettendo un lamento e premendosi la mano al petto, poi si sforzò di respirare a fondo per calmarsi.
Ci mise qualche istante a mettere a fuoco la stanza, a capire dove si trovasse. Si stupì nel rendersi conto di essere a casa dei suoi genitori, ma dopo qualche minuto iniziò a ricordare: il cimitero, il suono di foglie calpestate che era certa di aver sentito, ma che in realtà aveva solo immaginato, l'ombra che la inseguiva, quella che l'aveva afferrata parandosi davanti a lei.
Iniziava a dare un volto a tutto ciò.
Era ancora confusa, eppure d'un tratto si accorse che quel rumore, quello che sentiva nel sogno e che non capiva da dove nascesse, non era stato solo il frutto della sua immaginazione. Era reale, palpabile, e aveva una provenienza precisa.
Si alzò lentamente. Le girava un po' la testa, e fu per questo che al primo momento si sostenne alla parete, ma si riprese presto.
Tossì di nuovo, e ancora una volta si lamentò per il dolore scaturito dal petto.
Incurante del proprio stato di salute, Helen iniziò a muoversi a piedi nudi verso l'origine del suono; intanto rivedeva nella testa, con più chiarezza, quant'era accaduto quella notte. Aveva davvero immaginato il suono di foglie calpestate che si era ostinata a voler seguire, ma non era stato lo stesso per le ombre che avevano preso a inseguirla. Solo che non erano davvero ombre, solo persone che si muovevano al buio. Quando aveva puntato la luce della torcia verso l'uomo dal quale aveva cominciato subito a scappare, le era sembrato che l'ombra scivolasse via, ma non era così: in realtà era stata lei a distogliere la luce dalla figura, perché questa si era riflessa su qualcosa di metallico, e le aveva provocato dolore agli occhi. Ora capiva che si trattava di un agente di polizia e che, ovviamente, si trovava lì per lei.
L'ombra che invece l'aveva afferrata e aveva urlato il suo nome altri non era che suo padre. Suo padre, che doveva aver chiamato la polizia per andare a cercarla. Helen suppose che la famiglia fosse stata avvertita della sua assenza dall'università, e forse erano saltate fuori le sue continue visite al cimitero dalla testimonianza di qualcuno che l'aveva notata.
Stava di fatto che oramai era a casa, e non c'era più speranza di trovare lo scheletro. I genitori non le avrebbero mai permesso di andarsene in giro indisturbata la notte e anzi, Helen dubitava che l'avrebbero lasciata tornare al dormitorio dell'università.
Mentre pensava a tutto ciò, si avvicinò sempre più alla fonte del suono che, ne era sempre più certa, non stava immaginando; c'era soltanto la porta del bagno a dividerla da esso.
E Helen l'aprì.
Sbatté le palpebre più volte e inizialmente faticò a riconoscere quella figura inginocchiata di fronte alla tazza. Quella figura, che emetteva il suono di chi stia rimettendo.
Aveva il viso ricoperto dai capelli biondi, le dita si serravano ad artiglio sulla tavoletta del wc, l'addome seguitava a contrarsi. Indossava soltanto una canottiera e delle culottes.
A Helen corse un brivido profondo lungo la schiena, talmente intenso che quasi le attanagliò il cervello.
-Sarah- esclamò senza quasi sentire la propria voce.
Sarah alzò lo sguardo verso la sorella e le puntò addosso gli occhi. Occhi vuoti, spenti e morenti. Pensò Helen. E non fu l'unico pensiero a balenarle in mente.
Quanto è magra.
Si disse anche.
L'orrore in lei nacque prima che fosse trascorso un solo istante. Senza pensare si fiondò su di lei, la prese per le spalle e, allontanandola dalla tazza, la condusse a sé. Era la sua adorata sorella, ma Helen provò comunque un moto di raccapriccio quando avvertì le ossa sporgenti sotto le dita.
-Sarah, che fai? Che ti succede?- domandò Helen come se non fosse ovvio. Aveva sgranato gli occhi, e le stava venendo da rimettere a propria volta per lo choc.
Sarah si gettò tra le sue braccia; Helen dovette resistere all'impulso di respingerla a causa dell'orrore che la sua magrezza le ispirava.
-Io non volevo mangiare- iniziò Sarah singhiozzando -io non volevo, mi hanno obbligata. Io non posso mangiare- seguitò aggrappandosi alla sorella. Helen chiuse gli occhi e ricambiò la stretta. Le accarezzò i capelli dicendole piano di fare silenzio.
-Io non volevo nemmeno venire qui, stavo bene da sola. Andava tutto bene- proseguì Sarah stringendosi sempre più a Helen.
-Loro non capiscono, non hanno mai capito- concluse in un sussurro, ancora tra le lacrime.
Helen non sapeva dire se fosse il proprio quel cuore che batteva all'impazzata nel suo petto, perché era certa che il suo dovesse essersi per forza fermato.
In quel momento comprendeva tante cose. E ricordò anche il messaggio di Sarah di quel giorno, quando non si era nemmeno domandata di che cosa stesse parlando, e le aveva risposto con la prima frase venutale in mente.
Mi hanno presa. Le scriveva sua sorella, felice, e lei, insensibile e fredda, aveva concluso il tutto con un Sono felice per te. Non ricordava la domanda di Sarah a quell'agenzia di modelle. Era stata tanto indaffarata a cercare il suo scheletro, che aveva dimenticato l'ossessione di sua sorella per la moda. Difatti, a New York, Sarah lavorava come stilista. Ma il suo sogno, fin da bambina, era sempre stato quello di fare la modella.
La magrissima modella.
Aveva speso tanto tempo ed energie a cercare lo scheletro del suo sogno, e solo allora Helen si rendeva conto di averlo trovato, e di averlo avuto sempre così vicino. Helen pianse abbracciata a Sarah perché era stata un'egoista: aveva dato per scontato che lo scheletro nel suo sogno ricorrente avesse a che vedere con lei e con lei soltanto, aveva addirittura consultato una chiromante per scoprire dove cercarlo e, peggio di ogni altra cosa, aveva creduto alle fandonie che quella andava raccontando.
Lo scheletro del sogno voleva chiamarla, era vero, dirle qualcosa di importante, ma non si trattava di ciò che aveva creduto fin dall'inizio.
Era con Sarah che tutto aveva a che fare, era lei che le domandava aiuto.
E ora, a Helen non restava altro se non le sue lacrime e una sorella anoressica.
Si stupì soltanto di pensare una cosa. Una cosa che non avrebbe dovuto venirle nemmeno in mente: Sarah, cosi magra, faceva davvero impressione. Ma sembrava avere ben poco a che fare con lo scheletro che Helen aveva sognato per tre mesi consecutivi.
 
*
 
Il giorno peggiore della vita di Helen, fu quello della morte di Sarah.
Dopo quella notte in cui la trovò in bagno a rimettere quel poco che i genitori l'avevano obbligata a mangiare, aveva deciso di prendersi cura di lei. Aveva anche lasciato definitivamente l'università per starle accanto a tempo pieno.
Il giorno successivo aveva appreso da sua madre che lei e suo padre non erano mai riusciti a mettersi in contatto con Sarah da quanto era tornata in città, quasi tre mesi prima e che, se quella notte era a casa con loro, era soltanto perché erano stati contattati dall'ospedale in cui la ragazza era stata ricoverata in seguito a uno svenimento.
Sarah era diventata anoressica, non ci vollero esami per dimostrarlo, ma era maggiorenne, per cui non firmò il consenso al ricovero in ospedale e se ne andò contro il parere del medico. Era così debole, però, che i genitori non faticarono a condurla a casa con loro.
Quella sera l'avevano forzata a mangiare qualcosa, ma lo stomaco di Sarah, ormai abituato all'inattività, non aveva retto.
Helen aveva pianto più e più volte quand'era da sola, chiedendosi perché non avesse riflettuto, perché non avesse capito prima quanto il potere segreto della sua mente stesse tentando di riferirle.
Da quella notte in poi, Helen non sognò più lo scheletro.
Helen soffriva tantissimo per Sarah, ma era anche in collera con lei. Come aveva potuto ridursi in quello stato solo per far piacere agli occhi altrui? Se solo sua sorella fosse stata abbastanza forte da reggere, Helen l'avrebbe certamente presa a schiaffi.
Invece, quando si trovava da sola con lei, non faceva altro che sussurrarle dolci parole d'incoraggiamento e accarezzarle la fronte. Quel senso di raccapriccio nei suoi confronti, però, cresceva ogni giorno di più. Helen lo scacciò più e più volte, costringendolo nel luogo più nascosto e più profondo di sé. Sarah era sua sorella, e benché il suo stato le ispirasse ribrezzo, Helen era convinta di doverle restare accanto.
Un’infinità di volte aveva sfogliato quei giornali e quei cataloghi dove Sarah posava come modella, con i suoi occhi morti e la pelle che le si attaccava sempre di più alle ossa.
Helen l’aveva fatto aggredita da lacrime di rabbia.
Poi giunse quel giorno, e Helen perse definitivamente la ragione. E il controllo.
Aveva fatto di tutto affinché Sarah si riprendesse e tornasse a mettere su peso, ma ogni tentativo di ristabilirla era inutile. Sarah non collaborava, sembrava non attendesse altro che la morte.
E la morte giunse ai primi del mese di maggio.
Helen era appena uscita dal bagno quando vide Sarah sulla soglia della propria camera. Aveva un braccio appoggiato contro la parete, come per sostenersi, l'altro pendeva verso il suolo. Respirava a fatica; anzi, si disse Helen, forse non respirava affatto.
Sarah era più abominevole che mai: ormai era pelle e ossa. Un semplice scheletro con la pelle addosso.
E fu in quell'istante che Helen lo riconobbe.
Non appena Sarah iniziò a strisciare i piedi per raggiungerla, Helen strillò e iniziò a correre.
Lei e Sarah erano da sole in casa quel giorno, e Helen avrebbe tanto voluto che non fosse così. Per la prima volta nella sua vita, Helen avrebbe voluto non essere sola.
Sarah le andava incontro imperterrita; benché faticasse a tenersi in piedi, si avvicinava sempre di più. Helen si domandò se le sue gambe le stessero obbedendo a dovere, perché, nonostante tutto, non correva velocemente quanto avrebbe voluto.
E poi, improvvisamente, Helen si voltò a guardare Sarah e la sua tetra camminata di morte verso di lei: la testa a tratti le ricadeva sullo sterno, come se il collo non fosse in grado di sostenerne il peso. Trascinava i piedi. Si sosteneva al muro con un braccio.
Helen non faceva quel sogno da mesi, ma d'un tratto fu come se questo non l'avesse mai abbandonata.
Ora capiva perché, quelle notti ormai lontane, provava tutto quel terrore.
Fece appena in tempo a pensare che meritava tutto quello, per non essersi accorta di quanto stesse accadendo a sua sorella, quando inciampò, rovinando a terra. Sarah le fu subito addosso e le crollò sopra, forse ormai incapace di mantenersi in piedi.
Helen iniziò a urlare fin dal primo momento in cui avvertì il suo peso schiacciarle il corpo. Nonostante fosse leggera, non riuscì a togliersela di dosso; sentiva che Sarah la teneva ferma a terra, e si stringeva a lei con quel poco di forza che le restava.
Helen restò così, urlante, e sentì quella forza venire sempre meno, così come il respiro già flebile di Sarah.
I suoi genitori la trovarono un'ora dopo, con la sorella morta distesa addosso.
Helen urlava ancora.
 
 
**
Due righe di spiegazione a proposito di questa storia: "Scheletro" è stata ispirata da un cartellone pubblicitario rappresentante la settimana della moda di un paio di anni fa. Su di esso erano raffigurate cinque diverse modelle le quali, però, parevano avere tutte un aspetto comune: gli occhi; quegli occhi che sembravano morti e quasi facevano impressione. Occhi vuoti di chi vive solo per accontentare quelli degli altri, di occhi.
Così questa sensazione è finita in un racconto, ingarbugliata con la trovata pseudo-horror dello scheletro come apparizione onirica e con il tema del rapporto tra le sorelle.
Questo vuole essere una sorta di testo di denuncia e  porre una particolare attenzione sul ruolo e condizione della donna.
Quante ce ne sono di ragazze come Sarah, la cui più grande aspirazione è fondamentalmente quella di uccidersi pur di far piacere agli sguardi altrui?
Non si arriverà mai alla parità dei sessi fino a che si vedranno in giro immagini di questo genere, fino a che non si capirà che si deve essere se stesse e non quello che gli altri vogliono che la donna sia e rappresenti, sia essa la figura della "mamma in stile Mulino Bianco" o quella, appunto, della modella anoressica.
O molte altre ancora.
tellone pubblicitario che infestava Milano più di un anno fa, durante quella diavolo di settimana della moda. Ricordo che erano raffigurate cinque diverse modelle le quali, però, secondo me avevano tutte un aspetto comune: gli occhi; quegli occhi che sembravano morti e quasi facevano impressione. Occhi vuoti di chi vive solo per accontentare q
Due righe di spiegazione a proposito di questa storia: "Scheletro" è stata ispirata, fondamentalemente, da un orrendo cartellone pubblicitario che infestava Milano più di un anno fa, durante quella diavolo di settimana della moda. Ricordo che erano raffigurate cinque diverse modelle le quali, però, secondo me avevano tutte un aspetto comune: gli occhi; quegli occhi che sembravano morti e quasi facevano impressione. Occhi vuoti di chi vive solo per accontentare quelli degli altri, di occhi. 
Ed ecco che in qualche modo mi sono decisa a riportare questa mia sensazione in un racconto, ingarbugliando tutto ciò con la trovata pseudo-horror dello scheletro come apparizione onirica e con il tema del rapporto delle sorelle che, come si sa, mi è particolarmente caro. O, per lo meno, sono portata naturalemente a trattarlo. 
Insomma, questo voleva essere una sorta di testo di denuncia e, ancora una volta, vuole porre una particolare attenzione sul ruolo e condizione della donna. 
Quante ce ne sono di ragazze come Sarah, la cui più grande aspirazione è fondamentalmente quella di uccidersi pur di far piacere agli sguardi altrui? Quante come Helen, che non si accorgono di quel che accade accanto a loro finché non è troppo tardi? 
In fondo penso che non si arriverà mai alla parità dei sessi fino a che si vedranno in giro immagini di questo genere, fino a che non ci si sveglierà, capendo che si deve essere se stesse e non quello che gli altri vogliono che la donna sia e rappresenti, sia essa la figura della "mamma in stile Mulino Bianco" o quella, appunto, della modella anoressica. O molte altre ancora. 
uelli degli altri, di occhi. 
Ed ecco che in qualche modo mi sono decisa a riportare questa mia sensazione in un racconto, ingarbugliando tutto ciò con la trovata pseudo-horror dello scheletro come apparizione onirica e con il tema del rapporto delle sorelle che, come si sa, mi è particolarmente caro. O, per lo meno, sono portata naturalemente a trattarlo. 
Insomma, questo voleva essere una sorta di testo di denuncia e, ancora una volta, vuole porre una particolare attenzione sul ruolo e condizione della donna. 
Quante ce ne sono di ragazze come Sarah, la cui più grande aspirazione è fondamentalmente quella di uccidersi pur di far piacere agli sguardi altrui? Quante come Helen, che non si accorgono di quel che accade accanto a loro finché non è troppo tardi? 
In fondo penso che non si arriverà mai alla parità dei sessi fino a che si vedranno in giro immagini di questo genere, fino a che non ci si sveglierà, capendo che si deve essere se stesse e non quello che gli altri vogliono che la donna sia e rappresenti, sia essa la figura della "mamma in stile Mulino Bianco" o quella, appunto, della modella anoressica. O molte altre ancora. 

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Capitolo 5
*** Caduta ***


CADUTA
 
Non seppi mai come avvenne; successe e basta.
Ero lì. C’ero ogni giorno, poi, d’un tratto, ogni cosa sparì.
Ho vissuto per anni lì con te, nella mia mente, in quel parco giochi.
Io crescevo, tu no, ma a essere sincera non ci facevamo poi troppo caso.
Tenere la tua mano, anche se solo nella mia immaginazione, era incredibilmente rassicurante.
Tutti i giorni e tutti i mesi vivevo la mia vita, proseguendo per la mia strada; scoprivo nuove passioni, interessi e talenti in me, ma quell’angolo della mia mente era aperto a noi due sole, e potevo rifugiarmi lì in gran segreto, in tua compagnia.
Quante volte ci siamo spinte su quelle altalene? Quante volte ci siamo addormentate sull’erba accarezzata dalla pioggia?
Credevo che saremmo rimaste lì per sempre, insieme, anche se il tempo si era fermato solamente per te.
Poi, da quel giorno, non ci fu più nulla.
Non il parco giochi, non le altalene, non le nuvole, il vento, la pioggia e l’erba bagnata.
Non tu.
Tentai di entrare in quell’angolo di me che conoscevo io soltanto, ma mi persi; faticai a realizzare che non esisteva più, come se a mia insaputa fosse stato estratto dal mio cervello.
Rimasi lì, immobile. I piedi nudi nell’acqua gelida di un lago che non avevo mai visto prima d’allora. Un flebile vento, un po’ troppo adulto nei suoi sussurri, per essere quello con cui avevamo sempre giocato nel nostro luogo segreto.
Per il resto, c’era soltanto il vuoto, e io ero nel mezzo.
Ebbi la forza di chiedermi perché, ma rimasi lì, smarrita e afflitta. Avevo perso l’unico punto fermo della mia vita, l’unico luogo e l’unica persona dai quali mai mi sarei voluta separare.
Ma infine dovetti andarmene, e continuare con la vita di sempre.
Avevo dodici anni.
*
 
Il nome Angela non le era mai dispiaciuto ma, a conti fatti, disfarsi di quell’ultima lettera e presentarsi al suo pubblico semplicemente come Angel dava all’affare un tocco artistico in più, e lei teneva particolarmente a quel tipo d’immagine. Diceva sempre che l’arte sta anche nel saper assumere il volto stesso di quel che si crea.
Come ogni volta in cui dipingeva, Angie teneva i capelli legati in una crocchia alta, anche se, a dire il vero, non si curava troppo di renderla perfetta.
Era già qualche anno che aveva dato l’addio definitivo al castano naturale e aveva avuto il piacere di conoscere il rosso. Un rosso scuro e intenso, che non la faceva certo passare inosservata ma che, al contempo, le regalava una sorta di mistero nel quale rifugiarsi.
La stanza era percorsa a rapidi passi dall’avvolgente musica classica che sovente aveva ispirato la ragazza nelle sue tele e nell’armonia dei colori.
Le differenti forme d’arte si chiamano e rincorrono a vicenda era un’altra delle massime di Angel.
La luce che avvolgeva lei e il suo dipinto era calda e familiare e l’aveva sempre fatta sentire a suo agio.
Fuori pioveva appena; gocce silenti come inudibili rintocchi di campana.
Angie, quando era immersa nella sua arte, soleva fondersi con la casa e con l’esterno, come a voler creare un armonioso tutt’uno di elementi, e nulla le sfuggiva, quasi le sue percezioni si allargassero.
Sentiva anche quel gatto che cacciava in lontananza.
Teneva le maniche della maglia bordeaux arrotolate fin sopra i gomiti, di modo che non si macchiassero con la tempera; sedeva sul suo sgabello a schiena ritta, eppure rilassata, e la sua concentrazione era al massimo.
I suoi occhi vedevano oltre il dipinto che oramai aveva quasi totalmente preso forma.
Mancavano soltanto gli ultimi accorgimenti: qualche piccolo dettaglio ancora da aggiungere, o qualche sfumatura da perfezionare, ma anche queste ultime piccolezze richiedevano il loro tempo.
Un quadro è composto di dettagli.
Un altro talento di Angie era senz’altro quello di crearsi delle frasi celebri.
I soggetti che Angel dipingeva erano dei più svariati, le piaceva sperimentare: spaziava dagli ambienti naturali ai ritratti, da scenari fantastici ad altri legati alla vita quotidiana. Aveva anche dipinto animali o semplici oggetti, magari abbellendoli lavorando di fantasia.
Alcuni dei suoi quadri erano oscuri, altri colmi di luce; nessuno di essi si assomigliava.
L’unico aspetto che li accomunasse tutti era il simbolo che l’artista applicava ogni volta a lavoro ultimato, nell’angolo a sinistra della tela.
Valeva come una firma, anche se in realtà non era tale, e diceva molto di lei.
Angie aveva lavorato a quel quadro nelle ultime settimane: questa volta aveva riprodotto un luogo che conosceva, ma che non capiva per quale motivo le fosse tornato in mente, dopo tanti anni.
Prima di cominciare, non aveva nemmeno eseguito uno schizzo su carta, come era solita fare ogni volta che l’ispirazione le faceva visita.
Si era semplicemente seduta di fronte alla tela ancora bianca e aveva iniziato a lavorare di pennello.
Forme e colori erano venuti da sé.
E tra i colori, quelli dominanti di quel quadro erano il bianco e il blu, anche se questi sembravano imprigionati tra le catene di uno spesso alone grigio che Angie non era in grado di spiegarsi.
Forse era soltanto lei a sentirlo; forse nessun altro vi avrebbe fatto caso.
Ma Angie, ugualmente, non sapeva da dove venisse.
Improvvisamente si fermò. Il pennello rimase sospeso tra il suo volto e la tela.
Angel strinse gli occhi, come se d’un tratto di fosse resa conto che qualcosa le sfuggiva. Cercò di cogliere quel pensiero in sfrenata corsa verso l’oblio, ma lo perse prima che la sua ombra le sfiorasse la fronte.
In parte sconfitta e in parte ignara tornò a rilassarsi, e il pennello riprese fluidamente la sua via predestinata, adagiandosi nuovamente sul quadro quasi concluso.
Soltanto gli ultimi ritocchi, poi avrebbe finito.
Fu proprio quando l’ultima pennellata scivolò via con la potenza delicata e naturale di un’onda che si infranga sulla riva, che suonò il campanello.
 
*
 
Quando Angie aprì la porta, le sue labbra si distesero in un sorriso triste e comprensivo al tempo stesso: le faceva male vederla così, ma sapeva che la ragazza castana dall’altra parte dell’uscio aveva bisogno di lei.
Era sempre stato così.
Angel allungò la mano e strinse quella fredda dell’amica.
-Dominique- sussurrò –entra- e la strinse tra le braccia ancor prima di richiudere la porta.
Dominique si lasciò stringere e condurre verso la sala senza opporre resistenza, ma d’altro canto, con Angie, non ne opponeva mai: lei era l’unica con la quale si sentisse al sicuro.
Quando l’ebbe fatta sedere sul divano, Angie si inginocchiò di fronte all’amica; le accarezzò i capelli e il viso. Non era molto bagnata, fortunatamente la pioggia era leggera e sottile, ma sembrava davvero gelida; forse erano ore che camminava senza una meta, persa nell’infernale groviglio di se stessa. Non sarebbe stata la prima volta.
Angie conosceva Dominique dal primo anno del liceo; erano state fin da sempre grandi amiche, anche se quest’ultima aveva sempre manifestato grandi complessi ed enormi problemi.
La sua famiglia non era mai stata molto presente, ma le vere difficoltà Dominique dimostrava di averle con se stessa. Quando Angie l’aveva conosciuta, l’amica era già abituata da anni alle visite dallo psicologo: la maggior parte delle volte queste sortivano il loro effetto, ma poi Dominique aveva sbalzi d’umore terribili, e in quei momenti Angie era l’unica a cui fosse permesso di starle vicino.
Era anche l’unica ad avere tale pazienza.
Dominique alzò lievemente i suoi occhi spenti e, nel centro della sala, incontrò la tela di Angie.
-Oh no, stavi dipingendo! Scusa, Angie, scusa. Ti disturbo sempre nei momenti meno opportuni- piagnucolò la ragazza iniziando a dondolarsi sul posto.
Angel prese posto accanto a lei; le cinse le spalle con un braccio.
-Stai tranquilla, tu non mi disturbi mai- la rassicurò dolcemente -e poi ho finito- aggiunse dopo una breve pausa.
Lo sguardo di Angie corse a propria volta verso la sua creazione; quello strano alone grigio tornò ad avvolgerla, e in un attimo si domandò per quale motivo la turbasse.
Dominique, con il capo appoggiato alla spalla dell’amica, sembrò rilassarsi a quelle parole.
-Gli hai già dato un titolo?-.
Quella, secondo Angel, era la classica domanda da artista: le persone comuni solevano chiedere se potevano vedere l’opera completa o, in alternativa, non dicevano nulla, ma solo un’artista avrebbe potuto dare tanta rilevanza a un titolo. E Dominique era un’artista straordinaria, nella pittura quanto nella musica e nel componimento di poesia, ma la sua arte era complicata da capire, proprio come lei, ed erano in pochi ad apprezzarla.
Angel faceva parte di quei pochi.
Sorridendo, Angie scosse la testa -ancora no, credo che mi ci vorrà un po’ per deciderlo-. L’amica non disse nient’altro, ma Angel riuscì a intravedere il suo sorriso, ma più di ogni altra cosa lo captò. Quel sorriso appena accennato di colei che vede a fondo.
Angel sapeva che Dominique aveva capito al volo che tra lei e quel quadro c’era un rapporto particolare, del quale l’autrice della tela aveva anche un po’ paura.
Eppure non vi era ritratto nulla di spaventoso.
­-Come stai?- furono infine le parole che Angel pronunciò quando finì le proprie considerazioni a proposito del soggetto di quel dipinto.
Dominique sollevò impercettibilmente le spalle –così- affermò in un sussurro -sono nella fase in cui nemmeno il litio mi fa effetto, ma passerà, come sempre-. Angie le schioccò un bacio sulla testa -sì, passerà- la rassicurò. Dire di più, in quei momenti, era sempre superfluo. Spesso Dominique si rasserenava stando un po’ con lei, distraendosi parlando con la sua migliore amica. Spesso, ciò di cui Dominique aveva più bisogno, era di sentirsi ascoltata.
-Dormi in questi giorni?- tornò a chiederle Angel, apprensiva. Anche la mancanza di sonno non era una grande alleata della stabilità mentale della ragazza già problematica.
Angie sentì l’amica annuire contro la sua spalla.
-Sto prendendo questi- fece Dominique tirando fuori dalla borsa un flacone di calmanti; se lo passò da una mano all’altra, facendo risuonare le pillole all’interno. -Due ogni sera prima di andare a letto, ma voglio smettere di prenderle: mi danno assuefazione e mi tolgono lucidità, e questa è una cosa che odio-.
Il tono della sua voce sembrò scaldarsi all’improvviso nel pronunciare l’ultima parola, quasi la sola idea degli effetti causati dalle pillole la riempisse di fastidio e di rabbia.
Un fastidio e una rabbia che sembravano quasi fuori luogo in quella stanza ancora pervasa dalla rilassante musica classica. E lo stesso valeva per il turbamento di Angie; quella strana inquietudine che le girava dentro, facendosi sentire come una punta di spillo ogniqualvolta ripensasse al suo dipinto. Era lì, con la sua essenza grigia, e stava iniziando a infestare l’aria.
-Che ne dici? Ci ordiniamo la cena e poi facciamo una partita a Monopoly?-. Nel dire ciò la voce di Angel era apparsa naturale, eppure le era sembrato di fare una fatica enorme a farsela uscire dalla gola, quasi tornare dai suoi pensieri alla realtà fosse stata un’impresa sfiancante.
Dominique, al contrario, parve rilassarsi del tutto. Si gettò sul divano, distesa di schiena; rise e si coprì il viso con le mani -Monopoly no, ti prego! È il gioco che più mi fa incazzare al mondo-.
Angie si ritrovò a ridere con lei, scrollandosi di dosso lo strano senso di oppressione che l’aveva invasa, e relegandolo lì, dove si ergeva il dipinto.
-Allora battaglia navale, forza quattro, risiko, il gioco dell’oca, quello che vuoi-.
-Le manie suicide sono l’unica cosa di cui non ho mai sofferto seriamente fino ad adesso, ma se ci lanciamo sul gioco dell’oca penso che dovrai trattenermi dall’impiccarmi al lampadario-.
Dominique rideva ancora, e ora si era lasciata cadere dal divano, stendendosi sul tappeto.
La gioia che Angie provò in quel momento, nel vedere la sua amica tranquillizzarsi e persino divertirsi, fu immensa. Il suo sguardo si fissò sui capelli di Dominique, sparsi sul tappeto; non seppe perché, ma avvertì un tuffo al cuore.
Si sdraiò accanto a lei e lasciò che Dominique tornasse ad adagiare la testa sulla sua spalla.
Esisteva qualcosa di onirico e fugacemente infantile in quelle due figure distese a terra, l’una di fianco all’altra; qualcosa che a Angie portò uno strano senso di nostalgia.
Non lo ammise con se stessa, ma solo per un attimo avvertì una punta di fastidio nel realizzare che la testa posata sulla sua spalla era quella dell’amica Dominique.
Non ricordava più la sensazione che le dava la sua. Sembravano passati anni luce.
-Che ci prendiamo per cena?- domandò infine Angel, ritrovando il sorriso e il suo spazio nel mondo.
-Sono domande da farsi?- fu la risposta divertita dell’amica.
 
*
 
Le due ragazze quella sera di abbuffarono di pollo fritto e patatine i quali, su Dominique, sortirono l’effetto di un potente antidepressivo, poi trascorsero la serata a guardare la televisione.
Scelsero un programma che non fosse impegnativo, basato su nove quesiti pseudo-scientifici per episodio e, se si sceglieva la soluzione sbagliata tra quelle proposte, si perdeva una vita come i gatti. O meglio ancora, come nei videogiochi.
Ne seguì un altro con protagonisti i più orripilanti talenti canori esistenti sulla faccia della Terra, e questo suscitò grande ilarità in Angie e Dominique.
Ridere fece bene a entrambe. Anche a Angie, che sentiva quello strano senso di oppressione, come un cielo terso che sia coperto d’improvviso da un nuvolone nero carico di pioggia.
Angie non voleva pensarci, ma non poteva farne a meno.
Era nato tutto da quel quadro, era lì che risiedeva il suo turbamento, ma Angel non voleva averci nulla a che fare. Sapeva dove l’avrebbe condotta; o almeno, sapeva dove avrebbe voluto essere condotta, ma sapeva anche di non essere più in grado di raggiungere quel luogo.
Sarebbe stato tutto molto più semplice se il soggetto di quel dipinto fosse stato il parco giochi; avrebbe significato saperci ancora entrare.
Angel salutò Dominique che era già passata la mezzanotte. Le aveva chiesto se preferisse restare a dormire a casa sua, ma l’amica l’aveva rassicurata, dicendole di essere stata benissimo in sua compagnia, ma di aver finalmente bisogno di restare un po’ con se stessa.
Dominique le assicurò anche che sarebbe riuscita a dormire senza problemi, ma Angie lo dubitò quando, mezzora dopo, si accorse del flacone di calmanti abbandonato sul comodino accanto al divano. Era facile immaginare che Dominique l’avesse lasciato lì apposta, per impedirsi di assumere le pillole prima di coricarsi. D’altro canto aveva sostenuto di odiare il loro effetto.
Angie recuperò il flacone, lo guardò sorridendo impercettibilmente e, come la sua amica aveva fatto a sua volta qualche ora prima, se lo passò da una mano all’altra facendone tintinnare il contenuto.
Non seppe se interpretare quel gesto di Dominique come un buono o un cattivo segno, ma decise che l’avrebbe detto il tempo. Forse la sua amica voleva liberarsi per sempre dei suoi fantasmi e del disagio che la sua stessa persona le ispirava.
Angie immaginò che Dominique avesse scelto finalmente di affrontarsi. Avrebbe pur dovuto accettarsi prima o poi.
Anche Angel, lo sapeva, aveva qualcosa da accettare e da superare. Fu per questo che respirò profondamente più di una volta, prima di avvinarsi alla tela che sembrava stare in piedi con le proprie forze, con una sorta d’orgoglio.
Posò i calmanti di Dominique di nuovo sul comodino, poi si mosse.
Angel non si sedette per osservare il quadro, come invece soleva fare ogni volta; al contrario restò lì, in piedi, ascoltando solo il proprio respiro, e lo guardò.
Bianco e blu.
Quelli erano i colori dominanti.
Il bianco della neve, il blu del cielo notturno. La casa era nel mezzo, anch’essa ricoperta di neve sul tetto.
Eppure Angie sentiva chiaramente quel grigio che circondava l’intera opera, anche se non era visibile. Grigio come il cielo d’autunno il giorno di un funerale.
Sospirò di nuovo, poi si sciolse i capelli; una nuvola rossa le cadde sulle spalle.
Continuò a osservare il quadro; intensamente, sempre più intensamente.
Quanti anni erano che non visitava quel luogo? Quand’era stata l’ultima volta che vi aveva trascorso del tempo? E che relazione c’era tra quella casa di montagna e il parco giochi che non esisteva più? Quelle non erano domande che Angie avrebbe voluto porsi.
È inutile rincorrere ciò che è perso per sempre. Angel rivangò un verso appartenente a uno dei componimenti di Dominique. L’ottimismo non era certo una delle qualità della sua amica, ma forse, in quel caso, Angie si disse che aveva ragione.
Doveva farsene una ragione. Erano passati tanti anni: venti da quando lei se n’era andata, tredici da quando aveva lasciato la sua mente, insieme al parco giochi.
Nonostante tutto, Angie cercò di rivangare quelle immagini: era solo un sogno infantile, sapeva che non sarebbe mai potuto tornare ma, come ogni altra volta, ci sperò.
Ci aveva provato più spesso di quanto volesse credere lei stessa.
Anche questa volta, però, fu tutto inutile. Non c’era più niente, neanche il lago gelido.
Arrendendosi e cercando di non pensarci si sedette sullo sgabello; recuperò un pennello pulito e la tempera nera, poi iniziò a porre il suo marchio personale all’opera conclusa.
Era come una firma, anche se non era realmente tale. E diceva molto di lei.
Ci vollero soltanto cinque minuti perché nell’angolo sinistro della tela prendesse forma un angelo nero con le ali da corvo, senza occhi. L’angelo caduto, lo chiama Angie.
Ma l’inferno non c’entrava nulla in questo caso.
Quell’angelo era scivolato nella disperazione, alla ricerca di un mondo interiore che ormai da tanto tempo gli veniva negato.
Angie non aveva mai mostrato a nessuno come si sentisse realmente.
Prima di andare via, quella sera, Dominique le aveva detto che era bello avere un’amica forte come lei. Già, pensava Angel, era davvero splendido essere tanto forte.
Osservò ancora il quadro raffigurante la casa di montagna della sua famiglia, poi spostò lo sguardo sull’angelo caduto con il quale firmava le sue opere.
-Jenny- sussurrò.
 
*
 
Acqua.
Acqua gelida intorno alle caviglie.
Tremavo per il freddo ma anche a causa di quel posto che non conoscevo.
Mi guardai intorno, smarrita e come trafitta da schegge di vetro.
Perché non eri più lì? Perché non esisteva più nulla di noi?
Di chi era la colpa?
Mia? Perché ero cresciuta?
Tua, Jenny? Perché non eri potuta restare oltre? O forse non avevi voluto.
Forse ero troppo grande per te; tu desideravi una sorella che ti fosse simile, d’età.
Ma tu non c’eri per rispondermi. Non c’era niente che potesse darmi un minimo di sicurezza, un barlume di speranza.
Restava solamente l’acqua. Gelida.
E quel luogo sconosciuto. Me ne andai presto da lì.
 
*
 
Per la prima volta dopo tanto tempo, Angie aveva passato la notte senza chiudere occhio; non ci aveva nemmeno tentato. Era rimasta per tutto il tempo seduta sul letto, nel buio spezzato soltanto da una flebile fiammella, con le ginocchia strette al petto. Ripensava al suo quadro, alla casa di montagna della sua famiglia che vi era raffigurata; aveva pensato al passato, a ogni singolo giorno trascorso senza di lei, tentando di dimenticarla.
Ma non avrebbe mai potuto dimenticare Jenny, nemmeno volendo. La sua mente, come in uno scherzo beffardo, le riproponeva le immagini di quelle due bambine che giocavano a spingersi sempre più forte sulle altalene, che si rincorrevano sull’erba bagnata e che ridevano felici. Ma questo non significava essere di nuovo lì con lei; al contrario, era soltanto un ricordo, vago e irraggiungibile, che le faceva provare un’infinita nostalgia.
Angie aveva osservato fissamente la candela che bruciava nell’oscurità che si estendeva attorno a lei, sperando di rivedere, chiaro e nitido, il suo volto.
Aveva provato a immaginare come sarebbe stata la sua vita, se Jenny non se ne fosse mai andata. Sarebbe diventata ugualmente una pittrice? Sarebbe stata amica di Dominique lo stesso? Quell’amica forte e combattiva. E Jenny? Che cosa avrebbe fatto nella vita? Anche lei, sarebbe stata un’artista? Sorridendo appena, Angie si era detta che avrebbero anche potuto crescere molto diverse, e smettere di andare d’accordo. Da piccole era tutto più semplice. Avendo un solo anno di differenza, le loro vite erano saldamente intrecciate; insieme, avevano creduto alle stesse favole e alle stesse magie. Ma poi anche quel tempo sarebbe venuto meno e, allora, forse sarebbe cambiato tutto. Fu quando immaginò Jenny dall’altra parte del paese, in un suo appartamento a pensare a tutt’altro fuorché alla sorella maggiore con la quale non andava d’accordo e non parlava da anni, che Angel scoppiò in lacrime.
Realizzò d’improvviso che avrebbe preferito cento volte sapersi separata da sua sorella a causa di chilometri e chilometri di diverse città, piuttosto che per colpa di una spietata cortina grigia fatta calare dal tempo. Le città si attraversano, prima o poi. C’è sempre il tempo di recuperare un rapporto deteriorato, ma questo stesso tempo non può essere sminuzzato alla ricerca degli attimi perduti che si anelano. Il tempo prevede una sola via e non c’è modo di arrestare la corsa in essa.
Quel che resta indietro, è perso per sempre. Eppure, questo Angie ancora non poteva accettarlo.
Jenny non era una ventiquattrenne che viveva per conto suo in una città lontana; non era la sorella con la quale aveva troncato i rapporti a causa di un litigio o di una divergenza di caratteri. Jenny aveva ancora quattro anni, se n’era andata a causa di un difetto cardiaco congenito, ma doveva pur essere ancora da qualche parte. Se sua sorella fosse stata viva, ma semplicemente lontana, avrebbe potuto raggiungerla in qualunque momento, sarebbe bastato volerlo. Ma in quell’istante in cui Angie sentiva di avere nuovamente tanto bisogno di lei, Jenny non era da nessuna parte; non esisteva. Per raggiungerla non bastava cercare il suo indirizzo sulla sua vecchia agenda; non poteva nemmeno più scavare nella sua mente, perché di loro, ormai, non esisteva più nulla di concreto, e i ricordi non erano sufficienti per andare da lei.
Lo sguardo di Angie rimase fisso sulla candela che bruciava e si consumava, come su una vita che prosegua lentamente verso la sua conclusione inevitabile. L’aroma alla vaniglia che questa sprigionava era piacevole, ma non come al solito. Angie non riusciva a concentrarsi su quello, come aveva fatto altre volte; le candele profumate alla vaniglia erano una delle sue passioni, ma non riusciva a bearsene in quegli istanti.
Il suo pensiero era uno solo, e fisso, sprigionato improvvisamente dalla creazione di quel quadro che l’attendeva in salotto.
La mattina seguente, quando il sole filtrò attraverso le sue tende colorate, si alzò a fatica dal letto, nonostante la totale assenza di sonno. Una parte di lei avrebbe voluto restare in quella stanza in eterno, a crogiolarsi nella triste consapevolezza di non poter più sperare in un contatto.
A volte, anche le più grigie sensazioni sono consolatorie, quando non si vuole affrontare ciò che c’è oltre. Ma alla fine lasciò il suo giaciglio, spense la candela quasi del tutto consumata, poi si infilò sotto la doccia. Mentre lasciava che l’acqua calda le scivolasse addosso, bagnandole teneramente i capelli tinti di rosso, fantasticò di nuovo su una sorella viva ma lontana, con la quale avesse litigato diversi anni prima.
Immaginò quel lungo silenzio che doveva aver desiderato lei stessa e si immedesimò nella situazione di aver appena pensato a lei, e di sentire la sua mancanza.
Sentiva quel peso sul cuore, quell’innata malinconia che non vuole andarsene, benché si tenti di scacciarla. Rivide tanti ricordi che non le appartenevano, di liti furibonde e cornette del telefono riattaccate con rabbia. Riascoltò orrende parole urlate in preda alla collera e lacrime versate di nascosto. Pensò che, finita la doccia, sarebbe bastato comporre il suo numero di telefono e provare a parlarle. Forse l’avrebbe respinta, al primo momento, ma lei avrebbe insistito e, prima o poi, sarebbe riuscita nel suo intento; il tempo non sarebbe mancato di certo.
Ma di tempo, in realtà, non ce n’era più. Jenny non c’era più. Angie si ritrovò nuovamente in lacrime, quando lo realizzò appieno, seduta sul bordo della vasca da bagno, con indosso l’accappatoio.
Fu con fatica e riluttanza, eppure mossa dalla spietata caparbietà che tanto faceva parte di lei, che si trascinò fino in soggiorno e, nuovamente, osservò il proprio dipinto.
Bianco e blu. E grigio.
Ad Angie non piaceva darsi delle arie, ma doveva ammettere di avere davvero un gran talento. Improvvisamente si domandò quando l’aveva scoperto. Le era sempre piaciuto disegnare. Quando erano piccole, lei e Jenny lo facevano sempre insieme; come tutto il resto, d’altra parte. Erano un po’ come due gemelle, anche se non era vero anagraficamente parlando.
Ma che dipingere fosse la sua vera passione, nonché il talento che avrebbe dovuto trasformare nella sua professione, l’aveva appreso quando aveva cominciato le scuole medie. Ricordava di averlo confidato sottovoce a Jenny, mentre se ne stavano nascoste nel loro parco giochi. 
Ma Jenny non aveva capito; Jenny era troppo piccola per comprendere cosa fosse una passione o un talento. Angie si accorse in quel momento che già allora, anche se avrebbe goduto di quell’angolo della sua mente ancora per un anno, tutto ciò a cui si aggrappava con forza stava già iniziando a offuscarsi. Jenny si stava allontanando da lei, anche se un passo alla volta.
Sospirando, concentrò di nuovo la propria attenzione sulla tela dominata dal bianco e dal blu.
Ancora una volta rifletté su quanto sarebbe stato liberatorio aver dipinto il parco giochi al posto del soggetto che vi vedeva ora rappresentato. Jenny sarebbe stata lì.
Eppure anche la casa di montagna parlava di loro. Era lì che, ogni inverno, la famiglia andava a trascorrere le vacanze di Natale. Era lì che l’eco delle risate si era trasformata nel sibilo dei sussurri, perché quella tradizione invernale era continuata anche senza di lei, e lì, ogni anno, Angie si era detta che non sarebbe riuscita a mettervi piede se non avesse avuto la certezza di quel luogo solo suo e di Jenny, dove si sentiva tanto a suo agio. Difatti, da quanto il parco giochi era scomparso dalla sua mente, Angie si era sentita sempre più sola trascorrendo le vacanze in quella casa; aveva finito per detestarla. Appena fu un po’ cresciuta non volle più andarci; sapeva che i suoi genitori, invece, lo facevano ancora qualche volta, anche se non più con la stessa frequenza di prima.
Ma per Angie, varcare quella soglia era sempre stato troppo doloroso, perché quello era un luogo intriso di ricordi, anche se molti di essi erano solo immaginati.
Angie si era posta più volte delle domande sulla vera natura di quel parco giochi nella sua mente, senza riuscire a rispondersi in proposito. Era certa, però, che non si trattasse di un semplice ricordo di lei; su quelle altalene, Jenny c’era davvero.
Alla fine Angie coprì il quadro con un telo grigio (scelse questo colore apposta, benché ne avesse di altre tinte), dopodiché uscì di casa, assicurandosi di spegnere il cellulare.
Non voleva che nessuno la cercasse: né i suoi collaboratori di lavoro, né i suoi genitori, né Dominique. Ricordava bene il capo dell’amica poggiato sulla sua spalla e, in quel momento, voleva cancellarselo dalla mente.
Angel sentiva che era giunto il momento di affrontare il suo demone più grande e, soprattutto, di riprendersi il tempo perduto con sua sorella. Si era resa conto di non volere nient’altro che questo; pensò che forse, tagliando momentaneamente i ponti con la sua attuale vita, sarebbe riuscita a ricollegarsi con lei.
Fu per questo che andò a trovarla lì dove Jenny giaceva.
Sorrise nel vedere i fiori freschi accanto alla lapide; sua madre non se ne dimenticava mai.
E poi c’era quella busta, tenuta ferma da due grossi sassi, ma che il vento faceva ugualmente svolazzare negli angoli scoperti. Lì era contenuta quella sua breve lettera, scritta da Angie quando tutto si era dissolto nel nulla.
… spero che tu sia felice, ora, ovunque tu sia. Ma spero anche che, un giorno, tornerai da me.
Angie ricordava ancora a memoria queste ultime frasi. Al momento non era riuscita ad accettare il fatto che lei se ne fosse andata, e non lo accettava nemmeno ora. Era andata avanti nella vita perché era stata obbligata a farlo, perché non aveva potuto arrestare lo scorrere spietato del tempo, il quale non lascia mai che i suoi momenti più importanti durino a lungo.
Angie aveva perso sua sorella tanto tempo prima, ma ora era decisa più che mai a ritrovarla e a riprendersi quel luogo immaginario che era, e sarebbe rimasto, soltanto loro.
Lasciò presto il cimitero, e si diresse a casa, dove recuperò soltanto tre cose: la sua copia della chiave della casa di montagna (benché non fosse solita andarci, sua madre aveva insistito perché la tenesse, nel caso avesse mai cambiato idea), il flacone di calmanti che Dominique aveva lasciato da lei la sera precedente, e la macchina che aveva parcheggiato davanti a casa.
Quindi partì. Era più determinata che mai.
Determinazione e disperazione, spesso, sono sorelle indivisibili.
 
*
 
Al suo arrivo, Angie non accese nemmeno il riscaldamento. Si strinse forte nel cappotto che indossava e si fece avanti coraggiosamente nell’ingresso congelato, osservando il suo respiro condensarsi in nuvole di vapore.
Non accese neppure la luce; non aveva alcuna intenzione di preoccuparsi di riattivare il contatore dell’elettricità. Aprì soltanto le serrande delle finestre, per permettere solo all’illuminazione naturale di divenire sua compagna.
Faceva freddo, ma era ancora troppo presto per la neve. C’era soltanto una leggera foschia che impallidiva il calore del sole lontano, rendendolo alla vista quanto di più distante possa esistere da una gigantesca palla di fuoco.
Angel inspirò a fondo, assaporando l’aroma perduto che aleggiava in quel corridoio sormontato da travi di legno. Ricordava che a suoi occhi di bambina quel vecchio soffitto appariva angusto, quasi sinistro, ma non aveva mai avuto motivo di avere paura, trovandosi con Jenny.
Una leggera corrente d’aria penetrata attraverso uno degli spifferi delle finestre mosse appena una delle tende ingrigite dal tempo. A Angie piaceva immaginare la presenza di sua sorella dietro quella tenda, come se il suo spirito l’attendesse in quel luogo, e le avesse fatto dipingere quel quadro bianco e blu solo per spingerla a tornare lì. Ma Angie sapeva fin troppo bene che le cose non stavano così, sarebbe stato troppo semplice.
Quello che agitava la tenda era solo uno spiffero d’aria; aria gelida, che sapeva certamente di morte, ma che non aveva nulla a che fare con Jenny.
Continuando ad avanzare, Angel incontrò il salotto; vi entrò, posando le chiavi della casa e quelle della macchina sul tavolo di mogano. Ascoltò il loro tintinnare quasi fosse un suono di infinita importanza, ma era solo perché i suoi sensi si stavano acuendo.
Mettendosi una mano nella tasca del cappotto estrasse il flacone di calmanti di Dominique, ma questo non fu appoggiato sulla superficie del tavolo. Al contrario, lo strinse nelle mani fredde, quasi si trattasse di un amuleto. Il suo amuleto segreto che le avrebbe aperto la via che conduceva a lei.
Fu soltanto fugacemente che pensò alla sua amica, alla sua eventuale necessità di riprendersi le sue medicine; quello, però, faceva parte del mondo reale, e Angie non voleva farne parte al momento.
Dominique si sarebbe arrangiata, tutti gli altri avrebbero potuto preoccuparsi per lei non riuscendo a rintracciarla, ma non importava. Per Angel contava soltanto essere lì, alla sua ricerca, dopo tanti anni infruttuosi.
Continuando a stringere il flacone di calmanti, Angie si diresse verso la finestra; anche qui aprì le serrande, poi si concesse di guardare fuori per qualche istante. Da quel punto della casa, si intravedeva il bosco poco distante. Le scappò un sorriso, ricordandosi di sé e di Jenny inginocchiate su una sedia per una per poter raggiungere il davanzale ancora troppo alto per loro; ricordò i loro nasi incollati al vetro gelido, scaldato lentamente dai loro respiri, e ricordò anche le favole relative a quel bosco che amavano scambiarsi. A volte in silenzio, perché anche se Jenny non lo diceva chiaramente, Angie sapeva che sua sorella stava inventando una storia nella sua mente, perché l’aveva sempre fatto anche lei.
Accarezzò con un dito il contorno del vetro intriso di polvere. Quasi le sembrò strano vedere l’esterno da quell’altezza; quando era bambina le sarebbe apparsa vertiginosa.
Era cresciuta, e questo fatto d’improvviso le parve orribile. Si era ripromessa di non farlo senza Jenny e, in un attimo, quasi le sembrò di averla tradita. Che sua sorella l’avesse lasciata proprio per quel motivo? Se l’era sempre domandato, ma ora non era più importante, perché, comunque stessero le cose, era decisa a riprendersi quanto le era stato negato.
Era disposta a tornare bambina, pur di riavere Jenny.
Fu senza pensarci che scoperchiò il flacone che aveva in mano e, altrettanto senza farci caso, si rovesciò un paio di pillole sulla mano libera. Si accorse soltanto di estrarre dalla borsa la bottiglietta di acqua naturale che portava sempre con sé, e di utilizzarne il contenuto per aiutarsi a ingoiarle.
 
*
 
Angie attraversò lentamente tutto il resto della casa. Il suo passo diveniva sempre più incerto mano a mano che i tranquillanti facevano effetto. Non sapeva per quale motivo li avesse assunti, ma aveva sentito che sarebbe stato giusto farlo, come se questi avessero potuto aiutarla a raggiungere la condizione ideale per stabilire quel contatto che anelava.
Angel raggiunse silenziosamente e senza premura ogni angolo e ogni stanza dell’abitazione, assicurandosi di lasciarne indietro una soltanto. Non aveva fretta e non aveva nulla che desiderasse evitare, ma doveva appropriarsi di ogni antico respiro abbandonato e custodito tra quelle mura, prima di varcare quella porta e stabilirsi lì dentro finché l’incontro non fosse avvenuto. Angie aveva bisogno di quei respiri, erano il ponte che collegava una vita che ancora bruciava con una già spenta, un mondo con un altro.
Assaporò ogni suono perduto, e ricordò ogni immagine preziosa. Doveva essere pronta.
I calmanti la stavano stordendo di più ogni minuto che passava, eppure le sembrava che le percezioni della sua mente si stessero allargando. Angie stava vedendo tutto ciò che c’era da vedere, percepiva ora molte più cose e con estrema chiarezza, e questo molto più intensamente di quando dipingeva.
Capiva perché aveva lavorato a quel quadro, e ora comprendeva anche di non avere altro scopo nella vita. Era arrivato il momento di riunirsi, e più nulla l’avrebbe impedito.
Fu solo quando ebbe esplorato ogni recesso e sfiorato con le dita sempre più ghiacciate ogni parete, che infine abbassò quella maniglia e spinse il legno di quella porta.
Entrò.
I due letti accostati erano senza lenzuola, ma dava quasi l’idea che altrettante figure vi avessero dormito di recente, quasi non esistessero più confini nell’infinità del tempo, e gli anni e i minuti si fossero tramutati nella medesima cosa. Anche questo Angie vedeva chiaramente: l’assurdità che sta dietro all’estensione del tempo, a questo catalogarlo come una linea retta a senso unico.
Una mente che lo desiderasse, poteva anche fermarsi e tornare indietro; Angie non sapeva ancora se fosse possibile stabilirsi nel passato, ma era certa che presto l’avrebbe scoperto.
Ora la ragazza si stringeva nel cappotto e nelle sue stesse braccia per il freddo eccessivo, i respiri continuavano a lasciare il suo petto sottoforma di vapore; nonostante ciò si sfilò le scarpe e le calze e avanzò a piedi nudi verso lo specchio che ricopriva due delle ante dell’armadio.
La stanza però era buia, troppo, e non si vedevano riflesse che le ombre e le sagome. Fu per questo che, anche in quella camera, Angie portò i suoi passi stanchi e i suoi respiri ormai affannosi verso la finestra; anche lì, permise alla pallida luce esterna di aiutarla nella sua ricerca dei giorni andati e di un luogo perduto.
Il debole sole, al primo momento, le fece dolere gli occhi stanchi, ma Angie smise quasi subito di prestargli attenzione, e tornò di fronte allo specchio.
Ora vedeva nitidamente la propria immagine riflessa: notò le borse sotto gli occhi, violacee e marcate, e il rosso intenso dei suoi capelli faceva risaltare ancor di più il pallore del suo incarnato, le labbra quasi esangui. Ancora una volta si sentì troppo alta, ma non fu solo quello; fece scorrere lo sguardo lungo tutta la sua figura, soffermandosi sui seni e sui fianchi: era una donna, che cosa restava ormai della bambina di un tempo? Come ristabilire quel contatto non solo con Jenny, ma anche con quella parte di se stessa della quale sembrava non esserci l’ombra?
Sospirando, si lasciò cadere in ginocchio di fronte allo specchio. Allungando lentamente una mano, ne sfiorò la superficie con due dita, togliendovi parte dello strato di polvere adagiatosi durante l’anno abbondante in cui la casa era rimasta completamente disabitata.
Era lì che doveva cercarla; Angie lo sentiva e non aveva dubbi in proposito: era nello specchio della cameretta che in quella casa lei e Jenny avevano condiviso, che doveva aguzzare lo sguardo. Forse, se l’avesse chiamata a lungo, lei sarebbe tornata.
-Sono arrivata, Jenny- sussurrò a fior di labbra, mentre i suoi occhi si facevano sempre più pesanti --Sono qui per te-.
 
*
 
L’unico bisogno fisico di cui Angie si premurò fu quello dell’idratazione; quando ne avvertiva la necessità, beveva. Prima aveva finito la bottiglietta d’acqua che aveva portato con sé, dopodiché si era disturbata ad aprire la valvola dell’acqua lasciata chiusa durante l’inattività della casa, e teneva sempre con sé un bicchiere riempito al rubinetto. Per il resto del tempo, non fece che restare di fronte allo specchio della loro cameretta di bambine, sperando in un segno.
Quel primo giorno, però, non successe niente. Angie non vide che il proprio riflesso, eppure si stava sforzando di guardare in profondità, di vedere oltre il vetro riflettente; sembrava che Jenny non volesse saperne di tornare, ma Angel non si sarebbe data per vinta, non così in fretta.
Si addormentò quella notte, accoccolata davanti allo specchio dell’armadio, con il volto cereo illuminato debolmente dalla magnifica luna piena e dalle stelle più visibili di quel luogo isolato. In città, Angie non ricordava di averne mai viste così tante e così luminose, anche se, in quella particolare occasione, non vi aveva certo prestato molta attenzione.
Aveva continuato a scalfire lo specchio con lo sguardo anche quando l’illuminazione era venuta meno, confidando nelle ombre della notte, fino a quando i tranquillanti uniti al sonno arretrato non ebbero la meglio sul suo fisico che andava debilitandosi.
Quando un nuovo, soave bagliore la ridestò il mattino seguente, Angie si affrettò ad assumere altri due calmanti, tentando di raggiungere lo stesso stato di stordimento, unito all’allargamento delle percezioni, del giorno precedente.
Provò nuovamente a vedere nello specchio qualcosa che non fosse la sua immagine di adulta, ma ancora una volta, i suoi sforzi terminarono senza risultati. Di quando in quando Angel si alzava, e camminava per la stanza polverosa, sperando che qualche minuto di immersione in se stessa l’aiutasse a scorgere qualcosa di non visto prima all’interno del vetro.
Dormì anche la seconda notte, ripensando a quelle ore insonni che avevano seguito la prematura scomparsa di Jenny. Si accorse, in quei momenti, di star provando la stessa identica sensazione: la aspettava, voleva che tornasse. Ma di lei, ancora nessun segno.
Infine giunse nuovamente il mattino e, con esso, Angie assunse altri due calmanti; sentiva che senza sarebbe impazzita, benché il senso di stordimento e la perdita di lucidità iniziassero a farsi quasi insopportabili. Eppure erano irrinunciabili.
Un terzo giorno trascorse ancora quasi interamente senza che nulla mutasse, ma fu quando Angie rientrò nella stanza con un nuovo bicchiere d’acqua, mentre il cielo tinto d’arancio annunciava il tramonto che aveva luogo dall’altro lato della casa, che l’immagine presente nello specchio la colse impreparata.
Sbarrando gli occhi, lasciò cadere a terra il bicchiere, che si infranse in mille pezzi. Non si curò molto dei frammenti di vetro, se non quel tanto che bastava per non calpestarli ed evitare così di ferirsi i piedi scalzi.
Lentamente, Angie si diresse verso lo specchio, e vi si inginocchiò di nuovo davanti. Ci fu soltanto un’azione che svolse il più rapidamente possibile: quella di estrarre dalla tasca del cappotto che non aveva mai tolto, nuovamente, il flacone di tranquillanti; ne assunse subito altri due, anche se senz’acqua. Non sapeva se ciò che stava vedendo fosse reale oppure no, ma non voleva correre il rischio di perdere quelle immagini, e per questo voleva conservare la sua condizione attuale di distacco dalla realtà tangibile.
Una volta fatto, posò nuovamente lo sguardo sullo specchio. Non esisteva più il suo riflesso, ma quel luogo che aveva anelato per tanto tempo di rivedere; c’era tutto: le altalene, lo scivolo, il girello, gli alberi spogli, il tappeto di foglie gialle e rosse, le nuvole e il vento che agitava tutto ciò. C’era anche il suo vecchio pupazzo, Blue Dog, adagiato a terra e bagnato di pioggia.
E c’era Jenny, che giocava da sola, a piedi nudi; stava raccogliendo le foglie e, tra le mani, ne stava facendo un mazzo, quasi fossero carte.
A quel punto, Angie adagiò entrambe le mani sulla superficie dello specchio, schiacciandovi contro anche il viso, come lei e sua sorella facevano da bambine contro la finestra del salotto in quella stessa casa. Era lì, tutto ciò che aveva sempre bramato, eppure vi era divisa da un ostacolo invisibile. Angie si rese conto che era come se il parco giochi e Jenny stessa di fossero sempre trovati lì, soltanto nascosti da una cortina che le impediva di vederli. Ora, quella cortina, si era fatta trasparente, ma era ancora lì, odiosa e invalicabile.
Con le lacrime agli occhi e le orecchie che ronzavano, Angie iniziò quindi a chiamare il nome di sua sorella, dapprima in un sussurro, poi la sua voce crebbe, forse più di quanto avrebbe immaginato, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo.
Ma Jenny ancora non sentiva. Angel la vide alzarsi, e raggiungere una delle altalene; vi si sedette sopra, e iniziò a spingersi. Avrebbe dato qualunque cosa per essere nuovamente lì con lei, e avere cinque anni. Quel che si domandò a un tratto, fu se Jenny davvero non la udisse o se preferisse non starla a sentire, volendo evitare di rientrare in contatto con lei.
La possibile risposta affermativa a questo quesito la terrorizzò, riempiendola di inquietudine; fu per questo motivo che estrasse nuovamente i calmanti, e ne ingurgitò un altro paio.
Presto, si sentì scivolare sempre più in basso, come se fosse in procinto di raggiungere nuove profondità; e la sua velocità di discesa diveniva sempre maggiore.
Improvvisamente Angie si rese conto che era proprio questo a servirle: per riavere Jenny, doveva lasciarsi cadere. Doveva cadere come l’angelo caduto che applicava come firma a ogni suo dipinto concluso; doveva cadere com’era caduta nella disperazione per aver perso sua sorella.
Angel lasciò che la dolce vertigine si appropriasse di lei e ne divenne totalmente complice; solamente doveva lottare per non chiudere gli occhi e lasciarsi vincere da quell’orribile sonno che l’avrebbe separata da Jenny; forse per sempre, questa volta.
Fu proprio mentre ciò che restava del mondo reale restava in alto, facendosi irraggiungibile, e la sua corsa sfrenata verso il basso diventava sempre più precipitosa, che Jenny finalmente le venne incontro.
Angie la vide avvinarsi allo specchio con il suo sorriso infantile e innocente dipinto sulle labbra. Prima di raggiungerla, si fermò un momento per sollevare Blue Dog da una delle zampe di pezza.
A ogni passo della bambina morta, la camera gradualmente spariva; via via che Jenny avanzava, le piastrelle lasciavano il posto al verde dell’erba e al rosso e al giallo delle foglie cadute.
Il soffitto che Angie non guardava si faceva immenso e si rivestiva di nuvole; lo specchio, da trasparente divenne a poco a poco evanescente, e i capelli di Angel iniziarono, piano, a reagire al vento che cominciava ad avvertire.
Jenny, intanto, si avvicinava.
Angie tese maggiormente la mano, pronunciando il suo nome in un sussurro; gli occhi ormai inondati di lacrime tanto a lungo represse. Poi Jenny le sorrise e, a sua volta, allungò la manina verso quella ormai grande della sorella. Le loro dita si sfiorarono per un istante, Angie ne sentì inequivocabilmente il calore; in quell’attimo, la loro evidente piccolezza le strinse in cuore. Ma erano dita calde, dita vive.
Durò soltanto un momento, tanto fuggevole e repentino da poter essere colto ma non afferrato. Fu in un batter di ciglia che Angie, guardandosi intorno, si accorse di non essere più nella casa di montagna dei suoi genitori, dove lei e Jenny avevano trascorso insieme le vacanze natalizie nei loro primi anni di vita.
Era all’interno della sua mente, così come tante volte le era accaduto da bambina.
Il mondo era sparito; ma ancora una volta, era sparito anche il parco giochi, insieme a Jenny.
C’era di nuovo quello strano lago gelido, quel vento che sussurrava parole adulte e l’infinita desolazione della solitudine.
Angie abbassò lo sguardo: aveva i piedi nudi immersi nell’acqua, intirizziti. Rimase così per un paio di minuti: interdetta, stordita, smarrita e persa. Fu tramite uno sforzo immane che riuscì a convincersi a muoversi: le sue membra si erano fatte infinitamente pesanti, così come le sue palpebre e il suo respiro, e ogni passo equivaleva a scalare una montagna.
Però doveva trovarla, non poteva averla vista, averle sfiorato la mano un istante, e poi perderla nuovamente con altrettanta rapidità. Non l’avrebbe mai permesso; l’avrebbe raggiunta.
Dunque vagò e vagò; uscì dal lago gelido e iniziò a esplorare le vicinanze, ma non incontrò che un luogo altrettanto freddo e privo di vita. Solo il vento urlava forte, era quasi assordante.
Eppure, in quel grido immenso e selvaggio, d’improvviso, Angie sentì chiaramente la sua voce, anche se non era più che un flebile sussurro. Chiamava il suo nome.
Il parco giochi doveva esistere ancora nella sua mente, doveva trovarsi lì da qualche parte, tutto stava nello scovarne l’entrata. Jenny era lì, perché sapeva che Angie era tornata per lei.
Angie camminò ancora, tentando di seguire la voce, cercando di ricordare la via, ma provando anche a dipingere un quadro, questa volta con le sole dita della mente. Doveva ridipingere quel luogo, così come aveva fatto da bambina il giorno del funerale di Jenny. L’aveva creato dal nulla, e doveva farlo di nuovo.
Mentre proseguiva, mentre tentava di mantenere stabile il contatto con quel sussurro lontano, si sforzò di recuperare tempere e pennelli. Intanto, si lasciò cadere un po’ di più.
Verde. Grigio. Rosso. Giallo. Marrone. Erano questi i colori principali.
Montò una tela, e iniziò il lavoro che le sue mani fisiche si erano sempre rifiutate di creare.
Ora iniziava a vedere realmente; vedeva in modo sempre più chiaro e nitido. Ricordava perfettamente quel parco giochi della sua mente, scoprì di non aver dimenticato nemmeno il minimo dettaglio. Ora credeva davvero di poterlo raggiungere; era lì che Jenny l’aspettava, Angie ne era sicura. Una parte di lei le suggerì di restare lì per sempre, una volta che avesse raggiunto la sua meta, ma questo che cosa avrebbe significato? Non tornare mai più alla vita, abbandonarsi alla morte? Rinunciare a tutto, fuorché a lei? Incontrare di nuovo quel categorico rifiuto di crescere e andare avanti? Forse sì. Forse, Angie avrebbe invertito il corso degli eventi e sarebbe addirittura tornata bambina.
Intanto, continuava a sentire quella voce. La voce di Jenny che chiamava il suo nome.
Intorno a lei, mentre camminava, il paesaggio iniziò gradualmente a mutare: era neve quella che silenziosamente si faceva strada dal cielo grigio verso la terra, sulla quale si posava come una gelida carezza. Il vento era cessato, lasciando al suo posto la totale pienezza del nulla.
La voce seguitava a chiamarla. La neve si faceva sempre più fitta e il suolo, rapidamente, ne era ricoperto ogni secondo di più.
Angie seguiva la voce. Perché non aumentava d’intensità, ora che il vento si era ammutolito?
Quella fresca e spensierata voce di bambina.
Ora Angie camminava con i piedi completamente immersi nel manto di neve, sprofondando a ogni passo. Sentiva che stava seguendo la via giusta, eppure si sentiva sempre più persa.
Forse non riusciva a lasciarsi cadere abbastanza.
Il quadro nella sua mente era ormai completo, perfetto, non vi mancava alcun dettaglio; Angie sapeva dov’era diretta e mai si sarebbe potuta sbagliare. Sapeva che quel luogo esisteva ancora dentro di lei, custodito dietro a una porta segreta della quale aveva perso per lungo tempo la chiave; ma ora Angie teneva quella chiave stretta nel pugno, e nulla l’avrebbe fermata.
E c’era davvero. Alla fine, Angie trovò il parco giochi.
Era indubbiamente lo stesso, ma non era affatto come lo ricordava, né come la sua mente l’aveva dipinto sul quadro. Adesso le altalene erano ricoperte di neve, così come lo erano gli alberi e il tappeto di foglie al suolo, che non si vedeva più. Il vento bambino taceva, le nuvole erano cariche di altra neve, e non di pioggia. Angie rimase per qualche istante impalata di fronte allo steccato che ne delimitava i contorni; non era in errore, quello era il luogo giusto, era da lì che proveniva la voce che l’aveva chiamata. Quella voce che ora aveva smesso a sua volta di farsi sentire.
Lottando di nuovo con la pesantezza delle sue membra, Angie scavalcò lo steccato, ed entrò nel parco giochi ricoperto di neve, ghiacciato, morto.
Semplicemente, non riusciva a capire. L’aveva vista nello specchio della camera, aveva sentito la sua voce chiamarla, com’era possibile che ora, tutto ciò che restasse di loro fosse … niente?
Mosse incerta qualche passo, come sotto ipnosi.
Infine, si ritrovò costretta a inginocchiarsi. Jenny non c’era, ma Blue Dog, il suo pupazzo, era lì.
Bianca la neve. Blu il cane di pezza.
Lo afferrò nelle mani tremanti ma decise e lo strinse forte, poi tornò a guardarsi intorno.
Le altalene imbiancate erano immobili, così come tutto il resto. Fu allora che capì: non aveva perso quel luogo, né sua sorella, ma non l’avrebbe più ritrovata come un tempo. Lì, non si sarebbero più potute incontrare. Era arrivato il tempo del gelo, che conservava i ricordi ma li rendeva inservibili, e non c’era modo di arrestare un tale processo. Jenny ormai era andata, poteva restare nei suoi ricordi, ma non concretamente con lei. Quel giorno di tredici anni prima, quando Angie si era ritrovata per la prima volta catapultata fuori dal suo stesso sogno e dalla sua stessa creazione, era semplicemente arrivato il momento. Perché il tempo mobile della vita e quello statico della morte non possono accompagnarsi a lungo, viene il giorno in cui devono dirsi addio.
Angie comprese tutto ciò mentre, ancora una volta, volgeva il suo sguardo in ogni direzione di quel luogo che tanto aveva amato e che le aveva concesso di vedere che cos’era diventato con il tempo: la tomba di un ricordo.
Angie capì, proprio mentre sentiva quella voce conosciuta che canticchiava accanto al suo orecchio quelle strofe antiche e infantili, chiamandola a sé.
 
*
 
Dormi, dormi, piccolina
Che domani si avvicina
Nella notte l’aria è fresca
E le stelle san di pesca
Chiudi gli occhi e vedi il mare
Che ti aiuterà a sognare
Gioca, gioca, coi delfini
Che diventan brillantini
Buonanotte, lo sarà
E domani si vedrà …
 
Lentamente, Angie aprì gli occhi. Non si accorse concretamente della fatica che questo sforzo le produsse, almeno non finché non fu tornata completamente in sé.
Si sentiva esausta, spossata e distrutta, ma sicuramente più calda. E anche più serena.
Si trovava in un letto d’ospedale, addosso aveva un generoso strato di coperte. Sua madre, seduta su di una sedia accanto a lei, le accarezzava con tocchi lievi i capelli rossi. Le sue labbra, dalle quali poco prima era fuoriuscita la ninnananna di quando lei e Jenny erano bambine, ora si erano distese in un sorriso.
Anche Angie sorrise, ricordando di aver cantato quella stessa melodia, sperando di svegliare Jenny, quando ancora non aveva compreso che sua sorella non stava semplicemente dormendo.
Alzandosi appena e dirigendo lo sguardo verso la porta, Angie vide Dominique sulla soglia, con le braccia incrociate e lo sguardo apparentemente spento ma indagatore, che le leggeva dentro. Quando si accorse che era cosciente, l’amica le fu subito accanto.
Le strinse la mano e Angie fu invasa da una sensazione piacevole quando ne avvertì il calore.
-Meno male che stai bene- iniziò dunque sua madre con un sospiro di sollievo; Dominique, al contrario, mantenne il suo silenzio e la sola stretta della sua mano.
-Ti abbiamo cercata per tre giorni, nessuno sapeva dove fossi finita, né cosa ti fosse successo- continuò la donna, ancora scossa -Poi la tua amica Dominique ha avuto l’intuizione del quadro-. A quelle parole, Angie si voltò d’istinto verso Dominique. L’espressione dei suoi occhi non era ancora mutata, ma Angie comprese che quella sera, quella dove tutto era cominciato, la sua amica aveva capito più di quanto mai avrebbe lasciato credere.
-Ha creduto che potesse avere a che fare con la tua scomparsa, così l’abbiamo guardato- la madre parlò di nuovo, questa volta dimostrandosi un po’ più calma.
-Quando ho visto la casa l’ho riconosciuta subito e, cercando in giro, non sono riuscita a trovare la chiave che ti avevo dato tanti anni fa, così siamo partite subito-. Una nuova carezza raggiunse allora la fronte di Angie.
-Ci hai fatto spaventare, ma è bello sapere che stai bene- terminò la madre in un sorriso. Angie glielo restituì.
Stava stringendo più forte la mano della sua amica quando una sola immagine le attraversò la mente: due altalene si muovevano seguendo il ritmo giocoso del vento. Vuote.

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