Se son rose fioriranno altrimenti...in bocca al lupo!

di HannibalLecter
(/viewuser.php?uid=452484)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Girasoli e piante grasse ***
Capitolo 2: *** Edera e gramigna ***
Capitolo 3: *** Fiori secchi ***
Capitolo 4: *** Roselline e spine ***
Capitolo 5: *** Caprifoglio e papaveri ***
Capitolo 6: *** Primule e calendule ***
Capitolo 7: *** Rose rosa o rosse? ***
Capitolo 8: *** Funghetti allucinogeni ***
Capitolo 9: *** Boccioli ***
Capitolo 10: *** Fiori di lillà ***
Capitolo 11: *** Fragoline di bosco ***
Capitolo 12: *** Fioritura ***
Capitolo 13: *** Fiori d'arancio ***
Capitolo 14: *** Orchidee ***
Capitolo 15: *** Viole del pensiero ***
Capitolo 16: *** Fichi d'India ***
Capitolo 17: *** Addio e grazie per i fiori ***
Capitolo 18: *** Hibiscus ***
Capitolo 19: *** Nontiscordardimé ***
Capitolo 20: *** Bouganville ***
Capitolo 21: *** Glicine ***
Capitolo 22: *** Cactus Saguaro ***
Capitolo 23: *** EPILOGO: Le rose sono fiorite ***
Capitolo 24: *** EXTRA: Amanita Phalloides ***
Capitolo 25: *** EXTRA: Stella di Natale ***



Capitolo 1
*** Girasoli e piante grasse ***


 

Felicity

 

«...Io lo avevo detto che le begonie color magenta avrebbero rovinato l'equilibrio dell'insieme»

«Tu lo avevi detto? Ma per favore! Sei stata tu, Theresa, ad insistere tanto per quei fiori orribili. Io volevo piantare dei tulipani sulle tinte dell'arancio...»

«Sì, certo, e cosa c'entra l'arancione con tutto il resto? Dovevamo fare un'aiuola più grande e invece tu, Richard, hai fatto cementare mezzo giardino, giardino per cui, giusto come promemoria, abbiamo dovuto sborsare ventimila dollari in più!»

«Almeno sappiamo dove parcheggiare le auto! Se ascoltavo te ora avrei un'inutile serra piena di frutti di bosco e la macchina posteggiata a sei isolati da qui. E poi erano 19.800 dollari in più, non ventimila. Se proprio vuoi fare recriminazioni sii almeno precisa, cara»

«Richard perché non te ne vai a fare un giro nella zona barbecue, che hai tanto voluto, e che userai solo il 4 di luglio per fare due bistecche carbonizzate?»

Finiva sempre così. Finiva sempre con io che infilavo la testa in qualche arbusto, fingendomi interessata al tipo di terriccio utilizzato, per tentare di eclissarmi e non essere coinvolta nei furiosi litigi che avevano sempre luogo al momento conclusivo del mio lavoro. Era una scusa bella e buona per tentare di restare una spettatrice della faida che stava avendo luogo davanti a me, era una scusa perché io sapevo tutto sulla tipologia di terriccio utilizzata dal momento che era stata accuratamente selezionata dalla sottoscritta.

Le persone si incontrano, si innamorano, per un certo periodo pensano solo a fare i piccioncini, dopodiché decidono di evolversi, esattamente come farebbe un Pokemon.

Perché non andare a convivere? Perché non conoscere le rispettive ed assolutamente adorabili future suocere? Perché non fare un salto in oreficeria a comprare un anello, meraviglioso gioiello capace di far perdere la tramontana alle ragazze e farle strillare un convintissimo SÌ! alla fatidica domanda, posta dal fidanzato, magari inginocchiato a terra e con Tour Eiffel sullo sfondo?

Matrimonio. Luna di miele. Casa nuova.

Preferibilmente casa con giardino.

Eh sì, perché l'errore di tutte queste coppie avveniva quasi sempre a questo punto.

Ovvio, a volte avveniva anche prima, specialmente se decidevi di accasarti con un omuncolo dalla personalità completamente soggiogata dalla madre, impicciona con i fiocchi, naso sempre infilato nei cassetti di casa tua e consigli inopportuni e non richiesti sempre a portata di mano.

Le lenzuola a 60 gradi? Macché siamo matti?! Non vorrai che i meravigliosi ricami della Prozia Josephine vengano rovinati? Meravigliosi ricami che ti hanno procurato un altrettanto meraviglioso eritema cutaneo grazie al loro effetto grattugia e che, anche dopo quindici lavaggi alla massima potenza, sanno ancora di naftalina e disinfettante d'ospedale.

Oppure con un personaggio che faceva visita all'estetista più spesso di te, avesse sul corpo la metà dei peli che avevi tu e spendeva in cosmetici il quintuplo di ciò che spendevi tu.

Cara, cosa sono queste doppie punte? Se vuoi posso consigliarti una nuova maschera per capelli, naturale al cento per cento, un composto di alghe, grasso di balena, bava di lumaca e pipì di pipistrello, veramente portentoso!

Se l'errore non riguardava la scelta del compagno allora riguardava senza dubbio la scelta di acquistare una casa circondata da uno spazio verde.

Quasi tutti vedevano il possedere un giardino come un qualcosa che avrebbe reso più gioiosa e verde la vita.

E normalmente sarebbe stato così se non fosse stato per i giardinieri, tutti ladri o scansafatiche. Vogliamo parlare di tutte le foglie perse dalla magnolia? E chi le raccoglieva le foglie? E le siepi da potare? E il prato da livellare? E i fiori da innaffiare?

Un giardino non era un optional che, pagando profumatamente, ricevevi assieme alla nuova casa.

Uno spazio verde era come un cucciolo da crescere, allevare e a cui voler bene.

Bisognava curarlo, dedicargli tempo ed amarlo.

La natura è estremamente munifica, ci fa doni preziosi e in cambio chiede pochissimo.

Prendete ad esempio quelle piante grasse che mia nonna chiamava belle di notte; paiono semplici cactus, le innaffi una volta ogni tanto, le sposti in un luogo luminoso e loro ti regalano una meravigliosa fioritura, tanto bella quanto caduca, dato che nel giro di un giorno o poco più essa appassisce.

«Non capisci, è un investimento per il futuro, per quando faremo delle grigliate ai compleanni dei bambini...»

«Oh Richard, hai ragione. I nostri bambini adoreranno giocare a basket nella zona con il porfido, come sei previdente»

Ecco, era bastato ventilare l'opzione di futuri pargoletti e la moglie era già in brodo di giuggiole.

Un lampo di invidia interruppe il corso dei miei pensieri ma mi affrettai a scacciarla via.

Mi rimisi in piedi e sfilai i guanti da giardinaggio, scrollando la terra rimasta adesa ad essi.

Vedevo in continuazione coppie che mi chiedevano di aiutarli a costruire una meravigliosa cornice fiorita e lussureggiante al loro nido d'amore. Ormai avrei dovuto farci l'abitudine, così come ormai ero familiare con i litigi futili per la posizione che avrebbe dovuto occupare un ulivo o il colore della ghiaia del vialetto d'ingresso.

Avrei dovuto, già, ma era inutile negare che vedere il proprio sogno realizzarsi nella vita di tanti sconosciuti e mai nella propria era frustrante a volte.

Sono un’inguaribile romantica e devo confessare che da piccola la mia attività preferita consisteva nel celebrare il matrimonio del mio unico Ken con le mie molteplici Barbie. E tutto ciò generava continue liti intervallate da energiche tirate di capelli e morsi con Zoe, mia sorella maggiore, il cui hobby prediletto consisteva invece nel decapitare le Barbie e cercare di sventrare Ken per vedere come fosse fatto il suo intestino.

Zoe aveva un futuro come chirurgo, o come macellaio, in effetti sarebbe stata anche una degna erede di Jack lo Squartatore, e invece era finita a scrivere articoli per una rivista punk letta da un totale di duecento persone e a pubblicare raccolte di racconti dalle tinte macabre sotto pseudonimo.

Il sole stava per tramontare e io non vedevo l'ora di caricare tutti i miei attrezzi e i miei vasi sul retro del furgone e partire alla volta della mia piccola oasi di pace.

Richard e Theresa avevano smesso di bisticciare e rinfacciarsi l'un l'altro questioni vecchie quanto la terra e ora sorridevano felici, mani allacciate, e ammiravano il loro nuovo giardino.

Avevo fatto un buon lavoro, ne ero più che certa.

Ok, ok, probabilmente io non avrei insistito tanto per avere cinque betulle posizionate a stella al centro del prato né per i graticci ricoperti di gelsomino che contornavano ogni spazio libero e saturavano l'aria con il loro profumo intenso, che se troppo prepotente risultava nauseante, ma, considerate le iniziali richieste del tutto strampalate e al limite del pacchiano, ero riuscita ad accontentare loro e a far si che il giardino fosse grazioso ed elegante.

«Felicity, non potremo mai ringraziarti abbastanza per ciò che hai fatto», chiocciò Theresa prendendomi le mani e sorridendomi commossa.

Il marito la raggiunse e le posò un braccio sulle spalle, «Mia moglie ha ragione, sei stata splendida e hai fatto un lavoro ammirevole»

Dopo altri sorrisi, complimenti e strette di mano ci congedammo, entrambi soddisfatti e contenti.

Certo, pensai arrampicandomi sul predellino del furgone, loro ora avevano un meraviglioso paradiso fiorito da godersi con la persona amata mentre a me toccava tornarmene a casa, stanca e sporca di terra fin nelle scarpe, dove mi attendeva George, il mio pesciolino rosso, e nessun'altro.

Parcheggiai sul retro della mia villetta e, nonostante la spossatezza, decisi di scaricare subito il furgone e di riporre tutta la mia attrezzatura da lavoro nella casetta di legno che la ospitava di solito.

Avrei potuto rimandare ma uno sguardo al cielo, plumbeo e minaccioso, mi fece cambiare idea.

Almeno per quella sera non sarei dovuta uscire ad innaffiare l'orto o far partire l'impianto di irrigazione.

Posizionai i secchi per la raccolta dell'acqua piovana nel giardino sul retro e, dopo aver chiuso il chiavistello della casetta degli attrezzi e aver infilato il naso nella piccola serra per una veloce ispezione, mi incamminai verso la casa buia.

Mi sfilai gli scarponcini da lavoro infangati e li lasciai sotto al portico, a lato della porta finestra della cucina.

In casa regnava la penombra e il silenzio più assoluto. Non sopportavo la luce artificiale, fredda e bianca, adoravo quella casa proprio perché dotata di molte più finestre rispetto alle altre e amavo la conseguente luminosità che accompagnava le mie giornate da mattina a sera.

Abbandonai la borsa di tela color verde militare che usavo sempre al lavoro sul divano e, senza neanche fermarmi a recuperare le ciabatte, mi affrettai verso il piano di sopra.

«Ahi!», come mi capitava nel 99% dei casi, quando volevo aggirarmi per casa senza accendere le luci sperando di vederci qualcosa, avevo picchiato il mignolino del piede contro uno spigolo. Era incredibile quanto facesse male. Aggrappandomi al corrimano, per non dover appoggiare il piede malandato a terra e non ruzzolare a terra vista la mia scarsa agilità, riuscii a raggiungere,  zoppicando e maledicendo quello stupido spigolo malefico, il bagno.

Gettai i jeans macchiati di verde e la leggera maglia in felpa color giallo chiaro nella cesta delle cose da lavare, seguiti dal paio di calzini a giraffe che indossavo quel giorno e la canottiera rosa, stinta dai troppi lavaggi aggressivi.

Pigiai il tasto di accensione della radio e, canticchiando le parole sbagliate di una hit del momento, zampettai in camera da letto, dove pescai il mio portatile e lo accesi.

Mentre aspettavo che si caricasse, attività che avrebbe richiesto un minimo di dieci minuti, considerata la zona piuttosto fuori mano in cui abitavo e la mia adsl decrepita, feci ritorno in bagno dove trovai due occhioni tondi fissi su di me ad attendermi.

«George, perdonami!», esclamai acciuffando la sua boccia e dirigendomi giù per le scale. «So che ti piace trascorrere il tempo in salotto sul davanzale quando non ci sono ma stamattina mi sono proprio scordata di te»

In tutta risposta il mio pesciolino emise delle bolle.

«Su, non fare l'offeso. Sai che di mattina presto sono più sbadata del solito. Per farmi perdonare guarda un po' cosa ti darò: una dose doppia di mangime! Yuppiii!»

Dopo aver scambiato altre due parole con George, feci ritorno al piano superiore e accesi la doccia.

Non solo l'adsl era lenta in quella casa ma anche la caldaia. Mentre l'acqua gelida scendeva nel box doccia tornai in camera dove, dopo aver immesso la password, mi collegai alla mia casella di posta elettronica.

Non possedevo un cellulare, perciò tutti i miei contatti si limitavano al telefono di casa e al mio indirizzo email.

Newsletter del teatro cittadino, spam di un sito olandese di bulbi, due righe di ringraziamento da parte del mio penultimo cliente e un messaggio di Theodore.

 

Felicity,

Questo fine settimana non ho lezione e il seminario del sabato è sospeso a causa della pausa per le vacanze di primavera perciò sarò alla stazione venerdì sera. Probabilmente sarò sul treno delle 21.17 perciò posso prendere un taxi per venire da te, non vedo la necessità di disturbarti inutilmente.

Sto leggendo un saggio molto interessante sull' Ulmus campestris e ci sono dei passaggi molto interessanti che vorrei sottoporre alla tua attenzione.

Gli studenti sono sempre più irrequieti, illusi da queste giornate di pallido sole, sentono già l'odore dell'estate e iniziano a fare progetti sulle ferie, dimenticandosi che tra il mare e la libertà estiva ci sono io: io e l'importante esame che devono sostenere.

Ai miei tempi l'università era presa molto più sul serio; era un'opportunità preziosa che ci veniva offerta e non un obbligo a cui venivamo forzati. Ovviamente parlo per me, la tua triste vicenda universitaria mi è nota, perdonami.

A presto cara,

Professor T. H. Graham

 

Sospirai delusa chiudendo il mio account Gmail.

Cosa mi aspettavo? Sapevo benissimo che Theodore non era tipo da smancerie e sviolinate, e se non lo sapevo inizialmente sicuramente dopo tre anni di relazione avrei dovuto apprenderlo.

Eppure ogni volta leggevo avida le sue parole in attesa di un 'Mi manchi' scribacchiato alla fine o di un 'Oggi ti ho pensata' gettato quasi  casualmente nel bel mezzo del resoconto della sua ultima lezione.

Misi il pc in standby  ripromettendomi di rispondere alla mail più tardi, e dopo essermi liberata della biancheria mi gettai sotto il getto caldo della doccia. Forse speravo di poter sciacquare via, insieme alla terra e al sudore, anche quel perenne senso di insoddisfazione che mi accompagnava da un anno a questa parte.

Dopo essermi asciugata, mi infilai una vecchia felpa scolorita, un paio di pantaloni del pigiama e uno spesso paio di calzettoni decorati con pomodori e carote.

Intrecciai i capelli umidi e trotterellai al piano inferiore. Veloce tappa al frigorifero, dove recuperai una fetta di torta salata ai carciofi preparata il giorno precedente e un bicchiere di latte, e insieme al mio libro andai ad appollaiarmi sul divano in veranda.

Il cielo era sempre più cupo, rischiarato ad intervalli sempre più brevi da lampi di luce, seguiti da tuoni lontani che non preannunciavano nulla di buono.

Dopo aver cenato, riempii il mio annaffiatoio argentato alla fontanella nell'angolo e diedi da bere alle mie piantine aromatiche e ai vasi fioriti che rendevano la mia veranda una piccola giungla colorata e profumata.

Mi accoccolai nuovamente sul morbido divano e stesi il mio plaid a quadretti sulle gambe. Aprile era alle porte ma la temperatura era ancora freddina la sera.

Mi immersi nella lettura, beata nel mio piccolo mondo verde e mi scordai di rispondere a Theodore.

 

***

 

Liam

 

«Quella statuetta cinese è un dono della mia bisnonna Brunilde per le nostre nozze. Tu odiavi quel clown piangente, lo odiavi. Ripetevi sempre che ti fissava e avevi insistito perché non lo mettessi sul cassettone in camera nostra»

«Io adoravo quella statuetta. Ha trascorso gli ultimi sei anni nella vetrinetta in sala da pranzo solo perché io l'ho salvata da te e dalla tua intenzione di donarlo ad una pesca di beneficenza. Io lo spolveravo con cura tutte le settimane mentre tu hai rischiato di romperlo ben più di una volta»

«Ma non dire caz- ... Taci, Rupert, non farmi diventare scurrile. Non sai neanche dove si trovava il ripostiglio delle scope, figurarsi se spolveravi davvero quel clown schifoso!»

«Lo hai detto! Bene, è mio. Avvocato, segni cortesemente»

«Sai che affare! Non ho mai visto un soprammobile così brutto ed inquietante in tutta la mia vita»

«Lo so, infatti finirà immediatamente nell'immondizia. Ma almeno sarò io ad avere il piacere di farlo e non tu. Ho sempre detestato la tua bisnonna Brunilde, vecchiaccia rancorosa»

«Non parlare così dei miei parenti!»

«Ora sei tu, Janet cara, che devi smettere di dire cazzate. Hai passato tre quarti della nostra luna di miele a inveire contro i regali di nozze e gli abiti indossati al ricevimento dal tuo parentado, dando della puttana stagionata a tua zia Tori e augurando la morte a tuo cugino Dean»

Finiva sempre così. Finiva sempre con io che infilavo la testa in qualche cartelletta piena di documenti, fingendomi interessato a scartoffie su quante ore di tv potesse vedere il bambino, figlio di una coppia neodivorziata, e quanti litri di acqua al giorno dovesse bere, per tentare di eclissarmi e non essere coinvolto nei furiosi litigi che avevano sempre luogo in ogni momento del mio lavoro. Era tutta una scusa, ovviamente sapevo benissimo che il piccolo Finn Jones avrebbe dovuto assumere 1,75 litri di acqua giornalmente e non guardare la televisione per più di 103 minuti, lo sapevo benissimo dato che quel documento lo avevo redatto io.

Le persone si incontrano, si innamorano, per un certo periodo pensano solo a fare i piccioncini, dopodiché impazziscono e cadono nella trappola mortale di LSS. Anche detta La Scelta Suicida: il matrimonio.

Chicchi di riso, torta a sette piani, viaggio alle Bahamas, casa nuova, comunione dei beni, station wagon, primo pargolo, cagnolino, casa nuova con giardino, secondo pargolo.

E dopo?

E dopo entravo in gioco io.

Sì, perché il 35% di tutte queste belle favole finiva con il divorzio.

Divorzio vuole dire tante cose.

Ad esempio parcella super generosa agli avvocati divorzisti, vedere lo stipendio mensile del sottoscritto come conferma.

O discussioni furiose e cariche di risentimento per decidere a chi spetti tenere la macchina per il pane, appena riesumata dalla cantina dopo anni di oblio, o la maschera da sub ritrovata dagli uomini dei traslochi dietro alla scaffalatura della taverna.

O anni e anni di insulti repressi e verità nascoste urlati con cattiveria di fronte a cento persone sconosciute in un'aula di tribunale. Perché non avremmo potuto continuare a vivere tranquillamente se non fossimo stati messi a conoscenza del fatto che Jim si era fatto la madre di sua moglie Sally, la quale non riuscendo a restare incinta del sopracitato Jim, era ricorsa ad un donatore anonimo e quando poi il figlio era nato con gli occhi a mandorla aveva incolpato il coreano del negozio di alimenti sotto casa di averla sedotta ed abbandonata. Jim allora aveva fatto una bella scazzottata con il povero coreano innocente, rivelatosi però un vero Jackie Chan, ed era finito al pronto soccorso con tre costole rotte, un femore sbriciolato e la milza spappolata. Si era poi scoperto che aveva un cancro al colon e la madre di Sally nel scoprire ciò aveva urlato al mondo di aspettare un figlio da Jim e dopodiché era stramazzata al suolo a causa di un infarto.

O poveri bimbetti strapazzati di qua e di là da due genitori assolutamente scellerati che facevano il calcolo dei secondi presenti in una settimana per fare in modo di spartirsi il figlio in modo equo.

Adoravo il mio lavoro, soprattutto perché grazie ad esso potevo concentrarmi sulle disgrazie altrui ignorando, almeno momentaneamente, le mie.

Conducevo la tipica vita da scapolo più che benestante: studio legale, golf, palestra, aperitivi con gli amici, weekend con ragazze bellissime da scaricare la domenica sera e attico in cui mettevo piede giusto per dormire.

Dopo altri cinquanta minuti di battibecchi Janet e Rupert mi strinsero la mano e, ignorandosi a vicenda, lasciarono il mio studio.

Mi massaggiai esausto le tempie cercando un po' di sollievo. Ultimamente avevo perennemente dei mal di testa lancinanti.

L'elegante orologio a pendolo affisso accanto alla finestra segnava le sei e quarantatré e la stanza era ormai in penombra, chiaro segno che il sole era già tramontato.

Sistemai le varie cartellette di documenti sparse sulla scrivania, infilai nella mia ventiquattr'ore le scartoffie relative ai clienti con cui avevo appuntamento il giorno seguente e spensi la lampada in stile art noveau, che faceva bella mostra di sé tra un prezioso tagliacarte in madreperla e un portapenne indonesiano, souvenir del mio ultimo viaggetto antistress.

Recuperai il mio soprabito e uscii socchiudendo la porta. Salutai Diana, la mia segretaria, rimproverandola per il sui ritardo nel raggiungere i suoi due bambini che la attendevano a casa e me ne andai, immergendomi nell'aria frizzante di quella sera.

Il viaggio fino a casa fu estenuante. Odiavo abitare in una grande città quando ciò voleva dire ore bloccati nel traffico delle ore di punta, furiose suonate di clacson e imprecazioni senza sosta rivolte a pedoni e ciclisti incoscienti che decidevano di tentare il suicidio gettandosi davanti alla tua auto senza preavviso.

Il mio iPhone lampeggiava senza sosta dal sedile del passeggero e io dovetti sforzarmi di pensare ai trecento dollari di multa per uso del telefono cellulare alla guida pagati tre settimane prima per frenare il mio istinto di allungare la mano ed afferrare il telefono e controllare chi mi avesse scritto.

Parcheggiai la mia scintillante Audi nel posteggio a me riservato e mi diressi verso l'ascensore, rivolgendo un cenno del capo al custode del parcheggio sotterraneo nel passare davanti al suo ufficio.

Strisciai il mio badge argentato e,  mentre i numeretti scorrevano pigramente sul display al di sopra della lucida pulsantiera, scorsi le email ricevute, cestinandone la metà senza neppure aprirle.

Il mondo era pieno di scocciatori e non avevo nessuna voglia di prestare loro neanche un briciolo della mia attenzione, figurarsi il mio prezioso tempo o la mia impeccabile competenza professionale.

L'ascensore trillò per annunciare che avevamo raggiunto l'ultimo piano e le porte metalliche si aprirono silenziose davanti a me.

Di fronte alla vetrata che si affacciava sulla città illuminata c'era una figura maschile, di spalle rispetto a dove mi trovavo.

«Dovrò decidermi a toglierti il pass d'accesso a casa mia», borbottai gettando con noncuranza la giacca sul divano di pelle nera.

L'uomo non si voltò ma lo udii ridacchiare, «Sono certo che dopo averti comunicato le liete novelle di cui sono ambasciatore desidererai averlo fatto...»

Non mi allarmai più di tanto, Matthew, era un bravo avvocato ma tendeva ad essere leggermente melodrammatico.

Avevamo frequentato insieme la facoltà di legge di Harvard ma,  mentre io avevo preferito le schermaglie tra mogli che avvelenavano la cena del marito e coniugi che tentavano di soffocare le consorti come dei moderni Otello, lui aveva scelto di intraprendere il ramo del notariato. Si occupava di eredità, lasciti ed era testimone di lotte all'ultimo sangue per sancire quale dei trentasette pronipoti ingrati e avidi di un magnate del petrolio avesse diritto alla fetta più cospicua del patrimonio di famiglia.

«Mildred è morta, soffocata accidentalmente dalla sua stessa lingua biforcuta?», mi informai dirigendomi verso la cucina.

Aprii il mio frigorifero spaziale curioso di sapere cosa mi avesse cucinato quel giorno Inés, la mia tuttofare di fiducia.

Invece di trovare un bel piatto guarnito e pronto per il microonde mi imbattei, con mio grande disappunto, nel vuoto cosmico che regnava nel freddo e spoglio interno dell'elettrodomestico.

«Niente cenetta succulenta questa sera, la tua cara Inés ti informa che suo cugino Pedro ha avuto un attacco di cuore e si scusa», Matt confermò il mio triste presagio sventolandomi un biglietto davanti al viso.

Prima o poi la sua domestica avrebbe imparato il suo nome pensò leggendo il Señor Liam Cater Writ scarabocchiato in cima al post-it.

Inés proveniva da una famiglia di origini portoricane decisamente troppo numerosa. Il mese scorso si era assentata per il matrimonio di Carmen, per accompagnare Lenór dalla ginecologa, per i continui attacchi di panico di Javier, per badare al figlio della parrucchiera della vicina di casa di sua sorella e per andare al saggio scolastico della nipotina della sua ex collega.

Ma bastava uno dei suoi manicaretti da stella Michelin a farmi dimenticare il suo rumoroso e fastidioso parentado.

«Com'è messo il tuo stomaco?», domandai al mio amico dirigendomi verso il telefono posato su un lucido tavolinetto tondo al lato della poltrona.

Non avevo mai imparato a cucinare neanche la più semplice delle pietanze e se ero arrivato a trentaquattro anni in salute e senza rischiare la morte per inedia era soltanto grazie ai take away e alle donne della mia famiglia.

I pranzi di undici portate di mia nonna May e i conseguenti mal di pancia dovuti all'abbuffata sono dei ricordi difficili da scordare, così come la tovaglia a quadri rossi e bianchi e il suo grembiule giallo perennemente macchiato di sugo.

Scacciai quei ricordi e afferrai il cordless e la lista dei numeri dei ristoranti che consegnavano a domicilio.

Matthew nel frattempo si era accomodato su uno degli alti sgabelli cromati della penisola della cucina.

«Mildred è di nuovo nella sua fase dieta, ormai mangia solo riso basmati scondito e cavolini di Bruxelles...», mi rispose scuotendo sconsolato il capo.

«Motivo in più per liberarsi di lei una volta per tutte!», esclamai risoluto, scorrendo con lo sguardo i vari nomi dei locali. «Stasera andiamo di thailandese. Obiezioni?»

«Due sere fa ho cenato con due fette di cetriolo e una spremuta di pompelmo; mangerei anche una bistecca di orso polare a questo punto»

Dopo una breve telefonata al ristorante e un rapido avviso alla portineria tornai dal mio amico che stava fissando sconsolato il suo riflesso sulla superficie a specchio del bancone.

«Insomma qual è il problema?»

Aprii nuovamente il frigorifero e pescai un paio di bottiglie della pregiata birra prodotta alla vecchia maniera in un monastero che mi facevo recapitare direttamente dalla Germania.

«I miei problemi confrontati ai tuoi non sono nulla...»

Sbuffando mi accomodai di fronte a lui allungandogli una delle due bibite. «Hai finito di profetizzare sventure? Dimmi cosa è successo»

Non amavo i giri di parole e non credevo nel basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Le cose andavano dette, per quanto crudeli e dolorose potessero essere.

«È stato ritrovato il testamento di tuo nonno Tobias...»

Rimasi per un attimo disorientato. Tobias era il padre di mia madre ed era morto ben dieci anni prima. Era già vedovo al momento della sua scomparsa e tutti pensavano che la sua grande tenuta in campagna e i suoi risparmi sarebbero passati ai tre figli ma poco dopo si era scoperto che il vecchio aveva accumulato una vera e propria fortuna e un nuovo figlio si era fatto vivo avanzando la pretesa di ottenere una parte del lascito.

In assenza di testamento era stato tutto diviso tra mia mamma e i suoi due fratelli e la casa di campagna era stata chiusa, i mobili coperti da lenzuoli lisi e le finestre sbarrate.

Gli feci cenno di continuare non sapendo bene cosa dire al riguardo. Non riuscivo a capire come la cosa dovesse riguardare me nello specifico.

«Ti ha lasciato la casa», Matthew spinse verso di me un fascicolo di fogli e mi indicò un paragrafo e subito dopo il mio nome, Liam Carter Wright, per confutare i miei dubbi.

Fissai la lancetta dell'orologio a parete affisso di fronte a me e mentre i secondi passavano ticchettando cercai di ricordarmi l'ultima volta che avevo visto mio nonno. Andavamo a trovarlo di rado, mio padre non era mai andato troppo a genio al suocero e vecchi rancori impedivano ai due di sostenere una conversazione civile.

Probabilmente era il mese di Aprile dato che ricordo chiaramente che morì nel bel mezzo della primavera, la sua stagione preferita. Se chiudessi gli occhi potrei ancora vederlo, la sua figura leggermente ingobbita ma pur sempre imponente stagliata contro la porta d'ingresso, il suo tono sempre burbero e le sue mani dure, da persona che ha passato una vita a lavorare la terra che mi lasciavano dei buffetti sulle guance, nonostante i miei vent'anni.

«Non può averlo fatto, ero il nipote che vedeva di meno e poco prima della sua morte aveva avuto un litigio più violento del solito con mia madre...»

«E invece, leggi qui, nero su bianco. Sei l'unico proprietario. Casa e terra. È tutto tuo», Matt levò dalla tasca della sua elegante giacca beige un paio di chiavi e me le porse sorridendo incoraggiante, «Chi lo sa, magari fare l'agricoltore potrà rivelarsi una scelta più felice di giurisprudenza...»

«Io amo il mio lavoro», precisai.

Il mio amico fece un gesto noncurante con la mano e sbuffò, «Non lo metto in dubbio ma non penso che la vita che conduci da quando non sei più s-»

Lo interruppi senza curarmi di apparire maleducato, «Lo so cosa pensi Matthew. Ma, onestamente,  la cosa non turba il mio sonno o influisce sulla mia vita, che gestisco come mi pare e piace essendo adulto e vaccinato», lo misi a tacere con poco garbo.

Sapevo di essere stato ingiusto con lui, eravamo amici da quindici anni e non si meritava la mia scortesia ma purtroppo non sopportavo quando le persone iniziavano a darmi consigli non richiesti e a criticare il modo in cui avevo deciso di condurre la mia vita.

Matt alzò le mani in segno di resa e ridacchiando si alzò dal bancone, «Afferrato il concetto! Sei sempre più suscettibile amico mio, sarà la mezza età che si avvicina inesorabile...», ghignò.

Il trillo del campanello precedette la mia risposta al vetriolo perciò mi limitai a regalargli un dito medio poco elegante ma sempre efficace prima di dirigermi verso l'ascensore.

Ritirai la nostra cena dalle mani di Oscar, la povera anima che veniva sfruttata senza pietà dal nostro portinaio, e, dopo avergli allungato dieci dollari, tornai dal mio amico.

«Allora, come sta la cara Mildred?», chiesi recuperando un paio di tovagliette da un cassetto.

«Secondo me benissimo ma ora si è autoconvinta di avere un tumore della pelle e sta dilapidando il mio capitale vagando senza sosta tra oncologi e luminari della dermatologia...»

«L'ultima volta che ho avuto il piacere di incontrarla mi aveva detto che sentiva che presto avrebbe avuto un ictus...», lo informai.

Lui alzò le spalle e storse le labbra, «Se avessi dato ascolto a ciò che diceva di "sentire" sarebbe dovuta essere morta già sette volte da quando stiamo insieme»

Scossi la testa non riuscendo a capire, come sempre, perché mai Matthew si ostinasse a dividere il letto con quella donna sgradevole e più simile ad una farmacia ambulante che ad una compagna di vita.

Mi sedetti di fronte alla nostra cenetta e mi rilassai pensando per l'ennesima volta a quanto fossi fortunato ad essere meravigliosamente scapolo.

 

 

 

Buonasera a tutti quelli che ce l'avranno fatta ad arrivare fino a qui. Probabilmente da questo capitolo non si capisce un accidenti, o un cactus come direbbe Felicity, ma l'intento era un po' quello. L'inserire i due punti di vista nello stesso capitolo è un esperimento che non credo avrà seguito; mi piaceva come idea per introdurre parallelamente i protagonisti  ma penso crei un po' di confusione, che ne dite voi?

Detto ciò sparisco e inizio a sperare in qualche commentino.

S.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Edera e gramigna ***


 

Liam

 

«Il caso Field contro Jackman è stato archiviato e Jerry ha chiesto una copia dei documenti»

Scartoffie.

«Mrs. Taylor mi ha chiamato ben trentasette volte questa mattina e alla trentottesima ho ceduto e le ho detto che la riceverai domani»

Altre scartoffie.

«I gemellini dei Ferguson dopo il disperato tentativo di rapimento da parte del loro squilibratissimo genitore sono stati momentaneamente affidati alle cure dei nonni materni in attesa dell'udienza di giovedì»

Una pila di scartoffie sempre più alta e pericolante si stava formando davanti al mio naso man mano che Diana, la mia efficientissima segretaria, snocciolava aggiornamenti e promemoria in modo ordinato e quasi meccanico.

Fissavo distratto quei fogli su cui venivano riportati per filo e per segno vicende di decine di coppie. Tanti caratteri fitti fitti battuti a computer da una diligente impiegata. Fascicoli diligentemente etichettati e catalogati.

«...Mr. Van Houten ha chiesto di-»

«Mr. Van Houten ha telefonato?». Mi riscossi rapidamente sentendo quel nome, nome che suscitava sempre dentro di me una serie di emozioni contrastanti che andavano dal rispetto tendente alla venerazione alla cieca invidia per ciò che quell'uomo era riuscito a creare. Mi alzai agitato dalla sedia, «Diana, ha chiamato qui in ufficio?»

La povera donna, presa in contropiede dal mio repentino sbalzo d'umore, annuì e mi spiegò balbettando che meno di due ore prima aveva parlato al telefono con la segretaria personale di Mr. Van Houten, il quale desiderava incontrarmi.

La cosa mi mise ancora più in ansia; perché l'uomo a capo di uno dei più importanti ed influenti studi legali del paese voleva vedermi?

«Che ore sono ora?», lanciai un'occhiata al mio orologio da polso mentre facevo avanti e indietro tra la scrivania e la finestra, «È troppo tardi adesso. Domani la prima cosa che farai appena arriverai sarà ricontattare il suo ufficio e fissare un appuntamento per qualsiasi giorno e in qualsiasi luogo egli desideri. Diana, non esitare a cancellare qualsiasi appuntamento, udienza o trasferimento avevo in programma, sono stato chiaro?»

Montgomery Van Houten era una leggenda in campo legale. Erede di una famiglia che aveva fatto dell'azienda farmaceutica il proprio impero aveva voltato le spalle a tutto ciò per gettarsi anima e corpo nell'avvocatura.

Avevo letto tutte le nove biografie non autorizzate uscite sul suo conto e sapevo benissimo delle nottate passate a fare il turno di notte in un'azienda siderurgica per riuscire a pagare il mutuo del piccolo stabile che aveva acquistato in Florida per fondare il proprio studio legale. Ora quell'uomo dormiva tra lenzuola di fine seta cinese, mangiava salmone norvegese freschissimo, beveva il pregiato vino prodotto dalla sua cantina in Toscana e viveva in una villa che come estensione si avvicinava ai dieci campi da football, senza contare il giardino e il campo da golf. Aveva costruito un regno partendo da un vecchio magazzino abbandonato e lo aveva fatto semplicemente tirandosi su le maniche e lavorando sodo. Per questo aveva tutta la mia ammirazione.

Quella era stata una giornata stranamente tranquilla perciò decisi che sarebbe stato più saggio andarsene via dall'ufficio in anticipo piuttosto di passare la serata a fare il solco nel mio prezioso tappeto persiano scervellandomi riguardo alla telefonata misteriosa.

Salutai tutti quanti e mi diressi verso il parcheggio. Infilai la mano nella tasca della giacca alla ricerca delle chiavi dell'auto ma invece di trovare lo squadrato telecomando nero le mie dita si imbatterono in una singola chiave. La estrassi e la fissai. Era rimasta lì da quando Matthew me l'aveva consegnata tre settimane prima e me ne ero quasi dimenticato. La scomoda questione di quella eredità inaspettata era stata parcheggiata momentaneamente in un cassetto della mia mente, in attesa del momento giusto per affrontarla e risolverla una volta per tutte. Sul fatto che me ne sarei liberato non nutrivo dubbi, dovevo solo stabilire come e quando.

Il mio iPhone prese a vibrare nel taschino interno della giacca e già dalla suoneria capii chi fosse. Solo lei poteva salvarsi usando Womanizer di Britney Spears.

Così ogni volta che mi chiamava era come se sentissi la sua fastidiosa vocetta da ragazzina che mi rimproverava e agitava il dito facendomi segno che no, non mi stavo comportando per niente da bravo bambino.

Womanizer, Woman, Womanizer

You're a Womanizer, oh Womanizer oh

You're a Womanizer, baby

Lo pescai in tutta fretta prima che qualcuno nel passarmi accanto sentisse quelle parole poco lusinghiere rivolte al sottoscritto e mi rivolgesse uno sguardo indignato.

Sapendo di non avere scampo, lanciai uno sguardo sconsolato al sorriso diabolico stampato sul volto  che mi fissava dallo schermo del telefono e accettai la chiamata, «Dimmi tutto, adorata sorella»

«Dovunque tu sia non muoverti. Terremoti, uragani, meteoriti: nulla varrà come scusa. Non osare spostarti da dove ti trovi ora». Dopodiché il cellulare mi restituì un vuoto tu-tu-tu, chiaro segno che la mia folle interlocutrice, dopo avermi lanciato intimidazioni e ordini categorici, mi aveva bellamente chiuso il telefono in faccia.

Approfittai del tempo d'attesa per controllare i dati della borsa, leggere un articolo sul sito del Financial Times e chiamare Matthew.

«Carissimo, mi hai preceduto per una frazione di secondo. Stavo per contattarti per conto della tua migliore amica»

Mi appoggiai al cofano della mia auto, così lucido e splendente da non farmi temere per la sorte dei miei pantaloni Hugo Boss. «Hillary Clinton?»

«Indovinato! Vorrebbe organizzare un'uscita a quattro: tu, lei, Bill e Monica Lewinsky. Che ne dici?»

«Dico che sono deliziato dall'idea di una cosa a quattro...», ridacchiai divertito.

«Bando alle ciance! Mildred ti ordina di venire a cena domani sera, volente o nolente»

Sbuffai infastidito, quella donna era sempre più soffocante ed importuna. Chissà chi l'aveva eletta Cupido dei poveri. «Non avevamo un patto noi due? Quando Mildred mi invita io sono sempre in viaggio. Sempre, anche se in realtà sono a fare i pesi a due isolati da voi o a sorseggiare Martini nel suo locale»

Un rombo assordante seguito da uno stridere di freni mi avvertì che la pazzoide era vicina.

«Scusa amico, ma questa volta Mildred mi ha convinto, anzi sarebbe meglio dire corrotto»

Una Chevrolet arancio carota fece il suo ingresso nel parcheggio ai centotrenta chilometri orari, dirigendosi inesorabile nella mia direzione.

«Che ti ha promesso? Di scavarsi una fossa e seppellircisi da sola? Avrei accettato anche io allora»

«Molto meglio amico mio: una bella sculacciata su quel suo bel sederino aristocratico!», strillò esultante nel mio orecchio.

Nel frattempo l'auto color capelli della famiglia Weasley, con una manovra da film d'azione, aveva effettuato un parcheggio a L, svoltando nel posteggio senza accennare a frenare fino all'ultimo momento.

La portiera si aprì e un piedino fasciato da un paio di scarpe da corsa color melanzana sbucò. Mi affrettai a chiudere la chiamata.

«È qui. Devo andare»

L'ultima cosa che sentii fu la risata roca di Matt prima di infilarmi il telefono in tasca e dirigermi verso il folletto alto un metro e cinquanta appena sceso dalla sua zucca.

L'unica cosa che avevo in comune con Judith Carter Wright era il patrimonio genetico, dopodiché non c'era persona alcuna che credeva che fossimo fratelli se non dopo aver controllato i nostri documenti e relativi certificati di nascita, aver ascoltato la testimonianza dei nostri genitori e aver interpellato il ginecologo che, seppur sbalordito, assicurava che quelle due creature erano uscite dal medesimo grembo.

Judy se si allungava sulle punte dei piedi riusciva forse a cingermi la vita con le sue minuscole braccine e durante i suoi momenti di travolgente affetto fraterno non esitava ad arrampicarsi su di me, proprio come farebbe una scimmia sul tronco di un albero di banane,  per raggiungere l'altitudine necessaria a lasciarmi un bacio sulla guancia. Quel giorno era avvolta in una felpa stinta ed extralarge dell'università di Stanford e in un paio di jeans sdruciti che avevano sicuramente visto tempi migliori. Portava i capelli tagliati nel medesimo caschetto spettinato fin da quando aveva quattro anni, nonostante fossero di un meraviglioso rosso aranciato.

«Raggiunto! Che si fa di bello?», domandò entusiasta chiudendo la macchina e mettendosi a tracolla la sua inseparabile borsa porta computer.

La squadrai sospettoso. Prima non avevo pensato ad un piccolo particolare...

«Come facevi a sapere dove mi trovavo?»

Lei scrollò le spalle e si passò una mano nei capelli, scompigliandoli ancora di più. Un'upupa avrebbe trovato davvero accogliente quel cespuglio che si ostinava a tenere in testa mia sorella.

«Semplice. Ho installato un dispositivo GPS sulla tua auto». Me lo spiegò come se fosse la cosa più naturale del mondo. D'altronde chi non nasconde dispositivi di localizzazione nelle auto dei propri cari?

«E perché lo avresti fatto?», domandai cercando di non infuriarmi.

La compagnia di Judy consisteva sempre in un perenne e costante esercizio di autocontrollo sulla rabbia. Quella puffetta era stata creata per mandarmi fuori dai gangheri.

Lei sembrò rifletterci per un attimo prima di sorridermi candida, «Perché è divertente!»

Ormai nulla di lei mi sorprendeva più perciò sorvolai appuntandomi mentalmente di setacciare l'interno della mia auto alla ricerca del malefico aggeggio spia in futuro.

«Riformulo la domanda: che si fa?»

Così piccola eppure così fastidiosa.

«Io vado a casa mia, tu non so...», borbottai aprendo la portiera e sedendomi al posto di guida.

Una manina sgusciò al di sotto del mio braccio e si infilò rapida nella mia tasca.

«Tadaaan!», strillò brandendo la celebre chiave. «Tu guidi e io dormo»

«Come farai allora ad assicurarti che non mi diriga da tutt'altra parte e ti scarichi in un fosso?»

Lei scosse la testa e ridendo di gusto circumnavigò la vettura per dirigersi dal lato passeggero. «Ricordati che qui sono io il genio della tecnologia. Se imposto un percorso e tu fai una deviazione, io verrò avvertita e allora saranno guai. Grossi, grandi e potenzialmente invalidanti a vita guai».

Pescai dal cruscotto i miei occhiali da sole Persol e, dopo aver messo in moto, ingranai la retromarcia per uscire dal parcheggio e annettermi nel pigro traffico delle cinque e trenta di pomeriggio.

«Ovviamente non dovrebbe sorprendermi il fatto che tu sia a conoscenza di tutta questa buffa storia dell'eredità...», commentai mentre svoltavo verso lo svincolo della superstrada.

«Ovviamente! La chiave te l'ho messa io nella tasca della giacca stamattina!»

Voltai la testa di scatto nella sua direzione, «Com'è possibile? E come facevi a sapere del testamento?»

Lei mi rivolse uno sguardo di rimprovero prima di togliersi le scarpe e mettere in bella mostra i suoi piedini fasciati in calzini color giallo limone sul mio cruscotto lucido. «Fratellino caro, così mi offendi. Diciamo che potrei aver ricattato Inés, potrei aver derubato Matthew e potrebbero esserci delle cimici in casa tua. È tutto al condizionale quindi stiamo parlando di ipotesi...»

Dal suo ghigno diabolico compresi che di ipotetico non c'era proprio nulla. Neppure il fatto che fossi un imbecille facile da abbindolare era più un'ipotesi ma ahimè un dato di fatto.

Un quarto d'ora più tardi, dopo un'estenuante chiacchierata con la mia adorata sorella, arrivammo alla strada sterrata che conduceva alla casa di Tobias.

Ricordo che una volta il vialetto d'ingresso era contornato da due file ordinate di splendidi alberi di nocciolo, sui quali io mi arrampicavo nonostante i continui divieti di nonna. Ora solo qualche tronco solitario, attorniato da secche sterpaglie, ci diede il benvenuto.

La casa, una volta dipinta di un rilassante color turchese, appariva ora solitaria e abbandonata. L'intonaco si era scrostato e l'edera rampicante aveva coperto metà facciata donando al tutto un'aria spettrale. Il legno delle persiane era marcito e una parte del portico laterale era crollata sotto il peso del tempo e della trascuratezza.

«Nonna teneva a questa casa come ad un figlio, la curava con amore e ne era una padrona orgogliosa e felice. Pensa se potesse vedere tutto ciò...». Il tono mesto di Judy mi fece tornare alla mente i pomeriggi d'estate trascorsi qui.

Raccoglievamo pesche e ciliegie dal frutteto sul retro, aiutavamo la nonna a fare le conserve, nonostante il nostro aiuto consisteva principalmente nell'infilare le dita nella marmellata appena fatta per assaggiarla, e facevamo merenda sotto il portico tutti insieme.

L'interno non era messo molto meglio. Polvere e ragnatele facevano da padrone, i mobili coperti da vecchie lenzuola e le finestre oscurate.

«Hai intenzione di venderla, vero?». Judy si era fermata di fronte ad una cornice appesa alla parete della sala da pranzo.

La raggiunsi e mi fermai alle sue spalle. Era una foto del giorno del matrimonio dei miei nonni. Una foto molto austera, pose rigide e vestiti inamidati della domenica, eppure erano tutti lì, i sette fratelli di nonna e i dieci di nonno. Cognate, suoceri, nipoti, prozie e cugini. Una grande famiglia. E al centro, cuore di tutto ciò, le mani intrecciate dei due novelli sposi.

«L'idea era quella...», mormorai piano.

Mia sorella si volse all'improvviso e mi cinse tra le braccia. «Non farlo. Per favore, non farlo. So che sta andando tutto in rovina e so che aggrapparsi alla speranza di una nuova futura famiglia unita e gioiosa ad abitare queste mura non è tra i tuoi progetti ma...»

Le accarezzai piano i capelli continuando a fissare lo sguardo deciso di Tobias e gli occhi dolci di sua moglie in quella vecchia fotografia in bianco e nero. «Non ho tempo di curarmi di una vecchia casa», mormorai come scusa.

Lei si staccò e mi rivolse uno sguardo duro, «Non è solo una vecchia casa. Questa è la nostra casa. Capisci cosa voglio dire, Liam? Qui abbiamo passato i momenti più felici e pieni della nostra infanzia. Qui, senza le pressioni costanti di papà o i continui rimproveri di nostra madre. Qui eravamo dei semplici bambini che avevano il diritto di giocare, correre liberi e mangiare cioccolata a volontà. Se non lo vuoi fare per te allora fallo per me. Io ti aiuterò, Cambridge non è lontana e le mie ricerche posso continuarle anche da qui...Ti prego, Liam, ti prego...». Cosa potevo rispondere? C'era un'unica risposta in grado di spazzare via la tristezza da quegli occhioni color nocciola e fu quella che diedi.

«Posso provarci, ma tu devi darmi una mano, un aiuto concreto e non una delle tue solite idee tutte unicorni e arcobaleni e-». Non riuscii a terminare la frase perché mia sorella si gettò letteralmente tra le mie braccia e mi strinse in un abbraccio mozzafiato. Continuava ad alternare ringraziamenti ad appiccicosi bacetti sparsi per tutto il volto e ci vollero due minuti buoni prima che riuscissi a farle posare nuovamente i piedi per terra, lontano dalla mia persona.

«Ok, ok, ho recepito la tua gratitudine. Ora...», di nuovo non riuscii a concludere il mio pensiero perché Judith sparì dalla stanza ad una velocità sbalorditiva.

Rimaneva un mistero per me il come facessero a coesistere nel medesimo gracile corpicino quel folletto tutto pepe e saltelli e la geniale nerd che lavorava al M.I.T., i cui studi in campo informatico erano stimati dai più eminenti scienziati.

«Liam, corri subito qua!», la sua vocetta autoritaria mi raggiunse e così la seguii fino a trovarla accovacciata sui gradini d'ingresso con il portatile posato sulle gambe e il naso appiccicato allo schermo.

Mi sedetti accanto a lei e attesi delucidazioni in merito a quello scoppio di entusiasmo.

«Ho trovato la persona che fa al caso nostro. Leggi qui!»

Cambiò schermata e mi indicò una scritta contornata da violette e api digitali che recitava: Felicity's Garden.

Una breve introduzione raccontava di questa Felicity, di professione architetto paesaggistico, che aveva fondato tre anni prima questa piccola attività e che di fatto si occupava di trasformare erbacce e gramigna in oasi fiorite e tavolozze di colori e profumi.

Il sito era tutto un tripudio di tinte pastello, principalmente sui toni del rosa Barbie, caratteri arzigogolati e descrizioni fiabesche.

«Non avevo detto niente unicorni e arcobaleni?», chiesi esasperato.

Mia sorella mi ignorò e cliccò sulla galleria del sito. Una serie di foto di lavori svolti in passato da questa Felicity si parò davanti ai miei occhi increduli.

Apine ronzanti e candide margheritine a parte, questa tizia sembrava davvero sapere il fatto suo. Ogni immagine era accompagnata da una foto che raffigurava il giardino prima dell'inizio dei lavori e il divario tra il prima e il dopo era impressionante.

«Qui c'è il suo indirizzo email, scrivile e prenota un appuntamento. Il primo sopralluogo e la bozza del progetto sono gratuite. Lo so, sono geniale oltre che bellissima e simpaticissima», si gongolò mentre in due nanosecondi esatti faceva copia e incolla con il recapito di Felicity e me lo inviava per posta elettronica.

«Già. Com'è fortunato Karl!», esclamai sarcasticamente.

Lei chiuse il pc e mi allungò uno scappellotto. «Karl mi ha piantato, diceva che non lo lasciavo respirare. Come se avessi io il controllo sulla quantità di ossigeno effettivamente inspirata dal suo nobile naso...»

Le passai un braccio intorno alle spalle e la strinsi a me, «Per caso avevi installato un GPS anche sulla sua auto?»

«Può darsi...», borbottò strofinando la guancia contro la mia camicia. «Comunque non mi importa. Il suo livello di quoziente intellettivo raggiungeva a malapena i 167...»

«Ah bè, uno con un Q.I. pari solo a  quello di Isaac Newton è meglio perderlo che trovarlo», la presi in giro lasciandole un bacino sulla zazzera spettinata.

Quella sera, dopo aver riportato Judy a recuperare la macchina e avere preso al volo due pizze da asporto, avevamo fatto rientro al mio appartamento e ci eravamo guardati tutti gli episodi arretrati di The Big Bang Theory, nonostante solo mia sorella riuscisse a capire tutto ciò di cui parlava Sheldon Cooper.

La radiosveglia sul mio comodino segnava mezzanotte meno un quarto eppure il sonno non arrivava. Judith era andata a dormire già mezz'ora prima, considerato che la mattina seguente si sarebbe dovuta mettere in viaggio all'alba per avere il tempo di tornare a Cambridge per la sua lezione delle 8.30.

Accesi il portatile e, mentre etichettavo come spam un po' di email, mi capitò sott'occhio il messaggio inviatomi oggi pomeriggio da mia sorella.

Aprii un nuovo messaggio, copiai l'indirizzo email, cercando di non ridere di fronte all'immagine abbinata al profilo della signorina, la principessa Gommarosa di Adventure Time, e iniziai a scrivere.

 

Da: l.carter.wright@gmail.com

A: felicity.vh@gmail.com

Object: Informazioni

 

Ms. Felicity,

Ho visionato il vostro sito internet e sarei interessato a fissare un appuntamento con Lei, sempre se disponibile, per fare un sopralluogo dell'area verde che necessita di un intervento quanto prima.

Cordialmente,

L. Carter Wright

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Fiori secchi ***


 

Felicity

 

Sollevai una mano ricoperta di schiuma e fissai quelle mille bollicine di sapone dai mille colori. L'aria era satura dell'aroma alla lavanda del mio bagnoschiuma e pervasa dalle dolci note di Debussy. Lo specchio era ricoperto da un leggero strato di condensa, chiaro segno che ero da troppo a tempo a mollo. Fissai i miei polpastrelli raggrinziti e sorrisi beata chiudendo gli occhi. Adoravo fare il bagno, farmi cullare dall'acqua tiepida e profumata finché questa non si raffreddava e allora uscire, avvolgermi in un morbido accappatoio di spugna, molto più rilassata di prima e andare a nanna.

Le ultime settimane erano state frenetiche e di certo non tra le migliori.

Prima la visita di Theodore, il brutto litigio e il relativo silenzio insopportabile che aveva caratterizzato i suoi tre giorni di permanenza. Non avevamo risolto nulla, avevo cercato di affrontare il discorso, d'altra parte il fatto che la nostra relazione fosse in una fase di stallo non era una novità recente, ma lui rimandava e faceva finta di nulla. Poco prima di andarsene mi aveva baciato sulla fronte e mi aveva promesso che si sarebbe fatto vivo presto.

Poi all'ultimo minuto un cliente aveva cambiato idea e così un incarico piuttosto rilevante si era volatilizzato e con esso il cospicuo ricavato che sarebbe dovuto servire a riparare il tetto.

Erano ormai venti giorni che vivevo schivando pozzanghere e rischiando di scivolare e rompermi l'osso del collo almeno tre volte al giorno.

Zoe aveva ventilato la possibilità di abbandonare quella cupa baita scricchiolante in cui viveva su in Montana per venirmi a trovare nonostante la sua avversità per mare, temperature superiori allo zero assoluto e vicinanza a New York e conseguentemente ai nostri genitori.

Mio padre e mia madre in questo periodo si trovavano nella Grande Mela per questioni di lavoro e non avevo ancora capito quando avevano intenzione di tornare a casa in Florida. Le conversazioni con mio padre erano alquanto sporadiche e mia mamma non si interessava molto degli impegni di suo marito perciò ottenere informazioni da quei due era alquanto difficoltoso.

L'anno scorso era accaduto che entrambi venissero a farmi visita senza preavviso proprio perché nelle nostre telefonate mio padre mi aveva rimbrottato senza sosta a causa del passatempo che io chiamavo impiego e mia madre mi aveva stordito con il suo entusiasmo per aver condiviso il tavolo con Meryl Streep ad una cena di beneficenza ma nessuno si era ricordato di accennare alla sottoscritta che avevano intenzione di piombarmi in casa a breve.

Quel giorno il bagno al piano superiore aveva deciso di scioperare perciò quando arrivarono ero tra le più alte con secchi e stivaloni da pesca e il mio benvenuto non fu dei più calorosi.

Mi asciugai, infilai il pigiama e frizionai pigramente i capelli prima di intrecciarli distrattamente e andare a ripescare la boccia di George al piano di sotto.

Chiusi la porta sul retro, feci partire la lavatrice, si sa che la corrente elettrica costa di meno di notte, e ciabattando tornai di sopra.

Sistemai il mio pesciolino nel suo solito posto sopra il davanzale della finestra, di fianco al mio lato di letto. Mi infilai sotto le coperte e spensi la abat-jour sul comodino. La stanza piombò nel buio, rischiarato solo dalla fioca luminescenza proveniente dallo schermo del mio portatile semichiuso. Lo aprii del tutto e cliccai il tasto per aggiornare la mia casella di posta elettronica.

Era tardi ma spesso Theodore mi scriveva nel cuore della notte quando riusciva a distogliere per una decina di minuti la sua attenzione da sementi e ricerche sul pino marittimo e  trovare un attimo di tempo per me. Sbuffai infastidita dalla cattiveria del mio pensiero, era vero che mi trascurava ma il suo lavoro era molto importante perciò dovevo essere più comprensiva, o almeno provare ad esserlo. Il pc trillò per segnalare l'arrivo di un nuovo messaggio.

 

Da: l.carter.wright@gmail.com

A: felicity.vh@gmail.com

Object: Informazioni

 

Ms. Felicity,

Ho visionato il vostro sito internet e sarei interessato a fissare un appuntamento con Lei, sempre se disponibile, per fare un sopralluogo dell'area verde che necessita di un intervento quanto prima.

Cordialmente,

L. Carter Wright

 

Finalmente! Era da una decina di giorni che non ricevevo incarichi o perlomeno richieste di preventivi o informazioni e stavo iniziando a disperare. Nel giro di tre giorni avrei completato il giardinetto d'inverno di Mr. Wayne e dopodiché sarei rimasta senza lavoro. Già, disoccupata e con un frigo da cambiare, un tetto in stile scolapasta e l'estate in arrivo. Solitamente risparmiavo tutto l'anno per potermi permettere un viaggetto in agosto. E poi i mesi tra marzo e giugno erano quelli più dispendiosi dal punto di vista di un giardiniere o aspirante tale.

Cercai di non pensare al conto a quattro cifre che avevo dovuto pagare al meccanico per rimettere in sesto il mio povero pick-up verso dicembre o al gruzzolo volatilizzatosi per far si che i vecchi termosifoni di casa funzionassero e che la serra mantenesse sempre la tiepida temperatura ideale per le mie piante da frutto.

Il Signor L. Carter Wright capitava proprio a fagiolo! Le mie dita digitarono rapide una risposta. Non mi importava nulla di sembrare alla disperata ricerca di clienti. Magari la mia celerità nel rispondere poteva essere presa per competenza e zelo.

Inviai prima di ripensarci e allungai una mano verso il comodino per acciuffare un kleenex dalla scatola. Poteva sembrare una barzelletta ma era la triste realtà: ero allergica alle graminacee. In questi mesi lavorare nel verde per me era un inferno. Se mi imbottivo di antistaminici verso le undici di mattina ero mezza addormentata e faticavo a connettere, ma se non prendevo nulla passavo ore a soffiarmi il naso, mettermi il collirio e spruzzarmi in bocca con l'inalatore.

Era pieno maggio, il trionfo di pollini e fiori, e io tentavo di resistere nonostante a volte mi mancasse il respiro e di notte facessi dei veri e propri concerti a causa del naso intasato. Come lo sapevo? George al mattino si lamentava sempre.

Il laptop trillò nuovamente; Mr. Carter Wright a quanto pare faceva fatica ad addormentarsi proprio come me. Era molto formale e il modo rigido ed impostato in cui componeva i suoi messaggi mi fece pensare a uno di quegli uomini ingessati, ventiquattr'ore alla mano, abituati a scrivere email sempre uguali tutto il giorno.

Io ero molto più gioviale ed informale e solitamente ai clienti il mio essere alla mano piaceva molto. Mi sporsi oltre il bordo del letto per afferrare la mia agenda, stracolma di scontrini e post-it, che avevo abbandonato in terra un paio di orette prima, dopo aver finito la mia sessione di stretching serale.

La mail chiedeva se ero libera il martedì seguente dopo le 19 per incontrarci e visionare il sito, parole sue. Sulla pagina di martedì capeggiava un grosso segnale di pericolo che sovrastava il disegnino di un dente con un'espressione di terrore presa in prestito da L'urlo di Munch. Senza esitare risposi affermativamente, martedì era perfetto. Il dentista avrebbe dovuto fare a meno della mia meravigliosa compagnia e dei miei splendidi molari.

Aprii Chrome e digitai Google Maps, facendo poi copia e incolla con l'indirizzo datomi da Carter Wright nel messaggio. Spalancai gli occhi quando mi resi conto che praticamente era il mio vicino di casa. La mia abitazione sorgeva isolata e circondata da un ampio giardino che mi separava dal mondo circostante. L'edificio più vicino era la piccola villa che sorgeva alle spalle della mia, a più o meno settecento metri di distanza.

Il nome della via non mi diceva nulla ma ciò non mi sorprendeva; ricordare vie e percorsi non era proprio il mio forte. Quando avevo dieci anni mia mamma aveva voluto fare una prova e un giorno mi aveva detto di tornare a casa da sola a piedi. Il tutto si era concluso con una denuncia di scomparsa da parte dei miei e io che venivo acciuffata da una volante della polizia mentre percorrevo a piedi una stradina di campagna poco fuori Tampa.

Quando ero venuta ad abitare qui la casa sul retro era già disabitata ma la signora che mi aveva venduto la proprietà mi aveva raccontato brevemente di Tobias, l'anziano signore che l'aveva abitata con sua moglie Angie.

La faccenda si faceva sempre più curiosa e iniziai a fremere all'idea di avere la possibilità di far risplendere quella vecchia casa di campagna. Spensi il pc, mi sfilai gli occhiali e sistemai il cuscino.

«'Notte Georgie», biascicai sbadigliando.

 

***

 

In forno cuoceva una teglia di muffin ai mirtilli, il mio pesciolino stava sguazzando felice nella sua boccia e io dopo aver salutato Donnie già mi pregustavo la nostra pazza estate in Messico. Acciuffai scopa e paletta dal ripostiglio e raccolsi i fiori secchi caduti dai vasi in veranda. Fischiettai felice un motivetto mentre piroettando mi dirigevo verso il cestino dei rifiuti. L'occhio mi cadde sull'orologio a parete e per poco non caddi con la faccia nella pattumiera.

«Merdamerdamerda...», facendo i gradini due a due raggiunsi il piano superiore e mi fiondai in camera per prendere il portatile.

Rifeci la strada al contrario correndo e rischiando di rompermi l'osso del collo e mi accoccolai sul divano in veranda.

Aprii Skype e mi accorsi che la mia sorellona aveva già provato a chiamarmi per ben sei volte.

Zoe e la pazienza, due pianeti destinati a non incontrarsi mai.

«Finalmente! Che fine avevi fatto? Stavo già pensando al peggio ma poi mi sono detta che ero una sciocca, se si parla di Felicity è ovvio che si è persa via con una foglia di lattuga o un petalo di rosa...».

Questo fu il caloroso esordio di Zoe, deliziosa creatura notturna di anni ventotto, residente in una catapecchia in stile famiglia Addams dispersa non si sa bene dove nel Montana, occhi neri e splendidi capelli del color del grano tinti della medesima tonalità delle sue iridi sin da quando aveva tredici anni.

«Fingerò di non aver colto le tue parole colme di sarcasmo», commentai sorridendo a trentadue denti, «Allora come stai?»

Mia sorella detestava il mio perenne buonumore. «Uno schifo. Oggi qui a Missoula e dintorni c'erano 41 gradi Fahrenheit (5 gradi Celsius circa), un caldo insopportabile insomma. In più non piove da una settimana e io non riesco a scrivere nulla se non è in corso una qualche catastrofe meteorologica. Ripeto: uno schifo»

«Nooo, così tanti gradi?», la presi in giro.

«Assurdo, vero? Sono venuta ad abitare sulle montagne sperdute del Montana appositamente per il loro clima e ora questo! Tanto valeva restare in Florida. Ritratto, a Tampa non c'è solo il sole e il caldo insopportabile ma anche Madre. Senza dubbio è meglio il Montana»

Allungai i piedi sul tavolino di vimini di fronte a me, «Almeno sei certa che lei non verrà mai fino a lì a trovarti...», borbottai invidiosa.

Sarei dovuta andare ad abitare in un posto isolato e fuori mano anche io. Il Massachusetts è troppo vicino e facilmente raggiungibile per essere un posto sicuro e al riparo da Madre.

«Anche io lo pensavo ma da quando Prada ha lanciato una collezione dedicata all'abbigliamento per montagna e temperature polari non mi sento più al sicuro. Chi mi garantisce che mentre dormo tranquilla lei non arrivi fino a qua munita di Moonboot, colbacco e pelliccia di ermellino?», chiese rabbrividendo.

Scoppiai a ridere, la sola idea di mia mamma intenta a camminare nella neve, racchette ai piedi, era esilarante. «Tranquilla, lei ama le entrate d'effetto. Come minimo arriverebbe con un gatto delle nevi o una slitta trainata da poveri husky, avvolta in un mantello di candido pelo di decine e decine di innocenti coniglietti. Quel carattere sanguinario lo hai ereditato da lei...», le feci notare innocentemente.

Zoe mi dedicò una smorfia di disgusto, «Mi considero mortalmente offesa da questa tua affermazione. Io e Madre in comune abbiamo solo metà del corredo cromosomico»

«Ah, giusto. Cosa vuoi che sia?», replicai ironica, «Quand'è che decidi di smettere di fare Heidi in versione gotico e scendi dal tuo cucuzzolo per tornare alla civiltà?»

Zoe sparì dall'inquadratura e in sottofondo si sentirono dei tramestii insoliti seguiti da un sonoro TOC e un'imprecazione. Riapparì presto, massaggiandosi la fronte arrossata e borbottando.

«Il mio editore mi ha intimato di consegnargli la bozza del libro prima dell'inizio dell'estate. Poiché non mi piace ricevere ordini da un arrogante maschilista sto meditando di abbandonare la mia casina e andare a cercarlo per soffocarlo nel sonno, ovviamente dopo averlo torturato per bene. Che ne dici di inizio giugno?»

Considerato che quando Zoe era venuta a trovarmi in passato aveva trascorso la maggior parte del tempo barricata in casa, intenta a battere febbrile sui tasti del suo portatile e ad ingozzarsi di barrette ai cereali e maionese, tende rigorosamente chiuse e finestre sigillate, era indifferente il periodo in cui avesse deciso di venire da me.

«Quando vuoi, sono sempre felice di averti qui. Viene anche Felix?», mi informai ricordandomi del suo pallido ed emaciato fidanzato, la cui conversazione più lunga ed articolata era consistita in un saluto bisbigliato all'arrivo seguito dalla richiesta di dove si trovasse la toilette.

Mia sorella aggrottò la fronte pensierosa, «Il gatto o lo stupido umano?»

«Lo stupido umano presumo...», risposi perplessa.

Gatto? Rabbrividii al solo pensiero di una creatura vivente lasciata in mano a Zoe. La storia di Gloria la tartaruga era tristemente nota a tutti in famiglia così come la sua atroce dipartita ad opera della mia tenera e tutt'altro che innocua sorella.

«Oh di lui fortunatamente me ne sono liberata. Ora ho Felix il gatto. Condividono il nome e presto condivideranno anche il medesimo mesto destino»

«Liberata? Cosa intendi?», la interrogai preoccupata. Zoe era un'asociale patologica e più volte Madre aveva ventilato l'ipotesi che la sua condizione rasentasse la sociopatia. Sicuramente l'abitare sola e sperduta in un contesto deprimente e scrivere racconti di folli omicidi e corpi sventrati non aiutava.

«Ho gettato lui e le sue pidocchiose cose giù nello strapiombo su cui si affaccia il cortile sul retro», mi rispose scrollando imperturbabile le spalle.

Per poco non feci scivolare il pc per terra. Cosa? COSA?

«Strapiombo?! Sei impazzita per caso?», mi misi le mani nei capelli in preda al panico. Ora sarei stata ufficialmente imparentata con un'assassina e avrei dovuto portarle da mangiare nel cuore della notte attraverso le sbarre di una lurida cella carceraria.

«Tranquilla, Flick, è ancora vivo. Purtroppo. Con mio grande disappunto ho scoperto che, seppur ammaccato, la sua insulsa persona cammina ancora su questa terra»

In quel momento la mia espressione si rilassò e io sospirai di sollievo. Madre probabilmente avrebbe avuto un colpo apoplettico e Padre avrebbe finalmente avuto il coraggio necessario per depennarci dal testamento.

Dopo averle dato il permesso di portare con sé il malcapitato felino, sempre se a giugno fosse stato ancora vivo, la salutai lanciandole un bacio virtuale a cui lei rispose con la sua solita espressione schifata dedicata ai contatti fisici affettuosi.

Spensi il computer e tornai in casa, dove un penetrante odore di bruciato mi accolse.

«Oh no...», strillai mentre nella mia mente si faceva strada il ricordo dei muffin infornati tempo prima, decisamente troppo tempo prima. Corsi verso il forno e lo spalancai frettolosamente. «Nonono», mugugnai guardando quei piccoli funghetti carbonizzati.

Sfilai la teglia e pescai un dolcetto. Tentai di staccarne un pezzetto ma la consistenza in stile marmo di Carrara ostacolò la mia impresa. Sassi. I miei deliziosi muffin ai mirtilli erano diventati dei sassi. Abbandonai abbatacchiata la sfortunata infornata sul piano cottura e tornai al piano superiore.

L'appuntamento era tra dieci minuti e io ero ancora vestita con i pantaloni di Cip e Ciop e la maglietta scolorita della XXI rassegna floreale del West Virginia. Mi sciacquai il viso e, rimasta con un completino intimo che sicuramente aveva visto giorni più ricchi e floridi prima dei miei lavaggi aggressivi in lavatrice,  zampettai fino al mio armadio.

Cinque minuti più tardi stavo scavalcando la palizzata scrostata che separava la mia proprietà da quella di Tobias. O meglio, da quella di Mr. Carter Wright. Avanzai a fatica tra sterpaglie ed arbusti talmente fitti e selvaggi da aver dato vita ad una vera e propria selva oscura in stile dantesco.

Finalmente, dopo aver dovuto districare i miei capelli da un ramo birichino ed essere rimasta impigliata innumerevoli volte in rovi vari, riuscii a raggiungere lo spazio antistante la villa.

Il tempo era stato inclemente con quella tenuta e tutto stava decisamente cadendo in rovina. Poco più di dieci anni prima quella che ora era una struttura decadente e prossima al cedimento era invece una casa accogliente e ben tenuta. La storia della famiglia che lì aveva trascorso la propria vita era stata cancellata dalle erbacce che prepotenti avvolgevano tutto e dai danni dovuti al maltempo.

All'orizzonte non si vedeva nessun auto così mi sedetti paziente sul gradino più basso del portico.

I minuti passavano e il mio Swatch in plastica color zucchero filato segnava già le 19.13, certamente il mio ipotetico futuro cliente non era il re della puntualità.

Stanca di fissarmi le unghie e di disegnare cerchi con la punta delle scarpe nella ghiaia, mi alzai dalla mia postazione e decisi di andare in perlustrazione.

Girai attorno alla casa, notando quanto fossero profonde e accentuate alcune crepe che decoravano le pareti esterne. Accarezzai piano l'intonaco turchese scrostato, doveva essere stata un'abitazione deliziosa così dipinta del colore del cielo.

Un leggero venticello si alzò facendomi svolazzare i capelli attorno al viso. Un leggero aroma giunse alle mie narici.

Ciclamino. Avrei riconosciuto quella fragranza dappertutto. Inspirai piano cercando di capire da dove provenisse.

Svoltai nel vialetto sulla mia sinistra e dopo aver scavalcato un cespuglio di bosso ormai fuori controllo mi inginocchiai a terra. Procedendo a quattro zampe mi addentrai in quella bassa boscaglia fino a che il profumo si fece più forte. Infilai la testa tra delle giunchiglie selvatiche e lì di fronte ai miei occhi si parò uno spettacolo bellissimo.

Una piccola famiglia di ciclamini di uno squillante color fucsia era sopravvissuta, sebbene accerchiata da decine di altre specie floreali senza dubbio più resistenti ed infestanti di lei.

In quel momento mi pentii di non aver portato con me la mia vecchia Polaroid, con cui solitamente fotografavo le piante e i fiori che mi trasmettevano qualcosa con la loro piccola e fragile bellezza.

«Signorina Felicity?», sentii dei passi avvicinarsi e la ghiaia scricchiolare sotto le suole delle scarpe del nuovo arrivato, «Dove diavolo si è cacciata quella donna?», udii borbottare.

«Qui!», esclamai riemergendo dal mio nascondiglio.

L'uomo che si trovava vicino alla parete sud della casa fece un balzo nel vedermi spuntare improvvisamente da quel caos verde che era il giardino.

Per un attimo mi fissò sconcertato prima di assumere un'espressione di scocciata condiscendenza e rivolgermi un cenno del capo.

«Miss Felicity?», si assicurò.

Avanzai piano, cercando di girare alla larga dalle numerose piante di ortica che avevo avuto modo di notare poco prima. «In persona...», con un saltello superai un basso cespuglietto di rose e lo raggiunsi nello spazio sterrato.

Gli porsi una mano e sorrisi. Io non ero certo una tappeta ma quest'uomo sfiorava senza dubbio il metro e novanta su per giù, perciò mi ritrovai ad osservare dal basso verso l'alto la strana espressione di malcelato disgusto che gli attraversò il volto. Abbassai lo sguardo per cercare di capire cosa avesse procuratore quell'emozione e mi focalizzai sulla mia mano tesa. La mia mano tesa e ricoperta di un leggero strato di terra.

«Oddio, mi perdoni!», esclamai affrettandomi a ripulirla contro i miei pantaloni.

La seconda volta fu quella buona e finalmente riuscii a farmi stringere la mano da quell'uomo facilmente impressionabile. Non mi piaceva giudicare una persona in base alla prima impressione però dopo quell'inutile teatrino per un pochetto di terriccio non gli aveva senza dubbio fatto guadagnare punti.

«Piacere! Come già sa io sono Felicity...»

«Carter Wright», rispose seccamente lasciando andare la mia mano. Esitai, non sapendo se chiedergli o meno quale fosse il suo nome di battesimo.

James? Troppo banale.

John? Troppo plebeo.

Bartholomew? Troppo vecchio stile.

«Liam. Liam Carter Wright», mi informò lui. Una vaga nota di fastidio nella voce. «Glielo si leggeva in volto che moriva dalla voglia di domandarmelo...», mi fece notare sarcastico.

Non avevo bisogno di uno specchio per sapere che le mie guance in quel momento stavano andando a fuoco. «Posso darle del tu? Solitamente io -»

«Preferisco mantenere le distanze, se non le dispiace», mi interruppe lui.

Che problema aveva questo individuo? Neanche Theodore, nonostante la sua rigida educazione e la sua attenzione quasi ossessiva per l'etichetta, arrivava a tanto.

Mi incamminai verso lo spiazzo antistante l'edificio facendo segno al mio compagno di seguirmi. «Io il posto lo conosco molto bene. Vede quella finestra con le ante verdi che sbuca tra i rami di quella betulla?», indicai un punto alla nostra destra. «Là, Mr. Liam, provi ad alzarsi sulle punte. Riesce a vederla? Ecco, quella è camera mia!»

Dal suo sguardo oltremodo perplesso compresi che i miei tipici salti mentali come al solito erano chiari solo alla sottoscritta e avevano come unica conseguenza il disorientare i miei interlocutori.

«Cioè che intendevo proporle era di discutere del progetto a casa mia. Sta iniziando a far buio...», spiegai cercando di chiarire quello che ai miei occhi appariva scontato.

Perché mai avrei dovuto mostrargli la finestra di casa mia se non per fargli intendere la vicinanza della mia abitazione e la possibilità di andare a discutere in un luogo più comodo e rischiarato?

Il sole era ormai tramontato e il cielo stava imbrunendo rapidamente. Se prima ero riuscita a vedere nitidamente la deliziosa sfumatura color acquamarina dei suoi occhi ora a malapena sapevo che aveva due occhi su quel viso e non uno come il ciclope Polifemo.

«Se non teme per la sua vita potremmo avventurarci all'interno della mia di casa», mi propose sfilando una chiave dall'aspetto vissuto dalla tasca della giacca.

Dovetti trattenermi per non mettermi a saltellare dalla gioia. Morivo letteralmente dalla voglia di vedere l'interno della casa e lo avrei proposto io se non fosse che sarei passata per un'impicciona impudente, cosa che effettivamente sono.

E poi mi era tornata alla memoria l'immagine da far accapponare la pelle del mio salotto dopo che avevo deciso di trasferire tre quarti delle piante del giardino all'interno della casa in vista della tempesta annunciata dai tg.

«Oh, si figuri! Vivendo nella mia casa pericolante sfido già la sorte quotidianamente...», lo rassicurai aspettando che mi facesse strada.

Il legno degli scalini del portico scricchiolò in maniera inquietante quando mi ci avventurai sopra e non seppi se interpretare la cosa come un avvertimento della cedevolezza della vecchia catapecchia o un muto rimprovero per tutti i dolcetti al cocco ingeriti la settimana prima in corrispondenza del mio periodo nero del mese.

La serratura oppose resistenza, e visto il suo aspetto alquanto arrugginito la cosa non mi sorprese. Il Signor Carter Wright, che aveva un cognome a mio parere troppo lungo e pomposo, continuò ostinatamente a far scattare a destra e sinistra la chiave nella toppa senza però riuscire a far smuovere la porta di un millimetro.

Sbuffai spazientita di fronte a quello sfoggio di assoluta mancanza di senso pratico unito ad un po' di sano ingegno. Cercando di non risultare eccessivamente scortese lo spinsi leggermente da parte e posizionatami di profilo rispetto alla porta mi ci gettai contro calibrando la violenza del mio colpo. Volevo si aprire quella benedetta porta ma di certo non lussarmi una spalla.

L'uscio si aprii cigolando e io mi spostai di lato e invitai Mr. Liam ad entrare per primo. Dopotutto era pur sempre casa sua, sebbene se avessimo aspettato lui e i suoi tempi biblici prima di riuscire ad introdurci nell'edificio io avrei fatto in tempo a fare il giro del mondo in monopattino.

«Sono colpito. La vita di campagna sortisce questo effetto sulle persone?», si interrogò lui.

Esasperata lo superai e superai la soglia d'ingresso, facendo il mio ingresso in un ampio spazio ricco di polvere e spifferi.

«La 'vita di campagna', come la chiama lei, Mr. Liam -»

«Carter Wright prego...»

«La vita di campagna, Mr. Liam, è una grande maestra di vita. Io so cambiare una ruota, riparare un lavandino che perde e tagliare la legna. Lei può dire lo stesso?»

I suoi occhi si rabbuiarono e vidi la linea della sua mascella farsi più rigida. Era irritato, e non mi ci voleva certo una laurea in psicologia per intuirlo.

«Se vuole lavorare per me dovrà fare in modo di tenere a freno la sua lingua lunga e i suoi comportamenti impertinenti. Io stabilirò tempi e budget e lei mi farà avere una bozza del progetto entro lunedì prossimo, d'accordo? Come prima traccia si attenga all'idea di giardino all'inglese. Semplice, pulito, senza inutili fronzoli e fiorellini dai mille colori. Niente fontane inutilmente scenografiche, niente statue romantiche raffiguranti ninfe o piccoli putti sovrappeso che piacciono tanto a voi donne e soprattutto niente laghetti pieni di zanzare e insetti rivoltanti», elencò severo il mio quasi cliente.

«Un pergolato? Pensi a tante roselline di una impalpabile sfumatura di rosa tenue che la circondano e le fanno da eterea cornice...», proposi provocatoriamente fingendomi rapita dall'immagine del fitto intreccio di rose.

«Non osi. Penso di essere stato chiaro. Lunedì al massimo voglio il suo progetto in allegato ad una sua email. Con questo ho finito, arrivederci Ms. Felicity»

Lo fissai in silenzio per qualche secondo non sapendo bene come giudicare quello strambo individuo. Nel suo bel completo dal taglio sartoriale pareva il tipico uomo d'affari, freddo e calcolatore, come emergeva già dal suo modo di scrivere e approcciarsi con gli altri. Risultava subito evidente che era abituato ad avere il controllo sugli altri e non amava essere contraddetto o, peggio ancora, preso in giro.

Scossi la testa, stanca di quei pensieri troppo freudiani per i miei gusti, e frugai in tasca alla ricerca di un biglietto da visita.

Glielo porsi senza neanche guardarlo. «Se avesse bisogno di qualcosa mi trova a questo indirizzo».

Lui lo afferrò e lo guardò prima di ritornarmelo senza dire una parola.

«È quasi illeggibile...», mi fece notare.

Abbassai lo sguardo su quei caratteri sbavati e scoloriti stampati su un cartoncino raggrinzito.

«Deve essere finito inavvertitamente in lavatrice con i pantaloni...», borbottai pensierosa prima di allungare una mano verso il suo taschino della giacca, «Posso?»

Ad un suo cenno d'assenso sfilai l'elegante penna dorata che faceva capolino e scribacchiai sul biglietto il mio indirizzo. Riposizionai la biro al suo posto e gli porsi nuovamente il foglietto.

«Arrivederci, Mr. Liam», lo salutai prima di voltarmi e incamminarmi verso casa sentendo di avere i suoi occhi puntati verso la mia figura che si allontanava.

Scavalcata l'ultima bassa siepe che cingeva la mia proprietà mi accorsi della vecchia Ford parcheggiata davanti al capanno degli attrezzi, di fianco al mio furgoncino.

Affrettai il passo e circumnavigai la casa per raggiungere il giardino sul davanti dove una ben familiare figura se ne stava china a fissare assorta le foglie di una pianta.

«Theo!», esclamai al settimo cielo avvicinandomi e cingendogli la vita da dietro. Gli lasciai un bacetto affettuoso nell'incavo del collo e lo strinsi felice. «Questa si che è una bella sorpresa!»

«Mh mh, ciao anche a te, Felicity», mugugnò piano continuando a studiare quella stupida pianta e ad ignorare me. «Dov'eri? Il tuo pick-up era qui...»

Eh certo: prima non mi calcolava minimamente e ora faceva l'ispettore di polizia.

Mi staccai da lui e feci due passi indietro avvicinandomi alla porta d'ingresso. «Dal mio nuovo vicino di casa. Abbiamo fatto un accordo sai, Theodore, quid pro quo. Io gli metto a nuovo il giardino e lui mi ricompensa ampiamente tramite favori di tipo sessuale. Sono assai...appagata da questo scambio», gli raccontai con voce flautata.

Ero un'attrice nata. Avrei senza dubbio fatto meglio a vendere tutto, prendere armi e bagagli e cambiare costa oceanica. Addio caro gelido Atlantico e benvenuta Pacific Coast e sole californiano. Hollywood aspettami!

«Ahah. Ti sei accorta della quantità oltremodo esagerata di cocciniglia presente su queste foglie? Dovresti far qualcosa prima che questa poveretta soccomba», mi rimproverò senza accennare a cambiare posizione e guardarmi in viso.

Avrei voluto urlare, pestare i piedi e prenderlo a schiaffi. Possibile che non vedesse? Che razza di relazione era la nostra? Una senza futuro a quanto pareva.

Entrai in casa e feci sbattere la porta dietro di me. Mi sfilai le scarpe da ginnastica infangate e le gettai alla rinfusa ai piedi delle scale prima di correre di sopra e chiudermi in bagno.

I tempi in cui, mentre ascoltavo rapita per ore e ore il professor Dixon parlarci dei mutamenti che aveva subito la famiglia delle Urticaceae nel corso degli anni, sospiravo d'amore per il giovane dottorando un po' svanito e sempre così compito che ci aiutava durante le esercitazioni pratiche in serra.

Ai tempi passavo le ore di lezione ad immaginare di potermi avvicinare a lui e sfilargli quegli occhiali dalla montatura severa che gli scivolavano sempre sul naso, volevo poter vedere da vicino il colore dei suoi occhi per capire se era davvero così verde da sfidare la brillantezza della tinta delle migliaia di migliaia di piante che ci circondavano. Invece di studiare il manuale di botanica e prendere appunti la mia mente si arrovellava cercando di indovinare come si chiamasse. L'etichetta già ai tempi ci informava che avevamo a che fare con T.H.Graham, nulla di più.

Ci vollero mesi di silenzioso corteggiamento da parte mia e timide ritirate da parte sua per farci arrivare al nostro primo e disastroso appuntamento. Dove mi portò? Nella serra dell'università, perché il passare lì i tre quarti delle mie giornate evidentemente non era sufficiente.

Ricordo benissimo come, mentre lui si era perso in una dimostrazione su come travasare un'orchidea senza arrecare alcun danno alle radici, io mi avvinai e messi da parte vasi e palette gli sfilai gli occhiali e lo baciai. Successe così, con i guanti da lavoro ancora infilati e gli ultimi raggi di sole che filtravano attraverso i vetri.

Fu molto poetico ma forse avrei dovuto capire già dal modo quasi frettoloso con cui lui interruppe il bacio, rimise in piedi il vasetto che avevo rovesciato e riprese a parlare del travaso che sarei andata incontro ad una storia assolutamente sterile ed infruttuosa. E io amavo le cose rigogliose, verdeggianti e piene di boccioli, tante piccole speranze di nuove vite.

 

 

 

Punto primo: scusate il mio ritardo nel pubblicare il capitolo, non starò a spiegare cosa mi è successo o cosa non mi è successo perché il risultato sarebbe una nuova trilogia alla Tolkien perciò lasciamo stare.

Punto secondo: io scrivo storie leggere e, almeno solitamente, mediamente divertenti. Non dico da sbellicarsi dalle risate ma da sorriso si. Ecco, ultimamente io non mi diverto affatto e purtroppo il mio umore alla Leopardi di quest’ultimo periodo sta avendo un effetto deprimente sulla mia scrittura. Mi scuso anche per questo. Passerà. O almeno lo spero.

Punto terzo (poi sono finiti, tranquilli): grazie mille per aver letto, recensito (vi rispondo subitissimo) e messo tra preferite/seguite/ricordate la mia storiella. Tanti fiorellini per tutti voi 🌺

Alla prossima,

S.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Roselline e spine ***


 

Liam

 

«Gradisci un altro po' di orata, Liam caro?»

Non avevo bisogno di alzare lo sguardo per capire quanto veleno nascondesse in realtà quella voce dal tono zuccherino.

Una mano così carica di oro e diamanti da far risultare ridicoli i gioielli della corona di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra si levò in aria e con un movimento leggiadro delle dita richiamò la cameriera.

«Dolores, sveglia cara! Servi il Signor Carter Wright prima che Venezia venga sommersa per colpa dello scioglimento dei ghiacciai e io compia trent'anni...»

Rivolsi uno sguardo di silenziose scuse alla povera domestica perennemente vessata da Sua Signoria.

«Non sapevo possedessi una macchina del tempo, Mildred cara», la presi in giro. «Se tecnicamente tu non hai ancora compiuto trent'anni io dovrei essere fermo ai tempi della mia squinternata adolescenza, sbaglio forse?», la interrogai gustandomi appieno la sua espressione livida e oltraggiata.

Matthew si astenne da qualsiasi commento; come sempre evitava di intromettersi tra i continui battibecchi che fin dal principio avevano caratterizzato gli incontri tra me e la sua adorabile mogliettina. Con la coda dell'occhio lo vidi però nascondere educatamente una risata dietro ad un raffinato tovagliolo in seta écru.

«Corretto. Il tuo squilibrio ormonale e la tua pelle acneica avvalorano senza dubbio la tua tesi...», cinguettò lei in risposta, senza scomporsi e continuando a tagliare imperturbabile il suo tortino di zucchine, pomodorini secchi e noci.

Matthew non interveniva anche perché la sua consorte non necessitava assolutamente di qualcuno che la difendesse dato che la sua lunga tagliente bastava per provocare e, se necessario, annientare i suoi avversari.

Il motivo per cui Mildred mi detestava ma tuttavia continuasse a frequentarmi stava proprio lì: ero l'unico che non gliela dava mai vinta. Abituata a comandare a bacchetta il marito, a tiranneggiare domestici e babysitter e a far piangere i suoi sottoposti non concepiva l'esistenza di una persona pronta a ribattere e assolutamente non disposta a piegarsi al suo volere.

«Touché! In questo campo l'esperta sei tu, la mia pelle acneica potrebbe trarre giovamento da uno degli unguenti di cui tu fai uso per celare le squame e non rivelare all'umanità la tua natura serpentesca e le tue rughe da creatura di mezz'età. Cosa mi consigli?». Soddisfatto ingoiai l'ultimo boccone di orata e allungai una mano per afferrare il calice colmo di vino bianco.

«Una ricostruzione plastico facciale radicale»

«Il tuo chirurgo con te ha fatto un buon lavoro quindi potrei prenderla in considerazione...»

Mildred strinse tra le dita la forchetta in argento ma non si lasciò invadere dalla collera. Quella donna aveva un autocontrollo di tutto rispetto.

«Okok. Time out», ci bloccò Matt, «Desidererei gustarmi il dessert senza che esso mi vada di traverso perciò...tregua», propose lanciandomi uno sguardo supplicante.

Annuii rassegnato e sua moglie fece lo stesso, non prima però di avergli rivolto uno sguardo esasperato.

Sicuramente il mio amico avrebbe passato dei guai in privato. Mildred era alquanto rancorosa e non sopportava l'essere ripresa di fronte agli ospiti, soprattutto se a farlo era suo marito.

«Judy non riesce a raggiungerci?», iniziò Mildred cercando di non avere un tono completamente carico di disprezzo mentre si rivolgeva al sottoscritto.

Ripensai all'ultima email di mia sorella ricevuta il giorno precedente: sfilza di emoticon senza senso, tentativi di spiegarmi a cosa stesse lavorando ma già al termine hardware il mio cervello si era  dato al panico e dieci foto di gattini negli allegati.

Quell'infido essere era riuscito in passato ad entrare in possesso del mio iPhone e mi aveva creato un profilo Facebook e ora ogni giorno mi arrivavano decine di notifiche che mi avvisavano che Judith Carter Wright mi aveva taggato in qualche video.

Pupattoli che cantavano i Deep Purple, scimmie che ballavano la macarena, consigli e trucchetti su come mangiare più sushi possibile ai ristoranti giapponesi che offrivano il servizio 'all you can eat' senza finire al pronto soccorso a fare una lavanda gastrica.

Ogni sciocchezza che faceva divertire la mia folle consanguinea a Cambridge dopo tre secondi faceva vibrare il mio cellulare a Plymouth.

«No. Però vi ha inviato un gatto obeso che rutta per scusarsi», borbottai scuotendo la testa.

E questi erano i geni che avrebbero dovuto far progredire la ricerca scientifica nel nostro paese.

«Oh si l'ho visto, era così carino. Più tardi la chiamerò per ringraziarla», tubò Mildred diventando all'improvviso tutta latte e miele.

Se io avessi osato inviare una cosa simile a Malefica probabilmente mi sarei trovato un gatto obeso morto sul parabrezza dell'auto e una denuncia della PETA per maltrattamenti sugli animali. Ma la strega cattiva adorava oltremisura la mia squilibrata sorella e nessuno scienziato era ancora riuscito a scoprire il perché.

«Ci piacerebbe venire a vedere la casa in campagna quando i lavori inizieranno. Mildred si è messa in testa di voler rifare, per la centesima volta, il giardino», mi spiegò il mio amico alzando gli occhi al cielo, ovviamente non visto da Malefica.

La quale gli allungò uno scappellotto piuttosto potente e lo rimproverò immediatamente, «Dovresti ascoltarmi per bene quando parlo invece di perderti a guardare Masha e Orso con Gabriel. Comunque volevo solo uno di quei graziosi gazebi tutti tulle e graticci di rose dove prendere il thè e fare colazione...»

«Allora Felicity, la giardiniera, o meglio architetto paesaggista, che ho consultato fa proprio al caso tuo. Sembra vivere nel mondo dei folletti e vorrebbe stagnetti, romantiche sedie in ferro battuto arzigogolato e cascate di fiori profumati dovunque». Cercai in tasca ed estrassi il mio telefono e inviai un messaggio al mio amico con l'indirizzo del sito di Felicity.

Ripensare alla sua camicetta a ciliegie, il suo naso impertinente ricoperto da una pioggia di piccole lentiggini e alle foglioline incastrate tra i suoi capelli dello stesso colore splendente del sole mi fece sorridere tra me e me.

Ma il tutto durò solo un attimo.

La mano macchiata di terra, gli occhi dallo sguardo perennemente sognante, il suo ostinarsi nel chiamarmi Mr. Liam nonostante il mio divieto e il suo modo allegro di farsi beffe di me fecero morire quel sorriso neonato alquanto rapidamente.

«Le donne ne capiscono più degli uomini. È scientificamente provato. Non opporti alla natura, caro, e lascia che questa signorina intellettualmente a te superiore faccia il suo lavoro...», mi sistemò in due secondi la strega.

«Allora come mai hai sposato Matthew? Il tuo intelletto superiore era in vacanza alle Bahamas?», la provocai.

Volevo un mondo di bene al caro e vecchio Matt e mi dispiaceva usarlo all'interno dell'infinita diatriba tra me e Malefica ma come si dice: il fine giustifica i mezzi.

«Ehi!», esclamò infatti indignato il diretto interessato. «Vorrei ricordarti che io sono qui presente...»

Sua moglie lo azzittì con un regale movimento della mano, giusto per sottolineare il fatto che a nessuno importasse cosa il poveretto dicesse.

«Già, una lunga e rilassante pausa in riva ad acque cristalline ma sicuramente più breve del viaggio senza ritorno intrapreso dal tuo di intelletto», le sue labbra coperte da un velo di rossetto si curvarono in un sorrisetto maligno.

Stavo per ribattere quando una vocina ci interruppe. «Tio Tiam, tio Tiam!»

Mi voltai e un sorriso nacque spontaneo sulle mie labbra nel vedere quelle manine paffute che si allungavano nella mia direzione e il paio di occhioni color fiordaliso che mi fissavano carichi di aspettativa.

Mi alzai in piedi e mi chinai per acciuffare quel piccolo frugoletto. «Cosa sta il mio nanetto preferito?», gli chiesi adagiandolo sulle mie ginocchia e dandogli un buffetto.

«Tataneve? Eoo, piolo, bontolo...», si mise a contarli sulle dita per poi perdere il filo e osservare perplesso la sua mano con tre dita sollevate. «Mama?», domandò sollevando lo sguardo in cerca di aiuto.

Una cosa di cui ancora non mi capacitavo era la trasformazione che Mildred subiva in presenza di suo figlio. Se un attimo prima se ne stava tutta impettita nel suo cardigan color lavanda, espressione altera e tono velenoso, ora era tutta miele e sorrisini.

«Tesoro, li abbiamo ripetuti ieri, ricordi? Mancano Cucciolo, Mammolo, Gongolo e Dotto...»,  concluse con voce morbida.

«No! Dotore no!», strillò spaventato Gabriel iniziando a tirare il bavero della mia giacca.

«Gabe tranquillo, Dotto è uno dei sette nani di Biancaneve. Niente dottori», cercò di tranquillizzarlo suo padre.

«No dotore! Ho deto NO!», urlò iniziando a scalciare furioso.

Ecco, ora lo gnometto mi piaceva decisamente di meno.

Mildred balzò in piedi alla velocità della luce e prese fra le braccia il suo bambino, cullandolo stretto al seno.

Il furbetto, soddisfatto per essere riuscito ad avere tutta l'attenzione della sua mammina adorata, smise di frignare e iniziò ad indicare la torta che aveva portato in tavola poco prima la cameriera.

«Oh no. Tesoro, non mi sembra il caso; l'ultima volta il cioccolato ha trasformato il suo sederino in un campo di fragole!». Matt intervenne cercando di far ragionare la moglie, la quale aveva già messo una fetta nel piattino e lo aveva messo di fronte a Gabriel, seduto sulle sue ginocchia.

«Hai preso per caso una laurea in medicina per corrispondenza?», gli domandò Malefica esasperata mentre faceva l'aeroplano con il cucchiaino carico di un boccone di dolce.

Gabriel aprì docilmente la bocca e ingurgitò contento quel dessert cioccolatoso.

«No, ma ho passato una settimana a spalmargli pomata sul culetto arrossato per ben sei volte al giorno!», la redarguì prontamente Matthew.

Mildred scrollò le spalle, chiaro segno che coi suoi rimproveri lei ci si puliva le sue meravigliose scarpe tacco dodici di Christian Louboutin, e continuò imperterrita a imboccare il piccolo.

Quest'ultimo, cioccolato spalmato fin sopra al nasino, sembrava invece spassarsela alla grande tra le premure della sua mammina e quella fetta inattesa di torta.

Il mio amico, irritato per essere stato ignorato come sempre, si alzò, con la scusa di voler fumarsi una sigaretta e di non poterlo fare nelle vicinanze del figlio, e mi fece segno di seguirlo.

Abbandonai il mio posto a tavola e quando la strega cattiva, che in quel momento, capelli arruffati dalle manine dispettose di Gabriel e maglioncino imbrattato di cioccolato, non pareva più tanto cattiva, mi rivolse uno sguardo risentito le rivolsi un sorriso di scuse.

Sapevo benissimo che, nonostante il nostro rapporto di certo non idilliaco, Mildred a volte sperava che tenessi la parte a lei e non sempre a Matt. La verità era che io non volevo assolutamente farmi coinvolgere in liti coniugali anche in orario extra lavorativo perciò glissavo e usavo con entrambi la mia miglior tecnica professionale: sorridi discreto, annuisci di tanto in tanto e, soprattutto, tieni la bocca chiusa.

Superai la soglia della porta-finestra, che dalla sala da pranzo conduceva direttamente al retro del giardino. Mancava ancora un mese all'estate eppure le temperature avevano iniziato ad alzarsi e il clima si era fatto più mite, man mano che le giornate si allungavano e giugno si avvicinava.

«Liam, guarda tutto ciò e impara: il matrimonio è un inferno», ammise stancamente Matthew, prendendo una boccata di fumo.

Ridacchiai divertito. Questa era la frase che mi veniva ripetuta ogni giorno fin da quando avevo iniziato a esercitare la professione di avvocato divorzista.

Il problema dei miei clienti era sempre quello: alla conclusione che il matrimonio fosse la fine della libertà e della spensieratezza e l'inizio di una incarcerazione lunga ed estenuante ci arrivavano solo dopo essersi sposati. E qui entravo in gioco io; sorrisi, cenni del capo, silenzio di finto interessamento e falsa comprensione, lauta parcella e via...la libertà era riacquisita!

«Errare humanum est, perseverare...», lasciai la frase in sospeso, certo che il mio amico avesse colto il significato dietro alle mie parole.

«Sai chi ho rivisto l'altro giorno da Burger King? Melanie Woods!», esclamò entusiasta cambiando repentinamente discorso.

Scacciai con la mano la nuvola di fumo esalata dal mio amico e lo guardai sospettoso, «Mildred sa che bazzichi per i Burger King?»

Matthew assunse un'espressione incredula e mi puntò l'indice contro, «Io ti dico che ho rivisto Melanie Woods e l'unica cosa da te recepita è che mi sono mangiato un paio di cheeseburger alle spalle di mia moglie e della sua dannata dieta salutista?!»

«No, ho colto anche il fatto che io non sono stato invitato a mangiare un paio di cheeseburger...», lo presi in giro, fingendomi offeso da questa sua dimenticanza.

«Tu schifi i fast-food, principino sul pisello!», mi accusò, voltandosi per spegnere la sigaretta nel portacenere di madreperla posto sul basso tavolinetto in vimini alle sue spalle.

«Vero. Comunque...come sta la cara Melanie?», gli chiesi più per farlo felice che per reale interesse.

«Alla grande! Ti ricordi delle sue super tet-»

«Io le ricordo benissimo le super tette di plastica di Melanie la Troia...», la voce incolore di Mildred ci raggiunse inattesa dalla soglia del salone.

Fece due passi nella nostra direzione e si accasciò stanca sul divanetto alle spalle di Matt. «Così come ricordo altrettanto bene come ve la siete spassata voi tre insieme. Ad essere sincera credo che tutti gli abitanti del dormitorio si ricordino perfettamente gli acuti e le invocazioni a tutti gli dei di tutte le religioni presenti al mondo della zoccola», concluse, il viso deformato da una smorfia di disgusto.

Matt la raggiunse e le si sedette a fianco, allungando un braccio per cingere le spalle esili di sua moglie e avvicinarla a sé. «Amore mio, ai tempi non avevo ancora conosciuto la celestiale Mildred Eleanor Lancaster e mi accontentavo di ciò che trovavo...», sussurrò il mio amico prima di posarle un dolce bacio sulla guancia.

Bacio che sapeva molto di tentativo di rabbonire la coniuge furiosa dopo la figuraccia appena fatta.

«Dev'essere stato duro, vero?», lo appoggiò Mildred lasciandogli una lieve carezza sulla guancia. «Povero tesoro, costretto ad accontentarsi di una stangona rossa e focosa tutta tette e gambe!». Uno scappellotto raggiunse potente la nuca del mio amico, il quale, totalmente colto di sorpresa, non ebbe il tempo di sottrarsi alla mano dalle graziose unghie laccate di rosa che gli stampò cinque dita sul retro del collo.

Io scoppiai a ridere, incapace di trattenermi, e questo mi costò un'occhiata inceneritrice da parte di Malefica.

«Ahi! Zuccherino ancora non ti conoscevo, non puoi prendertela perché p-»

«...pensi con il tuo pene?», concluse sorridendo candida la strega cattiva.

«Se non lo facessi non ti avrei mai gettato vestita in piscina solo perché volevo vedere attraverso il tuo vestito da educanda bagnato se erano vere le voci sul tuo balcone mozzafiato...»

«Sei un coglione, lo sai vero?», gli chiese Mildred sorridendo.

«Ma mi hai sposato nonostante questo...», constatò felice Matt.

«Ti ho sposato proprio per quello», lo contraddì lei, poggiando il capo sulla spalle del marito, alquanto sorpreso da quella confessione.

Senza dubbio condividevo la sorpresa del mio amico; Mildred non era mai stata una persona molto espansiva e carpirle una frase affettuosa era una missione alquanto complicata.

«Chi coione?». Una vocina infantile ed incerta interruppe quel raro momento di pacifico amoreggiamento coniugale.

«Gabe! Non devi d-», il rimprovero paterno di Matt fu interrotto sul nascere dall'intervento di sua moglie.

«Tuo padre, tesoro mio. Vieni qui dalla mamma ora», gli spiegò tutta sorridendo allargando le braccia.

Braccia tra qui il bambino si tuffò senza indugio, sprofondando il visino nel collo della madre.

«È emozionante assistere all'apprendimento di Gabriel, pian pianino sta imparando le cose fondamentali...», esclamai sarcasticamente.

Il mio amico mi fulminò con lo sguardo e risentito mi informò che quello senza dubbio non era un insegnamento fondamentale ma un tentativo di diffamazione.

Mildred allungò una mano, tenendo saldo in grembo il figlio con l'altro braccio, e scompigliò i capelli del marito. «Caro, prima impara come sei, innumerevoli difetti compresi, prima impara ad amarti...»

E con questa dolce immagine di felicità coniugale stampata a fuoco nelle retine, perché una Malefica gentile era più rara di un koala che andava in bicicletta fischiettandolo l'inno nazionale del Paraguay, mi congedai e feci ritorno a casa mia.

Nel mio attico non c'era nessuna moglie irritante, nessun bambino che ripeteva le parolacce e nessun giardino rilassante a circondarmi.

Era quello che avevo sempre voluto, poter fare quello che volevo quando volevo, nessun legame fastidioso ad impedirmelo, nessuna famiglia di cui essere responsabile, nessun posto dove tornare per sentirmi davvero a casa.

Mi era sempre stato bene tutto ciò, ero io il primo a cercare di scrollarmi di dosso tutto ciò che portava con sé troppi vincoli, troppi obblighi.

Allora perché cazzo sei malinconico?

Per scrollarmi di dosso quel fastidioso senso di mancanza decisi di gettarmi sul lavoro, fonte di distrazione sempre efficace sebbene non propriamente divertente quanto una ginnasta russa nuda nel proprio letto.

Tolsi le scarpe e mi accomodai sul divano, portatile sulle gambe. Mentre aspettavo che quest'ultimo si avviasse, mi stiracchiai e slacciai i primi due bottoni della camicia, benedicendo la domenica e la possibilità di non dover indossare la cravatta.

La mia casella di posta elettronica era intasata come al solito, la gente faticava a comprendere che il concetto di giorno di riposo veniva applicato anche alle professioni altrui e non solo alla propria.

Se la domenica tu eri spalmato su una sdraio a bordo piscina perché mai il tuo avvocato non dovrebbe stare facendo lo stesso? No, secondo alcuni dei miei clienti io la domenica dovevo passarla a leggere i loro lagnosi messaggi più lunghi dell'intera bibliografia di Stephen King messa assieme in modo da avere una gradita anteprima dei piagnistei a cui i mittenti mi avrebbero sottoposto di persona nel corso degli appuntamenti settimanali nel mio studio.

Ignorai la bustina lampeggiante sul nome di Ethan Mayer, sapendo di non poter reggere uno sproloquio di quindici pagine sul perché il criceto spettasse a lui e non alla moglie, basato su innumerevoli prove fotografiche che lo raffiguravano intento a fare lo shampoo all'animaletto o a leggere un manuale intitolato Segreti e trucchi per il taglio delle unghie dei nostri amici roditori, chiara prova, a suo parere, del fatto che lui fosse il padrone ideale per Jerry il criceto.

 Secondo me erano solo la prova che quell'uomo fosse gravemente disturbato e che l'indifeso animale era la vittima innocente delle sue manie psicotiche. Povero Jerry.

Un altro messaggio attirò invece la mia attenzione e senza indugiare cliccai sopra il simbolo della bustina ancora chiusa.

Salve Mr. Liam,

Come sta? Ha visto che meraviglia l'albicocco nel suo giardino? Mi sono permessa di fargli una fotografia, spero non sia geloso di tutta quella bellezza! ;)

È stata una vera sfida ma alla fine ce l'ho fatta! In allegato troverà il mio progetto come da Lei richiestomi, sono molto fiera del mio lavoro.

Saluti,

Felicity

 

Aveva davvero inserito una faccina che mi faceva l'occhiolino in una comunicazione di lavoro?!

Fissai sconcertato quella parentesi e quel punto e virgola che formavano un sorriso scherzoso per parecchi secondi prima di scrollare le spalle. La Signorina Felicity a quanto pareva era tanto sciroccata quanto Ethan Mayer e il suo benedetto criceto.

Geloso della bellezza di un albicocco?!

Mi appuntai mentalmente di controllare la zona circostante la casa di Miss Felicity in futuro, alla ricerca di foglie sospette a sette punte. Quello che diceva quella donna non poteva che essere frutto di un qualche annebbiamento mentale dovuto a rimedi molto naturali coltivati da lei stessa.

Scaricai l'allegato e lo aprii. Scorsi calma le varie pagine e mano a mano che leggevo una rabbia cieca montava dentro di me. I disegni erano molto accurati e meravigliosamente colorati in tinte pastello, gli appunti molto chiari e il preventivo alquanto onesto. Cosa non andava? Tutto.

Altro che ciliegine, efelidi e sbadataggine! Quell'essere di nome Felicity era una sorta di Mildred la Vendetta.

Arrivato alla fine del documento dovetti trattenermi per non lanciare il laptop contro la parete. Mi passai agitato le mani tra i capelli cercando di respirare e non farmi prendere dall'ira. Odiavo essere preso per i fondelli e quella donna lo aveva fatto già la prima volta che l'avevo incontrata e già allora non mi era piaciuta. Ma ora questo. Era decisamente troppo!

Riafferrai la giacca che avevo abbandonato sulla poltrona, rimisi le scarpe e marciai fuori dall'appartamento.

Avrei fatto abbassare io la cresta a quella piccola impertinente, oh si eccome se lo avrei fatto! Percorsi il tragitto che mi separava dalla casa di nonno in un quarto d'ora invece dei soliti trenta minuti, tanta era la rabbia e l'aggressività con cui tenevo pigiato il tasto dell'acceleratore.

Non mi importava nulla di possibili autovelox o multe. Non mi importava nulla del fatto che non avessi neanche chiuso la porta di casa o spento il pc. Mi importava solo dell'imminente bagno di sangue che avrebbe avuto luogo di lì a poco.

Svoltai nel vialetto sterrato che conduceva all'ingresso della casa e mollai l'auto vicino al capanno degli attrezzi senza curarmi di posteggiarla come Dio comandava.

Marciai senza indugio verso gli scalini che portavano alla porta principale, così pieno di rabbia da non fare caso al fuoristrada metallizzato parcheggiato lì vicino.

Bussai violentemente sul legno dalla vernice verde scrostata della porta d'ingresso, sempre più irritato e inviperito. In assenza di risposta riprovai ancora più forte, non curandomi di apparire maleducato.

Di certo in questo caso il cafone non era lui ma l'abitante di quella villetta fatiscente e bohémien.

L'uscio si aprì ma al posto di lentiggini e biondi capelli scarmigliati trovai un metro e novanta di pelle abbronzata e muscolosa e uno sguardo truce.

«Posso sapere qual è il motivo di tanta impazienza?», mi domandò accigliato, non accennando a farsi da parte così da permettermi di vedere la proprietaria della voce che canticchiava in cucina.

Solo lei avrebbe potuto dilettarsi con l'intero repertorio degli ABBA.

«Ms. Felicity», sputai sempre più furibondo. La presenza del gorilla sulla soglia complicava il mio semplice piano di entrare e fare della dolce e puffettosa Felicity un cheesecake.

Avevo davvero appena definito quella dolce e puffettosa?!

«Flick! Un tizio alquanto alterato chiede di te. Hai di nuovo cercato di vendere la tua marmellata ai frutti di bosco spacciandolo per un portentoso filtro d'amore?», strillò l'energumeno sempre senza levare le tende e permettermi di guardare dritta negli occhi la mia nemica.

La versione stonata di Dancing Queen venne interrotta e un rumore di ciabatte in avvicinamento la sostituì.

«Oh no, lui è Mr. Liam! Si accomodi pure...Donnie, fatti da parte e torna a mangiare il tuo biscotto al cioccolato!», esclamò squillante la voce del brutto esserino. Una testa bionda fece capolino da dietro il busto dell'omone e mi sorrise tutta felice.

Tutta quella contentezza nel vedere la mia persona mi lasciò interdetto per qualche secondo, giusto il tempo di ricordarmi che gli psicopatici assumono spesso comportamenti inspiegabili e tornare ad essere terribilmente infuriato con lei.

Nonostante la sua figura minuta la pazza signorina riuscì a spintonare l'orango tango e ad apparirmi finalmente davanti agli occhi.

Tralasciando il diverso abbigliamento, il viso arrossato e spruzzato di lentiggini e i capelli indomabili erano sempre gli stessi.

«Le è piaciuto così tanto il progetto che è corso qui a dirmi di persona che accetta?», ipotizzò lei, sempre con quel sorriso bianchissimo e splendente in bella mostra.

La polizia andava senza dubbio messa in allerta, questa qui probabilmente in giardino aveva una distesa di allegre piantine di marijuana che contribuivano alla sua fastidiosa euforia sempre alle stelle ventiquattr'ore su ventiquattro.

Quasi inconsciamente mi sporsi verso di lei, curioso di scoprire se le sue pupille fossero dilatate.

«Mr. Liam? Tutto bene?», chiese Felicity titubante, fissandomi stranita. Il suo sorriso si spense un pochino mentre una rughetta faceva capolino sulla sua fronte aggrottata.

«Scherza?! Lei si è presa gioco di me! Spero si sia divertita almeno lei perché sicuramente non si occuperà del mio giardino...», strillai piccato.

La cosa che più mi faceva imbestialire non era il suo progetto, bellissimo ma senza dubbio non adatto a me e alle mie necessità, ma l'impertinenza che l'aveva portata a ignorare le mie disposizioni e a sfidarmi.

«Ehi amico, non scaldarti e cerca di non essere scortese con Flick», mi mise in guardia lo scimmione, presenza costante alle spalle della mia interlocutrice.

Questa sbuffò e si voltò nella sua direzione. «Donnie! Fila a mangiare i tuoi biscotti, riempiti per bene la bocca e stai zitto!», lo riprese come se stesse parlando ad un bambino pestifero.

King Kong, con mia grande sorpresa, le diede retta e, senza neanche tentare di protestare, fece dietrofront e se ne tornò in cucina lasciandoci soli.

«Troppe roselline?»

Distratto dalle congetture riguardo al rapporto che legava quei due che il mio cervello stava tessendo quasi soffocai nel sentire quel tono di scherno.

«Lo hai fatto apposta?!», domandai sgranando gli occhi.

Mildred in confronto a Felicity era una delle tenere caprette di Heidi con tanto di fiocchetto e campanellino al collo.

«Fammi pensare. Sei arrivato tardi, hai fatto lo schizzinoso, hai messo in dubbio la mia professionalità e mi hai giudicata senza conoscermi. Perciò sì, l'ho fatto di proposito! Non metterei così tanti fiori, angioletti e aiuole a forma di cuore neanche se dovessi progettare il giardino di Barbie!», mi sfidò alzando il mento e fissandomi dritto negli occhi battagliera.

«Ti avevo sottovalutata...», osservai assottigliando lo sguardo.

Non solo aveva calpestato il mio volere ma si era anche impegnata moltissimo per farlo.

«Messaggio recepito?», mi interrogò inclinando il viso di lato e accennando un sorriso.

«Se il messaggio era che Felicity l'architetto paesaggistico diventa una stronza se qualcuno le calpesta i piedi allora sì, messaggio ricevuto», commentai ironico.

«Arriverai ad adorarla...tempo al tempo...». Un vocione ci raggiunse dalla cucina, tra un biscotto masticato e l'altro.

«Già inizio ad amarla...», gli risposi cercando di non alzare gli occhi al cielo in preda all'esasperazione che questa coppia di folli mi causava.

«Ooh che tenero! Posso chiamarti Liam?», tubò la mia ex arcinemica dedicandomi uno sguardo con tanto di occhi a cuoricino.

«No», sancii categorico, più per il gusto di non accontentarla che per la mia stupida mania per la distanza e la formalità.

«Vieni dentro a mangiare qualche biscotto? Se vuoi possiamo iniziare a discutere riguardo ad un nuovo progetto...»

Il sole era tramontato da un po' e per tutto il tempo da quando ero arrivato non mi ero mai mosso dalla soglia della porta.

La signorina si che se ne intendeva di ospitalità e galateo!

Non avrei mai preso in considerazione la possibilità di passare la serata in compagnia della pazzoide e del suo degno compagno se non fosse stato per l'immagine fulminea del mio attico buio, vuoto e silenzioso che attraversò la mia mente.

Maledii l'età che avanzava e mi faceva diventare uno sciocco in preda ai patetismi e alla nostalgia e annuii quasi inconsapevolmente.

E il passo da un cenno di assenso del capo al perdere venti dollari alla tombola, pancia piena di biscotti e gelato corretto al rum e orecchie ronzanti a causa degli ABBA a tutto volume e degli strilli estasiati di Felicity che aveva lasciato in mutande sia me che il mio compagno scimmiesco di sfortune fu veramente breve.

 

 

 

Eccomi di nuovo qui! In verità io non so mai bene cosa scrivere qui in fondo perciò mi limito a ringraziare di cuore le persone che hanno letto e apprezzato la mia storia, un grazie speciale a chi ha lasciato una graditissima recensione e a chi ha inserito la storiella nelle preferite/seguite/ricordate. Questo capitolo mi piace e non mi piace allo stesso tempo. Sto cercando di creare un contorno ai due personaggi principali, contorno fatto di volti e vicende che dovrebbero arricchire il tutto e spero non distrarre. Il problema sta proprio qui, ho paura di perdere di vista le cose importanti allargando sempre più la narrazione ad altre figure e per questo mi piacerebbe sapere cosa ne pensate voi. Detto questo: non disprezzate Mildred please, tenete tutto il vostro risentimento per Theodore  ;)

Bacini,

S.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Caprifoglio e papaveri ***


 

Felicity

 

«Ennesimo caso di truffa ai danni di anziani. Il meccanismo della banda di Portland è sempre lo stesso: spacciandosi per-»

Sollevai il telecomando in direzione del televisore e pigiai il tasto rosso di spegnimento. Detestavo le cattive notizie e i telegiornali, apoteosi della cronaca nera, li trovavo semplicemente intollerabili.

Cercavo di restare informata riguardo a ciò che mi circondava scorrendo il sito web del Boston Herald, anche se spesso per pigrizia mi limitavo a leggiucchiare i titoli degli articoli,  approfondendo solo quelli che parlavano di giardinaggio, life style e viaggi.

«Donnie, io capisco che tu sia contrariato dalla piega che hanno presa gli eventi, nemmeno io avrei mai immaginato che BritneyBitch non la desse al primo appuntamento, però smettila di comportarti come una donna mestruata a cui hanno rubato la confezione formato famiglia di gelato!», ripresi il mio amico nonché collega che da mezz'ora a questa parte si limitava a fissare lo schermo della tv e a mescolare e rimescolare senza sosta il suo caffè ormai freddo.

«Tu non capisci, ho pagato duecento verdoni per una aragosta al sapore di cartone e la consistenza di gomma, conosciuto e baciato la nonna ultracentenaria di BritneyBitch che assomiglia ad un travestito e lavora al circo, accarezzato un cane di dubbia provenienza e dubbia razza che racchiudeva nel suo pelo le peggiori malattie che l'umanità si illude di aver debellato per sempre come tifo e peste bubbonica e quella non si è fatta sfiorare neanche con un dito!», continuò a lagnarsi Donovan, ignorando il mio commento e il fatto di essersi trasformato in una piattola insopportabile.

«A questo punto non ti resta che tentare un sito di incontri...», gli consigliai allungando una mano verso la ciotola di popcorn che Donnie teneva stretta tra le braccia come fosse un orsacchiotto di peluche da cui trarre affetto. «Randall del supermarket su cuorepienodiamorecercacuoredamare.com aveva trovato la sua anima gemella, una certa Henrietta. Durò la bellezza di otto giorni la loro storia, dopodiché lei sparì e lui si ritrovò la casa ripulita e il conto prosciugato. Randall però dice che ne è valsa la pena».

«Bè se ha funzionato per Randall del supermarket perché non dovrebbe per me? Magari arrivo a dieci giorni io...», ipotizzò, tra una manciata e l'altra di popcorn.

«In più tu sul conto avrai al massimo cento dollari e la cosa di maggior valore che hai in casa è l'urna con le ceneri di tua nonna perciò non corri grandi rischi...», lo rassicurai allungandogli un pizzicotto.

Donovan era un ragazzone nato e cresciuto in California, dove, perlomeno secondo i suoi progetti, sarebbe dovuto diventare un attore di successo e arrivare ad essere il migliore amico di Kanye West e il marito di Scarlett Johansson entro i trent'anni. Giunto però ad un quarto di secolo di vita con all'attivo un'unica comparsa in un film dove interpretava uno sceicco,  bardato da testa a piedi, che veniva ucciso nell'esatto momento in cui appariva sullo schermo e uno spot di assorbenti maschili per uomini incontinenti aveva deciso di cambiare radicalmente vita e si era trasferito sull'altra costa. Quando lo avevo incontrato per la prima volta lavorava in un vivaio vicino al mare, dove tra un borbottio e l'altro mi aveva aiutato a caricare sul pick-up una quindicina di sacchi di terriccio. Ancora oggi lui sostiene di avermi presa in considerazione solo quando avevo accennato al fatto di vivere sola soletta in campagna, fatto che, unito alla mancanza di fede all'anulare sinistro, gli fece concludere che ero una zitella un po' stramba ma sentimentale libera.

Da quel giorno sono passati la bellezza di quattro anni e ora io e Donnie mandiamo avanti insieme il nostro progetto di restauro di giardini. Io sono la mente più che altro e lui il braccio, e che braccio! Un metro e novanta di altezza per più di un quintale di meravigliosi muscoli baciati dal sole, sebbene non quanto ai bei tempi di San Diego, almeno a giudicare dalle vecchie foto.

«Bè, ora che sei riuscita ad intortare il bell'avvocato mi darai un aumento, no?», tubò lui sbattendo ripetutamente le ciglia, patetico tentativo di ammaliarmi.

Mi alzai dal divano su cui eravamo sprofondati da tempo immemore e mi sgranchii le gambe. «Prima mi aiuti a riparare il tetto e a ridipingere lo steccato e poi ne riparliamo, d'accordo?»

«Sei una tiranna tirchia e con un cuore di pietra!», si imbronciò lui, incrociando le braccia e rivolgendomi uno sguardo risentito.

«Lo so, lo so. E pensa che mi viene naturale...», esclamai zampettando in cucina e tirandogli affettuosamente una ciocca di capelli nel passare alle sue spalle.

La cucina di Donnie era stata fatta a misura di gigante e, sebbene io arrivassi ad un'altezza di tutto rispetto che si aggirava attorno ad un metro e settanta, per raggiungere gli stipetti più alti avrei dovuto mettere una sedia sopra al tavolo oppure improvvisarmi Spiderwoman e arrampicarmi letteralmente su per le scaffalature.

Dato il mio equilibrio pessimo e la mia agilità inesistente, avevo pregato il mio amico di tenere i beni di prima necessità, vale a dire biscotti, gelato, spaghetti e menu della pizzeria con consegna a domicilio, in una zona a me raggiungibile.

«Questo weekend vai a trovare il tuo Principe da Suicidio?», mi chiese strillando dall'altra stanza Donovan.

Ormai non facevo neanche più caso agli appellativi con cui si riferiva a Theodore. Non aveva mai fatto mistero della sua avversione nei confronti del mio compagno che, a suo parere, sarebbe stato in grado di risvegliare la Bella Addormentata con un bacio per poi farle venire voglia di suicidarsi dopo meno di due minuti in sua compagnia.

Sciacquai i piatti che avevamo usato per pranzare e li deposi nello scolatoio sopra il lavello.

«In verità stavo pensando di andare a trovarlo io...», buttai lì, mentre asciugavo per bene l'interno di due tazze. «Questo venerdì tiene una conferenza sulle piante stagionali autoctone della East Coast»

«Woohoo! Weekend di follie! Flick, sul serio, non ti rendi conto che a ventisei anni fai cose che neanche una ottantenne troverebbe interessanti? Persino le messe infinite a cui mia nonna mi sottoponeva in periodo di Quaresima, con canti in latino e lodi a tutti i santi di questo mondo, erano più interessanti e coinvolgenti di quella convention tenuta da Theodore su un cazzo di fungo!». Donovan mi aveva raggiunto e ora mi fissava preoccupato dalla soglia della porta.

«Theo è fatto così, si impegna molto e quello che studia lo appassiona tantissimo. Io posso solo ammirarlo per questo», sancii cercando quasi di convincermi da sola che quello che stavo dicendo fosse vero.

«Questo non lo metto in dubbio ma...santo cielo, state insieme da tre anni e la cosa più romantica che lui ha fatto per te è stata portarti una notte nel Maryland per un concorso di bonsai di cui lui era uno dei giudici! Tienitelo come amico, come esperto di botanica da consultare di tanto in tanto ma mollalo, per carità! Quando fate sesso, almeno in quell'occasione, si concentra su di te o elenca i nomi latini dei fiori?!», domandò arrabbiato, il viso contratto dallo sforzo di non alzare la voce e prendersela con me.

Zoe mi aveva detto esattamente la stessa cosa anche se lei dopo aver sancito che Theodore probabilmente era più passivo e palloso di una mummia egizia era andata subito al sodo chiedendomi quante volte al mese andassimo a letto insieme e se la percentuale di orgasmi da me avuti arrivava al 5% dei rapporti che avevo avuto con Theodore.

«Bè lui è...in verità io...», balbettai frasi sconnesse perché non sapevo bene come esprimere i mille pensieri che frullavano in quel momento nella mia testa.

Il pensiero che la mia storia con Theodore fosse basata sull'abitudinarietà e andasse avanti per inerzia mi aveva sfiorato più e più volte nel corso di quest'ultimo anno ma lo avevo scacciato dicendomi che io gli volevo molto bene e che le relazioni amorose tra adulti non sono come le travolgenti passioni che scoppiano tra giovani.

«È un amore maturo il nostro», sancii infine cercando di chiudere il discorso con questa mia pillola di saggezza.

Una sottospecie di grugnito fu la conferma che la mia perla di sapienza era stata gettata, come si suol dire, ai porci. «Seee, una palla, ecco che cos'è! La mia bisnonna Violet si diverte senza dubbio più di te; a ballare ritmi indiavolati nelle balere e abbordare giovincelli con un solo secolo sulle spalle...»

Sbuffai e alzai le mani al cielo sconfitta. Riposi le tazze nella credenza e piegai l'asciugamano con cura.

«Non ho la minima intenzione di ammettere che hai ragione perciò me ne vado». Lo abbracciai stretto e poi me ne tornai in salotto dove mi infilai gli stivali da pioggia che avevo abbandonato sul tappetino all'ingresso quella mattina.

«Mi presenterai finalmente tua sorella?». Il motivo di quella domanda stava già nello scintillio malizioso che si vedeva sfacciatamente impresso negli occhi di Donnie.

«Tieni il tuo bel lombrico nelle mutande alla larga da Zoe e ricordati che io giro sempre con un paio di cesoie nella borsa...», lo minacciai seria mentre chiudevo la zip del mio impermeabile color girasole.

L'idiota sogghignò e, prima che io uscissi dalla porta sotto la pioggia torrenziale, mi lanciò un bacio volante.

Gli rivolsi un ultimo cenno della mano prima di gettarmi a capo chino sotto il diluvio.

I vecchi tergicristalli del mio pick-up facevano fatica a sostenere il ritmo incessante degli scrosci d'acqua che si abbattevano sul parabrezza, costringendomi così a procedere a passo d'uomo e a sporgermi in continuazione in avanti, nella vana speranza di riuscire a vedere al di là del mio naso.

Quando svoltai finalmente nel mio vialetto esalai un sospiro di sollievo e il solo pensiero di un bel bagno caldo in compagnia di George e dell'ultimo album degli alt-J mi fece quasi fare le fusa. Avevo una porzione di deliziosi ravioli ai funghi nel frigo ed era avanzata una fetta di torta alle fragoline di bosco, avrei potuto gustarmi il tutto in veranda avvolta nella mia coperta preferita e magari potevo mettermi in pari e vedermi le tre puntate di Downton Abbey che mi ero persa.

Mi ricacciai in testa il cappuccio, pronta a fare una corsa fino a raggiungere il portico laterale dove poter cercare con calma le chiavi nella tracolla.

Aprii la portiera, balzai giù incurante delle pozzanghere e del fango che schizzava ovunque, e rapidamente saltellai verso il tanto agognato riparo. Non guardavo davanti a me, gli occhi concentrati sulle buche colme d'acqua piovana grigiastra per fare in modo di evitarle e non caderci dentro inzuppandomi fino alle ginocchia.

Corsi a perdifiato e non appena pensai di essere in salvo, al riparo e all'asciutto sollevai il volto, non prestando più attenzione a dove mettevo i piedi, e inciampai finendo rovinosamente con la faccia a terra.

«Merda che male!», mi lamentai mentre esaminavo i palmi arrossati delle mie mani, sempre spanciata sulle assi di legno del mio portico.

«Ore e ore di danza classica tenute da una étoile dell'Opera di Paris e il risultato è un mammut ubriaco», sospirone teatrale, «Ti sei fatta male, cara?»

Quella voce l'avrei riconosciuta persino se fossi stata sorda. Quegli strilli acuti perforavano il cervello di chiunque e ti facevano irritare persino se avevi la musica a tutto volume nelle orecchie e ti limitavi ad indovinare cosa stesse dicendo quella benedetta donna che altri non era se non la mia genitrice.

Una grande mano dalle dita lunghe e scheletriche, tipico tratto dei suonatori di pianoforte, apparve davanti ai miei occhi. La afferrai senza indugio, accettando l'offerta di aiuto silenziosa di mio padre.

«Ormai pensavamo fossi annegata. Se prima non capivo la scelta di trasferirsi qui ora la comprendo ancora meno, con questo livello di umidità assolutamente insostenibile per la mia permanente e questo acquazzone che minaccia di dovermi far indossare delle galosce...», pronunciò l'ultima parola rabbrividendo al solo pensiero che i suoi piedini freschi di pedicure fossero infilati in stivali di gomma la mia adorata mammina.

«Tua madre voleva già allertare tuo cugino Alfred...», mi informò mio papà con tono avvilito.

«Quello che lavora all'FBI?!», mi informai sconcertata sapendo già che la cosa era più che plausibile considerata l'ansia fuori controllo di mia madre.

«No, quello che lavora in Vaticano. Volevamo assicurarci che ci fosse un posto per te nella tomba di famiglia e che un cardinale altolocato potesse celebrare la tua cerimonia funebre...», mi prese in giro Padre ignorando l'occhiataccia risentita della moglie.

Mamma odiava l'ironia, probabilmente perché non la capiva del tutto, e mio papà non perdeva occasione per fare battute di spirito riferite alla consorte, la quale puntualmente si indisponeva nei suoi confronti. Erano terribilmente deliziosi quando facevano così.

Rivolsi una strizzatina d'occhio a papà, stando ben attenta a non farmi beccare da Madre, dopodiché mi concentrai su quest'ultima.

Trench beige decorato con la classica fantasia di Burberry, tubino color marron glacé, collant chiari e sottili e décolleté beige di vernice. Il mio sguardo fece avanti e indietro dal terreno pantanoso alle scarpe immacolate di Madre cercando di risolvere l'arcano.

«Mi sono fatta portare in braccio dall'autista del taxi...», mi lesse nel pensiero lei, «Un ragazzo tanto gentile e disponibile...», tubò lei tutta tranquilla.

I miei occhi probabilmente erano così sgranati che a momenti mi sarebbero caduti e avrebbero rimbalzato allegramente per tutto il portico. Ok, questo esempio subiva la macabra influenza di mia sorella.

«Allunga un biglietto da cento e tutti trasporteranno volentieri tra le braccia fastidiose e pesanti donne di mezza età facendosi strada tra un acquitrino di melma...», fu il placido commento di papà.

Adocchiai le varie e molteplici valigie sparse sul pavimento, una delle quali rovesciata a causa del piccolo incidente che mi aveva vista coinvolta, e iniziai a preoccuparmi.

Va bene che Madre solitamente quando si spostava portava con sé in media dieci bagagli ma questi erano un po' troppi persino per lei.

«Che ne dite di entrare? Così mi spiegate il motivo di questa gradita sorpresa...», bofonchiai nell'inserire la chiave nella toppa.

Spalancai la porta e acciuffai due trolley, spingendoli nel soggiorno e affrettandomi a recuperare da sotto alla poltrona uno zerbino a forma di castoro per evitare di lasciare impronte ovunque.

«Sembra la casa di Pollicino...tutto è così piccolo qui...», borbottò Madre ticchettando sul parquet con i suoi tacchi e gettando il soprabito sullo schienale del divano.

Appesi il mio kway accanto alla porta d'ingresso e sbuffai. Ogni benedetta volta diceva la stessa cosa. Era ovvio che ai suoi occhi, abituati ai saloni immensi dai lucidi pavimenti in marmo e ai soffitti altissimi, decorati con affreschi e stucchi, la mia casetta appariva alquanto mignon ma in confronto ai monolocali in cui viveva la gente a Boston era una reggia.

«Grace sei ospite qui, cerca di comportarti bene e chiedi a Felicity come sta invece di fare critiche poco costruttive», la riprese papà, che dopo dieci viaggi dentro e fuori era finalmente riuscito a trasferire tutto il bagaglio della consorte all'interno.

Ovviamente lei si indispettì e si accomodò su una delle sedie della cucine. Schiena rigida, mani posate sulle ginocchia e sguardo sostenuto per farci intendere che si era offesa.

«Allora: che novità ci sono? Hai trovato un impiego?», si interessò Padre, ignorando la moglie e facendomi cadere le braccia con questa sua domanda.

Se mamma era recidiva nel constatare quanto casa mia fosse grande come la stanza da biliardo della nostra casa di famiglia in Florida, papà invece continuava ad insistere con questa storia che il mio lavoro non era un vero lavoro ma un mero passatempo per giovani rampolli di buona famiglia che volevano irritare i genitori e trascurare la loro laurea prestigiosa per puro senso di ribellione.

«Caro, è troppo facile predicare bene e razzolare male. Limitati a chiedere alla nostra Felicity come sta invece di sminuire il suo lavoro», gli fece il verso mia madre.

«Smettetela entrambi! Io non sono disoccupata, mi do da fare e amo immensamente il mio lavoro. Sto anche per firmare un contratto con un importante avvocato che-»

Il trillo del campanello alla porta d'ingresso mi interruppe ma ormai Padre aveva afferrato la parola avvocato e non aveva capito più nulla.

«Chi è? Lo conosco? È un impiegato del mio studio di Boston?», mi martellò di domande lui.

«Tesoro guarda chi è alla porta e lascia respirare tua figlia!». A volte il caratteraccio da sergente maggiore di mia madre era una vera benedizione.

Le sorrisi grata e le chiesi se gradiva un thè caldo o se preferisse aspettare direttamente l'ora di cena per mangiare. Lei optò per la bevanda calda.

«E poi per cena pensavo che potremmo uscire...non vorremmo arrecarti più disturbo del necessario...». Che cara, da quando mia mamma si preoccupava di disturbarmi? Solitamente infastidirmi era l'hobby preferito dalla mia genitrice. «...e poi dopo l'ultima indigestione che ho avuto mangiando qui da te andare in un ristorante è la scelta migliore per la salute del mio povero stomaco». Ecco, ora era tornata in sé.

Mentre io cercavo di non prendermela per i commenti poco carini di mia madre e mi concentravo sull'accensione del bollitore, una voce conosciuta esclamò con tono stupefatto dalla soglia d'ingresso: «Le-lei è...Montgomery Van Houten. Oddio, lei è davvero l'avvocato Van Houten»

«Ehm si, non soffro di crisi d'identità e sono quasi certo di essere proprio io Montgomery Van Houten», udii mio padre ribattere leggermente sbigottito da quell'accoglienza.

«Se è stempiato, con la pancetta e le zampe di galline allora è proprio lui. Tu chi sei bel ragazzone?»

Era bastato un attimo di distrazione e Madre era sfuggita al mio controllo finendo a spintonare papà, ancora stordito dalla piega inspiegabile che stavano prendendo gli eventi, e a spalmarsi addosso al nuovo arrivato.

Mollai la scatola delle bustine di thè e il barattolo dei biscotti sul ripiano accanto al piano cottura e corsi in soccorso del poveretto.

Con grande dispiacere assestai anche io una spinta poco delicata a papà, sempre più confuso, per poi gettarmi su mamma e scollare i suoi tentacoli dal petto di nientemeno che Liam Carter Wright.

Il malcapitato, fronte aggrottata e occhi spalancati pieni di mille punti interrogativi, sembrò illuminarsi nel vedermi apparire.

«Mamma, papà, lui è Mr. Liam Carter Wright, l'avvocato per cui quasi certamente lavorerò!», esclamai afferrandolo per una manica della giacca e trascinandolo dentro, un sorrisone falsissimo stampato in volto.

«...per cui forse lavorerai. Le faccio presente che io non ho ancor-», tentò di bisbigliarmi lui all'orecchio.

Io piroettai intorno a lui aiutandolo a levarsi la giacca e continuando a sorridere in modo esagerato ai miei genitori che ci squadravano perplessi. «Non contraddirmi davanti ai miei, Mr. Liam!», sibilai velenosa mentre con la scusa di sistemargli il colletto leggermente spiegazzato della camicia ne approfittavo per tirargli una ciocca di capelli.

«Di che confabulate voi due?». L'occhio di Madre, più potente e scrutatore di quello di Sauron, stava analizzando ogni nostra mossa.

«Del fatto che non è ancor-»

«Non era ancora tempo di comunicarvelo ma ormai è ufficiale che io rimetterò a nuovo tutta l'area verde che circonda la villa di Mr. Carter Wright. Perciò gioite, il mio è davvero un lavoro vero con dei clienti veri», strillai entusiasta, trenta decibel più forte del necessario per essere sicura di sovrastare ogni tentativo di protesta dell'avvocato.

Due minuti più tardi, seduti comodamente attorno al tavolo di legno chiaro della mia cucina, i miei tre ospiti stavano amabilmente discorrendo mentre io facevo la Cenerentola di turno dato che il caro Mr. Liam si era fatto scappare di aver saltato il pranzo e Madre mi aveva ordinato di preparare un paio sandwich. Sandwich che, come mio padre prontamente mi fece presente, avrebbe gradito immensamente anche lui.

A dire il vero Mr. Liam stava discorrendo amabilmente solo con mio padre dato che l'avvocatura può essere per gli uomini di legge un argomento più appassionante e coinvolgente del campionato di football, mentre mamma continuava ad interromperli per bombardare l'ultimo arrivato con domande fuori luogo e senza senso.

«Quindi non è sposato eh?», buttò lì con nonchalance Madre.

Mamma, tu sì che sei nata per fare l'investigatrice privata, avrei voluto dirle notando le occhiatine per nulla nascoste che continuava a lanciare alla mano sinistra spoglia di anelli del Signor. Carter Wright, il quale si era ben accorto dell'interesse morboso della donna per il suo anulare sinistro e per suo stato civile.

«No, non sono sposato. Lei è un'ottima osservatrice», le rispose cortesemente lui, una vena d'ironia colta sia da me che da mio padre ma non dalla diretta interessata, la quale continuò a sorridere soddisfatta di quello che secondo lei era stato un complimento.

Mr. Carter Wright e mio padre ripresero la conversazione e io tornai a concentrarmi sulle fette di pane in cassetta.

«Ha intenzione di sposarsi?»

E rieccola! Lasciai cadere la confezione di fette di formaggio che tenevo in mano e mi voltai esasperata.

«Faccio l'avvocato divorzista; per citare un noto film: 'Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare'», commento abbozzando un sorriso lui.

Papà scoppiò a ridere e gli diede una pacca sulle spalle e io scossi la testa alzando gli occhi al cielo.

«Non ho compreso; era un no?», chiese mia madre, la quale se già si trovava spiazzata di fronte all'uso dello humour, quando a questo ci si univano anche citazioni di Blade Runner perdeva completamente il filo del discorso del suo interlocutore.

Carter Wright annuì non lasciando trapelare il minimo segno di esasperazione di fronte alla lentezza di mia madre.

Grace Van Houten era una donna brillante, su questo non c'erano dubbi, solo che c'erano determinati argomenti a lei completamente estranei e da cui cercava di tenersi il più possibile alla larga. Nata in una ricca famiglia cattolica ed alquanto bigotta, mamma si era laureata in letteratura francese e aveva continuato a dedicare la sua vita alle due figlie e al marito, alla beneficenza e alla mondanità. Se un operaio qualunque avesse provato ad intavolare con lei un discorso che verteva su salari minimi, tasse e contributi dovuti Madre avrebbe subito tentato di cambiare discorso elogiando l'originalità della scelta di indossare consapevolmente una tuta da lavoro chiazzata d'unto.

Mamma aveva dei tempi di ripresa straordinari e così non perse tempo e tornò alla carica.

«Pensa che Felicity invece sogna il matrimonio da sempre. Ricordo che da piccola strappò le tende di camera sua per poter creare il suo abito da sposa. È una cosa così tenera a pensarci. Peccato che quel Theodore non sia intenzionato a chiedere la sua mano...ahi!», sgraziatamente posai con tutta la forza che avevo il piatto con i sandwich di papà dritto sulla mano ingioiellata di mia madre.

«Non è vero. Zoe strappò le tende; voleva usarle come lenzuolo mortuario o simil sudario per il cadavere di Giselle la gatta e io glielo ho impedito per utilizzarlo in modo migliore», mi affrettai a giustificarmi.

«La mia gatta Giselle?! Quella che credevo scomparsa? Tu-tua sorella l'ha u-ucc-uccisa?!», chiese con voce tremante e viso livido mamma.

Ops, questo era un particolare che Zoe mi aveva fatto giurare di non rivelare mai, pena fare la stessa fine della gatta.

«Si è trattato di un incidente! Zoe stava solo cercando di sintetizzare aspirina e invece finì per avvelenare Giselle. Pensa positivo mamma, l'altra possibile cavia ero io...», tentai di rincuorarla accarezzandole il dorso della mano.

«Montie, avevo ragione quando dicevo che quella bambina doveva essere esorcizzata», mormorò lei fissando il vuoto, «Povera, povera Giselle...»

Papà si alzò e fece il giro del tavolo per andare a confortare la moglie.

«Suvvia Grace, abbiamo sempre saputo che Zoe fosse un pochino...ehm...». Psicolabile? Toccata? Pericolosa? «...un pochino particolare, diciamo...»

Se Zoe era solo un pochino particolare io ero Bellatrix Lestrange!

«Allora Mr. Liam, cosa ti porta qui?», esclamai con enfasi per cercare di smorzare l'imbarazzo.

Lui rivolse un ultimo sguardo alla coppia che si trovava di fronte a lui prima di rivolgere a me tutta la sua attenzione. «Ero stanco del lavoro e mi annoiavo perciò ho deciso di venire a trovarla per discutere ancora un po' delle ultime modifiche da apportare al progetto. Mia sorella Judith vorrebbe vederlo al più presto concluso...»

Rimasi un attimo in silenzio non sapendo bene come interpretare quell'ultima frase.

«Sei al corrente del fatto che ogni cosa che noi decidiamo insieme viene poi da me comunicata a tua sorella?», domandai cautamente.

I suoi occhi si spalancarono così tanto da fare concorrenza agli occhioni acquosi di Gollum. «Tu conosci Judith?»

Spinsi verso di lui il piattino con i sandwich, magari un po' di cibo lo avrebbe aiutato a tornare in sé e soprattutto a ridurre la dimensione di quegli  già di loro troppo profondi e luminosi per farmi star tranquilla.

«Sì, è stata lei a contattarmi poco dopo il nostro primo incontro. È una persona adorabile, lei e tutti quei gattini che mi allega alle email. Non pare proprio tua parente, sai?»

Lo provocai giusto per vedere se cambiava espressione infatti scoprii di essere riuscita nel mio intento quando lo vidi accigliarsi.

«Tesoro, io vado a farmi una doccia e a cambiarmi per la cena. Vuole unirsi a noi più tardi, Mr. Carter Wright? Pensavamo di andare al Saint Vincent, lo conosce?», intervenne mamma, chiaramente ripresasi dalla luttuosa notizia.

«Certamente, Pierre è uno chef eccezionale. Accetterei volentieri ma non vorrei imporre la mia presenza ad una cena di famiglia...». Era incredibile come facesse il galante tutto fascino e cortesia con tutti all'infuori della sottoscritta, trattata invece a pesci in faccia.

«Ma quale imposizione! Sono cresciuto in una famiglia di donne; a volte un po' di compagnia maschile porta davvero sollievo...», lo incoraggiò mio padre, «E Theodore solitamente non parla d'altro che di piante e cose a me incomprensibili»

Ed eccolo di nuovo con il povero Theodore! Perché oggi tutti ce l'avevano con lui?!

«Allora accetto volentieri ma dovrò correre a casa a cambiarmi».

Come se la sua candida camicia, i pantaloni sartoriali e la giacca su misura non fossero già abbastanza.

«Allora ci vediamo per le otto al ristorante. A più tardi, caro», lo salutò tutta mielosa mia madre.

Ora era passata anche a chiamarlo caro? Già che c'era perché non gli offriva di trasferirsi da loro a Tampa e di dormire nel mio letto?

Accompagnai Mr. Liam alla porta, dopo avergli restituito la giacca, e non avendo nulla da dire mi limitai a scortarlo in silenzio mentre Madre zampettava al piano superiore e Padre era impegnato in una chiamata appena ricevuta.

Sperai che questa volta mia mamma non foderasse la vasca da bagno con la pellicola per alimenti come aveva fatto l'ultima volta che era stata qui, dichiarando che lei in una vasca di seconda mano comprata ad un mercatino d'antiquariato non avrebbe mai posato le sue nobili membra.

«Chi è Theodore?»

Persa com'ero nei miei pensieri caddi letteralmente dal pero a questa domanda.

La domanda era più che naturale; avevamo nominato più e più volte il nome del mio ragazzo in sua presenza senza mai specificare chi fosse realmente costui.

«Il mio fidanzato», mormorai guardando la pioggerellina fine che ora cedeva al di là delle sue spalle.

«Ohoh, Miss Felicity ha un fidanzato! Questo si che è interessante...», ridacchiò lui sistemandosi il bavero della giacca e recuperando il suo ombrello.

«Perché mai non dovrei av-», ma le mie parole si persero nell'aria quando mi accorsi che Mr. Liam mi aveva voltato le spalle e se n'era andato.

Scacciai la punta di delusione che per un attimo avevo provato nel non ricevere un saluto da lui e rientrai in casa.

«Tesoro, non è per caso che hai altra pellicola? Tua madre ha già impacchettato pavimento e vasca ma gli mancano il wc e il lavello...», lessi negli occhi di mio padre l'esasperazione dovuta alle assurdità di quella che, nonostante tutto, era sua moglie da più di trent'anni.

«Montieee, sbrigati!»

Scrollando il capo tornai in cucina dove cercai nel cassetto in basso se avevo una scatola di scorta di Domopak.

L'amore era quello? Assecondare e accettare le follie l'uno dell'altro? Probabilmente visto l'esempio di Grace e Montgomery Van Houten doveva essere proprio così.

 

 

 

Salve!

So benissimo che il capitolo è leggermente più corto del solito ma volevo pubblicarlo perché ora che ho ancora tempo libero non voglio assolutamente farvi perdere tempo ad aspettare intere ere geologiche per un nuovo capitolo, cosa che invece dovrete ahimè fare da lunedì in avanti dato che sarò sia mattina che pomeriggio a lezione :c

Lasciamo da parte per ora le cattive novelle (buhuuu, a lezione no) e torniamo alla storia. Allora allora, in questo capitolino incontriamo finalmente tre nuovi personaggi  fondamentali nella vita di Felicity: Donnie, suo braccio destro e cucciolone formato gigante incapace di trovare una donna capace di coccolarlo a dovere e per un tempo più lungo di una notte soltanto, Madre, l’adorabile ma un po’ svampitella Grace (dopo non sorprendiamoci se le figlie escono un po’ pazzerelle) e Padre, ovvero il famoso avvocato Montgomery Van Houten, venerato da Mr. Liam ma in verità papà affettuoso e cordiale.

Ora lascio la parola a voi approfittandone per ringraziarvi tantotantotanto per le recensioni, le letture e i preferiti/seguiti/ricordati.

Alla prossima!

S.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Primule e calendule ***


 

Liam

 

Il lieve russare del mio vicino di poltrona, le gentili parole sussurrate dalla hostess ad un anziano signore che voleva un'altra tazza di caffè, il rombo in sottofondo del motore dell'aereo che stava sorvolando la costa orientale in quella notte limpida e serena.

Questa era la colonna sonora dei miei pensieri. Non viaggiavo in economy class da almeno dieci anni e mi sentivo oppresso dalla vicinanza dei sedili, dalla mancanza di spazio e dal servizio approssimativo e casereccio.

Per cena mi avevano offerto delle polpette con sugo. Non mangiavo polpette dai tempi della mia infanzia, quando Nonna May ne cucinava a montagne per la gioia dei suoi mille nipotini.

Avevo tentato ogni strada per riuscire ad accaparrarmi un biglietto in business class: dalla voce grossa alla seduzione, dalle minacce all'abbindolamento.

Nulla.

Ero stato schiaffato su un sedile consunto della seconda classe, posto senza finestrino, tra un uomo obeso di cinquant'anni che tendeva a invadere il mio spazio vitale con la sua ciccia e una petulante bambina di sei anni che aveva passato un'ora intera a darmi del deficiente quando avevo commesso l'errore di rivelarle che non ero un fan della sua beniamina, Taylor Swift.

Solitamente Diana prenotava con largo anticipo i miei voli, organizzando ogni mio trasferimento con estrema cura, assicurandosi che la mia attesa nella vip lounge fosse piacevole e confortevole e che ci fosse sempre un'auto ad aspettarmi appena atterrato. Questa volta però la mia efficiente segretaria non aveva potuto fare molto dal momento che quello strambo invito mi era giunto solo la sera precedente.

Mr. Montgomery Van Houten sarebbe lieto di godere della Sua compagnia in occasione della piccola riunione di amici che si terrà Venerdì 23 Maggio alle ore 20.00 presso la sua abitazione di Tampa per la ricorrenza del suo sessantesimo compleanno.

Mr. Liam Carter Wright (+1)

È richiesto abbigliamento da sera.

Ero rimasto alquanto sorpreso da quell'invito. Due settimane prima avevo passato una piacevole serata in compagnia dei coniugi Van Houten ma la nostra conoscenza reciproca si fermava a ciò. Nonostante il fatto di essere allo stesso tavolo con il mio maestro ispiratore e la presenza di Felicity che era stata un brontolio unico per tutta la cena e aveva passato tutto il tempo a battibeccare con la madre perché quest'ultima riteneva fuori luogo ed inappropriato il suo abbigliamento composto da jeans e maglia scura con maniche a tre quarti, mi ero divertito e non mi ero mai sentito a disagio o in soggezione.

Ma stavamo pur sempre parlando di Montgomery Van Houten e pur di partecipare alla sua festa sarei stato disposto a farmi Boston-Tampa sul retro di un camion che trasportava profumati maialini.

Avevo pensato a lungo alla possibilità di farmi accompagnare da una delle donne che frequentavo saltuariamente e senza impegno ma alla fine mi ero deciso ad andare da solo.

Sapevo dalle interviste e dagli articoli a lui dedicati che il padre di Felicity sosteneva che la maggior parte del suo successo fosse dovuto alla presenza costante della moglie al suo fianco. Felicity mi aveva accennato sommariamente alla storia sbocciata ai tempi del college tra i suoi genitori. Sebbene, come lei sosteneva, inizialmente sua mamma fosse solo una snob fissata con il cinema d'essai in lingua francese e non calcolasse minimamente il giovane tutto studio e codice civile che era suo padre.

Questa storia mi ricordava molto quella tra Mildred e Matthew nonostante, mentre la prima era anche lei dedita allo snobismo nella sua forma più altezzosa e ricca di boria, il mio amico invece che tutto libri di diritto e nottate di studio era dedito a faccende più...ricreative che coinvolgevano giovani e sciocchine donzelle.

Io ai tempi del college avevo sperimentato di ogni, avevo studiato tantissimo ma non avevo trovato di certo trovato la mia compagna di vita.

Sbuffai, stanco di quei pensieri velati di malinconico rimpianto che mi tormentavano ultimamente, e tornai a concentrarmi sul documento aperto sul mio iPad sperando che quel viaggio infernale finisse nel più breve tempo possibile.

«Tra dieci minuti atterriamo. Dovrebbe spegnere ogni dispositivo elettronico ora», mi ricordò l'assistente di volo sorridendomi.

Colsi lo sguardo attento che dedicò alla mia intera persona così come la sua mano posata sulla mia spalla più a lungo del tempo necessario a richiamare la mia attenzione. E sarei un'ipocrita se negassi di non aver ampiamente apprezzato la visuale offertami dal suo decolté messo in bella mostra grazie alla posizione leggermente ricurva, necessaria per raggiungere me al di là dell'iceberg di adipe che era il mio vicino.

Non ero assolutamente dell'umore giusto per civetterie e sguardi maliziosi, volevo solo arrivare in albergo il prima possibile e levarmi di dosso quell'odore stagnante di aereo di bassa lega che mi sentivo adeso ai vestiti e alla pelle.

Le rivolsi un brusco cenno del capo, spegnendo il tablet e riponendolo nella mia ventiquattr'ore, cogliendo l'occasione per sottrarmi al suo tocco.

La ragazza si allontanò di fretta, un'espressione accigliata stampata sul viso e una camminata più sculettante di prima, chiaro messaggio dedicato al sottoscritto, come a dire 'Stolto, guarda che ti perdi'. Era carina, nulla di eccezionale, ma era snella ed atletica e aveva davvero delle belle gambe abbronzate. Fino all'anno scorso probabilmente le avrei dato corda ma negli ultimi tempi conducevo una vita sociale più ritirata di quella di una suora di clausura.

Stavo invecchiando. E stavo invecchiando male.

Il signore al mio fianco, finalmente sveglio dopo cinque ore di sonno beato, era il tipico tizio fastidioso che inizia a trafficare con armi e bagagli e ad alzarsi dal suo posto per cominciare ad intasare lo stretto corridoio ancora prima che l'aereo abbia toccato l'asfalto della pista. La bambina invece, Shake it off sparata a duemila decibel nei timpani, stava masticando una Big Bubble non curandosi del fatto che il suo ruminare poteva non interessare l'intero gruppo passeggeri.

Mi misi a fissare le istruzioni con i comportamenti da tenere in caso d'emergenza stampate sulla parte superiore del sedile davanti a me.

Mi ero sempre domandato come fosse possibile mantenere la calma necessaria a trovare quel benedetto giubbotto, indossarlo, trovare la levetta da tirare o il tubicino in cui soffiare per gonfiarlo quando il tuo aereo stava precipitando in picchiata.

«Benvenuti a Tampa, Florida. Sono le 2.57 di mattina e il tempo è sereno. A breve avrà inizio lo sbarco; fino ad allora siete pregati di restare seduti ai vostri posti. L'equipaggio di bordo vi ringrazia per aver scelto di volare con noi e vi augura una buona permanenza. Arrivederci!», annunciò la voce di uno steward dagli altoparlanti gracchianti.

Tolsi la modalità aereo al mio iPhone e avviai la sincronizzazione della mia casella di posta elettronica. Avere clienti sparsi per tutti gli States, divisi dai fusi orari, mi assicurava un flusso continuo di email ad ogni ora del giorno e della notte.

«Si muova, mi scappa la pipì!». Una vocetta lagnosa mi fece distogliere l'attenzione dallo schermo del telefono.

Seguii il consiglio della bimbetta e, approfittando dell'ingorgo creato da una coppia giapponese alle prese con una gabbia con tanto di pappagallo, afferrai la ventiquattr'ore, acciuffai il mio trolley super leggero di ultima generazione in policarbonato e me la filai.

Appena entrato in aeroporto mi diressi all'uscita principale di questo e richiamai un taxi.

«Grand Hyatt Tampa Bay», informai l'autista mentre gli lasciavo il mio bagaglio e prendevo posto sul sedile posteriore.

L'oceano correva scuro e liscio come una grande chiazza di liquido petrolio al lato della strada ma ero davvero troppo stanco per poterlo ammirare veramente.

Probabilmente mi appisolai perché quando mi svegliai l'autista aveva già affidato il mio bagaglio al portiere notturno dell'albergo e aveva aperto la portiera, pronto a richiamare la mia attenzione.

Saldai il conto e mi incamminai attraverso l'imponente atrio, diretto verso il lucido bancone della reception dove una ragazza afroamericana mi aspettava sorridente.

«Benvenuto Mr. Carter Wright. Spero abbia fatto un buon viaggio. La sua stanza è la 793, settimo piano, vista mare. Vladimir la accompagnerà e si prenderà cura del suo bagaglio. Le serve altro?». Nel bel mezzo di questo cortese soliloquio una magra figura pallida dai tristi capelli biondo stinto aveva fatto la sua comparsa alle spalle di Jackie, nome che avevo appreso leggendo la targhetta spillata al bavero del gilet della receptionist.

Distolsi lo sguardo da quelle lettere incise sulla piccola placca metallica e tornai a rivolgere la mia attenzione alla signorina. «Per ora nulla, grazie», le risposi allungando la mano per prendere la tessera magnetica che mi porgeva.

«Allora le auguro un buon riposo», concluse lei.

 

***

 

E un buon riposo avevo senza dubbio avuto quella notte pensai rotolando sul dorso tra quelle candide lenzuola.

Erano le undici di mattina circa, come il mio telefono e soprattutto i brontolii insistenti del mio stomaco mi avevano avvisato, e la stanza era letteralmente inondata dalla luce che entrava prepotente dalle finestre, che la notte precedente mi ero scordato di oscurare.

Mi stiracchiai beandomi di quella sensazione di piacevole intorpidimento che uno prova solo dopo una bella dormita. O una bella scopata. Ma questo era un altro discorso. Anche se quella Jackie...

Un martellante bussare alla porta distolse la mia mente da quei lascivi pensieri mattutini.

«La colazione!», mi annunciò una voce attutita dalla pesante porta in legno.

Colazione? Come avevo fatto ad ordinare la colazione se appena arrivato ero crollato sul letto per risvegliarmi solo un paio di minuti prima?

Mi alzai svogliatamente e, cercando di non inciampare nelle scarpe che quella notte avevo abbandonato al centro del grande tappeto che ricopriva il pavimento chiaro, mi recai fino alla soglia dove spalancai la porta, curioso di sapere se quel servizio scocciatore era un omaggio che l'hotel riservava ai suoi clienti più affezionati.

Davanti a me trovai un vassoio enorme, ricco di ogni leccornia: da morbidi croissant a succhi di frutta dai mille colori, da un caffè nero fumante a uova all'occhio di bue profumatissime. Non appena la mia fame accecante lasciò spazio anche al resto del quadro mi accorsi a chi appartenessero quel nasino tutto lentiggini e quei vispi occhietti dallo sguardo canzonatorio.

Senza aspettare che la invitassi ad entrare, l'uragano Felicity mi spinse di lato grazie ad una gentile gomitata e marciò sicura verso il mio letto, dove abbandonò il vassoio sul vicino comodino prima di voltarsi a fronteggiarmi.

«Ora che ho compiuto il mio dovere finalmente smetterò di vivere sotto ad un tetto a scolapasta. Susu, mangia, Mr. Liam, che dobbiamo andare! Che ci fai ancora vestito da noioso avvocatuccio? Siamo in Florida! Qui costume da bagno e occhiali da sole sono obbligatori!», snocciolò, afferrando poi una fettina di pane di segale ricoperto da un leggero velo di burro e portandoselo alla bocca.

«Mi sono appena alzato. E quella è la mia colazione», puntualizzai osservando la mia porzione di yogurt e muesli sparire tra le fauci affamate della mia folle giardiniera.

«Oddio, scusa! È solo che le brioches ai cinque cereali sono le mie preferite...», mugugnò leccando un cucchiaino e fissando con sguardo bramoso l'invitante croissant posato su un piattino.

Dieci minuti più tardi, nello stomaco le uova e i due biscotti che ero riuscito a sottrarre a Felicity e alla sua furia divoratrice, ero chiuso nel bagno principesco della mia stanza mentre la tiranna mi urlava di sbrigarmi dall'altra camera.

Interrogarmi sul come e il perché fosse finito in una situazione simile era inutile. Le donne riuscivano sempre, in un modo o nell'altro, a metterci un bel guinzaglio tempestato di paillettes attorno al collo e a fare in modo che non sfuggissimo mai al loro occhio scrutatore.

Avevo portato con me il mio smoking nero dal taglio classico e un paio di camicie con pantaloni abbinati. Niente bermuda dalle stampe hawaiane o canottiere sbracciate dai colori improbabili.

Capii di aver commesso un errore nell'esatto istante in cui aprii la porta e incontrai un limpido sguardo chiaramente contrariato fisso sui miei calzoni color sabbia e la mia camicia azzurra.

Mi scrutava accigliata dal grande letto matrimoniale, dove si era installata a gambe incrociate, dopo aver abbandonato le infradito sulla moquette.

«Porta con te la carta di credito», mi ordinò prima di balzare in piedi, recuperare la sua ampia sacca di tela e dirigersi verso la soglia.

Infilai portafogli e telefono nella tasca posteriore dei pantaloni, recuperai il badge magnetico della camera e chiusi la porta alla mie spalle.

Se c'era una cosa che mai avrei immaginato...bè, era proprio quella. Passeggiare sulla battigia, costume da bagno e t-shirt comprate al mercatino dell'usato, occhiali da sole pescati al lato di una cassa di un supermercato tra caramelle e preservativi, e un aquilone legato al polso.

«Mi rendo conto di quanto mi manchi tutto ciò solo quando torno a casa...»

Viso leggermente arrossato illuminato dal sole fiammeggiante dell'una di pomeriggio, occhi celati dalle lenti verdi scuro di un paio di occhiali dalla forma tondeggiante e camiciola leggera di candido cotone a svolazzarle attorno.

Bellissima.

Per un attimo rimasi quasi accecato dalla consapevolezza di quanta bellezza ci fosse in quella ragazza conosciuta grazie a nonno Tobias e alle apine svolazzanti del suo sito.

«Mr. Liam! Non ti ho mai chiesto dove sei nato e cresciuto. Ho sempre dato per scontato che fossi di Boston ma hai negli occhi lo stesso velo di nostalgia che ho io quando sono lontana da questo mare dove ho imparato a nuotare e dove ho perso la verginità...»

«Hai perso la verginità in mare?!», domandai sconcertato.

Lei sbuffò e si sistemò dietro l'orecchio una ciocca di capelli sfuggita dallo chignon disordinato che teneva imprigionata la sua chioma color girasole.

«Ovviamente tu hai colto solo quello!», sbottò prima di chinarsi e immergere le mani, palme aperte, nella sabbia bagnata.

«Bè, è una cosa insolita...», cercai di difendermi, nonostante volessi solo saperne di più riguardo a quella faccenda.

«Ero giovane, era estate, lui era qui in vacanza...», commentò vaga guardando l'acqua coprire e poi ritirarsi dal dorso delle sue mani. «Dov'è casa tua?»

«A Boston»

Sì, un freddo e vuoto attico dal valore di migliaia e migliaia di dollari.

«La tua vera casa. Non quella che ti ostini a chiamare tale ma quella che lo è davvero, quella a cui pensi quando ti senti solo e non sai più dove stai andando...», precisò rialzandosi, appoggiando una mano bagnata di acqua salata sul mio avambraccio e alzando il viso verso di me.

Quello che vidi in quegli occhi mi fece quasi tremare.

Casa.

Non avevo più chiamato casa nessun luogo da quando avevo lasciato i miei genitori a diciassette anni.

E al tempo l'unica cosa che volevo era proprio fuggire da lì. Dalle attenzioni esagerate della mia apprensiva madre. Dall'espressione esausta e gli occhi sempre tristi di mio padre, costretto a fare orari disumani in fabbrica per permetterci di finire il liceo. Dai commenti cattivi dei miei compagni di classe rivolti al mio giubbino vecchio di una decina di anni e ai sussidi familiari con cui tiravamo avanti.

Avevo studiato senza sosta. Notte e giorno. Nessuna vacanza, nessun ballo di fine anno, nessuna distrazione per Liam Carter Wright.

E poi avevo vinto la borsa di studio tanto agognata e tanto sudata e me ne ero andato a Harvard, senza mai guardarmi indietro.

Non ero più tornato. Non avevo più visto la crepa che attraversava diagonalmente il soffitto chiazzato di umidità della mia stanzetta. Non ero più stato nel mio posto segreto, gambe a penzoloni, a fissare per ore intere i treni fermarsi e ripartire in un ciclo senza sosta, sognando di scappare da lì. Non mi ero più seduto al tavolo, decorato dal lavoro di mille tarli, nel nostro buio cucinotto, che senza una moneta da un quarto di dollaro sotto una gamba traballava.

Casa.

«Non ricordo neanche più quale sia...», sussurrai fissando le onde infrangersi sugli scogli in lontananza.

Una pressione improvvisa mi fece voltare il capo e fissare lo sguardo sulla mia mano racchiusa da quella più piccola e costellata di efelidi di Felicity.

«Vieni con me»

La seguii senza far domande, sfilando davanti ai bagnanti impegnati a prendere il sole e a godersi quella meravigliosa giornata sotto quel cielo limpido.

Percorremmo tutta la spiaggia prima di allontanarci dall'acqua, abbandonare il pavimento sabbioso e rimetterci le infradito.

Felicity regalò l'aquilone ad un bambino, che la ringraziò con un abbraccio che la fece illuminare come un albero di natale e poi, sempre senza lasciare la mia mano, mi fece da guida attraverso una serie di vicolini in discesa che, mano a mano che procedevamo, si lasciavano alle spalle i resort di lusso e gli edifici di scintillante vetro e cromature per far posto a casette dall'aspetto più vissuto e peculiare.

Ci stavamo avvicinando alla zona più portuale e meno turistica della città. Il mare spumeggiante cominciava a popolarsi di imbarcazioni e l'acqua diventava leggermente più torbida a causa del traffico di barche che ma attraversavano.

Felicity procedeva spedita, senza indugio, era chiaro che avesse bene in mente dove voleva arrivare.

Quando un paio di minuti più tardi ci fermammo di fronte ad un capannone malmesso e all'apparenza abbandonato, preso in contropiede da quel brusco stop finii per travolgere la mia compagna di avventure.

«Perdonami...», mormorai,  indietreggiando di un passo e cercando di districare le mie dita dalla presa ferrea delle sue.

Non me lo permise. Rafforzò la stretta e riprese a camminare, come se si fosse ricordata quale fosse la direzione da seguire dopo essersi persa un attimo a fissare quelle pareti in mattoni e la foresta di erbacce che le decorava.

Girammo attorno alla costruzione, che rivelò avere una porta sul retro oltre al portellone a serranda che si trovava sulla facciata anteriore della struttura.

Ma non era la porta il vero obiettivo di Felicity, bensì la finestra, priva di vetro e coperta solo da un pannello di compensato logoro e spezzato in corrispondenza dell'angolo in basso a sinistra.

Lasciò la mia mano e diede un calcio potente e ben assestato al pannello facendo venire allo scoperto la buia cavità che una volta era stata sede dell'intelaiatura di una finestra.

Dopodiché, ancora prima che potessi realizzare cosa stesse accadendo, vidi la sua sagoma sparire al di là del muro, come inghiottita dall'oscurità che faceva da padrona all'interno dell'edificio.

Quella ragazza doveva amare proprio tanto il cacciarsi continuamente nei pasticci.

Un'aureola di capelli biondi fece capolino dal rettangolo buio che segnava il confine dell'infisso. «Che stai aspettando? Vieni!», mi incitò prima di scomparire nuovamente all'interno.

Facendo attenzione a non perdere per strada le infradito feci passare prima una poi l'altra delle mie lunghe gambe dall'altro lato del muro, ritrovandomi in un'ampia stanza, fiocamente illuminata da spiragli di luce provenienti da fori e parti mancanti dei pannelli che ricoprivano la lunga serie di finestre schierate lungo la parete.

Delle ciabatte modello flip-flop in plastica turchese erano proprio quello che ci voleva per esplorare un posto disabitato da tempo e probabile rifugio di insetti, roditori e probabilmente senzatetto e tossici occasionali.

«Benvenuto a casa Van Houten!», mi annunciò la voce di Felicity.

Se ne stava ferma al centro della stanza, gli occhi chiusi e le braccia avvolte attorno al busto come a volere cercare calore in un abbraccio.

«Tu abitavi qui?», domandai sconcertato, lo sguardo sugli intrecci di ragnatele che adornavano ogni angolo libero della stanza e il pavimento in crudo cemento.

Montgomery Van Houten aveva sì dato inizio alla sua carriera nel mondo legale all'interno di un capannone ma non avrei mai pensato che questo sottintendesse che anche la sua famiglia aveva dovuto muovere i primi passi all'interno di quelle quattro mura scrostate.

«All'inizio le cose andavano proprio male. Papà ce la metteva tutta ma sembrava davvero che la sorte remasse contro la nostra famiglia. Entrambi i miei genitori rifiutavano categoricamente di essere finanziati dai miei nonni. Non so se per orgoglio o per la volontà di non tornare ad essere dipendenti da loro. Abbiamo vissuto qui fino al mio settimo compleanno, poi lo studio legale iniziò ad ottenere i primi successi, poi si espanse, inglobando nuovi dipendenti ed infine, mattoncino dopo mattoncino, Papà costruì un impero. E fu naturale trasferirsi. Per un paio d'anni in una villetta a schiera e infine, alla vigilia del mio decimo compleanno, nella casa che vedrai stasera alla festa. Vieni, voglio mostrarti la mia camera».

Salimmo delle strette scale di legno scricchiolante e ci ritrovammo in un corridoietto claustrofobico su cui si affacciavano tre aperture, senza porta.

«Qui dormivamo io e Zoe, mia sorella. Ricordo che quando i rumori notturni del porto e delle azioni di scarico e carico delle navi mi spaventava, mi accucciavo vicina vicina alla figura addormentata di mia sorella e fissavo per ore le ombre sul soffitto», spiegò sottovoce sfiorando con la mano una porzione di muro dove si intravedeva la sagoma lasciata dalla testata di un letto. «E la cosa curiosa sai qual è? Dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che è cambiato, migliorato o giunto a termine  nella mia vita, questo posto rimane quello che sento più...casa, insieme al mio giardino a Plymouth. Qui sono stata felice. Siamo stati felici, nonostante il poco che avevamo. Anzi, forse lo siamo stati proprio grazie a quel poco che possedevamo. Ci torno sempre quando vengo in Florida. Ci torno per ricordarmi che le cose semplici sono sempre le più belle ed autentiche. E so che anche Papà a volte torna perché ho trovato le cicche delle sue sigarette sparse nel cortile...», concluse ridacchiando tra sé.

«Non torno a casa da quando l'ho lasciata a diciassette anni...», confessai ad alta voce quasi senza rendermene conto.

Lei rivolse lo sguardo a me e mi sorrise, «Credo proprio che dovresti farci ritorno. Fa sempre bene tornare indietro, alle proprie radici. Ti aiuta a capire i passi fatti fino a quel momento e quelli ancora da compiere. È illuminante e al tempo stesso terribilmente disorientante. Torna a casa, Mr. Liam».

Come ci riusciva? Come poteva parlarmi così sinceramente e saggiamente la stessa persona che si chiudeva quotidianamente da sola le dita nella portiera del pick-up e litigava furiosamente con il commesso del supermarket che faceva il furbo sul numero delle caramelle che le serviva e impacchettava?

Annuii, non sapendo come ribattere. Nel mio intimo ero terribilmente indispettito. Come si permetteva di farsi gli affari miei e dirmi come comportarmi? Lei, con una vita così ingarbugliata da non riuscire a venirne a capo neanche se fosse stata Arianna nel labirinto e avesse avuto il filo da seguire!

«Dobbiamo andare. Ho promesso a Mamma di dare un'occhiata alla disposizione degli ospiti, lei ha una memoria a scolapasta e tende a dimenticare litigi, odi sanguinari e minacce di morte intercorse tra vari parenti, amici e conoscenti. Ti prometto che proverò a metterti al tavolo delle mie cugine. Sono ricche, sono viziate, sono fatte per metà di plastica e per l'altra metà di seta cinese con stampe Hermes, e ovviamente sono single e a caccia di marito», mi prese in giro mentre ridiscendevamo al piano inferiore.

Dopo essere tornati alla spiaggia e all'ingresso del mio albergo ci salutammo. Poco prima di inforcare la sua bicicletta color confetto si fermò, fece scivolare leggermente in basso sul naso gli occhiali da sole e mi fissò da sopra la montatura.

«Mi raccomando, stasera comportati bene e non farti impressionare troppo da quello che vedrai, è solo uno scintillio», detto ciò mi sorrise e partì pedalando verso il sole infuocato all'orizzonte.

 

***

 

Dietro il bancone della reception non c'era più quella bellezza esotica che era Jackie ma un certo Kyle, occhi di ghiaccio e testa rasata.

Probabilmente dovevano soddisfare i gusti di tutti i clienti e non solamente i miei, pensai deluso.

Il muscoloso e troppo mascolino per i miei gusti Kyle mi informò che l'auto da me prenotata era arrivata e che l'autista mi attendeva all'ingresso.

Gli feci un cenno del capo e mi avvicinai contrariato alle porte scorrevoli in vetro della hall. Avevo specificatamente richiesto di non usufruire del servizio autista.

Guidare mi piaceva, farmi scarrozzare sul retro di un macchinone dai finestrini oscurati come se fossi un'appariscente stella di Hollywood no.

Dopo vari minuti di discussione, una mancia di cinquanta verdoni e un taxi a mie spese per rispedire l'autista al mittente, potei finalmente appoggiare il mio didietro al sedile in pelle nera della Mercedes a noleggio e partire alla volta della villa di Mr. Montgomery Van Houten.

Ero veramente pronto a tutto. Mi sarei aspettato draghi che sputavano fuoco usati come animali da guardia e famiglie di fenicotteri libere di scorrazzare nella piscina a forma di fiore di loto.

L'elegante sobrietà di casa Van Houten mi sorprese. Non mi aspettavo una manifestazione pacchiana e sfacciata di lusso e gingilli scintillanti dal valore milionario.

Nessun parcheggiatore, le auto venivano posteggiate dai legittimi proprietari lungo il viale ricoperto di ghiaia. Nessuna cameriera vestita da coniglietta a servire stuzzichini, sobri camerieri si aggiravano impeccabili nella loro divisa scura per la sala. Nessun soffitto dorato o pavimento di specchi, graziosi affreschi dalle tinte pastello adornavano in modo discreto le pareti e una superficie di solido ma raffinato marmo grigio scuro sfilava sotto le suole delle scarpe delle decine di invitati.

La festa si svolgeva nell'ala ovest del piano terra e nel giardino posteriore che si affacciava direttamente sull'oceano, rischiarato dagli ultimi raggi rosati del sole calante.

Parure di splendenti diamanti, sorrisi contornati da rossetti sgargianti, abiti principeschi dai lunghi strascichi, immacolati colletti inamidati, acconciature fantasiose e perfette, papillon annodati ad arte.

La ricchezza e l'ostentazione che non avevo trovato nella cosa la potei osservare negli ospiti.

«Carter Wright, ce l'ha fatta a venire! Ora devo davvero un tetto nuovo alla mia scellerata figliola», mi accolse giovialmente con una poderosa stretta di mano il padrone di casa.

«È un piacere averla qui. Mi scuso a nome di quella povera donna esaurita dopo anni di lavoro alle dipendenze di mio marito che è Miss Lydia per il ritardo nel recapitarle l'invito alla festa. Non ha portato nessuna fanciulla con sé?», e nel domandarmi ciò, conoscendo benissimo la risposta data l'evidente mancanza di un'accompagnatrice, mi fece l'occhiolino civettuola.

Perché interrogarsi a lungo sull'origine dei comportamenti psicotici di Felicity? Non bisognava ricercare molto per scoprire che il detto 'tale madre tale figlia' spiegava già ampiamente tutto.

«Alla fine non avevamo più avuto occasione di parlare del perché della mia telefonata, sa quella della mia segretaria, volevo...oh no! Cara, tuo zio Larry si sta avvicinando troppo alla zona bar e sai cosa succede quando esagera con il gin. Riprendiamo dopo», e mi abbandonò lasciandomi con una pacca sulla spalla.

Mrs. Van Houten, fasciata in un elegante abito di seta color crema, che riusciva ad illuminare il suo incarnato e a non farla apparire come un enorme bignè alla crema, mi rivolse un sorriso di scuse e,  dopo aver borbottato qualcosa riguardo a 'quella benedetta figliola di Felicity' e al piano di sopra, mi lasciò a sua volta seguendo il marito nella vana impresa di separare l'anziano signore dal quinto Martini.

Non conoscendo nessuno decisi di rompere il ghiaccio seguendo l'esempio del buon vecchio Zio Larry e mi avvicinai all'angolo bar,  chiedendo al barman di servirmi un Gin Tonic.

La signora accanto a me stava spiegando ad un'amica la colonia di calli che aveva preso possesso dei suoi piedi, mentre il ragazzo dall'altro lato sembrava impegnato a scrutare il suo Shirley Temple come se fosse una sfera di cristallo, da cui poter decifrare il futuro.

Ruotai annoiato sull'alto sgabello e feci vagare lo sguardo per la stanza, osservando tutti quei visi sconosciuti che mi circondavano.

Anziani signori dai capelli brizzolati impomatati intenti a fare presentazioni e stringere mani. Donne più agghindate di un albero di natale impegnate a fare capannello per poter spettegolare in libertà sull'abito di quella e l'accompagnatore di questa. Bambini che tiravano le maniche dei genitori per attirare la loro attenzione, gli occhi pieni di sonno e i piedi stanchi per le corse in giardino.

Mancava qualcosa.

Mancava qualcuno.

E fu in quel momento che la vidi.

Una nuvola di tulle rosa. Le guance arrossate. I capelli luminosi intrecciati. La mano saldamente attaccata al corrimano della scalinata per non perdere l'equilibrio. Lo sguardo spaesato a scrutare i presenti.

Senza rendermene conto avevo già appoggiato il bicchiere, lasciato la mia postazione e mi stavo dirigendo verso di lei, come attirato dal polo opposto di una calamita.

I suoi occhi si ingrandirono quando si focalizzarono sulla mia persona e un'ampia espressione incredula si dipinse sul suo volto.

«Mr. Liam, che schianto!», commentò fischiando in segno di approvazione.

Perché nonostante l'aspetto fatato, sotto quelle vesti fiabesche si celava la solita Miss Felicity, sempre svitata e poco intenzionata a comportarsi bene.

Mi venne da arrossire, quasi come se fosse avvenuto uno scambio di ruoli e io fossi la donzella imbarazzata dall'apprezzamento sfacciato di un uomo.

«Anche tu non sei male...», borbottai porgendole il braccio, che lei prontamente afferrò prima di lasciarsi alle spalle l'ultimo gradino con un saltello.

Bugiardo. Bugiardo. Bugiardo.

E avevo mentito in modo così sfacciato da temere che i suoi occhi potessero leggere e smascherare la mia menzogna semplicemente guardandomi negli occhi.

Fortunatamente lei sembrava impegnata a camminare sui suoi sandali dal tacco vertiginoso senza sembrare una giraffa ubriaca e ciò pareva un'azione in grado di assorbirla completamente.

«Mamma ha schierato il suo intero esercito di torturatrici per ottenere ciò. Sarà felice che almeno una persona abbia notato lo sforzo fatto da loro e il dolore sopportato dalla sottoscritta...», mugugnò trascinandomi attraverso il salone in direzione del bancone da me lasciato pochi minuti prima.

Si sbagliava invece, gli occhi dei due terzi degli uomini presenti nella stanza erano puntati su di lei, ovviamente troppo distratta per accorgersene, e il terzo restante aveva smesso di fissarla solo dopo essere stati prontamente rimproverati da consorti e accompagnatrici.

Per non parlare dei commenti concitati e sussurrati che percorrevano la stanza, rimbalzando di donna in donna, e gli sguardi invidiosi dedicati al vestito della ragazza il cui braccio era saldamente allacciato al mio.

«Un Margarita alla fragola per me», trillò non appena raggiungemmo il lucido piano del bancone. «Per te?», mi domandò ruotando il capo nella mia direzione.

Nel compiere quel movimento l'acconciatura semi raccolta le lasciò scoperta una spalla e il lato destro del collo. Distratto da quella porzione di pelle appena dorata e cosparsa di sparute efelidi tardai nel risponderle e così la vidi tornare a rivolgere la sua attenzione al barista e chiedergli di preparare un Margarita anche per me.

Tempo di riacquistare il controllo e un alto bicchiere dal collo sottile veniva sospinto gentilmente verso di me.

«Ti vedo distratto stasera. Qualcosa non va?»

Alzai lo sguardo e la vidi guardarmi con sguardo preoccupato mentre si sporgeva nella mia direzione.

Sì, mi sto completamente rincitrullendo. Sarà l'alcool, sarà l'euforia generale, sarà l'atmosfera leggera e festaiola. Sarai tu con quel vestito di un colore così etereo e infantile che eppure su di te risulta maledettamente seducente. O quel tuo profumo che emani ogni volta che ti muovi, e tu sei irrequieta e ferma non ci stai mai, e a me pare di stare in Provenza in un immenso campo di lavanda color indaco. Sarà la tua mano poggiata quasi per caso sul mio ginocchio o il tuo respiro troppo vicino ora che mi stai guardando apprensiva. Sarà tutto ciò ma io stasera mi sento come uno sciocco adolescente alla prima cotta. Gli ormoni a mille, le mani sudate, la conversazione impacciata. E i tuoi occhi. Potresti smetterla di rivolgermi quello sguardo? Per favore. Se tu mi guardi in quel modo è come se assorbissi tutto l'ossigeno presente e io dovessi andare in apnea. Per favore.

«Nulla, assolutamente nulla». Fine della discussione.

Tutto va in modo meraviglioso no?

«Quella donna ti fissa con lo stesso sguardo affamato che io dedico ai pancakes con lo sciroppo d'acero e i mirtilli», mi informò placidamente lei, sorseggiando il suo cocktail della stessa tinta del suo abito.

Feci per voltarmi a cercare il soggetto in questione quando la sua mano corse ad afferrarmi saldamente il mento per impedirmi qualsiasi movimento che non fosse abbassare lo sguardo per fissarlo nel suo.

«Nonchalance, Mr. Liam! Fai finta di volermi gentilmente prendere un tovagliolino - che tra parentesi mi serve davvero - e voltati manifestando naturalezza e non sembrando un guardone maniaco». Mollò la presa e tornò a sedere con la schiena ritta.

Seguii le sue istruzioni alla lettera, ruotando con calma sullo sgabello, camminando fino all'angolo del bancone dove si trovava il piccolo porta tovaglioli argentato e solo allora mi concessi di alzare lo sguardo per poter finalmente scovare la mia ammiratrice segreta.

Per un attimo rimasi senza fiato. Gambe incrociate, spacco furbetto, abito aderente rosso fuoco come il rossetto, occhi scuri come l'onice. Mi fissava sfacciatamente, l'angolo della bocca leggermente piegato in un sorrisetto ammiccante e un sopracciglio sollevato come a dire: Che stai aspettando? Avrà avuto sicuramente più di quarant'anni ma li portava egregiamente, come il viso luminoso e la scollatura generosa testimoniavano. Era una predatrice, una leonessa abituata alla caccia grossa, annoiata probabilmente dalla vita di tutti i giorni e da un marito sovrappeso e petulante.

Recuperai un paio di tovaglioli e tornai da Felicity, la quale mi attendeva con una buffa espressione di shock stampata in volto.

«Mi sbagliavo: è senza dubbio lei la guardona maniaca! Santo cielo, pare voglia ripassarti per bene solo guardandoti!», esclamò concitata.

«Oh oh, che fine ha fatto la Felicity romanticona che usava le tende di casa per confezionare abiti nuziali? Ripassare per bene? Che fine hanno fatto i discorsi su cuore, sole e amore?», mi burlai di lei.

Lei ovviamente si inviperì proprio come mi aspettavo. «Dubito voglia fare l'amore, infilarti un anello al dito e adottare tre gemellini etiopi con te! E non dire romanticona come se fosse un insulto!»

Ridacchiai di fronte alla sua espressione sostenuta e al suo sguardo vagamente minaccioso rivolto alla donna alle mie spalle.

«Mi fai fare un tour della casa?», tentai per smorzare l'atmosfera pesante che si era venuta a creare.

«No»

«Vuoi ballare?»

«No»

Porsi il mio bicchiere vuoto al barista e feci per alzarmi, «Va bene, messaggio recepito. Andrò a conoscere la bella panter-»

Non riuscii a terminare perché Felicity, come sempre nel suo modo molto prepotente, mi afferrò per il risvolto della giacca e mi trascinò al centro della sala.

«Oh no, cari. Qui si balla musica per vecchi!», si precipitò su di noi Mamma Van Houten iniziando a spingerci in direzione del giardino e del gazebo illuminato da mille lucine bianche nascoste tra le rose del pergolato. «Qui stanno i giovani! Buona serata!», e ci mollò tra le varie coppiette intente a danzare strette strette sulle note di una ballad strappalacrime.

«Ma mamma...», la sua protesta venne smorzata dall'annuncio del cantante della band che la prossima canzone era dedicata a tutti gli amori non ancora nati ma prossimi alla fioritura.

«Che stupidaggine», borbottò a mezza voce facendo per allontanarsi da me e dalla pista da ballo.

Afferrai la sua mano e facendola piroettare su sé stessa la feci atterrare precisamente dove volevo che fosse: vicino a me, le mani sul mio petto per mantenere la distanza di un soffio che ci divideva e non oltrepassare un limite invisibile ma chiaramente percepibile.

«Esibizionista», mi rimbrottò appoggiando con ostentata malagrazia una mano sulla mia spalla e lasciando che le cingessi la vita.

La musica cominciò e noi iniziammo a piroettare come dei moderni Cenerentola e relativo principe azzurro. Ok, magari Felicity, con la sua famiglia dal patrimonio miliardario, non era proprio un buon esempio di sguattera maltrattata. Sicuramente però avrebbe adorato avere dei topini come amici.

«Sai anche ballare bene», constatò, una nota di delusione nella voce.

«Lo dici come se fosse una colpa», le feci presente, guidandola tra le varie coppie e tenendola saldamente tra le mie braccia.

Lei sembrò pensarci un attimo su prima di sbuffare e ammettere, «Vorrei che lo fosse. Sei quasi perfetto. E a me le cose perfette spaventano, forse perché io sono tutto tranne che perfetta».

E lì, calda e morbida, stretta a me, mi veniva in mente solo una parola per definirla: perfetta.

«Non hai mai pensato che forse è proprio questo il bello? Smettere di cercare di essere perfetti e provare a fare delle proprie imperfezioni delle peculiarità, dei punti di forza», la feci ruotare su sé stessa, l'abito vaporoso che si sollevava spumeggiante attorno a lei, per poi tornare a scendere in onde sinuose.

«Fosse facile...»

Le sorrisi, capivo benissimo. Dietro quella facciata di impeccabile rispettabilità che offrivo al mondo mi ponevo le sue stesse domande, mi agitavano i medesimi dubbi. Quotidianamente.

«E poi hai quello sguardo. Come se capissi sempre più cose di quelle che riveli...»

La band finì di suonare le ultime note e annunciò una pausa per il taglio della torta, pausa riempita da basi musicali registrate, e lasciò il pubblico con la promessa di rivedersi dopo il breve intervallo.

«Cosa pensi che non abbia detto ora?», la interrogai curioso, senza accennare ad allontanarla e a seguire dentro casa le altre coppie, intente a sciamare all'interno a congratularsi con il festeggiato.

Lei sembrò non accorgersi dell'improvvisa assenza di ballerini attorno a noi. «Credo tu stia pensando a quanto io sia patetica e negata per il ballo!», esclamò ridendo argentina.

E lo rifece. Scosse la testa, i capelli le scivolarono sulla schiena e il collo si scoprì completamente. Solo che questa volta era molto più vicino e il suo profumo molto più intenso ed inebriante.

«Penso tu sia tutt'altro che patetica...», sussurrai avvicinandomi impercettibilmente a lei. In quel momento lei alzò lo sguardo e ci ritrovammo così vicini che sarebbe bastato un minimo movimento per far sì che le nostre labbra si toccassero.

Nessuno dei due si scostò e nessuno dei due si mosse. Sospesi in un limbo tanto bello quanto frustrante. Lo volevamo tutti e due ma allo stesso tempo nessuno voleva sbilanciarsi e fare il primo passo. Avrebbe voluto dire cedere, ammettere per primo qualcosa che avevamo cercato di ignorare. Un paio di centimetri ci separavano, un oceano ai nostri occhi spaventati.

Presi coraggio. Lo volevo, ne ero certo. «A dire il vero io penso tu sia s-»

«Felicity! Ti ho cercata dappertutto, cara. Tuo padre mi aveva avvertito che probabilmente ti eri smarrita come sempre in qualche cespuglio mentre sognavi di puffbacche e puffole pigmee». Silenzio. «Ho interrotto qualcosa?»

Era bastato quel primo nome esclamato da una voce maschile per mettere fine a quel momento sospeso nel tempo.

Felicity si allontanò di scatto, scuotendo il capo come per riprendersi e tornare in sé. Dopodiché si affrettò a raggiungere il nuovo arrivato. «Theo! Sono così felice che tu sia qui. Entriamo dai, credo di essermi persa Papà e il suo discorso dettato da troppo champagne...». Gli cinse un braccio e assistetti come spettatore ad un bacio a quello che immaginai essere il famoso fidanzato di Felicity.

Voltai loro le spalle e mi incamminai verso il viale d'ingresso. Non avevo nessuna voglia di stringere la mano a quello scialbo Theo che si era preso qualcosa che avrebbe dovuto essere mio. Che pensassero pure che fossi un gran cafone. Rientrai in casa, una direzione ben precisa in mente, una direzione che indossava un abito rosso come il peccato.

 

 

Chiedo scusa per il ritardo nel postare il nuovo capitolo. Ricominciare l’università è stato più impegnativo del previsto considerate che in gioco in questo periodo ho anche la ricerca di una casetta e il dover iniziare di nuovo da zero. Risponderò immediatamente alle recensioni super gentili che mi avete lasciato e ne approfitto per ringraziarvi tutti. Potrei promettervi mari e monti qui ma preferisco essere sincera e dirvi che i tempi di attesa saranno più lunghi rispetto agli inizi causa sveglia odiosa all'alba e giornate pienissime. Cercherò comunque di compattare i tempi e cercare di non far passare un ulteriore mese.

S.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Rose rosa o rosse? ***


 

Felicity

 

«Sono veramente felice che tu sia riuscito a raggiungerci. Ormai non ci speravo più...», esclamai al settimo cielo, allungando una mano per sfiorare una guancia ad un Theo più sfolgorante del solito.

Abituata a vederlo sempre nei panni dimessi da professore universitario rimasto legato alla moda di quando dietro ai banchi ci stava lui stesso, la sua figura fasciata da un elegante completo da sera scuro era una piacevole scoperta.

«Donna di poca fede!», mi riprese sorridendo e passandomi un braccio attorno ai fianchi per trascinarmi più vicina a lui. «A proposito: chi era quel tizio?»

Era gelosia per caso quella che percepivo? Mi detti della sciocca da sola; era più probabile che Victoria's Secrets mi arruolasse come angelo per una delle sue sfilate di lingerie rispetto al fatto che Theo fosse possessivo nei miei confronti e si accorgesse del fatto che anche altri uomini oltre a lui potessero trovarmi interessante.

Voltai il capo ma i miei occhi trovarono solo il giardino in penombra e il mare solitario come sfondo.

Lui non c'era più.

Per un attimo mi mancò il respiro nel ricordare quello che era successo tra noi. O meglio, quello che sarebbe successo se il mio caro fidanzato non fosse spuntato dal nulla. Quando si dice tempismo perfetto...

Cercai di scacciare dalla mente l'immagine di quegli occhi così grandi e così profondi. Per un attimo mi era parso che tutto intorno a noi si cristallizzasse, un attimo perfetto, fermo immagine. Poi Theo era arrivato ed era come se qualcuno avesse premuto il tasto play, mettendo fine al momento di pausa irreale. Le cicale avevano ripreso a cantare, il vento a far danzare le fronde degli alberi e la musica a raggiungerci attutita da dentro casa.

«Solo...solo un cliente, te ne ho parlato ricordi? Mr. Carter Wright, l'avvocato che vive dietro casa mia», cercai di spiegargli sapendo già che non aveva la più pallida idea di chi stessi parlando dato che,  quando gliene avevo accennato, durante una chiamata Skype un po' di tempo prima, lui stava correggendo dei test. Ti ascolto, ti ascolto, mi aveva assicurato, la fronte aggrottata e una pila altissima di scartoffie che assorbivano interamente la sua attenzione.

«Devo averlo scordato», liquidò lui la questione con una scrollata di spalle. «Entriamo, ti va? Vorrei scambiare due parole con quell'amico di tuo padre che è stato recentemente in Amazzonia». Senza aspettare la mia risposta, si incamminò verso la porta finestra, spingendomi gentilmente come incoraggiamento a seguirlo.

Non appena superai la soglia e ritornai tra la confusione di persone danzanti, battiti di mano, auguri entusiasti strillati da ospiti brilli e luci colorate venni letteralmente travolta da una figura che mi gettò le braccia al collo, rischiando di soffocarmi tanto potente era la sua stretta.

Risposi all'abbraccio al colmo della gioia, accarezzando quei capelli neri come la più buia delle notti.

Cinsi affettuosamente quel corpicino così esile che, nella buona e nella cattiva sorte, aveva sempre rappresentato un punto cardine della mia vita.

«Ti prego dimmi che non sparirai all'improvviso non appena ti accorgerai di non poter sopportare mamma e i suoi lamenti continui su calli e ritenzione idrica, ti prego!», la supplicai staccandomi da lei in modo da guardarla per bene negli occhi facendo ricorso al mio miglior sguardo persuasivo.

«D'accordo tesoro!», esclamò alzando le mani in segno di sconfitta e sorridendo. «Se però ricomincia con la storia del matrimonio combinato tra me e l'orribile amico dell'ancor più orribile cugino Philip giuro che emigro a Cuba!»

Conoscendola ne sarebbe stata capace ma a mio parere sottovalutava la determinazione di Madre, capace di sedurre il ministro degli affari esteri e chiedere l'estradizione della figliola dalla bella isoletta e il suo ritorno scortato alla corte di Sua Maestà Grace Van Houten.

«Vedremo di...ehm...contenerla, per quanto possibile», la rassicurai, sapendo benissimo quanto contenere nostra madre equivalesse a sbattere ripetutamente la testa contro una parete di cemento armato sperando di abbatterla.

Zoe, di nuovo regina dei ghiacci dopo quel raro slancio di affetto, giunse finalmente ad accorgersi della presenza di Theo al mio fianco.

Dire che tra i due scorreva buon sangue equivaleva a dichiarare che US e Russia fossero migliori amici, come la nostra storia dimostrava ampiamente.

«Oh, ci sei anche tu. Ancora», commentò quasi schifata mia sorella squadrando storta il mio compagno.

Lui le rivolse un sorrisetto compiaciuto, non ritenendo probabilmente degna di risposta la sua constatazione al vetriolo.

«Magari i botanici fossero come le piante. Tutto un fiore durante la bella stagione e poi morti stecchiti al primo gelo invernale. E alla seguente primavera via con una nuova piantina!»

«Zoe!», la ripresi, non pronta ad assistere ad un ennesimo battibecco tra i due.

Theo, lo sguardo distratto da qualcosa o qualcuno, mi disse di non preoccuparmi e si scusò allontanandosi in direzione del piccolo gruppo che circondava mio padre e suo fratello.

«Non dire niente», supplicai mia sorella vedendo i suoi occhi carichi di rimprovero. «Piuttosto dimmi come mai sei arrivata così tardi?»

Squadrai gli anfibi infangati di Zoe, le gambe nude e scheletriche come sempre e l'abitino rigorosamente nero che la fasciava.

Lei si accigliò e iniziò ad inveire contro le compagnie aeree, contro il ministro dei trasporti, contro Cristoforo Colombo, contro i dinosauri, il viso sempre più paonazzo mano a mano che proseguiva nella sua invettiva.

Un quarto d'ora di insulti e minacce di morte e tutto ciò che riuscii a carpire da quello strampalato discorso alla Zoe fu che le avevano smarrito il bagaglio e lei si era avventata furiosa dall'altra parte del bancone che proteggeva il povero impiegato aeroportuale che le aveva comunicato la lieta novella per scuoterlo come se fosse un alberello di ciliege. Dopodiché, dalle numerose imprecazioni rivolte alla polizia e agli addetti di sicurezza, dedussi che doveva essere stata bloccata con la forza e multata.

«Oh la mia figliola montagnola!»

Una nuvola di una costosa fragranza al lillà ci informò dell'arrivo della nostra genitrice. Dagli occhi decisamente più lucidi del solito e dal tono di voce più strascicato immaginai che la composta Grace quella sera avesse passato più tempo con l'amico champagne di quanto fosse sua normale abitudine.

Zoe mi lanciò un'occhiata rassegnata mentre si chinava a baciare la guancia di Madre. Il loro rapporto era sempre stato complicato e conflittuale. Zoe non era esattamente la figlia raffinata e tipicamente borghese che si sarebbe aspettata. Non si era mai laureata, lei al college si era dedicata a sedute spiritiche e proteste a seno nudo per protestare contro il sessismo e appoggiare il movimento ucraino delle FEMEN. Non aveva mai avuto un ragazzo istruito, cordiale e serio da presentare a casa, aveva sempre frequentato scombinati chitarristi fatti da mattina a sera o squattrinati  artistoidi che vedevano in lei la loro musa ispiratrice. Non era andata a vivere in una deliziosa villetta con giardino e non aveva adottato un bambino asiatico, mia sorella viveva in montagna, in un paesaggio aspro e gelido, da sola, con l'unica eccezione di occasionali animali selvatici ospitati per qualche tempo.

Zoe era una persona solida, difficile e pericolosa come la dura roccia di cui erano fatte le montagne che lei tanto amava. Non perdonava facilmente e tendeva a covare rancori e alimentare faide per lungo tempo. Amava la solitudine assoluta, il silenzio più puro e il cielo grigio e sconfinato. Leggeva autobiografie di serial killer o di pazzi che raccontavano la vita in manicomio, si tagliava i capelli da sola e sosteneva di non avere bisogno di niente e di nessuno.

I suoi libri stazionavano per settimane e settimane nella classifica dei bestsellers del New York Times e Rolling Stones l'aveva definita l'erede di Stephen King, il re dei libri dell'orrore. Zoe scriveva sotto pseudonimo, parlava con il suo editore solo tramite email e non incontrava mai i suoi lettori né leggeva mai le recensioni dei critici. I suoi racconti erano cupi, tormentati e strazianti. Parlavano di persone che intraprendevano una ricerca della pace, della verità, della conoscenza, destinata puntualmente a fallire, oppressi dal peso di una vita violenta, crudele, che non lasciava mai vincere l'essere umano con la sua fragilità intrinseca.

«È passato quasi un anno dall'ultima volta che sei scesa dal tuo cucuzzolo. Ti trovo pallida e sciupata come al solito quindi deduco che stai più che bene...», osservò nostra madre senza distogliere lo sguardo dal viso di quella figlia che amava con tutto il cuore ma che non era mai riuscita a comprendere.

Zoe abbozzò un sorrisetto ironico, «Esattamente. Dovrai iniziare a preoccuparti quando mi vedrai abbronzata e rubiconda».

Cioè mai. Molto probabilmente si sarebbe sposata con l'orribile amico dell'ancora più orribile cugino Philip piuttosto che prendere il sole su una spiaggia caraibica con temperature tropicali. E per il rubiconda era lo stesso; mia sorella faceva parte di quell'odiosissima categoria di persone che possono permettersi di mangiare di ogni e in gran quantità senza doversi preoccupare della bilancia e del girovita che lievitava.

Nostra madre scrutò con occhio critico l'abbigliamento di mia sorella ma oltre ad un lieve sospiro tacque e decise saggiamente di non commentare l'incommentabile. Optò piuttosto per una proposta agghiacciante: «Zoe tesoro, stasera c'è anche quel delizioso ragazzo, amico di tuo cugino Philip, quello che fa il reverendo in una parrocchia qui vicino...»

Lasciò quella frase carica di sottintesi incompleta ma sia io che Zoe capimmo benissimo che la tradizione consisteva in un ordine perentorio. Ma Grace Van Houten non si sarebbe mai sognata di dire Muovi il tuo bel culetto privo di grasso e cellulite e vai a sposarti quel reverendo!, perciò si limitava a consigliarlo in modo molto elegante e cordiale.

Capivo gli sforzi di mamma ma Zoe sposata ad un uomo di chiesa era la barzelletta dell'anno. Quest'ultimo si sarebbe ritrovata a cercare di estirpare il suo lato malvagio due minuti dopo le nozze, nell'esatto momento in cui Zoe gli avrebbe rivelato che era una seguace della Wicca, non era pura ed illibata da ormai molto anni e che voleva il divorzio in tre, due, uno...

Mia sorella esclamò con nonchalance, «Oh, c'è un angolo bar e io non l'ho ancora visitato...», prima di dirigersi proprio lì lasciando a me l'ingrato compito di sorbirmi le lamentele di Madre,  indignata e furiosa.

Allungò una mano e mi sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Felicity tesoro, tu sei sicura di non volere il reverendo?»

La guardai storto e mi sottrassi al suo tocco ridecchiando incredula. «Da quando sei diventata così pia e devota da sognare un genero sacerdote?», la interrogai ironicamente, «Tu in chiesa ci andavi solo per ammirare le vetrate di Chagall o gli stucchi barocchi».

Lei mi dedicò una smorfietta offesa e fece quello che le usciva meglio quando era spalle al muro ma non voleva ragionare e ammettere di essere in torto: fece un gesto incurante con la mano ingioiellata e con voce zuccherina mi disse, «Non dire sciocchezze, cara».

Finiva sempre così. Mamma che faceva la fiancata all'auto di papà e poi, alle urla di lui, rispondeva: «Non dire sciocchezze, Monty». E quando lui la portava a vedere la vernice metallizzata completamente rovinata sulle portiere dal lato del passeggero lei sarebbe stata capace di sostenere che era stato il muro a scontrarsi con lei e non il contrario pur di non ammettere il suo misfatto.

D'altra parte mamma adorava dare l'idea di essere una donna di classe, sempre imperturbabile e sempre nel giusto. E una donna di classe non può confessare di essere un'autista terribile e che l'ultima volta che aveva partecipato ad una funzione religiosa era per il battesimo della minore delle sue figlie.

No, Grace Van Houten era la regina dell'élite di Tampa. Organizzava cene di beneficenza, salotti letterari in cui discutere di Renoir e Dumas, raccolte di vecchi vestiti e accessori per i meno fortunati ed era la presidente della locale associazione per la lotta al alcolismo e alla dipendenza da droghe. Avvolta in completi dalle raffinate tinte pastello, scarpe abbinate, sorriso cordiale sulle labbra si dava da fare senza sosta e la sua immagine di donna generosa, irreprensibile risplendeva sempre più.

Ma le sue amiche del circolo del bridge non sapevano che mamma aveva difficoltà ad uscire dal garage di casa senza scontrarsi con qualcosa, che quando le succedeva di inciampare in uno spigolo o scottarsi con una padella rovente imprecava così forte da poter essere scambiata per una ragazzaccia di strada cresciuta nei sobborghi di una metropoli, che odiava il contatto fisico con gli estranei, ossessionata dall’igiene com’era, e per lei stringere la mano ad uno sconosciuto equivaleva poi a cinque docce decontaminanti e due check-up completi dal suo medico di fiducia.

Ogni volta che conosceva qualche persona nuova o veniva presentata a Tizio e Caio lei sorrideva, porgeva la sua mano ben curata e ricambiava vigorosamente la stretta in modo cordiale ma dentro di lei l’immagine dei mille piccoli germi che ballando si trasferivano dall’epidermide dell’uomo di fronte a lei alla sua la tormentava senza sosta.

Io lo sapevo perché ero cresciuta con lei e i suoi folli incartamenti di cellophane in ogni stanza di albergo in cui avevamo soggiornato. Insisteva sempre per portare le sue lenzuola, lenzuola che poi puntualmente donava alla casa per ragazze madri di Tampa, perché essendo venute a contatto con un materasso non suo e soprattutto non sterilizzato lei non ci avrebbe mai più dormito sonni tranquilli tra di esse.

«Ha delle mani incredibilmente pulite», osservò cercando quel pover’uomo tra la folla.

Mia madre non metteva al primo posto tra le caratteristiche dell’uomo perfetto il conto in banca, l’impiego, l’aspetto e il carattere. No, lei guardava se le sue unghie fossero accuratamente limate, se il colletto della camicia fosse di un bianco più candido della neve e se profumava. Sì, Madre annusava le persone. Dopo anni di matrimonio ci confessò che all’inizio era incerta se accettare di uscire con mio padre ma poi lo aveva annusato e da lì erano successe molte cose…tra cui Zoe e la sottoscritta.

La fissai allucinata, «Tu deduci che sia un buon partito dalla pulizia delle sue mani? Che razza di gente frequenti di solito?»

Lei aprì la bocca per zittirmi con la sua solita frase ma io la anticipai. «Mamma, hai una macchia sull’orlo della manica…»

E mentre i suoi occhi si riempivano d’orrore e partivano alla ricerca di quella macchia impertinente che aveva osato manifestarsi sulla seta lucida e costosa del suo abito da cocktail, io ne approfittai per svignarmela nel minor tempo possibile.

Non andai lontano perché una mano afferrò con gentilezza il mio braccio nudo. Voltai il capo e incontrai un paio di occhi nocciola che mi fissavano curiosi e leggermente titubanti.

«Lei è Ms. Felicity Van Houten?», chiese con voce incerta.

Destino crudele, vuoi rivelarmi quale peccato così grave ho commesso da meritarmi tutta questa tua cattiveria?

Il colletto tipico dell’abbigliamento ecclesiastico non lasciava spazio a dubbi.

Mi feci di lato, sfuggendo gentilmente alla presa della sua mano.

Sarà pur stata molto pulita ma avevo colto l’occhiata non molto felice che Theo mi stava rivolgendo dall’altro lato della sala. Mi domandai per la seconda volta se non fosse davvero gelosia quella che lo stava spingendo a scusarsi con il suo interlocutore per attraversare la stanza nella mia direzione. Oh, oh!

Mi voltai rapidamente per negare in fretta e furia qualsiasi mio legame di parentela con Ms. Felicity Van Houten e svignarmela a gambe levate, stranamente preoccupata per il cipiglio più severo del solito che turbava il viso normalmente impassibile di quel nuovo Theo in avvicinamento.

«Mi dispiace, deve aver sbagliat-»

«Felicity, c’è qualche problema qui?».

Perché? Perché sempre a me?

Theo mi passò un braccio attorno alle spalle e rivolse un’occhiata sul minaccioso andante al povero prete. Quel duello di sguardi, la cui causa scatenante sfuggiva alla mia comprensione, durò per una decina di secondi e giunse al capolinea quando l’amico del cugino Philip dichiarò di avermi scambiata per un’altra persona e si congedò rapidamente.

«Ti sembra il modo di trattare un innocente sacerdote dalle mani pulite?!», apostrofai infastidita dal suo comportamento Theo.

Lui per tutta risposta rafforzò la stretta sulle mie spalle scoperte e mi zittì con un perentorio: «Ora stai con me».

Il resto della serata fu un calvario. Theo sembrava essersi eletto a mio fido cane da guardia, Zoe si scolò tre bicchieri di whisky prima di eclissarsi senza salutare nessuno con grande disappunto di Madre, la quale splendente in un nuovo abito lindo lindo color acquamarina si affrettò a raccontare a tutti gli ospiti delle terribili emicranie di cui soffriva la sua primogenita e del suo dispiacere nell’essere costretta ad abbandonare così improvvisamente il party.

Gli unici che parevano godersi la festa erano mio padre, alticcio e in vena di baldorie in compagnia dei suoi vecchi compagni di malefatte del college, e Mr. Liam Carter Wright.

Sì, perché quella faccia di bronzo aveva l’ardire di bisbigliare all’orecchio della attempata signora di rosso vestita, una mano sfacciatamente posata sul suo ginocchio, decisamente troppo in alto per essere classificata come carezza amichevole e priva di secondi fini, e risate a non finire scaturite da lui che la imboccava con le olive presenti nei loro Martini.

Non avevo nessuna ragione per essere indispettita da quella scenetta. Tra me e Mr. Mangia-Le-Mie-Olive non c’era stato nulla e mai ci sarebbe stato. Io ero fidanzata. Theo era un uomo solido, di sani principi, grande lavoratore e molto attento all’igiene (sì, mamma, le tare sono spesso ereditarie, grazie). Il Signor Allungo-Ancora-Un-Po’-La-Mano-E-Arrivo-All’-Ombelico invece era un uomo dal carattere insopportabile, prepotente, borioso e con la brutta abitudine di allungare le mani sulle cosce delle signore a quanto pareva.

Quella serata sembrava non finire mai, come se una strega cattiva avesse fermato il tempo, cristallizzando le stelle in cielo, inchiodando la luna alla sua cupola fatta di oscurità, e mentre tutto fuori giaceva sotto l’effetto dell’incantesimo noi eravamo destinati a sopportare l’eterno tormento di questa festa senza fine.

L’orologio a pendolo che svettava nell’angolo più a ovest del salone grande mi informò che era ancora troppo presto per levare le ancore, gettare quelle stupide scarpe torturatrici nell’armadio, sciacquarmi il viso, infilarmi una vecchia t-shirt e cedere al sonno.

«…abbiamo un campo da hockey, uno da squash, dei corsi di scrittura creativa. L’offerta formativa prevede anche…». Theo stava facendo pubblicità al campus universitario in cui insegnava stordendo di chiacchiere una povera coppia che aveva fatto l’errore di confessare di avere un figlio in piena crisi pre diploma.

Io avrei voluto esclamare E chi non lo è stato?, ma Theo era partito con una filippica su ‘questi ragazzi di oggi che non sanno cosa vogliono dalla vita e si accontentano della via più facile’. Lui sosteneva di essere nato con la vocazione all’insegnamento ma io sapevo benissimo che era stato costretto a diventare docente per potersi permettere di pagare l’affitto e di acquistare quei brutti pantaloni a costine che erano must have del suo guardaroba.

Aveva sognato in grande, come tutti: laurea, dottorato in Europa, anni di esplorazione e ricerca.

Gli era andata bene tutto sommato. Aveva la sua cattedra di botanica, aveva una serra e un piccolo laboratorio malmesso a sua disposizione e aveva la passione necessaria per riuscire.

Ma non riuscivo a concentrarmi sulle parole del mio fidanzato; i miei occhi erano come calamitati dalla quella maledetta mano posata proprio dove lo spacco dell’abito scarlatto si apriva e la pelle chiara della coscia faceva capolino.

Era un maleducato. Quale signore degno di questo nome si sarebbe mai permesso di toccare a quel modo una donna perbene appena conosciuta? In pubblico per di più!

Ricordati che tu gli hai quasi permesso di infilarti la lingua in bocca, non fare tanto la santarellina!

Oh taci, Coscienza, taci!

Si allungò, il naso tra i suoi capelli, le labbra a sussurrare e accarezzare il suo lobo adorno di un orecchino scintillante, una pressione maggiore di quella mano sulla coscia…e non ci vidi più.

Mi scostai da Theo e gli dissi che sarei andata a prendere qualcosa da bere e lui, così assorbito dalla conversazione, non si rese conto chi ci fosse sulla mia traiettoria e annuì.

Scivolai tra le coppie che ballavano, tra bicchieri tintinnanti e risate argentine fino a giungere con curata nonchalance alle spalle del Signorino Ho-Trenta-Anni-Suonati-Ma-Adoro-Fare-Il-Ragazzino-Arrapato e mettermi in posizione d’attacco.

Afferrai un bicchiere mezzo pieno abbandonato sul bancone e mi voltai di scatto facendo in modo di urtare, in modo assolutamente casuale e per nulla intenzionale, la spalla di Mr. Liam e rovesciare, per sbaglio ovviamente, quel liquido ambrato direttamente sul cavallo dei suoi bei pantaloni sartoriali.

Lui balzò in piedi scostandosi immediatamente dall’arpia. «Ma che-»

«Oh no! Mi dispiace, non l’avevo proprio vista! Sono così sbadata…», esclamai dando fondo al mio talento attoriale e fingendomi immensamente dispiaciuta.

Acciuffai un paio di tovagliolini dal ripiano lì accanto e mi chinai come se fossi intenzionata ad aiutarlo ad asciugarsi proprio per vedere come avrebbe reagito.

Mi bloccò il polso con una presa ferrea e voltandosi verso la sua compare si scusò e si diresse a passo deciso verso l’ingresso trascinandomi con sé.

Arrivati di fronte alla porta d’ingresso si arrestò bruscamente e si voltò verso di me, senza accennare a mollare il mio polso che stava iniziando a sentirsi indolenzito.

«Noi due dobbiamo fare una bella chiacchierata. Dov’è il bagno?»

Sollevai impertinente il mento, sfidandolo. «Noi due non dobbiamo fare proprio nulla. Al massimo sei tu quello che deve cambiarsi i pantaloni dato che si è sbrodolato proprio come un bamb-»

«Dove è il bagno?», mi sibilò in viso furioso.

Indicai con un cenno la scalinata che portava al piano superiore, dove stavano le nostre camere e i tre bagni privati. Meglio che Madre non captasse la marea di parole cattive che prevedevo in arrivo.

Approdati alla zona notte gli feci strada fino alle due porte in fondo al corridoio, facendogli segno di aprire quella di sinistra.

Una volta dentro chiuse a chiave e mi spinse contro la parete di fredde piastrelle a mosaico color celeste. Anche l’altro mio polso venne imprigionato dalla sua mano e mi ritrovai spalle al muro, braccia inchiodate al muro dalla sua presa ferrea.

«Mmh, tutto questo fa molto Cinquanta Sfumature di Grigio…», lo presi in giro rivolgendogli un sorriso beffardo.

«Ti piacerebbe. Ma sono che se ti sculacciassi ora non urleresti certo di piacere», mi rispose lui con voce fintamente dolce.

Le sue iridi erano quasi fosforescenti e i capelli, prima perfettamente impomatati, apparivano ora alquanto scarmigliati. L’idea che fosse stata quella sottospecie di nonna dagli ormoni impazziti a spettinarlo e a passare più e più volte le dita tra quella chioma così lucida e invitante mi fece vedere rosso. E mi arrabbiai ancora di più di fronte alla mi incapacità di restare impassibile e impermeabile a quella gelosia scadente e patetica che scorreva nelle mie vene e mi faceva desiderare in modo del tutto inopportuno quell’uomo di fronte a me.

«Sono terrorizzata. Perché non facciamo una prova?», lo sfidai nonostante mi trovassi senza dubbio in una posizione svantaggiata.

«Magari un’altra volta. La mia stanza delle torture dista centinaia di kilometri da qui e tu meriti di essere punita immediatamente». La stretta sui polsi si allentò ma solo per permettergli di sollevarmi le braccia per poi inchiodarle nuovamente sopra alla mia testa. Il contatto delle mie spalle nude ora spalmate sulla fredda ceramica mi fece rabbrividire, così come il suo viso ancora più vicino e minaccioso.

«Per aver interrotto il tuo civettare con quella che avrebbe potuto essere la tua bisnonna?»

«Per il tentativo di evitare che mi portassi a letto una donna che non fossi tu. E ancora di più per la tua incapacità di ammetterlo. Il caro Theodore ne è al corrente?»

Nel sentir nominare il nome del mio fidanzato mi riscossi e cercai di liberarmi con uno strattone ma il mio tentativo fallì miseramente.

«Perché mai dovrei parlargli delle sciocche fantasie di un mio cliente?», lo interrogai, la voce carica di cattiveria.

Improvvisamente lasciò andare i miei polsi e le mie braccia ricaddero sui miei fianchi, ma non feci in tempo a realizzare di essere stata liberata che mi ritrovai schiacciata tra la parete e il petto di Mr. Liam, che aderiva sfacciatamente al mio.

Chinò il capo e mi soffiò piano sul collo. Io ero immobile e mi stavo sforzando di non mostrarmi minimamente coinvolta. Non mi sarei mai potuta perdonare se avessi ceduto due volte nella stessa sera. Soprattutto ora, cosciente della presenza di Theo al piano di sotto.

«Forse perché non sono così sciocche o forse perché so riconoscere chi mente…», sussurrò, il suo fiato che fece danzare leggera la ciocca di capelli sfuggita alla mia acconciatura ormai quasi sciolta. «O forse perché hai il respiro affannoso e posso sentire il tuo battito cardiaco senza bisogno di toccarti…». Due dita calde premettero sulla mia gola, proprio all’altezza della mia carotide.

Quello era troppo. Se non ero in grado di controllare il mio corpo l’unica soluzione possibile rimaneva quella: la fuga.

Accadde tutto in un istante. Scostai poco aggraziatamente la gonna del mio abito e sollevai all’improvviso il ginocchio, cercando di colpire il più forte possibile. Capii di aver centrato il bersaglio quando la pressione sul mio petto svanì e Mr. Liam si piegò in due da dolore di fronte ai miei occhi.

Mi staccai rapida dalle piastrelle fredde avanzai verso di lui. Mi fermai accanto a lui e gli sussurrai suadente, «Mi pare che anche lei abbia il respiro un po’ affannoso e il battito accelerato, Mr. Liam!». E con un sorriso trionfante mi detti alla fuga prima che avesse il tempo di riprendersi.

 

***

 

Zoe si era installata con armi e bagagli nella mia soffitta da ormai ben due settimane e la primavera era quasi pronta a cedere il passo ad un’estate che si preannunciava rovente sotto tutti i punti di vista.

Fido cappello di paglia calato in testa, vecchi jeans tagliati al ginocchio e t-shirt scolorite avevo lavorato sodo per quei quindici giorni nel giardino della casa dei Carter Wright. Io e Donovan eravamo riusciti ad estirpare tutte le erbacce e, dopo lunghe ed estenuanti lotte, avevamo avuto la meglio su un infido ceppo infestante della stessa  famiglia della tradizionale edera rampicante, che pareva crescere come per magia di notte solo per farci dispetto. Avevamo deciso di non toccare nessuno degli alberi presenti con l’unica eccezione di un meraviglioso faggio, che purtroppo era malato e destinato a spegnersi piano. Quasi piansi mentre Donnie tagliava uno a uno quegli splendidi rami, una volta così folti e maestosi. Il frutteto sul retro era stato danneggiato dalla trascuratezza ma sia io che Judith Carter Wright eravamo d’accordo sul fatto di cercare di salvarlo e di potenziarlo.

Ecco, a proposito di Judith; dallo sciagurato giorno della festa di compleanno di papà non ero più fortunatamente incappata nel maggiore dei fratelli Carter Wright ma ero stata prontamente incappata nella sua sorellina, esserino davvero energico ed entusiasta. Lavorando a Cambridge cercava di dividersi equamente tra i suoi calcoli astrusi al M.I.T. e la rinascita del giardino della casa che era stata di suo nonno e alla quale sembrava senza dubbio più legata rispetto a suo fratello. Judy era senza dubbio un genio dell’informatica ma era di poco aiuto nei nostri lavori; trovava tutto bellissimo, straordinario, sensazionale e io e Donnie non eravamo ancora riusciti ad estorcerle un commento negativo o una critica sul nostro operato.

Zoe non aveva voluto sentire ragioni e aveva ignorato di proposito la camera per gli ospiti che le avevo preparato, dirigendosi tranquilla verso quella soffitta polverosa e dal basso soffitto che usavo come ripostiglio per ogni tipo di cianfrusaglia. Dormiva sul vecchio divano in velluto bordeaux che era appartenuto al proprietario precedente, usava un’usurata scarpiera rovesciata come scrivania ed era andata in città per procurarsi una prolunga di svariati metri di lunghezza in modo da attaccare la spina nella camera da lei snobbata e portarsi il portatile nel suo nascondiglio.

Odiava il sole e il bel tempo e negli ultimi quindici giorni non si era visto altro, perciò lei si era rintanata sul suo cucuzzolo e quando tornavo a casa per una doccia o uno spuntino sentivo un costante battere di tasti e una martellante musica heavy metal. Una volta avevo osato spingermi fino alla sua tana ma ero fuggita a gambe levate in seguito alle sue urla isteriche e i suoi discorsi strillati sulla solitudine necessaria a scrivere di un bell’assassinio sanguinolento.

Il povero gatto Felix che si era portata appresso quando era arrivato aveva l’aria più infelice di questo mondo ma ora, dopo settimane in mia compagnia, appariva come rinato. Non mi era difficile immaginare gli stenti a cui poteva essere stato sottoposto sotto le ‘cure’ di mia sorella. Si dimenticava di nutrire sé stessa figurarsi di sfamare un’altra creatura. E poi Zoe, per quanto amante dell’orrido, era terribilmente schizzinosa e non ce la vedevo proprio a pulire quotidianamente la vaschetta di Felix e a cambiare la sabbietta.

Le speranze di Donovan di amoreggiare con mia sorella naufragarono miseramente la prima volta che si incontrarono, il che accadde due giorni fa, cioè ben quattordici giorni dopo l’arrivo di Zoe qui a Plymouth. Essendo entrambi soli io e il mio braccio destro avevamo l’abitudine di cenare insieme tre volte a settimana, quando stanchi e impolverati staccavamo dal lavoro. Ci facevamo entrambi una doccia per toglierci sudore e terra dalla pelle e ci gettavamo famelici sul cibo. Zoe non scendeva mai per cena e non ci tenevo assolutamente a ricevere un piatto in testa perciò mi limitavo ad aspettare che fosse lei stessa a decidere di scendere per mangiare, il che solitamente succedeva verso le due di notte.

Donnie insisteva con questa storia di volerla conoscere o almeno vedere una volta ma io sapevo benissimo che con mia sorella funzionava il proverbio non svegliare il can che dorme, nel suo caso scrive. L’altro ieri eravamo in veranda e ci stavamo dividendo un barattolo di gelato al caramello quando un’ombra comparve alle mie spalle.

«Flick, hai visto quello stupido gatto?»

Mi voltai scioccata e lanciai un’occhiata all’orologio. Erano le otto di sera, il cielo non era ancora buio. Da quando i vampiri escono con la luce?

Ovviamente il mio compare di merende si voltò a sua volta, era un’occasione troppo ghiotta per non essere colta al volo. Vedere la famigerata sorella di Felicity doveva essere un cruccio che non gli permetteva di dormire la notte.

Abituata alla trasandatezza di mia sorella per me non era certo una novità vederla in quelle condizioni ma Donovan rimase scioccato. Giusto stamattina mi stava dicendo di aver fatto un incubo che aveva come protagoniste quelle terribili calze antiscivolo gialle e arancio con decorazioni di teste decapitate che indossava quella sera Zoe.

Oltre alle calze alla moda, probabile regalo di un lettore zelante e psicotico, il look consisteva in un paio di scoloritissimi pantaloni alla zuava color vomito, dagli elastici smollati e gli orli sfilacciati, una t-shirt, macchiata di quella che pareva senape, che recitava Sono uno psicopatico e quando tu avrai finito di leggere tutto ciò sarai già morto, gli occhi arrossati dalle troppe ore passate di fronte allo schermo del computer, profonde occhiaie violacee, un brufoletto sulla punta del naso e per concludere i capelli più sudici dell’intero mondo, secondi forse solo a quelli di Severus Piton.

Effettivamente era da un tre, quattro giorni che non trovavo mutande e calzini troppo neri e troppo usurati persino per me per poter essere miei sparsi per il bagno al piano di sopra.

«Chi sei?», aveva domandato Zoe, per nulla turbata dall’idea che uno sconosciuto, per giunta uomo, potesse vederla in quella che non era certo la sua forma più smagliante.

Donnie impiegò un attimo a riprendersi da quella visione non proprio celestiale, «Donovan. Lavoro con Flick…».

Lei aveva annuito e poi era sparita nuovamente nella casa in penombra.

Il mio amico era leggermente deluso, probabilmente si aspettava una fascinosa donna tutta curve e charme, anche se guardando me avrebbe potuto arrivarci già da sé che nelle donne Van Houten le curve scarseggiavano.

Sia io che Zoe eravamo più spigoli e angoli che morbide curve burrose e seducenti. Eravamo sempre state secche e i reggiseni imbottiti erano fin dall’inizio dei tempi i nostri migliori alleati.

Donovan non aveva più accennato a quell’episodio fino a un paio di ore prima, quella mattina il sole non si decideva ad uscire dalle spumose nuvole azzurrognole che punteggiavano il cielo e gli uccellini parevano più silenziosi del solito. Avevamo finito l’aiuola che decorreva sul lato ovest della casa e avevamo concimato tutto il giardino in attesa di seminare.

Ora il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata.

Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse, le viole sono blu, Liam Carter Wright è una testa di cactus e presto lo scoprirai anche tu!»

Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.

«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»

Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright. Aveva il sole esattamente alle spalle e tutta quella luce pareva incorniciarlo, rendendolo ancora più imponente e terribilmente affascinante di quanto già non fosse normalmente.

Il caldo doveva aver fatto breccia persino su di lui e i suoi completi impeccabili dato che quella sera era senza cravatta e giacca. I pantaloni erano sempre impeccabili così come la camicia di una delicata fantasia a quadrettini di un tenue azzurro.

Stizzita constatai nel mio intimo che quella mascella severa sempre contratta in un broncio e le sopracciglia perennemente aggrottate di quell’uomo mi erano mancate. Così come il suo sarcasmo pungente, le rughette a lato degli occhi così profondi da farmi sentire sempre sotto esame o la sua brutta abitudine di cogliermi sempre impreparata.

«Lo so. Quando ero alle elementari un mio componimento in rima vinse il primo premio», gli risposi tornando ad annaffiare il mio rododendro.

Non contento di non avere la mia completa attenzione, mi girò attorno fino a trovarsi proprio di fronte a me. Ora gli ultimi raggi  del sole splendevano proprio sul suo volto e si tuffavano nel severo grigio dei suoi occhi rendendolo più caldo.

«Non mi hai più chiamato», asserì neutro, tornando a darmi del tu e non mostrando la minima emozione.

Lo facevo già con Theodore e mi ero ripromessa di non farlo più con nessun’altro. Ero stanca di essere sempre quella destinata a rincorrere le persone, sempre quella che scriveva o chiamava per prima, sempre quella che si ricordava di compleanni, anniversari, ricorrenze, sempre quella presente, attiva, coinvolta. Ero stanca di essere parte di relazioni a senso unico.

«Neanche tu lo hai fatto», ribattei decisa a non mostrarmi debole e a non cedere per prima.

Lui per un attimo parve a disagio ma subito si ricompose, «Però hai chiamato Judy».

Annuii. «Sì, mi piace Judith», dissi semplicemente chinandomi a posare l’annaffiatoio vuoto e a tastare la terra del vaso con le dita.

Sentii scricchiolare la ghiaia e quando alzai gli occhi incontrai il suo sguardo, tra le foglie del rododendro e i suoi boccioli.

«E io non ti piaccio?»

Rimasi ferma in quella posizione a fissarlo per un attimo che parve infinito prima di rialzarmi e sancire la fine definitiva di quel giochetto destinato a non portarci da nessuna parte. O perlomeno non destinato a portarci dove avrei voluto io.

«Non mi devi piacere, Mr. Liam. Sei stato proprio tu, durante il nostro primo incontro, a specificare che avresti preferito mantenere le distanze. Smettiamola con questi giri di parole e limitiamoci alle questioni professionali», risposi freddamente.

Lui non si scompose, si rimise in piedi a sua volta passandosi le mani sui calzoni immacolati e mi rivolse uno sguardo risoluto. «Bene. Quell’aiuola che hai fatto…bè non mi piace. Non la voglio».

Cosa?!

Mi avvicinai di un passo e gli puntai un dito  contro il petto, la rabbia che iniziava a ribollire e a offuscare la mia mente. «Ho lavorato sodo per completare quell’aiuola. Mi sono punta decine di volte per piantare quelle rose. Ho passato ore e ore inginocchiata sotto il sole. Ho fatto un buon lavoro, so che è così. Judith la adora e io ne sono soddisfatta. Quindi mettiamo per un attimo in pausa il proposito appena espresso e permettimi di dirti una cosa…»

Lui alzò gli occhi al cielo ed esclamò, «Sentiamo…»

«Vaffanculo Liam Carter Wright», sibilai a denti stretti, prima di voltarmi e incamminarmi a grandi passi verso la veranda di casa mia.

Ovviamente non poteva permettersi che ad avere l’ultima parola fossi io e decise di rovinare la mia grandiosa uscita di scena rincorrendomi e afferrandomi un polso. Doveva decisamente piacergli fare il prepotente.

«Sei così infantile»

«Disse il bambino capriccioso…», gli risposi per le rime.

«Ehi! Lascia andare Flick!». Una voce familiare giunse da dietro le mie spalle e Mr. Carter Wright si affrettò a lasciarmi andare.

Donovan ci raggiunse in fretta, i guanti da lavoro ancora infilati, e mi cinse le spalle con fare protettivo. «Che sta succedendo qui?», domandò fissando di traverso l’uomo di fronte a lui.

Un trambusto improvviso interruppe qualsiasi tentativo di giustificazione da parte di Liam. «Flick, sei pronta?», strillò una voce impaziente.

Un ticchettio di tacchi sul legno del pavimento della veranda ci annunciò l’identità della nuova arrivata. «Cosa state combinando? Siamo già in ritardo!»

Mi voltai, liberandomi dall’abbraccio di Donnie, e rimasi a bocca aperta di fronte ad una Zoe sfavillante e completamente restaurata.

I capelli neri acconciati in un morbido chignon splendevano, il viso era leggermente truccato, le palpebre colorate con un tenue ombretto color vinaccia, tinta che richiamava la sfumatura del corto abito dalla gonna in pelle e il corpetto in maglia con inserti di pizzo. Smanicato, un profondo scollo sul davanti e l’orlo sopra al ginocchio. Rock e raffinato allo stesso tempo.

«Ch-chi sei tu?», domandò senza parole Donovan, la bocca aperta dallo stupore.

«Quella delle calze con ricamate la testa decapitata di Maria Antonietta, Anna Bolena & Friends. Ora mi volete spiegare perché non siete pronti? Venite tutti quanti?», esclamò scocciata lanciando un’occhiata al piccolo orologio che portava appeso al collo con una sottile catenella.

«Zoe, si può sapere di cosa stai parlando?», la interrogai facendomi portavoce anche di Donovan, ancora sotto shock, e di Liam, leggermente confuso dall’apparizione di quella che per lui era una sconosciuta.

Lei sbuffò, «Te l’ho detto un paio di mesi fa. I miei lettori hanno organizzato un super party a tema gotico ispirato al mio ultimo romanzo dato che avevo comunicato che sarei stata nei pressi di Boston in questo periodo. Mi scrivono sempre che sono irraggiungibile, dispersa lassù nel Montana, e così ne approfitto per incontrare alcuni di loro durante questo mio breve ritorno alla civiltà. Che ne dite di venire tutti? Sì, anche tu sconosciuto dai pantaloni così ben stirati da apparire inquietanti. Dicono sempre che sono un lupo solitario senza amici, perciò voi verrete e smentirete quelle voci infondate!».

Nessuno di noi si mosse, intenti com’eravamo ad assimilare il senso di quel suo discorso.

Lei batté le mani sempre più spazientita, «Susu! Che state aspettando? Cambiatevi e partiamo. Parlo di Flick e del suo amico insudiciato di terra. Tu sei già perfetto direi», osservò rivolta a Carter Wright, il quale la omaggiò di un sorriso bellissimo, un sorriso che a me non aveva mai rivolto.

Venti minuti più tardi eravamo tutti pigiati sull’Audi di Liam, tanto bella quanto piccola e scomoda per quattro persone. Mi ero infilata al volo un vestitino dalle stampe geometriche e un paio di anfibi un po’ consunti ma comodi.

Zoe e Mr. Liam avevano fatto subito amicizia, dopo solo due minuti di conoscenza mia sorella si era già rivolta a lui una decina di volte dandogli della checca isterica quando si era rifiutato, preoccupato per la sorte della sua piccolina, di farle guidare la sua preziosa auto.

Avevamo imboccato a tutto gas la superstrada diretti verso le luci di Boston, quando Zoe si girò ed esclamò, «State tranquilli! Sembrate così tesi…Ci divertiremo, vedrete. Solitamente durante serate come queste il clima è abbastanza calmo e disteso e la polizia interviene al massimo un paio di volte e chiamiamo il 911 solo cinque volte e solitamente per cose meno gravi, tipo amputazioni o perdita di bulbi oculari…»

A che razza di festa ci stava portando quella sciroccata?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Funghetti allucinogeni ***


 

Liam

 

Trovare parcheggio fu più complicato del previsto: c'erano auto posteggiate in doppia fila per tutta la lunghezza del viale, macchine sui marciapiedi e nelle aiuole dalla rada erba secca. L'amico di Felicity, Donovan, proponeva di prendere esempio e mollare l'auto di traverso, per metà davanti all'uscita di un cancello su cui capeggiava il simbolo di passo carrabile. La sorella pazza invece voleva essere lasciata davanti all'entrata del locale mentre io mi improvvisavo posteggiatore. Felicity, stranamente, taceva.

Una grossa P lampeggiante fece capolino di fronte a me e indirizzai la vettura in quella direzione. Erano dieci minuti buoni che percorrevamo senza successo sempre lo stesso ampio vialone e l'unica cosa che ne avevamo ricavato era un mancato tamponamento con un tizio ubriaco alla guida che era uscito in retromarcia senza curarsi di controllare nello specchietto retrovisore che la strada fosse sgombra.

«Spero tu non abbia seriamente intenzione di lasciarla qui. Hai idea di quanto siano ladri i gestori dei garage sotterranei?»

Eccola!

Una familiare testa bionda fece capolino tra i sedili anteriori e mi squadrò storto.

«Offro io, se questo è il problema», liquidai la faccenda imboccando il tunnel in discesa che portava alla cassa del parcheggio coperto.

«Sempre a fare l'uomo generoso, vero? Non me ne frega assolutamente nulla dei tuoi soldi, dico solo che è una fregatura sborsare...quanto vuole per quattro o cinque ore?», domandò Felicity, mettendo in standby la sua invettiva per potersi rivolgere all'uomo in tuta da lavoro che ci era venuto incontro e ora ci fissava poco interessato attraverso il finestrino di fianco a me.

«Otto dollari la prima ora, dieci due ore, quindici tre ore e dalle quattro alle sette ore sono ventidue dollari», snocciolò con fare scocciato mentre masticava un chewing gum.

«VENTIDUE DOLLARI?!», un urlo da duecento decibel di potenza mi trapanò il timpano destro, vicino al quale stazionava il volto scioccato della mia cara giardiniera.

«Qual è il tuo problema Flick? Ha detto che paga Mr. Pantaloni Perfetti, approfittane e lascialo fare», intervenne Zoe, la voce calma dal tono quasi annoiato, prima di darle una spinta per rimetterla al suo posto nei meandri posteriori dell’autovettura.

Felicity ovviamente non aveva nessuna intenzione di dar retta al saggio consiglio della sua inquietante parente o di piegarsi ai suoi modi poco garbati ma, evidentemente in vena di litigi, ritornò a rivolgersi al parcheggiatore, il busto nuovamente reclinato in avanti per poter guardare dritto negli occhi il suo avversario.

«Lei deve essere matto! Chi è il proprietario qui? Ha mai sentito parlare della crisi economica che sta attraversando il paese? E delle famiglie costrette a fare la fila alla mensa dei poveri? E delle iscrizioni a picco al college lo scorso semestre? Vuole che le mostri le mie calze rattoppate? Lei, sapendo tutto ciò, dove trova il coraggio di chiederci ventidue dollari per un fazzoletto di cemento sudicio su cui lasciare l'auto per qualche ora?!»

Quello la fissò per qualche secondo continuando tranquillo a ruminare la sua gomma prima di risponderle imperturbabile. «È a bordo di un'Audi il cui valore supera il mio stipendio annuale di un bel po' di verdoni. Perciò mi risparmi la scenetta alla Giovanna D'Arco dei pezzenti e se non vuole pagare i ventidue dollari faccia retromarcia ed esca dal mio parcheggio».

«Pezzente sarà lei! Costretto com'è a fare le pulci alle persone oneste...», intervenne Zoe, balzata sull'attenti non appena si era accorta che sua sorella era stata sgarbata.

«Andatevene dal mio garage, cafoni che non siete altro!», strillò quello, le vene del collo in rilievo e i pugni stretti.

Compresi che la situazione stava per degenerare quando vidi Felicity ritornare nel vano posteriore e artigliare la maniglia della portiera. Premetti all'istante il pulsante che bloccava le portiere per impedirle di scendere e saltare alla giugulare dell'uomo.

«Non c'era alcun bisogno di essere scortese. Ce ne andiamo ora», gli dissi neutro, prima di sollevare il finestrino e chiuderlo fuori.

Feci inversione e tornai sulla strada buia. Ripercorsi per la centesima volta il viale e mi fermai di fronte all'entrata illuminata da luci al neon color giallo limone. Inserii le quattro frecce e mi voltai verso Zoe.

«D'accordo, scendete qui e, appena trovo un parcheggio, vi raggiungo...», proposi.

Quasi non riuscii a terminare la frase che la portiera del passeggero stava già sbattendo dopo aver fatto scendere l'ospite d'onore della festa.

Dai sedili posteriori sentii il suono metallico delle cinture di sicurezza che venivano slacciate. Una portiera si aprii e la testa corvina di Zoe fece capolino. «Amico di Flick, tu vieni con me. Se apprezzano i miei libri sono senza dubbio psicopatici questi tizi qui dentro...», ordinò indicando con un cenno del capo l'entrata illuminata a giorno del locale. «Sorella, tu accompagna Bill Gates qui. Non vorrei mai che si perdesse e venisse scippato da un ottantenne sulla bici elettrica», detto ciò artigliò la manica della giacca di Donovan e lo trascinò giù dall'auto, chiudendo con gran fracasso la portiera dietro di sé.

Rimisi in moto e tornai a percorrere la solita strada ormai nota. Sentii un trambusto e lanciai un'occhiata allo specchietto retrovisore. L'unica cosa che vidi furono le gambe e gli anfibi di Felicity.

«Tutto bene lì dietro?», mi informai cercando di capire cosa stesse combinando.

«Benissimo!», sentii esclamare da sotto il mio sedile.

Inchiodai, misi il freno a mano e mi voltai verso i sedili posteriori.

«Ahi! Vacci piano con quel freno!», sentii borbottare.

Mi slacciai la cintura e scesi dall'auto. Spalancai la portiera dal lato di Felicity e ciò che si palesò davanti agli occhi mi lasciò per un attimo interdetto.

Felicity, grazie a doti contorsionistiche a me ignote, era riuscita ad infilare braccio e spalla sinistro e metà testa sotto al sedile del guidatore, il busto piegato e spalmato sul tappetino dell'auto, il bacino inclinato e appoggiato ai cuscini dei sedili e le gambe posate a fare leva sullo schienale della seduta.

Indossando un vestitino su un pianeta dove regnava regina la forza di gravità per un principio fisico la gonna del suo abito era scivolata verso il basso, arrestandosi all'altezza della vita e lasciandola completamente esposta.

«Si può sapere cosa stai cercando con così tanto impegno da denudarti addirittura?», chiesi divertito.

Per tutta lei scalciò a vuoto e fece per abbandonare in tutta fretta la sua postazione mentre l'unica mano libera correva a coprire il suo didietro, celato solo da un leggero strato di cotone nero.

Non sapendo bene come poter essere d'aiuto mi limitavo a starmene appoggiato alla portiera e a guardare il suo tentativo di liberazione.

Onestamente avrei preferito con tutto il cuore avere qualcosa che mi tenesse impegnato invece di starmene con le mani in mano a vedere quel delizioso sederino sventolarmi davanti agli occhi.

Il gentiluomo che era in me aveva perso miseramente dopo un secondo la battaglia contro la parte più istintiva e primordiale e ora, mentre mentalmente mi davo del guardone pervertito, non riuscivo a fare a meno di osservare con attenzione quel corpo illuminato dalla luce sfarfallante di un lampione dei sobborghi di Boston.

«Smettila di fissarmi il culo!», strillò stridula dagli abissi inesplorati in cui aveva cacciato la testa.

Ridacchiai, colto in flagrante. «Come sei triviale…», osservai ghignando e approfittando della situazione per non distogliere di un millimetro la mia attenzione dal suo didietro.

Scalciò a vuoto, o meglio, scalciò nella mia direzione sperando di colpirmi con il carro armato di gomma del suo anfibio sinistro dritto sul naso ma l’unico risultato ottenuto fu che il vestito a causa di quel movimento scoordinato e maldestro scivolò ancora più giù.

«Mancat…maledizione Felicity ma lo fai apposta! Perché mai non hai indosso un reggiseno?», domandai esasperato di fronte alla sua schiena completamente nuda.

Sarei impazzito. Sì, ormai era ufficiale.

La sentii mugugnare e poi imprecare in un modo che non mi sarei aspettato neanche da un corsaro cresciuto tra mozzi e scaricatori di porto. Agitò ancora per un po’ le gambe per aria mentre io iniziavo a sentirmi stupido a star lì impalato a guardarla mentre lottava per liberarsi da quella posizione assurda in cui era riuscita a cacciarsi.

Sollevai leggermente i pantaloni prima di accovacciarmi a lato della macchina e protendermi verso l’interno dell’abitacolo. Cercando di muovermi lentamente, dato lo spazio ristretto e il corpo di Felicity che sembrava essere spalmato dovunque, infilai le mani sotto il sedile e tastai la parte superiore alla ricerca dell’appiglio a cui i suoi capelli avevano deciso di aggrapparsi. Delicatamente sciolsi il nodo aggrovigliato e ritirai le mani.

«Prova con calma ad uscire da lì sotto…»

Ci riuscì e la prima cosa che fece non appena riemerse, i capelli stravolti e il viso arrossato, fu esclamare entusiasticamente «Trovato!» e sollevare trionfante il pugno stretto attorno ad un biscotto con gocce di cioccolato verso il cielo.

La seconda fu assestarmi un potente scappellotto accompagnato da vari epiteti molto lusinghieri nei miei confronti.

Ma la cosa che mi aveva lasciato interdetto e senza parole non era stato lo schiaffo – dovevo ammettere di essermelo meritato – ma il fatto che eravamo finiti in quella situazione surreale per un biscotto perduto.

«Un biscotto? Seriamente Van Houten?», chiesi esasperato di fronte all’ennesima manifestazione dell’incongruenza di quella donna.

Lei, si sistemò il vestito ma non accennò a cambiare posizione, restando inginocchiata sul tappetino ai piedi del sedile così da trovarsi alla mia stessa altezza, e mi rivolse un’occhiata perplessa: «Cosa stavo cercando secondo te?»

Sollevai le spalle e lasciai ricadere sbuffando piano. «Un orecchino di diamanti?», proposi.

Lei di nuovo mi sorprese. Gettò il capo all’indietro, una cascata d’oro seguì il suo movimento, e si lasciò andare ad una risata vera. Una di quelle piene, autentiche, genuine.

Non capivo davvero cosa avessi detto di così esilarante.

«Secondo te avrei fatto tutto ciò per un orecchino di diamanti?! E poi, Tontolino, io non possiedo proprio nessun diamante!», esclamò sorridendo felice e lasciandomi quello che secondo lei doveva essere un buffetto giocoso sulla guancia. Per essere un buffetto era stato piuttosto doloroso, più o meno come quelli che i parenti anziani propinano in gran quantità a chiunque sia più giovane di loro ai pranzi di famiglia.

Mi risollevai in piedi, le gambe leggermente indolenzite. «No, scusa, hai ragione tu. Invece fare tutto questo circo per un biscotto mi sembra assolutamente ragionevole», osservai sarcastico aprendo la portiera dell’autista e sedendomi al volante.

Lei borbottò qualcosa che pareva lui e le sue priorità di merda e, dopodiché, si capottò letteralmente in avanti per raggiungere il sedile anteriore senza dover fare il giro da fuori.

«Esibizionista: ho visto di nuovo il tuo sedere», le feci notare mentre mettevo in moto per abbandonare il ciglio della strada su cui avevamo sostato per tutto quel tempo.

Vidi con la coda dell’occhio la sua mano muoversi con una traiettoria diretta verso la mia nuca e riuscii ad anticiparla bloccandole il polso. «Stai diventando prevedibile», le feci notare e in quel momento lei schiaffò l’altra mano armata di biscotto contro il candido cotone della mia camicia e ce lo strofinò per bene. Il cioccolato mezzo sciolto aderì subito lasciando dei meravigliosi ghirigori appiccicaticci sul tessuto.

«Stavi dicendo?»

Afferrai con entrambe le mani il volante e lo strinsi con tutta la forza che avevo. Trattare con quella donna era impossibile. Mi faceva letteralmente uscire dalla grazia di Dio. I sentimenti che provavo in sua presenza erano come amplificati. Rabbia, fastidio, esasperazione: se provocate da lei erano molto più potenti e totalizzanti. Mi faceva perdere il controllo. E io dovevo sempre avere tutto sotto controllo. Dovevo.

Perciò, mentre aspettavo che la rabbia sbollisse, rimasi aggrappato al volante come un ragazzino alla prima lezione di guida. La cosa che mi rendeva ancora più stizzito era che tutta la mia ira derivava dal fatto che mi aveva fregato e ancora una volta era stata più furba di me e non dalla camicia Paul Smith da quattrocento dollari appena andata a puttane.

«Dai, non farne una tragedia! Per farmi perdonare te la lavo io, ok? Due orette in lavatrice e sarà come nuova, fidati!», trillò allungando una mano verso la mia camicia e cercando di eliminare le tracce del suo misfatto.

Maledizione, per lei era sempre tutto semplice e migliorabile. Non riusciva a capire che spesso nella vita dei buoni propositi e un ottimismo frizzantino non potevano risolvere i problemi? Eppure lei sembrava fiduciosa e dava sempre per scontato che ci fosse una soluzione per ogni cosa. Mi sembrava di sentire mia madre, A tutto c’è un rimedio, Liam caro, tranne alla morte. Mi sarebbe piaciuto, per una volta, vedere il mondo attraverso gli occhi di persone come loro, speranzose e sempre convinte che tutto sarebbe andato per il meglio, e provare a capire che sensazione desse non essere costantemente gravati da una cappa di plumbeo disfattismo.

Quando non sentii più la lieve pressione delle sue dita sul mio petto abbassai lo sguardo sulla macchia ora più chiara ma anche tre volte più ampia.

«Così va già decisamente meglio!», cinguettò scrutando tutta contenta il lavoro fatto, «Quasi non si vede e nel locale, con le luci abbassate e l’alcool in circolo, nessuno ci farà caso»

La fissai incredulo e rimasi seriamente sconcertato quando mi accorsi che lei credeva davvero in quello che stava dicendo. Probabilmente oltre che insensatamente ottimista era anche alquanto miope. Senza commentare la macchia caffelatte che ricopriva tre quarti della mia camicia rimisi in moto e mi diressi verso l’unica vera soluzione a quel problema. Ero un uomo pratico io, niente farfalle e unicorni come Felicity.

Svoltai a destra e imboccai la larga strada a tre corsie che portava verso il centro. Abituato com’ero a percorrerla a passo d’uomo durante i giorno feriali in cui lasciavo Boston per recarmi alla casa del nonno, trovarla semideserta fu un sollievo e non ci pensai due volte prima di pigiare a fondo sul pedale dell’acceleratore.

«Dove diavolo stai andando?», strillò la mia compagna di viaggio non appena si rese conto di dove fossimo. Le lanciai uno sguardo con la coda dell’occhio e la ritrovai con i palmi della mani premuti contro la portiera e il naso appiccicato al vetro del finestrino.

Misi la freccia e presi la mia uscita, immettendomi immediatamente nella traversa che ci avrebbe condotti in poco tempo a destinazione. «A prendere una camicia nuova», borbottai prima di accelerare tutto d’un colpo per evitare che il semaforo giallo diventasse rosso prima del nostro passaggio.

«Oltre che un guardone ora sei anche un pirata della strada?», si lamentò subito, le mani aggrappate al sedile e gli occhi spalancati. «Comunque non penso che Tom Ford sia aperto a quest’ora…»

Ignorai il suo commento e premetti il telecomando che azionava il cancello che conduceva ai garage sotterranei. Percorsi i due livelli fino a trovare il numero del mio parcheggio riservato e infine spensi il motore e aprii la portiera con l’intenzione di concludere il tutto nel più breve tempo possibile.

«Non penserai davvero che io ti segua senza prima essere informata riguardo a…dove accidenti ci troviamo! Ho visto troppe serie tv per fidarmi di un uomo elegante che mi conduce in un posto isolato…», si lagnò una voce familiare, a quanto pare per nulla incline ad adeguarsi e seguirmi senza protestare.

Uscii dall’abitacolo e mi piegai per vederla bene negli occhi, era veramente buffa quando puntava i piedi e metteva il broncio. Le si formava una lieve ruga tra le sopracciglia chiare e le sue labbra contratte manifestavano piuttosto chiaramente il suo disappunto.

«Allora aspetta qui. Faccio un salto a casa e torno…», detto questo mi voltai e sbattei la portiera.

Non avevo ancora raggiunto il piccolo cubicolo del guardiano notturno quando sentii una serie di rapidi passi frettolosi alle mie spalle. Quando mi raggiunse si mise ad ansimare e brontolare come se avesse appena concluso una gara di triathlon e non una ventina di metri.

«’Sera, Mr. Carter Wright. Chiudo il garage e aziono l’allarme o esce ancora?»

Feci un cenno di saluto a Tim, o almeno pensavo fosse quello il suo nome, e gli dissi che si trattava solo di una rapida sosta. Lo vidi allungare un’occhiata alle gambe scoperte di Felicity e accennare un sorrisetto. Ovviamente lei non si accorse di nulla impegnata com’era a cercare di recuperare fiato e a mandarmi maledizioni senza perdono con la forza della mente, ma io mi irrigidii. Odiavo la gente che non si faceva gli affari propri e si permetteva di giudicare gli altri.

Chiamai l’ascensore e non appena questo arrivò mi ci infilai dentro il più velocemente possibile. Tuttavia la mia compare non pareva intenzionata ad assecondarmi e se ne stava impalata sulla soglia delle porte metalliche.

Sapevo che me ne sarei pentito ma lo chiesi lo stesso: «Che c’è?»

Occhi allucinati e bocca spalancata fissava inebetita la struttura in vetro e acciaio dentro a cui mi trovavo. Dopo un attimo si riprese abbastanza da potermi rispondere, seppur ancora leggermente incredula, «Questo sarebbe un ascensore? C’è uno schermo touch grande quanto uno schermo cinematografico lì dentro! Che ci dovete fare nei trenta secondi di salita e discesa? E un divanetto! E la pulsantiera è placcata d’oro?!», snocciolò facendo un passo verso di me e allungando un dito verso il grande display che capeggiava alle mie spalle.

Non appena superò la soglia ne approfittai per pigiare il tasto di chiusura delle porte e passare il mio badge argentato davanti al lettore elettronico. Ovviamente neanche questo sfuggì ad un suo commento…

«Ma insomma chi sei? Chuck Bass?!», strillò esasperata sfilandomi di mano la tessera magnetica e osservandola.

«Bass chi?», domandai mentre le porte si aprivano sull’ingresso lucido del mio attico immerso nella penombra.

«Ovviamente non mi aspetto che tu abbia visto Gossip Girl e non- …Merda! Sicuro di non lavorare per i narcotrafficanti colombiani? Come accidenti fai a permetterti questo?!», mi interrogò mentre avanzava verso l’immensa vetrata che dominava una Boston punteggiata da migliaia di piccoli punti luminosi.

«Lavoro sodo e vinco sempre le mie cause. Sempre. Ho una clientela abbiente e sono un investitore astuto», risposi stringendomi nelle spalle.

«Sei fortunato ecco tutto. La maggior parte della gente svolge bene il proprio lavoro e si spezza la schiena nel farlo ma ha comunque difficoltà a gestire il mutuo, le tasse universitarie del figlio, le rate dell’automobile, le spese per l’assicurazione sanitaria…»

Qualcosa nel suo tono di voce mi irritò. Non sopportavo quando la gente puntava il dito contro la mia vita che consideravano composta solo da agi e lusso etichettandomi per ciò che possedevo e non ciò che ero. Ero cresciuto in una villetta progettata per quattro persone dove però vivevamo in sette. Avevo passato anni ogni mattina a picchiare i pugni sulla porta di legno dalla vernice scrostata dell’unico bagno al piano superiore puntualmente occupato da Judith mentre io, in un leggero pigiama liso e scolorito, saltellavo sul posto per difendermi dal gelo che regnava in casa. La mattina a colazione mangiavamo pane e latte e avevo vent’anni suonati la prima volta che assaggiai dei Lucky Charms.

Ma non avevo alcuna voglia di spiegarle tutto ciò perciò la assecondai, «Probabile. Siediti pure dove vuoi mentre io vado a cambiarmi la camicia…»

Attraversai il salone e oltrepassai l’arco che conduceva alla zona notte. Accesi la luce della mia stanza e solo allora mi accorsi di essere stato pedinato. Mi voltai e mi ritrovai a fronteggiare l’espressione a metà tra l’imbarazzato e il furbetto di Felicity.

«Non avrai davvero pensato che me ne sarei stata seduta zitta e buona, vero? Volevo dare un’occhiata al resto. E poi quel divano sembrava così immacolato che non ho osato sedermi e rischiare di lasciarci impressa la forma del mio posteriore», mi spiegò mentre, senza bisogno di alcun invito, avanzava nella stanza guardandosi attorno.

La lasciai fare e, approfittando del stato di contemplazione in cui era caduta davanti alla fotografia in bianco e nero che capeggiava sopra la testata del letto, sgattaiolai nella cabina armadio dove, senza far troppo caso all’armonia dei colori, pescai una camicia e la sostituii con quella che stavo indossando. Questa volta presi l’accorta decisione di selezionarne una scusa in modo che, in caso di nuovo attacco, potessi mascherare la macchia.

Una testa bionda sbucò dallo stipite della porta e mi fissò mentre mi allacciavo gli ultimi bottoni. «Non dirmi che quella foto è un’originale di Salgado…», borbottò facendo un cenno alle sue spalle.

La superai e tornai nella stanza principale, lo sguardo rivolto a quel cielo invaso da nubi minacciose e bellissime che pareva fondersi con la foresta infinita sottostante. Un sorriso mi incurvò le labbra: avevo rischiato la bancarotta per quel pezzo autentico, ero giovane e in vena di follie, ma non me ne ero mai pentito. Ancora oggi, trascorsi quasi otto anni dall’acquisto, non mi stancavo mai di ammirarlo e ogni volta era come se lo vedessi per la prima volta, lo stupore che provavo di fronte a ciò era spiazzante come lo era stato quando lo avevo adocchiato alla casa d’aste a cui ero andato per svagarmi con Matthew.

«Può darsi…»

La sentii sbuffare alle mie spalle. Probabilmente aveva anche alzato gli occhi al cielo nel suo modo teatrale e infantile. Probabilmente ora stava pensando a quanto fossi tronfio, io, il mio attico impersonale e la mia foto da migliaia e migliaia di dollari.

«Mi piace», commentò invece affiancandosi a me e guardando anche lei la tela, «Nei miei sogni più selvaggi mi immagino nelle vesti di una Peggy Guggenheim del XXI secolo, dedita al collezionismo di capolavori dal valore inestimabile e di amanti pittori, poeti, scultori super gelosi…»

Inclinai leggermente il capo e la sbirciai con la coda dell’occhio. No, non l’avrei per niente vista in quelle vesti. Il suo fascino stava proprio negli sbaffi di terra che aveva sulla fronte dopo una giornata di lavoro, nei ciuffi di capelli ribelli e schiariti dal sole che le incorniciavano il capo come una corona, nelle salopette rattoppate che si ostinava a indossare nonostante gli anni Sessanta ci avessero lasciato da un pezzo. Probabilmente la sua bellezza risiedeva anche nell’ostinazione con cui portava avanti la sua relazione monotona con quel Theodore. Persino un fungo era più interattivo di lui.

«Credevo che i tuoi sogni più selvaggi includessero il tuo povero fidanzato…», insinuai sogghignando.

«Lui è nei miei sogni più selvaggi vietati ai minori di diciotto anni, quelli che non racconto ad avvocati impiccioni e maligni», mi sistemò per bene lei.

Un’immagine fulminea di Felicity e Theodore avvinghiati l’uno all’altro attraversò la mia mente ma, inorridito, la scacciai in un decimo di secondo. Certe cose era meglio non saperle. O immaginarle.

Successivamente fui costretto ad un tour completo della casa. Fece commenti perfidi sulle mie capacità culinarie e quasi si mise a fare i capricci quando le vietai di aprire il frigorifero per fare quella che lei chiamò spedizione di ricerca oltre i confini dell’universo conosciuto. Inutile dire che alla fine il suo nasino lentigginoso si introdusse all’interno dell’elettrodomestico e condusse un’ispezione approfondita, con telecronaca inclusa, del suo contenuto.

«Sai, uno yoghurt scaduto da un giorno o due si può mangiare ancora ma questo risale al marzo dello scorso anno e non penso che qui valga il principio del vino: più è invecchiato, più è pregiato», borbottò rigirandosi fra le mani una confezione di yoghurt bianco. «Ma non paghi una signora proprio perché getti via questi cimeli preistorici?», chiese agitando per aria il barattolino bianco in plastica mentre si chinava nuovamente verso il frigo.

Ero quasi certo del fatto che Felicity avrebbe adorato Inés, la mia donna delle pulizie nonché chef da urlo. Insieme avrebbero passato ore a sghignazzare alle spalle del sottoscritto, prendendosi gioco delle mie doti domestiche e casalinghe sottosviluppate, se non addirittura assenti.

«Inés si diverte a vedere quanto tempo passerà prima che mi accorga io stesso degli alimenti ormai dotati di vita propria che risiedono lì dentro e li getti…», spiegai di malavoglia. Tutto ciò mi faceva apparire in una luce decisamente poco positiva.

Persino Matt aveva imparato a cucinarsi una bistecca o un bel piatto di spaghetti – anche se lo aveva fatto solo in seguito al matrimonio con un essere erbivoro – per le sue cenette nascoste agli occhi di Mildred la Megera.

Aveva lanciato un urletto estasiato alla vista della mia doccia e avevo dovuto spiegarle quindici volte che ci stavano aspettando alla festa e quindi no, non poteva testare la mia vasca idromassaggio dalle dimensioni di una piccola piscina. Dopo mille suppliche, le avevo regalato un set di asciugamani di spugna color tortora e lei quasi mi abbracciò tanto era contenta. Infatti affermava che le mie salviette erano morbidissime mentre le sue erano simili a grattugie. Ipotizzai fosse dovuto ai suoi lavaggi aggressivi in lavatrice piuttosto che ad un difetto intrinseco delle spugne ma non glieli feci notare: sembrava così felice.

Rimase sconvolta quando le dissi che non organizzava quotidianamente feste sul tetto del mio attico e mi disse che avrei dovuto senza dubbio rimediare a questa mia mancanza.

«Prova ad immaginarti decine di candele profumate disseminate ovunque, un gazebo con leggere tende candide che una lieve brezza fa fluttuare leggiadre, Nina Simone o Nancy Sinatra in sottofondo,  un lungo tavolo adorno di fiori e frutta e tutte le persone che ami riunite…non sembra meraviglioso?». Sospirò estasiata dal quadretto che aveva costruito.

Di fronte a noi c’era solo nudo cemento e un paio di sedie traballanti. Usavo talmente poco quell’attico che su quella terrazza ci avevo messo piede forse un paio di volte, visita con l’agente immobiliare inclusa. E di nuovo mi ritrovai a pensare al potere che Felicity aveva di rendere belle anche le cose che di bello parevano non aver nulla.

 

***

 

«Si può sapere che fine avevate fatto?!», ci accolse prontamente un Donovan piuttosto alterato e con la maglia chiazzata di qualcosa di scuro e grumoso. «Un mix di mascara e eyeliner lasciatomi gentilmente da quella squilibrata di sua sorella», mi spiegò dopo aver visto il mio sguardo puntato sulla macchia.

Felicity, fino a quel momento persa a fissare il soffitto dalle mille luci iridescenti incastonate e l’effetto stile acqua che proiettavano tutt’attorno, ci raggiunse e, captata l’ultima frase del suo amico intervenne: «Dov’è Zoe?»

Sfruttando la mia altezza cercai di trovare quella testolina mora tra la folla che riempiva in modo soffocante la sala non molto ariosa del locale ma parevano avere tutti i capelli scuri come la notte perciò desistetti e tornai alla conversazione.

«L’ultima volta che l’ho vista si stava scolando il suo decimo Bloody Mary affermando di potermi trasformare in un vampiro come lei e, dopo aver cercato di allontanarla dalla zona bar, mi sono beccato un tacco nello stinco e l’ho lasciata lì…», ci aggiornò Donovan, il quale non aveva per nulla una bella cera.

«Vai a cercarla per favore? Io resto qui con lui», mi domandò leggermente preoccupata.

Annui e l’ultima cosa che vidi prima di essere inghiottito dalla folla fu Felicity china sul suo amico, intenta a sussurragli: «Tutto bene? Donnie?»

Più che una festa in onore di una scrittrice sembrava il ritrovo di gente sfuggita da un ospedale psichiatrico. Nel mio tentativo di attraversare incolume quella marea di corpi venni agguantato per un braccio da una ragazzina scheletrica dalla forza bruta. Aveva enormi occhi azzurri inquietantemente vacui, come se fosse cieca, e unghie simili ad artigli laccate di verde fluorescente che continuava ad agitare in modo convulso per aria, probabilmente voleva essere una sorta di danza macabra ma sembrava più un attacco epilettico. Quando riuscii a liberarmi da lei, dopo una dose massiccia di complimenti per la sua manicure, raggiunsi finalmente una porta e la spalancai in fretta. Di fronte a me si srotolava un lungo corridoio sinuoso, così pieno di curve da sembrare progettato da un Gaudì ubriaco, ai cui lati si trovavano innumerevoli porte serrate. La moquette sotto ai miei piedi era decorata con un motivo geometrico quasi da effetto ottico che ti dava la sensazione che in alcuni punti il pavimento si aprisse in enormi voragini.

Dov’ero finito? Shining e il suo Overlook Hotel in confronto erano la pensione Pinuccia a cui andava mia nonna in vacanza.

Ogni stanza era numerata con una targhetta scritta in…geroglifici egizi?! Mi rassegnai all’idea di doverle aprire tutte alla ricerca di Zoe. Che poi una, dopo dieci cocktail, probabilmente stava facendo pole dance attorno ad un palo dell’autobus mentre intonava l’inno francese al contrario e mostrava le mutande a tutti i presenti. Sempre che le mutande ancora le avesse indosso.

Le prime due porte erano chiuse a chiave e ai miei ripetuti richiami nessuno rispose. Provai ad appoggiare l’orecchio al legno ma l’unica cosa che sentii fu il battito riflesso del mio cuore.

La terza stanza era vuota. Non solo nel senso che dentro non c’era nessuno. Non c’era niente dentro. Mi richiusi frettolosamente la porta alle spalle e passai a quella successiva, desiderando farla finita il prima possibile. Non ero mai stato un grande amante dell’horror.

«C’è qualcuno?», chiesi bussando forte alla quarta porta.

Dall’interno provenivano dei suoni attutiti dal legno e una voce ovattata mi strillò di andarmene in modo poco cortese.

Non desistetti ed afferrai la maniglia abbassandola un paio di volte a vuoto: ovviamente la porta era chiusa a chiave. «ZOE!», gridai battendo il pugno contro quella superficie divisoria che mi impediva di entrare ed assicurarmi che lì dentro non ci fosse la sorella di Felicity.

«Eccomi quuui, bellissimo uomo. Sei un uomo vero? Ho bevuto leggermente troppo e…che stavo dicendo? Ci son due coccodrilli e un orangotango, due piccoli serpenti e…cosa c’era dopo?»

Mi voltai e con uno scatto repentino riuscii ad afferrare appena in tempo una Zoe alquanto scarmigliata che stava per collassare su quel tappeto ipnotizzante. Rafforzai la presa attorno alla sua vita e la rimisi in piedi, stando attento a non allontanarmi troppo.

«Sai chi sono? Liam, l’amico di tua sorella Felicity», tentai di spiegarle in modo semplice nonostante definirmi amico di Felicity non mi pareva esattamente una cosa semplice. Ma quello non era il momento per pensare al limbo tra il professionale e l’informale in cui sembravano bloccati noi due. No, proprio no, quello era il momento per caricarsi in spalla quella squilibrata che ora si era messa a cantare la sigla di Scrubs e riportarla a casa.

«Ooh, allora sei un uomo! Liam è un nome maschile, vero? Prima ho palpato il sedere a una tizia di nome Tiffany perché l’avevo scambiata per Donnieee. Donnie! Dov’è finito?!», sbiascicò mentre tentavo di afferrarla sotto alle ascelle per prenderla in braccio.

Una volta riuscitoci partii spedito – quella ragazza pesava quanto un pulcino – verso l’ingresso del corridoio che avevo attraversato anche all’andata.

Notai che aveva perso le scarpe e sul collo aveva un segno violaceo che però sembrava luccicare quindi ipotizzai si trattasse di un qualche sbaffo di trucco piuttosto che di un più serio ematoma.

«Ci sta aspettando all’uscita. Cosa ti è successo?», le chiesi nonostante non sperassi davvero in una risposta di senso compiuto.

«Mi sono fatta predire il futuro da Madame…non mi ricordo, vabbè da Madame Qualcosa, e mi è stato rivelato che sono la figlia illegittima del sultano dell’Oman e che il mio destino è ritrovare il Millennium Falcon, resuscitare Jon Snow e sconfiggere gli Attila e gli Unni. Mi ha anche fregato trenta dollari quindi spero davvero che sia vero ciò che mi ha raccontato…però, d’altra parte, se glielo hanno comunicato le stelle e l’oracolo di Delfi, sarà per forza vero, no?», blaterava a ruota libera, la testa posata sulla mia spalle e i piedi nudi che ondeggiavano nel vuoto al ritmo della mia camminata.

Probabilmente in una pubblicità progresso contro l’uso di alcol e sostante stupefacenti avrebbero dovuto metterci Zoe in questo momento. Non riuscivo comunque a giudicarla severamente perché in passato anche io avevo sperimentato situazioni simili. Solitamente però era Matt a trascinarmi a casa, sempre che anche lui non versasse in condizioni simili se non peggiori. Passata il traguardo delle trenta candeline avevo iniziato a lasciare ai giovanotti la gioia di scolarsi sei cocktails. Ormai riprendersi dalle sbronze diventava sempre più un’impresa e se c’era una cosa che non avevo mai sopportato era la sensazione schifosa che mi avvolgeva per tutta la giornata seguente ad una notte di baldorie. Lo stomaco sottosopra, i ricordi allucinati e sfalsati, la stanchezza del corpo, l’aspetto slavato e la voglia di uccidere chiunque producesse un rumore più intenso di un battito d’ali di farfalla.

«Oddio, che è successo? Zoe! Stai bene? Sta bene? Dove sono le tue scarpe? Han Solo? di cosa sta parlando?», Felicity la furia ci travolse non appena entrammo nel raggio del suo radar visivo.

Donovan alle sue spalle aveva un’espressione a metà tra il colpevole e il divertito mentre fissava la donna tra le mie braccia.

«Usciamo da qui», decretai, stanco del terzo grado di Felicity e del volume troppo elevato della musica che mi stava procurando l’emicrania, e mi diressi verso l’uscita illuminata.

Una volta all’aria all’aperta riuscii finalmente a respirare a pieni polmoni e a capire per bene cosa dicessero gli altri.

«Non lo so cosa le è successo. L’ho trovata in un corridoio nel retro del locale. Dice di aver incontrato un’indovina…», spiegai mentre mi chinavo per far scendere Zoe, la quale non appena i suoi piedi poggiarono terra iniziò a correre come una pazza per strada.

Fortunatamente Donovan aveva i riflessi super pronti e la acciuffò prima che si schiantasse sul cofano di una Chevrolet parcheggiata storta sul bordo del marciapiede.

Certo che l’avvocato Van Houten aveva generato due figlie con il genio della follia ben radicato nel loro patrimonio genetico!

«Non di nuovo, vi prego! L’ultima volta che accadde, un paio di anni fa, partì alla volta del Tibet perché le avevano detto che era il futuro Dalai Lama e da allora non può più rimettere piede nel paese…». Felicity si avvicinò alla sorella, le prese la mano e le bisbigliò qualcosa all’orecchio. Quella miracolosamente smise di tentare di svicolarsi dalle braccia di Donovan e si quietò.

Probabilmente, vista la gente che mi circondava, le aveva sussurrato un incantesimo soporifero o esorcistico. Non mi posi domande – a volte l’ignoranza è una benedizione – e feci strada verso la mia macchina, posteggiata a duemila miglia da lì.

«Forse è meglio se voi aspettate qui. L’auto è lontana e Zoe non sembra nelle condizioni di intraprendere una lunga camminata a piedi scalzi», proposi, chiedendomi nel mio intimo quand’era avvenuta questa mia conversione a cavalier servente.

«Ottima idea, Tiffany!», strillò Zoe alzando un braccio e salutandomi tutta felice.

Nessuno pareva interessato ad indagare sull’identità di questa Tiffany e io decisi che era meglio tacere la storia della strizzatina di didietro data alla malcapitata in verità diretta a Donovan. Il quale in quel momento avrebbe meritato una medaglia per la pazienza con cui cercava di tenere sotto controllo quella folle donna dai comportamenti assolutamente imprevedibili.

«Resto io qui con lei, non preoccuparti», mi rassicurò lui. Anche se, nonostante si fosse rivolto al sottoscritto, in verità avevo percepito che quello era una rassicurazione diretta a Felicity, la quale stava ancora stringendo la mano della sorella alternando sguardi preoccupati a piccoli sbuffi esasperati quando sentiva le sciocchezze che questa continuava instancabile e sciorinare.

Annuii e mi voltai incamminandomi, mi aspettava minimo un buon quarto d’ora di camminata a passo spedito per raggiungere l’auto che avevo lasciato poco tempo prima nei pressi di un distributore di benzina semi abbandonato.

«Aspettami!»

E pochi attimi più tardi fui affiancato dalla figura di Felicity avvolta nel suo abitino dalla fantasia d’altri tempi. Per un po’ camminammo in silenzio. L’asfalto scuro sotto ai nostri piedi e il cielo punteggiato di piccole stelle isolate sopra le nostre teste.

«Cosa stai facendo?», chiesi fissando i suoi anfibi consunti.

Lei mi afferrò il braccio per farmi rallentare e dopodiché sorrise. «Ecco, ora va bene. Camminiamo sincronizzati», mi spiegò vedendo il mio sguardo confuso.

Abbassai lo sguardo e osservai. Piede destro. Piede sinistro. Piede destro. Piede sinistro.

E sorrisi anche io.

«Sei bello, Mr. Liam, lo sai?»

Lo disse così. All’improvviso. Lo disse così e io pensai quasi di essermelo immaginato.

Mi bloccai e spezzai l’armonia dei nostri passi.

Lei scoppiò a ridere, allungò un braccio nella mia direzione e mi offrì la mano. «Non sembrare così sconvolto! Nessuno te lo aveva mai detto? A me le cose belle piacciono e mi sono ripromessa di non perdermi neanche una sfumatura della bellezza che avrei incontrato in questa vita. Siamo sempre così di fretta, così superficiali, così distratti. E le cose più belle, i particolari, i dettagli ci sfuggono. Io non voglio che questo accada a me. Perciò te lo ripeto: sei bello».

Sembrava così sincera. Felicity era spontanea. Era come la terra che tanto le piaceva, una di quelle cose autentiche, primordiali, nella quale affondi le mani e ti senti di nuovo in sintonia con questo mondo strambo e rotante in cui abitiamo. Era vera, niente giri di parole, nessun senso nascosto tra le righe. Diceva ciò che pensava e lo faceva in un modo tutto suo, sempre in bilico tra lo svagato e il profetico. Anche lei era così: sospesa tra nuvole e abissi dalla profondità incalcolabile. Cristallina ma allo stesso tempo indecifrabile. Un ossimoro.

E sorrisi di nuovo.

«Ora però non approfittartene però! E non sorridere troppo che altrimenti inizio a pensare che anche tu abbia un lato spensierato e meno ingessato…», mi prese in giro lei, afferrando la mia mano e stringendola tra la sua.

Riprendemmo a camminare e questa volta fui io a sincronizzare i miei passi ai suoi, a rallentare per lei, a costruire un’armonia che potrebbe apparire sciocca ma che in quel momento aveva il potere di farci sentire uniti.

 

 

 

 

 

 

Chiedo scusa per il ritardo con cui pubblico questo capitolo. Non sono stati mesi facili: mi sono trasferita e dovevo riorganizzare tutto e iniziare a prendere le misure della mia nuova vita da sola. Aggiungeteci anche una certa dose di indolenza da parte mia, gli esami da preparare e le serie tv da terminare o iniziare (^.^”). Avevo pensato di mettere tutto in standby invece alla fine ho deciso di continuare. Anche se con i miei tempi ovviamente. Questo capitolo non è particolarmente brillante ma ultimamente la mia creatività non è a mille e ipotizzo si sia prese una pausetta per svernare ai Caraibi. La parte finale è così dolciosa che mi si sono cariati due denti durante la stesura e rileggendoli sembrava che lo spirito di un Bacio Perugina si fosse impadronito di me (oppure vedere il titolo del capitolo). Siamo pur sempre nella sezione romantico e per quanto le sviolinate troppo sviolinate mi provochino l’orticaria un po’ di cuore, sole e amore ogni tanto ci va.

Buona serata e alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Boccioli ***


Felicity

 

Seduta sul vecchio cavalcavia che sovrastava la super strada che portava verso Boston, il viso poggiato sull’alta inferriata che serviva a prevenire che la gente decidesse di voler provare a volare per poi finire spappolato sul parabrezza di un tir, il vento che soffiava forte contro le mie guance e decine e decine di auto che sfrecciavano sotto di me.

Nessuno aveva mai capito la mia passione per le strade, le stazioni, gli aeroporti. Io li trovavo bellissimi: luoghi di passaggio, di addii, di fughe. Terra di tutti e di nessuno.

Avevo percorso il solito sentiero tra le alte sterpaglie di quel paesaggio di campagna che ormai riconoscevo come familiare, avevo attraversato di corsa il campo di Mr. Edwards sapendo quanto il vecchio burbero poco apprezzasse che si passasse sulla sua proprietà, e poi, dopo aver costeggiato l’orto abbandonato di una famiglia che aveva lasciato quelle terre anni prima, ero arrivata al mio posto segreto. Una volta quel cavalcavia era aperto al transito dei veicoli ma, trovandosi in una zona semi deserta e molto appartata della campagna, gli unici a passarci erano dei rari trattori. Poi due anni fa una equipe di ingegneri aveva fatto una perizia e aveva stabilito che quel cavalcavia doveva essere reso inagibile al passaggio di vetture e così era stato abbandonato da tutti. I rovi si erano impadroniti dell’asfalto ormai crepato e le barriere di ferro si erano arrugginite.

Da quella distanza, se si aguzzava bene la vista e ci si alzava un pochino sulle punte dei piedi, si poteva scorgere la spianata verde dove si ergeva la mia piccola casetta e poco distante la villa di Mr. Liam. Con gli occhi socchiusi, a causa del sole pomeridiano ancora accecante nonostante fossero quasi le cinque, scrutai quel tetto rosso mattone e mi ritrovai a pensare all’uomo che ne era il proprietario.

Negli ultimi giorni, dalla notte della festa di Zoe, mi ero ritrovata spesso a soffermarmi con il pensiero sui suoi zigomi pronunciati o sul suo tono di voce sempre velato di sarcasmo. Mi ero sentita colpevole e subito dopo mi ero arrabbiata con me stessa, perché mi permettevo simili debolezze e tutto ciò nella mia testa appariva come un tradimento nei confronti di Theodore. Eppure ogni volta che la mia mente si trovava libera tornava sempre lì: quegli occhi, quelle mani, quella bocca. Mi ero gettata a capofitto nel lavoro, convinta che il trucco stesse nel tenermi il più impegnata possibile, ma non appena abbassavo la guardia, certa di avercela fatta, mi ritrovavo con lo sguardo perso nel vuoto e la testa piena di ricordi tutti legati sempre e solo a lui.

Questo mio uragano di pensieri ed emozioni contrastanti purtroppo non si era limitato a portare scompiglio dentro di me. Più volte Donovan mi aveva sorpreso chiedendomi cosa mi frullasse in testa visto il mio costante essere tra le nuvole. Persino Zoe, regina della distrazione, si era accorta di quanto fossi svagata e sovrappensiero in quei giorni.

Il problema era che ero intrappolata in un circolo vizioso: mi sforzavo di non pensare a lui, cadevo nella trappola e contravvenivo a tutte le mie regole, mi rimproveravo aspramente e poi tutto ricominciava da dove aveva avuto origine.

Considerata la mia buona stella Theodore aveva deciso che fosse proprio quello il periodo ideale per impegnarsi di più nel mantenere accesa la nostra relazione e ora ogni sera alle otto precise mi ritrovavo, mentre lavavo i piatti, a raccontargli delle mie giornate via Skype. Le nostre conversazioni si trascinavano tra gli insignificanti dettagli della nostra monotona quotidianità sempre vissuta separati e mai condivisa.

Un grosso camion carico passò strombazzando e portando con sé una folata di aria calda e inquinata. Mi allontanai dalle sbarre metalliche e mi sedetti sull’asfalto caldo, gli occhi chiusi per godermi il tepore del sole mischiato alla brezza che fischiava e faceva danzare le ciocche di capelli sfuggite alla mia coda di cavallo disordinata.

Due sere prima era successo quello che avevo temuto fin da quando Theodore se ne era uscito con quella nuova proposta delle videochiamate: ero scoppiata.

 

«Ti vedo distratta…», mi aveva fatto notare lui mentre io passavo la spugnetta per l’ennesima volta sullo stesso piatto ormai luccicante.

Non se a farmi scattare fu il suo tono leggero, come se il fatto che la sua fidanzata non gli prestasse la minima attenzione fosse normalissimo, o la mia esasperazione di fronte a quella situazione con la sottoscritta che pensava ad un altro mentre parlava con il proprio ragazzo, il quale a sua volta probabilmente stava rimuginando sull’etimologia del nome latino di una cazzo di pianta.

Avevo mollato in malo modo il pianto che era scivolato nel lavello pieno d’acqua facendo schizzare la schiuma tutt’attorno.

Vi assicuro che se già litigare è brutto, farlo separati da uno schermo lo è mille volte di più.

«Forse lo sono perché a quasi ventisette anni mi ritrovo intrappolata in una relazione più spenta e soffocante di quella che c’è tra due ottantenni  dopo sessanta anni di vita insieme?»

Me ne ero pentita subito. Ero stanca sì ma l’unica con cui me la sarei dovuta prendere ero io stessa. Ero io che invece di impegnarmi per migliorare il mio rapporto con Theo avevo rinunciato dandolo ormai per perso e avevo iniziato a fantasticare su qualcun altro. Nel mio intimo avevo ormai detto addio al mio ragazzo di sempre ma nella realtà ero ancora legata a lui e questo significava solo che tra i due quella nel torto ero io. La cattiva della storia ero io. Theodore poteva essere sempre impegnato in mille cose, poteva avermi trascurata ma era sempre stato leale nei miei confronti.

Afferrato un bicchiere avevo  iniziato a sciacquarlo, avere le mani occupate mi aveva fornito una scusa per non schiaffeggiarmi da sola.

«Potresti almeno guardarmi in faccia mentre mi dici queste cose?». La sua voce dal tono grave mi aveva raggiunta alle spalle e mi ero sentita ancora peggio.

Avevo lasciato perdere le stoviglie ancora insaponate, riposto la spugna e il detersivo per piatti e mi ero sfilata i guanti di gomma gialla. Dopo un respiro profondo, per infondermi la dose di coraggio necessaria per affrontare la conversazione per nulla felice che mi attendeva,  mi ero finalmente voltata verso il tavolo dove troneggiava il viso inespressivo di Theo incorniciato dallo schermo del portatile.

«Cos’è successo? Felicity, siamo andati avanti così per più di tre anni e non ti sei mai lamentata. Cosa è cambiato? Perché qualcosa deve per forza essere accaduto. Quando ci siamo visti in Florida sembrava tutto ok…», cercava di capire. Aveva la fronte corrugata e sapevo benissimo che si stava sforzando di ricordare le nostre ultime conversazioni, stava scandagliando mentalmente i nostri ultimi contatti alla ricerca di quell’indizio che doveva essergli sfuggito.

Avevo sospirato perché se c’era una cosa in cui non ero per nulla brava erano le tristi discussioni amorose. Perlomeno non di quel genere. Avevo sempre sognato che sarei stata protagonista di una di quelle storie d’amore travolgenti e totalizzanti dove avrei potuto dare libero sfogo al lato più romantico e sognatore del mio carattere. Volevo progettare, parlare solo di cose belle, pianificare castelli in aria dall’aspetto meraviglioso e impossibile per il futuro.

Da bambina, ancora piena di fiducia e innocenza, creavo per le mie Barbie delle vere e proprie soap opera. Litigi, riappacificazioni, inganni, tradimenti, parentele insospettabili che spuntavano come funghi ma alla fine tutto si concludeva sempre e solo con il coronamento del sogno d’amore dei due protagonisti che si univano in matrimonio in un tripudio di coriandoli ottenuti spezzettando decine di fazzoletti e squilli di trombe malamente emulate da una Zoe obbligata a suonare una trombetta da party in plastica.

Il sole stava calando e così facendo rifletteva le sue sfumature rosate e aranciate tutto intorno rendendo quella campagna così cara a me ancora più incantata. Quel paesaggio avrebbe ispirato i migliori poeti inglesi romantici e ne sarebbero scaturiti dei versi immortali.

Peccato che Keats fosse morto ormai da anni e io non spiccassi certo per le mie doti liriche.

Mi incamminai verso casa consapevole del pomeriggio perso ad oziare e a rimuginare inutilmente su quel grande pasticcio che era ultimamente la mia vita e della notevole quantità di lavoro arretrato che mi attendeva.

Mi ero ostinata nel mio proposito di poter risolvere tutto da sola e non mi ero confidata con nessuno. Zoe era sempre mia ospite e nonostante le sue continue lamentele sul caldo, gli insetti e il sole non aveva ancora parlato di partenze e la cosa mi aveva preoccupato perché mia sorella era una nomade e l’unico posto dove amasse fermarsi per un po’ di tempo era la sua baita di montagna sperduta tra muschio e roccia. Donovan mi osservava in silenzio, aggrottava la fronte più del solito interrogandomi con lo sguardo e mi scrutava con attenzione in attesa di un possibile crollo emotivo o perlomeno di una qualche reazione.

Ma io sono bravissima in queste cose. Le emozioni forti, le urla, le crisi isteriche non facevano per me. O forse, più semplicemente, non le riconoscevo come possibile modo di reagire alla tensione perché non mi ero mai trovata in una situazione simile. Avevo ibernato il mio cuore, mi ero raccontata che quello che avevamo io e Theo era quello che le persone chiamano amore e mi ero accontentata.

Sarebbe come crescere un bambino a broccoli e riso in bianco e raccontargli che sono i cibi più deliziosi al mondo, che nulla li supera in bontà e squisitezza. Non avendo mai provato ad assaggiare un gelato o un piatto di spaghetti lui si convincerà che i broccoli e il riso in bianco siano davvero il top che la l’arte culinaria abbia mai prodotto.

Mancanza di termini di paragone. Ecco, questo probabilmente mi aveva sviato per tutti questi anni.

Non volevo essere cattiva nei confronti di Theodore, non potevo recriminargli nulla in fondo. Lui mi aveva sempre offerto il tipo di affetto che lui poteva dare, nulla di più, nulla di meno. Non mi aveva mai fatto promesse, mi era stato accanto nel suo modo caratteristico sempre un po’ distante e distratto, ma non era mai sparito, non mi aveva mai fatto mancare il suo supporto e mi aveva sempre tenuto la mano quando ne avevo avuto bisogno.

Per me quello era stato fondamentale e mi aveva permesso di sorvolare sulla nostra lontananza, sulla sua mente sempre impegnata su qualunque cosa non fossi io e sul suo modo di fare sempre formale e poco familiare.

Ero stata felice, forse in un modo diverso da quello che mi ero sempre aspettata, ma lo ero stata. Soprattutto all’inizio quando tutto era ancora nuovo e da scoprire e Theo ai miei occhi era ancora il timido assistente del professore.

Cambiai strada per evitare di dover passare accanto al giardino di Mr. Liam e non appena raggiunsi il portico percepii qualcosa di diverso dal solito. La porta finestra e la zanzariera erano chiuse entrambe, le ante socchiuse e non c’erano più gli scarponcini sporchi di terra di Zoe allineati ai miei appoggiati al battiscopa.

Pescai le chiavi di scorta da dietro la casetta per uccellini che tenevo affissa alla colonna centrale del portico, in verità nessun volatile si era mai sognato anche solo di avvicinarsi a quella mia creazione ma tentar non nuoceva, e aprii la doppia porta.

«Zoe?», chiesi alla penombra solcata da leggeri spicchi rosso fuoco che penetravano dalle persiane. Feci un paio di passi, lo sguardo sul divano vuoto, il tavolino basso sgombro dalla solita pila di appunti per la bozza di nuove storie e racconti horror, la veranda deserta e i fili del bucato spogli da magliette nere svolazzanti.

Così com’era venuta ora s’era andata.

Come faceva sempre non aveva avvertito, non aveva chiesto il permesso, non aveva detto addio. Aveva raccolto le sue poche cose, le aveva impacchettate e si era chiusa la porta alle spalle.

Sul tavolo della cucina trovai un rapido bigliettino scribacchiato sul retro della busta dell’ultima bolletta del gas consumato nell’ultimo bimestre.

 

È giunta l’ora di tornare a casa. Ho mille idee che mi frullano in testa ma non riesco a capire cosa vogliono dirmi con tutto questo tripudio di cinguettii, fiori e raggi di sole a circondarmi. Non voglio correre il rischio di trovarmi a scrivere una storia d’amore tra una giardiniera e un avvocato affascinante che calpestava incurante il prato della suddetta giardiniera, perciò me ne torno tra le mie amate e crudeli vette in modo da poter creare qualche nuovo pervertito psicopatico con cui dilettarmi per qualche centinaio di pagine.

Smettila di pensare troppo e fai qualcosa, qualunque cosa essa sia.

Z.

P.S. Non chiamarmi per il prossimo mese: devo concentrarmi e per farlo sarà necessario che tagli i fili del telefono e disdica la connessione internet.

P.P.S. Ovviamente ti voglio bene e tante cose carine e fiocchettose varie, bleah!

 

Sorrisi, invidiando il carattere fiero e imprevedibile di mia sorella.

Non si era mai curata del giudizio degli altri, delle convenzioni e delle aspettative e sembrava dannatamente felice così. Aveva trovato la sua dimensione, la sua casa ed era riuscita a trasformare la sua aspirazione in realtà, anzi, aveva fatto di più, l’aveva trasformata in un successo che le fruttava migliaia di dollari e di fan cerebralmente instabili che la adoravano. Non che a lei interessasse, aveva sempre affermato che l’unico scopo dei suoi libri era che piacessero al lettore più importante e intransigente di tutti: lei stessa. Se fosse stata meno severa nei confronti del suo operato probabilmente ora la sua bibliografia consterebbe di trenta volumi e non di sole quattro opere.

Spalancai tutte le finestre facendo entrare più luce possibile e riposi la busta con il messaggio di Zoe nel mio quadernone dei ricordi che era prossimo alla disintegrazione tanto era consunto e pieno fino a scoppiare. Ero sempre stata una di quelle persone che amavano accumulare e conservare qualsiasi cosa, da un biglietto del tram ad una fototessera di mia nonna all’età di quindici anni.

Degli schiamazzi provenienti dal retro della casa mi distolsero dalla folla idea di provare a imitare quell’enorme chignon frutto di cotonatura e fiumi di lacca che acconciava i capelli di nonna nei lontani anni Cinquanta.

Mi sporsi fuori dalla finestra per vedere se mi ero immaginata il tutto o qualcuno aveva appena strillato e quando, in risposta al silenzio che mi accolse, stavo per ritirarmi in casa chiudendo i vetri, delle piccole urla mi fecero tornare sui miei passi.

Uscii in giardino cercando di capire da dove provenissero ma di nuovo non sentii altro che il fruscio delle fronde del salice e il canto di qualche grillo già in azione visto l’orario quasi serale.

Mi allontanai da casa mia, addentrandomi nel verde in direzione della mia piccola serra e del muretto di recinzione. Il rumore di un pianto lieve, come trattenuto, e di alcuni singhiozzi disperati furono la stella cometa che mi condusse al retro della parete di vetro che stava a nord, dove, accucciata a terra, stava una bambina.

Aveva degli enormi occhi grigi spalancati e appannati dalle lacrime che le scendevano copiose, un dito infilato in bocca e le ginocchia graffiate.

Mi avvicinai piano e non appena entrai nel suo campo visivo la piccola fece un balzo e si gettò verso di me, aggrappandosi disperata alle mie gambe e nascondendo il viso contro i miei jeans.

«Hei, cosa succede? Shhh, tranquilla, va tutto bene…», mi abbassai per poterla abbracciare stretta e calmarla cullandola piano.

Sentivo le sue piccole mani intrecciate dietro il mio collo e il suo respiro accelerato dallo spavento.

«Ci sono qui io adesso. Cosa ti ha fatto paura?», le chiesi allontanandola leggermente da me, nonostante le sue mani non accennassero a lasciarmi andare, e le asciugai piano le guance.

«Un brutto insetto…», mormorò guardandosi attorno circospetta.

Sorrisi pensando alla medesima reazione che aveva avuto Zoe due settimane prima quando aveva trovato una cavalletta sul davanzale, solo che lei invece che piangere aveva strillato fino a rimanere senza fiato e aveva fatto sfoggio di tutto il suo vocabolario di parolacce e improperi.

«Vieni, entriamo dentro la serra. Qui non ci sono brutti insetti ma solo i buonissimi frutti di bosco che io coltivo…», le spiegai afferrando la sua mano e facendole strada nell’ambiente umido della serra.

Era ancora presto per le fragole ma c’era già un profumo dolciastro a permeare tutto lo spazio, sperai che questo non avesse attirato troppe api altrimenti mi sarei ritrovata a fronteggiare una nuova crisi infantile.

«Come ti chiami?», le chiesi mentre la facevo sedere su una delle poltroncine di vimini che avevo posizionato accanto all’entrata per creare una sorta di piccolo salotto.

Lei si accomodò tutta impettita con la schiena, facendo attenzione a non appoggiare la schiena e la testa allo schienale.

«Arabella. Posso avere un fazzoletto, per favore?», mi rispose guardandomi attentamente. Percepii i suoi occhi su tutta la mia figura e vidi chiaramente il suo nasino storcersi di fronte alle mie scarpe di tela macchiate di terra e quei pozzi grigi si spalancarono quando si accorsero che stavo indossando degli shorts ridicolmente corti.

Come poteva una bambina così piccola farmi sentire a disagio?

Allungai una mano nella tasca sul retro dei miei pantaloncini e ne sfilai un fazzoletto, spiegazzato ma pulito.

Glielo porsi ma lei, invece di prenderlo e soffiarcisi il naso, mi domandò se ne avessi un altro.

«Questo andrà benissimo se davvero ne hai bisogno», la ripresi senza accennare ad assecondare quello che ai miei occhi era un semplice capriccio.

«Allora non lo voglio!», squittì guardandomi storto.

Era evidente che non fosse abituata a non essere accontentata in tutte le sue richieste pretenziose.

Sbuffai, feci un paio di passi nella sua direzione e mi chinai verso di lei. Dispiegai il fazzoletto e delicatamente le pulii il nasino appiccicaticcio.

Lei tentò di divincolarsi ma io ero stata più rapida e soddisfatta mi lasciai cadere sulla poltrona di fronte alla sua, il fazzolettino incriminato già fatto sparire nella mia tasca.

«Avevo detto di no», mi fece notare imbronciata lei.

Alzai le spalle con fare noncurante, «Devo aver capito male…»

Indossava un vestito di organza color celeste, più adatto ad una festa di battesimo che ad una scampagnata.

«Ti sei persa Arabella? Cosa ci facevi nel mio giardino?», la interrogai cercando di capire da dove fosse arrivata quella piccola principessina che ora stava guardando con espressione di disgusto una piccola macchia d’erba sulla punta della sua scarpetta di lucida vernice bianca.

Lei sollevò lo sguardo e mi guardò curiosa, «Come ti chiami?»

«Felicity»

La vidi annuire tra sé e sé come se la mia risposta le avesse confermato qualcosa che aveva già immaginato da sola.

Quella bambina era decisamente atipica e mi intimoriva leggermente.

«Quanti anni hai?»

«Non te l’hanno insegnato che non si chiede mai l’età ad una signorina?», mi rimproverò corrugando le sue sopracciglia chiare e scuotendo la testa di boccoli castani.

Per un attimo restai senza parole e mi limitai a fissarla interdetta mentre dentro di me mi domandavo sulla possibilità di trovarmi di fronte ad un cyborg con le sembianze di un’angelica bambina.

«Sì, ma non sono mai stata molto obbediente. Facciamo così: tu mi dici quanti anni hai e io farò lo stesso, ok?», le proposi curiosa di sapere quanti anni aveva quel piccolo robot…ehm volevo dire bambina.

Lei socchiuse gli occhi come se stesse riflettendo sulla possibilità che stessi cercando di ingannarla in un qualche modo subdolo e alla fine acconsentì mettendo come condizione che fossi io la prima a rivelare quel grandissimo segreto che costituiva la mia età anagrafica.

Quando le rivelai che avevo ventisei anni non reagì e si limitò ad inclinare il capo e a lanciare un altro sguardo stranito ai miei calzoncini di jeans.

«Io ne ho cinque ma tutti dicono che sembro più grande», affermò orgogliosa come se fosse naturale che una bambina a cinque anni fosse già scontenta della sua età e desiderasse essere più grande.

L’aspetto era quello di una bambina di cinque anni ma il comportamento era quello di un piccolo adulto e non sapevo perché ma la cosa mi metteva addosso una tristezza infinita.

«Ora mi vuoi dire cosa ci facevi nel mio giardino?», le domandai più dolcemente.

«Mi annoiavo e ho deciso di fare una passeggiata…», spiegò vagamente prima di alzarsi in piedi, sistemarsi il vestitino, lanciare un’ultima occhiata preoccupata alla scarpetta rovinata e chiedermi se poteva fare un giretto esplorativo della serra.

Annuii contenta e mi alzai a mia volta. «La tua casa ha un giardino?», chiesi mentre accendevo le luci e recuperavo il mio fido innaffiatoio.

«No. Abito in un loft in città e mia mamma trova la natura sporca e piena di microbi»

Seguii con lo sguardo quella piccola testa castana aggirarsi tra le file di piantine di ribes e di more. Mi ricordava qualcuno ma non avrei saputo dire chi.

Quella sua affermazione mi fece arrabbiare ma era inutile tentare di prendersela con la piccola, se aveva una madre idiota la colpa non era certo sua. Evidentemente Arabella era stata plasmata dalle idee della sua scellerata genitrice perché mentre camminava tra tutto quel verde sembrava estremamente a disagio.

«Io faccio la giardiniera e trovo la natura meravigliosa. Vieni qui, Arabella, e guarda…», aspettai che mi raggiungesse prima di indicarle la piccola fragolina pallida che faceva capolino tra le foglie di una piantina. «Da un seme la natura ci ha regalato ciò: una nuova vita, un succoso e delizioso frutto, altri semi per continuare il ciclo di bellezza e magia. Tutto questo è bellissimo non trovi? Vivevamo in mezzo a tutto questo splendore e poi mano a mano che ci evolvevamo ce ne allontanavamo. E così siamo passati dal vivere nella natura allo sfuggire da essa dentro a strutture di cemento e ferro. Ti pare sporco quello che vedi?», le porsi l’innaffiatoio e la aiutai a sostenerne il peso mentre l’acqua bagnava le radici della piantina.

«Quindi tu puoi mangiare queste fragole?», domandò la piccola guardando con occhi spalancati quel piccolo frutto ancora acerbo.

Capivo lo stupore, era lo stesso che io provavo ancora ogni volta che il mio giardino e il mio orto mi facevano dono di qualche nuovo e gustoso frutto o ortaggio. L’uomo poteva benissimo sopravvivere senza i supermercati, senza l’allevamento intensivo, senza i pesticidi e i prodotti chimici. Lo aveva fatto per secoli: cibarsi di quello che si coltivava, con fatica, sudore e tempo.

«Mi piacciono le fragole. Mamma però è allergica quindi Mercedes non le compra mai», mi disse quasi sovrappensiero.

Più parlava di sua madre meno quella donna mi piaceva.

«Bè, se mi dicessi da dove sei arrivata potrei regalartene un cestino quando saranno mature…», le proposi strizzandole l’occhio.

Lei si illuminò tutta all’idea e mi sorrise entusiasta.

«Arabella?»

Una voce attutita dalle pareti di vetro ci raggiunse e la bambina sbuffò a questo suono.

La presi per mano e spensi le luci prima di uscire nuovamente all’aria aperta.

«Non voglio andare da lui! Sta sempre al telefono e io mi annoio…», protestò la bambina puntando i piedi e rifiutandosi di seguirmi.

Sospirai rassegnata, chiedendomi che razza di genitori avesse quella poveretta, e mi fermai per potermi inginocchiare accanto a lei e convincerla a ragionare.

«Suvvia tesoro, non puoi -»

«ARABELLA! Questa volta hai esagerato! Quante volte ti- …Felicity? Cosa ci fai tu con lei?»

Alzai lo sguardo e incrociai due occhi grigi che mi scrutavano interrogativi.

Occhi grigi.

Chinai lo sguardo e fissai i medesimi occhi sul volto della bambina che mi stava di fronte con un’espressione preoccupata e una mano tra i miei capelli.

«Io…bè…non sapev-…come potevo-…»

«Papà, lei è la mia amica Felicity. Tu la conosci?», mi interruppe fortunatamente la piccola.

Liam Carter Wright annuì grave e allungò una mano, chiaro invito a seguirlo.

«Promettimi che ti ricorderai delle fragole. Per favore…», mi implorò Arabella stringendo le mie ciocche dorate e fissandomi con uno sguardo triste.

«Certo che me ne ricorderò! Torna a trovarmi e mi raccomando: non rivelare a nessuno quanti anni ho», scherzai abbracciandola piano e respirando il profumo di albicocca che emanava la sua pelle.

Lei ridacchiò contro il mio collo prima di staccarsi e prendere la mano del padre.

«Nessuno lo saprà mai. Segreto segretissimo!»

Li guardai incamminarsi mano nella mano e fissai quell’uomo così alto legato a quel piccolo esserino avvolto in un fatato vestitino azzurro e poco prima di sparire alla mia vista vidi Mr. Liam voltarsi a cercare il mio sguardo, gli occhi dispiaciuti e terribilmente belli.

Papà.

Accidenti!

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Fiori di lillà ***


 

Liam

 

«Sono le dieci e quaranta, Mr. Carter Wright. Tra meno di venti minuti avrà inizio l'udienza; non voglio metterle fretta ma deve ancora chiamare quelli della Brooks & Brooks e leggere l'ultimo fascicolo su Mr. Fry...». Diane era terribilmente irrequieta quella mattina e il suo continuo andirivieni dal mio ufficio accompagnato agli sguardi preoccupati che mi lanciava di soppiatto, convinta che io non me ne accorgessi, non aiutavano certo a calmare i miei nervi già a fior di pelle.

Lasciai perdere la mail che da dieci minuti buoni stavo cercando di concludere con scarso successo e alzai esasperato lo sguardo. «Cosa c'è ancora, Diane?»

Mi guardò dubbiosa, gli occhi indagatori e le braccia strette attorno alla sua, o per meglio dire mia, agenda voluminosa.

«Non ha messo la cravatta stamattina. Chiamo Inés e le chiedo di portargliene una? Grigio scuro? Vuole anche una camicia bianca pulita?»

Abbassai lo sguardo e fissai stranito il cotone verde pallido della camicia che indossavo, camicia che non ricordavo neanche di possedere.

Che mi stava succedendo?

«Lascio fare a te, Diane. Ora per favore concedimi un minuto di respiro», la congedai infastidito.

Mi pentii quasi subito del modo scortese con cui mi ero rivolto a quella santa donna che era la mia segretaria. Probabilmente se io fossi stato nei suoi panni mi sarei già macchiato di omicidio nei confronti del mio caro superiore, ovvero il sottoscritto.

Dovevo apparire davvero insopportabile agli occhi degli altri: posizione di spicco, conto in banca straripante, auto di lusso e resort esclusivi. E stronzaggine acuta inclusa nel pacchetto.

La triste verità però era un'altra: avvocato ultratrentenne, divorziato con figlia, pochi amici, famiglia lontana e un appartamento vuoto.

Mi domandai da quando fossi così diventato un amante dell'autocommiserazione. Mi ero sempre goduto quello che avevo, forse lo avevo fatto in modo superficiale ed egoistico, ma mi bastava così, mi andava bene così.

Allora cos'era cambiato? Quando avevo iniziato ad aspirare ad una vita che assomigliasse di più a quella dei miei genitori? Sembrava un controsenso, aspirare ora, a trentaquattro anni, alla vita da cui a diciotto era fuggito senza voltarmi indietro.

Eppure ci avevo già provato e il fallimento si palesava sotto forma dell'assegno di mantenimento a tre zeri che ogni mese dovevo versare per mantenere una figlia che non conoscevo e una ex moglie verso cui non provavo altro che rancore.

Tiffany era una spocchiosa ragazzina abituata ad avere un'autista da schiavizzare e un padre con cui bastavano due moine per poter spillare continuamente denaro.

Eppure era terribilmente bella. Si aggirava per il campus a mento alto, i sandali che ticchettavano al suo passaggio e uno sguardo altezzoso celato dalle lenti scure di un paio di ampi occhiali da sole con la montatura ad ali di farfalla.

Ai miei occhi di ragazzo povero di provincia lei rappresentava tutto ciò a cui io aspiravo. Ovviamente io ai tempi, matricola con le camicie in flanella e i libri di seconda mano, non avevo alcuna possibilità di avvicinarmi a lei e così mi limitavo a fissarla di soppiatto come si fa con gli animali più rari ed esotici allo zoo.

Tutto cambiò quando Mildred, migliore amica di Tiffany, iniziò a frequentare Matt e così, grazie ad un'uscita a quattro, ci ritrovammo per la prima volta faccia a faccia.

Il nostro primo incontro fu disastroso, lei si limitò a salutarmi con fare altero dopo che ci presentarono l'uno all'altro e poi passò tutta la sera a bisbigliare all'orecchio di Mildred, a fissarsi le unghie laccate di smalto lucido e a rigirare nel piatto le tre tristi foglie di insalata che aveva ordinato per cena.

Passarono due anni, Matthew e Mildred tra alti e bassi continuavano a stare insieme, io avevo aggiunto due corsi sulla finanza al mio programma di giurisprudenza e mi ero trovato un secondo lavoro presso il bar vicino all'università.

Tiffany l'avevo intravista spesso alle poche feste a cui partecipavo e ad seminario sul marketing ma non eravamo mai andati oltre un paio di cenni di saluto distratti. Non avevamo assolutamente nulla in comune se non i drammi d'amore periodici che vivevano i nostri migliori amici e perciò non avevo mai tentato di iniziare una conversazione.

Poi una sera di marzo, un temporale terribile a squarciare il cielo notturno e la sala del bar semi deserta, qualcosa era cambiato. Stavo sciacquando due boccali di birra mentre alla radio davano una vecchia canzone degli Smiths quando la porta si era spalancata e insieme ad una folata d'aria gelida aveva fatto il suo ingresso Tiffany.

Aveva i capelli umidi, il viso dal trucco sbavato e un impermeabile leggero completamente fradicio. Ricordo ancora come il suo portamento sempre fiero ed elegante riusciva a non farla apparire mai fuori posto, nonostante gli occhi arrossati o il look non proprio da prima pagina come al solito.

Ancora oggi sono convinto che uno può credere quello che vuole sul fatto che il destino sia già scritto o meno ma quella fu una mera coincidenza giocataci dal caso. Quella sera non ero di turno ma avevo dovuto sostituire all'ultimo momento il mio collega che si era beccato la mononucleosi per la terza volta nel giro di due mesi e in seguito scoprii che Tiffany si era gettata proprio in quel locale e non in quello di fronte per il semplice fatto che la nostra insegna aveva un aspetto più elegante e signorile.

Non mi riconobbe subito. Si sedette al bancone, lo sguardo fisso nel vuoto, e quando le domandai cosa potessi portarle mi chiese un thè caldo senza zucchero. Quando glielo servii mi ringraziò senza guardarmi negli occhi e iniziò a mescolare distrattamente il liquido ambrato nella tazza di fronte a lei. La osservavo in silenzio mentre mi domandavo cosa potesse essere successo per portare Tiffany Kennedy ad abbandonare il suo solito aspetto impeccabile e il suo atteggiamento fiero.

«Potrei avere una fettina di limone?». Lo chiese piano, così piano che inizialmente la sua voce si confuse con quella di Joni Mitchell che cantava in sottofondo e io pensai di essermelo immaginato.

Pescai un limone abbandonato nelle profondità del frigorifero del bar, locale non solitamente frequentato da avventori che ordinavano tisane calde, lo affettai e, dopo aver disposto qualche spicchio su un piattino, glielo servii.

«Hai corretto il mio thè, vero?»

Alzai lo sguardo e per la prima volta incontrai quegli occhi così glaciali da mettere a disagio chiunque avesse il coraggio di fissarli a lungo. Annui quasi imbarazzato ma non guardai altrove, deciso a non mostrarmi più debole di lei.

Dopotutto non era altro che una viziata figlia di papà a cui importava solamente di sé stessa, continuavo a ripetermi nella mente ricordando tutte le parole poco lusinghiere con cui Matt si rivolgeva a lei quando ne parlava.

«Ne avevo bisogno, grazie», mormorò sempre bisbigliando come se ci trovassimo in un luogo in cui dovessimo rispettare il silenzio. Poi corrugò la fronte e mi indicò, «Io ti conosco, vero?»

Disse proprio così e io mi sentii l'essere più patetico sulla faccia della terra. Io di lei sapevo praticamente tutto mentre lei neanche si ricordava di me.

«No. Sono amico di Matthew e conosco Mildred...», risposi allontanandomi da lei e tornando verso il lavello e le poche stoviglie che ancora attendevano di essere lavate.

Già ai tempi io e Mildred ci detestavamo cordialmente nonostante ci sforzassimo di mantenere sempre una patina di forzata cordialità quando ci trovavamo l'uno in presenza dell'altra.

Ad anni di distanza posso tranquillamente affermare che Mildred continuerà a non piacermi anche se in fondo potrei quasi considerarla un'amica ormai. Lei sicuramente si considera tale nonostante la scarsa gentilezza e le battute al vetriolo che continua a dedicare solo al sottoscritto.

Tiffany quella sera era diversa, probabilmente meno concentrata sul suo ego rispetto al solito o forse solo bisognosa di traslare la sua attenzione su qualcosa che non fossero i suoi problemi, e così si alzò e si posizionò sullo sgabello di fronte al lavandino dove mi trovavo io, palesemente intenzionata a non lasciarmi stare.

«Io ti conosco. E so anche il tuo nome...Louis? Neil?»

«Liam»

Lei sorrise come per scusarsi della sua dimenticanza e si sporse verso di me. «Hai degli occhi bellissimi. Chissà perché a Mildred è piaciuto di più quel broccolo di Matthew e non tu...», borbottò pensosa mentre con un dito seguiva il bordo della tazza in ceramica.

Iniziò tutto così e ancora oggi a volte mi domando come sia possibile che nel giro di due anni mi fossi ritrovato incastrato in un matrimonio che mi avrebbe portato a demonizzare in futuro qualsiasi tipo di amore a lungo termine.

Tiffany mi aveva prosciugato anima e corpo e per questo non l'avrei mai perdonata. Erano passati quattro anni dalla nostra separazione e ancora non avevo fatto pace definitivamente con me stesso, colpevole di averle permesso tutto quel potere su di me.

Lei voleva sempre di più e io avevo tentato in tutti i modi di offrirglielo ma i primi anni erano e sono duri per ogni neolaureato che non abbia già le spalle coperte da una famiglia influente e benestante e così quello che facevo non bastava mai. Quando era arrivata Arabella eravamo già in crisi da tempo e l'idea che un bambino avrebbe potuto riavvicinarci era stata un abbaglio. Non fece altro che sottolineare le nostre idee agli antipodi e mettere in luce l'ambiente completamente diverso da cui provenivamo.

Sono stato un pessimo padre ma non ho mai saputo come comportarmi nei confronti di quella bambina innocente, mia figlia, verso cui ho sempre provato un senso di colpa che probabilmente superava l'affetto paterno. Io e Tiffany eravamo colpevoli per aver voluto mettere al mondo quel piccolo essere per guarire i nostri problemi e alla fine tutto era andato in frantumi, come era prevedibile, e Arabella, a solo un anno di vita, si era trovata con due genitori separati che non sapevano minimamente cosa volesse dire fare da madre e padre.

Non avevo neanche tentato di tenere Arabella con me, avevo paura che il tutto si sarebbe concluso solo con il trascurarla e il delegarne le veci di genitore alla povera Inés e non volevo farle vivere l'incubo di una battaglia legale per l'affidamento tra me e sua madre, e così avevo accettato passivamente che andasse a vivere in California con Tiffany e i Signori Kennedy e mi ero accontentato delle quattro settimane annuali stabilite dal giudice che mi spettavano.

Crescendo a miglia e miglia di distanza da me, Arabella si era fatta sempre più distante e ogni volta che veniva a trovarmi mi accorgevo sempre più di non conoscerla. Non sapevo cosa le piacesse fare nel tempo libero, quale fosse il suo cartone animato preferito o quale gusto di gelato prediligesse. I nostri weekend si trascinavano nel mio imbarazzo di fronte all'incapacità di farle da padre e i suoi lunghi silenzi intervallati solo dalle poche parole che mi rivolgeva per chiedermi se poteva andare in bagno e quanto mancava al suo ritorno a casa.

Un lieve bussare mi distolse da quella marea di tristi riflessioni che mi aveva travolto.

«È ora. Nell'antibagno le ho lasciato camicia, giacca e cravatta e un'aspirina nel caso ne avesse bisogno. Il taxi l'aspetta all'ingresso sul retro», elencò Diane, gli occhi sempre più colmi di sincera apprensione mentre constatava che il fascicolo giaceva nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato lei poco prima e che avevo riposto la cornetta del telefono in modo tale che risultasse occupato a chiunque avesse tentato di contattarmi. «Se posso fare qualcos’altro…»

La ringraziai e le assicurai che aveva già fatto tutto il necessario e anche di più in modo impeccabile come al suo solito.

«Bene, allora in bocca al lupo e si rilassi: è il migliore nel suo campo e nessuno può metterla in difficoltà se lei dà il meglio di sé come al solito. Ci vediamo più tardi», e con un sorriso incoraggiante si eclissò discreta e silenziosa come sempre.

Avrei dovuto dare una festa super sfarzosa in onore di quella donna che da anni e anni mi sopportava, mi sosteneva e si prendeva cura di me senza mai risultare inopportuna o indiscreta. Diane era stata al mio fianco quando mi ero separato da Tiffany e non aveva mai sottovalutato il dolore che io cercavo di fingere di non provare.

Sfilai quell’orribile camicia verde, colore che probabilmente solo mia sorella Judith avrebbe potuto trovare elegante e indossabile, e mi vestii con gli abiti perfettamente abbinati e stirati che trovai nella stanza da bagno del mio ufficio.

Detti una rapida occhiata alla mia figura riflessa nell’ampio specchio, recuperai la mia ventiquattr’ore e mi avviai verso l’ascensore. Il taxi mi attendeva dove mi era stato indicato dalla mia efficiente segretaria e nel giro di pochi minuti mi ritrovai immerso nel traffico mattutino di Boston.

Avrei potuto ripassare i dati più specifici che avrei dovuto esporre nel corso del mio intervento in tribunale ma non ne sentivo il bisogno perciò per distrarmi estrassi il telefono dalla tasca interna della giacca dove lo avevo fatto scivolare poco prima.

Scorsi annoiato le diciassette email che mi erano arrivate nell’ultima ora, risposi rapidamente ad un paio di esse, le più urgenti, e chiusi la mia casella di posta. Sorrisi nel vedere la foto inviatami da Matt di suo figlio Gabriel sulla sua prima micro bicicletta, bardato da capo a piedi di protezioni in caso di caduta, che aveva un’espressione terrorizzata. Mi domandai se Arabella sapesse andare in bicicletta e mi riproposi di demandarglielo la sera stessa.

Il simbolo di una nuova mail illuminò lo schermo del mio telefono e stavo per metterla in attesa come tutte le altre quando mi accorsi chi fosse il mittente.

 

Mr. Liam,

Come stai? Devo ammettere che lo scoprire che hai una figlia mi ha lasciato un po’ interdetta. Perché non ne hai mai parlato? È una bambina deliziosa e ti assomiglia moltissimo, e non mi riferisco solo a quegli enormi e bellissimi occhi grigi.

Ti scrivo per chiederti se a te e Arabella andrebbe di venire una sera a cena da me. Spero davvero accetterete l’invito.

A presto!

Felicity

 

***

 

Qualche ora più tardi, dopo aver lasciato l'ufficio ed essermi districato nel solito ingorgo serale di persone che rientravano a casa, raggiunsi il mio appartamento e mi ricongiunsi con mia figlia, permettendo così a Inés di tornare dalla sua famiglia e prendersi una pausa dall’occuparsi della mia di famiglia.

«Ti sei divertita oggi?», domandai alla bambina seduta a gambe incrociate sul folto tappeto chiaro in soggiorno e impegnata a colorare su un ampio quaderno.

Mi sedetti alle sue spalle e ne approfittai per liberarmi di giacca e cravatta. Sbirciai  oltre le sue spalle minute per osservare il suo disegno.

C'erano tre figure sul foglio: una piccola, vestita di azzurro e con una grossa A disegnata sulla pancia, e due adulti. Una donna dai lunghi capelli castani etichettata con T e un uomo con i baffi che recava una panciuta R ricamata sulla camicia.

R non L di Liam. Strinsi gli occhi sorpreso dal dolore inaspettato che quel disegno e la mia apparente esclusione da esso mi aveva procurato.

Sapevo benissimo chi fosse quell'uomo, quei folti baffi a manubrio grigi non potevano appartenere a nessuno al di fuori di Mr. Reginald Kennedy. Che tra l'altro ancora mi riteneva il diretto responsabile di tutti i problemi della figlia e di riflesso della nipote. La verità era però un'altra: era stata proprio Tiffany a mandare all'aria tutto, sia la sua vita che la mia.

Suo padre ai tempi della separazione aveva inveito per giorni contro di me, lanciandomi accuse e rivolgendomi minacce. Erano passati quattro anni dall'ultima volta che avevo avuto il piacere di trovarmi al cospetto del vecchio Reginald e speravo con tutto il cuore che ne passassero altri cento prima che fossi costretto a rivederlo.

Aveva lo stesso carattere sanguigno e impetuoso della figlia, la medesima radicata convinzione di essere migliore degli altri e una altrettanto fastidiosa spocchia.

«Inés non sa cosa siano i My Little Pony e dice che le Barbie sono stupide», borbottò a mezza voce senza distogliere la sua attenzione da pennarelli e matite.

Sospirai pensando a quanto Inés criticasse la società moderna e il materialismo che la permeava. Me lo ripeteva sempre: «Señor Liam, stiamo andando così veloci che tra poco non sapremo più da dove siamo arrivati e dove volevamo andare». Nonostante il mio scetticismo avevo sempre rispettato il lato più spirituale e quasi profetico della mia insostituibile governante.

Allungai una mano verso il foglio quadrettato che Arabella stava colorando e indicai la figura maschile. «Com'è il Nonno Reginald?», le domandai curioso di sapere cosa ne pensasse quella bambina così intelligente e seria di quel vecchio burbero e capriccioso.

Mia figlia smise di calcare la sua matita rossa sulla carta e si fermò a riflettere. «Non posso chiamarlo nonno, solo Reggie, altrimenti si sente vecchio»

Quell'uomo era sempre insopportabile e lunatico come al solito a quanto pareva. Allungai le braccia e sollevai Arabella di peso per farla accomodare sulle mie gambe. Parlava come una adulta eppure non era altro che una bambina di soli cinque anni. Osservai quel nasino spruzzato di lentiggini e non potei fare a meno di pensare quello di Felicity, dalla forma meno infantile e più pronunciata ma altrettanto grazioso. E a proposito della mia giardiniera...

«Arabella, ti piacerebbe andare a cena da Felicity? Te la ricordi? La ragazza che hai conosciuto ieri in campagna...», le proposi sperando con tutto il cuore che dicesse di si o per lo meno facesse un sorriso o dimostrasse un po' di quel sano entusiasmo che caratterizza i bambini.

Lei mi sorprese e fece di più; arricciò le labbra in un sorrisetto ironico e mi chiese: «La ragazza delle fragole? Quella che ti piace?»

I bambini e la loro disarmante sincerità. No, non li avrei mai capiti quei piccoli folletti sempre persi tra le nuvole eppure ancora capaci di vedere la realtà in modo puro e autentico e di provare stupore di fronte ad esso.

«Giusto, la ragazza delle fragole...», asserii ignorando volutamente la sua seconda domanda, «Mi ha chiesto se ti andrebbe di cenare da lei una sera di questa settimana: che ne dici?»

Lei mi squadrò pensierosa prima di controbattere chiedendo se a me avrebbe fatto piacere accettare quell'invito.

Quella bambina era decisamente troppo intelligente e non sapevo se dedurre orgogliosamente da ciò che il mio patrimonio genetico poteva avere in qualche modo influito o se preoccuparmi per la precocità di mia figlia.

Quegli occhioni grigi, esatta copia dei miei, mi fissavano attenti, in attesa di una risposta. C'era una risposta giusta e una sbagliata? Oppure per Arabella era lo stesso?

«È stata gentile ad invitarci perciò io pensavo di accettare ma prima volevo sapere cosa ne pensavi tu. Questa dovrebbe essere la nostra settimana e dobbiamo fare solo cose che ti piacciono...»

La piccola tra le mie braccia si aprì in un ampio sorriso e per una volta sembrò semplicemente una bambina senza pensieri, «Allora andiamo! Sembrava simpatica anche se un po' strana Felicity...», esclamò appoggiando la testolina sul mio petto e sbattendo le ciglia di fronte al sole calante che penetrava dalla vetrata alle mie spalle.

I suoi soffici capelli castani mi solleticavano il collo e il  ritmo regolare del suo respiro lieve mi mise addosso una serenità che non provavo da tempo. Restammo così per alcuni minuti che parvero cristallizzare il tempo per renderli il più infiniti possibile prima che Arabella iniziasse a scalciare per scendere dalle mie gambe e mi riportasse alla realtà.

«Papà, ho fame!», esclamò con fare imperioso tirandomi per la manica della camicia come ad esortarmi a ricordare quali fossero i miei doveri basilari in veste di genitore.

Le chiesi se Inés avesse cucinato qualcosa, nonostante sapessi già la risposta, e lei mi raccontò per filo e per segno tutti i passaggi più minuziosi per preparare un’insalata di pollo e del sorbetto ai frutti di bosco. Quando le consigliai di mettersi qualcosa di comodo per la cena, non volendo macchiare quello splendido abitino rosa confetto e dare a sua madre un pretesto per incolparmi per una sciocchezza, lei mi guardò dubbiosa e ripeté esitante le mie parole, come a volersi sincerare della loro veridicità: «Cambiarmi il vestito? Posso davvero?»

Guardai senza capire mia figlia e lei mi spiegò di come Tiffany e Reginald ci tenessero al fatto che ci si vestisse eleganti, o perlomeno con un po’ di cura in più rispetto al giorno, per andare a cena.

«Certo che sì! Siamo in famiglia qui e puoi vestirti come preferisci…Anzi, sai che ti dico? Andiamo entrambi a toglierci questi abiti scomodi, ok?». Le afferrai la mano e la guidai verso la sua camera, dove un ampio guardaroba laccato di bianco svettava nell’angolo, spalancai le ante dell’armadio per lei e una fila ordinata di vestiti appesi alle loro grucce si parò davanti ai nostri occhi.

Tutto ciò era opera di Diane, alla quale avevo chiesto l’ennesimo favore che eludeva dai suoi compiti professionali, che si era mostrata gentile e disponibile come al solito e mi aveva aiutato in quell’ardua impresa, nella quale io, se fossi stato solo, avrei fallito miseramente non avendo la benché minima idea riguardo a cosa una bambina di cinque anni potesse trovare carino da indossare.

Mia figlia, poteva aver pure ereditato da me la sua pronta intelligenza ma il suo essere una piccola fashion victim in fasce era da imputare solo e soltanto alla madre. La piccola infatti, mani posate sui fianchi e sguardo pensieroso, prese a osservare attentamente gli abiti di fronte a lei prima di indicarmene uno color pesca. Sganciai la gruccia e glielo mostrai ma lei si limitò a scuotere il capo e a farmi cenno di metterlo via. Ricordava tantissimo Tiffany e il suo atteggiamento da principessina e questo non poteva certo rassicurarmi.

«Papà? Potresti prendermi in braccio? Da qui non vedo nulla», mi domandò avvicinandosi alle mie gambe e aggrappandosi ai miei pantaloni. Mi chinai e la accolsi tra le mie braccia, posizionandomi di fronte all’armadio aperto per darle modo di avere una panoramica completa del suo contenuto.

«Che ne dici di questa tuta in cotone rosa?», le proposi pescando la prima cosa capitatami sottomano.

Lei per tutta risposta storse il naso e sbuffò. «Papà! Cosa dici? Non dobbiamo andare a fare ginnastica!». Il suo rimprovero mi fece tornare alla mente lo stesso sentimento di umiliazione che provavo nei primi tempi del mio fidanzamento con Tiffany quando lei mi trovava impegnato a rammendare una calza o smacchiare una camicia e si metteva a ridere dicendo che le cose buche o sporche si cambiavano e basta.

Acciuffai la tuta, chiusi l’armadio e le feci appoggiare i piedi a terra. «Sei una bambina e i bambini mettono le tute quando sono in casa per stare comodi e poter giocare liberamente senza impicci. Forza, ora ti aiuto a sfilarti questo abitino da principessa…», non feci la voce cattiva ma non ce ne fu bisogno. Nel sentire il mio tono fermo Arabella abbassò la testolina e mugugnò un va bene sottovoce.

Pochi minuti più tardi, entrambi vestiti in modo decisamente più casalingo, iniziammo a preparare il tavolo per la cena. Estrassi la tovaglia, rinunciando per una sera alla mia triste tovaglietta di plastica, e la dispiegai sul tavolo e non sul bancone, dove solitamente consumavo in tempo record i miei pasti, a volte addirittura senza neanche sedermi. Arabella mi aiutò volentieri e fu una collaboratrice molto efficiente fino a quando iniziò a fare i capricci perché pretendeva per sé quello che lei chiamava il ‘coltello degli adulti’ e non quel pezzo di plastica colorata per nulla tagliente che era stato pensato per l’incolumità dei più piccoli.

«Papà?». Quando Arabella finì di strafogarsi di insalata di pollo e patate, sembrava che quella bambina non toccasse cibo da mesi, posò la forchetta e si rivolse al sottoscritto.

Continuai a sbucciare la mela che avevo tra le mani, con l’intenzione di farne delle fettine per lei, e annuii, in tacito segno di continuare.

Lei allunga la sua piccola mano paffuta e la posò sulla mia, senza stringere. «Ti voglio bene», sussurrò sorridendo subito dopo.

E il mio cuore perse un battito.

 

***

 

Eravamo partiti verso le sei, con il sole ancora luminoso, e ci eravamo lasciati il traffico e lo strombazzare dei clacson alle spalle. Arabella sembrava molto entusiasta; aveva insistito per vestirsi elegante e aveva obbligato Inès a preparare un cheesecake insieme.

Papà! Non si va a casa di altre persone senza portare nulla. Maleducato!, mi aveva sgridato mia figlia, facendomi sentire come un bimbo troppo birichino. E così avevamo impiattato e coperto la torta che ora riposava tranquilla sul sedile posteriore, nonostante le continue occhiate apprensive che Arabella continuava a lanciarle.

 «Piccola, non scappa la torta! Goditi il paesaggio piuttosto…», le consigliai indicandole il finestrino sinistro, oltre al quale scorreva un campo di fiori gialli.

Pochi minuti più tardi svoltai nel vialetto sterrato di fronte alla casa di Felicity, la quale ci stava già aspettando sotto il portico con una mano sulla fronte per ripararsi gli occhi dalla luce del sole che stava per tramontare.

«Benvenuti! Arabella, è un piacere rivederti! E che abito favoloso, sono quasi invidiosa. Mr. Liam…», trillò tutto d’un fiato non appena sganciai mia figlia dal suo seggiolino e questa zampettò in tempo record verso la ragazza.

«Anche il tuo vestito mi piace. Grazie per averci invitato!», cantilenò con un sorriso a trentadue denti la bambina non appena raggiunse il portico. «Ci saranno le fragole per cena?», chiese poi speranzosa.

Felicity scoppiò a ridere e, dopo averle afferrato la mano, sparì dentro casa trascinando la piccola con sé. Io indugiai ancora un poco lì fuori, l’aria satura dell’odore selvatico delle piante e dei fiori e la luce rossastra del sole calante a ricoprire come un’ombra tutto quanto.

Quando le raggiunsi Arabella stava indossando un grembiule giallo da cucina, rimboccato più volte sulla vita per fare in modo che non toccasse terra, e con un mestolo di legno stava mescolando tutta contenta il contenuto di un’ampia ciotola.

«Mr. Liam! Vieni ad aiutarci, su! Nessuno se ne deve stare con le mani in mano…», strillò Felicity braccandomi da dietro e imprigionandomi a mia volta in un grembiule troppo piccolo.

«Ti fa da gonnellina, papà!», si prese gioco di me mia figlia, la quale ormai aveva gettato impasto per tutta la cucina tanta foga metteva nel mescolarlo.

Quella scenetta domestica mi fece sentire a casa e mi ricordò la mia infanzia: Felicity intenta a controllare il timer del forno e a rimproverarmi perché me ne stavo imbambolato con la pila di piatti che mi aveva messo tra le mani invece di preparare il tavolo secondo i suoi ordini; Arabella scapigliata e felice, che ora era passata a risciacquare sotto l’acqua le foglie d’insalata a cui sembrava più stesse facendo un bagnetto nella vasca da bagno; ed io, grembiule ridicolo legato attorno ai fianchi e un senso di pace a pervadermi l’animo.

Quella era casa.

 

Buongiooorno!

Questo capitolo è sì corto ma ho deciso di pubblicarlo ugualmente per festeggiare il traguardo delle 1000 visite e letture che il primo capitolo di questa storia ha ricevuto. Dedicarvi un immenso grazie è poco e così vi dedico questo capitolo e un gigantesco abbraccio. Ammetto di essere incostante nell’aggiornare e confesso che questo capitolo mi suona ancora (nonostante ci abbia lavorato a lungo per non renderlo zuccheroso da diabete) un pochetto stucchevole ma vabbè a voi il giudizio ché tanto io sono sempre scontenta riguardo ai miei scritti.

Ultimo appunto: sto scrivendo una nuova storia e se voleste farci un saltino vi regalerei anche un biscotto oltre che ad un abbraccio 💕 (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3444659&i=1)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Fragoline di bosco ***


Felicity

 

 

 

 

«Papà, ho sonno…», aveva borbottando Arabella, stropicciandosi gli occhietti grigi stanchi, una mezz’oretta prima per poi crollare sul divano.

 

Avevo spiato segretamente dalla soglia della cucina Liam posare delicatamente il corpicino della figlia tra i cuscini, sistemarle il plaid leggero che tenevo vicino al portagiornali sulle spalle e accarezzarle i boccoli sparsi. Avevo sorriso di fronte a quella scenetta e mi ero ritirata in silenzio verso il lavello e la pila di piatti sporchi che mi attendevano.

 

Mr. Liam aveva poi insistito per darmi una mano con le stoviglie da lavare e così, dopo aver accostato la porta per non disturbare la bambina, avevamo iniziato a lavorare fianco a fianco. Io passavo la spugnetta, li sciacquavo sotto l’acqua tiepida e poi glieli passavo per permettergli di asciugarli ed impilarli in ordine. Non parlammo ma stranamente mi sentii molto più vicina a quell’uomo distante di quanto fossi mai stata.

 

Una volta ripulita la cucina e i fornelli gli proposi di prenderci un caffè in veranda. Lo invitai ad andare ad accomodarsi mentre io preparavo il tutto. Gli preparai un espresso, prodotto dalla mia macchina del caffè di cui andavo veramente orgogliosa, e scaldai l’acqua per la mia tisana ai frutti di bosco. Aggiunsi all’ultimo qualche biscotto, promettendo che poi ci avrei dato un taglio con tutti quei dolcetti fuori pasto.

 

Quando lo raggiunsi notai che si era seduto sulla poltrona che solitamente occupavo io e quando si accorse del mio arrivo distolse lo sguardo dal giardino buio e mi dedicò un tiepido sorriso. Chissà se quell’uomo sapeva ridere di tutto cuore…

 

«Da qui si riesce a vedere il cielo che, tra l’altro, stasera è bellissimo…», osservò tornando a guardare oltre le pareti in vetro.

 

Lo sapevo molto bene, avevo passato notti intere accoccolata su quella poltroncina in vimini a naso in su, gli occhi rivolti al firmamento.

 

Lui si stiracchiò, un gesto che trovai estremamente familiare e per questo insolito data la sua tradizionale compostezza, e mi confidò piano: «Da bambino sognavo di fare l’astronomo. Scrutare per ore gli astri, attendere mesi per poter vedere un pianeta in una determinata posizione…», poi parve riscuotersi e aggiunse: «Ma era solo uno sciocco desiderio infantile»

 

Allungai le gambe sul divano e scossi la testa nella penombra. «Non è vero, Mr. Liam. I sogni che si hanno da bambini sono qualcosa di puro e autentico. Io sto facendo proprio quello su cui fantasticavo da piccola: rendo belle le cose, omaggio la natura e regalo piccoli angoli fioriti alle persone»

 

«Non fai testo, Felicity. Comunque tu avresti avuto le spalle coperte. Io dovevo riuscire a diventare qualcuno. Dovevo cambiare le cose e per farlo mi servivano prestigio e soldi, certamente non telescopi e mappe di costellazioni!», ribatté, una punta di frustrazione nella voce.

 

Quel suo commento iniziale mi indispettì. Avrei dovuto esserci abituata: da sempre le persone pensavano che in quanto di famiglia benestante fossi immune ad ogni problema. Mi sentivo giù? Papà poteva regalarmi una vacanzina ai Caraibi, no? Mi sentivo sola e incompresa? Papà poteva spedirmi dal miglior psicanalista del paese, giusto? Non era mai stato così. Le persone mi avevano sempre giudicato per quello che mio padre e mia madre possedevamo e non erano mai stati imparziali nei miei confronti. Come può una ricca ragazzina sentirsi malinconica? Ero consapevole che il mondo fosse pieno di persone veramente sfortunate e che io ricoprissi una posizione privilegiata, ma questo non toglieva il fatto che la mia vita non era stata comunque sempre tutta rose e fiori.

«Non fare anche tu l’errore di vedermi solo come Ms. Van Houten. Ci sono che tu non sai di me, perciò non permetterti di dire certe cose. Cosa credi? Io non sono proprio il tipo che dice ‘Vabbè, tanto Papino finanzia quindi io di professione posso fare il lazzarone’, speravo lo avessi capito ormai…», esclamai amareggiata.

 

Mi rannichiai su me stessa, le mani strette intorno alla tiepida ceramica della tazza e gli rivolsi uno sguardo deluso. Lui parve pentirsi delle sue parole e si sporse verso di me: «Scusa, non era mia intenzione Felicity. Mi sono espresso male. Devi sapere che io sono cresciuto in una famiglia tanto numerosa quanto modesta. Non mi sarei mai sognato di possedere un’auto che valesse più di 2000$ e che non fosse di terza o quarta mano! Mai avrei potuto immaginare che sarei arrivato a possedere più di una casa o una barca. Condividevamo tutto e cercavamo di arrivare a fine mese. Calze buche e rattoppate per la centesima volta, zuppa leggermente allungata e sussidi statali erano la mia quotidianità. Io sono scappato da quella vita, probabilmente spaventato dall’idea di ritrovarmi in un batter d’occhio ad essere un padre di famiglia che faticava a sfamare i figli e a garantirgli un’istruzione basilare. Ho fatto tanti errori nella mia vita ma non recrimino certo i miei genitori, loro hanno fatto ben più di quanto le loro possibilità e la loro educazione permettesse. Ho lavorato, ho studiato notte e giorno, ho subito tantissime umiliazioni per arrivare dove sono ora e ne sono fiero»

 

Ascoltai sempre più sorpresa quel discorso così intimo che veniva direttamente dalla parte forse più tormentata e nascosta di quell’uomo sempre lontano ed imperscrutabile. E così capii, compresi che anche lui era sempre stato giudicato per tutto quello che lo circondava e mai per le sue vere capacità. Era una situazione esattamente antitetica alla mia eppure entrambi avevamo reagito allo stesso modo: eravamo scappati.

 

Quasi senza accorgermene allungai una mano e gli lasciai una lieve carezza sul braccio. Lui a quel contatto alzò gli occhi e mi dedicò uno sguardo pieno di gratitudine e comprensione.

 

Non so perché ma mi ritrovai a narrargli come fossi davvero finita  a fare la giardiniera da strapazzo. Gli raccontai di come, ad undici anni non ancora compiuti, Papà andasse a giocare a golf con il rettore di Harvard e insieme progettassero di inserirmi nel corso di legge avanzato con addirittura un anno di anticipo e senza neanche sottopormi ad un test attitudinale o un quiz selettivo perché tanto ‘è figlia tua e la genetica non mente’. Mi ritrovai così, a sedici anni, da sola in un loft a Cambridge, perché mia madre al solo sentir nominare la parola ‘studentato’ aveva borbottando qualcosa a proposito di bande di depravati, furti e festini alcolici, prima di simulare uno svenimento. Avevo passato sere intere a piangere al telefono con Zoe e a supplicare mio padre di farmi tornare a casa o almeno di permettermi di cambiare corso di laurea. Trascorrevo le notti sui libri di diritto penale senza capirci assolutamente nulla e la mia unica consolazione la trovavo nel prendermi cura della mia terrazzina fiorita. Al termine del primo anno, con il solo esame di lingua inglese passato alle spalle e un esaurimento nervoso che stava per avere la meglio su di me, mamma finalmente si era resa conto che così non si poteva andare avanti e fece una cosa per cui le sarò sempre grata: si oppose a mio padre. So che può sembrare un nonnulla ma voi non sapete cosa significhi avere a che fare con Montgomery Van Houten, non ne avete proprio idea. Abituato ad avere sempre il controllo su tutto e ad occupare una posizione di superiorità non concepiva il fatto che qualcuno avrebbe potuto ribellarsi ai suoi piani accuratamente redatti.

 

«Ammetto che persino io mi sono sentito in soggezione di fronte a tuo padre...Come si è risolta quindi la faccenda?», mi chiese interessato, sorseggiando il suo caffè ma non distogliendo gli occhi attenti dal mio viso.

 

Mi rigirai pensosamente una ciocca si capelli tra le dita mentre con la mente ritornavo a quella terribile estate fatta di silenzi densi, occhiate di disapprovazione e occhi segnati dalla stanchezza. «Continuai a frequentare giurisprudenza ma ottenni il suo benestare per affiancare ad essa anche degli studi paralleli e io scelsi botanica e scienze naturali. Da lì in poi le cose migliorarono decisamente: compresi quale fosse la mia vera passione, riuscii a superare gli esami di legge e conobbi Theodore…»

 

«Mi pare assurdo pensare che hai studiato sugli stessi banchi dove poco prima ero passato io; ci saremmo potuti conoscere anni fa…», mormorò piano.

 

Gli rivolsi un’occhiata in tralice: «Ti pare assurdo che una ragazzina che per campare pianta fiorellini possa avere il tuo medesimo titolo di laurea conseguito nello stesso prestigioso ateneo?», lo provocai con tono di sfida.

 

Lui arricciò le labbra in una sorta di buffa smorfia prima di negare, ma vidi chiaramente il luccichio divertito nei suoi occhi.

 

Balzai giù dal divano e gli puntai un dito contro il petto:  «Mascalzone! Davvero ti sorprende questa cosa?»

 

Un pochetto ci rimasi male perché non credevo davvero che anche un uomo intelligente come Mr. Liam potesse cadere vittima di quegli sciocchi luoghi comuni che associavano sempre le persone con un lavoro umile e manuale ad un livello di istruzione irrisorio.

 

Lui mi imitò e, una volta in piedi a sua volta, mi ritrovai in una posizione di svantaggio, sovrastata com’ero dal suo metro e novanta. «Non avevo dubbi sul fatto che fossi sveglia, solo non immaginavo lo fossi più del sottoscritto. Non sopporto le persone più in gamba di me, tutto qui: pure manie di protagonismo», sussurrò piano scompigliandomi i capelli delicato.

 

Le mie labbra si stirarono autonomamente in un sorrisetto vittorioso: «Stavi apertamente ammettendo che sono più brillante io? Oh, quale soddisfazione! Anche se a tal proposito io non avevo mai avuto dubbi…», mi presi gioco di lui sollevando le sopracciglia e scuotendo la testa.

 

In quel momento si sentirono dei passettini sul legno chiaro della veranda e una vocina ci interruppe: «Papà? Voglio anche io un pesce come quello di Felicity, posso averlo? Papà?»

 

A quanto pareva George aveva fatto colpo. Mi piegai sulle ginocchia e sussurrai nell’orecchio della bambina: «Quel pesciolino là dentro è il mio migliore amico, sai? Ascolta tutto quello che ho da dire e non è mai scorbutico o distratto». Vidi i suoi occhi, ancora assonnati, spalancarsi nell’udire quel segreto e la sua piccola bocca si aprì sorpresa senza però emettere nessun suono.

 

«Poi chi se ne prende cura quando tu non ci sei?», le domandò Liam, come sempre troppo serio e preoccupato anche per le più piccole inezie.

 

Presi tra le braccia la bambina, che si stava già rabbuiando nel sentire la risposta del padre, e le sorrisi. «Potrei tenerlo io quando tu sei dalla tua mamma, che ne dici? Prometto di dargli sempre la pappa e Georgie potrà fargli compagnia, non è una bella idea?»

 

Poco dopo mi lasciarono sola a guardare i fari della loro macchina che si allontanava. E mi ritrovai a provare un moto d’affetto incondizionato nei confronti di quella piccolina divisa tra due genitori, tra due case, tra due coste differenti di una nazione. Da piccola tremavo ogni volta che mia madre, dopo una lite con papà, minacciava di lasciarlo. Ora penso che non potrebbero mai davvero dividersi, sono entrambi poco pazienti, nevrotici e convinti di essere persone cordiali ma di polso e insieme formano un duo indissolubile. Mio padre sarà sempre un uomo troppo impegnato e sempre pronto ad esprimere il suo dissenso tramite brontolii e sbuffi; così come mia madre sarà sempre leggermente schizofrenica e svagata. Eppure è da anni e anni che, non importa quanti chilometri li separino, si sopportano e si continuano a cercare. Montgomery Van Houten probabilmente odia il romanticismo tanto quanto il Grinch detesta il Natale eppure una volta mi ha confessato che quando viaggia per lavoro si ritrova sempre ad osservare le cose belle o ridicole e a pensare a quanto sarebbero potute piacere a Grace o quanto avrebbe riso di fronte a ciò. E io l’ho sempre trovata una cosa semplicemente meravigliosa.

 

Era un qualcosa che mi aveva sempre attratto il matrimonio e il rapporto che questo racchiudeva. Quando due persone si promettevano rispetto, fedeltà e sostegno nel bene e nel male di fronte ad un’autorità, laica o religiosa che fosse, erano nel fior fiore dell’innamoramento e non avevano la minima idea di quanto quel sentimento sarebbe potuto durare. Forse per sempre, forse un paio di anni. Quanto sarebbe durata quella felicità e quell’amore? Nessuno poteva saperlo eppure si poteva decidere di avere fiducia l’uno nell’altro e provare ad affrontare il futuro fianco a fianco. E io, Felicity Van Houten, era dalla tenera età di quattro anni che non aspettavo altro.

 

***

 

 

Da: l.carter.wright@gmail.com

A: felicity.vh@gmail.com

Object: A proposito di quel pesce rosso…

 

Ora ho una famiglia di pesci che abita nel mio salotto. Mi chiedo di chi sarà mai stata la brillante idea…

Arabella pare al settimo cielo e prima di andare a letto (ha insistito per portarsi  la boccia in camera) ha voluto leggere loro una favola della buonanotte.

Inutile dire che ti devo ringraziare, forse.

 

L. Carter Wright

 

 

Nascosi un sorriso dietro il bordo ricamato della coperta leggera in cui ero avvolta. Avevo lavorato tutto il giorno sotto il sole cocente e quando finalmente ero tornata a casa mi ero ritrovata con un fastidioso mal di testa e la sola voglia di sdraiarmi ad oziare in compagnia di una vaschetta di gelato. Non avevo la concentrazione necessaria per riprendere la lettura della biografia di Charles Darwin, regalo pasquale di Theo, e non ero neanche dell’umore adatto per cucinare o riordinare casa. Volevo solo godermi un attimo di pace usando meno muscoli possibili.

 

E quando aprii la mia casella di posta elettronica e ci trovai quel messaggio ancora chiuso in attesa mi rallegrai tutta d’un colpo. Mi accorsi solo dopo svariati secondi che sotto a quello c’era un’altra bustina lampeggiante il cui mittente era un certo Prof. Theodore H. Graham.

 

Era la prima volta che mi scriveva da quando avevamo avuto quella sorta di lite via etere che si era conclusa con lui che si disconnetteva bruscamente da Skype senza neanche cercare di provare a riconciliarsi con la sottoscritta. Nonostante fossi curiosa di sapere cosa avesse da dire a proposito il signorino non avevo resistito e avevo deciso d’impulso di parcheggiarla per il momento e aprire immediatamente quella di Mr. Liam.

 

Mi sentii per un momento come una specie di Tata Matilda (magari un po’ più bellina, dai) con la missione di mettere pace e una spruzzatina di gioia nella vita di Liam Carter Wright e della sua deliziosa figlioletta Arabella. Un po’ lo invidiavo perché, nonostante non avesse avuto la storia d’amore da favola, aveva pur sempre una dolce creaturina tutta sua di cui prendersi cura.

 

Nel pensare a ciò mi si imporporarono le guance dalla vergogna del ricordo di quando avevo accarezzato l’idea di mentire a Theo e fare in modo di restare incinta a sua insaputa. Era stato un pensiero terribile, egoista e meschino e mi ero pentita due secondi dopo averlo formulato eppure era da allora che sognavo di avere dei bambini con la stessa frequenza con cui fantasticavo riguardo al mio tanto agognato futuro fiabesco con principe azzurro, ranocchie e scarpette di cristallo.

 

Iniziai a digitare di getto la risposta senza dover pensare troppo a cosa scrivere, con una naturalezza che non avevo mai quando invece scrivevo al mio fidanzato. Con Theo avevo sempre la sgradevole sensazione di essere sotto esame, che ogni mia parola, decisione o passo fosse attentamente analizzato e poi valutato: approvato o bocciato. E la cosa che più di tutte mi faceva impazzire era che il tutto avveniva in silenzio. Perché un conto è scoprire le proprie carte e dire chiaramente che una determinata cosa non è stata gradita, un altro invece è il giudicare e il rimproverare con sguardi risentiti, silenzi carichi di biasimo e i tentativi di evitarsi in un chiaro segno di muta critica.

 

 

Da: felicity.vh@gmail.com

A: l.carter.wright@gmail.com

Object: Re: A proposito di quel pesce rosso…

 

Posso suggerire dei nomi per i nuovi membri della famiglia Carter Wright? Io opterei per qualcosa che sdrammatizzi quel cognome pomposo che si ritrovano…Aldo? Gino? Vito Corleone? Un pesce rosso con il nome del mafiosissimo Padrino mi pare molto appropriato, non credi?

Quando riparte Arabella?

 

F.

 

Schiacciai il tasto di invio, senza ricontrollare la sintassi e l’ortografia di quanto avevo appena battuto a computer cosa che invece dovetti fare prima di dare l’avvio alla spedizione dell’email per Theo.

Era stato insospettabilmente carino e molto poco prolisso o concentrato su di sé, cosa assolutamente poco da lui. Anzi, se dovevo descrivere la sua missiva avrei usato tre parole: sintetica, risoluta e scritta certamente dal gemello cattivo di Theodore.

 

 

Da: th.graham@harvard.edu

A: felicity.vh@gmail.com

Object: -

 

Noi due dobbiamo parlare e dobbiamo farlo presto perché così non si può andare avanti.

 

Professor T. H. Graham

 

Non aveva messo l’oggetto! Voi forse non potete capire pienamente la grandezza di questa cosa ma vi dico solo che una volta, in preda ad un attacco di pigrizia e poca fantasia, gli inviai una mail senza oggetto e lui mi rispose con tre fogli di rimproveri a cui allegò un file di quelli che i professori di Harvard rifilano alle povere matricole per insegnare loro come scrivere correttamente delle eventuali email indirizzate ai propri docenti.

 

Non si era però dimenticato di firmare in modo completo come se io potesse mai dimenticarmi del fatto che fosse un fastidioso professore e tanti blablabla. Cosa avrei dovuto rispondere ad una lettera del genere?

 

Hai ragione?

 

Bene, allora muovi le tue chiappette d’oro. Io ti aspetto qui?

 

Hei, Theo, e l’oggetto???

 

Sbuffai esasperata; non sopportavo quel genere di messaggi assolutamente oscuri e criptici. Si manteneva sul vago, senza fornire riferimenti temporali e spaziali, e mi ordinava implicitamente qualcosa, come se fossi una bambina da ricondurre all’ordine.

 

Dobbiamo parlare. Che modi erano quelli? Io non dovevo fare proprio nulla se non finire il mio barattolino di gelato cioccolato e caramello avendo ormai quasi raggiunto il fondo in plastica della confezione.

 

Chiusi la conversazione e anche il pc, sprofondando tra i cuscini alle mie spalle, e ripresi in mano il cucchiaino. Quando si parla di comfort food…

 

 

***

 

 

«Mi raccomando: innaffia le piantine tutti i giorni e tra poco avrai le tue personali e gustosissime fragole, non mangiarti tutti i biscotti sull’aereo altrimenti poi ti viene mal di pancia e non ti resterà che contorcerti dal dolore per tutto il volo e penserai sempre con risentimento a me e ai miei dolcetti e soprattutto, Arabella, torna presto!», non riuscii a terminare l’ultima frase che la bambina si gettò tra le mie braccia andando a cozzare con la sua testolina contro la mia mandibola.

 

«Ahi!», esclamammo all’unisono prima di guardarci negli occhi, scoppiare a ridere e tornare ad abbracciarci.

 

Accarezzai piano quei morbidi capelli boccolosi che avevano la consistenza delle piume di un pulcino e inspirai quel dolce odore che solo i bambini sotto i sei anni ancora conservano: borotalco, calore umano e albicocca.

 

Due minuti più tardi Liam le infilò sulle esili spalle il suo zainetto azzurro di Frozen, le lasciò un ultimo bacio sulla fronte e la consegnò alle cure dell’assistente di volo che avrebbe badato alla piccola fino all’atterraggio in California e al passaggio di testimone, ovvero Arabella, nelle mani di sua madre Tiffany della famiglia Kennedy.

 

Il sole stava tramontando e centinai persone, cariche di bagagli, scorrevano rapidamente intorno a noi, tutte dirette chissà dove. Sapevo benissimo che Liam aveva scelto quel volo nella vana speranza che la figlia riuscisse a dormire durante il volo in modo da arrivare riposata e non accusare troppo le tre ore di fuso orario. Lo osservai di nascosto mentre ci dirigevamo fianco a fianco verso l’uscita del Logan International Airport e mi intenerii nel vedere i suoi occhi velati di malinconia.

 

«Agosto arriverà presto e poi potrai averla con te per due intere settimane…», cercai di consolarlo mentre gli sfilavo davanti, approfittando della sua gentilezza nel volermi sempre aprire le porte e farmi passare per prima.

 

Lui non parve risollevarsi alla notizia, anzi, se possibile si rabbuiò ancora di più. Ecco, ora chissà quale brutto pensiero gli avevo fatto tornare in mente. Decisi così di non infierire ulteriormente e lo seguii obbediente verso l’immenso parcheggio sotterraneo. Pagò l’importo indicato alle macchinette automatiche, agguantò in modo brusco il ticket rilasciatogli e fece dietrofront verso la sua auto.

 

Io guardai con sguardo perso quelle file infinite di auto tutte uguali. Chissà perché la gente amava acquistare autovetture di colori sempre uguali: nero, blu, grigio. Una massa uniforme di lamiere luccicanti che non aiutavano certo il mio già forte senso di disorientamento.

 

«Ti ricordi dove l’hai parcheggiata?», domandai dubbiosa cercando di ricordarmi quale lettera contrassegnasse il nostro settore ma l’unica cosa che mi venne in mente fu che avevo passato tutto il tempo a lasciare che Arabella intrecciasse i miei capelli in modo disordinato con le sue manine paffutelle perché voleva trasformarmi in Elsa.

 

«Certo», asserì lui, svoltando sicuro a sinistra.

 

«Ovviamente…», borbottai sottovoce di fronte all’ennesimo sfoggio di Liam-perfezione.

 

Quell’uomo era stato progettato in laboratorio? Probabilmente sì, mi consolai mentalmente pensando che sua sorella Judith invece aveva un’automobile color zucca e nonostante ciò una volta, ovviamente una volta in cui anche io ero presente, la aveva smarrita ugualmente.

 

Una volta accomodatami sul sedile del passeggero non smisi certo di preoccuparmi del fatto che ipoteticamente parlando c’era la possibilità che stessi dividendo l’auto con un robot, soprattutto notando nuovamente quanto guidasse bene.

 

Teneva in modo sicuro il volente, frenava dolcemente e ripartiva in modo deciso ma mai brusco. Non saliva sui marciapiedi per sbaglio, non passava con il giallo e non rischiava di investire i ciclisti: tutte cose che io facevo abitualmente.

 

«La tangenziale è dall’altra parte, sai? Ne sono certa perché è l’unica strada che riesco ad identificare senza Google Maps…», gli feci notare indicando l’ampio l’imbocco sulla destra che aveva appena superato.

 

Lui, come sempre, ignorò quello che avevo appena detto e continuò imperterrito a fissare la strada di fronte a sé. Tamburellai le dita sulla pelle scura del mio sedile per decidermi sul da farsi. Avevo visto tanti, troppi, film d’azione per colpa della mia amicizia di Donovan, anche se a Tom Cruise e Matt Damon non si dice mai di no, e perciò pensai alla possibilità di aprire la portiera, gettarmi dall’auto in corsa, fare quella strana mossa di rotolamento sull’asfalto, possibilmente non lasciando su quest’ultimo tre quarti di pelle, per poi rialzarsi tutti baldanzosi in piedi, sani e salvi, mentre l’auto con il nemico salta in aria in lontananza.

 

Provai a tirare con cautela la maniglia della mia portiera e con mio enorme stupore mi accorsi che era stata bloccata.

 

Girai lentamente la testa verso il mio autista. «Con te non si sa mai…», mugugnò senza distogliere la sua attenzione dalla strada.

 

Rinunciai ai miei propositi alla 007 e mi lasciai andare contro lo schienale del sedile. «Questo è un rapimento?», gli domandai  stridula.

 

«Può darsi», mi rispose con la sua solita faccia tosta.

 

Ecco, così imparavo ad invischiarmi in questioni familiari che non mi riguardavano. Questa era la giusta punizione per la mia volontà nel voler dar sempre confidenza a tutti e non mettere dei paletti nel mio rapporto con i clienti. Dal passare da piantare tre piantine aromatiche all’organizzare un barbeque insieme io ci impiegavo esattamente tre minuti.

 

Madre me lo ripeteva sempre, fin da quando da piccola un signore mi invitò a salire sul suo furgoncino, cosa che avrei fatto tutta felice se non fossi stata prontamente trattenuta da Zoe, la cui già da bambina era dotata di una mente perversa che la portava a diffidare di tutti e a schifare la maggior parte degli esseri umani, mi ripeteva sempre che avrei fatto una brutta fine se non avessi imparato a dire di no alle caramelle offertemi e a non sedermi sulle tazze dei wc pubblici.

 

«Sei certo di voler rapire proprio me? Fossi in te mi abbandonerei accanto sul ciglio della strada e andrai a cercare qualcuno come Rachel McAdams o Blake Lively…», gli proposi cercando di mettere fine alla sua brutta abitudine di troncare ogni mio tentativo di capirci qualcosa in quella situazione alquanto ingarbugliata.

 

«Ne sono certo», mi zittì prontamente lui.

 

Nulla, facevo prima a conversare con il conduttore radiofonico che ora stava gracchiando qualcosa a proposito della nuova canzone che segnava il ritorno di Justin Timberlake. Cosa? COSA? Io amo Justin! Fin da quando aveva i ricciolini biondi ed era un super tamarro.

 

…I got this feeling, inside my bones
It goes electric, wavey when I turn it on
All through my city, all through my home
We're flying up, no ceiling, when we in our zone…

 

Allungai la mano verso la schermata touch della radio e alzai il volume ad un livello quasi insopportabile che, se non si fosse trattato di Justin del mio cuoricino, sarebbe stato assolutamente un gesto da pazzi.

 

Abbassai il finestrino, se dovevo comportarmi da truzza volevo farlo in modo convincente, e iniziai a cantare a squarciagola, mettendoci particolare impegno per imitare i versi in falsetto:

«I can't stop the feeling
So just dance, dance, dance
I can't stop the feeling
So just dance, dance, dance, come on
»

 

Dance, dance, dance! Wooo, iniziai a muovermi seguendo il ritmo della musica, per quanto gli spazi ristretti dell’auto potevano permettermelo, e continuai così fino a quando Rihanna prese il posto di Justin e io mi affrettai a cambiare stazione radio.

 

Quando tornai in me e mi ricordai che ehm, non ero propriamente sola, come al solito quando improvvisavo le mie sessioni di danza improvvisate e scoordinate, e trovai il coraggio di voltare il capo mi scontrai con Liam che tentava in tutti i modi di trattenersi per non scoppiare a ridere.

 

«Ridi, non vorrei mai che ti soffocassi nel tentativo di trattenerti dal prenderti gioco di me e della mia spensieratezza e uscissimo di strada andando a spiaccicarci contro quell’autobus», borbottai quasi offesa.

 

A dire il vero mi sorprendeva quasi il fatto che non avesse spento la radio e di conseguenza anche il mio entusiasmo ballerino nel suo tipico atteggiamento serioso guastafeste.

 

«Permalosa», sogghignò per punzecchiarmi.

 

Era incredibile come riuscisse ad irritarmi ma in un modo quasi piacevole non come quelle persone che ti indispongono e come conseguenza vorresti solo picchiarle con una sedia. No, Mr. Liam era fastidioso e spesso anche più infantile di me eppure anche quando ti tediava o si faceva beffe di te lo faceva in un modo quasi gentile e premuroso. Oddio, ho davvero associato l’attributo di premuroso a quella sorta di uomo gigante che ora sta sghignazzando senza vergogna sul sedile accanto al mio?

 

«Io mi definirei spontanea e poco rigida. A differenza di qualcuno che pare non sapersi divertire, qualcuno a caso, qualcuno tipo Mr. Liam Ho-Un-Cognome-Doppio-Perché-Fa-Figo!», tentai di mettere a tacere le sue risate di derisione.

 

Lui girò all’improvviso in una stradina perpendicolare sulla destra facendomi perdere il senso dell’equilibrio e così mi ritrovai, nel giro di un istante, ad atterrare, sbattendo in malo modo la tempia, con la testa premuta contro il vetro del finestrino. Seppi per certo che lo aveva fatto apposto, lui il Signorino nato con le doti da pilota alla Hamilton.

 

Ci fermammo in un piazzale in ghiaia e Liam spense i fari e il motore. Fece per darmi le spalle e scendere dall’auto ma parve ripensarci, accostò la portiera che aveva appena aperto, si girò verso di me e mi sussurrò con voce flautata: «Ho lavorato in un nightclub per pagarmi gli studi quindi sì, so come ci si diverte…». Me lo disse a pochi centimetri dal mio volto, le parole quasi soffiate sulle mie guance accaldate e gli occhi velati di malizia. Senza darmi il tempo di riprendermi uscì dall’abitacolo dell’auto e nel giro di un nanosecondo, chi caperri era? Edward Cullen?!, era già dal mio lato ad aprirmi galantemente la portiera.

 

Uscii traballante dall’auto e mi aggrappai a lui per non cadere dal momento che ero riuscita nella rara impresa di restare incastrata nella cintura di sicurezza.

 

Lui mi sorresse pronto ma subito mi presentò il conto di tale gentilezza, mettendo su un ghigno e commentando compiaciuto: «Ti ho rivelato il mio segreto due secondi fa e già cerchi di approfittarne: birichina!»

 

Idiota. Dio, qui stavamo toccando livelli di idiozia altamente pericolosi eppure, non so se perché abituata all’umorismo da edera rampicante di Theo o dalla stupida volgarità che caratterizzava ogni cosa facesse o dicesse Donnie, ma apprezzavo segretamente quegli scambi di battute a metà tra lo scherzoso e un tentativo di flirtare. FLIRTARE? Felicity Van Houten ritorna in te!

 

Mi staccai, a malincuore (accidenti, Felicity!), dal suo petto e feci due passi, più per allontanarmi da lui che per avviarmi davvero verso qualcosa non sapendo neanche se fossimo ancora in Massachusetts.

 

«Mi stai quindi dicendo che facevi il gigolò?», gli chiesi ridacchiando, «Lo avessi saputo prima avrei assoldato te per la mia festa dei diciotto anni: Claude fu una delusione terribile!», conclusi dandomi arie da grande donna vissuta.

 

Lui per un attimo parve sconcertato, dopodiché tornò in sé, sollevò le sopracciglia e mi afferrò per un braccio. «Questo lo hai dedotto tu. E comunque mi spiace per Claude, ci fossi stato io al posto suo non l’avresti certo ricordata come una serata deludente…», commentò piano facendo scorrere il palmo della mano lungo il mio braccio scoperto fino a raggiungere la mia mano e stringerla.

 

Quello non andava per niente bene. Mi piaceva battibeccare con lui, anche se ormai i nostri punzecchiamenti avevano lasciato il sicuro terreno degli argomenti neutrali e si stavano avviando pericolosamente verso zone che non dovrebbero essere neanche lontanamente esplorate da due persone con un rapporto come il nostro. O meglio, due persone con il nostro non-rapporto.

 

Abbassai lo sguardo non sapendo bene come comportarmi di fronte a quelle sensazioni in netto contrasto con i sensi di colpa che la mia coscienza non faceva altro che sbandierare di fronte ai miei occhi. «Liam, io non penso che…», sollevai gli occhi e mi bloccai di fronte a ciò che mi si parò di fronte agli occhi.

 

Ora sì che erano guai.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo corto e forse anche un po’ inutile ma credetemi se vi dico che faccio il possibile per non scrivere schifezze (che poi magari escono in ogni caso >.<) e non farvi attendere un nuovo passaggio della cometa di Halley prima di aggiornare.

Arabella è partita, e così restano solo i nostri due protagonisti. Ma prima di esultare e pensare al vestito da comprare per il loro matrimonio attendete un attimino: Theo (*sbadiglio*) sta per tornare più forte di prima!

 

Alla prossima ragazzuoli e se volete farmi sapere cosa ne pensate non esitate a scrivermi una recensione a cui io risponderò prontamente (=entro il 2793 (no vero))

S.

 

P.S. Vi lascio anche stavolta il link della nuova ff nonostante non abbia ancora avuto il tempo di andare avanti (quando inventeranno sul serio un giratempo??)  --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3444659&i=1

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Fioritura ***


Liam

 

Per qualche strana ragione, nonostante detestassi con tutto il cuore qualsiasi cambiamento imprevisto apportato alle mie giornate accuratamente organizzate, mi era sempre piaciuto cogliere di sorpresa le persone.

Quella volta poi mi ero impegnato sul serio e lo avevo fatto in prima persona. Diane, negli ultimi due giorni, mi aveva osservato in silenzio mentre bisbigliavo al telefono per poi sparire all’improvviso dall’ufficio dandole l’ordine di deviare tutte le chiamate sul mio telefono cellulare. Più di una volta mi venne la tentazione di chiederle una mano o perlomeno domandarle un consiglio ma poi ritornai sui miei passi, ancor più deciso di prima a terminare il lavoro senza aiuti esterni.

Avevo dovuto recuperare le ore di lavoro perse nell’organizzazione di quella serata durante quella fascia oraria, dalle dieci all’una di notte, durante la quale solitamente mi dedicavo alle mie solitarie sessioni di running ma l’espressione di autentico stupore di Felicity aveva ampiamente ripagato il sacrificio e le ore di sonno in arretrato.

Ammirai soddisfatto il mio lavoro, anche se tecnicamente io mi ero occupato più della parte puramente economica e organizzativa, e abbassai lo sguardo per capire se la mia compagna si fosse ripresa o avesse ancora la bocca deliziosamente aperta a o.

Quello che vidi mi destabilizzò ancora di più: «Stai…stai piangendo?», le chiesi osservando il luccichio sospetto che appannava quegli occhioni e minacciava di dare il via ad una cascata da un momento all’altro.

Dopodiché successe qualcosa di ancora più inaspettato e sorprendente: Felicity iniziò a prendermi a pugni. Con gli occhi invasi dalle lacrime, lacrime che evidentemente non era affatto contenta di star versando, iniziò a colpire alla cieca il mio petto mentre tentava allo stesso tempo di trattenere i singhiozzi e riempirmi dei peggio insulti del suo vocabolario.

«Liam Carter Wright! Come ti permetti? No-non puoi fare…così! Cosa accidenti pensavi di combinare? Testa di un cavolfiore che non sei altro! Io-io…arghhh!», continuò a tempestarmi  di pugni sempre più deboli fino ad arrestarsi e ad abbandonare i palmi delle mani inerti contro il cotone chiaro della mia camicia.

Poi fece una cosa che non mi sarei mai aspettato da Ms. Van Houten, sempre molto allegra ma anche attenta a mantenere le distanze e ad assicurarsi che tutti stessero al proprio posto senza che le si avvicinassero più del dovuto. Fece un passo nella mia direzione e posò il capo contro la mia spalla, le sue mani sempre posate delicatamente sul mio torace.

Del tutto impreparato dall’inspiegabile svolgersi della situazione smisi di pensare alla precisa scaletta che avevo chiara in mente per quella serata e decisi di comportarmi in modo naturale, senza calcolare troppo quali parole avrei detto di lì a poco e quali azioni avrei compiuto. Allungai una mano e iniziai ad accarezzarle i capelli chiari. Li avevo sempre ammirati da lontano: lucenti e sempre costretti in mille acconciature disordinate. Quella sera li portava sciolti, a decorarle il capo come una cascata dello stesso colore del sole e dal dolce profumo di mandorla.

«Non ti piace? Posso riportarti a casa ora, se vuoi…», chiesi piano.

Lei non si mosse ma si limitò a sussurrare piano, solleticandomi il collo con il fiato. «No! Voglio restare. Lo voglio davvero. È solo che…che è tutto troppo bello. Ed è per me. Cioè almeno penso tu lo abbia fatto per me…E io…accidenti, lo sai benissimo che coltivo sogni romantici fin dall’asilo e vedere tutto questo, sembra troppo un sogno che diventa realtà per credere che sia tutto vero»

Abbassai lo sguardo e la vidi fissare con sguardo vacuo la pelle del mio collo prima di scuotere la testa e allontanarsi da me, assicurandosi di rimettere la solita formale dose di distanza tra i nostri corpi. «Liam…io apprezzo davvero tutto ciò ma, per favore, non aspettarti chissà cosa da me stasera. So che ora in teoria sono libera ma con Theo è finita da così poco che io…», aggiunse in modo frettoloso cercando di guardare dovunque tranne che nella mia direzione.

Una scarica di indignazione mi percorse da capo a piedi: con chi diamine pensava di avere a che fare? Non ero certo un animale guidato solo dai suoi istinti e non avevo certamente organizzato quella serata con chissà quale oscuro e perverso proposito.

Lei dovette percepire il mio risentimento, mi si avvicinò di nuovo e mi prese una mano tra le sue, stringendola lievemente. «Scusa, io non intendevo insinuare niente. Mi fido di te, Mr. Liam», mormorò scrutandomi attentamente negli occhi come alla ricerca di un segno di perdono.

La verità era che sembravo incapace di nutrire anche solo un’ombra di riprovazione nei suoi confronti, ci avevo provato ma avevo fallito miseramente. Quella ragazza poteva avere mille difetti eppure emanava una luce così accecante che tutti quelli venivano messi in secondo piano. Una grazia tale poteva essere solo un dono innato; quel suo modo, quasi casuale, con cui si prendeva cura delle persone, così come delle sue piante e del suo amato giardino, era meraviglioso nella sua totale naturalezza. Felicity, senza rendersene conto, col suo disordine e la sua smemoratezza era riuscita a dare un senso a quel caos che era stata la mia vita prima d’ora.

Lei ovviamente non poteva sapere, se non attraverso quello che io o quella pettegola di Judith le raccontavamo, quanto fosse desolata e priva di scopo la mia vita e quanto potente fosse stata la scossa che il suo arrivo aveva assestato a quest’ultima.  Era completamente all’oscuro del fatto che avessi richiesto al giudice minorile di rivedere il tipo di affido di Arabella, per poter ottenere più settimane in sua compagnia anche al di fuori del periodo estivo, o che avessi trovato un affittuario per il mio loft a partire da settembre, mese in cui mi sarei definitivamente trasferito a vivere nella restaurata casa di campagna del nonno. Non aveva idea di quante ore avessi trascorso in quel giardino, sua opera e creazione, a godermi i caldi raggi del sole e a domandarmi perché diamine scoprissi solo a trent’anni suonati la bellezza disarmante della natura e la pace che questa offriva.

 

La cosa divertente di tutto ciò è che era stata Mildred a farmelo notare. Qualche giorno prima, mentre io e Felicity seduti su una panchina del parco cittadino ci assicuravamo che Arabella non si spezzasse l’osso del collo nei suoi giochi scatenati in compagnia di altri piccoli teppistelli, lei mi aveva accennato brevemente al fatto che lei e Theodore si erano lasciati.

Colpa della distanza, o almeno credo. Così aveva detto. Non si era soffermata troppo sui particolari anche se mi aveva colpito il fatto cheavesse concluso dicendo che si sentiva sollevata per aver posto fine a quel rapporto.

Non era cambiato nulla dopo quel pomeriggio. Fino a due sere prima quando ero stato convocato a cena da Queen Mildred.

Come sempre aveva cucinato, o meglio aveva fatto cucinare, piatti tanto elaborati quanto poveri di grassi e di sapore e si era presentata a cena fasciata in un abito più adatto ad un incontro alla Casa Bianca che ad una semplice serata tra ‘amici’ ma stavamo parlando di Mildred quindi niente riusciva a stupirmi.

Gabriel, ormai esperto camminatore, aveva tentato per tutta la sera di sfuggire dal radar materno senza però riuscirci. Matt, leggermente alticcio a causa del vino ad alta gradazione che avevo portato, parlava un po’ a vanvera con l’unica conseguenza di irritare oltre misura la sua astemia consorte. Malefica, terribilmente stizzita dopo l’ennesima battutaccia del marito, aveva spedito Matt e il pargoletto a dormire e mi aveva rapito con la scusa di offrirmi un caffè. Mi aveva invece scortato in giardino dove si era accomodata su un divanetto in vimini  facendomi poi segno di seguire il suo esempio e sedermi accanto a lei. In segno di ribellione mi sedetti sì, ma di fronte a lei. Mai farle intendere di poterti comandare a bacchetta, il povero Matthew ancora ne pagava le conseguenze.

Dopodiché aveva accavallato le sue lunghe ed eleganti gambe e si era lanciata nella proclamazione dell’Ode a Felicity, brano poetico che a quanto pareva era caro a tutte le persone a me più vicine. Mildred, sempre avara in fatto di complimenti e lodi, mi raccontò come la sua iniziale opinione su Ms. Van Houten fosse cambiata radicalmente dopo averla conosciuta grazie al progetto di mettere a nuovo il giardino.

Effettivamente, cosa che avevo colto ancor prima di varcare la soglia d’ingresso ed unirmi alla loro tavola, il mio sguardo non aveva potuto fare a meno di notare come, dopo il piccolo intervento di Felicity, ogni singola fogliolina di quel verde giardino raccontava qualcosa della ragazza. Solo lei avrebbe potuto selezionare dei delicati vasi di terracotta smaltata dai colori dell’oceano, riempirli con le più rigogliose ed odorose piante officinali e disporli in una graziosa composizione che adornava il portico anteriore. Come solo un suo intervento avrebbe potuto trasformare lo spoglio muro di cinta in una cascata dalle tinte accese, grazie ad una serie di cassette in legno pensili contenenti una profusione di surfinie fucsia.

«Tu sai, Liam caro, che nonostante i tuoi mille difetti non ho mai mancato di apprezzare il tuo buongusto e il tuo indiscutibile stile. Perciò comprenderai la mia sorpresa quando, due martedì fa, si presentò alla mia porta colei che dichiarava di essere la giardiniera da te consigliatami. Portava una salopette di velluto tagliata al ginocchio, perdio! Una salopette, capisci? E aveva un modo di fare senza dubbio fin troppo brioso e pieno di entusiasmo. Chi mai si infervorerebbe in quel modo all’idea di sporcarsi di fango ed essere divorata da stupidi insettuncoli? Ho avuto poi modo di offrirle una limonata e scambiare con la signorina due chiacchiere riguardanti argomenti che esulassero da sementi e travasi. E sai cosa mi ha sorpreso? L’ho trovata terribilmente franca. Non parlo di una schiettezza che rasenta l’impertinenza ma piuttosto di un candore quasi infantile che le impedisce di nascondersi dietro un qualsiasi tipo di comportamento artificiale o costruito ad arte per compiacere altri. Ti sei accorto di come guarda sempre fisso negli occhi il proprio interlocutore? È sempre attenta, in un modo quasi premuroso, eppure, nonostante questa sua dolcezza l’ho trovata senza dubbio sveglia e dalla risposta sempre pronta. Ci credi che io stessa non ho potuto trovare nulla, vestiario a parte, che me la facesse risultare sgradita come mi succede praticamente con quasi tutte le persone con cui faccio conoscenza? E così dannatamente amabile quella creatura! Tutta sorrisi e capelli dorati. Non riesco proprio a capire perché tu non l’abbia ancora rapita e sposata!». Mildred pareva terribilmente infastidita e mi guardava con muto rimprovero. Leggevo nelle sue iridi chiare una palese accusa. Liam, zuccone che non sei altro, perché non ti accorgi mai delle cose che sono proprio sotto al tuo naso?

Le sue parole mi avevano lasciato interdetto, non solo per il loro contenuto ma piuttosto per il fatto che fossero state pronunciate proprio da quella donna. Donna a cui si potevano imputare molte mancanze ma certamente non quella di essere alquanto arguta. Mildred, nonostante tutto, era una persona molto realistica, che non amava girare per lungo tempo intorno ad una faccenda, preferendo piuttosto affrontarla di petto e risolverla. Qualunque fosse poi il risultato. Era una donna forte dopotutto. Forse fin troppo.

Mi passai stancamente una mano tra i capelli e allungai le gambe di fronte a me. Sospirai, non avevo ancora ben capito dove la mia interlocutrice volesse andare a parare alla fine. Quale era lo scopo ultimo di quel bel discorso?

«Potresti anche avere ragione ma non capisco cosa ti aspetti che faccia…», le risposi in modo interrogativo. Speravo potesse chiarirmi quel piccolo punto mancante che sembrava sfuggirmi. Felicity era un piccolo concentrato di virtù, questo era assodato, ma non capivo davvero come ciò potesse condurmi ad attenderla presso un altare nel bel mezzo di una natava adorna di fiori.

Mildred sbuffò e roteò gli occhi con fare esasperato, un comportamento decisamente poco da lei, sempre rigida ed attenta ad esercitare un controllo ferreo nei confronti dei suoi muscoli mimici. «Te lo devo davvero dire io?», esclamò guardandomi come per comprendere se fossi diventato idiota in quel momento o più semplicemente lo fossi sempre stato.

La verità era che quel pensiero lo avevo già accarezzato anche io. Forse solo nell’angolino più recondito della mia mente, forse solo in sogno, forse solo per una frazione impalpabile di tempo. Non ero certo saltato subito all’idea di metterle un bel diamante all’anulare, prenotare un volo per le Fiji e contattare un giudice di pace. Diciamo che avevo immaginato una vita insieme a quella donna dalla testolina tanto bionda quanto sbadata. O perlomeno mi ero interrogato riguardo ad una possibile quotidianità condivisa. Come avrebbe potuto essere? Impossibile? Facile? Felice?

Quella pallida idea, dopo le parole di Mildred, acquistò colore e spessore e iniziò a prendere pian piano possesso della mia mente. Quelle ultime settimane, dal punto di vista lavorativo, si erano rivelate estremamente improduttive. La presenza di Arabella e il pensiero di Felicity mi avevano distratto in un modo che, ne sono certo, Montgomery Van Houten non aveva mai permesso a sé stesso.

Ecco, Arabella poi non mi aveva di certo aiutato a semplificare quel già complicato quadro. No, perché sua figlia, notoriamente molto volubile e poco avvezza a mostrarsi cordiale con persone che non fossero i suoi genitori, e talvolta neppure essi, aveva adorato Felicity. La bambina pareva non aspettare altro se non le ore passate in compagnia della giovane donna e si era rabbuiata quando le avevo spiegato che la ragazza doveva lavorare e non poteva trascorrere tutto il tempo a mangiare fragole e rincorrere farfalle con lei. E quest’ultima si era comportata in maniera esemplare; era stata spontaneamente affettuosa, pronta a dedicarle generosamente il proprio tempo libero, senza però arrogarsi il diritto di comportarsi a mo’ di madre surrogata. Le aveva spazzolato i capelli soffici, avevano cantato insieme Lei it go piroettando a piedi nudi sull’ampio prato che separava la mia casa dalla sua, e aveva voluto bene alla mia bambina. E quest’ultima cosa non aveva potuto fare altro se non conquistarmi.

 

«Ti prometto che non verserò più una sola lacrima di coccodrillo questa sera. Ora possiamo avvicinarci?», mi domandò Felicity, un timido sorriso a curvarle le labbra.

Per un attimo rimasi a fissare quella bocca rosea e piena domandandomi se mai avessi avuto occasione di assaporarla. Anche solo per una volta. O anche per tutta la vita.

Invece di risponderle intrecciai le mie dita alle sue e mi diressi verso l’ingresso dell’orto botanico segnato da un arco di rose rampicanti, attorno a cui era stato delicatamente avvolto un lungo filo formato da tante piccole lucine iridescenti che brillavano nella penombra della sera e davano il benvenuto in quel piccolo paradiso di cui era il fiero custode.

Avevo insistito a lungo affinché il risultato fosse di sobria eleganza e l’atmosfera fosse leggermente fatata senza scadere in una messinscena pacchiana e palesemente costruita per apparire romantica. La presenza di romanticismo, ai miei occhi, dipendeva dall’attitudine delle due persone coinvolte piuttosto che da tappeti di petali di rose o striscioni con plateali dichiarazioni.

Il semplice vialetto d’ingresso, modestamente illuminato ai lati, conduceva al laghetto circolare e alla piccola pagoda rialzata, dietro alla quale si ergeva fiero un enorme salice piangente.

«Posso già dirti che finora tutto mi sta piacendo tantissimo e che sono contenta di essere stata rapita?», mi sussurrò all’orecchio, prima di ritrarsi veloce e lasciarsi andare ad una risata cristallina.

Era proprio questo che mi attraeva di lei, Felicity non lesinava complimenti od apprezzamenti e se qualcosa le piaceva non faceva altro che ammetterlo candidamente. Altre donne avrebbero atteso fino al momento finale, tenendo il proprio compagno sul filo del rasoio fino all’ultimo, prima di manifestare la propria opinione al riguardo. Felicity no, lei non aveva ancora visto il vero traguardo di quella serata, eppure si era già dichiarata felice e contenta di quello che finora era successo, riuscendo in un sol colpo a rassicurarmi e a regalarmi parte della sua gioia.

Mi sentii strattonare gentilmente e così mi decisi ad accelerare il passo per accontentare l’impazienza della mia accompagnatrice.

«Quel salice risplende come di luce propria. Caratteristica sospetta, non trovi?», mormorò tra sé prima di adeguare la direzione dei suoi passi in modo da raggiungere l’ampia e fitta cortina di fronde del salice in pochi passi. Attese un attimo e poi allungò lentamente la mano che non stringeva la mia e scostò con cautela quella rigogliosa cascata verde.

Uno spiraglio di luce si ritagliò sulle nostre figure mentre Felicity, con mio grande disappunto, abbandonava la mia mano e scompariva oltre la coperta di rami, escludendomi così all’esterno. Un paio di passi e anche io entrai in quel magico cerchio che avevo con tanta cura creato.

E successe di nuovo. Questa volta a parlare non fu un’esplicita frase della ragazza ma la sua espressione. Assoluto rapimento. Ruotava piano su sé stessa, come per assicurarsi che fosse tutto vero. Ed era tutto vero: quell’intima cupola all’ombra dell’antica pianta, quelle tante lanterne color crema che creavano giochi di calda luce tutt’attorno, quel semplice tavolo decorato con ogni sorta di prelibatezze.

«So che rimangiarsi le proprie parole non è propriamente un comportamento esemplare ma, accidenti Mr. Liam, dopo tutto questo io non ho quasi più fiato e non so se posso davvero fidarmi di te. O di me…», concluse, un tremore quasi impercettibile nella voce.

Non potei trattenere un sorriso nell’udire quelle parole. Immediatamente le dozzine di furiose telefonate con il servizio catering o quell’incompetente di un guardiano dell’orto botanico, le ore di lavoro perdute e gli appuntamenti posticipati, lo stress accumulato, i troppi caffè, tutto ebbe senso.

Un impertinente brontolio disturbò quel momento e mi resi conto con divertimento da chi provenisse. «Che ne dici se ci accomodiamo?», le proposi, scostando per lei la sedia dal tavolo e aiutandola a prendere posto.

Si lasciò andare ad un sospirò, «Sei così galante», commentò civettuola.

«E tu sei così adulatrice», ribattei prontamente, mentre andavo ad occupare il mio posto di fronte a lei.

La osservai sistemarsi i lunghi capelli dietro le spalle e dispiegare il candido tovagliolo in pregiata stoffa sul suo grembo. «Allora: cosa prevede il menù?»

 

Saziati nostri stomachi entrambi concordammo sulla necessità di una bella passeggiata al chiaro di luna. Lasciammo la nostra piccola bolla e ritornammo sotto il cielo stellato. Felicity si attardò un attimo a lanciare un’ultima occhiata alle sue spalle e a passare la mano tra le foglie fruscianti del vecchio salice. Pareva quasi un saluto.

Si diressero verso la riva, dove il laghetto silenzioso e buio abbracciava la sottile ghiaia che precedeva il dolce pendio d’erba che conduceva al giardino.

«Vedi quella pagoda? Ho sempre pensato che sarebbe stata perfetta per un matrimonio. Così esposta alla luce, così vicina all’acqua…», commentò indicandomi la piccola struttura in legno.

Ci avvicinammo lentamente, le nostre mani intrecciatesi quasi senza pensarci a non permetterci di allontanarci l’uno dall’altro.

Osservai le piccole guglie lignee che decoravano il tetto dalla forma a pagoda e aggrottai la fronte. Cosa c’entrava quello spigoloso particolare puramente gotico con le morbide curve del resto della struttura? Appesantiva la costruzione e la rendeva cupamente minacciosa, costellata di punte aguzze come appariva. «Mi pare più adatta ad un funerale. Si trova rivolta a nord, prospicente verso il lago in modo da riversare in esso le ceneri del defunto senza troppo disturbo. C’è persino un teschio intagliato nel legno del parapetto, guarda qui…», le mostrai, passando piano le dita su quel disegno abbozzato.

Una testolina bionda fece capolino da dietro la mia spalle e si sporse ad osservare la piccola figuretta macabra. «Uff, Mr. Liam, sei terribilmente pessimista! Diciamo allora che questo pare il posto adatto a celebrare i passi più importanti che caratterizzano i cicli della vita degli uomini?», mi concesse lei.

«Com’è magniloquente, Ms. Van Houten! E mi dica noi cosa vogliamo festeggiare?», le domandai cingendole la vita con un braccio e avvicinandola a me. Posai la guancia sul suo capo mentre sentivo le sue mani avvolgermi i fianchi e carezzarmi piano la schiena con fare distratto.

Alzò di colpo il viso e mi fissò, un ghignetto malefico stampato in volto. «Il tuo funerale? Pensa, c’è un teschio inciso da un qualche delinquente, chissà quale oscuro e funesto significato potrà mai avere! Secondo me è un segno premonitore, Mr. Liam, stai attento…», mi soffiò in pieno volto, prendendosi chiaramente gioco di me.

Mi finsi offeso e feci per allentare la mia presa sul suo corpo ma lei non me lo permise, alzando le braccia per circondarmi il collo e imprigionarmi. «Hai degli occhi enormi, Signorino Due Cognomi. Non li avevo mai osservati da così vicino…», mormorò poco dopo spezzando il silenzio.

Abbassai il capo per avvicinarmi al suo volto e le chiesi soffice: «Così come sono?»

Lei sorrise divertita e mi sussurrò lieve: «Giganteschi»

Diminuii ulteriormente la distanza che separava i nostri nasi e le posi la medesima domanda.

«Immensi. Ora chiudili…», mi ordinò dolcemente poco prima di chiuderli lei stessa.

Rimanemmo qualche secondo così, abbracciati, gli occhi chiusi e il frinire delle cicale tutt’attorno.

Poi in un soffio mi ritrovai a baciare quella bocca morbida che tanto avevo osservato, ascoltato e desiderato.

Non so chi fece il primo passo ed immagino resterà per sempre un mistero.

Anzi lo spero.

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo breve  ma l’ho scritto di getto in questi due giorni e terminato proprio ora, un occhio che si chiude memore dell’alzataccia di stamattina, e l’altro troppo stanco per trovare eventuali errori. Eh sì, carissimi lettori miei, che posso dire? Fatto il misfatto!

Ringraziamenti ed abbracci a voi, che leggete, commentate (cuori miei) e mettete in preferiti e vari. Attendo impaziente le  vostre opinioni!

Ormai ho perso il controllo del livello di miele per capitoli. E pensare che non sono neanche innamorata e perciò giustificata nel mio vedere e nello scrivere in una nuvola rosa di tanto ammmore.

Notte a tutti e alla prossima!

S.

P.S. Potrò non aggiornare per un bel mesetto ora perché, ragazzuoli miei, la sessione estiva è qui ormai e minaccia di farmi soccombere.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Fiori d'arancio ***


«Puah!»

«Condivido in pieno: triplo puah!»

Cercare di avere una conversazione seria con quei due zucconi si stava rilevando possibile quanto scalare l’Everest con un paio di ciabatte infradito infilate ai piedi.  Donovan mi aveva stressato l’anima per ore e ore, sottoponendomi ad un interrogatorio serrato finalizzato a minare la mia pazienza zen. Rispondergli malamente che non erano affari suoi non era certo servito a tenerlo buono, anzi, aveva avuto come unica conseguenza il convincerlo che effettivamente c’erano degli affari che mi riguardavano che non volevo condividere con lui. Degli affari che vedevano coinvolti la sottoscritta, Mr. Liam ed un orto botanico.

«…e un letto! Non scordiamoci della parte più interessante del racconto, per favore», ululò Donnie come offeso dal mio tentativo di svicolare per evitare di raccontare a lui e a mia sorella le vicende della mia vita sessuale.

Zoe, prontamente informata dal pettegolo del villaggio che mi sedeva accanto, aveva per l’occasione interrotto il suo eremitaggio e, scroccando spudoratamente la connessione WiFi dell’ultimo poveretto che aveva scaricato una settimana prima, si era collegata immediatamente sul suo account Skype e aveva iniziato a tempestarmi di chiamate.

«Grazie al cielo hai contattato un medico oculista e quest’uomo pio ti ha dotata di lenti a contatto in grado di sopperire alla tua cecità assoluta! Per tutti i neonati sventrati, sui dizionari, alla voce ‘figo’ c’è affiancata la foto di quel Carter Wright!», strillò indignata mia sorella, la quale, alla notizia della rottura tra me e Theo, si era così emozionata da dichiararmi a denti stretti e ringhiando che forse poteva ritornare a volermi bene e smettere di raccontare a tutti di come la sua sorellina minore fosse stata disciolta nella soda caustica da un terribile assassino quando aveva solo sette anni. Che magnanimità!

«Io non credo che il termine ‘figo’ sul vocabolario esist-»

«Hai perfettamente ragione, Z! Quel Theodore era una sorta di pallido omuncolo ricoperto di alghe ripescato da un laghetto…», intervenne il mio amico, non curandosi del fatto che mi aveva brutalmente interrotto. E ovviamente non scusandosi per la sua solita maleducazione.

«Una sorta di becchino, ingrigito, rinsecchito, con l’animo di un novantenne…»

«…e il fisico prestante di un cadavere…»

«…riesumato dopo millenni dal proprio loculo…»

«…la personalità di un lumacone mangia lattuga…»

«…e il brio di una cavalletta spiaccicata dalla ruota di un trattore…»

«Avete finito? Ero giovane, era un professore associato e mi sono presa una cotta!», sbottai stizzita da quel botta e risposta di commenti poco lusinghieri nei confronti del mio fidanzato. Ex fidanzato.

«Chiamala cotta: ti ci sono voluti quattro anni per farti aprire gli occhi…», borbottò Donovan ridendo sotto i baffi.

«E quando finalmente il miracolo è accaduto anche la nostra piccola, tenera, ingenua Flick HA VISTO!», continuò Zoe con un tono quasi mistico.

Feci danzare dubbiosa lo sguardo tra il viso pallido di mia sorella incorniciato dallo schermo del portatile e quello abbronzato del mio aiutante seduto vicino a me.

Alla fine sospirai e posi la domanda, «Cosa ho visto?»

«Il culo marmoreo di Mr. Carter Wright!», gridò come un’indemoniata Zoe.

Donovan scoppiò in una risata e aggiunse tra un singulto e l’altro: «Per non parlare dei bei pettorali fasciati da camicie Hugo Boss…»

Risata che ebbe vita breve non appena la mia cara sorellina lo freddò con uno dei suoi tipici commenti amorevoli: «Devo dubitare della tua eterosessualità, Donnie caro?», cinguettò melliflua.

Avevo sempre volutamente evitato di interrogarli riguardo a quali rapporti intercorressero o erano intercorsi tra loro. Non avevo proprio voglia di sentirmi raccontare per filo e per segno l’abilità in materia di arti amatorie di quei due. O peggio ancora, rischiare di essere abbandonata dal mio aiutante ed amico più fidato, fuggito per amore, o qualsiasi cosa facessero quei due insieme, tra le montagne aguzze del Maine.

Anche perché a vederli, Zoe scura e imbronciata come la figlia del Conte Dracula e Donovan sorridente e gaio come un gigantesco girasole, non comunicavano certo l’idea di una coppia ben appaiata.

Nonostante lo stesso si potesse dire di me e Mr. Liam. Lui elegante e bellissimo, mentre io ero solo un’insignificante piccola apina spappolata sul parabrezza della sua Porsche lucente. Ahi! Potevo quasi sentire il dolore dei tergicristalli che incedevano impietosi e mi strappavano le ali. Era quella la fine che mi aspettava? Di Theodore si poteva dire di tutto, ma mi aveva sempre fatta sentire al sicuro. Non c’erano state notti di passione infuocata, squilli di trombe quando mi baciava né spasmi d’amore quando era lontano. Però era sempre confortante tornare da lui. Sapevo sempre cosa aspettarmi e questo mi rasserenava.

E così era stato fino a quando aveva scoperto che il rapporto con un uomo poteva essere tutto tranne che confortante. E la cosa mi era piaciuta tremendamente. Mr. Liam mi faceva sentire la testa leggera, come dopo un paio di cocktails. E mi aveva fatto arricciare le dita dei piedi quella sera sotto alla pagoda nell’orto botanico. Oltre ad avermi gentilmente offerto un chiassoso concerto mentale di campane. Ed era stato a quel punto che avevo capito come sarebbe potuto essere. Con Liam avrei potuto avere tutto quello che non avevo ottenuto dalla relazione con Theo. Sarebbe stato il trionfo del mio sogno romantico. Mi sentivo elettrizzata al solo pensiero. Eppure qualcosa mi aveva fermata. Un piccolo tarlo che aveva scavato e scavato fino a costringermi ad arrendermi, porre fine al bacio e alla conseguente cacofonia di scampanellii vari, per potergli dare ascolto.

Se avevo passato quasi quattro anni al fianco con Theo non era perché ero una sciocca. O perché temessi di non riuscire più a trovare nessun altro e di restare sola. No, era stato proprio perché di lui mi fidavo, sapevo come si sarebbero evolute le cose e gli volevo bene. Mi teneva la mano e io mi sentivo rassicurata. Solo ora mi rendevo conto che anche quando mia madre mi prendeva la mano sortiva lo stesso effetto: empatia, serenità, affetto.

Sfiorare la mano di Liam era stata un’esperienza destabilizzante. Non ne avevo tratto conforto, era stato come prendere una scossa. Ed avevo avuto paura proprio perché non avevo idea di cosa aspettarmi.

«Ha subito una lobotomia? Perché hai quell’espressione da Theodore stampata in volto?». La vocetta petulante della mia adorata sorella mi riportò bruscamente alla realtà.

«Immagino stia rivedendo mentalmente i fotogrammi della notte rovente passata nel letto di Tu-sai-chi…», ipotizzò Donovan, un sorrisetto malizioso cucito sulle labbra.

«L’Uomo Inutile doveva proprio essere insoddisfacente a letto  – non che nutrissi dubbi a tal proposito – se tu, Felicity la Casta, l’hai data via al primo appuntamento… », constatò Zoe, picchiettandosi l’indice sulle labbra.

Quella conversazione stava diventando davvero inutile e quasi offensiva. Cos’avevano da impicciarsi tanto nelle mie questioni private? Soprattutto se tutto quello che avevano da dire consisteva in commenti poco carini nei miei confronti e lodi a parti anatomiche non battute dal sole appartenenti a Carter Wright!

«Accidenti a voi due! Perché vi interessa tanto cosa ho fatto o non fatto con Liam? E perché dovrei spiattellare a voi due i dettagli di quanto è accaduto quando finora non avete fatto altro che dire sciocchezze o distribuire cattiverie gratuite!», urlai esasperata, tirandomi le ginocchia contro il petto e tenendo ostinatamente lo sguardo lontano dalle due paia di occhi che sapevo fissarmi attentamente.

«Perché vogliamo aiutarti?», propose timidamente Donovan.

Zoe gli sibilò di tacere e mi ordinò di guardarla dritta negli occhi. Non avevo nessuna voglia di sottostare alle sue pretese tiranniche da sorella maggiore ma quando mi minacciò di telefonare a mamma per informarla che non avrei potuto sposare l’amico pastore di nostro cugino perché me la facevo con un avvocato riccastro e prestante, da ragazza poco timorata di Dio qual ero, mi ritrovai a fissare minacciosa le sue iridi scure in meno di mezzo secondo.

Ci mancava solo l’intervento di Mrs. Van Houten e dei suoi rotoli di Domopack! Probabilmente lo avrebbe impacchettato tutto nel cellophane le prime volte, giusto per assicurarsi riguardo alla pulizia e all’ordine della persona di Liam, e forse dopo un paio di docce e una sterilizzazione in acqua e bicarbonato lo avrebbe accolto in famiglia.

«È da quando siamo alte quanto un soldo di cacio che entrambe sappiamo cosa volevamo dalla vita. Io l’ho realizzato, perché nel mio caso un marito sarebbe finito ucciso in qualche modo orribile giusto per fornirmi ispirazione per un nuovo romanzo. Tu no. Tu volevi l’amore delle fiabe, i fiori d’arancio ed i pargoletti. Sei stata per così tanto tempo con l’uomo sbagliato da esserti quasi convinta che era proprio quello che volevi, rischiando di accontentarti e finire per essere infelice. Ora che hai finalmente aperto gli occhi e hai trovato lui, come puoi essere così scema da tentennare e stare qui a parlare con noi invece di correre ad urlargli un gigantesco SÌ dritto in volto e poi festeggiare replicando le zozzerie della scorsa sera?»

Che conclusione regale per un discorso tanto accorato. In verità, nuovi insulti velati a parte, sapevo benissimo quanto le sue parole fosse sincere e ahimè vere.

«Guarda che non mi ha chiesta in sposa, sai?», le feci notare, preferendo aggrapparmi a quel piccolo particolare piuttosto che ammettere che aveva ragione, porre fine alla videochiamata, cacciare Donnie a calci e sgasare con il mio pick-up in direzione Boston, studio legale Carter Wright.

«Non ancora», si intromise con tono di sussiego Donovan.

Su quel punto avrei avuto qualcosa da obiettare essendo a conoscenza della visione demoniaca che Liam aveva del sacramento del matrimonio. Grazie Tiffany, se non riuscirò mai a sposare quell’uomo sarà solo colpa tua, brutta sgualdrina di una ex-moglie! Perlomeno aveva generato quel piccolo confettino che era Arabella e per questo forse non andava del tutto disprezzata.

«Insomma ti muovi?!», sbraitò Zoe, gli occhi infuocati di quando è prossima ad una vera e propria furia omicida. Grazie al cielo si trova a miglia da me ma quel povero ragazzo a cui sta fregando l’adsl non potrebbe dirsi ugualmente al sicuro.

 

***

 

«Mamma, ripetimi per favore come siete arrivati alla decisione di sposarvi, tu e papà…»

Un quarto d’ora prima finalmente quel comizio di pettegoli aveva avuto fine e, salutata Zoe, avevo letteralmente messo alla porta Donnie, il quale aveva preso a delirare riguardo al progetto di convincere mia sorella a venire a vivere da lui. Pff, Zoe e il sole: fantascienza!

Dopodiché mi ero detta che se volevo davvero compiere quella pazzia ventilata dalla mia altrettanto folle consanguinea almeno lo avrei fatto dopo una doccia ed una scelta accurata del look. Quel momento poteva diventare storia e io non potevo certo raccontare ai miei nipotini che la storia con Nonno Liam aveva avuto inizio con me vestita con la tenuta da lavoro, la terra sotto le unghie e frammenti di foglie secche tra i capelli.

Stavo davvero già pensando ai nostri nipotini? Ero da internare in una cella isolata del miglior istituto psichiatrico americano!

Mi ero lavata rapidamente, mi ero avvolta i capelli in un asciugamano, improvvisando un turbante precario, e mi ero infilata la biancheria. Dopodiché mi ero chiesta che accidenti stessi facendo. E come ogni volta aveva trovato un’unica risposta: chiamare mia madre.

«Oh, tesoro, te l’avrò raccontato mille volte! Dimmi piuttosto: hai notizie di quella sciagurata della mia primogenita? Stavo quasi pensando di andarla a stanare io stessa ma odio la montagna e odio il Maine e dovrei farmi stordire con del cloroformio e farmi portare in braccio fin lassù da un aitante membro della guardia forestale con le braccia muscolose ed opportunamente fasciate nel cellophane sterile…»

Ecco. Il succo delle telefonate con lei era questo: follia che si sommava alla follia di Zoe.

Sbuffando incastrai il telefono tra l’orecchio e la spalla per poter avere le mano libere e spalmarmi tutto il corpo di crema al burro di karité. «Mà, sono seria. Per favore…»

Lei sbuffò a sua volta per poi darmi retta ed iniziare a narrare per l’ennesima volta la storia del loro fidanzamento.

Il nocciolo della questione stava nel chi aveva proposto all’altro di sposarlo. Mia mamma, stanca di quel corteggiamento lungo secoli, e per nulla interessata ad attendere che mio padre si facesse una posizione e un nome nell’ambiente legale, aveva fatto la cosa più romantica di sempre. Certo i suoi modi non erano stati propriamente ineccepibili ma alla fine è la sostanza che conta, no?

Grace aveva preso il coraggio a piene mani ed era sbottata, strillando ad un giovane Montgomery Van Houten: «…Insomma, io sto quasi per andare in menopausa, perciò se vuoi avere dei bimbetti prima che i tuoi girini si atrofizzino e i miei ovetti diventino frittata o mi sposi ora o mi lasci libera…», recitò a memoria mia madre.

All’epoca, per la cronaca, aveva ventiquattro anni. Ad un passo dalla menopausa proprio.

«E poi?», le chiesi sospirando estasiata, come mi era successo ognuna delle millesettecentonovantadue che avevo udito quella storia.

«Il giorno dopo si inginocchiò, mi offrì una corona di fiori e mi chiese se volevo diventare sua moglie. Non ho mai avuto un vero anello di fidanzamento ma feci seccare quei fiori ed ancora oggi li conservo. Tuo padre è sempre stato tanto risoluto sul lavoro quanto indeciso in famiglia e negli affetti…dio, quanto ero innamorata!», mi confessò piano.

Ogni volta che parlavamo di questo lei si emozionava per poi aggredirmi perché le facevo colare il mascara. Cosa impossibile da credere dal momento che sborsava verdoni e verdoni per un rimmel Dior accuratamente waterproof a prova delle peggiori crisi di pianto.

«Grazie mamma…», sussurrai.

Dall’altro lato della cornetta sentii un trambusto improvviso e poi: «Non ti starai mica per sposare, vero?», strillò a duecento decibel direttamente nel mio timpano, rischiando di farmi cadere il telefono dritto dritto nella vaschetta di acqua calda in cui avevo immerso i piedi per un pediluvio dell’ultimo momento. Telefono che tra l’altro mi era appena stato regalato da Donovan, stufo delle mie email e della continua impossibilità di contattarmi.

«NO! Cioè…sì? NO! Forse…ma no dai! Che scemenza! Sarebbe una stupidaggine? Sì, sì lo è. Però…», biascicai nel panico più totale.

Ora io vorrei sapere chi è stato a decidere che nel momento in cui una donna diventa madre viene dotata di un sensore radar che riesce a scovare ogni minimo segreto dei propri figlioletti, senza che questi abbiano aperto bocca. Leggono nella mente? Posizionano delle cimici nelle nostre case? Assoldano investigatori privati? Mistero.

«Le telefonate con te mi provocano sempre una tremenda emicrania, Felicity cara. Deduco che tu sia piuttosto confusa al riguardo ma non del tutto restia all’idea di accasarti finalmente. Devo forse sperare che il pastore abbia fatto breccia nel tuo cuore grazie ad un sermone particolarmente sentito?», domandò curiosa, una nota di speranza nella voce.

Sermone? Pastore? Eh? Ok, forse il sensore di sua madre era un po’ ammaccato e a volte faceva cilecca. Non riuscivo neanche a dare un volto a quell’insignificante essere umano incontrato alla festa di compleanno di papà, come poteva pensare che stesse per sposarlo?

«Mamma, hai preso le tue pillole?», mi sincerai preoccupata.

«Fai poco la simpatica, tesoro. Se ti stai per sposare io, in quanto tua genitrice, devo esserne informata con un anno di preavviso per poter contattare personalmente la mia amica Vera Wang e chiederle di confezionarmi un abito adatto. E il catering, la location, gli ospiti. Boy George per cantare alla festa…»

Alzai gli occhi al cielo, quella donna era veramente impossibile. «Primo: grazie, per preoccuparti per il tuo vestito Vera Wang mentre io posso andare all’altare coperta solo con tre foglie di fico. Secondo: Boy George piace solo a te! Terzo: nessuno sposa nessuno!», sbottai al colmo della sopportazione.

Boy George?! Puah!

«Oh. È un peccato, avevo già comunicato la lieta novella a tutte le tue zie. Non potresti ripensarci?», mi chiese ansiosa.

Estrassi i piesi dal catino, li asciugai e tornai in camera. Liberai i capelli dall’asciugamano e li pettinai approssimativamente con la mano libera. «Come accidenti hai fatto a dirlo a tutte le zie se eri al telefono con me?!»

«Abbiamo un gruppo Whatsapp», mi spiegò in tono altezzoso.

Quella era la mia rovina. Genitori e Whatsapp: il binomio degli orrori.

«Addio mamma!», sancii spazientita.

Lei fece in tempo a ricordarmi che: «Tic tac, tic tac, Felicity! La menopaus-», prima che le riagganciassi in faccia, senza curarmi una volta tanto delle buone maniere.

 

***

 

Alla fine mi ero decisa per una gonna a metà coscia color navy ed una graziosa maglia a righe che non ricordavo neanche di possedere. Decisi di fare uno sforzo e lasciare a riposo per una sera i miei fidati anfibi e mi infilai un paio di ballerine scure. Legai i capelli in una coda di cavallo alta e mi passai un po’ di mascara e di fard sul viso che con il sole degli ultimi giorno era tutto un fiorire di lentiggini.

Lo stavo per fare davvero? Non ne avevo idea e il panico stava iniziando ad impadronirsi di me, perciò feci una delle poche cose in grado di calmarmi i nervi in ogni situazione.

Seduta a gambe incrociate sul parquet accanto al letto, gli occhi all’altezza della boccia d’acqua posizionata sul comodino e un allegro George intento a sguazzare felice.

«Secondo te sto sbagliando?», lo interrogai.

Per tutta risposta ottenni tante bollicine. Segno che non era d’accordo.

Picchiettai piano sul vetro della boccia e lui nuotò rapido vicino a me. Aveva due occhietti tondi che sembravano osservare tutto quello che lo circondava ed uno sguardo sorprendentemente sveglio.

«In fondo ci conosciamo da poco. Siamo usciti ufficialmente solo una volta e…però mi piace, Georgie, capisci? Mi piacciono quei suoi modi pacati, sicuri, quasi arroganti. Ma in senso buono eh! E poi ha delle ciglia lunghe che gli ombreggiano gli occhi e ogni volta che le sbatte velocemente io sento le farfalle nello stomaco. Dio, sono patetica, vero?»

Bollicine di diniego.

Forse avrei dovuto comperare una compagna per il mio George. Una bella pesciolina rossa per fargli compagnia e ripagarlo per tutte le sedute terapeutiche a cui lo avevo obbligato a soprassedere.

«È orgoglioso, è appassionato ed è premuroso a modo suo. Non gli piace doversi ripetere, essere in ritardo e detesta restare imbottigliato nel traffico ogni sera. Adora sua figlia e sua sorella e segretamente presiede il fanclub di Queen Mildred, però shh, acqua in bocca! Loda sempre Diane, la sua segretaria, e questa cosa mi sconcerta un attimo ma magari è solo un’anziana signora sovrappeso, no?»

Il pesce rosso soffiò, riempiendo di bolle l’acqua prima calma. Eh no, George caro, non puoi essere in aperto disaccordo proprio sul delicato argomento della segretaria privata!

L’occhio mi cadde sulla sveglia posata dietro la boccia, i numeri dell’orologio distorti dall’effetto del vetro e dell’acqua. Dovevo muovermi prima di rischiare di rimanere incastrata nel traffico. Non avevo un buon senso dell’orientamento e non avrei mai saputo ricordarmi come ritornare al suo loft. Ma l’indirizzo del suo studio legale era scritto in caratteri eleganti sulla pagina principale del suo sito web e, dopo aver impostato e studiato il percorso più rapido grazie all’ausilio di Google Maps, avevo salutato il mio amichetto e aveva recuperato la mia piccola tracolla.

Avevo chiuso tutte le persiane, nel caso non avessi fatto ritorno quella notte. Fatto in cui segretamente speravo. Acciuffai le chiavi del pick-up e mi assicurai di serrare a doppia mandata la porta d’ingresso prima di mettermi alla guida.

Accesi la radio e iniziai a fischiettare. Mi sentivo molto meglio dopo aver parlato con George e ora riuscivo a vedere tutto da un’altra prospettiva. Non potevo piombare senza preavviso nel suo ufficio e proporgli di sposarci. Soprattutto perché sapevo che ci sarebbe voluto del tempo per convincerlo che il matrimonio non era una delle forme in cui si manifestava l’Anticristo. Però potevo invitarlo fuori a cena, potevamo frequentarci, potevo dirgli apertamente cosa mi piaceva di lui – tutto – e potevo stringergli la mano. E poi ovviamente potevo infilarmi nel suo letto quella notte. E anche quelle successive. Anche per sempre magari.

Dovevo procedere per gradi, senza spaventarlo. E senza correre il rischio di commettere una sciocchezza. Da bambina non segnavo certo di sposarmi diciassette volte prima di trovare l’anima gemella. Doveva essere per sempre. E dovevo esserne sicura. La storia di Liam con Tiffany e le loro nozze affrettate parlavano da sole.

Percorsi qualche chilometro costeggiando la campagna, il sole che iniziava a calare e a farsi più arancione, la strada sgombra e lucida di fronte a me. Un’auto stava giungendo dalla direzione opposta alla mia, correva rapida. Fin troppo rapida per una stradina stretta come quella. Storsi il naso e premetti il pedale del freno, non avrei certo rischiato di finire nel fosso per colpa di un incosciente con la passione per la velocità. Che poi stava guidando quella che pareva una vecchia Ford e non certo una Ferrari! Una vecchia Ford? Aguzzai lo sguardo per osservare meglio l’auto sempre più vicina, vettura che ora stava rallentando a sua volta.

Sembrò una scena quasi irreale. Io rallentavo, l’altra macchina fece lo stesso e così quando ci affiancammo eravamo praticamente fermi, le bocche spalancate e gli occhi sorpresi.

«Theo?!», domandai cercando di capire cosa mai potesse farci nella campagna fuori Plymouth.

Cercava te, Sherlock!

«Possiamo fermarci e parlare?», mi domandò speranzoso.

Ignorai il suo tono quasi supplichevole e decisi di mostrarmi fredda. Ci eravamo appena lasciati dopotutto!

«Sono piuttosto di fretta…», commentai gelida, lanciando un’occhiata al orologio sul cruscotto.

Lui aggrottò la fronte e si sporse leggermente verso di me, «Dove stai andando? Potrei accompagnarti…»

Mi venne da ridere nell’udire la sua ultima proposta. Se avesse saputo dove ero diretta non sarebbe di certo stato impaziente di accompagnarmici. Assolutamente no.

«No, non puoi. Cinque minuti, Theodore, cinque. Più avanti c’è uno spiazzo sulla destra: ti aspetto lì», detto ciò ritirai la testa e rimisi in moto.

Un minuto più tardi mi raggiunse e io mi decisi a scendere dal furgoncino. Non mi avvicinai e controllai di nuovo l’orologio. Dovevo andare, altrimenti Liam sarebbe uscito dall’ufficio, io avrei dovuto chiamare Judith o Mildred per farmi dettare il suo civico e poi avrei dovuto trovare qualcuno che mi spiegasse come raggiungerlo. Una perdita di tempo inutile ed una scocciatura evitabile. Se solo Theo si fosse sbrigato a dire quello che doveva e avesse levato le ancore.

Mi sorpresi della mia cattiveria ma non riuscivo davvero a capire cosa mai ci facesse lì. Non ci eravamo lasciati in amicizia, scambiandoci baci sulle guance e promettendoci di trascorrere un weekend al mare insieme. Avevamo urlato, avevamo recriminato, avevamo esagerato. Non era stato per nulla bello e di certo era stata la cosa più vera che era successa nella nostra relazione di quattro anni. Gli strilli, i rancori, le parole non dette. Tutto covato per anni, in silenzio. E poi eravamo scoppiati e alla fine di tutto la nostra storia ne era uscita a pezzi ma noi no. O perlomeno io no. Anzi era stato un sollievo. Un nuovo inizio.

Lui fece un paio di passi verso di me e io mi affrettai ad alzare una mano per bloccarlo.

«Mi manchi, Felicity…», sussurrò piano, guardandomi con degli occhioni da cucciolo.

Tsé, ora me lo diceva! Dopo anni di attesa, anni in cui avevo ricevuto solo resoconti sui suoi maledetti studi botanici e neanche una parola dolce.

Non avevo alcuna intenzione di cascarci. Non potevo indietreggiare dopo aver fatto tutti quei passi in avanti. Dopo aver scelto qualcuno che non fosse lui. Tic, tac, tic, tac. Così aveva detto mia madre e in quel momento io potevo chiaramente percepire il tempo scivolarmi tra le mani senza che io potessi fare alcunché.

«Questo non cambierà le cose. Ci siamo detti addio», gli ricordai, ammorbidendo il tono.

Il ruolo di regina dei ghiacci dopotutto non mi si addiceva troppo. E non potevo negare che provavo ancora un infinito affetto per quell’uomo.

Successe tutto in un attimo, io mi ero distratta per guardare le lancette che si stavano avvicinando pericolosamente al sei sul quadrante rosa pallido del mio orologio da polso e quando avevo rialzato lo sguardo lo avevo visto.

In ginocchio.

«Non ti starai mica per sposare, vero?», le parole di mia madre suonavano come una cantilena nella mia mente in preda al panico.

«Felicity Van Houten, vorresti concedermi l’onore di diventare mia moglie?»

 

 

ECCOMI!

Questo capitolo mi piaceee – squillino le trombe! – e l’ho scritto di getto nonostante l’idea fosse già stabilita da tempo. Cioè Theo doveva dichiararsi fin dall’inizio, che broccolo d’uomo! C’è per caso qualcuno #TeamTheodore? Ne dubito ma non si sa mai, il mondo è bello perché è vario, no?

Vi ho dato uno sprazzo di Donovan e Zoe (Mia eroina! Anche io eliminerei qualsiasi marito probabilmente (Liam a parte) ;D) e una telefonata deleteria con Mamma Van Houten. Più una saggia conversazione con George il Savio. Il grande assente è lui ma comunque Felicity non parla d’altro quindi va bene così. E poi il prossimo capitolo sarà tutto suo. Chissà come accoglierà questa ultima novità…

Scatenatevi con i commenti!

Bacini a tutti!

S.

P.S. Doppi e tripli bacini a chi passa a dare un’occhiata e lascia un commentino alla mia nuova storiella à http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3486063&i=1

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Orchidee ***


Liam

Un leggero bussare mi distolse dal mio furioso battere sui tasti del computer, impegnato com'ero a rispondere ad un idiota, che aveva il coraggio di fregiarsi del titolo di avvocato quando in verità riusciva a malapena a ricordarsi quando la sua presenza di fronte alla corte fosse richiesta, avevo completamente perso di vista l'ora.

Il viso gentile di Diane fece capolino dalla soglia e mi lanciò un'occhiata carica di scuse, «So che aveva chiesto di non essere disturbato, ma c'è qui una signorina che vorrebbe ess-», tentò di spiegare tranquilla.

Sbuffai in preda all'esasperazione. Perché oggi niente andava nel verso desiderato? E perché proprio oggi anche la cara Diane doveva decidere di mostrarsi inefficiente e poco attenta alle mie chiare richieste?

«No, non riceverò nessuno oggi. Scusati con lei e fissa un appuntamento per la prossima settimana», la bloccai subito.

La segretaria mi guardò attentamente, gli occhi pieni di domande che però non avrebbe mai osato tradurre in parole. «Liam, la settimana prossima sarà a San Francisco...», mi ricordò, cercando di non apparire sorpresa di fronte alla mia dimenticanza.

Maledizione! Perché ero stato così stupido da accettare quell'incarico in California? Tutta quell'afa, quell'allegria da West Coast non facevano proprio per me. Soprattutto se ci dovevo andare da solo e per questioni di lavoro.

«Trova il modo di incastrarla in qualche modo in agenda, cristo santo!», sbottai perdendo la pazienza. Per quel che mi riguardava poteva esserci anche Angela Merkel seduta sul divanetto in pelle chiara della sala d'attesa e ciò non avrebbe cambiato la mia decisione di non riceverla oggi stesso.

Diane si ritirò senza replicare, ma potevo capire dalla piega assunta dalle sue labbra e dalla malagrazia con cui si chiuse la porta alle spalle, così lontana dalle sue solite maniere garbate, che era scontenta.

Ci mancava solo che Diane mi tenesse il broncio. Questo andava a sommarsi alla notte passata in bianco, all'importante cliente texano che aveva rinunciato ad essere rappresentato dal mio studio legale e alla telefonata di Tiffany. In verità sapevo benissimo qual era la vera causa del mio malumore. Era così chiaro ed evidente che mi infastidiva ammetterlo.

Lei non aveva chiamato.

Erano passati quasi due giorni da quella meravigliosa notte passata insieme e di Felicity non avevo più avuto notizie. Probabilmente eravamo finiti nel classico trabocchetto che porta ognuna delle due parti ad aspettarsi che sia sempre l'altro a fare il primo passo e così ci trovavamo in una fase di stallo. Sapevo benissimo che le cose stavano così ma, testardamente e anche molto infantilmente, era da trentasei ore che fissavo lo schermo del telefono in attesa.

Slacciai maldestramente il nodo della cravatta e con gesti stizziti la feci scivolare via dal collo, sperando di poter trovare almeno un po' di sollievo nel liberarmi da quella costrizione che non mi faceva respirare. La sensazione di avere un macigno intento a premere sul mio petto però non si alleviò.

Due rapidi colpi sul legno della porta mi obbligarono a darmi un contegno e a tornare a rivolgermi alla schermata illuminata del pc.

«Che c'è ancora?»

«La signorina non vuole nessun appuntamento e afferma che aspetterà qui fuori», lo informò concisamente Diane, gli occhi glaciali fissi sulla cravatta gettata sulla poltrona.

Scossi la testa, «Che aspetti allora!»

Passai le successive tre ore a correggere le bozze dei fascicoli dei clienti di cui mi sarei dovuto occupare in settimana. Quello era un lavoro che solitamente era riservato all'ultima ruota del carro, probabilmente un povero tirocinante, nelle sue pause tra il fare fotocopie e il portare il caffè a tutti quelli che occupavano posizioni gerarchicamente superiori alla sua. Ovvero tutti.

Era così però che tutti venivano iniziati al mondo legale. Era stato così anche per me. Sepolto per serate intere in scantinati polverosi a schedare e ordinare faldoni. Il trita documenti era diventato il mio migliore amico. Con il passare degli anni, le promozioni e poi la fondazione del mio studio avevo dovuto imparare a delegare e quel compito era stato tra i primi a cui avevo dovuto rinunciare. All'inizio lo avevo fatto a cuor leggero, sollevato di essermi liberato di quell'odiosa incombenza. La verità era che alcuni calmano i propri nervi facendo le pulizie, cucinando torte, praticando yoga mentre io ci riuscivo solo occupandomi di tutte quelle faccende da novellino.

Non serviva a niente, il giorno successivo mi sarei ritrovato solo con molto più lavoro 'vero' in arretrato, ma in quel momento serviva a distrarmi, ad impegnare la mia mente in azioni elementari e perciò rassicuranti.

Diane, nonostante il mio pessimo trattamento, era passata un'ora prima ad augurarmi una buona serata prima di andare a casa. Lev, aveva fatto una capatina per informarmi che aveva davvero bisogno di un paio di giorni di permesso per il mese di luglio a causa di sua madre con il femore rotto, mentre Joanne mi aveva consegnato, con un sorrisino diabolico stampato in volto, il foglio riguardante l'accordo per i suoi sei mesi di assenza per maternità che attendeva solo una mia firma.

Lanciai un'occhiata fuori dall'ampia vetrata e mi sorpresi di trovare la città già avvolta dall'oscurità. Sospirai, era davvero quella la vita che volevo? Tutti tornavano a casa di fretta per cenare con la propria famiglia, si prendevano giorni di ferie per prendersi cura dei propri cari o andare in vacanza, mettevano in pausa il lavoro per dedicare tutto il loro tempo ad un bebè in arrivo. Nessuno passava le serate in solitudine in ufficio a correggere delle bozze.

Decisi di lasciar perdere quando mi accorsi che avevo tra le mani il fascicolo di Mrs. Grey; non avevo le forze per concentrarmi sulle sue assurde richieste riguardo ai suoi sette gatti. Onestamente non biasimavo il marito per aver deciso di gettare la spugna e lasciare che il suo matrimonio naufragasse, anche se ora si ritrovava a fronteggiare davanti ad un'intera aula incredula la pretesa insensata della consorte che, oltre ai propri alimenti, voleva che venissero coperte anche le spese mensili dei suoi adorati micini.

Spensi il computer, recuperai la ventiquattr'ore, il portatile e la giacca, mi misi attorno al collo la cravatta e lasciai il mio ufficio. Nell'atrio regnava la penombra data dalle luci al neon ancora accese nella sala d'attesa, mi diressi lì, intenzionato a spegnere tutto e andarmene a mangiare un boccone al volo.

Mi bloccai con la mano a mezz'aria. Sul divanetto, appallottolata in posizione fetale, c'era una figura familiare. I lunghi capelli biondi erano sparsi in modo disordinato attorno al suo viso, gli occhi chiusi a causa del sonno che doveva averla colta nell'attesa, le gambe scoperte dalla gonna che si era alzata oltre la metà coscia.

Era sempre stata lì. Per quasi quattro ore, pazientemente seduta su uno stupido divano in una stupida sala d'attesa. A due passi da me che mi struggevo per l'assenza di sue notizie.

Avrei voluto svegliarla immediatamente e rimproverarla per non essersi presentata direttamente da me in ufficio senza bisogno di passare da Diane, ma mi fermai un attimo ad osservarla. Sembrava così giovane in quel momento, una ragazzina con la pelle screziata da mille lentiggini e una nuvola di capelli luminosi.

Abbandonai tutto ciò che occupava le mie mani sul basso tavolinetto con la superficie in vetro ricoperta di riviste d'attualità e mi inginocchiai lentamente accanto al divano, verso l'estremità dove era adagiata la sua testa.

Respirava piano e la maglietta di cotone leggero che indossava si alzava e abbassava ritmicamente. Mi ritrovai a pensare alla notte di due giorni prima quando Felicity si era addormentata stremata nel mio letto e io non ero riuscito a prendere sonno immediatamente e così l'avevo osservata. Era scarmigliata in seguito alle attività alquanto piacevoli che ci avevano visti coinvolti eppure sembrava ancora più bella. Ed era stato in quel momento che avevo capito che ci ero ricascato.

Quindici anni dopo Tiffany era successo di nuovo e questa volta, con la maturità dei miei trent'anni compiuti e superati, potevo rendermi pienamente conto della solidità di quei sentimenti. A venti anni mi ci ero gettato a capofitto, ebbro della sensazione di assoluta felicità che provavo a stare con Tiffany. Non avevo riflettuto, in fondo perché avrei dovuto? Quella era l'età giusta per vivere pienamente e con un briciolo di incoscienza, per sbagliare e per fare nuove esperienze. Ora invece era il momento perfetto per riflettere e prendere una decisione definitiva. Il mio errore lo avevo già commesso in passato e ora avevo una nuova possibilità, in quel momento assopita davanti a me.

Mi rimisi in piedi, infilai la giacca, nonostante il caldo che regnava nella stanza dopo lo spegnimento dell'impianto di aria condizionata avvenuto probabilmente all'orario di chiusura, e mi chinai per prenderla tra le braccia e sollevarla dal divano. Acciuffai la mia borsa e la piccola tracolla di Felicity abbandonata sul pavimento e lasciai l'ufficio. Spensi le luci con il gomito e ringraziai silenziosamente il fatto di avere porte automatiche che si bloccavano senza chiave una volta che si usciva chiudendosele alle spalle.

Chiamai l'ascensore e nell'attesa non potei fare a meno di perdermi ancora nelle leggere venature violacee che ricamavano le sue palpebre serrate, nelle screpolature delle sue labbra perennemente sottoposte a mordicchiamenti feroci da parte della loro proprietaria e nel rossore delicato che si diffondeva sempre sulle sue gote, persino nel sonno.

Il trillo dell'ascensore mi salvò in corner dal rischio di cadere in pensieri così melensi da risultare iperglicemici. Raggiunti i garage sotterranei adocchiai la mia moto posteggiata nel solito settore a me riservato per poi vagare con lo sguardo verso i posteggi dedicati ai visitatori. Il grande pick-up impolverato di Felicity non poteva non spiccare tra le poche automobili scintillanti ancora ordinatamente affiancate.

Facendo uno sforzo da vero giocoliere riuscii ad aprire la sua piccola borsa a tracolla e ad infilarci dentro uno mano senza farla cadere sul cemento nudo del pavimento. Le mie mani incapparono in una selezione di oggetti insoliti e tipicamente femminili veramente ampia per un contenitore dalle dimensioni così ridotte, ma vi non trovai alcuna traccia delle chiavi.

Cercando di destreggiarmi come meglio potevo, allungai una mano verso le tasche posteriori della sua gonna blu.

«Stai davvero tentando di approfittarti di una donna incosciente?», mi chiese una vocetta assonnata in tono divertito.

Gli occhi di Felicity, spalancati come fanali nella notte, mi fissavano dal basso verso l'alto; un sopracciglio sollevato in una muta domanda.

«Assolutamente no!», esclamai indignato.

«Le tue mani sono sul mio sedere...», osservò tranquilla lei, senza manifestare alcuna intenzione di liberarsi dalla mia presa o di allontanare le mie mani.

Non sapendo bene come rispondere, mi limitai a borbottare qualcosa sottovoce mentre mi piegavo sulle ginocchia per aiutarla a scendere prima di fare un passo indietro e interrompere il contatto tra i nostri corpi.

In piedi di fronte a me, mi fissò per un paio di secondi, il capo leggermente reclinato e un sorrisetto furbetto che le piegava sempre più gli angoli della bocca.

«Ora il mio didietro si sente terribilmente scoperto. Torna immediatamente qui!», affermò un attimo prima di gettarmi le braccia al collo e spalmarsi senza alcuna vergogna contro di me.

La mia ventiquattr'ore scivolò a terra, così come la mia borsa porta computer e la tracolla di Felicity, ma neanche me ne accorsi impegnato com'ero a riprenderla tra le braccia, le sue gambe allacciate attorno ai miei fianchi in una presa ferrea, e a baciare quelle labbra rosa sempre secche per le troppe ore passate all'aria aperta.

Quando finalmente ci staccammo per prendere fiato mi accorsi di essermi praticamente seduto sul cofano di una luccicante Mercedes rosso ciliegia. Felicity tornò con i piedi per terra, ma non accennò ad allontanarsi, cosa che in ogni caso non le avrei permesso.

«Mi sei mancato», mi soffiò piano sulle labbra, gli occhi luminosi e traboccanti di felicità.

Era così bella in quel momento: i capelli gonfi di un biondo accecante, le guance rosse e un sorriso beato ad adornarle le labbra umide. Era così bella che avrei voluto immortalare quell'istante per sempre. Una polaroid resistente al tempo, alla dimenticanza, alla vita. Un ricordo da custodire, da tramandare, da conservare come perenne promemoria di quale sia il vero volto della felicità più pura ed autentica.

Posai la fronte contro la sua, il fiato ancora spezzato e un caldo terribile a pervadere ogni fibra del mio corpo. Perché accidenti mi ero infilato la giacca?

«Andiamo via», sussurrai piano prima di far scivolare lesto una mano nella tasca posteriore della sua gonna, ingannandola con la promessa di una carezza sfacciata, e impossessandomi della chiave del pick-up.

***

«Guidi come una pazza», sancii acchiappando al volo la mano che si stava già avventando furiosa verso un punto alquanto delicato del mio corpo nudo.

Approfittai del suo debole tentativo di lotta per trascinarla tra le mie braccia, luogo dov'era stata per le ultime ore. La sua pelle era caldissima, ma nonostante il clima rovente di quella notte estiva non mi sarei allontanato da quel groviglio di lenzuola e da lei per nessuna ragione al mondo.

«Ti ho portato a destinazione e tanto basta», sancì lei pratica e per nulla disposta a mettere in discussione le sue doti da autista o a riaprire la discussione che parecchie ore prima mi aveva visto perdente e relegato alla condizione di semplice passeggero. «A proposito, sono stata chiesta in sposa...», buttò lì sovrappensiero.

«Il cugino reverendo?», le chiesi sovrappensiero, distratto dal suo profumo e dal suo collo esposto e abbronzato.

Un pugno mi colpì piano ma deciso sulla spalla e mi costrinse ad allontanarmi dalla sua pelle e a dedicarle piena attenzione. «Cos'è accaduto?», domandai cauto, preoccupato dalla serietà del suo sguardo.

Lei si allontanò da me per potermi guardare dritto negli occhi, una buffa espressione a metà tra il colpevole e il sollevato stampata in viso.

«Theo...», rispose semplicemente.

Quell'unico nome a racchiudere più di mille parole.

Felicity scosse la testa sconsolata e volse lo sguardo verso la vetrata scura. «Io penso sia stato il panico derivato dalla consapevolezza di avermi perso...», disse sovrappensiero, come se stesse tentando di spiegare qualcosa a sé stessa. «Ho atteso per quasi quattro anni che si lasciasse andare, che per un attimo mettesse da parte quel suo atteggiamento compito e facesse un gesto spontaneo ed autentico. Uno slancio, una piccola pazzia. Quattro anni, santo cielo! E cosa ho ricevuto in cambio? Una collezione di email impersonali tutte uguali e ore e ore di spiegazioni non richieste sulla flora dell'East Coast. Doveva svegliarsi proprio adesso? Quando ero pronta per dirgli addio?»

«Forse la differenza sta proprio qua; lui non era pronto», suggerii.

Mia madre me lo ripeteva sempre da ragazzino. Ci vogliono due persone per dire sì, ma ne basta una per dire no. E questa frase si prestava benissimo applicata al campo relazionale. Il mio lavoro me lo aveva insegnato, io in prima persona ne avevo fatto le spese. Quando uno decide di averne abbastanza, di non poter più sostenere il peso di quel rapporto, è in quel momento che la relazione finisce. Anche se l'altra persona coinvolta non la pensa allo stesso modo.

«C'è una bella differenza tra il non essere pronti a lasciarsi e l'utilizzare il pretesto delle nozze in un modo così meschino! In quattro anni la parola matrimonio non ha mai sfiorato le sue labbra, sebbene sapesse quanto fosse importante per me. E adesso...». La osservai in silenzio mentre si alzava dal letto e con gesti rabbiosi si infilava gli slip e la sua t-shirt a righe blu. «Adesso ha avuto la faccia tosta di inginocchiarsi per chiedere la mia mano!». Sparì in bagno per poi tornare a passo di marcia verso di me e fare dietrofront. Dopo pochi secondi ritornò sui suoi passi, si fermò e mi fissò seria.

«Mi dispiace, so che a te non interessano le sfortunate vicissitudini di Felicity e Theo. Porco cactus, tu dovresti essere l'ultima persona al mondo a cui raccontare tutto ciò! Cosa mi è preso?», si incolpò infuriata sedendosi sul letto, dandomi le spalle.

Ogni idillio era tale proprio perché seguito da una crisi, era proprio quella che rendeva ancora più fulgidi i momenti meravigliosi che l'avevano preceduta. Sospirai e mi alzai lentamente dal materasso e dal quel groviglio di lenzuola ancora tiepide. Recuperai i miei boxer abbandonati sul pavimento e li indossai, prima di fare il giro dell'ampio letto matrimoniale e inginocchiarmi di fronte a Felicity.

Le presi le mani tra le mie, ma lei non alzò lo sguardo, limitandosi ad osservare le nostre dita intrecciate.

«Hai ragione, non sono interessato alle sfortunate vicissitudini di Felicity e Theo, ma semplicemente perché vorrei non esistessero o perlomeno avessero fine. Così potremmo dare il via ad un nuovo capitolo e intitolarlo le "Fortunate Vicissitudini di Felicity e Mr.Liam". Però io non posso sapere cosa vi abbia tenuto legati per così tanto tempo o quanto forti fossero i vostri sentimenti reciproci. Non lo so e non voglio fare l'arrogante presumendo di sapere cose che in realtà non conosco. Però Felicity, se anche solo tu avessi il minimo dubbio...io non vorrei mai essere d'intralcio», mormorai piano accarezzandole il polso esile.

Lei a quel punto sollevò la testa di scatto e mi fissò stralunata. «Liam? Mica crederai che abbia anche solo lontanamente pensato di mollarti su due piedi per sposarmi Theo, vero?», mi domandò, gli occhi spalancati dall'incredulità.

Ve l'ho già detto quanto adoro le domande trabocchetto delle donne? Ecco, se c'è qualcosa che amo ancora di più sono i voli pindarici di ore e ore necessari ad arrivare a dire qualcosa che sarebbe potuto essere spiegato nell'arco di cinque minuti. Partono da lontano, ti confondono narrandoti retroscena e aneddoti, ti stordiscono con flussi di coscienza che fanno un baffo a Joyce, ti abbagliano con racconti contraddittori. E così quando ti stai già convincendo ad accettare le conseguenze che deriveranno da quel loro lungo ed accorato discorso, loro concludono contente il sermone giungendo ad una conclusione che è l'esatto opposto di ciò che ti aspettavi.

Il perché lo facciano nessuno lo ha mai capito. Matthew probabilmente perse dieci anni di vita quando Queen Mildred, con l'intento di annunciargli la lieta novella della sua gravidanza, venne fraintesa e lui credette che lei volesse il divorzio. Tutte le volte si difende dicendo che sua moglie sembrava tutto tranne che una futura mamma tutta sorrisi e lacrime di gioie mentre gli parlava e che la sola idea delle laute parcelle che mi avrebbe dovuto sganciare per la separazione avrebbe causato un mancamento anche all'uomo più solido. Onestamente nessuno gli aveva mai creduto, suvvia, Malefica potrebbe mai piangere di felicità?

«E io che pensavo tu fossi un uomo sveglio...», sbuffò. «In più mi sento offesa perché questo vuol dire che tu mi credi capace di valutare la proposta di un altro e poi fare...quello che ti ho fatto! Non sono una sgualdrina io, testa di cactus che non sei altro!», sbottò indignata, districando le sue dita dalla mia presa.

Ecco, ora il colpevole ero io, non colei che mi aveva appena fatto credere di essere destinata ad un altro.

«Ho solo ipotizzato che forse ci stessi riflettendo su. In fondo quattro anni non si mettono da parte senza neanche pensarci un attimo...», le feci presente. «Dimmelo tu allora com'è andata, cosa hai detto e cosa vuoi fare».

Il nostro silenzio era interrotto solo dal ticchettare prepotente della sveglia rosa confetto a forma di gatto che mi aveva regalato Arabella appena atterrata a Boston due settimane prima e che ora faceva bella mostra di sé sopra il mio comodino.

«Gli ho detto di no, non abbiamo parlato molto, stavo andando in un posto e avevo un po' di fretta...», mi fece presente rivolgendomi un timido sorrisetto civettuolo. «Gli voglio bene, come potrei volerne ad un caro amico di vecchia data e le cose stanno così da più di un anno. Questo suo gesto è stato inaspettato, ma non cambia le cose. Sogno il matrimonio da quando sono in fasce, ma se mai accadrà dovrà essere per sempre. O perlomeno nel momento in cui accadrà io dovrò credere con tutto il cuore che sarà per sempre. E io sono fermamente convinta che con Theo non sarebbe per sempre, semmai per un paio d'anni. E comunque ora come ora sono piuttosto coinvolta da qualcun altro e non ho alcuna intenzione di ipotecare la mia casetta per potermi permettere un certo Avvocato Carter Wright...», mi spiegò in un sussurro accarezzandomi piano il volto.

Quello che leggevo nei suoi occhi mi causava in egual misura speranza ed autentico terrore.

«Comunque è sleale affrontare una discussione in déshabillè...», mugugnò scontenta facendo scorrere un dito sul mio petto nudo.

Ridacchiai e le acciuffai la mano dispettosa. «Vorrei solo farti notare che il mio viso è giusto giusto all'altezza delle tue cosce nude...»

Lei mi guardò con fare furbetto prima di sporgersi verso di me e soffiarmi sulle labbra le parole che misero fine a quella conversazione: «Direi che potresti approfittarne e darti da fare allora, che ne dici?»

***

«Lo ha rifatto»

«Chi ha rifatto cosa?», mi informai sovrappensiero stando attento alla traiettoria che le manine di Gabriel stavano seguendo.

Matthew sbuffò infastidito. «Mildred! È nuovamente incinta...»

Gli lanciai un'occhiata di soppiatto. «Congratulazioni! Però questo vuol dire che lo avete rifatto, va bene l'emancipazione femminile, ma per alcune cose noi uomini siamo ancora indispensabili...»

«Solo per una cosa. Per creare nuovi, piccoli ed adorabili Gabriel. Per il resto ce la caviamo alla grande anche senza di voi, non preoccupatevi», ci interruppe una voce familiare, appartenente ad un folletto dai capelli color carota.

«Judy, risparmiami, io diffondo i miei adorabili geni nella mia altrettanto adorabile prole!», si difese subito il mio amico.

Gabriel nel frattempo, approfittando del mio momento di distrazione, si era accaparrato i miei occhiali da sole e li sventagliava come se fosse una bandierina e non una montatura da 400$.

Mia sorella si accomodò accanto a me e allungò le braccia per catturare il viso di Gabriel e riempirlo di piccoli bacini che lo fecero gorgogliare di gioia e gli fecero, fortunatamente, mollare la presa sui miei occhiali, che mi affrettai a riporre al sicuro nel taschino della mia camicia di lino.

«Ai geni adorabili posso provvedere io. Piuttosto, Judy tesoro, risparmiamelo perché mi serve qualcuno che tagli il prato...», borbottò Mildred, sopraggiungendo con un vassoio carico tra le mani. «Anzi, sai che ti dico? Non mi serve neanche per quello, quando posso chiamare quel gran pezzo di figliolo che è quel Donovan...»

Judith scosse il capo e lasciò un buffetto sulla guancia paffuta del suo figlioccio. «Io dico che possiamo fare benissimo a meno di entrambi i qui presenti. Ci teniamo solo il puffetto qui, vero tesoro? Tu resti con la zia?»

Gabriel annuì tutto convinto e abbandonò definitivamente le mie gambe per zampettare in direzione della sua adorata zietta ruffiana.

Mildred sorrise e mi allungò un bicchiere colmo di thè freddo. «È deteinato, così anche Gabe lo può bere e tu non ti agiti...», mi rassicurò materna.

Matthew soffocò una risatina dentro al suo bicchiere di thè e mi lanciò un'occhiata complice.

«Perché mai dovrei agitarmi? Io sono sempre posato e...»

Una testa di capelli biondi sbucò proprio in quel momento dal vialetto del giardino, accompagnata dalla domestica dei miei amici.

«...Rosa, ogni volta che ti vedo hai una pettinatura sempre più bella ed originale! Dici che riuscirei anche io ad intrecciarmi i capelli in modo simile?...», la udii parlottare in preda all'entusiasmo, mentre allungava timidamente una mano per osservare attentamente una delle mille treccine sottili che adornavano il capo della giovane cameriera.

«Sorseggia il tuo thè e stai calmo», mi suggerì bonariamente Malefica, posandomi una mano sul ginocchio e sorridendomi melliflua. «Pulcino, vieni un attimo qui dalla mamma così mangiamo un'albicocca...», tubò poi, mentre privava del nocciolo un paio di succosi frutti dal vivido color arancione.

«Non so cosa vi siate messi in testa, ma io sono assolutamente tranqui-»

«Buongiorno a tutti! Ciao Gabriel! Mildred grazie mille per l'invito, sono un attimo in ritardo, ma ho dovuto fare una piccola deviazione...Oh, Judith! Che bello rivederti...», esclamò abbracciando mia sorella e rivolgendo un cenno cordiale a Matthew. «Liam...», mi salutò poco dopo, rivolgendomi un sorriso così splendente da ringraziare l'assenza di teina nella mia bevanda.

Ok, forse ora non ero più così tranquillo. Di certo quel mini vestitino color ciliegia indossato da Felicity non era molto d'aiuto, così come le sue lunghe gambe abbronzate messe ancor più in bella mostra grazie ad un paio di sandali dalla zeppa strategica.

«Buon pomeriggio, cara! Accomodati pure, gradisci qualcosa da bere?», chiocciò una Mildred tutta miele.

Gabriel si agitò tra le braccia di sua madre. «...cocca?», chiese guardando prima la metà del frutto che aveva in mano e poi il sorriso luminoso che Felicity gli stava dedicando.

«No, piccolo, ti ringrazio tanto, ma è la tua merenda...», lo rassicurò lei. «Ah, vi ho portato una cosina!», esclamò all'improvviso, iniziando a cercare qualcosa dentro la sua ampia borsa color cuoio.

«Ti prego, dimmi che è ancora un vasetto di quel delizioso pesto dell'ultima volta! Sono riuscito a gustarmelo solo una volta perché Mil ha pensato bene di utilizzarlo quando avevamo ben sei ospiti a cena ed è finito subito...», borbottò sconsolato Matthew.

Sua moglie alzò gli occhi al cielo. «Da che mondo è mondo ai propri ospiti si offrono le cose migliori mi pare», lo rimbeccò subito lei.

Felicity finalmente riemerse dalle profondità della sua borsa con tre grossi vasi in vetro tra le mani. «Mi dispiace, ma il mio basilico ultimamente sta soffrendo terribilmente il caldo e io non ho più avuto modo di preparare il pesto. La prossima volta te ne farò avere più vasetti, Matthew, promesso! Per fortuna ne ho portati tre, volevo passare a lasciarne un paio alla mia ex vicina di casa, ma posso andarci un altro giorno...Ecco, uno per voi, uno per te Judy e...Liam? Questo potresti farlo avere ad Arabella? È marmellata di fragole, l'ho fatta proprio stamattina e magari le fa piacere riceverla visto quanto l'aveva apprezzata l'ultima volta...», spiegò distribuendo i suoi vasetti home-made e soffermandosi di fronte a me, una tacita domanda scritta negli occhi.

Allungai la mano e presi il vasetto che mi spettava. «Grazie, è un pensiero molto premuroso, sono certo che se la sbafferà tutta quanta», la rassicurai sorridendole .

«Rosaaa! Puoi portarci del pane, per favore? Così testiamo subito questa prelibatezza...», sbraitò Matt.

Queen Mildred lo guardò con disapprovazione. «Potresti anche alzare il sedere ogni tanto...», commentò caustica.

«Vado io!», strillò Judith, saltando in piedi come una molla e scomparendo in casa prima che chiunque avesse la possibilità di fermarla.  

«Gnammo!», strillò all'improvviso Gabe, tentando di appropriarsi del vaso di vetro che sua madre aveva saggiamente posato sul tavolino di fronte a lei, fuori dalla portata del bambino.

Mentre attendevamo di fare merenda, gustandoci il regalo di Felicity, mi accorsi delle continue occhiate che Mildred mi lanciava di soppiatto, quasi stesse analizzando ogni mio più piccolo gesto.

Non appena si rese conto di essere stata scoperta, avvicinò la sua poltroncina al capo del divanetto dove ero seduto io e con nonchalance mi sussurrò all'orecchio: «Coltiva fragole e fa la marmellata in casa».

Le dedicai un'occhiata interrogativa, stando attento ad essere discreto. Mi accorsi però che Gabriel stava catalizzando l'attenzione dei presenti con i suoi disperati tentativi per raggiungere il vasetto di confettura, così mi voltai completamente verso Mildred.

«Hai avuto culo...e che culo!», mi sibilò nell'orecchio.

Gabe si sporse verso di noi. «CUUULO!», canticchiò con la sua vocetta acuta.

Per qualche secondo tutto tacque.

«Filgliolo, che cosa hai detto?», urlò Matthew, rischiando di strozzarsi con il suo thè freddo.

«Gabriel!», strillò stridula sua madre, arrossendo come un peperone.

«Ecco la merenda!», esclamò squillante Judy, arrivando con due ampi piatti colmi di fette di pane integrale e non.

***

Baci, abbracci, saluti, risolini, ringraziamenti. Quando, due ore più tardi, la pancia piena fino a scoppiare di pane e marmellata alle fragole, riuscii finalmente a tornare alla mia macchina sentii dei passi rincorrermi.

Mi voltai aspettandomi di trovare Felicity, ma invece rimasi sorpreso di fronte al caschetto fulvo di mia sorella. «Cosa fai per festeggiare il 4 luglio?», mi domandò seria.

Troppo seria.

Presi tempo giochicchiando con la chiave dell'auto. «Niente, mi rimetterò in pari con il lavoro o magari uscirò in barca a vela. Devo ancora decidere...tu?», le chiesi quasi timoroso.

Judith era sempre stata quella più esuberante e solare dei due, era così piena di frizzantina energia e positività da essere benvoluta da tutti e lei ricambiava volendo bene a decisamente troppe persone. Probabilmente era per quello che andava tanto d'accordo con Felicity, in qualche modo condividevano entrambe quella assurda tendenza alla speranza e al ben pensare di tutti e tutto.

«È il 4 luglio, Liam. Ovviamente torno a casa», mi spiegò come se fossi un bambino duro di comprendonio.

Ovviamente torno a casa.

Ovviamente.

Casa.

«Ottimo! Allora credo ci vedremo tra un bel po'...»

Vidi i suoi occhi rabbuiarsi e la sua fronte aggrottarsi, la scritta 'cretino' che lampeggiava chiara nelle sue iridi. Non lo avrebbe mai detto, ma sapevo benissimo la sfilza di epiteti poco lusinghieri che avrebbe voluto dedicarmi quando mi comportavo così.

«Già, tra un bel po'...», sussurrò prima di sfiorarmi piano una mano e voltarmi le spalle.

La osservai immobile mentre saliva sulla sua Chevrolet e lasciava il parcheggio, per una volta guidando secondo le regole stradali, diversamente dal solito.

«Mi sono dimenticata di chiederti...Ehi, tutto bene?»

Abbassai lo sguardo e fissai la mia mano ora intrappolata nella stretta gentile di Felicity, la quale mi guardava preoccupata.

«Cosa fai il 4 luglio?», le domandai invece di risponderle.

Felicity non era sciocca, ma preferì lasciar perdere per il momento e assecondarmi. «Vado in Florida ovviamente! Non mi perderei i maldestri tentativi di mio padre nell'accendere dei fuochi d'artificio nel giardino di casa per niente al mondo. Dovresti vederlo! Prima litiga con l'accendino, poi rimprovera mia madre e le raccomanda di stare indietro, poi accende la miccia e si lancia in uno scatto che farebbe impallidire Usain Bolt per paura di prendere fuoco. Il tutto mentre Zoe lancia i petardi nella proprietà dei vicini e mia nonna recita il rosario pregando di essere risparmiata dalla follia piromane dei suoi familiari. È uno spasso, te lo assicuro!», esclamò ridendo tra sé nel ricordare con affetto la sua buffa famiglia.

Ovviamente.

«Cosa volevi chiedermi?»

Il suo sguardo era sempre più preoccupato, ma continuò a non pressarmi, cosa che in quel momento apprezzai infinitamente.

Si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e si guardò i piedi quasi imbarazzata. «Vuoi venire da me? C'è un po' marmellata dovunque, ma almeno ti faccio vedere com'è bello il mio tetto nuovo appena finito! Che ne dici?»

Non riuscii a trattenermi e prendendola in contro piede l'avvolsi stretta tra le mie braccia. Persino i suoi capelli profumavano di fragola e la cosa mi rassicurò infinitamente.

«Stasera non posso...», sussurrai piano, prima di lasciarle un bacio leggero sulla fronte e allontanarmi.

Lei mugugnò un ok poco convinto, mi rivolse un'ultima occhiata accorata e mi salutò.

Me ne pentii due secondi più tardi, quando mi ritrovai solo nell'abitacolo soffocante della mia Audi. Non mi aveva mai aiutato questa mia tendenza ad isolarmi ogni volta che qualcosa mi turbava più del dovuto, eppure ogni volta ci ricascavo.

Non appena rientrai nel loft mi feci una doccia e poi mi sedetti sulla terrazza a fissare quel maledetto barattolo di marmellata, che se non fossi sbrigato a mettere nel frigorifero non sarebbe mai arrivato a destinazione tra le mani di Arabella.

Mi alzai di scatto, rientrai nel soggiorni dall'ampia portafinestra, riposi la marmellata al suo posto e afferrai il portatile prima di sprofondare nuovamente sulla poltrona.

Digitai stizzito alla ricerca del sito dell'American Airlines.

2 Luglio | Boston,MA --> Phoenix, AZ | 1 Adult | First Class

C'era un volo alle 6.20 di mattina con cui, calcolando il fuso orario, sarei atterrato in 5h e 47m alle 9.07, avendo così il tempo per prendere un'auto e raggiungere Sedona, senza traffico in due orette sarei arrivato a destinazione.

Mi feci alleggerire di ben 773$ dalla compagnia aerea e di altri 400$ da Hertz per affittare una Jeep per quattro giorni. Al volo di ritorno avrei pensato una volta arrivato, nel caso mi sarei potuto imbarcare anche la sera stessa del mio arrivo.

Sedona.

Poco più di 10.000 abitanti e le rocce rosse dei canyon tutt'attorno.

Casa.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Viole del pensiero ***


Felicity

Il volo era stato piuttosto movimentato con le continue turbolenze che avevano scosso l'aereo e l'attacco di panico che aveva colto una ragazza australiana seduta proprio davanti a me.

Non ero riuscita a chiudere occhio, il pensiero che continuava a tornare a quel bacio sulla fronte con cui Liam mi aveva allontanato prima di rinchiudersi in sé stesso e isolarsi dal mondo. Rispondeva alle mie email in modo vago e conciso e Ines mi aveva detto che non lo incrociava da un paio di giorni e sospettava fosse partito.

Quel suo sguardo smarrito me lo ricordavo bene, così come quel Dove sei? che ancora non aveva ricevuto risposta. Erano passate più di ventiquattr'ore da quando glielo avevo scritto, ma dal fronte Carter Wright tutto taceva.

Una volta atterrata a Tampa feci la mia solita tappa alla toilette principalmente per lavarmi le mani e nascondere con un velo di correttore le occhiaie, sperando così di evitare una ramanzina di Madre riguardo alla mia sciocca cocciutaggine nel voler viaggiare in piena notte e nel rifiutare di prenotare un biglietto in business class.

Mi slegai i capelli e rifeci da capo la treccia a spina di pesce che non era sopravvissuta al viaggio, dopodiché mi avviai in direzione della postazione per il ritiro dei bagagli. Come sempre il mio trolley fu uno degli ultimi ad essere consegnato e così quando finalmente raggiunsi l'uscita mi accorsi che erano già quasi le otto di mattina.

Il sorriso a trentadue denti di mio padre mi accolse nell'atrio principale dell'aeroporto, nonostante gli avessi più e più volte raccomandato di non scomodarsi per evitargli una levataccia e un ritorno imbottigliato nel traffico delle nove di mattina quando potevo benissimo chiamare un taxi o un Uber.

Mi tuffai tra le sue braccia e lui mi lasciò un bacio tra i capelli, prima di impossessarsi del mio trolley e del mio zaino.

«Ben arrivata! Vuoi darmi anche la tua borsa?», mi chiese tutto contento, dandomi un pizzicotto affettuoso sulla guancia e sorridendomi contento.

Gli sorrisi a mia volta, prima di riappropriarmi del mio zaino e caricarmelo in spalla. «È una tracolla, papà, in cui a malapena ci sta il portafogli, credo di potercela fare, tranquillo. E poi sei tu quello che soffre di ernia al disco ed è prossimo alla terza età, non io...», lo rimbeccai, sfilandogli di mano il trolley e dirigendomi a passo spedito verso le porte che conducevano all'uscita e al parcheggio.

«Tua mamma non ne sarà per niente contenta...», borbottò tra sé, mentre mi apriva la porta e mi cedeva il passo, come galantemente faceva sin da quando avevo iniziato a muovere i primi passi.

Dopo dieci minuti di scarpinata tra file e file di automobili posteggiate, sotto il sole già fin troppo caldo, raggiungemmo finalmente il SUV di papà, nei pressi del quale stazionava una figura a me ben nota.

«Monty! Cosa stai facendo? Se volevo che Felicity si caricasse come un mulo sarei venuta anche da sola a recuperarla! Aiutala, suvvia!», strillò oltraggiata non appena ci inquadrò, non accennando però di avere alcuna intenzione di aiutarmi.

Nonostante l'ora e la sveglia settata probabilmente poco dopo l'alba per avere il tempo di prepararsi e attraversare la città, Grace Van Houten era impeccabile, nel suo completo giacca e pantalone di fresca seta color sabbia, i capelli raccolti in un ordinato french twist e un paio di strategici occhiali da sole ad occhi di gatto a mascherare la probabile stanchezza del viso e a donarle contemporaneamente un'aria da diva.

«Io lo sapevo che finiva così...», bofonchiò mio padre, mentre si faceva carico di tutto il mio bagaglio e apriva il baule dell'auto per riporlo.

«Tesoro, che bello vederti!», cinguettò mia madre poi, stampandomi due baci sulle guance e marchiandomi con il suo Rouge Dior. «Hai delle occhiaie spaventose, cara. Davvero non capisco perché tu abbia voluto prendere questo volo dagli orari assolutamente folli! Appena arriviamo a casa ti faccio preparare una tisana e poi fili a riposare. Monty, hai fatto? Possiamo andare?»

Alzai gli occhi al cielo mentre, cercando di non farmi notare, tentavo di pulirmi con un fazzolettino per eliminare ogni traccia di rossetto.

Papà si immise nel traffico di una Tampa in pieno fermento, alla vigilia di una delle festività più amate dagli americani. Bandiere a stelle e strisce sventolavano già sui balconi e i lampioni erano decorati con vistosi nastri bianchi, rossi e blu.

«Volete fermarvi a fare colazione al club?», si informò mio padre, mentre azzardava un sorpasso poco lecito nei confronti di un autobus bloccato alla pensilina da svariati minuti.

Il club di golf di papà era in pratica la sua seconda casa, considerando che la sua prima dimora era il suo ufficio. Trascorreva lì pomeriggi e pomeriggi, impegnato in infiniti tornei insieme ai suoi colleghi, ad amici di vecchia data o clienti del suo studio legale. Poi si faceva un bagno in piscina, si sottoponeva ad un massaggio per alleviare il dolore alla zone lombare che lo accompagnava da anni ormai, si scolava un paio di whisky e, se ancora non era stufo, si fermava pure a cena.

Mamma sosteneva che alla sua morte avrebbero intitolato il club a suo nome, data la sua assidua frequentazione e la quantità assurda di soldi che sborsava per esserne socio onorario.

«Montgomery! Cosa avevamo stabilito?», lo riprese severamente Madre.

Papà si scusò e propose di fermarci al Meridien.

Io mi sporsi curiosa tra i sedili anteriori e scrutai i loro volti. «Cosa avete stabilito?», mi informai.

Li osservai scambiarsi uno sguardo carico di sottintesi e mi ritrovai a pensare a come fosse possibile avere ancora un tale grado di intimità dopo quasi quarant'anni di relazione.

«Niente club finché ci sarete tu e Zoe», borbottò papà. «In cambio Grace limiterà i suoi impegni mondani», concluse soddisfatto.

Scoppiai a ridere, quei due erano proprio dei masochisti. Si erano privati a vicenda dei loro passatempi preferiti per potersi dedicare alla loro famiglia riunita per l'occasione.

«Non ci sarà neanche il party del 5 Luglio?», domandai sorpresa.

Il 4 Luglio, festa nazionale, era sempre stato un giorno dedicato solo ai parenti, perciò ci limitavamo ad una giornata trascorsa a gozzovigliare in giardino, a fare il bagno, arrostire la carne al barbecue e guardare lo spettacolo dei fuochi d'artificio serali. Che nel nostro specifico caso non consisteva nella coreografia pirotecnica organizzata dal comune per la cittadinanza, ma nel nostro personale show di papà che tentava di appiccarsi fuoco da solo.

In casa Van Houten però il 5 Luglio era sempre stato giorno di festa grande, forse quasi più sentito del 4. Questo perché Grace compiva gli anni e, approfittando della presenza di tutti i familiari riuniti per l'occasione, ospitava il party più bello ed esclusivo dell'anno.

Ad onor del vero va detto che ogni evento ospitato da Grace Van Houten era bello ed esclusivo, ma il 5 Luglio era la sua festa, perciò non si faceva nessuno scrupolo e spediva inviti a destra e a manca, ordinava quantità industriali di cibo ed alcolici dal suo servizio catering di fiducia, arruolava complessi jazz piuttosto celebri e si comprava un abito da capogiro.

«Non avrei mai potuto privarla di quello, non dopo ciò che lei ha organizzato per il mio di compleanno...», mi ricordò mio padre, dedicando a sua moglie uno sguardo carico di affetto.

«C'è qualcosa che vorresti Mamma?», le chiesi, tornando a sedermi in modo composto sul sedile posteriore.

Vidi il Le Meridien scorrere oltre il finestrino e presunsi che alla fine avessero deciso di andare dritti a casa, probabilmente per mettermi a nanna manco avessi tre anni.

«Che tuo padre vada in pensione...»

Tasto dolente. Non so se succede a chiunque sia a capo di una propria azienda, ma mio papà al solo parlare di pensione iniziava a mostrare segni di insofferenza e, nel giro di pochi secondi, con una scusa poco credibile spariva dalla circolazione.

Solitamente le persone sono felici di mollare finalmente il proprio lavoro, dopo quarant'anni passati a spaccarsi la schiena, e godersi quegli anni di tranquillità che si sono tanto onestamente e duramente guadagnati.

Mio padre invece non aveva nessuna intenzione di mollare l'osso, nonostante il suo studio ormai avesse così tante sedi che il suo ruolo di Direttore era puramente pro forma, avendo dovuto, per forza di cose, nominare un responsabile locale per ogni città e distaccamento. Le cose filavano lisce, quindi mio papà si sarebbe potuto ritirare, magari continuando a supervisionare blandamente, lasciando il tutto in mani alquanto abili senza nessuna preoccupazione.

Zoe glielo ripeteva sempre. Possiedi tutta la baracca, una volta che ti sei assicurato che tutto vada bene e hai nominato un tuo valido sostituto, cosa ti importa di continuare a sgobbare?

Probabilmente era la convinzione che quello studio era nato dal nulla, con lui come fondatore e unico impiegato, e che senza quel tassello iniziale tutto ciò a cui si era arrivati ora sarebbe miseramente crollato.

Nonostante tutto io avevo una laurea in legge e avevo provato ad applicarmi per capire la situazione degli studi Van Houten. L'unica cosa emersa? L'estrema professionalità del personale. Si trattava di persone altamente qualificate e accuratamente selezionate, veri e propri squali da tribunale. Papà però sembrava non accettarlo, ritenendosi un ingranaggio fondamentale ed insostituibile.

Probabilmente se uno dei suoi figli avesse proseguito l'attività di famiglia lui si sarebbe sentito più rassicurato e perciò più incline a mollare la presa e rilassarsi. Non lo sapremo mai però visto che Zoe è riuscita a sfuggire, nessuno ancora ha ben capito come, alla laurea in giurisprudenza, mentre la sottoscritta non ha nessuna intenzione di iniziare a mettere in pratica ciò che ha studiato sui banchi dell'università.

«Quando arriva Zoe?», mi informai per alleggerire l'atmosfera improvvisamente tesa.

L'avevo sentita brevemente la settimana precedente, ma non mi aveva permesso di aprire bocca, travolgendomi invece con il suo racconto infuriato riguardante un tecnico dell'assistenza telefonica e dei piccioni che tubavano.

«Non sappiamo neanche se arriverà onestamente...», mi rispose sconsolato mio padre, mentre svoltava nel nostro vialetto d'accesso e frenava per poter cercare il telecomando del cancello automatico.

«Cosa significa? Non può lasciarmi da sola!», strillai angosciata.

No, non poteva abbandonarmi nel momento di massimo bisogno. Doveva essere qui, sostenermi, farmi da spalla e offrirmi un po' di conforto. Soprattutto perché, data la sua avversione per il caldo e il bel tempo, questa sarebbe stata l'ultima occasione per vederla al di fuori del confine del Maine fino ad ottobre inoltrato.

«Non mi pare tu sia sola! Monty! Il cancello è aperto, muoviamoci!», commentò subito offesa mia madre, approfittandone per prendersela con quel santo di suo marito.

«Ha deciso di venire in autobus», mi spiegò fortunatamente il più razionale dei miei genitori.

Autobus. Autobus?! Maine-Florida in autobus, considerando i cambi, le soste e il traffico probabilmente significava qualcosa come trentasei ore filate di viaggio su una vecchia ferraglia puzzolente ed afosa.

«Non arriverà mai in tempo!», esclamai sentendo il panico assalirmi.

La macchina si fermò di fronte al garage e io ne approfittai per saltare fuori dall'abitacolo in meno di mezzo secondo e allontanarmi, telefono stretto in pugno, verso il retro del giardino.

«Non dimenticarti di venire a salutare tua nonna!», mi urlò mia madre.

Ah già, la nonna.

Composi furiosa il numero di Zoe e ringraziai mentalmente quel sant'uomo di Donovan per avermi regalato finalmente un telefono cellulare.

Squillò una volta, due, tre...

«Flick! Cos-...cazzo, tenga i suoi luridi piedi giù dal sedile! Dove crede di essere? Cafone! Ah, io, IO sarei la cafona? Cosa sta facendo?! Non si azzardi a-...»

La telefonata si interruppe all'improvviso e io mi ritrovai a fissare lo schermo muto del mio telefono.

Cosa era appena successo?

Provai a richiamarla senza successo.

Senza pensarci due volte composi un altro numero e restai in attesa di una risposta.

«Felicity! Come stai?»

Sospirai di sollievo nel sentire quella voce squillante. «Ciao Judith, tutto bene. Tu? Posso chiederti una cosa?»

«Benissimo, grazie. Certo, dimmi tutto!», mi disse tranquilla.

Non sapevo se quello che stavo facendo avesse effettivamente un senso, ma tentar non nuoce. «Saresti in grado di rintracciare un telefono cellulare?»

Una risata cristallina mi giunse dall'altro lato della cornetta. «Certamente! Avrei bisogno del codice IMEI però...oddio, non sarebbe totalmente legale come ricerca dato che non siamo membri delle forze dell'ordine e cose del genere, ma quando mai qualcosa di quello che faccio è legale?», ridacchiò lei.

Ecco, questi erano i personaggi che plasmavano le giovani menti, futuro del nostro paese.

«Codice IMEI?», domandai titubante.

Perché ovviamente tutti sapevano cosa fosse un dannatissimo codice IMEI. Era la prima cosa che ti insegnavano insieme all'abc.

Judith probabilmente si rese conto di star parlando con una comune mortale, che a malapena sapeva crearsi un account email o ricordarsi la propria password.

«È il codice identificativo univoco del telefono, è scritto sulla confezione quando lo acquisti oppure lo trovi nelle informazioni generali di sistema nelle impostazioni. Ce l'hai ancora la scatola?», mi domandò gentile.

«Judy, non è il mio telefono che devo rintracciare!», esclamai.

«Oooh, la cosa si fa ancora più torbida ed illegale. Mi piace! Purtroppo senza il codice o le credenziali di accesso all'account principale a cui è legato il telefono della persona in questione non si può fare molto...»

Ovviamente io non sapevo né uno né l'altro.

«Felicity? Non voglio sembrarti indiscreta, ma...stai cercando mio fratello?», mi chiese timidamente.

Ottimo, pure Judith aveva già capito qualcosa, solo la sottoscritta non sapeva nulla di nulla, nonostante fossi implicata in prima persona. Ottimo davvero.

«In verità sto tentando di scoprire dove si trovi mia sorella», risposi asciutta.

Non avevo nessuna intenzione di risultare scortese, ma non volevo neanche sembrare felice e contenta quando il mio Dove sei? restava ancora senza risposta.

Silenzio.

Osservai il mare calmo oltre la staccionata bassa e poi mi accorsi di un paio di occhietti incorniciati da un paio di ampi occhiali tondi, che mi osservavano da dietro le tende del salottino da tè di mia madre. Ecco, ci mancava solo la mia adorata e per niente malpensante nonnina impicciona.

«Mi dispiace non poterti aiutare. E mi spiace per...prima, ma sto cercando Liam da un paio di giorni senza successo. Ora ti devo salutare, ma se ti servisse qualcosa...», concluse frettolosamente.

In quel momento ricevetti un avviso di chiamata, perciò mi affrettai a ringraziarla, augurarle un felice 4 Luglio e a congedarmi. Presi al volo la seconda chiamata e una voce affannata mi stordì un timpano.

«Scusa, Flick! Ho dovuto concludere la discussione prima di richiamarti, era una questione di principio. Non potevo mica essere una mera spettatrice di cotanta cafonaggine senza intervenire, no? Era peggio di un polipo dai mille piedi, posava le sue zampacce persino sui finestrini! Disgustoso, davvero disgustoso. Volevi qualcosa?»

No, ti avevo chiamato perché ero molto interessata alle avventure del polipo dai mille piedi. Avere una discussione sensata con Zoe era ancora più complicato che sfuggire all'occhio scrutatutto di Nonna, che ora si era appostata alla finestrella del bagno di servizio del primo piano come risposta al mio nascondermi tra il vecchio faggio e la casetta in legno dove mio padre conservava un paio di canoe e il suo windsurf.

«Dove sei?», le domandai stancamente.

Mezz'ora in Florida ed ero già esausta.

«Abbiamo passato poco fa Savannah mi pare, sei ore e dovrei esserci credo. Sono qui sopra dalle dieci di ieri mattina, ho proprio bisogno di una doccia mi sa...», borbottò.

Quasi trenta ore di autobus, quella era senza dubbio una nuova forma di tortura. Non esisteva altra spiegazione, non nell'era dei voli e dei treni ad alta velocità.

«E lo stai facendo perché...?», mi informai, mentre scavalcavo il cancelletto bianco che recintava il giardino sul retro e affondavo i piedi nella sabbiolina della spiaggia.

Vediamo, Nonna, che cosa ti inventi ora.

«Volevo scrivere un racconto dell'orrore con protagonisti i passeggeri di un autobus, una sorta di narrazione corale insomma, e avevo bisogno di spunti e materia prima...il polipo sarà senza dubbio una delle vittime», sghignazzò macabra.

La salutai e la pregai di arrivare quanto prima.

Alzai lo sguardo e incontrai il sorrisetto trionfante di Nonna, che mi salutava dal terrazzo dell'ultimo piano.

Mi dichiarai sconfitta e mi tolsi le scarpe per poter immergere i piedi nell'acqua.

Dove sei?

Potevo chiamarlo? Come ci si comporta quando si è nella nostra situazione? Quando tutto è ancora informale, vago, privo di regole stabilite e limiti ben definiti?

Decisi di concedergli ancora un po' di tempo, in fondo la parte della ragazza assillante non mi era mai calzata a pennello.

Feci ritorno alla macchina e dopodiché entrai dalla porta principale, sperando di depistare la madre di mia madre, confondendola con le mie mosse illogiche e il mio percorso tortuoso.

«Felicity! Il telefono ha la priorità sulla tua nonna prossima alla morte?»

Niente da fare, Nonna Adaline svettava in cima alle scalinata principale, un cipiglio scuro stampato in volto e uno sguardo di disapprovazione negli occhi.

Tale madre, tale figlia. Se quella legge spietata si fosse rivelata veritiera io mi sarei ritrovata ad assomigliare prima a mia madre Grace e poi a mia nonna Adaline. Il futuro non poteva apparire più roseo e colmo di avvenimenti lieti.

«Ciao Nonna, anche lo scorso anno eri sul letto di morte eppure sei ancora qui, no?», le feci presente avviandomi verso la cucina.

I tacchetti dei suoi sandali ortopedici mi seguirono, decisi a non concedermi una tregua. «Non essere impertinente, Felicity!», mi riprese, lo stesso cipiglio severo di sua figlia Grace, quando ci dimostravamo sgarbate. «Chi era al telefono?», indagò con la discrezione e la riservatezza che le erano proprie.

In quel momento mio padre apparve sulla soglia, ma nel captare la presenza della suocera decise di fare dietrofront e battere in ritirata, non prima di avermi lanciato un sorrisetto di scuse.

«Zoe»

Nonna a quel punto diventò rossa come un pomodoro e si sedette impettita sulla sedia che mia madre le aveva saggiamente preparato, per evitare che si rompesse un femore nel tentativo di arrampicarsi su uno degli alti sgabelli di design disposti attorno all'isola della cucina.

«Quella sciagurata! Ho letto un suo libro, sai? Dopodiché il mio dottore ha dovuto raddoppiarmi la dose di Valium, ora dormo che è una meraviglia, ma quella toccata di mia nipote è ancora a piede libero nonostante le cose terribile di cui scrive. L'ho sempre sostenuto che cedere e lasciare che mia figlia si unisse ad un peccatore non avrebbe portato a nulla di buono...», borbottò nonna, in preda ad uno dei suoi rimpianti preferiti.

La famiglia di Mamma era alquanto conservatrice, di mentalità poco aperta e terribilmente religiosa. Nonna ancora si ostinava ad artigliare le mani dei malcapitati che avevano la fortuna di capitare seduti vicino a lei a tavola e recitare un sermone di ringraziamento che durava almeno un quarto d'ora prima di permettere a chiunque di toccare cibo. Grace era cresciuta con un'educazione rigida ed imperniata sugli insegnamenti morali della tradizione cattolica. Peccato che poi con il college e tutto quel leggere di poeti maledetti si era un po' persa per strada ed era approdata tra le braccia di Montgomery Van Houten, la cui famiglia credeva unicamente nel valore del denaro e lo aveva cresciuto nella convinzione che non esistesse alcun dio e che l'unico modo per ottenere qualche cosa era darsi da fare e prendersela da soli.

Potete immaginare i fulmini e le saette che lanciò mia nonna ai tempi quando la faccenda della tresca di mammina con un eretico come papà venne alla luce. Arrivò a minacciare di rinchiuderla in un collegio svizzero, nonostante la maggiore età della figlia, e quando quest'ultima le confessò per ripicca di aver perso la sua virtù con il miscredente mia nonna venne ricoverata per esaurimento nervoso in una clinica specializzata.

In verità si è poi scoperto che mamma ha aspettato la prima notte di nozze per fare il grande passo, facendo penare il povero Monty per più di tre anni. Non volevo mica essere come tutte le altre io, ripete sempre mia madre. Perciò in pratica la nonna stette male per uno scherzo.

Zoe ride sempre quando questa storia esce fuori, ma io mi sono sempre chiesta come abbiano fatto a cambiare così in fretta i tempi. Come si era passati dalla nonna che non poteva mettersi il bikini per non sembrare una poco di buono a Zoe che protestava a seno nudo e veniva acclamata come eroina femminista?

«Arriverà nel primo pomeriggio, forse è meglio se triplichi la dose di Valium...», le suggerii allungandole un bicchiere d'acqua.

Lei lo respinse offesa. «Certo, così mi fai andare al campo santo!», esclamò indignata.

Madre, dopo il primo cambio d'abito della giornata, entrò svolazzando in un abito chemisier color lavanda e si guardò attorno con espressione sospettosa.

«Dov'è tuo padre?», chiese a noi due.

Io scrollai le spalle. «È uscito poco fa...»

Mamma non parve rasserenarsi alla notizia. «Se osa sgattaiolare al club quando sono distratta, giuro che domani gli avveleno gli hot-dog così il 5 Luglio lo passa a fare la lavanda gastrica al pronto soccorso!», sbraitò minacciosa.

«Cosa che avrei dovuto fare io quarant'anni fa quando per te c'era ancora speranza di redenzione...», commentò caustica la nonna.

«Mamma! Hai preso le tue gocce?», abbaiò mia madre, spingendole sotto il naso il bicchiere d'acqua che poco prima aveva già rifiutato.

Nonna riprese pian piano a colorarsi di rosso, chiaro segno dell'ira crescente.

«Lo dico per il tuo bene, non so se riuscirai a sopportare la combo Zoe, Zio Larry e Kimberley senza un aiutino...», le fece presente mamma.

«Oh santo cactus! Viene anche Kimberley? Perché ancora non l'hanno soppressa?», urlai in preda al panico.

Dovete sapere che Kimberley è un mostro, un terribile esperimento scientifico finito male, che ha prodotto quell'esserino di tredici anni che è mia cugina. È l'unica figlia dello Zio Franklin, a sua volta unico figlio del fratello di nonna, ovvero Zio Larry. Semplice, no?

Sua madre ha tagliato la corda quando Kim aveva solo sei anni, ma poveretta non potete biasimarla. È la bambina, ragazzina scusate, più viziata, antipatica e presuntuosa sulla faccia della terra. Mio Zio Franklin non è mai stato famoso per essere un uomo di polso e il risultato della sua apatia e del suo disinteressamento hanno prodotto l'undicesima piaga d'Egitto.

«Solo perché la nostra Costituzione non lo permette credo», commentò placidamente mia nonna.

«È tua cugina tesoro, non potevo depennarla dalla lista degli invitati solo perché nessuno riesce a sopportare la sua presenza. E poi sono gli unici parenti che mi sono rimasti, non potevo non invitarli, non quando tuo padre si ritrova con la famiglia più numerosa sulla faccia della terra», mi fece presente.

«Per forza, gente senza religione che si accoppia e riproduce come i conigli!», sentì ovviamente il bisogno di commentare mia nonna.

Delle nostre riunioni familiari si poteva dire di tutto, ma certamente non che fossero noiose. Non se c'erano Zoe, Zio Larry ubriaco, Kimberley che strillava come un'aquila e i nove figli della sorella fricchettona di papà, che solitamente saltava il pranzo perché intenta a digiunare per un qualche atto di purificazione o troppo impegnata a suonare lo zufolo nel tentativo di comunicare con i gabbiani.

Papà fortunatamente fece irruzione nel pollaio che stavamo creando proprio in quel momento e annunciò che erano arrivati gli addetti al catering per la festa di dopodomani. Mamma scattò sull'attenti all'istante e sparì in direzione dell'ingresso mentre mio padre si versava tranquillo una tazza di caffè.

Nonna si alzò dalla sua sedia e si rassettò la lunga gonna monastica che portava, prima di scrutarci come un avvoltoio. «Chi mi accompagna in chiesa?», abbaiò.

Io fissai mio padre. Mio padre fissò la sottoscritta.

«Io devo riposarmi, stanotte non ho dormito niente». Fiuuu, pericolo scampato.

«Io devo restare a dare una mano a tua madre»

Bugiardo, bugiardo, bugiardo. Mamma bastava e avanzava ad intralciare l'operato di quei poveri operai.

«Felicity, andiamo! Non vorrei mai che accadesse qualcosa di terribile se tuo padre si avvicinasse troppo ad un luogo consacrato...», detto ciò girò i tacchi e mi fece segno di seguirla.

Papà mi dedicò un sorriso innocente prima di allungarmi le chiavi della Toyota che solitamente utilizzavamo io e Zoe quando eravamo a casa oppure mia madre quando la sua auto era dal carrozziere, ovvero quasi sempre.

«Domani ti appioppo Kimberley per tutta la giornata», gli promisi, prima di strappargli con malagrazia le chiavi di mano e allontanarmi in direzione del mio personale patibolo.

***

Dopo aver scaricato Nonna presso la chiesa e averle giurato su ciò che avevo di più caro che sarei andata anche a ritirarla tra un paio di orette, ne approfittai per andare a fare un giretto nel centro della città, cosa che l'ultima volta che ero stata a casa non ero riuscita a fare tra la festa di papà e la presenza di Mr. Liam a distrarmi.

Stavo percorrendo una viuzza all'ombra, curiosa di scoprire se esisteva ancora quel piccolo negozietto dell'usato dove un paio d'anni prima avevo scovato un paio di occhiali da sole vintage di Prada che avevo regalato alla mamma, quando mi ritrovai di fronte ad una libreria, che però sembrava polverosa e vissuta tanto quanto la boutique che aveva sostituito.

Decisi di entrare ugualmente, in fondo avevo due ore di libertà da riempire. Il posticino era veramente delizioso, ma la quantità di polvere mi impediva di respirare e così mi costrinsi ad essere rapida. Stavo per uscire quando mi accorsi di un vecchio volumetto abbandonato in cima ad una pila di enciclopedie che tenevano ferma una porta. Lo acciuffai e lo osservai curiosa. Femmes, di Paul Verlaine. Prima edizione del 1890.

Quasi urlai dalla gioia. Mia madre avrebbe pianto di fronte a ciò, vere lacrime di fronte alla sua prima e vera passione giovanile.

Giustamente dovetti sborsare un piccolo gruzzolo, niente a che vedere con il probabile e reale valore dell'opera però, e me ne tornai a passeggiare al sole. Mi fermai ad osservare un costume da bagno intero color smeraldo esposto in una vetrina, quando sentii una voce esclamare il mio nome.

«Van Houten!»

Mi voltai lentamente e per un attimo il sole mi abbagliò, impedendomi di vedere chiaramente il mio interlocutore, ma appena riabbassai gli occhiali da sole lo vidi. Eccome se lo vidi.

Shawn Carter.

Dimenticarsi quel viso abbronzato e quegli occhi furbi era piuttosto difficile. Erano passati nove anni dal ballo di fine anno e dal nostro diploma eppure lui pareva non essere cambiato di una virgola.

«Oh mio dio! Felicity Van Houten! Sei proprio tu?», mi chiese ridendo.

«No, sono il suo ologramma», gli spiegai sorridendo a mia volta.

Lui si avvicinò e mi scrutò curioso. «Sempre simpatica eh? Accidenti, Van Houten, quanto tempo è passato? Come te la passi?»

«Non credo di averti più incrociato dopo quell'ultima estate post liceo, sai?». Non ero vero che lo credevo, lo sapevo per certo. Ripeto: Shawn Carter non è uno che si dimentica facilmente.

Lui parve per un attimo indeciso sul da farsi, dopodiché mi chiese se mi andava di prendere un caffè con lui.

Penso che, nonostante tutto, non potrei mai negare nulla a Shawn Carter e così acconsentii.

Ad essere onesta ero contenta di averlo incrociato, probabilmente era une delle ultime persone che mi sarei mai aspettata di rivedere.

Due minuti più tardi ci accomodammo ad un tavolino all'esterno del bar con le tende bianche e rosse, dove avevo trascorso metà della mia adolescenza a spettegolare e fare boy-watching con le mie amiche.

Ordinai una centrifuga, mentre lui optò per un semplice caffè.

«Pensavo fossi rimasta in Massachusetts...», esordì curioso.

In verità ero io ad essere super curiosa ed avrei voluto riempirlo di domande, ma prima dovevo concedergli qualcosa in cambio.

Annuii e mi sfilai gli occhiali da sole. «Abito ancora là, mi sono solo spostata dopo la laurea, da Cambridge sono andata ad abitare sul mare, a Plymouth nella Baia di Cape Code, un posto veramente bello e tranquillo. Tu invece sei rimasto qui? Alla fine non sei più andato in Texas?»

Lui mi ascoltò in silenzio, lo sguardo assorto, come se stesse cercando di comprendere qualcosa. «Ci sono andato sì, in Texas, ma poi mi sono infortunato e addio carriera nel baseball. Sono tornato qui e ci sono più o meno sempre rimasto, ma va bene così, questo mare mi manca ovunque vado...», mi spiegò sorridendo, quasi si vergognasse della sua sedentarietà.

Io invece lo capivo benissimo, perché anche a me mancava sempre. Ero andata a Plymouth proprio per cercare di guarire quella nostalgia, ma avevo avuto successo solo in parte.

«Cosa fai nella vita?», non volevo sembrare pressante, ma io ero terribilmente curiosa e lui era cordiale e solare proprio come lo ricordavo.

Arrivarono le nostre ordinazioni e l'occhiata che la nostra cameriera, probabilmente a malapena maggiorenne, lanciò a Shawn non sfuggì al mio sguardo attento.

Non era mai stato bello in modo sfacciato, aveva un fascino più discreto, nascosto, ma quello che conquistava sempre tutti era la sua vitalità, la sua simpatia davanti a cui tutti capitolavano. Era amico di tutti, perché non poteva essere altrimenti. Poi ovviamente il fisico imponente da ex-atleta attirava lo sguardo, quello era innegabile, ma non era quello che alla fine ti conquistava.

Shawn si sfilò a sua volta gli occhiali da sole. «Dopo il Texas e l'addio allo sport professionistico ho frequentato l'università qui e mi sono laureato in economia, ridevano tutti quando la scelsi. Sono stato per un periodo a New York, ma pareva il Polo Nord e il lavoro a Wall Street mi soffocava. Così sono tornato qui, mi sono preso un appartamento che si affaccia sul mio amato mare e ora faccio il project risk manager, che detta così sembra chissà che lavoro importante, ma mi piace e questo basta», concluse sorseggiando il suo caffè.

Sembrava soddisfatto in effetti, perlomeno più di quanto lo ero stata io, soprattutto nell'ultimo anno della mia vita.

«Tu alla fine sei diventata avvocato come tuo padre? In fondo sei partita per Harvard per quello, no?»

Già, anche se in ogni caso, giurisprudenza o non giurisprudenza, non credo che i miei genitori mi avrebbero lasciato frequentare l'Università della Florida Meridionale, non quando c'erano le possibilità per mandarti in un college dell'Ivy League e non se avevi due genitori passati da Harvard e l'attuale rettore del suddetto ateneo era un cliente di papà e giocava con lui a golf la domenica.

«Sì e no. Mi sono laureata in legge, ma dopo il primo anno ho aggiunto anche corsi di architettura e botanica. Non ho mai esercitato però, faccio l'architetto paesaggista e mi piace tantissimo. Però puoi immaginarti quanto sia contento mio padre», gli confessai sbuffando.

Lui sorrise, forse memore delle idee piuttosto balzane di papà riguardo la sacralità e la superiorità dell'avvocatura rispetto a qualsivoglia professione.

«Doppia laurea ad Harvard...sei sempre stata una cervellona, Van Houten!», si complimentò lui.

Restammo un attimo in silenzio e io ne approfittai per lanciare un'occhiata all'orologio.

«Hai fretta?», mi chiese preoccupato.

Lo rassicurai, «No, ho solo mia nonna da recuperare, ma ho ancora più di un'ora di libertà...»

«La nonna papessa? Quella che mi regalava boccette di acqua santa?», si informò lui ridendo.

«Proprio lei!», esclamai sorpresa che ancora si ricordasse così chiaramente quei dettagli.

All'improvviso lo vidi farsi serio e sporgersi verso di me. «Non voglio sembrarti fuori luogo, ma sono sinceramente curioso, soprattutto perché si tratta di te. Ti sei sposata? O sei fidanzata?»

Se c'era qualcosa che Shawn Carter non era mai era fuori luogo. Era troppo garbato per esserlo, anche quando faceva domande che sarebbe stato meglio non fare. Era così affabile che non rispondere pareva veramente scortese, un capriccio quasi.

«Purtroppo no, né una né l'altra al momento...tu?», ribattei approfittando del fatto che fosse stato lui ad aprire l'argomento per indagare e ottenere una risposta a quello che mi ero chiesta fin da quando mi ero voltata e lo avevo riconosciuto.

Qualcuna era riuscita ad accalappiarselo?

Lui scosse la testa sconsolato. «Nessuna pare prendere le cose sul serio quanto me, è una maledizione, succede così da quando sono stato lasciato dall'unica che abbia mai preso le cose sul serio veramente...»

Io mi gelai sul posto, perché non ero pronta ad affrontare quel discorso, nonostante fossero passati nove anni e io a Shawn non pensavo più da tantissimo tempo.

Decisi di fare orecchie da mercante e pretendere di non aver colto il suo chiaro riferimento alla sottoscritta. «Io invece trovo solo allergici alla serietà e al matrimonio, sto quasi quasi pensando di convertirmi al libertinaggio anche io», scherzai per alleggerire l'atmosfera, che improvvisamente era diventata troppo intima.

D'altronde io e Shawn avevamo un passato, un passato che non aveva mai ricevuto una degna conclusione, ma che comunque si era chiuso in qualche modo. Ero stata una sciocca a credere che la sua affabilità sarebbe stata sufficiente a dissipare l'imbarazzo.

«Sei uguale all'ultima volta che ti ho vista, quando avevi diciotto anni e sei partita. Gli stessi capelli lunghissimi, lo stesso stile, hai persino lo stesso orologio. È veramente strano rivederti dopo tutto questo tempo, non voglio metterti a disagio, credimi, solo che è tutto così sorprendente...», provò a spiegarsi e per una volta anche lui sembrò a corto di parole.

In verità lo capivo perfettamente. Avevamo ventisette anni, ma eravamo, almeno fisicamente, rimasti identici a quel giorno di agosto in cui ci salutammo e io lo guardai scomparire dal lunotto posteriore dell'auto di papà.

La nostra storia è stata una storia da liceo come ce ne sono tante, una di quelle che nascono tra il laboratorio di chimica e gli estenuanti giri di corsa attorno alla palestra, una di quelle che iniziano con timide occhiate, molesti commenti e risolini da parte dei rispettivi gruppi di amici e i primi impacciati tentativi di approccio.

Io frequentavo un corso pomeridiano di storia antica, dopo un viaggio in Egitto che avevo fatto in estate con la mia famiglia e che mi aveva fatto venire il pallino della cultura egizia, ma purtroppo la parola 'antica' racchiudeva in sé anche un'infinità di altre popolazioni. Perciò in un buio pomeriggio sonnacchioso di novembre mi ero ritrovata a chiacchierare sottovoce con Shawn, mentre il professore blaterava qualcosa a proposito dei Babilonesi. Lui si trovava lì per il semplice motivo di avere una sfilza di insufficienze in storia, diretta conseguenza della sua testa completamente settata solo e soltanto sul baseball.

Passavamo due pomeriggi a settimana a bisbigliare di qualsiasi argomento per poi ignorarci al di fuori di quell'aula al primo piano. Se ci incrociavamo ci scambiavamo uno sguardo, ma non ci salutavamo. Il nostro liceo era veramente grande quindi evitarsi era facile. Tutto ciò durò fino ad un pomeriggio di inizio marzo, quando pioveva così tanto che le strade si erano allagate, Zoe era finita all'ospedale per un'infiammazione all'appendice e io avevo scordato l'ombrello.

Shawn si offrì di accompagnarmi a casa e io accettai. In verità fu un gesto stupido, nessuno dei due aveva ancora sedici anni, perciò mi beccai un passaggio in bicicletta e mi inzuppai da testa a piedi, cosa che non sarebbe successa se avessi preso l'autobus. Ad oggi sono contenta di averlo fatto, altrimenti non sarei ma stata invitata al ballo di primavera da lui.

Dopo il ballo non cambiò poi molto, continuavamo a bisbigliare per poi ignorarci, tutto ciò fino alla fine del corso quando Shawn probabilmente realizzò che non mi avrebbe più vista e mi disse che gli Arcade Fire avrebbero tenuto un concerto in città quell'estate e che io ero l'unica di sua conoscenza a cui piacessero.

Non mi invitò in modo esplicito, mi lanciò un indizio e fui io poi a proporre di andarci insieme. Dopo il concerto continuammo a vederci per tutta l'estate. Shawn prese la patente e così esplorammo tutte le spiagge dei dintorni, andammo a feste improbabili e concerti assurdi, ci facemmo qualche canna e guardammo un'infinità di tramonti mentre facevamo il bagno. Il tutto senza mai toccarci.

Le mie amiche sostenevano fosse gay e che la sua famosa storia precedente con il capitano della squadra di pallavolo femminile fosse solo una copertura. I suoi amici probabilmente gli davano dell'idiota e basta.

L'ultimo giorno prima dell'inizio del nuovo anno scolastico mi portò a vedere Psycho al cinema all'aperto dove proiettavano vecchie pellicole, dopo che gli avevo confessato il mio amore per Hitchcock, e lì, tra le zanzare, mentre sullo schermo Norman faceva fuori l'investigatore privato, mi baciò per la prima volta. Accantonai per un attimo la mia venerazione per il regista e trascorsi il resto del film a limonare con Shawn.

Successe così, all'improvviso. Il giorno dopo arrivammo a scuola insieme, mano nella mano. Restammo insieme per gli ultimi due anni di liceo, fino a dopo il diploma. Fino al giorno della mia partenza, quando io capii che lui non avrebbe retto a tutta quella distanza e io decisi di lasciarlo libero.

Piansi per una settimana e vi assicuro che tra la scoperta della mia avversione nei confronti della giurisprudenza, la mia totale solitudine e il cuore spezzato non fu affatto facile. La verità è sempre stata semplicissima: stare con Shawn era bellissimo. E lo era perché lui era veramente una persona bellissima.

Non l'ho mai incolpato di nulla, aveva diciotto anni e stava per partire alla volta del torrido Texas, mentre io ero destinata al nord, al Massachusetts. Non era pronto e forse non lo ero neanche io in fin dei conti.

«Me lo hai regalato tu questo orologio, ricordi? Perché così non sarei più arrivata sempre in anticipo e avrei smesso di accusarti sempre di essere in ritardo. Mi dicesti proprio così. Purtroppo non ho mai imparato bene a gestire il tempo, però resta un orologio veramente bello...», osservai guardando quel piccolo regalo color rosa confetto risalente a dieci fa.

«All'inizio in Texas non facevo altro che pensare a te, cercavo i tuoi capelli d'oro dovunque. Quando tornai a Tampa un anno più tardi pensai di scriverti, avevo saputo da Michelle che tornavi a casa piuttosto spesso...», mi confidò.

Quello fu uno di quei momenti in stile Sliding Doors, quelli nei quali pensi all'altro modo in cui sarebbero potute andare le cose. Mi sarei laureata alla svelta, nessun tirocinio, niente Theodore, niente casetta a Plymouth. Sarei tornata a Tampa, per la gioia della mia famiglia, sarei andata a vivere con Shawn, probabilmente ora staremmo per sposarci.

Questi pensieri sono sempre pericolosi perché spesso portano con sé un'alternativa che potrebbe piacerci di più di quella che effettivamente è avvenuta e si è poi trasformata nella nostra vita attuale.

«Perché non lo hai fatto?», gli chiesi con un filo di voce.

Lui sospirò e guardò il fondo della sua tazza di caffè ora vuota. «Non era cambiato nulla rispetto all'anno precedente, io ero sempre lo stesso e tu mi avresti semplicemente respinto una seconda volta»

Un dolore sordo mi colpì al centro del petto. «Non puoi saperlo, non puoi sapere cosa avrei fatto!», esclamai con un tono di voce più alto di quello che avrei voluto.

Lui sorrise triste. «Ora sei qui però...»

L'occhio mi cadde per caso sul famoso orologio rosa e quasi mi venne un infarto.

La nonna! Mi avrebbe lanciato una maledizione senza perdono, per poi rientrare in chiesa, confessare il suo peccato e andarsene con un taxi, lasciandomi agonizzante sul sagrato della chiesa.

Acciuffai gli occhiali da sole e mi alzai in piedi. «Shawn, mi dispiace tantissimo, ma devo proprio scappare...l'avevo detto, orologio o no, io e il tempo siamo ancora in conflitto», feci per prendere il portafogli, ma una sua occhiata minacciosa mi fece desistere.

Mi chinai ad abbracciarlo e per un attimo vacillai, aveva ancora lo stesso profumo buonissimo di un tempo.

«Mi ha fatto veramente piacere rivederti, dico sul serio. Ora scappo davvero, ciao Carter»

«Ci vediamo, Van Houten, dico sul serio. Voglio rivederti, ti chiamo...»

Annuì e gli rivolsi un ultimo sorriso, prima di partire di corsa alla volta della macchina.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Fichi d'India ***


Liam

Quello che stavo facendo era assolutamente folle e senza senso.

O meglio, forse avrebbe avuto un senso se io fossi stato ancora un ventenne dalle idee poco chiare, nel bel mezzo di una crisi esistenziale, con il desiderio di evadere per qualche giorno e provare a schiarirsi le idee.

Io di anni però ne avevo trentaquattro, ero padre, avevo un matrimonio fallito alle spalle e dirigevo uno studio legale che portava il mio nome. E allora cosa ci facevo su una Jeep presa a noleggio a vagare per il deserto dell'Arizona alle sei di mattina?

Sulla destra vidi l'insegna luminosa di una tavola calda aperta 24/7 e decisi di fermarmi. Avevo vagato senza meta fin dal mio arrivo nella mattinata del 2 luglio e ora era arrivato il momento di fare quello per cui ero venuto fino a qui, tornare a casa dopo sedici anni e più.

Parcheggiai l'auto e scesi, senza curarmi degli abiti stropicciati ed impolverati, dei capelli stravolti e della pelle imperlata di sudore che non vedeva una doccia da quarantott'ore. Era una terra di cowboy dopotutto, erano strade per avventurieri e quel clima rovente non era certo per tutti.

Il locale era quasi deserto, fatta eccezione per una coppia di turisti dall'aria stravolta e una cameriera assonnata intenta a giocare a Spider sul suo telefono. Mi lasciai cadere sul divanetto più nascosto e guardai fuori, verso il canyon ancora in penombra.

Il sole stava per sorgere rischiarando una nuova giornata, che però non sarebbe stata una giornata qualunque.

Negli ultimi anni avevo sempre trascorso il 4 Luglio con la famiglia di Matt per il semplice motivo che io una famiglia non ce l'avevo. Solo ora mi rendevo conto che, Tiffany o non Tiffany, relazioni di una settimana o di una vita, una famiglia l'avrei sempre e comunque avuta. Ed era proprio dove l'avevo lasciata.

«Salve, cosa le posso portare?», una voce strascicata dall'accento marcato mi distolse dai miei pensieri.

Detti una scorsa veloce al menù e ordinai uova strapazzate e bacon, il tutto accompagnato da caffè.

La ragazza si appuntò il tutto e scomparve dentro la cucina.

Recuperai il telefono e approfittai della presa di corrente per metterlo in carica e riaccenderlo dopo due giorni di blackout totale.

Nell'attesa mi godetti quell'alba bellissima, che colorava di mille colori quell'arida terra rossa che sembrava essere dappertutto in Arizona. Io ci ero cresciuto tra quelle sfumature, sotto quel sole che spaccava le pietre e su quella terra crudele sempre in preda alla siccità.

Quando il telefono si riaccese, le notifiche iniziarono ad arrivare a cascata.

Saltai a piè pari qualunque email etichettata come 'lavoro' e mi concentrai su quelle che più mi interessavano. Tra queste ne spiccava una.

Dove sei?

Risaliva a due giorni prima.

Sospirai ripensando a quelle mani delicate, alle ciglia fitte e chiarissime, alla sua abitudine di arrivare sempre troppo presto agli appuntamenti.

Senza pensarci due volte feci un rapido calcolo del fuso orario e pigiai il tasto verde.

Non avevo la più pallida idea di cosa le avrei detto, probabilmente mi sarei scusato per il ritardo e le avrei chiesto come stava.

Le avrei confessato che mi mancava, che non sapevo bene cosa fare, che lei mi spaventava perché era al tempo stesso ciò che cercavo da tanto e ciò da cui scappavo da sempre, che l'alba in Arizona era stupefacente e avrei voluto mostrargliela. Le avrei domandato se aveva già bisticciato con sua madre, quanti bagni si era già fatta e se era riuscita ad avvistare un delfino.

«Pronto?», mi rispose sottovoce.

«Puoi parlare?», le chiesi per assicurarmi che non l'avessi disturbata in un momento poco indicato.

Sentii una serie di fruscii, il rumore di una porta che veniva socchiusa e infine il tonfo sordo di passi veloci.

«Ora sì, sono venuta in spiaggia per non svegliare Zoe ed evitare di essere importunata da mia nonna...», mi confessò.

«Come stai?»

«Ti va se passiamo alla videochiamata?», mi chiese piano, quasi avesse paura di aver proposto qualcosa di troppo.

Senza esitare un attimo, impostai l'opzione di videochiamata e aspettai che lo schermo mi mostrasse il suo volto.

Apparve all'improvviso: il suo viso struccato, i capelli raccolti in uno chignon spettinatissimo e una maglietta sbiadita del Comic-Con 2006 di San Diego.

«Cosa ti è successo?», mi domandò sgranando gli occhi.

Evidentemente anche lei ora mi vedeva chiaramente.

Mi passai stancamente una mano tra i capelli cercando di limitare i danni. «Diciamo che sto facendo una specie di road trip per festeggiare la crisi di mezza età ed è da un paio di giorni che dormo in macchina e non vedo un bagno...», spiegai imbarazzato.

Lei parve sempre più sorpresa. «Bè, ti dona questo aspetto...»

«...sporco e sudato? Non credo!»

«Sembri un avventuriero, una sorta di Indiana Jones. E così abbronzato sembri ancora più giovane del solito», mi contraddì lei.

«Se lo dici tu...», mormorai poco convinto.

In quel momento la cameriera riemerse con la mia colazione e io spostai il braccio che reggeva il telefono per farle posto.

«Ehi! Dove sei?», mi chiese curiosa quando tornai ad inquadrare il mio viso.

«In Arizona»

«Wow! Fammi vedere!», esclamò entusiasta avvicinandosi al telefono.

Cambiai fotocamera e le feci vedere il canyon e la distesa di terra rossa che circondava tutto il diner. Dopodiché le mostrai un attimo la mia colazione prima di reimpostare la fotocamera interna.

«Ti dispiace se mangio mentre parliamo?»

Lei scosse la testa e ridacchiò. «Cibati, Indiana, non temporeggiare. Cosa ci fai in Arizona?», buttò lì cercando di fare la vaga.

Con scarsi risultati oserei dire io, ma non glielo feci intendere.

«Sono tornato a casa. O meglio l'intenzione è farlo oggi, ma prima avevo bisogno di un po' di tempo...»

Lei spalancò gli occhi. «Non ci credo che sei dell'Arizona! Non hai un minimo di accento e hai troppo l'aria di uno yuppie che viene da una grande città del nord ed invece...»

Posai la forchetta e le rivolsi uno sguardo carico di risentimento. «Grazie per avermi dato dello yuppie, potrei esserlo stato, ma in ogni caso nessuno lo usa mai con accezione positiva. E grazie, so di non avere accento, ho cercato per anni di perderlo...»

«Non fare l'offeso, dai! In ogni caso i panni del sexy mandriano dell'Arizona ti calzano a pennello...», bisbigliò arrossendo.

«Come procede in Florida invece?», le chiesi portandomi una generosa dose di uova alla bocca.

Lei fece una faccia buffa ed alzò gli occhi al cielo. «Mamma ha invitato tutti i parenti pazzi che arriveranno oggi, Nonna è acida e cattiva come sempre e continua a pregare che qualche pia anima arrivi a pigliarsi le sue nipotine, Zoe ha già minacciato tre volte di gettarsi in mare con una pietra legata al piede e mio padre continua a sparire e nessuno sa dove vada dal momento che ha il divieto di frequentare il golf club in questi giorni. Domani poi ci sarà la festa galattica per festeggiare il compleanno di Madre, la quale continua a ripetere che quest'anno sarà una cosetta da nulla, solo per pochi intimi, ma io ho sbirciato la lista degli invitati e ti dico solo che casa mia sarà più affollata dell'Isola di Corfù in alta stagione. Ah, per completare il tutto oggi ho incontrato e preso un caffè con il mio primo ragazzo, che lasciai prima di partire per il college...hai finito di mangiare adesso?», concluse con sguardo furbo.

Mi aveva raccontato la rava e la fava per concedermi un attimo di tregua e permettermi di finire con calma e senza interruzione la mia colazione. Per un attimo pensai seriamente di confessarle che mi mancava terribilmente.

«Flick! Dove ti sei cacciata? La nonna vuole che l'aiuti a pettinarsi, dice che tu hai le mani più delicate...»

La voce di Zoe interruppe la nostra chiamata, l'immagine sullo schermo traballò e poi inquadrò due occhi furbi e una chioma corvina.

«Saluti, Bei Pantaloni! Devo rubarle Flick, sorry not sorry», mi spiegò velocemente, prima di afferrare il braccio di sua sorella ed iniziare a trascinarla per il giardino.

Felicity riuscì a liberarsi per un attimo e mi chiese in un sussurro: «Allora com'è essere a casa?»

«Bellissimo»

Il suo sorriso luminoso fu l'ultima cosa che vidi prima che chiamata si interrompesse.

Sorridendo a mia volta pagai il conto e mi rimisi in marcia.

Impostai il navigatore.

300 miglia, 4h e 40m

Sedona, arrivo.

***

Non potendo presentarmi sulla soglia di casa dopo anni di assenza ricoperto di polvere e sudore fui costretto a trovare una soluzione, o meglio, una doccia.

«Liam Carter Wright? Liam Carter Wright! Tu! Grandissimo figlio di puttana! Vieni qui e fatti abbracciare...»

Un paio di robuste braccia mi circondarono il collo mentre io cercavo imbarazzato di ricambiare la stretta, seppure mi sentissi leggermente a disagio.

Rachel era sempre stata una ragazza priva di mezze misure. Divideva il mondo in due categorie nettamente distinte: ciò che le andava a genio e ciò che lei sempre elegantemente definiva la merda del mondo.

In questo secondo gruppo si annoverava la matematica, ed era proprio grazie a quella materia da lei tanto odiata che le nostre strade si erano incrociate vent'anni prima.

«Ciao, Rachel. Come stai?», le domandai sorridendo, una volta che riuscii ad allontanarmi dal suo corpo e a guardarla negli occhi.

Aveva messo su parecchi chili dall'ultima volta che l'avevo vista, piccola sedicenne con la frangetta storta e la passione per gli sport violenti. Eppure i suoi occhi brillavano sempre di quella luce vagamente derisoria, che pareva farsi beffe del mondo intero.

Aveva un anno meno di me e quando risposi all'annuncio disperato di sua madre e iniziai a darle ripetizioni di trigonometria nel pomeriggio, lei mi catalogò immediatamente come membro onorario della merda del mondo.

Ci vollero mesi e mesi per farle capire che con me i suoi modi irriverenti e presuntuosi non avrebbero funzionato. Una volta compreso ciò diventammo abbastanza complici e la nostra amicizia riuscì miracolosamente a sopravvivere a tutti i drammi del liceo.

«Non c'è male, dai. Dimmi piuttosto come stai tu. Che fine hai fatto? Sono passati secoli dall'ultima volta che sei stato da queste parti e saranno tre anni che non mi mandi più gli auguri di Natale!», mi rimbrottò lei, dandomi una spinta poco delicata per farmi capire di entrare in casa.

Abitava ancora nella casa dei suoi genitori; il salotto aveva ancora le pareti decorate con quella carta da parati con un terribile motivo floreale, che avevo osservato per ore mentre aspettavo che Rachel arrivasse da sola a capire quale fosse il coseno di un angolo retto.

La seguii in cucina e mi lasciai cadere su una sedia libera. Ci misi qualche secondo a rendermi conto che di fronte a me sedeva un bimbo grassoccio intento a fissare imbambolato la televisione posta nell'angolo.

«Travis! Cosa avevo detto? Prima mangi i cereali con il latte, ti lavi i denti e dopo, solamente dopo, puoi guardare i cartoni animati. Facessi quello che ti dico almeno una volta, benedetto bambino!». Rachel gli si avvicinò e gli pulì i baffi di latte che gli contornavano la bocca con un tovagliolo. «Lui è Travis, il mio ultimogenito. Sua sorella è in campeggio per il ponte festivo. Travis, saluta Liam!»

Mi sorprese scoprire che Rachel avesse ben due figli, da ragazzina andava ripetendo che se mai avesse avuto dei bambini li avrebbe lasciati sotto un cavolo nell'orto di qualcuno nella speranza che qualche credulone li trovasse e se li tenesse. Sua madre le aveva proibito di prendere nuovi animali domestici dopo che la figlia aveva fatto morire di sete e avvelenato per errore i due gatti precedenti.

Il piccolo Travis voltò pigramente il volto verso di me e mi fece ciao ciao con la sua manina dalle dita paffuta, fu una questione di una manciata di secondi scarsa, dopodiché la sua attenzione tornò a focalizzarsi sui combattimenti tra robot che scorrevano sullo schermo.

Sua madre gli dedicò uno sguardo di disapprovazione e gli spinse sotto il naso la sua scodella di Mickey Mouse straripante di una poltiglia di latte e fiocchi d'avena.

«Come mai sei conciato come un clochard?», si informò poi.

«Tesoro, non dirmi così! Ho messo anche la cravatta che mi ha regalato tua madre...», sopraggiunse una voce dal tono sconsolato.

Rachel lasciò perdere per un attimo la colazione del figlio e si avvicinò alla figura che faceva capolino dalla soglia. «Non dicevo a te, e quella cravatta è semplicemente orrenda. Colin, ti ricordi di Liam?»

Mi alzai e lo vidi.

Colin Newman.

La più grande testa di cazzo che la Sedona High School abbia mai visto.

Il Colin adulto si era dato una bella rispolverata e aveva detto addio al suo fisico da playmaker e alla sua folta chioma biondo platino.

Mi allungò una mano e mi sorrise cortese. «Carter Wright! Come potrei non ricordare? Rach mi ha detto che non te la passi niente male tra gli Yankee, anche se devo dire che ora ti trovo un po' fuori forma...»

Colin era uno stronzo. O almeno lo era stato. Nonostante ciò gli strinsi la mano e ricambiai il sorriso cordialmente. Avrei dovuto mettere in conto di incontrare personaggi appartenenti a quel capitolo della mia vita legato a Sedona che avevo provato a mettere da parte con tutto me stesso.

Eppure non avrei mai potuto immaginare che alla fine Rachel, la timida e un po' stramba Rachel, finisse coniugata con quello che al tempo del liceo era stato senza dubbio il re del ballo e della merda del mondo.

Mi domandai che fine avesse fatto Chelsea, la ragazza con cui faceva coppia fissa alle superiori e con cui aveva vinto per tre anni di fila il titolo di re e reginetta del ballo di fine anno.

«Non tornavo qui dalla fine del liceo e ho deciso di approfittarne per fare un piccolo road trip per l'Arizona prima di tornare a casa per il 4 Luglio. Ed eccomi qui. I miei familiari però non sanno del mio arrivo quindi mi chiedevo se...sareste così gentili da prestarmi la vostra doccia per un quarto d'ora»

Sarei dovuto andare in un albergo, lo capii dallo sguardo incerto che si scambiarono marito e moglie, prima che quest'ultima mi rassicurasse che non c'era alcun problema e di fare come se fossi a casa mia.

In fondo la mia amicizia con Rachel risaliva ad anni e anni prima, quando ancora eravamo sulla stessa lunghezza d'onda e, soprattutto, lei non aveva ancora figliolato con Colin Newman. Era difficile vedere in quella signora, madre di famiglia e casalinga la ragazzina che era stata.

Cercai di essere il più rapido possibile, limitandomi a una doccia veloce e una rasatura un po' superficiale. Infilai gli abiti che avevo scelto tanto accuratamente per l'occasione e ridiscesi le scale.

Avrei tanto voluto chiedere a Rachel di spiegarmi la storia del suo matrimonio, ma non avevo né il tempo né la voglia di affrontare il discorso di fronte all'intera famiglia Newman. Mi ripromisi di scriverle presto e mi congedai, abbracciandola stretta prima di andarmene.

Feci un giro della cittadina e mi sorpresi nel trovarla quasi immutata. Ogni cosa era al proprio posto, dal piccolo alimentari che vendeva alcolici senza controllare la carta d'identità al cinema con un solo paio di sale e un annoiato ragazzino brufoloso dietro il vetro della biglietteria esterna.

Parcheggiai accanto alla cassetta delle lettere della villetta contigua a quella della mia famiglia e mi controllai nello specchietto retrovisore un'ultima volta.

Ero cambiato. Inevitabilmente, ero invecchiato. Così come lo sarebbero stati i miei familiari.

Avevo provato a convincerli a venirmi a trovare, ma dopo un viaggio odissea, nel quale avevano smarrito i loro bagagli e mia madre aveva subito un'intossicazione alimentare con il cibo che le era stato servito a bordo, non si fecero mai più vedere sulla costa orientale.

Avevano visto Arabella solamente su FaceTime o Skype e questa era probabilmente la cosa di cui ero più dispiaciuto. Avrei tanto voluto portarla con me, ma questa festività era il turno della madre e in fondo era meglio tornare per la prima volta da solo.

Percorsi il breve tratto di marciapiede che mi separava da casa mia e mi bloccai.

Casa mia.

Quella non era casa mia.

Il giardino era stato completamente rifatto, le piante selvatiche ed infestanti che in passato avevano ricoperto quasi tutto erano scomparse, sostituite da ordinate aiuole colorate ed un prato perfettamente tosato. Il basso cancellino in legno cigolante che ricordavo non esisteva più, al suo posto si ergeva una staccionata di ferro verniciato dai motivi arzigogolati ed accanto all'ingresso capeggiava un videocitofono di ultima generazione.

Ancora sconcertato pigiai il pulsante grigio e attesi che qualcuno rispondesse.

Una risposta non arrivò mai.

Seguì un urlo e poi un tonfo, dopodiché il portoncino principale – anche questo mai visto prima – venne spalancato e mia madre ne emerse.

Gli occhi lucidi e le mani tremanti.

Si mise a correre e percorse quei pochi metri di vialetto come se non avesse più di sessant'anni, come se non le importasse nulla del suo elegante abito blu e dei suoi capelli striati di grigio ordinatamente acconciati in un bel taglio a carrè.

Non ebbi il tempo di rendermi conto dell'esatta sequenza dei fatti che si susseguirono, ma so solo che mi ritrovai trascinato oltre il cancello, tra le braccia di mia madre, mentre Judy gridava come una matta, mio padre mi riempiva di pacche sulla schiena e un cane, che non ricordavo di aver mai visto, continuava a correre attorno a noi e ad abbaiare.

«Sento odore di bruciato...», fu la prima cosa che osai dire.

Mio padre subito mollò la presa e corse verso il retro della casa, uno sguardo allarmato stampato in volto. Il cane lo seguì a ruota.

«Quando sei arrivato? Perché non me lo hai detto? Potevamo fare il viaggio insieme, non credi? E pensare che te l'ho chiesto pochi giorni fa quando ci siamo visti...»

Judy blaterava stizzita, ma io non le prestavo attenzione.

I miei occhi erano troppo occupati a sprofondare dentro quell'azzurro rassicurante che era stato il mio porto sicuro fino alla maggiore età. Mia madre era più esile di come la ricordavo, ma le sue mani erano ancora calde e morbide come le ricordavo e il suo sorriso timido e sereno come quello che mi aveva dedicato per anni e anni prima di spegnere la luce della mia camera e andare a dormire.

«Grazie», mi sussurrò piano, la voce spezzata e una lacrima che tremolava tra ciglia inferiori.

Io le strinsi forte le mani. «Perdonami, mamma. Avrei dovuto farlo anni fa, avrei dovuto...»

Lei mi zittì gentilmente. Non aveva importanza ora, mi disse, niente importava ora che ero lì.

E probabilmente era vero.

I legami autentici restano, sempre. Anni, offese, kilometri, tradimenti. Niente è abbastanza forte da spezzare un legame vero. E quale legame è più vero di quello madre-figlio?

«Liam, figliolo!», la voce alterata di mio padre ci raggiunse dal cortile posteriore e Judy ne approfittò per liberarmi dalla presa di nostra madre e spingermi verso la fonte di fumo denso.

Una volta raggiunto mio papà mi ritrovai di fronte ad un nuvolone di fumo che lo avvolgeva completamente, nascondendolo alla mia vista. Gli unici rumori che si udivano erano lo sfrigolio della carne carbonizzata sulla griglia e i continui colpi di tosse di papà.

«Dio santissimo! Ernest, cosa ti avevo detto? Mio fratello sarà qui a momenti; non potevi aspettarlo e lasciare tutto nelle sue mani?», mamma sembrava scocciata e per nulla allarmata dalla situazione.

Judith sbuffava e dava dei calci al dondolo in legno bianco che c'era sotto il portico. «Fa così tutti gli anni. Non è capace, eppure si crede il re del barbecue. Anche quest'anno moriremo di fame...», sbottò.

Decisi che sarei stato io a salvare mio padre dalla morte per intossicazione e così spensi la brace, rimossi le costine e le salsicce ormai completamente bruciate e invitai tutti ad entrare in casa, lasciando al fumo il tempo per disperdersi.

Feci il mio ingresso in cucina e anche lì mi bloccai disorientato.

«Quando avete fatto rimodernare tutto?», domandai passando la mano sul lucido ripiano in marmo chiaro della grande penisola che occupava il centro della stanza.

Mia madre sorrise orgogliosa e iniziò a raccontarmi di come circa otto anni fa avesse iniziato a fare delle piccole modifiche, un nuovo copri-divano o delle tendine colorate per il bagno, per poi pian piano rivoluzionare tutto l'arredamento.

«Sei stato così generoso con noi in questi anni...», mormorò sottovoce mia madre, gli occhi nuovamente lucidi.

Judith sbuffò e si cacciò in bocca una manciata di patatine aromatizzate al peperoncino che aveva trovato in uno stipetto sopra il lavello.

«Liam è pieno di cose inutili e ci sguazza nei- Cazzo! Aiuto, acqua! Oh mio dio, brucia, acqua!»

Papà la guardò storto prima di riempire fino all'orlo un bicchiere e porgerglielo. In casa nostra non era mai stato tollerato un linguaggio scurrile. Nonostante tutte le difficoltà e le mancanze che potevano aver caratterizzato la nostra crescita, un'educazione salda e all'antica ci era stata accuratamente impartita. Sebbene Judith poi si fosse persa un po' per strada e ora continuasse ad inventare epiteti volgari con cui riferirsi ai suoi studenti quando parlava.

«Come sta Arabella? L'ho sentita l'altra sera, mi ha detto di essersi divertita quando è venuta a Boston da te...», si informò gentilmente mia mamma, mentre con fare materno sostituiva le patatine di Judy con dei più innocui crostini tostati e le versava dell'acqua nel bicchiere ormai vuoto.

Arabella mi mancava sempre molto, ma spesso gli impegni e la mia fitta agenda occupavano la maggior parte del mio tempo e dei miei pensieri e così la lontananza da mia figlia passava spesso in secondo piano. Quest'ultima volta però aveva accusato molto di più la sua partenza e la sua successiva assenza dalla mia vita. Era bello avere qualcuno da cui tornare a casa la sera, qualcuno che ti guardava con ammirazione e che ti vedeva come un modello a cui aspirare, qualcuno a cui insegnare qualcosa di importante come allacciarsi le scarpe da solo o scrivere l'iniziale del proprio nome. Certo, Arabella da grande voleva diventare come me solo per avere un'auto rosa confetto che andasse veloce come il vento e per comandare tutti quanti. E aveva scarabocchiato A sbilenche su muri, lenzuola e tappezzeria del mio appartamento. Però era dura alzarsi la mattina e non recarsi in punta di piedi nella sua stanza per guardarla dormire profondamente, le ciglia lunghissime a sfiorare le guance tonde e un profumo di pesca tutto attorno.

Felicity mi aveva reso uno di quegli uomini sentimentali che avevo sempre preso in giro, e ancora non avevo capito come fosse avvenuto quel cambiamento e se fosse reversibile. Non avevo nessuna intenzione di trasformarmi in un Matthew, vessato e sottomesso ai capricci e alle lune di Mildred. Probabilmente avevamo solo bisogno di trovare un equilibrio, dopotutto anche il mio amico mi ripeteva da anni di non giudicare la sua relazione dato che non ero a conoscenza di tutti i dettagli che la caratterizzavano. E soprattutto di tutte le regole non scritte che vigevano tra loro.

«...gli capita spesso ultimamente, dev'essere tutta colpa - o merito - di Felicity. Sì, esatto proprio lei. Ha fatto un lavoro sublime con il giardino dei nonni, dovreste venire a vederlo prima o poi. Le rose sono belle quasi quanto quelle della nonna, ve le ricordate?», Judy aveva approfittato della mia distrazione per aprire bocca e iniziare uno dei suoi soliti monologhi monopolizza-conversazione.

«Felicity?», chiese mio padre guardandomi speranzoso.

Dopo il divorzio non si era più parlato di donne nella mia vita, io mi limitavo a sorvolare sull'argomento e loro evitavano di farmi domande esplicite. Non gli avevo mai raccontato delle numerose ragazze con le quali mi ero saltuariamente accompagnato in quegli anni e, una volta tanto, mia sorella aveva avuto l'accortezza di tacere.

«La adorereste, ve lo assicuro!», trillò Judy al settimo cielo.

Il fugace sguardo preoccupato che i miei genitori si scambiarono non sfuggì né a me né a mia sorella.

«No, non assomiglia minimamente a Tiffany...», mi costrinsi a dire.

C'era una cosa che il mio lavoro mi aveva insegnato oltre a demonizzare il matrimonio, ed era il fatto che a parlare male dell'ex compagno si faceva solo una figura meschina e non se ne ricavava nulla. Il rancore non ti restituirà nulla, tanto vale comportarsi da adulti e smetterla di recriminare. È successo, prendiamone atto e cerchiamo di uscirne nel modo più civile e meno doloroso possibile.

«Oh no! È l'esatto contrario lei!», si affrettò a confermare Judith.

La mia famiglia ci aveva provato ad accogliere Tiffany e a farla sentire a casa, ma tutto si era risolto in un fallimento totale di fronte al muro di gomma che la mia ex moglie aveva eretto. Si comportava con fredda cortesia e i suoi occhi criticavano silenziosamente ogni cosa. Non era maleducata o altezzosa in modo esplicito, ma bastava che chiedesse a mia madre se poteva portare i suoi vestiti in lavanderia insieme a quelli della nostra famiglia per far sentire tutti a disagio. Finiva con Mamma che le diceva che non c'era alcun problema e poi stava sveglia fino all'una a stirare di nascosto in taverna le camicie in seta di Tiffany.

«L'importante è che ti renda felice», tubò mia mamma felice come una pasqua.

«E che non la sposi in fretta e furia senza rifletterci su...», borbottò Papà.

Era sempre stato vecchio stampo; per lui il matrimonio era un passo che una volta compiuto non permetteva più ripensamenti o retrocessioni. Hai voluto la bicicletta, ora pedala. Me lo ripeteva sempre da ragazzino.

«Papà! Certo che la sposerà!», strillò contrariata Judith.

«Caro...», lo ammonì Mamma.

In quel momento fortunatamente suonò il campanello e la tensione nella stanza si disperde.

Capivo cosa volesse dire mio padre, non era solo per il matrimonio e il divorzio. Dopotutto io e Tiffany eravamo adulti consapevoli, ma purtroppo Arabella era stata solo una vittima innocente. Una bambina di neanche un anno divisa tra due genitori residenti ai lati opposti del paese.

«Non rimuginarci ora, caro, tuo padre non intendeva dire nulla di che...», mi bisbigliò Mamma lasciandomi una carezza sul braccio, prima di superarmi e andare ad abbracciare sua sorella appena giunta sulla soglia.

Guardai le schiene dei miei genitori, quarant'anni insieme, spalla contro spalla, nonostante tutto.

Mia madre aveva torto, Papà sapeva perfettamente cosa stava dicendo. Ora stava a me trovare una risposta alla domanda: io volevo sposare Felicity?

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Addio e grazie per i fiori ***


Felicity

Avrei dovuto capirlo subito che quell'anno la festa del 4 Luglio in casa Van Houten si sarebbe rivelata un disastro di dimensioni cosmiche. I segnali d'altronde c'erano tutti.

Papà si era chiuso le dita nel bagagliaio della sua auto il pomeriggio precedente, costringendo Madre ad accompagnarlo ed assisterlo per le successive nove ore trascorse nella sala d'aspetto ricolma di un pronto soccorso troppo affollato, ed ora si aggirava come un'anima in pena attorno alla postazione barbecue, da sempre suo regno, ora occupata dallo Zio Larry.

Quest'ultimo, già al quinto bicchiere di vino bianco alle dieci del mattino, non faceva altro che carbonizzare carne, tossire, imprecare per le nuvole di fumo tossico di cui era lui stesso la causa ed urtare la mano imbozzolata di fasciature di mio padre.

Mamma Grace invece stava facendo il matto a quattro perché l'incidente del marito l'aveva costretta a disdire il suo appuntamento al centro di bellezza e ripeteva che avrebbe pranzato nella solitudine e nella privacy della sua camera, non potendo permettersi di sfigurare davanti a quella piccola reginetta di bellezza che era Kimberley.

Zoe non si svegliava, nonostante il fracasso infernale che producevano i nostri parenti, la luce del sole che la illuminava in pieno viso e Nonna Adaline che passava l'aspirapolvere sotto il suo letto recitando a gran voce le lodi mattutine.

Ero riuscita a fuggire verso metà mattina e mi ero rifugiata nell'unico locale di Tampa rimasto aperto in quel giorno festivo. Si trattava di una piccola tisaneria posizionata vicino al porto, dove venivo spesso da ragazzina per sorseggiare un thè alla menta con biscotti alla cannella nelle noiose serate d'inverno.

La gestione del posto era cambiata come minimo tre volte dai ricordi del mio passato, ma il thè verde che ordinai era molto buono, così come la fetta di crostata con cui decisi di viziarmi.

La spiaggia in lontananza era già colma di persone intenzionate a trascorrere la giornata improvvisando pic-nic e godendosi il sole e il mare scintillante di luglio. Mentre sorseggiavo il mio thè mi ritrovai a pensare al fatto che io in Arizona non c'ero mai stata. L'unico stato che avevo visitato nella parte ovest del paese era la solita e prevedibilissima California. Non avevo mai visto la Death Valley, le Cascate del Niagara o le Rocky Mountains. In compenso avevo attraversato il mondo e l'oceano più e più volte nei viaggi con i miei genitori: India, Portogallo, Madagascar, Giappone, Nuova Zelanda.

E non avevo mai visto l'Arizona, santo cielo! Per un attimo desiderai che Mr. Liam mi avesse chiesto di andare con lui, ma mi resi conto immediatamente che era stato un pensiero sciocco.

Dopo più di quindici anni di assenza doveva compiere quel passo importante da solo. Doveva riconnettersi alle proprie radici, alla propria terra e alla propria famiglia in totale solitudine. Era giusto così, la mia presenza sarebbe stata di troppo, avrei interferito in qualche modo, io sconosciuta catapultata in un piccolo mondo personale e privato, di cui sapevo ancora ben poco.

Pensai di scrivere un messaggio a Judith, ma ormai sarebbe stato superfluo.

Dove sei?

Lui era esattamente dove doveva essere: a casa.

Così mi limitai a fare vagare lo sguardo verso l'orizzonte e a finire la mia colazione, in preparazione alla giornata difficile che mi attendeva.

Tornata a casa, mi feci una doccia rapida e misi più attenzione del solito nel vestirmi. Abbinai una gonna corta a trapezio dalla fantasia sui toni del blu e del celeste con una camicetta bianca con delle piccoli volants sulle spalle e mi infilai un paio di sandali blu dal tacco spesso. Legai i miei lunghi capelli in una treccia laterale e proprio mentre ero impegnata nella delicata operazione dell'applicazione del mascara venni interrotta dal ritorno alla vita del nostro personale morto vivente di famiglia.

«Flick, levati. È il mio turno...», grugnì graziosamente Zoe, una cofana di capelli neri raccolti in uno chignon con cui probabilmente aveva anche dormito e una t-shirt sbrindellata dei Tampa Bay Buccaneers.

La ignorai e presi un dischetto struccante per pulire lo sbaffo di rimmel nero che mi ero fatta presa in contro piede dall'arrivo di mia sorella.

Lei nel frattempo si abbassò gli slip e si sedette sul wc, un'espressione scontenta cucita sul viso. «Sono riuscita a dormire solo quattordici ore con tutto il rumore che facevate...», brontolò.

Continuai imperterrita nell'impresa di sistemare il mio trucco e feci finta di non aver udito nulla. Questa è una tecnica antichissima, messa in atto da tutti i fratelli del mondo fin dall'inizio dei tempi, che consiste nel non sentire ciò che non si vuol sentire. E vi assicuro che con Zoe come sorella le cose che non volevo ascoltare erano veramente tante.

«Quella camicetta è semplicemente stupida. A cosa serviranno mai tutti quei frou frou schifosamente leziosi sulle spalle? E perché la tua gonna ha un colore così allegro? Oggi è un giorno triste e lo sarà ancor di più quando la vecchia vedrà Kim»

Ecco. Una pioggia di complimenti e commenti positivi.

Le lasciai il bagno tutto per sé, nella speranza che un po' d'acqua fredda e una buona colazione in ritardo la rabbonissero almeno un pochetto, e trotterellai giù per le scale, dove inciampai nel mio nono e ultimo cuginetto.

Il frugoletto, tale Ocean, aveva tre anni scarsi, ma ancora portava un pannolino fatto di panni in cotone ingrigito legato attorno ai fianchi e con i lembi fissati da una gigantesca spilla da balia.

Zia Lindsay, unica sorella di Papà, era uscita di casa a diciassette anni per unirsi ad una compagnia itinerante di artisti circensi. Dopo qualche anno, e il primo paio di figli, nati rispettivamente dalla sua relazione con l'ammaestratore di leoni prima e da quella con il mago sputafuoco poi, si era stufata di quella vita nomade ed era tornata in Florida dove si era data all'erboristeria e alla medicina alternativa. In quel periodo di relativa stabilità, si era trasferita in un villino vicino al mare insieme ad un tale che insegnava windsurf e con lui aveva avuto due figlie. Seguì un periodo di totale blackout, del quale nessuno sa praticamente nulla, se non che sparì dalla circolazione, scrisse la sceneggiatura per una serie tv di scarso successo andata in onda su una rete minore in seconda serata e partorì altri due figli. Arrivata a quota sei pargoli si rese conto di non potersi più comportare in modo avventato e decise di stravolgere la sua vita. Non ci riuscì del tutto, ma perlomeno non lasciò più Tampa, i suoi figli riuscirono a frequentare in maniera continuativa la scuola e lei aprì una scuola di yoga che le permise di mantenere da sola la sua numerosa famiglia.

La quota di nove figli era stata raggiunta negli ultimi anni, prima con la nascita dei due gemelli e dopo con l'arrivo di Ocean, tutti frutto di un ricorso della zia alla banca del seme, dopo le sue molteplici dichiarazioni riguardo al fatto che ormai per lei gli uomini erano un capitolo chiuso per sempre. Aveva dovuto dire addio anche alla possibilità di nuove maternità, quando il suo ginecologo con evidente sollievo le annunciò l'arrivo della menopausa.

Non era una cattiva persona, anzi, solo che risultava terribilmente naïf e a tratti alquanto squinternata, con le sue credenze mistiche e il suo modo di vivere alternativo. Si dava un gran da fare per riuscire a crescere da sola i suoi nove figli, nonostante l'inevitabile aiuto che mio padre e i nonni si vedevano costretti a dare.

River era il maggiore dei miei cugini, nato a qualche mese di distanza da me, e sembrava essere quello che aveva risentito di più dello stile di vita fuori dal normale che aveva caratterizzato tutta la sua vita. Faceva il musicista, o perlomeno così andava dicendo, ma l'unica cosa che sapevamo con certezza era che gli piaceva fare il fannullone, vivere a scrocco e fumare hashish.

Sua sorella Bluebell aveva 22 anni e studiava arti esoteriche in una qualche scuola non riconosciuta dalle parti di Orlando, sulla carta d'identità sotto alla voce Professione figurava come medium e si aggirava sempre avvolta in strati su strati di scialli, turbanti e pashmine.

Seguivano Circe e Venus, di 17 e 15 anni, che erano troppo impegnate ad odiarsi a vicenda per fare caso a qualsiasi cosa le circondasse e, nonostante le belle parole riguardanti la non violenza e la necessità di amare sempre incondizionatamente il prossimo che loro madre spendeva quotidianamente, non passava giorno senza che si insultassero o si facessero a vicenda scherzi crudeli.

Jupiter e Cherry, andavano alle scuole medie insieme, ed erano relativamente i più tranquilli della loro stramba famiglia. Il primo si dedicava solo alla sua collezione di animali morti, chiaro segnale del fallimento del regime vegano ed animalista con cui Lindsay li aveva allevati, mentre la seconda voleva farsi suora e non faceva altro che riprendere tutti quanti e promettere preghiere per aiutare questo o quello.

I gemelli, che rispondevano agli stupidissimi nomi di Wolf e Fox, avevano appena terminato la prima elementare e passavano le giornate ad allenarsi nella scrittura in corsivo su qualsiasi superficie libera capitasse loro sottomano: poltrone, la parete dell'ala est della biblioteca comunale, le magliette dei loro fratelli o la tovaglia in pizzo della bisnonna.

Per ultimo c'era per l'appunto Ocean, un moccioso sempre sporco e sorridente che preferiva strisciare per terra invece di camminare sulle sue gambette minute e aveva sempre le ginocchia ricoperte di croste e sporcizia.

Zia Lindsay sorprendentemente, nonostante i molteplici parti e i suoi 47 anni suonati, era ancora una bella donna, dal sottile corpo sinuoso e i lunghi capelli biondi striati d'argento che assomigliavano molto ai miei. Passava la maggior parte del tempo a piedi nudi, vestita con ampi abiti di lino dai colori sgargianti decorati con fili dorati e una sottile riga d'eyeliner ad incorniciare i suoi grandi occhi viola contornati da piccole e discrete rughe.

Mamma l'aveva sempre trattata con condiscendenza, disapprovando in silenzio tutto ciò che faceva o diceva. D'altronde erano una l'antitesi dell'altra, ma nonostante ciò era da più di trent'anni che si sopportavano senza mai lasciar trapelare altro che superficiale cordialità.

La Zia quel giorno indossava una gonna in cotone color terracotta che le sfiorava le caviglie adorne di campanellini e una morbida casacca in lino grezzo, sotto la quale risultava piuttosto evidente l'assenza del reggiseno. Mia madre Grace invece aveva optato per un grazioso abito smanicato color verde menta e un paio di sandali dalla bassa zeppa in corda. I suoi capelli, a causa del mancato appuntamento dal suo fidato parrucchiere, erano stati astutamente raccolti in un raccolto appuntato sulla nuca con un paio di fermagli tartarugati.

«Felicity carissima! Vieni qui ad abbracciarmi!», esclamò con la sua voce musicale mia zia non appena mise gli occhi sulla mia persona.

Lindsay era una grande fan del contatto fisico e nella sua famiglia non si faceva altro che abbracciarsi e scambiarsi baci affettuosi. Gli unici che sembravano non apprezzare tutte quelle effusioni parevano i gemelli, che dopo ogni bacio si esibivano sempre in grandi manifestazioni di disgusto.

Una vola liberatami da quell'abbraccio, Zio Larry provò ad incastrarmi in un nuovo scambio di amore familiare, ma fortunatamente Mamma riuscì a dirottarlo nuovamente verso la brace e le povere costine intente a carbonizzarsi. Era risaputo che, quando brillo, ovvero la metà del tempo che trascorreva sveglio, il fratello di Nonna tendeva ad allungare un po' troppo le mani e a diventare molesto.

Mia cugina Bluebell mi rivolse un vago saluto da sotto l'ampio foulard di seta ricamata che le circondava testa e viso, mentre suo fratello River si divertiva a riprodurre una melodia sempre uguale picchiettando le posate del servizio in argento di mamma sul tavolo in maiolica e facendo dei versi disgustosi con la bocca. Sembrava tutto concentrato e molto ispirato dalla sua attività e ignorava lo sguardo allarmato diretto a quel prezioso tavolo comprato a Positano da sua zia Grace.

Nonna Adaline, approfittando della confusione generale, si era installata a capotavola e zitta zitta stava svuotando l'ampio vassoio degli stuzzichini, accompagnando il tutto con un'abbondante dose di vino bianco frizzante.

«Quando arriva quella vostra cugina?», si informò Circe, in un momento di apparente tregua con la sorella.

Non fece in tempo a formulare la domanda che Montgomery fece capolino dalla portafinestra con la sua mano bendata, alle sue spalle c'erano Zio Franklin e Kimberley.

Lo zio aveva la solita aria sofferente e il suo volto era, se possibile, ancora più emaciato e pallido rispetto all'ultimo volta che lo aveva visto durante le vacanze pasquali.

Kim invece, come sempre, si era impegnata a fondo affinché gli sguardi di tutti fossero calamitati su di lei. Poco le importava che fosse per ammirazione, invidia o disapprovazione: l'unica cosa importante era essere il centro dell'attenzione.

Da quando il suo corpo di bambina si era trasformato donandole un bel fisico prosperoso al punto giusto, sembrava diventato d'obbligo per Kimberley vestirsi in modo da metterlo in mostra il più possibile. Zio Franklin aveva perso anni fa il suo potere genitoriale e lei, ormai a piede libero, si ritrovava a quindici anni ad avere l'aspetto di una quasi trentenne.

Si era tagliata i capelli e li aveva tinti di un caldo rosso tiziano, un prezioso piercing all'ombelico faceva capolino oltre l'orlo della sua minigonna a vita bassa e un crop top super aderente conteneva a malapena la sua terza abbondante di seno.

Mentre lo zio salutava tutti prima di defilarsi accanto a nonna ed avventarsi in sua compagnia sulle poche tartine avanzate, Kim si guardò attorno con aria disgustata e alla fine si decise ad andare a salutare sua Zia Grace, l'unica persona che sembrava piacerle vagamente.

«Ehilà a tutti! Zia, credo sia tuo il bambino che sta tentando di entrare nella lavatrice al piano di sotto...», Zoe fece la sua entrata, avvolta in un paio di jeans neri lunghi che facevano a pugni con il clima rovente di quella giornata estiva.

Lindsay dichiarò tutta allegra che i bambini dovevano sperimentare e fare le loro esperienze in assolta libertà per poter crescere come si deve e si limitò ad abbracciarla, non accennando a schiodarsi da lì.

Kim però era carica e pronta ad iniziare. «Questo metodo educativo prevede quindi la possibilità di centrifugare un bambino di tre anni? È così che hai cresciuto dei meravigliosi giovani adulti come quei due?», commentò imperturbabile indicando Bluebell e River, impegnati a lanciarsi a vicenda palline di mollica di pane.

Poco più tardi Zio Larry e Papà, nonostante il troppo alcool nelle vene del primo e la mano fasciata del secondo, riuscirono nell'intento di trasferire dalla griglia ai piatti da portata il nostro pranzo e a portarlo in tavola.

La carne era piuttosto bruciacchiata e le verdure più che grigliate parevano essere state investite da un camion dei rifiuti, ma nessuno osò lamentarsi, le bocche troppe impegnate a strafogarsi.

Zia Lindsay era l'unica che, con le sue mille restrizioni alimentari, si limitava a spiluccare delle zucchine e dei piccoli pomodorini. È sempre stata vegana da che ricordo, ma ultimamente aveva dichiarato guerra alle cotture troppo grasse e pesanti, al glutine e ai cibi provenienti da oltre il confine americano. Nessuno aveva ancora compreso cosa le fosse concesso mangiare e come mai non fosse ancora finita al pronto soccorso.

Fortunatamente i suoi figli fuori dalle mura di casa potevano fare quello che più desideravano e così alternavano pasti segreti al KFC con cenette in famiglia a base di lattuga condita con qualche seme e delle bacche disidratate.

Kimberley non aveva più aperto bocca, se non per far alzare e spostare metà famiglia affinché lei potesse sedersi a quello che lei considerava il suo posto di diritto. Ovvero alla destra di mio padre, dove poteva riempirlo di moine e convincerlo entro la fine del pranzo a farsi sganciare una mancia extra. Mancia che probabilmente entro il suo diciottesimo compleanno sarebbe finita nelle tasche di un chirurgo plastico.

«Zietto, quest'anno ti sei superato! E pensare che sei anche ferito...», stava blaterando Kim, rabbonendo mio padre. Il quale sorprendentemente, nonostante la sua professione e la sua esperienza con i bugiardi cronici, quando si trattava di Kimberley si faceva sempre prendere per il naso senza rendersene conto.

«...bah, a me pare tutto bruciato, capisco che vogliate farmi fuori, ma qui stiamo esagerando...padre nostro, salvaguarda tu la mia salute...», si mise a borbottare sottovoce la nonna.

Zoe stava fissando curiosa Venus e Circe, impegnate in una gara di insulti e ad un passo dal venire alle mani.

«Andate allo stesso liceo?», si informò curiosa.

Loro la ignorarono e continuarono a darsi della baldracca sovrappeso a vicenda, il tutto tra l'innocente disattenzione della loro madre, distratta da una coppia di piccoli di gabbiano che zampettavano incerti nel giardino, e l'indignazione di Nonna.

«Allora Frank, come va?», esclamò mio padre, nel tentativo di risollevare lo spirito collettivo.

«Franklin», bisbigliò mio zio, continuando a fissare la costoletta che teneva tra le mani.

«Come dici, scusa?»

«Caro, sai che non gli piace che gli abbrevino il nome...», spiegò Madre, con tono forzatamente allegro.

Evidentemente al povero Zio Franklin non andava per nulla bene.

«Papà, alza la voce che nessuna riesce a sentirti! E rispondi allo zio!», lo rimproverò aspramente sua figlia Kim, ricevendo uno sguardo di ammonimento da mio padre.

Mia cugina allora, decisa a non farsi mettere in un angolo, lasciò perdere suo padre e vagò con lo sguardo alla ricerca di una nuova vittima da azzannare e di cui spolparne la carcassa.

«Cuginetta, come te la passi lassù... dov'è che stai? Montana?»

«Maine», le suggerì con voce flautata mia mamma, conscia del pericolo a cui ci stavamo avvicinando.

«Ho ricevuto il tuo ultimo libro, sei stata molto gentile ad inviarmelo. Purtroppo non ho ancora avuto tempo di leggerlo e comunque non credo sia il mio genere. Sai, sangue ed assassini, non sono certo temi adatti ad una signorina!», ridacchiò coprendosi la bocca con le dita smaltate.

«Ma certo, le innocenti orecchie di una signorina perbene come te devono essere salvaguardate da queste terribili cose di cui scrivo», la canzonò Zoe.

«Amen!», concluse Nonna.

Per un attimo tutti tornarono a concentrarsi sul proprio piatto e la calma regnò sovrana in quella bella giornata estiva.

«Ti stavi prendendo gioco di me?», chiese aggressiva Kim, che finalmente aveva avuto la sua epifania.

«Alleluia», mugugnò mia sorella con la bocca piena.

Le tirai un calcio al di sotto del tavolo e Nonna lanciò uno strillo acutissimo.

«Santissimi Numi, le mie povere vene varicose!»

Feci finta di nulla e corsi in suo soccorso insieme a Madre, venni subito spedita alla ricerca di ghiaccio in cucina.

Quando tornai si era ormai scatenato il putiferio.

«...sei nata l'altro ieri e già non succhi più il biberon ma solo...»

«...per favore ricordami qual è il tuo lavoro oltre a comportarti da adolescente depressa...»

«...non hai cura di niente e nessuno, guarda quel poveretto di tuo padre...»

«...una vita a nasconderti dio solo sa dove a fare la superiore con i soldi di papà...»

«BASTA!»

Ci voltammo tutti in direzione di Zia Lindsay. Lei ci sorrise pacifica e allargò le braccia. «Shhh, mi sento attaccata da tutti i lati dalle vostre aure vibranti di cattiveria e odio. Shhh, siamo una famiglia, siamo esseri umani, uguali, fratelli. Prendiamoci per mano, su Larry, Grace, Signora Adaline... respiriamo insieme, piano, rilasciamo l'aria poco a poco. Chiudiamo gli occhi...»

«Mamma! Una cavalletta!», rovinò il momento ispirato della Zia il piccolo Wolf.

Tutti seguirono la direzione che il suo piccolo dito paffuto indicava e si ritrovarono a fissare la capigliatura cotonata e splendente di Kimberley. Lei percepì con sommo terrore di essere non a caso la destinataria di tutta quell'attenzione.

La calma prima della tempesta e poi... «AHH! AIUTO, OH MIO DIO! CHE SCHIFO!», iniziò a sbraitare balzando in piedi e iniziando a scuotere i capelli.

«Non nominare il nome di Dio invano», le ricordò Nonna, la quale mi strappò di mano il ghiaccio che ancora stringevo e se lo applicò sullo stinco.

Kim continuò la sua danza pazza e poiché non pareva volere l'aiuto di nessuno noi iniziammo a sparecchiare per poter portare in tavola il dessert.

Fu proprio allora che le grida cessarono e io alzai lo sguardo. Theodore, apparso dal nulla, teneva tra le dita la cavalletta e mia cugina lo fissava con gli occhi spalancati.

Si riprese presto, si passò le dita tra i capelli per riguadagnare un po' di contegno, e annunciò caustica: «Felicity, è arrivato quel mollusco del tuo promesso sposo».

All'inizio non feci caso a come lo chiamò, più scioccata dall'applicazione improvvisa del mio ex fidanzato, ma bastarono pochi secondi per rendermi conto di un qualcosa che mi fece gelare sul posto.

La mia famiglia sapeva. Mia madre sapeva, sapeva tutto. Persino Nonna Adaline doveva essere stata informata al riguardo. Feci vagare lo sguardo tra i miei parenti riuniti attorno al tavolo, ma al momento parevano tutti troppo impegnati a fissare con estremo interesse ciò che avevano nel piatto.

Fu mia madre, con la sua rigida educazione all'antica, a salvare la situazione. Si alzò e come se nulla fosse baciò sulle guance Theo, invitandolo ad unirsi a noi.

Qualcuno mi toccò la caviglia sotto il tavolo e alzai lo sguardo, incontrando gli occhi carichi di interrogativi di Zoe. La sua espressione era la più facile da decifrare. Cosa acciderbolina ci fai lui ancora qui?

Vidi Theodore esitare e così ne approfittai per alzarmi a mia volta e rassicurare mamma, avremmo parlato altrove. Possibilmente alla larga da orecchie indiscrete e dalla vista a raggi x di Nonna.

Gli feci cenno di seguirmi e, senza controllare che fosse alle mie spalle, mi diressi decisa verso il giardino anteriore della casa, nei pressi della siepe che delimitava l'ingresso della proprietà. La panchina in ferro battuto macchiata di vernice bianca mi parve il punto più nascosto e perciò più adatto per quella conversazione.

Quando mi voltai a guardarlo veramente per la prima volta da quando era comparso mi resi conto di avere di fronte la vecchia versione di Theodore. Abiti dimessi, spalle ricurve e sguardo stanco. Nessuna traccia dell'uomo brillante che aveva fatto brevemente capolino al party di compleanno di Papà o dell'intraprendenza che lo aveva spinto ad inginocchiarsi nella polvere di una piazzola di sosta.

«Come stai?»

«Perché sei qui?»

Le nostre voci si accavallarono, ma entrambi capimmo cosa intendeva l'altro. Lui assicurarsi che io stessi bene e io congedarlo nel più breve tempo possibile.

«Dobbiamo parlare...», mi ricordò quasi supplicandomi.

Detestavo impersonare il ruolo della regina cattiva, ma ero veramente esausta. Quella storia mi aveva sfiancata più nelle ultime settimane che in oltre tre anni di relazione. E avevo bisogno di un taglio netto, di recidere il ramo morto per permettere la nascita di una nuova fioritura.

Mi lasciai cadere sulla panchina, incrociando le caviglie davanti a me. «Theo, davvero, non ho più nulla da dirti...», gli spiegai mesta.

«Allora lascia che parli io!», esclamò duramente.

Sollevai la testa e per un attimo lo rividi, quel fuoco che pareva animarlo quando mi aveva detto di voler passare il resto della sua vita con me.

«Ci ho provato, credimi, mi sono impegnato con tutte le mie forze e ho sperato con tutto me stesso di potercela fare. Sono tornato a Cambridge, ho ripreso la mia vita di tutti i giorni. Mi alzavo, facevo colazione leggendo un paio di quotidiani, tenevo le mie lezioni, ricevevo gli studenti, organizzavo seminari e partecipavo a congressi. Azioni familiari, ripetute migliaia di volte. Ripeterle per altrettante volte non sembrava così complesso. È quello che ho sempre fatto, è ciò in cui sono più bravo. La verità è che ogni mattina dovevo trovare la forza di alzarmi dal letto e convincermi a fare il mio dovere, raccontandomi che in fondo stavo meglio, che potevo ricominciare da capo. La quotidianità che mi ha sempre confortato con il suo inesorabile ripresentarsi sempre uguale a sé stessa questa volta mi terrorizzava. Erano le piccole cose quelle che più mi spaventavano. scoprire qualcosa di interessante, pensare 'Questo lo devo proprio raccontare a Felicity...' e poi ricordarmi che non ce ne sarebbe più stata occasione; trascorrere le serate nella solitudine della biblioteca a sbrigare la corrispondenza e rendermi conto che non sarebbe apparso un tuo messaggio sul mio desktop o arrivare a venerdì senza la prospettiva di un weekend improvvisato a Plymouth da te, con le mie pile di compiti da correggere e i tuoi continui tentativi di distrarmi e coinvolgermi in tutto ciò che fai. Ti ho data per scontata per così tanto tempo da aver compreso solo dopo averti persa il peso che la tua presenza aveva nella mia esistenza, la leggerezza che mi donavi senza chiedere nulla in cambio e la semplicità con cui mi volevi bene e sopportavi i miei malumori e le mie mancanze. Questa presa di coscienza mi è piombata addosso all'improvviso e dopo tre giorni a ripensarci e non dormire ho preso il primo volo perché avevo bisogno di dirti queste cose. Avresti meritato di sentirle anni fa, lo so, ma vorrei comunque che, se non è troppo presuntuoso ed inappropriato da parte mia, chiederti di provare a conservare un ricordo non del tutto negativo di ciò che siamo stati insieme».

Aveva parlato senza mai fermarsi, senza prendere fiato e senza esitazioni. Aveva parlato con il cuore e gliene sarò sempre infinitamente grata, perché rese più facile dirgli addio.

Ci abbracciammo, aggrappandoci l'uno all'altro per un'ultima volta, sotto l'ombra proiettata dall'antico ulivo.

Avrei voluto fare anche io un discorso, spiegargli cosa avevo provato, cosa provavo in quel momento e cosa credevo avrei provato in futuro. Avrei voluto ricordagli del nostro primo incontro, di cui lui probabilmente non aveva memoria, o chiedergli se pensava mai a quella vecchia camera sgangherata che occupavo al campus, quella in cui per la prima volti ci eravamo amati.

Mi limitai al silenzio.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Hibiscus ***


Liam


Era trascorsa mezz'ora e ancora non avevo preso una decisione. L'idea mi era sopraggiunta all'improvviso, quando poco più di un'ora prima il mio aereo di ritorno dall'Arizona stava per atterrare. Avevo fissato il cartellone luminoso delle partenze mentre aspettavo di ritirare il mio bagaglio, lo sguardo fisso sull'annuncio del volo delle 17.35, destinazione Tampa.

Si trattava di poco di più di tre ore di volo, per le 21 sarei arrivato a destinazione. In fondo potevo concedermi ancora un paio di giorni di ferie e senza dubbio lei sarebbe stata lì, di questo ero sicuro. Ciò di cui non ero certo era la reazione che un mio arrivo improvviso avrebbe scatenato.

Chiedere non costa nulla, mi dissi, e così voltai le spalle alle porte d'uscita e mi diressi verso l'area check-in.

La signorina allo sportello mi chiese di pazientare qualche secondo, mentre digitava sulla tastiera i dati che le avevo fornito. Osservò attentamente lo schermo e poi spostò lo sguardo sul sottoscritto, il verdetto non fu positivo perché la sua espressione si fece dispiaciuta e la sua bocca si stirò in un sorriso di scuse.

«Purtroppo la Business Class è già al completo, sa con la storia delle feste e del 4 luglio in famiglia...», mi spiegò cortese.

Infastidito dal suo comportamento, chiesi sbrigativamente: «Biglietti Economy ce ne sono?»

Lei parve delusa dalla mia domanda e, dopo un ultimo sguardo diretto al mio portadocumenti Gucci in pelle e al mio orologio da polso, si limitò ad annuire e a comunicarmi il prezzo.

Avevo con me solo un piccolo trolley pieno di vestiti ricoperti di sabbia mista a sudore, gentile dono dei paesaggi di terra rossa dell'Arizona, ma non mi scoraggiai.

Decisi che non era il caso di mettere in moto la mia efficientissima Diane, avrei impiegato più tempo, ma perlomeno le avrei concesso qualche giorno di riposo in più. Così cercai in internet il numero di telefono del Grand Hyatt Tampa Bay, in cui mi ero trovato piuttosto bene durante il mio ultimo soggiorno, e prenotai una delle poche camere ancora disponibili.

Rinunciai all'idea di richiedere il servizio autista e mi dissi che potevo farcela ad andare fino agli uffici della Hertz e noleggiare un'auto oppure fermare un taxi e farmi portare in albergo.

Senza pensarci troppo scrissi un sms a Felicity.

Cosa fai stasera?

Dovevo ammettere che Donovan aveva guadagnato punti regalandole un telefono cellullare e permettendomi così di rintracciarla in tempi che non superassero le ventiquattr'ore.

Stavano iniziando ad imbarcare i passeggeri del mio volo e, non avendo l'accesso prioritario, recuperai la mia borsa e mi misi in fila. Tempo mezz'ora e sarei stato obbligato a spegnere il telefono, quindi Felicity faceva meglio a sbrigarsi nel digitare una risposta.

Quei giorni in Arizona era stati inaspettatamente meravigliosi, anzi tutto era stato così bello e familiare da farmi rimpiangere amaramente tutte le occasioni passate che mi ero perso perseverando nei miei stupidi timori.

Io ero cambiato, ero cresciuto e tutto quello che era stato il mio passato mi aveva reso chi ero ora. Era stato stupido pensare che fare ritorno nel luogo dove avevo tanto sofferto mi avrebbe improvvisamente trasformato di nuovo in chi ero stato un tempo. Ero fuggito poco più che ragazzino, ma gli anni erano passati, nuove cose erano successe e il ricordo, sebbene vivido, restava sempre un ricordo, figlio del passato. L'Arizona, la mia casa e la mia famiglia non c'entravano nulla con quel continuo senso di fallimento ed inadeguatezza che aveva caratterizzato la mia adolescenza.

Il telefono vibrò, distogliendomi da quel turbinio di pensieri liberatori.

Shawn mi ha invitato in un locale jazz in zona Palmetto Beach (te la ricordi?), dovrebbe suonarci qualcuno di famoso stasera.

Tu stai bene? Quando torni?

Provai a richiamare alla mente il nome di Shawn, ma non riuscii a ricollegarlo a nulla di già sentito.

Non ero un tipo geloso, ma dopo aver letto quel messaggio mi rimase addosso una vaga sensazione di stizza che non accennava ad andarsene. Cercai di non pensarci mentre cercavo sul web il nome del locale a cui aveva accennato nel messaggio.

Palmetto Beach era la spiaggia in cui eravamo andati la prima mattina dopo il mio arrivo a Tampa, in occasione del compleanno di suo padre. In realtà si trattava di un quartiere, ma quel giorno noi ci eravamo limitati ad immergere i piedi nell'oceano. Non mi era parso un granché, ma Felicity aveva gli occhi che luccicavano e mi era bastato ciò per capire dove stava la bellezza di quel posto.

Approfittai della lentezza esasperante delle signorine del gate e della confusione creata da una famiglia di turisti che aveva superato il numero massimo di bagagli a mano che la compagnia permetteva di portare con sé in cabina e scrissi una mail rapida a Diane.

Era il 6 Luglio, avevo trascorso cinque giorni in Arizona, di cui tre con la mia famiglia. Si erano lamentati per la brevità del mio soggiorno e Judy aveva provato in tutti i modi a farmi sentire in colpa, ma ero riuscito a rabbonirli con la promessa che avrei trascorso da loro un'intera settimana ad Agosto, nel periodo in cui Arabella sarebbe stata sotto la mia custodia.

Domani sarei dovuto teoricamente rientrare in ufficio, ma un paio di giorni non avrebbero cambiato granché. Due giorni, non uno di più.

Ero sempre stato un cosiddetto malato di lavoro, o perlomeno lo ero diventato dopo il divorzio. Mi ci ero gettato a capofitto, trovando in esso un efficace modo per non pensare ai miei problemi personali e allo stesso tempo costruirmi una solida carriera. D'altronde non c'era nessuno che mi aspettava a casa per cenare insieme, né bambini da andare a recuperare a corsi di karatè o case di amichetti. Ero solo io e uno studio legale da poco avviato.

Mi ero sempre concesso poche vacanze, anzi le uniche che mi prendevo il lusso di permettermi coincidevano solitamente con la presenza di mia figlia. Altrimenti non vedevo ragione per abbandonare il mio ufficio e i miei impegni e andarmene ai Caraibi, dove non avrei fatto altro che stare attaccato al telefono e bere troppi cocktails.

Anni fa invece ero l'opposto contrario. Schiavo delle continue lamentele di Tiffany, che non sopportava il fatto che lavorassi così tanto, sfruttavo tutti i giorni di ferie che mi spettavano e a volte ne avevo addirittura chiesti altri. Poi partivamo, nella stragrande maggioranza dei casi per la California e la residenza dei suoi genitori, e lì iniziava il supplizio. Ogni mio dispositivo elettronico veniva confiscato da Tiffany, la quale poi per i successivi giorni spariva continuamente con sua madre. Vecchi amici da salutare, il salottino al piano di sopra da riarredare, le conseguenti visite a tutti i mobilifici della Valley, eventi a cui prendere parte.

Qualche volta era riuscito a convincerla a cambiare meta e allora ce ne andavamo in villeggiatura al mare. Passavamo la maggior parte del tempo a letto, ci facevamo portare i pasti in camera e sfruttavamo il servizio di massaggi a domicilio dell'albergo. Ci facevamo viziare, noi eravamo ancora disperatamente impegnati a far funzionare il nostro sbilanciato rapporto e ci aggrappavamo l'uno all'altro nella speranza di restare a galla.

Non ero più andato in vacanza con nessuna donna da allora, la sola idea mi risultava impensabile. L'avrei trascurata e avremmo passato due giorni in aereo per raggiungere una qualche meta esotica, nella quale ci saremmo trattenuti a malapena il tempo di riprenderci dal jet lag per poi ripartire subito alla volta di Boston e del mio lavoro.

Chiesi a Diane di girarmi solo le chiamate più importanti e di non comunicare a nessuno dove fossi, tranne vere e proprie urgenze. Le scrissi che tra due giorni sarei tornato operativo, in modo da non poter avere ripensamenti o scappatoie.

Il volo fu relativamente tranquillo, mi infilai un paio di auricolari e feci partire una vecchia playlist che avevo realizzato anni addietro su Spotify. Probabilmente mi appisolai perché quando riaprii gli occhi il corridoio dell'aereo era già invaso da passeggeri alle prese con il recupero dei propri bagagli.

Eravamo atterrati addirittura in anticipo, così una volta sceso decisi di fare un salto nel primo negozio di abbigliamento ancora aperto in aeroporto.

Acquistai un paio di camicie leggere dai colori neutri, dei pantaloni classici blu e delle scarpe di tela. Presi in affitto una Mercedes color argento e impostai il navigatore. Il sole era già tramontato, ma un leggero bagliore aranciato permeava ancora il cielo. Il mare brillava calmo e le strade erano piuttosto sgombre.

In albergo mi stavano aspettando e così riuscì a sbrigare le pratiche del check-in piuttosto rapidamente. La camera assegnatami questa volta, dato lo scarso preavviso, era molto più piccola e ai primi piani.

Mi feci una doccia al volo e indossai gli abiti appena acquistati. Telefonai alla reception per chiedere di venire a prendere i miei vestiti e portarli in lavanderia e loro mi mandarono in pochi minuti un inserviente silenzioso ed efficiente.

Ne approfittai per domandargli se sapeva se c'era un parcheggio nelle vicinanze del locale jazz e lui si scusò dicendomi che non era del posto, ma che poteva informarsi. Tornò poco dopo con l'indirizzo di un parcheggio pubblico e il nome di un garage privato sotterraneo, nel caso il primo fosse già al completo. Lo ringraziai, gli lasciai una mancia generosa e uscimmo insieme dalla stanza.

Impiegai venti minuti buoni a raggiungere Palmetto, il mio albergo era molto comodo per raggiungere l'aeroporto, meno se volevi avvicinarti al centro della città.

Il parcheggio gratuito ovviamente era pieno, con automobili parcheggiate dovunque, persino illegalmente nei parcheggi dedicati alle persone disabili. Così mi ritrovai costretto a sborsare 50$ e lasciare l'auto nel garage privato che mi era stato indicato.

Ormai si erano fatte quasi le 23 e la stanchezza di quella giornata iniziava a farsi sentire e con essa anche il timore che forse arrivare fino a lì senza preavviso non era stata un'idea molto brillante.

Era troppo tardi per ripensarci a quel punto e così scrollai le spalle ed entrai nel locale.

Mi ritrovai all'interno di una larga stanza in penombra, illuminata da pochi neon color rosa shocking applicati alle pareti con mattoni a vista. Piccoli tavolini tondi erano sparsi sul pavimento in legno scuro, un lungo bancone si snodava sulla sinistra, corredato di tanti alti sgabelli dalla seduta in velluto verde.

Un sassofonista stava suonando una melodia classica smooth jazz sul piccolo palco traballante, intorno a cui erano disposti i tavolini. Discreti divanetti erano distribuiti lungo le pareti e una piccola folla era assiepata proprio dove mi trovavo io, a metà strada tra l'ingresso e il bar.

Decisi che la cosa più semplice sarebbe stata ordinare da bere e osservarmi intorno, nella speranza di aver azzeccato locale e riuscire ad individuare Felicity.

Credevo avrei impiegato molto tempo, ma nel giro di dieci minuti riuscii ad appropriarmi di un Old Fashioned. Scrutai attentamente le persone presenti nella stanza; coppie sulla quarantina, universitari dall'aria sofisticata, compagnie di vecchi appassionati di jazz. Era un locale abbastanza intimo, dove avrei portato un amante del genere oppure qualcuno che poi avrei voluto sedurre o almeno tentare.

Chi era Shawn?

La domanda tornò più insistente di prima.

Un amico? Un cugino? Un vecchio conoscente?

No, la risposta era no.

Shawn era un uomo attraente, che ora stava sorridendo, una mano posata sul ginocchio scoperto della sua accompagnatrice. Una ragazza dai lunghi ed inconfondibili capelli biondi, fasciata in un corto abito argentato.

Mi gelai sul posto. Mi ero fatto più di 1300 miglia per assistere a questo.

Guardai di nuovo verso il loro divanetto, Felicity gli stava raccontando qualcosa tenendo la bocca pericolosamente vicina all'orecchio del ragazzo, per farsi sentire al di sopra della musica.

Voltarmi e lasciarmi alle spalle tutto questo mi pareva stupido, in fondo non potevo aspettarmi che lei fosse rinchiusa in camera a struggersi per me e che saltasse di gioia e mi gettasse le braccia al collo non appena mi fossi palesato.

Aveva ventisette anni, era giovane e bella ed era giusto che uscisse e si divertisse quanto volesse. In quel momento mi sentii terribilmente vecchio, assolutamente incapace di stare al passo con lei, gravato dalle mie mille responsabilità e dal mio bagaglio passato alquanto ingombrante.

Successe tutto in pochi istanti, mi distrassi un attimo e fu in quell'attimo che lei voltò il capo e mi vide.

Felicity non era come tutte le altre, lei non si nascondeva, lei non si sorprendeva dei gesti belli degli altri. Lei aveva fiducia e accoglieva con gioia tutto ciò che le accadeva e questa gioia la mostrava. E così non mi fissò stranita, non mi chiese cosa ci facessi lì, semplicemente si alzò rapida e nel giro di un battito di ciglia mi ritrovai stretto tra le sue braccia abbronzate.

Quando mi lasciò libero, mi guardò in viso e mi dedicò un sorriso splendente.

Non aveva nessuno sguardo colpevole e non si comportava come se fosse stata colta nel bel mezzo di qualcosa che non avrebbe dovuto fare e quando la guardai negli occhi mi sentii semplicemente sciocco e immensamente felice.

Come avevo potuto dubitare di lei?

Si voltò verso il suo accompagnatore, il quale ci stava fissando con un sorrisetto curioso stampato in viso, e gli fece segno di concederle un attimo di tempo. Dopodiché si appropriò del mio bicchiere, lo posò sul bancone alle mie spalle e mi fece strada verso l'esterno del locale.

«Non sei-»

Mise fine alla mia domanda incollando le sue labbra alle mie. Le circondai i fianchi e la sentii alzarsi in punta di piedi. Sapeva di menta e rum e il connubio mi diede alla testa proprio come avrebbe fatto un cocktail bevuto tutto d'un fiato.

Quando, diversi minuti più tardi, ci separammo, lei sorrise di nuovo e mi sussurrò sulle labbra: «Ciao, Mr.Liam»

«Ciao»

«Questa è una sorpresa bellissima»

«Oh, credimi lo è anche questo tuo benvenuto», mormorai sistemandole i capelli dietro le orecchie.

Lei sorrise furbetta. «Per quanto ti fermi?»

Un paio di giorni, le confidai.

Lei si fece scappare un urletto di gioia, dopodiché riprendemmo a baciarci.

«Che ne dici di presentarmi Shawn?», proposi più tardi.

Felicity scoppiò a ridere e mi diede un buffetto. «Ok, ma non pronunciare il suo nome con fare così minaccioso...»

Un quarto d'ora più tardi era ormai chiaro come il sole quanto fossi stato stupido. Venni messo al corrente dell'amore liceale che li aveva uniti e di come la scelta del college li avesse successivamente separati. Shawn era un ragazzo molto simpatico, una di quelle persone positive e cordiali che riescono ad andare d'accordo con tutti e sembrano sempre perfettamente a loro agio in ogni situazione o ambiente. Il mio contrario insomma. 

Era facile capire perché Felicity fosse capitolata davanti al suo sorriso smagliante e al suo fisico atletico, insieme parevano perfetti. La stessa gaia predisposizione ad abbracciare la vita e cogliere il meglio di ciò che veniva loro offerto, l'incapacità di darsi per vinti e di autocommiserarsi, la medesima voglia di ridere sempre, di sperare, di calpestare la Terra a piedi nudi e piantare margherite. Si assomigliavano così tanto da non rendersene neanche conto, non si domandavano che era proprio ciò che li aveva divisi e ora li aveva fatti riunire come se non fossero passati quasi dieci anni. 

Fu ancora più facile però comprendere perché la mano di Felicity stesse così bene intrecciata alle mie dita e la sua spalla si incastrasse alla perfezione nell'incavo tra la mia spalla e il collo. Io ero l'esatta antitesi di Shawn, ero tutto ciò che non era Felicity e che - inconsciamente - cercavo da sempre. Un'ondata di frizzantina leggerezza, qualcosa che mi facesse sentire la testa leggera e il cuore sereno, che mi sollevasse dal peso di una giornata faticosa con una sola lieve carezza.

Più tardi dopo esserci congedati decidemmo di approfittare della vicinanza del mare per fare un salto sulla spiaggia.

«A cosa stai pensando?», mi riportò alla realtà Felicity, tirandomi gentilmente la manica della camicia.

Le passai un braccio attorno alle esili spalle abbronzate e l'avvicinai a me. «A niente...»

Lei sbuffò e mi lanciò uno sguardo esasperato. «Questa è l'esatta risposta che danno tutti quelli a cui stanno pensando a qualcosa di serio», mi ricordò.

Aveva ragione lei, come sempre. Mi è sempre parso buffo che tra noi due, lei con la sua aria un po' svampita e io sempre compito e serioso, quello che ne sapeva sempre di più fosse Felicity. Con una semplicità disarmante aveva la capacità di intuire in anticipo quando qualcosa non andava ed era una maestra nel leggere tra le righe, comprendere i silenzi e interpretare i più piccoli dettagli della persona che le stava di fronte. Sembrava pensasse ad altro, ma in verità il suo sguardo dolce non ti lasciava scampo.

«Stavo riflettendo sul fatto che sarebbe ora iniziassi ad occuparmi anche della ristrutturazione della casa, oltre che del solo giardino...», confessai titubante.

«Oh no, hai appena finito di fare baccano ad ogni ora per via del tetto nuovo e hai già intenzione di ricominciare?», mi prese in giro lei.

Effettivamente era stato un lavoraccio immane sostituire radicalmente la copertura esterna del tetto cercando al tempo stesso di rinforzare e salvaguardare le antiche travi in legno a vista.

«Perché non me lo hai detto prima?»

Felicity sbuffò e mi rifilò un pizzicotto sul fianco. «Perché posso sopportare qualche martellata e non penso ci fosse un'alternativa...»

«Potevi venire a stare da me»

Mi resi conto solo dopo aver pronunciato quelle parole del peso che esse avevano realmente.

Lei, sempre così perspicace, questa volta parve non cogliere il significato di quell'affermazione.

«La città non mi piace, lo sai. E poi avrei dovuto continuare a fare la spola per assicurarmi che il giardino, la serra, l'orto non soffrissero troppo la calura estiva», pronunciò queste frasi frettolosamente e poi cercò subito di cambiare discorso, rendendo evidente quanto poco si sentisse a suo agio nel parlare di una possibile convivenza.

Ma io ero arrivato fino a lì per rivederla e provare a dipanare la matassa di dubbi e incertezze che non potevo impedire mi assalisse di tanto in tanto. Posso ricominciare, non chiedo altro in effetti, ma per farlo dobbiamo essere in due. Con Tiffany è stato tutto troppo affrettato e confuso e non abbiamo minimamente valutato la saggia opzione della convivenza, gettandoci a capofitto nel matrimonio e nel vincolo legale che ne consegue. A posteriori il risultato ci ha mostrato come non si possa fare una prima di uno spettacolo senza prima avere alle spalle la garanzia di una prova generale portata a termine con successo.

Mi fermai, volevo guardarla negli occhi quando sarei arrivato al punto. «I lavori andranno avanti per altri tre mesi come minimo e questo significa rumore e continuo viavai di operai a tutte le ore, tutti i giorni...»

Felicity seguì il mio esempio e si arrestò, il suo sguardo rimase però fisso verso il mare scuro e scintillante alle mie spalle. «Sopravviverò. Poi magari ad agosto potrei concedermi una vacanza di una settimana, ho sempre sognato di vedere il Canada oppure posso sempre tornare qui...», stava deliberatamente ignorando l'argomento sottinteso, che ingombrante come un elefante in una stanza incombeva su di noi.

«Il mio invito è valido anche per il futuro» , precisai.

«Mi porti con te alle Hawaii?»

«Anche, ma prima vieni a stare da me», dissi per mettere fine a quel continuo girare attorno al nocciolo della questione.

Un'ombra di panico attraversò i suoi occhi, un lampo fugace che però riuscii chiaramente a cogliere e che bastò a far crollare tutti i castelli in aria che avevo costruito in quell'ultimo periodo.

Ci vogliono due persone per dire sì, ma ne basta una per dire di no.

Purtroppo le mamme hanno sempre ragione.

Non ero io la parte insicura della coppia, non ero io quello che aveva paura di guardare al futuro e di farlo insieme. Quella consapevolezza mi fece tremare il cuore; non avevo mai avuto dubbi su Felicity, forse superbamente avevo sempre dato per scontato che lei volesse già da tempo quello che io solo da poco avevo realizzato di volere con tutto me stesso.

«Io...credo sia un po' prematuro», bisbigliò nascondendosi dal mio sguardo.

«Possiamo fare una prova, nel caso volessi lanciarmi dei piatti già dopo la prima sera avrai sempre la tua casa a cui fare ritorno», le ricordai, una piccola scintilla di speranza ancora accesa.

Rise, ma quella risata non aveva nulla della solita gaiezza che la contraddistingueva di solito.

«Non sono pronta»

E quello mise fine al discorso.

«Ok, ti riporto a casa»

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Nontiscordardimé ***


Felicity

«Sei un'idiota! Ma cosa dico? Sei un'autentica cretina! Hai lasciato parlare l'ansia e hai mandato tutto a puttane! Eh sì, Flick, non guardarmi così perché io so benissimo cosa ti ha spinto a dire di no. Non è vero che non sei pronta, tu sei nata pronta! Tutto ciò è quello che hai sempre sognato e nel momento in cui riesci finalmente ad ottenerlo tu lo getti via. E sai perché? Perché hai paura, sei paralizzata dal timore che tutto possa andare male, che la vita esca dal tragitto che tu hai voluto a tutti i costi tracciare e che tutto finisca. Finisca male. Perché questa volta il tuo cuore ci è dentro per davvero, totalmente, e la parola fine in questo caso non vorrebbe dire un addio cortese ed un abbraccio come con Theo. Lo aspetti da sempre il tuo Mr.Liam ed ora che è arrivato tu logicamente fuggi. Perché un conto è raccontare quanto si desideri qualcosa e un altro è poi trovarselo effettivamente tra le mani, vivo e finalmente realizzato. Posso chiamarti con tutti i peggio epiteti che conosco, e fidati che ne conosco veramente tanti, ma non gioverebbe a nulla. Rifletti, Felicity, per favore prenditi un attimo e fai la cosa giusta. Sei sempre stata tu la sorella più equilibrata e tradizionale, ti prego di riprendere al più presto il tuo ruolo perché io il saggio maestro Yoda non lo so fare. Ti dico solo un'ultima cosa: non provare niente per paura di provare tutto è la più grande sciocchezza che tu possa commettere. Sì, probabilmente è una semicitazione che ricordo da qualche libro, ma la sostanza non cambia. Ti prego, prenditi cura di te e scegli di conseguenza. E parlane con Liam, non dare per scontato di essere l'unica ad avere questi pensieri. Ti voglio un po' meno bene dopo che mi hai costretto a farti questo discorsone, addio!»

E la connessione venne interrotta.

Avevo sentito la necessità di raccontare a qualcuno quello che era successo una settimana fa. Erano passati sette giorni, giorni lunghissimi e terribili, in cui mi ero confrontata con il mio senso di colpa e la mia neonata inadeguatezza. Scoprire di temere ciò che avevo sempre desiderato mi aveva fatto crollare. E così avevo chiamato Zoe, conscia delle parole crude e prive di tatto che mi avrebbe riversato addosso.

Ho provato a riavvolgere il nastro centinaia di volte in queste notti insonni. Perché ho detto di no? Perché ho affermato fosse troppo presto e che io non fossi pronta? Credo che mia sorella sia riuscita ad esprimere in un discorso di cinque minuti ciò a cui io non sono riuscita ad arrivare in una settimana. Ho sempre pianificato quasi tutto nella mia vita, sapevo che mi sarei sposata e avrei avuto figli. Lo sapevo e probabilmente, nonostante questo pensiero mi faccia vergognare di me stessa, avrei realizzato quel mio progetto anche con Theodore. Non avrei avuto il mio grande amore, ma la restante parte di sogno pianificato a tavolino sarebbe stata realizzata.

Ora invece avevo trovato Liam e tutto era stato inaspettato e meraviglioso. Mi sentivo dieci anni di meno sulle spalle quando stavo con lui e avrei voluto passare il resto dei miei giorni a guardarlo, ascoltarlo e toccarlo. Mi piaceva la galanteria inconsapevole dei suoi modi di fare, la quieta pacatezza del suo agire e la sua esasperante riflessività. Adoravo come non protestasse mai per i miei piedi ghiacciati a letto e come ignorasse di proposito i miei tentativi di renderlo più simile a me. Tutto ciò che avevamo costruito così in fretta e in poco tempo mi sembrava perfetto, perfetto ma terribilmente fragile. E la velocità con cui avevo donato una porzione consistente del mio cuore mi faceva temere il peggio. Mi restava un ultimo appiglio prima di lasciarmi andare, un ultimo pezzettino di cuore che ancora conservavo.

Zoe non lo aveva chiamato col suo nome, ma entrambe sapevamo di chi stavamo implicitamente parlando. Il demone dell'irreversibilità, che mi stava col fiato sul collo sussurrandomi le parole che temevo di più: per sempre. Perché io sulla carta desideravo un principe azzurro che fosse per sempre, ma nella realtà dei fatti vivevo col terrore che in fin dei conti io non fossi fatta per qualcosa di così definitivo. L'ansia mi divora e mille domande non mi danno tregua. E se non mi piacesse convivere con lui? E se scoprissimo di non sopportarci? Se lui si rendesse conto di aver fatto un errore e mi scaricasse? E se vivessimo insieme per trent'anni per poi arrivare ad odiarci?

Non ne ho fatto parola con Donovan perché so già cosa mi avrebbe risposto. Invidio da sempre le persone come lui, quelle che ci provano tanto se va male si può sempre fare dietrofront e ricominciare. Ovviamente si può, ma a che costo? A costo dell'ultimo pezzettino di cuore a cui ancora mi stringo spasmodicamente, a costo di finire con un buco nel mezzo del petto, una ferita che potrebbe impiegare anni a rimarginarsi. O potrebbe non guarire più. Io non sono fatta così, nelle cose a cui tengo mi ci getto anima e corpo col rischio di ritrovarmi poi privata di entrambi.

E parlane con Liam, non dare per scontato di essere l'unica ad avere questi pensieri.

Era trascorsa una settimana, non potevo permettermi di sprecare altri sette giorni in questa anticamera fatta di autocommiserazione e domande ipotetiche.

Liam era venuto in Florida a trovarmi seguendo un impulso, era salito su un aereo a caso ed era arrivato inaspettato nel cuore della notte. Si era messo in gioco, aveva messo da parte la sua dose di timori e domande che iniziavano con 'E se...?'.

Mi concessi un bel bagno caldo e per la prima volta in una settimana mi vestii con qualcosa che non fosse una t-shirt sformata abbinata ad un paio di pantaloncini da calcio ereditati da chissà chi. Non volevo presentarmi alla sua porta nella versione di Felicity che ero stata in questi giorni, miserabile e con i capelli sporchi.

Un'ora più tardi stavo guidando in direzione di Boston, il cielo che si scuriva mentre l'autoradio segnava le 21.27.

Fortunatamente l'ultima volta avevo prestato più attenzione alla strada percorsa dal suo studio al palazzo dove abitava e così, salvo due giri a vuoto e un tamponamento mancato con un taxi, riuscii a raggiungere casa sua. Trovare un parcheggio si rivelò un'impresa titanica che non aiutò i miei nervi già a fior di pelle.

Salutai il portiere notturno e mi presentai, rimpiangendo i vecchi condomini dove non esistevano uscieri, serrature o ascensori con codice e potevi presentarti senza essere prima annunciato alla porta di chiunque.

«Il Signor Carter Wright non è ancora rientrato. Ripassa più tardi o vuole lasciare un messaggio?»

Accipigna, erano quasi le 22, dove poteva essere? Il fatto di non averne la più pallida idea mi irritò ancora di più.

«Sono la sua fidanzata, posso salire mentre lo aspetto?», tentai provando con il mio miglior sorriso da civetta.

Dopotutto eravamo stati ad un passo dall'andare a convivere nemmeno una settimana prima, potevo pur prendermi qualche libertà.

Il portiere, tale Mr. Tony Banks, scosse la testa con fare conciliante. «Oh no, signorina, non posso proprio permetterle di salire senza il permesso del Signor Carter Wright»

«Ma lei mi ha già visto, ricorda?», insistetti decisa a non lasciarmi scoraggiare.

Avevo passato un po' di notti da Liam negli ultimi tempi, nonostante la mia avversione per il traffico e il caos cittadino, ed ero quasi certa di aver già visto il Signor Tony Banks.

«Certamente, ma questo non significa che lei abbia il permesso di accedere all'appartamento del Signor Carter Wright in sua assenza, per quello ci vorrebbe una richiesta scritta e firmata. O una chiave», aggiunse con l'aria di chi la sa lunga.

Quell'ultimo commento mi fece capire due cose. Primo, Liam era avvezzo a portarsi a casa tante donne sempre diverse. Secondo, io sembravo a tutti gli effetti fare parte di quella schiera di donne.

La porta alle mie spalle si aprì e il simpatico Mr. Tony si trasformò all'improvviso, diventanto il ritratto della disponibilità e della cortesia.

«Buonasera Tony»

«Signor Carter Wright, buonasera a lei! Arriva proprio al momento giusto, come vede stavo dicendo alla signorina qui presente che non posso farla salire al suo appartamento senza che lei-»

«Felicity?», la voce incredula interruppe il fiume di ossequiose parole del portiere.

Mi voltai lentamente, sforzandomi di mantenere un'espressione neutra, nonostante il rivederlo dopo quella che mi era parsa un'infinità di tempo mi stesse facendo venire la tachicardia.

Ed eccolo lì, sempre bellissimo anche in tenuta da jogging, con la fronte imperlata di sudore. Avrei voluto detestarlo almeno un poco per il suo essere sempre così dannatamente impeccabile e per l'avermi cacciata in questa situazione di stallo. Un quasi addio, silenzioso e pieno di non detti. Avrei tanto voluto proiettare su di lui tutto il disprezzo che provavo per la mia codardia, ma era semplicemente impossibile. Lui si era fatto coraggio esponendosi e io mi ero ritratta in preda ad un terrore che non sapevo neanche di provare.

«Posso salire per un attimo?», chiesi a bassa voce. Non volevo avere una discussione lì nell'atrio, con gli occhi di Tony puntati voracemente verso di noi a caccia di pettegolezzi.

«Perché?», ribatté freddo. Si passò un braccio sulla fronte e si avvicinò all'ascensore.

«Voglio provare a spiegarti perché», sussurrai in tono calmo.

Mi fissò imperscrutabile per una decina di secondi, prima di annuire e fare un passo indietro per cedermi il passo. Entrai nell'ascensore per prima e un attimo più tardi ci ritrovammo soli, rinchiusi in due metri quadri.

«Come stai?», domandò.

Ecco, era di questo che parlavo. Liam aveva un animo buono, delle maniere impeccabili e la sindrome del cavaliere dall'armatura scintillante. Non poteva farci nulla, era stato educato così e non negava un approccio cortese e civile neanche al suo più acerrimo nemico.

«Ho avuto giorni migliori. Tu?», lo osservai strisciare la sua tessera elettronica prima di spalancare la porta del suo appartamento e lanciarmi uno sguardo.

«Hai l'aria stanca. Dovresti dormire invece di vagare per Boston di notte...»

Il suo rimprovero, volutamente incurante, celava in realtà una preoccupazione chiaramente percepibile che mi privò di un'altra manciata di briciole rubate al mio ultimo pezzettino di cuore.  

Mi indicò il divano mentre si toglieva le scarpe da corsa e il porta-telefono che teneva attorno al braccio. Arrotolava con cura gli auricolari, la fronte aggrottata e gli occhi socchiusi.

«Mi faccio una doccia veloce», e sparì verso la zona notte.

Non sapevo cosa aspettarmi, ci conoscevamo da poco tempo e non avevamo mai litigato. La mia mancanza di esperienza si faceva prepotentemente sentire. Le mie uniche due storie importanti erano finite per cause esterne. Con Shawn erano state la partenza per il college e la distanza a costringerci a dire addio, con Theodore era stato l'arrivo dirompente di Liam. Ma a volte tutto finiva così velocemente, come velocemente era iniziato. Un attimo prima sei euforico e con il cuore che pompa a mille, l'attimo dopo sei di nuovo da sola.

La città continuava a vivere, le macchine a sfrecciare sull'autostrada in lontananza, le insegne ad accendersi e spegnersi ritmicamente sopra le teste di coloro che si godevano una splendida serata estiva in compagnia o da soli. Osservai per qualche minuto un uomo che parlava con il suo gatto, entrambi seduti su un vecchio divano malconcio sistemato sul terrazzo.

Mi riscossi e decisi che era giunto il momento di smetterla di fare la vigliacca e confessare, indipendentemente dal risultato di questa conversazione, dopo mi sarei sentita senza dubbio sollevata.

Seguii il rumore attutito dello scrosciare dell'acqua e socchiusi la porta del bagno, dopo aver bussato un paio di volte. Non attesi una sua risposta ed entrai sedendomi a gambe incrociate sul coperchio abbassato del wc. Le conversazioni più importanti della mia adolescenza le avevo avute quasi tutte con Zoe mentre una delle due si stava facendo la doccia. Tra il vapore e l'umidità delle pareti piastrellate del bagno si creava un piccolo ecosistema completamente scollegato dall'esterno. Un piccolo pianeta dove rifugiarsi una volta a settimana, dove era più facile confessare pensieri che fuori da lì parevano troppo da affrontare.

«Liam?», provai a richiamare la sua attenzione.

Lo vedevo immobile al di là del vetro satinato ed appannato del box doccia.

«Dimmi»

Non si arrabbiò per quella mia intrusione, né mi intimò di dire quello che dovevo dire e andarmene. Aveva più che altro un tono rassegnato, come se sapesse che provare a fermarmi non sarebbe servito a nulla.

«Non sono una che vive alla giornata, sono anni che provo a raccontarmi che cogliere l'attimo è la tattica migliore per vivere la mia vita, ma la verità è che non fa per me. Io mi godo il presente, ma riesco a farlo pienamente solo se so con certezza cosa mi aspetterà dopo. Adoro il mio lavoro, ma sarebbe da ipocriti non ammettere che ho provato a inseguire il mio sogno solo perché ero consapevole di avere comunque in tasca una laurea in legge. Era una strada che non avrei mai voluto percorrere, ma il solo sapere che c'era un'altra strada mi rassicurava e mi permetteva di provare a cercarne una nuova. Altrimenti non lo avrei mai fatto, sarà un agire da coniglio, ma io un leone non lo sono mai stata. Non so esattamente come dirti ciò che ho provato in questa ultima settimana, ma so che cosa voglio dirti quindi ci proverò perché voglio che tu sappia cosa provo e cosa sento, nei tuoi confronti e nei miei», mi fermai un attimo per prendere fiato.

L'acqua riprese a scendere, ma sapevo che mi stava ascoltando. Il non vederci in viso fu inaspettatamente d'aiuto.

«Io voglio vivere con te, solo che vorrei farlo per tutta la vita e ciò spaventa me e penso possa spaventare ancora di più te. Ti voglio così tanto da esserne terrorizzata, perché non so come gestirlo. Avrei voluto urlarti il sì più assordante del mondo, fare l'amore subito lì sulla spiaggia e il giorno dopo inondarti casa con il mio caos. Ma la potenza di tutto ciò che provavo e desideravo ha parlato al mio posto e mi ha fatto indietreggiare, come il peggiore dei conigli. Io non voglio una storia di pochi mesi, Liam, non mi interessa. So che nessuno di noi può, nonostante le migliori intenzioni, promettersi che tutto andrà bene e sarà per sempre. Lo so, quello che io vorrei è sapere che in questo momento, prima di andare a convivere, noi lo stiamo facendo perché davvero pensiamo possa essere per sempre. Non un esperimento, non una prova che nel caso si riveli fallimentare ci riporti integri al punto di partenza. Io ci sto Liam, ma ci sto interamente anima e corpo, ipotecando il mio cuore. Ora tocca a te», conclusi con il cuore appena citato incastrato in gola.

Il vetro del box si aprì e Liam ne uscì. Gli allungai l'accappatoio, senza guardarlo negli occhi e facendo attenzione a non toccarlo. In quel momento sarebbe stato troppo da sopportare.

«Primo: non dare per scontato di sapere cosa mi possa spaventare o meno. Non lo sai, non ancora perlomeno», disse dirigendosi in camera, dove spalancò il suo armadio e pescò della biancheria pulita che si infilò.

Mi allungai e gli tolsi dalle mani un'orribile polo color ocra e gli porsi una semplice t-shirt blu. La indossò senza fiatare.

Si passò un asciugamano tra i capelli bagnati e si lasciò cadere sul letto, vicino a me.

«Non sono bravo con le dichiarazioni, con le arringhe in tribunale me la cavo molto meglio...», abbozzò imbarazzato.

Gli sorrisi timidamente. «Andrà bene anche un'arringa, Signor Avvocato»

«Questa sarà -spero - l'ultima volta in cui paragonerò la nostra storia con il disastro avvenuto con Tiffany. Io l'ho già fatto di gettarmi anima e corpo, l'ho già fatto e ne sono uscito distrutto. Vedo quotidianamente coppie che si erano giurate sarebbe stato per sempre lasciarsi e farsi la guerra. Ne ho viste così tante, dai background più variegati, da convincermi che il per sempre sia la più grande cazzata mai inventata. Lo penso ancora, ma dopo averti conosciuta ho iniziato a sperare con tutto me stesso di sbagliarmi, perché io non lo so se esiste, ma se esistesse vorrei che fosse solo con te. Quindi è tuo Felicity, quel poco di cuore che mi è rimasto è solo e soltanto tuo. St-stai piangendo?», mi chiese sussurrando e trascinandomi più vicino al suo corpo.

Alzai gli occhi umidi e li fissai nei suoi, entrambi alla ricerca della medesima conferma.

Carpe diem.

Allungai un braccio e gli posai una mano sulla guancia, prima di sorridergli tra le lacrime e stringerlo tra le braccia. Lo sentii cingermi i fianchi e nascosi il viso contro il suo collo che profumava di bagnoschiuma.

«Perché ti sei rivestito?», mugugnai contrariata, strusciando il naso sulla sua mascella fresca di rasatura.

Lui ridacchiò divertito, prima di lasciarmi andare e alzarsi dal letto.

«Solitamente le coppie non litigano per poi fare tonnellate di sesso pacificatore?», protestai non muovendomi dalla mia postazione, la maglietta sollevata sulla pancia e i sensi già illanguiditi. Ahh, il potere di Mr.Liam.

Mi agguantò le mani e mi costrinse a rimettermi in piedi.

«Mmh, oggi è giovedì. Domani potrei darmi malato e tenerti legata al letto per tre giorni interi... »

Scoppiai a ridere, liberandomi dalla sua presa e dandogli un buffetto. «Non lo faresti mai!», decretai sicura.

«Legarti al letto?», mi bisbigliò in un orecchio.

Scossi la testa. «Oh no, quello spero lo farai al più presto! Intendevo darti malato al lavoro...»

Soffocò una risata contro il mio collo, prima di lasciarmi un bacio tra i capelli. Il tutto senza ribattere alla mia accusa.

«Vieni con me», disse prendendomi per mano e trascinandomi verso la scala che portava alla sua terrazza sul tetto.

La terrazza che l'ultima volta che ci ero salita constava di una spianata di crudo cemento, qualche sedia arrugginita ed escrementi di gabbiani, ora risplendeva totalmente restaurata.

Sembrava un lavoro che avrei potuto fare io, un progetto partorito dalla mia mente, solo che così non era perché io non ne sapevo niente. Una nuova pavimentazione era stata posata, un gazebo di legno era stato montato e sotto di questo era stato un disposto un lungo tavolo in legno sbiancato. Ma la parte da padrone la facevano i fiori e le piante, sistemati in ampi vasi e cassette disposti un po' dappertutto, a creare l'illusione di un giardino sospeso a metà tra terra e cielo.

«Lo avevo fatto progettare prima di chiederti di venire a vivere qui...», mi spiegò.

«Splendido, è semplicemente splendido. Di chi è opera?»

Liam si sedette su una poltroncina che guardava oltre il parapetto, sulla città buia, e mi fece cenno di accomodarmi vicino a lui. Ignorai il suo invito e mi accoccolai direttamente sulle sue ginocchia.

«Di Donovan, ha sorpreso un po' tutti. Me, Zoe, ma in primis sé stesso», mi raccontò.

Spalancai la bocca incredula: Donnie aveva fatto tutto ciò da solo, probabilmente sforzandosi di ricreare un ambiente che mi assomigliasse e fosse in grado di rispecchiarmi e donarmi un piccolo squarcio di natura in quella giungla di cemento che era Boston.

«Grazie, questo renderà la mia permanenza decisamente più piacevole e attenuerà la mia nostalgia per un po' di sano verde attorno a me», pigolai, schioccandogli un bacio su una guancia.

«Grazie a te, so quanto ti costerà rinunciare a vivere in campagna, ma è solo provvisorio. Prima ci sbrighiamo a sistemare la casa dei miei nonni, prima torniamo tra il tuo amato verde...»

Mi sollevai per fissarlo incredula. «Davvero vuoi andare a vivere nella casa in campagna? Lasceresti sul serio questo attico e la tua vita in città?»

Non avevo mai preso in considerazione quell'idea, avevo dato per scontato che sarei stata io a dire addio a casa mia e a provare a mettere radici in un ambiente diverso. Per mille motivi era la scelta più saggia: l'attico era stupendo e non richiedeva certo un radicale lavoro di ristrutturazione come la casa in campagna, Liam lavorava ad un quarto d'ora di macchina da qui e io ero abituata a spostarmi per lavoro già da prima.

«Certamente, in fondo non sono mai stato molto affezionato a questa casa...»

«Perché non ci passavi mai del tempo e perché eri solo. Liam, non ha senso questa decisione, dovresti farti tutti i giorni un'ora di auto per venire allo studio...e a cosa sarebbe servito questo splendido giardino se lo vendi senza neanche pensarci un attimo?»

«A farmi rientrare nelle tue grazie?», mormorò malizioso, mordicchiandomi il collo.

Gli tirai uno scappellotto fiacco. «Liam! Parlo seriamente! Sai che non ce la faccio a non pianificare tutto e devo sapere se-»

Mi zittì posandomi due dita sulle labbra. «Partiamo da qui, da questa casa, da noi due. Ok? Concentriamoci su questo per il momento, godiamoci quest'estate, iniziamo a prendere le misure per la nostra vita insieme. In fondo cosa importa dove viviamo purché lo facciamo insieme?»

Come sempre aveva ragione e si era dimostrato il più assennato dei due, mentre io deliravo già in preda al panico e mi dibattevo nel mio bicchiere d'acqua.

Mi spalmai contro il suo petto, sorridendogli felice. «Perché non mi hai ancora baciata?»

«Volevo aspettare di averti legata al letto...»

«Uuhh, allora sbrigati a farlo» 

***

Quando mi risvegliai il sole era già alto, ma nella stanza regnava una temperatura fresca e piacevole. Rotolai tra le lenzuola e scoprii di essere rimasta sola nel letto. Sorrisi tra me e me, lo avevo saputo fin dall'inizio che Liam non si sarebbe mai dato per malato e sarebbe andato in ufficio quel venerdì. Lo sapevo e mi piaceva il suo senso del dovere, non sarebbe stato Mr.Liam se non si fosse comportato così.

Mi accorsi mettendomi a sedere che la temperatura perfetta era data dal condizionatore che era stato premurosamente programmato per deumidificare la stanza e regalarmi un risveglio che non fosse sudato a causa dei quasi trenta gradi che regnavano all'esterno. Mi voltai verso il comodino per recuperare i miei occhiali da vista, in testa il vago ricordo di essermi tolta le lenti a contatto verso le cinque del mattino convinta che Liam si fosse addormentato. Per poi ritrovarmi nuovamente avvolta dalle sue braccia e avvinghiata al suo corpo, nonostante fossi accecata.

Trovai un bigliettino posizionato vicino alla mia montatura. Infilai gli occhiali e mi misi seduta contro la testata del letto, aprendo poi il messaggio.

Stamattina dovrebbe passare Inés. Sono scappato al lavoro con ben due ore di ritardo chissà per colpa di chi. Ho lasciato detto all'amministratore e in portineria che una dolce e meravigliosa fanciulla verrà a stare da me in perpetuum, trovi la tua copia di chiavi e tessera d'accesso sul tavolo in cucina. Ho parcheggiato il tuo pick-up in garage (n°13). Stacco presto, promesso.

Ti penserò tutto il giorno, accidenti a te.

L.

Mi alzai e andai in bagno. Non avevo con me altri vestiti oltre a quelli del giorno prima e così mi feci una doccia al volo e li indossai. Zampettai a piedi nudi verso il soggiorno, dove dovevo aver abbandonato la borsa il giorno precedente. Ripescai il telefono e ignorai tutte le notifiche.

Selezionai il contatto di Liam e gli scrissi semplicemente: Grazie, sto pensando a te.

In quel momento l'ascensore trillò e una signora un po' tarchiata dalla faccia simpatica fece il suo ingresso nell'appartamento, seguita a ruota da Mildred. Si bloccarono nell'anticamera vedendomi, la prima con la bocca spalancata, la seconda con l'aria da io-lo-sapevo!, entrambe comunque abbastanza sorprese dal trovarmi nel mezzo del salone di Liam Carter Wright.

«Cara! Che piacere rivederti, Liam è in casa?», cinguettò Mildred non appena si riprese e si ricordò della buona educazione che le era stata severamente impartita e di cui andava tanto fiera.

«Ciao Mildred, no Liam è al lavoro e io...», balbettai maledicendo Liam per avermi messo in quella situazione.

Mildred agguantò il braccio grassoccio di quella che ipotizzavo fosse Inés e la trascinò nella mia direzione. «Inés, è lei! Felicity è lei!», strillò al settimo cielo, scambiandosi sguardi d'intesa con la domestica.

Mi schiarii la voce. «Scusate, lei chi?»

Inés mi guardò con gli occhi traboccanti di amore materno, per un attimo temetti mi volesse soffocare di baci e cullarmi contro il suo seno. «La señorita per cui el Señor Lìam ha creato quella meraviglia lassù sul tetto!», annunciò come se fosse ovvio.

Lanciai un'occhiata alla porta alle loro spalle e alla borsa che avevo lasciato cadere per terra, vicino ai miei piedi scalzi. «Mildred, è stato bello rivederti, ma ora devo proprio scappare a casa, magari ci vediamo prossimamente con più calma, se ti va. Signora Inés, è un piacere averla conosciuta, Liam parla sempre così bene di lei. Arrivederci!», esclamai in preda al panico, mentre le superavo dirigendomi verso l'ascensore.

Inciampai nel tappeto e per poco non mi schiantai a terra, una volta entrata nell'abitacolo dell'ascensore mi voltai e le vidi, le due donne mi stavano fissando con degli inquietanti sorrisi a trentadue denti e mi facevano ciao ciao con la mano. Non appena le porte si chiusero tirai un sospiro di sollievo. Recuperai il mio pick-up e sfrecciai alla velocità della luce in direzione di Plymouth.

Un'ora più tardi stavo svoltando nel vialetto di casa, il cuore che finalmente aveva rallentato i battiti e la sensazione di essere inseguita da qualcosa di non ben definito che iniziava a scemare. Guidare con i piedi nudi era stata una tortura, ma pareva una quisquilia in confronto alla possibilità di tornare a sottopormi agli sguardi adoranti di Mildred e Inés. Scesi e mi avviai verso il mio portico, facendo attenzione a non calpestare sassi aguzzi o rametti appuntiti. Quando fui in salvo sul primo gradino, alzai lo sguardo e mi paralizzai sul posto.

Seduti a gambe incrociate davanti alla mia porta stavano Donovan e Judith, un sorriso smagliante ed orgoglioso stampato in volto. Un sorriso che conoscevo bene dal momento che era lo stesso da cui ero appena scappata.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Bouganville ***


Liam

Oggi a Boston il termometro ha sfiorato i 90°F, sono anni che non si vedeva un'estate così afosa qui nel Massachusetts. Erano già le dieci passate quando varcai la porta dello studio e il breve percorso fino a lì era stato sufficiente a farmi sudare. Sentivo il cotone inumidito della camicia aderirmi contro la schiena e così presi il coraggio a quattro mani e mi infilai sulle spalle la giacca del mio completo estivo.

Una ventata di aria condizionata mi colpì dritto in pieno volto, catapultandomi senza preavviso in un clima che faceva un baffo al Circolo Polare Artico. Mi guardai attorno cercando una qualunque forma di vita umana a cui chiedere informazioni al riguardo, ma il banco dell'accoglienza, dove Theresa passava otto ore al giorno a civettare con i clienti, era abbandonato a sé stesso e la cucina era deserta. La macchina del caffè, souvenir che mi ero concesso da un mio viaggio in Italia e che rappresentava un perenne oggetto di contesa tra colleghi, ora giaceva silenziosa e spenta vicino al lavandino, per una volta non invaso da mille tazze, tazzine e scatolette con avanzi di cibo che attendevano di essere lavate da qualche anima pia.

Mi diressi a passo sicuro verso il mio ufficio, avrei chiesto spiegazioni a Diane, lei sicuramente sarebbe stata al suo posto chiedendosi che fine avessi fatto e appuntando ordinatamente tutte le persone che avrei dovuto richiamare il prima possibile. Mi bloccai non appena svoltai l'angolo: la scrivania della mia insostituibile segretaria era vuota. Niente Diane, niente pc portatile dalla stucchevole custodia color lilla, niente molteplici paia di occhiali da lettura abbandonati sul tavolo, niente crackers, grissini, gallette di riso che facevano capolino dai cassetti.

La porta del mio ufficio era serrata e non appena la aprii per poco non mi venne un colpo. Diane se ne stava comodamente appollaiata sul mio pouf in pelle bordeaux, impegnata a battere sui tasti del computer che teneva in bilico sulle ginocchia, un paio di buffi occhiali rosa posati sul naso. Intravidi Lev, gli auricolari infilati nelle orecchie, intento a discutere animatamente nei pressi della vetrata, mentre Kenneth stava sfogliando voluminosi faldoni scuotendo ripetutamente la testa in direzione di Lucas, il nostro stagista. Theresa si stava limando le unghie sopra il mio tappeto da quasi 5000$ in compagnia di Eva, che stava contemporaneamente ridendo, mangiando un sandwich e sbriciolando il fascicolo di carte che teneva posato di fronte a lei, tutte due assorte dal racconto di...Joanne! Joanne, che invece che starsene a casa sua in maternità, si era bellamente accomodata con il suo enorme pancione sul mio divano color panna.

«Qualcuno può cortesemente dirmi cosa sta succedendo?»

Cinque teste si voltarono all'improvviso verso di me, mentre Lev ancora blaterava sullo sfondo.

«Chiudi la porta!», strillò Joanne sventagliandosi con un dépliant.

Theresa le allungò una bottiglietta d'acqua e la aiutò a sistemare un cuscino dietro la schiena. 

«Liam! Eccoti qua finalmente!», tuonò Kenneth, mollando senza preavviso tutti i faldoni al povero Lucas, che quasi caracollò in terra sotto tutto quel peso.

«Abbiamo provato a chiamarti mille volte, ma il cellulare risultava sempre irraggiungibile. Diane ha telefonato a tua sorella Judith, ma neanche lei sapeva dove fossi. Stavamo pensando di provare a sentire il tuo amico Matthew quando sei miracolosamente riapparso...», mi fece un breve riassunto Eva, ancora impegnata a masticare il suo panino, incurante della senape che minacciava di colare sulla sua camicetta di seta e, cosa ancor più importante, sul fascicolo del caso a cui stava lavorando.

«Sono stato assente un paio d'ore, non mi pare il caso di andare nel panico e improvvisare un picnic nel mio ufficio. Diane, per favore, puoi aggiornarmi?», mi appellai al buonsenso della mia ancora in questo mare di follia.

Quest'ultima mi sorrise e si sfilò gli occhiali. Recuperò la sua agenda da terra e iniziò ad elencarmi la serie di sventure accadute in mia assenza. «Non so se se ne sia accorto, ma all'appello manca Jamie. Doveva rientrare oggi dalle ferie, ma in Nicaragua si è preso non so quale batterio e ora è confinato in ospedale, nel reparto infettivi. Sta meglio ora, per la cronaca-»

«Si sarà mangiato chili di carne poco cotta o pesce crudo e si sarà beccato uno di quei bastardi che ti colpiscono l'intestino e ti fanno passare tre meravigliosi giorni sul water completamente disidratato!», si intromise Joanne, la quale era un'ipocondriaca nota e conosceva centinaia di nozioni mediche assolutamente inutili nella vita di tutti i giorni di un americano medio.

Diane mi rivolse un'occhiata di scuse e riprese, «La macchina per l'espresso stamattina si è inceppata e Lev potrebbe aver peggiorato la situazione nel tentativo di ripararl-»

«Almeno io ci ho provato! Voi non facevate altro che frignare che Liam non sarebbe tornato in Italia tanto presto e vi sarebbe toccato tornare alla cara vecchia brodaglia americana!», precisò offeso Lev, strappandosi le cuffiette dalle orecchie e gettandole in malo modo sulla mia scrivania.

Non commentai e feci cenno a Diane di continuare. Forse, entro le tre del pomeriggio, ce l'avremmo fatta a capire cosa fosse accaduto.

«Dopodiché l'impianto di raffreddamento ha iniziato a dare problemi, non riuscivamo più a regolarlo e la temperatura è diventata davvero troppo fredda. Il tecnico ci ha promesso, quasi due ore fa ormai, che sarebbe accorso subito, ma di lui non c'è traccia. Il suo ufficio è l'unico con un controllo indipendente dal resto del sistema e così ci siamo rifugiati qui. L'alternativa era il tetto e il sole cocente di luglio e non ci pareva il caso. Joanne, che era passata a salutarci un'ultima volta prima della data del termine, a causa degli sbalzi di temperatura ha avuto un piccolo mancamento, ma ora sta bene e Mr. V-»

«Eccoti qui, cara! Tengo sempre delle bustine di potassio e magnesio in auto, colpa dell'abitudine credo, mia figlia da adolescente cadeva come una pera cotta non appena faceva troppo caldo. E noi viviamo in Florida, quindi puoi immaginare...», chiosò premurosamente una voce familiare.

Mi voltai di scatto e per poco non ebbi bisogno io di un integratore per riprendermi dal capogiro che mi colse. Montgomery Van Houten, impeccabile nella sua camicia azzurra senza una minima traccia di sudore, era appena entrato nel mio ufficio e ora stava sciogliendo una bustina di magnesio solubile nel bicchiere d'acqua che Theresa gli aveva porto. 

Joanne gli sorrise grata e bevve tutto d'un fiato il contenuto del bicchiere, accarezzandosi sovrappensiero la pancia prominente.

Volevo salutare Montgomery, o meglio prostrarmi ai suoi piedi e professargli l'ammirazione ventennale che provavo nei suoi confronti, quando un pensiero agghiacciante mi paralizzò sul posto.

«Per quando è previsto il parto?»

Joanne alzò lo sguardo e mi guardò tutta gioiosa, «Dopodomani!», trillò.

Cosa accidenti ci faceva sul mio divano, nel mio ufficio, in compagnia di un branco di avvocati assolutamente inutili e in totale assenza di un medico? 

Percepii distintamente una goccia di sudore freddo scendermi lungo la spina dorsale. Mi consideravo una persona abbastanza forte, potevo sopportare una buona quantità di sventure, ma un parto anticipato qui nello studio non rientrava tra queste.

«Liam, rivederti è un piacere! Non era nei miei piani presentarmi qui da te così presto, ma mia figlia Felicity pare dispersa, così ho dovuto cambiare il mio programma. Anche se devo ammettere che ora non mi pare un momento propizio per affrontare il discorso che avevo in mente...», osservò guardandosi attorno.

Allungai la mano in un gesto meccanico e lasciai che me la stringesse, nella mente ancora stampata la terrificante immagine di urla, sangue, liquido amniotico e la testa di un bebè che faceva capolino da...santo cielo, meglio non pensarci!

Non riuscivo ad immaginare il motivo per il quale Montgomery Van Houten si trovasse nel mio ufficio in una rovente mattina di luglio, quando avrebbe potuto starsene a galleggiare in una piscina vista mare, un cappello di paglia calcato in testa e un bicchiere di limonata ghiacciata stretto in mano.

«Montgomery, il piacere è tutto mio, credimi. Avrei voluto riservarti un'accoglienza migliore, ma ho avuto un imprevisto e-»

Mi interruppe assestandomi una poderosa manata sulla spalla. «Non c'è bisogno di scusarsi! Nel frattempo ho avuto l'onore di fare la conoscenza del tuo splendido team, non avrei potuto ricevere benvenuto più caloroso. Se ti avessi trovato in ufficio non avrei mai scoperto che Lev ha fatto il praticantato nel mio studio di Austin, un vero cowboy texano che poi mi hai sgraffignato da sotto il naso! E perché non ho mai saputo che Eva è la sorella di Florence? Quella donna è un carro armato, nessuno sopravvive al suo passaggio, per questo Washington è uno dei miei fiori all'occhiello. Avete lo stesso senso dell'umorismo incomprensibile, sicura di non avere antenati inglesi, cara?»

Eva scosse la testa ridendo, e la guardai sorpreso. Se c'era una cosa che detestava era sentir parlare della mitica Florence, sorella maggiore la cui fama nel mondo legale la precedeva. Avrei tanto voluto incontrarla, ma non l'occasione non si era mai presentata e, dopo aver assunto Eva, l'idea era stata totalmente accantonata.

«Nessuno mi ha sgraffignato, la triste verità è che sono fuggito a gambe levate da Jacob Getty. A volte ancora popola i miei incubi, con il suo sigaro sempre parcheggiato nell'angolo della bocca e la sua ostinazione nel non credere nei giorni di ferie. A cosa serve la domenica se non a portarsi avanti con il lavoro del lunedì?», Lev imitò borbottando in modo burbero.

Montgomery scoppiò a ridere. «Ahh, il caro vecchio Jacob! Da quando se n'è andato in pensione è tutto un fioccare di vacanze, feste e giorni di permesso: pura anarchia!»

Il 'vecchio Jacob', a differenza della leggendaria Florence, avevo avuto il dispiacere di incontrarlo anni fa in un'aula di tribunale. Rimane uno dei rarissimi smacchi che macchiano la mia altrimenti immacolata carriera nell'avvocatura. Ancora ricordo la potenza della sua arringa, pronunciata con la gravità e l'esperienza di un novello Winston Churchill, a cui fisicamente assomigliava anche tantissimo.

Un paio di trilli attutiti provenienti dall'atrio ci zittirono immediatamente.

«Sia ringraziato il cielo! Sarà il tecnico!», si lasciò andare ad un teatrale sospiro di sollievo Joanne.

«Oh, nostro salvatore...», esclamò Eva balzando in piedi e spalancando la porta d'ingresso.

Kenneth la seguì senza indugi e la osservò speranzoso mentre sollevava la cornetta dalla scrivania di Diane e pronunciava un accorato 'Si?'.

La osservammo tutti in religioso silenzio mentre ascoltava ciò che le veniva comunicato dall'altro capo del citofono undici piani più in basso.

Ripose il ricevitore con attenzione, prima di sollevare la testa ed annunciare tristemente: «Abbiamo vinto il premio fedeltà del ristorante cinese all'angolo: trenta lanterne di carta e un buono sconto del valore di 20$ ci aspettano qui sotto».

Nessuno fiatò, Joanne ricadde pesantemente contro lo schienale del divano e Diane ne approfittò per versarle altra acqua nel bicchiere.

«Io adoro il cibo cinese», commentò Lucas.

Quel ragazzo aveva un tempismo terribile e pareva pronunciarsi sempre nel momento sbagliato. Kenneth, suo supervisore e torturatore personale, gli lanciò un'occhiata omicida.

Presi fiato e pronunciai delle parole che non avrei pensato potessero uscire dalla mia bocca in un giorno feriale. «Ragazzi, la giornata lavorativa ormai è compromessa, tanto vale farcene una ragione e mollare l'osso almeno per oggi. Restiamo chiusi per oggi, prendetevi la giornata libera e ci vediamo qui domattina. Sperando di riuscire a risolvere la situazione nel frattempo...»

Un quarto d'ora più tardi i locali dell'ufficio erano deserti. Theresa non aveva neanche aspettato che finissi di parlare prima di strillare dei saluti frettolosi e precipitarsi a casa a cambiarsi, direzione spiaggia e tintarella. Joanne aveva finalmente preso la saggia decisione di portare quella sua pancia ad orologeria lontana dal mio studio, sollevandomi per fortuna dall'indesiderato rischio di dovermi improvvisare ginecologo ed ostetrico. Eva l'aveva accompagnata e Diane aveva impostato la risposta automatica alle email ed inserito la segreteria telefonica. Per oggi lo studio Carter Wright sarebbe risultato inoperativo, si pregava di riprovare a contattarci l'indomani.

Lucas si era volatilizzato prima che Kenneth avesse la possibilità di assegnargli qualche compito a casa assolutamente superfluo, utile solo a soddisfare la sua vena sadica. Lev aveva scambiato ancora due parole con Montgomery, ricordi inerenti a Getty e alla squadra di football dei Dallas Cowboys. Poco dopo se ne andò anche lui, accompagnato da uno scontento Kenneth.

«Ottimo, ora abbiamo finalmente l'occasione per parlare...», disse soddisfatto Montgomery, sedendosi sul pouf occupato fino a poco prima da Diane.

Mi accomodai di fronte a lui e mi appropriai della bottiglietta d'acqua minerale abbandonata sul basso tavolino in vetro.

«Vorrei collaborassi con il mio studio di Los Angeles per un caso...diciamo...alquanto delicato», sparò sicuro Montgomery.

L'acqua che stavo bevendo mi andò di traverso e rischiai di peggiorare ancora di più la situazione già disperata della mia camicia zuppa.

«C-Cosa?», fu l'unica parola che fui in grado di rantolare.

Montgomery ridacchiò tra sé prima darsi un contegno e iniziare a spiegarmi seriamente la questione. «Quello che ti sto per rivelare in via del tutto confidenziale non dovrà uscire da queste mura, soprattutto se non accetterai l'incarico da me offertoti. A Los Angeles si trova il terzo distaccamento più importante del mio studio legale, tuteliamo da anni con successo i diritti delle personalità più di spicco della Valley, il tutto sempre con discrezione e professionalità. Siamo riusciti a contenere vespai di proporzioni enormi, ad insabbiare questioni scottanti e a depistare i media. A L.A. lavora un team eccellente, ma questa volta la faccenda è spinosa e abbiamo bisogno del tuo aiuto. Sei uno dei migliori avvocati specializzati in diritto di famiglia a livello nazionale, solo l'anno scorso sei stato capace di soffiarci da sotto il naso il caso Pitt-Jolie e di riabilitare l'immagine del tuo cliente dopo le accuse della ex-moglie riguardanti il suo alcolismo e l'aggressività nei confronti dei figli. Non lo dico per adularti, non è nel mio carattere, sto semplicemente elencando voci del tuo curriculum. Hai alle spalle un master in diritto infantile e hai frequentato corsi riguardanti le relazioni diplomatiche internazionali e la comunicazione e sei l'uomo di cui abbiamo bisogno ora»

Ero seriamente lusingato dalla descrizione che aveva fatto del sottoscritto, ma non capivo perché dovesse intervenire un esterno se il suo team era così eccellente, e io sapevo benissimo quanto lo fosse. Erano dei fuoriclasse; avevo fatto una corte serrata durata due anni a Jacqueline Harrow, membro junior del loro studio, senza mai riuscire a spuntarla e a portarla nel team Carter Wright.

«Di chi stiamo parlando?», mi decisi a domandare.

Alla fine era a quello che si riduceva tutto. Trattare la questione 'Brangelina' era stato un vero e proprio incubo mediatico, cosa poteva esserci di peggiore?

«Una settimana fa Mrs. Melania Trump ha presentato domanda di divorzio da Mr. Donald Trump e ha richiesto l'affidamento esclusivo del figlio»

Oh cazzo!

***

Finalmente tre ore dopo essere rientrato dall'ufficio sentii le chiavi girare nella serratura e la porta d'ingresso aprirsi. Ne spuntò un'accaldata Felicity e un paio di capienti trolley. Indossava il medesimo vestito dalla fantasia geometrica che ricordavo dalla sera della pazza festa organizzata dai fans di sua sorella Zoe, con l'aggiunta di cintura annodata morbidamente in vita.

«Ho un bisogno disperato di farmi una doccia», esclamò mollando i bagagli nel bel mezzo dell'atrio e gettandosi a peso morto sul divano.

Guardai alternativamente prima le valigie e le borse gettate e abbandonate sul pavimento e poi il suo corpo sdraiato mollemente sui cuscini candidi. Era arrivata tre secondi prima e aveva già messo tutto sottosopra. Sorrisi tra di me e mi diressi verso il frigorifero. Recuperai un cartone di succo di pompelmo e ne versai il contenuto in un alto bicchiere di vetro soffiato. Raggiunse il soggiorno facendo attenzione a non rovesciarlo e mi accoccolai sul pavimento accanto al divano, dove si trovava la testa di Felicity.

Le scostai i capelli dal viso e le accarezzai la fronte con le mani fresche dal contatto con il bicchiere che le porsi.

«Sei vestito elegante e profumi...», osservò studiandomi ad occhi socchiusi.

Le sorrisi, «L'idea originale era portarti fuori a cena...»

«Oh no! È tutta colpa dei miei genitori se ho rovinato i tuoi piani. Mi sono piombati in casa così, tra capo e collo, tra l'altro senza motivo alcuno. È passato un mese scarso dalla loro ultima visita, adorano la Florida d'estate e da quello che so gli affari a Boston vanno più che bene...Fatto sta che Mamma non levava più le tende e si è autoinvitata ad un tea party in giardino che mi ha costretto ad organizzare. Continuava a chiedermi di te, ininterrottamente, come un disco rotto. Blablabla, quanto sei bravo nel tuo lavoro, quanto sei bello, quanto sei serio e responsabile, blablabla, quanto uomini rispettosi come te non esistano più al giorno d'oggi. Dimmi un po', non è che te la intendi un po' troppo con mia madre?»

La sola idea di Grace Van Houten, stupenda donna per carità, mi faceva ricominciare a sudare. Lei con le sue manie, la sua fobia per la sporcizia e l'ossessione per i batteri e le unghie pulite. Per non parlare del suo implicito snobismo, aveva vissuto degli anni in cui era stata costretta a tirare la cinghia, ma era innegabile che la famiglia da cui proveniva l'aveva cresciuta consapevole della sua posizione sociale e dell'entità del fondo fiduciario a lei intestato. Immaginavo che anche Felicity e Zoe ne possedessero uno, molto probabilmente persino più cospicuo di quello della madre, ma la differenza tra loro era abissale. Grace era una gran signora, non faceva pesare in alcun modo agli altri la sua fortuna, eppure sentirsi leggermente a disagio era inevitabile. Saranno stati i suoi modi da epoca vittoriana, il suo aspetto sempre impeccabile o la garbata cortesia che non negava a nessuno, ma tutto ciò non faceva altro che farla apparire distante e...fredda. In Grace vedevo una copia di me stesso, desideroso di essere accettato per quello che ero e non ciò che possedevo, ma incapace o forse troppo insicuro per non rifugiarmi almeno parzialmente dietro ai miei privilegi.

Guardare Felicity era sempre una sorpresa, i suoi modi disinvolti e la sua bontà d'animo erano una continua fonte di insegnamento. Era in grado di mettersi sul piano del suo ascoltatore, qualunque esso fosse, e perciò era adorata da tutti. Poteva giocare a nascondino insozzandosi di fango con un bambino, prendere un tè caldo con Mildred e le arpie del suo Club del Libro, discutere di politica improvvisando un poker con i giardinieri che si occupavano del parco comunale senza mai snaturarsi. Era sempre lei, vestita con una sdrucita salopette o un tailleur di alta sartoria, in vacanza in una villa agli Hamptons o in una baita senza elettricità in Montana. Il suo spirito di adattamento si modellava, mutava e cambiava forma, senza mai minare il suo autentico modo di essere. 

Era una caratteristica che invidiavo, io non ero in grado di essere così fluido, sentivo la necessità di dividere tutto in compartimenti stagni. Ero stato cresciuto in un mondo che successivamente avevo deciso di ripudiare e avevo abbracciato il mio stile di vita attuale, che non ero stato in grado di abbandonare neppure per un attimo, nel timore di tornare al punto di partenza. Ero statico, poco malleabile e terribilmente testardo. 

«A cosa pensi?»

Sollevai la testa sorpreso e mi resi conto di non aver risposto alla sua precedente provocazione, restando invece in silenzio per parecchi minuti.

«Ti capita mai di sentirti in difetto, nonostante tutti gli sforzi fatti e il lavoro compiuto su se stessi?», le domandai lentamente.

La vidi aggrottare la fronte e sollevarsi a sedere sul divano. «Quasi sempre, lo percepisco costantemente. Hai presente quella sensazione di essere sempre un secondo in ritardo rispetto alla velocità a cui gira il mondo? Ecco, io è da una vita che lotto per restare al passo e penso che sia così per quasi tutte le persone con almeno un briciolo di auto-consapevolezza. Credo sia proprio quella mancanza che percepiamo che ci fa andare avanti, aspirando a qualcosa di più e senza mai rinunciare alla missione di migliorare noi stessi. Saremo sempre egoisti, inetti, meschini, ignoranti rispetto a qualcosa o qualcuno. Prendiamone atto e partiamo da qui. Io sarò di parte, ma io trovo tu sia una persona stupenda ed è commovente il fatto che non te ne renda neanche conto», bisbigliò chinandosi ad accarezzarmi una guancia, gli occhi così pieni di affetto da farmi percepire chiaramente un nodo allo stomaco.

Cosa avevo fatto per meritare questa creatura?

«Grazie», sussurrai contro la pelle calda del suo polso. Osservai il palmo della sua mano, giocherellando con le sue dita lunghe e prive di anelli. «Preferisci restare a casa?»

Lei scosse la testa e si alzò dal divano, allacciando le sue dita con le mie e tirandomi verso di lei. La seguii e lei mi fece strada verso le scale che portavano alla terrazza sul tetto, uno volta superato l'ultimo gradino mi condusse al divanetto che si affacciava sul vuoto e offriva la visuale migliore sulla città colorata dagli ultimi raggi del sole calante.

«Dov'è il tuo telefono?», si informò dopo avermi fatto accomodare e aver sistemato un tavolinetto basso di fronte a me, a mo' di poggiapiedi.

«Credo sia in camera...»

«Ottimo! Prometto di fare in fretta, nel frattempo pensa ad un locale carino dove andare...», mi istruì lasciandomi un bacio al volo all'angolo della mandibola e sparendo giù dalle scale.

Sospirai e allungai le gambe di fronte a me, facendo scrocchiare la schiena.

Com'era possibile che, nonostante la giornata di pausa forzata, fossi più stanco del solito? Probabilmente Tiffany aveva ragione quando mi definiva un malato di lavoro, avevo passato così tanti anni sepolto tra le scartoffie nel mio studio da essermi scordato come ci si rilassa, lasciando vagare per qualche ora la mente, libera da preoccupazioni e scadenze.

Agosto si avvicinava e con lui anche le mie settimane di ferie estive. Non avevo scuse per lavorare in quel periodo perché erano quattordici giorni dedicati ad Arabella. Era sempre stato così. Noi due da soli trascorrevamo due settimane insieme, eravamo sempre rimasti in California perché arrivava sempre un momento, solitamente circa a metà della vacanza, in cui Arabella iniziava a piangere disperata perché voleva sua madre o i suoi nonni. L'attaccamento quasi viscerale che provava nei confronti del ramo familiare materno mi aveva sempre preoccupato e fatto sentire in colpa.

Ero stato io ad aver negato a mia figlia la possibilità di conoscere, frequentare ed affezionarsi ai suoi nonni paterni, a Judith, ai miei amici e, probabilmente, a me. Ero stato io ad aver messo al primo posto il lavoro, rinunciando ad una vita al suo fianco in favore di uno studio legale. Avevo litigato per mesi con Tiffany quando aveva deciso di tornare in California dopo la separazione, mettendo centinaia di miglia tra me e Arabella.

Trasferisciti anche tu, vieni ad abitare vicino alla tua unica figlia se davvero tieni lei. Per Tiffany era stato relativamente facile pronunciare quelle parole: non aveva fondato nulla, non aveva sulle spalle la responsabilità di dieci dipendenti e delle loro famiglie. Nonostante tutto però lei aveva preso la sua decisione e aveva scelto la sua bambina, anche se lo aveva fatto egoisticamente, allontanandola da me solamente perché a Boston Tiffany non si era mai integrata. Era tornata sulla West Coast, da dove era partita più di dieci anni prima, ci aveva fatto ritorno con una figlia e un matrimonio fallito alle spalle, ma come se nulla fosse aveva ripreso in mano la sua vita di prima come se tutto fosse rimasto immutato e lei avesse ancora diciotto anni.

Viveva in un'ampia depandance attigua alla villa dei coniugi Kennedy, guidava una BMW dono di suo padre, cresceva Arabella e nel frattempo si dedicava alla classica vita da moglie mantenuta di un uomo ricco. Massaggi, golf club, corsi di yoga ayurvedica, weekend alle Hawaii, shopping da Burberry. Lo sapevo perché l'assegno per il mantenimento suo e di Arabella lo staccavo io ogni mese.

L'idea di trascorrere le vacanze in Arizona mi balenò in mente senza preavviso. Era una soluzione perfetta, come avevo fatto a non pensarci prima? Saremmo comunque rimasti dentro i confini nazionali, senza allontanarci troppo dalla California, e finalmente sia io che Arabella avremmo avuto l'occasione per riavvicinarci alla mia famiglia. Mamma sarebbe scoppiata di felicità, Judith non avrebbe potuto nascondersi dietro la scusa palesemente falsa del troppo lavoro e mio padre si sarebbe improvvisamente trovato alquanto impegnato nel portare in bicicletta una nipote terribilmente esigente e amante della velocità folle.

E Felicity? Avrebbe potuto raggiungerci per una settimana e poi io e lei, una volta che Arabella fosse nuovamente riconsegnata alle cure materne, saremmo potuti partire per un viaggio. Qualcosa di esotico, oppure semplicemente qualche giorno in territorio americano, tanta natura e poche pretese, come sarebbe piaciuto a lei.

Ero così immerso nei miei luminosi piani per il futuro che non mi accorsi che il sole era ormai calato completamente e Felicity era riapparsa avvolta in un corto abito color verde smeraldo che le lasciava le spalle scoperte.

«Rieccomi!», esclamò appollaiandosi accanto a me, leggermente in bilico.

La acciuffai per la vita e la trascinai più vicino a me, dopodiché lanciai la proposta prima di cambiare idea. «Cosa diresti se ti invitassi dai miei in Arizona quest'estate? Ci saranno anche Arabella e Judith, sarà una cosa in famiglia...»

Quest'ultima parola rimase sospesa tra di noi, portatrice di centinaia di non detti e sottintesi.

Famiglia, termine estremamente malleabile e ampio che può prestarsi ad abbracciare ed includere le personalità più disparate, unite da autentico affetto ma sprovviste di legame di sangue, o distanti e in lite seppure portatori di radici ed origini comuni. Cosa era più importante? Cosa era fondamentale per definire qualcuno 'di famiglia'?

Felicity rispose a tutte le mie domande inespresse semplicemente annuendo con gli occhi grandi e lucidi: «Mi piacerebbe moltissimo...»

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Glicine ***


Felicity

La parte più complicata del mio piano per le ferie estive si era rivelata, ovviamente, mia madre. A nulla era servito ripeterle mille volte che era troppo tardi per tirarmi indietro dall'impegno preso con la famiglia di Liam, che si era così gentilmente offerta di ospitarmi per una settimana nella loro casa in Arizona. Così come non si era rivelato di alcuna utilità il tentativo di spiegarle che nessuno mi aveva costretto ad accettare o ricattato, ma semplicemente ero io a volerci andare.

Nella sua mente di mamma eccessivamente possessiva le mie due settimane di vacanze ad agosto le spettavano di diritto per il semplice fatto che le avevo sempre trascorse in Florida con lei, e il vedersi diminuire il numero di giorni da passare con me le risultava come un terribile furto da parte di persone estranee non autorizzate.

Ero riuscita a sfuggirle e ad imbarcarmi in tempo solo dopo essere stata costretta a prometterle su tutto ciò che cresceva nel mio giardino che a settembre avremmo trovato un modo per recuperare il tempo che avrei 'sprecato nel tentativo di ingraziarmi la famiglia del mio boyfriend', parole di Grace Van Houten.

La questione bagagli si era rivelata altrettanto ostica. Avevo deciso ancora a fine luglio che sarei andata in Arizona partendo direttamente dalla Florida, senza fare ritorno a Boston e a casa mia. Questo voleva dire che i vestiti che mi ero portata a Tampa erano gli stessi con cui mi sarei presentata ai coniugi Carter Wright. Erano trascorsi esattamente tre minuti dal mio atterraggio quando mia mamma lo aveva scoperto e da lì si erano susseguite estenuanti giornate di lotte e pellegrinaggi per negozi. Alla fine, stanca di battibeccare, le avevo concesso carta bianca e così ora mi ritrovavo con due trolley: il mio originale e uno confezionato per l'occasione dalla mia genitrice.

Non appena il personale di bordo ci comunicò il permesso di togliere la modalità aereo tornai online e scrissi velocemente a Liam, informandolo del mio imminente sbarco.

Aspettai pazientemente in coda che i passeggeri confluissero verso l'uscita e il vecchio bus che attendeva sulla pista d'atterraggio e quando, una decina di minuti più tardi, ci depositarono davanti all'ingresso dedicato agli arrivi nazionali mi incamminai spedita verso il punto di ritiro dei bagagli.

Liam mi aveva risposto quasi immediatamente rassicurandomi di essere già in pole position, pronto a requisirmi per più di dieci giorni dalle attenzioni di Mamma Van Houten.

I miei compagni di volo si accalcarono attorno a me mentre pigramente il nastro trasportatore si metteva in movimento e le valige iniziavano a scorrere davanti a noi.

Adocchiai quasi subito il trolley scelto da mia madre, di pelle color tortora svettava contro il nero del nastro trasportatore, quasi in segno di sfida. Nessuno avrebbe mai scelto un colore così chiaro per una valigia destinata ad essere trascinata, scaraventata, sballottata, buttata per terra, trasportata in tutto il mondo. Nessuno tranne Grace.

Mano a mano che le persone recuperavano i propri bagagli sparivano dietro le ampie porte scorrevoli, lasciandosi alle spalle sempre le solite sette valige che ripetevano il giro senza sosta e la sottoscritta ancora in attesa.

Un quarto d'ora più tardi compresi che qualcosa doveva essere andato storto nel trasporto del mio adorato vecchio trolley blu. Masticando parole arrabbiate tra i denti, agguantai l'unico bagaglio superstite e mi diressi trascinando i piedi in direzione dell'ufficio oggetti smarriti.

Mentre aspettavo che un impiegato incompetente rintracciasse il modulo necessario e si mettesse in contatto con un addetto della compagnia aerea, ne approfittai per fare un colpo di telefono a quel pover'uomo che mi attendeva da quasi mezz'ora davanti a delle poco interessanti porte scorrevoli.

«Posso raggiungerti o dici che mi bloccheranno prima?», mi domandò quasi subito.

Girai la domanda al ragazzo di fronte a me, che aveva ancora l'orecchio appoggiato ad una cornetta che emetteva le note dell'Inno alla Gioia di Beethoven a tutto volume.

«Qui andrà per le lunghe, sono ancora in attesa e dobbiamo anche telefonare per il risarcimento e provare a sentire l'aeroporto di Tampa. Dica a suo marito di passare dalla dogana posta vicini agli arrivi e chieda ad uno dei poliziotti in servizio di fare un colpo di telefono all'interno 019...Oh, salve! La chiamo dall'ufficio oggetti smarriti numero 3, sì...Owen? Ma dai, sono Cal!»

Lo lasciai al suo lavoro e tornai alla mia telefonata riferendo a Liam le istruzioni che avevo appena ricevuto.

Dieci minuti più tardi, Cal l'impiegato ancora intento a blaterare al telefono, e mentre stavo firmando la ventesima copia del medesimo documento in cui avevo descritto il mio bagaglio, il suo contenuto, il viaggio aereo che avevo compiuto e le dinamiche pre- e post-imbarco, la porta dell'angusto ufficio si aprì e Liam fece il suo ingresso.

Potrei mentire, o meglio, omettere il fatto che la sua sola vista bastò a calmare i miei nervi a fior di pelle e a rassicurarmi che tutto si sarebbe risolto per il meglio, ma come sapete non sono in grado di celare nulla e il mio viso mi avrebbe smascherato quasi subito. 

Probabilmente era tutto dovuto al mio modo di approcciarmi sempre informale, allegro e forse troppo naïf o dal mio aspetto troppo giovanile, che mi faceva apparire come una ragazzina ingenua e un po' sbadata, una preda facile da raggirare. Mi era capitato decine di volte di essere trattata con meno riguardo e più disattenzione, situazione che ero quasi certa non fosse capitata mai a Liam. Aveva mosso a malapena un paio di passi nella stanza e già Cal l'impiegato sembrava più efficiente, continuava a sorridere e cercava di fare la voce cattiva al telefono, quando fino a due secondi prima l'unica cosa che si udiva era la voce arrabbiata che gli stava facendo una lavata di capo dall'altro lato della cornetta.

Liam mi raggiunse, mi avvolse un braccio attorno alla vita e si chinò a lasciarmi un bacio all'angolo della bocca. Era sempre riservato in pubblico ed evitava le esplicite manifestazioni di affetto in presenza di altre persone, non me lo aveva mai confessato ma ormai era diventato un fatto evidente e io apprezzavo la sua discrezione. 

«Ciao», sussurrai sorridendogli.

Venire in Arizona era davvero stata un'idea meravigliosa, certo forse era prematuro conoscere i suoi genitori e addirittura piombargli in casa per una settimana, ma quando avevo proposto di prendere una camera in un b&b nelle vicinanze Judith era intervenuta sdegnata affermando che lei e la sua famiglia non me lo avrebbero mai e poi mai permesso.

«Ciao, com'è andato il volo, valigia smarrita a parte?», si informò appoggiando gli avambracci sul bancone di fronte a noi e voltandosi a guardarmi.

«Abbastanza bene, ho dormito per quasi tutto il viaggio e ho rischiato di perdermi il servizio del pranzo...», borbottai contrariata. 

Avevo quasi litigato con una hostess quando mi ero svegliata e mi ero accorta dei vassoi vuoti sui tavolini dei miei vicini di posto perché quella si rifiutava di servirmi il pranzo a mezz'ora dall'atterraggio.  E quello era stato l'ennesimo caso in cui le persone, dopo avermi lanciato un'occhiata superficiale, avevano deciso di non ascoltare le mie legittime e gentili richieste di cliente sperando di approfittare del mio aspetto biondo e svampito. Alla fine, sconfinando quasi in una prepotenza a me del tutto estranea, ero riuscita ad ottenere il pasto che mi spettava, ma non me ne ero goduta neanche un boccone. Si fosse trattato di Liam probabilmente avrebbero stappato champagne e preparato ostriche fuori menù per lui, senza osare fare tutte le storie che erano state fatte con me. E il fatto che si trattasse di una donna del personale di bordo non c'entrava nulla, persino uno steward avrebbe mostrato molto più rispetto e sollecitudine nei confronti di Liam che della sottoscritta.

«Oh no, quella sì che sarebbe stata una vera tragedia!», mi prese in giro lui, beccandosi in tutta risposta una mia gomitata nelle costole.«Il cibo sugli aerei lascia sempre a desiderare...»

«Lo so, ma non per questo avrei rinunciato al mio plumcake avvolto nella carta azzurra con le nuvolette!», ribattei indignata.

«Hai ragione, fai sempre valere i tuoi diritti, sempre», ridacchiò Liam continuando a prendersi gioco di me.

«La sua valigia presumibilmente si trova in Québec», annunciò placidamente Cal l'impiegato riagganciando il telefono.

«In Québec?! Ma se io sono partita da Tampa! Com'è potuto accadere?», strillai disperata.

Quella valigia mi serviva, avrei potuto smarrire il bagaglio preparato da mia madre e non me ne sarebbe importato nulla, ma in quel vecchio trolley blu conservavo tutto il necessario, accuratamente selezionato, per apparire al mio meglio davanti alla famiglia Carter Wright e successivamente al fianco di Liam, dovunque avesse deciso di portarmi.

«In effetti nessuno riesce a spiegarselo...forse c'era un altro passeggero diretto in Canada che si chiamava Van Houten o forse si è trattata di semplice confusione...succede incredibilmente spesso, sa?»  

Liam mi afferrò la mano e me la strinse, prima di rivolgersi a Cal: «Quanto ci vorrà per farselo recapitare a domicilio?»

«Solitamente dai tre ai quattro giorni, ma in questo caso dobbiamo prima verificare che il bagaglio ritrovato a Montréal sia effettivamente quello della signorina. In caso affermativo appena riceviamo il via libera possiamo spedirlo, in caso negativo dobbiamo riprendere le ricerche. Nel frattempo potete compilare questi cinque moduli con tutti i dati relativi al recapito e all'indirizzo di spedizione a cui fare riferimento...»

«Scriviamo l'indirizzo dei tuoi genitori?», domandai a Liam.

Lui parve pensarci, «Ci fermiamo qui solo una settimana, potrebbe arrivare quando noi siamo già ripartiti...»

Ottima osservazione. «Lo faccio arrivare direttamente a Plymouth?»

Lui scosse la testa. «Chi lo ritirerebbe se tu non fossi ancora tornata?»

«Dai miei a Tampa?», chiesi con una nota di panico nella voce.

Mi sorrise e si voltò iniziando a scribacchiare al posto mio sui moduli. Mi avvicinai e spiai come riempisse in modo veloce e preciso con la sua grafia elegante tutti gli spazi tratteggiati, snocciolando tutti i miei dati personali e concludendo inserendo l'indirizzo del suo attico a Boston.

«Ti sei scordata della soluzione più semplice, manderò un'email per avvertire la portineria e quando torneremo a casa la tua valigia sarà lì ad aspettarti vedrai», mi spiegò finendo di ricopiare i dati sul terzo foglio.

Presa dal panico generato dalla situazione spiacevole ed inattesa che si era venuta a creare mi ero dimenticata del fatto di aver praticamente iniziato a vivere con Liam nel suo attico, scordarsene era senza dubbio un ottimo inizio per una convivenza.

Mezz'ora più tardi stavamo sfrecciando in direzione di Sedona a bordo di una Hyundai che immaginai appartenere ai genitori di Liam. Il viaggio sarebbe durato circa due ore, ne ero sicura dal momento che avevo controllato con attenzione su Google Maps non immaginando che Liam si sarebbe fatto tutta quella strada solo per venirmi a recuperare all'aeroporto di Phoenix quando potevo benissimo prendere un autobus e non disturbare nessuno. Alla fine gliela avevo data vinta, sapendo che si sarebbe presentato davanti alla porta degli Arrivi in ogni caso, quando uno nasce con il gene del cavaliere dall'armatura scintillante è difficile per lui comprendere che volendo la principessa avrebbe potuto salvarsi da sola. Dopotutto oggigiorno i corsi di free climbing e le palestre con le pareti per l'arrampicata indoor erano presi d'assalto da fanciulle di tutte le età, quindi volendo ora Raperonzolo potrebbe benissimo infilarsi un paio di scarpette adatte fattasi recapitare dal corriere di Amazon e scendere dalla sua torre senza nessun aiuto esterno. Un po' mi dispiaceva per i principi azzurri, ma dopotutto i tempi cambiano com'è giusto che sia.

«Hai dei consigli da darmi prima del nostro arrivo?», domandai combattendo l'impulso di sfilarmi le leggere scarpe di tela che indossavo e accoccolarmi in modo più comodo sul sedile.

«Che genere di consigli intendi?»

Gli lanciai un'occhiata con la coda dell'occhio e vidi il sorrisetto divertito che gli stirava le labbra. Dopo essere sopravvissuto alla mia famiglia ora lui era autorizzato a rilassarsi e a mangiare popcorn mentre si gustava lo spettacolo della sottoscritta in preda all'ansia di non piacere o di fare un'impressione sbagliata. Stronzo.

«Le solite cose: avvertimenti, cose da non fare o non dire, domande od argomenti taboo. Cose così...», riprovai, ben sapendo che aveva capito già da prima cosa intendessi.

«La mia è una famiglia semplice, abbastanza tradizionale e molto unita. Sono cresciuto, come già sai, nella casa dove i miei genitori abitano tuttora, sebbene una volta non fosse così...ben tenuta. I miei nonni sono morti entrambi una decina d'anni fa, Judith è partita ai tempi del college e non è più tornata a vivere a Sedona e così sono rimasti solo Mamma e Papà. Credo che per piacergli ti basti poco; per prima cosa sei completamente diversa da Tiffany e già questo ti farà guadagnare infiniti punti ai loro occhi, poi non accennare mai a mia madre di menopausa e affini e non nominare mai e poi mai il nome di Bush in presenza di mio padre, vorremmo evitare avesse un nuovo infarto. Questo credo sia tutto»

Ok, ce la potevo fare. No Tiffany, no menopausa, no Bush. Certamente il fatto di conoscere Tiffany solo per sentito dire, grazie ai mille racconti di terze persone, non mi aiutava, ma avrei fatto del mio meglio per comportarmi al meglio. In fondo la presenza di Judy e Arabella avrebbe disteso l'atmosfera.

«Credi che gli piacerò?», l'ultima cosa che desideravo era suonare petulante, ma sentivo una spiacevole ombra di panico strisciare verso di me.

«È così importante per te? Perché per me non lo è, piaci tantissimo a me e questo è l'importante»

Mi concessi un attimo per sciogliermi internamente alle sue parole prima di tornare focalizzata sul vero problema. «Anche tu mi piaci molto, questo però non significa che tu non fossi terrorizzato quando hai incontrato mio padre», gli ricordai un po' perfidamente.

Liam scosse la testa incredulo. «Stiamo parlando di due contesti completamente differenti. Tuo padre è Montgomery Van Houten, un'assoluta leggenda nel mio campo professionale e mio personale mito fin da quando ero un ragazzino di provincia con il sogno di scappare e sbarcare il lunario. Rispetto moltissimo mio padre, un uomo onesto e grande lavoratore, ma stiamo parlando di due situazioni diverse...»

«E invece io ti dico che la situazione è la stessa! A meno che - ovviamente - per te non fosse più importante incontrare l'Avvocato Van Houten rispetto al vecchio Monty, padre della tua ragazza!»,affermai leggermente stizzita.

Detestavo ogni volta che faceva implicitamente riferimento alle differenze, puramente economiche, che aveva caratterizzato la nostra infanzia. Ero una privilegiata, va bene, ma chi poteva farmene una colpa? E a ben guardare le nostre vite attuali Liam era quello che si era riscattato e stava vivendo a pieno il sogno americano, mentre a me cascava in testa il tetto della mia vecchia casa e ogni mese speravo di ricevere abbastanza commissioni da riuscirci a pagare le tasse.

Liam mollò la presa sul volante e mi posò la mano destra sulla coscia, abbassai lo sguardo e osservai in silenzio le sue dite sopra al jeans blu chiaro dei miei pantaloni. «Felicity, credimi se ti dico che non hai nessun bisogno di preoccuparti. Ti adoreranno, sia per come sei tu, sia per quanto mi rendi felice. E ti chiedo scusa se ti ho fatto avvilire, non sono per niente bravo ad esprimermi al di fuori di un'aula di tribunale. Ero teso all'idea di conoscere la tua famiglia, ma quando ho scoperto chi  fosse la tua famiglia ho rischiato di tagliare la corda e fuggire a gambe levate. Avevo paura di non essere abbastanza per la loro preziosa secondogenita, e ancora lo temo a volte...»

«Talmente preziosa che mia madre ha avvistato il tuo anulare sprovvisto di fede ancora prima di averti stretto la mano per fare le presentazioni e ha subito iniziato a lanciarti frecciatine affinché ti prendessi in groppa quella piaga inconcludente della sua secondogenita...», borbottai ancora scoraggiata.

Liam stava guidando nel suo solito modo pazzo da Formula1 e così facendo in poco più di tre quarti d'ora saremmo arrivati e io non ero ancora pronta.

«Ti posso assicurare di essere stato sottoposto ad un attento e minuzioso esame nel quale tua madre ha analizzato il livello di pulizia delle mie mani, delle mie unghie, del mio vestiario e della mia persona in generale. È stato piuttosto imbarazzante, a voler essere sincero, ma sono sopravvissuto abbastanza a lungo da conquistarti. Tu parti avvantaggiata su tutti i fronti: lavori, e per di più la tua professione manderà in brodo di giuggiole mia madre, sai cucinare, sei in grado di prenderti cura di te stessa, sei buona e generosa, molto brava e paziente con i bambini e con il sottoscritto, hai una doppia laurea, una casa tua e una buona famiglia alle spalle, tralasciando ehm...Zoe. Credimi, hai tutte le carte in regole per piacergli...»

Posai la mia mano sopra la sua e la strinsi sospirando. «Bé, il risultato dell'esame è stato eccellente perché Papà ha una stima così elevata del tuo percorso lavorativo che vorrebbe solo che tu mi sposassi per poi lasciarti tutti i suoi studi legali, realizzando così il suo sogno di sempre di lasciare la sua creatura nelle mani di qualcuno di famiglia. Poi Mamma è letteralmente impazzita quando le ho raccontato di Inés, sai non si fida molto degli uomini single che vivono da soli, soprattutto se non hanno accanto una mammina o una fidanzata che li tiene d'occhio e si assicura che si lavino le mani prima di cena e facciano il bagnetto tutte le sere. Inés è una garanzia, oddio poi non so se ti fa davvero il bagnetto, ma Madre era tutta esaltata e non ho osato instillare in lei questo dubbio», ridacchiai tra me e me immaginandomi Liam immerso in una vasca ricolma di acqua profumata e vaporosa schiuma nella quale galleggiavano paperelle di gomma gialla, con Inés armata di spazzolone e cuffietta a fiori per proteggere la sua pettinatura dall'umidità, intenta a gettargli vigorosamente la schiena.

«Quanto sei scema», mi rimproverò sorridendo sotto i baffi.

«Ecco, magari questo non diciamolo ai tuoi genitori...»

«Ok, però tu non devi rivelargli dei miei bagnetti con Inés...»

«Affare fatto!», esclamai ridendo e stringendogli la mano. «Ah, ecco una cosa che volevo domandarti: cosa faranno quest'estate Mildred e Matthew? Ho ricevuto una strana email una settimana fa circa che praticamente consisteva solo in una sfilza di lettere a caso...»

Liam si liberò dalla mia presa per allungare il braccio alle nostre spalle e cercare qualcosa nel retro. «Credo che Gabriel abbia imparato come sbloccare il telefono di sua madre. Sono partiti tre giorni fa e - Dove accidenti sono finiti?», sbottò all'improvviso continuando a rovistare pur mantenendo d'occhio la strada assolata che scorreva davanti a noi.

«Posso aiutarti? Arrivata a questo punto, con tutto questo carico di stress, tanto vale che li conosca i tuoi genitori invece di finire in un dirupo in pasto ai coyote, no? Fai fare a me...», mi slacciai la cintura e mi inginocchiai sul sedile dando le spalle al parabrezza.

«Guarda nella tasca anteriore dello zaino, per favore. Dovrebbe esserci un astuccio con dentro i miei occhiali da sole», mi istruì.

«Da quando vai in giro con uno zaino?», mi informai mentre facevo scorrere la zip che lui con una mano sola era riuscito ad aprire solo di pochi centimetri.

«L'Arizona sta già facendo effetto, tempo una settimana e smetterò di farmi la doccia e la barba e inizierò ad andare a caccia, a vestirmi di pelli e a nutrirmi di cavallette», borbottò lui.

Lo ritenevo altamente improbabile, ma evitai di commentare. Non avevo ancora avuto occasione di mettere piede all'esterno dato che Liam aveva parcheggiato in un posteggio custodito nelle profondità della Terra, ma la sola vista del sole che batteva su una distesa di sabbia che sembrava non finire mai mi faceva sudare nonostante l'aria condizionata che rendeva vivibile l'abitacolo della macchina.

Quando mi era spuntato alle spalle, nel maledetto ufficio oggetti scomparsi, non era né sudato, né impolverato, né accaldato o dall'aspetto affaticato. No, portava con la sua solita disinvoltura un paio di pantaloni leggeri color beige e una polo bianca dal colletto immacolato. L'aeroporto pullulava di gente che ciabattava sulle scale mobili e mostrava l'ombelico al mondo intero, ma nemmeno il clima rovente dell'Arizona pareva in grado di scompigliare l'aplomb di Liam.

Nel frattempo riuscii ad individuare il mio obiettivo e sfilai dallo zaino l'astuccio in pelle nera e lo aprii, porgendogli un paio di occhiali da sole che non gli avevo mai visto indossare.

«Arabella ha calpestato i miei Persol giusto l'altro ieri», mi spiegò infilandoseli, dando una risposta alla mia evidente espressione curiosa.

«E ovviamente tu ne avevi un paio di scorta in valigia», sospirai sconfitta dalla sua perfezione.

Io ero la classica persona che parte per i Tropici dimenticandosi a casa crema solare e costume da bagno, o per la montagna sprovvista di scarponcini da trekking e giacca a vento.

«Sì, ed è l'ultimo quindi devo continuamente tenere d'occhio i piedi di mia figlia. I miei genitori si sono fatti prendere dall'euforia di averla qui e ormai le permettono qualsiasi cosa. L'altro giorno l'ho trovata intenta a disegnare una farfalla sulla parete in garage con mia madre che la incitava e le ripeteva quanto fosse portata per il disegno. I miei occhiali erano posati sul lettino in giardino, ma ormai Arabella ha ottenuto il permesso di camminare su tavoli, saltellare di sedia in sedia e salire con le scarpe su divano e letto e nessuno riuscirà più a fermarla. Tiffany mi scriverà una mail di dodici pagine di lamentele quando la riavrà con sé e si accorgerà di quanto selvatica l'abbia resa l'Arizona», inserì la freccia sinistra e ruotò il volante imboccando l'uscita per Sedona, indicata da un grande cartellone verde.

«Una piccola cowgirl, sono contenta di rivederla. Quanto manca?»

Se eravamo quasi a Sedona il nostro viaggio stava per giungere al termine e non ero sicura di poter affrontare le presentazioni con una nuova famiglia senza sapere con precisione quanti minuti mi separavano dal grande momento. Non serviva a nulla ma mi aveva sempre aiutato sapere che mancavano quarantasette ore, tredici ore, mezz'ora, quattro minuti ad un esame.

«Una decina di minuti e ci siamo, se ti serve qualcosa più tardi ti accompagno al supermercato, ma ora è meglio evitare di temporeggiare perché è da quasi un'ora che il mio telefono vibra incessantemente nella mia tasca e sono piuttosto sicuro si tratti di Judy»

«Si fermerà anche lei per tutta la settimana, vero?», domandai speranzosa.

Liam ridacchiò frenando ad una rotatoria per dare la precedenza ad un pullmann targato Maryland carico di turisti. «Sì, già lo sai, ma questo non ti sarà di nessun aiuto...»

«Al massimo posso sempre tagliare la corda e fuggire confondendomi tra una comitiva di anziani provenienti dal North Carolina o farmi caricare da qualche studente sbandato impegnato in un roadtrip alcolico»

«Ottima idea! Io voto per il roadtrip alcolico, senza dubbio più divertente che un autobus di dentiere e apparecchi acustici»

«Tu ovviamente non saresti invitato», precisai con voce volutamente antipatica.

«Scapperesti davvero da delle persone così adorabili?», mi domandò con tono di sfida.

Mi ero perso gli ultimi incroci e dopo aver svoltato in un'infinità di stradine tutte uguale mi accorsi che Liam stava rallentando.

Alzai lo sguardo e vidi le persone adorabili schierate davanti al cancello di una graziosa casa a due piani. Parevano la servitù in ghingheri che accoglieva gli ospiti a Downton Abbey, con la piccola differenza che quando intravisto il muso della Hyundai abbandonarono le loro posizioni e iniziarono a saltellare, sbracciarsi e battere le mani.

Ok, non avevo scampo.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Cactus Saguaro ***


Liam


Il caldo non mi dava tregua così come Felicity che da due giorni si aggirava per la casa vestita solo di corti prendisole semitrasparenti, gentile dono di sua madre. Dal nostro arrivo erano già trascorse già 48 ore, ore in cui Felicity era stata rapita dalla mia famiglia in un turbinio di abbracci, presentazioni, gite organizzate all'ultimo momento, capricci di Arabella che pretendeva di averla per sé ininterrottamente, lunghi banchetti che iniziavano con la merenda e si concludevano direttamente dopo cena. 

Appena arrivati si era scatenato il caos. Mia madre aveva, ovviamente, pianto. Dopodiché aveva abbracciato e baciato Felicity e per non farsi mancare niente aveva riservato il medesimo trattamento anche a me, nonostante ci fossimo salutati tre ore prima. Credo che la sola vista di Felicity sia bastata a tranquillizzarla, è stato sufficiente un suo sorriso spontaneo e felice, il suo viso gentile e struccato e i suoi modi educati e semplici per farla entrare in pochi secondi nella lista delle persone preferite di mia mamma. Mio padre invece è stato più contenuto e si è limitato a stringerle la mano e a darle il benvenuto a casa sua. Judith l'ha quasi soffocata con la sua foga e il suo affetto incontrollabile, il tutto mentre Arabella strillava come una sirena ai suoi piedi per attirare la nostra attenzione. Quando l'avevo presa in braccio e le avevo domandato quale fosse il problema, mia figlia aveva semplicemente detto «È il mio turno!», con il suo solito tono da principessina sul pisello. Felicity se n'era accorta subito e, liberatasi dalla presa mortale di mia sorella, mi aveva sfilato dalle braccia Arabella e se l'era stretta al petto iniziando a bisbigliarle qualcosa nell'orecchio.

Mia mamma aveva deciso che Judith avrebbe condiviso la nostra vecchia stanza con Arabella, che al settimo cielo aveva trascorso le notti dell'ultima settimana abbarbicata alla sua adorata zietta, la quale in silenzio e in un lago di sudore sopportava stoicamente quelle lunghe notti con l'onnipresente nipote ostinata ad ignorare il lettino appositamente preparato per lei. Felicity era stata sistemata nella camera che fu dei miei nonni e che era stata recentemente rifatta completamente, con un nuovo ampio letto matrimoniale a sostituire i vecchi mezzi letti in cui dormivano i miei nonni. Sono stati insieme per più di sessant'anni e hanno sempre sostenuto che il segreto stava nel dormire in due letti separati. Hanno avuto cinque figli e sono sempre andati d'amore e d'accordo quindi immagino sapessero quello che facevano.

Io, con mia grande sorpresa, ero stato confinato nel divano-letto in taverna. Avevo protestato a gran voce, con Felicity che mi lanciava delle occhiatacce da dietro la testa di mia madre, ma quest'ultima era stata irremovibile. «Sarò retrograda e poco moderna, ma questa è casa mia e finché non sarete sposati non condividerete un letto sotto il mio tetto», aveva decretato e così mi ero dovuto arrendere.

Avevo provato per tutte e due le ultime sere a sgattaiolare in punta di piedi al piano di sopra, ma la prima notte avevo incontrato mio padre sulle scale e con un'occhiata di ammonimento mi aveva rispedito nelle profondità del sottosuolo, mentre ieri sera ero riuscito ad arrivare fino alla soglia della stanza e avevo trovato la porta spalancata e Felicity addormentata con Arabella aggrappata alla sua schiena. Non c'era verso di trovare un attimo per stare solo con Felicity o anche solo scambiare due parole con lei senza che un altro paio di orecchie fosse in ascolto. 

Ieri avevo proposto di portarla a fare un giro nei punti dove si fermano tutti i turisti che fanno il tour dei parchi nazionali, l'idea era stata accolta con così tanto entusiasmo che mi ero ritrovato alla guida della Hyundai carica di vettovaglie, Judith, Arabella, nostra cugina Gabrielle e Felicity, con la vecchia Toyota di Zio Hugh che ci seguiva trasportando gli zii, mamma, papà e un paio di cugini. Era stata una bella giornata: calda, caotica e decisamente troppo affollata.

Allungai un braccio verso il pavimento dove, in mancanza di un comodino, avevo posato il libro che stavo leggendo e l'orologio che mi sfilavo ogni sera prima di dormire. Erano da poco passate le 23, in casa Carter Wright si andava a dormire ridicolmente presto e anche su questo punto non si poteva discutere. Casa mia, regole mie: solita legge tirannica di mia mamma. Non avevo sonno, non avevo voglia di leggere un altro po', ma di salire le due rampe di scale che mi separavano dal primo piano e infilarmi nel letto di Felicity. In verità mi sarei accontentato di sedermi sulla poltrona che stava ai piedi del letto e sentirla parlare. Mi stavo rendendo conto di essere tremendamente possessivo, caratteristica che non mi era mai appartenuta. Probabilmente il fatto che la nostra storia fosse nata in un luogo dove entrambi vivevamo soli, lontano da famiglie e distrazioni, ci aveva portato a concentrarci troppo su noi due soli, rinchiusi in una bolla impenetrabile, che però ora era scoppiata e aveva permesso a troppe persone di entrare.

Sentii un leggero cigolio, ma non ci feci caso. Ristrutturazione o no, questa casa aveva davvero tanti anni e i rumori insoliti erano all'ordine del giorno. Udii un altro fruscio e mi sollevai puntellandomi sui gomiti.

«Felicity!», esclamai metà sorpreso di trovarla a piedi nudi in taverna e metà scandalizzato dal fatto che avrebbe potuto incontrare i miei genitori vestita solo con quella sottoveste blu scuro ridicolmente corta e succinta, e così poco da Felicity, in cui era inguainata.

Mi fece cenno di abbassare la voce mentre zampettava verso il letto e sollevava le lenzuola per infilarsi sotto. Mi spinse di lato e si sdraiò, subito ruotando nella mia direzione e guardandomi con un sorriso sornione.

«Per fortuna l'Arizona è uno stato caldo perché vestita così non so proprio se-»

«Già, è proprio una fortuna», mi mise a tacere lei sollevandosi ad incontrare le mie labbra.

Fu davvero una fortuna il fatto che fosse così poco vestita.

***

«Puoi prestarmi una delle tue magliette per dormire?», mi domandò più tardi nascondendo uno sbadiglio dietro il palmo della mano.

«Mi piace la tua sottoveste», protestai abbassando una delle sottili spalline di raso blu che si era appena infilata.

«La prossima volta che passi da Tampa puoi andare a comprartene un paio in compagnia di Madre. Ora, la mia maglietta?»

«Nella metà sinistra della valigia. Fai attenzione a non mettere tutto in disordine», la ammonii.

Mi morsi la lingua quasi subito, ma ormai avevo parlato facendo la figura del perfezionista con la mania dell'ordine. La osservai alzarsi dal letto e zampettare in direzione della bassa cassapanca su cui avevo posato il mio trolley aperto.

«Tu hai dei seri problemi, lascia che te lo dica. Hai davvero ordinato i calzini per ordine cromatico? E questi cosa sono? Boxer?! Li hai piegati e riposti uno per uno dentro a quei sacchetti?»

Mi affrettai ad alzarmi e a raggiungerla. Allungai una mano e agguantai la prima maglia a maniche corte che trovai e gliela passai, afferrandola poi per le spalle e guidandola lontana dal mio bagaglio accuratamente sistemato seguendo le attente istruzioni di un monaco giapponese.

«Non ho intenzione di lasciar cadere il discorso...», mi prese in giro Felicity mentre si cambiava.

Mi rituffai tra le lenzuola e allungai le gambe, aspettando che avesse finito.

«E io non ho intenzione di approfondirlo», tentai di chiudere l'argomento.

Con uno sbuffo si accasciò sul materasso e si sistemò un cuscino dietro spalle. «Io posso accettare che tu metta in ordine di colore i miei abiti e che li ripieghi con l'ausilio di squadre e righello, se tu accetti che io non farò lo stesso per te», mi propose serialmente convinta della sua vantaggiosa offerta.

«Wow, come faccio a rifiutare una proposta così allettante? Una proposta che prevede che il caos assoluto nel mio armadio perché io sarò troppo impegnato a far fronte al tuo disordine, ore extra da pagare a Inés, un mio esaurimento nervoso e il fallimento della nostra prova di convivenza», la rimbeccai sarcastico.

Felicity ridacchiò e mi si girò su un fianco nella mia direzione. «Mmh, adoro il tuo pessimismo. Così come la tua ossessione per l'ordine e la tua totale ed assoluta dedizione al lavoro e al senso di responsabilità. Siamo così compatibili, praticamente anime gemelle!»

«Non mangerai sul divano più di una volta a settimana»

Lei ci pensò su un attimo e poi annuì. «In tua presenza, quando sarò da sola mangerò dove più mi aggrada, anche nella vasca da bagno volendo. Ok, allora tu non rientrerai dall'ufficio più tardi delle otto diciamo...almeno tre giorni su cinque?»

Mugugnai contrariato. «E se ci fosse un'emergenza o un contrattempo?»

Allungò una mano e mi diede un buffetto sulla guancia. «Hai insistito così a lungo affinché avessi anche io un telefono cellulare: ora utilizzalo!»

«D'accordo. Non vedremo le rispettive famiglie tutti i mesi, Arabella esclusa»

«Assolutamente d'accordo! Anche se non posso garantire su mia Madre: adora Boston e adora te...», mi ricordò rammaricata.

L'idea di visite a cadenza settimanale da parte di Grace Van Houten mi terrorizzava leggermente, ma, nonostante fossi in vacanza, non mi ero dimenticato della proposta di suo marito Montgomery. Gli avevo chiesto il mese di agosto per riflettere sul da farsi, ma fino ad ora erano passate quasi due settimane e io non avevo dedicato neanche un pensiero superficiale alla questione. Arabella era sempre euforica ed iperattiva, occupava le mie giornate e mi sfiancava da mattina a sera. Voleva andare sull'altalena, imparare ad usare l'hula hoop, costruire castelli altissimi con le carte, distruggerli e poi ricostruirli da capo, andare alla piscina comunale e salire su tutti gli scivoli d'acqua mai inventati, cucinare con sua nonna, fare le battaglie con i cuscini e mangiare ottantatré ghiaccioli rossi al giorno lasciando dietro di sé scie appiccicose di acqua zuccherata e macchiando qualsiasi cosa. Tenere il suo passo era un lavoro a tempo pieno, e da quando era arrivata Felicity faticavo anche a trovare pace nelle ore notturne.

«Ti sforzerai di non estraniarti dalla realtà perdendoti nei tuoi pensieri ogni volta che saremo nel bel mezzo di una discussione...», intervenne Felicity stringendomi delicatamente una mano per richiamare la mia attenzione.

Abbassai lo sguardo e incontrai i suoi occhi nella penombra, mi sorrideva timida e leggermente perplessa.

«Perdonami...», sussurrai riscuotendomi.

Sentii le lenzuola frusciare e la sua pelle bollente aderire contro le mie gambe. «A cosa stavi pensando? Avevi la fronte tutta aggrottata...», mi domandò facendo scorrere lieve le dita sulle rughe che mi si formavano appena sopra la radice del naso ogni volta che mi concentravo senza successo su qualcosa.

Le avevo già raccontato tutto sul colloquio che avevo avuto in quell'assurda giornata di fuoco e lei si era limitata ad ascoltare e a dirmi che suo padre non le aveva mai accennato nulla. Avevamo concordato fosse giusto così, già il fatto che fossi fidanzato con la figlia di Montgomery Van Houten avrebbe potuto generare malelingue se avessi deciso di collaborare con lui e nessuno di noi due voleva compromettere in partenza il fragile equilibrio vita privata - vita professionale.

«Tu vorresti andare a Los Angeles e lavorare a questo caso?», riassunse lei giorni di dubbi amletici in una semplice domanda.  

Come sempre aveva ragione: era inutile fare mille giri pindarici e stilare infinite liste di pro e contro. La faccenda era molto più semplice: volevo farlo?

«Sì, mi piacerebbe molto, sarebbe un'occasione preziosissima»  

«Ottimo, ti sei risposto da solo», mi fece presente lei sorridendomi contenta.

«Non è così semplice e tu lo sai...», le ricordai mentre il mio cervello organizzava una presentazione Power Point con cui illustrare le mille diapositive di fallimenti e frustrazione in cui sarei incorso andando sulla West Coast.

«Almeno per i primi tempi mi dovrei fermare là e solo successivamente potrei staccarmi e volare là solo in corrispondenza di udienze ed incontri», iniziai ad elencare.

Felicity si strinse nelle spalle. «Ok, mi mancherai tanto ma sono abituata a vivere da sola. E poi esistono Skype e FaceTime, troveremo un modo per sopravvivere ad una separazione temporanea», provò a rassicurarmi.

Non dubitavo di lei o di noi, ma ero consapevole che mettere alla prova con una distanza di miglia e miglia una relazione relativamente nuova non era una scelta particolarmente felice. Probabilmente lo sapeva anche lei, ma non si sentiva in diritto di chiedermi di restare così come io non mi sentivo autorizzato a chiederle di mollare tutto e seguirmi.

«E lo studio?», chiesi ansioso di ricevere le sue rassicurazioni anche su questo punto.

«Diane organizzerà in modo impeccabile la tua agenda anche dall'altro capo del paese. In più Kenneth ed Eva non vedono l'ora di avere più responsabilità e faranno un lavoro splendido, anche con Joanne in maternità e tu lontano. Continuerai a svolgere il tuo lavoro di sempre, solo che dovrai delegare di più e non riuscirai a partecipare in prima persona a tutto l'iter giudiziario dei tuoi clienti»

Anche su questo punto trovare degli argomenti a sfavore era difficile. Avevo messo a punto, con gli anni e una formazione di alto livello, un team di professionisti veramente in gamba che ormai lavoravano in modo autonomo ed ineccepibile anche senza di me. Se da un lato mi sentivo alquanto orgoglioso, dall'altro avevo la sensazione di essere superfluo si faceva strada e mi spronava a cercare nuove sfide da intraprendere. E Montgomery me ne aveva offerta una di prima categoria.

«Sarai più vicino ad Arabella, io non scapperò, il tuo studio porterà avanti il tuo lavoro facendo sempre riferimento a te in caso di problemi e nel giro di qualche mese tutto tornerà come prima»

Le afferrai il mento e la costrinsi a guardarmi negli occhi. «Vorresti che rimanessi ma non sai come chiedermelo?», le chiesi scrutandola attentamente.

Felicity mi sorprese come sempre e scoppiò a ridere, gettando la testa all'indietro e liberandosi dalla mia presa.

«Liam, non sono quel tipo di persona. Sono assolutamente trasparente, mi si legge tutto sul viso, anche quello che vorrei celare è lì, un manifesto dipinto sul volto pronto per essere decodificato da tutti. Io voglio che tu faccia ciò che ritieni sia meglio per te, non per me. Anche se, ad essere completamente onesta, credo proprio tu dovresti cogliere questa opportunità. Noi sopravviveremo, il tuo studio anche, e tu ne uscirai vincitore e noi con te», mi sussurrò circondandomi con le sue braccia e facendomi appoggiare la testa sul suo seno.

«Andrà tutto bene?», le chiesi, la voce soffocata dal cotone della mia t-shirt che stava indossando.

Lei ridacchiò e io sentii le sue risa amplificarsi nella sua cassa toracica e giungere gioiose ma attutite al mio orecchie posato accanto al suo cuore. «Andrà tutto benissimo», mi assicurò chinandosi e lasciandomi un bacio sulla tempia.


Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** EPILOGO: Le rose sono fiorite ***


«Lily? Dove accidenti ti sei cacciata? Lily? Dai, basta giocare a nascondino, è quasi ora di cena e dobbiamo rientrare»

Era da più di un quarto d'ora che Liam percorreva in lungo e in largo l'ampio giardino non recintato che circondava la casa dei Carter Wright. Il sole stava calando, chiaro segno che le sette di sera erano dietro l'angolo così come i rimproveri che lo attendevano se non avesse scovato sua figlia nel giro dei successivi trenta secondi.  

Una risatina soffocata gli giunse alle orecchie e per un attimo pensò di essersela sognata. Sull'orlo della disperazione decise di seguire anche quell'ennesima traccia e si diresse verso la serra, nonostante l'avesse già controllata e perlustrata con attenzione per ben due volte nei precedenti venti minuti.

Una volta aperta la porticina trasparente che introduceva all'interno, stando attento a non farla cigolare, Liam si addentrò nell'aria satura di umidità e dopo poco la udì nuovamente. Una risatina infantile, leggera e cristallina. Seguì il suono e scovò sua figlia, le piccole manine paffute premute contro la bocca nel tentativo di smettere di ridere, i calzoncini gialli macchiati d'erba e le ginocchia ricoperte di graffi.

«Lily!», esclamò sforzandosi di sembrare autoritario e non cedere subito e abbracciare quella creaturina dispettosa.

«Papino!», strillò lei in risposta.

Lily aveva quattro anni, una testa di capelli biondissimi e due occhioni furbi. Era assolutamente imprevedibile, adorava stare all'aria aperta e aveva un'insana passione per fare impazzire i suoi genitori volatilizzandosi e nascondendosi ogni due per tre.

«Cosa ti aveva detto la mamma?», le ricordò lui allungando le braccia e afferrandola sotto le ascelle per sollevarla dai sacchi di terriccio su cui si era sistemata usandoli come cuscini. 

La bambina si aggrappò al collo di suo padre e fece una smorfia mentre pronunciava le parole che le erano state dette qualche oretta prima. «Lily deve restare vicino, non deve sporcarsi e...Lily non se lo ricorda più. Papi, quale era l'altra cosa?»

Avevano provato invano a toglierle l'abitudine di parlare di sé in terza persona, ma fino ad ora avevano fallito tutti quelli che avevano tentato.

«Di tornare a casa quando il cielo iniziava a diventare arancione, che dobbiamo farci un bel bagnetto prima della cena di stasera», le ricordò caricandosela sulle spalle e incamminandosi verso casa.

Casa che negli ultimi tredici anni era passata da vecchia fattoria abbandonata dei nonni a villa restaurata, ampliata ed in continuo mutamento. Le pareti esterne erano bianche, con le ante laccate di rosso e il tetto spiovente. Ci erano voluti anni per renderla la casa perfetta per le loro esigenze e tutt'ora c'era sempre qualche piccolo lavoro in corso.

«C'è Lalabella?», si informò la bambina, le manine impegnate a scompigliare i capelli di suo padre.

«Tesoro, reggiti bene al mio collo ché altrimenti rischio di perderti per strada e poi la mamma mi fa andare a letto senza cena!»

«Pà! Mi puoi portare a casa di Meg stasera? Mamma dice che posso andarci domani o far venire qui lei, ma noi non abbiamo la tv via cavo! Pà! Posso andare? Mi ci porti tu? Dico alla mamma che ho il tuo permesso?», Liam venne preso alla sprovvista dall'attacco della sua figlia undicenne con manie di grandezza.

Iris non riusciva a rassegnarsi all'idea di non avere ancora l'età per uscire da sola, mettersi il reggiseno imbottito, guardare Game of Thrones e possedere un telefono cellulare. Passava le giornate a dare il tormento ai suoi genitori perché voleva organizzare un pigiama party tutte le settimane, perché la sua amica Meg aveva il permesso per andare in bicicletta da sola sulla strada e lei no, perché non voleva più condividere la stanza con sua sorella Lily quando quel - sue testuali parole che ogni volta le facevano guadagnare una ramanzina - decerebrato di suo fratello aveva tutta la mansarda per sé e le sue orribili creature.

Purtroppo Liam era abbastanza onesto da ammettere che Iris era la figlia che gli assomigliava di più con la sua ambizione, il suo aspirare sempre a qualcosa di più e il suo non darsi mai pace fino ad obiettivo raggiunto. Vedeva la placidità di suo figlio Louis e lo invidiava, lui con la sua calma, il suo buon carattere e il suo prestarsi sempre di buon grado alle torture delle sue sorelle femmine.

«Mammina! Ecco, Lily è tornata!», strillò la più piccola dritta nel timpano di suo padre.

Quel giorno Felicity compiva quarant'anni, aveva i fianchi leggermente più morbidi rispetto a tredici anni e tre gravidanze prima, aveva qualche filo d'argento tra i capelli sempre biondissimi e aveva perduto il suo fido consigliere George il pesce rosso qualche tempo prima, ma per il resto era rimasta immutata. Indossava ancora salopette, si entusiasmava sempre per tutto e faceva filare la famiglia Carter Wright con amore e un polso sorprendentemente più fermo di quello di Liam, che alla fine si era dimostrato il cuore tenero della coppia.

Liam aveva insistito a lungo per convincerla ad uscire a festeggiare, risparmiandole l'onere di dover cibare venti persone e poi rassettare tutto, ma lei aveva insistito e come al solito lui aveva ceduto. Si era preso il pomeriggio di permesso, nonostante le vivaci proteste di Felicity, si era infilato il grembiule e aveva preparato gli antipasti, i contorni e la mastodontica torta al cioccolato a tre strati che in casa loro era il dolce per eccellenza. In più aveva recuperato Iris dal corso di karate e Louis dal museo di scienze naturali, tenuto a bada i molteplici tentativi di assalto alla torta di Lily, rassicurato sua suocera Grace che sì, avevano tutto sotto controllo e la cena era confermata per un quarto alle otto e proibito a sua sorella Judy di regalare una coppia di porcellini d'India alla festeggiata. 

Felicity in quel momento era impegnata con l'arrosto e il suo unico figlio maschio, il quale aveva un'insana passione per gli animali selvatici, soprattutto insetti ed aracnidi, per la gioia delle sue sorelle. Aveva una mano infilata in un grande guanto da forno trapuntato mentre nell'altra reggeva un vasetto della marmellata ricolmo di un'acqua verdastra dentro cui nuotavano quelli che parevano dei girini giganti.

«Lou, questa è una cucina non uno zoo! Non posso mettere a bagno questi animaletti nel lavello insieme ai piatti e alle posate che usiamo per mangiare. Perché non mi fai un favore e vai a...Oh, perfetto! Chiedi a tuo padre se puoi metterli nella vasca da bagno, va bene tutto basta che li porti lontano da qui», strillò mollando in mano a Liam l'orrido vasetto e lanciandosi verso il forno proprio mentre il timer a forma di ranocchia iniziava a trillare impazzito.

Iris però non aveva nessuna intenzione di collaborare e così si piazzò sulla traiettoria di sua madre, parandosi davanti al forno e impedendole di salvare l'arrosto. «Mamma! Ti prego, ti prego, ti prego: posso andare da Meg?», iniziò ad uggiolare.

«Mammina! Guardami, Lily è arrivata! Ha macchiato i pantaloni, che stupidina!», ridacchiò Lily scalciando per farsi liberare da suo padre e iniziando a correre verso il forno e la sorella maggiore.

Louis nel frattempo si era aggrappato al braccio di Liam e guardava con occhi colmi d'amore il barattolo in possesso di suo padre.«Mamma, papà! Loro sono miei amici, non possiamo abbandonarli nel laghetto! Non possiamo: qualche pesce se li mangerebbe!»

Felicity non fece una piega, rivolse solo uno sguardo carico di sottintesi a Liam, aggirò le figlie e portò in salvo il suo maestoso arrosto su tappeto di tian di verdure cucinato seguendo alla lettere le regole della cucina francese.

Capito al volo il segnale, Liam si schiarì la voce e tuonò: «Tutti fuori dalla cucina. No, niente proteste, forza!»

Incalzò Iris che stava già iniziando a prendere fiato per inscenare un teatrino con tanto di discorso melodrammatico e arringa finale, degna del miglior avvocato sulla piazza, eh già era propria figlia sua. Afferrò la mano di Lily e la guidò gentilmente verso l'ingresso e le ampie scale in legno che conducevano al piano superiore.

«Iris, chiama Meg e chiedile se vuol venire da noi a mangiare il dolce. Prendere o lasciare, tu non te ne andrai da nessuna parte. Lou, i girini nella vasca da bagno non ci possono stare, aspetta mezz'oretta e poi vengo ad aiutarti a cercare la vecchia boccia di George giù in cantina. E tu signorinella mia, forza a fare il bagno!», esclamò acchiappando Lily prima che avesse il tempo di registrare l'informazione che sarebbe stata immersa in acqua e sapone e avrebbe ricevuto una bella ripulita di lì a poco e darsela a gambe. Era incredibile l'avversione di quella bambina per l'acqua e l'igiene personale.

La bocca di Iris si aprì in una muta protesta, ma subito si richiuse di fronte allo sguardo ammonitore di suo padre e se ne andò trascinando i piedi in salotto in direzione del telefono di casa. Louis parve soddisfatto della soluzione propostagli e si avviò tranquillo con il suo barattolo verso il portico sul retro.

«Lily non vuole il bagno», mugugnò scontenta la piccoletta, mentre Liam si incamminava su per le scale.

Avevano ben quattro camere da letto, ma Liam e Felicity convenivano sul fatto che la convivenza tra sorelle fosse fondamentale e così facevano orecchie da mercante di fronte alle continue lamentele della loro primogenita. Era chiaro che condividere i propri spazi con una bambina di quattro anni con la tendenza a parlare da sola di sé stessa ad alta voce non doveva essere una passeggiata per una quasi ragazzina sulla soglia della preadolescenza, ma il punto era costringerle ad aiutarsi a vicenda, a prendersi cura l'una dell'altra e ad imparare a spartire e a non essere terribilmente gelose di ogni minima cosa.

L'accordo prevedeva che con al dodicesimo compleanno Iris ricevesse sia un telefono cellulare, che le sarebbe stato ritirato mentre era a scuola e nel pomeriggio durante il tempo dedicato ai compiti, sia una camera tutta per sè.

Lily ne avrebbe sofferto, ma la sua memoria breve l'avrebbe aiutata a superare il distacco e ad imparare a dormire da sola.

I bambini condividevano il bagno più ampio che affacciava sul giardino posteriore, dotato sia di un'ampia vasca da bagno sia di una doccia di ultima generazione con luci e radio, sfruttata fin troppo da Iris. Quest'ultima passava mezz'ore intere sotto il getto d'acqua calda, le ultime hit musicali a tutto volume e il vapore denso che appannava tutto. A nulla servivano i continui richiami di sua madre o le minacce di suo padre di impostare un timer che dopo cinque minuti facesse cessare automaticamente l'erogazione d'acqua obbligandola ad uscire dal box. Louis non fiatava mentre veniva cacciato a lavarsi e adempiva ai suoi compiti in modo rapido ed efficiente, nonostante detestasse con tutto sé stesso il doversi lavare i denti e spesso mentiva al riguardo quando i suoi genitori gli ponevano la solita, vecchia domanda «Ti sei lavato i denti?».

Nessuno però batteva Lily, che strillava come una sirena per essere messa nella vasca, schizzava acqua dappertutto, svuotando il contenuto della vasca sul pavimento e si rifiutava di stare ferma mentre le insaponavano i capelli, per poi puntualmente piangere disperata quando lo shampoo le finiva negli occhi.

«Papino, possiamo giocare con i cavallini ma dire a mammina che Lily si è fatta il bagnetto?», propose allarmata Lily non appena vide stagliarsi di fronte a sé la porta socchiusa dietro la quale si intravedevano le piastrelle rosa del bagno dei bambini.

Liam affrettò il passo e ringraziò il cielo di aver avuto la fortunata idea di indossare una vecchia t-shirt che gli aveva regalato Matt ai tempi del college. Presto, molto presto, si sarebbe ritrovato immerso fino al collo nell'acqua saponata.

«No, non possiamo perché noi non diciamo le bugie. Vuoi davvero farti vedere dai nonni tutta ricoperta di terra e con i vestiti sporchi?», le chiese cercando di distrarla mentre chiudeva la porta alle loro spalle e si allungava per aprire il rubinetto della vasca.

«A Lily non importa», si impuntò la bambina pestando un piede a terra.

«Alla Nonna Grace però sì, evitiamo di farle venire un colpo presentandoci con tre centimetri di sporco sotto le unghie, ok?»

La sola idea della reazione di sua suocera gli donò la forza necessaria a depositare sua figlia sul tappeto e dare il via a quell'impresa erculea.

«Lils, alza le braccia così sfiliamo la maglietta. Su, forza tesoro!», la pregò con voce flautata, inginocchiato di fronte a lei.

«NOOOOOOOO»

***

«Iris! Stanno suonando alla porta! Puoi andare tu?»

Felicity, le braccia immerse fino al gomito nell'acqua del lavello stava risciacquando i frutti di bosco e le fragole da aggiungere alla macedonia.

Non udendo nessuna risposta si appellò al suo secondogenito, solitamente il figlio più responsabile e servizievole dei tre.

«Lou! Vai tu, per favore!»

Il campanello suonò una seconda volta e poco dopo si udì un rumore di vetri infranti provenire dal retro.

Felicity si lasciò sfuggire un grugnito, afferrò un canovaccio e si diresse a passo di marcia verso la porta d'ingresso.

Erano le sette e venti, chi aveva avuto la malaugurata idea di presentarsi in anticipo cogliendo tutti alla sprovvista?

Iris era irrintracciabile, Lou doveva aver appena combinato un disastro, Lily strillava come un'ossessa dal piano superiore e lei era ancora vestita con quel vecchio prendisole color topo morto che le cadeva addosso come un vecchio sacco di patate.

Spalancò la porta e...ovviamente si trattava di sua madre Grace con Montgomery al seguito.

«Mamma! Cosa fai già qui?», la apostrofò Felicity squadrando sconsolata i suoi pantaloni a palazzo in seta fantasia e la sua blusa in candido pizzo.

Grace le scoccò un bacio sulla guancia e la superò entrando in soggiorno.

«Ho pensato avessi bisogno di aiuto. Ti ho portato lo champagne e dei canapè. Monty, vai subito a mettere tutto nel frigo! Iris è barricata sulla casetta sull'albero a parlare al telefono, non mi ha neanche salutata, benedetta ragazza! A che punto sei? Cosa sono queste urla? Perché sembri ancora la piccola fiammiferaia? Vuoi proprio dimostrarli tutti i tuoi quarant'anni, tesoro?»

Felicity sospirò e roteò gli occhi al cielo. Suo padre fece un passo avanti e lei si aggrappò al suo collo, abbracciando lui, tre bottiglie di Dom Perignon e un largo vassoio.

«Stasera è ancora più carica del solito», la avvertì divertito. «Auguri, piccola. Come stai?»

Sua figlia annuì e gli sorrise, sfilandogli dalle mani il vassoio e richiudendo la porta alle sue spalle.

Montgomery la seguì e sistemò nel frigorifero il suo bottino, come da chiare istruzioni di sua moglie.

«Zoe dice che forse farà tardi. Non chiedermi il perché, lo sai che ormai non domando più nulla per paura delle sue risposte», frenò in anticipo l'interrogatorio di sua figlia.

«Mamma! I miei girini! Aiutatemi, qualcuno mi aiuti!», la voce disperata di Lou irruppe nella cucina facendo accorrere nel portico sul retro tutti e tre gli adulti presenti.

«Louis! Dì alla nonna cos- Oh, oddio CHE SCHIFO!», si bloccò senza preavviso Grace, la sua buona volontà frenata dallo spettacolo che le si parò davanti agli occhi.

Louis, ricoperto di acqua melmosa, se ne stava in ginocchioni tra una pioggia di vetri frantumati nel disperato tentativo di salvare le decine di girini che si dibattevano morenti sulle assi di legno del pavimento.

«Louis, dove hai trovato quella boccia?», chiese Felicity.

«Per l'amor del cielo, vieni via da lì, è pieno di vetri! E cosa sono quegli esseri?», esclamò isterica Grace, facendo scricchiolare i vetri sotto la suola dei suoi sandali azzurri e afferrando il braccio del nipotino per trarlo in salvo.

Quest'ultimo però non parve apprezzare e si liberò dalla presa, iniziando a singhiozzare. «Vi prego, aiutateli! Sono miei amici, non fanno schifo! Per favore...», e si lasciò cadere nuovamente sulle ginocchia affannandosi nel tentativo di afferrare un piccolo girino che si agitava impazzito.

Felicity si riscosse e ordinò a suo figlio di allontanarsi dai vetri mentre lei cercava una scopa e una paletta. Non fece in tempo a fare un passo perché suo padre riapparve con una scopa e un colino in una mano e una vaschetta di gelato piena d'acqua nell'altra.

«Non muoverti Lou, fai fare al nonno», mormorò prima di passare la scopa a sua figlia e chinarsi armato di colino catturando una coppia di esserini e lasciandoli cadere nell'acqua cristallina della scatola in plastica trasparente.

La scopa venne ceduta con poco garbo a Grace mentre sua figlia, dopo essersi assicurata che i nonni avevano in mano la situazione, fuggiva alla volta della cucina borbottando qualcosa a proposito di pane tostato e cipolle caramellate.

Felicity accese il più grande dei fornelli e versò un filo d'olio all'interno di un'ampia padella. Mildred e i suoi suggerimenti in tema di ricette italiane le avevano stravolto la vita. Certo, Matt e Liam adoravano lamentarsi del fatto che le loro mogli li avrebbero lasciati in bolletta a forza di acquistare Parmigiano Reggiano, pomodori Pachino IGP, bottiglie di Barolo e mozzarelle campane, ma nessuno aveva mai osato aprir bocca di fronte ad una generosa porzione di lasagne alla bolognese. Ci erano voluti svariati tentativi, ma alla fine era riuscita ad ottenere un piatto che la soddisfacesse davvero e non le facesse temere così tanto di stare insultando la tradizione italiana.

Aggiunse le cipolle precedentemente tagliuzzate tra lacrime e occhi rossi e abbassò il livello della piastra. Diede un paio di mescolate con il cucchiaio di legno dopodiché coprì il tutto con un coperchio e si affacciò dalla finestra che dava sul giardino davanti.

Sua figlia Iris se ne stava seduta con le gambe a penzoloni sulla piattaforma di legno della casetta sull'albero che Liam aveva fatto costruire dieci anni prima proprio per la loro primogenita.

Chiacchiereva fitto fitto, il viso premuto contro il telefono e una mano impegnata ad arrotolarsi i capelli intorno alle dita. Stava cambiando fisionomia: i tratti da bambina si stavano lentamente trasformando in un viso da ragazzina. D'altronde l'atteggiamento da piccola adolescente c'era già tutto.

Ultimamente Felicity si era ritrovata troppo spesso ad impersonare il ruolo di genitore carabiniere, ma non aveva nessuna intenzione di perdere la battaglia contro la pubertà e la turbolenza della maggiore dei suoi figli.

«Iris! Saluta Meg, scendi da lì e vieni a salutare i nonni!», le urlò dalla finestra.

La ragazzina alzò il capo e per un istante incrociò lo sguardo ammonitore della madre, prima di riabbassarlo e riprendere la sua chiacchierata al telefono.

La tattica del fare le orecchie da mercante era un must in casa Carter Wright. La utilizzavano Liam e Felicity quando i loro figli con i loro capricci diventano petulanti, se ne serviva Iris per continuare a fare ciò che i suoi genitori le avevano appena ordinato di non fare, ne faceva ampio uso Louis quando contravveniva alle chiare regole che venivano imposte alle sue esplorazioni lungo il torrente e al nascondere animali di ogni genere sotto il letto e quando si parlava di bagno o doccia Lily era la principessa della sordità a gettone.

La porta d'ingresso si aprì e si richiuse con un tonfo e poco dopo Zoe si palesò in cucina, al suo seguito il suo sempre più pallido amico Johannes e una Judith sorridente e carica di sportine e pacchetti.

«Tanti auguri!», strillò quest'ultima scansando i due angeli della morte e travolgendo Felicity di baci sulle guance e affetto incontenibile.

«Ben arrivati! Grazie mille, cara! Ciao Johannes. Zoe, come mai sei in anticipo?»

I pacchi vennero depositati sul tavolo dei regali, la bottiglia di tequila venne fatta sparire prima che a Zoe o al suo amico venisse la malsana idea di farsi un paio di shottini e di offrire un bicchierino anche ai bambini e gli ospiti furono condotti sul retro dove i girini erano stati tratti in salvo e Louis aveva ritrovato il sorriso.

«Zie! Venite a vedere cosa ho trovato oggi pomeriggio giù allo stagno!», esclamò al colmo dell'entusiasmo il bambino supportato dal nonno.

Judy accorse allegra e ne approfittò per schioccare un bacio sulle guanciotte del nipotino. Zoe roteò gli occhi e sbuffò, «Judith e Arabella ci hanno visto sulla tangenziale e ci hanno caricato in auto...», borbottò mentre Johannes alle sue spalle annuiva lugubre.

«Arabella? Dov'è? Non doveva arrivare con -»

«In teoria sì, ma ieri sera la zia mi ha portata ad un concerto e abbiamo fatto tardi e così sono rimasta da lei invece che tornare in albergo con i nonni. Buon compleanno, F! Sono così contenta di vederti», Arabella spuntò alle loro spalle arrivando dal giardino e gettò le braccia al collo di Felicity.

Ormai aveva diciassette anni, era alta e bellissima, aveva i colpi di sole e indossava un corto abitino di jeans. Si era diplomata quell'estate e nel giro di tre settimane si sarebbe trasferita definitivamente a Boston per iniziare il college.

Tiffany non l'aveva presa per niente bene, aveva accusato Liam di aver circuito loro figlia e Felicity di averle fatto il lavaggio del cervello e di aver tentato di farle da madre. Avevano ignorato i suoi deliri e avevano accolto con gioia immensa la notizia. Liam si era subito offerto di ospitarla a casa Carter Wright, ma giustamente la ragazza aveva preferito optare per una stanza nel campus anche se aveva promesso che nei weekend avrebbe approfittato dell'ospitalità del padre e dell'ottima cucina di Felicity.

«Chi manca ancora? I nonni e...? Inizio ad avere fame!», domandò Iris, la voce scocciata e lo sguardo annoiato.

Felicity sciolse il suo abbraccio con Arabella, lasciandola libera di andare verso sua sorella e tentare di salutare anche lei.

Ovviamente non ci riuscì. Iris, da un anno a questa parte, aveva iniziato ad inscenare una sorta di competizione con Arabella. I suoi genitori avevano subito intuito che loro figlia voleva solo cercare in tutti modi di assomigliare alla sorella maggiore, studentessa liceale che usciva la sera e guidava la macchina, ma che invece di ammettere la sua invidia aveva iniziato a mostrarsi insofferente al solo sentire nominare Arabella.

«Dovrai avere pazienza, Iris. Oltre ai nonni mancano all'appello ancora Matthew e famiglia, Donnie e Ruth», spiegò Felicity lanciando un'occhiata alla povera Arabella, il cui affetto fraterno era appena stato respinto con grandi smorfie di disgusto.

La scatola dei girini stava per essere riaperta perché Louis voleva mostrare da vicino i suoi esserini alla zia Zoe e Grace stava prendendo fiato per dare il via all'ennesimo terzo grado nei confronti del povero Johannes.

«Che ne dite di un bel bicchiere di vino fresco mentre aspettiamo gli altri ospiti?»

La proposta della padrona di casa venne accolta con esclamazioni di entusiasmo e così la compagnia si spostò in direzione della veranda e del salottino in vimini mentre Felicity, seguita a ruota da sua madre e Judith, si dirigevano in cucina.

«Il vino è nel freezer, mi sono dimenticata di metterlo al fresco questo pomeriggio e così ho dovuto rimediare all'ultimo minuto. Qui ci sono i tuoi canapè, mamma. Questi sono i due vassoi con i salatini e nel secondo ripiano del frigorifero c'è il pinzimonio e la torta salata che ho già preparato e vanno solo serviti in tavola. Riesco a fare un salto di sopra a cambiarmi? Così controllo anche che fine hanno fatto Liam e Lily. Prometto di essere rapida rapidissima, grazie!», schizzò su per le scale approfittandone per sfilarsi il grembiule e la t-shirt che indossava e fiondarsi in bagno.

Terminò di spogliarsi e si infilò in doccia, senza aspettare che il vecchio scaldabagno facesse il suo lavoro, iniziò ad insaponarsi i capelli sotto il getto di acqua gelida. Riuscì a lavarsi in meno di cinque minuti, dopodiché si precipitò fuori e, avvolta in un asciugamano, caracollò in camera da letto.

Sbattè la porta alle sue spalle, mollò la salvietta fradicia sulla poltrona accanto al letto e avanzò veloce verso la cabina armadio in direzione del cassetto della biancheria.

«Liam! Dov'è Lily?», strillò spaventata quando appena svoltato l'angolo si accorse della sua presenza.

«L'ho lasciata tre minuti fa, pulita e profumata, ad ingozzarsi di canapè giù di sott- WOO! Posso essere il tuo regalo di compleanno?», sussurrò mollando la camicia che teneva tra le mani e raggiungendo in due falcate Felicity, che se ne stava ancora nuda sulla soglia.

La situazione poteva degenerare in fretta, dopo tredici anni insieme entrambi lo avevano ormai imparato, e così fu Felicity ad allungare un braccio per impedirgli di abbracciarla e farle perdere il controllo come succedeva sempre.

«Oh sì, sarai il mio regalo di compleanno per tutta la notte, caro. Adesso però non abbiamo davvero tempo, ci stanno aspettando quasi tutti al piano di sotto e-»

Lui non le lasciò la possibilità di portare a termine la frase perché chinò la testa e la baciò facendola indietreggiare contro la parete.

Felicity, da sempre molto brava a predicare e molto meno a razzolare, gli cinse il collo con le braccia e si spalmò contro il petto di lui.

Dopo qualche manciata di secondi Liam si staccò da lei e sospirò. «Buon compleanno, tesoro»

Felicity sorrise felice e si rialzò sulle punte dei piedi per raggiungere nuovamente le sue labbra.

«Più tardi, più tardi avremo tutto il tempo. Ora mettiti quel vestito meraviglioso che ti sei comprata e andiamo a festeggiare»

Dieci minuti più tardi, messi sotto controllo i bollenti spiriti, scesero le scale tenendosi per mano.

Felicity si era infilata un vestito leggero di impalpabile organza color malva, scelto da Liam perché gli ricordava quello rosa indossato la sera del sessantesimo compleanno di Montgomery l'anno in cui si erano conosciuti.

In veranda trovarono tutti ad aspettarli.

Grace seduta su una poltrona con Lily sulle ginocchia intenta a mangiare i canapè che il nonno Montgomery le passava di nascosto. Johannes impegnato in una conversazione riguardante la fauna degli Stati Uniti con Matthew e Nonno Carter Wright. Mildred, sempre meravigliosa nonostante gli anni trascorsi, che spiegava ad una Ruth molto incinta e molto spaventata e ad una Nonna Carter Wright piuttosto sdegnata come dopo aver partorito Gabe avrebbe voluto farsi chiudere le tube tanto dolore aveva provato al momento del parto. Iris che spettegolava senza sosta con Charlotte, la secondogenita di Matthew e Mildred, che alla fine non si era fatta chiudere le tube, mentre lanciavano occhiate divertire in direzione di Gabriel che non si stancava mai di provarci ed essere messo in ridicolo da una sdegnosa Arabella, che si rifiutava di prestare attenzione ad un ragazzino di ben due anni più piccolo di lei. Lou aveva trovato chissà dove una coppia di lombrichi e ora li stava analizzando con una lente di ingrandimento inginocchiato sul pavimento insieme a sua zia Judith e a Zoe che minacciava di calpestarli con il tacco del suo stivale nero.

Era la famiglia che avevano deciso di costruirsi in quei tredici anni insieme in cui si erano amati (molto), divertiti (molto moltissimo, come avrebbe Lily) e non si erano mai sposati.

Se son fiori fioriranno altrimenti...si aspetterà una nuova primavera e si avrà il tempo per riprovarci e ripartire!

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** EXTRA: Amanita Phalloides ***


Zoe

Quando ero una bambina mi piaceva osservare le persone che incontravo e ogni volta mi domandavo se fossero cattive. Credo che ciò sia nato da tutto quel parlare che Nonna faceva riguardo alla brutta fine che attendeva le persone cattive. Mi chiedevo se la bidella della mia scuola, l'insegnante di karate o l'autista dell'autobus fossero brave persone o, se una volta riposta la loro divisa, conducessero una seconda vita all'insegna della criminalità. Mi affascinava il lato nascosto e potenzialmente maligno che le persone nascondono. Immaginare che la fragile Mrs. Richardson dopo averci consegnato il latte andasse a casa a versare una piccola dose quotidiana di veleno per topi nella zuppa dell'odiato marito me la faceva sembrare più umana, più simpatica.

Ho raccontato questi miei pensieri ad una sola persona in tutta la mia vita ed ora essa si rifiuta di vedermi o farmi avvicinare a lei, nonostante tutti i soldi che avevo investito nella terapia psicoanalitica. Mi sorprendo ancora oggi di come funzioni la mia mente, ma ho smesso di chiedermi perché essa spaventi così tanto gli altri. Lo percepisco, l'isolamento mi piace non solo perché sono una solitaria. Non mi piace come mi fanno sentire gli sguardi degli altri, i loro giudizi silenziosi ma impietosi, le loro convenzioni a cui conformarsi per essere uguali a tutti gli altri, membri accettati e rispettabili della società. Ma quale rispetto? Tutti sempre a puntare il dito contro la diversità, contro qualsiasi cosa si discosti dalla nostra sbagliata concezione di cosa è normale o cosa non lo è. Tutto è normale, e al tempo stesso nulla. Non esiste la parola normale, perché non esiste un metro di giudizio universale per misurare la normalità di una cosa. Fahrenheit, Kelvin, Watt, Joule. Unità di misura valide globalmente, accettate e adottate da tutti. Nulla di tutto ciò si può applicare alla natura umana, siamo diversi e questo è bellissimo, è imprevedibile. E spaventa.

Oggi è il mio compleanno, festeggio trent'anni e spengo delle candeline immaginarie in solitudine. Vivo nel Maine da sei anni ormai e queste montagne sono diventate la mia casa, la casa che mi sono scelta. Nonostante la strada accidentata e impraticabile con la neve, nonostante il silenzio che a volte pare terrificante tanto rumore fa, nonostante la mia condizione di moderna Raperonzolo. Non l'ho mai ammesso, ma ho sentito la mancanza del mare per lungo tempo prima di abituarmi alla roccia, al ghiaccio e al profumo di pino. Faticavo a prendere sonno e ripensavo costantemente alla mia infanzia, quel periodo d'oro e zucchero filato che a volte mi chiedo se ho vissuto per davvero. Mamma era sempre la prima a tornarmi alla mente, con il suo appuntamento del venerdì dal parrucchiere e le sue mani sempre profumate che mi intrecciavano i capelli, mi lisciavano le pieghe sui vestiti e mi soffiavano il naso. A pensarci a posteriori quello era davvero un gesto d'amore, considerato il suo terrore per i batteri. Papà invece solitamente sorrideva e basta, facendomi trotterellare sulle sue ginocchia, che ricordo come assolutamente scomode, colpa della sua magrezza. Felicity invece correva, cadeva, si rialzava, ballava facendo ruotare la sua gonna rossa. Il mare si infrangeva, si ritirava e io infine riuscivo a prendere sonno.

Adesso non mi succede più, anche perché vado quasi sempre a dormire dopo le tre di notte e il mio sonno assomiglia più ad una perdita di conoscenza. Oggi sono stranamente riposata e le mie occhiaie sono di una delicata sfumatura indaco, invece del solito nero violaceo. Sembro quasi più giovane, nonostante l'anno in più con cui mi sono svegliata. Ho deciso giorni fa che oggi mi sarei presa una pausa dalla scrittura, così il mio computer giace ancora spento sulla scrivania e il telefono è offline, destinato a restare così fino alla mezzanotte. Non voglio ferire nessuno, perlomeno non le poche persone a cui provo a volere bene seppure nel mio modo strampalato e difficile, ma l'unico regalo di cui ho bisogno è un po' di pace. Pace che non sono riuscita pienamente ad avere negli ultimi tre mesi, con il mio soggiorno prima a Plymouth da Flick e poi a Tampa dai miei genitori, seguito da un susseguirsi di appuntamenti legati all'uscita del mio ultimo romanzo breve. Non mi piace molto, ho scritto di meglio, ma il mio editore ne era entusiasta e pare che le vendite siano alle stelle. Usare uno pseudonimo mi aiuta a tenere distante ciò che creo da chi sono veramente. Nei miei libri c'è sempre una parte di Zoe, ma non raccontano di Zoe, non sono Zoe. Quando le persone credono di conoscermi dopo aver letto uno dei miei libri io non posso far altro che aprirmi in uno dei miei celebri sorrisetti derisori. Io stessa non mi conosco; sono una, nessuna e centomila. Figurarsi cosa ne sanno gli altri.

Ora ho ripreso a lavorare al mio prossimo lavoro, ma ho ancora le idee confuse e la stesura della bozza procede a rilento. Mi hanno affidato un aiutante, nonostante i miei continui e poco cortesi rifiuti categorici. Non ci siamo mai incontrati, su questo punto sono stata irremovibile, ma devo ammettere che sa quel che fa. È disordinato, fattore che non ci aiuta nel lavoro, ma me lo fa sembrare più simile a me, e perciò più simpatico. Stamattina non mi ha ancora scritto, fatto insolito considerato che pare non dormire mai, ma normale se si considera cosa succederà oggi. Mi risponde ad ogni ora, corregge, revisiona e ricopia qualsiasi cosa nel giro di tre ore. È efficiente, riservato e l'unica cosa che mi ha rivelato di sé è il suo nome. Johannes. Gli ho riferito che lo trovavo un nome veramente brutto e ridicolo e lui mi ha solo detto di avere discendenze danesi. Da allora gli ho chiesto spesso se per pranzo avesse mangiato Smørrebrød o se qualcuno gli avesse letto La Sirenetta prima di andare a dormire, ma lui mi ha sempre ignorata facendomi irritare a dismisura. Quando le persone si offendono, si scandalizzano o mi rimproverano dopo una delle mie uscite al vetriolo io me ne compiaccio, contenta di aver scatenato una reazione. Ma se mi trovo di fronte ad un muro di gomma di nome Johannes mi ritrovo spiazzata, senza parole. Il che per me è una vera novità.

Sono solo le nove di mattina e già non so come impegnare il mio tempo. Solitamente scrivo, faccio lunghe camminate, leggo o vado giù in paese a fare scorta di libri e cibo poco salutare. Non arrivano tutte le ultime uscite alla piccola libreria cittadina e così negli ultimi anni mi sono dedicata principalmente alla rilettura dei grandi classici, che si sono rivelati una vera sorpresa. Amazon impiega delle ere geologiche a farmi recapitare gli ordini così solitamente inviavo lunghe liste di cose che desideravo o di cui avevo assoluta necessità a Felicity, la quale sbuffava per una settimana prima di iniziare a spuntare le voci della lista. Mia sorella però, nonostante la nostra infanzia condivisa e la nostra conoscenza quasi trentennale, continuava a tempestarmi di telefonate per domandarmi se il cioccolato lo volevo fondente al 100% o se mi potevo accontentare di quello al 98%.  Oppure sbagliava sempre ad acquistarmi i libri, scegliendo edizioni o traduzioni che notoriamente io detestavo. Da quando ho Johannes delego tutte queste faccende a lui, il quale mi risponde con un freddo 'ok' e nel giro di una decina di giorni massimo mi fa avere tutto quello che avevo richiesto senza mai farmi domande. Nell'ultima lista ho aggiunto la voce 'furetto' per metterlo alla prova e una settimana più tardi mi sono ritrovata tra le mani un peluche con un biglietto pinzettato alla coda. Con questo avrai meno responsabilità e meno probabilità di essere denunciata dal WWF per maltrattamento di animali. All'inizio non sapevo se ridere o arrabbiarmi, e così alla fine gli ho inviato dei ringraziamenti via email, dicendogli quanto apprezzassi la fiducia che riponeva nei miei confronti. Solo due giorni più tardi una domanda mi ha svegliato all'alba. Come faceva Johannes a sapere della storia di Giselle, la gatta di mia madre, che fece una brutta fine per colpa mia anni fa?

Gliel'ho chiesto nel nostro successivo scambio di messaggi e così ho scoperto che aveva conosciuto Madre. Credo di aver perso i sensi a quel punto e quando sono tornata in me, dieci tazze fracassate contro la parete più tardi, il mio telefono stava suonando e Felix si era ferito con i cocci di ceramica. Sono anni che proteggo la mia identità a costo della mia stessa vita, celandomi dietro uno pseudonimo, non raccontando mai nulla di me, avendo un doppio numero di telefono e una casella di fermo posta a quasi duecento miglia da dove abito davvero. Definire scomodo tutto ciò vuol dire semplificare ciò che davvero significa vivere nell'anonimato. Sono stata distratta una sola volta ed è successo tutto ciò. Devo aver dimenticato il mio telefono lavorativo in giro per casa un giorno mentre ero a Tampa e mia mamma ha risposto. Era Johannes. Johannes che di me conosceva solo il falso nome e la mia bibliografia. Johannes che ora sa che ho avvelenato un gatto, e con molta probabilità ed inconsapevolezza anche altre creature innocenti nel corso della mia vita. 

Non ho chiesto a mamma se gli aveva rivelato anche il mio nome di battesimo, principalmente perché la sto punendo per quello che ha combinato con un silenzio stampa che ormai dura da tre settimane. Ho quasi temuto che si presentasse alla mia porta, dopotutto è settembre e i colori autunnali del Maine sono veramente splendidi. Invece in cambio ho ricevuto solo un suo lapidario messaggio e altrettanto silenzio. Sei un'immatura. Non le ho risposto e ho continuato a fare la sostenuta. Con Johannes non potevo fare finta di niente però. Il non sapere quanto ne sapesse sul mio conto mi rendeva agitata, mi faceva sentire scoperta, vulnerabile. Devo ammettere che lui si è comportato in modo molto corretto, confessandomi che si è sentito molto a disagio nell'ascoltare le chiacchiere di mia madre, consapevole del patto di riservatezza non scritto che vigeva chiaro tra di noi. Non mi ha mai fatto domande, però non riuscivo a perdonargli il fatto di non avermi informata subito di quanto successo.

Ho pensato tantissimo a come comportarmi e alla fine ho deciso che dovevamo incontrarci, io avevo bisogno di vederlo in viso prima di congedarlo e raccontare alla casa editrice di quanto fossero superflui gli assistenti. In casa non ho quasi nulla, ma credo che un po' di gin allungato con dell'acqua frizzante andrà più che bene. Dopotutto è il mio compleanno e una sbornia non potrebbe che farmi bene, giusto per farmi dimenticare che persona sgradevole io possa essere a volte. Sono ancora in pigiama, o meglio con quello che io chiamo così. Questa maglietta di una vecchia maratona che di certo io non ho corso mi arriva quasi alle ginocchia e questi calzettoni a righe sono sopravvissuti a così tante lavatrici da non possedere più un vero colore. Non ho alcuna voglia di cambiarmi, di pettinarmi o di guardarmi allo specchio. Mi limiterò a lavarmi la faccia e i denti, adoro lavarmi i denti. Passo minuti interi a spazzolarmi in modo certosino entrambe le arcate dentarie, facendo attenzione a raggiungere anche i molari più posteriori. 

Quando suona il campanello io sto cercando di convincere Felix a mangiare dei cubetti di mango, uno dei pochi alimenti presenti in casa. È in ritardo e ciò mi irrita perché solitamente sono sempre io che mi faccio attendere. Mamma Grace, mi detesto ogni volta che penso con una punta di nostalgia a lei, dice che non ho considerazione per gli altri, che sono egocentrica e credo sempre che i miei bisogni e le mie esigenze siano più importanti di quelle degli altri. Non ci ho mai riflettuto troppo, so di avere un carattere terribile e non ci tengo davvero a scoprire quanto terribile sia. 

Non mi sono mai domandata che aspetto potesse avere Johannes, o che età. Nella mia mente era una presenza extracorporea con capacità organizzative fuori dal normale e una casella di posta elettronica. Poteva avere novantuno anni o tredici, l'importante era che facesse ciò che gli chiedevo di fare. Apro la porta dopo più di due minuti, giusto per fargli capire con quanta ansia stessi aspettando il suo arrivo, ma sulla soglia non c'è nessuno. In una scala da 1 a 10 al momento il mio grado di sopportazione è sottozero. Non avevo voglia di incontrarlo, mi ci ha costretta. Afferro il mio impermeabile giallo che mi fa sempre assomigliare a Georgie di It, mi infilo un vecchio paio di stivali di gomma ed esco nello spiazzo davanti a casa. Non c'è nessuna traccia umana, solo uno stupido scoiattolo che non appena mi vede fugge a gambe levate. Svolto sul lato destro ed è allora che lo vedo, stravaccato sul mio tronco di abete abbattuto da un fulmine tre anni fa. Sta fumando una sigaretta, incurante del fatto di trovarsi in una pineta, con i piedi su un tappeto di aghi di pino e nelle vicinanze di una casa di legno. 

Cretino, cretino, cretino. La mia mente si è impallata su quell'unico aggettivo perché non riesco a pensare ad altro. Quello non è il mio Johannes, quell'essere mezzo albino che sta gettando un mozzicone in mezzo alla boscaglia non può essere lui. Ha delle gambe lunghissime e scheletriche, avvolte in un paio di vecchi pantaloni neri tutti rammendati. Un corpo sottile e sgraziato, dinoccolato e pallido come la morte. Come me, mi ritrovo a pensare colma di orrore. Quando si volta smetto di respirare. Quegli occhi torbidi si fissano nei miei e non mi lasciano scampo. È come guardarsi in uno specchio. Le uniche differenze sono che lui è un uomo, è alto molti centimetri più della sottoscritta e pare poco più che ventenne. I suoi capelli sono così chiari da sembrare bianchi, come quelli di Felicity in estate. Come erano i miei da bambina, prima che iniziassi a tingerli senza pietà del color dell'inchiostro.

«Zoe?», chiede avvicinandosi. Non sorride, continua solo a scrutarmi negli occhi. 

Non ha ancora abbassato lo sguardo, né guardato oltre le mie iridi, nonostante la ridicola tela cerata e le mie gambe completamente nude ed esposte. Gli volto le spalle ed entro in casa, dopotutto quel gin si rivelerà utile. Soprattutto a stomaco vuoto.

Mi segue, sento i suoi passi cadenzati dietro di me, così come sento il sonoro tonfo che produce la sua testa nel momento in cui va a collidere con il cornicione troppo basso della porta d'ingresso. Non lo guardo, non mi interessa sapere se si è fatto male, dopotutto chi lo conosce? Devo solo licenziarlo, magari allungargli un paio di banconote dal momento che pare un senzatetto poco più che maggiorenne.

Quando torno a guardarlo lo trovo seduto tranquillamente sul divano, perfettamente a suo agio. Non mi ha chiesto il permesso per farlo e sembra terribilmente sicuro di sé, certamente sa il fatto suo, cosa che io non sapevo alla sua età.

«Quanti anni hai?», gli chiedo accoccolandomi sul pavimento, le spalle contro la vecchia poltrona in velluto. La bottiglia di gin stretta al fianco, giusto per evenienza.

«Ventiquattro. Tu?»

Sembra più piccolo. Forse sta mentendo, ma a che pro?

«Sono sicura che mia madre ti abbia spifferato addirittura il giorno del mio compleanno», borbotto acida.

Non so se l'ha fatto e questa mia mancanza di informazioni mi fa sentire in netto svantaggio.

«Esatto, è oggi. Non mi ha rivelato però il tuo anno di nascita, non che mi interessi davvero»

L'istinto di aggrapparmi ad una di quelle gambe eccessivamente lunghe e tirare fino a staccargliela mi pervade, ma decido di mantenere la calma. Sono sempre io quella che provoca, che porta gli altri a perdere ogni contegno e scoppiare, mentre io resto composta ed impassibile.

«Ottimo, cosa ti interessa allora?», gli chiedo deridendolo. 

Sono io la sua datrice di lavoro, sono io che sgancio il suo stipendio, mi ripeto per darmi un tono. 

Lui incrocia le gambe e nel farlo urta la pila di libri che si ergeva pericolante alla sua destra causandone la caduta. Vorrei ridere del suo essere maldestro, ma lo sono anche io e perciò mi risulta impossibile. Ho speso una vita intera a camminare strisciando i piedi, facendo cadere ciò che tenevo tra le mani, sbattendo contro ogni superficie della casa riempiendomi continuamente di lividi bluastri.

«Volevo vederti, almeno una volta. Per ora ti ho trovata piuttosto deludente», confessa guardandomi con uno sguardo di sfida.

«Rimarrai ancor più deluso allora quando saprai che ti ho convocato per darti il benservito. O non ti interessa neanche di questo?»

«I soldi non sono importanti», afferma scrollando le spalle.

La penso allo stesso modo da sempre, ma non posso convenire, non posso proprio. Sembra tutto un gigantesco scherzo. Johannes non era emozionato all'idea di incontrarmi, non era interessato a sapere cose di poco conto su di me, non è deluso dal fatto di essere improvvisamente disoccupato.

«Cosa lo è allora?»

«Tutto e niente. Le mie opinioni, la mia arte, la tua scrittura»

«Quale arte?», domando irritata.

Lui sorride ma non mi risponde, lasciando la mia curiosità insoddisfatta. 

«Perché sei venuto?» 

«Mi piace quello che scrivi, soprattutto come lo scrivi. Tutto qui, ma questo non significa che mi piaccia chi lo abbia scritto o mi interessi chi si cela dietro quello pseudonimo»  

«Eppure sei qui. Non ti dovrebbe interessare proprio nulla dell'autore, non dovresti neanche domandarti se ti piace o meno. L'arte e l'artista. Una persona di merda può creare una quantità di bellezza inimmaginabile». Non può immaginare quanto quel tema sia per me importante.

«E tu lo sei? Una persona di merda?»

«Quasi certamente, ma non creo nulla di particolarmente bello...»

«Non ho alcuna intenzione di contraddirti»

«Meglio così, detesto i fan ruffiani»

«Non mi definirei un fan»

«Non riuscirai ad offendermi, questo gioco l'ho inventato io»

«Ne sei sicura?», osa sfidarmi.

Lo ero fino ad un quarto d'ora fa, fino a quando non ho incrociato quegli occhi neri che brillano di sagacia e sfida. Non parla, ma è come se mi stesse urlando in pieno viso di metterlo alla prova.

«Ho voglia di camminare», esclamo all'improvviso. L'aria fresca porta sempre i suoi buoni frutta, o perlomeno questo è quello che ci raccontano. In ogni caso questa stanza mi sta facendo soffocare e ho bisogno di spazi ampi per riprendere fiato. Non ho nessuna intenzione di domandarmi perché ne ho bisogno, a volte l'ignoranza è una benedizione.

«Bé, io no», mi contraddice Johannes, comodamente spaparanzato tra i cuscini sfondati del divano.

Lo sta facendo apposta, mostrandosi ostile nella speranza di farmi infuriare. Ma io nella mia vita ho sprecato sufficienti scenate di rabbia, mal di pancia e pensieri omicidi per persone che non meritavano neanche un secondo delle mie nottate insonni o dei miei incubi. Neanche un millesimo di secondo.

«Questa è casa mia. Esco io, esci tu», scandisco il mio ultimatum facendo dondolare le chiavi di fronte al suo naso.

Non sono una persona amabile, chi mi conosce da sempre ha imparato ad accettarmi così come sono, mentre le nuove conoscenze solitamente evaporano alla velocità della luce. Pochi restano e sono abbastanza obiettiva da ammettere che la causa della loro dipartita sono solo e soltanto io, con i miei modi spesso bruschi e la mia lingua troppo pungente. Eppure solitamente sono solo me stessa, mentre con Johannes mi sembra di essere me stessa al cubo. Come se ogni mio difetto venga amplificato e ogni mio angolo aguzzo e pungente lo sia tre volte più del normale.

Ci siamo conosciuti virtualmente tre mesi fa e da allora lui si è comportato benissimo ai miei occhi, ovvero da psicopatico secondo il parere di una persona normale. Faceva il suo lavoro, era piuttosto schivo, glissava in modo esperto quando non voleva concedermi una risposta e dormiva poco e niente. Ora, nel vedere dal vivo le sue occhiaie, violaceo riflesso delle mie, mi rendo conto di quanto mi assomigli e del perché fosse resistito per tutto quel tempo sotto la mia guida.

Lo guardo alzarsi, troppo alto per aggirarsi in modo elegante e sicuro nella mia piccola casa in legno piena zeppa della mia robaccia. Mi segue fuori e osserva le mie mani affaccendarsi con la serratura. 

«Parli sempre a lungo delle mani nei tuoi scritti. Mani di carnefici, mani innocenti, mani con i polpastrelli macchiati di sangue...»

Nessuno se n'era mai accorto, nemmeno Felicity che solitamente è una lettrice attenta e - soprattutto - critica. 

«Parlano sempre tutti degli occhi. Gli occhi specchio dell'anima e storie varie. Credo che le mani siano più sincere», sussurro incamminandomi nel bosco dietro casa.

Un leggero pendio conduce ad una radura, dove solitamente passo la stagione estiva, cullandomi sull'amaca e provando a colpire più scoiattoli possibili lanciando pistacchi con la fionda. Solitamente finisce che io non centro neanche un bersaglio, mentre loro fanno indigestione di pistacchi.

L'ho scoperta solamente sette mesi dopo essermi trasferita, principalmente perché non appena acquistai la casa una frenesia, che non ho mai più sperimentato, mi colse e mi portò a settimane e settimane di prolifica reclusione. Nacque così il mio terzo romanzo, che tutt'ora resta quello di cui mi vergogno meno.

«Cosa raccontano le tue mani?». Mi ha seguita, ne ero certa. Io non gli avrei lasciato scampo, fossimo stati a parti invertite. Fiato sul collo, sempre. Fino alla vittoria finale. O all'annientamento reciproco.

«I miei molteplici e crudeli omicidi», lo zittisco, sedendomi a cavalcioni della vecchia panca di legno mezza ricoperta dal muschio, che trovai già in posizione anni fa al mio arrivo.  

«Bambini? Giovani fanciulle bionde nel fior fiore degli anni? Inermi signore anziane?»  

Mi ritrovo a reprimere un sorriso. 

Zoe, per carità, fai la seria per una volta. Prima o poi qualcuno ti crederà e nel giro di un battito di ciglia ti ritroverai rinchiusa a Guantanamo. Le parole di Madre mi rimbombano in testa.

«Principalmente giovanotti biondi e con un'altezza sopra la media...»

Potrebbe essere l'inizio di un romanzo horror. Dopotutto il Maine è la patria del caro vecchio Stephen King. Kilometri di abeti ed isolamento, due ragazzi che si detestano. Una lite, un attimo e una pietra colpisce l'osso occipitale con troppa forza. Sangue, perdita di coscienza. Cosa ho fatto? 
Dovrei prendere nota, magari se ne può ricavare un piccolo racconto per il mio blog.

«Ho letto la bozza dei primi tre capitoli che mi hai inviato ieri sera...»

Avrei voglia di chiedergli quando sia riuscito a fare ciò dal momento che è mattina presto e si trova disperso nel Maine. Avrà pure dovuto intraprendere un viaggio per arrivare fino a qua, no?

«E...?», lo incalzo, curiosa mio malgrado.

Scuote quella zazzera platinata e ride sommessamente tra sé. «Il sole della Florida non deve averti fatto bene»

Ottimo, ora sapeva anche che ero originaria della Florida e dove avevo trascorso le mie vacanze estive. Probabilmente avrei dovuto scrivere una guida a quattro mani con mia madre su come mandare a puttane un'identità anonima costruita con tanta fatica in quasi dieci anni.

«Cheerleader? Sul serio?», rincara la dose.

L'avevo detto che il lavoro procedeva a rilento e in maniera insoddisfacente, ma un conto è ammetterlo a me stessa, un altro sentirmelo sbattere in faccia da questa sottospecie di watusso ossigenato.

«Le ho sempre detestate», mi limito a commentare in modo un po' ottuso.

Che fine ha fatto la mia lingua tagliente dalla risposta sempre pronta?

«Dai, che sorpresa!», esclama ironico. «Posso provare a indovinare la descrizione della Zoe liceale?»

Non mi piacciono questi giochetti, soprattutto se riguardano la mia persona e non sono io ad averne il controllo.

«Non serve barare, immagino che mia madre ti abbia già fornito anche i più irrilevanti dettagli della mia sventurata gioventù», mi difendo nella speranza che decida di lasciar perdere.

«Purtroppo non ne ha avuto il tempo quindi sarà tutta farina del mio sacco». Si sistema di fronte a me sulla panca e mi fissa solenne prima di prendere fiato. «Allora, diciamo che ci troviamo in un esclusivo liceo privato di Tampa, più o meno dodici anni fa?»

«Più o meno», confermo evitando di spiegare che io il liceo dodici anni fa lo avevo già terminato. E che Montgomery Van Houten aveva spedito i suoi pargoli alle scuole pubbliche.

«Eri già ai tempi pelle ed ossa come ora, ma la tua carnagione era più dorata grazie alla continua esposizione al sole della Florida. Ti aggiravi arcigna per i corridoi, i capelli neri come era il tuo umore per la maggior parte del tempo. Ascoltavi musica distruggi timpani, piena zeppa di parolacce, e non avevi uno straccio di amico. Osservavi il mondo da lontano, colma di rabbia e risentimento, convinta di essere impegnata in una guerra solitaria contro il mondo. Ci sono quasi?»

Sorrido divertita. «Alla stesura della presentazione di un romanzetto young adult? Quando arriva il giocatore di football, il golden boy dell'istituto, che la conquista con un frappè alla ciliegia e una promessa d'amore eterno?»

«Stiamo sconfinando nell'horror così però...»

«...Honey, prima di te non sapevo cosa significasse amare. Sei stata tu, con i tuoi modi impacciati e le tue gote sempre rosse di timidezza, ad insegnarmi ad ascoltare il mio cuore...», improvviso stando al gioco.

Lui coglie la palla al balzo e si avvicina di più a me, scivolando in avanti sul legno della panca.

«...Nathaniel, io non so cosa dire. Ti ho sognato per così tante notti, nella tua divisa blu sgargiante, vincere il campionato studentesco e portarmi sulle tue spalle a festeggiare con i tuoi amici. Sognavo i tuoi occhi verdi e il tuo invito al ballo di fine anno, ma non mi ero mai spinta così in là da sperare di conquistare il tuo cuore irraggiungibile...»

Senza volerlo mi ritrovo intenta nel scambiarmi un sorriso con Johannes. «Chissà perché vanno così tanto di moda queste coppiette di adolescenti assolutamente irrealistiche. Le protagoniste femminili nella stragrande maggioranza dei libri sono delle totali imbranate, che cadono, si feriscono utilizzando le forbici dalla punta arrotondata a prova di Art Attack. E ovviamente sono delle turbo-secchie, sempre impegnate a diventare orbe sui libri e troppo sfigate per avere uno straccio di vita sociale, perlomeno prima dell'avvento del nostro eroe bamboccione...»

«...il quale ovviamente è alto, bellissimo e con un passato tormentato. O perlomeno con un genitore morto o un coinvolgimento in qualche giro poco raccomandabile. Molti tatuaggi e una moto. Può avere tutte le ragazze della scuola, ma lui no, lui sceglie la talpa studiosa tra tutte. Amore, scintille, ma purtroppo qualcosa minaccia di dividerli. Lei non mangia per settimane, la sua vita senza lui ormai è priva di senso. Lui nel frattempo fa a botte così a caso e si mette in pericolo. Poi capiscono che esistono solo in coppia, si ritrovano, scena di sesso descritta male, fine.»

Per essere due che disprezzano quei romanzetti ne sapevamo fin troppo.

Decido all'improvviso che quella tregua deve finire, riesco a percepire il lieve rumore del suo respiro e i palmi delle mie mani iniziano a formicolare. «Ottimo allora! Tu mi hai visto e io ti ho licenziato, entrambi abbiamo ottenuto ciò che volevamo. Ora proporrei di salutarci e andare ognuno per la propria strada», esordisco alzandomi in piedi ed indietreggiando di qualche passo.

Lui pare divertito dal mio repentino dietrofront, ma si limita ad alzarsi a sua volta e a valicare nuovamente il limite invisibile che sancisce l'inizio del mio spazio personale, nel quale preferirei che solo Jake Gyllenhaal entrasse.

 «Non pensare di potertela cavare così facilmente...», sussurra lui.

Alzo lo sguardo, in modo da poterlo fissare negli occhi nonostante la sua altezza notevole. Trovo due pozzi neri scintillanti di determinazione. Non lascerà perdere, continuerà a darmi il tormento finché morte non ci separi. Chi dei due ucciderà per primo l'altro, quella è una faccenda tutta da decidere.

«Addio, Johannes», lo saluto voltandogli le spalle e incamminandomi spedita tra gli alberi.

Una risata di scherno mi raggiunge. «A presto, Van Houten!», strilla, facendola suonare come una minaccia.

A presto un corno di rinoceronte! 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** EXTRA: Stella di Natale ***


Mildred e Matthew

«Comincio a pensare che in fondo mia madre non avesse del tutto torto...»

Come risposta ricevette uno sbuffo esasperato ed un'imprecazione soffocata.

«Lei me lo ripeteva sempre e io che mi ostinavo a non darle ascolto, bell'affare davvero!»

«Di cosa stai blaterando?»

«Della tua assoluta incapacità nel prenderti cura e provvedere alla sottoscritta! Sto blaterando di questo, Matthew!»

Erano trascorse ormai più di cinque ore da quando si erano lasciati alle spalle l'aeroporto di Milano Malpensa con la piccola utilitaria rosso fuoco presa a noleggio.

Al loro arrivo li aveva accolti un cielo plumbeo, minaccioso e una serie di raffiche di vento gelido e pungente, che aveva subito fatto loro maledire la scelta di mettere cuffie, sciarpe e guanti nei bagagli in stiva.

D'altronde avevano scelto l'Italia per il suo celebre bel tempo. Il meteo però da allora non aveva fatto altro che peggiorare, la neve aveva cominciato a scendere copiosa e il loro navigatore satellitare aveva iniziato a fare i capricci.

Adesso, ore più tardi, la neve non accennava a diminuire e la visibilità si faceva sempre più scarsa.

«Beh, se lo dice tua madre allora deve essere vero per forza! Quando mai quella donna si è sbagliata su qualcosa? Quando mai ha parlato a sproposito e senza cognizione di causa?»

Matthew era stanco, la notte precedente alla partenza aveva dormito poco e niente e aveva lasciato irrisolte a Boston un paio di importanti cause.

Non era abituato a guidare per lunghi periodi e soprattutto non in campagne sconosciute ed innevate nel Nord Italia.

«Qui ci siamo già passati un quarto d'ora fa! Quell'insegna rossa...la vedi? Stiamo girando in tondo, c'è troppa nebbia. Nessuna guida accennava a tutta questa nebbia, accidenti!»

«Vorrei ricordarti chi è stato a consigliarci di venire nell'assolata Italia nel mese di dicembre e per di più nella zona settentrionale...», borbottò Matt, rassegnandosi a mettere la freccia e fermarsi in una piccola area di sosta lungo quella strada nel bel mezzo del nulla.

«Mamma è sempre andata a Positano in giugno! Che ne poteva sapere lei di questa maledetta nebbia e di... dov'è che siamo?!»

Il navigatore comunicò loro che si trovavano approssimativamente in un punto imprecisato tra la Bassa Bresciana e il Cremonese. Luoghi che risultarono loro del tutto sconosciuti e mai sentiti.

«L'albergo è a Verona, quanto ci vorrà ancora?».

Mildred aveva preso la patente anni fa e da allora si era limitata a guidare solamente in quelle rare occasioni durante le quali il fidatissimo autista della sua famiglia era stato assente. Quando però, l'anno precedente, aveva finalmente acconsentito a sposare Matt e quest'ultimo si era rifiutato di mantenere un autista per scarrozzarla si era vista costretta a rimettersi alla guida.

Aveva così scoperto che guidare le piaceva da matti, soprattutto su strade poco frequentate e piene di curve pericolose. Nessuno però sembrava apprezzare le sue abilità alla Niki Lauda e così si ritrovava molto spesso relegata sul sedile del passeggero, impegnata a tenere il broncio alla persona al volante.

«Con questo tempo ci impiegheremmo troppo...», rifletté Matt, fissando quella densa cortina scura che li avvolgeva da tutti i lati e nascondeva alla loro vista qualsiasi cosa.

Mildred fece per aprire bocca, ma il marito la fermò precipitosamente. «No, non ti farò guidare. Non se voglio vivere abbastanza per festeggiare il nostro primo anniversario e fare ritorno in patria anche solo per dire per una buona volta a tua madre quanto avesse torto»

«Quanto sei noioso! Cosa vuoi fare? E non osare proporre qualcuna delle tue stupide idee da scout! Non dormirò in macchina, non andrò alla ricerca di legnetti e rametti e non scuoierò scoiattoli a mani nude, mi sono fatta fare la manicure solo l'altro ieri!»

«Io non ho mai scuoiato alcun tipo di animale!», si difese indignato Matt.

Lei alzò gli occhi al cielo. «Ma se tua mamma non fa altro che ripetere quanto fossi temibile? Tu, la sua giovane nutria con la fionda!»

«Marmotta»

«Cosa?»

«Giovane marmotta. Le nutrie non c'entrano nulla»

«Non sono la stessa cosa più o meno?»

«No, non lo sono. La marmotta è un animale che -»

Lei alzò le mani in segno di resa. «Non ricominciare con le tue tirate sugli animali»

«Pensavo che guardare con me i documentari della National Geographic ti avesse dato perlomeno le basi. Sai, distinguere un gabbiano da un pipistrello o un ippopotamo da un rinoceronte. Cose così...»

«Di solito dormo e tu neanche te ne accorgi. E poi basti già tu, no? Nella coppia tu contribuisci conoscendo la differenza tra nutria e marmotta e io parlando quattro lingue, risolvendo le situazioni spinose e probabilmente portando in grembo i tuoi futuri figli scout. Mi pare equo...»

«Mildred, cosa ci eravamo detti?», sospirò sconsolato.

Lei alzò gli occhi e incrociò i suoi. Nonostante la penombra erano blu, calmi e rassicuranti come sempre. Come lo erano stati la prima volta che li aveva incrociati al secondo piano della biblioteca di scienze naturali del campus dell'università, tre anni prima quando suo padre aveva avuto un infarto ed era stato salvato per il rotto della cuffia o il dicembre precedente, quando si erano scambiati le promesse in una Boston ghiacciata e bellissima.

«Devo smetterla di fare la stronza», pigolò sconfitta.

Le loro mani si intrecciarono al di sopra della leva del cambio - non gli era riuscito di ottenere un'auto automatica - e si strinsero forte.

Decisero di comune accordo, dopo innumerevoli discussioni, di cercare un albergo o qualunque cosa gli assomigliasse nelle vicinanze e fermarsi lì per una notte.

Il telefono di Mildred si era spento ore prima, con la batteria ridotta allo 0% dai suoi molteplici tentativi di fare shopping online sul sito di Victoria Beckham. Non avevano pensato ad acquistare una SIM italiana temporanea e così attivarono il servizio roaming, ben consapevoli del salasso economico a cui andavano incontro.

L'albergo più vicino risultò essere un affittacamere in un comune a un paio di chilometri di distanza di nome Fiesse, non c'era il link di alcun sito internet, ma un numero di telefono era segnato accanto all'indirizzo.

Matthew poteva pur avere una conoscenza enciclopedica a proposito del diritto e del mondo animale, ma le lingue straniere non erano mai state il suo forte. Inglese madrelingua, non aveva mai tentato di uscire dalla sua comfort zone, confidando sempre nella buona volontà altrui nell'apprendere la sua lingua, che fortunatamente era considerata l'idioma universale per eccellenza.

In quel campo Mildred lo batteva su tutti i fronti. Era stata allevata da una tata tedesca, aveva frequentato un collegio in Francia e aveva scritto la tesi a Firenze durante il suo ultimo anno di specialistica. Si destreggiava con disinvoltura tra le sue conoscenze linguistiche e non si stancava mai di approfondire e perfezionare le nozioni già in suo possesso.

«Cedo a te l'arduo compito...», affermò sollevato Matt, porgendo alla moglie il proprio telefono.

«Ovviamente...»

Le dettò il numero di telefono e successivamente ricontrollarono che fosse giusto e che il prefisso inserito fosse corretto.

Matthew approfittò di quel momento per studiare la vecchia cartina stradale che avevano trovato nella portiera del passeggero. Sarebbe bastato fare inversione, proseguire su quella strada fino all'intersezione con una statale e da lì prendere l'uscita sulla sinistra, poi alla seconda rotonda si doveva svoltare a destra e lì ci sarebbe dovuta essere la pensione.

«No, una notte. Una soltanto, sì, esatto. Stanotte, domattina ripartiamo. Mmh, mmh...no! Siamo in due...si, va bene tutto. Ok, perfetto! D'accordo, ci vediamo tra poco. Grazie mille! Ah sì, Signore e Signora Levinson. A dopo!». Mildred chiuse la telefonata e tirò un sospiro di sollievo.

«Fatto?»

Annuì soddisfatta. «Le tre camere in affitto sono già occupate dai loro lontani parenti arrivati per le feste natalizie o qualcosa del genere. Però fortunatamente hanno una piccola dependance e possono sistemarci lì per una notte...»

Poteva andare peggio, pensò Matthew, mentre rimetteva in moto l'auto e si apprestava a reinserirsi nella nebbia sempre più spessa.

Dieci minuti più tardi, dopo aver sbagliato per due volte l'uscita,  riuscirono a raggiungere la rotonda e a parcheggiare l'automobile in un piccolo parcheggio di fronte ad una farmacia.

Si riusciva solo ad intravedere la luce al neon verde della croce lampeggiante della farmacia, che segnava 1°C e li informava che erano le 22.07, dopodiché non si vedeva alcunché.

Uscirono dal caldo abitacolo e il respiro si mozzò loro a contatto con la gelida aria invernale. Recuperarono i bagagli e provarono ad avvicinarsi alla strada, alla ricerca di un cartello stradale o di un numero civico.

«Questo è il 7!», esclamò Matthew, rimuovendo un velo di neve dalla cassetta della posta dell'unica casa presente dal lato di strada della farmacia.

La pensione si trovava al numero 12, così attraversarono la strada deserta e si ritrovarono di fronte ad un citofono debolmente illuminato che recava impressa la scritta 'Affittacamere Luisa'.

Essendo un'ora tarda Mildred si rifiutò di suonare il campanello, nel timore di svegliare gli ospiti e si impuntò per telefonare e annunciare così il loro arrivo.

Passarono altri cinque gelidi minuti prima che il cancello venisse aperto e uno spiraglio di luce illuminasse il grande porticato della casa a tre piani.

«Buonasera, prego entrate. Benvenuti! Avete fatto fatica a trovarci? Immagino di si, con questa nebbia è praticamente impossibile spostarsi!», li accolse un'anziana signora dall'aria materna e gioviale.

Matthew non capì una parola e così si limitò a sorridere, grato per l'accoglienza e il calore che regnavano in quell'anticamera arredata con gusto alquanto rustico.

«Buonasera, grazie mille! È stato piuttosto complicato, ma ora siamo qui. Io sono Mrs. Levinson e lui è mio marito, purtroppo non parla e non capisce alcunché di italiano», si scusò indicando il consorte, impegnato a scaldarsi le mani vicino all'unico termosifone presente.

«Sbrighiamo subito le faccende burocratiche così vi lascio andare a riposare. Allora la dependance sarà un po' fredda perché non aspettavamo ospiti e abbiamo acceso il riscaldamento solo dieci minuti fa. Qui c'è la vostra biancheria per letto e bagno e un cestino con uno spuntino, ho pensato che forse non avevate avuto il tempo per cenare come si deve. Mi serve solo un documento d'identità, un paio di firme e...per una notte fanno 35€!»

La ringraziò e tradusse velocemente a Matthew.

«Ovviamente tu mi rendi partecipe solo quando si tratta di tirare fuori i soldi...», fu il suo unico commento.

Saldarono il conto, firmarono il registro e uscirono nuovamente nella tormenta per seguire la Signora Luisa nel retro del giardino.

Dovettero camminare per cinque minuti nella neve prima di riuscire ad intravedere le finestre debolmente illuminate di quella che pareva essere una graziosa casetta in legno dal tetto spiovente.

Altri cinque minuti e si ritrovarono da soli, attorniati dalle valigie, al centro di un ampio salone tutto pietra e legno di pino.

«Qui dentro si congela...», constatò Matthew, allungando una mano per tastare il calorifero vicino alla porta.

***

«Cosa credi di fare? Matt, non sei mai riuscito neanche a riparare la lampadina fulminata in soggiorno, figurarsi una doc-»

Il getto della doccia si aprì e iniziò ad erogare un'abbondante quantità di acqua gelida. «Dicevi?»

«Pff, la fortuna del principiante!», gli tarpò le ali lei.

Matthew fece per uscire dalla vasca da bagno quando, del tutto senza preavviso, il miscelatore della doccia impazzì iniziando a comportarsi come se fosse un impianto d'irrigazione, spruzzando acqua tutto attorno e bagnando ogni cosa.

Scivolò sulla superficie smaltata bagnata della vasca e si ritrovò lungo e disteso, completamente zuppo.

«Cosa avevi appena detto?», sbraitò Mildred, mentre tentava di mettersi al riparo dietro la tenda in plastica impermeabile decorata con piccole nuvolette.

Allungò un braccio e con la punta delle dita riuscì a chiudere il rubinetto. L'acqua gorgogliando iniziò a svuotarsi giù per lo scarico e lei fece capolino per controllare la situazione.

Le balzò subito agli occhi che qualcosa non andava quando vide il marito premersi forte un palmo contro la tempia e delle goccioline di un rosso pallido scivolargli lungo la manica della camicia impregnata d'acqua.

«Oh mio dio! Matt! Ma sei ferito?», si allarmò, lasciando perdere il suo riparo e gettandosi in ginocchio sul pavimento bagnato.

Gli scostò con delicatezza i capelli e osservò la piccola ferita sanguinante che faceva capolino sulla pelle imperlata d'acqua. Fortunatamente non pareva niente di grave e così gli ordinò di alzarsi, infilarsi l'accappatoio e mettersi un paio di pantofole prima di prendersi qualche malanno.

Nel frattempo lei raggiunse la camera da letto, dove avevano abbandonato le valigie chiuse accanto alla porta d'ingresso. Sua madre le aveva tramandato molto gentilmente una certa ansia ipocondriaca che la portava a temere sempre il peggio e ad evitare a tutti i costi luoghi pubblici troppo affollati, ospedali e persone colpite da malattie potenzialmente contagiose. 

Eppure quasi tutte le fasi salienti della loro relazione avevano avuto come sfondo malattie, lunghe convalescenze e corsie asettiche di ospedali.

Solo un paio di anni prima c'era stato quel brutto incidente che aveva visto coinvolta Mildred, ai tempi ai ferri corti con Matthew. Quest'ultimo era stato mandato per un periodo di sei mesi in uno studio notarile associato con sede a Montreal. E così si era visto costretto a lasciare sola la sua ragazza, dopo solamente tre mesi di convivenza nel nuovo appartamento che avevano acquistato insieme.
I sei mesi erano scaduti da una decina di settimane e ancora lui non accennava all'idea di un imminente rientro in patria. Mildred continuava a dormire da sola in un letto troppo grande per lei e a volare in Canada non appena possibile. Non si era mai lamentata, ma Matthew percepiva il suo disappunto in ogni suo gesto e in ogni suo silenzio.

Tutto era degenerato poco prima di Natale, quando lui le aveva telefonato informandola che non sarebbe volato a casa prima della Vigilia. La cena del 24 Dicembre per la famiglia di Mildred era una sorta di istituzione e il solo fatto che Matthew fosse stato invitato per la prima volta, nonostante si frequentassero da svariati anni, era già di per sè un fatto singolare.

Le presentazioni erano già state fatte anni prima, ma mai in occasioni ufficiali come una cena con la famiglia al gran completo. Quella era la prova dell'otto, superata quella Matthew avrebbe avuto la strada spianata per sempre. Mildred aveva minimizzato l'importanza di quell'invito, ma in verità fremeva d'ansia. Matt non l'avrebbe delusa, ne era certa.

Alle 18.30 di quel 24 Dicembre di lui però non c'era traccia e il suo telefono continuava a suonare a vuoto. Sarebbe dovuto atterrare ore prima, il sito di monitoraggio dei voli lo confermava, ma non aveva ancora ricevuto alcuna notizia da parte sua. Lui doveva esserci quella sera, lo aveva promesso. Quasi trenta parenti lo attendevano e lei non poteva presentarsi sola, non lo avrebbe sopportato. Non dopo anni al tavolo delle prozie zitelle e dei cuginetti in età scolare.

Mettersi alla guida con tutti i telegiornali che annunciavano una tormenta di neve in arrivo giusto in tempo per la mezzanotte di Natale non si era rivelata una scelta saggia. Aveva raggiunto Boston premendo all'impazzata sull'acceleratore, gli sguardi preoccupati e scettici dei suoi genitori impressi a fuoco nella mente. Il loro appartamento si trovava nella zona est, in una zona piuttosto verde, abitata principalmente da giovani famiglie. Trovare tutte le luci di casa spente e le finestre sbarrate la fece deprimere ancora di più. Dov'era Matthew?

Ormai erano le 21 suonate, lei si era tolta le scarpe già da un pezzo e se ne stava seduta al buio sulla poltrona che dava le spalle alla porta d'ingresso, un bicchiere di vino bianco stretto in una mano. Quando la porta si aprì, lei non si mosse di un centimetro. Ascoltò i suoi passi stanchi avanzare per l'ingresso, il tintinnio delle chiavi che venivano lasciate cadere in una tasca, il fruscio di un cappotto che veniva abbandonato sopra lo schienale del divano.

«Dove sei stato?»

Detestava impersonare quel ruolo, lo detestava con tutto il suo cuore, ma meritava delle spiegazioni e le avrebbe pretese, anche a costo di passare per la fidanzata psicopatica.

«Mil...». Un sospiro, pochi passi attutiti dal legno del parquet e poi il silenzio.

Avevano speso così tanto tempo per scegliere quell'esatta tipologia di legno e quella sfumatura calda per il parquet della loro nuova casa. Per mesi avevano dedicato ogni weekend alla realizzazione di quel piccolo nido, punto di partenza della nuova vita che avevano deciso di condividere. Ma erano mesi ormai che non condividevano più nulla, se non delle stanche conversazioni telefoniche che si sentivano obbligati a sostenere ogni sera.

«Perché non sei a casa?», chiese lui, avvicinandosi alla poltrona e sfilandole dalle dita il bicchiere ormai vuoto.

Fu allora che Mildred realizzò che non era altro che una donna alla soglia dei trent'anni che non era stata in grado di concludere un granché. Si era illusa che quello sarebbe stato l'inizio della sua vita da adulta. Basta fughe, basta tira-e-molla, basta incertezze. Aveva un lavoro da freelance, un mutuo appena avviato, un uomo affidabile al suo fianco. Invece si era ritrovata alle prese con un impiego che le concedeva la libertà di lavorare da casa, ma le occupava le serate e i fine settimana, impedendole di dedicarsi ai suoi affetti, che invece avevano tutti un tranquillo lavoro che andava dal lunedì al venerdì. La casa era un impegno in più, le pulizie, la spesa, il bucato. E a fare tutto ciò era sempre stata sola, con Matthew in Canada. E Matthew, Matthew si era dimostrato distratto, assente non solo fisicamente e di poco supporto.

«È questa casa mia! Questa casa che abbiamo scelto insieme tra decine di altre case, questa casa che abbiamo acquistato e trasformato insieme, dove avremmo dovuto vivere insieme. Cosa potevo dire ai miei genitori? Me lo avevi promesso, Matthew, lo avevi promesso!», strillò incapace di mantenere il solito controllo. Fu liberatorio, per una volta, non sforzarsi di soffocare le proprie emozioni, non calibrare le proprie reazioni e agire impulsivamente.

Si fronteggiarono, in piedi di fronte alla grande portafinestra del soggiorno. La stessa portafinestra che con l'ampia terrazza a cui dava accesso li aveva convinti a prendere quell'appartamento.

La luce era ancora spenta e così solo la penombra data dai lampioni e dalle luci dei palazzi attorno a loro si rifletteva sul volto stanco di Matthew e negli occhi delusi di Mildred.

«Mildred, sai benissimo che siamo nel bel mezzo di una trattativa delicatissima e che la buona riuscita di questo incarico sarà decisiva per il mio futuro. Ne abbiamo parlato mille volte e tu ti sei sempre dichiarata d'accordo, sei sempre stata al mio fianco e io ti sono grato per il sacrificio che hai fatto, dico davvero»

«Me ne sei grato? Dovrei ringraziarti? Sono stata in silenzio, Matthew, ho vissuto da sola per quasi un anno, portando avanti questa casa che doveva essere nostra. Ho preso quasi quaranta voli per Montreal, contro l'unico viaggio che tu hai fatto fino a Boston per la nascita della figlia di Liam! Ti avevo chiesto solo una cosa in cambio, solo la tua presenza stasera a quella maledetta cena!»

Matthew lo sapeva, aveva fatto di tutto per liberarsi in tempo, ma aveva fallito, nonostante la quantità assurda di soldi che aveva dovuto sborsare per farsi posticipare il volo, nel disperato tentativo di arrivare in tempo.

«Dammi un quarto d'ora, mi faccio una doccia, mi cambio al volo e andiamo dai tuoi. Ci sono delle camicie stirate qui nell'armadio?»

Era l'armadio di casa sua, una casa in cui non aveva quasi mai vissuto, e non sapeva più neanche cosa contenesse.

«Sì, c'è tutto quello che ti può servire. Non voglio che tu venga a casa dei miei genitori, non stasera. Ci andrò da sola e ci resterò almeno fino a Capodanno, credo sia meglio così», mormorò Mildred, dirigendosi verso la stanza da letto.

Recuperò il vecchio borsone che utilizzava quando in passato trascorreva il weekend a casa di Matthew e iniziò a infilarci dentro capi a caso che prelevava alla cieca dal cassetto della biancheria pulita.

Una mano le circondò il polso, obbligandola a fermarsi. «Cosa stai dicendo? Sono tornato solo per te!»

«Altrimenti cosa avresti fatto? Se ti avessi detto che potevi restare in Canada anche per le feste natalizie? Avresti lavorato e mi saresti stato grato per aver compreso?», sibilò furiosa, liberandosi dalla sua presa e passando al ripiano dei maglioni.

«Io...Mildred, stai solo facendo i tuoi soliti capricci. Sono qui, sono qui con te adesso. È questo l'importante, non credi? Adesso ci calmiamo entrambi e partiamo-»

«Calmati tu, stronzo!», gli gridò prima di correre fuori dalla stanza.

Lasciò perdere l'ascensore e si gettò giù per le scale, il borsone stretto tra le braccia. Non aveva la minima idea di cosa stesse facendo, se lui la stesse rincorrendo, se avesse senso quel suo istinto di fuga.

Raggiunse la sua auto, il respiro mozzato dal freddo e dalla corsa. Era senza cappotto, senza scarpe e probabilmente senza senno. Si era appena chiusa la portiera alle spalle quando lo vide, scarmigliato e affannato che spalancava il portone del loro palazzo e si lanciava al suo inseguimento.

Gli rivolse un ultimo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore e partì in quarta, senza mai sollevare il piede dall'acceleratore.

Sognavano tutti delle grandi storie d'amore, uno di quegli amori in grado di farti toccare il cielo con un dito e che ti regalano una felicità unica, completa e contagiosa. Ma quei grandi amori sono anche gli stessi che ti portano a guidare senza meta tra la neve, la vista appannata dalle lacrime. Sono quelli che in cambio di tutta quella gioia pretendono piccoli pezzi del tuo cuore, lasciandoti molto spesso agonizzante al suolo se colui a cui li hai donati si allontana troppo portandoseli con sé. Ne valeva la pena?

La risposta era così chiara, la consapevolezza la illuminò all'improvviso e il suo piede pigiò all'improvviso sul freno, incurante della folle velocità a cui si stava muovendo la vettura e dello spesso strato di ghiaccio che ricopriva l'asfalto.

Successe tutto in un attimo. Perse il controllo dell'auto, un boato.

Matthew era il suo grande amore.

Poi il buio.

Si era risvegliata poco dopo, la testa che pulsava, i capelli umidi e qualcosa di caldo che le bagnava la nuca. Era stordita dalle mille sensazioni contrastanti che stavano attraversando il suo corpo. Un dolore sordo alla spalla sinistra, il gelo pungente della neve, il cuore traboccante d'amore. Qualcuno le stava puntando la luce di una torcia dritta in viso e lei chiuse gli occhi per proteggersi.

Ricordava sprazzi di conversazioni, mani che la toccavano con delicatezza, un rumore di passi, una sirena che si avvicinava, luci blu lampeggianti. Poi qualcuno l'aveva medicata, le avevano steccato un braccio e l'avevano sollevata con estrema cautela.

Quando si era risvegliata una seconda volta era distesa in uno sterile lettino d'ospedale, un braccio immobilizzato e la mano intrappolata in una presa calda.

La testa di Matthew era posata sul materasso, gli occhi chiusi e un'espressione tesa dipinta in volto nonostante il sonno. Avrebbe voluto accarezzarlo, domandargli cosa era successo, ma si limitò ad osservarlo con infinito affetto.

Aveva aperto gli occhi e lui era lì. Era lì solo per lei e questo probabilmente bastava a dimostrare quanto tutto ciò di cui lo aveva accusato poche ore prima fosse sbagliato, sbagliato e ingiusto.

Poco dopo un'infermiera fin troppo loquace era arrivata nella stanza e da lì fu un susseguirsi di notizie e visite. Aveva avuto un incidente, era finita fuori strada a causa del manto stradale ghiacciaio. Una macchina si era fermata qualche minuto più tardi e aveva allertato i soccorsi, aveva contattato subito il numero delle emergenze salvato in rubrica, che altri non era che Matthew. Quest'ultimo era accorso immediatamente, aveva chiamato la famiglia affinché rilasciassero il permesso di visita anche a lui. Dopodiché non si era più allontanato dal suo letto.

Uno splendido giorno di Natale insomma.

Aveva una lieve commozione cerebrale e clavicola e omero sinistri erano fratturati.

«Come stai, tesoro?», le chiese Matt una volta sveglio, accarezzandole piano la fronte.

C'erano volute ben due ore per far sloggiare dalla stanza tutto il parentado vario, ma finalmente erano soli.

«Mi sento piuttosto frastornata e non riesco ancora a capire come siano potute succedere così tante cose in meno di ventiquattro ore...», mormorò lei.

Sapeva di avere un aspetto orribile, i capelli ancora impiastricciati di sangue rappreso e un antiestetico cerotto applicato proprio sul mento, ma in quel momento nulla le pareva più importante della presenza costante di Matthew al suo fianco.

«Quando ho ricevuto quella telefonata ero così sollevato, credevo volessi avvisarmi di raggiungerti e invece...»

«Invece ho visto bene di esibirmi in una tripla capriola con automobile e atterrare in un torrente ghiacciato», concluse mortificata lei.

Era stata così infantile, e così incosciente.

«Promettimi che non metterai mai più a repentaglio la tua vita, mai più. Non so cosa avrei fatto se...»

«Shh, non è successo nulla per fortuna. Io sto bene, è tutto passato. Noi staremo bene...», lo rassicurò lei, afferrandogli la mano e portandosela alle labbra.

«Non volevano farmi entrare, continuavano a ripetere la solita stupida frase riguardo al fatto che sono ammessi solo i parenti. E io non lo sono»

Il discorso finì nel nulla perché gli antidolorifici uniti ad una buona dose di calmante avevano iniziato a fare effetto e Mildred poco dopo si era addormentata. Matthew la osservò dormire pacificamente, bellissima nonostante la camicia da notte dell'ospedale e il viso pallido.

Era rimasto in silenzio di fronte alle male parole che gli erano state rivolte dalla madre di Mildred, non aveva fiatato al cospetto dello sguardo contrariato e furioso di suo padre. Cosa avrebbe potuto dire? In quel momento il suo corpo era teso, le gambe incapaci di fermarsi per un solo istante, la mente confusa da una miriade di terribili immagini che vedevano Mildred lontana per sempre.

Continuò a guardarla e a chiedersi cosa avesse fatto per meritarsi l'amore di quella creatura meravigliosa. L'aveva tradita, l'aveva lasciata andare, l'aveva abbandonata. Si era preso il suo cuore, donandole in cambio il proprio. Questo lei lo sapeva, era proprio per quello che gli aveva sempre offerto una seconda possibilità, gli aveva sempre teso una mano.

Ora toccava lui: prenderle la mano, aiutarla a rimettersi in sesto, tornare a vivere accanto a lei, proteggerla e continuare ad essere il suo primo contatto in caso di necessità.

L'idea gli venne all'improvviso, quando lo sguardo gli cadde sul pennarello rosso abbandonato vicino ad una rivista di cruciverba.

Fece attenzione a non svegliarla e quando ebbe finito le lasciò un bacio sulle nocche della mano destra e se ne andò.

Erano passati due anni da quella notte di Natale dove tutto cambiò.

«Continuo a pensare che nessuno abbia mai ricevuto una proposta più insolita ed idiota della tua...», ridacchiò Mildred, tamponando con dell'acqua ossigenata la tempia del marito.

«Ammettilo Mil, in fondo l'hai adorata...»

Ed era vero, quando si era risvegliata nuovamente la luce del sole che filtrava dalle veneziane le aveva fatto scoprire di essere rimasta sola. Aveva provato un moto immediato di delusione, ma lo aveva scacciato concentrandosi piuttosto sull'impellente bisogno di andare in bagno.

Era stato lì, mentre si guardava allo specchio, controllando lo stato della sua ferita al mento e la profondità delle occhiaie, che lo sguardo le era caduto sull'ingombrante ingessatura.

Lì, sopra a quel bianco immacolato, spiccava un'unica parola, vergata in rosso sangue.

SPOSAMI.

«Pareva più un ordine che una domanda...», borbottò, applicandogli un piccolo cerotto rettangolare.

«Credo tu ti sia rifatta quando mi hai costretto ad inginocchiarmi nella neve di fronte a tutti i tuoi parenti, fingendo che fosse quella la proposta ufficiale. Devo ammettere che ti dimostrasti un'ottima attrice, ci credettero tutti...»

***

«Ti ricordi il nostro viaggio di nozze?», le sussurrò accarezzandole piano il collo lasciato scoperto dai capelli sparsi sul cuscino.

Mildred si mosse e si accoccolò più vicino a lui, la guancia posata sulla sua spalla. «Oh sì! Ricordo che il primo giorno volevo già chiamare Liam per chiedergli informazioni riguardo ad un possibile annullamento del nostro contratto matrimoniale...»

«Che bugiarda che sei...»

«Però devo ammettere che i giorni successivi me li sono goduta», tubò maliziosa, mordicchiandogli il lobo dell'orecchio.

«Vorrei ben vedere! Le mie doti amatorie mi hanno reso celebre ad Harvard!», gonfiò il petto lui.

Quelle parole gli fecero guadagnare un doloroso pizzicotto all'avambraccio.

*

Mildred lo aveva sempre saputo e accettato; Matthew aveva un carattere estroverso, era chiassoso, divertente, catalizzava gli sguardi e l'attenzione di tutti e sapeva godersi la vita.

I primi tre anni di relazione erano stati un calvario, un continuo rincorrersi e mai raggiungersi. Lui troppo immaturo per mantenere fede alle promesse che le faceva e lei troppo cocciuta per dirgli addio una volta per tutte.

Si erano presi e mollati infinite volte, avevano giurato di non ricascarci mai più e si erano dichiarati il proprio odio reciproco. Aveva portato all'esasperazione l'intero campus con la loro storia on-off e portato sull'orlo di un esaurimento nervoso Liam e Tiffany, i loro rispettivi migliori amici.

La sera del ventiquattresimo compleanno di Matt litigarono, e questa di per sè non rappresentò una grande novità, se non fosse che lo fecero davanti a quaranta invitati e il tutto si concluse solo con l'arrivo di un'ambulanza.

Erano in un periodo di  pausa; Mildred  quella sera era esausta, era appena stata bocciata ad un esame e quella stessa mattina aveva ricevuto una mail in cui le veniva comunicato di non essere stata accettata all'ultimo anno di laurea specialistica all'Università di Heidelberg per soli tre punti. Aveva preso un paio di aspirine e le aveva buttate giù con una generosa dose di Vodka Redbull. Quello era il cocktail preferito di Matt, che lei solitamente schifava, ma quella sera non ebbe la forza di fermarsi troppo a riflettere sulle proprie azioni. Tiffany le aveva sconsigliato vivamente di presenziare a quel party.

Non sei sua amica, non sei una sua compagna di corso né una sua cugina. Come giustificheresti la tua presenza lì?

Non era proprio niente per lui, niente di niente. Decise all'ultimo di andarci, solo per fare un salto e augurargli buon compleanno, si disse.

Aveva acquistato un paio di mesi prima il suo regalo, un soggiorno di quattro giorni in una riserva faunistica del Canada. Un dono da fidanzata, ma ormai era troppo tardi per richiedere un rimborso. Liam non sembrava affatto un tipo da baita, abeti a perdita d'occhio e assenza di Internet, ma perlomeno Matthew si sarebbe divertito ad andare a fare delle escursioni nella speranza di avvistare qualche orso. O qualche giovane turista bionda con un pessimo senso dell'orientamento.

Era arrivata in ritardo; la musica era già alta, le cibarie scarseggiavano e gli ospiti parevano già alquanto alticci.

Depositò la sua elegante busta argentata in cima alla pila dei regali e si sfilò il cappotto. Fu in quel momento che Matthew apparve sulla soglia della cucina e lei cercò un contatto visivo con lui.

Sapeva che lui l'aveva vista, nonostante evitasse di guardarla. «Auguri...», mormorò timidamente.

Trascorse un istante, dopodiché lui la sorpassò senza degnarla di uno sguardo, fingendo di non averla sentita.

Fu come ricevere un sonoro ed inaspettato schiaffo sulla guancia. Le si riempirono gli occhi di lacrime, ma si rifiutò di lasciarle scendere.

Dopo, ordinò a sé stessa, più tardi avrai tutto il tempo per autocommiserarti, ora alza la testa e vai avanti.

Scappare via avrebbe significato fare il suo gioco e così decise di raggiungere il soggiorno alla ricerca di qualcosa di molto forte ed alcolico.

C'era della birra calda, del punch dal colore sospetto e un paio di bottiglie di whisky. Tutto ciò che Mildred aborriva e che invece piaceva tanto a Matthew. Optò per tre dita di whisky liscio, rinunciando in partenza ad avventurarsi alla ricerca di un paio di cubetti di ghiaccio.

Sapeva già che se avesse aperto il freezer di Matthew ci avrebbe trovato solo altre birre messe a raffreddare, i pacchettini con il pranzo ordinatamente etichettati preparati dalla sua fin troppo amorevole mamma e un barattolo di gelato alla stracciatella. L'essere a conoscenza di tutti quei piccoli dettagli che lo riguardavano una volta aveva il potere di farla sentire ancora più innamorata, mentre ora voleva solo dimenticarseli al più presto per non doverci pensare mai più.

«Mildred»

C'era solo una persona al mondo, oltre a suo padre, che pronunciava il suo nome come se fosse un muto rimprovero.

Ai tempi Liam non era molto diverso dalla persona adulta che sarebbe diventata. Era sempre stato un ragazzo attraente, ma Mildred lo aveva sempre trovato eccessivamente serio e corrucciato. Sapeva quanto lui disapprovasse il modo di vivere libertino del suo migliore amico, eppure non aveva mai parteggiato per la buona riuscita della loro relazione.

Matthew una volta le aveva confidato che Liam la riteneva troppo focalizzata su sé stessa e poco incline a giungere a compromessi. Si era sentita oltraggiata, sicura com'era di essere una persona buona ed altruista.

«Ehi Liam, niente studio stasera?», gli domandò tanto per fare.

Era da tempo che non si incrociavano e si sorprese a trovarlo ad un evento mondano. Non aveva mai ben capito cosa ci fosse nel suo passato, fatto sta che non ne parlava mai, non tornava mai a casa e passava ogni festività o ad uno dei suoi due lavori o dalla famiglia di Matthew.

Lui si strinse nelle spalle. «È il suo compleanno...»

Già, in fondo anche lei era lì per quello, nonostante tutto.

«Ti trovo bene. Cosa fai adesso? Non ti ho più vista dalla tua laurea...»

Ovvero tre mesi prima, in un settembre insolitamente caldo e luminoso. Conservava una foto nella sua copia consunta de I dolori del giovane Werther. Un'immagine scattata a tradimento da sua madre, che la raffigurava sorridente con la mano allacciata a quella di Tiffany, il braccio di Matthew attorno alle sue spalle e un Liam meno serioso del solito sullo sfondo.

Lui doveva essere all'ultimo anno di legge, esattamente come Matthew, e probabilmente era ancora il primo del suo corso. Mentre lei...

«Alla fine ho scelto Relazioni Internazionali come specialistica. Sto pensando di andare all'estero il prossimo anno...»

«Hai lasciato perdere Letteratura Tedesca?», le domandò chiaramente sorpreso.

Il suo amore per Goethe era cosa nota. Così come l'opposizione della sua famiglia.

«Ho dovuto fare un compromesso», tagliò corto.

Più che un compromesso si era trattato di un silenzioso assenso, una decisione quasi obbligata, fatta a testa bassa, dopo le innumerevoli discussioni che avevano animato i pasti in famiglia.

«Tu come stai?», si affrettò a chiedere, spaventata per la prima volta dall'idea di poter apparire proprio come lui l'aveva sempre descritta.

Fredda, altera, per nulla interessata agli altri. Era così che appariva? Ultimamente se lo era chiesto più volte, accantonando ogni volta il pensiero. Non lo avrebbe sopportato, non ora che aveva un cuore ancora malandato e una carriera universitaria che stava perdendo pericolosamente quota.

«Non c'è male, grazie. Com'è che non sei andata a sciare sulle Alpi quest'anno?»

I due dicembre precedenti non aveva mai potuto presenziare di persona ai festeggiamenti per il compleanno del suo ragazzo, sempre confinata in uno chalet tra i monti svizzeri con una compagnia che, conteggiando pure lei e sua cugina di dieci anni, aveva un'età media di sessant'anni.

Era una tradizione di famiglia e una grande passione di suo padre, il quale da ragazzo era stato una vera leggenda dello sci.

Quell'anno si era rifiutata, causando ulteriore disappunto in famiglia. Aveva deciso di lasciare il campus dopo la laurea triennale e si era trovata un bilocale poco costoso a quindici minuti di distanza che i suoi genitori trovavano semplicemente orrendo.

Trascorrere le feste in solitudine le era parsa una possibilità per rimettere ordine tra i suoi sentimenti ingarbugliati e ripartire in piene forze con l'anno nuovo.

«Non mi andava molto. Puoi scusarmi un attimo? Avrei bisogno di andare in bagno...», mollò il bicchiere sul basso tavolino accanto al divano e fece per voltarsi.

«Ti conviene usare quello al primo piano. Seconda porta a sinistra», la istruì lui, il tono di voce freddo.

Mildred si infastidì. «Me lo ricordo», commentò pungente, prima di mollarlo lì, solo nel mezzo dell'ampia sala.

Imboccò in fretta le scale e percorse due scalini alla volta, lo stomaco sempre più in subbuglio e un cattivo sapore che le invadeva la bocca.

Era stata in quella casa almeno un centinaio di volte se non molto di più in quegli ultimi anni. Infinite notti passate nel letto di Matthew, ad ascoltare il rumore del suo respiro confondersi con quello della ferrovia poco distante.

La musica era assordante, una qualche traccia di quell'elettronica arzigogolata e quasi barocca, che piaceva tanto agli amici di Matthew.

La porta era socchiusa, allungò una mano per bussare, ma all'improvviso il suo corpo decise di averne abbastanza e così si ritrovò a spalancare la porta e a gettarsi a terra di fronte al water.

Vomitò le aspirine, il cocktail di prima e il whisky appena bevuto. Quando si sentì completamente svuotata e gli spasmi allo stomaco si calmarono alzò la testa e i suoi occhi inorridirono.

Seduto sul bordo della vasca da bagno, i pantaloni slacciati, e una ragazza bionda inginocchiata e china davanti a lui, all'interno della vasca in ceramica azzurra, stava Matthew.

Si fissarono per alcuni istanti interminabili; mentre la bionda, ignara del fatto di avere compagnia, continuava il suo lavoro di bocca, la testa che si alzava ed abbassava ritmicamente.

Un attimo dopo lui balzò in piedi e scansò la ragazza, mentre Mildred cercava contemporaneamente di alzarsi in piedi, pulirsi la bocca e rasettarsi i capelli.

Provò a rimettersi in posizione eretta, ci provò con tutta sé stessa e detestò la propria debolezza quando riuscì solo a farsi cadere priva di forze sulla tazza del wc, che era riuscita a chiudere un attimo prima di accasciarvisi sopra.

Vide con la coda dell'occhio che lui era riuscito a sistemarsi i jeans e a liberarsi della bionda, chiudendole la porta alle spalle. A chiave.

«Stai bene?», le chiese non accennando ad avvicinarsi.

Aveva i capelli stravolti, le pupille dilatate e i vestiti in condizioni pietose. Mildred si rifiutò di pensare cosa avesse fatto per ritrovarsi con quell'aspetto trasandato.

«Una meraviglia», biascicò con la bocca impastata.

Avrebbe davvero voluto un bicchiere d'acqua fresca, ma il lavandino era troppo vicino a lui e così decise di lasciar perdere concentrandosi piuttosto sulla sua modalità di fuga.

Gliela poteva leggere sul volto, al di là delle occhiaie scure e degli occhi troppo lucidi. Quell'espressione determinata a finire ciò che aveva iniziato, a strapparle nuovamente dal petto quel poco di cuore che era tanto faticosamente riuscita a rimettere insieme.

Matthew la osservò, così pallida e minuta, le mani aggrappate al bordo del water come per restare ancorata a qualcosa, nella vana speranza di non colare a picco.

L'aveva amata tantissimo, ma lo aveva fatto nel modo sbagliato. L'aveva data per scontata, l'aveva sempre sottovalutata, non comprendendo pienamente la complessità e le mille sfaccettature di quella piccola donna che ora stava tremando davanti ai suoi occhi implorandolo con lo sguardo di lasciarla andare.

«Mil, io...non vol-», tentò.

Lei esplose senza preavviso. La rabbia a scorrerle nelle vene e a donarle un'improvvisa e precaria dose di nuova energia. Balzò in piedi e fece tre passi verso di lui e la porta.

«No. No, non ascolterò un'altra volta le tue cazzate. Spostati!»

Non era abituato a sentirla alzare la voce, sempre incastrata in quella gabbia di buone maniere in cui l'aveva costretta a crescere i suoi genitori. Perciò si sorprese quando la sentì urlare ed utilizzare un tipo di linguaggio non da lei.

Non poteva lasciarla andare, non così, non con in testa come sua ultima immagine la scena appena avvenuta nella vasca da bagno.

«M, ascoltami un attimo, io non potevo sapere che-»

Lei gli mise una mano sulla bocca, non curandosi di essere delicata. «Ti ho detto di tacere. Non mi interessa sentire le tue scuse o qualsiasi altra cosa tu abbia da dire. Ora scansati, per favore», la voce le si spezzò sulla fine della frase e il suo tono si fece quasi supplice.

Scosse la testa deciso ed incrociò le braccia.

Aveva passato una vita intera a fare solo quello che le veniva detto, a comportarsi come ci si sarebbe aspettato da una ragazza di ottima famiglia con dei principi saldi e all'antica. Anni trascorsi ad abbassare la testa, ad annuire, ad annullarsi.

Fu in quel momento che qualcosa scattò dentro di lei, qualcosa si liberò nel mezzo del suo petto dopo anni in cattività e le fece fremere la spina dorsale.

«Levati dalle palle, stupido coglione!», sbraitò, assestandogli una poderosa spallata che lo sospinse violentemente contro il lavandino.

Fece scattare la serratura e spalancò la porta con forza, non curandosi di come il legno cozzò sonoramente contro il ginocchio di Matthew.

Stava per scendere il primo gradino verso la libertà, verso la fine di quell'incubo, quando le sue parole la gelarono sul posto.

«Cos'è tutto questo fuoco improvviso, Mildred?»

Non si mosse dalla cima delle scale, le spalle voltate verso di lui. Sempre più occhi curiosi puntati su di loro dal piano inferiore.

La musica improvvisamente si era abbassata e aveva lasciato il passo ad una vecchia dolce ballata, la colonna sonora più sbagliata che poteva esserci in quel momento.

«Perché adesso ti scaldi e ti infervori per me? Perché ora? Ora che è troppo tardi, cara Mildred. Perché credi dovessi sempre cercare consolazione altrove? Perché pensi di avermi trovato con il cazzo in bocca alla prima che passava? Riesci a immaginare perché sia successo più volte? Perché continui a farlo?»

Lo sentiva alle sue spalle, ferito, accecato dal risentimento. Percepiva il suo alito alcolico sulla nuca.

«DIMMI PERCHÉ!», le urlò nell'orecchio.

Non si mosse, rimase immobile.

La musica ora si era spenta, basta Prefab Sprout, ora era tempo di un nuovo capitolo della loro telenovela preferita. L'eterno dramma Matthew e Mildred era ricominciato.

«Non vuoi parlare? Ok, continua a fare la sostenuta come al solito. Te lo dirò io allora, Mildred. Sì, lo farò io, qui davanti a tutti i miei ospiti. Volete sapere perché? Lo volete sapere?», gridò come un folle, gli occhi arrossati e una vena che pulsava sulla fronte.

«Matt...», Liam alzò la voce per farsi sentire.

Durò per un secondo la speranza che Matthew potesse fermarsi, potesse lasciarla stare, smettere di tenerla prigioniera.

«LO VOLETE SAPERE PERCHÉ?»

«Non farlo», bisbigliò così piano che si chiese se lo avesse davvero detto ad alta voce.

«Perché sei frigida, cazzo! Sempre impettita, sempre pronta a giudicare, sempre con un manico di scopa infilato su per il culo. Sempre ad osannare il tuo perfetto papà. Vorresti che fossi come il tuo paparino, vero? Così ti piacerei di più, ti ecciterebbe di più?»

Trascorsero pochi secondi, un silenzio assoluto regnava nella casa, si udì in lontananza una sirena della polizia e un'auto che faceva scricchiolare la ghiaia del parcheggio antistante il palazzo.

Dopodiché fu il caos. Mildred si voltò, afferrò Matthew per il colletto della camicia, lo fissò con odio e lo spintonò con tutta la forza che aveva in corpo.

Lui inciampò, parve recuperare l'equilibrio, ma poi iniziò a precipitare.

Ancora ad anni di distanza Mildred riusciva a vedere il suo corpo cadere, sbattere ripetutamente conto la ringhiera e il legno dei gradini per poi atterrare, immobile e scomposto, ai piedi delle scale.

*

«Dopotutto poteva andarmi molto peggio...»

Mildred ridacchiò. «Massì, un trauma cranico, una spalla lussata, clavicola e ulna fratturate. Cosa vuoi che sia?», gli ricordò.

«Niente in confronto al mio risveglio in ospedale. Quando mi resi conto di cosa avevo avuto il coraggio di dirti, di farti...», mormorò angosciato.

Lei gli accarezzò piano la fronte, le sue dita fredde e leggere. «Shhh, è passato tanto di quel tempo...»

L'aveva cercata appena dopo essere stato dimesso. Era in Svizzera e non era raggiungibile, così gli comunicarono. Le aveva telefonato tutti i giorni senza mai ricevere risposta. Aveva pazientato, dopotutto ingessato com'era non poteva andare chissà dove.

«È arrivato il nuovo semestre, io avevo di nuovo tutte le ossa integre e milioni di scuse pronte per te. Ma tu non c'eri...»

Firenze le aveva salvato la vita. La Toscana, gli italiani, il calore del sole, la Cupola del Brunelleschi, Piazzale Michelangelo all'alba, il Chianti, la sua piccola mansarda al settimo piano.

Era stato in quell'anno che aveva lavorato su sé stessa per la prima volta nella sua vita, aiutando ad emergere e prendendosi cura di quel nuovo lato di sé che aveva scoperto.

Si era dedicata solo e soltanto a sé e aveva trascorso dei mesi meravigliosi. Andava in università, telefonava poco a casa e provava a schiarirsi le idee. Durante i fine settimana solitamente accompagnava gruppi di turisti in piccole gite fuori porta, insegnava loro ad apprezzare la cucina, la storia, la tradizione italiana e lei imparava insieme a loro.

Aveva conosciuto Giovanni una sera di aprile, alla proiezione di un film di Wim Wenders in lingua originale. Iniziò come una semplice amicizia; avevano molti interessi in comune ed entrambi parevano poco interessati ai trascorsi dell'altro. Lui non le parlò mai di cosa facesse prima di incontrarla e lei non gli accennò mai alla sua vita negli Stati Uniti.

La portava in vespa per le colline toscane, le cucinava i pici al ragù secondo la ricetta di sua nonna e l'aiutava a migliorare la sua conoscenza della lingua e della cultura italiana.

La prima volta che andarono a letto insieme fu in un'afosa serata di inizio giugno, un mese esatto prima del suo rientro. Da lì seguirono trenta giorni in cui iniziarono a comportarsi come una coppia, pur avendo sempre dichiarato entrambi di non essere alla ricerca di una relazione sentimentale.

Con l'arrivo del mese di luglio e la fine della sessione d'esame estiva, si vide costretta a tornare non avendo più scuse per rimandare.

«Eri così diversa quando ti vidi, dopo tutto quel tempo...», ricordò sovrappensiero Matthew.

L'immagine di lei, i piedi scalzi e la pelle dorata dai raggi solari, se la sarebbe ricordata per sempre. L'aveva lasciata piccola, immatura e capricciosa, ma quella nuova donna davanti a lui non sembrava affatto essere la stessa persona che lui si aspettava di trovare.

*

Era rientrata in patria da circa una settimana e non aveva ancora avuto un momento libero per fermarsi a riflettere. Lo sapeva che sarebbe stata quella la prova finale, l'esame decisivo. Cambiare e credere di essere una versione migliore di sé stessi era facile lontano da casa, da tutti coloro che la conoscevano da sempre.

Aveva sempre dato il peggio di sé lì, Boston e Harvard avevano fatto da cornice al formarsi del suo carattere viziato e volubile e infine al suo sgretolarsi in mille pezzi.

Era riuscita ad avere delle conversazioni civili con i suoi genitori e per la prima volta non aveva permesso che la sminuissero e screditassero il percorso da lei intrapreso e il futuro che si era scelta. Aveva risposto a testa alta a suo padre, aveva detto di no alle richieste assurde di sua madre e si era rifiutata di accompagnarli a Cape Cod per il 4 luglio.

Aveva ventiquattro anni, una nuova vita al di là dell'oceano e zero voglia di mostrarsi accomodante.

Quando lui arrivò la trovò immersa nei suoi pensieri, intenta a farsi cullare in silenzio dall'ampio dondolo in ferro battuto nel giardino sul retro.

Aveva i capelli lunghi, sciolti sulle spalle nude. Un corto prendisole giallo limone a risaltare l'abbronzatura e dello smalto rosa chiaro sulle unghie dei piedi scalzi.

Non aveva la più pallida idea di come avrebbe reagito vedendolo. Dopotutto erano passati sei mesi dall'ultima volta che si erano visti, in cima a quella maledetta scala.

Lei alzò lo sguardo, come percependo la sua presenza e si limitò ad osservarlo, continuando a dondolare avanti e indietro.

Non batté ciglio, nascose tutto lo stupore, la furia e il dolore sordo di alcune ferite profonde, che a chilometri di distanza parevano quasi guarite, nel proprio cuore e lo fissò. Lo fissò senza emozioni, un'espressione neutra a decorarle la bocca.

Dentro di lei però stava avendo luogo il finimondo. Lo trovava ancora più bello del solito, con i suoi capelli color dell'oro più lunghi del solito e una corta barba che non aveva mai avuto. Il respiro le si era fermato per un attimo e il cuore aveva perso un battito.

Poteva essersi illusa, poteva essersi divertita con Giovanni a fare finta di non avere un passato, ma ora che questo si era ripresentato e lei si era resa conto di non essere ancora pronta a lasciarlo entrare. O a dirgli addio per sempre.

«Ciao Matthew», si obbligò a salutarlo.

La sua voce era la stessa, pensò Matthew, tirando un sospiro di sollievo. Sempre altezzosa, leggermente strascicata, ora leggermente contaminata da un'ombra di un accento insolito, quasi esotico.

«Come stai?», le chiese preoccupato, pur notando che fisicamente probabilmente non era mai stata meglio.

Lei si mosse sul cuscino candido per lasciargli un po' di spazio e l'orlo del vestito si alzò, lasciandole scoperta una generosa porzione di coscia.

Matthew deglutì a disagio, obbligandosi a distogliere lo sguardo. Aveva messo su peso, ma considerato quanto fosse ossuta in precedenza, ora avevo un aspetto sano, pieno e ancora più sensuale di prima.

Molto più sensuale di prima, dovette constatare Matthew. Bella lo era sempre stata, con i suoi tratti aristocratici, la sua bocca piena e il corpo ben proporzionato. Ma si era sempre costretta in eleganti abiti dal taglio classico, con pettinature raccolte e strette sulla nuca, sempre pudica, quasi a vergognarsi delle proprie curve e della propria femminilità.

«Direi bene, grazie. Tu?». Appariva poco interessata, quasi annoiata da quello scambio di battute.

Lui si domandò come faceva a restare impassibile quando a lui pareva di essere ad un passo da avere un colpo al cuore. Pensava di essere pronto a rivederla, ad affrontare quello che negli ultimi mesi era stato il suo tormento. Non era riuscito a perdonarsi, a trovare una giustificazione per il proprio pessimo comportamento e soprattutto non ce l'aveva proprio fatta a non pensare a lei.

L'aveva cercata, l'aveva rincorsa, ma lei era stata più astuta ed era sparita. Tiffany si era lamentata di sentirla troppo poco e si era rifiutata categoricamente di aiutarlo, i genitori di lei non avevano voluto fornirgli alcun nuovo recapito o il suo indirizzo fiorentino e la segretaria universitaria gli aveva ordinato di non avvicinarsi mai più di dieci metri agli uffici della segreteria amministrativa se non voleva riceve un ordine restrittivo ufficiale dalla polizia di Boston.

L'aveva stalkerata su ogni social network mai inventato, ma l'unica cosa che era riuscito a scovare era un'immagine in penombra di lei e un tizio italiano sopra ad un traghetto in mezzo al mare. I loro corpi non si toccavano neanche, ma la rabbia che quella fotografia gli aveva procurato era durata per settimane.

«Sono stato meglio, molto meglio», disse arrabbiato.

Non sapeva neanche lui perché se la fosse presa tanto, ma quell'ira ora stava rimontando dentro di lui. Così decise di sedersi accanto a lei, almeno avrebbe potuto guardare la siepe di fronte a lui invece che la sua pelle nuda.

«È successo qualcosa?», si informò lei, una nota allarmata che sfuggì al suo controllo.

Tiffany non era stata molto d'aiuto, ultimamente sempre troppo distratta o troppo impegnata a lamentarsi più del dovuto in merito a qualsiasi cosa, e lei non aveva mai osato fare domande a proposito di Matthew.

L'unica persona rimasta ad unirle era Liam, ma dopo che lei gli aveva scritto per fargli auguri di compleanno a febbraio, aveva ricevuto solo un breve messaggio di ringraziamento e la conversazione aveva avuto fine.

«A settembre non potrò laurearmi...», confessò lui a denti stretti.

Erano stati sei mesi di merda, sei mesi in cui non era riuscito a concludere nulla, ma a mandare a puttane tutto ciò per cui aveva duramente lavorato.

Non aveva dato neanche un esame a febbraio e a giugno era stato bocciato all'unico a cui aveva provato a partecipare. Aveva frequentato poco le lezioni, aveva perso il suo posto nella squadra di baseball dell'istituto e si era reso conto che era ora di darci un taglio con tutto quell'alcool e quella vita irresponsabile.

«Come? Ma se eri perfettamente in pari a ottobre? Cos'è successo?». Ci aveva provato a rimanere indifferente, ma teneva troppo al suo futuro e alla sua buona riuscita per restare in silenzio.

Aveva sempre amato quello che studiava e si era sempre impegnato molto per raggiungere i propri obiettivi, quasi sempre con voti eccellenti e lodi. Era l'anima di tutte le feste, ma le settimane antecedenti un esame le passava rinchiuso in biblioteca, gli allenamenti e il suo lavoro come unici diversivi.

«Diciamo che...mi sono un po' perso per strada. Non avevo nessuno stimolo, nessun interesse, nessuna voglia. Passavo le ore a fissare il cielo fuori dalla finestra. Hai presente le stanzetta di consultazione al secondo piano della biblioteca di Scienze Naturali?»

Lei annuì, era lì che si erano incontrati dopotutto. «Sì, quella senza riscaldamento...»

«Ho passato richiuso tra quelle quattro mura tutto il mese di gennaio, il manuale da studiare abbandonato aperto sul tavolo e lo sguardo rivolto al cielo fuori dal vetro. Quando mi sono reso conto di aver gettato via un'intera sessione non ho provato nulla. Il niente più assoluto»

Quelle parole fecero venire in mente a Mildred il suo primo mese in Italia, quando si limitava a sopravvivere. Osservava Firenze dalla sua finestrella al settimo piano, ma non aveva il coraggio di uscire ad esplorarla. Sorrideva alle persone, ma non riusciva mai a rivolgere loro la parola. Respirava, mangiava, dormiva.

Dopodiché si era resa conto che non poteva permettersi di sprecare tempo, quel prezioso tempo che le era stato concesso in quella terra meravigliosa. Così aveva indossato il suo cappotto rosso dei giorni felici, era uscita, aveva fatto la coda insieme ai turisti ed era salita in cima al Campanile di Giotto. Da lì tutto era molto più bello, molto di più che dalla sua finestrella.

*

«E poi ti rimboccasti le maniche e mi facesti da tutor per tutta l'estate. Non mi dovevi nulla, al massimo un'altra spinta giù dalle scale, e invece sacrificasti la tua estate per me e a settembre superai inaspettatamente ben quattro esami!», esclamò Matthew stringendosela al petto, la suo risorsa più preziosa.

«Non del tutto inaspettatamente dai, in fondo io sapevo di essere un'insegnante infallibile e tu dopotutto non sei un alunno così ottuso...», ribatté lei, ridacchiando contro il suo collo caldo.

«Quando sei ripartita mi si è spezzato il cuore. Una seconda volta», le confessò sommessamente.

Lei lo aveva sempre saputo, ma non sarebbe stato giusto restare. Era consapevole del fatto che lui si aspettava che le cose tra loro fossero cambiate, tornando come erano una volta, ma lei non era pronta. Era assuefatta da lui, da quell'estate passata sempre insieme a darsi una mano a vicenda, per la prima volta più impegnati ad aiutarsi e prodigarsi per l'altro piuttosto che a farsi la guerra e fare a gara a chi sarebbe arrivato per primo al traguardo, a chi ne sarebbe uscito vincitore e chi con il cuore calpestato.

Era tornata in Italia e aveva ripreso la sua vita da dove l'aveva lasciata due mesi prima. Con Giovanni era sempre tutto molto semplice, casuale e divertente, ma lei non riusciva più a continuare e così si vide costretta a dirgli addio. Firenze era sempre bellissima, ma lei continuava a fissare la fotografia della propria laurea, tra le persone più importanti, a casa sua.

A dicembre rientrò in anticipo senza comunicarlo a nessuno. Aveva letto sul sito della facoltà di giurisprudenza l'annuncio dell'imminente cerimonia per la conclusione delle lauree magistrali e aveva deciso che sarebbe stato corretto esserci. In fondo era stata, seppure ad intervalli, al suo fianco per ben quattro di quei cinque anni di percorso universitario.

Era arrivata in anticipo e si era seduta in una delle ultime file. I capelli sempre più lunghi e un vestito di velluto blu nascosto dal suo cappotto rosso. Aveva seguito la cerimonia con scarsa attenzione, gli occhi fissi sulla testa bionda e le spalle imponenti in seconda fila.

Sorrise quando chiamarono il suo nome e lo vide alzarsi e fare una piccola deviazione nel salire sul palco per poter assestare una pacca sulla spalla a Liam, il quale gli rispose con uno dei suoi rarissimi sorrisi e gli fece un cenno incoraggiante verso il rettore e il diploma di laurea che lo attendeva.

Salì baldanzoso i pochi scalini, strinse la mano al rettore e a tutto il corpo docenti, prima di voltarsi verso il pubblico per ricevere il consueto applauso.

Dal pubblico si levarono gli schiamazzi e i fischi dei suoi compagni della squadra di baseball e lui si esibì in uno stupido inchino di ringraziamento.

Quando si risollevò e rivolse un ultimo sguardo agli spettatori, la individuò. Tra un migliaio di persone lui la vide e i suoi occhi si spalancarono.

«Ricordo che il rettore aveva già pronunciato il nome dello studente successivo e io ancora non mi ero mosso. Me ne stavo lì impalato al centro del palco, il cuore in gola, terrorizzato dall'idea che fossi solo frutto della mia immaginazione. Una proiezione dei miei sogni, delle mie speranze...»

«Si chiamava Mark Lowe, ancora me lo ricordo! Alla fine dovettero gettarti giù dal palco di forza», Mildred rise a quell'immagine.

«Attraversai tutta la sala come se fossi in stato catatonico, i miei piedi si muovevano da soli nella tua direzione. Poi tu ti sei alzata e mi sei venuta incontro...»

«Questo è il cappotto dei giorni felici, mi dissi...»

«E tu mi rispondesti che quello era il giorno più felice di tutti»

«E tu, non ancora stanco di essere al centro dell'attenzione, decidesti di dare spettacolo sollevandomi da terra, strillando come un pazzo e baciandomi davanti a tutti! Credo che quel Mark Lowe ci abbia odiato assai...»

«Probabilmente nessuno si ricorderà della sua laurea, ma tutti lo faranno con il nostro bacio spettacolare», gongolò contento lui.

Mildred si mise a sedere di scatto, le lenzuola le scivolarono di dosso lasciandola nuda.

«Che ore sono?»

Matt si sporse verso il comò di legno grezzo e lanciò un'occhiata al suo orologio da polso.

Le comunicò che era quasi l'una di notte, dopodiché allungò un braccio per circondarle la vita e trascinarla nuovamente sotto le coperte al caldo, vicino a lui.

«Direi che per il momento abbiamo parlato e richiamato alla mente ricordi a sufficienza...», gli sussurrò all'orecchio, strusciandosi piano contro il suo corpo.

Aveva la pelle fredda come al solito, ma Matthew non ci fece caso. Ci avrebbe impiegato poco a riscaldarla. «Mmh, sono d'accordo...»

Mildred gli lasciò un bacio sulle labbra. «Buon Natale, tesoro...»

«Buon Natale, Mil»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3261303