Se son rose fioriranno altrimenti...in bocca al lupo! di HannibalLecter (/viewuser.php?uid=452484)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Girasoli e piante grasse ***
Capitolo 2: *** Edera e gramigna ***
Capitolo 3: *** Fiori secchi ***
Capitolo 4: *** Roselline e spine ***
Capitolo 5: *** Caprifoglio e papaveri ***
Capitolo 6: *** Primule e calendule ***
Capitolo 7: *** Rose rosa o rosse? ***
Capitolo 8: *** Funghetti allucinogeni ***
Capitolo 9: *** Boccioli ***
Capitolo 10: *** Fiori di lillà ***
Capitolo 11: *** Fragoline di bosco ***
Capitolo 12: *** Fioritura ***
Capitolo 13: *** Fiori d'arancio ***
Capitolo 14: *** Orchidee ***
Capitolo 15: *** Viole del pensiero ***
Capitolo 16: *** Fichi d'India ***
Capitolo 17: *** Addio e grazie per i fiori ***
Capitolo 18: *** Hibiscus ***
Capitolo 19: *** Nontiscordardimé ***
Capitolo 20: *** Bouganville ***
Capitolo 21: *** Glicine ***
Capitolo 22: *** Cactus Saguaro ***
Capitolo 23: *** EPILOGO: Le rose sono fiorite ***
Capitolo 24: *** EXTRA: Amanita Phalloides ***
Capitolo 25: *** EXTRA: Stella di Natale ***
Capitolo 1 *** Girasoli e piante grasse ***
Felicity
«...Io
lo avevo detto che le begonie
color magenta avrebbero rovinato l'equilibrio dell'insieme»
«Tu
lo avevi detto? Ma per favore!
Sei stata tu, Theresa, ad insistere tanto per quei fiori orribili. Io
volevo
piantare dei tulipani sulle tinte dell'arancio...»
«Sì,
certo, e cosa c'entra
l'arancione con tutto il resto? Dovevamo fare un'aiuola più
grande e invece tu,
Richard, hai fatto cementare mezzo giardino, giardino per cui, giusto
come
promemoria, abbiamo dovuto sborsare ventimila dollari in
più!»
«Almeno
sappiamo dove parcheggiare le
auto! Se ascoltavo te ora avrei un'inutile serra piena di frutti di
bosco e la
macchina posteggiata a sei isolati da qui. E poi erano 19.800 dollari
in più,
non ventimila. Se proprio vuoi fare recriminazioni sii almeno precisa,
cara»
«Richard
perché non te ne vai a fare
un giro nella zona barbecue, che hai tanto voluto, e che userai solo il
4 di
luglio per fare due bistecche carbonizzate?»
Finiva
sempre così. Finiva sempre con
io che infilavo la testa in qualche arbusto, fingendomi interessata al
tipo di
terriccio utilizzato, per tentare di eclissarmi e non essere coinvolta
nei
furiosi litigi che avevano sempre luogo al momento conclusivo del mio
lavoro.
Era una scusa bella e buona per tentare di restare una spettatrice
della faida
che stava avendo luogo davanti a me, era una scusa perché io
sapevo tutto sulla
tipologia di terriccio utilizzata dal momento che era stata
accuratamente
selezionata dalla sottoscritta.
Le
persone si incontrano, si
innamorano, per un certo periodo pensano solo a fare i piccioncini,
dopodiché
decidono di evolversi, esattamente come farebbe un Pokemon.
Perché
non andare a convivere? Perché
non conoscere le rispettive ed assolutamente adorabili future suocere?
Perché
non fare un salto in oreficeria a comprare un anello, meraviglioso
gioiello
capace di far perdere la tramontana alle ragazze e farle strillare un
convintissimo SÌ! alla fatidica domanda, posta dal
fidanzato, magari
inginocchiato a terra e con Tour Eiffel sullo sfondo?
Matrimonio.
Luna di miele. Casa
nuova.
Preferibilmente
casa con giardino.
Eh
sì, perché l'errore di tutte
queste coppie avveniva quasi sempre a questo punto.
Ovvio,
a volte avveniva anche prima,
specialmente se decidevi di accasarti con un omuncolo dalla
personalità
completamente soggiogata dalla madre, impicciona con i fiocchi, naso
sempre
infilato nei cassetti di casa tua e consigli inopportuni e non
richiesti sempre
a portata di mano.
Le
lenzuola a 60 gradi? Macché siamo
matti?! Non vorrai che i meravigliosi ricami della Prozia Josephine
vengano
rovinati? Meravigliosi ricami che ti hanno procurato un altrettanto
meraviglioso
eritema cutaneo grazie al loro effetto grattugia e che, anche dopo
quindici
lavaggi alla massima potenza, sanno ancora di naftalina e disinfettante
d'ospedale.
Oppure
con un personaggio che faceva
visita all'estetista più spesso di te, avesse sul corpo la
metà dei peli che
avevi tu e spendeva in cosmetici il quintuplo di ciò che
spendevi tu.
Cara,
cosa sono queste doppie punte?
Se vuoi posso consigliarti una nuova maschera per capelli, naturale al
cento
per cento, un composto di alghe, grasso di balena, bava di lumaca e
pipì di
pipistrello, veramente portentoso!
Se
l'errore non riguardava la scelta
del compagno allora riguardava senza dubbio la scelta di acquistare una
casa
circondata da uno spazio verde.
Quasi
tutti vedevano il possedere un
giardino come un qualcosa che avrebbe reso più gioiosa e
verde la vita.
E
normalmente sarebbe stato così se
non fosse stato per i giardinieri, tutti ladri o scansafatiche.
Vogliamo
parlare di tutte le foglie perse dalla magnolia? E chi le raccoglieva
le
foglie? E le siepi da potare? E il prato da livellare? E i fiori da
innaffiare?
Un
giardino non era un optional che,
pagando profumatamente, ricevevi assieme alla nuova casa.
Uno
spazio verde era come un cucciolo
da crescere, allevare e a cui voler bene.
Bisognava
curarlo, dedicargli tempo
ed amarlo.
La
natura è estremamente munifica, ci
fa doni preziosi e in cambio chiede pochissimo.
Prendete
ad esempio quelle piante
grasse che mia nonna chiamava belle di notte;
paiono semplici cactus, le
innaffi una volta ogni tanto, le sposti in un luogo luminoso e loro ti
regalano
una meravigliosa fioritura, tanto bella quanto caduca, dato che nel
giro di un
giorno o poco più essa appassisce.
«Non
capisci, è un investimento per
il futuro, per quando faremo delle grigliate ai compleanni dei
bambini...»
«Oh
Richard, hai ragione. I nostri
bambini adoreranno giocare a basket nella zona con il porfido, come sei
previdente»
Ecco,
era bastato ventilare l'opzione
di futuri pargoletti e la moglie era già in brodo di
giuggiole.
Un
lampo di invidia interruppe il
corso dei miei pensieri ma mi affrettai a scacciarla via.
Mi
rimisi in piedi e sfilai i guanti
da giardinaggio, scrollando la terra rimasta adesa ad essi.
Vedevo
in continuazione coppie che mi
chiedevano di aiutarli a costruire una meravigliosa cornice fiorita e
lussureggiante al loro nido d'amore. Ormai avrei dovuto farci
l'abitudine, così
come ormai ero familiare con i litigi futili per la posizione che
avrebbe
dovuto occupare un ulivo o il colore della ghiaia del vialetto
d'ingresso.
Avrei
dovuto, già, ma era inutile
negare che vedere il proprio sogno realizzarsi nella vita di tanti
sconosciuti
e mai nella propria era frustrante a volte.
Sono
un’inguaribile romantica e devo
confessare che da piccola la mia attività preferita
consisteva nel celebrare il
matrimonio del mio unico Ken con le mie molteplici Barbie. E tutto
ciò generava
continue liti intervallate da energiche tirate di capelli e morsi con
Zoe, mia
sorella maggiore, il cui hobby prediletto consisteva invece nel
decapitare le
Barbie e cercare di sventrare Ken per vedere come fosse fatto il suo
intestino.
Zoe
aveva un futuro come chirurgo, o
come macellaio, in effetti sarebbe stata anche una degna erede di Jack
lo
Squartatore, e invece era finita a scrivere articoli per una rivista
punk letta
da un totale di duecento persone e a pubblicare raccolte di racconti
dalle
tinte macabre sotto pseudonimo.
Il
sole stava per tramontare e io non
vedevo l'ora di caricare tutti i miei attrezzi e i miei vasi sul retro
del
furgone e partire alla volta della mia piccola oasi di pace.
Richard
e Theresa avevano smesso di
bisticciare e rinfacciarsi l'un l'altro questioni vecchie quanto la
terra e ora
sorridevano felici, mani allacciate, e ammiravano il loro nuovo
giardino.
Avevo
fatto un buon lavoro, ne ero
più che certa.
Ok,
ok, probabilmente io non avrei
insistito tanto per avere cinque betulle posizionate a stella al centro
del
prato né per i graticci ricoperti di gelsomino che
contornavano ogni spazio
libero e saturavano l'aria con il loro profumo intenso, che se troppo
prepotente risultava nauseante, ma, considerate le iniziali richieste
del tutto
strampalate e al limite del pacchiano, ero riuscita ad accontentare
loro e a
far si che il giardino fosse grazioso ed elegante.
«Felicity,
non potremo mai
ringraziarti abbastanza per ciò che hai fatto»,
chiocciò Theresa prendendomi le
mani e sorridendomi commossa.
Il
marito la raggiunse e le posò un
braccio sulle spalle, «Mia moglie ha ragione, sei stata
splendida e hai fatto
un lavoro ammirevole»
Dopo
altri sorrisi, complimenti e
strette di mano ci congedammo, entrambi soddisfatti e contenti.
Certo,
pensai arrampicandomi sul
predellino del furgone, loro ora avevano un meraviglioso paradiso
fiorito da
godersi con la persona amata mentre a me toccava tornarmene a casa,
stanca e
sporca di terra fin nelle scarpe, dove mi attendeva George, il mio
pesciolino
rosso, e nessun'altro.
Parcheggiai
sul retro della mia
villetta e, nonostante la spossatezza, decisi di scaricare subito il
furgone e
di riporre tutta la mia attrezzatura da lavoro nella casetta di legno
che la
ospitava di solito.
Avrei
potuto rimandare ma uno sguardo
al cielo, plumbeo e minaccioso, mi fece cambiare idea.
Almeno
per quella sera non sarei
dovuta uscire ad innaffiare l'orto o far partire l'impianto di
irrigazione.
Posizionai
i secchi per la raccolta
dell'acqua piovana nel giardino sul retro e, dopo aver chiuso il
chiavistello
della casetta degli attrezzi e aver infilato il naso nella piccola
serra per
una veloce ispezione, mi incamminai verso la casa buia.
Mi
sfilai gli scarponcini da lavoro
infangati e li lasciai sotto al portico, a lato della porta finestra
della
cucina.
In
casa regnava la penombra e il
silenzio più assoluto. Non sopportavo la luce artificiale,
fredda e bianca,
adoravo quella casa proprio perché dotata di molte
più finestre rispetto alle
altre e amavo la conseguente luminosità che accompagnava le
mie giornate da
mattina a sera.
Abbandonai
la borsa di tela color
verde militare che usavo sempre al lavoro sul divano e, senza neanche
fermarmi
a recuperare le ciabatte, mi affrettai verso il piano di sopra.
«Ahi!»,
come mi capitava nel 99% dei
casi, quando volevo aggirarmi per casa senza accendere le luci sperando
di
vederci qualcosa, avevo picchiato il mignolino del piede contro uno
spigolo.
Era incredibile quanto facesse male. Aggrappandomi al corrimano, per
non dover
appoggiare il piede malandato a terra e non ruzzolare a terra vista la
mia
scarsa agilità, riuscii a raggiungere, zoppicando
e maledicendo quello stupido
spigolo malefico, il bagno.
Gettai
i jeans macchiati di verde e
la leggera maglia in felpa color giallo chiaro nella cesta delle cose
da
lavare, seguiti dal paio di calzini a giraffe che indossavo quel giorno
e la
canottiera rosa, stinta dai troppi lavaggi aggressivi.
Pigiai
il tasto di accensione della
radio e, canticchiando le parole sbagliate di una hit del momento,
zampettai in
camera da letto, dove pescai il mio portatile e lo accesi.
Mentre
aspettavo che si caricasse,
attività che avrebbe richiesto un minimo di dieci minuti,
considerata la zona
piuttosto fuori mano in cui abitavo e la mia adsl decrepita, feci
ritorno in
bagno dove trovai due occhioni tondi fissi su di me ad attendermi.
«George,
perdonami!», esclamai
acciuffando la sua boccia e dirigendomi giù per le scale.
«So che ti piace
trascorrere il tempo in salotto sul davanzale quando non ci sono ma
stamattina
mi sono proprio scordata di te»
In
tutta risposta il mio pesciolino
emise delle bolle.
«Su,
non fare l'offeso. Sai che di
mattina presto sono più sbadata del solito. Per farmi
perdonare guarda un po'
cosa ti darò: una dose doppia di mangime! Yuppiii!»
Dopo
aver scambiato altre due parole
con George, feci ritorno al piano superiore e accesi la doccia.
Non
solo l'adsl era lenta in quella
casa ma anche la caldaia. Mentre l'acqua gelida scendeva nel box doccia
tornai
in camera dove, dopo aver immesso la password, mi collegai alla mia
casella di
posta elettronica.
Non
possedevo un cellulare, perciò
tutti i miei contatti si limitavano al telefono di casa e al mio
indirizzo
email.
Newsletter
del teatro cittadino, spam
di un sito olandese di bulbi, due righe di ringraziamento da parte del
mio
penultimo cliente e un messaggio di Theodore.
Felicity,
Questo
fine settimana non ho
lezione e il seminario del sabato è sospeso a causa della
pausa per le vacanze
di primavera perciò sarò alla stazione
venerdì sera. Probabilmente sarò sul
treno delle 21.17 perciò posso prendere un taxi per venire
da te, non vedo la
necessità di disturbarti inutilmente.
Sto
leggendo un saggio molto
interessante sull' Ulmus
campestris e ci sono
dei passaggi molto interessanti che vorrei sottoporre alla tua
attenzione.
Gli
studenti sono sempre più
irrequieti, illusi da queste giornate di pallido sole, sentono
già l'odore
dell'estate e iniziano a fare progetti sulle ferie, dimenticandosi che
tra il
mare e la libertà estiva ci sono io: io e l'importante esame
che devono
sostenere.
Ai
miei tempi l'università
era presa molto più sul serio; era un'opportunità
preziosa che ci veniva
offerta e non un obbligo a cui venivamo forzati. Ovviamente parlo per
me, la
tua triste vicenda universitaria mi è nota, perdonami.
A
presto cara,
Professor
T. H. Graham
Sospirai
delusa chiudendo il mio
account Gmail.
Cosa
mi aspettavo? Sapevo benissimo
che Theodore non era tipo da smancerie e sviolinate, e se non lo sapevo
inizialmente sicuramente dopo tre anni di relazione avrei dovuto
apprenderlo.
Eppure
ogni volta leggevo avida le
sue parole in attesa di un 'Mi manchi' scribacchiato alla fine o di un
'Oggi ti
ho pensata' gettato quasi casualmente
nel bel mezzo del resoconto della sua ultima lezione.
Misi
il pc in standby ripromettendomi
di rispondere alla mail più
tardi, e dopo essermi liberata della biancheria mi gettai sotto il
getto caldo
della doccia. Forse speravo di poter sciacquare via, insieme alla terra
e al
sudore, anche quel perenne senso di insoddisfazione che mi accompagnava
da un
anno a questa parte.
Dopo
essermi asciugata, mi infilai
una vecchia felpa scolorita, un paio di pantaloni del pigiama e uno
spesso paio
di calzettoni decorati con pomodori e carote.
Intrecciai
i capelli umidi e
trotterellai al piano inferiore. Veloce tappa al frigorifero, dove
recuperai
una fetta di torta salata ai carciofi preparata il giorno precedente e
un
bicchiere di latte, e insieme al mio libro andai ad appollaiarmi sul
divano in
veranda.
Il
cielo era sempre più cupo,
rischiarato ad intervalli sempre più brevi da lampi di luce,
seguiti da tuoni
lontani che non preannunciavano nulla di buono.
Dopo
aver cenato, riempii il mio
annaffiatoio argentato alla fontanella nell'angolo e diedi da bere alle
mie
piantine aromatiche e ai vasi fioriti che rendevano la mia veranda una
piccola
giungla colorata e profumata.
Mi
accoccolai nuovamente sul morbido
divano e stesi il mio plaid a quadretti sulle gambe. Aprile era alle
porte ma
la temperatura era ancora freddina la sera.
Mi
immersi nella lettura, beata nel
mio piccolo mondo verde e mi scordai di rispondere a Theodore.
***
Liam
«Quella
statuetta cinese è un dono
della mia bisnonna Brunilde per le nostre nozze. Tu odiavi quel clown
piangente, lo odiavi. Ripetevi sempre che ti fissava e avevi insistito
perché
non lo mettessi sul cassettone in camera nostra»
«Io
adoravo quella statuetta. Ha
trascorso gli ultimi sei anni nella vetrinetta in sala da pranzo solo
perché io
l'ho salvata da te e dalla tua intenzione di donarlo ad una pesca di
beneficenza. Io lo spolveravo con cura tutte le settimane mentre tu hai
rischiato di romperlo ben più di una volta»
«Ma
non dire caz- ... Taci, Rupert,
non farmi diventare scurrile. Non sai neanche dove si trovava il
ripostiglio
delle scope, figurarsi se spolveravi davvero quel clown
schifoso!»
«Lo
hai detto! Bene, è mio. Avvocato,
segni cortesemente»
«Sai
che affare! Non ho mai visto un
soprammobile così brutto ed inquietante in tutta la mia
vita»
«Lo
so, infatti finirà immediatamente
nell'immondizia. Ma almeno sarò io ad avere il piacere di
farlo e non tu. Ho
sempre detestato la tua bisnonna Brunilde, vecchiaccia
rancorosa»
«Non
parlare così dei miei parenti!»
«Ora
sei tu, Janet cara, che devi
smettere di dire cazzate. Hai passato tre quarti della nostra luna di
miele a
inveire contro i regali di nozze e gli abiti indossati al ricevimento
dal tuo
parentado, dando della puttana stagionata a tua zia Tori e augurando la
morte a
tuo cugino Dean»
Finiva
sempre così. Finiva sempre con
io che infilavo la testa in qualche cartelletta piena di documenti,
fingendomi
interessato a scartoffie su quante ore di tv potesse vedere il bambino,
figlio
di una coppia neodivorziata, e quanti litri di acqua al giorno dovesse
bere,
per tentare di eclissarmi e non essere coinvolto nei furiosi litigi che
avevano
sempre luogo in ogni momento del mio lavoro. Era tutta una scusa,
ovviamente
sapevo benissimo che il piccolo Finn Jones avrebbe dovuto assumere 1,75
litri
di acqua giornalmente e non guardare la televisione per più
di 103 minuti, lo
sapevo benissimo dato che quel documento lo avevo redatto io.
Le
persone si incontrano, si
innamorano, per un certo periodo pensano solo a fare i piccioncini,
dopodiché
impazziscono e cadono nella trappola mortale di LSS. Anche detta La
Scelta Suicida:
il matrimonio.
Chicchi
di riso, torta a sette piani,
viaggio alle Bahamas, casa nuova, comunione dei beni, station wagon,
primo
pargolo, cagnolino, casa nuova con giardino, secondo pargolo.
E
dopo?
E
dopo entravo in gioco io.
Sì,
perché il 35% di tutte queste
belle favole finiva con il divorzio.
Divorzio
vuole dire tante cose.
Ad
esempio parcella super generosa
agli avvocati divorzisti, vedere lo stipendio mensile del sottoscritto
come
conferma.
O
discussioni furiose e cariche di risentimento
per decidere a chi spetti tenere la macchina per il pane, appena
riesumata
dalla cantina dopo anni di oblio, o la maschera da sub ritrovata dagli
uomini
dei traslochi dietro alla scaffalatura della taverna.
O
anni e anni di insulti repressi e verità
nascoste urlati con cattiveria di fronte a cento persone sconosciute in
un'aula
di tribunale. Perché non avremmo potuto continuare a vivere
tranquillamente se
non fossimo stati messi a conoscenza del fatto che Jim si era fatto la
madre di
sua moglie Sally, la quale non riuscendo a restare incinta del
sopracitato Jim,
era ricorsa ad un donatore anonimo e quando poi il figlio era nato con
gli
occhi a mandorla aveva incolpato il coreano del negozio di alimenti
sotto casa
di averla sedotta ed abbandonata. Jim allora aveva fatto una bella
scazzottata
con il povero coreano innocente, rivelatosi però un vero
Jackie Chan, ed era
finito al pronto soccorso con tre costole rotte, un femore sbriciolato
e la
milza spappolata. Si era poi scoperto che aveva un cancro al colon e la
madre
di Sally nel scoprire ciò aveva urlato al mondo di aspettare
un figlio da Jim e
dopodiché era stramazzata al suolo a causa di un infarto.
O
poveri bimbetti strapazzati di qua
e di là da due genitori assolutamente scellerati che
facevano il calcolo dei
secondi presenti in una settimana per fare in modo di spartirsi il
figlio in
modo equo.
Adoravo
il mio lavoro, soprattutto
perché grazie ad esso potevo concentrarmi sulle disgrazie
altrui ignorando,
almeno momentaneamente, le mie.
Conducevo
la tipica vita da scapolo
più che benestante: studio legale, golf, palestra, aperitivi
con gli amici,
weekend con ragazze bellissime da scaricare la domenica sera e attico
in cui
mettevo piede giusto per dormire.
Dopo
altri cinquanta minuti di
battibecchi Janet e Rupert mi strinsero la mano e, ignorandosi a
vicenda,
lasciarono il mio studio.
Mi
massaggiai esausto le tempie
cercando un po' di sollievo. Ultimamente avevo perennemente dei mal di
testa
lancinanti.
L'elegante
orologio a pendolo affisso
accanto alla finestra segnava le sei e quarantatré e la
stanza era ormai in
penombra, chiaro segno che il sole era già tramontato.
Sistemai
le varie cartellette di
documenti sparse sulla scrivania, infilai nella mia ventiquattr'ore le
scartoffie relative ai clienti con cui avevo appuntamento il giorno
seguente e
spensi la lampada in stile art noveau, che faceva bella mostra di
sé tra un
prezioso tagliacarte in madreperla e un portapenne indonesiano,
souvenir del
mio ultimo viaggetto antistress.
Recuperai
il mio soprabito e uscii
socchiudendo la porta. Salutai Diana, la mia segretaria,
rimproverandola per il
sui ritardo nel raggiungere i suoi due bambini che la attendevano a
casa e me
ne andai, immergendomi nell'aria frizzante di quella sera.
Il
viaggio fino a casa fu estenuante.
Odiavo abitare in una grande città quando ciò
voleva dire ore bloccati nel
traffico delle ore di punta, furiose suonate di clacson e imprecazioni
senza
sosta rivolte a pedoni e ciclisti incoscienti che decidevano di tentare
il
suicidio gettandosi davanti alla tua auto senza preavviso.
Il
mio iPhone lampeggiava senza sosta
dal sedile del passeggero e io dovetti sforzarmi di pensare ai trecento
dollari
di multa per uso del telefono cellulare alla guida pagati tre settimane
prima
per frenare il mio istinto di allungare la mano ed afferrare il
telefono e
controllare chi mi avesse scritto.
Parcheggiai
la mia scintillante Audi
nel posteggio a me riservato e mi diressi verso l'ascensore, rivolgendo
un
cenno del capo al custode del parcheggio sotterraneo nel passare
davanti al suo
ufficio.
Strisciai
il mio badge argentato
e, mentre i
numeretti scorrevano
pigramente sul display al di sopra della lucida pulsantiera, scorsi le
email
ricevute, cestinandone la metà senza neppure aprirle.
Il
mondo era pieno di scocciatori e
non avevo nessuna voglia di prestare loro neanche un briciolo della mia
attenzione, figurarsi il mio prezioso tempo o la mia impeccabile
competenza
professionale.
L'ascensore
trillò per annunciare che
avevamo raggiunto l'ultimo piano e le porte metalliche si aprirono
silenziose
davanti a me.
Di
fronte alla vetrata che si
affacciava sulla città illuminata c'era una figura maschile,
di spalle rispetto
a dove mi trovavo.
«Dovrò
decidermi a toglierti il pass
d'accesso a casa mia», borbottai gettando con noncuranza la
giacca sul divano
di pelle nera.
L'uomo
non si voltò ma lo udii
ridacchiare, «Sono certo che dopo averti comunicato le liete
novelle di cui
sono ambasciatore desidererai averlo fatto...»
Non
mi allarmai più di tanto,
Matthew, era un bravo avvocato ma tendeva ad essere leggermente
melodrammatico.
Avevamo
frequentato insieme la
facoltà di legge di Harvard ma,
mentre
io avevo preferito le schermaglie tra mogli che avvelenavano la cena
del marito
e coniugi che tentavano di soffocare le consorti come dei moderni
Otello, lui
aveva scelto di intraprendere il ramo del notariato. Si occupava di
eredità,
lasciti ed era testimone di lotte all'ultimo sangue per sancire quale
dei
trentasette pronipoti ingrati e avidi di un magnate del petrolio avesse
diritto
alla fetta più cospicua del patrimonio di famiglia.
«Mildred
è morta, soffocata
accidentalmente dalla sua stessa lingua biforcuta?», mi
informai dirigendomi
verso la cucina.
Aprii
il mio frigorifero spaziale
curioso di sapere cosa mi avesse cucinato quel giorno Inés,
la mia tuttofare di
fiducia.
Invece
di trovare un bel piatto
guarnito e pronto per il microonde mi imbattei, con mio grande
disappunto, nel
vuoto cosmico che regnava nel freddo e spoglio interno
dell'elettrodomestico.
«Niente
cenetta succulenta questa
sera, la tua cara Inés ti informa che suo cugino Pedro ha
avuto un attacco di
cuore e si scusa», Matt confermò il mio triste
presagio sventolandomi un
biglietto davanti al viso.
Prima
o poi la sua domestica avrebbe
imparato il suo nome pensò leggendo il Señor
Liam Cater Writ scarabocchiato in cima al post-it.
Inés
proveniva da una famiglia di
origini portoricane decisamente troppo numerosa. Il mese scorso si era
assentata per il matrimonio di Carmen, per accompagnare
Lenór dalla ginecologa,
per i continui attacchi di panico di Javier, per badare al figlio della
parrucchiera della vicina di casa di sua sorella e per andare al saggio
scolastico della nipotina della sua ex collega.
Ma
bastava uno dei suoi manicaretti
da stella Michelin a farmi dimenticare il suo rumoroso e fastidioso
parentado.
«Com'è
messo il tuo stomaco?»,
domandai al mio amico dirigendomi verso il telefono posato su un lucido
tavolinetto tondo al lato della poltrona.
Non
avevo mai imparato a cucinare
neanche la più semplice delle pietanze e se ero arrivato a
trentaquattro anni in
salute e senza rischiare la morte per inedia era soltanto grazie ai
take away e
alle donne della mia famiglia.
I
pranzi di undici portate di mia
nonna May e i conseguenti mal di pancia dovuti all'abbuffata sono dei
ricordi
difficili da scordare, così come la tovaglia a quadri rossi
e bianchi e il suo
grembiule giallo perennemente macchiato di sugo.
Scacciai
quei ricordi e afferrai il
cordless e la lista dei numeri dei ristoranti che consegnavano a
domicilio.
Matthew
nel frattempo si era
accomodato su uno degli alti sgabelli cromati della penisola della
cucina.
«Mildred
è di nuovo nella sua fase
dieta, ormai mangia solo riso basmati scondito e cavolini di
Bruxelles...», mi
rispose scuotendo sconsolato il capo.
«Motivo
in più per liberarsi di lei
una volta per tutte!», esclamai risoluto, scorrendo con lo
sguardo i vari nomi
dei locali. «Stasera andiamo di thailandese.
Obiezioni?»
«Due
sere fa ho cenato con due fette
di cetriolo e una spremuta di pompelmo; mangerei anche una bistecca di
orso
polare a questo punto»
Dopo
una breve telefonata al
ristorante e un rapido avviso alla portineria tornai dal mio amico che
stava
fissando sconsolato il suo riflesso sulla superficie a specchio del
bancone.
«Insomma
qual è il problema?»
Aprii
nuovamente il frigorifero e
pescai un paio di bottiglie della pregiata birra prodotta alla vecchia
maniera
in un monastero che mi facevo recapitare direttamente dalla Germania.
«I
miei problemi confrontati ai tuoi
non sono nulla...»
Sbuffando
mi accomodai di fronte a
lui allungandogli una delle due bibite. «Hai finito di
profetizzare sventure?
Dimmi cosa è successo»
Non
amavo i giri di parole e non
credevo nel basta un poco di zucchero e la pillola va
giù. Le cose
andavano dette, per quanto crudeli e dolorose potessero essere.
«È
stato ritrovato il testamento di
tuo nonno Tobias...»
Rimasi
per un attimo disorientato.
Tobias era il padre di mia madre ed era morto ben dieci anni prima. Era
già
vedovo al momento della sua scomparsa e tutti pensavano che la sua
grande
tenuta in campagna e i suoi risparmi sarebbero passati ai tre figli ma
poco
dopo si era scoperto che il vecchio aveva accumulato una vera e propria
fortuna
e un nuovo figlio si era fatto vivo avanzando la pretesa di ottenere
una parte
del lascito.
In
assenza di testamento era stato
tutto diviso tra mia mamma e i suoi due fratelli e la casa di campagna
era
stata chiusa, i mobili coperti da lenzuoli lisi e le finestre sbarrate.
Gli
feci cenno di continuare non
sapendo bene cosa dire al riguardo. Non riuscivo a capire come la cosa
dovesse
riguardare me nello specifico.
«Ti
ha lasciato la casa», Matthew
spinse verso di me un fascicolo di fogli e mi indicò un
paragrafo e subito dopo
il mio nome, Liam Carter Wright, per confutare i miei dubbi.
Fissai
la lancetta dell'orologio a
parete affisso di fronte a me e mentre i secondi passavano ticchettando
cercai
di ricordarmi l'ultima volta che avevo visto mio nonno. Andavamo a
trovarlo di
rado, mio padre non era mai andato troppo a genio al suocero e vecchi
rancori
impedivano ai due di sostenere una conversazione civile.
Probabilmente
era il mese di Aprile
dato che ricordo chiaramente che morì nel bel mezzo della
primavera, la sua
stagione preferita. Se chiudessi gli occhi potrei ancora vederlo, la
sua figura
leggermente ingobbita ma pur sempre imponente stagliata contro la porta
d'ingresso, il suo tono sempre burbero e le sue mani dure, da persona
che ha
passato una vita a lavorare la terra che mi lasciavano dei buffetti
sulle
guance, nonostante i miei vent'anni.
«Non
può averlo fatto, ero il nipote
che vedeva di meno e poco prima della sua morte aveva avuto un litigio
più
violento del solito con mia madre...»
«E
invece, leggi qui, nero su bianco.
Sei l'unico proprietario. Casa e terra. È tutto
tuo», Matt levò dalla tasca
della sua elegante giacca beige un paio di chiavi e me le porse
sorridendo
incoraggiante, «Chi lo sa, magari fare l'agricoltore
potrà rivelarsi una scelta
più felice di giurisprudenza...»
«Io
amo il mio lavoro», precisai.
Il
mio amico fece un gesto noncurante
con la mano e sbuffò, «Non lo metto in dubbio ma
non penso che la vita che
conduci da quando non sei più s-»
Lo
interruppi senza curarmi di
apparire maleducato, «Lo so cosa pensi Matthew. Ma,
onestamente, la
cosa non turba il mio sonno o influisce
sulla mia vita, che gestisco come mi pare e piace essendo adulto e
vaccinato»,
lo misi a tacere con poco garbo.
Sapevo
di essere stato ingiusto con
lui, eravamo amici da quindici anni e non si meritava la mia scortesia
ma
purtroppo non sopportavo quando le persone iniziavano a darmi consigli
non
richiesti e a criticare il modo in cui avevo deciso di condurre la mia
vita.
Matt
alzò le mani in segno di resa e
ridacchiando si alzò dal bancone, «Afferrato il
concetto! Sei sempre più
suscettibile amico mio, sarà la mezza età che si
avvicina inesorabile...»,
ghignò.
Il
trillo del campanello precedette
la mia risposta al vetriolo perciò mi limitai a regalargli
un dito medio poco
elegante ma sempre efficace prima di dirigermi verso l'ascensore.
Ritirai
la nostra cena dalle mani di
Oscar, la povera anima che veniva sfruttata senza pietà dal
nostro portinaio,
e, dopo avergli allungato dieci dollari, tornai dal mio amico.
«Allora,
come sta la cara Mildred?»,
chiesi recuperando un paio di tovagliette da un cassetto.
«Secondo
me benissimo ma ora si è
autoconvinta di avere un tumore della pelle e sta dilapidando il mio
capitale
vagando senza sosta tra oncologi e luminari della
dermatologia...»
«L'ultima
volta che ho avuto il
piacere di incontrarla mi aveva detto che sentiva che presto avrebbe
avuto un
ictus...», lo informai.
Lui
alzò le spalle e storse le
labbra, «Se avessi dato ascolto a ciò che diceva
di "sentire" sarebbe
dovuta essere morta già sette volte da quando stiamo
insieme»
Scossi
la testa non riuscendo a
capire, come sempre, perché mai Matthew si ostinasse a
dividere il letto con
quella donna sgradevole e più simile ad una farmacia
ambulante che ad una
compagna di vita.
Mi
sedetti di fronte alla nostra
cenetta e mi rilassai pensando per l'ennesima volta a quanto fossi
fortunato ad
essere meravigliosamente scapolo.
Buonasera a tutti quelli
che ce l'avranno fatta ad arrivare fino a qui. Probabilmente da questo
capitolo non si capisce un accidenti, o un cactus come direbbe
Felicity, ma l'intento era un po' quello. L'inserire i due punti di
vista nello stesso capitolo è un esperimento che non credo
avrà seguito; mi piaceva come idea per introdurre
parallelamente i protagonisti ma penso crei un po' di
confusione, che ne dite voi?
Detto ciò
sparisco e inizio a sperare in qualche commentino.
S.
|
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Capitolo 2 *** Edera e gramigna ***
Liam
«Il
caso Field contro Jackman è stato
archiviato e Jerry ha chiesto una copia dei documenti»
Scartoffie.
«Mrs.
Taylor mi ha chiamato ben
trentasette volte questa mattina e alla trentottesima ho ceduto e le ho
detto
che la riceverai domani»
Altre
scartoffie.
«I
gemellini dei Ferguson dopo il
disperato tentativo di rapimento da parte del loro squilibratissimo
genitore
sono stati momentaneamente affidati alle cure dei nonni materni in
attesa
dell'udienza di giovedì»
Una
pila di scartoffie sempre più
alta e pericolante si stava formando davanti al mio naso man mano che
Diana, la
mia efficientissima segretaria, snocciolava aggiornamenti e promemoria
in modo
ordinato e quasi meccanico.
Fissavo
distratto quei fogli su cui
venivano riportati per filo e per segno vicende di decine di coppie.
Tanti
caratteri fitti fitti battuti a computer da una diligente impiegata.
Fascicoli
diligentemente etichettati e catalogati.
«...Mr.
Van Houten ha chiesto di-»
«Mr.
Van Houten ha telefonato?». Mi
riscossi rapidamente sentendo quel nome, nome che suscitava sempre
dentro di me
una serie di emozioni contrastanti che andavano dal rispetto tendente
alla
venerazione alla cieca invidia per ciò che quell'uomo era
riuscito a creare. Mi
alzai agitato dalla sedia, «Diana, ha chiamato qui in
ufficio?»
La
povera donna, presa in contropiede
dal mio repentino sbalzo d'umore, annuì e mi
spiegò balbettando che meno di due
ore prima aveva parlato al telefono con la segretaria personale di Mr.
Van
Houten, il quale desiderava incontrarmi.
La
cosa mi mise ancora più in ansia;
perché l'uomo a capo di uno dei più importanti ed
influenti studi legali del
paese voleva vedermi?
«Che
ore sono ora?», lanciai
un'occhiata al mio orologio da polso mentre facevo avanti e indietro
tra la
scrivania e la finestra, «È troppo tardi adesso.
Domani la prima cosa che farai
appena arriverai sarà ricontattare il suo ufficio e fissare
un appuntamento per
qualsiasi giorno e in qualsiasi luogo egli desideri. Diana, non esitare
a
cancellare qualsiasi appuntamento, udienza o trasferimento avevo in
programma,
sono stato chiaro?»
Montgomery
Van Houten era una
leggenda in campo legale. Erede di una famiglia che aveva fatto
dell'azienda
farmaceutica il proprio impero aveva voltato le spalle a tutto
ciò per gettarsi
anima e corpo nell'avvocatura.
Avevo
letto tutte le nove biografie
non autorizzate uscite sul suo conto e sapevo benissimo delle nottate
passate a
fare il turno di notte in un'azienda siderurgica per riuscire a pagare
il mutuo
del piccolo stabile che aveva acquistato in Florida per fondare il
proprio
studio legale. Ora quell'uomo dormiva tra lenzuola di fine seta cinese,
mangiava salmone norvegese freschissimo, beveva il pregiato vino
prodotto dalla
sua cantina in Toscana e viveva in una villa che come estensione si
avvicinava
ai dieci campi da football, senza contare il giardino e il campo da
golf. Aveva
costruito un regno partendo da un vecchio magazzino abbandonato e lo
aveva
fatto semplicemente tirandosi su le maniche e lavorando sodo. Per
questo aveva tutta
la mia ammirazione.
Quella
era stata una giornata
stranamente tranquilla perciò decisi che sarebbe stato
più saggio andarsene via
dall'ufficio in anticipo piuttosto di passare la serata a fare il solco
nel mio
prezioso tappeto persiano scervellandomi riguardo alla telefonata
misteriosa.
Salutai
tutti quanti e mi diressi
verso il parcheggio. Infilai la mano nella tasca della giacca alla
ricerca
delle chiavi dell'auto ma invece di trovare lo squadrato telecomando
nero le
mie dita si imbatterono in una singola chiave. La estrassi e la fissai.
Era
rimasta lì da quando Matthew me l'aveva consegnata tre
settimane prima e me ne
ero quasi dimenticato. La scomoda questione di quella
eredità inaspettata era
stata parcheggiata momentaneamente in un cassetto della mia mente, in
attesa
del momento giusto per affrontarla e risolverla una volta per tutte.
Sul fatto
che me ne sarei liberato non nutrivo dubbi, dovevo solo stabilire come
e
quando.
Il
mio iPhone prese a vibrare nel
taschino interno della giacca e già dalla suoneria capii chi
fosse. Solo lei
poteva salvarsi usando Womanizer di
Britney Spears.
Così
ogni volta che mi chiamava era
come se sentissi la sua fastidiosa vocetta da ragazzina che mi
rimproverava e
agitava il dito facendomi segno che no, non mi stavo comportando per
niente da
bravo bambino.
Womanizer,
Woman, Womanizer
You're
a Womanizer, oh
Womanizer oh
You're
a Womanizer, baby
Lo
pescai in tutta fretta prima che
qualcuno nel passarmi accanto sentisse quelle parole poco lusinghiere
rivolte
al sottoscritto e mi rivolgesse uno sguardo indignato.
Sapendo
di non avere scampo, lanciai
uno sguardo sconsolato al sorriso diabolico stampato sul volto che mi fissava dallo
schermo del telefono e
accettai la chiamata, «Dimmi tutto, adorata sorella»
«Dovunque
tu sia non muoverti.
Terremoti, uragani, meteoriti: nulla varrà come scusa. Non
osare spostarti da
dove ti trovi ora». Dopodiché il cellulare mi
restituì un vuoto tu-tu-tu,
chiaro segno che la mia folle interlocutrice, dopo avermi lanciato
intimidazioni e ordini categorici, mi aveva bellamente chiuso il
telefono in
faccia.
Approfittai
del tempo d'attesa per
controllare i dati della borsa, leggere un articolo sul sito del Financial
Times e chiamare Matthew.
«Carissimo,
mi hai preceduto per una
frazione di secondo. Stavo per contattarti per conto della tua migliore
amica»
Mi
appoggiai al cofano della mia
auto, così lucido e splendente da non farmi temere per la
sorte dei miei
pantaloni Hugo Boss. «Hillary Clinton?»
«Indovinato!
Vorrebbe organizzare
un'uscita a quattro: tu, lei, Bill e Monica Lewinsky. Che ne
dici?»
«Dico
che sono deliziato dall'idea di
una cosa a quattro...», ridacchiai divertito.
«Bando
alle ciance! Mildred ti ordina
di venire a cena domani sera, volente o nolente»
Sbuffai
infastidito, quella donna era
sempre più soffocante ed importuna. Chissà chi
l'aveva eletta Cupido dei
poveri. «Non avevamo un patto noi due? Quando Mildred mi
invita io sono sempre
in viaggio. Sempre, anche se in realtà sono a fare i pesi a
due isolati da voi
o a sorseggiare Martini nel suo locale»
Un
rombo assordante seguito da uno
stridere di freni mi avvertì che la pazzoide era vicina.
«Scusa
amico, ma questa volta Mildred
mi ha convinto, anzi sarebbe meglio dire corrotto»
Una
Chevrolet arancio carota fece il
suo ingresso nel parcheggio ai centotrenta chilometri orari,
dirigendosi
inesorabile nella mia direzione.
«Che
ti ha promesso? Di scavarsi una
fossa e seppellircisi da sola? Avrei accettato anche io
allora»
«Molto
meglio amico mio: una bella
sculacciata su quel suo bel sederino aristocratico!»,
strillò esultante nel mio
orecchio.
Nel
frattempo l'auto color capelli
della famiglia Weasley, con una manovra da film d'azione, aveva
effettuato un
parcheggio a L, svoltando nel posteggio senza accennare a frenare fino
all'ultimo momento.
La
portiera si aprì e un piedino
fasciato da un paio di scarpe da corsa color melanzana
sbucò. Mi affrettai a
chiudere la chiamata.
«È
qui. Devo andare»
L'ultima
cosa che sentii fu la risata
roca di Matt prima di infilarmi il telefono in tasca e dirigermi verso
il
folletto alto un metro e cinquanta appena sceso dalla sua zucca.
L'unica
cosa che avevo in comune con
Judith Carter Wright era il patrimonio genetico, dopodiché
non c'era persona
alcuna che credeva che fossimo fratelli se non dopo aver controllato i
nostri
documenti e relativi certificati di nascita, aver ascoltato la
testimonianza
dei nostri genitori e aver interpellato il ginecologo che, seppur
sbalordito,
assicurava che quelle due creature erano uscite dal medesimo grembo.
Judy
se si allungava sulle punte dei
piedi riusciva forse a cingermi la vita con le sue minuscole braccine e
durante
i suoi momenti di travolgente affetto fraterno non esitava ad
arrampicarsi su
di me, proprio come farebbe una scimmia sul tronco di un albero di
banane, per
raggiungere l'altitudine necessaria a
lasciarmi un bacio sulla guancia. Quel giorno era avvolta in una felpa
stinta
ed extralarge dell'università di Stanford e in un paio di
jeans sdruciti che
avevano sicuramente visto tempi migliori. Portava i capelli tagliati
nel
medesimo caschetto spettinato fin da quando aveva quattro anni,
nonostante
fossero di un meraviglioso rosso aranciato.
«Raggiunto!
Che si fa di bello?»,
domandò entusiasta chiudendo la macchina e mettendosi a
tracolla la sua inseparabile
borsa porta computer.
La
squadrai sospettoso. Prima non
avevo pensato ad un piccolo particolare...
«Come
facevi a sapere dove mi
trovavo?»
Lei
scrollò le spalle e si passò una
mano nei capelli, scompigliandoli ancora di più. Un'upupa
avrebbe trovato
davvero accogliente quel cespuglio che si ostinava a tenere in testa
mia
sorella.
«Semplice.
Ho installato un
dispositivo GPS sulla tua auto». Me lo spiegò come
se fosse la cosa più
naturale del mondo. D'altronde chi non nasconde dispositivi di
localizzazione
nelle auto dei propri cari?
«E
perché lo avresti fatto?»,
domandai cercando di non infuriarmi.
La
compagnia di Judy consisteva
sempre in un perenne e costante esercizio di autocontrollo sulla
rabbia. Quella
puffetta era stata creata per mandarmi fuori dai gangheri.
Lei
sembrò rifletterci per un attimo
prima di sorridermi candida, «Perché è
divertente!»
Ormai
nulla di lei mi sorprendeva più
perciò sorvolai appuntandomi mentalmente di setacciare
l'interno della mia auto
alla ricerca del malefico aggeggio spia in futuro.
«Riformulo
la domanda: che si fa?»
Così
piccola eppure così fastidiosa.
«Io
vado a casa mia, tu non so...»,
borbottai aprendo la portiera e sedendomi al posto di guida.
Una
manina sgusciò al di sotto del
mio braccio e si infilò rapida nella mia tasca.
«Tadaaan!»,
strillò brandendo la
celebre chiave. «Tu guidi e io dormo»
«Come
farai allora ad assicurarti che
non mi diriga da tutt'altra parte e ti scarichi in un fosso?»
Lei
scosse la testa e ridendo di
gusto circumnavigò la vettura per dirigersi dal lato
passeggero. «Ricordati che
qui sono io il genio della tecnologia. Se imposto un percorso e tu fai
una
deviazione, io verrò avvertita e allora saranno guai.
Grossi, grandi e
potenzialmente invalidanti a vita guai».
Pescai
dal cruscotto i miei occhiali
da sole Persol e, dopo aver messo in moto, ingranai la retromarcia per
uscire
dal parcheggio e annettermi nel pigro traffico delle cinque e trenta di
pomeriggio.
«Ovviamente
non dovrebbe sorprendermi
il fatto che tu sia a conoscenza di tutta questa buffa storia
dell'eredità...»,
commentai mentre svoltavo verso lo svincolo della superstrada.
«Ovviamente!
La chiave te l'ho messa
io nella tasca della giacca stamattina!»
Voltai
la testa di scatto nella sua
direzione, «Com'è possibile? E come facevi a
sapere del testamento?»
Lei
mi rivolse uno sguardo di
rimprovero prima di togliersi le scarpe e mettere in bella mostra i
suoi
piedini fasciati in calzini color giallo limone sul mio cruscotto
lucido.
«Fratellino caro, così mi offendi. Diciamo che
potrei aver ricattato Inés,
potrei aver derubato Matthew e potrebbero esserci delle cimici in casa
tua. È
tutto al condizionale quindi stiamo parlando di ipotesi...»
Dal
suo ghigno diabolico compresi che
di ipotetico non c'era proprio nulla. Neppure il fatto che fossi un
imbecille
facile da abbindolare era più un'ipotesi ma ahimè
un dato di fatto.
Un
quarto d'ora più tardi, dopo
un'estenuante chiacchierata con la mia adorata sorella, arrivammo alla
strada
sterrata che conduceva alla casa di Tobias.
Ricordo
che una volta il vialetto
d'ingresso era contornato da due file ordinate di splendidi alberi di
nocciolo,
sui quali io mi arrampicavo nonostante i continui divieti di nonna. Ora
solo
qualche tronco solitario, attorniato da secche sterpaglie, ci diede il
benvenuto.
La
casa, una volta dipinta di un
rilassante color turchese, appariva ora solitaria e abbandonata.
L'intonaco si
era scrostato e l'edera rampicante aveva coperto metà
facciata donando al tutto
un'aria spettrale. Il legno delle persiane era marcito e una parte del
portico
laterale era crollata sotto il peso del tempo e della trascuratezza.
«Nonna
teneva a questa casa come ad
un figlio, la curava con amore e ne era una padrona orgogliosa e
felice. Pensa
se potesse vedere tutto ciò...». Il tono mesto di
Judy mi fece tornare alla
mente i pomeriggi d'estate trascorsi qui.
Raccoglievamo
pesche e ciliegie dal
frutteto sul retro, aiutavamo la nonna a fare le conserve, nonostante
il nostro
aiuto consisteva principalmente nell'infilare le dita nella marmellata
appena
fatta per assaggiarla, e facevamo merenda sotto il portico tutti
insieme.
L'interno
non era messo molto meglio.
Polvere e ragnatele facevano da padrone, i mobili coperti da vecchie
lenzuola e
le finestre oscurate.
«Hai
intenzione di venderla, vero?».
Judy si era fermata di fronte ad una cornice appesa alla parete della
sala da
pranzo.
La
raggiunsi e mi fermai alle sue
spalle. Era una foto del giorno del matrimonio dei miei nonni. Una foto
molto
austera, pose rigide e vestiti inamidati della domenica, eppure erano
tutti lì,
i sette fratelli di nonna e i dieci di nonno. Cognate, suoceri, nipoti,
prozie
e cugini. Una grande famiglia. E al centro, cuore di tutto
ciò, le mani
intrecciate dei due novelli sposi.
«L'idea
era quella...», mormorai
piano.
Mia
sorella si volse all'improvviso e
mi cinse tra le braccia. «Non farlo. Per favore, non farlo.
So che sta andando
tutto in rovina e so che aggrapparsi alla speranza di una nuova futura
famiglia
unita e gioiosa ad abitare queste mura non è tra i tuoi
progetti ma...»
Le
accarezzai piano i capelli
continuando a fissare lo sguardo deciso di Tobias e gli occhi dolci di
sua
moglie in quella vecchia fotografia in bianco e nero. «Non ho
tempo di curarmi
di una vecchia casa», mormorai come scusa.
Lei
si staccò e mi rivolse uno
sguardo duro, «Non è solo una vecchia casa. Questa
è la nostra casa. Capisci
cosa voglio dire, Liam? Qui abbiamo passato i momenti più
felici e pieni della
nostra infanzia. Qui, senza le pressioni costanti di papà o
i continui
rimproveri di nostra madre. Qui eravamo dei semplici bambini che
avevano il
diritto di giocare, correre liberi e mangiare cioccolata a
volontà. Se non lo
vuoi fare per te allora fallo per me. Io ti aiuterò,
Cambridge non è lontana e
le mie ricerche posso continuarle anche da qui...Ti prego, Liam, ti
prego...».
Cosa potevo rispondere? C'era un'unica risposta in grado di spazzare
via la
tristezza da quegli occhioni color nocciola e fu quella che diedi.
«Posso
provarci, ma tu devi darmi una
mano, un aiuto concreto e non una delle tue solite idee tutte unicorni
e
arcobaleni e-». Non riuscii a terminare la frase
perché mia sorella si gettò
letteralmente tra le mie braccia e mi strinse in un abbraccio
mozzafiato. Continuava
ad alternare ringraziamenti ad appiccicosi bacetti sparsi per tutto il
volto e
ci vollero due minuti buoni prima che riuscissi a farle posare
nuovamente i
piedi per terra, lontano dalla mia persona.
«Ok,
ok, ho recepito la tua
gratitudine. Ora...», di nuovo non riuscii a concludere il
mio pensiero perché
Judith sparì dalla stanza ad una velocità
sbalorditiva.
Rimaneva
un mistero per me il come
facessero a coesistere nel medesimo gracile corpicino quel folletto
tutto pepe
e saltelli e la geniale nerd che lavorava al M.I.T., i cui studi in
campo
informatico erano stimati dai più eminenti scienziati.
«Liam,
corri subito qua!», la sua
vocetta autoritaria mi raggiunse e così la seguii fino a
trovarla accovacciata
sui gradini d'ingresso con il portatile posato sulle gambe e il naso
appiccicato allo schermo.
Mi
sedetti accanto a lei e attesi
delucidazioni in merito a quello scoppio di entusiasmo.
«Ho
trovato la persona che fa al caso
nostro. Leggi qui!»
Cambiò
schermata e mi indicò una
scritta contornata da violette e api digitali che recitava: Felicity's
Garden.
Una
breve introduzione raccontava di
questa Felicity, di professione architetto paesaggistico, che aveva
fondato tre
anni prima questa piccola attività e che di fatto si
occupava di trasformare
erbacce e gramigna in oasi fiorite e tavolozze di colori e profumi.
Il
sito era tutto un tripudio di
tinte pastello, principalmente sui toni del rosa Barbie, caratteri
arzigogolati
e descrizioni fiabesche.
«Non
avevo detto niente unicorni e
arcobaleni?», chiesi esasperato.
Mia
sorella mi ignorò e cliccò sulla
galleria del sito. Una serie di foto di lavori svolti in passato da
questa
Felicity si parò davanti ai miei occhi increduli.
Apine
ronzanti e candide margheritine
a parte, questa tizia sembrava davvero sapere il fatto suo. Ogni
immagine era
accompagnata da una foto che raffigurava il giardino prima dell'inizio
dei
lavori e il divario tra il prima e il dopo era impressionante.
«Qui
c'è il suo indirizzo email,
scrivile e prenota un appuntamento. Il primo sopralluogo e la bozza del
progetto sono gratuite. Lo so, sono geniale oltre che bellissima e
simpaticissima», si gongolò mentre in due
nanosecondi esatti faceva copia e
incolla con il recapito di Felicity e me lo inviava per posta
elettronica.
«Già.
Com'è fortunato Karl!»,
esclamai sarcasticamente.
Lei
chiuse il pc e mi allungò uno
scappellotto. «Karl mi ha piantato, diceva che non lo
lasciavo respirare. Come
se avessi io il controllo sulla quantità di ossigeno
effettivamente inspirata
dal suo nobile naso...»
Le
passai un braccio intorno alle
spalle e la strinsi a me, «Per caso avevi installato un GPS
anche sulla sua
auto?»
«Può
darsi...», borbottò strofinando
la guancia contro la mia camicia. «Comunque non mi importa.
Il suo livello di
quoziente intellettivo raggiungeva a malapena i 167...»
«Ah
bè, uno con un Q.I. pari solo
a quello di Isaac
Newton è meglio
perderlo che trovarlo», la presi in giro lasciandole un
bacino sulla zazzera
spettinata.
Quella
sera, dopo aver riportato Judy
a recuperare la macchina e avere preso al volo due pizze da asporto,
avevamo
fatto rientro al mio appartamento e ci eravamo guardati tutti gli
episodi
arretrati di The Big Bang Theory, nonostante solo mia sorella riuscisse
a capire
tutto ciò di cui parlava Sheldon Cooper.
La
radiosveglia sul mio comodino
segnava mezzanotte meno un quarto eppure il sonno non arrivava. Judith
era
andata a dormire già mezz'ora prima, considerato che la
mattina seguente si
sarebbe dovuta mettere in viaggio all'alba per avere il tempo di
tornare a
Cambridge per la sua lezione delle 8.30.
Accesi
il portatile e, mentre
etichettavo come spam un po' di email, mi capitò sott'occhio
il messaggio
inviatomi oggi pomeriggio da mia sorella.
Aprii
un nuovo messaggio, copiai
l'indirizzo email, cercando di non ridere di fronte all'immagine
abbinata al
profilo della signorina, la principessa Gommarosa di Adventure Time, e
iniziai
a scrivere.
Da:
l.carter.wright@gmail.com
A:
felicity.vh@gmail.com
Object:
Informazioni
Ms.
Felicity,
Ho
visionato il vostro sito
internet e sarei interessato a fissare un appuntamento con Lei, sempre
se
disponibile, per fare un sopralluogo dell'area verde che necessita di
un
intervento quanto prima.
Cordialmente,
L.
Carter Wright
|
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Capitolo 3 *** Fiori secchi ***
Felicity
Sollevai
una mano ricoperta di
schiuma e fissai quelle mille bollicine di sapone dai mille colori.
L'aria era
satura dell'aroma alla lavanda del mio bagnoschiuma e pervasa dalle
dolci note
di Debussy. Lo specchio era ricoperto da un leggero strato di condensa,
chiaro
segno che ero da troppo a tempo a mollo. Fissai i miei polpastrelli
raggrinziti
e sorrisi beata chiudendo gli occhi. Adoravo fare il bagno, farmi
cullare
dall'acqua tiepida e profumata finché questa non si
raffreddava e allora
uscire, avvolgermi in un morbido accappatoio di spugna, molto
più rilassata di
prima e andare a nanna.
Le
ultime settimane erano state
frenetiche e di certo non tra le migliori.
Prima
la visita di Theodore, il
brutto litigio e il relativo silenzio insopportabile che aveva
caratterizzato i
suoi tre giorni di permanenza. Non avevamo risolto nulla, avevo cercato
di
affrontare il discorso, d'altra parte il fatto che la nostra relazione
fosse in
una fase di stallo non era una novità recente, ma lui
rimandava e faceva finta
di nulla. Poco prima di andarsene mi aveva baciato sulla fronte e mi
aveva
promesso che si sarebbe fatto vivo presto.
Poi
all'ultimo minuto un cliente
aveva cambiato idea e così un incarico piuttosto rilevante
si era volatilizzato
e con esso il cospicuo ricavato che sarebbe dovuto servire a riparare
il tetto.
Erano
ormai venti giorni che vivevo
schivando pozzanghere e rischiando di scivolare e rompermi l'osso del
collo
almeno tre volte al giorno.
Zoe
aveva ventilato la possibilità di
abbandonare quella cupa baita scricchiolante in cui viveva su in
Montana per
venirmi a trovare nonostante la sua avversità per mare,
temperature superiori
allo zero assoluto e vicinanza a New York e conseguentemente ai nostri
genitori.
Mio
padre e mia madre in questo
periodo si trovavano nella Grande Mela per questioni di lavoro e non
avevo
ancora capito quando avevano intenzione di tornare a casa in Florida.
Le
conversazioni con mio padre erano alquanto sporadiche e mia mamma non
si
interessava molto degli impegni di suo marito perciò
ottenere informazioni da
quei due era alquanto difficoltoso.
L'anno
scorso era accaduto che
entrambi venissero a farmi visita senza preavviso proprio
perché nelle nostre
telefonate mio padre mi aveva rimbrottato senza sosta a causa del
passatempo
che io chiamavo impiego e mia madre mi aveva stordito con il suo
entusiasmo per
aver condiviso il tavolo con Meryl Streep ad una cena di beneficenza ma
nessuno
si era ricordato di accennare alla sottoscritta che avevano intenzione
di
piombarmi in casa a breve.
Quel
giorno il bagno al piano
superiore aveva deciso di scioperare perciò quando
arrivarono ero tra le più
alte con secchi e stivaloni da pesca e il mio benvenuto non fu dei
più
calorosi.
Mi
asciugai, infilai il pigiama e
frizionai pigramente i capelli prima di intrecciarli distrattamente e
andare a
ripescare la boccia di George al piano di sotto.
Chiusi
la porta sul retro, feci
partire la lavatrice, si sa che la corrente elettrica costa di meno di
notte, e
ciabattando tornai di sopra.
Sistemai
il mio pesciolino nel suo
solito posto sopra il davanzale della finestra, di fianco al mio lato
di letto.
Mi infilai sotto le coperte e spensi la abat-jour sul comodino. La
stanza
piombò nel buio, rischiarato solo dalla fioca luminescenza
proveniente dallo
schermo del mio portatile semichiuso. Lo aprii del tutto e cliccai il
tasto per
aggiornare la mia casella di posta elettronica.
Era
tardi ma spesso Theodore mi
scriveva nel cuore della notte quando riusciva a distogliere per una
decina di
minuti la sua attenzione da sementi e ricerche sul pino marittimo e trovare un attimo di tempo
per me. Sbuffai
infastidita dalla cattiveria del mio pensiero, era vero che mi
trascurava ma il
suo lavoro era molto importante perciò dovevo essere
più comprensiva, o almeno
provare ad esserlo. Il pc trillò per segnalare l'arrivo di
un nuovo messaggio.
Da:
l.carter.wright@gmail.com
A:
felicity.vh@gmail.com
Object:
Informazioni
Ms.
Felicity,
Ho
visionato il vostro sito
internet e sarei interessato a fissare un appuntamento con Lei, sempre
se
disponibile, per fare un sopralluogo dell'area verde che necessita di
un
intervento quanto prima.
Cordialmente,
L.
Carter Wright
Finalmente!
Era da una decina di
giorni che non ricevevo incarichi o perlomeno richieste di preventivi o
informazioni e stavo iniziando a disperare. Nel giro di tre giorni
avrei
completato il giardinetto d'inverno di Mr. Wayne e dopodiché
sarei rimasta
senza lavoro. Già, disoccupata e con un frigo da cambiare,
un tetto in stile
scolapasta e l'estate in arrivo. Solitamente risparmiavo tutto l'anno
per
potermi permettere un viaggetto in agosto. E poi i mesi tra marzo e
giugno
erano quelli più dispendiosi dal punto di vista di un
giardiniere o aspirante
tale.
Cercai
di non pensare al conto a
quattro cifre che avevo dovuto pagare al meccanico per rimettere in
sesto il
mio povero pick-up verso dicembre o al gruzzolo volatilizzatosi per far
si che
i vecchi termosifoni di casa funzionassero e che la serra mantenesse
sempre la
tiepida temperatura ideale per le mie piante da frutto.
Il
Signor L. Carter Wright capitava
proprio a fagiolo! Le mie dita digitarono rapide una risposta. Non mi
importava
nulla di sembrare alla disperata ricerca di clienti. Magari la mia
celerità nel
rispondere poteva essere presa per competenza e zelo.
Inviai
prima di ripensarci e allungai
una mano verso il comodino per acciuffare un kleenex dalla scatola.
Poteva
sembrare una barzelletta ma era la triste realtà: ero
allergica alle
graminacee. In questi mesi lavorare nel verde per me era un inferno. Se
mi
imbottivo di antistaminici verso le undici di mattina ero mezza
addormentata e
faticavo a connettere, ma se non prendevo nulla passavo ore a soffiarmi
il
naso, mettermi il collirio e spruzzarmi in bocca con l'inalatore.
Era
pieno maggio, il trionfo di pollini
e fiori, e io tentavo di resistere nonostante a volte mi mancasse il
respiro e
di notte facessi dei veri e propri concerti a causa del naso intasato.
Come lo
sapevo? George al mattino si lamentava sempre.
Il
laptop trillò nuovamente; Mr.
Carter Wright a quanto pare faceva fatica ad addormentarsi proprio come
me. Era
molto formale e il modo rigido ed impostato in cui componeva i suoi
messaggi mi
fece pensare a uno di quegli uomini ingessati, ventiquattr'ore alla
mano,
abituati a scrivere email sempre uguali tutto il giorno.
Io
ero molto più gioviale ed
informale e solitamente ai clienti il mio essere alla mano piaceva
molto. Mi
sporsi oltre il bordo del letto per afferrare la mia agenda, stracolma
di
scontrini e post-it, che avevo abbandonato in terra un paio di orette
prima,
dopo aver finito la mia sessione di stretching serale.
La
mail chiedeva se ero libera il
martedì seguente dopo le 19 per incontrarci e visionare il
sito, parole sue.
Sulla pagina di martedì capeggiava un grosso segnale di
pericolo che sovrastava
il disegnino di un dente con un'espressione di terrore presa in
prestito da
L'urlo di Munch. Senza esitare risposi affermativamente,
martedì era perfetto.
Il dentista avrebbe dovuto fare a meno della mia meravigliosa compagnia
e dei
miei splendidi molari.
Aprii
Chrome e digitai Google Maps,
facendo poi copia e incolla con l'indirizzo datomi da Carter Wright nel
messaggio. Spalancai gli occhi quando mi resi conto che praticamente
era il mio
vicino di casa. La mia abitazione sorgeva isolata e circondata da un
ampio giardino
che mi separava dal mondo circostante. L'edificio più vicino
era la piccola
villa che sorgeva alle spalle della mia, a più o meno
settecento metri di
distanza.
Il
nome della via non mi diceva nulla
ma ciò non mi sorprendeva; ricordare vie e percorsi non era
proprio il mio
forte. Quando avevo dieci anni mia mamma aveva voluto fare una prova e
un
giorno mi aveva detto di tornare a casa da sola a piedi. Il tutto si
era
concluso con una denuncia di scomparsa da parte dei miei e io che
venivo
acciuffata da una volante della polizia mentre percorrevo a piedi una
stradina
di campagna poco fuori Tampa.
Quando
ero venuta ad abitare qui la
casa sul retro era già disabitata ma la signora che mi aveva
venduto la
proprietà mi aveva raccontato brevemente di Tobias,
l'anziano signore che
l'aveva abitata con sua moglie Angie.
La
faccenda si faceva sempre più
curiosa e iniziai a fremere all'idea di avere la possibilità
di far risplendere
quella vecchia casa di campagna. Spensi il pc, mi sfilai gli occhiali e
sistemai il cuscino.
«'Notte
Georgie», biascicai
sbadigliando.
***
In
forno cuoceva una teglia di muffin
ai mirtilli, il mio pesciolino stava sguazzando felice nella sua boccia
e io
dopo aver salutato Donnie già mi pregustavo la nostra pazza
estate in Messico.
Acciuffai scopa e paletta dal ripostiglio e raccolsi i fiori secchi
caduti dai
vasi in veranda. Fischiettai felice un motivetto mentre piroettando mi
dirigevo
verso il cestino dei rifiuti. L'occhio mi cadde sull'orologio a parete
e per
poco non caddi con la faccia nella pattumiera.
«Merdamerdamerda...»,
facendo i
gradini due a due raggiunsi il piano superiore e mi fiondai in camera
per
prendere il portatile.
Rifeci
la strada al contrario
correndo e rischiando di rompermi l'osso del collo e mi accoccolai sul
divano
in veranda.
Aprii
Skype e mi accorsi che la mia
sorellona aveva già provato a chiamarmi per ben sei volte.
Zoe
e la pazienza, due pianeti
destinati a non incontrarsi mai.
«Finalmente!
Che fine avevi fatto?
Stavo già pensando al peggio ma poi mi sono detta che ero
una sciocca, se si
parla di Felicity è ovvio che si è persa via con
una foglia di lattuga o un
petalo di rosa...».
Questo
fu il caloroso esordio di Zoe,
deliziosa creatura notturna di anni ventotto, residente in una
catapecchia in
stile famiglia Addams dispersa non si sa bene dove nel Montana, occhi
neri e
splendidi capelli del color del grano tinti della medesima
tonalità delle sue
iridi sin da quando aveva tredici anni.
«Fingerò
di non aver colto le tue
parole colme di sarcasmo», commentai sorridendo a trentadue
denti, «Allora come
stai?»
Mia
sorella detestava il mio perenne
buonumore. «Uno schifo. Oggi qui a Missoula e dintorni
c'erano 41 gradi
Fahrenheit (5 gradi Celsius circa), un caldo insopportabile insomma. In
più non
piove da una settimana e io non riesco a scrivere nulla se non
è in corso una
qualche catastrofe meteorologica. Ripeto: uno schifo»
«Nooo,
così tanti gradi?», la presi
in giro.
«Assurdo,
vero? Sono venuta ad
abitare sulle montagne sperdute del Montana appositamente per il loro
clima e
ora questo! Tanto valeva restare in Florida. Ritratto, a Tampa non
c'è solo il
sole e il caldo insopportabile ma anche Madre. Senza dubbio
è meglio il
Montana»
Allungai
i piedi sul tavolino di
vimini di fronte a me, «Almeno sei certa che lei non
verrà mai fino a lì a
trovarti...», borbottai invidiosa.
Sarei
dovuta andare ad abitare in un
posto isolato e fuori mano anche io. Il Massachusetts è
troppo vicino e
facilmente raggiungibile per essere un posto sicuro e al riparo da
Madre.
«Anche
io lo pensavo ma da quando
Prada ha lanciato una collezione dedicata all'abbigliamento per
montagna e
temperature polari non mi sento più al sicuro. Chi mi
garantisce che mentre
dormo tranquilla lei non arrivi fino a qua munita di Moonboot, colbacco
e
pelliccia di ermellino?», chiese rabbrividendo.
Scoppiai
a ridere, la sola idea di
mia mamma intenta a camminare nella neve, racchette ai piedi, era
esilarante.
«Tranquilla, lei ama le entrate d'effetto. Come minimo
arriverebbe con un gatto
delle nevi o una slitta trainata da poveri husky, avvolta in un
mantello di
candido pelo di decine e decine di innocenti coniglietti. Quel
carattere
sanguinario lo hai ereditato da lei...», le feci notare
innocentemente.
Zoe
mi dedicò una smorfia di
disgusto, «Mi considero mortalmente offesa da questa tua
affermazione. Io e
Madre in comune abbiamo solo metà del corredo
cromosomico»
«Ah,
giusto. Cosa vuoi che sia?»,
replicai ironica, «Quand'è che decidi di smettere
di fare Heidi in versione
gotico e scendi dal tuo cucuzzolo per tornare alla
civiltà?»
Zoe
sparì dall'inquadratura e in
sottofondo si sentirono dei tramestii insoliti seguiti da un sonoro TOC
e
un'imprecazione. Riapparì presto, massaggiandosi la fronte
arrossata e
borbottando.
«Il
mio editore mi ha intimato di
consegnargli la bozza del libro prima dell'inizio dell'estate.
Poiché non mi
piace ricevere ordini da un arrogante maschilista sto meditando di
abbandonare
la mia casina e andare a cercarlo per soffocarlo nel sonno, ovviamente
dopo
averlo torturato per bene. Che ne dici di inizio giugno?»
Considerato
che quando Zoe era venuta
a trovarmi in passato aveva trascorso la maggior parte del tempo
barricata in
casa, intenta a battere febbrile sui tasti del suo portatile e ad
ingozzarsi di
barrette ai cereali e maionese, tende rigorosamente chiuse e finestre
sigillate, era indifferente il periodo in cui avesse deciso di venire
da me.
«Quando
vuoi, sono sempre felice di
averti qui. Viene anche Felix?», mi informai ricordandomi del
suo pallido ed
emaciato fidanzato, la cui conversazione più lunga ed
articolata era consistita
in un saluto bisbigliato all'arrivo seguito dalla richiesta di dove si
trovasse
la toilette.
Mia
sorella aggrottò la fronte
pensierosa, «Il gatto o lo stupido umano?»
«Lo
stupido umano presumo...»,
risposi perplessa.
Gatto?
Rabbrividii al solo pensiero
di una creatura vivente lasciata in mano a Zoe. La storia di Gloria la
tartaruga era tristemente nota a tutti in famiglia così come
la sua atroce
dipartita ad opera della mia tenera e tutt'altro che innocua sorella.
«Oh
di lui fortunatamente me ne sono
liberata. Ora ho Felix il gatto. Condividono il nome e presto
condivideranno
anche il medesimo mesto destino»
«Liberata?
Cosa intendi?», la
interrogai preoccupata. Zoe era un'asociale patologica e più
volte Madre aveva
ventilato l'ipotesi che la sua condizione rasentasse la sociopatia.
Sicuramente
l'abitare sola e sperduta in un contesto deprimente e scrivere racconti
di
folli omicidi e corpi sventrati non aiutava.
«Ho
gettato lui e le sue pidocchiose
cose giù nello strapiombo su cui si affaccia il cortile sul
retro», mi rispose
scrollando imperturbabile le spalle.
Per
poco non feci scivolare il pc per
terra. Cosa? COSA?
«Strapiombo?!
Sei impazzita per
caso?», mi misi le mani nei capelli in preda al panico. Ora
sarei stata
ufficialmente imparentata con un'assassina e avrei dovuto portarle da
mangiare
nel cuore della notte attraverso le sbarre di una lurida cella
carceraria.
«Tranquilla,
Flick, è ancora vivo.
Purtroppo. Con mio grande disappunto ho scoperto che, seppur ammaccato,
la sua
insulsa persona cammina ancora su questa terra»
In
quel momento la mia espressione si
rilassò e io sospirai di sollievo. Madre probabilmente
avrebbe avuto un colpo
apoplettico e Padre avrebbe finalmente avuto il coraggio necessario per
depennarci dal testamento.
Dopo
averle dato il permesso di
portare con sé il malcapitato felino, sempre se a giugno
fosse stato ancora
vivo, la salutai lanciandole un bacio virtuale a cui lei rispose con la
sua
solita espressione schifata dedicata ai contatti fisici affettuosi.
Spensi
il computer e tornai in casa,
dove un penetrante odore di bruciato mi accolse.
«Oh
no...», strillai mentre nella mia
mente si faceva strada il ricordo dei muffin infornati tempo prima,
decisamente
troppo tempo prima. Corsi verso il forno e lo spalancai
frettolosamente.
«Nonono», mugugnai guardando quei piccoli funghetti
carbonizzati.
Sfilai
la teglia e pescai un
dolcetto. Tentai di staccarne un pezzetto ma la consistenza in stile
marmo di
Carrara ostacolò la mia impresa. Sassi. I miei deliziosi
muffin ai mirtilli
erano diventati dei sassi. Abbandonai abbatacchiata la sfortunata
infornata sul
piano cottura e tornai al piano superiore.
L'appuntamento
era tra dieci minuti e
io ero ancora vestita con i pantaloni di Cip e Ciop e la maglietta
scolorita
della XXI rassegna floreale del West Virginia. Mi sciacquai il viso e,
rimasta
con un completino intimo che sicuramente aveva visto giorni
più ricchi e
floridi prima dei miei lavaggi aggressivi in lavatrice,
zampettai fino al mio armadio.
Cinque
minuti più tardi stavo
scavalcando la palizzata scrostata che separava la mia
proprietà da quella di
Tobias. O meglio, da quella di Mr. Carter Wright. Avanzai a fatica tra
sterpaglie ed arbusti talmente fitti e selvaggi da aver dato vita ad
una vera e
propria selva oscura in stile dantesco.
Finalmente,
dopo aver dovuto
districare i miei capelli da un ramo birichino ed essere rimasta
impigliata
innumerevoli volte in rovi vari, riuscii a raggiungere lo spazio
antistante la
villa.
Il
tempo era stato inclemente con
quella tenuta e tutto stava decisamente cadendo in rovina. Poco
più di dieci
anni prima quella che ora era una struttura decadente e prossima al
cedimento
era invece una casa accogliente e ben tenuta. La storia della famiglia
che lì
aveva trascorso la propria vita era stata cancellata dalle erbacce che
prepotenti avvolgevano tutto e dai danni dovuti al maltempo.
All'orizzonte
non si vedeva nessun
auto così mi sedetti paziente sul gradino più
basso del portico.
I
minuti passavano e il mio Swatch in
plastica color zucchero filato segnava già le 19.13,
certamente il mio
ipotetico futuro cliente non era il re della puntualità.
Stanca
di fissarmi le unghie e di
disegnare cerchi con la punta delle scarpe nella ghiaia, mi alzai dalla
mia
postazione e decisi di andare in perlustrazione.
Girai
attorno alla casa, notando
quanto fossero profonde e accentuate alcune crepe che decoravano le
pareti
esterne. Accarezzai piano l'intonaco turchese scrostato, doveva essere
stata
un'abitazione deliziosa così dipinta del colore del cielo.
Un
leggero venticello si alzò
facendomi svolazzare i capelli attorno al viso. Un leggero aroma giunse
alle
mie narici.
Ciclamino.
Avrei riconosciuto quella
fragranza dappertutto. Inspirai piano cercando di capire da dove
provenisse.
Svoltai
nel vialetto sulla mia
sinistra e dopo aver scavalcato un cespuglio di bosso ormai fuori
controllo mi
inginocchiai a terra. Procedendo a quattro zampe mi addentrai in quella
bassa
boscaglia fino a che il profumo si fece più forte. Infilai
la testa tra delle
giunchiglie selvatiche e lì di fronte ai miei occhi si
parò uno spettacolo
bellissimo.
Una
piccola famiglia di ciclamini di
uno squillante color fucsia era sopravvissuta, sebbene accerchiata da
decine di
altre specie floreali senza dubbio più resistenti ed
infestanti di lei.
In
quel momento mi pentii di non aver
portato con me la mia vecchia Polaroid, con cui solitamente fotografavo
le
piante e i fiori che mi trasmettevano qualcosa con la loro piccola e
fragile
bellezza.
«Signorina
Felicity?», sentii dei
passi avvicinarsi e la ghiaia scricchiolare sotto le suole delle scarpe
del
nuovo arrivato, «Dove diavolo si è cacciata quella
donna?», udii borbottare.
«Qui!»,
esclamai riemergendo dal mio
nascondiglio.
L'uomo
che si trovava vicino alla
parete sud della casa fece un balzo nel vedermi spuntare
improvvisamente da
quel caos verde che era il giardino.
Per
un attimo mi fissò sconcertato
prima di assumere un'espressione di scocciata condiscendenza e
rivolgermi un
cenno del capo.
«Miss
Felicity?», si assicurò.
Avanzai
piano, cercando di girare
alla larga dalle numerose piante di ortica che avevo avuto modo di
notare poco
prima. «In persona...», con un saltello superai un
basso cespuglietto di rose e
lo raggiunsi nello spazio sterrato.
Gli
porsi una mano e sorrisi. Io non
ero certo una tappeta ma quest'uomo sfiorava senza dubbio il metro e
novanta su
per giù, perciò mi ritrovai ad osservare dal
basso verso l'alto la strana
espressione di malcelato disgusto che gli attraversò il
volto. Abbassai lo
sguardo per cercare di capire cosa avesse procuratore quell'emozione e
mi
focalizzai sulla mia mano tesa. La mia mano tesa e ricoperta di un
leggero
strato di terra.
«Oddio,
mi perdoni!», esclamai
affrettandomi a ripulirla contro i miei pantaloni.
La
seconda volta fu quella buona e
finalmente riuscii a farmi stringere la mano da quell'uomo facilmente
impressionabile. Non mi piaceva giudicare una persona in base alla
prima
impressione però dopo quell'inutile teatrino per un pochetto
di terriccio non
gli aveva senza dubbio fatto guadagnare punti.
«Piacere!
Come già sa io sono
Felicity...»
«Carter
Wright», rispose seccamente
lasciando andare la mia mano. Esitai, non sapendo se chiedergli o meno
quale
fosse il suo nome di battesimo.
James?
Troppo banale.
John?
Troppo plebeo.
Bartholomew?
Troppo vecchio stile.
«Liam.
Liam Carter Wright», mi
informò lui. Una vaga nota di fastidio nella voce.
«Glielo si leggeva in volto
che moriva dalla voglia di domandarmelo...», mi fece notare
sarcastico.
Non
avevo bisogno di uno specchio per
sapere che le mie guance in quel momento stavano andando a fuoco.
«Posso darle
del tu? Solitamente io -»
«Preferisco
mantenere le distanze, se
non le dispiace», mi interruppe lui.
Che
problema aveva questo individuo?
Neanche Theodore, nonostante la sua rigida educazione e la sua
attenzione quasi
ossessiva per l'etichetta, arrivava a tanto.
Mi
incamminai verso lo spiazzo
antistante l'edificio facendo segno al mio compagno di seguirmi.
«Io il posto
lo conosco molto bene. Vede quella finestra con le ante verdi che sbuca
tra i
rami di quella betulla?», indicai un punto alla nostra
destra. «Là, Mr. Liam,
provi ad alzarsi sulle punte. Riesce a vederla? Ecco, quella
è camera mia!»
Dal
suo sguardo oltremodo perplesso
compresi che i miei tipici salti mentali come al solito erano chiari
solo alla
sottoscritta e avevano come unica conseguenza il disorientare i miei
interlocutori.
«Cioè
che intendevo proporle era di
discutere del progetto a casa mia. Sta iniziando a far
buio...», spiegai
cercando di chiarire quello che ai miei occhi appariva scontato.
Perché
mai avrei dovuto mostrargli la
finestra di casa mia se non per fargli intendere la vicinanza della mia
abitazione e la possibilità di andare a discutere in un
luogo più comodo e
rischiarato?
Il
sole era ormai tramontato e il
cielo stava imbrunendo rapidamente. Se prima ero riuscita a vedere
nitidamente
la deliziosa sfumatura color acquamarina dei suoi occhi ora a malapena
sapevo
che aveva due occhi su quel viso e non uno come il ciclope Polifemo.
«Se
non teme per la sua vita potremmo
avventurarci all'interno della mia di casa», mi propose
sfilando una chiave
dall'aspetto vissuto dalla tasca della giacca.
Dovetti
trattenermi per non mettermi
a saltellare dalla gioia. Morivo letteralmente dalla voglia di vedere
l'interno
della casa e lo avrei proposto io se non fosse che sarei passata per
un'impicciona impudente, cosa che effettivamente sono.
E
poi mi era tornata alla memoria
l'immagine da far accapponare la pelle del mio salotto dopo che avevo
deciso di
trasferire tre quarti delle piante del giardino all'interno della casa
in vista
della tempesta annunciata dai tg.
«Oh,
si figuri! Vivendo nella mia
casa pericolante sfido già la sorte
quotidianamente...», lo rassicurai
aspettando che mi facesse strada.
Il
legno degli scalini del portico
scricchiolò in maniera inquietante quando mi ci avventurai
sopra e non seppi se
interpretare la cosa come un avvertimento della cedevolezza della
vecchia
catapecchia o un muto rimprovero per tutti i dolcetti al cocco ingeriti
la
settimana prima in corrispondenza del mio periodo nero del mese.
La
serratura oppose resistenza, e
visto il suo aspetto alquanto arrugginito la cosa non mi sorprese. Il
Signor
Carter Wright, che aveva un cognome a mio parere troppo lungo e
pomposo,
continuò ostinatamente a far scattare a destra e sinistra la
chiave nella toppa
senza però riuscire a far smuovere la porta di un millimetro.
Sbuffai
spazientita di fronte a
quello sfoggio di assoluta mancanza di senso pratico unito ad un po' di
sano
ingegno. Cercando di non risultare eccessivamente scortese lo spinsi
leggermente da parte e posizionatami di profilo rispetto alla porta mi
ci
gettai contro calibrando la violenza del mio colpo. Volevo si aprire
quella
benedetta porta ma di certo non lussarmi una spalla.
L'uscio
si aprii cigolando e io mi
spostai di lato e invitai Mr. Liam ad entrare per primo. Dopotutto era
pur
sempre casa sua, sebbene se avessimo aspettato lui e i suoi tempi
biblici prima
di riuscire ad introdurci nell'edificio io avrei fatto in tempo a fare
il giro
del mondo in monopattino.
«Sono
colpito. La vita di campagna
sortisce questo effetto sulle persone?», si
interrogò lui.
Esasperata
lo superai e superai la
soglia d'ingresso, facendo il mio ingresso in un ampio spazio ricco di
polvere
e spifferi.
«La
'vita di campagna', come la
chiama lei, Mr. Liam -»
«Carter
Wright prego...»
«La
vita di campagna, Mr. Liam,
è una grande maestra di vita. Io so cambiare una ruota,
riparare un lavandino
che perde e tagliare la legna. Lei può dire lo
stesso?»
I
suoi occhi si rabbuiarono e vidi la
linea della sua mascella farsi più rigida. Era irritato, e
non mi ci voleva
certo una laurea in psicologia per intuirlo.
«Se
vuole lavorare per me dovrà fare
in modo di tenere a freno la sua lingua lunga e i suoi comportamenti
impertinenti. Io stabilirò tempi e budget e lei mi
farà avere una bozza del
progetto entro lunedì prossimo, d'accordo? Come prima
traccia si attenga
all'idea di giardino all'inglese. Semplice, pulito, senza inutili
fronzoli e
fiorellini dai mille colori. Niente fontane inutilmente scenografiche,
niente
statue romantiche raffiguranti ninfe o piccoli putti sovrappeso che
piacciono
tanto a voi donne e soprattutto niente laghetti pieni di zanzare e
insetti
rivoltanti», elencò severo il mio quasi cliente.
«Un
pergolato? Pensi a tante
roselline di una impalpabile sfumatura di rosa tenue che la circondano
e le fanno
da eterea cornice...», proposi provocatoriamente fingendomi
rapita
dall'immagine del fitto intreccio di rose.
«Non
osi. Penso di essere stato
chiaro. Lunedì al massimo voglio il suo progetto in allegato
ad una sua email.
Con questo ho finito, arrivederci Ms. Felicity»
Lo
fissai in silenzio per qualche
secondo non sapendo bene come giudicare quello strambo individuo. Nel
suo bel
completo dal taglio sartoriale pareva il tipico uomo d'affari, freddo e
calcolatore, come emergeva già dal suo modo di scrivere e
approcciarsi con gli
altri. Risultava subito evidente che era abituato ad avere il controllo
sugli
altri e non amava essere contraddetto o, peggio ancora, preso in giro.
Scossi
la testa, stanca di quei
pensieri troppo freudiani per i miei gusti, e frugai in tasca alla
ricerca di
un biglietto da visita.
Glielo
porsi senza neanche guardarlo.
«Se avesse bisogno di qualcosa mi trova a questo
indirizzo».
Lui
lo afferrò e lo guardò prima di
ritornarmelo senza dire una parola.
«È
quasi illeggibile...», mi fece
notare.
Abbassai
lo sguardo su quei caratteri
sbavati e scoloriti stampati su un cartoncino raggrinzito.
«Deve
essere finito inavvertitamente
in lavatrice con i pantaloni...», borbottai pensierosa prima
di allungare una
mano verso il suo taschino della giacca, «Posso?»
Ad
un suo cenno d'assenso sfilai
l'elegante penna dorata che faceva capolino e scribacchiai sul
biglietto il mio
indirizzo. Riposizionai la biro al suo posto e gli porsi nuovamente il
foglietto.
«Arrivederci,
Mr. Liam», lo salutai
prima di voltarmi e incamminarmi verso casa sentendo di avere i suoi
occhi
puntati verso la mia figura che si allontanava.
Scavalcata
l'ultima bassa siepe che
cingeva la mia proprietà mi accorsi della vecchia Ford
parcheggiata davanti al
capanno degli attrezzi, di fianco al mio furgoncino.
Affrettai
il passo e circumnavigai la
casa per raggiungere il giardino sul davanti dove una ben familiare
figura se
ne stava china a fissare assorta le foglie di una pianta.
«Theo!»,
esclamai al settimo cielo
avvicinandomi e cingendogli la vita da dietro. Gli lasciai un bacetto
affettuoso nell'incavo del collo e lo strinsi felice. «Questa
si che è una
bella sorpresa!»
«Mh
mh, ciao anche a te, Felicity»,
mugugnò piano continuando a studiare quella stupida pianta e
ad ignorare me.
«Dov'eri? Il tuo pick-up era qui...»
Eh
certo: prima non mi calcolava
minimamente e ora faceva l'ispettore di polizia.
Mi
staccai da lui e feci due passi
indietro avvicinandomi alla porta d'ingresso. «Dal mio nuovo
vicino di casa.
Abbiamo fatto un accordo sai, Theodore, quid pro quo.
Io gli metto a
nuovo il giardino e lui mi ricompensa ampiamente tramite favori di tipo
sessuale.
Sono assai...appagata da questo scambio», gli raccontai con
voce flautata.
Ero
un'attrice nata. Avrei senza
dubbio fatto meglio a vendere tutto, prendere armi e bagagli e cambiare
costa
oceanica. Addio caro gelido Atlantico e benvenuta Pacific Coast e sole
californiano. Hollywood aspettami!
«Ahah.
Ti sei accorta della quantità
oltremodo esagerata di cocciniglia presente su queste foglie? Dovresti
far
qualcosa prima che questa poveretta soccomba», mi
rimproverò senza accennare a
cambiare posizione e guardarmi in viso.
Avrei
voluto urlare, pestare i piedi
e prenderlo a schiaffi. Possibile che non vedesse? Che razza di
relazione era
la nostra? Una senza futuro a quanto pareva.
Entrai
in casa e feci sbattere la
porta dietro di me. Mi sfilai le scarpe da ginnastica infangate e le
gettai
alla rinfusa ai piedi delle scale prima di correre di sopra e chiudermi
in
bagno.
I
tempi in cui, mentre ascoltavo
rapita per ore e ore il professor Dixon parlarci dei mutamenti che
aveva subito
la famiglia delle Urticaceae nel corso degli anni, sospiravo d'amore
per il
giovane dottorando un po' svanito e sempre così compito che
ci aiutava durante
le esercitazioni pratiche in serra.
Ai
tempi passavo le ore di lezione ad
immaginare di potermi avvicinare a lui e sfilargli quegli occhiali
dalla
montatura severa che gli scivolavano sempre sul naso, volevo poter
vedere da
vicino il colore dei suoi occhi per capire se era davvero
così verde da sfidare
la brillantezza della tinta delle migliaia di migliaia di piante che ci
circondavano. Invece di studiare il manuale di botanica e prendere
appunti la
mia mente si arrovellava cercando di indovinare come si chiamasse.
L'etichetta
già ai tempi ci informava che avevamo a che fare con T.H.Graham,
nulla
di più.
Ci
vollero mesi di silenzioso
corteggiamento da parte mia e timide ritirate da parte sua per farci
arrivare
al nostro primo e disastroso appuntamento. Dove mi portò?
Nella serra
dell'università, perché il passare lì
i tre quarti delle mie giornate
evidentemente non era sufficiente.
Ricordo
benissimo come, mentre lui si
era perso in una dimostrazione su come travasare un'orchidea senza
arrecare
alcun danno alle radici, io mi avvinai e messi da parte vasi e palette
gli
sfilai gli occhiali e lo baciai. Successe così, con i guanti
da lavoro ancora
infilati e gli ultimi raggi di sole che filtravano attraverso i vetri.
Fu
molto poetico ma forse avrei
dovuto capire già dal modo quasi frettoloso con cui lui
interruppe il bacio,
rimise in piedi il vasetto che avevo rovesciato e riprese a parlare del
travaso
che sarei andata incontro ad una storia assolutamente sterile ed
infruttuosa. E
io amavo le cose rigogliose, verdeggianti e piene di boccioli, tante
piccole
speranze di nuove vite.
Punto
primo:
scusate il mio ritardo nel pubblicare il capitolo, non starò
a spiegare cosa mi
è successo o cosa non mi è successo
perché il risultato sarebbe una nuova
trilogia alla Tolkien perciò lasciamo stare.
Punto
secondo:
io scrivo storie leggere e, almeno solitamente, mediamente divertenti.
Non dico
da sbellicarsi dalle risate ma da sorriso si. Ecco, ultimamente io non
mi diverto
affatto e purtroppo il mio umore alla Leopardi di
quest’ultimo periodo sta
avendo un effetto deprimente sulla mia scrittura. Mi scuso anche per
questo.
Passerà. O almeno lo spero.
Punto
terzo
(poi sono finiti, tranquilli): grazie mille per aver letto, recensito
(vi
rispondo subitissimo) e messo tra preferite/seguite/ricordate la mia
storiella.
Tanti fiorellini per tutti voi 🌺
Alla
prossima,
S.
|
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Capitolo 4 *** Roselline e spine ***
Liam
«Gradisci
un altro po' di orata, Liam
caro?»
Non
avevo bisogno di alzare lo
sguardo per capire quanto veleno nascondesse in realtà
quella voce dal tono
zuccherino.
Una
mano così carica di oro e
diamanti da far risultare ridicoli i gioielli della corona di Sua
Maestà la
Regina d'Inghilterra si levò in aria e con un movimento
leggiadro delle dita
richiamò la cameriera.
«Dolores,
sveglia cara! Servi il
Signor Carter Wright prima che Venezia venga sommersa per colpa dello
scioglimento dei ghiacciai e io compia trent'anni...»
Rivolsi
uno sguardo di silenziose
scuse alla povera domestica perennemente vessata da Sua Signoria.
«Non
sapevo possedessi una macchina
del tempo, Mildred cara», la presi in giro. «Se
tecnicamente tu non hai ancora
compiuto trent'anni io dovrei essere fermo ai tempi della mia
squinternata
adolescenza, sbaglio forse?», la interrogai gustandomi
appieno la sua
espressione livida e oltraggiata.
Matthew
si astenne da qualsiasi
commento; come sempre evitava di intromettersi tra i continui
battibecchi che
fin dal principio avevano caratterizzato gli incontri tra me e la sua
adorabile
mogliettina. Con la coda dell'occhio lo vidi però nascondere
educatamente una
risata dietro ad un raffinato tovagliolo in seta écru.
«Corretto.
Il tuo squilibrio ormonale
e la tua pelle acneica avvalorano senza dubbio la tua
tesi...», cinguettò lei
in risposta, senza scomporsi e continuando a tagliare imperturbabile il
suo
tortino di zucchine, pomodorini secchi e noci.
Matthew
non interveniva anche perché
la sua consorte non necessitava assolutamente di qualcuno che la
difendesse
dato che la sua lunga tagliente bastava per provocare e, se necessario,
annientare i suoi avversari.
Il
motivo per cui Mildred mi
detestava ma tuttavia continuasse a frequentarmi stava proprio
lì: ero l'unico
che non gliela dava mai vinta. Abituata a comandare a bacchetta il
marito, a
tiranneggiare domestici e babysitter e a far piangere i suoi sottoposti
non
concepiva l'esistenza di una persona pronta a ribattere e assolutamente
non
disposta a piegarsi al suo volere.
«Touché!
In questo campo l'esperta
sei tu, la mia pelle acneica potrebbe trarre giovamento da uno degli
unguenti
di cui tu fai uso per celare le squame e non rivelare
all'umanità la tua natura
serpentesca e le tue rughe da creatura di mezz'età. Cosa mi
consigli?».
Soddisfatto ingoiai l'ultimo boccone di orata e allungai una mano per
afferrare
il calice colmo di vino bianco.
«Una
ricostruzione plastico facciale
radicale»
«Il
tuo chirurgo con te ha fatto un
buon lavoro quindi potrei prenderla in considerazione...»
Mildred
strinse tra le dita la
forchetta in argento ma non si lasciò invadere dalla
collera. Quella donna
aveva un autocontrollo di tutto rispetto.
«Okok.
Time out», ci bloccò Matt,
«Desidererei gustarmi il dessert senza che esso mi vada di
traverso
perciò...tregua», propose lanciandomi uno sguardo
supplicante.
Annuii
rassegnato e sua moglie fece
lo stesso, non prima però di avergli rivolto uno sguardo
esasperato.
Sicuramente
il mio amico avrebbe
passato dei guai in privato. Mildred era alquanto rancorosa e non
sopportava
l'essere ripresa di fronte agli ospiti, soprattutto se a farlo era suo
marito.
«Judy
non riesce a raggiungerci?»,
iniziò Mildred cercando di non avere un tono completamente
carico di disprezzo
mentre si rivolgeva al sottoscritto.
Ripensai
all'ultima email di mia
sorella ricevuta il giorno precedente: sfilza di emoticon senza senso,
tentativi di spiegarmi a cosa stesse lavorando ma già al
termine hardware il
mio cervello si era dato
al panico e
dieci foto di gattini negli allegati.
Quell'infido
essere era riuscito in
passato ad entrare in possesso del mio iPhone e mi aveva creato un
profilo
Facebook e ora ogni giorno mi arrivavano decine di notifiche che mi
avvisavano
che Judith Carter Wright mi aveva taggato in qualche video.
Pupattoli
che cantavano i Deep
Purple, scimmie che ballavano la macarena, consigli e trucchetti su
come
mangiare più sushi possibile ai ristoranti giapponesi che
offrivano il servizio
'all you can eat' senza finire al pronto soccorso a fare una lavanda
gastrica.
Ogni
sciocchezza che faceva divertire
la mia folle consanguinea a Cambridge dopo tre secondi faceva vibrare
il mio
cellulare a Plymouth.
«No.
Però vi ha inviato un gatto
obeso che rutta per scusarsi», borbottai scuotendo la testa.
E
questi erano i geni che avrebbero
dovuto far progredire la ricerca scientifica nel nostro paese.
«Oh
si l'ho visto, era così carino.
Più tardi la chiamerò per
ringraziarla», tubò Mildred diventando
all'improvviso
tutta latte e miele.
Se
io avessi osato inviare una cosa
simile a Malefica probabilmente mi sarei trovato un gatto obeso morto
sul
parabrezza dell'auto e una denuncia della PETA per maltrattamenti sugli
animali. Ma la strega cattiva adorava oltremisura la mia squilibrata
sorella e
nessuno scienziato era ancora riuscito a scoprire il perché.
«Ci
piacerebbe venire a vedere la
casa in campagna quando i lavori inizieranno. Mildred si è
messa in testa di
voler rifare, per la centesima volta, il giardino», mi
spiegò il mio amico
alzando gli occhi al cielo, ovviamente non visto da Malefica.
La
quale gli allungò uno scappellotto
piuttosto potente e lo rimproverò immediatamente,
«Dovresti ascoltarmi per bene
quando parlo invece di perderti a guardare Masha e Orso con
Gabriel.
Comunque volevo solo uno di quei graziosi gazebi tutti tulle e graticci
di rose
dove prendere il thè e fare colazione...»
«Allora
Felicity, la giardiniera, o
meglio architetto paesaggista, che ho consultato fa proprio al caso
tuo. Sembra
vivere nel mondo dei folletti e vorrebbe stagnetti, romantiche sedie in
ferro
battuto arzigogolato e cascate di fiori profumati dovunque».
Cercai in tasca ed
estrassi il mio telefono e inviai un messaggio al mio amico con
l'indirizzo del
sito di Felicity.
Ripensare
alla sua camicetta a
ciliegie, il suo naso impertinente ricoperto da una pioggia di piccole
lentiggini e alle foglioline incastrate tra i suoi capelli dello stesso
colore
splendente del sole mi fece sorridere tra me e me.
Ma
il tutto durò solo un attimo.
La
mano macchiata di terra, gli occhi
dallo sguardo perennemente sognante, il suo ostinarsi nel chiamarmi Mr.
Liam
nonostante il mio divieto e il suo modo allegro di farsi
beffe di me fecero
morire quel sorriso neonato alquanto rapidamente.
«Le
donne ne capiscono più degli
uomini. È scientificamente provato. Non opporti alla natura,
caro, e lascia che
questa signorina intellettualmente a te superiore faccia il suo
lavoro...», mi
sistemò in due secondi la strega.
«Allora
come mai hai sposato Matthew?
Il tuo intelletto superiore era in vacanza alle Bahamas?», la
provocai.
Volevo
un mondo di bene al caro e
vecchio Matt e mi dispiaceva usarlo all'interno dell'infinita diatriba
tra me e
Malefica ma come si dice: il fine giustifica i mezzi.
«Ehi!»,
esclamò infatti indignato il
diretto interessato. «Vorrei ricordarti che io sono qui
presente...»
Sua
moglie lo azzittì con un regale
movimento della mano, giusto per sottolineare il fatto che a nessuno
importasse
cosa il poveretto dicesse.
«Già,
una lunga e rilassante pausa in
riva ad acque cristalline ma sicuramente più breve del
viaggio senza ritorno
intrapreso dal tuo di intelletto», le sue labbra coperte da
un velo di rossetto
si curvarono in un sorrisetto maligno.
Stavo
per ribattere quando una vocina
ci interruppe. «Tio Tiam, tio Tiam!»
Mi
voltai e un sorriso nacque
spontaneo sulle mie labbra nel vedere quelle manine paffute che si
allungavano
nella mia direzione e il paio di occhioni color fiordaliso che mi
fissavano
carichi di aspettativa.
Mi
alzai in piedi e mi chinai per
acciuffare quel piccolo frugoletto. «Cosa sta il mio nanetto
preferito?», gli
chiesi adagiandolo sulle mie ginocchia e dandogli un buffetto.
«Tataneve?
Eoo, piolo, bontolo...»,
si mise a contarli sulle dita per poi perdere il filo e osservare
perplesso la
sua mano con tre dita sollevate. «Mama?»,
domandò sollevando lo sguardo in
cerca di aiuto.
Una
cosa di cui ancora non mi
capacitavo era la trasformazione che Mildred subiva in presenza di suo
figlio.
Se un attimo prima se ne stava tutta impettita nel suo cardigan color
lavanda,
espressione altera e tono velenoso, ora era tutta miele e sorrisini.
«Tesoro,
li abbiamo ripetuti ieri,
ricordi? Mancano Cucciolo, Mammolo, Gongolo e Dotto...», concluse con voce morbida.
«No!
Dotore no!», strillò spaventato
Gabriel iniziando a tirare il bavero della mia giacca.
«Gabe
tranquillo, Dotto è uno dei
sette nani di Biancaneve. Niente dottori», cercò
di tranquillizzarlo suo padre.
«No
dotore! Ho deto NO!», urlò
iniziando a scalciare furioso.
Ecco,
ora lo gnometto mi piaceva
decisamente di meno.
Mildred
balzò in piedi alla velocità
della luce e prese fra le braccia il suo bambino, cullandolo stretto al
seno.
Il
furbetto, soddisfatto per essere
riuscito ad avere tutta l'attenzione della sua mammina adorata, smise
di
frignare e iniziò ad indicare la torta che aveva portato in
tavola poco prima
la cameriera.
«Oh
no. Tesoro, non mi sembra il
caso; l'ultima volta il cioccolato ha trasformato il suo sederino in un
campo
di fragole!». Matt intervenne cercando di far ragionare la
moglie, la quale
aveva già messo una fetta nel piattino e lo aveva messo di
fronte a Gabriel,
seduto sulle sue ginocchia.
«Hai
preso per caso una laurea in
medicina per corrispondenza?», gli domandò
Malefica esasperata mentre faceva
l'aeroplano con il cucchiaino carico di un boccone di dolce.
Gabriel
aprì docilmente la bocca e
ingurgitò contento quel dessert cioccolatoso.
«No,
ma ho passato una settimana a
spalmargli pomata sul culetto arrossato per ben sei volte al
giorno!», la
redarguì prontamente Matthew.
Mildred
scrollò le spalle, chiaro
segno che coi suoi rimproveri lei ci si puliva le sue meravigliose
scarpe tacco
dodici di Christian Louboutin, e continuò imperterrita a
imboccare il piccolo.
Quest'ultimo,
cioccolato spalmato fin
sopra al nasino, sembrava invece spassarsela alla grande tra le premure
della
sua mammina e quella fetta inattesa di torta.
Il
mio amico, irritato per essere
stato ignorato come sempre, si alzò, con la scusa di voler
fumarsi una
sigaretta e di non poterlo fare nelle vicinanze del figlio, e mi fece
segno di
seguirlo.
Abbandonai
il mio posto a tavola e
quando la strega cattiva, che in quel momento, capelli arruffati dalle
manine
dispettose di Gabriel e maglioncino imbrattato di cioccolato, non
pareva più
tanto cattiva, mi rivolse uno sguardo risentito le rivolsi un sorriso
di scuse.
Sapevo
benissimo che, nonostante il
nostro rapporto di certo non idilliaco, Mildred a volte sperava che
tenessi la
parte a lei e non sempre a Matt. La verità era che io non
volevo assolutamente
farmi coinvolgere in liti coniugali anche in orario extra lavorativo
perciò
glissavo e usavo con entrambi la mia miglior tecnica professionale:
sorridi
discreto, annuisci di tanto in tanto e, soprattutto, tieni la bocca
chiusa.
Superai
la soglia della
porta-finestra, che dalla sala da pranzo conduceva direttamente al
retro del
giardino. Mancava ancora un mese all'estate eppure le temperature
avevano
iniziato ad alzarsi e il clima si era fatto più mite, man
mano che le giornate
si allungavano e giugno si avvicinava.
«Liam,
guarda tutto ciò e impara: il
matrimonio è un inferno», ammise stancamente
Matthew, prendendo una boccata di
fumo.
Ridacchiai
divertito. Questa era la
frase che mi veniva ripetuta ogni giorno fin da quando avevo iniziato a
esercitare la professione di avvocato divorzista.
Il
problema dei miei clienti era
sempre quello: alla conclusione che il matrimonio fosse la fine della
libertà e
della spensieratezza e l'inizio di una incarcerazione lunga ed
estenuante ci
arrivavano solo dopo essersi sposati. E qui entravo in gioco io;
sorrisi, cenni
del capo, silenzio di finto interessamento e falsa comprensione, lauta
parcella
e via...la libertà era riacquisita!
«Errare
humanum est, perseverare...»,
lasciai la frase in sospeso, certo che il mio amico avesse colto il
significato
dietro alle mie parole.
«Sai
chi ho rivisto l'altro giorno da
Burger King? Melanie Woods!», esclamò entusiasta
cambiando repentinamente
discorso.
Scacciai
con la mano la nuvola di
fumo esalata dal mio amico e lo guardai sospettoso, «Mildred
sa che bazzichi
per i Burger King?»
Matthew
assunse un'espressione
incredula e mi puntò l'indice contro, «Io ti dico
che ho rivisto Melanie Woods
e l'unica cosa da te recepita è che mi sono mangiato un paio
di cheeseburger
alle spalle di mia moglie e della sua dannata dieta
salutista?!»
«No,
ho colto anche il fatto che io
non sono stato invitato a mangiare un paio di
cheeseburger...», lo presi in
giro, fingendomi offeso da questa sua dimenticanza.
«Tu
schifi i fast-food, principino
sul pisello!», mi accusò, voltandosi per spegnere
la sigaretta nel portacenere
di madreperla posto sul basso tavolinetto in vimini alle sue spalle.
«Vero.
Comunque...come sta la cara
Melanie?», gli chiesi più per farlo felice che per
reale interesse.
«Alla
grande! Ti ricordi delle sue
super tet-»
«Io
le ricordo benissimo le super
tette di plastica di Melanie la Troia...», la voce incolore
di Mildred ci
raggiunse inattesa dalla soglia del salone.
Fece
due passi nella nostra direzione
e si accasciò stanca sul divanetto alle spalle di Matt.
«Così come ricordo
altrettanto bene come ve la siete spassata voi tre insieme. Ad essere
sincera
credo che tutti gli abitanti del dormitorio si ricordino perfettamente
gli
acuti e le invocazioni a tutti gli dei di tutte le religioni presenti
al mondo
della zoccola», concluse, il viso deformato da una smorfia di
disgusto.
Matt
la raggiunse e le si sedette a
fianco, allungando un braccio per cingere le spalle esili di sua moglie
e
avvicinarla a sé. «Amore mio, ai tempi non avevo
ancora conosciuto la
celestiale Mildred Eleanor Lancaster e mi accontentavo di
ciò che trovavo...»,
sussurrò il mio amico prima di posarle un dolce bacio sulla
guancia.
Bacio
che sapeva molto di tentativo
di rabbonire la coniuge furiosa dopo la figuraccia appena fatta.
«Dev'essere
stato duro, vero?», lo
appoggiò Mildred lasciandogli una lieve carezza sulla
guancia. «Povero tesoro,
costretto ad accontentarsi di una stangona rossa e
focosa tutta tette e
gambe!». Uno scappellotto raggiunse potente la nuca del mio
amico, il quale,
totalmente colto di sorpresa, non ebbe il tempo di sottrarsi alla mano
dalle
graziose unghie laccate di rosa che gli stampò cinque dita
sul retro del collo.
Io
scoppiai a ridere, incapace di
trattenermi, e questo mi costò un'occhiata inceneritrice da
parte di Malefica.
«Ahi!
Zuccherino ancora non ti
conoscevo, non puoi prendertela perché p-»
«...pensi
con il tuo pene?», concluse
sorridendo candida la strega cattiva.
«Se
non lo facessi non ti avrei mai
gettato vestita in piscina solo perché volevo vedere
attraverso il tuo vestito
da educanda bagnato se erano vere le voci sul tuo balcone
mozzafiato...»
«Sei
un coglione, lo sai vero?», gli
chiese Mildred sorridendo.
«Ma
mi hai sposato nonostante
questo...», constatò felice Matt.
«Ti
ho sposato proprio per quello»,
lo contraddì lei, poggiando il capo sulla spalle del marito,
alquanto sorpreso
da quella confessione.
Senza
dubbio condividevo la sorpresa
del mio amico; Mildred non era mai stata una persona molto espansiva e
carpirle
una frase affettuosa era una missione alquanto complicata.
«Chi
coione?». Una vocina infantile
ed incerta interruppe quel raro momento di pacifico amoreggiamento
coniugale.
«Gabe!
Non devi d-», il rimprovero
paterno di Matt fu interrotto sul nascere dall'intervento di sua moglie.
«Tuo
padre, tesoro mio. Vieni qui
dalla mamma ora», gli spiegò tutta sorridendo
allargando le braccia.
Braccia
tra qui il bambino si tuffò
senza indugio, sprofondando il visino nel collo della madre.
«È
emozionante assistere
all'apprendimento di Gabriel, pian pianino sta imparando le cose
fondamentali...»,
esclamai sarcasticamente.
Il
mio amico mi fulminò con lo
sguardo e risentito mi informò che quello senza dubbio non
era un insegnamento
fondamentale ma un tentativo di diffamazione.
Mildred
allungò una mano, tenendo
saldo in grembo il figlio con l'altro braccio, e scompigliò
i capelli del
marito. «Caro, prima impara come sei, innumerevoli difetti
compresi, prima
impara ad amarti...»
E
con questa dolce immagine di
felicità coniugale stampata a fuoco nelle retine,
perché una Malefica gentile
era più rara di un koala che andava in bicicletta
fischiettandolo l'inno
nazionale del Paraguay, mi congedai e feci ritorno a casa mia.
Nel
mio attico non c'era nessuna
moglie irritante, nessun bambino che ripeteva le parolacce e nessun
giardino
rilassante a circondarmi.
Era
quello che avevo sempre voluto,
poter fare quello che volevo quando volevo, nessun legame fastidioso ad
impedirmelo, nessuna famiglia di cui essere responsabile, nessun posto
dove
tornare per sentirmi davvero a casa.
Mi
era sempre stato bene tutto ciò,
ero io il primo a cercare di scrollarmi di dosso tutto ciò
che portava con sé
troppi vincoli, troppi obblighi.
Allora
perché cazzo sei
malinconico?
Per
scrollarmi di dosso quel
fastidioso senso di mancanza decisi di gettarmi sul lavoro, fonte di
distrazione
sempre efficace sebbene non propriamente divertente quanto una ginnasta
russa
nuda nel proprio letto.
Tolsi
le scarpe e mi accomodai sul
divano, portatile sulle gambe. Mentre aspettavo che quest'ultimo si
avviasse,
mi stiracchiai e slacciai i primi due bottoni della camicia,
benedicendo la
domenica e la possibilità di non dover indossare la cravatta.
La
mia casella di posta elettronica
era intasata come al solito, la gente faticava a comprendere che il
concetto di
giorno di riposo veniva applicato anche alle professioni altrui e non
solo alla
propria.
Se
la domenica tu eri spalmato su una
sdraio a bordo piscina perché mai il tuo avvocato non
dovrebbe stare facendo lo
stesso? No, secondo alcuni dei miei clienti io la domenica dovevo
passarla a
leggere i loro lagnosi messaggi più lunghi dell'intera
bibliografia di Stephen
King messa assieme in modo da avere una gradita anteprima dei
piagnistei a cui
i mittenti mi avrebbero sottoposto di persona nel corso degli
appuntamenti
settimanali nel mio studio.
Ignorai
la bustina lampeggiante sul
nome di Ethan Mayer, sapendo di non poter reggere uno sproloquio di
quindici
pagine sul perché il criceto spettasse a lui e non alla
moglie, basato su
innumerevoli prove fotografiche che lo raffiguravano intento a fare lo
shampoo
all'animaletto o a leggere un manuale intitolato Segreti e
trucchi per il
taglio delle unghie dei nostri amici roditori, chiara prova,
a suo parere,
del fatto che lui fosse il padrone ideale per Jerry il criceto.
Secondo me erano solo la
prova che quell'uomo
fosse gravemente disturbato e che l'indifeso animale era la vittima
innocente
delle sue manie psicotiche. Povero Jerry.
Un
altro messaggio attirò invece la
mia attenzione e senza indugiare cliccai sopra il simbolo della bustina
ancora
chiusa.
Salve
Mr. Liam,
Come
sta? Ha visto che
meraviglia l'albicocco nel suo giardino? Mi sono permessa di fargli una
fotografia, spero non sia geloso di tutta quella bellezza! ;)
È
stata una vera sfida ma
alla fine ce l'ho fatta! In allegato troverà il mio progetto
come da Lei
richiestomi, sono molto fiera del mio lavoro.
Saluti,
Felicity
Aveva
davvero inserito una faccina
che mi faceva l'occhiolino in una comunicazione di lavoro?!
Fissai
sconcertato quella parentesi e
quel punto e virgola che formavano un sorriso scherzoso per parecchi
secondi
prima di scrollare le spalle. La Signorina Felicity a quanto pareva era
tanto
sciroccata quanto Ethan Mayer e il suo benedetto criceto.
Geloso
della bellezza di un albicocco?!
Mi
appuntai mentalmente di
controllare la zona circostante la casa di Miss Felicity in futuro,
alla
ricerca di foglie sospette a sette punte. Quello che diceva quella
donna non
poteva che essere frutto di un qualche annebbiamento mentale dovuto a
rimedi
molto naturali coltivati da lei stessa.
Scaricai
l'allegato e lo aprii.
Scorsi calma le varie pagine e mano a mano che leggevo una rabbia cieca
montava
dentro di me. I disegni erano molto accurati e meravigliosamente
colorati in
tinte pastello, gli appunti molto chiari e il preventivo alquanto
onesto. Cosa
non andava? Tutto.
Altro
che ciliegine, efelidi e
sbadataggine! Quell'essere di nome Felicity era una sorta di Mildred la
Vendetta.
Arrivato
alla fine del documento
dovetti trattenermi per non lanciare il laptop contro la parete. Mi
passai agitato
le mani tra i capelli cercando di respirare e non farmi prendere
dall'ira.
Odiavo essere preso per i fondelli e quella donna lo aveva fatto
già la prima
volta che l'avevo incontrata e già allora non mi era
piaciuta. Ma ora questo.
Era decisamente troppo!
Riafferrai
la giacca che avevo
abbandonato sulla poltrona, rimisi le scarpe e marciai fuori
dall'appartamento.
Avrei
fatto abbassare io la cresta a
quella piccola impertinente, oh si eccome se lo avrei fatto! Percorsi
il
tragitto che mi separava dalla casa di nonno in un quarto d'ora invece
dei
soliti trenta minuti, tanta era la rabbia e l'aggressività
con cui tenevo
pigiato il tasto dell'acceleratore.
Non
mi importava nulla di possibili
autovelox o multe. Non mi importava nulla del fatto che non avessi
neanche
chiuso la porta di casa o spento il pc. Mi importava solo
dell'imminente bagno
di sangue che avrebbe avuto luogo di lì a poco.
Svoltai
nel vialetto sterrato che
conduceva all'ingresso della casa e mollai l'auto vicino al capanno
degli
attrezzi senza curarmi di posteggiarla come Dio comandava.
Marciai
senza indugio verso gli
scalini che portavano alla porta principale, così pieno di
rabbia da non fare
caso al fuoristrada metallizzato parcheggiato lì vicino.
Bussai
violentemente sul legno dalla
vernice verde scrostata della porta d'ingresso, sempre più
irritato e
inviperito. In assenza di risposta riprovai ancora più
forte, non curandomi di
apparire maleducato.
Di
certo in questo caso il cafone non
era lui ma l'abitante di quella villetta fatiscente e
bohémien.
L'uscio
si aprì ma al posto di
lentiggini e biondi capelli scarmigliati trovai un metro e novanta di
pelle
abbronzata e muscolosa e uno sguardo truce.
«Posso
sapere qual è il motivo di
tanta impazienza?», mi domandò accigliato, non
accennando a farsi da parte così
da permettermi di vedere la proprietaria della voce che canticchiava in
cucina.
Solo
lei avrebbe potuto
dilettarsi con l'intero repertorio degli ABBA.
«Ms.
Felicity», sputai sempre più
furibondo. La presenza del gorilla sulla soglia complicava il mio
semplice
piano di entrare e fare della dolce e puffettosa Felicity un cheesecake.
Avevo
davvero appena definito quella
dolce e puffettosa?!
«Flick!
Un tizio alquanto alterato
chiede di te. Hai di nuovo cercato di vendere la tua marmellata ai
frutti di
bosco spacciandolo per un portentoso filtro d'amore?»,
strillò l'energumeno
sempre senza levare le tende e permettermi di guardare dritta negli
occhi la
mia nemica.
La
versione stonata di Dancing
Queen venne interrotta e un rumore di ciabatte in
avvicinamento la
sostituì.
«Oh
no, lui è Mr. Liam! Si accomodi
pure...Donnie, fatti da parte e torna a mangiare il tuo biscotto al
cioccolato!», esclamò squillante la voce del
brutto esserino. Una testa bionda
fece capolino da dietro il busto dell'omone e mi sorrise tutta felice.
Tutta
quella contentezza nel vedere
la mia persona mi lasciò interdetto per qualche secondo,
giusto il tempo di
ricordarmi che gli psicopatici assumono spesso comportamenti
inspiegabili e
tornare ad essere terribilmente infuriato con lei.
Nonostante
la sua figura minuta la
pazza signorina riuscì a spintonare l'orango tango e ad
apparirmi finalmente
davanti agli occhi.
Tralasciando
il diverso
abbigliamento, il viso arrossato e spruzzato di lentiggini e i capelli
indomabili erano sempre gli stessi.
«Le
è piaciuto così tanto il progetto
che è corso qui a dirmi di persona che accetta?»,
ipotizzò lei, sempre con quel
sorriso bianchissimo e splendente in bella mostra.
La
polizia andava senza dubbio messa
in allerta, questa qui probabilmente in giardino aveva una distesa di
allegre
piantine di marijuana che contribuivano alla sua fastidiosa euforia
sempre alle
stelle ventiquattr'ore su ventiquattro.
Quasi
inconsciamente mi sporsi verso
di lei, curioso di scoprire se le sue pupille fossero dilatate.
«Mr.
Liam? Tutto bene?», chiese
Felicity titubante, fissandomi stranita. Il suo sorriso si spense un
pochino
mentre una rughetta faceva capolino sulla sua fronte aggrottata.
«Scherza?!
Lei si è presa gioco di
me! Spero si sia divertita almeno lei perché sicuramente non
si occuperà del
mio giardino...», strillai piccato.
La
cosa che più mi faceva
imbestialire non era il suo progetto, bellissimo ma senza dubbio non
adatto a
me e alle mie necessità, ma l'impertinenza che l'aveva
portata a ignorare le
mie disposizioni e a sfidarmi.
«Ehi
amico, non scaldarti e cerca di
non essere scortese con Flick», mi mise in guardia lo
scimmione, presenza
costante alle spalle della mia interlocutrice.
Questa
sbuffò e si voltò nella sua
direzione. «Donnie! Fila a mangiare i tuoi biscotti, riempiti
per bene la bocca
e stai zitto!», lo riprese come se stesse parlando ad un
bambino pestifero.
King
Kong, con mia grande sorpresa,
le diede retta e, senza neanche tentare di protestare, fece dietrofront
e se ne
tornò in cucina lasciandoci soli.
«Troppe
roselline?»
Distratto
dalle congetture riguardo
al rapporto che legava quei due che il mio cervello stava tessendo
quasi
soffocai nel sentire quel tono di scherno.
«Lo
hai fatto apposta?!», domandai
sgranando gli occhi.
Mildred
in confronto a Felicity era
una delle tenere caprette di Heidi con tanto di fiocchetto e
campanellino al
collo.
«Fammi
pensare. Sei arrivato tardi,
hai fatto lo schizzinoso, hai messo in dubbio la mia
professionalità e mi hai
giudicata senza conoscermi. Perciò sì, l'ho fatto
di proposito! Non metterei
così tanti fiori, angioletti e aiuole a forma di cuore
neanche se dovessi progettare
il giardino di Barbie!», mi sfidò alzando il mento
e fissandomi dritto negli
occhi battagliera.
«Ti
avevo sottovalutata...», osservai
assottigliando lo sguardo.
Non
solo aveva calpestato il mio
volere ma si era anche impegnata moltissimo per farlo.
«Messaggio
recepito?», mi interrogò
inclinando il viso di lato e accennando un sorriso.
«Se
il messaggio era che Felicity
l'architetto paesaggistico diventa una stronza se qualcuno le calpesta
i piedi
allora sì, messaggio ricevuto», commentai ironico.
«Arriverai
ad adorarla...tempo al
tempo...». Un vocione ci raggiunse dalla cucina, tra un
biscotto masticato e
l'altro.
«Già
inizio ad amarla...», gli
risposi cercando di non alzare gli occhi al cielo in preda
all'esasperazione
che questa coppia di folli mi causava.
«Ooh
che tenero! Posso chiamarti
Liam?», tubò la mia ex arcinemica dedicandomi uno
sguardo con tanto di occhi a
cuoricino.
«No»,
sancii categorico, più per il
gusto di non accontentarla che per la mia stupida mania per la distanza
e la
formalità.
«Vieni
dentro a mangiare qualche
biscotto? Se vuoi possiamo iniziare a discutere riguardo ad un nuovo
progetto...»
Il
sole era tramontato da un po' e
per tutto il tempo da quando ero arrivato non mi ero mai mosso dalla
soglia
della porta.
La
signorina si che se ne intendeva
di ospitalità e galateo!
Non
avrei mai preso in considerazione
la possibilità di passare la serata in compagnia della
pazzoide e del suo degno
compagno se non fosse stato per l'immagine fulminea del mio attico
buio, vuoto
e silenzioso che attraversò la mia mente.
Maledii
l'età che avanzava e mi
faceva diventare uno sciocco in preda ai patetismi e alla nostalgia e
annuii
quasi inconsapevolmente.
E
il passo da un cenno di assenso del
capo al perdere venti dollari alla tombola, pancia piena di biscotti e
gelato
corretto al rum e orecchie ronzanti a causa degli ABBA a tutto volume e
degli
strilli estasiati di Felicity che aveva lasciato in mutande sia me che
il mio
compagno scimmiesco di sfortune fu veramente breve.
Eccomi
di
nuovo qui! In verità io non so mai bene cosa scrivere qui in
fondo perciò mi
limito a ringraziare di cuore le persone che hanno letto e apprezzato
la mia
storia, un grazie speciale a chi ha lasciato una graditissima
recensione e a
chi ha inserito la storiella nelle preferite/seguite/ricordate. Questo
capitolo
mi piace e non mi piace allo stesso tempo. Sto cercando di creare un
contorno
ai due personaggi principali, contorno fatto di volti e vicende che
dovrebbero
arricchire il tutto e spero non distrarre. Il problema sta proprio qui,
ho
paura di perdere di vista le cose importanti allargando sempre
più la
narrazione ad altre figure e per questo mi piacerebbe sapere cosa ne
pensate
voi. Detto questo: non disprezzate Mildred please, tenete tutto il
vostro
risentimento per Theodore ;)
Bacini,
S.
|
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Capitolo 5 *** Caprifoglio e papaveri ***
Felicity
«Ennesimo
caso di truffa ai
danni di anziani. Il meccanismo della banda di Portland è
sempre lo stesso:
spacciandosi per-»
Sollevai
il telecomando in direzione
del televisore e pigiai il tasto rosso di spegnimento. Detestavo le
cattive
notizie e i telegiornali, apoteosi della cronaca nera, li trovavo
semplicemente
intollerabili.
Cercavo
di restare informata riguardo
a ciò che mi circondava scorrendo il sito web del Boston
Herald, anche
se spesso per pigrizia mi limitavo a leggiucchiare i titoli degli
articoli, approfondendo
solo quelli che
parlavano di giardinaggio, life style e viaggi.
«Donnie,
io capisco che tu sia
contrariato dalla piega che hanno presa gli eventi, nemmeno io avrei
mai
immaginato che BritneyBitch non la desse al primo appuntamento,
però smettila
di comportarti come una donna mestruata a cui hanno rubato la
confezione
formato famiglia di gelato!», ripresi il mio amico
nonché collega che da
mezz'ora a questa parte si limitava a fissare lo schermo della tv e a
mescolare
e rimescolare senza sosta il suo caffè ormai freddo.
«Tu
non capisci, ho pagato duecento
verdoni per una aragosta al sapore di cartone e la consistenza di
gomma,
conosciuto e baciato la nonna ultracentenaria di BritneyBitch che
assomiglia ad
un travestito e lavora al circo, accarezzato un cane di dubbia
provenienza e
dubbia razza che racchiudeva nel suo pelo le peggiori malattie che
l'umanità si
illude di aver debellato per sempre come tifo e peste bubbonica e
quella non si
è fatta sfiorare neanche con un dito!»,
continuò a lagnarsi Donovan, ignorando
il mio commento e il fatto di essersi trasformato in una piattola
insopportabile.
«A
questo punto non ti resta che
tentare un sito di incontri...», gli consigliai allungando
una mano verso la
ciotola di popcorn che Donnie teneva stretta tra le braccia come fosse
un
orsacchiotto di peluche da cui trarre affetto. «Randall del
supermarket su
cuorepienodiamorecercacuoredamare.com aveva trovato la sua anima
gemella, una
certa Henrietta. Durò la bellezza di otto giorni la loro
storia, dopodiché lei
sparì e lui si ritrovò la casa ripulita e il
conto prosciugato. Randall però
dice che ne è valsa la pena».
«Bè
se ha funzionato per Randall del
supermarket perché non dovrebbe per me? Magari arrivo a
dieci giorni io...»,
ipotizzò, tra una manciata e l'altra di popcorn.
«In
più tu sul conto avrai al massimo
cento dollari e la cosa di maggior valore che hai in casa è
l'urna con le
ceneri di tua nonna perciò non corri grandi
rischi...», lo rassicurai
allungandogli un pizzicotto.
Donovan
era un ragazzone nato e
cresciuto in California, dove, perlomeno secondo i suoi progetti,
sarebbe
dovuto diventare un attore di successo e arrivare ad essere il migliore
amico
di Kanye West e il marito di Scarlett Johansson entro i trent'anni.
Giunto però
ad un quarto di secolo di vita con all'attivo un'unica comparsa in un
film dove
interpretava uno sceicco, bardato
da
testa a piedi, che veniva ucciso nell'esatto momento in cui appariva
sullo
schermo e uno spot di assorbenti maschili per uomini incontinenti aveva
deciso
di cambiare radicalmente vita e si era trasferito sull'altra costa.
Quando lo
avevo incontrato per la prima volta lavorava in un vivaio vicino al
mare, dove
tra un borbottio e l'altro mi aveva aiutato a caricare sul pick-up una
quindicina di sacchi di terriccio. Ancora oggi lui sostiene di avermi
presa in
considerazione solo quando avevo accennato al fatto di vivere sola
soletta in
campagna, fatto che, unito alla mancanza di fede all'anulare sinistro,
gli fece
concludere che ero una zitella un po' stramba ma sentimentale libera.
Da
quel giorno sono passati la
bellezza di quattro anni e ora io e Donnie mandiamo avanti insieme il
nostro
progetto di restauro di giardini. Io sono la mente più che
altro e lui il
braccio, e che braccio! Un metro e novanta di altezza per
più di un quintale di
meravigliosi muscoli baciati dal sole, sebbene non quanto ai bei tempi
di San
Diego, almeno a giudicare dalle vecchie foto.
«Bè,
ora che sei riuscita ad
intortare il bell'avvocato mi darai un aumento, no?»,
tubò lui sbattendo
ripetutamente le ciglia, patetico tentativo di ammaliarmi.
Mi
alzai dal divano su cui eravamo
sprofondati da tempo immemore e mi sgranchii le gambe. «Prima
mi aiuti a
riparare il tetto e a ridipingere lo steccato e poi ne riparliamo,
d'accordo?»
«Sei
una tiranna tirchia e con un
cuore di pietra!», si imbronciò lui, incrociando
le braccia e rivolgendomi uno
sguardo risentito.
«Lo
so, lo so. E pensa che mi viene
naturale...», esclamai zampettando in cucina e tirandogli
affettuosamente una
ciocca di capelli nel passare alle sue spalle.
La
cucina di Donnie era stata fatta a
misura di gigante e, sebbene io arrivassi ad un'altezza di tutto
rispetto che
si aggirava attorno ad un metro e settanta, per raggiungere gli
stipetti più
alti avrei dovuto mettere una sedia sopra al tavolo oppure
improvvisarmi
Spiderwoman e arrampicarmi letteralmente su per le scaffalature.
Dato
il mio equilibrio pessimo e la
mia agilità inesistente, avevo pregato il mio amico di
tenere i beni di prima
necessità, vale a dire biscotti, gelato, spaghetti e menu
della pizzeria con
consegna a domicilio, in una zona a me raggiungibile.
«Questo
weekend vai a trovare il tuo
Principe da Suicidio?», mi chiese strillando dall'altra
stanza Donovan.
Ormai
non facevo neanche più caso
agli appellativi con cui si riferiva a Theodore. Non aveva mai fatto
mistero
della sua avversione nei confronti del mio compagno che, a suo parere,
sarebbe
stato in grado di risvegliare la Bella Addormentata con un bacio per
poi farle
venire voglia di suicidarsi dopo meno di due minuti in sua compagnia.
Sciacquai
i piatti che avevamo usato
per pranzare e li deposi nello scolatoio sopra il lavello.
«In
verità stavo pensando di andare a
trovarlo io...», buttai lì, mentre asciugavo per
bene l'interno di due tazze.
«Questo venerdì tiene una conferenza sulle piante
stagionali autoctone della
East Coast»
«Woohoo!
Weekend di follie! Flick,
sul serio, non ti rendi conto che a ventisei anni fai cose che neanche
una
ottantenne troverebbe interessanti? Persino le messe infinite a cui mia
nonna
mi sottoponeva in periodo di Quaresima, con canti in latino e lodi a
tutti i
santi di questo mondo, erano più interessanti e coinvolgenti
di quella
convention tenuta da Theodore su un cazzo di fungo!». Donovan
mi aveva
raggiunto e ora mi fissava preoccupato dalla soglia della porta.
«Theo
è fatto così, si impegna molto
e quello che studia lo appassiona tantissimo. Io posso solo ammirarlo
per
questo», sancii cercando quasi di convincermi da sola che
quello che stavo
dicendo fosse vero.
«Questo
non lo metto in dubbio
ma...santo cielo, state insieme da tre anni e la cosa più
romantica che lui ha
fatto per te è stata portarti una notte nel Maryland per un
concorso di bonsai
di cui lui era uno dei giudici! Tienitelo come amico, come esperto di
botanica
da consultare di tanto in tanto ma mollalo, per carità!
Quando fate sesso,
almeno in quell'occasione, si concentra su di te o elenca i nomi latini
dei
fiori?!», domandò arrabbiato, il viso contratto
dallo sforzo di non alzare la
voce e prendersela con me.
Zoe
mi aveva detto esattamente la
stessa cosa anche se lei dopo aver sancito che Theodore probabilmente
era più
passivo e palloso di una mummia egizia era andata subito al sodo
chiedendomi
quante volte al mese andassimo a letto insieme e se la percentuale di
orgasmi
da me avuti arrivava al 5% dei rapporti che avevo avuto con Theodore.
«Bè
lui è...in verità io...», balbettai
frasi sconnesse perché non sapevo bene come esprimere i
mille pensieri che
frullavano in quel momento nella mia testa.
Il
pensiero che la mia storia con
Theodore fosse basata sull'abitudinarietà e andasse avanti
per inerzia mi aveva
sfiorato più e più volte nel corso di
quest'ultimo anno ma lo avevo scacciato
dicendomi che io gli volevo molto bene e che le relazioni amorose tra
adulti
non sono come le travolgenti passioni che scoppiano tra giovani.
«È
un amore maturo il nostro», sancii
infine cercando di chiudere il discorso con questa mia pillola di
saggezza.
Una
sottospecie di grugnito fu la
conferma che la mia perla di sapienza era stata gettata, come si suol
dire, ai
porci. «Seee, una palla, ecco che cos'è! La mia
bisnonna Violet si diverte
senza dubbio più di te; a ballare ritmi indiavolati nelle
balere e abbordare
giovincelli con un solo secolo sulle spalle...»
Sbuffai
e alzai le mani al cielo
sconfitta. Riposi le tazze nella credenza e piegai l'asciugamano con
cura.
«Non
ho la minima intenzione di
ammettere che hai ragione perciò me ne vado». Lo
abbracciai stretto e poi me ne
tornai in salotto dove mi infilai gli stivali da pioggia che avevo
abbandonato
sul tappetino all'ingresso quella mattina.
«Mi
presenterai finalmente tua
sorella?». Il motivo di quella domanda stava già
nello scintillio malizioso che
si vedeva sfacciatamente impresso negli occhi di Donnie.
«Tieni
il tuo bel lombrico nelle
mutande alla larga da Zoe e ricordati che io giro sempre con un paio di
cesoie
nella borsa...», lo minacciai seria mentre chiudevo la zip
del mio impermeabile
color girasole.
L'idiota
sogghignò e, prima che io
uscissi dalla porta sotto la pioggia torrenziale, mi lanciò
un bacio volante.
Gli
rivolsi un ultimo cenno della
mano prima di gettarmi a capo chino sotto il diluvio.
I
vecchi tergicristalli del mio
pick-up facevano fatica a sostenere il ritmo incessante degli scrosci
d'acqua
che si abbattevano sul parabrezza, costringendomi così a
procedere a passo
d'uomo e a sporgermi in continuazione in avanti, nella vana speranza di
riuscire a vedere al di là del mio naso.
Quando
svoltai finalmente nel mio
vialetto esalai un sospiro di sollievo e il solo pensiero di un bel
bagno caldo
in compagnia di George e dell'ultimo album degli alt-J mi fece quasi
fare le
fusa. Avevo una porzione di deliziosi ravioli ai funghi nel frigo ed
era
avanzata una fetta di torta alle fragoline di bosco, avrei potuto
gustarmi il
tutto in veranda avvolta nella mia coperta preferita e magari potevo
mettermi
in pari e vedermi le tre puntate di Downton Abbey che mi ero persa.
Mi
ricacciai in testa il cappuccio,
pronta a fare una corsa fino a raggiungere il portico laterale dove
poter
cercare con calma le chiavi nella tracolla.
Aprii
la portiera, balzai giù
incurante delle pozzanghere e del fango che schizzava ovunque, e
rapidamente
saltellai verso il tanto agognato riparo. Non guardavo davanti a me,
gli occhi
concentrati sulle buche colme d'acqua piovana grigiastra per fare in
modo di
evitarle e non caderci dentro inzuppandomi fino alle ginocchia.
Corsi
a perdifiato e non appena
pensai di essere in salvo, al riparo e all'asciutto sollevai il volto,
non
prestando più attenzione a dove mettevo i piedi, e inciampai
finendo
rovinosamente con la faccia a terra.
«Merda
che male!», mi lamentai mentre
esaminavo i palmi arrossati delle mie mani, sempre spanciata sulle assi
di
legno del mio portico.
«Ore
e ore di danza classica tenute
da una étoile dell'Opera di Paris e il risultato
è un mammut ubriaco», sospirone
teatrale, «Ti sei fatta male, cara?»
Quella
voce l'avrei riconosciuta
persino se fossi stata sorda. Quegli strilli acuti perforavano il
cervello di
chiunque e ti facevano irritare persino se avevi la musica a tutto
volume nelle
orecchie e ti limitavi ad indovinare cosa stesse dicendo quella
benedetta donna
che altri non era se non la mia genitrice.
Una
grande mano dalle dita lunghe e
scheletriche, tipico tratto dei suonatori di pianoforte, apparve
davanti ai
miei occhi. La afferrai senza indugio, accettando l'offerta di aiuto
silenziosa
di mio padre.
«Ormai
pensavamo fossi annegata. Se
prima non capivo la scelta di trasferirsi qui ora la comprendo ancora
meno, con
questo livello di umidità assolutamente insostenibile per la
mia permanente e
questo acquazzone che minaccia di dovermi far indossare delle galosce...»,
pronunciò l'ultima parola rabbrividendo al solo pensiero che
i suoi piedini
freschi di pedicure fossero infilati in stivali di gomma la mia adorata
mammina.
«Tua
madre voleva già allertare tuo
cugino Alfred...», mi informò mio papà
con tono avvilito.
«Quello
che lavora all'FBI?!», mi
informai sconcertata sapendo già che la cosa era
più che plausibile considerata
l'ansia fuori controllo di mia madre.
«No,
quello che lavora in Vaticano.
Volevamo assicurarci che ci fosse un posto per te nella tomba di
famiglia e che
un cardinale altolocato potesse celebrare la tua cerimonia
funebre...», mi
prese in giro Padre ignorando l'occhiataccia risentita della moglie.
Mamma
odiava l'ironia, probabilmente
perché non la capiva del tutto, e mio papà non
perdeva occasione per fare
battute di spirito riferite alla consorte, la quale puntualmente si
indisponeva
nei suoi confronti. Erano terribilmente deliziosi quando facevano
così.
Rivolsi
una strizzatina d'occhio a
papà, stando ben attenta a non farmi beccare da Madre,
dopodiché mi concentrai
su quest'ultima.
Trench
beige decorato con la
classica fantasia di Burberry, tubino color marron glacé,
collant chiari e
sottili e décolleté beige di vernice. Il mio
sguardo fece avanti e indietro dal
terreno pantanoso alle scarpe immacolate di Madre cercando di risolvere
l'arcano.
«Mi
sono fatta portare in braccio
dall'autista del taxi...», mi lesse nel pensiero lei,
«Un ragazzo tanto gentile
e disponibile...», tubò lei tutta tranquilla.
I
miei occhi probabilmente erano così
sgranati che a momenti mi sarebbero caduti e avrebbero rimbalzato
allegramente
per tutto il portico. Ok, questo esempio subiva la macabra influenza di
mia
sorella.
«Allunga
un biglietto da cento e
tutti trasporteranno volentieri tra le braccia fastidiose e pesanti
donne di
mezza età facendosi strada tra un acquitrino di
melma...», fu il placido
commento di papà.
Adocchiai
le varie e molteplici
valigie sparse sul pavimento, una delle quali rovesciata a causa del
piccolo
incidente che mi aveva vista coinvolta, e iniziai a preoccuparmi.
Va
bene che Madre solitamente quando
si spostava portava con sé in media dieci bagagli ma questi
erano un po' troppi
persino per lei.
«Che
ne dite di entrare? Così mi
spiegate il motivo di questa gradita sorpresa...»,
bofonchiai
nell'inserire la chiave nella toppa.
Spalancai
la porta e acciuffai due
trolley, spingendoli nel soggiorno e affrettandomi a recuperare da
sotto alla
poltrona uno zerbino a forma di castoro per evitare di lasciare
impronte
ovunque.
«Sembra
la casa di Pollicino...tutto
è così piccolo qui...»,
borbottò Madre ticchettando sul parquet con i suoi
tacchi e gettando il soprabito sullo schienale del divano.
Appesi
il mio kway accanto alla porta
d'ingresso e sbuffai. Ogni benedetta volta diceva la stessa cosa. Era
ovvio che
ai suoi occhi, abituati ai saloni immensi dai lucidi pavimenti in marmo
e ai
soffitti altissimi, decorati con affreschi e stucchi, la mia casetta
appariva
alquanto mignon ma in confronto ai monolocali in cui viveva la gente a
Boston
era una reggia.
«Grace
sei ospite qui, cerca di
comportarti bene e chiedi a Felicity come sta invece di fare critiche
poco
costruttive», la riprese papà, che dopo dieci
viaggi dentro e fuori era
finalmente riuscito a trasferire tutto il bagaglio della consorte
all'interno.
Ovviamente
lei si indispettì e si
accomodò su una delle sedie della cucine. Schiena rigida,
mani posate sulle
ginocchia e sguardo sostenuto per farci intendere che si era offesa.
«Allora:
che novità ci sono? Hai
trovato un impiego?», si interessò Padre,
ignorando la moglie e facendomi
cadere le braccia con questa sua domanda.
Se
mamma era recidiva nel constatare
quanto casa mia fosse grande come la stanza da biliardo della nostra
casa di
famiglia in Florida, papà invece continuava ad insistere con
questa storia che
il mio lavoro non era un vero lavoro ma un mero passatempo per giovani
rampolli
di buona famiglia che volevano irritare i genitori e trascurare la loro
laurea
prestigiosa per puro senso di ribellione.
«Caro,
è troppo facile predicare bene
e razzolare male. Limitati a chiedere alla nostra Felicity come sta
invece di
sminuire il suo lavoro», gli fece il verso mia madre.
«Smettetela
entrambi! Io non sono
disoccupata, mi do da fare e amo immensamente il mio lavoro. Sto anche
per
firmare un contratto con un importante avvocato che-»
Il
trillo del campanello alla porta
d'ingresso mi interruppe ma ormai Padre aveva afferrato la parola avvocato
e
non aveva capito più nulla.
«Chi
è? Lo conosco? È un impiegato
del mio studio di Boston?», mi martellò di domande
lui.
«Tesoro
guarda chi è alla porta e
lascia respirare tua figlia!». A volte il caratteraccio da
sergente maggiore di
mia madre era una vera benedizione.
Le
sorrisi grata e le chiesi se
gradiva un thè caldo o se preferisse aspettare direttamente
l'ora di cena per
mangiare. Lei optò per la bevanda calda.
«E
poi per cena pensavo che potremmo
uscire...non vorremmo arrecarti più disturbo del
necessario...». Che cara, da
quando mia mamma si preoccupava di disturbarmi? Solitamente
infastidirmi era
l'hobby preferito dalla mia genitrice. «...e poi dopo
l'ultima indigestione che
ho avuto mangiando qui da te andare in un ristorante è la
scelta migliore per
la salute del mio povero stomaco». Ecco, ora era tornata in
sé.
Mentre
io cercavo di non prendermela
per i commenti poco carini di mia madre e mi concentravo
sull'accensione del
bollitore, una voce conosciuta esclamò con tono stupefatto
dalla soglia
d'ingresso: «Le-lei è...Montgomery Van Houten.
Oddio, lei è davvero l'avvocato
Van Houten»
«Ehm
si, non soffro di crisi
d'identità e sono quasi certo di essere proprio io
Montgomery Van Houten», udii
mio padre ribattere leggermente sbigottito da quell'accoglienza.
«Se
è stempiato, con la pancetta e le
zampe di galline allora è proprio lui. Tu chi sei bel
ragazzone?»
Era
bastato un attimo di distrazione
e Madre era sfuggita al mio controllo finendo a spintonare
papà, ancora
stordito dalla piega inspiegabile che stavano prendendo gli eventi, e a
spalmarsi addosso al nuovo arrivato.
Mollai
la scatola delle bustine di
thè e il barattolo dei biscotti sul ripiano accanto al piano
cottura e corsi in
soccorso del poveretto.
Con
grande dispiacere assestai anche
io una spinta poco delicata a papà, sempre più
confuso, per poi gettarmi su
mamma e scollare i suoi tentacoli dal petto di nientemeno che Liam
Carter
Wright.
Il
malcapitato, fronte aggrottata e
occhi spalancati pieni di mille punti interrogativi, sembrò
illuminarsi nel
vedermi apparire.
«Mamma,
papà, lui è Mr. Liam Carter
Wright, l'avvocato per cui quasi certamente
lavorerò!», esclamai afferrandolo
per una manica della giacca e trascinandolo dentro, un sorrisone
falsissimo
stampato in volto.
«...per
cui forse lavorerai.
Le faccio presente che io non ho ancor-», tentò di
bisbigliarmi lui
all'orecchio.
Io
piroettai intorno a lui aiutandolo
a levarsi la giacca e continuando a sorridere in modo esagerato ai miei
genitori che ci squadravano perplessi. «Non contraddirmi
davanti ai miei, Mr.
Liam!», sibilai velenosa mentre con la scusa di sistemargli
il colletto
leggermente spiegazzato della camicia ne approfittavo per tirargli una
ciocca
di capelli.
«Di
che confabulate voi due?».
L'occhio di Madre, più potente e scrutatore di quello di
Sauron, stava
analizzando ogni nostra mossa.
«Del
fatto che non è ancor-»
«Non
era ancora tempo di
comunicarvelo ma ormai è ufficiale che io
rimetterò a nuovo tutta l'area verde
che circonda la villa di Mr. Carter Wright. Perciò gioite,
il mio è davvero un
lavoro vero con dei clienti veri», strillai entusiasta,
trenta decibel più
forte del necessario per essere sicura di sovrastare ogni tentativo di
protesta
dell'avvocato.
Due
minuti più tardi, seduti
comodamente attorno al tavolo di legno chiaro della mia cucina, i miei
tre
ospiti stavano amabilmente discorrendo mentre io facevo la Cenerentola
di turno
dato che il caro Mr. Liam si era fatto scappare di
aver saltato il
pranzo e Madre mi aveva ordinato di preparare un paio sandwich.
Sandwich che,
come mio padre prontamente mi fece presente, avrebbe gradito
immensamente anche
lui.
A
dire il vero Mr. Liam stava
discorrendo amabilmente solo con mio padre dato che l'avvocatura
può essere per
gli uomini di legge un argomento più appassionante e
coinvolgente del
campionato di football, mentre mamma continuava ad interromperli per
bombardare
l'ultimo arrivato con domande fuori luogo e senza senso.
«Quindi
non è sposato eh?», buttò lì
con nonchalance Madre.
Mamma,
tu sì che sei nata per fare
l'investigatrice privata, avrei voluto dirle notando le occhiatine per
nulla
nascoste che continuava a lanciare alla mano sinistra spoglia di anelli
del
Signor. Carter Wright, il quale si era ben accorto dell'interesse
morboso della
donna per il suo anulare sinistro e per suo stato civile.
«No,
non sono sposato. Lei è
un'ottima osservatrice», le rispose cortesemente lui, una
vena d'ironia colta
sia da me che da mio padre ma non dalla diretta interessata, la quale
continuò
a sorridere soddisfatta di quello che secondo lei era stato un
complimento.
Mr.
Carter Wright e mio padre
ripresero la conversazione e io tornai a concentrarmi sulle fette di
pane in
cassetta.
«Ha
intenzione di sposarsi?»
E
rieccola! Lasciai cadere la
confezione di fette di formaggio che tenevo in mano e mi voltai
esasperata.
«Faccio
l'avvocato divorzista; per
citare un noto film: 'Ho visto cose che voi umani non potete neanche
immaginare'», commento abbozzando un sorriso lui.
Papà
scoppiò a ridere e gli diede una
pacca sulle spalle e io scossi la testa alzando gli occhi al cielo.
«Non
ho compreso; era un no?», chiese
mia madre, la quale se già si trovava spiazzata di fronte
all'uso dello humour,
quando a questo ci si univano anche citazioni di Blade Runner perdeva
completamente il filo del discorso del suo interlocutore.
Carter
Wright annuì non lasciando
trapelare il minimo segno di esasperazione di fronte alla lentezza di
mia
madre.
Grace
Van Houten era una donna
brillante, su questo non c'erano dubbi, solo che c'erano determinati
argomenti
a lei completamente estranei e da cui cercava di tenersi il
più possibile alla
larga. Nata in una ricca famiglia cattolica ed alquanto bigotta, mamma
si era
laureata in letteratura francese e aveva continuato a dedicare la sua
vita alle
due figlie e al marito, alla beneficenza e alla mondanità.
Se un operaio
qualunque avesse provato ad intavolare con lei un discorso che verteva
su
salari minimi, tasse e contributi dovuti Madre avrebbe subito tentato
di
cambiare discorso elogiando l'originalità della scelta di
indossare
consapevolmente una tuta da lavoro chiazzata d'unto.
Mamma
aveva dei tempi di ripresa straordinari
e così non perse tempo e tornò alla carica.
«Pensa
che Felicity invece sogna il
matrimonio da sempre. Ricordo che da piccola strappò le
tende di camera sua per
poter creare il suo abito da sposa. È una cosa
così tenera a pensarci. Peccato
che quel Theodore non sia intenzionato a chiedere la sua
mano...ahi!»,
sgraziatamente posai con tutta la forza che avevo il piatto con i
sandwich di
papà dritto sulla mano ingioiellata di mia madre.
«Non
è vero. Zoe strappò le tende;
voleva usarle come lenzuolo mortuario o simil sudario per il cadavere
di
Giselle la gatta e io glielo ho impedito per utilizzarlo in modo
migliore», mi
affrettai a giustificarmi.
«La
mia gatta Giselle?! Quella che
credevo scomparsa? Tu-tua sorella l'ha u-ucc-uccisa?!»,
chiese con voce
tremante e viso livido mamma.
Ops,
questo era un particolare che
Zoe mi aveva fatto giurare di non rivelare mai, pena fare la stessa
fine della
gatta.
«Si
è trattato di un incidente! Zoe
stava solo cercando di sintetizzare aspirina e invece finì
per avvelenare
Giselle. Pensa positivo mamma, l'altra possibile cavia ero
io...», tentai di
rincuorarla accarezzandole il dorso della mano.
«Montie,
avevo ragione quando dicevo
che quella bambina doveva essere esorcizzata»,
mormorò lei fissando il vuoto,
«Povera, povera Giselle...»
Papà
si alzò e fece il giro del
tavolo per andare a confortare la moglie.
«Suvvia
Grace, abbiamo sempre saputo
che Zoe fosse un pochino...ehm...». Psicolabile? Toccata?
Pericolosa? «...un
pochino particolare, diciamo...»
Se
Zoe era solo un pochino particolare
io ero Bellatrix Lestrange!
«Allora
Mr. Liam, cosa ti porta
qui?», esclamai con enfasi per cercare di smorzare
l'imbarazzo.
Lui
rivolse un ultimo sguardo alla
coppia che si trovava di fronte a lui prima di rivolgere a me tutta la
sua
attenzione. «Ero stanco del lavoro e mi annoiavo
perciò ho deciso di venire a
trovarla per discutere ancora un po' delle ultime modifiche da
apportare al
progetto. Mia sorella Judith vorrebbe vederlo al più presto
concluso...»
Rimasi
un attimo in silenzio non
sapendo bene come interpretare quell'ultima frase.
«Sei
al corrente del fatto che ogni
cosa che noi decidiamo insieme viene poi da me comunicata a tua
sorella?»,
domandai cautamente.
I
suoi occhi si spalancarono così
tanto da fare concorrenza agli occhioni acquosi di Gollum.
«Tu conosci Judith?»
Spinsi
verso di lui il piattino con i
sandwich, magari un po' di cibo lo avrebbe aiutato a tornare in
sé e
soprattutto a ridurre la dimensione di quegli
già di loro troppo profondi e luminosi per
farmi star tranquilla.
«Sì,
è stata lei a contattarmi poco
dopo il nostro primo incontro. È una persona adorabile, lei
e tutti quei
gattini che mi allega alle email. Non pare proprio tua parente,
sai?»
Lo
provocai giusto per vedere se
cambiava espressione infatti scoprii di essere riuscita nel mio intento
quando
lo vidi accigliarsi.
«Tesoro,
io vado a farmi una doccia e
a cambiarmi per la cena. Vuole unirsi a noi più tardi, Mr.
Carter Wright?
Pensavamo di andare al Saint Vincent, lo
conosce?», intervenne mamma,
chiaramente ripresasi dalla luttuosa notizia.
«Certamente,
Pierre è uno chef
eccezionale. Accetterei volentieri ma non vorrei imporre la mia
presenza ad una
cena di famiglia...». Era incredibile come facesse il galante
tutto fascino e
cortesia con tutti all'infuori della sottoscritta, trattata invece a
pesci in
faccia.
«Ma
quale imposizione! Sono cresciuto
in una famiglia di donne; a volte un po' di compagnia maschile porta
davvero
sollievo...», lo incoraggiò mio padre,
«E Theodore solitamente non parla
d'altro che di piante e cose a me incomprensibili»
Ed
eccolo di nuovo con il povero
Theodore! Perché oggi tutti ce l'avevano con lui?!
«Allora
accetto volentieri ma dovrò
correre a casa a cambiarmi».
Come
se la sua candida camicia, i
pantaloni sartoriali e la giacca su misura non fossero già
abbastanza.
«Allora
ci vediamo per le otto al
ristorante. A più tardi, caro», lo
salutò tutta mielosa mia madre.
Ora
era passata anche a chiamarlo caro?
Già che c'era perché non gli offriva di
trasferirsi da loro a Tampa e di
dormire nel mio letto?
Accompagnai
Mr. Liam alla porta, dopo
avergli restituito la giacca, e non avendo nulla da dire mi limitai a
scortarlo
in silenzio mentre Madre zampettava al piano superiore e Padre era
impegnato in
una chiamata appena ricevuta.
Sperai
che questa volta mia mamma non
foderasse la vasca da bagno con la pellicola per alimenti come aveva
fatto
l'ultima volta che era stata qui, dichiarando che lei in una vasca di
seconda
mano comprata ad un mercatino d'antiquariato non avrebbe mai posato le
sue
nobili membra.
«Chi
è Theodore?»
Persa
com'ero nei miei pensieri caddi
letteralmente dal pero a questa domanda.
La
domanda era più che naturale;
avevamo nominato più e più volte il nome del mio
ragazzo in sua presenza senza
mai specificare chi fosse realmente costui.
«Il
mio fidanzato», mormorai
guardando la pioggerellina fine che ora cedeva al di là
delle sue spalle.
«Ohoh,
Miss Felicity ha un fidanzato!
Questo si che è interessante...»,
ridacchiò lui sistemandosi il bavero della
giacca e recuperando il suo ombrello.
«Perché
mai non dovrei av-», ma le
mie parole si persero nell'aria quando mi accorsi che Mr. Liam mi aveva
voltato
le spalle e se n'era andato.
Scacciai
la punta di delusione che
per un attimo avevo provato nel non ricevere un saluto da lui e
rientrai in
casa.
«Tesoro,
non è per caso che hai altra
pellicola? Tua madre ha già impacchettato pavimento e vasca
ma gli mancano il
wc e il lavello...», lessi negli occhi di mio padre
l'esasperazione dovuta alle
assurdità di quella che, nonostante tutto, era sua moglie da
più di trent'anni.
«Montieee,
sbrigati!»
Scrollando
il capo tornai in cucina
dove cercai nel cassetto in basso se avevo una scatola di scorta di
Domopak.
L'amore
era quello? Assecondare e
accettare le follie l'uno dell'altro? Probabilmente visto l'esempio di
Grace e
Montgomery Van Houten doveva essere proprio così.
Salve!
So
benissimo
che il capitolo è leggermente più corto del
solito ma volevo pubblicarlo perché
ora che ho ancora tempo libero non voglio assolutamente farvi perdere
tempo ad
aspettare intere ere geologiche per un nuovo capitolo, cosa che invece
dovrete ahimè
fare da lunedì in avanti dato che sarò sia
mattina che pomeriggio a lezione :c
Lasciamo
da
parte per ora le cattive novelle (buhuuu, a lezione no) e torniamo alla
storia.
Allora allora, in questo capitolino incontriamo finalmente tre nuovi
personaggi fondamentali
nella vita di
Felicity: Donnie, suo braccio destro e cucciolone formato gigante
incapace di
trovare una donna capace di coccolarlo a dovere e per un tempo
più lungo di una
notte soltanto, Madre, l’adorabile ma un po’
svampitella Grace (dopo non
sorprendiamoci se le figlie escono un po’ pazzerelle) e
Padre, ovvero il famoso
avvocato Montgomery Van Houten, venerato da Mr. Liam ma in
verità papà
affettuoso e cordiale.
Ora
lascio la
parola a voi approfittandone per ringraziarvi tantotantotanto per le
recensioni, le letture e i preferiti/seguiti/ricordati.
Alla
prossima!
S.
|
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Capitolo 6 *** Primule e calendule ***
Liam
Il lieve russare del mio
vicino di poltrona, le gentili parole sussurrate dalla hostess ad un
anziano
signore che voleva un'altra tazza di caffè, il rombo in
sottofondo del motore
dell'aereo che stava sorvolando la costa orientale in quella notte
limpida e
serena.
Questa era la colonna sonora
dei miei pensieri. Non viaggiavo in economy class da almeno dieci anni
e mi
sentivo oppresso dalla vicinanza dei sedili, dalla mancanza di spazio e
dal
servizio approssimativo e casereccio.
Per cena mi avevano offerto
delle polpette con sugo. Non mangiavo polpette dai tempi della mia
infanzia,
quando Nonna May ne cucinava a montagne per la gioia dei suoi mille
nipotini.
Avevo tentato ogni strada per
riuscire ad accaparrarmi un biglietto in business class: dalla voce
grossa alla
seduzione, dalle minacce all'abbindolamento.
Nulla.
Ero stato schiaffato su un
sedile consunto della seconda classe, posto senza finestrino, tra un
uomo obeso
di cinquant'anni che tendeva a invadere il mio spazio vitale con la sua
ciccia
e una petulante bambina di sei anni che aveva passato un'ora intera a
darmi del
deficiente quando avevo commesso l'errore di rivelarle che non ero un
fan della
sua beniamina, Taylor Swift.
Solitamente Diana prenotava
con largo anticipo i miei voli, organizzando ogni mio trasferimento con
estrema
cura, assicurandosi che la mia attesa nella vip lounge fosse piacevole
e
confortevole e che ci fosse sempre un'auto ad aspettarmi appena
atterrato.
Questa volta però la mia efficiente segretaria non aveva
potuto fare molto dal
momento che quello strambo invito mi era giunto solo la sera precedente.
Mr. Montgomery Van Houten
sarebbe lieto di godere della Sua compagnia in occasione della piccola
riunione
di amici che si terrà Venerdì 23 Maggio alle ore
20.00 presso la sua abitazione
di Tampa per la ricorrenza del suo sessantesimo compleanno.
Mr. Liam Carter Wright (+1)
È richiesto abbigliamento da
sera.
Ero rimasto alquanto sorpreso
da quell'invito. Due settimane prima avevo passato una piacevole serata
in
compagnia dei coniugi Van Houten ma la nostra conoscenza reciproca si
fermava a
ciò. Nonostante il fatto di essere allo stesso tavolo con il
mio maestro
ispiratore e la presenza di Felicity che era stata un brontolio unico
per tutta
la cena e aveva passato tutto il tempo a battibeccare con la madre
perché
quest'ultima riteneva fuori luogo ed inappropriato il suo abbigliamento
composto da jeans e maglia scura con maniche a tre quarti, mi ero
divertito e
non mi ero mai sentito a disagio o in soggezione.
Ma stavamo pur sempre
parlando di Montgomery Van Houten e pur di partecipare alla sua festa
sarei
stato disposto a farmi Boston-Tampa sul retro di un camion che
trasportava
profumati maialini.
Avevo pensato a lungo alla
possibilità di farmi accompagnare da una delle donne che
frequentavo
saltuariamente e senza impegno ma alla fine mi ero deciso ad andare da
solo.
Sapevo dalle interviste e
dagli articoli a lui dedicati che il padre di Felicity sosteneva che la
maggior
parte del suo successo fosse dovuto alla presenza costante della moglie
al suo
fianco. Felicity mi aveva accennato sommariamente alla storia sbocciata
ai
tempi del college tra i suoi genitori. Sebbene, come lei sosteneva,
inizialmente sua mamma fosse solo una snob fissata con il cinema
d'essai in
lingua francese e non calcolasse minimamente il giovane tutto studio e
codice
civile che era suo padre.
Questa storia mi ricordava
molto quella tra Mildred e Matthew nonostante, mentre la prima era
anche lei
dedita allo snobismo nella sua forma più altezzosa e ricca
di boria, il mio
amico invece che tutto libri di diritto e nottate di studio era dedito
a
faccende più...ricreative che coinvolgevano giovani e
sciocchine donzelle.
Io ai tempi del college avevo
sperimentato di ogni, avevo studiato tantissimo ma non avevo trovato di
certo
trovato la mia compagna di vita.
Sbuffai, stanco di quei
pensieri velati di malinconico rimpianto che mi tormentavano
ultimamente, e
tornai a concentrarmi sul documento aperto sul mio iPad sperando che
quel
viaggio infernale finisse nel più breve tempo possibile.
«Tra dieci minuti atterriamo.
Dovrebbe spegnere ogni dispositivo elettronico ora», mi
ricordò l'assistente di
volo sorridendomi.
Colsi lo sguardo attento che
dedicò alla mia intera persona così come la sua
mano posata sulla mia spalla
più a lungo del tempo necessario a richiamare la mia
attenzione. E sarei
un'ipocrita se negassi di non aver ampiamente apprezzato la visuale
offertami
dal suo decolté messo in bella mostra grazie alla posizione
leggermente
ricurva, necessaria per raggiungere me al di là dell'iceberg
di adipe che era
il mio vicino.
Non ero assolutamente
dell'umore giusto per civetterie e sguardi maliziosi, volevo solo
arrivare in
albergo il prima possibile e levarmi di dosso quell'odore stagnante di
aereo di
bassa lega che mi sentivo adeso ai vestiti e alla pelle.
Le rivolsi un brusco cenno
del capo, spegnendo il tablet e riponendolo nella mia ventiquattr'ore,
cogliendo l'occasione per sottrarmi al suo tocco.
La ragazza si allontanò di
fretta, un'espressione accigliata stampata sul viso e una camminata
più
sculettante di prima, chiaro messaggio dedicato al sottoscritto, come a
dire
'Stolto, guarda che ti perdi'. Era carina, nulla di eccezionale, ma era
snella
ed atletica e aveva davvero delle belle gambe abbronzate. Fino all'anno
scorso
probabilmente le avrei dato corda ma negli ultimi tempi conducevo una
vita
sociale più ritirata di quella di una suora di clausura.
Stavo invecchiando. E stavo
invecchiando male.
Il signore al mio fianco,
finalmente sveglio dopo cinque ore di sonno beato, era il tipico tizio
fastidioso che inizia a trafficare con armi e bagagli e ad alzarsi dal
suo
posto per cominciare ad intasare lo stretto corridoio ancora prima che
l'aereo
abbia toccato l'asfalto della pista. La bambina invece, Shake
it off
sparata a duemila decibel nei timpani, stava masticando una Big Bubble
non
curandosi del fatto che il suo ruminare poteva non interessare l'intero
gruppo
passeggeri.
Mi misi a fissare le
istruzioni con i comportamenti da tenere in caso d'emergenza stampate
sulla
parte superiore del sedile davanti a me.
Mi ero sempre domandato come
fosse possibile mantenere la calma necessaria a trovare quel benedetto
giubbotto, indossarlo, trovare la levetta da tirare o il tubicino in
cui
soffiare per gonfiarlo quando il tuo aereo stava precipitando in
picchiata.
«Benvenuti a Tampa, Florida.
Sono le 2.57 di mattina e il tempo è sereno. A breve
avrà inizio lo sbarco;
fino ad allora siete pregati di restare seduti ai vostri posti.
L'equipaggio di
bordo vi ringrazia per aver scelto di volare con noi e vi augura una
buona
permanenza. Arrivederci!», annunciò la voce di uno
steward dagli altoparlanti
gracchianti.
Tolsi la modalità aereo al
mio iPhone e avviai la sincronizzazione della mia casella di posta
elettronica.
Avere clienti sparsi per tutti gli States, divisi dai fusi orari, mi
assicurava
un flusso continuo di email ad ogni ora del giorno e della notte.
«Si muova, mi scappa la
pipì!». Una vocetta lagnosa mi fece distogliere
l'attenzione dallo schermo del
telefono.
Seguii il consiglio della
bimbetta e, approfittando dell'ingorgo creato da una coppia giapponese
alle
prese con una gabbia con tanto di pappagallo, afferrai la
ventiquattr'ore,
acciuffai il mio trolley super leggero di ultima generazione in
policarbonato e
me la filai.
Appena entrato in aeroporto
mi diressi all'uscita principale di questo e richiamai un taxi.
«Grand Hyatt Tampa Bay»,
informai l'autista mentre gli lasciavo il mio bagaglio e prendevo posto
sul
sedile posteriore.
L'oceano correva scuro e
liscio come una grande chiazza di liquido petrolio al lato della strada
ma ero
davvero troppo stanco per poterlo ammirare veramente.
Probabilmente mi appisolai
perché quando mi svegliai l'autista aveva già
affidato il mio bagaglio al
portiere notturno dell'albergo e aveva aperto la portiera, pronto a
richiamare
la mia attenzione.
Saldai il conto e mi
incamminai attraverso l'imponente atrio, diretto verso il lucido
bancone della
reception dove una ragazza afroamericana mi aspettava sorridente.
«Benvenuto Mr. Carter Wright.
Spero abbia fatto un buon viaggio. La sua stanza è la 793,
settimo piano, vista
mare. Vladimir la accompagnerà e si prenderà cura
del suo bagaglio. Le serve
altro?». Nel bel mezzo di questo cortese soliloquio una magra
figura pallida
dai tristi capelli biondo stinto aveva fatto la sua comparsa alle
spalle di
Jackie, nome che avevo appreso leggendo la targhetta spillata al bavero
del
gilet della receptionist.
Distolsi lo sguardo da quelle
lettere incise sulla piccola placca metallica e tornai a rivolgere la
mia
attenzione alla signorina. «Per ora nulla, grazie»,
le risposi allungando la
mano per prendere la tessera magnetica che mi porgeva.
«Allora le auguro un buon
riposo», concluse lei.
***
E un buon riposo avevo senza
dubbio avuto quella notte pensai rotolando sul dorso tra quelle candide
lenzuola.
Erano le undici di mattina
circa, come il mio telefono e soprattutto i brontolii insistenti del
mio
stomaco mi avevano avvisato, e la stanza era letteralmente inondata
dalla luce
che entrava prepotente dalle finestre, che la notte precedente mi ero
scordato
di oscurare.
Mi stiracchiai beandomi di
quella sensazione di piacevole intorpidimento che uno prova solo dopo
una bella
dormita. O una bella scopata. Ma questo era un altro discorso. Anche se
quella
Jackie...
Un martellante bussare alla
porta distolse la mia mente da quei lascivi pensieri mattutini.
«La colazione!», mi
annunciò
una voce attutita dalla pesante porta in legno.
Colazione? Come avevo fatto
ad ordinare la colazione se appena arrivato ero crollato sul letto per
risvegliarmi solo un paio di minuti prima?
Mi alzai svogliatamente e,
cercando di non inciampare nelle scarpe che quella notte avevo
abbandonato al
centro del grande tappeto che ricopriva il pavimento chiaro, mi recai
fino alla
soglia dove spalancai la porta, curioso di sapere se quel servizio
scocciatore
era un omaggio che l'hotel riservava ai suoi clienti più
affezionati.
Davanti a me trovai un
vassoio enorme, ricco di ogni leccornia: da morbidi croissant a succhi
di
frutta dai mille colori, da un caffè nero fumante a uova
all'occhio di bue
profumatissime. Non appena la mia fame accecante lasciò
spazio anche al resto
del quadro mi accorsi a chi appartenessero quel nasino tutto lentiggini
e quei
vispi occhietti dallo sguardo canzonatorio.
Senza aspettare che la
invitassi ad entrare, l'uragano Felicity mi spinse di lato grazie ad
una
gentile gomitata e marciò sicura verso il mio letto, dove
abbandonò il vassoio
sul vicino comodino prima di voltarsi a fronteggiarmi.
«Ora che ho compiuto il mio
dovere finalmente smetterò di vivere sotto ad un tetto a
scolapasta. Susu,
mangia, Mr. Liam, che dobbiamo andare! Che ci fai ancora vestito da
noioso
avvocatuccio? Siamo in Florida! Qui costume da bagno e occhiali da sole
sono
obbligatori!», snocciolò, afferrando poi una
fettina di pane di segale
ricoperto da un leggero velo di burro e portandoselo alla bocca.
«Mi sono appena alzato. E
quella è la mia colazione», puntualizzai
osservando la mia porzione di yogurt e
muesli sparire tra le fauci affamate della mia folle giardiniera.
«Oddio, scusa! È solo che
le
brioches ai cinque cereali sono le mie preferite...»,
mugugnò leccando un
cucchiaino e fissando con sguardo bramoso l'invitante croissant posato
su un
piattino.
Dieci minuti più tardi, nello
stomaco le uova e i due biscotti che ero riuscito a sottrarre a
Felicity e alla
sua furia divoratrice, ero chiuso nel bagno principesco della mia
stanza mentre
la tiranna mi urlava di sbrigarmi dall'altra camera.
Interrogarmi sul come e il
perché fosse finito in una situazione simile era inutile. Le
donne riuscivano
sempre, in un modo o nell'altro, a metterci un bel guinzaglio
tempestato di
paillettes attorno al collo e a fare in modo che non sfuggissimo mai al
loro
occhio scrutatore.
Avevo portato con me il mio
smoking nero dal taglio classico e un paio di camicie con pantaloni
abbinati.
Niente bermuda dalle stampe hawaiane o canottiere sbracciate dai colori
improbabili.
Capii di aver commesso un
errore nell'esatto istante in cui aprii la porta e incontrai un limpido
sguardo
chiaramente contrariato fisso sui miei calzoni color sabbia e la mia
camicia
azzurra.
Mi scrutava accigliata dal
grande letto matrimoniale, dove si era installata a gambe incrociate,
dopo aver
abbandonato le infradito sulla moquette.
«Porta con te la carta di
credito», mi ordinò prima di balzare in piedi,
recuperare la sua ampia sacca di
tela e dirigersi verso la soglia.
Infilai portafogli e telefono
nella tasca posteriore dei pantaloni, recuperai il badge magnetico
della camera
e chiusi la porta alla mie spalle.
Se c'era una cosa che mai
avrei immaginato...bè, era proprio quella. Passeggiare sulla
battigia, costume
da bagno e t-shirt comprate al mercatino dell'usato, occhiali da sole
pescati
al lato di una cassa di un supermercato tra caramelle e preservativi, e
un
aquilone legato al polso.
«Mi rendo conto di quanto mi
manchi tutto ciò solo quando torno a casa...»
Viso leggermente arrossato
illuminato dal sole fiammeggiante dell'una di pomeriggio, occhi celati
dalle
lenti verdi scuro di un paio di occhiali dalla forma tondeggiante e
camiciola
leggera di candido cotone a svolazzarle attorno.
Bellissima.
Per un attimo rimasi quasi
accecato dalla consapevolezza di quanta bellezza ci fosse in quella
ragazza
conosciuta grazie a nonno Tobias e alle apine svolazzanti del suo sito.
«Mr. Liam! Non ti ho mai
chiesto dove sei nato e cresciuto. Ho sempre dato per scontato che
fossi di
Boston ma hai negli occhi lo stesso velo di nostalgia che ho io quando
sono
lontana da questo mare dove ho imparato a nuotare e dove ho perso la
verginità...»
«Hai perso la verginità in
mare?!», domandai sconcertato.
Lei sbuffò e si sistemò
dietro l'orecchio una ciocca di capelli sfuggita dallo chignon
disordinato che
teneva imprigionata la sua chioma color girasole.
«Ovviamente tu hai colto solo
quello!», sbottò prima di chinarsi e immergere le
mani, palme aperte, nella
sabbia bagnata.
«Bè, è una cosa
insolita...»,
cercai di difendermi, nonostante volessi solo saperne di più
riguardo a quella
faccenda.
«Ero giovane, era estate, lui
era qui in vacanza...», commentò vaga guardando
l'acqua coprire e poi ritirarsi
dal dorso delle sue mani. «Dov'è casa
tua?»
«A Boston»
Sì, un freddo e vuoto attico
dal valore di migliaia e migliaia di dollari.
«La tua vera casa. Non quella
che ti ostini a chiamare tale ma quella che lo è davvero,
quella a cui pensi
quando ti senti solo e non sai più dove stai
andando...», precisò rialzandosi,
appoggiando una mano bagnata di acqua salata sul mio avambraccio e
alzando il
viso verso di me.
Quello che vidi in quegli
occhi mi fece quasi tremare.
Casa.
Non avevo più chiamato casa
nessun luogo da quando avevo lasciato i miei genitori a diciassette
anni.
E al tempo l'unica cosa che
volevo era proprio fuggire da lì. Dalle attenzioni esagerate
della mia
apprensiva madre. Dall'espressione esausta e gli occhi sempre tristi di
mio
padre, costretto a fare orari disumani in fabbrica per permetterci di
finire il
liceo. Dai commenti cattivi dei miei compagni di classe rivolti al mio
giubbino
vecchio di una decina di anni e ai sussidi familiari con cui tiravamo
avanti.
Avevo studiato senza sosta.
Notte e giorno. Nessuna vacanza, nessun ballo di fine anno, nessuna
distrazione
per Liam Carter Wright.
E poi avevo vinto la borsa di
studio tanto agognata e tanto sudata e me ne ero andato a Harvard,
senza mai
guardarmi indietro.
Non ero più tornato. Non
avevo più visto la crepa che attraversava diagonalmente il
soffitto chiazzato
di umidità della mia stanzetta. Non ero più stato
nel mio posto segreto, gambe
a penzoloni, a fissare per ore intere i treni fermarsi e ripartire in
un ciclo
senza sosta, sognando di scappare da lì. Non mi ero
più seduto al tavolo,
decorato dal lavoro di mille tarli, nel nostro buio cucinotto, che
senza una
moneta da un quarto di dollaro sotto una gamba traballava.
Casa.
«Non ricordo neanche più
quale sia...», sussurrai fissando le onde infrangersi sugli
scogli in
lontananza.
Una pressione improvvisa mi
fece voltare il capo e fissare lo sguardo sulla mia mano racchiusa da
quella
più piccola e costellata di efelidi di Felicity.
«Vieni con me»
La seguii senza far domande,
sfilando davanti ai bagnanti impegnati a prendere il sole e a godersi
quella meravigliosa
giornata sotto quel cielo limpido.
Percorremmo tutta la spiaggia
prima di allontanarci dall'acqua, abbandonare il pavimento sabbioso e
rimetterci le infradito.
Felicity regalò l'aquilone ad
un bambino, che la ringraziò con un abbraccio che la fece
illuminare come un
albero di natale e poi, sempre senza lasciare la mia mano, mi fece da
guida
attraverso una serie di vicolini in discesa che, mano a mano che
procedevamo,
si lasciavano alle spalle i resort di lusso e gli edifici di
scintillante vetro
e cromature per far posto a casette dall'aspetto più vissuto
e peculiare.
Ci stavamo avvicinando alla
zona più portuale e meno turistica della città.
Il mare spumeggiante cominciava
a popolarsi di imbarcazioni e l'acqua diventava leggermente
più torbida a causa
del traffico di barche che ma attraversavano.
Felicity procedeva spedita,
senza indugio, era chiaro che avesse bene in mente dove voleva arrivare.
Quando un paio di minuti più
tardi ci fermammo di fronte ad un capannone malmesso e all'apparenza
abbandonato, preso in contropiede da quel brusco stop finii per
travolgere la
mia compagna di avventure.
«Perdonami...»,
mormorai, indietreggiando
di un passo e
cercando di districare le mie dita dalla presa ferrea delle sue.
Non me lo permise. Rafforzò
la stretta e riprese a camminare, come se si fosse ricordata quale
fosse la
direzione da seguire dopo essersi persa un attimo a fissare quelle
pareti in
mattoni e la foresta di erbacce che le decorava.
Girammo attorno alla
costruzione, che rivelò avere una porta sul retro oltre al
portellone a
serranda che si trovava sulla facciata anteriore della struttura.
Ma non era la porta il vero
obiettivo di Felicity, bensì la finestra, priva di vetro e
coperta solo da un
pannello di compensato logoro e spezzato in corrispondenza dell'angolo
in basso
a sinistra.
Lasciò la mia mano e diede un
calcio potente e ben assestato al pannello facendo venire allo scoperto
la buia
cavità che una volta era stata sede dell'intelaiatura di una
finestra.
Dopodiché, ancora prima che
potessi realizzare cosa stesse accadendo, vidi la sua sagoma sparire al
di là
del muro, come inghiottita dall'oscurità che faceva da
padrona all'interno
dell'edificio.
Quella ragazza doveva amare
proprio tanto il cacciarsi continuamente nei pasticci.
Un'aureola di capelli biondi
fece capolino dal rettangolo buio che segnava il confine dell'infisso.
«Che
stai aspettando? Vieni!», mi incitò prima di
scomparire nuovamente all'interno.
Facendo attenzione a non
perdere per strada le infradito feci passare prima una poi l'altra
delle mie
lunghe gambe dall'altro lato del muro, ritrovandomi in un'ampia stanza,
fiocamente illuminata da spiragli di luce provenienti da fori e parti
mancanti dei
pannelli che ricoprivano la lunga serie di finestre schierate lungo la
parete.
Delle ciabatte modello
flip-flop in plastica turchese erano proprio quello che ci voleva per
esplorare
un posto disabitato da tempo e probabile rifugio di insetti, roditori e
probabilmente senzatetto e tossici occasionali.
«Benvenuto a casa Van
Houten!», mi annunciò la voce di Felicity.
Se ne stava ferma al centro
della stanza, gli occhi chiusi e le braccia avvolte attorno al busto
come a
volere cercare calore in un abbraccio.
«Tu abitavi qui?», domandai
sconcertato, lo sguardo sugli intrecci di ragnatele che adornavano ogni
angolo
libero della stanza e il pavimento in crudo cemento.
Montgomery Van Houten aveva
sì dato inizio alla sua carriera nel mondo legale
all'interno di un capannone
ma non avrei mai pensato che questo sottintendesse che anche la sua
famiglia
aveva dovuto muovere i primi passi all'interno di quelle quattro mura
scrostate.
«All'inizio le cose andavano
proprio male. Papà ce la metteva tutta ma sembrava davvero
che la sorte remasse
contro la nostra famiglia. Entrambi i miei genitori rifiutavano
categoricamente
di essere finanziati dai miei nonni. Non so se per orgoglio o per la
volontà di
non tornare ad essere dipendenti da loro. Abbiamo vissuto qui fino al
mio
settimo compleanno, poi lo studio legale iniziò ad ottenere
i primi successi,
poi si espanse, inglobando nuovi dipendenti ed infine, mattoncino dopo
mattoncino, Papà costruì un impero. E fu naturale
trasferirsi. Per un paio
d'anni in una villetta a schiera e infine, alla vigilia del mio decimo
compleanno, nella casa che vedrai stasera alla festa. Vieni, voglio
mostrarti
la mia camera».
Salimmo delle strette scale
di legno scricchiolante e ci ritrovammo in un corridoietto
claustrofobico su
cui si affacciavano tre aperture, senza porta.
«Qui dormivamo io e Zoe, mia
sorella. Ricordo che quando i rumori notturni del porto e delle azioni
di
scarico e carico delle navi mi spaventava, mi accucciavo vicina vicina
alla
figura addormentata di mia sorella e fissavo per ore le ombre sul
soffitto»,
spiegò sottovoce sfiorando con la mano una porzione di muro
dove si intravedeva
la sagoma lasciata dalla testata di un letto. «E la cosa
curiosa sai qual è?
Dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che è cambiato,
migliorato o giunto a
termine nella mia
vita, questo posto
rimane quello che sento più...casa,
insieme al mio giardino a Plymouth.
Qui sono stata felice. Siamo stati felici, nonostante il poco che
avevamo.
Anzi, forse lo siamo stati proprio grazie a quel poco che possedevamo.
Ci torno
sempre quando vengo in Florida. Ci torno per ricordarmi che le cose
semplici
sono sempre le più belle ed autentiche. E so che anche
Papà a volte torna
perché ho trovato le cicche delle sue sigarette sparse nel
cortile...»,
concluse ridacchiando tra sé.
«Non torno a casa da quando
l'ho lasciata a diciassette anni...», confessai ad alta voce
quasi senza
rendermene conto.
Lei rivolse lo sguardo a me e
mi sorrise, «Credo proprio che dovresti farci ritorno. Fa
sempre bene tornare
indietro, alle proprie radici. Ti aiuta a capire i passi fatti fino a
quel
momento e quelli ancora da compiere. È illuminante e al
tempo stesso
terribilmente disorientante. Torna a casa, Mr. Liam».
Come ci riusciva? Come poteva
parlarmi così sinceramente e saggiamente la stessa persona
che si chiudeva
quotidianamente da sola le dita nella portiera del pick-up e litigava
furiosamente con il commesso del supermarket che faceva il furbo sul
numero
delle caramelle che le serviva e impacchettava?
Annuii, non sapendo come
ribattere. Nel mio intimo ero terribilmente indispettito. Come si
permetteva di
farsi gli affari miei e dirmi come comportarmi? Lei, con una vita
così
ingarbugliata da non riuscire a venirne a capo neanche se fosse stata
Arianna
nel labirinto e avesse avuto il filo da seguire!
«Dobbiamo andare. Ho promesso
a Mamma di dare un'occhiata alla disposizione degli ospiti, lei ha una
memoria
a scolapasta e tende a dimenticare litigi, odi sanguinari e minacce di
morte
intercorse tra vari parenti, amici e conoscenti. Ti prometto che
proverò a
metterti al tavolo delle mie cugine. Sono ricche, sono viziate, sono
fatte per
metà di plastica e per l'altra metà di seta
cinese con stampe Hermes, e
ovviamente sono single e a caccia di marito», mi prese in
giro mentre
ridiscendevamo al piano inferiore.
Dopo essere tornati alla
spiaggia e all'ingresso del mio albergo ci salutammo. Poco prima di
inforcare
la sua bicicletta color confetto si fermò, fece scivolare
leggermente in basso
sul naso gli occhiali da sole e mi fissò da sopra la
montatura.
«Mi raccomando, stasera
comportati bene e non farti impressionare troppo da quello che vedrai,
è solo
uno scintillio», detto ciò mi sorrise e
partì pedalando verso il sole infuocato
all'orizzonte.
***
Dietro il bancone della
reception non c'era più quella bellezza esotica che era
Jackie ma un certo
Kyle, occhi di ghiaccio e testa rasata.
Probabilmente dovevano
soddisfare i gusti di tutti i clienti e non solamente i miei, pensai
deluso.
Il muscoloso e troppo
mascolino per i miei gusti Kyle mi informò che l'auto da me
prenotata era
arrivata e che l'autista mi attendeva all'ingresso.
Gli feci un cenno del capo e
mi avvicinai contrariato alle porte scorrevoli in vetro della hall.
Avevo
specificatamente richiesto di non usufruire del servizio autista.
Guidare mi piaceva, farmi
scarrozzare sul retro di un macchinone dai finestrini oscurati come se
fossi
un'appariscente stella di Hollywood no.
Dopo vari minuti di
discussione, una mancia di cinquanta verdoni e un taxi a mie spese per
rispedire l'autista al mittente, potei finalmente appoggiare il mio
didietro al
sedile in pelle nera della Mercedes a noleggio e partire alla volta
della villa
di Mr. Montgomery Van Houten.
Ero veramente pronto a tutto.
Mi sarei aspettato draghi che sputavano fuoco usati come animali da
guardia e
famiglie di fenicotteri libere di scorrazzare nella piscina a forma di
fiore di
loto.
L'elegante sobrietà di casa
Van Houten mi sorprese. Non mi aspettavo una manifestazione pacchiana e
sfacciata
di lusso e gingilli scintillanti dal valore milionario.
Nessun parcheggiatore, le
auto venivano posteggiate dai legittimi proprietari lungo il viale
ricoperto di
ghiaia. Nessuna cameriera vestita da coniglietta a servire stuzzichini,
sobri
camerieri si aggiravano impeccabili nella loro divisa scura per la
sala. Nessun
soffitto dorato o pavimento di specchi, graziosi affreschi dalle tinte
pastello
adornavano in modo discreto le pareti e una superficie di solido ma
raffinato
marmo grigio scuro sfilava sotto le suole delle scarpe delle decine di
invitati.
La festa si svolgeva nell'ala
ovest del piano terra e nel giardino posteriore che si affacciava
direttamente
sull'oceano, rischiarato dagli ultimi raggi rosati del sole calante.
Parure di splendenti diamanti,
sorrisi contornati da rossetti sgargianti, abiti principeschi dai
lunghi
strascichi, immacolati colletti inamidati, acconciature fantasiose e
perfette,
papillon annodati ad arte.
La ricchezza e l'ostentazione
che non avevo trovato nella cosa la potei osservare negli ospiti.
«Carter Wright, ce l'ha fatta
a venire! Ora devo davvero un tetto nuovo alla mia scellerata
figliola», mi
accolse giovialmente con una poderosa stretta di mano il padrone di
casa.
«È un piacere averla qui.
Mi
scuso a nome di quella povera donna esaurita dopo anni di lavoro alle
dipendenze di mio marito che è Miss Lydia per il ritardo nel
recapitarle
l'invito alla festa. Non ha portato nessuna fanciulla con
sé?», e nel
domandarmi ciò, conoscendo benissimo la risposta data
l'evidente mancanza di
un'accompagnatrice, mi fece l'occhiolino civettuola.
Perché interrogarsi a lungo
sull'origine dei comportamenti psicotici di Felicity? Non bisognava
ricercare
molto per scoprire che il detto 'tale madre tale figlia' spiegava
già
ampiamente tutto.
«Alla fine non avevamo più
avuto occasione di parlare del perché della mia telefonata,
sa quella della mia
segretaria, volevo...oh no! Cara, tuo zio Larry si sta avvicinando
troppo alla
zona bar e sai cosa succede quando esagera con il gin. Riprendiamo
dopo», e mi
abbandonò lasciandomi con una pacca sulla spalla.
Mrs. Van Houten, fasciata in
un elegante abito di seta color crema, che riusciva ad illuminare il
suo
incarnato e a non farla apparire come un enorme bignè alla
crema, mi rivolse un
sorriso di scuse e, dopo
aver borbottato
qualcosa riguardo a 'quella benedetta figliola di Felicity' e al piano
di
sopra, mi lasciò a sua volta seguendo il marito nella vana
impresa di separare
l'anziano signore dal quinto Martini.
Non conoscendo nessuno decisi
di rompere il ghiaccio seguendo l'esempio del buon vecchio Zio Larry e
mi
avvicinai all'angolo bar, chiedendo
al
barman di servirmi un Gin Tonic.
La signora accanto a me stava
spiegando ad un'amica la colonia di calli che aveva preso possesso dei
suoi
piedi, mentre il ragazzo dall'altro lato sembrava impegnato a scrutare
il suo
Shirley Temple come se fosse una sfera di cristallo, da cui poter
decifrare il
futuro.
Ruotai annoiato sull'alto
sgabello e feci vagare lo sguardo per la stanza, osservando tutti quei
visi
sconosciuti che mi circondavano.
Anziani signori dai capelli
brizzolati impomatati intenti a fare presentazioni e stringere mani.
Donne più
agghindate di un albero di natale impegnate a fare capannello per poter
spettegolare in libertà sull'abito di quella e
l'accompagnatore di questa.
Bambini che tiravano le maniche dei genitori per attirare la loro
attenzione,
gli occhi pieni di sonno e i piedi stanchi per le corse in giardino.
Mancava qualcosa.
Mancava qualcuno.
E fu in quel momento che la
vidi.
Una nuvola di tulle rosa. Le
guance arrossate. I capelli luminosi intrecciati. La mano saldamente
attaccata
al corrimano della scalinata per non perdere l'equilibrio. Lo sguardo
spaesato
a scrutare i presenti.
Senza rendermene conto avevo
già appoggiato il bicchiere, lasciato la mia postazione e mi
stavo dirigendo
verso di lei, come attirato dal polo opposto di una calamita.
I suoi occhi si ingrandirono
quando si focalizzarono sulla mia persona e un'ampia espressione
incredula si
dipinse sul suo volto.
«Mr. Liam, che schianto!»,
commentò fischiando in segno di approvazione.
Perché nonostante l'aspetto
fatato, sotto quelle vesti fiabesche si celava la solita Miss Felicity,
sempre
svitata e poco intenzionata a comportarsi bene.
Mi venne da arrossire, quasi
come se fosse avvenuto uno scambio di ruoli e io fossi la donzella
imbarazzata
dall'apprezzamento sfacciato di un uomo.
«Anche tu non sei male...»,
borbottai porgendole il braccio, che lei prontamente afferrò
prima di lasciarsi
alle spalle l'ultimo gradino con un saltello.
Bugiardo. Bugiardo. Bugiardo.
E avevo mentito in modo così
sfacciato da temere che i suoi occhi potessero leggere e smascherare la
mia
menzogna semplicemente guardandomi negli occhi.
Fortunatamente lei sembrava
impegnata a camminare sui suoi sandali dal tacco vertiginoso senza
sembrare una
giraffa ubriaca e ciò pareva un'azione in grado di
assorbirla completamente.
«Mamma ha schierato il suo
intero esercito di torturatrici per ottenere ciò.
Sarà felice che almeno una
persona abbia notato lo sforzo fatto da loro e il dolore sopportato
dalla
sottoscritta...», mugugnò trascinandomi attraverso
il salone in direzione del
bancone da me lasciato pochi minuti prima.
Si sbagliava invece, gli
occhi dei due terzi degli uomini presenti nella stanza erano puntati su
di lei,
ovviamente troppo distratta per accorgersene, e il terzo restante aveva
smesso
di fissarla solo dopo essere stati prontamente rimproverati da consorti
e
accompagnatrici.
Per non parlare dei commenti
concitati e sussurrati che percorrevano la stanza, rimbalzando di donna
in
donna, e gli sguardi invidiosi dedicati al vestito della ragazza il cui
braccio
era saldamente allacciato al mio.
«Un Margarita alla fragola
per me», trillò non appena raggiungemmo il lucido
piano del bancone. «Per te?»,
mi domandò ruotando il capo nella mia direzione.
Nel compiere quel movimento
l'acconciatura semi raccolta le lasciò scoperta una spalla e
il lato destro del
collo. Distratto da quella porzione di pelle appena dorata e cosparsa
di
sparute efelidi tardai nel risponderle e così la vidi
tornare a rivolgere la
sua attenzione al barista e chiedergli di preparare un Margarita anche
per me.
Tempo di riacquistare il
controllo e un alto bicchiere dal collo sottile veniva sospinto
gentilmente
verso di me.
«Ti vedo distratto stasera.
Qualcosa non va?»
Alzai lo sguardo e la vidi
guardarmi con sguardo preoccupato mentre si sporgeva nella mia
direzione.
Sì, mi sto completamente
rincitrullendo. Sarà l'alcool, sarà l'euforia
generale, sarà l'atmosfera
leggera e festaiola. Sarai tu con quel vestito di un colore così
etereo e infantile che
eppure su di te risulta maledettamente seducente. O quel tuo profumo
che emani
ogni volta che ti muovi, e tu sei irrequieta e ferma non ci stai mai, e
a me
pare di stare in Provenza in un immenso campo di lavanda color indaco.
Sarà
la tua mano poggiata quasi per caso sul mio ginocchio o il tuo
respiro
troppo vicino ora che mi stai guardando apprensiva. Sarà
tutto ciò ma io
stasera mi sento come uno sciocco adolescente alla prima cotta. Gli
ormoni a
mille, le mani sudate, la conversazione impacciata. E i tuoi occhi.
Potresti
smetterla di rivolgermi quello sguardo? Per favore. Se tu mi guardi in
quel
modo è come se assorbissi tutto l'ossigeno presente e io
dovessi andare in
apnea. Per favore.
«Nulla, assolutamente
nulla».
Fine della discussione.
Tutto va in modo meraviglioso
no?
«Quella donna ti fissa con lo
stesso sguardo affamato che io dedico ai pancakes con lo sciroppo
d'acero e i
mirtilli», mi informò placidamente lei,
sorseggiando il suo cocktail della
stessa tinta del suo abito.
Feci per voltarmi a cercare
il soggetto in questione quando la sua mano corse ad afferrarmi
saldamente il
mento per impedirmi qualsiasi movimento che non fosse abbassare lo
sguardo per
fissarlo nel suo.
«Nonchalance, Mr. Liam! Fai
finta di volermi gentilmente prendere un tovagliolino - che tra
parentesi mi
serve davvero - e voltati manifestando naturalezza e non sembrando un
guardone
maniaco». Mollò la presa e tornò a
sedere con la schiena ritta.
Seguii le sue istruzioni alla
lettera, ruotando con calma sullo sgabello, camminando fino all'angolo
del
bancone dove si trovava il piccolo porta tovaglioli argentato e solo
allora mi
concessi di alzare lo sguardo per poter finalmente scovare la mia
ammiratrice segreta.
Per un attimo rimasi senza
fiato. Gambe incrociate, spacco furbetto, abito aderente rosso fuoco
come il
rossetto, occhi scuri come l'onice. Mi fissava sfacciatamente, l'angolo
della
bocca leggermente piegato in un sorrisetto ammiccante e un sopracciglio
sollevato come a dire: Che stai aspettando?
Avrà avuto sicuramente più
di quarant'anni ma li portava egregiamente, come il viso luminoso e la
scollatura generosa testimoniavano. Era una predatrice, una leonessa
abituata
alla caccia grossa, annoiata probabilmente dalla vita di tutti i giorni
e da un
marito sovrappeso e petulante.
Recuperai un paio di
tovaglioli e tornai da Felicity, la quale mi attendeva con una buffa
espressione di shock stampata in volto.
«Mi sbagliavo: è senza
dubbio
lei la guardona maniaca! Santo cielo, pare voglia ripassarti per bene
solo
guardandoti!», esclamò concitata.
«Oh oh, che fine ha fatto la
Felicity romanticona che usava le tende di casa per confezionare abiti
nuziali?
Ripassare per bene? Che fine hanno fatto i discorsi su cuore, sole e
amore?»,
mi burlai di lei.
Lei ovviamente si inviperì
proprio come mi aspettavo. «Dubito voglia fare l'amore,
infilarti un anello al
dito e adottare tre gemellini etiopi con te! E non dire romanticona
come se
fosse un insulto!»
Ridacchiai di fronte alla sua
espressione sostenuta e al suo sguardo vagamente minaccioso rivolto
alla donna
alle mie spalle.
«Mi fai fare un tour della
casa?», tentai per smorzare l'atmosfera pesante che si era
venuta a creare.
«No»
«Vuoi ballare?»
«No»
Porsi il mio bicchiere vuoto
al barista e feci per alzarmi, «Va bene, messaggio recepito.
Andrò a conoscere
la bella panter-»
Non riuscii a terminare
perché Felicity, come sempre nel suo modo molto prepotente,
mi afferrò per il
risvolto della giacca e mi trascinò al centro della sala.
«Oh no, cari. Qui si balla
musica per vecchi!», si precipitò su di noi Mamma
Van Houten iniziando a
spingerci in direzione del giardino e del gazebo illuminato da mille
lucine
bianche nascoste tra le rose del pergolato. «Qui stanno i
giovani! Buona
serata!», e ci mollò tra le varie coppiette
intente a danzare strette strette
sulle note di una ballad strappalacrime.
«Ma mamma...», la sua
protesta venne smorzata dall'annuncio del cantante della band che la
prossima
canzone era dedicata a tutti gli amori non ancora nati ma prossimi alla
fioritura.
«Che stupidaggine»,
borbottò
a mezza voce facendo per allontanarsi da me e dalla pista da ballo.
Afferrai la sua mano e
facendola piroettare su sé stessa la feci atterrare
precisamente dove volevo
che fosse: vicino a me, le mani sul mio petto per mantenere la distanza
di un
soffio che ci divideva e non oltrepassare un limite invisibile ma
chiaramente
percepibile.
«Esibizionista», mi
rimbrottò
appoggiando con ostentata malagrazia una mano sulla mia spalla e
lasciando che
le cingessi la vita.
La musica cominciò e noi
iniziammo a piroettare come dei moderni Cenerentola e relativo principe
azzurro. Ok, magari Felicity, con la sua famiglia dal patrimonio
miliardario,
non era proprio un buon esempio di sguattera maltrattata. Sicuramente
però
avrebbe adorato avere dei topini come amici.
«Sai anche ballare bene»,
constatò, una nota di delusione nella voce.
«Lo dici come se fosse una
colpa», le feci presente, guidandola tra le varie coppie e
tenendola saldamente
tra le mie braccia.
Lei sembrò pensarci un attimo
su prima di sbuffare e ammettere, «Vorrei che lo fosse. Sei
quasi perfetto. E a
me le cose perfette spaventano, forse perché io sono tutto
tranne che
perfetta».
E lì, calda e morbida,
stretta a me, mi veniva in mente solo una parola per definirla:
perfetta.
«Non hai mai pensato che
forse è proprio questo il bello? Smettere di cercare di
essere perfetti e
provare a fare delle proprie imperfezioni delle peculiarità,
dei punti di
forza», la feci ruotare su sé stessa, l'abito
vaporoso che si sollevava
spumeggiante attorno a lei, per poi tornare a scendere in onde sinuose.
«Fosse facile...»
Le sorrisi, capivo benissimo.
Dietro quella facciata di impeccabile rispettabilità che
offrivo al mondo mi
ponevo le sue stesse domande, mi agitavano i medesimi dubbi.
Quotidianamente.
«E poi hai quello sguardo.
Come se capissi sempre più cose di quelle che
riveli...»
La band finì di suonare le
ultime note e annunciò una pausa per il taglio della torta,
pausa riempita da
basi musicali registrate, e lasciò il pubblico con la
promessa di rivedersi
dopo il breve intervallo.
«Cosa pensi che non abbia
detto ora?», la interrogai curioso, senza accennare ad
allontanarla e a seguire
dentro casa le altre coppie, intente a sciamare all'interno a
congratularsi con
il festeggiato.
Lei sembrò non accorgersi
dell'improvvisa assenza di ballerini attorno a noi. «Credo tu
stia pensando a
quanto io sia patetica e negata per il ballo!»,
esclamò ridendo argentina.
E lo rifece. Scosse la testa,
i capelli le scivolarono sulla schiena e il collo si scoprì
completamente. Solo
che questa volta era molto più vicino e il suo profumo molto
più intenso ed
inebriante.
«Penso tu sia tutt'altro che
patetica...», sussurrai avvicinandomi impercettibilmente a
lei. In quel momento
lei alzò lo sguardo e ci ritrovammo così vicini
che sarebbe bastato un minimo
movimento per far sì che le nostre labbra si toccassero.
Nessuno dei due si scostò e
nessuno dei due si mosse. Sospesi in un limbo tanto bello quanto
frustrante. Lo
volevamo tutti e due ma allo stesso tempo nessuno voleva sbilanciarsi e
fare il
primo passo. Avrebbe voluto dire cedere, ammettere per primo qualcosa
che
avevamo cercato di ignorare. Un paio di centimetri ci separavano, un
oceano ai
nostri occhi spaventati.
Presi coraggio. Lo volevo, ne
ero certo. «A dire il vero io penso tu sia s-»
«Felicity! Ti ho cercata
dappertutto, cara. Tuo padre mi aveva avvertito che probabilmente ti
eri
smarrita come sempre in qualche cespuglio mentre sognavi di puffbacche
e
puffole pigmee». Silenzio. «Ho interrotto
qualcosa?»
Era bastato quel primo nome
esclamato da una voce maschile per mettere fine a quel momento sospeso
nel
tempo.
Felicity si allontanò di
scatto, scuotendo il capo come per riprendersi e tornare in
sé. Dopodiché si
affrettò a raggiungere il nuovo arrivato. «Theo!
Sono così felice che tu sia
qui. Entriamo dai, credo di essermi persa Papà e il suo
discorso dettato da troppo
champagne...». Gli cinse un braccio e assistetti come
spettatore ad un bacio a
quello che immaginai essere il famoso fidanzato di Felicity.
Voltai loro le spalle e mi
incamminai verso il viale d'ingresso. Non avevo nessuna voglia di
stringere la
mano a quello scialbo Theo che si era preso qualcosa che avrebbe dovuto
essere mio.
Che pensassero pure che fossi un gran cafone. Rientrai in
casa, una
direzione ben precisa in mente, una direzione che indossava un abito
rosso come
il peccato.
Chiedo scusa
per il ritardo nel postare il nuovo capitolo. Ricominciare
l’università è stato
più impegnativo del previsto considerate che in gioco in
questo periodo ho
anche la ricerca di una casetta e il dover iniziare di nuovo da zero.
Risponderò
immediatamente alle recensioni super gentili che mi avete lasciato e ne
approfitto per ringraziarvi tutti. Potrei promettervi mari e monti qui
ma preferisco essere sincera e dirvi che i tempi di attesa saranno
più lunghi rispetto agli inizi causa sveglia odiosa all'alba
e giornate pienissime. Cercherò comunque di compattare i
tempi e cercare di non far passare un ulteriore mese.
S.
|
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Capitolo 7 *** Rose rosa o rosse? ***
Felicity
«Sono
veramente felice che tu sia
riuscito a raggiungerci. Ormai non ci speravo
più...», esclamai al settimo
cielo, allungando una mano per sfiorare una guancia ad un Theo
più sfolgorante
del solito.
Abituata
a vederlo sempre nei panni
dimessi da professore universitario rimasto legato alla moda di quando
dietro
ai banchi ci stava lui stesso, la sua figura fasciata da un elegante
completo
da sera scuro era una piacevole scoperta.
«Donna
di poca fede!», mi riprese
sorridendo e passandomi un braccio attorno ai fianchi per trascinarmi
più
vicina a lui. «A proposito: chi era quel tizio?»
Era
gelosia per caso quella che
percepivo? Mi detti della sciocca da sola; era più probabile
che Victoria's
Secrets mi arruolasse come angelo per una delle sue sfilate di lingerie
rispetto al fatto che Theo fosse possessivo nei miei confronti e si
accorgesse
del fatto che anche altri uomini oltre a lui potessero trovarmi
interessante.
Voltai
il capo ma i miei occhi
trovarono solo il giardino in penombra e il mare solitario come sfondo.
Lui
non c'era più.
Per
un attimo mi mancò il respiro nel
ricordare quello che era successo tra noi. O meglio, quello che sarebbe
successo se il mio caro fidanzato non fosse spuntato dal nulla. Quando
si dice
tempismo perfetto...
Cercai
di scacciare dalla mente
l'immagine di quegli occhi così grandi e così
profondi. Per un attimo mi era
parso che tutto intorno a noi si cristallizzasse, un attimo perfetto,
fermo
immagine. Poi Theo era arrivato ed era come se qualcuno avesse premuto
il tasto
play, mettendo fine al momento di pausa irreale. Le cicale avevano
ripreso a
cantare, il vento a far danzare le fronde degli alberi e la musica a
raggiungerci attutita da dentro casa.
«Solo...solo
un cliente, te ne ho
parlato ricordi? Mr. Carter Wright, l'avvocato che vive dietro casa
mia»,
cercai di spiegargli sapendo già che non aveva la
più pallida idea di chi
stessi parlando dato che, quando
gliene
avevo accennato, durante una chiamata Skype un po' di tempo prima, lui
stava
correggendo dei test. Ti ascolto, ti ascolto, mi
aveva assicurato, la
fronte aggrottata e una pila altissima di scartoffie che assorbivano
interamente la sua attenzione.
«Devo
averlo scordato», liquidò lui
la questione con una scrollata di spalle. «Entriamo, ti va?
Vorrei scambiare
due parole con quell'amico di tuo padre che è stato
recentemente in Amazzonia».
Senza aspettare la mia risposta, si incamminò verso la porta
finestra,
spingendomi gentilmente come incoraggiamento a seguirlo.
Non
appena superai la soglia e
ritornai tra la confusione di persone danzanti, battiti di mano, auguri
entusiasti strillati da ospiti brilli e luci colorate venni
letteralmente
travolta da una figura che mi gettò le braccia al collo,
rischiando di
soffocarmi tanto potente era la sua stretta.
Risposi
all'abbraccio al colmo della
gioia, accarezzando quei capelli neri come la più buia delle
notti.
Cinsi
affettuosamente quel corpicino
così esile che, nella buona e nella cattiva sorte, aveva
sempre rappresentato
un punto cardine della mia vita.
«Ti
prego dimmi che non sparirai
all'improvviso non appena ti accorgerai di non poter sopportare mamma e
i suoi
lamenti continui su calli e ritenzione idrica, ti prego!», la
supplicai
staccandomi da lei in modo da guardarla per bene negli occhi facendo
ricorso al
mio miglior sguardo persuasivo.
«D'accordo
tesoro!», esclamò alzando
le mani in segno di sconfitta e sorridendo. «Se
però ricomincia con la storia
del matrimonio combinato tra me e l'orribile amico dell'ancor
più orribile
cugino Philip giuro che emigro a Cuba!»
Conoscendola
ne sarebbe stata capace
ma a mio parere sottovalutava la determinazione di Madre, capace di
sedurre il
ministro degli affari esteri e chiedere l'estradizione della figliola
dalla
bella isoletta e il suo ritorno scortato alla corte di Sua
Maestà Grace Van
Houten.
«Vedremo
di...ehm...contenerla, per
quanto possibile», la rassicurai, sapendo benissimo quanto
contenere nostra
madre equivalesse a sbattere ripetutamente la testa contro una parete
di
cemento armato sperando di abbatterla.
Zoe,
di nuovo regina dei ghiacci dopo
quel raro slancio di affetto, giunse finalmente ad accorgersi della
presenza di
Theo al mio fianco.
Dire
che tra i due scorreva buon
sangue equivaleva a dichiarare che US e Russia fossero migliori amici,
come la
nostra storia dimostrava ampiamente.
«Oh,
ci sei anche tu. Ancora»,
commentò quasi schifata mia sorella squadrando storta il mio
compagno.
Lui
le rivolse un sorrisetto
compiaciuto, non ritenendo probabilmente degna di risposta la sua
constatazione
al vetriolo.
«Magari
i botanici fossero come le
piante. Tutto un fiore durante la bella stagione e poi morti stecchiti
al primo
gelo invernale. E alla seguente primavera via con una nuova
piantina!»
«Zoe!»,
la ripresi, non pronta ad
assistere ad un ennesimo battibecco tra i due.
Theo,
lo sguardo distratto da
qualcosa o qualcuno, mi disse di non preoccuparmi e si scusò
allontanandosi in
direzione del piccolo gruppo che circondava mio padre e suo fratello.
«Non
dire niente», supplicai mia
sorella vedendo i suoi occhi carichi di rimprovero.
«Piuttosto dimmi come mai
sei arrivata così tardi?»
Squadrai
gli anfibi infangati di Zoe,
le gambe nude e scheletriche come sempre e l'abitino rigorosamente nero
che la
fasciava.
Lei
si accigliò e iniziò ad inveire
contro le compagnie aeree, contro il ministro dei trasporti, contro
Cristoforo
Colombo, contro i dinosauri, il viso sempre più paonazzo
mano a mano che
proseguiva nella sua invettiva.
Un
quarto d'ora di insulti e minacce
di morte e tutto ciò che riuscii a carpire da quello
strampalato discorso alla
Zoe fu che le avevano smarrito il bagaglio e lei si era avventata
furiosa
dall'altra parte del bancone che proteggeva il povero impiegato
aeroportuale
che le aveva comunicato la lieta novella per scuoterlo come se fosse un
alberello di ciliege. Dopodiché, dalle numerose imprecazioni
rivolte alla
polizia e agli addetti di sicurezza, dedussi che doveva essere stata
bloccata
con la forza e multata.
«Oh
la mia figliola montagnola!»
Una
nuvola di una costosa fragranza
al lillà ci informò dell'arrivo della nostra
genitrice. Dagli occhi decisamente
più lucidi del solito e dal tono di voce più
strascicato immaginai che la
composta Grace quella sera avesse passato più tempo con
l'amico champagne di
quanto fosse sua normale abitudine.
Zoe
mi lanciò un'occhiata rassegnata
mentre si chinava a baciare la guancia di Madre. Il loro rapporto era
sempre
stato complicato e conflittuale. Zoe non era esattamente la figlia
raffinata e
tipicamente borghese che si sarebbe aspettata. Non si era mai laureata,
lei al
college si era dedicata a sedute spiritiche e proteste a seno nudo per
protestare contro il sessismo e appoggiare il movimento ucraino delle
FEMEN.
Non aveva mai avuto un ragazzo istruito, cordiale e serio da presentare
a casa,
aveva sempre frequentato scombinati chitarristi fatti da mattina a sera
o
squattrinati artistoidi
che vedevano in
lei la loro musa ispiratrice. Non era andata a vivere in una deliziosa
villetta
con giardino e non aveva adottato un bambino asiatico, mia sorella
viveva in
montagna, in un paesaggio aspro e gelido, da sola, con l'unica
eccezione di
occasionali animali selvatici ospitati per qualche tempo.
Zoe
era una persona solida, difficile
e pericolosa come la dura roccia di cui erano fatte le montagne che lei
tanto
amava. Non perdonava facilmente e tendeva a covare rancori e alimentare
faide
per lungo tempo. Amava la solitudine assoluta, il silenzio
più puro e il cielo
grigio e sconfinato. Leggeva autobiografie di serial killer o di pazzi
che
raccontavano la vita in manicomio, si tagliava i capelli da sola e
sosteneva di
non avere bisogno di niente e di nessuno.
I
suoi libri stazionavano per
settimane e settimane nella classifica dei bestsellers del New
York Times e
Rolling Stones l'aveva definita l'erede di Stephen
King, il re dei libri
dell'orrore. Zoe scriveva sotto pseudonimo, parlava con il suo editore
solo
tramite email e non incontrava mai i suoi lettori né leggeva
mai le recensioni
dei critici. I suoi racconti erano cupi, tormentati e strazianti.
Parlavano di
persone che intraprendevano una ricerca della pace, della
verità, della
conoscenza, destinata puntualmente a fallire, oppressi dal peso di una
vita
violenta, crudele, che non lasciava mai vincere l'essere umano con la
sua
fragilità intrinseca.
«È
passato quasi un anno dall'ultima
volta che sei scesa dal tuo cucuzzolo. Ti trovo pallida e sciupata come
al
solito quindi deduco che stai più che bene...»,
osservò nostra madre senza
distogliere lo sguardo dal viso di quella figlia che amava con tutto il
cuore
ma che non era mai riuscita a comprendere.
Zoe
abbozzò un sorrisetto ironico,
«Esattamente. Dovrai iniziare a preoccuparti quando mi vedrai
abbronzata e
rubiconda».
Cioè
mai. Molto probabilmente si
sarebbe sposata con l'orribile amico dell'ancora più
orribile cugino Philip piuttosto
che prendere il sole su una spiaggia caraibica con temperature
tropicali. E per
il rubiconda era lo stesso; mia sorella faceva parte di
quell'odiosissima
categoria di persone che possono permettersi di mangiare di ogni e in
gran
quantità senza doversi preoccupare della bilancia e del
girovita che lievitava.
Nostra
madre scrutò con occhio
critico l'abbigliamento di mia sorella ma oltre ad un lieve sospiro
tacque e
decise saggiamente di non commentare l'incommentabile. Optò
piuttosto per una
proposta agghiacciante: «Zoe tesoro, stasera c'è
anche quel delizioso ragazzo,
amico di tuo cugino Philip, quello che fa il reverendo in una
parrocchia qui
vicino...»
Lasciò
quella frase carica di
sottintesi incompleta ma sia io che Zoe capimmo benissimo che la
tradizione
consisteva in un ordine perentorio. Ma Grace Van Houten non si sarebbe
mai
sognata di dire Muovi il tuo bel culetto privo di grasso e
cellulite e vai a
sposarti quel reverendo!, perciò si limitava a
consigliarlo in modo molto
elegante e cordiale.
Capivo
gli sforzi di mamma ma Zoe
sposata ad un uomo di chiesa era la barzelletta dell'anno. Quest'ultimo
si
sarebbe ritrovata a cercare di estirpare il suo lato malvagio due
minuti dopo
le nozze, nell'esatto momento in cui Zoe gli avrebbe rivelato che era
una
seguace della Wicca, non era pura ed illibata da ormai molto anni e che
voleva
il divorzio in tre, due, uno...
Mia
sorella esclamò con nonchalance,
«Oh, c'è un angolo bar e io non l'ho ancora
visitato...», prima di dirigersi
proprio lì lasciando a me l'ingrato compito di sorbirmi le
lamentele di
Madre, indignata e
furiosa.
Allungò
una mano e mi sistemò una
ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Felicity tesoro, tu sei
sicura di non
volere il reverendo?»
La
guardai storto e mi sottrassi al
suo tocco ridecchiando incredula. «Da quando sei diventata
così pia e devota da
sognare un genero sacerdote?», la interrogai ironicamente,
«Tu in chiesa ci
andavi solo per ammirare le vetrate di Chagall o gli stucchi
barocchi».
Lei
mi dedicò una smorfietta offesa e
fece quello che le usciva meglio quando era spalle al muro ma non
voleva
ragionare e ammettere di essere in torto: fece un gesto incurante con
la mano
ingioiellata e con voce zuccherina mi disse, «Non dire
sciocchezze, cara».
Finiva
sempre così. Mamma che faceva
la fiancata all'auto di papà e poi, alle urla di lui,
rispondeva: «Non dire
sciocchezze, Monty». E quando lui la portava a vedere la
vernice metallizzata
completamente rovinata sulle portiere dal lato del passeggero lei
sarebbe stata
capace di sostenere che era stato il muro a scontrarsi con lei e non il
contrario pur di non ammettere il suo misfatto.
D'altra
parte mamma adorava dare
l'idea di essere una donna di classe, sempre imperturbabile e sempre
nel
giusto. E una donna di classe non può confessare di essere
un'autista terribile
e che l'ultima volta che aveva partecipato ad una funzione religiosa
era per il
battesimo della minore delle sue figlie.
No,
Grace Van Houten era la regina
dell'élite di Tampa. Organizzava cene di beneficenza,
salotti letterari in cui
discutere di Renoir e Dumas, raccolte di vecchi vestiti e accessori per
i meno
fortunati ed era la presidente della locale associazione per la lotta
al
alcolismo e alla dipendenza da droghe. Avvolta in completi dalle
raffinate
tinte pastello, scarpe abbinate, sorriso cordiale sulle labbra si dava
da fare
senza sosta e la sua immagine di donna generosa, irreprensibile
risplendeva
sempre più.
Ma
le sue amiche del circolo del
bridge non sapevano che mamma aveva difficoltà ad uscire dal
garage di casa
senza scontrarsi con qualcosa, che quando le succedeva di inciampare in
uno
spigolo o scottarsi con una padella rovente imprecava così
forte da poter
essere scambiata per una ragazzaccia di strada cresciuta nei sobborghi
di una
metropoli, che odiava il contatto fisico con gli estranei, ossessionata
dall’igiene com’era, e per lei stringere la mano ad
uno sconosciuto equivaleva
poi a cinque docce decontaminanti e due check-up completi dal suo
medico di
fiducia.
Ogni
volta che conosceva qualche
persona nuova o veniva presentata a Tizio e Caio lei sorrideva, porgeva
la sua
mano ben curata e ricambiava vigorosamente la stretta in modo cordiale
ma
dentro di lei l’immagine dei mille piccoli germi che ballando
si trasferivano
dall’epidermide dell’uomo di fronte a lei alla sua
la tormentava senza sosta.
Io
lo sapevo perché ero cresciuta con
lei e i suoi folli incartamenti di cellophane in ogni stanza di albergo
in cui
avevamo soggiornato. Insisteva sempre per portare le sue lenzuola,
lenzuola che
poi puntualmente donava alla casa per ragazze madri di Tampa,
perché essendo
venute a contatto con un materasso non suo e soprattutto non
sterilizzato lei
non ci avrebbe mai più dormito sonni tranquilli tra di esse.
«Ha
delle mani incredibilmente
pulite», osservò cercando quel
pover’uomo tra la folla.
Mia
madre non metteva al primo posto
tra le caratteristiche dell’uomo perfetto il conto in banca,
l’impiego, l’aspetto
e il carattere. No, lei guardava se le sue unghie fossero accuratamente
limate,
se il colletto della camicia fosse di un bianco più candido
della neve e se
profumava. Sì, Madre annusava le persone. Dopo anni di
matrimonio ci confessò
che all’inizio era incerta se accettare di uscire con mio
padre ma poi lo aveva
annusato e da lì erano successe molte cose…tra
cui Zoe e la sottoscritta.
La
fissai allucinata, «Tu deduci che
sia un buon partito dalla pulizia delle sue mani? Che razza di gente
frequenti
di solito?»
Lei
aprì la bocca per zittirmi con la
sua solita frase ma io la anticipai. «Mamma, hai una macchia
sull’orlo della
manica…»
E
mentre i suoi occhi si riempivano
d’orrore e partivano alla ricerca di quella macchia
impertinente che aveva
osato manifestarsi sulla seta lucida e costosa del suo abito da
cocktail, io ne
approfittai per svignarmela nel minor tempo possibile.
Non
andai lontano perché una mano
afferrò con gentilezza il mio braccio nudo. Voltai il capo e
incontrai un paio
di occhi nocciola che mi fissavano curiosi e leggermente titubanti.
«Lei
è Ms. Felicity Van Houten?»,
chiese con voce incerta.
Destino
crudele, vuoi rivelarmi quale
peccato così grave ho commesso da meritarmi tutta questa tua
cattiveria?
Il
colletto tipico dell’abbigliamento
ecclesiastico non lasciava spazio a dubbi.
Mi
feci di lato, sfuggendo
gentilmente alla presa della sua mano.
Sarà
pur stata molto pulita ma avevo
colto l’occhiata non molto felice che Theo mi stava
rivolgendo dall’altro lato
della sala. Mi domandai per la seconda volta se non fosse davvero
gelosia quella
che lo stava spingendo a scusarsi con il suo interlocutore per
attraversare la
stanza nella mia direzione. Oh, oh!
Mi
voltai rapidamente per negare in
fretta e furia qualsiasi mio legame di parentela con Ms. Felicity Van
Houten e
svignarmela a gambe levate, stranamente preoccupata per il cipiglio
più severo
del solito che turbava il viso normalmente impassibile di quel nuovo
Theo in
avvicinamento.
«Mi
dispiace, deve aver sbagliat-»
«Felicity,
c’è qualche problema qui?».
Perché?
Perché sempre a me?
Theo
mi passò un braccio attorno alle
spalle e rivolse un’occhiata sul minaccioso andante al povero
prete. Quel
duello di sguardi, la cui causa scatenante sfuggiva alla mia
comprensione, durò
per una decina di secondi e giunse al capolinea quando
l’amico del cugino
Philip dichiarò di avermi scambiata per un’altra
persona e si congedò
rapidamente.
«Ti
sembra il modo di trattare un
innocente sacerdote dalle mani pulite?!», apostrofai
infastidita dal suo
comportamento Theo.
Lui
per tutta risposta rafforzò la
stretta sulle mie spalle scoperte e mi zittì con un
perentorio: «Ora stai con
me».
Il
resto della serata fu un calvario.
Theo sembrava essersi eletto a mio fido cane da guardia, Zoe si
scolò tre
bicchieri di whisky prima di eclissarsi senza salutare nessuno con
grande
disappunto di Madre, la quale splendente in un nuovo abito lindo lindo
color
acquamarina si affrettò a raccontare a tutti gli ospiti
delle terribili
emicranie di cui soffriva la sua primogenita e del suo dispiacere
nell’essere
costretta ad abbandonare così improvvisamente il party.
Gli
unici che parevano godersi la
festa erano mio padre, alticcio e in vena di baldorie in compagnia dei
suoi
vecchi compagni di malefatte del college, e Mr. Liam Carter Wright.
Sì,
perché quella faccia di bronzo
aveva l’ardire di bisbigliare all’orecchio della
attempata signora di rosso
vestita, una mano sfacciatamente posata sul suo ginocchio, decisamente
troppo
in alto per essere classificata come carezza amichevole e priva di
secondi
fini, e risate a non finire scaturite da lui che la imboccava con le
olive
presenti nei loro Martini.
Non
avevo nessuna ragione per essere
indispettita da quella scenetta. Tra me e Mr. Mangia-Le-Mie-Olive non
c’era
stato nulla e mai ci sarebbe stato. Io ero fidanzata. Theo era un uomo
solido,
di sani principi, grande lavoratore e molto attento
all’igiene (sì, mamma, le
tare sono spesso ereditarie, grazie). Il Signor
Allungo-Ancora-Un-Po’-La-Mano-E-Arrivo-All’-Ombelico
invece era un uomo dal
carattere insopportabile, prepotente, borioso e con la brutta abitudine
di
allungare le mani sulle cosce delle signore a quanto pareva.
Quella
serata sembrava non finire
mai, come se una strega cattiva avesse fermato il tempo,
cristallizzando le
stelle in cielo, inchiodando la luna alla sua cupola fatta di
oscurità, e
mentre tutto fuori giaceva sotto l’effetto
dell’incantesimo noi eravamo
destinati a sopportare l’eterno tormento di questa festa
senza fine.
L’orologio
a pendolo che svettava
nell’angolo più a ovest del salone grande mi
informò che era ancora troppo
presto per levare le ancore, gettare quelle stupide scarpe torturatrici
nell’armadio, sciacquarmi il viso, infilarmi una vecchia
t-shirt e cedere al
sonno.
«…abbiamo
un campo da hockey, uno da
squash, dei corsi di scrittura creativa. L’offerta formativa
prevede anche…».
Theo stava facendo pubblicità al campus universitario in cui
insegnava
stordendo di chiacchiere una povera coppia che aveva fatto
l’errore di
confessare di avere un figlio in piena crisi pre diploma.
Io
avrei voluto esclamare E chi non lo
è stato?, ma Theo era
partito con una filippica su ‘questi ragazzi di oggi che non
sanno cosa
vogliono dalla vita e si accontentano della via più
facile’. Lui sosteneva di
essere nato con la vocazione all’insegnamento ma io sapevo
benissimo che era
stato costretto a diventare docente per potersi permettere di pagare
l’affitto
e di acquistare quei brutti pantaloni a costine che erano must have del
suo
guardaroba.
Aveva
sognato in grande, come tutti:
laurea, dottorato in Europa, anni di esplorazione e ricerca.
Gli
era andata bene tutto sommato.
Aveva la sua cattedra di botanica, aveva una serra e un piccolo
laboratorio
malmesso a sua disposizione e aveva la passione necessaria per riuscire.
Ma
non riuscivo a concentrarmi sulle
parole del mio fidanzato; i miei occhi erano come calamitati dalla
quella
maledetta mano posata proprio dove lo spacco dell’abito
scarlatto si apriva e
la pelle chiara della coscia faceva capolino.
Era
un maleducato. Quale signore
degno di questo nome si sarebbe mai permesso di toccare a quel modo una
donna
perbene appena conosciuta? In pubblico per di più!
Ricordati
che tu gli hai quasi permesso di infilarti la
lingua in bocca, non fare tanto la santarellina!
Oh
taci, Coscienza, taci!
Si
allungò, il naso tra i suoi
capelli, le labbra a sussurrare e accarezzare il suo lobo adorno di un
orecchino scintillante, una pressione maggiore di quella mano sulla
coscia…e
non ci vidi più.
Mi
scostai da Theo e gli dissi che
sarei andata a prendere qualcosa da bere e lui, così
assorbito dalla
conversazione, non si rese conto chi ci fosse sulla mia traiettoria e
annuì.
Scivolai
tra le coppie che ballavano,
tra bicchieri tintinnanti e risate argentine fino a giungere con curata
nonchalance alle spalle del Signorino
Ho-Trenta-Anni-Suonati-Ma-Adoro-Fare-Il-Ragazzino-Arrapato e mettermi
in
posizione d’attacco.
Afferrai
un bicchiere mezzo pieno
abbandonato sul bancone e mi voltai di scatto facendo in modo di
urtare, in
modo assolutamente casuale e per nulla intenzionale, la spalla di Mr.
Liam e
rovesciare, per sbaglio ovviamente, quel liquido ambrato direttamente
sul
cavallo dei suoi bei pantaloni sartoriali.
Lui
balzò in piedi scostandosi
immediatamente dall’arpia. «Ma che-»
«Oh
no! Mi dispiace, non l’avevo proprio
vista! Sono così sbadata…», esclamai
dando fondo al mio talento attoriale e
fingendomi immensamente dispiaciuta.
Acciuffai
un paio di tovagliolini dal
ripiano lì accanto e mi chinai come se fossi intenzionata ad
aiutarlo ad
asciugarsi proprio lì
per vedere come
avrebbe reagito.
Mi
bloccò il polso con una presa
ferrea e voltandosi verso la sua compare si scusò e si
diresse a passo deciso
verso l’ingresso trascinandomi con sé.
Arrivati
di fronte alla porta
d’ingresso si arrestò bruscamente e si
voltò verso di me, senza accennare a
mollare il mio polso che stava iniziando a sentirsi indolenzito.
«Noi
due dobbiamo fare una bella
chiacchierata. Dov’è il bagno?»
Sollevai
impertinente il mento,
sfidandolo. «Noi due non dobbiamo fare proprio nulla. Al
massimo sei tu quello
che deve cambiarsi i pantaloni dato che si è sbrodolato
proprio come un bamb-»
«Dove
è il bagno?», mi sibilò in viso
furioso.
Indicai
con un cenno la scalinata che
portava al piano superiore, dove stavano le nostre camere e i tre bagni
privati.
Meglio che Madre non captasse la marea di parole cattive che prevedevo
in
arrivo.
Approdati
alla zona notte gli feci
strada fino alle due porte in fondo al corridoio, facendogli segno di
aprire
quella di sinistra.
Una
volta dentro chiuse a chiave e mi
spinse contro la parete di fredde piastrelle a mosaico color celeste.
Anche
l’altro mio polso venne imprigionato dalla sua mano e mi
ritrovai spalle al
muro, braccia inchiodate al muro dalla sua presa ferrea.
«Mmh,
tutto questo fa molto Cinquanta
Sfumature di Grigio…», lo presi in giro
rivolgendogli un sorriso beffardo.
«Ti
piacerebbe. Ma sono che se ti
sculacciassi ora non urleresti certo di piacere», mi rispose
lui con voce
fintamente dolce.
Le
sue iridi erano quasi
fosforescenti e i capelli, prima perfettamente impomatati, apparivano
ora
alquanto scarmigliati. L’idea che fosse stata quella
sottospecie di nonna dagli
ormoni impazziti a spettinarlo e a passare più e
più volte le dita tra quella
chioma così lucida e invitante mi fece vedere rosso. E mi
arrabbiai ancora di
più di fronte alla mi incapacità di restare
impassibile e impermeabile a quella
gelosia scadente e patetica che scorreva nelle mie vene e mi faceva
desiderare
in modo del tutto inopportuno quell’uomo di fronte a me.
«Sono
terrorizzata. Perché non
facciamo una prova?», lo sfidai nonostante mi trovassi senza
dubbio in una
posizione svantaggiata.
«Magari
un’altra volta. La mia stanza
delle torture dista centinaia di kilometri da qui e tu meriti di essere
punita
immediatamente». La stretta sui polsi si allentò
ma solo per permettergli di
sollevarmi le braccia per poi inchiodarle nuovamente sopra alla mia
testa. Il
contatto delle mie spalle nude ora spalmate sulla fredda ceramica mi
fece
rabbrividire, così come il suo viso ancora più
vicino e minaccioso.
«Per
aver interrotto il tuo civettare
con quella che avrebbe potuto essere la tua bisnonna?»
«Per
il tentativo di evitare che mi
portassi a letto una donna che non fossi tu. E ancora di più
per la tua incapacità
di ammetterlo. Il caro Theodore ne è al corrente?»
Nel
sentir nominare il nome del mio
fidanzato mi riscossi e cercai di liberarmi con uno strattone ma il mio
tentativo fallì miseramente.
«Perché
mai dovrei parlargli delle
sciocche fantasie di un mio cliente?», lo interrogai, la voce
carica di
cattiveria.
Improvvisamente
lasciò andare i miei
polsi e le mie braccia ricaddero sui miei fianchi, ma non feci in tempo
a
realizzare di essere stata liberata che mi ritrovai schiacciata tra la
parete e
il petto di Mr. Liam, che aderiva sfacciatamente al mio.
Chinò
il capo e mi soffiò piano sul
collo. Io ero immobile e mi stavo sforzando di non mostrarmi
minimamente
coinvolta. Non mi sarei mai potuta perdonare se avessi ceduto due volte
nella
stessa sera. Soprattutto ora, cosciente della presenza di Theo al piano
di
sotto.
«Forse
perché non sono così sciocche
o forse perché so riconoscere chi
mente…», sussurrò, il suo fiato che
fece
danzare leggera la ciocca di capelli sfuggita alla mia acconciatura
ormai quasi
sciolta. «O forse perché hai il respiro affannoso
e posso sentire il tuo
battito cardiaco senza bisogno di toccarti…». Due
dita calde premettero sulla
mia gola, proprio all’altezza della mia carotide.
Quello
era troppo. Se non ero in grado
di controllare il mio corpo l’unica soluzione possibile
rimaneva quella: la
fuga.
Accadde
tutto in un istante. Scostai
poco aggraziatamente la gonna del mio abito e sollevai
all’improvviso il
ginocchio, cercando di colpire il più forte possibile. Capii
di aver centrato
il bersaglio quando la pressione sul mio petto svanì e Mr.
Liam si piegò in due
da dolore di fronte ai miei occhi.
Mi
staccai rapida dalle piastrelle
fredde avanzai verso di lui. Mi fermai accanto a lui e gli sussurrai
suadente, «Mi
pare che anche lei abbia il respiro un po’ affannoso e il
battito accelerato,
Mr. Liam!». E con un sorriso trionfante mi detti alla fuga
prima che avesse il
tempo di riprendersi.
***
Zoe
si era installata con armi e
bagagli nella mia soffitta da ormai ben due settimane e la primavera
era quasi
pronta a cedere il passo ad un’estate che si preannunciava
rovente sotto tutti
i punti di vista.
Fido
cappello di paglia calato in
testa, vecchi jeans tagliati al ginocchio e t-shirt scolorite avevo
lavorato
sodo per quei quindici giorni nel giardino della casa dei Carter
Wright. Io e
Donovan eravamo riusciti ad estirpare tutte le erbacce e, dopo lunghe
ed
estenuanti lotte, avevamo avuto la meglio su un infido ceppo infestante
della
stessa famiglia
della tradizionale edera
rampicante, che pareva crescere come per magia di notte solo per farci
dispetto. Avevamo deciso di non toccare nessuno degli alberi presenti
con l’unica
eccezione di un meraviglioso faggio, che purtroppo era malato e
destinato a
spegnersi piano. Quasi piansi mentre Donnie tagliava uno a uno quegli
splendidi
rami, una volta così folti e maestosi. Il frutteto sul retro
era stato
danneggiato dalla trascuratezza ma sia io che Judith Carter Wright
eravamo d’accordo
sul fatto di cercare di salvarlo e di potenziarlo.
Ecco,
a proposito di Judith; dallo
sciagurato giorno della festa di compleanno di papà non ero
più fortunatamente
incappata nel maggiore dei fratelli Carter Wright ma ero stata
prontamente
incappata nella sua sorellina, esserino davvero energico ed entusiasta.
Lavorando a Cambridge cercava di dividersi equamente tra i suoi calcoli
astrusi
al M.I.T. e la rinascita del giardino della casa che era stata di suo
nonno e
alla quale sembrava senza dubbio più legata rispetto a suo
fratello. Judy era
senza dubbio un genio dell’informatica ma era di poco aiuto
nei nostri lavori;
trovava tutto bellissimo, straordinario, sensazionale e io e Donnie non
eravamo
ancora riusciti ad estorcerle un commento negativo o una critica sul
nostro
operato.
Zoe
non aveva voluto sentire ragioni
e aveva ignorato di proposito la camera per gli ospiti che le avevo
preparato,
dirigendosi tranquilla verso quella soffitta polverosa e dal basso
soffitto che
usavo come ripostiglio per ogni tipo di cianfrusaglia. Dormiva sul
vecchio divano
in velluto bordeaux che era appartenuto al proprietario precedente,
usava un’usurata
scarpiera rovesciata come scrivania ed era andata in città
per procurarsi una
prolunga di svariati metri di lunghezza in modo da attaccare la spina
nella
camera da lei snobbata e portarsi il portatile nel suo nascondiglio.
Odiava
il sole e il bel tempo e negli
ultimi quindici giorni non si era visto altro, perciò lei si
era rintanata sul
suo cucuzzolo e quando tornavo a casa per una doccia o uno spuntino
sentivo un
costante battere di tasti e una martellante musica heavy metal. Una
volta avevo
osato spingermi fino alla sua tana ma ero fuggita a gambe levate in
seguito
alle sue urla isteriche e i suoi discorsi strillati sulla solitudine
necessaria
a scrivere di un bell’assassinio sanguinolento.
Il
povero gatto Felix che si era
portata appresso quando era arrivato aveva l’aria
più infelice di questo mondo
ma ora, dopo settimane in mia compagnia, appariva come rinato. Non mi
era
difficile immaginare gli stenti a cui poteva essere stato sottoposto
sotto le ‘cure’
di mia sorella. Si dimenticava di nutrire sé stessa
figurarsi di sfamare un’altra
creatura. E poi Zoe, per quanto amante dell’orrido, era
terribilmente schizzinosa
e non ce la vedevo proprio a pulire quotidianamente la vaschetta di
Felix e a
cambiare la sabbietta.
Le
speranze di Donovan di amoreggiare
con mia sorella naufragarono miseramente la prima volta che si
incontrarono, il
che accadde due giorni fa, cioè ben quattordici giorni dopo
l’arrivo di Zoe qui
a Plymouth. Essendo entrambi soli io e il mio braccio destro avevamo
l’abitudine
di cenare insieme tre volte a settimana, quando stanchi e impolverati
staccavamo dal lavoro. Ci facevamo entrambi una doccia per toglierci
sudore e
terra dalla pelle e ci gettavamo famelici sul cibo. Zoe non scendeva
mai per
cena e non ci tenevo assolutamente a ricevere un piatto in testa
perciò mi
limitavo ad aspettare che fosse lei stessa a decidere di scendere per
mangiare,
il che solitamente succedeva verso le due di notte.
Donnie
insisteva con questa storia di
volerla conoscere o almeno vedere una volta ma io sapevo benissimo che
con mia
sorella funzionava il proverbio non
svegliare il can che dorme, nel suo caso scrive.
L’altro ieri eravamo in
veranda e ci stavamo dividendo un barattolo di gelato al caramello
quando un’ombra
comparve alle mie spalle.
«Flick,
hai visto quello stupido
gatto?»
Mi
voltai scioccata e lanciai un’occhiata
all’orologio. Erano le otto di sera, il cielo non era ancora
buio. Da quando i
vampiri escono con la luce?
Ovviamente
il mio compare di merende
si voltò a sua volta, era un’occasione troppo
ghiotta per non essere colta al
volo. Vedere la famigerata sorella di Felicity doveva essere un cruccio
che non
gli permetteva di dormire la notte.
Abituata
alla trasandatezza di mia
sorella per me non era certo una novità vederla in quelle
condizioni ma Donovan
rimase scioccato. Giusto stamattina mi stava dicendo di aver fatto un
incubo
che aveva come protagoniste quelle terribili calze antiscivolo gialle e
arancio
con decorazioni di teste decapitate che indossava quella sera Zoe.
Oltre
alle calze alla moda, probabile
regalo di un lettore zelante e psicotico, il look consisteva in un paio
di
scoloritissimi pantaloni alla zuava color vomito, dagli elastici
smollati e gli
orli sfilacciati, una t-shirt, macchiata di quella che pareva senape,
che recitava
Sono uno psicopatico e quando tu avrai
finito di leggere tutto ciò sarai già morto, gli
occhi arrossati dalle
troppe ore passate di fronte allo schermo del computer, profonde
occhiaie
violacee, un brufoletto sulla punta del naso e per concludere i capelli
più
sudici dell’intero mondo, secondi forse solo a quelli di
Severus Piton.
Effettivamente
era da un tre, quattro
giorni che non trovavo mutande e calzini troppo neri e troppo usurati
persino
per me per poter essere miei sparsi per il bagno al piano di sopra.
«Chi
sei?», aveva domandato Zoe, per
nulla turbata dall’idea che uno sconosciuto, per giunta uomo,
potesse vederla
in quella che non era certo la sua forma più smagliante.
Donnie
impiegò un attimo a
riprendersi da quella visione non proprio celestiale,
«Donovan. Lavoro con
Flick…».
Lei
aveva annuito e poi era sparita
nuovamente nella casa in penombra.
Il
mio amico era leggermente deluso,
probabilmente si aspettava una fascinosa donna tutta curve e charme,
anche se
guardando me avrebbe potuto arrivarci già da sé
che nelle donne Van Houten le
curve scarseggiavano.
Sia
io che Zoe eravamo più spigoli e
angoli che morbide curve burrose e seducenti. Eravamo sempre state
secche e i reggiseni
imbottiti erano fin dall’inizio dei tempi i nostri migliori
alleati.
Donovan
non aveva più accennato a
quell’episodio fino a un paio di ore prima, quella mattina il
sole non si
decideva ad uscire dalle spumose nuvole azzurrognole che punteggiavano
il cielo
e gli uccellini parevano più silenziosi del solito. Avevamo
finito l’aiuola che
decorreva sul lato ovest della casa e avevamo concimato tutto il
giardino in
attesa di seminare.
Ora
il sole
stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura
aranciata.
Diressi
il
getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare
tutta
allegra:
«Le rose sono rosse, le viole sono blu, Liam Carter Wright
è una testa di
cactus e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai
al
rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e
innaffiai
abbondantemente anche lui.
«Miss
Van
Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi
voltai
di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di
Cactus
meglio conosciuto come Liam Carter Wright. Aveva il sole esattamente
alle
spalle e tutta quella luce pareva incorniciarlo, rendendolo ancora
più
imponente e terribilmente affascinante di quanto già non
fosse normalmente.
Il
caldo
doveva aver fatto breccia persino su di lui e i suoi completi
impeccabili dato
che quella sera era senza cravatta e giacca. I pantaloni erano sempre
impeccabili così come la camicia di una delicata fantasia a
quadrettini di un
tenue azzurro.
Stizzita
constatai nel mio intimo che quella mascella severa sempre contratta in
un
broncio e le sopracciglia perennemente aggrottate di
quell’uomo mi erano
mancate. Così come il suo sarcasmo pungente, le rughette a
lato degli occhi
così profondi da farmi sentire sempre sotto esame o la sua
brutta abitudine di
cogliermi sempre impreparata.
«Lo
so.
Quando ero alle elementari un mio componimento in rima vinse il primo
premio»,
gli risposi tornando ad annaffiare il mio rododendro.
Non
contento di non avere la mia completa attenzione, mi girò
attorno fino a
trovarsi proprio di fronte a me. Ora gli ultimi raggi del
sole splendevano proprio sul suo volto e
si tuffavano nel severo grigio dei suoi occhi rendendolo più
caldo.
«Non
mi
hai più chiamato», asserì neutro,
tornando a darmi del tu e non mostrando la
minima emozione.
Lo
facevo
già con Theodore e mi ero ripromessa di non farlo
più con nessun’altro. Ero
stanca di essere sempre quella destinata a rincorrere le persone,
sempre quella
che scriveva o chiamava per prima, sempre quella che si ricordava di
compleanni, anniversari, ricorrenze, sempre quella presente, attiva,
coinvolta.
Ero stanca di essere parte di relazioni a senso unico.
«Neanche
tu lo hai fatto», ribattei decisa a non mostrarmi debole e a
non cedere per
prima.
Lui
per un
attimo parve a disagio ma subito si ricompose,
«Però hai chiamato Judy».
Annuii.
«Sì,
mi piace Judith», dissi semplicemente chinandomi a posare
l’annaffiatoio vuoto
e a tastare la terra del vaso con le dita.
Sentii
scricchiolare la ghiaia e quando alzai gli occhi incontrai il suo
sguardo, tra
le foglie del rododendro e i suoi boccioli.
«E
io non
ti piaccio?»
Rimasi
ferma in quella posizione a fissarlo per un attimo che parve infinito
prima di
rialzarmi e sancire la fine definitiva di quel giochetto destinato a
non portarci
da nessuna parte. O perlomeno non destinato a portarci dove avrei
voluto io.
«Non
mi
devi piacere, Mr. Liam. Sei stato proprio tu, durante il nostro primo
incontro,
a specificare che avresti preferito mantenere le distanze. Smettiamola
con
questi giri di parole e limitiamoci alle questioni
professionali», risposi
freddamente.
Lui
non si
scompose, si rimise in piedi a sua volta passandosi le mani sui calzoni
immacolati e mi rivolse uno sguardo risoluto. «Bene.
Quell’aiuola che hai fatto…bè
non mi piace. Non la voglio».
Cosa?!
Mi
avvicinai di un passo e gli puntai un dito
contro il petto, la rabbia che iniziava a ribollire e a
offuscare la mia
mente. «Ho lavorato sodo per completare
quell’aiuola. Mi sono punta decine di
volte per piantare quelle rose. Ho passato ore e ore inginocchiata
sotto il
sole. Ho fatto un buon lavoro, so che è così.
Judith la adora e io ne sono
soddisfatta. Quindi mettiamo per un attimo in pausa il proposito appena
espresso e permettimi di dirti una cosa…»
Lui
alzò
gli occhi al cielo ed esclamò,
«Sentiamo…»
«Vaffanculo
Liam Carter Wright», sibilai a denti stretti, prima di
voltarmi e incamminarmi
a grandi passi verso la veranda di casa mia.
Ovviamente
non poteva permettersi che ad avere l’ultima parola fossi io
e decise di
rovinare la mia grandiosa uscita di scena rincorrendomi e afferrandomi
un
polso. Doveva decisamente piacergli fare il prepotente.
«Sei
così
infantile»
«Disse
il
bambino capriccioso…», gli risposi per le rime.
«Ehi!
Lascia
andare Flick!». Una voce familiare giunse da dietro le mie
spalle e Mr. Carter
Wright si affrettò a lasciarmi andare.
Donovan
ci
raggiunse in fretta, i guanti da lavoro ancora infilati, e mi cinse le
spalle
con fare protettivo. «Che sta succedendo qui?»,
domandò fissando di traverso l’uomo
di fronte a lui.
Un
trambusto improvviso interruppe qualsiasi tentativo di giustificazione
da parte
di Liam. «Flick, sei pronta?», strillò
una voce impaziente.
Un
ticchettio
di tacchi sul legno del pavimento della veranda ci annunciò
l’identità della
nuova arrivata. «Cosa state combinando? Siamo già
in ritardo!»
Mi
voltai,
liberandomi dall’abbraccio di Donnie, e rimasi a bocca aperta
di fronte ad una
Zoe sfavillante e completamente restaurata.
I
capelli
neri acconciati in un morbido chignon splendevano, il viso era
leggermente
truccato, le palpebre colorate con un tenue ombretto color vinaccia,
tinta che
richiamava la sfumatura del corto abito dalla gonna in pelle e il
corpetto in
maglia con inserti di pizzo. Smanicato, un profondo scollo sul davanti
e l’orlo
sopra al ginocchio. Rock e raffinato allo stesso tempo.
«Ch-chi
sei tu?», domandò senza parole Donovan, la bocca
aperta dallo stupore.
«Quella
delle calze con ricamate la testa decapitata di Maria Antonietta, Anna
Bolena
& Friends. Ora mi volete spiegare perché non siete
pronti? Venite tutti
quanti?», esclamò scocciata lanciando
un’occhiata al piccolo orologio che
portava appeso al collo con una sottile catenella.
«Zoe,
si
può sapere di cosa stai parlando?», la interrogai
facendomi portavoce anche di
Donovan, ancora sotto shock, e di Liam, leggermente confuso
dall’apparizione di
quella che per lui era una sconosciuta.
Lei
sbuffò, «Te l’ho detto un paio di mesi
fa. I miei lettori hanno organizzato un
super party a tema gotico ispirato al mio ultimo romanzo dato che avevo
comunicato che sarei stata nei pressi di Boston in questo periodo. Mi
scrivono
sempre che sono irraggiungibile, dispersa lassù nel Montana,
e così ne
approfitto per incontrare alcuni di loro durante questo mio breve
ritorno alla
civiltà. Che ne dite di venire tutti? Sì, anche
tu sconosciuto dai pantaloni
così ben stirati da apparire inquietanti. Dicono sempre che
sono un lupo solitario
senza amici, perciò voi verrete e smentirete quelle voci
infondate!».
Nessuno
di
noi si mosse, intenti com’eravamo ad assimilare il senso di
quel suo discorso.
Lei
batté
le mani sempre più spazientita, «Susu! Che state
aspettando? Cambiatevi e
partiamo. Parlo di Flick e del suo amico insudiciato di terra. Tu sei
già
perfetto direi», osservò rivolta a Carter Wright,
il quale la omaggiò di un
sorriso bellissimo, un sorriso che a me non aveva mai rivolto.
Venti
minuti più tardi eravamo tutti pigiati sull’Audi
di Liam, tanto bella quanto
piccola e scomoda per quattro persone. Mi ero infilata al volo un
vestitino
dalle stampe geometriche e un paio di anfibi un po’ consunti
ma comodi.
Zoe
e Mr.
Liam avevano fatto subito amicizia, dopo solo due minuti di conoscenza
mia
sorella si era già rivolta a lui una decina di volte
dandogli della checca
isterica quando si era rifiutato, preoccupato per la sorte
della sua
piccolina, di farle guidare la sua preziosa auto.
Avevamo
imboccato a tutto gas la superstrada diretti verso le luci di Boston,
quando
Zoe si girò ed esclamò, «State
tranquilli! Sembrate così tesi…Ci divertiremo,
vedrete. Solitamente durante serate come queste il clima è
abbastanza calmo e disteso
e la polizia interviene al massimo un paio di volte e chiamiamo il 911
solo
cinque volte e solitamente per cose meno gravi, tipo amputazioni o
perdita di
bulbi oculari…»
A
che
razza di festa ci stava portando quella sciroccata?
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Capitolo 8 *** Funghetti allucinogeni ***
Liam
Trovare
parcheggio fu più complicato
del previsto: c'erano auto posteggiate in doppia fila per tutta la
lunghezza
del viale, macchine sui marciapiedi e nelle aiuole dalla rada erba
secca.
L'amico di Felicity, Donovan, proponeva di prendere esempio e mollare
l'auto di
traverso, per metà davanti all'uscita di un cancello su cui
capeggiava il
simbolo di passo carrabile. La sorella pazza invece voleva essere
lasciata
davanti all'entrata del locale mentre io mi improvvisavo posteggiatore.
Felicity, stranamente, taceva.
Una
grossa P lampeggiante fece
capolino di fronte a me e indirizzai la vettura in quella direzione.
Erano
dieci minuti buoni che percorrevamo senza successo sempre lo stesso
ampio
vialone e l'unica cosa che ne avevamo ricavato era un mancato
tamponamento con
un tizio ubriaco alla guida che era uscito in retromarcia senza curarsi
di
controllare nello specchietto retrovisore che la strada fosse sgombra.
«Spero
tu non abbia seriamente
intenzione di lasciarla qui. Hai idea di quanto siano ladri i gestori
dei
garage sotterranei?»
Eccola!
Una
familiare testa bionda fece
capolino tra i sedili anteriori e mi squadrò storto.
«Offro
io, se questo è il problema»,
liquidai la faccenda imboccando il tunnel in discesa che portava alla
cassa del
parcheggio coperto.
«Sempre
a fare l'uomo generoso, vero?
Non me ne frega assolutamente nulla dei tuoi soldi, dico solo che
è una
fregatura sborsare...quanto vuole per quattro o cinque ore?»,
domandò Felicity,
mettendo in standby la sua invettiva per potersi rivolgere all'uomo in
tuta da
lavoro che ci era venuto incontro e ora ci fissava poco interessato
attraverso
il finestrino di fianco a me.
«Otto
dollari la prima ora, dieci due
ore, quindici tre ore e dalle quattro alle sette ore sono ventidue
dollari»,
snocciolò con fare scocciato mentre masticava un chewing gum.
«VENTIDUE
DOLLARI?!», un urlo da
duecento decibel di potenza mi trapanò il timpano destro,
vicino al quale
stazionava il volto scioccato della mia cara giardiniera.
«Qual
è il tuo problema Flick? Ha
detto che paga Mr. Pantaloni Perfetti, approfittane e lascialo
fare»,
intervenne Zoe, la voce calma dal tono quasi annoiato, prima di darle
una
spinta per rimetterla al suo posto nei meandri posteriori
dell’autovettura.
Felicity
ovviamente non aveva nessuna
intenzione di dar retta al saggio consiglio della sua inquietante
parente o di
piegarsi ai suoi modi poco garbati ma, evidentemente in vena di litigi,
ritornò
a rivolgersi al parcheggiatore, il busto nuovamente reclinato in avanti
per
poter guardare dritto negli occhi il suo avversario.
«Lei
deve essere matto! Chi è il
proprietario qui? Ha mai sentito parlare della crisi economica che sta
attraversando il paese? E delle famiglie costrette a fare la fila alla
mensa
dei poveri? E delle iscrizioni a picco al college lo scorso semestre?
Vuole che
le mostri le mie calze rattoppate? Lei, sapendo tutto ciò,
dove trova il
coraggio di chiederci ventidue dollari per un fazzoletto di cemento
sudicio su
cui lasciare l'auto per qualche ora?!»
Quello
la fissò per qualche secondo
continuando tranquillo a ruminare la sua gomma prima di risponderle
imperturbabile. «È a bordo di un'Audi il cui
valore supera il mio stipendio
annuale di un bel po' di verdoni. Perciò mi risparmi la
scenetta alla Giovanna
D'Arco dei pezzenti e se non vuole pagare i ventidue dollari faccia
retromarcia
ed esca dal mio parcheggio».
«Pezzente
sarà lei! Costretto com'è a
fare le pulci alle persone oneste...», intervenne Zoe,
balzata sull'attenti non
appena si era accorta che sua sorella era stata sgarbata.
«Andatevene
dal mio garage, cafoni
che non siete altro!», strillò quello, le vene del
collo in rilievo e i pugni
stretti.
Compresi
che la situazione stava per
degenerare quando vidi Felicity ritornare nel vano posteriore e
artigliare la
maniglia della portiera. Premetti all'istante il pulsante che bloccava
le portiere
per impedirle di scendere e saltare alla giugulare dell'uomo.
«Non
c'era alcun bisogno di essere
scortese. Ce ne andiamo ora», gli dissi neutro, prima di
sollevare il
finestrino e chiuderlo fuori.
Feci
inversione e tornai sulla strada
buia. Ripercorsi per la centesima volta il viale e mi fermai di fronte
all'entrata illuminata da luci al neon color giallo limone. Inserii le
quattro
frecce e mi voltai verso Zoe.
«D'accordo,
scendete qui e, appena
trovo un parcheggio, vi raggiungo...», proposi.
Quasi
non riuscii a terminare la
frase che la portiera del passeggero stava già sbattendo
dopo aver fatto
scendere l'ospite d'onore della festa.
Dai
sedili posteriori sentii il suono
metallico delle cinture di sicurezza che venivano slacciate. Una
portiera si
aprii e la testa corvina di Zoe fece capolino. «Amico di
Flick, tu vieni con
me. Se apprezzano i miei libri sono senza dubbio psicopatici questi
tizi qui
dentro...», ordinò indicando con un cenno del capo
l'entrata illuminata a
giorno del locale. «Sorella, tu accompagna Bill Gates qui.
Non vorrei mai che
si perdesse e venisse scippato da un ottantenne sulla bici
elettrica», detto
ciò artigliò la manica della giacca di Donovan e
lo trascinò giù dall'auto,
chiudendo con gran fracasso la portiera dietro di sé.
Rimisi
in moto e tornai a percorrere
la solita strada ormai nota. Sentii un trambusto e lanciai un'occhiata
allo
specchietto retrovisore. L'unica cosa che vidi furono le gambe e gli
anfibi di
Felicity.
«Tutto
bene lì dietro?», mi informai
cercando di capire cosa stesse combinando.
«Benissimo!»,
sentii esclamare da
sotto il mio sedile.
Inchiodai,
misi il freno a mano e mi
voltai verso i sedili posteriori.
«Ahi!
Vacci piano con quel freno!»,
sentii borbottare.
Mi
slacciai la cintura e scesi
dall'auto. Spalancai la portiera dal lato di Felicity e ciò
che si palesò
davanti agli occhi mi lasciò per un attimo interdetto.
Felicity,
grazie a doti
contorsionistiche a me ignote, era riuscita ad infilare braccio e
spalla
sinistro e metà testa sotto al sedile del guidatore, il
busto piegato e
spalmato sul tappetino dell'auto, il bacino inclinato e appoggiato ai
cuscini
dei sedili e le gambe posate a fare leva sullo schienale della seduta.
Indossando
un vestitino su un pianeta
dove regnava regina la forza di gravità per un principio
fisico la gonna del
suo abito era scivolata verso il basso, arrestandosi all'altezza della
vita e
lasciandola completamente esposta.
«Si
può sapere cosa stai cercando con
così tanto impegno da denudarti addirittura?»,
chiesi divertito.
Per
tutta lei scalciò a vuoto e fece
per abbandonare in tutta fretta la sua postazione mentre l'unica mano
libera
correva a coprire il suo didietro, celato solo da un leggero strato di
cotone
nero.
Non
sapendo bene come poter essere
d'aiuto mi limitavo a starmene appoggiato alla portiera e a guardare il
suo
tentativo di liberazione.
Onestamente
avrei preferito con tutto
il cuore avere qualcosa che mi tenesse impegnato invece di starmene con
le mani
in mano a vedere quel delizioso sederino sventolarmi davanti agli occhi.
Il
gentiluomo che era in me aveva
perso miseramente dopo un secondo la battaglia contro la parte
più istintiva e
primordiale e ora, mentre mentalmente mi davo del guardone pervertito,
non
riuscivo a fare a meno di osservare con attenzione quel corpo
illuminato dalla
luce sfarfallante di un lampione dei sobborghi di Boston.
«Smettila
di fissarmi il culo!»,
strillò stridula dagli abissi inesplorati in cui aveva
cacciato la testa.
Ridacchiai,
colto in flagrante. «Come
sei triviale…», osservai ghignando e approfittando
della situazione per non
distogliere di un millimetro la mia attenzione dal suo didietro.
Scalciò
a vuoto, o meglio, scalciò
nella mia direzione sperando di colpirmi con il carro armato di gomma
del suo
anfibio sinistro dritto sul naso ma l’unico risultato
ottenuto fu che il
vestito a causa di quel movimento scoordinato e maldestro
scivolò ancora più
giù.
«Mancat…maledizione
Felicity ma lo
fai apposta! Perché mai non hai indosso un
reggiseno?», domandai esasperato di
fronte alla sua schiena completamente nuda.
Sarei
impazzito. Sì, ormai era
ufficiale.
La
sentii mugugnare e poi imprecare
in un modo che non mi sarei aspettato neanche da un corsaro cresciuto
tra mozzi
e scaricatori di porto. Agitò ancora per un po’ le
gambe per aria mentre io
iniziavo a sentirmi stupido a star lì impalato a guardarla
mentre lottava per
liberarsi da quella posizione assurda in cui era riuscita a cacciarsi.
Sollevai
leggermente i pantaloni
prima di accovacciarmi a lato della macchina e protendermi verso
l’interno
dell’abitacolo. Cercando di muovermi lentamente, dato lo
spazio ristretto e il
corpo di Felicity che sembrava essere spalmato dovunque, infilai le
mani sotto
il sedile e tastai la parte superiore alla ricerca
dell’appiglio a cui i suoi
capelli avevano deciso di aggrapparsi. Delicatamente sciolsi il nodo
aggrovigliato e ritirai le mani.
«Prova
con calma ad uscire da lì
sotto…»
Ci
riuscì e la prima cosa che fece
non appena riemerse, i capelli stravolti e il viso arrossato, fu
esclamare
entusiasticamente «Trovato!» e sollevare trionfante
il pugno stretto attorno ad
un biscotto con gocce di cioccolato verso il cielo.
La
seconda fu assestarmi un potente
scappellotto accompagnato da vari epiteti molto lusinghieri nei miei
confronti.
Ma
la cosa che mi aveva lasciato
interdetto e senza parole non era stato lo schiaffo – dovevo
ammettere di
essermelo meritato – ma il fatto che eravamo finiti in quella
situazione
surreale per un biscotto perduto.
«Un
biscotto? Seriamente Van Houten?»,
chiesi esasperato di fronte all’ennesima manifestazione
dell’incongruenza di
quella donna.
Lei,
si sistemò il vestito ma non
accennò a cambiare posizione, restando inginocchiata sul
tappetino ai piedi del
sedile così da trovarsi alla mia stessa altezza, e mi
rivolse un’occhiata
perplessa: «Cosa stavo cercando secondo te?»
Sollevai
le spalle e lasciai ricadere
sbuffando piano. «Un orecchino di diamanti?»,
proposi.
Lei
di nuovo mi sorprese. Gettò il
capo all’indietro, una cascata d’oro
seguì il suo movimento, e si lasciò andare
ad una risata vera. Una di quelle piene, autentiche, genuine.
Non
capivo davvero cosa avessi detto
di così esilarante.
«Secondo
te avrei fatto tutto ciò per
un orecchino di diamanti?! E poi,
Tontolino, io non possiedo proprio nessun diamante!»,
esclamò sorridendo felice
e lasciandomi quello che secondo lei doveva essere un buffetto giocoso
sulla
guancia. Per essere un buffetto era stato piuttosto doloroso,
più o meno come
quelli che i parenti anziani propinano in gran quantità a
chiunque sia più
giovane di loro ai pranzi di famiglia.
Mi
risollevai in piedi, le gambe
leggermente indolenzite. «No, scusa, hai ragione tu. Invece
fare tutto questo
circo per un biscotto mi sembra
assolutamente ragionevole», osservai sarcastico aprendo la
portiera
dell’autista e sedendomi al volante.
Lei
borbottò qualcosa che pareva lui e
le sue priorità di merda e,
dopodiché, si capottò letteralmente in avanti per
raggiungere il sedile
anteriore senza dover fare il giro da fuori.
«Esibizionista:
ho visto di nuovo il
tuo sedere», le feci notare mentre mettevo in moto per
abbandonare il ciglio
della strada su cui avevamo sostato per tutto quel tempo.
Vidi
con la coda dell’occhio la sua
mano muoversi con una traiettoria diretta verso la mia nuca e riuscii
ad
anticiparla bloccandole il polso. «Stai diventando
prevedibile», le feci notare
e in quel momento lei schiaffò l’altra mano armata
di biscotto contro il
candido cotone della mia camicia e ce lo strofinò per bene.
Il cioccolato mezzo
sciolto aderì subito lasciando dei meravigliosi ghirigori
appiccicaticci sul
tessuto.
«Stavi
dicendo?»
Afferrai
con entrambe le mani il
volante e lo strinsi con tutta la forza che avevo. Trattare con quella
donna
era impossibile. Mi faceva letteralmente uscire dalla grazia di Dio. I
sentimenti che provavo in sua presenza erano come amplificati. Rabbia,
fastidio, esasperazione: se provocate da lei erano molto più
potenti e
totalizzanti. Mi faceva perdere il controllo. E io dovevo sempre avere tutto sotto controllo.
Dovevo.
Perciò,
mentre aspettavo che la
rabbia sbollisse, rimasi aggrappato al volante come un ragazzino alla
prima
lezione di guida. La cosa che mi rendeva ancora più stizzito
era che tutta la
mia ira derivava dal fatto che mi aveva fregato e ancora una volta era
stata
più furba di me e non dalla camicia Paul Smith da
quattrocento dollari appena
andata a puttane.
«Dai,
non farne una tragedia! Per
farmi perdonare te la lavo io, ok? Due orette in lavatrice e
sarà come nuova,
fidati!», trillò allungando una mano verso la mia
camicia e cercando di
eliminare le tracce del suo misfatto.
Maledizione,
per lei era sempre tutto
semplice e migliorabile. Non riusciva a capire che spesso nella vita
dei buoni
propositi e un ottimismo frizzantino non potevano risolvere i problemi?
Eppure
lei sembrava fiduciosa e dava sempre per scontato che ci fosse una
soluzione
per ogni cosa. Mi sembrava di sentire mia madre, A
tutto c’è un rimedio, Liam caro, tranne alla morte.
Mi sarebbe
piaciuto, per una volta, vedere il mondo attraverso gli occhi di
persone come
loro, speranzose e sempre convinte che tutto sarebbe andato per il
meglio, e
provare a capire che sensazione desse non essere costantemente gravati
da una
cappa di plumbeo disfattismo.
Quando
non sentii più la lieve
pressione delle sue dita sul mio petto abbassai lo sguardo sulla
macchia ora
più chiara ma anche tre volte più ampia.
«Così
va già decisamente meglio!»,
cinguettò scrutando tutta contenta il lavoro fatto,
«Quasi non si vede e nel
locale, con le luci abbassate e l’alcool in circolo, nessuno
ci farà caso»
La
fissai incredulo e rimasi
seriamente sconcertato quando mi accorsi che lei credeva davvero in
quello che
stava dicendo. Probabilmente oltre che insensatamente ottimista era
anche
alquanto miope. Senza commentare la macchia caffelatte che ricopriva
tre quarti
della mia camicia rimisi in moto e mi diressi verso l’unica
vera soluzione a
quel problema. Ero un uomo pratico io, niente farfalle e unicorni come
Felicity.
Svoltai
a destra e imboccai la larga
strada a tre corsie che portava verso il centro. Abituato
com’ero a percorrerla
a passo d’uomo durante i giorno feriali in cui lasciavo
Boston per recarmi alla
casa del nonno, trovarla semideserta fu un sollievo e non ci pensai due
volte
prima di pigiare a fondo sul pedale dell’acceleratore.
«Dove
diavolo stai andando?», strillò
la mia compagna di viaggio non appena si rese conto di dove fossimo. Le
lanciai
uno sguardo con la coda dell’occhio e la ritrovai con i palmi
della mani
premuti contro la portiera e il naso appiccicato al vetro del
finestrino.
Misi
la freccia e presi la mia
uscita, immettendomi immediatamente nella traversa che ci avrebbe
condotti in
poco tempo a destinazione. «A prendere una camicia
nuova», borbottai prima di
accelerare tutto d’un colpo per evitare che il semaforo
giallo diventasse rosso
prima del nostro passaggio.
«Oltre
che un guardone ora sei anche
un pirata della strada?», si lamentò subito, le
mani aggrappate al sedile e gli
occhi spalancati. «Comunque non penso che Tom Ford sia aperto
a quest’ora…»
Ignorai
il suo commento e premetti il
telecomando che azionava il cancello che conduceva ai garage
sotterranei.
Percorsi i due livelli fino a trovare il numero del mio parcheggio
riservato e
infine spensi il motore e aprii la portiera con l’intenzione
di concludere il
tutto nel più breve tempo possibile.
«Non
penserai davvero che io ti segua
senza prima essere informata riguardo a…dove accidenti ci
troviamo! Ho visto
troppe serie tv per fidarmi di un uomo elegante che mi conduce in un
posto
isolato…», si lagnò una voce familiare,
a quanto pare per nulla incline ad
adeguarsi e seguirmi senza protestare.
Uscii
dall’abitacolo e mi piegai per
vederla bene negli occhi, era veramente buffa quando puntava i piedi e
metteva
il broncio. Le si formava una lieve ruga tra le sopracciglia chiare e
le sue
labbra contratte manifestavano piuttosto chiaramente il suo disappunto.
«Allora
aspetta qui. Faccio un salto
a casa e torno…», detto questo mi voltai e sbattei
la portiera.
Non
avevo ancora raggiunto il piccolo
cubicolo del guardiano notturno quando sentii una serie di rapidi passi
frettolosi alle mie spalle. Quando mi raggiunse si mise ad ansimare e
brontolare come se avesse appena concluso una gara di triathlon e non
una
ventina di metri.
«’Sera,
Mr. Carter Wright. Chiudo il
garage e aziono l’allarme o esce ancora?»
Feci
un cenno di saluto a Tim, o
almeno pensavo fosse quello il suo nome, e gli dissi che si trattava
solo di
una rapida sosta. Lo vidi allungare un’occhiata alle gambe
scoperte di Felicity
e accennare un sorrisetto. Ovviamente lei non si accorse di nulla
impegnata
com’era a cercare di recuperare fiato e a mandarmi
maledizioni senza perdono
con la forza della mente, ma io mi irrigidii. Odiavo la gente che non
si faceva
gli affari propri e si permetteva di giudicare gli altri.
Chiamai
l’ascensore e non appena
questo arrivò mi ci infilai dentro il più
velocemente possibile. Tuttavia la
mia compare non pareva intenzionata ad assecondarmi e se ne stava
impalata
sulla soglia delle porte metalliche.
Sapevo
che me ne sarei pentito ma lo
chiesi lo stesso: «Che c’è?»
Occhi
allucinati e bocca spalancata
fissava inebetita la struttura in vetro e acciaio dentro a cui mi
trovavo. Dopo
un attimo si riprese abbastanza da potermi rispondere, seppur ancora
leggermente incredula, «Questo sarebbe un ascensore?
C’è uno schermo touch
grande quanto uno schermo cinematografico lì dentro! Che ci
dovete fare nei
trenta secondi di salita e discesa? E un divanetto! E la pulsantiera
è placcata
d’oro?!», snocciolò facendo un passo
verso di me e allungando un dito verso il
grande display che capeggiava alle mie spalle.
Non
appena superò la soglia ne
approfittai per pigiare il tasto di chiusura delle porte e passare il
mio badge
argentato davanti al lettore elettronico. Ovviamente neanche questo
sfuggì ad
un suo commento…
«Ma
insomma chi sei? Chuck Bass?!»,
strillò esasperata sfilandomi di mano la tessera magnetica e
osservandola.
«Bass
chi?», domandai mentre le porte
si aprivano sull’ingresso lucido del mio attico immerso nella
penombra.
«Ovviamente
non mi aspetto che tu
abbia visto Gossip Girl e non- …Merda! Sicuro di non
lavorare per i
narcotrafficanti colombiani? Come accidenti fai a permetterti questo?!», mi
interrogò mentre avanzava
verso l’immensa vetrata che dominava una Boston punteggiata
da migliaia di
piccoli punti luminosi.
«Lavoro
sodo e vinco sempre le mie
cause. Sempre. Ho una clientela abbiente e sono un investitore
astuto», risposi
stringendomi nelle spalle.
«Sei
fortunato ecco tutto. La maggior
parte della gente svolge bene il proprio lavoro e si spezza la schiena
nel
farlo ma ha comunque difficoltà a gestire il mutuo, le tasse
universitarie del
figlio, le rate dell’automobile, le spese per
l’assicurazione sanitaria…»
Qualcosa
nel suo tono di voce mi
irritò. Non sopportavo quando la gente puntava il dito
contro la mia vita che
consideravano composta solo da agi e lusso etichettandomi per
ciò che possedevo
e non ciò che ero. Ero cresciuto in una villetta progettata
per quattro persone
dove però vivevamo in sette. Avevo passato anni ogni mattina
a picchiare i
pugni sulla porta di legno dalla vernice scrostata dell’unico
bagno al piano
superiore puntualmente occupato da Judith mentre io, in un leggero
pigiama liso
e scolorito, saltellavo sul posto per difendermi dal gelo che regnava
in casa.
La mattina a colazione mangiavamo pane e latte e avevo
vent’anni suonati la
prima volta che assaggiai dei Lucky Charms.
Ma
non avevo alcuna voglia di
spiegarle tutto ciò perciò la assecondai,
«Probabile. Siediti pure dove vuoi
mentre io vado a cambiarmi la camicia…»
Attraversai
il salone e oltrepassai
l’arco che conduceva alla zona notte. Accesi la luce della
mia stanza e solo
allora mi accorsi di essere stato pedinato. Mi voltai e mi ritrovai a
fronteggiare l’espressione a metà tra
l’imbarazzato e il furbetto di Felicity.
«Non
avrai davvero pensato che me ne
sarei stata seduta zitta e buona, vero? Volevo dare
un’occhiata al resto. E poi
quel divano sembrava così immacolato che non ho osato
sedermi e rischiare di
lasciarci impressa la forma del mio posteriore», mi
spiegò mentre, senza
bisogno di alcun invito, avanzava nella stanza guardandosi attorno.
La
lasciai fare e, approfittando del
stato di contemplazione in cui era caduta davanti alla fotografia in
bianco e
nero che capeggiava sopra la testata del letto, sgattaiolai nella
cabina
armadio dove, senza far troppo caso all’armonia dei colori,
pescai una camicia
e la sostituii con quella che stavo indossando. Questa volta presi
l’accorta
decisione di selezionarne una scusa in modo che, in caso di nuovo
attacco,
potessi mascherare la macchia.
Una
testa bionda sbucò dallo stipite
della porta e mi fissò mentre mi allacciavo gli ultimi
bottoni. «Non dirmi che
quella foto è un’originale di
Salgado…», borbottò facendo un cenno
alle sue
spalle.
La
superai e tornai nella stanza
principale, lo sguardo rivolto a quel cielo invaso da nubi minacciose e
bellissime che pareva fondersi con la foresta infinita sottostante. Un
sorriso
mi incurvò le labbra: avevo rischiato la bancarotta per quel
pezzo autentico, ero
giovane e in vena di follie, ma non me ne ero mai pentito. Ancora oggi,
trascorsi quasi otto anni dall’acquisto, non mi stancavo mai
di ammirarlo e
ogni volta era come se lo vedessi per la prima volta, lo stupore che
provavo di
fronte a ciò era spiazzante come lo era stato quando lo
avevo adocchiato alla
casa d’aste a cui ero andato per svagarmi con Matthew.
«Può
darsi…»
La
sentii sbuffare alle mie spalle.
Probabilmente aveva anche alzato gli occhi al cielo nel suo modo
teatrale e
infantile. Probabilmente ora stava pensando a quanto fossi tronfio, io,
il mio
attico impersonale e la mia foto da migliaia e migliaia di dollari.
«Mi
piace», commentò invece
affiancandosi a me e guardando anche lei la tela, «Nei miei
sogni più selvaggi
mi immagino nelle vesti di una Peggy Guggenheim del XXI secolo, dedita
al
collezionismo di capolavori dal valore inestimabile e di amanti
pittori, poeti,
scultori super gelosi…»
Inclinai
leggermente il capo e la
sbirciai con la coda dell’occhio. No, non l’avrei
per niente vista in quelle
vesti. Il suo fascino stava proprio negli sbaffi di terra che aveva
sulla
fronte dopo una giornata di lavoro, nei ciuffi di capelli ribelli e
schiariti
dal sole che le incorniciavano il capo come una corona, nelle salopette
rattoppate che si ostinava a indossare nonostante gli anni Sessanta ci
avessero
lasciato da un pezzo. Probabilmente la sua bellezza risiedeva anche
nell’ostinazione con cui portava avanti la sua relazione
monotona con quel
Theodore. Persino un fungo era più interattivo di lui.
«Credevo
che i tuoi sogni più
selvaggi includessero il tuo povero fidanzato…»,
insinuai sogghignando.
«Lui
è nei miei sogni più selvaggi
vietati ai minori di diciotto anni, quelli che non racconto ad avvocati
impiccioni e maligni», mi sistemò per bene lei.
Un’immagine
fulminea di Felicity e
Theodore avvinghiati l’uno all’altro
attraversò la mia mente ma, inorridito, la
scacciai in un decimo di secondo. Certe cose era meglio non saperle. O
immaginarle.
Successivamente
fui costretto ad un
tour completo della casa. Fece commenti perfidi sulle mie
capacità culinarie e
quasi si mise a fare i capricci quando le vietai di aprire il
frigorifero per
fare quella che lei chiamò spedizione
di
ricerca oltre i confini dell’universo conosciuto.
Inutile dire che alla
fine il suo nasino lentigginoso si introdusse all’interno
dell’elettrodomestico
e condusse un’ispezione approfondita, con telecronaca
inclusa, del suo
contenuto.
«Sai,
uno yoghurt scaduto da un
giorno o due si può mangiare ancora ma questo risale al
marzo dello scorso anno
e non penso che qui valga il principio del vino: più
è invecchiato, più è
pregiato», borbottò rigirandosi fra le mani una
confezione di yoghurt bianco. «Ma
non paghi una signora proprio perché getti via questi cimeli
preistorici?»,
chiese agitando per aria il barattolino bianco in plastica mentre si
chinava
nuovamente verso il frigo.
Ero
quasi certo del fatto che
Felicity avrebbe adorato Inés, la mia donna delle pulizie
nonché chef da urlo.
Insieme avrebbero passato ore a sghignazzare alle spalle del
sottoscritto,
prendendosi gioco delle mie doti domestiche e casalinghe
sottosviluppate, se
non addirittura assenti.
«Inés
si diverte a vedere quanto
tempo passerà prima che mi accorga io stesso degli alimenti
ormai dotati di
vita propria che risiedono lì dentro e li
getti…», spiegai di malavoglia. Tutto
ciò mi faceva apparire in una luce decisamente poco positiva.
Persino
Matt aveva imparato a
cucinarsi una bistecca o un bel piatto di spaghetti – anche
se lo aveva fatto
solo in seguito al matrimonio con un essere erbivoro – per le
sue cenette
nascoste agli occhi di Mildred la Megera.
Aveva
lanciato un urletto estasiato
alla vista della mia doccia e avevo dovuto spiegarle quindici volte che
ci stavano
aspettando alla festa e quindi no, non poteva testare la mia vasca
idromassaggio dalle dimensioni di una piccola piscina. Dopo mille
suppliche, le
avevo regalato un set di asciugamani di spugna color tortora e lei
quasi mi
abbracciò tanto era contenta. Infatti affermava che le mie
salviette erano
morbidissime mentre le sue erano simili a grattugie. Ipotizzai fosse
dovuto ai
suoi lavaggi aggressivi in lavatrice piuttosto che ad un difetto
intrinseco
delle spugne ma non glieli feci notare: sembrava così felice.
Rimase
sconvolta quando le dissi che
non organizzava quotidianamente feste sul tetto del mio attico e mi
disse che
avrei dovuto senza dubbio rimediare a questa mia mancanza.
«Prova
ad immaginarti decine di
candele profumate disseminate ovunque, un gazebo con leggere tende
candide che
una lieve brezza fa fluttuare leggiadre, Nina Simone o Nancy Sinatra in
sottofondo, un
lungo tavolo adorno di
fiori e frutta e tutte le persone che ami riunite…non sembra
meraviglioso?».
Sospirò estasiata dal quadretto che aveva costruito.
Di
fronte a noi c’era solo nudo
cemento e un paio di sedie traballanti. Usavo talmente poco
quell’attico che su
quella terrazza ci avevo messo piede forse un paio di volte, visita con
l’agente immobiliare inclusa. E di nuovo mi ritrovai a
pensare al potere che
Felicity aveva di rendere belle anche le cose che di bello parevano non
aver
nulla.
***
«Si
può
sapere che fine avevate fatto?!», ci accolse prontamente un
Donovan piuttosto
alterato e con la maglia chiazzata di qualcosa di scuro e grumoso.
«Un mix di
mascara e eyeliner lasciatomi gentilmente da quella squilibrata di sua
sorella»,
mi spiegò dopo aver visto il mio sguardo puntato sulla
macchia.
Felicity,
fino a quel momento persa a fissare il soffitto dalle mille luci
iridescenti
incastonate e l’effetto stile acqua che proiettavano
tutt’attorno, ci raggiunse
e, captata l’ultima frase del suo amico intervenne:
«Dov’è Zoe?»
Sfruttando
la mia altezza cercai di trovare quella testolina mora tra la folla che
riempiva in modo soffocante la sala non molto ariosa del locale ma
parevano
avere tutti i capelli scuri come la notte perciò desistetti
e tornai alla
conversazione.
«L’ultima
volta che l’ho vista si stava scolando il suo decimo Bloody
Mary affermando di
potermi trasformare in un vampiro come lei e, dopo aver cercato di
allontanarla
dalla zona bar, mi sono beccato un tacco nello stinco e l’ho
lasciata lì…», ci
aggiornò Donovan, il quale non aveva per nulla una bella
cera.
«Vai a
cercarla per favore? Io resto qui con lui», mi
domandò leggermente preoccupata.
Annui e
l’ultima cosa che vidi prima di essere inghiottito dalla
folla fu Felicity
china sul suo amico, intenta a sussurragli: «Tutto bene?
Donnie?»
Più
che una
festa in onore di una scrittrice sembrava il ritrovo di gente sfuggita
da un
ospedale psichiatrico. Nel mio tentativo di attraversare incolume
quella marea
di corpi venni agguantato per un braccio da una ragazzina scheletrica
dalla
forza bruta. Aveva enormi occhi azzurri inquietantemente vacui, come se
fosse
cieca, e unghie simili ad artigli laccate di verde fluorescente che
continuava
ad agitare in modo convulso per aria, probabilmente voleva essere una
sorta di
danza macabra ma sembrava più un attacco epilettico. Quando
riuscii a liberarmi
da lei, dopo una dose massiccia di complimenti per la sua manicure,
raggiunsi
finalmente una porta e la spalancai in fretta. Di fronte a me si
srotolava un
lungo corridoio sinuoso, così pieno di curve da sembrare
progettato da un Gaudì
ubriaco, ai cui lati si trovavano innumerevoli porte serrate. La
moquette sotto
ai miei piedi era decorata con un motivo geometrico quasi da effetto
ottico che
ti dava la sensazione che in alcuni punti il pavimento si aprisse in
enormi
voragini.
Dov’ero
finito? Shining e il suo Overlook Hotel in confronto erano la pensione
Pinuccia
a cui andava mia nonna in vacanza.
Ogni stanza
era numerata con una targhetta scritta in…geroglifici
egizi?! Mi rassegnai
all’idea di doverle aprire tutte alla ricerca di Zoe. Che poi
una, dopo dieci
cocktail, probabilmente stava facendo pole dance attorno ad un palo
dell’autobus mentre intonava l’inno francese al
contrario e mostrava le mutande
a tutti i presenti. Sempre che le mutande ancora le avesse indosso.
Le prime due
porte erano chiuse a chiave e ai miei ripetuti richiami nessuno
rispose. Provai
ad appoggiare l’orecchio al legno ma l’unica cosa
che sentii fu il battito
riflesso del mio cuore.
La terza
stanza era vuota. Non solo nel senso che dentro non c’era
nessuno. Non c’era
niente dentro. Mi richiusi frettolosamente la porta alle spalle e
passai a
quella successiva, desiderando farla finita il prima possibile. Non ero
mai
stato un grande amante dell’horror.
«C’è
qualcuno?», chiesi bussando forte alla quarta porta.
Dall’interno
provenivano dei suoni attutiti dal legno e una voce ovattata mi
strillò di
andarmene in modo poco cortese.
Non desistetti
ed afferrai la maniglia abbassandola un paio di volte a vuoto:
ovviamente la
porta era chiusa a chiave. «ZOE!», gridai battendo
il pugno contro quella
superficie divisoria che mi impediva di entrare ed assicurarmi che
lì dentro
non ci fosse la sorella di Felicity.
«Eccomi
quuui,
bellissimo uomo. Sei un uomo vero? Ho bevuto leggermente troppo
e…che stavo
dicendo? Ci son due coccodrilli e un orangotango, due piccoli serpenti
e…cosa c’era
dopo?»
Mi voltai e con
uno scatto repentino riuscii ad afferrare appena in tempo una Zoe
alquanto
scarmigliata che stava per collassare su quel tappeto ipnotizzante.
Rafforzai la
presa attorno alla sua vita e la rimisi in piedi, stando attento a non
allontanarmi troppo.
«Sai
chi
sono? Liam, l’amico di tua sorella Felicity»,
tentai di spiegarle in modo
semplice nonostante definirmi amico di
Felicity non mi pareva esattamente una cosa semplice. Ma quello non era
il
momento per pensare al limbo tra il professionale e
l’informale in cui
sembravano bloccati noi due. No, proprio no, quello era il momento per
caricarsi in spalla quella squilibrata che ora si era messa a cantare
la sigla
di Scrubs e riportarla a casa.
«Ooh,
allora
sei un uomo! Liam è un nome maschile, vero? Prima ho palpato
il sedere a una
tizia di nome Tiffany perché l’avevo scambiata per
Donnieee. Donnie! Dov’è
finito?!», sbiascicò mentre tentavo di afferrarla
sotto alle ascelle per
prenderla in braccio.
Una volta
riuscitoci partii spedito – quella ragazza pesava quanto un
pulcino – verso l’ingresso
del corridoio che avevo attraversato anche all’andata.
Notai che
aveva perso le scarpe e sul collo aveva un segno violaceo che
però sembrava
luccicare quindi ipotizzai si trattasse di un qualche sbaffo di trucco
piuttosto che di un più serio ematoma.
«Ci
sta
aspettando all’uscita. Cosa ti è
successo?», le chiesi nonostante non sperassi
davvero in una risposta di senso compiuto.
«Mi
sono
fatta predire il futuro da Madame…non mi ricordo,
vabbè da Madame Qualcosa, e
mi è stato rivelato che sono la figlia illegittima del
sultano dell’Oman e che
il mio destino è ritrovare il Millennium Falcon, resuscitare
Jon Snow e
sconfiggere gli Attila e gli Unni. Mi ha anche fregato trenta dollari
quindi
spero davvero che sia vero ciò che mi ha
raccontato…però, d’altra parte, se
glielo hanno comunicato le stelle e l’oracolo di Delfi,
sarà per forza vero,
no?», blaterava a ruota libera, la testa posata sulla mia
spalle e i piedi nudi
che ondeggiavano nel vuoto al ritmo della mia camminata.
Probabilmente
in una pubblicità progresso contro l’uso di alcol
e sostante stupefacenti
avrebbero dovuto metterci Zoe in questo momento. Non riuscivo comunque
a
giudicarla severamente perché in passato anche io avevo
sperimentato situazioni
simili. Solitamente però era Matt a trascinarmi a casa,
sempre che anche lui
non versasse in condizioni simili se non peggiori. Passata il traguardo
delle
trenta candeline avevo iniziato a lasciare ai giovanotti la gioia di
scolarsi
sei cocktails. Ormai riprendersi dalle sbronze diventava sempre
più un’impresa
e se c’era una cosa che non avevo mai sopportato era la
sensazione schifosa che
mi avvolgeva per tutta la giornata seguente ad una notte di baldorie.
Lo stomaco
sottosopra, i ricordi allucinati e sfalsati, la stanchezza del corpo,
l’aspetto
slavato e la voglia di uccidere chiunque producesse un rumore
più intenso di un
battito d’ali di farfalla.
«Oddio,
che
è successo? Zoe! Stai bene? Sta bene? Dove sono le tue
scarpe? Han Solo? di
cosa sta parlando?», Felicity la furia ci travolse non appena
entrammo nel
raggio del suo radar visivo.
Donovan alle
sue spalle aveva un’espressione a metà tra il
colpevole e il divertito mentre
fissava la donna tra le mie braccia.
«Usciamo
da
qui», decretai, stanco del terzo grado di Felicity e del
volume troppo elevato
della musica che mi stava procurando l’emicrania, e mi
diressi verso l’uscita
illuminata.
Una volta
all’aria all’aperta riuscii finalmente a respirare
a pieni polmoni e a capire
per bene cosa dicessero gli altri.
«Non
lo so
cosa le è successo. L’ho trovata in un corridoio
nel retro del locale. Dice di
aver incontrato un’indovina…», spiegai
mentre mi chinavo per far scendere Zoe,
la quale non appena i suoi piedi poggiarono terra iniziò a
correre come una
pazza per strada.
Fortunatamente
Donovan aveva i riflessi super pronti e la acciuffò prima
che si schiantasse
sul cofano di una Chevrolet parcheggiata storta sul bordo del
marciapiede.
Certo che
l’avvocato
Van Houten aveva generato due figlie con il genio della follia ben
radicato nel
loro patrimonio genetico!
«Non
di
nuovo, vi prego! L’ultima volta che accadde, un paio di anni
fa, partì alla
volta del Tibet perché le avevano detto che era il futuro
Dalai Lama e da
allora non può più rimettere piede nel
paese…». Felicity si avvicinò alla
sorella, le prese la mano e le bisbigliò qualcosa
all’orecchio. Quella
miracolosamente smise di tentare di svicolarsi dalle braccia di Donovan
e si
quietò.
Probabilmente,
vista la gente che mi circondava, le aveva sussurrato un incantesimo
soporifero
o esorcistico. Non mi posi domande – a volte
l’ignoranza è una benedizione – e feci
strada verso la mia macchina, posteggiata a duemila miglia da
lì.
«Forse
è
meglio se voi aspettate qui. L’auto è lontana e
Zoe non sembra nelle condizioni
di intraprendere una lunga camminata a piedi scalzi»,
proposi, chiedendomi nel
mio intimo quand’era avvenuta questa mia conversione a
cavalier servente.
«Ottima
idea, Tiffany!», strillò Zoe alzando un braccio e
salutandomi tutta felice.
Nessuno pareva
interessato ad indagare sull’identità di questa
Tiffany e io decisi che era
meglio tacere la storia della strizzatina di didietro data alla
malcapitata in
verità diretta a Donovan. Il quale in quel momento avrebbe
meritato una
medaglia per la pazienza con cui cercava di tenere sotto controllo
quella folle
donna dai comportamenti assolutamente imprevedibili.
«Resto
io
qui con lei, non preoccuparti», mi rassicurò lui.
Anche se, nonostante si fosse
rivolto al sottoscritto, in verità avevo percepito che
quello era una
rassicurazione diretta a Felicity, la quale stava ancora stringendo la
mano
della sorella alternando sguardi preoccupati a piccoli sbuffi
esasperati quando
sentiva le sciocchezze che questa continuava instancabile e sciorinare.
Annuii e mi
voltai incamminandomi, mi aspettava minimo un buon quarto
d’ora di camminata a
passo spedito per raggiungere l’auto che avevo lasciato poco
tempo prima nei
pressi di un distributore di benzina semi abbandonato.
«Aspettami!»
E pochi
attimi più tardi fui affiancato dalla figura di Felicity
avvolta nel suo
abitino dalla fantasia d’altri tempi. Per un po’
camminammo in silenzio. L’asfalto
scuro sotto ai nostri piedi e il cielo punteggiato di piccole stelle
isolate
sopra le nostre teste.
«Cosa
stai
facendo?», chiesi fissando i suoi anfibi consunti.
Lei mi
afferrò
il braccio per farmi rallentare e dopodiché sorrise.
«Ecco, ora va bene. Camminiamo
sincronizzati», mi spiegò vedendo il mio sguardo
confuso.
Abbassai lo
sguardo e osservai. Piede destro. Piede sinistro. Piede destro. Piede
sinistro.
E sorrisi
anche io.
«Sei
bello,
Mr. Liam, lo sai?»
Lo disse
così.
All’improvviso. Lo disse così e io pensai quasi di
essermelo immaginato.
Mi bloccai e
spezzai l’armonia dei nostri passi.
Lei
scoppiò
a ridere, allungò un braccio nella mia direzione e mi
offrì la mano. «Non
sembrare così sconvolto! Nessuno te lo aveva mai detto? A me
le cose belle
piacciono e mi sono ripromessa di non perdermi neanche una sfumatura
della
bellezza che avrei incontrato in questa vita. Siamo sempre
così di fretta, così
superficiali, così distratti. E le cose più
belle, i particolari, i dettagli ci
sfuggono. Io non voglio che questo accada a me. Perciò te lo
ripeto: sei bello».
Sembrava
così
sincera. Felicity era spontanea. Era come la terra che tanto le
piaceva, una di
quelle cose autentiche, primordiali, nella quale affondi le mani e ti
senti di
nuovo in sintonia con questo mondo strambo e rotante in cui abitiamo.
Era vera,
niente giri di parole, nessun senso nascosto tra le righe. Diceva
ciò che
pensava e lo faceva in un modo tutto suo, sempre in bilico tra lo
svagato e il
profetico. Anche lei era così: sospesa tra nuvole e abissi
dalla profondità
incalcolabile. Cristallina ma allo stesso tempo indecifrabile. Un
ossimoro.
E sorrisi di
nuovo.
«Ora
però
non approfittartene però! E non sorridere troppo che
altrimenti inizio a
pensare che anche tu abbia un lato spensierato e meno
ingessato…», mi prese in
giro lei, afferrando la mia mano e stringendola tra la sua.
Riprendemmo a
camminare e questa volta fui io a sincronizzare i miei passi ai suoi, a
rallentare per lei, a costruire un’armonia che potrebbe
apparire sciocca ma che
in quel momento aveva il potere di farci sentire uniti.
Chiedo
scusa per il ritardo con cui pubblico questo capitolo. Non sono
stati mesi facili: mi sono trasferita e dovevo riorganizzare tutto e
iniziare a
prendere le misure della mia nuova vita da sola. Aggiungeteci anche una
certa
dose di indolenza da parte mia, gli esami da preparare e le serie tv da
terminare o iniziare (^.^”). Avevo pensato di mettere tutto
in standby invece
alla fine ho deciso di continuare. Anche se con i miei tempi
ovviamente. Questo
capitolo non è particolarmente brillante ma ultimamente la
mia creatività non è
a mille e ipotizzo si sia prese una pausetta per svernare ai Caraibi.
La parte
finale è così dolciosa che mi si sono cariati due
denti durante la stesura e
rileggendoli sembrava che lo spirito di un Bacio Perugina si fosse
impadronito
di me (oppure vedere il titolo del capitolo). Siamo pur sempre nella sezione romantico e per quanto le
sviolinate
troppo sviolinate mi provochino l’orticaria un po’
di cuore, sole e amore ogni
tanto ci va.
Buona
serata e alla prossima!
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Capitolo 9 *** Boccioli ***
Felicity
Seduta sul
vecchio cavalcavia che sovrastava la super strada che portava verso
Boston, il
viso poggiato sull’alta inferriata che serviva a prevenire
che la gente
decidesse di voler provare a volare per poi finire spappolato sul
parabrezza di
un tir, il vento che soffiava forte contro le mie guance e decine e
decine di
auto che sfrecciavano sotto di me.
Nessuno
aveva mai capito la mia passione per le strade, le stazioni, gli
aeroporti. Io
li trovavo bellissimi: luoghi di passaggio, di addii, di fughe. Terra
di tutti
e di nessuno.
Avevo
percorso il solito sentiero tra le alte sterpaglie di quel paesaggio di
campagna che ormai riconoscevo come familiare, avevo attraversato di
corsa il
campo di Mr. Edwards sapendo quanto il vecchio burbero poco apprezzasse
che si
passasse sulla sua proprietà, e poi, dopo aver costeggiato
l’orto abbandonato
di una famiglia che aveva lasciato quelle terre anni prima, ero
arrivata al mio
posto segreto. Una volta quel cavalcavia era aperto al transito dei
veicoli ma,
trovandosi in una zona semi deserta e molto appartata della campagna,
gli unici
a passarci erano dei rari trattori. Poi due anni fa una equipe di
ingegneri
aveva fatto una perizia e aveva stabilito che quel cavalcavia doveva
essere
reso inagibile al passaggio di vetture e così era stato
abbandonato da tutti. I
rovi si erano impadroniti dell’asfalto ormai crepato e le
barriere di ferro si
erano arrugginite.
Da quella
distanza, se si aguzzava bene la vista e ci si alzava un pochino sulle
punte
dei piedi, si poteva scorgere la spianata verde dove si ergeva la mia
piccola
casetta e poco distante la villa di Mr. Liam. Con gli occhi socchiusi,
a causa
del sole pomeridiano ancora accecante nonostante fossero quasi le
cinque,
scrutai quel tetto rosso mattone e mi ritrovai a pensare
all’uomo che ne era il
proprietario.
Negli ultimi
giorni, dalla notte della festa di Zoe, mi ero ritrovata spesso a
soffermarmi
con il pensiero sui suoi zigomi pronunciati o sul suo tono di voce
sempre
velato di sarcasmo. Mi ero sentita colpevole e subito dopo mi ero
arrabbiata
con me stessa, perché mi permettevo simili debolezze e tutto
ciò nella mia
testa appariva come un tradimento nei confronti di Theodore. Eppure
ogni volta
che la mia mente si trovava libera tornava sempre lì: quegli
occhi, quelle
mani, quella bocca. Mi ero gettata a capofitto nel lavoro, convinta che
il
trucco stesse nel tenermi il più impegnata possibile, ma non
appena abbassavo
la guardia, certa di avercela fatta, mi ritrovavo con lo sguardo perso
nel
vuoto e la testa piena di ricordi tutti legati sempre e solo a lui.
Questo mio
uragano di pensieri ed emozioni contrastanti purtroppo non si era
limitato a
portare scompiglio dentro di me. Più volte Donovan mi aveva
sorpreso
chiedendomi cosa mi frullasse in testa visto il mio costante essere tra
le
nuvole. Persino Zoe, regina della distrazione, si era accorta di quanto
fossi
svagata e sovrappensiero in quei giorni.
Il problema
era che ero intrappolata in un circolo vizioso: mi sforzavo di non
pensare a
lui, cadevo nella trappola e contravvenivo a tutte le mie regole, mi
rimproveravo aspramente e poi tutto ricominciava da dove aveva avuto
origine.
Considerata
la mia buona stella Theodore aveva deciso che fosse proprio quello il
periodo
ideale per impegnarsi di più nel mantenere accesa la nostra
relazione e ora
ogni sera alle otto precise mi ritrovavo, mentre lavavo i piatti, a
raccontargli delle mie giornate via Skype. Le nostre conversazioni si
trascinavano tra gli insignificanti dettagli della nostra monotona
quotidianità
sempre vissuta separati e mai condivisa.
Un grosso
camion carico passò strombazzando e portando con
sé una folata di aria calda e
inquinata. Mi allontanai dalle sbarre metalliche e mi sedetti
sull’asfalto
caldo, gli occhi chiusi per godermi il tepore del sole mischiato alla
brezza
che fischiava e faceva danzare le ciocche di capelli sfuggite alla mia
coda di
cavallo disordinata.
Due sere
prima era successo quello che avevo temuto fin da quando Theodore se ne
era
uscito con quella nuova proposta delle videochiamate: ero scoppiata.
«Ti
vedo
distratta…», mi aveva fatto notare lui mentre io
passavo la spugnetta per
l’ennesima volta sullo stesso piatto ormai luccicante.
Non se a
farmi scattare fu il suo tono leggero, come se il fatto che la sua
fidanzata
non gli prestasse la minima attenzione fosse normalissimo, o la mia
esasperazione di fronte a quella situazione con la sottoscritta che
pensava ad
un altro mentre parlava con il proprio ragazzo, il quale a sua volta
probabilmente stava rimuginando sull’etimologia del nome
latino di una cazzo di
pianta.
Avevo
mollato in malo modo il pianto che era scivolato nel lavello pieno
d’acqua
facendo schizzare la schiuma tutt’attorno.
Vi assicuro
che se già litigare è brutto, farlo separati da
uno schermo lo è mille volte di
più.
«Forse
lo
sono perché a quasi ventisette anni mi ritrovo intrappolata
in una relazione
più spenta e soffocante di quella che
c’è tra due ottantenni
dopo sessanta anni di vita insieme?»
Me ne ero
pentita subito. Ero stanca sì ma l’unica con cui
me la sarei dovuta prendere
ero io stessa. Ero io che invece di impegnarmi per migliorare il mio
rapporto
con Theo avevo rinunciato dandolo ormai per perso e avevo iniziato a
fantasticare su qualcun altro. Nel mio intimo avevo ormai detto addio
al mio
ragazzo di sempre ma nella realtà ero ancora legata a lui e
questo significava
solo che tra i due quella nel torto ero io. La cattiva della storia ero
io.
Theodore poteva essere sempre impegnato in mille cose, poteva avermi
trascurata
ma era sempre stato leale nei miei confronti.
Afferrato un
bicchiere avevo iniziato
a sciacquarlo,
avere le mani occupate mi aveva fornito una scusa per non
schiaffeggiarmi da
sola.
«Potresti
almeno guardarmi in faccia mentre mi dici queste cose?». La
sua voce dal tono
grave mi aveva raggiunta alle spalle e mi ero sentita ancora peggio.
Avevo
lasciato perdere le stoviglie ancora insaponate, riposto la spugna e il
detersivo per piatti e mi ero sfilata i guanti di gomma gialla. Dopo un
respiro
profondo, per infondermi la dose di coraggio necessaria per affrontare
la
conversazione per nulla felice che mi attendeva, mi
ero finalmente voltata verso il tavolo dove
troneggiava il viso inespressivo di Theo incorniciato dallo schermo del
portatile.
«Cos’è
successo? Felicity, siamo andati avanti così per
più di tre anni e non ti sei
mai lamentata. Cosa è cambiato? Perché qualcosa
deve per forza essere accaduto.
Quando ci siamo visti in Florida sembrava tutto
ok…», cercava di capire. Aveva
la fronte corrugata e sapevo benissimo che si stava sforzando di
ricordare le
nostre ultime conversazioni, stava scandagliando mentalmente i nostri
ultimi
contatti alla ricerca di quell’indizio che doveva essergli
sfuggito.
Avevo
sospirato perché se c’era una cosa in cui non ero
per nulla brava erano le
tristi discussioni amorose. Perlomeno non di quel genere. Avevo sempre
sognato
che sarei stata protagonista di una di quelle storie d’amore
travolgenti e
totalizzanti dove avrei potuto dare libero sfogo al lato più
romantico e
sognatore del mio carattere. Volevo progettare, parlare solo di cose
belle,
pianificare castelli in aria dall’aspetto meraviglioso e
impossibile per il futuro.
Da bambina,
ancora piena di fiducia e innocenza, creavo per le mie Barbie delle
vere e
proprie soap opera. Litigi, riappacificazioni, inganni, tradimenti,
parentele
insospettabili che spuntavano come funghi ma alla fine tutto si
concludeva
sempre e solo con il coronamento del sogno d’amore dei due
protagonisti che si
univano in matrimonio in un tripudio di coriandoli ottenuti
spezzettando decine
di fazzoletti e squilli di trombe malamente emulate da una Zoe
obbligata a
suonare una trombetta da party in plastica.
Il sole
stava calando e così facendo rifletteva le sue sfumature
rosate e aranciate
tutto intorno rendendo quella campagna così cara a me ancora
più incantata. Quel
paesaggio avrebbe ispirato i migliori poeti inglesi romantici e ne
sarebbero
scaturiti dei versi immortali.
Peccato che
Keats fosse morto ormai da anni e io non spiccassi certo per le mie
doti
liriche.
Mi incamminai
verso casa consapevole del pomeriggio perso ad oziare e a rimuginare
inutilmente su quel grande pasticcio che era ultimamente la mia vita e
della
notevole quantità di lavoro arretrato che mi attendeva.
Mi ero
ostinata nel mio proposito di poter risolvere tutto da sola e non mi
ero
confidata con nessuno. Zoe era sempre mia ospite e nonostante le sue
continue
lamentele sul caldo, gli insetti e il sole non aveva ancora parlato di
partenze
e la cosa mi aveva preoccupato perché mia sorella era una
nomade e l’unico
posto dove amasse fermarsi per un po’ di tempo era la sua
baita di montagna
sperduta tra muschio e roccia. Donovan mi osservava in silenzio,
aggrottava la
fronte più del solito interrogandomi con lo sguardo e mi
scrutava con
attenzione in attesa di un possibile crollo emotivo o perlomeno di una
qualche
reazione.
Ma io sono
bravissima in queste cose. Le emozioni forti, le urla, le crisi
isteriche non
facevano per me. O forse, più semplicemente, non le
riconoscevo come possibile
modo di reagire alla tensione perché non mi ero mai trovata
in una situazione
simile. Avevo ibernato il mio cuore, mi ero raccontata che quello che
avevamo
io e Theo era quello che le persone chiamano amore e mi ero
accontentata.
Sarebbe come
crescere un bambino a broccoli e riso in bianco e raccontargli che sono
i cibi
più deliziosi al mondo, che nulla li supera in
bontà e squisitezza. Non avendo
mai provato ad assaggiare un gelato o un piatto di spaghetti lui si
convincerà
che i broccoli e il riso in bianco siano davvero il top che la
l’arte culinaria
abbia mai prodotto.
Mancanza di
termini di paragone. Ecco, questo probabilmente mi aveva sviato per
tutti
questi anni.
Non volevo
essere cattiva nei confronti di Theodore, non potevo recriminargli
nulla in
fondo. Lui mi aveva sempre offerto il tipo di affetto che lui poteva
dare,
nulla di più, nulla di meno. Non mi aveva mai fatto
promesse, mi era stato
accanto nel suo modo caratteristico sempre un po’ distante e
distratto, ma non
era mai sparito, non mi aveva mai fatto mancare il suo supporto e mi
aveva
sempre tenuto la mano quando ne avevo avuto bisogno.
Per me
quello era stato fondamentale e mi aveva permesso di sorvolare sulla
nostra
lontananza, sulla sua mente sempre impegnata su qualunque cosa non
fossi io e
sul suo modo di fare sempre formale e poco familiare.
Ero stata
felice, forse in un modo diverso da quello che mi ero sempre aspettata,
ma lo
ero stata. Soprattutto all’inizio quando tutto era ancora
nuovo e da scoprire e
Theo ai miei occhi era ancora il timido assistente del professore.
Cambiai strada
per evitare di dover passare accanto al giardino di Mr. Liam e non
appena
raggiunsi il portico percepii qualcosa di diverso dal solito. La porta
finestra
e la zanzariera erano chiuse entrambe, le ante socchiuse e non
c’erano più gli
scarponcini sporchi di terra di Zoe allineati ai miei appoggiati al
battiscopa.
Pescai le chiavi
di scorta da dietro la casetta per uccellini che tenevo affissa alla
colonna
centrale del portico, in verità nessun volatile si era mai
sognato anche solo
di avvicinarsi a quella mia creazione ma tentar non nuoceva, e aprii la
doppia
porta.
«Zoe?»,
chiesi
alla penombra solcata da leggeri spicchi rosso fuoco che penetravano
dalle
persiane. Feci un paio di passi, lo sguardo sul divano vuoto, il
tavolino basso
sgombro dalla solita pila di appunti per la bozza di nuove storie e
racconti
horror, la veranda deserta e i fili del bucato spogli da magliette nere
svolazzanti.
Così
com’era
venuta ora s’era andata.
Come faceva
sempre non aveva avvertito, non aveva chiesto il permesso, non aveva
detto
addio. Aveva raccolto le sue poche cose, le aveva impacchettate e si
era chiusa
la porta alle spalle.
Sul tavolo
della cucina trovai un rapido bigliettino scribacchiato sul retro della
busta
dell’ultima bolletta del gas consumato nell’ultimo
bimestre.
È
giunta l’ora di tornare a casa. Ho mille
idee che mi frullano in testa ma non riesco a capire cosa vogliono
dirmi con
tutto questo tripudio di cinguettii, fiori e raggi di sole a
circondarmi. Non voglio
correre il rischio di trovarmi a scrivere una storia d’amore
tra una
giardiniera e un avvocato affascinante che calpestava incurante il
prato della
suddetta giardiniera, perciò me ne torno tra le mie amate e
crudeli vette in
modo da poter creare qualche nuovo pervertito psicopatico con cui
dilettarmi per
qualche centinaio di pagine.
Smettila di
pensare troppo e fai
qualcosa, qualunque cosa essa sia.
Z.
P.S. Non
chiamarmi per il prossimo
mese: devo concentrarmi e per farlo sarà necessario che
tagli i fili del
telefono e disdica la connessione internet.
P.P.S.
Ovviamente ti voglio bene e
tante cose carine e fiocchettose varie, bleah!
Sorrisi,
invidiando il carattere fiero e imprevedibile di mia sorella.
Non si era
mai curata del giudizio degli altri, delle convenzioni e delle
aspettative e
sembrava dannatamente felice così. Aveva trovato la sua
dimensione, la sua casa
ed era riuscita a trasformare la sua aspirazione in realtà,
anzi, aveva fatto
di più, l’aveva trasformata in un successo che le
fruttava migliaia di dollari
e di fan cerebralmente instabili che la adoravano. Non che a lei
interessasse,
aveva sempre affermato che l’unico scopo dei suoi libri era
che piacessero al
lettore più importante e intransigente di tutti: lei stessa.
Se fosse stata
meno severa nei confronti del suo operato probabilmente ora la sua
bibliografia
consterebbe di trenta volumi e non di sole quattro opere.
Spalancai tutte
le finestre facendo entrare più luce possibile e riposi la
busta con il
messaggio di Zoe nel mio quadernone dei ricordi che era prossimo alla
disintegrazione tanto era consunto e pieno fino a scoppiare. Ero sempre
stata
una di quelle persone che amavano accumulare e conservare qualsiasi
cosa, da un
biglietto del tram ad una fototessera di mia nonna
all’età di quindici anni.
Degli schiamazzi
provenienti dal retro della casa mi distolsero dalla folla idea di
provare a
imitare quell’enorme chignon frutto di cotonatura e fiumi di
lacca che
acconciava i capelli di nonna nei lontani anni Cinquanta.
Mi sporsi
fuori dalla finestra per vedere se mi ero immaginata il tutto o
qualcuno aveva
appena strillato e quando, in risposta al silenzio che mi accolse,
stavo per
ritirarmi in casa chiudendo i vetri, delle piccole urla mi fecero
tornare sui
miei passi.
Uscii in
giardino cercando di capire da dove provenissero ma di nuovo non sentii
altro
che il fruscio delle fronde del salice e il canto di qualche grillo
già in
azione visto l’orario quasi serale.
Mi allontanai
da casa mia, addentrandomi nel verde in direzione della mia piccola
serra e del
muretto di recinzione. Il rumore di un pianto lieve, come trattenuto, e
di
alcuni singhiozzi disperati furono la stella cometa che mi condusse al
retro
della parete di vetro che stava a nord, dove, accucciata a terra, stava
una
bambina.
Aveva degli
enormi occhi grigi spalancati e appannati dalle lacrime che le
scendevano
copiose, un dito infilato in bocca e le ginocchia graffiate.
Mi avvicinai
piano e non appena entrai nel suo campo visivo la piccola fece un balzo
e si
gettò verso di me, aggrappandosi disperata alle mie gambe e
nascondendo il viso
contro i miei jeans.
«Hei,
cosa
succede? Shhh, tranquilla, va tutto bene…», mi
abbassai per poterla abbracciare
stretta e calmarla cullandola piano.
Sentivo le
sue piccole mani intrecciate dietro il mio collo e il suo respiro
accelerato
dallo spavento.
«Ci
sono qui
io adesso. Cosa ti ha fatto paura?», le chiesi allontanandola
leggermente da
me, nonostante le sue mani non accennassero a lasciarmi andare, e le
asciugai
piano le guance.
«Un
brutto
insetto…», mormorò guardandosi attorno
circospetta.
Sorrisi pensando
alla medesima reazione che aveva avuto Zoe due settimane prima quando
aveva
trovato una cavalletta sul davanzale, solo che lei invece che piangere
aveva
strillato fino a rimanere senza fiato e aveva fatto sfoggio di tutto il
suo
vocabolario di parolacce e improperi.
«Vieni,
entriamo dentro la serra. Qui non ci sono brutti insetti ma solo i
buonissimi
frutti di bosco che io coltivo…», le spiegai
afferrando la sua mano e facendole
strada nell’ambiente umido della serra.
Era ancora
presto per le fragole ma c’era già un profumo
dolciastro a permeare tutto lo
spazio, sperai che questo non avesse attirato troppe api altrimenti mi
sarei
ritrovata a fronteggiare una nuova crisi infantile.
«Come
ti
chiami?», le chiesi mentre la facevo sedere su una delle
poltroncine di vimini
che avevo posizionato accanto all’entrata per creare una
sorta di piccolo
salotto.
Lei si
accomodò tutta impettita con la schiena, facendo attenzione
a non appoggiare la
schiena e la testa allo schienale.
«Arabella.
Posso
avere un fazzoletto, per favore?», mi rispose guardandomi
attentamente. Percepii
i suoi occhi su tutta la mia figura e vidi chiaramente il suo nasino
storcersi
di fronte alle mie scarpe di tela macchiate di terra e quei pozzi grigi
si
spalancarono quando si accorsero che stavo indossando degli shorts
ridicolmente
corti.
Come poteva
una bambina così piccola farmi sentire a disagio?
Allungai una
mano nella tasca sul retro dei miei pantaloncini e ne sfilai un
fazzoletto,
spiegazzato ma pulito.
Glielo porsi
ma lei, invece di prenderlo e soffiarcisi il naso, mi
domandò se ne avessi un
altro.
«Questo
andrà benissimo se davvero ne hai bisogno», la
ripresi senza accennare ad
assecondare quello che ai miei occhi era un semplice capriccio.
«Allora
non
lo voglio!», squittì guardandomi storto.
Era evidente
che non fosse abituata a non essere accontentata in tutte le sue
richieste
pretenziose.
Sbuffai,
feci un paio di passi nella sua direzione e mi chinai verso di lei.
Dispiegai il
fazzoletto e delicatamente le pulii il nasino appiccicaticcio.
Lei
tentò di
divincolarsi ma io ero stata più rapida e soddisfatta mi
lasciai cadere sulla
poltrona di fronte alla sua, il fazzolettino incriminato già
fatto sparire
nella mia tasca.
«Avevo
detto
di no», mi fece notare imbronciata lei.
Alzai le
spalle con fare noncurante, «Devo aver capito
male…»
Indossava un
vestito di organza color celeste, più adatto ad una festa di
battesimo che ad
una scampagnata.
«Ti
sei
persa Arabella? Cosa ci facevi nel mio giardino?», la
interrogai cercando di
capire da dove fosse arrivata quella piccola principessina che ora
stava
guardando con espressione di disgusto una piccola macchia
d’erba sulla punta
della sua scarpetta di lucida vernice bianca.
Lei
sollevò
lo sguardo e mi guardò curiosa, «Come ti
chiami?»
«Felicity»
La vidi
annuire tra sé e sé come se la mia risposta le
avesse confermato qualcosa che
aveva già immaginato da sola.
Quella bambina
era decisamente atipica e mi intimoriva leggermente.
«Quanti
anni
hai?»
«Non
te l’hanno
insegnato che non si chiede mai l’età ad una
signorina?», mi rimproverò
corrugando le sue sopracciglia chiare e scuotendo la testa di boccoli
castani.
Per un
attimo restai senza parole e mi limitai a fissarla interdetta mentre
dentro di
me mi domandavo sulla possibilità di trovarmi di fronte ad
un cyborg con le
sembianze di un’angelica bambina.
«Sì,
ma non
sono mai stata molto obbediente. Facciamo così: tu mi dici
quanti anni hai e io
farò lo stesso, ok?», le proposi curiosa di sapere
quanti anni aveva quel
piccolo robot…ehm volevo dire bambina.
Lei socchiuse
gli occhi come se stesse riflettendo sulla possibilità che
stessi cercando di
ingannarla in un qualche modo subdolo e alla fine acconsentì
mettendo come condizione
che fossi io la prima a rivelare quel grandissimo segreto che
costituiva la mia
età anagrafica.
Quando le
rivelai
che avevo ventisei anni non reagì e si limitò ad
inclinare il capo e a lanciare
un altro sguardo stranito ai miei calzoncini di jeans.
«Io ne
ho
cinque ma tutti dicono che sembro più grande»,
affermò orgogliosa come se fosse
naturale che una bambina a cinque anni fosse già scontenta
della sua età e
desiderasse essere più grande.
L’aspetto
era quello di una bambina di cinque anni ma il comportamento era quello
di un
piccolo adulto e non sapevo perché ma la cosa mi metteva
addosso una tristezza
infinita.
«Ora
mi vuoi
dire cosa ci facevi nel mio giardino?», le domandai
più dolcemente.
«Mi
annoiavo
e ho deciso di fare una passeggiata…»,
spiegò vagamente prima di alzarsi in
piedi, sistemarsi il vestitino, lanciare un’ultima occhiata
preoccupata alla
scarpetta rovinata e chiedermi se poteva fare un giretto esplorativo
della
serra.
Annuii contenta
e mi alzai a mia volta. «La tua casa ha un
giardino?», chiesi mentre accendevo
le luci e recuperavo il mio fido innaffiatoio.
«No.
Abito in
un loft in città e mia mamma trova la natura sporca e piena
di microbi»
Seguii con
lo sguardo quella piccola testa castana aggirarsi tra le file di
piantine di
ribes e di more. Mi ricordava qualcuno ma non avrei saputo dire chi.
Quella sua
affermazione mi fece arrabbiare ma era inutile tentare di prendersela
con la
piccola, se aveva una madre idiota la colpa non era certo sua.
Evidentemente Arabella
era stata plasmata dalle idee della sua scellerata genitrice
perché mentre
camminava tra tutto quel verde sembrava estremamente a disagio.
«Io
faccio
la giardiniera e trovo la natura meravigliosa. Vieni qui, Arabella, e
guarda…»,
aspettai che mi raggiungesse prima di indicarle la piccola fragolina
pallida
che faceva capolino tra le foglie di una piantina. «Da un
seme la natura ci ha
regalato ciò: una nuova vita, un succoso e delizioso frutto,
altri semi per
continuare il ciclo di bellezza e magia. Tutto questo è
bellissimo non trovi? Vivevamo
in mezzo a tutto questo splendore e poi mano a mano che ci evolvevamo
ce ne
allontanavamo. E così siamo passati dal vivere nella natura
allo sfuggire da
essa dentro a strutture di cemento e ferro. Ti pare sporco quello che
vedi?»,
le porsi l’innaffiatoio e la aiutai a sostenerne il peso
mentre l’acqua bagnava
le radici della piantina.
«Quindi
tu
puoi mangiare queste fragole?», domandò la piccola
guardando con occhi
spalancati quel piccolo frutto ancora acerbo.
Capivo lo
stupore, era lo stesso che io provavo ancora ogni volta che il mio
giardino e
il mio orto mi facevano dono di qualche nuovo e gustoso frutto o
ortaggio. L’uomo
poteva benissimo sopravvivere senza i supermercati, senza
l’allevamento
intensivo, senza i pesticidi e i prodotti chimici. Lo aveva fatto per
secoli:
cibarsi di quello che si coltivava, con fatica, sudore e tempo.
«Mi
piacciono le fragole. Mamma però è allergica
quindi Mercedes non le compra mai»,
mi disse quasi sovrappensiero.
Più
parlava
di sua madre meno quella donna mi piaceva.
«Bè,
se mi
dicessi da dove sei arrivata potrei regalartene un cestino quando
saranno
mature…», le proposi strizzandole
l’occhio.
Lei si
illuminò tutta all’idea e mi sorrise entusiasta.
«Arabella?»
Una voce
attutita dalle pareti di vetro ci raggiunse e la bambina
sbuffò a questo suono.
La presi per
mano e spensi le luci prima di uscire nuovamente all’aria
aperta.
«Non
voglio
andare da lui! Sta sempre al telefono e io mi
annoio…», protestò la bambina
puntando i piedi e rifiutandosi di seguirmi.
Sospirai
rassegnata,
chiedendomi che razza di genitori avesse quella poveretta, e mi fermai
per
potermi inginocchiare accanto a lei e convincerla a ragionare.
«Suvvia
tesoro, non puoi -»
«ARABELLA!
Questa
volta hai esagerato! Quante volte ti- …Felicity? Cosa ci fai
tu con lei?»
Alzai lo
sguardo e incrociai due occhi grigi che mi scrutavano interrogativi.
Occhi grigi.
Chinai lo
sguardo e fissai i medesimi occhi sul volto della bambina che mi stava
di
fronte con un’espressione preoccupata e una mano tra i miei
capelli.
«Io…bè…non
sapev-…come potevo-…»
«Papà,
lei è
la mia amica Felicity. Tu la conosci?», mi interruppe
fortunatamente la
piccola.
Liam Carter
Wright annuì grave e allungò una mano, chiaro
invito a seguirlo.
«Promettimi
che ti ricorderai delle fragole. Per favore…», mi
implorò Arabella stringendo
le mie ciocche dorate e fissandomi con uno sguardo triste.
«Certo
che
me ne ricorderò! Torna a trovarmi e mi raccomando: non
rivelare a nessuno
quanti anni ho», scherzai abbracciandola piano e respirando
il profumo di
albicocca che emanava la sua pelle.
Lei
ridacchiò
contro il mio collo prima di staccarsi e prendere la mano del padre.
«Nessuno
lo
saprà mai. Segreto segretissimo!»
Li guardai
incamminarsi mano nella mano e fissai quell’uomo
così alto legato a quel
piccolo esserino avvolto in un fatato vestitino azzurro e poco prima di
sparire
alla mia vista vidi Mr. Liam voltarsi a cercare il mio sguardo, gli
occhi
dispiaciuti e terribilmente belli.
Papà.
Accidenti!
|
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Capitolo 10 *** Fiori di lillà ***
Liam
«Sono
le dieci e quaranta, Mr. Carter
Wright. Tra meno di venti minuti avrà inizio l'udienza; non
voglio metterle fretta
ma deve ancora chiamare quelli della Brooks & Brooks e leggere
l'ultimo
fascicolo su Mr. Fry...». Diane era terribilmente irrequieta
quella mattina e
il suo continuo andirivieni dal mio ufficio accompagnato agli sguardi
preoccupati che mi lanciava di soppiatto, convinta che io non me ne
accorgessi,
non aiutavano certo a calmare i miei nervi già a fior di
pelle.
Lasciai
perdere la mail che da dieci
minuti buoni stavo cercando di concludere con scarso successo e alzai
esasperato lo sguardo. «Cosa c'è ancora,
Diane?»
Mi
guardò dubbiosa, gli occhi
indagatori e le braccia strette attorno alla sua, o per meglio dire
mia, agenda
voluminosa.
«Non
ha messo la cravatta stamattina.
Chiamo Inés e le chiedo di portargliene una? Grigio scuro?
Vuole anche una
camicia bianca pulita?»
Abbassai
lo sguardo e fissai stranito
il cotone verde pallido della camicia che indossavo, camicia che non
ricordavo
neanche di possedere.
Che
mi stava succedendo?
«Lascio
fare a te, Diane. Ora per
favore concedimi un minuto di respiro», la congedai
infastidito.
Mi
pentii quasi subito del modo
scortese con cui mi ero rivolto a quella santa donna che era la mia
segretaria.
Probabilmente se io fossi stato nei suoi panni mi sarei già
macchiato di
omicidio nei confronti del mio caro superiore, ovvero il sottoscritto.
Dovevo
apparire davvero insopportabile
agli occhi degli altri: posizione di spicco, conto in banca
straripante, auto
di lusso e resort esclusivi. E stronzaggine acuta inclusa nel pacchetto.
La
triste verità però era un'altra:
avvocato ultratrentenne, divorziato con figlia, pochi amici, famiglia
lontana e
un appartamento vuoto.
Mi
domandai da quando fossi così
diventato un amante dell'autocommiserazione. Mi ero sempre goduto
quello che
avevo, forse lo avevo fatto in modo superficiale ed egoistico, ma mi
bastava
così, mi andava bene così.
Allora
cos'era cambiato? Quando avevo
iniziato ad aspirare ad una vita che assomigliasse di più a
quella dei miei
genitori? Sembrava un controsenso, aspirare ora, a trentaquattro anni,
alla
vita da cui a diciotto era fuggito senza voltarmi indietro.
Eppure
ci avevo già provato e il
fallimento si palesava sotto forma dell'assegno di mantenimento a tre
zeri che
ogni mese dovevo versare per mantenere una figlia che non conoscevo e
una ex
moglie verso cui non provavo altro che rancore.
Tiffany
era una spocchiosa ragazzina
abituata ad avere un'autista da schiavizzare e un padre con cui
bastavano due
moine per poter spillare continuamente denaro.
Eppure
era terribilmente bella. Si
aggirava per il campus a mento alto, i sandali che ticchettavano al suo
passaggio e uno sguardo altezzoso celato dalle lenti scure di un paio
di ampi
occhiali da sole con la montatura ad ali di farfalla.
Ai
miei occhi di ragazzo povero di
provincia lei rappresentava tutto ciò a cui io aspiravo.
Ovviamente io ai
tempi, matricola con le camicie in flanella e i libri di seconda mano,
non
avevo alcuna possibilità di avvicinarmi a lei e
così mi limitavo a fissarla di
soppiatto come si fa con gli animali più rari ed esotici
allo zoo.
Tutto
cambiò quando Mildred, migliore
amica di Tiffany, iniziò a frequentare Matt e
così, grazie ad un'uscita a quattro,
ci ritrovammo per la prima volta faccia a faccia.
Il
nostro primo incontro fu
disastroso, lei si limitò a salutarmi con fare altero dopo
che ci presentarono
l'uno all'altro e poi passò tutta la sera a bisbigliare
all'orecchio di
Mildred, a fissarsi le unghie laccate di smalto lucido e a rigirare nel
piatto
le tre tristi foglie di insalata che aveva ordinato per cena.
Passarono
due anni, Matthew e Mildred
tra alti e bassi continuavano a stare insieme, io avevo aggiunto due
corsi
sulla finanza al mio programma di giurisprudenza e mi ero trovato un
secondo
lavoro presso il bar vicino all'università.
Tiffany
l'avevo intravista spesso
alle poche feste a cui partecipavo e ad seminario sul marketing ma non
eravamo
mai andati oltre un paio di cenni di saluto distratti. Non avevamo
assolutamente nulla in comune se non i drammi d'amore periodici che
vivevano i
nostri migliori amici e perciò non avevo mai tentato di
iniziare una
conversazione.
Poi
una sera di marzo, un temporale
terribile a squarciare il cielo notturno e la sala del bar semi
deserta,
qualcosa era cambiato. Stavo sciacquando due boccali di birra mentre
alla radio
davano una vecchia canzone degli Smiths quando la porta si era
spalancata e
insieme ad una folata d'aria gelida aveva fatto il suo ingresso Tiffany.
Aveva
i capelli umidi, il viso dal
trucco sbavato e un impermeabile leggero completamente fradicio.
Ricordo ancora
come il suo portamento sempre fiero ed elegante riusciva a non farla
apparire
mai fuori posto, nonostante gli occhi arrossati o il look non proprio
da prima
pagina come al solito.
Ancora
oggi sono convinto che uno può
credere quello che vuole sul fatto che il destino sia già
scritto o meno ma
quella fu una mera coincidenza giocataci dal caso. Quella sera non ero
di turno
ma avevo dovuto sostituire all'ultimo momento il mio collega che si era
beccato
la mononucleosi per la terza volta nel giro di due mesi e in seguito
scoprii
che Tiffany si era gettata proprio in quel locale e non in quello di
fronte per
il semplice fatto che la nostra insegna aveva un aspetto più
elegante e
signorile.
Non
mi riconobbe subito. Si sedette
al bancone, lo sguardo fisso nel vuoto, e quando le domandai cosa
potessi
portarle mi chiese un thè caldo senza zucchero. Quando
glielo servii mi
ringraziò senza guardarmi negli occhi e iniziò a
mescolare distrattamente il
liquido ambrato nella tazza di fronte a lei. La osservavo in silenzio
mentre mi
domandavo cosa potesse essere successo per portare Tiffany Kennedy ad
abbandonare il suo solito aspetto impeccabile e il suo atteggiamento
fiero.
«Potrei
avere una fettina di
limone?». Lo chiese piano, così piano che
inizialmente la sua voce si confuse
con quella di Joni Mitchell che cantava in sottofondo e io pensai di
essermelo
immaginato.
Pescai
un limone abbandonato nelle
profondità del frigorifero del bar, locale non solitamente
frequentato da
avventori che ordinavano tisane calde, lo affettai e, dopo aver
disposto
qualche spicchio su un piattino, glielo servii.
«Hai
corretto il mio thè, vero?»
Alzai
lo sguardo e per la prima volta
incontrai quegli occhi così glaciali da mettere a disagio
chiunque avesse il
coraggio di fissarli a lungo. Annui quasi imbarazzato ma non guardai
altrove,
deciso a non mostrarmi più debole di lei.
Dopotutto
non era altro che una
viziata figlia di papà a cui importava solamente di
sé stessa, continuavo a
ripetermi nella mente ricordando tutte le parole poco lusinghiere con
cui Matt
si rivolgeva a lei quando ne parlava.
«Ne
avevo bisogno, grazie», mormorò
sempre bisbigliando come se ci trovassimo in un luogo in cui dovessimo
rispettare il silenzio. Poi corrugò la fronte e mi
indicò, «Io ti conosco,
vero?»
Disse
proprio così e io mi sentii
l'essere più patetico sulla faccia della terra. Io di lei
sapevo praticamente
tutto mentre lei neanche si ricordava di me.
«No.
Sono amico di Matthew e conosco
Mildred...», risposi allontanandomi da lei e tornando verso
il lavello e le
poche stoviglie che ancora attendevano di essere lavate.
Già
ai tempi io e Mildred ci
detestavamo cordialmente nonostante ci sforzassimo di mantenere sempre
una
patina di forzata cordialità quando ci trovavamo l'uno in
presenza dell'altra.
Ad
anni di distanza posso
tranquillamente affermare che Mildred continuerà a non
piacermi anche se in
fondo potrei quasi considerarla un'amica ormai. Lei sicuramente si
considera
tale nonostante la scarsa gentilezza e le battute al vetriolo che
continua a
dedicare solo al sottoscritto.
Tiffany
quella sera era diversa,
probabilmente meno concentrata sul suo ego rispetto al solito o forse
solo
bisognosa di traslare la sua attenzione su qualcosa che non fossero i
suoi
problemi, e così si alzò e si
posizionò sullo sgabello di fronte al lavandino
dove mi trovavo io, palesemente intenzionata a non lasciarmi stare.
«Io
ti conosco. E so anche il tuo
nome...Louis? Neil?»
«Liam»
Lei
sorrise come per scusarsi della
sua dimenticanza e si sporse verso di me. «Hai degli occhi
bellissimi. Chissà
perché a Mildred è piaciuto di più
quel broccolo di Matthew e non tu...»,
borbottò pensosa mentre con un dito seguiva il bordo della
tazza in ceramica.
Iniziò
tutto così e ancora oggi a
volte mi domando come sia possibile che nel giro di due anni mi fossi
ritrovato
incastrato in un matrimonio che mi avrebbe portato a demonizzare in
futuro
qualsiasi tipo di amore a lungo termine.
Tiffany
mi aveva prosciugato anima e
corpo e per questo non l'avrei mai perdonata. Erano passati quattro
anni dalla
nostra separazione e ancora non avevo fatto pace definitivamente con me
stesso,
colpevole di averle permesso tutto quel potere su di me.
Lei
voleva sempre di più e io avevo
tentato in tutti i modi di offrirglielo ma i primi anni erano e sono
duri per
ogni neolaureato che non abbia già le spalle coperte da una
famiglia influente
e benestante e così quello che facevo non bastava mai.
Quando era arrivata
Arabella eravamo già in crisi da tempo e l'idea che un
bambino avrebbe potuto
riavvicinarci era stata un abbaglio. Non fece altro che sottolineare le
nostre
idee agli antipodi e mettere in luce l'ambiente completamente diverso
da cui
provenivamo.
Sono
stato un pessimo padre ma non ho
mai saputo come comportarmi nei confronti di quella bambina innocente,
mia
figlia, verso cui ho sempre provato un senso di colpa che probabilmente
superava l'affetto paterno. Io e Tiffany eravamo colpevoli per aver
voluto
mettere al mondo quel piccolo essere per guarire i nostri problemi e
alla fine
tutto era andato in frantumi, come era prevedibile, e Arabella, a solo
un anno
di vita, si era trovata con due genitori separati che non sapevano
minimamente
cosa volesse dire fare da madre e padre.
Non
avevo neanche tentato di tenere
Arabella con me, avevo paura che il tutto si sarebbe concluso solo con
il
trascurarla e il delegarne le veci di genitore alla povera
Inés e non volevo
farle vivere l'incubo di una battaglia legale per l'affidamento tra me
e sua
madre, e così avevo accettato passivamente che andasse a
vivere in California
con Tiffany e i Signori Kennedy e mi ero accontentato delle quattro
settimane
annuali stabilite dal giudice che mi spettavano.
Crescendo
a miglia e miglia di
distanza da me, Arabella si era fatta sempre più distante e
ogni volta che
veniva a trovarmi mi accorgevo sempre più di non conoscerla.
Non sapevo cosa le
piacesse fare nel tempo libero, quale fosse il suo cartone animato
preferito o
quale gusto di gelato prediligesse. I nostri weekend si trascinavano
nel mio
imbarazzo di fronte all'incapacità di farle da padre e i
suoi lunghi silenzi
intervallati solo dalle poche parole che mi rivolgeva per chiedermi se
poteva
andare in bagno e quanto mancava al suo ritorno a casa.
Un
lieve bussare mi distolse da
quella marea di tristi riflessioni che mi aveva travolto.
«È
ora. Nell'antibagno le ho lasciato
camicia, giacca e cravatta e un'aspirina nel caso ne avesse bisogno. Il
taxi
l'aspetta all'ingresso sul retro», elencò Diane,
gli occhi sempre più colmi di
sincera apprensione mentre constatava che il fascicolo giaceva nella
stessa
posizione in cui lo aveva lasciato lei poco prima e che avevo riposto
la
cornetta del telefono in modo tale che risultasse occupato a chiunque
avesse
tentato di contattarmi. «Se posso fare
qualcos’altro…»
La
ringraziai e le assicurai che
aveva già fatto tutto il necessario e anche di
più in modo impeccabile come al
suo solito.
«Bene,
allora in bocca al lupo e si
rilassi: è il migliore nel suo campo e nessuno
può metterla in difficoltà se
lei dà il meglio di sé come al solito. Ci vediamo
più tardi», e con un sorriso
incoraggiante si eclissò discreta e silenziosa come sempre.
Avrei
dovuto dare una festa super
sfarzosa in onore di quella donna che da anni e anni mi sopportava, mi
sosteneva e si prendeva cura di me senza mai risultare inopportuna o
indiscreta. Diane era stata al mio fianco quando mi ero separato da
Tiffany e
non aveva mai sottovalutato il dolore che io cercavo di fingere di non
provare.
Sfilai
quell’orribile camicia verde,
colore che probabilmente solo mia sorella Judith avrebbe potuto trovare
elegante e indossabile, e mi vestii con gli abiti perfettamente
abbinati e
stirati che trovai nella stanza da bagno del mio ufficio.
Detti
una rapida occhiata alla mia
figura riflessa nell’ampio specchio, recuperai la mia
ventiquattr’ore e mi
avviai verso l’ascensore. Il taxi mi attendeva dove mi era
stato indicato dalla
mia efficiente segretaria e nel giro di pochi minuti mi ritrovai
immerso nel
traffico mattutino di Boston.
Avrei
potuto ripassare i dati più
specifici che avrei dovuto esporre nel corso del mio intervento in
tribunale ma
non ne sentivo il bisogno perciò per distrarmi estrassi il
telefono dalla tasca
interna della giacca dove lo avevo fatto scivolare poco prima.
Scorsi
annoiato le diciassette email
che mi erano arrivate nell’ultima ora, risposi rapidamente ad
un paio di esse,
le più urgenti, e chiusi la mia casella di posta. Sorrisi
nel vedere la foto
inviatami da Matt di suo figlio Gabriel sulla sua prima micro
bicicletta,
bardato da capo a piedi di protezioni in caso di caduta, che aveva
un’espressione
terrorizzata. Mi domandai se Arabella sapesse andare in bicicletta e mi
riproposi di demandarglielo la sera stessa.
Il
simbolo di una nuova mail illuminò
lo schermo del mio telefono e stavo per metterla in attesa come tutte
le altre
quando mi accorsi chi fosse il mittente.
Mr.
Liam,
Come
stai? Devo ammettere che
lo scoprire che hai una figlia mi ha lasciato un po’
interdetta. Perché non ne
hai mai parlato? È una bambina deliziosa e ti assomiglia
moltissimo, e non mi
riferisco solo a quegli enormi e bellissimi occhi grigi.
Ti
scrivo per chiederti se a
te e Arabella andrebbe di venire una sera a cena da me. Spero davvero
accetterete l’invito.
A
presto!
Felicity
***
Qualche
ora più tardi, dopo aver
lasciato l'ufficio ed essermi districato nel solito ingorgo serale di
persone
che rientravano a casa, raggiunsi il mio appartamento e mi ricongiunsi
con mia
figlia, permettendo così a Inés di tornare dalla
sua famiglia e prendersi una
pausa dall’occuparsi della mia di famiglia.
«Ti
sei divertita oggi?», domandai
alla bambina seduta a gambe incrociate sul folto tappeto chiaro in
soggiorno e
impegnata a colorare su un ampio quaderno.
Mi
sedetti alle sue spalle e ne
approfittai per liberarmi di giacca e cravatta. Sbirciai oltre le sue spalle minute
per osservare il
suo disegno.
C'erano
tre figure sul foglio: una
piccola, vestita di azzurro e con una grossa A disegnata sulla pancia,
e due
adulti. Una donna dai lunghi capelli castani etichettata con T e un
uomo con i
baffi che recava una panciuta R ricamata sulla camicia.
R
non L di Liam. Strinsi gli occhi
sorpreso dal dolore inaspettato che quel disegno e la mia apparente
esclusione
da esso mi aveva procurato.
Sapevo
benissimo chi fosse
quell'uomo, quei folti baffi a manubrio grigi non potevano appartenere
a
nessuno al di fuori di Mr. Reginald Kennedy. Che tra l'altro ancora mi
riteneva
il diretto responsabile di tutti i problemi della figlia e di riflesso
della
nipote. La verità era però un'altra: era stata
proprio Tiffany a mandare
all'aria tutto, sia la sua vita che la mia.
Suo
padre ai tempi della separazione
aveva inveito per giorni contro di me, lanciandomi accuse e
rivolgendomi
minacce. Erano passati quattro anni dall'ultima volta che avevo avuto
il
piacere di trovarmi al cospetto del vecchio Reginald e speravo con
tutto il
cuore che ne passassero altri cento prima che fossi costretto a
rivederlo.
Aveva
lo stesso carattere sanguigno e
impetuoso della figlia, la medesima radicata convinzione di essere
migliore
degli altri e una altrettanto fastidiosa spocchia.
«Inés
non sa cosa siano i My Little
Pony e dice che le Barbie sono stupide», borbottò
a mezza voce senza
distogliere la sua attenzione da pennarelli e matite.
Sospirai
pensando a quanto Inés
criticasse la società moderna e il materialismo che la
permeava. Me lo ripeteva
sempre: «Señor Liam, stiamo andando
così veloci che tra poco non sapremo più da
dove siamo arrivati e dove volevamo andare». Nonostante il
mio scetticismo
avevo sempre rispettato il lato più spirituale e quasi
profetico della mia
insostituibile governante.
Allungai
una mano verso il foglio
quadrettato che Arabella stava colorando e indicai la figura maschile.
«Com'è
il Nonno Reginald?», le domandai curioso di sapere cosa ne
pensasse quella
bambina così intelligente e seria di quel vecchio burbero e
capriccioso.
Mia
figlia smise di calcare la sua
matita rossa sulla carta e si fermò a riflettere.
«Non posso chiamarlo nonno,
solo Reggie, altrimenti si sente vecchio»
Quell'uomo
era sempre insopportabile
e lunatico come al solito a quanto pareva. Allungai le braccia e
sollevai
Arabella di peso per farla accomodare sulle mie gambe. Parlava come una
adulta
eppure non era altro che una bambina di soli cinque anni. Osservai quel
nasino
spruzzato di lentiggini e non potei fare a meno di pensare quello di
Felicity,
dalla forma meno infantile e più pronunciata ma altrettanto
grazioso. E a
proposito della mia giardiniera...
«Arabella,
ti piacerebbe andare a
cena da Felicity? Te la ricordi? La ragazza che hai conosciuto ieri in
campagna...», le proposi sperando con tutto il cuore che
dicesse di si o per lo
meno facesse un sorriso o dimostrasse un po' di quel sano entusiasmo
che
caratterizza i bambini.
Lei
mi sorprese e fece di più;
arricciò le labbra in un sorrisetto ironico e mi chiese:
«La ragazza delle
fragole? Quella che ti piace?»
I
bambini e la loro disarmante
sincerità. No, non li avrei mai capiti quei piccoli folletti
sempre persi tra
le nuvole eppure ancora capaci di vedere la realtà in modo
puro e autentico e
di provare stupore di fronte ad esso.
«Giusto,
la ragazza delle
fragole...», asserii ignorando volutamente la sua seconda
domanda, «Mi ha
chiesto se ti andrebbe di cenare da lei una sera di questa settimana:
che ne
dici?»
Lei
mi squadrò pensierosa prima di
controbattere chiedendo se a me avrebbe fatto piacere accettare
quell'invito.
Quella
bambina era decisamente troppo
intelligente e non sapevo se dedurre orgogliosamente da ciò
che il mio patrimonio
genetico poteva avere in qualche modo influito o se preoccuparmi per la
precocità di mia figlia.
Quegli
occhioni grigi, esatta copia
dei miei, mi fissavano attenti, in attesa di una risposta. C'era una
risposta
giusta e una sbagliata? Oppure per Arabella era lo stesso?
«È
stata gentile ad invitarci perciò
io pensavo di accettare ma prima volevo sapere cosa ne pensavi tu.
Questa
dovrebbe essere la nostra settimana e dobbiamo fare solo cose che ti
piacciono...»
La
piccola tra le mie braccia si aprì
in un ampio sorriso e per una volta sembrò semplicemente una
bambina senza
pensieri, «Allora andiamo! Sembrava simpatica anche se un po'
strana
Felicity...», esclamò appoggiando la testolina sul
mio petto e sbattendo le
ciglia di fronte al sole calante che penetrava dalla vetrata alle mie
spalle.
I
suoi soffici capelli castani mi
solleticavano il collo e il ritmo
regolare del suo respiro lieve mi mise addosso una serenità
che non provavo da
tempo. Restammo così per alcuni minuti che parvero
cristallizzare il tempo per
renderli il più infiniti possibile prima che Arabella
iniziasse a scalciare per
scendere dalle mie gambe e mi riportasse alla realtà.
«Papà,
ho fame!», esclamò con fare
imperioso tirandomi per la manica della camicia come ad esortarmi a
ricordare
quali fossero i miei doveri basilari in veste di genitore.
Le
chiesi se Inés avesse cucinato
qualcosa, nonostante sapessi già la risposta, e lei mi
raccontò per filo e per
segno tutti i passaggi più minuziosi per preparare
un’insalata di pollo e del
sorbetto ai frutti di bosco. Quando le consigliai di mettersi qualcosa
di
comodo per la cena, non volendo macchiare quello splendido abitino rosa
confetto e dare a sua madre un pretesto per incolparmi per una
sciocchezza, lei
mi guardò dubbiosa e ripeté esitante le mie
parole, come a volersi sincerare
della loro veridicità: «Cambiarmi il vestito?
Posso davvero?»
Guardai
senza capire mia figlia e lei
mi spiegò di come Tiffany e Reginald ci tenessero al fatto
che ci si vestisse
eleganti, o perlomeno con un po’ di cura in più
rispetto al giorno, per andare
a cena.
«Certo
che sì! Siamo in famiglia qui
e puoi vestirti come preferisci…Anzi, sai che ti dico?
Andiamo entrambi a
toglierci questi abiti scomodi, ok?». Le afferrai la mano e
la guidai verso la
sua camera, dove un ampio guardaroba laccato di bianco svettava
nell’angolo,
spalancai le ante dell’armadio per lei e una fila ordinata di
vestiti appesi
alle loro grucce si parò davanti ai nostri occhi.
Tutto
ciò era opera di Diane, alla
quale avevo chiesto l’ennesimo favore che eludeva dai suoi
compiti
professionali, che si era mostrata gentile e disponibile come al solito
e mi
aveva aiutato in quell’ardua impresa, nella quale io, se
fossi stato solo,
avrei fallito miseramente non avendo la benché minima idea
riguardo a cosa una
bambina di cinque anni potesse trovare carino da indossare.
Mia
figlia, poteva aver pure
ereditato da me la sua pronta intelligenza ma il suo essere una piccola
fashion
victim in fasce era da imputare solo e soltanto alla madre. La piccola
infatti,
mani posate sui fianchi e sguardo pensieroso, prese a osservare
attentamente
gli abiti di fronte a lei prima di indicarmene uno color pesca.
Sganciai la
gruccia e glielo mostrai ma lei si limitò a scuotere il capo
e a farmi cenno di
metterlo via. Ricordava tantissimo Tiffany e il suo atteggiamento da
principessina
e questo non poteva certo rassicurarmi.
«Papà?
Potresti prendermi in braccio?
Da qui non vedo nulla», mi domandò avvicinandosi
alle mie gambe e aggrappandosi
ai miei pantaloni. Mi chinai e la accolsi tra le mie braccia,
posizionandomi di
fronte all’armadio aperto per darle modo di avere una
panoramica completa del
suo contenuto.
«Che
ne dici di questa tuta in cotone
rosa?», le proposi pescando la prima cosa capitatami
sottomano.
Lei
per tutta risposta storse il naso
e sbuffò. «Papà! Cosa dici? Non
dobbiamo andare a fare ginnastica!». Il suo
rimprovero mi fece tornare alla mente lo stesso sentimento di
umiliazione che
provavo nei primi tempi del mio fidanzamento con Tiffany quando lei mi
trovava
impegnato a rammendare una calza o smacchiare una camicia e si metteva
a ridere
dicendo che le cose buche o sporche si cambiavano e basta.
Acciuffai
la tuta, chiusi l’armadio e
le feci appoggiare i piedi a terra. «Sei una bambina e i
bambini mettono le
tute quando sono in casa per stare comodi e poter giocare liberamente
senza
impicci. Forza, ora ti aiuto a sfilarti questo abitino da
principessa…», non
feci la voce cattiva ma non ce ne fu bisogno. Nel sentire il mio tono
fermo
Arabella abbassò la testolina e mugugnò un va
bene sottovoce.
Pochi
minuti più tardi, entrambi
vestiti in modo decisamente più casalingo, iniziammo a
preparare il tavolo per
la cena. Estrassi la tovaglia, rinunciando per una sera alla mia triste
tovaglietta di plastica, e la dispiegai sul tavolo e non sul bancone,
dove
solitamente consumavo in tempo record i miei pasti, a volte addirittura
senza
neanche sedermi. Arabella mi aiutò volentieri e fu una
collaboratrice molto efficiente
fino a quando iniziò a fare i capricci perché
pretendeva per sé quello che lei
chiamava il ‘coltello degli adulti’ e non quel
pezzo di plastica colorata per
nulla tagliente che era stato pensato per
l’incolumità dei più piccoli.
«Papà?».
Quando Arabella finì di
strafogarsi di insalata di pollo e patate, sembrava che quella bambina
non
toccasse cibo da mesi, posò la forchetta e si rivolse al
sottoscritto.
Continuai
a sbucciare la mela che
avevo tra le mani, con l’intenzione di farne delle fettine
per lei, e annuii,
in tacito segno di continuare.
Lei
allunga la sua piccola mano
paffuta e la posò sulla mia, senza stringere. «Ti
voglio bene», sussurrò
sorridendo subito dopo.
E
il mio cuore perse un battito.
***
Eravamo
partiti verso le sei, con il
sole ancora luminoso, e ci eravamo lasciati il traffico e lo
strombazzare dei
clacson alle spalle. Arabella sembrava molto entusiasta; aveva
insistito per
vestirsi elegante e aveva obbligato Inès a preparare un
cheesecake insieme.
Papà!
Non si va a casa di altre persone senza portare
nulla. Maleducato!,
mi aveva sgridato mia
figlia, facendomi sentire come un bimbo troppo birichino. E
così avevamo
impiattato e coperto la torta che ora riposava tranquilla sul sedile
posteriore, nonostante le continue occhiate apprensive che Arabella
continuava
a lanciarle.
«Piccola, non
scappa la torta! Goditi il
paesaggio piuttosto…», le consigliai indicandole
il finestrino sinistro, oltre
al quale scorreva un campo di fiori gialli.
Pochi
minuti più tardi svoltai nel
vialetto sterrato di fronte alla casa di Felicity, la quale ci stava
già
aspettando sotto il portico con una mano sulla fronte per ripararsi gli
occhi
dalla luce del sole che stava per tramontare.
«Benvenuti!
Arabella, è un piacere
rivederti! E che abito favoloso, sono quasi invidiosa. Mr.
Liam…», trillò tutto
d’un fiato non appena sganciai mia figlia dal suo seggiolino
e questa zampettò
in tempo record verso la ragazza.
«Anche
il tuo vestito mi piace.
Grazie per averci invitato!», cantilenò con un
sorriso a trentadue denti la
bambina non appena raggiunse il portico. «Ci saranno le
fragole per cena?»,
chiese poi speranzosa.
Felicity
scoppiò a ridere e, dopo
averle afferrato la mano, sparì dentro casa trascinando la
piccola con sé. Io
indugiai ancora un poco lì fuori, l’aria satura
dell’odore selvatico delle
piante e dei fiori e la luce rossastra del sole calante a ricoprire
come un’ombra
tutto quanto.
Quando
le raggiunsi Arabella stava
indossando un grembiule giallo da cucina, rimboccato più
volte sulla vita per
fare in modo che non toccasse terra, e con un mestolo di legno stava
mescolando
tutta contenta il contenuto di un’ampia ciotola.
«Mr.
Liam! Vieni ad aiutarci, su! Nessuno
se ne deve stare con le mani in mano…»,
strillò Felicity braccandomi da dietro
e imprigionandomi a mia volta in un grembiule troppo piccolo.
«Ti
fa da gonnellina, papà!», si
prese gioco di me mia figlia, la quale ormai aveva gettato impasto per
tutta la
cucina tanta foga metteva nel mescolarlo.
Quella
scenetta domestica mi fece
sentire a casa e mi ricordò la mia infanzia: Felicity
intenta a controllare il
timer del forno e a rimproverarmi perché me ne stavo
imbambolato con la pila di
piatti che mi aveva messo tra le mani invece di preparare il tavolo
secondo i
suoi ordini; Arabella scapigliata e felice, che ora era passata a
risciacquare
sotto l’acqua le foglie d’insalata a cui sembrava
più stesse facendo un
bagnetto nella vasca da bagno; ed io, grembiule ridicolo legato attorno
ai
fianchi e un senso di pace a pervadermi l’animo.
Quella
era casa.
Buongiooorno!
Questo
capitolo è sì
corto ma ho deciso di pubblicarlo ugualmente per festeggiare il
traguardo delle
1000 visite e letture che il primo capitolo di questa storia ha
ricevuto.
Dedicarvi un immenso grazie è poco e così vi
dedico questo capitolo e un
gigantesco abbraccio. Ammetto di essere incostante
nell’aggiornare e confesso
che questo capitolo mi suona ancora (nonostante ci abbia lavorato a
lungo per
non renderlo zuccheroso da diabete) un pochetto stucchevole ma
vabbè a voi il
giudizio ché tanto io sono sempre scontenta riguardo ai miei
scritti.
Ultimo
appunto: sto
scrivendo una nuova storia e se voleste farci un saltino vi regalerei
anche un
biscotto oltre che ad un abbraccio 💕
(http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3444659&i=1)
|
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Capitolo 11 *** Fragoline di bosco ***
Felicity
«Papà, ho
sonno…», aveva borbottando Arabella,
stropicciandosi gli occhietti grigi stanchi, una mezz’oretta
prima per poi
crollare sul divano.
Avevo spiato segretamente dalla
soglia della cucina Liam
posare delicatamente il corpicino della figlia tra i cuscini,
sistemarle il
plaid leggero che tenevo vicino al portagiornali sulle spalle e
accarezzarle i
boccoli sparsi. Avevo sorriso di fronte a quella scenetta e mi ero
ritirata in
silenzio verso il lavello e la pila di piatti sporchi che mi
attendevano.
Mr. Liam aveva poi insistito per
darmi una mano con le
stoviglie da lavare e così, dopo aver accostato la porta per
non disturbare la
bambina, avevamo iniziato a lavorare fianco a fianco. Io passavo la
spugnetta,
li sciacquavo sotto l’acqua tiepida e poi glieli passavo per
permettergli di
asciugarli ed impilarli in ordine. Non parlammo ma stranamente mi
sentii molto
più vicina a quell’uomo distante di quanto fossi
mai stata.
Una volta ripulita la cucina e i
fornelli gli proposi di
prenderci un caffè in veranda. Lo invitai ad andare ad
accomodarsi mentre io
preparavo il tutto. Gli preparai un espresso, prodotto dalla mia
macchina del
caffè di cui andavo veramente orgogliosa, e scaldai
l’acqua per la mia tisana
ai frutti di bosco. Aggiunsi all’ultimo qualche biscotto,
promettendo che poi
ci avrei dato un taglio con tutti quei dolcetti fuori pasto.
Quando lo raggiunsi notai che si
era seduto sulla
poltrona che solitamente occupavo io e quando si accorse del mio arrivo
distolse lo sguardo dal giardino buio e mi dedicò un tiepido
sorriso. Chissà se
quell’uomo sapeva ridere di tutto cuore…
«Da qui si riesce a
vedere il cielo che, tra l’altro,
stasera è bellissimo…»,
osservò tornando a guardare oltre le pareti in vetro.
Lo sapevo molto bene, avevo
passato notti intere
accoccolata su quella poltroncina in vimini a naso in su, gli occhi
rivolti al
firmamento.
Lui si stiracchiò, un
gesto che trovai estremamente
familiare e per questo insolito data la sua tradizionale compostezza, e
mi
confidò piano: «Da bambino sognavo di fare
l’astronomo. Scrutare per ore gli
astri, attendere mesi per poter vedere un pianeta in una determinata
posizione…»,
poi parve riscuotersi e aggiunse: «Ma era solo uno sciocco
desiderio infantile»
Allungai le gambe sul divano e
scossi la testa nella
penombra. «Non è vero, Mr. Liam. I sogni che si
hanno da bambini sono qualcosa
di puro e autentico. Io sto facendo proprio quello su cui fantasticavo
da
piccola: rendo belle le cose, omaggio la natura e regalo piccoli angoli
fioriti
alle persone»
«Non fai testo,
Felicity. Comunque tu avresti avuto le
spalle coperte. Io dovevo riuscire a diventare qualcuno. Dovevo
cambiare le
cose e per farlo mi servivano prestigio e soldi, certamente non
telescopi e
mappe di costellazioni!», ribatté, una punta di
frustrazione nella voce.
Quel suo commento iniziale mi
indispettì. Avrei dovuto
esserci abituata: da sempre le persone pensavano che in quanto di
famiglia
benestante fossi immune ad ogni problema. Mi sentivo giù?
Papà poteva regalarmi
una vacanzina ai Caraibi, no? Mi sentivo sola e incompresa?
Papà poteva
spedirmi dal miglior psicanalista del paese, giusto? Non era mai stato
così. Le
persone mi avevano sempre giudicato per quello che mio padre e mia
madre possedevamo
e non erano mai stati imparziali nei miei confronti. Come
può una ricca
ragazzina sentirsi malinconica? Ero consapevole che il mondo fosse
pieno di
persone veramente sfortunate e che io ricoprissi una posizione
privilegiata, ma
questo non toglieva il fatto che la mia vita non era stata comunque
sempre
tutta rose e fiori.
«Non fare anche tu
l’errore di vedermi solo come Ms. Van
Houten. Ci sono che tu non sai di me, perciò non permetterti
di dire certe
cose. Cosa credi? Io non sono proprio il tipo che dice
‘Vabbè, tanto Papino
finanzia quindi io di professione posso fare il lazzarone’,
speravo lo avessi
capito ormai…», esclamai amareggiata.
Mi rannichiai su me stessa, le
mani strette intorno alla
tiepida ceramica della tazza e gli rivolsi uno sguardo deluso. Lui
parve
pentirsi delle sue parole e si sporse verso di me: «Scusa,
non era mia
intenzione Felicity. Mi sono espresso male. Devi sapere che io sono
cresciuto
in una famiglia tanto numerosa quanto modesta. Non mi sarei mai sognato
di
possedere un’auto che valesse più di 2000$ e che
non fosse di terza o quarta
mano! Mai avrei potuto immaginare che sarei arrivato a possedere
più di una
casa o una barca. Condividevamo tutto e cercavamo di arrivare a fine
mese.
Calze buche e rattoppate per la centesima volta, zuppa leggermente
allungata e
sussidi statali erano la mia quotidianità. Io sono scappato
da quella vita,
probabilmente spaventato dall’idea di ritrovarmi in un batter
d’occhio ad
essere un padre di famiglia che faticava a sfamare i figli e a
garantirgli
un’istruzione basilare. Ho fatto tanti errori nella mia vita
ma non recrimino
certo i miei genitori, loro hanno fatto ben più di quanto le
loro possibilità e
la loro educazione permettesse. Ho lavorato, ho studiato notte e
giorno, ho
subito tantissime umiliazioni per arrivare dove sono ora e ne sono
fiero»
Ascoltai sempre più
sorpresa quel discorso così intimo
che veniva direttamente dalla parte forse più tormentata e
nascosta di
quell’uomo sempre lontano ed imperscrutabile. E
così capii, compresi che anche
lui era sempre stato giudicato per tutto quello che lo circondava e mai
per le
sue vere capacità. Era una situazione esattamente antitetica
alla mia eppure
entrambi avevamo reagito allo stesso modo: eravamo scappati.
Quasi senza accorgermene allungai
una mano e gli lasciai
una lieve carezza sul braccio. Lui a quel contatto alzò gli
occhi e mi dedicò
uno sguardo pieno di gratitudine e comprensione.
Non so perché ma mi
ritrovai a narrargli come fossi
davvero finita a
fare la giardiniera da
strapazzo. Gli raccontai di come, ad undici anni non ancora compiuti,
Papà
andasse a giocare a golf con il rettore di Harvard e insieme
progettassero di
inserirmi nel corso di legge avanzato con addirittura un anno di
anticipo e
senza neanche sottopormi ad un test attitudinale o un quiz selettivo
perché
tanto ‘è figlia tua e la genetica non
mente’. Mi ritrovai così, a sedici anni,
da sola in un loft a Cambridge, perché mia madre al solo
sentir nominare la
parola ‘studentato’ aveva borbottando qualcosa a
proposito di bande di
depravati, furti e festini alcolici, prima di simulare uno svenimento.
Avevo
passato sere intere a piangere al telefono con Zoe e a supplicare mio
padre di
farmi tornare a casa o almeno di permettermi di cambiare corso di
laurea. Trascorrevo
le notti sui libri di diritto penale senza capirci assolutamente nulla
e la mia
unica consolazione la trovavo nel prendermi cura della mia terrazzina
fiorita.
Al termine del primo anno, con il solo esame di lingua inglese passato
alle
spalle e un esaurimento nervoso che stava per avere la meglio su di me,
mamma
finalmente si era resa conto che così non si poteva andare
avanti e fece una
cosa per cui le sarò sempre grata: si oppose a mio padre. So
che può sembrare
un nonnulla ma voi non sapete cosa significhi avere a che fare con
Montgomery
Van Houten, non ne avete proprio idea. Abituato ad avere sempre il
controllo su
tutto e ad occupare una posizione di superiorità non
concepiva il fatto che
qualcuno avrebbe potuto ribellarsi ai suoi piani accuratamente redatti.
«Ammetto che persino io
mi sono sentito in soggezione di
fronte a tuo padre...Come si è risolta quindi la
faccenda?», mi chiese
interessato, sorseggiando il suo caffè ma non distogliendo
gli occhi attenti
dal mio viso.
Mi rigirai pensosamente una ciocca
si capelli tra le dita
mentre con la mente ritornavo a quella terribile estate fatta di
silenzi densi,
occhiate di disapprovazione e occhi segnati dalla stanchezza.
«Continuai a
frequentare giurisprudenza ma ottenni il suo benestare per affiancare
ad essa
anche degli studi paralleli e io scelsi botanica e scienze naturali. Da
lì in
poi le cose migliorarono decisamente: compresi quale fosse la mia vera
passione, riuscii a superare gli esami di legge e conobbi
Theodore…»
«Mi pare assurdo pensare
che hai studiato sugli stessi
banchi dove poco prima ero passato io; ci saremmo potuti conoscere anni
fa…»,
mormorò piano.
Gli rivolsi un’occhiata
in tralice: «Ti pare assurdo che
una ragazzina che per campare pianta fiorellini possa avere il tuo
medesimo
titolo di laurea conseguito nello stesso prestigioso
ateneo?», lo provocai con
tono di sfida.
Lui arricciò le labbra
in una sorta di buffa smorfia
prima di negare, ma vidi chiaramente il luccichio divertito nei suoi
occhi.
Balzai giù dal divano e
gli puntai un dito contro il
petto: «Mascalzone!
Davvero ti sorprende
questa cosa?»
Un pochetto ci rimasi male
perché non credevo davvero che
anche un uomo intelligente come Mr. Liam potesse cadere vittima di
quegli
sciocchi luoghi comuni che associavano sempre le persone con un lavoro
umile e
manuale ad un livello di istruzione irrisorio.
Lui mi imitò e, una
volta in piedi a sua volta, mi
ritrovai in una posizione di svantaggio, sovrastata com’ero
dal suo metro e
novanta. «Non avevo dubbi sul fatto che fossi sveglia, solo
non immaginavo lo
fossi più del sottoscritto. Non sopporto le persone
più in gamba di me, tutto
qui: pure manie di protagonismo», sussurrò piano
scompigliandomi i capelli
delicato.
Le mie labbra si stirarono
autonomamente in un sorrisetto
vittorioso: «Stavi apertamente ammettendo che sono
più brillante io? Oh, quale
soddisfazione! Anche se a tal proposito io non avevo mai avuto
dubbi…», mi
presi gioco di lui sollevando le sopracciglia e scuotendo la testa.
In quel momento si sentirono dei
passettini sul legno
chiaro della veranda e una vocina ci interruppe:
«Papà? Voglio anche io un
pesce come quello di Felicity, posso averlo? Papà?»
A quanto pareva George aveva fatto
colpo. Mi piegai sulle
ginocchia e sussurrai nell’orecchio della bambina:
«Quel pesciolino là dentro è
il mio migliore amico, sai? Ascolta tutto quello che ho da dire e non
è mai
scorbutico o distratto». Vidi i suoi occhi, ancora assonnati,
spalancarsi
nell’udire quel segreto e la sua piccola bocca si
aprì sorpresa senza però
emettere nessun suono.
«Poi chi se ne prende
cura quando tu non ci sei?», le
domandò Liam, come sempre troppo serio e preoccupato anche
per le più piccole
inezie.
Presi tra le braccia la bambina,
che si stava già
rabbuiando nel sentire la risposta del padre, e le sorrisi.
«Potrei tenerlo io
quando tu sei dalla tua mamma, che ne dici? Prometto di dargli sempre
la pappa
e Georgie potrà fargli compagnia, non è una bella
idea?»
Poco dopo mi lasciarono sola a
guardare i fari della loro
macchina che si allontanava. E mi ritrovai a provare un moto
d’affetto
incondizionato nei confronti di quella piccolina divisa tra due
genitori, tra
due case, tra due coste differenti di una nazione. Da piccola tremavo
ogni
volta che mia madre, dopo una lite con papà, minacciava di
lasciarlo. Ora penso
che non potrebbero mai davvero dividersi, sono entrambi poco pazienti,
nevrotici e convinti di essere persone cordiali ma di polso e insieme
formano
un duo indissolubile. Mio padre sarà sempre un uomo troppo
impegnato e sempre
pronto ad esprimere il suo dissenso tramite brontolii e sbuffi;
così come mia
madre sarà sempre leggermente schizofrenica e svagata.
Eppure è da anni e anni
che, non importa quanti chilometri li separino, si sopportano e si
continuano a
cercare. Montgomery Van Houten probabilmente odia il romanticismo tanto
quanto
il Grinch detesta il Natale eppure una volta mi ha confessato che
quando
viaggia per lavoro si ritrova sempre ad osservare le cose belle o
ridicole e a
pensare a quanto sarebbero potute piacere a Grace o quanto avrebbe riso
di
fronte a ciò. E io l’ho sempre trovata una cosa
semplicemente meravigliosa.
Era un qualcosa che mi aveva
sempre attratto il
matrimonio e il rapporto che questo racchiudeva. Quando due persone si
promettevano rispetto, fedeltà e sostegno nel bene e nel
male di fronte ad
un’autorità, laica o religiosa che fosse, erano
nel fior fiore
dell’innamoramento e non avevano la minima idea di quanto
quel sentimento
sarebbe potuto durare. Forse per sempre, forse un paio di anni. Quanto
sarebbe
durata quella felicità e quell’amore? Nessuno
poteva saperlo eppure si poteva
decidere di avere fiducia l’uno nell’altro e
provare ad affrontare il futuro
fianco a fianco. E io, Felicity Van Houten, era dalla tenera
età di quattro
anni che non aspettavo altro.
***
Da: l.carter.wright@gmail.com
A: felicity.vh@gmail.com
Object: A proposito di quel
pesce rosso…
Ora ho
una famiglia di
pesci che abita nel mio salotto. Mi chiedo di chi sarà mai
stata la brillante
idea…
Arabella
pare al
settimo cielo e prima di andare a letto (ha insistito per portarsi la boccia in camera) ha
voluto leggere loro
una favola della buonanotte.
Inutile
dire che ti
devo ringraziare, forse.
L.
Carter Wright
Nascosi
un
sorriso dietro il bordo ricamato della coperta leggera in cui ero
avvolta.
Avevo lavorato tutto il giorno sotto il sole cocente e quando
finalmente ero
tornata a casa mi ero ritrovata con un fastidioso mal di testa e la
sola voglia
di sdraiarmi ad oziare in compagnia di una vaschetta di gelato. Non
avevo la
concentrazione necessaria per riprendere la lettura della biografia di
Charles
Darwin, regalo pasquale di Theo, e non ero neanche dell’umore
adatto per
cucinare o riordinare casa. Volevo solo godermi un attimo di pace
usando meno
muscoli possibili.
E
quando aprii
la mia casella di posta elettronica e ci trovai quel messaggio ancora
chiuso in
attesa mi rallegrai tutta d’un colpo. Mi accorsi solo dopo
svariati secondi che
sotto a quello c’era un’altra bustina lampeggiante
il cui mittente era un certo
Prof. Theodore H. Graham.
Era la
prima
volta che mi scriveva da quando avevamo avuto quella sorta di lite via
etere
che si era conclusa con lui che si disconnetteva bruscamente da Skype
senza
neanche cercare di provare a riconciliarsi con la sottoscritta.
Nonostante fossi
curiosa di sapere cosa avesse da dire a proposito il signorino non
avevo
resistito e avevo deciso d’impulso di parcheggiarla per il
momento e aprire
immediatamente quella di Mr. Liam.
Mi
sentii per un
momento come una specie di Tata Matilda (magari un po’
più bellina, dai) con la
missione di mettere pace e una spruzzatina di gioia nella vita di Liam
Carter
Wright e della sua deliziosa figlioletta Arabella. Un po’ lo
invidiavo perché,
nonostante non avesse avuto la storia d’amore da favola,
aveva pur sempre una
dolce creaturina tutta sua di cui prendersi cura.
Nel
pensare a
ciò mi si imporporarono le guance dalla vergogna del ricordo
di quando avevo
accarezzato l’idea di mentire a Theo e fare in modo di
restare incinta a sua
insaputa. Era stato un pensiero terribile, egoista e meschino e mi ero
pentita
due secondi dopo averlo formulato eppure era da allora che sognavo di
avere dei
bambini con la stessa frequenza con cui fantasticavo riguardo al mio
tanto
agognato futuro fiabesco con principe azzurro, ranocchie e scarpette di
cristallo.
Iniziai
a
digitare di getto la risposta senza dover pensare troppo a cosa
scrivere, con
una naturalezza che non avevo mai quando invece scrivevo al mio
fidanzato. Con Theo
avevo sempre la sgradevole sensazione di essere sotto esame, che ogni
mia
parola, decisione o passo fosse attentamente analizzato e poi valutato:
approvato o bocciato. E la cosa che più di tutte mi faceva
impazzire era che il
tutto avveniva in silenzio. Perché un conto è
scoprire le proprie carte e dire
chiaramente che una determinata cosa non è stata gradita, un
altro invece è il
giudicare e il rimproverare con sguardi risentiti, silenzi carichi di
biasimo e
i tentativi di evitarsi in un chiaro segno di muta critica.
Da: felicity.vh@gmail.com
A: l.carter.wright@gmail.com
Object: Re: A proposito di
quel pesce rosso…
Posso
suggerire dei
nomi per i nuovi membri della famiglia Carter Wright? Io opterei per
qualcosa
che sdrammatizzi quel cognome pomposo che si ritrovano…Aldo?
Gino? Vito
Corleone? Un pesce rosso con il nome del mafiosissimo Padrino mi pare
molto
appropriato, non credi?
Quando
riparte
Arabella?
F.
Schiacciai
il
tasto di invio, senza ricontrollare la sintassi e
l’ortografia di quanto avevo
appena battuto a computer cosa che invece dovetti fare prima di dare
l’avvio
alla spedizione dell’email per Theo.
Era
stato
insospettabilmente carino e molto poco prolisso o concentrato su di
sé, cosa
assolutamente poco da lui. Anzi, se dovevo descrivere la sua missiva
avrei
usato tre parole: sintetica, risoluta e scritta certamente dal gemello
cattivo
di Theodore.
Da: th.graham@harvard.edu
A: felicity.vh@gmail.com
Object: -
Noi due dobbiamo parlare e dobbiamo farlo presto
perché così non si può
andare avanti.
Professor T. H. Graham
Non
aveva messo
l’oggetto! Voi forse non potete capire pienamente la
grandezza di questa cosa
ma vi dico solo che una volta, in preda ad un attacco di pigrizia e
poca
fantasia, gli inviai una mail senza oggetto e lui mi rispose con tre
fogli di
rimproveri a cui allegò un file di quelli che i professori
di Harvard rifilano
alle povere matricole per insegnare loro come scrivere correttamente
delle
eventuali email indirizzate ai propri docenti.
Non si
era però
dimenticato di firmare in modo completo come se io potesse mai
dimenticarmi del
fatto che fosse un fastidioso professore e tanti blablabla. Cosa avrei
dovuto
rispondere ad una lettera del genere?
Hai ragione?
Bene, allora muovi le tue
chiappette d’oro. Io ti
aspetto qui?
Hei, Theo, e
l’oggetto???
Sbuffai
esasperata;
non sopportavo quel genere di messaggi assolutamente oscuri e criptici.
Si manteneva
sul vago, senza fornire riferimenti temporali e spaziali, e mi ordinava
implicitamente qualcosa, come se fossi una bambina da ricondurre
all’ordine.
Dobbiamo parlare.
Che modi erano quelli? Io non dovevo fare proprio nulla se non finire
il mio
barattolino di gelato cioccolato e caramello avendo ormai quasi
raggiunto il
fondo in plastica della confezione.
Chiusi
la
conversazione e anche il pc, sprofondando tra i cuscini alle mie
spalle, e
ripresi in mano il cucchiaino. Quando si parla di comfort
food…
***
«Mi
raccomando:
innaffia le piantine tutti i giorni e tra poco avrai le tue personali e
gustosissime fragole, non mangiarti tutti i biscotti
sull’aereo altrimenti poi
ti viene mal di pancia e non ti resterà che contorcerti dal
dolore per tutto il
volo e penserai sempre con risentimento a me e ai miei dolcetti e
soprattutto,
Arabella, torna presto!», non riuscii a terminare
l’ultima frase che la bambina
si gettò tra le mie braccia andando a cozzare con la sua
testolina contro la
mia mandibola.
«Ahi!»,
esclamammo all’unisono prima di guardarci negli occhi,
scoppiare a ridere e
tornare ad abbracciarci.
Accarezzai
piano
quei morbidi capelli boccolosi che avevano la consistenza delle piume
di un
pulcino e inspirai quel dolce odore che solo i bambini sotto i sei anni
ancora
conservano: borotalco, calore umano e albicocca.
Due
minuti più
tardi Liam le infilò sulle esili spalle il suo zainetto
azzurro di Frozen, le
lasciò un ultimo bacio sulla fronte e la consegnò
alle cure dell’assistente di
volo che avrebbe badato alla piccola fino all’atterraggio in
California e al
passaggio di testimone, ovvero Arabella, nelle mani di sua madre
Tiffany della
famiglia Kennedy.
Il
sole stava
tramontando e centinai persone, cariche di bagagli, scorrevano
rapidamente
intorno a noi, tutte dirette chissà dove. Sapevo benissimo
che Liam aveva
scelto quel volo nella vana speranza che la figlia riuscisse a dormire
durante
il volo in modo da arrivare riposata e non accusare troppo le tre ore
di fuso
orario. Lo osservai di nascosto mentre ci dirigevamo fianco a fianco
verso l’uscita
del Logan International Airport e mi intenerii nel vedere i suoi occhi
velati
di malinconia.
«Agosto
arriverà
presto e poi potrai averla con te per due intere
settimane…», cercai di
consolarlo mentre gli sfilavo davanti, approfittando della sua
gentilezza nel
volermi sempre aprire le porte e farmi passare per prima.
Lui
non parve
risollevarsi alla notizia, anzi, se possibile si rabbuiò
ancora di più. Ecco,
ora chissà quale brutto pensiero gli avevo fatto tornare in
mente. Decisi così
di non infierire ulteriormente e lo seguii obbediente verso
l’immenso
parcheggio sotterraneo. Pagò l’importo indicato
alle macchinette automatiche,
agguantò in modo brusco il ticket rilasciatogli e fece
dietrofront verso la sua
auto.
Io
guardai con
sguardo perso quelle file infinite di auto tutte uguali.
Chissà perché la gente
amava acquistare autovetture di colori sempre uguali: nero, blu,
grigio. Una massa
uniforme di lamiere luccicanti che non aiutavano certo il mio
già forte senso
di disorientamento.
«Ti
ricordi dove
l’hai parcheggiata?», domandai dubbiosa cercando di
ricordarmi quale lettera
contrassegnasse il nostro settore ma l’unica cosa che mi
venne in mente fu che
avevo passato tutto il tempo a lasciare che Arabella intrecciasse i
miei
capelli in modo disordinato con le sue manine paffutelle
perché voleva
trasformarmi in Elsa.
«Certo»,
asserì
lui, svoltando sicuro a sinistra.
«Ovviamente…»,
borbottai sottovoce di fronte all’ennesimo sfoggio di
Liam-perfezione.
Quell’uomo
era
stato progettato in laboratorio? Probabilmente sì, mi
consolai mentalmente
pensando che sua sorella Judith invece aveva un’automobile
color zucca e
nonostante ciò una volta, ovviamente una volta in cui anche
io ero presente, la
aveva smarrita ugualmente.
Una
volta
accomodatami sul sedile del passeggero non smisi certo di preoccuparmi
del
fatto che ipoteticamente parlando c’era la
possibilità che stessi dividendo l’auto
con un robot, soprattutto notando nuovamente quanto guidasse bene.
Teneva
in modo
sicuro il volente, frenava dolcemente e ripartiva in modo deciso ma mai
brusco.
Non saliva sui marciapiedi per sbaglio, non passava con il giallo e non
rischiava di investire i ciclisti: tutte cose che io facevo
abitualmente.
«La
tangenziale
è dall’altra parte, sai? Ne sono certa
perché è l’unica strada che riesco ad
identificare senza Google Maps…», gli feci notare
indicando l’ampio l’imbocco sulla
destra che aveva appena superato.
Lui,
come
sempre, ignorò quello che avevo appena detto e
continuò imperterrito a fissare
la strada di fronte a sé. Tamburellai le dita sulla pelle
scura del mio sedile
per decidermi sul da farsi. Avevo visto tanti, troppi, film
d’azione per colpa della
mia amicizia di Donovan, anche se a Tom Cruise e Matt Damon non si dice
mai di
no, e perciò pensai alla possibilità di aprire la
portiera, gettarmi dall’auto
in corsa, fare quella strana mossa di rotolamento
sull’asfalto, possibilmente
non lasciando su quest’ultimo tre quarti di pelle, per poi
rialzarsi tutti
baldanzosi in piedi, sani e salvi, mentre l’auto con il
nemico salta in aria in
lontananza.
Provai
a tirare
con cautela la maniglia della mia portiera e con mio enorme stupore mi
accorsi
che era stata bloccata.
Girai
lentamente
la testa verso il mio autista. «Con te non si sa
mai…», mugugnò senza
distogliere la sua attenzione dalla strada.
Rinunciai
ai
miei propositi alla 007 e mi lasciai andare contro lo schienale del
sedile. «Questo
è un rapimento?», gli domandai
stridula.
«Può
darsi», mi
rispose con la sua solita faccia tosta.
Ecco,
così
imparavo ad invischiarmi in questioni familiari che non mi
riguardavano. Questa
era la giusta punizione per la mia volontà nel voler dar
sempre confidenza a
tutti e non mettere dei paletti nel mio rapporto con i clienti. Dal
passare da piantare
tre piantine aromatiche all’organizzare un barbeque insieme
io ci impiegavo
esattamente tre minuti.
Madre
me lo
ripeteva sempre, fin da quando da piccola un signore mi
invitò a salire sul suo
furgoncino, cosa che avrei fatto tutta felice se non fossi stata
prontamente
trattenuta da Zoe, la cui già da bambina era dotata di una
mente perversa che
la portava a diffidare di tutti e a schifare la maggior parte degli
esseri
umani, mi ripeteva sempre che avrei fatto una brutta fine se non avessi
imparato a dire di no alle caramelle offertemi e a non sedermi sulle
tazze dei
wc pubblici.
«Sei
certo di
voler rapire proprio me? Fossi in te mi abbandonerei accanto sul ciglio
della
strada e andrai a cercare qualcuno come Rachel McAdams o Blake
Lively…», gli
proposi cercando di mettere fine alla sua brutta abitudine di troncare
ogni mio
tentativo di capirci qualcosa in quella situazione alquanto
ingarbugliata.
«Ne
sono certo»,
mi zittì prontamente lui.
Nulla,
facevo
prima a conversare con il conduttore radiofonico che ora stava
gracchiando
qualcosa a proposito della nuova canzone che segnava il ritorno di
Justin Timberlake.
Cosa? COSA? Io amo Justin! Fin da quando aveva i ricciolini biondi ed
era un
super tamarro.
…I got this
feeling, inside my bones
It goes electric, wavey when I turn it on
All through my city, all through my home
We're flying up, no ceiling, when we in our zone…
Allungai
la mano
verso la schermata touch della radio e alzai il volume ad un livello
quasi
insopportabile che, se non si fosse trattato di Justin del mio
cuoricino,
sarebbe stato assolutamente un gesto da pazzi.
Abbassai
il
finestrino, se dovevo comportarmi da truzza volevo farlo in modo
convincente, e
iniziai a cantare a squarciagola, mettendoci particolare impegno per
imitare i
versi in falsetto:
«I
can't stop
the feeling
So just dance, dance, dance
I can't stop the feeling
So just dance, dance, dance, come on»
Dance,
dance,
dance! Wooo, iniziai a muovermi seguendo il ritmo della musica, per
quanto gli
spazi ristretti dell’auto potevano permettermelo, e continuai
così fino a
quando Rihanna prese il posto di Justin e io mi affrettai a cambiare
stazione
radio.
Quando
tornai in
me e mi ricordai che ehm, non ero propriamente sola, come al solito
quando
improvvisavo le mie sessioni di danza improvvisate e scoordinate, e
trovai il
coraggio di voltare il capo mi scontrai con Liam che tentava in tutti i
modi di
trattenersi per non scoppiare a ridere.
«Ridi,
non
vorrei mai che ti soffocassi nel tentativo di trattenerti dal prenderti
gioco
di me e della mia spensieratezza e uscissimo di strada andando a
spiaccicarci
contro quell’autobus», borbottai quasi offesa.
A dire
il vero
mi sorprendeva quasi il fatto che non avesse spento la radio e di
conseguenza
anche il mio entusiasmo ballerino nel suo tipico atteggiamento serioso
guastafeste.
«Permalosa»,
sogghignò
per punzecchiarmi.
Era
incredibile
come riuscisse ad irritarmi ma in un modo quasi piacevole non come
quelle
persone che ti indispongono e come conseguenza vorresti solo picchiarle
con una
sedia. No, Mr. Liam era fastidioso e spesso anche più
infantile di me eppure
anche quando ti tediava o si faceva beffe di te lo faceva in un modo
quasi
gentile e premuroso. Oddio, ho davvero associato l’attributo
di premuroso a
quella sorta di uomo gigante che ora sta sghignazzando senza vergogna
sul
sedile accanto al mio?
«Io
mi definirei
spontanea e poco rigida. A differenza di qualcuno che pare non sapersi
divertire, qualcuno a caso, qualcuno tipo Mr. Liam
Ho-Un-Cognome-Doppio-Perché-Fa-Figo!», tentai di
mettere a tacere le sue risate
di derisione.
Lui
girò all’improvviso
in una stradina perpendicolare sulla destra facendomi perdere il senso
dell’equilibrio
e così mi ritrovai, nel giro di un istante, ad atterrare,
sbattendo in malo
modo la tempia, con la testa premuta contro il vetro del finestrino.
Seppi per
certo che lo aveva fatto apposto, lui il Signorino nato con le doti da
pilota
alla Hamilton.
Ci
fermammo in
un piazzale in ghiaia e Liam spense i fari e il motore. Fece per darmi
le
spalle e scendere dall’auto ma parve ripensarci,
accostò la portiera che aveva
appena aperto, si girò verso di me e mi sussurrò
con voce flautata: «Ho
lavorato in un nightclub per pagarmi gli studi quindi sì, so
come ci si diverte…».
Me lo disse a pochi centimetri dal mio volto, le parole quasi soffiate
sulle
mie guance accaldate e gli occhi velati di malizia. Senza darmi il
tempo di
riprendermi uscì dall’abitacolo
dell’auto e nel giro di un nanosecondo, chi
caperri era? Edward Cullen?!, era già dal mio lato ad
aprirmi galantemente la
portiera.
Uscii
traballante
dall’auto e mi aggrappai a lui per non cadere dal momento che
ero riuscita
nella rara impresa di restare incastrata nella cintura di sicurezza.
Lui mi
sorresse
pronto ma subito mi presentò il conto di tale gentilezza,
mettendo su un ghigno
e commentando compiaciuto: «Ti ho rivelato il mio segreto due
secondi fa e già
cerchi di approfittarne: birichina!»
Idiota.
Dio, qui
stavamo toccando livelli di idiozia altamente pericolosi eppure, non so
se
perché abituata all’umorismo da edera rampicante
di Theo o dalla stupida
volgarità che caratterizzava ogni cosa facesse o dicesse
Donnie, ma apprezzavo
segretamente quegli scambi di battute a metà tra lo
scherzoso e un tentativo di
flirtare. FLIRTARE? Felicity Van Houten ritorna in te!
Mi
staccai, a
malincuore (accidenti, Felicity!), dal suo petto e feci due passi,
più per
allontanarmi da lui che per avviarmi davvero verso qualcosa non sapendo
neanche
se fossimo ancora in Massachusetts.
«Mi
stai quindi
dicendo che facevi il gigolò?», gli chiesi
ridacchiando, «Lo avessi saputo
prima avrei assoldato te per la mia festa dei diciotto anni: Claude fu
una
delusione terribile!», conclusi dandomi arie da grande donna
vissuta.
Lui
per un
attimo parve sconcertato, dopodiché tornò in
sé, sollevò le sopracciglia e mi
afferrò per un braccio. «Questo lo hai dedotto tu.
E comunque mi spiace per
Claude, ci fossi stato io al posto suo non l’avresti certo
ricordata come una
serata deludente…», commentò piano
facendo scorrere il palmo della mano lungo
il mio braccio scoperto fino a raggiungere la mia mano e stringerla.
Quello
non
andava per niente bene. Mi piaceva battibeccare con lui, anche se ormai
i
nostri punzecchiamenti avevano lasciato il sicuro terreno degli
argomenti
neutrali e si stavano avviando pericolosamente verso zone che non
dovrebbero
essere neanche lontanamente esplorate da due persone con un rapporto
come il
nostro. O meglio, due persone con il nostro non-rapporto.
Abbassai
lo
sguardo non sapendo bene come comportarmi di fronte a quelle sensazioni
in
netto contrasto con i sensi di colpa che la mia coscienza non faceva
altro che
sbandierare di fronte ai miei occhi. «Liam, io non penso
che…», sollevai gli
occhi e mi bloccai di fronte a ciò che mi si parò
di fronte agli occhi.
Ora
sì che erano
guai.
Capitolo corto e forse
anche un po’ inutile ma credetemi se vi dico che
faccio il possibile per non scrivere schifezze (che poi magari escono
in ogni
caso >.<) e non farvi attendere un nuovo passaggio della
cometa di Halley
prima di aggiornare.
Arabella è
partita, e così restano solo i nostri due protagonisti. Ma
prima
di esultare e pensare al vestito da comprare per il loro matrimonio
attendete
un attimino: Theo (*sbadiglio*) sta per tornare più forte di
prima!
Alla prossima ragazzuoli e
se volete farmi sapere cosa ne pensate non
esitate a scrivermi una recensione a cui io risponderò
prontamente (=entro il
2793 (no vero))
S.
P.S. Vi lascio anche
stavolta il link della nuova ff nonostante non
abbia ancora avuto il tempo di andare avanti (quando inventeranno sul
serio un
giratempo??) --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3444659&i=1
|
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Capitolo 12 *** Fioritura ***
Liam
Per qualche strana ragione,
nonostante detestassi con tutto
il cuore qualsiasi cambiamento imprevisto apportato alle mie giornate
accuratamente organizzate, mi era sempre piaciuto cogliere di sorpresa
le
persone.
Quella volta poi mi ero impegnato sul
serio e lo avevo fatto
in prima persona. Diane, negli ultimi due giorni, mi aveva osservato in
silenzio mentre bisbigliavo al telefono per poi sparire
all’improvviso
dall’ufficio dandole l’ordine di deviare tutte le
chiamate sul mio telefono
cellulare. Più di una volta mi venne la tentazione di
chiederle una mano o
perlomeno domandarle un consiglio ma poi ritornai sui miei passi, ancor
più
deciso di prima a terminare il lavoro senza aiuti esterni.
Avevo dovuto recuperare le ore di
lavoro perse nell’organizzazione
di quella serata durante quella fascia oraria, dalle dieci
all’una di notte,
durante la quale solitamente mi dedicavo alle mie solitarie sessioni di
running
ma l’espressione di autentico stupore di Felicity aveva
ampiamente ripagato il
sacrificio e le ore di sonno in arretrato.
Ammirai soddisfatto il mio lavoro,
anche se tecnicamente io
mi ero occupato più della parte puramente economica e
organizzativa, e abbassai
lo sguardo per capire se la mia compagna si fosse ripresa o avesse
ancora la
bocca deliziosamente aperta a o.
Quello che vidi mi
destabilizzò ancora di più:
«Stai…stai
piangendo?», le chiesi osservando il luccichio sospetto che
appannava quegli
occhioni e minacciava di dare il via ad una cascata da un momento
all’altro.
Dopodiché successe
qualcosa di ancora più inaspettato e
sorprendente: Felicity iniziò a prendermi a pugni. Con gli
occhi invasi dalle
lacrime, lacrime che evidentemente non era affatto contenta di star
versando,
iniziò a colpire alla cieca il mio petto mentre tentava allo
stesso tempo di
trattenere i singhiozzi e riempirmi dei peggio insulti del suo
vocabolario.
«Liam Carter Wright! Come
ti permetti? No-non puoi
fare…così! Cosa accidenti pensavi di combinare?
Testa di un cavolfiore che non
sei altro! Io-io…arghhh!», continuò a
tempestarmi di
pugni sempre più deboli fino ad arrestarsi
e ad abbandonare i palmi delle mani inerti contro il cotone chiaro
della mia
camicia.
Poi fece una cosa che non mi sarei
mai aspettato da Ms. Van
Houten, sempre molto allegra ma anche attenta a mantenere le distanze e
ad
assicurarsi che tutti stessero al proprio posto senza che le si
avvicinassero
più del dovuto. Fece un passo nella mia direzione e
posò il capo contro la mia
spalla, le sue mani sempre posate delicatamente sul mio torace.
Del tutto impreparato
dall’inspiegabile svolgersi della
situazione smisi di pensare alla precisa scaletta che avevo chiara in
mente per
quella serata e decisi di comportarmi in modo naturale, senza calcolare
troppo
quali parole avrei detto di lì a poco e quali azioni avrei
compiuto. Allungai
una mano e iniziai ad accarezzarle i capelli chiari. Li avevo sempre
ammirati
da lontano: lucenti e sempre costretti in mille acconciature
disordinate. Quella
sera li portava sciolti, a decorarle il capo come una cascata dello
stesso
colore del sole e dal dolce profumo di mandorla.
«Non ti piace? Posso
riportarti a casa ora, se vuoi…»,
chiesi piano.
Lei non si mosse ma si
limitò a sussurrare piano,
solleticandomi il collo con il fiato. «No! Voglio restare. Lo
voglio davvero. È
solo che…che è tutto troppo bello. Ed
è per me. Cioè almeno penso tu lo abbia
fatto per me…E io…accidenti, lo sai benissimo che
coltivo sogni romantici fin
dall’asilo e vedere tutto questo, sembra troppo un sogno che
diventa realtà per
credere che sia tutto vero»
Abbassai lo sguardo e la vidi fissare
con sguardo vacuo la
pelle del mio collo prima di scuotere la testa e allontanarsi da me,
assicurandosi di rimettere la solita formale dose di distanza tra i
nostri
corpi. «Liam…io apprezzo davvero tutto
ciò ma, per favore, non aspettarti
chissà cosa da me stasera. So che ora in teoria sono libera
ma con Theo è
finita da così poco che io…», aggiunse
in modo frettoloso cercando di guardare
dovunque tranne che nella mia direzione.
Una scarica di indignazione mi
percorse da capo a piedi: con
chi diamine pensava di avere a che fare? Non ero certo un animale
guidato solo
dai suoi istinti e non avevo certamente organizzato quella serata con
chissà
quale oscuro e perverso proposito.
Lei dovette percepire il mio
risentimento, mi si avvicinò di
nuovo e mi prese una mano tra le sue, stringendola lievemente.
«Scusa, io non
intendevo insinuare niente. Mi fido di te, Mr. Liam»,
mormorò scrutandomi
attentamente negli occhi come alla ricerca di un segno di perdono.
La verità era che sembravo
incapace di nutrire anche solo
un’ombra di riprovazione nei suoi confronti, ci avevo provato
ma avevo fallito
miseramente. Quella ragazza poteva avere mille difetti eppure emanava
una luce
così accecante che tutti quelli venivano messi in secondo
piano. Una grazia
tale poteva essere solo un dono innato; quel suo modo, quasi casuale,
con cui
si prendeva cura delle persone, così come delle sue piante e
del suo amato
giardino, era meraviglioso nella sua totale naturalezza. Felicity,
senza rendersene
conto, col suo disordine e la sua smemoratezza era riuscita a dare un
senso a
quel caos che era stata la mia vita prima d’ora.
Lei ovviamente non poteva sapere, se
non attraverso quello
che io o quella pettegola di Judith le raccontavamo, quanto fosse
desolata e
priva di scopo la mia vita e quanto potente fosse stata la scossa che
il suo
arrivo aveva assestato a quest’ultima.
Era completamente all’oscuro del fatto che
avessi richiesto al giudice
minorile di rivedere il tipo di affido di Arabella, per poter ottenere
più
settimane in sua compagnia anche al di fuori del periodo estivo, o che
avessi
trovato un affittuario per il mio loft a partire da settembre, mese in
cui mi
sarei definitivamente trasferito a vivere nella restaurata casa di
campagna del
nonno. Non aveva idea di quante ore avessi trascorso in quel giardino,
sua
opera e creazione, a godermi i caldi raggi del sole e a domandarmi
perché
diamine scoprissi solo a trent’anni suonati la bellezza
disarmante della natura
e la pace che questa offriva.
La cosa divertente di tutto
ciò è che era stata Mildred a
farmelo notare. Qualche giorno prima, mentre io e Felicity seduti su
una
panchina del parco cittadino ci assicuravamo che Arabella non si
spezzasse
l’osso del collo nei suoi giochi scatenati in compagnia di
altri piccoli
teppistelli, lei mi aveva accennato brevemente al fatto che lei e
Theodore si
erano lasciati.
Colpa della
distanza,
o almeno credo. Così aveva detto. Non si era
soffermata troppo sui
particolari anche se mi aveva colpito il fatto cheavesse concluso
dicendo che
si sentiva sollevata per aver posto fine a quel rapporto.
Non era cambiato nulla dopo quel
pomeriggio. Fino a due sere
prima quando ero stato convocato a cena da Queen Mildred.
Come sempre aveva cucinato, o meglio
aveva fatto cucinare,
piatti tanto elaborati quanto poveri di grassi e di sapore e si era
presentata
a cena fasciata in un abito più adatto ad un incontro alla
Casa Bianca che ad
una semplice serata tra ‘amici’ ma stavamo parlando
di Mildred quindi niente
riusciva a stupirmi.
Gabriel, ormai esperto camminatore,
aveva tentato per tutta
la sera di sfuggire dal radar materno senza però riuscirci.
Matt, leggermente
alticcio a causa del vino ad alta gradazione che avevo portato, parlava
un po’
a vanvera con l’unica conseguenza di irritare oltre misura la
sua astemia
consorte. Malefica, terribilmente stizzita dopo l’ennesima
battutaccia del
marito, aveva spedito Matt e il pargoletto a dormire e mi aveva rapito
con la
scusa di offrirmi un caffè. Mi aveva invece scortato in
giardino dove si era
accomodata su un divanetto in vimini
facendomi poi segno di seguire il suo esempio e sedermi
accanto a lei.
In segno di ribellione mi sedetti sì, ma di fronte a lei.
Mai farle intendere
di poterti comandare a bacchetta, il povero Matthew ancora ne pagava le
conseguenze.
Dopodiché aveva
accavallato le sue lunghe ed eleganti gambe
e si era lanciata nella proclamazione dell’Ode
a Felicity, brano poetico che a quanto pareva era caro a
tutte le persone a
me più vicine. Mildred, sempre avara in fatto di complimenti
e lodi, mi
raccontò come la sua iniziale opinione su Ms. Van Houten
fosse cambiata
radicalmente dopo averla conosciuta grazie al progetto di mettere a
nuovo il
giardino.
Effettivamente, cosa che avevo colto
ancor prima di varcare
la soglia d’ingresso ed unirmi alla loro tavola, il mio
sguardo non aveva
potuto fare a meno di notare come, dopo il piccolo intervento di
Felicity, ogni
singola fogliolina di quel verde giardino raccontava qualcosa della
ragazza.
Solo lei avrebbe potuto selezionare dei delicati vasi di terracotta
smaltata
dai colori dell’oceano, riempirli con le più
rigogliose ed odorose piante
officinali e disporli in una graziosa composizione che adornava il
portico
anteriore. Come solo un suo intervento avrebbe potuto trasformare lo
spoglio
muro di cinta in una cascata dalle tinte accese, grazie ad una serie di
cassette
in legno pensili contenenti una profusione di surfinie fucsia.
«Tu sai, Liam caro, che
nonostante i tuoi mille difetti non
ho mai mancato di apprezzare il tuo buongusto e il tuo indiscutibile
stile.
Perciò comprenderai la mia sorpresa quando, due
martedì fa, si presentò alla
mia porta colei che dichiarava di essere la giardiniera da te
consigliatami.
Portava una salopette di velluto tagliata al ginocchio, perdio! Una salopette, capisci? E aveva un modo di
fare senza dubbio fin troppo brioso e pieno di entusiasmo. Chi mai si
infervorerebbe in quel modo all’idea di sporcarsi di fango ed
essere divorata
da stupidi insettuncoli? Ho avuto poi modo di offrirle una limonata e
scambiare
con la signorina due chiacchiere riguardanti argomenti che esulassero
da
sementi e travasi. E sai cosa mi ha sorpreso? L’ho trovata
terribilmente
franca. Non parlo di una schiettezza che rasenta
l’impertinenza ma piuttosto di
un candore quasi infantile che le impedisce di nascondersi dietro un
qualsiasi
tipo di comportamento artificiale o costruito ad arte per compiacere
altri. Ti sei
accorto di come guarda sempre fisso negli occhi il proprio
interlocutore? È sempre
attenta, in un modo quasi premuroso, eppure, nonostante questa sua
dolcezza l’ho
trovata senza dubbio sveglia e dalla risposta sempre pronta. Ci credi
che io
stessa non ho potuto trovare nulla, vestiario a parte, che me la
facesse
risultare sgradita come mi succede praticamente con quasi tutte le
persone con
cui faccio conoscenza? E così dannatamente
amabile quella creatura! Tutta sorrisi e capelli dorati. Non
riesco proprio
a capire perché tu non l’abbia ancora rapita e
sposata!». Mildred pareva
terribilmente infastidita e mi guardava con muto rimprovero. Leggevo
nelle sue
iridi chiare una palese accusa. Liam,
zuccone che non sei altro, perché non ti accorgi mai delle
cose che sono proprio
sotto al tuo naso?
Le sue parole mi avevano lasciato
interdetto, non solo per
il loro contenuto ma piuttosto per il fatto che fossero state
pronunciate
proprio da quella donna. Donna a cui si potevano imputare molte
mancanze ma
certamente non quella di essere alquanto arguta. Mildred, nonostante
tutto, era
una persona molto realistica, che non amava girare per lungo tempo
intorno ad
una faccenda, preferendo piuttosto affrontarla di petto e risolverla.
Qualunque
fosse poi il risultato. Era una donna forte dopotutto. Forse fin troppo.
Mi passai stancamente una mano tra i
capelli e allungai le
gambe di fronte a me. Sospirai, non avevo ancora ben capito dove la mia
interlocutrice volesse andare a parare alla fine. Quale era lo scopo
ultimo di
quel bel discorso?
«Potresti anche avere
ragione ma non capisco cosa ti aspetti
che faccia…», le risposi in modo interrogativo.
Speravo potesse chiarirmi quel
piccolo punto mancante che sembrava sfuggirmi. Felicity era un piccolo
concentrato di virtù, questo era assodato, ma non capivo
davvero come ciò
potesse condurmi ad attenderla presso un altare nel bel mezzo di una
natava
adorna di fiori.
Mildred sbuffò e
roteò gli occhi con fare esasperato, un
comportamento decisamente poco da lei, sempre rigida ed attenta ad
esercitare
un controllo ferreo nei confronti dei suoi muscoli mimici.
«Te lo devo davvero
dire io?»,
esclamò guardandomi come
per comprendere se fossi diventato idiota in quel momento o
più semplicemente
lo fossi sempre stato.
La verità era che quel
pensiero lo avevo già accarezzato
anche io. Forse solo nell’angolino più recondito
della mia mente, forse solo in
sogno, forse solo per una frazione impalpabile di tempo. Non ero certo
saltato
subito all’idea di metterle un bel diamante
all’anulare, prenotare un volo per
le Fiji e contattare un giudice di pace. Diciamo che avevo immaginato
una vita
insieme a quella donna dalla testolina tanto bionda quanto sbadata. O
perlomeno
mi ero interrogato riguardo ad una possibile quotidianità
condivisa. Come avrebbe
potuto essere? Impossibile? Facile? Felice?
Quella pallida idea, dopo le parole
di Mildred, acquistò
colore e spessore e iniziò a prendere pian piano possesso
della mia mente. Quelle
ultime settimane, dal punto di vista lavorativo, si erano rivelate
estremamente
improduttive. La presenza di Arabella e il pensiero di Felicity mi
avevano
distratto in un modo che, ne sono certo, Montgomery Van Houten non
aveva mai
permesso a sé stesso.
Ecco, Arabella poi non mi aveva di
certo aiutato a
semplificare quel già complicato quadro. No,
perché sua figlia, notoriamente
molto volubile e poco avvezza a mostrarsi cordiale con persone che non
fossero
i suoi genitori, e talvolta neppure essi, aveva adorato Felicity. La
bambina
pareva non aspettare altro se non le ore passate in compagnia della
giovane
donna e si era rabbuiata quando le avevo spiegato che la ragazza doveva
lavorare e non poteva trascorrere tutto il tempo a mangiare fragole e
rincorrere farfalle con lei. E quest’ultima si era comportata
in maniera
esemplare; era stata spontaneamente affettuosa, pronta a dedicarle
generosamente il proprio tempo libero, senza però arrogarsi
il diritto di
comportarsi a mo’ di madre surrogata. Le aveva spazzolato i
capelli soffici,
avevano cantato insieme Lei it go
piroettando a piedi nudi sull’ampio prato che separava la mia
casa dalla sua, e
aveva voluto bene alla mia bambina. E quest’ultima cosa non
aveva potuto fare
altro se non conquistarmi.
«Ti prometto che non
verserò più una sola lacrima di
coccodrillo questa sera. Ora possiamo avvicinarci?», mi
domandò Felicity, un
timido sorriso a curvarle le labbra.
Per un attimo rimasi a fissare quella
bocca rosea e piena
domandandomi se mai avessi avuto occasione di assaporarla. Anche solo
per una
volta. O anche per tutta la vita.
Invece di risponderle intrecciai le
mie dita alle sue e mi
diressi verso l’ingresso dell’orto botanico segnato
da un arco di rose
rampicanti, attorno a cui era stato delicatamente avvolto un lungo filo
formato
da tante piccole lucine iridescenti che brillavano nella penombra della
sera e
davano il benvenuto in quel piccolo paradiso di cui era il fiero
custode.
Avevo insistito a lungo
affinché il risultato fosse di
sobria eleganza e l’atmosfera fosse leggermente fatata senza
scadere in una
messinscena pacchiana e palesemente costruita per apparire romantica.
La presenza
di romanticismo, ai miei occhi, dipendeva dall’attitudine
delle due persone
coinvolte piuttosto che da tappeti di petali di rose o striscioni con
plateali
dichiarazioni.
Il semplice vialetto
d’ingresso, modestamente illuminato ai
lati, conduceva al laghetto circolare e alla piccola pagoda rialzata,
dietro
alla quale si ergeva fiero un enorme salice piangente.
«Posso già dirti
che finora tutto mi sta piacendo tantissimo
e che sono contenta di essere stata rapita?», mi
sussurrò all’orecchio, prima
di ritrarsi veloce e lasciarsi andare ad una risata cristallina.
Era proprio questo che mi attraeva di
lei, Felicity non
lesinava complimenti od apprezzamenti e se qualcosa le piaceva non
faceva altro
che ammetterlo candidamente. Altre donne avrebbero atteso fino al
momento
finale, tenendo il proprio compagno sul filo del rasoio fino
all’ultimo, prima
di manifestare la propria opinione al riguardo. Felicity no, lei non
aveva
ancora visto il vero traguardo di quella serata, eppure si era
già dichiarata
felice e contenta di quello che finora era successo, riuscendo in un
sol colpo
a rassicurarmi e a regalarmi parte della sua gioia.
Mi sentii strattonare gentilmente e
così mi decisi ad accelerare
il passo per accontentare l’impazienza della mia
accompagnatrice.
«Quel salice risplende come
di luce propria. Caratteristica sospetta,
non trovi?», mormorò tra sé prima di
adeguare la direzione dei suoi passi in
modo da raggiungere l’ampia e fitta cortina di fronde del
salice in pochi
passi. Attese un attimo e poi allungò lentamente la mano che
non stringeva la
mia e scostò con cautela quella rigogliosa cascata verde.
Uno spiraglio di luce si
ritagliò sulle nostre figure mentre
Felicity, con mio grande disappunto, abbandonava la mia mano e
scompariva oltre
la coperta di rami, escludendomi così all’esterno.
Un paio di passi e anche io
entrai in quel magico cerchio che avevo con tanta cura creato.
E successe di nuovo. Questa volta a
parlare non fu un’esplicita
frase della ragazza ma la sua espressione. Assoluto rapimento. Ruotava
piano su
sé stessa, come per assicurarsi che fosse tutto vero. Ed era
tutto vero: quell’intima
cupola all’ombra dell’antica pianta, quelle tante
lanterne color crema che
creavano giochi di calda luce tutt’attorno, quel semplice
tavolo decorato con
ogni sorta di prelibatezze.
«So che rimangiarsi le
proprie parole non è propriamente un
comportamento esemplare ma, accidenti Mr. Liam, dopo tutto questo io non ho quasi più
fiato e non so se posso davvero fidarmi
di te. O di me…», concluse, un tremore quasi
impercettibile nella voce.
Non potei trattenere un sorriso
nell’udire quelle parole. Immediatamente
le dozzine di furiose telefonate con il servizio catering o
quell’incompetente
di un guardiano dell’orto botanico, le ore di lavoro perdute
e gli appuntamenti
posticipati, lo stress accumulato, i troppi caffè, tutto
ebbe senso.
Un impertinente brontolio
disturbò quel momento e mi resi
conto con divertimento da chi provenisse. «Che ne dici se ci
accomodiamo?», le
proposi, scostando per lei la sedia dal tavolo e aiutandola a prendere
posto.
Si lasciò andare ad un
sospirò, «Sei così galante»,
commentò
civettuola.
«E tu sei così
adulatrice», ribattei prontamente, mentre
andavo ad occupare il mio posto di fronte a lei.
La osservai sistemarsi i lunghi
capelli dietro le spalle e
dispiegare il candido tovagliolo in pregiata stoffa sul suo grembo.
«Allora:
cosa prevede il menù?»
Saziati nostri stomachi entrambi
concordammo sulla necessità
di una bella passeggiata al chiaro di luna. Lasciammo la nostra piccola
bolla e
ritornammo sotto il cielo stellato. Felicity si attardò un
attimo a lanciare un’ultima
occhiata alle sue spalle e a passare la mano tra le foglie fruscianti
del
vecchio salice. Pareva quasi un saluto.
Si diressero verso la riva, dove il
laghetto silenzioso e buio
abbracciava la sottile ghiaia che precedeva il dolce pendio
d’erba che
conduceva al giardino.
«Vedi quella pagoda? Ho
sempre pensato che sarebbe stata
perfetta per un matrimonio. Così esposta alla luce,
così vicina all’acqua…»,
commentò indicandomi la piccola struttura in legno.
Ci avvicinammo lentamente, le nostre
mani intrecciatesi
quasi senza pensarci a non permetterci di allontanarci l’uno
dall’altro.
Osservai le piccole guglie lignee che
decoravano il tetto
dalla forma a pagoda e aggrottai la fronte. Cosa c’entrava
quello spigoloso
particolare puramente gotico con le morbide curve del resto della
struttura? Appesantiva
la costruzione e la rendeva cupamente minacciosa, costellata di punte
aguzze
come appariva. «Mi pare più adatta ad un funerale.
Si trova rivolta a nord,
prospicente verso il lago in modo da riversare in esso le ceneri del
defunto
senza troppo disturbo. C’è persino un teschio
intagliato nel legno del
parapetto, guarda qui…», le mostrai, passando
piano le dita su quel disegno
abbozzato.
Una testolina bionda fece capolino da
dietro la mia spalle e
si sporse ad osservare la piccola figuretta macabra. «Uff,
Mr. Liam, sei terribilmente
pessimista! Diciamo allora che questo pare il posto adatto a celebrare
i passi
più importanti che caratterizzano i cicli della vita degli
uomini?», mi
concesse lei.
«Com’è
magniloquente, Ms. Van Houten! E mi dica noi cosa
vogliamo festeggiare?», le domandai cingendole la vita con un
braccio e
avvicinandola a me. Posai la guancia sul suo capo mentre sentivo le sue
mani
avvolgermi i fianchi e carezzarmi piano la schiena con fare distratto.
Alzò di colpo il viso e mi
fissò, un ghignetto malefico
stampato in volto. «Il tuo funerale? Pensa,
c’è un teschio inciso da un qualche
delinquente, chissà quale oscuro e funesto significato
potrà mai avere! Secondo
me è un segno premonitore, Mr. Liam, stai
attento…», mi soffiò in pieno volto,
prendendosi chiaramente gioco di me.
Mi finsi offeso e feci per allentare
la mia presa sul suo
corpo ma lei non me lo permise, alzando le braccia per circondarmi il
collo e
imprigionarmi. «Hai degli occhi enormi, Signorino Due
Cognomi. Non li avevo mai
osservati da così vicino…»,
mormorò poco dopo spezzando il silenzio.
Abbassai il capo per avvicinarmi al
suo volto e le chiesi
soffice: «Così come sono?»
Lei sorrise divertita e mi
sussurrò lieve: «Giganteschi»
Diminuii ulteriormente la distanza
che separava i nostri
nasi e le posi la medesima domanda.
«Immensi. Ora
chiudili…», mi ordinò dolcemente poco
prima di
chiuderli lei stessa.
Rimanemmo qualche secondo
così, abbracciati, gli occhi
chiusi e il frinire delle cicale tutt’attorno.
Poi in un soffio mi ritrovai a
baciare quella bocca morbida
che tanto avevo osservato, ascoltato e desiderato.
Non so chi fece il primo passo ed
immagino resterà per
sempre un mistero.
Anzi lo spero.
Capitolo breve ma l’ho scritto
di getto in questi due giorni
e terminato proprio ora, un occhio che si chiude memore
dell’alzataccia di
stamattina, e l’altro troppo stanco per trovare eventuali
errori. Eh sì,
carissimi lettori miei, che posso dire? Fatto il misfatto!
Ringraziamenti ed
abbracci a voi, che leggete, commentate (cuori
miei) e
mettete in preferiti e vari. Attendo impaziente le
vostre opinioni!
Ormai ho perso il
controllo del livello di miele per capitoli. E pensare che non sono
neanche
innamorata e perciò giustificata nel mio vedere e nello
scrivere in una nuvola
rosa di tanto ammmore.
Notte a tutti e alla
prossima!
S.
P.S. Potrò non
aggiornare per un bel mesetto ora perché, ragazzuoli miei,
la sessione estiva è
qui ormai e minaccia di farmi soccombere.
|
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Capitolo 13 *** Fiori d'arancio ***
«Puah!»
«Condivido in pieno: triplo
puah!»
Cercare di avere una conversazione
seria con quei due
zucconi si stava rilevando possibile quanto scalare l’Everest
con un paio di
ciabatte infradito infilate ai piedi.
Donovan mi aveva stressato l’anima per ore e
ore, sottoponendomi ad un
interrogatorio serrato finalizzato a minare la mia pazienza zen.
Rispondergli
malamente che non erano affari suoi non era certo servito a tenerlo
buono,
anzi, aveva avuto come unica conseguenza il convincerlo che
effettivamente
c’erano degli affari che mi riguardavano che non volevo
condividere con lui.
Degli affari che vedevano coinvolti la sottoscritta, Mr. Liam ed un
orto
botanico.
«…e un letto!
Non scordiamoci della parte più interessante
del racconto, per favore», ululò Donnie come
offeso dal mio tentativo di
svicolare per evitare di raccontare a lui e a mia sorella le vicende
della mia
vita sessuale.
Zoe, prontamente informata dal
pettegolo del villaggio che
mi sedeva accanto, aveva per l’occasione interrotto il suo
eremitaggio e,
scroccando spudoratamente la connessione WiFi dell’ultimo
poveretto che aveva
scaricato una settimana prima, si era collegata immediatamente sul suo
account
Skype e aveva iniziato a tempestarmi di chiamate.
«Grazie al cielo hai
contattato un medico oculista e
quest’uomo pio ti ha dotata di lenti a contatto in grado di
sopperire alla tua
cecità assoluta! Per tutti i neonati sventrati, sui
dizionari, alla voce ‘figo’
c’è affiancata la foto di quel Carter
Wright!», strillò indignata mia sorella,
la quale, alla notizia della rottura tra me e Theo, si era
così emozionata da
dichiararmi a denti stretti e ringhiando che forse
poteva ritornare a volermi bene e smettere di raccontare a
tutti di come la sua sorellina minore fosse stata disciolta nella soda
caustica
da un terribile assassino quando aveva solo sette anni. Che
magnanimità!
«Io non credo che il
termine ‘figo’ sul vocabolario esist-»
«Hai perfettamente ragione,
Z! Quel Theodore era una sorta
di pallido omuncolo ricoperto di alghe ripescato da un
laghetto…», intervenne
il mio amico, non curandosi del fatto che mi aveva brutalmente
interrotto. E
ovviamente non scusandosi per la sua solita maleducazione.
«Una sorta di becchino,
ingrigito, rinsecchito, con l’animo
di un novantenne…»
«…e il fisico
prestante di un cadavere…»
«…riesumato dopo
millenni dal proprio loculo…»
«…la
personalità di un lumacone mangia
lattuga…»
«…e il brio di
una cavalletta spiaccicata dalla ruota di un
trattore…»
«Avete finito? Ero giovane,
era un professore associato e mi
sono presa una cotta!», sbottai stizzita da quel botta e
risposta di commenti
poco lusinghieri nei confronti del mio fidanzato. Ex fidanzato.
«Chiamala cotta: ti ci sono
voluti quattro anni per farti
aprire gli occhi…», borbottò Donovan
ridendo sotto i baffi.
«E quando finalmente il
miracolo è accaduto anche la nostra
piccola, tenera, ingenua Flick HA VISTO!»,
continuò Zoe con un tono quasi
mistico.
Feci danzare dubbiosa lo sguardo tra
il viso pallido di mia
sorella incorniciato dallo schermo del portatile e quello abbronzato
del mio
aiutante seduto vicino a me.
Alla fine sospirai e posi la domanda,
«Cosa ho visto?»
«Il culo marmoreo di Mr.
Carter Wright!», gridò come
un’indemoniata Zoe.
Donovan scoppiò in una
risata e aggiunse tra un singulto e
l’altro: «Per non parlare dei bei pettorali
fasciati da camicie Hugo Boss…»
Risata che ebbe vita breve non appena
la mia cara sorellina
lo freddò con uno dei suoi tipici commenti amorevoli:
«Devo dubitare della tua
eterosessualità, Donnie caro?»,
cinguettò melliflua.
Avevo sempre volutamente evitato di
interrogarli riguardo a
quali rapporti intercorressero o erano intercorsi tra loro. Non avevo
proprio
voglia di sentirmi raccontare per filo e per segno
l’abilità in materia di arti
amatorie di quei due. O peggio ancora, rischiare di essere abbandonata
dal mio
aiutante ed amico più fidato, fuggito per amore, o qualsiasi
cosa facessero
quei due insieme, tra le montagne aguzze del Maine.
Anche perché a vederli,
Zoe scura e imbronciata come la
figlia del Conte Dracula e Donovan sorridente e gaio come un gigantesco
girasole, non comunicavano certo l’idea di una coppia ben
appaiata.
Nonostante lo stesso si potesse dire
di me e Mr. Liam. Lui
elegante e bellissimo, mentre io ero solo un’insignificante
piccola apina
spappolata sul parabrezza della sua Porsche lucente. Ahi! Potevo quasi
sentire
il dolore dei tergicristalli che incedevano impietosi e mi strappavano
le ali.
Era quella la fine che mi aspettava? Di Theodore si poteva dire di
tutto, ma mi
aveva sempre fatta sentire al sicuro. Non c’erano state notti
di passione
infuocata, squilli di trombe quando mi baciava né spasmi
d’amore quando era
lontano. Però era sempre confortante tornare da lui. Sapevo
sempre cosa
aspettarmi e questo mi rasserenava.
E così era stato fino a
quando aveva scoperto che il
rapporto con un uomo poteva essere tutto tranne che confortante.
E la cosa mi era piaciuta tremendamente. Mr. Liam mi
faceva sentire la testa leggera, come dopo un paio di cocktails. E mi
aveva
fatto arricciare le dita dei piedi quella sera sotto alla pagoda
nell’orto
botanico. Oltre ad avermi gentilmente offerto un chiassoso concerto
mentale di
campane. Ed era stato a quel punto che avevo capito come sarebbe potuto
essere.
Con Liam avrei potuto avere tutto quello che non avevo ottenuto dalla
relazione
con Theo. Sarebbe stato il trionfo del mio sogno romantico. Mi sentivo
elettrizzata al solo pensiero. Eppure qualcosa mi aveva fermata. Un
piccolo
tarlo che aveva scavato e scavato fino a costringermi ad arrendermi,
porre fine
al bacio e alla conseguente cacofonia di scampanellii vari, per
potergli dare
ascolto.
Se avevo passato quasi quattro anni
al fianco con Theo non
era perché ero una sciocca. O perché temessi di
non riuscire più a trovare
nessun altro e di restare sola. No, era stato proprio perché
di lui mi fidavo,
sapevo come si sarebbero evolute le cose e gli volevo bene. Mi teneva
la mano e
io mi sentivo rassicurata. Solo ora mi rendevo conto che anche quando
mia madre
mi prendeva la mano sortiva lo stesso effetto: empatia,
serenità, affetto.
Sfiorare la mano di Liam era stata
un’esperienza
destabilizzante. Non ne avevo tratto conforto, era stato come prendere
una
scossa. Ed avevo avuto paura proprio perché non avevo idea
di cosa aspettarmi.
«Ha subito una lobotomia?
Perché hai quell’espressione da
Theodore stampata in volto?». La vocetta petulante della mia
adorata sorella mi
riportò bruscamente alla realtà.
«Immagino stia rivedendo
mentalmente i fotogrammi della
notte rovente passata nel letto di Tu-sai-chi…»,
ipotizzò Donovan, un
sorrisetto malizioso cucito sulle labbra.
«L’Uomo Inutile
doveva proprio essere insoddisfacente a
letto –
non che nutrissi dubbi a tal
proposito – se tu, Felicity la Casta, l’hai data
via al primo appuntamento… »,
constatò Zoe, picchiettandosi l’indice sulle
labbra.
Quella conversazione stava diventando
davvero inutile e
quasi offensiva. Cos’avevano da impicciarsi tanto nelle mie
questioni private?
Soprattutto se tutto quello che avevano da dire consisteva in commenti
poco
carini nei miei confronti e lodi a parti anatomiche non battute dal
sole
appartenenti a Carter Wright!
«Accidenti a voi due!
Perché vi interessa tanto cosa ho
fatto o non fatto con Liam? E perché dovrei spiattellare a
voi due i dettagli
di quanto è accaduto quando finora non avete fatto altro che
dire sciocchezze o
distribuire cattiverie gratuite!», urlai esasperata,
tirandomi le ginocchia
contro il petto e tenendo ostinatamente lo sguardo lontano dalle due
paia di
occhi che sapevo fissarmi attentamente.
«Perché vogliamo
aiutarti?», propose timidamente Donovan.
Zoe gli sibilò di tacere e
mi ordinò di guardarla dritta
negli occhi. Non avevo nessuna voglia di sottostare alle sue pretese
tiranniche
da sorella maggiore ma quando mi minacciò di telefonare a
mamma per informarla
che non avrei potuto sposare l’amico pastore di nostro cugino
perché me la
facevo con un avvocato riccastro e prestante, da ragazza poco timorata
di Dio
qual ero, mi ritrovai a fissare minacciosa le sue iridi scure in meno
di mezzo
secondo.
Ci mancava solo
l’intervento di Mrs. Van Houten e dei suoi
rotoli di Domopack! Probabilmente lo avrebbe impacchettato tutto nel
cellophane
le prime volte, giusto per assicurarsi riguardo alla pulizia e
all’ordine della
persona di Liam, e forse dopo un paio di docce e una sterilizzazione in
acqua e
bicarbonato lo avrebbe accolto in famiglia.
«È da quando
siamo alte quanto un soldo di cacio che
entrambe sappiamo cosa volevamo dalla vita. Io l’ho
realizzato, perché nel mio
caso un marito sarebbe finito ucciso in qualche modo orribile giusto
per
fornirmi ispirazione per un nuovo romanzo. Tu no. Tu volevi
l’amore delle
fiabe, i fiori d’arancio ed i pargoletti. Sei stata per
così tanto tempo con
l’uomo sbagliato da esserti quasi convinta che era proprio
quello che volevi,
rischiando di accontentarti e finire per essere infelice. Ora che hai
finalmente
aperto gli occhi e hai trovato lui,
come puoi essere così scema da tentennare e stare qui a
parlare con noi invece
di correre ad urlargli un gigantesco SÌ dritto in volto e
poi festeggiare
replicando le zozzerie della scorsa sera?»
Che conclusione regale per un
discorso tanto accorato. In
verità, nuovi insulti velati a parte, sapevo benissimo
quanto le sue parole
fosse sincere e ahimè vere.
«Guarda che non mi ha
chiesta in sposa, sai?», le feci
notare, preferendo aggrapparmi a quel piccolo particolare piuttosto che
ammettere che aveva ragione, porre fine alla videochiamata, cacciare
Donnie a
calci e sgasare con il mio pick-up in direzione Boston, studio legale
Carter
Wright.
«Non ancora», si
intromise con tono di sussiego Donovan.
Su quel punto avrei avuto qualcosa da
obiettare essendo a
conoscenza della visione demoniaca che Liam aveva del sacramento del
matrimonio. Grazie Tiffany, se non riuscirò mai a sposare
quell’uomo sarà solo
colpa tua, brutta sgualdrina di una ex-moglie! Perlomeno aveva generato
quel
piccolo confettino che era Arabella e per questo forse non andava del
tutto
disprezzata.
«Insomma ti
muovi?!», sbraitò Zoe, gli occhi infuocati di
quando è prossima ad una vera e propria furia omicida.
Grazie al cielo si trova
a miglia da me ma quel povero ragazzo a cui sta fregando
l’adsl non potrebbe
dirsi ugualmente al sicuro.
***
«Mamma, ripetimi per favore
come siete arrivati alla
decisione di sposarvi, tu e papà…»
Un quarto d’ora prima
finalmente quel comizio di pettegoli
aveva avuto fine e, salutata Zoe, avevo letteralmente messo alla porta
Donnie,
il quale aveva preso a delirare riguardo al progetto di convincere mia
sorella
a venire a vivere da lui. Pff, Zoe e il sole: fantascienza!
Dopodiché mi ero detta che
se volevo davvero compiere quella
pazzia ventilata dalla mia altrettanto folle consanguinea almeno lo
avrei fatto
dopo una doccia ed una scelta accurata del look. Quel momento poteva
diventare
storia e io non potevo certo raccontare ai miei nipotini che la storia
con
Nonno Liam aveva avuto inizio con me vestita con la tenuta da lavoro,
la terra
sotto le unghie e frammenti di foglie secche tra i capelli.
Stavo davvero già pensando
ai nostri nipotini? Ero da
internare in una cella isolata del miglior istituto psichiatrico
americano!
Mi ero lavata rapidamente, mi ero
avvolta i capelli in un
asciugamano, improvvisando un turbante precario, e mi ero infilata la
biancheria. Dopodiché mi ero chiesta che accidenti stessi
facendo. E come ogni
volta aveva trovato un’unica risposta: chiamare mia madre.
«Oh, tesoro, te
l’avrò raccontato mille volte! Dimmi
piuttosto: hai notizie di quella sciagurata della mia primogenita?
Stavo quasi
pensando di andarla a stanare io stessa ma odio la montagna e odio il
Maine e
dovrei farmi stordire con del cloroformio e farmi portare in braccio
fin lassù
da un aitante membro della guardia forestale con le braccia muscolose
ed
opportunamente fasciate nel cellophane sterile…»
Ecco. Il succo delle telefonate con
lei era questo: follia
che si sommava alla follia di Zoe.
Sbuffando incastrai il telefono tra
l’orecchio e la spalla
per poter avere le mano libere e spalmarmi tutto il corpo di crema al
burro di
karité. «Mà, sono seria. Per
favore…»
Lei sbuffò a sua volta per
poi darmi retta ed iniziare a
narrare per l’ennesima volta la storia del loro fidanzamento.
Il nocciolo della questione stava nel
chi aveva proposto
all’altro di sposarlo. Mia mamma, stanca di quel
corteggiamento lungo secoli, e
per nulla interessata ad attendere che mio padre si facesse una
posizione e un
nome nell’ambiente legale, aveva fatto la cosa più
romantica di sempre. Certo i
suoi modi non erano stati propriamente ineccepibili ma alla fine
è la sostanza
che conta, no?
Grace aveva preso il coraggio a piene
mani ed era sbottata,
strillando ad un giovane Montgomery Van Houten: «…Insomma, io sto quasi per andare in menopausa,
perciò se vuoi avere dei
bimbetti prima che i tuoi girini si atrofizzino e i miei ovetti
diventino frittata
o mi sposi ora o mi lasci libera…»,
recitò a memoria mia madre.
All’epoca, per la cronaca,
aveva ventiquattro anni. Ad un
passo dalla menopausa proprio.
«E poi?», le
chiesi sospirando estasiata, come mi era
successo ognuna delle millesettecentonovantadue che avevo udito quella
storia.
«Il giorno dopo si
inginocchiò, mi offrì una corona di fiori
e mi chiese se volevo diventare sua moglie. Non ho mai avuto un vero
anello di
fidanzamento ma feci seccare quei fiori ed ancora oggi li conservo. Tuo
padre è
sempre stato tanto risoluto sul lavoro quanto indeciso in famiglia e
negli
affetti…dio, quanto ero innamorata!», mi
confessò piano.
Ogni volta che parlavamo di questo
lei si emozionava per poi
aggredirmi perché le facevo colare il mascara. Cosa
impossibile da credere dal
momento che sborsava verdoni e verdoni per un rimmel Dior accuratamente
waterproof a prova delle peggiori crisi di pianto.
«Grazie
mamma…», sussurrai.
Dall’altro lato della
cornetta sentii un trambusto
improvviso e poi: «Non ti starai mica per sposare,
vero?», strillò a duecento
decibel direttamente nel mio timpano, rischiando di farmi cadere il
telefono
dritto dritto nella vaschetta di acqua calda in cui avevo immerso i
piedi per
un pediluvio dell’ultimo momento. Telefono che tra
l’altro mi era appena stato
regalato da Donovan, stufo delle mie email e della continua
impossibilità di
contattarmi.
«NO!
Cioè…sì? NO! Forse…ma no
dai! Che scemenza! Sarebbe una
stupidaggine? Sì, sì lo è.
Però…», biascicai nel panico
più totale.
Ora io vorrei sapere chi è
stato a decidere che nel momento
in cui una donna diventa madre viene dotata di un sensore radar che
riesce a
scovare ogni minimo segreto dei propri figlioletti, senza che questi
abbiano
aperto bocca. Leggono nella mente? Posizionano delle cimici nelle
nostre case?
Assoldano investigatori privati? Mistero.
«Le telefonate con te mi
provocano sempre una tremenda
emicrania, Felicity cara. Deduco che tu sia piuttosto confusa al
riguardo ma
non del tutto restia all’idea di accasarti finalmente. Devo
forse sperare che
il pastore abbia fatto breccia nel tuo cuore grazie ad un sermone
particolarmente sentito?», domandò curiosa, una
nota di speranza nella voce.
Sermone? Pastore? Eh? Ok, forse il
sensore di sua madre era
un po’ ammaccato e a volte faceva cilecca. Non riuscivo
neanche a dare un volto
a quell’insignificante essere umano incontrato alla festa di
compleanno di
papà, come poteva pensare che stesse per sposarlo?
«Mamma, hai preso le tue
pillole?», mi sincerai preoccupata.
«Fai poco la simpatica,
tesoro. Se ti stai per sposare io,
in quanto tua genitrice, devo esserne informata con un anno di
preavviso per
poter contattare personalmente la mia amica Vera Wang e chiederle di
confezionarmi un abito adatto. E il catering, la location, gli ospiti.
Boy
George per cantare alla festa…»
Alzai gli occhi al cielo, quella
donna era veramente
impossibile. «Primo: grazie, per preoccuparti per il tuo vestito Vera Wang mentre io posso
andare all’altare coperta
solo con tre foglie di fico. Secondo: Boy George piace solo a te!
Terzo:
nessuno sposa nessuno!», sbottai al colmo della sopportazione.
Boy George?! Puah!
«Oh. È un
peccato, avevo già comunicato la lieta novella a
tutte le tue zie. Non potresti ripensarci?», mi chiese
ansiosa.
Estrassi i piesi dal catino, li
asciugai e tornai in camera.
Liberai i capelli dall’asciugamano e li pettinai
approssimativamente con la
mano libera. «Come accidenti hai fatto a dirlo a tutte le zie se eri al telefono con
me?!»
«Abbiamo un gruppo
Whatsapp», mi spiegò in tono altezzoso.
Quella era la mia rovina. Genitori e
Whatsapp: il binomio
degli orrori.
«Addio mamma!»,
sancii spazientita.
Lei fece in tempo a ricordarmi che:
«Tic tac, tic tac,
Felicity! La menopaus-», prima che le riagganciassi in
faccia, senza curarmi
una volta tanto delle buone maniere.
***
Alla fine mi ero decisa per una gonna
a metà coscia color
navy ed una graziosa maglia a righe che non ricordavo neanche di
possedere.
Decisi di fare uno sforzo e lasciare a riposo per una sera i miei
fidati anfibi
e mi infilai un paio di ballerine scure. Legai i capelli in una coda di
cavallo
alta e mi passai un po’ di mascara e di fard sul viso che con
il sole degli
ultimi giorno era tutto un fiorire di lentiggini.
Lo stavo per fare davvero? Non ne
avevo idea e il panico
stava iniziando ad impadronirsi di me, perciò feci una delle
poche cose in
grado di calmarmi i nervi in ogni situazione.
Seduta a gambe incrociate sul parquet
accanto al letto, gli
occhi all’altezza della boccia d’acqua posizionata
sul comodino e un allegro
George intento a sguazzare felice.
«Secondo te sto
sbagliando?», lo interrogai.
Per tutta risposta ottenni tante
bollicine. Segno che non
era d’accordo.
Picchiettai piano sul vetro della
boccia e lui nuotò rapido
vicino a me. Aveva due occhietti tondi che sembravano osservare tutto
quello
che lo circondava ed uno sguardo sorprendentemente sveglio.
«In fondo ci conosciamo da
poco. Siamo usciti ufficialmente
solo una volta e…però mi piace, Georgie, capisci?
Mi piacciono quei suoi modi
pacati, sicuri, quasi arroganti. Ma in senso buono eh! E poi ha delle
ciglia
lunghe che gli ombreggiano gli occhi e ogni volta che le sbatte
velocemente io
sento le farfalle nello stomaco. Dio, sono patetica, vero?»
Bollicine di diniego.
Forse avrei dovuto comperare una
compagna per il mio George.
Una bella pesciolina rossa per fargli compagnia e ripagarlo per tutte
le sedute
terapeutiche a cui lo avevo obbligato a soprassedere.
«È orgoglioso,
è appassionato ed è premuroso a modo suo. Non
gli piace doversi ripetere, essere in ritardo e detesta restare
imbottigliato
nel traffico ogni sera. Adora sua figlia e sua sorella e segretamente
presiede
il fanclub di Queen Mildred, però shh, acqua in bocca! Loda
sempre Diane, la
sua segretaria, e questa cosa mi sconcerta un attimo ma magari
è solo
un’anziana signora sovrappeso, no?»
Il pesce rosso soffiò,
riempiendo di bolle l’acqua prima
calma. Eh no, George caro, non puoi essere in aperto disaccordo proprio
sul
delicato argomento della segretaria privata!
L’occhio mi cadde sulla
sveglia posata dietro la boccia, i
numeri dell’orologio distorti dall’effetto del
vetro e dell’acqua. Dovevo
muovermi prima di rischiare di rimanere incastrata nel traffico. Non
avevo un
buon senso dell’orientamento e non avrei mai saputo
ricordarmi come ritornare
al suo loft. Ma l’indirizzo del suo studio legale era scritto
in caratteri
eleganti sulla pagina principale del suo sito web e, dopo aver
impostato e
studiato il percorso più rapido grazie all’ausilio
di Google Maps, avevo
salutato il mio amichetto e aveva recuperato la mia piccola tracolla.
Avevo chiuso tutte le persiane, nel
caso non avessi fatto
ritorno quella notte. Fatto in cui segretamente speravo. Acciuffai le
chiavi
del pick-up e mi assicurai di serrare a doppia mandata la porta
d’ingresso
prima di mettermi alla guida.
Accesi la radio e iniziai a
fischiettare. Mi sentivo molto
meglio dopo aver parlato con George e ora riuscivo a vedere tutto da
un’altra
prospettiva. Non potevo piombare senza preavviso nel suo ufficio e
proporgli di
sposarci. Soprattutto perché sapevo che ci sarebbe voluto
del tempo per
convincerlo che il matrimonio non era una delle forme in cui si
manifestava
l’Anticristo. Però potevo invitarlo fuori a cena,
potevamo frequentarci, potevo
dirgli apertamente cosa mi piaceva di lui – tutto –
e potevo stringergli la
mano. E poi ovviamente potevo infilarmi nel suo letto quella notte. E
anche
quelle successive. Anche per sempre magari.
Dovevo procedere per gradi, senza
spaventarlo. E senza
correre il rischio di commettere una sciocchezza. Da bambina non
segnavo certo
di sposarmi diciassette volte prima di trovare l’anima
gemella. Doveva essere
per sempre. E dovevo esserne sicura. La storia di Liam con Tiffany e le
loro
nozze affrettate parlavano da sole.
Percorsi qualche chilometro
costeggiando la campagna, il
sole che iniziava a calare e a farsi più arancione, la
strada sgombra e lucida
di fronte a me. Un’auto stava giungendo dalla direzione
opposta alla mia,
correva rapida. Fin troppo rapida per una stradina stretta come quella.
Storsi
il naso e premetti il pedale del freno, non avrei certo rischiato di
finire nel
fosso per colpa di un incosciente con la passione per la
velocità. Che poi
stava guidando quella che pareva una vecchia Ford e non certo una
Ferrari! Una
vecchia Ford? Aguzzai lo sguardo per osservare meglio l’auto
sempre più vicina,
vettura che ora stava rallentando a sua volta.
Sembrò una scena quasi
irreale. Io rallentavo, l’altra
macchina fece lo stesso e così quando ci affiancammo eravamo
praticamente
fermi, le bocche spalancate e gli occhi sorpresi.
«Theo?!»,
domandai cercando di capire cosa mai potesse farci
nella campagna fuori Plymouth.
Cercava te, Sherlock!
«Possiamo fermarci e
parlare?», mi domandò speranzoso.
Ignorai il suo tono quasi
supplichevole e decisi di
mostrarmi fredda. Ci eravamo appena lasciati dopotutto!
«Sono piuttosto di
fretta…», commentai gelida, lanciando
un’occhiata al orologio sul cruscotto.
Lui aggrottò la fronte e
si sporse leggermente verso di me, «Dove
stai andando? Potrei accompagnarti…»
Mi venne da ridere
nell’udire la sua ultima proposta. Se
avesse saputo dove ero diretta non sarebbe di certo stato impaziente di
accompagnarmici. Assolutamente no.
«No, non puoi. Cinque
minuti, Theodore, cinque. Più avanti
c’è uno spiazzo sulla destra: ti aspetto
lì», detto ciò ritirai la testa e
rimisi in moto.
Un minuto più tardi mi
raggiunse e io mi decisi a scendere
dal furgoncino. Non mi avvicinai e controllai di nuovo
l’orologio. Dovevo
andare, altrimenti Liam sarebbe uscito dall’ufficio, io avrei
dovuto chiamare
Judith o Mildred per farmi dettare il suo civico e poi avrei dovuto
trovare
qualcuno che mi spiegasse come raggiungerlo. Una perdita di tempo
inutile ed
una scocciatura evitabile. Se solo Theo si fosse sbrigato a dire quello
che
doveva e avesse levato le ancore.
Mi sorpresi della mia cattiveria ma
non riuscivo davvero a
capire cosa mai ci facesse lì. Non ci eravamo lasciati in
amicizia, scambiandoci
baci sulle guance e promettendoci di trascorrere un weekend al mare
insieme.
Avevamo urlato, avevamo recriminato, avevamo esagerato. Non era stato
per nulla
bello e di certo era stata la cosa più vera che era successa
nella nostra
relazione di quattro anni. Gli strilli, i rancori, le parole non dette.
Tutto
covato per anni, in silenzio. E poi eravamo scoppiati e alla fine di
tutto la
nostra storia ne era uscita a pezzi ma noi no. O perlomeno io no. Anzi
era
stato un sollievo. Un nuovo inizio.
Lui fece un paio di passi verso di me
e io mi affrettai ad
alzare una mano per bloccarlo.
«Mi manchi,
Felicity…», sussurrò piano, guardandomi
con
degli occhioni da cucciolo.
Tsé, ora me lo diceva!
Dopo anni di attesa, anni in cui
avevo ricevuto solo resoconti sui suoi maledetti studi botanici e
neanche una
parola dolce.
Non avevo alcuna intenzione di
cascarci. Non potevo
indietreggiare dopo aver fatto tutti quei passi in avanti. Dopo aver
scelto
qualcuno che non fosse lui. Tic, tac, tic, tac. Così aveva
detto mia madre e in
quel momento io potevo chiaramente percepire il tempo scivolarmi tra le
mani
senza che io potessi fare alcunché.
«Questo non
cambierà le cose. Ci siamo detti addio», gli
ricordai, ammorbidendo il tono.
Il ruolo di regina dei ghiacci
dopotutto non mi si addiceva
troppo. E non potevo negare che provavo ancora un infinito affetto per
quell’uomo.
Successe tutto in un attimo, io mi
ero distratta per
guardare le lancette che si stavano avvicinando pericolosamente al sei
sul
quadrante rosa pallido del mio orologio da polso e quando avevo
rialzato lo
sguardo lo avevo visto.
In ginocchio.
«Non
ti starai mica
per sposare, vero?», le parole di mia madre
suonavano come una cantilena
nella mia mente in preda al panico.
«Felicity Van Houten,
vorresti concedermi l’onore di
diventare mia moglie?»
ECCOMI!
Questo capitolo
mi piaceee – squillino le trombe! – e
l’ho scritto di getto nonostante l’idea
fosse già stabilita da tempo. Cioè Theo doveva
dichiararsi fin dall’inizio, che
broccolo d’uomo! C’è per caso qualcuno
#TeamTheodore? Ne dubito ma non si sa
mai, il mondo è bello perché è vario,
no?
Vi ho dato uno
sprazzo di Donovan e Zoe (Mia eroina! Anche io eliminerei qualsiasi
marito
probabilmente (Liam a parte) ;D) e una telefonata deleteria con Mamma
Van
Houten. Più una saggia conversazione con George il Savio. Il
grande assente è
lui ma comunque Felicity non parla d’altro quindi va bene
così. E poi il
prossimo capitolo sarà tutto suo. Chissà come
accoglierà questa ultima novità…
Scatenatevi con
i commenti!
Bacini a tutti!
S.
P.S. Doppi e
tripli bacini a chi passa a dare un’occhiata e lascia un
commentino alla mia
nuova storiella à http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3486063&i=1
|
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Capitolo 14 *** Orchidee ***
Liam
Un
leggero bussare mi distolse dal mio furioso battere sui tasti del
computer, impegnato com'ero a rispondere ad un idiota, che aveva il
coraggio di fregiarsi del titolo di avvocato quando in
verità riusciva a malapena a ricordarsi quando la sua
presenza di fronte alla corte fosse richiesta, avevo completamente
perso di vista l'ora.
Il
viso gentile di Diane fece capolino dalla soglia e mi lanciò
un'occhiata carica di scuse, «So che aveva chiesto di non
essere disturbato, ma c'è qui una signorina che vorrebbe
ess-», tentò di spiegare tranquilla.
Sbuffai
in preda all'esasperazione. Perché oggi niente andava nel
verso desiderato? E perché proprio oggi anche la cara Diane
doveva decidere di mostrarsi inefficiente e poco attenta alle mie
chiare richieste?
«No,
non riceverò nessuno oggi. Scusati con lei e fissa un
appuntamento per la prossima settimana», la bloccai subito.
La
segretaria mi guardò attentamente, gli occhi pieni di
domande che però non avrebbe mai osato tradurre in parole.
«Liam, la settimana prossima sarà a San
Francisco...», mi ricordò, cercando di non
apparire sorpresa di fronte alla mia dimenticanza.
Maledizione!
Perché ero stato così stupido da accettare
quell'incarico in California? Tutta quell'afa, quell'allegria da West
Coast non facevano proprio per me. Soprattutto se ci dovevo andare da
solo e per questioni di lavoro.
«Trova
il modo di incastrarla in qualche modo in agenda, cristo
santo!», sbottai perdendo la pazienza. Per quel che mi
riguardava poteva esserci anche Angela Merkel seduta sul divanetto in
pelle chiara della sala d'attesa e ciò non avrebbe cambiato
la mia decisione di non riceverla oggi stesso.
Diane
si ritirò senza replicare, ma potevo capire dalla piega
assunta dalle sue labbra e dalla malagrazia con cui si chiuse la porta
alle spalle, così lontana dalle sue solite maniere garbate,
che era scontenta.
Ci
mancava solo che Diane mi tenesse il broncio. Questo andava a sommarsi
alla notte passata in bianco, all'importante cliente texano che aveva
rinunciato ad essere rappresentato dal mio studio legale e alla
telefonata di Tiffany. In verità sapevo benissimo qual era
la vera causa del mio malumore. Era così chiaro ed evidente
che mi infastidiva ammetterlo.
Lei non
aveva chiamato.
Erano
passati quasi due giorni da quella meravigliosa notte passata insieme e
di Felicity non avevo più avuto notizie. Probabilmente
eravamo finiti nel classico trabocchetto che porta ognuna delle due
parti ad aspettarsi che sia sempre l'altro a fare il primo passo e
così ci trovavamo in una fase di stallo. Sapevo benissimo
che le cose stavano così ma, testardamente e anche molto
infantilmente, era da trentasei ore che fissavo lo schermo del telefono
in attesa.
Slacciai
maldestramente il nodo della cravatta e con gesti stizziti la feci
scivolare via dal collo, sperando di poter trovare almeno un po' di
sollievo nel liberarmi da quella costrizione che non mi faceva
respirare. La sensazione di avere un macigno intento a premere sul mio
petto però non si alleviò.
Due
rapidi colpi sul legno della porta mi obbligarono a darmi un contegno e
a tornare a rivolgermi alla schermata illuminata del pc.
«Che
c'è ancora?»
«La
signorina non vuole nessun appuntamento e afferma che
aspetterà qui fuori», lo informò
concisamente Diane, gli occhi glaciali fissi sulla cravatta gettata
sulla poltrona.
Scossi
la testa, «Che aspetti allora!»
Passai
le successive tre ore a correggere le bozze dei fascicoli dei clienti
di cui mi sarei dovuto occupare in settimana. Quello era un lavoro che
solitamente era riservato all'ultima ruota del carro, probabilmente un
povero tirocinante, nelle sue pause tra il fare fotocopie e il portare
il caffè a tutti quelli che occupavano posizioni
gerarchicamente superiori alla sua. Ovvero tutti.
Era
così però che tutti venivano iniziati al mondo
legale. Era stato così anche per me. Sepolto per serate
intere in scantinati polverosi a schedare e ordinare faldoni. Il trita
documenti era diventato il mio migliore amico. Con il passare degli
anni, le promozioni e poi la fondazione del mio studio avevo dovuto
imparare a delegare e quel compito era stato tra i primi a cui avevo
dovuto rinunciare. All'inizio lo avevo fatto a cuor leggero, sollevato
di essermi liberato di quell'odiosa incombenza. La verità
era che alcuni calmano i propri nervi facendo le pulizie, cucinando
torte, praticando yoga mentre io ci riuscivo solo occupandomi di tutte
quelle faccende da novellino.
Non
serviva a niente, il giorno successivo mi sarei ritrovato solo con
molto più lavoro 'vero' in arretrato, ma in quel momento
serviva a distrarmi, ad impegnare la mia mente in azioni elementari e
perciò rassicuranti.
Diane,
nonostante il mio pessimo trattamento, era passata un'ora prima ad
augurarmi una buona serata prima di andare a casa. Lev, aveva fatto una
capatina per informarmi che aveva davvero bisogno di un paio di giorni
di permesso per il mese di luglio a causa di sua madre con il femore
rotto, mentre Joanne mi aveva consegnato, con un sorrisino diabolico
stampato in volto, il foglio riguardante l'accordo per i suoi sei mesi
di assenza per maternità che attendeva solo una mia firma.
Lanciai
un'occhiata fuori dall'ampia vetrata e mi sorpresi di trovare la
città già avvolta dall'oscurità.
Sospirai, era davvero quella la vita che volevo? Tutti tornavano a casa
di fretta per cenare con la propria famiglia, si prendevano giorni di
ferie per prendersi cura dei propri cari o andare in vacanza, mettevano
in pausa il lavoro per dedicare tutto il loro tempo ad un
bebè in arrivo. Nessuno passava le serate in solitudine in
ufficio a correggere delle bozze.
Decisi
di lasciar perdere quando mi accorsi che avevo tra le mani il fascicolo
di Mrs. Grey; non avevo le forze per concentrarmi sulle sue assurde
richieste riguardo ai suoi sette gatti. Onestamente non biasimavo il
marito per aver deciso di gettare la spugna e lasciare che il suo
matrimonio naufragasse, anche se ora si ritrovava a fronteggiare
davanti ad un'intera aula incredula la pretesa insensata della consorte
che, oltre ai propri alimenti, voleva che venissero coperte anche le
spese mensili dei suoi adorati micini.
Spensi
il computer, recuperai la ventiquattr'ore, il portatile e la giacca, mi
misi attorno al collo la cravatta e lasciai il mio ufficio. Nell'atrio
regnava la penombra data dalle luci al neon ancora accese nella sala
d'attesa, mi diressi lì, intenzionato a spegnere tutto e
andarmene a mangiare un boccone al volo.
Mi
bloccai con la mano a mezz'aria. Sul divanetto, appallottolata in
posizione fetale, c'era una figura familiare. I lunghi capelli biondi
erano sparsi in modo disordinato attorno al suo viso, gli occhi chiusi
a causa del sonno che doveva averla colta nell'attesa, le gambe
scoperte dalla gonna che si era alzata oltre la metà coscia.
Era
sempre stata lì. Per quasi quattro ore, pazientemente seduta
su uno stupido divano in una stupida sala d'attesa. A due passi da me
che mi struggevo per l'assenza di sue notizie.
Avrei
voluto svegliarla immediatamente e rimproverarla per non essersi
presentata direttamente da me in ufficio senza bisogno di passare da
Diane, ma mi fermai un attimo ad osservarla. Sembrava così
giovane in quel momento, una ragazzina con la pelle screziata da mille
lentiggini e una nuvola di capelli luminosi.
Abbandonai
tutto ciò che occupava le mie mani sul basso tavolinetto con
la superficie in vetro ricoperta di riviste d'attualità e mi
inginocchiai lentamente accanto al divano, verso l'estremità
dove era adagiata la sua testa.
Respirava
piano e la maglietta di cotone leggero che indossava si alzava e
abbassava ritmicamente. Mi ritrovai a pensare alla notte di due giorni
prima quando Felicity si era addormentata stremata nel mio letto e io
non ero riuscito a prendere sonno immediatamente e così
l'avevo osservata. Era scarmigliata in seguito alle attività
alquanto piacevoli che ci avevano visti coinvolti eppure sembrava
ancora più bella. Ed era stato in quel momento che avevo
capito che ci ero ricascato.
Quindici
anni dopo Tiffany era successo di nuovo e questa volta, con la
maturità dei miei trent'anni compiuti e superati, potevo
rendermi pienamente conto della solidità di quei sentimenti.
A venti anni mi ci ero gettato a capofitto, ebbro della sensazione di
assoluta felicità che provavo a stare con Tiffany. Non avevo
riflettuto, in fondo perché avrei dovuto? Quella era
l'età giusta per vivere pienamente e con un briciolo di
incoscienza, per sbagliare e per fare nuove esperienze. Ora invece era
il momento perfetto per riflettere e prendere una decisione definitiva.
Il mio errore lo avevo già commesso in passato e ora avevo
una nuova possibilità, in quel momento assopita davanti a me.
Mi
rimisi in piedi, infilai la giacca, nonostante il caldo che regnava
nella stanza dopo lo spegnimento dell'impianto di aria condizionata
avvenuto probabilmente all'orario di chiusura, e mi chinai per
prenderla tra le braccia e sollevarla dal divano. Acciuffai la mia
borsa e la piccola tracolla di Felicity abbandonata sul pavimento e
lasciai l'ufficio. Spensi le luci con il gomito e ringraziai
silenziosamente il fatto di avere porte automatiche che si bloccavano
senza chiave una volta che si usciva chiudendosele alle spalle.
Chiamai
l'ascensore e nell'attesa non potei fare a meno di perdermi ancora
nelle leggere venature violacee che ricamavano le sue palpebre serrate,
nelle screpolature delle sue labbra perennemente sottoposte a
mordicchiamenti feroci da parte della loro proprietaria e nel rossore
delicato che si diffondeva sempre sulle sue gote, persino nel sonno.
Il
trillo dell'ascensore mi salvò in corner dal rischio di
cadere in pensieri così melensi da risultare iperglicemici.
Raggiunti i garage sotterranei adocchiai la mia moto posteggiata nel
solito settore a me riservato per poi vagare con lo sguardo verso i
posteggi dedicati ai visitatori. Il grande pick-up impolverato di
Felicity non poteva non spiccare tra le poche automobili scintillanti
ancora ordinatamente affiancate.
Facendo
uno sforzo da vero giocoliere riuscii ad aprire la sua piccola borsa a
tracolla e ad infilarci dentro uno mano senza farla cadere sul cemento
nudo del pavimento. Le mie mani incapparono in una selezione di oggetti
insoliti e tipicamente femminili veramente ampia per un contenitore
dalle dimensioni così ridotte, ma vi non trovai alcuna
traccia delle chiavi.
Cercando
di destreggiarmi come meglio potevo, allungai una mano verso le tasche
posteriori della sua gonna blu.
«Stai
davvero tentando di approfittarti di una donna incosciente?»,
mi chiese una vocetta assonnata in tono divertito.
Gli
occhi di Felicity, spalancati come fanali nella notte, mi fissavano dal
basso verso l'alto; un sopracciglio sollevato in una muta domanda.
«Assolutamente
no!», esclamai indignato.
«Le
tue mani sono sul mio sedere...», osservò
tranquilla lei, senza manifestare alcuna intenzione di liberarsi dalla
mia presa o di allontanare le mie mani.
Non
sapendo bene come rispondere, mi limitai a borbottare qualcosa
sottovoce mentre mi piegavo sulle ginocchia per aiutarla a scendere
prima di fare un passo indietro e interrompere il contatto tra i nostri
corpi.
In
piedi di fronte a me, mi fissò per un paio di secondi, il
capo leggermente reclinato e un sorrisetto furbetto che le piegava
sempre più gli angoli della bocca.
«Ora
il mio didietro si sente terribilmente scoperto. Torna immediatamente
qui!», affermò un attimo prima di gettarmi le
braccia al collo e spalmarsi senza alcuna vergogna contro di me.
La
mia ventiquattr'ore scivolò a terra, così come la
mia borsa porta computer e la tracolla di Felicity, ma neanche me ne
accorsi impegnato com'ero a riprenderla tra le braccia, le sue gambe
allacciate attorno ai miei fianchi in una presa ferrea, e a baciare
quelle labbra rosa sempre secche per le troppe ore passate all'aria
aperta.
Quando
finalmente ci staccammo per prendere fiato mi accorsi di essermi
praticamente seduto sul cofano di una luccicante Mercedes rosso
ciliegia. Felicity tornò con i piedi per terra, ma non
accennò ad allontanarsi, cosa che in ogni caso non le avrei
permesso.
«Mi
sei mancato», mi soffiò piano sulle labbra, gli
occhi luminosi e traboccanti di felicità.
Era
così bella in quel momento: i capelli gonfi di un biondo
accecante, le guance rosse e un sorriso beato ad adornarle le labbra
umide. Era così bella che avrei voluto immortalare
quell'istante per sempre. Una polaroid resistente al tempo, alla
dimenticanza, alla vita. Un ricordo da custodire, da tramandare, da
conservare come perenne promemoria di quale sia il vero volto della
felicità più pura ed autentica.
Posai
la fronte contro la sua, il fiato ancora spezzato e un caldo terribile
a pervadere ogni fibra del mio corpo. Perché accidenti mi
ero infilato la giacca?
«Andiamo
via», sussurrai piano prima di far scivolare lesto una mano
nella tasca posteriore della sua gonna, ingannandola con la promessa di
una carezza sfacciata, e impossessandomi della chiave del pick-up.
***
«Guidi
come una pazza», sancii acchiappando al volo la mano che si
stava già avventando furiosa verso un punto alquanto
delicato del mio corpo nudo.
Approfittai
del suo debole tentativo di lotta per trascinarla tra le mie braccia,
luogo dov'era stata per le ultime ore. La sua pelle era caldissima, ma
nonostante il clima rovente di quella notte estiva non mi sarei
allontanato da quel groviglio di lenzuola e da lei per nessuna ragione
al mondo.
«Ti
ho portato a destinazione e tanto basta», sancì
lei pratica e per nulla disposta a mettere in discussione le sue doti
da autista o a riaprire la discussione che parecchie ore prima mi aveva
visto perdente e relegato alla condizione di semplice passeggero.
«A proposito, sono stata chiesta in sposa...»,
buttò lì sovrappensiero.
«Il
cugino reverendo?», le chiesi sovrappensiero, distratto dal
suo profumo e dal suo collo esposto e abbronzato.
Un
pugno mi colpì piano ma deciso sulla spalla e mi costrinse
ad allontanarmi dalla sua pelle e a dedicarle piena attenzione.
«Cos'è accaduto?», domandai cauto,
preoccupato dalla serietà del suo sguardo.
Lei
si allontanò da me per potermi guardare dritto negli occhi,
una buffa espressione a metà tra il colpevole e il sollevato
stampata in viso.
«Theo...»,
rispose semplicemente.
Quell'unico
nome a racchiudere più di mille parole.
Felicity
scosse la testa sconsolata e volse lo sguardo verso la vetrata scura.
«Io penso sia stato il panico derivato dalla consapevolezza
di avermi perso...», disse sovrappensiero, come se stesse
tentando di spiegare qualcosa a sé stessa. «Ho
atteso per quasi quattro anni che si lasciasse andare, che per un
attimo mettesse da parte quel suo atteggiamento compito e facesse un
gesto spontaneo ed autentico. Uno slancio, una piccola pazzia. Quattro
anni, santo cielo! E cosa ho ricevuto in cambio? Una collezione di
email impersonali tutte uguali e ore e ore di spiegazioni non richieste
sulla flora dell'East Coast. Doveva svegliarsi proprio adesso? Quando
ero pronta per dirgli addio?»
«Forse
la differenza sta proprio qua; lui non era pronto», suggerii.
Mia
madre me lo ripeteva sempre da ragazzino. Ci vogliono due persone per dire sì, ma
ne basta una per dire no. E
questa frase si prestava benissimo applicata al campo relazionale. Il
mio lavoro me lo aveva insegnato, io in prima persona ne avevo fatto le
spese. Quando uno decide di averne abbastanza, di non poter
più sostenere il peso di quel rapporto, è in quel
momento che la relazione finisce. Anche se l'altra persona coinvolta
non la pensa allo stesso modo.
«C'è
una bella differenza tra il non essere pronti a lasciarsi e
l'utilizzare il pretesto delle nozze in un modo così
meschino! In quattro anni la parola matrimonio non
ha mai sfiorato le sue labbra, sebbene sapesse quanto fosse importante
per me. E adesso...». La osservai in silenzio mentre si
alzava dal letto e con gesti rabbiosi si infilava gli slip e la sua
t-shirt a righe blu. «Adesso ha avuto la faccia tosta di
inginocchiarsi per chiedere la mia mano!». Sparì
in bagno per poi tornare a passo di marcia verso di me e fare
dietrofront. Dopo pochi secondi ritornò sui suoi passi, si
fermò e mi fissò seria.
«Mi
dispiace, so che a te non interessano le sfortunate vicissitudini di
Felicity e Theo. Porco cactus, tu dovresti essere l'ultima persona al
mondo a cui raccontare tutto ciò! Cosa mi è
preso?», si incolpò infuriata sedendosi sul letto,
dandomi le spalle.
Ogni
idillio era tale proprio perché seguito da una crisi, era
proprio quella che rendeva ancora più fulgidi i momenti
meravigliosi che l'avevano preceduta. Sospirai e mi alzai lentamente
dal materasso e dal quel groviglio di lenzuola ancora tiepide.
Recuperai i miei boxer abbandonati sul pavimento e li indossai, prima
di fare il giro dell'ampio letto matrimoniale e inginocchiarmi di
fronte a Felicity.
Le
presi le mani tra le mie, ma lei non alzò lo sguardo,
limitandosi ad osservare le nostre dita intrecciate.
«Hai
ragione, non sono interessato alle sfortunate vicissitudini di Felicity
e Theo, ma semplicemente perché vorrei non esistessero o
perlomeno avessero fine. Così potremmo dare il via ad un
nuovo capitolo e intitolarlo le "Fortunate Vicissitudini di Felicity e
Mr.Liam". Però io non posso sapere cosa vi abbia tenuto
legati per così tanto tempo o quanto forti fossero i vostri
sentimenti reciproci. Non lo so e non voglio fare l'arrogante
presumendo di sapere cose che in realtà non conosco.
Però Felicity, se anche solo tu avessi il minimo dubbio...io
non vorrei mai essere d'intralcio», mormorai piano
accarezzandole il polso esile.
Lei
a quel punto sollevò la testa di scatto e mi
fissò stralunata. «Liam? Mica crederai che abbia
anche solo lontanamente pensato di mollarti su due piedi per sposarmi
Theo, vero?», mi domandò, gli occhi spalancati
dall'incredulità.
Ve
l'ho già detto quanto adoro le domande trabocchetto delle
donne? Ecco, se c'è qualcosa che amo ancora di
più sono i voli pindarici di ore e ore necessari ad arrivare
a dire qualcosa che sarebbe potuto essere spiegato nell'arco di cinque
minuti. Partono da lontano, ti confondono narrandoti retroscena e
aneddoti, ti stordiscono con flussi di coscienza che fanno un baffo a
Joyce, ti abbagliano con racconti contraddittori. E così
quando ti stai già convincendo ad accettare le conseguenze
che deriveranno da quel loro lungo ed accorato discorso, loro
concludono contente il sermone giungendo ad una conclusione che
è l'esatto opposto di ciò che ti aspettavi.
Il
perché lo facciano nessuno lo ha mai capito. Matthew
probabilmente perse dieci anni di vita quando Queen Mildred, con
l'intento di annunciargli la lieta novella della sua gravidanza, venne
fraintesa e lui credette che lei volesse il divorzio. Tutte le volte si
difende dicendo che sua moglie sembrava tutto tranne che una futura
mamma tutta sorrisi e lacrime di gioie mentre gli parlava e che la sola
idea delle laute parcelle che mi avrebbe dovuto sganciare per la
separazione avrebbe causato un mancamento anche all'uomo più
solido. Onestamente nessuno gli aveva mai creduto, suvvia, Malefica
potrebbe mai piangere di felicità?
«E
io che pensavo tu fossi un uomo sveglio...»,
sbuffò. «In più mi sento offesa
perché questo vuol dire che tu mi credi capace di valutare
la proposta di un altro e poi fare...quello che ti ho fatto! Non sono
una sgualdrina io, testa di cactus che non sei altro!»,
sbottò indignata, districando le sue dita dalla mia presa.
Ecco,
ora il colpevole ero io, non colei che mi aveva appena fatto credere di
essere destinata ad un altro.
«Ho
solo ipotizzato che forse ci stessi riflettendo su. In fondo quattro
anni non si mettono da parte senza neanche pensarci un
attimo...», le feci presente. «Dimmelo tu allora
com'è andata, cosa hai detto e cosa vuoi fare».
Il
nostro silenzio era interrotto solo dal ticchettare prepotente della
sveglia rosa confetto a forma di gatto che mi aveva regalato Arabella
appena atterrata a Boston due settimane prima e che ora faceva bella
mostra di sé sopra il mio comodino.
«Gli
ho detto di no, non abbiamo parlato molto, stavo andando in un posto e
avevo un po' di fretta...», mi fece presente rivolgendomi un
timido sorrisetto civettuolo. «Gli voglio bene, come potrei
volerne ad un caro amico di vecchia data e le cose stanno
così da più di un anno. Questo suo gesto
è stato inaspettato, ma non cambia le cose. Sogno il
matrimonio da quando sono in fasce, ma se mai accadrà
dovrà essere per sempre. O perlomeno nel momento in cui
accadrà io dovrò credere con tutto il cuore che
sarà per sempre. E io sono fermamente convinta che con Theo
non sarebbe per sempre, semmai per un paio d'anni. E comunque ora come
ora sono piuttosto coinvolta da qualcun altro e non ho alcuna
intenzione di ipotecare la mia casetta per potermi permettere un certo
Avvocato Carter Wright...», mi spiegò in un
sussurro accarezzandomi piano il volto.
Quello
che leggevo nei suoi occhi mi causava in egual misura speranza ed
autentico terrore.
«Comunque
è sleale affrontare una discussione in déshabillè...»,
mugugnò scontenta facendo scorrere un dito sul mio petto
nudo.
Ridacchiai
e le acciuffai la mano dispettosa. «Vorrei solo farti notare
che il mio viso è giusto giusto all'altezza delle tue cosce
nude...»
Lei
mi guardò con fare furbetto prima di sporgersi verso di me e
soffiarmi sulle labbra le parole che misero fine a quella
conversazione: «Direi che potresti approfittarne e darti da
fare allora, che ne dici?»
***
«Lo
ha rifatto»
«Chi
ha rifatto cosa?», mi informai sovrappensiero stando attento
alla traiettoria che le manine di Gabriel stavano seguendo.
Matthew
sbuffò infastidito. «Mildred! È
nuovamente incinta...»
Gli
lanciai un'occhiata di soppiatto. «Congratulazioni!
Però questo vuol dire che lo avete rifatto,
va bene l'emancipazione femminile, ma per alcune cose noi uomini siamo
ancora indispensabili...»
«Solo
per una cosa. Per creare nuovi, piccoli ed adorabili Gabriel. Per il
resto ce la caviamo alla grande anche senza di voi, non
preoccupatevi», ci interruppe una voce familiare,
appartenente ad un folletto dai capelli color carota.
«Judy,
risparmiami, io diffondo i miei adorabili geni nella mia altrettanto
adorabile prole!», si difese subito il mio amico.
Gabriel
nel frattempo, approfittando del mio momento di distrazione, si era
accaparrato i miei occhiali da sole e li sventagliava come se fosse una
bandierina e non una montatura da 400$.
Mia
sorella si accomodò accanto a me e allungò le
braccia per catturare il viso di Gabriel e riempirlo di piccoli bacini
che lo fecero gorgogliare di gioia e gli fecero, fortunatamente,
mollare la presa sui miei occhiali, che mi affrettai a riporre al
sicuro nel taschino della mia camicia di lino.
«Ai
geni adorabili posso provvedere io. Piuttosto, Judy tesoro,
risparmiamelo perché mi serve qualcuno che tagli il
prato...», borbottò Mildred, sopraggiungendo con
un vassoio carico tra le mani. «Anzi, sai che ti
dico? Non mi serve neanche per quello, quando posso chiamare quel gran
pezzo di figliolo che è quel Donovan...»
Judith
scosse il capo e lasciò un buffetto sulla guancia paffuta
del suo figlioccio. «Io dico che possiamo fare benissimo a
meno di entrambi i qui presenti. Ci teniamo solo il puffetto qui, vero
tesoro? Tu resti con la zia?»
Gabriel
annuì tutto convinto e abbandonò definitivamente
le mie gambe per zampettare in direzione della sua adorata zietta
ruffiana.
Mildred
sorrise e mi allungò un bicchiere colmo di thè
freddo. «È deteinato, così anche Gabe
lo può bere e tu non ti agiti...», mi
rassicurò materna.
Matthew
soffocò una risatina dentro al suo bicchiere di
thè e mi lanciò un'occhiata complice.
«Perché
mai dovrei agitarmi? Io sono sempre posato e...»
Una
testa di capelli biondi sbucò proprio in quel momento dal
vialetto del giardino, accompagnata dalla domestica dei miei amici.
«...Rosa,
ogni volta che ti vedo hai una pettinatura sempre più bella
ed originale! Dici che riuscirei anche io ad intrecciarmi i capelli in
modo simile?...», la udii parlottare in preda all'entusiasmo,
mentre allungava timidamente una mano per osservare attentamente una
delle mille treccine sottili che adornavano il capo della giovane
cameriera.
«Sorseggia
il tuo thè e stai calmo», mi suggerì
bonariamente Malefica, posandomi una mano sul ginocchio e sorridendomi
melliflua. «Pulcino, vieni un attimo qui dalla mamma
così mangiamo un'albicocca...», tubò
poi, mentre privava del nocciolo un paio di succosi frutti dal vivido
color arancione.
«Non
so cosa vi siate messi in testa, ma io sono assolutamente
tranqui-»
«Buongiorno
a tutti! Ciao Gabriel! Mildred grazie mille per l'invito, sono un
attimo in ritardo, ma ho dovuto fare una piccola deviazione...Oh,
Judith! Che bello rivederti...», esclamò
abbracciando mia sorella e rivolgendo un cenno cordiale a Matthew.
«Liam...», mi salutò poco dopo,
rivolgendomi un sorriso così splendente da ringraziare
l'assenza di teina nella mia bevanda.
Ok,
forse ora non ero più così tranquillo. Di certo
quel mini vestitino color ciliegia indossato da Felicity non era molto
d'aiuto, così come le sue lunghe gambe abbronzate messe
ancor più in bella mostra grazie ad un paio di sandali dalla
zeppa strategica.
«Buon
pomeriggio, cara! Accomodati pure, gradisci qualcosa da
bere?», chiocciò una Mildred tutta miele.
Gabriel
si agitò tra le braccia di sua madre.
«...cocca?», chiese guardando prima la
metà del frutto che aveva in mano e poi il sorriso luminoso
che Felicity gli stava dedicando.
«No,
piccolo, ti ringrazio tanto, ma è la tua
merenda...», lo rassicurò lei. «Ah, vi
ho portato una cosina!», esclamò all'improvviso,
iniziando a cercare qualcosa dentro la sua ampia borsa color cuoio.
«Ti
prego, dimmi che è ancora un vasetto di quel delizioso pesto
dell'ultima volta! Sono riuscito a gustarmelo solo una volta
perché Mil ha pensato bene di utilizzarlo quando avevamo ben
sei ospiti a cena ed è finito subito...»,
borbottò sconsolato Matthew.
Sua
moglie alzò gli occhi al cielo. «Da che mondo
è mondo ai propri ospiti si offrono le cose migliori mi
pare», lo rimbeccò subito lei.
Felicity
finalmente riemerse dalle profondità della sua borsa con tre
grossi vasi in vetro tra le mani. «Mi dispiace, ma il mio
basilico ultimamente sta soffrendo terribilmente il caldo e io non ho
più avuto modo di preparare il pesto. La prossima volta te
ne farò avere più vasetti, Matthew, promesso! Per
fortuna ne ho portati tre, volevo passare a lasciarne un paio alla mia
ex vicina di casa, ma posso andarci un altro giorno...Ecco, uno per
voi, uno per te Judy e...Liam? Questo potresti farlo avere ad Arabella?
È marmellata di fragole, l'ho fatta proprio stamattina e
magari le fa piacere riceverla visto quanto l'aveva apprezzata l'ultima
volta...», spiegò distribuendo i suoi vasetti
home-made e soffermandosi di fronte a me, una tacita domanda scritta
negli occhi.
Allungai
la mano e presi il vasetto che mi spettava. «Grazie,
è un pensiero molto premuroso, sono certo che se la
sbafferà tutta quanta», la rassicurai sorridendole
.
«Rosaaa!
Puoi portarci del pane, per favore? Così testiamo subito
questa prelibatezza...», sbraitò Matt.
Queen
Mildred lo guardò con disapprovazione. «Potresti
anche alzare il sedere ogni tanto...», commentò
caustica.
«Vado
io!», strillò Judith, saltando in piedi come una
molla e scomparendo in casa prima che chiunque avesse la
possibilità di fermarla.
«Gnammo!»,
strillò all'improvviso Gabe, tentando di appropriarsi del
vaso di vetro che sua madre aveva saggiamente posato sul tavolino di
fronte a lei, fuori dalla portata del bambino.
Mentre
attendevamo di fare merenda, gustandoci il regalo di Felicity, mi
accorsi delle continue occhiate che Mildred mi lanciava di soppiatto,
quasi stesse analizzando ogni mio più piccolo gesto.
Non
appena si rese conto di essere stata scoperta, avvicinò la
sua poltroncina al capo del divanetto dove ero seduto io e con
nonchalance mi sussurrò all'orecchio: «Coltiva
fragole e fa la marmellata in casa».
Le
dedicai un'occhiata interrogativa, stando attento ad essere discreto.
Mi accorsi però che Gabriel stava catalizzando l'attenzione
dei presenti con i suoi disperati tentativi per raggiungere il vasetto
di confettura, così mi voltai completamente verso Mildred.
«Hai
avuto culo...e che culo!», mi sibilò nell'orecchio.
Gabe
si sporse verso di noi. «CUUULO!»,
canticchiò con la sua vocetta acuta.
Per
qualche secondo tutto tacque.
«Filgliolo,
che cosa hai detto?», urlò Matthew, rischiando di
strozzarsi con il suo thè freddo.
«Gabriel!»,
strillò stridula sua madre, arrossendo come un peperone.
«Ecco
la merenda!», esclamò squillante Judy, arrivando
con due ampi piatti colmi di fette di pane integrale e non.
***
Baci,
abbracci, saluti, risolini, ringraziamenti. Quando, due ore
più tardi, la pancia piena fino a scoppiare di pane e
marmellata alle fragole, riuscii finalmente a tornare alla mia macchina
sentii dei passi rincorrermi.
Mi
voltai aspettandomi di trovare Felicity, ma invece rimasi sorpreso di
fronte al caschetto fulvo di mia sorella. «Cosa fai per
festeggiare il 4 luglio?», mi domandò seria.
Troppo
seria.
Presi
tempo giochicchiando con la chiave dell'auto. «Niente, mi
rimetterò in pari con il lavoro o magari uscirò
in barca a vela. Devo ancora decidere...tu?», le chiesi quasi
timoroso.
Judith
era sempre stata quella più esuberante e solare dei due, era
così piena di frizzantina energia e positività da
essere benvoluta da tutti e lei ricambiava volendo bene a decisamente
troppe persone. Probabilmente era per quello che andava tanto d'accordo
con Felicity, in qualche modo condividevano entrambe quella assurda
tendenza alla speranza e al ben pensare di tutti e tutto.
«È
il 4 luglio, Liam. Ovviamente torno a casa», mi
spiegò come se fossi un bambino duro di comprendonio.
Ovviamente
torno a casa.
Ovviamente.
Casa.
«Ottimo!
Allora credo ci vedremo tra un bel po'...»
Vidi
i suoi occhi rabbuiarsi e la sua fronte aggrottarsi, la scritta
'cretino' che lampeggiava chiara nelle sue iridi. Non lo avrebbe mai
detto, ma sapevo benissimo la sfilza di epiteti poco lusinghieri che
avrebbe voluto dedicarmi quando mi comportavo così.
«Già,
tra un bel po'...», sussurrò prima di sfiorarmi
piano una mano e voltarmi le spalle.
La
osservai immobile mentre saliva sulla sua Chevrolet e lasciava il
parcheggio, per una volta guidando secondo le regole stradali,
diversamente dal solito.
«Mi
sono dimenticata di chiederti...Ehi, tutto bene?»
Abbassai
lo sguardo e fissai la mia mano ora intrappolata nella stretta gentile
di Felicity, la quale mi guardava preoccupata.
«Cosa
fai il 4 luglio?», le domandai invece di risponderle.
Felicity
non era sciocca, ma preferì lasciar perdere per il momento e
assecondarmi. «Vado in Florida ovviamente! Non mi perderei i
maldestri tentativi di mio padre nell'accendere dei fuochi d'artificio
nel giardino di casa per niente al mondo. Dovresti vederlo! Prima
litiga con l'accendino, poi rimprovera mia madre e le raccomanda di
stare indietro, poi accende la miccia e si lancia in uno scatto che
farebbe impallidire Usain Bolt per paura di prendere fuoco. Il tutto
mentre Zoe lancia i petardi nella proprietà dei vicini e mia
nonna recita il rosario pregando di essere risparmiata dalla follia
piromane dei suoi familiari. È uno spasso, te lo
assicuro!», esclamò ridendo tra sé nel
ricordare con affetto la sua buffa famiglia.
Ovviamente.
«Cosa
volevi chiedermi?»
Il
suo sguardo era sempre più preoccupato, ma
continuò a non pressarmi, cosa che in quel momento apprezzai
infinitamente.
Si
sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e si
guardò i piedi quasi imbarazzata. «Vuoi venire da
me? C'è un po' marmellata dovunque, ma almeno ti faccio
vedere com'è bello il mio tetto nuovo appena finito! Che ne
dici?»
Non
riuscii a trattenermi e prendendola in contro piede l'avvolsi stretta
tra le mie braccia. Persino i suoi capelli profumavano di fragola e la
cosa mi rassicurò infinitamente.
«Stasera
non posso...», sussurrai piano, prima di lasciarle un bacio
leggero sulla fronte e allontanarmi.
Lei
mugugnò un ok poco convinto, mi rivolse un'ultima occhiata
accorata e mi salutò.
Me
ne pentii due secondi più tardi, quando mi ritrovai solo
nell'abitacolo soffocante della mia Audi. Non mi aveva mai aiutato
questa mia tendenza ad isolarmi ogni volta che qualcosa mi turbava
più del dovuto, eppure ogni volta ci ricascavo.
Non
appena rientrai nel loft mi feci una doccia e poi mi sedetti sulla
terrazza a fissare quel maledetto barattolo di marmellata, che se non
fossi sbrigato a mettere nel frigorifero non sarebbe mai arrivato a
destinazione tra le mani di Arabella.
Mi
alzai di scatto, rientrai nel soggiorni dall'ampia portafinestra,
riposi la marmellata al suo posto e afferrai il portatile prima di
sprofondare nuovamente sulla poltrona.
Digitai
stizzito alla ricerca del sito dell'American Airlines.
2
Luglio | Boston,MA --> Phoenix, AZ | 1 Adult | First Class
C'era
un volo alle 6.20 di mattina con cui, calcolando il fuso orario, sarei
atterrato in 5h e 47m alle 9.07, avendo così il tempo per
prendere un'auto e raggiungere Sedona, senza traffico in due orette
sarei arrivato a destinazione.
Mi
feci alleggerire di ben 773$ dalla compagnia aerea e di altri 400$ da
Hertz per affittare una Jeep per quattro giorni. Al volo di ritorno
avrei pensato una volta arrivato, nel caso mi sarei potuto imbarcare
anche la sera stessa del mio arrivo.
Sedona.
Poco
più di 10.000 abitanti e le rocce rosse dei canyon
tutt'attorno.
Casa.
|
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Capitolo 15 *** Viole del pensiero ***
Felicity
Il
volo era stato piuttosto movimentato con le continue turbolenze che
avevano scosso l'aereo e l'attacco di panico che aveva colto una
ragazza australiana seduta proprio davanti a me.
Non
ero riuscita a chiudere occhio, il pensiero che continuava a tornare a
quel bacio sulla fronte con cui Liam mi aveva allontanato prima di
rinchiudersi in sé stesso e isolarsi dal mondo. Rispondeva
alle mie email in modo vago e conciso e Ines mi aveva detto che non lo
incrociava da un paio di giorni e sospettava fosse partito.
Quel
suo sguardo smarrito me lo ricordavo bene, così come quel Dove sei? che
ancora non aveva ricevuto risposta. Erano passate più di
ventiquattr'ore da quando glielo avevo scritto, ma dal fronte Carter
Wright tutto taceva.
Una
volta atterrata a Tampa feci la mia solita tappa alla toilette
principalmente per lavarmi le mani e nascondere con un velo di
correttore le occhiaie, sperando così di evitare una
ramanzina di Madre riguardo alla mia sciocca cocciutaggine nel voler
viaggiare in piena notte e nel rifiutare di prenotare un biglietto in
business class.
Mi
slegai i capelli e rifeci da capo la treccia a spina di pesce che non
era sopravvissuta al viaggio, dopodiché mi avviai in
direzione della postazione per il ritiro dei bagagli. Come sempre il
mio trolley fu uno degli ultimi ad essere consegnato e così
quando finalmente raggiunsi l'uscita mi accorsi che erano
già quasi le otto di mattina.
Il
sorriso a trentadue denti di mio padre mi accolse nell'atrio principale
dell'aeroporto, nonostante gli avessi più e più
volte raccomandato di non scomodarsi per evitargli una levataccia e un
ritorno imbottigliato nel traffico delle nove di mattina quando potevo
benissimo chiamare un taxi o un Uber.
Mi
tuffai tra le sue braccia e lui mi lasciò un bacio tra i
capelli, prima di impossessarsi del mio trolley e del mio zaino.
«Ben
arrivata! Vuoi darmi anche la tua borsa?», mi chiese tutto
contento, dandomi un pizzicotto affettuoso sulla guancia e sorridendomi
contento.
Gli
sorrisi a mia volta, prima di riappropriarmi del mio zaino e
caricarmelo in spalla. «È una tracolla,
papà, in cui a malapena ci sta il portafogli, credo di
potercela fare, tranquillo. E poi sei tu quello che soffre di ernia al
disco ed è prossimo alla terza età, non
io...», lo rimbeccai, sfilandogli di mano il trolley e
dirigendomi a passo spedito verso le porte che conducevano all'uscita e
al parcheggio.
«Tua
mamma non ne sarà per niente contenta...»,
borbottò tra sé, mentre mi apriva la porta e mi
cedeva il passo, come galantemente faceva sin da quando avevo iniziato
a muovere i primi passi.
Dopo
dieci minuti di scarpinata tra file e file di automobili posteggiate,
sotto il sole già fin troppo caldo, raggiungemmo finalmente
il SUV di papà, nei pressi del quale stazionava una figura a
me ben nota.
«Monty!
Cosa stai facendo? Se volevo che Felicity si caricasse come un mulo
sarei venuta anche da sola a recuperarla! Aiutala, suvvia!»,
strillò oltraggiata non appena ci inquadrò, non
accennando però di avere alcuna intenzione di aiutarmi.
Nonostante
l'ora e la sveglia settata probabilmente poco dopo l'alba per avere il
tempo di prepararsi e attraversare la città, Grace Van
Houten era impeccabile, nel suo completo giacca e pantalone di fresca
seta color sabbia, i capelli raccolti in un ordinato french twist e un
paio di strategici occhiali da sole ad occhi di gatto a mascherare la
probabile stanchezza del viso e a donarle contemporaneamente un'aria da
diva.
«Io
lo sapevo che finiva così...»,
bofonchiò mio padre, mentre si faceva carico di tutto il mio
bagaglio e apriva il baule dell'auto per riporlo.
«Tesoro,
che bello vederti!», cinguettò mia madre poi,
stampandomi due baci sulle guance e marchiandomi con il suo Rouge Dior.
«Hai delle occhiaie spaventose, cara. Davvero non capisco
perché tu abbia voluto prendere questo volo dagli orari
assolutamente folli! Appena arriviamo a casa ti faccio preparare una
tisana e poi fili a riposare. Monty, hai fatto? Possiamo
andare?»
Alzai
gli occhi al cielo mentre, cercando di non farmi notare, tentavo di
pulirmi con un fazzolettino per eliminare ogni traccia di rossetto.
Papà
si immise nel traffico di una Tampa in pieno fermento, alla vigilia di
una delle festività più amate dagli americani.
Bandiere a stelle e strisce sventolavano già sui balconi e i
lampioni erano decorati con vistosi nastri bianchi, rossi e blu.
«Volete
fermarvi a fare colazione al club?», si informò
mio padre, mentre azzardava un sorpasso poco lecito nei confronti di un
autobus bloccato alla pensilina da svariati minuti.
Il
club di golf di papà era in pratica la sua seconda casa,
considerando che la sua prima dimora era il suo ufficio. Trascorreva
lì pomeriggi e pomeriggi, impegnato in infiniti tornei
insieme ai suoi colleghi, ad amici di vecchia data o clienti del suo
studio legale. Poi si faceva un bagno in piscina, si sottoponeva ad un
massaggio per alleviare il dolore alla zone lombare che lo accompagnava
da anni ormai, si scolava un paio di whisky e, se ancora non era stufo,
si fermava pure a cena.
Mamma
sosteneva che alla sua morte avrebbero intitolato il club a suo nome,
data la sua assidua frequentazione e la quantità assurda di
soldi che sborsava per esserne socio onorario.
«Montgomery!
Cosa avevamo stabilito?», lo riprese severamente Madre.
Papà
si scusò e propose di fermarci al Meridien.
Io
mi sporsi curiosa tra i sedili anteriori e scrutai i loro volti.
«Cosa avete stabilito?», mi informai.
Li
osservai scambiarsi uno sguardo carico di sottintesi e mi ritrovai a
pensare a come fosse possibile avere ancora un tale grado di
intimità dopo quasi quarant'anni di relazione.
«Niente
club finché ci sarete tu e Zoe»,
borbottò papà. «In cambio Grace
limiterà i suoi impegni mondani», concluse
soddisfatto.
Scoppiai
a ridere, quei due erano proprio dei masochisti. Si erano privati a
vicenda dei loro passatempi preferiti per potersi dedicare alla loro
famiglia riunita per l'occasione.
«Non
ci sarà neanche il party del 5 Luglio?», domandai
sorpresa.
Il
4 Luglio, festa nazionale, era sempre stato un giorno dedicato solo ai
parenti, perciò ci limitavamo ad una giornata trascorsa a
gozzovigliare in giardino, a fare il bagno, arrostire la carne al
barbecue e guardare lo spettacolo dei fuochi d'artificio serali. Che
nel nostro specifico caso non consisteva nella coreografia pirotecnica
organizzata dal comune per la cittadinanza, ma nel nostro personale
show di papà che tentava di appiccarsi fuoco da solo.
In
casa Van Houten però il 5 Luglio era sempre stato giorno di
festa grande, forse quasi più sentito del 4. Questo
perché Grace compiva gli anni e, approfittando della
presenza di tutti i familiari riuniti per l'occasione, ospitava il
party più bello ed esclusivo dell'anno.
Ad
onor del vero va detto che ogni evento ospitato da Grace Van Houten era
bello ed esclusivo, ma il 5 Luglio era la sua festa,
perciò non si faceva nessuno scrupolo e spediva inviti a
destra e a manca, ordinava quantità industriali di cibo ed
alcolici dal suo servizio catering di fiducia, arruolava complessi jazz
piuttosto celebri e si comprava un abito da capogiro.
«Non
avrei mai potuto privarla di quello, non dopo ciò che lei ha
organizzato per il mio di compleanno...», mi
ricordò mio padre, dedicando a sua moglie uno sguardo carico
di affetto.
«C'è
qualcosa che vorresti Mamma?», le chiesi, tornando a sedermi
in modo composto sul sedile posteriore.
Vidi
il Le Meridien scorrere oltre il finestrino e presunsi che alla fine
avessero deciso di andare dritti a casa, probabilmente per mettermi a
nanna manco avessi tre anni.
«Che
tuo padre vada in pensione...»
Tasto
dolente. Non so se succede a chiunque sia a capo di una propria
azienda, ma mio papà al solo parlare di pensione iniziava a
mostrare segni di insofferenza e, nel giro di pochi secondi, con una
scusa poco credibile spariva dalla circolazione.
Solitamente
le persone sono felici di mollare finalmente il proprio lavoro, dopo
quarant'anni passati a spaccarsi la schiena, e godersi quegli anni di
tranquillità che si sono tanto onestamente e duramente
guadagnati.
Mio
padre invece non aveva nessuna intenzione di mollare l'osso, nonostante
il suo studio ormai avesse così tante sedi che il suo ruolo
di Direttore era puramente pro forma, avendo dovuto, per forza di cose,
nominare un responsabile locale per ogni città e
distaccamento. Le cose filavano lisce, quindi mio papà si
sarebbe potuto ritirare, magari continuando a supervisionare
blandamente, lasciando il tutto in mani alquanto abili senza nessuna
preoccupazione.
Zoe
glielo ripeteva sempre. Possiedi
tutta la baracca, una volta che ti sei assicurato che tutto vada bene e
hai nominato un tuo valido sostituto, cosa ti importa di continuare a
sgobbare?
Probabilmente
era la convinzione che quello studio era nato dal nulla, con lui come
fondatore e unico impiegato, e che senza quel tassello iniziale tutto
ciò a cui si era arrivati ora sarebbe miseramente crollato.
Nonostante
tutto io avevo una laurea in legge e avevo provato ad applicarmi per
capire la situazione degli studi Van Houten. L'unica cosa emersa?
L'estrema professionalità del personale. Si trattava di
persone altamente qualificate e accuratamente selezionate, veri e
propri squali da tribunale. Papà però sembrava
non accettarlo, ritenendosi un ingranaggio fondamentale ed
insostituibile.
Probabilmente
se uno dei suoi figli avesse proseguito l'attività di
famiglia lui si sarebbe sentito più rassicurato e
perciò più incline a mollare la presa e
rilassarsi. Non lo sapremo mai però visto che Zoe
è riuscita a sfuggire, nessuno ancora ha ben capito come,
alla laurea in giurisprudenza, mentre la sottoscritta non ha nessuna
intenzione di iniziare a mettere in pratica ciò che ha
studiato sui banchi dell'università.
«Quando
arriva Zoe?», mi informai per alleggerire l'atmosfera
improvvisamente tesa.
L'avevo
sentita brevemente la settimana precedente, ma non mi aveva permesso di
aprire bocca, travolgendomi invece con il suo racconto infuriato
riguardante un tecnico dell'assistenza telefonica e dei piccioni che
tubavano.
«Non
sappiamo neanche se arriverà onestamente...», mi
rispose sconsolato mio padre, mentre svoltava nel nostro vialetto
d'accesso e frenava per poter cercare il telecomando del cancello
automatico.
«Cosa
significa? Non può lasciarmi da sola!», strillai
angosciata.
No,
non poteva abbandonarmi nel momento di massimo bisogno. Doveva essere
qui, sostenermi, farmi da spalla e offrirmi un po' di conforto.
Soprattutto perché, data la sua avversione per il caldo e il
bel tempo, questa sarebbe stata l'ultima occasione per vederla al di
fuori del confine del Maine fino ad ottobre inoltrato.
«Non
mi pare tu sia sola! Monty! Il cancello è aperto,
muoviamoci!», commentò subito offesa mia madre,
approfittandone per prendersela con quel santo di suo marito.
«Ha
deciso di venire in autobus», mi spiegò
fortunatamente il più razionale dei miei genitori.
Autobus.
Autobus?! Maine-Florida in autobus, considerando i cambi, le soste e il
traffico probabilmente significava qualcosa come trentasei ore filate
di viaggio su una vecchia ferraglia puzzolente ed afosa.
«Non
arriverà mai in tempo!», esclamai sentendo il
panico assalirmi.
La
macchina si fermò di fronte al garage e io ne approfittai
per saltare fuori dall'abitacolo in meno di mezzo secondo e
allontanarmi, telefono stretto in pugno, verso il retro del giardino.
«Non
dimenticarti di venire a salutare tua nonna!», mi
urlò mia madre.
Ah
già, la nonna.
Composi
furiosa il numero di Zoe e ringraziai mentalmente quel sant'uomo di
Donovan per avermi regalato finalmente un telefono cellulare.
Squillò
una volta, due, tre...
«Flick!
Cos-...cazzo, tenga i suoi luridi piedi giù dal sedile! Dove
crede di essere? Cafone! Ah, io, IO sarei la cafona? Cosa sta facendo?!
Non si azzardi a-...»
La
telefonata si interruppe all'improvviso e io mi ritrovai a fissare lo
schermo muto del mio telefono.
Cosa
era appena successo?
Provai
a richiamarla senza successo.
Senza
pensarci due volte composi un altro numero e restai in attesa di una
risposta.
«Felicity!
Come stai?»
Sospirai
di sollievo nel sentire quella voce squillante. «Ciao Judith,
tutto bene. Tu? Posso chiederti una cosa?»
«Benissimo,
grazie. Certo, dimmi tutto!», mi disse tranquilla.
Non
sapevo se quello che stavo facendo avesse effettivamente un senso, ma
tentar non nuoce. «Saresti in grado di rintracciare un
telefono cellulare?»
Una
risata cristallina mi giunse dall'altro lato della cornetta.
«Certamente! Avrei bisogno del codice IMEI
però...oddio, non sarebbe totalmente legale come ricerca
dato che non siamo membri delle forze dell'ordine e cose del genere, ma
quando mai qualcosa di quello che faccio è
legale?», ridacchiò lei.
Ecco,
questi erano i personaggi che plasmavano le giovani menti, futuro del
nostro paese.
«Codice
IMEI?», domandai titubante.
Perché
ovviamente tutti sapevano cosa fosse un dannatissimo codice IMEI. Era
la prima cosa che ti insegnavano insieme all'abc.
Judith
probabilmente si rese conto di star parlando con una comune mortale,
che a malapena sapeva crearsi un account email o ricordarsi la propria
password.
«È
il codice identificativo univoco del telefono, è scritto
sulla confezione quando lo acquisti oppure lo trovi nelle informazioni
generali di sistema nelle impostazioni. Ce l'hai ancora la
scatola?», mi domandò gentile.
«Judy,
non è il mio telefono che devo rintracciare!»,
esclamai.
«Oooh,
la cosa si fa ancora più torbida ed illegale. Mi piace!
Purtroppo senza il codice o le credenziali di accesso all'account
principale a cui è legato il telefono della persona in
questione non si può fare molto...»
Ovviamente
io non sapevo né uno né l'altro.
«Felicity?
Non voglio sembrarti indiscreta, ma...stai cercando mio
fratello?», mi chiese timidamente.
Ottimo,
pure Judith aveva già capito qualcosa, solo la sottoscritta
non sapeva nulla di nulla, nonostante fossi implicata in prima persona.
Ottimo davvero.
«In
verità sto tentando di scoprire dove si trovi mia
sorella», risposi asciutta.
Non
avevo nessuna intenzione di risultare scortese, ma non volevo neanche
sembrare felice e contenta quando il mio Dove sei? restava
ancora senza risposta.
Silenzio.
Osservai
il mare calmo oltre la staccionata bassa e poi mi accorsi di un paio di
occhietti incorniciati da un paio di ampi occhiali tondi, che mi
osservavano da dietro le tende del salottino da tè di mia
madre. Ecco, ci mancava solo la mia adorata e per niente malpensante
nonnina impicciona.
«Mi
dispiace non poterti aiutare. E mi spiace per...prima, ma sto cercando
Liam da un paio di giorni senza successo. Ora ti devo salutare, ma se
ti servisse qualcosa...», concluse frettolosamente.
In
quel momento ricevetti un avviso di chiamata, perciò mi
affrettai a ringraziarla, augurarle un felice 4 Luglio e a congedarmi.
Presi al volo la seconda chiamata e una voce affannata mi
stordì un timpano.
«Scusa,
Flick! Ho dovuto concludere la discussione prima di richiamarti, era
una questione di principio. Non potevo mica essere una mera spettatrice
di cotanta cafonaggine senza intervenire, no? Era peggio di un polipo
dai mille piedi, posava le sue zampacce persino sui finestrini!
Disgustoso, davvero disgustoso. Volevi qualcosa?»
No,
ti avevo chiamato perché ero molto interessata alle
avventure del polipo dai mille piedi. Avere una discussione sensata con
Zoe era ancora più complicato che sfuggire all'occhio
scrutatutto di Nonna, che ora si era appostata alla finestrella del
bagno di servizio del primo piano come risposta al mio nascondermi tra
il vecchio faggio e la casetta in legno dove mio padre conservava un
paio di canoe e il suo windsurf.
«Dove
sei?», le domandai stancamente.
Mezz'ora
in Florida ed ero già esausta.
«Abbiamo
passato poco fa Savannah mi pare, sei ore e dovrei esserci credo. Sono
qui sopra dalle dieci di ieri mattina, ho proprio bisogno di una doccia
mi sa...», borbottò.
Quasi
trenta ore di autobus, quella era senza dubbio una nuova forma di
tortura. Non esisteva altra spiegazione, non nell'era dei voli e dei
treni ad alta velocità.
«E
lo stai facendo perché...?», mi informai, mentre
scavalcavo il cancelletto bianco che recintava il giardino sul retro e
affondavo i piedi nella sabbiolina della spiaggia.
Vediamo,
Nonna, che cosa ti inventi ora.
«Volevo
scrivere un racconto dell'orrore con protagonisti i passeggeri di un
autobus, una sorta di narrazione corale insomma, e avevo bisogno di
spunti e materia prima...il polipo sarà senza dubbio una
delle vittime», sghignazzò macabra.
La
salutai e la pregai di arrivare quanto prima.
Alzai
lo sguardo e incontrai il sorrisetto trionfante di Nonna, che mi
salutava dal terrazzo dell'ultimo piano.
Mi
dichiarai sconfitta e mi tolsi le scarpe per poter immergere i piedi
nell'acqua.
Dove sei?
Potevo
chiamarlo? Come ci si comporta quando si è nella nostra
situazione? Quando tutto è ancora informale, vago, privo di
regole stabilite e limiti ben definiti?
Decisi
di concedergli ancora un po' di tempo, in fondo la parte della ragazza
assillante non mi era mai calzata a pennello.
Feci
ritorno alla macchina e dopodiché entrai dalla porta
principale, sperando di depistare la madre di mia madre, confondendola
con le mie mosse illogiche e il mio percorso tortuoso.
«Felicity!
Il telefono ha la priorità sulla tua nonna prossima alla
morte?»
Niente
da fare, Nonna Adaline svettava in cima alle scalinata principale, un
cipiglio scuro stampato in volto e uno sguardo di disapprovazione negli
occhi.
Tale
madre, tale figlia. Se quella legge spietata si fosse rivelata
veritiera io mi sarei ritrovata ad assomigliare prima a mia madre Grace
e poi a mia nonna Adaline. Il futuro non poteva apparire più
roseo e colmo di avvenimenti lieti.
«Ciao
Nonna, anche lo scorso anno eri sul letto di morte eppure sei ancora
qui, no?», le feci presente avviandomi verso la cucina.
I
tacchetti dei suoi sandali ortopedici mi seguirono, decisi a non
concedermi una tregua. «Non essere impertinente,
Felicity!», mi riprese, lo stesso cipiglio severo di sua
figlia Grace, quando ci dimostravamo sgarbate. «Chi era al
telefono?», indagò con la discrezione e la
riservatezza che le erano proprie.
In
quel momento mio padre apparve sulla soglia, ma nel captare la presenza
della suocera decise di fare dietrofront e battere in ritirata, non
prima di avermi lanciato un sorrisetto di scuse.
«Zoe»
Nonna
a quel punto diventò rossa come un pomodoro e si sedette
impettita sulla sedia che mia madre le aveva saggiamente preparato, per
evitare che si rompesse un femore nel tentativo di arrampicarsi su uno
degli alti sgabelli di design disposti attorno all'isola della cucina.
«Quella
sciagurata! Ho letto un suo libro, sai? Dopodiché il mio
dottore ha dovuto raddoppiarmi la dose di Valium, ora dormo che
è una meraviglia, ma quella toccata di mia nipote
è ancora a piede libero nonostante le cose terribile di cui
scrive. L'ho sempre sostenuto che cedere e lasciare che mia figlia si
unisse ad un peccatore non avrebbe portato a nulla di
buono...», borbottò nonna, in preda ad uno dei
suoi rimpianti preferiti.
La
famiglia di Mamma era alquanto conservatrice, di mentalità
poco aperta e terribilmente religiosa. Nonna ancora si ostinava ad
artigliare le mani dei malcapitati che avevano la fortuna di capitare
seduti vicino a lei a tavola e recitare un sermone di ringraziamento
che durava almeno un quarto d'ora prima di permettere a chiunque di
toccare cibo. Grace era cresciuta con un'educazione rigida ed
imperniata sugli insegnamenti morali della tradizione cattolica.
Peccato che poi con il college e tutto quel leggere di poeti maledetti
si era un po' persa per strada ed era approdata tra le braccia di
Montgomery Van Houten, la cui famiglia credeva unicamente nel valore
del denaro e lo aveva cresciuto nella convinzione che non esistesse
alcun dio e che l'unico modo per ottenere qualche cosa era darsi da
fare e prendersela da soli.
Potete
immaginare i fulmini e le saette che lanciò mia nonna ai
tempi quando la faccenda della tresca di mammina con un eretico come
papà venne alla luce. Arrivò a minacciare di
rinchiuderla in un collegio svizzero, nonostante la maggiore
età della figlia, e quando quest'ultima le
confessò per ripicca di aver perso la sua virtù
con il miscredente mia nonna venne ricoverata per esaurimento nervoso
in una clinica specializzata.
In
verità si è poi scoperto che mamma ha aspettato
la prima notte di nozze per fare il grande passo, facendo penare il
povero Monty per più di tre anni. Non volevo mica essere come tutte le altre io,
ripete sempre mia madre. Perciò in pratica la nonna stette
male per uno scherzo.
Zoe
ride sempre quando questa storia esce fuori, ma io mi sono sempre
chiesta come abbiano fatto a cambiare così in fretta i
tempi. Come si era passati dalla nonna che non poteva mettersi il
bikini per non sembrare una poco di buono a Zoe che protestava a seno
nudo e veniva acclamata come eroina femminista?
«Arriverà
nel primo pomeriggio, forse è meglio se triplichi la dose di
Valium...», le suggerii allungandole un bicchiere d'acqua.
Lei
lo respinse offesa. «Certo, così mi fai andare al
campo santo!», esclamò indignata.
Madre,
dopo il primo cambio d'abito della giornata, entrò
svolazzando in un abito chemisier color lavanda e si guardò
attorno con espressione sospettosa.
«Dov'è
tuo padre?», chiese a noi due.
Io
scrollai le spalle. «È uscito poco fa...»
Mamma
non parve rasserenarsi alla notizia. «Se osa sgattaiolare al
club quando sono distratta, giuro che domani gli avveleno gli hot-dog
così il 5 Luglio lo passa a fare la lavanda gastrica al
pronto soccorso!», sbraitò minacciosa.
«Cosa
che avrei dovuto fare io quarant'anni fa quando per te c'era ancora
speranza di redenzione...», commentò caustica la
nonna.
«Mamma!
Hai preso le tue gocce?», abbaiò mia madre,
spingendole sotto il naso il bicchiere d'acqua che poco prima aveva
già rifiutato.
Nonna
riprese pian piano a colorarsi di rosso, chiaro segno dell'ira
crescente.
«Lo
dico per il tuo bene, non so se riuscirai a sopportare la combo Zoe,
Zio Larry e Kimberley senza un aiutino...», le fece presente
mamma.
«Oh
santo cactus! Viene anche Kimberley? Perché ancora non
l'hanno soppressa?», urlai in preda al panico.
Dovete
sapere che Kimberley è un mostro, un terribile esperimento
scientifico finito male, che ha prodotto quell'esserino di tredici anni
che è mia cugina. È l'unica figlia dello Zio
Franklin, a sua volta unico figlio del fratello di nonna, ovvero Zio
Larry. Semplice, no?
Sua
madre ha tagliato la corda quando Kim aveva solo sei anni, ma poveretta
non potete biasimarla. È la bambina, ragazzina scusate,
più viziata, antipatica e presuntuosa sulla faccia della
terra. Mio Zio Franklin non è mai stato famoso per essere un
uomo di polso e il risultato della sua apatia e del suo
disinteressamento hanno prodotto l'undicesima piaga d'Egitto.
«Solo
perché la nostra Costituzione non lo permette
credo», commentò placidamente mia nonna.
«È
tua cugina tesoro, non potevo depennarla dalla lista degli invitati
solo perché nessuno riesce a sopportare la sua presenza. E
poi sono gli unici parenti che mi sono rimasti, non potevo non
invitarli, non quando tuo padre si ritrova con la famiglia
più numerosa sulla faccia della terra», mi fece
presente.
«Per
forza, gente senza religione che si accoppia e riproduce come i
conigli!», sentì ovviamente il bisogno di
commentare mia nonna.
Delle
nostre riunioni familiari si poteva dire di tutto, ma certamente non
che fossero noiose. Non se c'erano Zoe, Zio Larry ubriaco, Kimberley
che strillava come un'aquila e i nove figli della sorella fricchettona
di papà, che solitamente saltava il pranzo perché
intenta a digiunare per un qualche atto di purificazione o troppo
impegnata a suonare lo zufolo nel tentativo di comunicare con i
gabbiani.
Papà
fortunatamente fece irruzione nel pollaio che stavamo creando proprio
in quel momento e annunciò che erano arrivati gli addetti al
catering per la festa di dopodomani. Mamma scattò
sull'attenti all'istante e sparì in direzione dell'ingresso
mentre mio padre si versava tranquillo una tazza di caffè.
Nonna
si alzò dalla sua sedia e si rassettò la lunga
gonna monastica che portava, prima di scrutarci come un avvoltoio.
«Chi mi accompagna in chiesa?», abbaiò.
Io
fissai mio padre. Mio padre fissò la sottoscritta.
«Io
devo riposarmi, stanotte non ho dormito niente». Fiuuu,
pericolo scampato.
«Io
devo restare a dare una mano a tua madre»
Bugiardo,
bugiardo, bugiardo. Mamma bastava e avanzava ad intralciare l'operato
di quei poveri operai.
«Felicity,
andiamo! Non vorrei mai che accadesse qualcosa di terribile se tuo
padre si avvicinasse troppo ad un luogo consacrato...», detto
ciò girò i tacchi e mi fece segno di seguirla.
Papà
mi dedicò un sorriso innocente prima di allungarmi le chiavi
della Toyota che solitamente utilizzavamo io e Zoe quando eravamo a
casa oppure mia madre quando la sua auto era dal carrozziere, ovvero
quasi sempre.
«Domani
ti appioppo Kimberley per tutta la giornata», gli promisi,
prima di strappargli con malagrazia le chiavi di mano e allontanarmi in
direzione del mio personale patibolo.
***
Dopo
aver scaricato Nonna presso la chiesa e averle giurato su
ciò che avevo di più caro che sarei andata anche
a ritirarla tra un paio di orette, ne approfittai per andare a fare un
giretto nel centro della città, cosa che l'ultima volta che
ero stata a casa non ero riuscita a fare tra la festa di
papà e la presenza di Mr. Liam a distrarmi.
Stavo
percorrendo una viuzza all'ombra, curiosa di scoprire se esisteva
ancora quel piccolo negozietto dell'usato dove un paio d'anni prima
avevo scovato un paio di occhiali da sole vintage di Prada che avevo
regalato alla mamma, quando mi ritrovai di fronte ad una libreria, che
però sembrava polverosa e vissuta tanto quanto la boutique
che aveva sostituito.
Decisi
di entrare ugualmente, in fondo avevo due ore di libertà da
riempire. Il posticino era veramente delizioso, ma la
quantità di polvere mi impediva di respirare e
così mi costrinsi ad essere rapida. Stavo per uscire quando
mi accorsi di un vecchio volumetto abbandonato in cima ad una pila di
enciclopedie che tenevano ferma una porta. Lo acciuffai e lo osservai
curiosa. Femmes,
di Paul Verlaine. Prima edizione del 1890.
Quasi
urlai dalla gioia. Mia madre avrebbe pianto di fronte a ciò,
vere lacrime di fronte alla sua prima e vera passione giovanile.
Giustamente
dovetti sborsare un piccolo gruzzolo, niente a che vedere con il
probabile e reale valore dell'opera però, e me ne tornai a
passeggiare al sole. Mi fermai ad osservare un costume da bagno intero
color smeraldo esposto in una vetrina, quando sentii una voce esclamare
il mio nome.
«Van
Houten!»
Mi
voltai lentamente e per un attimo il sole mi abbagliò,
impedendomi di vedere chiaramente il mio interlocutore, ma appena
riabbassai gli occhiali da sole lo vidi. Eccome se lo vidi.
Shawn
Carter.
Dimenticarsi
quel viso abbronzato e quegli occhi furbi era piuttosto difficile.
Erano passati nove anni dal ballo di fine anno e dal nostro diploma
eppure lui pareva non essere cambiato di una virgola.
«Oh
mio dio! Felicity Van Houten! Sei proprio tu?», mi chiese
ridendo.
«No,
sono il suo ologramma», gli spiegai sorridendo a mia volta.
Lui
si avvicinò e mi scrutò curioso.
«Sempre simpatica eh? Accidenti, Van Houten, quanto tempo
è passato? Come te la passi?»
«Non
credo di averti più incrociato dopo quell'ultima estate post
liceo, sai?». Non ero vero che lo credevo, lo sapevo per
certo. Ripeto: Shawn Carter non è uno che si dimentica
facilmente.
Lui
parve per un attimo indeciso sul da farsi, dopodiché mi
chiese se mi andava di prendere un caffè con lui.
Penso
che, nonostante tutto, non potrei mai negare nulla a Shawn Carter e
così acconsentii.
Ad
essere onesta ero contenta di averlo incrociato, probabilmente era une
delle ultime persone che mi sarei mai aspettata di rivedere.
Due
minuti più tardi ci accomodammo ad un tavolino all'esterno
del bar con le tende bianche e rosse, dove avevo trascorso
metà della mia adolescenza a spettegolare e fare
boy-watching con le mie amiche.
Ordinai
una centrifuga, mentre lui optò per un semplice
caffè.
«Pensavo
fossi rimasta in Massachusetts...», esordì curioso.
In
verità ero io ad essere super curiosa ed avrei voluto
riempirlo di domande, ma prima dovevo concedergli qualcosa in cambio.
Annuii
e mi sfilai gli occhiali da sole. «Abito ancora
là, mi sono solo spostata dopo la laurea, da Cambridge sono
andata ad abitare sul mare, a Plymouth nella Baia di Cape Code, un
posto veramente bello e tranquillo. Tu invece sei rimasto qui? Alla
fine non sei più andato in Texas?»
Lui
mi ascoltò in silenzio, lo sguardo assorto, come se stesse
cercando di comprendere qualcosa. «Ci sono andato
sì, in Texas, ma poi mi sono infortunato e addio carriera
nel baseball. Sono tornato qui e ci sono più o meno sempre
rimasto, ma va bene così, questo mare mi manca ovunque
vado...», mi spiegò sorridendo, quasi si
vergognasse della sua sedentarietà.
Io
invece lo capivo benissimo, perché anche a me mancava
sempre. Ero andata a Plymouth proprio per cercare di guarire quella
nostalgia, ma avevo avuto successo solo in parte.
«Cosa
fai nella vita?», non volevo sembrare pressante, ma io ero
terribilmente curiosa e lui era cordiale e solare proprio come lo
ricordavo.
Arrivarono
le nostre ordinazioni e l'occhiata che la nostra cameriera,
probabilmente a malapena maggiorenne, lanciò a Shawn non
sfuggì al mio sguardo attento.
Non
era mai stato bello in modo sfacciato, aveva un fascino più
discreto, nascosto, ma quello che conquistava sempre tutti era la sua
vitalità, la sua simpatia davanti a cui tutti capitolavano.
Era amico di tutti, perché non poteva essere altrimenti. Poi
ovviamente il fisico imponente da ex-atleta attirava lo sguardo, quello
era innegabile, ma non era quello che alla fine ti conquistava.
Shawn
si sfilò a sua volta gli occhiali da sole. «Dopo
il Texas e l'addio allo sport professionistico ho frequentato
l'università qui e mi sono laureato in economia, ridevano
tutti quando la scelsi. Sono stato per un periodo a New York, ma pareva
il Polo Nord e il lavoro a Wall Street mi soffocava. Così
sono tornato qui, mi sono preso un appartamento che si affaccia sul mio
amato mare e ora faccio il project risk manager, che detta
così sembra chissà che lavoro importante, ma mi
piace e questo basta», concluse sorseggiando il suo
caffè.
Sembrava
soddisfatto in effetti, perlomeno più di quanto lo ero stata
io, soprattutto nell'ultimo anno della mia vita.
«Tu
alla fine sei diventata avvocato come tuo padre? In fondo sei partita
per Harvard per quello, no?»
Già,
anche se in ogni caso, giurisprudenza o non giurisprudenza, non credo
che i miei genitori mi avrebbero lasciato frequentare
l'Università della Florida Meridionale, non quando c'erano
le possibilità per mandarti in un college dell'Ivy League e
non se avevi due genitori passati da Harvard e l'attuale rettore del
suddetto ateneo era un cliente di papà e giocava con lui a
golf la domenica.
«Sì
e no. Mi sono laureata in legge, ma dopo il primo anno ho aggiunto
anche corsi di architettura e botanica. Non ho mai esercitato
però, faccio l'architetto paesaggista e mi piace tantissimo.
Però puoi immaginarti quanto sia contento mio
padre», gli confessai sbuffando.
Lui
sorrise, forse memore delle idee piuttosto balzane di papà
riguardo la sacralità e la superiorità
dell'avvocatura rispetto a qualsivoglia professione.
«Doppia
laurea ad Harvard...sei sempre stata una cervellona, Van
Houten!», si complimentò lui.
Restammo
un attimo in silenzio e io ne approfittai per lanciare un'occhiata
all'orologio.
«Hai
fretta?», mi chiese preoccupato.
Lo
rassicurai, «No, ho solo mia nonna da recuperare, ma ho
ancora più di un'ora di libertà...»
«La
nonna papessa? Quella che mi regalava boccette di acqua
santa?», si informò lui ridendo.
«Proprio
lei!», esclamai sorpresa che ancora si ricordasse
così chiaramente quei dettagli.
All'improvviso
lo vidi farsi serio e sporgersi verso di me. «Non voglio
sembrarti fuori luogo, ma sono sinceramente curioso, soprattutto
perché si tratta di te. Ti sei sposata? O sei
fidanzata?»
Se
c'era qualcosa che Shawn Carter non era mai era fuori luogo. Era troppo
garbato per esserlo, anche quando faceva domande che sarebbe stato
meglio non fare. Era così affabile che non rispondere pareva
veramente scortese, un capriccio quasi.
«Purtroppo
no, né una né l'altra al
momento...tu?», ribattei approfittando del fatto che fosse
stato lui ad aprire l'argomento per indagare e ottenere una risposta a
quello che mi ero chiesta fin da quando mi ero voltata e lo avevo
riconosciuto.
Qualcuna
era riuscita ad accalappiarselo?
Lui
scosse la testa sconsolato. «Nessuna pare prendere le cose
sul serio quanto me, è una maledizione, succede
così da quando sono stato lasciato dall'unica che abbia mai
preso le cose sul serio veramente...»
Io
mi gelai sul posto, perché non ero pronta ad affrontare quel
discorso, nonostante fossero passati nove anni e io a Shawn non pensavo
più da tantissimo tempo.
Decisi
di fare orecchie da mercante e pretendere di non aver colto il suo
chiaro riferimento alla sottoscritta. «Io invece trovo solo
allergici alla serietà e al matrimonio, sto quasi quasi
pensando di convertirmi al libertinaggio anche io», scherzai
per alleggerire l'atmosfera, che improvvisamente era diventata troppo
intima.
D'altronde
io e Shawn avevamo un passato, un passato che non aveva mai ricevuto
una degna conclusione, ma che comunque si era chiuso in qualche modo.
Ero stata una sciocca a credere che la sua affabilità
sarebbe stata sufficiente a dissipare l'imbarazzo.
«Sei
uguale all'ultima volta che ti ho vista, quando avevi diciotto anni e
sei partita. Gli stessi capelli lunghissimi, lo stesso stile, hai
persino lo stesso orologio. È veramente strano rivederti
dopo tutto questo tempo, non voglio metterti a disagio, credimi, solo
che è tutto così sorprendente...»,
provò a spiegarsi e per una volta anche lui
sembrò a corto di parole.
In
verità lo capivo perfettamente. Avevamo ventisette anni, ma
eravamo, almeno fisicamente, rimasti identici a quel giorno di agosto
in cui ci salutammo e io lo guardai scomparire dal lunotto posteriore
dell'auto di papà.
La
nostra storia è stata una storia da liceo come ce ne sono
tante, una di quelle che nascono tra il laboratorio di chimica e gli
estenuanti giri di corsa attorno alla palestra, una di quelle che
iniziano con timide occhiate, molesti commenti e risolini da parte dei
rispettivi gruppi di amici e i primi impacciati tentativi di approccio.
Io
frequentavo un corso pomeridiano di storia antica, dopo un viaggio in
Egitto che avevo fatto in estate con la mia famiglia e che mi aveva
fatto venire il pallino della cultura egizia, ma purtroppo la parola
'antica' racchiudeva in sé anche un'infinità di
altre popolazioni. Perciò in un buio pomeriggio sonnacchioso
di novembre mi ero ritrovata a chiacchierare sottovoce con Shawn,
mentre il professore blaterava qualcosa a proposito dei Babilonesi. Lui
si trovava lì per il semplice motivo di avere una sfilza di
insufficienze in storia, diretta conseguenza della sua testa
completamente settata solo e soltanto sul baseball.
Passavamo
due pomeriggi a settimana a bisbigliare di qualsiasi argomento per poi
ignorarci al di fuori di quell'aula al primo piano. Se ci incrociavamo
ci scambiavamo uno sguardo, ma non ci salutavamo. Il nostro liceo era
veramente grande quindi evitarsi era facile. Tutto ciò
durò fino ad un pomeriggio di inizio marzo, quando pioveva
così tanto che le strade si erano allagate, Zoe era finita
all'ospedale per un'infiammazione all'appendice e io avevo scordato
l'ombrello.
Shawn
si offrì di accompagnarmi a casa e io accettai. In
verità fu un gesto stupido, nessuno dei due aveva ancora
sedici anni, perciò mi beccai un passaggio in bicicletta e
mi inzuppai da testa a piedi, cosa che non sarebbe successa se avessi
preso l'autobus. Ad oggi sono contenta di averlo fatto, altrimenti non
sarei ma stata invitata al ballo di primavera da lui.
Dopo
il ballo non cambiò poi molto, continuavamo a bisbigliare
per poi ignorarci, tutto ciò fino alla fine del corso quando
Shawn probabilmente realizzò che non mi avrebbe
più vista e mi disse che gli Arcade Fire avrebbero tenuto un
concerto in città quell'estate e che io ero l'unica di sua
conoscenza a cui piacessero.
Non
mi invitò in modo esplicito, mi lanciò un indizio
e fui io poi a proporre di andarci insieme. Dopo il concerto
continuammo a vederci per tutta l'estate. Shawn prese la patente e
così esplorammo tutte le spiagge dei dintorni, andammo a
feste improbabili e concerti assurdi, ci facemmo qualche canna e
guardammo un'infinità di tramonti mentre facevamo il bagno.
Il tutto senza mai toccarci.
Le
mie amiche sostenevano fosse gay e che la sua famosa storia precedente
con il capitano della squadra di pallavolo femminile fosse solo una
copertura. I suoi amici probabilmente gli davano dell'idiota e basta.
L'ultimo
giorno prima dell'inizio del nuovo anno scolastico mi portò
a vedere Psycho al
cinema all'aperto dove proiettavano vecchie pellicole, dopo che gli
avevo confessato il mio amore per Hitchcock, e lì, tra le
zanzare, mentre sullo schermo Norman faceva fuori l'investigatore
privato, mi baciò per la prima volta. Accantonai per un
attimo la mia venerazione per il regista e trascorsi il resto del film
a limonare con Shawn.
Successe
così, all'improvviso. Il giorno dopo arrivammo a scuola
insieme, mano nella mano. Restammo insieme per gli ultimi due anni di
liceo, fino a dopo il diploma. Fino al giorno della mia partenza,
quando io capii che lui non avrebbe retto a tutta quella distanza e io
decisi di lasciarlo libero.
Piansi
per una settimana e vi assicuro che tra la scoperta della mia
avversione nei confronti della giurisprudenza, la mia totale solitudine
e il cuore spezzato non fu affatto facile. La verità
è sempre stata semplicissima: stare con Shawn era
bellissimo. E lo era perché lui era veramente una persona
bellissima.
Non
l'ho mai incolpato di nulla, aveva diciotto anni e stava per partire
alla volta del torrido Texas, mentre io ero destinata al nord, al
Massachusetts. Non era pronto e forse non lo ero neanche io in fin dei
conti.
«Me
lo hai regalato tu questo orologio, ricordi? Perché
così non sarei più arrivata sempre in anticipo e
avrei smesso di accusarti sempre di essere in ritardo. Mi dicesti
proprio così. Purtroppo non ho mai imparato bene a gestire
il tempo, però resta un orologio veramente
bello...», osservai guardando quel piccolo regalo color rosa
confetto risalente a dieci fa.
«All'inizio
in Texas non facevo altro che pensare a te, cercavo i tuoi capelli
d'oro dovunque. Quando tornai a Tampa un anno più tardi
pensai di scriverti, avevo saputo da Michelle che tornavi a casa
piuttosto spesso...», mi confidò.
Quello
fu uno di quei momenti in stile Sliding Doors,
quelli nei quali pensi all'altro modo in cui sarebbero potute andare le
cose. Mi sarei laureata alla svelta, nessun tirocinio, niente Theodore,
niente casetta a Plymouth. Sarei tornata a Tampa, per la gioia della
mia famiglia, sarei andata a vivere con Shawn, probabilmente ora
staremmo per sposarci.
Questi
pensieri sono sempre pericolosi perché spesso portano con
sé un'alternativa che potrebbe piacerci di più di
quella che effettivamente è avvenuta e si è poi
trasformata nella nostra vita attuale.
«Perché
non lo hai fatto?», gli chiesi con un filo di voce.
Lui
sospirò e guardò il fondo della sua tazza di
caffè ora vuota. «Non era cambiato nulla rispetto
all'anno precedente, io ero sempre lo stesso e tu mi avresti
semplicemente respinto una seconda volta»
Un
dolore sordo mi colpì al centro del petto. «Non
puoi saperlo, non puoi sapere cosa avrei fatto!», esclamai
con un tono di voce più alto di quello che avrei voluto.
Lui
sorrise triste. «Ora sei qui però...»
L'occhio
mi cadde per caso sul famoso orologio rosa e quasi mi venne un infarto.
La
nonna! Mi avrebbe lanciato una maledizione senza perdono, per poi
rientrare in chiesa, confessare il suo peccato e andarsene con un taxi,
lasciandomi agonizzante sul sagrato della chiesa.
Acciuffai
gli occhiali da sole e mi alzai in piedi. «Shawn, mi dispiace
tantissimo, ma devo proprio scappare...l'avevo detto, orologio o no, io
e il tempo siamo ancora in conflitto», feci per prendere il
portafogli, ma una sua occhiata minacciosa mi fece desistere.
Mi
chinai ad abbracciarlo e per un attimo vacillai, aveva ancora lo stesso
profumo buonissimo di un tempo.
«Mi
ha fatto veramente piacere rivederti, dico sul serio. Ora scappo
davvero, ciao Carter»
«Ci
vediamo, Van Houten, dico sul serio. Voglio rivederti, ti
chiamo...»
Annuì
e gli rivolsi un ultimo sorriso, prima di partire di corsa alla volta
della macchina.
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Capitolo 16 *** Fichi d'India ***
Liam
Quello
che stavo facendo era assolutamente folle e senza senso.
O
meglio, forse avrebbe avuto un senso se io fossi stato ancora un
ventenne dalle idee poco chiare, nel bel mezzo di una crisi
esistenziale, con il desiderio di evadere per qualche giorno e provare
a schiarirsi le idee.
Io
di anni però ne avevo trentaquattro, ero padre, avevo un
matrimonio fallito alle spalle e dirigevo uno studio legale che portava
il mio nome. E allora cosa ci facevo su una Jeep presa a noleggio a
vagare per il deserto dell'Arizona alle sei di mattina?
Sulla
destra vidi l'insegna luminosa di una tavola calda aperta 24/7 e decisi
di fermarmi. Avevo vagato senza meta fin dal mio arrivo nella mattinata
del 2 luglio e ora era arrivato il momento di fare quello per cui ero
venuto fino a qui, tornare a casa dopo sedici anni e più.
Parcheggiai
l'auto e scesi, senza curarmi degli abiti stropicciati ed impolverati,
dei capelli stravolti e della pelle imperlata di sudore che non vedeva
una doccia da quarantott'ore. Era una terra di cowboy dopotutto, erano
strade per avventurieri e quel clima rovente non era certo per tutti.
Il
locale era quasi deserto, fatta eccezione per una coppia di turisti
dall'aria stravolta e una cameriera assonnata intenta a giocare a
Spider sul suo telefono. Mi lasciai cadere sul divanetto più
nascosto e guardai fuori, verso il canyon ancora in penombra.
Il
sole stava per sorgere rischiarando una nuova giornata, che
però non sarebbe stata una giornata qualunque.
Negli
ultimi anni avevo sempre trascorso il 4 Luglio con la famiglia di Matt
per il semplice motivo che io una famiglia non ce l'avevo. Solo ora mi
rendevo conto che, Tiffany o non Tiffany, relazioni di una settimana o
di una vita, una famiglia l'avrei sempre e comunque avuta. Ed era
proprio dove l'avevo lasciata.
«Salve,
cosa le posso portare?», una voce strascicata dall'accento
marcato mi distolse dai miei pensieri.
Detti
una scorsa veloce al menù e ordinai uova strapazzate e
bacon, il tutto accompagnato da caffè.
La
ragazza si appuntò il tutto e scomparve dentro la cucina.
Recuperai
il telefono e approfittai della presa di corrente per metterlo in
carica e riaccenderlo dopo due giorni di blackout totale.
Nell'attesa
mi godetti quell'alba bellissima, che colorava di mille colori
quell'arida terra rossa che sembrava essere dappertutto in Arizona. Io
ci ero cresciuto tra quelle sfumature, sotto quel sole che spaccava le
pietre e su quella terra crudele sempre in preda alla
siccità.
Quando
il telefono si riaccese, le notifiche iniziarono ad arrivare a cascata.
Saltai
a piè pari qualunque email etichettata come 'lavoro' e mi
concentrai su quelle che più mi interessavano. Tra queste ne
spiccava una.
Dove sei?
Risaliva
a due giorni prima.
Sospirai
ripensando a quelle mani delicate, alle ciglia fitte e chiarissime,
alla sua abitudine di arrivare sempre troppo presto agli appuntamenti.
Senza
pensarci due volte feci un rapido calcolo del fuso orario e pigiai il
tasto verde.
Non
avevo la più pallida idea di cosa le avrei detto,
probabilmente mi sarei scusato per il ritardo e le avrei chiesto come
stava.
Le
avrei confessato che mi mancava, che non sapevo bene cosa fare, che lei
mi spaventava perché era al tempo stesso ciò che
cercavo da tanto e ciò da cui scappavo da sempre, che l'alba
in Arizona era stupefacente e avrei voluto mostrargliela. Le avrei
domandato se aveva già bisticciato con sua madre, quanti
bagni si era già fatta e se era riuscita ad avvistare un
delfino.
«Pronto?»,
mi rispose sottovoce.
«Puoi
parlare?», le chiesi per assicurarmi che non l'avessi
disturbata in un momento poco indicato.
Sentii
una serie di fruscii, il rumore di una porta che veniva socchiusa e
infine il tonfo sordo di passi veloci.
«Ora
sì, sono venuta in spiaggia per non svegliare Zoe ed evitare
di essere importunata da mia nonna...», mi
confessò.
«Come
stai?»
«Ti
va se passiamo alla videochiamata?», mi chiese piano, quasi
avesse paura di aver proposto qualcosa di troppo.
Senza
esitare un attimo, impostai l'opzione di videochiamata e aspettai che
lo schermo mi mostrasse il suo volto.
Apparve
all'improvviso: il suo viso struccato, i capelli raccolti in uno
chignon spettinatissimo e una maglietta sbiadita del Comic-Con 2006 di
San Diego.
«Cosa
ti è successo?», mi domandò sgranando
gli occhi.
Evidentemente
anche lei ora mi vedeva chiaramente.
Mi
passai stancamente una mano tra i capelli cercando di limitare i danni.
«Diciamo che sto facendo una specie di road trip per
festeggiare la crisi di mezza età ed è da un paio
di giorni che dormo in macchina e non vedo un bagno...»,
spiegai imbarazzato.
Lei
parve sempre più sorpresa. «Bè, ti dona
questo aspetto...»
«...sporco
e sudato? Non credo!»
«Sembri
un avventuriero, una sorta di Indiana Jones. E così
abbronzato sembri ancora più giovane del solito»,
mi contraddì lei.
«Se
lo dici tu...», mormorai poco convinto.
In
quel momento la cameriera riemerse con la mia colazione e io spostai il
braccio che reggeva il telefono per farle posto.
«Ehi!
Dove sei?», mi chiese curiosa quando tornai ad inquadrare il
mio viso.
«In
Arizona»
«Wow!
Fammi vedere!», esclamò entusiasta avvicinandosi
al telefono.
Cambiai
fotocamera e le feci vedere il canyon e la distesa di terra rossa che
circondava tutto il diner. Dopodiché le mostrai un attimo la
mia colazione prima di reimpostare la fotocamera interna.
«Ti
dispiace se mangio mentre parliamo?»
Lei
scosse la testa e ridacchiò. «Cibati, Indiana, non
temporeggiare. Cosa ci fai in Arizona?», buttò
lì cercando di fare la vaga.
Con
scarsi risultati oserei dire io, ma non glielo feci intendere.
«Sono
tornato a casa. O meglio l'intenzione è farlo oggi, ma prima
avevo bisogno di un po' di tempo...»
Lei
spalancò gli occhi. «Non ci credo che sei
dell'Arizona! Non hai un minimo di accento e hai troppo l'aria di uno
yuppie che viene da una grande città del nord ed
invece...»
Posai
la forchetta e le rivolsi uno sguardo carico di risentimento.
«Grazie per avermi dato dello yuppie, potrei esserlo stato,
ma in ogni caso nessuno lo usa mai con accezione positiva. E grazie, so
di non avere accento, ho cercato per anni di perderlo...»
«Non
fare l'offeso, dai! In ogni caso i panni del sexy mandriano
dell'Arizona ti calzano a pennello...», bisbigliò
arrossendo.
«Come
procede in Florida invece?», le chiesi portandomi una
generosa dose di uova alla bocca.
Lei
fece una faccia buffa ed alzò gli occhi al cielo.
«Mamma ha invitato tutti i parenti pazzi che arriveranno
oggi, Nonna è acida e cattiva come sempre e continua a
pregare che qualche pia anima arrivi a pigliarsi le sue nipotine, Zoe
ha già minacciato tre volte di gettarsi in mare con una
pietra legata al piede e mio padre continua a sparire e nessuno sa dove
vada dal momento che ha il divieto di frequentare il golf club in
questi giorni. Domani poi ci sarà la festa galattica per
festeggiare il compleanno di Madre, la quale continua a ripetere che
quest'anno sarà una cosetta da nulla, solo per pochi intimi,
ma io ho sbirciato la lista degli invitati e ti dico solo che casa mia
sarà più affollata dell'Isola di Corfù
in alta stagione. Ah, per completare il tutto oggi ho incontrato e
preso un caffè con il mio primo ragazzo, che lasciai prima
di partire per il college...hai finito di mangiare adesso?»,
concluse con sguardo furbo.
Mi
aveva raccontato la rava e la fava per concedermi un attimo di tregua e
permettermi di finire con calma e senza interruzione la mia colazione.
Per un attimo pensai seriamente di confessarle che mi mancava
terribilmente.
«Flick!
Dove ti sei cacciata? La nonna vuole che l'aiuti a pettinarsi, dice che
tu hai le mani più delicate...»
La
voce di Zoe interruppe la nostra chiamata, l'immagine sullo schermo
traballò e poi inquadrò due occhi furbi e una
chioma corvina.
«Saluti,
Bei Pantaloni! Devo rubarle Flick, sorry not sorry», mi
spiegò velocemente, prima di afferrare il braccio di sua
sorella ed iniziare a trascinarla per il giardino.
Felicity
riuscì a liberarsi per un attimo e mi chiese in un sussurro:
«Allora com'è essere a casa?»
«Bellissimo»
Il
suo sorriso luminoso fu l'ultima cosa che vidi prima che chiamata si
interrompesse.
Sorridendo
a mia volta pagai il conto e mi rimisi in marcia.
Impostai
il navigatore.
300
miglia, 4h e 40m
Sedona,
arrivo.
***
Non
potendo presentarmi sulla soglia di casa dopo anni di assenza ricoperto
di polvere e sudore fui costretto a trovare una soluzione, o meglio,
una doccia.
«Liam
Carter Wright? Liam Carter Wright! Tu! Grandissimo figlio di puttana!
Vieni qui e fatti abbracciare...»
Un
paio di robuste braccia mi circondarono il collo mentre io cercavo
imbarazzato di ricambiare la stretta, seppure mi sentissi leggermente a
disagio.
Rachel
era sempre stata una ragazza priva di mezze misure. Divideva il mondo
in due categorie nettamente distinte: ciò che le andava a
genio e ciò che lei sempre elegantemente definiva la merda del mondo.
In
questo secondo gruppo si annoverava la matematica, ed era proprio
grazie a quella materia da lei tanto odiata che le nostre strade si
erano incrociate vent'anni prima.
«Ciao,
Rachel. Come stai?», le domandai sorridendo, una volta che
riuscii ad allontanarmi dal suo corpo e a guardarla negli occhi.
Aveva
messo su parecchi chili dall'ultima volta che l'avevo vista, piccola
sedicenne con la frangetta storta e la passione per gli sport violenti.
Eppure i suoi occhi brillavano sempre di quella luce vagamente
derisoria, che pareva farsi beffe del mondo intero.
Aveva
un anno meno di me e quando risposi all'annuncio disperato di sua madre
e iniziai a darle ripetizioni di trigonometria nel pomeriggio, lei mi
catalogò immediatamente come membro onorario della merda del mondo.
Ci
vollero mesi e mesi per farle capire che con me i suoi modi irriverenti
e presuntuosi non avrebbero funzionato. Una volta compreso
ciò diventammo abbastanza complici e la nostra amicizia
riuscì miracolosamente a sopravvivere a tutti i drammi del
liceo.
«Non
c'è male, dai. Dimmi piuttosto come stai tu. Che fine hai
fatto? Sono passati secoli dall'ultima volta che sei stato da queste
parti e saranno tre anni che non mi mandi più gli auguri di
Natale!», mi rimbrottò lei, dandomi una spinta
poco delicata per farmi capire di entrare in casa.
Abitava
ancora nella casa dei suoi genitori; il salotto aveva ancora le pareti
decorate con quella carta da parati con un terribile motivo floreale,
che avevo osservato per ore mentre aspettavo che Rachel arrivasse da
sola a capire quale fosse il coseno di un angolo retto.
La
seguii in cucina e mi lasciai cadere su una sedia libera. Ci misi
qualche secondo a rendermi conto che di fronte a me sedeva un bimbo
grassoccio intento a fissare imbambolato la televisione posta
nell'angolo.
«Travis!
Cosa avevo detto? Prima mangi i cereali con il latte, ti lavi i denti e
dopo, solamente dopo, puoi guardare i cartoni animati. Facessi quello
che ti dico almeno una volta, benedetto bambino!». Rachel gli
si avvicinò e gli pulì i baffi di latte che gli
contornavano la bocca con un tovagliolo. «Lui è
Travis, il mio ultimogenito. Sua sorella è in campeggio per
il ponte festivo. Travis, saluta Liam!»
Mi
sorprese scoprire che Rachel avesse ben due figli, da ragazzina andava
ripetendo che se mai avesse avuto dei bambini li avrebbe lasciati sotto
un cavolo nell'orto di qualcuno nella speranza che qualche credulone li
trovasse e se li tenesse. Sua madre le aveva proibito di prendere nuovi
animali domestici dopo che la figlia aveva fatto morire di sete e
avvelenato per errore i due gatti precedenti.
Il
piccolo Travis voltò pigramente il volto verso di me e mi
fece ciao ciao con la sua manina dalle dita paffuta, fu una questione
di una manciata di secondi scarsa, dopodiché la sua
attenzione tornò a focalizzarsi sui combattimenti tra robot
che scorrevano sullo schermo.
Sua
madre gli dedicò uno sguardo di disapprovazione e gli spinse
sotto il naso la sua scodella di Mickey Mouse straripante di una
poltiglia di latte e fiocchi d'avena.
«Come
mai sei conciato come un clochard?», si informò
poi.
«Tesoro,
non dirmi così! Ho messo anche la cravatta che mi ha
regalato tua madre...», sopraggiunse una voce dal tono
sconsolato.
Rachel
lasciò perdere per un attimo la colazione del figlio e si
avvicinò alla figura che faceva capolino dalla soglia.
«Non dicevo a te, e quella cravatta è
semplicemente orrenda. Colin, ti ricordi di Liam?»
Mi
alzai e lo vidi.
Colin
Newman.
La
più grande testa di cazzo che la Sedona High School abbia
mai visto.
Il
Colin adulto si era dato una bella rispolverata e aveva detto addio al
suo fisico da playmaker e alla sua folta chioma biondo platino.
Mi
allungò una mano e mi sorrise cortese. «Carter
Wright! Come potrei non ricordare? Rach mi ha detto che non te la passi
niente male tra gli Yankee, anche se devo dire che ora ti trovo un po'
fuori forma...»
Colin
era uno stronzo. O almeno lo era stato. Nonostante ciò gli
strinsi la mano e ricambiai il sorriso cordialmente. Avrei dovuto
mettere in conto di incontrare personaggi appartenenti a quel capitolo
della mia vita legato a Sedona che avevo provato a mettere da parte con
tutto me stesso.
Eppure
non avrei mai potuto immaginare che alla fine Rachel, la timida e un
po' stramba Rachel, finisse coniugata con quello che al tempo del liceo
era stato senza dubbio il re del ballo e della merda del mondo.
Mi
domandai che fine avesse fatto Chelsea, la ragazza con cui faceva
coppia fissa alle superiori e con cui aveva vinto per tre anni di fila
il titolo di re e reginetta del ballo di fine anno.
«Non
tornavo qui dalla fine del liceo e ho deciso di approfittarne per fare
un piccolo road trip per l'Arizona prima di tornare a casa per il 4
Luglio. Ed eccomi qui. I miei familiari però non sanno del
mio arrivo quindi mi chiedevo se...sareste così gentili da
prestarmi la vostra doccia per un quarto d'ora»
Sarei
dovuto andare in un albergo, lo capii dallo sguardo incerto che si
scambiarono marito e moglie, prima che quest'ultima mi rassicurasse che
non c'era alcun problema e di fare come se fossi a casa mia.
In
fondo la mia amicizia con Rachel risaliva ad anni e anni prima, quando
ancora eravamo sulla stessa lunghezza d'onda e, soprattutto, lei non
aveva ancora figliolato con Colin Newman. Era difficile vedere in
quella signora, madre di famiglia e casalinga la ragazzina che era
stata.
Cercai
di essere il più rapido possibile, limitandomi a una doccia
veloce e una rasatura un po' superficiale. Infilai gli abiti che avevo
scelto tanto accuratamente per l'occasione e ridiscesi le scale.
Avrei
tanto voluto chiedere a Rachel di spiegarmi la storia del suo
matrimonio, ma non avevo né il tempo né la voglia
di affrontare il discorso di fronte all'intera famiglia Newman. Mi
ripromisi di scriverle presto e mi congedai, abbracciandola stretta
prima di andarmene.
Feci
un giro della cittadina e mi sorpresi nel trovarla quasi immutata. Ogni
cosa era al proprio posto, dal piccolo alimentari che vendeva alcolici
senza controllare la carta d'identità al cinema con un solo
paio di sale e un annoiato ragazzino brufoloso dietro il vetro della
biglietteria esterna.
Parcheggiai
accanto alla cassetta delle lettere della villetta contigua a quella
della mia famiglia e mi controllai nello specchietto retrovisore
un'ultima volta.
Ero
cambiato. Inevitabilmente, ero invecchiato. Così come lo
sarebbero stati i miei familiari.
Avevo
provato a convincerli a venirmi a trovare, ma dopo un viaggio odissea,
nel quale avevano smarrito i loro bagagli e mia madre aveva subito
un'intossicazione alimentare con il cibo che le era stato servito a
bordo, non si fecero mai più vedere sulla costa orientale.
Avevano
visto Arabella solamente su FaceTime o Skype e questa era probabilmente
la cosa di cui ero più dispiaciuto. Avrei tanto voluto
portarla con me, ma questa festività era il turno della
madre e in fondo era meglio tornare per la prima volta da solo.
Percorsi
il breve tratto di marciapiede che mi separava da casa mia e mi bloccai.
Casa mia.
Quella
non era casa mia.
Il
giardino era stato completamente rifatto, le piante selvatiche ed
infestanti che in passato avevano ricoperto quasi tutto erano
scomparse, sostituite da ordinate aiuole colorate ed un prato
perfettamente tosato. Il basso cancellino in legno cigolante che
ricordavo non esisteva più, al suo posto si ergeva una
staccionata di ferro verniciato dai motivi arzigogolati ed accanto
all'ingresso capeggiava un videocitofono di ultima generazione.
Ancora
sconcertato pigiai il pulsante grigio e attesi che qualcuno rispondesse.
Una
risposta non arrivò mai.
Seguì
un urlo e poi un tonfo, dopodiché il portoncino principale
– anche questo mai visto prima – venne spalancato e
mia madre ne emerse.
Gli
occhi lucidi e le mani tremanti.
Si
mise a correre e percorse quei pochi metri di vialetto come se non
avesse più di sessant'anni, come se non le importasse nulla
del suo elegante abito blu e dei suoi capelli striati di grigio
ordinatamente acconciati in un bel taglio a carrè.
Non
ebbi il tempo di rendermi conto dell'esatta sequenza dei fatti che si
susseguirono, ma so solo che mi ritrovai trascinato oltre il cancello,
tra le braccia di mia madre, mentre Judy gridava come una matta, mio
padre mi riempiva di pacche sulla schiena e un cane, che non ricordavo
di aver mai visto, continuava a correre attorno a noi e ad abbaiare.
«Sento
odore di bruciato...», fu la prima cosa che osai dire.
Mio
padre subito mollò la presa e corse verso il retro della
casa, uno sguardo allarmato stampato in volto. Il cane lo
seguì a ruota.
«Quando
sei arrivato? Perché non me lo hai detto? Potevamo fare il
viaggio insieme, non credi? E pensare che te l'ho chiesto pochi giorni
fa quando ci siamo visti...»
Judy
blaterava stizzita, ma io non le prestavo attenzione.
I
miei occhi erano troppo occupati a sprofondare dentro quell'azzurro
rassicurante che era stato il mio porto sicuro fino alla maggiore
età. Mia madre era più esile di come la
ricordavo, ma le sue mani erano ancora calde e morbide come le
ricordavo e il suo sorriso timido e sereno come quello che mi aveva
dedicato per anni e anni prima di spegnere la luce della mia camera e
andare a dormire.
«Grazie»,
mi sussurrò piano, la voce spezzata e una lacrima che
tremolava tra ciglia inferiori.
Io
le strinsi forte le mani. «Perdonami, mamma. Avrei dovuto
farlo anni fa, avrei dovuto...»
Lei
mi zittì gentilmente. Non aveva importanza ora, mi disse,
niente importava ora che ero lì.
E
probabilmente era vero.
I
legami autentici restano, sempre. Anni, offese, kilometri, tradimenti.
Niente è abbastanza forte da spezzare un legame vero. E
quale legame è più vero di quello madre-figlio?
«Liam,
figliolo!», la voce alterata di mio padre ci raggiunse dal
cortile posteriore e Judy ne approfittò per liberarmi dalla
presa di nostra madre e spingermi verso la fonte di fumo denso.
Una
volta raggiunto mio papà mi ritrovai di fronte ad un
nuvolone di fumo che lo avvolgeva completamente, nascondendolo alla mia
vista. Gli unici rumori che si udivano erano lo sfrigolio della carne
carbonizzata sulla griglia e i continui colpi di tosse di
papà.
«Dio
santissimo! Ernest, cosa ti avevo detto? Mio fratello sarà
qui a momenti; non potevi aspettarlo e lasciare tutto nelle sue
mani?», mamma sembrava scocciata e per nulla allarmata dalla
situazione.
Judith
sbuffava e dava dei calci al dondolo in legno bianco che c'era sotto il
portico. «Fa così tutti gli anni. Non è
capace, eppure si crede il re del barbecue. Anche quest'anno moriremo
di fame...», sbottò.
Decisi
che sarei stato io a salvare mio padre dalla morte per intossicazione e
così spensi la brace, rimossi le costine e le salsicce ormai
completamente bruciate e invitai tutti ad entrare in casa, lasciando al
fumo il tempo per disperdersi.
Feci
il mio ingresso in cucina e anche lì mi bloccai disorientato.
«Quando
avete fatto rimodernare tutto?», domandai passando la mano
sul lucido ripiano in marmo chiaro della grande penisola che occupava
il centro della stanza.
Mia
madre sorrise orgogliosa e iniziò a raccontarmi di come
circa otto anni fa avesse iniziato a fare delle piccole modifiche, un
nuovo copri-divano o delle tendine colorate per il bagno, per poi pian
piano rivoluzionare tutto l'arredamento.
«Sei
stato così generoso con noi in questi anni...»,
mormorò sottovoce mia madre, gli occhi nuovamente lucidi.
Judith
sbuffò e si cacciò in bocca una manciata di
patatine aromatizzate al peperoncino che aveva trovato in uno stipetto
sopra il lavello.
«Liam
è pieno di cose inutili e ci sguazza nei- Cazzo! Aiuto,
acqua! Oh mio dio, brucia, acqua!»
Papà
la guardò storto prima di riempire fino all'orlo un
bicchiere e porgerglielo. In casa nostra non era mai stato tollerato un
linguaggio scurrile. Nonostante tutte le difficoltà e le
mancanze che potevano aver caratterizzato la nostra crescita,
un'educazione salda e all'antica ci era stata accuratamente impartita.
Sebbene Judith poi si fosse persa un po' per strada e ora continuasse
ad inventare epiteti volgari con cui riferirsi ai suoi studenti quando
parlava.
«Come
sta Arabella? L'ho sentita l'altra sera, mi ha detto di essersi
divertita quando è venuta a Boston da te...», si
informò gentilmente mia mamma, mentre con fare materno
sostituiva le patatine di Judy con dei più innocui crostini
tostati e le versava dell'acqua nel bicchiere ormai vuoto.
Arabella
mi mancava sempre molto, ma spesso gli impegni e la mia fitta agenda
occupavano la maggior parte del mio tempo e dei miei pensieri e
così la lontananza da mia figlia passava spesso in secondo
piano. Quest'ultima volta però aveva accusato molto di
più la sua partenza e la sua successiva assenza dalla mia
vita. Era bello avere qualcuno da cui tornare a casa la sera, qualcuno
che ti guardava con ammirazione e che ti vedeva come un modello a cui
aspirare, qualcuno a cui insegnare qualcosa di importante come
allacciarsi le scarpe da solo o scrivere l'iniziale del proprio nome.
Certo, Arabella da grande voleva diventare come me solo per avere
un'auto rosa confetto che andasse veloce come il vento e per comandare
tutti quanti. E aveva scarabocchiato A sbilenche su muri, lenzuola e
tappezzeria del mio appartamento. Però era dura alzarsi la
mattina e non recarsi in punta di piedi nella sua stanza per guardarla
dormire profondamente, le ciglia lunghissime a sfiorare le guance tonde
e un profumo di pesca tutto attorno.
Felicity
mi aveva reso uno di quegli uomini sentimentali che avevo sempre preso
in giro, e ancora non avevo capito come fosse avvenuto quel cambiamento
e se fosse reversibile. Non avevo nessuna intenzione di trasformarmi in
un Matthew, vessato e sottomesso ai capricci e alle lune di Mildred.
Probabilmente avevamo solo bisogno di trovare un equilibrio, dopotutto
anche il mio amico mi ripeteva da anni di non giudicare la sua
relazione dato che non ero a conoscenza di tutti i dettagli che la
caratterizzavano. E soprattutto di tutte le regole non scritte che
vigevano tra loro.
«...gli
capita spesso ultimamente, dev'essere tutta colpa - o merito - di
Felicity. Sì, esatto proprio lei. Ha fatto un lavoro sublime
con il giardino dei nonni, dovreste venire a vederlo prima o poi. Le
rose sono belle quasi quanto quelle della nonna, ve le
ricordate?», Judy aveva approfittato della mia distrazione
per aprire bocca e iniziare uno dei suoi soliti monologhi
monopolizza-conversazione.
«Felicity?»,
chiese mio padre guardandomi speranzoso.
Dopo
il divorzio non si era più parlato di donne nella mia vita,
io mi limitavo a sorvolare sull'argomento e loro evitavano di farmi
domande esplicite. Non gli avevo mai raccontato delle numerose ragazze
con le quali mi ero saltuariamente accompagnato in quegli anni e, una
volta tanto, mia sorella aveva avuto l'accortezza di tacere.
«La
adorereste, ve lo assicuro!», trillò Judy al
settimo cielo.
Il
fugace sguardo preoccupato che i miei genitori si scambiarono non
sfuggì né a me né a mia sorella.
«No,
non assomiglia minimamente a Tiffany...», mi costrinsi a dire.
C'era
una cosa che il mio lavoro mi aveva insegnato oltre a demonizzare il
matrimonio, ed era il fatto che a parlare male dell'ex compagno si
faceva solo una figura meschina e non se ne ricavava nulla. Il rancore
non ti restituirà nulla, tanto vale comportarsi da adulti e
smetterla di recriminare. È successo, prendiamone atto e
cerchiamo di uscirne nel modo più civile e meno doloroso
possibile.
«Oh
no! È l'esatto contrario lei!», si
affrettò a confermare Judith.
La
mia famiglia ci aveva provato ad accogliere Tiffany e a farla sentire a
casa, ma tutto si era risolto in un fallimento totale di fronte al muro
di gomma che la mia ex moglie aveva eretto. Si comportava con fredda
cortesia e i suoi occhi criticavano silenziosamente ogni cosa. Non era
maleducata o altezzosa in modo esplicito, ma bastava che chiedesse a
mia madre se poteva portare i suoi vestiti in lavanderia insieme a
quelli della nostra famiglia per far sentire tutti a disagio. Finiva
con Mamma che le diceva che non c'era alcun problema e poi stava
sveglia fino all'una a stirare di nascosto in taverna le camicie in
seta di Tiffany.
«L'importante
è che ti renda felice», tubò mia mamma
felice come una pasqua.
«E
che non la sposi in fretta e furia senza rifletterci su...»,
borbottò Papà.
Era
sempre stato vecchio stampo; per lui il matrimonio era un passo che una
volta compiuto non permetteva più ripensamenti o
retrocessioni. Hai voluto la bicicletta, ora pedala. Me lo ripeteva
sempre da ragazzino.
«Papà!
Certo che la sposerà!», strillò
contrariata Judith.
«Caro...»,
lo ammonì Mamma.
In
quel momento fortunatamente suonò il campanello e la
tensione nella stanza si disperde.
Capivo
cosa volesse dire mio padre, non era solo per il matrimonio e il
divorzio. Dopotutto io e Tiffany eravamo adulti consapevoli, ma
purtroppo Arabella era stata solo una vittima innocente. Una bambina di
neanche un anno divisa tra due genitori residenti ai lati opposti del
paese.
«Non
rimuginarci ora, caro, tuo padre non intendeva dire nulla di
che...», mi bisbigliò Mamma lasciandomi una
carezza sul braccio, prima di superarmi e andare ad abbracciare sua
sorella appena giunta sulla soglia.
Guardai
le schiene dei miei genitori, quarant'anni insieme, spalla contro
spalla, nonostante tutto.
Mia
madre aveva torto, Papà sapeva perfettamente cosa stava
dicendo. Ora stava a me trovare una risposta alla domanda: io volevo
sposare Felicity?
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Capitolo 17 *** Addio e grazie per i fiori ***
Felicity
Avrei
dovuto capirlo subito che quell'anno la festa del 4 Luglio in casa Van
Houten si sarebbe rivelata un disastro di dimensioni cosmiche. I
segnali d'altronde c'erano tutti.
Papà
si era chiuso le dita nel bagagliaio della sua auto il pomeriggio
precedente, costringendo Madre ad accompagnarlo ed assisterlo per le
successive nove ore trascorse nella sala d'aspetto ricolma di un pronto
soccorso troppo affollato, ed ora si aggirava come un'anima in pena
attorno alla postazione barbecue, da sempre suo regno, ora occupata
dallo Zio Larry.
Quest'ultimo,
già al quinto bicchiere di vino bianco alle dieci del
mattino, non faceva altro che carbonizzare carne, tossire, imprecare
per le nuvole di fumo tossico di cui era lui stesso la causa ed urtare
la mano imbozzolata di fasciature di mio padre.
Mamma
Grace invece stava facendo il matto a quattro perché
l'incidente del marito l'aveva costretta a disdire il suo appuntamento
al centro di bellezza e ripeteva che avrebbe pranzato nella solitudine
e nella privacy della sua camera, non potendo permettersi di sfigurare
davanti a quella piccola reginetta di bellezza che era Kimberley.
Zoe
non si svegliava, nonostante il fracasso infernale che producevano i
nostri parenti, la luce del sole che la illuminava in pieno viso e
Nonna Adaline che passava l'aspirapolvere sotto il suo letto recitando
a gran voce le lodi mattutine.
Ero
riuscita a fuggire verso metà mattina e mi ero rifugiata
nell'unico locale di Tampa rimasto aperto in quel giorno festivo. Si
trattava di una piccola tisaneria posizionata vicino al porto, dove
venivo spesso da ragazzina per sorseggiare un thè alla menta
con biscotti alla cannella nelle noiose serate d'inverno.
La
gestione del posto era cambiata come minimo tre volte dai ricordi del
mio passato, ma il thè verde che ordinai era molto buono,
così come la fetta di crostata con cui decisi di viziarmi.
La
spiaggia in lontananza era già colma di persone intenzionate
a trascorrere la giornata improvvisando pic-nic e godendosi il sole e
il mare scintillante di luglio. Mentre sorseggiavo il mio
thè mi ritrovai a pensare al fatto che io in Arizona non
c'ero mai stata. L'unico stato che avevo visitato nella parte ovest del
paese era la solita e prevedibilissima California. Non avevo mai visto
la Death Valley, le Cascate del Niagara o le Rocky Mountains. In
compenso avevo attraversato il mondo e l'oceano più e
più volte nei viaggi con i miei genitori: India, Portogallo,
Madagascar, Giappone, Nuova Zelanda.
E
non avevo mai visto l'Arizona, santo cielo! Per un attimo desiderai che
Mr. Liam mi avesse chiesto di andare con lui, ma mi resi conto
immediatamente che era stato un pensiero sciocco.
Dopo
più di quindici anni di assenza doveva compiere quel passo
importante da solo. Doveva riconnettersi alle proprie radici, alla
propria terra e alla propria famiglia in totale solitudine. Era giusto
così, la mia presenza sarebbe stata di troppo, avrei
interferito in qualche modo, io sconosciuta catapultata in un piccolo
mondo personale e privato, di cui sapevo ancora ben poco.
Pensai
di scrivere un messaggio a Judith, ma ormai sarebbe stato superfluo.
Dove sei?
Lui
era esattamente dove doveva essere: a casa.
Così
mi limitai a fare vagare lo sguardo verso l'orizzonte e a finire la mia
colazione, in preparazione alla giornata difficile che mi attendeva.
Tornata
a casa, mi feci una doccia rapida e misi più attenzione del
solito nel vestirmi. Abbinai una gonna corta a trapezio dalla fantasia
sui toni del blu e del celeste con una camicetta bianca con delle
piccoli volants sulle spalle e mi infilai un paio di sandali blu dal
tacco spesso. Legai i miei lunghi capelli in una treccia laterale e
proprio mentre ero impegnata nella delicata operazione
dell'applicazione del mascara venni interrotta dal ritorno alla vita
del nostro personale morto vivente di famiglia.
«Flick,
levati. È il mio turno...», grugnì
graziosamente Zoe, una cofana di capelli neri raccolti in uno chignon
con cui probabilmente aveva anche dormito e una t-shirt sbrindellata
dei Tampa Bay Buccaneers.
La
ignorai e presi un dischetto struccante per pulire lo sbaffo di rimmel
nero che mi ero fatta presa in contro piede dall'arrivo di mia sorella.
Lei
nel frattempo si abbassò gli slip e si sedette sul wc,
un'espressione scontenta cucita sul viso. «Sono riuscita a
dormire solo quattordici ore con tutto il rumore che
facevate...», brontolò.
Continuai
imperterrita nell'impresa di sistemare il mio trucco e feci finta di
non aver udito nulla. Questa è una tecnica antichissima,
messa in atto da tutti i fratelli del mondo fin dall'inizio dei tempi,
che consiste nel non sentire ciò che non si vuol sentire. E
vi assicuro che con Zoe come sorella le cose che non volevo ascoltare
erano veramente tante.
«Quella
camicetta è semplicemente stupida. A cosa serviranno mai
tutti quei frou frou schifosamente leziosi sulle spalle? E
perché la tua gonna ha un colore così allegro?
Oggi è un giorno triste e lo sarà ancor di
più quando la vecchia vedrà Kim»
Ecco.
Una pioggia di complimenti e commenti positivi.
Le
lasciai il bagno tutto per sé, nella speranza che un po'
d'acqua fredda e una buona colazione in ritardo la rabbonissero almeno
un pochetto, e trotterellai giù per le scale, dove inciampai
nel mio nono e ultimo cuginetto.
Il
frugoletto, tale Ocean, aveva tre anni scarsi, ma ancora portava un
pannolino fatto di panni in cotone ingrigito legato attorno ai fianchi
e con i lembi fissati da una gigantesca spilla da balia.
Zia
Lindsay, unica sorella di Papà, era uscita di casa a
diciassette anni per unirsi ad una compagnia itinerante di artisti
circensi. Dopo qualche anno, e il primo paio di figli, nati
rispettivamente dalla sua relazione con l'ammaestratore di leoni prima
e da quella con il mago sputafuoco poi, si era stufata di quella vita
nomade ed era tornata in Florida dove si era data all'erboristeria e
alla medicina alternativa. In quel periodo di relativa
stabilità, si era trasferita in un villino vicino al mare
insieme ad un tale che insegnava windsurf e con lui aveva avuto due
figlie. Seguì un periodo di totale blackout, del quale
nessuno sa praticamente nulla, se non che sparì dalla
circolazione, scrisse la sceneggiatura per una serie tv di scarso
successo andata in onda su una rete minore in seconda serata e
partorì altri due figli. Arrivata a quota sei pargoli si
rese conto di non potersi più comportare in modo avventato e
decise di stravolgere la sua vita. Non ci riuscì del tutto,
ma perlomeno non lasciò più Tampa, i suoi figli
riuscirono a frequentare in maniera continuativa la scuola e lei
aprì una scuola di yoga che le permise di mantenere da sola
la sua numerosa famiglia.
La
quota di nove figli era stata raggiunta negli ultimi anni, prima con la
nascita dei due gemelli e dopo con l'arrivo di Ocean, tutti frutto di
un ricorso della zia alla banca del seme, dopo le sue molteplici
dichiarazioni riguardo al fatto che ormai per lei gli uomini erano un
capitolo chiuso per sempre. Aveva dovuto dire addio anche alla
possibilità di nuove maternità, quando il suo
ginecologo con evidente sollievo le annunciò l'arrivo della
menopausa.
Non
era una cattiva persona, anzi, solo che risultava terribilmente
naïf e a tratti alquanto squinternata, con le sue credenze
mistiche e il suo modo di vivere alternativo. Si dava un gran da fare
per riuscire a crescere da sola i suoi nove figli, nonostante
l'inevitabile aiuto che mio padre e i nonni si vedevano costretti a
dare.
River
era il maggiore dei miei cugini, nato a qualche mese di distanza da me,
e sembrava essere quello che aveva risentito di più dello
stile di vita fuori dal normale che aveva caratterizzato tutta la sua
vita. Faceva il musicista, o perlomeno così andava dicendo,
ma l'unica cosa che sapevamo con certezza era che gli piaceva fare il
fannullone, vivere a scrocco e fumare hashish.
Sua
sorella Bluebell aveva 22 anni e studiava arti esoteriche in una
qualche scuola non riconosciuta dalle parti di Orlando, sulla carta
d'identità sotto alla voce Professione figurava come medium
e si aggirava sempre avvolta in strati su strati di scialli, turbanti e
pashmine.
Seguivano
Circe e Venus, di 17 e 15 anni, che erano troppo impegnate ad odiarsi a
vicenda per fare caso a qualsiasi cosa le circondasse e, nonostante le
belle parole riguardanti la non violenza e la necessità di
amare sempre incondizionatamente il prossimo che loro madre spendeva
quotidianamente, non passava giorno senza che si insultassero o si
facessero a vicenda scherzi crudeli.
Jupiter
e Cherry, andavano alle scuole medie insieme, ed erano relativamente i
più tranquilli della loro stramba famiglia. Il primo si
dedicava solo alla sua collezione di animali morti, chiaro segnale del
fallimento del regime vegano ed animalista con cui Lindsay li aveva
allevati, mentre la seconda voleva farsi suora e non faceva altro che
riprendere tutti quanti e promettere preghiere per aiutare questo o
quello.
I
gemelli, che rispondevano agli stupidissimi nomi di Wolf e Fox, avevano
appena terminato la prima elementare e passavano le giornate ad
allenarsi nella scrittura in corsivo su qualsiasi superficie libera
capitasse loro sottomano: poltrone, la parete dell'ala est della
biblioteca comunale, le magliette dei loro fratelli o la tovaglia in
pizzo della bisnonna.
Per
ultimo c'era per l'appunto Ocean, un moccioso sempre sporco e
sorridente che preferiva strisciare per terra invece di camminare sulle
sue gambette minute e aveva sempre le ginocchia ricoperte di croste e
sporcizia.
Zia
Lindsay sorprendentemente, nonostante i molteplici parti e i suoi 47
anni suonati, era ancora una bella donna, dal sottile corpo sinuoso e i
lunghi capelli biondi striati d'argento che assomigliavano molto ai
miei. Passava la maggior parte del tempo a piedi nudi, vestita con ampi
abiti di lino dai colori sgargianti decorati con fili dorati e una
sottile riga d'eyeliner ad incorniciare i suoi grandi occhi viola
contornati da piccole e discrete rughe.
Mamma
l'aveva sempre trattata con condiscendenza, disapprovando in silenzio
tutto ciò che faceva o diceva. D'altronde erano una
l'antitesi dell'altra, ma nonostante ciò era da
più di trent'anni che si sopportavano senza mai lasciar
trapelare altro che superficiale cordialità.
La
Zia quel giorno indossava una gonna in cotone color terracotta che le
sfiorava le caviglie adorne di campanellini e una morbida casacca in
lino grezzo, sotto la quale risultava piuttosto evidente l'assenza del
reggiseno. Mia madre Grace invece aveva optato per un grazioso abito
smanicato color verde menta e un paio di sandali dalla bassa zeppa in
corda. I suoi capelli, a causa del mancato appuntamento dal suo fidato
parrucchiere, erano stati astutamente raccolti in un raccolto appuntato
sulla nuca con un paio di fermagli tartarugati.
«Felicity
carissima! Vieni qui ad abbracciarmi!», esclamò
con la sua voce musicale mia zia non appena mise gli occhi sulla mia
persona.
Lindsay
era una grande fan del contatto fisico e nella sua famiglia non si
faceva altro che abbracciarsi e scambiarsi baci affettuosi. Gli unici
che sembravano non apprezzare tutte quelle effusioni parevano i
gemelli, che dopo ogni bacio si esibivano sempre in grandi
manifestazioni di disgusto.
Una
vola liberatami da quell'abbraccio, Zio Larry provò ad
incastrarmi in un nuovo scambio di amore familiare, ma fortunatamente
Mamma riuscì a dirottarlo nuovamente verso la brace e le
povere costine intente a carbonizzarsi. Era risaputo che, quando
brillo, ovvero la metà del tempo che trascorreva sveglio, il
fratello di Nonna tendeva ad allungare un po' troppo le mani e a
diventare molesto.
Mia
cugina Bluebell mi rivolse un vago saluto da sotto l'ampio foulard di
seta ricamata che le circondava testa e viso, mentre suo fratello River
si divertiva a riprodurre una melodia sempre uguale picchiettando le
posate del servizio in argento di mamma sul tavolo in maiolica e
facendo dei versi disgustosi con la bocca. Sembrava tutto concentrato e
molto ispirato dalla sua attività e ignorava lo sguardo
allarmato diretto a quel prezioso tavolo comprato a Positano da sua zia
Grace.
Nonna
Adaline, approfittando della confusione generale, si era installata a
capotavola e zitta zitta stava svuotando l'ampio vassoio degli
stuzzichini, accompagnando il tutto con un'abbondante dose di vino
bianco frizzante.
«Quando
arriva quella vostra cugina?», si informò Circe,
in un momento di apparente tregua con la sorella.
Non
fece in tempo a formulare la domanda che Montgomery fece capolino dalla
portafinestra con la sua mano bendata, alle sue spalle c'erano Zio
Franklin e Kimberley.
Lo
zio aveva la solita aria sofferente e il suo volto era, se possibile,
ancora più emaciato e pallido rispetto all'ultimo volta che
lo aveva visto durante le vacanze pasquali.
Kim
invece, come sempre, si era impegnata a fondo affinché gli
sguardi di tutti fossero calamitati su di lei. Poco le importava che
fosse per ammirazione, invidia o disapprovazione: l'unica cosa
importante era essere il centro dell'attenzione.
Da
quando il suo corpo di bambina si era trasformato donandole un bel
fisico prosperoso al punto giusto, sembrava diventato d'obbligo per
Kimberley vestirsi in modo da metterlo in mostra il più
possibile. Zio Franklin aveva perso anni fa il suo potere genitoriale e
lei, ormai a piede libero, si ritrovava a quindici anni ad avere
l'aspetto di una quasi trentenne.
Si
era tagliata i capelli e li aveva tinti di un caldo rosso tiziano, un
prezioso piercing all'ombelico faceva capolino oltre l'orlo della sua
minigonna a vita bassa e un crop top super aderente conteneva a
malapena la sua terza abbondante di seno.
Mentre
lo zio salutava tutti prima di defilarsi accanto a nonna ed avventarsi
in sua compagnia sulle poche tartine avanzate, Kim si guardò
attorno con aria disgustata e alla fine si decise ad andare a salutare
sua Zia Grace, l'unica persona che sembrava piacerle vagamente.
«Ehilà
a tutti! Zia, credo sia tuo il bambino che sta tentando di entrare
nella lavatrice al piano di sotto...», Zoe fece la sua
entrata, avvolta in un paio di jeans neri lunghi che facevano a pugni
con il clima rovente di quella giornata estiva.
Lindsay
dichiarò tutta allegra che i bambini dovevano sperimentare e
fare le loro esperienze in assolta libertà per poter
crescere come si deve e si limitò ad abbracciarla, non
accennando a schiodarsi da lì.
Kim
però era carica e pronta ad iniziare. «Questo
metodo educativo prevede quindi la possibilità di
centrifugare un bambino di tre anni? È così che
hai cresciuto dei meravigliosi giovani adulti come quei
due?», commentò imperturbabile indicando Bluebell
e River, impegnati a lanciarsi a vicenda palline di mollica di pane.
Poco
più tardi Zio Larry e Papà, nonostante il troppo
alcool nelle vene del primo e la mano fasciata del secondo, riuscirono
nell'intento di trasferire dalla griglia ai piatti da portata il nostro
pranzo e a portarlo in tavola.
La
carne era piuttosto bruciacchiata e le verdure più che
grigliate parevano essere state investite da un camion dei rifiuti, ma
nessuno osò lamentarsi, le bocche troppe impegnate a
strafogarsi.
Zia
Lindsay era l'unica che, con le sue mille restrizioni alimentari, si
limitava a spiluccare delle zucchine e dei piccoli pomodorini.
È sempre stata vegana da che ricordo, ma ultimamente aveva
dichiarato guerra alle cotture troppo grasse e pesanti, al glutine e ai
cibi provenienti da oltre il confine americano. Nessuno aveva ancora
compreso cosa le fosse concesso mangiare e come mai non fosse ancora
finita al pronto soccorso.
Fortunatamente
i suoi figli fuori dalle mura di casa potevano fare quello che
più desideravano e così alternavano pasti segreti
al KFC con cenette in famiglia a base di lattuga condita con qualche
seme e delle bacche disidratate.
Kimberley
non aveva più aperto bocca, se non per far alzare e spostare
metà famiglia affinché lei potesse sedersi a
quello che lei considerava il suo posto di diritto. Ovvero alla destra
di mio padre, dove poteva riempirlo di moine e convincerlo entro la
fine del pranzo a farsi sganciare una mancia extra. Mancia che
probabilmente entro il suo diciottesimo compleanno sarebbe finita nelle
tasche di un chirurgo plastico.
«Zietto,
quest'anno ti sei superato! E pensare che sei anche
ferito...», stava blaterando Kim, rabbonendo mio padre. Il
quale sorprendentemente, nonostante la sua professione e la sua
esperienza con i bugiardi cronici, quando si trattava di Kimberley si
faceva sempre prendere per il naso senza rendersene conto.
«...bah,
a me pare tutto bruciato, capisco che vogliate farmi fuori, ma qui
stiamo esagerando...padre nostro, salvaguarda tu la mia
salute...», si mise a borbottare sottovoce la nonna.
Zoe
stava fissando curiosa Venus e Circe, impegnate in una gara di insulti
e ad un passo dal venire alle mani.
«Andate
allo stesso liceo?», si informò curiosa.
Loro
la ignorarono e continuarono a darsi della baldracca sovrappeso a
vicenda, il tutto tra l'innocente disattenzione della loro madre,
distratta da una coppia di piccoli di gabbiano che zampettavano incerti
nel giardino, e l'indignazione di Nonna.
«Allora
Frank, come va?», esclamò mio padre, nel tentativo
di risollevare lo spirito collettivo.
«Franklin»,
bisbigliò mio zio, continuando a fissare la costoletta che
teneva tra le mani.
«Come
dici, scusa?»
«Caro,
sai che non gli piace che gli abbrevino il nome...»,
spiegò Madre, con tono forzatamente allegro.
Evidentemente
al povero Zio Franklin non andava per nulla bene.
«Papà,
alza la voce che nessuna riesce a sentirti! E rispondi allo
zio!», lo rimproverò aspramente sua figlia Kim,
ricevendo uno sguardo di ammonimento da mio padre.
Mia
cugina allora, decisa a non farsi mettere in un angolo,
lasciò perdere suo padre e vagò con lo sguardo
alla ricerca di una nuova vittima da azzannare e di cui spolparne la
carcassa.
«Cuginetta,
come te la passi lassù... dov'è che stai?
Montana?»
«Maine»,
le suggerì con voce flautata mia mamma, conscia del pericolo
a cui ci stavamo avvicinando.
«Ho
ricevuto il tuo ultimo libro, sei stata molto gentile ad inviarmelo.
Purtroppo non ho ancora avuto tempo di leggerlo e comunque non credo
sia il mio genere. Sai, sangue ed assassini, non sono certo temi adatti
ad una signorina!», ridacchiò coprendosi la bocca
con le dita smaltate.
«Ma
certo, le innocenti orecchie di una signorina perbene come te devono
essere salvaguardate da queste terribili cose di cui scrivo»,
la canzonò Zoe.
«Amen!»,
concluse Nonna.
Per
un attimo tutti tornarono a concentrarsi sul proprio piatto e la calma
regnò sovrana in quella bella giornata estiva.
«Ti
stavi prendendo gioco di me?», chiese aggressiva Kim, che
finalmente aveva avuto la sua epifania.
«Alleluia»,
mugugnò mia sorella con la bocca piena.
Le
tirai un calcio al di sotto del tavolo e Nonna lanciò uno
strillo acutissimo.
«Santissimi
Numi, le mie povere vene varicose!»
Feci
finta di nulla e corsi in suo soccorso insieme a Madre, venni subito
spedita alla ricerca di ghiaccio in cucina.
Quando
tornai si era ormai scatenato il putiferio.
«...sei
nata l'altro ieri e già non succhi più il biberon
ma solo...»
«...per
favore ricordami qual è il tuo lavoro oltre a comportarti da
adolescente depressa...»
«...non
hai cura di niente e nessuno, guarda quel poveretto di tuo
padre...»
«...una
vita a nasconderti dio solo sa dove a fare la superiore con i soldi di
papà...»
«BASTA!»
Ci
voltammo tutti in direzione di Zia Lindsay. Lei ci sorrise pacifica e
allargò le braccia. «Shhh, mi sento attaccata da
tutti i lati dalle vostre aure vibranti di cattiveria e odio. Shhh,
siamo una famiglia, siamo esseri umani, uguali, fratelli. Prendiamoci
per mano, su Larry, Grace, Signora Adaline... respiriamo insieme,
piano, rilasciamo l'aria poco a poco. Chiudiamo gli occhi...»
«Mamma!
Una cavalletta!», rovinò il momento ispirato della
Zia il piccolo Wolf.
Tutti
seguirono la direzione che il suo piccolo dito paffuto indicava e si
ritrovarono a fissare la capigliatura cotonata e splendente di
Kimberley. Lei percepì con sommo terrore di essere non a
caso la destinataria di tutta quell'attenzione.
La
calma prima della tempesta e poi... «AHH! AIUTO, OH MIO DIO!
CHE SCHIFO!», iniziò a sbraitare balzando in piedi
e iniziando a scuotere i capelli.
«Non
nominare il nome di Dio invano», le ricordò Nonna,
la quale mi strappò di mano il ghiaccio che ancora stringevo
e se lo applicò sullo stinco.
Kim
continuò la sua danza pazza e poiché non pareva
volere l'aiuto di nessuno noi iniziammo a sparecchiare per poter
portare in tavola il dessert.
Fu
proprio allora che le grida cessarono e io alzai lo sguardo. Theodore,
apparso dal nulla, teneva tra le dita la cavalletta e mia cugina lo
fissava con gli occhi spalancati.
Si
riprese presto, si passò le dita tra i capelli per
riguadagnare un po' di contegno, e annunciò caustica:
«Felicity, è arrivato quel mollusco del tuo
promesso sposo».
All'inizio
non feci caso a come lo chiamò, più scioccata
dall'applicazione improvvisa del mio ex fidanzato, ma bastarono pochi
secondi per rendermi conto di un qualcosa che mi fece gelare sul posto.
La
mia famiglia sapeva. Mia madre sapeva, sapeva tutto. Persino Nonna
Adaline doveva essere stata informata al riguardo. Feci vagare lo
sguardo tra i miei parenti riuniti attorno al tavolo, ma al momento
parevano tutti troppo impegnati a fissare con estremo interesse
ciò che avevano nel piatto.
Fu
mia madre, con la sua rigida educazione all'antica, a salvare la
situazione. Si alzò e come se nulla fosse baciò
sulle guance Theo, invitandolo ad unirsi a noi.
Qualcuno
mi toccò la caviglia sotto il tavolo e alzai lo sguardo,
incontrando gli occhi carichi di interrogativi di Zoe. La sua
espressione era la più facile da decifrare. Cosa acciderbolina ci fai lui ancora qui?
Vidi
Theodore esitare e così ne approfittai per alzarmi a mia
volta e rassicurare mamma, avremmo parlato altrove. Possibilmente alla
larga da orecchie indiscrete e dalla vista a raggi x di Nonna.
Gli
feci cenno di seguirmi e, senza controllare che fosse alle mie spalle,
mi diressi decisa verso il giardino anteriore della casa, nei pressi
della siepe che delimitava l'ingresso della proprietà. La
panchina in ferro battuto macchiata di vernice bianca mi parve il punto
più nascosto e perciò più adatto per
quella conversazione.
Quando
mi voltai a guardarlo veramente per la prima volta da quando era
comparso mi resi conto di avere di fronte la vecchia versione di
Theodore. Abiti dimessi, spalle ricurve e sguardo stanco. Nessuna
traccia dell'uomo brillante che aveva fatto brevemente capolino al
party di compleanno di Papà o dell'intraprendenza che lo
aveva spinto ad inginocchiarsi nella polvere di una piazzola di sosta.
«Come
stai?»
«Perché
sei qui?»
Le
nostre voci si accavallarono, ma entrambi capimmo cosa intendeva
l'altro. Lui assicurarsi che io stessi bene e io congedarlo nel
più breve tempo possibile.
«Dobbiamo
parlare...», mi ricordò quasi supplicandomi.
Detestavo
impersonare il ruolo della regina cattiva, ma ero veramente esausta.
Quella storia mi aveva sfiancata più nelle ultime settimane
che in oltre tre anni di relazione. E avevo bisogno di un taglio netto,
di recidere il ramo morto per permettere la nascita di una nuova
fioritura.
Mi
lasciai cadere sulla panchina, incrociando le caviglie davanti a me.
«Theo, davvero, non ho più nulla da
dirti...», gli spiegai mesta.
«Allora
lascia che parli io!», esclamò duramente.
Sollevai
la testa e per un attimo lo rividi, quel fuoco che pareva animarlo
quando mi aveva detto di voler passare il resto della sua vita con me.
«Ci
ho provato, credimi, mi sono impegnato con tutte le mie forze e ho
sperato con tutto me stesso di potercela fare. Sono tornato a
Cambridge, ho ripreso la mia vita di tutti i giorni. Mi alzavo, facevo
colazione leggendo un paio di quotidiani, tenevo le mie lezioni,
ricevevo gli studenti, organizzavo seminari e partecipavo a congressi.
Azioni familiari, ripetute migliaia di volte. Ripeterle per altrettante
volte non sembrava così complesso. È quello che
ho sempre fatto, è ciò in cui sono più
bravo. La verità è che ogni mattina dovevo
trovare la forza di alzarmi dal letto e convincermi a fare il mio
dovere, raccontandomi che in fondo stavo meglio, che potevo
ricominciare da capo. La quotidianità che mi ha sempre
confortato con il suo inesorabile ripresentarsi sempre uguale a
sé stessa questa volta mi terrorizzava. Erano le piccole
cose quelle che più mi spaventavano. scoprire qualcosa di
interessante, pensare 'Questo lo devo proprio raccontare a Felicity...'
e poi ricordarmi che non ce ne sarebbe più stata occasione;
trascorrere le serate nella solitudine della biblioteca a sbrigare la
corrispondenza e rendermi conto che non sarebbe apparso un tuo
messaggio sul mio desktop o arrivare a venerdì senza la
prospettiva di un weekend improvvisato a Plymouth da te, con le mie
pile di compiti da correggere e i tuoi continui tentativi di distrarmi
e coinvolgermi in tutto ciò che fai. Ti ho data per scontata
per così tanto tempo da aver compreso solo dopo averti persa
il peso che la tua presenza aveva nella mia esistenza, la leggerezza
che mi donavi senza chiedere nulla in cambio e la semplicità
con cui mi volevi bene e sopportavi i miei malumori e le mie mancanze.
Questa presa di coscienza mi è piombata addosso
all'improvviso e dopo tre giorni a ripensarci e non dormire ho preso il
primo volo perché avevo bisogno di dirti queste cose.
Avresti meritato di sentirle anni fa, lo so, ma vorrei comunque che, se
non è troppo presuntuoso ed inappropriato da parte mia,
chiederti di provare a conservare un ricordo non del tutto negativo di
ciò che siamo stati insieme».
Aveva
parlato senza mai fermarsi, senza prendere fiato e senza esitazioni.
Aveva parlato con il cuore e gliene sarò sempre
infinitamente grata, perché rese più facile
dirgli addio.
Ci
abbracciammo, aggrappandoci l'uno all'altro per un'ultima volta, sotto
l'ombra proiettata dall'antico ulivo.
Avrei
voluto fare anche io un discorso, spiegargli cosa avevo provato, cosa
provavo in quel momento e cosa credevo avrei provato in futuro. Avrei
voluto ricordagli del nostro primo incontro, di cui lui probabilmente
non aveva memoria, o chiedergli se pensava mai a quella vecchia camera
sgangherata che occupavo al campus, quella in cui per la prima volti ci
eravamo amati.
Mi
limitai al silenzio.
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Capitolo 18 *** Hibiscus ***
Liam
Era
trascorsa mezz'ora e ancora non avevo preso una decisione. L'idea mi
era sopraggiunta all'improvviso, quando poco più di un'ora
prima il mio aereo di ritorno dall'Arizona stava per atterrare. Avevo
fissato il cartellone luminoso delle partenze mentre aspettavo di
ritirare il mio bagaglio, lo sguardo fisso sull'annuncio del volo delle
17.35, destinazione Tampa.
Si
trattava di poco di più di tre ore di volo, per le 21 sarei
arrivato a destinazione. In fondo potevo concedermi ancora un paio di
giorni di ferie e senza dubbio lei sarebbe stata lì, di
questo ero sicuro. Ciò di cui non ero certo era la reazione
che un mio arrivo improvviso avrebbe scatenato.
Chiedere
non costa nulla, mi dissi, e così voltai le spalle alle
porte d'uscita e mi diressi verso l'area check-in.
La
signorina allo sportello mi chiese di pazientare qualche secondo,
mentre digitava sulla tastiera i dati che le avevo fornito.
Osservò attentamente lo schermo e poi spostò lo
sguardo sul sottoscritto, il verdetto non fu positivo perché
la sua espressione si fece dispiaciuta e la sua bocca si
stirò in un sorriso di scuse.
«Purtroppo
la Business Class è già al completo, sa con la
storia delle feste e del 4 luglio in famiglia...», mi
spiegò cortese.
Infastidito
dal suo comportamento, chiesi sbrigativamente: «Biglietti
Economy ce ne sono?»
Lei
parve delusa dalla mia domanda e, dopo un ultimo sguardo diretto al mio
portadocumenti Gucci in pelle e al mio orologio da polso, si
limitò ad annuire e a comunicarmi il prezzo.
Avevo
con me solo un piccolo trolley pieno di vestiti ricoperti di sabbia
mista a sudore, gentile dono dei paesaggi di terra rossa dell'Arizona,
ma non mi scoraggiai.
Decisi
che non era il caso di mettere in moto la mia efficientissima Diane,
avrei impiegato più tempo, ma perlomeno le avrei concesso
qualche giorno di riposo in più. Così cercai in
internet il numero di telefono del Grand Hyatt Tampa Bay, in cui mi ero
trovato piuttosto bene durante il mio ultimo soggiorno, e prenotai una
delle poche camere ancora disponibili.
Rinunciai
all'idea di richiedere il servizio autista e mi dissi che potevo
farcela ad andare fino agli uffici della Hertz e noleggiare un'auto
oppure fermare un taxi e farmi portare in albergo.
Senza
pensarci troppo scrissi un sms a Felicity.
Cosa fai stasera?
Dovevo
ammettere che Donovan aveva guadagnato punti regalandole un telefono
cellullare e permettendomi così di rintracciarla in tempi
che non superassero le ventiquattr'ore.
Stavano
iniziando ad imbarcare i passeggeri del mio volo e, non avendo
l'accesso prioritario, recuperai la mia borsa e mi misi in fila. Tempo
mezz'ora e sarei stato obbligato a spegnere il telefono, quindi
Felicity faceva meglio a sbrigarsi nel digitare una risposta.
Quei
giorni in Arizona era stati inaspettatamente meravigliosi, anzi tutto
era stato così bello e familiare da farmi rimpiangere
amaramente tutte le occasioni passate che mi ero perso perseverando nei
miei stupidi timori.
Io
ero cambiato, ero cresciuto e tutto quello che era stato il mio passato
mi aveva reso chi ero ora. Era stato stupido pensare che fare ritorno
nel luogo dove avevo tanto sofferto mi avrebbe improvvisamente
trasformato di nuovo in chi ero stato un tempo. Ero fuggito poco
più che ragazzino, ma gli anni erano passati, nuove cose
erano successe e il ricordo, sebbene vivido, restava sempre un ricordo,
figlio del passato. L'Arizona, la mia casa e la mia famiglia non
c'entravano nulla con quel continuo senso di fallimento ed
inadeguatezza che aveva caratterizzato la mia adolescenza.
Il
telefono vibrò, distogliendomi da quel turbinio di pensieri
liberatori.
Shawn mi ha invitato in un locale jazz in zona
Palmetto Beach (te la ricordi?), dovrebbe suonarci qualcuno di famoso
stasera.
Tu stai bene? Quando torni?
Provai
a richiamare alla mente il nome di Shawn, ma non riuscii a ricollegarlo
a nulla di già sentito.
Non
ero un tipo geloso, ma dopo aver letto quel messaggio mi rimase addosso
una vaga sensazione di stizza che non accennava ad andarsene. Cercai di
non pensarci mentre cercavo sul web il nome del locale a cui aveva
accennato nel messaggio.
Palmetto
Beach era la spiaggia in cui eravamo andati la prima mattina dopo il
mio arrivo a Tampa, in occasione del compleanno di suo padre. In
realtà si trattava di un quartiere, ma quel giorno noi ci
eravamo limitati ad immergere i piedi nell'oceano. Non mi era parso un
granché, ma Felicity aveva gli occhi che luccicavano e mi
era bastato ciò per capire dove stava la bellezza di quel
posto.
Approfittai
della lentezza esasperante delle signorine del gate e della confusione
creata da una famiglia di turisti che aveva superato il numero massimo
di bagagli a mano che la compagnia permetteva di portare con
sé in cabina e scrissi una mail rapida a Diane.
Era
il 6 Luglio, avevo trascorso cinque giorni in Arizona, di cui tre con
la mia famiglia. Si erano lamentati per la brevità del mio
soggiorno e Judy aveva provato in tutti i modi a farmi sentire in
colpa, ma ero riuscito a rabbonirli con la promessa che avrei trascorso
da loro un'intera settimana ad Agosto, nel periodo in cui Arabella
sarebbe stata sotto la mia custodia.
Domani
sarei dovuto teoricamente rientrare in ufficio, ma un paio di giorni
non avrebbero cambiato granché. Due giorni, non uno di
più.
Ero
sempre stato un cosiddetto malato di lavoro, o perlomeno lo ero
diventato dopo il divorzio. Mi ci ero gettato a capofitto, trovando in
esso un efficace modo per non pensare ai miei problemi personali e allo
stesso tempo costruirmi una solida carriera. D'altronde non c'era
nessuno che mi aspettava a casa per cenare insieme, né
bambini da andare a recuperare a corsi di karatè o case di
amichetti. Ero solo io e uno studio legale da poco avviato.
Mi
ero sempre concesso poche vacanze, anzi le uniche che mi prendevo il
lusso di permettermi coincidevano solitamente con la presenza di mia
figlia. Altrimenti non vedevo ragione per abbandonare il mio ufficio e
i miei impegni e andarmene ai Caraibi, dove non avrei fatto altro che
stare attaccato al telefono e bere troppi cocktails.
Anni
fa invece ero l'opposto contrario. Schiavo delle continue lamentele di
Tiffany, che non sopportava il fatto che lavorassi così
tanto, sfruttavo tutti i giorni di ferie che mi spettavano e a volte ne
avevo addirittura chiesti altri. Poi partivamo, nella stragrande
maggioranza dei casi per la California e la residenza dei suoi
genitori, e lì iniziava il supplizio. Ogni mio dispositivo
elettronico veniva confiscato da Tiffany, la quale poi per i successivi
giorni spariva continuamente con sua madre. Vecchi amici da salutare,
il salottino al piano di sopra da riarredare, le conseguenti visite a
tutti i mobilifici della Valley, eventi a cui prendere parte.
Qualche
volta era riuscito a convincerla a cambiare meta e allora ce ne
andavamo in villeggiatura al mare. Passavamo la maggior parte del tempo
a letto, ci facevamo portare i pasti in camera e sfruttavamo il
servizio di massaggi a domicilio dell'albergo. Ci facevamo viziare, noi
eravamo ancora disperatamente impegnati a far funzionare il nostro
sbilanciato rapporto e ci aggrappavamo l'uno all'altro nella speranza
di restare a galla.
Non
ero più andato in vacanza con nessuna donna da allora, la
sola idea mi risultava impensabile. L'avrei trascurata e avremmo
passato due giorni in aereo per raggiungere una qualche meta esotica,
nella quale ci saremmo trattenuti a malapena il tempo di riprenderci
dal jet lag per poi ripartire subito alla volta di Boston e del mio
lavoro.
Chiesi
a Diane di girarmi solo le chiamate più importanti e di non
comunicare a nessuno dove fossi, tranne vere e proprie urgenze. Le
scrissi che tra due giorni sarei tornato operativo, in modo da non
poter avere ripensamenti o scappatoie.
Il
volo fu relativamente tranquillo, mi infilai un paio di auricolari e
feci partire una vecchia playlist che avevo realizzato anni addietro su
Spotify. Probabilmente mi appisolai perché quando riaprii
gli occhi il corridoio dell'aereo era già invaso da
passeggeri alle prese con il recupero dei propri bagagli.
Eravamo
atterrati addirittura in anticipo, così una volta sceso
decisi di fare un salto nel primo negozio di abbigliamento ancora
aperto in aeroporto.
Acquistai
un paio di camicie leggere dai colori neutri, dei pantaloni classici
blu e delle scarpe di tela. Presi in affitto una Mercedes color argento
e impostai il navigatore. Il sole era già tramontato, ma un
leggero bagliore aranciato permeava ancora il cielo. Il mare brillava
calmo e le strade erano piuttosto sgombre.
In
albergo mi stavano aspettando e così riuscì a
sbrigare le pratiche del check-in piuttosto rapidamente. La camera
assegnatami questa volta, dato lo scarso preavviso, era molto
più piccola e ai primi piani.
Mi
feci una doccia al volo e indossai gli abiti appena acquistati.
Telefonai alla reception per chiedere di venire a prendere i miei
vestiti e portarli in lavanderia e loro mi mandarono in pochi minuti un
inserviente silenzioso ed efficiente.
Ne
approfittai per domandargli se sapeva se c'era un parcheggio nelle
vicinanze del locale jazz e lui si scusò dicendomi che non
era del posto, ma che poteva informarsi. Tornò poco dopo con
l'indirizzo di un parcheggio pubblico e il nome di un garage privato
sotterraneo, nel caso il primo fosse già al completo. Lo
ringraziai, gli lasciai una mancia generosa e uscimmo insieme dalla
stanza.
Impiegai
venti minuti buoni a raggiungere Palmetto, il mio albergo era molto
comodo per raggiungere l'aeroporto, meno se volevi avvicinarti al
centro della città.
Il
parcheggio gratuito ovviamente era pieno, con automobili parcheggiate
dovunque, persino illegalmente nei parcheggi dedicati alle persone
disabili. Così mi ritrovai costretto a sborsare 50$ e
lasciare l'auto nel garage privato che mi era stato indicato.
Ormai
si erano fatte quasi le 23 e la stanchezza di quella giornata iniziava
a farsi sentire e con essa anche il timore che forse arrivare fino a
lì senza preavviso non era stata un'idea molto brillante.
Era
troppo tardi per ripensarci a quel punto e così scrollai le
spalle ed entrai nel locale.
Mi
ritrovai all'interno di una larga stanza in penombra, illuminata da
pochi neon color rosa shocking applicati alle pareti con mattoni a
vista. Piccoli tavolini tondi erano sparsi sul pavimento in legno
scuro, un lungo bancone si snodava sulla sinistra, corredato di tanti
alti sgabelli dalla seduta in velluto verde.
Un
sassofonista stava suonando una melodia classica smooth jazz sul
piccolo palco traballante, intorno a cui erano disposti i tavolini.
Discreti divanetti erano distribuiti lungo le pareti e una piccola
folla era assiepata proprio dove mi trovavo io, a metà
strada tra l'ingresso e il bar.
Decisi
che la cosa più semplice sarebbe stata ordinare da bere e
osservarmi intorno, nella speranza di aver azzeccato locale e riuscire
ad individuare Felicity.
Credevo
avrei impiegato molto tempo, ma nel giro di dieci minuti riuscii ad
appropriarmi di un Old Fashioned. Scrutai attentamente le persone
presenti nella stanza; coppie sulla quarantina, universitari dall'aria
sofisticata, compagnie di vecchi appassionati di jazz. Era un locale
abbastanza intimo, dove avrei portato un amante del genere oppure
qualcuno che poi avrei voluto sedurre o almeno tentare.
Chi
era Shawn?
La
domanda tornò più insistente di prima.
Un
amico? Un cugino? Un vecchio conoscente?
No,
la risposta era no.
Shawn
era un uomo attraente, che ora stava sorridendo, una mano posata sul
ginocchio scoperto della sua accompagnatrice. Una ragazza dai lunghi ed
inconfondibili capelli biondi, fasciata in un corto abito argentato.
Mi
gelai sul posto. Mi ero fatto più di 1300 miglia per
assistere a questo.
Guardai
di nuovo verso il loro divanetto, Felicity gli stava raccontando
qualcosa tenendo la bocca pericolosamente vicina all'orecchio del
ragazzo, per farsi sentire al di sopra della musica.
Voltarmi
e lasciarmi alle spalle tutto questo mi pareva stupido, in fondo non
potevo aspettarmi che lei fosse rinchiusa in camera a struggersi per me
e che saltasse di gioia e mi gettasse le braccia al collo non appena mi
fossi palesato.
Aveva
ventisette anni, era giovane e bella ed era giusto che uscisse e si
divertisse quanto volesse. In quel momento mi sentii terribilmente
vecchio, assolutamente incapace di stare al passo con lei, gravato
dalle mie mille responsabilità e dal mio bagaglio passato
alquanto ingombrante.
Successe
tutto in pochi istanti, mi distrassi un attimo e fu in quell'attimo che
lei voltò il capo e mi vide.
Felicity
non era come tutte le altre, lei non si nascondeva, lei non si
sorprendeva dei gesti belli degli altri. Lei aveva fiducia e accoglieva
con gioia tutto ciò che le accadeva e questa gioia la
mostrava. E così non mi fissò stranita, non mi
chiese cosa ci facessi lì, semplicemente si alzò
rapida e nel giro di un battito di ciglia mi ritrovai stretto tra le
sue braccia abbronzate.
Quando
mi lasciò libero, mi guardò in viso e mi
dedicò un sorriso splendente.
Non
aveva nessuno sguardo colpevole e non si comportava come se fosse stata
colta nel bel mezzo di qualcosa che non avrebbe dovuto fare e quando la
guardai negli occhi mi sentii semplicemente sciocco e immensamente
felice.
Come
avevo potuto dubitare di lei?
Si
voltò verso il suo accompagnatore, il quale ci stava
fissando con un sorrisetto curioso stampato in viso, e gli fece segno
di concederle un attimo di tempo. Dopodiché si
appropriò del mio bicchiere, lo posò sul bancone
alle mie spalle e mi fece strada verso l'esterno del locale.
«Non
sei-»
Mise
fine alla mia domanda incollando le sue labbra alle mie. Le circondai i
fianchi e la sentii alzarsi in punta di piedi. Sapeva di menta e rum e
il connubio mi diede alla testa proprio come avrebbe fatto un cocktail
bevuto tutto d'un fiato.
Quando,
diversi minuti più tardi, ci separammo, lei sorrise di nuovo
e mi sussurrò sulle labbra: «Ciao,
Mr.Liam»
«Ciao»
«Questa
è una sorpresa bellissima»
«Oh,
credimi lo è anche questo tuo benvenuto», mormorai
sistemandole i capelli dietro le orecchie.
Lei
sorrise furbetta. «Per quanto ti fermi?»
Un
paio di giorni, le confidai.
Lei
si fece scappare un urletto di gioia, dopodiché riprendemmo
a baciarci.
«Che
ne dici di presentarmi Shawn?», proposi più tardi.
Felicity
scoppiò a ridere e mi diede un buffetto. «Ok, ma
non pronunciare il suo nome con fare così
minaccioso...»
Un
quarto d'ora più tardi era ormai chiaro come il sole quanto
fossi stato stupido. Venni messo al corrente dell'amore liceale che li
aveva uniti e di come la scelta del college li avesse successivamente
separati. Shawn era un ragazzo molto simpatico, una di quelle persone
positive e cordiali che riescono ad andare d'accordo con tutti e
sembrano sempre perfettamente a loro agio in ogni situazione o
ambiente. Il mio contrario insomma.
Era
facile capire perché Felicity fosse capitolata davanti al
suo sorriso smagliante e al suo fisico atletico, insieme parevano
perfetti. La stessa gaia predisposizione ad abbracciare la vita e
cogliere il meglio di ciò che veniva loro offerto,
l'incapacità di darsi per vinti e di autocommiserarsi, la
medesima voglia di ridere sempre, di sperare, di calpestare la Terra a
piedi nudi e piantare margherite. Si assomigliavano così
tanto da non rendersene neanche conto, non si domandavano che era
proprio ciò che li aveva divisi e ora li aveva fatti riunire
come se non fossero passati quasi dieci anni.
Fu
ancora più facile però comprendere
perché la mano di Felicity stesse così bene
intrecciata alle mie dita e la sua spalla si incastrasse alla
perfezione nell'incavo tra la mia spalla e il collo. Io ero l'esatta
antitesi di Shawn, ero tutto ciò che non era Felicity e che
- inconsciamente - cercavo da sempre. Un'ondata di frizzantina
leggerezza, qualcosa che mi facesse sentire la testa leggera e il cuore
sereno, che mi sollevasse dal peso di una giornata faticosa con una
sola lieve carezza.
Più
tardi dopo esserci congedati decidemmo di approfittare della vicinanza
del mare per fare un salto sulla spiaggia.
«A
cosa stai pensando?», mi riportò alla
realtà Felicity, tirandomi gentilmente la manica della
camicia.
Le
passai un braccio attorno alle esili spalle abbronzate e l'avvicinai a
me. «A niente...»
Lei
sbuffò e mi lanciò uno sguardo esasperato.
«Questa è l'esatta risposta che danno tutti quelli
a cui stanno pensando a qualcosa di serio», mi
ricordò.
Aveva
ragione lei, come sempre. Mi è sempre parso buffo che tra
noi due, lei con la sua aria un po' svampita e io sempre compito e
serioso, quello che ne sapeva sempre di più fosse Felicity.
Con una semplicità disarmante aveva la capacità
di intuire in anticipo quando qualcosa non andava ed era una
maestra nel leggere tra le righe, comprendere i silenzi e interpretare
i più piccoli dettagli della persona che le stava di fronte.
Sembrava pensasse ad altro, ma in verità il suo sguardo
dolce non ti lasciava scampo.
«Stavo
riflettendo sul fatto che sarebbe ora iniziassi ad occuparmi anche
della ristrutturazione della casa, oltre che del solo
giardino...», confessai titubante.
«Oh
no, hai appena finito di fare baccano ad ogni ora per via del tetto
nuovo e hai già intenzione di ricominciare?», mi
prese in giro lei.
Effettivamente
era stato un lavoraccio immane sostituire radicalmente la copertura
esterna del tetto cercando al tempo stesso di rinforzare e
salvaguardare le antiche travi in legno a vista.
«Perché
non me lo hai detto prima?»
Felicity
sbuffò e mi rifilò un pizzicotto sul fianco.
«Perché posso sopportare qualche martellata e non
penso ci fosse un'alternativa...»
«Potevi
venire a stare da me»
Mi
resi conto solo dopo aver pronunciato quelle parole del peso che esse
avevano realmente.
Lei,
sempre così perspicace, questa volta parve non cogliere il
significato di quell'affermazione.
«La
città non mi piace, lo sai. E poi avrei dovuto continuare a
fare la spola per assicurarmi che il giardino, la serra, l'orto non
soffrissero troppo la calura estiva», pronunciò
queste frasi frettolosamente e poi cercò subito di cambiare
discorso, rendendo evidente quanto poco si sentisse a suo agio nel
parlare di una possibile convivenza.
Ma
io ero arrivato fino a lì per rivederla e provare a dipanare
la matassa di dubbi e incertezze che non potevo impedire mi assalisse
di tanto in tanto. Posso ricominciare, non chiedo altro in effetti, ma
per farlo dobbiamo essere in due. Con Tiffany è stato tutto
troppo affrettato e confuso e non abbiamo minimamente valutato la
saggia opzione della convivenza, gettandoci a capofitto nel matrimonio
e nel vincolo legale che ne consegue. A posteriori il risultato ci ha
mostrato come non si possa fare una prima di uno spettacolo senza prima
avere alle spalle la garanzia di una prova generale portata a termine
con successo.
Mi
fermai, volevo guardarla negli occhi quando sarei arrivato al punto.
«I lavori andranno avanti per altri tre mesi come minimo e
questo significa rumore e continuo viavai di operai a tutte le ore,
tutti i giorni...»
Felicity
seguì il mio esempio e si arrestò, il suo sguardo
rimase però fisso verso il mare scuro e scintillante alle
mie spalle. «Sopravviverò. Poi magari ad
agosto potrei concedermi una vacanza di una settimana, ho sempre
sognato di vedere il Canada oppure posso sempre tornare
qui...», stava deliberatamente ignorando l'argomento
sottinteso, che ingombrante come un elefante in una stanza incombeva su
di noi.
«Il
mio invito è valido anche per il futuro» ,
precisai.
«Mi
porti con te alle Hawaii?»
«Anche,
ma prima vieni a stare da me», dissi per mettere fine a quel
continuo girare attorno al nocciolo della questione.
Un'ombra
di panico attraversò i suoi occhi, un lampo fugace che
però riuscii chiaramente a cogliere e che bastò a
far crollare tutti i castelli in aria che avevo costruito in
quell'ultimo periodo.
Ci vogliono due persone per dire sì, ma
ne basta una per dire di no.
Purtroppo
le mamme hanno sempre ragione.
Non
ero io la parte insicura della coppia, non ero io quello che aveva
paura di guardare al futuro e di farlo insieme. Quella consapevolezza
mi fece tremare il cuore; non avevo mai avuto dubbi su Felicity, forse
superbamente avevo sempre dato per scontato che lei volesse
già da tempo quello che io solo da poco avevo realizzato di
volere con tutto me stesso.
«Io...credo
sia un po' prematuro», bisbigliò nascondendosi dal
mio sguardo.
«Possiamo
fare una prova, nel caso volessi lanciarmi dei piatti già
dopo la prima sera avrai sempre la tua casa a cui fare
ritorno», le ricordai, una piccola scintilla di speranza
ancora accesa.
Rise,
ma quella risata non aveva nulla della solita gaiezza che la
contraddistingueva di solito.
«Non
sono pronta»
E
quello mise fine al discorso.
«Ok,
ti riporto a casa»
|
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Capitolo 19 *** Nontiscordardimé ***
Felicity
«Sei
un'idiota! Ma cosa dico? Sei un'autentica cretina! Hai lasciato parlare
l'ansia e hai mandato tutto a puttane! Eh sì, Flick, non
guardarmi così perché io so benissimo cosa ti ha
spinto a dire di no. Non è vero che non sei pronta, tu sei
nata pronta! Tutto ciò è quello che hai sempre
sognato e nel momento in cui riesci finalmente ad ottenerlo tu lo getti
via. E sai perché? Perché hai paura, sei
paralizzata dal timore che tutto possa andare male, che la vita esca
dal tragitto che tu hai voluto a tutti i costi tracciare e che tutto
finisca. Finisca male. Perché questa volta il tuo cuore ci
è dentro per davvero, totalmente, e la parola fine in questo
caso non vorrebbe dire un addio cortese ed un abbraccio come con Theo.
Lo aspetti da sempre il tuo Mr.Liam ed ora che è arrivato tu
logicamente fuggi. Perché un conto è raccontare
quanto si desideri qualcosa e un altro è poi trovarselo
effettivamente tra le mani, vivo e finalmente realizzato. Posso
chiamarti con tutti i peggio epiteti che conosco, e fidati che ne
conosco veramente tanti, ma non gioverebbe a nulla. Rifletti, Felicity,
per favore prenditi un attimo e fai la cosa giusta. Sei sempre stata tu
la sorella più equilibrata e tradizionale, ti prego di
riprendere al più presto il tuo ruolo perché io
il saggio maestro Yoda non lo so fare. Ti dico solo un'ultima cosa: non
provare niente per paura di provare tutto è la
più grande sciocchezza che tu possa commettere.
Sì, probabilmente è una semicitazione che ricordo
da qualche libro, ma la sostanza non cambia. Ti prego, prenditi cura di
te e scegli di conseguenza. E parlane con Liam, non dare per scontato
di essere l'unica ad avere questi pensieri. Ti voglio un po' meno bene
dopo che mi hai costretto a farti questo discorsone, addio!»
E
la connessione venne interrotta.
Avevo
sentito la necessità di raccontare a qualcuno quello che era
successo una settimana fa. Erano passati sette giorni, giorni
lunghissimi e terribili, in cui mi ero confrontata con il mio senso di
colpa e la mia neonata inadeguatezza. Scoprire di temere ciò
che avevo sempre desiderato mi aveva fatto crollare. E così
avevo chiamato Zoe, conscia delle parole crude e prive di tatto che mi
avrebbe riversato addosso.
Ho
provato a riavvolgere il nastro centinaia di volte in queste notti
insonni. Perché ho detto di no? Perché ho
affermato fosse troppo presto e che io non fossi pronta? Credo che mia
sorella sia riuscita ad esprimere in un discorso di cinque minuti
ciò a cui io non sono riuscita ad arrivare in una settimana.
Ho sempre pianificato quasi tutto nella mia vita, sapevo che mi sarei
sposata e avrei avuto figli. Lo sapevo e probabilmente, nonostante
questo pensiero mi faccia vergognare di me stessa, avrei realizzato
quel mio progetto anche con Theodore. Non avrei avuto il mio grande
amore, ma la restante parte di sogno pianificato a tavolino sarebbe
stata realizzata.
Ora
invece avevo trovato Liam e tutto era stato inaspettato e meraviglioso.
Mi sentivo dieci anni di meno sulle spalle quando stavo con lui e avrei
voluto passare il resto dei miei giorni a guardarlo, ascoltarlo e
toccarlo. Mi piaceva la galanteria inconsapevole dei suoi modi di fare,
la quieta pacatezza del suo agire e la sua esasperante
riflessività. Adoravo come non protestasse mai per i miei
piedi ghiacciati a letto e come ignorasse di proposito i miei tentativi
di renderlo più simile a me. Tutto ciò che
avevamo costruito così in fretta e in poco tempo mi sembrava
perfetto, perfetto ma terribilmente fragile. E la velocità
con cui avevo donato una porzione consistente del mio cuore mi faceva
temere il peggio. Mi restava un ultimo appiglio prima di lasciarmi
andare, un ultimo pezzettino di cuore che ancora conservavo.
Zoe
non lo aveva chiamato col suo nome, ma entrambe sapevamo di chi stavamo
implicitamente parlando. Il demone dell'irreversibilità, che
mi stava col fiato sul collo sussurrandomi le parole che temevo di
più: per sempre. Perché io sulla carta
desideravo un principe azzurro che fosse per sempre, ma nella
realtà dei fatti vivevo col terrore che in fin dei conti io
non fossi fatta per qualcosa di così definitivo. L'ansia mi
divora e mille domande non mi danno tregua. E se non mi piacesse
convivere con lui? E se scoprissimo di non sopportarci? Se lui si
rendesse conto di aver fatto un errore e mi scaricasse? E se vivessimo
insieme per trent'anni per poi arrivare ad odiarci?
Non
ne ho fatto parola con Donovan perché so già cosa
mi avrebbe risposto. Invidio da sempre le persone come lui, quelle che
ci provano tanto se va male si può sempre fare dietrofront e
ricominciare. Ovviamente si può, ma a che costo? A costo
dell'ultimo pezzettino di cuore a cui ancora mi stringo
spasmodicamente, a costo di finire con un buco nel mezzo del petto, una
ferita che potrebbe impiegare anni a rimarginarsi. O potrebbe non
guarire più. Io non sono fatta così, nelle cose a
cui tengo mi ci getto anima e corpo col rischio di ritrovarmi poi
privata di entrambi.
E parlane con Liam, non dare per scontato di essere
l'unica ad avere questi pensieri.
Era
trascorsa una settimana, non potevo permettermi di sprecare altri sette
giorni in questa anticamera fatta di autocommiserazione e domande
ipotetiche.
Liam
era venuto in Florida a trovarmi seguendo un impulso, era salito su un
aereo a caso ed era arrivato inaspettato nel cuore della notte. Si era
messo in gioco, aveva messo da parte la sua dose di timori e domande
che iniziavano con 'E
se...?'.
Mi
concessi un bel bagno caldo e per la prima volta in una settimana mi
vestii con qualcosa che non fosse una t-shirt sformata abbinata ad un
paio di pantaloncini da calcio ereditati da chissà chi. Non
volevo presentarmi alla sua porta nella versione di Felicity che ero
stata in questi giorni, miserabile e con i capelli sporchi.
Un'ora
più tardi stavo guidando in direzione di Boston, il cielo
che si scuriva mentre l'autoradio segnava le 21.27.
Fortunatamente
l'ultima volta avevo prestato più attenzione alla strada
percorsa dal suo studio al palazzo dove abitava e così,
salvo due giri a vuoto e un tamponamento mancato con un taxi, riuscii a
raggiungere casa sua. Trovare un parcheggio si rivelò
un'impresa titanica che non aiutò i miei nervi
già a fior di pelle.
Salutai
il portiere notturno e mi presentai, rimpiangendo i vecchi condomini
dove non esistevano uscieri, serrature o ascensori con codice e potevi
presentarti senza essere prima annunciato alla porta di chiunque.
«Il
Signor Carter Wright non è ancora rientrato. Ripassa
più tardi o vuole lasciare un messaggio?»
Accipigna,
erano quasi le 22, dove poteva essere? Il fatto di non averne la
più pallida idea mi irritò ancora di
più.
«Sono
la sua fidanzata, posso salire mentre lo aspetto?», tentai
provando con il mio miglior sorriso da civetta.
Dopotutto
eravamo stati ad un passo dall'andare a convivere nemmeno una settimana
prima, potevo pur prendermi qualche libertà.
Il
portiere, tale Mr. Tony Banks, scosse la testa con fare conciliante.
«Oh no, signorina, non posso proprio permetterle di salire
senza il permesso del Signor Carter Wright»
«Ma
lei mi ha già visto, ricorda?», insistetti decisa
a non lasciarmi scoraggiare.
Avevo
passato un po' di notti da Liam negli ultimi tempi, nonostante la mia
avversione per il traffico e il caos cittadino, ed ero quasi certa di
aver già visto il Signor Tony Banks.
«Certamente,
ma questo non significa che lei abbia il permesso di accedere
all'appartamento del Signor Carter Wright in sua assenza, per quello ci
vorrebbe una richiesta scritta e firmata. O una chiave»,
aggiunse con l'aria di chi la sa lunga.
Quell'ultimo
commento mi fece capire due cose. Primo, Liam era avvezzo a portarsi a
casa tante donne sempre diverse. Secondo, io sembravo a tutti gli
effetti fare parte di quella schiera di donne.
La
porta alle mie spalle si aprì e il simpatico Mr. Tony si
trasformò all'improvviso, diventanto il ritratto della
disponibilità e della cortesia.
«Buonasera
Tony»
«Signor
Carter Wright, buonasera a lei! Arriva proprio al momento giusto, come
vede stavo dicendo alla signorina qui presente che non posso farla
salire al suo appartamento senza che lei-»
«Felicity?»,
la voce incredula interruppe il fiume di ossequiose parole del portiere.
Mi
voltai lentamente, sforzandomi di mantenere un'espressione neutra,
nonostante il rivederlo dopo quella che mi era parsa
un'infinità di tempo mi stesse facendo venire la tachicardia.
Ed
eccolo lì, sempre bellissimo anche in tenuta da jogging, con
la fronte imperlata di sudore. Avrei voluto detestarlo almeno un poco
per il suo essere sempre così dannatamente impeccabile e per
l'avermi cacciata in questa situazione di stallo. Un quasi addio,
silenzioso e pieno di non detti. Avrei tanto voluto proiettare su di
lui tutto il disprezzo che provavo per la mia codardia, ma era
semplicemente impossibile. Lui si era fatto coraggio esponendosi e io
mi ero ritratta in preda ad un terrore che non sapevo neanche di
provare.
«Posso
salire per un attimo?», chiesi a bassa voce. Non volevo avere
una discussione lì nell'atrio, con gli occhi di Tony puntati
voracemente verso di noi a caccia di pettegolezzi.
«Perché?»,
ribatté freddo. Si passò un braccio sulla fronte
e si avvicinò all'ascensore.
«Voglio
provare a spiegarti perché», sussurrai in tono
calmo.
Mi
fissò imperscrutabile per una decina di secondi, prima di
annuire e fare un passo indietro per cedermi il passo. Entrai
nell'ascensore per prima e un attimo più tardi ci ritrovammo
soli, rinchiusi in due metri quadri.
«Come
stai?», domandò.
Ecco,
era di questo che parlavo. Liam aveva un animo buono, delle maniere
impeccabili e la sindrome del cavaliere dall'armatura scintillante. Non
poteva farci nulla, era stato educato così e non negava un
approccio cortese e civile neanche al suo più acerrimo
nemico.
«Ho
avuto giorni migliori. Tu?», lo osservai strisciare la sua
tessera elettronica prima di spalancare la porta del suo appartamento e
lanciarmi uno sguardo.
«Hai
l'aria stanca. Dovresti dormire invece di vagare per Boston di
notte...»
Il
suo rimprovero, volutamente incurante, celava in realtà una
preoccupazione chiaramente percepibile che mi privò di
un'altra manciata di briciole rubate al mio ultimo pezzettino di cuore.
Mi
indicò il divano mentre si toglieva le scarpe da corsa e il
porta-telefono che teneva attorno al braccio. Arrotolava con cura gli
auricolari, la fronte aggrottata e gli occhi socchiusi.
«Mi
faccio una doccia veloce», e sparì verso la zona
notte.
Non
sapevo cosa aspettarmi, ci conoscevamo da poco tempo e non avevamo mai
litigato. La mia mancanza di esperienza si faceva prepotentemente
sentire. Le mie uniche due storie importanti erano finite per cause
esterne. Con Shawn erano state la partenza per il college e la distanza
a costringerci a dire addio, con Theodore era stato l'arrivo dirompente
di Liam. Ma a volte tutto finiva così velocemente, come
velocemente era iniziato. Un attimo prima sei euforico e con il cuore
che pompa a mille, l'attimo dopo sei di nuovo da sola.
La
città continuava a vivere, le macchine a sfrecciare
sull'autostrada in lontananza, le insegne ad accendersi e spegnersi
ritmicamente sopra le teste di coloro che si godevano una splendida
serata estiva in compagnia o da soli. Osservai per qualche minuto un
uomo che parlava con il suo gatto, entrambi seduti su un vecchio divano
malconcio sistemato sul terrazzo.
Mi
riscossi e decisi che era giunto il momento di smetterla di fare la
vigliacca e confessare, indipendentemente dal risultato di questa
conversazione, dopo mi sarei sentita senza dubbio sollevata.
Seguii
il rumore attutito dello scrosciare dell'acqua e socchiusi la porta del
bagno, dopo aver bussato un paio di volte. Non attesi una sua risposta
ed entrai sedendomi a gambe incrociate sul coperchio abbassato del wc.
Le conversazioni più importanti della mia adolescenza le
avevo avute quasi tutte con Zoe mentre una delle due si stava facendo
la doccia. Tra il vapore e l'umidità delle pareti
piastrellate del bagno si creava un piccolo ecosistema completamente
scollegato dall'esterno. Un piccolo pianeta dove rifugiarsi una volta a
settimana, dove era più facile confessare pensieri che fuori
da lì parevano troppo da affrontare.
«Liam?»,
provai a richiamare la sua attenzione.
Lo
vedevo immobile al di là del vetro satinato ed appannato del
box doccia.
«Dimmi»
Non
si arrabbiò per quella mia intrusione, né mi
intimò di dire quello che dovevo dire e andarmene. Aveva
più che altro un tono rassegnato, come se sapesse che
provare a fermarmi non sarebbe servito a nulla.
«Non
sono una che vive alla giornata, sono anni che provo a raccontarmi che
cogliere l'attimo è la tattica migliore per vivere la mia
vita, ma la verità è che non fa per me. Io mi
godo il presente, ma riesco a farlo pienamente solo se so con certezza
cosa mi aspetterà dopo. Adoro il mio lavoro, ma sarebbe da
ipocriti non ammettere che ho provato a inseguire il mio sogno solo
perché ero consapevole di avere comunque in tasca una laurea
in legge. Era una strada che non avrei mai voluto percorrere, ma il
solo sapere che c'era un'altra strada mi rassicurava e mi permetteva di
provare a cercarne una nuova. Altrimenti non lo avrei mai fatto,
sarà un agire da coniglio, ma io un leone non lo sono mai
stata. Non so esattamente come dirti ciò che ho provato in
questa ultima settimana, ma so che cosa voglio dirti quindi ci
proverò perché voglio che tu sappia cosa provo e
cosa sento, nei tuoi confronti e nei miei», mi fermai un
attimo per prendere fiato.
L'acqua
riprese a scendere, ma sapevo che mi stava ascoltando. Il non vederci
in viso fu inaspettatamente d'aiuto.
«Io
voglio vivere con te, solo che vorrei farlo per tutta la vita e
ciò spaventa me e penso possa spaventare ancora di
più te. Ti voglio così tanto da esserne
terrorizzata, perché non so come gestirlo. Avrei voluto
urlarti il sì più assordante del mondo, fare
l'amore subito lì sulla spiaggia e il giorno dopo inondarti
casa con il mio caos. Ma la potenza di tutto ciò che provavo
e desideravo ha parlato al mio posto e mi ha fatto indietreggiare, come
il peggiore dei conigli. Io non voglio una storia di pochi mesi, Liam,
non mi interessa. So che nessuno di noi può, nonostante le
migliori intenzioni, promettersi che tutto andrà bene e
sarà per sempre. Lo so, quello che io vorrei è
sapere che in questo momento, prima di andare a convivere, noi lo
stiamo facendo perché davvero pensiamo possa essere per
sempre. Non un esperimento, non una prova che nel caso si riveli
fallimentare ci riporti integri al punto di partenza. Io ci sto Liam,
ma ci sto interamente anima e corpo, ipotecando il mio cuore. Ora tocca
a te», conclusi con il cuore appena citato incastrato in gola.
Il
vetro del box si aprì e Liam ne uscì. Gli
allungai l'accappatoio, senza guardarlo negli occhi e facendo
attenzione a non toccarlo. In quel momento sarebbe stato troppo da
sopportare.
«Primo:
non dare per scontato di sapere cosa mi possa spaventare o meno. Non lo
sai, non ancora perlomeno», disse dirigendosi in camera, dove
spalancò il suo armadio e pescò della biancheria
pulita che si infilò.
Mi
allungai e gli tolsi dalle mani un'orribile polo color ocra e gli porsi
una semplice t-shirt blu. La indossò senza fiatare.
Si
passò un asciugamano tra i capelli bagnati e si
lasciò cadere sul letto, vicino a me.
«Non
sono bravo con le dichiarazioni, con le arringhe in tribunale me la
cavo molto meglio...», abbozzò imbarazzato.
Gli
sorrisi timidamente. «Andrà bene anche un'arringa,
Signor Avvocato»
«Questa
sarà -spero - l'ultima volta in cui paragonerò la
nostra storia con il disastro avvenuto con Tiffany. Io l'ho
già fatto di gettarmi anima e corpo, l'ho già
fatto e ne sono uscito distrutto. Vedo quotidianamente coppie che si
erano giurate sarebbe stato per sempre lasciarsi e farsi la guerra. Ne
ho viste così tante, dai background più
variegati, da convincermi che il per sempre sia
la più grande cazzata mai inventata. Lo penso ancora, ma
dopo averti conosciuta ho iniziato a sperare con tutto me stesso di
sbagliarmi, perché io non lo so se esiste, ma se esistesse
vorrei che fosse solo con te. Quindi è tuo Felicity, quel
poco di cuore che mi è rimasto è solo e soltanto
tuo. St-stai piangendo?», mi chiese sussurrando e
trascinandomi più vicino al suo corpo.
Alzai
gli occhi umidi e li fissai nei suoi, entrambi alla ricerca della
medesima conferma.
Carpe diem.
Allungai
un braccio e gli posai una mano sulla guancia, prima di sorridergli tra
le lacrime e stringerlo tra le braccia. Lo sentii cingermi i fianchi e
nascosi il viso contro il suo collo che profumava di bagnoschiuma.
«Perché
ti sei rivestito?», mugugnai contrariata, strusciando il naso
sulla sua mascella fresca di rasatura.
Lui
ridacchiò divertito, prima di lasciarmi andare e alzarsi dal
letto.
«Solitamente
le coppie non litigano per poi fare tonnellate di sesso
pacificatore?», protestai non muovendomi dalla mia
postazione, la maglietta sollevata sulla pancia e i sensi
già illanguiditi. Ahh, il potere di Mr.Liam.
Mi
agguantò le mani e mi costrinse a rimettermi in piedi.
«Mmh,
oggi è giovedì. Domani potrei darmi malato e
tenerti legata al letto per tre giorni interi... »
Scoppiai
a ridere, liberandomi dalla sua presa e dandogli un buffetto.
«Non lo faresti mai!», decretai sicura.
«Legarti
al letto?», mi bisbigliò in un orecchio.
Scossi
la testa. «Oh no, quello spero lo farai al più
presto! Intendevo darti malato al lavoro...»
Soffocò
una risata contro il mio collo, prima di lasciarmi un bacio tra i
capelli. Il tutto senza ribattere alla mia accusa.
«Vieni
con me», disse prendendomi per mano e trascinandomi verso la
scala che portava alla sua terrazza sul tetto.
La
terrazza che l'ultima volta che ci ero salita constava di una spianata
di crudo cemento, qualche sedia arrugginita ed escrementi di gabbiani,
ora risplendeva totalmente restaurata.
Sembrava
un lavoro che avrei potuto fare io, un progetto partorito dalla mia
mente, solo che così non era perché io non ne
sapevo niente. Una nuova pavimentazione era stata posata, un gazebo di
legno era stato montato e sotto di questo era stato un disposto un
lungo tavolo in legno sbiancato. Ma la parte da padrone la facevano i
fiori e le piante, sistemati in ampi vasi e cassette disposti un po'
dappertutto, a creare l'illusione di un giardino sospeso a
metà tra terra e cielo.
«Lo
avevo fatto progettare prima di chiederti di venire a vivere
qui...», mi spiegò.
«Splendido,
è semplicemente splendido. Di chi è
opera?»
Liam
si sedette su una poltroncina che guardava oltre il parapetto, sulla
città buia, e mi fece cenno di accomodarmi vicino a lui.
Ignorai il suo invito e mi accoccolai direttamente sulle sue ginocchia.
«Di
Donovan, ha sorpreso un po' tutti. Me, Zoe, ma in primis sé
stesso», mi raccontò.
Spalancai
la bocca incredula: Donnie aveva fatto tutto ciò da solo,
probabilmente sforzandosi di ricreare un ambiente che mi assomigliasse
e fosse in grado di rispecchiarmi e donarmi un piccolo squarcio di
natura in quella giungla di cemento che era Boston.
«Grazie,
questo renderà la mia permanenza decisamente più
piacevole e attenuerà la mia nostalgia per un po' di sano
verde attorno a me», pigolai, schioccandogli un bacio su una
guancia.
«Grazie
a te, so quanto ti costerà rinunciare a vivere in campagna,
ma è solo provvisorio. Prima ci sbrighiamo a sistemare la
casa dei miei nonni, prima torniamo tra il tuo amato verde...»
Mi
sollevai per fissarlo incredula. «Davvero vuoi andare a
vivere nella casa in campagna? Lasceresti sul serio questo attico e la
tua vita in città?»
Non
avevo mai preso in considerazione quell'idea, avevo dato per scontato
che sarei stata io a dire addio a casa mia e a provare a mettere radici
in un ambiente diverso. Per mille motivi era la scelta più
saggia: l'attico era stupendo e non richiedeva certo un radicale lavoro
di ristrutturazione come la casa in campagna, Liam lavorava ad un
quarto d'ora di macchina da qui e io ero abituata a spostarmi per
lavoro già da prima.
«Certamente,
in fondo non sono mai stato molto affezionato a questa
casa...»
«Perché
non ci passavi mai del tempo e perché eri solo. Liam, non ha
senso questa decisione, dovresti farti tutti i giorni un'ora di auto
per venire allo studio...e a cosa sarebbe servito questo splendido
giardino se lo vendi senza neanche pensarci un attimo?»
«A
farmi rientrare nelle tue grazie?», mormorò
malizioso, mordicchiandomi il collo.
Gli
tirai uno scappellotto fiacco. «Liam! Parlo seriamente! Sai
che non ce la faccio a non pianificare tutto e devo sapere
se-»
Mi
zittì posandomi due dita sulle labbra. «Partiamo
da qui, da questa casa, da noi due. Ok? Concentriamoci su questo per il
momento, godiamoci quest'estate, iniziamo a prendere le misure per la
nostra vita insieme. In fondo cosa importa dove viviamo
purché lo facciamo insieme?»
Come
sempre aveva ragione e si era dimostrato il più assennato
dei due, mentre io deliravo già in preda al panico e mi
dibattevo nel mio bicchiere d'acqua.
Mi
spalmai contro il suo petto, sorridendogli felice.
«Perché non mi hai ancora baciata?»
«Volevo
aspettare di averti legata al letto...»
«Uuhh,
allora sbrigati a farlo»
***
Quando
mi risvegliai il sole era già alto, ma nella stanza regnava
una temperatura fresca e piacevole. Rotolai tra le lenzuola e scoprii
di essere rimasta sola nel letto. Sorrisi tra me e me, lo avevo saputo
fin dall'inizio che Liam non si sarebbe mai dato per malato e sarebbe
andato in ufficio quel venerdì. Lo sapevo e mi piaceva il
suo senso del dovere, non sarebbe stato Mr.Liam se non si fosse
comportato così.
Mi
accorsi mettendomi a sedere che la temperatura perfetta era data dal
condizionatore che era stato premurosamente programmato per
deumidificare la stanza e regalarmi un risveglio che non fosse sudato a
causa dei quasi trenta gradi che regnavano all'esterno. Mi voltai verso
il comodino per recuperare i miei occhiali da vista, in testa il vago
ricordo di essermi tolta le lenti a contatto verso le cinque del
mattino convinta che Liam si fosse addormentato. Per poi ritrovarmi
nuovamente avvolta dalle sue braccia e avvinghiata al suo corpo,
nonostante fossi accecata.
Trovai
un bigliettino posizionato vicino alla mia montatura. Infilai gli
occhiali e mi misi seduta contro la testata del letto, aprendo poi il
messaggio.
Stamattina dovrebbe passare Inés. Sono
scappato al lavoro con ben due ore di ritardo chissà per
colpa di chi. Ho lasciato detto all'amministratore e in portineria che
una dolce e meravigliosa fanciulla verrà a stare da me in
perpetuum, trovi la tua copia di chiavi e
tessera d'accesso sul tavolo in cucina. Ho parcheggiato il tuo pick-up
in garage (n°13). Stacco presto, promesso.
Ti penserò tutto il giorno, accidenti a
te.
L.
Mi
alzai e andai in bagno. Non avevo con me altri vestiti oltre a quelli
del giorno prima e così mi feci una doccia al volo e li
indossai. Zampettai a piedi nudi verso il soggiorno, dove dovevo aver
abbandonato la borsa il giorno precedente. Ripescai il telefono e
ignorai tutte le notifiche.
Selezionai
il contatto di Liam e gli scrissi semplicemente: Grazie, sto pensando a te.
In
quel momento l'ascensore trillò e una signora un po'
tarchiata dalla faccia simpatica fece il suo ingresso
nell'appartamento, seguita a ruota da Mildred. Si bloccarono
nell'anticamera vedendomi, la prima con la bocca spalancata, la seconda
con l'aria da io-lo-sapevo!, entrambe
comunque abbastanza sorprese dal trovarmi nel mezzo del salone di Liam
Carter Wright.
«Cara!
Che piacere rivederti, Liam è in casa?»,
cinguettò Mildred non appena si riprese e si
ricordò della buona educazione che le era stata severamente
impartita e di cui andava tanto fiera.
«Ciao
Mildred, no Liam è al lavoro e io...», balbettai
maledicendo Liam per avermi messo in quella situazione.
Mildred
agguantò il braccio grassoccio di quella che ipotizzavo
fosse Inés e la trascinò nella mia direzione.
«Inés, è lei! Felicity è lei!», strillò al
settimo cielo, scambiandosi sguardi d'intesa con la domestica.
Mi
schiarii la voce. «Scusate, lei chi?»
Inés
mi guardò con gli occhi traboccanti di amore materno, per un
attimo temetti mi volesse soffocare di baci e cullarmi contro il suo
seno. «La señorita per cui el Señor
Lìam ha creato quella meraviglia lassù sul
tetto!», annunciò come se fosse ovvio.
Lanciai
un'occhiata alla porta alle loro spalle e alla borsa che avevo lasciato
cadere per terra, vicino ai miei piedi scalzi. «Mildred,
è stato bello rivederti, ma ora devo proprio scappare a
casa, magari ci vediamo prossimamente con più calma, se ti
va. Signora Inés, è un piacere averla conosciuta,
Liam parla sempre così bene di lei. Arrivederci!»,
esclamai in preda al panico, mentre le superavo dirigendomi verso
l'ascensore.
Inciampai
nel tappeto e per poco non mi schiantai a terra, una volta entrata
nell'abitacolo dell'ascensore mi voltai e le vidi, le due donne mi
stavano fissando con degli inquietanti sorrisi a trentadue denti e mi
facevano ciao ciao con la mano. Non appena le porte si chiusero tirai
un sospiro di sollievo. Recuperai il mio pick-up e sfrecciai alla
velocità della luce in direzione di Plymouth.
Un'ora
più tardi stavo svoltando nel vialetto di casa, il cuore che
finalmente aveva rallentato i battiti e la sensazione di essere
inseguita da qualcosa di non ben definito che iniziava a scemare.
Guidare con i piedi nudi era stata una tortura, ma pareva una
quisquilia in confronto alla possibilità di tornare a
sottopormi agli sguardi adoranti di Mildred e Inés. Scesi e
mi avviai verso il mio portico, facendo attenzione a non calpestare
sassi aguzzi o rametti appuntiti. Quando fui in salvo sul primo
gradino, alzai lo sguardo e mi paralizzai sul posto.
Seduti
a gambe incrociate davanti alla mia porta stavano Donovan e Judith, un
sorriso smagliante ed orgoglioso stampato in volto. Un sorriso che
conoscevo bene dal momento che era lo stesso da cui ero appena scappata.
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Capitolo 20 *** Bouganville ***
Liam
Oggi
a Boston il termometro ha sfiorato i 90°F, sono anni che non si
vedeva un'estate così afosa qui nel Massachusetts. Erano
già le dieci passate quando varcai la porta dello studio e
il breve percorso fino a lì era stato sufficiente a farmi
sudare. Sentivo il cotone inumidito della camicia aderirmi contro la
schiena e così presi il coraggio a quattro mani e mi infilai
sulle spalle la giacca del mio completo estivo.
Una
ventata di aria condizionata mi colpì dritto in pieno volto,
catapultandomi senza preavviso in un clima che faceva un baffo al
Circolo Polare Artico. Mi guardai attorno cercando una qualunque forma
di vita umana a cui chiedere informazioni al riguardo, ma il banco
dell'accoglienza, dove Theresa passava otto ore al giorno a civettare
con i clienti, era abbandonato a sé stesso e la cucina era
deserta. La macchina del caffè, souvenir che mi ero concesso
da un mio viaggio in Italia e che rappresentava un perenne oggetto di
contesa tra colleghi, ora giaceva silenziosa e spenta vicino al
lavandino, per una volta non invaso da mille tazze, tazzine e
scatolette con avanzi di cibo che attendevano di essere lavate da
qualche anima pia.
Mi
diressi a passo sicuro verso il mio ufficio, avrei chiesto spiegazioni
a Diane, lei sicuramente sarebbe stata al suo posto chiedendosi che
fine avessi fatto e appuntando ordinatamente tutte le persone che avrei
dovuto richiamare il prima possibile. Mi bloccai non appena svoltai
l'angolo: la scrivania della mia insostituibile segretaria era vuota.
Niente Diane, niente pc portatile dalla stucchevole custodia color
lilla, niente molteplici paia di occhiali da lettura abbandonati sul
tavolo, niente crackers, grissini, gallette di riso che facevano
capolino dai cassetti.
La
porta del mio ufficio era serrata e non appena la aprii per poco non mi
venne un colpo. Diane se ne stava comodamente appollaiata sul mio pouf
in pelle bordeaux, impegnata a battere sui tasti del computer che
teneva in bilico sulle ginocchia, un paio di buffi occhiali rosa posati
sul naso. Intravidi Lev, gli auricolari infilati nelle orecchie,
intento a discutere animatamente nei pressi della vetrata, mentre
Kenneth stava sfogliando voluminosi faldoni scuotendo ripetutamente la
testa in direzione di Lucas, il nostro stagista. Theresa si stava
limando le unghie sopra il mio tappeto da quasi 5000$ in compagnia di
Eva, che stava contemporaneamente ridendo, mangiando un sandwich e
sbriciolando il fascicolo di carte che teneva posato di fronte a lei,
tutte due assorte dal racconto di...Joanne! Joanne, che invece che
starsene a casa sua in maternità, si era bellamente
accomodata con il suo enorme pancione sul mio divano color panna.
«Qualcuno
può cortesemente dirmi cosa sta succedendo?»
Cinque
teste si voltarono all'improvviso verso di me, mentre Lev ancora
blaterava sullo sfondo.
«Chiudi
la porta!», strillò Joanne sventagliandosi con un
dépliant.
Theresa
le allungò una bottiglietta d'acqua e la aiutò a
sistemare un cuscino dietro la schiena.
«Liam!
Eccoti qua finalmente!», tuonò Kenneth, mollando
senza preavviso tutti i faldoni al povero Lucas, che quasi
caracollò in terra sotto tutto quel peso.
«Abbiamo
provato a chiamarti mille volte, ma il cellulare risultava sempre
irraggiungibile. Diane ha telefonato a tua sorella Judith, ma neanche
lei sapeva dove fossi. Stavamo pensando di provare a sentire il tuo
amico Matthew quando sei miracolosamente riapparso...», mi
fece un breve riassunto Eva, ancora impegnata a masticare il suo
panino, incurante della senape che minacciava di colare sulla sua
camicetta di seta e, cosa ancor più importante, sul
fascicolo del caso a cui stava lavorando.
«Sono
stato assente un paio d'ore, non mi pare il caso di andare nel panico e
improvvisare un picnic nel mio ufficio. Diane, per favore, puoi
aggiornarmi?», mi appellai al buonsenso della mia ancora in
questo mare di follia.
Quest'ultima
mi sorrise e si sfilò gli occhiali. Recuperò la
sua agenda da terra e iniziò ad elencarmi la serie di
sventure accadute in mia assenza. «Non so se se ne sia
accorto, ma all'appello manca Jamie. Doveva rientrare oggi dalle ferie,
ma in Nicaragua si è preso non so quale batterio e ora
è confinato in ospedale, nel reparto infettivi. Sta meglio
ora, per la cronaca-»
«Si
sarà mangiato chili di carne poco cotta o pesce crudo e si
sarà beccato uno di quei bastardi che ti colpiscono
l'intestino e ti fanno passare tre meravigliosi giorni sul water
completamente disidratato!», si intromise Joanne, la quale
era un'ipocondriaca nota e conosceva centinaia di nozioni mediche
assolutamente inutili nella vita di tutti i giorni di un americano
medio.
Diane
mi rivolse un'occhiata di scuse e riprese, «La macchina per
l'espresso stamattina si è inceppata e Lev potrebbe aver
peggiorato la situazione nel tentativo di ripararl-»
«Almeno
io ci ho provato! Voi non facevate altro che frignare che Liam non
sarebbe tornato in Italia tanto presto e vi sarebbe toccato tornare
alla cara vecchia brodaglia americana!», precisò
offeso Lev, strappandosi le cuffiette dalle orecchie e gettandole in
malo modo sulla mia scrivania.
Non
commentai e feci cenno a Diane di continuare. Forse, entro le tre del
pomeriggio, ce l'avremmo fatta a capire cosa fosse accaduto.
«Dopodiché
l'impianto di raffreddamento ha iniziato a dare problemi, non
riuscivamo più a regolarlo e la temperatura è
diventata davvero troppo fredda. Il tecnico ci ha promesso, quasi due
ore fa ormai, che sarebbe accorso subito, ma di lui non c'è
traccia. Il suo ufficio è l'unico con un controllo
indipendente dal resto del sistema e così ci siamo rifugiati
qui. L'alternativa era il tetto e il sole cocente di luglio e non ci
pareva il caso. Joanne, che era passata a salutarci un'ultima volta
prima della data del termine, a causa degli sbalzi di temperatura ha
avuto un piccolo mancamento, ma ora sta bene e Mr. V-»
«Eccoti
qui, cara! Tengo sempre delle bustine di potassio e magnesio in auto,
colpa dell'abitudine credo, mia figlia da adolescente cadeva come una
pera cotta non appena faceva troppo caldo. E noi viviamo in Florida,
quindi puoi immaginare...», chiosò premurosamente
una voce familiare.
Mi
voltai di scatto e per poco non ebbi bisogno io di un integratore per
riprendermi dal capogiro che mi colse. Montgomery Van Houten,
impeccabile nella sua camicia azzurra senza una minima traccia di
sudore, era appena entrato nel mio ufficio e ora stava sciogliendo una
bustina di magnesio solubile nel bicchiere d'acqua che Theresa gli
aveva porto.
Joanne
gli sorrise grata e bevve tutto d'un fiato il contenuto del bicchiere,
accarezzandosi sovrappensiero la pancia prominente.
Volevo
salutare Montgomery, o meglio prostrarmi ai suoi piedi e professargli
l'ammirazione ventennale che provavo nei suoi confronti, quando un
pensiero agghiacciante mi paralizzò sul posto.
«Per
quando è previsto il parto?»
Joanne
alzò lo sguardo e mi guardò tutta
gioiosa, «Dopodomani!», trillò.
Cosa
accidenti ci faceva sul mio divano, nel mio ufficio, in compagnia di un
branco di avvocati assolutamente inutili e in totale assenza di un
medico?
Percepii
distintamente una goccia di sudore freddo scendermi lungo la spina
dorsale. Mi consideravo una persona abbastanza forte, potevo sopportare
una buona quantità di sventure, ma un parto anticipato qui
nello studio non rientrava tra queste.
«Liam,
rivederti è un piacere! Non era nei miei piani presentarmi
qui da te così presto, ma mia figlia Felicity pare dispersa,
così ho dovuto cambiare il mio programma. Anche se devo
ammettere che ora non mi pare un momento propizio per affrontare il
discorso che avevo in mente...», osservò
guardandosi attorno.
Allungai
la mano in un gesto meccanico e lasciai che me la stringesse, nella
mente ancora stampata la terrificante immagine di urla, sangue, liquido
amniotico e la testa di un bebè che faceva capolino
da...santo cielo, meglio non pensarci!
Non
riuscivo ad immaginare il motivo per il quale Montgomery Van Houten si
trovasse nel mio ufficio in una rovente mattina di luglio, quando
avrebbe potuto starsene a galleggiare in una piscina vista mare, un
cappello di paglia calcato in testa e un bicchiere di limonata
ghiacciata stretto in mano.
«Montgomery,
il piacere è tutto mio, credimi. Avrei voluto riservarti
un'accoglienza migliore, ma ho avuto un imprevisto e-»
Mi
interruppe assestandomi una poderosa manata sulla spalla.
«Non c'è bisogno di scusarsi! Nel frattempo ho
avuto l'onore di fare la conoscenza del tuo splendido team, non avrei
potuto ricevere benvenuto più caloroso. Se ti avessi trovato
in ufficio non avrei mai scoperto che Lev ha fatto il praticantato nel
mio studio di Austin, un vero cowboy texano che poi mi hai sgraffignato
da sotto il naso! E perché non ho mai saputo che Eva
è la sorella di Florence? Quella donna è un carro
armato, nessuno sopravvive al suo passaggio, per questo Washington
è uno dei miei fiori all'occhiello. Avete lo stesso senso
dell'umorismo incomprensibile, sicura di non avere antenati inglesi,
cara?»
Eva
scosse la testa ridendo, e la guardai sorpreso. Se c'era una cosa che
detestava era sentir parlare della mitica Florence, sorella maggiore la
cui fama nel mondo legale la precedeva. Avrei tanto voluto incontrarla,
ma non l'occasione non si era mai presentata e, dopo aver assunto Eva,
l'idea era stata totalmente accantonata.
«Nessuno
mi ha sgraffignato, la triste verità è che sono
fuggito a gambe levate da Jacob Getty. A volte ancora popola i miei
incubi, con il suo sigaro sempre parcheggiato nell'angolo della bocca e
la sua ostinazione nel non credere nei giorni di ferie. A cosa serve la domenica se non a portarsi avanti
con il lavoro del lunedì?», Lev
imitò borbottando in modo burbero.
Montgomery
scoppiò a ridere. «Ahh, il caro vecchio Jacob! Da
quando se n'è andato in pensione è tutto un
fioccare di vacanze, feste e giorni di permesso: pura
anarchia!»
Il
'vecchio Jacob', a differenza della leggendaria Florence, avevo avuto
il dispiacere di incontrarlo anni fa in un'aula di tribunale. Rimane
uno dei rarissimi smacchi che macchiano la mia altrimenti immacolata
carriera nell'avvocatura. Ancora ricordo la potenza della sua arringa,
pronunciata con la gravità e l'esperienza di un novello
Winston Churchill, a cui fisicamente assomigliava anche tantissimo.
Un
paio di trilli attutiti provenienti dall'atrio ci zittirono
immediatamente.
«Sia
ringraziato il cielo! Sarà il tecnico!», si
lasciò andare ad un teatrale sospiro di sollievo Joanne.
«Oh,
nostro salvatore...», esclamò Eva balzando in
piedi e spalancando la porta d'ingresso.
Kenneth
la seguì senza indugi e la osservò speranzoso
mentre sollevava la cornetta dalla scrivania di Diane e pronunciava un
accorato 'Si?'.
La
osservammo tutti in religioso silenzio mentre ascoltava ciò
che le veniva comunicato dall'altro capo del citofono undici piani
più in basso.
Ripose
il ricevitore con attenzione, prima di sollevare la testa ed annunciare
tristemente: «Abbiamo vinto il premio fedeltà del
ristorante cinese all'angolo: trenta lanterne di carta e un buono
sconto del valore di 20$ ci aspettano qui sotto».
Nessuno
fiatò, Joanne ricadde pesantemente contro lo schienale del
divano e Diane ne approfittò per versarle altra acqua nel
bicchiere.
«Io
adoro il cibo cinese», commentò Lucas.
Quel
ragazzo aveva un tempismo terribile e pareva pronunciarsi sempre nel
momento sbagliato. Kenneth, suo supervisore e torturatore personale,
gli lanciò un'occhiata omicida.
Presi
fiato e pronunciai delle parole che non avrei pensato potessero uscire
dalla mia bocca in un giorno feriale. «Ragazzi, la giornata
lavorativa ormai è compromessa, tanto vale farcene una
ragione e mollare l'osso almeno per oggi. Restiamo chiusi per oggi,
prendetevi la giornata libera e ci vediamo qui domattina. Sperando di
riuscire a risolvere la situazione nel frattempo...»
Un
quarto d'ora più tardi i locali dell'ufficio erano deserti.
Theresa non aveva neanche aspettato che finissi di parlare prima di
strillare dei saluti frettolosi e precipitarsi a casa a cambiarsi,
direzione spiaggia e tintarella. Joanne aveva finalmente preso la
saggia decisione di portare quella sua pancia ad orologeria lontana dal
mio studio, sollevandomi per fortuna dall'indesiderato rischio di
dovermi improvvisare ginecologo ed ostetrico. Eva l'aveva accompagnata
e Diane aveva impostato la risposta automatica alle email ed inserito
la segreteria telefonica. Per oggi lo studio Carter Wright sarebbe
risultato inoperativo, si pregava di riprovare a contattarci l'indomani.
Lucas
si era volatilizzato prima che Kenneth avesse la possibilità
di assegnargli qualche compito a casa assolutamente superfluo, utile
solo a soddisfare la sua vena sadica. Lev aveva scambiato ancora due
parole con Montgomery, ricordi inerenti a Getty e alla squadra di
football dei Dallas Cowboys. Poco dopo se ne andò anche lui,
accompagnato da uno scontento Kenneth.
«Ottimo,
ora abbiamo finalmente l'occasione per parlare...», disse
soddisfatto Montgomery, sedendosi sul pouf occupato fino a poco prima
da Diane.
Mi
accomodai di fronte a lui e mi appropriai della bottiglietta d'acqua
minerale abbandonata sul basso tavolino in vetro.
«Vorrei
collaborassi con il mio studio di Los Angeles per un
caso...diciamo...alquanto delicato», sparò sicuro
Montgomery.
L'acqua
che stavo bevendo mi andò di traverso e rischiai di
peggiorare ancora di più la situazione già
disperata della mia camicia zuppa.
«C-Cosa?»,
fu l'unica parola che fui in grado di rantolare.
Montgomery
ridacchiò tra sé prima darsi un contegno e
iniziare a spiegarmi seriamente la questione. «Quello che ti
sto per rivelare in via del tutto confidenziale non dovrà
uscire da queste mura, soprattutto se non accetterai l'incarico da me
offertoti. A Los Angeles si trova il terzo distaccamento più
importante del mio studio legale, tuteliamo da anni con successo i
diritti delle personalità più di spicco della
Valley, il tutto sempre con discrezione e professionalità.
Siamo riusciti a contenere vespai di proporzioni enormi, ad insabbiare
questioni scottanti e a depistare i media. A L.A. lavora un team
eccellente, ma questa volta la faccenda è spinosa e abbiamo
bisogno del tuo aiuto. Sei uno dei migliori avvocati specializzati in
diritto di famiglia a livello nazionale, solo l'anno scorso sei stato
capace di soffiarci da sotto il naso il caso Pitt-Jolie e di
riabilitare l'immagine del tuo cliente dopo le accuse della ex-moglie
riguardanti il suo alcolismo e l'aggressività nei confronti
dei figli. Non lo dico per adularti, non è nel mio
carattere, sto semplicemente elencando voci del tuo curriculum. Hai
alle spalle un master in diritto infantile e hai frequentato corsi
riguardanti le relazioni diplomatiche internazionali e la comunicazione
e sei l'uomo di cui abbiamo bisogno ora»
Ero
seriamente lusingato dalla descrizione che aveva fatto del
sottoscritto, ma non capivo perché dovesse intervenire un
esterno se il suo team era così eccellente, e io sapevo
benissimo quanto lo fosse. Erano dei fuoriclasse; avevo fatto una corte
serrata durata due anni a Jacqueline Harrow, membro junior del loro
studio, senza mai riuscire a spuntarla e a portarla nel team Carter
Wright.
«Di
chi stiamo parlando?», mi decisi a domandare.
Alla
fine era a quello che si riduceva tutto. Trattare la questione
'Brangelina' era stato un vero e proprio incubo mediatico, cosa poteva
esserci di peggiore?
«Una
settimana fa Mrs. Melania Trump ha presentato domanda di divorzio da
Mr. Donald Trump e ha richiesto l'affidamento esclusivo del
figlio»
Oh
cazzo!
***
Finalmente
tre ore dopo essere rientrato dall'ufficio sentii le chiavi girare
nella serratura e la porta d'ingresso aprirsi. Ne spuntò
un'accaldata Felicity e un paio di capienti trolley. Indossava il
medesimo vestito dalla fantasia geometrica che ricordavo dalla sera
della pazza festa organizzata dai fans di sua sorella Zoe, con
l'aggiunta di cintura annodata morbidamente in vita.
«Ho
un bisogno disperato di farmi una doccia», esclamò
mollando i bagagli nel bel mezzo dell'atrio e gettandosi a peso morto
sul divano.
Guardai
alternativamente prima le valigie e le borse gettate e abbandonate sul
pavimento e poi il suo corpo sdraiato mollemente sui cuscini candidi.
Era arrivata tre secondi prima e aveva già messo tutto
sottosopra. Sorrisi tra di me e mi diressi verso il frigorifero.
Recuperai un cartone di succo di pompelmo e ne versai il contenuto in
un alto bicchiere di vetro soffiato. Raggiunse il soggiorno facendo
attenzione a non rovesciarlo e mi accoccolai sul pavimento accanto al
divano, dove si trovava la testa di Felicity.
Le
scostai i capelli dal viso e le accarezzai la fronte con le mani
fresche dal contatto con il bicchiere che le porsi.
«Sei
vestito elegante e profumi...», osservò
studiandomi ad occhi socchiusi.
Le
sorrisi, «L'idea originale era portarti fuori a
cena...»
«Oh
no! È tutta colpa dei miei genitori se ho rovinato i tuoi
piani. Mi sono piombati in casa così, tra capo e collo, tra
l'altro senza motivo alcuno. È passato un mese scarso dalla
loro ultima visita, adorano la Florida d'estate e da quello che so gli
affari a Boston vanno più che bene...Fatto sta che Mamma non
levava più le tende e si è autoinvitata ad un tea
party in giardino che mi ha costretto ad organizzare. Continuava a
chiedermi di te, ininterrottamente, come un disco rotto. Blablabla,
quanto sei bravo nel tuo lavoro, quanto sei bello, quanto sei serio e
responsabile, blablabla, quanto uomini rispettosi come te non esistano
più al giorno d'oggi. Dimmi un po', non è che te
la intendi un po' troppo con mia madre?»
La
sola idea di Grace Van Houten, stupenda donna per carità, mi
faceva ricominciare a sudare. Lei con le sue manie, la sua fobia per la
sporcizia e l'ossessione per i batteri e le unghie pulite. Per non
parlare del suo implicito snobismo, aveva vissuto degli anni in cui era
stata costretta a tirare la cinghia, ma era innegabile che la famiglia
da cui proveniva l'aveva cresciuta consapevole della sua posizione
sociale e dell'entità del fondo fiduciario a lei intestato.
Immaginavo che anche Felicity e Zoe ne possedessero uno, molto
probabilmente persino più cospicuo di quello della madre, ma
la differenza tra loro era abissale. Grace era una gran signora, non
faceva pesare in alcun modo agli altri la sua fortuna, eppure sentirsi
leggermente a disagio era inevitabile. Saranno stati i suoi modi da
epoca vittoriana, il suo aspetto sempre impeccabile o la garbata
cortesia che non negava a nessuno, ma tutto ciò non faceva
altro che farla apparire distante e...fredda. In Grace vedevo una copia
di me stesso, desideroso di essere accettato per quello che ero e non
ciò che possedevo, ma incapace o forse troppo insicuro per
non rifugiarmi almeno parzialmente dietro ai miei privilegi.
Guardare
Felicity era sempre una sorpresa, i suoi modi disinvolti e la sua
bontà d'animo erano una continua fonte di insegnamento. Era
in grado di mettersi sul piano del suo ascoltatore, qualunque esso
fosse, e perciò era adorata da tutti. Poteva giocare a
nascondino insozzandosi di fango con un bambino, prendere un
tè caldo con Mildred e le arpie del suo Club del Libro,
discutere di politica improvvisando un poker con i giardinieri che si
occupavano del parco comunale senza mai snaturarsi. Era sempre lei,
vestita con una sdrucita salopette o un tailleur di alta sartoria, in
vacanza in una villa agli Hamptons o in una baita senza
elettricità in Montana. Il suo spirito di adattamento si
modellava, mutava e cambiava forma, senza mai minare il suo autentico
modo di essere.
Era
una caratteristica che invidiavo, io non ero in grado di essere
così fluido, sentivo la necessità di dividere
tutto in compartimenti stagni. Ero stato cresciuto in un mondo che
successivamente avevo deciso di ripudiare e avevo abbracciato il mio
stile di vita attuale, che non ero stato in grado di abbandonare
neppure per un attimo, nel timore di tornare al punto di partenza. Ero
statico, poco malleabile e terribilmente testardo.
«A
cosa pensi?»
Sollevai
la testa sorpreso e mi resi conto di non aver risposto alla sua
precedente provocazione, restando invece in silenzio per parecchi
minuti.
«Ti
capita mai di sentirti in difetto, nonostante tutti gli sforzi fatti e
il lavoro compiuto su se stessi?», le domandai lentamente.
La
vidi aggrottare la fronte e sollevarsi a sedere sul divano.
«Quasi sempre, lo percepisco costantemente. Hai presente
quella sensazione di essere sempre un secondo in ritardo rispetto alla
velocità a cui gira il mondo? Ecco, io è da una
vita che lotto per restare al passo e penso che sia così per
quasi tutte le persone con almeno un briciolo di auto-consapevolezza.
Credo sia proprio quella mancanza che percepiamo che ci fa andare
avanti, aspirando a qualcosa di più e senza mai rinunciare
alla missione di migliorare noi stessi. Saremo sempre egoisti, inetti,
meschini, ignoranti rispetto a qualcosa o qualcuno. Prendiamone atto e
partiamo da qui. Io sarò di parte, ma io trovo tu sia una
persona stupenda ed è commovente il fatto che non te ne
renda neanche conto», bisbigliò chinandosi ad
accarezzarmi una guancia, gli occhi così pieni di affetto da
farmi percepire chiaramente un nodo allo stomaco.
Cosa
avevo fatto per meritare questa creatura?
«Grazie»,
sussurrai contro la pelle calda del suo polso. Osservai il palmo della
sua mano, giocherellando con le sue dita lunghe e prive di
anelli. «Preferisci restare a casa?»
Lei
scosse la testa e si alzò dal divano, allacciando le sue
dita con le mie e tirandomi verso di lei. La seguii e lei mi fece
strada verso le scale che portavano alla terrazza sul tetto, uno volta
superato l'ultimo gradino mi condusse al divanetto che si affacciava
sul vuoto e offriva la visuale migliore sulla città colorata
dagli ultimi raggi del sole calante.
«Dov'è
il tuo telefono?», si informò dopo avermi fatto
accomodare e aver sistemato un tavolinetto basso di fronte a me, a mo'
di poggiapiedi.
«Credo
sia in camera...»
«Ottimo!
Prometto di fare in fretta, nel frattempo pensa ad un locale carino
dove andare...», mi istruì lasciandomi un bacio al
volo all'angolo della mandibola e sparendo giù dalle scale.
Sospirai
e allungai le gambe di fronte a me, facendo scrocchiare la schiena.
Com'era
possibile che, nonostante la giornata di pausa forzata, fossi
più stanco del solito? Probabilmente Tiffany aveva ragione
quando mi definiva un malato di lavoro, avevo passato così
tanti anni sepolto tra le scartoffie nel mio studio da essermi scordato
come ci si rilassa, lasciando vagare per qualche ora la mente, libera
da preoccupazioni e scadenze.
Agosto
si avvicinava e con lui anche le mie settimane di ferie estive. Non
avevo scuse per lavorare in quel periodo perché erano
quattordici giorni dedicati ad Arabella. Era sempre stato
così. Noi due da soli trascorrevamo due settimane insieme,
eravamo sempre rimasti in California perché arrivava sempre
un momento, solitamente circa a metà della vacanza, in cui
Arabella iniziava a piangere disperata perché voleva sua
madre o i suoi nonni. L'attaccamento quasi viscerale che provava nei
confronti del ramo familiare materno mi aveva sempre preoccupato e
fatto sentire in colpa.
Ero
stato io ad aver negato a mia figlia la possibilità di
conoscere, frequentare ed affezionarsi ai suoi nonni paterni, a Judith,
ai miei amici e, probabilmente, a me. Ero stato io ad aver messo al
primo posto il lavoro, rinunciando ad una vita al suo fianco in favore
di uno studio legale. Avevo litigato per mesi con Tiffany quando aveva
deciso di tornare in California dopo la separazione, mettendo centinaia
di miglia tra me e Arabella.
Trasferisciti anche
tu, vieni ad abitare vicino alla tua unica figlia se davvero tieni lei. Per
Tiffany era stato relativamente facile pronunciare quelle parole: non
aveva fondato nulla, non aveva sulle spalle la
responsabilità di dieci dipendenti e delle loro famiglie.
Nonostante tutto però lei aveva preso la sua decisione e
aveva scelto la sua bambina, anche se lo aveva fatto egoisticamente,
allontanandola da me solamente perché a Boston Tiffany non
si era mai integrata. Era tornata sulla West Coast, da dove era partita
più di dieci anni prima, ci aveva fatto ritorno con una
figlia e un matrimonio fallito alle spalle, ma come se nulla fosse
aveva ripreso in mano la sua vita di prima come se tutto fosse rimasto
immutato e lei avesse ancora diciotto anni.
Viveva
in un'ampia depandance attigua alla villa dei coniugi Kennedy, guidava
una BMW dono di suo padre, cresceva Arabella e nel frattempo si
dedicava alla classica vita da moglie mantenuta di un uomo ricco.
Massaggi, golf club, corsi di yoga ayurvedica, weekend alle Hawaii,
shopping da Burberry. Lo sapevo perché l'assegno per il
mantenimento suo e di Arabella lo staccavo io ogni mese.
L'idea
di trascorrere le vacanze in Arizona mi balenò in mente
senza preavviso. Era una soluzione perfetta, come avevo fatto a non
pensarci prima? Saremmo comunque rimasti dentro i confini nazionali,
senza allontanarci troppo dalla California, e finalmente sia io che
Arabella avremmo avuto l'occasione per riavvicinarci alla mia famiglia.
Mamma sarebbe scoppiata di felicità, Judith non avrebbe
potuto nascondersi dietro la scusa palesemente falsa del troppo lavoro
e mio padre si sarebbe improvvisamente trovato alquanto impegnato nel
portare in bicicletta una nipote terribilmente esigente e amante della
velocità folle.
E
Felicity? Avrebbe potuto raggiungerci per una settimana e poi io e lei,
una volta che Arabella fosse nuovamente riconsegnata alle cure materne,
saremmo potuti partire per un viaggio. Qualcosa di esotico, oppure
semplicemente qualche giorno in territorio americano, tanta natura e
poche pretese, come sarebbe piaciuto a lei.
Ero
così immerso nei miei luminosi piani per il futuro che non
mi accorsi che il sole era ormai calato completamente e Felicity era
riapparsa avvolta in un corto abito color verde smeraldo che le
lasciava le spalle scoperte.
«Rieccomi!»,
esclamò appollaiandosi accanto a me, leggermente in bilico.
La
acciuffai per la vita e la trascinai più vicino a me,
dopodiché lanciai la proposta prima di cambiare idea.
«Cosa diresti se ti invitassi dai miei in Arizona
quest'estate? Ci saranno anche Arabella e Judith, sarà una
cosa in famiglia...»
Quest'ultima
parola rimase sospesa tra di noi, portatrice di centinaia di non detti
e sottintesi.
Famiglia,
termine estremamente malleabile e ampio che può prestarsi ad
abbracciare ed includere le personalità più
disparate, unite da autentico affetto ma sprovviste di legame di
sangue, o distanti e in lite seppure portatori di radici ed origini
comuni. Cosa era più importante? Cosa era fondamentale per
definire qualcuno 'di famiglia'?
Felicity
rispose a tutte le mie domande inespresse semplicemente annuendo con
gli occhi grandi e lucidi: «Mi piacerebbe
moltissimo...»
|
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Capitolo 21 *** Glicine ***
Felicity
La
parte più complicata del mio piano per le ferie estive si
era rivelata, ovviamente, mia madre. A nulla era servito ripeterle
mille volte che era troppo tardi per tirarmi indietro dall'impegno
preso con la famiglia di Liam, che si era così gentilmente
offerta di ospitarmi per una settimana nella loro casa in Arizona.
Così come non si era rivelato di alcuna utilità
il tentativo di spiegarle che nessuno mi aveva costretto ad accettare o
ricattato, ma semplicemente ero io a volerci andare.
Nella
sua mente di mamma eccessivamente possessiva le mie due settimane di
vacanze ad agosto le spettavano di diritto per il semplice fatto che le
avevo sempre trascorse in Florida con lei, e il vedersi diminuire il
numero di giorni da passare con me le risultava come un terribile furto
da parte di persone estranee non autorizzate.
Ero
riuscita a sfuggirle e ad imbarcarmi in tempo solo dopo essere stata
costretta a prometterle su tutto ciò che cresceva nel mio
giardino che a settembre avremmo trovato un modo per recuperare il
tempo che avrei 'sprecato nel tentativo di ingraziarmi la famiglia del
mio boyfriend', parole di Grace Van Houten.
La
questione bagagli si era rivelata altrettanto ostica. Avevo deciso
ancora a fine luglio che sarei andata in Arizona partendo direttamente
dalla Florida, senza fare ritorno a Boston e a casa mia. Questo voleva
dire che i vestiti che mi ero portata a Tampa erano gli stessi con cui
mi sarei presentata ai coniugi Carter Wright. Erano trascorsi
esattamente tre minuti dal mio atterraggio quando mia mamma lo aveva
scoperto e da lì si erano susseguite estenuanti giornate di
lotte e pellegrinaggi per negozi. Alla fine, stanca di battibeccare, le
avevo concesso carta bianca e così ora mi ritrovavo con due
trolley: il mio originale e uno confezionato per l'occasione dalla mia
genitrice.
Non
appena il personale di bordo ci comunicò il permesso di
togliere la modalità aereo tornai online e scrissi
velocemente a Liam, informandolo del mio imminente sbarco.
Aspettai
pazientemente in coda che i passeggeri confluissero verso l'uscita e il
vecchio bus che attendeva sulla pista d'atterraggio e quando, una
decina di minuti più tardi, ci depositarono davanti
all'ingresso dedicato agli arrivi nazionali mi incamminai spedita verso
il punto di ritiro dei bagagli.
Liam
mi aveva risposto quasi immediatamente rassicurandomi di essere
già in pole position, pronto a requisirmi per più
di dieci giorni dalle attenzioni di Mamma Van Houten.
I
miei compagni di volo si accalcarono attorno a me mentre pigramente il
nastro trasportatore si metteva in movimento e le valige iniziavano a
scorrere davanti a noi.
Adocchiai
quasi subito il trolley scelto da mia madre, di pelle color tortora
svettava contro il nero del nastro trasportatore, quasi in segno di
sfida. Nessuno avrebbe mai scelto un colore così chiaro per
una valigia destinata ad essere trascinata, scaraventata, sballottata,
buttata per terra, trasportata in tutto il mondo. Nessuno tranne Grace.
Mano
a mano che le persone recuperavano i propri bagagli sparivano dietro le
ampie porte scorrevoli, lasciandosi alle spalle sempre le solite sette
valige che ripetevano il giro senza sosta e la sottoscritta ancora in
attesa.
Un
quarto d'ora più tardi compresi che qualcosa doveva essere
andato storto nel trasporto del mio adorato vecchio trolley blu.
Masticando parole arrabbiate tra i denti, agguantai l'unico bagaglio
superstite e mi diressi trascinando i piedi in direzione dell'ufficio
oggetti smarriti.
Mentre
aspettavo che un impiegato incompetente rintracciasse il modulo
necessario e si mettesse in contatto con un addetto della compagnia
aerea, ne approfittai per fare un colpo di telefono a quel pover'uomo
che mi attendeva da quasi mezz'ora davanti a delle poco interessanti
porte scorrevoli.
«Posso
raggiungerti o dici che mi bloccheranno prima?», mi
domandò quasi subito.
Girai
la domanda al ragazzo di fronte a me, che aveva ancora l'orecchio
appoggiato ad una cornetta che emetteva le note dell'Inno alla Gioia di
Beethoven a tutto volume.
«Qui
andrà per le lunghe, sono ancora in attesa e dobbiamo anche
telefonare per il risarcimento e provare a sentire l'aeroporto di
Tampa. Dica a suo marito di passare dalla dogana posta vicini agli
arrivi e chieda ad uno dei poliziotti in servizio di fare un colpo di
telefono all'interno 019...Oh, salve! La chiamo dall'ufficio oggetti
smarriti numero 3, sì...Owen? Ma dai, sono Cal!»
Lo
lasciai al suo lavoro e tornai alla mia telefonata riferendo a Liam le
istruzioni che avevo appena ricevuto.
Dieci
minuti più tardi, Cal l'impiegato ancora intento a blaterare
al telefono, e mentre stavo firmando la ventesima copia del medesimo
documento in cui avevo descritto il mio bagaglio, il suo contenuto, il
viaggio aereo che avevo compiuto e le dinamiche pre- e post-imbarco, la
porta dell'angusto ufficio si aprì e Liam fece il suo
ingresso.
Potrei
mentire, o meglio, omettere il fatto che la sua sola vista
bastò a calmare i miei nervi a fior di pelle e a
rassicurarmi che tutto si sarebbe risolto per il meglio, ma come sapete
non sono in grado di celare nulla e il mio viso mi avrebbe smascherato
quasi subito.
Probabilmente
era tutto dovuto al mio modo di approcciarmi sempre informale, allegro
e forse troppo naïf o dal mio aspetto troppo giovanile, che mi
faceva apparire come una ragazzina ingenua e un po' sbadata, una preda
facile da raggirare. Mi era capitato decine di volte di essere trattata
con meno riguardo e più disattenzione, situazione che ero
quasi certa non fosse capitata mai a Liam. Aveva mosso a malapena un
paio di passi nella stanza e già Cal l'impiegato sembrava
più efficiente, continuava a sorridere e cercava di fare la
voce cattiva al telefono, quando fino a due secondi prima l'unica cosa
che si udiva era la voce arrabbiata che gli stava facendo una lavata di
capo dall'altro lato della cornetta.
Liam
mi raggiunse, mi avvolse un braccio attorno alla vita e si
chinò a lasciarmi un bacio all'angolo della bocca. Era
sempre riservato in pubblico ed evitava le esplicite manifestazioni di
affetto in presenza di altre persone, non me lo aveva mai confessato ma
ormai era diventato un fatto evidente e io apprezzavo la sua
discrezione.
«Ciao»,
sussurrai sorridendogli.
Venire
in Arizona era davvero stata un'idea meravigliosa, certo forse era
prematuro conoscere i suoi genitori e addirittura piombargli in casa
per una settimana, ma quando avevo proposto di prendere una camera in
un b&b nelle vicinanze Judith era intervenuta sdegnata
affermando che lei e la sua famiglia non me lo avrebbero mai e poi mai
permesso.
«Ciao,
com'è andato il volo, valigia smarrita a parte?»,
si informò appoggiando gli avambracci sul bancone di fronte
a noi e voltandosi a guardarmi.
«Abbastanza
bene, ho dormito per quasi tutto il viaggio e ho rischiato di perdermi
il servizio del pranzo...», borbottai contrariata.
Avevo
quasi litigato con una hostess quando mi ero svegliata e mi ero accorta
dei vassoi vuoti sui tavolini dei miei vicini di posto
perché quella si rifiutava di servirmi il pranzo a mezz'ora
dall'atterraggio. E quello era stato l'ennesimo caso in cui
le persone, dopo avermi lanciato un'occhiata superficiale, avevano
deciso di non ascoltare le mie legittime e gentili richieste di cliente
sperando di approfittare del mio aspetto biondo e svampito. Alla fine,
sconfinando quasi in una prepotenza a me del tutto estranea, ero
riuscita ad ottenere il pasto che mi spettava, ma non me ne ero goduta
neanche un boccone. Si fosse trattato di Liam probabilmente avrebbero
stappato champagne e preparato ostriche fuori menù per lui,
senza osare fare tutte le storie che erano state fatte con me. E il
fatto che si trattasse di una donna del personale di bordo non
c'entrava nulla, persino uno steward avrebbe mostrato molto
più rispetto e sollecitudine nei confronti di Liam che della
sottoscritta.
«Oh
no, quella sì che sarebbe stata una vera
tragedia!», mi prese in giro lui, beccandosi in tutta
risposta una mia gomitata nelle costole.«Il cibo sugli aerei
lascia sempre a desiderare...»
«Lo
so, ma non per questo avrei rinunciato al mio plumcake avvolto nella
carta azzurra con le nuvolette!», ribattei indignata.
«Hai
ragione, fai sempre valere i tuoi diritti, sempre»,
ridacchiò Liam continuando a prendersi gioco di me.
«La
sua valigia presumibilmente si trova in Québec»,
annunciò placidamente Cal l'impiegato riagganciando il
telefono.
«In
Québec?! Ma se io sono partita da Tampa! Com'è
potuto accadere?», strillai disperata.
Quella
valigia mi serviva, avrei potuto smarrire il bagaglio preparato da mia
madre e non me ne sarebbe importato nulla, ma in quel vecchio trolley
blu conservavo tutto il necessario, accuratamente selezionato, per
apparire al mio meglio davanti alla famiglia Carter Wright e
successivamente al fianco di Liam, dovunque avesse deciso di portarmi.
«In
effetti nessuno riesce a spiegarselo...forse c'era un altro passeggero
diretto in Canada che si chiamava Van Houten o forse si è
trattata di semplice confusione...succede incredibilmente spesso,
sa?»
Liam
mi afferrò la mano e me la strinse, prima di rivolgersi a
Cal: «Quanto ci vorrà per farselo recapitare a
domicilio?»
«Solitamente
dai tre ai quattro giorni, ma in questo caso dobbiamo prima verificare
che il bagaglio ritrovato a Montréal sia effettivamente
quello della signorina. In caso affermativo appena riceviamo il via
libera possiamo spedirlo, in caso negativo dobbiamo riprendere le
ricerche. Nel frattempo potete compilare questi cinque moduli con tutti
i dati relativi al recapito e all'indirizzo di spedizione a cui fare
riferimento...»
«Scriviamo
l'indirizzo dei tuoi genitori?», domandai a Liam.
Lui
parve pensarci, «Ci fermiamo qui solo una settimana, potrebbe
arrivare quando noi siamo già ripartiti...»
Ottima
osservazione. «Lo faccio arrivare direttamente a
Plymouth?»
Lui
scosse la testa. «Chi lo ritirerebbe se tu non fossi ancora
tornata?»
«Dai
miei a Tampa?», chiesi con una nota di panico nella voce.
Mi
sorrise e si voltò iniziando a scribacchiare al posto mio
sui moduli. Mi avvicinai e spiai come riempisse in modo veloce e
preciso con la sua grafia elegante tutti gli spazi tratteggiati,
snocciolando tutti i miei dati personali e concludendo inserendo
l'indirizzo del suo attico a Boston.
«Ti
sei scordata della soluzione più semplice,
manderò un'email per avvertire la portineria e quando
torneremo a casa la tua valigia sarà lì ad
aspettarti vedrai», mi spiegò finendo di ricopiare
i dati sul terzo foglio.
Presa
dal panico generato dalla situazione spiacevole ed inattesa che si era
venuta a creare mi ero dimenticata del fatto di aver praticamente
iniziato a vivere con Liam nel suo attico, scordarsene era senza dubbio
un ottimo inizio per una convivenza.
Mezz'ora
più tardi stavamo sfrecciando in direzione di Sedona a bordo
di una Hyundai che immaginai appartenere ai genitori di Liam. Il
viaggio sarebbe durato circa due ore, ne ero sicura dal momento che
avevo controllato con attenzione su Google Maps non immaginando che
Liam si sarebbe fatto tutta quella strada solo per venirmi a recuperare
all'aeroporto di Phoenix quando potevo benissimo prendere un autobus e
non disturbare nessuno. Alla fine gliela avevo data vinta, sapendo che
si sarebbe presentato davanti alla porta degli Arrivi in ogni caso,
quando uno nasce con il gene del cavaliere dall'armatura scintillante
è difficile per lui comprendere che volendo la principessa
avrebbe potuto salvarsi da sola. Dopotutto oggigiorno i corsi di free
climbing e le palestre con le pareti per l'arrampicata indoor erano
presi d'assalto da fanciulle di tutte le età, quindi volendo
ora Raperonzolo potrebbe benissimo infilarsi un paio di scarpette
adatte fattasi recapitare dal corriere di Amazon e scendere dalla sua
torre senza nessun aiuto esterno. Un po' mi dispiaceva per i principi
azzurri, ma dopotutto i tempi cambiano com'è giusto che sia.
«Hai
dei consigli da darmi prima del nostro arrivo?», domandai
combattendo l'impulso di sfilarmi le leggere scarpe di tela che
indossavo e accoccolarmi in modo più comodo sul sedile.
«Che
genere di consigli intendi?»
Gli
lanciai un'occhiata con la coda dell'occhio e vidi il sorrisetto
divertito che gli stirava le labbra. Dopo essere sopravvissuto alla mia
famiglia ora lui era autorizzato a rilassarsi e a mangiare popcorn
mentre si gustava lo spettacolo della sottoscritta in preda all'ansia
di non piacere o di fare un'impressione sbagliata. Stronzo.
«Le
solite cose: avvertimenti, cose da non fare o non dire, domande od
argomenti taboo. Cose così...», riprovai, ben
sapendo che aveva capito già da prima cosa intendessi.
«La
mia è una famiglia semplice, abbastanza tradizionale e molto
unita. Sono cresciuto, come già sai, nella casa dove i miei
genitori abitano tuttora, sebbene una volta non fosse
così...ben tenuta. I miei nonni sono morti entrambi una
decina d'anni fa, Judith è partita ai tempi del college e
non è più tornata a vivere a Sedona e
così sono rimasti solo Mamma e Papà. Credo che
per piacergli ti basti poco; per prima cosa sei completamente diversa
da Tiffany e già questo ti farà guadagnare
infiniti punti ai loro occhi, poi non accennare mai a mia madre di
menopausa e affini e non nominare mai e poi mai il nome di Bush in
presenza di mio padre, vorremmo evitare avesse un nuovo infarto. Questo
credo sia tutto»
Ok,
ce la potevo fare. No Tiffany, no menopausa, no Bush. Certamente il
fatto di conoscere Tiffany solo per sentito dire, grazie ai mille
racconti di terze persone, non mi aiutava, ma avrei fatto del mio
meglio per comportarmi al meglio. In fondo la presenza di Judy e
Arabella avrebbe disteso l'atmosfera.
«Credi
che gli piacerò?», l'ultima cosa che desideravo
era suonare petulante, ma sentivo una spiacevole ombra di panico
strisciare verso di me.
«È
così importante per te? Perché per me non lo
è, piaci tantissimo a me e questo è
l'importante»
Mi
concessi un attimo per sciogliermi internamente alle sue parole prima
di tornare focalizzata sul vero problema. «Anche tu
mi piaci molto, questo però non significa che tu non fossi
terrorizzato quando hai incontrato mio padre», gli ricordai
un po' perfidamente.
Liam
scosse la testa incredulo. «Stiamo parlando di due contesti
completamente differenti. Tuo padre è Montgomery Van Houten,
un'assoluta leggenda nel mio campo professionale e mio personale mito
fin da quando ero un ragazzino di provincia con il sogno di scappare e
sbarcare il lunario. Rispetto moltissimo mio padre, un uomo onesto e
grande lavoratore, ma stiamo parlando di due situazioni
diverse...»
«E
invece io ti dico che la situazione è la stessa! A meno che
- ovviamente - per te non fosse più importante incontrare
l'Avvocato Van Houten rispetto al vecchio Monty, padre della tua
ragazza!»,affermai leggermente stizzita.
Detestavo
ogni volta che faceva implicitamente riferimento alle differenze,
puramente economiche, che aveva caratterizzato la nostra infanzia. Ero
una privilegiata, va bene, ma chi poteva farmene una colpa? E a ben
guardare le nostre vite attuali Liam era quello che si era riscattato e
stava vivendo a pieno il sogno americano, mentre a me cascava in testa
il tetto della mia vecchia casa e ogni mese speravo di ricevere
abbastanza commissioni da riuscirci a pagare le tasse.
Liam
mollò la presa sul volante e mi posò la mano
destra sulla coscia, abbassai lo sguardo e osservai in silenzio le sue
dite sopra al jeans blu chiaro dei miei pantaloni. «Felicity,
credimi se ti dico che non hai nessun bisogno di preoccuparti. Ti
adoreranno, sia per come sei tu, sia per quanto mi rendi felice. E ti
chiedo scusa se ti ho fatto avvilire, non sono per niente bravo ad
esprimermi al di fuori di un'aula di tribunale. Ero teso all'idea di
conoscere la tua famiglia, ma quando ho scoperto chi fosse la tua famiglia ho
rischiato di tagliare la corda e fuggire a gambe levate. Avevo paura di
non essere abbastanza per la loro preziosa secondogenita, e ancora lo
temo a volte...»
«Talmente
preziosa che mia madre ha avvistato il tuo anulare sprovvisto di fede
ancora prima di averti stretto la mano per fare le presentazioni e ha
subito iniziato a lanciarti frecciatine affinché ti
prendessi in groppa quella piaga inconcludente della sua
secondogenita...», borbottai ancora scoraggiata.
Liam
stava guidando nel suo solito modo pazzo da Formula1 e così
facendo in poco più di tre quarti d'ora saremmo arrivati e
io non ero ancora pronta.
«Ti
posso assicurare di essere stato sottoposto ad un attento e minuzioso
esame nel quale tua madre ha analizzato il livello di pulizia delle mie
mani, delle mie unghie, del mio vestiario e della mia persona in
generale. È stato piuttosto imbarazzante, a voler essere
sincero, ma sono sopravvissuto abbastanza a lungo da conquistarti. Tu
parti avvantaggiata su tutti i fronti: lavori, e per di più
la tua professione manderà in brodo di giuggiole mia madre,
sai cucinare, sei in grado di prenderti cura di te stessa, sei buona e
generosa, molto brava e paziente con i bambini e con il sottoscritto,
hai una doppia laurea, una casa tua e una buona famiglia alle spalle,
tralasciando ehm...Zoe. Credimi, hai tutte le carte in regole per
piacergli...»
Posai
la mia mano sopra la sua e la strinsi sospirando.
«Bé, il risultato dell'esame è stato
eccellente perché Papà ha una stima
così elevata del tuo percorso lavorativo che vorrebbe solo
che tu mi sposassi per poi lasciarti tutti i suoi studi legali,
realizzando così il suo sogno di sempre di lasciare la sua
creatura nelle mani di qualcuno di famiglia. Poi Mamma è
letteralmente impazzita quando le ho raccontato di Inés, sai
non si fida molto degli uomini single che vivono da soli, soprattutto
se non hanno accanto una mammina o una fidanzata che li tiene d'occhio
e si assicura che si lavino le mani prima di cena e facciano il
bagnetto tutte le sere. Inés è una garanzia,
oddio poi non so se ti fa davvero il bagnetto, ma Madre era tutta
esaltata e non ho osato instillare in lei questo dubbio»,
ridacchiai tra me e me immaginandomi Liam immerso in una vasca ricolma
di acqua profumata e vaporosa schiuma nella quale galleggiavano
paperelle di gomma gialla, con Inés armata di spazzolone e
cuffietta a fiori per proteggere la sua pettinatura
dall'umidità, intenta a gettargli vigorosamente la schiena.
«Quanto
sei scema», mi rimproverò sorridendo sotto i baffi.
«Ecco,
magari questo non diciamolo ai tuoi genitori...»
«Ok,
però tu non devi rivelargli dei miei bagnetti con
Inés...»
«Affare
fatto!», esclamai ridendo e stringendogli la mano.
«Ah, ecco una cosa che volevo domandarti: cosa faranno
quest'estate Mildred e Matthew? Ho ricevuto una strana email una
settimana fa circa che praticamente consisteva solo in una sfilza di
lettere a caso...»
Liam
si liberò dalla mia presa per allungare il braccio alle
nostre spalle e cercare qualcosa nel retro. «Credo che
Gabriel abbia imparato come sbloccare il telefono di sua madre. Sono
partiti tre giorni fa e - Dove accidenti sono finiti?»,
sbottò all'improvviso continuando a rovistare pur mantenendo
d'occhio la strada assolata che scorreva davanti a noi.
«Posso
aiutarti? Arrivata a questo punto, con tutto questo carico di stress,
tanto vale che li conosca i tuoi genitori invece di finire in un dirupo
in pasto ai coyote, no? Fai fare a me...», mi slacciai la
cintura e mi inginocchiai sul sedile dando le spalle al parabrezza.
«Guarda
nella tasca anteriore dello zaino, per favore. Dovrebbe esserci un
astuccio con dentro i miei occhiali da sole», mi
istruì.
«Da
quando vai in giro con uno zaino?», mi informai mentre facevo
scorrere la zip che lui con una mano sola era riuscito ad aprire solo
di pochi centimetri.
«L'Arizona
sta già facendo effetto, tempo una settimana e
smetterò di farmi la doccia e la barba e inizierò
ad andare a caccia, a vestirmi di pelli e a nutrirmi di
cavallette», borbottò lui.
Lo
ritenevo altamente improbabile, ma evitai di commentare. Non avevo
ancora avuto occasione di mettere piede all'esterno dato che Liam aveva
parcheggiato in un posteggio custodito nelle profondità
della Terra, ma la sola vista del sole che batteva su una distesa di
sabbia che sembrava non finire mai mi faceva sudare nonostante l'aria
condizionata che rendeva vivibile l'abitacolo della macchina.
Quando
mi era spuntato alle spalle, nel maledetto ufficio oggetti scomparsi,
non era né sudato, né impolverato, né
accaldato o dall'aspetto affaticato. No, portava con la sua solita
disinvoltura un paio di pantaloni leggeri color beige e una polo bianca
dal colletto immacolato. L'aeroporto pullulava di gente che ciabattava
sulle scale mobili e mostrava l'ombelico al mondo intero, ma nemmeno il
clima rovente dell'Arizona pareva in grado di scompigliare l'aplomb di
Liam.
Nel
frattempo riuscii ad individuare il mio obiettivo e sfilai dallo zaino
l'astuccio in pelle nera e lo aprii, porgendogli un paio di occhiali da
sole che non gli avevo mai visto indossare.
«Arabella
ha calpestato i miei Persol giusto l'altro ieri», mi
spiegò infilandoseli, dando una risposta alla mia evidente
espressione curiosa.
«E
ovviamente tu ne avevi un paio di scorta in valigia»,
sospirai sconfitta dalla sua perfezione.
Io
ero la classica persona che parte per i Tropici dimenticandosi a casa
crema solare e costume da bagno, o per la montagna sprovvista di
scarponcini da trekking e giacca a vento.
«Sì,
ed è l'ultimo quindi devo continuamente tenere d'occhio i
piedi di mia figlia. I miei genitori si sono fatti prendere
dall'euforia di averla qui e ormai le permettono qualsiasi cosa.
L'altro giorno l'ho trovata intenta a disegnare una farfalla sulla
parete in garage con mia madre che la incitava e le ripeteva quanto
fosse portata per il disegno. I miei occhiali erano posati sul lettino
in giardino, ma ormai Arabella ha ottenuto il permesso di camminare su
tavoli, saltellare di sedia in sedia e salire con le scarpe su divano e
letto e nessuno riuscirà più a fermarla. Tiffany
mi scriverà una mail di dodici pagine di lamentele quando la
riavrà con sé e si accorgerà di quanto
selvatica l'abbia resa l'Arizona», inserì la
freccia sinistra e ruotò il volante imboccando l'uscita per
Sedona, indicata da un grande cartellone verde.
«Una
piccola cowgirl, sono contenta di rivederla. Quanto manca?»
Se
eravamo quasi a Sedona il nostro viaggio stava per giungere al termine
e non ero sicura di poter affrontare le presentazioni con una nuova
famiglia senza sapere con precisione quanti minuti mi separavano dal
grande momento. Non serviva a nulla ma mi aveva sempre aiutato sapere
che mancavano quarantasette ore, tredici ore, mezz'ora, quattro minuti
ad un esame.
«Una
decina di minuti e ci siamo, se ti serve qualcosa più tardi
ti accompagno al supermercato, ma ora è meglio evitare di
temporeggiare perché è da quasi un'ora che il mio
telefono vibra incessantemente nella mia tasca e sono piuttosto sicuro
si tratti di Judy»
«Si
fermerà anche lei per tutta la settimana, vero?»,
domandai speranzosa.
Liam
ridacchiò frenando ad una rotatoria per dare la precedenza
ad un pullmann targato Maryland carico di turisti.
«Sì, già lo sai, ma questo non ti
sarà di nessun aiuto...»
«Al
massimo posso sempre tagliare la corda e fuggire confondendomi tra una
comitiva di anziani provenienti dal North Carolina o farmi caricare da
qualche studente sbandato impegnato in un roadtrip alcolico»
«Ottima
idea! Io voto per il roadtrip alcolico, senza dubbio più
divertente che un autobus di dentiere e apparecchi acustici»
«Tu
ovviamente non saresti invitato», precisai con voce
volutamente antipatica.
«Scapperesti
davvero da delle persone così adorabili?», mi
domandò con tono di sfida.
Mi
ero perso gli ultimi incroci e dopo aver svoltato in
un'infinità di stradine tutte uguale mi accorsi che Liam
stava rallentando.
Alzai
lo sguardo e vidi le persone adorabili schierate davanti al cancello di
una graziosa casa a due piani. Parevano la servitù in
ghingheri che accoglieva gli ospiti a Downton Abbey, con la piccola
differenza che quando intravisto il muso della Hyundai abbandonarono le
loro posizioni e iniziarono a saltellare, sbracciarsi e battere le mani.
Ok,
non avevo scampo.
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Capitolo 22 *** Cactus Saguaro ***
Liam
Il
caldo non mi dava tregua così come Felicity che da due
giorni si aggirava per la casa vestita solo di corti prendisole
semitrasparenti, gentile dono di sua madre. Dal nostro arrivo erano
già trascorse già 48 ore, ore in cui Felicity era
stata rapita dalla mia famiglia in un turbinio di abbracci,
presentazioni, gite organizzate all'ultimo momento, capricci di
Arabella che pretendeva di averla per sé ininterrottamente,
lunghi banchetti che iniziavano con la merenda e si concludevano
direttamente dopo cena.
Appena
arrivati si era scatenato il caos. Mia madre aveva, ovviamente, pianto.
Dopodiché aveva abbracciato e baciato Felicity e per non
farsi mancare niente aveva riservato il medesimo trattamento anche a
me, nonostante ci fossimo salutati tre ore prima. Credo che la sola
vista di Felicity sia bastata a tranquillizzarla, è stato
sufficiente un suo sorriso spontaneo e felice, il suo viso gentile e
struccato e i suoi modi educati e semplici per farla entrare in pochi
secondi nella lista delle persone preferite di mia mamma. Mio padre
invece è stato più contenuto e si è
limitato a stringerle la mano e a darle il benvenuto a casa sua. Judith
l'ha quasi soffocata con la sua foga e il suo affetto incontrollabile,
il tutto mentre Arabella strillava come una sirena ai suoi piedi per
attirare la nostra attenzione. Quando l'avevo presa in braccio e le
avevo domandato quale fosse il problema, mia figlia aveva semplicemente
detto «È il mio turno!», con il
suo solito tono da principessina sul pisello. Felicity se n'era accorta
subito e, liberatasi dalla presa mortale di mia sorella, mi aveva
sfilato dalle braccia Arabella e se l'era stretta al petto iniziando a
bisbigliarle qualcosa nell'orecchio.
Mia
mamma aveva deciso che Judith avrebbe condiviso la nostra vecchia
stanza con Arabella, che al settimo cielo aveva trascorso le notti
dell'ultima settimana abbarbicata alla sua adorata zietta, la quale in
silenzio e in un lago di sudore sopportava stoicamente quelle lunghe
notti con l'onnipresente nipote ostinata ad ignorare il lettino
appositamente preparato per lei. Felicity era stata sistemata nella
camera che fu dei miei nonni e che era stata recentemente rifatta
completamente, con un nuovo ampio letto matrimoniale a sostituire i
vecchi mezzi letti in cui dormivano i miei nonni. Sono stati insieme
per più di sessant'anni e hanno sempre sostenuto che il
segreto stava nel dormire in due letti separati. Hanno avuto cinque
figli e sono sempre andati d'amore e d'accordo quindi immagino
sapessero quello che facevano.
Io,
con mia grande sorpresa, ero stato confinato nel divano-letto in
taverna. Avevo protestato a gran voce, con Felicity che mi lanciava
delle occhiatacce da dietro la testa di mia madre, ma quest'ultima era
stata irremovibile. «Sarò retrograda e poco
moderna, ma questa è casa mia e finché non sarete
sposati non condividerete un letto sotto il mio tetto», aveva
decretato e così mi ero dovuto arrendere.
Avevo
provato per tutte e due le ultime sere a sgattaiolare in punta di piedi
al piano di sopra, ma la prima notte avevo incontrato mio padre sulle
scale e con un'occhiata di ammonimento mi aveva rispedito nelle
profondità del sottosuolo, mentre ieri sera ero riuscito ad
arrivare fino alla soglia della stanza e avevo trovato la porta
spalancata e Felicity addormentata con Arabella aggrappata alla sua
schiena. Non c'era verso di trovare un attimo per stare solo con
Felicity o anche solo scambiare due parole con lei senza che un altro
paio di orecchie fosse in ascolto.
Ieri
avevo proposto di portarla a fare un giro nei punti dove si fermano
tutti i turisti che fanno il tour dei parchi nazionali, l'idea era
stata accolta con così tanto entusiasmo che mi ero ritrovato
alla guida della Hyundai carica di vettovaglie, Judith, Arabella,
nostra cugina Gabrielle e Felicity, con la vecchia Toyota di Zio Hugh
che ci seguiva trasportando gli zii, mamma, papà e un paio
di cugini. Era stata una bella giornata: calda, caotica e decisamente
troppo affollata.
Allungai
un braccio verso il pavimento dove, in mancanza di un comodino, avevo
posato il libro che stavo leggendo e l'orologio che mi sfilavo ogni
sera prima di dormire. Erano da poco passate le 23, in casa Carter
Wright si andava a dormire ridicolmente presto e anche su questo punto
non si poteva discutere. Casa mia, regole mie: solita legge tirannica
di mia mamma. Non avevo sonno, non avevo voglia di leggere un altro
po', ma di salire le due rampe di scale che mi separavano dal primo
piano e infilarmi nel letto di Felicity. In verità mi sarei
accontentato di sedermi sulla poltrona che stava ai piedi del letto e
sentirla parlare. Mi stavo rendendo conto di essere tremendamente
possessivo, caratteristica che non mi era mai appartenuta.
Probabilmente il fatto che la nostra storia fosse nata in un luogo dove
entrambi vivevamo soli, lontano da famiglie e distrazioni, ci aveva
portato a concentrarci troppo su noi due soli, rinchiusi in una bolla
impenetrabile, che però ora era scoppiata e aveva permesso a
troppe persone di entrare.
Sentii
un leggero cigolio, ma non ci feci caso. Ristrutturazione o no, questa
casa aveva davvero tanti anni e i rumori insoliti erano all'ordine del
giorno. Udii un altro fruscio e mi sollevai puntellandomi sui gomiti.
«Felicity!»,
esclamai metà sorpreso di trovarla a piedi nudi in taverna e
metà scandalizzato dal fatto che avrebbe potuto incontrare i
miei genitori vestita solo con quella sottoveste blu scuro ridicolmente
corta e succinta, e così poco da Felicity, in cui era
inguainata.
Mi
fece cenno di abbassare la voce mentre zampettava verso il letto e
sollevava le lenzuola per infilarsi sotto. Mi spinse di lato e si
sdraiò, subito ruotando nella mia direzione e guardandomi
con un sorriso sornione.
«Per
fortuna l'Arizona è uno stato caldo perché
vestita così non so proprio se-»
«Già,
è proprio una fortuna», mi mise a tacere lei
sollevandosi ad incontrare le mie labbra.
Fu
davvero una fortuna il fatto che fosse così poco vestita.
***
«Puoi
prestarmi una delle tue magliette per dormire?», mi
domandò più tardi nascondendo uno sbadiglio
dietro il palmo della mano.
«Mi
piace la tua sottoveste», protestai abbassando una delle
sottili spalline di raso blu che si era appena infilata.
«La
prossima volta che passi da Tampa puoi andare a comprartene un paio in
compagnia di Madre. Ora, la mia maglietta?»
«Nella
metà sinistra della valigia. Fai attenzione a non mettere
tutto in disordine», la ammonii.
Mi
morsi la lingua quasi subito, ma ormai avevo parlato facendo la figura
del perfezionista con la mania dell'ordine. La osservai alzarsi dal
letto e zampettare in direzione della bassa cassapanca su cui avevo
posato il mio trolley aperto.
«Tu
hai dei seri problemi, lascia che te lo dica. Hai davvero ordinato i
calzini per ordine cromatico? E questi cosa sono? Boxer?! Li hai
piegati e riposti uno per uno dentro a quei sacchetti?»
Mi
affrettai ad alzarmi e a raggiungerla. Allungai una mano e agguantai la
prima maglia a maniche corte che trovai e gliela passai, afferrandola
poi per le spalle e guidandola lontana dal mio bagaglio accuratamente
sistemato seguendo le attente istruzioni di un monaco giapponese.
«Non
ho intenzione di lasciar cadere il discorso...», mi prese in
giro Felicity mentre si cambiava.
Mi
rituffai tra le lenzuola e allungai le gambe, aspettando che avesse
finito.
«E
io non ho intenzione di approfondirlo», tentai di chiudere
l'argomento.
Con
uno sbuffo si accasciò sul materasso e si sistemò
un cuscino dietro spalle. «Io posso accettare che tu metta in
ordine di colore i miei abiti e che li ripieghi con l'ausilio di
squadre e righello, se tu accetti che io non farò lo stesso
per te», mi propose serialmente convinta della sua
vantaggiosa offerta.
«Wow,
come faccio a rifiutare una proposta così allettante? Una
proposta che prevede che il caos assoluto nel mio armadio
perché io sarò troppo impegnato a far fronte al
tuo disordine, ore extra da pagare a Inés, un mio
esaurimento nervoso e il fallimento della nostra prova di
convivenza», la rimbeccai sarcastico.
Felicity
ridacchiò e mi si girò su un fianco nella mia
direzione. «Mmh, adoro il tuo pessimismo. Così
come la tua ossessione per l'ordine e la tua totale ed assoluta
dedizione al lavoro e al senso di responsabilità. Siamo
così compatibili, praticamente anime gemelle!»
«Non
mangerai sul divano più di una volta a settimana»
Lei
ci pensò su un attimo e poi annuì. «In
tua presenza, quando sarò da sola mangerò dove
più mi aggrada, anche nella vasca da bagno volendo. Ok,
allora tu non rientrerai dall'ufficio più tardi delle otto
diciamo...almeno tre giorni su cinque?»
Mugugnai
contrariato. «E se ci fosse un'emergenza o un
contrattempo?»
Allungò
una mano e mi diede un buffetto sulla guancia. «Hai insistito
così a lungo affinché avessi anche io un telefono
cellulare: ora utilizzalo!»
«D'accordo.
Non vedremo le rispettive famiglie tutti i mesi, Arabella
esclusa»
«Assolutamente
d'accordo! Anche se non posso garantire su mia Madre: adora Boston e
adora te...», mi ricordò rammaricata.
L'idea
di visite a cadenza settimanale da parte di Grace Van Houten mi
terrorizzava leggermente, ma, nonostante fossi in vacanza, non mi ero
dimenticato della proposta di suo marito Montgomery. Gli avevo chiesto
il mese di agosto per riflettere sul da farsi, ma fino ad ora erano
passate quasi due settimane e io non avevo dedicato neanche un pensiero
superficiale alla questione. Arabella era sempre euforica ed
iperattiva, occupava le mie giornate e mi sfiancava da mattina a sera.
Voleva andare sull'altalena, imparare ad usare l'hula hoop, costruire
castelli altissimi con le carte, distruggerli e poi ricostruirli da
capo, andare alla piscina comunale e salire su tutti gli scivoli
d'acqua mai inventati, cucinare con sua nonna, fare le battaglie con i
cuscini e mangiare ottantatré ghiaccioli rossi al giorno
lasciando dietro di sé scie appiccicose di acqua zuccherata
e macchiando qualsiasi cosa. Tenere il suo passo era un lavoro a tempo
pieno, e da quando era arrivata Felicity faticavo anche a trovare pace
nelle ore notturne.
«Ti
sforzerai di non estraniarti dalla realtà perdendoti nei
tuoi pensieri ogni volta che saremo nel bel mezzo di una
discussione...», intervenne Felicity stringendomi
delicatamente una mano per richiamare la mia attenzione.
Abbassai
lo sguardo e incontrai i suoi occhi nella penombra, mi sorrideva timida
e leggermente perplessa.
«Perdonami...»,
sussurrai riscuotendomi.
Sentii
le lenzuola frusciare e la sua pelle bollente aderire contro le mie
gambe. «A cosa stavi pensando? Avevi la fronte tutta
aggrottata...», mi domandò facendo scorrere lieve
le dita sulle rughe che mi si formavano appena sopra la radice del naso
ogni volta che mi concentravo senza successo su qualcosa.
Le
avevo già raccontato tutto sul colloquio che avevo avuto in
quell'assurda giornata di fuoco e lei si era limitata ad ascoltare e a
dirmi che suo padre non le aveva mai accennato nulla. Avevamo
concordato fosse giusto così, già il fatto che
fossi fidanzato con la figlia di Montgomery Van Houten avrebbe potuto
generare malelingue se avessi deciso di collaborare con lui e nessuno
di noi due voleva compromettere in partenza il fragile equilibrio vita
privata - vita professionale.
«Tu
vorresti andare a Los Angeles e lavorare a questo caso?»,
riassunse lei giorni di dubbi amletici in una semplice
domanda.
Come
sempre aveva ragione: era inutile fare mille giri pindarici e stilare
infinite liste di pro e contro. La faccenda era molto più
semplice: volevo farlo?
«Sì,
mi piacerebbe molto, sarebbe un'occasione
preziosissima»
«Ottimo,
ti sei risposto da solo», mi fece presente lei sorridendomi
contenta.
«Non
è così semplice e tu lo sai...», le
ricordai mentre il mio cervello organizzava una presentazione Power
Point con cui illustrare le mille diapositive di fallimenti e
frustrazione in cui sarei incorso andando sulla West Coast.
«Almeno
per i primi tempi mi dovrei fermare là e solo
successivamente potrei staccarmi e volare là solo in
corrispondenza di udienze ed incontri», iniziai ad elencare.
Felicity
si strinse nelle spalle. «Ok, mi mancherai tanto ma
sono abituata a vivere da sola. E poi esistono Skype e FaceTime,
troveremo un modo per sopravvivere ad una separazione
temporanea», provò a rassicurarmi.
Non
dubitavo di lei o di noi, ma ero consapevole che mettere alla prova con
una distanza di miglia e miglia una relazione relativamente nuova non
era una scelta particolarmente felice. Probabilmente lo sapeva anche
lei, ma non si sentiva in diritto di chiedermi di restare
così come io non mi sentivo autorizzato a chiederle di
mollare tutto e seguirmi.
«E
lo studio?», chiesi ansioso di ricevere le sue rassicurazioni
anche su questo punto.
«Diane
organizzerà in modo impeccabile la tua agenda anche
dall'altro capo del paese. In più Kenneth ed Eva non vedono
l'ora di avere più responsabilità e faranno un
lavoro splendido, anche con Joanne in maternità e tu
lontano. Continuerai a svolgere il tuo lavoro di sempre, solo che
dovrai delegare di più e non riuscirai a partecipare in
prima persona a tutto l'iter giudiziario dei tuoi clienti»
Anche
su questo punto trovare degli argomenti a sfavore era difficile. Avevo
messo a punto, con gli anni e una formazione di alto livello, un team
di professionisti veramente in gamba che ormai lavoravano in modo
autonomo ed ineccepibile anche senza di me. Se da un lato mi sentivo
alquanto orgoglioso, dall'altro avevo la sensazione di essere superfluo
si faceva strada e mi spronava a cercare nuove sfide da intraprendere.
E Montgomery me ne aveva offerta una di prima categoria.
«Sarai
più vicino ad Arabella, io non scapperò, il tuo
studio porterà avanti il tuo lavoro facendo sempre
riferimento a te in caso di problemi e nel giro di qualche mese tutto
tornerà come prima»
Le
afferrai il mento e la costrinsi a guardarmi negli
occhi. «Vorresti che rimanessi ma non sai come
chiedermelo?», le chiesi scrutandola attentamente.
Felicity
mi sorprese come sempre e scoppiò a ridere, gettando la
testa all'indietro e liberandosi dalla mia presa.
«Liam,
non sono quel tipo di persona. Sono assolutamente trasparente, mi si
legge tutto sul viso, anche quello che vorrei celare è
lì, un manifesto dipinto sul volto pronto per essere
decodificato da tutti. Io voglio che tu faccia ciò che
ritieni sia meglio per te, non per me. Anche se, ad essere
completamente onesta, credo proprio tu dovresti cogliere questa
opportunità. Noi sopravviveremo, il tuo studio anche, e tu
ne uscirai vincitore e noi con te», mi sussurrò
circondandomi con le sue braccia e facendomi appoggiare la testa sul
suo seno.
«Andrà
tutto bene?», le chiesi, la voce soffocata dal cotone della
mia t-shirt che stava indossando.
Lei
ridacchiò e io sentii le sue risa amplificarsi nella sua
cassa toracica e giungere gioiose ma attutite al mio orecchie posato
accanto al suo cuore. «Andrà tutto
benissimo», mi assicurò chinandosi e lasciandomi
un bacio sulla tempia.
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Capitolo 23 *** EPILOGO: Le rose sono fiorite ***
«Lily?
Dove accidenti ti sei cacciata? Lily? Dai, basta giocare a nascondino,
è quasi ora di cena e dobbiamo rientrare»
Era
da più di un quarto d'ora che Liam percorreva in lungo e in
largo l'ampio giardino non recintato che circondava la casa dei Carter
Wright. Il sole stava calando, chiaro segno che le sette di sera erano
dietro l'angolo così come i rimproveri che lo attendevano se
non avesse scovato sua figlia nel giro dei successivi trenta
secondi.
Una
risatina soffocata gli giunse alle orecchie e per un attimo
pensò di essersela sognata. Sull'orlo della disperazione
decise di seguire anche quell'ennesima traccia e si diresse verso la
serra, nonostante l'avesse già controllata e perlustrata con
attenzione per ben due volte nei precedenti venti minuti.
Una
volta aperta la porticina trasparente che introduceva all'interno,
stando attento a non farla cigolare, Liam si addentrò
nell'aria satura di umidità e dopo poco la udì
nuovamente. Una risatina infantile, leggera e cristallina.
Seguì il suono e scovò sua figlia, le piccole
manine paffute premute contro la bocca nel tentativo di smettere di
ridere, i calzoncini gialli macchiati d'erba e le ginocchia ricoperte
di graffi.
«Lily!»,
esclamò sforzandosi di sembrare autoritario e non cedere
subito e abbracciare quella creaturina dispettosa.
«Papino!»,
strillò lei in risposta.
Lily
aveva quattro anni, una testa di capelli biondissimi e due occhioni
furbi. Era assolutamente imprevedibile, adorava stare all'aria aperta e
aveva un'insana passione per fare impazzire i suoi genitori
volatilizzandosi e nascondendosi ogni due per tre.
«Cosa
ti aveva detto la mamma?», le ricordò lui
allungando le braccia e afferrandola sotto le ascelle per sollevarla
dai sacchi di terriccio su cui si era sistemata usandoli come
cuscini.
La
bambina si aggrappò al collo di suo padre e fece una smorfia
mentre pronunciava le parole che le erano state dette qualche oretta
prima. «Lily deve restare vicino, non deve sporcarsi e...Lily
non se lo ricorda più. Papi, quale era l'altra
cosa?»
Avevano
provato invano a toglierle l'abitudine di parlare di sé in
terza persona, ma fino ad ora avevano fallito tutti quelli che avevano
tentato.
«Di
tornare a casa quando il cielo iniziava a diventare arancione, che
dobbiamo farci un bel bagnetto prima della cena di stasera»,
le ricordò caricandosela sulle spalle e incamminandosi verso
casa.
Casa
che negli ultimi tredici anni era passata da vecchia fattoria
abbandonata dei nonni a villa restaurata, ampliata ed in continuo
mutamento. Le pareti esterne erano bianche, con le ante laccate di
rosso e il tetto spiovente. Ci erano voluti anni per renderla
la casa perfetta per le loro esigenze e tutt'ora c'era sempre qualche
piccolo lavoro in corso.
«C'è
Lalabella?», si informò la bambina, le manine
impegnate a scompigliare i capelli di suo padre.
«Tesoro,
reggiti bene al mio collo ché altrimenti rischio di perderti
per strada e poi la mamma mi fa andare a letto senza cena!»
«Pà!
Mi puoi portare a casa di Meg stasera? Mamma dice che posso andarci
domani o far venire qui lei, ma noi non abbiamo la tv via cavo!
Pà! Posso andare? Mi ci porti tu? Dico alla mamma che ho il
tuo permesso?», Liam venne preso alla sprovvista dall'attacco
della sua figlia undicenne con manie di grandezza.
Iris
non riusciva a rassegnarsi all'idea di non avere ancora
l'età per uscire da sola, mettersi il reggiseno imbottito,
guardare Game of Thrones e possedere un telefono cellulare. Passava le
giornate a dare il tormento ai suoi genitori perché voleva
organizzare un pigiama party tutte le settimane, perché la
sua amica Meg aveva il permesso per andare in bicicletta da sola sulla
strada e lei no, perché non voleva più
condividere la stanza con sua sorella Lily quando quel - sue testuali
parole che ogni volta le facevano guadagnare una ramanzina - decerebrato di
suo fratello aveva tutta la mansarda per sé e le sue
orribili creature.
Purtroppo
Liam era abbastanza onesto da ammettere che Iris era la figlia che gli
assomigliava di più con la sua ambizione, il suo aspirare
sempre a qualcosa di più e il suo non darsi mai pace fino ad
obiettivo raggiunto. Vedeva la placidità di suo figlio Louis
e lo invidiava, lui con la sua calma, il suo buon carattere e il suo
prestarsi sempre di buon grado alle torture delle sue sorelle femmine.
«Mammina!
Ecco, Lily è tornata!», strillò la
più piccola dritta nel timpano di suo padre.
Quel
giorno Felicity compiva quarant'anni, aveva i fianchi leggermente
più morbidi rispetto a tredici anni e tre gravidanze prima,
aveva qualche filo d'argento tra i capelli sempre biondissimi e aveva
perduto il suo fido consigliere George il pesce rosso qualche tempo
prima, ma per il resto era rimasta immutata. Indossava ancora
salopette, si entusiasmava sempre per tutto e faceva filare la famiglia
Carter Wright con amore e un polso sorprendentemente più
fermo di quello di Liam, che alla fine si era dimostrato il cuore
tenero della coppia.
Liam
aveva insistito a lungo per convincerla ad uscire a festeggiare,
risparmiandole l'onere di dover cibare venti persone e poi rassettare
tutto, ma lei aveva insistito e come al solito lui aveva ceduto. Si era
preso il pomeriggio di permesso, nonostante le vivaci proteste di
Felicity, si era infilato il grembiule e aveva preparato gli antipasti,
i contorni e la mastodontica torta al cioccolato a tre strati che in
casa loro era il dolce per eccellenza. In più aveva
recuperato Iris dal corso di karate e Louis dal museo di scienze
naturali, tenuto a bada i molteplici tentativi di assalto alla torta di
Lily, rassicurato sua suocera Grace che sì, avevano tutto
sotto controllo e la cena era confermata per un quarto alle otto e
proibito a sua sorella Judy di regalare una coppia di porcellini
d'India alla festeggiata.
Felicity
in quel momento era impegnata con l'arrosto e il suo unico figlio
maschio, il quale aveva un'insana passione per gli animali selvatici,
soprattutto insetti ed aracnidi, per la gioia delle sue sorelle. Aveva
una mano infilata in un grande guanto da forno trapuntato mentre
nell'altra reggeva un vasetto della marmellata ricolmo di un'acqua
verdastra dentro cui nuotavano quelli che parevano dei girini giganti.
«Lou,
questa è una cucina non uno zoo! Non posso mettere a bagno
questi animaletti nel lavello insieme ai piatti e alle posate che
usiamo per mangiare. Perché non mi fai un favore e vai
a...Oh, perfetto! Chiedi a tuo padre se puoi metterli nella vasca da
bagno, va bene tutto basta che li porti lontano da qui»,
strillò mollando in mano a Liam l'orrido vasetto e
lanciandosi verso il forno proprio mentre il timer a forma di ranocchia
iniziava a trillare impazzito.
Iris
però non aveva nessuna intenzione di collaborare e
così si piazzò sulla traiettoria di sua madre,
parandosi davanti al forno e impedendole di salvare l'arrosto.
«Mamma! Ti prego, ti prego, ti prego: posso andare da
Meg?», iniziò ad uggiolare.
«Mammina!
Guardami, Lily è arrivata! Ha macchiato i pantaloni, che
stupidina!», ridacchiò Lily scalciando per farsi
liberare da suo padre e iniziando a correre verso il forno e la sorella
maggiore.
Louis
nel frattempo si era aggrappato al braccio di Liam e guardava con occhi
colmi d'amore il barattolo in possesso di suo padre.«Mamma,
papà! Loro sono miei amici, non possiamo abbandonarli nel
laghetto! Non possiamo: qualche pesce se li mangerebbe!»
Felicity
non fece una piega, rivolse solo uno sguardo carico di sottintesi a
Liam, aggirò le figlie e portò in salvo il suo
maestoso arrosto su tappeto di tian di verdure cucinato seguendo alla
lettere le regole della cucina francese.
Capito
al volo il segnale, Liam si schiarì la voce e
tuonò: «Tutti fuori dalla cucina. No, niente
proteste, forza!»
Incalzò
Iris che stava già iniziando a prendere fiato per inscenare
un teatrino con tanto di discorso melodrammatico e arringa finale,
degna del miglior avvocato sulla piazza, eh già era propria
figlia sua. Afferrò la mano di Lily e la guidò
gentilmente verso l'ingresso e le ampie scale in legno che conducevano
al piano superiore.
«Iris,
chiama Meg e chiedile se vuol venire da noi a mangiare il dolce.
Prendere o lasciare, tu non te ne andrai da nessuna parte. Lou, i
girini nella vasca da bagno non ci possono stare, aspetta mezz'oretta e
poi vengo ad aiutarti a cercare la vecchia boccia di George
giù in cantina. E tu signorinella mia, forza a fare il
bagno!», esclamò acchiappando Lily prima che
avesse il tempo di registrare l'informazione che sarebbe stata immersa
in acqua e sapone e avrebbe ricevuto una bella ripulita di
lì a poco e darsela a gambe. Era incredibile l'avversione di
quella bambina per l'acqua e l'igiene personale.
La
bocca di Iris si aprì in una muta protesta, ma subito si
richiuse di fronte allo sguardo ammonitore di suo padre e se ne
andò trascinando i piedi in salotto in direzione del
telefono di casa. Louis parve soddisfatto della soluzione propostagli e
si avviò tranquillo con il suo barattolo verso il portico
sul retro.
«Lily
non vuole il bagno», mugugnò scontenta la
piccoletta, mentre Liam si incamminava su per le scale.
Avevano
ben quattro camere da letto, ma Liam e Felicity convenivano sul fatto
che la convivenza tra sorelle fosse fondamentale e così
facevano orecchie da mercante di fronte alle continue lamentele della
loro primogenita. Era chiaro che condividere i propri spazi con una
bambina di quattro anni con la tendenza a parlare da sola di
sé stessa ad alta voce non doveva essere una passeggiata per
una quasi ragazzina sulla soglia della preadolescenza, ma il punto era
costringerle ad aiutarsi a vicenda, a prendersi cura l'una dell'altra e
ad imparare a spartire e a non essere terribilmente gelose di ogni
minima cosa.
L'accordo
prevedeva che con al dodicesimo compleanno Iris ricevesse sia un
telefono cellulare, che le sarebbe stato ritirato mentre era a scuola e
nel pomeriggio durante il tempo dedicato ai compiti, sia una camera
tutta per sè.
Lily
ne avrebbe sofferto, ma la sua memoria breve l'avrebbe aiutata a
superare il distacco e ad imparare a dormire da sola.
I
bambini condividevano il bagno più ampio che affacciava sul
giardino posteriore, dotato sia di un'ampia vasca da bagno sia di una
doccia di ultima generazione con luci e radio, sfruttata fin troppo da
Iris. Quest'ultima passava mezz'ore intere sotto il getto d'acqua
calda, le ultime hit musicali a tutto volume e il vapore denso che
appannava tutto. A nulla servivano i continui richiami di sua madre o
le minacce di suo padre di impostare un timer che dopo cinque minuti
facesse cessare automaticamente l'erogazione d'acqua obbligandola ad
uscire dal box. Louis non fiatava mentre veniva cacciato a lavarsi e
adempiva ai suoi compiti in modo rapido ed efficiente, nonostante
detestasse con tutto sé stesso il doversi lavare i denti e
spesso mentiva al riguardo quando i suoi genitori gli ponevano la
solita, vecchia domanda «Ti sei lavato i denti?».
Nessuno
però batteva Lily, che strillava come una sirena per essere
messa nella vasca, schizzava acqua dappertutto, svuotando il contenuto
della vasca sul pavimento e si rifiutava di stare ferma mentre le
insaponavano i capelli, per poi puntualmente piangere disperata quando
lo shampoo le finiva negli occhi.
«Papino,
possiamo giocare con i cavallini ma dire a mammina che Lily si
è fatta il bagnetto?», propose allarmata Lily non
appena vide stagliarsi di fronte a sé la porta socchiusa
dietro la quale si intravedevano le piastrelle rosa del bagno dei
bambini.
Liam
affrettò il passo e ringraziò il cielo di aver
avuto la fortunata idea di indossare una vecchia t-shirt che gli aveva
regalato Matt ai tempi del college. Presto, molto presto, si sarebbe
ritrovato immerso fino al collo nell'acqua saponata.
«No,
non possiamo perché noi non diciamo le bugie. Vuoi davvero
farti vedere dai nonni tutta ricoperta di terra e con i vestiti
sporchi?», le chiese cercando di distrarla mentre chiudeva la
porta alle loro spalle e si allungava per aprire il rubinetto della
vasca.
«A
Lily non importa», si impuntò la bambina pestando
un piede a terra.
«Alla
Nonna Grace però sì, evitiamo di farle venire un
colpo presentandoci con tre centimetri di sporco sotto le unghie,
ok?»
La
sola idea della reazione di sua suocera gli donò la forza
necessaria a depositare sua figlia sul tappeto e dare il via a
quell'impresa erculea.
«Lils,
alza le braccia così sfiliamo la maglietta. Su, forza
tesoro!», la pregò con voce flautata,
inginocchiato di fronte a lei.
«NOOOOOOOO»
***
«Iris!
Stanno suonando alla porta! Puoi andare tu?»
Felicity,
le braccia immerse fino al gomito nell'acqua del lavello stava
risciacquando i frutti di bosco e le fragole da aggiungere alla
macedonia.
Non
udendo nessuna risposta si appellò al suo secondogenito,
solitamente il figlio più responsabile e servizievole dei
tre.
«Lou!
Vai tu, per favore!»
Il
campanello suonò una seconda volta e poco dopo si
udì un rumore di vetri infranti provenire dal retro.
Felicity
si lasciò sfuggire un grugnito, afferrò un
canovaccio e si diresse a passo di marcia verso la porta d'ingresso.
Erano
le sette e venti, chi aveva avuto la malaugurata idea di presentarsi in
anticipo cogliendo tutti alla sprovvista?
Iris
era irrintracciabile, Lou doveva aver appena combinato un disastro,
Lily strillava come un'ossessa dal piano superiore e lei era ancora
vestita con quel vecchio prendisole color topo morto che le cadeva
addosso come un vecchio sacco di patate.
Spalancò
la porta e...ovviamente si trattava di sua madre Grace con Montgomery
al seguito.
«Mamma!
Cosa fai già qui?», la apostrofò
Felicity squadrando sconsolata i suoi pantaloni a palazzo in seta
fantasia e la sua blusa in candido pizzo.
Grace
le scoccò un bacio sulla guancia e la superò
entrando in soggiorno.
«Ho
pensato avessi bisogno di aiuto. Ti ho portato lo champagne e dei
canapè. Monty, vai subito a mettere tutto nel frigo! Iris
è barricata sulla casetta sull'albero a parlare al telefono,
non mi ha neanche salutata, benedetta ragazza! A che punto sei? Cosa
sono queste urla? Perché sembri ancora la piccola
fiammiferaia? Vuoi proprio dimostrarli tutti i tuoi quarant'anni,
tesoro?»
Felicity
sospirò e roteò gli occhi al cielo. Suo padre
fece un passo avanti e lei si aggrappò al suo collo,
abbracciando lui, tre bottiglie di Dom Perignon e un largo vassoio.
«Stasera
è ancora più carica del solito», la
avvertì divertito. «Auguri, piccola. Come
stai?»
Sua
figlia annuì e gli sorrise, sfilandogli dalle mani il
vassoio e richiudendo la porta alle sue spalle.
Montgomery
la seguì e sistemò nel frigorifero il suo
bottino, come da chiare istruzioni di sua moglie.
«Zoe
dice che forse farà tardi. Non chiedermi il
perché, lo sai che ormai non domando più nulla
per paura delle sue risposte», frenò in anticipo
l'interrogatorio di sua figlia.
«Mamma!
I miei girini! Aiutatemi, qualcuno mi aiuti!», la voce
disperata di Lou irruppe nella cucina facendo accorrere nel portico sul
retro tutti e tre gli adulti presenti.
«Louis!
Dì alla nonna cos- Oh, oddio CHE SCHIFO!», si
bloccò senza preavviso Grace, la sua buona
volontà frenata dallo spettacolo che le si parò
davanti agli occhi.
Louis,
ricoperto di acqua melmosa, se ne stava in ginocchioni tra una pioggia
di vetri frantumati nel disperato tentativo di salvare le decine di
girini che si dibattevano morenti sulle assi di legno del pavimento.
«Louis,
dove hai trovato quella boccia?», chiese Felicity.
«Per
l'amor del cielo, vieni via da lì, è pieno di
vetri! E cosa sono quegli esseri?», esclamò
isterica Grace, facendo scricchiolare i vetri sotto la suola dei suoi
sandali azzurri e afferrando il braccio del nipotino per trarlo in
salvo.
Quest'ultimo
però non parve apprezzare e si liberò dalla
presa, iniziando a singhiozzare. «Vi prego, aiutateli! Sono
miei amici, non fanno schifo! Per favore...», e si
lasciò cadere nuovamente sulle ginocchia affannandosi nel
tentativo di afferrare un piccolo girino che si agitava impazzito.
Felicity
si riscosse e ordinò a suo figlio di allontanarsi dai vetri
mentre lei cercava una scopa e una paletta. Non fece in tempo a fare un
passo perché suo padre riapparve con una scopa e un colino
in una mano e una vaschetta di gelato piena d'acqua nell'altra.
«Non
muoverti Lou, fai fare al nonno», mormorò prima di
passare la scopa a sua figlia e chinarsi armato di colino catturando
una coppia di esserini e lasciandoli cadere nell'acqua cristallina
della scatola in plastica trasparente.
La
scopa venne ceduta con poco garbo a Grace mentre sua figlia, dopo
essersi assicurata che i nonni avevano in mano la situazione, fuggiva
alla volta della cucina borbottando qualcosa a proposito di pane
tostato e cipolle caramellate.
Felicity
accese il più grande dei fornelli e versò un filo
d'olio all'interno di un'ampia padella. Mildred e i suoi suggerimenti
in tema di ricette italiane le avevano stravolto la vita. Certo, Matt e
Liam adoravano lamentarsi del fatto che le loro mogli li avrebbero
lasciati in bolletta a forza di acquistare Parmigiano Reggiano,
pomodori Pachino IGP, bottiglie di Barolo e mozzarelle campane, ma
nessuno aveva mai osato aprir bocca di fronte ad una generosa porzione
di lasagne alla bolognese. Ci erano voluti svariati tentativi, ma alla
fine era riuscita ad ottenere un piatto che la soddisfacesse davvero e
non le facesse temere così tanto di stare insultando la
tradizione italiana.
Aggiunse
le cipolle precedentemente tagliuzzate tra lacrime e occhi rossi e
abbassò il livello della piastra. Diede un paio di mescolate
con il cucchiaio di legno dopodiché coprì il
tutto con un coperchio e si affacciò dalla finestra che dava
sul giardino davanti.
Sua
figlia Iris se ne stava seduta con le gambe a penzoloni sulla
piattaforma di legno della casetta sull'albero che Liam aveva fatto
costruire dieci anni prima proprio per la loro primogenita.
Chiacchiereva
fitto fitto, il viso premuto contro il telefono e una mano impegnata ad
arrotolarsi i capelli intorno alle dita. Stava cambiando fisionomia: i
tratti da bambina si stavano lentamente trasformando in un viso da
ragazzina. D'altronde l'atteggiamento da piccola adolescente c'era
già tutto.
Ultimamente
Felicity si era ritrovata troppo spesso ad impersonare il ruolo di
genitore carabiniere, ma non aveva nessuna intenzione di perdere la
battaglia contro la pubertà e la turbolenza della maggiore
dei suoi figli.
«Iris!
Saluta Meg, scendi da lì e vieni a salutare i
nonni!», le urlò dalla finestra.
La
ragazzina alzò il capo e per un istante incrociò
lo sguardo ammonitore della madre, prima di riabbassarlo e riprendere
la sua chiacchierata al telefono.
La
tattica del fare le orecchie da mercante era un must in casa Carter
Wright. La utilizzavano Liam e Felicity quando i loro figli con i loro
capricci diventano petulanti, se ne serviva Iris per continuare a fare
ciò che i suoi genitori le avevano appena ordinato di non
fare, ne faceva ampio uso Louis quando contravveniva alle chiare regole
che venivano imposte alle sue esplorazioni lungo il torrente e al
nascondere animali di ogni genere sotto il letto e quando si parlava di
bagno o doccia Lily era la principessa della sordità a
gettone.
La
porta d'ingresso si aprì e si richiuse con un tonfo e poco
dopo Zoe si palesò in cucina, al suo seguito il suo sempre
più pallido amico Johannes e una Judith sorridente e carica
di sportine e pacchetti.
«Tanti
auguri!», strillò quest'ultima scansando i due
angeli della morte e travolgendo Felicity di baci sulle guance e
affetto incontenibile.
«Ben
arrivati! Grazie mille, cara! Ciao Johannes. Zoe, come mai sei in
anticipo?»
I
pacchi vennero depositati sul tavolo dei regali, la bottiglia di
tequila venne fatta sparire prima che a Zoe o al suo amico venisse la
malsana idea di farsi un paio di shottini e di offrire un bicchierino
anche ai bambini e gli ospiti furono condotti sul retro dove i girini
erano stati tratti in salvo e Louis aveva ritrovato il sorriso.
«Zie!
Venite a vedere cosa ho trovato oggi pomeriggio giù allo
stagno!», esclamò al colmo dell'entusiasmo il
bambino supportato dal nonno.
Judy
accorse allegra e ne approfittò per schioccare un bacio
sulle guanciotte del nipotino. Zoe roteò gli occhi e
sbuffò, «Judith e Arabella ci hanno visto sulla
tangenziale e ci hanno caricato in auto...»,
borbottò mentre Johannes alle sue spalle annuiva lugubre.
«Arabella?
Dov'è? Non doveva arrivare con -»
«In
teoria sì, ma ieri sera la zia mi ha portata ad un concerto
e abbiamo fatto tardi e così sono rimasta da lei invece che
tornare in albergo con i nonni. Buon compleanno, F! Sono
così contenta di vederti», Arabella
spuntò alle loro spalle arrivando dal giardino e
gettò le braccia al collo di Felicity.
Ormai
aveva diciassette anni, era alta e bellissima, aveva i colpi di sole e
indossava un corto abitino di jeans. Si era diplomata quell'estate e
nel giro di tre settimane si sarebbe trasferita definitivamente a
Boston per iniziare il college.
Tiffany
non l'aveva presa per niente bene, aveva accusato Liam di aver circuito
loro figlia e Felicity di averle fatto il lavaggio del cervello e di
aver tentato di farle da madre. Avevano ignorato i suoi deliri e
avevano accolto con gioia immensa la notizia. Liam si era subito
offerto di ospitarla a casa Carter Wright, ma giustamente la ragazza
aveva preferito optare per una stanza nel campus anche se aveva
promesso che nei weekend avrebbe approfittato
dell'ospitalità del padre e dell'ottima cucina di Felicity.
«Chi
manca ancora? I nonni e...? Inizio ad avere fame!»,
domandò Iris, la voce scocciata e lo sguardo annoiato.
Felicity
sciolse il suo abbraccio con Arabella, lasciandola libera di andare
verso sua sorella e tentare di salutare anche lei.
Ovviamente
non ci riuscì. Iris, da un anno a questa parte, aveva
iniziato ad inscenare una sorta di competizione con Arabella. I suoi
genitori avevano subito intuito che loro figlia voleva solo cercare in
tutti modi di assomigliare alla sorella maggiore, studentessa liceale
che usciva la sera e guidava la macchina, ma che invece di ammettere la
sua invidia aveva iniziato a mostrarsi insofferente al solo sentire
nominare Arabella.
«Dovrai
avere pazienza, Iris. Oltre ai nonni mancano all'appello ancora Matthew
e famiglia, Donnie e Ruth», spiegò Felicity
lanciando un'occhiata alla povera Arabella, il cui affetto fraterno era
appena stato respinto con grandi smorfie di disgusto.
La
scatola dei girini stava per essere riaperta perché Louis
voleva mostrare da vicino i suoi esserini alla zia Zoe e Grace stava
prendendo fiato per dare il via all'ennesimo terzo grado nei confronti
del povero Johannes.
«Che
ne dite di un bel bicchiere di vino fresco mentre aspettiamo gli altri
ospiti?»
La
proposta della padrona di casa venne accolta con esclamazioni di
entusiasmo e così la compagnia si spostò in
direzione della veranda e del salottino in vimini mentre Felicity,
seguita a ruota da sua madre e Judith, si dirigevano in cucina.
«Il
vino è nel freezer, mi sono dimenticata di metterlo al
fresco questo pomeriggio e così ho dovuto rimediare
all'ultimo minuto. Qui ci sono i tuoi canapè, mamma. Questi
sono i due vassoi con i salatini e nel secondo ripiano del frigorifero
c'è il pinzimonio e la torta salata che ho già
preparato e vanno solo serviti in tavola. Riesco a fare un salto di
sopra a cambiarmi? Così controllo anche che fine hanno fatto
Liam e Lily. Prometto di essere rapida rapidissima, grazie!»,
schizzò su per le scale approfittandone per sfilarsi il
grembiule e la t-shirt che indossava e fiondarsi in bagno.
Terminò
di spogliarsi e si infilò in doccia, senza aspettare che il
vecchio scaldabagno facesse il suo lavoro, iniziò ad
insaponarsi i capelli sotto il getto di acqua gelida. Riuscì
a lavarsi in meno di cinque minuti, dopodiché si
precipitò fuori e, avvolta in un asciugamano,
caracollò in camera da letto.
Sbattè
la porta alle sue spalle, mollò la salvietta fradicia sulla
poltrona accanto al letto e avanzò veloce verso la cabina
armadio in direzione del cassetto della biancheria.
«Liam!
Dov'è Lily?», strillò spaventata quando
appena svoltato l'angolo si accorse della sua presenza.
«L'ho
lasciata tre minuti fa, pulita e profumata, ad ingozzarsi di
canapè giù di sott- WOO! Posso essere il tuo
regalo di compleanno?», sussurrò mollando la
camicia che teneva tra le mani e raggiungendo in due falcate Felicity,
che se ne stava ancora nuda sulla soglia.
La
situazione poteva degenerare in fretta, dopo tredici anni insieme
entrambi lo avevano ormai imparato, e così fu Felicity ad
allungare un braccio per impedirgli di abbracciarla e farle perdere il
controllo come succedeva sempre.
«Oh
sì, sarai il mio regalo di compleanno per tutta la notte,
caro. Adesso però non abbiamo davvero tempo, ci stanno
aspettando quasi tutti al piano di sotto e-»
Lui
non le lasciò la possibilità di portare a termine
la frase perché chinò la testa e la
baciò facendola indietreggiare contro la parete.
Felicity,
da sempre molto brava a predicare e molto meno a razzolare, gli cinse
il collo con le braccia e si spalmò contro il petto di lui.
Dopo
qualche manciata di secondi Liam si staccò da lei e
sospirò. «Buon compleanno, tesoro»
Felicity
sorrise felice e si rialzò sulle punte dei piedi per
raggiungere nuovamente le sue labbra.
«Più
tardi, più tardi avremo tutto il tempo. Ora mettiti quel
vestito meraviglioso che ti sei comprata e andiamo a
festeggiare»
Dieci
minuti più tardi, messi sotto controllo i bollenti spiriti,
scesero le scale tenendosi per mano.
Felicity
si era infilata un vestito leggero di impalpabile organza color malva,
scelto da Liam perché gli ricordava quello rosa indossato la
sera del sessantesimo compleanno di Montgomery l'anno in cui si erano
conosciuti.
In
veranda trovarono tutti ad aspettarli.
Grace
seduta su una poltrona con Lily sulle ginocchia intenta a mangiare i
canapè che il nonno Montgomery le passava di nascosto.
Johannes impegnato in una conversazione riguardante la fauna degli
Stati Uniti con Matthew e Nonno Carter Wright. Mildred, sempre
meravigliosa nonostante gli anni trascorsi, che spiegava ad una Ruth
molto incinta e molto spaventata e ad una Nonna Carter Wright piuttosto
sdegnata come dopo aver partorito Gabe avrebbe voluto farsi chiudere le
tube tanto dolore aveva provato al momento del parto. Iris che
spettegolava senza sosta con Charlotte, la secondogenita di Matthew e
Mildred, che alla fine non si era fatta chiudere le tube, mentre
lanciavano occhiate divertire in direzione di Gabriel che non si
stancava mai di provarci ed essere messo in ridicolo da una sdegnosa
Arabella, che si rifiutava di prestare attenzione ad un ragazzino di ben due anni più
piccolo di lei. Lou aveva trovato chissà dove una coppia di
lombrichi e ora li stava analizzando con una lente di ingrandimento
inginocchiato sul pavimento insieme a sua zia Judith e a Zoe che
minacciava di calpestarli con il tacco del suo stivale nero.
Era
la famiglia che avevano deciso di costruirsi in quei tredici anni
insieme in cui si erano amati (molto), divertiti (molto moltissimo,
come avrebbe Lily) e non si erano mai sposati.
Se
son fiori fioriranno altrimenti...si aspetterà una nuova
primavera e si avrà il tempo per riprovarci e ripartire!
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Capitolo 24 *** EXTRA: Amanita Phalloides ***
Zoe
Quando
ero una bambina mi piaceva osservare le persone che incontravo e ogni
volta mi domandavo se fossero cattive. Credo che ciò sia
nato da tutto quel parlare che Nonna faceva riguardo alla brutta fine
che attendeva le persone cattive. Mi chiedevo se la bidella della mia
scuola, l'insegnante di karate o l'autista dell'autobus fossero brave
persone o, se una volta riposta la loro divisa, conducessero una
seconda vita all'insegna della criminalità. Mi affascinava
il lato nascosto e potenzialmente maligno che le persone nascondono.
Immaginare che la fragile Mrs. Richardson dopo averci consegnato il
latte andasse a casa a versare una piccola dose quotidiana di veleno
per topi nella zuppa dell'odiato marito me la faceva sembrare
più umana, più simpatica.
Ho
raccontato questi miei pensieri ad una sola persona in tutta la mia
vita ed ora essa si rifiuta di vedermi o farmi avvicinare a lei,
nonostante tutti i soldi che avevo investito nella terapia
psicoanalitica. Mi sorprendo ancora oggi di come funzioni la mia mente,
ma ho smesso di chiedermi perché essa spaventi
così tanto gli altri. Lo percepisco, l'isolamento mi piace
non solo perché sono una solitaria. Non mi piace come mi
fanno sentire gli sguardi degli altri, i loro giudizi silenziosi ma
impietosi, le loro convenzioni a cui conformarsi per essere uguali a
tutti gli altri, membri accettati e rispettabili della
società. Ma quale rispetto? Tutti sempre a puntare il dito
contro la diversità, contro qualsiasi cosa si discosti dalla
nostra sbagliata concezione di cosa è normale o cosa non lo
è. Tutto è normale, e al tempo stesso nulla. Non
esiste la parola normale, perché non esiste un metro di
giudizio universale per misurare la normalità di una cosa.
Fahrenheit, Kelvin, Watt, Joule. Unità di misura valide
globalmente, accettate e adottate da tutti. Nulla di tutto
ciò si può applicare alla natura umana, siamo
diversi e questo è bellissimo, è imprevedibile. E
spaventa.
Oggi
è il mio compleanno, festeggio trent'anni e spengo delle
candeline immaginarie in solitudine. Vivo nel Maine da sei anni ormai e
queste montagne sono diventate la mia casa, la casa che mi sono scelta.
Nonostante la strada accidentata e impraticabile con la neve,
nonostante il silenzio che a volte pare terrificante tanto rumore fa,
nonostante la mia condizione di moderna Raperonzolo. Non l'ho mai
ammesso, ma ho sentito la mancanza del mare per lungo tempo prima di
abituarmi alla roccia, al ghiaccio e al profumo di pino. Faticavo a
prendere sonno e ripensavo costantemente alla mia infanzia, quel
periodo d'oro e zucchero filato che a volte mi chiedo se ho vissuto per
davvero. Mamma era sempre la prima a tornarmi alla mente, con il suo
appuntamento del venerdì dal parrucchiere e le sue mani
sempre profumate che mi intrecciavano i capelli, mi lisciavano le
pieghe sui vestiti e mi soffiavano il naso. A pensarci a posteriori
quello era davvero un gesto d'amore, considerato il suo terrore per i
batteri. Papà invece solitamente sorrideva e basta,
facendomi trotterellare sulle sue ginocchia, che ricordo come
assolutamente scomode, colpa della sua magrezza. Felicity invece
correva, cadeva, si rialzava, ballava facendo ruotare la sua gonna
rossa. Il mare si infrangeva, si ritirava e io infine riuscivo a
prendere sonno.
Adesso
non mi succede più, anche perché vado quasi
sempre a dormire dopo le tre di notte e il mio sonno assomiglia
più ad una perdita di conoscenza. Oggi sono stranamente
riposata e le mie occhiaie sono di una delicata sfumatura indaco,
invece del solito nero violaceo. Sembro quasi più giovane,
nonostante l'anno in più con cui mi sono svegliata. Ho
deciso giorni fa che oggi mi sarei presa una pausa dalla scrittura,
così il mio computer giace ancora spento sulla scrivania e
il telefono è offline, destinato a restare così
fino alla mezzanotte. Non voglio ferire nessuno, perlomeno non le poche
persone a cui provo a volere bene seppure nel mio modo strampalato e
difficile, ma l'unico regalo di cui ho bisogno è un po' di
pace. Pace che non sono riuscita pienamente ad avere negli ultimi tre
mesi, con il mio soggiorno prima a Plymouth da Flick e poi a Tampa dai
miei genitori, seguito da un susseguirsi di appuntamenti legati
all'uscita del mio ultimo romanzo breve. Non mi piace molto, ho scritto
di meglio, ma il mio editore ne era entusiasta e pare che le vendite
siano alle stelle. Usare uno pseudonimo mi aiuta a tenere distante
ciò che creo da chi sono veramente. Nei miei libri
c'è sempre una parte di Zoe, ma non raccontano di Zoe, non
sono Zoe. Quando le persone credono di conoscermi dopo aver letto uno
dei miei libri io non posso far altro che aprirmi in uno dei miei
celebri sorrisetti derisori. Io stessa non mi conosco; sono una,
nessuna e centomila. Figurarsi cosa ne sanno gli altri.
Ora
ho ripreso a lavorare al mio prossimo lavoro, ma ho ancora le idee
confuse e la stesura della bozza procede a rilento. Mi hanno affidato
un aiutante, nonostante i miei continui e poco cortesi rifiuti
categorici. Non ci siamo mai incontrati, su questo punto sono stata
irremovibile, ma devo ammettere che sa quel che fa. È
disordinato, fattore che non ci aiuta nel lavoro, ma me lo fa sembrare
più simile a me, e perciò più
simpatico. Stamattina non mi ha ancora scritto, fatto insolito
considerato che pare non dormire mai, ma normale se si considera cosa
succederà oggi. Mi risponde ad ogni ora, corregge, revisiona
e ricopia qualsiasi cosa nel giro di tre ore. È efficiente,
riservato e l'unica cosa che mi ha rivelato di sé
è il suo nome. Johannes. Gli ho riferito che lo trovavo un
nome veramente brutto e ridicolo e lui mi ha solo detto di avere
discendenze danesi. Da allora gli ho chiesto spesso se per pranzo
avesse mangiato Smørrebrød o se qualcuno gli
avesse letto La Sirenetta prima di andare a dormire, ma lui mi ha
sempre ignorata facendomi irritare a dismisura. Quando le persone si
offendono, si scandalizzano o mi rimproverano dopo una delle mie uscite
al vetriolo io me ne compiaccio, contenta di aver scatenato una
reazione. Ma se mi trovo di fronte ad un muro di gomma di nome Johannes
mi ritrovo spiazzata, senza parole. Il che per me è una vera
novità.
Sono
solo le nove di mattina e già non so come impegnare il mio
tempo. Solitamente scrivo, faccio lunghe camminate, leggo o vado
giù in paese a fare scorta di libri e cibo poco salutare.
Non arrivano tutte le ultime uscite alla piccola libreria cittadina e
così negli ultimi anni mi sono dedicata principalmente alla
rilettura dei grandi classici, che si sono rivelati una vera sorpresa.
Amazon impiega delle ere geologiche a farmi recapitare gli ordini
così solitamente inviavo lunghe liste di cose che desideravo
o di cui avevo assoluta necessità a Felicity, la quale
sbuffava per una settimana prima di iniziare a spuntare le voci della
lista. Mia sorella però, nonostante la nostra infanzia
condivisa e la nostra conoscenza quasi trentennale, continuava a
tempestarmi di telefonate per domandarmi se il cioccolato lo volevo
fondente al 100% o se mi potevo accontentare di quello al
98%. Oppure sbagliava sempre ad acquistarmi i libri,
scegliendo edizioni o traduzioni che notoriamente io detestavo. Da
quando ho Johannes delego tutte queste faccende a lui, il quale mi
risponde con un freddo 'ok' e nel giro di una decina di giorni massimo
mi fa avere tutto quello che avevo richiesto senza mai farmi domande.
Nell'ultima lista ho aggiunto la voce 'furetto' per metterlo alla prova
e una settimana più tardi mi sono ritrovata tra le mani un
peluche con un biglietto pinzettato alla coda. Con questo avrai meno responsabilità e
meno probabilità di essere denunciata dal WWF per
maltrattamento di animali. All'inizio
non sapevo se ridere o arrabbiarmi, e così alla fine gli ho
inviato dei ringraziamenti via email, dicendogli quanto apprezzassi la
fiducia che riponeva nei miei confronti. Solo due giorni più
tardi una domanda mi ha svegliato all'alba. Come faceva Johannes a
sapere della storia di Giselle, la gatta di mia madre, che fece una
brutta fine per colpa mia anni fa?
Gliel'ho
chiesto nel nostro successivo scambio di messaggi e così ho
scoperto che aveva conosciuto Madre. Credo di aver perso i sensi a quel
punto e quando sono tornata in me, dieci tazze fracassate contro la
parete più tardi, il mio telefono stava suonando e Felix si
era ferito con i cocci di ceramica. Sono anni che proteggo la mia
identità a costo della mia stessa vita, celandomi dietro uno
pseudonimo, non raccontando mai nulla di me, avendo un doppio numero di
telefono e una casella di fermo posta a quasi duecento miglia da dove
abito davvero. Definire scomodo tutto ciò vuol dire
semplificare ciò che davvero significa vivere
nell'anonimato. Sono stata distratta una sola volta ed è
successo tutto ciò. Devo aver dimenticato il mio telefono
lavorativo in giro per casa un giorno mentre ero a Tampa e mia mamma ha
risposto. Era Johannes. Johannes che di me conosceva solo il falso nome
e la mia bibliografia. Johannes che ora sa che ho avvelenato un gatto,
e con molta probabilità ed inconsapevolezza anche altre
creature innocenti nel corso della mia vita.
Non
ho chiesto a mamma se gli aveva rivelato anche il mio nome di
battesimo, principalmente perché la sto punendo per quello
che ha combinato con un silenzio stampa che ormai dura da tre
settimane. Ho quasi temuto che si presentasse alla mia porta, dopotutto
è settembre e i colori autunnali del Maine sono veramente
splendidi. Invece in cambio ho ricevuto solo un suo lapidario messaggio
e altrettanto silenzio. Sei un'immatura. Non le ho risposto e ho
continuato a fare la sostenuta. Con Johannes non potevo fare finta di
niente però. Il non sapere quanto ne sapesse sul mio conto
mi rendeva agitata, mi faceva sentire scoperta, vulnerabile. Devo
ammettere che lui si è comportato in modo molto corretto,
confessandomi che si è sentito molto a disagio
nell'ascoltare le chiacchiere di mia madre, consapevole del patto di
riservatezza non scritto che vigeva chiaro tra di noi. Non mi ha mai
fatto domande, però non riuscivo a perdonargli il fatto di
non avermi informata subito di quanto successo.
Ho
pensato tantissimo a come comportarmi e alla fine ho deciso che
dovevamo incontrarci, io avevo bisogno di vederlo in viso prima di
congedarlo e raccontare alla casa editrice di quanto fossero superflui
gli assistenti. In casa non ho quasi nulla, ma credo che un po' di gin
allungato con dell'acqua frizzante andrà più che
bene. Dopotutto è il mio compleanno e una sbornia non
potrebbe che farmi bene, giusto per farmi dimenticare che persona
sgradevole io possa essere a volte. Sono ancora in pigiama, o meglio
con quello che io chiamo così. Questa maglietta di una
vecchia maratona che di certo io non ho corso mi arriva quasi alle
ginocchia e questi calzettoni a righe sono sopravvissuti a
così tante lavatrici da non possedere più un vero
colore. Non ho alcuna voglia di cambiarmi, di pettinarmi o di guardarmi
allo specchio. Mi limiterò a lavarmi la faccia e i denti,
adoro lavarmi i denti. Passo minuti interi a spazzolarmi in modo
certosino entrambe le arcate dentarie, facendo attenzione a raggiungere
anche i molari più posteriori.
Quando
suona il campanello io sto cercando di convincere Felix a mangiare dei
cubetti di mango, uno dei pochi alimenti presenti in casa. È
in ritardo e ciò mi irrita perché solitamente
sono sempre io che mi faccio attendere. Mamma Grace, mi detesto ogni
volta che penso con una punta di nostalgia a lei, dice che non ho
considerazione per gli altri, che sono egocentrica e credo sempre che i
miei bisogni e le mie esigenze siano più importanti di
quelle degli altri. Non ci ho mai riflettuto troppo, so di avere un
carattere terribile e non ci tengo davvero a scoprire quanto terribile
sia.
Non
mi sono mai domandata che aspetto potesse avere Johannes, o che
età. Nella mia mente era una presenza extracorporea con
capacità organizzative fuori dal normale e una casella di
posta elettronica. Poteva avere novantuno anni o tredici, l'importante
era che facesse ciò che gli chiedevo di fare. Apro la porta
dopo più di due minuti, giusto per fargli capire con quanta
ansia stessi aspettando il suo arrivo, ma sulla soglia non
c'è nessuno. In una scala da 1 a 10 al momento il mio grado
di sopportazione è sottozero. Non avevo voglia di
incontrarlo, mi ci ha costretta. Afferro il mio impermeabile giallo che
mi fa sempre assomigliare a Georgie di It, mi infilo un vecchio paio di
stivali di gomma ed esco nello spiazzo davanti a casa. Non
c'è nessuna traccia umana, solo uno stupido scoiattolo che
non appena mi vede fugge a gambe levate. Svolto sul lato destro ed
è allora che lo vedo, stravaccato sul mio tronco
di abete abbattuto da un fulmine tre anni fa. Sta fumando una
sigaretta, incurante del fatto di trovarsi in una pineta, con i piedi
su un tappeto di aghi di pino e nelle vicinanze di una casa di
legno.
Cretino,
cretino, cretino. La mia mente si è impallata su quell'unico
aggettivo perché non riesco a pensare ad altro. Quello non
è il mio Johannes,
quell'essere mezzo albino che sta gettando un mozzicone in mezzo alla
boscaglia non può essere lui. Ha delle gambe lunghissime e
scheletriche, avvolte in un paio di vecchi pantaloni neri tutti
rammendati. Un corpo sottile e sgraziato, dinoccolato e pallido come la
morte. Come me, mi ritrovo a pensare colma di orrore. Quando si volta
smetto di respirare. Quegli occhi torbidi si fissano nei miei e non mi
lasciano scampo. È come guardarsi in uno specchio. Le uniche
differenze sono che lui è un uomo, è alto molti
centimetri più della sottoscritta e pare poco più
che ventenne. I suoi capelli sono così chiari da sembrare
bianchi, come quelli di Felicity in estate. Come erano i miei da
bambina, prima che iniziassi a tingerli senza pietà del
color dell'inchiostro.
«Zoe?»,
chiede avvicinandosi. Non sorride, continua solo a scrutarmi negli
occhi.
Non
ha ancora abbassato lo sguardo, né guardato oltre le mie
iridi, nonostante la ridicola tela cerata e le mie gambe completamente
nude ed esposte. Gli volto le spalle ed entro in casa, dopotutto quel
gin si rivelerà utile. Soprattutto a stomaco vuoto.
Mi
segue, sento i suoi passi cadenzati dietro di me, così come
sento il sonoro tonfo che produce la sua testa nel momento in cui va a
collidere con il cornicione troppo basso della porta d'ingresso. Non lo
guardo, non mi interessa sapere se si è fatto male,
dopotutto chi lo conosce? Devo solo licenziarlo, magari allungargli un
paio di banconote dal momento che pare un senzatetto poco
più che maggiorenne.
Quando
torno a guardarlo lo trovo seduto tranquillamente sul divano,
perfettamente a suo agio. Non mi ha chiesto il permesso per farlo e
sembra terribilmente sicuro di sé, certamente sa il fatto
suo, cosa che io non sapevo alla sua età.
«Quanti
anni hai?», gli chiedo accoccolandomi sul pavimento, le
spalle contro la vecchia poltrona in velluto. La bottiglia di
gin stretta al fianco, giusto per evenienza.
«Ventiquattro.
Tu?»
Sembra
più piccolo. Forse sta mentendo, ma a che pro?
«Sono
sicura che mia madre ti abbia spifferato addirittura il giorno del mio
compleanno», borbotto acida.
Non
so se l'ha fatto e questa mia mancanza di informazioni mi fa sentire in
netto svantaggio.
«Esatto,
è oggi. Non mi ha rivelato però il tuo anno di
nascita, non che mi interessi davvero»
L'istinto
di aggrapparmi ad una di quelle gambe eccessivamente lunghe e tirare
fino a staccargliela mi pervade, ma decido di mantenere la calma. Sono
sempre io quella che provoca, che porta gli altri a perdere ogni
contegno e scoppiare, mentre io resto composta ed impassibile.
«Ottimo,
cosa ti interessa allora?», gli chiedo deridendolo.
Sono
io la sua datrice di lavoro, sono io che sgancio il suo stipendio, mi
ripeto per darmi un tono.
Lui
incrocia le gambe e nel farlo urta la pila di libri che si ergeva
pericolante alla sua destra causandone la caduta. Vorrei ridere del suo
essere maldestro, ma lo sono anche io e perciò mi risulta
impossibile. Ho speso una vita intera a camminare strisciando i piedi,
facendo cadere ciò che tenevo tra le mani, sbattendo contro
ogni superficie della casa riempiendomi continuamente di lividi
bluastri.
«Volevo
vederti, almeno una volta. Per ora ti ho trovata piuttosto
deludente», confessa guardandomi con uno sguardo di sfida.
«Rimarrai
ancor più deluso allora quando saprai che ti ho convocato
per darti il benservito. O non ti interessa neanche di
questo?»
«I
soldi non sono importanti», afferma scrollando le spalle.
La
penso allo stesso modo da sempre, ma non posso convenire, non posso
proprio. Sembra tutto un gigantesco scherzo. Johannes non era
emozionato all'idea di incontrarmi, non era interessato a sapere cose
di poco conto su di me, non è deluso dal fatto di essere
improvvisamente disoccupato.
«Cosa
lo è allora?»
«Tutto
e niente. Le mie opinioni, la mia arte, la tua scrittura»
«Quale
arte?», domando irritata.
Lui
sorride ma non mi risponde, lasciando la mia curiosità
insoddisfatta.
«Perché
sei venuto?»
«Mi
piace quello che scrivi, soprattutto come lo scrivi. Tutto qui, ma
questo non significa che mi piaccia chi lo abbia scritto o mi interessi
chi si cela dietro quello pseudonimo»
«Eppure
sei qui. Non ti dovrebbe interessare proprio nulla dell'autore, non
dovresti neanche domandarti se ti piace o meno. L'arte e l'artista. Una
persona di merda può creare una quantità di
bellezza inimmaginabile». Non può immaginare
quanto quel tema sia per me importante.
«E
tu lo sei? Una persona di merda?»
«Quasi
certamente, ma non creo nulla di particolarmente bello...»
«Non
ho alcuna intenzione di contraddirti»
«Meglio
così, detesto i fan ruffiani»
«Non
mi definirei un fan»
«Non
riuscirai ad offendermi, questo gioco l'ho inventato io»
«Ne
sei sicura?», osa sfidarmi.
Lo
ero fino ad un quarto d'ora fa, fino a quando non ho incrociato quegli
occhi neri che brillano di sagacia e sfida. Non parla, ma è
come se mi stesse urlando in pieno viso di metterlo alla prova.
«Ho
voglia di camminare», esclamo all'improvviso. L'aria fresca
porta sempre i suoi buoni frutta, o perlomeno questo è
quello che ci raccontano. In ogni caso questa stanza mi sta facendo
soffocare e ho bisogno di spazi ampi per riprendere fiato. Non ho
nessuna intenzione di domandarmi perché ne ho bisogno, a
volte l'ignoranza è una benedizione.
«Bé,
io no», mi contraddice Johannes, comodamente spaparanzato tra
i cuscini sfondati del divano.
Lo
sta facendo apposta, mostrandosi ostile nella speranza di farmi
infuriare. Ma io nella mia vita ho sprecato sufficienti scenate di
rabbia, mal di pancia e pensieri omicidi per persone che non meritavano
neanche un secondo delle mie nottate insonni o dei miei incubi. Neanche
un millesimo di secondo.
«Questa
è casa mia. Esco io, esci tu», scandisco il mio
ultimatum facendo dondolare le chiavi di fronte al suo naso.
Non
sono una persona amabile, chi mi conosce da sempre ha imparato ad
accettarmi così come sono, mentre le nuove conoscenze
solitamente evaporano alla velocità della luce. Pochi
restano e sono abbastanza obiettiva da ammettere che la causa della
loro dipartita sono solo e soltanto io, con i miei modi spesso bruschi
e la mia lingua troppo pungente. Eppure solitamente sono solo me
stessa, mentre con Johannes mi sembra di essere me stessa al cubo. Come
se ogni mio difetto venga amplificato e ogni mio angolo aguzzo e
pungente lo sia tre volte più del normale.
Ci
siamo conosciuti virtualmente tre mesi fa e da allora lui si
è comportato benissimo ai miei occhi, ovvero da psicopatico
secondo il parere di una persona normale. Faceva il suo lavoro, era
piuttosto schivo, glissava in modo esperto quando non voleva concedermi
una risposta e dormiva poco e niente. Ora, nel vedere dal vivo le sue
occhiaie, violaceo riflesso delle mie, mi rendo conto di quanto mi
assomigli e del perché fosse resistito per tutto quel tempo
sotto la mia guida.
Lo
guardo alzarsi, troppo alto per aggirarsi in modo elegante e sicuro
nella mia piccola casa in legno piena zeppa della mia robaccia. Mi
segue fuori e osserva le mie mani affaccendarsi con la
serratura.
«Parli
sempre a lungo delle mani nei tuoi scritti. Mani di carnefici, mani
innocenti, mani con i polpastrelli macchiati di sangue...»
Nessuno
se n'era mai accorto, nemmeno Felicity che solitamente è una
lettrice attenta e - soprattutto - critica.
«Parlano
sempre tutti degli occhi. Gli occhi specchio dell'anima e storie varie.
Credo che le mani siano più sincere», sussurro
incamminandomi nel bosco dietro casa.
Un
leggero pendio conduce ad una radura, dove solitamente passo la
stagione estiva, cullandomi sull'amaca e provando a colpire
più scoiattoli possibili lanciando pistacchi con la fionda.
Solitamente finisce che io non centro neanche un bersaglio, mentre loro
fanno indigestione di pistacchi.
L'ho
scoperta solamente sette mesi dopo essermi trasferita, principalmente
perché non appena acquistai la casa una frenesia, che non ho
mai più sperimentato, mi colse e mi portò a
settimane e settimane di prolifica reclusione. Nacque così
il mio terzo romanzo, che tutt'ora resta quello di cui mi vergogno meno.
«Cosa
raccontano le tue mani?». Mi ha seguita, ne ero certa. Io non
gli avrei lasciato scampo, fossimo stati a parti invertite. Fiato sul
collo, sempre. Fino alla vittoria finale. O all'annientamento reciproco.
«I
miei molteplici e crudeli omicidi», lo zittisco, sedendomi a
cavalcioni della vecchia panca di legno mezza ricoperta dal muschio,
che trovai già in posizione anni fa al mio
arrivo.
«Bambini?
Giovani fanciulle bionde nel fior fiore degli anni? Inermi signore
anziane?»
Mi
ritrovo a reprimere un sorriso.
Zoe, per carità, fai la seria per una
volta. Prima o poi qualcuno ti crederà e nel giro di un
battito di ciglia ti ritroverai rinchiusa a Guantanamo. Le
parole di Madre mi rimbombano in testa.
«Principalmente
giovanotti biondi e con un'altezza sopra la media...»
Potrebbe
essere l'inizio di un romanzo horror. Dopotutto il Maine è
la patria del caro vecchio Stephen King. Kilometri di abeti ed
isolamento, due ragazzi che si detestano. Una lite, un attimo e una
pietra colpisce l'osso occipitale con troppa forza. Sangue, perdita di
coscienza. Cosa ho fatto?
Dovrei prendere nota, magari se ne può ricavare un piccolo
racconto per il mio blog.
«Ho
letto la bozza dei primi tre capitoli che mi hai inviato ieri
sera...»
Avrei
voglia di chiedergli quando sia riuscito a fare ciò dal
momento che è mattina presto e si trova disperso nel Maine.
Avrà pure dovuto intraprendere un viaggio per arrivare fino
a qua, no?
«E...?»,
lo incalzo, curiosa mio malgrado.
Scuote
quella zazzera platinata e ride sommessamente tra sé.
«Il sole della Florida non deve averti fatto bene»
Ottimo,
ora sapeva anche che ero originaria della Florida e dove avevo
trascorso le mie vacanze estive. Probabilmente avrei dovuto scrivere
una guida a quattro mani con mia madre su come mandare a puttane
un'identità anonima costruita con tanta fatica in quasi
dieci anni.
«Cheerleader?
Sul serio?», rincara la dose.
L'avevo
detto che il lavoro procedeva a rilento e in maniera insoddisfacente,
ma un conto è ammetterlo a me stessa, un altro sentirmelo
sbattere in faccia da questa sottospecie di watusso ossigenato.
«Le
ho sempre detestate», mi limito a commentare in modo un po'
ottuso.
Che
fine ha fatto la mia lingua tagliente dalla risposta sempre pronta?
«Dai,
che sorpresa!», esclama ironico. «Posso provare a
indovinare la descrizione della Zoe liceale?»
Non
mi piacciono questi giochetti, soprattutto se riguardano la mia persona
e non sono io ad averne il controllo.
«Non
serve barare, immagino che mia madre ti abbia già fornito
anche i più irrilevanti dettagli della mia sventurata
gioventù», mi difendo nella speranza che decida di
lasciar perdere.
«Purtroppo
non ne ha avuto il tempo quindi sarà tutta farina del mio
sacco». Si sistema di fronte a me sulla panca e mi fissa
solenne prima di prendere fiato. «Allora, diciamo che ci
troviamo in un esclusivo liceo privato di Tampa, più o meno
dodici anni fa?»
«Più
o meno», confermo evitando di spiegare che io il liceo dodici
anni fa lo avevo già terminato. E che Montgomery Van Houten
aveva spedito i suoi pargoli alle scuole pubbliche.
«Eri
già ai tempi pelle ed ossa come ora, ma la tua carnagione
era più dorata grazie alla continua esposizione al sole
della Florida. Ti aggiravi arcigna per i corridoi, i capelli neri come
era il tuo umore per la maggior parte del tempo. Ascoltavi musica
distruggi timpani, piena zeppa di parolacce, e non avevi uno straccio
di amico. Osservavi il mondo da lontano, colma di rabbia e
risentimento, convinta di essere impegnata in una guerra solitaria
contro il mondo. Ci sono quasi?»
Sorrido
divertita. «Alla stesura della presentazione di un romanzetto
young adult? Quando arriva il giocatore di football, il golden boy
dell'istituto, che la conquista con un frappè alla ciliegia
e una promessa d'amore eterno?»
«Stiamo
sconfinando nell'horror così però...»
«...Honey, prima di te non sapevo cosa significasse
amare. Sei stata tu, con i tuoi modi impacciati e le tue gote sempre
rosse di timidezza, ad insegnarmi ad ascoltare il mio cuore...»,
improvviso stando al gioco.
Lui
coglie la palla al balzo e si avvicina di più a me,
scivolando in avanti sul legno della panca.
«...Nathaniel, io non so cosa dire. Ti ho sognato per
così tante notti, nella tua divisa blu sgargiante, vincere
il campionato studentesco e portarmi sulle tue spalle a festeggiare con
i tuoi amici. Sognavo i tuoi occhi verdi e il tuo invito al ballo di
fine anno, ma non mi ero mai spinta così in là da
sperare di conquistare il tuo cuore irraggiungibile...»
Senza
volerlo mi ritrovo intenta nel scambiarmi un sorriso con Johannes.
«Chissà perché vanno così
tanto di moda queste coppiette di adolescenti assolutamente
irrealistiche. Le protagoniste femminili nella stragrande maggioranza
dei libri sono delle totali imbranate, che cadono, si feriscono
utilizzando le forbici dalla punta arrotondata a prova di Art Attack. E
ovviamente sono delle turbo-secchie, sempre impegnate a diventare orbe
sui libri e troppo sfigate per avere uno straccio di vita sociale,
perlomeno prima dell'avvento del nostro eroe bamboccione...»
«...il
quale ovviamente è alto, bellissimo e con un passato
tormentato. O perlomeno con un genitore morto o un coinvolgimento in
qualche giro poco raccomandabile. Molti tatuaggi e una moto.
Può avere tutte le ragazze della scuola, ma lui no, lui
sceglie la talpa studiosa tra tutte. Amore, scintille, ma purtroppo
qualcosa minaccia di dividerli. Lei non mangia per settimane, la sua
vita senza lui ormai è priva di senso. Lui nel frattempo fa
a botte così a caso e si mette in pericolo. Poi capiscono
che esistono solo in coppia, si ritrovano, scena di sesso descritta
male, fine.»
Per
essere due che disprezzano quei romanzetti ne sapevamo fin troppo.
Decido
all'improvviso che quella tregua deve finire, riesco a percepire il
lieve rumore del suo respiro e i palmi delle mie mani iniziano a
formicolare. «Ottimo allora! Tu mi hai visto e io ti ho
licenziato, entrambi abbiamo ottenuto ciò che volevamo. Ora
proporrei di salutarci e andare ognuno per la propria
strada», esordisco alzandomi in piedi ed indietreggiando di
qualche passo.
Lui
pare divertito dal mio repentino dietrofront, ma si limita ad alzarsi a
sua volta e a valicare nuovamente il limite invisibile che sancisce
l'inizio del mio spazio personale, nel quale preferirei che solo Jake
Gyllenhaal entrasse.
«Non
pensare di potertela cavare così facilmente...»,
sussurra lui.
Alzo
lo sguardo, in modo da poterlo fissare negli occhi nonostante la sua
altezza notevole. Trovo due pozzi neri scintillanti di determinazione.
Non lascerà perdere, continuerà a darmi il
tormento finché morte non ci separi. Chi dei due
ucciderà per primo l'altro, quella è una faccenda
tutta da decidere.
«Addio,
Johannes», lo saluto voltandogli le spalle e incamminandomi
spedita tra gli alberi.
Una
risata di scherno mi raggiunge. «A presto, Van
Houten!», strilla, facendola suonare come una minaccia.
A
presto un corno di rinoceronte!
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Capitolo 25 *** EXTRA: Stella di Natale ***
Mildred e
Matthew
«Comincio
a pensare che in fondo mia madre non avesse del tutto
torto...»
Come
risposta ricevette uno sbuffo esasperato ed un'imprecazione soffocata.
«Lei
me lo ripeteva sempre e io che mi ostinavo a non darle ascolto,
bell'affare davvero!»
«Di
cosa stai blaterando?»
«Della
tua assoluta incapacità nel prenderti cura e provvedere alla
sottoscritta! Sto blaterando di questo, Matthew!»
Erano
trascorse ormai più di cinque ore da quando si erano
lasciati alle spalle l'aeroporto di Milano Malpensa con la piccola
utilitaria rosso fuoco presa a noleggio.
Al
loro arrivo li aveva accolti un cielo plumbeo, minaccioso e una serie
di raffiche di vento gelido e pungente, che aveva subito fatto loro
maledire la scelta di mettere cuffie, sciarpe e guanti nei bagagli in
stiva.
D'altronde
avevano scelto l'Italia per il suo celebre bel tempo. Il meteo
però da allora non aveva fatto altro che peggiorare, la neve
aveva cominciato a scendere copiosa e il loro navigatore satellitare
aveva iniziato a fare i capricci.
Adesso,
ore più tardi, la neve non accennava a diminuire e la
visibilità si faceva sempre più scarsa.
«Beh,
se lo dice tua
madre allora deve essere
vero per forza! Quando mai quella donna si è sbagliata su
qualcosa? Quando mai ha parlato a sproposito e senza cognizione di
causa?»
Matthew
era stanco, la notte precedente alla partenza aveva dormito poco e
niente e aveva lasciato irrisolte a Boston un paio di importanti cause.
Non
era abituato a guidare per lunghi periodi e soprattutto non in campagne
sconosciute ed innevate nel Nord Italia.
«Qui
ci siamo già passati un quarto d'ora fa! Quell'insegna
rossa...la vedi? Stiamo girando in tondo, c'è troppa nebbia.
Nessuna guida accennava a tutta questa nebbia, accidenti!»
«Vorrei
ricordarti chi è stato a consigliarci di venire
nell'assolata Italia nel mese di dicembre e per di più nella
zona settentrionale...», borbottò Matt,
rassegnandosi a mettere la freccia e fermarsi in una piccola area di
sosta lungo quella strada nel bel mezzo del nulla.
«Mamma
è sempre andata a Positano in giugno! Che ne poteva sapere
lei di questa maledetta nebbia e di... dov'è che
siamo?!»
Il
navigatore comunicò loro che si trovavano
approssimativamente in un punto imprecisato tra la Bassa Bresciana e il
Cremonese. Luoghi che risultarono loro del tutto sconosciuti e mai
sentiti.
«L'albergo
è a Verona, quanto ci vorrà ancora?».
Mildred
aveva preso la patente anni fa e da allora si era limitata a guidare
solamente in quelle rare occasioni durante le quali il fidatissimo
autista della sua famiglia era stato assente. Quando però,
l'anno precedente, aveva finalmente acconsentito a sposare Matt e
quest'ultimo si era rifiutato di mantenere un autista per scarrozzarla
si era vista costretta a rimettersi alla guida.
Aveva
così scoperto che guidare le piaceva da matti, soprattutto
su strade poco frequentate e piene di curve pericolose. Nessuno
però sembrava apprezzare le sue abilità alla Niki
Lauda e così si ritrovava molto spesso relegata sul sedile
del passeggero, impegnata a tenere il broncio alla persona al volante.
«Con
questo tempo ci impiegheremmo troppo...», rifletté
Matt, fissando quella densa cortina scura che li avvolgeva da tutti i
lati e nascondeva alla loro vista qualsiasi cosa.
Mildred
fece per aprire bocca, ma il marito la fermò
precipitosamente. «No, non ti farò guidare. Non se
voglio vivere abbastanza per festeggiare il nostro primo anniversario e
fare ritorno in patria anche solo per dire per una buona volta a tua
madre quanto avesse torto»
«Quanto
sei noioso! Cosa vuoi fare? E non osare proporre qualcuna delle tue
stupide idee da scout! Non dormirò in macchina, non
andrò alla ricerca di legnetti e rametti e non
scuoierò scoiattoli a mani nude, mi sono fatta fare la
manicure solo l'altro ieri!»
«Io
non ho mai scuoiato alcun tipo di animale!», si difese
indignato Matt.
Lei
alzò gli occhi al cielo. «Ma se tua mamma non fa
altro che ripetere quanto fossi temibile? Tu, la sua giovane nutria con
la fionda!»
«Marmotta»
«Cosa?»
«Giovane
marmotta. Le nutrie non c'entrano nulla»
«Non
sono la stessa cosa più o meno?»
«No,
non lo sono. La marmotta è un animale che -»
Lei
alzò le mani in segno di resa. «Non ricominciare
con le tue tirate sugli animali»
«Pensavo
che guardare con me i documentari della National Geographic ti avesse
dato perlomeno le basi. Sai, distinguere un gabbiano da un pipistrello
o un ippopotamo da un rinoceronte. Cose così...»
«Di
solito dormo e tu neanche te ne accorgi. E poi basti già tu,
no? Nella coppia tu contribuisci conoscendo la differenza tra nutria e
marmotta e io parlando quattro lingue, risolvendo le situazioni spinose
e probabilmente portando in grembo i tuoi futuri figli scout. Mi pare
equo...»
«Mildred,
cosa ci eravamo detti?», sospirò sconsolato.
Lei
alzò gli occhi e incrociò i suoi. Nonostante la
penombra erano blu, calmi e rassicuranti come sempre. Come lo erano
stati la prima volta che li aveva incrociati al secondo piano della
biblioteca di scienze naturali del campus dell'università,
tre anni prima quando suo padre aveva avuto un infarto ed era stato
salvato per il rotto della cuffia o il dicembre precedente, quando si
erano scambiati le promesse in una Boston ghiacciata e bellissima.
«Devo
smetterla di fare la stronza», pigolò sconfitta.
Le
loro mani si intrecciarono al di sopra della leva del cambio - non gli
era riuscito di ottenere un'auto automatica - e si strinsero forte.
Decisero
di comune accordo, dopo innumerevoli discussioni, di cercare un albergo
o qualunque cosa gli assomigliasse nelle vicinanze e fermarsi
lì per una notte.
Il
telefono di Mildred si era spento ore prima, con la batteria ridotta
allo 0% dai suoi molteplici tentativi di fare shopping online sul sito
di Victoria Beckham. Non avevano pensato ad acquistare una SIM italiana
temporanea e così attivarono il servizio roaming, ben
consapevoli del salasso economico a cui andavano incontro.
L'albergo
più vicino risultò essere un affittacamere in un
comune a un paio di chilometri di distanza di nome Fiesse, non c'era il
link di alcun sito internet, ma un numero di telefono era segnato
accanto all'indirizzo.
Matthew
poteva pur avere una conoscenza enciclopedica a proposito del diritto e
del mondo animale, ma le lingue straniere non erano mai state il suo
forte. Inglese madrelingua, non aveva mai tentato di uscire dalla sua
comfort zone, confidando sempre nella buona volontà altrui
nell'apprendere la sua lingua, che fortunatamente era considerata
l'idioma universale per eccellenza.
In
quel campo Mildred lo batteva su tutti i fronti. Era stata allevata da
una tata tedesca, aveva frequentato un collegio in Francia e aveva
scritto la tesi a Firenze durante il suo ultimo anno di specialistica.
Si destreggiava con disinvoltura tra le sue conoscenze linguistiche e
non si stancava mai di approfondire e perfezionare le nozioni
già in suo possesso.
«Cedo
a te l'arduo compito...», affermò sollevato Matt,
porgendo alla moglie il proprio telefono.
«Ovviamente...»
Le
dettò il numero di telefono e successivamente
ricontrollarono che fosse giusto e che il prefisso inserito fosse
corretto.
Matthew
approfittò di quel momento per studiare la vecchia cartina
stradale che avevano trovato nella portiera del passeggero. Sarebbe
bastato fare inversione, proseguire su quella strada fino
all'intersezione con una statale e da lì prendere l'uscita
sulla sinistra, poi alla seconda rotonda si doveva svoltare a destra e
lì ci sarebbe dovuta essere la pensione.
«No,
una notte. Una soltanto, sì, esatto. Stanotte, domattina
ripartiamo. Mmh, mmh...no! Siamo in due...si, va bene tutto. Ok,
perfetto! D'accordo, ci vediamo tra poco. Grazie mille! Ah
sì, Signore e Signora Levinson. A dopo!». Mildred
chiuse la telefonata e tirò un sospiro di sollievo.
«Fatto?»
Annuì
soddisfatta. «Le tre camere in affitto sono già
occupate dai loro lontani parenti arrivati per le feste natalizie o
qualcosa del genere. Però fortunatamente hanno una piccola
dependance e possono sistemarci lì per una
notte...»
Poteva
andare peggio, pensò Matthew, mentre rimetteva in moto
l'auto e si apprestava a reinserirsi nella nebbia sempre più
spessa.
Dieci
minuti più tardi, dopo aver sbagliato per due volte
l'uscita, riuscirono a raggiungere la rotonda e a
parcheggiare l'automobile in un piccolo parcheggio di fronte ad una
farmacia.
Si
riusciva solo ad intravedere la luce al neon verde della croce
lampeggiante della farmacia, che segnava 1°C e li informava che
erano le 22.07, dopodiché non si vedeva alcunché.
Uscirono
dal caldo abitacolo e il respiro si mozzò loro a contatto
con la gelida aria invernale. Recuperarono i bagagli e provarono ad
avvicinarsi alla strada, alla ricerca di un cartello stradale o di un
numero civico.
«Questo
è il 7!», esclamò Matthew, rimuovendo
un velo di neve dalla cassetta della posta dell'unica casa presente dal
lato di strada della farmacia.
La
pensione si trovava al numero 12, così attraversarono la
strada deserta e si ritrovarono di fronte ad un citofono debolmente
illuminato che recava impressa la scritta 'Affittacamere Luisa'.
Essendo
un'ora tarda Mildred si rifiutò di suonare il campanello,
nel timore di svegliare gli ospiti e si impuntò per
telefonare e annunciare così il loro arrivo.
Passarono
altri cinque gelidi minuti prima che il cancello venisse aperto e uno
spiraglio di luce illuminasse il grande porticato della casa a tre
piani.
«Buonasera,
prego entrate. Benvenuti! Avete fatto fatica a trovarci? Immagino di
si, con questa nebbia è praticamente impossibile
spostarsi!», li accolse un'anziana signora dall'aria materna
e gioviale.
Matthew
non capì una parola e così si limitò a
sorridere, grato per l'accoglienza e il calore che regnavano in
quell'anticamera arredata con gusto alquanto rustico.
«Buonasera,
grazie mille! È stato piuttosto complicato, ma ora siamo
qui. Io sono Mrs. Levinson e lui è mio marito, purtroppo non
parla e non capisce alcunché di italiano», si
scusò indicando il consorte, impegnato a scaldarsi le mani
vicino all'unico termosifone presente.
«Sbrighiamo
subito le faccende burocratiche così vi lascio andare a
riposare. Allora la dependance sarà un po' fredda
perché non aspettavamo ospiti e abbiamo acceso il
riscaldamento solo dieci minuti fa. Qui c'è la vostra
biancheria per letto e bagno e un cestino con uno spuntino, ho pensato
che forse non avevate avuto il tempo per cenare come si deve. Mi serve
solo un documento d'identità, un paio di firme e...per una
notte fanno 35€!»
La
ringraziò e tradusse velocemente a Matthew.
«Ovviamente
tu mi rendi partecipe solo quando si tratta di tirare fuori i
soldi...», fu il suo unico commento.
Saldarono
il conto, firmarono il registro e uscirono nuovamente nella tormenta
per seguire la Signora Luisa nel retro del giardino.
Dovettero
camminare per cinque minuti nella neve prima di riuscire ad intravedere
le finestre debolmente illuminate di quella che pareva essere una
graziosa casetta in legno dal tetto spiovente.
Altri
cinque minuti e si ritrovarono da soli, attorniati dalle valigie, al
centro di un ampio salone tutto pietra e legno di pino.
«Qui
dentro si congela...», constatò Matthew,
allungando una mano per tastare il calorifero vicino alla porta.
***
«Cosa
credi di fare? Matt, non sei mai riuscito neanche a riparare la
lampadina fulminata in soggiorno, figurarsi una doc-»
Il
getto della doccia si aprì e iniziò ad erogare
un'abbondante quantità di acqua gelida.
«Dicevi?»
«Pff,
la fortuna del principiante!», gli tarpò le ali
lei.
Matthew
fece per uscire dalla vasca da bagno quando, del tutto senza preavviso,
il miscelatore della doccia impazzì iniziando a comportarsi
come se fosse un impianto d'irrigazione, spruzzando acqua tutto attorno
e bagnando ogni cosa.
Scivolò
sulla superficie smaltata bagnata della vasca e si ritrovò
lungo e disteso, completamente zuppo.
«Cosa
avevi appena detto?», sbraitò Mildred, mentre
tentava di mettersi al riparo dietro la tenda in plastica impermeabile
decorata con piccole nuvolette.
Allungò
un braccio e con la punta delle dita riuscì a chiudere il
rubinetto. L'acqua gorgogliando iniziò a svuotarsi
giù per lo scarico e lei fece capolino per controllare la
situazione.
Le
balzò subito agli occhi che qualcosa non andava quando vide
il marito premersi forte un palmo contro la tempia e delle goccioline
di un rosso pallido scivolargli lungo la manica della camicia
impregnata d'acqua.
«Oh
mio dio! Matt! Ma sei ferito?», si allarmò,
lasciando perdere il suo riparo e gettandosi in ginocchio sul pavimento
bagnato.
Gli
scostò con delicatezza i capelli e osservò la
piccola ferita sanguinante che faceva capolino sulla pelle imperlata
d'acqua. Fortunatamente non pareva niente di grave e così
gli ordinò di alzarsi, infilarsi l'accappatoio e mettersi un
paio di pantofole prima di prendersi qualche malanno.
Nel
frattempo lei raggiunse la camera da letto, dove avevano abbandonato le
valigie chiuse accanto alla porta d'ingresso. Sua madre le aveva
tramandato molto gentilmente una certa ansia ipocondriaca che la
portava a temere sempre il peggio e ad evitare a tutti i costi luoghi
pubblici troppo affollati, ospedali e persone colpite da malattie
potenzialmente contagiose.
Eppure
quasi tutte le fasi salienti della loro relazione avevano avuto come
sfondo malattie, lunghe convalescenze e corsie asettiche di ospedali.
Solo
un paio di anni prima c'era stato quel brutto incidente che aveva visto
coinvolta Mildred, ai tempi ai ferri corti con Matthew. Quest'ultimo
era stato mandato per un periodo di sei mesi in uno studio notarile
associato con sede a Montreal. E così si era visto costretto
a lasciare sola la sua ragazza, dopo solamente tre mesi di convivenza
nel nuovo appartamento che avevano acquistato insieme.
I sei mesi erano scaduti da una decina di settimane e ancora lui non
accennava all'idea di un imminente rientro in patria. Mildred
continuava a dormire da sola in un letto troppo grande per lei e a
volare in Canada non appena possibile. Non si era mai lamentata, ma
Matthew percepiva il suo disappunto in ogni suo gesto e in ogni suo
silenzio.
Tutto
era degenerato poco prima di Natale, quando lui le aveva telefonato
informandola che non sarebbe volato a casa prima della Vigilia. La cena
del 24 Dicembre per la famiglia di Mildred era una sorta di istituzione
e il solo fatto che Matthew fosse stato invitato per la prima volta,
nonostante si frequentassero da svariati anni, era già di
per sè un fatto singolare.
Le
presentazioni erano già state fatte anni prima, ma mai in
occasioni ufficiali come una cena con la famiglia al gran completo.
Quella era la prova dell'otto, superata quella Matthew avrebbe avuto la
strada spianata per sempre. Mildred aveva minimizzato l'importanza di
quell'invito, ma in verità fremeva d'ansia. Matt non
l'avrebbe delusa, ne era certa.
Alle
18.30 di quel 24 Dicembre di lui però non c'era traccia e il
suo telefono continuava a suonare a vuoto. Sarebbe dovuto atterrare ore
prima, il sito di monitoraggio dei voli lo confermava, ma non aveva
ancora ricevuto alcuna notizia da parte sua. Lui doveva esserci
quella sera, lo aveva promesso. Quasi trenta parenti lo attendevano e
lei non poteva presentarsi sola, non lo avrebbe sopportato. Non dopo
anni al tavolo delle prozie zitelle e dei cuginetti in età
scolare.
Mettersi
alla guida con tutti i telegiornali che annunciavano una tormenta di
neve in arrivo giusto in tempo per la mezzanotte di Natale non si era
rivelata una scelta saggia. Aveva raggiunto Boston premendo
all'impazzata sull'acceleratore, gli sguardi preoccupati e scettici dei
suoi genitori impressi a fuoco nella mente. Il loro appartamento si
trovava nella zona est, in una zona piuttosto verde, abitata
principalmente da giovani famiglie. Trovare tutte le luci di casa
spente e le finestre sbarrate la fece deprimere ancora di
più. Dov'era Matthew?
Ormai
erano le 21 suonate, lei si era tolta le scarpe già da un
pezzo e se ne stava seduta al buio sulla poltrona che dava le spalle
alla porta d'ingresso, un bicchiere di vino bianco stretto in una mano.
Quando la porta si aprì, lei non si mosse di un centimetro.
Ascoltò i suoi passi stanchi avanzare per l'ingresso, il
tintinnio delle chiavi che venivano lasciate cadere in una tasca, il
fruscio di un cappotto che veniva abbandonato sopra lo schienale del
divano.
«Dove
sei stato?»
Detestava
impersonare quel ruolo, lo detestava con tutto il suo cuore, ma
meritava delle spiegazioni e le avrebbe pretese, anche a costo di
passare per la fidanzata psicopatica.
«Mil...».
Un sospiro, pochi passi attutiti dal legno del parquet e poi il
silenzio.
Avevano
speso così tanto tempo per scegliere quell'esatta tipologia
di legno e quella sfumatura calda per il parquet della loro nuova casa.
Per mesi avevano dedicato ogni weekend alla realizzazione di quel
piccolo nido, punto di partenza della nuova vita che avevano deciso di
condividere. Ma erano mesi ormai che non condividevano più
nulla, se non delle stanche conversazioni telefoniche che si sentivano
obbligati a sostenere ogni sera.
«Perché
non sei a casa?», chiese lui, avvicinandosi alla poltrona e
sfilandole dalle dita il bicchiere ormai vuoto.
Fu
allora che Mildred realizzò che non era altro che una donna
alla soglia dei trent'anni che non era stata in grado di concludere un
granché. Si era illusa che quello sarebbe stato l'inizio
della sua vita da adulta. Basta fughe, basta tira-e-molla, basta
incertezze. Aveva un lavoro da freelance, un mutuo appena avviato, un
uomo affidabile al suo fianco. Invece si era ritrovata alle prese con
un impiego che le concedeva la libertà di lavorare da casa,
ma le occupava le serate e i fine settimana, impedendole di dedicarsi
ai suoi affetti, che invece avevano tutti un tranquillo lavoro che
andava dal lunedì al venerdì. La casa era un
impegno in più, le pulizie, la spesa, il bucato. E a fare
tutto ciò era sempre stata sola, con Matthew in Canada. E
Matthew, Matthew si era dimostrato distratto, assente non solo
fisicamente e di poco supporto.
«È
questa casa mia! Questa casa che abbiamo scelto insieme tra decine di
altre case, questa casa che abbiamo acquistato e trasformato insieme,
dove avremmo dovuto vivere insieme. Cosa potevo dire ai miei genitori?
Me lo avevi promesso, Matthew, lo avevi promesso!»,
strillò incapace di mantenere il solito controllo. Fu
liberatorio, per una volta, non sforzarsi di soffocare le proprie
emozioni, non calibrare le proprie reazioni e agire impulsivamente.
Si
fronteggiarono, in piedi di fronte alla grande portafinestra del
soggiorno. La stessa portafinestra che con l'ampia terrazza a cui dava
accesso li aveva convinti a prendere quell'appartamento.
La
luce era ancora spenta e così solo la penombra data dai
lampioni e dalle luci dei palazzi attorno a loro si rifletteva sul
volto stanco di Matthew e negli occhi delusi di Mildred.
«Mildred,
sai benissimo che siamo nel bel mezzo di una trattativa delicatissima e
che la buona riuscita di questo incarico sarà decisiva per
il mio futuro. Ne abbiamo parlato mille volte e tu ti sei sempre
dichiarata d'accordo, sei sempre stata al mio fianco e io ti sono grato
per il sacrificio che hai fatto, dico davvero»
«Me
ne sei grato? Dovrei ringraziarti? Sono stata in silenzio, Matthew, ho
vissuto da sola per quasi un anno, portando avanti questa casa che
doveva essere nostra. Ho preso quasi quaranta voli per Montreal, contro
l'unico viaggio che tu hai fatto fino a Boston per la nascita della
figlia di Liam! Ti avevo chiesto solo una cosa in cambio, solo la tua
presenza stasera a quella maledetta cena!»
Matthew
lo sapeva, aveva fatto di tutto per liberarsi in tempo, ma aveva
fallito, nonostante la quantità assurda di soldi che aveva
dovuto sborsare per farsi posticipare il volo, nel disperato tentativo
di arrivare in tempo.
«Dammi
un quarto d'ora, mi faccio una doccia, mi cambio al volo e andiamo dai
tuoi. Ci sono delle camicie stirate qui nell'armadio?»
Era
l'armadio di casa sua, una casa in cui non aveva quasi mai vissuto, e
non sapeva più neanche cosa contenesse.
«Sì,
c'è tutto quello che ti può servire. Non voglio
che tu venga a casa dei miei genitori, non stasera. Ci andrò
da sola e ci resterò almeno fino a Capodanno, credo sia
meglio così», mormorò Mildred,
dirigendosi verso la stanza da letto.
Recuperò
il vecchio borsone che utilizzava quando in passato trascorreva il
weekend a casa di Matthew e iniziò a infilarci dentro capi a
caso che prelevava alla cieca dal cassetto della biancheria pulita.
Una
mano le circondò il polso, obbligandola a fermarsi.
«Cosa stai dicendo? Sono tornato solo per te!»
«Altrimenti
cosa avresti fatto? Se ti avessi detto che potevi restare in Canada
anche per le feste natalizie? Avresti lavorato e mi saresti stato grato per
aver compreso?», sibilò furiosa, liberandosi dalla
sua presa e passando al ripiano dei maglioni.
«Io...Mildred,
stai solo facendo i tuoi soliti capricci. Sono qui, sono qui con te
adesso. È questo l'importante, non credi? Adesso ci calmiamo
entrambi e partiamo-»
«Calmati
tu, stronzo!», gli gridò prima di correre fuori
dalla stanza.
Lasciò
perdere l'ascensore e si gettò giù per le scale,
il borsone stretto tra le braccia. Non aveva la minima idea di cosa
stesse facendo, se lui la stesse rincorrendo, se avesse senso quel suo
istinto di fuga.
Raggiunse
la sua auto, il respiro mozzato dal freddo e dalla corsa. Era senza
cappotto, senza scarpe e probabilmente senza senno. Si era appena
chiusa la portiera alle spalle quando lo vide, scarmigliato e affannato
che spalancava il portone del loro palazzo e si lanciava al suo
inseguimento.
Gli
rivolse un ultimo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore e
partì in quarta, senza mai sollevare il piede
dall'acceleratore.
Sognavano
tutti delle grandi storie d'amore, uno di quegli amori in grado di
farti toccare il cielo con un dito e che ti regalano una
felicità unica, completa e contagiosa. Ma quei grandi amori
sono anche gli stessi che ti portano a guidare senza meta tra la neve,
la vista appannata dalle lacrime. Sono quelli che in cambio di tutta
quella gioia pretendono piccoli pezzi del tuo cuore, lasciandoti molto
spesso agonizzante al suolo se colui a cui li hai donati si allontana
troppo portandoseli con sé. Ne valeva la pena?
La
risposta era così chiara, la consapevolezza la
illuminò all'improvviso e il suo piede pigiò
all'improvviso sul freno, incurante della folle velocità a
cui si stava muovendo la vettura e dello spesso strato di ghiaccio che
ricopriva l'asfalto.
Successe
tutto in un attimo. Perse il controllo dell'auto, un boato.
Matthew
era il suo grande amore.
Poi
il buio.
Si
era risvegliata poco dopo, la testa che pulsava, i capelli umidi e
qualcosa di caldo che le bagnava la nuca. Era stordita dalle mille
sensazioni contrastanti che stavano attraversando il suo corpo. Un
dolore sordo alla spalla sinistra, il gelo pungente della neve, il
cuore traboccante d'amore. Qualcuno le stava puntando la luce di una
torcia dritta in viso e lei chiuse gli occhi per proteggersi.
Ricordava
sprazzi di conversazioni, mani che la toccavano con delicatezza, un
rumore di passi, una sirena che si avvicinava, luci blu lampeggianti.
Poi qualcuno l'aveva medicata, le avevano steccato un braccio e
l'avevano sollevata con estrema cautela.
Quando
si era risvegliata una seconda volta era distesa in uno sterile lettino
d'ospedale, un braccio immobilizzato e la mano intrappolata in una
presa calda.
La
testa di Matthew era posata sul materasso, gli occhi chiusi e
un'espressione tesa dipinta in volto nonostante il sonno. Avrebbe
voluto accarezzarlo, domandargli cosa era successo, ma si
limitò ad osservarlo con infinito affetto.
Aveva
aperto gli occhi e lui era lì. Era lì solo per
lei e questo probabilmente bastava a dimostrare quanto tutto
ciò di cui lo aveva accusato poche ore prima fosse
sbagliato, sbagliato e ingiusto.
Poco
dopo un'infermiera fin troppo loquace era arrivata nella stanza e da
lì fu un susseguirsi di notizie e visite. Aveva avuto un
incidente, era finita fuori strada a causa del manto stradale
ghiacciaio. Una macchina si era fermata qualche minuto più
tardi e aveva allertato i soccorsi, aveva contattato subito il numero
delle emergenze salvato in rubrica, che altri non era che Matthew.
Quest'ultimo era accorso immediatamente, aveva chiamato la famiglia
affinché rilasciassero il permesso di visita anche a lui.
Dopodiché non si era più allontanato dal suo
letto.
Uno
splendido giorno di Natale insomma.
Aveva
una lieve commozione cerebrale e clavicola e omero sinistri erano
fratturati.
«Come
stai, tesoro?», le chiese Matt una volta sveglio,
accarezzandole piano la fronte.
C'erano
volute ben due ore per far sloggiare dalla stanza tutto il parentado
vario, ma finalmente erano soli.
«Mi
sento piuttosto frastornata e non riesco ancora a capire come siano
potute succedere così tante cose in meno di ventiquattro
ore...», mormorò lei.
Sapeva
di avere un aspetto orribile, i capelli ancora impiastricciati di
sangue rappreso e un antiestetico cerotto applicato proprio sul mento,
ma in quel momento nulla le pareva più importante della
presenza costante di Matthew al suo fianco.
«Quando
ho ricevuto quella telefonata ero così sollevato, credevo
volessi avvisarmi di raggiungerti e invece...»
«Invece
ho visto bene di esibirmi in una tripla capriola con automobile e
atterrare in un torrente ghiacciato», concluse mortificata
lei.
Era
stata così infantile, e così incosciente.
«Promettimi
che non metterai mai più a repentaglio la tua vita, mai
più. Non so cosa avrei fatto se...»
«Shh,
non è successo nulla per fortuna. Io sto bene, è
tutto passato. Noi staremo
bene...», lo rassicurò lei, afferrandogli la mano
e portandosela alle labbra.
«Non
volevano farmi entrare, continuavano a ripetere la solita stupida frase
riguardo al fatto che sono ammessi solo i parenti. E io non lo
sono»
Il
discorso finì nel nulla perché gli antidolorifici
uniti ad una buona dose di calmante avevano iniziato a fare effetto e
Mildred poco dopo si era addormentata. Matthew la osservò
dormire pacificamente, bellissima nonostante la camicia da notte
dell'ospedale e il viso pallido.
Era
rimasto in silenzio di fronte alle male parole che gli erano state
rivolte dalla madre di Mildred, non aveva fiatato al cospetto dello
sguardo contrariato e furioso di suo padre. Cosa avrebbe potuto dire?
In quel momento il suo corpo era teso, le gambe incapaci di fermarsi
per un solo istante, la mente confusa da una miriade di terribili
immagini che vedevano Mildred lontana per sempre.
Continuò
a guardarla e a chiedersi cosa avesse fatto per meritarsi l'amore di
quella creatura meravigliosa. L'aveva tradita, l'aveva lasciata andare,
l'aveva abbandonata. Si era preso il suo cuore, donandole in cambio il
proprio. Questo lei lo sapeva, era proprio per quello che gli aveva
sempre offerto una seconda possibilità, gli aveva sempre
teso una mano.
Ora
toccava lui: prenderle la mano, aiutarla a rimettersi in sesto, tornare
a vivere accanto a lei, proteggerla e continuare ad essere il suo primo
contatto in caso di necessità.
L'idea
gli venne all'improvviso, quando lo sguardo gli cadde sul pennarello
rosso abbandonato vicino ad una rivista di cruciverba.
Fece
attenzione a non svegliarla e quando ebbe finito le lasciò
un bacio sulle nocche della mano destra e se ne andò.
Erano
passati due anni da quella notte di Natale dove tutto cambiò.
«Continuo
a pensare che nessuno abbia mai ricevuto una proposta più
insolita ed idiota della tua...», ridacchiò
Mildred, tamponando con dell'acqua ossigenata la tempia del marito.
«Ammettilo
Mil, in fondo l'hai adorata...»
Ed
era vero, quando si era risvegliata nuovamente la luce del sole che
filtrava dalle veneziane le aveva fatto scoprire di essere rimasta
sola. Aveva provato un moto immediato di delusione, ma lo aveva
scacciato concentrandosi piuttosto sull'impellente bisogno di andare in
bagno.
Era
stato lì, mentre si guardava allo specchio, controllando lo
stato della sua ferita al mento e la profondità delle
occhiaie, che lo sguardo le era caduto sull'ingombrante ingessatura.
Lì,
sopra a quel bianco immacolato, spiccava un'unica parola, vergata in
rosso sangue.
SPOSAMI.
«Pareva
più un ordine che una domanda...»,
borbottò, applicandogli un piccolo cerotto rettangolare.
«Credo
tu ti sia rifatta quando mi hai costretto ad inginocchiarmi nella neve
di fronte a tutti i tuoi parenti, fingendo che fosse quella la proposta
ufficiale. Devo ammettere che ti dimostrasti un'ottima attrice, ci
credettero tutti...»
***
«Ti
ricordi il nostro viaggio di nozze?», le sussurrò
accarezzandole piano il collo lasciato scoperto dai capelli sparsi sul
cuscino.
Mildred
si mosse e si accoccolò più vicino a lui, la
guancia posata sulla sua spalla. «Oh sì! Ricordo
che il primo giorno volevo già chiamare Liam per chiedergli
informazioni riguardo ad un possibile annullamento del nostro contratto
matrimoniale...»
«Che
bugiarda che sei...»
«Però
devo ammettere che i giorni successivi me li sono goduta»,
tubò maliziosa, mordicchiandogli il lobo dell'orecchio.
«Vorrei
ben vedere! Le mie doti amatorie mi hanno reso celebre ad
Harvard!», gonfiò il petto lui.
Quelle
parole gli fecero guadagnare un doloroso pizzicotto all'avambraccio.
*
Mildred
lo aveva sempre saputo e accettato; Matthew aveva un carattere
estroverso, era chiassoso, divertente, catalizzava gli sguardi e
l'attenzione di tutti e sapeva godersi la vita.
I
primi tre anni di relazione erano stati un calvario, un continuo
rincorrersi e mai raggiungersi. Lui troppo immaturo per mantenere fede
alle promesse che le faceva e lei troppo cocciuta per dirgli addio una
volta per tutte.
Si
erano presi e mollati infinite volte, avevano giurato di non ricascarci
mai più e si erano dichiarati il proprio odio reciproco.
Aveva portato all'esasperazione l'intero campus con la loro storia
on-off e portato sull'orlo di un esaurimento nervoso Liam e Tiffany, i
loro rispettivi migliori amici.
La
sera del ventiquattresimo compleanno di Matt litigarono, e questa di
per sè non rappresentò una grande
novità, se non fosse che lo fecero davanti a quaranta
invitati e il tutto si concluse solo con l'arrivo di un'ambulanza.
Erano
in un periodo di pausa; Mildred quella sera era
esausta, era appena stata bocciata ad un esame e quella stessa mattina
aveva ricevuto una mail in cui le veniva comunicato di non essere stata
accettata all'ultimo anno di laurea specialistica
all'Università di Heidelberg per soli tre punti. Aveva preso
un paio di aspirine e le aveva buttate giù con una generosa
dose di Vodka Redbull. Quello era il cocktail preferito di Matt, che
lei solitamente schifava, ma quella sera non ebbe la forza di fermarsi
troppo a riflettere sulle proprie azioni. Tiffany le aveva sconsigliato
vivamente di presenziare a quel party.
Non sei sua amica, non sei una sua compagna di
corso né una sua cugina. Come giustificheresti la
tua presenza lì?
Non
era proprio niente per lui, niente di niente. Decise all'ultimo di
andarci, solo per fare un salto e augurargli buon compleanno, si disse.
Aveva
acquistato un paio di mesi prima il suo regalo, un soggiorno di quattro
giorni in una riserva faunistica del Canada. Un dono da fidanzata, ma
ormai era troppo tardi per richiedere un rimborso. Liam non sembrava
affatto un tipo da baita, abeti a perdita d'occhio e assenza di
Internet, ma perlomeno Matthew si sarebbe divertito ad andare a fare
delle escursioni nella speranza di avvistare qualche orso. O qualche
giovane turista bionda con un pessimo senso dell'orientamento.
Era
arrivata in ritardo; la musica era già alta, le cibarie
scarseggiavano e gli ospiti parevano già alquanto alticci.
Depositò
la sua elegante busta argentata in cima alla pila dei regali e si
sfilò il cappotto. Fu in quel momento che Matthew apparve
sulla soglia della cucina e lei cercò un contatto visivo con
lui.
Sapeva
che lui l'aveva vista, nonostante evitasse di guardarla.
«Auguri...», mormorò timidamente.
Trascorse
un istante, dopodiché lui la sorpassò senza
degnarla di uno sguardo, fingendo di non averla sentita.
Fu
come ricevere un sonoro ed inaspettato schiaffo sulla guancia. Le si
riempirono gli occhi di lacrime, ma si rifiutò di lasciarle
scendere.
Dopo,
ordinò a sé stessa, più tardi avrai
tutto il tempo per autocommiserarti, ora alza la testa e vai avanti.
Scappare
via avrebbe significato fare il suo gioco e così decise di
raggiungere il soggiorno alla ricerca di qualcosa di molto forte ed
alcolico.
C'era
della birra calda, del punch dal colore sospetto e un paio di bottiglie
di whisky. Tutto ciò che Mildred aborriva e che invece
piaceva tanto a Matthew. Optò per tre dita di whisky liscio,
rinunciando in partenza ad avventurarsi alla ricerca di un paio di
cubetti di ghiaccio.
Sapeva
già che se avesse aperto il freezer di Matthew ci avrebbe
trovato solo altre birre messe a raffreddare, i pacchettini con il
pranzo ordinatamente etichettati preparati dalla sua fin troppo
amorevole mamma e un barattolo di gelato alla stracciatella. L'essere a
conoscenza di tutti quei piccoli dettagli che lo riguardavano una volta
aveva il potere di farla sentire ancora più innamorata,
mentre ora voleva solo dimenticarseli al più presto per non
doverci pensare mai più.
«Mildred»
C'era
solo una persona al mondo, oltre a suo padre, che pronunciava il suo
nome come se fosse un muto rimprovero.
Ai
tempi Liam non era molto diverso dalla persona adulta che sarebbe
diventata. Era sempre stato un ragazzo attraente, ma Mildred lo aveva
sempre trovato eccessivamente serio e corrucciato. Sapeva quanto lui
disapprovasse il modo di vivere libertino del suo migliore amico,
eppure non aveva mai parteggiato per la buona riuscita della loro
relazione.
Matthew
una volta le aveva confidato che Liam la riteneva troppo focalizzata su
sé stessa e poco incline a giungere a compromessi. Si era
sentita oltraggiata, sicura com'era di essere una persona buona ed
altruista.
«Ehi
Liam, niente studio stasera?», gli domandò tanto
per fare.
Era
da tempo che non si incrociavano e si sorprese a trovarlo ad un evento
mondano. Non aveva mai ben capito cosa ci fosse nel suo passato, fatto
sta che non ne parlava mai, non tornava mai a casa e passava ogni
festività o ad uno dei suoi due lavori o dalla famiglia di
Matthew.
Lui
si strinse nelle spalle. «È il suo
compleanno...»
Già,
in fondo anche lei era lì per quello, nonostante tutto.
«Ti
trovo bene. Cosa fai adesso? Non ti ho più vista dalla tua
laurea...»
Ovvero
tre mesi prima, in un settembre insolitamente caldo e luminoso.
Conservava una foto nella sua copia consunta de I dolori del giovane Werther. Un'immagine
scattata a tradimento da sua madre, che la raffigurava sorridente con
la mano allacciata a quella di Tiffany, il braccio di Matthew attorno
alle sue spalle e un Liam meno serioso del solito sullo sfondo.
Lui
doveva essere all'ultimo anno di legge, esattamente come Matthew, e
probabilmente era ancora il primo del suo corso. Mentre lei...
«Alla
fine ho scelto Relazioni Internazionali come specialistica. Sto
pensando di andare all'estero il prossimo anno...»
«Hai
lasciato perdere Letteratura Tedesca?», le domandò
chiaramente sorpreso.
Il
suo amore per Goethe era cosa nota. Così come l'opposizione
della sua famiglia.
«Ho
dovuto fare un compromesso», tagliò corto.
Più
che un compromesso si era trattato di un silenzioso assenso, una
decisione quasi obbligata, fatta a testa bassa, dopo le innumerevoli
discussioni che avevano animato i pasti in famiglia.
«Tu
come stai?», si affrettò a chiedere, spaventata
per la prima volta dall'idea di poter apparire proprio come lui l'aveva
sempre descritta.
Fredda,
altera, per nulla interessata agli altri. Era così che
appariva? Ultimamente se lo era chiesto più volte,
accantonando ogni volta il pensiero. Non lo avrebbe sopportato, non ora
che aveva un cuore ancora malandato e una carriera universitaria che
stava perdendo pericolosamente quota.
«Non
c'è male, grazie. Com'è che non sei andata a
sciare sulle Alpi quest'anno?»
I
due dicembre precedenti non aveva mai potuto presenziare di persona ai
festeggiamenti per il compleanno del suo ragazzo, sempre confinata in
uno chalet tra i monti svizzeri con una compagnia che, conteggiando
pure lei e sua cugina di dieci anni, aveva un'età media di
sessant'anni.
Era
una tradizione di famiglia e una grande passione di suo padre, il quale
da ragazzo era stato una vera leggenda dello sci.
Quell'anno
si era rifiutata, causando ulteriore disappunto in famiglia. Aveva
deciso di lasciare il campus dopo la laurea triennale e si era trovata
un bilocale poco costoso a quindici minuti di distanza che i suoi
genitori trovavano semplicemente orrendo.
Trascorrere
le feste in solitudine le era parsa una possibilità per
rimettere ordine tra i suoi sentimenti ingarbugliati e ripartire in
piene forze con l'anno nuovo.
«Non
mi andava molto. Puoi scusarmi un attimo? Avrei bisogno di andare in
bagno...», mollò il bicchiere sul basso tavolino
accanto al divano e fece per voltarsi.
«Ti
conviene usare quello al primo piano. Seconda porta a
sinistra», la istruì lui, il tono di voce freddo.
Mildred
si infastidì. «Me lo ricordo»,
commentò pungente, prima di mollarlo lì, solo nel
mezzo dell'ampia sala.
Imboccò
in fretta le scale e percorse due scalini alla volta, lo stomaco sempre
più in subbuglio e un cattivo sapore che le invadeva la
bocca.
Era
stata in quella casa almeno un centinaio di volte se non molto di
più in quegli ultimi anni. Infinite notti passate nel letto
di Matthew, ad ascoltare il rumore del suo respiro confondersi con
quello della ferrovia poco distante.
La
musica era assordante, una qualche traccia di quell'elettronica
arzigogolata e quasi barocca, che piaceva tanto agli amici di Matthew.
La
porta era socchiusa, allungò una mano per bussare, ma
all'improvviso il suo corpo decise di averne abbastanza e
così si ritrovò a spalancare la porta e a
gettarsi a terra di fronte al water.
Vomitò
le aspirine, il cocktail di prima e il whisky appena bevuto. Quando si
sentì completamente svuotata e gli spasmi allo stomaco si
calmarono alzò la testa e i suoi occhi inorridirono.
Seduto
sul bordo della vasca da bagno, i pantaloni slacciati, e una ragazza
bionda inginocchiata e china davanti a lui, all'interno della vasca in
ceramica azzurra, stava Matthew.
Si
fissarono per alcuni istanti interminabili; mentre la bionda, ignara
del fatto di avere compagnia, continuava il suo lavoro di bocca, la
testa che si alzava ed abbassava ritmicamente.
Un
attimo dopo lui balzò in piedi e scansò la
ragazza, mentre Mildred cercava contemporaneamente di alzarsi in piedi,
pulirsi la bocca e rasettarsi i capelli.
Provò
a rimettersi in posizione eretta, ci provò con tutta
sé stessa e detestò la propria debolezza quando
riuscì solo a farsi cadere priva di forze sulla tazza del
wc, che era riuscita a chiudere un attimo prima di accasciarvisi sopra.
Vide
con la coda dell'occhio che lui era riuscito a sistemarsi i jeans e a
liberarsi della bionda, chiudendole la porta alle spalle. A chiave.
«Stai
bene?», le chiese non accennando ad avvicinarsi.
Aveva
i capelli stravolti, le pupille dilatate e i vestiti in condizioni
pietose. Mildred si rifiutò di pensare cosa avesse fatto per
ritrovarsi con quell'aspetto trasandato.
«Una
meraviglia», biascicò con la bocca impastata.
Avrebbe
davvero voluto un bicchiere d'acqua fresca, ma il lavandino era troppo
vicino a lui e così decise di lasciar perdere concentrandosi
piuttosto sulla sua modalità di fuga.
Gliela
poteva leggere sul volto, al di là delle occhiaie scure e
degli occhi troppo lucidi. Quell'espressione determinata a finire
ciò che aveva iniziato, a strapparle nuovamente dal petto
quel poco di cuore che era tanto faticosamente riuscita a rimettere
insieme.
Matthew
la osservò, così pallida e minuta, le mani
aggrappate al bordo del water come per restare ancorata a qualcosa,
nella vana speranza di non colare a picco.
L'aveva
amata tantissimo, ma lo aveva fatto nel modo sbagliato. L'aveva data
per scontata, l'aveva sempre sottovalutata, non comprendendo pienamente
la complessità e le mille sfaccettature di quella piccola
donna che ora stava tremando davanti ai suoi occhi implorandolo con lo
sguardo di lasciarla andare.
«Mil,
io...non vol-», tentò.
Lei
esplose senza preavviso. La rabbia a scorrerle nelle vene e a donarle
un'improvvisa e precaria dose di nuova energia. Balzò in
piedi e fece tre passi verso di lui e la porta.
«No.
No, non ascolterò un'altra volta le tue cazzate.
Spostati!»
Non
era abituato a sentirla alzare la voce, sempre incastrata in quella
gabbia di buone maniere in cui l'aveva costretta a crescere i suoi
genitori. Perciò si sorprese quando la sentì
urlare ed utilizzare un tipo di linguaggio non da lei.
Non
poteva lasciarla andare, non così, non con in testa come sua
ultima immagine la scena appena avvenuta nella vasca da bagno.
«M,
ascoltami un attimo, io non potevo sapere che-»
Lei
gli mise una mano sulla bocca, non curandosi di essere delicata.
«Ti ho detto di tacere. Non mi interessa sentire le tue scuse
o qualsiasi altra cosa tu abbia da dire. Ora scansati, per
favore», la voce le si spezzò sulla fine della
frase e il suo tono si fece quasi supplice.
Scosse
la testa deciso ed incrociò le braccia.
Aveva
passato una vita intera a fare solo quello che le veniva detto, a
comportarsi come ci si sarebbe aspettato da una ragazza di ottima
famiglia con dei principi saldi e all'antica. Anni trascorsi ad
abbassare la testa, ad annuire, ad annullarsi.
Fu
in quel momento che qualcosa scattò dentro di lei, qualcosa
si liberò nel mezzo del suo petto dopo anni in
cattività e le fece fremere la spina dorsale.
«Levati
dalle palle, stupido coglione!», sbraitò,
assestandogli una poderosa spallata che lo sospinse violentemente
contro il lavandino.
Fece
scattare la serratura e spalancò la porta con forza, non
curandosi di come il legno cozzò sonoramente contro il
ginocchio di Matthew.
Stava
per scendere il primo gradino verso la libertà, verso la
fine di quell'incubo, quando le sue parole la gelarono sul posto.
«Cos'è
tutto questo fuoco improvviso, Mildred?»
Non
si mosse dalla cima delle scale, le spalle voltate verso di lui. Sempre
più occhi curiosi puntati su di loro dal piano inferiore.
La
musica improvvisamente si era abbassata e aveva lasciato il passo ad
una vecchia dolce ballata, la colonna sonora più sbagliata
che poteva esserci in quel momento.
«Perché
adesso ti scaldi e ti infervori per me? Perché ora? Ora che
è troppo tardi, cara Mildred. Perché credi
dovessi sempre cercare consolazione altrove? Perché pensi di
avermi trovato con il cazzo in bocca alla prima che passava? Riesci a
immaginare perché sia successo più volte?
Perché continui a farlo?»
Lo
sentiva alle sue spalle, ferito, accecato dal risentimento. Percepiva
il suo alito alcolico sulla nuca.
«DIMMI
PERCHÉ!», le urlò nell'orecchio.
Non
si mosse, rimase immobile.
La
musica ora si era spenta, basta Prefab Sprout, ora era tempo di un
nuovo capitolo della loro telenovela preferita. L'eterno dramma Matthew e Mildred era
ricominciato.
«Non
vuoi parlare? Ok, continua a fare la sostenuta come al solito. Te lo
dirò io allora, Mildred. Sì, lo farò
io, qui davanti a tutti i miei ospiti. Volete sapere perché?
Lo volete sapere?», gridò come un folle, gli occhi
arrossati e una vena che pulsava sulla fronte.
«Matt...»,
Liam alzò la voce per farsi sentire.
Durò
per un secondo la speranza che Matthew potesse fermarsi, potesse
lasciarla stare, smettere di tenerla prigioniera.
«LO
VOLETE SAPERE PERCHÉ?»
«Non
farlo», bisbigliò così piano che si
chiese se lo avesse davvero detto ad alta voce.
«Perché
sei frigida, cazzo! Sempre impettita, sempre pronta a giudicare, sempre
con un manico di scopa infilato su per il culo. Sempre ad osannare il
tuo perfetto papà. Vorresti che fossi come il tuo paparino,
vero? Così ti piacerei di più, ti ecciterebbe di
più?»
Trascorsero
pochi secondi, un silenzio assoluto regnava nella casa, si
udì in lontananza una sirena della polizia e un'auto che
faceva scricchiolare la ghiaia del parcheggio antistante il palazzo.
Dopodiché
fu il caos. Mildred si voltò, afferrò Matthew per
il colletto della camicia, lo fissò con odio e lo
spintonò con tutta la forza che aveva in corpo.
Lui
inciampò, parve recuperare l'equilibrio, ma poi
iniziò a precipitare.
Ancora
ad anni di distanza Mildred riusciva a vedere il suo corpo cadere,
sbattere ripetutamente conto la ringhiera e il legno dei gradini per
poi atterrare, immobile e scomposto, ai piedi delle scale.
*
«Dopotutto
poteva andarmi molto peggio...»
Mildred
ridacchiò. «Massì, un trauma cranico,
una spalla lussata, clavicola e ulna fratturate. Cosa vuoi che
sia?», gli ricordò.
«Niente
in confronto al mio risveglio in ospedale. Quando mi resi conto di cosa
avevo avuto il coraggio di dirti, di farti...»,
mormorò angosciato.
Lei
gli accarezzò piano la fronte, le sue dita fredde e leggere.
«Shhh, è passato tanto di quel tempo...»
L'aveva
cercata appena dopo essere stato dimesso. Era in Svizzera e non era
raggiungibile, così gli comunicarono. Le aveva telefonato
tutti i giorni senza mai ricevere risposta. Aveva pazientato, dopotutto
ingessato com'era non poteva andare chissà dove.
«È
arrivato il nuovo semestre, io avevo di nuovo tutte le ossa integre e
milioni di scuse pronte per te. Ma tu non c'eri...»
Firenze
le aveva salvato la vita. La Toscana, gli italiani, il calore del sole,
la Cupola del Brunelleschi, Piazzale Michelangelo all'alba, il Chianti,
la sua piccola mansarda al settimo piano.
Era
stato in quell'anno che aveva lavorato su sé stessa per la
prima volta nella sua vita, aiutando ad emergere e prendendosi cura di
quel nuovo lato di sé che aveva scoperto.
Si
era dedicata solo e soltanto a sé e aveva trascorso dei mesi
meravigliosi. Andava in università, telefonava poco a casa e
provava a schiarirsi le idee. Durante i fine settimana solitamente
accompagnava gruppi di turisti in piccole gite fuori porta, insegnava
loro ad apprezzare la cucina, la storia, la tradizione italiana e lei
imparava insieme a loro.
Aveva
conosciuto Giovanni una sera di aprile, alla proiezione di un film di
Wim Wenders in lingua originale. Iniziò come una semplice
amicizia; avevano molti interessi in comune ed entrambi parevano poco
interessati ai trascorsi dell'altro. Lui non le parlò mai di
cosa facesse prima di incontrarla e lei non gli accennò mai
alla sua vita negli Stati Uniti.
La
portava in vespa per le colline toscane, le cucinava i pici al
ragù secondo la ricetta di sua nonna e l'aiutava a
migliorare la sua conoscenza della lingua e della cultura italiana.
La
prima volta che andarono a letto insieme fu in un'afosa serata di
inizio giugno, un mese esatto prima del suo rientro. Da lì
seguirono trenta giorni in cui iniziarono a comportarsi come una
coppia, pur avendo sempre dichiarato entrambi di non essere alla
ricerca di una relazione sentimentale.
Con
l'arrivo del mese di luglio e la fine della sessione d'esame estiva, si
vide costretta a tornare non avendo più scuse per rimandare.
«Eri
così diversa quando ti vidi, dopo tutto quel
tempo...», ricordò sovrappensiero Matthew.
L'immagine
di lei, i piedi scalzi e la pelle dorata dai raggi solari, se la
sarebbe ricordata per sempre. L'aveva lasciata piccola, immatura e
capricciosa, ma quella nuova donna davanti a lui non sembrava affatto
essere la stessa persona che lui si aspettava di trovare.
*
Era
rientrata in patria da circa una settimana e non aveva ancora avuto un
momento libero per fermarsi a riflettere. Lo sapeva che sarebbe stata
quella la prova finale, l'esame decisivo. Cambiare e credere di essere
una versione migliore di sé stessi era facile lontano da
casa, da tutti coloro che la conoscevano da sempre.
Aveva
sempre dato il peggio di sé lì, Boston e Harvard
avevano fatto da cornice al formarsi del suo carattere viziato e
volubile e infine al suo sgretolarsi in mille pezzi.
Era
riuscita ad avere delle conversazioni civili con i suoi genitori e per
la prima volta non aveva permesso che la sminuissero e screditassero il
percorso da lei intrapreso e il futuro che si era scelta. Aveva
risposto a testa alta a suo padre, aveva detto di no alle richieste
assurde di sua madre e si era rifiutata di accompagnarli a Cape Cod per
il 4 luglio.
Aveva
ventiquattro anni, una nuova vita al di là dell'oceano e
zero voglia di mostrarsi accomodante.
Quando
lui arrivò la trovò immersa nei suoi pensieri,
intenta a farsi cullare in silenzio dall'ampio dondolo in ferro battuto
nel giardino sul retro.
Aveva
i capelli lunghi, sciolti sulle spalle nude. Un corto prendisole giallo
limone a risaltare l'abbronzatura e dello smalto rosa chiaro sulle
unghie dei piedi scalzi.
Non
aveva la più pallida idea di come avrebbe reagito vedendolo.
Dopotutto erano passati sei mesi dall'ultima volta che si erano visti,
in cima a quella maledetta scala.
Lei
alzò lo sguardo, come percependo la sua presenza e si
limitò ad osservarlo, continuando a dondolare avanti e
indietro.
Non
batté ciglio, nascose tutto lo stupore, la furia e il dolore
sordo di alcune ferite profonde, che a chilometri di distanza parevano
quasi guarite, nel proprio cuore e lo fissò. Lo
fissò senza emozioni, un'espressione neutra a decorarle la
bocca.
Dentro
di lei però stava avendo luogo il finimondo. Lo trovava
ancora più bello del solito, con i suoi capelli color
dell'oro più lunghi del solito e una corta barba che non
aveva mai avuto. Il respiro le si era fermato per un attimo e il cuore
aveva perso un battito.
Poteva
essersi illusa, poteva essersi divertita con Giovanni a fare finta di
non avere un passato, ma ora che questo si era ripresentato e lei si
era resa conto di non essere ancora pronta a lasciarlo entrare. O a
dirgli addio per sempre.
«Ciao
Matthew», si obbligò a salutarlo.
La
sua voce era la stessa, pensò Matthew, tirando un sospiro di
sollievo. Sempre altezzosa, leggermente strascicata, ora leggermente
contaminata da un'ombra di un accento insolito, quasi esotico.
«Come
stai?», le chiese preoccupato, pur notando che fisicamente
probabilmente non era mai stata meglio.
Lei
si mosse sul cuscino candido per lasciargli un po' di spazio e l'orlo
del vestito si alzò, lasciandole scoperta una generosa
porzione di coscia.
Matthew
deglutì a disagio, obbligandosi a distogliere lo sguardo.
Aveva messo su peso, ma considerato quanto fosse ossuta in precedenza,
ora avevo un aspetto sano, pieno e ancora più sensuale di
prima.
Molto
più sensuale di prima, dovette constatare Matthew. Bella lo
era sempre stata, con i suoi tratti aristocratici, la sua bocca piena e
il corpo ben proporzionato. Ma si era sempre costretta in eleganti
abiti dal taglio classico, con pettinature raccolte e strette sulla
nuca, sempre pudica, quasi a vergognarsi delle proprie curve e della
propria femminilità.
«Direi
bene, grazie. Tu?». Appariva poco interessata, quasi annoiata
da quello scambio di battute.
Lui
si domandò come faceva a restare impassibile quando a lui
pareva di essere ad un passo da avere un colpo al cuore. Pensava di
essere pronto a rivederla, ad affrontare quello che negli ultimi mesi
era stato il suo tormento. Non era riuscito a perdonarsi, a trovare una
giustificazione per il proprio pessimo comportamento e soprattutto non
ce l'aveva proprio fatta a non pensare a lei.
L'aveva
cercata, l'aveva rincorsa, ma lei era stata più astuta ed
era sparita. Tiffany si era lamentata di sentirla troppo poco e si era
rifiutata categoricamente di aiutarlo, i genitori di lei non avevano
voluto fornirgli alcun nuovo recapito o il suo indirizzo fiorentino e
la segretaria universitaria gli aveva ordinato di non avvicinarsi mai
più di dieci metri agli uffici della segreteria
amministrativa se non voleva riceve un ordine restrittivo ufficiale
dalla polizia di Boston.
L'aveva
stalkerata su ogni social network mai inventato, ma l'unica cosa che
era riuscito a scovare era un'immagine in penombra di lei e un tizio
italiano sopra ad un traghetto in mezzo al mare. I loro corpi non si
toccavano neanche, ma la rabbia che quella fotografia gli aveva
procurato era durata per settimane.
«Sono
stato meglio, molto meglio», disse arrabbiato.
Non
sapeva neanche lui perché se la fosse presa tanto, ma
quell'ira ora stava rimontando dentro di lui. Così decise di
sedersi accanto a lei, almeno avrebbe potuto guardare la siepe di
fronte a lui invece che la sua pelle nuda.
«È
successo qualcosa?», si informò lei, una nota
allarmata che sfuggì al suo controllo.
Tiffany
non era stata molto d'aiuto, ultimamente sempre troppo distratta o
troppo impegnata a lamentarsi più del dovuto in merito a
qualsiasi cosa, e lei non aveva mai osato fare domande a proposito di
Matthew.
L'unica
persona rimasta ad unirle era Liam, ma dopo che lei gli aveva scritto
per fargli auguri di compleanno a febbraio, aveva ricevuto solo un
breve messaggio di ringraziamento e la conversazione aveva avuto fine.
«A
settembre non potrò laurearmi...»,
confessò lui a denti stretti.
Erano
stati sei mesi di merda, sei mesi in cui non era riuscito a concludere
nulla, ma a mandare a puttane tutto ciò per cui aveva
duramente lavorato.
Non
aveva dato neanche un esame a febbraio e a giugno era stato bocciato
all'unico a cui aveva provato a partecipare. Aveva frequentato poco le
lezioni, aveva perso il suo posto nella squadra di baseball
dell'istituto e si era reso conto che era ora di darci un taglio con
tutto quell'alcool e quella vita irresponsabile.
«Come?
Ma se eri perfettamente in pari a ottobre? Cos'è
successo?». Ci aveva provato a rimanere indifferente, ma
teneva troppo al suo futuro e alla sua buona riuscita per restare in
silenzio.
Aveva
sempre amato quello che studiava e si era sempre impegnato molto per
raggiungere i propri obiettivi, quasi sempre con voti eccellenti e
lodi. Era l'anima di tutte le feste, ma le settimane antecedenti un
esame le passava rinchiuso in biblioteca, gli allenamenti e il suo
lavoro come unici diversivi.
«Diciamo
che...mi sono un po' perso per strada. Non avevo nessuno stimolo,
nessun interesse, nessuna voglia. Passavo le ore a fissare il cielo
fuori dalla finestra. Hai presente le stanzetta di consultazione al
secondo piano della biblioteca di Scienze Naturali?»
Lei
annuì, era lì che si erano incontrati dopotutto.
«Sì, quella senza riscaldamento...»
«Ho
passato richiuso tra quelle quattro mura tutto il mese di gennaio, il
manuale da studiare abbandonato aperto sul tavolo e lo sguardo rivolto
al cielo fuori dal vetro. Quando mi sono reso conto di aver gettato via
un'intera sessione non ho provato nulla. Il niente più
assoluto»
Quelle
parole fecero venire in mente a Mildred il suo primo mese in Italia,
quando si limitava a sopravvivere. Osservava Firenze dalla sua
finestrella al settimo piano, ma non aveva il coraggio di uscire ad
esplorarla. Sorrideva alle persone, ma non riusciva mai a rivolgere
loro la parola. Respirava, mangiava, dormiva.
Dopodiché
si era resa conto che non poteva permettersi di sprecare tempo, quel
prezioso tempo che le era stato concesso in quella terra meravigliosa.
Così aveva indossato il suo cappotto rosso dei giorni
felici, era uscita, aveva fatto la coda insieme ai turisti ed era
salita in cima al Campanile di Giotto. Da lì tutto era molto
più bello, molto di più che dalla sua finestrella.
*
«E
poi ti rimboccasti le maniche e mi facesti da tutor per tutta l'estate.
Non mi dovevi nulla, al massimo un'altra spinta giù dalle
scale, e invece sacrificasti la tua estate per me e a settembre superai
inaspettatamente ben quattro esami!», esclamò
Matthew stringendosela al petto, la suo risorsa più preziosa.
«Non
del tutto inaspettatamente dai, in fondo io sapevo di essere
un'insegnante infallibile e tu dopotutto non sei un alunno
così ottuso...», ribatté lei,
ridacchiando contro il suo collo caldo.
«Quando
sei ripartita mi si è spezzato il cuore. Una seconda
volta», le confessò sommessamente.
Lei
lo aveva sempre saputo, ma non sarebbe stato giusto restare. Era
consapevole del fatto che lui si aspettava che le cose tra loro fossero
cambiate, tornando come erano una volta, ma lei non era pronta. Era
assuefatta da lui, da quell'estate passata sempre insieme a darsi una
mano a vicenda, per la prima volta più impegnati ad aiutarsi
e prodigarsi per l'altro piuttosto che a farsi la guerra e fare a gara
a chi sarebbe arrivato per primo al traguardo, a chi ne sarebbe uscito
vincitore e chi con il cuore calpestato.
Era
tornata in Italia e aveva ripreso la sua vita da dove l'aveva lasciata
due mesi prima. Con Giovanni era sempre tutto molto semplice, casuale e
divertente, ma lei non riusciva più a continuare e
così si vide costretta a dirgli addio. Firenze era sempre
bellissima, ma lei continuava a fissare la fotografia della propria
laurea, tra le persone più importanti, a casa sua.
A
dicembre rientrò in anticipo senza comunicarlo a nessuno.
Aveva letto sul sito della facoltà di giurisprudenza
l'annuncio dell'imminente cerimonia per la conclusione delle lauree
magistrali e aveva deciso che sarebbe stato corretto esserci. In fondo
era stata, seppure ad intervalli, al suo fianco per ben quattro di quei
cinque anni di percorso universitario.
Era
arrivata in anticipo e si era seduta in una delle ultime file. I
capelli sempre più lunghi e un vestito di velluto blu
nascosto dal suo cappotto rosso. Aveva seguito la cerimonia con scarsa
attenzione, gli occhi fissi sulla testa bionda e le spalle imponenti in
seconda fila.
Sorrise
quando chiamarono il suo nome e lo vide alzarsi e fare una piccola
deviazione nel salire sul palco per poter assestare una pacca sulla
spalla a Liam, il quale gli rispose con uno dei suoi rarissimi sorrisi
e gli fece un cenno incoraggiante verso il rettore e il diploma di
laurea che lo attendeva.
Salì
baldanzoso i pochi scalini, strinse la mano al rettore e a tutto il
corpo docenti, prima di voltarsi verso il pubblico per ricevere il
consueto applauso.
Dal
pubblico si levarono gli schiamazzi e i fischi dei suoi compagni della
squadra di baseball e lui si esibì in uno stupido inchino di
ringraziamento.
Quando
si risollevò e rivolse un ultimo sguardo agli spettatori, la
individuò. Tra un migliaio di persone lui la vide e i suoi
occhi si spalancarono.
«Ricordo
che il rettore aveva già pronunciato il nome dello studente
successivo e io ancora non mi ero mosso. Me ne stavo lì
impalato al centro del palco, il cuore in gola, terrorizzato dall'idea
che fossi solo frutto della mia immaginazione. Una proiezione dei miei
sogni, delle mie speranze...»
«Si
chiamava Mark Lowe, ancora me lo ricordo! Alla fine dovettero gettarti
giù dal palco di forza», Mildred rise a
quell'immagine.
«Attraversai
tutta la sala come se fossi in stato catatonico, i miei piedi si
muovevano da soli nella tua direzione. Poi tu ti sei alzata e mi sei
venuta incontro...»
«Questo
è il cappotto dei giorni felici, mi dissi...»
«E
tu mi rispondesti che quello era il giorno più felice di
tutti»
«E
tu, non ancora stanco di essere al centro dell'attenzione, decidesti di
dare spettacolo sollevandomi da terra, strillando come un pazzo e
baciandomi davanti a tutti! Credo che quel Mark Lowe ci abbia odiato
assai...»
«Probabilmente
nessuno si ricorderà della sua laurea, ma tutti lo faranno
con il nostro bacio spettacolare», gongolò
contento lui.
Mildred
si mise a sedere di scatto, le lenzuola le scivolarono di dosso
lasciandola nuda.
«Che
ore sono?»
Matt
si sporse verso il comò di legno grezzo e lanciò
un'occhiata al suo orologio da polso.
Le
comunicò che era quasi l'una di notte, dopodiché
allungò un braccio per circondarle la vita e trascinarla
nuovamente sotto le coperte al caldo, vicino a lui.
«Direi
che per il momento abbiamo parlato e richiamato alla mente ricordi a
sufficienza...», gli sussurrò all'orecchio,
strusciandosi piano contro il suo corpo.
Aveva
la pelle fredda come al solito, ma Matthew non ci fece caso. Ci avrebbe
impiegato poco a riscaldarla. «Mmh, sono
d'accordo...»
Mildred
gli lasciò un bacio sulle labbra. «Buon Natale,
tesoro...»
«Buon
Natale, Mil»
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