ARTEMISY

di Jeanger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Sogni ***
Capitolo 2: *** INCONTRI ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Sensazioni ***



Capitolo 1
*** Prologo - Sogni ***


Ciao a tutti! Mi chiamo Valeria, scrivo da tempo su questo sito, ma per un periodo mi sono fermata. Ora però sono tornata, e ho intenzione di completare al più presto questa storia. Spero che mi sosterrete, lascerete commenti e mi seguiate.
Se volete ho un account su wattpad, mi chiamo jeanjervs. Sarei felice di seguirvi. Bene, ora bando alle parole, buona lettura.
 
Prologo – Sogni
-Corri!-
-Non… non ci riesco-
Caddi rovinosamente a terra. Dietro di me il rumore di passi che si avvicinavano di corsa. Il ragazzo che mi precedeva si fermò, tornò in dietro e si abbassò preoccupato alla mia altezza, mi prese per le ascelle, rimettendomi in piedi, poi mi prese la mano e continuammo a correre.
-Ci stanno raggiungendo- respirava affannosamente per la corsa.
-Ho paura-piagnucolai io.
-Anche io. Ma ne avrai molta di più se ti prendono. Presto-
Mi voltai.
Delle guardie vestite con pesanti armature di metallo e grossi elmi con le corna ci rincorrevano.
L’adrenalina mi fece mettere le ali ai piedi, riuscii a tenere il passo del ragazzo e aumentammo l’andatura.
-Li stiamo distanziando- disse lui.
Voltammo per un vicolo. Corremmo fino alla fine.
-E’ un vicolo cieco!- dissi io, posando le mani sul muro.
Il ragazzo si abbassò, aprì un tombino.
-Presto, qui dentro-
-Come…-
-Scendi, a dopo le domande-
Mi ci infilai senza pensarci due volte, lui fece lo stesso e se lo richiuse alle spalle prima che le guardie ci raggiungessero.
Eravamo in una fogna puzzolente, un tunnel di pietra, l’acqua fetida ci lambiva le caviglie.
-Di qua- disse.
Lo seguii, non potevo fare altrimenti.
-Dove stiamo andando?-
Lui non rispose.
Si fermò, appoggiò una mano alla parete e tastò le pietre.
-Dovrebbe essere questa-
Guardai la parete.
-Non vedo nulla-
-E’ questa qui, ne sono sicuro- guardò meglio, poi spalancò gli occhi. -Ecco qui-
Spinse contro una pietra leggermente più sporgente delle altri e una parte di muro si illuminò.
Una porta nascosta si aprì rivelando una stanza illuminata da candele dalla inquietante luce blu.
Il ragazzo si guardò alle spalle, poi entrò.
-Dove siamo?-
Al centro della stanza c’era una specie di grande vasca di cristallo blu riempita di acqua nera.
-Cos’è?- ero intimorita.
-Va tutto bene- mi prese per mano e mi trascinò verso la vasca.
-No! Cos’è? Non mi piace questo posto-
Il ragazzo mi portò vicino la vasca e si fermò. Si girò verso di me, mi mise le mani sulle spalle e si abbassò alla mia altezza.
-Ascoltami, devi entrare in quella vasca-
-Cosa?-
-Lo so che ti fa paura, ma credimi, è l’unico modo-
-Per fare cosa?-
-Non posso spiegartelo ora, ma devi farlo-prese la collana che aveva al collo, un cilindro di pietra azzurra. Mi mise la collana al collo e mi posò una mano sul petto, proprio sopra al cuore.
-Non la perdere. Questo è un varco. Dove andrai sarai al sicuro-
-Cosa mi succederà? Verrai con me?-
Lui mi guardò con un misto di apprensione e tristezza.
-Non posso...-
-Vuoi che vada da sola?-
-Devo restare qui. Ti prometto che verrò a prenderti-
-Quando?-
-Quando sarò il momento-
Sentimmo il rumore delle armatura che si avvicinavano.
-Stanno arrivando- disse lui alzandosi. -Entra-
Guardai la vasca e feci segno di no con la testa.
Per tutta risposta lui mi sollevò e mi buttò dentro la vasca di peso. Prese una candela e la buttò dentro. L’acqua, come se fosse petrolio, prese fuoco.
Urlai in presa al panico.
-Eccoli qui!- le guardie ci avevano trovato e  ora stavano davanti la porta e ci guardavano in cagnesco.
Il fuoco verde mi lambì il corpo, urlai, pensando di bruciare, ma non provavo dolore.
Guardai quel ragazzo che teneva ora in mano un piccolo spadino.
-E’ troppo tardi ormai- disse sorridendo ferino alle guardie.
Guardai le mie mani che scomparivano mano a mano che il fuoco bruciava il mio corpo.
Senti le gambe cedere sotto il mio peso. Mi appoggiai alla parete della vasca e guardai il ragazzo che combatteva contro le guardie.
-No…-
Volevo aiutarlo, ma non riuscivo più a muovermi. Provai ad allungare le mani. Non c’erano più, come il resto del mio corpo. Nell’ultimo sprazzo di luce, vidi il ragazzo cadere a terra di peso, una grossa spada trapassargli il corpo.
 

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Capitolo 2
*** INCONTRI ***


Capitolo 1 – Incontri
Mi svegliai di soprassalto. Ero completamente sudata fradicia. Il mio cuore batteva forte. Strizzai gli occhi un paio di volte prima di mettere a fuoco la stanza.
Mi guardai le mani. Girai i palmi, mi toccai il viso, il corpo.
Ero ancora intera. Non mi ero disintegrata.
Mi guardai in giro.
La stanza era buia, la lucina della notte che mettevo sempre vicino la porta si era fulminata, per fortuna però la luce del giorno spuntava dalle tapparelle delle persiane.
Mi alzai e scesi di sotto in cucina.
Mia madre e mio padre adottivi erano già a lavoro.
Accesi la tv e guardai il telegiornale di New York.
La solita storia. Morti, Rapine, Truffe, Borsa in crollo. Cambiai canale e decisi di buttarmi sull’allegro: i cartoni animati.
Mangiucchiai la mia ciotola di cereali per un po’, prima che mi squillasse il telefono.
Lo guardai come se fosse qualcosa di alieno, poi allungai un braccio e lo afferrai.
-Pronto- dissi mentre inghiottivo una manciata di cereali.
Nessuna risposta.
Sentivo però un respiro contro la cornetta.
Aspettai un minuto buono, poi dissi: -Al diavolo- e riattaccai.
Quella mattina mi sentivo proprio di malumore, così decisi che era il momento adatto per andare a correre.
Andai di sopra e aprii le finestre della mia camera, facendo entrare un po’ d’aria fresca, poi mi misi davanti l’armadio, rovistai dentro, presi un paio di leggins neri, una maglietta larga, scarpe da ginnastica, mi misi davanti lo specchio e legai in una stretta coda di cavallo i capelli neri. Mi guardai. Avevo profonde occhiaie che contornavano gli occhi verdi.
Non mi truccai, anche perché con quel caldo e la corsa sarei diventato un allegro panda in meno di due minuti, presi il contachilometri, mi misi le chiavi in un marsupio e uscii di casa.
Quella mattina il mio obbiettivo era raggiungere Central Park, farci un giro, e poi tornare.
Sperai di non morire nell’impresa.
Le vie della città erano affollate, come sempre, i ragazzini che marinavano la scuola si aggiravano allegri, gli impiegati con le valigette camminavano a passo spedito nei loro gessati, le nonne portavano in giro i nipotini con il passeggino. Finalmente intravidi il grande verde del parco e mi sentii più felice. Central Park era in assoluto il mio posto preferito. Tutto quel verde sembrava voler combattere lo smog e il grigio di quella grande città.
Feci un giro, poi, stanca, decisi di sedermi due minuti a riprendere fiato.
Mi sedetti sull’erba e chiusi gli occhi, lasciandomi inondare dalla calda sensazione dei raggi del sole sulla pelle.
-Ehm…-
Mi voltai di scatto.
Davanti a me era arrivato silenziosamente un ragazzo. Lo guardai aggrottando le sopracciglia. A New York ne girano di tipi strani, ma questo! Sembrava che si fosse infilato dentro un armadio, ci avesse fatto la lotta e ne fosse uscito sconfitto.
Indossava degli enormi pantaloncini per fare surf, fucsia con i fiori gialli con sotto  una calzamaglia blu notte infilata dentro stivali da cowboy bianchi, sopra invece un maglione a mezzamanica, enorme anche quello, che lasciava una spalla scoperta da cui si vedeva una bretella di una canottiera da basket. Il tutto corredato da una sciarpa blu che aveva appeso in vita come una cintura e degli occhiali da sole gialli che aveva appeso al collo come collana.
Mi guardai attorno in cerca della telecamera. Era uno scherzo?
-Ciao- mi disse sorridendo, cercando di sembrare amichevole. La prima cosa che notai nel suo sguardo, furono gli occhi di un nocciola chiarissimo, che sembrava quasi giallo. Aveva il viso squadrato, il mento con un leggero accenno di barbetta, i capelli spettinati neri e la pelle abbronzata.
-Ciao- dissi io non molto convinta.
-Posso parlarti?-
Sbattei gli occhi un paio di volte.
Non mi piace quando mi si avvicinano i ragazzi. Non mi piacciono i ragazzi punto. Non che fossi lesbica, e non ci sarebbe niente di male, ma semplicemente mi ricordavano il mio passato e non li volevo tra i piedi.
-Scusa, ma devo proprio tornare a casa-
-Aspetta, devo davvero parlarti-
-Scusami, ma non posso- e scappai via. Lui rimase lì a guardarmi andare via con quello sguardo affranto, poi si sedette sul punto dove poco prima ero io e si guardò la punta dei piedi distesi davanti a lui.
Che tipo strano.
Quando tornai a casa, mia madre era in cucina che combatteva contro le padelle. Non era molto brava a cucinare.
-Ciao mamma!- dissi io entrando. La trovai con un mestolo come spada e un coperchio come scudo, mentre cercava di ripararsi dagli schizzi di olio delle patatine che stava friggendo.
Mi avvicinai sicura, abbassai la fiamma, le tolsi di mano il coperchio e lo misi sulla padella.
-Lotta alle patatine!- dissi io.
Mia madre sorrise. Aveva i capelli rossicci, la faccia completamente spruzzata di lentiggini, la pelle tanto bianca da sembrare latte, gli occhi chiarissimi.
-Che madre disastrosa- si prese in giro.
Mia madre, era un disastro in molte cose, tra cui cucinare, ma era un genio del design. Aveva studiato in un’accademia da quattro soldi quando aveva la mia età perché non aveva molti soldi, ma era comunque riuscita ad emergere. Un agente aveva notato alcune sue opere di design e si era interessato a lei facendola entrare nel suo giro di designer. Aveva un marchio di mobili per la casa che gli faceva fruttare molti soldi.
Mia madre era molto contenta del suo lavoro. Aveva incontrato suo marito, il mio padre adottivo, proprio grazie a quel lavoro. Erano due designer emergenti e all’inizio si erano fatti la guerra, ma come si sa, l’odio è solo l’altra faccia dell’amore, e i due si erano innamorati, per poi sposarsi.
Mi avevano trovato quando ancora avevo sei anni e da allora erano diventati la mia famiglia.
Cercai di scacciare i ricordi precedenti a quel periodo. Mi rattristavano sempre.
Mi faccio una doccia e vengo a darti una mano, va bene? Prima che ti faccia saltare in aria tutta la cucina.
Ovviamente, ogni mobile della casa era stato progettato da mia madre e mio padre.
-Va bene!- disse lei. -Fa presto, prima che le patate prendano vita-
-La rivolta delle patate!- dissi correndo in bagno.
Quando ebbi finito, m’infilai un vestito leggero e mi legai i capelli ancora bagnati.
L’aiutai a finire di cucinare le patatine e il resto del pranzo.
-Papà viene per pranzo?-
-No, Richard oggi ha molto da fare. Il mio capo gli sta dando filo da torcere. Vuole che prepari una nuova collezione e la presenti entro il fine settimana-
-Uhm-
-Già, ho provato a dargli una mano, ma le mie idee non gli piacciono. Mi sento un poco offesa-
-E’ sotto stress, lascialo in pace- dissi io.
Dopo pranzo, mi ritirai in camera mia e presi il mio cavalletto da pittrice.
Guardai il quadro che stavo dipingendo. Non sapevo come, ma un giorno mi ero svegliata di colpo, avevo preso la tela e  cominciato a disegnare quello che adesso guardavo perplessa, mentre il ricordo del sogno di quella notte si rifaceva nitido.
Non ci avevo pensato quella mattina, ma il disegno rappresentava esattamente la sala del sogno, con la vasca di cristallo, l’acqua nera, il fuoco azzurro della candele, la pietra scura.
Come avevo fatto a disegnarlo? Ero sicura di non averlo mai sognato prima di allora.
Rabbrividii.
Un altro tassello da aggiungere alle cose inquietanti che ultimamente mi succedevano.
Spesso mi sentivo come osservata, avevo una strana sensazione addosso, come di pericolo.
Avevo notato alcuni sguardi strani di passanti vestiti in modo strano ultimamente, come quel ragazzo che mi aveva fermato stamattina.
Presi i pennelli e continuai a dipingere, cercando di rilassarmi. Non ci riuscii, accesi il computer e cercai una playlist del mio cantante preferito. Alzai il volume al massimo e mi rimisi all’opera, cantando a squarciagola. Andava decisamente meglio.

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Capitolo 3
*** Ricordi ***


Ciao a tutti! Eccomi di nuovo con un nuovo capitolo appena sfornato e fragrante. Buona lettura, lasciate un commentino e se ne avete voglia seguitemi su wattpad 
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ricambio!
Bando alle ciance, buona lettura!

CAPITOLO 2 - RICORDI
Fredda pietra contro il mio viso.
Aprii gli occhi lentamente e la prima cosa che vidi fu la pietra azzurra a forma cilindrica che portavo sempre con me al collo.
Era il mio unico legame con qualunque cosa fossi stata prima di perdere completamente la memoria.
Mi alzai, ero in un vicolo freddo e buio.
Guardai il cielo, grossi nuvoloni coprivano la città come una cappa.
Dove mi trovavo?
Uscii dal vicolo e davanti a me vidi dei negozi chiusi, sbarrati con delle pale di legno e chiodi, insegne fatiscenti, puzzo di escrementi, spazzatura sparsa per strada.
Mi incamminai intimorita per quelle vie.
Trovai all’angolo alcune donnone formose, alcune di colore, altre bionde, che sembravano aspettare qualcuno, con stivali alti fino alla coscia, tacchi a spillo e vestito cortissimo.
All’epoca non avevo idea di che tipo di mestiere facessero quelle donne.
Mentre attraversavo la strada, vidi una macchina fermarsi e una di quelle donne entrare.
In lontananza sentii rumore di spari.
Mi rannicchiai contro un bidone e mi misi le mani sulla testa, rannichiandomi a terra.
Tremavo come una foglia.
-Ehi, piccola- disse una donna fermandosi davanti a me e inginocchiandosi. Sembrava gentile, aveva due grossi occhi verdi, un sorriso simpatico.
-Ti sei persa? Dove sono i tuoi genitori?-
-I- i miei genitori?-
- Sei sola?-
-Io… io non lo so dove sono. Io… non lo ricordo-
-Non hai i genitori?-
-Non me li ricordo-
La signora mi sorrise, mi prese per mano e mi portò con sé.
-Ci penserò io a te-
Mi portò in un edificio fatiscente, alto e nero,che recava l’insegna di “DIPARTIMENTO DI POLIZIA”.
Entrammo.
Alla scrivania c’era seduta una signora che mi ricordava un maiale. Aveva due grosse guance rosse, il naso schiacciato su cui poggiavano dei grossi e spessi occhiali rotondi. Ci guardò da sopra gli occhiali.
-Buongiorno- disse la donna.
-Buongiorno-
-Cosa abbiamo qui?-
-Una bambina. L’ho trovata per strada. Dice di non avere genitori-
-Pensa si sia persa?-
-Non ne sono sicura-
La poliziotta ci guardò, poi si rivolse a me. -Come ti chiami, piccola?-
-Artemisy-
-Artemisy come?-
-Non lo so-
-Beh, poco male, con un nome così particolare sarà facile trovarti negli archivi. Vediamo se c’è il tuo nome tra i bambini dispersi- controllò al computer.
Corrucciò la fronte, si grattò il mento, scese giù con la freccetta del mouse.
-Qui non c’è niente- disse alla fine. -Dove hai vissuto fin ora?-
-Non me lo ricordo- dissi io.
La signora gentile che mi aveva trovato e la poliziotta si guardarono.
-Va bene, per ora lasciala qui. Manderò un avviso. Forse non hanno ancora sporto denuncia. Forse un incidente-
La donna gentile mi fece sedere su una sedia e mi guardò.
-Andrà tutto bene, vedrai-
Io la guardai andare via. Dopo qualche ora e telefonata la poliziotta si alzò dalla sua scrivania.
-Bene, piccola. Al momento non riusciamo a rintracciare i tuoi genitori, ma stiamo spargendo un annuncio. Fino a quando i tuoi non si faranno vivi, resterai in un istituto per bambini come te. Va bene?-
Al momento non comprendevo bene quello che la poliziotta mi stesse dicendo, quindi mi limitai ad annuire.
Quella sera due poliziotti mi fecero salire in macchina e mi portarono in un orfanatrofio.
Non mi piaceva quel posto, emanava una strana aura.
Entrammo e ci accomodammo nel salottino di attesa.
Una donna ci venne poco dopo a salutare.
Era magra quanto un giungo, con il naso storto, gli occhi piccoli, i capelli lunghi e neri e un grosso neo con un pelo sul mento.
Una strana luce le brillò negli occhi.
-A cosa è dovuta questa visita?- chiese ai poliziotti.
-Ci hanno portato oggi questa bambina. Sembrerebbe non avere genitori. Possiamo lasciarla qui almeno finché non avremo qualche notizia?-
La donna mi guardò dall’alto in basso e io mi contorsi le mani per l’agitazione.
-Eh sia-
La donna firmò alcune carte, poi i poliziotti se ne andarono.
Rimanemmo solo noi due nelle stanza.
-Io sono la signorina Proust, mia cara. Tu come ti chiami?-
-Artemisy-
-Seguimi, ti mostrerò il tuo letto-
La seguii silenziosa. L’edificio era terribilmente vecchio, puzzava di muffa, la carta da parati era rotta, i mobili risalivano alla prima guerra mondiale.
Incontrai alcuni ragazzini più grandi di me che chiacchieravano nel corridoio e che si azzittirono appena la signorina Proust passava.
Mi sentivo molto a disagio.
La donna aprì una porta e mi ritrovai in una stanza con altre dieci ragazze. Alcune stavano chiacchierando sedute sul letto, altre leggevano un libro, altre facevano i compiti, ma tutte si voltarono a fissarmi appena entrai.
-Ragazze, questa bambina è Artemisy, resterà qui finché non ritroveremo i suoi genitori- mi mise una mano sulla spalla e mi guidò verso l’undicesimo letto libero della stanza.
-Questo sarà il tuo letto-
Poi guardò tutte le ragazze, si voltò e se ne andò.
-Che sfortuna- disse una.
La guardai.
-Mi dispiace- non volevo essere presa di mira. Salii sul letto, mi rannicchiai con le ginocchia al petto e cerca di non piangere. Inutile. Grossi lacrimoni scesero sulle guance.
-Oh, ma non per te. Tu sei ok. Che sfortuna che tu sia capitata in un posto come questo?-
-Perché?-
-Lo capirai-

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Sensazioni ***


Capitolo 3
-Artemisy? Artemisy!-
Mi riscossi.
-Stavi dicendo qualcosa?- mi girai verso la mia amica Mary. Mi guardò torvo.
-Non hai ascoltato nemmeno una parola?-
-Scusami, mi sono scollegata per un po’-
Mary sospirò.
Mary era stata la mia unica amica ai tempi dell’orfanatrofio. Era stata adottata qualche anno dopo il mio arrivo, ma avevamo continuato a vederci.
Mary sembrava quasi una modella, era alta un metro e novanta, aveva gli occhi castani, la pelle scurissima, la pelle che sembrava fatta di porcellana e dei fantastici capelli afro che lei portava corti. Era un po’ più grande di me e studiava giurisprudenza.
-Allora, ora sei pronta e concentrata per ascoltarmi?-
-Sì, spara-
-Ti stavo raccontando di questa tizia, Amalia, sembra simpatica-
Ah, già, la mia migliore amica era lesbica. Era troppo divertente vedere l’espressione dei ragazzi che le si avvicinavano e che lei scacciava via dicendo, appunto, di avere altre preferenze.
-E hai il suo numero?-
-Uhm… no-
-Sei sicura che sia lesbica?-
-Sì, ho sbirciato sul suo profilo su internet. Stava con una che sembrava quella modella con le sopracciglia enormi-
-Allora cosa aspetti. La prossima volta che la vedi buttati!-
-Sì, domani vado in facoltà. Spero che ci sia anche lei-
-Potresti invitarla a prendere un caffè -
-Sì, oh, speriamo che dica di sì- disse lei tutta contenta.
La guardai e non potei non pensare a quei tempi, fortunatamente lontani, dell’orfanatrofio.
-Tu? Hai qualche novità con qualche ragazzo? O sei ancora “statemi lontani esseri informi”?-
-Sono in modalità “off”- dissi io, facendole il verso e mimando le virgolette con le dita ad uncino.
Mary si rabbuiò un secondo, forse anche a lei era tornato qualche ricordo alla mente.
Guardò il cellulare.
-Caspita! E’ tardissimo, mia madre mi starà sicuramente cercando. Devo scappare!- mi diede un bacio sulla guancia, poi scappò via.
Sorrisi mentre la guardavo correre goffamente via, con i capelli e lo zaino che rimbalzavano ad ogni passo.
Rimasi seduta al mio tavolo, con la cioccolata calda tra le mani, intenta a guardare fuori la vetrata del bar. Non prestai molta attenzione alla gente che passava, erano solo controfigure di quella scena, ma ad un tratto, una in particolare attirò la mia attenzione.
Forse perché era vestito in modo strano, forse perché lo avevo già, incontrato, ma mi bloccai a fissare un ragazzo dall’altra parte del marciapiede, appoggiato ad un palo della luce, che si guardava in giro e teneva le mani in tasca.
Era il ragazzo di Central Park, ecco perché mi pareva di conoscerlo.
Quel giorno indossava dei jeans normali, delle calzette spaiate, una a righe e una con le stelle, sopra i jeans, una camicia a grossi pois viola con sopra un gilet di pelle con le frange.
Trattenni una risata. Che stesse facendo pubblicità?
Finii la mia cioccolata e guardai di nuovo in strada, ma era sparito.
Sospirai di sollievo, poi uscii e mi avviai per la metro.
Entrai nel treno che mi avrebbe portato nei dintorni di casa mia, mi sedetti e presi il libro che stavo leggendo dalla borsa.
Dopo circa due fermate, qualcuno si sedette nel posto libero accanto a me.
Non ci prestai molta attenzione, finché non notai le calzette di colore diverso.
Risalii la sua figura, fino a ritrovarmi a guardare il suo viso sorridente.
-Ciao!- disse tutto allegro.
Restai imbambolata a fissarlo. Che ci faceva quel tizio lì? Come aveva fatto?
-L’altro giorno non mi hai permesso di presentarmi. Mi chiamo Zack-
-Oh, ehm… Artemisy- dissi io imbarazzata.
Ci guardammo per qualche secondo, aspettando che l’altro dicesse qualcosa.
-Non volevo spaventarti l’altro giorno. Giuro- disse mettendosi una mano sul cuore. -E’ solo che ho davvero bisogno di parlarti-
Feci un respiro profondo e iniziai la solita storia che rifilavo ai ragazzi quando mi si avvicinavano per chiedermi di uscire.
-Scusami, sei carino e gentile, ma io non ho intenzione di uscire con nessuno. Non voglia una storiella da una notte, non voglio una ragazzo serio con cui accasarmi, voglio solo essere lasciata in pace-
Lui mi guardò perplesso.
-Ma io non volevo chiederti di uscire- disse lui.
Alzai le sopracciglia sorpresa.
-E allora di cosa vuoi parlarmi?-
Lui si guardò attorno. C’era molta gente attorno a noi.
-Non è questo il posto giusto-
-Non verrò con te da nessuna parte- lo anticipai io.
-Ma non posso parlartene qui-
-Allora non me ne parlerai- ripresi a leggere il mio libro.
Zack si guardò in giro preoccupato, poi si abbassò verso di me.
-Sei in pericolo-
Lo guardai.
-Cosa?-
-Non sto scherzando. Ti stanno cercando da ogni parte. Hanno scoperto che sei qui. Non possiamo permettergli di trovarti-
-Ma di cosa stai parlando?- era uno scherzo? Il cuore però prese a battermi velocemente. Il disegno del quadro mi passò nitido davanti gli occhi, come se fosse davanti a me e sentii il peso della collana contro lo sterno.
Mi guardai in giro.
-E’ uno scherzo, dov’è la telecamera?- finsi una risata, per sdrammatizzare
-No, non è uno scherzo, devi ascoltarmi…-
-Senti, se è uno scherzo non mi piace- dovevo svignarmela alla svelta. Non mi sentivo a mio agio. Mi stava venendo un attacco di panico. Aspettai che la porta della metro si aprisse, poi scappai via spaventata e mi confusi tra la folla prima che lui potesse seguirmi. Corsi veloce fuori dalla metro. Mi voltai a guardare indietro, di lui non c’era traccia.
Mi misi una mano sul cuore che batteva fortissimo e la strinsi salda sulla collana che portavo sempre al collo.
Mi allontanai dal quartiere, prima che decidesse di scendere e prendere il treno per tornare indietro.
Decisi che sarei tornata a casa in autobus. Mi sedetti sulla panchina della fermata e aspettai impaziente che ne arrivasse uno. Mi tremavano ancora le mani.
L’autobus arrivò e io mi rilassai un pochino.
Salii veloce, pagai il biglietto e mi sedetti, Guardai fuori dal finestrino.
Un tizio vestito strano mi fissava.
Sperai che fosse solo una mia impressione, ma mi seguì con la testa mentre l’autobus ripartiva.
Mi appoggiai allo schienale.
Stavo diventando paranoica. Si sa che alcuni uomini sono così, fissano le ragazze senza un reale motivo.
Ma questo non riuscì a tranquillizzarmi.
C’era qualcosa di strano, una sensazione viscida che mi sentivo addosso. Avvertivo che c’era qualcosa che non andava, non era il solito sdegno, era terrore.
E se quel ragazzo stesse dicendo la verità?


Ciao a tutti, curiosi no? Cosa è successo all'orfanatrofio? Chi è questo tizio? Che succede? Non perdete il prossimo capitolo e lasciate un commentino, ciao!
Seguitemi su wattpad se volete https://www.wattpad.com/user/jeanjervs ricambierò!

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